RR
ROMA NEL RINASCIMENTO
2014
Prima di copertina
roma nel rinascimento
2014
Terza di copertina
L’associazione Roma nel Rinascimento è costituita da: Academia Belgica, Roma (direttore: Wouter Bracke), Ivana Ait (Università di Roma “Sapienza”), Rosanna Alhaique Pettinelli (Università di Roma “Sapienza”), Micaela Antonucci (Università di Bologna), Costanza Barbieri (Roma, Accademia di Belle Arti), Stefano Benedetti (East China University of Political Science and Law, Shanghai), Concetta Bianca (Università di Firenze),
Maria Grazia Blasio (Università di Roma “Sapienza”), Flavia Cantatore (Università di
Roma “Sapienza”), Paola Casciano (Università della Tuscia), Carla Casetti Brach (Roma),
Chiara Cassiani (Università della Calabria), Anna Cavallaro (Università di Roma “Sapienza”), Maria Chiabò (Università Roma Tre), Claudia Corfiati (Università di Bari),
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Gargano (Università Roma Tre), Alexis Gauvain (Archivio del Capitolo di S. Pietro),
Paola Guerrini (Centro regionale per la documentazione dei Beni culturali e ambientali
del Lazio), Julia Hairston (University of California, Rome Study Center), Daniele Lombardi (Università di Siena), Francesco Lucioli (Università di Roma “Sapienza”), Silvia
Maddalo (Università della Tuscia), Marco Mancini (Università di Roma “Sapienza”), Antonella Mazzon (Università di Roma “Sapienza”), Anna Modigliani (Università della Tuscia), Anna Morisi Guerra (Università di Roma “Sapienza”), Francesca Niutta (Biblioteca Nazionale, Roma), Anna Maria Oliva (CNR. Istituto di storia dell’Europa mediterranea), Patricia Osmond (Roma, Iowa State University), Marianne Pade (Accademia di
Danimarca, Roma/Università di Aarhus, Danimarca), Margherita Palumbo (Biblioteca
Casanatense, Roma), Susanna Passigli (Roma), Pietro Petteruti Pellegrino (Università di
Roma “Sapienza”), Paola Piacentini (Roma), Franco Piperno (Università di Roma “Sapienza”), Eleonora Plebani (Università di Roma “Sapienza”), Alessandro Pontecorvi (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo), Johann Ramminger (Thesaurus Linguae Latinae.
Bayerische Akademie der Wissenschaften), Marilena Ranieri (Università Roma Tre), Andreas Rehberg (Deutsches Historisches Institut in Rom).
Soci onorari: Arnold Esch (Roma), Christoph L. Frommel (Roma), Egmont Lee (Calgary), Massimo Miglio (Roma), Peter Partner (Winchester), Francesco Tateo (Bari).
Corrispondenti scientifici: Laura Adriani (Roma), Gianluca Battioni (Liceo scientifico statale “L. da Vinci”, Milano), Stefan Bauer (Istituto Storico Italo-Germanico, Trento), Daniel Benvenuti (Roma), Rossella Bianchi (Università di Chieti-Pescara), Florence Bistagne
(Université d’Avignon), Stefania Camilli (Manchester), Kathleen Christian (The Open
University, UK), Claudio Ciociola (Siena), Paula Clarke (McGill University, Montreal,
Canada), Paolo D’Achille (Università Roma Tre), Domenico Defilippis (Università di
Foggia), Amedeo De Vincentiis (Università della Tuscia), June Di Schino (Università Roma Tre), Lorenzo Finocchi Ghersi (Università IULM), Laura Fortini (Università Roma
Tre), Elisabeth Garms (Università di Graz), Dieter Girgensohn (Georg-August-Universität, Göttingen), Kenneth Gouwens (University of Connecticut), Lucia Gualdo Rosa
(Roma), Raimondo Guarino (Università Roma Tre), Philine Helas (Roma, Bibliotheca
Hertziana), Pamela O. Long (Washington), Isa Lori Sanfilippo (Roma), Elizabeth McCahill (University of Massachussets, Boston), Paola Maffei (Università di Siena), Angelo
Mazzocco (Mount Holyoke College), Frances Muecke (Sydney University), Isabella Nuovo (Università di Bari), Maria Alessandra Panzanelli Fratoni (Università di Perugia),
Arianna Petricone (Roma), Victoria Pineda (Universidad de Extremadura), Cynthia M.
Pyle (New York University), Angela Quattrocchi (Università degli Studi Mediterranea di
Reggio Calabria), José Manuel Ruiz Vila (Universidad CEU San Pablo), Dirk Sacré (KU
Leuven - Università Cattolica di Lovanio), Alda Spotti (Roma), Heinz- Meinolf Stamm
(Paderborn), William Stenhouse (Yeshiva University), Gennaro Tallini (Università di Verona), Paola Tomè (Oxford University - Università Ca’ Foscari), Gerhard Wiedmann
(Roma, Biblioteca Hertziana).
roma nel rinascimento
2014
bibliografia e note
3
INDICE
Recensioni:
ANNA MORISI, Egidio da Viterbo cardinale agostiniano tra Roma e l’Europa del Rinascimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
PAOLO PROCACCIOLI, Egidio cultore di letteratura e interlocutore di letterati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ANNA ESPOSITO, Egidio da Viterbo, cardinale, vescovo, agostiniano a Viterbo e dintorni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
GIANCARLO ABBAMONTE, Un altro capitolo del viaggio di Aristea nell’Umanesimo italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ROCCO RONZANI, OSA, Scrittura e riscrittura del sacro . . . . . . . . .
MARIA GRAZIA BLASIO, La controversia pubblicistica dopo la Congiura
dei Pazzi e una difficile attribuzione . . . . . . . . . . . . . . . .
LORENZO AMATO, Le arguzie dei curiali e la Roma dei papi nella prima metà del Quattrocento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
IVANA AIT, Da Campus a platea: piazza Navona una storia di lungo periodo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ANDREAS REHBERG, Come scrivere la vita di un prelato romano nel
Quattrocento? Qualche nota sulla Vita amplissimi patris Ioannis
Melini del Platina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CONCETTA BIANCA, A proposito del cardinale Giovanni Mellini . . . .
pag.
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»
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»
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Schede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Convegni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
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»
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»
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Scritture d’archivio e di biblioteche:
ANNA MODIGLIANI, Lo ogliardino de Roma: il progetto italiano di Cola di Rienzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
LUCA BOSCHETTO, Testimonianze fiorentine per Stefano Porcari . . . .
MARCELLO SIMONETTA, L’enigma Montesecco: una nuova scoperta sulla
congiura dei Pazzi, Sisto IV e i ‘novi tyranni’ . . . . . . . . . . . .
IVANA AIT, “Negotia di cardinali”. Giovanni de’ Medici e la simulata
compravendita di palazzo Madama . . . . . . . . . . . . . . . . .
