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Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XVI (2010), pp. 177-215
Un seminario per Copernico
Alfonso Ingegno
Il giorno 24 novembre 2010 ha avuto luogo nella sede del nostro Dipartimento un seminario dedicato all’opera di Copernico, con una breve
introduzione di chi scrive ed interventi del prof. Enrico Peruzzi dell’Università di Verona e della prof.ssa Anna De Pace dell’Università di Milano.
Causa occasionale, e felice, dell’incontro il libro che Anna De Pace
ha dedicato all’autore del De Revolutionibus, corredandolo del testo e
della traduzione commentati del primo libro dell’opera. L’autrice ha
gentilmente acconsentito a fornirci una sintesi del suo intervento che
qui si pubblica1.
È stato a lungo un luogo comune della storiografia sull’argomento
sottolineare il fondamentale conservatorismo di Copernico, fedele nelle
sostanza ad una cosmologia di carattere aristotelico basata su sfere solide
concentriche e sul primato ontologico del moto circolare uniforme; si
aggiunga che non si sono praticamente mai ritenute conclusive le prove
portate per confutare sia Aristotele che Tolomeo. Quasi non bastasse
aver elevato la terra al rango di pianeta ed aver posto al centro del suo
sistema il sole.
Una espressione esemplare e radicale di questa posizione è stata
quella rappresentata dall’opera di Alexandre Koyré che sulla base degli
elementi appena ricordati giungeva a sostenere che un Copernico reso
coerente con se stesso avrebbe dovuto accettare la tesi espressa dal teologo
Andreas Osiander nella Prefazione anonima che apriva il De Revolutionibus contro la volontà del suo autore. Tesi di cui si è rivendicato il carattere
moderno dal punto di vista metodologico ed in cui si sosteneva che era
lecito all’astronomo avanzare ipotesi senza la pretesa di una loro realtà
fisica purché fossero utili ai fini del calcolo2. Koyré, grande storico della
1
A. De Pace, Niccolò Copernico e la fondazione del cosmo eliocentrico, con testo,
traduzione e commentario del libro I de “Le rivoluzioni celesti”, Milano, Bruno Mondadori
2009. Ma l’autrice ha scritto una serie di contributi di particolare interesse per il rinnovato
statuto delle matematiche a fine Cinquecento.
2
A. Koyré, La rivoluzione astronomica. Copernico Keplero Borelli, Milano, Feltrinelli
1966. E si veda dello stesso Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano, Feltrinelli
1970. La figura intellettuale di Koyré, che ha avuto un benefico influsso sugli studi di
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ISSN 0394-5073 (print) ISSN 1824-3770 (online)
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Un seminario su Copernico
scienza, vedeva l’elemento di novità presente nell’opera di Copernico nel
nesso che questi istituiva tra il carattere sferico della forma della terra
ed il suo movimento ma riduceva alle fine la tesi dell’eliocentrismo, per
usare la sua espressione, ad una pura «intuizione intellettuale»3.
Non è possibile evidentemente riassumere qui i risultati cui è giunta
la ricerca relativa al grande astronomo polacco ed alla rivoluzione scientifica e tantomeno accennare allo sviluppo prodigioso che conosce lo
cosmologia in Italia lungo tutto l’arco del Cinquecento, sviluppo il cui
interesse non ultimo è dato dal fatto che la ricerca della vera struttura del
cosmo si intreccia costantemente con una problematica religiosa, talora
al limite dell’ortodossia e spesso al di fuori di essa4.
Basti qui accennare al fatto che tale vicenda, intessuta di censure,
autocensure e condanne giunge per la prima volta, sia pure su un piano
di pura filosofia naturale, ad abbattere quella barriera tra mondo celeste e
mondo sublunare nell’opera di Telesio (1570), secondo una tesi implicita
in Copernico ma orientata in senso del tutto opposto5.
storia della scienza in Italia, è naturalmente molto complessa; basti ricordare la monografia dedicata a J. Boehme, gli studi su Mystiques, spirituels, alchimìstes du XVIe siècle
allemand, Paris, Gallimard 1971, che rinviavano ad un progetto di lavoro più ampio, e
la direzione negli anni ’30 di «Recherches philosophiques». Le prime due opere citate,
relative alla rivoluzione astronomica e da cui è assente Galileo, implicano nel titolo stesso
il problema del rapporto tra filosofia ‘naturale’ e sua matematizzazione.
3
Koyré, La rivoluzione astronomica, cit., p. 48.
4
Per la prima reazione cattolica all’opera di Copernico e per la sua ricezione in
terra protestante, cfr. M.P. Lerner, Aux origines de la polémique anticopernicienne. I.
L’«Opusculum quartum» de G.Tolosani, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 86, 2002, pp. 681-721 e Id., II, M. Luther, A. Osiander et Ph. Melanchton, «Revue
des sciences philosophiques et théologiques», 90, 2006, pp. 409-451. Per quanto riguarda
la posizione di Calvino, che separava lo studio della Scrittura da quello della creazione
quale opera divina come due ambiti distinti, cfr. H.A. Oberman, Reformation and Revolution: Copernicus’ Discovery in an era of change, in Id., The dawn of the Reformation,
Clark, Edinburgh 1986, pp. I79-203 che sulla base di una riabilitazione della Prefazione
anonima premessa dal teologo A. Osiander al De revolutionibus, ricostruisce un retroterra nominalista dell’opera. Contro la teologia di Osiander ebbe a polemizzare Calvino
nell’Institutio christianae religionis, I, 15, 3-5; II, 12, 5-7; III, 11, 5. Per Osiander anche se
l’uomo non avesse peccato, il Cristo si sarebbe ugualmente incarnato; ne deduceva che la
sua predestinazione dall’eterno come uomo avrebbe implicato una perfezione di Adamo
tanto nell’anima che nel corpo. Egli giungeva cosi ad asserire una sorta di coessenzialità
del giusto con Dio stesso.
5
Come è noto la data dell’opera di Palingenio (1535), ritenuto tedesco dal Bruno e in
tempi recenti di origine ferrarese ma in realtà napoletano, è stata stabilita da F. Bacchelli,
Note per un inquadramento biografico di Marcello Palingenio Stellato, «Rinascimento»,
25, 1985, pp. 275-292, di cui è da vedere, anche in relazione alla tesi della fluidità dei
cieli, Sulla cosmologia di Basilio Sabazio e Scipione Capece, «Rinascimento», 30, 1990, pp.
107-152. Vi sarebbe un interesse per tali posizioni da parte dei Folengo su cui cfr. C.F.
Goffis, L’eterodossia dei fratelli Folengo, Genova, Pagano, s.d.. Giambattista Folengo
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179
La tesi, a mio avviso tanto nuova quanto persuasiva del libro della De
Pace, è quella secondo cui il primo libro del De Revolutionibus presenta il
carattere di una compiuta cosmologia e dovrebbe condurci a riconoscere
a Copernico la qualità a pieno titolo di ‘filosofo’ che egli rivendica e tutto
questo a partire dai due elementi fondamentali di cui è intessuta la celebre
prefazione in cui si dedica l’opera a Paolo III. L’autrice analizza in modo
diffuso e particolareggiato la storiografia sull’argomento e si mostra scettica
nei confronti di quanti hanno sottolineato il debito di Copernico verso
la speculazione medievale (si pensi a Buridano ed Oresme) sostenuto da
ultimo da Th. Kuhn e H. Blumenberg6; è altrettanto scettica nei confronti
dedicò uno dei suoi Pomiliones (1533) all’Arcivescovo di Capua Nicholas Schönberg
che nella lettera premessa da Copernico all’Epistola dedicatoria del De revolutionibus
gli chiedeva la possibilità di trascrivere e divulgare il suo sistema cosmico. Lo Schönberg
era vicino nella corte papale al partito filoimperiale. Cfr. De Pace, Niccolò Copernico e
la fondazione del cosmo eliocentrico, cit., p. 407, n. 309. Quanto a Fracastoro, è noto che
prima degli Homocentrica (1538) è autore intorno al 1530 di un testo di cosmogonia e
cosmologia e nei tardi anni ’30 di uno scritto rimasto anch’esso inedito sulla grazia ed
il libero arbitrio. Il Contarini, grande protagonista della vita religiosa italiana prima del
Concilio di Trento, aveva discusso la posizione di Pomponazzi, maestro di entrambi,
sull’anima, e interverrà sia sul trattato rimasto inedito che sugli Homocentrica. Cfr. Scritti
inediti di G. Fracastoro, a cura di F. Pellegrini, Verona, Valdonega 1955. Su Fracastoro
e sugli Homocentrica ed in genere sulla sua opera è da vedere il fondamentale lavoro di
E. Peruzzi, La nave di Ermete. La cosmologia di G. Fracastoro, Firenze, Leo S. Olschki
1995, che ricostruisce la sua estremamente ardua astronomia. Il Peruzzi ci ha dato anche
l’edizione critica, il commento e la traduzione del tardo De anima: G. Fracastoro, L’anima,
Firenze, Le Lettere 1999. È interessante nell’opera la contrapposizione tra una contemplazione serena dei cieli e lo smarrimento che essa può procurare nell’uomo. Soprattutto,
come mostra Peruzzi, è una lunga discussione con le posizioni di Pomponazzi che mira
ad assimilare l’anima umana alle intelligenze celesti. Se non capisco male, vi è qualcosa
di teoricamente estremo in quest’opera tarda del Fracastoro in cui la giustificazione
per fede appena accennata ma censurata nell’edizione a stampa sembra rinviare forse
all’unico livello su cui poggiare la nostra certezza. Sono ben note le difficoltà cui andò
incontro Telesio, costretto a modifiche e correzioni del De rerum natura (1570) fino alla
redazione definitiva del De rerum natura iuxta propria principia (1586); quanto a Patrizi,
la condanna della sua Nova de universis philosophia testimonia della discussione in atto
sulla compatibilità o meno tra platonismo e cristianesimo. Patrizi crede nella rotazione
diurna della terra. Nell’opera sono presenti affermazioni eterodosse sul valore della fede.
6
Cfr. Th. Kuhn, La rivoluzione copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del
pensiero occidentale, Torino, Einaudi I972 e H. Blumenberg, Die Genesis der Kopernikanischen Welt, Frankfurt, Suhrkamp 1975. L’opera di Blumenberg, significativa soprattutto
per la sezione dedicata alle conseguenze dell’eliocentrismo sul piano generale del pensiero
moderno, dà particolare valore all’autonomia dell’uomo da una posizione fissa nel cosmo
quale è teorizzata da Pico nel ce1ebre De dignitate hominis e a quel per nos riferito da
Copernico alla creazione divina, funzionale alla tesi di Blumenberg dell’autoaffermazione
dell’uomo moderno; il per nos può anche apparire come una implicita giustificazione del
fatto che la terra perda in Copernico quella centralità legata all’evento determinante del
cristianesimo, l’incarnazione del Verbo.
180
Un seminario su Copernico
di quegli storici che hanno cercato di evidenziare il rapporto tra l’eliocentrismo e quella sorta di ‘culto solare’ presente nell’opera di Ficino, in
cui il sole è certo intermedio tra i pianeti ma non al centro del cosmo7.
Tornando alla dedica prefatoria del De revolutionibus cui si accennava, i punti salienti dell’argomentazione dell’autore sono come è noto due.
Da un lato si sottolinea il contrasto irrisolto tra la cosmologia tradizionale,
per non parlare degli sviluppi che ha avuto anche in tempi recenti l’astronomia; sviluppi che hanno dato luogo ad una sorta di monstrum (termine
usato anche da Fracastoro) dai disiecta membra, ad una descrizione dei
moti planetari non riconducibile ad un insieme razionale e coerente.
Contemporaneamente si poneva in rilievo come alla radice di tale stato
di fatto fosse un errore di metodo: si era partiti da premesse sbagliate
che non potevano condurre che a conclusioni errate. In effetti il divario
tra cosmologia aristotelica ed astronomia, divario che Averroè auspicava si componesse, non aveva fatto altro che approfondirsi come aveva
sottolineato Giovanni Pico nelle sue Disputationes contro l’astrologia.
I due elementi appena ricordati vengono posti in relazione dalla De
Pace con gli anni certo decisivi della formazione italiana di Copernico,
che rivelano un uomo pronto a recepire tanto le forme diverse della nuova
cultura quanto il suo carattere problematico. Tale nesso viene tuttavia
illustrato in una prospettiva del tutto nuova. Copernico era certo a conoscenza tanto del corpus platonico e delle traduzioni e dei commenti di
Ficino ad esso così come era in grado di rapportarsi al testo greco; sono
d’altra parte gli anni in cui si amplia la conoscenza dei commentatori
greci di Aristotele, che favorisce tra l’altro il lento sgretolarsi dall’interno
della cosmologia geocentrica per le sue difficoltà8.
7
Non mi sembra che la cosmologia di Ficino, che pur presenta elementi nuovi e non
trascurabili, così come il suo ‘culto solare’ abbiano potuto incidere sull’ipotesi ed i risultati
cui giunge Copernico. Ficino cerca nell’anima razionale e quindi anche in quella dell’uomo
il punto intermedio che colleghi tra essi mondo corporeo e mondo intelligibile; tuttavia
egli tenta di raggiungere tale risultato mediante una relativizzazione di ciò che separa la
sfera celeste dal mondo sublunare. Al centro del suo discorso sono tanto la rilettura del
Timeo e del celebre testo aristotelico del De generatione animalium, II, 3, 736b quanto la
nozione di uno spiritus mediatore a tutti i livelli tra anima e corpo. Tale nozione, non meno
degli altri punti appena ricordati, tenderà nelle cosmologie successive, sia geocentriche che
infinitiste, a distinguersi in modo problematico tanto dal calore solare (si pensi a Cardano,
Telesio e Bruno) quanto dalla natura e dal destino dell’anima. Il discorso cosmologico sarà
così sempre intrecciato in Italia con un problema di carattere religioso.
8
Cardano vedeva nella conoscenza dei commentatori greci di Aristotele uno dei
punti salienti dei nuovi tempi insieme all’esigenza di una reinterpretazione della Scrittura.
Egli è scettico nei confronti del1’ipotesi copernicana e mostra stupore per la possibilità
dell’uomo di descrivere i movimenti dei cieli senza conoscere la natura di questi. In genere
assimila i fenomeni del movimento a quelli della vita e della generazione e lo spiritus è
quel calore celeste che o è l’anima o il suo stesso strumento; il moto dei corpi celesti è
Un seminario su Copernico
181
Copernico avrebbe fatto propria una rilettura del Timeo congiunta
alla sua interpretazione del Fedone e della Repubblica, adottando la distinzione tra cause fisiche insufficienti a dare una spiegazione esaustiva
dei fenomeni e quel livello superiore, puramente intelligibile, a cui tale
insufficienza rinviava necessariamente. Livello che chiamava in causa la
razionalità stessa del divino e con essa lo statuto delle matematiche e in
particolare dell’astronomia riformata in senso filosofico. Sul piano più
strettamente metodologico gli errori che erano stati commessi richiedevano l’adesione al metodo dialettico socratico, ricondotto a quella ricerca
graduale della verità che faceva leva sulle contraddizioni in cui cadeva
l’interlocutore per alimentare lo sviluppo dell’argomentazione ed elevarsi
progressivamente a quel livello superiore cui si accennava.
Sulla base di queste premesse può aver luogo una rilettura completamente nuova del libro primo del De Revolutionibus, rilettura che viene
così a costituire contemporaneamente una verifica di tali premesse. Al
centro dell’interesse si pone allora il capitolo IV di tale libro, considerato
tradizionalmente come la prova dell’aderenza sostanziale di Copernico a
quella cosmologia tradizionale basata su sfere concentriche, in grado di
rendere contro d’altra parte delle irregolarità planetarie che si presentano
all’osservazione del moto dei pianeti. Ma è decisivo, per interpretare in
modo opposto tale capitolo, e considerarlo ormai quale semplice ricapitolazione di ciò che Copernico si appresta a mettere in discussione, il
fatto che già nei capitoli precedenti egli, accanto ad ipotesi che manterrà
nello sviluppo del suo lavoro, presenti tesi chiaramente rifiutate successivamente pur senza accennare a tale superamento9.
