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Adriano Olivetti MISE def

ADRIANO OLIVETTI l’impresa, la comunità, il territorio contributi di Adriana Castagnoli Davide Cadeddu Giuliana Gemelli Valerio Ochetto intermezzi di Roberto Scarpa Fondazione Adriano Olivetti Adriano Olivetti. L’impresa, la comunità e il territorio. Atti del seminario Collana Intangibili, Fondazione Adriano Olivetti, n. 27, 2015 ISBN 978 88 96770 25 2 La Collana Intangibili è un progetto della: Fondazione Adriano Olivetti Direzione editoriale Francesca Limana Fondazione Adriano Olivetti Sede di Roma Via Giuseppe Zanardelli, 34 - 00186 Roma tel. 06 6877054 fax 06 6896193 Sede di Ivrea Strada Bidasio, 2 - 10015 Ivrea (TO) tel./fax 0125 627547 www.fondazioneadrianolivetti.it Tutto il materiale edito in questa pubblicazione, ad esclusione delle appendici documentali per le quali si prega, laddove disponibili, di fare riferimento alle fonti citate nel testo, è disponibile sotto la licenza Creative Commons AttribuzioneNon commerciale-Non opere derivate 4.0 Internazionale. Significa che può essere riprodotto a patto di citare la fonte, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Collana Intangibili 27 ADRIANO OLIVETTI L’impresa, la comunità e il territorio Atti del seminario realizzato in collaborazione tra Fondazione Adriano Olivetti e Polo bibliotecario del Ministero dello sviluppo economico Roma, Parlamentino del Ministero dello sviluppo economico 21 novembre 2014 Indice Saluti e introduzione Francesca Limana pag. 11 Responsabile comunicazione e progetti editoriali della Fondazione Adriano Olivetti Liliana Mancino pag. 12 Coordinatrice del Polo Bibliotecario del Ministero dello Sviluppo Economico Contributi Valerio Ochetto Attualità di Adriano Olivetti: cenni biografici con interrogativi pag. 18 Adriana Castagnoli Da Camillo ad Adriano: un’impresa all’avanguardia dell’internazionalizzazione pag. 30 Giuliana Gemelli Adriano Olivetti e la RSI: un problema mal posto pag. 46 Davide Cadeddu Olivetti e la rappresentanza politica degli interessi economici pag. 76 Intermezzi Roberto Scarpa Attore e autore del libro "Il coraggio di un sogno italiano" pagg. 16, 27, 43, 73, 81 Francesca Limana Buongiorno, molte grazie per aver invitato la Fondazione Adriano Olivetti a collaborare alla realizzazione di questa giornata. Molte grazie a Gilda Gallerati e a Liliana Mancino del Polo Bibliotecario del Ministero dello Sviluppo Economico, con cui siamo stati felici di costruire insieme questa giornata intensa a cui non ruberò altro spazio se non per ringraziare del loro contributo anche i relatori coinvolti, esperti conoscitori della storia olivettiana, che in tempi e modi diversi, hanno collaborato con la nostra Fondazione o studiato l'archivio di Adriano Olivetti e della sua famiglia, che la Fondazione ha in deposito presso l'Associazione Archivio Storico Olivetti di Ivrea. Credo sia doveroso ringraziare innanzitutto Valerio Ochetto, la cui biografia di Adriano Olivetti, oggi ripubblicata dalle Edizioni di Comunità, costituisce, pur a distanza di trent'anni dalla prima edizione, il timone, il primo riferimento, la lettura necessaria per avvicinarsi alla storia di Adriano Olivetti. Ringraziamo Davide Cadeddu, che ha curato due volumi nella storica serie dei Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, scaricabili gratuitamente dal nostro sito, il primo su Il valore della politica in Adriano Olivetti e il secondo invece su La riforma politica e sociale di Adriano Olivetti (1942-1945). Entrambi i volumi ci introducono all’idea di democrazia elaborata da Adriano Olivetti, poi maturata nel suo scritto più 11 Valerio Ochetto, autore della biografia ufficiale di Adriano Olivetti. Davide Cadeddu, profondo conoscitore dell’esperienza e della visione politica di Adriano Olivetti Giuliana Gemelli, storica, già autrice di saggi sull’impresa olivettiana e studi sulla filantropia moderna. Adriana Castagnoli e la ricerca condotta prevalentemente su carte conservate nell’archivio di Ivrea, sull’espansione internazionale della Olivetti. Roberto Scarpa autore della biografia di Adriano Olivetti per adolescenti. importante L’Ordine Politico delle Comunità, recentemente ripubblicato dalle Edizioni di Comunità e curato proprio da Davide Cadeddu. Un ringraziamento particolare va anche a Giuliana Gemelli, che siede nel Centro Studi della Fondazione dal 1997, per cui bisognerebbe elencare così tante iniziative, ricerche e pubblicazioni realizzate insieme che mi limiterò a citare l'ultima: si tratta dell’avvincente ricostruzione pubblicata nel libro Normalizzare l'innovazione riguardante le vicende dell'elettronica e dell'informatica, da Adriano a Roberto Olivetti, libro edito nella Collana Intangibili della Fondazione, disponibile gratuitamente on line dal nostro sito, come quelli di Cadeddu citati in precedenza. Con Adriana Castagnoli, non abbiamo ancora avuto il piacere di collaborare come con gli altri relatori, ma la sua recente ricerca, prevalentemente condotta sui documenti conservati presso l'Archivio Storico di Ivrea, sull’espansione internazionale della Olivetti dalle origini agli anni Sessanta, pubblicata dalla casa editrice Il Mulino, aggiunge un importante tassello alla comprensione della straordinaria esperienza industriale della Olivetti di Camillo, Adriano e Roberto. Permettetemi un ultimo ringraziamento a Roberto Scarpa che da alcuni anni porta nei teatri la storia di Adriano Olivetti in un racconto che si è recentemente trasformato in un bel libro edito da Scienza Express, dedicato agli adolescenti, una fascia di età inconsueta rispetto a quella dei nostri usuali interlocutori. Scarpa intervallerà le relazioni, leggendo alcuni brani tratti dallo spettacolo teatrale “Sogni d’oro. La favola vera di Adriano Olivetti”. Ci auguriamo che, anche grazie al lavoro della Fondazione, Adriano Olivetti continui ad essere riconosciuto come un patrimonio per il nostro paese ma soprattutto come un esempio, un modello concreto, fonte di ispirazione per le nuove generazioni. Liliana Mancino La fallace e limitata logica del massimo profitto. Avvicinare Adriano Olivetti e l’impegno da lui profuso, agendo nell’impresa e nella società, per l’elevazione e il riscatto dell’uomo 12 suscita sempre grande stupore ed ammirazione. Uomo di indubbio spessore intellettuale, l’ingegnere Adriano ha portato avanti una esperienza eccezionale nel panorama italiano, fondata sul felice connubio di industria, tecnologia e cultura, prefigurando scenari inediti per l’epoca. La concezione della funzione sociale dell’impresa, del rapporto tra fabbrica e comunità, gli innovativi modelli organizzativi e di welfare, le competenze tecniche e progettuali, la ricercatezza dei valori estetici nel design, hanno fatto dell’Olivetti un modello imprenditoriale unico, tale di imporsi come esempio di azienda all’avanguardia non solo sullo sfondo del miracolo economico italiano e dei processi di industrializzazione della prima metà del Novecento, ma su un arco temporale che giunge fino a noi per l’ attualità delle sue idee, spesso in anticipo sull’epoca. Per fare un esempio, l’Olivetti, impresa radicata localmente ma capace di proiettarsi sui mercati internazionali, fu prototipo modernissimo di glocalizzazione, in grado di coniugare eccellenza tecnologica e capacità competitiva nella prospettiva di uno sviluppo, oggi si direbbe “sostenibile”, attento al territorio e agli equilibri sociali, sorretto dalla robusta impalcatura teorica di una visione politica e sociale a tutto tondo. Dalla strategia di impresa al pensiero sociale e politico, dal design alla grafica, dall’urbanistica all’architettura, dall’arte alla letteratura, Adriano Olivetti ha dissodato visioni e logiche conservatrici con strategie innovative e proiettate verso il futuro, vivificate da valori culturali e religiosi, individuando nella cultura e nell’educazione gli strumenti fondamentali per la realizzazione di quell’humana civilitas che gli stava a cuore, richiamata nel cartiglio del simbolo olivettiano della campana. La cultura e la sua diffusione sono per Adriano le vere e moderne leve dell’emancipazione civile e sociale e le innovative e multiformi proposte messe in campo fioriscono proprio nell’integrazione di cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica, con la tecnologia a servizio della più ampia espansione della sfera culturale: la biblioteca diffusa, non confinata nello spazio ristretto della fabbrica ma dilatata sul territorio, in un continuum di formazione integrale, senza cesure tra attività produttiva e tempo libero; la riduzione degli orari di lavoro e l’introduzione del sabato libero per favorire la fruizione di spazi 13 Stupore e ammirazione. Industria, tecnologia e cultura: connubio vincente olivettiano. Olivetti prototipo di glocalizzazione. Gli intellettuali in fabbrica. Integrazione tra cultura umanistica e scientifica. Le Edizioni di Comunità. culturali; le tante occasioni di confronto e di riflessione messe a punto dal Centro Culturale e dai Servizi Culturali, parti integranti della struttura organizzativa dell’azienda, dai quali passa il fior fiore degli intellettuali dell’epoca, da Geno Pampaloni a Luciano Codignola, da Giovanni Giudici a Ludovico Zorzi, gli scrittori Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Libero Bigiaretti, alcuni dei quali impiegati anche nella direzione dell’azienda; i giovani talenti (letterati, industrial designer, grafici, pubblicitari, sociologi, filosofi, pittori, architetti, urbanisti) selezionati con raro intuito intorno ai progetti; l’organizzazione di mostre di grandi artisti, Guttuso, Rosai, Casorati, De Pisis per citarne alcuni, i dibattiti, i concerti con importanti compositori come Luigi Nono; i giovedì della biblioteca dove parlano Gaetano Salvemini, Cesare Musatti, Pierpaolo Pasolini, Umberto Eco, Alberto Moravia; ai lunedì del cinema Vittorio De Sica presenta Ladri di biciclette ed è possibile incontrare personaggi illustri come Gassman, Buazzelli, De Filippo, Fo, Bene. Integrazione tra cultura umanistica e scientifica: nel Centro di formazione meccanici, istituito nel 1935, vengono insegnate non solo materie tecniche ma anche storia del movimento operaio e fondamenti di economia così che i giovani stabiliscano un rapporto con la fabbrica e la cultura industriale riducendo il trauma della transizione dalla tradizione contadina alla fabbrica e l’alienazione della catena di montaggio. “Perché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno” anche gli edifici per i servizi sociali, asili nido, case per i lavoratori, colonie per i figli, centri culturali, biblioteche vengono progettati arruolando architetti ed urbanisti per opere di alto valore architettonico. Fondamentale poi il contributo di Adriano Olivetti nell’editoria. La grande letteratura scientifica internazionale, sociologica e psicologica, urbanistica e del design, entrano per la prima volta in Italia con le Edizioni di Comunità e la rivista “Comunità”, che aprono strade inedite. Olivetti ha contribuito come pochi alla promozione culturale e accreditamento professionale di discipline come urbanistica e disegno industriale, e, in particolare, la sociologia; testi come quelli di Simone Weil sulla vita operaia o di Raymon Aron sul rapporto tra Occidente e Unione Sovietica, classici come Weber, Durkeim, Schumpeter sul declino del capitalismo, Georges Friedmann, Kelsen sulla teoria 14 generale del diritto e dello stato, narratori esteri contemporanei e qualche italiano come Vittorini e Quarantotti Gambini, Lewis Mumford sulla cultura della città, grandi dizionari disciplinari di taglio innovatore come quello di economia politica diretto da Claudio Napoleoni e quello di Filosofia curato da Andrea Biraghi, hanno veicolato correnti intellettuali che hanno segnato la cultura italiana. “Alla fallace e limitata logica del massimo profitto” che già si affaccia nel primo sviluppo industriale, Adriano contrappone un modo nuovo di guardare la relazione tra mondo produttivo, società e cultura, basato su modelli di convivenza civile improntati ad ideali di giustizia sociale, emancipazione e crescita culturale del maggior numero di persone, comprendendo gli strati sociali più deboli e le aree meno sviluppate del paese. Per questa ispirazione solidale e per questa attività di promozione culturale Adriano si trovò solo, in un contesto ostile che lo considerava un imprenditore se non pericoloso certo bizzarro, da emarginare, sospettato di veicolare una cultura, imprenditoriale e non, i cui valori erano ascrivibili ad un modello di capitalismo sociale e comunitario, fortemente avversato nel clima della guerra fredda del secondo dopoguerra, paventato come potenziale canale di infiltrazione dell’ideologia marxista. A questo impegno costante e titanico soprattutto per l’isolamento in cui si trovò ad operare, vorremmo oggi rendere omaggio, sottraendo Adriano alla staticità del ricordo, alla ripetuta celebrazione della memoria, attualizzando invece la sua modernità, la sua idea di futuro lontana dalla desertificazione del profitto senza misura, spesso da lui profetizzata, interrogandoci sulla validità attuale di questa esperienza in rapporto alla crisi che il nostro paese sta attraversando, alle nostre forme di convivenza, al nostro modo di essere persone. Ringrazio tutti i colleghi che hanno collaborato all’organizzazione di questo evento, la Direttrice Mirella Ferlazzo, la responsabile del Servizio Gilda Gallerati, l’ufficio formazione con Amalia Romano, Patrizia Ruscio per la comunicazione e soprattutto Gabriella Aiello del Museo delle Comunicazioni per le belle immagini che ci ha regalato, in particolare dei prodotti Olivetti presenti nel nostro Museo, tra i quali segnalo senz’altro la sezione dell’Elea 9003. E ringrazio vivamente i 15 L’isolamento sofferto di Adriano Olivetti per una forte diffidenza verso la sua profonda vocazione solidale. L’idea di futuro di Adriano Olivetti. relatori che hanno accolto il nostro invito e la Fondazione Adriano Olivetti, soprattutto Francesca Limana, con la quale abbiamo lavorato per questo evento. Concludo con le parole di Adriano tratte dal volume Città dell’Uomo: “sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e amorosa sollecitudine”. Le parole di Wislawa Szymborska sul lavoro. Roberto Scarpa Primo Intermezzo Nel suo discorso di accettazione del premio Nobel intitolato Il poeta e il mondo, Wislawa Szymborska parlò di lavoro, in particolare lo fece concentrandosi su due stati d’animo: lo stupore, e l’ispirazione. ChiediamoLe aiuto. “l’ispirazione” disse la Szymborska “non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici così, pedagoghi così, giardinieri così, per non parlare di un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può costituire un’incessante avventura... Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante «non so». Di persone così non ce ne sono molte. La maggioranza degli abitanti di questa terra lavora per procurarsi da vivere, lavora perché deve. Non scelgono il lavoro per passione, sono le circostanze della vita a farlo per loro. Un lavoro non amato, un lavoro che annoia, apprezzato solo perché comunque non a tutti accessibile, è una delle più grandi sventure umane. A questo punto possono sorgere dei dubbi in chi mi ascolta... anche carnefici, dittatori, fanatici, demagoghi in lotta per il potere con l’aiuto di qualche slogan, purché gridato forte, amano il proprio lavoro e lo svolgono altresì con 16 zelante inventiva. D’accordo, loro «sanno». Sanno, e ciò che sanno basta una volta per tutte. Non provano curiosità per nient’altro, perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti... Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: «non so». Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori situati dentro noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuscola Terra. Se Isaac Newton non si fosse detto «non so», le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto... Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali (di uomini, animali, e forse piante, perché chi ci da la certezza che le piante siano esenti dalla sofferenza?), qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi trapassati dalle radiazioni delle stelle, stelle intorno a cui si sono già cominciati a scoprire pianeti (già morti? ancora morti?), qualunque cosa pensiamo di questo smisurato teatro, per cui abbiamo sì il biglietto d’ingresso, ma con una validità ridicolmente breve, limitata da due date categoriche, qualunque cosa ancora noi pensassimo di questo mondo – esso è stupefacente. Ma nella definizione «stupefacente» si cela una sorta di tranello logico. Dopotutto ci stupisce ciò che si discosta da una qualche norma nota e generalmente accettata, da una qualche ovvietà alla quale siamo abituati. Ebbene, un simile mondo ovvio non esiste affatto... nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario e normale. Nessuna pietra e nessuna nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue. E soprattutto nessuna esistenza di nessuno in questo mondo. A quanto pare, i poeti – e, aggiungo io (Scarpa, NdR), tutte le persone che lavorano con passione – avranno sempre molto da fare”. Non ho trovato parole migliori di queste da dedicare alla nostra giornata nel corso della quale ci sforzeremo di raccontarvi l’energia imprenditoriale e sociale anticonformistica – cioè i tanti «non so» - di Camillo e Adriano Olivetti e la loro stupefacente, poetica, «ispirazione». Le dedico perciò alle gioiose fatiche di questi due indimenticabili italiani e dei tanti altri uomini e donne che con loro condivisero l’avventura umana della fabbrica e del lavoro. 17 I tanti “non so” di Camillo e Adriano Olivetti. Adriano Olivetti nasce nel 1901. Nel 1908 Camillo fonda la prima fabbrica di macchine per scrivere. Gli Stati Uniti. Valerio Ochetto Attualità di Adriano Olivetti. Cenni biografici con interrogativi Adriano Olivetti nasce ad Ivrea l’11 aprile 1901, muore in treno, di trombosi cerebrale, il 27 febbraio 1960. Una vita non lunghissima, secondo i parametri attuali, 59 anni, ma molto intensa, anche se condotta a ritmi ordinati, prevalentemente a Ivrea, la piccola capitale del Canavese. Il padre Camillo, quando lui nasce, ha appena aperto una fabbrichetta di tipo artigianale, che nel 1908 diventerà la “prima fabbrica nazionale macchine per scrivere”. Nel primo dopoguerra, l’Adriano ventenne vorrebbe dedicarsi al giornalismo e alla lotta politica, poi all’antifascismo, accanto ai quasi coetanei Piero Gobetti e Carlo Rosselli, ma il consolidarsi della dittatura lo “costringe” a ripiegare nella fabbrica, dove d’altronde intende indirizzarlo il padre Camillo. Dopo un viaggio negli Stati Uniti, torna con l’intenzione di rivoluzionare management e metodi di produzione, all’insegna della “organizzazione scientifica del lavoro”. L’America, e la sua cultura industriale e sociale, rimarranno costantemente un suo punto di riferimento, accettato con adattamenti originali. Adriano però il suo rinnovamento dovrà realizzarlo a tappe in un rapporto dialettico con il padre, ancora attaccato all’idea riformista della fabbrichetta semiartigianale da espandere gradualmente. Mentre Adriano ha maturato la convinzione che “a questo punto della civiltà il progresso cresce in linea geometrica positiva anziché aritmetica”. L’Adriano trentenne e quarantenne elabora tutti gli indirizzi che poi svilupperà compiutamente nel secondo dopoguerra. È il primo a introdurre un design che delinea lo “stile Olivetti”: rigoroso, funzionale, ma anche immaginativo. Il razionalismo in architettura, con il pan de verre della fabbrica a partire dal 1934. La trasformazione delle provvidenze verso i lavoratori in vero e proprio diritto. Adriano è approdato al concetto di “industria complessa di massa” con degli obblighi verso il territorio e la società. Da qui l’organizzazione dei piani regolatori di Ivrea e dell’intera Valle d’Aosta, per cui cercherà l’appoggio degli intellettuali fascisti di sinistra che ruotano attorno a Giuseppe Bottai. Emerge una costante che si ripeterà più volte nella sua vita: un confronto con gli organi politici di governo, che loderanno 18 a parole le sue iniziative, ma le boicotteranno e rifiuteranno nei fatti. Il padre ora lo lascia fare non senza mugugni: lo ha insediato direttore generale della fabbrica nel 1934, e gli “impone” un solo comandamento categorico: “Mai licenziare” perché la disoccupazione è una tragedia per le famiglie. La seconda guerra mondiale è iniziata, quando nel 1941-42 Adriano fonda una casa editrice che ha fini ambiziosissimi: contribuire alla rinascita intellettuale dell’Italia, dopo la caduta del fascismo che già immagina. E alla quale concorre cospirando. Finché è costretto all’esilio in Svizzera. Qui, nel 1944-45 scrive il suo trattato politico fondamentale, L’Ordine politico delle Comunità. Per lui non è una utopia, come viene accolta dai più, ma un vero e proprio disegno di nuove istituzioni sulle quali fondare la democrazia in una Italia che risorge alla libertà. La traduzione pratica, in forma originale, del personalismo cristiano dei pensatori francesi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, assieme alle intuizioni del pensiero-testimonianza di Simone Weil. Rientrando dall’esilio, Adriano va a Roma per ritentare la carta dell’azione politica, all’interno del PSIUP, partito socialista di unità proletaria, ma ne rimane ai margini, al pari della Costituente. Così, nel 1947, fonda un suo movimento, il Movimento Comunità, preceduto l’anno prima dalla rivista dello stesso nome. Ormai ha ripreso in mano la conduzione della società Olivetti e le due attività andranno in parallelo. Manager e riformatore sociale, a cominciare dalla stessa fabbrica. Sono progettate e messe sul mercato, nel 1948, la Divisumma, la calcolatrice più veloce del mondo, la “gallina dalle uova d’oro” (da uno a quasi dieci volte tra costo e vendita), nello stesso anno la macchina da scrivere Lexicon sarà esposta, per il suo design, al Museum of Modern Art di New York, la Lettera 22 diventerà un gioiellino tra le portatili. Ma Adriano guarda avanti, e affida al figlio Roberto e a un geniale inventore, l’italo-cinese Mario Tchou, la nascente Divisione elettronica, che nel 1958 vincerà la gara con l’americana