FRANCES MUECKE, Verus Medicus: Pierio Valeriano’s ode on Leo X and
the Tiber Island . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ANDREA FARA, “Exequiarum appaltatores”: mercatores romanam curiam sequentes e i funerali di papa Leone X de’ Medici tra investimento e bona fama in alcune carte dell’archivio Capponi delle
Rovinate di Firenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
GENNARO CASSIANI, Patrigno Tevere. Le obiezioni sperimentali di Giovanni Battista Modio al ‘dogma’ della potabilità dell’acqua del Tevere a metà Cinquecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
AVVERTENZA
La Bibliografia ha periodicità annuale. La pubblicazione degli Indici
è prevista con cadenza quinquennale.
All’interno di ciascun fascicolo le singole schede sono registrate in
numerazione successiva secondo l’ordine alfabetico degli autori recensiti,
indipendentemente dal tipo di contributo (libri, saggi, articoli, etc.); le miscellanee trovano la loro collocazione in riferimento al primo sostantivo
del titolo.
In questo numero una sezione di Recensioni precede le Schede; seguono segnalazioni di Convegni e la sezione dedicata all’illustrazione di
Scritture d’archivio e di biblioteche inedite o poco note.
I volumi pervenuti per recensione andranno a far parte della biblioteca dell’Associazione e saranno a disposizione degli studiosi.
Il materiale inviato all’Associazione sarà recensito a discrezione della redazione e non sarà in ogni caso restituito.
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recensioni
SCRITTURA E RISCRITTURA DEL SACRO*
I sette contributi che l’autore ha voluto raccogliere in Scrittura del sacro.
Roma medievale, apparsi già in varie sedi in un arco di tempo abbastanza
ristretto tra il 1995 e il 2000, sono il frutto di una serie di indagini sull’idea
di Roma, sui giubilei, sulla cultura e sul cerimoniale della corte papale tra
Medioevo e Rinascimento. L’autore, in una nota iniziale introduttiva ai testi,
ci avverte che questi sette scritti non intendono offrire un quadro completo
e organico dei temi trattati, ma vogliono soltanto indicare alcuni spunti di
riflessione «disposti su una prospettiva più ampia in virtù della connessione
fra più soggetti di studio» sui quali egli ha scelto di soffermarsi (Nota ai testi,
p. VII).
In effetti la panoramica aperta dallo studioso è delle più ampie,
dall’Alto Medioevo fino al XV secolo e oltre, come ampia è la messe di informazioni e la ricchezza di spunti per ulteriori indagini sul tema della “scrittura del sacro”, spunti che cercheremo di rilevare, cogliendo insieme linee
tradizionali e discontinuità dello scrivere il sacro romano. Esso senza soluzione di continuità è stato e continua a essere centrale nella vita della città,
arrivando a lambire anche la nostra postmodernità, come recentemente ha
manifestato la pellicola La grande bellezza che, con motivazioni plurali, non
ha potuto fare a meno di confrontarsi con la sacralità dell’Urbe nelle sue
molteplici, complesse declinazioni. Per Miglio, infatti, la scrittura del sacro
è il compendio dello «sviluppo dell’intera città, fino al Rinascimento e oltre,
accanto a epigrafi, cronache, versi e altro», molto altro, cinema compreso
(ibid., p. VII).
I due primi articoli di Miglio si muovono tra i temi della memoria e
della costruzione del sacro; il terzo è una sorta di interludio, tutt’altro che
limitaneo o slegato dal resto della raccolta, incentrato sul tema della cultura
della corte papale tra il tardo Medioevo e il Rinascimento; i successivi articoli calcano i passi dei romei tra il primo giubileo bonifaciano (1300) e quello di Nicolò V (1447-1455); l’ultimo è consacrato tutto alla liturgia e al cerimoniale della corte romana, luogo privilegiato della manifestazione della
sacralità e della sua scrittura. Questi temi e altri ancora collegano l’uno all’altro, come tanti fili rossi, e saldano tra loro ognuno dei sette contributi l’elenco dei quali, con i riferimenti bibliografici alle rispettive prime edizioni,
si trova dopo la nota ai testi dell’autore (p. VIII).
* A proposito di: MASSIMO MIGLIO, Scrittura del sacro. Roma medievale. Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 2013 (Storia e Letteratura. Raccolta di studi e testi,
280), pp. VIII, 96.
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ROCCO RONZANI, OSA
1. Il primo saggio (La scrittura della sacralità) funge da introduzione
all’intera raccolta e, privo di note qual è – pur se corredato in chiusura da
un’esaustiva bibliografia – si presenta come un contributo molto personale
dell’autore, soprattutto per il tono generale e per i due testi narrativi che,
all’inizio e alla fine dell’articolo, fungono da cornice. Il saggio ripercorre le
tappe di un ideale pellegrinaggio, dell’arrivo e del soggiorno nell’Urbe e,
infine, del ritorno in patria dei romei, mettendo in dialogo tra loro una serie
di fonti dei secoli X-XII: l’inglese Sigeric con il suo anonimo scriba segretario, autore dell’itinerario; Guglielmo di Malmesbury che visse idealmente il
pellegrinaggio a Roma attraverso racconti più antichi; un anonimo monaco
svizzero collettore di itineraria per pellegrini e visitatori dell’Urbe; il canonico Benedetto con i suoi Mirabilia urbis Romae e le altre “meraviglie” di maestro Gregorio.
Nella prospettiva dell’autore più antico, un ecclesiastico nutrito alle
fonti dell’Alto Medioevo romanobarbarico, il pellegrinaggio a Roma significa anzitutto l’incontro con il “beato apostolo Pietro”: «Il primato di Pietro
è su ogni altro santo; Pietro si identifica quasi con Cristo, e Roma si identifica nella basilica di San Pietro» (p. 2). Roma per Sigeric di Wiltshire –
neoarcivescovo di Canterbury (990), ad limina Petri per ricevere il suo pallio – e per i suoi compagni non è più la città fondata sullo spargimento del
sangue fraterno dei gemelli allattati dalla lupa, ma sul sangue della più celebre coppia apostolica e dei martiri romani. È la Roma di Pietro e dei suoi
successori, di quel Gregorio Magno (590-604), Dei consul e pater Europae al
quale l’Inghilterra, per il vescovo di Wiltshire, doveva la sua nascita alla fede.
Nel diario il confronto con l’“antico”, con la gloria della prima Roma, si
svolge sulla medesima linea del più volte citato Ildeberto di Lavardin (ca.
1056-1134), un colto ecclesiastico, poeta e poi vescovo di Tours – anche lui
residente per lungo tempo al di là della Manica, ma in esilio per dissidi con
i sovrani normanni e dove trovò infine la morte. Per Ildeberto le rovine della
città parlano soprattutto e in modo eloquente di come «i vessilli della croce
hanno concesso più dell’aquila, più Pietro di Cesare, più un popolo inerme
che i condottieri armati» (pp. 3-4).
