Don Sebastiano Sanna Carboni, alle nove in punto, come tutte le sere, spinse indietro la poltrona, piegò accuratamente il giornale che aveva letto fino all'ultima riga, riassettò le piccole cose sulla scrivania, e si apprestò a scendere al piano terreno, nella modesta stanza che era da pranzo, di soggiorno, di studio per la nidiata di figli, ed era l'unica viva nella grande casa, anche perché l'unica riscaldata da un vecchio caminetto. Comincia così Il giorno del giudizio il romanzo che Salvatore Satta lasciò, alla sua morte, nel 1975 nei cassetti della scrivania. L'eminente giurista sardo aveva 73 anni.
Oggi è uno scrittore riconosciuto ma fino ad allora era destinato a restare nelle memorie degli studiosi e degli studenti delle facoltà di Giurisprudenza come l'autore, tra l'altro, di un monumentale
Commentario al Codice di Procedura Civile, culmine di una carriera accademica dedicata al diritto e allo studio della legge. E forse era questa la sua volontà.
Come in una sorta di
mise en abîme letteraria, un gioco di scatole cinesi, un narratore senza nome, che ogni tanto interpella il lettore, sta scrivendo un libro:
Scrivo queste pagine che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte. Scrivere non è il suo mestiere, mi sono reso conto di quanto sia difficile fare la storia, se non addirittura impossibile. La realtà è un flusso continuo di avvenimenti e di incontri, impossibile bloccarla:
la vita non si riduce mai a un ritratto o a una fotografia.
Senza commettere l'errore di confondere autore e voce narrante, lo specchio è troppo nitido per non riconoscere i tratti autobiografici di Salvatore Satta. Ma chissà, chi può dire se questa volontà di autocensura fosse sincera oppure se si trattasse di accattivare l'attenzione del lettore, una
captatio benevolentiae, che il giurista doveva saper maneggiare alla perfezione.
Perché poi le pagine non furono distrutte.
I familiari, dopo la sua morte appunto, trovarono il dattiloscritto (e poi anche il manoscritto) che Satta aveva cominiciato a scrivere nel 1970.
Una casa editrice, specializzata in opere giuridiche, forse più per stima che per convinzione, decise di pubblicarlo, nel 1977.
Il giorno del giudizio non ebbe nessuna eco, sembrava destinato a tornare in quell'oblio da cui mani benevole avevano voluto estrarlo.
Fu tre anni dopo che, in seguito ad un subitaneo e inspiegato interesse, l'editore Adelphi decise di riproporre il romanzo nella propria collezione.
Nacque così un «caso» letterario. Tradotto in 17 lingue, il libro ebbe un successo critico che ancora persiste; considerato da alcuni come una delle opere chiave della letteratura italiana del Novecento.
È un viaggio in un mondo scomparso. Il narratore anonimo ci accompagna in una Sardegna, -più precisamente
in quel nido di corvi che è Nuoro-, sulla via tra arcaismo e modernità. Siamo all'inizio del ventesimo secolo: la Pubblica Istruzione è passata dai comuni allo Stato, ma il maestro Mossa
si incammina come ogni giorno per i vicoli saltellando con le gambe piegate sui ciotoli mal connessi. Da ogni porta usciva un ragazzo e si univa agli altri, così che in breve tutta la scolaresca gli andava appresso, come attratta da un flauto magico […]. Arriva l'illuminazione elettrica, e
i proprietari delle case che non avevano un braccio di ferro con le tazzine di porcellana infisso nel muro si sentivano come diminuiti, perché il senso del nuovo e dell'ignoto era più forte di quello della proprietà. Scoppia la prima guerra mondiale, un avvenimento lontano e un po' astratto, ma le cui coseguenze sono ben reali e portano lo sconforto nelle famiglie che vedono partire i giovani figli.
