La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



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mercoledì 7 settembre 2022

Savino Monterisi, Infinito restare.

Le nuvole che per tutto il giorno hanno coperto e scoperto i crinali esausti della montagna sono un segno inequivocabile. La pioggia è scesa incessante. I campi appena arati e messi a riposo sono un pantano. Solo i cani che porto a scorrazzare lungo il fiume hanno il coraggio di addentrarcisi, salvo per venirne fuori sudici come due spugne. L’autunno è la nostra stagione. È il tempo di chi resta quando, dopo la sbornia estiva, si fanno i conti di chi non è partito, di chi avrà a che fare con le asperità della vita al margine: scarsi servizi, poche persone, freddo intenso – quest’ultimo non necessariamente un male.* Quella che descrive così lievemente Savino Monterisi nel suo ultimo libro Infinito restare è la realtà di un paesino dell’Abruzzo ai piedi del monte Morrone nella valle Peligna ma è una realtà condivisa da molti altri luoghi e non solo di questa regione. Quando improvvisamente, le piazzette e le vie che si erano per qualche settimana rianimate, ritornano ai loro silenzi e quando anche le giornate di sole si fanno più rare. Monterisi è uno di quelli, ancora pochi, che ha deciso di restare, malgrado tutto e non per un sacrificio personale ma perché, in definitiva, tra i pro e i contro, sono i primi, almeno per adesso, a prevalere. È un libro che ispira letture diverse, tutte stimolanti e ricche di spunti. Monterisi prosegue il discorso che aveva cominciato nel suo precedente Cronache della restanza, pubblicato nel 2020. Ci racconta il suo legame con la terra natale, la volontà di rinsaldare e di rinnovare questo rapporto fatto di affetti e di relazioni con le persone e i luoghi e irrorato dalla necessità di fare qualcosa, di contribuire ad un futuro possibile per il quale valga la pena di impegnarsi. E queste riflessioni l’autore le fa accompagnandoci tra paesini e montagne, alla scoperta di luoghi affascinanti, tra storia e natura, popolati da personaggi vivi e accattivanti. Poi c’è il racconto vero e proprio, la narrazione che si arricchisce nel ricordo delle tradizioni e nell’autobiografia. Monterisi, che è giornalista ma anche guida ambientale, ha deciso di tornare a vivere in questa regione spopolata dall’emigrazione e ha voluto incontrare quelli che hanno fatto la sua stessa scelta, una scelta che, a parole, ispira simpatia e ammirazione ma che poi deve fare i conti con gli ostacoli e le difficoltà quotidiane che possono minare anche le volontà più risolute. Apparentemente qualcosa sembra muoversi anche tra i paesi dell’entroterra abruzzese, ancora sconosciuti ai più e che hanno cominciato ad accogliere un numero di turisti più alto e magari imprevisto. In questi ultimissimi anni, anche a causa della particolare situazione che abbiamo conosciuto, il tema del “ritorno verso la campagna o la montagna”, verso “i borghi”, ha suscitato un interesse mediatico inconsueto. Paradossalmente, l’Abruzzo ha approfittato delle conseguenze della pandemia per uscire allo scoperto, per farsi conoscere come meta per viaggiatori alla ricerca di Natura e di “autenticità”. Soprattutto nell’estate del 2021 e soprattutto i paesi dell’entroterra montano hanno accolto visitatori provenienti da altre regioni che spesso scoprivano questa parte di Appennino. Savino Monterisi pour non negando l’interesse di questa novità, si interroga – giustamente – sulle prospettive di uno sviluppo turistico che potrebbe, come è già accaduto altrove, sconvolgere irrimediabilmente un ecosistema così fragile e delicato. Questa sembrerebbe infatti per la regione una nuova partenza, a prima vista meno aggressiva dopo un primo, limitato e poi fallito tentativo di sviluppo industriale. Forse non a caso il libro si apre con un’escursione verso un eremo “introvabile” (ma infine trovato) che domina il sito di “Bussi Officine” ormai tristemente famoso per le sue scorie chimiche clandestine ma anche, ricorda l’autore, per le esemplari lotte operaie. Ma ora i pericoli sono altri: sono le montagne aggredite da impianti sciistici che snaturano l’ambiente e si appropriano di risorse idriche preziose; sono i paesi, luoghi di vita costituiti anche da persone e dalle loro storie che si trasformano in “borghi”, musei immobili di un tempo passato, luoghi fatti di seconde case vuote la maggior parte dell’anno. Il borgo è un paese che non ce l’ha fatta* dice Monterisi con un’efficace formula. Il libro di Savino Monterisi non è però solo una riflessione sul futuro dell’Abruzzo. È anche uno scritto molto personale e intimo. Un interrogarsi sulle proprie scelte e un dialogo con “i vicini”, lo siano essi materialmente o idealmente, con chi come lui, vive giorno dopo giorno in luoghi certamente in disparte rispetto ai “flussi” più importanti della modernità. Ed è un omaggio alla natura di questa regione, rude e affascinante, alle sue montagne, ai boschi, al vento e alla neve che rende eterno il silenzio. Con accenti pavesiani l'autore ci spiega il suo proposito: Infinito restare s’insinua dunque nello spazio vissuto ed è soprattutto un viaggio. Un viaggio dentro e fuori sé stessi. Un viaggio alla scoperta del non conosciuto a portata di mano. Restare non vuol dire stare fermi, ma trovare un approdo, poterci contare, farci base, creare comunità. Un punto di partenza dal quale esplorare il quotidiano e i suoi contorni, il vissuto e l’immaginato. Spingersi oltre il crinale delle montagne perché non c’è ritorno senza partenza. La partenza come inizio, il viaggio sempre verso casa, dalla quale si parte e si torna. In viaggio per conoscere a fondo sé stessi, la propria geografia, scoprirne i limiti e le virtù.