In questa prospettiva, la contestazione delle ragioni fisiche e geometriche a favore dell’immobilità della terra avanzate da Aristotele nel De
caelo, in polemica con il Timeo, e di quelle di Tolomeo verrebbe ad avere
un valore non conclusivo ma per così dire interlocutorio, unificando il metodo adottato e il discorso cosmologico. La centralità della terra sembrava
dimostrata dal fatto che gli orizzonti tagliano sempre in parti uguali la sfera
celeste ma in questo modo la terra, che pure è un corpo dotato di mole e
di parti, veniva ridotta ad un punto geometrico; esclusa la sua rotazione
in quanto appunto centro immobile della rivoluzione del corpo etereo
dovuto all’anima stessa oppure al processo per cui tale calore dà luogo alla sottigliezza
della materia e quindi a tutti i processi del divenire. Il fuoco elementare cessa cosi di essere
elemento autonomo e questa innovazione, per lui decisiva, è sufficiente a scalzare sia la
teoria aristotelica del movimento quanto il nesso tra le qualità e gli elementi tradizionali.
9
La sfericità del cosmo quale suo limite è successivamente dichiarata indecidibile;
la causa della sfericità dei corpi celesti e della terra sarà ricondotta poi alla gravità delle
parti; i moti circolari naturali non sono più giustificati con cause motrici interne o esterne.
Cfr. De Pace, Niccolò Copernico e la fondazione del cosmo eliocentrico, cit., p. 105.
182
Un seminario su Copernico
divino, si differenziava anche la sua natura nei confronti dei corpi celesti.
Copernico poteva opporre a tutto questo che se era la distanza immensa
del nostro punto di osservazione dalla volta stellata a far sì che il senso
annullasse la distanza tra la superficie della terra ed il suo centro, proprio
quella incommensurabilità stava ad indicare che si presupponeva per noto
ciò che andava dimostrato. Certo la relatività ottica del movimento è già qui
presente ma particolare valore ha l’obiezione fatta alla tesi fisica di Tolomeo
secondo la quale la terra, se dotata di moto circolare, si disperderebbe
nello spazio. Copernico osservava come stando ad alcune affermazioni
di Tolomeo appariva congruo applicare tale tesi al contenente piuttosto
che al contenuto, alla sfera delle stelle fisse anziché alla terra. Sulla base
di essa, l’ultima sfera dovrebbe a causa della sua velocità espandersi nello
spazio per non collassare ed occorrerebbe presupporre allora uno spazio
infinito al di là di essa che accolga tale espansione ma in tal modo il cielo
sarebbe infinito e quindi immobile; poiché sarebbe inaccettabile che il
nulla possa esercitare un’azione di contenimento, l’espressione ‘fuori del
cielo non vi è nulla’ risulterebbe vera solo a condizione che il cielo fosse
ancora una volta infinito e immobile ma finito soltanto nella sua cavità
esterna, secondo conseguenze inaccettabili per Aristotele.
Le obiezioni portate da Aristotele e Tolomeo contro l’immobilità della
terra non avrebbero dunque il valore conclusivo di una confutazione ma
aprirebbero la possibilità di riesaminare l’unica soluzione opposta che
può essere loro contrapposta vale a dire il moto della terra stessa. È qui
che Copernico si avvale tanto della contraddittorietà interna alla cosmologia di Aristotele quanto della lettura che egli compie del Timeo, lettura
mediata dai testi di Plutarco, in particolare dal De facie in orbe lunae e dal
celebre De defectu oraculorum. Per Aristotele solo a moti semplici possono
corrispondere corpi semplici ma il solo movimento che presenti la perfezione della durata infinita è quello circolare ed uniforme in cui l’inizio e
la fine coincidono. Se ne deducevano le proprietà di una materia celeste
radicalmente differente da quella sublunare, una sostanza ingenerabile ed
incorruttibile che sola poteva rispondere alla perfezione del moto circolare
a differenza del moto degli elementi, tendenti verso il loro luogo naturale
nella sfera dell’universo; di qui il carattere assoluto che ne derivava dei
concetti di alto e basso, grave e leggero. L’argomentazione di Copernico
mira ad annullare il vincolo tra sostanza e moti legando la naturalità del
moto circolare alla conservazione dell’ordine e dell’ottima disposizione
di un tutto, sia esso la terra o il sistema cosmico. L’argomentazione di
Copernico è ripresa pressoché negli stessi termini da Galileo nel secondo
libro del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo:
Simplicio... Aristotile dice che naturale delle parti è il moto retto al centro
del1’universo, onde il circolare non gli può naturalmente competere. Salviati:
Un seminario su Copernico
183
Ma non vedete voi che nelle medesime parole vi è anco la confutazione di questa
risposta?.. Non dic’egli che ‘l moto circolare alla Terra sarebbe violento? e però
non eterno? e che questo è assurdo, perché l’ordine del mondo è eterno?.. Ma se
quello che è violento non può esser eterno non potrà esser naturale: ma il moto
della Terra all’ingiù non può essere altrimenti eterno: adunque meno può esser
naturale, né gli potrà esser naturale moto alcuno che non gli sia anco eterno.
Ma se noi faremo la Terra mobile di moto circolare, questo potrà esser eterno
ad essa ed alle parti, e però naturale10.
Quanto alla rilettura che Copernico compie del Timeo, essa diviene,
pur sottintesa, premessa indispensabile alla tesi del moto circolare naturale della terra ed alla individuazione di quell’ordine razionale che solo
può rendere intelligibili i fenomeni in quanto scaturiti necessariamente
da un principio superiore. Coerente al principio della conservazione
dell’ordine è la concezione della gravità ripresa da Platone e descritta
come tendenza delle parti di una massa cosmica a riunirsi ad essa quando
ne fossero state separate ed a permanervi.
Nel Timeo la tendenza del simile al simile si differenziava in rapporto
alla maggiore o minore resistenza offerta dalla massa di ciascuna parte dei
corpi e questo faceva sì che alto e basso, pesante e leggero dessero luogo
a rapporti molteplici che eliminavano il valore assoluto di questi concetti.
La mediazione operata da Plutarco11 nei confronti di Platone era quella
di cancellare l’idea della terra come corpus gravissimum dal momento che
non sono i luoghi a determinare il movimento ma è piuttosto la tendenza
delle parti di ogni corpo cosmico che sono fuori del loro luogo a muoversi
verso il corpo di appartenenza che dà origine alla forma sferica ed alla
conservazione di ogni corpo celeste; ciascuno di essi viene così ad avere
un suo centro ed una sua natura che viene preservata dalla gravità dei
movimenti delle sue parti, pena la sua stessa rovina12.
10
G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano,
Einaudi, Torino 1970, p. 165 (Ediz. Naz., VII, p. 160).
11
Credo che sia più di una curiosità rifarsi qui all’Examen vanitatis doctrinae
gentium di Gianfrancesco Pico (1520) che utilizza nella sua critica ad Aristotele testi
di Filopono, Sesto Empirico e Crescas. Ardente savonaroliano, si serve di un codice di
Sesto appartenente alla biblioteca di S. Marco e noto sia a Giovanni Pico che a Ficino (G.
Hervet gli darà atto della conoscenza di Sesto nella sua traduzione del 1569). Alla luce
dei Moralia di Plutarco il concetto aristotelico di luogo darebbe origine ad una serie di
contraddizioni, superabili solo qualora si concepisca il luogo come ricettacolo incorporeo
che renda possibile il succedersi dei corpi nello spazio vuoto. Se l’ultima sfera non riceve
un impulso è come se le sfere celesti si muovessero nel vuoto senza penetrare nulla e senza
che nulla resista al loro movimento. Di qui Gianfrancesco risale a dimostrare la possibilità,
non l’esistenza, che sussistano più mondi. Cfr. in particolare Plut., Moralia, 423D-425C.
12
Cfr. De Pace, Niccolò Copernico e la fondazione del cosmo eliocentrico, cit., pp.
147-170. Sui problemi che sollevano le obiezioni a Tolomeo, sembra poco probabile che
184
Un seminario su Copernico
Copernico può su questa base procedere in modo opposto rispetto
a quello di Aristotele, muovendo non più dalle parti al tutto ma dal
tutto alle parti sulla base innanzitutto di una nozione della naturalità del
moto circolare che soddisfi alla conservazione dell’ordine ossia alla conservazione della distanza dal centro di gravità e inoltre poi una nozione
della gravità riposante appunto sulla tendenza dei corpi – Copernico
non parla più di elementi – ad unirsi al tutto in cui rientrano, risultando
il loro movimento, in relazione al moto della Terra di cui sono parte,
come composto di moto circolare e rettilineo insieme. È solo a questo
punto che sia pure sulla base di ragioni puramente fisiche, nulla sembra
opporsi al moto circolare della Terra rispetto al centro del cosmo e viene
compiuto un passo storicamente decisivo, vale a dire la concezione del
moto circolare e della quiete come stati equivalenti per la conservazione
dell’ordine e insieme la loro scissione nei confronti della sostanza del
corpo come non più correlativi ad essa. Non è allora indispensabile
pensare né a una causa interna, a principi motori di tipo animistico né a
cause esterne quale il ruolo delle intelligenze celesti per render ragione
sia del moto della Terra come degli altri corpi celesti. Tuttavia proprio per
questa stessa ragione – essendo ormai impossibile determinare a priori in
presenza di un moto quale corpo si muove e quale sia in quiete – occorreva risalire allora a quel principio superiore che solo potesse illuminare
l’ordinamento armonioso e coerente del cosmo. È noto che qui Copernico
procede analizzando il rapporto intercorrente tra l’orbe di Marte e quello
di Venere per approdare infine alla tesi finale, il magnum argumentum in
base al quale sussiste un rapporto matematico tra le distanze dei pianeti
dal centro del cosmo ed i periodi delle loro rivoluzioni, vale a dire la
legge che struttura l’ordine del sistema solare.
Non era qui possibile entrare nei dettagli di una interpretazione storica che si è avvalsa di tutta una serie di studi preparatori ma è possibile
fare alcune osservazioni in merito ai problemi che Copernico ha aperto
e che avranno sviluppi decisivi nel corso della rivoluzione scientifica.
Sviluppi alla luce dei quali si è finito per avvalorare la tesi dei limiti e del
‘conservatorismo’ di Copernico, in qualche modo favorita dal carattere
ellittico delle sue argomentazioni. Intendo riferirmi alla posizione di
Copernico deformasse nell’opera della sua vita le tesi di uno dei due autori con cui doveva
confrontarsi. La De Pace avanza l’ipotesi che Copernico abbia potuto conoscere il testo
greco dell’Almagesto – lo scambio di codici tra Venezia e Padova era usuale – grazie alla
mediazione di Niccolò Leonico Tomeo. Su quest’ultimo, figura ancora poco conosciuta,
si vedano i lavori di D. De Bellis, ‘Autokineton’ e ‘entelechia’. N. Leonico Tomeo: l’anima
nei dialoghi intitolati al Bembo, «Annali dell’Istituto di Filosofia», Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università di Firenze, I, 1979, pp. 47-78 e La vita e l’ambiente di N. Leonico
Tomeo, «Quaderni per la Storia dell’Università di Padova», 13, 1980, pp. 37-75.
Un seminario su Copernico
185
Copernico nei confronti del limite o meno dell’universo, così come a
quella sull’esistenza o meno di sfere celesti corporee, due elementi che
sembrano non poter essere considerati in modo separato. In secondo
luogo, vorrei discutere il significato che viene ad avere per la De Pace
una ricostruzione del piano divino del mondo che sembra riassorbire in
sé in un unico processo, pur distinto nei suoi 1ivelli, cosmologia e matematica in rapporto allo statuto di quest’ultima che rientrerebbe a pieno
diritto nella sfera di ciò che è intelligibile: una continuità necessaria che
pur presuppone una cesura chiamando in causa un principio metafisico.
Quanto al primo punto, relativo al carattere finito o infinito dell’universo, è noto che Copernico sospende il suo giudizio di fronte al fatto
che nel suo edificio cosmico sussiste una distanza non misurabile tra la
sfera di Saturno e la volta stellata e per questo non è possibile individuare
l’effetto di parallasse cui queste ultime dovrebbero dar luogo. Egli rinvia
in tal modo ai ‘fisiologi’ la soluzione del problema. È una conseguenza
inevitabile del suo discorso che la De Pace dia un significato negativo a
questa espressione ed i ‘fisiologi’ si identificherebbero di fatto con coloro
che partendo da premesse troppo dipendenti dai sensi non potevano
non giungere a discorsi inconcludenti, di nessun valore epistemico, pur
se resta una acquisizione salda di Copernico sulle orme di Platone che
nemmeno una fisica di carattere intelligibile possa dare risposte sulla
verità dell’assetto cosmico. Si è visto in questo giustamente una messa
in discussione della gerarchia tra le diverse discipline, cosa tutt’altro che
rara in questi anni e che investe tutti i campi del sapere, in questo caso il
rapporto tra filosofia naturale ed astronomia. Quali sarebbero in effetti gli
strumenti del filosofo naturale di fronte a tale problema se essi non sono
posseduti dal matematico astronomo? Modello esemplare di tale posizione tradizionale è l’attacco che Tolosani muove a Copernico, secondo cui
al filosofo naturale ed in ultima analisi al teologo spetta di giudicare chi
osi mutare l’ordinamento cosmico13. Veniva data per scontata infatti la
subordinazione dell’astronomia alla fisica ed alla cosmologia tradizionali,
subordinazione sottintesa ed implicitamente rifiutata quando Copernico
parlava degli errori degli astronomi che partendo da premesse false non
potevano non giungere a conclusioni errate.
Copernico non ha di fatto affrontato il problema posto da Averroè,
giungere a comporre la cosmologia aristotelica con gli espedienti, efficaci
ma non reali, sebbene utili per il calcolo, cui l’astronomia aveva dato
luogo; in realtà per lui una nuova cosmologia sradicava radicalmente
quella vecchia.
13
Il testo del Tolosani in E. Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal
XIV al XVIII secolo, Laterza, Bari 1975, pp. 283-295.
186
Un seminario su Copernico
È noto che sul problema dell’infinito in Copernico gli storici sono
divisi. Tuttavia, a parte il fatto ovvio che egli abbatteva la dicotomia
tra mondo celeste e mondo sublunare, è possibile avanzare alcune
osservazioni. Ha luogo in effetti come si è già osservato all’interno stesso
di posizioni geocentriche che pur affermano il carattere assurdo del moto
della terra, quasi una sorta di sgretolamento della cosmologia tradizionale,
favorito tra l’altro dalla conoscenza dei commentatori greci di Aristotele,
che rilevavano alcune incongruenze della sua costruzione, a partire da
quella sorta di spina nel fianco dell’universo peripatetico costituita dal
calore solare e dalla sua problematica trasmissione attraverso l’etere
celeste, un punto su cui Pico nelle sue Disputationes non mancava di fare
leva. Questo processo inizia ben prima di Copernico ed esso si innesta
con il presentarsi di cosmologie innovatrici che poco hanno a che vedere
con la filosofia naturale chiamata in causa da Copernico. Queste, talora in
aperta polemica con i risultati dell’astronomia, cercano in modo nuovo di
risolvere il problema costituito dalla materia celeste ma esse modificano
o abbattono tutte i due punti fondamentali a cui nella fisica aristotelica
si ricorreva per spiegare il prodursi dei fenomeni di corruzione e generazione nel mondo sublunare. Intendo alludere ovviamente da un lato
al ruolo assegnato alla sfera delle stelle fisse così come all’inclinazione
dell’eclittica, dell’orbita del sole nei confronti del cerchio equatoriale
secondo un nesso che solo avrebbe potuto garantire il perenne divenire
grazie alla sua costanza14. Copernico parte ormai da una posizione radicalmente diversa nei confronti di quella dei nuovi filosofi naturali ma
apre anche la strada a soluzioni differenti del problema dei limiti del
cosmo che chiamano in causa implicitamente il rapporto che si istituisce
tra soluzione matematica e metafisica. Rapporto, sia osservato per inciso, che è destinato a ripresentarsi come determinante anche quando la
dinamica, assunta progressivamente al rango di scienza del movimento,
si intreccerà in modo indissolubile con la rivoluzione astronomica. Ora,
se Copernico dà luogo ad una machina mundi di cui non è possibile
indicare razionalmente i confini, è certo tuttavia che la sfera delle stelle
fisse (insieme a tutte le sfere che erano state aggiunte) viene privata del
suo moto e non svolge più alcuna funzione nei confronti del ruolo che
le veniva attribuito tanto sul piano fisico quanto su quello, pur in modi
diversi, di natura teologica e metafisica: al di sopra di essa non sussiste
14
Fracastoro identificava i due moti continui in latitudine dell’orbita del sole e
dell’equatore celeste con i due cerchi platonici del Diverso e dell’Identico ma introduceva
una nuova dimensione temporale nel divenire cosmico che spezzava tale costanza e che
andò incontro per questa ragione alle obiezioni di Giacomo Contarini. Cfr. Peruzzi, La
nave di Ermete, cit., pp. 45-54.