Molti non sapevano neppure contro chi la guerra si combattesse, né dove si trovavano quei posti che ogni giorno venivano a galla nei bollettini che attaccavano alle vetrine del caffé Tettamanzi. Fin dai primi giorni, il governo aveva mandato al confino una ventina di persone, che si erano sparse per il paese. Non si capiva chi fossero: poi si seppe che erano ebrei austriaci e tedeschi, i quali risiedevano a Milano e non avevano voluto lasciare l'Italia. Nessuno fino a quel giorno aveva sentito nominare gli ebrei, fuori dalla Bibbia [...]
Attraverso la storia della città, che comincia con la decisione, quasi leggendaria, del vescovo Roich di allontanare la sede della diocesi dagli acquitrini della costa per trasferirla su quello sperone del monte Ortobene, il narratore, che ha una certa somiglianza con il più giovane dei figli di Don Sebastiano Sanna, ci presenta, con acume e ironia, gli abitanti del borgo, poveri e ricchi, nobili e popolani.
Una moltitudine di personaggi, attratti sulla scena da un racconto che sembra avvolgersi in un turbinio pertetuo, appaiono e poi scompaiono, in un incessante susseguirsi di ritratti sempre ricchi di nitidezza e di profondità.
Di ritorno nei luoghi dell'infanzia, passeggiando nel cimitero cittadino, l'anonima guida richiama in vita, un po' alla maniera di Edgard Lee Master nella sua
Antologia di Spoon River gli attori di un teatro umano e li raffigura, nelle loro debolezze e nelle loro virtù.
Sono stato, di nascosto, a visitare il cimitero di Nuoro. Sono arrivato di buon mattino, per non vedere e non essere veduto. Sono sceso a Montelongu, là dove allora Nuoro finiva e cominciava, all'orlo di San Pietro, e mi sono avviato per le piccole strade della mia lontanissima infanzia.
C'è chi ha trascorso la vita ad accumulare ricchezze, chi l'ha consacrata al rancore o alla vendetta e chi ha fatto una scelta definitiva, inalterabile per tutta una vita, in una società in cui ogni atto pubblico, dalla nascita alla morte, è codificato e immutabile. Appaiono uomini e donne richiamati alla luce, per l'ultima volta da un mondo perduto. Le loro strade si incrociano, si ritrovano, si ingarbugliano. Perché la vita di ognuno non è nulla presa singolarmente al di fuori della comunità e dei luoghi nella quale essa si esprime e dalla quale prende consistenza.
Ora la vita di Don Sebastiano e di Donna Vincenza non era soltanto la loro, era la grande casa in cui convivevano, erano i figli che la popolavano, la gente che vi andava per mille faccende, era Nuoro intera alla quale essi appartenevano e che ad essi apparteneva, come in una misteriosa comunione. Forse solo la musica nella sua astrattezza potrebbe rappresentare questa comunione di angeli o di diavoli che sia, e forse la vera e la sola storia è il giorno del giudizio, che non per nulla si chiama universale.
Ed è così che corre alla rovina Pietro Catte cercando
un pane migliore di quello di grano, in un mondo sconosciuto in cui avrebbe voluto moltiplicare la ricchezza ereditata dalla zia. Cade in un inganno e perde ogni cosa.
Nello spaventoso turbinio, c'era un punto fermo soltanto, ed era Nuoro. Nuoro era la realtà del mondo, e i suoi occhi bovini la fissavano, non vedevano altro. Era la coscienza morale, il luogo e il giorno del giudizio: la coscienza che si è fissata nelle pietre e nelle persone. Dopo il fallimento della sua impresa non gli resta che impiccarsi alla grande quercia dove ritrova il fantasma della zia.
La storia che l'ignoto narratore ci racconta è il suo tentativo, l'ultimo, facendo rivivere l'intera comunità di ritrovare un senso alla propria vita. Ma non è che un attimo, nel giorno del giudizio resta il silenzio del tempo come sola salvezza perché
la sola condizione di una buona morte è l'oblio.