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LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA
NEL CODICE DI PROCEDURA PENALE ITALIANO DEL 1930
Marco Nicola MILETTI
Università degli Studi di Foggia, Facoltà di Giurisprudenza,
I-71100 Foggia, Largo Papa Giovanni Paolo II, 1
e-mail:
[email protected]
SINTESI
Nel quinquennio 1925-30 la legislazione fascista provò a trasformare l'avvocato in
interprete di una cultura non piú assimilabile al vecchio notabilato liberale ma
espressione dei valori del regime. Tale obiettivo fu perseguito non solo mediante la
riforma 'corporativa' delle professioni legali (1926), ma anche attraverso il codice di
procedura penale (1930), il cui carattere marcatamente inquisitorio da un lato
declassava il difensore al rango di collaboratore del giudice nella 'ricerca della
verità', dall'altro colpiva gli aspetti del malcostume forense ritenuti ideologicamente
incompatibili con il fascismo: la retorica 'metafisica', l'istrionismo d'assise, il ricorso
al cavillo. In quest'ottica vanno letti l'abolizione della giuria e il contingentamento
della durata delle arringhe, oltre al divieto di abbandono della difesa e ad altre misure
analoghe. La 'cattiva fama' che circondava l'avvocatura sopravvisse all'entrata in
vigore dei codici: ve n'è ancora traccia in un discorso di Mussolini del 1935.
Parole chiave: avvocato, penalista, codice di procedura penale 1930, eloquenza
forense, oratoria, retorica, corte d'assise, durata delle arringhe, abbandono di difesa
FOLDED WINGS: THE MODEL OF A FASCIST LAWYER
IN THE 1930 ITALIAN CRIMINAL PROCEDURE CODE
ABSTRACT
In the 1925–30 quinquennium Fascist legislation tried to turn the lawyer into an
interpreter of a culture that could not be assimilated by the old liberal notables anymore, rather expressed the values of the regime. This objective was pursued not only
through the 'corporative' reform of legal professions (1926), but also through the
Criminal Procedure Code (1930), the markedly inquisitive character of which on the
one hand reduced the defending counsel to the status of a judge's collaborator in the
'search for the truth', while on the other it attacked the aspects of forensic misconduct
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that were seen as ideologically incompatible with Fascism: the 'metaphysical'
rhetoric, the theatricality of the assizes, the resorting to quibbles. It is from this point
of view that the suppression of the jury and the curtailment of the length of the
pleadings, in addition to the ban on the abandonment of defence and other similar
measures, should be interpreted. The 'bad reputation' that surrounded the legal
profession survived the codes' entering into force: traces of it can still be recognised in
a speech given by Mussolini in 1935.
Key words: lawyer, criminal lawyer, 1930 Criminal Procedure Code, forensic eloquence, oratory, rhetoric, Court of Assizes, length of the pleadings, abandonment of
defence
UNA "NUOVA DIGNITÀ"
Il 20 novembre del 1929 il guardasigilli Alfredo Rocco, rispondendo ad
un'interrogazione del deputato Titta Madia, enunciava "quale concetto [...] avesse
della funzione dell'avvocato in regime fascista":
"L'avvocato [...] è insieme col giudice il piú alto realizzatore della giustizia [...],
organo e strumento dei fini e dell'attività dello Stato. Comprendo che questa concezione contrasta alquanto con le vecchie idee che [...] si erano diffuse sotto l'influsso
delle ideologie liberali del secolo XIX. Non pochi si immaginavano che l'avvocato
fosse un semplice privato professionista [...] a disposizione dei privati per fini di puro
interesse privato. Talché sembrava il dovere dell'avvocato riassumersi nel far prevalere sempre, a qualunque costo, l'interesse del cliente [...]. Questa concezione è evidentemente superata dal nuovo spirito dello Stato e della legislazione fascista. Nel
campo della giustizia non può ammettersi che si agisca mai nel puro interesse
individuale, senza tener conto delle esigenze supreme della giustizia medesima [...].
Debbo con piacere constatare come questa nuova concezione abbia, nella classe forense italiana, fatto passi davvero giganteschi", collocando l'avvocatura all'"avanguardia" del "rinnovamento spirituale [...]. La vostra opera fatta di esempi e di propaganda non è però finita. I nuovi codici assegneranno [...] nuovi compiti e nuove responsabilità [...]. Il migliorato costume e la nuova educazione dei clienti, che devono
abituarsi a vedere nell'avvocato non già un docile istrumento dei loro desideri [...] ma
un vero e proprio organo della Giustizia [...], tutto questo profondo mutamento ha già
dato e piú darà ancora per l'avvenire nuova dignità [...]. Nessuna disposizione dei codici futuri ferirà la giusta sensibilità della classe forense" (Gli avvocati, 1930, 88–89).
Le parole di Rocco, tutt'altro che di circostanza, riassumono i capisaldi del rapporto tra avvocatura e regime (cfr. Vinci, 2007, 55): l'insofferenza verso la dimensione 'privatistica' della professione, ingombrante eredità della tradizione risorgimentale e liberale (cfr. Mazzacane, 2006, 47); la pretesa di subordinarla ai superiori
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interessi dello Stato; la conseguente trasformazione del difensore in organo della
giustizia. Entro queste coordinate, il fascismo stava tentando di fare dell'avvocato un
interprete di cultura: di sostituire al vecchio esponente del notabilato professionale il
compartecipe d'un nuovo paradigma di legalità.
