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‘Publicus’ e ‘communis’ tra oggi e ieri

2022, A New Thinking about ‘res’. Roman Taxonomies in the Future of Goods (ANTARES), a cura di M. Falcon, Napoli,

Pubblicazione realizzata con i fondi del bando STARS 2019 dell'Università di Padova nell'ambito del progetto ANTARes-A New Thinking About 'Res'. Roman Taxonomies in the Future of Goods.

A New Thinking About ‘Res’ Roman Taxonomies in the Future of Goods Palazzo del Bo - Padova 21 luglio 2021 a cura di marco falcon Editoriale Scientifica napoli Pubblicazione realizzata con i fondi del bando STARS 2019 dell’Università di Padova nell’ambito del progetto ANTARes - A New Thinking About ‘Res’. Roman Taxonomies in the Future of Goods. proprietà letteraria riservata © Editoriale Scientifica srl 2022 via San Biagio dei Librai, 39 Palazzo Marigliano 80138 Napoli www.editorialescientifica.com isbn 978-88-9391-316-7 Indice ATTI paola lambrini Publicus e communis tra oggi e ieri 11 mattia milani Il regime giuridico dei sepolcri tra Roma antica e Italia contemporanea 31 marco falcon Alcune considerazioni intorno alla ‘ Roman space law’ 69 PROCEEDINGS paola lambrini Publicus and communis Between Today and Yesterday 97 mattia milani The Law on Sepulchres in Ancient Rome and in Modern Italy 117 marco falcon Some Remarks on ‘Roman Space Law’ 149 5 Paola Lambrini PUBLICUS E COMMUNIS TRA OGGI E IERI I I beni comuni e le sentenze della Cassazione e della CEDU Da tempo e da più parti si sollecita in Italia, ma non solo, una rivisitazione nell’organizzazione del diritto dei beni e negli ultimi anni si parla sempre più spesso di beni comuni, per indicare una vasta gamma di situazioni collocabili oltre la tradizionale dicotomia tra ciò che è pubblico-statale e ciò che è privato-commerciale1; si tratterebbe di beni ‘a marcata valenza esistenziale’, che forniscono agli individui, intesi come membri di una collettività, un’utilità di carattere non patrimoniale e che, proprio per questo motivo, devono essere fruibili da ogni individuo compreso in una data collettività. 1 La letteratura in argomento è ormai sterminata; si segnalano, senza alcuna pretesa di completezza, alcuni dei contributi significativi più recenti: m.r. marella, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012; s. rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, 2013; f. cortese, Che cosa sono i beni comuni?, in Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi, a cura di M. Bombardelli, Napoli, 2016, 37 ss.; r.a. albanese, Dai beni comuni all’uso pubblico e ritorno. Itinerari di giurisprudenza e strumenti di tutela, in Questione giustizia, II, 2017, 104 ss.; a. lalli, Per un approccio giuridico ai ‘beni comuni’. Questioni di metodo, ambito del problema e spunti ricostruttivi, in BIDR, CXII, 2018, 297 ss. 11 Si tratta di una categoria piuttosto slabbrata e inflazionata2, all’interno della quale vengono ricondotti beni naturali (come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata) e beni socio-culturali (bellezze storiche, artistiche o archeologiche), ma anche beni immateriali quali lo spazio del web e tutti i commons digitali. In Italia il termine beni comuni è ormai entrato nel lessico usuale delle scienze sociali, economiche e della stessa politica3, ma a livello codicistico la categoria non è ancora espressamente prevista e tutelata. Malgrado ciò, il concetto ha cominciato a essere accolto dai giudici e si può dire che oggi sia parte del diritto vivente italiano; particolarmente rilevanti in questo senso alcune sentenze della Cassazione a Sezioni Unite4, che hanno dato un primo ricono2 Cfr. le osservazioni in proposito di m. franzini, I ‘tanti’ beni comuni e le loro variegate conseguenze economiche, in Tempo di beni comuni. Studi multidisciplinari, Roma, 2013, 203 ss. e r. sanlorenzo, Introduzione. Di cosa parliamo quando parliamo di beni comuni?, in Questione giustizia, II, 2017, 46 ss. 3 Cfr. g. fidone, Proprietà pubblica e beni comuni, Milano, 2017, 29 ss. 4 Cass., Sez. Un., 14 febbraio 