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Miletti - Ali ripiegate

Nel quinquennio 1925-30 la legislazione fascista provò a trasformare l'avvocato in interprete di una cultura non piú assimilabile al vecchio notabilato liberale ma espressione dei valori del regime. Tale obiettivo fu perseguito non solo mediante la riforma 'corporativa' delle professioni legali (1926), ma anche attraverso il codice di procedura penale (1930), il cui carattere marcatamente inquisitorio da un lato declassava il difensore al rango di collaboratore del giudice nella 'ricerca della verità', dall'altro colpiva gli aspetti del malcostume forense ritenuti ideologicamente incompatibili con il fascismo: la retorica 'metafisica', l'istrionismo d'assise, il ricorso al cavillo. In quest'ottica vanno letti l'abolizione della giuria e il contingentamento della durata delle arringhe, oltre al divieto di abbandono della difesa e ad altre misure analoghe. La 'cattiva fama' che circondava l'avvocatura sopravvisse all'entrata in vigore dei codici: ve n'è ancora traccia in un discorso di Mussolini del 1935.

$&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  received: 2008-07-31 original scientific article UDC 347.965:340.134(450)"1930" LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE DI PROCEDURA PENALE ITALIANO DEL 1930 Marco Nicola MILETTI Università degli Studi di Foggia, Facoltà di Giurisprudenza, I-71100 Foggia, Largo Papa Giovanni Paolo II, 1 e-mail: [email protected] SINTESI Nel quinquennio 1925-30 la legislazione fascista provò a trasformare l'avvocato in interprete di una cultura non piú assimilabile al vecchio notabilato liberale ma espressione dei valori del regime. Tale obiettivo fu perseguito non solo mediante la riforma 'corporativa' delle professioni legali (1926), ma anche attraverso il codice di procedura penale (1930), il cui carattere marcatamente inquisitorio da un lato declassava il difensore al rango di collaboratore del giudice nella 'ricerca della verità', dall'altro colpiva gli aspetti del malcostume forense ritenuti ideologicamente incompatibili con il fascismo: la retorica 'metafisica', l'istrionismo d'assise, il ricorso al cavillo. In quest'ottica vanno letti l'abolizione della giuria e il contingentamento della durata delle arringhe, oltre al divieto di abbandono della difesa e ad altre misure analoghe. La 'cattiva fama' che circondava l'avvocatura sopravvisse all'entrata in vigore dei codici: ve n'è ancora traccia in un discorso di Mussolini del 1935. Parole chiave: avvocato, penalista, codice di procedura penale 1930, eloquenza forense, oratoria, retorica, corte d'assise, durata delle arringhe, abbandono di difesa FOLDED WINGS: THE MODEL OF A FASCIST LAWYER IN THE 1930 ITALIAN CRIMINAL PROCEDURE CODE ABSTRACT In the 1925–30 quinquennium Fascist legislation tried to turn the lawyer into an interpreter of a culture that could not be assimilated by the old liberal notables anymore, rather expressed the values of the regime. This objective was pursued not only through the 'corporative' reform of legal professions (1926), but also through the Criminal Procedure Code (1930), the markedly inquisitive character of which on the one hand reduced the defending counsel to the status of a judge's collaborator in the 'search for the truth', while on the other it attacked the aspects of forensic misconduct 619 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 that were seen as ideologically incompatible with Fascism: the 'metaphysical' rhetoric, the theatricality of the assizes, the resorting to quibbles. It is from this point of view that the suppression of the jury and the curtailment of the length of the pleadings, in addition to the ban on the abandonment of defence and other similar measures, should be interpreted. The 'bad reputation' that surrounded the legal profession survived the codes' entering into force: traces of it can still be recognised in a speech given by Mussolini in 1935. Key words: lawyer, criminal lawyer, 1930 Criminal Procedure Code, forensic eloquence, oratory, rhetoric, Court of Assizes, length of the pleadings, abandonment of defence UNA "NUOVA DIGNITÀ" Il 20 novembre del 1929 il guardasigilli Alfredo Rocco, rispondendo ad un'interrogazione del deputato Titta Madia, enunciava "quale concetto [...] avesse della funzione dell'avvocato in regime fascista": "L'avvocato [...] è insieme col giudice il piú alto realizzatore della giustizia [...], organo e strumento dei fini e dell'attività dello Stato. Comprendo che questa concezione contrasta alquanto con le vecchie idee che [...] si erano diffuse sotto l'influsso delle ideologie liberali del secolo XIX. Non pochi si immaginavano che l'avvocato fosse un semplice privato professionista [...] a disposizione dei privati per fini di puro interesse privato. Talché sembrava il dovere dell'avvocato riassumersi nel far prevalere sempre, a qualunque costo, l'interesse del cliente [...]. Questa concezione è evidentemente superata dal nuovo spirito dello Stato e della legislazione fascista. Nel campo della giustizia non può ammettersi che si agisca mai nel puro interesse individuale, senza tener conto delle esigenze supreme della giustizia medesima [...]. Debbo con piacere constatare come questa nuova concezione abbia, nella classe forense italiana, fatto passi davvero giganteschi", collocando l'avvocatura all'"avanguardia" del "rinnovamento spirituale [...]. La vostra opera fatta di esempi e di propaganda non è però finita. I nuovi codici assegneranno [...] nuovi compiti e nuove responsabilità [...]