IBM, arrivando all’Elea 9003, un elaboratore gigante a transistor. Parallelamente, il tentativo di trasformare le relazioni tra proprietà e lavoratore, con la creazione nel 1948 del Consiglio di gestione incaricato di amministrare autonomamente le numerose attività sociali, 19 Adriano Olivetti direttore generale nel 1934. L’Ordine politico delle Comunità. Il Movimento Comunità. Roberto Olivetti. Da Ivrea a Matera, passando per Terracina. dalle case agli asili-nido alla biblioteca alle altre iniziative culturali. Poi, una quattordicesima mensilità con la partecipazione agli utili aziendali. Il sociologo Luciano Gallino ha calcolato che il lavoratore Olivetti ha un livello di vita superiore dell’80% rispetto ai lavoratori di altre aziende comparabili. L’intento di Adriano è di “Creare un impresa (e una società) al di là del socialismo e del capitalismo” (intendendo per socialismo il cosiddetto “socialismo reale”). Vuole trasformare la fabbrica in una Fondazione inizialmente a proprietà quadripartita tra vecchi proprietari, lavoratori, comunità locale, istituzioni culturali. Ma non ci riuscirà per l’opposizione degli altri rami familiari, nonostante proponga l’idea più volte e segua una via gradualista. Sul territorio, il tentativo di creare le “Comunità concrete”, contraddistinte da una programmazione partecipata. A cominciare dal Canavese, ma con isole in altre parti di Italia, soprattutto nel Mezzogiorno – qui vedo tra il pubblico Giorgio Panizzi che è stato giovanissimo protagonista di una di queste iniziative – ad esempio a Terracina, ad esempio soprattutto con il “Villaggio La Martella” per i “trogloditi” dei Sassi di Matera. I centri comunitari, più che sede di minipartito, sono luoghi dove si fa cultura, tecnica ed umanistica. Il Movimento Comunità, quando va alle elezioni, sul piano locale conquista il Canavese (Adriano diventa sindaco di Ivrea nel 1956), ma fallisce sul piano nazionale: nel 1958 un solo eletto, il deputato Adriano Olivetti. Nel 1950 Adriano diventa presidente dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) e terrà l’incarico sino alla morte. Vorrebbe trasformarlo in un promotore di pianificazione locale, per lui l’urbanistica è la disciplina per eccellenza che coordina intorno a sé tutte le altre, economia compresa. Le sue assemblee annuali offrono dibattiti vivacissimi e progetti esemplari. Ma poco verrà realizzato, per l’insipienza o, peggio, per il boicottaggio delle autorità di governo. Nel 1959 il premier Fanfani affida all’Onorevole Olivetti la vice presidenza dell’UNRRA-Casas. Un carrozzone, ereditato dall’immediato dopoguerra e dalla ricostruzione con fondi statunitensi, che Adriano tenta di rendere lo strumento per trasformare il Mezzogiorno, con una università sperimentale e centinaia di scuole e poli di sviluppo sul territorio. Ma nulla sarà messo in cantiere. L’Olivetti invece va al sud 20 da solo aprendo una nuova industria nella baia di Pozzuoli. Lì Adriano riassume la propria visione, il suo rovello: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”. Rovello al quale cercherà di dare una risposta sia sul piano teorico sia nelle realizzazioni. Ad Ivrea salgono da tutta Italia, e talora anche dall’estero, giovani desiderosi di impegnarsi in prima persona in questa impresa. Tanto che la capitale del Canavese verrà ribattezzata “La piccola Parigi sulle rive della Dora Baltea”. Tiziano Terzani, appena laureato, per sfuggire al posto in banca indicato dalla famiglia, si trasferisce anche lui alla Olivetti che ha sentito citare come “Tempio di modernità” (e di libertà). Adriano ha fame di intelligenze, ama interrogare lui stesso chi chiede un colloquio, non ha preclusioni di formazione, non alza barriere, così un laureato in materie umanistiche può diventare capo del personale o sovraintendere ad un ramo amministrativo. La fabbrica di Ivrea – e di altri luoghi – è un organismo vivente senza gerarchie troppo rigide o prefissate. Adriano ha portato l’azienda, nel secondo dopoguerra, a diventare la prima multinazionale italiana. Nel 1958 il 60% della produzione è avviato all’estero. Ai cinque stabilimenti italiani si affiancano cinque all’estero. Il colpo più sensazionale è l’acquisizione, alla fine del 1959, della Underwood statunitense, la stessa fabbrica che nella sua visita in America nel 1925 gli aveva chiuso le porte in faccia, temendo fosse una spia di brevetti. Adriano è al vertice del successo manageriale, al di là degli insuccessi politici. Ma proprio il sabato 27 febbraio 1960 muore in treno, di notte, dopo una giornata di celebrazioni e festeggiamenti a Milano. Cerchiamo di approfondire i dati biografici procedendo con una serie di interrogativi. Dunque, Adriano è stato all’origine di management e di industrial design nel nostro paese, all’origine dei primi progetti di piani urbanistici e regolatori, all’origine della riscoperta della sociologia, mentre con la casa editrice Edizioni di Comunità ha introdotto nel dibattito culturale temi e indirizzi quasi dimenticati. Come ha potuto un uomo solo fare tanto? Perché, in realtà, non era solo: ho già detto della sua fame di intelligenze e della sua capacità di mettere assieme a 21 La fabbrica Olivetti a Pozzuoli. Ivrea, piccola Atene del XX secolo. L’acquisizione della Underwood. Adriano Olivetti e gli Olivettiani. La cultura internazionale. La vocazione spirituale. lavorare, in équipe, persone di diversa formazione culturale e orientamento. Lui che, personalmente, non aveva una professione ben definita, non essendo né ingegnere meccanico, né architetto, né urbanista, né sociologo. Io ho definito la sua funzione come quella di un abile e geniale regista che sa comporre assieme e dirigere varie intelligenze e professionalità. Lasciava ai suoi collaboratori grande autonomia ma, come ogni regista, si riservava la prima e l’ultima parola. I rapporti, in genere, erano di reciproca stima ma diventava inesorabile, lui generalmente così gentile e corretto, se pensava che qualcuno lo avesse tradito. Perché era un tradire non solo la reciproca fiducia ma anche una missione comune. Dico inesorabile, sia che il suo sospetto fosse giustificato oppure no: ci sono alcuni episodi, non molti però significativi, che ce lo confermano. Altra caratteristica che oggi non sarebbe ripetibile, per un singolo: si era fatto una cultura, non all’università dove si era laureato in materie scientifiche per obbligo ma dopo, vietata ai più nel periodo del provincialismo fascista. Dai viaggi fuori Italia ritornava con mucchi di documentazione, un libraio svizzero gli forniva le opere più originali che uscivano in Europa e Stati Uniti. Saggi politici, sociali, economici, che per lo più non venivano editi da noi, forse non tanto per censura, ma proprio per il bozzolo di provincialismo autarchico che ci avvolgeva allora (“Val più un rutto del tuo pievano – che l’America e la sua boria”. Mino Maccari, “Il selvaggio”). E poi, nel secondo dopoguerra, continuerà una situazione diversa ma non del tutto, con le cattedre dominate dall’idealismo crociano, e il milieu intellettuale dal marxismo o paramarxismo. Mentre Adriano puntava sulla cultura che alla fine risulterà vincente, la sociologia critica. Questi gli elementi, oggi irripetibili, che caratterizzano la superiorità culturale dalla quale partiva e che gli permetteva di invadere tanti ambiti, ignoti – allora – ai più. Quale era il suo approccio? Si è parlato di razionalità, ed è un elemento che tiene, a prima vista. Pur di non considerarlo unico. In realtà, approfondendo, si scopre che Adriano era mosso da un fuoco interiore, da un rovello – lui che appariva così freddo e calmo, salvo momenti rivelatori, ricordati da chi l’ha frequentato, di tipo religioso. Dal padre di origine ebraica aveva tratto qualcosa del profetismo 22 escatologico della Bibbia, dalla madre valdese il senso del dovere e della predestinazione, dal cattolicesimo, al quale aderirà pur senza diventare praticante, dopo i quarant’anni e sino alla fine della vita, il senso della durata, dell’organizzazione, della provvidenza che sostiene, anche arcanamente, l’ottimismo. In altri tempi sarebbe stato forse il fondatore di una corrente religiosa – come lui stesso ammette in una lettera alla donna che ama – nel nostro tempo vuole invece risolvere il grande problema del rapporto tra fabbrica e lavoro, tra la macchina con la sua incidenza sociale e l’uomo. Continuiamo con gli interrogativi. Come utopista nella sua opera L’Ordine politico delle Comunità, unico utopista italiano del secolo passato, non è prigioniero di una categoria novecentesca, forse addirittura ottocentesca? La domanda è più che corretta, va vagliata con attenzione. Adriano non vorrà mai definire la sua opera, concepita e scritta dal 1943 al 1945, come una utopia, la ritiene invece una architettura di istituzioni valide per la nuova Italia. Nel periodo di cospirazione antifascista, la mostrerà a Berna al capo dell’intelligence statunitense Allen Dulles e, a Roma, alla principessa Maria José, dopo la Liberazione la riproporrà a illustri costituzionalisti e costituenti. Senza ottenere un vero appoggio, salvo pareri positivi, ad esempio da Luigi Einaudi, per il federalismo spinto che la anima. C’è chi fa un amalgama tra utopia e ideologia, le usa come sinonimi: le utopie o ideologie omicide del ‘900, comunismo, nazismo, fascismi. Io propendo invece per la distinzione, anzi mi sembra giusta la contrapposizione tra utopia e ideologia. Entrambe pretendono di rimodellare la società e la vita dell’uomo in forma globale. Ma mentre l’utopia – come sembra indicare lo stesso termine – si propone liberamente, senza costrizione, l’ideologia del XX secolo si serve di un braccio armato, il partito politico al servizio di un capo carismatico, per imporre a tutti il suo credo, creare regimi per il supposto bene generale sotto il segno del principio di classe o di nazione e della costruzione di un presunto uomo nuovo. Da un lato un fermento creativo ordinato secondo alcuni valori, dall’altro il totalitarismo, male supremo del secolo appena trascorso. L’opera di Adriano intende garantire i diritti democratici con un 23 Adriano Olivetti definisce L’Ordine politico delle Comunità- come un’architettura di istituzioni valida per una nuova Italia. La cellula base dell’architettura olivettiana è la Comunità. complesso sistema di equilibri. È qui inutile seguire l’intricata foresta di istituzioni da lui immaginata, basta riferirsi alla cellula base che appare sin dal titolo: la Comunità. Alla quale aggiunge il termine concreta, con una dimensione ottimale di centomila abitanti. Da essa, per tappe federali, si sale agli stati regionali, allo stato nazionale, allo stato europeo, infine a quello mondiale. La Comunità è il luogo naturale per sviluppare la persona, che non è un individuo isolato (“La società non esiste. Esistono gli individui” - Margaret Thatcher, 31 ottobre 1987) né un collettivo in cui l’individuo si scioglie (come nei totalitarismi). Nella Comunità, un ruolo propulsivo fondamentale, nel pensiero di Adriano, lo gioca la fabbrica, non solo investendo all’esterno i suoi profitti sul territorio, ma diventando essa stessa al suo interno compiutamente democratica. Alla fine di un processo di transizione, la fabbrica si baserà su una proprietà tripartita, compartecipata tra i lavoratori, la Comunità, la cultura, cioè l’università. Il vecchio proprietario morirà come capitalista per rinascere come manager. L’idea di Adriano si distingue da altre forme realizzate di partecipazione, sia dalla Mitbestimmung, la cogestione ancora presente in Germania, sia dall’esperienza tramontata dell’autogestione della Jugoslavia di Tito. Dunque, per risolvere l’interrogativo, a mio giudizio si può dire che, se la concezione dell’“Ordine” olivettiano appare datata, non così delle indicazioni molto suggestive, che conservano tutta la loro attualità legate al disegno della Comunità e a quello della condivisione, della partecipazione all’interno delle aziende produttive. Problemi irrisolti, ma che sempre riaffiorano, nel nostro tempo. Le sue idee Adriano, da vivo, ha cercato di realizzarle nella piccola patria, il Canavese. Che aveva cominciato a trasformarsi in centri comunitari, diretti emanazioni del Movimento Comunità, e in una rete di piccole aziende industriali e agricole, diffuse su tutto il territorio, frutto di iniziative locali ma fortemente sostenute dai tecnici della società Olivetti. Allora perché questa esperienza è crollata con la morte di Adriano? Perché è stata una piccola isola eretica circondata da un ambiente avverso e perché sono venuti a mancare gli investimenti necessari provenienti dai profitti macinati in quegli anni dalla Olivetti. 24 Ma dopo una eclissi durata una ventina d’anni seguiti alla sua morte, l’esperienza e le idee di Adriano Olivetti sono riaffiorate e ne è stato riscoperto sia il loro lascito che l’attualità: la reintroduzione in Italia della sociologia, l’avvio dei piani regolatori e della pianificazione decentrata, lo sviluppo del design industriale, un approccio originale all’annosa questione meridionale, e tanto altro. L’introduzione della democrazia in fabbrica e il diritto dei lavoratori a un diffuso welfare sociale. L’attualità riguarda soprattutto la richiesta di comunità e di partecipazione, mai affermate tanto quanto oggi, e che lui aveva tentato di rendere reali e operanti. I nostri politici oggi lo citano sovente, come esempio da seguire anche se, a mio giudizio, abbastanza genericamente e talvolta a sproposito. Matteo Renzi, citando una supposta “regola di Adriano Olivetti: Il manager non può guadagnare più di 10 volte il salario di chi, in quella azienda, prende meno di tutti”, discorso del 22 ottobre 2012 (oggi potremmo dire che il divario si è dilatato anche da 1 a... 163!). È una convinzione comune che, negli anni ‘40 e ‘50, le divaricazioni tra gli stipendi dell’operaio di base e un dirigente di alto rango o manager fossero assai minori di oggi. In realtà l’egualitarismo su bassi livelli non è mai stato un progetto né dichiarato né perseguito da Adriano, anche se lui tenne sempre un tenore di vita assai contenuto, e quasi aveva una ripulsa personale per il denaro, per la finanza (comprò una casa di proprietà solo negli ultimi dieci anni di vita). Adriano aveva fame di intelligenze, e non badava a spese per assicurarsele. Da 8 a 10 milioni l’anno nel 1953, una cifra che per quei tempi aveva del favoloso. Ogni dirigente che raggiungeva i risultati sperati a fine anno riceveva un fuoribusta. Ma anche gli operai, gli impiegati, guadagnavano, come abbiamo visto, quasi il doppio dei colleghi di altre aziende analoghe. Dunque, non egualitarismo, ma innalzamento generalizzato dei livelli. Che, per Adriano, corrispondeva a quella “eccitazione salariale” che il keynesismo riteneva funzionale alla crescita economica. Beppe Grillo (piazza S. Giovanni a Roma, per le elezioni politiche, 22 febbraio 2013): all’Olivetti, su 60.000 dipendenti, c’erano 18.000 ingegneri. Ammettiamo pure le iperboli alle quali ci ha abituato il polemista, ma i dipendenti italiani ed esteri della società, nel 1958, erano 25 L’attualità del disegno politico, istituzionale, economico e culturale di Adriano Olivetti. Gli investimenti nel personale qualificato e qualificante. Adriano Olivetti e l’edemocrazia del Movimento 5 Stelle. Agorà elettronica e agorà comunitaria. 24.000, quanto alla sola Ivrea, contava allora in tutto 21.000 abitanti... Se la sostanza del discorso significa invece l’acculturazione dei lavoratori Olivetti, sotto Adriano, allora possiamo anche dirci d’accordo. Dalle battute di Beppe Grillo, passiamo all’interrogativo sulla edemocrazia. Come si sarebbe comportato Adriano di fronte ai tentativi di democrazia elettronica, che il Movimento 5 Stelle, per iniziativa di Gian Roberto Casaleggio, ha tratto dalle aule di dibattito tra intellettuali per portarla alla luce dell’attualità politica? Gli storici professionisti ritengono inammissibili questi salti temporali, perché Adriano può essere giudicato solo su quanto ha effettivamente pensato o fatto in un quadro storico ben definito e ben diverso dalla nostra contemporaneità. Ma per l’assonanza che io ho stabilito con lui, mi azzardo a suggerire una risposta metastorica. Abbiamo visto come l’Olivetti sia arrivata per prima a realizzare nel 1958 l’Elea 9003, un grande calcolatore, poi commercializzato. Adriano, avrebbe messo questa tecnica, nei suoi sviluppi, a servizio di nuove forme di democrazia diretta? Credo proprio di sì. La partecipazione è uno dei cardini del suo sistema “integrato e funzionale di democrazia”, che non si limita al solo suffragio universale, pur importante. Altro interrogativo: avrebbe fatto della e-democrazia il cardine principale, quasi esclusivo della vita pubblica, come vogliono gli utopisti del genere, dai francesi Roger Garaudy e André Gorz allo statunitense Lawrence Grossman e agli stessi pentastellati? Credo proprio di no. Innanzitutto Adriano, così attento alle istituzioni, avrebbe inteso regolamentare bene il suo uso. Poi, avrebbe mantenuto una certa distinzione tra l’agorà elettronica e l’agorà comunitaria. La presenza diretta tra persone è differente da una presenza traslata. La partecipazione ad una assemblea comunitaria, e come giungere al voto con un dibattito più o meno appassionato, è ben diverso dal decidere in solitudine ambientale, davanti un computer. In sintesi, penso, presumo, che Adriano sarebbe stato favorevole a forme di democrazia elettronica, ma non isolate da altre forme di espressione del consenso, comprese quelle di democrazia delegata. Un’ ultima osservazione. Di fronte a certi scompensi introdotti – accanto agli elementi positivi – dalla globalizzazione, ritornano a farsi forti le esigenze di coesione sociale, di identità non provinciali ma 26 fondate sulle storie particolari e specifiche, come contributo alla storia globale. Mai come oggi la parola comunità viene evocata tanto spesso e con senso positivo. Accanto alla parola partecipazione, mentre invece più di una delle grandi imprese sembrano diventare dominio assoluto di un monarca non costituzionale. In questo contesto, anche le idee di Adriano Olivetti sulla figura del manager, sulla comunità, il suo progetto di democrazia pluriforme e integrata, tornano ad affacciarsi quale contributo al dibattito in corso al di là del contesto originario nel quale tale indirizzi furono concepiti. Roberto Scarpa Secondo Intermezzo Adriano nasce l’undici aprile del 1901 a Ivrea. Il padre, Camillo, è di famiglia ebrea. La madre, Luisa, valdese. Camillo è un tipo curioso e intelligente, e fa un viaggio importante, va all’esposizione universale di Chicago del 1893. Il 1893? Cerchiamo di ricordarcelo. È l’anno in cui in Inghilterra viene fondato il Partito laburista; un signore che si chiama Bernardi collauda un veicolo con motore a benzina e lo chiama motocicletta; un americano inventa la chiusura lampo. Camillo è affascinato dall’America, la percorre in lungo e in largo, ci resta molto più del previsto. Ma non è un turista. Il motivo per cui si trattiene è un altro. Non torno, scrive in una lettera, perché sto cercando di capire. Siccome da capire c’è molto il viaggio dura un anno. Tornato a Ivrea tira su una fabbrica di mattoni rossi e si mette a fabbricare strumenti di misurazione elettrica. Ma l’uomo non è tutto qui. Camillo infatti è un socialista, uno dei primi di questa strana razza a Ivrea. Siccome però per il socialismo è troppo presto... o forse troppo tardi, Camillo si dedica alle altre sue grandi passioni. Nel 1907 torna da un altro viaggio in America con una nuova idea: fabbricare la prima macchina per scrivere italiana. La Remington le produce dal 1873 e la Underwood nel 1898 ne ha realizzata una, rivoluzionaria, che permette addirittura di vedere cosa si sta scrivendo. Se lo fanno gli americani può riuscirci anche lui. Così, il 29 ottobre 1908, nasce la Ing. C. Olivetti e C. 27 Camillo Olivetti. Era il 1893... 1908: la nascita della Olivetti a Ivrea. 1914: la prima volta di Adriano in fabbrica. Che anni son quelli. Tra il 1900 e il 1912: Marconi stabilisce il primo contatto radio transatlantico tra Inghilterra e Canada; vengono inventati il cellofan, le fotografie a colori, la bachelite; il parlamento britannico istituisce le pensioni di vecchiaia; i fratelli Wright collaudano il primo aereo. È il secolo della fretta e del lavoro, tutti hanno fretta e qualcosa da fare. Henry Ford inventa la produzione di serie; nasce Hollywood; in Gran Bretagna viene istituita l’assicurazione obbligatoria contro le malattie e gli infortuni sul lavoro; Amundsen raggiunge il Polo Sud; l’Italia dichiara guerra alla Turchia, conquista la Libia, occupa Rodi, estende il diritto di voto ai cittadini maschi alfabeti oltre i 21 anni, gli elettori, che erano tre milioni, diventano otto milioni e mezzo. Si arriva al 1914. Camillo organizza ad Adriano uno “stage” particolare, lo manda tredicenne a lavorare in fabbrica. Ecco come lo raccontò lui stesso: Nel lontano agosto 1914 mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina. Quanti pensieri provoca quest’esperienza: è davvero una condanna e soltanto sofferenza il lavoro? Sarà capace di essere uomo in mezzo a quegli uomini forti e cupi che lavorano tutto il giorno? L’orario settimanale allora è di sessanta ore. Adriano confessò anni dopo: Passavo davanti al muro di mattoni rossi della fabbrica, vergognandomi della mia libertà di studente... Ancora non sa quale sarà la sua strada. Finora non ha fatto niente di testa sua. La prima decisione autonoma la prende nel 1918, partendo volontario per la guerra. Camillo ne è orgoglioso: anche lui è un interventista. È difficile oggi capire quegli uomini. Il mondo pare sul punto di esplodere. Per ogni dove risuonano voci che predicano morte. In pochi mesi tutti sono in guerra con tutti. Sembrano iniziati gli ultimi giorni dell’umanità. Vallo a capire il novecento. Quante cose succedono! L’Italia dichiara guerra all’Austria e alla Germania; i tedeschi bombardano Londra coi dirigibili; Einstein pubblica i fondamenti della relatività generale; a New Orleans viene costituita la Original Dixieland Jazz Band; i bolscevichi costituiscono il primo governo rivoluzionario; il Congresso degli Stati Uniti proibisce la vendita di bevande alcoliche; in Gran Bretagna votano per la prima volta tutti gli uomini sopra i 21 anni; a New York vengono installati i primi semafori a tre colori. Poi, finalmente, dopo qualche milione di morti, nel 1919 a Parigi si inaugura la Conferenza di Pace – che preparerà benissimo la seconda guerra mondiale – e a Mosca si apre la III internazionale. In Europa la rivoluzione pare imminente. In America invece, un giudice condanna Henry Ford: voleva reinvestire gli utili della sua fabbrica per migliorare la produzione e aumentare i salari agli operai! La sentenza dà ragione ai suoi soci, i fratelli Dodge, e stabilisce una volta per tutte che lo scopo di un’azienda non è dare lavoro agli operai o fare prodotti migliori, ma arricchire proprietari e azionisti. Finita la guerra Adriano cerca di capire cosa vuol fare da grande: si iscrive a chimica e si dedica al giornalismo. Le cose da scrivere certo non mancano. Stati Uniti e Inghilterra concedono finalmente il voto alle donne; a Livorno nasce il partito comunista; i fascisti marciano su Roma e il re affida a Mussolini l’incarico di formare il governo; viene assassinato Giacomo Matteotti; si inaugura la Milano–Laghi, prima autostrada del mondo; il fascismo sostituisce il sindaco con il podestà, scioglie tutti i partiti di opposizione, reintroduce la pena di morte; nasce il cinema sonoro; Fleming scopre la penicillina; Walt Disney crea Mickey Mouse; crolla la Borsa di New York, falliscono centinaia di banche e imprese, i disoccupati sono milioni. L’ascesa del fascismo nel frattempo frantuma i sogni di Adriano e nel 1924 entra nel capannone di mattoni rossi come operaio, alla paga di 29 Erano i tempi di Einstein... ... Henry Ford, ...Walt Disney. “... vai in America, l’esperienza ti farà bene”. Progettare il futuro. 