*Savino Monterisi, Infinito restare. Radici edizioni 2022

sabato 29 agosto 2020

Gran Sasso, attorno alle Veticole


Torniamo dopo molto tempo in questi luoghi. Qualche anno fa salimmo sul monte Prena. La lunga strada (quasi cinque chilometri) che si stacca dalla ex statale 17bis e che si dirige verso i ruderi della miniera di Castel del Monte, è sempre nelle stesse pessime condizioni. Più mulattiera che carrozzabile; se si vuole percorrerla in auto è meglio fare attenzione alle buche. D’altronde non ci sarebbero motivi per ripararla, il percorso non serve a nessuno, solo agli escursionisti che non avranno difficoltà a camminare un po’ più a lungo. 

Anche nei giorni di agosto più affollati (una vera e propria processione si forma ogni giorno all’assalto del Corno Grande), da queste parti regna il silenzio e gli incontri con altri camminatori sono piuttosto rari.

Non lontano dal ghiaione della Fornaca, parte il sentiero che, alzandosi sulle pendici occidentali del monte Camicia, poi fino al vado di Ferrruccio - dove ritrova il sentiero « del Centenario » - , sale sulla vetta del monte Prena. È la cosiddetta « via normale », un bel percorso QUI, non estremamente difficile ma lungo il quale qualche passaggio un po’ esposto e scivoloso, può mettere in difficoltà e richiede un’attenzione particolare.

Per chi volesse avvicinarsi alle rocce del Prena, così caratteristiche e insolite ed ammirarne i singolari scorci senza arrivare fino in vetta ma senza neanche rinunciare ad una bella camminata, il giro delle « Veticole » è una proposta da prendere in considerazione.

Le Veticole è un gran panettone erboso culminante a 2044 metri e incluso tra due larghi canaloni brecciosi, la Fornaca appunto – ad est e la Canala ad ovest. A primavera (e anche in caso di forti acquazzoni) si trasformano in impetuosi torrenti, altrimenti sono completamente a secco.

Risaliamo la Fornaca, superando le barriere artificiali in cemento. Si cammina in un ambiente completamente roccioso e arido. Il sentiero piega verso sinistra (ovest) mentre di fronte a noi un colle ospitava, tra qualche pino mugo, il bivacco Lubrano, che è stato, anni fa, spazzato via dal vento e di cui oggi non restano che le fondamenta ( nei pressi qualcuno ha costruito un riparo, con materiali di recupero). La salita sul colle è breve e facile anche se abbastanza ripida ed è una piccola deviazione rispetto al percorso previsto.

Altrimenti si può restare sul sentiero che comincia a inerpicarsi verso il passo che, a 1970 metri, separa la cima delle Veticole dal monte Prena.

