La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



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lunedì 25 gennaio 2016

P.P.Pasolini: Il Vangelo secondo Matteo

È forse il più bel film di Pasolini, uno dei più bei film in assoluto.
Il Vangelo secondo Matteo è un'opera unica; il suo valore va al di là dell'universo cinematografico. Pier Paolo Pasolini, non era solo regista ma anche teorico del cinema. Catalogava i film come la letteratura, dividendoli tra opere di prosa e opere di poesia. Come in letteratura, il linguaggio cinematografico può, attraverso un linguaggio specifico alle immagini raccontare o evocare.
I personaggi entrano, dicono o fanno qualcosa, e poi escono, lasciando di nuovo il quadro nella sua pura, assoluta significazione di quadro: cui succede un altro quadro analogo, dove poi i personaggi entrano ecc. ecc. Sicché il mondo si presenta come regolato da un mito di pura bellezza pittorica, che i personaggi invadono, è vero, ma adattando se stessi alle regole di quella bellezza, anziché sconsacrarle con la loro presenza.*
Il Vangelo secondo Matteo appartiene certamente alla categoria della poesia più intensa e ricca di implicazioni e nello stesso tempo più semplice e umana. Un film unico, proiettato nelle stesse sale che avevano visto passare i grandi peplum americani con decori e personaggi di cartapesta e che d'un tratto apparvero artificiali fino al ridicolo.
Pasolini aveva cercato in Palestina i luoghi della sua storia ma il Medio Oriente del XX secolo non era più quello di duemila anni prima. Decise quindi di ritrovare un mondo che, per analogia, potesse ricreare quello scomparso; lo vide nell'Italia meridionale. E così i Sassi di Matera diventeranno Gerusalemme e i volti dei paesani lucani e calabresi, gli umili e offesi, i personaggi della storia raccontata da Matteo.
Gesù di Nazareth doveva, nel suo progetto, avere il volto di un poeta e egli aveva pensato a Evtusenko, Ginsberg o Kerouac. Poi, quasi per caso conobbe Erique Irazoqui. Il giovane catalano era responsabile di un sindacato studentesco clandestino e si trovava in Italia alla ricerca di appoggi per la lotta antifranchista. Incontrò Pasolini per parlargli della sua causa e si ritrovò a vestire i panni del Cristo.
«Io non credo che Gesù sia figlio di Dio, perché non sono un credente, almeno nella coscienza. Penso invece che la figura di Cristo dovrebbe avere la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo»
Il Vangelo secondo Matteo è un film di volti e di sguardi, silenzi e musica. Le frasi, le singole parole si levano da questo sfondo e emergono con una forza inusuale.
A più di cinquant'anni dalla sua realizzazione, è un film indelebilmente attuale.
*P.P.Pasolini: Empirismo eretico Garzanti 1972