2011, n. 3665; Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2011, n. 3811; Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2011, n. 3812; Cass., Sez. Un., 18 febbraio 2011, n. 3936; Cass., Sez. Un., 18 febbraio 2011, n. 3937; Cass., Sez. Un., 18 febbraio 2011, n. 3938; Cass., Sez. Un., 18 febbraio 2011, n. 3939. Cfr. s. lieto, ‘Beni comuni’, diritti fondamentali e Stato sociale. La Corte di Cassazione oltre la prospettiva della proprietà codicistica, in Pol. dir., 2011; m. cascione, Le Sezioni Unite oltre il codice civile. Per un ripensamento della categoria dei beni pubblici, in Giur. it., 2011, 12 ss.; p. chirulli, 12 scimento formale alla categoria dei beni comuni in un caso riguardante lo statuto giuridico di una valle da pesca della laguna di Venezia. Nel rigettare le domande di accertamento della proprietà proposte da privati in merito a diverse valli da loro possedute per lungo tempo, la Suprema Corte non si è accontentata di accertarne la natura di bene demaniale, ma in un obiter dictum ha affermato trattarsi di un bene comune, funzionalizzato alla realizzazione dei diritti fondamentali, facendo particolare riferimento al diritto all’ambiente5. Tra le argomentazioni delle Sezioni Unite spicca anche il recupero della nozione di Stato-collettività, opposta e ritenuta preferibile rispetto a una troppo pervasiva visione dello Stato come mero apparato o persona giuridica, all’interno del quale non sarebbe adeguatamente tutelata l’umana personalità. La conclusione della Cassazione era che «là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, bene ‘comune’, vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, bene strumental- I beni comuni, tra diritti fondamentali, usi collettivi e doveri di solidarietà, in Giustamm.it, 2012. 5 V. f. cortese, Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici?, in Giornale di diritto amministrativo, XI, 2011, 1170 ss. 13 mente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini». Questa affermazione era, tuttavia, in contraddizione con la decisione di ricondurre le valli da pesca nella sfera proprietaria dello Stato, che confermava la tradizionale logica dominicale, nel momento stesso in cui dichiarava di volerla superare. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza Valle Pierimpiè c. Italia del 2014, ha fatto leva proprio su questa contraddizione per criticare l’ingerenza dello Stato italiano nel diritto di proprietà della ricorrente, che lamentava di essere stata privata della valle da pesca senza corresponsione di alcun indennizzo in violazione dell’art. 1, Prot. 1, Convenzione Europea DU6; pur ritenendo l’intervento dello Stato italiano conforme ai parametri di legalità e pubblica utilità previsti da tale disposizione, la CEDU ha affermato che «lo scopo invocato della tutela ambientale avrebbe potuto essere soddisfatto senza che fosse revocato il titolo di proprietà, semplicemente assoggettando l’attività esercitata nella valle alle restrizioni di polizia necessarie» a rendere tale bene usufruibile da tutti i cittadini7. 6 Art. 1 Protezione della proprietà. Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende. 7 Par. 56. 14 II I beni comuni e i progetti di modifica del codice civile Dalla Corte europea proviene, dunque, l’esortazione a uscire dall’alternativa bene pubblico-bene privato e focalizzare l’attenzione sulla necessaria predisposizione di un rigoroso metodo di gestione dei beni comuni; dal momento che la categoria dei beni comuni si pone su di un piano diverso rispetto a quello dell’appartenenza, deve esserne garantita piuttosto la funzione e la salvaguardia, a prescindere da chi ne sia il proprietario. Sembra preferibile adottare un approccio funzionale che, prescindendo dal modello proprietario, qualifichi un bene come comune, accordandone la relativa tutela, in quanto intrinsecamente diretto alla soddisfazione dei più basilari bisogni, materiali e spirituali, della collettività. Si avverte sempre più come necessaria una regolamentazione dei beni comuni, volta da un lato a garantirne