Questa impegnativa ridefinizione, che riguardò in misura piú sensibile la
fisionomia del penalista, prese corpo tra il 1925 e il '30 grazie alle leggi corporative e
alla gestazione della codificazione penale. Le pagine seguenti ricostruiscono tale
itinerario con particolare attenzione al codice di rito, onde verificare se esso mantenne la promessa – anticipata dalla relazione al Progetto preliminare (Rocco, 1929,
8) e ribadita nella relazione finale al Re (Rocco, 1930b, 9) – di "accrescere il prestigio e la serietà della difesa" o se offrí, piuttosto, l'occasione per fascistizzare quello
che lo stesso guardasigilli definí, alla vigilia dell'approvazione, "uno degli ambienti
piú difficili a guadagnare per noi, perché composto di persone abituate alla critica"
(Rocco, 2005, 450).
TRA CORPORATIVISMO E MUNUS PUBLICUM
Senato del Regno, dicembre 1925. Si apre la discussione sulla legge-delega per la
riforma dei codici. Alessandro Stoppato, uno degli ultimi esponenti della penalistica
liberale e padre putativo del codice Finocchiaro-Aprile del 1913, in "dissidio radicale" dal guardasigilli e dalla "universalità degli studiosi e dei professionisti" si
ostina a sostenere che la difesa dell'imputato costituisce "un patrocinio del tutto
privato" (Lucchini, 1926, 106; con Stoppato concorda Isoldi, 1925, 80). La sua è una
posizione di retroguardia: il regime si sente in perfetta sintonia con l'indirizzo
tecnico-giuridico (come risulta da una lettera all'editore Cedam di Rocco, 1928, 5).
Appena un mese prima, ossia nel novembre del '25, Rocco aveva illustrato alla
Camera un progetto (da lui battezzato "il meno fascista") di riforma della professione
forense (Meniconi, 2006, 105). Esso mirava a soppiantare la normativa del 1874, che
per diffuso convincimento presentava gravi inconvenienti (Isoldi, 1925, 80). Anche i
vecchi liberali come Lucchini riconobbero perciò che la legge 25 marzo 1926 n. 453
sull'Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore dimostrava la perdurante capacità del Parlamento di varare norme "importanti e organiche", benché vi
sedessero "numerosissimi (si dice anche troppi!)" avvocati (Professione forense,
1926, 498–499). L'intervento fu completato da alcuni decreti di attuazione. Il R.D. 6
maggio 1926 n. 747 all'art. 1 negava l'iscrizione agli albi a coloro che esercitassero
"una pubblica attività" in contrasto con gli "interessi della Nazione": norma peraltro
applicata "con una certa moderazione" (Aquarone, 1965, 89–90). Lo stesso decreto
(art. 2) dettava la formula del giuramento, che vincolava a svolgere con lealtà i
doveri professionali "per i fini superiori della giustizia e gli interessi superiori della
nazione" (Schwarzenberg, 1976, 630; Meniconi, 2006, 127).
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In ossequio alla riforma, tra maggio e dicembre del '26 i consigli dell'ordine
furono sciolti (la soppressione di fatto sarebbe sopraggiunta con R.D. 22 novembre
1928 n. 2580 [convertito con l. 24 dicembre 1928 n. 2943], quella di diritto con
R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578). La revisione straordinaria degli albi fu affidata a
commissioni reali controllate dall'esecutivo. Il regolamento emanato con R.D. 1°
luglio 1926 n. 1130 elevò ad unico rappresentante della classe forense il sindacato
fascista (Malatesta, 2003, 44), che nel '33 avrebbe assorbito i compiti (custodia degli
albi, disciplina) già spettanti alle commissioni reali.
Anche l'avvocatura subí dunque la brusca accelerazione verso il sistema corporativo (Schwarzenberg, 1976, 631; Meniconi, 2006, 13–15), accontentandosi di discettare sulla presunta matrice medievale del nuovo assetto (Rocco, 2005, 451–452;
Gianturco, 1937, 94 e 100). La legge – esultava nel 1929 l'avvocato lucano Federigo
Severini nel volume Per la toga fascista – "ha compiuto il miracolo dell'organizzazione dei lavoratori del pensiero, che erano tenuti in uno stato di totale assenza di
spirito di solidarietà, di avversione a formarsi una coscienza del proprio divenire, di
piena inconsapevolezza della missione etica e della funzione storica ad essi assegnate" (Pistoiese, 1930, 893–894; cfr. anche Angeloni, 1934, 117; sul proposito
autoritario di Rocco di "educare al senso dello Stato" i lavoratori intellettuali
Malatesta, 2003, 42–43).
La forzata sindacalizzazione aprí nella classe forense una vistosa crisi d'identità.
Chiedendosi, due mesi dopo l'entrata in vigore, quali effetti avrebbe sortito la legge
del '26, un principe del foro come Corso Bovio, pur parlando ancora di missione o
apostolato, esortava i colleghi a dimenticare i "tempi in cui sulle curie alitava lo
spirito metafisico". Bovio accusava "i vecchi regimi liberali" d'aver considerato l'avvocatura "alla stregua di ogni altra professione, occupazione o mestiere" e d'averla
prosaicamente trasformata "in strumento di calcolo, di transazione, di industria"
(Bovio, 1926, 409). L'allusione riguarda la temuta industrializzazione o caccia dei
clienti praticata da "alcuni avvocati, veri filibustieri" (Cecchi, 1926, 411).
Il disorientamento fu particolarmente avvertito dai penalisti, che oltretutto si
sentivano ancora sacrificati dal ruolo riservato loro dal vigente codice FinocchiaroAprile del 1913. Su "Rivista penale" del 1923 Orfeo Cecchi imputava al Mortara,
uno dei principali compilatori di quel testo, l'"equivoco" d'aver indicato come priorità
del processo penale la persecuzione del delitto: da qui le menomazioni arrecate,
soprattutto in istruttoria, alla "missione del difensore", il quale, benché tutore dei "piú
sacri diritti individuali", si vedeva ingiustificatamente subordinato al pubblico ministero, ossia al rappresentante – ai sensi dell'art. 129 Ord. Giud. – del potere
esecutivo e dunque emanazione dei "gruppi politici al potere". Tutto il ragionamento
di Cecchi mirava a ristabilire almeno la "parità di condizioni" tra accusa e difesa,
com'era tradizione dei paesi "liberi e civili" (Cecchi, 1923a e 1923b).