1 lira e 80 centesimi l’ora. Non è cambiata la fabbrica, tetra, maleodorante. Quell’anno produce 4.000 macchine. Siccome ci lavorano in 400 il calcolo è presto fatto: 10 macchine per operaio l’anno. Finito l’apprendistato, Adriano fa la sua prima diagnosi: l’Olivetti è a «un grado di sviluppo critico», troppo grande per disinteressarsi della concorrenza, troppo piccola per vincerla. Insomma, bisogna cambiare. Camillo ascolta e prende tempo. Intanto - gli dice - vai in America, l’esperienza ti farà bene. Adriana Castagnoli Da Camillo ad Adriano: un’impresa all’avanguardia dell’internazionalizzazione. In questi giorni siamo rimasti tutti impressionati dalle immagini di progressivo sgretolamento del nostro territorio, nonché da quelle di degrado sociale e civile delle periferie di alcune nostre città. Questi fenomeni hanno origini molteplici, ma se l’Italia detiene il non invidiabile primato europeo delle catastrofi “naturali” avvenute nell’ultimo mezzo secolo, ciò non è da imputarsi soltanto alla cattiva sorte. Che cosa non è andato come doveva? Progettare il futuro è l’attitudine e la funzione precipua, delle classi dirigenti. Progettare il futuro è ciò che Camillo e, innanzitutto, Adriano sapevano fare. Nel cogliere con acume e prontezza le potenzialità di sviluppo racchiuse nelle tecnologie allora d’avanguardia, elettricità ed elettronica, Camillo e Adriano anticiparono i loro tempi. In particolare Adriano che fu per molti aspetti, un imprenditore schumpeteriano precorrendo di decenni su molte e diverse problematiche del mondo dell’impresa, della società e della cultura. Innovazione e internazionalizzazione, chiavi di volta per lo sviluppo economico, sociale e culturale di un paese, furono elementi essenziali del modello olivettiano contrassegnandone la traiettoria espansiva e la cultura d’impresa sin dalle origini. Questa capacità di visione e di progettazione è mancata per molto tempo nel nostro Paese tanto da parte della classe politica che in generale di quella dirigente. Che vi sia un’anomalia tutta italiana rispetto alle difficoltà dello scenario mondiale post-2008, lo registrano le statistiche nazionali. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istat, “L’evoluzione 30 dell’economia italiana. Aspetti macroeconomici”, con una debole crescita del PIL mondiale nel 2013 (+ 3% ma +1,3% nelle economie avanzate), l’Italia è scivolata in piena recessione (– 1,9%). Dall’inizio della crisi la produzione industriale è crollata del 25%, la disoccupazione è salita al 13% e quella giovanile ha superato il 40%. Persino i dati che sono considerati i più soddisfacenti per l’Italia, quelli sull’export, rivelano che il nostro Paese è tornato indietro. L’export “made in Italy” è stato il 2,79% di quello mondiale nel 2013, ma nel 1992 era quasi doppio (4,25% circa). Il raffronto è preoccupante anche in una prospettiva secolare. Il database elaborato da Angus Maddison mostra che durante la Belle Epoque, nel 1900, l’export italiano era il 2,6% di quello globale (2,7% il solo manifatturiero); nella difficile fase di ricostruzione postbellica, nel 1948, si collocava all’1,9% (3,3% il manifatturiero) ma aumentò rapidamente negli anni di grande trasformazione economica e sociale del “miracolo economico”: nel 1960 era il 2,9% (3,9% il solo manifatturiero) e, pertanto, in una posizione migliore di quella attuale. Il nostro incerto presente sta già pagando un pesante tributo alla mancanza di lungimiranza di chi è stato classe dirigente nel passato. Nell’ultimo mezzo secolo l’andamento della spesa in R&S per settori produttivi rivela che gli anni ’60 e ’70 si caratterizzarono per investimenti in settori alla frontiera tecnologica (elettronica, chimica, nucleare). Invece dagli anni ’80 c’è stata un’intensificazione dei flussi d’investimento nelle industrie a tecnologia intermedia (come le macchine utensili che insieme alla robotica sono fra i pochi comparti che hanno un rapporto R&S/fatturato in linea con i competitors stranieri). Nel 2012 il nostro Paese presentava vantaggi comparati soltanto nella manifattura dei settori cosiddetti tradizionali (calzature,abbigliamento, mobili, alimentari). Invece aveva perso i vantaggi comparati di un tempo nel comparto delle macchine per ufficio: secondo i dati Ice e Istat, computer, apparecchi elettronici e ottici “made in Italy” erano appena lo 0,79% dell’export mondiale in questo settore di attività. D’altra parte, le statistiche sulla spesa in Ricerca & Sviluppo, elaborate dall’Associazione Italiana per la Ricerca Industriale, indicano un declino degli investimenti pubblici (2013 0,53% Pil). Quanto agli 31 Le statistiche dell’ISTAT sulla crescita e l’evoluzione dell’economia italiana. investitori privati, essi impegnano in R&S meno della metà delle risorse investite dai francesi, 1/3 di quelle tedesche, il 55% della media UE a 28. Anche per questa via s’intacca il futuro del Paese. Un altro indicatore internazionale d’innovazione è costituito dai brevetti concessi dall’Ufficio Brevetti degli Stati Uniti: anche in questo caso, nel 2013 l’Italia è in coda ai grandi paesi europei con l’1% sul totale mondiale, mentre la Francia è al 2,2%, la Germania al 5,5%, il Giappone al 17,9% e gli USA al 48,7%. Oggi le nostre industrie dipendono dalla tecnologia estera importando conoscenze tecnologiche-scientifiche codificate a fronte di un costante indebolimento della ricerca interna. Il primo viaggio di Camillo in America. Il fil rouge dell’innovazione: alla frontiera tecnologica La Prima Fabbrica Italiana Macchine per scrivere Ing. C. Olivetti & Co. fu fondata da Camillo nel 1908, ma il suo debutto come imprenditore era avvenuto con la Prima Fabbrica di Strumenti di Misura Elettrici Ing. C. Olivetti, poi modificata in CGS acronimo di Centimetro-GrammoSecondo, le principali unità di misura fissate in sede internazionale nel 1881. Tratto comune di queste due aziende era la gamma produttiva innovativa e nuova per l’Italia, implementazione della visione imprenditoriale maturata da Camillo in America. Gli Stati Uniti furono il paradigma per la sua attività d’imprenditore sin dal primo viaggio compiuto nel 1893 per partecipare all’importante congresso mondiale di elettricità che si era svolto a Chicago. In quell’occasione egli accompagnò il grande scienziato Galileo Ferraris, di cui era stato allievo al Politecnico di Torino. Altrettanto importante e formativa fu la permanenza a Palo Alto, in California, dove lavorò come assistente di Electrical Engineering alla Stanford University fino all’aprile 1894. In seguito tornò negli Stati Uniti in due diverse occasioni, nel 1895 e a fine novembre 1908 - fine febbraio 1909, col proposito di studiare i macchinari americani e per affari. Egli intendeva, infatti, acquistare le macchine per la sua nuova impresa, oltre che visitare quante più fabbriche e officine possibili per osservarne e apprenderne l’organizzazione tecnica e produttiva. A New York andò soprattutto per conto della CGS, di cui era presidente e maggiore azionista, ma 32 anche per vendere alcune sue invenzioni. Camillo ottenne, infatti, il riconoscimento di alcuni brevetti dall’United States Patent and Trademark Office. Anche per Adriano, entrato in azienda nel 1924, gli Stati Uniti costituirono un modello organizzativo e d’innovazione. Egli compì il suo viaggio di formazione negli USA fra il 1925 e il gennaio 1926. Visitò diversi stabilimenti per la produzione di macchine per scrivere, ma soprattutto General Electric e Ford. Quest’ultima, in particolare, gli apparve un «miracolo di organizzazione» e l’affascinò per la straordinaria velocità dei ritmi di produzione. Adriano elaborò rapidamente l’esperienza americana e propose due importanti innovazioni per la fabbrica di Ivrea. Da una parte si trattava di sostituire il nuovo modello taylorista di officina regolata per funzioni all’organizzazione “linearmente gerarchica” esistente. In questo egli prese spunto anche dalla lettura del libro di Taylor, “Principi di organizzazione scientifica del lavoro”, ma seppe adattare un assetto duttile e adeguato alle specificità del processo produttivo che si stava evolvendo in Italia. Dall’altra, si doveva puntare sull’innovazione di prodotto perciò egli propose un modello di macchina per scrivere portatile che era un’assoluta novità per il mercato italiano. La riorganizzazione dell’officina di Ivrea riuscì bene, tanto che con i nuovi metodi di lavoro l’Olivetti registrò un notevole aumento della produzione, gli utili reali divennero ingenti e raggiunsero il picco di 4.600.000 lire nel 1928 alla vigilia della Grande Crisi. Innovazione di prodotto e di processo nella Grande Crisi. Certamente né Camillo né Adriano avevano previsto il crollo di Wall Street nell’ottobre del 1929, ma le scelte compiute in quei frangenti di grande difficoltà internazionale furono lungimiranti. Intanto, nel 1931, fu messa in commercio la nuova M40 creata da Camillo e da Gino Levi Martinoli, capo dell’Ufficio progetti e studi istituito nel 1929. Inoltre Adriano procedette con alcune scelte organizzative che, passo dopo passo, trasformarono l’azienda paterna in un organismo industriale complesso e avanzato. La nuova organizzazione scientifica del lavoro aziendale era regolata dall’Ufficio produzione; all’Ufficio sviluppo e pubblicità faceva capo la comunicazione d’impresa; mentre proseguiva 33 La fabbrica Ford descritta da Adriano Olivetti come un “miracolo di organizzazione”. Il libro di Frederick Taylor sui principi di organizzazione scientifica del lavoro. Il crollo di Wall Street nell’ottobre del 1929. Il crollo dell’export. il reclutamento degli ingegneri che sarebbero stati impegnati nella progettazione dei prodotti e avrebbero formato la struttura direttiva della nuova Olivetti. L’Italia arrivava alla fine di quel decennio provata dalla fase recessiva seguita all’adozione delle politiche di stabilizzazione e del cambio della lira a «quota 90» sulla sterlina. La contrazione della produzione industriale del 4% aveva aumentato la disoccupazione e la domanda interna era stata ulteriormente depressa dalla decurtazione dei salari nominali. A quell’epoca gli unici paesi esportatori di macchine per ufficio erano Stati Uniti, Germania e Italia. Il ritorno a misure e indirizzi fortemente protezionistici da parte dei paesi industrialmente più attrezzati e le difficoltà attraversate dal comparto manifatturiero a livello mondiale determinarono un crollo dell’export anche in questo settore. All’Olivetti l’attività di ricerca e d’innovazione di prodotto fu intensificata proprio negli anni più bui della Grande Crisi. Furono lanciati allora nuovi manufatti come la macchina per scrivere portatile MP1, gli schedari metallici Synthesis, le macchine contabili dotate di blocchetti addizionatori, i nastri inchiostrati. Sul mercato interno, nonostante le difficoltà generali, Olivetti conseguì risultati lusinghieri e fu tra le rare industrie italiane del comparto meccanico che durante il triennio 1929-1932 non regredirono e non ridussero l’occupazione operaia. Nell’ottobre 1932 Olivetti aveva già incamerato assets di grande valore come alcuni brevetti destinati a un tipo completamente nuovo di macchina da calcolo e a una macchina per scrivere silenziosa, ancora in fase di studio in attesa di tempi migliori per la produzione su scala industriale. Risalgono agli anni Trenta anche i primi passi compiuti dall’Olivetti per produrre macchine contabili rispondendo all’esigenza espressa da alcuni clienti di redigere documenti contabili in cui fosse possibile inserire nell’ambito di un testo numeri ottenuti attraverso piccole elaborazioni. Nacque allora l’idea di integrare un’addizionatrice in una macchina per scrivere come la M40. Per realizzare questo progetto Camillo e Adriano avevano sviluppato una serie di contatti e collaborazioni, in particolare in Germania e in Svezia, come quelli con Karl Siewert, genero dell’ingegnere svedese Willgodt Theophil Odhner che aveva brevettato il primo modello di calcolatore alla fine 34 dell’Ottocento. La gestazione del primo calcolatore commerciale Olivetti fu abbastanza lunga e la produzione iniziò soltanto tra il 1939 e il 1940, quando uscì l’addizionatrice MC4S Summa, seguita dalla MC4M Multisumma, capace di eseguire oltre all’addizione e alla sottrazione anche la moltiplicazione. La prima fase d’internazionalizzazione Secondo l’economista Raymond Vernon un’impresa impegna risorse sui mercati esteri quando accumula conoscenza ed esperienza tali da poter gestire i rischi dell’espansione e lo svantaggio di essere straniera mentre il ciclo di vita del suo prodotto è nella fase di sviluppo. Camillo, confidando sull’eccellenza della nuova M20, maturò questa decisione nel difficile primo dopoguerra. Nell’estate si era interrotta la congiuntura espansiva internazionale; in Italia la situazione economica era dominata dall’inflazione e dall’accelerata svalutazione della lira. Una volta decisa la strategia di presenza sui mercati esteri, Camillo aveva riorganizzato e attrezzato le officine per la produzione standardizzata del nuovo modello di macchina per scrivere. Il primo passo fu l’esposizione della M20 alla Fiera internazionale di Bruxelles nel 1920, il secondo fu la decisione di creare una “filiale autonoma” in Belgio. Il terzo fu la determinazione di varcare l’oceano e avviare un primo network di vendita con la concessione di rappresentanze in Argentina, Uruguay e Paraguay. Bruxelles, nei piani di Camillo, doveva essere il centro di una rete destinata a servire, oltre al Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e l’Est della Francia. Il Belgio seguiva all’epoca una politica liberista e costituiva un mercato tanto aperto negli scambi quanto libero nelle istituzioni, esigente e competitivo, all’avanguardia nel progresso commerciale e industriale, ma innanzitutto presentava importanti vantaggi di localizzazione. Invece il progetto di creare filiali autonome a Parigi e a Londra per il momento non trovò uno sbocco concreto, non essendo egli riuscito a trovare adeguate risorse per finanziarlo. Peraltro, nel 1924, a Ivrea si producevano circa 2300 macchine l’anno, quando negli Stati Uniti la sola Underwood ne fabbrica 750 in un giorno. Perciò Camillo, credendo nella qualità del suo prodotto, aveva intrattenuto tempo prima una conversazione con 45 Nel 1920 esce la nuova M20 in occasione della Fiera di Bruxelles. L’apertura delle prime rappresentanze all’estero. La Hispano Olivetti. La strategia di espansione del 1929. il presidente dell’americana Remington, Winchell, sulla possibilità di addivenire ad un accordo fra le due aziende e a una “combinazione” finanziaria che gli avrebbe consentito di liquidare i detentori di quote Olivetti ed entrare come azionista in Remington. Ma l’agreement non fu concretizzato. La più importante esperienza di internazionalizzazione della Olivetti fra le due guerre fu realizzata in Spagna. In sede storica si è rilevato che l’espansione sui mercati esteri delle industrie italiane aveva assunto particolare consistenza nel quadriennio 1929-1932 per effetto della rivalutazione della lira a «quota 90» sulla sterlina. Tuttavia, altrettanto e più decisive furono le previsioni circa l’adozione di politiche restrittive e protezionistiche da parte dei governi nei paesi dove le imprese avevano già importanti sbocchi commerciali ed erano riuscite a penetrare reggendo la concorrenza straniera. Nel caso della Spagna, considerata l’importanza di quel mercato per Olivetti, Camillo ritenne che l’unica possibilità fosse di controllare gli organismi di vendita per non perdere il lavoro di penetrazione svolto in quegli anni. La società Hispano Olivetti fu costituita il 22 gennaio 1929 per la fabbricazione e la vendita delle macchine per scrivere. Lo stabilimento di Barcellona fu un banco di prova anche per le attitudini innovative e organizzative di Adriano che, reduce dal viaggio negli Usa, aveva intenzione di organizzare la produzione con criteri di grande serie, ma dovette rinunciare a causa della ristrettezza del mercato iberico. Con il riconoscimento del certificato di produttore nazionale, concesso dalle autorità iberiche il 12 luglio 1930, l’Olivetti ebbe modo di partecipare a pieno titolo anche alle importanti gare d’appalto dell’amministrazione pubblica e degli enti governativi spagnoli. Nella seconda metà del 1929 a Ivrea si cercò di definire una strategia di espansione e di difesa tanto sui mercati europei (come Francia e Svizzera), dove in alcuni casi errori di previsione e di strategia avevano fatto arretrare l’azienda, quanto extraeuropei come Argentina e Sud America. Intanto la crisi metteva in difficoltà anche le multinazionali americane che per farvi fronte avevano adottato strategie diverse. Alcune ridussero gli investimenti esteri, altre seguirono una politica più aggressiva. Fra queste ultime la Remington, il cui presidente James H. Rand jr, dopo aver visitato lo stabilimento di Ivrea nel 1932 insieme con Merrill, vicepresidente della 36 Remington Rand Co. di New York, propose a Camillo una partecipazione finanziaria. Questa volta Camillo declinò l’offerta, essendo ben consapevole che anche una partecipazione di minoranza avrebbe finito con il diminuire l’indipendenza di quello era ormai divenuto un importante family business. Negli anni Trenta per compensare le ristrettezze del mercato interno e per rendere il prodotto competitivo, Olivetti aveva esteso il network commerciale e produttivo in Europa e America del Sud (Spagna, Svizzera, Belgio, Francia, Olanda, Austria-Ungheria, Danimarca, Cecoslovacchia, Brasile e Argentina). In particolare il successo dei prodotti Olivetti nel Subcontinente era stato riconosciuto anche dai concorrenti statunitensi. Tanto che nel 1937 l’addetto commerciale degli Stati Uniti in Argentina aveva riservato alle macchine Olivetti una speciale menzione di elogio nella corrispondenza inviata al Department of Commerce a Washington. In effetti, nel biennio 1936-37 buona parte di quanto esportato da Ivrea era stato assorbito dall’Argentina e questo favorì il proposito di creare un’organizzazione diretta anche in Brasile poiché i mercati sudamericani mostravano di essere particolarmente recettivi ai prodotti “made in Italy”. Da parte sua, di fronte alle difficoltà di ordine economico, politico e morale dell’Europa Camillo aveva maturato la convinzione che soltanto “i popoli giovani” del nuovo continente americano fossero in grado di conseguire una solida ripresa economica. La seconda fase d’internazionalizzazione Durante la congiuntura bellica Adriano aveva mirato innanzitutto a salvaguardare la struttura commerciale estera conservando gli agenti migliori e quelli che avevano fatto esperienza sul mercato americano. Dopo la guerra, il processo di multinazionalizzazione compì un’accelerazione decisiva con investimenti diretti alla produzione in Scozia, Brasile, Sud Africa e con l’apertura di una nuova fabbrica in Argentina. Nel 1946 era ripreso l’export in Uruguay, ma la crisi economica che aveva investito l’Argentina nell’autunno 1948 ebbe gravi ripercussioni anche sulle vendite di macchine per ufficio. Così, per sostenere l’export e non perdere quote sul mercato sudamericano 37 Nel 1932 la proposta della Remington. Nel 1949 la creazione di Austro Olivetti, Olivetti Africa Ltd. e Olivetti Mexicana. Nel 1947 la British Olivetti. Nel 1950 la Olivetti Corporation of America. verso il quale aveva convogliato un considerevole giro di affari, Olivetti aveva dovuto comprimere notevolmente prezzi e ricavi e cercare nuovi sbocchi commerciali. Il nuovo dinamismo impresso alla politica di espansione sui mercati esteri nel 1949 portò alla creazione di tre nuove consociate: una in Europa, l’Austro Olivetti Büromaschinen, e due extraeuropee: l’Olivetti Africa Ltd. e la A.G. la Olivetti Mexicana S.A.. Inoltre fu ratificata la joint-venture con la francese Bull. Gli investimenti esteri furono diretti in misura crescente verso i paesi sviluppati e tecnologicamente più avanzati alla ricerca di nuovi sbocchi di mercato come obiettivo prioritario della strategia espansiva dell’azienda. Si decise così di costituire la British Olivetti Ltd. a Londra nel 1947. Per le officine di produzione la scelta cadde sulla città scozzese di Glasgow, fiaccata da un processo di lento declino industriale che il governo laburista era intenzionato ad arrestare. La localizzazione britannica aveva il grande vantaggio di aprire all’Olivetti tutti i mercati del Commonwealth o gravitanti su Londra. L’espansione