la fruizione e l’accesso da parte della collettività, dall’altro a impedirne il sovra-consumo e il deterioramento: sappiamo che è fondamentale pensare alle generazioni future, anche alla luce della recente riforma costituzionale che ha introdotto la difesa dell’ambiente all’art. 41 e ha aggiunto all’art. 9 la previsione per cui la Repubblica «tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni». In questa direzione si muove un progetto di riforma del codice civile, volto a individuare un modello di gestione che garantisca la tutela di questi beni: è all’esame di una commissione parlamentare il 15 progetto di legge intitolato «Classificazione e regime giuridico dei beni e definizione di ambiente» 8 che si ispira in gran parte a quello che era stato proposto nel 2008 da Stefano Rodotà. Tra le altre cose, esso introdurrebbe una modifica nella stessa nozione di bene, fino a oggi inteso dall’art. 810 come «cosa che può formare oggetto di diritti»; all’interno di questa cornice difficilmente potrebbero essere inquadrati i beni comuni, che rientrerebbero invece nella nuova dizione: «Sono beni le cose materiali o immateriali, le cui utilità possono formare oggetto di diritti». Verrebbe, inoltre, introdotto un art. 812-bis rubricato Beni comuni che ne darebbe una definizione («Sono beni comuni quei beni le cui utilità sono funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona umana e alla salvaguardia dell’ambiente»), ne individuerebbe la possibile titolarità («Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati con legge. Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni sono collocati fuori commercio e sono gestiti da soggetti pubblici garantendo la partecipazione della comunità secondo i limiti e le modalità fissati dalla legge»), ne stabilirebbe il regime («Ne è consentita la circolazione nei soli casi previsti dalla legge. Con legge è coordinata la disciplina dei beni comuni con quella 8 C. 1744 presentato alla Camera dei Deputati il 4 aprile 2019. Cfr. l’analogo progetto di legge n. 1436, presentato al Senato il 24 luglio 2019. 16 degli usi civici») e la tutela («Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque. Salvi i casi di legittimazione per la tutela di altri diritti e di interessi, all’esercizio dell’azione di danni arrecati al bene comune è legittimato in via esclusiva lo Stato. Allo Stato spetta altresì l’azione per la riversione dei profitti. I presupposti e le modalità di esercizio dell’azione sono definiti con legge»). III Agri publici e res divini iuris In un simile contesto anche lo storico del diritto si sente chiamato a esprimersi, sia perché nelle molteplici riflessioni proposte da giuristi, filosofi, economisti abbondano i riferimenti a una vicenda storica plurimillenaria complessa e differenziata, sia perché, come ha scritto Salvatore Settis, dalla storia è possibile attingere «le energie e le idee per costruire il nostro avvenire»9, per dar forma e sostanza alle nuove esigenze e per affrontare al meglio la sfida delle nuove nozioni giuridiche per il futuro. Nella chiara consapevolezza che le res communes omnium dei romani si inserivano in un quadro complessivo molto diverso dall’attuale e che non sono in alcun modo l’equivalente dei commons di oggi, e senza alcuna intenzione di cercare per forza antecedenti 9 s. settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino, 2012, 52. 17 romani10, ritengo valga comunque la pena di indagare quale fosse il regime dei beni pubblici e dei beni comuni nel diritto romano, anche solo per avere un termine di paragone. Il rinvio non è solo alle res communes omnium, perché il concetto di una ‘appartenenza comune’ sembra si sia manifestato già agli albori di Roma11: si ritiene, infatti, che fossero considerati ager publicus populi Romani tutti i fondi che man mano venivano conquistati nel territorio italico; i privati che avevano la disponibilità di questi terreni non potevano considerarsi proprietari di essi, ne avevano solo una possessio che il pretore comincerà a tutelare con interdetti; com’è noto, la stessa idea della protezione interdittale nacque da questa particolare situazione. Anche quando si procedette alla divisione delle terre tra i cittadini romani, l’idea di ‘beni ad appartenenza condivisa’ continuò a esistere in relazione all’ager compascuus, quel terreno destinato stabilmente all’uso diretto da parte di tutti i cittadini ai fini dell’esercizio della pastorizia12. 