Un seminario su Copernico
187
più alcun’altra sfera e tantomeno, come osservava Retico, potrà ancora
aver luogo quel loro moltiplicarsi già in passato criticato da Copernico
ma che rispondeva alla logica della cosmologia-astronomia tradizionale.
Ci si chiede se tale destino non possa estendersi alle sfere celesti
concentriche subordinate all’ultima sfera dal momento che Copernico
non accetta né una causa interna né supporti esterni del moto della terra
e degli altri pianeti, moto che abbia luogo indefinitamente (non eternamente per lui) grazie al suo stesso carattere naturale, soddisfacente alla
perenne conservazione dell’ordine concepito all’interno della scissione
tra sostanza dei corpi e loro movimento.
Non decidere sui confini dell’universo indica allora i limiti entro
cui egli ha voluto mantenere il suo discorso razionale quando non era
possibile estenderlo oltre; di qui una delle cause del giudizio limitativo
diffuso sulla sua opera che di fatto ha proiettato su di essa gli sviluppi
futuri certo così problematici eppure del tutto vicini cronologicamente
all’imporsi progressivo dell’eliocentrismo ed al compiersi di una fisica
celeste. Se si rovescia tale impostazione riconducendo l’opera di Copernico alle sue radici, appare come in lui tale limite della nostra conoscenza
sfoci in una soluzione matematica che si realizza secondo un ordine intelligibile cui solo la mente divina può dar luogo, e come a sua volta tale
ordine segni il passaggio dalla fisica alla metafisica. Tornando al problema
discusso, mi sembra che abbia un valore particolare il saggio che M.P.
Lerner ha dedicato alle conseguenze cosmologiche dell’eliocentrismo
di Copernico15. Egli ricorda come Keplero prima di Galileo riconosca
a Copernico la qualità di filosofo in quanto scopritore della causa reale
delle apparenze celesti. Soprattutto, Lerner sottolinea gli elementi che
determinano nel De revolutionibus «la fine della concezione tradizionale
di cielo planetario e di mondo pieno». Per Retico in essa «tutte le sfere si
succedono in modo che non sia lasciato dall’una all’altra alcun immenso
intervallo» senza che non fosse stata spiegata mai la legge che determina
il loro operare nella trasmissione del moto; soprattutto, osserva Lerner,
già per Copernico «gli intervalli tra i diversi cieli sono più grandi dei
cieli stessi». Nel Mysterium cosmographicum Keplero dedurrà che in
Copernico «nessun orbe è in contatto con un altro, ma rimangono tra
i diversi sistemi degli spazi immensi... che non si ricollegano ad alcuno
dei due sistemi vicini».
15
M.P. Lerner, Il significato dell’eliocentrismo copernicano dal punto di vista dottrinale e le sue particolarità cosmologiche, in Id., Tre saggi sulla cosmologia alla fine del
Cinquecento, Bibliopolis, Napoli 1992, pp. 45-72. A ragione Tycho Brahe vedeva nella
grande distanza tra Saturno e le stelle fisse un elemento di frattura nell’armonia del cosmo eliocentrico rivendicata da Copernico. Ma questi costruiva un sistema solare. Per le
citazioni utilizzate, cfr. idem, pp. 58-69.
188
Un seminario su Copernico
Siamo così al secondo punto cui si accennava, vale a dire il problema
del rapporto che si istituisce tra cosmologia e metafisica sulla base dello
statuto assegnato alla matematica, e mi sembra che esso confermi tanto
un limite insuperabile a quella data quanto la consapevolezza di un’acquisizione senza precedenti per la sua portata. Va sottolineata in questo
caso la rilevanza particolare che viene ad avere il De libris revolutionum
narratio prima di Retico, ma preferirei partire nella mia osservazione
dall’astronomia di Fracastoro, destinata ad influenzare tanto Telesio
quanto Bruno. Nella stesura originaria degli Homocentrica, la struttura
unitaria che Fracastoro ritiene di aver raggiunto tra cosmologia ed astronomia viene presentata secondo il modello del Somnium Scipionis quale
riscoperta di un segreto occulto posseduto dagli antichi. Marcantonio
della Torre appare all’autore in una visione che gli rivela i due moti
continui in latitudine dell’eclittica e dell’equatore celeste che rinviavano
al Timeo – così come l’intera impostazione dell’opera si fonda sulla loro
identificazione con i platonici cerchi del Diverso e dell’Identico – per
risalire di lì a ciò che possedevano gli antichi egizi16. È qui presente un
problema destinato a riaffacciarsi costantemente nella cultura tra Quattrocento e Cinquecento: la riscoperta di ciò che era posseduto nella più
remota antichità è destinato a porsi di fatto – in modo consapevole o
meno – all’origine della rifondazione di intere discipline. Questo accade
in campo scientifico quanto in quelli filosofico e religioso, così spesso
intrecciati tra loro ed è dovuto in parte al fatto che il recupero dell’eredità classica – in particolare di quella greca – pone di fronte ad una
serie tale di problemi che diviene difficile ridurla a semplice accumulo
enciclopedico di materiali, ma si risolve spesso nelle singole discipline
in una ricerca della loro verità.
Certo, la lettera di Liside ad Ipparco che faceva parte originariamente
del primo libro del De Revolutionibus e rinviava alla consegna del ‘silenzio
pitagorico’ poteva avere un significato solo se l’autore avesse mantenuto
la decisione di non pubblicare l’opera. Tale decisione viene presa con
la consapevolezza dei rischi cui andava incontro il suo lavoro da parte
di filosofi – ora sappiamo quali – e teologi. Non per nulla Copernico
accompagna la Prefazione con una lettera inviatagli da un arcivescovo, lo
Schönberg, che testimonia del persistente interesse nella Curia romana
per la sua opera ancora alla data del 1536; così egli sottolinea che ha
scritto per chi aveva gli strumenti per capirlo, se è vero che mathemata
mathematici scribuntur. Retico nella Narratio prima sposta il suo discorso
dal piano strettamente razionale su cui l’aveva mantenuto Copernico – che
pur rinviava subito al presupposto metafisico della razionalità divina – lo
16
Cfr. Peruzzi, La nave di Ermete, cit., pp. 5-11 e 45-54.
Un seminario su Copernico
189
sposta su un piano di cui Copernico, anche a prescindere dalla Lettera a
Liside, non poteva non essere consapevole.
Secondo Retico ciò che Copernico ha compiuto ha la natura di
un’impresa di natura superiore alle forze umane, un’impresa che non
avrebbe potuto essere portata a termine senza il soccorso dell’aiuto divino.
Tale risultato coincide nel suo valore con il disegno a cui ha presieduto
la mente divina e viene ad assumere il valore di una rivelazione. Più
precisamente, la rivelazione di quel libro della natura, che può essere
ora letto tanto nel suo vero significato astronomico quanto, per Retico,
anche astrologico. Il nesso tra cosmologia e matematica proposto dalla
De Pace alla luce dell’inserzione della seconda nella sfera del puro intelligibile può essere tanto la certezza del risultato finale cui approda il De
Revolutionibus, quanto la consapevolezza cui non poteva non giungere
il suo autore che egli non contraddiceva la Scrittura su uno o due punti
ma rinnovava radicalmente la struttura del cosmo secondo la legge stessa
che aveva ispirato il creatore17.
Enrico Peruzzi
L’edizione del primo libro del De revolutionibus copernicano di
Anna De Pace, esemplata sull’autografo conservato nella Biblioteca
Jagellonica di Cracovia, è preceduta da un ampio studio introduttivo,
con una struttura concettuale ed una larghezza di fonti testuali ben al di
là di una semplice introduzione. L’intera argomentazione e l’esegesi del
testo copernicano è fondata sull’assunto del contenuto filosofico, eminentemente ‘onto-gnoseologico’, sotteso al libro primo, ma che, insieme,
certifica l’intera costruzione del pensiero copernicano. Tale prospettiva
esegetica ed interpretativa viene dimostrata attraverso l’accentuazione
di precisi aspetti del testo, surrogata da una ricognizione di fonti affatto
pertinenti e convalidanti, rivolte a confermare le tematiche centrali che
vengono sviluppate dall’Autrice, in particolare la concezione dell’astro-
17
Della vastissima produzione dell’autrice ricordo solo La scepsi, il sapere e l’anima.
Dissonanze nella cerchia laurenziana, LED, Milano 2002; Noetica e scetticismo. Mazzoni
versus Castellani, Cahiers di Accademia, Lucca 2006 e l’Introduzione alla ristampa del
rarissimo I. Mazzonii In universam Platonis et Aristotelis philosophiam Praeludia sive de
Comparatione Platonis et Aristotelis, D’Auria, Napoli 2010, pp. VII-LXXXVIII. Tutta
una serie di lavori preparatori ha preceduto il libro della De Pace: mi limito a segnalare
Galileo interprete del Timeo, in G. Canziani (a cura di), Storia della scienza, storia della
filosofia, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 39-76; Galileo, Ficino e la cosmologia. Ordine,
moti ed elementi in due diverse interpretazioni platoniche, «Rivista di storia della filosofia»,
3, 2006, pp. 469-507.
190
Un seminario su Copernico
nomia come scienza del divino e la conseguente superiore e privilegiata
condizione del suo status epistemico e dottrinale.
Sono queste le basi metodologiche che convergono nel riconoscere
l’assoluta prevalenza del platonismo e della sua tradizione, textibus comprobata, sia per i contenuti fisici e cosmologici del testo copernicano che
come raccordo ricognitivo con fonti alternative all’aristotelismo, prima
fra tutte il pitagorismo.
Accettata, come ritengo si debba accogliere, questa basilare chiave di
lettura del testo copernicano, ne vanno verificate e saggiate le conseguenze
sul piano cosmologico e astrofisico nel cui ambito, giustamente, viene
collocato il De revolutionibus. Si rivela in tal modo la grandezza dell’intento copernicano, il nucleo più autentico e veramente rivoluzionario della
sua opera: la costruzione di una nuova cosmologia, in contrapposizione
e in sostituzione di quella aristotelica, incentrata sulla concezione della
perfezione del movimento circolare, l’unico ritenuto realmente secondo
natura per tutti i corpi presenti nel cosmo e per ciascuna delle loro parti,
e della superiore ‘nobiltà’ del centro rispetto alla periferia del cosmo, con
un sovvertimento radicale della definizione aristotelica della nozione di
sostanza, quale viene esposta in De caelo B 1318. La concezione basilare
della perfezione si attua attraverso la sua applicazione alla figura dei
corpi celesti, quella sferica, ed al suo collegamento con il moto perfetto,
costituito da quello circolare. Aristotelismo puro, si potrebbe obiettare,
fino a questo punto; ma l’indagine copernicana muove proprio di qui,
dall’interno dei fondamenti della fisica aristotelica, la sua demolizione.
Copernico porta alle sue immediate conseguenze proprio la relazione
corpo sferico-movimento circolare: perché la Terra, con la sua sfericità,
dovrebbe essere esclusa dalla collegata perfezione del moto circolare,
18
«I Pitagorici poi (sono di quest’opinione) anche perché ritengono che prima
d’ogni altra sia da salvaguardare la parte più importante del Tutto – ed è il centro che è
tale –, che essi chiamano “custodia di Zeus”, ed è il fuoco occupante questa sede; come
se di “centro” si potesse parlare in assoluto e senz’altra determinazione, e il centro dal
punto di vista della grandezza fosse lo stesso che dal punto di vista della cosa, o che il
centro sotto l’aspetto della natura. Eppure, come nei viventi il centro dell’animale e il
centro (dell’animale in quanto) corpo (fisico) non sono il medesimo, così si deve piuttosto pensare che sia anche per il cielo nel suo tutto. Per questa ragione dunque essi
non dovrebbero inquietarsi per il Tutto, né introdurre una “custodia” al centro di esso,
ma piuttosto ricercare quell’altro centro, (e chiedersi) quale sia la sua natura e dove sia
posto. È quell’altro centro infatti che ha natura di principio, ed è pregevole, mentre il
centro considerato sotto l’aspetto del luogo rassomiglia piuttosto ad una fine che ad un
principio; perché il centro è il circoscritto, mentre il circoscrivente è il limite. Ma è più
pregevole il contenente e il limite che non ciò che è circoscritto dal limite: questo infatti
è la materia, quello l’essenza dell’essere che essi vengono a costituire» (De caelo B 13,
293b1-15; trad. di O. Longo, Sansoni, Firenze 1961, pp. 165-167).
Un seminario su Copernico
191
realizzando così ed inserendosi nella cosmica armonia voluta da Dio
stesso? Motivazione certamente teologica e metafisica, che si pone però
come elemento da convalidare sul piano cosmologico e astronomico,
rivelandosi come l’assunto veramente innovatore del De revolutionibus.
L’Autrice accentua nella sua analisi, peraltro seguendo sempre rigorosamente il procedere del testo copernicano, proprio le motivazioni
fisiche dell’ammissibilità del movimento terrestre, ricercando fonti alternative all’astrofisica ed alla cinematica aristoteliche, individuando in
questo caso fonti platoniche dirette, prima fra tutte il Timeo, medioplatoniche (Plutarco) e pitagoriche, estratte necessariamente, queste ultime,
da testimonianze e frammenti (Cicerone e Plutarco). Ne consegue la
certificazione di un movimento terrestre sostenibile con ragioni almeno
equipollenti a quelle geostatiche.
Si manifesta così una dignitas, quella dell’astronomia, che nel Proemio
dell’opera, assente nella stampa, viene convalidata dall’autorità dei testi
platonici (Timeo, Leggi), diversamente dal rinvio, in questo caso aristotelico, alla nobiltà dell’oggetto della sua ricerca sul quale si era poggiato,
volendo inserire un illustre antecedente, l’elogio del dantesco Convivio19,
ove la scienza del cielo è fatta corrispondere, e per la sua complessità e
per la sua eminenza sulle altre discipline del trivio e del quadrivio, al più
alto dei pianeti, Saturno: un’altezza dottrinale dovuta al suo contenuto,
con il preciso rinvio all’Aristotele del De anima20. Significativo certamente
questo insistito volersi appoggiare ai testi platonici da parte di Copernico,
che palesa la matrice antiaristotelica dell’opera, accentuata nel prosieguo
attraverso la costruzione di una cosmologia e di una astrofisica (ché tale
vuole essere l’astronomia ‘realista’ copernicana) che rivelano la concezione
di un nuovo mondo sostanziato dalla perfezione dei moti circolari celesti e
dalla centralità fisica e metafisica della lampas che perpetuamente infonde
la sua luce vivificante nel pulcherrimum templum, nel quale al corpo più
19
«E lo cielo di Saturno hae due proprietadi per le quali si può comparare a l’Astrologia: l’una si è la tardezza del suo movimento per li dodici segni, ché ventinove anni
e più, secondo le scritture de li astrologi, vuole di tempo lo suo cerchio; l’altra si è che
sopra tutti li altri pianeti esso è alto. E queste due proprietadi sono ne l’astrologia: ché nel
suo cerchio compiere, cioè ne lo apprendimento di quella, volge grandissimo spazio di
tempo, sì per le sue [dimostrazioni], che sono più che d’alcuna de le sopra dette scienze,
sì per la esperienza che a ben giudicare in essa si conviene. E ancora è altissima di tutte
l’altre. Però che, sì come dice Aristotile nel cominciamento de l’Anima, la scienza è alta
di nobilitade per la nobilitade del suo subietto e per la sua certezza: e questa più che
alcuna de le sopra dette è nobile e alta per nobile e alto subietto, ch’è de lo movimento
del cielo; e alta e nobile per la sua certezza, la quale è sanza ogni difetto, sì come quella
che da perfettissimo e regolatissimo principio viene» (Convivio II xiii, 28-30; ed. C. Vasoli,
Ricciardi, Milano-Napoli 1988, pp. 240-243).