. Il migliorato costume e la nuova educazione dei clienti, che devono abituarsi a vedere nell'avvocato non già un docile istrumento dei loro desideri [...] ma un vero e proprio organo della Giustizia [...], tutto questo profondo mutamento ha già dato e piú darà ancora per l'avvenire nuova dignità [...]. Nessuna disposizione dei codici futuri ferirà la giusta sensibilità della classe forense" (Gli avvocati, 1930, 88–89). Le parole di Rocco, tutt'altro che di circostanza, riassumono i capisaldi del rapporto tra avvocatura e regime (cfr. Vinci, 2007, 55): l'insofferenza verso la dimensione 'privatistica' della professione, ingombrante eredità della tradizione risorgimentale e liberale (cfr. Mazzacane, 2006, 47); la pretesa di subordinarla ai superiori 620 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 interessi dello Stato; la conseguente trasformazione del difensore in organo della giustizia. Entro queste coordinate, il fascismo stava tentando di fare dell'avvocato un interprete di cultura: di sostituire al vecchio esponente del notabilato professionale il compartecipe d'un nuovo paradigma di legalità. Questa impegnativa ridefinizione, che riguardò in misura piú sensibile la fisionomia del penalista, prese corpo tra il 1925 e il '30 grazie alle leggi corporative e alla gestazione della codificazione penale. Le pagine seguenti ricostruiscono tale itinerario con particolare attenzione al codice di rito, onde verificare se esso mantenne la promessa – anticipata dalla relazione al Progetto preliminare (Rocco, 1929, 8) e ribadita nella relazione finale al Re (Rocco, 1930b, 9) – di "accrescere il prestigio e la serietà della difesa" o se offrí, piuttosto, l'occasione per fascistizzare quello che lo stesso guardasigilli definí, alla vigilia dell'approvazione, "uno degli ambienti piú difficili a guadagnare per noi, perché composto di persone abituate alla critica" (Rocco, 2005, 450). TRA CORPORATIVISMO E MUNUS PUBLICUM Senato del Regno, dicembre 1925. Si apre la discussione sulla legge-delega per la riforma dei codici. Alessandro Stoppato, uno degli ultimi esponenti della penalistica liberale e padre putativo del codice Finocchiaro-Aprile del 1913, in "dissidio radicale" dal guardasigilli e dalla "universalità degli studiosi e dei professionisti" si ostina a sostenere che la difesa dell'imputato costituisce "un patrocinio del tutto privato" (Lucchini, 1926, 106; con Stoppato concorda Isoldi, 1925, 80). La sua è una posizione di retroguardia: il regime si sente in perfetta sintonia con l'indirizzo tecnico-giuridico (come risulta da una lettera all'editore Cedam di Rocco, 1928, 5). Appena un mese prima, ossia nel novembre del '25, Rocco aveva illustrato alla Camera un progetto (da lui battezzato "il meno fascista") di riforma della professione forense (Meniconi, 2006, 105). Esso mirava a soppiantare la normativa del 1874, che per diffuso convincimento presentava gravi inconvenienti (Isoldi, 1925, 80). Anche i vecchi liberali come Lucchini riconobbero perciò che la legge 25 marzo 1926 n. 453 sull'Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore dimostrava la perdurante capacità del Parlamento di varare norme "importanti e organiche", benché vi sedessero "numerosissimi (si dice anche troppi!)" avvocati (Professione forense, 1926, 498–499). L'intervento fu completato da alcuni decreti di attuazione. Il R.D. 6 maggio 1926 n. 747 all'art. 1 negava l'iscrizione agli albi a coloro che esercitassero "una pubblica attività" in contrasto con gli "interessi della Nazione": norma peraltro applicata "con una certa moderazione" (Aquarone, 1965, 89–90). Lo stesso decreto (art. 2) dettava la formula del giuramento, che vincolava a svolgere con lealtà i doveri professionali "per i fini superiori della giustizia e gli interessi superiori della nazione" (Schwarzenberg, 1976, 630; Meniconi, 2006, 127). 621 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 In ossequio alla riforma, tra maggio e dicembre del '26 i consigli dell'ordine furono sciolti (la soppressione di fatto sarebbe sopraggiunta con R.D. 22 novembre 1928 n. 2580 [convertito con l. 24 dicembre 1928 n. 2943], quella di diritto con R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578). La revisione straordinaria degli albi fu affidata a commissioni reali controllate dall'esecutivo. Il regolamento emanato con R.D. 1° luglio 1926 n. 1130 elevò ad unico rappresentante della classe forense il sindacato fascista (Malatesta, 2003, 44), che nel '33 avrebbe assorbito i compiti (custodia degli albi, disciplina) già spettanti alle commissioni reali. Anche l'avvocatura subí dunque la brusca accelerazione verso il sistema corporativo (Schwarzenberg, 1976, 631; Meniconi, 2006, 13–15), accontentandosi di discettare sulla presunta matrice medievale del nuovo assetto (Rocco, 2005, 451–452; Gianturco, 1937, 94 e 100). La legge – esultava nel 1929 l'avvocato lucano Federigo Severini nel volume Per la toga fascista – "ha compiuto il miracolo dell'organizzazione dei lavoratori del pensiero, che erano tenuti in uno stato di totale assenza di spirito di solidarietà, di avversione a formarsi una coscienza del proprio divenire, di piena inconsapevolezza della missione etica e della funzione storica ad essi assegnate" (Pistoiese, 1930, 893–894; cfr. anche Angeloni, 1934, 117; sul proposito autoritario di Rocco di "educare al senso dello Stato" i lavoratori intellettuali Malatesta, 2003, 42–43). La forzata sindacalizzazione aprí nella classe forense una vistosa crisi d'identità. Chiedendosi, due mesi dopo l'entrata in vigore, quali effetti avrebbe sortito la legge del '26, un principe del foro come Corso Bovio, pur parlando ancora di missione o apostolato, esortava i colleghi a dimenticare i "tempi in cui sulle curie alitava lo spirito metafisico". Bovio