10 Atteggiamento dal quale mettono ben in guardia m. fiorentini, Spunti volanti in margine al problema dei beni comuni, in BIDR, CXI, 2017, 76 ss.; id., ‘Res communes omnium’ e ‘commons’: contro un equivoco, in BIDR, CXIII, 2019, 153 ss. e g. santucci, ‘Beni comuni’. Note minime di ordine metodologico, in Κoινωνία, XLIV.2, 2020, 1395 ss. 11 Anche m. fiorentini, ‘Res communes omnium’ e ‘commons’, cit., 169 osserva che «ben altre situazioni avrebbero potuto essere richiamate a sostegno dell’uso collettivo di beni nell’esperienza romana». 12 Su questi temi v. i fondamentali lavori di g. tibiletti, Il possesso dell’‘ager publicus’ e le norme ‘de modo agrorum’ sino ai Gracchi, in Athenaeum, 1948-1949, 173 ss.; a. burdese, Studi sull’‘ager publicus’, Torino, 1950; u. laffi, L’‘ager compascuus’, in Revue des études 18 Vi è poi un’altra categoria di cose, altrettanto risalente, che forse aveva già in sé l’idea di un uso comune tra tutti i cives: mi riferisco alle res divini iuris, cose sottratte all’appropriazione privata, e quindi extra commercium, perché destinate al culto degli dei: secondo un’acuta osservazione di Luigi Garofalo, esse potrebbero rappresentare una delle più antiche ipotesi di beni tolti alla disponibilità dei privati proprio allo scopo di renderli suscettibili di un impiego comune. In queste categorizzazioni la prospettiva di inquadramento sembra essere quella dell’appartenenza: ci sono cose che appartengono al popolo e cose in proprietà degli dei, contrapposte a quelle dei singoli uomini; proprio tramite l’attribuzione a entità superiori e diverse dai singoli si legittima un uso collettivo di quelle cose. IV Res in publico usu Anche il famoso brano di Gaio che apre il titolo del Digesto dedicato ai beni è ancora impostato secondo la prospettiva dell’appartenenza e distingue beni degli dei e beni degli uomini; tra questi ultimi ci sono le cose pubbliche e quelle private: anciennes, 1998, ora in Studi di storia romana e di diritto, Roma, 2001, 381 ss.; l. capogrossi colognesi, Spazio privato e spazio publico, in La forma della città e del territorio. Esperienze metodologiche e risultati a confronto, Roma, 1999, e, da ultima, e. tassi scandone, Terre comuni e pubbliche tra diritto romano e regole agrimensorie, Napoli, 2017, con tutta l’ulteriore letteratura. 19 Gai. 2 inst. D. 1.8.1: Summa rerum divisio in duos articulos deducitur: nam aliae sunt divini iuris, aliae humani. divini iuris sunt veluti res sacrae et religiosae. sanctae quoque res, veluti muri et portae, quodammodo divini iuris sunt. quod autem divini iuris est, id nullius in bonis est: id vero, quod humani iuris est, plerumque alicuius in bonis est, potest autem et nullius in bonis esse: nam res hereditariae, antequam aliquis heres existat, nullius in bonis sunt. hae autem res, quae humani iuris sunt, aut publicae sunt aut privatae. quae publicae sunt, nullius in bonis esse creduntur, ipsius enim universitatis esse creduntur: privatae autem sunt, quae singulorum sunt. Da altre fonti13 sappiamo che all’interno dei beni pubblici si distingueva tra res in pecunia o in patrimonio populi – beni destinati a dare un’utilità o un reddito allo Stato, come terre e schiavi; questi erano beni ‘patrimoniali dello stato’, che circolavano in modo analogo alle cose in proprietà dei privati, quindi erano in commercio – e res in publico usu14 – finalizzati a soddisfare in modo diretto i bisogni di tutti, e quindi cose non commerciabili, tra le quali erano comprese le vie, le piazze, i fori, i mercati, i teatri, i porti, i lidi del mare, i fiumi perenni, le cloache15. In ragione della loro particolare destinazione, 13 Pomp. 9 ad Sab. D.18.1.6 pr.; Ulp. 68 ad ed. D. 43.8.2.5; Paul. 72 ad ed. D. 45.1.83.5; Ulp. 25 ad ed. D. 11.7.8.2; Ulp. 10 ad ed. D. 50.16.17 pr.; Ven. 1 stip. D. 45.1.137.6. 