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Topoi Trobadorici Nei Rerum Vulgarium Fragmenta

2014

Università degli Studi di Milano Scuola dottorale in Humanae Litterae Dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici Corso di dottorato in Storia della lingua e letteratura italiana (XXVI ciclo) TOPOI TROBADORICI NEI RERUM VULGARIUM FRAGMENTA Settore scientifico disciplinare L-FIL-LET/10 Tesi di dottorato di GIULIA RAVERA Tutor: Chiar.ma Prof.ssa CLAUDIA BERRA Coordinatore del dottorato: Chiar.mo Prof. FRANCESCO SPERA Anno accademico 2012-2013 2 INTRODUZIONE Nel Canzoniere di Petrarca i trovatori sono oggetto di alcune citazioni esplicite. In primo luogo, il recupero di forme metriche molto riconoscibili (sestine, canzoni 29 e 206) rappresenta un’aperta dichiarazione. È forse meno evidente, ma altrettanto significativo, il caso di immagini riconducibili in modo puntuale alla tradizione occitanica, prima fra tutte quella della “caccia impossibile”1. L’autore stesso, dunque, invita a chiedersi quale sia l’effettivo ruolo dell’eredità provenzale nella sua raccolta lirica. Anche il prolungato interesse della critica favorisce tale interrogativo: infatti, gli studi in merito sono stati numerosi e diffusi nel tempo, a partire dal Cinquecento. D’altro canto la critica si è a lungo concentrata su aspetti molto specifici: un singolo fragmentum, un singolo trovatore, singoli concetti ed occorrenze. I riscontri di carattere più generale oggi disponibili sono legati a studi ormai lontani nel tempo e pensati come raccolte di specifici luoghi sensibili, come nel caso di Scarano2, oppure risultano non accessibili al lettore3. Il discorso può essere perciò ampliato sia nella lettura del Canzoniere, considerato nel complesso, sia rispetto al numero e alla varietà di componimenti trobadorici cui accostare l’opera petrarchesca4. Il mio lavoro nasce proprio dall’intenzione di sottoporre ad un’analisi d’insieme il contatto tra queste due diverse esperienze poetiche, per approfondire la funzione e il significato del riuso occitanico nel Petrarca lirico. A questo scopo è apparsa promettente la riflessione sugli elementi topici e convenzionali, definiti o diffusi in ambito volgare tramite la poesia cortese e dunque passati alla produzione petrarchesca. Tale scelta risulta efficace a livello metodologico, poiché si tratta di soluzioni espressive (strutture discorsive ed immagini) al contempo ben delineate rispetto al contesto e non isolate in sé né limitate ad uno specifico brano o richiamo. Al contrario, tali elementi, riproponendosi in momenti diversi dell’elaborazione lirica, rivelano su scala più ampia il gusto e le intenzioni dell’autore; la tipologia e la quantità di riscontri consente di formulare ipotesi suggestive rispetto alle modalità della composizione. Prendere in esame il contatto tra Petrarca e i trovatori non significa, infatti, limitarsi a segnalare in senso storicistico le fonti del Canzoniere, per quanto sia interessante rilevare come il poeta tenesse in conto direttamente i modelli d’oltralpe, senza limitarsi 1 “Beato in sogno et di languir contento, / d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura estiva” (son. 212, vv 1-2) e “Et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori” (sest. 239, vv 36-37). Ci sarà ampio spazio per trattare di tale recupero petrarchesco e dell’uso adynatico in generale. 2 Scarano 1901, di cui si tratterà nel corso del primo capitolo. Lo studioso ha proposto un repertorio di luoghi petrarcheschi e trobadorici che dimostrassero un preciso recupero; gli studi successivi hanno in parte criticato i risultati, per la tendenza ad accostare vere e proprie citazioni, più o meno mascherate, a topoi o ancora a immagini in cui l’eco italiana (per lo più stilnovista o dantesca) fosse molto più percepibile rispetto a quella occitanica. 3 Mi riferisco alla tesi di laurea discussa da Agostino Casu nell’anno accademico 1992-1993 e mai pubblicata. 4 La selezione dei trovatori cui fare riferimento è stata ispirata in primo luogo all’autorevole antologia in Riquer 1975; per indicazioni più specifiche si veda la Nota al testo. 3 alla mediazione dei propri antecedenti italiani5. A tale proposito è rilevante, per altro, che gli eredi più prossimi della cultura occitanica, i Siciliani, non lascino tracce marcate nel Canzoniere: è sintomatica la loro assenza (come d’altra parte quella dei siculotoscani) nel breve canone tracciato nella canzone “a citazioni” Lasso me. Ciò che davvero preme mettere in luce è l’autonomia con cui l’eredità trobadorica viene messa a frutto da Petrarca: il recupero della tradizione si configura come una rifunzionalizzazione, una reinterpretazione delle convenzioni, focalizzata su un io del tutto differente ed attraverso una lirica di concezione assolutamente nuova. La chiave di tale prospettiva risiede nelle modalità stesse con cui Petrarca d’abitudine costruisce i propri recuperi dalle auctoritates: ogni aspetto è oggetto di una radicale appropriazione e personalizzazione, dapprima grazie all’attenta selezione, poi in forma di radicale trasfigurazione. Ciò significa che ogni citazione esplicita è tale in virtù di una scelta ben precisa e che, al contrario, recuperi e richiami sono spesso difficili da identificare6, magari rifusi insieme ad altri riferimenti intertestuali o ricondotti a contesti profondamente difformi rispetto a quelli di partenza7. Lo studio del riuso trobadorico, dunque, offre utili informazioni sulla visione e sulla tecnica compositiva dello stesso Petrarca. Gli aspetti su cui appare più opportuno soffermare l’attenzione sono tre: convenzioni di genere, organizzazione dei testi lunghi, singole immagini topiche. In questo modo sarà 5 Ciò non toglie ovviamente che la presenza di rimandi (soprattutto lessicali) allo Stil Novo e a Dante (soprattutto alle petrose) nel Canzoniere costituisca un punto fermo della critica. Su tali aspetti e sulla relativa bibliografia si tornerà in seguito. 6 Sulla questione si vedano Chessa 2005, pp. 13-23, e soprattutto Pagani 1946, pp. 50 segg, che fa specifico riferimento alla questione trobadorica, sottolineando come il senso del contatto tra le due esperienze poetiche, petrarchesca ed occitanica, non sia nei singoli luoghi, quanto nella concezione complessiva della poesia come ricerca di perfezione ed eleganza attraverso una costante limatura. 7 Su tale aspetto del labor limae petrarchesco si sono soffermati numerosi critici, partendo dalle affermazioni dello stesso Petrarca sui metodi funzionali e legittimi dell’imitazione, a partire dalla memorabile metafora dell’ape, citata ad esempio da Ferraro 2008, pp. 16 segg. Pulsoni 1998, pp. 13-16, fa riferimento in particolare alla Familiare XXIII, 19, in cui Petrarca distingue tra imitazione “nascosta” e “palese”. Lo studioso riconduce poi il discorso al più delimitato problema del rapporto con Arnaut Daniel: la citazione invita il lettore ad operare il confronto tra il testo che ha di fronte e i suoi modelli, ma al di là di questo manca un’adesione piena e totale. Santagata 1996, p. 39, evidenzia come il legame con la tradizione precedente non precluda affatto a Petrarca la possibilità di esprimere un’assoluta libertà e modernità: “Moderno è il suo comportamento nei confronti della tradizione letteraria. Lo caratterizza un ecumenismo che non ha riscontro nei rimatori coevi, pur così inclini all’ibridismo culturale. Al dettato di Petrarca è sottesa non solo l’intera tradizione lirica in volgare (italiana, cioè, e provenzale), ma, si può ben dire, tutta la gamma delle esperienze letterarie a lui accessibili […]. A differenziare Petrarca non è solo la mole del suo bagaglio di letture (di cui va tuttavia sottolineata la straordinarietà), ma soprattutto la consapevolezza del tipo di rapporto che egli instaura con la tradizione e quindi il dominio assoluto che egli esercita su ciò che è suo e su ciò che fa suo.” Sull’importanza della tradizione in Petrarca si veda anche Ferraro 2008, p. 16: “Non vi è nulla di più estraneo a Petrarca di una scrittura spontanea […]. Tutto era in lui filtrato da una smisurata erudizione la cui estensione, ancora in parte da accertare, è comunque superiore alle fonti espressamente dichiarate e di certo più larga dei confini della sua biblioteca. La tradizione, sia quella più prossima in volgare che quella prediletta in latino, sovrastava la sua ispirazione, predeterminando la selezione, sempre accorta e ponderata, di metafore e similitudini e la scelta, ancor più meditata, di temi e motivi, come ogni altra notazione, anche la più marginale”. Tuttavia: “Egli si era impegnato da tempo a precisare i termini di un’imitazione che, imponendosi come obbligata, doveva comunque lasciare margini sufficienti all’originalità personale”. 4 possibile assumere di volta in volta un punto di vista diverso, prendendo in esame l’organizzazione complessiva della raccolta, porzioni ampie e articolate del testo, passi più delimitati. Nei primi due casi appare particolarmente importante valutare il rapporto del singolo testo con i componimenti limitrofi e in generale con il complesso della raccolta. La disposizione dei fragmenta ha sempre, come è noto, una valenza ben precisa e nessun momento della storia dell’io ha significato solo per se stesso. Ciò vale a maggior ragione per i luoghi influenzati dalla tradizione occitanica: il richiamo assume una sfumatura differente a seconda che sia collocato o meno nella “zona avignonese”, cioè giovanile (o presunta tale)8, della raccolta e non sembra casuale che gli elementi trobadorici tendano talvolta ad assommarsi in serie limitate di testi, come avviene per 21-30, dove inoltre abbondano in modo significativo i metri lunghi. Il riuso dell’eredità provenzale appare coinvolto nel processo di costruzione della macrostruttura9. Per quanto concerne invece i brani più localizzati, le aree semantiche più stimolanti risultano in primo luogo quelle connesse all’amore disforico e alienante, nell’ambito del quale l’incontro con i trovatori è particolarmente evidente; seguiranno le analisi della rappresentazione femminile, il cui sviluppo procede di pari passo a quello dell’io lirico e che quindi contribuisce alla definizione della figura principale, della gioia amorosa, della mescolanza di spunti sacri e profani, degli elementi legati al tempo e allo spazio, di alcuni aspetti metapoetici. Sia sul piano macro che microtestuale l’attenzione sarà sempre concentrata sui fattori di vicinanza e al contempo sulle strategie di appropriazione che contraddistinguono il riuso trobadorico in Petrarca. Conclusa l’osservazione testuale, ed anzi proprio in relazione all’importanza che la componente occitanica dimostra nel Canzoniere, si intende proporre una riflessione di carattere storico-biografico rispetto a quali opere provenzali potrebbe aver letto il poeta aretino, e in quali occasioni. Che Petrarca conoscesse i Provenzali in modo piuttosto approfondito lo suggeriscono con eloquenza i testi, in particolare Canzoniere e Triumphi, dove anzi sembra di poter intuire l’eco non solo delle opere in versi, ma anche di vidas e razos10. Numerosi critici hanno insistito su tali aspetti11, benché non sempre le loro posizioni siano state concordi rispetto alla quantità di componimenti occitanici accessibili nel XIV secolo12 e soprattutto in merito al contesto che potrebbe aver favorito l’incontro del poeta con i modelli transalpini. Spesso si è pensato che gli anni avignonesi – gli anni della giovinezza e della formazione – debbano essere stati molto proficui, per quanto alle 8 Tale definizione è certamente da intendersi in riferimento agli equilibri e meccanismi interni alla raccolta e dunque alla cronologia fittizia dei testi che vi sono inseriti, non alla datazione storica dei componimenti. 9 Si farà perciò riferimento, in parallelo, alla contemporanea costituzione della prima raccolta epistolare e al Secretum. 10 Viscardi 19702, p. 377. 11 Zingarelli 1935, Bertoni 1937, p. 82, Pagani 1946, p. 7, Contini 19704, Lanza 1978. 12 Casella 1936, p. 154 è ad esempio convinto che le letture di Petrarca in ambito trobadorico siano state ampie e approfondite, ma che non fossero disponibili materiali diversi o più ricchi rispetto a quelli di cui disponiamo oggi. 5 dichiarazioni di principio ben di rado sia seguita un’argomentazione davvero approfondita13. D’altro canto non va sottovalutata l’importanza del contesto padovano e delle letture di Petrarca negli anni ‘50, proprio quando Petrarca ripensava la propria lirica e la sua organizzazione14. Lo stesso autore ne dà testimonianza nella celebre postilla al sonetto Aspro core, la cui ispirazione è in parte ricondotta alla suggestione di Arnaut Daniel. Tuttavia tale affermazione non esclude affatto che ci siano state altre letture in momenti e condizioni anche molto diversi. È difficile e potremmo dire antieconomico negare in toto il contatto con la tradizione occitanica durante gli anni trascorsi in Provenza, dove la competenza linguistica, la prossimità storico-culturale, la memoria locale e i coevi tentativi di rinnovamento della tradizione possono con facilità aver influenzato il poeta in fieri. Le due esperienze e le due fasi di scoperta e (ri)lettura non si escludono né contraddicono a vicenda: esse coinciderebbero in effetti con due fasi significative per la produzione petrarchesca, la formazione giovanile (Avignone) e la preparazione delle raccolte (anni ‘50). In mancanza di manoscritti o memorie che permettano di dare definitivo fondamento alle nostre conoscenze sul tema, chiarendo così una cronologia trobadorica petrarchesca che al momento resta indiziaria, sembra utile identificare le possibilità e le modalità di lettura che contraddistinguevano il primo Trecento nel Midi. I fattori da prendere in esame sono diversi: lo sviluppo socio-culturale dell’area avignonese, le biblioteche e in generale i possessi librari documentati, l’ambiente pontificio e cardinalizio che Petrarca frequentò a lungo, le amicizie e i rapporti intellettuali che possono aver influenzato il poeta. Le sillogi, le diverse forme assunte dalla tradizione manoscritta (canzonieri, libri d’autore, florilegi, raccolte biografiche), gli strumenti per studiare la lirica cortese, i tentativi di risvegliarne l’eredità in una nuova epoca sono tutte tracce significative di come il legame con la realtà culturale trobadorica fosse ancora vivo, benché in termini necessariamente mutati rispetto a quelli originari. Questi molteplici elementi permettono di ipotizzare che il contesto provenzale fosse favorevole, negli anni in cui Petrarca vi visse, all’incontro con la letteratura occitanica, per quanto sia impossibile fornire su simili basi indicazioni certe e riferite alla condizione del singolo individuo. 13 Possiamo citare in proposito le affermazioni di Hauvette 1929, p. 122, Viscardi 19702, p. 378, e soprattutto di Perugi 1985 (ma la medesima opinione è alla base di vari interventi successivi; tali aspetti saranno trattati con maggior ampiezza nel corso del primo capitolo). 14 Su tale posizione insiste, anche in polemica con Perugi, Santagata 1990. Per tali questioni si vedano la trattazione più ampia nel primo capitolo e poi quella posta ad introduzione della seconda parte. 6 Nota al testo I brani petrarcheschi sono tutti citati secondo l’edizione Santagata 1996. Le opere provenzali sono sempre citate, quando possibile, secondo la singola edizione critica, secondo le indicazioni fornite in bibliografia. Alegret, Marcoat, Amanieu de la Broqueira, Peire de Valeria e Gausbert Amiel sono citati secondo l’edizione Viel 2011. Savaric de Mauleon, Pistoleta, Guilhem Figueira, Blacasset, Peire Bremon lo Tort, Ponç de la Guardia, Giraut del Luc, Guilhem de Saint Leidier, Giraudò lo Ros, Salh d’Escola, Arnaut de Tintinhac, Giraut de Salanhac, Aimeric de Sarlat, Guilhem Magret, Uc de Lescura, Bertran de Born figlio, Ponç d’Ortafà, Raimon d’Avinhon, Engles, Bertran de Ravenac, Bonifaci de Castellana, Guiraut d’Espanha, Raimon de Tors, Paulet de Marselha, Olivier lo Templier, Guilhem d’Autpol, Raimon Gaucelm de Bezers, Matieu de Caersi, Joan Esteve, Amanieu de Sescars, Formit de Perpinyà, Grimoart, Gausbert Amiel, Uc de Mataplana, Jausbertz de Poicibot, Guilhem Raimon de Gironella, Federico III, il ciclo di sirventesi del 1285 e le pastorelle di Guiraut Riquier sono citati secondo l’edizione Riquer 1975. Il re d’Aragona, Peire de Bussignac, Jausbertz de Poicibot, Peire de Corbiac, Uc de la Bacalaira, Pons de Capduelh (Be s cujet venjar Amors), Peire Rogier e Blacasset (Si mals d’amor m’auci ni m’es nozens) sono riportati secondo l’edizione Piccolo 1948. Peire de la Cavarana, Peire de la Mula, Peire Guilhem de Luserna, Percivalle Doria, Paolo Lanfranchi da Pistoia, Ferrarino da Ferrara e Calega Panzà sono citati secondo l’edizione Bertoni 1915. Le opere delle trobairitz sono tratte dall’edizione Bec 1995; per quelle anonime, da cui non si sono tratte citazioni, si possono leggere nell’edizione Gambino 2003, con qualche integrazione in Riquer 1975. 7 CAPITOLO PRIMO Il rapporto tra Petrarca e i trovatori: stato della questione La questione del rapporto tra Petrarca e i trovatori1 non è certo una novità per gli studi critici. Almeno a partire dal XV secolo, i lettori del Canzoniere hanno avuto consapevolezza dell’influenza che la poesia occitanica aveva avuto sulla raccolta, grazie anche ai chiari indizi seminati dall’autore a testimonianza del suo apprezzamento2, quale il gruppo di Provenzali che figura nella schiera dei poeti amanti del Triumphus Amoris. I tentativi di interpretare tale connessione hanno assunto prospettive, metodi, ideologie differenti nel corso dei secoli. Non tutte le epoche sono state ugualmente produttive, ma il dibattito non si è mai sopito del tutto ed anzi spesso ha conosciuto toni vivaci. I limiti dei risultati raggiunti sono stati più volte sottolineati in momenti e con intenzioni diversi, per poi ricordare l’urgenza di ulteriori progressi nella riflessione: il problema, dunque, non ha mai smesso di apparire attuale3. La ricchezza e la varietà degli studi disponibili consiglia una ricognizione di partenza sullo stato della questione. Il criterio di riferimento è stato in primo luogo cronologico4, cercando di distinguere fasi diverse del lavoro critico e quindi orientamenti e preferenze alternativi. La ricchezza dei contributi novecenteschi, sia per quantità sia per varietà d’approcci, ha reso opportuna un’attenzione più puntuale; gli ultimi decenni hanno favorito un notevole approfondimento sul tema, benché spesso focalizzato su aspetti specifici più che su una visione d’insieme. 1. Gli studi provenzali in Italia fra Cinque e Ottocento Gli studi di provenzalistica5, a lungo trascurati nel Trecento e nella prima metà del Quattrocento, tornano in auge nella Napoli aragonese in primo luogo grazie al Cariteo, al secolo Benedetto Gareth. Petrarchista e catalano, egli si appassionò alla poesia trobadorica anche per amor di patria, in nome della lingua “limosina”, come gli iberici chiamavano sia il catalano coevo sia l’idioma degli antichi poeti. Gareth coinvolse nella propria ricerca il nipote Bartolomeo Casassaggia, che era vissuto piuttosto a lungo in Francia, e si avvalse di un’ampia raccolta di testi, definita “libro limosino” e poi identificata nell’attuale codice M6. Non è un caso che la riscoperta della tradizione occitanica sia dovuta a due catalani, legati ad una terra in cui quell’eredità era rimasta 1 Come introduzione generale alla questione si veda Antonelli 2006. Tra le tracce più esplicite va certamente ricordato il riuso metrico. 3 Ricordiamo almeno due recenti inviti a non dimenticare la questione, in Fontana 1975 e Santagata 1985. 4 Tale impostazione segue comunque l’esempio di fonti più autorevoli sul tema, che si indicheranno via via in nota. 5 Fonte fondamentale per tale ricostruzione è Debenedetti 1930 cui qui ci si ispira a titolo di compendio. I medesimi temi sono recuperati, a scopo di sintesi e stimolo per gli studiosi, da Fontana 1975 e da Grubbitzsch-Rodewald 1972, in breve e ad introduzione della sua riflessione su Arnaut Daniel. 6 Non risultano riferimenti anteriori che permettano di anticipare tale rinascita degli studi ed è significativo che in precedenza i riferimenti al patrimonio codicologico, pur conservato in Italia, siano rarissimi. Sulla conservazione dei manoscritti trobadorici si veda il sesto capitolo. Sul Casassaggia e sul canzoniere M si veda in particolare Careri 1994. 2 9 viva a lungo e dove i documenti antichi abbondavano. Il Casassaggia, ormai nel 1515, si occupò anche di alcune traduzioni per rispondere al desiderio di molti intellettuali, venuti a conoscenza dei progressi dei due appassionati e del loro prezioso canzoniere; l’esito di tale lavoro si è conservato ed ha il merito di delineare un primo serbatoio lessicale della lingua occitanica, grazie al carattere letterale della versione. Al di là dei legami linguistici, lo spunto per il recupero dell’eredità trobadorica veniva dall’ammirazione nei confronti di Petrarca e dalla curiosità per le fonti che egli potesse aver adoperato. Nel Cinquecento la convinzione che l’Aretino avesse ampiamente imitato i poeti d’oltralpe era già diffusa, soprattutto per la loro menzione nei Triumphi. L’Italia per altro rappresentava un contesto ideale per avviare la riscoperta della cultura cortese, grazie alla quantità e alla qualità dei manoscritti che vi si erano conservati. Erede delle precoci curiosità del Cariteo fu a Roma Angelo Colocci, che aveva discusso con lo stesso Gareth di questioni provenzali, ne aveva letto una traduzione da Folchetto da Marsiglia e ne aveva consultato il “Libro limosino”, che poi acquistò alla morte del proprietario. Colocci non si preoccupò mai di riversare i suoi studi in un’opera sistematica; pertanto, lasciò solo appunti e postille, considerazioni di metrica e storia della lingua, confronti con l’italiano antico in tavole analitiche appena abbozzate. Il suo contributo forse più interessante sono le segnalazioni di varianti rispetto ad altri manoscritti, che egli in parte già possedeva, e che in parte ottenne dal marchese di Mantova e dall’Equicola7. Anche Mario Equicola, infatti, partecipava pienamente al clima di entusiastica riscoperta, coinvolgendo l’ambiente dei Gonzaga ed in particolare Isabella8. A lui si deve, nel 1521, la prima pubblicazione a stampa di un testo trobadorico9. Una svolta essenziale negli studi provenzali si deve senza dubbio a Pietro Bembo10. L’argomentazione condotta nelle Prose della volgar lingua (1525) sull’importanza dell’idioma e della letteratura occitanici rispetto a quelli italiani, all’epoca soltanto agli albori del proprio sviluppo, è stata infatti determinante nel dare nuovo impulso alla ricerca. Le Prose dimostrano da parte di Bembo una consapevolezza pienamente matura sulla questione trobadorica; la sua preparazione in merito si era avviata, probabilmente, 7 Sul contributo dell’Equicola e sulla sua connessione con Bembo si veda Meneghetti 2000, in cui si fa riferimento in particolare allo studio di Corrado Bologna (1986) sul canzoniere N2. 8 Debenedetti si è interrogato in particolare sul periodo in cui possono essersi sviluppate le curiosità provenzali dell’Equicola, allo scopo di verificare se la sua sia stata soltanto una generica partecipazione ad una tendenza diffusa (ipotesi per cui in definitiva propende) o se in lui possa identificarsi un vero precursore degli studi più maturi. La redazione del Libro de natura de Amore conservata a Torino (1511) riporta solo brevissime menzioni di Arnaut Daniel e Folchetto da Marsiglia. È significativo però che nel primo libro della Chronica di Mantua, iniziata nel ’16 e i cui primi quattro volumi erano ultimati nel ’19, sia inserita per intero e tradotta la tenzone fra Sordello e un Peire Guilhem. Infine, nell’ultima redazione del Libro de natura de Amore (1525) la conoscenza dei trovatori pare notevolmente approfondita: vi sono raccolte numerose vidas e numerosi versi, che dimostrano l’intenzione di illustrare la concezione dell’amore tipica dei trovatori. 9 Si tratta della già citata tenzone tra Sordello e Peire Guilhem. 10 Lo sottolinea in particolare Debenedetti 1930. Per il contributo del Bembo agli studi provenzali si veda inoltre Pulsoni 2000. 10 negli anni romani11, favorita dalla collaborazione col Colocci12 e dalle conoscenze linguistiche sempre più puntuali del futuro cardinale, soprattutto nell’ambito dell’antico volgare italiano e dello spagnolo. Bembo poteva inoltre servirsi di vari codici, il cui uso e possesso sono dimostrati dalle numerose postille: quelle su D e K13 sono le più ricche e approfondite. Tali annotazioni riguardano per lo più lo studio delle figure femminili e dei loro senhals, i nodi concettuali amorosi, notevoli raccolte di varianti e ipotesi filologiche. Per quanto concerne lo scopo ultimo di tale impegno si può citare una lettera14 al Tebaldeo del 1530, in cui Bembo è costretto a giustificare l’invio della sola biografia di Bartolomé Zorzi, al posto delle molte richieste dall’amico. Bembo dichiara la propria intenzione di preparare un’edizione dei trovatori, che avrebbe incluso vari materiali biografici, forse aggiungendo note esplicative e traduzioni; in essa Arnaut Daniel avrebbe presumibilmente occupato il posto d’onore15. L’esempio del Bembo favorì ulteriori progressi nel corso del Cinquecento: in particolare vanno ricordati gli sforzi congiunti dei modenesi Ludovico Castelvetro16 e Giovanni Maria Barbieri17, il quale vantava per altro un’approfondita preparazione sul Petrarca, che era sfociata nella pubblicazione di un commento nel ‘45. I due collaboratori cercarono – con scarso successo – di ampliare le proprie basi grammaticali riferendosi alle Razos de trobar e al Donato, di cui prepararono una traduzione oggi conservata. Ebbero a disposizione alcuni manoscritti eccellenti, tra cui H, e raccolsero un corpus piuttosto considerevole di varianti, versi, vidas e altre informazioni storiche, sempre con l’intento di preparare anche le traduzioni dei materiali disponibili. Da tali comuni interessi nacque, infine, un volume dedicato in primo luogo ad Arnaut Daniel: non sembra casuale che la curatela sia stata affidata ad Antonio Anselmi, che a lungo era stato scrivano al servizio del Bembo. Intanto Castelvetro si era sempre più impegnato nel diffondere notizie sulla futura pubblicazione e nel mantenere utili contatti in tutta la penisola. A Firenze studiò i versi provenzali del Purgatorio dantesco con Varchi ed ebbe con lui uno scambio di commenti e traduzioni in merito alla sestina del Daniel. Lo 11 Anche in questo caso Debenedetti riflette sulla questione cronologica. Lo studioso è convinto che l’interesse del Bembo per la tradizione occitanica sia relativamente tardo. In primo luogo negli Asolani (1505) non c’è alcun riferimento ai Provenzali, mentre simili indicazioni abbondano negli anni successivi, compresi ricordi e propositi in merito all’approfondimento sull’eredità trobadorica. Inoltre è venuta a mancare l’unica prova a favore di una conoscenza precoce, cioè la convinzione che nei primi anni del secolo i manoscritti K e D facessero parte della biblioteca estense e dunque fossero fruibili dal giovane Bembo, che soggiornò a Ferrara piuttosto a lungo; tale opinione poi rivelatasi erronea era stata suggerita in particolare dalla presenza nei codici di alcuni richiami a due nobildonne estensi. In realtà D è entrato a far parte di quella biblioteca solo molto dopo il soggiorno del Bembo a Ferrara, mentre K non ne fu mai acquisito. 12 Di tale rapporto non resta in realtà alcuna prova, se non l’attendibile informazione relativa ad una tavola (oggi perduta) con elenchi di nomi e capoversi, inviata da Bembo a Colocci e ancora conservata alla fine del ‘500. 13 Su H Bembo poteva trovare anche utili commenti duecenteschi ad Arnaut Daniel (in latino), mentre da K derivano le notizie sui trovatori italiani, all’epoca piuttosto rare. 14 Per il riferimento bibliografico alla lettera, si veda Debenedetti, 1930, p.150. 15 È probabile che le traduzioni della vita e dell’incipit della sestina arnaldiana che ci sono rimaste fossero volte a tale scopo. 16 Sul contributo di Castelvetro si vedano anche Frasso 1991, Barbieri 2009 e Pulsoni 2010. 17 Quest’ultimo contava per altro sulla conoscenza diretta della lingua e della cultura francese, perché era vissuto oltralpe circa sei anni a partire dal ’38. 11 stesso Varchi prestò ai due studiosi un codice in suo possesso, C, all’inizio degli anni ‘50 e si lasciò coinvolgere a sua volta dall’entusiasmo: raccolse e compendiò le grammatiche dell’occitano, studiò e tradusse alcune razos tramandate dalla raccolta duecentesca di Bernart Amoros, curò un elenco sistematico di esempi tratti da C allo scopo di sostenere le teorie del Bembo. Anche Venezia venne contagiata dal passaggio del Castelvetro. Anton Francesco Doni recuperò infatti le traduzioni approntate dal Bembo e le pubblicò; Beccadelli condivise con i modenesi altri codici, in parte tratti dalla biblioteca di Torquato Bembo; infine, il diffuso desiderio di consultare i manoscritti culminò nella creazione di nuove copie, talvolta sopravvissute, come nel caso di F. Tale fase particolarmente intensa viene interrotta dall’esilio del Castelvetro, accusato di luteranesimo e costretto a fuggire dall’Italia. Sembra che a questo punto anche il Barbieri abbia abbandonato gli studi, benché sino a quel momento egli soltanto si fosse impegnato direttamente nel lavoro sui testi; tornò poi al Rimario o Arte del rimare18 solo negli ultimi anni della sua vita. L’opera si interrompe perciò al primo libro, che contiene un’articolata ipotesi sull’origine araba della versificazione rimata, oltre all’analisi della produzione lirica francese, provenzale, siciliana e italiana. Il secondo libro, secondo la testimonianza del figlio Ludovico, avrebbe contenuto un vasto approfondimento metrico. Tuttavia, anche in tale forma incompiuta l’opera ha notevole valore: per la prima volta gli studi di provenzalistica disponevano di una raccolta di informazioni ricca e sistematica, che spaziava dalle biografie, ai versi (in parte si tratta dei soli capoversi, ma non mancano interi componimenti), alle traduzioni, per lo più con l’accortezza di citare le fonti. Ludovico Barbieri cercherà a lungo di far pubblicare la fatica del padre, ma è opinione condivisa dagli studiosi che l’assenza di una traduzione completa fosse un ostacolo insormontabile; il filologo modenese non era giunto a prepararla e nessuno – sembra – poteva ormai affrontarla, per mancanza di competenze adeguate. Non si fermarono, invece, i tentativi di raccogliere e conservare gli antichi versi trobadorici: eccelse soprattutto il lavoro del cardinale Fulvio Orsini19, in parte con l’aiuto di Vincenzo Pinelli, il quale acquistò i codici appartenuti al Bembo e soprattutto realizzò una tavola comparativa sulla base di O, K e g. Simili contributi, benché meno notevoli, si devono a Piero di Simon del Nero20 e Jacopo Corbinelli, filologo di notevole prestigio anche se esperto più di francese che di provenzale. Il grave limite di tali esperienze risiede però nel loro isolamento: per lo più gli studiosi si limitarono a postillare codici e a raccogliere annotazioni, senza che nessuno si sia sentito abbastanza preparato per affrontare la responsabilità della pubblicazione. 18 Su tale opera filologica ci si soffermerà, in relazione alla raccolta di Peire Cardenal preparata da Miquel de la Tor, nel sesto capitolo, dove sarà fornita bibliografia specifica sulla questione. 19 Agli interessi provenzali del cardinale Orsini fa riferimento, oltre a Debenedetti 1930, anche Motta 2004. 20 Avremo modo di ricordarlo ulteriormente in riferimento alla tradizione della raccolta di Bernart Amoros. 12 Va ricordato per l’ultimo quarto del XVI secolo anche il contributo di Jean de Nostredame, significativa eccezione al generalizzato silenzio di Francia e Provenza durante la riscoperta cinquecentesca della tradizione letteraria gallo-romanza. D’altronde le Vies de plus célèbres et anciens poètes provençaux uscirono, nel 1575, prima in traduzione italiana che in lingua originale, a Marsiglia, dove era fortissima la presenza di italiani, presso uno stampatore italiano e con dedica ad Alberico Malaspina. Nostredame ebbe a disposizione eccellenti fonti manoscritte e conobbe in modo approfondito i precedenti studi italiani; tuttavia è noto21 che tali punti di riferimento sono eclissati dalla fantasia narrativa dell’autore. Egli inoltre non mancò di prendere posizione riguardo alla questione petrarchesca, concludendo spesso i capitoli sui diversi poeti con la segnalazione di quanto l’Aretino ne fosse debitore22. Secondo Zingarelli23, il biografo cinquecentesco avrebbe voluto in sostanza “far passare il Petrarca come uno dei trovatori”. A questo scopo egli esaltò il soggiorno del poeta a Lombez, vicino a Tolosa; la prossimità cronologica rispetto alle esperienze del Concistori permise al Nostredame di insistere ulteriormente sui debiti del poeta e sugli incontri che ne avrebbero favorito le capacità compositive24. Petrarca avrebbe addirittura partecipato alla cerimonia di laurea e a quella di consegna del relativo premio nell’anno 1330: un’invenzione forse suggerita dalla ben nota incoronazione poetica avvenuta a Roma più di dieci anni dopo. In realtà non è possibile ipotizzare nessuna connessione tanto forte con l’eredità occitanica nel contesto culturale avignonese25. Tali (infondate) convinzioni erano destinate ad avere un certo seguito e rilevanti conseguenze critiche, soprattutto perché erano riportate insieme a ricostruzioni tanto fantasiose26 da farle apparire per contrasto abbastanza attendibili. Da una parte gli studiosi dei due secoli successivi si sentirono autorizzati ad affermare l’esistenza di trovatori ancora attivi e fedeli all’antica tradizione ancora nel pieno Trecento: un’ipotesi abbastanza sensata nel caso della Napoli angioina, ma priva di sostanza per l’Avignone pontificia. A lungo insomma è stata sottovalutata la crisi che in effetti pesò tra Trecento e Quattrocento sulla cultura cortese, al di là di esperienze ed esperimenti poetici molto localizzati (come nel caso di Tolosa e della sua poesia principalmente religiosa), senza considerare che la conservazione erudita e libraria rappresentava ormai la forma principale di 21 Se ne tratterà con un maggiore approfondimento nel corso del sesto capitolo. Tra le varie dichiarazioni del Nostredame, è particolarmente gustosa quella relativa ai tre sonetti contro la Babilonia pontificia (fragmenta 136-138): l’immagine della città celerebbe un obiettivo polemico ben diverso, cioè la madre del poeta Marchebruse, a sua volta nota rimatrice. Il tema dell’indipendenza di Petrarca è divenuto particolarmente importante per la critica del ‘900, benché avesse attirato l’attenzione degli studiosi già in precedenza. Su tale argomento si tornerà a breve. 23 Zingarelli 1935. 24 Si parlarà del Concistori e dell’interesse che può essere attribuito al viaggio di Petrarca in Guascogna del 1330 nel quinto e nel sesto capitolo. 25 Il dissenso di Zingarelli ha fondamento: infatti, mentre è economico associare tale viaggio e il possibile contatto con l’ambiente tolosano con un’occasione di lettura delle opere trobadoriche – classiche e contemporanee –, è certamente eccessiva la conclusione che ne trae il biografo francese. 26 Petrarca, ad esempio, avrebbe partecipato a vere e proprie Corti d’amore e in tale contesto avrebbe maturato la sua passione per Laura. 22 13 sopravvivenza per la tradizione trobadorica27. D’altro canto ancora all’inizio del ‘900 Gidel si affidava alle informazioni del Nostredame: Zingarelli censura ampiamente tale perdurante fascinazione per gli aspetti “romanzeschi” e “avventurosi” associati alla sfera trobadorica28. Per il XVII secolo non si registrano novità eccellenti, a parte l’energico contributo di Alessandro Tassoni, che per altro ebbe accesso alle carte del Barbieri (e lasciò qualche annotazione interessante sulla sua biblioteca). L’aspetto più significativo delle Considerazioni sopra le rime del Petrarca29, pubblicate a Modena nel 1609, è la decisa polemica nei confronti del Nostredame e di tutti i detrattori del poeta aretino: la produzione occitanica non offrirebbe nulla di tanto ingegnoso da aver realmente influenzato il genio trecentesco. Al di là dell’atteggiamento un po’ fazioso, il Tassoni fu abile nel ridefinire la cronologia petrarchesca, restituendo ad esempio al cantore di Laura il primato su Ausias March, mentre a lungo la critica (soprattutto iberica) aveva insistito sugli ampi prestiti del secondo al primo. Infine le Considerazioni offrono un valido approfondimento grammaticale e lessicale, per la prima volta basato su puntuali riscontri tra tradizione provenzale e testo petrarchesco. A Tassoni, infine, va riconosciuto il primato cronologico nell’impegno sulla ricerca di raffronti tra Canzoniere e corpus occitanico, in merito ad immagini, figure retoriche, costruzione della frase. Le tesi del Bembo sullo sviluppo della lingua e della letteratura italiana erano ancora ritenute imprescindibili: da tali presupposti partì tra gli altri Federico Ubaldini, che dimostrò notevole piglio filologico. Catalizzatore essenziale delle nuove esperienze di provenzalistica divenne la nuova Biblioteca Barberiniana, che sollecitò la riscoperta e lo studio dei Documenti d’Amore di Francesco da Barberino, opera trecentesca basata proprio sul recupero dell’antica versificazione trobadorica attraverso l’esperienza dal vivo (Francesco aveva infatti affrontato un lungo viaggio in Provenza a beneficio della sua opera). Grazie all’Ubaldini si rinvigorì anche il clima di scambio e collaborazione: il filologo poté contare innanzitutto sulla Biblioteca Vaticana e successivamente sull’intervento di Carlo Strozzi, che da Firenze gli portò una copia delle grammatiche contenute in P (Biblioteca Laurenziana) e il suo codice F, passati poi entrambi alla Barberiniana. La disponibilità delle grammatiche (di cui una erroneamente ritenuta petrarchesca) si dimostrò essenziale: Ubaldini arrivò a comporre una sua lirica in provenzale, oltre a pubblicare i Documenti nel 1640, dimostrando notevole cura ed erudizione. Ormai alla fine del secolo, cominciò a circolare anche l’opera di Francesco Redi, che aveva arricchito di note il Bacco in Toscana: potendo contare su quattro codici (uno era P ed un altro apparteneva allo Strozzi) e su amicizie importanti (il letterato ammise di 27 Della questione sulle diverse concezioni della letteratura trobadorica tra Duecento e Trecento, tra prospettiva viva ed attuale, e visione antiquaria, si tratterà con maggior ampiezza nel sesto capitolo. 28 Zingarelli 1935, che fa riferimento a Gidel [Charles Antoine Gidel, Les troubadours et Pétrarque, 1857]. 29 Per il commento del Tassoni al Canzoniere, si vedano Casella 1936 e Pazzaglia 2007. 14 aver ricevuto consigli essenziali dal poliglotta Anton Maria Salvini), riuscì ad ultimare un monumento di lessicografia. Gli studi settecenteschi tornarono, da una parte, all’illusorio modello del Nostredame e dall’altra tentarono di portare ordine nei risultati accumulati nel corso dei due secoli precedenti. Fu fondamentale il lavoro paziente e dottissimo del Crescimbeni, che si dedicò ampiamente anche alla raccolta di informazioni storiche e biografiche. Egli ebbe occasione di consultare e confrontare numerosi manoscritti, dimostrando abilità soprattutto nell’identificare correlazioni fra i singoli fenomeni, come nel caso della teorizzazione di Andrea Cappellano nel Liber Amoris rispetto alla questione delle Corti d’amore, in precedenza spesso citata ma mai realmente chiarita. Salvini, che Crescimbeni aveva coinvolto in qualità di esperto ed erudito, ne completò l’opera con un’appendice di versi tradotti, tratti principalmente da K, P ed U, ma anche da Fazio degli Uberti e Dante. Il culmine dell’eredità bembiana si raggiunse però con gli studi del canonico Antonio Bastero, barcellonese trasferitosi a Roma per amore della lingua e della cultura locali. Cominciò a preparare una grammatica dell’italiano e giunse alla conclusione che tale lingua doveva moltissimo al provenzale, tesi che sostenne – anche ad elogio del proprio idioma natio – preparando la prima ampia raccolta sistematica di provenzalismi. Il suo impegno nello spoglio linguistico è encomiabile, per il numero di studiosi (innanzitutto il Crescimbeni), manoscritti e stampe anche francesi e spagnole che il Bastero volle considerare, tanto che si è parlato di una Crusca provenzale. Tuttavia il principio dell’opera, che per altro non giunse alla pubblicazione se non in minima parte, era troppo elementare: bastava che un termine fosse utilizzato sia in italiano che in provenzale perché ne fosse dichiarata una derivazione diretta. È forse più significativo l’approfondimento che il Bastero propose rispetto all’opera del Crescimbeni, grazie alla sua vasta ricognizione dei codici, nella forma di una Tavola dei poeti provenzali dell’età d’oro. In essa sono considerati anche autori molto tardi (sino alla fine del ‘400) e in aree diverse da quelle in cui originariamente si era sviluppato il trobadorismo, in primo luogo la Catalogna. Con il Settecento si conclude la grande stagione degli studi provenzali in Italia. Nel frattempo, infatti, si erano risvegliati simili interessi in Francia, dove si affermò l’esempio illustre del Raynouard, vera pietra miliare della riscoperta trobadorica; furono raccolti con dovizia ed entusiasmo tutti i documenti sopravvissuti, producendo tra l’altro copie anche dei tesori italiani. Per la penisola va segnalato un ultimo avvenimento editoriale degno di nota: la pubblicazione dell’opera del Barbieri per mano del Tiraboschi. Del Rimario si erano salvate due copie manoscritte (una bella ed una minuta) e il Tiraboschi volle recuperarle allo scopo di sostenere la tesi dell’origine araba della poesia, di cui era divenuto strenuo fautore. L’indispensabile traduzione dei componimenti fu dapprima affidata ad Andrés, che si rivelò più “curioso” che competente, e poi all’abate Gioacchino Pla, che portò a 15 termine il suo lavoro, non senza errori, nel 1787. Nel 1790 uscì a Modena l’Origine della poesia rimata, con una prefazione encomiastica a memoria dell’autore30. Nel corso dei tre secoli in cui l’Italia fu all’avanguardia negli studi provenzali i risultati concreti non possono dirsi straordinari, come conclude Debenedetti31. Tuttavia, tale impegno ha rappresentato un punto di partenza che nessuna ricerca successiva ha potuto ignorare; inoltre, il diffuso entusiasmo ha favorito in modo determinante la conservazione di documenti che in caso contrario sarebbero andati facilmente perduti. Nel corso dell’Ottocento32 si è affermato con maggior insistenza tra gli studiosi il tema dell’indipendenza (o mancata indipendenza) dimostrata da Petrarca rispetto ai trovatori; la questione era già stata sollevata in precedenza e sarà ripresa con attenzione ancor più significativa negli anni ‘30 del ‘900. In questa fase, comunque, i critici hanno cercato per lo più di conciliare l’ormai innegabile familiarità del Petrarca con i modelli occitanici e il desiderio di esaltarne l’originalità. In molti casi si è insistito sulle effettive intenzioni del poeta e sulla sua abilità di rielaborazione, oppure sui condizionamenti determinati dal contesto culturale. Su tale vincolo contingente e generale si è concentrato ad esempio il Bartoli. Nella seconda metà del secolo si sono affermate nuove tendenze di carattere positivista, che possono spiegare la ricerca di un approccio “scientifico” per l’analisi delle fonti, come nel caso di Antoine Gidel. Lo studioso raccolse nella sua opera monografica del 1857 – Les troubadours et Pétrarque – l’esempio di Tassoni, ampliandone in modo notevole la ricerca attraverso un diretto e puntuale studio dei testi33. 1.1 Alcuni esempi illustri di lavoro sui testi: Colocci, Bembo e Giulio Camillo Come si è visto, la riscoperta della tradizione provenzale e della sua influenza sulla lirica italiana (in primis petrarchesca), dipende in origine da contributi illustri. Lo studio di codici e stampe postillati ha evidenziato innanzitutto l’impegno del Bembo; tuttavia occorre ricordare almeno altri due casi: il famoso umanista Angelo Colocci e Giulio Camillo, la cui importanza è rivelata proprio dalla confusione a lungo insoluta rispetto agli interventi del più celebre cardinale. Colocci (1474-1549) non si dedicò soltanto alla cultura e alla letteratura classiche, ma anche allo studio e talvolta alla ricostruzione filologica dei canzonieri medievali: italiani, occitanici e galego-portoghesi. Egli dimostrò particolare attenzione per le forme linguistiche affini nelle diverse aree romanze, per la presenza nella lirica italiana di elementi provenzali e per eventuali varianti dialettali. Sono ad esempio rappresentative le postille che egli appose al codice M, registrando trasformazioni semantiche in lemmi 30 Il tema sarà trattato con maggior ampiezza nel corso del sesto capitolo. Debenedetti 1930. 32 Per la parte finale di tale ricostruzione, si fa riferimento in particolare a Fontana 1975. 33 Il medesimo approccio si ritrova nel fondamentale lavoro di Scarano 1901, su cui si approfondirà a breve e che ha rappresentato a lungo un punto di riferimento imprescindibile; per certi aspetti anzi si tratta ancora di una pietra miliare, soprattutto per l’assenza o non reperibilità di analisi più recenti di carattere altrettanto ampio, se non nella forma non sistematica di commenti al Canzoniere. 31 16 corrispondenti in aree linguistiche diverse e legittimando voci antiche (gallo-romanze e siciliane, ma non dantesche né petrarchesche)34. Colocci giunse dunque precocemente ad accertare che non solo i lirici duecenteschi, ma anche le prime due Corone avevano avuto una certa familiarità con l’orizzonte trobadorico; è possibile ipotizzare che egli intendesse anche delineare una storia della letteratura romanza, che non poteva prescindere dalle sue radici cortesi. La precisione del filologo si rivela in particolare laddove ci sia la possibilità di confrontare le parallele annotazioni che egli ha inserite a margine dei suoi codici italiani (nello specifico in corrispondenza di testi petrarcheschi, sul Vat. Lat. 4787) e di quelli occitanici, allo scopo di illustrare il riuso della lingua e della letteratura straniera nella tradizione italiana. Un esempio lampante è quello del termine “durenza”: Colocci lo evidenzia a fianco dell’opera di Bertran d’Alamannon su M annotando il rimando a Petrarca, e viceversa a fianco di quella petrarchesca nel codice 4787 segnalando la fonte occitanica35. Tra le sillogi provenzali conservate merita una certa attenzione il codice N2, per la qualità dei componimenti sul piano testuale, ma anche per la peculiarità della loro selezione, che corrisponde con evidenza al tentativo di creare un canone lirico esemplare e di salvare dall’oblio testi provenzali poco diffusi36. Gli antecedenti di tale raccolta non sono noti; è evidente però la cura dell’estensore, che quasi certamente utilizzò più antigrafi e, almeno per le prime venti carte, un affine di I e K. Si tratta dunque di un testimone valido, benché decisamente tardo; essendo stato esemplato all’inizio del XVI secolo, esso rappresenta d’altronde un interessante punto di riferimento per la valutazione degli studi di provenzalistica nell’epoca del Bembo. In effetti, l’intento del copista-filologo appare per certi aspetti influenzato da interessi petrarcheschi, come suggerisce anche una postilla in cui Petrarca è citato esplicitamente per evidenziarne le curiosità e i debiti occitanici (ad esempio, in riferimento all’elenco dei “Guglielmi” del Triumphus Amoris, per quanto non coincidano del tutto con quelli presenti nella raccolta di N2). Tuttavia il codice sembra nato in primo luogo dalla passione per i trovatori: è probabile che il letterato, per approfondire la propria comprensione della tradizione occitanica, sia partito da una silloge anteriore, forse antica, e ne abbia tratto una copia in pulito, arrivando però a creare, come si è visto, una raccolta dalle caratteristiche autonome e preziose. Durante tale operazione, egli deve aver colto l’affinità di certi brani occitanici con alcuni passi petrarcheschi; tali coincidenze sono state segnalate direttamente su N2, con riferimenti numerici al Canzoniere. I rimandi rivelano l’uso dell’edizione a stampa 34 Si fa qui riferimento alla ricerca esposta in Brea 2008. Il punto di partenza della studiosa sono due indici, uno siciliano ed uno petrarchesco, conservati nel codice Vat. Lat. 3217: il primo corrisponde al contenuto del medesimo codice, il secondo a parte dei testi presenti nel Vat. Lat. 4787, con evidenti connessioni anche con le prime edizioni a stampa. Per una loro breve descrizione si veda Brea 2008, p. 248, in particolare nota 14. Per approfondire la questione si veda anche il lavoro di Bernardi 2008 sul codice Vat. Lat. 4831, pp. 80-87. 35 Rispettivamente, cc. 244v di M e 157r del 4787. 36 Per l’analisi del codice cinquecentesco si vedano Bologna 1989 e Meneghetti 2000. 17 dei fragmenta pubblicata da Aldo Manuzio (1501). Non è certo difficile immaginare che il medesimo filologo riportasse i richiami corrispondenti sulla propria copia del Canzoniere. Ed in effetti è conservato un Petrarca aldino sui cui margini si conserva una ventina di note, che rivelano una conoscenza della lirica occitanica più che approfondita. A lungo la critica è stata convinta che tali postille si dovessero al Bembo, fino a quando Bertoni37 non condusse un serrato confronto tra i luoghi indicati nelle annotazioni e la configurazione dei codici provenzali (K, D, O, H e forse anche A38) appartenuti o utilizzati dall’autore delle Prose. Tra tali sillogi e i riferimenti petrarcheschi le corrispondenze non sono stringenti. La confutazione delle convinzioni tradizionali39 ha permesso di identificare l’ignoto postillatore con Giulio Camillo Delminio40 (1480 ca1544), cui oggi sono attribuiti N2 con le sue glosse e l’edizione aldina postillata. 2. Il rapporto tra Petrarca e i trovatori nel Novecento Con il primo Novecento si sono avviate ricerche più puntuali, che attualizzano l’approccio tassoniano e poi francese nell’attenzione alle singole occorrenze e ai loro possibili antecedenti41. Il contributo più significativo in proposito è quello di Nicola Scarano, del 190142, che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento obbligato per l’ampiezza quantitativa, in virtù del numero di passi petrarcheschi e di autori provenzali considerati. Oltre al vantaggio di una notevole apertura rispetto alla tradizione poetica (non solo occitanica, ma anche italiana), tale repertorio si propose di riportare soltanto passi in cui l’influenza di altri autori fosse particolarmente evidente, a garanzia della veridicità del contatto. A partire dai dati di Scarano, gli studiosi successivi hanno avanzato varie riflessioni sulle strategie petrarchesche43. Petrarca si rivela ampiamente debitore dei suoi antecedenti, soprattutto degli usi più convenzionali e topici, ma al tempo stesso 37 Bertoni 1932, citato poi in Bologna 1989. Bertoni, tuttavia, resta a lungo convinto che l’estensore di N2 sia in realtà Bembo, che poi abbia prestato il codice ad un amico (poi identificato nel Camillo) che vi avrebbe apposto le note petrarchesche. 38 K, D, O e H erano detti rispettivamente primus, secundus, tertius e parvus; che il Bembo abbia avuto la possibilità di leggere A è molto probabile, come anche che abbia avuto a disposizione vari altri codici, benché non sia chiaro quali. 39 È di questo avviso ancora Cian 1932, che insiste sul punto con una certa veemenza, sottolineando per altro la scarsa rilevanza di quei pochi fogli d’appunti, spesso presentati invece come un’innovazione straordinaria, forse solo con intenti editoriali (a questo proposito, Cian lamenta l’incomprensione degli addetti rispetto alle glosse più interessanti). Viene proposta anche una spiegazione relativa alla grafia, appunto del Camillo e non del Bembo: il primo, amico del cardinale, ne avrebbe appuntato e salvaguardato le riflessioni. 40 Per un’analisi approfondita dell’impegno di Giulio Camillo si vedano Zaja 2009 e Zaja 2010. 41 Non è molto noto il lavoro di Lommatzsch, citato in Fontana 1975, che ha insistito sulla derivazione diretta di tre componimenti petrarcheschi da altrettante canzoni occitaniche (105/Eu m’escondich di Bertran de Born, 134/Un sonet fai di Giraut de Bornelh, 12/En cest sonet di Arnaut Daniel). Il primo e l’ultimo caso rappresentano ad oggi due luoghi comuni della critica petrarchesca, benché si tratti di questioni critiche particolarmente vessate. 42 Scarano 1901. 43 Si fa qui particolare riferimento al contributo di Fontana 1975, che propone oltre alla propria opinione uno spaccato degli studi precedenti. 18 impegnato nella trasformazione di tutti i materiali che recupera. La sua tecnica appare diversificata: un singolo richiamo può costituire ad esempio il punto di partenza per un intero componimento, oppure riproporsi in modo più limitato, ma in diversi testi. Gli autori prediletti sono risultati Bernart de Ventadorn e Arnaut Daniel, i quali potrebbero essere definiti l’uno più affine per sensibilità, l’altro più apprezzato a livello espressivo, specialmente in senso tecnico. Non va però trascurata l’importanza di Peire Vidal e Arnaut de Maruelh; a seguire, Folchetto da Marsiglia, Aimeric de Peguilhan e Aimeric de Belenoi. La ricchezza e la varietà di tali modelli è essenziale non solo sul piano stilistico, ma anche rispetto alla concezione amorosa che ciascun poeta propone: di volta in volta, dunque, Petrarca seleziona la propria fonte in relazione allo stato d’animo su cui si concentra, considerando che la profondità dell’analisi interiore e l’evoluzione della vicenda spirituale costituiscono una delle innovazioni più significative nel Canzoniere. Benché la proposta di Scarano resti un valido caposaldo, la critica ne ha evidenziato alcuni limiti44: soprattutto la mancanza di coincidenza in alcuni riscontri, che dunque andranno considerati erronei. Poli ha sottolineato in particolare come ben pochi tra i riscontri di Scarano risultino citazioni vere e proprie, identificandosi piuttosto come coincidenze generiche45. I dissensi più netti, comunque, riguardarono la questione dell’autonomia creativa di Petrarca rispetto alla produzione più antica e soprattutto non italiana46. Evidenziare la ricca messe di richiami trobadorici nel Canzoniere significava infatti sottolineare il debito di Petrarca, che ne sminuiva l’originalità. La questione andava al di là del solo poeta aretino per l’urgenza di definire l’effettivo debito dell’evoluzione poetica italiana rispetto all’egemonia provenzale. Tale preminenza divenne un caposaldo della critica francese, ma pareri affini si riscontrano anche presso alcuni studiosi italiani ed europei47. 44 Si fa ancora riferimento principalmente al punto di vista e alla sintesi di Fontana 1975. Poli 1993, p. 42, che cita anche le affini opinioni di Suitner e Perugi. 46 Come si è visto, tale tipo di preoccupazione non rappresenta di per sé una novità. Tuttavia gli studi del primo Novecento, e significativamente soprattutto quelli degli anni ’30, mostrano un’attenzione molto più accesa per il problema. D’altro canto, la convinta intenzione di sottolineare l’autonomia di Petrarca dalla tradizione occitanica - da una parte esaltando la capacità dell’Aretino di trasformare ogni modello, dall’altra recuperando il valore modellizzante della poesia toscana e stilnovista – ha motivato l’accusa di un ritorno alla visione romantica. All’artista infatti viene di nuovo attribuito il ruolo di interprete dello spirito del proprio tempo e soprattutto della propria nazione. Tale limite è stato evidenziato in particolare da Casella 1936. 47 Si fa qui riferimento alla riflessione e alla sintesi in Cian 1936, dove sono citati Demoflot, Meyer e Paris, il quale ha sostenuto che le tre Corone devono in sostanza la loro formazione culturale e poetica alla lezione trobadorica. Per l’area germanica, Cian nomina Ruth, che affermò il ruolo della tradizione lirica tedesca e dei Minnesanger rispetto allo sviluppo nostrano. Tra gli italiani, infine, possiamo ricordare il De Lollis. Cian, sostenitore della grandezza poetica italiana, non può comunque negare in toto l’influenza occitanica. Egli anzi sottolinea i caratteri peculiari della lirica italiana duecentesca, nata già matura e raffinata, e perciò molto meno energica, ma anche libera da restrizioni o sospetti da parte dei lettori. L’esito gli pare in definitiva proficuo: lo sviluppo di tali manifestazioni culturali può delinearsi in modo molto più rapido ed efficace, come nel caso della figura femminile. Gli aspetti negativi riguardano, secondo Cian, la preclusione di alcuni ambiti culturali e poetici, esclusi in precedenza dalla tradizione, e un eccesso di preziosismo o di attenzione alla forma. Il sistema letterario italiano, insomma, nasce senza 45 19 Nel caso specifico di Petrarca, diversi studiosi48 non potendo negare la connessione con i Provenzali, ma non volendo accettarne in modo troppo netto la forza modellizzante, hanno attribuito a tali recuperi la responsabilità di tutti gli aspetti meno innovativi nel Canzoniere: “quanto c’è di freddo, di falso, di intellettualmente teso e lambiccato”49. La prospettiva di Zingarelli50 esemplifica con efficacia la propensione ad esaltare la creatività di Petrarca. Spinto da precise convinzioni ideologiche, lo studioso ha insistito sulla natura esteriore dei pochi riferimenti rilevabili con assoluta certezza; ha evidenziato inoltre “l’abisso culturale” che separa le due esperienze poetiche, oltre alle differenze strutturali e tematiche51. Va per altro riconosciuta l’efficacia con cui Zingarelli insiste sulla forza creativa di Petrarca: nella sua lirica non c’è spazio per alcuna eco che non sia profondamente rielaborata e trasfigurata in vista del contesto espressivo finale. In definitiva, Petrarca recupera dalla tradizione occitanica, secondo lo studioso, soltanto strumenti lessicali e fraseologici adeguati al proprio stile. Fontana ha però evidenziato il limite di tali affermazioni: la costante focalizzazione sulla personalità dell’autore, più che sulla sua opera, ha comportato in alcuni casi l’incomprensione del senso di quelle stesse trasformazioni tanto esaltate52. Osservando poi le numerose dichiarazioni di poetica petrarchesche, Zingarelli ha sottolineato l’assenza di affermazioni relative ai trovatori, ad eccezione della loro rassegna nei Triumphi. Poiché in quel luogo la progressione dei personaggi non è cronologica, andrebbe dunque valutata in chiave gerarchica: autori classici, italiani e poi provenzali53. Il medesimo intento apologetico informa tutte le considerazioni dello studioso sulla questione, anche laddove il richiamo alla tradizione occitanica sia molto stringente. È il caso della postilla ad Aspro core nel codice casanatense, del topos della caccia la vitalità dell’innovazione, ma già ben definito, come si noterebbe nella produzione siculo-toscana. La conquista dell’autonomia si dovrebbe piuttosto allo Stil Novo, una vera e propria rivoluzione che impedirebbe di continuare a considerare la letteratura italiana quale figlia di quella straniera. Il legame con i modelli non è del tutto dimenticato e rimangono occasioni per il loro recupero, come appunto nel caso di Petrarca, soprattutto rispetto ad Arnaut Daniel. Tuttavia lo scarto è ormai fortissimo, come dimostrano le posizioni polemiche di Dante rispetto ai guittoniani (con particolare riferimento al De vulgari eloquentia). 48 Si ricordino ad esempio Tiraboschi, Ginguené e, più di recente e con diversi presupposti metodologici, Baldelli. In particolare, il punto di vista di Tiraboschi e la sua convinzione che attribuire un primato ai trovatori rispetto a Petrarca potesse non essere un elogio per i primi, vengono riprese e puntualizzate in Fontana 1975. 49 Casella 1936, p. 155. 50 Zingarelli 1935; le posizioni di questo studioso e quelle di Debenedetti 1930 sono forse le più energiche. 51 È essenziale la differenza tra i destinatari del discorso poetico: la dama per i trovatori, il lettore per Petrarca, in cui l’apostrofe diretta all’amata è molto più rara. Ciò dimostrerebbe una finalità espressiva più ampia, meno contingente, capace di guardare alla posterità. 52 Fontana 1975. 53 Petrarca conosce bene i trovatori, non è possibile negarlo, ma attribuirebbe loro un valore nettamente inferiore nel complesso della tradizione lirica. Per quanto concerne invece Lasso me, la canzone 70 del Canzoniere che segue la struttura “a citazioni”, Zingarelli 1935 identifica un principio esclusivamente cronologico nella successione dei rimandi. 20 impossibile, delle strutture metriche e il genere della sestina, per gli spunti erotici, per l’escondich54. Non tutti i sostenitori della grandezza o anche della superiorità di Petrarca sui modelli provenzali appaiono altrettanto rigidi. Mario Casella55, ad esempio, per quanto celebri il poeta nazionale, riconosce l’affinità della concezione amorosa petrarchesca e trobadorica in virtù del comune sostrato culturale, medievale e cristiano. Da tale prospettiva derivano alcuni valori essenziali già nella visione trobadorica: la nobiltà spirituale oltre (e poi al posto di) quella sociale, la misura e il controllo di sé, la virtù56. Altro elemento essenziale e comune alla poesia amorosa dai trovatori a Petrarca è quello della soggettività, dell’intimità del sentimento, che pone la figura femminile in secondo piano, quale fattore puramente funzionale. La ricerca di un compromesso è ancor più manifesta nelle affermazioni di Bertoni57. Secondo lo studioso, è vero che gran parte degli spunti provenzali nel Canzoniere si limitano al piano formale, spesso con esiti artificiosi; tuttavia quella tradizione è stata anche efficace fonte di ispirazione. Infatti, proprio a partire dagli echi cortesi il poeta ha potuto progredire nella definizione di materiali davvero personali, di un’espressione individuale: anche Bertoni, insomma, esalta la capacità di rinnovamento alla base della produzione petrarchesca, capace di cancellare qualsivoglia senso di ovvietà o ripetitività. In tali termini va dunque interpretata l’affermazione secondo cui Petrarca sarebbe l’“ultimo rappresentante della tradizione poetica provenzale e stilnovistica”58. Anche Giacomo Pagani propone un bilancio degli studi precedenti, criticando i limiti ideologici delle posizioni di Zingarelli e Chiorboli59, apprezzando l’intenzione di Scarano, ma anche evidenziando la superficialità di molti fra i suoi riscontri60, infine osservando la presenza in Petrarca degli strumenti retorici tipici della lirica cortese e 54 A Zingarelli 1935 si deve anche un’impietosa riflessione sui limiti della critica coeva. L’approccio tradizionale, legato al principio critico secondo cui ciascun autore è necessariamente “legato ed obbligato” alle convenzioni letterarie del suo tempo, ha spesso favorito una visione parziale e un’eccessiva partecipazione personale da parte del singolo critico. Spesso, inoltre, gli studiosi si sono accontentati di infondati “luoghi comuni” nell’ambito delle ricerche petrarchesche e provenzali, basati però su fondamenta ben poco solide, senza cercare di valutarne a fondo la pregnanza effettiva. Un rifiuto radicale dell’approccio critico tradizionale è stato espresso anche in Casella 1936, p. 153: l’attenzione esclusiva sugli aspetti più circoscritti, soltanto su “notazioni puntuali e frammentarie” gli pareva ormai inaccettabile. È necessario distinguere tra contenuti e strumenti comunicativi: la focalizzazione degli studi filologici sugli stilemi e le formule retoriche ha a lungo impedito di cogliere il messaggio più profondo. Ciò non toglie che anche Casella celebri Petrarca come colui che ha superato gli antecedenti occitanici proprio grazie alla sua superiore tecnica formale (p. 162). 