ADRIANO OLIVETTI
l’impresa, la comunità, il territorio
contributi di
Adriana Castagnoli
Davide Cadeddu
Giuliana Gemelli
Valerio Ochetto
intermezzi di
Roberto Scarpa
Fondazione Adriano Olivetti
Adriano Olivetti. L’impresa, la comunità e il territorio.
Atti del seminario
Collana Intangibili, Fondazione Adriano Olivetti, n. 27, 2015
ISBN 978 88 96770 25 2
La Collana Intangibili è un progetto della:
Fondazione Adriano Olivetti
Direzione editoriale
Francesca Limana
Fondazione Adriano Olivetti
Sede di Roma
Via Giuseppe Zanardelli, 34 - 00186 Roma
tel. 06 6877054 fax 06 6896193
Sede di Ivrea
Strada Bidasio, 2 - 10015 Ivrea (TO)
tel./fax 0125 627547
www.fondazioneadrianolivetti.it
Tutto il materiale edito in questa pubblicazione, ad esclusione delle appendici
documentali per le quali si prega, laddove disponibili, di fare riferimento alle fonti
citate nel testo, è disponibile sotto la licenza Creative Commons AttribuzioneNon
commerciale-Non opere derivate 4.0 Internazionale. Significa che può
essere riprodotto a patto di citare la fonte, di non usarlo per fini commerciali e di
condividerlo con la stessa licenza.
Collana Intangibili
27
ADRIANO OLIVETTI
L’impresa, la comunità e il territorio
Atti del seminario realizzato in collaborazione tra
Fondazione Adriano Olivetti e Polo bibliotecario
del Ministero dello sviluppo economico
Roma, Parlamentino del Ministero dello sviluppo economico
21 novembre 2014
Indice
Saluti e introduzione
Francesca Limana
pag. 11
Responsabile comunicazione e progetti editoriali della Fondazione Adriano Olivetti
Liliana Mancino
pag. 12
Coordinatrice del Polo Bibliotecario del Ministero dello Sviluppo Economico
Contributi
Valerio Ochetto
Attualità di Adriano Olivetti: cenni biografici con interrogativi
pag. 18
Adriana Castagnoli
Da Camillo ad Adriano: un’impresa all’avanguardia dell’internazionalizzazione
pag. 30
Giuliana Gemelli
Adriano Olivetti e la RSI: un problema mal posto
pag. 46
Davide Cadeddu
Olivetti e la rappresentanza politica degli interessi economici
pag. 76
Intermezzi
Roberto Scarpa
Attore e autore del libro "Il coraggio di un sogno italiano"
pagg. 16, 27, 43, 73, 81
Francesca Limana
Buongiorno, molte grazie per aver invitato la Fondazione Adriano
Olivetti a collaborare alla realizzazione di questa giornata. Molte grazie
a Gilda Gallerati e a Liliana Mancino del Polo Bibliotecario del
Ministero dello Sviluppo Economico, con cui siamo stati felici di
costruire insieme questa giornata intensa a cui non ruberò altro spazio
se non per ringraziare del loro contributo anche i relatori coinvolti,
esperti conoscitori della storia olivettiana, che in tempi e modi diversi,
hanno collaborato con la nostra Fondazione o studiato l'archivio di
Adriano Olivetti e della sua famiglia, che la Fondazione ha in deposito
presso l'Associazione Archivio Storico Olivetti di Ivrea.
Credo sia doveroso ringraziare innanzitutto Valerio Ochetto, la cui
biografia di Adriano Olivetti, oggi ripubblicata dalle Edizioni di
Comunità, costituisce, pur a distanza di trent'anni dalla prima edizione,
il timone, il primo riferimento, la lettura necessaria per avvicinarsi alla
storia di Adriano Olivetti.
Ringraziamo Davide Cadeddu, che ha curato due volumi nella storica
serie dei Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, scaricabili
gratuitamente dal nostro sito, il primo su Il valore della politica in Adriano
Olivetti e il secondo invece su La riforma politica e sociale di Adriano Olivetti
(1942-1945). Entrambi i volumi ci introducono all’idea di democrazia
elaborata da Adriano Olivetti, poi maturata nel suo scritto più
11
Valerio Ochetto, autore della
biografia ufficiale di Adriano
Olivetti.
Davide Cadeddu, profondo
conoscitore dell’esperienza e
della visione politica di
Adriano Olivetti
Giuliana Gemelli, storica,
già autrice di saggi
sull’impresa olivettiana e
studi sulla filantropia
moderna.
Adriana Castagnoli e la
ricerca condotta
prevalentemente su carte
conservate nell’archivio di
Ivrea, sull’espansione
internazionale della Olivetti.
Roberto Scarpa autore della
biografia di Adriano
Olivetti per adolescenti.
importante L’Ordine Politico delle Comunità, recentemente ripubblicato
dalle Edizioni di Comunità e curato proprio da Davide Cadeddu.
Un ringraziamento particolare va anche a Giuliana Gemelli, che siede
nel Centro Studi della Fondazione dal 1997, per cui bisognerebbe
elencare così tante iniziative, ricerche e pubblicazioni realizzate
insieme che mi limiterò a citare l'ultima: si tratta dell’avvincente
ricostruzione pubblicata nel libro Normalizzare l'innovazione riguardante
le vicende dell'elettronica e dell'informatica, da Adriano a Roberto
Olivetti, libro edito nella Collana Intangibili della Fondazione,
disponibile gratuitamente on line dal nostro sito, come quelli di
Cadeddu citati in precedenza.
Con Adriana Castagnoli, non abbiamo ancora avuto il piacere di
collaborare come con gli altri relatori, ma la sua recente ricerca,
prevalentemente condotta sui documenti conservati presso l'Archivio
Storico di Ivrea, sull’espansione internazionale della Olivetti dalle
origini agli anni Sessanta, pubblicata dalla casa editrice Il Mulino,
aggiunge un importante tassello alla comprensione della straordinaria
esperienza industriale della Olivetti di Camillo, Adriano e Roberto.
Permettetemi un ultimo ringraziamento a Roberto Scarpa che da
alcuni anni porta nei teatri la storia di Adriano Olivetti in un racconto
che si è recentemente trasformato in un bel libro edito da Scienza
Express, dedicato agli adolescenti, una fascia di età inconsueta rispetto
a quella dei nostri usuali interlocutori. Scarpa intervallerà le relazioni,
leggendo alcuni brani tratti dallo spettacolo teatrale “Sogni d’oro. La
favola vera di Adriano Olivetti”.
Ci auguriamo che, anche grazie al lavoro della Fondazione, Adriano
Olivetti continui ad essere riconosciuto come un patrimonio per il
nostro paese ma soprattutto come un esempio, un modello concreto,
fonte di ispirazione per le nuove generazioni.
Liliana Mancino
La fallace e limitata logica del massimo profitto.
Avvicinare Adriano Olivetti e l’impegno da lui profuso, agendo
nell’impresa e nella società, per l’elevazione e il riscatto dell’uomo
12
suscita sempre grande stupore ed ammirazione. Uomo di indubbio
spessore intellettuale, l’ingegnere Adriano ha portato avanti una
esperienza eccezionale nel panorama italiano, fondata sul felice
connubio di industria, tecnologia e cultura, prefigurando scenari inediti
per l’epoca. La concezione della funzione sociale dell’impresa, del
rapporto tra fabbrica e comunità, gli innovativi modelli organizzativi e
di welfare, le competenze tecniche e progettuali, la ricercatezza dei
valori estetici nel design, hanno fatto dell’Olivetti un modello
imprenditoriale unico, tale di imporsi come esempio di azienda
all’avanguardia non solo sullo sfondo del miracolo economico italiano
e dei processi di industrializzazione della prima metà del Novecento,
ma su un arco temporale che giunge fino a noi per l’ attualità delle sue
idee, spesso in anticipo sull’epoca. Per fare un esempio, l’Olivetti,
impresa radicata localmente ma capace di proiettarsi sui mercati
internazionali, fu prototipo modernissimo di glocalizzazione, in grado
di coniugare eccellenza tecnologica e capacità competitiva nella
prospettiva di uno sviluppo, oggi si direbbe “sostenibile”, attento al
territorio e agli equilibri sociali, sorretto dalla robusta impalcatura
teorica di una visione politica e sociale a tutto tondo.
Dalla strategia di impresa al pensiero sociale e politico, dal design alla
grafica, dall’urbanistica all’architettura, dall’arte alla letteratura, Adriano
Olivetti ha dissodato visioni e logiche conservatrici con strategie
innovative e proiettate verso il futuro, vivificate da valori culturali e
religiosi, individuando nella cultura e nell’educazione gli strumenti
fondamentali per la realizzazione di quell’humana civilitas che gli stava a
cuore, richiamata nel cartiglio del simbolo olivettiano della campana.
La cultura e la sua diffusione sono per Adriano le vere e moderne leve
dell’emancipazione civile e sociale e le innovative e multiformi
proposte messe in campo fioriscono proprio nell’integrazione di
cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica, con la tecnologia a
servizio della più ampia espansione della sfera culturale: la biblioteca
diffusa, non confinata nello spazio ristretto della fabbrica ma dilatata
sul territorio, in un continuum di formazione integrale, senza cesure tra
attività produttiva e tempo libero; la riduzione degli orari di lavoro e
l’introduzione del sabato libero per favorire la fruizione di spazi
13
Stupore e ammirazione.
Industria, tecnologia e
cultura: connubio vincente
olivettiano.
Olivetti prototipo di
glocalizzazione.
Gli intellettuali in fabbrica.
Integrazione tra cultura
umanistica e scientifica.
Le Edizioni di Comunità.
culturali; le tante occasioni di confronto e di riflessione messe a punto
dal Centro Culturale e dai Servizi Culturali, parti integranti della struttura
organizzativa dell’azienda, dai quali passa il fior fiore degli intellettuali
dell’epoca, da Geno Pampaloni a Luciano Codignola, da Giovanni
Giudici a Ludovico Zorzi, gli scrittori Ottiero Ottieri, Paolo Volponi,
Libero Bigiaretti, alcuni dei quali impiegati anche nella direzione
dell’azienda; i giovani talenti (letterati, industrial designer, grafici,
pubblicitari, sociologi, filosofi, pittori, architetti, urbanisti) selezionati con
raro intuito intorno ai progetti; l’organizzazione di mostre di grandi
artisti, Guttuso, Rosai, Casorati, De Pisis per citarne alcuni, i dibattiti, i
concerti con importanti compositori come Luigi Nono; i giovedì della
biblioteca dove parlano Gaetano Salvemini, Cesare Musatti, Pierpaolo
Pasolini, Umberto Eco, Alberto Moravia; ai lunedì del cinema Vittorio
De Sica presenta Ladri di biciclette ed è possibile incontrare personaggi
illustri come Gassman, Buazzelli, De Filippo, Fo, Bene.
Integrazione tra cultura umanistica e scientifica: nel Centro di
formazione meccanici, istituito nel 1935, vengono insegnate non solo
materie tecniche ma anche storia del movimento operaio e fondamenti di
economia così che i giovani stabiliscano un rapporto con la fabbrica e la
cultura industriale riducendo il trauma della transizione dalla tradizione
contadina alla fabbrica e l’alienazione della catena di montaggio.
“Perché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno” anche
gli edifici per i servizi sociali, asili nido, case per i lavoratori, colonie
per i figli, centri culturali, biblioteche vengono progettati arruolando
architetti ed urbanisti per opere di alto valore architettonico.
Fondamentale poi il contributo di Adriano Olivetti nell’editoria. La
grande letteratura scientifica internazionale, sociologica e psicologica,
urbanistica e del design, entrano per la prima volta in Italia con le
Edizioni di Comunità e la rivista “Comunità”, che aprono strade
inedite. Olivetti ha contribuito come pochi alla promozione culturale e
accreditamento professionale di discipline come urbanistica e disegno
industriale, e, in particolare, la sociologia; testi come quelli di Simone
Weil sulla vita operaia o di Raymon Aron sul rapporto tra Occidente e
Unione Sovietica, classici come Weber, Durkeim, Schumpeter sul
declino del capitalismo, Georges Friedmann, Kelsen sulla teoria
14
generale del diritto e dello stato, narratori esteri contemporanei e
qualche italiano come Vittorini e Quarantotti Gambini, Lewis
Mumford sulla cultura della città, grandi dizionari disciplinari di taglio
innovatore come quello di economia politica diretto da Claudio
Napoleoni e quello di Filosofia curato da Andrea Biraghi, hanno
veicolato correnti intellettuali che hanno segnato la cultura italiana.
“Alla fallace e limitata logica del massimo profitto” che già si affaccia
nel primo sviluppo industriale, Adriano contrappone un modo nuovo
di guardare la relazione tra mondo produttivo, società e cultura, basato
su modelli di convivenza civile improntati ad ideali di giustizia sociale,
emancipazione e crescita culturale del maggior numero di persone,
comprendendo gli strati sociali più deboli e le aree meno sviluppate del
paese. Per questa ispirazione solidale e per questa attività di
promozione culturale Adriano si trovò solo, in un contesto ostile che
lo considerava un imprenditore se non pericoloso certo bizzarro, da
emarginare, sospettato di veicolare una cultura, imprenditoriale e non,
i cui valori erano ascrivibili ad un modello di capitalismo sociale e
comunitario, fortemente avversato nel clima della guerra fredda del
secondo dopoguerra, paventato come potenziale canale di infiltrazione
dell’ideologia marxista. A questo impegno costante e titanico
soprattutto per l’isolamento in cui si trovò ad operare, vorremmo oggi
rendere omaggio, sottraendo Adriano alla staticità del ricordo, alla
ripetuta celebrazione della memoria, attualizzando invece la sua
modernità, la sua idea di futuro lontana dalla desertificazione del
profitto senza misura, spesso da lui profetizzata, interrogandoci sulla
validità attuale di questa esperienza in rapporto alla crisi che il nostro
paese sta attraversando, alle nostre forme di convivenza, al nostro
modo di essere persone.
Ringrazio tutti i colleghi che hanno collaborato all’organizzazione di
questo evento, la Direttrice Mirella Ferlazzo, la responsabile del
Servizio Gilda Gallerati, l’ufficio formazione con Amalia Romano,
Patrizia Ruscio per la comunicazione e soprattutto Gabriella Aiello del
Museo delle Comunicazioni per le belle immagini che ci ha regalato, in
particolare dei prodotti Olivetti presenti nel nostro Museo, tra i quali
segnalo senz’altro la sezione dell’Elea 9003. E ringrazio vivamente i
15
L’isolamento sofferto di
Adriano Olivetti per una
forte diffidenza verso la sua
profonda vocazione
solidale.
L’idea di futuro di Adriano
Olivetti.
relatori che hanno accolto il nostro invito e la Fondazione Adriano
Olivetti, soprattutto Francesca Limana, con la quale abbiamo lavorato
per questo evento.
Concludo con le parole di Adriano tratte dal volume Città dell’Uomo:
“sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non
saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il
tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume
dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e
amorosa sollecitudine”.
Le parole di Wislawa
Szymborska sul lavoro.
Roberto Scarpa
Primo Intermezzo
Nel suo discorso di accettazione del premio Nobel intitolato Il poeta e
il mondo, Wislawa Szymborska parlò di lavoro, in particolare lo fece
concentrandosi su due stati d’animo: lo stupore, e l’ispirazione.
ChiediamoLe aiuto.
“l’ispirazione” disse la Szymborska “non è un privilegio esclusivo dei
poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo
di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che
coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e
fantasia. Ci sono medici così, pedagoghi così, giardinieri così, per non
parlare di un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può
costituire un’incessante avventura... Malgrado le difficoltà e le
sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema
risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi.
L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante «non so».
Di persone così non ce ne sono molte. La maggioranza degli abitanti
di questa terra lavora per procurarsi da vivere, lavora perché deve.
Non scelgono il lavoro per passione, sono le circostanze della vita a
farlo per loro. Un lavoro non amato, un lavoro che annoia,
apprezzato solo perché comunque non a tutti accessibile, è una delle
più grandi sventure umane. A questo punto possono sorgere dei
dubbi in chi mi ascolta... anche carnefici, dittatori, fanatici,
demagoghi in lotta per il potere con l’aiuto di qualche slogan, purché
gridato forte, amano il proprio lavoro e lo svolgono altresì con
16
zelante inventiva. D’accordo, loro «sanno». Sanno, e ciò che sanno
basta una volta per tutte. Non provano curiosità per nient’altro,
perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti... Per
questo apprezzo tanto due piccole paroline: «non so». Piccole, ma
alate. Parole che estendono la nostra vita in territori situati dentro noi
stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuscola Terra.
Se Isaac Newton non si fosse detto «non so», le mele nel giardino
sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel
migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con
gusto... Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla
sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati
dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali (di uomini, animali, e
forse piante, perché chi ci da la certezza che le piante siano esenti
dalla sofferenza?), qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi
trapassati dalle radiazioni delle stelle, stelle intorno a cui si sono già
cominciati a scoprire pianeti (già morti? ancora morti?), qualunque
cosa pensiamo di questo smisurato teatro, per cui abbiamo sì il
biglietto d’ingresso, ma con una validità ridicolmente breve, limitata
da due date categoriche, qualunque cosa ancora noi pensassimo di
questo mondo – esso è stupefacente.
Ma nella definizione «stupefacente» si cela una sorta di tranello
logico. Dopotutto ci stupisce ciò che si discosta da una qualche
norma nota e generalmente accettata, da una qualche ovvietà alla
quale siamo abituati. Ebbene, un simile mondo ovvio non esiste
affatto... nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso,
non c’è più nulla di ordinario e normale. Nessuna pietra e nessuna
nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue. E
soprattutto nessuna esistenza di nessuno in questo mondo. A quanto
pare, i poeti – e, aggiungo io (Scarpa, NdR), tutte le persone che
lavorano con passione – avranno sempre molto da fare”.
Non ho trovato parole migliori di queste da dedicare alla nostra
giornata nel corso della quale ci sforzeremo di raccontarvi l’energia
imprenditoriale e sociale anticonformistica – cioè i tanti «non so» - di
Camillo e Adriano Olivetti e la loro stupefacente, poetica,
«ispirazione». Le dedico perciò alle gioiose fatiche di questi due
indimenticabili italiani e dei tanti altri uomini e donne che con loro
condivisero l’avventura umana della fabbrica e del lavoro.
17
I tanti “non so” di Camillo
e Adriano Olivetti.
Adriano Olivetti nasce nel
1901.
Nel 1908 Camillo fonda la
prima fabbrica di macchine
per scrivere.
Gli Stati Uniti.
Valerio Ochetto
Attualità di Adriano Olivetti. Cenni biografici con interrogativi
Adriano Olivetti nasce ad Ivrea l’11 aprile 1901, muore in treno, di
trombosi cerebrale, il 27 febbraio 1960. Una vita non lunghissima,
secondo i parametri attuali, 59 anni, ma molto intensa, anche se
condotta a ritmi ordinati, prevalentemente a Ivrea, la piccola capitale
del Canavese. Il padre Camillo, quando lui nasce, ha appena aperto una
fabbrichetta di tipo artigianale, che nel 1908 diventerà la “prima
fabbrica nazionale macchine per scrivere”. Nel primo dopoguerra,
l’Adriano ventenne vorrebbe dedicarsi al giornalismo e alla lotta
politica, poi all’antifascismo, accanto ai quasi coetanei Piero Gobetti e
Carlo Rosselli, ma il consolidarsi della dittatura lo “costringe” a
ripiegare nella fabbrica, dove d’altronde intende indirizzarlo il padre
Camillo. Dopo un viaggio negli Stati Uniti, torna con l’intenzione di
rivoluzionare management e metodi di produzione, all’insegna della
“organizzazione scientifica del lavoro”. L’America, e la sua cultura
industriale e sociale, rimarranno costantemente un suo punto di
riferimento, accettato con adattamenti originali. Adriano però il suo
rinnovamento dovrà realizzarlo a tappe in un rapporto dialettico con
il padre, ancora attaccato all’idea riformista della fabbrichetta semiartigianale da espandere gradualmente. Mentre Adriano ha maturato la
convinzione che “a questo punto della civiltà il progresso cresce in
linea geometrica positiva anziché aritmetica”.
L’Adriano trentenne e quarantenne elabora tutti gli indirizzi che poi
svilupperà compiutamente nel secondo dopoguerra. È il primo a
introdurre un design che delinea lo “stile Olivetti”: rigoroso,
funzionale, ma anche immaginativo. Il razionalismo in architettura,
con il pan de verre della fabbrica a partire dal 1934. La trasformazione
delle provvidenze verso i lavoratori in vero e proprio diritto. Adriano
è approdato al concetto di “industria complessa di massa” con degli
obblighi verso il territorio e la società. Da qui l’organizzazione dei
piani regolatori di Ivrea e dell’intera Valle d’Aosta, per cui cercherà
l’appoggio degli intellettuali fascisti di sinistra che ruotano attorno a
Giuseppe Bottai. Emerge una costante che si ripeterà più volte nella
sua vita: un confronto con gli organi politici di governo, che loderanno
18
a parole le sue iniziative, ma le boicotteranno e rifiuteranno nei fatti. Il
padre ora lo lascia fare non senza mugugni: lo ha insediato direttore
generale della fabbrica nel 1934, e gli “impone” un solo
comandamento categorico: “Mai licenziare” perché la disoccupazione
è una tragedia per le famiglie.
La seconda guerra mondiale è iniziata, quando nel 1941-42 Adriano
fonda una casa editrice che ha fini ambiziosissimi: contribuire alla
rinascita intellettuale dell’Italia, dopo la caduta del fascismo che già
immagina. E alla quale concorre cospirando. Finché è costretto all’esilio
in Svizzera. Qui, nel 1944-45 scrive il suo trattato politico fondamentale,
L’Ordine politico delle Comunità. Per lui non è una utopia, come viene
accolta dai più, ma un vero e proprio disegno di nuove istituzioni sulle
quali fondare la democrazia in una Italia che risorge alla libertà. La
traduzione pratica, in forma originale, del personalismo cristiano dei
pensatori francesi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, assieme alle
intuizioni del pensiero-testimonianza di Simone Weil.
