Serve davvero poca fantasia per immaginare lo scenario che Timur Vermes 1 presenta al lettore del... more Serve davvero poca fantasia per immaginare lo scenario che Timur Vermes 1 presenta al lettore del suo ultimo romanzo: Die hungrigen und die satten edito in Germania per Eichborn nel 2018 e pubblicato in Italia da Bompiani nel settembre 2019 con il titolo "Gli affamati e i sazi", con una accurata traduzione di Francesca Gabelli. Poca fantasia perché tutti gli elementi principali che compongono la narrazione sono notizie, fatti e personaggi di cui ogni giorno, ormai da anni, leggiamo sui giornali o sui tabloid di gossip.
Un fenomeno che ci riguarda. Le migrazioni attraverso il cinema documentario al Sole Luna Festiva... more Un fenomeno che ci riguarda. Le migrazioni attraverso il cinema documentario al Sole Luna Festival di Cinzia Costa Anche quest'anno il Sole Luna Doc Film Festival, festival internazionale di cinema documentario che ormai da 14 anni si tiene a Palermo, ha presentato una nutrita programmazione di attività ed eventi culturali, proponendo al pubblico, nella sua quattordicesima edizione, una selezione di 24 documentari concorrenti per il premio finale, una lunga lista di film fuori concorso dedicati a "Palermo città aperta" o firmati da registi italiani, e un importante tributo al regista scomparso Bernardo Bertolucci. Il festival, che si è tenuto quest'anno dal 7 al 13 luglio alla Chiesa di Santa Maria dello Spasimo, casa natale della manifestazione, ha selezionato per il concorso una serie di film su temi centrali dell'attualità e della condizione umana; tra questi, come di consueto, il tema delle migrazioni ha avuto il suo posto di rilievo all'interno del concorso. Tre i film che hanno affrontato questa tematica da prospettive molto diverse, analizzando aree geografiche e contesti sociali completamente differenti: il cortometraggio Chinese Dream (Germania 2019, 24') di Lena Karbe e Tristan Coloma 1 , Island of the Hungry Ghosts (Germania-Regno Unito-Austria 2018, 94′) di Gabrielle Brady 2 e Those who remain / Celle qui restent (Francia-Italia 2018, 89′) di Ester Sparatore 3. FOTO 1 Chinese Dream racconta la storia inedita della migrazione di comunità africane nella Cina contemporanea. Attraverso quattro episodi-intervista ambientati in un quartiere africano di Guangzhou, vengono presentate altrettante storie personali che gettano lo sguardo su un fenomeno relativamente recente, che vede per la prima volta la Cina come meta di immigrazione. I narratori di questa storia sono la dipendente di un hotel molto frequentato da clienti africani, l'allenatore di una squadra di calcio che accoglie tra i suoi giocatori giovani provenienti dall'Africa, una coppia mista che racconta l'esperienza di far crescere ed educare le proprie figlie in un paese poco aperto alla diversità culturale come la Cina e un commerciante che, per interessi economici, ha cominciato a stringere affari con persone proveniente dall'Africa. I registi non specificano in nessun caso la particolare provenienza degli immigrati africani, e il racconto è affidato, quasi in tutti i casi, alle parole di persone cinesi, che presentano il fenomeno migratorio dal punto di vista di chi lo riceve. Il documentario riesce con leggerezza e con toni quasi naif a narrare lo shock culturale e il superamento dello stesso, attraverso storie di vita individuali. Una delle protagoniste, nella parte iniziale del film, dice di non avere mai incontrato un uomo nero prima di aver iniziato a lavorare nell'hotel di cui è dipendente: "La mia prima impressione… sono più alti, più forti, più scuri. Sono più belli dei cinesi". FOTO 2 Il secondo documentario in concorso alla quattordicesima edizione del Sole Luna Festival che affronta il tema delle migrazioni è Island of the Hungry Ghosts, un film dai toni poetici e delicati, vincitore del premio Miglior documentario, assegnato dalla giuria internazionale, e del Premio del pubblico. Il lungometraggio è ambientato a Christmas Island, un'isola geograficamente molto vicina all'Indonesia, ma appartenente politicamente all'Australia. La protagonista, Poh Lin Lee, è una "terapeuta del trauma" che vive con la sua famiglia sull'isola e che accompagna in un percorso di riabilitazione psicologica alcuni richiedenti asilo trattenuti nel centro di detenzione della sua zona. La storia intreccia, su diversi piani, tre filoni narrativi apparentemente scollegati tra di loro, ma che, accostandosi, danno vita ad una riflessione di ampio respiro. Da una parte la migrazione dalla giungla all'Oceano Indiano di milioni di granchi rossi, tutelati e addirittura scortati da attivisti ambientalisti, al fine di preservare la rara specie animale originaria dell'isola; dall'altra il rituale popolare taoista dei "fantasmi affamati" (che dà nome al film), diffuso nell'Isola di Natale, secondo cui nel corso di
Cosa è un italiano. Perdere o ritrovare un immaginario comune di Cinzia Costa Che i frutti puri i... more Cosa è un italiano. Perdere o ritrovare un immaginario comune di Cinzia Costa Che i frutti puri impazziscono ce lo insegnava già nel 1988 James Clifford, quando, come epigrafe del suo celebre testo The Predicament of Culture: Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art (che sarebbe poi stato tradotto in italiano, per l'appunto, con il titolo I frutti puri impazziscono) citava per intero la poesia dei primi anni Venti del medico e scrittore William Carlos Williams 1 To Elsie. Il poeta riconosceva in Elsie, una giovane nativa d'America, l'epitome dei suoi tempi: il disorientamento culturale ed interiore di un popolo che ha perso di vista la propria identità e purezza. Nell'introduzione a quello che è poi diventato uno dei testi più influenti della storia degli studi culturali e antropologici, a commento della sopracitata poesia Clifford scrive: Spero che [i versi] possano valere come spunto per questo libro, un modo per entrare in argomento con un concetto problematico. Chiamiamo tale concetto modernità etnografica: etnografica perché Williams si trova spiazzato in mezzo a tradizioni frammentate; modernità dal momento che la condizione di sradicamento e d'instabilità con cui egli si confronta è sempre più un destino comune. Elsie simboleggia, a un tempo, una disgregazione culturale locale e un futuro collettivo 2. È dunque in questa poesia di Williams che Clifford ravvisa un nuovo approccio alla trasformazione culturale: un modo di guardare al cambiamento, al disordine, alla frammentazione della realtà in modo spregiudicato, nessuna nostalgia per una fantomatica purezza perduta, nessuna retorica vuota di significato. L'immagine di Elsie suggerisce una svolta inedita. Nel corso degli anni Venti è diventato concepibile uno spazio realmente globale di connessioni e dissoluzioni culturali. […] La risposta di Williams al disordine che ella [Elsie] rappresenta è complessa e ambivalente. Se le tradizioni autentiche, i frutti puri, si stanno ovunque arrendendo alla promiscuità e all'insignificanza, la scelta della nostalgia non possiede fascino. Non c'è un ritorno possibile, non c'è nulla da recuperare 3. Come non c'è nulla da recuperare, non c'è quindi proprio nulla da difendere. Non una cultura autentica da preservare dalle minacce esterne di invasori stranieri, non una famiglia tradizionale (o come viene tragicamente definita sempre più spesso oggi, "naturale") da difendere da modelli alternativi. Eppure queste ultime due asserzioni sono, tra le altre, le tesi basilari che hanno fondato e rinvigorito la campagna elettorale e le linee guida politiche delle forze di governo dell'ultimo anno in Italia. Ci sono alcuni episodi a cui la mia mente corre mentre, scrivendo, faccio riferimento a queste grossolane argomentazioni. Il famoso Congresso Mondiale delle Famiglie tenutosi a Verona nel marzo 2019, le manifestazioni di militanti di estrema destra affiancati da comuni cittadini (o forse viceversa) per opporsi all'assegnazione, regolare e secondo graduatoria, di alcuni appartamenti a delle famiglie di etnia rom nei quartieri Torre Maura e Casal Bruciato di Roma nel mese di aprile 2019 e le polemiche seguite alla vittoria della 69ª edizione del Festival della canzone italiana giovane cantante Mahmood a febbraio. Tutti e tre questi episodi hanno sollevato un polverone mediatico, ognuno per ragioni diverse. Il Congresso delle famiglie, organizzato con il patrocinio del Ministero della famiglia, vedeva, per esempio, la partecipazione di noti sostenitori di posizioni estremamente reazionarie sul tema della famiglia. Alcune di queste posizioni erano, per esempio, la condanna dell'aborto, considerato un atto di cannibalismo, e di qualsiasi forma genitoriale che non sia conforme a quella "naturale", definita come «sola unità stabile e fondamentale della società» 4 , ovvero composta da un uomo e una donna, con dei ruoli familiari e sociali chiaramente definiti, nonché la condanna definitiva