55 Casella 1936, in particolare pp. 166 segg. 56 Casella evidenzia in proposito il ruolo essenziale di Bernart de Ventadorn, cui spetta la definizione di tale ideale cortese, ripreso e arricchito di numerose declinazioni diverse dai trovatori successivi. Da qui l’ipotesi che tale aspetto abbia influenzato e favorito l’interesse di Petrarca per Bernart de Ventadorn, oltre alla qualità della sua poesia. 57 Bertoni 1937. Si fa qui riferimento anche alla sintesi in Fontana 1975. 58 Bertoni 1937, p. 81. Una posizione simile è espressa anche da Singleton 1968, pp. 77-108, con la significativa riserva relativa alla novità e alla modernità del percorso interiore delineato nel Canzoniere. 59 Pagani 1946, pp. 7-8. 60 Pagani 1946, pp. 24-25. Lo studioso intende mettere in luce come dietro lo spunto comune si percepisca sempre la nuova sensibilità petrarchesca, che impedisce di concepire il contatto tra le due realtà poetiche come semplice imitazione. Pagani ripercorre dunque la presenza trobadorica nel Canzoniere e nei Triumphi (pp. 40 segg), con particolare attenzione alla canzone 366. 21 insieme il loro rinnovamento61. Anche Pagano, in conclusione, afferma l’originalità, l’autonomia e la maggiore profondità delle soluzioni petrarchesche, senza però voler negare il contributo dei trovatori62. Il problema del rapporto tra Petrarca e i trovatori ha nuovamente suscitato l’interesse degli studiosi negli anni ‘60 e ‘70. Una breve ma significativa ricognizione della questione si deve a Umberto Bosco63, che pur esaltando l’originalità del poeta aretino ha saputo identificare appieno il valore della tradizione e del suo riuso. Lo studioso propone in primo luogo un’essenziale considerazione. Il fatto stesso di aver scelto quale strumento d’espressione lirica l’idioma materno e non il latino comporta per l’Aretino un necessario confronto con la tradizione volgare anteriore ed una sorta di sfida con i predecessori provenzali, francesi e italiani. Implicitamente, tanto basta a giustificare l’analisi stessa di quella connessione. A livello metodologico, Bosco ha fornito un proficuo esempio di analisi stilistica e testuale capace però di andare oltre i singoli riscontri, in vista di una ricognizione complessiva in merito all’opera e all’atteggiamento dell’autore. Benché erede della grande tradizione medievale, Petrarca ha saputo imporre ai suoi versi una misura e un controllo frutto di una consapevolezza già umanistica64. Così gli è possibile superare gli artifici appariscenti e “schifiltosi” dei Provenzali e del loro trobar clus, come anche il Roman de la Rose e addirittura – benché solo dal punto di vista del dominio espressivo – la Commedia dantesca. Tali osservazioni a proposito del linguaggio petrarchesco sono indubbiamente convincenti, ed anzi hanno influenzato la critica successiva. Tuttavia, Bosco finì per condividere l’approccio celebrativo tipico di gran parte degli studi italiani dei decenni precedenti: in sostanza egli affermò che la competizione poetica con la tradizione non poteva che essere vinta da Petrarca. Anche secondo Viscardi65, i singoli spunti o le immagini isolate non sono tanto importanti in sé, quanto strumento per ragionare sull’influenza generale che ne derivò l’Aretino. I modelli d’oltralpe gli furono di certo essenziali nell’affinare la propria capacità poetica, dunque uno strumento di maturazione e formazione letteraria. Solo in tal senso può essere utile raccogliere le singole occorrenze e i richiami specifici. Ecco perché lo studioso tornò ad insistere sui limiti della critica precedente, troppo influenzata dall’esempio di Scarano e, a monte, di Tassoni. Simili ricerche sono fuorvianti perché perdono di vista un aspetto essenziale: la rielaborazione sempre operata in modo personale da Petrarca. Né d’altronde ne sono derivati risultati davvero significativi, perché comunque le ricerche basate soltanto su riscontri puntuali non 61 Pagani 1946, pp. 28 segg, con particolare riferimento agli adynata, alle enumerazioni, ai giochi antitetici, ma anche alle strutture metriche, in primo luogo la sestina (pp. 38-40). 62 Pagani 1946, pp. 53 segg. 63 Si tratta di una breve parentesi nel corso della presentazione di Petrarca nel più ampio quadro della letteratura italiana, in Bosco 1965, pp. 158-163. Sul lavoro di Bosco in merito a Petrarca si è soffermato Martellotti 1983, pp. 311-315. 64 Secondo Bosco, conseguenza felice di tale ridefinizione del linguaggio lirico è il trasferimento in esso di una propria musicalità, che sostituisce pienamente l’accompagnamento musicale della tradizione occitanica. 65 Viscardi 1970. 22 hanno saputo dimostrare e spiegare la connessione tra il poeta aretino e i suoi antecedenti occitanici. Nel 1975 Fontana ha ripreso il problema Petrarca-trovatori, sottolineando ancora una volta l’insufficienza dei risultati fino ad allora raggiunti. Tuttavia il bilancio è positivo, poiché l’abbondanza di strumenti critici rinnovati consente il progresso della ricerca: edizioni critiche rigorose, conoscenza sempre più approfondita della biblioteca di Petrarca, cognizione più puntuale sia della tradizione manoscritta che della letteratura trobadorica nella sua fase tarda (trecentesca). Fontana ha concluso, quindi, la sua panoramica riproponendo alcune domande fondamentali, ancora irrisolte: quali autori Petrarca abbia letto, in quale contesto e secondo quale prospettiva – cioè attraverso quale approccio ideologico, politico o culturale -; infine quale sia la proporzione tra recupero e trasfigurazione66. 3. Arnaut Daniel Dopo le analisi puntuali del primo ‘900 e gli intensi dibattiti, per lo più generali, degli anni ‘30 e ‘70, la critica non sembra essersi più dedicata al rapporto Petrarca-trovatori secondo una prospettiva d’ampio respiro67, nonostante le esplicite dichiarazioni sulla necessità di simili ricerche. Gli studi si sono concentrati piuttosto su aspetti specifici, più o meno delimitati, che spaziano dal confronto tra Petrarca e singoli trovatori, all’approfondimento su alcuni componimenti fondamentali, alla riflessione su immagini e strumenti retorici ben delineati. Anche tale approccio, comunque, ha fornito interessanti risultati in merito alle possibili letture petrarchesche e alle tecniche di riuso del poeta aretino, inoltre suscitando, in qualche caso, momenti di vivace dibattito. Il principale oggetto delle analisi più recenti è senza dubbio Arnaut Daniel. Il tentativo di chiarire il legame di Petrarca con tale trovatore, soprattutto dal punto di vista della cronologia, ha determinato una vera e propria polarizzazione degli studi, che ha lasciato ben poco spazio ad altri autori o a sintesi più articolate. La questione si intreccia per altro con il difficile nodo della datazione di alcuni fragmenta e risulta perciò ancor più sensibile per i petrarcologi. La presenza di Arnaut nel Canzoniere è molto rilevante, come appare evidente già dagli studi cinquecenteschi e a maggior ragione dallo spoglio di Scarano; ciò spiega l’abbondanza di riflessioni dedicate a tale aspetto, condotte per altro secondo criteri piuttosto diversi. A Perugi68 in particolare si deve una significativa proposizione di metodo: evitare di concentrarsi su un’unica immagine, su un verso, spunto o fenomeno espressivo isolato, 66 Fontana 1975. Va però ricordata la tesi di laurea di Agostino Casu, allievo di Santagata, discussa per l’anno accademico 1992-1993, che non risulta pubblicata e non è perciò accessibile. 68 Perugi 19902. Dal punto di vista metodologico, anche Poli 1993 ha ribadito a proposito di Bernart de Ventadorn alcuni criteri utili per la valutazione delle fonti nel Canzoniere in generale. Non va mai trascurata la possibilità di poligenesi: la comparazione è tanto più efficace quanto meno numerosi sono i modelli possibili. Una volta che essa sia stata identificata, la derivazione può essere ricondotta a quattro 67 23 privilegiando il contesto più ampio, sia rispetto all’opera petrarchesca che a quelle trobadoriche. In questo modo, risulta più facile tenere in debito conto la capacità dell’Aretino di accostare richiami diversi o al contrario di diffondere un singolo riferimento in un discorso poetico articolato, anche a cavallo di più componimenti69. Con simili affermazioni, Perugi prendeva le distanze dalle minuzie su cui spesso gli studiosi si erano soffermati già dall’inizio del secolo, in particolare in merito alla produzione di Arnaut70. Già Gianfranco Contini, d’altronde, accennando al rapporto tra Petrarca e il trovatore in una breve premessa all’edizione delle opere del Daniel71, aveva proposto una ricognizione più ampia72. Nell’insieme, la lezione di Arnaut si dimostra particolarmente efficace nei luoghi più “arguti e paradossali”, rispondendo ad un gusto “gotico e manieristico”. Petrarca in effetti parte da recuperi puntuali e da citazioni vere e proprie per arrivare però a far propria la sostanza di quel modello, declinandone gli schemi più tipici a propria misura; egli stesso anzi ne diventerà fonte e tramite rispetto agli epigoni cinquecenteschi. Gli studiosi che hanno affrontato con maggior approfondimento il rapporto tra Petrarca ed Arnaut Daniel sono Marco Santagata e Maurizio Perugi73, in uno scambio di opinioni a tratti piuttosto acceso. Per entrambi il presupposto è nel Canzoniere stesso, in cui si riscontrano non poche conferme dell’apprezzamento per il Daniel: la citazione della pseudo-arnaldiana Razo e dreyt in Lasso me, i sonetti 12 e 13, la canzone 29 e il sonetto forme diverse: topos di cui sia comunque ricostruibile una precisa influenza, accostamento di diversi strumenti espressivi propri della tradizione, immagine la cui derivazione sia certamente monogenetica. Di fatto, comunque, anche Santagata si ispira alla medesima prospettiva (in particolare si veda Santagata 1990, pp. 157-211). 69 Ciò non significa tuttavia perdere di vista la concretezza dei testi da analizzare, che ovviamente rappresentano il punto di partenza per ogni riflessione teorica o ipotesi d’insieme. 70 Il problema riguardava non solo e non tanto una possibile focalizzazione eccessiva su singoli passi, che anzi avrebbero avuto il valore della concretezza testuale. Canello ad esempio si concentrò sulle occorrenze danieline di “aura”, allo scopo di dimostrare che sia per Petrarca sia per Arnaut non si trattasse che di un senhal funzionale all’identificazione della dama, per altro contrapponendosi in modo significativo all’eccesso della critica biografica nella ricerca di una Laura storicamente documentata. Ne derivava però un’interpretazione molto libera del trovatore, alla cui lettera richiamava (polemicamente) il Lavaud, insistendo piuttosto sui rapporti testuali intercorsi tra il Daniel e Petrarca. Per questo dibattito si veda Lavaud 1911, in cui sono riassunte anche le posizioni di Canello. Per altro, alla confutazione sul piano teorico corrispondeva anche lo scontro sui singoli passi. Alcuni riscontri del Canello vengono così rifiutati (come tra la prima canzone petrarchesca e la sedicesima di Arnaut); altre occorrenze (come l’immagine della lima del sonetto 16 o alcuni spunti della quarta ballata e della prima sestina) appaiono a Lavaud troppo topiche per essere significative. Tra i luoghi rilevanti, dunque, egli ricorda soltanto la quinta strofa della canzone 29 (che rimanda ai vv 36-38 della decima di Arnaut), secondo l’indicazione di Castelvetro, e il primo verso del medesimo componimento (che recupera invece l’avvio della canzone XIII), l’ovvia immagine della caccia impossibile (fragmentum 212 e ottava sestina), la fine della prima strofa di 127 (che rimanda al v 14 di XVI), sempre secondo i suggerimenti di Castelvetro, come anche nel caso del legame tra canzone 23 di Petrarca e XVI (v 39) di Arnaut; infine andrebbe recuperato il suggerimento di Galvani in merito al rapporto tra sonetto 24 e canzone XVIII. 71 Contini 19705. 72 Va però ricordato che la riflessione di Contini prendeva le mosse da una questione più specifica, cioè dall’eco arnaldiana che caratterizza l’avvio di Verdi panni (Rvf 29). 73 Ricordiamo in particolare tra le loro opere Perugi 1985, Beltrami-Santagata 1987, Santagata 1990, Perugi 19902 e 19911. 24 Aspro core, il cui debito nei confronti del poeta provenzale è ammesso dallo stesso Petrarca in una postilla74. Il punto di maggior attrito tra i due studiosi riguarda la cronologia. Perugi75 ha cercato infatti di delineare un diagramma cronologico delle letture arnaldiane del Petrarca, attribuendo i primi contatti con il trovatore agli anni avignonesi, cui dovrebbe risalire anche la lettura di Razo e dreyt, da anticipare entro il ‘37. Prova ne sarebbe la collocazione di Arnaut a capo della schiera dei Provenzali nel Triumphus Amoris, per il quale Perugi accetta la tradizionale datazione di Wilkins al 1342 (datazione, come è noto, ormai per lo più respinta): sarebbe cioè dimostrato il precoce interesse per quel trovatore in particolare. Nel corso degli anni ‘40 la conoscenza della sua opera si sarebbe ampliata e approfondita, come testimonierebbe il riferimento a testi danielini nel sonetto 1 e nella canzone 26476. L’esito di tali letture sarebbero nell’insieme le considerevoli tracce lasciate dalla cultura cortese nella redazione Correggio (‘56-’58); le aggiunte successive al ‘66, invece, suggerirebbero per gli anni della maturità una più selettiva preferenza, sempre nell’ambito della produzione arnaldiana, per le canzoni VII, X e XVI77. Santagata78 però ha messo in dubbio i riferimenti cronologici “alti”, in particolare quelli riferiti ai primi anni Trenta, cioè al periodo avignonese. La critica petrarchesca – e proprio il contributo di Santagata è stato essenziale – ha infatti proposto negli ultimi decenni un generale spostamento in avanti della datazione di molte opere, tra cui il Triumphus Amoris, il sonetto 1 e la canzone 264, la redazione Correggio, prima forma vera e propria del Canzoniere, e il Secretum79. Vari indizi consiglierebbero per altro di postdatare anche i componimenti per cui una collocazione giovanile è da lungo tempo accettata, come nei casi del sonetto 13 e della canzone 2980. Innanzitutto, Santagata mette in evidenza il contenuto della postilla apposta al sonetto 265, in cui Petrarca colloca la lettura arnaldiana che ha ispirato il componimento all’inizio degli anni ‘50: è un’affermazione tanto rara ed esplicita rispetto agli studi provenzali da acquisire un 74 I diversi casi qui citati saranno approfonditi nel corso del presente capitolo. Perugi 1985, pp. 236-240, 292 segg. e soprattutto 306 segg., e poi 19911. Come si vedrà, Perugi non si è occupato direttamente di cronologia e interpretazioni petrarchesche, accettando indicazioni della critica precedente (e non proprio recente) come le datazioni proposte da Wilkins e Appel, che gli studi più innovativi tendevano invece ad abbandonare o a modificare in modo radicale. 76 La datazione dei due testi, strettamente connessa, è stata abbassata ai primi anni ’50 a seguito della ridefinizione della cronologia del Secretum ad opera di Francisco Rico; si vedano per tali aspetti le note introduttive ai componimenti in Santagata 1996, rispettivamente pp. 5-6 e 1055-1056. 77 Perugi 1985 aggiunge che le fonti petrarchesche paiono tratte preferibilmente da testimoni legati al ramo dello stemma (per la tradizione manoscritta dei trovatori e le questioni filologiche si veda il sesto capitolo). 78 In particolare Santagata 1990, soprattutto pp. 190 segg. 79 I fragmenta qui citati così come la redazione della raccolta, il Secretum, la composizione degli epistolari e in particolare l’epistola Ad se ipsum sono strettamente legati rispetto al progetto letterario complessivo dell’autore. 80 La questione di Verdi panni è complicata dalla sua struttura volutamente arcaizzante; si tenga sempre presente che è tipico di Petrarca ricostruire uno stile coerente con gli anni giovanili in virtù della sede dei componimenti nel Canzoniere (nello specifico, nella parte iniziale), a prescindere dall’effettivo momento della composizione. Infine, non vanno trascurate le prolungate fasi di limatura che spesso hanno cambiato anche radicalmente la conformazione di testi in origine giovanili. 75 25 valore fondamentale81. I legami intertestuali all’interno del Canzoniere offrono ulteriori argomenti a sfavore di una datazione alta dei fragmenta implicati nella questione trobadorica. La composizione di Lasso me82, o più probabilmente la sua revisione, è strettamente connessa alla sistemazione delle tre canzoni degli occhi, 71-73, corrette (o composte, come nel caso di 73) proprio all’inizio degli anni ‘50. Né offre alcuna garanzia la collocazione incipitaria di 12 e 13, poiché tale zona della raccolta è stata oggetto di costanti rielaborazioni da parte dell’autore. L’obiettivo “narrativo” e il delinearsi di un’evoluzione interiore per l’io poetico suggeriscono che anche testi maturi dal punto di vista della composizione (come è certo, ad esempio, per il sonetto 3) siano stati pensati per esprimere esperienze e stati d’animo giovanili83, proprio come avviene nella zona incipitaria delle Familiari84. Certo non è necessario ipotizzare che Petrarca abbia letto Razo e dreyt contestualmente alla composizione della canzone 70 in cui è citata; tuttavia, Santagata non intende collocare la lettura dello pseudo-Arnaut prima del ‘50 (o al limite del ‘47), di fatto riconducendo la conoscenza petrarchesca del Daniel in toto alle indicazioni associate ad Aspro core. A favore di tali considerazioni è la coincidenza del trasferimento del poeta nell’Italia settentrionale, dove in effetti le testimonianze manoscritte occitaniche erano abbondanti. La medesima ricostruzione guarda in alcuni casi anche oltre gli anni ‘50 (1, 142, 175, 212, 219, 239, 264, 265) o poco oltre (279, 321, 325). Bisogna infine scendere sino al ‘68 per la composizione di 197 e quindi per il definitivo recupero del topos dell’aura nell’omonimo ciclo. Sul piano testuale, Perugi85 aveva proposto una serie di riscontri tra Petrarca e Arnaut, che desse fondamento alla considerazione generale della relazione tra i due poeti. Santagata86 ha dibattuto su tali proposte, rifiutandone alcune e suggerendo qualche integrazione. La divergenza di fondo concerne in primo luogo l’interpretazione della natura topica di alcune immagini, che rende poco significativa la coincidenza tra i due autori; in molti casi non è agevole distinguere tra una citazione o comunque un richiamo puntuale e voluto, e un generico recupero della tradizione e di soluzioni convenzionali. Talvolta, invece, è necessario valutare la preminenza degli antecedenti italiani rispetto a quelli occitanici, con particolare riferimento a Dante87. Certo, il riconoscimento di simili interferenze in alcuni luoghi non impedisce di cogliere al contempo la pregnanza e la 81 Nulla però impone di pensare che quella sia stata la prima lettura di Arnaut o dei trovatori in genere, né dello specifico testo, Amor e jois, da cui appunto il poeta trae ispirazione. Per altro, qui Petrarca si riferisce in modo esclusivo al lavoro su Aspro core e non ai suoi studi o al Canzoniere in generale. 82 Qui è appunto citata esplicitamente una canzone che, molto probabilmente, Petrarca riteneva di Arnaut (benché tale convinzione oggi sia ritenuta con certezza erronea). 83 Per l’elaborazione petrarchesca della struttura-canzoniere e le relative falsificazioni cronologiche, nonché per i conseguenti problemi critici, si vedano Santagata 1989, 1990 e 1992. Ma gli studi in merito sono davvero numerosi; si possono tra gli altri ricordare: Porena 1935, Jenni 1973, Roche 1974, Martinelli 1976, Gorni 1978 e 1991, pp. 113 segg, Jones 1983, De Robertis 1985, Brugnolo 1991, Biancardi 1995, Cappello 1998, Niederer 2000, De Robertis 2001, Antonelli 2003, Rico 2003, Carrai 2005, Praloran 2003, 20071 e 2013. 84 A tale aspetto sono stati dedicati in particolare gli studi di Billanovich. 85 Perugi 1985, soprattutto nei capitoli IX e XI. 86 Santagata 1990, pp. 157 segg. e in particolare pp. 184-190. 87 Santagata 1990, p. 188. 26 pervasività dell’esempio arnaldiano. L’accostamento di echi diversi, ma coerenti, in particolare se tratti dal medesimo autore, è in effetti un fenomeno tipico dell’elaborazione petrarchesca. Un’altra difficoltà metodologica concerne i passi in cui non è chiaro se il riferimento sia voluto e preciso, oppure solo un’allusione o addirittura un richiamo spontaneo e inconsapevole. Secondo le conclusioni di Santagata, i luoghi notevoli del Canzoniere sono solo ventisei, ed ancor meno numerosi sono i testi arnaldiani che l’Aretino dimostra con certezza di conoscere (II, VI, X, XIII, XIV, XV, XVI, XVIII). Nel complesso, si delineano alcuni utili spunti di riflessione. Petrarca sembra aver conosciuto per lungo tempo - o comunque abbastanza bene da coglierne precocemente l’esempio - solo la sestina; lo dimostra il recupero alto del metro in 22, che nemmeno Santagata intende postdatare. Per il resto, secondo lo studioso, il numero, la collocazione e la natura dei riferimenti trobadorici (arnaldiani) lascerebbero intuire una scarsa familiarità con la tradizione d’oltralpe fino agli anni ‘50. È interessante, inoltre, che nei testi giovanili, come la sestina, o pensati per sembrare tali, come Verdi panni88, l’esempio trobadorico abbia esito principalmente nelle soluzioni metriche. Petrarca tenta così forme poco consuete, che restano nel Canzoniere a riprova del suo sperimentalismo, per essere poi affinate (come per la nascita di un vero “genere”, la sestina) o abbandonate. Arnaut è inizialmente legato “all’eccentrico, alla deviazione”: non a caso, gli altri testi precocemente coinvolti nella scoperta del trovatore sono la canzone 135 – arcaizzante – e la 105 – peculiare nella sua commistione con la frottola. Alle particolarità formali si affiancano quelle tematiche. I componimenti e gli stati d’animo giovanili (o pretesi tali) sono infatti consacrati all’amore carnale e passionale89. Ebbene, tradizionalmente Arnaut e la sestina cui ha dato vita, nonché le “petrose” con cui Dante si è appropriato di quell’insegnamento, sono associati proprio alla poetica dell’amore erotico90. Secondo Santagata, la definizione della forma Correggio e dunque la maturazione poetica degli anni ‘50 hanno rappresentato il contesto e lo stimolo essenziale perché Petrarca dimostrasse maggiore attenzione alle fonti occitaniche. Prima infatti sembra dominare anche quantitativamente l’esempio di Dante, e soprattutto della produzione petrosa, alla cui mediazione era in sostanza subordinato il recupero di Arnaut. Il trovatore conosce il suo trionfo all’altezza di Lasso me, nella quale il suo stile91 assurge a simbolo della fase giovanile dell’espressione petrarchesca. Il rapporto col Daniel e con i Provenzali diviene così autonomo e diretto. Tuttavia permangono due rilevanti limitazioni: la preminenza (o addirittura l’esclusività) dell’area tematica passionale e la 88 Tradizionalmente la canzone 29 è ritenuta giovanile; tuttavia sempre più studiosi tendono a postdatarne la composizione agli anni ’50 o comunque alla maturità. 89 Rispetto a tale fase, Petrarca propone nel Canzoniere una svolta, segnalata da diversi momenti palinodici o comunque di autoriflessione: ad esempio la canzone 70 – che ripercorre vari momenti della lirica volgare fino a quella di Petrarca stesso e a cui segue un momento “stilnovistico” – la sestina 142 e la sestina doppia. Avremo modo di riparlarne in seguito. 90 Non mancano però interpretazioni alternative, che insistono sulla visione spirituale intuibile al di là della “lettera” del testo. Sulla sestina si approfondirà nel secondo capitolo. 91 Benché rappresentato nel fragmentum 70 da un componimento che non appartiene ad Arnaut, ma che appunto imita ed anzi estremizza le sue prospettive poetiche. 27 profonda rielaborazione stilistica. Il trobar clus più marcato viene attenuato e ai modelli sono imposte alcune caratteristiche espressive squisitamente petrarchesche, come le dittologie e i parallelismi92. La replica di Perugi non si è fatta attendere93. Lo studioso ritiene che molti dei contatti identificati da Santagata siano troppo generici e che egli sia ancora influenzato dallo spoglio di Scarano. Sembra mancare un’adeguata attenzione ai semplici topoi, che devono essere distinti dagli usi specifici dei singoli autori. La ricostruzione di Santagata gli appare inoltre troppo puntuale, e perciò rigida e limitante94. La cronologia ne risulta confusa per quel che concerne la differenza tra composizione e revisione dei singoli fragmenta, nonché spesso artificiosa, perché piegata alle convinzioni critiche dello studioso, in particolare in relazione all’intenzione di postdatare le letture occitaniche agli anni ‘50. Perugi nota inoltre qualche eccesso nel valore attribuito al labor limae petrarchesco, laddove ci siano indicazioni certe solo per pochi versi o singoli componimenti; a monte, gli pare eccessiva anche la fiducia con cui alcuni testi sono ricondotti a brevi cicli o serie all’interno del Canzoniere. Santagata, comunque, non avrebbe ben compreso lo scopo di Perugi stesso e della sua ricostruzione95, che non intendeva focalizzarsi sull’aspetto cronologico, quanto sul più ampio problema del rapporto Petrarca-Arnaut. L’obiettivo di delineare il quadro generale di simili influenze culturali cambia ben poco in relazione alla datazione. Ciò non impedisce, per altro, che Perugi si opponga fermamente una volta di più alle proposte di Santagata a tal proposito, da una parte ritenendole prive di fondamento, dall’altra sottolineando di nuovo gli indizi relativi agli anni avignonesi96. Tra i recuperi arnaldiani nel Canzoniere due citazioni sono particolarmente evidenti e interessanti, anche in virtù della loro natura adynatica, preziosistica e artificiosa: si tratta della caccia impossibile del bue alla lepre e del tentativo di raccogliere l’aria97. La seconda occorrenza deriva ulteriore importanza dalla connessione con l’immaginario 92 Va ricordato che le posizioni cui si è fatto riferimento a partire da Santagata 1990 sono anticipate dall’analisi contenuta in Beltrami-Santagata 1987, cui si intende rimandare in modo più specifico in merito alla questione di Razo e dreyt e della citazione petrarchesca in Lasso me. 93 Perugi 1990; non sono mancate esplicite accuse alle competenze più o meno adeguate del proprio interlocutore. 94 Le critiche che i due studiosi si sono rivolti a vicenda mostrano che gli intenti e i problemi sono spesso comuni, benché affrontati da punti di vista e secondo convinzioni differenti. 95 Con riferimento all’ampio percorso analitico in Perugi 1985. 96 Al problema della versione letta dall’Aretino, si intreccia quello relativo alla versione originaria e all’attribuzione di Razo e dreyt. Perugi in particolare critica la ricostruzione testuale di Beltrami (Beltrami-Santagata 1987), accusandolo di non aver tenuto in conto la lezione di K in modo programmatico, forzando le lezioni proposte in base a tale obiettivo e non per ragioni testuali. Sia tale sforzo critico, sia l’insistenza nell’attribuzione di Razo e dreyt a Guilhem de Saint Gregori (e a data anteriore al 1229) sarebbero dovuti all’intenzione di ridefinire e posticipare la cronologia petrarchesca. 97 Le due immagini sono per altro connesse a livello concettuale, in quanto anche il tentativo di raccogliere l’aria è una sorta di “caccia impossibile”. Per l’aspetto adynatico delle due immagini, in riferimento agli altri impossibilia nel Canzoniere e alla storia dell’uso retorico, in particolare trobadorico, si veda il capitolo secondo. 28 dell’aura in generale, che comprende il topos, il gioco nominale tipico di Petrarca, l’imagery primaverile e naturalistica98. Il concetto della caccia impossibile è forse il meno studiato tra i due, benché torni in due diversi fragmenta, il sonetto 212 e l’ottava sestina. In primo luogo è un esempio lampante del gusto di Petrarca per l’adynaton99 e il rovesciamento, che non di rado si rivela nella raccolta e soprattutto nelle sestine; inoltre risponde all’apprezzamento per le affermazioni sentenziose. La scelta compositiva dell’Aretino dev’essere in realtà approfondita100 anche al di là degli antecedenti occitanici, cercandone le fonti tra i proverbi mediolatini e romanzi101, che circolavano in ampie serie all’epoca dell’autore102. Grazie a tali documenti è possibile stabilire che l’immagine era già attestata nel X secolo (in lingua latina) e che ha un illustre, e ancor più antico, antecedente in Plutarco (in lingua greca)103. Barbara Spaggiari104 si è dunque proposta di ricostruire la diffusione e l’evoluzione del topos: tradizione classica (greca e latina) e cultura romanza ne risultano strettamente connesse105. Sin dalle fasi più antiche, l’immagine veicola significati coerenti con la resa occitanica e poi petrarchesca: il senso dell’illusione, la consapevolezza di un’azione inutile e insieme l’incapacità di abbandonare la speranza, per quanto vana. L’importanza di Arnaut Daniel come antecedente dell’immagine è evidente (benché non esclusiva), a partire dalla moltiplicazione delle suggestioni danieline in Beato in sogno, sonetto 212. La tornada di Anz que sim, infatti, presenta la natura irrazionale del trovatore e le sue aspirazioni impossibili attraverso una duplice fenomenologia: il bue che caccia la lepre, ma anche il tentativo di “ammassare” l’aria106. Entrambi gli spunti si ritrovano in 212, rispettivamente al v 2 (“d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura estiva”107) e ai vv 7-8 (“et una cerva errante e fugitiva / caccio con bue zoppo e ‘nfermo et lento”), dove il poeta aretino propone una considerevole variazione della preda da 98 Su tale aspetto si tornerà alla fine del presente capitolo. Su tale strumento particolare si tornerà nel secondo capitolo. 100 Si fa innanzitutto riferimento all’analisi di Spaggiari 1982. 101 La produzione proverbiale caratterizza in realtà più la tradizione greca (Omero, Aristotele e poi sino all’epoca romana con Plutarco) che quella latina (in particolare, Publio Sirio e lo pseudo-Catone). 102 Spaggiari 1982 fa in particolare riferimento alla raccolta curata da Singer. 103 Tale produzione è a sua volta mediatrice rispetto ad esempi ancor più antichi e in particolare all’opera di Pindaro. Plutarco viene apprezzato durante tutto l’arco del Medioevo ed è ancora ricordato con una certa frequenza in epoca umanistica; i suoi testi godono di un’amplissima diffusione. Non si tratta comunque dell’unico recupero della materia adynatica classica, basti pensare a Gregorio Nazianzeno, le cui opere – tradotte in latino e spesso ridotte allo stato di scolia o florilegi – sono molto apprezzate già con la Rinascita carolingia e poi fino al ‘400. 104 Spaggiari 1982. 105 Il caso è particolarmente interessante perché tipico della cultura del tempo e soprattutto affine alle tendenze culturali petrarchesche, non solo in virtù dell’amore per i classici, ma anche per l’accostamento di influenze molteplici. 106 Per quanto concerne l’interpretazione del passo arnaldiano, è interessante la lettura di Picone 1995 in chiave metapoetica. Il principio di fondo è l’adesione, per altro topica, dell’amante ai dettami d’Amore e dunque ad una forza universale e sovrumana che può spiegare la diffusione in ambito lirico di concetti iperbolici e paradossali. 107 Tale occorrenza è resa ancor più interessante dal ricorrere del gioco nominale “l’aura/Laura” su cui torneremo alla fine del presente capitolo. 99 29 lepre a cerva, anche altrove immagine di Laura108. Come nel caso del bue, l’idea di raccogliere le ombre assomma numerose fonti classiche: soprattutto gli echi virgiliani e (indirettamente) quelli omerici dovrebbero essere noti sia al trovatore che a Petrarca109. E non va trascurato nemmeno l’esempio illustre di Plutarco, nella cui opera si trovano due occorrenze affini110. Anche nella sestina Là ver l’aurora l’immagine impossibile e danielina del bue in caccia (vv 36-37) è anticipata ai versi 10 e 29-30 da richiami adynatici che risentono degli antecedenti occitanici e della cultura classica, questa volta principalmente latina, sia sul piano della forma che del contenuto. La struttura sintattica del “prima che” rimanda a Virgilio e ad Ovidio, mentre è topica l’inversione delle stagioni. Il verso 38 appare invece influenzato dall’eredità greca, per l’idea del canto rivolto a chi non può udire. Di nuovo Petrarca varia l’oggetto della caccia, qui identificato nell’aria: “et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura […]” (vv 36-37). Anche in questo caso la scelta del poeta rimanda a precedenti trasfigurazioni di Laura nel Canzoniere e in particolare ai frequenti giochi nominali; l’aver scelto proprio l’aura, d’altronde, e soprattutto la resa del verso 37 richiamano ulteriormente la canzone arnaldiana. Un altro evidente intervento di Petrarca sull’immagine della caccia impossibile nella versione danielina concerne il bue - accomunando per altro sonetto e sestina – che è detto anche “zoppo”, ad esaltare ed aggravare l’impossibilità dell’atto venatorio. Tale aspetto appare completamente nuovo, privo di fonti dirette111, che parlano tutt’al più di buoi pigri. Si rivela a questo punto fondamentale il contributo di Erasmo da Rotterdam, che rimandava all’Odissea e alla descrizione ivi contenuta di Ares ed Afrodite112. Secondo la tradizione, i due adulteri sono puniti dal marito tradito113: con uno stratagemma il lento e zoppo Efesto riesce ad intrappolare il veloce e possente Ares. Tale passo, il cui evidente spessore morale motiva la ripresa del filosofo cinquecentesco, è coerente anche rispetto all’insegnamento di Plutarco, il quale insiste 108 In particolare nel sonetto 190. In Eneide ed Odissea l’ambientazione è quella dell’Averno; la vana speranza di stringere le anime incorporee torna anche nel Purgatorio dantesco (canto II Dante e Casella, canto XXI Virgilio e Stazio). È notevole la contraddizione per cui nel canto VI Virgilio e Sordello riescono invece ad abbracciarsi, in nome della patria comune. A parte va considerato l’incontro con Guinizzelli nel canto XXVI, poiché è piuttosto il fuoco che tiene lontano Dante. In Petrarca si parla presumibilmente dell’amata, poiché proprio a Laura è dedicato il secondo emistichio del medesimo verso. 110 Spaggiari 1985. La serie adynatica del terzo verso di 212 sembra anch’essa risentire della tradizione greca, mentre il verso precedente mostra piuttosto un’impostazione trobadorica e danielina. 111 Per certi aspetti in contrasto con la straordinaria densità di fonti che si accumulano nei due testi in analisi. 112 Spaggiari 1985. In pieno ‘500 Erasmo prepara una nuova raccolta di proverbi e adynata, che nei suoi espliciti riferimenti a Pindaro ed Omero dimostra di risalire alla medesima tradizione e permette di approfondire le modalità della diffusione testuale nei secoli precedenti. È così più agevole valutare l’effettivo ruolo modellizzante di Arnaut Daniel, rispetto alla possibile importanza delle fonti anteriori; tale associazione doveva essere chiara anche ai lettori del XVI secolo, come suggerisce il commento del Vellutello al Canzoniere. 113 Egli attende il convegno amoroso dei due fedifraghi per poi bloccarli, nudi e inermi, sul letto con una rete che non può essere spezzata. 109 30 sul valore delle specifiche qualità possedute dai singoli individui. Certo Petrarca non lesse l’originale omerico in greco; tuttavia è noto che egli ne possedeva una traduzione latina contenuta nelle Periochae di Ausonio114. Inoltre l’insegnamento omerico era generalmente ritenuto utile ai cristiani, come dimostra la citazione dell’episodio di Efesto in Gregorio Nazianzeno: sarebbe stata sufficiente a Petrarca anche tale fonte indiretta, in quanto il dio era universalmente noto come zoppo. Infine, non è difficile ipotizzare l’interesse petrarchesco per Plutarco e soprattutto per il De tranquillitate animi, in cui era contenuta l’immagine della caccia impossibile115; è nota per altro la curiosità del poeta per l’omonimo trattato senechiano116. 3.1 “Lasso me” Il rapporto tra Petrarca e Arnaut Daniel è stato spesso affrontato in relazione a singoli testi: componimenti che testimoniassero in modo evidente l’influenza del trovatore sul Canzoniere o canzoni arnaldiane chiaramente apprezzate dall’Aretino. È celebre il caso del fragmentum 70, che chiama in causa la questione filologica ancor più complessa della canzone pseudo-arnaldiana Razo e dreyt: la riflessione sui due testi ha stimolato un’intensa polemica tra gli studiosi, in particolare Perugi e Santagata. Lasso me rimanda alla tradizione trobadorica secondo una triplice prospettiva e costituisce dunque un campo di indagine particolarmente interessante. In primo luogo, la struttura del testo guarda ad un genere occitanico peculiare e piuttosto raro, la canzone “a citazioni”117: ciascuna strofa riporta un verso tratto da un’opera considerata classica o autorevole, secondo l’esempio dei testi ritornellati118. La presenza delle citazioni consente una duplice interpretazione. Da una parte è ovvio pensare all’apprezzamento tipicamente medievale per le auctoritates, che conferiscono autorevolezza al testo. Dall’altra Frank119 ha sottolineato l’aspetto umanistico, tanto più importante a proposito di Petrarca, insito nella ricerca di conferma e confronto in un panorama letterario anteriore e considerato “classico”. 114 Spaggiari 1982 sottolinea anche le varie conoscenze personali che avrebbero permesso a Petrarca di raccogliere ulteriori indicazioni sul passo omerico, come il rapporto con Barlaam, continuativo a partire dal 1342. Non va invece considerato il lavoro svolto per il poeta da Leonzio Pilato. Egli infatti tradusse per l’Aretino i poemi omerici a partire da una copia in lingua originale, ma le note petrarchesche si arrestano molto prima del passo in esame, lasciando intuire che egli non arrivò mai a studiarlo su quella traduzione. 115 Proprio questa, anche indirettamente, potrebbe essere stata la fonte di Arnaut Daniel, come sembra implicitamente suggerire l’analisi in Spaggiari 1982. 116 Va però ricordata anche un’altra occorrenza trobadorica affine. Nel sirventese S’ieu fos aissi segner ni poderos, Bertran de Born rappresenta gli intenti irrealizzabili di re Riccardo affermando che egli caccia i leoni con le lepri (v 15). 117 Per la questione del genere e del rapporto di Petrarca con il modello strutturale, si veda innanzitutto Frank 1954. 118 Questa è per lo meno la convinzione di Frank, che si rifà a Jeanroy (Frank 1954, p. 259). 119 Frank 1954. 31 Il modello principale per Petrarca sembra essere stata la canzone Be m’a lonc temps menat a guiza d’aura del monaco catalano Jofré de Foixà120, composta tra il 1280 e il 1290 circa. L’autore è piuttosto noto: è nominato in diversi documenti tra il ‘67 e il ‘95, frequentò la corte di Barcellona soprattutto tra l’85 e il ‘90, qui divenne intimo del re e incaricato della gestione delle finanze ecclesiastiche121. La sua canzone ha sei stanze più una tornada (contro le cinque di Petrarca), ma sono solo cinque gli autori da cui si cita: Arnaut de Maruelh (strofe I e II), Perdigon (strofe III e IV), Folchetto da Marsiglia (strofa V), Gaucelm Faidit (strofa VI) e Pons de Capduelh (tornada). Sono autori tra loro coevi, tutti riconducibili al quarantennio tra 1180 e 1220, e tutti testi molto noti122, ad eccezione della seconda canzone di Perdigon123. Il risultato complessivo dimostra notevole abilità tecnica; tuttavia Jaufré ha scelto per lo più versi enumerativi, e perciò piuttosto semplici da inserire nel discorso. Il monaco poteva vantare – come lo stesso Petrarca – un primato d’originalità nell’ambito del proprio idioma, poiché aveva recuperato il modello strutturale in ambito non provenzale, ma francese: la canzone Se par mon chant me dëusse aligier del troviere Gilles de Vieux-Maisons. Il suo nome è ricordato in due documenti del 1211; egli inoltre fu di certo amico di Gace Brulé, autore attivo soprattutto alla fine del XII secolo. I tre poeti da cui sono tratte le citazioni di Gilles – Châtelain de Coucy, lo stesso Gace Brulé124 (cui si fa riferimento in due strofe su quattro) e Blondel de Nesle – sono però contemporanei dei cinque cui avrebbe fatto poi riferimento Jaufré de Foixà, a cavallo tra XII e XIII secolo. La correlazione personale e testuale dell’autore francese col Brulé125 permette inoltre di ipotizzare la datazione di Se par mon chant a circa il 1190. Proprio al Brulé, e alla sua canzone Tant m’a mené in particolare, si deve anche la struttura metrica scelta da Gilles (abab / bab) con la sola inversione dei generi delle rime. Jaufré riprende da Gilles la medesima articolazione strofica, ma dimostra di conoscere anche il modello più antico, poiché riproduce l’originaria alternanza dei generi rimici. Non mancano per altro suggestioni a livello di struttura sintattica, benché 120 È Perugi 1985, pp. 230-236 a proporre l’efficace identificazione di questo personaggio con l’autore delle Regles de trobar; l’idea che Petrarca ne abbia letto la produzione poetica lascia ipotizzare che ne abbia conosciuto, almeno in modo superficiale, il trattato grammaticale. Su questa e le altre opere del medesimo tipo in ambito occitanico si tornerà nel corso del sesto capitolo. 121 Zingarelli 1935, p. 108, associa questo autore al Concistori del Gai Saber. Tuttavia si noti che le date della composizione e della fioritura della scuola non corrispondono; inoltre le informazioni biografiche disponibili a proposito del monaco rimandano tutte a Barcellona e non a Tolosa. Si potrebbe pensare ad una confusione con il Concistori barcellonese, sorto nella città catalana proprio ad imitazione degli avvenimenti tolosani, tuttavia ciò imporrebbe di abbassare eccessivamente la datazione. 122 Infatti le loro testimonianze manoscritte sono molto numerose: Frank 1954, p. 261. 123 Tale scelta meno ovvia è forse giustificata dal fatto che la medesima canzone era servita da modello per l’incipit di Be m’a lonc temps menat a guiza d’aura, caratterizzato dalla metafora della tempesta e del naufragio per indicare la condizione dell’innamoramento: un’immagine, per altro, sorprendentemente affine allo spirito petrarchesco. 124 Il caso di Gilles de Vieux-Maisons è particolare per la relazione personale che soggiace alle scelte compositive. Non solo egli fu amico di Brulé, ma una delle sue due canzoni citate in Se par mon chant era dedicata proprio a Gilles, tanto che l’opera “a citazioni” appare una sorta di risposta; non mancano riferimenti interni che fanno pensare ad una vera e propria corrispondenza. A questo si aggiunge, lo si vedrà, la simmetria metrica, che delinea una correlazione letteralmente “per le rime”. 125 Vedi nota precedente. Per ulteriori dati cronologici relativi ai testi di Brulé, si può consultare Frank 1954, pp. 263-264. 32 le immagini siano diverse, il che rafforza la percezione di un’influenza diretta di Brulé sul monaco catalano126. Il discorso relativo alle origini del genere “a citazioni” è comunque ancor più articolato, perché coinvolge la tradizione mediolatina. In primo luogo la consuetudine del verso autorevole, posto a conclusione della strofa, si afferma nelle quartine monorime tipiche della poesia goliardica. Le fonti delle citazioni sono molteplici: opere classiche, bibliche o evangeliche, a volte moderne. Pare che tale formula risalga a Gautier de Châtillon, ben noto maestro dei chierici vaganti, legato dapprima alla corte inglese (dal 1166) e poi all’arcivescovo di Reims (sino al 1175)127. È probabile che a Gilles de Vieux-Maisons si debba la trasposizione di quell’esempio latino in volgare e in ambito lirico, attraverso però un’ulteriore mediazione: gli inni liturgici. In essi si ritrovano infatti due caratteristiche essenziali per le tre declinazioni volgari (francese, provenzale e poi petrarchesca) della canzone “a citazioni”: la solennità del verso scelto, che infatti è sempre un incipit, e la posizione finale nella strofa. Tale collocazione era già tipica della produzione goliardica, ma il verso citato era spesso banale, tratto da una porzione qualunque del testo prescelto. Inoltre, le soluzioni liturgiche sono più affini a quelle liriche dal punto di vista metrico e ritmico: la lirica in effetti non conosce mai strofe di quattro versi, cioè quelle tipiche della produzione goliardica128. La tradizione degli inni è, tra l’altro, particolarmente longeva: furono diffusi durante tutto il Duecento e ne compose persino il cardinale Jacopo Gaetani de’ Stefani, morto ad Avignone nel 1343. E la coincidenza cronologica e geografica con le esperienze di Petrarca permette addirittura di ipotizzare che il poeta abbia letto in prima persona qualche esemplare del genere129. Più in generale va considerato il successo delle forme poetiche allusive, come appunto quella “a citazioni”, in cui anche gli effetti ritmici possono risultare inconsueti: la loro importanza non è forse straordinaria a livello quantitativo, ma di certo resistente nel corso dei secoli (dalla seconda metà del XII al pieno XIV). Il gusto che ispira tali manifestazioni espressive è squisitamente colto e letterario130. D’altro canto l’interesse di Petrarca per Be m’a lonc temps menat a guiza d’aura può anche essere stato motivato dalle caratteristiche espressive del testo, al di là della struttura131. Da una parte, infatti, benché Arnaut Daniel non sia citato in modo esplicito, la tessitura di Jaufré de Foixà risente enormemente del suo stile132. Dall’altra è probabile 126 Come sottolinea Frank 1954, p. 264, sono utili indizi relativi alla diffusione della lirica oitanica nella Francia meridionale e in generale agli scambi tra le regioni d’oc e d’oil. 127 Ma già al 1163 è datato un suo testo satirico. 128 Diversa è invece la questione del verso citato. Nelle opere liturgiche la citazione viene sempre dagli inni ambrosiani e dunque il verso è un ottosillabo, che è appunto la lunghezza tipica dell’inno; invece nelle tre canzoni volgari si tratta di decasillabi (in quello petrarchesco endecasillabi), cioè le forme liriche per eccellenza nelle rispettive tradizioni. 129 La medesima ricostruzione delle interdipendenze di genere è riassunta in Perugi 1985, pp. 230-236. 130 Frank 1954 rimanda alla classica riflessione di Curtius sulla letteratura (e sulla topica) medievale (ora Curtius 1995). 131 Pulsoni 1998, pp. 239 segg. 132 Su tale aspetto si era pronunciato anche Rossi 1990, contestato però da Perugi 1994; le posizioni dei due studiosi saranno ulteriormente approfondite nel corso del presente capitolo. 33 che Petrarca apprezzasse l’artificio formale delle citazioni perché conosceva i testi scelti dal monaco. Infatti nei codici che tramandano la canzone non vengono precisati né gli inserti poetici né la peculiarità strutturale nel complesso: il poeta aretino deve aver colto da solo tali caratteristiche. Gli stessi testi citati potrebbero essere divenuti a loro volta fonti nella composizione di alcuni fragmenta, come nel caso di Ben aio ‘l mal, il cui esempio si coglie negli incipit dei sonetti 13 e 61133. Per altro le testimonianze delle canzoni in questione sono piuttosto numerose, ad eccezione della stessa opera di Foixà e di quella di Perdigon, tramandate solo da C ed R, in cui inoltre sono registrate tutte le auctoritates del monaco134. Altro elemento esplicitamente trobadorico del componimento petrarchesco è la fonte della prima citazione: Razo e dreyt, che nella versione petrarchesca diviene Dreiz et rayson135, secondo una lezione ortograficamente scorretta. Gli altri riferimenti riguardano invece la poesia italiana, in particolare Cavalcanti, Dante e Cino da Pistoia, sino all’autocitazione conclusiva, tratta dalla canzone 23 del Canzoniere stesso. Rispetto alla scelta delle fonti e alla loro successione, basterà qui rinviare all’ampia letteratura dedicata alla questione136, anticipando che si delinea un preciso percorso non solo cronologico, ma critico e metapoetico. Tale elemento va dunque tenuto in conto a proposito della considerazione che Petrarca riserva ai maestri provenzali, nonché a se stesso137. Il problema più difficile da affrontare in merito al fragmentum 70 concerne la datazione138. Secondo Perugi139, che in proposito recupera l’opinione di Appel, Lasso me sarebbe stata composta tra ‘37 e ‘40 a Valchiusa140. Come si è visto, la familiarità 133 La rima in –aura pare dunque favorire ulteriori recuperi trobadorici nella composizione petrarchesca: Pulsoni 1998 propone in tal senso anche l’esempio della decima canzone di Arnaut Daniel (Ab gai so o, secondo altre versioni, En cest sonet), in cui appunto figura tale rima (compresa la pregnante voce “aura”) da cui Petrarca prende spunto in numerose occasioni, già citate nel corso di questo capitolo (ma si veda Pulsoni 1998, pp. 188 segg). 134 Per altro i due codici sono strettamente connessi a livello genetico. 135 Si tornerà ampiamente sulla questione, sia rispetto alla lezione di tale incipit, sia in merito alla questione dell’attribuzione. 136 Si fa qui riferimento a Santagata 1990, pp. 327 segg. 137 L’opera ha una forte valenza palinodica e autoriflessiva, criticando e chiudendo la fase giovanile (per cronologia e ideologia) della produzione petrarchesca: sono aspetti che suggeriscono ulteriormente la sua importanza e il suo interesse. 138 Tale aspetto delicato si inserisce nella più ampia ed altrettanto vessata questione della cronologia delle letture petrarchesche dedicate ai trovatori e ad Arnaut Daniel in particolare, per il quale si veda lo specifico paragrafo in questo capitolo. Più in generale, la collocazione cronologica delle opere petrarchesche è spesso complessa. 139 Perugi 1985. 140 Perugi 1985, pp. 240-250. Lo studioso ricostruisce così la cronologia di quegli anni: tra ’36 e ’37 Petrarca vive una crisi spirituale legata al viaggio a Roma; tornato in Provenza compra la casa di Valchiusa; si reca a Napoli e di nuovo a Roma per l’incoronazione poetica (1341) e torna a Valchiusa solo nel ’42, dopo il soggiorno parmense. Sono questi gli anni in cui si dedica al Triumphus Amoris, nel quale elenca i trovatori maggiori, tra cui spicca proprio Arnaut Daniel, che dunque deve aver conosciuto prima del ’38. La canzone 70 va associata, secondo Appel 1924 (cui fa riferimento Perugi 1985, soprattutto nel primo capitolo e alle pp. 236 segg), agli altri due testi (giovanili) in cui il recupero di Arnaut è palese: sonetto 13 e canzone 29, che da una parte potrebbe avere una sfumatura parodica e dall’altra sembra già risentire 34 petrarchesca con il modello danielino gli sembra anteriore, considerando l’influenza della canzone Ar vei vermeills sull’incipit e sulla metrica del fragmentum 29, Verdi panni, che gli studiosi per lo più riconducono agli anni avignonesi141. In effetti, è proprio il legame tra Lasso me e Razo e dreyt a complicare il quadro: quando e dove Petrarca ha letto quella canzone? Secondo Perugi, nella solitudine dell’amata Valchiusa, durante i primi anni dopo l’acquisto della casa, Petrarca avrebbe avuto occasione di leggere in parallelo Joifré de Foixà e lo pseudo-Arnaut, magari sul medesimo codice. D’altro canto, sempre secondo Perugi, Petrarca doveva aver già avuto a disposizione – e abbastanza a lungo perché potesse apprenderne l’esempio – una raccolta arnaldiana: è un’ipotesi necessaria rispetto alla datazione alta di Verdi panni. Come ha evidenziato Santagata, la collocazione cronologica della canzone 70 è però connessa anche a quella delle canzoni degli occhi, che nel Canzoniere la seguono immediatamente142. Della terza, in particolare, resta un frammento molto rielaborato nel “codice degli abbozzi”, dove è registrata anche la data della composizione: 1353. La revisione che ne è seguita deve aver coinvolto le altre due “sorelle”, 71 e 72, poiché il trittico è fortemente unitario e svolge nell’insieme una funzione essenziale rispetto al dipanarsi della raccolta. Infatti, dopo il bilancio metapoetico di Lasso me, 71-73 propongono una svolta poetica ed amorosa, per certi aspetti erede dello Stil Novo143, e dunque un diverso approccio alla figura dell’amata. Tale cambiamento trova nell’economia del Canzoniere e del percorso interiore dell’io uno stimolo nel viaggio a Roma cui si riferiscono i sonetti 67 e 69. In tutta questa zona restano le tracce di una revisione (se non di una composizione) piuttosto tarda, strettamente legata alla configurazione della forma Correggio, quindi nel pieno degli anni ‘50144. Un ulteriore fattore dirimente concerne Nel dolce tempo de la prima etade, l’ultima canzone citata in Lasso me. Sempre secondo Santagata, perché Petrarca le attribuisse un così elevato valore rappresentativo rispetto al proprio impegno lirico, la canzone doveva aver raggiunto la sua forma definitiva. Benché l’idea e le prime fasi rielaborative risalgano con certezza agli anni giovanili – la prova è ancora una volta nel “codice degli abbozzi” –, le postille rivelano importanti interventi tra il ‘50 e il ‘51, nonché ritocchi finali all’altezza del ‘56, quando cioè la canzone diviene la ventitreesima del Canzoniere. Tuttavia in sé la lettura di Razo e dreyt non è strettamente vincolata alla composizione del testo in cui è citata, anche perché sarebbe limitante attribuire all’incontro con la canzone pseudo-arnaldiana l’ispirazione di un componimento tanto importante nel della particolare sintassi di Razo e dreyt. In definitiva, Perugi, come in precedenza Appel, propende per la scoperta valchiusana dei trovatori. 141 Come si è visto nel paragrafo precedente, la questione è tutt’altro che chiusa, almeno per quel che concerne la revisione del componimento. 142 Per la ricostruzione relativa alla macrostruttura si veda Santagata 1990, pp. 327 segg., ma in parte già pp. 273 segg. 143 La questione è anche in questo caso ben più complessa: la svolta non è né lineare né definitiva. Si vedano in proposito Praloran 2007 e 2013 e Berra 2010. 144 Si considerino altri due fattori che mettono in rilievo tale serie di testi: si tratta di ben quattro canzoni vicine (perciò paragonabili nel Canzoniere solo alla serie 125-129), posizionate esattamente a metà della sezione in vita (nella redazione Correggio, appunto). 35 percorso poetico della raccolta petrarchesca. Inoltre, proprio una citazione dilazionata nel tempo e a memoria spiegherebbe perché Petrarca inverta i due termini incipitari, errando dunque nel presentare il verso provenzale145. 3.2 “Razo e dreyt” / “Drez et rayson” Le testimonianze di Razo e dreyt sono scarse e soprattutto non proprio coerenti. Solo due manoscritti tra quelli sopravvissuti la tramandano, C e K146, per altro con incipit diverso: la lezione corretta nel primo e Dreg erazos nel secondo147, cioè una versione assai vicina a quella erronea citata da Petrarca148. Santagata149 in una prima ipotesi ha attribuito l’errore al poeta aretino, che potrebbe aver influenzato i testimoni successivi, ma poi ha affermato che l’origine dell’inversione potrebbe essere dovuta alla tradizione italiana dei codici trobadorici e per loro tramite essere giunta al poeta. Perugi150 ha sostenuto per lo più la seconda interpretazione, ritenendo che il poeta leggesse il testo in una silloge imparentata con K; fenomeni di inversione come quello che si delinea tra C e K, d’altronde, sono tutt’altro che rari, senza perciò dover immaginare alcuna responsabilità da parte di Petrarca. Tuttavia è probabile che Petrarca non leggesse proprio K151. Il testo di K in effetti non si propone come una fonte affidabile: è, infatti, 145 Nel Canzoniere, infatti, la canzone suona Drez et rayson. L’ipotesi è di Santagata 1990, pp. 327 segg., che però non esclude che l’errore nell’incipit dipenda da una particolare tradizione italiana, anche perché non è del tutto assente dai testimoni manoscritti. Se invece si accetta l’ipotesi della citazione a memoria, potrebbe essere stata proprio la lezione petrarchesca ad aver influenzato i testimoni. Sulla questione si tornerà a breve. 146 Per le indicazioni relative ai codici, si veda il sesto capitolo. Si noti per altro che in C la canzone è preceduta e seguita da componimenti di Arnaut Daniel. 147 I due termini dell’incipit hanno un preciso valore tecnico in ambito poetico: la razo è il soggetto dell’opera, mentre dreyt indica la legittimazione del canto, anche a garanzia della sua originalità. 148 “Drez et rayson es qu’ieu ciant e m demori”, canzone 70, v 10. 149 Santagata 1990, pp. 327 segg. 150 Perugi 19912, che riprende le ipotesi di Perugi 1985, in particolare i capitoli I e IX, e al contempo risponde a quelle di Beltrami-Santagata 1987 e Santagata 1990, pp. 157 segg. e 327 segg. Lo studioso ha comunque dimostrato una certa incertezza (Perugi 1985 e 1990), laddove ha suggerito l’influenza petrarchesca sull’effettiva lezione del testo in concomitanza con il passaggio della tradizione dalla Provenza all’Italia. Tali condizionamenti locali spiegherebbero la variazione di alcune lezioni, come il nome proprio “Franceschin”, che talvolta si è pensato riferito proprio a Petrarca. Sulla questione si tornerà oltre. 151 Corrado Bologna (Bologna 1993 [1986]) ha riconosciuto la mano che vi trascrive Razo e dreyt, diversa da quella principale nel codice, come tipica della metà del Trecento; tale versione, perciò, potrebbe essere troppo tarda perché Petrarca se ne sia avvalso, a seconda cioè del momento in cui si collocano le sue letture provenzali. Santagata 1990, p. 327 segg, ne tiene conto nel suo tentativo di postdatare Lasso me; Asperti-Pulsoni 1989 propendono a questo punto per attribuire ai codici Sg e a, o più probabilmente alla tradizione che ne discende, un contributo essenziale rispetto alla formazione trobadorica di Petrarca, benché le prove in tal senso non siano particolarmente solide. Per Perugi 19911 è l’occasione per ribadire la propria convinzione secondo cui Petrarca lesse la canzone in Provenza e in tempi alti, prima cioè che in Italia potesse circolare la versione di K. Ne consegue l’ulteriore affermazione per cui le letture giovanili dell’Aretino non si sarebbero limitate alla sestina. Anche l’identificazione della provenienza del copista di K ha diviso i critici: Perugi (1985 e 19902) propende per un’origine provenzale, ma cerca di spiegare alcuni cambiamenti nella lezione di K rispetto a quella di C in riferimento al passaggio in Italia. Sull’interpretazione dei medesimi passi è tornato a più riprese Pulsoni (Asperti-Pulsoni 1989, Pulsoni 1993 e 1998), evidenziando la difficoltà del testo e quindi 36 lacunoso, poiché mancano la quarta e la quinta strofa. Dal canto suo C presenta non pochi problemi, per la presenza di numerosi versi invertiti o ipometri; perciò Perugi ritiene comunque che il testo migliore a livello qualitativo sia quello di K. Tale opinione è in parte contraddetta dall’evidente autonomia esercitata dal suo copista (o forse anche dai giullari), quasi certamente italiano, piuttosto prono alla rielaborazione: la natura di tali interventi sembra condizionata dal bisogno di farsi comprendere da un pubblico per il quale il provenzale non era lingua madre. Va notato inoltre che non di rado i cambiamenti introdotti nel testo provocano la sostituzione della rima con l’assonanza, soluzione del tutto estranea alla tradizione trobadorica. Alcuni cambiamenti a livello lessicale, inoltre, sembrano rivelare l’influenza su K del contesto socio-culturale italiano e dunque potenzialmente affine a quello in cui visse (e lesse) Petrarca. All’origine della canzone è indubbiamente il modello danielino152, che l’autore segue con notevole fedeltà, il che spiega facilmente la tradizionale attribuzione del testo proprio ad Arnaut; inoltre la convinzione di Petrarca in tal senso153, resa evidente – benché non esplicitata - dalla sua citazione in Lasso me, potrebbe aver influenzato l’opinione dei letterati posteriori154. È infine probabile che parte della tradizione indicasse il testo come di Arnaut: dunque lo stesso Petrarca potrebbe averlo letto sotto questo nome. Nessun canzoniere trobadorico sopravvissuto riporta tale testimonianza: in K, infatti, il testo è anonimo, mentre in C è attribuito a Guilhem de Saint Gregori – attribuzione che Perugi censura immediatamente come infondata, in contrasto con le convinzioni di Beltrami e Santagata155. Oltre alle due fonti principali, C e K, rimane però il “frammento Strozzi”, conservato appunto nel codice Laurenziano Strozzi 178156, che pur essendo assimilabile a C per la lettera dell’incipit, se ne distingue per l’attribuzione ad Arnaut Daniel157. È difficile la probabilità che i copisti siano caduti in errore. Lo studioso propende in sostanza per una realizzazione integralmente italiana di K. I medesimi riferimenti, infine, erano stati presi in esame da Beltrami-Santagata 1987, che raccomandano però particolare prudenza, per l’assenza di indicazioni affidabili sui nomi e i personaggi citati nella canzone. 152 Altro probabile antecedente di Razo e dreyt è un’opera latina della fine del XII secolo, il Pamphilus, che a sua volta trattando di questioni amorose si riferisce principalmente ad Ovidio. La connessione tematica è piuttosto evidente, benché la gran parte dei contenuti sia di certo topica e convenzionale. Vedi Perugi 1985. 153 È davvero difficile pensare che Petrarca abbia spontaneamente e consapevolmente citato figure mediocri come Guilhem de Saint-Gregori o Guilhem de Murs (le possibili attribuzioni alternative ad Arnaut Daniel). Pulsoni 1998, pp. 239 segg. ritiene che questo sia un ulteriore indizio del fatto che Petrarca non abbia letto K o che comunque non abbia fruito soltanto di tale codice, poiché qui manca l’attribuzione ad Arnaut Daniel, necessaria per spiegare l’attenzione del poeta verso un testo poco efficace come Razo e dreyt. 154 Fino alle riflessioni del Muratori (1711), l’attribuzione non è mai messa in dubbio, ad eccezione di chi citi Nostredame, come Tassoni, poiché il biografo francese riteneva che l’autore della canzone fosse l’ignoto (forse fittizio) Boyer. Bisogna comunque considerare che da una parte all’autorità di Petrarca si assomma quella di Bembo, che di fatto ne segue l’esempio; dall’altra quasi nessun critico o filologo cita questo testo. 155 Perugi 1985 e seguenti, Beltrami-Santagata 1987. 156 Perugi sembra trascurare tale parte della tradizione manoscritta. 157 Non va escluso, in ogni caso, che l’attribuzione del frammento Strozzi sia influenzata dall’autorevole opinione implicitamente espressa da Petrarca con la sua citazione, considerando che il codice è stato esemplato nel ‘300; né si può escludere a priori che sia piuttosto Petrarca ad aver influenzato la lezione di 37 immaginare che il copista o l’antigrafo di K, essendo a conoscenza di un’attribuzione tanto prestigiosa, la scartassero a favore dell’anonimia; perciò pare più probabile che in Italia siano circolate due tradizioni del tutto autonome158. Già gli studi cinquecenteschi, comunque, avevano cercato di approfondire la questione. Bembo in particolare affermò con sicurezza per Razo e dreyt la paternità di Arnaut Daniel, contrastata in primo luogo dal Castelvetro, che evidenziava le incoerenze tra lo stile della canzone e quello del grande trovatore159. Bembo era però un’autorità e un punto di riferimento imprescindibile: quasi certamente dipende dalla sua anche l’opinione di Giulio Camillo, che forse non poté nemmeno leggere per esteso la K. Tali aspetti si sono comunque già affrontati. Di fatto, la canonica attribuzione ad Arnaut, sostenuta ancora da Appel all’inizio del ‘900 (Appel 1924 citato in Frank 1954), si è sempre basata soltanto su tale postilla. Ancora Zingarelli 1935, che raccoglie le opinioni discordi degli studiosi cinquecenteschi dichiara di accettare la paternità arnaldiana, almeno “a livello intuitivo”. 