14 Su di esse v. a. di porto, ‘Res in usu publico’ e ‘beni comuni’, Torino, 2013; a. schiavon, Interdetti ‘de locis publicis’ ed emersione della categoria delle ‘res in usu publico’, Napoli, 2019; m. giagnorio, Brevi cenni sul regime delle cose in uso pubblico nell’esperienza giuridica romana, in TSDP, XIII, 2020. 15 Sul tema cfr. l’ampia trattazione di m.g. zoz, Riflessioni in tema di ‘res publicae’, Torino, 1999. 20 i beni appartenenti alla seconda categoria possono essere considerati al di fuori del patrimonio di qualunque soggetto, sono sempre cose nullius in bonis; si tratta di beni di cui tutti potevano godere, nei limiti in cui l’utilizzo individuale non ostacolasse il godimento altrui. Da un passo di Ulpiano risulta che le res in usu publico non rientrerebbero nella categoria delle cose pubbliche, nelle quali vi sarebbero solo quelle in pecunia populi: Ulp. 10 ad ed. D. 50.16.17 pr.: Inter ‘publica’ habemus non sacra nec religiosa nec quae publicis usibus destinata sunt: sed si qua sunt civitatium velut bona. sed peculia servorum civitatium procul dubio publica habentur. Questa affermazione si spiega bene all’interno della logica dell’appartenenza: sono, infatti, di proprietà del popolo solo le cose in commercio, mentre alle res in usu publico è applicabile piuttosto il concetto di possesso. Non si può dire che il popolo ne sia proprietario, i singoli cittadini che usano questi beni ne hanno il possesso16. Perciò i principali strumenti di tutela delle res in usu publico erano gli interdetti, 16 Il possesso, a differenza della proprietà, non coincide con la cosa stessa, non è esso stesso una cosa corporale, ma consiste nell’uso della cosa fatto dall’uomo: Fest. voce Possessio (Lindsay 260.28-31 = Paul.-Fest. voce Possessio [Lindsay 261.9-10]): Possessio est, ut definit Gallus Aelius, usus quidam agri, aut aedificii, non ipse fundus aut ager. Non enim possessio est <ex iis> rebus quae tangi possunt; Iav. 4 ep. D. 50.16.115: Possessio ab agro iuris proprietate distat; quidquid enim apprehendimus, cuius proprietas ad nos non pertinet aut nec potest pertinere, hoc possessionem appellamus; possessio ergo usus, ager proprietas loci est. 21 utilizzabili da qualunque persona venisse impedita nell’utilizzo di queste cose: il cittadino era considerato il principale destinatario delle utilità che si ricavavano dai beni in uso pubblico e allo stesso era affidata la gran parte della responsabilità nella loro tutela17. V Res communes omnium L’aspetto della tutela per il possesso delle res in publico usu ci porta direttamente alle res communes omnium, in riferimento alle quali spesso è stata evidenziata la caratteristica dell’uso comune18. L’idea che esistano anche dei beni i quali, pur 17 Cfr. a. di porto, Interdetti popolari e tutela delle «res in usu publico», in Diritto e processo nell’esperienza romana. Atti del seminario torinese (4-5 dicembre 1991). In memoria di Giuseppe Provera, Napoli, 1994, 481 ss.; j.m. alburquerque, La protección o defensa del uso colectivo de las cosas de domínio público: Especial referencia a los interdictos de ‘publis locis’ (‘loca’, ‘itinere’, ‘flumina’, ‘ripae’), Madrid, 2002; m. giagnorio, Il contributo del ‘civis’ nella tutela delle ‘res in publico usu’, in TSDP, VI, 2013. Importante anche il modello delle azioni popolari, sul quale cfr. a. saccoccio, La tutela dei beni comuni. per il recupero delle azioni popolari romane come mezzo di difesa delle ‘res communes omnium’ e delle ‘res in usu publico’, in Diritto @ Storia, XI, 2013. 