Ho ben chiaro in mente il momento in cui ad un certo punto del mio percorso di studi, per riferir... more Ho ben chiaro in mente il momento in cui ad un certo punto del mio percorso di studi, per riferirmi a un individuo che si è stabilito in un paese o in una regione diversa da quella di origine, ho smesso di utilizzare il termine "immigrato", per sostituirlo con l'espressione "migrante". Questa ponderata scelta rientrava in un riesame del lessico utilizzato nel quotidiano, molto spesso fortemente viziato, anche quando appare neutrale (che comprendeva, per esempio, anche la sostituzione di "di colore" con "nero", di "sesso" con "genere", etc). La scelta di utilizzare il termine migrante era però strettamente legata alla lettura di un testo che per la sua franchezza, chiarezza e profondità, finì per diventare uno spartiacque nella mia percezione del fenomeno migratorio, come aveva peraltro ragion d'essere. La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato del sociologo algerino Abdelmaled Sayad, pubblicato in Francia nel 1999 e tradotto in Italia nel 2002 per i tipi di Cortina Editore, è considerato un caposaldo della sociologia delle migrazioni, in quanto apre la strada ad una corrente socio-antropologica che per la prima volta nella storia degli studi mette al centro della sua analisi il fenomeno migratorio. Sebbene questa considerazione possa apparire scontata, non lo è affatto. Nella sua approfondita ricerca sui migranti algerini in Francia negli anni Cinquanta Sayad esplicita in modo estremamente chiaro quale sia la postura assunta dalle società occidentali nei confronti del fenomeno migratorio. Le politiche di accoglienza ed integrazione, così come le strutture metodologiche utilizzate nello studio delle migrazioni, apparivano infatti al sociologo concepite e costruite per rispondere unicamente alle esigenze, nel caso delle politiche, e alle domande, nel caso degli studi, delle società di arrivo. Ovvero le società di im-migrazione. Attraverso quindi una riflessione sul linguaggio utilizzato, che è sempre, come la punta di un iceberg, l'indicatore e l'espressione dei concetti a cui si fa riferimento 1 , Sayad evidenziava la parzialità di un discorso, quello sulle migrazioni, che pretendeva invece di assurgere a espressione oggettiva della realtà. Facendo seguito a questa riflessione il sociologo introduceva dunque l'utilizzo del termine "migrazione" per richiamare il fenomeno della mobilità umana, e "migrante", per gli individui protagonisti di questa mobilità, per far riferimento ad un processo unitario, che, senza sezionare arbitrariamente pezzi di storia e di geografia, coinvolgesse paesi di immigrazione, di emigrazione e di transito, e progetti biografici sviluppati nell'arco di intere vite. Questa considerazione, legata alle mie più recenti letture, mi ha portato a riflettere su un dato abbastanza attuale. Fino a pochi anni fa anche in Italia era diffuso l'utilizzo del termine "immigrato", quando non "clandestino", per riferirsi indistintamente ai migranti. Negli ultimi anni, invece, l'espressione "migrante" è entrata a far parte del linguaggio comune 2 , sostituendo quasi totalmente "immigrato", probabilmente veicolata dai media, per un atteggiamento sociale di politically correctness che spesso però, a furia di sventolare a tutti i costi la bandiera del rispetto, è finito per svuotare di significato le parole. Alla sostituzione del termine non è affatto corrisposto un ripensamento della categoria del "migrante" 3 , che è rimasto lo straniero poco desiderato, ma per forza di cose tollerato, pronto ad essere chiamato in causa come capro espiatorio per le più disparate problematiche sociali. A fronte dunque di un rinnovamento, seppur auspicabile, del linguaggio e delle "parole della migrazione", i migranti sono tuttora ostaggio di un discorso, nel senso foucaultiano del termine. La produzione, e la riproduzione, di un sapere dominante intrappola la migrazione ed i migranti dentro a una doxa (prendo qui in prestito invece un concetto di Bourdieu), che è così radicalmente introiettata da non essere messa in discussione neanche dalle forze politiche più progressiste. Anche quando
Un giorno di qualche mese fa, nell'aria sorniona di una domenica mattina, sorseggiando la mia taz... more Un giorno di qualche mese fa, nell'aria sorniona di una domenica mattina, sorseggiando la mia tazzina di caffè poco zuccherato, assorbivo soddisfatta il calore dei raggi solari, affacciata al balcone della casa che fu di mia nonna e che adesso appartiene alla mia famiglia. Assorta in uno stato di contemplazione dell'aria frizzantina, immune ai rumori delle auto dietro la curva o degli stereo boccheggianti musica per lo più neomelodica, venni ad un certo punto distratta da alcune voci prima e da un piccolo gruppo di persone poi, che, seguendo una giovane ragazza, si addentravano nel cortile del condominio, ascoltavano l'esposizione della giovane e scattavano fotografie guardandosi intorno, con un'aria tra l'incuriosito e lo stupefatto. Colpita dalla insolita situazione, tesi subito l'orecchio per cercare di carpire il carpibile, dalla distanza di un terzo piano, alto però non meno di 10-12 metri rispetto al piano della strada. La ragazza stava presentando gli edifici del condominio come particolari esempi di edilizia popolare, illustrando la composizione esterna dei cortili e quella interna delle palazzine. Una breve sosta di qualche minuto per guardarsi intorno, per poi continuare la passeggiata (turistica?) alla scoperta di chissà quale altro palazzo o monumento. La velocità con cui mi trovai ad assistere alla scena non mi consentì di scendere giù per le scale per correre a fare qualche domanda alla presunta guida. Prima di tutto, era davvero una guida? E se sì, cosa stava illustrando? Stava conducendo una passeggiata tematica alla scoperta della città? E allora qual era il tema? Ma soprattutto, perché il condominio di via Vito d'Ondes Reggio 8/a, conosciuto anche come le "case dei ferrovieri", era una tappa di quel percorso? Un senso di eccitazione mi portò subito a pensare che forse c'era davvero qualcosa di particolare in quel posto e a rimproverarmi di non averlo mai capito. E in effetti a guardarsi intorno qualcosa di speciale doveva proprio esserci osservando lo stile decorativo delle palazzine: cornici color giallo e ruggine sui prospetti, terrazzini con pilastri sormontati da finti capitelli, ampi cortili e lo stesso disegno in cima a sormontare le palazzine (una ruota con delle ali). Accorgersi che il luogo che avevo frequentato per quasi trent'anni e che aveva accolto per decenni la storia di una parte della mia famiglia non era un condominio come tutti gli altri mi stupì, se non altro perché non ci avevo mai fatto caso. Scoprire l'eccezionalità di un posto per me così familiare, così ordinario nei miei ricordi d'infanzia, mi esaltò e cominciai ad inviare messaggi a parenti ed amici, che tante volte erano stati lì come me, per scoprire se avessero mai immaginato quell'unicità o se in effetti, ne sapessero qualcosa. Tabula rasa, se non qualche vago ricordo di mia madre, che riguardava piuttosto la conformazione del quartiere Filiciuzza negli anni 60 e 70, le botteghe, i vicini di casa, ma nulla che spiegasse la particolarità delle costruzioni. E così ho dato il via ad una piccola ricerca, inizialmente con i primi mezzi a mia disposizione: internet ed il mio smartphone. Digitando "case ferrovieri d'ondes reggio", un articolo di Mario Pintagro pubblicato su repubblica.it il 9 gennaio 2009 giungeva in mio soccorso, rispondendo già ad alcune domande. Il titolo recitava così: Le case dei ferrovieri nate un secolo fa in via Pisacane un angolo d'Inghilterra. Si tratta di due isolati, uno con ingresso in via Pisacane, l' altro in via D' Ondes Reggio, proprio a ridosso della scuola elementare Francesco Paolo Perez. Per essere case destinate ai ferrovieri sono quasi un oggetto di culto. Tre piani, più uno rialzato, persiane verdi, prospetti bianchi e beige scanditi da linee rosse. In cima, poco sotto il tetto a due falde, la ruota con le ali, il logo dei ferrovieri di inizio secolo 1 .