158 La tradizione manoscritta riserva ancora qualche utile indicazione, analizzata in Asperti-Pulsoni 1989 e Pulsoni 1993. Un’ipotesi da non trascurare, infatti, è quella secondo cui la canzone fosse presente nel canzoniere del conte di Sault (di cui si riparlerà con maggiore ampiezza nel corso del sesto capitolo). Purtroppo il Nostredame, fonte utile rispetto alla conoscenza del codice perduto, non lo è altrettanto per quanto concerne la canzone citata da Petrarca, confermandosi anzi pronto a falsificazioni e costruzioni immaginifiche. In particolare, egli prende spunto dai primi studi cinquecenteschi sulle presenze occitaniche nel Canzoniere e dai commenti a Lasso me per asserire di aver letto l’ignota canzone, di cui per lo più era noto solo il verso iniziale, vista la sua presenza in due soli codici (il caso di Bembo, che possedeva K, è eccezionale). L’incipit Razo e dreyt diviene, nel Glossario, l’apertura di un componimento di Rigaut de Berbezilh, ben noto invece in tutta la sua estensione (Tuit demandon qu’es devengud’Amor). Per altro tale erronea associazione motiva una notevole variazione del verso incipitario di Razo e dreyt in sede di rima, che diviene: “Drech e razon es qu’yeu chante d’amour”. Non stupiscono invece l’inversione dei due termini iniziali (così in K e nel Canzoniere) e l’adattamento grafico alla pronuncia francesizzante. Nostredame, comunque, sembra influenzato dalla lezione citata da Vellutello nel suo commento a Petrarca, che in effetti il biografo doveva ben conoscere (Asperti-Pulsoni 1989, p. 166). Nelle Vies il Nostredame cambia posizione, da una parte utilizzando il primo verso di Razo e dreyt come incipit di un falso dell’amico Boyer (che ne risulta nobilitato), dall’altra riportando l’attribuzione ad Arnaut Daniel, dapprima con un’affermazione autonoma, poi citando un’ulteriore fonte erudita, il Monges des Isles d’Or. Ovviamente è possibile che la canzone fosse in effetti presente nel codice di Sault – magari proprio sotto il nome di Rigaut – e che il Nostredame non sia in questo caso colpevole di alcuna falsificazione (benché le sue consuetudini come biografo non rappresentino buone credenziali): in tal caso si potrebbe pensare ad un errore, ad una sovrapposizione di più testi, giustificata magari da una citazione mnemonica. Tale confusione potrebbe esser stata favorita dalla contiguità delle sezioni di Rigaut e Arnaut nel codice del conte (secondo la ricostruzione di Chabaneau e Anglade 1911). Se si accetta l’ipotesi che Razo e dreyt fosse nella silloge del conte, si ottiene un utile strumento rispetto alla comprensione della sua tradizione complessiva: la versione di Sault, infatti, sembra coerente con quella di K (affine a quella petrarchesca). Petrarca potrebbe aver avuto accesso a tale tradizione “orientale”: un’ipotesi suggestiva, non tanto perché sia necessario identificare quale specifico documento il poeta avesse a disposizione per la sua citazione, quanto perché ne deriverebbero rilevanti conseguenze rispetto al tipo di materiali trobadorici cui in generale egli avrebbe avuto accesso. Per altro, tale zona del Midi appare coerente con i luoghi della sua giovinezza e della sua formazione. Ne sarebbero poi influenzate anche le considerazioni sulla lettura di Amor e jois, testimoniata dalle affermazioni dello stesso Petrarca rispetto alla composizione di Aspro core: anche tale testo sembra infatti legato alla tradizione del codice a (la raccolta di Bernart Amoros) e di Sault, benché non ci siano elementi per pensare che Petrarca abbia utilizzato uno dei due codici (Asperti-Pulsoni 1989). Tali codici risultano imparentati con alcune sillogi preparate in Italia, come H e L, le cui glosse paiono derivare proprio da simili fonti d’oltralpe. Insomma, al di là dell’impossibilità di proporre certezze o ricostruzioni più stringenti, ne deriva comunque un quadro coerente al contesto culturale in cui si è mosso il poeta aretino. 159 Sottolineando in particolare il dettaglio tecnico del verso diviso in due emistichi, del tutto assente in Arnaut. 38 canzone. Ad entrambi si rifece poi il Vellutello, che a sua volta influenzò gli intellettuali coevi, affermando in linea definitiva l’attribuzione danielina160. Si possono a questo punto formulare tre ipotesi. Il copista di L5 (o di un suo antecedente) potrebbe aver avuto accesso alla stessa fonte che usò Petrarca (o a documenti affini); il poeta aretino perciò potrebbe aver conosciuto la versione originale di Razo e dreyt, che avrebbe volontariamente modificato in Drez e rayson per motivi prosodici, inserendo il verso nell’endecasillabo italiano. Una seconda valida possibilità, secondo l’indicazione di Pulsoni161, concerne la graduale evoluzione del testo, insieme a quella della raccolta nella sua interezza verso le redazioni Correggio e Chigi. Infine la postilla potrebbe dipendere dal Canzoniere stesso, da cui lettori e copisti avrebbero tratto l’indicazione. Al di là dell’autorialità del testo, il riferimento al modello arnaldiano ha consentito ai critici di spiegare in modo più approfondito il contenuto della canzone e la sua elaborazione formale162: gli strumenti retorici con cui è segnalata la continuità delle strofe, le rime isolate e difficili. La prepotente influenza di Arnaut permette di intuirne una profonda conoscenza da parte dell’autore; egli si dimostra ben poco autonomo e creativo, in alcuni casi addirittura poco comprensibile. Inoltre le caratteristiche linguistiche e stilistiche163 consentono di stabilire con certezza che il testo appartiene ad un’epoca posteriore164 rispetto a quella in cui visse e compose il Daniel. Le caratteristiche della canzone sono illuminate da alcune interessanti connessioni intertestuali, in primo luogo con il testo che la segue in K, La beutat nominativa165, e un 160 La questione, tuttavia, non deve essere parsa poi così limpida al Bembo stesso, che sulla citazione petrarchesca è tornato più volte, come dimostrano gli appunti preparatori all’edizione aldina del Canzoniere (1501). A quell’altezza probabilmente egli non disponeva ancora di K, poiché la lezione ivi contenuta non è mai citata nelle note; esse testimoniano comunque quattro versioni diverse, una in particolare coincidente con quella del codice Laurenziano Strozzi. Tale indizio sulla lettura del manoscritto laurenziano da parte di Bembo è molto rilevante, per l’attribuzione ad Arnaut che vi è registrata; inoltre la lezione del verso provenzale è molto vicina alla forma conservata in C, ben più che a quella petrarchesca, che Bembo conosceva direttamente grazie al codice poi Vat. Lat. 3195. Il codice Laurenziano appare in effetti ben informato, anche in merito all’attività di Petrarca, come dimostra la presenza di note e postille che mancano persino nel “codice degli abbozzi”. Il problema rimase insoluto: Bembo continuò a cercare codici più affidabili (si veda la lettera al Fregoso del 1529, citata in Debenedetti 1930) e non giunse mai alla pubblicazione della canzone. 161 Pulsoni 1998, pp. 239 segg. e per la questione codicologica anche pp. 267-280. 162 Per un’analisi stilistica puntuale della canzone, in relazione ai dettami retorici mediolatini di Matteo di Vendôme (XII-XIII sec) e ad altri testi pseudo-danielini stilisticamente affini a Razo e dreyt, si veda Perugi 1985, pp. 251 segg. È particolarmente interessante il file rouge identificato da Perugi nel termine “nominativa” che ricorre in vari testi trobadorici, in parte connessi a Rodez, sino a Petrarca. 163 L’analisi linguistico-stilistica (Perugi 1985) è stata ripresa e ampliata dallo stesso Perugi (19902): l’estrema insistenza retorica rende il messaggio poco chiaro, il tono è incostante fra elementi alti e bassi, nonché di diversa origine linguistica. Anche le fonti sono molteplici e discontinue, presentate come per sfoggio d’erudizione. 164 Anche se gli studiosi non concordano su quanto posteriore vada considerata. 165 Entrambi i testi sono trascritti sull’ultima carta del codice da mano diversa da quella principale: sull’ordinamento del codice e i collegamenti che ne derivano Perugi 1985 si è soffermato con una certa ampiezza. I due testi sono molto simili, in quanto esercizi scolastici ben poco autonomi. La beutat nominativa rimanda ad uno scambio di coblas in cui fu protagonista Rostanh Berenguier de Marselha, personaggio di cui si conosce ben poco oltre alle informazioni inaffidabili tramandate dal Nostredame. Pare sia l’autore di una canzone contro i Templari posteriore alla caduta di Acri (1291) e di un’altra in onore del cavaliere che protesse la città, Folcho de Villaret. 39 sirventese sulla crociata di Cerverì de Girona. Tale componimento è databile al 1269, grazie al riferimento a Jaume I; esso condivide con lo pseudo-Arnaut quasi tutte le parole in sede di rima, il gusto per la complicazione sintattica e la ricerca di lessico inconsueto. Più in generale Razo e dreyt va ricondotta alla cultura cortese tarda166, erede della letteratura occitanica classica, ma al contempo frutto di una fase decadente167. Infatti anche per Raimon de Cornet, il più importante tra i trovatori tardi, Arnaut Daniel rappresenta il modello principale, spesso citato in modo puntuale ed esplicito. Inoltre in coerenza con i dettami del Concistori del Gai Saber, esperienza culturale dominante per l’ultima fase del trobadorismo, Razo e dreyt può essere interpretata anche in chiave spirituale e morale168. Considerando le caratteristiche cronologiche ed espressive del componimento, Perugi ha ipotizzato che la fonte di K abbia trovato i due testi in un antigrafo simile al codice f169, contrassegnato da testi molto omogenei per datazione (fine ‘200 - inizio ‘330), tipologia (coblas) e localizzazione regionale. Le medesime circostanze cronologiche e geografiche segnerebbero dunque la composizione e la diffusione di Razo e dreyt; per altro la presenza di testi brevi potrebbe aver favorito il passaggio della raccolta in Italia170. Beltrami-Santagata 1987 negano uno stretto rapporto tra i due testi, accomunati semplicemente dal rapporto imitativo con gli autori dell’epoca classica. Rostanh in particolare fu poeta dedito alla retorica più banale e scolastica ed imitatore di Arnaut Daniel, nella forma e nei contenuti, fino alla creazione di veri e propri centoni. Tuttavia Perugi 1985, pp. 192 segg. ritiene che egli non possa essere l’autore di Razo e dreyt poiché cita in un altro testo un certo “Sancinier” suo amico, nome che corrisponde con grafia diversa al “Sanguiniers” con cui l’autore della canzone pseudo-arnaldiana si autodefinisce. Gli autori delle due canzoni non possono essere considerati la medesima persona, ma appaiono in qualche modo connessi. 166 Su tale fase della tradizione trobadorica si tornerà con maggiore approfondimento nel corso del sesto capitolo. 167 Tale aspetto viene sottolineato soprattutto da Perugi 1985, mentre Beltrami e Santagata propendono per una datazione più alta. 168 Sui caratteri della produzione tarda e in particolare su quella di Raimon de Cornet si è soffermato Perugi 1985, pp.94-142. Altri utili riferimenti al contesto culturale da una parte e al diffuso recupero del modello arnaldiano dall’altra possono coinvolgere due personalità significative per l’epoca: Pey de Ladils, che fu in corrispondenza poetica con Cornet e ne subì fortemente l’influsso, e Joan de Castellnou, che fu protagonista delle esperienze trobadoriche tarde a Barcellona e in Catalogna, in riferimento proprio al Concistori. 169 Se ne parlerà nel corso del sesto capitolo. In Perugi 19902 la riflessione sull’affine di f è molto ricca: l’area di riferimento è quella provenzale in senso stretto, con particolare attenzione alla zona tra Avignone e Orange. Lo dimostrerebbero le caratteristiche paleografiche, grafemiche e linguistiche che potrebbero derivare non dal singolo manoscritto, ma dai suoi antecedenti. Va notato in particolare che sia f sia C, dove è testimoniata Razo e dreyt, appartengono al ramo y della tradizione; in f è presente inoltre lo scambio di coblas da cui dipende La beutat nominativa. Tale ipotesi è ripresa da Bologna 1993 [1986], in cui brevemente si fa riferimento al contatto di Petrarca con Jacopo Stefaneschi in ambiente avignonese, che potrebbe essere stato il tramite per la lettura di una simile silloge, considerata dall’autore con ogni probabilità una raccolta modesta. Lo studioso è tornato sul tema delle citazioni contenute in Lasso me anche in tempi più recenti, per cui si veda Bologna 2003. 170 La penisola infatti ha dimostrato particolare inclinazione verso i testi brevi, come suggerisce la preparazione di florilegi. Secondo Perugi 19902 tale passaggio potrebbe in realtà coincidere con la migrazione dell’autore del testo: Razo e dreyt sarebbe perciò nata come presentazione e auto-propaganda di un trovatore in cerca di nuovi mecenati. Da questo deriverebbero anche le caratteristiche testuali della canzone, densa, ricca ed erudita. 40 Valutando la provenienza dei testimoni sopravvissuti e i riferimenti interni al testo171, Perugi sostiene che la canzone appartenga all’area tra Narbona e la Provenza, e probabilmente a Tolosa. Lo studioso pensa in particolare a Rodez172, il più noto ed importante tra i piccoli centri in cui la poetica cortese resisteva all’inizio del ‘300; i signori e gli intellettuali della corte furono in contatto sia con gli ultimi grandi trovatori, Guiraut Riquier e Cerverì de Girona, sia con poeti poi legati al Gai Saber173. Qui il sostegno ai trovatori rappresentava un’antica e florida abitudine174 e Perugi ipotizza in conclusione che proprio Rodez abbia fornito l’ambiente ideale alla stesura della canzone. Dopo tale ricostruzione, lo studioso avanza una proposta sul possibile autore di Razo e dreyt nella persona di Guilhem de Murs175, del quale restano sei componimenti176, un sirventese e cinque tenzoni con Guiraut Riquier. Una tenzone è databile a prima del ‘66 grazie al riferimento ad una nota rivolta spagnola, mentre il sirventese risale al ‘69, poiché richiama il medesimo progetto di crociata citato da Cerverì. La successione dei testi mostra un incremento nell’importanza di Arnaut Daniel quale modello di stile, e della sfera religiosa e morale a livello delle tematiche. Forma e contenuto sono dunque perfettamente omogenei rispetto a Razo e dreyt, che però appare più ambiziosa, quasi si proponesse di riassumere tutti gli elementi essenziali della poetica arnaldiana: Perugi interpreta la scelta dei modelli e dell’impostazione 171 Perugi 1985, pp. 39-55, fa riferimento in particolare al già citato appellativo “Sanguiniers” che l’autore riferisce a se stesso. Si tratterebbe di un’indicazione geografica, come suggerisce la comparazione con simili occorrenze in altri poeti, riferita ad una “terra de sanguin” associata altrove a un “port (o pont) de sorc”, cioè probabilmente il punto di pedaggio sulla Sorgue, il fiume che scorre da Valchiusa ad Avignone. Ciò rafforza l’opinione di Perugi secondo cui Petrarca avrebbe letto le opere trobadoriche o almeno quelle di Arnaut Daniel in età giovanile e in Provenza. Sull’appellativo sono poi tornati BeltramiSantagata 1987, proponendo l’identificazione di “Sanguiniers” con un militare legato al signore di Tolosa nell’ambito delle lotte familiari per il controllo della regione. 172 Delle piccole corti in cui il trobadorismo poté sopravvivere più a lungo si tratterà nel sesto capitolo. Dopo l’analisi in Perugi 1985, Perugi 19902 riprende e approfondisce la riflessione in merito alle corti che ospitarono i trovatori tardi, in riferimento all’area veneta. Tuttavia bisogna ricordare che le raccolte che contengono i componimenti tardi (compresi K, f e quindi il suo ipotetico affine) contengono spesso anche testimonianze dell’età d’oro. 173 Perugi 1985 nota in proposito che proprio questi due poeti avviano il graduale spostamento dalla tematica amorosa propriamente intesa a quella dell’amore spirituale e mariano. Inoltre c’è una convergenza anche a livello di testimoni manoscritti: sono infatti centrali C ed R, oltre ad Sg, dove non è presente Razo e dreyt, ma che tramanda le opere di Cornet. 174 In tale contesto vanno infatti collocati vari componimenti di Bertran d’Alamannon, Bertran Carbonel, Folquet de Lunel e soprattutto Sordello, che cantò la figlia del signore. Alla signora di Rodez è dedicata anche la canzone XIX di Raimbaut d’Aurenga, che per struttura ed elaborazione retorica potrebbe aver rappresentato un importante modello per Razo e dreyt (Perugi 1985, pp. 254-255). 175 Identificare con esattezza questo personaggio è tutt’altro che semplice. In Provenza ci sono due centri chiamati Murs, uno vicino ad Aveyron ed uno vicino a Valchiusa, entrambi piuttosto coerenti con il riferimento a Rodez. È certo che non si tratta di un nobile catalano, ma potrebbe essere il Guilhem de Murs testimone di un’autenticazione nel ’65 a Mur-de-Barrez, che era sotto la dominazione aragonese (e questo potrebbe spiegare le connessioni con l’area iberica annoverate tra i dati biografici del trovatore) senza però perdere il legame con Rodez (il conte era l’amministratore dell’area). A questo punto però non sarebbe Murs vicino a Valchiusa a dare i natali (e il nome) al poeta, eliminando un potenziale fattore di coerenza con il “sanguiniers” di Razo e dreyt, almeno per come lo interpretava lo stesso Perugi. 176 Tali opere sono tramandate soltanto da R, C (il sirventese) e f (una tenzone). 41 complessiva in riferimento al desiderio di distinguersi dalla produzione coeva in decadenza177. Proprio la concentrazione di artifici retorici, l’impressione insomma di leggere una summa della maniera danielina, potrebbero aver colpito l’attenzione di Petrarca, che secondo lo studioso ben conosceva ed apprezzava Arnaut almeno dalla fine degli anni ‘30178. Il tramite per la scoperta di Razo e dreyt dovrebbe essere una silloge affine ad f, in cui però fosse presente, oltre alla canzone pseudo-danielina, un corpus arnaldiano anche molto ristretto ma rappresentativo. Perugi considera in proposito le relazioni diplomatiche e politiche del giovane Petrarca, e in particolare alcune famiglie cardinalizie di origine italiana, tra cui gli Orsini e i Colonna, cioè i primi e i più duraturi protettori del poeta179. Altri indizi utili potrebbero derivare dall’origine guascona della madre di Giovanni e Giacomo Colonna, nonché l’acquisizione da parte di quest’ultimo del vescovado di Lombez, nella medesima area180. Sulla questione sono tornati in seguito Beltrami e Santagata181. I due studiosi concordano con Perugi sul fatto che Razo e dreyt non possa essere realmente di Arnaut Daniel, quasi “troppo arnaldiana” per non essere un’imitazione ed anzi una celebrazione del grande trovatore. Tuttavia, anche solo la valutazione estetica del componimento diverge dall’opinione di Perugi, poiché i due studiosi evidenziano l’uniformità del risultato rispetto alla tradizione occitanica, più che l’eccesso di manierismo. Il primo significativo fattore di contrapposizione concerne comunque la datazione del testo, che Beltrami e Santagata ritengono possibile anticipare addirittura all’inizio del Duecento; infatti il riferimento alle “tonache corte” (vv 49-50), che Perugi interpretava come segnale del legame con gli ambienti spirituali182, può essere semplicemente 177 Perugi 1985 ritiene che all’origine di tale urgenza ci sia una motivazione comunicativa stringente. Le opere di Guilhem de Murs, infatti, dimostrano un progressivo allontanamento dalla corte e testimoniano un rapporto sempre più difficile con la corte e il suo signore. La ricerca di approfondimento nella sua produzione lirica sembra sgradita a chi identifica nella poesia solo uno strumento di divertimento. Tale contrapposizione di gusti potrebbe essere all’origine della ricerca di autonomia da parte del trovatore e della conseguente mancanza di generosità nei suoi confronti da parte del conte. Si vedano in particolare le pp. 104 segg (e soprattutto 210). 178 D’altro canto, per Perugi 19902 proprio simili letture avrebbero invogliato il poeta alla scoperta degli autori maggiori. 179 L’ipotesi di Perugi 1985, pp. 240 segg. non dipende soltanto da una generica valutazione dell’ambiente culturale formatosi intorno ai personaggi più ricchi e prestigiosi. Lo studioso infatti ha evidenziato come tali famiglie fossero state spesso favorevoli alla fazione degli spirituali, come forma di contrapposizione a Bonifacio VIII. Razo e dreyt potrebbe aver suscitato la loro attenzione se fosse corretta l’interpretazione polemica fornita dallo stesso Perugi, secondo la quale il testo allude proprio a quegli scontri morali e soprattutto istituzionali. È certo comunque che all’epoca di Petrarca tali questioni appartenevano alla storia della Chiesa ed avevano perso qualsivoglia attualità. 180 Di fronte a tali indicazioni di massima si ferma anche Perugi 1985: è giusto segnalare le occasioni in cui Petrarca potrebbe aver reperito del materiale trobadorico, ma la natura di tali testimonianze e la loro quantità ci sono precluse. La questione della circolazione dei manoscritti e delle relazioni intellettuali di Petrarca quali possibili fonti per le letture trobadoriche sarà ripresa in termini più generali nel corso del quinto, sesto e settimo capitolo. 181 Beltrami-Santagata 1987. 182 Perugi 1985. 42 spiegato in relazione alle coeve discussioni sull’abbigliamento del clero regolare183, senza che le questioni francescane rappresentino un vincolo cronologico. Un’altra indicazione utile riguarda lo sfondo politico che emerge dal componimento: mentre dopo il 1271 l’attribuzione dei titoli ai signori del tolosano è piuttosto ambigua e confusa, rivelando difficili rapporti con l’autorità regia francese, fino agli anni Trenta rimane preminente e univoca l’autorità locale dei conti, benché l’area fosse stata conquistata dal re Luigi VIII già nel 1226 e fosse poi passata ufficialmente a far parte della corona francese nel 1229 sotto Luigi IX. La lettera della canzone sembra riferirsi alla realtà provenzale e alla fase alta della conquista della regione, piuttosto che alla monarchia francese. Inoltre è necessario rivedere i termini del rapporto tra la canzone e il sirventese di Cerverì de Girona, che condividono lo schema metrico. D’abitudine è nel sirventese, ritenuto meno prestigioso, che si imita la struttura di una canzone, e non viceversa184. Un inusuale passaggio dalla forma “inferiore” a quella “superiore” nel caso di Razo e dreyt è ancora meno probabile, poiché il sirventese di Cerverì presenta una rima al mezzo assente nella canzone: è difficile pensare che il genere più alto abbia non solo ripreso, ma anche semplificato un modello più umile. Con tali posizioni concorda Pulsoni185, che evidenzia anche la consuetudine duecentesca di non comporre struttura metrica e melodia originali per i testi di crociata, come era richiesto per un testo lirico. L’affermazione della dipendenza di Cerverì da Razo e dreyt e non viceversa è essenziale per confutare sia la datazione sia l’attribuzione di Perugi: ne deriva infatti un terminus ante quem (1269) incoerente con il periodo in cui Guilhem de Murs cominciò a scrivere, negli anni ‘60 del Duecento. A livello cronologico i due studiosi sostengono quindi una collocazione relativamente alta (intorno al 1229), benché di necessità posteriore all’attività di Arnaut Daniel. Un ultimo spunto significativo per la datazione viene dalla tornada: la frase “qui que sai rest” è infatti un probabile rinvio alla crociata, come rivela il confronto con altri testi coevi, più semplici da datare. La frequenza con cui il tema ritorna nei versi dell’epoca ne rivela l’attualità e l’interesse, favorendo perciò a maggior ragione la contestualizzazione della canzone. Beltrami e Santagata si sono poi soffermati sull’attribuzione di C a Guilhem de SaintGregori, che Perugi tralasciava. Al trovatore sono attribuiti cinque testi, di cui tre contestati: ciò avviene cioè in tutti i casi in cui era possibile addurre un’alternativa (mentre per gli altri due testi – Razo e dreyt e la tenzone con Blacatz – l’alternativa era l’anonimato). In effetti, un altro testo di Guilhem presenta un problema filologico e letterario simile a quello che si è descritto per la canzone pseudo-arnaldiana. Infatti, Be m platz lo gais temps de pascor, associata talvolta a Bernart de Ventadorn, talvolta al Saint-Gregori, è sì un testo chiaramente ventadoriano, ma in modo tanto generico, esplicito e manieristico da apparire un’imitazione. Una fonte ulteriore, però, riconduce il 183 Si tratta di un tema particolarmente attuale durante il primo quarto del XIII secolo, come dimostrano gli statuta conciliari di Montpellier del 1215, in cui vengono riportate letteralmente le medesime parole che si trovano nella canzone. 184 Così invece secondo Perugi 1985. 185 Pulsoni 1998, pp. 245 segg., che considera anche l’empirica osservazione per cui nessun testo del trovatore di Girona è mai stato imitato. 43 componimento a Blacasset, il figlio di Blacatz, che altrove tenzona proprio col SaintGregori. Infine, Guilhem potrebbe essere l’autore (ma di nuovo resta anche una seconda attribuzione possibile, benché poco credibile, a Bernart de Ventadorn) di una sestinasirventese, Ben grans avolesa, che ripropone le medesime rime utilizzate in una canzone di Arnaut Daniel. L’immagine che ne deriva per Guilhem de Saint-Gregori è quella, coerentissima, di un abile imitatore, dedito soprattutto a due tra i più grandi trovatori dell’epoca d’oro186; anche il contesto dei rapporti poetici e dialettici appare unitario e credibile. 3.3 “Aspro core” Il caso del sonetto 265, Aspro core, è stato oggetto di particolare attenzione, e non a caso: soltanto per tale testo, infatti, Petrarca dichiara in modo esplicito la dipendenza rispetto a un trovatore. Non stupisce che si tratti proprio di Arnaut Daniel187, indicato in una postilla188 come punto di partenza nella composizione del fragmentum189. Di tale annotazione è perduto l’originale190, ma ne restano quattro testimonianze: nel codice Casanatense191 a Roma, nel Palatino a Parma, nell’Harleiano a Londra e in un incunabolo milanese, anch’esso oggi conservato a Londra. Le quattro lezioni presentano alcune differenze, in primo luogo rispetto al contesto in cui è avvenuta la lettura del modello: P segnala non il giorno del mese, ma la festa del santo corrispondente; C e H192, invece di segnalare il momento del giorno (“pridie”, all’alba) propongono il luogo (“Padue”, Padova). Rispetto a tali alternative, i critici non sono del tutto concordi. Perugi193 ha sostenuto la lezione “pridie” poiché ritiene che se Petrarca avesse voluto nominare la città veneta avrebbe utilizzato la forma aulica 186 Su tale attribuzione – come d’altronde su nessun’altra tra quelle proposte – non concorda Pulsoni 1998, pp. 256-257, secondo cui il copista di C è stato influenzato dal nome citato al v 46 e dall’usus scribendi del trovatore, consueto imitatore di Arnaut Daniel. 187 Ciò non cancella l’importanza delle fonti classiche – su cui insiste in particolare Zingarelli 1935, anche allo scopo di limitare la portata dei modelli trobadorici rispetto al poeta aretino; spiccano in particolare Tibullo, Properzio, Ovidio e Lucrezio. Tali antecedenti sono stati fondamentali per i trovatori stessi e poi per i poeti italiani anteriori a Petrarca, come dimostra la presenza del medesimo concetto su cui si fondano le terzine di Aspro core (l’acqua che nel tempo buca la roccia, a segnalare il valore di pazienza e resistenza, sia in Bernart de Ventadorn che in Chiaro Davanzati). 188 La postilla è stata pubblicata per la prima volta nel 1891 da Appel (Perugi 1985). 189 Anche in tal caso il giudizio della critica è stato a lungo influenzato da punti di vista parziali. Zingarelli 1935 ha insistito sull’autonomia della composizione petrarchesca, per stile e contenuto fondamentale: l’importanza della postilla consisterebbe dunque nell’aver rivelato un legame che altrimenti non si sarebbe mai intuito a partire dal solo testo. Lo studioso perciò rifiuta ancora una volta l’idea dell’imitazione, per evidenziare la rielaborazione attuata da Petrarca a partire da un semplice spunto, da un’ispirazione che non cancella l’autonomia del risultato. Aspro core sarebbe dunque rivelatore di un principio valido per tutti i recuperi che caratterizzano il Canzoniere. 190 L’originale si trovava infatti su uno dei fogli sparsi parte dei quali oggi costituisce il codice Vat. Lat. 3196. Purtroppo quel foglio in particolare è stato inviato al re di Francia Francesco I; se ne ha ancora notizia nel Cinquecento, quando Beccadelli affermava che la responsabilità della dispersione degli autografi fosse di un certo Baldassarre da Pescia. Per tali informazioni si veda Perugi 1985, p. 295. 191 È la testimonianza principale, contenuta nel codice 924, carta 101r. 192 Qui si tratta però di una correzione successiva. 193 Citato in Pulsoni 20031, cui qui si fa ampio riferimento per questa ricostruzione. 44 “Patavii”. Tuttavia non è raro che il poeta scriva proprio “Padue” nelle sue annotazioni private ed è significativo che il copista di H si corregga passando dall’informazione cronologica a quella geografica, segnalando forse il ritrovamento di una fonte più autorevole. La questione si fa più complessa e rilevante se si osservano le diverse redazioni del verso arnaldiano citato nella postilla come fonte per il sonetto, tratto dalla canzone XIV Amors e jois: C H P Aman prians fafrancha cor suffers Aman prians lafrancha cor suffers Aman prian la francha cor huffres Vanno poi considerate le testimonianze dei codici trobadorici che conservano il testo: K Caman preian safrancha cors hufecs T Caman preian safranca cor ufecs a Caman preian sa franca cor ufecs194 La mancanza della congiunzione iniziale nelle versioni registrate dalla postilla può facilmente essere ricondotta a Petrarca stesso, in quanto egli cita il verso in assoluto, come una sentenza e non come parte di un discorso più ampio. Per quanto concerne l’ultimo termine, la lezione corretta è “ufecs”: il passaggio a “suffers” si spiega facilmente come banalizzazione influenzata dal verbo “soffrire”, mentre è più difficile motivare quello in “hufecs”. In generale, comunque, le redazioni tarde e italiane (tra cui K, presumibilmente esemplato appunto nella penisola) testimoniano la graduale perdita di un’attuale e compiuta padronanza della lingua provenzale195, cui in generale può essere imputata la corruzione del verso. Qualche ulteriore indizio viene dall’analisi del sonetto petrarchesco. Le quartine, che non subiscono alcuna alterazione nel passaggio dal “codice degli abbozzi” al Vat. Lat. 3195, sono ispirate ad un sonetto di Guinizzelli, Sì sono angoscioso e pien di doglia. Al contrario le terzine conoscono un prolungato ed intenso processo correttorio (che coinvolge in particolare la successione rimica), volto in primo luogo ad eliminare contatti ed assonanze con altri luoghi prossimi del Canzoniere. Il verso ripreso da Arnaut è il 13 - “Pregando amando talor non si scalde”, poi corretto in “smova” – che si inserisce con le sue modifica nella prolungata ricerca di equilibrio espressivo. Infine è possibile proporre qualche considerazione sulle date della composizione. Petrarca indica in nota il 21 settembre 1350, quando in effetti si trovava a Padova, dove potrebbe essersi avvantaggiato della mediazione del duca Giacomo da Carrara, in un ambiente in cui la tradizione cortese e i materiali trobadorici sono sopravvissuti più a 194 Perugi 1985, p. 302 segg sottolinea che si tratta soltanto di differenze testuali non rilevanti sul piano semantico. Lo studioso ritiene inoltre che Petrarca leggesse “aman prian fa francha cor huffs”. 195 Tale aspetto si affronterà nuovamente nel quinto capitolo, con particolare riferimento a Resconi 2008 e Pulsoni 20032. 45 lungo196. Per le modifiche alla terzina finale sono indicati giorno e mese (2 ottobre), ma non è chiaro se si tratti del medesimo anno. Infatti gli ultimi ritocchi e la trascrizione in ordine risalgono solo al 1356 (in particolare, al 6 novembre). 3.4 “Verdi panni” La canzone 29197 ben rappresenta le tendenze più difficili della poesia petrarchesca, definite talvolta “gotiche” e spesso considerate secondarie rispetto all’insieme del Canzoniere198. In questo caso, non si tratta di allusioni ambigue o manierate, quanto dell’elaborata composizione di ritmo e suoni199. Verdi panni presenta in effetti una forma metrica ancor più peculiare e raffinata rispetto alla sestina, anche perché meno tipizzata200; a tale genere risulta però imparentata, come suggerisce anche l’organizzazione della raccolta petrarchesca, per la vicinanza a 22 e 30. Secondo Bettarini201, la canzone è una sorta di variante della forma sestina202 volta a comunicare enigmaticità e tormento: dunque uno strumento espressivo raffinatissimo e funzionale. La struttura propone un andamento ricorsivo, che identifica con efficacia lo stato interiore non lineare dell’io poetico; d’altronde, il fragmentum 29 nasce da una prospettiva fortemente contrastata, dolente e chiusa203, benché il finale si rassereni nel segno della lode. Simili osservazioni dimostrano la peculiarità del recupero petrarchesco, pur confermato dall’analisi testuale204: Er vei vermeilz205 presentava infatti un paesaggio primaverile allegro e piacevole. 196 Va però considerato che non necessariamente questa fu la prima lettura della canzone di Arnaut, né dell’opera del trovatore in generale (o di altri Provenzali). 197 Come si è anticipato, Verdi panni è direttamente coinvolta nella questione cronologica dibattuta da Santagata 1990 e Perugi 1985 segg. In particolare, il primo sostiene che la datazione giovanile proposta dal secondo (e tradizionalmente invalsa) non sia efficace e insiste per postdatare le letture trobadoriche petrarchesche e le composizioni ad esse legate. 198 Bettarini 1998 definisce la canzone un “caso limite”, ma non un’“eccezione” nella raccolta. Per l’analisi formale e contenutistica della canzone si vedano anche Bettarini 2005, pp. 156-158, e Molinari 2008, che inoltre approfondisce i rapporti intertestuali del fragmentum 29. 199 Tali peculiarità saranno approfondite nel corso del presente capitolo, parlando delle più generali influenze trobadoriche su metrica e forma. 200 Si tratterà della forma metrica del testo nel corso del presente capitolo. 201 Bettarini 1998. 202 Per certi aspetti, il legame con la sestina arnaldiana è evidenziato dall’alternanza di endecasillabi e settenari, che ricorda la presenza del verso breve in apertura di strofa in Lo ferm voler. 203 Bettarini 1993 suggerisce una peculiare, ma interessante connessione simbolica con i fattori numerici della canzone, sette (i versi di ciascuna strofa) e nove (le rime), cioè i numeri infausti secondo l’astrologia antica. 204 In particolare per quel che concerne la metrica: coblas unissonans di sette versi irrelati dalle lunghezze ineguali. Per altro caratteristiche simili ricorrono anche in altre due canzoni arnaldiane, Ans que sim e L’aur’amara, che presumibilmente Petrarca conosceva e che potrebbero essere all’origine dell’insistita elaborazione fonica di Verdi panni. La coincidenza delle rime con quelle di Razo e dreyt non rappresenta necessariamente un elemento stringente, almeno secondo Bettarini 1993. 205 Bettarini 1993 sottolinea in questa occasione che la medesima canzone (in particolare il secondo verso) è fonte anche per altri componimenti petrarcheschi: il v 37 di 71 e il v 25 di 142. 46 Il legame tra il fragmentum 29 e la canzone 13 di Arnaut Daniel è ormai un vero e proprio topos critico206; Grubbitzsch-Rodewald207 ha anzi insistito sull’esemplarità del testo petrarchesco proprio per la presenza scoperta del modello occitanico, a livello strutturale e di imagery. Al di là dell’associazione metrico-formale, Petrarca si ispira al modulo elencatorio, paratattico ed allitterante che caratterizza i primi due versi della canzone danielina (v 1 serie nominale, v 2 serie aggettivale); Petrarca farà propria tale formula recuperandola anche in contesti autonomi sul piano strutturale, come nei fragmenta 71 e 142. Dal medesimo modello deriva anche il gusto per gli elementi coloristici208. Arnaut si diffonde sulla topica immagine della primavera, con particolare attenzione a quella stagione artificiale che Amore sa creare in ogni tempo e luogo, secondo la convenzionale associazione tra stato amoroso e contesto naturalistico di rinascita. Il Daniel recupera così l’esempio di vari trovatori che lo avevano preceduto, tra cui spicca Bernart de Ventadorn. Entrambi gli antecedenti tornano anche in Petrarca, e proprio nella canzone 29, alla quale a sua volta va ricondotto lo sviluppo dell’immagine primaverile del Triumphus Amoris. È utile inoltre considerare il contributo di Raimbaut d’Aurenga, dal quale sembra provenire l’uso elencatorio poi declinato in senso naturalistico dal Daniel: a Raimbaut spetta perciò il merito d’aver recuperato e rielaborato tali movenze stilistiche già latine e poi medio-latine. A livello di contenuti, però, le fonti per l’incipit petrarchesco Verdi panni vanno cercate altrove. Si può innanzitutto pensare alle descrizioni delle vesti ecclesiastiche del Duecento209 dove quei colori sono vietati, oltre ovviamente alla semplice osservazione dei costumi correnti delle donne del tempo. Antecedente letterario interessante è poi il Roman de la Rose (ma più in generale si può far riferimento alla letteratura francese), dove le descrizioni dell’abbigliamento e dei suoi colori sono piuttosto frequenti. È notevole in particolare l’opposizione tra “sanguigni”210 e “persi”, che si trova già nel V canto dell’Inferno dantesco, quando parla Francesca. L’intera serie dei quattro colori in 29 si riscontra invece nella descrizione del pavimento nella stanza in cui è custodito il sacro Graal nel Perceval e nel Cliges di Chretien de Troyes. La medesima immagine e quindi la stessa successione di colori vengono riprese, infine, nel Mare amoroso211. Il termine “sanguigno”212, secondo Perugi213, potrebbe essere ricondotto alla regione di Sanguin e al suo castello, che si ritrova nello stesso Chretien, nel romanzo di Gauvain e nella tenzone di Guilhem Rainol d’At come indicazione dell’origine della dama. Simile 206 Perugi 2000. Si è anticipata la questione trattando gli aspetti metrici in questo capitolo. Grubbitzsch-Rodewald 1972. 208 Tali aspetti sono stati evidenziati in primo luogo da Contini, citato in Perugi 2000. 209 Lo studio è di Mansi, citato in Perugi 2000. 210 Grubbitzsch-Rodewald 1972 chiarisce che “vertz” corrisponde a “verdi” e “vermeills” a “sanguigni” e ritiene, inoltre, che “persi” sia un evidente provenzalismo. 211 Il riferimento al Mare amoroso è particolarmente interessante per la ricchezza di richiami intertestuali e immagini convenzionali che caratterizza l’opera. 212 Per le voci “sanguigno” e “perso” si vedano anche il commento di Santagata 1996, pp. 158-159, e di Bettarini 2005, p. 158, che fanno riferimento soprattutto a Dante. 213 Perugi 2000. 207 47 riferimento si trova d’altronde nella canzone pseudo-arnaldiana citata da Petrarca in Lasso me214. La canzone 29 insomma è ricchissima di rinvii e richiami, dimostrando per altro l’apertura di Petrarca ai modelli più disparati, anche senza bisogno di ipotizzare che li conoscesse tutti direttamente. Andiamo perciò ben al di là di quello arnaldiano, benché esso sia il più attivo e sentito215. Grubbitzsch-Rodewald216 ha poi evidenziato come al richiamo incipitario ne corrisponda un secondo altrettanto evidente, ormai sul finire della canzone. I vv 50-52 di Verdi panni riprendono ed estendono a livello d’intensità il congedo arnaldiano. Il contesto di fondo è topico (ineffabilità della bellezza della dama, difficoltà della lode), ma la connessione con il modello occitanico determina un peculiare e innovativo effetto di competizione217. Non basta, perché un terzo collegamento si offre ai vv 19-21, laddove – secondo l’interpretazione tradizionale218 – Petrarca teme nella sua umiltà l’orgoglio e l’ira della dama. I due concetti opposti (orgoglio e umiltà) erano infatti già nel modello arnaldiano (vv 12-14); tuttavia Daniel li riferisce entrambi a se stesso e rappresenta così il peculiare comportamento di chi segua la cortesia. GrubbitzschRodewald si sente perciò in dovere di leggere diversamente il testo petrarchesco (ma già Chiorboli l’aveva ipotizzato): l’ira e l’orgoglio da trattenere saranno piuttosto quelli dell’io poetico. In tal modo la logica della stanza risulterebbe più coesa e il discorso si riallaccerebbe meglio ai vv 12-14, dove Petrarca afferma che lo sguardo di Laura cancella ogni contrasto. 4. Aspetti metrici: “Verdi panni” e “S’i’ ‘l dissi mai” Il ben noto e peculiare atteggiamento di Petrarca verso i propri modelli, tra rifiuto dell’imitazione pedissequa e costante rielaborazione, non favorisce la ricerca di calchi e di richiami espliciti, al di là delle poche citazioni volutamente visibili219. Può essere utile perciò partire dalle fondamenta della composizione, vale a dire dalle strutture metriche e rimiche220, che intrattengono un rapporto essenziale con la tradizione come impalcatura tecnico-retorica del discorso in versi221. 214 Vedi Perugi 1985, ma le posizioni dello studioso sono già state riproposte in questo capitolo. Perugi 2000 precisa però che la connessione al v 3 è molto generica, anche perché l’affermazione è convenzionale in ambito occitanico. 216 Grubbitzsch-Rodewald 1972. 217 Grubbitzsch-Rodewald 1972 riprende l’idea di una competizione in merito alla difficoltà e all’oscurità dello stile, che in Verdi panni appare ancor più chiuso e denso. La studiosa offre un’analisi dettagliata anche sul piano dei contenuti, nella quale rimanda anche alle opinioni dei commentatori antichi ed evidenzia ulteriori modelli, in primo luogo antichi, a partire da Ovidio. 218 In realtà Santagata 1996, p. 162 cita due letture possibili: l’una risale a Leopardi (quella che Grubbitzsch-Rodewald ritiene “tradizionale”), l’altra al Chiorboli. La seconda anticipa proprio la prospettiva di Grubbitzsch-Rodewald 1972. 219 Entrambi tali aspetti sono stati anticipati nell’introduzione e nel corso del presente capitolo. 220 Va aggiunta la questione del rapporto con il genere, su cui si tornerà in modo più specifico ed approfondito. 221 Sulla metrica petrarchesca sono disponibili alcune ricognizioni d’ampio respiro: Praloran 2003 (i saggi sono in particolare dedicati a rime e ritmo) e 2013 (che propone una riflessione sulle canzoni e sui loro 215 48 Come già dimostrò l’analisi di Fubini222, nell’uso petrarchesco della forma canzone si riscontra, nel complesso, una forte omogeneità, benché ogni testo presenti tratti autonomi che lo differenziano da ogni altro223. Gli aspetti più rilevanti di tale coesione si colgono nel ritmo e nella progressione del discorso, la cui concezione di fondo si mantiene in sostanza uniforme al di là delle singole declinazioni metrico-strutturali. A maggior ragione, quindi, si coglie con particolare evidenza l’autonomia di alcune soluzioni224, che dimostrano come Petrarca si sia orientato nella ricerca di forme nuove. Lo sperimentalismo petrarchesco, in realtà, si mostra soprattutto nell’appropriazione di configurazioni arcaizzanti e, in qualche caso, isolate. Il tipo di fronte più frequente nel Canzoniere è già di per sé un esempio in tal senso. Tale struttura infatti è rarissima: è stata usata da Dante in due sole occasioni (la canzone plurilingue Ai faux ris e l’unica canzone morale dantesca che Petrarca abbia imitato, Voi che intendendo). Anche in area provenzale se ne registra un solo esempio, per altro poco noto e importante: Lo deziriers del trovatore Esperdut. Nella medesima direzione volge la fronte di Lasso me, in cui Petrarca sceglie di rifarsi all’orizzonte occitanico in coerenza con il modello trobadorico rapporti nel complesso), Zenari 1999, Pulsoni 1998, pp. 23-238. L’elaborazione metrica ha meritato particolare cura da parte del poeta, come dimostra l’osservazione dei trecentodiciassette sonetti, che costituiscono l’85% della raccolta e presentano quindici strutture rimiche diverse, di cui tre specifico frutto dell’innovazione petrarchesca. Non mancano formule arcaiche (siciliane e in parte siculo-toscane), benché rappresentino una componente minoritaria dell’insieme. L’unico genere in cui si ripeta puntualmente la medesima organizzazione formale è la sestina, e non sempre nel caso del congedo: tale omogeneità dipende dalla natura stessa del genere, oltre che dall’intenzione modellizzante dell’autore, che è responsabile della sua codificazione. Anche nel caso dei madrigali si assiste ad un’innovazione nella storia letteraria, poiché i quattro del Canzoniere sono i primi attestati in ambito culturale “alto”; per altro a loro volta tali componimenti presentano caratteri distinti l’uno rispetto all’altro. Anche nelle canzoni (e così nelle ballate) la struttura è continuamente variata, con due significative eccezioni: la serie 71-73 (le “canzoni degli occhi”) e la coppia 270-325 (la peculiarità di tale connessione rispetto alla posizione nella raccolta e alla datazione è ampiamente analizzata in Pulsoni 1998, pp. 23-92). Ciò non toglie comunque che spesso tra componimenti vicini si notino somiglianze più o meno stringenti; può ad esempio essere ripetuta la medesima disposizione rimica, con diversa lunghezza dei versi. Il rifiuto per le ripetizioni si coglie nella scelta delle rime da escludere dalla redazione finale della raccolta; il medesimo principio comporta inoltre un attento e misurato rapporto con le soluzioni metriche utilizzate dai poeti anteriori, soprattutto italiani. Per tale ragione appaiono particolarmente rilevanti i richiami a Dante in 174 (alle “petrose”, modello diffuso in tutto il Canzoniere, e soprattutto a Io son venuto) e a Frescobaldi in 119 (ma a sua volta egli si era ispirato a Dante). Pulsoni 1998, pp. 44 segg ricorda ulteriori esempi di contatto metrico tra Petrarca e altri poeti italiani; in essi però sia la relazione sia la sua direzione sono meno chiare ed univoche. In particolare va sottolineata la studiata disposizione dei diversi metri all’interno della raccolta: la prima sezione, infatti, è molto più varia, poiché comprende tutti e quattro i madrigali, sei ballate su sette, otto delle nove sestine (nella seconda sezione rimane solamente la sestina doppia, che parte della critica interpreta in chiave palinodica, sia rispetto alla struttura sia rispetto ai contenuti sensuali). Diminuiscono anche le canzoni (nove rispetto alle venti della prima sezione), ma in modo più proporzionato all’ampiezza ridotta della seconda parte e comunque dimostrando la notevole importanza di tale forma, grazie alla sua collocazione in apertura (264) e chiusura (366) della sezione stessa. La distribuzione delle canzoni nel Canzoniere in riferimento alle loro peculiarità strutturali era già stata analizzata da Elwert 1983; ricordiamo infine il repertorio di Gorni 2008, in cui sono analizzate le forme metriche italiane dalle origini al Cinquecento. 222 Fubini 1970, pp. 237 segg. 223 Concorda Praloran 2013, che parla di sperimentazione e varietà a partire dall’uniformità; la differenziazione dei singoli testi non cancella dunque l’impressione complessiva di classicismo. 224 In considerazione, anche, di come la costruzione metrica influenzi la cifra melodico-tonale del singolo testo. 49 della canzone cum auctoritatibus e con la prima delle citazioni225. Il culmine di tale tendenza sperimentale si coglie però nella struttura provenzaleggiante dei fragmenta 29 e 206226: l’evidenza del recupero è dovuta anche alla rarità di simili forme in ambito siciliano e siculo-toscano227, considerando che al contrario la loro diffusione nella tradizione trobadorica è considerevole. È un omaggio esplicito, una dichiarata scelta in senso arcaizzante228. Fubini ha sottolineato inoltre il forte significato programmatico insito nella scelta di tornare ad una tradizione anteriore a Dante: prima della lezione stilnovista e soprattutto che la forma canzone raggiungesse la sua definizione definitiva nel De vulgari eloquentia. La complessa impostazione di S’i’ ‘l dissi mai è basata su coblas doblas e tre sole rime229. Ne deriva inevitabilmente una costante riproposizione dei medesimi temi e concetti; si spiega così la brevità delle stanze230. Al contempo, il poeta è spinto a sfruttare appieno le potenzialità della sua materia, giocando sulla varietà degli effetti e delle combinazioni. Il tema centrale ben corrisponde alle caratteristiche formali: da una parte, il componimento è imperniato su un singolo, ossessivo problema, come vuole il genere prescelto. Dall’altra, il genere stesso offre pochissime attestazioni e tutt’altro che attuali. Secondo la tarda tassonomia trobadorica, infatti, si tratta di un escondich, di cui resta un solo esempio “classico” grazie a Bertran de Born231; esso è definito dalla necessità di convincere l’amata che il poeta non le ha rivolto nessuna offesa, a fronte di un’accusa infamante. Il poeta invoca quindi su di sé un’iperbolica serie di sfortune nel caso in cui sia trovato colpevole, appunto a dimostrazione della propria innocenza. Petrarca evidenzia il principio fondante del testo con una marcata reiterazione della formula incipitaria (pur con qualche variazione) al primo, terzo e quinto verso di ciascuna stanza. La quinta strofa propone però un rivolgimento sintattico, segnalato dalla forte avversativa “ma”, per cui all’ipotetica (se ho davvero commesso tale colpa…) è sostituita un’affermazione negativa. È peculiare anche il finale, poiché il commiato è sostituito da una ripetizione dell’idea di partenza. Il gioco della ripetizione variata si riflette nella successione delle rime: le tre che si ripropongono lungo tutta la canzone presentano un’alterazione dispositiva nel passaggio dalla seconda alla terza strofa e poi di nuovo dalla quarta alla quinta, segnalando appunto l’andamento delle 225 Della canzone petrarchesca e la pseudo-arnaldiana Razo e dreyt si tratterà in modo specifico nel corso del presente capitolo. Possiamo anticipare, però, che non tutti gli studiosi sono concordi rispetto alla definizione di tale componimento: mentre Elwert lo considera “provenzaleggiante”, Praloran 2013 pp. 52 segg (dove è citata anche la posizione di Elwert) insiste sull’inadeguatezza di un termine tanto vincolante, affermando che si tratta di una semplice somiglianza. 226 Andrebbe aggiunto il recupero del genere sestina, di cui ci si occuperà in modo più specifico nel capitolo seguente, in quanto vero e proprio genere. 227 Cioè le uniche esperienze poetiche italiane anteriori a Petrarca che guardino direttamente e frequentemente alla tradizione occitanica. 228 Fubini 1970 le definisce, a p. 245, canzoni che hanno qualcosa di “conciso, concentrato”, addirittura le “petrose” di Petrarca. 229 Per un’analisi metrico-stilistica della canzone si rinvia anche a Pagani 1946, pp. 34 segg. 230 È interessante notare che tali vincoli e tratti espressivi accomunano la canzone alle sestine. D’altronde, anch’esse sono il frutto della sperimentazione su una forma rara (e dalle origini piuttosto arcaiche); tuttavia la regolarità e la funzionalità della struttura ha permesso a Petrarca di crearne un vero e proprio genere, fissato ed autonomo, mentre l’esperimento di 206 è destinato a rimanere isolato. 231 Su tale argomento si tornerà con maggior ampiezza in questo e nel capitolo successivo. 50 stanze a coppie. L’effetto è in parte artificioso, ma non per questo meno elegante; l’insieme presenta anzi un respiro particolarmente ampio ed articolato, ulteriormente impreziosito dai numerosi riferimenti storici e letterari. Un secondo esempio di metrica provenzale232 nel Canzoniere si riscontra in Verdi panni233. Qui le rime di ciascuna stanza sono irrelate, secondo una progressione unissonans234 che sposta i legami fonici dalla strofa all’intero testo. Dunque anche tale canzone propone un andamento ricorsivo, l’impressione del ciclico ritorno di elementi già noti; non si tratta più, però, di ripetizioni variate, quanto di singoli elementi riproposti in un contesto fortemente differenziato. Il ritmo è più lento e meno scandito, rispetto a quello di 206, mentre l’impostazione appare più complessa. Gli enjambements evidenziano il fluire lento del discorso; il lessico prezioso e ricercato fa risaltare i richiami lontani delle rime, a loro volta rare e consonantiche. Le affermazioni sono quasi sentenziose, nella loro studiata brevità; infine, abbondano le inversioni, in particolare quelle di soggetto e complemento oggetto. La riflessione sulla struttura di Verdi panni è stata affrontata anche da GrubbitzschRodewald235. Secondo la studiosa, la canzone non rimanda solo genericamente alle soluzioni più tipiche in ambito occitanico, ma in particolare alla produzione di Arnaut Daniel, a partire dalla canzone Er vei vermeills236. Si possono però identificare anche alcune differenze, in parte ovvie, ma significative rispetto alla configurazione testuale. Petrarca deve necessariamente rinunciare ai versi tipici della poesia occitanica (octosyllabes e decasyllabes), sfruttando piuttosto i settenari e gli endecasillabi della canzone italiana. Aumenta il numero delle strofe da 6 (la lunghezza più frequente nelle opere trobadoriche) a 8, mentre il congedo è abbreviato a soli due versi. Alla preziosità consonantica e alla rarità delle rime arnaldiane, Petrarca aggiunge numerosi artifici fonico-retorici (rime derivative, equivoche, consonanti e assonanti), che sono sì tipici dello stile danielino, ma non di Er vei vermeills: la stratificazione delle fonti è più articolata di quanto non appaia a prima vista237. 232 Non provenzale, ma arcaica è piuttosto 23, canzone giovanile e poi rielaborata nella maturità, senza però perdere l’ispirazione dantesca. Le stanze sono lunghissime e discorsive anche per l’assoluta preminenza dell’endecasillabo. Domina l’attenzione alla struttura retorica e alla densità del discorso, più che per l’armonia e la fluidità fonica. Per questo Fubini 1970, pp. 246 segg. non la ritiene - nonostante la revisione relativamente tarda – un componimento maturo, a confronto con 50 e 129. Sulla struttura di 23 si veda anche Praloran 2013 pp. 40 segg, che la ritiene arcaica e guittoniana. 233 Per l’analisi formale e strutturale di tale testo si vedano inoltre Bettarini 1998, Bettarini 2005 pp. 156 segg, Molinari 2008. 234 Per una breve e generale ricognizione di tale forma strofica si veda Beltrami 2002, p. 101. La definizione di unissonans deriva dal ritorno delle medesime rime e dunque dei medesimi suoni in tutto l’arco del testo; valgono in alternativa denominazioni come estrampas, cioè storpie, o dissolutas, sciolte, per il collegamento “lontano” dei suoni. Al contrario, la stanza abituale per la canzone italiana, in cui cioè le rime cambiano in ciascuna strofa e trovano la loro corrispondenza all’interno della stanza stessa, si dice singulars o divisa. 235 Grubbitzsch-Rodewald 1972: tale analisi segue quella di Fubini a breve distanza, in una temperie culturale e critica affine. 236 È questo un altro punto fermo della critica petrarchesca, su cui si tornerà nel corso del presente capitolo trattando di singoli componimenti. 237 La medesima tendenza si registra nel lessico, ricco di provenzalismi al di là del solo esempio arnaldiano. Non mancano per altro echi dalla tradizione italiana, e soprattutto dallo Stil Novo, e da quella 51 L’analisi dei due testi è stata affrontata nuovamente da Pulsoni, con risultati del tutto coerenti, nonostante la distanza cronologica238. Il modello per la combinazione di coblas doblas e tre rime in 206 è presumibilmente arnaldiano, tratto dalla Canso do ill: una delle tre rime scelte da Petrarca per tornare unissonans lungo tutta la canzone richiama fonicamente una di quelle di Arnaut Daniel. Tuttavia gli equilibri strutturali nel rapporto fronte/sirma sono invertiti rispetto all’ideazione del trovatore. A proposito di 29, invece, Pulsoni ha evidenziato l’aggiunta delle due rime al mezzo rispetto alla struttura tipica delle canzoni provenzali e in particolare all’antecedente danielino239; tale innovazione determina un’ulteriore complicazione e dunque una forma di competizione240. Pulsoni ha inoltre considerato la questione delle rime, rispetto alle quali il rapporto tra Petrarca e la tradizione trobadorica è ben più significativo di quanto non sia con quella italiana, Dante compreso241. Spiccano in particolare alcune riprese puntuali (da modelli provenzali in cui abbondino le rime femminili), tra le quali sono interessanti specialmente quelle che comportano il recupero di un’intera clausola, mentre vanno escluse quelle di rime diffusissime e banali, sia in Provenza che in Italia. Soprattutto due esempi sono significativi per la carica semantica che veicolano, “alba” e “aura”. “Alba” è parola-rima nella sestina 22, ripresa dall’arnaldiana Lo ferm voler, dove ha la medesima posizione in clausola; non ce ne sono paralleli in Italia. La scelta del termine nell’ambito della sestina, la cui struttura determina la sua ripetizione in ciascuna stanza, ha un valore ben preciso rispetto alla tradizione occitanica, poiché esso era il primo tratto distintivo dell’omonimo genere. “Alba”, in frequente anafora, esprimeva infatti l’ansia degli amanti fedifraghi al sopraggiungere del giorno proprio grazie alla sua continua reiterazione, quasi come in un ritornello242. La rima in “aura/-aura” ha in primo luogo grande importanza in relazione al dibattito sull’origine del topos del vento che proviene dall’amata e sulle possibili influenze trobadoriche subite da Petrarca oltre a quella ventadoriana. Altro elemento centrale è la sua assenza nella lirica italiana. È vero, d’altronde, che non sono numerosi nemmeno gli latina. Bettarini 1998 recupera tali impressioni, giungendo a sostenere che al principale modello danielino si sovrapponga l’influenza di un secondo testo di Arnaut, Anz que sim, che Petrarca conobbe certamente, poiché è la fonte dell’immagine della caccia impossibile (di cui si è già trattato nel corso di questo capitolo). L’aggiunta della rima al mezzo, altro elemento che distingue il componimento petrarchesco da quello trobadorico, potrebbe invece essere legata all’esempio di Razo e dreyt. Non manca infine qualche affinità con L’aura amara, altro antecedente che doveva risultare interessante per Petrarca in virtù dell’immagine topica dell’aura (per cui si rimanda alla fine del presente capitolo). 238 Pulsoni 1998, pp. 23-92 e soprattutto 47 segg. La distanza cronologica è tanto più significativa in riferimento alle differenze metodologiche, rispetto al valore attribuito all’analisi strutturale e formale. 239 Della specifica relazione tra Petrarca e Arnaut Daniel e del caso ancor più particolare di Verdi panni si è già parlato nel corso del presente capitolo. 240 Pulsoni 1998, pp. 47 segg. Simili interventi non sono rari già nei contrafacta occitanici. 241 Tale tendenza appare evidente anche laddove l’uso dantesco sia affine a quello trobadorico: infatti il secondo appare preminente rispetto alla concezione petrarchesca. Si veda Pulsoni 1998, pp. 47 segg. 242 In particolare Pulsoni 1998, pp. 175 segg. ritiene che in questo caso Petrarca abbia in mente l’alba Reis glorios di Giraut de Bornelh, e soprattutto un verso dell’ultima stanza (“qu’ieu non volgra mays fos alba ni iorn”), un’immagine della quale caratterizza in effetti il finale della sestina petrarchesca. Ne deriverebbero interessanti conseguenze rispetto alle letture trobadoriche del poeta, non solo a livello di datazione, ma anche rispetto alla tradizione manoscritta, in quanto l’ultima strofa giraldiana è testimoniata solo dai codici R e T (che è inoltre uno dei pochi a tramandare Amors e jois di Arnaut Daniel, fonte esplicita del sonetto 265). 52 antecedenti provenzali: si conoscono solo le occorrenze in Arnaut Daniel (Ab gai so)243 e in Jaufré de Foixà (Ben m’a tengut). Per altro, anche Petrarca usa questa parola-rima solo nella sestina 239, in cui le immagini adynatiche e le altre parole-rima244 confermano il legame con Arnaut. Altre rime d’origine trobadorica sono quelle in –erga (di cui restano sette attestazioni oltre a quella in Lo ferm voler)245, -ampa (arnaldiana e poi diffusa in Italia246), -endi (danielina e rarissima tra i poeti italiani), -ena247, -enta (la fonte è Quan lo dous temps248), -ola249, -omba (che ha varie testimonianze italiane e latine, ma sembra derivare a Petrarca dall’uso arnaldiano250), -orna (rara anche in Provenza, a parte due occorrenze in Arnaut Daniel), -ui (con una ripresa molto fedele dall’anonima Suy e no suy). La centralità di Arnaut Daniel è evidente: non a caso è il trovatore che Petrarca richiama in modo più esplicito, e rime e rimanti non fanno eccezione. Tale singolarità di trattamento motiva l’ipotesi di Pulsoni, secondo il quale il diffuso contatto con il trovatore avrebbe anche il valore di mascherare alcuni debiti danteschi (soprattutto dalle petrose), grazie all’esaltazione della fonte originale e comune. 5. Singoli trovatori, singoli testi, singole immagini Benché il legame tra Petrarca e Arnaut Daniel sia fondamentale ed abbia catalizzato le energie degli studiosi, non sono mancate riflessioni sul rapporto tra il poeta aretino ed altri trovatori, con particolare attenzione per alcuni testi o immagini significativi. Tali ricerche, comunque, confermano la tendenza degli studi recenti ad evitare un approccio analitico di respiro più ampio. 243 Tale testo arnaldiano è fonte di numerosi richiami nel Canzoniere, individuati in Pulsoni 1998, pp. 178 (si noti che il testo è spesso noto con incipit diverso, En cest sonet). 244 Le due parole-rima “fiori” e “alma” si trovano in clasusola nella pseudo-arnaldiana Razo e dreyt; la rima in –ori è anche in Lasso me, data la citazione del medesimo incipit. 245 Pulsoni 1998, pp. 271 segg. evidenzia come la relazione con la sestina arnaldiana sia la più interessante e come la scelta petrarchesca si accompagni a numerosi riferimenti trobadorici intrecciati. Tale aspetto è particolarmente significativo, in quanto conferma, al di là dell’esistenza di altre attestazioni italiane pre-petrarchesche, la volontà del poeta di riconnettersi all’eredità occitanica. 246 È vero che gli esempi danteschi cui Petrarca poteva far riferimento sono numerosi, ma il poeta conosce certamente il componimento danielino in cui si trova tale rima, poiché lo riprende in modo piuttosto esplicito in 203. 247 In sé la rima è comune; la connessione con il corpus trobadorico e in particolare con il v 50 di Un vers farai di Raimbaut d’Aurenga deriva però dalla peculiarità del rimante “affrend”, da cui sembra influenzato il verso 11 di Rvf 147. La rima sembra veicolare ulteriori richiami provenzali, in particolare a Rambertino Buvalelli, anche al verso incipitario di 210. 248 L’attribuzione della canzone è tutt’altro che ovvia; conta però soprattutto l’impressione che Petrarca la ritenesse di Bernart de Ventadorn. Pulsoni 1998, pp. 219-222 evidenzia infatti gli altri riferimenti al trovatore sul piano di lessico e stile, che sembrano accordarsi alla scelta del rimante. 249 In realtà tale rima è molto più tipica della produzione italiana che di quella trobadorica, ma Pulsoni 1998, pp. 222-223 ritiene che il suo uso in 360 dipenda direttamente dall’influenza di Arnaut Daniel e in particolare della canzone XVI, di certo nota a Petrarca poiché fonte dell’immagine della caccia impossibile. Sia nel testo petrarchesco che in quello del trovatore, inoltre, si trova il concetto della scuola d’Amore. 250 Gli esempi trobadorici vanno al di là delle due occorrenze danieline (Lanquan son passat e Si m fos amors); tuttavia, a parte quello di Elias Cairel, tutti sembrano dipendere proprio da Arnaut. Si m fos amors ebbe un notevolissimo successo anche in ambito italiano. 