mercoledì 30 aprile 2014

Gualdo Tadino

Nel 2010 Jean-Louis Accettone regista francese di origine italiana, ha dedicato un documentario all'emigrazione e più precisamente alle storie degli emigranti che hanno lasciato le montagne abruzzesi di Castel del Monte per cercare lavoro in Francia. Tra i protagonisti del film c'era Carlo che però non è mai andato all'estero. 
Una via di Gualdo Tadino
Ha fatto il carbonaio nel Lazio ed ora, ormai in pensione, vive a Castel del Monte.
Lo si incontra spesso nelle vie del paese e sulla piazza, quando saluta con la sua voce grave e il suo inconfondibile accento.
Gualdo Tadino
Nel documentario lo vediamo seduto al bar insieme a due amici intento a rievocare le esperienze passate. Carlo racconta di essere partito, in cerca di lavoro, in Umbria, “cento chilometri dopo Terni”. Quando abbiamo dovuto sottotitolare il dialogo per la versione francese del film, il passaggio ci è risultato abbastanza ostico. 
Gole della Rocchetta
Carlo parlava del posto in cui aveva vissuto, spiegando come fosse bella e rigogliosa la campagna ed evocandone il capoluogo. Nonostante i molteplici riascolti, siamo stati incapaci di capire il nome del paese, forse Ardo latino? Impossibile però ritrovare in Umbria un tale toponimo. Abbiamo allora preso un compasso e tracciato un arco di un raggio di 100 chilometri a nord di Terni.
Una frazione di Gualdo.
Ed ecco come abbiamo trovato Gualdo Tadino. Magari Carlo voleva dire altro ma non importa. Abbiamo deciso si visitare la cittadina e la sua campagna tanto bella.
Gualdo Tadino è una cittadina posta un po' in disparte sulla valle attraversata dalla via Flaminia. L'abitato si appoggia sul fianco della montagna e alle spalle si stagliano il monte Penna e la caratteristica gola della Rocchetta. 
L'ingresso della Rocca Flea.
Nella valle il paesaggio è più dolce, le colline coperte di boschetti e campi coltivati sono cosparse di borghi, di fattorie isolate e di pievi. Carlo aveva ragione, la regione è rigogliosa e ricca di frutteti.
A guardia del paese, sul punto più elevato, è la rocca Flea, legata alla figura dell'imperatore Federico II, che oggi ospita un museo con un'interessante pinacoteca.
L'ingresso del museo dell'emigrazione
Sulla piazza principale di Gualdo, passando sotto un portico, si arriva ad un altro piccolo museo, questo dedicato all'emigrazione. Attraverso testimonianze sonore, video e oggetti emblematici si è voluto render omaggio a tutti coloro che sono stati costretti anche in questa regione a partire alla ricerca di una vita migliore, ricordando però anche chi, negli ultimi anni, ha fatto il percorso inverso, venendo da paesi più poveri in Italia in cerca di lavoro.
Una berlina per il carbone venuta dal Belgio
Ecco come, in modo inaspettato, un documentario sull'emigrazione ci ha portato a visitare un museo sull'emigrazione.

mercoledì 16 gennaio 2013

Elio Vittorini: Conversazione in Sicilia

Silvestro Ferrauto, un siciliano emigrato a Milano dove lavora come tipografo, riceve una lettera dal padre Costantino che gli dice di aver lasciato la moglie per andare a vivere con un'altra donna a Venezia. Silvestro decide di tornare in Sicilia in occasione dell'onomastico della madre Concezione.
Comincia così un viaggio in treno attraverso tutta l'Italia, viaggio costellato di incontri con personaggi emblematici.
Nel suo paese natale, Silvestro ritrova la madre con la quale discute a lungo attorno ad un pasto composto da una sola aringa. L'uomo ricorda il mondo felice della sua infanzia ma i suoi ricordi non coincidono con quelli della madre che gli parla di miseria e stenti.
Silvestro incontra altri personaggi, un arrotino, un panniere, un soldato. Lunghe discussioni che si estendono come melopea, fatte di taciti sottintesi, di allusioni e di ripetizioni ossessive. Giunge una lettera che annuncia la morte in guerra del fratello Liborio. Il ritorno del padre, da lui non riconosciuto, induce Silvestro a ripartire verso il nord.
Elio Vittorini pubblicò per la prima volta Conversazione in Sicilia a puntate sulla rivista Letteratura. Un romanzo che è stato letto con chiavi differenti, da testo onirico a parabola antifascista. Lo stile singolare della scrittura non facilita la classificazione. Ed è forse questo il pregio principale del libro, superare i codici, quelli del realismo o dell'ermetismo, del simbolismo e dell'allegoria.
In preda ad astratti furori, Vittorini sente l'angustia della società che lo circonda e che il regime ha creato. Iscritto al Partito Fascista, aveva creduto in un suo preteso carattere rivoluzionario ma già nel 1929 sulla rivista Solaria si era scagliato contro il provincialismo della cultura italiana. Il suo romanzo Il garofano rosso aveva avuto problemi con la censura, la guerra di Spagna aveva portato un colpo fatale alle sue convinzioni di gioventù. (vorrà andare a combattere a fianco dei repubblicani).
Conversazione in Sicilia è l'espressione di questo stato d'animo. Un libro che restarà spesso incompreso anche dopo la caduta del regime, quando il carattere allusivo del testo mal si accorderà con i canoni di un neorealismo pedagogico al servizio del grande partito dei lavoratori e che avrebbe preferito scrittori più ligi alla linea e capaci di educare il popolo. Vittorini si impegnerà a fondo nel dibattito culturale del dopoguerra su questi temi. Considerato uno dei «padri» del Neorealismo non accetterà però mai l'idea dello scrittore come pifferaio della rivoluzione. Per Vittorini la cultura doveva essere ricerca della verità e non predicazione della verità.
Su questa incompatibilità, lo scrittore, che aveva aderito nel 1942 al Partito Comunista, lo lascierà nel 1948, suscitando il celebre sarcarmo di Togliatti:Vittorini se n'è gghiuto e soli ci ha lasciati.