Terremoti relazionali. La resilienza di Aliano e dei paesi abbandonati di Cinzia Costa Aliano non... more Terremoti relazionali. La resilienza di Aliano e dei paesi abbandonati di Cinzia Costa Aliano non ha fretta di farsi trovare, lascia fare al paesaggio. Qui la terra sembra un popolo, un altare di cardi e ginestre. Li chiamano calanchi ma è come stare in una chiesa: guarda come pregano questi monaci di creta. Franco Arminio 607 km è la distanza che deve percorrere la nostra Punto celeste per arrivare a destinazione. Io e la mia compagna di viaggio abbiamo preparato tutto l'occorrente: una tenda da condividere, il necessario per pochi giorni di campeggio, una bottiglia di acqua fresca e buona musica per le quasi 8 ore di viaggio che ci attendono. L'itinerario è quasi definito: percorreremo tutta la Palermo-Messina, poi traghetto per Villa San Giovanni, attraverseremo tutta la Calabria fino a Cosenza, e da lì decideremo se prendere la strada litoranea per poi ritornare verso l'entroterra lucano, oppure attraversare il Parco Nazionale del Pollino. Decidiamo per questa seconda opzione ed intorno alle 18,00 del 23 agosto arriviamo ad Aliano, piccolo paese in provincia di Matera, dove dal giorno precedente ha avuto inizio la Festa della paesologia, "La luna e i calanchi 1 ". Il festival, giunto quest'anno alla sua sesta edizione, è ideato e curato da Franco Arminio, poeta, scrittore, regista, e ideatore della "paesologia", disciplina (o per meglio dire corrente, tema, prospettiva) di cui egli stesso si fa promotore da diversi anni. L'utilizzo di questo termine e la discussione su questo tema hanno preso campo negli ultimi anni, tanto da portare l'enciclopedia Treccani.it ad aggiungere la voce «paesologia» tra i Neologismi 2017. «paesologia (Paesologia) s. f. L'arte dell'incontrare e raccontare i paesi e i luoghi, percepiti come centri di vita associata immersi nel territorio e nella storia e interpretati fuori da ogni rigido schema disciplinare 2 ». La festa della paesologia prende infatti luogo in un paese molto piccolo, difficile da raggiungere, poco adatto ad ospitare centinaia o migliaia di persone; un paese della Basilicata che, probabilmente, pochissimi dei partecipanti alla manifestazione avrebbe mai visitato nella propria vita, se non fosse per il festival. Il censimento demografico Istat, aggiornato al 31 dicembre 2017, conta 967 residenti ad Aliano. Il calo demografico registrato ad Aliano nell'arco degli ultimi sedici anni, che consulto sul sito www.tuttitalia.it 3 , registra la perdita di centinaia di persone e nuclei familiari; è un arco di tempo piuttosto breve e che non tiene conto dei decenni precedenti, che avranno certamente registrato lo stesso o peggiore calo demografico, causato da una forte emigrazione verso altre regioni. Il ciclo di vita di Aliano è assimilabile a quello di migliaia di paesi dell'Italia centrale e meridionale e, sostituendo il nome di Aliano con quello di molti altri paesi, si potrebbe raccontare una storia paradigmatica, unica e declinabile con le dovute differenze (la regione geografica, le cause e le modalità dello spopolamento) centinaia o migliaia di volte 4. Africo, San Lorenzo, Borgo Fantino, Armungia in Calabria e Sardegna, sono alcuni dei paesi che prima di me sono stati raccontati su Dialoghi Mediterranei da autori, come Emanuela Filomena Bossa,
Ossimori immaginari di Cinzia Costa I concetti astratti nascono sempre per definire qualcosa che ... more Ossimori immaginari di Cinzia Costa I concetti astratti nascono sempre per definire qualcosa che esiste già concretamente nella realtà. È avvenuto così per i principali teoremi matematici o le leggi della fisica, per le correnti filosofiche o le ideologie politiche. Le menti più illustri della storia, da Pitagora a Kant, da Marx a Foucault, hanno avuto "solo" il merito di rivelarsi i primi scopritori o interpreti delle leggi naturali, sociali, storiche o politiche, del mondo del loro tempo. Le parole hanno dunque il dirompente potere di far esistere le cose, o meglio, di far riconoscere a tutti quello che vedono accadere intorno a loro. Questo processo può però essere piuttosto lento e arduo e può anche accadere che alcune parole, che un tempo avevano un particolare significato, non rispecchino più la realtà che nominavano e descrivevano in precedenza. Occorre dunque, di tanto in tanto, guardarsi intorno per capire se le parole, e di conseguenza i concetti e le idee che esse trasmettono, non siano forse rimaste indietro rispetto ad una realtà che galoppa senza mai guardarsi indietro. Chiedersi se quello che fino a qualche tempo fa chiamavamo in un modo possa ancora essere chiamato così o se forse una parola a cui attribuivamo un significato non debba piuttosto acquisire nuove sfumature e valori semantici. Per quanto banale, dovremmo sempre tenere presente questa considerazione quando parliamo di teorie, ideologie, movimenti, leggi, status giuridici. Possiamo ancora usare le parole Nazione o Patria, come venivano usate nel XIX secolo? Quando usiamo il termine Femminismo intendiamo lo stesso movimento per l'affermazione dei diritti delle donne che nacque negli anni Sessanta, o questa parola acquisisce oggi nuove sfumature? Sebbene questo tipo di riflessioni possano sembrare lontane dalla quotidianità delle persone comuni, e appaiano dibattiti relegati al mondo accademico, la definizione di alcuni concetti teorici è una cosa che ci riguarda molto da vicino. Molti dei concetti che stanno alla base della nostra idea di umanità, e che diamo per scontati, sono stati coniati o si sono evoluti nel corso della storia; per questo stesso motivo è bene ricordarsi che possono sempre essere messi in discussione. Il significato stesso dell'idea di vita e morte non è univoco e astorico (ad essi sono legate le spinose questioni di aborto, testamento biologico, eutanasia, etc.), per non parlare di termini come famiglia, genere, diritto. Un altro concetto su cui è urgente oggi interrogarsi è quello di cittadinanza, e dunque nel caso particolare del nostro paese quello di "italianità". Il dibattito sullo ius soli, ovvero sulla possibilità di concedere la cittadinanza italiana a chiunque sia nato sul suolo italiano, a prescindere dall'origine geografica dei propri genitori, è infatti da tempo uno dei temi più discussi all'interno del nostro Parlamento. Come è noto la normativa italiana prevede che possano essere considerati italiani di diritto solo coloro che sono figli di italiani. La discussione parlamentare sulla possibilità di cambiare questa norma è in realtà aperta da diversi anni e rimane un tema caldo sul quale i rappresentanti politici non riescono a trovare un accordo chiaro e definitivo 1. Questo tema ci mette però davanti ad una questione aperta, che riguarda non solo i giovani di seconda generazione, figli di immigrati nati in Italia, ma tutti gli italiani già cittadini di diritto. Il fatto che i componenti del nostro Parlamento mettano in dubbio la possibilità (o la necessità) di conferire la cittadinanza a migliaia di bambine e bambini nati in Italia ci costringe a chiederci cosa vuol dire essere cittadini di un paese. La cittadinanza è qualcosa che si ha o che si è 2 ? E in definitiva cosa significa essere italiani? Essere italiani nel 2018 non significa certamente ciò che significava essere italiani nel 1861 3. È necessario probabilmente, allora, "risignificare" questa espressione.