Molto diverso è invece il contesto nel quale scrive Guglielmo di
Malmesbury: egli condanna l’antipapa Guiberto († 1100), ricorda la dignitas
degli antichi romani, sferza la malvagità di quelli contemporanei, descrive il
sangue dei fratelli che scorre sugli stessi corpi dei santi, riecheggiando più
quello dei fondatori della Roma pagana che l’eredità petrinopaolina.
Gugliemo riproduce dalle sue fonti e mette in evidenza, forse involontariamente, un dettaglio importante che offre più di uno spunto di riflessione
sulla città tardoantica e altomedievale. Nella sua periegesi di Roma, l’incontro con uno stuolo di martiri e di santi, con le catacombe e i santuari urbani
ed extraurbani, è sempre messo in relazione alle quattordici porte della città.
Le porte sono state, soprattutto dopo il superamento della divisione amministrativa classica, gli unici punti fermi di orientamento urbano e allo stesso
tempo le cerniere tra città e suburbio e, recentemente, in un proficuo dialogo con una maestra dell’archeologia cristiana romana, Margherita Cecchelli,
SCRITTURA E RISCRITTURA DEL SACRO
41
notavamo proprio come il ruolo delle porte, tutt’altro che secondario, non
sia stato mai sufficientemente valorizzato in rapporto alla divisione amministrativa ecclesiastica e ai rapporti tra titoli parrocchiali intramurarî e santuari extraurbani1. Eppure si tratta, come scrive Miglio, della «più semplice ed
evidente emergenza cittadina» (p. 5).
Miglio si sofferma quindi sugli itinerari di età carolingia, copiati dall’anonimo monaco svizzero insieme a sillogi epigrafiche, descrizioni della città
con torri, latrine, merli e feritoie, ma anche le immancabili porte e posterule, le ricorrenze liturgiche e i riti romani della Settimana santa. Si tratta di
preziose testimonianze sulle forme delle antiche guide fornite ai visitatori
dell’Urbe, con i luoghi da vedere e venerare, disposti a destra e sinistra di
una linea tracciata nel mezzo di un pezzo di pergamena, talvolta arricchita
da piccoli disegni delle emergenze architettoniche più importanti per facilitare l’orientamento del pellegrino. Unica perplessità per chi, conoscendo
la città, voglia cimentarsi a ripercorrere idealmente il tragitto attraverso i
nomi delle chiese e dei monumenti: si tratta del riferimento un po’ confuso
a S. Adriano e S. Martina. S. Martina, collocata presso il luogo «dove si riuniva il Senato» (p. 8), è quella che oggi, “in compagnia” di san Luca, si erge
maestosa e in veste cortonesca sui resti dei Fori; mentre S. Adriano era lì da
presso, in quello che oggi è lo scheletro dell’antica Curia Senatus, “riportata” alla sua “romanità” in tempi più vicini a noi da un’archeologia poco sensibile alla logica della lunga durata. Negli itinera il confronto con l’antico fa
timidamente capolino: sui Dioscuri ci si lascia persino sfuggire un commento – come rileva attentamente Miglio – ottimi (p. 9).
La tappa successiva è dedicata ai Mirabilia del canonico Benedetto,
compilati negli anni quaranta del XII secolo, opera fortunata, soggetta a
continue riscritture e aggiornamenti. Essa testimonia, in una prospettiva
ormai mutata, l’appropriazione del passato imperiale da parte del papato
gregoriano (quello dell’XI sec.) e procede a un censimento dell’antichità
classica quasi fosse patrimonio ideale, e allo stesso tempo molto reale, della
Chiesa romana. Non è un caso che i Mirabilia – ci ricorda Miglio – si trovino trascritti anche nei libri contabili della Camera apostolica (cfr. p. 9). Tra
tutte le antichità e tra tutte le storie che i romani su di esse tramandavano, è
particolarmente significativa quella della cosiddetta statua equestre di
Costantino (il nostro Marco Aurelio della piazza del Campidoglio, o meglio,
dei Musei). Nel racconto l’antico cavaliere non è identificato con l’imperatore, ma con un valoroso soldato che avrebbe liberato Roma da un fantomatico re orientale. Nel bel mezzo delle lotte tra papato e impero e in tempi
in cui, anche a Roma, il Comune rivendicava più libertà dall’autorità del
vescovo locale, non sarebbe stato molto opportuno celebrare con enfasi il
grande imperatore, benché tradizionale modello e primo tra gli imperatori
Cfr. M. CECCHELLI, Nota sui titoli romani e le regioni ecclesiastiche in corso di
stampa in Augustinianum. Periodicum semestre Instituti Patristici ‘Augustinianum’.
1
42
ROCCO RONZANI, OSA
cristiani. È facile capire come l’interpretazione della statua fosse questione
della massima importanza (cfr. p. 13).
Alla fine del XII secolo il maestro (forse secolare) Gregorio è in viaggio
verso Roma. Della città ci lascia un’immagine moderna, per i suoi tempi: una
selva di torri medievali che avranno colpito il suo sguardo curioso e affascinato dal luogo elevato da dove le contemplò: forse proprio da una di esse o
da una delle alture urbane. Ma Gregorio – rispetto agli autori già considerati – è incantato soprattutto dall’antichità, anzi è stregato dall’antico alla visione della Venere capitolina. Nelle sue pagine predominano statue, palazzi,
templi, archi e tutte le altre rovine classiche. Tutto però è in rovina, una rovina di struggente bellezza che spinge a ringraziare sì Dio, fonte d’ogni bellezza, ma per l’infinita e ineguagliabile capacità delle mani dell’uomo! Tempi
nuovi, dunque. Rinnovato antropocentrismo. Ma le rovine di Roma ricordano anche che tutto, nell’orizzonte umano, è destinato a passare e così “le
miracole de Roma” – come saranno sovente tradotte in volgare nei secoli
successivi – conducono a meditare sulla fugacità del tempo e sul senso ultimo del destino dell’uomo.
Quando Gregorio sarebbe tornato a casa lo avrebbe atteso un paziente
lavoro di ricerca e di studio, di erudizione e di confronto tra quello che a
Roma aveva veduto e le fonti a sua disposizione. A casa l’avrebbe atteso
anche la benedizione che veniva impartita ai pellegrini al loro ritorno, analoga a quella data loro all’inizio del pellegrinaggio. Il sacerdote – ci ricorda
Miglio, tornato narratore – avrebbe pregato ancora una volta per ringraziare il Signore che aveva condotto sani e salvi alle loro case i pellegrini e avrebbe invocato il perdono su quanti per via avevano commesso ingiustizie a
causa della loro fragilità umana “con orecchie svergognate, con colloqui
oziosi ovvero con lo sguardo”. Su quest’ultima tentazione, quella visiva,
maestro Gregorio forse avrà sentito la necessità di farsi perdonare qualche
cosa, ma non certo lo sguardo alla Venere capitolina, ammirata – ci assicura
Miglio – con le guance soffuse di pudico rossore (cfr. p. 15).