internazionale fu rafforzata da una profonda trasformazione nella struttura produttiva e commerciale, incrementando l’efficienza e tagliando i costi. Questi risparmi resero possibile la diversificazione nel settore d’avanguardia dei calcolatori, punta di diamante della penetrazione commerciale Olivetti sui mercati più avanzati. Il vero salto di qualità nella strategia multinazionale della Olivetti avvenne negli Stati Uniti: dapprima con la creazione dell’Olivetti Corporation of America a New York nel 1950; poi con un investimento strategic asset seeking nel laboratorio di New Canaan nel 1952; infine con l’acquisizione nel 1959 della Underwood. Nel decennio Cinquanta la strategia internazionale di Olivetti si distinse rispetto a quella di altre multinazionali come Fiat, e ciò anche tenendo conto delle differenze di prodotto. Olivetti sfidò i grandi costruttori mondiali sui loro stessi mercati con prodotti innovativi come i calcolatori. Invece Vittorio Valletta, a quell’epoca presidente e amministratore delegato di Fiat, puntò su segmenti di mercato poco ambiti dai maggiori competitors statunitensi e, nella divisione internazionale del lavoro, più adeguati al ristretto mercato italiano come le auto di piccola cilindrata. Si trattava di una strategia già perseguita dal senatore Agnelli negli anni Trenta anche a seguito di un 38 gentlemen’s agreement con Ford e con General Motors a cui seguì la messa in cantiere di Mirafiori per la produzione di massa riservata a queste vetture. È in questa fase che Adriano ampliò i contatti con associazioni e networks culturali, politici ed economici negli Stati Uniti seguendo gli insegnamenti di una lezione che egli aveva ben appreso nel suo viaggio di formazione oltreoceano a metà degli anni Venti. Peraltro Il modello americano della “management education” e delle “business schools” fu l’unico punto di convergenza fra la visione aziendale di Adriano e quella di Valletta che determinò la creazione a Torino dell’Istituto di Alti Studi di Organizzazione Aziendale nel 1952, rinominato Istituto Post-Universitario per lo Studio dell’Organizzazione aziendale (IPSOA) il 16 gennaio 1953: la prima business school europea ad adottare il modello statunitense di formazione manageriale. Olivetti Corporation of America La costituzione dell’Olivetti Corporation of America con sede in New York si collocava in uno scenario internazionale di contrapposizione bipolare Est-Ovest contrassegnato dalla leadership di Washington sul mondo occidentale. Per quanto Olivetti avesse stabilito già nel 1946 una base commerciale a New York, si era deciso di ampliare l’investimento newyorkese soltanto dopo la crisi del mercato sudamericano, alla fine degli anni Quaranta, e la messa a punto di un nuovo prodotto, la Divisumma 14. Si trattava di una macchina calcolatrice all’avanguardia tecnologica anche per un mercato ricco e ricercato come quello americano. Con pochi competitors in questo segmento di mercato Olivetti seguì una strategia di crescita fondata sulla qualità e sull’innovazione invece che sul prezzo, affidando la distribuzione delle nuove calcolatrici all’Olivetti Corporation of America. Dopo il brillante successo della Divisumma, nel 1953-1954 iniziò l’introduzione delle macchine addizionatrici e di quelle per scrivere (Lexikon 80 e Lettera 22). Sullo scenario internazionale il fondamento della riorganizzazione atlantica discendeva dalla potenza economica e militare statunitense e l’ammodernamento tecnologico traeva impulso anche dalla domanda aggiuntiva dei paesi aderenti alla Nato. Nel dicembre 1952 Adriano in una lettera al fratello Dino 39 L’IPSOA con Vittorio Valletta nel 1953. La strategia americana. Le filiali di Chicago e San Francisco. Adriano, Roberto e Dino Olivetti. scriveva che tutto lasciava supporre che ci si stesse avviando verso un’economia unificata transatlantica più che unificata europea. È questa previsione che lo induce a intraprendere una politica più aggressiva d’investimenti esteri diretti e a sfidare i grandi produttori americani. Egli era convinto, infatti, che per Olivetti l’unica scelta possibile fosse di “fare la concorrenza ai grossi complessi industriali americani organizzando un certo numero di filiali all’estero forti ed economicamente attive”. Qualunque altra politica avrebbe portato ineluttabilmente l’azienda verso “la decadenza e l’asservimento” alle multinazionali statunitensi. Nel dicembre 1953 vennero aperte al pubblico le filiali Olivetti di Chicago (Great Lakes Division) e di San Francisco (Pacific Division). Il sorpasso produttivo delle consociate estere sulla casa madre avvenne dopo l’apertura del Mec. Nel 1950 il 70% del fatturato Olivetti era prodotto in Italia; nel 1960 il fatturato nazionale si ridusse al 44,6% mentre quello estero salì al 55,4% (nel 1970 il fatturato estero sarebbe arrivato al 78,1% a fronte del 21,9% italiano). È in questa dinamica di attività internazionale che si gettano le basi per l’accordo con l’americana Underwood i cui vertici stavano cercando una partnership per ridare slancio all’azienda. L’acquisizione dell’azienda americana, resa nota il 2 ottobre 1959, era stata decisa da Adriano per i vantaggi che sarebbero derivati sul mercato americano, il più grande del mondo, dal controllo di un asset come la rete commerciale e distributiva di Underwood. Inoltre Adriano si attendeva di riflesso anche un vantaggio per Olivetti sul mercato europeo. Perché l’accordo avrebbe permesso di far fronte al meglio all’attuazione del Mec nel settore delle macchine per ufficio e di sostenere la sfida dell’agguerrita e temuta concorrenza tedesca. La tecnologia del futuro. Adriano, con Roberto e Dino Olivetti, grazie anche ai rapporti con i Centri di ricerca americani e con il Premio Nobel Enrico Fermi, aveva colto appieno le potenzialità e l’ineludibilità del paradigma elettronico. Secondo Clayton Christensen, la decisione di investire nello sviluppo d’innovazioni incrementali anziché alla frontiera tecnologia è la scelta più “razionale” per l’imprenditore. Perché le imprese sono 40 continuamente sotto pressione sul mercato per introdurre cambiamenti e innovazioni che possano sostenerne la crescita e migliorarne i margini di profitto soddisfacendo la domanda. Invece le tecnologie d’avanguardia hanno effetti disruptive e, pertanto, sono perturbatrici della stessa organizzazione aziendale e sociale. Imprenditore schumpeteriano, Adriano percorse questa seconda strada che attraverso la creatività distruttrice avrebbe prodotto la discontinuità. Egli aveva intuito con largo anticipo e precisione le potenzialità e gli effetti dell’elettronica applicata al controllo e all’organizzazione della produzione. Come dichiarò nella riunione del Consiglio di amministrazione Olivetti il 16 novembre 1957, l’elettronica avrebbe avuto “nel futuro notevoli ripercussioni sui metodi di fabbricazione di prodotti attualmente realizzati nella meccanica: esiste quindi una ragione fondamentale di sicurezza che ci consiglia di non lasciarci cogliere impreparati quando la tecnica permetterà di trasformare alcuni nostri prodotti da meccanici a elettronici”. Con visione anticipatrice nel 1955, nel discorso di Natale ai dipendenti, egli aveva già indicato nell’elettronica la tecnologia che, nel bene e nel male, avrebbe condizionato la civiltà moderna. Adriano aveva tracciato il futuro industriale dell’Olivetti come ineludibilmente legato all’elettronica; prefigurava con lucidità gli effetti disruptive del cambiamento che il nuovo paradigma tecnologico avrebbe introdotto sul mercato e nella stessa organizzazione d’impresa. La produzione industriale era destinata a orientarsi verso l’elettronica perché, come affermava nella riunione del Consiglio di amministrazione il 16 novembre 1957, “i grandi complessi industriali necessitano, per l’elaborazione di dati centralizzati che ormai sono divenuti di tendenza generale e condizione essenziale per l’organizzazione amministrativa, di calcolatori elettronici”. “Una società che opera nel settore delle apparecchiature per ufficio”, egli affermava, non avrebbe potuto pensare di rimanere estranea a questa nuova attività “senza decadere fatalmente a industria di secondaria importanza”. In questa prospettiva fu decisa la creazione di SGS, la prima azienda europea nel campo dei semiconduttori. “Dato il campo che riteniamo di sicuro sviluppo – dichiarò nella medesima seduta del Consiglio – abbiamo ritenuto 41 Il futuro dell’elettronica. Nel discorso di natale del 1955, Adriano Olivetti parla dell’elettronica come la tecnologia che avrebbe condizionato la viciltà moderna. La creazione della SGS. La morte improvvisa di Adriano Olivetti nel 1960, le divisioni interne alla famiglia. Il piano di cessione del 1964. Dino Olivetti contrario alla cessione della Divisione Elettronica. opportuno tenere una partecipazione cospicua in questa iniziativa in quanto s’inserisce in un programma organico di nuove iniziative industriali che la nostra società sarà costretta a intraprendere nel campo elettronico”. Con queste parole egli aveva motivato di fronte al Consiglio la decisione di costituire SGS – Società generale semiconduttori al 50% con la Telettra di Milano che aveva già esperienza produttiva in questo comparto. Nella nuova società Adriano avrebbe ricoperto la carica di presidente, Virgilio Floriani (già presidente di Telettra) quella di amministratore delegato e Roberto Olivetti di consigliere (si sarebbero costruiti circuiti integrati su licenza dell’americana Fairchild Semiconductor che entrò in SGS tre anni dopo, nel 1960). Si trattava di una decisione cruciale in un campo all’avanguardia della ricerca che era stata preceduta nel 1949 dall’alleanza con Bull per la produzione di schede perforate (un prodotto con applicazioni elettroniche) e nel 1952 dalla creazione di un laboratorio di ricerche a New Canaan (Connecticut), promossa dal fratello Dino. Le attività industriali sviluppate a seguito dell’impegno profuso in R&S nell’elettronica si materializzarono nella progettazione e nella produzione dei primi elaboratori italiani, realizzati e diffusi sul piano commerciale nella serie Elea. Tuttavia, dopo la morte di Adriano nel febbraio 1960, le divisioni interne alla famiglia Olivetti e l’ingente esposizione verso le banche creditrici ostacolarono il passaggio intrinsecamente perturbatore dalla meccanica all’elettronica che, per di più, avveniva con l’impresa impegnata a gestire la ristrutturazione della Underwood e la propria presenza su un mercato complesso come quello americano. Così il controllo dell’Olivetti passò, nel 1964, a un gruppo d’intervento finanziario-industriale formato da Mediobanca, Imi, Pirelli, Centrale e Fiat. La Divisione elettronica fu ceduta alla General Electric. Nella seduta del Consiglio di amministrazione, il 15 luglio 1964, il presidente Visentini presentò il piano di cessione. Le trattative erano state condotte da Aurelio Peccei, amministratore delegato designato dal gruppo, e da Roberto Olivetti. Dino Olivetti si pronunciò per una revisione dell’accordo con GE perché “se la Olivetti cede l’elettronica cede in definitiva il suo scopo essenziale”. Dello stesso parere era anche il prof. Giovanni Someda che aggiunse 42 “se l’Olivetti rinuncia al progresso tecnico é la fine della Società”. Roberto Scarpa Terzo intermezzo Adriano arriva a New York il 2 agosto ‘25. Proprio come Camillo trentadue anni prima, anche lui è lì per capire. Cerca di vedere la grande fabbrica concorrente, la Underwood, che in cinque giorni produce quanto la Olivetti in un anno intero. Siccome non lo fanno entrare passeggia intorno ai muri di cinta e se la immagina. Incrocia i dati e giunge alla conclusione che la media delle fabbriche americane è di 45 macchine per operaio all’anno. Quasi cinque volte più che a Ivrea. Quando riparte ha visitato 105 fabbriche ed è convinto che «il segreto» dell’industria americana «non sta negli uomini, ma nella struttura dell’organizzazione». 1926: Adriano beffando la polizia fascista, organizza, assieme a Parri, Rosselli e Pertini, la fuga del vecchio leader socialista Turati. Da Londra, dove il padre lo manda per cautela, scrive a Camillo una lettera con le proposte di cambiamento: Adriano Olivetti a New York nel 1925. Il segreto dell’industria americana non sta negli uomini ma nell’organizzazione. La cosa più importante è l’organizzazione e la nostra deve essere trasformata radicalmente. Abbiamo bisogno di tecnici laureati, che portino conoscenze e novità. E poi... pensaci papà... una macchina portatile... farebbe furore. Camillo, felice di fargli spazio, gli dà soltanto un ordine. Tu, Adriano, con questi tuoi nuovi metodi potrai fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia. Con i nuovi metodi la sfida è vinta: il tempo di montaggio di una macchina passa da 12 a 4 ore e mezzo. L’indice di produttività raddoppia. Ma Adriano comincia a farsi domande ingenue: quale è il 43 Il rapporto con il padre Camillo. 1932, 1933, 1934... La guerra civile in Spagna, il nazismo, la persecuzione degli ebrei... Il welfare olivettiano alla fine degli anni Trenta. significato dell’«industria complessa di massa»? Può esaurirsi nella produzione e nel profitto? Ha dei compiti nei confronti del territorio dove opera? 1932, 1933, 1934: Hitler ottiene più di tredici milioni di voti, conquista il potere; il Vaticano si affretta a firmare un concordato con la Germania nazista; Roosvelt lancia il New Deal; Einstein emigra negli Stati Uniti. Adesso Adriano ha bisogno di qualcuno che disegni la fabbrica che cresce. La vuole di vetro perché chi ci lavora possa vedere il sole dall’alba al tramonto. Viene preso da una febbre per l’urbanistica. Nel ’35 lancia un progetto avveniristico, il piano regolatore della Val d’Aosta. Il piano arriva sulla scrivania di Mussolini che sull’incartamento scrive di suo pugno: “No”. È davvero ingenuo Adriano. Pensate, l’urbanistica per lui è una disciplina capace di trasformare l’ambiente per costruire la comunità e rendere felici gli uomini. 1935, ’36, ’37, ’38: l’Italia invade l’Etiopia; la Germania si riarma; Roosvelt istituisce salario di disoccupazione e pensione di vecchiaia; in Spagna scoppia la guerra civile; i nazisti bombardano Guernica; Stalin scatena la stagione delle purghe; viene inaugurata Cinecittà; Picasso dipinge Guernica; gli Stati Uniti approvano la settimana lavorativa di 40 ore; i nazisti scatenano la persecuzione degli ebrei; in Italia vengono emanate le leggi razziali. Camillo è dichiarato “ebreo discriminato”. La Everest di Crema si pubblicizza sul Corriere della Sera come L’unica macchina da scrivere ariana prodotta in Italia. Vittorio De Sica canta Parlami d’amore Mariù. L’Olivetti adesso è al terzo posto mondiale; produce la prima telescrivente e inizia a pensare alle calcolatrici. Alla fine degli anni ’30 un operaio trova in fabbrica mensa, infermeria e biblioteca. Le lavoratrici hanno nove mesi di aspettativa retribuita e un asilo nido con stanza per l’allattamento. Ci sono colonie marine e montane, e un convalescenziario. Per la casa c’è la Società cooperativa edilizia che concede mutui sino alla metà del costo. I dipendenti che investono nell’azienda ottengono mezzo punto d’interesse in più di quanto avrebbero dalle banche. 1939, ’40: il regime fascista abolisce la Camera dei Deputati e invade l’Albania; Germania e Unione Sovietica firmano il patto di non aggressione e si spartiscono la Polonia; Francia e Gran Bretagna dichiarano guerra alla Germania. 44 Più o meno negli stessi giorni in cui Charlie Chaplin gira “Il grande dittatore”, l’Italia, meno lungimirante, entra in guerra. Sull’esito del conflitto Adriano è ottimista. Pensa sempre al futuro lui. Ma è diffidente verso i partiti: non sono stati capaci di fermare né il fascismo né il nazismo. Non possono garantire la democrazia. Siccome è ottimista si dà da fare. Incontra segretamente a Berna, Allen Dulles, futuro capo della CIA. Per mantenere i contatti gli viene indicato un certo signor Rossi, a Roma. Perciò, quando il 25 luglio Mussolini viene deposto, Adriano contatta il signor Rossi. Ma ha una sorpresa: viene arrestato e rinchiuso a Regina Coeli con l’accusa di: comprovata intelligenza con il nemico e proposito di attività sovvertitrice dell’ordine interno. Ordine interno? Nel 1943? Con l’Italia divisa in due, gli americani sbarcati in Sicilia e i tedeschi che occupano tutto il Nord e il Centro Italia? Con tutte le principali città italiane bombardate? Comunque è un record: è il primo industriale antifascista arrestato dal primo governo postfascista. Rossi era una spia. La situazione peggiora dopo l’8 settembre perché Adriano, che ha sangue ebreo, rischia di cadere in mano ai tedeschi. Arriva provvidenziale, l’ordine di scarcerazione. Un falso. Natalia Ginzburg vede Adriano in quei giorni per strada e lo descrive così: L’incontro di Adriano Olivetti con Allen Dulles. L’arresto a Roma. Era a piedi; andava solo col suo passo randagio; gli occhi perduti nei suoi sogni perenni… era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. 1943: a dicembre muore Camillo. Al cimitero ebraico, sfidando il divieto, vanno in 4.000 a salutarlo. 1944: Adriano entra clandestinamente in Svizzera e da lì tiene contatti con la resistenza. Scrive Altiero Spinelli, uno dei padri dell’unione europea: ho conosciuto Olivetti, dagli occhi sognanti e dalla volontà di ferro, che pensa come un matematico e sente come un mistico… è un pescatore di uomini. Porta con sé il suo libro, ancora ciclostilato, e lo da da leggere a tutti coloro che incontra. 45 La morte di Camillo. L’Ordine politico delle Comunità. L’Italia come una repubblica federale. La rivisitazione del percorso olivettiano ha subito forme di riduttivismo. Il libro, intitolato L’Ordine politico delle comunità contiene «intuizioni geniali». Vi parla di conciliare l’uomo e la macchina; di dare alla fabbrica un fine che non sia il profitto individuale. Le grandi fabbriche, come l’Olivetti e la Fiat diventeranno industrie sociali e ne saranno proprietari i lavoratori, le comunità e le università. Adriano conosce i limiti del socialismo di stato e del capitalismo. Ma c’è un’altra possibilità: mettere al centro della democrazia la «comunità». L’Italia sarà ricostruita come una repubblica federale. Semplificando: il senato sarà composto da rappresentanti degli ordini - cioè dai migliori, dai più competenti - e la camera da rappresentanti delle comunità. Ha una grande preoccupazione Adriano: far convivere democrazia e aristocrazia del merito; democrazia e qualità morale e culturale. Perciò si sforza di mettere ostacoli rigidissimi all’incompetenza, alla superficialità, all’improvvisazione. Conosce e teme queste malattie della democrazia. Che noi, fortunatamente, abbiamo sconfitto. Giuliana Gemelli Adriano Olivetti e la CSR: un problema mal posto. Una riflessione sulla responsabilità sociale della ricchezza. Missione dell’impresa; funzioni dello stato sociale; rapporto tra impresa e territorio; politiche del lavoro; cultura industriale e cultura in senso generale: in questi campi la maggior parte delle cose che Adriano Olivetti realizzò nelle sue fabbriche e teorizzò nei suoi testi appaiono in contrasto con molto di quanto oggi si pratica, si scrive o si pretende di realizzare. In un simile confronto ad apparire moderni non sono sempre i contemporanei, anzi direi che questi non emergono come tali. Aggiungerei che ci sono stati, nella rivisitazione del percorso olivettiano, evidenti forme di riduttivismo. Una di queste è la riduzione delle sue prismatiche iniziative, del suo operare simultaneamente in tutti gli ambiti dell’impresa, alle dimensioni, spesso strumentali se non addirittura di camouflage, della responsabilità sociale d’impresa. Il mio contributo è volto ad analizzare la ricchezza del percorso olivettiano e la sua irriducibilità a questa dimensione tanto osannata quanto inutile nella prospettiva drammatica della crisi che stiamo attraversando, 46 proponendo una diversa concettualizzazione dell’operare olivettiano: la responsabilità sociale della ricchezza. Quest’ultima non è solo il risultato dell’accumulazione di denaro ma di tutte le risorse tangibili ed intangibili dell’operare dell’imprenditore, sul cui principio di identificazione occorrerà altresì riflettere. Adriano Olivetti ha espresso un pensiero in movimento che si è unito ad una modalità di operare, di decidere nella e per la collettività, in una dimensione dell’agire difficilmente riducibile e direi che sarebbe addirittura ridicolo ridurre alle dimensioni della certificazione d’impresa, certificazioni sempre calate dall’alto o connesse a concessioni ai dipendenti graziosamente elargite per mostrare il volto umano dell’azienda una volta venute meno le garanzie istituzionali per i lavoratori sancite per legge. Un tratto che distingue in modo assoluto il pensiero e l’azione di Adriano Olivetti è la sua concezione dell’impresa. Penso che egli sarebbe stato stupito nel sentire affermare in modo perentorio che la missione dell’impresa è unicamente quella di creare valore per gli azionisti. E che, se mai, graziosamente si puo aggiungere da parte degli azionisti qualche attenzione ai portatori di interesse secondo una dicotomia tra shareholders e stakeholders che non poteva neppure essere formulata nella visione olivettiana. Sarebbe rimasto stupito perché la sua concezione dell’impresa era tutt’altra. Adriano Olivetti pensava che l’impresa dovesse creare ricchezza e non ricchezza come puro profitto per chi possiede l’azienda, ma ricchezza condivisa dalla comunità, dal territorio; dovesse creare occupazione; dovesse generare benessere attraverso i ricavi del successo conseguito sul mercato. Credeva, in sintesi, che l’impresa dovesse ridistribuire gran parte dei profitti, facendoli ricadere e di fatto moltiplicare attraverso la crescita di valori non solo tangibili – i salari piu alti - ma anche di quelli intangibili, diffusi e condivisi dalla comunità della fabbrica e da quelle del territorio, attraverso forme non necessariamente riconducibili alla dimensione o alla logica della produzione. Olivetti voleva che quei valori si nutrissero e si traducessero in cultura, bellezza, armonia di architetture non solo materiali, ma mentali, concettuali, progettuali, architetture del