La fotografia offre un punto di osservazione privilegiato, in quanto il fotografo che scatta un’i... more La fotografia offre un punto di osservazione privilegiato, in quanto il fotografo che scatta un’istantanea sta immortalando un luogo e un contesto all’interno del quale egli stesso si trova. Il nostro corpo rientra nella direzionalità delle immagini, creando una triangolazione fatta di tre elementi: l’immagine, il mezzo e il corpo (cfr. Belting, 2001). Il coinvolgimento diretto dell’autore nell’immagine che sta scattando porta ancora una volta a riflettere sulla relazione dialettica che intercorre tra «mezzo, occhio e realtà» (Faeta, 2006: 63) e spinge a leggere l’immagine come un testo, ad esaminarla dal punto di vista epistemologico e a decostruirla. La ossibiltà di usare la fotografia come mezzo di domuentazione collettiva ci ricorda ancora una volta l’importanza della polifonia e della spinta dal basso in tutti i processi politici e sociali, a cui appartiene anche la ricerca scientifica, che fuori d’Accademia, può trovare nuova linfa vitale.
#MyEscape, il lungometraggio, “diretto” da ElkeSasse , ripercorre passo dopo passo il viaggio di ... more #MyEscape, il lungometraggio, “diretto” da ElkeSasse , ripercorre passo dopo passo il viaggio di alcuni rifugiati, dal proprio paese di origine fino alla Germania, ultima destinazione di tutte le estenuanti peregrinazioni dei protagonisti delle storie che si intrecciano dolorosamente nei 90 minuti di filmato. Come vuole lasciar intendere già il titolo, #MyEscape è un’opera che pone in primo piano gli oggetti dell’osservazione del documentario stesso, che da oggetti diventano appunto soggetti, da attori a registi. La mia fuga a cui si riferisce il titolo è proprio quella di 15 diverse persone che, attraversando strade simili o completamente diverse, a seconda della provenienze e dei mezzi di trasporto utilizzati, hanno però dei tratti comuni, relativi in particolare a due scelte affrontate nel corso delle rispettive vite: quella di lasciare la propria terra di origine, in molti casi di fuggire, e quella di documentare il proprio viaggio attraverso fotografie e video registrati direttamente con i propri smartphone.
Le public narratives sono definite da Baker come "storie elaborate da e che circolano all'interno... more Le public narratives sono definite da Baker come "storie elaborate da e che circolano all'interno di gruppi sociali e istituzionali più ampi dell'individuo, come famiglia, religione o istituzioni educative, i media, e la nazione" 1 (Baker, 2006, p.33).
di Cinzia Costa È passato ormai più di un anno da quando, nel febbraio 2015, concludevo la mia et... more di Cinzia Costa È passato ormai più di un anno da quando, nel febbraio 2015, concludevo la mia etnografia sui migranti stagionali a Rosarno 1 . La scelta del campo di indagine fu legata, a suo tempo, ad un interesse generico per il tema delle migrazioni e dello sfruttamento del lavoro, unito alla curiosità e alle conoscenze, altrettanto generiche ed approssimative, che avevo acquisito su Rosarno, in seguito agli scontri tra gli stagionali di origine africana e i rosarnesi avvenuti nel gennaio 2010. In quell'occasione, infatti, il paese, che mai aveva richiamato l'attenzione della stampa se non per sporadici episodi legati alla criminalità organizzata 2 , saliva agli onori della cronaca come esempio del conflitto sociale tra immigrati e autoctoni, rivelando, nella violenza degli scontri, la punta di un iceberg che poggiava le sue basi sull'impossibilità di convivenza e l'inconciliabilità tra i due gruppi, ponendo l'accento ora sull'intolleranza e sul razzismo dei rosarnesi, e ora sulla retorica dell'invasione dei clandestini.
Il contributo che propongo nasce da una necessità di analisi e di riflessione sul flusso di infor... more Il contributo che propongo nasce da una necessità di analisi e di riflessione sul flusso di informazioni cui il lettore medio è oggi sottoposto. La diffusione di internet, e dei social media in particolare, ha stravolto e rivoluzionato le modalità dei comuni utenti della stampa e dunque, per estensione, di una gran parte della cittadinanza di approcciarsi all'informazione pubblica, accorciando estremamente, almeno apparentemente, la distanza tra la notizia e il lettore e conducendo il rapporto tra questi due termini ad un punto di non ritorno decisamente inedito. Nell'epoca attuale l'avventore dell'apparato mediatico (e social-mediatico) è esposto ad una overdose di notizie ed informazioni. In particolare i social network, in virtù della loro diffusione capillare e del largo bacino di fruizione, consentono un'ampia divulgazione diatopica e diastratica, che raggiunge in brevissimo tempo regioni territoriali e fasce sociali molteplici e diversificate. Questa (in molti casi fittizia) democrazia dei nuovi mezzi mediatici conferisce al lettore l'impressione di essere a diretto contatto con la fonte di informazione e di poter essere in possesso di una verità sui fatti che spesso il servizio di informazione pubblica omette o cela. FOTO 1 A scanso di equivoci è necessario ricordare che la diffusione globale di internet è da considerarsi a tutti gli effetti una rivoluzione nell'ambito della divulgazione e condivisione di un sapere libero e senza filtri, con tutte le conseguenze, positive e negative, che tale trasformazione ha portato con sé: ne sono esempi chiari il meccanismo base di funzionamento di Wikipedia, la più grande enciclopedia aperta sul web che si fonda sul principio di libera circolazione delle informazioni e sulla partecipazione e l'apporto di contributi e revisioni da parte di tutti gli utenti, o anche il ruolo centrale dei social network durante avvenimenti storici e politici di grande rilevanza come le cosiddette Primavere arabe, quando giovani attivisti nordafricani diedero vita a delle vere e proprie rivolte, prima in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e poi anche in altri Paesi del Vicino e Medio Oriente, dando voce al proprio dissenso attraverso blog personali ed eludendo così lo stretto controllo che le dittature imponevano alle loro società. Esiste tuttavia un'altra faccia della medaglia, quella che, facendo perno sulla banale ingenuità ed in molti casi sull'imprudenza del lettore, fa sì che la rete si presti alla diffusione di notizie imprecise, erronee ed insinuanti. Tale meccanismo prende spesso le mosse da quelli che la psicologia sociale definisce come pregiudizi confermativi (o confermative bias), ossia quelle convinzioni preventive dei soggetti, che portano a valutare come vere e degne di divulgazione solo quelle informazioni che confermano ciò che già sappiamo. Questo spiegherebbe il motivo per cui le notizie di migranti che commettono crimini sono molto più diffuse delle notizie che potrebbero attribuire dei meriti positivi agli stessi, o spiega, per esempio, l'ampia circolazione di notizie che connettono (in modo spesso arbitrario) l'appartenenza religiosa dei protagonisti della cronaca ad avvenimenti relativi alla violenza sulle donne e ad atti di terrorismo, o presunto tale. Ciò avviene poiché questo tipo di informazioni confluisce perfettamente in quel flusso indifferenziato volto a divulgare una narrazione socialmente accreditata, generalmente intrisa di xenofobia e islamofobia in particolare, fortemente corroborata dall'opinione pubblica e da una certa classe politica. FOTO 2 La necessità di tentare in prima approssimazione un'analisi sull'utilizzo dei social network muove appunto dalla presa di coscienza del fatto che questi ultimi costituiscono, a tutti gli effetti, un nuovo significativo mezzo di divulgazione delle informazioni. Tuttavia, per quanto l'ingenuità della comunicazione possa essere in qualche modo giustificata dall'alibi della " amatorialità " dei propagatori di notizie (questo non giustifica tuttavia la credulità degli utenti), il giornalismo professionale non può invece sfuggire ad una critica ferma e risoluta, nei casi in cui incorra in questo tipo di trabocchetti (ove si tratti di incidenti) e scorrettezze (quando si tratta di esplicita espressione di faziosità).