53 5.1 Bernart de Ventadorn Come già nel caso di Arnaut Daniel, anche la connessione tra Petrarca e Bernart de Ventadorn è divenuta un punto fermo per la critica. Tuttavia, anche in proporzione rispetto al numero inferiore di componimenti o brani coinvolti, gli studi in merito sono meno numerosi e soprattutto focalizzati per lo più su singole occorrenze. Osservando i contatti tra il poeta aretino e il trovatore, Poli251 ha indicato una tipologia di aspetti tematici intorno a cui si raccolgono le suggestioni più evidenti. In primo luogo, la dimensione naturale, come nel caso della metafora tessile per la Natura personificata (Petrarca, 305 /Bernart de Ventadorn, 16), dove l’analogia è ritmica e metrica, semantica e morfologica. Tuttavia Petrarca inserisce ulteriori dettagli metaforici, precisando l’elemento tessile rispetto all’immagine della creazione. Alla medesima categoria può essere ricondotta la similitudine col ramo e con la foglia nel vento, duttili e leggeri (Petrarca, 307 / Bernart de Ventadorn, 29): l’affinità rispetto al modello occitanico è particolarmente marcata, ma risolta in un contesto del tutto autonomo. Bisogna poi ricordare l’incipit di Can la frej’aura venta nei “sonetti dell’aura”252 e un altro fragmentum molto celebre, il sonetto Aspro core. Qui il riferimento ad Arnaut è arricchito dall’immagine della goccia d’acqua che, col tempo, scalfisce la pietra: essa risale a Bernart de Ventadorn (Conortz, era sai ben)253. Vanno considerate inoltre le rappresentazioni della dama o del rapporto che il poeta ha potuto costruire con lei. Così è innanzitutto per l’associazione tra “chiaro viso” e “begli occhi” (Petrarca, 348 / Bernart de Ventadorn, 37)254, e forse più in generale per la semplice immagine del “chiaro viso” (Petrarca, 109 / Bernart de Ventadorn, 37)255, nonché per la serie di rimanti “conquiso”, “viso”, “paradiso”256. Sul versante della relazione con madonna possono essere ricordati l’ultimo incontro prima della definitiva separazione (Petrarca, 328-330257 / Bernart de Ventadorn, 6), il velo che impedisce di 251 Poli 1993. Per i rimandi che seguono si fa innanzitutto riferimento a tale studio, oltre che a Allegretti 1993 e Noferi 2001. 252 Sulla questione si ritornerà con maggiore ampiezza alla fine del presente capitolo. 253 Oltre che a Chiaro Davanzati; il riscontro è in Zingarelli 1935. 254 Va però tenuta in conto anche l’influenza di Cino da Pistoia. Si è pensato in effetti che il modello ventadoriano, essenziale in ambito occitanico, fosse in realtà secondario per Petrarca, il quale pare irraggiare in molteplici occasioni (348, 233, 283) l’incipit ciniano proposto in 111, cui si possono accostare secondo Suitner due luoghi paralleli in 110 e 91. Cino sarebbe stato dunque, in questo caso, mediatore rispetto al contatto con Bernart de Ventadorn. Tuttavia solo nel trovatore e in Petrarca i due termini sono inseriti nel medesimo verso e evidenziati dalla serie rimica “viso/paradiso/conquiso”, presente, per quanto riguarda i Provenzali, solo in Gaucelm Faidit, 6. Dunque l’importanza del modello ventadoriano non è tanto nei materiali (riscontrabili anche in altre possibili fonti) quanto nella loro composizione. 255 Il medesimo discorso non vale invece per i “begli occhi”, nelle loro sessantanove occorrenze, o per l’immagine del paradiso (dodici occorrenze di cui dieci in rima). 256 I componimenti petrarcheschi in questione sono 77, 109 e 348. I primi due sono databili a prima del 1358; l’inserimento nella raccolta di 348 è tardo (1373-74). Tuttavia la connessione tra i tre testi permette di ipotizzare che la composizione del terzo sia anteriore. 257 Ma tale aspetto è anticipato in 249 e 250. 54 vedere258 (Petrarca, 329 / Bernart de Ventadorn, 6)259 e infine la rappresentazione dello specchio come nemico (Petrarca, 45 / Bernart de Ventadorn, 25 e 43). Qui l’associazione è solo tematica, ma non manca qualche ripresa più puntuale, come per i termini “adversario” ed “exilio”260. Infine, possono essere individuati come comuni alcuni elementi rappresentativi dello stato del poeta. Così è per l’idea di essere ciò che si è soliti (Petrarca, 118 / Bernart de Ventadorn, 27), che nel poeta aretino è accentuata grazie all’uso dell’affermazione al posto della negazione, che dà un senso di continuità prolungata, e per il principio secondo cui a volte si perde una parte dei propri beni, ma non la loro totalità (Petrarca, 329 / Bernart de Ventadorn, 6, in contesti però radicalmente diversi261)262. 5.2 Bertran de Born Benché nella redazione definitiva del Triumphus Amoris il suo nome sia cancellato, Bertran de Born figura nella schiera dei trovatori in una versione precedente del terzo capitolo. Dunque non c’è ragione di dubitare che Petrarca ne conoscesse, almeno in parte, i versi: anzi, proprio l’espunzione del nome lascia intuire che il poeta aretino conoscesse del trovatore ben più che il nome. La correzione si spiegherebbe cioè in relazione alla percezione dell’incoerenza tra il “cantore delle armi” e i poeti d’amore. Anche lo stile della lezione abbandonata conferma tali impressioni: per quanto in essa si neghi che Bertran sia stato davvero un guerriero, ma solo poeta bellicoso (affermazione per altro falsa), i versi petrarcheschi risultavano debitori proprio delle immagini e delle metafore più connotate in senso guerresco. Il medesimo legame si ripropone poi nel Canzoniere, per la presenza nella raccolta di un escondich263: benché quello di Bertran non rappresenti per Petrarca una fonte diretta264, resta un esempio illustre del genere (l’unico d’età classica per noi, e forse tale già nel 258 In realtà nel Canzoniere l’immagine del velo assume una connotazione molto più articolata, anche in virtù della sua elevata ricorrenza. Da una parte il velo è un dettaglio galante nella rappresentazione della dama, che veicola specifiche dinamiche nella relazione amorosa, tra attrazione e repulsione; entrano in caso in proposito anche i costumi dell’epoca. Dall’altra il termine assume valenze metaforiche, più immediate (velo come corpo e dunque carcere dell’anima) o più articolate (il velamen poetico che nasconde il messaggio riposto del testo). A parte l’interpretazione metapoetica, le due letture terrena e spirituale determinano una notevole tensione, che rende la polisemia dell’immagine tanto più significativa per la storia dell’io petrarchesco. Per tali riflessioni si veda Chines 2000, pp. 15 segg. 259 Qui la connessione formale appare in modo più evidente; tuttavia sono numerosi i luoghi petrarcheschi in cui è la dama a nascondersi, come avviene nell’opera del trovatore. 260 La connessione era già stata evidenziata da Scarano 1901. L’approccio di Bernart presenta una peculiarità cui Petrarca rinuncia, cioè la valenza simbolica degli occhi impenetrabili della dama che rappresentano la non corresponsione a livello sentimentale. In generale, l’immagine rimanda al mito di Narciso, al topos più generale dello specchio e a quello della vista come fonte di innamoramento. 261 Per altro in Petrarca è presente anche l’idea esattamente opposta. 262 Su alcuni luoghi particolarmente significativi per il contatto tra Petrarca e Bernart de Ventadorn si è soffermato anche Pagani 1946, pp. 13 segg e 25 segg, cercando però di identificare simili rapporti anche con Arnaut Daniel, Gaucelm Faidit e Arnaut de Maruelh. 263 Per le caratteristiche, la storia e il riuso petrarchesco del genere, si veda il secondo capitolo. 264 Ci sarà occasione di riprendere tale questione. 55 Trecento265). Perciò, è utile sottolineare qualche elemento di contatto tra i due autori che, poco rilevante rispetto all’interpretazione di S’i’ ‘l dissi mai, può essere invece interessante sul piano di rapporti più generali. Martin de Riquer266, che ha evidenziato il debito petrarchesco rispetto ai canoni del genere, sottolineando anche quanto poco probabili siano i contatti tra l’Aretino e i poeti galego-portoghesi, fa riferimento all’immagine della tempesta, comune a Bertran ed a Petrarca. Suitner267, che prende le mosse dall’analisi del Riquer, insiste piuttosto sul disgusto da parte della dama come possibile pena subita dal poeta, che nel caso del trovatore era in realtà frutto di una vergognosa incapacità sessuale. In Petrarca la rappresentazione dell’amata adirata è arricchita dal riferimento alla segregazione: imprigionato, il poeta continuerebbe imperterrito ad amare Laura. Tale concetto può essere interpretato sia come separazione o rinuncia al mondo – e in tal caso la produzione occitanica ne vanterebbe numerosi antecedenti, ad esempio in Rigaut de Berbezilh – sia come aspirazione ad essere rinchiuso con l’amata, proprio come dice Bertran nel suo escondich. Anche Petrarca, cioè, potrebbe lasciar spazio ad un intento erotico, anch’esso ben attestato in area occitanica, ma rilevante in primo luogo rispetto allo specifico modello268. Petrarca, come sempre, adegua le fonti al proprio scopo poetico, livellando il discorso alle manifestazioni dell’io e del suo amore più tipiche del Canzoniere. Tale intento gli consente anche il recupero di altri elementi tradizionali ed apparentemente incoerenti, quale il giuramento su “oro, cittadi e castella” del v 47, che non solo richiama l’ambiente cortigiano, ma quello trobadorico in particolare, considerato anche che la coppia “città-castelli” si riscontra in Bertran de Born, Raimbaut de Vaqueiras e Peire Vidal. Inoltre la descrizione naturalistica, oltre ai tratti tipici della poesia petrarchesca, subisce gli echi di plazer ed enueg269. È topica infine la correlazione tra stato d’animo e tonalità del canto, che si inasprisce di fronte allo sdegno della dama. Suitner riconosce in questo il ruolo del modello dantesco, ma il concetto non è estraneo alla produzione occitanica. 5.3 Lanfranco Cigala La fase tarda dell’epoca trobadorica si contraddistingue per la diffusione di componimenti dedicati alla Vergine Maria, già prima dello sviluppo del Concistori del Gai Saber e della sua ideologia poetica religiosa e moraleggiante270. Gli ultimi trovatori considerati classici, come Guiraut Riquier e Cerverì da Girona, organizzano il proprio 265 A parte gli esempi tardi legati al Concistori tolosano. Riquer 1951-51. 267 Suitner 20052. 268 Anche su tale aspetto sarà necessario tornare; basti anticipare che la questione della colpa sottesa a 206 è piuttosto dibattuta dalla critica, con interventi anche molto recenti, e che un elemento erotico così esplicito appare fuori luogo in una rappresentazione amorosa quale quella del Canzoniere. 269 Non manca in effetti qualche riscontro con il più tipico plazer petrarchesco, il sonetto 312. 270 Per tale ricostruzione e soprattutto per il riferimento a Lanfranco Cigala si fa particolare riferimento a Perugi 19912. 266 56 canzoniere intorno ad una svolta, in forma di conversione, per cui all’amore per la dama si sostituisce la lode alla madre di Dio. La presenza di simili tematiche diviene così una caratteristica frequente, ed anzi definitoria, delle raccolte d’autore; i testi di conversione si collocano per lo più nella parte finale, quasi come una richiesta di indulgenza nei confronti delle passate esperienze amorose. Non c’è dubbio che la concezione dei Rerum vulgarium fragmenta in merito ai medesimi spunti sia ben più profonda, ampia ed articolata, anche rispetto alla macrostruttura; tuttavia le radici di tali aspetti sono più antiche e diffuse. Oltre all’esempio provenzale vanno poi ricordati alcuni antecedenti tra i trovieri (in particolare Thibaut de Champagne, le cui opere però impediscono una datazione stringente) e i poeti catalani, epigoni tardi della tradizione occitanica; spicca soprattutto Alfonso X, sia per le sue cantigas de Santa Maria sia per la sua attività di mecenate. Al di là di tali affinità generiche, si possono cogliere anche punti di contatto più puntuali. Come è noto, il Canzoniere petrarchesco si chiude proprio con una canzone dedicata alla Vergine, dopo una serie di componimenti in cui l’elemento penitenziale, presente in vario grado in tutto l’arco della raccolta, diviene evidentissimo. La struttura metrica di 366 è coerente con la tradizione cui appartengono sia il soggetto sia la destinataria del componimento: il numero delle stanze, dieci, oltre a rispecchiare la canzone mariana del poco noto Antoni del Verger, raddoppia quello consueto già in Perdigon (canzone 15), Peirol (15)271, Peire de Corbian (1) e Peire Cardenal (70), in cui la peculiarità consisteva nella riduzione delle strofe, abitualmente sei. Tuttavia tali casi rivelavano ancora una matrice arcaica, in quanto la differenza tra tema mariano e convenzione cortese era esaltata dalla distinzione formale tra versi brevi (tradizione liturgica) e lunghi (consuetudini liriche). Per l’uso dei canonici décasyllabes (o in qualche caso degli octosyllabes) bisogna attendere Bernart d’Auriac (1), Folquet de Lunel (2) e soprattutto Peire Guilhem de Luserna (1), in cui è già introdotta l’insistente anafora di domna che si ripropone anche in Petrarca. Gli autori più rilevanti per lo sviluppo del genere restano però Guiraut Riquier272 (44 e 88 soprattutto) e Cerverì de Girona (1), in cui d’altra parte manca l’anafora. Tutti gli autori citati possono, tuttavia, essere ricondotti a fonti ed ispirazioni anteriori: ad esempio Raimon Jordan (12) per Luserna, Rigaut de Berbezilh (5, già in cinque strofe) per Auriac e Lunel, Arnaut de Maruelh (5) per Cerverì, Cadenet (1) per Riquier. Si riconferma così il legame tra formalizzazione classica ed evoluzione mariana. In tale contesto Lanfranco Cigala si propone come un innovatore con la sua En chantan d’aquest in dieci strofe, benché il suo esempio non sia recepito immediatamente. Infatti Bertran d’Alamannon (4) imita la sua canzone mariana riportandone però la misura alle più classiche cinque strofe. Intanto la terminologia mariana tipica del genere comincia a diffondersi. 271 Le due canzoni di Perdigon e Peirol sono l’una il contrafactum dell’altra, come indica il puntuale recupero della serie rimica e dunque della struttura metrica in tutti i suoi elementi. Poiché non si dispone di una datazione precisa, non è possibile stabilire quale delle due abbia fornito il modello all’altra. 272 Al trovatore si deve il modello poi fondamentale nell’ambito del Concistori. 57 L’esempio di Lanfranco viene recuperato da Petrarca con particolare attenzione, per quanto l’Aretino conosca probabilmente anche l’antecedente principale del trovatore genovese, Peire de Corbian (Domna, del angels273) da cui dovrebbe derivare l’andamento liturgico. D’altro canto la regolata varietà della produzione del Cigala mostra una significativa affinità rispetto alle tematiche e agli stati d’animo affrontati da Petrarca, per la compresenza di aspetti amorosi, penitenziali e morali, luttuosi274. È perciò opportuno approfondire sulla produzione religiosa del trovatore. Ne sono sopravvissuti solo quattro testi, che la tradizione propone come un piccolo canzoniere unitario, visto che tre di quei componimenti sono vicini in tutti i manoscritti. La quarta canzone, Pensius, è di solito separata dalle altre per motivi tematici, in quanto rivolta a Dio e non alla Vergine. Oi Mairie è ancora in cinque strofe, una vera litania in cui domina il tono dell’invocazione; Gloriosa Santa Maria e En chantan sono dedicate al pentimento e quindi alla confessione delle proprie colpe. Tutti questi elementi sono in effetti riconoscibili nella composizione petrarchesca ed acquisiscono particolare interesse nella zona liminare della raccolta. In particolare va ricordato che i sonetti che precedono la canzone finale sono dedicati al Padre eterno, creando quindi la medesima duplicità di destinatari della preghiera che si nota in Cigala. Tuttavia tale accostamento non è solo occitanico, poiché si riscontra anche in alcune fonti mediolatine; gli stessi modelli, provenzali e latini, si assommano secondo Perugi275 nell’influenzare la collocazione vicina delle due ultime canzoni, 360 e 366. 360 infatti propone il confronto verbale tra Francesco e Amore presso il tribunale della Ragione: da una parte si può pensare alle tenzoni trobadoriche, dall’altra al genere del conflictus, in cui la disputa assume la forma di un vero e proprio giudizio276. In Cigala, infine, si ritrovano espressioni affini a quelle scelte da Petrarca per rendere le parole e l’atteggiamento di Laura che riappare in sogno o in visione all’amante, cioè nelle ultime occasioni di contatto tra Francesco e l’amata nella parte in morte dei Rerum vulgarium fragmenta277. La possibilità di riscontrare contatti più puntuali tra i due poeti è estremamente limitata, in quanto legata ad immagini topiche e convenzionali. Tuttavia non mancano convergenze significative nelle due canzoni mariane, che si possono riassumere brevemente: Petrarca, v 4 / Lanfranco, v 5; Petrarca, vv 14-15 / Lanfranco v 52; Petrarca, vv 38-39 / Lanfranco, v 36; Petrarca, v 55 / Lanfranco, v 65. 273 Questa canzone è talvolta attribuita a Peire d’Alvernha. Nell’insieme l’ordinamento del corpus di Cigala non è affatto ovvio; l’ipotesi più accreditata si basa sui codici IKa, la cui testimonianza appare particolarmente logica ed efficace, in quanto rispecchia il generale andamento per genere dei canzonieri (cinque canzoni d’amore, tre canzoni mariane, una tenzone, un planh per l’amata defunta, cinque sirventesi, una canzonetta amorosa-dottrinale, la preghiera a Dio, un elogio al sovrano). 275 Perugi 19912. 276 Tale aspetto appare invece del tutto sfumato nelle tenzoni e nei partimens tra trovatori. 277 Nel Canzoniere, però, si tratta spesso di visioni, più che di sogni. 274 58 5.4 Guiraut Riquier È molto probabile che l’opera di Guiraut Riquier abbia offerto un modello rilevante per la composizione del Canzoniere petrarchesco278: è l’unico canzoniere d’autore occitanico accertato, dedicato ad un’unica donna, secondo la prospettiva di una progressiva spiritualizzazione. È proprio la morte dell’amata a favorire il passaggio dalla lode terrena a quella celeste, che il poeta dedica alla Vergine279. È noto, inoltre280, che l’intero corpus riquieriano è disseminato di indicazioni cronologiche ed elementi numerologici e simbolici, che acquisiscono una particolare funzione rispetto alla macrostruttura della raccolta. L’analisi che Perugi281 ha dedicato al rapporto tra Petrarca e il trovatore si è concentrata proprio su tali dettagli numerici, allo scopo di approfondire il contributo che Riquier può aver esercitato rispetto al poeta aretino. I testi, canzoni e sirventesi, sono in numero pari, e dunque perfettamente divisibili in due metà speculari, la cui demarcazione cade tra diciottesimo e diciannovesimo componimento, che corrispondono al 19 e al 20 febbraio dell’anno centrale e più attivo rispetto alla produzione complessiva del trovatore. I due componimenti più complessi dal punto di vista formale (le due cansos redondas) occupano le posizioni diciassette e trentasei; la morte della dama cade a circa due terzi della raccolta e la lirica finale fa da contrappeso al planh per l’amata, in quanto essa piange la decadenza (la morte) della cultura cortese. Nella raccolta è infine presente un terzo canto luttuoso, dedicato a Almarico IV. In questo modo è possibile dividere il canzoniere in tre parti; il ciclo centrale è ulteriormente frammentato dalla bipartizione che domina in generale la raccolta. Nel primo gruppo di testi le tematiche principali riguardano la decadenza di corti e cortesia, di cui l’amore non ricambiato del poeta è un chiaro segnale. Il senhal che diverrà poi abituale per la dama ricorre solo cinque volte, in quattro testi. La seconda parte, successiva allo spostamento del poeta presso una diversa corte, è dedicata ad Alfonso X; il poeta è ormai famoso – e ne ringrazia l’amata – ma non è ancora soddisfatto. I due testi di anniversario descrivono gli insuccessi dell’io poetico, in amore e in poesia: torna perciò il tema (trobadorico) della speranza insoddisfatta. Compaiono i primi testi religiosi, che rappresentano invece un’univoca possibilità compositiva nell’ultima sezione, in cui il tema amoroso ricorre solo in chiave allegorica e simbolica. La scelta morale e quasi “monastica” del poeta corrisponde al suo abbandono delle corti: è morta l’amata e quindi anche le qualità morali che in lei si incarnavano. Di nuovo, il senhal della dama torna solo quattro volte, probabilmente risemantizzato (ma non è chiaro se si riferisca alla Vergine o sia semplicemente usato come sostantivo). Si 278 In questa sede affrontiamo soltanto gli aspetti che potrebbero collegare direttamente il trovatore spagnolo al Canzoniere; per le caratteristiche della sua raccolta poetica si veda il sesto capitolo. 279 A questo proposito Perugi 1999 sottolinea come al trovatore non sia riservato spazio sufficiente nell’analisi di Santagata 1996. 280 Tali aspetti strutturali saranno approfonditi nel sesto capitolo, in riferimento alle prime raccolte d’autore. 281 Perugi 1999. 59 noti che secondo Perugi282 tale trasfigurazione della figura femminile è pienamente tangibile anche nel Canzoniere petrarchesco. La raccolta si chiude con il ventisettesimo sirventese, cui seguono alcuni testi d’appendice; la scelta di concludere con un sirventese potrebbe dipendere dall’abitudine all’organizzazione per generi delle sillogi classiche. 5.5 “Quan lo dous tems” Un’altra canzone provenzale rilevante per la critica petrarchesca ed erroneamente attribuita ad un trovatore di grande prestigio è Quan lo dous tems, per tradizione legata al nome di Bernart de Ventadorn283. La connessione con Petrarca concerne in primo luogo i vv 44-45284 del testo occitanico, che appaiono ripresi in due versi del sonetto petrarchesco 362285, in cui il poeta prega che gli sia consentita la visione dell’amata. L’attesa pare interminabile, a prescindere dalla sua reale durata, come segnala l’indicazione numerica (iperbolica: “vent’anni e trenta”) degli anni che passano. Al v 36 della canzone pseudo-ventadoriana si nota anche il ricorrere dell’immagine dell’aura, aggettivata come “dous’aura”, che potrebbe aver stimolato l’attenzione di Petrarca. Potrebbe infine esserci una corrispondenza tra i rimanti dei vv 17-22 della canzone e i vv 11-12 del sonetto. La questione va poi ampliata in riferimento ad altri testi apocrifi286, che in E sono tutti attribuiti a Bernart, componendo un gruppo coeso di quattro canzoni. Inoltre, tra di esse non solo Quan lo dous tems, ma anche Ab cor leial fanno pensare ad ambienti vicini a quelli frequentati dal giovane Petrarca, in quanto entrambe appartengono alla sfera di Rodez, cui Perugi287 attribuisce la composizione di Razo e dreyt. Certo, l’immagine dei “venti-trent’anni” potrebbe essere semplicemente un topos, ed anzi tanto noto da non presentare problemi rispetto al passaggio linguistico dal provenzale all’italiano. L’immagine si ritrova infatti anche in Bertran de Born, canzone 27 (e di nuovo l’attribuzione non è concorde) ed ha un’ascendenza giuridica, legata all’usucapione, secondo la fonte di Isidoro288. Le stesse opere petrarchesche offrono un altro luogo significativo, nel riferimento a Maria Maddalena della Senile 14, 15, dove si parla della leggenda della sua permanenza nella Baume. Conferma la connessione fra questi elementi il testo provenzale Ad onor del senhor, in cui torna un’ultima volta la medesima enumerazione, ma in relazione al pentimento: tale fattore tematico concorda sia con l’immagine della Maddalena sia con il tono preminente nella zona finale del Canzoniere. 282 Perugi 1999. Per l’analisi di tale associazione si fa riferimento principalmente ad Allegretti 1993. 284 Va in particolare notato che la lezione del codice E li lega in rima. 285 Lo aveva già evidenziato Scarano 1901. 286 Si notano però banalizzazioni e un incongruo uso di un’estesa proverbialità; il passo più significativo è proprio quello dell’aura, che rimanda appunto ad un’immagine emblematica della poesia di Bernart de Ventadorn. Stessa banalizzazione si trova in Arnaut de Tintinhac “Mouz desider l’aura doussana”. 287 Perugi 1985. 288 Si è talvolta ipotizzata un’origine biblica, secondo un’interpretazione che ora pare abbandonata. 283 60 L’interesse dell’esempio “ventadoriano” concerne il parallelismo con Razo e dreyt: le modalità compositive sono simili, i testi sono tardi e presentano caratteristiche affini a quelle dei centoni, sono inoltre posti, in modo erroneo, sotto l’egida di un autore celeberrimo. Le medesime affinità si colgono nelle modalità della loro trasmissione, poiché si tratta di esempi dell’ultimo trobadorismo, forse assimilabili all’ambiente di Rodez. Tali coincidenze possono forse rivelare qualche informazione sulle letture trobadoriche petrarchesche. 5.6 “Quando fra l’altre donne” Come nel caso di Verdi panni, anche nel sonetto 13289 si avverte chiaramente l’influsso di Arnaut Daniel e in particolare della canzone Amors e jocs e luecs e temps. In realtà Quando fra l’altre donne presenta un tema ed una situazione fortemente topici ed anche l’uso dei due sostantivi “luogo e tempo” (cui nel testo italiano si aggiunge “ora”) in coppia non può essere definito raro. A parte il ritmo danielino dell’elenco, è forse più interessante notare la presenza di un possibile riferimento parallelo nel sonetto 12: ne deriverebbe una dislocazione della fonte in luoghi distinti eppure vicini e connessi, piuttosto tipica dell’usus scribendi petrarchesco. Infatti l’immagine dell’innamorato che spera almeno in una soddisfazione senile, che di solito viene fatta risalire a Dante, potrebbe in realtà connettere Se la mia vita da l’aspro tormento proprio alla già citata canzone XIV Amors e jocs. Tuttavia tali riscontri impediscono ipotesi definitive in merito alla composizione dei due sonetti. Da una parte è indubbio che la macrostruttura del Canzoniere nasca da accostamenti ben studiati anche per quel che concerne la prossimità e la coerenza delle fonti e dei rinvii intertestuali. Dall’altra la zona iniziale della raccolta rende particolarmente problematica la ricostruzione delle fasi e delle modalità compositive, per l’intenzione del poeta di fingere una datazione alta anche per componimenti maturi. 5.7 “Aura-mot” e “aura-situation” dai Provenzali a Petrarca: il lavoro della critica Il topos dell’aura – la brezza che viene dal viso o dal paese della donna amata – in ambito occitanico costituisce per lo più un’immagine puntuale e circoscritta, ben riconoscibile. Per Petrarca, invece, esso rappresenta un utile spunto per arricchire il ritratto di Laura e dei propri sentimenti, partendo dal presupposto che la figura femminile è spesso rappresentata nel Canzoniere attraverso metafore, allegorie290 e perifrasi. Le associazioni più tipiche e celebri sono quelle veicolate da assonanze e giochi nominali291: in primo luogo quelli tra Laura e lauro, che hanno favorito il 289 Per la riflessione sul sonetto 13 si fa particolare riferimento a Santagata 1990, pp. 157 segg. In proposito Contini 19704 arriva a ritenere l’uso petrarchesco del termine “aura”, che di per sé indicherebbe soltanto un fenomeno atmosferico, un vero “abuso” metaforico. 291 Secondo la definizione di Segre 1985, si tratta di effetti di “decomposizione del nome”. La forma retorica più tipica è quella metaforica; tuttavia non mancano casi in cui alla sovrapposizione semantica si sostituisce un accostamento, le cui forme possono essere molto diverse, il che richiede l’intervento autonomo del lettore rispetto alla comprensione e al collegamento dei diversi elementi. In generale, 290 61 recupero del mito dafneo a partire da Ovidio292, e poi quelli tra Laura e l’aura, in cui l’omofonia (e, anticamente, l’omografia) è completa293. Segre294 definisce tali interventi sul nome e quindi sull’immagine di Laura “isotopie”, per evidenziare che la questione non si limita al livello fonico, al puro estetismo formale, ma coinvolge il piano semantico. Al ricorrere dei suoni corrisponde, infatti, la riproposizione del significato, che non sarà tanto quello letterale delle immagini sovrapposte al personaggio femminile (lauro, aura, oro295, aurora), quanto quello figurato, riconducendo così la figura dell’amata a se stessa. La semplice immagine dei trovatori diviene perciò, nelle mani di Petrarca, un principio strutturale; tale aspetto è a maggior ragione evidente se si pensa che un intero ciclo di sonetti (194, 196-198) è definito proprio dal riferimento all’aura. Tali considerazioni e l’attenzione che la critica ha a lungo dimostrato per la questione giustificano un approfondimento in questa sede. Contini, d’altronde, ha evidenziato l’importanza dell’elaborazione petrarchesca in tali luoghi al di là dell’emblema laurano296. Infatti l’interesse dei passi in esame risiede anche nella loro esemplarità rispetto alla lingua del Canzoniere e alle abitudini del poeta nel rapporto con le fonti: trasformazione e rilettura autonoma. In primo luogo vanno considerati gli effetti dell’alterazione linguistica del vocabolo: esso può essere arricchito dalla presenza di aggettivi, che creano coppie destinate a un’elevata frequenza, quasi si trattasse di formule fisse, oppure può essere inserito in giri sintattici e sintagmi più ampi (ugualmente volti alla fissazione) o infine sostituito (per Contini “dissolto”) da una serie di sinonimi o comunque voci affini, in forma di dittologia o elenco. La ricorrenza di “aura” e delle forme equivalenti è consistente: alcuni luoghi sono particolarmente interessanti, come nel caso della sestina 239297, in cui “aura” è parola- Chiecchi 1987 ha evidenziato come l’effetto paranomastico in Petrarca non sia mai un vezzo fonico fine a se stesso, anche al di là del coinvolgimento del nome dell’amata. Tali procedimenti retorici, infatti, entrano a buon diritto nella definizione dello stile dell’autore, in cui la forma ha sempre un ruolo attivo nella definizione del significato (nel caso dei “sonetti dell’aura” si vedrà che ciò non vale solo rispetto all’amata, ma anche in riferimento agli eventi del passato e allo stato d’animo presente che il poeta intende esprimere). Lo studioso ha inoltre sottolineato come l’anticipazione del gioco linguisticonominale rispetto alla forma tangibile dell’oggetto comporti per la creazione petrarchesca uno statuto peculiare rispetto alle consuetudini nominalistiche medievali, imperniate sul principio nomina sunt consequentia rerum. 292 Per una panoramica dell’uso petrarchesco del mito si veda Chines 2010, pp. 32 segg. 293 Le occorrenze più originali e interessanti sono quelle in cui Petrarca arricchisce la singola immagine attraverso dettagli naturalistici o d’estetica femminile, o ancora sovrapponendo immagini e riferimenti diversi, ad esempio laddove le foglie del “lauro” sono mosse dall’“aura”, oppure i capelli arricciati dall’“aura” sono “dorati”. Le soluzioni metaforiche, che sottintendono il gioco fonico-nominale, risultano poi ancora più varie grazie alla possibilità di sfruttare numerose forme sinonimiche. 294 Segre 1985 e Segre 1993: allo studioso e ai due celebri studi si deve un’approfondita analisi del ciclo dei sonetti specificatamente dedicati al motivo dell’“aura” (194, 196-198), comprese le loro relazioni intertestuali (195, 320-322, 246, 327). 295 Per motivi fonici, e per la possibilità di giocare sulla sovrapposizione con il lauro, Petrarca usa principalmente la forma latinizzata “auro”. 296 Contini 19704, ma con riferimento anche a Contini 19703 per il quadro linguistico. 297 In contrasto con l’opinione di alcuni studiosi, che l’attribuivano agli anni ’40, Wilkins ha dimostrato che il componimento è stato inserito nella raccolta solo all’inizio degli anni ’70. 62 rima, o nel già citato ciclo298, in cui “aura” è sempre in incipit299. Nel caso dei quattro sonetti c’è di più: alla semplice “parola aura” si aggiunge la cosiddetta “aurasituation”300. In generale, infatti, è necessario distinguere le occorrenze in cui si riscontri soltanto il termine aura, benché dotato di una valenza simbolica, e quelli in cui è introdotto il topos nella sua massima estensione. Infatti dall’immagine più articolata derivano ulteriori spunti tematici, come il ricordo del passato, l’inizio della passione, l’incremento delle sofferenze. Sia l’uso più semplice sia quello più articolato devono la loro formulazione letteraria alla produzione provenzale; tuttavia il processo creativo è stato ben diverso301. Un primo riscontro significativo è offerto da En cest sonnet di Arnaut Daniel, in cui una delle rime è appunto in –aura; in particolare, al v 12 la parola in sede di rima è semplicemente “aura” e al v 43 è “l’aura”. Un uso simile torna anche nella nona e nella sedicesima canzone di Arnaut302: nei tre testi è sempre possibile un’interpretazione simbolica, che appare più evidente quando è segnalata dall’aggettivazione “doussa” o “amara”. Tali precisazioni, infatti, introducono una valenza psicologica o, come dice Contini, l’impressione che l’io poetico coglie dalla natura circostante, positiva o negativa. L’esempio arnaldiano è molto rilevante in vista dell’apprezzamento da parte di Petrarca. Tuttavia equivalenti occorrenze del termine “aura” sono piuttosto diffuse. A partire da Marcabru, l’aura (“fredda” o “doussa” a seconda della polarizzazione scelta dall’autore) diviene un fattore imprescindibile negli incipit stagionali, frequentissimi nella produzione trobadorica303; in tre suoi componimenti il termine è proprio al primo verso (Per l’aura…, Quam l’aura… e Hueymais), e in uno si riscontra un sinonimo (A l’alena…)304. Gli epigoni di Marcabru, quali Bernart Mari, Guilhem Ademar, Cercamon e Guiraut de Calanson, recuperano il suo esempio anche rispetto all’immagine dell’aura, accompagnandola con un’aggettivazione sorprendentemente omogenea. È ancor più significativo che simili influenze coinvolgano anche autori autonomi e innovativi (Raimbaut d’Aurenga e Peire d’Alvernha) o addirittura polemici rispetto al modello marcabruniano (Giraut de Bornelh, che ancora una volta propone l’idea dell’aura in incipit, in Con la brun’aura, o Arnaut de Maruelh in Belhs m’es). Tali usi metaforici di 298 Benché i sonetti sembrino rimandare a fatti biografici da collocare tra ’42 e ’45, la loro composizione o per lo meno la loro revisione dovrebbe datare alla fine degli anni ’60. 299 Contini definisce tale posizione rilevata una sorta di “rima invertita”. 300 La definizione è di Contini 19704 ed è divenuta un vero e proprio termine tecnico per gli studiosi successivi. 301 Per tale ricostruzione si fa riferimento in primo luogo a Contini 19704. Non vengono qui considerate le occorrenze di “aura” con valore concreto e referenziale, ma solo i passi in cui sia implicato un significato simbolico ed evocativo. È quella che Contini definisce “identità di gusto”. 302 Tra i testi petrarcheschi vanno in proposito considerati soprattutto 212 e 239 che presentano una stretta connessione con le tre canzoni del trovatore. 303 Su questo aspetto e in generale sulle rappresentazioni naturalistiche amene si concentra ampiamente D’Heur 1975. 304 La frequenza del motivo può spiegare perché alcuni testi troppo tardi siano attribuiti proprio a tale trovatore, come Mout dezir di Arnaut de Tintinhac o Lanquan cor di Bernart de Venzac. 63 “aura” caratterizzano l’orizzonte occitanico più aristocratico, a livello poetico, intellettuale o sociale305. I due fautori dello stile leu, Giraut de Bornelh e Arnaut de Maruelh, partecipano dell’elaborazione dell’“aura-situation”, benché attraverso espressioni sintetiche: nei loro testi infatti la singola voce “aura” richiama le soluzioni più articolate di poeti contemporanei. Per le metafore più ampie, tuttavia, i punti di riferimento essenziali restano Bernart de Ventadorn (Can la frej’aura venta, che vanta una notevole capacità modellizzante)306 e Peire Vidal (Ab l’alen tir)307. Si possono poi citare Can lo dous temps, sempre di Bernart, il frammento anonimo Vein, aura doussa, que vein d’outra lo mar308, l’alba anonima En un vergier, in cui la scelta di una voce femminile comporta una sovrapposizione con il genere delle cantigas de amigo309, e un passo del più ampio componimento Altas undas310. Gli ultimi tre testi presentano un’interessante 305 Contini 19704. Secondo D’Heur 1972 la canzone è databile (senza possibilità d’essere più precisi) tra 1150 e 1180. La tradizione manoscritta presenta inoltre una variante per il verso incipitario. La maggior parte dei codici riporta “douss’aura” o in qualche caso “aura doussa” (cui possono essere accostate altre varianti grafiche); tuttavia Roncaglia 1952 ritiene che tale forma si debba ad una banalizzazione causata dai copisti e sceglie piuttosto la lezione minoritaria “frej’aura” in qualità di lectio difficilior, seguendo l’indicazione di Appel (citato in Roncaglia 1952). Concorda con tale interpretazione anche D’Heur 1972, che evidenzia ulteriormente il carattere scontato e topico dell’aggettivo “doussa”; esso rimanda in effetti alle numerose descrizioni di loci amoeni e contesti naturalistici, anche generici. A tale riflessione lo studioso aggiunge un’interpretazione biografica del verso ventadoriano, ritenendo che il poeta indichi nel vento freddo le terre settentrionali in cui si è trasferita – causando appunto una situazione di lontananza che giustifica il recupero dell’immagine dell’“aura” – la donna amata, Eleonora d’Aquitania, divenuta regina d’Inghilterra per via di matrimonio. A tali convinzioni si contrappongono quelle di Contini 19704 e Barbara Spaggiari 1985, la quale in particolare rifiuta di limitare la propria interpretazione ai fattori metereologici, prestando attenzione al significato più profondo del motivo convenzionale. La brezza che viene dall’amata, spesso portandone il profumo, ha infatti il valore di creare un legame tra i due amanti separati, suscitando un senso di conforto o nostalgia. Per tali ragioni ella sostiene la lezione “doussa”. La coerenza semantica dell’aggettivo non è però l’unico argomento utile: bisogna inoltre considerare che il sintagma “aura doussa” torna anche altrove in Bernart e che il suo contrario (utilizzato ad esempio da Arnaut Daniel, per sottolineare il rifiuto che gli oppone l’amata) è “amara”. È “freja” perciò ad apparire una banalizzazione, poiché appiattisce la comunicazione poetica ai soli dati biografici ed atmosferici, mentre le altre possibilità comportano una forte pregnanza emotiva. 307 La critica ha sempre sottolineato il loro ruolo, sin dalle prime analisi in merito: Contini 19704 ricorda in particolare la lettura di Crescini. 308 Del frammento, probabilmente piuttosto antico (XII secolo), resta solo l’incipit che abbiamo riportato, conservato insieme alla melodia nel Jeu de Saint’Agnes, un testo provenzale trecentesco. D’Heur 1975 ritiene che l’associazione con il Jeu sia significativa: l’anonimo autore avrebbe citato l’immagine dell’aura perché ispirato dall’opera perduta, che quindi potrebbe aver lasciato altre tracce nel Jeu stesso. In effetti, l’osservazione del componimento permette di cogliere qualche affinità a livello di immagini con Altas undas. 309 Anche in tal caso, la datazione è difficile e basata soltanto sullo studio della lingua: non prima della metà del XII secolo, non oltre la metà del XIII secolo. Secondo D’Heur 1975 è comunque più probabile che l’alba sia posteriore ad Altas undas anche se i contatti tra i due testi non impongono con certezza la priorità dell’uno sull’altro. 310 Per le peculiarità di tale componimento, si veda in particolare Spaggiari 1985, pp. 242-248. La patina linguistica e la presenza del testo nel codice barcellonese Sg fa pensare che l’anonimo autore sia un iberico, forse catalano; la regione per altro resta a lungo attiva nella produzione di stampo provenzale ben oltre la crisi della Provenza in senso stretto. D’Heur 1975 al contrario si era dichiarato poco convinto di tale ipotesi, affermando che le caratteristiche linguistiche del testo, di cui rimane un’unica testimonianza, potrebbero dipendere dal copista. Il genere è ambiguo, ma mostra evidenti debiti nei confronti delle cantigas de amigo galego-provenzali: una donna si lamenta per la partenza dell’amato, ma non è chiaro se 306 64 compromissione con l’orizzonte popolare: nel caso dell’alba, anche il genere contribuisce a tale impressione, mentre nel testo di Bernart de Ventadorn le concessioni ad un tono poco ricercato appaiono inconsuete e peculiari, forse dovute al contatto con la tradizione delle meno nobili canzoni di crociata. Partendo da tali indicazioni testuali, Jean-Marie D’Heur311 ha proposto un’articolata analisi del topos, traendone in primo luogo una conclusione generale: l’apostrofe al vento è d’abitudine accompagnata dall’invocazione alle onde. L’associazione è del tutto giustificata, per altro, dalle tipiche circostanze in cui l’innamorato si rivolge alle forze naturali: separato dall’oggetto d’amore e in viaggio. In Altas undas l’ambientazione marina è evidente sin dall’incipit. L’io poetico, che si intuisce femminile, si trova sulla spiaggia o comunque in prossimità dell’acqua. Con sentimenti altalenanti e intonazione lamentosa, pone agli enti atmosferici domande angosciate sul suo drudo lontano, che tarda a tornare: il vento in particolare assume una funzione di connessione e comunicazione tra i due personaggi, e l’idea di scambio si tinge talvolta di una sfumatura erotica. Il frammento Vein, aura douza que vens d’outra la mar conferma l’associazione mare/vento e dunque basta a suggerire un contesto di lontananza o di viaggio. Per comprendere lo sviluppo dell’immagine è essenziale chiarire i contatti tra la tradizione occitanica ed altre realtà letterarie anteriori o coeve. In primo luogo va considerata la produzione in lingua d’oil. Ad esempio, il concetto di “aura” torna nella quarta strofa di una canzone di crociata, Chanterai por mon corage di Guiot de Dijon312, in un’interpolazione al poema oitanico Charroi de Nîmes313 e in un verso del Roman de Troie, in cui però la descrizione del contesto primaverile potrebbe derivare proprio da Bernart de Ventadorn314. egli sia stato costretto ad allontanarsi per motivi militari o perché straniero. Anche la datazione è incerta, ma è probabile che non si debba scendere oltre il primo quarto del ‘200, soprattutto in base all’attribuzione del testo, che Sg inserisce nella sezione di Raimbaut de Vaqueiras (tale attribuzione, come per altro molte nella medesima zona del codice, è certamente erronea, ma può essere facilmente spiegata in base alla peculiarità del testo, che ben si adatterebbe alle sperimentazioni amate dal trovatore). 311 D’Heur 1975. 312 Per una breve caratterizzazione del testo si veda Spaggiari 1985, pp. 249-254. Probabilmente si tratta di un’imitazione oitanica di Can la frej’aura venta, secondo la redazione “aura doussa”, come ha sottolineato D’Heur; al nord, è la tradizione occitanica in generale (ad esempio, l’opera di Guglielmo IX) ad aver avuto molta influenza, come accade abitualmente nei testi di crociata, in cui però è significativo anche il lascito della tradizione mediolatina. D’Heur 1975 ha inoltre sottolineato la particolare affinità di tale testo con Altas undas e con il passo del Charroi de Nîmes in cui compare il topos dell’“aura”. Nemmeno in questo caso la datazione è chiara, soprattutto perché è difficile stabilire a quale crociata si faccia riferimento, se alla terza o alla quinta; bisognerà dunque accontentarsi di collocare la canzone tra fine XII e inizio XIII secolo. 313 Si tratta della redazione testimoniata dal codice D, in corrispondenza dei versi 823-848. Come spiega D’Heur 1975, l’occasione narrativa è fornita da un momento di requie in cui l’eroe Guglielmo (il futuro Guglielmo d’Orange), mentre viaggia verso la Provenza, è raggiunto da un vento che proviene dalla sua patria in Francia e lo riporta indietro per un momento. D’Heur ha anche sottolineato l’affinità di questo passo con la canzone di Peire Vidal e ancor più con Altas undas, ma il contesto non amoroso ricorda anche l’uso dell’immagine dell’“aura” in contesti non amorosi in seno alla letteratura araba. Su tale aspetto si tornerà a breve; possiamo anticipare il riferimento a Spaggiari 1985. 314 A tali riferimenti Spaggiari 1985 aggiunge un passo del De amore di Andrea Cappellano. Nell’insieme tale piccolo corpus presenta alcuni tratti di ambiguità, poiché appare al contempo coeso e dispersivo, anche dal punto di vista della tradizione testuale. Roncaglia ha ipotizzato che per tutti ci sia in origine un 65 In definitiva sembra che proprio a Bernart risalgano tutte le elaborazioni dell’immagine oggi note per l’area romanza315, comprese quelle più semplici e popolareggianti, anche grazie alla natura piana e lineare della sua rappresentazione: a tale conclusione giungono concordi Contini, Roncaglia e D’Heur316. Quest’ultimo in particolare mette in risalto il ruolo di Bernart rispetto al passaggio già descritto da “aura-mot” a “aurasituation”. D’Heur si sofferma, inoltre, sulla probabile relazione che intercorre, almeno in merito al topos del vento, tra lirica e poesia drammatica, in quanto, lo si è visto, è tipico che l’io poetico si rivolga direttamente alla brezza. Non è raro che se ne sviluppi una sorta di dialogo, benché uno degli interlocutori sia per necessità muto. Tale evoluzione è tipica ad esempio delle canzoni di crociata, in cui il drudo è stato costretto ad abbandonare la dama per motivi militari ed ella se ne lamenta; più in generale l’elemento dialettico esprime l’incertezza e la speranza che caratterizzano la situazione di reciproca lontananza fra gli amanti. Nelle albe la struttura dialogata è particolarmente evidente, imperniata come è noto sulla preoccupazione per il sorgere del sole e quindi per il risveglio del marito geloso o dei custodi della dama. La riflessione di Martin de Riquer317 si è invece concentrata soprattutto sull’osservazione dei caratteri specifici che ciascun autore ha imposto al motivo dell’“aura”. In particolare per i componimenti amorosi, lo studioso ha sottolineato il ruolo della bocca con cui si avverte lo spirare della brezza. Peire Vidal vuole aspirare o addirittura “bere” quell’aria, e il medesimo predicato torna nell’alba anonima; in Altas undas la fanciulla che si lamenta sulla riva del mare apre la bocca, mentre a proposito di Guglielmo d’Orange si parla di narici (un elemento meno sensuale, forse in virtù del contesto politico-militare del Charroi de Nîmes). Riquer sottolinea per questo l’idea che al vento sia spesso associato, almeno in ambito amoroso, l’“alito” (“alen”, esplicito nell’incipit vidaliano), inteso ovviamente come alito profumato, che non solo ricorda l’amata ma ne sostituisce i baci. Bernart de Ventadorn appare dunque il modello portante per quanto concerne la tradizione romanza. Tuttavia restano in sospeso alcuni interrogativi sull’origine del topos. L’elaborazione occitanica (ventadoriana) è autonoma? Quali fonti anteriori possono averla ispirata? testimone comune, mentre D’Heur ritiene più probabili due origini distinte, separando cioè testi cortesi e drammatici. 315 Perugi 1994 insiste sull’unità delle occorrenze legate all’aura, anche sulla base del loro scarso numero: per tali esempi non è economico parlare di poligenesi, ma solo per l’ambito occitanico e oitanico, escludendo cioè del tutto la questione araba. Ciò non impedisce di notare con D’Heur 1975 che gli epigoni oitanici mostrano una certa autonomia, per quanto risentano con evidenza dell’esempio ventadoriano. Lo denota ad esempio il contesto espressivo, spesso legato alle crociate. Resta il dubbio che il frammento Vein, aura doussa, citato nel Jeu de Sant’Agnes e di cui si riparlerà, possa essere ancora più antico, perché nel medesimo componimento sono citati anche passi tratti dalle opere di Guglielmo IX, suggerendo una diversa area di gusto. 316 Roncaglia 1952, Contini 19704, D’Heur 1975. 317 Riquer 1953. 66 Roncaglia318 esclude che la fonte sia classica319: anzi proprio la novità dell’immagine di Bernart ne costituirebbe il fascino e ne avrebbe facilitato la diffusione. Lo studioso ha quindi avanzato un’ipotesi relativa alla tradizione poetica amorosa araba320, che coinvolge sia l’Oriente in senso stretto sia la Spagna musulmana. Anche in tale contesto, infatti, spicca un’immagine affine a quella dell’“aura-situation” galloromanza. All’altezza del secolo XI, cioè quando si avviano le esperienze dei trovatori, gli autori arabi sono inseriti in un orizzonte culturale ampio ma anche coeso, per spazi, tempi e condivisione dei modelli. L’occasione dell’incontro di tale tradizione con l’Occidente romanzo e cortese potrebbe essere stata favorita dalle corti spagnole rimaste cristiane, in cui erano presenti cantori e musici di lingua araba: la testimonianza relativa a simili occasioni è in un racconto che comprende in forma metanarrativa anche esempi delle narrazioni con cui il signore era intrattenuto. E proprio in tale testo ricorre il motivo dell’aura321. Benché simili contatti culturali siano probabilmente limitati ed occasionali, nulla vieta che siano stati anche fruttosi; per altro l’orizzonte cortigiano, l’ambiente iberico (e soprattutto catalano) e la presenza di poesia in musica, intonata da artisti itineranti, sono tutti elementi coerenti con la realtà trobadorica, che possono quindi aver favorito eventuali scambi culturali. La posizione di Roncaglia è comunque prudente. La circolazione di un singolo spunto poetico non significa necessariamente l’imposizione di un articolato sistema di pensiero o di gusto; anzi, proprio la natura limitata dell’influenza orientale spiegherebbe l’indubbia rielaborazione autonoma cui il motivo è stato sottoposto in ambito provenzale. Da tale riformulazione potrebbe poi essere derivata una nuova tradizione, a questo punto del tutto autonoma rispetto a quella di partenza. Contini e D’Heur322 si oppongono all’opinione di Roncaglia323, sostenendo che all’origine della tradizione araba e di quella occitanica si delineasse un caso di poligenesi. D’Heur in particolare, sottolineava i diversi contesti di appartenenza cui risalgono gli autori occidentali e quelli orientali, soprattutto rispetto alla tipologia dei loro viaggi e spostamenti, cui si deve quello stato di lontananza che dà senso al topos: per mare i primi, nel deserto i secondi. Piuttosto andrebbe approfondito il ruolo di Bernart de Ventadorn e soprattutto il rapporto tra genere lirico e canzoni di crociata, nelle quali in effetti il motivo dell’aura trova spazio quanto nelle canzoni amorose. La visione di Barbara Spaggiari324, che a sua volta ha sostenuto l’ipotesi della monogenesi araba, appare invece più decisa325. Le prove risiederebbero in alcune caratteristiche del topos stesso, e proprio nella versione occidentale. 318 Roncaglia 1952. Si vedrà come Rossi 1990 sostenga esattamente il contrario, esaltando l’antecedente ovidiano. 320 Sono le posizioni riprese ed approfondite, lo vedremo, in Spaggiari 1985. 321 Si tratta del racconto del medico Ibn al-Kattani: siamo tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo alla corte del conte di Castiglia, a Burgos. 322 Contini 19704 e D’Heur 1975. 323 Contini 19704, D’Heur 1975 e Roncaglia 1952. 324 Spaggiari 1985. 325 Tale ipotesi le sembra più coerente ed economica. Tuttavia, la difficoltà nell’individuare un’univoca occasione di contatto fra Oriente e Occidente, di cui si riparlerà a breve, impedisce anche alla studiosa di escludere completamente la poligenesi. 319 67 In ambito orientale, l’origine del motivo è preislamica e legata alla tradizione orale, benché dotta; la codificazione definitiva sembra risalire al X secolo, in particolare nella regione di Baghdad. Un primo contesto letterario interessante è quello delle Mille e una notte, in cui alla narrazione in prosa sono non di rado inframmezzati alcuni versi. In tali spazi poetici si nota a più riprese il motivo della brezza, secondo molteplici declinazioni; il vento può essere ad esempio rappresentato come un messaggero e tale aspetto suggerisce di per sé una forma di comunicazione e contatto tra gli amanti, benché senza arrivare all’“aura-situation” vera e propria326. La debolezza di tale riferimento consiste nella datazione tarda di gran parte delle redazioni della raccolta; tuttavia i due brani in cui l’immagine è più evidente e insistita sono più antichi della raccolta completa, e potrebbero risalire addirittura al IX secolo. Le possibili occasioni per il passaggio del motivo in Occidente sono molteplici e rendono perciò difficile un preciso inquadramento storico. D’altronde non mancano alcuni utili punti di riferimento, relativi in particolare alle tre forme preminenti di contatto tra Est ed Ovest in età medievale: Spagna musulmana327, pellegrinaggi e crociate. È proprio quest’ultima, secondo Spaggiari, l’occasione più favorevole in cui la letteratura amorosa araba possa aver affascinato e influenzato gli stranieri; infatti i crociati, che spesso si stabilirono in Oriente o comunque vi abitarono per lungo tempo, hanno acquisito i costumi locali, mentre non risulta che sia avvenuto il contrario, per il manifesto senso di superiorità dimostrato dagli islamici. Mancano le prove che trovatori e giullari abbiano effettivamente partecipato alle spedizioni per liberare il Santo Sepolcro (benché tale tema sia molto diffuso nella letteratura provenzale); tuttavia altre occasioni di contatto, scambio e comunicazione non devono essere mancate. A livello cronologico l’ipotesi funziona, in quanto i componimenti più antichi in cui sia sviluppata l’“aura-situation” in senso stretto sono posteriori alla seconda (Bernart de Ventadorn) o alla terza crociata328. Spaggiari, inoltre, insiste sui generali punti di contatto tra poesia amorosa araba329 e tradizione trobadorica. Anche in Oriente si sviluppano narrazioni biografiche o raccolte di frammenti, simili rispettivamente a vidas e razos e ai florilegi; spesso la poesia è cantata o comunque pensata per avere un accompagnamento musicale; non mancano esempi di trattatistica, sia sul concetto di amore, sia sui diversi generi letterari e sulle 326 Anche al di là delle sole Mille e una notte, si nota una considerevole uniformità: l’immagine diviene ben presto convenzionale. Il vento porta all’amante il ricordo della dama o anche sue notizie, impregnandosi del suo profumo o talvolta del suo respiro. In alcuni casi tale contatto costituisce un lenitivo, una consolazione per l’amante disperato. Con il tempo si evolve e differenzia la possibile reazione del drudo: a volte si reca nel luogo da cui la brezza si è originata, in altri casi si limita ad attendere un vento particolare o rivolge il viso in una specifica direzione. Può anche, in qualche brano, aprire la bocca o inspirare profondamente. 327 Qui però si diffonde soprattutto la cultura berbera o udrita. 328 Bisogna notare che le indicazioni disponibili per la datazione dei testi citati in Contini 19704 – cioè proprio quelli ripresi da Spaggiari 1985 – sono coerenti con tale ipotesi, benché non siano numerose. 329 Spaggiari 1985 approfondisce anche sulla storia della poesia amorosa araba, dalla fase beduina, in cui la lirica funge da prologo per altre tipologie letterarie e spesso si caratterizza per la rappresentazione di drammatiche separazioni tra gli amanti, fino allo sviluppo di un genere lirico autonomo. 68 tecniche compositive. Proprio in un’opera di tal genere, alla fine dell’XI secolo, si trova un riferimento all’aura: il vento che consente al drudo di sopravvivere330. Contrapponendosi in particolare a Roncaglia, che aveva negato per il topos dell’aura la centralità dei modelli classici, e in generale ai sostenitori della teoria araba, Rossi331 ha sostenuto più di recente la necessità di rivolgersi all’eredità latina. Bisogna ammettere che nella tradizione classica gli antecedenti significativi non sono numerosi. Un primo riferimento è, al solito, Ovidio: nelle due versioni della favola di Cefalo e Procris (Ars amatoria III, 764 segg, Metamorfosi, 818 segg e 861 segg) la brezza è oggetto di un’attenta rappresentazione, anche se non si tratta ancora della specifica immagine del vento che viene dal paese dell’amata. Anche altri luoghi mostrano un’elaborazione espressiva affine, ad esempio in Amores II, 9, dove il poeta in balia dell’aura amorosa viene paragonato ad una nave nella tempesta332. Ovidio, rielaborando spunti che risalgono in realtà a Properzio333, propone due diverse letture metaforiche dell’immagine: il “vento delle passioni” e l’aria che mette in fuga o al contrario ritempra le energie dell’amante. Il contributo più rilevante del poeta latino riguarda, però, il lessico: infatti, il vento è qui già “aura”, sovrapponendo perciò l’elemento naturalistico a quello mitologico, cioè evocando l’omonima ninfa. Ovidio, inoltre, propone per primo quel tipo di gioco nominale poi fondamentale nell’elaborazione petrarchesca: “aura” è accostato ad “aurora”, interpretabile anche come dea Aurora. Infine, è già riconoscibile la duplicità tra “aura” come singolo termine, eventualmente caricato di significati simbolici, e una sorta di “aura-situation”, intesa qui come configurazione più articolata. È ben noto che Ovidio è un modello frequente ed essenziale per Petrarca334 e non solo nel Canzoniere. Per limitarci ai passi ovidiani in cui ricorre l’idea dell’aura, il racconto dedicato all’infelice Procris viene citato innanzitutto nelle Familiari, in un elenco di tragedie amorose causate dalla gelosia, nel quale il poeta dichiara di ricordarlo chiaramente senza l’ausilio dei libri. Simili richiami si riscontrano nell’Africa, nel De remediis utriusque fortunae e nel Triumphus Amoris, laddove si parla di bellezza 330 L’ipotesi di Spaggiari 1985 prende le distanze da Roncaglia 1952 in merito all’area iberica. La letteratura spagnola d’epoca araba non sembra offrire spunti di particolare interesse. Infatti la brezza è per lo più citata in contesti stagionali (primaverili) e l’unico profumo che si diffonde è quello dei fiumi; si tratta soltanto di una versione rinnovata del topos del locus amoenus. Il motivo dell’“aura” nella sua declinazione più piena ed originale non è comunque ignoto in area iberica, grazie alla presenza delle opere arabe classiche; tuttavia rimane espressione della cultura più tradizionale e le uniche rielaborazioni locali appaiono molto distanti dalla concezione poi trobadorica, in quanto esulano dal genere amoroso. Il topos diviene, infatti, essenziale quando si avvia la Reconquista e la tradizione culturale degli invasori viene rifiutata in una prospettiva di indipendenza e “nazionalismo”. Il contesto non è amoroso: il motivo convenzionale è riutilizzato in riferimento all’eroe nel panegirico oppure, se è in gioco la memoria, veicola la nostalgia per la città amata che si è dovuta abbandonare. Tali occorrenze non risultano in definitiva significative rispetto a quelle trobadoriche. 331 Rossi 1990. 332 Tale immagine sarà poi molto cara a Petrarca, che però la sottoporrà ad energiche trasformazioni. 333 Per il vento amoroso si ricordi ad esempio II, 12 (Rossi 1990). 334 Tra i luoghi petrarcheschi in cui si trova il topos dell’“aura”, Rossi considera con attenzione 194, 196, 327, 109 e 133. Negli ultimi due casi, in particolare, va considerata anche la variante secondo cui il vento non spira dal paese, ma dal viso dell’amata. 69 femminile. Sia nell’Ars amatoria che nelle Metamorfosi335 si riscontrano spunti interessanti rispetto alla futura composizione petrarchesca: il contesto tipico del locus amoenus, la confusione (e il gioco nominale) tra vento e personificazione336, il dialogo diretto (alla seconda persona singolare) con l’aura stessa, il dardo337, il racconto in prima persona che suggerisce una sfumatura lirica e memoriale, la presenza – nei medesimi versi – dell’immagine del lauro338, l’effetto di autocitazione nel richiamo al mito di Dafne339. A Ovidio, dunque, va riconosciuto un ruolo essenziale, che potrebbe essere all’origine dell’interpretazione trobadorica340; al suo esempio vanno poi accostate le descrizioni naturalistiche di Virgilio, anch’esse destinate ad aver ampia risonanza341. L’ipotesi ovidiana è stata poi contrastata duramente da Perugi342. Certo, il poeta latino è stato un riferimento fondamentale per Petrarca, ma non è detto che ciò valga anche nel caso dello specifico topos, e soprattutto per la tradizione trobadorica. A Perugi paiono in sostanza privi di solidità i riscontri proposti da Rossi tra Metamorfosi, Amores e Canzoniere343; inoltre gli sembra che nel modello latino la brezza non si identifichi con la figura femminile (almeno non più di tutti gli altri elementi naturali citati), ma faccia soltanto parte del quadro ameno complessivo. D’altro canto, per Ovidio (e in generale nella lirica latina) la brezza rappresenterebbe soltanto un concetto atmosferico, che può sì caricarsi di valenze metaforiche ed acquisire la specifica funzione di acquietare i bollori erotici, ma senza specifica relazione con le dinamiche degli amanti. Quali potrebbero essere, dunque, le fonti di Petrarca? Non si può dubitare che egli conoscesse per lo meno Can la frej’aura di Bernart de Ventadorn e Ben m’a lonc temps di Joifré de Foixà, modello per la canzone “a citazioni”, che presenta in effetti una rima in –aura. Ci sono poi da considerare le tre canzoni di Arnaut Daniel citate da Contini344. Perugi per altro insiste sull’autonomia del poeta aretino, sulla sua abilità nel mescolare, rielaborare e quindi nascondere le fonti; resta inoltre l’impressione che egli abbia tenuto in conto sia la tradizione popolare che quella aristocratica, sia lo stile leu che quello clus. 335 Rossi propone però una possibile distinzione tra i due modelli in merito al riuso petrarchesco. Nelle Metamorfosi la componente memoriale è piuttosto evidente e, nel passo dedicato a Procris, sollecitata proprio dall’“aura-situation”. Anche per questo, lo studioso associa il poema alla sezione “in morte” del Canzoniere, mentre l’Ars amatoria risulta una fonte più affine alla parte “in vita”. 336 In Ovidio il gioco, cui abbiamo già accennato, tra aura/Aura/aurora/Aurora è evidenziato dalla possibilità di sovrapposizione con il personaggio femminile di Procris. 337 Da una parte il dardo di Cupido, immagine convenzionale che trova ampio spazio nel Canzoniere, e dall’altra quello del drudo che uccide per errore l’amata, squisitamente ovidiano. 338 Altro elemento che, come è noto, si inserisce nel quadro dei giochi nominali riferiti a Laura. 339 In tal caso, non solo per Petrarca è fondamentale il mito stesso, per la creazione del personaggio poetico di Laura, ma anche l’effetto di intertestualità interna, tipico del Canzoniere e ben riconoscibile nel “ciclo dell’aura”. 340 O per lo meno all’origine della rilettura petrarchesca delle fonti trobadoriche. 341 Rossi 1990, comunque, non esclude del tutto una possibile origine orale e forse popolare per il topos, latina (e non araba) e anteriore ad Ovidio. 342 Perugi 1994. 343 Lo stesso discorso si ripropone in merito alle occorrenze dell’aura in Boccaccio e alla riflessione di Rossi sulle possibili influenze ovidiane. 344 Contini 19704: lo studioso ne ha evidenziato le affinità con il testo petrarchesco. 70 Spaggiari345 riteneva invece che il ruolo dei modelli occitanici rispetto a Petrarca non fosse stato considerevole346, in quanto non sono che in minima parte testi lirici in senso stretto, quanto canzoni di donna o di crociata. La studiosa insiste piuttosto sulla probabile mediazione di Boccaccio e delle sue opere napoletane: la rappresentazione dell’“aura-situation” in essa contenuta appare più coerente rispetto alla concezione petrarchesca347. Proprio Boccaccio per altro potrebbe aver messo a frutto gli antecedenti arabi, grazie alla ricchissima biblioteca della corte angioina, in cui erano conservate copie e traduzioni di numerose opere orientali. A Boccaccio, comunque, aveva già pensato Contini e la medesima ipotesi è vagliata anche da Rossi348, con particolare riferimento all’Amorosa visione. Tuttavia allo studioso sembra improbabile che questa sia stata una fonte esclusiva o anche solo preminente, perché mancano elementi che sono invece essenziali in Petrarca. L’amico Boccaccio potrebbe aver piuttosto fornito uno spunto per rileggere con maggiore curiosità e attenzione i modelli latini. Quegli stessi modelli erano noti a tutto l’Occidente cristiano e dunque anche ai trovatori349. 