benessere, della qualità, della capacità di generare 47 La responsabilità sociale della ricchezza. La Corporate Social Responsibility. Adriano Olivetti pensava che l’impresa dovesse creare ricchezza condivisa dalla Comunità e dal territorio. Un intreccio di valori intangibili e tangibili. La vocazione maieutica di elevazione culturale e morale. La flessibilità per Olivetti è la capacità del sistema visione. In una recente pubblicazione ho sostenuto che questa capacità di generare visione a flusso continuo, nell’intreccio inesauribile di valori tangibili ed intangibili, sia stata il vero motore dell’innovazione olivettiana, della sua capacità di coniugare in un sinolo indissolubile, scienza e tecnologia, progettazione ed attuazione. In un discorso tenuto nel 1955 ai dipendenti Olivetti, preannunciando la nascita di una nuova sezione di ricerca, dedita a “sviluppare gli aspetti scientifici dell’elettronica, poiché questa rapidamente condiziona nel bene e nel male l’ansia di progresso della civiltà di oggi” li faceva partecipi di un percorso che non era solo legato alla produttività dell’impresa ma aveva una vocazione maieutica di elevazione culturale e morale. In questo percorso è difficile scorgere le graziose concessioni ai dipendenti che caratterizzano il miope operare della moderna CSR, la quale espandendosi a macchia d’olio è divenuta una notte in cui tutti i conigli sono neri, azzerando completamente le potenzialità di qualificazione, la ricerca della reputazione, a basso costo e dai piedi d’argilla, che si era prefissa. Una ricerca priva dell’obiettivo fondamentale che qualifica l’agire imprenditoriale: la crescita attraverso l’innovazione, la capacità di competere facendo crescere non solo il profitto ma tutto il contesto di riferimento dell’impresa, all’interno e all’esterno in modo simultaneo – attraverso la sintesi organizzativa- e non per funzioni successive o sommatorie. Per questo la Olivetti anticipava il mercato generava la domanda, azzerava il marketing del magazzino e non cercava reputazione attraverso certificazioni di qualità ma la generava a flusso continuo, con effetti moltiplicatori sul fatturato. Dal 1946 al 1958 il fatturato sale oltre 6 volte in Italia (+ 639%), e di quasi 18 volte all’estero (+ 1.787%). I profitti dell’azienda non nascevano da un monopolio di posizione conseguito con mezzi estrinseci alla qualità del prodotto. Nascevano dalla qualità del progetto; dalla superiorità del design; dalla preparazione degli ingegneri e dei meccanici che le producevano; dalla qualità finale del prodotto; complessivamente dalla capacità di innovare continuamente, a ritmi elevatissimi, tutto il complesso della fabbrica. Una fabbrica flessibile ma non nel senso che attribuiamo oggi a questo termine tutto strumentale al contenimento dei costi soprattutto di 48 quelli inerenti le risorse umane. La flessibilità per Olivetti è la capacità del sistema fabbrica nella sua complessità di adattarsi a variazioni quantitative e qualitative della domanda, di reagire al declino di certe aree di mercato ed allo sviluppo di altre, ai rivolgimenti politici ed economici che avvengono in determinati paesi e che possono cambiare radicalmente, in breve tempo, lo scenario con cui l’impresa opera. La flessibilità non è tattica di contenimento centrata sul lavoro, sul volume e i costi della forza lavoro ma strategia del cambiamento, capacità di reagire con rapidità ed efficacia ai mutamenti economici e politici, creando nuovi prodotti, orientando il mercato, creando nuove forme di cultura, anticipando e non flettendo il lavoro produttivo, valorizzando la collaborazione dei dipendenti non strumentalizzandola ad uso esclusivo di una produttività di fatto indifferente al lavoro. Se di qualità si deve parlare nella Olivetti non se ne può parlare in termini di certificazione dei singoli settori ma di una qualità à part entiére, riflessiva, condivisa ed estesa a tutte le componenti aziendali non solo alle cosidette componenti strategiche, da fidelizzare a colpi di CSR, nucleo ristretto di privilegiati circondati da una nebulosa di oscuri operatori con pochi diritti e bassi salari, impossibilitati ad apprendere, ad elevarsi e dunque non fidelizzabili, e rispetto ai quali si potevano attuare pratiche di responsabilità limitata se non inesistente, nucleo informe di un’impresa senza vincoli, destrutturante anziché aggregante rispetto al contesto in cui opera, dunque generatrice di anomia anziché di coesione sociale, di aspettative evolutive individuali e collettive. Dove risiedono i comportamenti responsabili dell’impresa? Nella governance, nelle persone o nel principio stesso dell’imprenditorialità che non solo li contiene ma li collega al principio più generale della responsabilità sociale della ricchezza? Finalità dell’impresa non è infatti solo quella di generare profitti ma di generare ricchezza (lavoro, consumi, cultura, educazione, benessere). La ricchezza è intesa come patrimonio e consiste nel capitale non solo economico e finanziario ma umano ed intellettuale di tutti coloro che hanno contribuito a crearlo. Innanzitutto i membri della famiglia che ha generato l’impresa ma in secondo luogo anche coloro che, 49 fabbrica nella sua complessità, di adattarsi a variazioni quantitative e qualitative della domanda. attraverso il loro lavoro, le loro competenze la loro creatività ne hanno alimentato la crescita. Il capitale finanziario e gli investimenti relativi al patrimoni sono uno strumento per sostenere ed accrescere il capitale umano ed intellettuale di chi ha generato l’impresa, da un lato e per generare un flusso continuo di benefici tangibili ed intangibili per la comunità di riferimento, dall’altro. Una comunità di cui l’impresa è parte integrante non solo come generatrice di profitti ma di sistemi valoriali e di matrici di comportamento. La relazione tra benefici sociali e ricchezza privata. I fiori di loto della CSR. I codici etici Si crede che l’adozione di codici etici migliori la reputazione di un’impresa e la legittimi nel suo operare. Si crede che il codice etico rassicuri gli azionisti all’esterno e generi coesione all’interno dell’impresa. Si crede che il codice etico possa limitare pene e sanzioni nel caso di palese diligenza. Quale è la relazione tra benefici sociali e ricchezza privata? Essa risiede insieme ad altre modalità di azione nell’agire filantropico La filantropia è l’atto di donare – al di fuori della propria rete familiare - tempo, denaro, competenze e conoscenze per accrescere il bene comune e creare benefici sociali. La storia della Filantropia è secondo la definizione di Robert Payton “the social history of the moral imagination”. E più precisamente secondo Michel Sheranden “Income only maintains consumption, but assets change the way people think and interact in the world. With assets, people begin to think in the long term and interact in the world and pursue long-term goals. In other words, while income feed people, assets change their mind”. Queste riflessioni si riferiscono a due concetti e al loro interfacciarsi: Wealth = The wealth of a family consists of the human and intellectual capital of its members: a family’s financial capital and its assets are tools to support the growth of the family’s human and intellectual capital. 50 Philanthropy = is the giving of time, money and know-how to advance the common good and create social benefit. Philanthropy provides social benefit along with governments and business but it is profoundly different from either of them. At least in the abstract it is money fred from quarterly profit projection or regular election cycles, uncontrained by the need to please political constituencies or maintain shareholders value. As a result it is money that has the most ability to take risk and be patient or to move quickly in response to something unexpected. In che cosa consiste oggi questo interfacciarsi Si sta delineando una transizione epocale nell’ambito della quale la filantropia cessa di essere una sequenza frammentaria e frammentata di interventi promossi da attori isolati ed indipendenti e converge deliberatamente verso un più ampio sistema di individuazione delle forme di soluzione possibile ai rilevanti problemi delle società contemporanee. E questo non come forma di intervento sussidiario rispetto ad altre forme di intervento pubblico ma come progettualità basata sulla collaborazione di attori individuali ed istituzionali diversi (imprese, fondazioni, istituzioni pubbliche e private, associazioni e singoli donatori) e su una più stretta articolazione della cooperazione tra chi dona e chi riceve al fine di produrre benefici comuni condividendo responsabilità e rischi. In questo scenario in gestazione il fattore a maggiore impatto evolutivo sono le partnership e la potenziale crescita di un capital market rivolto alla soluzione dei problemi di maggiore rilevanza sociale. I donatori, istituzionali e privati pur mantenendo la loro indipendenza nelle scelte e nelle strategie di investimento, tendono ad aumentare l’efficacia dei loro interventi interagendo con altri donatori e imparando dalle loro esperienze e dai loro errori. In breve possiamo dire che il nuovo scenario della filantropia sta evolvendo dalla donazione compassionevole e basata sulla sussidiarietà ad una donazione strategica, impegnata, coordinata e consapevolmente orchestrata verso l’assunzione di responsabilità condivise, con gli altri donors e anche con 51 Una nuova progettualità per l’agire filantropico. Una maggiore cooperazione tra chi dona e chi riceve. Un nuovo scenario della filantropia. chi riceve i finanziamenti sulla base del superamento della tradizionale divisione del lavoro tra chi da e chi fa. La cosidetta high engagement philanthropy che si è delineata dai tentativi di incorporare nell’universo della filantropia le pratiche di successo del venture capital, comportando una relazione molto più stretta tra chi dona e chi riceve, anche perché questa relazione non è più basata solo sull’erogazione di denaro ma sulla capacità di trasferire (reciprocamente) conoscenze, capacità organizzative ed operative, di creare infrastrutture. La filantropia ad alto potenziale di impegno è un approccio che tende a valorizzare l’incontro tra chi dona e chi riceve nell’ambito di una modalità della filantropia come investimento che significa innanzitutto un focus rivolto a progetti di medio lungo termine, un’assistenza nel fund-raising, che è anche sostegno organizzativo, nonché un ‘allenamento’ a coordinare obiettivi e finalità coi mezzi e le strutture a disposizione e ad incrementare relazioni di affinità e reti di partenariato. Un tale approccio implica il riconoscimento che un investimento che integra capitali, sostegno strategico e consolidamento di partnership è un investimento più forte di quello che implica solo la mobilizzazione di capitali. La tabella che segue illustra alcuni degli aspetti della transizione in atto. 52 Le nuove dimensioni della ricchezza Secondo una ricerca di Merryl Lynch e Cap Gemini 7 milioni di individui possiedono oggi beni ed investimenti pari a 26 milioni di dollari, cifra che corrisponde alla somma dei prodotti nazionali lordi annuali di tutti i paesi del mondo. Un solo imprenditore Bill Gates possiede beni ed investimenti che superano il prodotto lordo di alcuni paesi non solo africani, Schervish and Havens hanno calcolato che la magnitudo del trasferimento generazionale della ricchezza negli Stati Uniti tra il 1998 e il 2052 si collochi tra $41 e $136 migliaia di miliardi. In parallelo alla crescita della ricchezza privata stiamo assistendo ad un indebolimento del settore pubblico non solo in termini di risorse ma di competenze e di progettualità. A ciò si aggiunga che l’articolazione pubblico – privato è entrata in una fase di transizione che coinvolge la stessa definizione di pubblico. In Italia il concetto di “pubblico” è stato spesso assimilato a “statale”, mentre oggi comincia ad affermarsi una concezione della funzione pubblica come insieme di interventi nell’interesse della comunità e si afferma il principio che non vi debba essere un unico soggetto ma più soggetti che possono collaborare positivamente in questa direzione. Non solo le istituzioni pubbliche ma i privati, le imprese e le fondazioni che oltre alla ricchezza economica posseggono anche competenze e capacità di influenzare la società nel suo complesso. Emerge dunque il problema della utilizzazione della ricchezza secondo forme di responsabilità che hanno direttamente a che vedere con la crescita economica sociale e morale della società. Le dimensioni quantitative della ricchezza. Alle nuove dimensioni quantitative della ricchezza devono fare riscontro nuove forme qualitative di impiego della medesima che hanno un valore rilevante anche per la continutà dei grandi patrimoni familiari, dunque per il consolidamento della ricchezza nell’accezione che abbiamo indicato. Per preservare il proprio patrimonio una famiglia deve formare un nucleo compatto che ne sostenga non solo gli assets ma anche i valori, 53 Ad una crescita della ricchezza privata si assiste a un impoverimento di competenze e progettualità nel pubblico. Preservare assets e valori,. cultura, identità. Economia politica ed economica sociale. Suscipere la cultura, l’identità, non solo rispetto a tale nucleo interno, ma anche in relazione alla comunità di appartenenza. Ciò implica una riconsiderazione del concetto stesso di investimento sulla base del superamento della dicotomia- ereditata dalla teoria economica del ventesimo secolo - tra economia politica – che riguarda la produzione della ricchezza - ed economia sociale - che riguarda il settore dell’assistenza, la cooperazione, la sussidiarietà. In questa dicotomia si è perso il contatto con le radici originarie del concetto stesso di imprenditore e di imprenditorialità. Se risaliamo all’etimologia latina di imprenditore, impresa, intraprendere, il termine suscipere che li designa rinvia al principio del sostenere responsabilmente. Il significato di suscipere è più precisamente quello di “generare riconoscendo”, assumendo cioè la responsabilità non solo dell’atto del generare, ma anche del processo conseguente quell’atto, in termini di consapevolezza e di assunzione consapevole degli effetti di tale processo. Un significato traslato del termine suscipere è ricevere in modo consapevole, accogliendo l’azione generata da altri come principio di un agire altrettanto responsabile. Nel concetto di imprenditore e di imprenditorialità, così definito, sono contenute alcune conseguenze di natura teorica e pratica: la prima è che l’imprenditore assume il ruolo di soggetto rappresentativo dell’agire sociale e civile, in grado di definire e rendere operativi valori che generano azioni responsabilmente orientate, da parte di soggetti che interagiscono per realizzare obiettivi e finalità condivise. L’imprenditore è il garante normativo di un processo di assunzione di valori condivisi, resi visibili non da codici o certificazioni etiche, ma da matrici comportamentali, da assetti cognitivi che si traducono in modalità operative. La seconda conseguenza è che la contrapposizione tra agire economico e responsabilità, tra dono e profitto, si scioglie e fa emergere un tessuto di beni relazionali, strettamente connessi all’investimento della ricchezza e all’intreccio tra valori tangibili (effetti materiali del suo utilizzo) e intangibili (effetti morali e matrici comportamentali rispetto alle forme dell’utilizzo della ricchezza). 54 La terza conseguenza è che l’imprenditore non è soltanto colui che agisce nella sfera del mercato, ma è anche colui che è in grado di intraprendere nei più diversi ambiti dell’agire sociale (cultura, educazione, arte, scienza, istituzioni pubbliche e private), guidato da idee e da valori orientati ad un fine operativo. Tale modalità del suo agire nello spazio sociale, civile e non solo economico coinvolge l’imprenditore come persona, in quanto promuove conoscenza attiva, generatrice di cambiamento sociale, nel rispetto degli altri ed in particolare di quella particolare categoria di ‘altri’ che sono le future generazioni. In tale tessuto trovano collocazione e significato, in una circolarità processuale che si basa sull’intreccio tra valori economici e valori sociali e culturali, tra benefici tangibili e benefici intengibili, i vettori principali dell’agire imprenditoriale: la famiglia, la ricchezza, la comunità, il patrimonio. In questa circolarità evolutiva, la ricchezza prodotta dalla famiglia, intesa come nucleo originario della cellula che genera l’agire imprenditoriale, non si può consolidare e rafforzare nel tempo se non relazionandosi responsabilmente non solo con i valori della propria cultura di riferimento e delle identità che la compongono, ma anche con le configurazioni strutturali, i bisogni, le proiezioni ideali delle comunità di riferimento, in cui necessariamente quei valori devono circolare, trasformandosi in linfa vitale di un percorso relazionale in cui viene superata la distinzione funzionale tra chi da e chi riceve. Tale modello relazionale genera nuove modalità di scambio, che pur non escludendo la dimensione del mercato e del profitto non trovano in esso né le premesse ideali e concettuali né le finalità esclusive del loro operare. E’ da questo intreccio tra famiglia, comunità e società che prende forma il patrimonio, inteso non solo come principio di accumulazione di ricchezza ma come nucleo aggregante di un sistema di valori condivisi e come generatore di legacy, cioè di un lascito che è insieme vincolo generazionale, nell’ambito delle famiglie imprenditoriali e vincolo relazionale, rispetto alla comunità, al territorio in cui l’agire imprenditoriale prende forma, si consolida, si trasmette e si trasforma, attraverso forme di investimento e di operatività che per quanto diversificate mantengono tuttavia il riferimento ad una stessa matrice. Una delle più interessanti teorie 55 Rigenerari i propri valori a favore della Comunità. Famiglia, Comunità e Società. La ricchezza come principio di incivilimento. finanziarie del ventesimo secolo denominata da Harry Markowitz Portfolio choice, legittima questa pratica anche dal punto di vista della razionalità teorica dell’investimento, indicando che è possibile spalmare il rischio attraverso diversi tipi di investimento. L’obiettivo è la mobilizzazione di un capitale di rischio – venture capital - che contenga finalità di social benefit e che sia in grado di generare una sufficiente liquidità da ripagare l’investimento, creando nel medio e lungo periodo una prospettiva di performance elevate nel ritorno sociale dell’investimento stesso. Ciò implica che non solo le fondazioni ma anche i donors individuali quando realizzano un investimento che prevede un ritorno sociale prendano in considerazione la totalità dei loro assets e non solo i loro profitti annuali secondo un orientamento di total asset management. Tale orientamento ha delle implicazioni rilevanti anche nel consolidamento della responsabilità sociale delle imprese e nelle performance etiche dei patrimoni familiari in quanto assicura il fatto che i donatori non investano in affari che sono antitetici rispetto alla missione, alla cultura e ai valori dell’impresa e /o della famiglia. Mediante il dispiegarsi dei valori intrecciati del patrimonio – economico e sociale, materiale ed immateriale - la ricchezza si afferma come principio di incivilmento, come vettore di accumulazione di risorse oltre che di profitti. Da questo punto di vista la famiglia imprenditoriale non è solo generatrice di patrimoni destinati all’uso dei suoi membri, ma è anche attore partecipativo nella produzione di valori normativi per la società. Tale processo di aggregazione tra famiglia, patrimonio e società non genera solo appropriazione ma potenziamento. Esso crea le basi per un’operatività condivisa tra attori di un’imprenditorialità radicata non solo nell’ambito dell’impresa industriale, ma anche civica, culturale, scientifica, sociale. Da questo intreccio emerge un modello comportamentale in grado di riprodursi non soltanto attraverso l’ottimizzazione dei propri assets finanziari ma anche attraverso il loro allineamento e la cui concreta determinazione è il ritorno sociale degli investimenti, secondo una matrice di appropriazione in ambito sociale dei modelli più avanzati dell’investimento economico e finanziario, che ha come finalità 56 l’intreccio dei valori economici e sociali. L’articolazione tra investimento sociale e l’emergere del tema della responsabilità sociale della ricchezza prende l’avvio da due constatazioni: la prima è che la crescita esponenziale della ricchezza privata a livello mondiale ha significativi riscontri anche nel nostro paese dove circa 10.000 famiglie hanno una liquidità di 10 milioni di Euro; la seconda è che tale ricchezza deriva in larga misura dalla cessione di attività imprenditoriali. La gestione dei patrimoni cresce in complessità ma anche in opportunità e soddisfacimento per le nuove generazioni di detentori di grandi patrimoni, opportunità materiali ma anche risposte a bisogni immateriali, come creare beni duraturi e condivisi da tutta la comunità, partecipazione in imprese sociali innovative che generino benessere e condizioni di vita meno difficili per le persone che non possiedono o possiedono scarse risorse proprie, stimolando il loro spirito di iniziativa, capacità di intraprendere responsabilmente e di ‘sostenere” se stessi e le proprie famiglie; valorizzare investimenti che favorendo la partnership pubblicoprivato promuovano iniziative di imprenditorialità civica e una nuova professionalità ad esse correlata, con ritorni finanziari di lungo periodo e profitti calmierati. Negli Stati Uniti le grandi famiglie imprenditoriali, sia quelle di lunga tradizione come i Rockefeller, sia quelle i cui ingenti patrimoni si sono formati rapidamente negli ultimi 10-20 anni hanno sviluppato questo orientamento creando incubatori di imprenditorialità civica (Fondazione Bill e Melinda Gates, Morino Institute, Roberts Fund). L’esperienza dei paesi anglo-sassoni ha chiaramente evidenziato che la gestione dei patrimoni familiari di grandi dimensioni richiede tecniche e competenze differenti da quelle maturate in