Rientrando dall’esilio, Adriano va a Roma per ritentare la carta
dell’azione politica, all’interno del PSIUP, partito socialista di unità
proletaria, ma ne rimane ai margini, al pari della Costituente. Così, nel
1947, fonda un suo movimento, il Movimento Comunità, preceduto
l’anno prima dalla rivista dello stesso nome. Ormai ha ripreso in mano
la conduzione della società Olivetti e le due attività andranno in
parallelo. Manager e riformatore sociale, a cominciare dalla stessa
fabbrica. Sono progettate e messe sul mercato, nel 1948, la
Divisumma, la calcolatrice più veloce del mondo, la “gallina dalle uova
d’oro” (da uno a quasi dieci volte tra costo e vendita), nello stesso anno
la macchina da scrivere Lexicon sarà esposta, per il suo design, al Museum
of Modern Art di New York, la Lettera 22 diventerà un gioiellino tra le
portatili. Ma Adriano guarda avanti, e affida al figlio Roberto e a un
geniale inventore, l’italo-cinese Mario Tchou, la nascente Divisione
elettronica, che nel 1958 vincerà la gara con l’americana IBM, arrivando
all’Elea 9003, un elaboratore gigante a transistor.
Parallelamente, il tentativo di trasformare le relazioni tra proprietà e
lavoratore, con la creazione nel 1948 del Consiglio di gestione
incaricato di amministrare autonomamente le numerose attività sociali,
19
Adriano Olivetti direttore
generale nel 1934.
L’Ordine politico delle
Comunità.
Il Movimento Comunità.
Roberto Olivetti.
Da Ivrea a Matera,
passando per Terracina.
dalle case agli asili-nido alla biblioteca alle altre iniziative culturali. Poi,
una quattordicesima mensilità con la partecipazione agli utili aziendali.
Il sociologo Luciano Gallino ha calcolato che il lavoratore Olivetti ha
un livello di vita superiore dell’80% rispetto ai lavoratori di altre
aziende comparabili. L’intento di Adriano è di “Creare un impresa (e
una società) al di là del socialismo e del capitalismo” (intendendo per
socialismo il cosiddetto “socialismo reale”). Vuole trasformare la
fabbrica in una Fondazione inizialmente a proprietà quadripartita tra
vecchi proprietari, lavoratori, comunità locale, istituzioni culturali. Ma
non ci riuscirà per l’opposizione degli altri rami familiari, nonostante
proponga l’idea più volte e segua una via gradualista.
Sul territorio, il tentativo di creare le “Comunità concrete”,
contraddistinte da una programmazione partecipata. A cominciare dal
Canavese, ma con isole in altre parti di Italia, soprattutto nel
Mezzogiorno – qui vedo tra il pubblico Giorgio Panizzi che è stato
giovanissimo protagonista di una di queste iniziative – ad esempio a
Terracina, ad esempio soprattutto con il “Villaggio La Martella” per i
“trogloditi” dei Sassi di Matera. I centri comunitari, più che sede di minipartito, sono luoghi dove si fa cultura, tecnica ed umanistica. Il
Movimento Comunità, quando va alle elezioni, sul piano locale conquista
il Canavese (Adriano diventa sindaco di Ivrea nel 1956), ma fallisce sul
piano nazionale: nel 1958 un solo eletto, il deputato Adriano Olivetti.
Nel 1950 Adriano diventa presidente dell’INU (Istituto Nazionale di
Urbanistica) e terrà l’incarico sino alla morte. Vorrebbe trasformarlo in
un promotore di pianificazione locale, per lui l’urbanistica è la
disciplina per eccellenza che coordina intorno a sé tutte le altre,
economia compresa. Le sue assemblee annuali offrono dibattiti
vivacissimi e progetti esemplari. Ma poco verrà realizzato, per
l’insipienza o, peggio, per il boicottaggio delle autorità di governo. Nel
1959 il premier Fanfani affida all’Onorevole Olivetti la vice presidenza
dell’UNRRA-Casas. Un carrozzone, ereditato dall’immediato
dopoguerra e dalla ricostruzione con fondi statunitensi, che Adriano
tenta di rendere lo strumento per trasformare il Mezzogiorno, con una
università sperimentale e centinaia di scuole e poli di sviluppo sul
territorio. Ma nulla sarà messo in cantiere. L’Olivetti invece va al sud
20
da solo aprendo una nuova industria nella baia di Pozzuoli. Lì Adriano
riassume la propria visione, il suo rovello: “Può l’industria darsi dei
fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è
al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una vocazione
anche nella vita di una fabbrica?”. Rovello al quale cercherà di dare una
risposta sia sul piano teorico sia nelle realizzazioni.
Ad Ivrea salgono da tutta Italia, e talora anche dall’estero, giovani
desiderosi di impegnarsi in prima persona in questa impresa. Tanto che
la capitale del Canavese verrà ribattezzata “La piccola Parigi sulle rive
della Dora Baltea”. Tiziano Terzani, appena laureato, per sfuggire al
posto in banca indicato dalla famiglia, si trasferisce anche lui alla
Olivetti che ha sentito citare come “Tempio di modernità” (e di
libertà). Adriano ha fame di intelligenze, ama interrogare lui stesso chi
chiede un colloquio, non ha preclusioni di formazione, non alza
barriere, così un laureato in materie umanistiche può diventare capo
del personale o sovraintendere ad un ramo amministrativo. La fabbrica
di Ivrea – e di altri luoghi – è un organismo vivente senza gerarchie
troppo rigide o prefissate.
Adriano ha portato l’azienda, nel secondo dopoguerra, a diventare la
prima multinazionale italiana. Nel 1958 il 60% della produzione è avviato
all’estero. Ai cinque stabilimenti italiani si affiancano cinque all’estero. Il
colpo più sensazionale è l’acquisizione, alla fine del 1959, della
Underwood statunitense, la stessa fabbrica che nella sua visita in America
nel 1925 gli aveva chiuso le porte in faccia, temendo fosse una spia di
brevetti. Adriano è al vertice del successo manageriale, al di là degli
insuccessi politici. Ma proprio il sabato 27 febbraio 1960 muore in treno,
di notte, dopo una giornata di celebrazioni e festeggiamenti a Milano.
Cerchiamo di approfondire i dati biografici procedendo con una serie
di interrogativi. Dunque, Adriano è stato all’origine di management e di
industrial design nel nostro paese, all’origine dei primi progetti di piani
urbanistici e regolatori, all’origine della riscoperta della sociologia,
mentre con la casa editrice Edizioni di Comunità ha introdotto nel
dibattito culturale temi e indirizzi quasi dimenticati. Come ha potuto
un uomo solo fare tanto? Perché, in realtà, non era solo: ho già detto
della sua fame di intelligenze e della sua capacità di mettere assieme a
21
La fabbrica Olivetti a
Pozzuoli.
Ivrea, piccola Atene del XX
secolo.
L’acquisizione della
Underwood.
Adriano Olivetti e gli
Olivettiani.
La cultura internazionale.
La vocazione spirituale.
lavorare, in équipe, persone di diversa formazione culturale e
orientamento. Lui che, personalmente, non aveva una professione ben
definita, non essendo né ingegnere meccanico, né architetto, né
urbanista, né sociologo. Io ho definito la sua funzione come quella di
un abile e geniale regista che sa comporre assieme e dirigere varie
intelligenze e professionalità. Lasciava ai suoi collaboratori grande
autonomia ma, come ogni regista, si riservava la prima e l’ultima
parola. I rapporti, in genere, erano di reciproca stima ma diventava
inesorabile, lui generalmente così gentile e corretto, se pensava che
qualcuno lo avesse tradito. Perché era un tradire non solo la reciproca
fiducia ma anche una missione comune. Dico inesorabile, sia che il suo
sospetto fosse giustificato oppure no: ci sono alcuni episodi, non molti
però significativi, che ce lo confermano.
Altra caratteristica che oggi non sarebbe ripetibile, per un singolo: si era
fatto una cultura, non all’università dove si era laureato in materie
scientifiche per obbligo ma dopo, vietata ai più nel periodo del
provincialismo fascista. Dai viaggi fuori Italia ritornava con mucchi di
documentazione, un libraio svizzero gli forniva le opere più originali che
uscivano in Europa e Stati Uniti. Saggi politici, sociali, economici, che
per lo più non venivano editi da noi, forse non tanto per censura, ma
proprio per il bozzolo di provincialismo autarchico che ci avvolgeva
allora (“Val più un rutto del tuo pievano – che l’America e la sua boria”.
Mino Maccari, “Il selvaggio”). E poi, nel secondo dopoguerra,
continuerà una situazione diversa ma non del tutto, con le cattedre
dominate dall’idealismo crociano, e il milieu intellettuale dal marxismo o
paramarxismo. Mentre Adriano puntava sulla cultura che alla fine
risulterà vincente, la sociologia critica. Questi gli elementi, oggi
irripetibili, che caratterizzano la superiorità culturale dalla quale partiva e
che gli permetteva di invadere tanti ambiti, ignoti – allora – ai più.
Quale era il suo approccio? Si è parlato di razionalità, ed è un elemento
che tiene, a prima vista. Pur di non considerarlo unico. In realtà,
approfondendo, si scopre che Adriano era mosso da un fuoco
interiore, da un rovello – lui che appariva così freddo e calmo, salvo
momenti rivelatori, ricordati da chi l’ha frequentato, di tipo religioso.
Dal padre di origine ebraica aveva tratto qualcosa del profetismo
22
escatologico della Bibbia, dalla madre valdese il senso del dovere e
della predestinazione, dal cattolicesimo, al quale aderirà pur senza
diventare praticante, dopo i quarant’anni e sino alla fine della vita, il
senso della durata, dell’organizzazione, della provvidenza che sostiene,
anche arcanamente, l’ottimismo. In altri tempi sarebbe stato forse il
fondatore di una corrente religiosa – come lui stesso ammette in una
lettera alla donna che ama – nel nostro tempo vuole invece risolvere il
grande problema del rapporto tra fabbrica e lavoro, tra la macchina
con la sua incidenza sociale e l’uomo.
Continuiamo con gli interrogativi. Come utopista nella sua opera
L’Ordine politico delle Comunità, unico utopista italiano del secolo
passato, non è prigioniero di una categoria novecentesca, forse
addirittura ottocentesca? La domanda è più che corretta, va vagliata
con attenzione. Adriano non vorrà mai definire la sua opera, concepita
e scritta dal 1943 al 1945, come una utopia, la ritiene invece una
architettura di istituzioni valide per la nuova Italia. Nel periodo di
cospirazione antifascista, la mostrerà a Berna al capo dell’intelligence
statunitense Allen Dulles e, a Roma, alla principessa Maria José, dopo
la Liberazione la riproporrà a illustri costituzionalisti e costituenti.
Senza ottenere un vero appoggio, salvo pareri positivi, ad esempio da
Luigi Einaudi, per il federalismo spinto che la anima.
C’è chi fa un amalgama tra utopia e ideologia, le usa come sinonimi: le
utopie o ideologie omicide del ‘900, comunismo, nazismo, fascismi. Io
propendo invece per la distinzione, anzi mi sembra giusta la
contrapposizione tra utopia e ideologia. Entrambe pretendono di
rimodellare la società e la vita dell’uomo in forma globale. Ma mentre
l’utopia – come sembra indicare lo stesso termine – si propone
liberamente, senza costrizione, l’ideologia del XX secolo si serve di un
braccio armato, il partito politico al servizio di un capo carismatico,
per imporre a tutti il suo credo, creare regimi per il supposto bene
generale sotto il segno del principio di classe o di nazione e della
costruzione di un presunto uomo nuovo. Da un lato un fermento
creativo ordinato secondo alcuni valori, dall’altro il totalitarismo, male
supremo del secolo appena trascorso.
L’opera di Adriano intende garantire i diritti democratici con un
23
Adriano Olivetti definisce
L’Ordine politico delle
Comunità- come
un’architettura di istituzioni
valida per una nuova Italia.
La cellula base
dell’architettura olivettiana è
la Comunità.
complesso sistema di equilibri. È qui inutile seguire l’intricata foresta
di istituzioni da lui immaginata, basta riferirsi alla cellula base che
appare sin dal titolo: la Comunità. Alla quale aggiunge il termine
concreta, con una dimensione ottimale di centomila abitanti. Da essa,
per tappe federali, si sale agli stati regionali, allo stato nazionale, allo
stato europeo, infine a quello mondiale. La Comunità è il luogo
naturale per sviluppare la persona, che non è un individuo isolato (“La
società non esiste. Esistono gli individui” - Margaret Thatcher, 31
ottobre 1987) né un collettivo in cui l’individuo si scioglie (come nei
totalitarismi). Nella Comunità, un ruolo propulsivo fondamentale, nel
pensiero di Adriano, lo gioca la fabbrica, non solo investendo
all’esterno i suoi profitti sul territorio, ma diventando essa stessa al suo
interno compiutamente democratica. Alla fine di un processo di
transizione, la fabbrica si baserà su una proprietà tripartita,
compartecipata tra i lavoratori, la Comunità, la cultura, cioè
l’università. Il vecchio proprietario morirà come capitalista per
rinascere come manager. L’idea di Adriano si distingue da altre forme
realizzate di partecipazione, sia dalla Mitbestimmung, la cogestione
ancora presente in Germania, sia dall’esperienza tramontata
dell’autogestione della Jugoslavia di Tito. Dunque, per risolvere
l’interrogativo, a mio giudizio si può dire che, se la concezione
dell’“Ordine” olivettiano appare datata, non così delle indicazioni
molto suggestive, che conservano tutta la loro attualità legate al
disegno della Comunità e a quello della condivisione, della
partecipazione all’interno delle aziende produttive. Problemi irrisolti,
ma che sempre riaffiorano, nel nostro tempo.
Le sue idee Adriano, da vivo, ha cercato di realizzarle nella piccola
patria, il Canavese. Che aveva cominciato a trasformarsi in centri
comunitari, diretti emanazioni del Movimento Comunità, e in una rete
di piccole aziende industriali e agricole, diffuse su tutto il territorio,
frutto di iniziative locali ma fortemente sostenute dai tecnici della
società Olivetti. Allora perché questa esperienza è crollata con la morte
di Adriano? Perché è stata una piccola isola eretica circondata da un
ambiente avverso e perché sono venuti a mancare gli investimenti
necessari provenienti dai profitti macinati in quegli anni dalla Olivetti.
24
Ma dopo una eclissi durata una ventina d’anni seguiti alla sua morte,
l’esperienza e le idee di Adriano Olivetti sono riaffiorate e ne è stato
riscoperto sia il loro lascito che l’attualità: la reintroduzione in Italia
della sociologia, l’avvio dei piani regolatori e della pianificazione
decentrata, lo sviluppo del design industriale, un approccio originale
all’annosa questione meridionale, e tanto altro. L’introduzione della
democrazia in fabbrica e il diritto dei lavoratori a un diffuso welfare
sociale. L’attualità riguarda soprattutto la richiesta di comunità e di
partecipazione, mai affermate tanto quanto oggi, e che lui aveva
tentato di rendere reali e operanti.
I nostri politici oggi lo citano sovente, come esempio da seguire anche
se, a mio giudizio, abbastanza genericamente e talvolta a sproposito.
Matteo Renzi, citando una supposta “regola di Adriano Olivetti: Il
manager non può guadagnare più di 10 volte il salario di chi, in quella
azienda, prende meno di tutti”, discorso del 22 ottobre 2012 (oggi
potremmo dire che il divario si è dilatato anche da 1 a... 163!). È una
convinzione comune che, negli anni ‘40 e ‘50, le divaricazioni tra gli
stipendi dell’operaio di base e un dirigente di alto rango o manager
fossero assai minori di oggi. In realtà l’egualitarismo su bassi livelli non
è mai stato un progetto né dichiarato né perseguito da Adriano, anche
se lui tenne sempre un tenore di vita assai contenuto, e quasi aveva una
ripulsa personale per il denaro, per la finanza (comprò una casa di
proprietà solo negli ultimi dieci anni di vita). Adriano aveva fame di
intelligenze, e non badava a spese per assicurarsele. Da 8 a 10 milioni
l’anno nel 1953, una cifra che per quei tempi aveva del favoloso. Ogni
dirigente che raggiungeva i risultati sperati a fine anno riceveva un
fuoribusta. Ma anche gli operai, gli impiegati, guadagnavano, come
abbiamo visto, quasi il doppio dei colleghi di altre aziende analoghe.
Dunque, non egualitarismo, ma innalzamento generalizzato dei livelli.
Che, per Adriano, corrispondeva a quella “eccitazione salariale” che il
keynesismo riteneva funzionale alla crescita economica.
Beppe Grillo (piazza S. Giovanni a Roma, per le elezioni politiche, 22
febbraio 2013): all’Olivetti, su 60.000 dipendenti, c’erano 18.000
ingegneri. Ammettiamo pure le iperboli alle quali ci ha abituato il
polemista, ma i dipendenti italiani ed esteri della società, nel 1958, erano
25
L’attualità del disegno
politico, istituzionale,
economico e culturale di
Adriano Olivetti.
Gli investimenti nel
personale qualificato e
qualificante.
Adriano Olivetti e l’edemocrazia del Movimento
5 Stelle.
Agorà elettronica e agorà
comunitaria.
24.000, quanto alla sola Ivrea, contava allora in tutto 21.000 abitanti... Se
la sostanza del discorso significa invece l’acculturazione dei lavoratori
Olivetti, sotto Adriano, allora possiamo anche dirci d’accordo.
Dalle battute di Beppe Grillo, passiamo all’interrogativo sulla edemocrazia. Come si sarebbe comportato Adriano di fronte ai tentativi
di democrazia elettronica, che il Movimento 5 Stelle, per iniziativa di
Gian Roberto Casaleggio, ha tratto dalle aule di dibattito tra
intellettuali per portarla alla luce dell’attualità politica? Gli storici
professionisti ritengono inammissibili questi salti temporali, perché
Adriano può essere giudicato solo su quanto ha effettivamente pensato
o fatto in un quadro storico ben definito e ben diverso dalla nostra
contemporaneità. Ma per l’assonanza che io ho stabilito con lui, mi
azzardo a suggerire una risposta metastorica.
Abbiamo visto come l’Olivetti sia arrivata per prima a realizzare nel 1958
l’Elea 9003, un grande calcolatore, poi commercializzato. Adriano,
avrebbe messo questa tecnica, nei suoi sviluppi, a servizio di nuove forme
di democrazia diretta? Credo proprio di sì. La partecipazione è uno dei
cardini del suo sistema “integrato e funzionale di democrazia”, che non
si limita al solo suffragio universale, pur importante. Altro interrogativo:
avrebbe fatto della e-democrazia il cardine principale, quasi esclusivo
della vita pubblica, come vogliono gli utopisti del genere, dai francesi
Roger Garaudy e André Gorz allo statunitense Lawrence Grossman e
agli stessi pentastellati? Credo proprio di no. Innanzitutto Adriano, così
attento alle istituzioni, avrebbe inteso regolamentare bene il suo uso. Poi,
avrebbe mantenuto una certa distinzione tra l’agorà elettronica e l’agorà
comunitaria. La presenza diretta tra persone è differente da una presenza
traslata. La partecipazione ad una assemblea comunitaria, e come
giungere al voto con un dibattito più o meno appassionato, è ben diverso
dal decidere in solitudine ambientale, davanti un computer. In sintesi,
penso, presumo, che Adriano sarebbe stato favorevole a forme di
democrazia elettronica, ma non isolate da altre forme di espressione del
consenso, comprese quelle di democrazia delegata.
Un’ ultima osservazione. Di fronte a certi scompensi introdotti –
accanto agli elementi positivi – dalla globalizzazione, ritornano a farsi
forti le esigenze di coesione sociale, di identità non provinciali ma
26
fondate sulle storie particolari e specifiche, come contributo alla storia
globale. Mai come oggi la parola comunità viene evocata tanto spesso
e con senso positivo. Accanto alla parola partecipazione, mentre
invece più di una delle grandi imprese sembrano diventare dominio
assoluto di un monarca non costituzionale. In questo contesto, anche
le idee di Adriano Olivetti sulla figura del manager, sulla comunità, il suo
progetto di democrazia pluriforme e integrata, tornano ad affacciarsi
quale contributo al dibattito in corso al di là del contesto originario nel
quale tale indirizzi furono concepiti.
Roberto Scarpa
Secondo Intermezzo
Adriano nasce l’undici aprile del 1901 a Ivrea. Il padre, Camillo, è di
famiglia ebrea. La madre, Luisa, valdese. Camillo è un tipo curioso e
intelligente, e fa un viaggio importante, va all’esposizione universale di
Chicago del 1893. Il 1893? Cerchiamo di ricordarcelo. È l’anno in cui
in Inghilterra viene fondato il Partito laburista; un signore che si
chiama Bernardi collauda un veicolo con motore a benzina e lo chiama
motocicletta; un americano inventa la chiusura lampo. Camillo è
affascinato dall’America, la percorre in lungo e in largo, ci resta molto
più del previsto. Ma non è un turista. Il motivo per cui si trattiene è un
altro. Non torno, scrive in una lettera, perché sto cercando di capire.
Siccome da capire c’è molto il viaggio dura un anno. Tornato a Ivrea
tira su una fabbrica di mattoni rossi e si mette a fabbricare strumenti
di misurazione elettrica. Ma l’uomo non è tutto qui. Camillo infatti è
un socialista, uno dei primi di questa strana razza a Ivrea. Siccome
però per il socialismo è troppo presto... o forse troppo tardi, Camillo
si dedica alle altre sue grandi passioni.
Nel 1907 torna da un altro viaggio in America con una nuova idea:
fabbricare la prima macchina per scrivere italiana. La Remington le
produce dal 1873 e la Underwood nel 1898 ne ha realizzata una,
rivoluzionaria, che permette addirittura di vedere cosa si sta scrivendo.
Se lo fanno gli americani può riuscirci anche lui.
Così, il 29 ottobre 1908, nasce la Ing. C. Olivetti e C.
27
Camillo Olivetti.
Era il 1893...
1908: la nascita della
Olivetti a Ivrea.
1914: la prima volta di
Adriano in fabbrica.
Che anni son quelli. Tra il 1900 e il 1912: Marconi stabilisce il primo
contatto radio transatlantico tra Inghilterra e Canada; vengono
inventati il cellofan, le fotografie a colori, la bachelite; il parlamento
britannico istituisce le pensioni di vecchiaia; i fratelli Wright
collaudano il primo aereo.
È il secolo della fretta e del lavoro, tutti hanno fretta e qualcosa da fare.
Henry Ford inventa la produzione di serie; nasce Hollywood; in Gran
Bretagna viene istituita l’assicurazione obbligatoria contro le malattie e
gli infortuni sul lavoro; Amundsen raggiunge il Polo Sud; l’Italia
dichiara guerra alla Turchia, conquista la Libia, occupa Rodi, estende il
diritto di voto ai cittadini maschi alfabeti oltre i 21 anni, gli elettori, che
erano tre milioni, diventano otto milioni e mezzo.
Si arriva al 1914. Camillo organizza ad Adriano uno “stage”
particolare, lo manda tredicenne a lavorare in fabbrica. Ecco come lo
raccontò lui stesso:
Nel lontano agosto 1914 mio padre
mi mandò a lavorare in fabbrica.