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Al Cecchi, di lí a qualche mese e dalle stesse colonne, il sostituto procuratore
milanese Antonino Cordova obiettò anzitutto d'essersi "fatto prendere la mano" nel
denunciare le presunte coartazioni operate dalla magistratura ai danni del ceto forense. Dal suo punto di vista, viceversa, istituti quali l'immunità per le offese
contenute nelle memorie e nelle arringhe (ex art. 398 c.p.) o la facoltà di parlare per
ultimo al dibattimento (art. 411 c.p.p.) assicuravano già al difensore una lusinghiera
parità col p.m., considerato che quest'ultimo impersonava non solo la "pretesa
punitiva dello Stato" ma anche "il delegato della società per la tutela dei diritti dei
consociati". Cordova non esitava a teorizzare la superiorità della pubblica accusa, a
fronte del "talvolta penoso dovere [dell'avvocato] di negare anche la luce della verità,
di costringere il suo pensiero al cavillo, ai contorcimenti del sofisma e agli adattamenti di coscienza piú dolorosi e piú mortificanti". Opposto, poi, il giudizio di
Cordova sul c.p.p. 1913, che a suo avviso aveva inteso correggere, nel solco delle
"piú sensate tradizioni nazionali", i difetti del rito del 1865: i "processi eterni", i
"tornei oratori interminabili e defatiganti", gli "abbandoni clamorosi e improvvisi di
difesa", le "tante insidie tese, sotto l'usbergo della legge, ai giudici". Cattive abitudini
dure a morire "se, come càpita talvolta, il difensore si presenta [ancora] in tribunale
non per convincere [...] il giudice" ma per sfoggiare qualità oratorie ed épater le
bourgeois. Infine, nel merito delle proposte di Cecchi, Cordova condivideva la trasformazione dell'avvocato in pubblico ufficiale, ma rifiutava drasticamente altre
ipotesi quale l'allargamento della pubblicità istruttoria (Cordova, 1924).
La polemica riassume efficacemente due visioni antitetiche della difesa tecnica
che si fronteggiavano all'alba del ventennio. Unico elemento di convergenza, la
trasformazione del patrono in funzionario pubblico. Ipotesi rilanciata, non appena
iniziarono i lavori per il nuovo codice di rito, da "Rivista penale". Qui, sulla scia del
solito Cecchi (Cecchi, 1926, 411–412), l'avvocato Ubaldo Ferrari si augurava che
grazie a tale qualifica l'avvocato potesse "non solo" apparire ma essere della "stessa
famiglia giudiziaria" dei giudici collocandosi "in condizioni di perfetta uguaglianza e
di piena indipendenza" dal magistrato, dal cliente e dal pubblico. Secondo Ferrari,
una simile soluzione era resa ancor piú opportuna dal rischio, già segnalato dal
direttore Lucchini, che il futuro processo penale accentuasse i tratti inquisitori
dell'istruzione (Ferrari, 1927a, 194–201).1
Nel manuale del 1929 Eduardo Massari registrò questa "tendenza dottrinale", che,
se recepita dall'imminente codice di rito, da un lato avrebbe attestato l'"importanza
sociale del magistero difensivo penale", dall'altro avrebbe acuíto "il senso di responsabilità del patrono". Sul punto, aggiungeva Massari, aveva compiuto un significativo passo avanti la "recente legislazione fascista", in particolare col R.D. 1° luglio
1
Nella prefazione al vol. dello stesso Ferrari, 1927b, X, Lucchini aveva abbandonato la tradizionale
posizione accusatoria presagendo, su questa tematica ormai consunta, un'imminente "rivoluzione".
Ferrari attribuisce la paternità della tesi del munus publicum a de Marsico, 1915, 360–362.
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1926 n. 1130 che annoverava (art. 98) la professione forense tra i servizi di pubblica
necessità (Massari, 1929, 107–108).
Un'identica locuzione trasmigra nel codice penale sostanziale del 1930, il cui art.
359 include i difensori tra coloro che esercitano un servizio di pubblica necessità
(Massari, 1932, 108; De Mauro, 1959, 145). La formula non appaga le aspettative del
Cecchi, che vi ravvisa addirittura una degradazione del patrono al livello degli addetti
alle pulizie o dei commessi d'aula. Per contro, lo studioso plaude al pretore di Milano
Primarchi che, con sentenza del 21 marzo 1933, aveva rubricato come oltraggio a
pubblico ufficiale l'ingiuria indirizzata in dibattimento all'avvocato, sul presupposto
che questi, concorrendo a formare "la volontà" dello Stato, svolge obiettivamente una
funzione pubblica (Cecchi, 1933, 423–425). Sia il pretore Primarchi sia Cecchi
credono di trovare un avallo alla loro tesi nelle "lapidarie parole" di "uno dei piú
autorevoli compilatori" del nuovo codice di rito, Vincenzo Manzini: "Il difensore
penale non è patrocinatore della delinquenza ma del diritto e della giustizia" (Cecchi,
1933, 425; Manzini, 1931, 425).
In realtà i primi anni di vigenza dei nuovi codici penali riveleranno come, in un
impianto robustamente inquisitorio, il riconoscimento del munus publicum finisca per
collimare con il disegno del regime, che aspira a rimodulare il patrocinio legale
configurandolo quale attività di complemento dell'amministrazione della giustizia.