ambito aziendale. L’imprenditore dovrebbe, in ambito finanziario, adottare un approccio assimilabile a quello dell’azionista al quale è richiesto il seguente know how: 1) Competenze fondamentali: economiche, finanziarie, fiscali; 2) Corporate identity (vision, mission, valori) e comunicazione interna; 3) Valutazione del capitale intellettuale: risorse umane, risorse organizzative, innovazione espressa, relazioni con il mercato e 57 La gestione dei patrimoni familiari di grandi dimensioni richiede tecniche e competenze differenti da quelle maturate in ambito aziendale. Nasce l’esigenza di nuovi indici finanziari. con i clienti. Il compito della finanza riguarda sempre più la gestione del rischio anziché la redditività degli investimenti effettuati. Occorrono, a questo proposito, nuovi indici finanziari, tecnologie avanzate e prodotti assicurativi innovativi. Filantropia e impresa: le forme di un archetipo Nel 1821, in un breve scritto inserito in una delle sue opere più famose “Du systéme industriel”, Claude - Henri de Saint-Simon iniziava un percorso di revisione e sostanziale allontanamento dallo scientismo positivistico che stava alla base della sua visione di una società depoliticizzata, in cui uno Stato puramente amministrativo ne garantiva lo sviluppo al riparo di ogni sorta di conflitti “innescati quasi sempre dalla politica...” condannata come seminatrice di zizzania. Il titolo di questa breve nota, “Addresse aux philanthropes”, rivela il ruolo che il riferimento alla filantropia riveste nel momento del passaggio dal Saint-Simon industrialista al Saint-Simon che pone al centro delle forze che animano il progresso sociale il sentimento, i bisogni religiosi e l’agire comunicativo, come principi del reciproco relazionarsi degli uomini nello spazio istituzionale e come impulsi alla partecipazione alla vita sociale. Il centro della riflessione di SaintSimon è in un intreccio teorico-pratico che egli identifica con la filantropia, o meglio con l’agire filantropico, che è razionale e suscettibile di trattazione scientifica, perché è attività pratica illuminata dalle scienze sociali ed umane ed impegno che deriva da un patrimonio conoscitivo oltre che economico e finanziario orientato dall’agire morale. In ultima istanza, l’agire filantropico è anche agire politico in quanto influisce sui comportamenti intersoggettivi, orientando le pratiche dell’agire sociale nell’ambito della polis e designa l’emergere di un ambito d’ intersezione tra i fatti produttivi - che non esauriscono tutta la gamma dei fenomeni sociali - e le altre forme in cui si manifestano le forze generatrici dell’evoluzione delle società nella storia. I motori di questa rinascita di un agire politico orientato dalla ragione e dal sentimento, dalla volontà e dalla riflessività, dalla teoria e 58 dalla pratica, devono essere secondo Saint- Simon, degli “hommes passionnèes”, dotati di capacità nella gestione dei fatti produttivi ma animati anche da “forze infrarazionali”, da impulsi energetici rivolti alla produzione delle cellule generatrici del tessuto sociale e da un pragmatismo visionario. Il loro agire è volto a rendere concreta la generalità della visione attraverso il medium della definizione dello scopo e la capacità di assumere il confronto col rischio, senza subirlo come una fatalità esterna, ma come responsabilità derivata dal processo della conoscenza in atto. Una conoscenza che è, dunque, anche corpo a corpo con l’agire sociale. La sintesi di tali capacità si identifica col principio del generare suscitando, cioè con l’essere partecipi dei valori, delle passioni degli ideali che si intendono trasmettere e suscitare negli altri. Il termine suscitare evoca quello latino suscipere che indica l’azione dell’intraprendere, mentre il sostantivo di riferimento, susceptor, significa imprenditore. L’etimologia latina dei termini intraprendere, intrapresa, imprenditore rinvia dunque al principio del sostenere responsabilmente quell’azione ‘creativa’ che è all’origine dei ‘fatti industriali’. Il significato di suscipere è più precisamente quello di “generare riconoscendo”, cioè, assumendo la responsabilità non solo dell’atto del generare, ma anche del processo conseguente quell’atto. Un significato traslato del termine susceptio è ricevere, l’accogliere come azione responsabile. Queste osservazioni etimologiche ci conducono ad una riflessione su un altro elemento che qualifica l’agire filantropico e cioè, il dono. Il dono è, infatti, un’ azione che non può essere dissociata dal principio dell’intraprendere, in quanto non si esprime soltanto nell’ atto dell’elargire, ma è, innanzitutto, generazione creativa e responsabile. L’atto del donare, dunque, non si esaurisce nella sua replicabilità ovvero nella creazione di un’ obbligazione a reiterare tale atto, come azione meccanica di ‘restituzione’, ma contiene la capacità di produrre reciprocità. In altre parole, il principio di obbligazione tacita implicito nel dono è la capacità di generare creatività responsabile anche in chi riceve: esso è, in definitiva un atto che potenzialmente trasforma chi riceve in persona capace, a sua volta, di intraprendere, di generare creativamente. 59 Per Saint -Simon alla base dell’agire filantropico ci sono uomini mossi da “forze infrarazionali”. Generare suscitando. Il dono. I processi evolutivi della filantropia nel passaggio dal XX al XXI secolo. Le variabili storiche dell’agire filantropico: una transizione in atto. Questo rapido scorrere attraverso reminiscenze filosofiche ed etimologiche non rappresenta affatto un esercizio di stile. Col pretesto di esplorare i percorsi, gli attori, le esperienze dei modelli e delle pratiche dell’agire filantropico nell’era della new economy e le diverse e talora fortemente contrastanti reazioni che esse suscitano nel dibattito attuale sul ruolo delle fondazioni e delle organizzazioni non-profit, cercherò di fare, trasversalmente, il punto sui processi evolutivi della filantropia nel contesto della società industriale, nel passaggio dal Ventesimo al Ventunesimo secolo. Ovviamente, senza pretendere di affrontare il problema in forma sistematica, né esaustiva, bensì del tutto rapsodica e per certi versi persino reattiva, come si conviene in un laboratorio di ricerca dove, di volta in volta, si reagisce agli stimoli ricevuti nel corso dell’esperimento, affrontando ipotesi contrastanti e suscitando nuovi interrogativi. L’intreccio sainsimoniano tra filantropia, sviluppo della società industriale e ridefinizione di un agire “politico” che contiene i principi volontaristici della morale a sostegno del suo stesso operare, nell’intreccio tra sfera sociale e sfera economica, assume in questo orizzonte il ruolo di una linea guida archetipica rispetto alle modalità d’intreccio tra agire filantropico ed agire imprenditoriale che orienta l’esplorazione delle forme evolutive che caratterizzano tale intreccio nel lungo periodo. Paradossalmente, all’alba del Ventesimo secolo, il rapporto tra filantropia e impresa, nel processo di adeguamento dei modelli della prima a quelli della seconda, e cioè alle organizzazioni corporate che caratterizzano lo sviluppo del sistema industriale statunitense, si delinea secondo un processo di differenziazione, incorporando il modello del corporate, la filantropia si organizza secondo una connotazione scientifica, dotandosi di istituzioni proprie, le fondazioni (“the incorporated philanthropic foundation transformed longstanding tradition of charity”- scrive Judith Sealander) ed agendo attraverso le forme di un policy-making basato su competenze e professionalità specifiche. Il meccanismo del trust e la defininizione di forme di governance basate appunto sul ruolo dei trustees ha costituito la 60 condizione strutturale garante del fatto che il processo di differenziazione funzionale non generasse una disarticolazione dell’agire filantropico rispetto ai modelli evolutivi dell’impresa. Le grandi fondazioni americane - generate da capitali industriali - sono state, in effetti, uno dei vettori di costruzione di quella matrice istituzionale che Oliver Zunz identifica come il principio dinamico che ha generato il “secolo americano”. In tale percorso il rapporto tra fondazioni e impresa si è delineato nella forma di un ossimoro che contiene in sé l’aspirazione alla armonizzazione delle contraddizioni che lo hanno originato, da un lato la ricerca del profitto e la dipendenza del corporate dalla sfera del mercato, dall’altra le fondazioni che, incorporando i modelli organizzativi del corporate, hanno come ambito di riferimento ideale e pratico il benessere della società e il progresso dell’umanità. E, dunque, in definitiva la realizzazione di una logica combinatoria in cui al progresso tecnologico e produttivo deve corrispondere l’avanzamento sociale, scientifico ed intellettuale per il maggior numero di persone. Si comprende dunque come la filantropia scientifica nel contesto statunitense, sia stata, nel corso del secolo Ventesimo, in modo ambivalente ed in un equilibrio instabile tra le sue due anime, uno strumento di giustizia distributiva, un correttivo agli eccessi del capitalismo, e al tempo stesso, un fattore di sostegno al suo sviluppo, nel segno della separatezza, tra l’economico e il sociale, avvalorata scientificamente dalla teoria economica dominante. Generata dall’impresa, la filantropia ha cercato di distaccarsene quantomeno di differenziarsene negli scopi, si è data strutture e forme indipendenti, stabilendo forme di dialogo coi poteri economici e con quelli politici, con orientamenti complessi e talora contraddittori, proprio perché il policy making da essa attuato si è posto in una terra di confine dove necessariamente i valori si intrecciano: confine tra l’agire sociale e l’agire economico, tra il settore pubblico e quello privato, tra gli interessi domestici e le politiche internazionali, tra la ricerca dell’innovazione e la “sicurezza” degli investimenti in settori già consolidati, in contesti evolutivi in cui tale rapporto si è configurato in modo molto diverso nel tempo e nello spazio sociale ed istituzionale. In modo significativo, tale ambivalenza si è riflessa anche nel modo in Le grandi fondazioni americane, secondo Zunz, sono state il principio dinamico del “secolo americano”. La filantropia scientifica. La diffidenza verso le istituzioni filantropiche. cui le istituzioni filantropiche sono state rappresentate nel contesto sociale e nel modo in cui il loro agire è stato accolto dall’opinione pubblica: correttivo e sostegno dello sviluppo capitalistico esse sono state oggetto di plauso e di sospetto da parte di chi le ha identificate come i gatekeepers del capitale, o di chi le ha viste come i nuclei di progettazione del mutamento politico ed istituzionale, o addirittura come fattori destabilizzanti di quell’ordine. Questa visione contraddittoria ha accomunato l’opinione pubblica ed i governi, i quali, alternativamente, hanno usato le fondazioni come canali di stratificazione delle politiche della sicurezza nazionale, oppure, in specifiche congiunture della storia, come la guerra fredda, le hanno identificate come luoghi di potenziale concertazione “sovversiva”, facendone il bersaglio delle famose commissioni d’inchiesta del maccartismo. L’ambivalenza e il carattere contrastante delle reazioni rispetto all’agire filantropico è una costante evolutiva che non è smentita neppure dai saggi presentati in questo volume. Gli autori sviluppano un loro punto di vista sulle modalità dell’agire filantropico all’alba del nuovo millennio, con valutazioni tra loro contrastanti, da cui emergono differenti visioni del modo in cui impresa e filantropia proiettano il loro intreccio verso il futuro, ciascuno a partire da un punto di osservazione specifico. Agire filantropico e cambiamento sociale. Inevitabile destino, quello delle istituzioni dell’agire filantropico che si pongono alle frontiere tra il pensiero e l’azione ed in cui le ipoteche della burocratizzazione, seppure abbiano avuto un loro peso ed un loro potere di attrazione, sia nel continente nord americano sia, in tempi più recenti anche in Europa, non ne hanno intaccato completamente l’identità istituzionale. A ondate ricorrenti, l’archetipo originario descritto da Saint-Simon, in cui l’ossimoro si scioglie in una sintesi di visionario pragmatismo, genera aspirazioni e pressioni di rinnovamento, di rivitalizzazione della vocazione originaria dell’agire filantropico. Luogo di emergenza di visioni infrarazionali che non possono essere ridotte alla dimensione dell’amministrazione delle cose proprio perché hanno a che vedere con l’affermarsi della volontà degli uomini, come principio morale, come ideale regolativo in senso kantiano, le istituzioni della filantropia non sono riducibili ai modelli delle organizzazioni burocratiche in senso weberiano. Un’aspirazione, questa, che, ovviamente, contrasta con l’affermazione di quei modelli nell’organizzazione dell’impresa e non solo del’impresa nel corso del Ventesimo secolo. Essa fa emergere una complessità evolutiva, che in un certo senso costituisce il codice genetico delle fondazioni o che quantomeno, costituisce uno dei tratti distintivi delle organizzazioni non-profit rispetto alle imprese profit In un bel saggio di recente pubblicazione un economista di Harvard, Edward L. Gleaser, ha mostrato che la differenziazione tra le imprese profit e quelle non-profit sta proprio nel ruolo degli attori sociali che in esse operano e nel coesistere all’interno delle stesse istituzioni di diverse finalità, orientamenti e visioni guidate da aspetti volontaristici, oltre che di diverse forme di operatività. Tale specifica configurazione rende difficile la sedimentazione di gerarchie istituzionali cristallizzate e fa sì che queste istituzioni risultino, di fatto, più permeabili agli effetti del cambiamento sociale. Per questo la storia della filantropia è essenzialmente storia di uomini o meglio di persone che incorporano idee e valori e le mettono in movimento: è un agire istituzionale e processuale che genera in modo inscindibile investimenti e valori e che tende a proiettarsi nelle zone fluide tra comunità, che cercano di trovare canali di comunicazione con la società, ed un mercato che, in misura crescente, tende a simulare, più che a costruire, i suoi plus-valori sociali e culturali, talora. sovraccaricandoli di enfasi, per avere le mani libere nel soddisfacimento dei suoi bisogni primari. Nel corso del Ventesimo secolo, col prevalere del modelli tayloristici nel contesto dell’impresa e con l’affermarsi di modelli di ingegneria sociale, l’agire filantropico è stato necessariamente oscillante tra le sue due anime, quella amministrativa e razionalizzante e quella creativa ed infrarazionale, ha stabilito convergenze e dissidenze con gli apparati del potere economico e politico, ha contribuito a generare nuovi corsi, 63 La storia della filantropia è storia di uomini che incorporano idee e valori e le mettono in movimento. ma ha anche avvalorato acquiescenze e cercato di evitare il rischio, piuttosto che addomesticarlo ed orientarlo attraverso una responsabilizzazione riflessiva dell’operare: in questo processo la matrice del dono si è per così dire tecnicizzata nelle procedure dell’erogazione e nei meccanismi rituali del rapporto tra donatori e beneficiari. Dai filantropi corporate a quelli golden age. Il problema che, attraverso itinerari diversi e con interpretazioni talora divergenti, viene affrontato nei saggi che compongono questo volume è quello del cambiamento delle forme dell’agire filantropico, in un passaggio epocale attraversato da fenomeni di vasta portata: la transizione da un sistema industriale centrato sulla produzione di beni alla affermazione di un modello di impresa centrata sulla produzione della conoscenza; il passaggio dal prevalere nelle dinamiche istituzionali di forme di rappresentazione del rapporto pubblicoprivato tendenti alla definizione di linee di netta demarcazione, a forme di rappresentazione e di conseguente agire sociale che ne sottolineano l’articolazione; il mutamento da un modello di organizzazione aziendale basato sul corporate a un modello di organizzazione che valorizza il principio dell’intrapresa. Esso mette di nuovo al centro del suo operare la capacità di “suscitare” impresa da parte degli individui piuttosto che la funzione strutturante delle organizzazioni, valorizzando la circolazione orizzontale delle informazioni, rispetto alla gerarchizzazione verticale dei ruoli e delle funzioni. In un recente saggio, Girolamo Ramunni rileva la sostanziale continuità del modello dell’agire filantropico rispetto a quello del Ventesimo secolo. Nello stesso modo in cui nel passato esso era plasmato sui modelli della corporate oggi esso si basa sulla configurazione e sugli assetti della “new economy”: il passaggio non cambia le regole del gioco, semplicemente sostituisce all’invisibile discrezione dei donors del passato - filantropi della golden age - la componente individualistica, il protagonismo, addirittura l’aspetto spettacolare dell’agire filantropico che usa gli strumenti tecnologici di internet per produrre ed amplificare l’immagine di sé. In tale processo 64 la filantropia sembrerebbe assumere, regressivamente, le forme del mecenatismo. Tale componente ha radici storiche profonde, non solo nell’età classica ma anche nel periodo medievale e nel Rinascimento, quando, come ha mostrato Edward Gleaser, essa é stato un potente fattore di articolazione tra l’aspirazione delle grandi famiglie nobiliari a rappresentare l’immagine di sé, nelle forme architetturali di prestigiose cappelle private e la capitalizzazione di risorse che, attraverso un sistema di trasferimenti di beni privati (le cappelle appunto) per finanziare beni pubblici (le cattedrali), ha contribuito al consolidamento del potere della Chiesa come istituzione non-profit. Il saggio di Ramunni, che vive ed insegna in Francia, si inserisce in modo originale nel dibattito sul crescente ruolo delle fondazioni in Francia, in un contesto che, per ragioni complesse, ha opposto per lunghissimo tempo una sorta di rigetto nei confronti di queste istituzioni, oggi identificate, su opposti versanti, come vettori di innovazione e di svecchiamento - soprattutto a livello del sistema, a dominante pubblica, della ricerca e della formazione- e come una minaccia nei confronti dei grandi organismi che hanno retto tali sistemi nel corso del Ventesimo secolo. E’ significativo che nel contesto francese tenda a prevalere una visione che vede nell’agire filantropico, che prende a modello gli imprenditori emergenti della new economy, un sottoprodotto di Wall Street e del processo di finanziarizzazione del capitalismo industriale, paventando - certo non senza ragioni e con validi argomenti - proprio quell’intensificarsi dell’intreccio tra filantropia ed impresa che Saint-Simon prefigurava come elemento di rigenerazione sociale e politica. Ciò a partire da considerazioni di natura sociologica che evidenziano la stretta connessione tra l’emergere dei nuovi filantropi e la sostituzione a Wall Street di una nuova élite finanziaria, aggressiva e spregiudicata, priva di radici nelle grandi élites del capitalismo, sovente di bassa estrazione sociale o di recente immigrazione e la cui affermazione dipende dalla acquisizione di diplomi in prestigiose università e business schools americane. E’ questa nuova élites di finanzieri rampanti che nutre le fila dei nuovi filantropi, spregiudicati avventurieri e profeti autoreferenziali piuttosto che cavalieri di ventura, visionari ed idealisti. In questo orizzonte 65 La rappresentazione delle ricche famiglie del Rinascimento nelle forme architetturali di prestigiose cappelle e il consolidamento del potere della chiesa come istituzione non profit. Il contesto filantropico francese. La nuova élite di finanziaeri rampanti. La e-philantropy. Un recente studio americano individua una genealogia di nuova filantropia all’opposto di quella individuata dai ricercatori francesi. interpretativo, i nuovi filantropi, applicando al non-profit le tecniche finanziarie più sofisticate, svuoterebbero il loro agire dei suoi aspetti di creatività istituzionale appiattendolo, di fatto, sulle esigenze di consolidamento delle reti della new economy, attraverso il medium della tecnologia di internet (e-philanthropy). E’ innegabile che, nel complesso ed instabile universo della filantropia nell’era di internet, questa componente sia presente ma è anche vero che neppure nel passato “la vecchia filantropia” è stata immune da forme speculative e dalla ricerca di coperture, rispetto ad un agire orientato esclusivamente alla ricerca del profitto. Si ricordi che anche la creazione di una delle più prestigiose fondazioni americane, la Rockefeller Foundation, avvenne a ridosso di un evento drammatico e sanguinoso, l’uccisione da parte della polizia di decine di operai durante uno sciopero, a Ludlow, nel Colorado, presso la Colorado Fuel and Iron Company di John D. Rockefeller. Inversamente è altrettanto evidente che le istituzioni che si sono consolidate e che hanno oltrepassato le fasi più critiche della new economy negli ultimi anni, hanno acquisito una legittimità che deriva dall’agire nella direzione di un impegno evolutivo e responsabilmente orientato nell’ambito della social entrepreneurship, riferita alla crescita del territorio di riferimento (regional stewartship) e non dalla ricerca della copertura filantropica di transazioni finanziarie. Un saggio pubblicato recentemente negli Stati Uniti mette in relazione lo sviluppo dell’imprenditorialità sociale in specifici ambiti territoriali, in cui tendono a svilupparsi distretti culturali - ad alta densità di partecipazione, sia sul versante delle imprese, sia su quello delle organizzazioni non-profit e delle istituzioni pubbliche e private- con la crescita di un’imprenditorialità civica che si ispira direttamente ai valori e agli ideali dei padri fondatori della nazione. Gli autori del saggio individuano, dunque, una genealogia dei nuovi filantropi che è decisamente l’opposto di quella che è stata fatta propria da alcuni studiosi francesi e a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza. Tenendo conto di queste divergenze interpretative sulle matrici della nuova filantropia che appaiono piuttosto dirompenti e testimoniano della densità e della vivacità del dibattito in corso, è ovvio che il tema va affrontato cercando di evitare le generalizzazioni, con una casistica 66 ben costruita sotto il profilo metodologico, oltre che attraverso una disanima altrettanto attenta degli elementi che orientano le ricerche in corso su queste tematiche. Un’annotazione tutt’altro che marginale a questo proposito e che, di fatto, dimostra la scorrettezza metodologica di un approccio basato sul confronto tra vecchia e nuova filantropia, riguarda la complessa articolazione dell’agire filantropico dotato di radici lunghe nel tempo, in rapporto ai processi di adattamento ai contesti evolutivi in cui si trova ad operare. Un esempio illuminante, a questo proposito, è la recente gemmazione, dalla operatività di lunghissima data del Family Office dei Rockefeller, di un network operativo che ha la sua diramazione istituzionale, con antenne anche nella costa dell’Ovest.. nella Rockefeller Philantrhopy Advisors Inc.