Serve davvero poca fantasia per immaginare lo scenario che Timur Vermes 1 presenta al lettore del... more Serve davvero poca fantasia per immaginare lo scenario che Timur Vermes 1 presenta al lettore del suo ultimo romanzo: Die hungrigen und die satten edito in Germania per Eichborn nel 2018 e pubblicato in Italia da Bompiani nel settembre 2019 con il titolo "Gli affamati e i sazi", con una accurata traduzione di Francesca Gabelli. Poca fantasia perché tutti gli elementi principali che compongono la narrazione sono notizie, fatti e personaggi di cui ogni giorno, ormai da anni, leggiamo sui giornali o sui tabloid di gossip.
Un fenomeno che ci riguarda. Le migrazioni attraverso il cinema documentario al Sole Luna Festiva... more Un fenomeno che ci riguarda. Le migrazioni attraverso il cinema documentario al Sole Luna Festival di Cinzia Costa Anche quest'anno il Sole Luna Doc Film Festival, festival internazionale di cinema documentario che ormai da 14 anni si tiene a Palermo, ha presentato una nutrita programmazione di attività ed eventi culturali, proponendo al pubblico, nella sua quattordicesima edizione, una selezione di 24 documentari concorrenti per il premio finale, una lunga lista di film fuori concorso dedicati a "Palermo città aperta" o firmati da registi italiani, e un importante tributo al regista scomparso Bernardo Bertolucci. Il festival, che si è tenuto quest'anno dal 7 al 13 luglio alla Chiesa di Santa Maria dello Spasimo, casa natale della manifestazione, ha selezionato per il concorso una serie di film su temi centrali dell'attualità e della condizione umana; tra questi, come di consueto, il tema delle migrazioni ha avuto il suo posto di rilievo all'interno del concorso. Tre i film che hanno affrontato questa tematica da prospettive molto diverse, analizzando aree geografiche e contesti sociali completamente differenti: il cortometraggio Chinese Dream (Germania 2019, 24') di Lena Karbe e Tristan Coloma 1 , Island of the Hungry Ghosts (Germania-Regno Unito-Austria 2018, 94′) di Gabrielle Brady 2 e Those who remain / Celle qui restent (Francia-Italia 2018, 89′) di Ester Sparatore 3. FOTO 1 Chinese Dream racconta la storia inedita della migrazione di comunità africane nella Cina contemporanea. Attraverso quattro episodi-intervista ambientati in un quartiere africano di Guangzhou, vengono presentate altrettante storie personali che gettano lo sguardo su un fenomeno relativamente recente, che vede per la prima volta la Cina come meta di immigrazione. I narratori di questa storia sono la dipendente di un hotel molto frequentato da clienti africani, l'allenatore di una squadra di calcio che accoglie tra i suoi giocatori giovani provenienti dall'Africa, una coppia mista che racconta l'esperienza di far crescere ed educare le proprie figlie in un paese poco aperto alla diversità culturale come la Cina e un commerciante che, per interessi economici, ha cominciato a stringere affari con persone proveniente dall'Africa. I registi non specificano in nessun caso la particolare provenienza degli immigrati africani, e il racconto è affidato, quasi in tutti i casi, alle parole di persone cinesi, che presentano il fenomeno migratorio dal punto di vista di chi lo riceve. Il documentario riesce con leggerezza e con toni quasi naif a narrare lo shock culturale e il superamento dello stesso, attraverso storie di vita individuali. Una delle protagoniste, nella parte iniziale del film, dice di non avere mai incontrato un uomo nero prima di aver iniziato a lavorare nell'hotel di cui è dipendente: "La mia prima impressione… sono più alti, più forti, più scuri. Sono più belli dei cinesi". FOTO 2 Il secondo documentario in concorso alla quattordicesima edizione del Sole Luna Festival che affronta il tema delle migrazioni è Island of the Hungry Ghosts, un film dai toni poetici e delicati, vincitore del premio Miglior documentario, assegnato dalla giuria internazionale, e del Premio del pubblico. Il lungometraggio è ambientato a Christmas Island, un'isola geograficamente molto vicina all'Indonesia, ma appartenente politicamente all'Australia. La protagonista, Poh Lin Lee, è una "terapeuta del trauma" che vive con la sua famiglia sull'isola e che accompagna in un percorso di riabilitazione psicologica alcuni richiedenti asilo trattenuti nel centro di detenzione della sua zona. La storia intreccia, su diversi piani, tre filoni narrativi apparentemente scollegati tra di loro, ma che, accostandosi, danno vita ad una riflessione di ampio respiro. Da una parte la migrazione dalla giungla all'Oceano Indiano di milioni di granchi rossi, tutelati e addirittura scortati da attivisti ambientalisti, al fine di preservare la rara specie animale originaria dell'isola; dall'altra il rituale popolare taoista dei "fantasmi affamati" (che dà nome al film), diffuso nell'Isola di Natale, secondo cui nel corso di
Cosa è un italiano. Perdere o ritrovare un immaginario comune di Cinzia Costa Che i frutti puri i... more Cosa è un italiano. Perdere o ritrovare un immaginario comune di Cinzia Costa Che i frutti puri impazziscono ce lo insegnava già nel 1988 James Clifford, quando, come epigrafe del suo celebre testo The Predicament of Culture: Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art (che sarebbe poi stato tradotto in italiano, per l'appunto, con il titolo I frutti puri impazziscono) citava per intero la poesia dei primi anni Venti del medico e scrittore William Carlos Williams 1 To Elsie. Il poeta riconosceva in Elsie, una giovane nativa d'America, l'epitome dei suoi tempi: il disorientamento culturale ed interiore di un popolo che ha perso di vista la propria identità e purezza. Nell'introduzione a quello che è poi diventato uno dei testi più influenti della storia degli studi culturali e antropologici, a commento della sopracitata poesia Clifford scrive: Spero che [i versi] possano valere come spunto per questo libro, un modo per entrare in argomento con un concetto problematico. Chiamiamo tale concetto modernità etnografica: etnografica perché Williams si trova spiazzato in mezzo a tradizioni frammentate; modernità dal momento che la condizione di sradicamento e d'instabilità con cui egli si confronta è sempre più un destino comune. Elsie simboleggia, a un tempo, una disgregazione culturale locale e un futuro collettivo 2. È dunque in questa poesia di Williams che Clifford ravvisa un nuovo approccio alla trasformazione culturale: un modo di guardare al cambiamento, al disordine, alla frammentazione della realtà in modo spregiudicato, nessuna nostalgia per una fantomatica purezza perduta, nessuna retorica vuota di significato. L'immagine di Elsie suggerisce una svolta inedita. Nel corso degli anni Venti è diventato concepibile uno spazio realmente globale di connessioni e dissoluzioni culturali. […] La risposta di Williams al disordine che ella [Elsie] rappresenta è complessa e ambivalente. Se le tradizioni autentiche, i frutti puri, si stanno ovunque arrendendo alla promiscuità e all'insignificanza, la scelta della nostalgia non possiede fascino. Non c'è un ritorno possibile, non c'è nulla da recuperare 3. Come non c'è nulla da recuperare, non c'è quindi proprio nulla da difendere. Non una cultura autentica da preservare dalle minacce esterne di invasori stranieri, non una famiglia tradizionale (o come viene tragicamente definita sempre più spesso oggi, "naturale") da difendere da modelli alternativi. Eppure queste ultime due asserzioni sono, tra le altre, le tesi basilari che hanno fondato e rinvigorito la campagna elettorale e le linee guida politiche delle forze di governo dell'ultimo anno in Italia. Ci sono alcuni episodi a cui la mia mente corre mentre, scrivendo, faccio riferimento a queste grossolane argomentazioni. Il famoso Congresso Mondiale delle Famiglie tenutosi a Verona nel marzo 2019, le manifestazioni di militanti di estrema destra affiancati da comuni cittadini (o forse viceversa) per opporsi all'assegnazione, regolare e secondo graduatoria, di alcuni appartamenti a delle famiglie di etnia rom nei quartieri Torre Maura e Casal Bruciato di Roma nel mese di aprile 2019 e le polemiche seguite alla vittoria della 69ª edizione del Festival della canzone italiana giovane cantante Mahmood a febbraio. Tutti e tre questi episodi hanno sollevato un polverone mediatico, ognuno per ragioni diverse. Il Congresso delle famiglie, organizzato con il patrocinio del Ministero della famiglia, vedeva, per esempio, la partecipazione di noti sostenitori di posizioni estremamente reazionarie sul tema della famiglia. Alcune di queste posizioni erano, per esempio, la condanna dell'aborto, considerato un atto di cannibalismo, e di qualsiasi forma genitoriale che non sia conforme a quella "naturale", definita come «sola unità stabile e fondamentale della società» 4 , ovvero composta da un uomo e una donna, con dei ruoli familiari e sociali chiaramente definiti, nonché la condanna definitiva