All'apertura dell'anno giudiziario 1934, il procuratore generale della Cassazione Silvio
Longhi coglie nel proliferare di uffici legali istituiti da banche e aziende la tendenza a
spogliare la professione "del suo tradizionale carattere [privato], per assumere quello
sempre piú spiccato di organo pubblico, per un'aperta collaborazione delle funzioni
della giustizia" (Longhi, 1934, 1277). Poiché gli avvocati interpretano queste espressioni come "un'assoluzione o un nulla-osta all'avvocato impiegato", in una successiva
intervista Longhi rinnova la stima alla categoria ma ammette che l'"inquadramento"
fascista della stessa resta ancora incompiuto (Dertenois, 1935, 337–338). Gli si obietta
che è la legge del '26 sull'ordinamento professionale (art. 3) a sancire l'incompatibilità
tra esercizio dell'avvocatura e qualsiasi impiego retribuito, e che proprio il regime ha
infuso nella classe forense il dinamismo individualistico "contro la stasi impiegatizia"
(Gianturco, 1937, 81 e 146). C'è chi nelle parole del Longhi intravede l'incubo di dover
"veramente sostituire codice e toga col badile e la casacca dell'operaio" (Visco, 1934,
702; su questa polemica cfr. Meniconi, 2006, 68–72). Preoccupazioni che ancora il
guardasigilli Arrigo Solmi dovrà diradare (Solmi, 1937, 80).
VERSO IL NUOVO RITO
Irreggimentata nell'assetto corporativo ed allarmata dalla strisciante 'pubblicizzazione', l'avvocatura penale accoglie senza entusiasmi il Progetto preliminare di codice
di procedura penale che il guardasigilli Rocco sottopone, nell'estate del 1929, al parere
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degli organismi di categoria. Commissioni reali e sindacati forensi non mancano di
lamentare l'"ingiustificata diffidenza" o la "preconcetta sfiducia" che dall'articolato
trapelano nei confronti del difensore (Lavori preparatori, 1930b, 193 e 198; Lavori
preparatori, 1930c, 252 e Lavori preparatori, 1930a, 156); stigmatizzano lo squilibrio
tra repressione e garanzia (Lavori preparatori, 1930a, 127); negano che l'avvocato tipo
sia davvero "il mercenario cianciatore in attesa del miglior offerente e l'azzeccacarbugli in insidiosa lotta contro la legge" (Lavori preparatori, 1930a, 141). Considerazioni non diverse formulerà, nel corso del dibattito sul bilancio della Giustizia
svoltosi alla Camera tra il 21 e il 26 marzo del 1930, l'onorevole Nicolino Vascellari,
che si premurerà anche di difendere la "classe forense" dall'accusa di antifascismo
osservando come gli avvocati, "ragionatori per eccellenza", siano "pervenuti al fascismo attraverso a dei ragionamenti" anziché "di slancio, per intuizione" (Bilancio
Camera, 1930, 704). Persino il già citato Massari, che pure è pienamente organico al
regime giacché siede nel comitato ristretto per la stesura del codice penale, nell'edizione 1929 del manuale di procedura prende le distanze dalle "facili declamazioni
contro l'istituto dell'avvocato difensore" (Massari, 1929, 107; Massari, 1932, 107).
Eppure, la neonata "Rivista italiana di diritto penale" (1929) trova "confortante
constatare che la maggioranza delle Commissioni Reali e dei Sindacati fascisti ha
saputo elevarsi al di sopra delle considerazioni dei meno nobili interessi di ceto,
informandosi ai princípi del Regime fascista. Pochi invero furono quegli organi
professionali che non seppero distaccarsi dai criteri demo-liberali e dalla preoccupazione di perdere privilegi o libertà non piú tollerabili [...]. E' superfluo osservare che le opinioni interessate di questi irriducibili passatisti non potranno avere
alcun peso nelle determinazioni di un Ministro fascista, ancorché provengano da
gente che di fascisti porta il distintivo" (I difensori, 1929, 903).
E infatti Rocco, nella relazione al Progetto definitivo del c.p.p., si mostra soddisfatto della risposta ricevuta dal mondo forense: "L'aver colpito alcune forme di indisciplina, l'aver soppresso molte cause di nullità e d'impugnazione, l'aver stabilito
freni all'incontinenza oratoria e l'aver introdotto altre simili riforme potevano dar motivo a prevedere, come accennai nella mia Relazione sul Progetto preliminare, lamenti
e proteste da parte degli avvocati. Ho invece constatato, con viva soddisfazione, che la
maggior parte degli ordini professionali [...] hanno pienamente inteso lo spirito della
riforma, la quale è in realtà diretta ad elevare, non a deprimere l'ufficio del difensore.
Ciò dimostra quanto sia ormai progredita, anche nella classe sociale piú disposta ed
allenata alla critica dei pubblici istituti, l'educazione fascista, che insegna a
subordinare i veri o supposti interessi individuali o di classe all'interesse superiore
dello Stato, e ad attendere stima e prestigio non già dall'uso di mezzi furbeschi o
chiassosi, ma dal sincero e dignitoso adempimento del proprio dovere. La leale
collaborazione, che la classe forense ha dato all'esame e alla critica obiettiva del
Progetto, mi ha consentito di accogliere molti dei suoi voti" (Rocco, 1930a, 7).
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CALA IL SIPARIO: L'ABOLIZIONE DELLA GIURIA E L'OROLOGIO PRESIDENZIALE
Nei pareri sul Progetto preliminare del codice di rito le rappresentanze dell'avvocatura stigmatizzano la "degenerazione insopportabile" di aule divenute "palestre
di stupida e vana retorica" o "teatro per l'esibizionismo personale, a base di declamazioni istrioniche e ciarlatanesche". Atteggiamenti – chiosa la "Rivista italiana
di diritto penale" – "in perfetta antitesi con la nuova figura dell'Avvocato, quale è
nitidamente tracciata dalle leggi sulla professione forense e dalle varie disposizioni
degli organi del Regime". Lo stesso periodico profetizza che "il vecchio e non simpatico tipo del penalista assisato, zazzeruto o altrimenti truccato, ignorante, chiacchierone, ruminatore di Balzac e d'altri simili [...] giureconsulti, truculento, commediante" sarà "sommerso nella serietà e nella compostezza fascista. La gente di
cattivo gusto, amante di simili anticaglie grottesche, può andare a godersele in
Francia" (I difensori, 1929, 904).