Su tutta la letteratura dei Mirabilia, per ulteriori orientamenti, resta preziosa la voce dell’Enciclopedia Italiana di un altro Cecchelli, Carlo padre di
Margherita, e su maestro Gregorio in particolare il più recente Il fascino di
Roma nel Medioevo. Le “Meraviglie di Roma” di maestro Gregorio di Cristina
Nardella (per i tipi di Viella, Roma 1997 [La corte dei papi, 1]; una nuova
edizione riveduta e ampliata è apparsa nel 2007).
2. Mettendo a profitto la lettura di molte delle fonti citate nel primo
articolo, il secondo contributo (Eclissi di una memoria e costruzione del
sacro) si sofferma sull’idea di Roma nella scrittura che, ora eclissando ora
reinterpretando l’antico, tesse progressivamente la trama di una nuova
sacralità dell’Urbe.
Il primo momento è rivolto ancora all’età paleocristiana, quella dei martiri, dei Padri della Chiesa. L’autore rileva i molti indizi della cristianizzazione della città che progressivamente ed inesorabilmente si materializzano.
Già Prudenzio – scrive Miglio – cantando il Tevere che divide le due spon-
SCRITTURA E RISCRITTURA DEL SACRO
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de della città, sulle quali giacciono i corpi di Pietro e di Paolo, ne fa un fiume
sacro, il Tybris sacer (cfr. Peristefanon 12, CCL 126, p. 380, ll. 29-30: «Diuidit
ossa duum Tybris sacer ex utraque ripa, / inter sacrata dum fluit sepulcra»).
Tutto diviene sacro e si auspica l’avvento di una città, non direi capitale dell’impero cristiano – che ormai è sempre più lontano sul Bosforo – ma di
certo una città compiutamente cristiana. Mi limito a rilevare che, pur nella
sostanziale congruità dei riferimenti offerti dal saggio, la sacralità del fiume
sul quale si sono riflessi nel tempo i “destini di Roma” era già avvertita pienamente in età arcaica e durante tutta l’era pagana: era oggetto di culto; gli
venivano affidati doni votivi; Virgilio nel suo grande poema ci presenta
Enea, da poco sbarcato alle foci del fiume, che rende omaggio al Tevere
dopo che il genio del fiume gli era apparso in sogno (cfr. Eneide 8,71-73:
«Nymphae, Laurentes Nymphae, genus amnibus undest / tuque, o Thybri
tuo genitor cum flumine sancto, / accipite Aeneam et tandem arcete periclis»). Non è improbabile che Prudenzio guardi proprio a tali tradizioni e
scritture e ne dia il suo aggiornamento: una riscrittura del sacro.
Non è questo il luogo per ripercorrere gli sviluppi dell’archeologia cristiana romana degli ultimi decenni: gli studi sulle catacombe, corona e quasi
seconda cinta muraria, cinta spirituale, dell’Urbe, con i numerosi monasteri,
xenodochia e altri edifici di servizio e di culto. Ma tale corona non è l’unica
presenza cristiana, né le grandi basiliche “periferiche” di età costantiniana
(non potevano essere che periferiche perché ad corpora e i corpora dei morti
per la legge romana avevano le loro separate città). Non ci si può attardare
in dettaglio sulla presenza in città dei luoghi di culto cristiani, presenza che
con il passare del tempo senz’altro avanza, ma di certo essa era già apprezzabile nel IV secolo. Tale cristianizzazione della città – come ha recentemente messo in rilievo il convegno sul sacco alariciano del 4102 – non obliterava, tuttavia, né era necessariamente in contrasto sic et simpliciter con le
tradizioni più venerande dell’Urbe pagana. Le statue e i pubblici edifici,
anche sotto gli imperatori cristiani, continuarono a essere, per quanto possibile, curati e restaurati: essi erano infatti la memoria storica, identitaria, della
capitale ideale della Romanitas, sia di quella pagana che di quella cristiana.
Quanto poi alla presenza specifica di chiese, tra IV e V secolo le chiese,
quelle parrocchiali, i tituli, erano almeno 29 (prima delle liste delle chiese
altomedievali, si possono consultare con profitto le sinodi romane e altre
fonti che raccolgono i nomi dei presbiteri sottoscrittori: si pensi alla sinodo
del 499 e alle testimonianze epigrafiche), e c’erano anche chiese di altra
natura funzionale come la basilica eleniana della sancta Ierusalem (S. Croce
in Gerusalemme: che non era una basilica ad corpus né una parrocchia), nel
cuore dei possedimenti imperiali lateranensi. Più tardi fanno la loro comparsa le numerose diaconie, con edifici di servizio e di culto. La prima
2
Cfr. Roma e il sacco del 410: realtà, interpretazione, mito. Atti della giornata di
studio, Roma, 6 dicembre 2010, a cura di A. DI BERARDINO, G. PILARA, L. SPERA, Roma
2012 (Studia Ephemeridis ‘Augustinianum’, 131).
44
ROCCO RONZANI, OSA
dovrebbe essere stata S. Martino ai Monti di epoca simmachiana (498-514),
i cui resti archeologici sono stati riconosciuti presso la basilica di Sergio II
(844-847). Le diaconie erano i luoghi della carità cristiana – un servizio radicato per tempo al cuore della città e attestato già in epoca antenicena – esse
erano situate sovente in aree limitrofe alle sponde del Tevere sacer che, anche
in tempi cristiani, in cui la Chiesa amministrava l’annona e le distribuzioni ai
poveri, restava la principale via di comunicazione per l’afflusso di grano e
altre merci da conservare negli stores della carità diaconale. A proposito di
chiese, in questo secondo contributo, a sant’Adriano è giustamente restituita la Curia Senatus; a san Marcello invece dovrebbe restituirsi la chiesa sulla
via Lata.
Cresce il numero delle chiese e cresce il dominio della Chiesa. Se
Gregorio Magno era ancora un fedele suddito dell’impero, con sede al
Corno d’Oro, dopo la metà dell’VIII secolo si delineano sempre meglio le
aspirazioni del papato romano (vedi la Donazione di Costantino) e si può iniziare ad apprezzare un effettivo esercizio papale dei regalia su Roma e il suo
ducato. Ma l’effettiva sovranità sulla città resterà contesa per lunghi secoli:
Roma sarà di volta in volta una sorta di “condominio” di più potestates, quella pontificia, l’imperiale e quella cittadina che, nella Renovatio Senatus del
1143, come ci ricorda l’autore, torna a reintegrare l’immagine del Campidoglio, in «una risignificazione laica», o forse meglio secolare (p. 25). La
cavalcata di possesso è invece segno inequivocabile della volontà dei vescovi
romani di ribadire non solo la sollicitudo pastorale, ma anche e soprattutto
la loro pretesa temporale sull’Urbe.