Imparai così ben presto
a conoscere e odiare il lavoro in serie:
una tortura per lo spirito che stava imprigionato
per delle ore che non finivano mai,
nel nero e nel buio di una vecchia officina.
Quanti pensieri provoca quest’esperienza: è davvero una condanna e
soltanto sofferenza il lavoro? Sarà capace di essere uomo in mezzo a
quegli uomini forti e cupi che lavorano tutto il giorno? L’orario
settimanale allora è di sessanta ore. Adriano confessò anni dopo:
Passavo davanti al muro di mattoni rossi
della fabbrica,
vergognandomi della mia libertà di studente...
Ancora non sa quale sarà la sua strada. Finora non ha fatto niente di
testa sua. La prima decisione autonoma la prende nel 1918, partendo
volontario per la guerra. Camillo ne è orgoglioso: anche lui è un
interventista.
È difficile oggi capire quegli uomini. Il mondo pare sul punto di
esplodere. Per ogni dove risuonano voci che predicano morte. In
pochi mesi tutti sono in guerra con tutti. Sembrano iniziati gli ultimi
giorni dell’umanità. Vallo a capire il novecento.
Quante cose succedono! L’Italia dichiara guerra all’Austria e alla
Germania; i tedeschi bombardano Londra coi dirigibili; Einstein
pubblica i fondamenti della relatività generale; a New Orleans viene
costituita la Original Dixieland Jazz Band; i bolscevichi costituiscono
il primo governo rivoluzionario; il Congresso degli Stati Uniti
proibisce la vendita di bevande alcoliche; in Gran Bretagna votano per
la prima volta tutti gli uomini sopra i 21 anni; a New York vengono
installati i primi semafori a tre colori. Poi, finalmente, dopo qualche
milione di morti, nel 1919 a Parigi si inaugura la Conferenza di Pace –
che preparerà benissimo la seconda guerra mondiale – e a Mosca si
apre la III internazionale. In Europa la rivoluzione pare imminente.
In America invece, un giudice condanna Henry Ford: voleva
reinvestire gli utili della sua fabbrica per migliorare la produzione e
aumentare i salari agli operai! La sentenza dà ragione ai suoi soci, i
fratelli Dodge, e stabilisce una volta per tutte che lo scopo di
un’azienda non è dare lavoro agli operai o fare prodotti migliori, ma
arricchire proprietari e azionisti.
Finita la guerra Adriano cerca di capire cosa vuol fare da grande: si
iscrive a chimica e si dedica al giornalismo. Le cose da scrivere certo
non mancano. Stati Uniti e Inghilterra concedono finalmente il voto
alle donne; a Livorno nasce il partito comunista; i fascisti marciano su
Roma e il re affida a Mussolini l’incarico di formare il governo; viene
assassinato Giacomo Matteotti; si inaugura la Milano–Laghi, prima
autostrada del mondo; il fascismo sostituisce il sindaco con il podestà,
scioglie tutti i partiti di opposizione, reintroduce la pena di morte;
nasce il cinema sonoro; Fleming scopre la penicillina; Walt Disney crea
Mickey Mouse; crolla la Borsa di New York, falliscono centinaia di
banche e imprese, i disoccupati sono milioni.
L’ascesa del fascismo nel frattempo frantuma i sogni di Adriano e nel
1924 entra nel capannone di mattoni rossi come operaio, alla paga di
29
Erano i tempi di Einstein...
... Henry Ford,
...Walt Disney.
“... vai in America,
l’esperienza ti farà bene”.
Progettare il futuro.
1 lira e 80 centesimi l’ora. Non è cambiata la fabbrica, tetra,
maleodorante. Quell’anno produce 4.000 macchine. Siccome ci
lavorano in 400 il calcolo è presto fatto: 10 macchine per operaio
l’anno. Finito l’apprendistato, Adriano fa la sua prima diagnosi:
l’Olivetti è a «un grado di sviluppo critico», troppo grande per
disinteressarsi della concorrenza, troppo piccola per vincerla.
Insomma, bisogna cambiare. Camillo ascolta e prende tempo. Intanto - gli dice - vai in America, l’esperienza ti farà bene.
Adriana Castagnoli
Da Camillo ad Adriano: un’impresa all’avanguardia dell’internazionalizzazione.
In questi giorni siamo rimasti tutti impressionati dalle immagini di
progressivo sgretolamento del nostro territorio, nonché da quelle di
degrado sociale e civile delle periferie di alcune nostre città. Questi
fenomeni hanno origini molteplici, ma se l’Italia detiene il non
invidiabile primato europeo delle catastrofi “naturali” avvenute
nell’ultimo mezzo secolo, ciò non è da imputarsi soltanto alla cattiva
sorte. Che cosa non è andato come doveva? Progettare il futuro è
l’attitudine e la funzione precipua, delle classi dirigenti. Progettare il
futuro è ciò che Camillo e, innanzitutto, Adriano sapevano fare. Nel
cogliere con acume e prontezza le potenzialità di sviluppo racchiuse
nelle tecnologie allora d’avanguardia, elettricità ed elettronica, Camillo
e Adriano anticiparono i loro tempi. In particolare Adriano che fu per
molti aspetti, un imprenditore schumpeteriano precorrendo di decenni
su molte e diverse problematiche del mondo dell’impresa, della società
e della cultura. Innovazione e internazionalizzazione, chiavi di volta
per lo sviluppo economico, sociale e culturale di un paese, furono
elementi essenziali del modello olivettiano contrassegnandone la
traiettoria espansiva e la cultura d’impresa sin dalle origini. Questa
capacità di visione e di progettazione è mancata per molto tempo nel
nostro Paese tanto da parte della classe politica che in generale di
quella dirigente. Che vi sia un’anomalia tutta italiana rispetto alle
difficoltà dello scenario mondiale post-2008, lo registrano le statistiche
nazionali. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istat, “L’evoluzione
30
dell’economia italiana. Aspetti macroeconomici”, con una debole
crescita del PIL mondiale nel 2013 (+ 3% ma +1,3% nelle economie
avanzate), l’Italia è scivolata in piena recessione (– 1,9%). Dall’inizio
della crisi la produzione industriale è crollata del 25%, la
disoccupazione è salita al 13% e quella giovanile ha superato il 40%.
Persino i dati che sono considerati i più soddisfacenti per l’Italia, quelli
sull’export, rivelano che il nostro Paese è tornato indietro. L’export
“made in Italy” è stato il 2,79% di quello mondiale nel 2013, ma nel
1992 era quasi doppio (4,25% circa). Il raffronto è preoccupante anche
in una prospettiva secolare. Il database elaborato da Angus Maddison
mostra che durante la Belle Epoque, nel 1900, l’export italiano era il
2,6% di quello globale (2,7% il solo manifatturiero); nella difficile fase
di ricostruzione postbellica, nel 1948, si collocava all’1,9% (3,3% il
manifatturiero) ma aumentò rapidamente negli anni di grande
trasformazione economica e sociale del “miracolo economico”: nel
1960 era il 2,9% (3,9% il solo manifatturiero) e, pertanto, in una
posizione migliore di quella attuale. Il nostro incerto presente sta già
pagando un pesante tributo alla mancanza di lungimiranza di chi è
stato classe dirigente nel passato. Nell’ultimo mezzo secolo
l’andamento della spesa in R&S per settori produttivi rivela che gli anni
’60 e ’70 si caratterizzarono per investimenti in settori alla frontiera
tecnologica (elettronica, chimica, nucleare). Invece dagli anni ’80 c’è
stata un’intensificazione dei flussi d’investimento nelle industrie a
tecnologia intermedia (come le macchine utensili che insieme alla
robotica sono fra i pochi comparti che hanno un rapporto
R&S/fatturato in linea con i competitors stranieri). Nel 2012 il nostro
Paese presentava vantaggi comparati soltanto nella manifattura dei
settori cosiddetti tradizionali (calzature,abbigliamento, mobili,
alimentari). Invece aveva perso i vantaggi comparati di un tempo nel
comparto delle macchine per ufficio: secondo i dati Ice e Istat,
computer, apparecchi elettronici e ottici “made in Italy” erano appena
lo 0,79% dell’export mondiale in questo settore di attività. D’altra parte,
le statistiche sulla spesa in Ricerca & Sviluppo, elaborate
dall’Associazione Italiana per la Ricerca Industriale, indicano un
declino degli investimenti pubblici (2013 0,53% Pil). Quanto agli
31
Le statistiche dell’ISTAT
sulla crescita e l’evoluzione
dell’economia italiana.
investitori privati, essi impegnano in R&S meno della metà delle
risorse investite dai francesi, 1/3 di quelle tedesche, il 55% della media
UE a 28. Anche per questa via s’intacca il futuro del Paese. Un altro
indicatore internazionale d’innovazione è costituito dai brevetti
concessi dall’Ufficio Brevetti degli Stati Uniti: anche in questo caso, nel
2013 l’Italia è in coda ai grandi paesi europei con l’1% sul totale
mondiale, mentre la Francia è al 2,2%, la Germania al 5,5%, il
Giappone al 17,9% e gli USA al 48,7%. Oggi le nostre industrie
dipendono dalla tecnologia estera importando conoscenze
tecnologiche-scientifiche codificate a fronte di un costante
indebolimento della ricerca interna.
Il primo viaggio di Camillo
in America.
Il fil rouge dell’innovazione: alla frontiera tecnologica
La Prima Fabbrica Italiana Macchine per scrivere Ing. C. Olivetti & Co.
fu fondata da Camillo nel 1908, ma il suo debutto come imprenditore
era avvenuto con la Prima Fabbrica di Strumenti di Misura Elettrici Ing.
C. Olivetti, poi modificata in CGS acronimo di Centimetro-GrammoSecondo, le principali unità di misura fissate in sede internazionale nel
1881. Tratto comune di queste due aziende era la gamma produttiva
innovativa e nuova per l’Italia, implementazione della visione
imprenditoriale maturata da Camillo in America. Gli Stati Uniti furono
il paradigma per la sua attività d’imprenditore sin dal primo viaggio
compiuto nel 1893 per partecipare all’importante congresso mondiale
di elettricità che si era svolto a Chicago. In quell’occasione egli
accompagnò il grande scienziato Galileo Ferraris, di cui era stato allievo
al Politecnico di Torino. Altrettanto importante e formativa fu la
permanenza a Palo Alto, in California, dove lavorò come assistente di
Electrical Engineering alla Stanford University fino all’aprile 1894. In
seguito tornò negli Stati Uniti in due diverse occasioni, nel 1895 e a fine
novembre 1908 - fine febbraio 1909, col proposito di studiare i
macchinari americani e per affari. Egli intendeva, infatti, acquistare le
macchine per la sua nuova impresa, oltre che visitare quante più
fabbriche e officine possibili per osservarne e apprenderne
l’organizzazione tecnica e produttiva. A New York andò soprattutto
per conto della CGS, di cui era presidente e maggiore azionista, ma
32
anche per vendere alcune sue invenzioni. Camillo ottenne, infatti, il
riconoscimento di alcuni brevetti dall’United States Patent and
Trademark Office. Anche per Adriano, entrato in azienda nel 1924, gli
Stati Uniti costituirono un modello organizzativo e d’innovazione. Egli
compì il suo viaggio di formazione negli USA fra il 1925 e il gennaio
1926. Visitò diversi stabilimenti per la produzione di macchine per
scrivere, ma soprattutto General Electric e Ford. Quest’ultima, in
particolare, gli apparve un «miracolo di organizzazione» e l’affascinò
per la straordinaria velocità dei ritmi di produzione. Adriano elaborò
rapidamente l’esperienza americana e propose due importanti
innovazioni per la fabbrica di Ivrea. Da una parte si trattava di sostituire
il nuovo modello taylorista di officina regolata per funzioni
all’organizzazione “linearmente gerarchica” esistente. In questo egli
prese spunto anche dalla lettura del libro di Taylor, “Principi di
organizzazione scientifica del lavoro”, ma seppe adattare un assetto
duttile e adeguato alle specificità del processo produttivo che si stava
evolvendo in Italia. Dall’altra, si doveva puntare sull’innovazione di
prodotto perciò egli propose un modello di macchina per scrivere
portatile che era un’assoluta novità per il mercato italiano. La
riorganizzazione dell’officina di Ivrea riuscì bene, tanto che con i nuovi
metodi di lavoro l’Olivetti registrò un notevole aumento della
produzione, gli utili reali divennero ingenti e raggiunsero il picco di
4.600.000 lire nel 1928 alla vigilia della Grande Crisi.
Innovazione di prodotto e di processo nella Grande Crisi.
Certamente né Camillo né Adriano avevano previsto il crollo di Wall
Street nell’ottobre del 1929, ma le scelte compiute in quei frangenti di
grande difficoltà internazionale furono lungimiranti. Intanto, nel 1931,
fu messa in commercio la nuova M40 creata da Camillo e da Gino Levi
Martinoli, capo dell’Ufficio progetti e studi istituito nel 1929. Inoltre
Adriano procedette con alcune scelte organizzative che, passo dopo
passo, trasformarono l’azienda paterna in un organismo industriale
complesso e avanzato. La nuova organizzazione scientifica del lavoro
aziendale era regolata dall’Ufficio produzione; all’Ufficio sviluppo e
pubblicità faceva capo la comunicazione d’impresa; mentre proseguiva
33
La fabbrica Ford descritta
da Adriano Olivetti come
un “miracolo di
organizzazione”.
Il libro di Frederick Taylor
sui principi di
organizzazione scientifica
del lavoro.
Il crollo di Wall Street
nell’ottobre del 1929.
Il crollo dell’export.
il reclutamento degli ingegneri che sarebbero stati impegnati nella
progettazione dei prodotti e avrebbero formato la struttura direttiva
della nuova Olivetti. L’Italia arrivava alla fine di quel decennio provata
dalla fase recessiva seguita all’adozione delle politiche di
stabilizzazione e del cambio della lira a «quota 90» sulla sterlina. La
contrazione della produzione industriale del 4% aveva aumentato la
disoccupazione e la domanda interna era stata ulteriormente depressa
dalla decurtazione dei salari nominali. A quell’epoca gli unici paesi
esportatori di macchine per ufficio erano Stati Uniti, Germania e Italia.
Il ritorno a misure e indirizzi fortemente protezionistici da parte dei
paesi industrialmente più attrezzati e le difficoltà attraversate dal
comparto manifatturiero a livello mondiale determinarono un crollo
dell’export anche in questo settore. All’Olivetti l’attività di ricerca e
d’innovazione di prodotto fu intensificata proprio negli anni più bui
della Grande Crisi. Furono lanciati allora nuovi manufatti come la
macchina per scrivere portatile MP1, gli schedari metallici Synthesis, le
macchine contabili dotate di blocchetti addizionatori, i nastri
inchiostrati. Sul mercato interno, nonostante le difficoltà generali,
Olivetti conseguì risultati lusinghieri e fu tra le rare industrie italiane
del comparto meccanico che durante il triennio 1929-1932 non
regredirono e non ridussero l’occupazione operaia. Nell’ottobre 1932
Olivetti aveva già incamerato assets di grande valore come alcuni
brevetti destinati a un tipo completamente nuovo di macchina da
calcolo e a una macchina per scrivere silenziosa, ancora in fase di
studio in attesa di tempi migliori per la produzione su scala industriale.
Risalgono agli anni Trenta anche i primi passi compiuti dall’Olivetti
per produrre macchine contabili rispondendo all’esigenza espressa da
alcuni clienti di redigere documenti contabili in cui fosse possibile
inserire nell’ambito di un testo numeri ottenuti attraverso piccole
elaborazioni. Nacque allora l’idea di integrare un’addizionatrice in una
macchina per scrivere come la M40. Per realizzare questo progetto
Camillo e Adriano avevano sviluppato una serie di contatti e
collaborazioni, in particolare in Germania e in Svezia, come quelli con
Karl Siewert, genero dell’ingegnere svedese Willgodt Theophil
Odhner che aveva brevettato il primo modello di calcolatore alla fine
34
dell’Ottocento. La gestazione del primo calcolatore commerciale
Olivetti fu abbastanza lunga e la produzione iniziò soltanto tra il 1939
e il 1940, quando uscì l’addizionatrice MC4S Summa, seguita dalla
MC4M Multisumma, capace di eseguire oltre all’addizione e alla
sottrazione anche la moltiplicazione.
La prima fase d’internazionalizzazione
Secondo l’economista Raymond Vernon un’impresa impegna risorse
sui mercati esteri quando accumula conoscenza ed esperienza tali da
poter gestire i rischi dell’espansione e lo svantaggio di essere straniera
mentre il ciclo di vita del suo prodotto è nella fase di sviluppo. Camillo,
confidando sull’eccellenza della nuova M20, maturò questa decisione
nel difficile primo dopoguerra. Nell’estate si era interrotta la
congiuntura espansiva internazionale; in Italia la situazione economica
era dominata dall’inflazione e dall’accelerata svalutazione della lira.
Una volta decisa la strategia di presenza sui mercati esteri, Camillo
aveva riorganizzato e attrezzato le officine per la produzione
standardizzata del nuovo modello di macchina per scrivere. Il primo
passo fu l’esposizione della M20 alla Fiera internazionale di Bruxelles
nel 1920, il secondo fu la decisione di creare una “filiale autonoma” in
Belgio. Il terzo fu la determinazione di varcare l’oceano e avviare un
primo network di vendita con la concessione di rappresentanze in
Argentina, Uruguay e Paraguay. Bruxelles, nei piani di Camillo, doveva
essere il centro di una rete destinata a servire, oltre al Belgio, l’Olanda,
il Lussemburgo e l’Est della Francia. Il Belgio seguiva all’epoca una
politica liberista e costituiva un mercato tanto aperto negli scambi
quanto libero nelle istituzioni, esigente e competitivo, all’avanguardia
nel progresso commerciale e industriale, ma innanzitutto presentava
importanti vantaggi di localizzazione. Invece il progetto di creare filiali
autonome a Parigi e a Londra per il momento non trovò uno sbocco
concreto, non essendo egli riuscito a trovare adeguate risorse per
finanziarlo. Peraltro, nel 1924, a Ivrea si producevano circa 2300
macchine l’anno, quando negli Stati Uniti la sola Underwood ne
fabbrica 750 in un giorno. Perciò Camillo, credendo nella qualità del
suo prodotto, aveva intrattenuto tempo prima una conversazione con
45
Nel 1920 esce la nuova
M20 in occasione della
Fiera di Bruxelles.
L’apertura delle prime
rappresentanze all’estero.
La Hispano Olivetti.
La strategia di espansione
del 1929.
il presidente dell’americana Remington, Winchell, sulla possibilità di
addivenire ad un accordo fra le due aziende e a una “combinazione”
finanziaria che gli avrebbe consentito di liquidare i detentori di quote
Olivetti ed entrare come azionista in Remington. Ma l’agreement non fu
concretizzato. La più importante esperienza di internazionalizzazione
della Olivetti fra le due guerre fu realizzata in Spagna. In sede storica
si è rilevato che l’espansione sui mercati esteri delle industrie italiane
aveva assunto particolare consistenza nel quadriennio 1929-1932 per
effetto della rivalutazione della lira a «quota 90» sulla sterlina. Tuttavia,
altrettanto e più decisive furono le previsioni circa l’adozione di
politiche restrittive e protezionistiche da parte dei governi nei paesi
dove le imprese avevano già importanti sbocchi commerciali ed erano
riuscite a penetrare reggendo la concorrenza straniera. Nel caso della
Spagna, considerata l’importanza di quel mercato per Olivetti, Camillo
ritenne che l’unica possibilità fosse di controllare gli organismi di
vendita per non perdere il lavoro di penetrazione svolto in quegli anni.
La società Hispano Olivetti fu costituita il 22 gennaio 1929 per la
fabbricazione e la vendita delle macchine per scrivere. Lo stabilimento
di Barcellona fu un banco di prova anche per le attitudini innovative e
organizzative di Adriano che, reduce dal viaggio negli Usa, aveva
intenzione di organizzare la produzione con criteri di grande serie, ma
dovette rinunciare a causa della ristrettezza del mercato iberico. Con il
riconoscimento del certificato di produttore nazionale, concesso dalle
autorità iberiche il 12 luglio 1930, l’Olivetti ebbe modo di partecipare
a pieno titolo anche alle importanti gare d’appalto dell’amministrazione
pubblica e degli enti governativi spagnoli. Nella seconda metà del 1929
a Ivrea si cercò di definire una strategia di espansione e di difesa tanto
sui mercati europei (come Francia e Svizzera), dove in alcuni casi errori
di previsione e di strategia avevano fatto arretrare l’azienda, quanto
extraeuropei come Argentina e Sud America. Intanto la crisi metteva
in difficoltà anche le multinazionali americane che per farvi fronte
avevano adottato strategie diverse. Alcune ridussero gli investimenti
esteri, altre seguirono una politica più aggressiva. Fra queste ultime la
Remington, il cui presidente James H. Rand jr, dopo aver visitato lo
stabilimento di Ivrea nel 1932 insieme con Merrill, vicepresidente della
36
Remington Rand Co. di New York, propose a Camillo una
partecipazione finanziaria. Questa volta Camillo declinò l’offerta,
essendo ben consapevole che anche una partecipazione di minoranza
avrebbe finito con il diminuire l’indipendenza di quello era ormai
divenuto un importante family business. Negli anni Trenta per
compensare le ristrettezze del mercato interno e per rendere il
prodotto competitivo, Olivetti aveva esteso il network commerciale e
produttivo in Europa e America del Sud (Spagna, Svizzera, Belgio,
Francia, Olanda, Austria-Ungheria, Danimarca, Cecoslovacchia,
Brasile e Argentina). In particolare il successo dei prodotti Olivetti nel
Subcontinente era stato riconosciuto anche dai concorrenti
statunitensi. Tanto che nel 1937 l’addetto commerciale degli Stati Uniti
in Argentina aveva riservato alle macchine Olivetti una speciale
menzione di elogio nella corrispondenza inviata al Department of
Commerce a Washington. In effetti, nel biennio 1936-37 buona parte
di quanto esportato da Ivrea era stato assorbito dall’Argentina e questo
favorì il proposito di creare un’organizzazione diretta anche in Brasile
poiché i mercati sudamericani mostravano di essere particolarmente
recettivi ai prodotti “made in Italy”. Da parte sua, di fronte alle
difficoltà di ordine economico, politico e morale dell’Europa Camillo
aveva maturato la convinzione che soltanto “i popoli giovani” del
nuovo continente americano fossero in grado di conseguire una solida
ripresa economica.