20
De anima A 1, 402a1-4.
192
Un seminario su Copernico
nobile (qui sì restando fedele all’aristotelismo, ma solo per sovvertirlo
subito) si confà il luogo più nobile, che in Copernico, in stretta aderenza
alla dottrina pitagorica criticata invece da Aristotele, diviene esattamente
il centro del cosmo, contro l’opposta affermazione del ricordato luogo di
De caelo B 13 che dava al limite contenente, e quindi alla sfera ultima del
cosmo, il ruolo definiente l’essenza del Tutto. Valenza definitoria a livello
ontologico che ora viene invece assunta dal centro, con la sua dichiarata
superiore perfezione rispetto al limite estremo; centro che, proprio perché
nobilior locus21, non può che accogliere in sé il corpo più perfetto con
il suo ruolo di reggitore dell’intera compagine cosmica, novello Apollo
Musagete nella cosmica armonia del Tutto22.
La demolizione più radicale della fisica aristotelica si realizza ancor
più chiaramente nella concezione del movimento naturale e dello stato di
quiete. Tutti i corpi presenti nel cosmo sono dotati, per se e ab initio, del
moto circolare. Esso si qualifica come l’unico secondo natura, venendo
in tal modo a stabilire un’ assoluta unità cinematica nelle ‘due sfere’
aristoteliche, quella celeste e la sublunare: una ed una sola è la naturalità
del moto, quella del movimento circolare del mondo celeste che ingloba
in sé la cinematica sublunare dei movimenti rettilinei non più ‘secondo
natura’ dei quattro elementi. Per Copernico il movimento naturale della
Terra, in necessaria correlazione con la sua sfericità, è solo quello circolare, nel suo insieme e in ciascuna delle sue parti. Questa assolutizzazione
della circolarità e della sfericità porta con sé l’unicità del moto secondo
natura per l’intero cosmo e la conseguente, seppur taciuta da Copernico,
omogeneità della fisica (e questo l’aveva ben capito Bruno, con il suo rim21
«Ma anche molti altri sarebbero tratti a concordare con essi [i Pitagorici] nell’asserire che non si debba dare alla terra come proprio luogo il centro, e la fede di ciò la
ricavano non dall’osservazione dei fenomeni, ma piuttosto dalle loro argomentazioni.
Ritengono infatti che la sede più pregevole spetti al corpo più pregevole, ma il fuoco è
più pregevole della terra, e il limite di ciò che dal limite stesso è contenuto, ma limite sono
l’estremo e il centro. Per modo che, traendo da questi argomenti le loro deduzioni, essi
ritengono che non la terra si trovi al centro della sfera (celeste), ma piuttosto il fuoco»
(De caelo B 13, 293a27-b1; trad. cit., p. 165).
22
«In medio vero omnium residet Sol. Quis enim in hoc pulcerrimo templo
lampadem hanc in alio vel meliori loco poneret: quam unde totum simul possit illuminare?
Siquidem non inepte quidam lucernam mundi: alij mentem: alij rectorem vocant.
Trimegistus visibilem deum. Sophoclis Electra intuentem omnia. Ita profecto tamquam
in solio regali Sol residens circumagentem gubernat astrorum familiam» ( «In mezzo a
tutti posa il Sole. Chi, infatti, in questo bellissimo tempio, porrebbe questa lampada in un
luogo diverso o migliore di quello da cui può illuminare contemporaneamente tutto? Non
inappropriatamente alcuni lo chiamano lucerna del mondo, altri intelletto, altri rettore.
Trismegisto [lo chiama] dio visibile, l’Elettra di Sofocle l’onniveggente. Così, certamente,
come assiso su un soglio regale, il Sole governa la famiglia degli astri che lo attornia»; De
revolutionibus I 10, ed. e trad. di A. De Pace, pp. 276 e 378-381).
Un seminario su Copernico
193
provero del valore ‘aurorale’ della cosmologia copernicana)23. In una tale
prospettiva, di un movimento naturale circolare per tutte le componenti
del cosmo, la definizione di quiete assume un valore meramente relativo
di stasi di un corpo rispetto ad un altro, mentre nella realtà sia ciascuna
parte che il tutto sono sempre in perenne movimento circolare nel cosmo.
Copernico viene in tal modo presentato come astronomo nel senso
bruniano di «fisico che dimostra il moto de la Terra»24; l’astronomia come
scienza dei moti non può essere relegata a semplice calcolo matematico
e, quindi, ridotta, come avrebbe voluto Osiander, a mero espediente
fenomenistico. Copernico utilizza la componente matematica, peraltro
ineludibile, ma fornisce una reale dimostrazione fisica, fatta cioè di contenuti fisici, del moto terrestre, saldamente fondati sulla metodologia
ipotetica platonica e, insieme, sull’altrettanto platonica concezione della
bellezza dell’universo, del suo divino ordinamento realizzato «guardando
al modello eterno» dell’armonia, come indicato dalla cosmogonia del
Timeo25. Una lettura ed una prospettiva esegetica, queste, che ripropongono, da una parte, quello che era stato l’attacco bruniano contro «l’asino
pedante e presuntuoso» Osiander, il «bel portinaio» più volte schernito
nella Cena26, con il suo utilitarismo dell’ipotesi matematica, sovvertito23
«Chi dunque sarà sì villano e discortese verso il studio di quest’uomo, che, avendo
posto in oblio quel tanto che ha fatto, con esser ordinato dagli dei come una aurora, che
dovea precedere l’uscita di questo sole de l’antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta
nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva ed invida ignoranza […]?» (La
cena de le Ceneri, dial. I, in G. BRUNO, Dialoghi Italiani, ed. G. Gentile – G. Aquilecchia,
Sansoni, Firenze1958, p. 29).
24
«Da le quale paroli [di Copernico] non si può raccorre, che lui dubiti di quello
che sì constantemente ha confessato, e provarà nel primo libro, sufficientemente respondendo ad alcuni argomenti di quei che stimano il contrario; dove non solo fa ufficio di
matematico che suppone, ma anco de fisico che dimostra il moto de la terra» (Ivi, dial.
III; ed. cit., p. 90).
25
« Noi poi diciamo che quello ch’è nato deve necessariamente esser nato da qualche
cagione. Ma è difficile trovare il fattore e padre di quest’universo, e, trovatolo, è impossibile
indicarlo a tutti. Pertanto questo si deve invece considerare intorno ad esso, secondo qual
modello l’artefice lo costruì: se secondo quello che è sempre nello stesso modo e il medesimo, o secondo quello ch’è nato. Se è bello questo mondo, e l’artefice buono, è chiaro
che guardò al modello eterno: se no, – ciò che neppure è lecito dire –, a quello nato. Ma
è chiaro a tutti che guardò a quello eterno: perché il mondo è il più bello dei nati, e dio
il più buono degli autori. Il mondo così nato è stato fatto secondo modello, che si può
apprendere con la ragione e con l’intelletto, e che è sempre nello stesso modo» (Timaeus
28c-29a; trad. C. Giarratano, in PLATONE, Opere, Laterza, Bari 1967, II, pp. 477-478).
26
«Or vedete, che bel portinaio! Considerate quanto bene v’apra la porta per farvi
entrar dentro alla participazion di quella onoratissima cognizione, senza la quale il saper
computare e misurare e geometrare e perspettivare non è altro che un passatempo da
pazzi ingeniosi. Considerate come fidelmente serve al padron di casa» (La Cena de le
Ceneri, dial. III; ed. cit., p. 89).
194
Un seminario su Copernico
re dell’autentico significato fisico-cosmologico del De revolutionibus;
dall’altra, quella impostazione armonica della concezione del Tutto che
di lì a poco troverà la sua più mirabile conferma nella Harmonice mundi
kepleriana, che di questo copernicanesimo, cosmologico e teologico,
riproporrà in una forma ancor più dilatata la perfezione dei moti celesti e
della struttura matematica dell’intera realtà fisica come opera di assoluta
perfezione del Massimo Artefice.
Aver posto l’accento sulla cinematica del De revolutionibus è sicuramente uno dei meriti maggiori dell’Autrice, perché è proprio questa la
strada, fatta di esegesi testuale e ricognizione delle fonti, che ci chiarifica
la portata innovatrice dell’opera copernicana: quella di una rigorosa filosofia della natura che demolisce il mondo geocentrico e geostatico delle
due fisiche, ben al di là delle pur mirabili armonie della teologia cosmica
kepleriana ora ricordata, che ben giustifica il riconoscimento galileiano27
di Copernico come primo, autentico Praeceptor della nuova filosofia della
natura e della sua creatura, il gran «libro del mondo» scritto con il divino
nitore del linguaggio matematico.
Anna De Pace, La nuova fisica copernicana nella fondazione del sistema
eliocentrico
Tra i molteplici temi filosofici che s’intrecciano nel processo dimostrativo del Libro I del De revolutionibus con cui Copernico conclude
il principio certo e vero dell’assetto del mondo28, ritengo importante
soffermarsi sulla teoria fisica esposta nei capitoli 8 e 9. Non perché, nelle
intenzioni dell’autore, essa servisse a dare una fondazione di verità alla
rappresentazione del cosmo. Tale compito, che la tradizione aristotelica
riservava alla filosofia naturale, Copernico, secondo canoni platonici cui
aderisce chiaramente nel suo Proemio al Libro I29, affida all’astronomia,
27
Cfr. il rinvio alla lettera di Galileo a Keplero (Padova, 4 agosto 1597) citata
nell’Introduzione, p. 68, nota 189.
28
Il principio in questione è, com’è noto, il moto annuo della Terra che consente
di verificare la norma che lega periodi e grandezze orbitali: cfr. Niccolò Copernico, De
revolutionibus caelestibus, I 10, in particolare, pp. 371.70-384.139 (qui e in seguito i
riferimenti sono alla recente edizione da me curata del Libro I del De revolutionibus, nel
volume Niccolò Copernico e la fondazione del cosmo eliocentrico, Bruno Mondadori, Milano
2009). Ricordo che nel manoscritto originario di Copernico il Libro I si costituiva di 11
capitoli, l’undicesimo essendo dedicato alla dimostrazione del triplice moto della Terra,
necessario a spiegare il variare delle stagioni e la diversa lunghezza dei giorni e delle notti.
29
Per le citazioni nascoste dei dialoghi di Platone di cui s’intesse il Proemio al Libro I redatto da Copernico, Proemio assente dalle prime edizioni e ritrovato solo a metà
Ottocento, rinvio all’Introduzione del volume sopra citato: Copernico filosofo, pp. 18-21.
Un seminario su Copernico
195
o meglio, a quell’astronomia che Platone, specialmente nel VI e VII della
Repubblica, invitava a riformare in senso filosofico grazie al metodo dialettico: solo così si poteva superare il carattere ipotetico intrinseco alla
disciplina e arrivare all’acquisizione epistemica della bellezza intelligibile
dei cieli, ossia dell’ordinamento planetario e dell’invariante armonia matematica che in esso si esprime, manifestazione eminente dell’intelligenza
e bontà divine. Tuttavia, nella lezione di Platone colta perfettamente da
Copernico, tale ruolo primario dell’astronomia non autorizzava affatto
a tralasciare l’indagine fisica. Per quanto il filosofo avesse spiegato che le
cause fisico-meccaniche non sono in grado di fondare il sapere proprio
dell’anima – e in tale sapere faceva rientrare l’idea di armonia30 – né di
fornire risposte univoche e cogenti ai problemi che si presentano alla
ragione, aveva sottolineato, in particolare nel Fedone e nel Timeo, che esse
non possono essere trascurate da chi «ama l’intelligenza e la scienza»31.
Ora, che proprio su questi aspetti teoretici Copernico non sia riuscito a conseguire risultati adeguati a un’interpretazione realistica della
cosmologia eliocentrica e a salvare i fenomeni che si arguiva si sarebbero
prodotti su una Terra in rotazione è, com’è noto, un tema sul quale la
storiografia copernicana ha espresso un giudizio sostanzialmente unanime, per quanto variamente modulato.
È mio proposito qui cercare di illustrare la coerenza e la novità
della trattazione fisica copernicana, non senza però alcune avvertenze
preliminari.
Innanzitutto sul genus scribendi dell’autore, non solo sempre assai
conciso nello svolgere la sequenza logica delle sue dimostrazioni, ma anche
poco preoccupato di esplicitare le conseguenze delle sue conclusioni32,
30
Cfr. Phaed. 79c-e. Giova sottolineare l’adesione a questa concezione che Copernico esprime nel commentare l’idea di anima-armonia che è al centro delle considerazioni socratiche in alcune pagine del Fedone: «Socrate – afferma Copernico – respinge
l’opinione di coloro che chiamavano l’anima ‘armonia’. E lo fece giustamente se per
armonia essi intendevano null’altro che una mescolanza di elementi corporei. Ma se
definivano l’anima un’armonia, perché solo l’anima umana oltre agli dèi comprende
l’armonia, […] allora la loro opinione non sembrerà errata». È una testimonianza
istruttiva conservataci da Retico nell’Elogio della Prussia: cfr. G.J. Rheticus, De libris
Revolutionum Narratio prima (d’ora innanzi Narratio), ed. critica, trad. e comm. a
cura di H. Hugonnard-Roche e J.-P. Verdet, con la collaborazione di M.-P. Lerner e
A. Segonds, Ossolineum, Wroclaw-Warszawa-Kraców-Gdańsk-Lodz 1982 («Studia
Copernicana» XX), p. 86.199-204; trad. it. in Opere di Nicola Copernico, a cura di F.
Barone, UTET, Torino 1979, pp. 835-836.
31
Cfr. Phaed. 97b-99d; Tim. 46c-e, 48a5-7, 68e-69a.
32
Il primo aspetto sottolinea anche Galileo nella Giornata Seconda del Dialogo sopra
i due massimi sistemi del mondo, dove l’estrema concisione dei ragionamenti e confutazioni
presenti nel Libro I del De revolutionibus viene giustificata con l’«altezza dell’ingegno»
dell’autore e il suo sprofondamento nelle «maggiori e più alte contemplazioni»: cfr. G.
196
Un seminario su Copernico
nonché reticente a dichiarare le auctoritates coinvolte nei suoi ragionamenti, con il risultato che, poiché fonti e passi sono spesso indispensabili
per comprendere gli argomenti, quando gli uni sfuggano, sfugge anche il
rigore degli altri. Tuttavia, una testimonianza preziosa che mette in chiaro
le coordinate della riflessione fisica copernicana, viene fornita da Retico
nell’Elogio della Prussia, laddove, introducendo Giese a rammentare succintamente le questioni esaminate nel De revolutionibus («se sia veramente
dimostrato che il centro della Terra è il centro dell’universo e, nel caso
che la Terra fosse sollevata nell’orbe della Luna, che parti staccate dalla
Terra non ritornerebbero al centro del loro globo; […] se siano necessariamente violenti i moti circolari attribuiti alla Terra; infine, […] se possano essere separati in atto i tre movimenti dal centro, al centro e intorno
al centro»), fa sapere che il suo maestro era perfettamente consapevole
dell’inconcludenza delle prove con cui Aristotele sosteneva l’immobilità
della Terra al centro, e aveva acquisito il convincimento che nel Timeo
e nei documenti «pitagorici» fossero esposti temi e argomenti a favore
della mobilità terrestre che restavano saldi alla prova della confutazione
aristotelica33. La qual cosa ci suggerisce che per comprendere le soluzioni
fisiche adottate nel Libro I dobbiamo volgere lo sguardo al Timeo, e per
afferrare pienamente la confutazione copernicana delle tesi aristoteliche
è necessario aver presente soprattutto il De caelo, dove si concentrano le
critiche alla speculazione naturale di Platone.