3. A questo punto della raccolta segue un articolo sulla cultura nella
corte dei papi. Tuttavia, alla costruzione della cristiana sacralità dell’Urbe
hanno contribuito in modo determinante i giubilei che, pertanto, preferisco
trattare subito, presentando in sintesi i tre articoli ad essi dedicati (Bonifacio
VIII e il primo giubileo; Cronache di giubilei; Il giubileo di Niccolò V).
Nella puntuale ricostruzione di Miglio colpisce la genesi un po’ occasionale, ben documentata dalle fonti, dell’evento giubilare. Un fatto di pietà
popolare che, in un breve lasso di tempo, caricato di interessi ecclesiastici,
politici, economici, si muterà in una delle maggiori manifestazioni di esercizio della plenitudo potestatis pontificia: «chi è papa è signore dello spirituale e del temporale, è signore del mondo» (cfr. Bonifacio VIII e il primo giubileo, p. 50).
Il giubileo rende Roma noviter atque magis et magis meta di pellegrinaggio dei popoli della Christianitas medievale declinante e dell’Europa
moderna nascente, dirottandoli per sempre dalle peregrinationes armatae e
dai passaggi in Terra Santa verso Roma, verso Pietro, verso le reliquie, verso
il papa.
Il flusso crescente di pellegrini comportò anche un notevole impegno
per adeguare la città all’accoglienza, ma con esiti di volta in volta tanto diversi, con sicuro arricchimento delle autorità ecclesiastiche, ma anche dei più
intraprendenti tra i romani: di osti e mercanti, di venditori di corone, di spe-
SCRITTURA E RISCRITTURA DEL SACRO
45
zie e dei pittori del Volto santo (la Veronica che veniva esposta a S. Pietro e
che i romei portavano spesso cucita sul cappello o sui loro sanrocchini). Su
questi e molti altri aspetti le cronache dei pellegrini del giubileo offrono
ampi spaccati di vita, di avventure e disavventure, ma anche di sincera pietà,
di fede nella misericordia divina che a costo di sacrifici enormi essi intendevano assicurarsi in vista della vita vera e, pertanto, pronti anche a sacrificare
quella presente.
Ma veniamo al giubileo nicolino: uno dei fili rossi della raccolta di
Miglio. Anche per il papa umanista e protettore delle lettere e degli artisti il
giubileo fu occasione ghiotta per manifestare la plenitudo potestatis che lo
scisma prima e in seguito i conciliarismi degli inizi del secolo XV avevano
sovente messo a dura prova. È in questo quadro che Miglio legge la canonizzazione di Bernardino da Siena, alla presenza di tanti prelati «come fosse
un Concilio», ma di ben altro segno rispetto ai più recenti concili: questa fu
un’assise tutta papale, di iniziativa papale, tesa a glorificare Dio, la Chiesa e
ovviamente anche il culmen apostolicum (p. 74). Non sfugga il nesso profondo, ancorché oggetto di ampie discussioni teologiche, tra autorità di definire in fatto di dottrina e di morale e il cosiddetto fatto dogmatico costituito
dalla prassi della canonizzazione (anche questo un fenomeno comprensibile
solo nella lunga durata).
Quello di Nicolò non è più un giubileo medievale, non fosse altro perché le fonti ufficiali, come la vita del pontefice, sono testi che escono dalla
penna dell’umanista Giannozzo Manetti. Testi, ci dice Miglio, che tendono
a idealizzare l’evento e ai quali fanno da contrappunto le cronache coeve,
come quella romana di Paolo dello Mastro e quella del fiorentino Giovanni
Rucellai, mercanti, gente attenta ai fatti, ai riflessi economici dell’evento giubilare e anche testimoni di sincera pietà personale (cfr. lo Zibaldone quaresimale del Rucellai). Non ultima, riemerge l’attenzione all’antico. Giovanni,
durante le sue giornate romane, è pellegrino al mattino, ma al pomeriggio
gira la città in veste da turista.
Tempi nuovi rispetto a quelli dei pellegrini della Roma bonifaciana. Ora
la città, dopo lo scisma, dopo il ritorno di Martino V (1417-1431), dopo
mille tribolazioni, punta decisamente a cambiare pagina: Nicolò V destinerà
gli straordinari introiti giubilari per ricostruire Roma, per compiere ancora
una volta la prodigiosa trasformazione «della città di mattoni in una città di
marmi» (niente di più tradizionale e imperiale), ma anche per rifondare la
cultura.
La basilica di Pietro e la città vaticana di Nicolò – inizialmente fortificata per paura dell’altra Roma, quella sull’altro lato del fiume che spesso
aveva costretto il suo vescovo a fuggire lontano – diviene la Roma per eccellenza, il vero cuore e centro ideale della città e del mondo cristiano. L’idea
della Roma, sacrosanta e cristiana, è fissata indelebilmente, nella continuità,
ma anche nella novità del tempo che sta nascendo. Mi piace però rilevare
come, se è vero che S. Pietro è ormai il cardine della nuova Roma, senza turbare l’idealità nicolina della città petriana, cuore dell’Urbe, centro del
mondo cristiano, un fattore molto concreto – come spesso accade nella sto-
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ROCCO RONZANI, OSA
ria – metterà in crisi i rapporti tra le due sponde del Tevere e a sfavore della
sponda petriana. Il fattore concreto è costituito dagli antichi esili legami tra
la città di Pietro e l’altra città, cioè i ponti. I ponti collegano e dividono (perché pochi, stretti, difficilmente praticabili) la Roma sacra ideale e la Roma
vissuta dal papa, dalla sua corte, la Roma degli uffici curiali: Martino V abita
spesso ai Santi Apostoli; Paolo II a piazza Venezia; la Cancelleria è al di qua
del Tevere come tanti e tanti palazzi cardinalizi ricordati nei saggi di Miglio.
In breve, basti ricordare che il papa, non appena potrà, si trasferirà in quest’altra Roma, meno centrale idealmente, ma più pratica, soprattutto dopo la
costruzione della moderna e severa corte del Quirinale e questo finché non
dovrà riattraversare quei ponti secoli dopo, ma non volontariamente.
4. Nicolò V intraprese quindi la ricostruzione di Roma, senza portarla a
compimento: ci vorranno ancora secoli e tanti altri giubilei. Il suo contributo fu invece tutt’altro che irrilevante per la rifondazione della cultura romana, un tema che ci permette ora di arrivare all’articolo su La cultura alla corte
dei papi che è rimasto in sospeso.
Miglio, da medievista e da studioso della cultura umanistica, nei primi
tre paragrafi compendia in estrema sintesi più di mille anni di cultura cristiana che precedono quelli di suo precipuo interesse, cioè il millennio di cui
invece si occupa principalmente chi scrive.