La seconda fase d’internazionalizzazione
Durante la congiuntura bellica Adriano aveva mirato innanzitutto a
salvaguardare la struttura commerciale estera conservando gli agenti
migliori e quelli che avevano fatto esperienza sul mercato americano.
Dopo la guerra, il processo di multinazionalizzazione compì
un’accelerazione decisiva con investimenti diretti alla produzione in
Scozia, Brasile, Sud Africa e con l’apertura di una nuova fabbrica in
Argentina. Nel 1946 era ripreso l’export in Uruguay, ma la crisi
economica che aveva investito l’Argentina nell’autunno 1948 ebbe
gravi ripercussioni anche sulle vendite di macchine per ufficio. Così,
per sostenere l’export e non perdere quote sul mercato sudamericano
37
Nel 1932 la proposta della
Remington.
Nel 1949 la creazione di
Austro Olivetti, Olivetti
Africa Ltd. e Olivetti
Mexicana.
Nel 1947 la British Olivetti.
Nel 1950 la Olivetti
Corporation of America.
verso il quale aveva convogliato un considerevole giro di affari, Olivetti
aveva dovuto comprimere notevolmente prezzi e ricavi e cercare nuovi
sbocchi commerciali. Il nuovo dinamismo impresso alla politica di
espansione sui mercati esteri nel 1949 portò alla creazione di tre nuove
consociate: una in Europa, l’Austro Olivetti Büromaschinen, e due
extraeuropee: l’Olivetti Africa Ltd. e la A.G. la Olivetti Mexicana S.A..
Inoltre fu ratificata la joint-venture con la francese Bull. Gli investimenti
esteri furono diretti in misura crescente verso i paesi sviluppati e
tecnologicamente più avanzati alla ricerca di nuovi sbocchi di mercato
come obiettivo prioritario della strategia espansiva dell’azienda. Si
decise così di costituire la British Olivetti Ltd. a Londra nel 1947. Per
le officine di produzione la scelta cadde sulla città scozzese di Glasgow,
fiaccata da un processo di lento declino industriale che il governo
laburista era intenzionato ad arrestare. La localizzazione britannica
aveva il grande vantaggio di aprire all’Olivetti tutti i mercati del
Commonwealth o gravitanti su Londra. L’espansione internazionale fu
rafforzata da una profonda trasformazione nella struttura produttiva e
commerciale, incrementando l’efficienza e tagliando i costi. Questi
risparmi resero possibile la diversificazione nel settore d’avanguardia
dei calcolatori, punta di diamante della penetrazione commerciale
Olivetti sui mercati più avanzati. Il vero salto di qualità nella strategia
multinazionale della Olivetti avvenne negli Stati Uniti: dapprima con la
creazione dell’Olivetti Corporation of America a New York nel 1950;
poi con un investimento strategic asset seeking nel laboratorio di New
Canaan nel 1952; infine con l’acquisizione nel 1959 della Underwood.
Nel decennio Cinquanta la strategia internazionale di Olivetti si
distinse rispetto a quella di altre multinazionali come Fiat, e ciò anche
tenendo conto delle differenze di prodotto. Olivetti sfidò i grandi
costruttori mondiali sui loro stessi mercati con prodotti innovativi
come i calcolatori. Invece Vittorio Valletta, a quell’epoca presidente e
amministratore delegato di Fiat, puntò su segmenti di mercato poco
ambiti dai maggiori competitors statunitensi e, nella divisione
internazionale del lavoro, più adeguati al ristretto mercato italiano
come le auto di piccola cilindrata. Si trattava di una strategia già
perseguita dal senatore Agnelli negli anni Trenta anche a seguito di un
38
gentlemen’s agreement con Ford e con General Motors a cui seguì la messa
in cantiere di Mirafiori per la produzione di massa riservata a queste
vetture. È in questa fase che Adriano ampliò i contatti con associazioni
e networks culturali, politici ed economici negli Stati Uniti seguendo gli
insegnamenti di una lezione che egli aveva ben appreso nel suo viaggio
di formazione oltreoceano a metà degli anni Venti. Peraltro Il modello
americano della “management education” e delle “business schools”
fu l’unico punto di convergenza fra la visione aziendale di Adriano e
quella di Valletta che determinò la creazione a Torino dell’Istituto di
Alti Studi di Organizzazione Aziendale nel 1952, rinominato Istituto
Post-Universitario per lo Studio dell’Organizzazione aziendale
(IPSOA) il 16 gennaio 1953: la prima business school europea ad adottare
il modello statunitense di formazione manageriale.
Olivetti Corporation of America
La costituzione dell’Olivetti Corporation of America con sede in New
York si collocava in uno scenario internazionale di contrapposizione
bipolare Est-Ovest contrassegnato dalla leadership di Washington sul
mondo occidentale. Per quanto Olivetti avesse stabilito già nel 1946
una base commerciale a New York, si era deciso di ampliare
l’investimento newyorkese soltanto dopo la crisi del mercato
sudamericano, alla fine degli anni Quaranta, e la messa a punto di un
nuovo prodotto, la Divisumma 14. Si trattava di una macchina
calcolatrice all’avanguardia tecnologica anche per un mercato ricco e
ricercato come quello americano. Con pochi competitors in questo
segmento di mercato Olivetti seguì una strategia di crescita fondata
sulla qualità e sull’innovazione invece che sul prezzo, affidando la
distribuzione delle nuove calcolatrici all’Olivetti Corporation of
America. Dopo il brillante successo della Divisumma, nel 1953-1954
iniziò l’introduzione delle macchine addizionatrici e di quelle per
scrivere (Lexikon 80 e Lettera 22). Sullo scenario internazionale il
fondamento della riorganizzazione atlantica discendeva dalla potenza
economica e militare statunitense e l’ammodernamento tecnologico
traeva impulso anche dalla domanda aggiuntiva dei paesi aderenti alla
Nato. Nel dicembre 1952 Adriano in una lettera al fratello Dino
39
L’IPSOA con Vittorio
Valletta nel 1953.
La strategia americana.
Le filiali di Chicago e San
Francisco.
Adriano, Roberto e Dino
Olivetti.
scriveva che tutto lasciava supporre che ci si stesse avviando verso
un’economia unificata transatlantica più che unificata europea. È
questa previsione che lo induce a intraprendere una politica più
aggressiva d’investimenti esteri diretti e a sfidare i grandi produttori
americani. Egli era convinto, infatti, che per Olivetti l’unica scelta
possibile fosse di “fare la concorrenza ai grossi complessi industriali
americani organizzando un certo numero di filiali all’estero forti ed
economicamente attive”. Qualunque altra politica avrebbe portato
ineluttabilmente l’azienda verso “la decadenza e l’asservimento” alle
multinazionali statunitensi. Nel dicembre 1953 vennero aperte al
pubblico le filiali Olivetti di Chicago (Great Lakes Division) e di San
Francisco (Pacific Division). Il sorpasso produttivo delle consociate
estere sulla casa madre avvenne dopo l’apertura del Mec. Nel 1950 il
70% del fatturato Olivetti era prodotto in Italia; nel 1960 il fatturato
nazionale si ridusse al 44,6% mentre quello estero salì al 55,4% (nel
1970 il fatturato estero sarebbe arrivato al 78,1% a fronte del 21,9%
italiano). È in questa dinamica di attività internazionale che si gettano
le basi per l’accordo con l’americana Underwood i cui vertici stavano
cercando una partnership per ridare slancio all’azienda. L’acquisizione
dell’azienda americana, resa nota il 2 ottobre 1959, era stata decisa da
Adriano per i vantaggi che sarebbero derivati sul mercato americano,
il più grande del mondo, dal controllo di un asset come la rete
commerciale e distributiva di Underwood. Inoltre Adriano si attendeva
di riflesso anche un vantaggio per Olivetti sul mercato europeo. Perché
l’accordo avrebbe permesso di far fronte al meglio all’attuazione del
Mec nel settore delle macchine per ufficio e di sostenere la sfida
dell’agguerrita e temuta concorrenza tedesca.
La tecnologia del futuro.
Adriano, con Roberto e Dino Olivetti, grazie anche ai rapporti con i
Centri di ricerca americani e con il Premio Nobel Enrico Fermi, aveva
colto appieno le potenzialità e l’ineludibilità del paradigma elettronico.
Secondo Clayton Christensen, la decisione di investire nello sviluppo
d’innovazioni incrementali anziché alla frontiera tecnologia è la scelta
più “razionale” per l’imprenditore. Perché le imprese sono
40
continuamente sotto pressione sul mercato per introdurre
cambiamenti e innovazioni che possano sostenerne la crescita e
migliorarne i margini di profitto soddisfacendo la domanda. Invece le
tecnologie d’avanguardia hanno effetti disruptive e, pertanto, sono
perturbatrici della stessa organizzazione aziendale e sociale.
Imprenditore schumpeteriano, Adriano percorse questa seconda
strada che attraverso la creatività distruttrice avrebbe prodotto la
discontinuità. Egli aveva intuito con largo anticipo e precisione le
potenzialità e gli effetti dell’elettronica applicata al controllo e
all’organizzazione della produzione. Come dichiarò nella riunione del
Consiglio di amministrazione Olivetti il 16 novembre 1957,
l’elettronica avrebbe avuto “nel futuro notevoli ripercussioni sui
metodi di fabbricazione di prodotti attualmente realizzati nella
meccanica: esiste quindi una ragione fondamentale di sicurezza che ci
consiglia di non lasciarci cogliere impreparati quando la tecnica
permetterà di trasformare alcuni nostri prodotti da meccanici a
elettronici”. Con visione anticipatrice nel 1955, nel discorso di Natale
ai dipendenti, egli aveva già indicato nell’elettronica la tecnologia che,
nel bene e nel male, avrebbe condizionato la civiltà moderna. Adriano
aveva tracciato il futuro industriale dell’Olivetti come ineludibilmente
legato all’elettronica; prefigurava con lucidità gli effetti disruptive del
cambiamento che il nuovo paradigma tecnologico avrebbe introdotto
sul mercato e nella stessa organizzazione d’impresa. La produzione
industriale era destinata a orientarsi verso l’elettronica perché, come
affermava nella riunione del Consiglio di amministrazione il 16
novembre 1957, “i grandi complessi industriali necessitano, per
l’elaborazione di dati centralizzati che ormai sono divenuti di tendenza
generale e condizione essenziale per l’organizzazione amministrativa,
di calcolatori elettronici”. “Una società che opera nel settore delle
apparecchiature per ufficio”, egli affermava, non avrebbe potuto
pensare di rimanere estranea a questa nuova attività “senza decadere
fatalmente a industria di secondaria importanza”. In questa prospettiva
fu decisa la creazione di SGS, la prima azienda europea nel campo dei
semiconduttori. “Dato il campo che riteniamo di sicuro sviluppo –
dichiarò nella medesima seduta del Consiglio – abbiamo ritenuto
41
Il futuro dell’elettronica.
Nel discorso di natale del
1955, Adriano Olivetti parla
dell’elettronica come la
tecnologia che avrebbe
condizionato la viciltà
moderna.
La creazione della SGS.
La morte improvvisa di
Adriano Olivetti nel 1960,
le divisioni interne alla
famiglia.
Il piano di cessione del
1964.
Dino Olivetti contrario alla
cessione della Divisione
Elettronica.
opportuno tenere una partecipazione cospicua in questa iniziativa in
quanto s’inserisce in un programma organico di nuove iniziative
industriali che la nostra società sarà costretta a intraprendere nel
campo elettronico”. Con queste parole egli aveva motivato di fronte al
Consiglio la decisione di costituire SGS – Società generale
semiconduttori al 50% con la Telettra di Milano che aveva già
esperienza produttiva in questo comparto. Nella nuova società
Adriano avrebbe ricoperto la carica di presidente, Virgilio Floriani (già
presidente di Telettra) quella di amministratore delegato e Roberto
Olivetti di consigliere (si sarebbero costruiti circuiti integrati su licenza
dell’americana Fairchild Semiconductor che entrò in SGS tre anni
dopo, nel 1960). Si trattava di una decisione cruciale in un campo
all’avanguardia della ricerca che era stata preceduta nel 1949
dall’alleanza con Bull per la produzione di schede perforate (un
prodotto con applicazioni elettroniche) e nel 1952 dalla creazione di
un laboratorio di ricerche a New Canaan (Connecticut), promossa dal
fratello Dino. Le attività industriali sviluppate a seguito dell’impegno
profuso in R&S nell’elettronica si materializzarono nella progettazione
e nella produzione dei primi elaboratori italiani, realizzati e diffusi sul
piano commerciale nella serie Elea. Tuttavia, dopo la morte di Adriano
nel febbraio 1960, le divisioni interne alla famiglia Olivetti e l’ingente
esposizione verso le banche creditrici ostacolarono il passaggio
intrinsecamente perturbatore dalla meccanica all’elettronica che, per di
più, avveniva con l’impresa impegnata a gestire la ristrutturazione della
Underwood e la propria presenza su un mercato complesso come
quello americano. Così il controllo dell’Olivetti passò, nel 1964, a un
gruppo d’intervento finanziario-industriale formato da Mediobanca,
Imi, Pirelli, Centrale e Fiat. La Divisione elettronica fu ceduta alla
General Electric. Nella seduta del Consiglio di amministrazione, il 15
luglio 1964, il presidente Visentini presentò il piano di cessione. Le
trattative erano state condotte da Aurelio Peccei, amministratore
delegato designato dal gruppo, e da Roberto Olivetti. Dino Olivetti si
pronunciò per una revisione dell’accordo con GE perché “se la
Olivetti cede l’elettronica cede in definitiva il suo scopo essenziale”.
Dello stesso parere era anche il prof. Giovanni Someda che aggiunse
42
“se l’Olivetti rinuncia al progresso tecnico é la fine della Società”.
Roberto Scarpa
Terzo intermezzo
Adriano arriva a New York il 2 agosto ‘25. Proprio come Camillo
trentadue anni prima, anche lui è lì per capire. Cerca di vedere la
grande fabbrica concorrente, la Underwood, che in cinque giorni
produce quanto la Olivetti in un anno intero. Siccome non lo fanno
entrare passeggia intorno ai muri di cinta e se la immagina. Incrocia i
dati e giunge alla conclusione che la media delle fabbriche americane è
di 45 macchine per operaio all’anno. Quasi cinque volte più che a
Ivrea. Quando riparte ha visitato 105 fabbriche ed è convinto che «il
segreto» dell’industria americana «non sta negli uomini, ma nella
struttura dell’organizzazione».
1926: Adriano beffando la polizia fascista, organizza, assieme a Parri,
Rosselli e Pertini, la fuga del vecchio leader socialista Turati. Da Londra,
dove il padre lo manda per cautela, scrive a Camillo una lettera con le
proposte di cambiamento:
Adriano Olivetti a New
York nel 1925.
Il segreto dell’industria
americana non sta negli
uomini ma
nell’organizzazione.
La cosa più importante è l’organizzazione e la nostra deve essere
trasformata radicalmente. Abbiamo bisogno di tecnici laureati, che
portino conoscenze e novità. E poi... pensaci papà... una macchina
portatile... farebbe furore.
Camillo, felice di fargli spazio, gli dà soltanto un ordine.
Tu, Adriano, con questi tuoi nuovi metodi
potrai fare qualunque cosa,
tranne licenziare qualcuno
perché la disoccupazione involontaria
è il male più terribile che affligge la classe operaia.
Con i nuovi metodi la sfida è vinta: il tempo di montaggio di una
macchina passa da 12 a 4 ore e mezzo. L’indice di produttività
raddoppia. Ma Adriano comincia a farsi domande ingenue: quale è il
43
Il rapporto con il padre
Camillo.
1932, 1933, 1934...
La guerra civile in Spagna, il
nazismo, la persecuzione
degli ebrei...
Il welfare olivettiano alla fine
degli anni Trenta.
significato dell’«industria complessa di massa»? Può esaurirsi nella
produzione e nel profitto? Ha dei compiti nei confronti del territorio
dove opera? 1932, 1933, 1934: Hitler ottiene più di tredici milioni di
voti, conquista il potere; il Vaticano si affretta a firmare un concordato
con la Germania nazista; Roosvelt lancia il New Deal; Einstein emigra
negli Stati Uniti. Adesso Adriano ha bisogno di qualcuno che disegni
la fabbrica che cresce. La vuole di vetro perché chi ci lavora possa
vedere il sole dall’alba al tramonto. Viene preso da una febbre per
l’urbanistica. Nel ’35 lancia un progetto avveniristico, il piano
regolatore della Val d’Aosta. Il piano arriva sulla scrivania di Mussolini
che sull’incartamento scrive di suo pugno: “No”.
È davvero ingenuo Adriano. Pensate, l’urbanistica per lui è una
disciplina capace di trasformare l’ambiente per costruire la comunità e
rendere felici gli uomini. 1935, ’36, ’37, ’38: l’Italia invade l’Etiopia; la
Germania si riarma; Roosvelt istituisce salario di disoccupazione e
pensione di vecchiaia; in Spagna scoppia la guerra civile; i nazisti
bombardano Guernica; Stalin scatena la stagione delle purghe; viene
inaugurata Cinecittà; Picasso dipinge Guernica; gli Stati Uniti
approvano la settimana lavorativa di 40 ore; i nazisti scatenano la
persecuzione degli ebrei; in Italia vengono emanate le leggi razziali.
Camillo è dichiarato “ebreo discriminato”. La Everest di Crema si
pubblicizza sul Corriere della Sera come L’unica macchina da scrivere
ariana prodotta in Italia. Vittorio De Sica canta Parlami d’amore Mariù.
L’Olivetti adesso è al terzo posto mondiale; produce la prima
telescrivente e inizia a pensare alle calcolatrici. Alla fine degli anni ’30
un operaio trova in fabbrica mensa, infermeria e biblioteca. Le
lavoratrici hanno nove mesi di aspettativa retribuita e un asilo nido con
stanza per l’allattamento. Ci sono colonie marine e montane, e un
convalescenziario. Per la casa c’è la Società cooperativa edilizia che
concede mutui sino alla metà del costo. I dipendenti che investono
nell’azienda ottengono mezzo punto d’interesse in più di quanto
avrebbero dalle banche. 1939, ’40: il regime fascista abolisce la Camera
dei Deputati e invade l’Albania; Germania e Unione Sovietica firmano
il patto di non aggressione e si spartiscono la Polonia; Francia e Gran
Bretagna dichiarano guerra alla Germania.
44
Più o meno negli stessi giorni in cui Charlie Chaplin gira “Il grande
dittatore”, l’Italia, meno lungimirante, entra in guerra.
Sull’esito del conflitto Adriano è ottimista. Pensa sempre al futuro lui.
Ma è diffidente verso i partiti: non sono stati capaci di fermare né il
fascismo né il nazismo. Non possono garantire la democrazia. Siccome
è ottimista si dà da fare. Incontra segretamente a Berna, Allen Dulles,
futuro capo della CIA. Per mantenere i contatti gli viene indicato un
certo signor Rossi, a Roma. Perciò, quando il 25 luglio Mussolini viene
deposto, Adriano contatta il signor Rossi. Ma ha una sorpresa: viene
arrestato e rinchiuso a Regina Coeli con l’accusa di: comprovata
intelligenza con il nemico e proposito di attività sovvertitrice
dell’ordine interno. Ordine interno? Nel 1943? Con l’Italia divisa in
due, gli americani sbarcati in Sicilia e i tedeschi che occupano tutto il
Nord e il Centro Italia? Con tutte le principali città italiane
bombardate? Comunque è un record: è il primo industriale antifascista
arrestato dal primo governo postfascista. Rossi era una spia. La
situazione peggiora dopo l’8 settembre perché Adriano, che ha sangue
ebreo, rischia di cadere in mano ai tedeschi. Arriva provvidenziale,
l’ordine di scarcerazione. Un falso. Natalia Ginzburg vede Adriano in
quei giorni per strada e lo descrive così:
L’incontro di Adriano
Olivetti con Allen Dulles.
L’arresto a Roma.
Era a piedi;
andava solo col suo passo randagio;
gli occhi perduti nei suoi sogni perenni…
era vestito come tutti gli altri,
ma sembrava, nella folla, un mendicante;
e sembrava, nel tempo stesso, anche un re.
1943: a dicembre muore Camillo. Al cimitero ebraico, sfidando il
divieto, vanno in 4.000 a salutarlo. 1944: Adriano entra
clandestinamente in Svizzera e da lì tiene contatti con la resistenza.
Scrive Altiero Spinelli, uno dei padri dell’unione europea: ho
conosciuto Olivetti, dagli occhi sognanti e dalla volontà di ferro, che
pensa come un matematico e sente come un mistico… è un pescatore
di uomini. Porta con sé il suo libro, ancora ciclostilato, e lo da da
leggere a tutti coloro che incontra.
45
La morte di Camillo.
L’Ordine politico delle
Comunità.
L’Italia come una
repubblica federale.
La rivisitazione del percorso
olivettiano ha subito forme
di riduttivismo.
Il libro, intitolato L’Ordine politico delle comunità contiene «intuizioni
geniali». Vi parla di conciliare l’uomo e la macchina; di dare alla
fabbrica un fine che non sia il profitto individuale. Le grandi fabbriche,
come l’Olivetti e la Fiat diventeranno industrie sociali e ne saranno
proprietari i lavoratori, le comunità e le università. Adriano conosce i
limiti del socialismo di stato e del capitalismo. Ma c’è un’altra
possibilità: mettere al centro della democrazia la «comunità». L’Italia
sarà ricostruita come una repubblica federale. Semplificando: il senato
sarà composto da rappresentanti degli ordini - cioè dai migliori, dai più
competenti - e la camera da rappresentanti delle comunità. Ha una
grande preoccupazione Adriano: far convivere democrazia e
aristocrazia del merito; democrazia e qualità morale e culturale. Perciò
si sforza di mettere ostacoli rigidissimi all’incompetenza, alla
superficialità, all’improvvisazione. Conosce e teme queste malattie
della democrazia. Che noi, fortunatamente, abbiamo sconfitto.
Giuliana Gemelli
Adriano Olivetti e la CSR: un problema mal posto. Una riflessione sulla
responsabilità sociale della ricchezza.