Da qui si può, senza via segnata, salire a sinistra (sud) verso la cima delle Veticole da dove un magnifico panorama spazia quella piana di Campo Imperatore. A destra invece (nord), si può risalire per un tratto il sentiero che porta all’attacco della via Brancadoro (alpinistica), che sale sul monte Prena. Noi ci « accontenteremo » di ammirare da qui lo spettacolo di guglie e pinnacoli che la montagna ci offre.


Riprendiamo il sentiero che scende verso la Canala. La discesa è ghiaiosa ma non difficile. In basso incontriamo sulla destra la traccia che porta alla via dei Laghetti (altra celebre via alpinistica per la vetta del monte Prena). Una lapide in memoria di due alpinisti umbri travolti
nel 2008 da una colata di fango e acqua ci ricorda la pericolosità, soprattutto in questo ambiente roccioso, dei repentini cambiamenti atmosferici.

Continuiamo a seguire sul versante destro il fiume di ghiaia della Canala passando vicino ad un piccolo rifugio protetto da qualche albero.


La passeggiata continua poi, un po’ monotona e senza via precisa, tra i prati a sud delle Veticole fino a raggiungere in punto di partenza. (Con le pause e la salita al bivacco Lubrano: 2.30 circa).

 

venerdì 13 dicembre 2019

Castel del Monte, ricordo di una nevicata.


Penso che, per me come per molti, sia impossibile, risalendo con il pensiero verso gli anni dell’infanzia, d’identificare un momento preciso in cui situare i primi fatti realmente vissuti e che, avendo resistito alle vicissitudini e alle peripezie della vita sono ancora oggi presenti nella nostra memoria. Più andiamo indietro nel tempo, più ci inoltriamo in un’età nella quale l’esperienza personale – l’evento realmente conosciuto - si amalgama e si stempera nel racconto udito da altri e che, a poco a poco, abbiamo ricostruito nella nostra mente fino ad assumerlo come frutto di una testimonianza viva che ci appartiene.
Così è della prima casa in cui ho abitato della quale non ho molti ricordi. Anzi, sicuramente sono ricordi di seconda mano, di storie raccontatemi da altri più che vissute.
Sono nato in un giorno di autunno ormai inoltrato e ho passato nel paese d’origine solo tre inverni. I miei genitori avevano affittato una modesta abitazione in quello che ancora oggi si chiama “Rione Orientale”. È un nome che mi è sempre piaciuto; fa pensare ad un mondo lontano e un po’ favoloso ma è anche un po’ incongruente associato com’è alla montagna rude su cui era stato costruito.
Ancora oggi i luoghi non sono cambiati; si entra nel paese antico passando sotto l’arco di San Rocco, addossato alla chiesa omonima. La casa è poco lontano, dopo una stradina che, lasciata la piazzetta scende verso il centro del borgo. È in cima ad una scalinata esterna che dal basso verso l’alto si allargava verso due porte, una vicina all’altra. Noi stavamo a sinistra e la porta accanto era quella di una donna che io ricordo anziana ma che probabilmente non lo era. I miei genitori si erano installati lì dopo il loro matrimonio ed era in quella casa che io ero nato.
Mio padre che fino ad allora si era accontentato di mestieri poco proficui, era stato costretto, dopo la mia nascita a cercare un lavoro più redditizio e, come molti altri, era partito per una regione del nord dove a quei tempi le fabbriche cominciavano ad assumere abbastanza facilmente.