Danièle Huillet et Jean-Marie Straub erano coppia nella vita (erano, perché Danièle Huillet è morta nel 2006) e nel lavoro cinematografico. Talmente inseparabili che spesso per nominarli li si accomuna in un plurale: Gli Straub.
Sono autori di un cinema esigente, originale e senza concessioni. Il montaggio, la contrazione e l'espansione inabituale delle sequenze, la scansione ritmica delle immagini, l'accentuazione del recitativo dei dialoghi, propongono un linguaggio nuovo e avvincente. Si può parlare nel loro caso di quello che Pasolini definiva cinema di poesia.
Non si sono mai piegati alle leggi del mercato, rinunciando magari al successo di botteghino ma mai alla necessità una ricerca artistica che scavi profondamente nel cuore del reale. Ed è per evitare i compromessi e salvaguardare la loro indipendenza creativa che hanno realizzato le loro opere in modo del tutto artigianale: scrivendo, montando, producendo, filmando in piena autosufficienza.
Huillet e Strob si sono profondamente interessati alla letteratura italiana. Hanno tratto ispirazione da testi di Dante, Pavese, Vittorini per realizzare opere vitali e di grande sensibilità.
Sicilia!, tratto da Coversazione in Sicilia di Elio Vittorini è uno dei film ispirati dall'opera dello scrittore, con il quale il dialogo è continuato negli anni successivi (Operai e contadini, Il ritorno del figliol prodigo).
Eccone un estratto:

giovedì 7 luglio 2011

Jean-Louis Accettone: Castel del Monte (documentario)

Castel del Monte è anche il titolo di un documentario girato da Jean-Louis Accettone.
Il regista è francese ma originario del paese d'Abruzzo da dove suoi genitori, come molti altri, emigrarono nel nord della Francia in cerca di lavoro.
Ormai da anni si occupa di un'associazione che promuove la produzione di film documentari e di installazioni artistiche audiovisive. Come regista ha già realizzato documentari e cortometraggi che hanno spesso come tema il mondo operaio e popolare. Storie di un mondo che sta scomparendo come quello dei minatori di carbone o quello agropastorale delle montagne dei Pirenei; ritratti di vite difficili fatte di lavoro duro e di precarietà come quella di un'assistente a domicilio; racconti di impegno politico e di solidarietà durante la resistenza al nazismo. Temi trattati sempre con estrema sensibilità e delicatezza.
Accettone ha conosciuto Castel del Monte attraverso le sue, rarissime, visite estive e soprattutto grazie ai ricordi e alle storie che si raccontavano in famiglia.
Un legame piuttosto tenue dunque, con un universo lontano e appartenente al passato. Ma poi, forse complice l'età matura, Jean-Louis Accettone ha voluto consolidare, o piuttosto riallacciare, questo filo che lo lega, malgrado la distanza, fisica e culturale, alle montagne abruzzesi.
È tornato più volte a Castel del Monte e, sulla traccia degli incontri, ha raelizzato il suo film. Un'opera personalissima, né agiografia né documento etnologico. Ancora una volta Accettone mostra il suo interesse e la sua empatia per le persone che filma. Segue la loro vita attraverso i piccoli e grandi avvenimenti quotidiani, sul filo dei giorni e delle stagioni che sembrano ripetersi immutabili. Il film si sviluppa in effetti su un doppio percorso, quello ciclico del paese che ricrea nel tempo la sua piccola storia, quello dell'emigrazione, con le partenze, i ritorni estivi e quelli definitivi.
Il risultato è accattivante e suggestivo, ricco di spunti e di riflessioni sulle quali sembra posarsi un velo di ironica malinconia.