Missione dell’impresa; funzioni dello stato sociale; rapporto tra
impresa e territorio; politiche del lavoro; cultura industriale e cultura in
senso generale: in questi campi la maggior parte delle cose che
Adriano Olivetti realizzò nelle sue fabbriche e teorizzò nei suoi testi
appaiono in contrasto con molto di quanto oggi si pratica, si scrive o
si pretende di realizzare. In un simile confronto ad apparire moderni
non sono sempre i contemporanei, anzi direi che questi non emergono
come tali. Aggiungerei che ci sono stati, nella rivisitazione del percorso
olivettiano, evidenti forme di riduttivismo. Una di queste è la riduzione
delle sue prismatiche iniziative, del suo operare simultaneamente in
tutti gli ambiti dell’impresa, alle dimensioni, spesso strumentali se non
addirittura di camouflage, della responsabilità sociale d’impresa. Il mio
contributo è volto ad analizzare la ricchezza del percorso olivettiano e
la sua irriducibilità a questa dimensione tanto osannata quanto inutile
nella prospettiva drammatica della crisi che stiamo attraversando,
46
proponendo una diversa concettualizzazione dell’operare olivettiano:
la responsabilità sociale della ricchezza. Quest’ultima non è solo il
risultato dell’accumulazione di denaro ma di tutte le risorse tangibili ed
intangibili dell’operare dell’imprenditore, sul cui principio di
identificazione occorrerà altresì riflettere.
Adriano Olivetti ha espresso un pensiero in movimento che si è unito
ad una modalità di operare, di decidere nella e per la collettività, in una
dimensione dell’agire difficilmente riducibile e direi che sarebbe
addirittura ridicolo ridurre alle dimensioni della certificazione
d’impresa, certificazioni sempre calate dall’alto o connesse a
concessioni ai dipendenti graziosamente elargite per mostrare il volto
umano dell’azienda una volta venute meno le garanzie istituzionali per
i lavoratori sancite per legge.
Un tratto che distingue in modo assoluto il pensiero e l’azione di
Adriano Olivetti è la sua concezione dell’impresa. Penso che egli
sarebbe stato stupito nel sentire affermare in modo perentorio che la
missione dell’impresa è unicamente quella di creare valore per gli
azionisti. E che, se mai, graziosamente si puo aggiungere da parte degli
azionisti qualche attenzione ai portatori di interesse secondo una
dicotomia tra shareholders e stakeholders che non poteva neppure essere
formulata nella visione olivettiana. Sarebbe rimasto stupito perché la
sua concezione dell’impresa era tutt’altra. Adriano Olivetti pensava che
l’impresa dovesse creare ricchezza e non ricchezza come puro profitto
per chi possiede l’azienda, ma ricchezza condivisa dalla comunità, dal
territorio; dovesse creare occupazione; dovesse generare benessere
attraverso i ricavi del successo conseguito sul mercato. Credeva, in
sintesi, che l’impresa dovesse ridistribuire gran parte dei profitti,
facendoli ricadere e di fatto moltiplicare attraverso la crescita di valori
non solo tangibili – i salari piu alti - ma anche di quelli intangibili,
diffusi e condivisi dalla comunità della fabbrica e da quelle del
territorio, attraverso forme non necessariamente riconducibili alla
dimensione o alla logica della produzione. Olivetti voleva che quei
valori si nutrissero e si traducessero in cultura, bellezza, armonia di
architetture non solo materiali, ma mentali, concettuali, progettuali,
architetture del benessere, della qualità, della capacità di generare
47
La responsabilità sociale
della ricchezza.
La Corporate Social
Responsibility.
Adriano Olivetti pensava
che l’impresa dovesse creare
ricchezza condivisa dalla
Comunità e dal territorio.
Un intreccio di valori
intangibili e tangibili.
La vocazione maieutica di
elevazione culturale e
morale.
La flessibilità per Olivetti è
la capacità del sistema
visione. In una recente pubblicazione ho sostenuto che questa capacità
di generare visione a flusso continuo, nell’intreccio inesauribile di
valori tangibili ed intangibili, sia stata il vero motore dell’innovazione
olivettiana, della sua capacità di coniugare in un sinolo indissolubile,
scienza e tecnologia, progettazione ed attuazione.
In un discorso tenuto nel 1955 ai dipendenti Olivetti, preannunciando
la nascita di una nuova sezione di ricerca, dedita a “sviluppare gli
aspetti scientifici dell’elettronica, poiché questa rapidamente
condiziona nel bene e nel male l’ansia di progresso della civiltà di oggi”
li faceva partecipi di un percorso che non era solo legato alla
produttività dell’impresa ma aveva una vocazione maieutica di
elevazione culturale e morale. In questo percorso è difficile scorgere le
graziose concessioni ai dipendenti che caratterizzano il miope operare
della moderna CSR, la quale espandendosi a macchia d’olio è divenuta
una notte in cui tutti i conigli sono neri, azzerando completamente le
potenzialità di qualificazione, la ricerca della reputazione, a basso costo
e dai piedi d’argilla, che si era prefissa. Una ricerca priva dell’obiettivo
fondamentale che qualifica l’agire imprenditoriale: la crescita attraverso
l’innovazione, la capacità di competere facendo crescere non solo il
profitto ma tutto il contesto di riferimento dell’impresa, all’interno e
all’esterno in modo simultaneo – attraverso la sintesi organizzativa- e
non per funzioni successive o sommatorie. Per questo la Olivetti
anticipava il mercato generava la domanda, azzerava il marketing del
magazzino e non cercava reputazione attraverso certificazioni di
qualità ma la generava a flusso continuo, con effetti moltiplicatori sul
fatturato. Dal 1946 al 1958 il fatturato sale oltre 6 volte in Italia (+
639%), e di quasi 18 volte all’estero (+ 1.787%).
I profitti dell’azienda non nascevano da un monopolio di posizione
conseguito con mezzi estrinseci alla qualità del prodotto. Nascevano
dalla qualità del progetto; dalla superiorità del design; dalla preparazione
degli ingegneri e dei meccanici che le producevano; dalla qualità finale
del prodotto; complessivamente dalla capacità di innovare
continuamente, a ritmi elevatissimi, tutto il complesso della fabbrica.
Una fabbrica flessibile ma non nel senso che attribuiamo oggi a questo
termine tutto strumentale al contenimento dei costi soprattutto di
48
quelli inerenti le risorse umane.
La flessibilità per Olivetti è la capacità del sistema fabbrica nella sua
complessità di adattarsi a variazioni quantitative e qualitative della
domanda, di reagire al declino di certe aree di mercato ed allo sviluppo
di altre, ai rivolgimenti politici ed economici che avvengono in
determinati paesi e che possono cambiare radicalmente, in breve
tempo, lo scenario con cui l’impresa opera. La flessibilità non è tattica
di contenimento centrata sul lavoro, sul volume e i costi della forza
lavoro ma strategia del cambiamento, capacità di reagire con rapidità
ed efficacia ai mutamenti economici e politici, creando nuovi prodotti,
orientando il mercato, creando nuove forme di cultura, anticipando e
non flettendo il lavoro produttivo, valorizzando la collaborazione dei
dipendenti non strumentalizzandola ad uso esclusivo di una
produttività di fatto indifferente al lavoro. Se di qualità si deve parlare
nella Olivetti non se ne può parlare in termini di certificazione dei
singoli settori ma di una qualità à part entiére, riflessiva, condivisa ed
estesa a tutte le componenti aziendali non solo alle cosidette
componenti strategiche, da fidelizzare a colpi di CSR, nucleo ristretto
di privilegiati circondati da una nebulosa di oscuri operatori con pochi
diritti e bassi salari, impossibilitati ad apprendere, ad elevarsi e dunque
non fidelizzabili, e rispetto ai quali si potevano attuare pratiche di
responsabilità limitata se non inesistente, nucleo informe di
un’impresa senza vincoli, destrutturante anziché aggregante rispetto al
contesto in cui opera, dunque generatrice di anomia anziché di
coesione sociale, di aspettative evolutive individuali e collettive.
Dove risiedono i comportamenti responsabili dell’impresa? Nella
governance, nelle persone o nel principio stesso dell’imprenditorialità
che non solo li contiene ma li collega al principio più generale della
responsabilità sociale della ricchezza?
Finalità dell’impresa non è infatti solo quella di generare profitti ma di
generare ricchezza (lavoro, consumi, cultura, educazione, benessere).
La ricchezza è intesa come patrimonio e consiste nel capitale non solo
economico e finanziario ma umano ed intellettuale di tutti coloro che
hanno contribuito a crearlo. Innanzitutto i membri della famiglia che
ha generato l’impresa ma in secondo luogo anche coloro che,
49
fabbrica nella sua
complessità, di adattarsi a
variazioni quantitative e
qualitative della domanda.
attraverso il loro lavoro, le loro competenze la loro creatività ne hanno
alimentato la crescita. Il capitale finanziario e gli investimenti relativi al
patrimoni sono uno strumento per sostenere ed accrescere il capitale
umano ed intellettuale di chi ha generato l’impresa, da un lato e per
generare un flusso continuo di benefici tangibili ed intangibili per la
comunità di riferimento, dall’altro. Una comunità di cui l’impresa è
parte integrante non solo come generatrice di profitti ma di sistemi
valoriali e di matrici di comportamento.
La relazione tra benefici
sociali e ricchezza privata.
I fiori di loto della CSR. I codici etici
Si crede che l’adozione di codici etici migliori la reputazione di
un’impresa e la legittimi nel suo operare.
Si crede che il codice etico rassicuri gli azionisti all’esterno e generi
coesione all’interno dell’impresa.
Si crede che il codice etico possa limitare pene e sanzioni nel caso di
palese diligenza.
Quale è la relazione tra benefici sociali e ricchezza privata? Essa risiede
insieme ad altre modalità di azione nell’agire filantropico La filantropia
è l’atto di donare – al di fuori della propria rete familiare - tempo,
denaro, competenze e conoscenze per accrescere il bene comune e
creare benefici sociali.
La storia della Filantropia è secondo la definizione di Robert Payton
“the social history of the moral imagination”. E più precisamente
secondo Michel Sheranden “Income only maintains consumption, but
assets change the way people think and interact in the world. With
assets, people begin to think in the long term and interact in the world
and pursue long-term goals. In other words, while income feed people,
assets change their mind”. Queste riflessioni si riferiscono a due
concetti e al loro interfacciarsi:
Wealth = The wealth of a family consists of the human and
intellectual capital of its members: a family’s financial capital and its
assets are tools to support the growth of the family’s human and
intellectual capital.
50
Philanthropy = is the giving of time, money and know-how to
advance the common good and create social benefit. Philanthropy
provides social benefit along with governments and business but it is
profoundly different from either of them. At least in the abstract it is
money fred from quarterly profit projection or regular election cycles,
uncontrained by the need to please political constituencies or maintain
shareholders value. As a result it is money that has the most ability to
take risk and be patient or to move quickly in response to something
unexpected.
In che cosa consiste oggi questo interfacciarsi
Si sta delineando una transizione epocale nell’ambito della quale la
filantropia cessa di essere una sequenza frammentaria e frammentata
di interventi promossi da attori isolati ed indipendenti e converge
deliberatamente verso un più ampio sistema di individuazione delle
forme di soluzione possibile ai rilevanti problemi delle società
contemporanee. E questo non come forma di intervento sussidiario
rispetto ad altre forme di intervento pubblico ma come progettualità
basata sulla collaborazione di attori individuali ed istituzionali diversi
(imprese, fondazioni, istituzioni pubbliche e private, associazioni e
singoli donatori) e su una più stretta articolazione della cooperazione
tra chi dona e chi riceve al fine di produrre benefici comuni
condividendo responsabilità e rischi. In questo scenario in gestazione
il fattore a maggiore impatto evolutivo sono le partnership e la
potenziale crescita di un capital market rivolto alla soluzione dei
problemi di maggiore rilevanza sociale. I donatori, istituzionali e
privati pur mantenendo la loro indipendenza nelle scelte e nelle
strategie di investimento, tendono ad aumentare l’efficacia dei loro
interventi interagendo con altri donatori e imparando dalle loro
esperienze e dai loro errori. In breve possiamo dire che il nuovo
scenario della filantropia sta evolvendo dalla donazione
compassionevole e basata sulla sussidiarietà ad una donazione
strategica, impegnata, coordinata e consapevolmente orchestrata verso
l’assunzione di responsabilità condivise, con gli altri donors e anche con
51
Una nuova progettualità per
l’agire filantropico.
Una maggiore cooperazione
tra chi dona e chi riceve.
Un nuovo scenario della
filantropia.
chi riceve i finanziamenti sulla base del superamento della tradizionale
divisione del lavoro tra chi da e chi fa. La cosidetta high engagement
philanthropy che si è delineata dai tentativi di incorporare nell’universo
della filantropia le pratiche di successo del venture capital, comportando
una relazione molto più stretta tra chi dona e chi riceve, anche perché
questa relazione non è più basata solo sull’erogazione di denaro ma
sulla capacità di trasferire (reciprocamente) conoscenze, capacità
organizzative ed operative, di creare infrastrutture. La filantropia ad
alto potenziale di impegno è un approccio che tende a valorizzare
l’incontro tra chi dona e chi riceve nell’ambito di una modalità della
filantropia come investimento che significa innanzitutto un focus rivolto
a progetti di medio lungo termine, un’assistenza nel fund-raising, che è
anche sostegno organizzativo, nonché un ‘allenamento’ a coordinare
obiettivi e finalità coi mezzi e le strutture a disposizione e ad
incrementare relazioni di affinità e reti di partenariato. Un tale
approccio implica il riconoscimento che un investimento che integra
capitali, sostegno strategico e consolidamento di partnership è un
investimento più forte di quello che implica solo la mobilizzazione di
capitali. La tabella che segue illustra alcuni degli aspetti della
transizione in atto.
52
Le nuove dimensioni della ricchezza
Secondo una ricerca di Merryl Lynch e Cap Gemini 7 milioni di
individui possiedono oggi beni ed investimenti pari a 26 milioni di
dollari, cifra che corrisponde alla somma dei prodotti nazionali lordi
annuali di tutti i paesi del mondo. Un solo imprenditore Bill Gates
possiede beni ed investimenti che superano il prodotto lordo di alcuni
paesi non solo africani, Schervish and Havens hanno calcolato che la
magnitudo del trasferimento generazionale della ricchezza negli Stati
Uniti tra il 1998 e il 2052 si collochi tra $41 e $136 migliaia di miliardi.
In parallelo alla crescita della ricchezza privata stiamo assistendo ad un
indebolimento del settore pubblico non solo in termini di risorse ma
di competenze e di progettualità. A ciò si aggiunga che l’articolazione
pubblico – privato è entrata in una fase di transizione che coinvolge la
stessa definizione di pubblico. In Italia il concetto di “pubblico” è
stato spesso assimilato a “statale”, mentre oggi comincia ad affermarsi
una concezione della funzione pubblica come insieme di interventi
nell’interesse della comunità e si afferma il principio che non vi debba
essere un unico soggetto ma più soggetti che possono collaborare
positivamente in questa direzione. Non solo le istituzioni pubbliche
ma i privati, le imprese e le fondazioni che oltre alla ricchezza
economica posseggono anche competenze e capacità di influenzare la
società nel suo complesso. Emerge dunque il problema della
utilizzazione della ricchezza secondo forme di responsabilità che
hanno direttamente a che vedere con la crescita economica sociale e
morale della società.
Le dimensioni quantitative della ricchezza.
Alle nuove dimensioni quantitative della ricchezza devono fare
riscontro nuove forme qualitative di impiego della medesima che
hanno un valore rilevante anche per la continutà dei grandi patrimoni
familiari, dunque per il consolidamento della ricchezza nell’accezione
che abbiamo indicato.
Per preservare il proprio patrimonio una famiglia deve formare un
nucleo compatto che ne sostenga non solo gli assets ma anche i valori,
53
Ad una crescita della
ricchezza privata si assiste a
un impoverimento di
competenze e progettualità
nel pubblico.
Preservare assets e valori,.
cultura, identità.
Economia politica ed
economica sociale.
Suscipere
la cultura, l’identità, non solo rispetto a tale nucleo interno, ma anche
in relazione alla comunità di appartenenza. Ciò implica una
riconsiderazione del concetto stesso di investimento sulla base del
superamento della dicotomia- ereditata dalla teoria economica del
ventesimo secolo - tra economia politica – che riguarda la produzione
della ricchezza - ed economia sociale - che riguarda il settore
dell’assistenza, la cooperazione, la sussidiarietà. In questa dicotomia si
è perso il contatto con le radici originarie del concetto stesso di
imprenditore e di imprenditorialità.
Se risaliamo all’etimologia latina di imprenditore, impresa,
intraprendere, il termine suscipere che li designa rinvia al principio del
sostenere responsabilmente. Il significato di suscipere è più
precisamente quello di “generare riconoscendo”, assumendo cioè la
responsabilità non solo dell’atto del generare, ma anche del processo
conseguente quell’atto, in termini di consapevolezza e di assunzione
consapevole degli effetti di tale processo. Un significato traslato del
termine suscipere è ricevere in modo consapevole, accogliendo
l’azione generata da altri come principio di un agire altrettanto
responsabile.
Nel concetto di imprenditore e di imprenditorialità, così definito, sono
contenute alcune conseguenze di natura teorica e pratica: la prima è
che l’imprenditore assume il ruolo di soggetto rappresentativo
dell’agire sociale e civile, in grado di definire e rendere operativi valori
che generano azioni responsabilmente orientate, da parte di soggetti
che interagiscono per realizzare obiettivi e finalità condivise.
L’imprenditore è il garante normativo di un processo di assunzione di
valori condivisi, resi visibili non da codici o certificazioni etiche, ma da
matrici comportamentali, da assetti cognitivi che si traducono in
modalità operative.
La seconda conseguenza è che la contrapposizione tra agire
economico e responsabilità, tra dono e profitto, si scioglie e fa
emergere un tessuto di beni relazionali, strettamente connessi
all’investimento della ricchezza e all’intreccio tra valori tangibili (effetti
materiali del suo utilizzo) e intangibili (effetti morali e matrici
comportamentali rispetto alle forme dell’utilizzo della ricchezza).
54
La terza conseguenza è che l’imprenditore non è soltanto colui che agisce
nella sfera del mercato, ma è anche colui che è in grado di intraprendere
nei più diversi ambiti dell’agire sociale (cultura, educazione, arte, scienza,
istituzioni pubbliche e private), guidato da idee e da valori orientati ad un
fine operativo. Tale modalità del suo agire nello spazio sociale, civile e
non solo economico coinvolge l’imprenditore come persona, in quanto
promuove conoscenza attiva, generatrice di cambiamento sociale, nel
rispetto degli altri ed in particolare di quella particolare categoria di ‘altri’
che sono le future generazioni.
In tale tessuto trovano collocazione e significato, in una circolarità
processuale che si basa sull’intreccio tra valori economici e valori
sociali e culturali, tra benefici tangibili e benefici intengibili, i vettori
principali dell’agire imprenditoriale: la famiglia, la ricchezza, la
comunità, il patrimonio. In questa circolarità evolutiva, la ricchezza
prodotta dalla famiglia, intesa come nucleo originario della cellula che
genera l’agire imprenditoriale, non si può consolidare e rafforzare nel
tempo se non relazionandosi responsabilmente non solo con i valori
della propria cultura di riferimento e delle identità che la compongono,
ma anche con le configurazioni strutturali, i bisogni, le proiezioni ideali
delle comunità di riferimento, in cui necessariamente quei valori
devono circolare, trasformandosi in linfa vitale di un percorso
relazionale in cui viene superata la distinzione funzionale tra chi da e
chi riceve. Tale modello relazionale genera nuove modalità di scambio,
che pur non escludendo la dimensione del mercato e del profitto non
trovano in esso né le premesse ideali e concettuali né le finalità
esclusive del loro operare. E’ da questo intreccio tra famiglia, comunità
e società che prende forma il patrimonio, inteso non solo come
principio di accumulazione di ricchezza ma come nucleo aggregante di
un sistema di valori condivisi e come generatore di legacy, cioè di un
lascito che è insieme vincolo generazionale, nell’ambito delle famiglie
imprenditoriali e vincolo relazionale, rispetto alla comunità, al
territorio in cui l’agire imprenditoriale prende forma, si consolida, si
trasmette e si trasforma, attraverso forme di investimento e di
operatività che per quanto diversificate mantengono tuttavia il
riferimento ad una stessa matrice. Una delle più interessanti teorie
55
Rigenerari i propri valori a
favore della Comunità.
Famiglia, Comunità e
Società.
La ricchezza come principio
di incivilimento.
finanziarie del ventesimo secolo denominata da Harry Markowitz
Portfolio choice, legittima questa pratica anche dal punto di vista della
razionalità teorica dell’investimento, indicando che è possibile
spalmare il rischio attraverso diversi tipi di investimento. L’obiettivo è
la mobilizzazione di un capitale di rischio – venture capital - che
contenga finalità di social benefit e che sia in grado di generare una
sufficiente liquidità da ripagare l’investimento, creando nel medio e
lungo periodo una prospettiva di performance elevate nel ritorno sociale
dell’investimento stesso. Ciò implica che non solo le fondazioni ma
anche i donors individuali quando realizzano un investimento che
prevede un ritorno sociale prendano in considerazione la totalità dei
loro assets e non solo i loro profitti annuali secondo un orientamento
di total asset management. Tale orientamento ha delle implicazioni
rilevanti anche nel consolidamento della responsabilità sociale delle
imprese e nelle performance etiche dei patrimoni familiari in quanto
assicura il fatto che i donatori non investano in affari che sono
antitetici rispetto alla missione, alla cultura e ai valori dell’impresa e /o
della famiglia.
Mediante il dispiegarsi dei valori intrecciati del patrimonio –
economico e sociale, materiale ed immateriale - la ricchezza si afferma
come principio di incivilmento, come vettore di accumulazione di
risorse oltre che di profitti. Da questo punto di vista la famiglia
imprenditoriale non è solo generatrice di patrimoni destinati all’uso dei
suoi membri, ma è anche attore partecipativo nella produzione di
valori normativi per la società. Tale processo di aggregazione tra
famiglia, patrimonio e società non genera solo appropriazione ma
potenziamento. Esso crea le basi per un’operatività condivisa tra attori
di un’imprenditorialità radicata non solo nell’ambito dell’impresa
industriale, ma anche civica, culturale, scientifica, sociale. Da questo
intreccio emerge un modello comportamentale in grado di riprodursi
non soltanto attraverso l’ottimizzazione dei propri assets finanziari ma
anche attraverso il loro allineamento e la cui concreta determinazione
è il ritorno sociale degli investimenti, secondo una matrice di
appropriazione in ambito sociale dei modelli più avanzati
dell’investimento economico e finanziario, che ha come finalità
56
l’intreccio dei valori economici e sociali.