18 Sul tema in generale v., da ultimi, j.d. terrazas ponce, El concepto de ‘res’ en los juristas romanos, II. Las ‘res communes omnium’, in Revista de Estudios Histórico-Jurídicos, XXXIV, 2012, 127 ss.; m. falcon, ‘Res communes omnium’. Vicende storiche e interesse attuale di una categoria romana, in I beni di interesse pubblico nell’esperienza giuridica romana, I, a cura di L. Garofalo, Napoli, 2016, 107 ss.; f. arcaria, ‘Res communes omnium’, in Κoινωνία, XLI, 2017, 639 ss.; a. corbino, Cose e appartenenza. I «beni comuni» nel diritto romano, in LR, VIII, 2019, 25 ss.; s. romeo, La fortuna delle ‘res communes omnium’. Cenni sulla storia di un concetto, ne Il diritto dell’economia, 2022, 1, 89 ss. 22 non potendo essere in proprietà del popolo, sono ugualmente destinati, per loro stessa natura, a essere utilizzati da tutti, si affaccia nella società romana già verso la fine della repubblica19. Anche nel mondo romano, così come oggi, la consapevolezza della società civile fu molto anticipata e più diffusa rispetto a quella della scienza giuridica. Il primo e più emblematico bene rientrante in questa categoria è il mare20. Per le sue stesse caratteristiche esso non poteva essere considerato tutto dei romani, neppure quando ebbero conquistato tutti i territori che si affacciavano sul mare Mediterraneo; come ha messo ben in evidenza Alfonso Traina, quando «in un’opera latina, occorre l’espressione ‘mare nostrum’, essa non ha mai un valore allusivo, né mai ha significato politico, ma oppone implicitamente o esplicitamente il mare conosciuto e consueto agli altri mari (e in particolare, appunto, all’oceano)»21. Il mare non poteva proprio essere ricompreso tra le 19 Secondo g.c. seazzu, ‘Res communes omnium’ oggi. Il paradosso dominante e il ripensamento necessario, Bari, 2020, 53, la categoria delle res communes omnium si sarebbe già formata nella logica giuridica repubblicana e le sarebbe propria; cfr. anche m.j. schermaier, Private Rechte an ‘res communes’?, in ‘Carmina iuris’. Mélanges en l’honneur de M. Humbert, Paris, 2012, 773 ss. 20 Sul tema v., da ultimi, g. purpura, ‘Varia de iure maris’, in Scritti per il novantesimo compleanno di M. Marrone, a cura di M. Varvaro, G. D’Angelo, M. De Simone, Torino, 2020, 219 ss.; r. lambertini, Limiti alla libera fruizione del mare, dei lidi e dei fiumi pubblici?, in Confini, circolazione, identità ed ecumenismo nel mondo antico, Firenze, 2020, 65 ss.; r. marini, ‘Mare commune omnium est’: a proposito di D. 47, 10, 13, 7 (Ulp. 57 ‘ad edictum’), in BIDR, CXV, 2021, 289 ss. 21 Così a. traina, b. pieri, ‘Mare nostrum’. Leggenda e realtà di un possessivo, in Latinitas, II, 2014, 16. 23 res di proprietà del popolo romano: già Plauto nel II secolo a.C. afferma che il mare è comune a tutti (Rudens 975)22 e tale affermazione si ritrova ripetuta in molteplici fonti letterarie e giuridiche23. In Ovidio si trova l’idea dell’uso comune delle acque dolci correnti e si afferma come, seguendo la natura, non si possa dire che il sole o l’aria o l’acqua siano in proprietà di alcuno24. In varie opere di Cicerone si incontrano riferimenti a categorie di beni che sono comuni a tutta l’umanità e si intravede una prima riflessione generale sul tema. Nel de officis (1.16.50-52) l’oratore afferma che nella società umana occorre conservare la comunanza di tutti quei beni che la natura ha creato proprio ad communem hominum usum: essi devono essere tenuti e goduti dagli uomini come patrimonio di tutti e di ciascuno. I beni, che le leggi e il ius civile non hanno destinato alla proprietà privata, sono quelli che possono essere condivisi con gli altri, anche con gli estranei, senza che ciò sia di danno a colui che tale bene sta usando, come l’acqua corrente e il fuoco, o perfino un buon consiglio dato a chi dubita. 22 Cfr. r. ortu, Plaut. Rud. 975 «Mare quidem commune certost omnibus», in JusOnline, II, 2017. 23 v. mannino, Il «bene comune»: tra precedente storico e attualità, in ‘Civitas et civilitas’. Studi in onore di F. Guizzi, a cura di A. Palma, Torino, 2014, 526 ss. e d. dursi, ‘Res communes omnium’. Dalle necessità economiche alla disciplina giuridica, Napoli, 2017, valorizzano queste fonti per sostenere che la categoria delle res communes omnium potrebbe essere ben più antica di quanto di solito si ritenga. 