accusava "i vecchi regimi liberali" d'aver considerato l'avvocatura "alla stregua di ogni altra professione, occupazione o mestiere" e d'averla prosaicamente trasformata "in strumento di calcolo, di transazione, di industria" (Bovio, 1926, 409). L'allusione riguarda la temuta industrializzazione o caccia dei clienti praticata da "alcuni avvocati, veri filibustieri" (Cecchi, 1926, 411). Il disorientamento fu particolarmente avvertito dai penalisti, che oltretutto si sentivano ancora sacrificati dal ruolo riservato loro dal vigente codice FinocchiaroAprile del 1913. Su "Rivista penale" del 1923 Orfeo Cecchi imputava al Mortara, uno dei principali compilatori di quel testo, l'"equivoco" d'aver indicato come priorità del processo penale la persecuzione del delitto: da qui le menomazioni arrecate, soprattutto in istruttoria, alla "missione del difensore", il quale, benché tutore dei "piú sacri diritti individuali", si vedeva ingiustificatamente subordinato al pubblico ministero, ossia al rappresentante – ai sensi dell'art. 129 Ord. Giud. – del potere esecutivo e dunque emanazione dei "gruppi politici al potere". Tutto il ragionamento di Cecchi mirava a ristabilire almeno la "parità di condizioni" tra accusa e difesa, com'era tradizione dei paesi "liberi e civili" (Cecchi, 1923a e 1923b). 622 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 Al Cecchi, di lí a qualche mese e dalle stesse colonne, il sostituto procuratore milanese Antonino Cordova obiettò anzitutto d'essersi "fatto prendere la mano" nel denunciare le presunte coartazioni operate dalla magistratura ai danni del ceto forense. Dal suo punto di vista, viceversa, istituti quali l'immunità per le offese contenute nelle memorie e nelle arringhe (ex art. 398 c.p.) o la facoltà di parlare per ultimo al dibattimento (art. 411 c.p.p.) assicuravano già al difensore una lusinghiera parità col p.m., considerato che quest'ultimo impersonava non solo la "pretesa punitiva dello Stato" ma anche "il delegato della società per la tutela dei diritti dei consociati". Cordova non esitava a teorizzare la superiorità della pubblica accusa, a fronte del "talvolta penoso dovere [dell'avvocato] di negare anche la luce della verità, di costringere il suo pensiero al cavillo, ai contorcimenti del sofisma e agli adattamenti di coscienza piú dolorosi e piú mortificanti". Opposto, poi, il giudizio di Cordova sul c.p.p. 1913, che a suo avviso aveva inteso correggere, nel solco delle "piú sensate tradizioni nazionali", i difetti del rito del 1865: i "processi eterni", i "tornei oratori interminabili e defatiganti", gli "abbandoni clamorosi e improvvisi di difesa", le "tante insidie tese, sotto l'usbergo della legge, ai giudici". Cattive abitudini dure a morire "se, come càpita talvolta, il difensore si presenta [ancora] in tribunale non per convincere [...] il giudice" ma per sfoggiare qualità oratorie ed épater le bourgeois. Infine, nel merito delle proposte di Cecchi, Cordova condivideva la trasformazione dell'avvocato in pubblico ufficiale, ma rifiutava drasticamente altre ipotesi quale l'allargamento della pubblicità istruttoria (Cordova, 1924). La polemica riassume efficacemente due visioni antitetiche della difesa tecnica che si fronteggiavano all'alba del ventennio. Unico elemento di convergenza, la trasformazione del patrono in funzionario pubblico. Ipotesi rilanciata, non appena iniziarono i lavori per il nuovo codice di rito, da "Rivista penale". Qui, sulla scia del solito Cecchi (Cecchi, 1926, 411–412), l'avvocato Ubaldo Ferrari si augurava che grazie a tale qualifica l'avvocato potesse "non solo" apparire ma essere della "stessa famiglia giudiziaria" dei giudici collocandosi "in condizioni di perfetta uguaglianza e di piena indipendenza" dal magistrato, dal cliente e dal pubblico. Secondo Ferrari, una simile soluzione era resa ancor piú opportuna dal rischio, già segnalato dal direttore Lucchini, che il futuro processo penale accentuasse i tratti inquisitori dell'istruzione (Ferrari, 1927a, 194–201).1 Nel manuale del 1929 Eduardo Massari registrò questa "tendenza dottrinale", che, se recepita dall'imminente codice di rito, da un lato avrebbe attestato l'"importanza sociale del magistero difensivo penale", dall'altro avrebbe acuíto "il senso di responsabilità del patrono". Sul punto, aggiungeva Massari, aveva compiuto un significativo passo avanti la "recente legislazione fascista", in particolare col R.D. 1° luglio 1 Nella prefazione al vol. dello stesso Ferrari, 1927b, X, Lucchini aveva abbandonato la tradizionale posizione accusatoria presagendo, su questa tematica ormai consunta, un'imminente "rivoluzione". Ferrari attribuisce la paternità della tesi del munus publicum a de Marsico, 1915, 360–362. 623 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 1926 n. 1130 che annoverava (art. 98) la professione forense tra i servizi di pubblica necessità (Massari, 1929, 107–108). Un'identica locuzione trasmigra nel codice penale sostanziale del 1930, il cui art. 359 include i difensori tra coloro che esercitano un servizio di pubblica necessità (Massari, 1932, 108; De Mauro, 1959, 145). La formula non appaga le aspettative del Cecchi, che vi ravvisa addirittura una degradazione del patrono al livello degli addetti alle pulizie o dei commessi d'aula. Per contro, lo studioso plaude al pretore di Milano Primarchi che, con sentenza del 21 marzo 1933, aveva rubricato come oltraggio a pubblico ufficiale l'ingiuria indirizzata in dibattimento all'avvocato, sul presupposto che questi, concorrendo a formare "la volontà" dello Stato, svolge obiettivamente una funzione pubblica (Cecchi, 1933, 423–425). Sia il pretore Primarchi sia Cecchi