L’articolazione tra investimento sociale e l’emergere del tema della
responsabilità sociale della ricchezza prende l’avvio da due
constatazioni: la prima è che la crescita esponenziale della ricchezza
privata a livello mondiale ha significativi riscontri anche nel nostro
paese dove circa 10.000 famiglie hanno una liquidità di 10 milioni di
Euro; la seconda è che tale ricchezza deriva in larga misura dalla
cessione di attività imprenditoriali. La gestione dei patrimoni cresce in
complessità ma anche in opportunità e soddisfacimento per le nuove
generazioni di detentori di grandi patrimoni, opportunità materiali ma
anche risposte a bisogni immateriali, come creare beni duraturi e
condivisi da tutta la comunità, partecipazione in imprese sociali
innovative che generino benessere e condizioni di vita meno difficili
per le persone che non possiedono o possiedono scarse risorse
proprie, stimolando il loro spirito di iniziativa, capacità di
intraprendere responsabilmente e di ‘sostenere” se stessi e le proprie
famiglie; valorizzare investimenti che favorendo la partnership pubblicoprivato promuovano iniziative di imprenditorialità civica e una nuova
professionalità ad esse correlata, con ritorni finanziari di lungo periodo
e profitti calmierati. Negli Stati Uniti le grandi famiglie imprenditoriali,
sia quelle di lunga tradizione come i Rockefeller, sia quelle i cui ingenti
patrimoni si sono formati rapidamente negli ultimi 10-20 anni hanno
sviluppato questo orientamento creando incubatori di
imprenditorialità civica (Fondazione Bill e Melinda Gates, Morino
Institute, Roberts Fund). L’esperienza dei paesi anglo-sassoni ha
chiaramente evidenziato che la gestione dei patrimoni familiari di
grandi dimensioni richiede tecniche e competenze differenti da quelle
maturate in ambito aziendale. L’imprenditore dovrebbe, in ambito
finanziario, adottare un approccio assimilabile a quello dell’azionista al
quale è richiesto il seguente know how:
1) Competenze fondamentali: economiche, finanziarie, fiscali;
2) Corporate identity (vision, mission, valori) e comunicazione interna;
3) Valutazione del capitale intellettuale: risorse umane, risorse
organizzative, innovazione espressa, relazioni con il mercato e
57
La gestione dei patrimoni
familiari di grandi
dimensioni richiede
tecniche e competenze
differenti da quelle maturate
in ambito aziendale.
Nasce l’esigenza di nuovi
indici finanziari.
con i clienti.
Il compito della finanza riguarda sempre più la gestione del rischio
anziché la redditività degli investimenti effettuati. Occorrono, a questo
proposito, nuovi indici finanziari, tecnologie avanzate e prodotti
assicurativi innovativi.
Filantropia e impresa: le forme di un archetipo
Nel 1821, in un breve scritto inserito in una delle sue opere più famose
“Du systéme industriel”, Claude - Henri de Saint-Simon iniziava un
percorso di revisione e sostanziale allontanamento dallo scientismo
positivistico che stava alla base della sua visione di una società
depoliticizzata, in cui uno Stato puramente amministrativo ne
garantiva lo sviluppo al riparo di ogni sorta di conflitti “innescati quasi
sempre dalla politica...” condannata come seminatrice di zizzania. Il
titolo di questa breve nota, “Addresse aux philanthropes”, rivela il
ruolo che il riferimento alla filantropia riveste nel momento del
passaggio dal Saint-Simon industrialista al Saint-Simon che pone al
centro delle forze che animano il progresso sociale il sentimento, i
bisogni religiosi e l’agire comunicativo, come principi del reciproco
relazionarsi degli uomini nello spazio istituzionale e come impulsi alla
partecipazione alla vita sociale. Il centro della riflessione di SaintSimon è in un intreccio teorico-pratico che egli identifica con la
filantropia, o meglio con l’agire filantropico, che è razionale e
suscettibile di trattazione scientifica, perché è attività pratica illuminata
dalle scienze sociali ed umane ed impegno che deriva da un patrimonio
conoscitivo oltre che economico e finanziario orientato dall’agire
morale. In ultima istanza, l’agire filantropico è anche agire politico in
quanto influisce sui comportamenti intersoggettivi, orientando le
pratiche dell’agire sociale nell’ambito della polis e designa l’emergere di
un ambito d’ intersezione tra i fatti produttivi - che non esauriscono
tutta la gamma dei fenomeni sociali - e le altre forme in cui si
manifestano le forze generatrici dell’evoluzione delle società nella
storia. I motori di questa rinascita di un agire politico orientato dalla
ragione e dal sentimento, dalla volontà e dalla riflessività, dalla teoria e
58
dalla pratica, devono essere secondo Saint- Simon, degli “hommes
passionnèes”, dotati di capacità nella gestione dei fatti produttivi ma
animati anche da “forze infrarazionali”, da impulsi energetici rivolti
alla produzione delle cellule generatrici del tessuto sociale e da un
pragmatismo visionario. Il loro agire è volto a rendere concreta la
generalità della visione attraverso il medium della definizione dello
scopo e la capacità di assumere il confronto col rischio, senza subirlo
come una fatalità esterna, ma come responsabilità derivata dal
processo della conoscenza in atto. Una conoscenza che è, dunque,
anche corpo a corpo con l’agire sociale. La sintesi di tali capacità si
identifica col principio del generare suscitando, cioè con l’essere
partecipi dei valori, delle passioni degli ideali che si intendono
trasmettere e suscitare negli altri. Il termine suscitare evoca quello
latino suscipere che indica l’azione dell’intraprendere, mentre il
sostantivo di riferimento, susceptor, significa imprenditore. L’etimologia
latina dei termini intraprendere, intrapresa, imprenditore rinvia
dunque al principio del sostenere responsabilmente quell’azione
‘creativa’ che è all’origine dei ‘fatti industriali’. Il significato di suscipere
è più precisamente quello di “generare riconoscendo”, cioè,
assumendo la responsabilità non solo dell’atto del generare, ma anche
del processo conseguente quell’atto. Un significato traslato del termine
susceptio è ricevere, l’accogliere come azione responsabile. Queste
osservazioni etimologiche ci conducono ad una riflessione su un altro
elemento che qualifica l’agire filantropico e cioè, il dono. Il dono è,
infatti, un’ azione che non può essere dissociata dal principio
dell’intraprendere, in quanto non si esprime soltanto nell’ atto
dell’elargire, ma è, innanzitutto, generazione creativa e responsabile.
L’atto del donare, dunque, non si esaurisce nella sua replicabilità
ovvero nella creazione di un’ obbligazione a reiterare tale atto, come
azione meccanica di ‘restituzione’, ma contiene la capacità di produrre
reciprocità. In altre parole, il principio di obbligazione tacita implicito
nel dono è la capacità di generare creatività responsabile anche in chi
riceve: esso è, in definitiva un atto che potenzialmente trasforma chi
riceve in persona capace, a sua volta, di intraprendere, di generare
creativamente.
59
Per Saint -Simon alla base
dell’agire filantropico ci
sono uomini mossi da
“forze infrarazionali”.
Generare suscitando.
Il dono.
I processi evolutivi della
filantropia nel passaggio dal
XX al XXI secolo.
Le variabili storiche dell’agire filantropico: una transizione in atto.
Questo rapido scorrere attraverso reminiscenze filosofiche ed
etimologiche non rappresenta affatto un esercizio di stile. Col pretesto
di esplorare i percorsi, gli attori, le esperienze dei modelli e delle
pratiche dell’agire filantropico nell’era della new economy e le diverse e
talora fortemente contrastanti reazioni che esse suscitano nel dibattito
attuale sul ruolo delle fondazioni e delle organizzazioni non-profit,
cercherò di fare, trasversalmente, il punto sui processi evolutivi della
filantropia nel contesto della società industriale, nel passaggio dal
Ventesimo al Ventunesimo secolo. Ovviamente, senza pretendere di
affrontare il problema in forma sistematica, né esaustiva, bensì del
tutto rapsodica e per certi versi persino reattiva, come si conviene in
un laboratorio di ricerca dove, di volta in volta, si reagisce agli stimoli
ricevuti nel corso dell’esperimento, affrontando ipotesi contrastanti e
suscitando nuovi interrogativi.
L’intreccio sainsimoniano tra filantropia, sviluppo della società
industriale e ridefinizione di un agire “politico” che contiene i principi
volontaristici della morale a sostegno del suo stesso operare,
nell’intreccio tra sfera sociale e sfera economica, assume in questo
orizzonte il ruolo di una linea guida archetipica rispetto alle modalità
d’intreccio tra agire filantropico ed agire imprenditoriale che orienta
l’esplorazione delle forme evolutive che caratterizzano tale intreccio
nel lungo periodo.
Paradossalmente, all’alba del Ventesimo secolo, il rapporto tra
filantropia e impresa, nel processo di adeguamento dei modelli della
prima a quelli della seconda, e cioè alle organizzazioni corporate che
caratterizzano lo sviluppo del sistema industriale statunitense, si
delinea secondo un processo di differenziazione, incorporando il
modello del corporate, la filantropia si organizza secondo una
connotazione scientifica, dotandosi di istituzioni proprie, le fondazioni
(“the incorporated philanthropic foundation transformed longstanding tradition of charity”- scrive Judith Sealander) ed agendo
attraverso le forme di un policy-making basato su competenze e
professionalità specifiche. Il meccanismo del trust e la defininizione di
forme di governance basate appunto sul ruolo dei trustees ha costituito la
60
condizione strutturale garante del fatto che il processo di
differenziazione funzionale non generasse una disarticolazione
dell’agire filantropico rispetto ai modelli evolutivi dell’impresa. Le
grandi fondazioni americane - generate da capitali industriali - sono
state, in effetti, uno dei vettori di costruzione di quella matrice
istituzionale che Oliver Zunz identifica come il principio dinamico che
ha generato il “secolo americano”. In tale percorso il rapporto tra
fondazioni e impresa si è delineato nella forma di un ossimoro che
contiene in sé l’aspirazione alla armonizzazione delle contraddizioni
che lo hanno originato, da un lato la ricerca del profitto e la
dipendenza del corporate dalla sfera del mercato, dall’altra le fondazioni
che, incorporando i modelli organizzativi del corporate, hanno come
ambito di riferimento ideale e pratico il benessere della società e il
progresso dell’umanità. E, dunque, in definitiva la realizzazione di una
logica combinatoria in cui al progresso tecnologico e produttivo deve
corrispondere l’avanzamento sociale, scientifico ed intellettuale per il
maggior numero di persone. Si comprende dunque come la filantropia
scientifica nel contesto statunitense, sia stata, nel corso del secolo
Ventesimo, in modo ambivalente ed in un equilibrio instabile tra le sue
due anime, uno strumento di giustizia distributiva, un correttivo agli
eccessi del capitalismo, e al tempo stesso, un fattore di sostegno al suo
sviluppo, nel segno della separatezza, tra l’economico e il sociale,
avvalorata scientificamente dalla teoria economica dominante.
Generata dall’impresa, la filantropia ha cercato di distaccarsene
quantomeno di differenziarsene negli scopi, si è data strutture e forme
indipendenti, stabilendo forme di dialogo coi poteri economici e con
quelli politici, con orientamenti complessi e talora contraddittori,
proprio perché il policy making da essa attuato si è posto in una terra di
confine dove necessariamente i valori si intrecciano: confine tra l’agire
sociale e l’agire economico, tra il settore pubblico e quello privato, tra
gli interessi domestici e le politiche internazionali, tra la ricerca
dell’innovazione e la “sicurezza” degli investimenti in settori già
consolidati, in contesti evolutivi in cui tale rapporto si è configurato in
modo molto diverso nel tempo e nello spazio sociale ed istituzionale.
In modo significativo, tale ambivalenza si è riflessa anche nel modo in
Le grandi fondazioni
americane, secondo Zunz,
sono state il principio
dinamico del “secolo
americano”.
La filantropia scientifica.
La diffidenza verso le
istituzioni filantropiche.
cui le istituzioni filantropiche sono state rappresentate nel contesto
sociale e nel modo in cui il loro agire è stato accolto dall’opinione
pubblica: correttivo e sostegno dello sviluppo capitalistico esse sono
state oggetto di plauso e di sospetto da parte di chi le ha identificate
come i gatekeepers del capitale, o di chi le ha viste come i nuclei di
progettazione del mutamento politico ed istituzionale, o addirittura
come fattori destabilizzanti di quell’ordine. Questa visione
contraddittoria ha accomunato l’opinione pubblica ed i governi, i
quali, alternativamente, hanno usato le fondazioni come canali di
stratificazione delle politiche della sicurezza nazionale, oppure, in
specifiche congiunture della storia, come la guerra fredda, le hanno
identificate come luoghi di potenziale concertazione “sovversiva”,
facendone il bersaglio delle famose commissioni d’inchiesta del
maccartismo.
L’ambivalenza e il carattere contrastante delle reazioni rispetto all’agire
filantropico è una costante evolutiva che non è smentita neppure dai
saggi presentati in questo volume. Gli autori sviluppano un loro punto
di vista sulle modalità dell’agire filantropico all’alba del nuovo
millennio, con valutazioni tra loro contrastanti, da cui emergono
differenti visioni del modo in cui impresa e filantropia proiettano il
loro intreccio verso il futuro, ciascuno a partire da un punto di
osservazione specifico.
Agire filantropico e cambiamento sociale.
Inevitabile destino, quello delle istituzioni dell’agire filantropico che si
pongono alle frontiere tra il pensiero e l’azione ed in cui le ipoteche
della burocratizzazione, seppure abbiano avuto un loro peso ed un
loro potere di attrazione, sia nel continente nord americano sia, in
tempi più recenti anche in Europa, non ne hanno intaccato
completamente l’identità istituzionale. A ondate ricorrenti, l’archetipo
originario descritto da Saint-Simon, in cui l’ossimoro si scioglie in una
sintesi di visionario pragmatismo, genera aspirazioni e pressioni di
rinnovamento, di rivitalizzazione della vocazione originaria dell’agire
filantropico. Luogo di emergenza di visioni infrarazionali che non
possono essere ridotte alla dimensione dell’amministrazione delle cose
proprio perché hanno a che vedere con l’affermarsi della volontà degli
uomini, come principio morale, come ideale regolativo in senso
kantiano, le istituzioni della filantropia non sono riducibili ai modelli
delle organizzazioni burocratiche in senso weberiano. Un’aspirazione,
questa, che, ovviamente, contrasta con l’affermazione di quei modelli
nell’organizzazione dell’impresa e non solo del’impresa nel corso del
Ventesimo secolo. Essa fa emergere una complessità evolutiva, che in
un certo senso costituisce il codice genetico delle fondazioni o che
quantomeno, costituisce uno dei tratti distintivi delle organizzazioni
non-profit rispetto alle imprese profit In un bel saggio di recente
pubblicazione un economista di Harvard, Edward L. Gleaser, ha
mostrato che la differenziazione tra le imprese profit e quelle non-profit
sta proprio nel ruolo degli attori sociali che in esse operano e nel
coesistere all’interno delle stesse istituzioni di diverse finalità,
orientamenti e visioni guidate da aspetti volontaristici, oltre che di
diverse forme di operatività. Tale specifica configurazione rende
difficile la sedimentazione di gerarchie istituzionali cristallizzate e fa sì
che queste istituzioni risultino, di fatto, più permeabili agli effetti del
cambiamento sociale.
Per questo la storia della filantropia è essenzialmente storia di uomini
o meglio di persone che incorporano idee e valori e le mettono in
movimento: è un agire istituzionale e processuale che genera in modo
inscindibile investimenti e valori e che tende a proiettarsi nelle zone
fluide tra comunità, che cercano di trovare canali di comunicazione
con la società, ed un mercato che, in misura crescente, tende a
simulare, più che a costruire, i suoi plus-valori sociali e culturali, talora.
sovraccaricandoli di enfasi, per avere le mani libere nel
soddisfacimento dei suoi bisogni primari.
Nel corso del Ventesimo secolo, col prevalere del modelli tayloristici
nel contesto dell’impresa e con l’affermarsi di modelli di ingegneria
sociale, l’agire filantropico è stato necessariamente oscillante tra le sue
due anime, quella amministrativa e razionalizzante e quella creativa ed
infrarazionale, ha stabilito convergenze e dissidenze con gli apparati
del potere economico e politico, ha contribuito a generare nuovi corsi,
63
La storia della filantropia è
storia di uomini che
incorporano idee e valori e
le mettono in movimento.
ma ha anche avvalorato acquiescenze e cercato di evitare il rischio,
piuttosto che addomesticarlo ed orientarlo attraverso una
responsabilizzazione riflessiva dell’operare: in questo processo la
matrice del dono si è per così dire tecnicizzata nelle procedure
dell’erogazione e nei meccanismi rituali del rapporto tra donatori e
beneficiari.
Dai filantropi corporate a
quelli golden age.
Il problema che, attraverso itinerari diversi e con interpretazioni talora
divergenti, viene affrontato nei saggi che compongono questo volume
è quello del cambiamento delle forme dell’agire filantropico, in un
passaggio epocale attraversato da fenomeni di vasta portata: la
transizione da un sistema industriale centrato sulla produzione di beni
alla affermazione di un modello di impresa centrata sulla produzione
della conoscenza; il passaggio dal prevalere nelle dinamiche
istituzionali di forme di rappresentazione del rapporto pubblicoprivato tendenti alla definizione di linee di netta demarcazione, a
forme di rappresentazione e di conseguente agire sociale che ne
sottolineano l’articolazione; il mutamento da un modello di
organizzazione aziendale basato sul corporate a un modello di
organizzazione che valorizza il principio dell’intrapresa. Esso mette di
nuovo al centro del suo operare la capacità di “suscitare” impresa da
parte degli individui piuttosto che la funzione strutturante delle
organizzazioni, valorizzando la circolazione orizzontale delle
informazioni, rispetto alla gerarchizzazione verticale dei ruoli e delle
funzioni.
In un recente saggio, Girolamo Ramunni rileva la sostanziale
continuità del modello dell’agire filantropico rispetto a quello del
Ventesimo secolo. Nello stesso modo in cui nel passato esso era
plasmato sui modelli della corporate oggi esso si basa sulla
configurazione e sugli assetti della “new economy”: il passaggio non
cambia le regole del gioco, semplicemente sostituisce all’invisibile
discrezione dei donors del passato - filantropi della golden age - la
componente individualistica, il protagonismo, addirittura l’aspetto
spettacolare dell’agire filantropico che usa gli strumenti tecnologici di
internet per produrre ed amplificare l’immagine di sé. In tale processo
64
la filantropia sembrerebbe assumere, regressivamente, le forme del
mecenatismo. Tale componente ha radici storiche profonde, non solo
nell’età classica ma anche nel periodo medievale e nel Rinascimento,
quando, come ha mostrato Edward Gleaser, essa é stato un potente
fattore di articolazione tra l’aspirazione delle grandi famiglie nobiliari
a rappresentare l’immagine di sé, nelle forme architetturali di
prestigiose cappelle private e la capitalizzazione di risorse che,
attraverso un sistema di trasferimenti di beni privati (le cappelle
appunto) per finanziare beni pubblici (le cattedrali), ha contribuito al
consolidamento del potere della Chiesa come istituzione non-profit. Il
saggio di Ramunni, che vive ed insegna in Francia, si inserisce in modo
originale nel dibattito sul crescente ruolo delle fondazioni in Francia,
in un contesto che, per ragioni complesse, ha opposto per lunghissimo
tempo una sorta di rigetto nei confronti di queste istituzioni, oggi
identificate, su opposti versanti, come vettori di innovazione e di
svecchiamento - soprattutto a livello del sistema, a dominante
pubblica, della ricerca e della formazione- e come una minaccia nei
confronti dei grandi organismi che hanno retto tali sistemi nel corso
del Ventesimo secolo. E’ significativo che nel contesto francese tenda
a prevalere una visione che vede nell’agire filantropico, che prende a
modello gli imprenditori emergenti della new economy, un sottoprodotto
di Wall Street e del processo di finanziarizzazione del capitalismo
industriale, paventando - certo non senza ragioni e con validi
argomenti - proprio quell’intensificarsi dell’intreccio tra filantropia ed
impresa che Saint-Simon prefigurava come elemento di rigenerazione
sociale e politica. Ciò a partire da considerazioni di natura sociologica
che evidenziano la stretta connessione tra l’emergere dei nuovi
filantropi e la sostituzione a Wall Street di una nuova élite finanziaria,
aggressiva e spregiudicata, priva di radici nelle grandi élites del
capitalismo, sovente di bassa estrazione sociale o di recente
immigrazione e la cui affermazione dipende dalla acquisizione di
diplomi in prestigiose università e business schools americane. E’ questa
nuova élites di finanzieri rampanti che nutre le fila dei nuovi filantropi,
spregiudicati avventurieri e profeti autoreferenziali piuttosto che
cavalieri di ventura, visionari ed idealisti. In questo orizzonte
65
La rappresentazione delle
ricche famiglie del
Rinascimento nelle forme
architetturali di prestigiose
cappelle e il consolidamento
del potere della chiesa come
istituzione non profit.
Il contesto filantropico
francese.
La nuova élite di finanziaeri
rampanti.
La e-philantropy.
Un recente studio
americano individua una
genealogia di nuova
filantropia all’opposto di
quella individuata dai
ricercatori francesi.
interpretativo, i nuovi filantropi, applicando al non-profit le tecniche
finanziarie più sofisticate, svuoterebbero il loro agire dei suoi aspetti di
creatività istituzionale appiattendolo, di fatto, sulle esigenze di
consolidamento delle reti della new economy, attraverso il medium della
tecnologia di internet (e-philanthropy). E’ innegabile che, nel complesso
ed instabile universo della filantropia nell’era di internet, questa
componente sia presente ma è anche vero che neppure nel passato “la
vecchia filantropia” è stata immune da forme speculative e dalla ricerca
di coperture, rispetto ad un agire orientato esclusivamente alla ricerca
del profitto. Si ricordi che anche la creazione di una delle più
prestigiose fondazioni americane, la Rockefeller Foundation, avvenne
a ridosso di un evento drammatico e sanguinoso, l’uccisione da parte
della polizia di decine di operai durante uno sciopero, a Ludlow, nel
Colorado, presso la Colorado Fuel and Iron Company di John D.
Rockefeller. Inversamente è altrettanto evidente che le istituzioni che
si sono consolidate e che hanno oltrepassato le fasi più critiche della
new economy negli ultimi anni, hanno acquisito una legittimità che deriva
dall’agire nella direzione di un impegno evolutivo e responsabilmente
orientato nell’ambito della social entrepreneurship, riferita alla crescita del
territorio di riferimento (regional stewartship) e non dalla ricerca della
copertura filantropica di transazioni finanziarie. Un saggio pubblicato
recentemente negli Stati Uniti mette in relazione lo sviluppo
dell’imprenditorialità sociale in specifici ambiti territoriali, in cui
tendono a svilupparsi distretti culturali - ad alta densità di
partecipazione, sia sul versante delle imprese, sia su quello delle
organizzazioni non-profit e delle istituzioni pubbliche e private- con la
crescita di un’imprenditorialità civica che si ispira direttamente ai valori
e agli ideali dei padri fondatori della nazione. Gli autori del saggio
individuano, dunque, una genealogia dei nuovi filantropi che è
decisamente l’opposto di quella che è stata fatta propria da alcuni
studiosi francesi e a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza.