24 Ovid. met. 6.349 s.: ‘Quid prohibetis aquis? usus communis aquarum est. / Nec solem proprium natura nec aëra fecit / nec tenues undas: ad publica munera veni, / quae tamen ut detis, supplex peto. … 24 Come è evidente, alcuni beni cui l’oratore si riferisce nella esemplificazione sono abbastanza lontani da quelli che verranno elencati da Marciano e appartengono più a una categorizzazione filosofica che giuridica; tuttavia appare chiaro il concetto per cui la società aveva già individuato alcuni beni che rimanevano, come nell’originario stato di natura, comuni a tutta l’umanità. L’oratore ne individua altresì una delle caratteristiche fondamentali, cioè il fatto che possano essere utilizzati da ciascun uomo senza che ciò ne limiti l’uso da parte degli altri. L’idea che esistano vari beni comuni a tutta l’umanità si trova approfondita con una certa frequenza anche nelle opere di Seneca; nel de beneficiis (4.28.16) il filosofo afferma che molti beni naturali, come il giorno, il sole, l’avvicendarsi delle stagioni, le piogge, le sorgenti di acqua potabile, il mare e i venti, sono stati creati dagli dei per tutti gli uomini, siano essi buoni o malvagi. L’essenza di questi beni è tale che, perché ne possano godere le persone per bene, deve poterne usufruire anche chi ne sarebbe indegno. Molteplici sono i riferimenti ai beni comuni contenuti nelle Epistulae ad Lucilium; nella lettera 90 Seneca richiama l’idea di uno stato di natura originario in cui tutto era condiviso: la terra stessa, nella sua condizione originaria, quando non la si poteva neppure contrassegnare o dividere, sarebbe il paradigma delle res communes (ep. 90.37 s.). Il passaggio più significativo sul tema dei beni comuni si trova nella lettera 73, ove il filosofo ribadisce che il sole, la luna, il succedersi delle stagioni sono beni che gli uomini godono tutti 25 insieme, e critica la stolta avarizia degli uomini – e il riferimento potrebbe essere ai giuristi che hanno introdotto le categorie dell’appartenenza – i quali distinguono il possesso dalla proprietà, distinzione che porta a non considerare più proprio ciò che è pubblico (ep. 73.6). Seneca, che aveva studiato diritto, come tutti gli intellettuali romani, sembra avere ben chiari i concetti giuridici di possesso, proprietà, beni pubblici e beni comuni. Notiamo che in questo testo, come in altri, il termine ‘pubblico’, se non equivale a comune, ha di certo in sé l’idea di ‘utilità comune’; come osservava Vittorio Scialoja «l’uso promiscuo e la variabilità di significato di publicus e di communis si ha già nei classici migliori»25. Tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. il concetto di res communes omnium si affaccia nel pensiero giurisprudenziale. Pure per i giuristi il mare è il primo bene a essere considerato communis hominibus; in tal modo si esprimeva già Celso: Cels. 39 dig. D. 43.8.3.1: Maris communem usum omnibus hominibus, ut aeris, iactasque in id pilas eius esse qui iecerit: sed id concedendum non esse, si deterior litoris marisve usus eo modo futurus sit. Come scriveva Gaetano Scherillo, «non è strano che la giurisprudenza, o almeno alcuni giuristi, tenendo conto di alcune peculiarità nel regime del mare e del lido, li abbia contrapposti alle altre cose 25 Così v. scialoja, Teoria della proprietà nel diritto romano, I, Roma, 1928, 131. 26 pubbliche, per le quali le accennate peculiarità non avevano luogo, fino a farne un gruppo a parte»26. Mi limito a poche suggestioni relativamente al notissimo passo di Marciano che avrebbe per la prima volta introdotto espressamente la categoria giuridica delle res communes omnium: Marcian. 3 inst. D. 1.8.2 pr.-1: Quaedam naturali iure communia sunt omnium, quaedam universitatis, quaedam nullius, pleraque singulorum quae variis ex causis cuique adquiruntur. 