Io ero restato con mia madre, nell’attesa di una sistemazione meno precaria e di un ricongiungimento programmato. La vita scorreva tranquillamente, mia madre aiutava le sua che aveva una piccola attività, faticosa e, anch’essa, poco redditizia. Quando usciva per andare da lei o per fare qualche commissione mi lasciava solo e, per evitare che facessi capricci e farmi capire che non dovevo allontanarmi, mi dava un incarico di grande responsabilità dicendomi di fare la guardia alla casa e di non fare entrare nessuno. Così quando una volta la vicina mi chiese di prendere un po’ di brace dalla stufa per accendere il suo fuoco io, perentorio, le impedii di entrare cosciente dell’incarico ricevuto: nessuno era nessuno. Naturalmente quando la donna raccontò la storia a mia madre ci furono commenti ironici nei miei confronti e io, vedendo i sorrisi complici delle due donne, non ero proprio convinto di potermi ritenermi orgoglioso per aver rispettato il mio difficile incarico, cosciente di non aver capito qualcosa che si era tramato alle mie spalle.
Ogni tanto toccava a me “andare a fare la spesa”. Mia madre mi affidava il portamonete con qualche spicciolo e io mi recavo in una delle due macellerie che, vicino alla piazzetta erano una di fronte all’altra. Naturalmente non sapevo contare e dopo aver chiesto quello che mi era stato detto, davo il portamonete alla padrona della bottega che prendeva i soldi corrispondenti. Io ero fiero di questi piccoli-grandi incarichi a tal punto che un giorno, incontrata nel negozio una zia, non la salutai nemmeno, tutto preso dal mio dovere. Naturalmente quest’ultima si offese e mia madre dovette poi scusarsi per il mio comportamento.
Il secondo inverno passato lassù fu particolarmente nevoso.
Eravamo, mi pare, verso fine dicembre, la neve era cominciata a scendere silenziosamente durante la notte e la mattina copriva già ogni cosa. Solo l’impronta di qualche passo rompeva l’uniformità del manto bianco e lasciava apparire le pietre arrotondate dell’antico selciato. Uno zio, il fratello di mia madre, era passato velocemente per assicurarsi che tutto andasse bene e poi era andato nella sua bottega che era poco lontana. Affacciato alla porta, guardavo affascinato quel paesaggio bianco per me nuovo ed intrigante. Più tardi il vento si levò e dovetti rinunciare velocemente a quello spettacolo, richiamato da mia madre che giustamente voleva preservare il caldo della stufa.
Per tutta la giornata la bufera continuò impetuosa, la neve si incollava ai vetri della finestra lasciando la stanza quasi nel buio. Andammo a dormire molto presto, non erano tempi di televisione e la radio stentava ad arrivare fin lassù.
Il mattino seguente la bufera era cessata ma la neve continuava a cadere. Mia madre, che voleva andare a fare qualche spesa, aprì la porta e si accorse stupita che la scalinata era quasi completamente coperta, uscire era impossibile.
La genitrice non si perse d’animo. Non avevamo molte riserve ma di farina ce n’era abbastanza. Chembrenne (fare la pasta a mano) fu dunque la soluzione che le venne facilmente et ovviamente in mente.
Passammo così due giorni, completamente isolati e senza notizie del mondo esterno. Il terzo giorno finalmente spuntò il sole. Aprimmo la porta. L’aria era tersa e il cielo brillava di uno splendido blu, ancora più acceso dal contrasto con lo spesso manto bianco che copriva ogni cosa. La scalinata era completamente coperta e la neve arrivava quasi alla soglia della nostra casa. Era impossibile attraversare quello spazio.
Fu lo zio a venire da noi. Sentimmo bussare alla porta e lo vedemmo, sorridente e felice, con ai piedi un paio di sci, con i quali aveva attraversato il paese ed era arrivato fino all’uscio superando agevolmente e senza sforzo il dislivello che in tempi normali era il piano inferiore.