Alla centralità della scrittura, ben rilevata dall’autore – strumento fondamentale della vita e della diffusione delle comunità cristiane fin dai primordi, basti pensare all’attività epistolare di Paolo – mi sia permesso affiancare il ricordo del ruolo non meno prioritario avuto dalla parola, dalla predicazione del Verbo, anch’essa ricordata da Miglio ma sulla quale si potrebbe dire di più. La parola tiene insieme la comunità; la parola opera i sacramenti (metti la parola e c’è il sacramento, la togli e non c’è, dice Agostino);
la parola illumina gli indotti sui messaggi espressi dalle vaste pareti affrescate di basiliche, chiese, oratori. La predicazione del Verbo e la predicazione a
sempre più vasti uditori, raggiungendo confini che raramente la cultura antica aveva toccato, è una caratteristica fondamentale del cristianesimo dei
primi secoli, ancor più importante di quella della scrittura, riservata a pochi,
sempre più pochi con il passare del tempo. Tale predicazione ha impresso
alla cultura cristiana quel carattere distintivo dell’oralità e della popolarità
che è un dato ormai acquisito negli studi sull’antico cristianesimo, oltre ad
essere uno dei motivi della perdita della maggior parte del pensiero cristiano più antico, espresso nell’insegnamento orale, nelle altercationes e disputationes pubbliche. Sono rari i casi di un Origene e di un Agostino, autori di
primissimo ordine che ebbero disponibilità economiche e congiunture storiche tali da poterci lasciare i loro opera tanto vasti.
Circa l’acquisizione della cultura greca e latina da parte del mondo cristiano, come strumento di comprensione e diffusione del Verbo – da Origene
a Basilio, da Ambrogio ad Agostino – penso che tale acquisizione si possa
certamente anticipare a prima del «momento in cui il cristianesimo si identifichi con l’Occidente e con Roma» (p. 29). Anzi, nel panorama anticocri-
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stiano, dovremmo riconoscere che, almeno sul versante culturale, il ruolo
giocato dalla Roma ecclesiastica fu spesso inferiore a quello di altri centri
culturali, come Alessandria in primo luogo e l’Oriente in generale, con rari
casi di vescovi particolarmente impegnati come Leone I (440-461), nell’ambito della controversia cristologica, e Gregorio I (590-604), nel momento in
cui l’Occidente cristiano inizia a guardare davvero a Roma come perno della
cultura e della civiltà europee, ma con tante e tante sfumature quante erano
le cristianità romanobarbariche.
Veniamo quindi ai secoli XI e XII, secoli dai quali Miglio inizia il suo
dettagliatissimo excursus sulla cultura della Curia romana, un’istituzione –
rileva l’autore – di carattere universale e spesso non residente nell’Urbe,
peregrinante in Italia e in Europa al seguito dei pontefici. Una cultura quindi non sempre coincidente con quella cittadina, anzi talvolta in contrasto
con la realtà romana.
Della Curia medievale Miglio ricorda gli organizzatori, come Bosone e
Rolando di Ranuccio Bandinelli, poi Alessandro III (1159-1181), ma soprattutto rileva il ruolo dello stilus curiae, di quell’insieme di regole formali e stilistiche della cancelleria papale medievale che, insieme agli inconfondibili
aspetti esterni dei documenti romani (prima in curiale poi in carolina),
hanno segnato la cultura europea e allo stesso tempo hanno espresso e diffuso «un sistema di valori dei quali la curia era depositaria», si sentiva
profondamente tale (p. 30). L’autore cita un testo del dictator Tommaso di
Capua che rappresenta al meglio la consapevolezza di tale superiorità. La
fonte è citata da uno dei numerosissimi studi sullo stilus curiae di Francesco
Di Capua, che è stato uno dei più importanti esperti della materia per l’attività dello scrinium tardoantico e poi della cancelleria medievale.
In tale contesto ci viene ricordato che i maestri dell’ars dictandi della
Curia furono coinvolti a pieno titolo nelle fasi più virulente del confronto tra
papato e impero, tanto che per secoli l’immagine di alcuni sovrani è stata
mediata soprattutto dall’attività di propaganda dei curiali. Nell’attività cancelleresca, inoltre, rientra la costruzione della memoria dei singoli pontificati, attraverso la realizzazione di biografie dei papi che da una parte si distaccano dalla tradizione del Liber pontificalis, dall’altra sono accomunate dalla
diffusa consapevolezza della «superiorità e dell’universalità del papato e
della sua continuità» (p. 31).
Un altro tema è quello del rapporto tra papato e università. I papi fondano direttamente, danno il proprio benestare, arricchiscono di privilegi
varie istituzioni universitarie. Molti pontefici e uomini di curia provengono
dal mondo delle università, sono stati maestri di diritto e di teologia. Nel
1245 a Lione, sede di concilio generale o ecumenico che dir si voglia – poco
cambia circa la concezione (che era molto alta) di chi lo indisse, presiedette
e vi partecipò – per volontà di Innocenzo IV (1243-1254) nasce lo Studium
curiae «destinato a proporre l’opinione curiale in materia di legislazione
canonica e che con il tempo avrebbe acquisito funzioni di controllo dell’ortodossia cattolica» (p. 32). Lo studio generale della curia romana fu anche
un importante centro di diffusione della cultura scientifica e particolarmen-
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ROCCO RONZANI, OSA
te degli studi sull’ottica, con il coinvolgimento di personalità di prim’ordine
come Pietro Ispano (il futuro Giovanni XXI, 1276-1277), Arnaldo da
Villanova, Peckam, Witelo, Guglielmo di Moerbeche e anche di Ruggero
Bacone che a Clemente VI (1342-1352) inviò i suoi trattati (cfr. pp. 32-33).
Un posto privilegiato occupa in queste pagine del saggio la figura di
Egidio Romano (ca. 1243-1316), agostiniano eremitano, maestro parigino,
allievo di Tommaso d’Aquino – dal quale si allontana in non pochi aspetti
teologici e anche di metafisica – uno degli uomini di cultura di maggior rilievo e influenza del pontificato di Bonifacio VIII, rappresentante dell’ultima
forte riaffermazione medievale della plenitudo potestatis pontificia. Di lì a
poco, infatti, ci sarebbe stato Avignone, poi lo scisma, poi molto sarebbe
cambiato e l’Europa non sarebbe stata più quella di prima. Di Egidio è il ben
noto trattato De ecclesiastica potestate che offrì all’Unam sanctam di
Bonifacio i sui addentellati teorici, proprio negli anni in cui il papa fondava
lo Studium Urbis (1303), certo anche in contrapposizione alla più celebre
università parigina troppo legata ai sovrani francesi. Forse anche Egidio fu
promosso arcivescovo Bituricense e primate d’Aquitania per poter stare ben
attestato sul fronte francese delle battaglie di Bonifacio.
Egidio è stato anche il maestro di Jacopo Stefaneschi, cardinale e storico del primo giubileo (uno dei fili rossi della raccolta), figura che spesso
ritorna nelle pagine di Miglio.