credono di trovare un avallo alla loro tesi nelle "lapidarie parole" di "uno dei piú autorevoli compilatori" del nuovo codice di rito, Vincenzo Manzini: "Il difensore penale non è patrocinatore della delinquenza ma del diritto e della giustizia" (Cecchi, 1933, 425; Manzini, 1931, 425). In realtà i primi anni di vigenza dei nuovi codici penali riveleranno come, in un impianto robustamente inquisitorio, il riconoscimento del munus publicum finisca per collimare con il disegno del regime, che aspira a rimodulare il patrocinio legale configurandolo quale attività di complemento dell'amministrazione della giustizia. All'apertura dell'anno giudiziario 1934, il procuratore generale della Cassazione Silvio Longhi coglie nel proliferare di uffici legali istituiti da banche e aziende la tendenza a spogliare la professione "del suo tradizionale carattere [privato], per assumere quello sempre piú spiccato di organo pubblico, per un'aperta collaborazione delle funzioni della giustizia" (Longhi, 1934, 1277). Poiché gli avvocati interpretano queste espressioni come "un'assoluzione o un nulla-osta all'avvocato impiegato", in una successiva intervista Longhi rinnova la stima alla categoria ma ammette che l'"inquadramento" fascista della stessa resta ancora incompiuto (Dertenois, 1935, 337–338). Gli si obietta che è la legge del '26 sull'ordinamento professionale (art. 3) a sancire l'incompatibilità tra esercizio dell'avvocatura e qualsiasi impiego retribuito, e che proprio il regime ha infuso nella classe forense il dinamismo individualistico "contro la stasi impiegatizia" (Gianturco, 1937, 81 e 146). C'è chi nelle parole del Longhi intravede l'incubo di dover "veramente sostituire codice e toga col badile e la casacca dell'operaio" (Visco, 1934, 702; su questa polemica cfr. Meniconi, 2006, 68–72). Preoccupazioni che ancora il guardasigilli Arrigo Solmi dovrà diradare (Solmi, 1937, 80). VERSO IL NUOVO RITO Irreggimentata nell'assetto corporativo ed allarmata dalla strisciante 'pubblicizzazione', l'avvocatura penale accoglie senza entusiasmi il Progetto preliminare di codice di procedura penale che il guardasigilli Rocco sottopone, nell'estate del 1929, al parere 624 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 degli organismi di categoria. Commissioni reali e sindacati forensi non mancano di lamentare l'"ingiustificata diffidenza" o la "preconcetta sfiducia" che dall'articolato trapelano nei confronti del difensore (Lavori preparatori, 1930b, 193 e 198; Lavori preparatori, 1930c, 252 e Lavori preparatori, 1930a, 156); stigmatizzano lo squilibrio tra repressione e garanzia (Lavori preparatori, 1930a, 127); negano che l'avvocato tipo sia davvero "il mercenario cianciatore in attesa del miglior offerente e l'azzeccacarbugli in insidiosa lotta contro la legge" (Lavori preparatori, 1930a, 141). Considerazioni non diverse formulerà, nel corso del dibattito sul bilancio della Giustizia svoltosi alla Camera tra il 21 e il 26 marzo del 1930, l'onorevole Nicolino Vascellari, che si premurerà anche di difendere la "classe forense" dall'accusa di antifascismo osservando come gli avvocati, "ragionatori per eccellenza", siano "pervenuti al fascismo attraverso a dei ragionamenti" anziché "di slancio, per intuizione" (Bilancio Camera, 1930, 704). Persino il già citato Massari, che pure è pienamente organico al regime giacché siede nel comitato ristretto per la stesura del codice penale, nell'edizione 1929 del manuale di procedura prende le distanze dalle "facili declamazioni contro l'istituto dell'avvocato difensore" (Massari, 1929, 107; Massari, 1932, 107). Eppure, la neonata "Rivista italiana di diritto penale" (1929) trova "confortante constatare che la maggioranza delle Commissioni Reali e dei Sindacati fascisti ha saputo elevarsi al di sopra delle considerazioni dei meno nobili interessi di ceto, informandosi ai princípi del Regime fascista. Pochi invero furono quegli organi professionali che non seppero distaccarsi dai criteri demo-liberali e dalla preoccupazione di perdere privilegi o libertà non piú tollerabili [...]. E' superfluo osservare che le opinioni interessate di questi irriducibili passatisti non potranno avere alcun peso nelle determinazioni di un Ministro fascista, ancorché provengano da gente che di fascisti porta il distintivo" (I difensori, 1929, 903). E infatti Rocco, nella relazione al Progetto definitivo del c.p.p., si mostra soddisfatto della risposta ricevuta dal mondo forense: "L'aver colpito alcune forme di indisciplina, l'aver soppresso molte cause di nullità e d'impugnazione, l'aver stabilito freni all'incontinenza oratoria e l'aver introdotto altre simili riforme potevano dar motivo a prevedere, come accennai nella mia Relazione sul Progetto preliminare, lamenti e proteste da parte degli avvocati. Ho invece constatato, con viva soddisfazione, che la maggior parte degli ordini professionali [...] hanno pienamente inteso lo spirito della riforma, la quale è in realtà diretta ad elevare, non a deprimere l'ufficio del difensore. Ciò dimostra quanto sia ormai progredita, anche nella classe sociale piú disposta ed allenata alla critica dei pubblici istituti, l'educazione fascista, che insegna a subordinare i veri o supposti interessi individuali o di classe all'interesse superiore dello Stato, e ad attendere stima e prestigio non già dall'uso di mezzi furbeschi o chiassosi, ma dal sincero e dignitoso adempimento del proprio dovere. La leale collaborazione, che la classe forense ha dato all'esame e alla critica obiettiva del Progetto, mi ha consentito di accogliere molti dei suoi voti" (Rocco, 1930a, 7). 