giovedì 5 dicembre 2019

Gran Sasso d'Italia, Sella di Fontefredda

È in Abruzzo che è nata l’idea di un movimento wilderness italiano che avesse come scopo la salvaguardia dei “luoghi selvaggi” ancora presenti nella penisola.
E probabilmente non è un caso. Forse suo malgrado – la regione è stata ed è ancora un po’ snobbata dal turismo di massa – gli spazi naturali sono qui numerosi e vari. Ma già nel lontano passato questa terra era considerata come uno spazio selvaggio e inesplorato. Da sempre essa ha accolto monaci ed eremiti provenienti anche da altre regioni e che hanno trovato tra le sue montagne e le sue valli, soprattutto quelle della Majella, luoghi impervi e solitari nei quali insediarsi.
È anche vero che l’ambiente montano, e questo vale in modo più generale, rappresenta un luogo emblematico per chi cerca spazi preservati e, se non inesplorati, almeno incontaminati. Chi va in montagna lo fa spesso e soprattutto per ritrovare quel contatto diretto con la natura che altrove manca.
L’Abruzzo è una regione relativamente piccola ma ricca di aree preservate e non è un caso se molti film ambientati in tempi o continenti lontani hanno questo territorio come tela di fondo.
Il massiccio del Gran Sasso, per le sue caratteristiche geografiche e geologiche, è da questo punto di vista un luogo significativo e affascinante. Attorno all’imponente roccia del Corno Grande, spazi vari e multiformi appagano la vista. La piana di Campo Imperatore, così isolata, anche visivamente da ogni centro abitato, può riecheggiare epopee medievali o le ampie praterie americane. Certo le dimensioni non sono equivalenti e, anche adottando la definizione di “Piccolo Tibet” che Fosco Maraini trovò con successo per questo altipiano, non possiamo dimenticare che poca cosa sono i venti chilometri di lunghezza del Campo confrontati ai 2500 chilometri dell’altopiano tibetano. Ma, anche se la presenza di una strada asfaltata abbastanza comodamente percorribile, toglie al sito una parte del suo carattere “selvaggio”, per il camminatore che vi si avventura è facile provare impressioni ed emozioni di piacevole meraviglia. (vedi qui)
Qui lo “spaesamento” è sicuramente il frutto dalla sensazione di dismisura che si apprezza nel momento in cui un punto di riferimento conosciuto appare sproporzionato rispetto alla vastità dell’ambiente circostante. Questa sensazione è poi accentuata dai suoni, sorprendentemente vicini quando, portati dal vento, che contrastano con la lontananza della loro origine.
Altre zone sono meno estese e meno immediatamente evidenti ma forse proprio per questo altrettanto o forse, più suggestive. Il vallone d’Angora (o d’Angri) per esempio, con la sua vegetazione rigogliosa e la sua avifauna specifica. Di accesso non facilissimo, la forra nasconde scorci seducenti per i quali il termine “selvaggio” non è certo un luogo comune. (vedi qui)
Anche le pendici del versante sud del monte Prena attraggono per il loro carattere proprio. Qui è spazio roccioso ricco di pinnacoli, rocce in bilico e di altre sculture naturali a costituire un ambiente dolomitico, lunare. (vedi qui)
Io vorrei suggerire un luogo meno immediatamente spettacolare, forse perché meno impervio e nascosto: la sella di Fontefredda. L’ampio valico erboso si scopre salendo la costa tra i monti Tremoggia e Siella. Il sentiero che sbuca dalla pineta di Fonte Vetica, si inerpica velocemente anche con stretti tornanti, per poi allungarsi verso un ampio pratone, sul quale spesso domina il vento. Si arriva così alla sella. Per la maggior parte degli escursionisti questo è solo un passaggio, tra i due versanti della catena montuosa o, più sovente, per affrontare la salita verso il monte Camicia. Verso occidente è il grande panettone del monte Tremoggia dal lungo crinale spesso punteggiato da numerose stelle alpine, verso oriente il meno imponente monte Siella. Un ampio vallone precede l’arrivo sulla cresta. Qui il vento è più impetuoso, risale dalla costa adriatica, spazza l’erba e fischia. Occorre fermarsi più di un attimo, lasciare correre lo sguardo dall'erba più vicina fino alle creste e poi più lontano, là dove gli altri massicci montuosi della regione chiudono la vista. Ed è questo andare e venire dello sguardo, tra il concentrarsi sull'immediata vicinanza e il perdersi verso l'azzurra lontananza a riempire lo spirito.
Chiunque abbia viaggiato in luoghi selvaggi avrà provato qualcosa del genere, una fugace, cocente percezione del disinteresse del mondo. In piccole dosi entusiasma. Provata per intero annichila. (Robert Macfarlane)







domenica 10 novembre 2019

Colore del cielo

Ricordo quando, ancora bambino, arrivavo con la corriera sulla piazza del paese. C'era sempre molta gente e i passeggeri, prima della fermata erano già in piedi, allungavano il collo a destra e a sinistra, cercavano con lo sguardo una madre, un padre, un fratello o una sorella venuti ad aspettarli.
Il dialetto che nella città del nord era riservato alle conversazioni familiari diventava improvvisamente lingua ufficiale, le sonorità così particolari, specifiche e ristrette a quel territorio, riempivano la piazza con i loro timbri e con la loro peculiare pronuncia.
Rapidamente quella piccola folla di disperdeva, a poco a poco la piazza ritrovava la sua calma consueta, lo scroscio dell'acqua della fontana riprendeva il sopravvento nel silenzio del luogo.
Ma la prima impressione che mi colpiva, superando la curiosità per lo spazio circostante, era il colore del cielo. Nella città del nord ero abituato, anche nei giorni più chiari, ad un celeste tenue e evanescente, un po' più limpido solo nei rari giorni di vento.
Quassù il blu esplodeva, quasi irreale. Il grande albero vicino all'abbeveratoio – a quell'epoca era molto più rigoglioso - contrastava con la sua chioma lussureggiante, come un fuoco d'artificio e si apriva il quel cielo luminoso. Il verde delle foglie accentuava l'emergere della volta di un cobalto abbagliante. Restavo affascinato e impressionato da quel colore così intenso e perentorio e per un momento mi guardavo attorno. Cercavo negli altri l'espressione di meraviglia che potesse confermare la realtà del mio sentimento di fronte ad un evento imprevedibile ed a una cosa inaspettata. Il distacco e l'indifferenza che vedevo attorno a me, senz'altro dovuti all'abitudine, mi lasciavano perplesso.