Ho ben chiaro in mente il momento in cui ad un certo punto del mio percorso di studi, per riferir... more Ho ben chiaro in mente il momento in cui ad un certo punto del mio percorso di studi, per riferirmi a un individuo che si è stabilito in un paese o in una regione diversa da quella di origine, ho smesso di utilizzare il termine "immigrato", per sostituirlo con l'espressione "migrante". Questa ponderata scelta rientrava in un riesame del lessico utilizzato nel quotidiano, molto spesso fortemente viziato, anche quando appare neutrale (che comprendeva, per esempio, anche la sostituzione di "di colore" con "nero", di "sesso" con "genere", etc). La scelta di utilizzare il termine migrante era però strettamente legata alla lettura di un testo che per la sua franchezza, chiarezza e profondità, finì per diventare uno spartiacque nella mia percezione del fenomeno migratorio, come aveva peraltro ragion d'essere. La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato del sociologo algerino Abdelmaled Sayad, pubblicato in Francia nel 1999 e tradotto in Italia nel 2002 per i tipi di Cortina Editore, è considerato un caposaldo della sociologia delle migrazioni, in quanto apre la strada ad una corrente socio-antropologica che per la prima volta nella storia degli studi mette al centro della sua analisi il fenomeno migratorio. Sebbene questa considerazione possa apparire scontata, non lo è affatto. Nella sua approfondita ricerca sui migranti algerini in Francia negli anni Cinquanta Sayad esplicita in modo estremamente chiaro quale sia la postura assunta dalle società occidentali nei confronti del fenomeno migratorio. Le politiche di accoglienza ed integrazione, così come le strutture metodologiche utilizzate nello studio delle migrazioni, apparivano infatti al sociologo concepite e costruite per rispondere unicamente alle esigenze, nel caso delle politiche, e alle domande, nel caso degli studi, delle società di arrivo. Ovvero le società di im-migrazione. Attraverso quindi una riflessione sul linguaggio utilizzato, che è sempre, come la punta di un iceberg, l'indicatore e l'espressione dei concetti a cui si fa riferimento 1 , Sayad evidenziava la parzialità di un discorso, quello sulle migrazioni, che pretendeva invece di assurgere a espressione oggettiva della realtà. Facendo seguito a questa riflessione il sociologo introduceva dunque l'utilizzo del termine "migrazione" per richiamare il fenomeno della mobilità umana, e "migrante", per gli individui protagonisti di questa mobilità, per far riferimento ad un processo unitario, che, senza sezionare arbitrariamente pezzi di storia e di geografia, coinvolgesse paesi di immigrazione, di emigrazione e di transito, e progetti biografici sviluppati nell'arco di intere vite. Questa considerazione, legata alle mie più recenti letture, mi ha portato a riflettere su un dato abbastanza attuale. Fino a pochi anni fa anche in Italia era diffuso l'utilizzo del termine "immigrato", quando non "clandestino", per riferirsi indistintamente ai migranti. Negli ultimi anni, invece, l'espressione "migrante" è entrata a far parte del linguaggio comune 2 , sostituendo quasi totalmente "immigrato", probabilmente veicolata dai media, per un atteggiamento sociale di politically correctness che spesso però, a furia di sventolare a tutti i costi la bandiera del rispetto, è finito per svuotare di significato le parole. Alla sostituzione del termine non è affatto corrisposto un ripensamento della categoria del "migrante" 3 , che è rimasto lo straniero poco desiderato, ma per forza di cose tollerato, pronto ad essere chiamato in causa come capro espiatorio per le più disparate problematiche sociali. A fronte dunque di un rinnovamento, seppur auspicabile, del linguaggio e delle "parole della migrazione", i migranti sono tuttora ostaggio di un discorso, nel senso foucaultiano del termine. La produzione, e la riproduzione, di un sapere dominante intrappola la migrazione ed i migranti dentro a una doxa (prendo qui in prestito invece un concetto di Bourdieu), che è così radicalmente introiettata da non essere messa in discussione neanche dalle forze politiche più progressiste. Anche quando
Un giorno di qualche mese fa, nell'aria sorniona di una domenica mattina, sorseggiando la mia taz... more Un giorno di qualche mese fa, nell'aria sorniona di una domenica mattina, sorseggiando la mia tazzina di caffè poco zuccherato, assorbivo soddisfatta il calore dei raggi solari, affacciata al balcone della casa che fu di mia nonna e che adesso appartiene alla mia famiglia. Assorta in uno stato di contemplazione dell'aria frizzantina, immune ai rumori delle auto dietro la curva o degli stereo boccheggianti musica per lo più neomelodica, venni ad un certo punto distratta da alcune voci prima e da un piccolo gruppo di persone poi, che, seguendo una giovane ragazza, si addentravano nel cortile del condominio, ascoltavano l'esposizione della giovane e scattavano fotografie guardandosi intorno, con un'aria tra l'incuriosito e lo stupefatto. Colpita dalla insolita situazione, tesi subito l'orecchio per cercare di carpire il carpibile, dalla distanza di un terzo piano, alto però non meno di 10-12 metri rispetto al piano della strada. La ragazza stava presentando gli edifici del condominio come particolari esempi di edilizia popolare, illustrando la composizione esterna dei cortili e quella interna delle palazzine. Una breve sosta di qualche minuto per guardarsi intorno, per poi continuare la passeggiata (turistica?) alla scoperta di chissà quale altro palazzo o monumento. La velocità con cui mi trovai ad assistere alla scena non mi consentì di scendere giù per le scale per correre a fare qualche domanda alla presunta guida. Prima di tutto, era davvero una guida? E se sì, cosa stava illustrando? Stava conducendo una passeggiata tematica alla scoperta della città? E allora qual era il tema? Ma soprattutto, perché il condominio di via Vito d'Ondes Reggio 8/a, conosciuto anche come le "case dei ferrovieri", era una tappa di quel percorso? Un senso di eccitazione mi portò subito a pensare che forse c'era davvero qualcosa di particolare in quel posto e a rimproverarmi di non averlo mai capito. E in effetti a guardarsi intorno qualcosa di speciale doveva proprio esserci osservando lo stile decorativo delle palazzine: cornici color giallo e ruggine sui prospetti, terrazzini con pilastri sormontati da finti capitelli, ampi cortili e lo stesso disegno in cima a sormontare le palazzine (una ruota con delle ali). Accorgersi che il luogo che avevo frequentato per quasi trent'anni e che aveva accolto per decenni la storia di una parte della mia famiglia non era un condominio come tutti gli altri mi stupì, se non altro perché non ci avevo mai fatto caso. Scoprire l'eccezionalità di un posto per me così familiare, così ordinario nei miei ricordi d'infanzia, mi esaltò e cominciai ad inviare messaggi a parenti ed amici, che tante volte erano stati lì come me, per scoprire se avessero mai immaginato quell'unicità o se in effetti, ne sapessero qualcosa. Tabula rasa, se non qualche vago ricordo di mia madre, che riguardava piuttosto la conformazione del quartiere Filiciuzza negli anni 60 e 70, le botteghe, i vicini di casa, ma nulla che spiegasse la particolarità delle costruzioni. E così ho dato il via ad una piccola ricerca, inizialmente con i primi mezzi a mia disposizione: internet ed il mio smartphone. Digitando "case ferrovieri d'ondes reggio", un articolo di Mario Pintagro pubblicato su repubblica.it il 9 gennaio 2009 giungeva in mio soccorso, rispondendo già ad alcune domande. Il titolo recitava così: Le case dei ferrovieri nate un secolo fa in via Pisacane un angolo d'Inghilterra. Si tratta di due isolati, uno con ingresso in via Pisacane, l' altro in via D' Ondes Reggio, proprio a ridosso della scuola elementare Francesco Paolo Perez. Per essere case destinate ai ferrovieri sono quasi un oggetto di culto. Tre piani, più uno rialzato, persiane verdi, prospetti bianchi e beige scanditi da linee rosse. In cima, poco sotto il tetto a due falde, la ruota con le ali, il logo dei ferrovieri di inizio secolo 1 .