Se il trasferimento della sede papale ad Avignone mise a rischio la
sopravvivenza stessa della prima istituzione universitaria romana, l’autore
rileva che esso coincise anche con una fase di incubazione di grandi innovazioni culturali, riguardanti soprattutto la lingua: alla metà del secolo (XIV)
viene scritta la Cronica in volgare attribuita al curiale Jacopo di Bartolomeo
di Valmontone.
In questo contesto l’autore introduce l’importante riflessione sul rapporto tra cultura antica, quella espressa dai secoli passati, e moderna, cioè la
cultura scolastica, universitaria, la cultura delle summae summulae breviaria
ben rappresentata proprio dal Breviarium historiarum di Landolfo Colonna,
destinato alla «deliziosa modernità» che «accoglie con piacere quanto è presentato in compendio e viene meglio ricordato» (p. 35). È in questo contesto che si assiste anche a un nuovo cambio di scrittura (dalla carolina alla littera textualis); cambia il libro che da codice di lettura si trasforma in manuale scolastico e testo di consultazione.
L’autore prosegue il suo excursus descrivendo la rinascita della biblioteca papale, erede dell’antica biblioteca del Laterano, dispersa nel corso dei
secoli. La nuova raccolta libraria si deve agli interventi di Bonifacio VIII, dei
pontefici di Avignone e poi di quelli dello scisma. Nel corso del Trecento ai
tradizionali interessi curiali si affianca l’attenzione per l’antico, testimoniata
dalla trascrizione e dalla raccolta di codici classici, ma anche per gli autori
moderni: Dante, Petrarca, Boccaccio, Coluccio Salutati. La curia diventa
luogo di incontro degli umanisti e di diffusione della nuova cultura: vi
approda Leonardo Bruni e poi Loschi, Pier Paolo Vergerio, Bartolomeo da
Montepulciano e molti altri. Ormai la curia romana, nel De curiae commodis
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del 1438, un’opera di Lapo da Castiglionchio il giovane, viene paragonata a
una nuova accademia, superiore ad Atene, che illumina il mondo con la sua
cultura.
Gli umanisti ingrossano le file dei segretari dei pontefici, fanno scuola
con il loro stile e la loro scrittura e ancora una volta c’è un cambio di scrittura: dalla textualis alla littera antiqua, la littera quasi legitera (cioè leggibile)
secondo la ben nota etimologia di Prisciano e consacrata agli albori dell’età
umanistica in una lettera di Petrarca a Boccaccio. Quando nel 1366
Giovanni Malpaghini terminò di copiare le Familiares del poeta questi scrisse a Boccaccio lodando la scrittura del suo amanuense:
non vaga quidem ac luxurianti litera (qualis est scriptorum seu verius
pictorum nostri temporis, longe oculos mulcens, prope autem afficiens
ac fatigans, quasi aliud quam ad legendum sit inventa, et non, ut grammaticorum princeps Priscianus ait, litera quasi legitera dicta est), sed alia
quadam castigata et clara seque ultro oculos ingerente, in qua nichil
ortographicum, nichil omnino grammatice artis omissum dicas (Fam.
22,9,8).
In queste parole si può riconoscere l’esaltazione di una scrittura, in questo caso la scrittura materiale sul supporto scrittorio, che ha in nuce i valori
dell’Umanesimo. Sarà la scrittura delle biblioteche delle corti e degli umanisti, mentre nella curia romana, più conservativa, essa si fece strada poco a
poco e non per influsso di Poggio Bracciolini, uno dei grandi promotori dell’antiqua, ma più tardi a partire dai tempi di Biondo Flavio, durante il pontificato di Eugenio IV (1431-1447), per la scrittura dei brevi papali3.
Nel Quattrocento operano in curia umanisti come i ricordati
Bracciolini e Biondo Flavio, ma anche Aurispa, Alberti, Vegio, Perotti, Giorgio da Trebisonda, Decembrio, Tortelli e Valla, umanisti che a corte – ormai
potremmo parlare senz’altro di corte pontificia – erano i terminali di un fitto
intreccio di corrispondenze colte non solo italiane, ma anche francesi spagnole tedesche. Alcuni segretari pontifici giungono a ruoli di grande rilievo,
tra loro in particolare Tommaso Parentucelli poi Nicolò V ed Enea Silvio
Piccolomini, poi Pio II (1458-1464). A Nicolò – grazie ai proventi giubilari
– si deve l’impresa che porterà sotto il successore Sisto IV (1484-1471) alla
fondazione della Biblioteca Vaticana. Dell’impresa, com’è noto, fu artefice
proprio il Tortelli che dopo il 1450 e fino alla morte del pontefice raccolse
circa «1200 manoscritti greci e latini, alcuni di eccezionale importanza, che
spaziano in tutti i campi della cultura umanistica» (p. 40).
Il testo di Miglio approda infine ai rapporti tra questa corte della cultura, tornata a essere il centro dell’Europa, e la nascente arte tipografica, in
particolare ricorda l’opera dei prototipografi romani, i tedeschi Sweynheym
Cfr. P. CHERUBINI, A. PRATESI, Paleografia latina. L’avventura grafica del mondo
occidentale, Città del Vaticano 2010, pp. 584-585 (Littera Antiqua, 16).
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ROCCO RONZANI, OSA
e Pannartz, attivi prima a Subiaco e poi a Roma dal 1467. La stampa trasformò la trasmissione della cultura e tali cambiamenti intercettarono a
Roma la multiforme e articolata cultura umanistica della curia: sono passaggi di estremo interesse che Miglio illustra da maestro quale è della vicenda
della stampa romana del tempo. L’autore ha curato nel 1978 le prefazioni
alle edizioni dei prototipografi romani di Giovanni Andrea Bussi, bibliotecario di Paolo II, ed è tornato più volte sul tema con contributi fondamentali. Del Bussi Miglio riporta un illuminante passaggio della dedica delle prefazioni a Paolo II e un altro testo di Enoch d’Ascoli, che gli fa eco, dove sono
lodati decus utilitas commodum della biblioteca pontificia, vero paradiso per
gli uomini di cultura di quel tempo e di sempre.
In conclusione, Miglio rileva che anche nella vicenda dell’editoria
romana convivono la tradizione e l’innovazione, dal recupero dell’antico alla
riproposizione di tradizioni medievali, ma «con uno scarto ulteriore rispetto
a precedenti esperienze» (pp. 41-42). In questo contesto infatti nasce la categoria culturale e la definizione di Medioevo (media tempestas lo definisce il
Bussi), periodo storico che nella stampa trova la sua formalizzazione e il
mezzo della sua diffusione.