345 Spaggiari 1985. Tuttavia la studiosa ammette che, a livello di trasmissione testuale, tutte le opere citate erano accessibili a Petrarca; in particolare vanno ricordati i manoscritti C (in cui sono presenti ben tre testi essenziali per la questione dell’aura), narbonese e trecentesco, il catalano Sg e i fogli del Chigiano originari della Provenza sud-occidentale. Per altro, nota sempre Spaggiari 1985, tali testimonianze riportano proprio all’area e alla tradizione che Perugi 1985 ha indicato come essenziale per la composizione e la ricezione di Razo e dreyt. 347 Spaggiari 1985 cita anche un passo dantesco – Purgatorio XXIV, vv 149-150 – in cui però il poeta si limita all’uso di “aura” come parola dal valore simbolico, senza sviluppare la “situation”, come sarà per le altre due Corone. 348 Contini 19704, Rossi 1990. 349 Rossi in particolare è convinto che Joifré de Foixà abbia letto Ovidio con attenzione. Tale posizione di Rossi, lo si è visto, viene duramente avversata da Perugi 1994: egli nega che l’incipit della canzone “a citazioni” di Joifré de Foixà rimandi ad Ovidio. Infatti mentre il poeta latino – e così Properzio che ne è antecedente diretto – pensava alla brezza amorosa che viene da Cupido, nella canzone trobadorica l’immagine (per altro comunque topica) è quella della tempesta. La rima in –aura che contraddistingue la prima clausola del testo è piuttosto di derivazione arnaldiana, quel modello tanto amato da Petrarca. Secondo Perugi, proprio l’eco arnaldiana avrebbe spinto il poeta a riflettere e poi a recuperare la peculiare struttura metrica di Jaufré, mentre per Rossi il medesimo valore di tramite dovrebbe essere attribuito alla memoria classica. 346 71 PARTE PRIMA Il rapporto tra Petrarca e i trovatori: analisi testuale CAPITOLO SECONDO Riuso dei generi poetici nel Canzoniere Ad una prima lettura il Canzoniere e il suo linguaggio appaiono ispirati all’omogeneità, alla coerenza, alla maggiore unità possibile. Tuttavia un’analisi più approfondita rivela la ricchezza e la natura sfaccettata della costruzione petrarchesca, come d’altronde hanno evidenziato gli studi critici sulla relazione tra i fragmenta e la tradizione precedente1, non ultimi proprio quelli dedicati ai modelli trobadorici. Nessun contatto con gli antecedenti sfugge però alla trasformazione imposta dall’autore: più che debiti, i richiami a tali modelli vanno considerati spunti di rielaborazione personale. Ogni elemento espressivo è pensato non solo in vista del singolo componimento, ma anche dell’insieme, e dunque alla rappresentazione dell’io lirico e alle specifiche necessità dell’autore2. La stessa impressione di armonia e coerenza è creata a partire da strumenti molteplici e ben calibrati. E vale la pena notare che tale dialettica tra omogeneità e differenza si accorda perfettamente con l’idea di fragmentum: il “pezzo” di anima – e quindi il singolo componimento – che da “sparso” deve essere raccolto e ricondotto ad unità – al Canzoniere. Un elemento centrale rispetto a tale prospettiva è costituito dal riuso dei generi tradizionali, in particolare occitanici: nella macrostruttura unitaria del “canzoniere lirico”, Petrarca inserisce testi improntati a soluzioni divergenti, sia per quanto concerne la metrica, sia a livello tematico. L’unità della raccolta nasce quindi a partire da una selezionata e controllata varietà, che colpisce innanzitutto nella diversificazione dei metri, a partire dall’evidente scarto quantitativo tra la lunghezza minima del madrigale e quella massima della canzone solenne. Il recupero di generi differenti è d’altronde emblematico di un’altra caratteristica essenziale dell’autorialità petrarchesca: l’intervento del poeta domina ogni singolo aspetto e perciò ogni lascito della tradizione letteraria è sottoposto al suo vaglio e ad una profonda personalizzazione. Il concetto di “riuso”, quindi, non va inteso come banale citazione o imitazione, quanto come appropriazione e applicazione di strumenti già noti secondo modalità, con obiettivi e in contesti nuovi. Con la mia analisi mi ripropongo di approfondire il rapporto di Petrarca con gli antecedenti trobadorici in merito a tali strutture, sia rispetto a ciò che permette di identificarne la presenza e l’origine, sia in merito alla loro trasfigurazione e al loro rinnovamento, e quindi allo specifico significato che esse assumono nel Canzoniere. 1 Particolarmente significativo è apparso il problema dell’influenza dantesca, petrosa e stilnovistica, in primo luogo sul piano dei prestiti lessicali. Per tali questioni possono essere consultati ad esempio Neri 1951, Santagata 1969, Possiedi 1974, Suitner 1977, Trovato 1979, De Robertis 1983, Santagata 1985, Picone 1993, Fenzi 2002, Bologna 2003, Pastore Stocchi 2004, Berra 2007. Per una bibliografia più completa si veda inoltre Malzacher 2013, pp. 15-16, 26-30 e 30 segg con riferimento in particolare alla Vita nova. 2 Per la natura particolare e moderna dell’io lirico petrarchesco si veda Santagata 2006, pp. 31-34. 73 Il recupero dei generi metrici è per sua natura piuttosto evidente, il che rende immediato il riconoscimento dei luoghi sensibili3. Il contributo personale del poeta si coglie, oltre che nella scelta delle forme da riproporre4, nella loro calibrata quantità e distribuzione nell’arco della raccolta: è massima la presenza del sonetto, forma “media” per lunghezza e intensità, minima quella delle soluzioni meno nobili, ballata e madrigale5. È inoltre significativo il rispetto oppure il rifiuto dell’associazione convenzionale tra una determinata forma e un’area semantica o una tipologia di contenuto, come nel caso della sestina, d’abitudine impiegata in relazione a motivi sensuali6. Da una parte, ciò significa che la decisione di avvalersi di specifici metri o strutture espressive non dipende soltanto da esigenze stilistiche, ma veicola anche un messaggio ben preciso. Dall’altra, il rapporto tra struttura e contenuto offre all’autore un’ulteriore occasione di rielaborazione delle soluzioni convenzionali e del loro significato. Quando si tratta, invece, di generi tematici l’autonomia dell’autore risulta non di rado molto marcata: la sua adesione ai modelli è talvolta limitata a un singolo elemento rifuso in un quadro del tutto eterogeneo, magari confinato in una breve porzione del testo, come avviene per la pastorella. Il riferimento agli antecedenti appare spesso parziale e mascherato: lo si nota molto bene nella sovrapposizione o nell’accostamento di influenze ed esempi diversi, soprattutto classici. Proprio tali caratteristiche rendono talvolta complesso isolare il recupero di una specifica struttura; tuttavia, non c’è dubbio che il riferimento al sistema tradizionale dei generi, in particolare trobadorici, sia fondamentale nella lettura del Canzoniere, dove si passa dalla classica canzone di lontananza all’indovinello, dal giuramento al pianto funebre, dalla canzone morale a quella di crociata, e così via. Proprio i Provenzali avevano prestato particolare attenzione alle diverse declinazioni dell’esperienza amorosa, oltre a quelle della vita civile e politica. Ecco perché tali modelli sono centrali rispetto al recupero dei generi tematici. La produzione italiana, invece, soprattutto quella siciliana e quella stilnovista, aveva imposto limiti precisi al proprio orizzonte poetico, riducendo e selezionando la materia lirica anche all’interno della sfera amorosa. La raccolta petrarchesca si configura così come “un’enciclopedia delle forme poetiche”, una summa del poetabile, sia sul piano della struttura sia su quello delle tematiche7. Tale ricerca di onnicomprensività ha un valore fortissimo sul piano metapoetico, rispetto alla posizione che Petrarca si attribuisce a confronto con la tradizione letteraria. 3 Come si è visto nel primo capitolo, l’evidenza dei recuperi trobadorici in ambito metrico costituisce una citazione particolarmente scoperta (e voluta). 4 Non mancano d’altronde spazi di rielaborazione, come si noterà rispetto al processo di codificazione della sestina, o come si è visto in merito alla canzone 29, la cui struttura, ispirata alla poesia di Arnaut Daniel, è arricchita dall’inserimento delle rime al mezzo. 5 Appare significativa in tal senso la diversa proporzione nella prima e nella seconda sezione, motivata non solo dalla differente lunghezza delle due parti, ma anche dalle esigenze comunicative del poeta (si veda nuovamente Pulsoni 1998, pp. 23 segg). 6 Tale direzione era stata indicata dagli esempi di Arnaut Daniel e Dante. Come vedremo, Petrarca in parte fa proprio e in parte nega – in forma palinodica – l’uso topico del genere. Discorso simile vale anche per il madrigale; tali aspetti verranno comunque approfonditi nel corso del presente capitolo. 7 Tale aspetto di onnicomprensività, che non concerne solo l’aspetto metapoetico, ma anche la dimensione esistenziale e quella amorosa, sarà affrontato con maggiore profondità nel capitolo quarto. 74 Il poeta si mette alla prova e dimostra le proprie capacità negli ambiti più disparati, emulando e sorpassando i suoi antecedenti; inoltre, portando a compimento la sintesi e il superamento rappresentati dalla raccolta stessa, egli guarda alle innovazioni dei contemporanei, agli sviluppi della teoria musicale e alla nascita di nuovi generi, come nel caso del madrigale8. Certo, tale molteplicità di forme non si spiega solo in vista dell’autoaffermazione di Petrarca come poeta. Le diverse soluzioni che caratterizzano il Canzoniere sono finalizzate all’espressione delle molteplici fasi attraversate dall’io lirico, delle sue contraddizioni, delle sue problematiche, della sua vicenda complessiva. Strutture tematiche e formali diverse permettono di insistere su intonazioni differenti, di volta in volta solenni, sensuali, elegiache, lievi, dolenti e così via9. Rispetto a tali snodi narrativi ed emotivi, spicca l’importanza dei metri lunghi: benché la raccolta vada considerata nel complesso, senza trascurare la novità o la capacità espressiva delle forme brevi, i nuclei concettuali più forti e quindi i pilastri del discorso poetico si riscontrano nelle canzoni10. Nulla vieta infine di ipotizzare che il poeta si sia anche preoccupato di evitare un’eccessiva ripetitività in un’opera tanto ampia e corposa come il Canzoniere, alternando ritmi, suoni, lunghezze, motivi e immagini diversi. 1. Identificazione e classificazione dei generi trobadorici La varietà delle realizzazioni trobadoriche giustifica pienamente una puntuale attenzione alla classificazione dei generi lirici; tuttavia essa ha interessato in modo quasi esclusivo il trobadorismo tardo (in particolare, trecentesco)11. Tali interventi di sistematizzazione sono comunque significativi, poiché documentano l’autorevolezza della produzione occitanica su larga scala: tale prestigio appare particolarmente solido per la durata nel tempo e la diffusione geografica. D’altro canto quegli stessi contributi risentono dei limiti tipici della cultura medievale: per tutto il Medioevo, infatti, manca 8 Rispetto ai generi tipici della tradizione trobadorica spicca una sola notevole assenza: il “salut d’amor”, sorta di epistola che iniziava e finiva appunto portando alla dama il “saluto” del poeta. Si tratta di componimenti lunghi, di cui non si conservano numerosi esempi (possiamo ricordare le prove di Raimbaut d’Aurenga, Falquet de Romans e Amanieu de Sescars; particolare anche quella offerta da Sordello, dove il saluto, di solito molto ampio, risulta ridimensionato ad una cobla singola), i cui motivi di fondo appaiono in sostanza gli stessi della canzone amorosa. Per tale ragione, forse, Petrarca rinunciò a cimentarsi nel genere, in cui per altro l’elemento più caratteristico è il dialogo diretto con l’amata, artificio diffuso anche in gran parte delle canzoni cortesi e ripreso talvolta nel Canzoniere. In due sonetti, 110-111, il tema si propone in chiave stilnovistica, perché al centro dell’attenzione è il saluto che il poeta riceve da parte dell’amata. Quest’ultimo motivo veicolava in effetti valenze semantiche profonde, mentre il saluto del poeta alla dama rispecchiava solamente una consuetudine cortese: si può pensare che anche tale aspetto abbia pesato sulle scelte di Petrarca. Tra i fragmenta mancano anche le “canzoni di donna”, per altro più frequenti nella tradizione galego-portoghese che in quella occitanica in senso stretto. La motivazione della scelta petrarchesca è a tal proposito evidente: nessun punto di vista, eccetto quello dell’io poetico, poteva trovare spazio nella raccolta. 9 Su tale aspetto, che coinvolge in termini più articolati la scelta degli strumenti espressivi, linguistici, stilistici e tematici, si tornerà con maggiore ampiezza più oltre. 10 Si veda per tale affermazione la nota 16 a p. 61 in Praloran 2013, che a sua volta cita la posizione di Martinelli. In Martinelli 1977, pp. 85-86 lo studioso si sofferma infatti sulla difficoltà del labor limae che deve aver contraddistinto proprio le canzoni negli anni decisivi per la concezione del Canzoniere. 11 Tali tassonomie presentano perciò il considerevole rischio di risultare anacronistiche. 75 una “teoria dei generi” vera e propria. Ogni possibile tassonomia non è che un’astrazione realizzata a partire dai testi concreti, che, a loro volta, rispondono alle attese del pubblico12; si spiega così l’intensificazione di alcuni elementi ben riconoscibili ed evidentemente apprezzati, la cui ricorsività rappresenta il punto di partenza per successive categorizzazioni13. Ciò non toglie che alla base della poesia provenzale, come delle teorizzazioni e classificazioni ad essa dedicate, resti l’insegnamento retorico latino, benché affrontato con ampi margini di originalità e indipendenza14. Dalle trattazioni medievali sui generi trobadorici si può trarre un elenco di circa venticinque voci15, molto utili a livello teorico e come strumento per orientarsi nella comprensione dei testi, ma poco stringenti su un piano complessivo. Esse infatti non tengono conto né dei componimenti in cui sono mescolate o accostate prospettive molteplici, né di quelli troppo poco caratterizzati per essere inseriti in una categoria. A monte del contatto tra generi distinti, possono entrare in gioco sia la libera elaborazione ed applicazione delle convenzioni ad opera dei singoli poeti, sia la condivisione dei medesimi strumenti espressivi in ambiti per il resto autonomi. È questo il caso di strutture metriche, forme musicali, ornamenti retorici, modalità diegetiche (in particolare dialoghi). Un ultimo limite di simili tassonomie si riscontra nella difficoltà di identificare la graduale evoluzione di ciascun genere, che inevitabilmente si è delineata nell’ampio lasso di tempo in cui l’esperienza trobadorica è stata vitale, tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XIV. Va poi analizzata la diffusione di ciascun genere, guardando in primo luogo al numero di testi che si sono conservati. Da un punto di vista puramente quantitativo, infatti, gran parte della poesia occitanica a noi nota si concentra negli anni centrali dell’epoca trobadorica, tra 1180 e 1220 circa: in tale arco cronologico l’incremento dei componimenti è rapidissimo, anche se è probabile che per le fasi più arcaiche si sia 12 Tale aspetto è stato evidenziato anche da Pickens 2000, che esalta la corrispondenza tra creazione e fruizione orale in quanto momenti distinti, ma strettamente connessi dell’esperienza lirica. 13 Un’interessante definizione del concetto di genere si trova in Bec 1992, pp. 87 segg. Lo studioso sostiene che, per essere tale, un genere debba in primo luogo essere concepito come tale al tempo della sua creazione, cioè da parte degli autori che ne usufruiscono e del pubblico cui si rivolgono. È senza dubbio importante anche per la sua collocazione cronologica la testimonianza della tradizione manoscritta: codici e rubriche sono spesso organizzati in relazione alle differenze di genere fra i testi. È inoltre essenziale che l’innovazione abbia avuto un seguito, degli imitatori, altrimenti essa rimane una sperimentazione isolata e non formalizzata (come è evidente nel caso della sestina nei diversi casi di Arnaut Daniel e Petrarca). Per quanto concerne invece le marche di genere all’interno dei testi, che possono riguardare sia forma che contenuto, gli elementi essenziali sono la loro ricorsività e la puntuale organizzazione, anche laddove siano in gioco pochi tratti riconoscibili. I luoghi più tipici in tal senso sono incipit ed explicit. 14 Per tali riflessioni generali, è particolarmente utile Kelly 2000, pp. 191 segg; lo studioso offre inoltre un’interessante sintesi dei diversi aspetti e contesti secondo cui i trovatori hanno recuperato ed applicato la tradizione retorica. Sulla relazione tra retorica e differenziazione di genere, con particolare riferimento alle prime riflessioni grammaticali per le lingue volgari, si veda anche Dagenais 2000. Altri contributi utili sono in Kelly 2011. 15 Paden 2000, pp 21 segg: canso, tenzone, sirventese, vers, alba, planh, canzone di crociata, pastorella, dansa, descort, enueg, escondich, esdemessa (o sforzo), estampida, estribot, fabla, fablel, lettera, mezzosirventese, plazer, canzone mariana, serena, sestina, vanto e un non precisato “non so cosa sia” (già così in provenzale). 76 perso molto, troppo perché il giudizio sia definitivo. Segue una lunga, lenta fase di decrescita nella stagione più tarda, quando cioè si avvia la decadenza della cultura cortese16. Nell’insieme, il genere che vanta il maggior numero di testimonianze in ambito provenzale è la canzone (40% dei testi), cui seguono il sirventese (21%) e la cobla singola (19%)17; tuttavia, tra i testi più antichi18 – in particolare all’epoca di Marcabru e dei suoi epigoni più fedeli – spicca la produzione di versi civili (politici e morali), mentre la presenza dei generi minori e della cobla in particolare si rafforza solo nel periodo più tardo19. A livello cronologico, dunque, classificazione delle forme espressive e diffusione di quelle meno nobili coincidono, suscitando qualche ulteriore riflessione. Infatti, le varie categorizzazioni, per quanto autorevoli (come quella delle Leys d’amor)20 e basate sull’osservazione dei testi, sono tutte posteriori alla formulazione “classica” della poesia cortese, ed anzi derivano da essa. Ciò significa che i trovatori dell’età d’oro scrivevano sì basandosi su punti di riferimento condivisi, ma al contempo secondo modalità molto più libere ed individuali. Quando invece, accanto e a monte della versificazione viene imposta una concettualizzazione, è favorito lo sviluppo di generi più chiusi, le cui prospettive sono più specifiche e limitate rispetto alle ampie possibilità un tempo garantite da canzone e sirventese21. Tale percezione della poesia 16 Delle probabili cause di tale decadenza e delle ultime manifestazioni della cultura trobadorica si tratterà nel corso del sesto capitolo. 17 La denominazione di tale genere – che si deve probabilmente alle affermazioni di Guilhem Maigret proprio in una cobla esparsa (inizio del Duecento) – è piuttosto ambigua, poiché il medesimo termine indica la stanza di canzone o un componimento autonomo: in tutti i trattati due e trecenteschi si ripropone la medesima polisemia. Da questo termine derivano definizioni quali “cobleiar” e “coblejador”, rispettivamente per indicare composizione e poeta che si specializza in essa. Per tale disamina, si veda Poe 2000. 18 Bisogna però ricordare che le manifestazioni poetiche più antiche non conoscono una distinzione stringente tra canzoni e sirventesi: spesso all’interno dei testi si registrano definizioni molto ampie e generiche, come quella di vers, mentre gli usi e le indicazioni metapoetiche dei singoli autori spesso non si corrispondono. La puntuale distinzione fra canzone e sirventese è di certo posteriore alla metà del XII secolo (Paden 2000). Anche Pickens 2000 ha insistito su tale aspetto, indicando un primo spartiacque negli anni ’70 del XII secolo; appare essenziale la ambigua distinzione tra vers e canso, termine che comincia ad affermarsi con Bernart de Ventadorn e Giraut de Bornelh, ma che solo con Arnaut Daniel diviene davvero univoco. L’epoca dei primi trovatori è particolarmente problematica anche per le riflessioni a posteriori, comprese quelle moderne: infatti, come ha puntualizzato Bec 1992, pp. 87 segg, la quantità dei testi sopravvissuti è insufficiente per identificare gruppi coesi di opere. Lo studioso ha inoltre evidenziato il valore delle dichiarazioni metapoetiche dei trovatori, soprattutto i più antichi: non tanto sul piano del genere, ma come esaltazione delle proprie innovazioni tecniche. Sulla questione di forme e stili si veda Paterson 1975. Successivamente, anche vidas e razos offrono un utile contributo in tal senso, distinguendo tra modalità “antiche” e “moderne” di poetare (benché il criterio non sia sempre ben chiaro). Per la varietà dei termini tecnici in questione e l’evoluzione delle relative definizioni da Guglielmo IX a Jaufré Rudel e da Marcabru a Bernart Marti, si veda in particolare Bec 1992. Al problema delle definizioni tecniche è per certi aspetti congiunto quello delle scelte stilistiche: per un approfondimento sulla diatriba che ne derivò in ambito trobadorico in pieno XII secolo è particolarmente efficace Paterson 1975; sono utili anche Di Girolamo 1983 e Canettieri 1996. 19 Come riporta Poe 2000, la cobla più antica oggi nota si deve a Folchetto da Marsiglia, cui seguono Raimbaut de Vaqueiras e Peire Vidal; tuttavia il primo trovatore a comporne in modo sistematico, accelerandone l’identificazione come genere specifico, è Guilhem de Berguedan. 20 Vale la pena di ricordare anche la Doctrina de conpondre dictats, anonima ma da attribuire con ogni probabilità a Joifré de Foixa; sulla manualistica retorico-grammaticale si tornerà nel sesto capitolo. 21 Al contempo, il trobadorismo tardo, per quanto vincolato da esigenze ed imposizioni moraleggianti o religiose, non perde di vista l’insegnamento dei grandi poeti sul piano dell’elaborazione formale. Si 77 spiega in parte anche il passaggio della cultura cortese – avvenuto nello stesso periodo – dall’ambiente cortigiano a quello accademico, fino alla concezione della letteratura e della laurea poetica in termini universitari nell’ambito del Concistori22. La cobla in particolare dimostra di essere un genere tutt’altro che secondario23 per l’attenzione che i trovatori le hanno garantito in Provenza, Francia e Italia a cavallo tra ‘200 e ‘300; è vero, però, che la considerazione sul piano teorico non è stata altrettanto rilevante. Si tratta in effetti dei componimenti meno elaborati dal punto di vista formale, dedicati quasi esclusivamente a temi comici o occasionali; nella gerarchia della tradizione trobadorica, perciò, vengono persino dopo la tenzone. Tuttavia la quantità di testi tramandati ne evidenzia l’efficacia strutturale ai fini comunicativi e l’apprezzamento dei poeti a livello d’uso. Ne esistono per altro varie tipologie24: le coblas possono essere nuclei isolati e poi interpolati in più ampi componimenti ad esse estranei, oppure possono essere estrapolate da opere più estese e venire diffuse come brani autonomi25; le coblas esparsas sono invece pensate già in origine per essere fruite come testi singoli. Infine, tali brevi componimenti in sé conclusi sono concepiti anche per creare uno scambio dialogico tra due poeti, che si distingue chiaramente da tenzone e partimens (la cui struttura è per altro più coesa ed unitaria) poiché non veicolano una diatriba ben articolata, bensì insulti e facezie reciproche. Le esigenze espressive cui rispondono le coblas sono molteplici e disomogenee – problemi morali, propaganda, divertissements, inviti più o meno occasionali, richieste, rappresentazioni realistiche e così via. Un tratto costante, comunque, si riscontra nella loro maggiore semplicità e, di conseguenza, nella loro maggior accessibilità per poeti di capacità ed aspirazioni diverse. Si spiega a maggior ragione il successo tardo del genere, in un’epoca cioè in cui un fenomeno culturale elitario e aristocratico come la poesia cortigiana si stava ormai diffondendo in ambito borghese. Infine, la flessibilità della cobla la rende uno strumento ideale per provarsi nei generi più diversi, aggirando le regole della canzone “classica”, percepite come troppo rigide, e rispondendo alle esigenze dell’epoca tarda, compresa la curiosità per le tipologie testuali meno consuete ed alte26. 2. Canzoni d’amore Il genere per eccellenza della tradizione cortese è la canzone amorosa. Il metro stesso nasce per esprimere le vicende sentimentali: solo per la canzone d’amore si impone l’obbligo di un’impostazione metrica, ritmica e musicale sempre originale, mentre al sirventese e ai temi civili non spetta che una ripetizione delle combinazioni già usate assiste anzi ad un’estremizzazione e ad un irrigidimento nell’uso esuberante di artifici ed abbellimenti stilistici. 22 Di tali aspetti si tratterà nel corso del sesto capitolo. 23 Sulla questione si è soffermata in particolare Poe 2000, cui si fa ampio riferimento in queste pagine. 24 Esse sono però basate su una categorizzazione moderna, benché derivata dall’osservazione dei testi antichi. 25 I florilegi (di cui si parlerà nel sesto capitolo) derivano da simili operazioni di recupero. 26 Per un’utile riflessione generale sull’opposizione tra generi alti, bassi o “ibridi”, si veda Picone 1979, pp. 73 segg. 78 altrove. È ovvio dunque pensare che Petrarca abbia guardato innanzitutto alla forma più illustre della produzione trobadorica, anche al di là della mediazione italiana e della classificazione dantesca. Ed è significativo che l’esito di tale attenzione non sia soltanto l’imitazione esteriore delle due canzoni arcaizzanti 29 e 206, ma anche l’innovativo recupero di alcune tra le molteplici letture dell’esperienza sentimentale che la canzone amorosa provenzale aveva proposto, dunque sul piano del contenuto. Un primo elemento essenziale nella vicenda amorosa cortese è la polarizzazione dei sentimenti: l’alternanza e talvolta la mescolanza di gioia e dolore. La contraddittorietà dello stato amoroso è uno dei topoi più diffusi e riconoscibili; spesso il poeta dichiara apertamente di vivere in una costante indecisione tra soddisfazione e disperazione. Oppure componimenti in sé coerenti, gioiosi o infelici, si alternano nell’opera complessiva del medesimo autore; infine, un singolo testo può dar conto di entrambe le prospettive, mescolandole o accostandole. Petrarca ha esplorato tutte queste possibilità, benché l’espressione del dolore conosca maggior sviluppo rispetto a quella della beatitudine, cui non sono dedicati componimenti d’ampio respiro, ma solo porzioni di essi o piuttosto metri brevi27. Alla sofferenza, invece, sono consacrate interamente le canzoni 37 e 207, ma sviluppano il medesimo tema anche le sestine focalizzate sull’amore terreno (22, 30, 66, 237, 239); lo stesso vale per le canzoni 23, 29, 50 e 135, per quanto il discorso vi assuma una configurazione molto peculiare ed autonoma28. Una riflessione molto simile può essere proposta per altri due temi forti delle canzoni trobadoriche, spesso nucleo portante di intere liriche: l’elogio alla dama e la dedizione del poeta. Certamente i due temi sono ben testimoniati nel Canzoniere – e soprattutto il primo – ma piuttosto in testi brevi, o all’interno di riflessioni più ampie e quindi in stretta connessione all’espressione del tormento dell’io, che ha sempre una posizione centrale29. Ben cinque canzoni sono inoltre ispirate al problema della lontananza, a partire dal già citato fragmentum 37, e ad esse vanno aggiunti non pochi sonetti; si tratta di una variante tipicamente trobadorica sul tema del lamento amoroso, ancora nell’ambito della grande canzone cortese. Fin qui il recupero petrarchesco appare in sostanza un adattamento dei generi, identificabili in modo preciso, alle logiche complessive della raccolta e alla storia peculiare del suo io lirico. Altri testi e dunque altri momenti di quella vicenda, che a prima vista suonano del tutto originali e tipicamente petrarcheschi, possono a loro volta nascondere un’eco trobadorica, che dev’essere però rintracciata ed evidenziata oltre la trasfigurazione operata dall’autore, ancor più radicale rispetto al consueto. Infatti, alcuni 27 Persino nelle “canzoni degli occhi” la rappresentazione salvifica di Laura e dell’amore per lei non è univoca e non manca il riferimento alle difficoltà del poeta. 28 Ancora diverso è il caso dei lamenti in morte di Laura, in cui il tema essenziale resta la disperazione dell’amante, ma per ragioni e secondo prospettive del tutto differenti, come dimostra talvolta la reinterpretazione dei dolori passati in qualità di gioie e fortune, attraverso il filtro deformato del lutto e del ricordo. Sul genere del planh si tornerà in modo specifico nel corso del presente capitolo. 29 Fa in parte eccezione la canzone 119, in cui l’esercizio dell’elogio muliebre si ripropone due volte: nella rappresentazione della Gloria, che appare a Petrarca in veste di donna bellissima, e nella descrizione di Laura da parte della Gloria stessa, che anticipa al futuro poeta il suo destino di innamorato. 79 spunti del tutto legittimi nel panorama provenzale (feudale), come il cambio della dama o l’abbandono dell’amore (e della sua poesia), in sé e per sé sono impensabili nel Canzoniere; tuttavia Petrarca potrebbe averne tratto ispirazione nel delineare la novità della sua “storia”, in termini profondamente rinnovati. 2.1 La disperazione dell’amante: i fragmenta 207, 270 e 29 La tradizione del canto dolente e d’ampio respiro, frequentissima tra i trovatori30, è recuperata da Petrarca nella sua forma più classica nella canzone 207. Gli elementi convenzionali vi abbondano: l’apostrofe lamentosa e colpevolizzante ad Amore31, la sua rappresentazione come arciere32, le qualità fisiche e morali dell’amata a motivazione dell’attaccamento del poeta33, l’ardore amoroso34, la necessità di celare i sentimenti, ma anche l’incapacità del poeta di rispettare tale imposizione35, le colpe della dama e il fio pagato dall’amante36, il servizio ad Amore37, il nutrimento amoroso38, lo sguardo dell’amata, la morte per amore39, la mancanza di pietà, gli “invidiosi” che possono averla causata40. Quest’ultimo elemento, che rimanda alle malelingue tipiche dei versi provenzali, non è affatto diffuso nel Canzoniere, ma è motivato qui dalla vicinanza a 206, l’escondich in cui il poeta deve difendersi da un’ingiusta accusa rivoltagli dall’amata, evidentemente convinta da voci calunniose41. L’abbondanza dei topoi, il dettaglio sui pettegoli e la connessione con un testo esplicitamente (volutamente) provenzale rafforzano l’impressione che alla base del fragmentum 207 operi una struttura convenzionale. L’appropriazione e la trasformazione della forma tradizionale dipendono in linea generale dal suo inserimento nella vicenda dell’io petrarchesco e nello specifico dalla posizione in cui è collocata la canzone. Infatti, nei suoi tratti essenziali, essa si adatterebbe perfettamente all’apertura della raccolta e all’inizio del percorso emotivo ed 30 Gli esempi sono davvero numerosissimi, troppi anche solo per fare una scelta. Basti pensare che anche per quei poeti che hanno reso famose le intonazioni più dolci e lievi, come Bernart de Ventadorn, l’espressione del dolore è una costante irrinunciabile. 31 “La colpa è vostra, et mio ‘l danno et la pena”, v 78. 32 “Aspett’io pur che scocchi / l’ultimo colpo chi mi diede ‘l primo”, vv 85-86. 33 “Li occhi soavi ond’io soglio aver vita, / de le divine lor alte bellezze / furmi in sul cominciar tanto cortesi”, vv 14-16. 34 “L’anima, poi ch’altrove non à posa, / corre pur a l’angeliche faville; / et io, che son di cera, al foco torno”, vv 30-32. 35 “Or, bench’a me ne pesi, / divento ingiurioso et importuno”, vv 20-21. Su tale immagine convenzionale si tornerà nel prossimo capitolo. 36 “Così di ben amar porto tormento, / et del peccato altrui cheggio perdono”, vv 79-80. 37 “Servo d’Amor, che queste rime leggi”, v 97. 38 “Di mia morte mi pasco, et vivo in fiamme: / stranio cibo, et mirabil salamandra”, vv 40-41. Per la convenzionale immagine alimentare si veda il capitolo successivo. 39 “Ché ben muor chi morendo esce di doglia”, v 91. 40 “Se le man’ di Pietà Invidia m’à chiuse, / fame amorosa, e ‘l non poter, mi scuse”, vv 25-26. 41 Su tali aspetti si tornerà nel presente capitolo in riferimento al genere dell’escondich. Possiamo intanto anticipare il riferimento bibliografico a Berra 2013, utile anche rispetto alla relazione tra 205, 206 e 207. Si noti per altro come la vicinanza ad un componimento esplicitamente provenzaleggiante per metro (si veda il capitolo primo) e per genere (appunto, l’escondich) sia coerente con la percezione dell’influenza occitanica che si coglie in 207. 80 esistenziale, laddove domina nelle sue varie declinazioni l’idea dell’amore non corrisposto. Scelta per essere il fragmentum 207, invece, la canzone si propone al contrario come emblema di una fase avanzata nell’esperienza amorosa: siamo ormai sul finire della sezione “in vita”, il poeta non è più giovane e perciò la consueta pena amorosa è aggravata dall’imbarazzo (per altro topico) di un amore senile: “Non so s’i’ me ne sdegni / che ‘n questa età mi fai divenir ladro / del bel lume leggiadro” (vv 7-9) e ancora “Così avess’io i primi anni / preso lo stil ch’or prender mi bisogna, / ché ‘n giovenil fallir è men vergogna” (vv 11-13). La canzone chiarisce così, e con particolare energia grazie al suo statuto di genere alto, che l’esperienza amorosa è ricaduta nelle sue modalità più deleterie, negando la speranza di un amore sereno, salvifico e produttivo42. 207 insomma sembra negare a distanza la svolta delle “canzoni sorelle” o per lo meno la sua durata, quando recita “or poi che da madonna i’ non impetro / l’usata aita […]” (vv 4-5) oppure “Li occhi soavi ond’io soglio aver vita, / de le divine lor alte bellezze / furmi in sul cominciar tanto cortesi” (vv 14-16), mostrando poi che quell’aiuto è venuto meno43. Osservando le altre canzoni petrarchesche, si ha l’impressione che due testi offrano una sottile connessione con 207. In primo luogo 27044, dove il possibile collegamento è sottolineato anche dalla suggestiva ripetizione numerica relativa alla posizione seriale dei due testi. Tale fragmentum, tra i primi della sezione “in morte”, è innegabilmente un planh: il dolore per cui piange il poeta è ora quello per la dipartita di Laura, riprendendo la solenne elegia di 268 e preludendo al tono che sarà dominante fino alla fine della raccolta. Tuttavia in 270 l’io non si limita a questo, ma propone una sfida ad Amore, giocando sull’esempio di Orfeo ed Euridice45: il poeta può amare solo Laura, dunque 42 Tale interpretazione si basa su una lettura intertestuale d’ampio respiro, ma non intende con ciò dimenticare la connessione ravvicinata con la canzone precedente: sul piano della successione narrativa la motivazione dell’atteggiamento di Laura e quindi del dolore del poeta si coglie in 206 e nella colpa ivi negata. Va inoltre evidenziato che già al momento della sua affermazione, la prospettiva amorosa positiva è contradditoria e limitata: si vedano per tale aspetto soprattutto la lectura in Berra 2010, i contributi in Praloran 20072 e 2013, e l’ipotesi di un “anti-stilnovismo” mascherato proprio nelle “canzoni sorelle”, in Malzacher 2013. 43 La questione delle “canzoni sorelle”, della svolta stilnovistica nel Canzoniere e di una concezione positiva dell’amore è stata e sarà citata più volte, rispettivamente nel corso del primo e del presente capitolo. Ci sarà modo di riprendere e approfondire il problema, anche in relazione alla possibile interpretazione della presenza trobadorica nella raccolta, nel quarto capitolo. Possiamo comunque ribadire alcuni riferimenti bibliografici fondamentali: Bonora 1984, Santagata 1990, Petrini 1993, pp. 83 segg., Praloran 20072, Berra 2010, Praloran 2013, pp. 66-109 e Malzacher 2013, utile anche per la sintesi sui contributi precedenti. Sulla cesura rappresentata dalla canzone 70 si vedano infine Caputo 1987, pp. 119170 e Praloran 2009. 44 Per il commento e una panoramica sulla componente luttuosa nella canzone si vedano Bettarini 1998, pp. 61-83 e il commento introduttivo in Bettarini 2005, pp. 1219-1222. La studiosa si era già dedicata alla canzone e al sonetto che la precede, in riferimento all’intertestualità con la tradizione italiana, in Bettarini 1987. Per la presenza di tali testi o loro porzioni nel “codice degli abbozzi” e la loro graduale composizione si veda invece Paolino 1993. 45 Per il rapporto tra la figura del poeta e la tradizione (soprattutto ovidiana) di Orfeo, si consulti Chines 2010, pp. 32 segg. 81 ella dovrà essere riportata indietro dagli Inferi, se Amore vuole averlo di nuovo in proprio potere. Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo antico, come par che tu mostri, un’altra prova meravigliosa et nova, per domar me, conventi vincer pria. Il mio amato tesoro in terra trova, che m’è nascosto, ond’io son sì mendico, e ‘l cor saggio pudico, ove suol albergar la vita mia; et s’egli è ver che tua potentia sia nel ciel sì grande come si ragiona, et ne l’abisso (perché qui fra noi quel che tu val’ et puoi, credo che ‘l sente ogni gentil persona), ritogli a Morte quel ch’ella n’à tolto, et ripon’ le tue insegne nel bel volto (vv 1-15). Il significato principale del componimento è univoco, l’insistenza sull’unicità di Laura e del sentimento che Petrarca ha provato per lei (“ché ‘l mio volere altrove non s’invesca”, v 58; “Ma poi che Morte è stata sì superba / che spezzò il nodo ond’io temea scampare, / né trovar poi, quantunque gira il mondo, / di che ordischi ‘l secondo”, vv 69-72; “Certo omai non tem’io, / Amor, de la tua man nove ferute; / indarno tendi l’arco, a voito scocchi”, vv 102-104)46. Dal punto di vista della struttura, però, l’esito appare davvero peculiare, tanto che risulta difficile limitare la definizione della canzone al semplice lutto per l’amata. Infatti, l’ipotesi paradossale che Laura risorga dall’Averno comporta l’idea che il poeta torni alle sofferenze amorose, che appunto il dio vorrebbe imporgli di nuovo. A differenza dei vari luoghi nella seconda sezione in cui Petrarca descrive le pene di un tempo (dolci a confronto della sofferenza presente) in termini di ricordo lontano, già vissuto e perduto per sempre, qui si parla di un eventuale e futuro ritorno ad esse. Ne deriva la sensazione che 270 abbia lo statuto particolarissimo di “genere misto”, per contesto lamento funebre, per ispirazione canzone amorosa. E canzone amorosa infelice, non solo perché Laura è morta, e dunque nessun’altro tono poteva essere adeguato in tale fase della raccolta, ma anche perché ciò che Amore può offrire sono pur sempre pene. Un altro collegamento significativo unisce 207 a 29. La famosa Verdi panni non oppone alcun dubbio rispetto alla matrice trobadorica che l’ha ispirata, almeno sul piano formale, per struttura e stile47. Anche qui, come nelle sestine poco distanti, il poeta si 46 La questione è fondamentale e tutt’altro che ovvia: avremo occasione di approfondirla in merito all’interpretazione dell’escondich petrarchesco e alle consuetudini del planh trobadorico nel corso del presente capitolo. 47 Sulle citazioni e i riferimenti della canzone ci si è già soffermati nel corso del primo capitolo. 82 mostra in preda alla passione, stravolto dall’amore, disperato, prono ad atti irragionevoli. Insieme a 2348, 22 e 30, 29 propone, poco oltre l’apertura della raccolta, l’espressione più violenta e più sentita dello strazio amoroso, con una tale complessità formale da comunicare anche sul piano del ritmo e del suono il difficile stato in cui versa il poeta. Verdi panni, però, presenta una peculiarità ulteriore: dopo cinque strofe di inequivocabile strazio, la prospettiva cambia. Amore diviene strumento di rettitudine, Laura viene elogiata, il poeta non ha quindi alcuna intenzione di ribellarsi: “né quella prego che però mi scioglia / ché men son dritte al ciel tutt’altre strade / et non s’aspira al glorioso regno / certo in più salda nave” (vv 39-42). Sul medesimo tono si mantiene tutto il resto della canzone, fino al suggello conclusivo: “Quanto il sol gira, Amor più caro pegno, / donna, di voi non ave” (vv 57-58)49. Ne derivano due considerazioni. In primo luogo, la canzone 29 anticipa una concezione positiva, salvifica dell’amore e dunque si pone in relazione alle “canzoni degli occhi” e alla loro svolta, suggerendo una specifica tendenza nella concezione amorosa. Da qui un possibile parallelo con 207, che descrivendo la fine di una fase idilliaca, sembra rispondere proprio a quella svolta, negandola50. Secondariamente, la canzone 29 risulta organizzata in due porzioni nettamente distinte, a seconda della percezione dell’io, disperato prima, grato poi, proprio a cavallo dei citati versi 39-42. Una struttura molto simile si riscontra nella canzone 71, significativamente la prima delle “canzoni sorelle”. Anche lì è netto ed esplicito il passaggio dalla parte dolente, che può essere ricondotta alle affermazioni di 70 e in generale a tutta la poesia dell’amore giovanile, al momento speranzoso, che intende proporre una concezione consolatoria e positiva dell’amore: “Dolor, perché mi meni / fuor di camin a dir quel ch’i’ non voglio?” (vv 46-47)51. Tale bipartizione è interessante: benché non costituisca un genere vero e proprio, essa identifica comunque una modalità familiare e piuttosto diffusa tra i trovatori. Essa permette infatti di proporre la topica contraddittorietà dell’amore secondo un’argomentazione ordinata52, fornendo magari, come nel caso di Petrarca, una motivazione al netto passaggio tonale, ad esempio attraverso la preghiera alla dama, perché non si offenda delle lamentele espresse in precedenza. Così avviene in 48 Come si è anticipato, anche 23, 50 e 135 esprimono la sofferenza dell’amante; tuttavia le loro peculiarità formali suggeriscono di trattarne in modo indipendente, come si vedrà nel corso del presente capitolo. 49 Brevissimo congedo con apostrofe, quasi dedica alla dama e di tono puramente elogiativo che ricorda molti esempi trobadorici. 50 Se n’è parlato nel corso del presente paragrafo. Tale ruolo salvifico passerà poi al rifiuto di Laura, motivato da intenzioni spirituali e non da disinteresse. Tale prospettiva è simboleggiata in particolare dalla perdurante preoccupazione di Laura per il poeta, che si rivela nelle numerose apparizioni post mortem e culmina nella canzone 359. Tali aspetti saranno approfonditi nel corso del presente capitolo. Sulla concezione di un amore positivo in Petrarca, a confronto con l’amore-virtù dei trovatori e con la concezione dantesca, anticipiamo per ora l’interpretazione in Cherchi 2008, p. 183, che fa riferimento in particolare al problema della volontà, della ragione e della fede. 51 Va almeno citata anche la canzone 125, in cui la prima parte esprime un violentissimo dolore, causato dalla separazione dall’amata (l’avvenimento è suggerito dal sonetto 123), mentre la seconda parte si addolcisce nella rappresentazione bucolica. 52 Non si confonda dunque tale artificio strutturale con la più diffusa commistione e confusione di gioia e dolore. Anche tale soluzione è ben documentata nel Canzoniere, ad esempio nel coeso gruppo di sonetti 167-170. 83 Contr’Amor vau durs et enbroncs di Raimon de Miravall. Bernart de Ventadorn pensa di non avere speranze, per poi accorgersi delle possibilità feconde di cui dispone in A, tantas bonas chansos, mentre in Tant ai mo cor ple de joya il discorso si avvia nel segno della soddisfazione per concludersi nel tormento. Giraut de Bornelh non avverte il bisogno di alcuna mediazione tra le due parti in Amors, e si m clam de vos, esprimendo le proprie ragioni di gioia, subito dopo aver concluso le proprie accuse ad Amore. In Ia m vai revenen lo stacco è ancor più netto, poiché dopo aver rievocato i momenti di gioia, il poeta spiega che il suo amore è addirittura destinato alla fine per la propria incapacità di sopportare i tormenti53. Altri luoghi significativi occorrono in Amar dei di Bernart Marti, Ges en bon vers non posc falhir di Peire Rogier, Arondeta, de ton chantar m’azir di Guilhem de Berguedà e Estat ai gran sazo di Peire Vidal, i cui versi conclusivi sono talmente duri e negativi da far supporre che non si riferiscano alla medesima dama dell’incipit, quanto all’amata di un tempo ormai abbandonata. 2.2 Lontananza Oltre alla crudeltà della dama e di Amore, un motivo topico di sofferenza per il drudo è la lontananza dalla sua amata54. Il modello fondamentale del tema è senza dubbio nell’opera di Jaufré Rudel55, benché i suoi componimenti oggi noti non siano molto numerosi. Il trovatore, infatti, rinnova la rappresentazione del rapporto cortese, per altro in una fase ancora alta della produzione occitanica, immaginando di essersi innamorato senz’aver mai visto la dama, che vive oltremare56. Ne è bastata la fama, tanto straordinarie sono le sue qualità. È un sentimento perdente in partenza, che offre lo spunto ad un corpus particolarmente unitario ed accorato57. I trovatori successivi non dedicano altrettanto spazio al tema58, che però rimane una possibilità significativa ed apprezzata, talvolta soltanto come dettaglio molto localizzato, in altri casi come spunto più ampio che condiziona l’intero componimento. Si riorienta e vivacizza così la dinamica tra gli amanti. Si pensi ad esempio a Conortz, era sai eu be, in cui Bernart de Ventadorn, tornato da un viaggio protrattosi troppo a lungo si vergogna di presentarsi alla dama, poiché ne teme i rimproveri; sulle reazioni dell’amata al ritorno dell’amante è concentrata anche Ges car estius es bels e gens di Peire Vidal. Il lamento per la prolungata separazione si trova poi in Pois preyatz me, 53 Il caso di De chantar è ancora diverso, perché la parte dolente che si contrappone alla gioia amorosa è causata dalla decadenza dei costumi, fornendo dunque un esempio di genere misto, tra morale e sentimento. Di tale consuetudine trobadorica si tratterà nel corso del presente capitolo. 54 Sul tema si sofferma Brunetti 2006. 55 Per una ricognizione ampia e approfondita dei componimenti rudeliani sull’amor de lonh è ancora utile Spitzer 1944. 56 Tale tradizione proviene in parte dall’interpretazione dei testi e in parte dalla vida, secondo la quale il nobile Jaufré si fece crociato per poter incontrare l’amata, si ammalò durante il viaggio e morì tra le braccia dell’adorata contessa, riuscendo per lo meno a vederla, benché un’unica volta. 57 Ben quattro degli otto testi conservati sono dedicati a tale aspetto: Non sap chantar qui so non di, Pro ai del chan essenhadors, Quan lo rius de la fontana, Lanquan li jorn son lonc en mai. 58 Una significativa eccezione si registra in Erransa di Guilhem Augier Novella, che ripropone proprio l’idea dell’amore “per sentito dire”. 84 senhor sempre di Bernart de Ventadorn, No m platz chanz de rossignol di Giraut de Bornelh, Trop ai estat mon Bon Esper no vi di Perdigon, Si cum cel qe sos compaignos di Elias Cairel, Ara voill un sirventes far di Guilhem de Berguedà, Mout avetz fach lonc estatge di Casteloza. In questo caso, un elemento di varietà è garantito dalla voce femminile dell’autrice, che riprende l’amato per la lunga assenza. Infine, Gaucelm Faidit lascia ben quattro canzoni di lontananza, grazie certamente all’ampiezza del suo corpus, ma anche in virtù del suo frequente riferimento alle crociate, che diviene il punto di partenza non solo per numerosi sirventesi, ma anche per rinnovare il canto amoroso59. Nel Canzoniere petrarchesco il tema del viaggio occupa un posto preminente. Sono implicate ben cinque canzoni e numerosi sonetti, disposti in piccoli cicli, dando perciò l’impressione che il poeta stia in effetti narrando di una sua prolungata assenza. Come spesso accade in Petrarca, il rapporto tra realtà e letteratura è ambiguo: l’autore gioca sulle date reali dei suoi viaggi – la visita all’amico Giacomo Colonna a Lombez, il primo viaggio a Roma negli anni Trenta, l’esplorazione verso l’Europa settentrionale attraverso la Germania, il giubileo del 1300 di nuovo a Roma, l’alternanza dei soggiorni avignonesi, valchiusani, italiani. In tal modo egli confonde le acque rispetto alla cronologia della composizione dei diversi testi, nonché in rapporto alla vicenda amoroso-spirituale che si delinea nella raccolta. Il significato del riuso non risiede quindi solo nel recupero di una celebre convenzione trobadorica, la quale è chiaramente alla base del lamento nella canzone 37, ma anche nella possibilità di sfruttare un utile strumento compositivo per il Canzoniere come macrostruttura. Gli spostamenti del poeta, infatti, donano varietà alla successione dei testi e degli stati d’animo, forniscono spunti rinnovati alla rappresentazione interiore dell’io e soprattutto suggeriscono lo scorrere del tempo e delle esperienze, a fronte della fissità del sentimento per Laura. Il tema del viaggio e le sue diverse declinazioni assumono quindi una valenza strutturale importantissima. La distribuzione nella raccolta dei testi coinvolti investe quasi tutta la prima sezione, ad eccezione della zona prossima alla morte di Laura, quando domina il motivo del presentimento. Nella seconda parte, il tema del viaggio perde la sua ragion d’essere poiché la lontananza dall’amata diviene ontologica ed esistenziale, e il pianto che ne deriva si fa costante. Per certi aspetti si può affermare che il planh, che è in effetti un lamento di separazione, sostituisca l’idea dell’allontanamento spaziale e terreno. Il primo viaggio si colloca all’altezza dei fragmenta 15-17; segue la canzone 37, anticipata dal saluto in 36 e seguita dalla rappresentazione del ritorno nel sonetto 39; poi il ciclo interrotto 114, 116-117, quando però il poeta è solo a Valchiusa e quindi la distanza di cui si dispiace non è poi così incolmabile. La partenza successiva si colloca dopo il sonetto 123, quando Petrarca si compiace della tristezza di Laura a fronte del suo commiato. Segue il gruppo delle cinque canzoni 125-129; la lontananza è esplicitata solo in 127 e 129, mentre nelle prime è suggerita dallo spazio naturale e dalla 59 Ab cossirier plaing, Mout m’enojet ogan lo coindetz mes, L’onratz, jauzens sers, Can vei reverdir les jardis. 85 preminenza dell’immaginazione rispetto alla visione; in 128 l’unico indizio è la tematica italiana60. 130 chiude il ciclo, tornando alla misura breve del sonetto, che lo aveva aperto. L’io poetico è di nuovo in viaggio in 176-177 e poco dopo in 180, come suggerisce il riferimento al fiume Po; segue a breve distanza il “ciclo dell’aura” (194, 196-198) che presuppone la lontananza dall’amata, per poter immaginare il vento che proviene dalla sua persona sino al poeta. La separazione è esplicita in 208-209 (e arricchita dall’apostrofe al Rodano) e di nuovo implicita in 226-227, poiché il poeta pensa con desiderio e nostalgia al paese dove si trova Laura. Infine, 242-243. Le canzoni meritano particolare attenzione. 37, lo si è anticipato, è un esempio classico del genere: un lamento con conclusione elogiativa in cui la persistenza del dolore non lascia alcuno spazio di progressione discorsiva. Suona nuovo e tipicamente petrarchesco, però, il problema qui ben evidenziato del tempo che passa, della vita breve che sfugge in modo inesorabile: “Sì è debile il filo a cui s’attene / la gravosa mia vita” (vv 1-2), “Il tempo passa, et l’ore son sì pronte / a fornire il viaggio, / ch’assai spacio non aggio / pur a pensar com’io corro a la morte” (vv 17-20). Tuttavia, la ragione di pensieri tanto cupi è tutt’altro che innovativa: da quando ha lasciato la dama, solo la speranza di rivederla ha tenuto in vita il poeta. Anche 125 si apre con una violenta manifestazione di dolore, resa ancor più energica dalle conseguenze che ne derivano allo stile poetico, un tempo dolce ed ora aspro. Le motivazioni di tale tormento, e dunque il collegamento con il motivo della separazione, sono chiariti però solo dalle connessioni intertestuali, grazie all’annuncio della partenza in 123. Le ultime due stanze cambiano registro, in una rappresentazione idilliaca della natura in cui si situa, nello sviluppo di 126, una triplice apparizione di Laura, passata e futura. Il viaggio è dunque dimenticato nel segno dell’immaginazione; alla separazione e ai suoi dolori si torna, però, subito dopo, con le “dogliose rime” di 127, “Poi che la dispietata mia ventura / m’à dilungato dal maggior mio bene, / noiosa, inexorabile et superba, / Amor col rimembrar sol mi mantene” (vv 15-18). La lontananza stimola ancora la fantasia, benché non si assista più ad apparizioni vere e proprie: è piuttosto il poeta a proiettare con il suo sguardo l’immagine della dama su tutti gli enti naturali che lo circondano. Le premesse sono già in 127 (“[…] i’ non avesse i begli occhi davanti”, v 60), ma lo sviluppo vero e proprio è in 129: “A ciascun passo nasce un penser novo / de la mia donna […]” (vv 17-18), “talor m’arresto, et pur nel primo sasso / disegno co la mente il suo bel viso” (vv 28-29), “et mirar lei, et obliar me stesso” (v 35), “I’ l’ò più volte (or chi fia che mi ‘l creda?) / ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde / veduto viva, et nel tronchon d’un faggio” (vv 40-42). Nella separazione (“quanta aria dal bel viso mi diparte, / che sempre m’è sì presso et sì lontano”, vv 60-61) l’unica consolazione è il pensiero che forse anche Laura si dispiace della sua assenza: “Che sai tu, lasso? Forse in quella parte / or di tua lontananza si sospira; / et in questo penser l’alma respira” (vv 6365). 60 Proprio perciò la critica ha spesso proposto di interpretare l’intero viaggio come dovuto ad una visita in Italia o addirittura al trasferimento di Petrarca nella penisola. 86 Gli elementi fondamentali della rappresentazione appartengono alla tradizione trobadorica, compresa l’ossessione del pensiero e la visione della dama in assenza, attraverso “gli occhi del cuore”. Tuttavia, Petrarca porta il concetto ad una maturazione ben più significativa, da una parte avvalendosi dei precedenti progressi siciliani61, stilnovistici e danteschi, dall’altra in virtù della più profonda analisi dell’io, tipica del Canzoniere. 2.3 Fratture nella vicenda amorosa Nel corpus trobadorico si possono distinguere almeno tre fenomeni che portano all’interruzione della relazione amorosa: rifiuto della dama, “cambio” della dama, rinuncia all’amore. Sono i casi più particolari ed estremi di un amore infelice. È comune che il poeta lamenti un sentimento non ricambiato, l’assenza di speranza, il desiderio di una situazione più serena; in alcuni componimenti, però, tali prospettive si arricchiscono di affermazioni più forti. Nei numerosi testi in cui il sentimento non è reciproco, la dama per lo più evita di concedere il suo favore e in varie occasioni guarda comunque al poeta in modo benevolo, benché non ne condivida i desideri; talvolta invece gli impone con durezza di smettere di amarla, infastidita dal corteggiamento. Ovviamente uno strappo tanto netto è impossibile per il drudo, che continua a languire sempre più disperato: ciò avviene ad esempio ad Aimeric de Peguilhan (Pus ma belha mal’amia), a Raimbaut d’Aurenga (Braiz, chans, quils, critz) e a Peire Guilhem de Cazals (D’una leu chanso ai cor que m’entremeta)62. In altri casi, meno numerosi ma ancor più riconoscibili, è il poeta a comprendere che l’esperienza sentimentale non avrà mai esito e che essa va interrotta. Laddove la colpa sia attribuita all’amata, alla sua durezza e alla sua scortesia, sarà sufficiente trovare una destinataria più degna delle proprie attenzioni; se invece la colpa è nelle logiche d’amore in sé (in Amore, insomma), non c’è soluzione se non la totale rinuncia ad ogni pratica o immaginazione sentimentale. La possibilità di cambiare letteralmente dama è del tutto accettabile in un’ottica cortese e feudale. Quando i patti non sono rispettati da una delle parti, l’altra ha il pieno diritto di scioglierli e, se lo ritiene opportuno, di stringerne altri con un diverso signore. L’esito di tale variante del genere canzone è quindi univoco: dopo aver insultato la dama di un tempo per la sua inadempienza, il poeta passa all’elogio della novella amata, in termini assolutamente identici a quelli che aveva utilizzato in precedenza. A volte la prospettiva è a posteriori, a cambiamento già avvenuto (Peire Vidal, Estat ai gran sazo), ma la 61 A Giacomo da Lentini si deve uno straordinario sviluppo dell’immagine della donna nel cuore e del continuo pensiero rivolto all’amata. Con lo Stil Novo e soprattutto con Cavalcanti e Dante viene approfondita la riflessione sui meccanismi dell’innamoramento e sugli effetti del sentimento sull’io e sulle sue facoltà. 62 I luoghi utili sarebbero molto più numerosi: si propongono qui tre esempi diversi per cronologia e poetica. 87 sostanza è la medesima: si leggano ad esempio Uc de Saint Circ (Be fai granda follor), Raimon de Miravall (Chansoneta farai, vencut)63, Guilhem de la Tor (Quant hom regna vas cellui falsament), il monaco di Montaudon (Aissi cum selh qu’es en mal senhoratge – ma è solo un’ipotesi), Elias Cairel (Abril ni mai non aten de far vers), Raimon Jordan (Quan la neus chai e gibron li verjan), Cercamon (Assatz es or’oimai q’eu chant), Bertran Carbonel (Aisi com sel c’atrob’ en son labor), Marcabru (Lanquan fuelhon li boscatge), Peirol (Camjat ai mon consirier)64 e Sordello (Si co l malaus que no se sap gardar). Bisogna ammettere che nella successione dei testi di ciascun trovatore si crea una certa confusione, soprattutto in assenza di canzonieri in senso stretto, e in particolare per quegli autori che in più di un’occasione propongono un cambiamento di questo tipo, come Gaucelm Faidit65. Un’altra possibile variante si delinea quando il poeta confessa di essere scontento dello scambio e di preferire a conti fatti la precedente relazione66, come capita a Bernart de Ventadorn. In Estat ai com om esperdutz il poeta sembra intenzionato ad abbandonare la dama per un’altra, anche se le dichiarazioni amorose del finale appaiono ancora ambigue a tal proposito; in Can vei la flor, l’erba vert e la folha l’autore esprime il pentimento per aver perso una dama tanto generosa ed incolpa Amore67. Risulta simile la condizione di Aimeric de Peguilhan: l’abbandono della dama in A ley de folh camjador, un ripensamento in Amors, a vos meteussa m clam de vos68. I due momenti sono invece condensati in un unico testo da Peire Raimon de Tolosa, in Si com l’enfas, qu’es alevatz petitz. È peculiare, infine, anche il quadro delineato da Cadenet in S’ieu ar endevenia, in cui il poeta critica la dama e le assicura che non l’amerà più, ma sentendosi vincolato dalle leggi dell’amor cortese le garantisce anche che continuerà a servirla. Una maggiore differenziazione si coglie nelle motivazioni che spingono i diversi poeti all’abbandono dell’amore, una scelta drastica che pochi autori dichiarano di compiere, soprattutto con piglio definitivo. Il caso più ovvio è quello di una scelta ideologica, che si riflette immediatamente nell’opera letteraria: avviene così per Peire Cardenal che, dichiarando la propria libertà dal giogo amoroso (Ar me puesc ieu lauzar d’Amor e Ben teinh per fol e per muzart69), offre un quadro coerente alla sua ricca ed energica produzione di sirventesi. Per lo stesso motivo non stupiscono le affermazioni di 63 Ma un’impostazione simile si legge anche in Chans, quan non es qui l’entenda. Tale esempio è particolarmente interessante perché la legittimità del cambiamento è assicurata dagli insegnamenti generali d’argomento cortese con cui il poeta arricchisce la rappresentazione della sua vicenda personale. 65 Ar es lo montç vermellç e vertç, Si tot noncas res es grazitz, Tant ai sofert longamen grand afan, Gen fora contra l’afan e Al semblan del rei Thyes. 66 Caso simile, legato però alla rinuncia ad amore e non al cambio della dama, si legge in Az ops d’una chanso faire di Cadenet. 67 La medesima evoluzione si riscontra in Anc no s poc far maior anta di Bertran de Born, con approccio più sintetico. Il poeta si congeda dalla dama perché soffre troppo, si dedica dunque alla guerra e alla poesia che le è più consona, per poi tornare all’elogio della dama nel finale. 68 Si intende con ciò suggerire l’impressione derivata dalla lettura complessiva delle opere dei diversi trovatori, e quindi le tendenze e i gusti che ne hanno caratterizzato la produzione. Non andrà invece implicata una diretta connessione fra i due testi, per la quale la tradizione manoscritta non offre prove. 69 A questi due componimenti si può accostare anche S’ieu fos amatz o ames, in cui il poeta immagina una possibile relazione amorosa, la quale risulta in sostanza una parodia del canto cortese. 64 88 Marcabru, che di fatto rifiuta in generale l’amore cortese sul piano morale e quindi poetico, con punte di acredine molto esplicita, come in Ans que l terminis verdei70. Sulla valutazione di simili scelte può influire anche la biografia (letteraria) del trovatore, come per Folchetto da Marsiglia, destinato a prendere i voti e quindi a dedicarsi a ben altra letteratura rispetto a quella amorosa71. È difficile non pensare a tale prospettiva leggendo testi come Si tot me soi a tart aperceubuz e Per Dieu, Amors, ben sabetz veramen, benché l’argomentazione del rifiuto di amore sia tutta basata sulla morale cortese, e non su quella cristiana. Greu feira nuills hom faillenssa è ancor più legata ai canoni sentimentali: in essa, infatti, la ragione del cambiamento sono le sofferenze senza speranza che il drudo ha patito troppo a lungo. È perfettamente coerente con il punto di vista cortese anche la scelta di Lanfranco Cigala in Ges non sui forsaç q’eu chan: la dama è morta e il poeta non amerà mai più, restandole perciò fedele, ma altra gioia e altro canto restano comunque possibili. Nell’anonima Pos vezem que l’ivers irais e in Al dessebrar del pays di Peire d’Alvernha si intuisce che la decisione non sarà definitiva, che il poeta non avrà la forza di una rinuncia totale72, mentre Gui d’Ussel, che affranto abbandona le sofferenze amorose, non può non ricordarne anche le gioie senza eguali in Ja non cugei qu’em desplagues amors. Non suona affatto pentito, invece, Gausbert de Poicibot in Be s cujet venjar Amors, che si sente ormai libero di dire la verità su Amore, dopo essere stato costretto a servirlo. Tre occorrenze, infine, caratterizzano il corpus di Raimbaut de Vaqueiras. Nelle prime due, rispettivamente in Leu pot hom gauch e pretz aver e Ges, si tot ma don’ et Amors, l’amore cortese è sostituito da una visione utilitaristica dei rapporti con il gentil sesso; in No m’agrad’ iverns ni pascors, invece, il poeta si duole di aver perso amore, consapevole che nessuna gioia sarà pari, in particolare quella militare (cui comunque è dedicata la seconda metà del sirventese-canzone, con invito alla crociata). Non sembra da escludere a priori che la lettura del punto di vista provenzale abbia influenzato Petrarca anche rispetto a tali tematiche, per quanto non ci sia dubbio che l’esperienza amorosa del Canzoniere sia focalizzata su un’unica figura femminile73 e che d’altra parte il percorso dell’io poetico sia sempre caratterizzato dall’impossibilità di sfuggire al giogo d’amore, ad eccezione delle liriche conclusive, con la preghiera alla Vergine, e senza alcuna certezza di una riuscita definitiva. Ciò non toglie che Petrarca rifletta sulla possibilità di amare un’altra donna (escludendola) e soprattutto sulla necessità di dedicarsi ad un diverso tipo d’amore, che cancelli la dipendenza da quello 70 Alla produzione dei due celebri moralizzatori possiamo aggiungere anche due canzoni di Gavaudan (Lo vers dech far en tal rima e Ieu no suy pars als autres trobadors), in cui il poeta rinuncia all’amore criticando le donne e le follie che gli uomini compiono per loro. 71 A tali aspetti fa riferimento Picone 1981-83, dedicato però soprattutto al personaggio dantesco del trovatore. 