Un ultimo aspetto che occorre mettere a fuoco è il metodo dimostrativo con cui procede Copernico, un aspetto al quale egli annette grandissima
importanza, se nella Dedica al Pontefice ravvisa nel cattivo uso del metodo
ciò che ha impedito ai suoi predecessori di fornire una soluzione adeguata
alle apparenze celesti e soprattutto di cogliere «la cosa principale, ossia la
bellezza del mondo e la certa simmetria delle sue parti»34.
Nonostante queste dichiarazioni, è restata inavvertita l’esigenza di
capire a quale metodo egli alludesse, e si è dato per scontato che il perGalilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (d’ora innanzi Dialogo), in Le Opere
di Galileo Galilei, Edizione Nazionale a cura di A. Favaro, Giunti e Barbera, Firenze
1890-1909, rist. 1968, 20 voll.; VII, p. 194. Sul secondo aspetto siamo istruiti per esempio
dalla Narratio prima di Retico, laddove viene esplicitato che tra i cosiddetti orbi o cieli
planetari del sistema eliocentrico vi sono spazi vuoti o inoccupati di notevoli dimensioni,
ma non immensi come l’intervallo che occorre postulare tra Saturno e la sfera delle stelle
fisse: cfr. G.J. Rheticus, Narratio, ed. cit., pp. 60.99-101, 59.42-45; trad. it. cit., pp. 784785, 781-782. Tale considerazione Retico ricavava certamente dall’esame del manoscritto
copernicano, ma qui questa conseguenza non viene né dichiarata né sottolineata.
33
Cfr. G.J. Rheticus, Narratio, ed. cit., pp. 85.154-86.167.
34
Cfr. Copernico, De rev. cael., p. 251.80-85. Per le considerazioni che inducono
a ritenere che l’allusione sia al metodo ipotetico delineato da Platone, cfr. A. De Pace,
Copernico filosofo, cit., in specie pp. 95-104.
Un seminario su Copernico
197
corso dimostrativo del Libro I segua quello di una costruzione dottrinale
che si amplia e si articola progressivamente a partire dalle premesse
fondamentali stabilite nei primi quattro o cinque capitoli. Il punto però,
come si accennava, è che tale interpretazione porta a valutare alquanto
severamente l’apparato fisico-speculativo del De revolutionibus, riducendolo a una sorta di bricolage concettuale costruito in modo approssimativo
con idee prese a prestito dalla tradizione aristotelica e modificate qua e là
per accomodarle alla mobilità della Terra. Il risultato, aggiungo, sarebbe
a tal punto insoddisfacente che l’intero Libro I si configurerebbe come
un coacervo di tesi contraddittorie. In effetti – per citare solo i tratti più
evidenti –, mentre nel capitolo 1 si afferma che il mondo è sferico e finito,
nel capitolo 8 la finitezza o infinità del mondo viene dichiarata questione
indecidibile per l’intelletto umano35. Inoltre, mentre nei capitoli 1 e 2 la
forma sferica dei corpi celesti è giustificata con la loro natura divina e
quella della Terra con la gravità delle parti che insistono sul suo centro36,
nel capitolo 9 tale gravità viene estesa a tutti i corpi integrali quale causa
della formazione e della conservazione della loro forma37. Ancora: se
nel capitolo 4 il moto circolare uniforme è rigorosamente vincolato alla
struttura omeomera della materia celeste – il suo corpus simplicissimum,
causa fisica della perfetta sfera geometrica –, nel capitolo 8 esso appartiene naturalmente alla Terra nonostante la dissomiglianza o disparitas
delle sue parti costitutive38.
Se è ovviamente inaccettabile attribuire così vistose incoerenze a
un grande della storia del pensiero, credo anche corrisponda ai compiti
propri della storiografia tentare vie che evitino di liquidare con la fragilità
teoretica dell’autore o le sue timidezze verso l’incompatibile tradizione
dominante la nostra difficoltà a trovare una chiave di lettura in grado di
disserrare il rigore e l’originalità della sua riflessione. Ora, la sola via che, a
mio avviso, consente di soddisfare quest’impegno e, insieme, di risolvere le
apparenti contraddizioni testuali è di ravvisare nel processo dimostrativo
evocato da Copernico nella Dedica a Paolo III, e cui evidentemente egli
Cfr. De rev. cael., rispettivamente I 1, p. 257.1-5 ; I 8, p. 268.35.
Cfr. ivi, rispettivamente I 1, p. 257.9.10; I 2, p. 257.12-13.
37
Cfr. ivi, I 9, p. 271.10-15.
38
Il termine compare nel capitolo 4 (cfr. De rev. cael., p. 261.36) dove Copernico
riporta l’opinione di Tolomeo (cfr. Syntaxis Mathematike, I 3, Pars I, pp. 13.21-14-16 ed.
Heiberg; trad. it. in F. Franco Repellini, Cosmologie greche, Loescher, Torino 1980, p.
287) sulle ragioni fisiche che vincolavano i corpi celesti eterei al moto circolare uniforme:
l’omeomeria delle loro parti costitutive, aveva affermato l’alessandrino, determina alla
superficie una perfetta forma sferica di parti tra loro simili; specularmente, alla Terra è
invece negato quel moto perché le sue parti, pur foggiate dalla natura in figure rotonde,
sono caratterizzate dalla dissimiglianza o anomeomeria – termine, quest’ultimo, che
Copernico rende latino appunto con disparitas.
35
36
198
Un seminario su Copernico
stesso intende attenersi, il metodo ipotetico sul quale Socrate si era premurato di fornire istruzioni specialmente nel Fedone e nella Repubblica,
nella convinzione che, in assenza della rivelazione divina, esso fosse il solo
mezzo di cui l’uomo dispone per attingere alla verità39. In questa direzione
spingono peraltro non solo i tanti temi e motivi platonici di cui è punteggiato, apertamente o nascostamente, il testo copernicano, ma soprattutto
il fine, d’inequivocabile matrice platonica, cui è ordinato il percorso
dimostrativo – la scoperta della bellezza del mondo –, nonché i risultati
raggiunti da alcuni studiosi, i quali hanno messo a fuoco sia l’accezione
inusuale e platonica in cui Copernico assume il termine «ipotesi»40, sia il
carattere probabile delle conclusioni cui perviene il suo ragionamento in
ambito fisico, sia, ancora, la singolarità del suo metodo, non rapportabile,
osservava Aleksander Birkenmajer, a quello di nessun altro astronomo41.
Ricordo qui brevemente (scusandomi degli inevitabili schematismi)
in che consiste il metodo ipotetico platonico42. Si tratta innanzitutto
di adottare le opinioni sulle quali si registra, per quanto vagamente,
un iniziale accordo tra le parti, giacché è necessario che la discussione
prenda avvio dalle risposte date dagli interlocutori intorno alle questioni
Cfr. Phaed. 93d.
L’osservazione che Copernico usi come sinonimi principium, assumptio e hypothesis risale al Three treatises di Rosen del 1939 (cfr. E. Rosen, Three Copernican Treatises,
Dover Publications, New York 1971 [19391], pp. 29-33), ed è stata generalmente accolta
dagli studiosi, alcuni dei quali (per esempio F. Barone, Introduzione a Opere di Nicola
Copernico, cit., p. 49, e H. Blumenberg, The genesis of the Copernican world, MIT Press,
Cambridge [Ma.], 1987, p. 216; trad. inglese del volume tedesco apparso nel 1975)
giustamente hanno richiamato più in specifico l’ascendenza platonica. Per il significato
di «ipotesi» in Platone, si può utilmente rinviare a R. Robinson, Plato’s earlier dialectic,
Clarendon Press, Oxford 19532, p. 95: «ὑποτίθημι o ‘ipotizzare’ […] equivale a porre
una proposizione come inizio di un processo di pensiero sulla cui base lavorare, […] cioè
ricavarne conseguenze o respingere proposizioni che si trovano a essere contraddittorie,
per ottenere un corpo di proposizioni sistematico o almeno coerente». In modo corrispondente, nell’ambito teoretico hypothesis significa ciò che è posto come «un inizio di
deduzione; […] come la proposizione posta quale punto di partenza verso un sistema
di proposizioni» (ivi, p. 99). Ma l’ipotesi non è qualcosa che vanti statuto epistemico
né qualcosa di definitivo: è una proposizione che noi adottiamo deliberatamente «con
la consapevolezza che dopo tutto può essere falsa» (p. 94). Lo studioso aggiunge che
sebbene possa cogliersi una tendenza in Platone a usare τίθημι come conclusione di un
processo di ragionamento, e ὑποτίθημι come preliminare per successive affermazioni, tale
tendenza tuttavia «non è mai cristallizzata».
41
Cfr. A. Birkenmajer, Copernic comme philosophe, in Le Soleil à la Renaissance.
Sciences et mythes, Presses Universitaires de Bruxelles – Press Universitaires de France,
Bruxelles-Paris 1965, pp. 11-14.
42
Per una trattazione ampia e articolata del metodo ipotetico platonico, basti qui
rinviare allo studio già citato di Robinson, Plato’s earlier dialectic; ulteriori riferimenti
alla bibliografia critica fornisco nel mio Copernico filosofo, pp. 96 sgg.
39
40
Un seminario su Copernico
199
che sono oggetto d’esame; resta però che esse sono proposizioni provvisorie, passibili di essere sostituite in parte o integralmente in una fase
più avanzata del percorso razionale. La ricerca vera e propria interviene
quando s’incorre in una materia che si presta a un dubbio reale, o perché è un sapere non saldo, ossia un’opinione vera non ancora capace
di sorreggersi razionalmente in modo da essere inattaccabile, oppure
perché è un falso sapere, un non-sapere, di cui Platone giudicava importante smascherare gli errori logici, essendo essi il segno di fuorvianti
e inadeguate concezioni della realtà: quelle che intendono l’esistente
come il prodotto di cause meccaniche e materiali e pensano di fare a
meno dell’arte divina43. Lo strumento che mette in scacco questo tipo di
dottrine è lo scrutinio elenctico, e il passaggio che esso determina da un
inconsapevole falso sapere a una consapevole ignoranza Platone indica
come il primo grande acquisto lungo la strada della conoscenza44. Quando
poi il passaggio dalla persuasione all’incertezza, ossia la sostituzione di
opinioni ingenue o comuni con aporie, è esposto a generare sfiducia nei
ragionamenti o nelle proprie capacità, soprattutto se l’indagine verte
intorno a una materia difficile, purché si sia acquistata consapevolezza,
attraverso l’esercizio dello stesso elenchos, che l’insuccesso è dipeso da
un’imperizia nell’arte logica e dall’adesione a opinioni e principi troppo
dipendenti dalla sensibilità, e purché non si smetta di credere nell’esistenza della verità, il metodo «richiama in vita» il logos, invitando a
«ricominciare da capo». È una formula ricorrente nei dialoghi platonici
a indicare la ripresa del ragionamento su nuove basi o da un altro punto
di vista. Questa fase metodologica costruttiva si esplica nell’assumere
l’ipotesi che risulta ormai la più forte, ossia la proposizione contraddittoria a quella rivelatasi inconsistente alla prova della ragione, e da qui
esplorare le conseguenze in modo da costruire un insieme coerente di
proposizioni in accordo tra loro e con l’ipotesi assunta. Il percorso che
così si configura, secondo anche i chiarimenti forniti dall’interpretazione
ficiniana, si svolge in ambito fisico45, ma risalendo questa volta, nella
43
In Leg. X, 889b-c, per esempio, sottolinea come non sia affatto da trascurare
il compito di evidenziare le difficoltà di tipo logico, nelle quali incorrono le teorie che
«all’origine dell’intero cielo e di tutto ciò che è nel cielo» pongono non «l’azione di una
mente, né di un dio o di un’arte», ma gli elementi primi e le qualità naturali e il caso; e
poco più avanti (891d) ribadisce: «esamina anche tu, analizzando, ogni discorso loro;
perché sarebbe molto importante se a noi risultasse che coloro che si sono attaccati a
dottrine empie […] neppure del discorso sanno usar bene, ma commettono errori».
44
Cfr. Men. 84a-d.
45
Cfr. Ficino, Argumentum in Septimum Librum de Iusto, in Plato, Opera. Marsilio
Ficino interprete, Florentiae, Jacobus de Ripolis et Larentius Venetus, 1484-85, 3 tomi,
t. II, sig. tviiib1-2; (= Marsilii Ficini Florentini Opera et quae hactenus extitêre et quae in
lucem nunc primum prodiêre omnia, Basileae, Henricpetri 1576, 2 voll; ed. facsimile con
200
Un seminario su Copernico
ricerca delle cause, a un livello più elevato che colga i principi ultimi dei
corpi materiali, capaci di rendere conto delle qualità sensibili e delle loro
operazioni, di temperamenti e di mescolanze, dei fenomeni di dilatazione
e di condensazione, e insomma di tutte le trasformazioni e generazioni
che si susseguono incessantemente nel mondo naturale. È una funzione
cui nel Timeo corrispondono gli impercettibili corpuscoli geometrici di
differente grandezza e figura che il demiurgo assegna ai corpi primari
(terra acqua aria fuoco)46, e che non senza ragione Plutarco, Proclo e
Simplicio associavano agli atomi democritei47.
Pur così costruita, tuttavia, la teoria fisica, nella visione di Platone,
resta confinata nell’ambito della probabilità, riflettendo in tale insufficienza epistemologica il rango ontologico subordinato che spetta alle
cause naturali e meccaniche, meri strumenti di cui si avvale la causa vera
e divina per perseguire i propri scopi. Se il dio è l’artefice intelligente del
mondo, ragionava Socrate, pensare di affidarsi alle sole cause naturali per
risolvere il problema dell’ordinamento cosmico sarebbe del tutto «fuori
luogo». Sarebbe come se qualcuno, dopo avere affermato che Socrate
è intelligente, per spiegare la presenza di Socrate in carcere allegasse la
composizione di ossa e nervi e la disposizione delle articolazioni, ignorando che egli sta lì perché sembrò ‘meglio’ agli Ateniesi decretare la
sua condanna e a Socrate non sottrarvisi. Il corpo di Socrate potrebbe
essere a Megara o in Beozia, e così le medesime cause fisiche si presterebbero a essere utilizzate per spiegare due eventi del tutto antitetici: in
altre parole, non li spiegherebbero affatto48. In realtà, per quella via che
trascura il ruolo di ciò che è primario a vantaggio di ciò che è secondario, non si può sfuggire a una molteplicità di risposte, nessuna delle
quali risulterà cogente. La certezza della verità, piuttosto, va cercata a
un livello onto-gnoseologico superiore, dove è possibile per il pensiero
prefazione di S. Toussaint, Phénix, Paris 2000, II, p. 1411).
46
Cfr. Tim. 53c-55c. Com’è noto, i solidi regolari sono il cubo, l’icosaedro, l’ottaedro e il tetraedro, assegnati rispettivamente a terra, acqua, aria e fuoco, i cui costituenti
ultimi invarianti sono però i triangoli elementari. Un’analisi magistrale di queste pagine
del Timeo volta a chiarire le ragioni che giustificano la riduzione dei costituenti atomici
della materia ai due triangoli rettangoli scaleno (i cui tre lati sono nella proporzione
1:√3:2) e isoscele (i cui lati sono nella proporzione 1:1:√2) fornisce F. M. Cornford, Plato’s
cosmology. The Timaeus of Plato translated with a running commentary, Routledge &
Kegan Paul, London 1966 (1937), pp. 210-239. Cfr. anche G. Vlastos, Plato’s universe,
Clarendon Press, Oxford 1975, pp. 70-79.