625 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 CALA IL SIPARIO: L'ABOLIZIONE DELLA GIURIA E L'OROLOGIO PRESIDENZIALE Nei pareri sul Progetto preliminare del codice di rito le rappresentanze dell'avvocatura stigmatizzano la "degenerazione insopportabile" di aule divenute "palestre di stupida e vana retorica" o "teatro per l'esibizionismo personale, a base di declamazioni istrioniche e ciarlatanesche". Atteggiamenti – chiosa la "Rivista italiana di diritto penale" – "in perfetta antitesi con la nuova figura dell'Avvocato, quale è nitidamente tracciata dalle leggi sulla professione forense e dalle varie disposizioni degli organi del Regime". Lo stesso periodico profetizza che "il vecchio e non simpatico tipo del penalista assisato, zazzeruto o altrimenti truccato, ignorante, chiacchierone, ruminatore di Balzac e d'altri simili [...] giureconsulti, truculento, commediante" sarà "sommerso nella serietà e nella compostezza fascista. La gente di cattivo gusto, amante di simili anticaglie grottesche, può andare a godersele in Francia" (I difensori, 1929, 904). Da qualche anno, invero, scomparsa la "generazione eroica" del Risorgimento (Altavilla, 1926, VIII), tramontata l'epoca in cui l'oratoria forense, "specie nel Mezzogiorno", veniva "pagata a metri [...] perché la gente aveva meno da fare" (Raho, 1932, 231), penalisti di fama invitavano ad apporre "una pietra sepolcrale sui rottami della vecchia eloquenza" e sui "romanticismi" dell'"avvocato metafisico" (Bovio, 1926, 409–412), nonché ad estirpare "chirurgicamente" il bubbone pestilenziale del "melenso insopportabile istrionismo parolaio di udienza" (Cecchi, 1926, 411–412; cfr. anche Altavilla, 1926, IX). In un'intervista concessa nel 1929 Gennaro Marciano ammetteva che l'oratoria era "destinata a ripiegare sempre piú le ali" e che "l'eloquio fiorito, scintillante" aveva "ceduto il posto alla discussione secca, serrata, stringente" (Galdi, 1939, 133). I "gusti del pubblico" erano mutati e "gli analitici, i minutissimi spaccatori di capelli in otto venivano messi all'indice" (Raho, 1932, 231; Raho, 1932, 232 per un impietoso ritratto dell'avvocato d'assise). D'altronde, la ricerca d'una cifra stilistica piú stringata (l'arringa lineare tipizzata da Calamandrei nell'Elogio dei giudici scritto da un avvocato [I ed. 1935]) si sposava con "l'ideologia autoritaria" che imponeva forme espressive sobrie ed asciutte (Meniconi, 2006, 16–17). Studi sulla retorica mussoliniana pubblicati durante il ventennio ravvisavano nell'essenzialità un carattere peculiare del fraseggio del Duce (Ellwanger, 1939, 13). La medesima compostezza veniva invocata rispetto ad altri comportamenti invalsi tra gli avvocati e ritenuti parimenti indecorosi, come l'abuso di "fogge demagogiche", ossia d'un abbigliamento dimesso finalizzato a fingersi amici del popolo (Russo, 1930, 541–542), o le intemperanze verbali che avrebbero consigliato di adottare un "galateo giudiziario" (Panizzi, 1928, 450–452). Dietro quella che Giuseppe Lembo definisce, su "La Corte di Bari" del 1929, la "cosí detta libertà di difesa [...], una delle tante mistificazioni dei governi liberali e democratici, che bru- 626 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 ciano incensi e mirra alla Dea Libertà", si sospetta l'insubordinazione: all'apertura dell'anno giudiziario 1930 il procuratore generale della corte d'appello di Roma Giuseppe Facchinetti si domanda "se certi eccessi e certi atteggiamenti siano compatibili con la funzione dell'avvocato in Regime Fascista" (Lembo, 1930, 479–480). La crociata contro l'"arte del dire" aveva ricevuto un formidabile avallo dal capo del governo. In una circolare inviata nel marzo 1929 ai segretari delle federazioni provinciali Mussolini aveva raccomandato ai penalisti, tra l'altro, di "astenersi" da "pose esibizionistiche o gladiatorie" e da abusi di retorica. Criteri cui – ammette il guardasigilli nella relazione al Progetto preliminare – dovrà naturalmente ispirarsi il nuovo rito penale. "Io – aggiunge Rocco – ho il massimo rispetto per l'eloquenza giudiziaria, ma ritengo che questa non debba aver carattere d'esercitazione rettorica o di recitazione teatrale": d'ora in avanti dovrà puntare non piú al sentimento ma alla ragione e dunque "essere sopra tutto sobria e austera [...]. I filodrammatici non devono trovare un teatro aperto ai loro saggi [...]. L'abolizione della giuria popolare toglie ogni pretesto alla tolleranza di quel genere d'eloquenza (o meglio, d'oratoria), che trovò sin qui il suo campo d'azione specialmente dinanzi alla corte d'assise" (Lavori preparatori, 1929, 90–91). La soppressione del giurí intende dunque ufficialmente fiaccare "l'istrionismo e il ciarlatanesimo" dell'"oratoria di assise", foriero d'indebite assoluzioni: quasi che – ironizza Giovanni Napolitano – si stabilisse di abolire la letteratura sol perché esistono "pessimi letterati" (Napolitano, 1954, 117, 120–125). Invano illustri avvocati si affannano a rammentare che "l'Assise è l'alto mare" nel quale si formano gl'ingegni piú promettenti (Bentini, 2000, 191) o paventano l'inaridimento della logica argomentativa (cosí Giovanni Porzio in un'intervista del '29 a Galdi, 1939, 158). Il dado ormai è tratto e il c.p.p. del 1930 sostituisce alla giuria l'assessorato, collegio misto di togati e di laici iscritti al partito. Alla fine degli anni Trenta risulterà evidente che quella riforma aveva mutato la "fisionomia" della professione (Galdi, 1939, 8). Al medesimo effetto, ossia a fare del penalista l'interprete di una cultura non piú "metafisica" ma concreta e sintetica, mira la proposta di contingentare i tempi dell'arringa. La stesura originaria del codice di rito, da ascrivere, com'è noto, al Manzini, concedeva al difensore