Proiezione il 20 agosto a Castel del Monte (AQ)

sabato 26 marzo 2011

Il grande silenzio

Nel 1984 il regista tedesco Philip Gröning prepara il progetto per un documentario sulla Grande Chartreuse, il monastero benedettino sulla montagna omonima nel Delfinato francese. Scrive ai monaci per avere l'autorizzazione. Nel 1999, dopo quindici anni, riceve la risposta e l'accordo della comunità.
Il film si può fare ma a determinate condizioni: nessun commento, nessuna musica aggiunta, nessuna illuminazione artificiale; il regista sarà solo a fare le risprese. Philip Gröning accetta, anche perché questi vincoli in realtà corrispondono alla sua idea di partenza per il film.
Così passerà sei mesi nel monastero, condividendo la vita dei suoi abitanti.
Ogni monaco partecipa alle funzioni collettive, ha un tempo personale di preghiera e di meditazione ed ha poi un attività personale: falegname, giardiniere, sarto. L'attività di Gröning sarà la realizzazione del documentario. Filmerà ore ed ore a volte alla luce di una candela o a quella del fuoco di una stufa. Il risultato sarà un film di una grande intensità e di una bellezza semplice e spoglia.
La lenta ripetizione delle azioni, le lunghe sequenze su attimi di immobilità, richiedono allo spettatore la disponibilità ad un'esperienza sicuramente inconsueta. Senza questa disponibilità l'unico sentimento ad imporsi sarà la noia. Ma se si accetta di condividere, anche solo attraverso le immagini, il quotidiano dei monaci senza a priori, e al di là dell'aspetto religioso, si rimarrà sorpresi e affascinati dal film.
Un silenzio cha sembra venire dalla notte dei tempi e che il regista racchiude in quasi tre ore di documentario. Solo i rumori della natura circostante (ruscello, vento, uccelli), quelli della vita quotidiana, i canti durante le funzioni e qualche raro parlottio, fuori dalle mura del monastero, lo interrompono.
Le stagioni si succedono, con il ritmo lento della preghiera e del lavoro. Philip Gröning integra questa ripetizione nel montaggio del film, segue, ad uno ad uno, i monaci nella loro giornata. Le didascalie, che appaiono di tanto in tanto, non sostituiscono le parole assenti, esse si ripetono uguali, come il succedersi delle preghiere e delle azioni. Il regista attarda il suo obiettivo su dettagli che riempiono lo schermo: una goccia d'acqua che si stacca da un piatto appena lavato, ancora acqua, quella dell'acquasantiera, la fiamma di una candela nel buio della notte. In un mondo che sembra essersi fermato solo qualche oggetto, quasi anacronistico (un computer, le bottiglie d'acqua di plastica) situa l'azione nella modernità.
I monaci sono osservati nella loro umanità, non come esseri trascendenti. E così li vediamo durante un'escursione giocare sulla neve come bambini, o discutere intensamente, fuori dalle mura, sulla necessità di lavarsi le mani prima delle funzioni. Una serie di primi piani dei loro volti sospende l'azione del film. Nel silenzio e nell'immobilità questi dicono più di molte parole, rivelando caratteri e umori.
Le immagini di fiori, neve, cielo stellato, nuvole, fanno da contrappunto a quelle del monastero.
La fissità della macchina da presa è necessaria perché evita allo spettatore il sentimento di intrusione; non si ha mai l'impressione di violare uno spazio privato. E dell'umano mondo estrerno (un gruppo di turisti in visita ) filmato da lontano, le voci non sono che brusio indecifrabile, così da sottolineare la distanza che separa questo luogo di solitudine dalle vicende terrene.
Filmando la vita dei monaci Gröning si era fissato come scopo quello di osservare come la struttura del tempo può cambiare chi ha scelto una vita di preghiera ripetuta perpetualmenete, in un luogo che non si lascerà mai. Alla fine dell'esperienza egli stesso sente di essere cambiato:
Ogni nozione di peccato, di colpa e di redenzione è assente. Ci sono solo grazia, gratitudine e leggerezza. Se ne esce liberati dalla paura, dominati dalla fiducia. Non si ha nemmeno più paura di morire.