Tenendo conto di queste divergenze interpretative sulle matrici della
nuova filantropia che appaiono piuttosto dirompenti e testimoniano
della densità e della vivacità del dibattito in corso, è ovvio che il tema
va affrontato cercando di evitare le generalizzazioni, con una casistica
66
ben costruita sotto il profilo metodologico, oltre che attraverso una
disanima altrettanto attenta degli elementi che orientano le ricerche in
corso su queste tematiche. Un’annotazione tutt’altro che marginale a
questo proposito e che, di fatto, dimostra la scorrettezza metodologica
di un approccio basato sul confronto tra vecchia e nuova filantropia,
riguarda la complessa articolazione dell’agire filantropico dotato di
radici lunghe nel tempo, in rapporto ai processi di adattamento ai
contesti evolutivi in cui si trova ad operare. Un esempio illuminante, a
questo proposito, è la recente gemmazione, dalla operatività di
lunghissima data del Family Office dei Rockefeller, di un network
operativo che ha la sua diramazione istituzionale, con antenne anche
nella costa dell’Ovest.. nella Rockefeller Philantrhopy Advisors
Inc.(RPA). Esso fornisce una vasta gamma di servizi rivolti ad aiutare
i nuovi imprenditori dell’agire filantropico a livello internazionale.
Un’attività supportata dalla crezione di incubatori ad alta densità
progettuale nel settore della social enterpeneurship. La rete di
collaborazione del RPA comprende, significativamente, gli interpreti
più vivaci ed attivi nell’ambito della social enterpreneurship e della venture
philanthropy da Kristin Majeska, della Common Good Ventures a Mario
Morino, creatore del Venture Philanthropy Partners; da Randy
Newcomb della Golden Gate Community, Inc. a Melinda Tuan del
Roberts Enterprise Development Fund. Di questa rete fa parte anche
Christine Letts dell’ Hauser Center for Nonprofit Organizations che è
un attore interstiziale tra il mondo accademico e quello dell’expertise nel
settore della venture philanthropy, di cui è stata la prima a diffondere le
problematiche nel mondo accademico e della ricerca sul non profit.
Da quanto si è detto è evidente che il tema della
continuità/discontinuità delle forme organizzative e dello scenario di
riferimento dell’agire filantropico è un tema complesso che va
analizzato inserendo ogni singolo caso in un orizzonte di riferimento
a carattere marcatamente evolutivo, in quanto attraversato da fattori di
mutamento in cui il rapporto tra continuità e discontinuità non è
segnato da linee di demarcazione rigide tra il nuovo e il vecchio, tra
innovazione effettiva e simulazione retorica, ma da flussi di
ibridazione, da percorsi fluidi, in cui le stesse forme di
67
Gli incubatori filantropici.
I percorsi fluidi che
caratterizzano le diverse
forme dell’agire
filantropico.
La rigida settorializzazione
del dare e del fare.
“cristallizzazione” istituzionale, non sono riconducibili a modelli bene
definiti.
Quali sono, dunque, tali fattori di mutamento? E’ ad un orizzonte
macro strutturale e non solo ai micro comportamenti individuali degli
attori - analizzati solo attraverso le pagine web o, peggio ancora,
desunti da fonti indirette come Fortune o Business Week - che occorre
riferirsi per tratteggiare, senza irrigidirlo in schemi concettuali, inutili e
devianti, il mutamento in atto. Nel corso del Ventesimo secolo una
volta che le fondazioni hanno incorporato il modello del corporate, i
mutamenti organizzativi e di definizione delle pratiche operative si
sono delineati prevalentemente all’interno delle fondazioni stesse,
oppure attraverso gli effetti di provvedimenti legislativi e di
regolamentazione (si ricordi in particolare il famoso Tax Reform Act
che, nel 1969, ha innescato un rapido processo di crescita della
pubblicizzazione dell’operare delle fondazioni). Il loro operare come
elementi funzionali agli assetti del sistema del corporate, nel senso sopra
indicato, ha spinto le fondazioni ad orientarsi verso un modello
standardizzato di divisione del lavoro sociale, nei confronti delle
istituzioni pubbliche al quale è stato generalmente demandato il
compito di dare consistenza ai progetti pilota avviati attraverso i
finanziamenti da esse erogati e nei confronti delle altre organizzazioni
non-profit. Si è prodotto, così, un effetto di isomorfismo istituzionale
che ha identificato il ruolo delle fondazioni con l’attività del grant
making, differenziando il ruolo delle fondazioni come erogatori e
decisori da quello delle organizzazioni non-profit come beneficiari ed
esecutori, secondo un principio di reciproca settorializzazione delle
funzioni, da una parte il dare, dall’altra il fare.
In entrambi i casi assistiamo oggi ad un mutamento di grande rilievo:
ciò che genera dibattito e trasformazione all’interno delle fondazioni
sono, infatti, prevalentemente fattori esterni, legati non solo alle nuove
tecnologie ma anche alla crescita dei fenomeni identitari nei territori di
riferimento, a livello delle comunità, delle associazioni,
dell’imprenditorialità civica rivolta al sociale, che riconfigura il ruolo e
le forme delle organizzazioni non-profit e al conseguente intrecciarsi dei
valori economici con quelli sociali. Da funzione complementare ed
68
interna alla logica distributiva del sistema capitalistico, l’agire
filantropico sta diventando una matrice diffusa in tutto lo spettro delle
istituzioni economiche e sociali. Esso assume, così, il ruolo di vettore
di una logica che non è più soltanto distributiva ma commutativa e che
è, di per se stessa, generatrice di mutamento sociale. Da essa dipende,
infatti, la ridefinizione del ruolo degli attori dell’agire filantropico, non
solo e non tanto attraverso la valorizzazione degli strumenti di
misurazione dell’impatto sociale dei progetti oggetto di finanziamento
(secondo il modello della venture philanthropy), quanto attraverso la
comprensione dei processi che generano valori nel consolidamento
delle forme identitarie dei gruppi di cittadini, delle comunità, dei
networks che internalizzano le responsabilità di organizzazione dei
progetti a livello territoriale (regional stewartship); infine attraverso la
costruzione di capacità e competenze che alimentano tali processi.
Questo non tanto attraverso la creazione di comparti, ma mediante il
riferimento a modelli adhocratici di creazione di aggregati operativi,
focalizzati su obiettivi e dotati di responsabilità e di competenze
progettuali proprie.
In questo percorso il rapporto tra fondazioni e organizzazioni nonprofit risulta profondamente ridisegnato: le prime tendono a sottrarsi
dall’identificazione del loro operare col grant-making, le seconde
assumo l’orientamento proattivo che implica la circolarità propria
dell’agire filantropico tra responsabilità, rischio e riflessività.
In questa dimensione, che rafforza l’interdipendenza e la costruzione
di partnership a eguaglianza collaborativa tra fondazioni e
organizzazioni non-profit, nel quadro di una imprenditorialità rivolta al
contesto di appartenenza, l’agire filantropico si configura in senso
“politico”- nel significato di policies e non di politics. Questo non perché
permette di rafforzare le connessioni tra istituzioni filantropiche e
sfera della politica istituzionale (governi, partiti, istituzioni di
rappresentanza e di concertazione politica ) ma perché opera in modo
proattivo, nella costruzione di un mercato sempre meno auto-regolato
che si apre alle dimensioni della collaborazione competitiva, tra attori
economici di diversa matrice, immettendo nel circuito economico,
pubblico e privato, patrimoni conoscitivi ad alta densità di
69
Una logica non più
distributiva ma
commutativa.
allineamento valoriale. Tali patrimoni incorporano il capitale sociale ed
intellettuale accumulato nei decenni precedenti attraverso i processi di
networking associativo e la professionalizzazione delle competenze, a
livello dei consigli di amministrazione degli executives e dello staff delle
fondazioni, e quello che deriva dalle esperienze di investimento attuate
dai social entrepreneurs – definiti Gregory Dees come coloro che svolgono
il ruolo “of change agents in the social sector /by creating and
sustaining social values and... pursuing new opportunities to serve a
mission”- e dalle organizzazioni non-profit; in particolare quelle che, a
livello comunitario hanno fatto proprio questo orientamento.
Confronto di contesti
Benché la differenza di configurazione storica e strutturale che li ha
generati e la differenza di scala e di sviluppo dei modelli istituzionali
che si rifanno agli orientamenti sopra illustrati, negli Stati Uniti ed in
Europa, è in atto un processo di rifocalizzazione della attività e del
ruolo delle fondazioni. Nel contesto americano l’emergere della venture
philanthropy, come fattore trainante di questa rifocalizzazione,
(adottando una terminologia che circolava già negli anni settanta,
quando venne usata per la prima volta da Bill Somerville e che si è
imposta come pratica operativa solo negli anni novanta) è da leggersi,
tuttavia, meno come l’effetto del consolidarsi di un nuovo modello di
filantropia che come un sintomo evidente e per certi versi enfatizzato
- anche attraverso il suo impatto massmediatico - di un mutamento più
profondo. Anche nel contesto americano questa esigenza di
cambiamento non sembra affatto essersi risolta con l’ applicazione di
tecniche derivate dal venture management alle istituzioni della filantropia.
A ben vedere il fenomeno dell’emergere della venture philanthropy come
proposta di rinnovamento dell’agire filantropico - che ha caratterizzato
soprattutto la fine del Ventesimo secolo e che oggi sembra lasciare il
posto ad approcci meno sofisticati ed aggressivi, ma altrettanto densi
di significato e di progettualità, come l’high engagement philanthropy - è
insieme un rivelatore sociale e un segnale metalinguistico. In esso si
consuma il passaggio dalla metafora del corporate come modello di
70
riferimento nella definizione degli assetti istituzionali ed operativi delle
fondazioni (con un’accentuazione degli aspetti amministrativi del policy
making e una governance che privilegia la gestione verticale delle
competenze) al principio della social enterpreneurship (come creazione di
imprenditorialità diffusa, basata sul networking delle competenze
attraverso il ruolo proattivo di attori sociali e la loro articolazione
orizzontale nel territorio di riferimento).
In Europa questo passaggio si sta appena delineando ed è ancora per
molti versi un fenomeno implicito, si manifesta, cioè in modo del tutto
discontinuo attraverso il riorientarsi delle pratiche dell’agire
filantropico e non ha ancora né una casistica, né una
concettualizzazione. Esso ha le sue radici nei processi di
riposizionamento delle politiche del welfare, dal punto di vista della
dinamica evolutiva delle istituzioni pubbliche e del loro riposizionarsi
rispetto a quelle private, e nella crescita esponenziale che negli ultimi
anni ha avuto l’approccio alla responsabilità sociale nel settore delle
imprese - in particolare in Italia.
Come stanno reagendo nel nostro paese le fondazioni a queste
processi di mutamento in atto? Sul versante delle fondazioni di origine
bancaria va detto che se virtualmente non esistono più alibi nel fare
emergere il loro ruolo istituzionale in forma proattiva, considerando
che - dopo la sentenza della Corte Costituzionale - sono a pieno titolo
istituzioni di natura privata, è, comunque, altrettanto evidente che
occorrerà un certo lasso di tempo perché la loro cultura organizzativa,
le competenze professionali, i modelli di governance si allineino rispetto
a questo orientamento. Occorre però aggiungere che anche le
fondazioni di più recente creazione, nate per iniziativa di grandi
imprese finanziarie o che si propongono come fondazioni di tipo
comunitario, a livello locale (e che, dunque non hanno subito gli effetti
paralizzanti della lunga vertenza tra governo e fondazioni di origini
bancaria) non sembrano affatto configurarsi secondo i modelli della
social entrepreneurship. Da un lato, infatti, le fondazioni comunitarie
tendono a privilegiare rispetto ai modelli nord-americani e di altri paesi
europei, modelli di governance di tipo verticale ed “amministrativo”, con
la riproposizione di comitati permanenti, che agiscono più come
71
Le fondazioni di origine
bancaria.
Le fondazioni di Comunità.
Le fondazioni di impresa.
organismi di controllo e di rappresentanza di soggetti politici ed
istituzionali che come comitati operativi proattivi. D’altro canto, nel
settore delle fondazioni di matrice imprenditoriale, e finanziaria
prevale ancora il modello del corporate, con un’attività di grant-making
molto tradizionale, caratterizzata da finanziamenti a pioggia, anche se
orientati in aree a forte densità di impatto sociale (i paesi africani, ad
esempio). Quanto ai settori di progettualità interna alle fondazioni che
scelgono il modello misto tra operating e grant-making e che in Italia sono
la maggioranza - cercando in tal modo di dare una risposta alle
pressioni del mutamento in atto – prevale, proprio perché l’orizzonte
strategico di riferimento rimane quello tradizionale, la scelta di ridurre
il proprio coinvolgimento agli aspetti erogativi e finanziari. Vengono
così privilegiate, in molti casi, forme di buy-out di programmi già
strutturati e definiti nelle loro modalità organizzative e nei loro scopi,
che vengono sostenuti integralmente e che, solo attraverso questo
processo di acquisizione, vengono “internalizzati”.
Nel primo caso, quello delle fondazioni comunitarie, ci si chiede se il
coinvolgimento delle comunità locali, nel contesto dei paesi terzi, non
risulti più incisivo di interventi erogativi disseminati in vari ambiti e su
vari progetti, con lo stanziamento di finanziamenti “equilibrati”, cioè
ben bilanciati nei programmi di intervento delle fondazioni, secondo il
classico approccio del grant-making. Tale coinvolgimento potrebbe
avvenire con la creazione di “community partners in residence” che
possano sostenere dall’interno - coinvolgendo le comunità di
riferimento non solo come beneficiari, ma come partners attivi - il
lavoro delle fondazioni a supporto dello sviluppo di capacità
organizzative finalizzate allo scopo.
Nel secondo caso, quello che riguarda le fondazioni d’impresa, ci si
chiede quale margine di responsabilizzazione del rischio e di
conseguenza quale effetto di arricchimento in cultura organizzativa,
per le fondazioni stesse, possa venire da esperienze di cui si possiede
l’intero pacchetto finanziario ma che non sono realmente
internalizzate, attraverso strategie di creazione di equal partnership, in
quanto gli attori finanziari da una lato, e gli operatori sociali dall’altro,
restano sostanzialmente estranei gli uni agli altri, eccetto che nella
72
rappresentazione comunicativa ritualizzata dai siti web o dai media,
riproponendo, di fatto, la divisione del lavoro tra chi da e chi fa.
Infine ci si chiede quali possano essere in Italia gli attrattori per
chiamare a raccolta le energie di un’ imprenditorialità sociale
disseminata e radicata nel nostro territorio nazionale che ha animato
nel passato esperienze di pro-attivismo civico ad alto potenziale di
impatto sul territorio. Esperienze, come quelle condotte da Adriano
Olivetti nel Canavese negli anni Cinquanta e che egli cercò di
proiettare anche nelle regioni del Sud del paese, attraverso il progetto
di una Città Studi nel Mezzogiorno, archetipo dei distretti culturali che,
oggi, negli Stati Uniti agiscono da attrattori di un’ imprenditorialità
sociale, che utilizza la cultura non solo come fattore di coesione sociale
e civile ma anche come fattore di crescita della competitività
economica. Esperienze che hanno, ora, soltanto un potere evocativo
dal punto di vista della loro concreta operatività e della loro
replicabilità, ma che costituiscono, nondimeno, dal punto di vista della
catena intrecciata dei valori, tra l’economico e il sociale, l’anello
mancante cui occorre rifarsi per attivare il processo maieutico di
aggregazione di forze che la nostra società civile non ha mai cessato di
generare.
Roberto Scarpa
Quarto intermezzo
1945. La fabbrica si salva miracolosamente dalla distruzione progettata
dai nazisti e dopo la liberazione Adriano torna, organizza una grande
festa in fabbrica, e ricomincia a sognare. Convoca alcuni dirigenti dei
partiti di sinistra e propone la sua idea: la socializzazione dell’Olivetti.
Gli rispondono che i tempi non sono maturi. Allora decide di andare
a Roma dove subito gli offrono l’incarico di commissario straordinario
della FIAT, i cui dirigenti sono sotto inchiesta per collaborazionismo.
Rifiuta. Ottiene un’audizione alla commissione economica della
Costituente. Ci va e sostiene la sua tesi ingenua: la socializzazione dei
grandi complessi industriali. Roma lo respinge e lui torna a fare il
Presidente dell’Olivetti.
73
In Italia quali attrattori di
energie per un
imprenditorialità sociale?
Adriano Olivetti nel
Canavese.
Il progetto di Adriano
Olivetti della Città Studi del
Mezzogiorno, archetipo di
distretti culturali
statunitensi.
La proposta di Adriano
Olivetti di socializzare la
Olivetti.
Natalino Capellaro.
1950: il debutto della
Lettera 22.
E la fortuna che non ha a Roma a Ivrea lo bacia in fronte. Il caso vuole
che una Remington Printing Calculator, sequestrata come preda
bellica, finisca a un’asta. Nessuno sa cosa sia. Ma in azienda c’è un
genio autodidatta, Natalino Capellaro, uno che a otto anni, si è
costruito da solo una macchina fotografica. Natalino la compra, la
smonta, la studia e ne tira fuori un capolavoro, la Divisumma: la
macchina più veloce al mondo nelle moltiplicazioni. Il successo è
travolgente. Costa 35.000 lire ed è venduta a 350.000.
Si arriva al 1950: esce la Lettera 22, un successo mondiale da 200.000
pezzi all’anno.
Raccontare Adriano è fantastico perché è fuori da ogni schema. Anche
la crisi del ’52 l’affronta a modo suo. Ci sono due Direttori che
insistono per licenziare 500 operai. Vanno da lui una prima volta e lui
fa finta di non sentire. Tornano una seconda volta. E lui cambia
discorso. Ma quando tornano una terza volta sempre con la stessa
proposta, lui anziché gli operai licenzia i due direttori, assume 700
nuovi venditori, ribassa i prezzi e apre nuove filiali. È un ingenuo.
Un giorno scopre che un dipendente falsifica i conti. Si informa, viene
a sapere che ha una situazione familiare intricata, lo convoca e gli
annuncia che ha deciso di aumentargli lo stipendio della somma di cui
ha bisogno. In futuro non dovrà più rubare. Dice un giorno al
responsabile del personale:
Nella nostra fabbrica ci deve essere libertà: non soltanto perché ci crediamo, ma
perché siamo un’azienda di inventori e l’invenzione ha bisogno di libertà.
La Fondazione Camillo
Olivetti.
1953: Olivetti è prima in Europa per produzione, fatturato, numero di
dipendenti. Nel negozio di New York sulla Quinta strada si può
provare una Lettera 22 rimanendo sul marciapiede.
Ma macchine, design, successo, per Adriano sono solo mezzi. Il fine è
la «Fondazione Camillo Olivetti».
Intanto, siccome è ingenuo, cerca un’altra via. Fonda il Movimento
Comunità e istituisce un Consiglio di Gestione in cui dipendenti e
dirigenza collaboreranno nell’organizzazione dei servizi sociali: asilo,
mensa, trasporti, biblioteca, case. Si tratta di una grossa cifra: qualche
74
centinaio di milioni all’anno. L’esperienza è severamente boicottata dal
partito comunista, severamente contrario a qualsiasi coinvolgimento
dei lavoratori nell’azienda. Ma soprattutto... severamente.
1957: la settimana lavorativa arriva a 45 ore e tutti i sabati sono liberi.
Un lavoratore Olivetti guadagna 60.000 lire al mese contro le 40.000
medie del settore. Dalla fine della guerra la produzione è aumentata 13
volte e l’occupazione è più che raddoppiata. Però non si fa molti amici,
né a sinistra, né a destra, né al centro. Varie volte si pronuncia contro
la proprietà familiare della grande impresa. Accusa la classe dirigente
di aver fatto gestire il piano Marshall «alle stesse forze che avevano
creato o accettato il fascismo». Non si ammoderna l’Italia inseguendo
la «fallace e limitata logica del massimo profitto». Naturalmente la
polemica è aspra.
In una circolare riservata il presidente di Confindustria, mette in
guardia gli associati dalle pecore nere. Subito la Montecatini,
ubbidiente pecora bianca, blocca un grosso ordinativo di macchine per
scrivere. L’Olivetti è una pecora nera.
E si arriva all’ultima frontiera. L’Università di Pisa contatta la Olivetti
per una ricerca sul primo calcolatore italiano. Adriano accetta con
entusiasmo e nel ’57 è pronto il modello zero: funziona, ma è enorme,
dieci metri per sei, a valvole, con la memoria di ferrite. Si tenta allora
la strada dei transistor e del silicio, e nel ’58 è pronto Elea, il primo
calcolatore elettronico a transistor realizzato in Europa. L’Olivetti
adesso è pronta ad affrontare la sfida dei prossimi decenni. Per
tecnologia e potenza di calcolo il ritardo con l’America è colmato. Ma
a Adriano non basta.
Per incidere deve arrivare in Parlamento e alle elezioni politiche
presenta la «Comunità della cultura, degli operai e dei contadini
d’Italia». Chi fu con lui ricorda:
Vedemmo quest’uomo, timido, incapace di demagogia, girare da una città
all’altra, instancabile; mettere in quest’impresa... il suo prestigio, la sua salute, il
suo avvenire.
E tutte le proprie risorse economiche. Adriano, chiede anticipazioni e
75
I difficili e tesi rapporti con
Confindustria.
La nascita dell’Elea.
L’acquisizione della
Underwood nel 1959.
La rappresentanza politica
degli interessi economici.
Cosa significa
rappresentare?
prestiti, dà in pegno le sue azioni. Le elezioni sono una mazzata. Solo
lui viene eletto. Il fallimento arriva subito in fabbrica. Per gli
aziendalisti l’Olivetti è una macchina per fabbricare quattrini. Adriano
è indebitato, ha dato le azioni in garanzia, è in minoranza. Il consiglio
di amministrazione decide: eliminare i rami negativi; fare al più presto
un piano di tagli. Adriano prende sei mesi di congedo.
Ma è un golpe. Cala la scure su tutte le spese sociali. È una vera e
propria resa dei conti.
Il voto di Adriano alla Camera però è decisivo per la fiducia al primo
governo di centro-sinistra. Ma a Montecitorio si sente straniero.
Passano pochi mesi e si dimette.