Terremoti relazionali. La resilienza di Aliano e dei paesi abbandonati di Cinzia Costa Aliano non... more Terremoti relazionali. La resilienza di Aliano e dei paesi abbandonati di Cinzia Costa Aliano non ha fretta di farsi trovare, lascia fare al paesaggio. Qui la terra sembra un popolo, un altare di cardi e ginestre. Li chiamano calanchi ma è come stare in una chiesa: guarda come pregano questi monaci di creta. Franco Arminio 607 km è la distanza che deve percorrere la nostra Punto celeste per arrivare a destinazione. Io e la mia compagna di viaggio abbiamo preparato tutto l'occorrente: una tenda da condividere, il necessario per pochi giorni di campeggio, una bottiglia di acqua fresca e buona musica per le quasi 8 ore di viaggio che ci attendono. L'itinerario è quasi definito: percorreremo tutta la Palermo-Messina, poi traghetto per Villa San Giovanni, attraverseremo tutta la Calabria fino a Cosenza, e da lì decideremo se prendere la strada litoranea per poi ritornare verso l'entroterra lucano, oppure attraversare il Parco Nazionale del Pollino. Decidiamo per questa seconda opzione ed intorno alle 18,00 del 23 agosto arriviamo ad Aliano, piccolo paese in provincia di Matera, dove dal giorno precedente ha avuto inizio la Festa della paesologia, "La luna e i calanchi 1 ". Il festival, giunto quest'anno alla sua sesta edizione, è ideato e curato da Franco Arminio, poeta, scrittore, regista, e ideatore della "paesologia", disciplina (o per meglio dire corrente, tema, prospettiva) di cui egli stesso si fa promotore da diversi anni. L'utilizzo di questo termine e la discussione su questo tema hanno preso campo negli ultimi anni, tanto da portare l'enciclopedia Treccani.it ad aggiungere la voce «paesologia» tra i Neologismi 2017. «paesologia (Paesologia) s. f. L'arte dell'incontrare e raccontare i paesi e i luoghi, percepiti come centri di vita associata immersi nel territorio e nella storia e interpretati fuori da ogni rigido schema disciplinare 2 ». La festa della paesologia prende infatti luogo in un paese molto piccolo, difficile da raggiungere, poco adatto ad ospitare centinaia o migliaia di persone; un paese della Basilicata che, probabilmente, pochissimi dei partecipanti alla manifestazione avrebbe mai visitato nella propria vita, se non fosse per il festival. Il censimento demografico Istat, aggiornato al 31 dicembre 2017, conta 967 residenti ad Aliano. Il calo demografico registrato ad Aliano nell'arco degli ultimi sedici anni, che consulto sul sito www.tuttitalia.it 3 , registra la perdita di centinaia di persone e nuclei familiari; è un arco di tempo piuttosto breve e che non tiene conto dei decenni precedenti, che avranno certamente registrato lo stesso o peggiore calo demografico, causato da una forte emigrazione verso altre regioni. Il ciclo di vita di Aliano è assimilabile a quello di migliaia di paesi dell'Italia centrale e meridionale e, sostituendo il nome di Aliano con quello di molti altri paesi, si potrebbe raccontare una storia paradigmatica, unica e declinabile con le dovute differenze (la regione geografica, le cause e le modalità dello spopolamento) centinaia o migliaia di volte 4. Africo, San Lorenzo, Borgo Fantino, Armungia in Calabria e Sardegna, sono alcuni dei paesi che prima di me sono stati raccontati su Dialoghi Mediterranei da autori, come Emanuela Filomena Bossa,
Ossimori immaginari di Cinzia Costa I concetti astratti nascono sempre per definire qualcosa che ... more Ossimori immaginari di Cinzia Costa I concetti astratti nascono sempre per definire qualcosa che esiste già concretamente nella realtà. È avvenuto così per i principali teoremi matematici o le leggi della fisica, per le correnti filosofiche o le ideologie politiche. Le menti più illustri della storia, da Pitagora a Kant, da Marx a Foucault, hanno avuto "solo" il merito di rivelarsi i primi scopritori o interpreti delle leggi naturali, sociali, storiche o politiche, del mondo del loro tempo. Le parole hanno dunque il dirompente potere di far esistere le cose, o meglio, di far riconoscere a tutti quello che vedono accadere intorno a loro. Questo processo può però essere piuttosto lento e arduo e può anche accadere che alcune parole, che un tempo avevano un particolare significato, non rispecchino più la realtà che nominavano e descrivevano in precedenza. Occorre dunque, di tanto in tanto, guardarsi intorno per capire se le parole, e di conseguenza i concetti e le idee che esse trasmettono, non siano forse rimaste indietro rispetto ad una realtà che galoppa senza mai guardarsi indietro. Chiedersi se quello che fino a qualche tempo fa chiamavamo in un modo possa ancora essere chiamato così o se forse una parola a cui attribuivamo un significato non debba piuttosto acquisire nuove sfumature e valori semantici. Per quanto banale, dovremmo sempre tenere presente questa considerazione quando parliamo di teorie, ideologie, movimenti, leggi, status giuridici. Possiamo ancora usare le parole Nazione o Patria, come venivano usate nel XIX secolo? Quando usiamo il termine Femminismo intendiamo lo stesso movimento per l'affermazione dei diritti delle donne che nacque negli anni Sessanta, o questa parola acquisisce oggi nuove sfumature? Sebbene questo tipo di riflessioni possano sembrare lontane dalla quotidianità delle persone comuni, e appaiano dibattiti relegati al mondo accademico, la definizione di alcuni concetti teorici è una cosa che ci riguarda molto da vicino. Molti dei concetti che stanno alla base della nostra idea di umanità, e che diamo per scontati, sono stati coniati o si sono evoluti nel corso della storia; per questo stesso motivo è bene ricordarsi che possono sempre essere messi in discussione. Il significato stesso dell'idea di vita e morte non è univoco e astorico (ad essi sono legate le spinose questioni di aborto, testamento biologico, eutanasia, etc.), per non parlare di termini come famiglia, genere, diritto. Un altro concetto su cui è urgente oggi interrogarsi è quello di cittadinanza, e dunque nel caso particolare del nostro paese quello di "italianità". Il dibattito sullo ius soli, ovvero sulla possibilità di concedere la cittadinanza italiana a chiunque sia nato sul suolo italiano, a prescindere dall'origine geografica dei propri genitori, è infatti da tempo uno dei temi più discussi all'interno del nostro Parlamento. Come è noto la normativa italiana prevede che possano essere considerati italiani di diritto solo coloro che sono figli di italiani. La discussione parlamentare sulla possibilità di cambiare questa norma è in realtà aperta da diversi anni e rimane un tema caldo sul quale i rappresentanti politici non riescono a trovare un accordo chiaro e definitivo 1. Questo tema ci mette però davanti ad una questione aperta, che riguarda non solo i giovani di seconda generazione, figli di immigrati nati in Italia, ma tutti gli italiani già cittadini di diritto. Il fatto che i componenti del nostro Parlamento mettano in dubbio la possibilità (o la necessità) di conferire la cittadinanza a migliaia di bambine e bambini nati in Italia ci costringe a chiederci cosa vuol dire essere cittadini di un paese. La cittadinanza è qualcosa che si ha o che si è 2 ? E in definitiva cosa significa essere italiani? Essere italiani nel 2018 non significa certamente ciò che significava essere italiani nel 1861 3. È necessario probabilmente, allora, "risignificare" questa espressione.