72 Peire d’Alvernha è in realtà piuttosto rapido nella sua decisione, ma è indotto ad un ripensamento dal profondo amore per la sua terra, che non vorrebbe abbandonare. 73 È anzi probabile che a tale scopo Petrarca abbia selezionato e modificato componimenti realizzati in precedenza, in riferimento ad altre figure femminili, ma che per poter entrare nella raccolta dovevano risultare coerenti con l’unica dedicataria dei fragmenta, appunto Laura. Se ne parlerà ulteriormente in merito ai madrigali, nel presente capitolo. 89 terreno, dunque secondo una prospettiva morale. Tali aspetti paiono interessanti nonostante l’effettiva complessità di confrontare gli esiti petrarcheschi con la produzione occitanica: innanzitutto la trasformazione cui il poeta aretino ha sottoposto ogni spunto della tradizione è ancor più marcata del consueto, poiché la visione di fondo espressa nel Canzoniere è a proposito di altri amori e altre donne del tutto divergente da quella occitanica. Inoltre, ed anzi proprio per tali ragioni, è difficile indicare una precisa corrispondenza testuale o un paragone diretto, per cui è necessario spostare il discorso sul piano dei filoni tematici generali della raccolta. La questione più semplice è quella della possibilità di un nuovo amore. Finché Laura è viva, la dedizione del poeta non conosce incertezze, secondo un topos già trobadorico e diffusissimo74. Nemmeno la durezza di lei motiva alcuna tentazione, con atteggiamento tipico dell’amante anche in ambito italiano75, e rinunciando a qualunque ambivalenza, persino quella delle “donne-schermo”. Laura divide le attenzioni dell’amante solo con la Gloria, il desiderio per la quale è nato ben prima e si realizza proprio attraverso il canto dedicato all’amata (canzone 119)76. Quando infine ella muore, il poeta è inconsolabile: le dedica numerosi lamenti (in fondo tutta la seconda sezione del Canzoniere è un lunghissimo planh) e dichiara ad Amore che il suo “dolce giogo” non ha speranza contro la propria desolazione (canzone 270). Eppure il dio non rinuncia ad un ultimo tentativo e nel sonetto 271 Petrarca rischia di cadere di nuovo. Non volendomi Amor perdere anchora, ebbe un altro lacciuol fra l’erba teso, et di nova esca un altro foco acceso, tal ch’a gran pena indi scampato fora. Et se non fosse experientia molta de’ primi affanni, i’ sarei preso et arso, tanto più quanto son men verde legno. Morte m’à liberato un’altra volta, et rotto ‘l nodo, e ‘l foco à spento et sparso: contra la qual non val forza né ‘ngegno (vv 5-14). Per fortuna la morte interviene ancora una volta, forse ora gradita, ad impedire la ricaduta. Il valore del sonetto è strettamente connesso alla struttura unitaria del Canzoniere e al nucleo fondamentale dell’amore per Laura. 271, infatti, esclude in modo definitivo qualsiasi dubbio o tentazione che potesse sviare il poeta dal suo amore monogamo, consolidando la storia dell’io lirico e l’impostazione della raccolta, nonché ponendo le 74 Simili affermazioni sono infatti molto frequenti nel corpus occitanico, a prescindere dalle situazioni descritte in precedenza, che si riferiscono a singoli componimenti di singoli poeti. 75 Si pensi in particolare all’amore di Dante per Beatrice, che infatti resiste alla negazione del saluto e alla prova del gabbo, nonché alla morte dell’amata, pur con la breve parentesi della donna pietosa. Per i Provenzali si è visto quali possibilità di scampo siano accettabili, benché non siano molto diffuse. 76 La medesima dicotomia si nota nelle “catene dorate” del Secretum. 90 basi per la relazione con l’amata in termini memoriali e luttuosi77. La possibilità di un nuovo amore è dunque interamente rifunzionalizzata in vista delle logiche interne alla raccolta. Ciò non toglie che il tema in sé abbia alle spalle una lunga e ricca tradizione. È vero, d’altronde, che la realizzazione petrarchesca è molto concisa e in apparenza limitata. Tuttavia, la forza comunicativa del sonetto risiede anche nella capacità di creare un parallelismo interno al Canzoniere e più precisamente con quella zona in cui ha origine l’intera vicenda. Il possibile nuovo amore, infatti, fornisce l’occasione per riproporre alcuni elementi topici dell’amor carnis: il laccio nell’erba, l’esca, il fuoco. Le strofe centrali richiamano alla mente l’avvio dell’esperienza amorosa e i primi fragmenta, come già l’adiacente canzone 270, dove l’immagine ipotetica di una LauraEuridice, lo si è visto, evoca un nuovo inizio e sovrappone al canto luttuoso i tratti di una canzone amorosa. Ancor più significativo è il riferimento al sonetto 3, in cui Petrarca aveva espresso in tutta la sua gravità l’inizio del servizio d’amore: quando meno se l’aspettava e quando meno era conveniente, mentre tutti pregavano e soffrivano nel “commune dolor” della morte di Cristo. Di nuovo, in 271 Amore appare assai sleale: il poeta è distratto da un’altra morte, meno sacra agli occhi della società ma non a quelli dell’amante78. A proteggerlo, però, interviene la sua esperienza di uomo maturo e già provato dall’eros, e dunque egli non appare altrettanto “disarmato”, senza “sospetto” né “riparo”. Infine, il riferimento in incipit alla dipartita di Laura è funzionale all’insistenza sulla durata – ben ventuno anni – di quell’innamoramento indimenticabile (vv 1-4): come a sottolineare che nessun’altra infatuazione avrebbe comunque potuto eguagliare quel sentimento. Tali connessioni chiariscono ulteriormente l’importanza del sonetto e la sua organicità rispetto alla raccolta. La riflessione sulla possibile influenza delle convenzioni trobadoriche non esaurisce la questione delle fonti e dei modelli a monte del fragmentum 271. Anche nella Vita nova infatti l’amata muore, l’io poetico la piange, ma compare una nuova tentazione amorosa. Ad essa il poeta cede, anche se per poco: e proprio la parentesi della donna pietosa, una volta conclusa, lo porterà ad un salubre pentimento e a nuovi propositi. Tale parentesi coincide con un momentaneo ritorno a forme poetiche che erano state abbandonate, anteriori addirittura alla svolta “della loda”, e per certi aspetti debitrici del retaggio cortese. La donna di 271, però, non equivale davvero alla donna pietosa dantesca: Petrarca non arriva a provare un altro amore, l’unicità di Laura è salva79. Anche rispetto alle soluzioni dantesche, il poeta aretino garantisce la propria autonomia. 77 Bettarini 1998, p. 83 insiste proprio su tale valore del sonetto come cancellazione di qualsivoglia ulteriore possibilità in amore: questo è il vero soggetto del componimento, e non l’occasione (perduta) per un amore diverso. 78 Il parallelismo che così si crea tra la morte di Cristo e quella di Laura è perfettamente coerente con un motivo lirico convenzionale, già molto frequente in ambito trobadorico: la mescolanza di spunti sacri ed elementi profani. Di tali aspetti si tratterà con maggiore ampiezza nel capitolo successivo. 79 La questione di 271 è stata approfondita da Fenzi in Picone 2007, pp. 595-615. Il problema essenziale concerne la valutazione del nuovo incontro: è un’esperienza (letterariamente) reale come quella dantesca, benché sia poi troncata sul nascere (come in sostanza pensa Santagata, citato da Fenzi in Picone 2007) oppure si tratta soltanto dell’esclusione del sentimento dalla vita futura del poeta? Fenzi ritiene che sia inopportuno associare al Canzoniere una seconda figura femminile, anche se solo per pochissimi versi, e 91 L’unico amore che poteva sostituire quello per Laura doveva volgersi a Dio: la soddisfazione dell’io non può venire da alcuna altra figura femminile, com’era stato invece per i trovatori. Eppure, anche in tale scelta divergente rimane l’idea di fondo di sostituire un amore (eros) con un altro (caritas), non tanto in base all’oggetto, ma in relazione alla tipologia del sentimento; l’esito dovrebbe essere un superamento e quindi la conclusione dell’amore per la donna terrena, anche se tale evoluzione arriverà a compimento solo in extremis. In realtà, prima di giungere a tale conclusione l’io poetico sperimenta anche un’altra alternativa: l’evoluzione dell’amore per Laura in senso salvifico e spirituale80. Come si è anticipato, nemmeno la strada suggerita dalle “canzoni degli occhi” è definitiva e soddisfacente; il finale nel segno della Vergine dimostra proprio che l’unica vera svolta possibile era quella dell’amore caritatevole. A sua volta tale percorso spirituale rappresenta un cammino assai arduo, segnato da continue ricadute e inversioni di rotta. I momenti di cesura rispetto alla vicenda amorosa sono numerosi, a partire dal madrigale 5481 e dal sonetto 6282. L’effetto di quest’ultimo testo è rafforzato dalla vicinanza di 60, che rappresenta una diversa interruzione dell’attaccamento sentimentale, non però in chiave spirituale, quanto nella prospettiva del risentimento, che appare in effetti più affine alla dimensione cortese e trobadorica: “Né poeta ne colga mai, né Giove / la privilegi, et al Sol venga in ira, / tal che si secchi ogni sua foglia verde” (vv 12-14)83. La scelta dispositiva di Petrarca appare interessante, perché egli apre la serie dei momenti penitenziali come in sordina, affidandosi cioè a metri privi di solennità. La prima forma lunga che esprime la presa di coscienza sui propri errori è la sestina 80, che costituisce un rovesciamento rispetto al genere, nella sua connotazione erotica e nella concezione cortese, tipiche del suo inventore. È notevole inoltre che con i primi tre testi penitenziali Petrarca costruisca una contrapposizione netta, giocata proprio sugli usi difformi del medesimo metro. 54 segue a breve distanza il madrigale 52, esplicitamente che sia una forzatura immaginare una seconda morte “fisica” subito dopo quella di Laura. Lo snodo essenziale potrebbe risiedere nell’interpretazione di “un’altra volta”. Se inteso alla lettera, si riferisce ad una nuova dipartita, con il valore di “di nuovo”; se invece leggiamo “già in un’altra occasione, in passato [=un’altra volta] la Morte mi ha liberato da amore” risulta superfluo pensare ad un’altra donna. In coerenza con ciò che Petrarca afferma in 270, l’unica possibilità di amare era con Laura. Tale conclusione è in effetti convincente, tuttavia non è necessario cancellare del tutto l’immagine della seconda donna: anzi, tale presenza, in cui si incarna la prospettiva di un nuovo amore, rafforza per contrasto l’insuccesso del cambiamento e quindi il permanere del legame con Laura. L’impressione che ci sia un fondo di concretezza narrativa a sostenere il principio generale (cioè la conclusione di ogni esperienza amorosa) deriva anche dal confronto con i modelli: il genere trobadorico del “cambio della dama”, esempi di trovatori che hanno amato altre donne dopo la morte della prima e così via. 80 Tale aspetto sarà ulteriormente approfondito nel corso del presente capitolo e del successivo, in particolare osservando la duplice influenza dantesco-stilnovistica e topico-cortese. 81 “Vidi assai periglioso il mio viaggio: / et tornai indietro quasi a mezzo ‘l giorno”, vv 9-10. 82 “Miserere del mio non degno affanno; / reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo; / ramenta lor come oggi fusti in croce”, vv 12-14. 83 Il poeta scaglia la sua maledizione all’amata, presentata però sin dal verso incipitario nella veste di lauro; da qui deriva l’impostazione metaforica dell’intero testo. 92 connotato in chiave erotica84; i sonetti 60 e 62 sono posti a stretto contatto con il celebre sonetto delle benedizioni, 61, in cui il poeta dichiara piena adesione e profondo apprezzamento per tutti gli aspetti del legame amoroso. Più in generale il sonetto è da subito il metro tipico della descrizione e del racconto sentimentale nel Canzoniere. Il fragmentum 80, infine, è la prima delle tre sestine palinodiche, che contrastano con l’uso più tradizionale del genere in chiave sensuale, testimoniato dalle prime tre della raccolta (22, 30, 66)85. L’intenzione dell’io poetico di cambiare vita è chiarissima nei tre versi del congedo: “Signor de la mia fine et de la vita, / prima ch’i’ fiacchi il legno tra li scogli / drizza a buon porto l’affannata vela” (vv 37-39). Vanno ancora ricordati i sonetti 86 e 89, cui fa seguito 91, rivolto al fratello in occasione della morte della sua amata e quindi non strettamente legato all’autocoscienza del poeta; infine 99. Si arriva così alla prima canzone penitenziale, 10586, vera e propria rinuncia ad Amore, superamento del limite erotico: essa riserva una nuova sorpresa metrica. È infatti concepita come una frottola87, dunque un genere basso, con ascendenze popolari; benché i versi siano lunghi (due soli settenari su quindici versi a stanza) il ritmo si mantiene vivace per l’uso costante di rime al mezzo. Lo evidenzia anche la brevità delle proposizioni, che individuano una serie di sentenze e proverbi, a loro volta coerenti con l’ispirazione “bassa” della forma. L’inserimento del testo nell’insieme della raccolta ne riorienta il significato in chiave penitenziale, grazie anche alle connessioni intertestuali; tuttavia di per sé il tono ricorda piuttosto le tradizionali rinunce ad amare. Gli ultimi momenti di ripensamento nella prima sezione coincidono di nuovo con due sestine, 142 e 214. La prima in particolare suggerisce due spunti interessanti. In primo luogo si legga il finale, che insiste ossessivamente sulla volontà di progressione: “Altr’amor, altre frondi et altro lume, / altro salir al ciel per altri poggi / cerco, ché n’è ben tempo, et altri rami” (vv 37-39)88. Un altro amore, soprattutto: la tradizione del cambiamento in amore perde la sua specificità per fondersi completamente nella visione 84 Va aggiunto che dopo l’ulteriore cesura di 105, il ritorno alla poetica amorosa è di nuovo contrassegnato da un madrigale (106), che si riconferma metro adatto all’espressione dell’eros. 85 Su tali aspetti ci si soffermerà con particolare attenzione nel paragrafo successivo. 86 Per la struttura, i contenuti e i peculiari riferimenti della canzone 105 si veda Bettarini 2005, pp. 486489, dove si trovano anche utili indicazioni bibliografiche. 87 Sul genere della frottola, la sua tipica libertà formale e contenutistica, la mescolanza di parti dialogate, proverbiali, descrittive e discorsive in terza persona si veda in particolare Russell 1982, pp. 147 segg, che identifica anche molteplici varietà del genere, gnomica (cioè un susseguirsi di affermazioni sentenziose), politica, penitenziale (come confessione personale) e descrittiva (la forma più varia). Il componimento di Petrarca si colloca nel terzo gruppo (p. 148), ma potremmo aggiungere che risente dell’influenza del primo. L’elemento più rappresentativo, comune e definitorio resta però l’impressione del “non-senso”, del procedere spesso incoerente e del tutto libero. È vero però che i testi sono quasi tutti facilmente comprensibili, il che fa pensare che l’effetto di “non-senso” sia in realtà voluto come gioco sull’effettivo piano della comunicazione, come “controsenso”, che però non elimina il messaggio in sé, ma si limita a nasconderlo. Gli esiti possono essere molto diversi: il senso può uscirne infatti amplificato o ridimensionato. 88 Meritano attenzione anche i versi immediatamente precedenti (vv 34-36): “ora la vita breve e ‘l loco e ‘l tempo / mostranmi altro sentier di gire al cielo / et di far frutto, non pur fior’ e frondi.” Vi si legge infatti un significativo ribaltamento dei versi che nella canzone 29 determinano il passaggio stilnovista alla fiducia nella funzione d’amore, di cui si è parlato poco sopra: “ché men son dritte al ciel tutt’altre strade” (v 40). 93 cristiana della crescita interiore. Nella redazione definitiva a tali affermazioni segue immediatamente il ritorno alla fedeltà per Laura, in particolare nel segno dell’anniversario, menzionato nel sonetto 145. Non solo qui, d’altronde, il richiamo alla ricorrenza contribuisce a riaffermare l’incrollabile resistenza dell’amore terreno: già 61 è un sonetto d’anniversario e lo stesso vale per 106, che riporta all’amore per Laura dopo la rinuncia di 105. Nella seconda sezione le cesure vere e proprie sono soltanto due, ma in entrambi i casi si tratta di testi di notevole intensità e dalla collocazione significativa. In primo luogo la canzone 264: è la vera svolta del Canzoniere, le cui due metà sono distinte, a prescindere dalla vulgata che le vuole “in vita” e “in morte”, dal cambiamento interiore dell’io poetico89. I desideri amorosi non sono del tutto dimenticati; anzi, il poeta indica con onestà la lotta interiore che ancora lo tormenta e lascia parlare direttamente proprio quei pensieri che lo sconvolgono. Tuttavia la canzone costituisce un’affermazione di consapevolezza solida ed intensa, e pone le basi per i passaggi successivi. L’ambiguità stessa che permane nello stato del poeta è significativa delle tematiche cui sarà dedicata l’intera seconda sezione, in cui il percorso penitenziale resta incerto e tortuoso. Appaiono speculari la posizione e la funzione di 359: insieme a 360, la canzone chiude l’esperienza sentimentale vera e propria, lasciando agli ultimi componimenti l’avvio della svolta finale (361-362) e la preghiera che suggella la svolta stessa (363-366). Nella conclusione della raccolta – due sonetti a Dio e la celebre canzone alla Vergine – l’aspetto penitenziale è riformulato nei termini di un rapporto più diretto col divino; le due canzoni precedenti appartengono ancora, invece, al lento processo di superamento dell’amore terreno attraverso la propria coscienza. Come già 264, anche 359 vede il poeta in bilico di fronte alla rinuncia dell’eros e di nuovo spinto innanzi dal contrapporsi di differenti punti di vista. Qui però è Laura che invita il poeta alla piena maturazione: i suoi pensieri si sono già dimostrati insufficienti. Da una parte, dunque, la morte dell’amata consente una nuova trasfigurazione dell’esempio stilnovistico e dell’amore che spinge verso l’alto, di certo più efficace della precedente nell’influenzare l’io lirico e le sue prospettive. È vero però che i desideri terreni e la percezione di Laura quale donna a tutti gli effetti non ne sono risultati modificati, tanto che a sette componimenti dalla fine Petrarca deve ancora essere invitato al cambiamento e solo la preghiera può dargli qualche sollievo e speranza90. D’altro canto, vale la pena di ricordare ancora una volta il riuso della tradizione trobadorica: non solo rispetto alla rinuncia di amore, ma anche per la rappresentazione della dama inflessibile che impone di non amare. La funzione morale dell’amata, in verità, è anticipata in tutta la seconda parte del Canzoniere (289, 290, 305, 341, 351, 359) e per certi aspetti annunciata ancor prima della morte (105, 264): l’atteggiamento crudele le era servito a contenere lo sviamento del poeta, anche se a lui solo spetta l’ultimo passo91. Anche in tal senso, 89 Tale scelta determina una significativa differenziazione rispetto alla Vita nova dantesca, in cui la morte di Beatrice non è motivo, ma stimolo fondamentale per la svolta spirituale dell’innamorato. 90 Ancora nel sonetto 362, comunque, l’attaccamento nei confronti di Laura appare radicatissimo. 91 A tale principio possono essere associati gli esempi concreti di punizione subita dal poeta per un comportamento erroneo rispetto alla relazione amorosa: sono proprio i momenti in cui il rifiuto 94 ovviamente, è in gioco un’appropriazione personalissima e approfondita, che consente di intuire le tracce della convenzione cortese (solo) in controluce rispetto alla peculiare e coesa realizzazione petrarchesca. Con 36092 la riflessione sul significato dell’amore si avvia davvero alla conclusione: di nuovo aperta ed insoluta. Qui l’aspetto penitenziale è molto attenuato, con apprezzabile effetto di variatio prima del coeso gruppo finale. Il poeta, che sembra aver interiorizzato le raccomandazioni della canzone precedente, lamenta di fronte al tribunale della Ragione l’ingiustizia di Amore; sulla scena si assommano numerosi elementi tradizionali e cortesi. Le motivazioni che spingono l’amante sono per lo più quelle convenzionali dell’amore infelice, dell’amore passibile di essere rifiutato, insomma, e non legate alla moralità. Amore è senza dubbio il dio arciere già trobadorico ed ancor prima classico, così come la Ragione ha ben poco di cristiano, con il suo sorriso ineffabile che lascia in sospeso la decisione conclusiva, come in fondo avviene in tutto il Canzoniere e parallelamente nel Secretum. Infine, il dialogo sulla natura d’amore, per i contenuti dottrinali e per l’andamento processuale, sembra alludere alla tradizione (tarda) delle Corti d’Amore. Di nuovo si intuisce un sapiente e personale recupero. D’altro canto, oltre al generale raffronto con la visione cortese e trobadorica, è possibile delineare un utile confronto diretto con la canzone Quant Amors trobet partit di Peirol, in cui il poeta tenzona con Amore proprio sul tema del giogo cui è stato a lungo sottomesso, a partire dall’accusa del dio al poeta, riuscito finalmente a liberarsi. Alla fine del percorso lirico, come si vedrà parlando della canzone 36693, la Vergine prende il posto di Laura: “vera beatrice”, viene esaltata attraverso le medesime immagini un tempo dedicate all’amata, che ora è associata a Medusa. È un vero e proprio ribaltamento delle consuetudini e delle logiche che hanno dominato l’intero corso della raccolta. A prescindere dall’effettiva interpretazione di tale riferimento e del pentimento del poeta (definitivo? incerto?) tale passaggio suggerisce un “cambiamento” forte, da un tipo di amore all’altro, da un tipo di donna ad un altro. E certo la complessità dell’evoluzione petrarchesca dà a tale svolta finale un significato fortissimo e nuovo. Tuttavia un antecedente in ambito occitanico appare significativo: già Guiraut Riquier passa dal canto per l’amata Belh Deport alla celebrazione di Maria, sempre attraverso il medesimo senhal. Su tale passaggio il trovatore innesta la bipartizione del suo canzoniere94. dell’amata è stato utile sul piano morale, benché in principio il poeta non l’abbia capito, ed anzi ne abbia sofferto e se ne sia lamentato. Si pensi in particolare alla ballata 11 (Laura viene a conoscenza dei desideri amorosi del poeta e gli sottrae la propria vista) e alla canzone 206 (secondo l’interpretazione per cui il poeta non si scusa di un tradimento, ma di aver espresso desideri eccessivi e perciò indegni). Su tali aspetti si tornerà nel corso del presente capitolo. All’idea del salvifico rifiuto da parte di Laura si associa il tema della castità, che torna in numerosi passi del Canzoniere e in particolare in un vero e proprio ciclo (sonn. 260-265). Tale principio contrasta con la tradizione dell’amor cortese, in cui la castità in senso stretto è in sostanza negata dalla natura adulterina dell’amore cantato in versi. Sulla questione si è soffermato Cherchi 2008, soprattutto alle pp. 108 segg. 92 Per un’analisi della canzone di veda Baldassarri 1989. 93 Nel corso del presente capitolo. 94 Per certi aspetti l’opera di Guiraut Riquier anticipa l’evoluzione del trobadorismo tardo e tolosano, in cui la dama viene per lo più sostituita dalla Vergine. Un “cambio” di dama generalizzato, dunque, che passa attraverso il riuso in toto degli strumenti espressivi cortesi, in chiave allegorica. 95 3. Sestina La peculiarità della sestina e il valore, storico ed espressivo, della sua presenza nel Canzoniere sono ben noti95. La sestina presenta, infatti, una forma chiusa e ripetitiva96, le cui caratteristiche richiedono notevole abilità compositiva per essere applicate con efficacia; in virtù di tali peculiarità, essa ha spesso suscitato l’interesse della critica rispetto alla sua origine e alle modalità della sua invenzione. Petrarca ha recuperato tale forma a partire da due soli antecedenti illustri – Arnaut Daniel e Dante97 – e, riproponendola nove volte nell’arco della sua raccolta, l’ha resa un genere ben definito. Su tali aspetti è dunque opportuno soffermarsi98. I presupposti per l’uso della parola-rima risalgono alle sperimentazioni sulla sonorità di versi e strofe, e sull’uso di ritornelli99, che anticipano la ricorsività invariata delle clausole nella sestina. La novità che la contraddistingue, per la quale va riconosciuto lo specifico contributo di Arnaut Daniel, consiste però non tanto nella clausola in sé, che 95 Per l’importanza qualitativa e quantitativa della sestina nel Canzoniere si veda Vanossi 1980. Per il rapporto con Arnaut Daniel in generale, il primo capitolo. 96 Si tratta di una canzone di sei stanze di sei versi ciascuna, tutti endecasillabi, più un congedo di tre versi. Il sistema rimico prevede la ripetizione non della parte finale della parola, ma del termine stesso. Ogni testo presenta dunque sei parole-rima, una per ogni verso di ciascuna stanza, che tornano una volta in ciascuna strofa (sei volte in totale nel testo). L’ordine della successione è variato secondo un principio preciso: la seconda strofa prende le rime dalla prima, partendo da quella dell’ultimo verso e poi alternando l’ordine dall’alto e dal basso (da 1, 2, 3, 4, 5, 6 a 6, 1, 5, 2, 4, 3). La terza stanza fa lo stesso rispetto alla seconda e così via: ogni strofa presenta perciò una successione diversa delle medesime clausole. Per le caratteristiche, la storia e l’evoluzione della sestina si veda innanzitutto l’ampia e approfondita analisi in Frasca 1992, cui si fa ampio riferimento nella presente introduzione al genere. 97 Per un totale di due soli componimenti, rispettivamente Lo ferm voler e Al poco giorno. Il componimento arnaldiano è stato molto apprezzato dai suoi contemporanei, come dimostrano la sua posizione di rilievo in gran parte dei codici sopravvissuti, all’inizio o alla fine della sezione danielina, e il numero stesso dei testimoni; in tale giudizio devono aver pesato la peculiarità formale e forse la possibilità di interpretare il testo in chiave mariana, almeno in epoca tarda (Pulsoni 1996 e 1998). Restano anche due contrafacta della sestina, poco efficaci e molto artificiosi, nonostante il tentativo di arricchirli di riferimenti contingenti (Guilhem de Saint Gregori e Bertran de Born; i due testi sono analizzati in Frasca 1992, pp. 103 segg). Due esempi di questo tipo non sono però sufficienti a parlare di “genere”, poiché l’imitazione è estremamente pedissequa e destinata a non avere nessuno sviluppo. Lo stesso vale per altri due casi posteriori, l’imitazione iper-retorica di Guilhem Peire de Cazals e la parodia di Fabre d’Uzes. In entrambi i testi, per altro, si nota la tendenza alla normalizzazione metrica che anticipa le soluzioni dantesche. Il prestigio di Arnaut si mantiene nel tempo (come sottolinea in particolare Roncaglia 1981, forse più in riferimento al Medioevo tardo e italiano, che all’ultimo rigoglio trobadorico, che non ha lasciato altri esempi di sestina); tuttavia, a parte Dante, fino a Petrarca tale esempio non viene colto in modo concreto. 98 Non ci si soffermerà in questa sede sulle interpretazioni simboliche della forma sestina e in particolare sulle letture di quella arnaldiana, davvero numerose e varie per impostazione. Per una panoramica degli studi ottocenteschi si veda ad esempio Mari 1899 e per quelli del secolo successivo Battaglia 1964, pp. 33-36. Sulle diverse influenze culturali a monte del genere si legga Gavazzeni 1984. Utili contributi dedicati in modo specifico alla sestina di Arnaut si possono trovare in Picone 1995, Perugi 1996, Canettieri 1996 e Beltrami 1996. 99 Il principio all’origine di simili elaborazioni può essere retorico-decorativo o mistico-patetico; tale fattore ne giustifica la diffusione nella letteratura religiosa, non solo cristiana, in entrambi i casi (Roncaglia 1981, Frasca 1992, pp. 19 segg). 96 era ormai piuttosto diffusa100, ma anche nella modalità con cui ne varia la posizione. L’abbandono di una collocazione fissa, infatti, spezza il ritmo rassicurante e ripetitivo del ritornello. Nella sestina, la variazione è rigidamente regolata secondo la cosiddetta retrogradatio cruciata101. Il meccanismo a sua volta vanta significativi antecedenti, in primo luogo mediolatini e liturgici, e poi occitanici: già solo le Leys d’amor ne indicano cinque possibili configurazioni. Tuttavia in tutti questi esempi la natura morfologica delle rime non presenta ancora alcuna peculiarità102. Tale ricognizione suggerisce che la creazione della sestina non deve essere dipesa da una consapevole e volontaria fondazione di genere, che si deve piuttosto al recupero italiano103 e in particolare all’imposizione modellizzante di Petrarca104: sempre alla ricerca di novità formali, Arnaut Daniel volge verso nuove direzioni le regolari forme della canzone, senza però superare i limiti che la rendono riconoscibile ed utilizzando strumenti eterogenei, ma già propri della tradizione105. 100 Secondo il calcolo di Frank (in Frasca 1992, p.21), ne restano centossessantasei esempi nella sola lingua d’oc. Pulsoni (1996 e 1998) ricorda in particolare le coblas dissolutas di Arnaut de Maruelh, Gaucelm Faidit e Guilhem Ademar. 101 Pulsoni 1998, p. 73 esalta l’importanza della disposizione delle parole-rima “come facce di un dado”. Per un approfondimento di tale aspetto si vedano Billy 1993, dove sono ricordate le diverse posizioni via via espresse dalla critica ed ulteriori indicazioni bibliografiche, oltre che una riflessione sul rapporto tra le varie tipologie di serie rimiche in ambito trobadorico, e Canettieri 1996. Billy e Canettieri propongono due interpretazioni opposte per l’origine del meccanismo: il primo come evoluzione graduale di forme preesistenti, il secondo come frutto della passione per il gioco, il dado e l’azzardo. 102 Si vedano ad esempio Contra l’ivern di Marcabru, Lanquan lo temps di Grimoart o Bel m’es oimais di Guilhem de Saint Ledier. Si vedano per tali aspetti Pulsoni 1998, pp. 73 segg e Picchio Simonelli 1978, che aggiunge il riferimento a Peire Vidal, S’ieu fos es cort. 103 Già a Dante, infatti, va riconosciuta la consapevolezza della novità e delle possibilità della sestina. Nel De vulgari eloquentia, infatti, non la accosta alle canzoni in genere, ma in modo più specifico alle strutture a coblas dissolutas (mentre non identifica un fattore distintivo nella scelta o nella successione delle rime). Dante in effetti parla ancora di “canzone”, ma in fondo la situazione non è dissimile per Petrarca e i suoi contemporanei, benché cominci a diffondersi l’uso del termine “sestina”. Nel codice Vat. Lat. 3195, in una postilla al fragmentum 366, Petrarca assomma canzoni e sestine nel computo finale dei diversi generi, per un totale di trentotto testi. Lo stesso vale per l’indice apposto al medesimo codice, che pure non fu mai controllato dall’autore. Il tratto distintivo è piuttosto nella trascrizione verticale del testo, verso per verso, che evidenzia il meccanismo delle rime e che dunque non è applicata alle canzoni tradizionali. Tale sistema viene recepito per primo da Boccaccio e poi dai manoscritti di fine Trecento, non solo petrarcheschi. La svolta però si deve alle raccolte petrarchesche organizzate per generi, tra cui spicca per antichità il Laurenziano Strozzi 178, in cui le sestine sono considerate a parte (Pulsoni 1996 e 1998). 104 Più che alla definizione del genere, la sestina di Arnaut sembrerebbe appartenere alla sua preistoria (Billy 1993): manca una consapevole fondazione di genere, tanto che la definizione stessa di “sestina” ha valore solo a posteriori. 105 Va ricordato, per altro, che tutta la tradizione occitanica si distingue per la particolare attenzione alla perfezione e all’innovazione formale (Paterson 1975 e Kelly 2011). Su tale aspetto si è soffermato ad esempio Canettieri 1996, che non solo esalta la ricchezza delle soluzioni metrico-formali offerte dal corpus trobadorico, ma anche la corrispondenza tra attenzione espressiva e ideale di miglioramento spirituale connesso all’amore fino. La centralità della forma è infine testimoniata dall’abbondanza dei riferimenti metapoetici nei componimenti lirici, dei trattati dedicati alla materia e alle modalità del canto, oltre che dal costante dialogo e confronto tra gli autori, suggeriti anche dallo sviluppo di generi particolari, come la tenzone o il partimens. Roncaglia 1981 ha inoltre notato che nel caso della sestina (ma anche dei precedenti esperimenti di Raimbaut d’Aurenga) l’elaborazione formale è tale e tanto intensa da richiedere la pagina scritta per una completa fruizione, per quanto tradizionalmente la poesia trobadorica sia pensata per una fruizione orale (e canora). 97 Per quanto concerne la lunghezza della strofa, l’effetto di perfetto equilibrio e di puntuale circolarità poteva essere ottenuto anche con cinque, nove o undici versi (e quindi altrettante stanze). Il sei però è l’unico numero pari tra quelli che potevano essere funzionali, ed è effettivamente la soluzione più bilanciata ed efficace; tuttavia non è detto che il trovatore fosse consapevole di tali aspetti matematici ed è molto più economico considerare una motivazione storico-culturale106. Infatti, la lunghezza tipica della canzone in epoca trobadorica e soprattutto tra fine del XII e inizio del XIII secolo si basa su sei strofe, a loro volta non di rado composte di sei versi107. Si può concludere dunque che la novità della sestina arnaldiana derivi dall’accostamento di due espedienti già noti108: nasce così una struttura poetica del tutto distinta e nuova, basata su un principio duplice e in parte contraddittorio, tra invarianza (parole-rima) e dinamismo (disposizione)109. Anche la fusione dei due artifici, tuttavia, aveva già antecedenti illustri, a partire da Raimbaut d’Aurenga110, con particolare riferimento ad Ar resplan la flors enversa111. Il grande valore del testo risiede nella perfetta integrazione tra elaborazione strutturale e sviluppo del contenuto; la successione delle stanze, infatti, appare più movimentata grazie ad effetti di inversione e opposizione, che ben si accordano ai giochi di negazione e contraddizione che informano la progressione del discorso. D’altro canto le soluzioni espressive che permettono di far cadere la parola-rima nella sede finale sono molto semplici e la ripetizione terminologica coinvolge spesso interi sintagmi. Mancano ancora una 106 Si veda in primo luogo Billy 1993. Per gli aspetti numerologici e aritmetici è utile Gavazzeni 1984, ma già Roncaglia 1981 si era posto il problema del rapporto tra perfezione formale e significati nascosti. 107 Canettieri 1996, opponendosi in parte alle opinioni di Billy 1993, che qui si sono seguite, insiste sulla rarità di tale misura per la stanza trobadorica, soprattutto rispetto alla produzione di Arnaut. 108 Un altro aspetto essenziale all’origine della sestina concerne la capacità di scelta delle parole-rima, che grazie al loro reciproco e calibrato accostamento e alla possibilità di sfruttarne la polisemia devono garantire anche una progressione del discorso, per quanto chiuso ed ossessivo. Tale ricorsività delle immagini, connaturata alla struttura metrica stessa, deriva dal fatto che le clausole devono mantenere sempre la medesima accezione: con polisemia si intenderà piuttosto la ricerca di sfumature diverse tramite l’inserimento in contesti differenti o artifici retorici. Per tali aspetti e soprattutto le individuali concezioni di Arnaut Daniel, Dante e Petrarca si leggano Di Girolamo 1976 e 1981, e Vanossi 1980. 109 Per il rapporto tra circolarità e progressione come connaturato più in generale alla canzone amorosa, si veda Russell 1982, pp. 41-57, benché vi si faccia specifico riferimento alla Scuola siciliana. 110 La produzione di Raimbaut ha goduto di uno straordinario successo. Numerosi sono i suoi epigoni già in epoca trobadorica, ma si può pensare anche agli esiti più preziosistici in ambito siciliano e siculotoscano. Con il cambiamento di gusti ed ideali poetici segnato dallo Stil Novo la tradizione rambaldiana viene abbandonata, mentre viene rivalutato il preziosismo più controllato di Arnaut Daniel. 111 È comunque utile ricordare anche altri componimenti del medesimo trovatore. In primo luogo En aital rimeta, in cui alla tradizionale struttura metrica delle coblas unissonans è sovrapposto un intreccio di consonanze e giochi derivativi tra le rime (di per sé irrelate), quasi a dare l’impressione di una strofa monorima. La struttura di Car vei que clars è molto più semplice: le stanze sono collegate dalla presenza di tre parole-rima, la prima delle quali è fissa al primo verso, mentre le altre due si trovano al terzo e al quinto, alternandosi però rispetto alle due posizioni, e creando così un effetto dinamico. È già un elemento “retrogradato”, tuttavia le parole-rima rimano con altri termini inclusi nelle stanze, che sono di volta in volta diversi e dunque attenuano l’impressione di ricorsività. Tale ordinamento binario è ripetibile all’infinito. Infine, Assaz m’es belh e Aissi mou: mentre l’effetto retrogradato quasi scompare, viene introdotto il principio della crucifixio grazie ai sonori chiasmi che informano l’intero componimento. Per il resto, esso deriva la sua coesione dalla presenza di un’unica rima unissonante che si ripropone in tutto l’arco del testo. Il limite di simili esperimenti risiede nella scarsa percepibilità dei loro artifici, evidenti sulla carta, ma poco chiari all’orecchio, ben più di quanto non avvenga per la sestina. 98 retrogradatio ed una crucifixio vere e proprie; le parole-rima, inoltre, non sono rigorosamente tali, perché sottoposte ad una costante variazione che sostituisce ad una piena ricorsività e all’identità lessicale semplici legami di derivazione. La danielina Lo ferm voler mostra una struttura molto più sobria e lineare, che risponde alle caratteristiche consuete della produzione arnaldiana, rispetto alla quale la sestina è addirittura un’eccezione, per la ricchezza dell’elaborazione. In effetti, per quanto lo stile di Arnaut sia definito ric e clus, l’attenzione agli aspetti formali, la difficoltà del messaggio e l’apprezzamento per gli espedienti retorici non precludono un fermo controllo e persino una certa moderazione nell’impegno112. Da questo punto di vista, la sestina si inserisce pienamente nella visione poetica del trovatore: la misura delle sei strofe è quella più consueta, le torsioni sintattiche imposte dall’uso di parole-rima sono le medesime che derivano dalla costante preferenza per rime inusitate, lo strettissimo rapporto tra densità formale e semantica è tipico del poeta, come d’altro canto la tendenza ad isolare ritmicamente la rima. Tali elementi individuano proprio quelle caratteristiche di indivisibilità della stanza e assenza di consonanza ravvicinata che Dante, nel De vulgari eloquentia, indicherà come definitorie della sestina (mentre trascura parole-rima o loro peculiare dispositio)113. Tali tendenze appaiono dunque tipiche dell’intero corpus danielino, di cui Lo ferm voler è culmine e parte integrante; in ambito italiano, invece, resteranno peculiarità esclusiva della sestina. In quella arnaldiana, per altro, mancano alcune delle costanti poi imposte da Dante e Petrarca, come l’isosillabismo dei versi (il primo in Arnaut è più breve) e la scelta di soli sostantivi come parole-rima (una è un verbo)114. La valutazione critica della sestina di Arnaut si è spesso scontrata con un grave limite: l’insistenza sui suoi aspetti “faticosi”, intesi soltanto come manifestazione di preziosismo e virtuosismo115. Tuttavia, non sembra tale la percezione dei contemporanei del poeta, né quella dei suoi più tardi lettori medievali: non a caso Dante, nel Purgatorio e nel De vulgari eloquentia, identifica Arnaut come miglior poeta provenzale e modello volgare in genere, almeno per quanto concerne la poesia amorosa, sul piano dello stile e dell’intonazione alta116. E in effetti con il Daniel giungono alla piena evoluzione le tendenze tipiche della poetica trobadorica, a partire indubbiamente dalla centralità dell’elaborazione formale. Tale labor limae, inoltre, ben si presta a comunicare il travaglio spirituale dell’innamorato sempre insoddisfatto, alla ricerca di una gioia che sfugge, rincorrendo 112 Come sottolinea Frasca 1992, pp. 63 segg, il preziosismo si coglie principalmente nella “condensazione” e nel “monosillabismo”, oltre che nel gusto per le rime ricercate o caras. 113 Per tale aspetto si vedano anche Picchio Simonelli 1978 e Pulsoni 1998, pp. 65 segg e 77 segg. 114 Tuttavia già in Arnaut prevalgono i sostantivi e soprattutto quelli con accentazione piana. Per gli aspetti retorici ed espressivi della sestina arnaldiana si veda inoltre Hernandez Esteban 1987. 115 Così in fondo ancora Roncaglia 1981, anche se nella consapevolezza dei limiti della critica moderna. Canettieri 1993, p. 20 sottolinea in particolare come l’incomprensione della sestina e della sua origine abbia favorito spiegazioni sempre più complesse sul metro, che si sono via via allontanate dalla realtà della composizione. 116 Battaglia 1964, pp. 27-33 e Frasca 1992, pp. 68-69. Tale prospettiva aveva già rappresentato, comunque, il punto di partenza di Roncaglia 1981, in vista della sua riflessione sui modelli e gli antecedenti che possono aver ispirato la sperimentazione arnaldiana. 99 una dama inafferrabile. I pilastri concettuali dell’amor cortese, dunque, trovano un veicolo eccezionale nell’ermetismo di Arnaut117, il cui culmine si riscontra proprio ne Lo ferm voler118. Nella poesia di Arnaut si coglie però anche una certa tendenza classicistica: la ricerca cioè di rigore, di precisione, di un’espressione esatta e senza sbavature, in cui il messaggio si esprima con estrema puntualità. Alla medesima prospettiva rispondono in fondo anche gli accenti più sensuali119, cui spesso (e così è stato a lungo nella tradizione letteraria italiana) viene attribuita la cifra più tipica del trovatore. L’elemento passionale infatti è funzionale ad una resa al contempo più varia e realistica del sentimento: di nuovo la forma deve seguire e assecondare il contenuto, sempre allo scopo di comunicare gli stati d’animo con la massima pregnanza possibile120. Simili caratteristiche ed intenti possono essere riconosciuti anche nell’opera petrarchesca, in cui l’elaborazione retorica non comporta di necessità un’esasperazione, né è fine a se stessa. E i luoghi in cui giunge al culmine la capacità del poeta di far corrispondere la forma espressiva alla condizione interiore dell’io, nel suo tormento e nella sua contrastata ossessività, sono proprio le sestine. Recuperando (e fissando) l’innovazione arnaldiana, Petrarca definisce, dunque, uno strumento particolarmente efficace per l’espressione della condizione interiore, rinnovandolo in base alla propria peculiare concezione della vicenda amorosa e spirituale121. 117 Battaglia 1964, p. 35 sottolinea anche la più specifica corrispondenza tra ermetismo e topos del silenzio, dell’impossibilità di rivelare i propri sentimenti o di confidarsi con la dama stessa, un altro fondamento della fin’amor. 118 Battaglia 1964, pp. 37-42 e 51-56 propone in tal senso due ulteriori esempi di coerenza tra forma e contenuto tratti dalla produzione arnaldiana: L’aura amara, altro esempio di fissità ed ossessività tanto formale quanto tematica, e Sols sui, in cui invece si trova un esempio del Daniel più sereno nell’animo e più limpido – di conseguenza – nello stile. 119 Battaglia 1964, che analizza il componimento danielino alle pp. 43-50. 120 Sulla densità semantica dei componimenti più limati e ricchi a livello stilistico-retorico si era soffermato anche Roncaglia 1981, proponendo anche il confronto con Raimbaut D’Aurenga, ripreso poi da Frasca 1992, pp. 63 segg. Sulla questione è tornato anche Canettieri 1996, evidenziando la questione della corrispondenza tra stato d’animo e stile, con riferimento soprattutto a Bernart de Ventadorn: ne deriva in particolare il topos della relazione tra stato amoroso ed impegno poetico. In Gaucelm Faidit e Arnaut Daniel si trova invece la metafora dell’accordatura. Canettieri, infine, ha sottolineato come i due generi in cui la corrispondenza tra interiorità e verso diviene definitoria della struttura stessa sono proprio sestina e discorso. In merito al rapporto tra forma e contenuto si leggano anche Hernandez Esteban 1987 e Picone 1995. 121 In Battaglia 1964, pp. 103 segg si trova un’ampia panoramica delle sestine petrarchesche, allo scopo di evidenziarne i tratti stilistici più rappresentativi ed elaborati. Per l’appropriazione petrarchesca della lezione petrosa di Dante, in collaborazione con il trobar clus di matrice danielina, anche al di là delle sole sestine, si vedano, Neri 1951, von Koppenfels 1967, Santagata 1990, pp. 25-78 e Berra 2007. Per l’importanza dell’esempio dantesco soprattutto nella sestina 66 e al contempo per l’esaltazione dell’autonomia petrarchesca, evidenziata proprio dai rilevanti aspetti di convergenza e derivazione, si veda la Lectura Petrarce di Blasucci 1982. 100 Petrarca guarda dunque in modo autonomo e diretto all’antecedente trobadorico122, anche se è opportuno ricordare la mediazione dantesca123. Anche nelle quattro petrose, per altro, appaiono con evidenza l’influenza di Arnaut Daniel, la ricerca di un linguaggio evocativo ed energico, la coerenza della forma con la rappresentazione puntuale dello stato interiore. Già in Dante, come accadrà per Petrarca, l’impostazione testuale deriva dalla volontà di rinnovare il modello: lo si coglie con chiarezza già a livello metrico, nella presenza di parole-rima anche nei versi finali di Io son venuto o nella particolare configurazione della cosiddetta canzone-sestina124. L’uso di parolerima non è più soltanto un artificio metrico: esse hanno acquisito una particolare funzione fonico-concettuale che porta alla piena evoluzione l’artificio provenzale delle rimas caras. Dante introduce inoltre nuovi vincoli e nuove costanti nella sua sestina: il primo verso si allunga, il ritmo si fa più “tragico e sostenuto”, le parole-rima sono scelte per lo più in ambito naturalistico, come accadrà anche in Petrarca. La sintassi è piuttosto complessa, involuta ed “avvolgente”125: d’altra parte lo richiede il carattere chiuso della stanza nella sestina. La vera definizione del genere sestina si deve, comunque, a Petrarca: in tal senso è sufficiente considerare che non si tratta più di un esperimento isolato, visto che nella raccolta ne figurano nove, con scelta numerologica difficilmente trascurabile. Il suo modello diviene ben presto rigido ed univoco, imponendo una sola impostazione possibile del rapporto tra variazione e invarianza. Lo schema si delinea come riproducibile e fisso, cosicché ciascun autore successivo potrà contestualizzarlo a 122 Su tali aspetti si è focalizzata in modo polemico la critica del primo Novecento, con l’intento di esaltare l’indipendenza creativa di Petrarca e della letteratura nostrana rispetto a quella d’oltralpe: si veda il primo capitolo e in particolare Zingarelli 1935, p. 115 segg. Vanno invece evidenziati i richiami espliciti che l’autore inserisce nei suoi componimenti al modello danielino come a quello dantesco: in Giovene donna si trova il primo adynaton di Al poco giorno, mentre Chi è fermato di menar sua vita si apre con una ripresa dell’incipit di Lo ferm voler. In Là ver l’aurora l’influenza trobadorica (ventadoriana, in particolare, oltre che danielina) è particolarmente percepibile, con un culmine nel famoso adynaton che chiude l’ultima strofa e apre il congedo. Sono solo alcuni esempi di un legame ovviamente molto più esteso. Per l’incontro nell’elaborazione petrarchesca dei due modelli arnaldiano e petroso è utile l’analisi in Picchio Simonelli 1978; per il modello dantesco in particolare si veda anche Di Girolamo 1986. Anche il contatto di Dante e del Daniel è stato approfondito con ampiezza; si leggano ad esempio Santangelo 1921, Pulega 1978, Vatteroni 1991. 123 Tale affermazione si deve in particolare a Contini, citato poi da Picchio Simonelli 1978, p. 12; lo evidenzia ad esempio l’adozione della soluzione isosillabica per il primo verso, così appunto in Dante, ma breve (ottonario) in Arnaut. Mi pare però che non sia da escludere in merito il peso delle consuetudini e norme tipiche della produzione italiana già duecentesca, per cui le uniche misure versuali accettabili nella canzone sono endecasillabo e settenario. Per altro, ancora un volta, l’autorità in questione è quella dantesca. 124 Per un commento sulla struttura di Amor tu vedi ben e il suo legame con il meccanismo della sestina, si veda Gavazzeni 1984 (in particolare pp. 64 segg). 125 Frasca 1992, che dedica ben tre capitoli alle sestine petrarchesche, pp. 173-258, e in particolare pp. 311-312, dove lo studioso fa il punto sulla propria analisi. 101 seconda delle proprie esigenze126. Resta qualche variazione solo nella struttura dei congedi127. La rielaborazione petrarchesca comporta anche un’evoluzione stilistica. Cambia la concezione dei legami fonici tra parole-rima rispetto a quella di Dante128; tale connessione è sostituita dall’attenzione, tipica del poeta, per gli effetti di suono nel complesso del componimento, mentre la sede di rima risulta più isolata e dunque più rilevata129. L’intonazione si trasforma notevolmente, soprattutto a confronto con la fase “petrosa” dantesca: nell’insieme la difficoltà è attenuata, per ricondurre il genere in seno al linguaggio più tipico di Petrarca e alla sua armonia, innanzitutto sul piano del lessico e quindi della scelta delle parole-rima. Appaiono coerenti sia i giochi oppositivi, riconducibili ai meccanismi dittologici e binari diffusi nei fragmenta, sia la preminenza di voci tratte dal mondo naturale, che adattano al nuovo quadro poetico una preferenza già dantesca. L’autonomia del poeta e il numero delle sestine favoriscono un “ampliamento del poetabile”130 e quindi delle possibilità del genere stesso: Petrarca è libero di piegare la sestina ai temi e ai problemi del suo io poetico, e quindi al percorso spirituale delineato nel Canzoniere131. L’osservazione delle parole-rima e della loro evoluzione nell’arco delle nove sestine dimostra tale tendenza a far propria la forma metrica132. Ciò che occorre accertare, però, è la funzione assunta dal genere sestina nel Canzoniere petrarchesco e dunque la natura di tale recupero, al di là della sperimentazione formale e dell’ampliamento delle strutture liriche canoniche. È utile in tal senso valutare quali fossero il messaggio e il ruolo comunicativo affidati a quella forma particolare dai modelli letti dal poeta. Osservando nel complesso la produzione di Arnaut Daniel, si nota che la sestina non ha una valenza tematica o una funzione comunicativa peculiare. I motivi che vi sono 126 Ciò non toglie che anche Petrarca offra un’ulteriore sperimentazione nell’ambito di tale genere con la sestina doppia, la cui peculiarità è ancor più rilevata grazie all’isolamento nella seconda sezione del Canzoniere, e in cui sono peculiari anche le scelte di lessico (Frasca 1992, pp. 207-258; ma per l’interpretazione si rimanda anche a Berra 1991). 127 Pulsoni 1995 e 1998; ma il tema era già stato affrontato in Pulega 1978. 128 Tale valutazione dell’elaborazione dantesca si trova ad esempio in Frasca 1992, pp. 123-157; appaiono in gran parte diversi i punti di vista di Hernandez Esteban 1987 e Picchio Simonelli 1978. 129 A questo proposito Hernandez Esteban 1987 ha evidenziato la distanza tra Arnaut e Dante da una parte e Petrarca dall’altra. 130 Tale aspetto è affrontato in Frasca 1992, p. 259 segg, a segnalare come l’evoluzione della sestina petrarchesca rispetto ai suoi modelli sia prima di tutto tematica. 131 Frasca 1992, pp. 207 segg si riferisce in particolare all’alternanza e talvolta alla compresenza di motivi amorosi e penitenziali (soprattutto nella nona sestina, data anche la sua collocazione nella sezione “in morte”, di cui egli fornisce un’analisi più ampia e dettagliata). 132 Hernandez Esteban 1987: la studiosa ha osservato nel dettaglio i cambiamenti lessicali e semantici da una sestina all’altra. La progressione è graduale: all’inizio la scelta lessicale pertiene alla dimensione terrena, poi sono prevalenti immagini astronomiche, cosmiche e atmosferiche, pian piano diviene preminente la condizione umana, rispetto alla quale, però, sono sempre più esaltati aspetti spirituali, atemporali e universali. In alcune sestine petrarchesche, come in 66, la medesima evoluzione può essere avvertita di strofa in strofa, coinvolgendo però anche una certa alternanza tra dimensione oggettiva ed esteriore, e sfera soggettiva e interiore. A questo si lega, di conseguenza, la scelta di rendere centrale di volta in volta l’io poetico o piuttosto l’oggetto d’amore. Infine, e su un piano più generale, il lessico può essere inteso in chiave letterale o figurata, come avviene ad esempio nel fragmentum 80. 102 affrontati sono quelli consueti della poesia arnaldiana e più in generale trobadorica; anzi, le affermazioni sulla propria dedizione all’amata, sull’intensità inusitata del proprio sentimento, sulla gioia e insieme sul timore (tremore) che provengono dalla dama, sulle malelingue o ancora sul desiderio di rivederla appaiono perfettamente convenzionali133. Anche le insistite allusioni sensuali134, che per altro sono passibili di interpretazioni normalizzanti in chiave cortese135, non appaiono incoerenti rispetto agli altri testi danielini sopravvissuti, basti pensare al sirventese erotico-metaforico Puois en Raimons136 o alla più classica canzone Doutz brais e critz137. D’altro canto, benché per lo più secondo modalità meno sfacciate, il desiderio di abbracciare la dama, magari senza vestiti, di notte e in una camera privata è stato espresso da non pochi tra i trovatori. La singolarità del componimento risiede piuttosto nella ricorsività dei medesimi problemi138: è l’esito tipico della sestina, in contrasto con la progressione discorsiva della canzone139. È dunque la struttura in sé che rende peculiare Lo ferm voler, e probabilmente molto più per il lettore tardo (e moderno) che per i contemporanei dell’autore140. Considerazioni molto simili valgono per il caso anteriore di Raimbaut d’Aurenga. Le peculiarità formali di Ar resplan sono per certi aspetti ancor meno evidenti, in seno al corpus del trovatore, rispetto a quelle di Lo ferm voler. Infatti, benché come si è visto l’impegno retorico vi sia molto insistito, la canzone può essere paragonata ad una serie di altri testi in cui la fantasia espressiva dell’autore trova libero sfogo141. Né d’altro canto la struttura è chiusa quanto quella della sestina, provocando sussulti molto meno evidenti sul piano del discorso, che dunque appare meno peculiare alla lettura. A livello 133 “Lo ferm voler qu'e1 cor m'intra / no m pot jes becs escoissendre ni ongla” (vv 1-2); “totz temps serai ab lieis cum carns et ongla» (v 17); “tant fina amors cum cella qu'el cor m'intra / non cuig fos anc en cors, non eis en arma” (vv 27-28); “qu'ill m'es de joi tors e palaitz e cambra” (v 33); “non ai membre no m fremisca ni ongla” (v 10); “de lausengier qui pert per mal dir s'arma” (v 3); “tal paor ai no l sia prop de l'arma” (v 12). 134 “Del cors li fos, non de l'arma, / e cossentis m'a celat dinz sa cambra!” (vv 13-14); “s'a lei plagues, volgr'esser de sa cambra” (v 22); “san Desirat, cui pretz en cambra intra” (v 39). 135 Lo si è anticipato nel primo capitolo; la lettura mariana deve essere stata diffusa già nel periodo tardo e spiegherebbe l’apprezzamento per Arnaut in un ambiente rigido e rigoroso come quello del Concistori del Gai Saber. 136 Si tratta del famoso ed ambiguo componimento dedicato al “corno”, la cui rappresentazione è sempre in bilico tra il piano musicale e quello erotico: “c'al cornar l'agra mestier becs” (v 6); “quel corns es fers, laitz e pelutz / e nul jorn no estai essutz, / et es prions; dins ha palutz” (vv 12-14); “cel que sa boch'al corn condutz” (v 19); “qu' el la cornes en le fonill / entre l'eschina e l penchenill” (vv 40-41). 137 “Lo jorn quez ieu e midonz nos baizem” (v 21); “en la chambra on amdui nos mandem / […] / que l seu bel cors baisan rizen descobra / e que l remir contra l lum de la lampa” (vv 29-32). 138 Con la parziale eccezione del motivo delle figure parentali, che rappresentano un’interferenza nella relazione amorosa non consueta nell’insieme della produzione trobadorica. 139 È interessante però notare che la lettura complessiva del corpus trobadorico, data l’elevata presenza di topoi e problemi convenzionali, suggerisce il medesimo senso di profonda unità, pur nella singolarità di ciascuna realizzazione. 140 La medesima conclusione si può trarre in parte per Eras, pus vey di Peire Guilhem de Cazals, dove però la peculiarità strutturale è molto meno percepibile all’orecchio e l’esito sul piano tematico-discorsivo molto meno vincolante. Anche in tal caso, comunque, il componimento rientra perfettamente negli ambiti tematici tipici del trovatore, rispetto ai quali l’unica discriminante notevole è quella tra canzoni d’impostazione felice (come nel caso di Eras, pus vey) e canzoni dolenti. 141 Tale aspetto è stato anticipato nel presente capitolo. 103 tematico, tali testi sperimentali si dimostrano in sostanza convenzionali, ben inseriti nell’insieme dell’opera rambaldiana e nelle logiche cortesi, con la parziale eccezione di Assaz m’es belh per la forte componente autoelogiativa. Tuttavia, gli ambiti e i problemi cui la canzone fa riferimento sono tutt’altro che inconsueti: orizzonte metapoetico, questioni amorose, scontro con le malelingue, morale cortese. Negli altri testi la visione convenzionale è ancor più marcata, benché ovviamente le singole immagini non siano immediatamente sovrapponibili nel passaggio da testo a testo, così come gli stati d’animo del poeta (di volta in volta più o meno disperato), secondo un’evidente necessità di variazione. Alcuni aspetti, però, colpiscono l’attenzione in modo particolare. Tra i motivi più apprezzati da Raimbaut spiccano il contrasto che i sentimenti amorosi sollevano nell’animo del poeta, sempre indeciso tra tormento e soddisfazione, e ambientazione stagionale, di volta in volta primaverile o invernale142. In alcuni testi, ad esempio Ar vei bru, Car vei que clars143 o En aital rimeta, la rappresentazione naturalistica è affine a quella emotiva (inverno – desolazione, primavera – gioia), in altri opposta, come in Ar resplan e Aissi mou. La tensione interiore complica la rappresentazione della realtà esteriore, in testi giocati per altro sulla contraddittorietà e l’opposizione sul piano espressivo. La corrispondenza tra lavorio sentimentale e complicazione formale non può non colpire il lettore di Petrarca, pensando alla parabola dell’io lirico attraverso i 366 fragmenta e soprattutto in rapporto al significato che le sestine assumono nel Canzoniere, singolarmente e come gruppo di testi. Le nove sestine petrarchesche, infatti, compongono un ciclo coeso, il cui percorso evolutivo, narrativo ed insieme esistenziale riflette nei suoi elementi essenziali la vicenda proposta dalla raccolta nel suo complesso144. Alla rappresentazione delle vicende psicologiche e morali dell’io lirico contribuisce in particolare la possibilità di ripartire i nove testi in tre momenti o fasi: amore terreno (sestine 22, 30 e 66), contrasto tra eros e caritas, urgenza penitenziale e resistenza delle illusioni amorose (sestine 80, 142 e 214), ritorno alla dimensione erotica (sestine 237, 239 e 332)145. A tale ripartizione interna si sovrappone quella generale del Canzoniere in sezione “in vita” e “in morte” di Laura: anche le sestine partecipano della variazione tematico-tonale, per cui 332, che suggella la chiusura del gruppo con il raddoppiamento della struttura, è di 142 Anche tali aspetti sono convenzionali, ma paiono particolarmente congeniali al trovatore d’Aurenga, che insiste sul tema in numerosi componimenti. L’attenzione agli elementi stagionali e naturali si riscontra anche in Arnaut Daniel, e diviene un tratto distintivo (in chiave invernale) delle petrose dantesche (in particolare della sestina) e delle prime tre sestine petrarchesche. 143 Qui però il topos è sottoposto ad un’ulteriore variazione, poiché il sole, che dovrebbe essere parte integrante dello scenario ameno, rischia di distrarre il poeta, minacciandone le intenzioni canore e quindi amorose. 144 Per i concetti di partenza in questa analisi si fa riferimento a Vanossi 1980 (organizzazione del ciclo e rapporto speculare con l’insieme della raccolta). Lo studioso sottolinea anche l’affinità strutturale di metro e raccolta: la circolarità, la chiusura, la progressione del discorso pensata come rinnovamento di elementi fissati e rigorosamente selezionati, con riferimento anche alla struttura calendariale del Canzoniere. 145 All’evoluzione nella rappresentazione dell’io consegue la progressione nella scelta delle parole-rima: Vanossi 1980. 104 fatto un planh, un lamento funebre. È evidente che la sestina petrarchesca va ben al di là dell’ispirazione in sostanza sensuale che le avevano attribuito Arnaut Daniel e in fondo anche Dante146, e che poi nella tradizione ha finito per identificare la materia più tipica del genere. Si può approfondire ulteriormente sulla questione, in primo luogo in merito alla composizione del ciclo. La collocazione delle sestine rispetto alla successione dei fragmenta appare tutt’altro che casuale, soprattutto se si tiene conto della redazione Correggio, come è noto la più curata sul piano delle rispondenze strutturali. Le prime tre sestine, dall’incontrovertibile sostanza erotica, appartengono alla prima metà147 della sezione iniziale, prima di 70 e della (parziale) svolta stilnovistica, mentre 80 è già oltre il crinale. Per altro, sia 66 sia 80 sono proprio a ridosso di tale spartiacque, come a sottolineare un momento di passaggio. 142 svolgeva invece il ruolo essenziale di chiudere la prima parte, introducendo quella mutatio animi che nella configurazione definitiva è spostata in apertura della seconda sezione, ma comunque prima della morte di Laura, segnalando le motivazioni autonome e spirituali della conversione morale dell’io. L’aggiunta successiva di 214 riequilibra perfettamente il conteggio tra i primi due momenti, sensuale e palinodico. L’esperimento della sestina doppia 332 chiude in modo significativo la serie, ma la posizione estremamente ravvicinata di 237 e 239 anticipa il raddoppiamento148. Per altro, 237 segue idealmente da vicino la sestina precedente, poiché tra le due Petrarca non ha inserito alcun altro metro lungo149. La posizione di cinque tra le sestine riserva anche qualche suggestione numerologica. Il legame matematico delle prime tre è evidente (22x3(0)=66), come la corrispondenza numerica tra 142 e 214: sono dettagli esteriori, certo, ma non incoerenti con la mentalità dell’epoca150. Appaiono a maggior ragione interessanti i risultati dell’analisi contenutistica. La sestina 22, testo giovanile per eccellenza, sia nella finzione del Canzoniere sia probabilmente nella realtà cronologica della sua composizione, rappresenta l’omaggio più scoperto all’inventore del genere, nonché all’esempio dantesco. Il tema di fondo è chiaro ed univoco: l’amor carnis travolgente per Laura, le 146 Per tale aspetto si veda ancora Vanossi 1980, in cui si evidenzia come tale trasformazione letteraria comporti anche uno scarto e in fondo un’evoluzione rispetto alla dottrina cortese convenzionale. 