quaranta minuti per dissertare sulle questioni incidentali (art. 441) e tre ore per la discussione finale, mentre per il p.m. non fissava limiti (art. 472). Nell'illustrare il Progetto preliminare il guardasigilli chiariva che quei parametri andavano considerati come un maximum: nel senso che il legale non avrebbe potuto spenderli per intero parlando "a vanvera di tutto ciò che gli frulli in capo", perché il presidente gli avrebbe tolto la parola dopo due richiami, come prevedeva l'art. 69 del Regolamento della Camera dei Deputati. In analogia con l'art. 77 dello stesso Regolamento, il ministro proponeva poi che un'ordinanza del presidente stabilisse il termine perentorio di chiusura del dibattimento: "In tal modo ogni ostruzionismo, 627 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 cosciente o incosciente, volontario o involontario, verrà definitivamente stroncato, e non sarà piú possibile che uno stesso oratore parli per intere udienze e persino per piú udienze" (Lavori preparatori, 1929, 93). Queste misure, a fronte di parziali obiezioni (come quelle avanzate dalla Facoltà napoletana di Giurisprudenza: cfr. Relazione Napoli, 1929, 75–76), incassano l'incondizionato sostegno della pubblicistica vicina al regime. Spicca in tal senso la campagna orchestrata dalla nuova serie di "Rivista penale", passata proprio in quel frangente, dopo la scomparsa di Lucchini, sotto la direzione di Silvio Longhi, che ha fama di fascista ante marcia. Nel primo fascicolo del 1930 Salvatore Cicala afferma di riscontrare nelle "nuove regole" contenute nel Progetto preliminare la "volontà del regime di rendere alta, seria ed ossequiata la funzione" dell'avvocatura anche nell'interesse di quest'ultima e "a prescindere dall'appartenenza al partito fascista", oltre che il nesso con "chiare e recenti direttive politiche": l'allusione è alla citata circolare mussoliniana del marzo '29 (Cicala, 1930, 20–21). Sul numero successivo scende in campo lo stesso Longhi. Questi, invero, sin dalla fase di elaborazione del codice di procedura penale del 1913 si era adoperato per arginare le "deprecabili lungaggini" processuali "mediante la limitazione del numero dei difensori": proposta, all'epoca, accantonata perché contrastante con le allora "imperanti concezioni politiche di un illimitato diritto di difesa" (Bernieri, 1935, 77). Nel '24 il giurista bresciano aveva invocato drastici provvedimenti contro le licenze oratorie, suggerendo in particolare di rimettere al presidente della corte la fissazione delle horae legitimae (Longhi, 1926, 1 ss.; cfr. Azzariti, 1935, 26). Nel fatidico 1930, ormai alto magistrato di Cassazione, Longhi può coerentemente denunciare la "mostruosità" – particolarmente intollerabile "in questi tempi [...] che sono tempi di azione" – di dibattimenti d'assise protrattisi per centinaia di udienze: una deriva che lo induce a riproporre lo sfoltimento del collegio difensivo e il conferimento al presidente di ampi poteri discrezionali (Longhi, 1930, 492–493). Il Progetto definitivo accoglie l'idea del Longhi (Azzariti, 1935, 26; Longhi, 1930, 494). Esso prevede (art. 472 terzo comma) che "nessun difensore può parlare per un tempo superiore a quello prefissogli dal presidente o dal pretore", i quali possono invitare a concludere o togliere la parola. Sarà questo il testo finale del codice (art. 468 terzo comma, rafforzato dall'art. 470 [poi rimpiazzato dall'art. 7 del d. lgs. luogot. 14 set. 1944 n. 288] che consentiva al presidente di tacitare il difensore o il p.m. che non si fossero attenuti alle sue direttive o avessero abusato "della facoltà di parlare, per prolissità, divagazioni o in altro modo"). Il legislatore del '30 rinuncia dunque a quantificare i margini cronologici delle arringhe, ma in compenso dilata la discrezionalità del giudice grazie al meccanismo dell'"orologio presidenziale" (Raho, 1932, 232; per le critiche cfr. Meniconi, 2006, 297). La regola si applica solo alla difesa e non si estende all'accusa, come aveva invece caldeggiato la Commissione parlamentare (Longhi, 1931b, 230–231). Su pressio- 628 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 ne dell'avvocatura, Rocco recede però dal proposito di rimettere al presidente la facoltà di decretare tassativamente la data di chiusura del dibattimento (Vinci, 2007, 54). Il 7 gennaio 1931, inaugurando l'anno giudiziario della Corte di Cassazione, Longhi approva la soluzione codicistica. E tranquillizza il mondo forense osservando che "solo la vacua eloquenza si sentirà torcere il collo; la vera, lucida e tagliente come spada continuerà a lampeggiare nelle aule di udienza" (Longhi, 1931a, 19). Nel discorso agli avvocati del 28 maggio 1935 Mussolini si rallegra: "La vostra eloquenza già si sta adeguando al "nostro" stile [...]. Vado constatando che tutto quello che una volta poteva anche piacere, quella specie di seicentismo oratorio, va definitivamente scomparendo. Ormai l'eloquenza è diritta, lineare, tendente alle cose concrete e alle concezioni precise. Voi dovete servirvi di questa eloquenza, che non esclude la forma e la grazia, per i fini educativi che il Regime si propone" (Mussolini, 1935, 81–82). A commento di queste parole, Luigi Gianturco attribuisce il merito della svolta stilistica alla capacità di Mussolini d'insegnare una sintassi completa, aspra e duttile (Gianturco, 1937, 50). L'abolizione della giuria e la limitazione della durata delle arringhe colpiscono uno stereotipo – la 'teatralità' del penalista – che il regime reputa particolarmente fastidioso e non compatibile con un'estetica 'virile'. Sotto questo aspetto, il nuovo c.p.p. – secondo Corso Bovio – risponde "alle esigenze generali