1: Et quidam naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris. Innanzitutto, osservo che la prospettiva è dichiaratamente quella del diritto naturale, un diritto comune a tutti gli esseri viventi, persino agli animali, idea che consentì ai giuristi romani di considerare l’umanità stessa come un soggetto collettivo, al pari del populus e delle comunità cittadine27. Dalla struttura del testo sembrerebbe che tutta l’elencazione dei beni sia impostata da questa prospettiva e ciò potrebbe spiegare alcune peculiarità del brano. Pur nella prospettiva del diritto naturale, la logica adottata dal giurista sembra essere quella dell’ap26 g. scherillo, Lezioni di diritto romano. Le cose, I. Concetto di cosa. Cose ‘extra patrimonium’, Milano, 1945, 76. 27 «Che talune res siano a disposizione di tutta la comunità umana ... è affermazione che sembra porsi come corollario del principio per cui talune res, in quanto originariamente apprestate dalla natura, non possono ritenersi appannaggio, non solo dei privati, ma neppure della singola comunità»: così n. de marco, I ‘loci publici’ dal I al III secolo: le identificazioni dottrinali, il ruolo dell’‘usus’, gli strumenti di tutela, Napoli, 2004, 54. 27 partenenza: le res communes omnium sono cose che non possono appartenere né ai privati né a una collettività politica, perché sono di tutti gli esseri umani. Ricordiamo che communes sono le cose tenute in comproprietà o in comunione pro diviso, le cose delle persone giuridiche, dei municipi: le res communes omnium sono cose in comproprietà di tutti gli uomini (e animali). Proprio come per le cose in comproprietà, ogni titolare può utilizzare il bene per trarne un’utilità personale, ma in maniera da non pregiudicare le facoltà che spettano a tutti gli altri comproprietari. Anche se in un passo delle naturales quaestiones di Seneca28 si può intravvedere una critica ante litteram dei tentativi di appropriarsi dei beni comuni29, quando il filosofo osserva che «i suoi contemporanei giudicano vergognoso comprare l’acqua, mentre non biasimano chi compra la neve o il ghiaccio, che in realtà non sono altro che acqua»30, i Romani sono ancora convinti che le risorse naturali siano inesauribili e perciò 28 Nat. 4.13.3: Nos uero quaeramus potius quomodo fiant niues quam quomodo seruentur, quoniam non contenti uina diffundere, ueteraria per sapores aetatesque disponere, inuenimus quomodo stiparemus niuem, ut ea aestatem euinceret et contra anni feruorem defenderetur loci frigore. Quid hac diligentia consecuti sumus? Nempe ut gratuitam mercemur aquam: nobis dolet quod spiritum, quod solem emere non possumus, quod hic aer etiam delicatis diuitibusque ex facili nec emptus uenit. O quam nobis male est, quod quicquam a rerum natura in medio relictum est! 29 Sul tema v. ampiamente l. solidoro, La tutela dell’ambiente nella sua evoluzione storica. L’esperienza del mondo antico, Torino, 2009 e m. fiorentini, L’impatto delle attività umane sull’ambiente. Una riflessione storico-giuridica, in QLSD, IX, 2019, 59 ss. 30 Così m. giacchero, Economia e società nell’opera di Seneca. Intuizioni e giudizi nel contesto storico dell’età giulio-claudia, in Φιλίας χάριν. Miscellanea di studi classici in onore di E. Manni, III, Roma, 1980, 1112. 28 liberamente appropriabili a condizione di permetterne l’accesso agli altri31. Quanto all’assenza delle res publicae nell’elenco marcianeo, penso che il giurista le avesse consapevolmente omesse, perché dalla sua prospettiva rientravano nelle res universitatis, intese non come beni dei municipi e delle colonie, ma come beni appartenenti a tutte le varie collettività politiche, compreso il popolo romano. Ricordiamo che già Gaio nel passo sopra citato aveva detto, relativamente alle res publicae, che ipsius enim universitatis esse creduntur. Come bene ha osservato Raffaele Basile32, Marciano potrebbe aver scisso le res publicae in due categorie, le res communes omnium e le res universitatis; i compilatori non avrebbero capito e avrebbero aggiunto le cose pubbliche nel corrispondente passo delle Istituzioni. 31 Il dato è messo ben in evidenza da m. fiorentini, L’acqua da bene economico a ‘res communis omnium’ a bene collettivo, in Analisi giuridica dell’economia, I, 2010, 67 s. 32 r. basile, ‘Res communes omnium’: tra Marciano e Giustiniano, in Κoινωνία, XLIV.1, 2020, 119 ss. 29