(RPA). Esso fornisce una vasta gamma di servizi rivolti ad aiutare i nuovi imprenditori dell’agire filantropico a livello internazionale. Un’attività supportata dalla crezione di incubatori ad alta densità progettuale nel settore della social enterpeneurship. La rete di collaborazione del RPA comprende, significativamente, gli interpreti più vivaci ed attivi nell’ambito della social enterpreneurship e della venture philanthropy da Kristin Majeska, della Common Good Ventures a Mario Morino, creatore del Venture Philanthropy Partners; da Randy Newcomb della Golden Gate Community, Inc. a Melinda Tuan del Roberts Enterprise Development Fund. Di questa rete fa parte anche Christine Letts dell’ Hauser Center for Nonprofit Organizations che è un attore interstiziale tra il mondo accademico e quello dell’expertise nel settore della venture philanthropy, di cui è stata la prima a diffondere le problematiche nel mondo accademico e della ricerca sul non profit. Da quanto si è detto è evidente che il tema della continuità/discontinuità delle forme organizzative e dello scenario di riferimento dell’agire filantropico è un tema complesso che va analizzato inserendo ogni singolo caso in un orizzonte di riferimento a carattere marcatamente evolutivo, in quanto attraversato da fattori di mutamento in cui il rapporto tra continuità e discontinuità non è segnato da linee di demarcazione rigide tra il nuovo e il vecchio, tra innovazione effettiva e simulazione retorica, ma da flussi di ibridazione, da percorsi fluidi, in cui le stesse forme di 67 Gli incubatori filantropici. I percorsi fluidi che caratterizzano le diverse forme dell’agire filantropico. La rigida settorializzazione del dare e del fare. “cristallizzazione” istituzionale, non sono riconducibili a modelli bene definiti. Quali sono, dunque, tali fattori di mutamento? E’ ad un orizzonte macro strutturale e non solo ai micro comportamenti individuali degli attori - analizzati solo attraverso le pagine web o, peggio ancora, desunti da fonti indirette come Fortune o Business Week - che occorre riferirsi per tratteggiare, senza irrigidirlo in schemi concettuali, inutili e devianti, il mutamento in atto. Nel corso del Ventesimo secolo una volta che le fondazioni hanno incorporato il modello del corporate, i mutamenti organizzativi e di definizione delle pratiche operative si sono delineati prevalentemente all’interno delle fondazioni stesse, oppure attraverso gli effetti di provvedimenti legislativi e di regolamentazione (si ricordi in particolare il famoso Tax Reform Act che, nel 1969, ha innescato un rapido processo di crescita della pubblicizzazione dell’operare delle fondazioni). Il loro operare come elementi funzionali agli assetti del sistema del corporate, nel senso sopra indicato, ha spinto le fondazioni ad orientarsi verso un modello standardizzato di divisione del lavoro sociale, nei confronti delle istituzioni pubbliche al quale è stato generalmente demandato il compito di dare consistenza ai progetti pilota avviati attraverso i finanziamenti da esse erogati e nei confronti delle altre organizzazioni non-profit. Si è prodotto, così, un effetto di isomorfismo istituzionale che ha identificato il ruolo delle fondazioni con l’attività del grant making, differenziando il ruolo delle fondazioni come erogatori e decisori da quello delle organizzazioni non-profit come beneficiari ed esecutori, secondo un principio di reciproca settorializzazione delle funzioni, da una parte il dare, dall’altra il fare. In entrambi i casi assistiamo oggi ad un mutamento di grande rilievo: ciò che genera dibattito e trasformazione all’interno delle fondazioni sono, infatti, prevalentemente fattori esterni, legati non solo alle nuove tecnologie ma anche alla crescita dei fenomeni identitari nei territori di riferimento, a livello delle comunità, delle associazioni, dell’imprenditorialità civica rivolta al sociale, che riconfigura il ruolo e le forme delle organizzazioni non-profit e al conseguente intrecciarsi dei valori economici con quelli sociali. Da funzione complementare ed 68 interna alla logica distributiva del sistema capitalistico, l’agire filantropico sta diventando una matrice diffusa in tutto lo spettro delle istituzioni economiche e sociali. Esso assume, così, il ruolo di vettore di una logica che non è più soltanto distributiva ma commutativa e che è, di per se stessa, generatrice di mutamento sociale. Da essa dipende, infatti, la ridefinizione del ruolo degli attori dell’agire filantropico, non solo e non tanto attraverso la valorizzazione degli strumenti di misurazione dell’impatto sociale dei progetti oggetto di finanziamento (secondo il modello della venture philanthropy), quanto attraverso la comprensione dei processi che generano valori nel consolidamento delle forme identitarie dei gruppi di cittadini, delle comunità, dei networks che internalizzano le responsabilità di organizzazione dei progetti a livello territoriale (regional stewartship); infine attraverso la costruzione di capacità e competenze che alimentano tali processi. Questo non tanto attraverso la creazione di comparti, ma mediante il riferimento a modelli adhocratici di creazione di aggregati operativi, focalizzati su obiettivi e dotati di responsabilità e di competenze progettuali proprie. In questo percorso il rapporto tra fondazioni e organizzazioni nonprofit risulta profondamente ridisegnato: le prime tendono a sottrarsi dall’identificazione del loro operare col grant-making, le seconde assumo l’orientamento proattivo che implica la circolarità propria dell’agire filantropico tra responsabilità, rischio e riflessività. In questa dimensione, che rafforza l’interdipendenza e la costruzione di partnership a eguaglianza collaborativa tra fondazioni e organizzazioni non-profit, nel quadro di una imprenditorialità rivolta al contesto di appartenenza, l’agire filantropico si configura in senso “politico”- nel significato di policies e non di politics. Questo non perché permette di rafforzare le connessioni tra istituzioni filantropiche e sfera della politica istituzionale (governi, partiti, istituzioni di rappresentanza e di concertazione politica ) ma perché opera in modo proattivo, nella costruzione di un mercato sempre meno auto-regolato che si apre alle dimensioni della collaborazione competitiva, tra attori economici di diversa matrice, immettendo nel circuito economico, pubblico e privato, patrimoni conoscitivi ad alta densità di 69 Una logica non più distributiva ma commutativa. allineamento valoriale. Tali patrimoni incorporano il capitale sociale ed intellettuale accumulato nei decenni precedenti attraverso i processi di networking associativo e la professionalizzazione delle competenze, a livello dei consigli di amministrazione degli executives e dello staff delle fondazioni, e quello che deriva dalle esperienze di investimento attuate dai social entrepreneurs – definiti Gregory Dees come coloro che svolgono il ruolo “of change agents in the social sector /by creating and sustaining social values and... pursuing new opportunities to serve a mission”- e dalle organizzazioni non-profit; in particolare quelle che, a livello comunitario hanno fatto proprio questo orientamento. Confronto di contesti Benché la differenza di configurazione storica e strutturale che li ha generati e la differenza di scala e di sviluppo dei modelli istituzionali che si rifanno agli orientamenti sopra illustrati, negli Stati Uniti ed in Europa, è in atto un processo di rifocalizzazione della attività e del ruolo delle fondazioni. Nel contesto americano l’emergere della venture philanthropy, come fattore trainante di questa rifocalizzazione, (adottando una terminologia che circolava già negli anni settanta, quando venne usata per la prima volta da Bill Somerville e che si è imposta come pratica operativa solo negli anni novanta) è da leggersi, tuttavia, meno come l’effetto del consolidarsi di un nuovo modello di filantropia che come un sintomo evidente e per certi versi enfatizzato - anche attraverso il suo impatto massmediatico - di un mutamento più profondo. Anche nel contesto americano questa esigenza di cambiamento non sembra affatto essersi risolta con l’ applicazione di tecniche derivate dal venture management alle istituzioni della filantropia. A ben vedere il fenomeno dell’emergere della venture philanthropy come proposta di rinnovamento dell’agire filantropico - che ha caratterizzato soprattutto la fine del Ventesimo secolo e che oggi sembra lasciare il posto ad approcci meno sofisticati ed aggressivi, ma altrettanto densi di significato e di progettualità, come l’high engagement philanthropy - è insieme un rivelatore sociale e un segnale metalinguistico. In esso si consuma il passaggio dalla metafora del corporate come modello di 70 riferimento nella definizione degli assetti istituzionali ed operativi delle fondazioni (con un’accentuazione degli aspetti amministrativi del policy making e una governance che privilegia la gestione verticale delle competenze) al principio della social enterpreneurship (come creazione di imprenditorialità diffusa, basata sul networking delle competenze attraverso il ruolo proattivo di attori sociali e la loro articolazione orizzontale nel territorio di riferimento). In Europa questo passaggio si sta appena delineando ed è ancora per molti versi un fenomeno implicito, si manifesta, cioè in modo del tutto discontinuo attraverso il riorientarsi delle pratiche dell’agire filantropico e non ha ancora né una casistica, né una concettualizzazione. Esso ha le sue radici nei processi di riposizionamento delle politiche del welfare, dal punto di vista della dinamica evolutiva delle istituzioni pubbliche e del loro riposizionarsi rispetto a quelle private, e nella crescita esponenziale che negli ultimi anni ha avuto l’approccio alla responsabilità sociale nel settore delle imprese - in particolare in Italia. Come stanno reagendo nel nostro paese le fondazioni a queste processi di mutamento in atto? Sul versante delle fondazioni di origine bancaria va detto che se virtualmente non esistono più alibi nel fare emergere il loro ruolo istituzionale in forma proattiva, considerando che - dopo la sentenza della Corte Costituzionale - sono a pieno titolo istituzioni di natura privata, è, comunque, altrettanto evidente che occorrerà un certo lasso di tempo perché la loro cultura organizzativa, le competenze professionali, i modelli di governance si allineino rispetto a questo orientamento. Occorre però aggiungere che anche le fondazioni di più recente creazione, nate per iniziativa di grandi imprese finanziarie o che si propongono come fondazioni di tipo comunitario, a livello locale (e che, dunque non hanno subito gli effetti paralizzanti della lunga vertenza tra governo e fondazioni di origini bancaria) non sembrano affatto configurarsi secondo i modelli della social entrepreneurship. Da un lato, infatti, le fondazioni comunitarie tendono a privilegiare rispetto ai modelli nord-americani e di altri paesi europei, modelli di governance di tipo verticale ed “amministrativo”, con la riproposizione di comitati permanenti, che agiscono più come 71 Le fondazioni di origine bancaria. Le fondazioni di Comunità. Le fondazioni di impresa. organismi di controllo e di rappresentanza di soggetti politici ed istituzionali che come comitati operativi proattivi. D’altro canto, nel settore delle fondazioni di matrice imprenditoriale, e finanziaria prevale ancora il modello del corporate, con un’attività di grant-making molto tradizionale, caratterizzata da finanziamenti a pioggia, anche se orientati in aree a forte densità di impatto sociale (i paesi africani, ad esempio). Quanto ai settori di progettualità interna alle fondazioni che scelgono il modello misto tra operating e grant-making e che in Italia sono la maggioranza - cercando in tal modo di dare una risposta alle pressioni del mutamento in atto – prevale, proprio perché l’orizzonte strategico di riferimento rimane quello tradizionale, la scelta di ridurre il proprio coinvolgimento agli aspetti erogativi e finanziari. Vengono così privilegiate, in molti casi, forme di buy-out di programmi già strutturati e definiti nelle loro modalità organizzative e nei loro scopi, che vengono sostenuti integralmente e che, solo attraverso questo processo di acquisizione, vengono “internalizzati”. Nel primo caso, quello delle fondazioni comunitarie, ci si chiede se il coinvolgimento delle comunità locali, nel contesto dei paesi terzi, non risulti più incisivo di interventi erogativi disseminati in vari ambiti e su vari progetti, con lo stanziamento di finanziamenti “equilibrati”, cioè ben bilanciati nei programmi di intervento delle fondazioni, secondo il classico approccio del grant-making. Tale coinvolgimento potrebbe avvenire con la creazione di “community partners in residence” che possano sostenere dall’interno - coinvolgendo le comunità di riferimento non solo come beneficiari, ma come partners attivi - il lavoro delle fondazioni a supporto dello sviluppo di capacità organizzative finalizzate allo scopo. Nel secondo caso, quello che riguarda le fondazioni d’impresa, ci si chiede quale margine di responsabilizzazione del rischio e di conseguenza quale effetto di arricchimento in cultura organizzativa, per le fondazioni stesse, possa venire da esperienze di cui si possiede l’intero pacchetto finanziario ma che non sono realmente internalizzate, attraverso strategie di creazione di equal partnership, in quanto gli attori finanziari da una lato, e gli operatori sociali dall’altro, restano sostanzialmente estranei gli uni agli altri, eccetto che nella 72 rappresentazione comunicativa ritualizzata dai siti web o dai media, riproponendo, di fatto, la divisione del lavoro tra chi da e chi fa. Infine ci si chiede quali possano essere in Italia gli attrattori per chiamare a raccolta le energie di un’ imprenditorialità sociale disseminata e radicata nel nostro territorio nazionale che ha animato nel passato esperienze di pro-attivismo civico ad alto potenziale di impatto sul territorio. Esperienze, come quelle condotte da Adriano Olivetti nel Canavese negli anni Cinquanta e che egli cercò di proiettare anche nelle regioni del Sud del paese, attraverso il progetto di una Città Studi nel Mezzogiorno, archetipo dei distretti culturali che, oggi, negli Stati Uniti agiscono da attrattori di un’ imprenditorialità sociale, che utilizza la cultura non solo come fattore di coesione sociale e civile ma anche come fattore di crescita della competitività economica. Esperienze che hanno, ora, soltanto un potere evocativo dal punto di vista della loro concreta operatività e della loro replicabilità, ma che costituiscono, nondimeno, dal punto di vista della catena intrecciata dei valori, tra l’economico e il sociale, l’anello mancante cui occorre rifarsi per attivare il processo maieutico di aggregazione di forze che la nostra società civile non ha mai cessato di generare. Roberto Scarpa Quarto intermezzo 1945. La fabbrica si salva miracolosamente dalla distruzione progettata dai nazisti e dopo la liberazione Adriano torna, organizza una grande festa in fabbrica, e ricomincia a sognare. Convoca alcuni dirigenti dei partiti di sinistra e propone la sua idea: la socializzazione dell’Olivetti. Gli rispondono che i tempi non sono maturi. Allora decide di andare a Roma dove subito gli offrono l’incarico di commissario straordinario della FIAT, i cui dirigenti sono sotto inchiesta per collaborazionismo. Rifiuta. Ottiene un’audizione alla commissione economica della Costituente. Ci va e sostiene la sua tesi ingenua: la socializzazione dei grandi complessi industriali. Roma lo respinge e lui torna a fare il Presidente dell’Olivetti. 73 In Italia quali attrattori di energie per un imprenditorialità sociale? Adriano Olivetti nel Canavese. Il progetto di Adriano Olivetti della Città Studi del Mezzogiorno, archetipo di distretti culturali statunitensi. La proposta di Adriano Olivetti di socializzare la Olivetti. Natalino Capellaro. 1950: il debutto della Lettera 22. E la fortuna che non ha a Roma a Ivrea lo bacia in fronte. Il caso vuole che una Remington Printing Calculator, sequestrata come preda bellica, finisca a un’asta. Nessuno sa cosa sia. Ma in azienda c’è un genio autodidatta, Natalino Capellaro, uno che a otto anni, si è costruito da solo una macchina fotografica. Natalino la compra, la smonta, la studia e ne tira fuori un capolavoro, la Divisumma: la macchina più veloce al mondo nelle moltiplicazioni. Il successo è travolgente. Costa 35.000 lire ed è venduta a 350.000. Si arriva al 1950: esce la Lettera 22, un successo mondiale da 200.000 pezzi all’anno. Raccontare Adriano è fantastico perché è fuori da ogni schema. Anche la crisi del ’52 l’affronta a modo suo. Ci sono due Direttori che insistono per licenziare 500 operai. Vanno da lui una prima volta e lui fa finta di non sentire. Tornano una seconda volta. E lui cambia discorso. Ma quando tornano una terza volta sempre con la stessa proposta, lui anziché gli operai licenzia i due direttori, assume 700 nuovi venditori, ribassa i prezzi e apre nuove filiali. È un ingenuo. Un giorno scopre che un dipendente falsifica i conti. Si informa, viene a sapere che ha una situazione familiare intricata, lo convoca e gli annuncia che ha deciso di aumentargli lo stipendio della somma di cui ha bisogno. In futuro non dovrà più rubare. Dice un giorno al responsabile del personale: Nella nostra fabbrica ci deve essere libertà: non soltanto perché ci crediamo, ma perché siamo un’azienda di inventori e l’invenzione ha bisogno di libertà. La Fondazione Camillo Olivetti. 1953: Olivetti è prima in Europa per produzione, fatturato, numero di dipendenti. Nel negozio di New York sulla Quinta strada si può provare una Lettera 22 rimanendo sul marciapiede. Ma macchine, design, successo, per Adriano sono solo mezzi. Il fine è la «Fondazione Camillo Olivetti». Intanto, siccome è ingenuo, cerca un’altra via. Fonda il Movimento Comunità e istituisce un Consiglio di Gestione in cui dipendenti e dirigenza collaboreranno nell’organizzazione dei servizi sociali: asilo, mensa, trasporti, biblioteca, case. Si tratta di una grossa cifra: qualche 74 centinaio di milioni all’anno. L’esperienza è severamente boicottata dal partito comunista, severamente contrario a qualsiasi coinvolgimento dei lavoratori nell’azienda. Ma soprattutto... severamente. 1957: la settimana lavorativa arriva a 45 ore e tutti i sabati sono liberi. Un lavoratore Olivetti guadagna 60.000 lire al mese contro le 40.000 medie del settore. Dalla fine della guerra la produzione è aumentata 13 volte e l’occupazione è più che raddoppiata. Però non si fa molti amici, né a sinistra, né a destra, né al centro. Varie volte si pronuncia contro la proprietà familiare della grande impresa. Accusa la classe dirigente di aver fatto gestire il piano Marshall «alle stesse forze che avevano creato o accettato il fascismo». Non si ammoderna l’Italia inseguendo la «fallace e limitata logica del massimo profitto». Naturalmente la polemica è aspra. In una circolare riservata il presidente di Confindustria, mette in guardia gli associati dalle pecore nere. Subito la Montecatini, ubbidiente pecora bianca, blocca un grosso ordinativo di macchine per scrivere. L’Olivetti è una pecora nera. E si arriva all’ultima frontiera. L’Università di Pisa contatta la Olivetti per una ricerca sul primo calcolatore italiano. Adriano accetta con entusiasmo e nel ’57 è pronto il modello zero: funziona, ma è enorme, dieci metri per sei, a valvole, con la memoria di ferrite. Si tenta allora la strada dei transistor e del silicio, e nel ’58 è pronto Elea, il primo calcolatore elettronico a transistor realizzato in Europa. L’Olivetti adesso è pronta ad affrontare la sfida dei prossimi decenni. Per tecnologia e potenza di calcolo il ritardo con l’America è colmato. Ma a Adriano non basta. Per incidere deve arrivare in Parlamento e alle elezioni politiche presenta la «Comunità della cultura, degli operai e dei contadini d’Italia». Chi fu con lui ricorda: Vedemmo quest’uomo, timido, incapace di demagogia, girare da una città all’altra, instancabile; mettere in quest’impresa... il suo prestigio, la sua salute, il suo avvenire. E tutte le proprie risorse economiche. Adriano, chiede anticipazioni e 75 I difficili e tesi rapporti con Confindustria. La nascita dell’Elea. L’acquisizione della Underwood nel 1959. La rappresentanza politica degli interessi economici. Cosa significa rappresentare? prestiti, dà in pegno le sue azioni. Le elezioni sono una mazzata. Solo lui viene eletto. Il fallimento arriva subito in fabbrica. Per gli aziendalisti l’Olivetti è una macchina per fabbricare quattrini. Adriano è indebitato, ha dato le azioni in garanzia, è in minoranza. Il consiglio di amministrazione decide: eliminare i rami negativi; fare al più presto un piano di tagli. Adriano prende sei mesi di congedo. Ma è un golpe. Cala la scure su tutte le spese sociali. È una vera e propria resa dei conti. Il voto di Adriano alla Camera però è decisivo per la fiducia al primo governo di centro-sinistra. Ma a Montecitorio si sente straniero. Passano pochi mesi e si dimette. In aprile, scaduto il congedo, riassume i poteri di presidente e il 29 settembre del 1959 entra nella sede della Underwood con una proposta d’acquisto. Il controllo della Underwood è assunto con l’acquisto del 35% delle azioni. Qualcuno sostiene che è stato un bidone. Però, l’immagine dell’Olivetti fa il giro del mondo e nel ’64, il bilancio dell’Olivetti Underwood Corporation torna in attivo. Davide Cadeddu Olivetti e la rappresentanza politica degli interessi economici Innanzitutto ringrazio Liliana Mancino e Francesca Limana per aver organizzato questo seminario e per avermi invitato, ma soprattutto ringrazio l’eroico auditorio, ormai stanco, qui ancora presente e in attesa di questo fendente fatale che, a conclusione dell’incontro, sarò io a vibrare. È davvero ambizioso voler parlare in questo luogo di un tema così complesso come la rappresentanza politica degli interessi economici. Eppure, in un seminario dedicato ad Adriano Olivetti, questo tema mi è sembrato del tutto naturale, quasi un dovere intellettuale per chi come me si occupa di categorie politiche e della loro storia. Ambizioso, dicevo, ma senz’altro utile, perché illumina un aspetto dell’ispirazione olivettiana, presente in tanti scritti e in particolare ne “L’ordine politico delle Comunità”. Proviamo quindi a partire con ordine. Cosa significa rappresentare? 