delle correnti scientifiche e a quelle del clima storico" perché assegna al patrono un compito "sempre piú tecnico in armonia con la funzione tecnico-giuridica della scienza criminale". Per converso, "l'oratore che, mirandosi femmineamente nello specchio della propria vanità, si compiace del suono delle sue parole deve ritornare alle origini: le quinte di un palcoscenico. L'aula di giustizia è un'altra cosa". La diagnosi di Bovio è di ampio respiro: a suo avviso, si è chiusa la stagione del pietismo romantico, che per effeto di un capovolgimento di valori proclamava la sacralità dell'imputato anziché quella della vittima; è fallito l'ambizioso accademismo del codice Finocchiaro-Aprile, che accordava all'inquisito "tutti i diritti, da quello di chiudersi nel silenzio [...] a quello di mentire". Grazie al nuovo rito lo Stato, in quanto "espressione della coscienza sociale", non consentirà piú "indulgenze sentimentali" (Bovio, 1930, 725–730). IL TRIONFO DELLA VERITÀ Il codice varato nel 1930 contiene anche altre misure che imbrigliano l'esercizio della difesa. In questa direzione s'inscrive la scelta, contestata dai parlamentari-avvocati (Bilancio Camera, 1930, 705) ma rivendicata dal ministro in persona (Rocco, 2005, 455), di sanzionare l'abbandono della toga e l'allontanamento dall'udienza (artt. 129– 132). Già il c.p.p. 1913, invero, aveva decretato l'illiceità dell'abbandono di difesa (fattispecie che peraltro la Cassazione teneva distinta dall'abbandono della toga in 629 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 udienza: Cass. I sez. pen. 26 aprile 1917, ric. Bonavita, est. Venzi). Ma, per colpa di "giudici psicastenici", "avvocati avidi di réclame", imputati irriverenti e "giornalisti prezzolati", i magistrati autorizzavano per prassi la sostituzione del difensore in aula (Isoldi, 1925, 84–86). Inoltre, sempre in base al codice Finocchiaro-Aprile, di fronte al rifiuto del legale chiamato a sostituire il collega, il presidente del collegio giudicante avrebbe dovuto convocare il presidente del consiglio dell'ordine: un meccanismo – secondo il bilancio retrospettivo di Longhi – "penoso", inefficace e irrispettoso del decoro della magistratura. "Di risolvere il problema in via definitiva doveva pertanto assumersi l'impegno il legislatore fascista". E in effetti il c.p.p. del 1930 deferisce al giudice non solo la sospensione del difensore e dell'eventuale sostituto dall'albo, ma anche la facoltà di surrogarli con un magistrato, nonché – ove l'abbandono si verifichi durante la discussione – di "chiudere senz'altro a sentenza": in tal modo "la vecchia tattica ha scacco matto". Una "soluzione cosí ovvia", riflette Longhi, "solo il regime fascista poteva inaugurare": essa reca impresso "il marchio della civiltà fascista" (Longhi, 1931b, 226–229). I rimedi approntati dal codice del '30 per l'abbandono di difesa, come osserva il de Marsico, costituiscono "conseguenza" della inedita figura dell'avvocato 'collaboratore' del giudice. Lo stesso studioso, tuttavia, suggerisce un'interpretazione restrittiva dell'art. 129 che vieta l'abbandono anche a chi contesti violazioni del diritto di difesa: nel senso che, di fronte al rischio d'una sollevazione dell'ordine pubblico, l'avvocato ben potrebbe – ad avviso del de Marsico – lasciare l'aula invocando uno "stato di necessità". "In altri termini, la funzione del difensore ha per limite la legalità, che la protegge, non la passività, che l'annullerebbe" (de Marsico, 1936, 146– 147). D'altronde un orientamento 'comprensivo' assumono anche le Sezioni Unite della Cassazione che il 14 luglio 1933, sotto la presidenza di D'Amelio, ritengono di non perseguire per 'abbandono' il difensore d'ufficio che giustifichi l'assenza dal dibattimento: e ciò pur tenendo conto della diversa indicazione risultante dal Progetto definitivo (Abbandono, 1933, 1199–1201). Nel complesso, l'accentuato carattere inquisitorio del c.p.p. Rocco determina una disparità tra accusa e difesa che, per taluni aspetti, riporta il ruolo del difensore "a un livello addirittura prenapoleonico" (Dezza, 2003, 128–129). Il nuovo rito estromette gli avvocati dall'assistenza agli atti istruttori; ne limita la presenza numerica ad uno in istruzione e due in giudizio, escludendone persino la necessità per i reati di minima rilevanza (artt. 124–125); spunta loro le classiche armi procedurali giacché disbosca "la selva delle nullità" (Rocco, 1929, 8; in senso adesivo Bovio, 1930, 725–726). Commentatori non faziosi ammettono che il legislatore del '30 "ha mostrato di ricordare [del ceto forense] piú qualche eccesso ed intemperanza che non i meriti grandissimi di un glorioso passato" (Berenini, 1938, 826). Ma tale approccio viene in qualche modo giustificato come un prezzo da pagare in vista del superamento della dialettica tra accusa e difesa, quasi che il ripensamento della funzione sociale e 630 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 processuale del libero professionista debba fatalmente stimolarlo ad impegnarsi, insieme con il suo tradizionale antagonista, nella ricerca della verità (de Marsico, 1936, 146; Berenini, 1938, 826). Pertinenti, in proposito, suonano le dichiarazioni rese al Senato, l'8 aprile 1930, da Francesco Pujia, ex capo di gabinetto del ministero della Giustizia, ora presidente della prima sezione penale della corte di Cassazione e stretto collaboratore di Rocco: "Bisogna esattamente stabilire quale sia il posto che [all'avvocato] compete in un ben ordinato sistema processuale. Attualmente, il patrono si confonde troppo col cliente, che spesso è un litigante astioso e di mala fede". Deve invece diventare "strumento dell'attività dello Stato", "organo