Storia Dell'impero Romano

Appian's Illyrian book (Illyrike) was originally intended to be just an appendix to his Macedonian book and today remains the only extant ancient work dealing with the early history of Illyricum which is preserved in its entirety. In this short work Appian puts together different local and regional histories in order to create a unified historical narrative and determines the historical and mythological coordinates of Illyricum inside the ancient world. This paper will discuss Illyrike in the context of the Roman construction of Illyricum as a provincial space, similar to some other regions in continental Europe such as, for example, Gaul or Britain. They were all firstly created through the needs of Roman political geography and later written into literary knowledge through the works of ancient history and ethnography. This paper will argue that Appian's Illyrike represented the final stage of the Roman construction of Illyricum from an imaginary to a provincial space, which was the point of its full coming of age as an integral part of the ancient world and the Roman Empire.

Earlier scholarship saw the worship of Silvanus in Dalmatia from two different perspectives. Firstly, as a continuance of the pre-Roman indigenous cult which became »recognized« as the italic deity Silvanus through the interpretatio Romana, and secondly, as a product of indigenous assimilation in Roman culture. This article reconsiders these opinions from a different perspective, making the point that we deal here with an entirely new cultural practice, rather than the survival of the pre-Roman traditions, or with the assimilation of the indigenous population into the Roman identity. It is argued that the worship of Silvanus was used as an interface for communication and display of identity of different provincial sub-cultural groups in the early imperial times. It was a new, inventive and multifaceted religious practice, which incorporated existing local traditions and visual aesthetics with global symbolics of Silvanus, bringing together distinct societies and including Dalmatian communities into the »global« world of Roman Empire.

This paper discusses two Roman reliefs from the Dalmatian hinterland, one of the goddess Diana from Proložac near Imotski, the other of the girl Lupa from Sovići near Grude in Herzegovina. Earlier scholarly discussions ascribed artistic values to the portrait of Lupa, while the relief of Diana was considered as superb crafstmanship, but artistically inferior to Lupa’s portrait. Using these two portraits as a case study, the paper will question the existing approaches to Dalmatian provincial art, in particular the notion that Graeco-Roman visual rhetoric was artistically superior to local, provincial interpretations.

This paper re-examines the sources reporting on the campaigns of Asinius Pollio in 40/39 BC, and reviews the scholarly debate about the targets and aims of his campaigns. In the debate a new source is introduced, the passage on Pollio’s conquest of Salona, from the medieval Historia Salonitana of Thomas the Archdeacon of Spalatum (Split). The analysis shows that the passage from Thomas does not correspond with any known source and it suggests that he used a more substantial report on the siege and capture of Salona, probably from the textual tradition of the Vergilian scholia, which sprung from the lost commentary of Aelius Donatus. The existence of this textual tradition about Pollio’s campaign in central Dalmatia in the Vergilian scholia and the epitomes of Florus, in conjunction with Horace’s mention of Pollio’s Dalmatian triumph, makes it more certain that Pollio campaigned in central Dalmatia.

Unendo criteri metodologici della critica del testo e dell'epigrafia, si è cercato di individuare due ambiti di interesse per la pubblicazione di documenti affini all'interno dell'istituzione ginnasiale tra II e III secolo, qui definiti come ufficiale e non ufficiale. Svolgendo una lettura del documento in questione in chiave parodica, se n'è ricavata una proposta di correzione al testo.

Gaio Giulio Cesare nel 46 a.C. ha celebrato quattro trionfi per le vittoriose campagne in Gallia, in Egitto, nel Ponto e in Africa. È dell’anno successivo il quinto e ultimo: per aver sconfitto – in Spagna – Gneo Pompeo figlio di Pompeo Magno. Ma – forse mai considerato come tale – gli appartiene un altro trionfo: il rito funerario che avvolge il suo corpo nel segno di un’accorta regia politica e lo riveste delle parole che Marco Antonio pronuncia leggendo, pubblicamente, il testamento che Cesare aveva scritto. Forma e sostanza che determinano la sorte e il destino dei cesaricidi. Cesare vince la sua ultima battaglia. Il suo genio politico e militare travalica un tempo mortale, segna un’epoca, gettando le basi di un complesso sistema di architettura del potere legittimato dalla Storia.

Il contribuito che tale elaborato si propone di offrire consiste nella possibilità di indagare sotto una nuova prospettiva gli aspetti relativi alla ritualità funeraria imperiale dei due più grandi imperi che il mondo antico abbia conosciuto; una prospettiva comparativa, il cui fine ultimo è l'analisi degli aspetti comuni e divergenti tra le due civiltà, non solo per quanto riguarda i modelli architettonici funerari, ma anche e soprattutto in riferimento alle ideologie che gli imperatori di Roma e Cina intendevano esprimere attraverso la realizzazione di questi monumenti. Affinché la comprensione delle tematiche risulti efficace, l'elaborato si aprirà con una premessa metodologica, il cui fine è quello di rendere più chiari i concetti fondamentali della cosiddetta "storia comparativa", un metodo di indagine storiografico che affonda le sue radici nella prima metà del XIX secolo. A questa prima parte introduttiva di carattere metodologico seguiranno le analisi archeologiche dei due monumenti funerari, tenendo sempre presente il riferimento al contesto storico, politico e culturale in cui vengono costruiti. Infine, la parte conclusiva, sarà dedicata alla vera e propria comparazione dei due casi di studio presi in esame, con la premura di evidenziare, attraverso il cosiddetto "metodo di differenza", le situazioni di contrasto tra i casi di studio, e, con il "metodo di accordo", gli elementi comuni che li caratterizzano.

Dione di Prusa, Boristenitico (Or. XXXVI), Introduzione, traduzione e commento di MICHELE DI FEBO, con un saggio introduttivo di GIULIO A. LUCCHETTA, Carabba (“Biblioteca del Leonardo. Testi e contesti” 1), Lanciano 2017, pp. 194, ISBN 978-88-634-4506-0.