Da qualche anno, invero, scomparsa la "generazione eroica" del Risorgimento
(Altavilla, 1926, VIII), tramontata l'epoca in cui l'oratoria forense, "specie nel
Mezzogiorno", veniva "pagata a metri [...] perché la gente aveva meno da fare"
(Raho, 1932, 231), penalisti di fama invitavano ad apporre "una pietra sepolcrale sui
rottami della vecchia eloquenza" e sui "romanticismi" dell'"avvocato metafisico"
(Bovio, 1926, 409–412), nonché ad estirpare "chirurgicamente" il bubbone pestilenziale del "melenso insopportabile istrionismo parolaio di udienza" (Cecchi, 1926,
411–412; cfr. anche Altavilla, 1926, IX). In un'intervista concessa nel 1929 Gennaro
Marciano ammetteva che l'oratoria era "destinata a ripiegare sempre piú le ali" e che
"l'eloquio fiorito, scintillante" aveva "ceduto il posto alla discussione secca, serrata,
stringente" (Galdi, 1939, 133). I "gusti del pubblico" erano mutati e "gli analitici, i
minutissimi spaccatori di capelli in otto venivano messi all'indice" (Raho, 1932, 231;
Raho, 1932, 232 per un impietoso ritratto dell'avvocato d'assise).
D'altronde, la ricerca d'una cifra stilistica piú stringata (l'arringa lineare tipizzata
da Calamandrei nell'Elogio dei giudici scritto da un avvocato [I ed. 1935]) si sposava
con "l'ideologia autoritaria" che imponeva forme espressive sobrie ed asciutte
(Meniconi, 2006, 16–17). Studi sulla retorica mussoliniana pubblicati durante il
ventennio ravvisavano nell'essenzialità un carattere peculiare del fraseggio del Duce
(Ellwanger, 1939, 13). La medesima compostezza veniva invocata rispetto ad altri
comportamenti invalsi tra gli avvocati e ritenuti parimenti indecorosi, come l'abuso di
"fogge demagogiche", ossia d'un abbigliamento dimesso finalizzato a fingersi amici
del popolo (Russo, 1930, 541–542), o le intemperanze verbali che avrebbero consigliato di adottare un "galateo giudiziario" (Panizzi, 1928, 450–452). Dietro quella
che Giuseppe Lembo definisce, su "La Corte di Bari" del 1929, la "cosí detta libertà di
difesa [...], una delle tante mistificazioni dei governi liberali e democratici, che bru-
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ciano incensi e mirra alla Dea Libertà", si sospetta l'insubordinazione: all'apertura
dell'anno giudiziario 1930 il procuratore generale della corte d'appello di Roma Giuseppe Facchinetti si domanda "se certi eccessi e certi atteggiamenti siano compatibili
con la funzione dell'avvocato in Regime Fascista" (Lembo, 1930, 479–480).
La crociata contro l'"arte del dire" aveva ricevuto un formidabile avallo dal capo
del governo. In una circolare inviata nel marzo 1929 ai segretari delle federazioni
provinciali Mussolini aveva raccomandato ai penalisti, tra l'altro, di "astenersi" da
"pose esibizionistiche o gladiatorie" e da abusi di retorica. Criteri cui – ammette il
guardasigilli nella relazione al Progetto preliminare – dovrà naturalmente ispirarsi il
nuovo rito penale. "Io – aggiunge Rocco – ho il massimo rispetto per l'eloquenza
giudiziaria, ma ritengo che questa non debba aver carattere d'esercitazione rettorica o
di recitazione teatrale": d'ora in avanti dovrà puntare non piú al sentimento ma alla
ragione e dunque "essere sopra tutto sobria e austera [...]. I filodrammatici non
devono trovare un teatro aperto ai loro saggi [...]. L'abolizione della giuria popolare
toglie ogni pretesto alla tolleranza di quel genere d'eloquenza (o meglio, d'oratoria),
che trovò sin qui il suo campo d'azione specialmente dinanzi alla corte d'assise"
(Lavori preparatori, 1929, 90–91).
La soppressione del giurí intende dunque ufficialmente fiaccare "l'istrionismo e il
ciarlatanesimo" dell'"oratoria di assise", foriero d'indebite assoluzioni: quasi che –
ironizza Giovanni Napolitano – si stabilisse di abolire la letteratura sol perché esistono
"pessimi letterati" (Napolitano, 1954, 117, 120–125). Invano illustri avvocati si affannano a rammentare che "l'Assise è l'alto mare" nel quale si formano gl'ingegni piú
promettenti (Bentini, 2000, 191) o paventano l'inaridimento della logica argomentativa (cosí Giovanni Porzio in un'intervista del '29 a Galdi, 1939, 158). Il dado ormai è
tratto e il c.p.p. del 1930 sostituisce alla giuria l'assessorato, collegio misto di togati e
di laici iscritti al partito. Alla fine degli anni Trenta risulterà evidente che quella
riforma aveva mutato la "fisionomia" della professione (Galdi, 1939, 8).
Al medesimo effetto, ossia a fare del penalista l'interprete di una cultura non piú
"metafisica" ma concreta e sintetica, mira la proposta di contingentare i tempi
dell'arringa.
La stesura originaria del codice di rito, da ascrivere, com'è noto, al Manzini,
concedeva al difensore quaranta minuti per dissertare sulle questioni incidentali (art.
441) e tre ore per la discussione finale, mentre per il p.m. non fissava limiti (art. 472).