47
Cfr. Plutarco, De pr. frig., 948b-c; Simplicio, In de Caelo [III 1, 299a2], pp. 564.10565.22, 640, 668 ed. Heiberg (CAG VII). Per i luoghi procliani ci si può utilmente riferire
a L. Siorvanes, Proclus. Neo-platonic philosophy and science, Edinburgh University Press,
Edinburgh 1996, in specie pp. 219-232.
48
Cfr. Phaed. 98c-99a.
Un seminario su Copernico
201
attingere a «qualcosa di autosufficiente», o come si esprimerà nel VI
della Repubblica, a «un principio anipotetico rivolto verso il principio
del tutto». Tale livello superiore, secondo la dottrina esposta da Platone
in più dialoghi ma specialmente nella Repubblica, è l’ambito intelligibile
delle matematiche e in particolare dell’astronomia, riformata però in
senso filosofico nel compimento di quelle procedure che assicurano
l’acquisizione epistemica del migliore ordinamento possibile predisposto
dall’artefice del cielo per le cose più belle.
Quando Copernico affronta l’esame delle questioni fisiche nei capitoli 8-9, egli ha già esposto nei primi quattro capitoli le opinioni intorno
alle quali sussiste un accordo piuttosto ampio nella comunità scientifica
e filosofica: tali opinioni, riportate seguendo per lo più l’ordinamento
tematico del libro I dell’Almagesto, concernono la forma sferica del
mondo e dei corpi celesti, nonché la forma «globosa» della Terra dove
la quantità di terra prevale sull’acqua e il centro di gravità coincide con
quello geometrico; concernono, infine, i moti circolari uniformi che
competono alla sfera del mondo e alle varie sfere celesti per via della
loro struttura materiale omeomera, moti che, opportunamente composti,
spiegano le varie irregolarità degli astri erranti49. Proprio a partire dalla
necessità in cui si era trovato Tolomeo di rimuovere la Terra dal centro
dei circuiti planetari per render conto della variazione delle distanze,
nel capitolo 5 Copernico si è anche soffermato a esplicitare i dubbi reali
che, a meno di non rinunciare al conseguimento della verità, inducono a
riesaminare la questione fondamentale dell’immobilità della Terra e della
sua posizione centrale nella sfera cosmica50. Poi, nel proposito di risolvere
quest’incertezza, ha già cominciato a sottoporre al vaglio critico le rationes
con cui gli avversari, soprattutto Aristotele e Tolomeo, pretendevano di
dimostrare l’assetto del loro cosmo. Così, nel capitolo 6 si è già occupato
degli argomenti «geometrici», mostrando come essi, svolti correttamente,
irrobustissero semmai il dubbio sulla rotazione diurna della Terra, e certo
non potessero legittimamente concludere la centralità del suo luogo51.
È a questo punto che Copernico affronta le questioni fisiche, avendo
prima avuto cura di riportare con sintetica precisione – a ciò è riservato il capitolo 7 – le proposizioni fondamentali sulle quali si doveva
presumere che Aristotele e Tolomeo facessero maggiore affidamento.
La gravità quale causa naturale che spinge i corpi di terra e a fortiori
49
Per l’esposizione di questi primi capitoli e il riferimento ad alcune delle fonti
che vi sono richiamate, rinvio al mio Copernico filosofo, cit., pp. 104-112 e al Commento
storico-critico che correda la traduzione, pp. 313-334.
50
Vedi Copernico filosofo, cit., pp. 112-116; Commento, pp. 334-338.
51
Vedi Copernico filosofo, cit., pp. 116-119; Commento, pp. 338-344.
202
Un seminario su Copernico
l’intera Terra a portarsi verso il centro dell’universo per ivi quietarsi, e
la distinzione dei moti semplici naturali e dei rispettivi corpi semplici:
queste le giustificazioni teoretiche fatte valere nel De caelo52. Per parte
sua Tolomeo – così Copernico legge Almagesto, I 7 –, accogliendo la
dottrina aristotelica dei moti naturali, si soffermava sugli effetti violenti
che conseguirebbero alla rotazione «impetuosissima» della Terra, ossia
la dispersione dei corpi terrestri, anzi dell’intera Terra, provocata dalla
sua enorme velocità53. Infine, Copernico ricorda i fatti d’esperienza con
cui gli avversari convalidavano la loro teoria: la caduta perpendicolare
dei gravi, e la sospensione nell’aria delle nuvole e di qualsiasi altro corpo,
senza che siano soggetti a uno spostamento celerissimo verso ovest54.
Quel che dobbiamo aspettarci secondo i moduli del metodo ipotetico è che Copernico in primo luogo eserciti ancora una volta l’elenchos
socratico, e se da ciò risulterà che gli argomenti sopra ricordati conducono alla negazione dell’immobilità della Terra, che egli riprenda da capo
il processo del pensiero sulla base dell’ipotesi che è ormai la migliore,
costruendo una teoria coerente con proposizioni meno ingenue, ossia
meno dipendenti dall’immediatezza dei sensi; sarebbe però fuori luogo
aspettarsi che tale teoria sia in grado di dare risposte certe al problema
della costituzione del mondo.
La confutazione degli argomenti aristotelici è tutta contenuta nella
seguente affermazione: «ma in verità se qualcuno ritiene che la Terra gira,
dirà senz’altro che tale moto è naturale, non violento»55, cooperando
all’ordine eterno del mondo. Il passo specifico del De caelo che qui Copernico ha in mente è II 14, 296a24-b3, in cui Aristotele, per contestare
la tesi «pitagorica» del moto planetario della Terra e quella platonica
della sua rotazione assiale, così argomenta: nell’uno e nell’altro caso quel
moto dovrebbe di necessità essere naturale ed eterno, perché il moto eterno conviene all’ordine eterno del mondo; ma che il moto circolare della
Terra sia eterno è impossibile, perché se essa così si muovesse, «anche
ogni sua parte avrebbe allora questo moto, e invece tutte si muovono in
linea retta verso il centro», come ci viene attestato pure dai sensi (II 13,
295b 19-23); dunque, il moto naturale ed eterno dell’intera Terra è il
rettilineo. Ora, non è difficile avvedersi che la dimostrazione aristotelica
della minore del sillogismo contiene in sé la sua confutazione: «se ciò che
è per costrizione non può essere eterno, ciò che non è eterno non può
Cfr. Copernico, De rev. cael., I 7, p. 266.5-14.
Cfr. ivi, p. 267.25-34. Sulla lettura copernicana di questo capitolo dell’Almagesto
meditata sulla base del testo greco, cfr. A. De Pace, Copernico filosofo, cit., pp. 121-139.
54
Cfr. Copernico, De rev. cael., I 7, p. 267.34-37.
55
Ivi, I 8, p. 267.3-4.
52
53
Un seminario su Copernico
203
essere naturale»56; e poiché il moto retto all’in giù non è eterno, ma finito
e terminato, e il ‘moto eterno’, secondo quanto puntualizzava Aristotele
stesso nella Fisica (VIII, 8-9), non può essere concepito come la successione temporale infinita di moti finiti, ma solo come moto circolare, il
moto retto né è naturale né si confà all’ordine eterno; dunque alla Terra
è naturale il moto circolare.
Questa la conclusione, riportata all’inizio del capitolo 8, che, secondo Copernico, Aristotele avrebbe dovuto trarre in modo coerente
dalle proprie premesse; tanto più che la testimonianza dei sensi non può
apportare alcuna prova decisiva: se le parti terrestri ruotassero come il
tutto – e ciò potrebbe essere inteso solo nel senso che seguono il moto
del tutto –, noi che stiamo sulla Terra non potremmo affatto percepire
questo moto comune, e continueremmo a vederle muoversi in linea retta
verso il centro, esattamente come se la Terra fosse in quiete; il moto infatti,
come aveva precisato Copernico nel capitolo 5, è percepibile solo nella
variazione delle distanze tra l’oggetto visto e il soggetto percipiente57.
È evidente che le conseguenze deducibili da quest’emendamento della
conclusione aristotelica vanificano gli argomenti richiamati nel capitolo
7. Se infatti la rotazione della Terra è naturale e perenne e se, sulla base
della corrispondenza istituita da Aristotele tra moti e nature dei corpi,
ciò esclude che essa sia grave senza perciò escludere la gravità delle
sue parti in apparente moto rettilineo verso il suo centro, non solo la
Terra non è affatto il corpus gravissimum destinato a occupare il centro
del mondo, ma occorre anche abbandonare il principio che a un corpo
semplice (l’elemento terra) appartenga un solo moto semplice e, inoltre,
rinunciare a dedurre dall’eternità del moto circolare l’esistenza di una
materia eterea, eterna e incorruttibile58.
Anche per l’argomento tolemaico Copernico adotta la tecnica socratica di mettere l’avversario in contraddizione con se stesso. Il passo
dell’Almagesto che egli prende di mira è quello del capitolo 7 del Libro
I, dove Tolomeo annotava che dal punto di vista dell’astronomia – ossia
Cfr. Galileo, Dialogo, ed. cit., p. 160.
Cfr. Copernico, De rev. cael., I 5, p. 335.10-14.
58
Entrambe le tesi erano in perfetta sintonia con la lezione di Platone, il quale per
un verso avrebbe semplicemente negato che la divina Terra nella sua totalità si sarebbe
comportata in modo simile a una zolla che, lasciata andare, cade sul terreno (cfr. Cornford,
Plato’s cosmology, cit., p. 132); per altro verso, aveva esposto la sua dottrina sul moto
circolare della sfera celeste e dei corpi astrali a prescindere da considerazioni relative
all’incorruttibilità ed eternità della sostanza corporea, concetti affatto estranei alla sua
fisica. D’altra parte, secondo alcune testimonianze antiche, tra le quali il passo del De
caelo sopra citato, Platone aveva assegnato alla Terra la rotazione quotidiana e, secondo
altre (Teofrasto, Plutarco), anche il moto planetario.
56
57
204
Un seminario su Copernico
della sola branca del sapere speculativo cui nel Proemio accordava dignità
scientifica59 –, nulla si oppone alla rotazione diurna della Terra, e anzi
essa spiega in modo più semplice i fenomeni celesti60. Di qui la replica
di Copernico: o, quando ragioniamo sull’ordine perenne del mondo, i
moti che prendiamo in considerazione sono naturali e perpetui, e perciò
privi degli effetti violenti ed effimeri dovuti a forze e impeti, perché vale
il principio che «le cose fatte dalla natura si trovano nel modo migliore e
si conservano nella loro ottima disposizione (quae a natura fiunt, recte se
habent et conservantur in optima sua compositione)»; oppure i medesimi
effetti violenti previsti per la rotazione impetuosa della Terra devono essere
simmetricamente considerati per la rotazione dell’ultima sfera, ma in questo caso il ragionamento, sviluppato con rigore, conduce alla sua infinità
e dunque alla sua immobilità61. Ora, tale conclusione, rileva Copernico,
innanzitutto è inaccettabile per i sostenitori dell’immobilità della Terra
al centro, i quali dimostrano con il moto dell’ultima sfera quella forma
sferica e finita del mondo62 che è condizione necessaria alla definizione
dei luoghi e moti naturali e dei corpi semplici – in breve, alla struttura
ordinata del loro cosmo –; ma anche per noi quella conclusione, non
potendo essere mai verificata, sarebbe fonte di incertezza irresolubile:
noi, dichiara Copernico, «ignoriamo i confini del mondo, né è possibile
conoscerli»63.
Si comprende allora quale efficacia dirompente e quale importanza
abbia per Copernico il risultato cui approda nel capitolo 8 l’esercizio
dello scrutinio elenctico: o l’argomento tolemaico vale e allora, nella
sua corretta impostazione e nel suo sviluppo coerente, scardina tutto
il cosmo tradizionale rendendolo infinito e immobile; oppure esso non
vale, perché arbitraria è la tesi aristotelica che lo sottende del carattere
violento della rotazione terrestre, e arbitrari i principi su cui essa poggia,
ossia la distinzione dei moti semplici e la corrispondente distinzione
delle sostanze semplici elementari: in sintesi, la concezione del cosmo a
due sfere disomogenee. Nell’uno e nell’altro caso l’universo aristotelicotolemaico resta privo di sostegno razionale. Ciò che resta saldo, invece, è
il principio affermato in apertura di capitolo: il moto circolare uniforme è
il moto conveniente alla conservazione perpetua dell’ottima disposizione,
59
Cfr. Tolomeo, Syntaxis Mathematike, «Proemio»; Pars I, p. 6.11-21 ed. Heiberg;
trad. it. cit., pp. 280-281.
60
Cfr. Tolomeo, Syntaxis Mathematike, I 7, Pars I, p. 24.7-16 ed. Heiberg; trad.
it. cit., pp. 295-296.
61
Cfr. Copernico, De rev. cael., I 8, pp. 267.7-268.29.
62
Cfr.: «potissimum, quo astruere nituntur mundum esse finitum, est motus» (ivi,
p. 268.29-30). Per questo argomento in Aristotele, cfr. De caelo, I 5, 271b26 sgg.
63
De rev. cael., I 8, p. 268.35.
Un seminario su Copernico
205
o dell’ordine, in cui si trova tutto ciò che è fatto dalla natura; un ordine
che però siamo ormai avvertiti debba essere considerato a prescindere
da affermazioni arbitrarie sulla finitezza o infinità del mondo, giacché il
metodo corretto di cui disponiamo per riuscire a qualche risultato saldo
è di non condurre la ricerca della verità a partire da ciò che è ignoto. E
tale presupposto comporta che, una volta messi da parte, insieme alla
sfera del mondo, le direzioni a priori e i luoghi naturali coi quali veniva definita la struttura d’ordine anteriormente al movimento, l’ordine
non è più nulla al di fuori dell’unico modo in cui si manifesta, ossia la
disposizione stabile delle parti rispetto al proprio centro di gravità e tra
di loro. In questo modo, tra l’ordine così concepito e il moto circolare
che lo garantisce al pari della quiete vi è ormai una perfetta reciprocità
e, cosa più importante, l’uno – il moto circolare – assume la stabilità e
perpetuità dell’altro.
In poche battute Copernico ha messo fuori gioco le ragioni fisiche
geostatiche e geocentriste e sgomberato lo studio del moto locale dai
vincoli aristotelici che gravavano su di esso. Sulla base della strettissima
relazione tra ordine e moto circolare appena conseguita, egli è, così,
libero di avviare un nuovo processo del pensiero, assumendo come ipotesi o principio di tale processo l’alternativa che risulta ormai la meno
confutabile, difesa nell’antichità dai pitagorici: la rotazione della Terra
conforme alla sua certa figura sferica64. Ed ecco la proposta ‘scandalosa’
che Copernico può ora avanzare quale punto di avvio per la ricostruzione
razionale dell’universo:
Avendo noi per certo che la Terra è delimitata da una superficie sferica
conchiusa dalle vette [delle sue montagne] (verticibus conclusa superficie globosa
terminatur), perché esitiamo ancora a concederle una mobilità conforme per
natura alla sua figura, piuttosto che far correre l’intero mondo, di cui si ignorano
i confini né è possibile conoscerli, e perché non ammettiamo che della stessa
rivoluzione quotidiana vi è in cielo apparenza e in Terra verità?65
64
L’autorevolezza dei pitagorici viene evocata da Copernico sia nel capitolo 5 sia
nella Dedica a Paolo III per certificare che sull’ipotesi geostatica e geocentrica non vi
era affatto unanimità di consensi; cfr. De rev. cael., pp. 262.1-263.49; pp. 251.97-252.104.
Gli argomenti e dimostrazioni con cui gli antichi provavano la sfericità della Terra sono
invece riportati nel capitolo 2.
