Presentato alle Giornate degli Autori di Venezia nel 2019 e l’anno successivo candidato all’Oscar come Migliore Film in Lingua Straniera, Corpus Christi è l’opera seconda di Jan Komasa, regista polacco che con il successivo The Hater avrebbe poi confermato di essere una delle voci più interessanti del cinema del suo Paese.

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Un film che nasce in parte da una storia vera, per quanto difficile da credere: la storia di un ventenne di nome Daniel, che trova la fede mentre sconta la sua pena in un centro di detenzione e che una volta tornato in libertà, mentre si appresta a lavorare nella falegnameria di una cittadina di provincia, per una serie di circostanze viene creduto un sacerdote e finisce per sostituire l’anziano parroco ammalato.

La storia di un travestimento, dunque, e anche di una truffa ai danni di gente ignara, che affronta, però, come ha detto lo stesso Komasa, «il mistero delle esperienze spirituali, sacre e profane».

La vocazione del protagonista, infatti, è sincera, nonostante il suo passato gli impedisca di prendere i voti e nonostante le sue gesta a fin di bene nascano da una menzogna; allo stesso modo, autentico è il dolore della comunità in cui s’insedia, ancora segnata dalla morte un anno prima di sei giovani in un incidente stradale forse causato dalla settima vittima, un ubriacone a cui è stato negato il funerale.

La presenza di Daniel e il suo modo teatrale di vivere la fede aiutano le persone in lutto a elaborare la perdita, rivelando però la doppia morale di una comunità che dietro la preghiera nasconde la vendetta. La vedova del presunto assassino, infatti, avrebbe voluto anche per il marito un funerale solenne, ma la cosa le è stata negata e nel tempo la donna è stata progressivamente esclusa dalla comunità…

Un’altra forma di travestimento, più grave ancora, fa così emergere in Corpus Christi il contrasto fra due forme di dramma: quello di un individuo asociale che chiede di essere riaccolto e quello di una comunità sconvolta che nasconde un oscuro segreto.

Il modello di Komasa, che ha lavorato su una sceneggiatura di Mateusz Pacewicz, sembrerebbe Il corvo di Henri-Georges Clouzot, capolavoro del cinema francese in tempo d’occupazione nazista (anno 1943), che dietro una storia di lettera anonime che sconvolgono la vita di un paese svela in controluce la tragedia di un popolo terrorizzato: anche in Corpus Christi ci sono lettere anonime e minatorie che rivelano la paura e la meschinità della gente, ma per Komasa a contare è soprattutto la figura scandalosa di Daniel, il suo esempio per l’appunto cristologico (laicamente cristologico) che da un inganno arriva al sacrificio e all’esposizione quasi oscena del suo corpo, in una sorta di grottesco martirio.

Straordinaria in tal senso la prova di Bartosz Bielenia (candidata agli European Film Awards), il quale sa dare al suo personaggio un’aria selvaggia e folle e per questo in odore di santità. L’immagine del suo volto insanguinato in un momento chiave del film si staglia resta una visione sconvolgente, capace di unire la violenza fisica della prigione con lo stravolgimento non solo interiore della preghiera.

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