76 Rappresentare – senza farla troppo complicata – significa rendere presente qualcuno o qualcosa che non è presente. Forse per questo, inconsapevolmente, la crisi della rappresentanza politica degli ultimi decenni ha indotto molti a cercare una migliore rappresentanza in termini di “presenza”, spesso una sorta di auto-rappresentazione a scapito dell’azione rappresentativa. Questo rendere presente qualcuno o qualcosa che non è presente si può realizzare, tuttavia, in due modi differenti: “standing for” oppure “acting for”. In altri termini, un conto è chiedere una rappresentanza che rappresenti per ciò che si è e un altro conto è rivendicare una rappresentanza che rappresenti per ciò che si fa. Nel primo caso, lo “standing for”, lo “stare per”, implica l’idea che da ciò, dallo “stare per”, scaturisca quasi naturalmente un “acting for”, un “agire per”, adeguato alla volontà o agli interessi che si vogliono rappresentare. È questa la strada che conduce a una visione populista di rappresentanza politica, che politica di fatto non è. La rappresentanza, infatti, si manifesta come una realtà politica quando è capace davvero di rappresentare – e non solo di descrivere o simboleggiare – volontà e interessi, e questa capacità peculiare si esprime solo attraverso l’“acting for”, l’azione “per conto di”. Cosa significa questo? Significa semplicemente che per rappresentare la volontà o gli interessi di un individuo o di una comunità non occorre essere simile – per età o genere, per professione o classe, etnia o religione, ecc. – a quell’individuo e a quella comunità; occorre bensì agire concretamente a favore di quell’individuo e di quella comunità. È l’azione, in altri termini, non l’identità, che permette di individuare l’essenza politica, poiché la politica riguarda il fine comune dell’aggregato umano considerato, un fine che scaturisce dalla relazione e dall’azione, dalla confluenza e dallo scontro di più fini differenti. Merito di Adriano Olivetti è quello di pensare alla rappresentanza politica di una società complessa come un sistema complesso, in cui è il funzionamento della struttura rappresentativa a garantire, nel limite delle cose umane, vera rappresentanza sia sociologica (lo “standing for”), sia politica (l’“acting for”). È proprio nella rappresentanza politica degli interessi economici che si 77 “standing for” oppure “acting for”. Per rappresentare la volontà o gli interessi di un individuo non occorre essere simile bensì agire concretamente a favore... ...l’ispirazione marxista dell’edificio istituzionale auspicato da Olivetti. Olivetti parte da Marx e va oltre Marx. Per Adriano Olivetti ogni problema della fabbrica si rifletteva sul territorio. La fabbrica e l’ambiente dovevano essere economicamente solidali. Nessun problema economico è strettamente tecnico, tanto inscindibile dal problema umano e sociale ad esso collegato. manifesta clamorosamente una ispirazione talvolta disconosciuta, ovvero l’ispirazione marxista dell’edificio istituzionale auspicato da Olivetti. E questo perché? Perché se ora si è liberi di parlare di marxismo senza preclusioni dogmatiche, ovvero implicandone automaticamente la condanna senza appello o l’esaltazione esasperata, è del tutto evidente che per Olivetti la “struttura” economica debba essere a fondamento della “sovrastruttura” istituzionale, affinché questa possa funzionare in termini di rappresentanza, come vedremo tra poco, di interessi economici. In altri termini, per usare uno slogan, Olivetti parte da Marx e va oltre Marx, avendo il coraggio di suggerire una possibile architettura statuale, che funga da punto di riferimento scientifico senza assurgere ad assunto tetragono e pertanto utopistico. Adriano Olivetti, come ormai sappiamo bene tutti, prese le mosse dalla fabbrica e, secondo la celeberrima frase autobiografica, notò come ogni problema della fabbrica diventasse un problema del territorio a essa circostante; notò come ogni problema della comunità dei lavoratori diventasse un problema della comunità più ampia cui essa apparteneva. In altre parole, occorreva rendere “la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali”. Questa è la ragione per cui, nell’enucleare la pluralità di piccole provincie (che lui chiama “Comunità”), a base del sistema politico-amministrativo italiano che preconizza, suggerisce di individuare quale sia la loro fonte economica più significativa. La Comunità viene pertanto concepita come il luogo di tendenziale maggior movimento diurno della popolazione (e il movimento diurno, si sa, riguarda l’attività lavorativa). Il segreto della Comunità olivettiana è quello di far coincidere la circoscrizione amministrativa con quella elettorale (uninominale), e questa con quella degli interessi economici e sociali. Poiché, come scrive Olivetti “nessun problema economico è strettamente tecnico, tanto inscindibile dal problema umano e sociale ad esso collegato”, occorre, secondo lui, da un lato suddividere la Regione “in unità più piccole della provincia, ove vengono isolate le attività economiche più importanti, dando così luogo a rappresentanze che riproducono con maggiore approssimazione la realtà economica nella sua fisionomia essenziale”, e occorre, dall’altro, il 78 coinvolgimento dell’istituzione politica “Comunità”, il coinvolgimento di questa piccola provincia nella proprietà parziale degli interessi concreti di industria o agricoltura. Così, precisa Olivetti, “la rappresentanza politica si trasforma per sé stessa in rappresentanza economica senza ricorrere a pericolose rappresentanze di gruppi economici o professionali”. Dunque, queste Comunità, numericamente delimitate in via approssimativa anche per il fatto di essere dei collegi elettorali uninominali, costituiscono il fondamento del sistema rappresentativo olivettiano, che implica la presenza di un rappresentante politico eletto a suffragio universale (in un collegio uninominale), e da sei altri, chiamiamoli così, assessori, cui sono affidate le funzioni dell’assistenza sociale, delle relazioni con i lavoratori dipendenti, della cultura, dell’urbanistica, della giustizia e, infine, dell’economia. In particolare, a proposito dell’assessore della funzione economica, Olivetti sottolinea la “inammissibilità della rappresentanza economica diretta”. Per questo motivo – egli scrive – “nell’organizzazione dello Stato delle Comunità ogni funzione politica è affidata nel settore economico a tecnici dell’economia, scelti da politici in base al loro orientamento spirituale e non su designazione di gruppi economici o professionali”. Questo responsabile degli uffici economici della Comunità sarà dunque, secondo Olivetti, “quella persona che per il suo valore umano, intellettuale e morale, e per la sua competenza specifica, può meglio di ogni altro nella Comunità intendere e comprendere l’insieme dell’economia, la sua rilevanza sociale, i suoi possibili sviluppi”. Precisa quindi Olivetti che “una tale scelta riposa esclusivamente sul giudizio politico e non può essere affidata, adottando un sistema elettivo, a gruppi economici socializzati o non socializzati”. La rappresentanza politica degli interessi economici si manifesta, pertanto, nelle intenzioni di Adriano Olivetti, attraverso una duplice modalità. In primo luogo, abbiamo visto, grazie allo “standing for” della coincidenza di comunità economica (contraddistinta, in un sistema misto, da imprese pubbliche, imprese private e imprese cooperative), e comunità politica, per cui tutti i sette rappresentanti politici della Comunità rappresentano indirettamente anche i suoi 79 La rappresentanza politica si trasforma per sé stessa in rappresentanza economica. Lo Stato delle Comunità. interessi economici. In secondo luogo, grazie all’“acting for” dell’assessore all’economia, individuato dal principio legittimante della cooptazione, a opera della decisione condivisa dal sindaco (chiamiamolo così), eletto a suffragio universale, dall’assessore al lavoro, eletto a suffragio ristretto dei lavoratori dipendenti, e dall’assessore alla cultura, nominato per concorso. Precisa Olivetti che “la nomina del presidente della divisione economia è stata affidata al comitato di presidenza anziché al corpo elettorale della Comunità per evitare che adottando un sistema elettivo per una funzione così delicata, motivi estranei alla capacità e integrità morale dell’eletto e, in particolare, l’azione di interessi organizzati, influenzino gli elettori”. Ancor meglio, possiamo dire che, sempre con le parole di Olivetti, “un tale procedimento, del tutto simile a quello denominato di cooptazione, assicura una identità di orientamento politico tra corpo designante e corpo designato”. In questo modo, per un verso lo “standing for” non esprime alcuna forma di particolarismo territoriale o funzionale, poiché coincide con l’intera comunità da rappresentare; per altro verso, l’“acting for” è autonomo da interessi specifici e quindi responsabile, perché la sua responsività, la capacità di rispondere a chi lo ha nominato o eletto, dipende dalla sua fedeltà al presidente della Comunità, il sindaco, all’assessore al lavoro e quello alla cultura, che sono i soli a poterlo premiare o punire attraverso la rinomina o la decadenza del mandato. Se, “un’evoluzione verso forme politiche che abbiano una immediata corrispondenza con la realtà economica appare indispensabile”, Adriano Olivetti è certo, forse non a torto, che “il sistema delle Comunità risolve questa non negabile esigenza con una approssimazione di identità di rappresentanza politica ed economica quasi perfetta”. E ciò, inoltre, è rilevante perché, come lo stesso Olivetti sostiene, con la sua consueta e squisita sensibilità storica (che spesso gli viene negata), “una tale coincidenza della sfera economica e politica esisteva del resto quale presupposto storico della formazione del regime parlamentare”. Possiamo aggiungere noi che ciò è rilevante perché la “multi-level governance” a livello mondiale, che si sta generando progressivamente attraverso il processo di globalizzazione, 80 ha bisogno di forme di rappresentanza politica che siano in grado di rappresentare economicamente gli interessi delle comunità locali senza abbandonare questa rappresentanza ai monopoli di interessi particolari ed extraterritoriali. Ecco, in estrema sintesi, un dettaglio teorico del quadro politico esposto ne “L’ordine politico delle Comunità”, un progetto di riforma costituzionale a tratti minuzioso e senz’altro perfettibile, che garantisce chiarezza concettuale e un preciso, ma non dogmatico, orientamento strategico dell’azione politica. Quest’ultima si deve esprimere sì, secondo Olivetti, attraverso la partecipazione diretta, ma non è mai democrazia diretta. È sempre e solo democrazia rappresentativa, alimentata peraltro da una pluralità di forme di legittimazione che dichiarano implicitamente un cardine del pensiero olivettiano: la virtù del principio elettivo è limitata. Ecco, in estrema sintesi, un dettaglio teorico del quadro politico descritto da Adriano Olivetti, a conclusione dell’opera “L’ordine politico delle Comunità”, con queste pregnanti parole. Se lo Stato ha una vita, “è essenziale per la libertà è che questa vita proceda dal basso, quasi che lo Stato sia un grande albero a protezione di un immenso giardino – il consorzio umano – le cui radici affondino e si estendano nel terreno che le alimenta. Anche la legge secondo cui il grande albero cresce è la stessa legge di natura che domina il giardino dell’uomo; così albero e giardino procedono nella vita illuminati da una sola legge superiore, affinché possa un giorno compiersi la fine, quando saranno ‘ridotti al nulla ogni principato, ogni podestà e ogni potenza’”. Grazie. Roberto Scarpa Quinto intermezzo 1960: c’è tanto lavoro per Adriano. Deve preparare la quotazione in borsa e fissare limiti precisi all’intervento in Underwood per non trascinare l’Olivetti in un eventuale fallimento. A un amico confida: a me pare sempre di avere davanti un tempo infinito. Il suo orologio si guasta. Ne compra uno nuovo e pochi giorni dopo si ferma anche quello. Con la segretaria scherza: si vede che sono proprio io che non li faccio andare. L’azione politica secono Olivetti è partecipazione diretta ma non democrazia diretta. Lo Stato come un grande albero che protegge un immenso giardino - il consorzio umano. La morte di Adriano Olivetti. Altiero Spinelli definisce Adriano Olivetti come un uomo che aveva la completezza nella mistura di saggezza e pazzia. Il Presidente della IBM riceve il Premio per il design e lo dedica ad Adriano Olivetti “che ci ha insegnato ad amare il bello nell’industria”. La Rai arriva a Ivrea per un documentario. Dice alla moglie: Mi hanno fatto fare la Lollobrigida. Chissà dove sarò quando il programma sarà trasmesso. Il 25 febbraio l’assemblea degli azionisti approva con un plebiscito l’operazione Underwood. L’Olivetti adesso è una delle aziende più multinazionali del suo tempo, all’avanguardia nelle ricerche che condurranno al computer. Il 27 prende il treno per Losanna. Sul treno incontra la segretaria delle Edizioni di Comunità che sta andando a sciare e cena assieme alla sua comitiva. È in gran forma. Racconta della fuga di Turati e del carcere a Regina Coeli. A Ivrea intanto si festeggia il carnevale. La comitiva scende a Martigny. Lui saluta dalla piattaforma del treno che prosegue. Tutto avviene in pochi minuti. Un passeggero lo vede diventare paonazzo, poi sbiancare. Adriano si alza, esce in corridoio, si trascina per due vagoni. Uno studente esce appena in tempo per adagiarlo sul sedile. Il treno si arresta alle 22.14. Alle cinque del mattino il telefono squilla a casa di un dirigente Olivetti. Il generale del carnevale proclama il lutto cittadino. Ai funerali si presentano in quarantamila, il doppio degli abitanti di Ivrea. La moglie ricorda che Adriano le aveva detto: al mio funerale voglio i pifferi del carnevale. Altiero Spinelli scrive: è morto Adriano Olivetti, un uomo che aveva la completezza, nella mistura di saggezza e pazzia, dei grandi del Rinascimento. L’esecutore testamentario scopre che il suo patrimonio è costituito da alcune migliaia di azioni della Società. Esce la sua ultima intervista che annuncia nuove assunzioni. Thomas Watson, presidente dell’IBM, riceve a New York il Premio Kaufmann per il design, e dichiara: ritiro questo premio per conto di altri, per uno che ci ha insegnato ad amare il bello nell’industria: per conto di Adriano Olivetti. Quell’anno il premio per i lavoratori, legato a una percentuale degli utili, è del 58%. Sarà l’ultima volta. Inizia l’Olivetticidio. Giuseppe Pero assume tutti i poteri. Ma all’impegno in Underwood non pone i limiti che voleva Adriano. L’indebitamento cresce e tre anni dopo scoppia la crisi. La famiglia è divisa. Per risanare la situazione accetta l’offerta - amichevole – di un 82 «gruppo d’intervento» formato da FIAT, Pirelli, IMI, Mediobanca, Centrale. Le azioni crollano rovinando – amichevolmente – i dipendenti che vi avevano investito i risparmi. La conseguenza più grave però è un’altra: l’abbandono della «grande elettronica». Valletta, presidente della Fiat e grande amico degli americani, la definisce pubblicamente: «un neo da estirpare». E così il gioiello più prezioso viene venduto – amichevolmente – alla General Electric, che è ben contenta di comprarsi il neo. È un errore drammatico e avviene nell’indifferenza di tutti. Solo il figlio Roberto è contrario. 1965: nonostante la cessione della Divisione Elettronica un gruppo di irriducibili guidato da Pier Giorgio Perotto non si arrende e progetta la Programma 101. L’Olivetti la presenta alla Fiera Mondiale di New York. È il primo computer da tavolo del mondo. Passa qualche anno ancora e un altro italiano, che si chiama Federico Faggin, che lavorava a Borgolombardo in Olivetti, e vista l’aria amichevole è emigrato, brevetta in America il microprocessore al silicio. Lo stesso Faggin nel 1994 sarà l’ideatore del touch-screen. La strada per il computer che usiamo oggi era anche italiana. Era parecchio italiana. Stupidità, superficialità, interessi, hanno scritto una storia diversa. 1978: Carlo De Benedetti prende il controllo dell’Olivetti. 12 marzo 2003: il marchio Olivetti è cancellato dalla Borsa italiana. Del resto ormai si trattava solo di una omonimia. Ecco, la storia è tutta qui. Prima di leggere quel libro non la conoscevo e, ad essere sincero, ancora oggi mica l’ho capita. Del resto ce ne sono tante di cose che non capisco. Per esempio, il Novecento. L’avete capito voi? Doveva essere migliore degli altri. L’aveva promesso, ma ormai non farà più in tempo a dimostrarlo. 83 La cessione della Divisione Elettronica. La solitudine di Roberto Olivetti, contrario alla cessione. 1965: il debutto della P101. Trasformazioni e declino di un’azienda che nel 2003 viene cancellata dal listino della Borsa italiana. Il Novecento: le speranze più grandi e la fine di tutti gli ideali. Poi siamo arrivati noi e ci siamo dimenticati tutto... Ma i sogni di Adriano, l’uomo che sembrava un mendicante e al tempo stesso un re, il don Chisciotte che comprò la Underwood... quelli no! Per ricordarlo, mi immagino di vederlo nel mezzo del cortile della fabbrica di mattoni rossi, e di sentirgli dire, come allora: Voi avete il diritto di chiedere e di sapere: qual’è il fine? Dove porta tutto ciò? Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi fini semplicemente nell’indice dei profitti? O non vi è al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, anche nella vita di una fabbrica? Dicono che dei sogni di Camillo e Adriano non resti niente. Ma noi non siamo d’accordo. Sì. È vero. Tutto svanisce. Gli uomini… Le idee... E adesso anch’io. Però ci rimangono i saluti, gli auguri. E noi ne abbiamo uno speciale: Sogni d’oro! Come quelli di Camillo e Adriano. Perché le notti passano, tutte, e anche questa passerà. Anzi, forse sta già passando. Dicono che i sogni svaniscano all’alba. Ma invece è proprio di giorno che abbiamo bisogno dei sogni. Quando sennò? Quindi a tutti voi, di cuore, per farla passare un po’ prima questa notte: Buongiorno! Buongiorno e sogni d’oro! 84 La versione finale .pdf di questo libro è stata realizzata nel mese di ottobre 2015 Rispetta il tuo ambiente, pensa prima di stampare questo libro Il Polo Bibliotecario e l’Ufficio Formazione del Ministero dello Sviluppo Economico, in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti, hanno promosso nel novembre del 2014, il seminario “Adriano Olivetti. L’impresa, la comunità, il territorio”, i cui atti sono raccolti in questo volume. Attraverso i contributi di Davide Cadeddu, Adriana Castagnoli, Valerio Ochetto e Giuliana Gemelli, studiosi dell’esperienza olivettiana in ambito politico, economico, sociale e culturale, si traccia il profilo di una straordinaria esperienza, ancora oggi molto attuale. A fare da contrappunto agli interventi dei relatori, cinque brani tratti dallo spettacolo di Roberto Scarpa “Sogni d’oro. La favola vera di Adriano Olivetti”. Davide Cadeddu Professore associato di Storia delle categorie politiche presso la Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Milano. Nel 2013 ha curato la riedizione de “L’ordine politico delle Comunità” di Adriano Olivetti. Adriana Castagnoli Storica e saggista, docente di Storia economica e sociale all’Università di Torino e nel Corso di Dottorato in Scienze della Formazione, collaboratrice de “Il Sole 24 Ore”, è autrice di numerosi studi e ricerche sulla storia dell’industria e dell’economia italiana ed europea, tra cui “Essere impresa nel mondo. L’espanzione internazionale dell’Olivetti dalle origini agli anni Sessanta”. Giuliana Gemelli Docente di storia contemporanea e di storia della filantropia all’Università di Bologna, Direttore del Centro di ricerca PHaSi Philantropy and Social Innovation e della rivista “Giving thematic Issues in Philantropy and Social Innovation”, membro del Centro Studi della Fondazione Adriano Olivetti. Valerio Ochetto Si è laureato in storia contemporanea con una tesi di laurea sul fascismo. È stato inviato speciale della RAI di politica internazionale e ha realizzato serie storiche televisive soprattutto sulla resistenza ai regimi fascisti in Europa e sul dissenso ai regimi comunisti. Ha scritto alcuni libri di storia tra cui un’inchiesta sull’assassinio dell’oppositore a Salazar, generale Humberto Delgado. La sua opera principale è la biografia di Adriano Olivetti, che considera un work in progress. Roberto Scarpa Attore, scrittore, drammaturgo, organizzatore teatrale, ha fondato e diretto per venticinque anni “Prima del teatro: scuola europea per l’arte dell’attore”, in cui collaborano alcune fra le principali scuole di teatro europee, russe e americane, e “Fare Teatro”, un programma di educazione teatrale per i giovani. Nel 1991 la Guidhall School of Music and Drama di Londra gli ha conferito la Honorary Fellowship. 978 88 96770 25 2 www.fondazioneadrianolivetti.it