65
Ivi, I 8, p. 268.31-35. Giova notare che il termine «globosus» era usato per lo più
dagli antichi per designare non la sfera perfetta, ma una figura simile alla sfera, nel suo
insieme non intaccata dalle irregolarità alla sua superficie; in questo senso si dichiarava
per esempio Calcidio parlando della Terra: «Se qualcuno, pur considerando l’altezza e
l’estensione delle montagne e l’irregolarità delle loro rocce, affermasse che [la Terra] è
simile a una palla ben tornita, proferirebbe un’opinione erronea: noi, infatti, non diciamo
che la Terra è un globo, ma di forma globosa (non enim nos terram globum esse dicimus
sed globosam)» (Calcidio, In Tim., 63, p. 110.12-15 ed. Waszink).
206
Un seminario su Copernico
Si tratta, come s’è detto, dell’ipotesi iniziale di un percorso di ricerca.
Nel seguito, Copernico, seguendo ancora le istruzioni socratiche, attende a
sviluppare le tesi fisiche che siano in accordo tra loro e con l’ipotesi stessa,
in modo da formare un corpo coerente di proposizioni, capaci di rendere
conto anche dei principali fatti d’esperienza osservabili sulla Terra.
Per comprendere la nuova fisica che così egli costruisce, conviene
cominciare a sottolineare che nel passo appena citato, con l’espressione
verticibus conclusa superficie globosa terminatur Copernico rinvia implicitamente a un luogo notissimo dei Meterologica I 3, in cui Aristotele spiega
che la Terra, la cui superficie è irregolare per i monti e le valli, si configura
comunque come una sfera grazie agli strati d’aria che la circondano e dei
quali quello più esterno che le appartiene66 è lo strato freddo compreso tra
le vette delle montagne in cui si formano le nuvole. In tal modo il raggio
della sfera terrestre è la distanza dal centro della Terra alla circonferenza ideale che congiunge le cime dei monti più alti, i vertices appunto, e
tutto ciò che è compreso all’interno di questa sfera appartiene alla Terra
o, come poco più avanti si esprime Copernico, sono parti del suo tutto;
parti – conviene precisare – che, scartata la concezione aristotelica degli
elementi insieme alle forme che li diversificano, egli concepisce fatte della
medesima materia di quel globo terraqueo che con la gravità esse stesse
formano, e determinate nella loro varietà visibile e nel loro divenire da
mescolanze e interazioni di impercettibili corpuscoli atomici67.
Ora, giacché ogni intero si costituisce delle sue parti e di necessità
uno solo è il moto del tutto e delle parti68, Copernico, applicando lo stesso
principio aristotelico eadem est ratio partium et totius, ma invertendolo e
ragionando dal tutto alle parti, dalla naturalità e perpetuità della rotazione
del tutto-Terra conclude la naturalità e perpetuità del moto circolare delle
sue parti costitutive. Sulla base poi dell’istituita identità tra la naturalità
di tale moto e l’ordine inteso come stabilità di relazioni, gli basta combinare questo tipo di moto perenne con quelli rettilinei effimeri, dunque
forzati, per fornire una risposta congrua alle conseguenze paradossali che
sembrava dovessero risultare dal moto della Terra. Copernico stabilisce
così innanzitutto che si muove di moto naturale e perpetuo non solo il
globo terraqueo, ma anche l’aria inferiore alle maggiori altezze, o perché
questo moto le appartiene sin dall’inizio, giacché l’aria, «mescolata alla
66
Ne condivide infatti l’immobilità, mentre lo strato ancora superiore è trascinato
dalla traslazione del cielo. Cfr. Meteor., I 3, 340b30-341a5.
67
Per questo aspetto della fisica copernicana, rinvio al mio Copernico filosofo, cit.,
pp. 155-159.
68
Così, peraltro, aveva affermato lo stesso Aristotele: cfr. De caelo, I 3, 270a3-5; II
13, 295b21-23; II 14, 296b34-35.
Un seminario su Copernico
207
medesima materia terrosa o acquea69, segue la medesima natura che segue
la Terra» ossia il suo medesimo moto naturale70; oppure perché questo
moto è acquisito, e l’aria, tenue e cedevole, «per la contiguità e senza
resistenza, dalla Terra viene fatta partecipe del rivolgimento perpetuo».
Ma nell’uno e nell’altro caso, per noi che partecipiamo del medesimo
moto, l’aria apparirà quieta insieme ai corpi che per qualunque ragione vi
stiano sospesi, a meno che non sopraggiunga qualche forza a modificare
questa loro condizione – Copernico fa l’esempio dell’impeto del vento –,
ed è solo la traiettoria da essa provocata che resterà per noi osservabile71.
La stessa cosa accade ai corpi che sulla superficie della Terra vediamo
muoversi in su e in giù: poiché, scrive Copernico, i corpi «che cadono per
il loro peso, sono fatti massimamente di terra, non v’è dubbio che essi, in
quanto parti, conservino la medesima natura del loro tutto», conservino
cioè il suo moto naturale circolare72; né accade altrimenti per quelli che
vediamo andare verso l’alto, perché anch’essi sono fatti di materia terrestre,
e conservano così in perpetuo la natura del tutto, ossia, ancora una volta, il
movimento circolare: in effetti, se si portano verso l’alto, ciò accade non per
69
Conviene sottolineare che l’espressione «materia terrosa o acquea» rinvia a Tim.
49a-50a, dove Platone invita a non introdurre nel discorso termini come fuoco, aria, acqua
o terra, quasi che questi fossero sostanze o elementi permanenti irriducibili, ma a considerare che l’unica ad avere un essere permanente è la chora, pur essendo essa «scambiata
e diversificata» (50c1-2) dalle forme transeunti che vi entrano ed escono, «immagini di
quelle che esistono sempre» (50c5); in tal modo, mentre alcune parti diventano ignee,
altre acquee e così via, essa appare avere qualità diverse in tempi diversi. Perciò la madre
e il Ricettacolo di ciò che è venuto a essere visibile e altrimenti sensibile, non deve essere
chiamata né terra né aria, né fuoco né acqua, né alcuno dei loro composti o componenti;
ma non ci inganneremo dicendo che è una natura invisibile e informe e ricettrice di tutto,
e partecipe in qualche modo oscuro dell’intelligibile, e difficilissima da comprendere. E
per quanto dalle cose dette prima si può arrivare alla sua natura, il modo più corretto
di esprimerla sarebbe questo: la parte di essa che è stata fatta ignea sembra ogni volta
fuoco; acqua, la parte che è stata fatta acquea, e terra o aria tali parti, mentre ricevono
le loro sembianze» (Tim. 51a; trad. Giarratano).
70
È evidente che, affinché la frase abbia senso, la «natura» debba essere identificata
col moto circolare; se infatti, come talvolta è stato detto, natura significasse natura terrestre, Copernico starebbe affermando che le parti terrestri seguono la medesima natura
terrestre o terrestrità che segue la Terra. Si può aggiungere che lo stesso Aristotele aveva
affermato (De caelo, III 2, 301a5-6) che «l’ordine non è se non la natura che a ciascuno
dei corpi sensibili è propria», e ormai sappiamo dell’identità istituita da Copernico tra
ordine e moto circolare.
71
Cfr. De rev. cael., I 8, p. 269.43-59.
72
Cfr. ivi, p. 269.59-64. Anche qui è evidente che per «natura del tutto» non si può
intendere la «terrestrità»: sarebbe infatti frase vacua e mera tautologia affermare che i corpi
fatti di terra conservano la terrestrità o la natura della Terra; con natura qui Copernico
chiaramente intende l’unica cosa che la ragione ha autorizzato a chiamare natura, ossia
il moto circolare perenne che conserva l’ottima disposizione.
208
Un seminario su Copernico
una tendenza spontanea ad allontanarsi dal proprio centro di gravità, ma
per l’intervento di una forza esterna che li costringe a separarsi dall’intero
in cui sono nella loro ottima disposizione73. Quale esempio di tale forza
Copernico adduce il fuoco, non perché, come è stato detto più di una volta,
faccia riferimento alla polvere da sparo e alle armi di recente invenzione, ma
perché nel Timeo il fuoco è caratterizzato da una grande forza ed efficacia di
corpuscoli geometrici impercettibili – i tetraedri regolari –, più piccoli dei
corpuscoli geometrici assegnati agli altri corpi semplici, i cui angoli più acuti
e taglienti li rendono estremamente mobili, capaci di penetrare e disgregare,
provocando variazioni volumetriche nel processo di riscaldamento e di
combustione74. Il fuoco, ripete Copernico, è talmente potente che, quando
penetra in un corpo, niente può trattenerlo dall’erompere dal suo carcere
dilatando il corpo in cui è racchiuso e costringendolo a muoversi verso regioni più esterne75. Di qui la conclusione: tutti i corpi sulla superficie della
Terra che si muovono all’in giù o all’in su, essendo fatti massimamente di
materia terrestre, condividono con il proprio tutto il moto circolare naturale
e perpetuo che, per noi che partecipiamo dello stesso moto, resta insensibile,
mentre percepiamo quelli verso il basso e verso l’alto provocati da forze, ai
quali non partecipiamo; e tuttavia il moto reale dei corpi che così vediamo
muoversi è un moto composto di circolare e rettilineo76. Ne consegue che
la distinzione aristotelica dei moti «nei tre generi dal centro, al centro e
intorno al centro, sarà considerata solo un atto della ragione, nel modo in
cui distinguiamo la linea, il punto e la superficie, anche se l’uno non può
sussistere senza l’altro, e nessuno di essi senza il corpo»77.
Le tesi che qui sono affermate chiaramente, o che da qui si possono
inferire con sicurezza, sono del tutto estranee alla dottrina aristotelica e
ampiamente ispirate, come informava Retico, a Platone e alla tradizione
platonica. Esse possono essere così enumerate:
1) Essendo la Terra formata dalle sue parti gravi ed essendo necessariamente uno solo il moto del tutto e delle parti, la circolazione naturale
Cfr. ivi, p. 269.64-65.
Cfr. Tim. 56a-c, 61e-62a, 78a. Platone descrive l’effetto dissolvente del fuoco sulla
terra, sull’acqua e sull’aria in 56d sgg. Per i diversi processi di evaporazione di vari liquidi
e di vari corpi terrosi sotto l’azione del fuoco, si veda Vlastos, Plato’s universe, cit., pp.
70-84, e ivi, pp. 88-91 per i mutamenti volumetrici nel processo di trasformazione dei
corpi primari; ciò che rimane costante è il numero dei triangoli elementari irriducibili
(atomici) prima e dopo il processo. Cfr. anche Cornford, Plato’s cosmology, cit., pp. 231239, 273-274; L. Siorvanes, Proclus, cit., pp. 211-214.
75
Cfr. De rev. cael., I 8, p. 269.65-71.
76
Cfr. ivi, p. 270.74-77.
77
Ivi, p. 270.92-97.
73
74
Un seminario su Copernico
209
e perpetua del tutto-Terra comporta la circolazione naturale e perpetua
delle sue parti costitutive; parti, giova ribadire, che Copernico non caratterizza né diversifica più con forme ed essenze degli elementi aristotelici.
2) Poiché il solo moto naturale e perenne è quello circolare conveniente
alla conservazione dell’ordine, i moti rettilinei verso l’alto e verso il basso,
in quanto si verificano in una situazione di disordine, sono effetti effimeri di
una forza, e non sono naturali. In modo analogo nel Timeo i moti rettilinei
meccanici sono associati al disordine, e contrapposti alla rotazione quale
moto in cui si esprime l’intelligenza ordinatrice del demiurgo. Tale moto,
viene aggiunto nelle Leggi (X, 892b-c), è l’unico veramente naturale78.
3) Il luogo naturale di un corpo terrestre non è più definito a priori
sulla base delle direzioni assolute della sfera mondana, ma individuato
in rapporto al centro di gravità del suo tutto rispetto al quale soltanto,
annullata la struttura del cosmo aristotelico, può essere ormai descritta la
sua «ottima disposizione»: per ogni parte corporea luogo naturale è quello
del tutto in cui quella disposizione si conserva. Formulazioni di questo
concetto si potevano leggere nel commento alla Fisica sia di Filopono sia
di Simplicio; quest’ultimo dichiarava peraltro di ispirarsi al suo maestro
Damascio79. Degno di nota è che la spinta a criticare e innovare tale punto
centrale della dottrina aristotelica era venuta proprio dall’esperimento
mentale del IV libro del De caelo richiamato da Retico nell’Elogio della
Prussia, secondo cui le parti di una Terra spostata nell’orbe lunare, se da
essa separate, sarebbero tornate al centro dell’universo. Benché sia vero,
contestava Simplicio, che una Terra così dislocata sarebbe disordinata
quale parte dell’Universo, essa tuttavia non mancherebbe di «conservare
la disposizione ordinata (ton euthetismon) delle sue proprie parti nel suo
proprio tutto»; il che comporta che centro dell’universo e centro della
Terra non sono affatto necessariamente coincidenti, e che l’uno regola
una disposizione ordinata diversa da quella dell’altro80.
4) Se entrambi i moti rettilinei non sono naturali, non per questo condividono il medesimo statuto: quello verso l’alto estromette con violenza
78
Questo perché, spiega Platone in Leg. X, 898a-b, è l’unico moto che, esprimendo
il moto spirituale del nous che lo causa, si muove «secondo le stesse relazioni, identicamente, nel medesimo posto, intorno allo stesso centro, nel medesimo verso, secondo una
stessa proporzione e uno stesso ordine» (miei i corsivi). Invece, sono moti di costrizione o
necessità, causa di perenni trasformazioni, quelli propri alle parti dei corpi cosmici che
muovono essendo a loro volta mosse da altre parti corporee.
79
Cfr. R. Sorabji, John Philoponus, in R. Sorabji (a cura di), Philoponus and the
rejection of Aristotelian science, Cornell University Press, Ithaca (New York), 1987, p. 17;
S. Sambursky, The concept of place in late neoplatonism, The Israel Academy of Sciences
and Humanities, Jerusalem 1982, “Introduction”, in specie pp. 24-28 con i rinvii, nelle
note, ai testi raccolti e tradotti nel volume.
80
Cfr. ivi, pp. 26-27 e, per il passo simpliciano, p. 90.11-16.
210
Un seminario su Copernico
le parti terrestri dal loro intero o dal loro luogo naturale, l’altro invece ve
le riconduce, ripristinando l’ordine temporaneamente alterato; e questa
loro diversa funzione non può che avere effetti diversi sulla difformità
o «irregolarità» delle loro velocità. Quando una forza, sopraffacendo la
tendenza naturale della materia terrestre, la spinge verso l’alto, questo
moto non può che rallentare progressivamente ed estinguersi, «quasi a
rendere manifesto – scrive Copernico – che la causa di quel moto è la
violenza inflitta alla materia terrestre»81; se invece il moto verso il centro
accelera, è perché la forza che lo determina – e che egli ravvisa nell’impeto
del peso82 – è generata dalla stessa tendenza interna di ogni parte terrestre
a ricongiungersi al suo tutto: in una parola, dalla gravità.
5) Se dunque non esiste accelerazione verso l’alto, non esiste luogo naturale verso l’alto83 né leggerezza positiva, come appunto affermava Platone
in Tim. 63b-c, e come da lungo tempo anche la tradizione gli attribuiva84.
6) Contrariamente a quanto aveva stabilito Aristotele, nella realtà
naturale non esistono moti rettilinei, ma solo il moto circolare proprio
del tutto unitario, e i moti composti propri delle parti che si trovino da
esso separate. Anche questa teoria è di ispirazione platonica: l’idea del
Timeo di un cosmo visibile già formato, in cui l’Intelligenza domina la
Necessità persuadendola a «rivolgere al meglio la più parte delle cose
che si generano» (48a), era stata interpretata da Attico e Plutarco nel
senso che i moti provocati dalle cause meccaniche di gravità e leggerezza
si combinano con i moti circolari in cui quell’Intelligenza si manifesta85.