Nell'illustrare il Progetto preliminare il guardasigilli chiariva che quei parametri
andavano considerati come un maximum: nel senso che il legale non avrebbe potuto
spenderli per intero parlando "a vanvera di tutto ciò che gli frulli in capo", perché il
presidente gli avrebbe tolto la parola dopo due richiami, come prevedeva l'art. 69 del
Regolamento della Camera dei Deputati. In analogia con l'art. 77 dello stesso
Regolamento, il ministro proponeva poi che un'ordinanza del presidente stabilisse il
termine perentorio di chiusura del dibattimento: "In tal modo ogni ostruzionismo,
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cosciente o incosciente, volontario o involontario, verrà definitivamente stroncato, e
non sarà piú possibile che uno stesso oratore parli per intere udienze e persino per piú
udienze" (Lavori preparatori, 1929, 93).
Queste misure, a fronte di parziali obiezioni (come quelle avanzate dalla Facoltà
napoletana di Giurisprudenza: cfr. Relazione Napoli, 1929, 75–76), incassano
l'incondizionato sostegno della pubblicistica vicina al regime. Spicca in tal senso la
campagna orchestrata dalla nuova serie di "Rivista penale", passata proprio in quel
frangente, dopo la scomparsa di Lucchini, sotto la direzione di Silvio Longhi, che ha
fama di fascista ante marcia. Nel primo fascicolo del 1930 Salvatore Cicala afferma
di riscontrare nelle "nuove regole" contenute nel Progetto preliminare la "volontà del
regime di rendere alta, seria ed ossequiata la funzione" dell'avvocatura anche nell'interesse di quest'ultima e "a prescindere dall'appartenenza al partito fascista", oltre che
il nesso con "chiare e recenti direttive politiche": l'allusione è alla citata circolare
mussoliniana del marzo '29 (Cicala, 1930, 20–21). Sul numero successivo scende in
campo lo stesso Longhi. Questi, invero, sin dalla fase di elaborazione del codice di
procedura penale del 1913 si era adoperato per arginare le "deprecabili lungaggini"
processuali "mediante la limitazione del numero dei difensori": proposta, all'epoca,
accantonata perché contrastante con le allora "imperanti concezioni politiche di un
illimitato diritto di difesa" (Bernieri, 1935, 77). Nel '24 il giurista bresciano aveva
invocato drastici provvedimenti contro le licenze oratorie, suggerendo in particolare
di rimettere al presidente della corte la fissazione delle horae legitimae (Longhi,
1926, 1 ss.; cfr. Azzariti, 1935, 26). Nel fatidico 1930, ormai alto magistrato di Cassazione, Longhi può coerentemente denunciare la "mostruosità" – particolarmente
intollerabile "in questi tempi [...] che sono tempi di azione" – di dibattimenti d'assise
protrattisi per centinaia di udienze: una deriva che lo induce a riproporre lo sfoltimento del collegio difensivo e il conferimento al presidente di ampi poteri discrezionali (Longhi, 1930, 492–493).
Il Progetto definitivo accoglie l'idea del Longhi (Azzariti, 1935, 26; Longhi,
1930, 494). Esso prevede (art. 472 terzo comma) che "nessun difensore può parlare
per un tempo superiore a quello prefissogli dal presidente o dal pretore", i quali
possono invitare a concludere o togliere la parola. Sarà questo il testo finale del
codice (art. 468 terzo comma, rafforzato dall'art. 470 [poi rimpiazzato dall'art. 7 del
d. lgs. luogot. 14 set. 1944 n. 288] che consentiva al presidente di tacitare il difensore
o il p.m. che non si fossero attenuti alle sue direttive o avessero abusato "della facoltà
di parlare, per prolissità, divagazioni o in altro modo").
Il legislatore del '30 rinuncia dunque a quantificare i margini cronologici delle
arringhe, ma in compenso dilata la discrezionalità del giudice grazie al meccanismo
dell'"orologio presidenziale" (Raho, 1932, 232; per le critiche cfr. Meniconi, 2006,
297). La regola si applica solo alla difesa e non si estende all'accusa, come aveva invece caldeggiato la Commissione parlamentare (Longhi, 1931b, 230–231). Su pressio-
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ne dell'avvocatura, Rocco recede però dal proposito di rimettere al presidente la facoltà
di decretare tassativamente la data di chiusura del dibattimento (Vinci, 2007, 54).
Il 7 gennaio 1931, inaugurando l'anno giudiziario della Corte di Cassazione,
Longhi approva la soluzione codicistica. E tranquillizza il mondo forense osservando
che "solo la vacua eloquenza si sentirà torcere il collo; la vera, lucida e tagliente
come spada continuerà a lampeggiare nelle aule di udienza" (Longhi, 1931a, 19). Nel
discorso agli avvocati del 28 maggio 1935 Mussolini si rallegra: "La vostra eloquenza già si sta adeguando al "nostro" stile [...]. Vado constatando che tutto quello
che una volta poteva anche piacere, quella specie di seicentismo oratorio, va
definitivamente scomparendo. Ormai l'eloquenza è diritta, lineare, tendente alle cose
concrete e alle concezioni precise. Voi dovete servirvi di questa eloquenza, che non
esclude la forma e la grazia, per i fini educativi che il Regime si propone" (Mussolini, 1935, 81–82). A commento di queste parole, Luigi Gianturco attribuisce il
merito della svolta stilistica alla capacità di Mussolini d'insegnare una sintassi
completa, aspra e duttile (Gianturco, 1937, 50).