sabato 22 gennaio 2011

Michelangelo Frammartino: Le quattro volte

Ecco un film che, nella mente di chi lo guarda, non scompare con il riaccendersi delle luci. Continua a produrre il suo effetto: è ripensato, riassimilato, riassorbito.
Cercare un aggettivo per definirlo pare azzardato; tra tutti poi si impone quello di poetico. Ma questa volta bisognerebbe dissociare il termine dal luogo comune in cui di solito si tende a rinchiuderlo. Qui la poesia c'è veramente, nel senso etimologico della parola, dal greco poièo creazione, invenzione; niente a che vedere con un preteso romanticismo di immagini edulcorate o di narrazione edificante.
È difficile etichettare Le quattro volte. Un'opera che, a prima vista, si situa tra il documentario etnografico e un'inconsueta prova narrativa ma che, in definitiva, sorprende per la sua originalità inclassificabile.
Lo spunto di partenza è in un concetto filosofico di Pitagora: in ogni essere ci sono quattro essenze distinte -minerale, vegetale, animale e umana- che si succedono per completare il ciclo di un'esistenza.
Il film è il tentativo di trasformare in immagini questo concetto, seguendo la vita di quattro protagonisti successivi: il vecchio pastore, il capretto, l'albero, il carbone.
E a questo proposito, qualcuno ha parlato di impronta pitagorica anche della forma filmica, volendo sottolinearne il carattere prearistotelico (estraneo cioè ai concetti di codificazione della drammaturgia classica attribuiti ad Aristotele).
Michelangelo Frammartino filma una Calabria dei nostri giorni, ma in realtà sono pochi, e tutto sommato secondari, gli elementi che permettono di situare la storia in uno spazio cronologico definito. È indubbiamente un mondo arcaico, ma mai ritratto con sufficienza razionalistica, nemmeno nelle sue credenze più primitive. Anzi, la narrazione lascia sempre lo spazio ad una possibile verità dissonante. Un esempio: il vecchio pastore malato si cura con la polvere raccolta in chiesa, (superstizione, siamo spinti a pensare) ma poi la sua morte coincide (casualmente?) con l'interruzione della «cura». Il raziocinio non è quindi che uno dei mezzi che permettono di dar conto dell'esistente.
In definitiva però, più che ancestrale la realtà del film è semplicemente atemporale. E nemmeno la presenza dei pochi oggetti che legano gli avvenimenti al presente (il camioncino, la sega a motore...) riesce ad annullare questa sensazione. L'autore conosce bene i luoghi che filma; la sua famiglia è originaria di quella regione, ma egli vive a Milano e questa lontananza-opposizione lo ha forse aiutato ad ottenere una sensazione evidente di straniamento.
Il film, in quattro parti, segue dunque i quattro momenti del ciclo vitale della Natura. È la storia di un soffio vitale, uno spirito invisibile che passa attraverso quattro involucri prima di riacquistare l'aspetto che per i pitagorici ha l'anima: quello di polvere.
Per raccontare questo flusso esistenziale Michelangelo Frammartino attua scelte stilistiche che sono sì radicali ma prive di ogni inutile estetismo. Al contrario, esse sono sempre giustificate e al servizio di un'idea ben precisa.
Il risultato è sorprendente.