5. Last but not least, eccoci all’articolo consacrato – il termine forse più
corretto dato il tema – a Liturgia e cerimoniale di corte. Anche qui Miglio in
poche linee ci offre una sintesi dei rapporti tra sacro e scrittura: «La liturgia
si definisce nella scrittura, vive nei gesti, si sedimenta nella storia, si plasma
nell’architettura, si cristallizza nell’immagine» (p. 77). Queste ultime, l’architettura e l’immagine, hanno un posto di rilievo all’inizio del saggio dove
l’autore ci conduce per mano nella Cappella nicolina del palazzo apostolico
vaticano, rileggendo i cicli pittorici di Beato Angelico e suggellando la visita
virtuale con un commento dal De architectura di Leon Battista Alberti: «… il
pittore narra col pennello, il narratore dipinge con la parola». E quest’ultimo compito è ben evaso anche dal Miglio narratore della storia.
L’autore ripercorre in seguito i rapporti tra lex orandi e lex credendi e
l’impegno inesausto di pontefici ed ecclesiastici competenti per salvaguardare il nesso tra le due leges, attraverso un’opera di razionalizzazione e
uniformazione, in una delicata tensione tra rispetto delle tradizioni locali e
necessità di una sola disciplina romana, tra conservazione dell’antico e valorizzazione di sempre nuovi elementi che dalla periferia del cristianesimo
europeo sono giunti nel corso del tempo nell’Urbe e sono stati progressivamente assimilati dalla liturgia papale.
Un ruolo delicato in quest’opera di conservazione, assimilazione, trasmissione è svolto dai custodi della liturgia papale, i cerimonieri pontifici e
tra costoro emergono figure di primo piano come Agostino Patrizi
Piccolomini, Giovanni Burcardo e Paride de Grassi, quest’ultimo ben noto
per le sue interferenze nell’operato del Buonarroti che lo punì rappresentandolo tra i diavoli mostruosi e i dannati del Giudizio della Sistina.
Non si può fare a meno, in questo contesto, di tornare ai cortei, alle processioni e ai possessi pontifici, dettagliatamente descritti fino ai minimi par-
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ticolari: dal numero alle qualifiche, dai vestiti, ai colori agli oggetti recati sui
dorsi di muli e di cavalli in queste lunghe manifestazioni del potere che nella
tyara papale trovano il loro più caratteristico emblema. E sulla tiara, quella
tradizionalmente attribuita a Silvestro e quelle molto più preziose dei suoi
successori rinascimentali, Miglio si sofferma ricordandoci anche l’assenza di
una storia critica esaustiva sul copricapo papale4.
Ampio spazio è dedicato all’uso dei colori e degli attributi imperiali da
parte dei pontefici in connessione all’ideologia della plenitudo potestatis, ma
anche alla loro personale attenzione per il culto divino – forse un topos nelle
biografie pontificali che, non a caso, trova il suo antitipo nella propaganda
antiromana con critiche ai pontefici di turno per non aver cultura liturgica
oppure perché troppo legati al fasto delle vesti, a una liturgia tutta formale
ed esteriore, e non ai contenuti più profondi dei sacra mysteria celebrati.
Ampio spazio è dedicato ai rapporti cerimoniali tra pontefice e imperatore nel caso questi si trovi a Roma. In dettaglio si affronta la visita di
Federico III († 1493) che, con l’antico cerimoniale imperiale, riesumato dai
secoli tardoantichi e medievali, venne accolto con rigido protocollo fuori
dall’Urbe e poi accompagnato dalle varie componenti del popolo romano,
collegio cardinalizio, vescovi, curiali (il clero romano), il senatore e le alte
cariche civili, i nobili e i capi rioni e tanti altri fino alla casa di Pietro e del
suo successore. Durante le celebrazioni la plenitudo potestatis viene garantita dall’altezza del trono del pontefice superiore al seggio dell’imperatore e
dai tanti gesti di umiltà di Federico che si piega più volte ad osculare il pontefice sulle mani e sui piedi, che a capo scoperto chiede e riceve la benedizione del papa e che esercita l’officium stratoris di Nicolò a cavallo. Ma è
anche l’imperatore che, in vesti liturgiche, ministra solennemente all’altare,
canta il vangelo come diacono papale: cioè ricorda e rivendica la sacralità
della potestas imperiale, della sua origine divina, benché – nel quadro ideologico romano papale – subordinata all’auctoritas del pontefice pater principum et regum, rector orbis.
Su questa grande scena sacra che aveva fatto brillare su Roma lo splendore della liturgia della Civitas Dei – nelle lussuose basiliche damasiane e
nelle processioni penitenziali di Gregorio Magno, nelle celebrazioni giubilari dei pontefici medievali e nelle liturgie dei pontefici del Rinascimento e poi
ancora e soprattutto del Barocco, fino al 1870 ben presto eclissato dalle celebrazioni del consenso religioso del secolo scorso e dal giubileo del secondo
millennio – i maestri delle cerimonie, sostenuti e talvolta anche contro pretese di imperatori e papi, principi e cardinali, ci appaiono e vogliono apparire, con il controllo dei riti e della redazione dei libri liturgici, con i loro
diari documentatissimi, le loro cronache minuziose, le loro memorie, con la
loro scrittura, i difensori e i custodi della sacralità.
Si veda comunque il contributo di A. PARAVICINI BAGLIANI, Le Chiavi e la Tiara.
Immagini e simboli del papato medievale, Roma 1998, 20052 (La corte dei papi, 3).
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ROCCO RONZANI, OSA
Scrittura del sacro, dunque, a dispetto del suo sottotitolo, Roma medievale, ci conduce spesso oltre gli elastici confini del Medioevo, verso l’Urbe
antica e tardoantica, verso Roma moderna e anche contemporanea, in una
lettura sapiente dei fenomeni nella loro lunga durata, già teorizzata da
Goethe nel Viaggio in Italia – citato da Miglio all’inizio del secondo dei suoi
saggi – il quale «indicava come per capire Roma bisognasse conoscere
soprattutto la sua stratigrafia; come le diverse città moderne si fossero sedimentate su quelle antiche» (p. 19). È quanto ha di recente tentato, con un
ottimo esito, la splendida monografia dedicata a una delle più belle piazze di
Roma, Piazza Navona5.
Non possiamo che concludere questa rilettura con le parole di Miglio,
concordando con lui che «una città, nella sua complessità di pietre e di
uomini, deve essere capita nelle sue strutture e negli uomini che hanno vissuto quelle strutture. Roma più di altre deve essere conosciuta sulla lunga
durata, anche per capire come, a distanza di molti secoli, i romani del XII
secolo e del XX secolo abbiano potuto continuare a sentirsi discendenti
diretti, senza soluzione di continuità, soprattutto nella rivendicazione dei
diritti e delle ambizioni, di quelli dell’antichità» (p. 20).
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«Piazza Navona ou Place Navone, la plus belle et la plus grande». Du stade de
Domitien à la place moderne, histoire d’une évolution urbaine, a cura di J.-F. BERNARD,
Roma 2014 (Collection de l’École française de Rome, 493).