giovedì 24 ottobre 2019

Le sorgenti del Pescara.

Popoli ha una posizione geografica particolare, tra il massiccio del Gran Sasso e quello del Morrone, con la Majella alle spalle. È qui che uno stretto passaggio apre alle acque del fiume Pescara la via verso il mare.
Il fiume, nato come Aterno sulle pendici dei Monti della Laga, dopo aver attraversato la conca aquilana, proseguendo in direzione sud est, sbocca nella valle Peligna.
Qui cambia repentinamente direzione e, scorrendo ormai verso nord est, raccoglie le acque del Pescara le cui sorgenti sono appunto nei pressi di Popoli. Il suo nome “ufficiale” diventa Aterno-Pescara ma tutti lo chiamano semplicemente Pescara (a volte al femminile) con un singolare e insolito cambiamento.

Pagus Fabianus è l'antico nome della città di Popoli. Però il Populus in latino è anche il pioppo. E chissà se non fosse da cercare qui l'origine del nome attuale della città. Così spiega Piera Lisa De Felice, direttrice della Riserva naturale delle sorgenti del Pescara.
La ricchezza d'acqua ha infatti favorito lo sviluppo di imponenti esemplari di questi alberi. Nel 2011 una delibera dal Consiglio comunale ha istituito un elenco di alberi comunali “di interesse storico, monumentale, naturalistico”. Nella riserva la più maestosa di queste piante ha una circonferenza che supera i cinque metri. In ogni caso se non è vero è molto ben trovato direbbe Giordano Bruno.
È nel 1986 che fu deciso di creare la Riserva naturale delle Sorgenti del Pescara. Purtroppo il sito era già stato parzialmente deturpato quando, negli anni Settanta fu costruita l'autostrada A25 Roma Pescara.
In quei tempi di progresso inarrestabile, pochi si preoccupavano dell'impatto ambientale che una simile opera avrebbe potuto avere su un ecosistema prezioso e fragile. Cosa poteva contare, di fronte all'impellenza della velocità, questo piccolo scrigno naturale, apprezzato solo dagli abitanti della vicina cittadina che venivano qui in estate per trovare un po' di fresco.
Eppure il valore di questa riserva è ormai riconosciuto. È un piccolo paradiso per gli appassionati e gli studiosi di avifauna. Più di cento specie di uccelli, stanziali o di passaggio, sono state osservate dagli ornitologi.
La folaga, che è stata scelta come simbolo della Riserva, ma anche, tra i tanti, l'airone cinerino, il germano reale, lo sparviero, il falco pellegrino e poi rettili, roditori e ancora specie ittiche molto rare. Malgrado il tracciato dell'autostrada che scorre vicinissima e che perturba un po' la tranquillità del luogo, la riserva resta un sito piacevolissimo. L'equiseto, un altro simbolo di quest'area protetta, è una pianta acquatica originale. Assomiglia ad una conifera in miniatura, alta poco più di un metro.
Nel sottobosco, quando il sole penetra tra i rami degli alberi, sembrano raggi di un fuoco d'artificio silenzioso.
Belli sono anche i sambuchi, alcuni maestosi, i cui rami si dispiegano in larghe curve.

Una sessantina di sorgenti fanno riemergere qui le acque del Sirente e del Gran Sasso (la costruzione della galleria ne fece considerevolmente diminuire la portata), creando un laghetto limpido e fresco. Un bel sentiero porta fino ad un punto panoramico sulle pendici di un colle: Capo Pescara. Da qui lo sguardo spazia verso la valle Peligna. Popoli è di fronte a noi, più lontano scorgiamo Pratola e poi Sulmona.