La fotografia offre un punto di osservazione privilegiato, in quanto il fotografo che scatta un’i... more La fotografia offre un punto di osservazione privilegiato, in quanto il fotografo che scatta un’istantanea sta immortalando un luogo e un contesto all’interno del quale egli stesso si trova. Il nostro corpo rientra nella direzionalità delle immagini, creando una triangolazione fatta di tre elementi: l’immagine, il mezzo e il corpo (cfr. Belting, 2001). Il coinvolgimento diretto dell’autore nell’immagine che sta scattando porta ancora una volta a riflettere sulla relazione dialettica che intercorre tra «mezzo, occhio e realtà» (Faeta, 2006: 63) e spinge a leggere l’immagine come un testo, ad esaminarla dal punto di vista epistemologico e a decostruirla. La ossibiltà di usare la fotografia come mezzo di domuentazione collettiva ci ricorda ancora una volta l’importanza della polifonia e della spinta dal basso in tutti i processi politici e sociali, a cui appartiene anche la ricerca scientifica, che fuori d’Accademia, può trovare nuova linfa vitale.
#MyEscape, il lungometraggio, “diretto” da ElkeSasse , ripercorre passo dopo passo il viaggio di ... more #MyEscape, il lungometraggio, “diretto” da ElkeSasse , ripercorre passo dopo passo il viaggio di alcuni rifugiati, dal proprio paese di origine fino alla Germania, ultima destinazione di tutte le estenuanti peregrinazioni dei protagonisti delle storie che si intrecciano dolorosamente nei 90 minuti di filmato. Come vuole lasciar intendere già il titolo, #MyEscape è un’opera che pone in primo piano gli oggetti dell’osservazione del documentario stesso, che da oggetti diventano appunto soggetti, da attori a registi. La mia fuga a cui si riferisce il titolo è proprio quella di 15 diverse persone che, attraversando strade simili o completamente diverse, a seconda della provenienze e dei mezzi di trasporto utilizzati, hanno però dei tratti comuni, relativi in particolare a due scelte affrontate nel corso delle rispettive vite: quella di lasciare la propria terra di origine, in molti casi di fuggire, e quella di documentare il proprio viaggio attraverso fotografie e video registrati direttamente con i propri smartphone.
Le public narratives sono definite da Baker come "storie elaborate da e che circolano all'interno... more Le public narratives sono definite da Baker come "storie elaborate da e che circolano all'interno di gruppi sociali e istituzionali più ampi dell'individuo, come famiglia, religione o istituzioni educative, i media, e la nazione" 1 (Baker, 2006, p.33).
di Cinzia Costa È passato ormai più di un anno da quando, nel febbraio 2015, concludevo la mia et... more di Cinzia Costa È passato ormai più di un anno da quando, nel febbraio 2015, concludevo la mia etnografia sui migranti stagionali a Rosarno 1 . La scelta del campo di indagine fu legata, a suo tempo, ad un interesse generico per il tema delle migrazioni e dello sfruttamento del lavoro, unito alla curiosità e alle conoscenze, altrettanto generiche ed approssimative, che avevo acquisito su Rosarno, in seguito agli scontri tra gli stagionali di origine africana e i rosarnesi avvenuti nel gennaio 2010. In quell'occasione, infatti, il paese, che mai aveva richiamato l'attenzione della stampa se non per sporadici episodi legati alla criminalità organizzata 2 , saliva agli onori della cronaca come esempio del conflitto sociale tra immigrati e autoctoni, rivelando, nella violenza degli scontri, la punta di un iceberg che poggiava le sue basi sull'impossibilità di convivenza e l'inconciliabilità tra i due gruppi, ponendo l'accento ora sull'intolleranza e sul razzismo dei rosarnesi, e ora sulla retorica dell'invasione dei clandestini.
Il contributo che propongo nasce da una necessità di analisi e di riflessione sul flusso di infor... more Il contributo che propongo nasce da una necessità di analisi e di riflessione sul flusso di informazioni cui il lettore medio è oggi sottoposto. La diffusione di internet, e dei social media in particolare, ha stravolto e rivoluzionato le modalità dei comuni utenti della stampa e dunque, per estensione, di una gran parte della cittadinanza di approcciarsi all'informazione pubblica, accorciando estremamente, almeno apparentemente, la distanza tra la notizia e il lettore e conducendo il rapporto tra questi due termini ad un punto di non ritorno decisamente inedito. Nell'epoca attuale l'avventore dell'apparato mediatico (e social-mediatico) è esposto ad una overdose di notizie ed informazioni. In particolare i social network, in virtù della loro diffusione capillare e del largo bacino di fruizione, consentono un'ampia divulgazione diatopica e diastratica, che raggiunge in brevissimo tempo regioni territoriali e fasce sociali molteplici e diversificate. Questa (in molti casi fittizia) democrazia dei nuovi mezzi mediatici conferisce al lettore l'impressione di essere a diretto contatto con la fonte di informazione e di poter essere in possesso di una verità sui fatti che spesso il servizio di informazione pubblica omette o cela. FOTO 1 A scanso di equivoci è necessario ricordare che la diffusione globale di internet è da considerarsi a tutti gli effetti una rivoluzione nell'ambito della divulgazione e condivisione di un sapere libero e senza filtri, con tutte le conseguenze, positive e negative, che tale trasformazione ha portato con sé: ne sono esempi chiari il meccanismo base di funzionamento di Wikipedia, la più grande enciclopedia aperta sul web che si fonda sul principio di libera circolazione delle informazioni e sulla partecipazione e l'apporto di contributi e revisioni da parte di tutti gli utenti, o anche il ruolo centrale dei social network durante avvenimenti storici e politici di grande rilevanza come le cosiddette Primavere arabe, quando giovani attivisti nordafricani diedero vita a delle vere e proprie rivolte, prima in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e poi anche in altri Paesi del Vicino e Medio Oriente, dando voce al proprio dissenso attraverso blog personali ed eludendo così lo stretto controllo che le dittature imponevano alle loro società. Esiste tuttavia un'altra faccia della medaglia, quella che, facendo perno sulla banale ingenuità ed in molti casi sull'imprudenza del lettore, fa sì che la rete si presti alla diffusione di notizie imprecise, erronee ed insinuanti. Tale meccanismo prende spesso le mosse da quelli che la psicologia sociale definisce come pregiudizi confermativi (o confermative bias), ossia quelle convinzioni preventive dei soggetti, che portano a valutare come vere e degne di divulgazione solo quelle informazioni che confermano ciò che già sappiamo. Questo spiegherebbe il motivo per cui le notizie di migranti che commettono crimini sono molto più diffuse delle notizie che potrebbero attribuire dei meriti positivi agli stessi, o spiega, per esempio, l'ampia circolazione di notizie che connettono (in modo spesso arbitrario) l'appartenenza religiosa dei protagonisti della cronaca ad avvenimenti relativi alla violenza sulle donne e ad atti di terrorismo, o presunto tale. Ciò avviene poiché questo tipo di informazioni confluisce perfettamente in quel flusso indifferenziato volto a divulgare una narrazione socialmente accreditata, generalmente intrisa di xenofobia e islamofobia in particolare, fortemente corroborata dall'opinione pubblica e da una certa classe politica. FOTO 2 La necessità di tentare in prima approssimazione un'analisi sull'utilizzo dei social network muove appunto dalla presa di coscienza del fatto che questi ultimi costituiscono, a tutti gli effetti, un nuovo significativo mezzo di divulgazione delle informazioni. Tuttavia, per quanto l'ingenuità della comunicazione possa essere in qualche modo giustificata dall'alibi della " amatorialità " dei propagatori di notizie (questo non giustifica tuttavia la credulità degli utenti), il giornalismo professionale non può invece sfuggire ad una critica ferma e risoluta, nei casi in cui incorra in questo tipo di trabocchetti (ove si tratti di incidenti) e scorrettezze (quando si tratta di esplicita espressione di faziosità).
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