L'abolizione della giuria e la limitazione della durata delle arringhe colpiscono uno
stereotipo – la 'teatralità' del penalista – che il regime reputa particolarmente fastidioso
e non compatibile con un'estetica 'virile'. Sotto questo aspetto, il nuovo c.p.p. –
secondo Corso Bovio – risponde "alle esigenze generali delle correnti scientifiche e a
quelle del clima storico" perché assegna al patrono un compito "sempre piú tecnico in
armonia con la funzione tecnico-giuridica della scienza criminale". Per converso,
"l'oratore che, mirandosi femmineamente nello specchio della propria vanità, si compiace del suono delle sue parole deve ritornare alle origini: le quinte di un palcoscenico. L'aula di giustizia è un'altra cosa". La diagnosi di Bovio è di ampio respiro: a
suo avviso, si è chiusa la stagione del pietismo romantico, che per effeto di un
capovolgimento di valori proclamava la sacralità dell'imputato anziché quella della
vittima; è fallito l'ambizioso accademismo del codice Finocchiaro-Aprile, che
accordava all'inquisito "tutti i diritti, da quello di chiudersi nel silenzio [...] a quello di
mentire". Grazie al nuovo rito lo Stato, in quanto "espressione della coscienza sociale",
non consentirà piú "indulgenze sentimentali" (Bovio, 1930, 725–730).
IL TRIONFO DELLA VERITÀ
Il codice varato nel 1930 contiene anche altre misure che imbrigliano l'esercizio
della difesa.
In questa direzione s'inscrive la scelta, contestata dai parlamentari-avvocati
(Bilancio Camera, 1930, 705) ma rivendicata dal ministro in persona (Rocco, 2005,
455), di sanzionare l'abbandono della toga e l'allontanamento dall'udienza (artt. 129–
132). Già il c.p.p. 1913, invero, aveva decretato l'illiceità dell'abbandono di difesa
(fattispecie che peraltro la Cassazione teneva distinta dall'abbandono della toga in
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udienza: Cass. I sez. pen. 26 aprile 1917, ric. Bonavita, est. Venzi). Ma, per colpa di
"giudici psicastenici", "avvocati avidi di réclame", imputati irriverenti e "giornalisti
prezzolati", i magistrati autorizzavano per prassi la sostituzione del difensore in aula
(Isoldi, 1925, 84–86). Inoltre, sempre in base al codice Finocchiaro-Aprile, di fronte
al rifiuto del legale chiamato a sostituire il collega, il presidente del collegio giudicante avrebbe dovuto convocare il presidente del consiglio dell'ordine: un meccanismo – secondo il bilancio retrospettivo di Longhi – "penoso", inefficace e irrispettoso del decoro della magistratura. "Di risolvere il problema in via definitiva doveva pertanto assumersi l'impegno il legislatore fascista". E in effetti il c.p.p. del
1930 deferisce al giudice non solo la sospensione del difensore e dell'eventuale
sostituto dall'albo, ma anche la facoltà di surrogarli con un magistrato, nonché – ove
l'abbandono si verifichi durante la discussione – di "chiudere senz'altro a sentenza":
in tal modo "la vecchia tattica ha scacco matto". Una "soluzione cosí ovvia", riflette
Longhi, "solo il regime fascista poteva inaugurare": essa reca impresso "il marchio
della civiltà fascista" (Longhi, 1931b, 226–229).
I rimedi approntati dal codice del '30 per l'abbandono di difesa, come osserva il
de Marsico, costituiscono "conseguenza" della inedita figura dell'avvocato
'collaboratore' del giudice. Lo stesso studioso, tuttavia, suggerisce un'interpretazione
restrittiva dell'art. 129 che vieta l'abbandono anche a chi contesti violazioni del diritto
di difesa: nel senso che, di fronte al rischio d'una sollevazione dell'ordine pubblico,
l'avvocato ben potrebbe – ad avviso del de Marsico – lasciare l'aula invocando uno
"stato di necessità". "In altri termini, la funzione del difensore ha per limite la legalità, che la protegge, non la passività, che l'annullerebbe" (de Marsico, 1936, 146–
147). D'altronde un orientamento 'comprensivo' assumono anche le Sezioni Unite
della Cassazione che il 14 luglio 1933, sotto la presidenza di D'Amelio, ritengono di
non perseguire per 'abbandono' il difensore d'ufficio che giustifichi l'assenza dal
dibattimento: e ciò pur tenendo conto della diversa indicazione risultante dal Progetto definitivo (Abbandono, 1933, 1199–1201).
Nel complesso, l'accentuato carattere inquisitorio del c.p.p. Rocco determina una
disparità tra accusa e difesa che, per taluni aspetti, riporta il ruolo del difensore "a un
livello addirittura prenapoleonico" (Dezza, 2003, 128–129). Il nuovo rito estromette
gli avvocati dall'assistenza agli atti istruttori; ne limita la presenza numerica ad uno
in istruzione e due in giudizio, escludendone persino la necessità per i reati di minima
rilevanza (artt. 124–125); spunta loro le classiche armi procedurali giacché disbosca
"la selva delle nullità" (Rocco, 1929, 8; in senso adesivo Bovio, 1930, 725–726).
Commentatori non faziosi ammettono che il legislatore del '30 "ha mostrato di
ricordare [del ceto forense] piú qualche eccesso ed intemperanza che non i meriti
grandissimi di un glorioso passato" (Berenini, 1938, 826). Ma tale approccio viene in
qualche modo giustificato come un prezzo da pagare in vista del superamento della
dialettica tra accusa e difesa, quasi che il ripensamento della funzione sociale e
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processuale del libero professionista debba fatalmente stimolarlo ad impegnarsi,
insieme con il suo tradizionale antagonista, nella ricerca della verità (de Marsico,
1936, 146; Berenini, 1938, 826). Pertinenti, in proposito, suonano le dichiarazioni
rese al Senato, l'8 aprile 1930, da Francesco Pujia, ex capo di gabinetto del ministero
della Giustizia, ora presidente della prima sezione penale della corte di Cassazione e
stretto collaboratore di Rocco: "Bisogna esattamente stabilire quale sia il posto che
[all'avvocato] compete in un ben ordinato sistema processuale. Attualmente, il patrono si confonde troppo col cliente, che spesso è un litigante astioso e di mala fede".