147 Si ricordi che la sezione “in vita” doveva originariamente terminare con il fragmentum 142, per cui il gruppo 70-74 segnava esattamente la sua metà. 148 Si noti che il fragmentum 238 non spezza, ma anzi rafforza la connessione, poiché la scena del bacio a Laura introduce il motivo della gelosia, che appare del tutto coerente con la visione erotica espressa dalle due sestine. A sua volta 332 intrattiene uno stretto legame tematico con il componimento che la precede, di nuovo un planh per Laura, focalizzato sui ricordi del passato e delle piacevoli sofferenze amorose, a confronto con il dolore lacerante della perdita. 149 Per una significativa lettura del ciclo, in relazione al componimento conclusivo, si legga la lectura in Berra 1991. Petrini 1993, pp. 115-122 ha interpretato diversamente l’organizzazione interna del ciclo, distinguendo un’introduzione (22), una fase di impietrimento (30, 66, 80), un intermezzo (142), un momento dello strazio (214, 237, 239) e un epilogo (332). 150 Anche il ciclo nel complesso suggerisce un’osservazione numerica: 9 testi che raggiungono il numero sacro, la cui struttura si basa sul 6 – numero altrettanto sacro e per di più laurano –, tra i quali l’ultimo è doppio, suggerendo così una somma finale di 10, cioè il numero mariano su cui si imposta la chiusura della raccolta (canzone 366). 105 sofferenze e i desideri impossibili che turbano il poeta151. Gli strumenti espressivi sono invece molteplici: l’adynaton152, altro elemento che riporta alla tradizione trobadorica e in particolare ad Arnaut Daniel, ma anche alle petrose dantesche, il riferimento al genere provenzale dell’“alba”153, anch’esso fortemente connotato in chiave erotica, la rappresentazione della natura e dei ritmi biologici regolari, che si contrappongono allo stato sconvolto del poeta154. L’aspetto naturalistico, inoltre, assomma fonti differenti: infatti, la tematica stagionale, affine o contrastante allo stato interiore, è tipica della produzione occitanica e torna in chiave invernale nelle petrose, ma al contempo Petrarca risente di influenze classiche (virgiliane), che determinano un’intonazione profondamente rinnovata155. Caratteristiche molto simili tornano nella sestina 66, dove l’elemento naturale dipende dall’esempio dantesco in misura maggiore, per gli inequivocabili tratti invernali156. La contrastività emotiva appare complicata ed esaltata dal personaggio femminile, mentre gli elementi adynatici157 si combinano perfettamente con la triplice immagine di natura, sentimenti del poeta e umanità della dama, nel segno del ghiaccio (e del dolore). Anche in tale componimento, dunque, il peso della tradizione è notevole. Risulta forse più autonoma la sestina 30. Il tema è il medesimo di 22 e 66, così come l’uso caratteristico dell’adynaton158; tuttavia la vicenda amorosa è presentata nel tempo, sia nei suoi aspetti tormentosi sia nell’impossibilità di rinunciare al legame con l’amata, per quanto dannoso. Il poeta, infatti, rievoca il suo passato e guarda ad un futuro che non si prospetta affatto differente159, creando un lieve effetto dinamico che si combina in modo innovativo con la staticità propria del genere. Nel caso di Petrarca, tale fattore temporale assume quattro diverse sfumature: coerenza con gli antecedenti trobadorici, struttura peculiare del Canzoniere, problema morale e prospettiva umanistica. Non è 151 “[…] / non ò mai triegua di sospir’ col sole; / poi quand’io veggio fiammeggiar le stelle / vo lagrimando, e disiando il giorno” (vv 10-12); “et maledico il dì ch’i’ vidi ‘l sole, / che mi fa in vista un huom nudrito in selva” (vv 17-18); “lo mio fermo desir vien da le stelle” (v 24). 152 “[…] e mai non fosse l’alba” (v 33); “Ma io sarò sotterra in secca selva / e ‘l giorno andrà pien di minute stelle / prima ch’a sì dolce alba arrivi il sole (vv 37-39). 153 Già la scelta della parola-rima “alba” è significativa in tal senso. Oltre al già citato verso 33, si ricordi l’anticipazione “[…] e ‘nanzi l’alba / puommi arichir dal tramontar del sole” (vv 29-30). 154 È lo spunto su cui sono costruite le prime tre stanze: espressivo in particolare l’effetto avversativo dell’incipit di verso e strofa “et io” (v 7). Sia su tale contrapposizione che sull’utilizzo di una struttura “a quadri” sia in Petrarca che nella tradizione trobadorica, sia infine sulle immagini naturalistiche si tornerà nel corso del presente capitolo e poi nel successivo, con riferimento alle immagini convenzionali. 155 L’intera sestina è disseminata di tali immagini; ne è rappresentativa la scelta delle parole-rima: terra e selva soprattutto, ma anche l’indicazione dei ritmi del giorno in sole, stelle, alba e giorno. 156 Così la prima strofa, e lo suggeriscono chiaramente le parole-rima nebbia, venti, pioggia e ghiaccio. Nella seconda stanza si ripetono i medesimi concetti, riferiti però parallelamente allo stato interiore del poeta. 157 “Ch’allor fia un dì madonna senza ‘l ghiaccio / dentro, et di for senza l’usata nebbia, / ch’i’ vedrò secco il mare, e’ laghi, e i fiumi” (vv 22-24). 158 “Allor saranno i miei pensieri a riva / che foglia verde non si trovi in lauro; / quando avrò queto il core, asciutti gli occhi, / vedrem ghiacciare il foco, arder la neve” (vv 7-10). 159 “Giovene donna sotto un verde lauro / vidi […]” (vv 1-2); “non ò tanti capelli in queste chiome / quanti vorrei quel giorno attender anni” (vv 11-12); “o colle brune o colle bianche chiome, / seguirò l’ombra di quel dolce lauro / […] / fin che l’ultimo dì chiuda quest’occhi” (vv 15-18); “sempre piangendo andrò per ogni riva” (v 33). 106 raro infatti che i trovatori si lamentino di lunghissime attese e del protrarsi di un’infruttuosa passione; d’altro canto, il computo del tempo che passa assume talvolta una valenza più specifica, laddove il poeta descriva un vero e proprio anniversario. Tale possibilità diventa un’abitudine ben riconoscibile nel Canzoniere, la cui progressione è scandita notoriamente dal passare del tempo e da date precise (esplicite o ricostruibili). La sestina 30 propone appunto il primo di tali anniversari e quindi la questione temporale vi assume una valenza ben specifica160. Infine, in tutta l’opera petrarchesca è centrale il motivo del tempo che passa, della brevità della vita, delle scelte che si fanno sempre più urgenti161: un’ansia per certi aspetti già umanistica, anche se nel Canzoniere veicola soprattutto la consapevolezza del tempo sprecato ad inseguire i beni terreni e quindi l’urgenza di guardare a Dio. I medesimi elementi topici e convenzionali che nelle prime tre sestine tratteggiano la vicenda amorosa tornano con valenza palinodica nelle tre successive. Il poeta infatti riflette sui propri errori, riproponendone così la rappresentazione, cercando di motivarsi al cambiamento spirituale. La successione dei tre testi è significativa, poiché man mano la spinta morale e penitenziale è sempre più intensa162; in tal senso non conta tanto la preminenza quantitativa del tema penitenziale rispetto a quello amoroso, quanto piuttosto il modo in cui è presentato l’atteggiamento del poeta. Infatti, benché 80 insista a lungo sulla gravità dell’errore, sulla rinnovata coscienza dell’io e sul cammino da intraprendere, la conclusione riconferma le “catene” terrene cui non è ancora del tutto possibile rinunciare. 142, invece, insiste principalmente sul percorso amoroso del poeta, dapprima dolente e poi salvifico163; tuttavia, quell’esperienza appare conclusa e sostituita da una prospettiva spirituale nuova, serena e solida. Negli ultimi versi la ripetizione quasi ossessiva del concetto di alterità identifica l’esigenza di un’evoluzione, lascia intravedere qualche speranza di successo (poi disattesa) e crea un significativo effetto contrastante rispetto alla chiusura tipica della sestina. La struttura, per sua natura 160 “Che s’al contar non erro, oggi à sett’anni / che sospirando vo di riva in riva” (vv 28-29). Su questo anniversario particolare e sulla sua collocazione sarà opportuno tornare con maggiore approfondimento in seguito; possiamo però anticipare che diversi tra i trovatori avevano già proposto un’indicazione di simili anniversari, talvolta proprio quello dei sette anni (Gaucelm Faidit, monaco di Montaudon, Cadenet). Sul tema dell’anniversario e dello scorrere del tempo in generale si tornerà nuovamente in seguito. 161 “Ma perché vola il tempo et fuggon gli anni, / sì ch’a la morte in un punto s’arriva” (vv 13-14). Nel caso della sestina, la decisione che si prende a fronte di tale consapevolezza non è certo penitenziale, ma anzi ispirata alla rinuncia dell’autoconservazione in vista di un’incrollabile fedeltà alla dama e all’amore, topoi cortesi ed amorosi di lunghissimo corso. 162 Sestina 80: “però sarrebbe da ritrarsi in porto / mentre al governo anchor crede la vela” (vv 5-6); “chiuso gran tempo in questo cieco legno / errai […]” (vv 13-14); “poi piacque a lui che mi produsse in vita / chiamarme tanto indietro da li scogli / ch’almen da lunge m’apparisse il porto” (vv16-18); “Signor de la mia fine e de la vita, / prima ch’i’ fiacchi il legno tra li scogli / drizza a buon porto l’affannata vela” (vv 37-39). Sestina 142: “ora la vita breve e ‘l loco e ‘l tempo / mostranmi altro sentier di gire al cielo / et di far frutto, non pur fior’ e frondi. / Altr’amor, altre frondi et altro lume, / altro salir al ciel per altri poggi / cerco, ché n’è ben tempo, et altri rami” (vv 34-39). Sestina 214: “Ma Tu, Signor, ch’ài di pietate il pregio, / porgimi la man dextra in questo bosco: / vinca ‘l Tuo sol le mie tenebre nove. / Guarda ‘l mio stato, […] / rendimi, s’esser pò, libera et sciolta / l’errante mia consorte; et fia Tuo ‘l pregio, / s’anchor Teco la trovo in miglior parte” (vv 28-36). 163 In chiave stilnovistica, mettendo cioè a frutto la parziale svolta dei fragmenta 70-74, completamente ignorata in 80. 107 ricorsiva, nel finale si apre alla possibilità del diverso. 214, infine, mette a frutto la conclusione di 142, che non a caso – lo ribadiamo – incarnava in origine il momento fondamentale della svolta, poi associato a 264. Come già in 80, in 214 il discorso si avvia sulla consapevolezza della colpa, ancor più esacerbata ed autocritica, ed anzi venata dalla coscienza di non essere in grado di liberarsi delle tendenze amorose con quell’immediatezza che si era auspicata in precedenza (142). D’altro canto, le stanze conclusive anticipano la soluzione che sarà poi definitiva (365-366), nel segno della preghiera e della fiducia in una forza superiore, pietosa e comprensiva. Tuttavia, un lungo cammino si frappone ancora tra l’io e quella destinazione. 237164 e 239, affini per tematiche come per posizione, tornano infatti alla chiusura, alla contraddittorietà dei sentimenti, all’ossessione adynatica165 per Laura166. Il senso di una sofferenza senza scampo si riconferma poi nella sestina doppia: in 332167, però, i pianti per l’amata scostante, all’origine appunto di 237 e 239 (come di 22, 30 e 66), appaiono in retrospettiva un paradiso perduto168, a confronto con l’inconsolabile dolore del lutto169. Il riuso della sestina permette dunque a Petrarca di costruire un ciclo interno e parallelo al Canzoniere stesso, evidenziandone le tappe fondamentali: amore, tentativo di cambiare, ricaduta, morte dell’amata. Nel complesso, le nove sestine suggeriscono tre diverse tattiche nella reinterpretazione del genere. Dapprima, e poi nel riproporsi dell’amore eros, la prospettiva è affine a quella tradizionale; in seguito domina un approccio di ribaltamento speculare e critico, a partire dalle medesime immagini (riuso penitenziale); infine, quegli stessi motivi amorosi e dolenti servono a spostare il desiderio erotico dal presente al passato, rinnovando ulteriormente l’espressione 164 Albonico 2009 propone per 237 un’interpretazione più articolata, evidenziando sia la relazione con 22 sia quella con 332. La sestina dunque identificherebbe un momento di passaggio, di mediazione, in cui si fa strada quasi un presentimento della morte, interrotto poi da 239 che compie un passo indietro, in coerenza per altro con la posizione ancora “alta” dei due componimenti. 237 potrebbe anche intrattenere qualche relazione con 126, per la medesima idea di pietà, che si chiede a Laura in prospettiva, cioè per i tempi che seguiranno la morte del poeta. Per certi aspetti, tali posizioni sono state anticipate dalla breve analisi sulla sestina in Petrini 1993, p. 119. 165 Sestina 237: “Ben fia, prima ch’i’ posi, il mar senz’onde, / et la sua luce avrà ‘l sol da la luna, / e i fior’ d’april morranno in ogni piaggia” (vv 16-18); “e ‘l dì si stesse e ‘l sol sempre ne l’onde” (v 36). Sestina 239: “Ma pria fia ‘l verno la stagion de’ fiori, / ch’amor fiorisca in quella nobil alma” (vv 10-11); “et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori” (vv 36-37). 166 Sestina 237: “quant’à ‘l mio cor pensier’ ciascuna sera” (v 6); “Di dì in dì spero omai l’ultima sera / che scevri in me dal vivo terren l’onde” (vv 7-8); “ché tanti affanni uom mai sotto la luna / non sofferse quant’io […]” (vv 10-11); “Io non ebbi già mai tranquilla notte, / ma sospirando andai matino e sera” (vv 13-14); “Consumando mi vo di piaggia in piaggia / el dì pensoso, poi piango la notte” (vv 19-20). Sestina 239: “Quante lagrime, lasso, et quanti versi / ò già sparti al mio tempo, e ‘n quante note / ò riprovato humiliar quell’alma!” (vv 13-15). 167 Sulla particolare natura di questo componimento, la sua peculiarità anche semantica e la sua funzione rispetto alla serie delle sestine si veda Berra 1991. 168 “Mia benigna fortuna e ‘l viver lieto, / i chiari giorni et le tranquille notti / e i soavi sospiri e ‘l dolce stile” (vv 1-3); “Già mi fu col desir sì dolce il pianto, / che condia di dolcezza ogni agro stile” (19-20); “con dolor rimembrando il tempo lieto” (v 27); “Nesun visse già mai più di me lieto” (v 37)”; “[…] piacer mi facea i sospiri e ‘l pianto” (v 45). 169 “Odiar vita mi fanno, et bramar morte” (v 6); “Crudele, acerba, inexorabil Morte, / cagion mi dài di mai non esser lieto, / ma di menar tutta mia vita in pianto, / e i giorni oscuri et le dogliose notti” (vv 710); “Or non parl’io, né penso, altro che pianto” (v 18); “Non à ‘l regno d’Amor sì vario stile, / ch’è tanto or tristo quanto mai fu lieto” (vv 35-36); “et doppiando ‘l dolor, doppia lo stile” (v 39); “prego che ‘l pianto mio finisca Morte” (v 75). 108 tormentata dell’io (riuso elegiaco-luttuoso). La serie delle sestine si chiude in realtà in anticipo rispetto alla raccolta. Il Canzoniere infatti prosegue oltre l’elaborazione della perdita, verso il momento più forte di riflessione penitenziale, rivolto a Dio e soprattutto alla Vergine: nessuna sestina compie tale passaggio. Si trattava forse di un genere troppo compromesso sul piano amoroso, sensuale e terreno, che poteva sì veicolare una temporanea palinodia, ma non un impulso più forte. Per la preghiera finale, la sestina lascia il passo alla canzone, come d’altronde la canzone 264 aveva sostituito la sestina 142 nella rappresentazione della mutatio animi, al centro ideale della vicenda esistenziale dell’io lirico. 3.1 “Adynata” Il termine adynaton indica la rappresentazione, più o meno sintetica, di una situazione impossibile: un fenomeno che si scontra con la consuetudine, la logica, le regole del mondo naturale e sociale. Tali impossibilia sono diffusi in letteratura laddove l’autore intenda rendere la disperazione, l’assenza di prospettive, un’impasse dolorosa ed ineluttabile; è evidente perciò che si tratta di un uso retorico destinato a grande successo e diffusione nella poesia amorosa. L’efficacia di tali strategie espressive si lega d’altronde, su un piano più ampio ed articolato, al topos del “mondo alla rovescia”, in base al quale il principio della rottura delle regole naturali si estende in narrazioni più ricche e complesse170. Tale schema di pensiero si coglie appieno a confronto con il suo opposto, a sua volta oggetto di una concettualizzazione convenzionale: l’ideale del mondo ordinato secondo natura, dunque perfetto e necessario171. Non solo il meccanismo ragionativo è il medesimo, ma lo è anche l’approccio espressivo, basato per lo più su una progressione elencatoria172. L’interpretazione letteraria e retorica dell’adynaton è antica e diffusa173, mentre la sua definizione è tarda e tuttora problematica. Come ha sottolineato Cherchi174, le proposte in tal senso sono molto varie, rispetto sia ai riferimenti concettuali di partenza, sia alle caratteristiche sintattiche che si registrano come più tipiche degli impossibilia. In primo luogo è necessaria una struttura comparativa, in cui un termine di confronto sia riconosciuto come impossibile, cioè come alterazione di una legge o di una costante naturale. Tuttavia il principio del contrasto con l’ordine normale è piuttosto una tendenza che un reale vincolo: le singole realizzazioni, e quindi la concezione cui si rifanno, appaiono spesso del tutto autonome. Sarà dunque più semplice ed utile distinguere due filoni principali. Da una parte, può essere delineata una situazione impossibile in natura, un “mondo alla rovescia”, dal confronto col quale il secondo termine di paragone acquista maggiore energia; dall’altra 170 Per il topos del mondo alla rovescia si veda anche Huchet 1991, pp. 177-179. Tale immagine risale al topos già classico dell’età dell’oro. 172 Per tali riflessioni generali si veda ad esempio Spaggiari 1985. 173 La sopravvivenza delle forme espressive adynatiche in diverse fasi storiche e culturali è particolarmente significativa: Cherchi 1971 ha sottolineato come gli impossibilia godano di costanti arricchimenti e reinvenzioni che ne hanno salvaguardato l’efficacia comunicativa. 174 Cherchi 1971. 171 109 è descritta un’azione impossibile, nella quale ci si impegna comunque, ma con la consapevolezza che non sarà possibile portarla a compimento. Per spiegare l’origine e le caratteristiche dell’uso medievale (trobadorico e petrarchesco) di tali strumenti retorici, è utile partire dall’analisi dei modelli classici che ne identificarono i caratteri principali175. La frequente cadenza proverbiale favorisce l’ipotesi di un’origine popolare; è certo però che tale possibile ascendenza è stata presto dimenticata nel segno di un’evoluzione colta. Le fonti greche mostrano che le immagini adynatiche più antiche sono sempre associate alla sfera religiosa, all’espressione di profonde speranze o forti convinzioni: solo in seguito si passa ad affermazioni letterarie176. Non a caso sono spesso presenti nei medesimi passi anche giuramenti, che implicano la garanzia divina; d’altro canto le stesse leggi di natura sono sottoposte alla vigilanza degli Olimpi. A tale tradizione antica rimandano anche alcuni aspetti del mito dell’età dell’oro, poiché in quell’era ideale erano possibili fenomeni che in epoca storica risultano inimmaginabili, contrari alle attuali leggi di natura, come l’amicizia tra animali che ora sono prede gli uni degli altri. Tali aspetti di peculiare paradossalità si riscontrano soprattutto in Omero, Esiodo ed Esopo, ma hanno esiti importanti ed autonomi in vari altri autori177. Tra i primi adynata veri e propri va ricordato quello dei fiumi che scorrono all’indietro verso la fonte, proposto da Euripide e ripreso in ambito latino da Ovidio178. Vanno poi ricordate le prime rappresentazioni del “paese di cuccagna” cui si ispira la descrizione dell’Ade e dei Campi Elisi; d’altra parte vari filosofi, come Platone, delineano articolate utopie, identificando ideali condizioni di vita, lontane nello spazio, ma non nel tempo, e dunque non completamente impossibili da realizzare. Con Aristofane, invece, l’adynaton acquisisce anche una vena di ironia, di provocatoria comicità: il rovesciamento non coinvolge più soltanto la natura, ma anche gli orizzonti divino e sociale (ad esempio, il rapporto tra padri e figli). Il riferimento alla vita della comunità è in realtà sempre sottinteso nelle soluzioni adynatiche, che implicano il riferimento ad un ordine costituito, poi stravolto. Al di là delle narrazioni più ampie ed articolate, già il mondo greco conosce succinte affermazioni sentenziose ispirate in fondo all’idea del mondo alla rovescia: è tipico il loro uso in associazione a perifrasi e iperboli. Tuttavia la critica ha sottolineato come la 175 Si fa qui riferimento in particolare a Chocchiara 1981, che dedica a tale aspetto ampia attenzione. Cherchi 1971 sottolinea anche la novità proposta da Ovidio con il suo uso più vario e frequente. Proprio il suo esempio va considerato all’origine della diffusione dell’adynaton in età imperiale, come avviene d’altronde anche per altri strumenti retorici sino ad allora poco apprezzati e sempre basati su effetti di contrasto (ossimori e paradossi). 176 Cocchiara 1981 sottolinea in proposito che si tratta del medesimo meccanismo verificatosi per il mito. 177 Cocchiara 1981, pp. 70 segg cita numerosi esempi: Archiloco (scambio tra animali marini e montani – considerato possibile in seguito ad un’eclissi), Erodoto (scambio tra i medesimi animali – a segnalare gli effetti nefasti della tirannide, ferro che galleggia) il quale spesso predilige un’impressione paradossale anche rispetto ai popoli straordinari di cui racconta, Teognide (la corruzione del presente rassomiglia al sovvertimento delle leggi naturali), Pindaro, Sofocle ed Euripide, poeti alessandrini (con le significative assenze di Callimaco e Arato), Apollonio Rodio (i suoi adynata sono argomentazioni per assurdo), Teocrito (i rapporti tra animali e piante sono del tutto ribaltati), Filippo di Tessalonica (che accosta alle più ovvie immagini astronomiche e marine l’associazione impossibile tra vivi e morti). 178 Spaggiari 1982 sottolinea anche l’ampliamento e l’arricchimento proposti da Ovidio rispetto al modello greco, grazie all’accumulo di diverse immagini autonome. 110 configurazione dell’adynaton sia per lo più ben distinguibile da quella di iperboli, paragoni e perifrasi, perché, anche nelle espressioni più sintetiche, presenta una complessità molto maggiore. Inoltre, anche nei passi meno estesi, l’adynaton riesce a evocare una specifica concezione dell’universo – illogica e rovesciata. Gli autori latini, al di là della sensibilità individuale179, riprendono le tendenze degli antecedenti greci. In età imperiale le immagini “impossibili” e più in generale contrastive conoscono una diffusione sempre maggiore, anche grazie all’apprezzamento nelle scuole di retorica. Quintiliano si lamenta di veri e propri abusi, senza per altro ottenere significativi risultati180. In età tardoantica, al perdurante esempio dell’eredità classica, si aggiungono gli usi retorici cristiani, che sviluppano il gusto adynatico delle Sacre Scritture, compresi l’Antico Testamento, i testi dei profeti, l’Apocalisse e l’innografia mariana181. La letteratura cristiana, dunque, incrementa ulteriormente il gusto per l’intonazione paradossale; i miracoli e gli articoli di fede danno nuovo valore e solida legittimazione ai giochi comunicativi, accettandone e perciò salvandone anche la tradizione classica. Tali antecedenti, numerosi e molteplici182, hanno ampio esito in età medievale, quando l’immagine del “mondo alla rovescia” conosce il suo culmine narrativo e le rappresentazioni più ricche ed articolate, forse favorite dalla percezione della profonda sperequazione sociale. Tuttavia, i letterati dell’Età di mezzo non recuperano tutte le immagini “impossibili” della classicità: alcuni topoi, ad esempio, derivano da usi adynatici, ma ne vedono attenuata la carica paradossale, in relazione alla più forte caratterizzazione convenzionale183. Per Cocchiara184 tali fenomeni sono forse da collegare all’ignoranza di scriventi e fruitori, che avrebbero mal compreso le reali intenzioni degli autori classici. La Rinascenza carolingia ha successivamente favorito un’ulteriore fioritura dell’adynaton, anche nell’ambiente della scuola, con la fondamentale intenzione di fondere l’insegnamento cristiano e l’eredità classica. Tra XI e XII secolo l’immagine del “mondo alla rovescia” è stata recuperata anche negli 179 Nevio (la locusta partorisce un elefante), Plauto (caccia nel mare e pesca in aria, acqua che sgorga dalla pietra, morti che tornano in terra), Terenzio (i morti apparenti divengono uno strumento essenziale nella struttura delle sue opere), Lucrezio (con piglio scientifico, riflette sulle possibili conseguenze di eventi impossibili), Virgilio (per la prima volta sono accostati elemento mitologico e dimensione storica: tale duplicità rispecchia sia la natura profetica dell’Eneide, sia l’attenzione al presente in cui il poeta vive, se non altro con intenti celebrativi), Orazio (adynata frequentissimi e per lo più ispirati all’immaginazione di cataclismi ed eventi tragici che coinvolgono tutta la terra), Properzio, Ovidio (con una ricchezza tale da garantirne un’importanza ineguagliata quale serbatoio di immagini e spunti per tutto il Medioevo; per altro il corpus ovidiano rappresenta al contempo una summa della tradizione anteriore ed un suo significativo rinnovamento), Seneca (il suo uso è tra quelli più retorici e convenzionali), Giovenale, Marziale, Silio Italico (Cocchiara 1981, pp. 80 segg). 180 Cherchi 1971. 181 Significativo esempio in tal senso si legge nello stesso Petrarca, nella canzone alla Vergine, costruita in parte su immagini tratte dalla lirica amorosa e in parte sui paradossi consueti dell’innografia mariana. Basti la lettura dei vv 27-28 della canzone 366: “Vergine pura, d’ogni parte intera, / del tuo parto gentil figliuola et madre”. Per simili occorrenze in epoca tardoantica, e soprattutto in Claudiano, si veda di nuovo Cherchi 1971, p. 225. 182 Spaggiari 1982 sottolinea però soprattutto il ruolo di Virgilio. 183 Un esempio particolarmente rappresentativo è quello del puer senex (Cocchiara 1981, p. 106). 184 Cocchiara 1981, pp. 105-106. 111 ambienti monastici, dove appariva utile per spiegare la scelta di abbandonare il secolo, il contemptus mundi e in genere le critiche moralistiche sempre più sentite e diffuse185. A questo quadro possono essere ricondotte le prime esperienze poetiche trobadoriche che fanno uso dell’adynaton, e in particolare quelle di Marcabru. In generale l’amore fino e la cultura cortese trovano il loro fondamento in principi di carattere paradossale, che giustificano l’esaltazione degli elementi meno logici ed immediati alla comprensione186. Il caso particolare di Marcabru si inserisce pienamente in tale contesto, ma al contempo si rivela singolare ed autonomo, in perfetto accordo con la sua consueta lettura morale intransigente della realtà aristocratica: le corti sono infatti presentate come esempio lampante di etica ribaltata187. D’altro canto, egli non può che accettare le regole imposte dal mondo socio-culturale cui appartiene ed è quindi in ultima analisi la sua prospettiva ad apparire rovesciata ed isolata: per la prima volta, l’io poetico ammette che il suo impegno non può avere esito, è esso stesso “impossibile”, benché la tematica non sia ancora amorosa188. I seguaci del trovatore (Bernart Marti, Gavaudan…) non esprimeranno posizioni altrettanto forti e nette: l’adynaton nella loro produzione è una semplice cifra stilistica. Come tale esso sarà recuperato ed adattato a nuove prospettive liriche anche dagli avversari di Marcabru e della sua ideologia, cioè dai fautori dell’amor cortese, come Peire d’Alvernha. Tuttavia, anche questo uso regolarizzato e convenzionale continua a contraddistinguere per lo più sirventesi dalle intenzioni moraleggianti; la vera svolta, con la piena appropriazione dell’adynaton da parte della lirica amorosa, si deve a Raimbaut d’Aurenga189. L’efficacia della sua innovazione si coglie nella perfetta coerenza tra l’adynaton e i fondamenti stessi dell’amore. Si pensi infatti al motivo della follia amorosa, topos radicatissimo tra i trovatori, destinato a lasciare una fiorente eredità in ambito italiano: una follia “positiva”, come la definisce Cherchi190, perché volta alla ricerca della gioia e alla fuga dalla malinconia191. Tuttavia per un trovatore e amante cortese, invaghito di una donna sposata ed irraggiungibile, la sofferenza è una costante imprescindibile. Si delinea così una prospettiva contraddittoria e impossibile, da cui derivano azioni e comportamenti altrettanto assurdi, cui si applica con efficacia una vera e propria poetica adynatica192. In 185 Cherchi 1971 cita l’esempio significativo di Alano di Lilla, le cui rappresentazioni morali e cristiane ricordano alcuni tratti della fin’amor. 186 Un’utile e sintetica analisi degli aspetti paradossali nell’ideologia cortese si trova in Mölk 1996. 187 “No n sai que faire, / tant fort sui entrepres, / q’entorn l’araire / si fant vilan cortes, / e il just pechaire / de so q’en lor non es / si m’aiut fes, / tals mil en auzetz braire / c’anc res no n fo”, Marcabru, XXXII, vv 19-27. 188 “E s’ieu chuich anar chastian / la lor follia, ieu qier mon dan, / pois s’es pauc prezat si m n’azir; / semenan vau mos chastiers / de sobre naturaus rochiers, / c’u no n vei granar ni florir”, Marcabru, XLI, vv 25-30. 189 Ciò non toglie che anch’egli scriva sirventesi e componimenti moralistici in cui gli impossibilia trovano ampio spazio. 190 Cherchi 1971. 191 Potremmo per altro aggiungere che le stesse leggi di Amore appaiono assurde e illogiche a chi non ne sia fedele. 192 Per Cherchi 1971, la realizzazione più piena di tale principio si riscontra in Ar resplan la flors enversa, in cui il contesto tipico dell’immaginazione amorosa (cioè quello primaverile) è del tutto rovesciato nel senso del gelo invernale; un secondo ribaltamento si deve alla prospettiva individuale dell’io poetico, per il quale tutto in quel mondo gelato e inospitale è contrassegnato dalla gioia. 112 tal modo Raimbaut porta al suo pieno sviluppo il contributo di Bernart de Ventadorn, che per primo aveva cantato la follia in amore e i suoi effetti. L’adynaton diviene a questo punto una delle forme di ornatus più caratteristica del trobar ric, ma la preoccupazione espressiva che lo connota non è incompatibile nemmeno con lo stile leu: lo stesso Giraut de Bornelh, che rifiuta – a parte qualche esperimento – il trobar clus, recupera la lezione di Raimbaut d’Aurenga e con il suo prestigio modellizzante partecipa alla fondazione di una rinnovata tradizione poetica193. È sempre più convenzionale il motivo della ragione che cerca di contrastare le tendenze più folli, descritte appunto in molti luoghi attraverso impossibilia ed immagini adynatiche, a fronte di tendenze irrazionali che non possono mai essere del tutto messe a tacere. La forza di tali moduli stilistici si ripropone nel corpus di Peire Vidal, che ancora una volta non può sfuggire alla follia insita nell’esperienza amorosa, ma che al contempo rilegge quegli aspetti assurdi secondo un’ottica gioiosa. I suoi adynata sono tanto numerosi da apparire talvolta veri elenchi dal sapore virtuosistico; il trovatore inoltre ne rinnova la concezione di fondo, affermando in alcuni casi che essi hanno trovato realizzazione, a sancire un quadro di piena soddisfazione194. L’inaequalis pensatio – il pensiero folle, irrazionale – e le inanes operae – azioni inutili o irrealizzabili – che ne derivano sono poi frequentissime nella poesia di Arnaut Daniel195 (benché a volte ironiche), tanto da esserne diventate strumento espressivo per antonomasia. Il gioco paradossale è connaturato alla sua poetica e la quantità di occorrenze lo testimonia196. Secondo Cherchi197, tale preminenza degli accenti paradossali, che in effetti si riconoscono sia nella prevalente intonazione sofferta, sia nei pochi passi gioiosi (in cui gli adynata divengono realizzati e soddisfatti, come in Peire Vidal), motiva una diffusa impressione di staticità, di perfezione compositiva e pienezza emotiva fissate una volta per tutte. È evidente che per Arnaut Daniel l’elaborazione della forma trova precisa corrispondenza nella concezione poetica198, e le soluzioni espressive veicolano significati ben precisi. Non si può dire altrettanto per i numerosi epigoni ed imitatori del trovatore, la cui insistenza sull’ornatus (e quindi sull’adynaton) diviene spesso puro esercizio di stile o generica rappresentazione della propria follia amorosa. 193 Ma anche l’ideologia poetica di Marcabru non gli è del tutto estranea, come dimostra la canzone 75, in cui è descritta la decadenza della società in forma di rovesciamento delle norme consuete. 194 Cocchiara 1981, pp. 114 segg pensa che all’origine di tale concezione siano esempi classici, che in effetti non rappresentano un orizzonte noto solo a Petrarca. 195 Cocchiara 1981, p. 115 pensa in particolare ai tratti di oscurità e difficoltà che la contraddistinguono e che egli definisce “conquista della parola”. 196 Si possono ricordare con Cocchiara 1981, pp. 115-118 alcuni esempi caratteristici: il cuculo che pare colomba (canzone IV), la lepre cacciata col bue (X), il vento raccolto (X), l’oro più vile del ferro (XIV). 197 Cherchi 1971. 198 Su questo aspetto ci si è già soffermati in merito alla sestina. 113 Si ricordino in particolare Elias Cairel, Guilhem Maigret, Raimon de Miraval199, Daude de Pradas200 e Aimeric de Peguilhan201. Nella fase tarda del trobadorismo, si torna poi a formulazioni semplici e meno personali degli impossibilia, con l’immediata correlazione tra due elementi, di cui uno in contrasto con le leggi della natura e della consuetudine. La sintassi offre un indizio immediato di simili usi meno innovativi: gli adynata infatti non sono più riferiti alla prima persona singolare, come aveva invece imposto l’inserimento di tali formule in ambito lirico. Soluzioni in sostanza banali e generiche si riscontrano ad esempio in Guilhem de Cabestanh, Gausbert de Poicibot, Guilhem Peire de Cazals, Raimon Jordan, il monaco de Montaudon, Perdigon e Guiraut Riquier. Finora si è fatto riferimento a formulazioni più o meno estese ed ambiziose. Tuttavia è più consueto che l’impressione di impossibilità sia comunicata con un singolo vocabolo, dunque in modo più diretto, ma anche più sintetico e generico. Cherchi202 offre qualche esempio di tale tendenza, come “faidia”203 o il sintagma “esperansa bretona” per indicare un’attesa senza esito, o ancora “obra d’aragna”204. Gli ultimi due casi sono particolarmente interessanti. Il riferimento ai Bretoni che attendono invano il ritorno di re Artù è utile in primo luogo per la sua diffusione, ma soprattutto per la centralità in ambito amoroso del tema della speranza, e della speranza vana in particolare, che interessa anche il Canzoniere, benché in termini differenti205. E tals cuia far mantenen / qes a speransa bretona (Giraut de Bornelh, LXXVII, vv 29-30) Si l plai, que ab lieys no m fos / l’esperansa dels Bretos! (Gaucelm Faidit, II, vv 39-40) E la musa del Breto (Peire Vidal, V, v 18) Esperar e muzar / me fai coma Breto (Peire Vidal, XX, vv 61-62) Et esperansa bretona / fai de senhor escuder (Bernart de Ventadorn, XXIII, vv 38-39) Mas sai dizon, senher, qu’atendemen / fai de Breto, per que s mou grans rancura (Guilhem de Montanhagol, XIV, vv 42-43) Que no l fassa semblar de Breto (Guilhem de Berguedà, XXVIII, v 38). 199 L’occorrenza citata da Cherchi 1971, p. 237 è davvero peculiare: “Combat ab quier de cera / bastimens de peira dura” (Ged. 1112, 3). 200 “De mon malayp conosc, en ver, / c’a fer freg i bati e martelh”, XI; si cita da Cherchi 1971, p. 237 poiché i versi, che costituiscono un congedo apocrifo ed alternativo, non sono accolti nell’edizione Shepard-Chambers, qui utilizzata. 201 Anche Cocchiara 1981, pp. 116-117, come si è visto in Cherchi 1971, propone una netta contrapposizione rispetto ai trovatori in cui l’immagine impossibile è solo un decoro, uno spunto artistico e virtuosistico, che lo studioso definisce “esterno”: per quanto i risultati effettivi oscillino tra luogo comune ed invenzione apprezzabile, manca un significativo collegamento tra il singolo concetto e il tessuto poetico più profondo. Lo studioso ricorda, ad esempio, il riferimento ai Guasconi in Juan d’Albusson, il volo degli asini in Guglielmo di Tudela o la polvere contro vento di Daude de Pradas. La medesima distinzione nell’approccio dei diversi autori si coglie in relazione alla letteratura anticofrancese: Chrètien de Troyes è stato, ad esempio, un modello essenziale nell’uso profondo ed elaborato dell’adynaton, recuperando anche il lascito dei classici. 202 Cherchi 1971. 203 Folchetto da Marsiglia, XI. È un ulteriore soluzione retorica per proporre il tema della follia, dell’illusione, della paradossalità amorosa. 204 Per tale immagine si veda Cherchi 2003. Per i paragoni con i ragni si veda anche Scarpati 2008, p. 119. 205 Per tale aspetto si veda Cherchi 2006, che cita anche il topos della speranza bretone. 114 L’immagine del ragno torna invece esplicitamente in Petrarca: Poi trovandol di dolce et d’amar pieno, / quant’al mondo si tesse, opra d’aragna / vede […] (Canz. 173, vv 5-7) Fag ai l’obra de l’aranha (Peire Vidal, V, v 17). Un altro approccio ben documentato è quello iperbolico: l’esagerazione assume qui una sfumatura peculiare, benché la struttura sintattica preveda sempre i consueti parallelismi e corrispondenze. L’elemento di impossibilità viene per lo più dal riferimento a grandi personaggi del passato o della letteratura (biblica, mitologica, classica). Si noti che tale approccio, che suona più attenuato, è caratteristico soprattutto del trobar leu. In conclusione, può essere vantaggiosa una categorizzazione delle formulazioni adynatiche206. In primo luogo non va dimenticato che ciascun autore o anche il singolo testo possono proporre un atteggiamento diverso, a seconda che sia posto l’accento sulla critica moraleggiante verso un mondo che pare sconvolto e rovesciato, sull’impossibile realizzazione della propria soddisfazione amorosa207, sulla gioia raggiunta (adynata realizzati), sulla vita folle e irrazionale propria dell’amante (inanes operae). Inoltre, sono varie le tendenze strutturali riconoscibili: formule proverbiali (magari influenzate dalla tradizione classica)208, sintesi attraverso un semplice vocabolo, paragoni con la tradizione. Petrarca riscopre l’efficacia retorica dell’adynaton raccogliendo la suggestione di tradizioni diverse: da una parte quella classica, già nota ma ora affrontata con piglio rinnovato209, dall’altra quella italiana – soprattutto dantesca210 –, e quella trobadorica, con particolare riferimento ad Arnaut Daniel: basti pensare alla celebre immagine della caccia impossibile, reiterata e rielaborata in ben due luoghi del Canzoniere211. Tuttavia, la concezione amorosa petrarchesca appare ancor più disperata rispetto a quella dei suoi modelli, poiché non concepisce situazioni impossibili divenute reali e dunque 206 Si veda Cherchi 1971. In questi casi è tipica la struttura forse più riconoscibile per gli impossibilia: “prima che…, accadrà che…”, con cui sono posti in correlazione il desiderio del poeta e le condizioni impossibili naturali o contestuali che pure ne sono più probabili e realistiche. 208 La formulazione proverbiale è particolarmente tipica del trobar clus: in tali componimenti è particolarmente diffuso il gusto per la sentenza, per la regola, che definisce il termine da superare nella propria ricerca di miglioramento e difficoltà. Inoltre il proverbio comporta un fattore di preziosità, poiché favorisce un processo di mitizzazione e “fissazione”. 209 Cocchiara 1981, pp. 119-120 lo definisce “umanismo retorico” con particolare riferimento ai fragmenta 57 e 80. 210 Tra gli antecedenti italiani di Petrarca, Cocchiara 1981, p. 119 cita Cielo d’Alcamo (rompere il mare, seminare il vento, accumulare tutte le ricchezze del mondo), Dante (in particolare, l’immagine dei fiumi che tornano alla fonte) e Cecco Angiolieri (è più facile far prendere un falchetto ad una gru). È molto significativa, perché coerente con le linee generali della loro poetica, l’assenza dei Siciliani e degli stilnovisti. Infatti, Cielo d’Alcamo è autore peculiare nel contesto della Scuola, spesso associato alla dimensione più giocosa e addirittura popolare, sebbene in chiave consapevole e letterariamente elaborata. Simile discorso vale anche per Cecco Angiolieri. Per quanto concerne Dante, si tratta della produzione petrosa e non di quella stilnovista. Meno prevedibile, forse, lo scarso successo dell’adynaton presso i guittoniani. 211 Dell’immagine, della sua origine e del legame tra Petrarca e Arnaut Daniel in merito si è già trattato nel corso del primo capitolo. 207 115 soddisfatte212. Petrarca ha poi il merito di aver tramandato tali strumenti espressivi alla tradizione quattro e cinquecentesca, garantendo perciò la sopravvivenza in età rinascimentale sia dei modelli classici che di quelli provenzali. Le due prospettive tematiche più rilevanti sono quelle della crudeltà della dama e della fedeltà dell’amante; a livello formale si mantiene la dicotomia tra soluzioni sintattiche estese ed elaborate (di cui Pace non trovo è modello imitatissimo) ed altre sintetiche e dirette213. La presenza degli adynata nel Canzoniere non è molto estesa a livello quantitativo; tuttavia, la loro importanza si coglie pienamente analizzando le nove sestine. Infatti, ben cinque di esse sono caratterizzate da almeno un’immagine impossibile (22, 30, 66, 237, 239) a fronte di due soli sonetti (57, 195) e di una canzone (127) che presentino una struttura equivalente, secondo la segnalazione di Cherchi, cui si può aggiungere ancora qualche luogo interessante. Sol una nocte, et mai non fosse l’alba (Canz. 22, v 33) E ‘l giorno andrà pien di minute stelle / prima ch’a sì dolce alba arrivi il sole (Canz. 22, vv 38-39) Allor saranno i miei pensier’ a riva / che foglia verde non si trovi in lauro; / quando avrò queto il core, asciutti gli occhi, / vedrem ghiacciare il foco, arder la neve (Canz. 30, vv 710) Se mai foco per foco non si spense, / né fiume fu già mai secco per pioggia214 (Canz. 48, vv 1-2) Lasso, le nevi fien tepide et nigre, / e ‘l mar senz’onda, et per l’alpe ogni pesce, / et corcherassi il sol là oltre ond’esce / d’un medesimo fonte Eufrate et Tigre (Canz. 57, vv 5-8) Ch’i’ vedrò secco il mare, e’ laghi, e i fiumi (Canz. 66, v 24) Prima poria per tempo venir meno / un’imagine salda di diamante (Canz. 108, vv 5-6) Ad una ad una annoverar le stelle, / e ‘n picciol vetro chiuder tutte l’acque (Canz. 127, vv 85-86) Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido (Canz. 134, v 9) Che farian gire i monti et stare i fiumi (Canz. 156, v 8) Senz’acqua il mare et senza stelle il cielo / fia inanzi ch’io non sempre tema et brami (Canz. 195, vv 5-6) D’un bel chiaro polito et vivo ghiaccio / move la fiamma che m’incende et strugge (Canz. 202, vv 1-2) Beato in sogno et di languir contento, / d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura estiva, / nuoto per mar che non à fondo o riva, / solco onde, e ‘n rena fondo, et scrivo in vento (Canz. 212, vv 1-4) Et non so che nelli occhi, che ‘n un punto / pò far chiara la notte, oscuro il giorno215 (Canz. 215, vv 12-13) 212 In merito Cocchiara 1981, p. 120 parla di “fatalità invalicabile” e pensa soprattutto al fragmentum 237. Fucilla 1936. 214 In questo caso gli adynata sono negati, riaffermando la validità delle leggi naturali, come vedremo nel caso della Medea senechiana. 215 L’immagine è topica, ma risente direttamente di Bernart de Ventadorn, III, vv 36-37 (Santagata 1996, p. 923) 213 116 Ben fia, prima ch’i’ posi, il mar senz’onde, / et la sua luce avrà ‘l sol da la luna, / e i fior’ d’april morranno in ogni piaggia (sest. 237, vv 16-18) Et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori (Canz. 239, vv 36-37) Con refrigerio in mezzo ‘l foco vissi (Canz. 313, v 2). Se osserviamo in particolare le citazioni tratte dalle sestine, la coerenza tra uso stilistico e genere metrico appare in effetti stringente: non solo per l’uso significativo che dell’adynaton aveva fatto Arnaut, cui si deve l’invenzione della sestina stessa, ma anche per la tradizionale associazione di tali soluzioni retoriche alla sfera del virtuosismo e della preziosità, per cui il Daniel era particolarmente illustre. Gli impossibilia infatti sono sempre percepiti come elementi stilistici artificiosi e ricercati. Ciò non toglie che ogni singola realizzazione ne evidenzi una specifica sfumatura espressiva, soprattutto sotto l’effetto della capace lima petrarchesca: in alcuni casi l’aspetto retorico – per così dire “gotico” – è molto attenuato, in altri domina l’impressione di lirismo. È insomma la medesima duplicità e ambiguità che contraddistingue in generale le sestine del poeta aretino. Un ultimo fattore di coerenza tra forma metrica e strumento retorico concerne le scelte tematiche più tipiche della sestina: la fatalità, le situazioni irrisolvibili e non modificabili, l’affanno per cui non si intravede nessun possibile sollievo216. Osservando qualche significativa occorrenza occitanica, si noterà che le corrispondenze non sono di necessità puntuali, ma che la tipologia di emozioni espresse attraverso la struttura retorica, nonché l’area semantica cui fanno per lo più riferimento i paragoni, legata soprattutto alla natura, sono profondamente affini217. Mas ben grans talans afrena / mon cor, que ses aigua pesca218 (Raimbaut d’Aurenga, V, vv 50-51) De loing ses fuec m’escomprens (Raimbaut d’Aurenga, IX, v 58) […] car de la freida neu / nais lo cristals, dom hom trai foc arden219 (Peire Vidal, XXIV, vv 22-23) Trac de neu freida foc clar / et aigua doussa de mar (Peire Vidal, XXVIII, vv 26-27) Pero de mar tra hom senes duptansa / aigua doussa, per qu’eu ai esperanssa (Peire Vidal, XII, vv 37-38) L’aer correi, / quesc om folatura (Bernart Marti, I, vv 28-29) Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura / e chaz la lebre ab lo bou / e nadi contra suberna220 (Arnaut Daniel, X, vv 43-45) 216 Sull’uso dell’adynaton in Petrarca si veda anche Vanossi 1980. Agli adynata in senso stretto si possono poi aggiungere le consuete manifestazioni paradossali dell’intensità dell’amore, espresse soprattutto in chiave metaforica e immaginifica; Cherchi 1971 si sofferma soprattutto su quella della fame amorosa. Di tali aspetti si tratterà nel capitolo successivo, in quanto elementi topici della rappresentazione amorosa. 218 A questo luogo si possono comparare in particolare i sonetti 57, 66 e 195 e la sestina 237, per l’idea dei mari disseccati. 219 Questo, il passo successivo e in parte anche quello precedente sono interessanti a paragone con la sestina 30 e il sonetto 212. 220 Questo brano arnaldiano è ovviamente fondamentale rispetto alla rappresentazione della caccia impossibile in Petrarca; tuttavia si noti che anche il precedente passo di Bernart Marti presenta 217 117 Ans er plus vils aurs non es fers / c’Arnautz desam lieis on es ferm manecs (Arnaut Daniel, XIV, vv 49-50) Doussa res, s’esser podia / que ja mais alba ni dia / nos fos, grans merces seria221 (Gaucelm Faidit, LXVIII, vv 10-12) Et es plus fols, mon escien, / que cel qui semn’ en l’arena222 (Bernart de Ventadorn, II, vv 32-33) Car sa beutatz alugora / bel jorn e clarzis noih negra (Bernart de Ventadorn, III, vv 36-37) Es en Richartz chass’ab lebres leos223 (Bertran de Born, XXXV, v 15) Ans aurion un cantelh / de la luna, en l’air an / qu’ieu ja’m n’an eslaisan (Guilhem Peire de Cazals, IV, vv 33-35). Già in ambito classico, comunque, è tipico che per formulare l’adynaton ci si rivolga alla dimensione naturale, geografica ed animale. Osservando alcuni esempi, si noteranno notevoli affinità soprattutto con i versi petrarcheschi, nei quali il modello classico è in parte accostato e in parte sovrapposto a quello trobadorico, grazie anche alla forte omogeneità dell’ispirazione che si è anticipata in merito alla scelta dei paragoni224. Si legga con particolare attenzione l’incipit del sonetto 212: vi si assommano l’immagine danielina della caccia impossibile e un’eco catulliana, come suggeriscono gli ultimi due versi del carmen 70: Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti, / in vento et rapida scribere oportet aqua (Catullo, 70, vv 3-4) Per ragioni simili appare proficuo il paragone tra un passo della sedicesima canzone di Arnaut, in cui torna l’idea della caccia impossibile, accostata però ad un altro adynaton di ispirazione classica, e tre luoghi petrarcheschi: da una parte le due occorrenze dell’inseguimento col bue (212 e 239)225, dall’altra il sonetto 156, che risente appunto anche di influenze classiche: un’immagine per certi aspetti affine alla prima metà dell’adynaton danielino. L’ultimo verso di Arnaut qui citato potrebbe inoltre essere all’origine dell’immagine del nuoto nell’incipit di 212, dove appunto è proposta anche la caccia (Santagata 1996, p. 911) 221 Il passo risente chiaramente delle convenzioni del genere dell’alba e degli stati d’animo ad esso connaturati; grazie a questo, i versi di Gaucelm suonano molto affini a quelli petrarcheschi nella sestina 22. 222 Il riferimento è segnalato già in Santagata 1996, p. 911: si rileggano i primi versi del citato sonetto 212. Santagata rimanda inoltre ai versi 48-49 della settima satira di Giovenale: “nos tamen hoc agimus tenuique in pulvere sulcos / ducimus et litus sterili versamus aratro”. 223 Il passo è già stato citato nel primo capitolo quale ulteriore esempio di “caccia impossibile” in area trobadorica, significativo dal punto di vista retorico, benché non presenti una connessione diretta con i luoghi petrarcheschi (si tratta per altro di un sirventese e in particolare di un rimprovero ad una figura politica). 224 I primi due luoghi classici sono tratti dall’esemplificazione proposta da Cherchi 1971 nel descrivere gli usi adynatici latini. 225 Sull’evoluzione dell’immagine della caccia impossibile e lo specifico rapporto tra Petrarca e Arnaut Daniel in merito si veda il capitolo precedente. Per l’uso dell’immagine e degli adynata in Arnaut Daniel si è già citato Cocchiara 1981, pp. 115-118. Per la presenza dell’immagine animale si veda invece il capitolo terzo. 118 Tant sai que l cors fatz restar de suberna / e mos bous es pro plus correns que lebres (Arnaut Daniel, XVI, vv 6-7) Che farian gire i monti et stare i fiumi226 (Canz. 156, v 8) Beato in sogno et di languir contento, / d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura estiva, / nuoto per mar che non à fondo o riva, / solco onde, e ‘n rena fondo, et scrivo in vento (Canz. 212, vv 1-4) Et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori (Canz. 239, vv 36-37). Anche senza cercare corrispondenze immediate, gli antecedenti classici sono spesso interessanti per la coerenza a livello di ispirazione generale. Tornano spesso pesci, aria e monti: Iubeas una opera me piscari in aere, / venari autem rete iaculo in medio mari (Plauto, Asinaria, vv 99-100) Piscium et summa genus haesit ulmo, / nota quae sedes fuerat columbis, / et superiecto pavidae natarunt / aequore dammae (Orazio, I,2, vv 9-12) Ante leves ergo pascentur in aethere cervi / et freta destituent nudos in litore pisces / […] / quam nostro illius labatur pectore vultus (Virgilio, Bucoliche, I, vv 59-63) Dum terra caelum media libratur feret / nitidusque certas mundus evolvet vices / numerusque harenis derit et solem dies, / noctem sequentur astra, dum siccas polus / versabit Arctos, flumina in pontum cadent, / numquam meus cessabit in poenas furor227 (Seneca, Medea, vv 402-407) In caput alta suum labentur ab aequore retro / flumina, conversis solque recurret equis: / terra feret stellas, caelum findetur aratro, / unda dabit flammas, et babit ignis acquas, / omnia naturae praepostera legibus ibunt (Ovidio, Tristia, I,8, vv 1-5) Vere prius volucres taceant, aestate cicadae, / Maenalius lepori det sua terga canis (Ovidio, Ars amatoria, I, vv 271-272) rara avis in terris nigroque simillima cycno (Giovenale, VI, 165) Servis regna dabunt, captivis fata triumphum. / Felix ille tamen corvo quoque rarior albo (Giovenale, VII, vv 202-203) […] sed prius Apuli / iungentur caprae lupis, / quam turpi Pholoe peccet adultero (Orazio, I,33, vv 7-9)228. 226 Per tali effetti straordinari delle qualità laurane Santagata 1996, p. 737 propone un confronto con le immagini classiche di Orfeo e Anfione nella rappresentazione oraziana e ancora la figura di Medea nella versione ovidiana. A questo possiamo aggiungere una delle similitudini “impossibili” che Walfrido Strabone trae dai classici: “fontes stare citos faciat, tum currere montes”. Per tale riuso dei classici in Strabone si veda Cherchi 1971, p. 226. Un parallelo si trova anche in Arnaut Daniel, XVI, su cui si tornerà poco oltre. 227 In questo caso l’adynaton è rovesciato, poiché gli eventi impossibili appaiono negati, a descrivere la normalità che si presume continuerà fino alla fine del tempo umano; tuttavia è interessante che le immagini siano ancora una volta molto simili ed ispirate alla medesima concezione. Anche il significato psicologico è rilevante: non si parla di frustrazione amorosa, ma di follia ed ira causate dall’amore e dal suo tradimento. 228 Gli ultimi tre esempi citati appartengono in modo evidente ad ambiti tematici profondamente diversi da quelli che ispirano il Canzoniere. Ciò che interessa, però, è ancora una volta il dominio della sfera naturale nella rappresentazione delle leggi e della normalità (alterata) del mondo. 119 4. “Escondich” Una prima definizione del genere “escondich” in ambito critico italiano si deve a Giovanni Galvani229. Lo studioso ha identificato il verbo “escondicere” come forma in origine mediolatina, in alternativa a “escondire”: entrambe valgono “excusare” cioè presentare delle scuse. Da qui le forme provenzali “escondir” (verbo) e “escondich/escondig” (sostantivo). Quest’ultima è stata usata come definizione canonica di un genere poetico provenzale già classico, come dimostra il componimento di Bertran de Born Eu m’escondich230, benché sia stato identificato come autonoma forma di canzone solo molto più tardi231. Tale riscoperta coincide con la fase discendente della tradizione trobadorica, quando, lo si è visto, molti generi minori e secondari sono stati rivalutati, come nel caso di plazer ed enueg. Per altro enueg ed escondich tendono a convergere, visto che entrambi sono elenchi di fenomeni negativi e fastidiosi, per quanto originati da motivazioni differenti. Come si è anticipato, lo spunto tematico che caratterizza l’escondich comporta un’accusa fittizia da cui l’innamorato deve difendersi; ne deriva una serie iperbolica di giuramenti e di terribili maledizioni autoinflitte, che dovrebbero realizzarsi se la colpa fosse stata effettivamente commessa. L’intento è ovviamente quello di far comprendere per contro che ciò non è accaduto. Anche il genere dell’escondich è stato recuperato nel Canzoniere, incrementandone la varietà tematica e formale; ovviamente esso è stato adattato alla storia dell’io e alla sua vicenda amorosa. All’origine provenzale del genere rimanda inoltre la forma metrica, peculiare e riconoscibile, indizio esplicito del contatto occitanico in atto232. Al già citato Galvani si deve la prima segnalazione moderna del recupero petrarchesco e quindi dell’affinità tra la canzone S’i’ ‘l dissi mai e Eu m’escondich di Bertran de Born233. L’analisi comparativa dello studioso si è però scontrata con la polemica sull’autonomia e la specificità della lirica petrarchesca, e in particolare con le censure dello Zingarelli234. Quest’ultimo riteneva che l’escondich non fosse nemmeno un genere vero e proprio, perché come tale è segnalato solo molto tardi, nelle Leys d’amor, dunque in una fase in cui – lo si è visto – una classificazione più puntuale diviene essenziale 229 Galvani 1829. Di tale testo di Bertran de Born, in riferimento alla possibile imitazione petrarchesca, si è già in parte trattato nel corso del precedente capitolo. In questa sede tratteremo in particolare il recupero del genere e del concetto che ne è alla base all’interno del Canzoniere, al di là di un’eventuale diretta connessione con Eu m’escondich. 231 Sulla tradizione del genere, si veda l’efficace sintesi in Santagata 1996, pp. 880: non solo prima ma anche dopo l’esempio di Bertran i riferimenti utili sono pochissimi. Restano due esemplari legati al Concistori e a Tolosa: l’anonimo S’eu ho dixo (con struttura anaforica affine a quella petrarchesca e di cui non è chiara l’origine linguistica) e il catalano Molt es de vetz di Lioreç Mallol (anche qui si nota l’anafora anche se non dell’incipit). Da tali testi o per lo meno dal loro ambiente è derivata un’esigua tradizione galega. 232 Per la struttura metrica e il riferimento trobadorico che essa media, si veda il primo capitolo, nonché le analisi in Fubini 1970 e Pulsoni 1998, p. 47 segg. 233 Nel primo capitolo si è fatto particolare riferimento alle riflessioni di Martin de Riquer 1951-1952 e Suitner 20052. 234 Zingarelli 1935, in particolare p. 118. 230 120 anche per forme consuete e tradizionali. Inoltre il rapporto tra i due autori gli pareva limitato al solo tema di partenza e dunque alla struttura più esteriore e generale. La natura degli “scongiuri”, cioè la sostanza del discorso amoroso, secondo Zingarelli apparirebbe invece ben diversa, poiché caratteristica del singolo poeta e del suo contesto. La forza di Petrarca risiederebbe, per lo studioso, nell’aver guardato all’antichità latina, nell’impressione di armonia classica che il poeta impone al suo lamento, a fronte della convenzionalità che domina invece nell’opera di Bertran de Born. Già Mazzoni235 aveva sostenuto posizioni simili, benché in modo meno veemente. Egli aveva insistito soprattutto sulle ammissioni dello stesso Galvani rispetto all’autonomia e alla marcata rielaborazione personale dimostrate da Petrarca nei confronti del modello. In effetti era stato proprio Galvani a sottolineare per primo la differenza tra il trovatore, focalizzato su una prospettiva feudale e guerresca236, e il poeta aretino, che su di sé invoca conseguenze intellettuali e cognitive, le quali rappresentano per lui il peggior danno possibile. I problemi essenziali proposti dal testo petrarchesco sono in definitiva due: la natura dell’ipotetica colpa e il rapporto effettivo con la tradizione trobadorica. Per quanto concerne l’interpretazione dell’accusa, la critica ha considerato due possibili letture237: una dichiarazione d’amore per un’altra donna oppure l’espressione di desideri carnali nei confronti di Laura238. Secondo Mazzoni non può trattarsi di un tradimento nei confronti di quest’ultima, nemmeno con una donna “schermo”. Lo stesso sdegno dell’innamorato, colpito nell’onore239, sarebbe una prova del fatto che si parla piuttosto di un’eccessiva prospettiva sensuale240. Un altro indizio potrebbe essere colto nell’immagine finale: i due amanti che si involano verso il cielo nel carro di Elia suggeriscono una prospettiva pura e spirituale, su cui Petrarca avrebbe insistito per controbattere le indegne insinuazioni di cui era vittima241. Tale posizione è stata di recente approfondita da Claudia Berra242. Un primo elemento significativo è la citazione dalla Genesi nel congedo (vv 55-56), dove è richiamato il lungo sacrificio di Giacobbe, volto al matrimonio con Rachele (abitualmente associata 235 Mazzoni 1930. Su tale aspetto è tornato Perugi 19901, che inoltre ha insistito sul recupero da parte di Bertran della tradizione del plazer. 237 Per la bibliografia completa si veda Bettarini 2005, pp. 950-951. 238 È questa la posizione oggi vulgata: essa risale all’interpretazione del Castelvetro ed è divenuta canonica attraverso l’accettazione nel commento Carducci-Ferrari. È ancora la lettura predominante, come testimoniano i commenti più recenti: Fenzi, Santagata, Dotti, Vecchi Galli. Posizioni distinte e autonome, riferite all’allegoria della Sapienza e all’amore per essa, hanno espresso sia Bettarini sia Stroppa. Per la bibliografia si veda Berra 2013. 239 La forza espressiva del componimento è notevole e deve molto anche all’esempio petroso di Dante. 240 Mazzoni 1930 suggerisce per altro che il Canzoniere presenti altri indizi in tal senso rispetto all’atteggiamento troppo “fisico” del drudo. 241 La convinzione espressa da Mazzoni 1930 era già stata esposta da Moschetti 1908, e risaliva al commento cinquecentesco del Fausto. 242 Berra 2013. 236 121 alla vita contemplativa e quindi spirituale), e non con Lia (la vita attiva)243. Ancor più efficace l’osservazione della serie di testi in cui 206 è inserito. In 205, Petrarca afferma di aver detto a Laura “Tu sola mi piaci” (v 8). Nella finzione della storia, un’interpretazione letterale del verso potrebbe aver portato al poeta l’accusa di essersi rivolto in modo troppo esplicito e perciò inadeguato all’amata244. Possiamo aggiungere che il divieto non solo di esprimere esplicitamente i sentimenti, ma in particolare di confidarsi con la dama, descrivendole il proprio stato d’animo o le proprie sofferenze è un topos diffusissimo in ambito trobadorico. Il divieto assume l’intensità di una vera e propria legge, considerati i rimproveri cui i poeti talvolta si espongono per averlo infranto245. “Il poeta parla in realtà solo con se stesso”: nessun limite è stato valicato, se non nella possibile percezione dei lettori, una volta che i fragmenta sono stati pubblicati. Da qui le scuse su cui si concentra 206. Tale interpretazione, infine, ha il valore di evitare ogni possibile contraddizione con le dichiarazioni di fedeltà in 203205. Un’osservazione intertestuale su scala più ampia permette una breve integrazione. Dopo la morte di Laura, il poeta lamenta che il rapporto amoroso sia stato interrotto proprio quando si avviava ad una svolta felice, garantita dai desideri ormai casti dell’innamorato maturo e dalla conseguente fiducia dell’amata246. È vero che nella seconda parte del Canzoniere Petrarca tende a rileggere alcuni aspetti e problemi della propria vicenda secondo una prospettiva rinnovata, estranea alla parte “in vita”, come quando afferma la gioia perduta delle pene sentimentali. Tuttavia, una struttura (e quindi una narrazione) coesa quale quella della raccolta favorisce l’impressione di coerenza tra i due momenti: le scuse di 206 e l’atteggiamento più aperto dell’amata. Laura pensa che il poeta si sia comportato indegnamente e gli toglie il suo sostegno (205-207); il poeta si scusa (206) e le scuse risultano efficaci; l’amata comincia a fidarsi, le speranze dell’innamorato si fanno più concrete, ma improvvisamente lei muore. Il poeta rimpiange non solo l’amata defunta, ma anche l’occasione perduta (315-317). Un ultimo dettaglio interessante si riscontra nella ballata 11. Il concetto fondamentale è topico e trobadorico: la dama non deve sapere quanto il poeta l’ami o soffra per lei, non c’è spazio per alcuna confidenza. Laura però ha scoperto i sentimenti del suo amante e gli nega la vista del suo viso247. Benché in forma ben più breve e in tono minore, si nota 243 Genesi 29, 25. Il passo va interpretato come affermazione di un amore puro e disinteressato, non volto ad una ricompensa materiale. Il riferimento a Giacobbe coinvolge anche la questione del servitium amoris: su tale aspetto si tornerà in seguito, ma per ciò che concerne in particolare l’interpretazione di 206, si veda Berra 2013. 244 Berra 2013. 245 In quanto immagine topica, se ne tratterà con maggiore ampiezza nel capitolo successivo. 246 I componimenti più espliciti in tal senso sono forse 315, 324 e 334, ma il medesimo concetto si coglie anche in 316, 317 e 362. Per altro già nella prima sezione Petrarca aveva anticipato tale idea, immaginando la propria vecchiaia nel sonetto 12 (per la connessione tra 12 e il gruppo 315-317 si veda anche Santagata 1996, p. 57) e ipotizzando un’evoluzione del sentimento verso forme più posate in 122. 