De rev. cael., I 8, p. 270.86-87.
Ossia dall’effetto dinamico generato dall’inclinazione della gravità. Secondo la
testimonianza di [ps.-] Plutarco, De plac. philos., I 12, 882e-883a (fonte dossografica nota
a Copernico), questa era la posizione di Platone, il quale aveva distinto l’inclinazione di
un corpo a riportarsi al proprio luogo qualora se ne trovasse fuori – in altri termini la
gravità –, dall’impeto (rope) che è conseguenza di tale inclinazione.
83
Copernico, infatti, estromette la sfera del fuoco dal suo cosmo, seguendo ancora
una volta la lezione platonica. Proclo nel commento al Timeo (cfr. In Tim., III, p. 111.5-26
ed. Diehl; trad. A.-J. Festugière, Vrin, Paris 1966-1968, 5 voll., IV, pp. 145-146), giudicando
anch’egli insostenibile l’esistenza della sfera del fuoco sublunare, ricordava che giustamente Platone nella sua esposizione aveva omesso tale sfera, giacché il fuoco esiste solo
nelle cavità degli altri elementi sublunari e, unico tra essi, sussiste finché ne è alimentato.
84
È quanto veniva affermato nel commento di Eutocio di Ascalona al libro archimedeo sull’Equilibrio dei piani, più volte tradotto dopo la versione di Moerbeke: cfr. P.
Galluzzi, Momento. Studi galileiani, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1979, pp.
43-62. Si vedano anche le Considerazioni di V. Di Grazia, in Le Opere di Galileo, E.N.
cit., IV, pp. 383-385: «Platone, in effetti, avendo sostenuto che l’alto e il basso non sono
contrari per propria natura, ma solo relativamente alla posizione di ciascuno, aveva eliminato, insieme alla contrarietà del luogo, la contrarietà dei moti naturali».
85
Della composizione dei moti circolare e rettilineo aveva parlato Attico, criticando
Aristotele: dopo aver dichiarato che in ogni corpo celeste integrale il moto circolare,
81
82
Un seminario su Copernico
211
7) Infine: anche a prescindere dalla loro reale composizione con il
moto circolare, i moti rettilinei non sono semplici perché non sono sempre eguali a se stessi, secondo quanto pur richiedeva la classificazione
aristotelica dei moti semplici a partire dalle linee geometriche semplici86.
L’unico moto che può essere detto «semplice, uniforme ed eguale» è il
moto circolare, perché, sempre partendo dal termine ordinato e sempre
giungendovi, è il solo che ha sempre in se stesso la causa (finale) del moto,
ossia il conseguimento del luogo ordinato87. Per questa sua prerogativa,
non solo è uniforme, ma si conserva indefinitamente conservando le
relazioni ordinate in conformità con gli scopi della natura.
Importantissimo il commento antiaristotelico con cui Copernico
conclude e in certo qual modo sintetizza questa parte del suo percorso
razionale relativa alla rotazione terrestre: l’affermazione dei peripatetici,
egli scrive, secondo cui
[…] il moto semplice appartiene al corpo semplice, viene stabilita come vera
anzitutto a proposito del circolare, finché il corpo semplice resta nel proprio
luogo naturale e nel proprio tutto. Infatti, il movimento nel [proprio] luogo non
è altro che circolare, il quale permane interamente in se stesso, simile a ciò che
è in quiete. Invece il moto rettilineo si aggiunge in quei corpi che si muovono
(peregrinantur) lontani dal loro luogo naturale, sia che ne siano estromessi, sia
che in qualunque altro modo si trovino fuori di esso. Ora nulla ripugna tanto
all’ordine del tutto e alla bellezza del mondo quanto il fatto che qualcosa sia fuori
del suo luogo. Pertanto il moto rettilineo non accade se non alle cose che non si
trovano nel modo migliore, e non sono perfette secondo natura mentre si trovano
separate dal loro tutto e abbandonano la sua unità88.
il più bello e divino, è segno di un’anima automotrice, mentre gli elementi che si muovono in linea retta ricevono il principio del loro movimento dalla rope della pesantezza
e della leggerezza, aveva attaccato Aristotele perché, non avvedendosi della diversa
natura di quei moti, invece di combinarli, si era inventato il quinto corpo per riservargli
il moto circolare: cfr. Eusebio, Praep. ev., XV 8, 5-7 (=Attico, fr. 6, p. 59.31-60.54 Des
Places). Anche Plutarco nella Quaest. Plat. V, 4 (1004b-c) aveva sostenuto che il moto
circolare perfetto conveniva naturalmente ai corpi celesti non perché questi fossero
corpi perfettamente sferici (ciò è impossibile per tutti i corpi, anche se in superficie
vi è un’apparenza di rotondità), ma perché quel moto era impartito dall’Intelligenza;
altro, infatti, era il principio di moto che determinava le parti corporee a muoversi per
natura di moto rettilineo.
86
Cfr. De rev. cael., I 8, p. 270.81-83. Per il passo aristotelico cui qui Copernico
implicitamente rinvia, cfr. De caelo, I 2, 268a17-20.
87
Come si esprime Copernico, De rev. cael., I 8, p. 270.87-88, «il moto circolare
prosegue sempre in modo uniforme perché ha una causa che non viene mai meno».
88
Ivi, pp. 269.71-270-81. Miei i corsivi.
212
Un seminario su Copernico
Ormai per ogni corpo terrestre che condivide il moto circolare del
tutto, essere semplice, ordinato e perfetto sono termini che si equivalgono:
il che sta a dire che per ogni corpo terrestre «essere perfetto secondo
natura» non ha nulla a che fare con l’incorruttibilità e la perfezione
della sua sostanza: ciò che importa è l’ordine, e questo concerne solo la
stabilità dei rapporti, non la natura formale. La Terra può perdere così
il titolo di sentina dell’universo riservatole dalla tradizione aristotelica.
Tutte le sue parti, benché composte, corruttibili e dispares89, sono perfette
in quanto, con il moto circolare, si conservano ordinate nel loro luogo,
ossia nel loro tutto, a una distanza stabile dal centro e dalle altre parti
che lo compongono.
In questo modo, non v’è bisogno di introdurre la condizione aristotelica che nel proprio luogo quelle parti restino in quiete o vi si dirigano per
restare in quiete: il moto circolare, s’è detto, si identifica con la stabilità
dell’ottima disposizione e per sua natura non allontana il corpo dal centro del tutto né lo avvicina, e, pur trasportandolo da un luogo a un altro,
questo effetto è come nullo per il corpo mosso, che viene mantenuto nelle
medesime relazioni d’ordine con gli altri corpi, dunque nel suo luogo;
come si esprime Copernico, ancora una volta sulle orme di Platone, «il
moto nel luogo permane interamente in se stesso, simile a ciò che è in
quiete»90. Diversamente da Platone, però, egli concepisce che per garantire
la perpetua conservazione e l’uniformità di tale moto non siano necessarie
le anime motrici: basta la prerogativa geometrica della traiettoria circolare,
corrispondente alla finalità di ordine stabile decretato dall’atto creatore91.
Ma se così è, il moto circolare assume nella cosmologia copernicana
uno statuto inedito e del tutto specifico: diventa stato di un corpo non
omeomero che al pari della quiete si conserva indefinitamente da se
stesso, senza essere giustificato né dalla presenza di un motore né da una
causa formale, fosse essa anche la forma geometrica del corpo sferico.
Con buona pace di non pochi studiosi92, il moto circolare copernicano
Per il significato di questo termine, vedi supra, nota 38.
In Leg., X, 893c-d, Platone, parlando delle cose che si muovono «in una sola
sede», aveva osservato che «esse hanno la potenza delle cose che stanno immobili nel loro
centro», e vengono dette muoversi «in un sol luogo, nello stesso modo in cui si volge la
periferia dei cerchi che si dicono star fermi, perché un moto siffatto fa muovere insieme
il cerchio maggiore e quello minore», in modo che siano mantenute le medesime relazioni
e il medesimo ordine; vedi anche supra, nota 78.
91
Sottolineo «traiettoria circolare» perché è evidente che, annullata la perfetta
superficie della sfera geometrica in cui si traduceva la struttura omeomera del corpo
etereo, è tale traiettoria a garantire la conservazione della medesima distanza dal centro
del tutto a un corpo appartenente all’irregolare superficie terrestre.
92
Per gli studiosi cui qui alludo, cfr. A. De Pace, Copernico filosofo, cit., p. 196,
nota 584.
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soddisfa soltanto all’assunto dell’ordine naturale e perpetuo; in quanto
tale, esso è indipendente da ogni vincolo ontologico.
Proprio ad affermare l’indipendenza del moto circolare dalla perfezione ontologica e del moto rettilineo dal perfezionamento ontologico
realizzato con la quiete è specificamente inteso un passo conclusivo del
capitolo 8, in cui Copernico scrive: «Poiché dunque il moto circolare è
proprio dei corpi integrali (universorum), ma delle parti anche quello
rettilineo, possiamo dire che il circolare rimane con il rettilineo, come
l’animale con la malattia»93. Ciò che qui Copernico sta affermando è che
il moto circolare, o la disposizione ordinata, è una realtà così permanente
nella materia terrestre da poter essere assimilato alla consistenza ontologica della sostanza, mentre il moto rettilineo le è tanto accidentale ed
effimero quanto la malattia lo è per un essere vivente, sì che quando il
moto rettilineo sopraggiunge non si sostituisce al moto circolare annullandolo, come la malattia non annulla l’essere vivente, anzi, ha bisogno
del moto circolare quale condizione e supporto del proprio esistere, allo
stesso modo che la malattia ha bisogno dell’essere vivente. È un passo
a torto trascurato dalla letteratura critica, perché i termini del paragone
non sono scelti a caso: Copernico modifica volutamente e polemicamente
un passo del De caelo (IV 3, 310b 16-33), in cui Aristotele assimila la
naturalità dei moti rettilinei di terra e fuoco al passaggio di un soggetto
malato ma passibile di recuperare la salute dalla forma imperfetta della
malattia alla forma perfetta della salute. Lo Stagirita esprimeva così la
propria concezione del legame ontologico sussitente tra il moto e la
perfezione o il perfezionamento delle sostanze: secondo tale concezione, il moto rettilineo era un movimento-mutamento, o un processo, che
trovava la sua giustificazione e fondazione nella funzione ontologica di
perfezionare l’essenza di un soggetto, laddove invece il moto circolare
perfetto ineriva a una sostanza già perfetta, ossia permanentemente in
atto. Così, mentre nel passo aristotelico sopra citato è il soggetto che nella
traslazione rettilinea permane nel passare da una forma contraria (quella
potenziale imperfetta della sua essenza) a una forma contraria (quella
attuale perfetta), e questa è quando l’altra non è più, in Copernico è il
moto circolare stesso a realizzare la perfezione e a costituire perciò la
natura permanente e indelebile (come in effetti più volte si esprime) di
corpi che né vengono perfezionati nella loro essenza dal moto circolare,
né sono già di essenza perfetta, e tuttavia sono perfetti relativamente
a una disposizione ordinata che si mantiene perpetua come se fossero
in quiete. Liberato da ogni connessione con l’ontologia, il vero senso
cosmologico del moto circolare è che, in modo simile alla quiete, esso
93
De rev. cael., I 8, p. 270.90-92.
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conserva l’ordine conservandosi da se stesso. In tal modo il moto circolare, si diceva, si configura come una realtà o uno stato permanente della
materia terrestre che, in modo simile alla quiete, è per così dire nullo o
privo d’incidenza su di essa.
Congruo a questo nucleo teorico fondamentale è l’universalizzazione
del concetto di gravità che, come si è visto, non ha più a che fare con la
gravità del corpo integrale e della sua quiete al centro. Copernico espone
tale universalizzazione nel capitolo 9 e, sulla scorta del Timeo e più in particolare del De facie plutarcheo, la descrive come la tendenza naturale di cui
la divina provvidenza ha dotato le parti di ogni corpo cosmico affinché si
portino a esso congiungendosi in forma di globo e conservino tale forma94.
La funzione di tale concezione, ancora una volta, non è quella di
individuare nella perfezione geometrica della sfera la causa universale del
moto circolare (quella perfezione, secondo Platone non si realizza mai
nella materia). Piuttosto, è quella di stabilire una causa fisica della sfericità che tolga alla Terra la prerogativa dell’immobilità dipendente dalla
sua essenza corporea e ai corpi celesti la prerogativa del moto circolare
uniforme dipendente dalla loro, per ricomporre l’identità della perfezione
di tutti i corpi cosmici nella conservazione dell’ordine, a conseguire la
quale è indifferente per essi essere in quiete o in moto circolare.
Notevolissimo ciò che deriva da quest’impostazione. Se l’abolizione
della distinzione ontologicamente fondata tra moto circolare e quiete
comporta negare che vi siano corpi per sé mobili o immobili, essa comporta anche escludere che vi siano ragioni fisiche legate alla natura dei
corpi in grado di stabilire a priori, in presenza di un movimento, quali si
muovano e quali no. E poiché nemmeno l’altro concetto fondamentale
della nuova fisica copernicana, ossia la concezione d’ordine come stabilità
di relazioni, fornisce alcuna indicazione in tal senso, ne consegue che la
relatività ottica del moto, richiamata da Copernico nel capitolo 5 come
uno degli elementi che giustificavano un ripensamento teorico sulla questione dell’immobilità della Terra al centro95, si innesta ormai sulle teorie
fisiche esposte nei capitoli 8 e 9, in un contesto speculativo sgombro da
restrizioni filosofiche aristoteliche lasciate operanti sullo sfondo. In questo
modo essa, integrata ad altre considerazioni, potrà condurre al principio
della relatività meccanica di Galileo.
Che questo sia il risultato teorico importante raggiunto al termine del
percorso nel campo della filosofia naturale esplicita Copernico stesso, pur
94
Cfr. ivi, I 9, p. 271.10-16. Per la concezione della gravità nel Timeo e le modifiche
introdotte da Plutarco nel De facie, mi permetto di rinviare ancora al mio Copernico
filosofo, cit., pp. 164-177.
95
Cfr. De rev. cael., I 5, p. 262.9-12.
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nei suoi modi ellittici, quando, a conclusione del capitolo 9, afferma che,
poiché la gravità lascia tutti i corpi cosmici integrali liberi di compiere i
loro circuiti, dirimere «perciò» (igitur) la questione se sia la Terra o il Sole
ad avere un circuito annuo potrà solo l’astronomo qualora, guardando
la questione «con entrambi gli occhi», riuscirà a far coincidere in un
unico risultato la spiegazione dei fenomeni e la rivelazione dell’ordine
planetario e dell’armonia intelligibile dell’intero mondo96. L’indifferenza
dei corpi cosmici al moto circolare e alla quiete restituisce così alla mente
divina la libertà di decidere a quali corpi assegnare l’uno o l’altra al fine
di costituire un cosmo unificato da vincoli intelligibili, e all’astronomia
il ruolo di comprenderlo assegnatole da Platone. Detto altrimenti,
quell’indifferenza, risultato del metodo o percorso dimostrativo fin qui
compiuto dalla ragione, spiega perché le cause fisiche, pur se non possono
essere trascurate, sono insufficienti a farci conoscere la bellezza e la verità
dell’universo, come aveva insegnato Platone nel Timeo e nel Fedone.
In quale modo, poi, guardare alla questione «con entrambi gli occhi»,
ossia riflettere sulle condizioni alle quali l’astronomia garantisca la vera
comprensione della «macchina del mondo creata per noi dal migliore
degli artefici»97, è lezione che Copernico trarrà dai libri VI e VII della
Repubblica di Platone. Ma questo esula dai temi filosofici che mi sono
proposta qui di considerare98.
96
97
98
Cfr. ivi, I 9, pp. 271.15-272.27.
È espressione di Copernico nella Dedica a Paolo III (De rev. cael., p. 251.89-91).
Su questi temi mi sono soffermata in Copernico filosofo, cit., pp. 207-232.