In cosa consiste dunque la poesia di Le quattro volte? È possibile fissare i termini di un linguaggio cinematografico capaci di dare all'aggettivo poetico tutto il suo senso?
È una questione che Pasolini si era già posto in un saggio del 1965. Il cinema è una forma di espressione artistica molto più recente rispetto alla letteratura e non si costruisce come quest'ultima su una base possesso comune di tutti i parlanti, non ha cioè il carattere naturale, disponibile a tutti, della lingua.
È possibile in un film, si chiede Pasolini, definire un linguaggio poetico in contapposizione -o piuttosto a fianco- di un linguaggio prosaico come si fa per un testo letterario? In effetti quello che differenzia, in uno scritto, la poesia dalla prosa non è (solo) la forma stilistica e di impaginazione ma anche il lessico e la sintassi in una discriminante che è quasi sempre chiarissima. Pasolini è poeta e uomo di cinema, conosce e pratica i due linguaggi, può verificare personalmente le sue ipotesi.
Il suo saggio suggerisce qualche idea utile per spiegare l'efficacia di alcune delle scelte stilistiche che Michelangelo Frammartino mette in opera ne Le quattro volte.
La cinepresa, per esempio, è quasi sempre fissa.
Frammartino spiega che per lui la macchina da presa fissa è soprattutto segno di un atteggiamento morale: lo spettatore ha una possibilità di scelta su quello che osserva, non è l'obiettivo ad imporglierlo. Perchè l'immagine serve non tanto per quello che dice ma per lo spazio che lascia a colui che la guarda, spazio per pensare ciò che è al di là, più importante di quello che è mostrato.
Anche Pasolini aveva analizzato questo procedimento parlando di inquadrature ossessive che, al pari di altri dispositivi stilistici «fanno sentire la macchina da presa» e contribuiscono a trasformare il linguaggio narrativo in linguaggio poetico.
I personaggi entrano nel quadro (inteso proprio come dipinto), compiono un'azione poi ne escono e il quadro riprende il suo aspetto iniziale. Il mondo rappresentato in questo dipinto non è solo tela di fondo per personaggi-protagonisti che agiscono al suo interno ma ha un valore a sé stante, primordiale. Per Pasolini sono i personaggi che adattano se stessi alle regole di quella bellezza, anziché sconsacrarle con la loro presenza.
Frammartino usa questa tecnica con una variante: lo stesso quadro riappare identico, in momenti differenti del film, legando così tra di loro le quattro parti e dunque «le quattro essenze vitali». Così è per esempio per l'immagine dai tetti, nella quale appare poi il vecchio pastore che va a vendere il latte. Il pastore e in secondo piano, invece in primo piano è un comignolo. Il vento fa ruotare quest'ultimo e il movimento attira l'attenzione dello spettatore. È un dettaglio che colpisce, lo si assimila, senza sapere però che ruolo attribuirgli. Il senso apparirà nell'ultima scena del film: l'inquadratura è la stessa ma ad entrare nella scena non è più il pastore ma il fumo del carbone che brucia e che esce dal comignolo. Il fumo diventa quindi protagonista dell'azione in un momento chiave della storia: l'anima che ha compiuto le quattro mutazioni ridiventa polvere. E questa immagine ci riporta anche alla polvere che, in una scena precedete, appare in controluce nella chiesa, e che sembra a prima vista non avere altro ruolo che quello di un effetto estetico. A posteriori essa assume un senso narrativo perchè associata al fumo del carbone. E altrove è un segno sonoro a legare due episodi (il carbonaio batte con la pala sulla catasta di legna e lo stesso suono lo si sente quando il vecchio pastore porta le capre al pascolo).
Le quattro storie delle quattro vite si succedono quindi concatenandosi, non solo nel racconto ma anche nella sintassi scenaristica.
Quella umana perde la sua superiorità rispetto alle altre. La macchina da presa non segue lo schema formale classico che vuole l'uomo al centro dell'inquadratura. Il cinema, dice Frammartino, ha costruito la sua grammatica partendo dalla centralità della presenza umana. Anche il sistema delle inquadrature ha come scala di valori la figura umana: primo piano, piano americano... Qui invece il regista adatta il punto di vista ai quattro stati, senza supremazie. Spesso il piano è largo e l'azione si svolge in una zona periferica. L'animale, il minerale e il vegetale hanno diritto alla stessa considerazione dell'umano.
E ciò emerge anche da un'altra scelta significativa: l'assenza di musica e soprattutto di dialogo. Il film non è muto ma le voci sono inintelligibili contribuendo così a un'uniformazione dei valori: la voce dell'uomo non ha un'importanza superiore all'abbaiare del cane o al belare del capretto e nemmeno al rumore del carbone o dell'albero.
La tecnica del linguaggio cinematografico è quindi sfruttata dal regista con intelligenza al servizio del suo progetto.
Ma evidentemente limitarsi all'osservazione di questo aspetto del lavoro significherebbe discorrere di un esercizio, certo di bravura, ma tutto sommato sterile. Il carattere essenziale del film, ciò che fa funzionare il dispositivo è evidentemente nell'idea di partenza e nella capacità che ha Frammartino di condividerla. Perchè il resto sono tutte considerazioni che verranno solo in un secondo tempo, quando si vorrà cercare di spiegare il fascino del film. Durante la proiezione, trasportati verso un tempo mitico, si è attratti dallo scorrere lento delle immagini, dalla loro bellezza non estetizzante, dal loro gioco di corrispondenze e di rimandi. Solo uno spettatore distratto o frettoloso potrà rimanere insensibile.
Qualcuno uscendo dal cinema dice: se si possono fare film così c'è ancora speranza.