Deve invece diventare "strumento dell'attività dello Stato", "organo di giustizia, perché coopera col giudice per il trionfo della verità" (Pujia, 1930, 243–244; cfr. anche
Bilancio Senato, 1930, 859).
Com'era accaduto, in senso inverso, nel primo dopoguerra sotto la vigenza del
Finocchiaro-Aprile, tocca nuovamente alla giurisprudenza stemperare le rigidità
codicistiche. Cosí, nel 1932, le Sezioni Unite della Cassazione stabiliscono che il
diritto di replica spettante al difensore al termine del dibattimento ex art. 518 c.p.p.
va rispettato a pena di nullità, dovendo intendersi come assistenza dell'imputato non
solo la presenza fisica del legale ma anche l'effettivo esercizio delle sue facoltà
procedurali (Cass. I Sez. pen. 16 maggio 1932, in: Foro Italiano, 1932, 385–386).
Il pregiudizio antiforense tuttavia sopravviverà per tutti gli anni Trenta (cfr. le
testimonianze di Gianturco, 1937, 51; Ortolani, 1938, 7 e 122). Pesa, evidentemente,
il sospetto che sin dal 1927 aveva agitato Giuseppe Bottai, sottosegretario alle
corporazioni, al primo congresso bolognese dei sindacati dell'avvocatura: "Si dice
che la classe forense [...] sia quella piú travagliata ancora dalla nostalgia parlamentare [...]. Il politicantismo parlamentare costituiva, in molti casi, il mezzo del
successo professionale. Oggi il Fascismo reclama da voi che tale ordine di rapporti
sia invertito, che il dovere verso lo Stato sia considerato da voi non il mezzo ma il
fine del vostro esercizio o dei vostri studi" (Bottai, 1927, 619). Una traccia dell'antica
diffidenza trapela dalle parole di Mussolini che, il 29 maggio 1935, ricevendo nel
salone delle Battaglie di Palazzo Venezia i sindacati fascisti degli avvocati e
procuratori, rimprovera alle toghe un'iniziale cautela verso il regime, salvo poi
entrare "di pieno diritto nelle strade della rivoluzione". "Desidero – puntualizza il
Duce – che tutti gli avvocati d'Italia sappiano che io guardo a loro [...] con intensa
simpatia. Che non ci siano equivoci al riguardo" (Mussolini, 1935, 80–82).
Nello stesso discorso, il capo del Governo non lesina lodi alla missione degli
avvocati, che – quasi riecheggiando la profezia del suo ex ministro Rocco – gratifica
degli appellativi di "educatori" e "colonne del regime" (Mussolini, 1935, 81–82).
Vent'anni dopo, Piero Calamandrei avrebbe stigmatizzato l'"odio" nutrito dal
fascismo proprio verso "gli avvocati fedeli alla loro missione, che agli occhi degli
squadristi simboleggiavano l'idea della legalità e della giustizia" (Calamandrei, 1955,
90).
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V ITALIJANSKEM KAZENSKEM ZAKONIKU IZ LETA 1930
Marco Nicola MILETTI
Univerza v Foggii, Pravna fakulteta, I-71100 Foggia, Largo Papa Giovanni Paolo II, 1
e-mail:
[email protected]
POVZETEK
V petletju od 1925 do 1930 je zakonodaja korenito spreminjati
v svobodnem poklicu, pomembno osebnost
podobo odvetnika z namenom, da bi
med preoblikovala v interpreta kulture, koherentne z novim
sistemom vrednot. Ker je odvetnike v kazenskem postopku prizadela globoka kriza
identitete, ki jo je reforma pravnih poklicev (1926) in korporativna
organizacija odvetništva, so le-ti poskušali ponovno opredeliti svojo identiteto ne samo
znotraj procesa, ampak tudi v odnosu do posledic industrializacije. znanstvena
struja je za branilca zahtevala statusa uradnika javne uprave. Ta pobuda, ki je
prišla iz liberalnega okolja, se je skladala z ki je
pravno
zastopstvo organizirati kot neke vrste sklop javnih funkcij, ki bi bile narave
in povsem skladne z delitvijo pravice. Pri obdelavi kazenskih zakonikov je ekipa
ministrstva za pravosodje Alfreda Rocce dobila narediti korak v tej smeri.
Predvsem dejstvo, da je kazenski postopek zadobival vedno izrazitejši preiskovalni
je v
zastavljanje pravne kot navadnega sodelovanja s
sodnikom pri iskanju resnice, na ravni pa izkoreninjanje dolo vedenj in ravnanj (prenapihnjeno in zamotano retoriko, nastopanje,
in zatekanje k sofizmom), ki so veljala za s politiko
sodstva in ideološkimi opcijami izvršilne oblasti. Odtod izvirata tudi o
odpravi porote, tega tradicionalnega govorniškega ekshibicionizma, in
skrajšanju zagovorov. Tem ukrepom se je še zbora odvetnikov branilcev, prepoved opustitve pravniške prakse in razveljavitev
Organizmi zastopništva, ki so jih spodbudili, naj izrazijo svoje mnenje o Pripravljalnem projektu zakonika, so z grenkobo ugotavljali, da je celoten program reform
napisan v duhu predsodkov do pravosodja. V praksi je naloga sodstva, da omili do stroge disciplinske predpise, ki bi škodili izvajanju pravnega zastopstva. "Slab
sloves", ki se je razširil na advokaturo, je obstal tudi še po tem, ko je leta 1931 stopil v
veljavo kazenski zakonik: zaslediti ga je celo v uradnih Mussolinijevih govorih,
je slednji izjavil, da zaupa v vzgojno in propagandno poslanstvo odvetnikov.
#
stitev obrambe
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!"
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