di giustizia, perché coopera col giudice per il trionfo della verità" (Pujia, 1930, 243–244; cfr. anche Bilancio Senato, 1930, 859). Com'era accaduto, in senso inverso, nel primo dopoguerra sotto la vigenza del Finocchiaro-Aprile, tocca nuovamente alla giurisprudenza stemperare le rigidità codicistiche. Cosí, nel 1932, le Sezioni Unite della Cassazione stabiliscono che il diritto di replica spettante al difensore al termine del dibattimento ex art. 518 c.p.p. va rispettato a pena di nullità, dovendo intendersi come assistenza dell'imputato non solo la presenza fisica del legale ma anche l'effettivo esercizio delle sue facoltà procedurali (Cass. I Sez. pen. 16 maggio 1932, in: Foro Italiano, 1932, 385–386). Il pregiudizio antiforense tuttavia sopravviverà per tutti gli anni Trenta (cfr. le testimonianze di Gianturco, 1937, 51; Ortolani, 1938, 7 e 122). Pesa, evidentemente, il sospetto che sin dal 1927 aveva agitato Giuseppe Bottai, sottosegretario alle corporazioni, al primo congresso bolognese dei sindacati dell'avvocatura: "Si dice che la classe forense [...] sia quella piú travagliata ancora dalla nostalgia parlamentare [...]. Il politicantismo parlamentare costituiva, in molti casi, il mezzo del successo professionale. Oggi il Fascismo reclama da voi che tale ordine di rapporti sia invertito, che il dovere verso lo Stato sia considerato da voi non il mezzo ma il fine del vostro esercizio o dei vostri studi" (Bottai, 1927, 619). Una traccia dell'antica diffidenza trapela dalle parole di Mussolini che, il 29 maggio 1935, ricevendo nel salone delle Battaglie di Palazzo Venezia i sindacati fascisti degli avvocati e procuratori, rimprovera alle toghe un'iniziale cautela verso il regime, salvo poi entrare "di pieno diritto nelle strade della rivoluzione". "Desidero – puntualizza il Duce – che tutti gli avvocati d'Italia sappiano che io guardo a loro [...] con intensa simpatia. Che non ci siano equivoci al riguardo" (Mussolini, 1935, 80–82). Nello stesso discorso, il capo del Governo non lesina lodi alla missione degli avvocati, che – quasi riecheggiando la profezia del suo ex ministro Rocco – gratifica degli appellativi di "educatori" e "colonne del regime" (Mussolini, 1935, 81–82). Vent'anni dopo, Piero Calamandrei avrebbe stigmatizzato l'"odio" nutrito dal fascismo proprio verso "gli avvocati fedeli alla loro missione, che agli occhi degli squadristi simboleggiavano l'idea della legalità e della giustizia" (Calamandrei, 1955, 90). 631 $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 6 6./23/-(1,0, .5,/, 02'(/ )$â,67,ý1(*$ 2'9(71,.$ V ITALIJANSKEM KAZENSKEM ZAKONIKU IZ LETA 1930 Marco Nicola MILETTI Univerza v Foggii, Pravna fakulteta, I-71100 Foggia, Largo Papa Giovanni Paolo II, 1 e-mail: [email protected] POVZETEK V petletju od 1925 do 1930 je  zakonodaja   korenito spreminjati  v svobodnem poklicu, pomembno osebnost podobo odvetnika z namenom, da bi  med      preoblikovala v interpreta kulture, koherentne z novim sistemom vrednot. Ker je odvetnike v kazenskem postopku prizadela globoka kriza identitete, ki jo je    reforma pravnih poklicev (1926) in    korporativna organizacija odvetništva, so le-ti poskušali ponovno opredeliti svojo identiteto ne samo znotraj procesa, ampak tudi v odnosu do posledic industrializacije.   znanstvena struja je za branilca zahtevala  statusa uradnika javne uprave. Ta pobuda, ki je prišla iz liberalnega okolja, se je skladala z     ki je  pravno zastopstvo organizirati kot neke vrste sklop javnih funkcij, ki bi bile    narave in povsem skladne z delitvijo pravice. Pri obdelavi kazenskih zakonikov je ekipa ministrstva za pravosodje Alfreda Rocce dobila    narediti korak v tej smeri. Predvsem dejstvo, da je kazenski postopek zadobival vedno izrazitejši preiskovalni  je v     zastavljanje pravne    kot navadnega sodelovanja s sodnikom pri iskanju resnice, na  ravni pa    izkoreninjanje dolo  vedenj in ravnanj (prenapihnjeno in zamotano retoriko,    nastopanje,   in    zatekanje k sofizmom), ki so veljala za     s politiko sodstva in ideološkimi opcijami izvršilne oblasti. Odtod izvirata tudi    o odpravi porote, tega tradicionalnega   govorniškega ekshibicionizma, in skrajšanju   zagovorov. Tem ukrepom se je  še   zbora odvetnikov branilcev, prepoved opustitve pravniške prakse in   razveljavitev   Organizmi zastopništva, ki so jih spodbudili, naj izrazijo svoje mnenje o Pripravljalnem projektu zakonika, so z grenkobo ugotavljali, da je celoten program reform napisan v duhu predsodkov do pravosodja. V praksi je naloga sodstva, da omili do  stroge disciplinske predpise, ki bi škodili izvajanju pravnega zastopstva. "Slab sloves", ki se je razširil na advokaturo, je obstal tudi še po tem, ko je leta 1931 stopil v veljavo kazenski zakonik: zaslediti ga je   celo v uradnih Mussolinijevih govorih,   je slednji izjavil, da zaupa v vzgojno in propagandno poslanstvo odvetnikov.           #                 stitev obrambe 632             !"    $ $&7$ +,675,$( ‡  ‡  ‡  Marco Nicola MILETTI: LE ALI RIPIEGATE. IL MODELLO DI AVVOCATO FASCISTA NEL CODICE ..., 619–636 FONTI E BIBLIOGRAFIA Abbandono (1933): Abbandono di difesa. Mancata comparizione del difensore. Rivista penale, IV. Roma, 1199–1201. Altavilla, E. (1926): Prefazione a Gennaro Marciano. Orazioni ed arringhe. Napoli, Morano. Angeloni, G. C. (1934): Il nuovo ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore. Il nuovo diritto, XI, 2. Roma, 115–117. Gli avvocati (1930): Gli avvocati e il fascismo. Rivista italiana di diritto penale, II. Padova, 88–89. Azzariti, G. (1935): L'Opera scientifica di Silvio Longhi e le sue realizzazioni. 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