In aprile, scaduto il congedo, riassume i poteri di presidente e il 29
settembre del 1959 entra nella sede della Underwood con una
proposta d’acquisto. Il controllo della Underwood è assunto con
l’acquisto del 35% delle azioni. Qualcuno sostiene che è stato un
bidone. Però, l’immagine dell’Olivetti fa il giro del mondo e nel ’64, il
bilancio dell’Olivetti Underwood Corporation torna in attivo.
Davide Cadeddu
Olivetti e la rappresentanza politica degli interessi economici
Innanzitutto ringrazio Liliana Mancino e Francesca Limana per aver
organizzato questo seminario e per avermi invitato, ma soprattutto
ringrazio l’eroico auditorio, ormai stanco, qui ancora presente e in
attesa di questo fendente fatale che, a conclusione dell’incontro, sarò
io a vibrare.
È davvero ambizioso voler parlare in questo luogo di un tema così
complesso come la rappresentanza politica degli interessi economici.
Eppure, in un seminario dedicato ad Adriano Olivetti, questo tema mi
è sembrato del tutto naturale, quasi un dovere intellettuale per chi
come me si occupa di categorie politiche e della loro storia.
Ambizioso, dicevo, ma senz’altro utile, perché illumina un aspetto
dell’ispirazione olivettiana, presente in tanti scritti e in particolare ne
“L’ordine politico delle Comunità”.
Proviamo quindi a partire con ordine. Cosa significa rappresentare?
76
Rappresentare – senza farla troppo complicata – significa rendere
presente qualcuno o qualcosa che non è presente. Forse per questo,
inconsapevolmente, la crisi della rappresentanza politica degli ultimi
decenni ha indotto molti a cercare una migliore rappresentanza in
termini di “presenza”, spesso una sorta di auto-rappresentazione a
scapito dell’azione rappresentativa.
Questo rendere presente qualcuno o qualcosa che non è presente si
può realizzare, tuttavia, in due modi differenti: “standing for” oppure
“acting for”. In altri termini, un conto è chiedere una rappresentanza
che rappresenti per ciò che si è e un altro conto è rivendicare una
rappresentanza che rappresenti per ciò che si fa. Nel primo caso, lo
“standing for”, lo “stare per”, implica l’idea che da ciò, dallo “stare
per”, scaturisca quasi naturalmente un “acting for”, un “agire per”,
adeguato alla volontà o agli interessi che si vogliono rappresentare. È
questa la strada che conduce a una visione populista di rappresentanza
politica, che politica di fatto non è.
La rappresentanza, infatti, si manifesta come una realtà politica
quando è capace davvero di rappresentare – e non solo di descrivere o
simboleggiare – volontà e interessi, e questa capacità peculiare si
esprime solo attraverso l’“acting for”, l’azione “per conto di”.
Cosa significa questo? Significa semplicemente che per rappresentare la
volontà o gli interessi di un individuo o di una comunità non occorre
essere simile – per età o genere, per professione o classe, etnia o
religione, ecc. – a quell’individuo e a quella comunità; occorre bensì agire
concretamente a favore di quell’individuo e di quella comunità. È
l’azione, in altri termini, non l’identità, che permette di individuare
l’essenza politica, poiché la politica riguarda il fine comune
dell’aggregato umano considerato, un fine che scaturisce dalla relazione
e dall’azione, dalla confluenza e dallo scontro di più fini differenti.
Merito di Adriano Olivetti è quello di pensare alla rappresentanza
politica di una società complessa come un sistema complesso, in cui è
il funzionamento della struttura rappresentativa a garantire, nel limite
delle cose umane, vera rappresentanza sia sociologica (lo “standing
for”), sia politica (l’“acting for”).
È proprio nella rappresentanza politica degli interessi economici che si
77
“standing for” oppure
“acting for”.
Per rappresentare la volontà
o gli interessi di un
individuo non occorre
essere simile bensì agire
concretamente a favore...
...l’ispirazione marxista
dell’edificio istituzionale
auspicato da Olivetti.
Olivetti parte da Marx e va
oltre Marx.
Per Adriano Olivetti ogni
problema della fabbrica si
rifletteva sul territorio.
La fabbrica e l’ambiente
dovevano essere
economicamente solidali.
Nessun problema
economico è strettamente
tecnico, tanto inscindibile
dal problema umano e
sociale ad esso collegato.
manifesta clamorosamente una ispirazione talvolta disconosciuta,
ovvero l’ispirazione marxista dell’edificio istituzionale auspicato da
Olivetti. E questo perché? Perché se ora si è liberi di parlare di
marxismo senza preclusioni dogmatiche, ovvero implicandone
automaticamente la condanna senza appello o l’esaltazione esasperata,
è del tutto evidente che per Olivetti la “struttura” economica debba
essere a fondamento della “sovrastruttura” istituzionale, affinché
questa possa funzionare in termini di rappresentanza, come vedremo
tra poco, di interessi economici.
In altri termini, per usare uno slogan, Olivetti parte da Marx e va oltre
Marx, avendo il coraggio di suggerire una possibile architettura
statuale, che funga da punto di riferimento scientifico senza assurgere
ad assunto tetragono e pertanto utopistico.
Adriano Olivetti, come ormai sappiamo bene tutti, prese le mosse
dalla fabbrica e, secondo la celeberrima frase autobiografica, notò
come ogni problema della fabbrica diventasse un problema del
territorio a essa circostante; notò come ogni problema della comunità
dei lavoratori diventasse un problema della comunità più ampia cui
essa apparteneva. In altre parole, occorreva rendere “la fabbrica e
l’ambiente circostante economicamente solidali”. Questa è la ragione
per cui, nell’enucleare la pluralità di piccole provincie (che lui chiama
“Comunità”), a base del sistema politico-amministrativo italiano che
preconizza, suggerisce di individuare quale sia la loro fonte economica
più significativa. La Comunità viene pertanto concepita come il luogo
di tendenziale maggior movimento diurno della popolazione (e il
movimento diurno, si sa, riguarda l’attività lavorativa). Il segreto della
Comunità olivettiana è quello di far coincidere la circoscrizione
amministrativa con quella elettorale (uninominale), e questa con quella
degli interessi economici e sociali. Poiché, come scrive Olivetti “nessun
problema economico è strettamente tecnico, tanto inscindibile dal
problema umano e sociale ad esso collegato”, occorre, secondo lui, da
un lato suddividere la Regione “in unità più piccole della provincia, ove
vengono isolate le attività economiche più importanti, dando così luogo
a rappresentanze che riproducono con maggiore approssimazione la
realtà economica nella sua fisionomia essenziale”, e occorre, dall’altro, il
78
coinvolgimento dell’istituzione politica “Comunità”, il coinvolgimento
di questa piccola provincia nella proprietà parziale degli interessi
concreti di industria o agricoltura. Così, precisa Olivetti, “la
rappresentanza politica si trasforma per sé stessa in rappresentanza
economica senza ricorrere a pericolose rappresentanze di gruppi
economici o professionali”.
Dunque, queste Comunità, numericamente delimitate in via
approssimativa anche per il fatto di essere dei collegi elettorali
uninominali, costituiscono il fondamento del sistema rappresentativo
olivettiano, che implica la presenza di un rappresentante politico eletto
a suffragio universale (in un collegio uninominale), e da sei altri,
chiamiamoli così, assessori, cui sono affidate le funzioni dell’assistenza
sociale, delle relazioni con i lavoratori dipendenti, della cultura,
dell’urbanistica, della giustizia e, infine, dell’economia.
In particolare, a proposito dell’assessore della funzione economica,
Olivetti sottolinea la “inammissibilità della rappresentanza economica
diretta”. Per questo motivo – egli scrive – “nell’organizzazione dello
Stato delle Comunità ogni funzione politica è affidata nel settore
economico a tecnici dell’economia, scelti da politici in base al loro
orientamento spirituale e non su designazione di gruppi economici o
professionali”. Questo responsabile degli uffici economici della
Comunità sarà dunque, secondo Olivetti, “quella persona che per il suo
valore umano, intellettuale e morale, e per la sua competenza specifica,
può meglio di ogni altro nella Comunità intendere e comprendere
l’insieme dell’economia, la sua rilevanza sociale, i suoi possibili sviluppi”.
Precisa quindi Olivetti che “una tale scelta riposa esclusivamente sul
giudizio politico e non può essere affidata, adottando un sistema
elettivo, a gruppi economici socializzati o non socializzati”.
La rappresentanza politica degli interessi economici si manifesta,
pertanto, nelle intenzioni di Adriano Olivetti, attraverso una duplice
modalità. In primo luogo, abbiamo visto, grazie allo “standing for”
della coincidenza di comunità economica (contraddistinta, in un
sistema misto, da imprese pubbliche, imprese private e imprese
cooperative), e comunità politica, per cui tutti i sette rappresentanti
politici della Comunità rappresentano indirettamente anche i suoi
79
La rappresentanza politica
si trasforma per sé stessa in
rappresentanza economica.
Lo Stato delle Comunità.
interessi economici. In secondo luogo, grazie all’“acting for”
dell’assessore all’economia, individuato dal principio legittimante della
cooptazione, a opera della decisione condivisa dal sindaco
(chiamiamolo così), eletto a suffragio universale, dall’assessore al
lavoro, eletto a suffragio ristretto dei lavoratori dipendenti, e
dall’assessore alla cultura, nominato per concorso. Precisa Olivetti che
“la nomina del presidente della divisione economia è stata affidata al
comitato di presidenza anziché al corpo elettorale della Comunità per
evitare che adottando un sistema elettivo per una funzione così
delicata, motivi estranei alla capacità e integrità morale dell’eletto e, in
particolare, l’azione di interessi organizzati, influenzino gli elettori”.
Ancor meglio, possiamo dire che, sempre con le parole di Olivetti, “un
tale procedimento, del tutto simile a quello denominato di
cooptazione, assicura una identità di orientamento politico tra corpo
designante e corpo designato”.
In questo modo, per un verso lo “standing for” non esprime alcuna
forma di particolarismo territoriale o funzionale, poiché coincide con
l’intera comunità da rappresentare; per altro verso, l’“acting for” è
autonomo da interessi specifici e quindi responsabile, perché la sua
responsività, la capacità di rispondere a chi lo ha nominato o eletto,
dipende dalla sua fedeltà al presidente della Comunità, il sindaco,
all’assessore al lavoro e quello alla cultura, che sono i soli a poterlo
premiare o punire attraverso la rinomina o la decadenza del mandato.
Se, “un’evoluzione verso forme politiche che abbiano una immediata
corrispondenza con la realtà economica appare indispensabile”,
Adriano Olivetti è certo, forse non a torto, che “il sistema delle
Comunità risolve questa non negabile esigenza con una
approssimazione di identità di rappresentanza politica ed economica
quasi perfetta”. E ciò, inoltre, è rilevante perché, come lo stesso
Olivetti sostiene, con la sua consueta e squisita sensibilità storica (che
spesso gli viene negata), “una tale coincidenza della sfera economica e
politica esisteva del resto quale presupposto storico della formazione
del regime parlamentare”. Possiamo aggiungere noi che ciò è rilevante
perché la “multi-level governance” a livello mondiale, che si sta
generando progressivamente attraverso il processo di globalizzazione,
80
ha bisogno di forme di rappresentanza politica che siano in grado di
rappresentare economicamente gli interessi delle comunità locali senza
abbandonare questa rappresentanza ai monopoli di interessi particolari
ed extraterritoriali.
Ecco, in estrema sintesi, un dettaglio teorico del quadro politico
esposto ne “L’ordine politico delle Comunità”, un progetto di riforma
costituzionale a tratti minuzioso e senz’altro perfettibile, che garantisce
chiarezza concettuale e un preciso, ma non dogmatico, orientamento
strategico dell’azione politica. Quest’ultima si deve esprimere sì,
secondo Olivetti, attraverso la partecipazione diretta, ma non è mai
democrazia diretta. È sempre e solo democrazia rappresentativa,
alimentata peraltro da una pluralità di forme di legittimazione che
dichiarano implicitamente un cardine del pensiero olivettiano: la virtù
del principio elettivo è limitata.
Ecco, in estrema sintesi, un dettaglio teorico del quadro politico
descritto da Adriano Olivetti, a conclusione dell’opera “L’ordine
politico delle Comunità”, con queste pregnanti parole. Se lo Stato ha
una vita, “è essenziale per la libertà è che questa vita proceda dal basso,
quasi che lo Stato sia un grande albero a protezione di un immenso
giardino – il consorzio umano – le cui radici affondino e si estendano
nel terreno che le alimenta. Anche la legge secondo cui il grande albero
cresce è la stessa legge di natura che domina il giardino dell’uomo; così
albero e giardino procedono nella vita illuminati da una sola legge
superiore, affinché possa un giorno compiersi la fine, quando saranno
‘ridotti al nulla ogni principato, ogni podestà e ogni potenza’”. Grazie.
Roberto Scarpa
Quinto intermezzo
1960: c’è tanto lavoro per Adriano. Deve preparare la quotazione in
borsa e fissare limiti precisi all’intervento in Underwood per non
trascinare l’Olivetti in un eventuale fallimento.
A un amico confida: a me pare sempre di avere davanti un tempo
infinito. Il suo orologio si guasta. Ne compra uno nuovo e pochi giorni
dopo si ferma anche quello. Con la segretaria scherza: si vede che sono
proprio io che non li faccio andare.
L’azione politica secono
Olivetti è partecipazione
diretta ma non democrazia
diretta.
Lo Stato come un grande
albero che protegge un
immenso giardino - il
consorzio umano.
La morte di Adriano
Olivetti.
Altiero Spinelli definisce
Adriano Olivetti come un
uomo che aveva la
completezza nella mistura
di saggezza e pazzia.
Il Presidente della IBM
riceve il Premio per il
design e lo dedica ad
Adriano Olivetti “che ci ha
insegnato ad amare il bello
nell’industria”.
La Rai arriva a Ivrea per un documentario. Dice alla moglie: Mi hanno
fatto fare la Lollobrigida. Chissà dove sarò quando il programma sarà
trasmesso. Il 25 febbraio l’assemblea degli azionisti approva con un
plebiscito l’operazione Underwood. L’Olivetti adesso è una delle
aziende più multinazionali del suo tempo, all’avanguardia nelle ricerche
che condurranno al computer. Il 27 prende il treno per Losanna. Sul
treno incontra la segretaria delle Edizioni di Comunità che sta
andando a sciare e cena assieme alla sua comitiva. È in gran forma.
Racconta della fuga di Turati e del carcere a Regina Coeli. A Ivrea
intanto si festeggia il carnevale. La comitiva scende a Martigny. Lui
saluta dalla piattaforma del treno che prosegue.
Tutto avviene in pochi minuti. Un passeggero lo vede diventare
paonazzo, poi sbiancare. Adriano si alza, esce in corridoio, si trascina
per due vagoni. Uno studente esce appena in tempo per adagiarlo sul
sedile. Il treno si arresta alle 22.14. Alle cinque del mattino il telefono
squilla a casa di un dirigente Olivetti. Il generale del carnevale
proclama il lutto cittadino. Ai funerali si presentano in quarantamila, il
doppio degli abitanti di Ivrea. La moglie ricorda che Adriano le aveva
detto: al mio funerale voglio i pifferi del carnevale.
Altiero Spinelli scrive: è morto Adriano Olivetti, un uomo che aveva la
completezza, nella mistura di saggezza e pazzia, dei grandi del
Rinascimento.
L’esecutore testamentario scopre che il suo patrimonio è costituito da
alcune migliaia di azioni della Società.
Esce la sua ultima intervista che annuncia nuove assunzioni.
Thomas Watson, presidente dell’IBM, riceve a New York il Premio
Kaufmann per il design, e dichiara: ritiro questo premio per conto di
altri, per uno che ci ha insegnato ad amare il bello nell’industria: per
conto di Adriano Olivetti.
Quell’anno il premio per i lavoratori, legato a una percentuale degli
utili, è del 58%. Sarà l’ultima volta.
Inizia l’Olivetticidio. Giuseppe Pero assume tutti i poteri. Ma
all’impegno in Underwood non pone i limiti che voleva Adriano.
L’indebitamento cresce e tre anni dopo scoppia la crisi. La famiglia è
divisa. Per risanare la situazione accetta l’offerta - amichevole – di un
82
«gruppo d’intervento» formato da FIAT, Pirelli, IMI, Mediobanca,
Centrale. Le azioni crollano rovinando – amichevolmente – i
dipendenti che vi avevano investito i risparmi. La conseguenza più
grave però è un’altra: l’abbandono della «grande elettronica». Valletta,
presidente della Fiat e grande amico degli americani, la definisce
pubblicamente: «un neo da estirpare». E così il gioiello più prezioso
viene venduto – amichevolmente – alla General Electric, che è ben
contenta di comprarsi il neo.
È un errore drammatico e avviene nell’indifferenza di tutti. Solo il
figlio Roberto è contrario.
1965: nonostante la cessione della Divisione Elettronica un gruppo di
irriducibili guidato da Pier Giorgio Perotto non si arrende e progetta
la Programma 101. L’Olivetti la presenta alla Fiera Mondiale di New
York. È il primo computer da tavolo del mondo.
Passa qualche anno ancora e un altro italiano, che si chiama Federico
Faggin, che lavorava a Borgolombardo in Olivetti, e vista l’aria
amichevole è emigrato, brevetta in America il microprocessore al
silicio. Lo stesso Faggin nel 1994 sarà l’ideatore del touch-screen.
La strada per il computer che usiamo oggi era anche italiana. Era
parecchio italiana. Stupidità, superficialità, interessi, hanno scritto una
storia diversa.
1978: Carlo De Benedetti prende il controllo dell’Olivetti.
12 marzo 2003: il marchio Olivetti è cancellato dalla Borsa italiana.
Del resto ormai si trattava solo di una omonimia.
Ecco, la storia è tutta qui. Prima di leggere quel libro non la conoscevo
e, ad essere sincero, ancora oggi mica l’ho capita. Del resto ce ne sono
tante di cose che non capisco. Per esempio, il Novecento. L’avete
capito voi?
Doveva essere migliore degli altri.
L’aveva promesso,
ma ormai
non farà più in tempo a dimostrarlo.
83
La cessione della Divisione
Elettronica.
La solitudine di Roberto
Olivetti, contrario alla
cessione.
1965: il debutto della P101.
Trasformazioni e declino di
un’azienda che nel 2003
viene cancellata dal listino
della Borsa italiana.
Il Novecento: le speranze più grandi e la fine di tutti gli ideali. Poi
siamo arrivati noi e ci siamo dimenticati tutto... Ma i sogni di Adriano,
l’uomo che sembrava un mendicante e al tempo stesso un re, il don
Chisciotte che comprò la Underwood... quelli no! Per ricordarlo, mi
immagino di vederlo nel mezzo del cortile della fabbrica di mattoni
rossi, e di sentirgli dire, come allora:
Voi avete il diritto di chiedere e di sapere: qual’è il fine?
Dove porta tutto ciò?
Può l’industria darsi dei fini?
Si trovano questi fini
semplicemente nell’indice dei profitti?
O non vi è al di là del ritmo apparente,
qualcosa di più affascinante,
anche nella vita di una fabbrica?
Dicono che dei sogni di Camillo e Adriano non resti niente. Ma noi
non siamo d’accordo. Sì. È vero. Tutto svanisce. Gli uomini… Le
idee... E adesso anch’io. Però ci rimangono i saluti, gli auguri. E noi ne
abbiamo uno speciale: Sogni d’oro! Come quelli di Camillo e Adriano.
Perché le notti passano, tutte, e anche questa passerà. Anzi, forse sta
già passando. Dicono che i sogni svaniscano all’alba. Ma invece è
proprio di giorno che abbiamo bisogno dei sogni. Quando sennò?
Quindi a tutti voi, di cuore, per farla passare un po’ prima questa notte:
Buongiorno!
Buongiorno e sogni d’oro!
84
La versione finale .pdf di questo libro è stata realizzata nel mese di ottobre 2015
Rispetta il tuo ambiente, pensa prima di stampare questo libro
Il Polo Bibliotecario e l’Ufficio Formazione del Ministero dello Sviluppo Economico, in
collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti, hanno promosso nel novembre
del 2014, il seminario “Adriano Olivetti. L’impresa, la comunità, il territorio”, i cui
atti sono raccolti in questo volume.
Attraverso i contributi di Davide Cadeddu, Adriana Castagnoli, Valerio Ochetto e
Giuliana Gemelli, studiosi dell’esperienza olivettiana in ambito politico, economico,
sociale e culturale, si traccia il profilo di una straordinaria esperienza, ancora oggi
molto attuale. A fare da contrappunto agli interventi dei relatori, cinque brani tratti
dallo spettacolo di Roberto Scarpa “Sogni d’oro. La favola vera di Adriano Olivetti”.
Davide Cadeddu
Professore associato di Storia delle categorie politiche presso la Facoltà di Studi Umanistici
dell’Università degli Studi di Milano. Nel 2013 ha curato la riedizione de “L’ordine politico delle
Comunità” di Adriano Olivetti.
Adriana Castagnoli
Storica e saggista, docente di Storia economica e sociale all’Università di Torino e nel Corso di
Dottorato in Scienze della Formazione, collaboratrice de “Il Sole 24 Ore”, è autrice di numerosi studi
e ricerche sulla storia dell’industria e dell’economia italiana ed europea, tra cui “Essere impresa nel
mondo. L’espanzione internazionale dell’Olivetti dalle origini agli anni Sessanta”.
Giuliana Gemelli
Docente di storia contemporanea e di storia della filantropia all’Università di Bologna, Direttore del
Centro di ricerca PHaSi Philantropy and Social Innovation e della rivista “Giving thematic Issues in
Philantropy and Social Innovation”, membro del Centro Studi della Fondazione Adriano Olivetti.
Valerio Ochetto
Si è laureato in storia contemporanea con una tesi di laurea sul fascismo. È stato inviato speciale della
RAI di politica internazionale e ha realizzato serie storiche televisive soprattutto sulla resistenza ai
regimi fascisti in Europa e sul dissenso ai regimi comunisti. Ha scritto alcuni libri di storia tra cui
un’inchiesta sull’assassinio dell’oppositore a Salazar, generale Humberto Delgado. La sua opera
principale è la biografia di Adriano Olivetti, che considera un work in progress.
Roberto Scarpa
Attore, scrittore, drammaturgo, organizzatore teatrale, ha fondato e diretto per venticinque anni
“Prima del teatro: scuola europea per l’arte dell’attore”, in cui collaborano alcune fra le principali scuole
di teatro europee, russe e americane, e “Fare Teatro”, un programma di educazione teatrale per i
giovani. Nel 1991 la Guidhall School of Music and Drama di Londra gli ha conferito la Honorary
Fellowship.
978 88 96770 25 2
www.fondazioneadrianolivetti.it