247 La rappresentazione petrarchesca nel fragmentum 11 risente forse anche della Vita nova, laddove egli lamenta la perdita di ciò che lo mantiene in vita, com’era per Dante il saluto. Tuttavia gli elementi relazionali appaiono diversi, poiché Beatrice non punisce il fatto di essere amata; in una logica salvifica ciò costituisce, anzi, una prospettiva positiva, poiché consente di seguire un modello salutare, come chiarisce la stessa Beatrice nell’Eden, rimproverando Dante per il suo sviamento. Infatti, già nel libello 122 qui una dinamica simile a quella sottesa a 206: l’eccesso del poeta comporta un allontanamento da parte dell’amata. Sulla questione di 206 si era soffermato in precedenza Perugi248 che della canzone (o tecnicamente, il sirventese) ha evidenziato due rilevanti problemi interpretativi, sul piano metrico249 e su quello storico-letterario. L’impostazione del testo è profondamente influenzata dal tema principale. L’elemento concettuale di fondo (l’ipotetica e implicita accusa) è ripetuto con notevole insistenza grazie alla successione delle anafore. La formula d’apertura “s’i’ ‘l dissi” torna tre volte nella fronte delle prime quattro strofe, sempre in apertura di verso, la quinta stanza inverte la polarità con un rilevato “ma” cui fa seguito la formula “s’io nol dissi”, che torna variata in apertura della strofa successiva (“I’ nol dissi”, eliminando l’elemento ipotetico). L’anafora mette perciò in rilievo il modulo tipico del genere, che non a caso caratterizzava anche Eu m’escondich. Per il resto, i due testi divergono profondamente; di conseguenza Perugi ha ipotizzato che Petrarca abbia letto altri esempi del genere, oggi perduti, forse legati alla tradizione catalana e poi galega. Petrarca potrebbe essere stato dapprima influenzato dall’ambiente tolosano e dal risveglio che qui aveva avuto la cultura cortese: i passi indicati nelle Leys potrebbero essere illuminanti rispetto alle sue letture, considerando che i documenti allora disponibili potrebbero essere stati più numerosi di quanto non siano oggi. Tali testimoni potrebbero aver addirittura favorito per Petrarca il desiderio di approfondire le proprie conoscenze sulla produzione dell’epoca aurea: in primo luogo Arnaut Daniel e i suoi insegnamenti metrici, secondariamente Bertran de Born. La scoperta del suo sirventese avrebbe così rivelato a Petrarca l’appartenenza del genere escondich al mondo cortigiano, ben prima che i poeti del Concistori lo riconducessero, insieme a tutta l’eredità cortese, all’orizzonte borghese250. Il problema fondamentale di tali ricostruzioni filologiche consiste nelle insufficienti informazioni sulla datazione; la medesima questione impedisce per altro di chiarire l’effettivo rapporto tra gli escondich più tardi e la produzione del Concistori. Non è possibile, perciò, affermare se siano anteriori gli ultimi esemplari provenzali o l’esperimento petrarchesco, e Perugi propende in sostanza per una spiegazione poligenetica251. Lo stato della tradizione impone dunque un limite invalicabile al riconoscimento di modelli specifici per la canzone 206, benché la scelta di recuperare il genere sia indubbia. Tuttavia, la questione può essere affrontata secondo un diverso punto di vista: Dante scontava l’apparente distrazione per altre donne (le donne-schermo) e la sua (falsa) incostanza. Sul rifiuto dell’amore del vassallo da parte della dama ci siamo già soffermati nel corso del presente capitolo. 248 Perugi 19901. 249 Per cui si rimanda a Fubini 1970, a Perugi 1998 e alla sintesi nel primo capitolo, dove si è anticipata anche la posizione dello stesso Perugi. 250 I riferimenti che arricchiscono il testo petrarchesco sono comunque molto più numerosi: Dante, Stil Novo e poeti siculo-toscani, tradizione biblica (Rachele e il carro d’Elia). Bisogna poi considerare le connessioni interne al Canzoniere, in particolare con 204 ma anche con 366, di cui sono anticipati alcuni spunti. In questa sede ci interessano soprattutto i richiami alla tradizione trobadorica, che comprendono anche diffuse immagini topiche su cui ci sarà occasione di tornare nel capitolo successivo. 251 La medesima conclusione era stata sostenuta da Martin de Riquer, che ha studiato in particolare le opere di Llorenç Mallol e un secondo escondich anonimo. Per tali riferimenti si vedano Suitner 20052 e Bettarini 2005, pp. 949-950, dove è proposto anche un interessante riferimento al salmo CVIII, le cui imprecazioni potrebbero aver rappresentato un’ispirazione o almeno una giustificazione per il genere. 123 poiché non è possibile confrontare esempi estesi ed autonomi di escondich, bisognerà accontentarsi di cogliere riflessi della medesima struttura logica in seno a componimenti più ampi. Infatti, è piuttosto diffuso tra i trovatori il modulo sintattico “se facessi questo… mi dovrebbe accadere quello”, con valore di giuramento rispetto al comportamento corretto dell’amante, opposto cioè a quello descritto nell’ipotesi. La promessa è evidenziata dalla frequente associazione tra l’applicazione della punizione e il ruolo di Dio, che appare quindi implicitamente in veste di garante252. Qualche occorrenza può essere indicativa. Raimbaut d’Aurenga usa tale soluzione in diversi componimenti, ad esempio in Una chansoneta fera, vv 19-22: “S’ieu quie als, tostens n’azir! / Dieus en ira m met’ab ela / o m fassa que be m tanh pendre / per la gola d’una sima”. È molto simile il caso di Ar m’er tal un vers a faire (vv 73-77), significativo soprattutto per la rappresentazione della dama adirata col poeta per una colpa che lui non si riconosce, ma per cui le chiede comunque perdono253. Ancor più esplicite le sciagure evocate da Arnaut Daniel254 in En breu brisara l temps braus, dove giura fedeltà alla dama a scapito dei propri occhi255. Generica ma non meno espressiva la morte invocata da Bernart de Ventadorn in caso non fosse vero che egli ama profondamente la dama: “No n dic laus, mas mortz mi venha / s’eu no l’am de tot mo sen” (Amors, enquera us preyara, vv 40-41). Daude de Pradas è pronto a rinunciare ad ogni amore cortese, se dovesse opporre un diniego alla dama256; molto simile l’augurio dell’autore anonimo di Per fin’amor ses enjan, mentre giura fedeltà all’amata (vv 1316). La struttura è poi molto frequente in Giraut de Bornelh257 e Raimon de Miravall258: di nuovo si alternano immagini più tenui, quando i poeti si augurano solo sofferenze di carattere amoroso, a rappresentazioni ben più macabre259. La differenza fondamentale rispetto all’atto di “escondicere” in senso stretto concerne il tempo del verbo, per lo più rivolto al presente e al futuro prossimo: non si tratta di una 252 A Dio si rivolge anche Peire Vidal nella seconda strofa di Per ces dei una chanso, chiedendo di non esserne perdonato se la dama non è davvero la più bella: qui dunque la questione si limita ad una lode iperbolica. Situazione simile si propone anche in De trobar ai tot saber di Raimon de Miravall. 253 Il poeta dunque non prova realmente a scusarsi, ma si piega alle parole dell’amata, con esito nel complesso diverso da quello previsto dal genere escondich. 254 Altri luoghi suonano meno brutali: il poeta rinuncerà alle attenzioni della dama se mente in Er vei vermeills, vertz, blaus, blancs, gruocs (vv 17-18); rinuncia alle altre donne se Amore gli conquista il favore della dama in Amors e jois e liocs e tems (vv 15-16), dove appunto il poeta si rivolge direttamente al dio); perderà voce e parola prima di dire qualcosa che offenda la dama in Sols sui qui sai lo sobrafan que m sortz (vv 41-42). 255 “E traga m ams los huoills crancs / s’a lieis vezer no ls estuich” (vv 42-43). 256 Ben ay’ amors, quar anc me fes chauzir, vv 15-16. 257 M’amiga m men’estra lei (in un contesto in cui la dama continua ad accusare il poeta, il quale dapprima si dichiara innocente e poi accetta l’accusa in quanto l’amata non può mai sbagliare); Gen m’aten (dove si parla di impiccagione); Alegrar mi volgr’en chantan; Razon e luec; No m platz chanz de rossignol; Quar non ai. 258 Qui bona chansso cossira (ma il giuramento è nella tornada e non è quindi legato direttamente alla tematica amorosa); Era m’agr’ops que m’aizis; Amors me fai chantar et esbaudir; Tals vai mon chan enqueren. 259 Qualche altro esempio: Guiraut Riquier, Anc non aiguj nulh temps de far chanso; Joifré de Foixà, Be m’a lonc temps menat a guiza d’aura (che Petrarca conobbe certamente, poiché è il modello della canzone “a citazioni” per Lasso me; Berenguer de Palou, S’ieu sabi’aver guiardo; Bonifaci de Castellana, Sitot no m’es fort gaya la sazos. 124 scusa vera e propria, quanto di un modo per anticipare ed evitare l’accusa stessa (e al contempo di corteggiare con efficacia la dama), in una sorta di promessa. In Petrarca questa modalità non trova spazio: il rapporto con Laura non arriva ad essere tale da giustificare promesse per una relazione stabile. Tuttavia egli poteva ricavare dal corpus trobadorico un’impressione complessiva rispetto all’atteggiamento subordinato e supplice dell’amante, di cui il genere dell’escondich è esempio particolarmente evidente. Che prevenga o cerchi di rimediare all’accusa, il drudo appare comunque in balia della dama, il cui giudizio lo domina senza pietà. Ed è questo in sostanza il significato del riuso petrarchesco del genere escondich nella canzone 206, in una serie di testi in cui il poeta insiste sulla propria dedizione (203-205), presenta le difficoltà del proprio stato (205), si propone di autoinfliggersi le pene più terribili, pur di riconquistare la fiducia di Laura (206) e infine si dispera per la sua ira (207). S’i’ l’ dissi mai dà pieno sviluppo all’immagine convenzionale dell’amante-servo, spossessato di se stesso, addirittura alienato, pronto ad anteporre ogni volontà e bisogno dell’amata ai propri260. Per tale motivo potrebbe essere significativa la scelta di non esplicitare la colpa. Certo, il lettore poteva trovare una spiegazione nel testo precedente, chiarendo così il valore del complemento oggetto in “l’ dissi”261. Tuttavia 206 si focalizza su un altro aspetto: la remissività del poeta-amante. Lo scarso rilievo qui attribuito alla colpa in sé – appunto mai esplicitata – e al contrario l’insistenza sull’ingiustizia dell’accusa in genere evidenziano con maggior energia il carattere sbilanciato della relazione amorosa. Una breve nota conclusiva. All’escondich di Bertran de Born e alle testimonianze del genere può essere affiancato un testo di Gausbert de Poicibot, S’ieu anc jorn dis clamans. Il trovatore, originario del Limosino o del Périgord, è vissuto nella prima metà del Duecento: benché non si tratti di un esponente delle prime generazioni, la sua produzione è ben anteriore a quella del Concistori e riconduce ancora alla grande stagione della tradizione occitanica. La canzone non è rivolta alla dama, ma ad Amore e la colpa sembra effettivamente commessa, ragion per cui non è forse opportuno parlare di escondich in senso stretto; tuttavia il discorso è strutturato come proposta di scuse. Due sono gli elementi più interessanti. In primo luogo, per quanto il poeta non attiri su di sé una sequela di sfortune, l’atteggiamento è il medesimo che si è descritto per le promesse trobadoriche e per la preghiera petrarchesca: umiltà e sottomissione. Secondariamente, la colpa che ha commesso il trovatore concerne la parola, esattamente 260 Su tale tema si tornerà ampiamente analizzando le immagini topiche di origine trobadorica accolte nel Canzoniere; per l’analisi di 206 rispetto allo stato dell’io poetico si veda Berra 2013. 261 Si accoglie qui l’interpretazione relativa alla natura del desiderio petrarchesco. La presenza di altre figure femminili è accuratamente negata nel Canzoniere, come si è visto anche in merito a 270 e 271, o ancora nel caso di testi anteriori alla raccolta e rifunzionalizzati per esservi inseriti: un tradimento a questo punto, per quanto solo ipotetico, appare quasi un elemento estraneo, incoerente rispetto ad uno dei nuclei più forti nei fragmenta. L’unico elemento a favore dell’interpretazione vulgata potrebbe essere il parallelismo con la Vita nova dantesca, dove l’attenzione di Dante per le donne-schermo fa adirare Beatrice, che gli toglie il saluto, così come Petrarca dice di aver perso il benevolo aiuto di Laura (207). 125 come quella, smentita, di Petrarca nei confronti di Laura262: Gausbert ha criticato Amore e si è lamentato del suo giogo (spinto per altro non dalla propria insubordinata volontà, ma dalla sua signora, una “regina Elinor” non meglio precisata)263. A livello stilistico, la seconda sede in ogni strofa è riservata alla parola-rima “Amors”, che torna dunque lungo tutto il testo, ad esclusione dell’ultima stanza e della tornada, poiché qui l’autore passa alla tematica civile. Si notano perciò vari elementi che potrebbero aver offerto a Petrarca ulteriori suggestioni per la composizione di 206. 5. Descrizione stagionale ed elementi pastorali La poesia occitanica offre ben poche descrizioni naturalistiche. Lo spazio in cui si muovono amante e cavaliere appare sfumato e indefinito264, sia che l’attenzione sia focalizzata sulle armi, i cavalli e gli stendardi che identificano il campo di battaglia, sia che il poeta immagini i luoghi ameni dell’amore. Per quanto concerne in particolare le canzoni, l’ambientazione può essere delineata secondo tre prospettive principali: il verziere, la stagione, la campagna. A prescindere però dal tipo di rappresentazione, compreso il terzo, più realistico, la situazione è affermata più che descritta, attraverso alcuni tratti convenzionali ed evocativi. Con “verziere” (e spesso solo attraverso il termine tecnico) si intende un hortus conclusus, versione romanza del classico locus amoenus. Si parla spesso di erba, fiori o sole, ma la definizione in sé è sufficiente, anche perché rimanda ad una tradizione ben affermata. Lo stesso vale per la stagione: benché i trovatori distinguano talvolta l’estate dalla primavera e (ancor più di rado) l’autunno dall’inverno, i dettagli naturali pertengono semplicemente alla “bella” o alla “brutta” stagione. Temperatura, vento o brezza, canto degli uccelli (a volte un uccello in particolare), colore di rami e foglie: con poche pennellate il quadro è sufficiente per introdurre la vicenda, secondo una tipologia di incipit celebre e topica. Infine, perché la campagna sia tale, basta che risulti opposta alla città: uno spazio aperto, di solito primaverile, contraddistinto per lo più da un corso d’acqua, riconoscibile grazie alla tipologia degli spostamenti (il poeta è a cavallo) e alle attività dei personaggi (agricoltura e pastorizia)265. Per quanto stilizzate, tali indicazioni sono sufficienti ad indentificare una specifica situazione, e proprio perché altamente tipizzate hanno un ruolo significativo come 262 E più in particolare la presunzione di dire più di quanto sia lecito. Come si è visto la medesima colpa era già proposta come ipotesi (e negata) nel giuramento di Arnaut Daniel alla dama in Sols sui qui sai lo sobrafan que m sortz. 263 Lo si nota già dall’incipit: “S’ieu anc jorn dis clamans / encontra vos, Amors, / orguoill ni desonors, / ara m dei e mos chans / humiliar dos tans / e laissar mas clamors” (vv 1-7). 264 Tali caratteristiche distinguono per altro anche la produzione italiana delle origini, e in particolare le sue manifestazioni meno votate al realismo della rappresentazione amorosa: prima la Scuola siciliana, poi (e soprattutto) lo Stil Novo. 265 Tale ambientazione ha una duplice funzione. Poiché chiarisce che la scena non ha luogo né in città né in un castello, è da subito evidente che la rappresentazione non avrà un’intonazione cortese; inoltre, la natura aperta e selvatica implica immediatamente un fattore sensuale, fondamentale per la definizione del genere. Il concetto sarà ripreso ed approfondito nel corso del presente paragrafo. Picone 1979, pp. 83-87 sottolinea inoltre lo sviamento che lo spazio campestre suggerisce, in chiave metaforica, rispetto al percorso di perfezionamento interiore rappresentato dalla fin’amor. 126 marca di genere. Un avvio stagionale o una contestualizzazione amena pertengono alle grandi canzoni cortesi266, mentre la scena campestre adatta memorie bucoliche al genere più basso della pastorella. Simili elementi si riscontrano anche nel Canzoniere, rifunzionalizzati e trasformati. La trasfigurazione petrarchesca comporta in primo luogo il riferimento ad altre fonti oltre a quelle trobadoriche; cambia, inoltre, il rapporto tra le strutture espressive, la loro collocazione e l’inserimento di dettagli naturalistici; infine, il genere della pastorella267 non può essere mutuato in sé e per sé, perché eccessivamente connotato in chiave erotica268. Rispetto alle immagini naturali i modelli essenziali per Petrarca sono classici, sia nella descrizione, che non a caso qui è ben più ampia che nelle opere provenzali, sia nei riferimenti mitologici che possono esserle associate269. Virgilio e Ovidio sono gli autori fondamentali in proposito; a Virgilio in particolare rimanda anche la tradizione delle rappresentazioni bucolico-pastorali, che facilmente si sovrappone all’influenza delle pastorelle occitaniche: si pensi a componimenti quali la sestina 22, la canzone 50 o i sonetti 310-311. Ciò non toglie che il contatto con gli antecedenti trobadorici sia significativo, localizzandosi sia nella rappresentazione stagionale, soprattutto in apertura del testo, sia nel contrasto tra stato della natura e sentimenti del poeta270, sia nell’enumerazione degli elementi paesaggistici, secondo una struttura tipica non solo delle descrizioni naturalistiche, ma anche del genere provenzale del plazer271. La primavera sboccia, ad esempio, nel sonetto 310, annoverando vari dettagli nel corso delle quartine: Zephiro torna, e ‘l bel tempo rimena e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia, et garrir Progne et pianger Philomena, et primavera candida et vermiglia. Ridono i prati, e ‘l ciel si rasserena; Giove s’allegra di mirar sua figlia; l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena; ogni animal d’amar si riconsiglia (vv 1-8). 266 Un esempio rappresentativo si trova in Non puesc sofrir c’a la dolor di Giraut de Bornelh, ma le occorrenze sono numerosissime. Si possono ricordare in quanto casi peculiari, benché non del tutto isolati, Al nou doutz termini blanc di Bertran de Born e Bel m’es qan li rana chanta di Marcabru: nel primo componimento alla rappresentazione naturalistica fa seguito una narrazione militare, nel secondo una riflessione morale. 267 Tale genere era già stato riscoperto nella tradizione poetica italiana, in particolare da Cavalcanti, per cui si veda Picone 1979, pp. 87-92. 268 La vicenda tipica comporta un incontro tra il poeta-cavaliere che sta viaggiando e una giovane pastora al lavoro. A prescindere dai dettagli preferiti da ciascun trovatore, il fuoco della narrazione è sul dialogo, in cui il personaggio maschile cerca di sedurre la fanciulla, che può reagire positivamente, negativamente (e spesso ne deriva un vero e proprio abuso) oppure negativamente in un primo momento, per poi cambiare idea in modo repentino. 269 La ricchezza dei rimandi nelle edizioni commentate (si fa qui particolare riferimento a Santagata 1996 e Bettarini 2005) è piuttosto esplicita in tal senso. 270 Tale aspetto, con specifico riferimento all’uso di formule e concetti convenzionali, sarà ripreso nel corso del capitolo successivo. 271 O piuttosto dell’enueg, dato lo stato d’animo luttuoso del poeta. Se ne riparlerà a breve. 127 Simile incipit non sfigurerebbe di certo come prima strofa di una canzone d’amore, e lo stesso potrebbe dirsi del lamento che segue. Il poeta infatti non condivide la rinascita della terra, ma anzi sospira (Laura è morta) e nel mondo i suoi occhi non vedono che disperazione. L’opposizione è perfettamente convenzionale e come esaltata dalla chiusura dovuta alla forma metrica breve. È un aspetto, quello metrico, che andrebbe forse considerato meglio: evitare la lunghezza della canzone enuclea il tema e lo pone in evidenza, e insieme interrompe il topos prima che diventi ripetitivo. Lo stesso si potrebbe pensare per 301, dove l’elenco degli elementi e l’espressione dello stato d’animo funzionano appieno nella misura dei quattordici versi. La riflessione trova una maggiore estensione nella successione di testi autonomi, determinando anche uno spostamento di prospettiva utile ai fini della variatio e della progressione del discorso. Lo si nota in 303, che riprende il motivo di 301 dopo la pausa più serena di 302 (una visione di Laura-spirito), questa volta rivolgendosi in apostrofe ad Amore. Il medesimo significato si può attribuire a 311: il quadro primaverile di 310 resta nella presenza dell’usignolo, ma ora la natura condivide il pianto del poeta. D’altronde anche la consonanza di contesto ed emozioni è una possibilità topica presso i trovatori, nel bene o nel male272. La medesima struttura comparativa si trova anche in due testi lunghi della prima sezione, i già citati fragmenta 22 e 50. Il perno della composizione risiede qui nel contrasto tra la disperazione senza tregua del poeta e i ritmi normali degli altri, uomini e animali, che possono anche soffrire e faticare di giorno, ma riposano di notte. Lo spunto dunque non è nuovo, anzi, e ben si accorda, nella sestina, alle altre suggestioni cortesi. Tuttavia, la resa della vita quotidiana presenta tratti di concretezza e dettagli che hanno ben poco in comune con le occorrenze occitaniche: l’effetto di novità è percepibile soprattutto nella canzone 50, dove non a caso abbondano gli echi virgiliani. Appare invece più affine a 301, 303 e 310, pur nell’intonazione molto più lieve e serena, il famoso incipit di Chiare, fresche et dolci acque, anticipato per altro dalle ultime due strofe della precedente canzone 125. Petrarca vi tratteggia infatti una natura amena e sfumata, un’atmosfera onirica, che ben si accordano all’apparizione disincarnata di Laura, tanto nel ricordo, quanto nell’immaginazione di un possibile futuro. La prima stanza per altro si propone come un elenco di enti naturali (acque, ramo, erba e fiori, aria), mutuando e insieme rinnovando strutture ben attestate. 272 Un altro esempio petrarchesco di incipit stagionale si trova nel sonetto 219 (vv 1-4), dove però il parallelo – qui per analogia – non è con lo stato del poeta, ma con la bellezza di Aurora, resa non a caso attraverso una serie di metafore naturalistiche (la neve del volto, l’oro dei capelli), topos di solito utilizzato per l’elogio della bellezza dell’amata (se ne riparlerà nel capitolo successivo). Tuttavia tale occorrenza è particolarmente significativa per l’esplicito gallicismo del v 2, che rimanda a puntuali modelli provenzali (Santagata 1996, p. 932): “Il cantar novo e ‘l pianger delli augelli / in sul dì fanno retentir le valli, / e ‘l mormorar de’ liquidi cristalli / giù per lucidi, freschi rivi et snelli”. Un effetto simile si coglie anche nell’avvio del sonetto 223, che evoca il tramonto e il discendere delle tenebre. Qui non si tratta di un’immagine stagionale, quanto della contrapposizione tra poeta tormentato giorno e notte e ritmo normale degli esseri viventi; tuttavia Petrarca recupera la lezione trobadorica, come suggerisce il predicato “imbruna” che rimanda all’occitanico “brunezir”. Tali aspetti saranno ripresi, secondo prospettive diverse, nel corso del capitolo successivo. 128 Il valore di 126 rispetto al riuso petrarchesco della tradizione è in effetti rilevante; la natura, infatti, vi perde lo statuto di semplice contesto. Per il poeta sofferente, gli elementi del paesaggio divengono interlocutori, oggetto di sfogo emotivo, testimoni del suo stato e dei suoi desideri273. I versi 12-13 lo indicano chiaramente: “date udienzia insieme / a le dolenti mie parole extreme”. E la morte, che egli avverte prossima, dona alla sua allocuzione maggior significato. I sonetti 301 e 302 ripropongono una dinamica equivalente. Nel primo, la valle è piena “de’ lamenti miei” (v 1), il fiume “del mio pianger cresc[e]” (v 2); dunque essi ascoltano il poeta nel tormento e a loro si rivolge in forma diretta la sua confidenza. D’altronde quegli stessi luoghi erano stati teatro delle dolci sofferenze amorose: luoghi che erano piaciuti all’amante (v 7), che li riconosce uguali al passato (v 9), dove vedeva l’oggetto del suo amore (v 12) e in memoria del quale egli vi continua a tornare. In 302 si ritrova la medesima apostrofe, il medesimo elenco, la medesima funzione di un paesaggio un tempo luogo di delizie e ora di lutto. Per altro già nel sonetto 35 si era delineata la stessa correlazione tra poeta e spazio naturale, quando ancora le sofferenze erano quelle dell’amante: “sì ch’io mi credo omai che monti et piagge / et fiumi et selve sappian di che tempre / sia la mia vita, ch’è celata altrui” (vv 9-11). Sono affini, di nuovo, i due versi finali del sonetto 162: “Non fia in voi scoglio omai che per costume / d’arder co la mia fiamma non impari”. Non c’è dubbio che in Petrarca la descrizione naturalistica contribuisca alla definizione dell’io, ed abbia perciò un ruolo specifico nel Canzoniere. La stessa canzone 126 però suggerisce un altro aspetto del recupero trobadorico operato in Petrarca, e precisamente rispetto al genere della pastorella. Un primo contatto, in realtà, si coglie già nel madrigale 52: “[…] la pastorella alpestra et cruda / posta a bagnar un leggiadretto velo, / ch’a l’aura il vago et biondo capel chiuda” (vv 4-6). In un panorama che si immagina selvatico (le acque del verso 3 sono “gelide” e la giovane è descritta come rustica) il poeta può godere di un’improvvisa visione muliebre, che lo fa tremare d’amore a dispetto della canicola. Non importa che l’apertura sia classica, nel segno del mito di Diana ed Atteone274; il modello è certamente la pastorella francoprovenzale275; se non bastasse la definizione della fanciulla come “pastorella”, si notino anche la presenza convenzionale del corso d’acqua, la brezza che fa pensare alla bella stagione, il quadro non urbano, la tipologia femminile con cui eccezionalmente viene 273 Sul ruolo della natura “personaggio” più che “paesaggio”, in relazione anche al tema della solitudine e alla sua evoluzione nel passaggio dalla sezione “in vita” a quella “in morte”, si veda anche Cherchi 2008, pp. 132 segg. e 142-143. 274 Per il recupero di questo mito si vedano Chines 2010, pp. 38 segg e soprattutto 43-54 (questa analisi è dedicata in particolare ai luoghi petrarcheschi) e Vanacker 2009, dove questo ed altri miti venatori sono analizzati nella loro evoluzione a partire dall’antichità. Alle occorrenze petrarchesche (canzone 23, madrigale 52 e sonetto 190) sono dedicate le pp. 125-140, dove sono indicati ulteriori riferimenti bibliografici utili. In particolare è interessante notare l’evoluzione dell’immagine nel Canzoniere: dapprima la trasformazione, di stampo ovidiano, si abbatte sul poeta colpevole, poi la cerva è l’amata, passaggio che sembra cancellare ogni elemento sensuale, spostando l’attenzione sulla dimensione spirituale. Il madrigale 52, che riconfermava la componente erotica già propria del voyerismo di 23, presenta invece una versione semplificata, in cui si staglia l’immagine della bagnante. 275 Così ad esempio Santagata 1996, p. 270, che evidenzia la canonica correlazione tra simili suggestioni e forma del madrigale. Sulla questione si tornerà nel corso del presente paragrafo. 129 identificata Laura276. Un’apparizione molto simile, che suggerisce anche il medesimo riferimento classico, si trovava ancor prima nella canzone 23277, nel presentare una fase cruciale dell’esperienza amorosa e delle sue durissime conseguenze: “[…] e quella fera bella et cruda / in una fonte ignuda / si stava, quando ‘l sol più forte ardea” (vv 149151). Della figura femminile non si dice altro e la sua vendetta (il poeta si trasforma in un cervo) fa pensare ben più a una Laura-Diana che a una Laura-pastora. Tuttavia, il contesto è lo stesso, compresa l’ora, e così l’atteggiamento del poeta. Non per niente è mezzogiorno, il momento di massimo calore, associato alla sensualità. E proprio la sensualità, lo si è visto, è il tratto precipuo delle pastorelle, che sono distinte in modo inequivocabile dalle canzoni cortesi proprio per tale aspetto, oltre che per l’identità della figura femminile. Tale fattore, per altro già profondamente sublimato, poteva trovare ancora qualche spazio accanto alle prime sestine, nell’ottica cioè dell’amore giovanile e delle sue pulsioni. In 126 la prospettiva è, invece, mutata: nel pieno della raccolta, essa è espressione di un poeta (e di un amante) più maturo – verrebbe da dire, dopo la svolta delle “canzoni degli occhi”. Il desiderio non sarà mai cancellato, l’amore resta eros e Laura una donna terrena, è vero; tuttavia ora la bagnante ha una connotazione ben diversa. Conta di certo che l’immagine sia filtrata in parte dal ricordo e in parte dall’immaginazione, che portano a definitivo compimento la sublimazione del corpo; lo stesso si dica per 127 e 129, dove la visione dell’amata nella natura è del tutto mediata dall’ossessivo pensiero dell’io lirico278. In questi due testi si definisce ancor meglio l’importanza della natura nel costruire la relazione amorosa e, di riflesso, l’identità dell’io poetico: essa non è soltanto uno sfondo, un contenitore279. 276 Il madrigale 52 è forse l’esempio più eloquente di composizione anteriore al Canzoniere riadattata per essere inserita nella raccolta. Anche tale aspetto sarà approfondito in seguito. 277 Più in generale, la canzone 23 è molto ricca di elementi naturalistici, in relazione alla scelte delle trasformazioni inflitte al poeta e in coerenza con l’ambientazione di 22. Per certi aspetti, inoltre, sia la peculiarità delle immagini, sia gli spunti naturalistici in cui sono inserite, permettono di collegare anche 23 e 135. Discorso simile vale anche per 323. 278 Un meccanismo psicologico molto simile viene delineato nel sonetto 176. In 225, la rappresentazione è più ambigua tra realtà di un incontro concreto e percezione alterata della visione, laddove il poeta descrive l’amata tra le compagne, ma come fossero in trionfo. 279 L’interpretazione del riuso del genere della pastorella è proposta secondo una prospettiva diversa in Malzacher 2013, benché l’idea dell’impegno poetico onnicomprensivo di Petrarca vi rimanga fondamentale. Secondo la studiosa, il componimento che meglio riflette l’attenzione di Petrarca alla pastorella è il sonetto 89, con la sensibile mediazione del sonetto dantesco Cavalcando l’altrier, che a sua volta rileggeva il genere e lo inseriva nella Vita nova. Alcuni tratti riconoscibili passano in effetti dalla proposta dantesca a quella petrarchesca: allontanamento dalla dama, momentanea apertura (spaziale e sentimentale), incontro per via, stato d’animo, lamentela nei confronti di Amore. Tuttavia, si potrebbe proporre qualche obiezione contro il paragone, rispetto alla natura dell’incontro. Infatti, si tratta di Amore: se in Dante tale cambiamento dell’interlocutore non impediva la forte influenza della pastorella, ad esempio per l’immagine del poeta a cavallo o per il sintagma topico “l’altrier”, in Petrarca tutti questi elementi vengono a mancare. Si ha dunque l’impressione che per 89 il riferimento a Dante sia molto più pregnante di quello ai trovatori. Per altro, il medesimo sonetto petrarchesco propone una diversa strategia per richiamare la tradizione cortese, in quanto esso è costruito sull’idea della libertà temporanea e della prigionia desiderata, concetto trobadorico e in particolare riconducibile ad Aimeric de Peguilhan (si veda Santagata 1996, p. 440). La connessione con la pastorella in sé e per sé sembra troppo labile, poiché gli elementi che potrebbero derivarne richiedono, per essere compresi, la mediazione dantesca: appunto tale collegamento appare significativo di quello di genere. Malzacher 2013, infine, vede i medesimi richiami 130 Piccolo corollario della rappresentazione di Laura nella natura280 è l’idea, per altro convenzionale, dell’esca o laccio tesi, per far innamorare il poeta: la trappola viene nascosta nell’erba. La medesima immagine si trova nel madrigale 106, dove Laura è trasfigurata in angelo281, e nel sonetto 271, dove l’amata è sostituita da una possibile nuova fiamma, subito spenta. Nel madrigale 54 lo spazio naturale in cui il poeta prima cade vittima della dama – qui “pellegrina” – e poi si accorge dell’errore si presenta in modo molto simile. Le corrispondenze metriche e stilistiche di 54 con 52 e 106 precisano l’intreccio di rimandi tra testi amorosi e penitenziali. Tale impressione è confermata nel sonetto 190282, dove di nuovo è mezzogiorno, di nuovo la natura è primaverile (“stagione acerba”, v 4), di nuovo è indicato l’elemento acquatico. Torna anche la caccia, anche se non più attraverso la divina Diana (come in 23 e 52283); la situazione di 23 è in parte recuperata (il poeta sta cacciando) e in parte ribaltata (qui è Laura trasfigurata in cerva). E soprattutto si assiste ad una nuova apparizione boschiva: “Una candida cerva sopra l’erba / verde m’apparve […]” (vv 1-2). La conclusione del percorso, che dà completezza al riuso fin qui analizzato, si trova nella seconda sezione del Canzoniere. La morte di Laura, per quanto non ne cambi lo statuto ontologico di donna terrena, il cui corpo non può essere dimenticato, consente di giungere al culmine della sua rappresentazione disincarnata. Ella, infatti, riappare in più occasioni come spirito284 e tali visioni, improvvise e consolatorie, rappresentano un alle due fonti provenzale e dantesca anche nel sonetto 69, per la situazione del viaggio e l’idea della fuga da Amore (presente d’altro canto nello stesso sonetto 89). Sarebbe significativa anche la vicinanza a 68, dove il poeta dibatte interiormente tra tensione trascendente e amore terreno: il legame intertestuale richiamerebbe la connessione tra genere della pastorella e riflessione sulle diverse realtà amorose – sensuale o cortese – in area trobadorica. Su tali aspetti della tradizione cortese si tornerà nel corso del presente paragrafo; si veda intanto Picone 1979. Le posizioni di Malzacher 2013 saranno ulteriormente approfondite in seguito. 280 Sulla peculiarità delle apparizioni laurane nella natura si è soffermato anche Cherchi 2008, p. 139, sottolineando come l’immagine dell’amata mescoli la riminiscenza del genere provenzale della pastorella alla suggestione dantesca e stilnovistica (Matelda e la donna-angelo). Una differenza essenziale tra gli antecedenti si riscontra proprio nell’identità della dama: una castellana per i trovatori, una cittadina (in ottica comunale) per gli stilnovisti. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che anche Laura è associata alla dimensione urbana, in quanto ella abita ad Avignone, con tutti gli spunti critici che ne derivano. 281 Cosicché l’elemento tradizionale e topico del laccio si fonde allo spunto stilnovistico, cui per altro corrisponde l’immagine di luce nel finale del componimento. 282 L’elemento penitenziale contraddistingue il finale, come in 54: la caduta nell’acqua, anche altrove nel Canzoniere (sonetti 67-69), simboleggia infatti il risveglio, la presa di coscienza. 283 Capovilla 1998. Lo studioso evidenzia in merito la connessione con il più tardo genere della caccia, che per molti aspetti deriva dall’evoluzione del madrigale o per lo meno di alcune sue caratteristiche essenziali. L’insistenza sui medesimi elementi tematici e rappresentativi costituisce, d’altro canto, anche una strategia per rilevare il legame tra i quattro componimenti, evidenziato inoltre dal loro numero ridotto, al di là della disposizione nella serie dei fragmenta. 284 Per la seconda sezione vanno ricordati i fragmenta 279, 281, 282, 283, 284, 285, 286, 302, 334, 336 (ma la visione vi rimane implicita), 341, 342, 343. In 340 la visione è momentaneamente negata da Laura, con somma disperazione del poeta. Inoltre, due testi (250 e 251) anticipano la visione a prima della morte, arricchendo la rappresentazione del presagio della dipartita. Come sottolinea Malzacher 2013, p. 215, rifacendosi in particolare ad uno studio di Büdel del 1975, le visioni in senso stretto sono quelle che avvengono nel panorama valchiusano, registrate nei sonetti 279-281 e in parte fino a 286. Vanno invece distinti i luoghi in cui si parli più precisamente di sogni. Tuttavia, la maggior parte dei componimenti in cui Laura riappare dopo la morte non precisano la natura del contatto col poeta; dunque tale rigida distinzione è poco significativa ai fini interpretativi, come ha sostenuto Baranski in Picone 2007, pp. 617640 e come ammette la stessa Malzacher, a p. 241. Baranski, p. 618 propone tuttavia una definizione fin 131 efficace corollario di quelle in vita285. Tale aspetto è evidente soprattutto nel breve ciclo 279-281: nei tre sonetti infatti l’apparizione di Laura è contestualizzata con precisione nella natura valchiusana. Si leggano ad esempio i versi 1-4 di 279: “Se lamentar augelli, o verdi fronde / mover soavemente a l’aura estiva, / o roco mormorar di lucide onde / s’ode d’una fiorita et fresca riva”, che ripropongono per altro un incipit stagionale. Lo stesso vale per la prima terzina di 280: “L’acque parlan d’amore, et l’òra e i rami / et gli augelletti e i pesci e i fiori et l’erba, / tutti inseme pregando ch’i’ sempre ami”, dove è convenzionale l’associazione tra spazio ameno e primaverile, e stato amoroso286. Infine, la descrizione paesaggistica di 281 appare meno ricca, ma più diffusa nell’arco del testo: Laura è “nimpha” o “diva” al v 9, che esce dal “più chiaro fondo di Sorga” (v 10), siede sulla “riva” (v 11) per poi camminare sull’“erba fresca” e sui fiori (vv 12-13)287. A proposito del riuso della pastorella è utile menzionare la recente proposta di Alice Malzacher288. La studiosa, partendo dalla riflessione di Picone sullo sviluppo del genere in area italiana e in particolare nell’opera dantesca289, identifica un triplice parallelismo tra trovatori, Dante e Petrarca. In ambito occitanico, il desiderio erotico verso la pastora rappresenta un’interruzione delle logiche cortesi, dunque una momentanea liberazione dai vincoli dettati da una dama assente e rigida nelle sue virtù. L’amore di Dante per Beatrice ben corrisponde a quello fino per la dama; tuttavia il miglioramento che deriva dalla tensione emotiva, che nei Provenzali ha ancora una valenza esteriore e sociale, lascia ora spazio al percorso spirituale verso Dio, mediato dalla figura femminile. Le donne-schermo richiamano in parte la rappresentazione dell’amore carnale, ma il cambiamento è radicale, poiché le manifestazioni più concrete del rapporto sentimentale non trovano più posto nella poesia stilnovistica. Secondo Malzacher, in Petrarca il riuso della pastorella comporta al contrario l’identificazione tra l’amore totalizzante per Laura e il desiderio per la pastora: Laura cioè non è una dama lontana e virtuosa, ma sensuale e presente, terrena e quindi legata all’idea del peccato. Tale attrattiva è irresistibile e il poeta non può fuggire290. troppo netta di tali momenti del Canzoniere: quelli di Laura non solo non sarebbero “interventi miracolosi” come quelli di Beatrice, ma inoltre si identificherebbero con emanazioni che riflettono l’io poetico stesso. Sulla questione si tornerà in seguito. 285 Tra le visioni post mortem vanno annoverate anche quelle figurative di 323, con cui è evocata la morte di Laura, appunto in forma di trasfigurazione; spesso l’ambientazione è naturalistica. 286 Tanto più interessante in quanto in 280, a differenza dei due sonetti vicini, si avverte maggiormente l’identità ormai celeste di Laura e di conseguenza un afflato morale-penitenziale. 287 L’ambientazione valchiusana non è più proposta in modo esplicito nei cinque sonetti che seguono; tuttavia il protrarsi del tema delle apparizioni laurane lascia pensare che anche il paesaggio di riferimento rimanga implicitamente il medesimo. 288 Malzacher 2013; tale studio è dedicato in realtà al rapporto tra Canzoniere e Vita nova, che viene approfondito anche in relazione al recupero del genere trobadorico in esame. 289 Picone 1979, pp. 88 segg. 290 È ciò che accade in particolare nei sonetti 69 e 89, che Malzacher 2013 propone in quanto esempio del riuso della pastorella, pp. 145 segg. È interessante notare che la medesima interpretazione “terrena” e “sensuale” di Laura viene riproposta in merito alle sue apparizioni post mortem e quindi al valore morale della consolazione che ne deriva. La studiosa insiste infatti sulla dicotomia tra una Laura ormai assunta in cielo e l’attaccamento del poeta per ciò che di terreno ne rimane (il ricordo), distinguendo però nettamente tra i due aspetti, al fine di mettere in luce la differenza tra Petrarca e Dante nella reazione alla morte dell’amata (pp. 205 segg). 132 Questa interpretazione della figura di Laura, tuttavia, non tiene conto della complessità che contraddistingue la sua relazione con l’io poetico. Infatti gli elementi di tensione e attrazione irresistibile sono sì determinanti nella visione laurana, come anche nel Secretum, ma la responsabilità non appare tanto dell’amata, quanto dell’io e della sua debolezza nel rifiutare le “catene dorate”. La figura femminile è di per sé più volte descritta come “fiore” della virtù e, nella seconda sezione, il suo rifiuto è definito come l’unico rimedio all’inestinguibile volontà erronea del poeta291. Quanto alla mancanza di un amore spirituale in vista di un sentimento esclusivamente terreno, che contrapporrebbe Petrarca sia ai trovatori che a Dante, tale affermazione non tiene conto delle due possibili sfumature d’amore spirituale che, al contrario, sono delineate nella raccolta. Da una parte va ricordata la rappresentazione salvifica dell’amore per Laura: benché non sia mai raggiunto in modo definitivo e solido, tale sentimento è suggerito in più occasioni da Petrarca292. D’altro canto, anche l’amore verso Dio, benché diverso, è amore: di nuovo, una realtà che il poeta cerca invano di afferrare, ma che comunque non smette di desiderare. L’interiorità dell’io poetico, insomma, appare molto più complessa e stratificata di quanto non possa sembrare a prima vista, impedendo una schematizzazione così netta, per quanto gli elementi di sensualità e peccato identificati da Malzacher siano certamente presenti, come una delle molte componenti dell’esperienza petrarchesca293. 5.1 Il riuso della pastorella (madrigali petrarcheschi) Il madrigale, strettamente legato all’evoluzione della musica verso le nuove forme polifoniche294, nasce nel ‘300, rispondendo ai gusti e ai passatempi delle corti; proprio a 291 Anche Petrini 1993, cui più volte Malzacher 2013 fa riferimento, evidenzia da una parte la complessa natura della Laura petrarchesca, donna terrena, storica e sensuale anche quando è descritta in qualità di “beatrice”, dall’altra i tentativi del poeta alla ricerca di pace interiore (pp. 99 segg.). La questione è comunque molto complessa e non a caso vari studiosi vi si sono soffermati; si ricordino ad esempio, tra le riflessioni più specifiche, Suitner 1994 e Spinetti 1994. Per altro il problema riporta all’interpretazione degli elementi stilnovistici nel Canzoniere, delle “canzoni sorelle” e dunque alla bibliografia che è stata loro dedicata, citata in precedenza nel presente capitolo. 292 Malzacher 2013 finisce per rifiutare in toto la presenza stilnovistica nel Canzoniere. 293 La riflessione della studiosa sulla “poetica della presenza”, sull’amore immediato e totalizzante in Petrarca, rispetto alla visione mediata e oggettivata di Dante, non appare conflittuale con l’ampliamento della prospettiva che qui proponiamo, ed anzi appare convincente. 294 Come suggerisce Capovilla 1998, il madrigale offre un’interessante prospettiva rispetto alla vita culturale trecentesca – cortigiana e mondana –, al rinnovamento delle tecniche melodiche e anche ai gusti individuali del poeta, che fu appassionato di musica. Egli, ad esempio, indugia spesso sulle doti canore dell’amata esaltando per altro la sua piena realizzazione delle norme di comportamento femminile (il topico elogio di voce ed eloquio sarà approfondito nel capitolo seguente). In tal senso, l’ambiente bolognese sembra essere stato particolarmente favorevole per la commistione tra musica, canto e poesia, come testimonia lo stesso Petrarca nelle Senili (Capovilla 1983). Non a caso è noto che il madrigale 52 è stato anche musicato da Jacopo da Bologna, e dunque in origine pensato in ambito conviviale, cioè per la funzione naturale del genere. Non risultano simili informazioni per altri testi, compresi gli altri madrigali; tuttavia è probabile che il poeta abbia pensato altre sue composizioni per l’accompagnamento musicale – presumibilmente almeno le ballate, dato anche il loro numero elevato fra le liriche “disperse”. Simili testi petrarcheschi, come suggerisce Capovilla 2005, potrebbero addirittura essere stati in parte conservati anonimi. 133 Petrarca se ne devono le prime realizzazioni letterarie colte. Si tratta di un genere leggero295, galante, d’abitudine occasionale anche dal punto di vista tematico; spesso esso viene scelto per proporre motivi amorosi ed erotici. Benché di per sé sia un genere nuovo296, se ne possono individuare significative connessioni con la tradizione letteraria, soprattutto nelle sue forme più lievi e giocose: ad esempio, la ballata – altro genere musicale, già da tempo accolto nell’alveo della letteratura colta – e la pastorella – per l’approccio scherzoso alla materia amorosa, nonché per le frequenti immagini o ambientazioni campestri297. La leggerezza che ne è tipica favorisce l’adozione nell’ambito di tali generi di immagini codificate e convenzionali, per cui le variazioni individuali nascono a partire da soluzioni ben definite e limitate298. Sono tipici dei primi madrigali, ad esempio, gli elementi enigmistici: essi veicolano di frequente indovinelli, acrostici, giochi nominali o sui senhal. Tali aspetti sono presenti nel Canzoniere, anche se non caratterizzano direttamente i madrigali; tuttavia a tali elementi giocosi si possono accostare le cosiddette “isotopie” del nome di Laura, il primo esempio delle quali è proposto proprio nel madrigale 52299. D’altronde, come si è visto, nel medesimo madrigale si concentrano altre immagini tipiche della letteratura galante del tempo, Per il rapporto tra poesia e musica nel madrigale (ma anche nella caccia), con specifico riferimento all’ars nova, si veda Russell 1982, pp. 73-84; inoltre Gallico 2005 e 2006, Cerocchi 2010. 295 La natura lieve del genere non impedisce a Petrarca di legare profondamente i suoi quattro madrigali agli altri componimenti della raccolta, ben più impegnativi, per tema, ispirazione, immagini, stile. Un’importante analisi di tale unità intertestuale si legge in Capovilla 1998, che insiste sul valore di simili intrecci anche al di là della consueta ricerca petrarchesca di uniformità. Tale impegno da parte del poeta può essere anzi inteso come una forma di sperimentalismo, come il tentativo di scoprire e sperimentare tutte le potenzialità espressive del nuovo genere. Tale attenzione è d’altro canto suggerita anche dalla posizione rilevata dei quattro componimenti: due vicinissimi, quasi ad evidenziarne la peculiarità formale, e inseriti in un breve, ma significativo ciclo, in cui per la prima volta si suggerisce la possibilità di superare l’amore per Laura. Gli altri due sono affiancati a testi d’anniversario, che al contrario affermano la stabilità e l’ossessiva costanza del sentimento. 296 Solo con Sacchetti diviene abituale arricchire i canzonieri lirici con simili componimenti; sino ad allora l’innovazione petrarchesca resta isolata e i madrigali sono confinati nelle raccolte musicali, in cui è la notazione ad avere importanza, mentre alle parole spetta un ruolo di accompagnamento o poco più. In questo tipo di raccolte i componimenti sono molto spesso anonimi. Per tale aspetto si vedano ad esempio Capovilla 1983 e 1998. Ciò non significa, per altro, che siano mancati esprimenti anteriori affini, benché non legati all’orizzonte letterario alto, come testimonia Francesco da Barberino. Infine, bisogna ricordare che la nostra percezione è orientata anche dalla datazione alta proposta per i madrigali da Wilkins (anni avignonesi, ’26-’36 e ’45-’46) che potrebbe però essere rivista. 297 Su tali aspetti bucolico-pastorali spesso idilliaci si soffermano in particolare Capovilla 1983 e 1998, sottolineando che alle fonti principali toscane – quadri cortesi, scene campestri e così via – si associa molto probabilmente il ricordo della pastorella provenzale e in generale della tradizione cortese, piuttosto coerente anche sul piano dei destinatari e dei gusti aristocratici. Potrebbe forse essere considerata la tradizione bassa e popolare, su cui è difficile approfondire oltre. Per le componenti tipiche di tali ambientazioni nel madrigale 52, vedi Dolla 1976. 298 Si veda Santagata 1999. Già Capovilla 1983 e 1998, comunque, avevano considerato tale aspetto nella valutazione del madrigale nel rapporto con la vita di corte, con particolare riferimento a quelle venete, dove il genere ha avuto origine e sviluppo: la centralità della musica (testimoniata dalla tradizione manoscritta non lirica di gran parte di tali testi) e i vincoli imposti dall’appartenenza di genere favoriscono l’uniformità tematica e stilistica. A questo si aggiunge l’intento condiviso di esprimere immagini e concetti che siano familiari all’ambiente di corte, cioè al pubblico d’elezione del genere stesso. In tale ambiente non sembrano esserci state molte distinzioni tra poesia colta e versificazioni occasionali per musica. 299 È la prima apparizione della forma “l’aura”, come ha sottolineato Capovilla 1998. 134 come quella della bagnante e quella della pastorella. Ed è appunto attraverso il genere del madrigale che viene introdotta con maggior evidenza nel Canzoniere la tradizione bucolica romanza300. Appare fortemente tipizzata anche la forma. Per quanto breve, il madrigale è spesso tripartito, a livello logico e ritmico. Alla vivacità del tono si accompagna però molto spesso un elemento di ellitticità, proprio in virtù della rapidità con cui scorre il discorso301. Petrarca tiene ovviamente conto di tali tendenze302, ma non rinuncia ad un’autonoma trasformazione del genere, in vista dell’inserimento nel discorso unitario e coeso della raccolta. Il fatto stesso che si possa parlare di un “ciclo dei madrigali”303 rivela lo sforzo compositivo volto a rendere coerenti i diversi componimenti, sul piano della forma e del contenuto; i quattro testi – a coppie o nell’insieme – sono legati da significativi parallelismi che possono essere individuati di volta in volta secondo criteri diversi, stilistici o tematici304. Si può notare in primo luogo che in 52 e 106 Petrarca ha adattato la forma del madrigale ai procedimenti binari che gli sono più tipici, secondo una progressione dualistica che ovviamente si impone anche all’organizzazione della materia305. Sul piano del contenuto il fattore preponderante appare la rappresentazione 300 Ancora una volta si tratta del madrigale 52: tale fragmentum nasce (ormai è opinione condivisa dai critici) come componimento galante occasionale, dedicato ad un’avventura amorosa e a lungo svincolato dalla figura di Laura. È significativo, come nota Santagata 1999, che la visione erotica avvenga lontano dai luoghi familiari al poeta: l’idea del viaggio, dello spazio aperto e un po’ selvaggio fornisce l’ambientazione essenziale proprio nelle “pastorelle” occitaniche. Tratti simili possono essere colti anche nel sonetto 16, legato per altro a 54 per la medesima evidente mescolanza di aspetti sacri e profani (veicolata nel secondo madrigale soprattutto dai riferimenti letterari), ma anche in Cino da Pistoia e Cavalcanti: nel primo si parla esplicitamente di pellegrini, nel secondo l’eco provenzale è indubitabile. Sulla peculiarità della composizione dei madrigali, la loro origine occasionale e il loro inserimento nella raccolta si legga anche Paolino 2001. 301 Capovilla 1998. Si noti che ad un discorso impostato secondo tali tendenze, si affianca nella maggior parte dei casi non l’effusione lirica, ma una rappresentazione più concreta, immediata sul piano espressivo, ricca di spunti realistici e poi sostanziata di significati allegorici (come per altro anche nei madrigali petrarcheschi). Su tali aspetti si sofferma lo stesso Capovilla 1998. Sulla tripartizione di 54 e 121, a fronte del più evidente andamento binario di 52 e 106 (per altro più tipico nell’insieme della versificazione petrarchesca), riflette soprattutto Dolla 1979, che offre un’estesa analisi metrico-formale dei quattro componimenti, allo scopo di esaltarne le affinità, rispetto alla costituzione di un ciclo unitario in seno alla più ampia raccolta. Già in Dolla 1976 si trova un’attenta osservazione della struttura dei madrigali, con particolare attenzione alle scelte rimiche. Su tali aspetti è tornata infine la lettura di Capovilla 1983, approfondendo sulle intenzioni di innovazione e sperimentazione del poeta in tali sedi. Nei madrigali infatti non si ripetono mai le stesse rime e sono messe alla prova caratteristiche di solito proprie di generi diversi. Ad esempio, 52 riecheggia la terzina dantesca, 54 quella di Cecco d’Ascoli, con l’aggiunta di un distico finale tipicamente trecentesco e settentrionale. 106 riprende le terzine del sonetto; 121 una concatenatio molto diffusa al tempo e tipica anche di alcune canzoni e ballate petrarchesche. Gli spunti settentrionali sono molto significativi, in quanto spesso la produzione poetica di tale zona è caratterizzata da una maggiore varietà metrica rispetto a quella toscana. 302 I madrigali, in conclusione, hanno anche il valore di svelare un Petrarca più legato al suo tempo e all’attualità culturale, meno assoluto e isolato, non volto soltanto alle forme espressive più nobili e stilizzate. Lo sottolinea Capovilla 1983, che pensa anche alla frottola e, in parte, alla ballata. 303 Dolla 1976 e 1979. 304 Sull’unità del ciclo, anche sulla base dell’omogeneità concettuale e soprattutto rispetto alla rappresentazione dell’amata, insiste in particolare Dolla 1979, i cui risultati sono anticipati in Dolla 1976. 305 Per tale questione e più in generale per una riflessione sulla natura stilistico-espressiva dei quattro componimenti si vedano in primo luogo Dolla 1976 e in parte 1979. 135 di Laura306, che costituisce un’ulteriore fonte di unità per il ciclo, in sé e in rapporto al Canzoniere. Pur registrando alcune costanti del genere, come l’epifania in contesti naturalistici o i dettagli più sensuali (52 e 54), Petrarca impone ai quattro testi una significativa evoluzione da una concezione passionale dell’amore ad una più casta, la medesima che si delinea nella raccolta stessa (benché non ci siano madrigali nella sezione in morte)307. Ulteriori connessioni intertestuali sono state identificate dagli studiosi, tra i quattro testi e con gli altri generi308. Si pensi alle ballate o al fragmentum 105, in cui Petrarca nobilita a canzone lo schema della frottola, altra forma poetica in origine del tutto priva di solennità309. Può essere utile aggiungere un’ultima riflessione sul significato della presenza del madrigale nel Canzoniere. Nel sistema dei generi siciliano e poi toscano, la funzione del genere breve è svolta dalla ballata nelle sue forme più sintetiche e dal sonetto. Dante utilizza anche la stanza di canzone, che dal punto di vista dell’origine, in quanto porzione di un testo più ampio che assurge poi ad autonomia metrica, ricorda l’evoluzione della cobla provenzale. In Petrarca invece il metro più breve, oltre che più innovativo, è appunto il madrigale: esso si mantiene in forme piuttosto ridotte, al contrario della ballata. Scompare invece la stanza di canzone. È lecito perciò pensare che sia proprio il madrigale ad assumere il ruolo della cobla: genere basso, ma destinato ad ampio uso ed apprezzamento, adatto alla circolazione sia in raccolta sia in modo autonomo, e soprattutto aperto ad una maggiore varietà di temi, non solo rispetto alla canzone, forma alta per eccellenza, ma anche ai più canonici sonetto e ballata310. 306 Dolla 1976 parla, rispettivamente per i quattro madrigali, di pastorella, pellegrina, angeletta e giovane donna, evidenziando dunque con efficacia gli elementi di coerenza e quelli di evoluzione rispetto al personaggio. Per altro, a tale rappresentazione in fieri ben corrisponde il graduale cambiamento dello stile, che ancora una volta segna continuità e unità nel ciclo, ma evidenzia anche la specificità di ciascun componimento. 307 Dolla 1979. 308 Basti pensare alla già citata storia redazionale del madrigale 52, significativamente rivisto per essere adattato alla raccolta, come anche, probabilmente, 54 e 106; entrano per altro in gioco anche aspetti di tipo cronologico, cioè rispetto all’effettivo momento della composizione, piuttosto che alla fittizia collocazione nella vicenda spirituale dell’io. Per tali questioni si veda Santagata 1999 pp. 179 segg, che offre in merito a 54 altre utili indicazioni bibliografiche (con specifico riferimento a Contini 1970 e alla lettura di De Robertis) e un approfondimento relativo alle connessioni intertestuali nella serie 52-55. Sull’aspetto dell’intertestualità avevano approfondito già Capovilla 1983 e 1998; lo studioso insiste piuttosto sul legame che sembra unire i madrigali a 23, 126 e in generale alle rappresentazioni naturalistiche (nel Canzoniere, ma anche in parte dei Triumphi). D’altronde già Dolla 1979 aveva insistito su tali rapporti, anzi suggerendo possibili paralleli o per lo meno fattori di coerenza e coesione su scala molto più ampia. I madrigali si presentano dunque come un ciclo unitario, come una serie di coppie (si è detto che le combinazioni possibili tra i quattro testi sono molteplici, a riprova del loro legame reciproco) e come parte integrante della raccolta al medesimo tempo. Un ciclo aperto, dunque. Capovilla 1983 sottolinea in particolare come tali testi – brevi e occasionali – si leghino soprattutto agli spunti semantici forniti dai testi alti per eccellenza, le canzoni. Per un’analisi dei richiami culturali che arricchiscono il testo di 54, si vedano Santagata 1999, pp. 179 segg, Capovilla 1983 e in parte Capovilla 1998. 309 Capovilla 1998. È indicativo che tale componimento sia adiacente proprio al terzo madrigale. 310 La componente pastorale si ritrova, in parte, anche nel sonetto 245, soprattutto in incipit, in particolare richiamando la pastorella di Giraut de Bornelh, che era in parte riferimento già per il madrigale 106. Per tali rimandi intertestuali e per l’interpretazione della particolare ed allusiva situazione in 245, si veda Tonelli 1996. 136 5.1.1 Pastorelle trobadoriche Per quanto le caratteristiche fondamentali del genere pastorella311 siano evidenti, una sua definizione stringente presenta non poche difficoltà: si possono infatti riscontrare alcune costanti, che il confronto con la lirica cortese alta rende ancor più evidenti, ma ciascun componimento altera quegli elementi creando non pochi casi ambigui312. Una definizione piuttosto soddisfacente, perché adatta alla maggior parte dei testi che siano stati a vario titolo accostati al genere, è quella di Paden313: in una pastorella non possono mancare un uomo e una donna – lei di solito è una giovane pastora –, il loro incontro dev’essere casuale e portare ad un tentativo di seduzione, per lo più da parte dell’uomo. La progressione del discorso ha carattere narrativo e dialogico, e il punto di vista preminente è quello maschile314. Un altro fattore molto utile per una ricognizione 311 Anche la scelta del nome, che ovviamente deriva dalla presenza di una “pastora”, appunto di genere femminile, si deve ad un poeta cortese, Pedr’Amigo de Sevilha, che introduce la sua Quand’eu hun dia – una delle pochissime pastorelle galego-portoghesi (per le quali si veda ad esempio D’Heur 1981), siamo nella seconda metà del ‘200 – dichiarando appunto di comporre per la dama una “pastorella”. Anche Jean de Neuville offre un interessante indizio in merito in L’autrier par un matiner, un testo spiccatamente metapoetico perché tutto giocato sull’ambiguità tra figura femminile e componimento lirico: qui il poeta si rivolge alla sua “pastorella”, non alla sua “canso”. Sono occorrenze particolarmente importanti, in quanto il termine conosce, almeno in area d’oil, anche una seconda, ben diversa accezione: può indicare, infatti, un ritornello del tutto slegato dal discorso principale. Non è questo il caso né di Pedr’Amigo né di Neuville, come dimostra anche la struttura della melodia di accompagnamento che si è conservata. Un caso realmente ambiguo è invece quello di Aun ajornant in cui si definisce il testo “chanson pastorelle”, dunque una sorta di ibrido, che in effetti la critica per lo più non accetta nel novero delle pastorelle, ritenendolo una canzone primaverile d’ambientazione pastorale. Anche in altri documenti, di per sé estranei al genere, se ne riscontra l’indicazione: ad esempio nel fabliau Deus Bordeors (in cui si elencano vari generi letterari, tra cui anche il sirventese) o nel Thezaur di Peire de Corbiac (che si vanta appunto di saper comporre pastorelle), due volte nel Tristan (dove le pastorelle sono sia inserite tra i canti della corte sia come parte dell’insegnamento cortese che Tristano offre ad Isotta). Il riferimento potrebbe però concernere la sola ambientazione. Fonti ulteriori sono quelle biografiche, che però possono aggiungere anche nuovi fattori d’incertezza. È questo il caso della vida di Cercamon, in cui si dice che egli compose “pastoretas a la usanza antiga”. Secondo Gaston Paris, comunque, le uniche forme accettabili sono “pastoreta” (provenzale e forse più antica) e “pastorela”, francesizzata e più diffusa, soprattutto dal ‘200. 312 Con qualche scarto a seconda dell’interpretazione dei singoli studiosi, il corpus delle pastorelle comprende per lo più trentotto componimenti. 313 Citato in Franchi 2006, pp. 13 segg. Lo studio di Franchi è molto ricco ed utile: ad esso si farà ampio riferimento nella presente trattazione. 314 Oltre ai componimenti, anche le opere di carattere trattatistico (Leys d’amor, Doctrina de compondre dictats, Razos de trobar) hanno offerto un efficace punto di partenza ai critici moderni: elencano i personaggi (soprattutto quello femminile, e la tipologia di animali che lo accompagnano, pecore, vacche o porci – Zink 1972) e le loro tipologie, il linguaggio più adatto, il numero delle stanze e il meccanismo dialogico (che identificherebbe addirittura una sorta di macrogenere trobadorico, secondo Zumthor – citato in Franchi 2006, pp. 38-39), lo scopo del discorso, non una lite come nella tenzone, ma un gioco letterario, un divertimento. La bibliografia sulla questione è ampia (se ne trovano indicazioni utili in Franchi 2006, ad esempio in merito agli studi di Paris, Jeanroy, Kohler, Biella e Zumthor, presentati alle pp. 33 segg). Per gli studiosi contemporanei l’aspetto più interessante è sempre stato quello contenutistico e tematico (in particolare la forma di amore ben diversa da quella cortese), mentre hanno trovato minor spazio considerazioni metriche e strutturali, eccetto quelle destinate a precisare l’alternanza dialogica delle voci. La metrica, in effetti, non pare rivestire una precisa funzione definitoria rispetto al genere. Tuttavia, come in generale per la produzione cortese, anch’essa è oggetto d’attenzione e studiato artificio da parte degli autori: in ambito provenzale valgono le medesime consuetudini che contraddistinguono la canzone (fino a quando non si imporrà del tutto il modello oitanico), benché ne vengano mutuate 137 sul genere sono le informazioni paratestuali: spesso, infatti, i testi di questo tipo sono introdotti da rubriche esplicite, che rivelano la precisa sensibilità tardo-medievale per la codificazione letteraria315. In alcune occasioni è l’autore stesso ad offrirne lo spunto, come nel canzoniere di Guiraut Riquier, che ha arricchito la propria raccolta con indicazioni tassonomiche e cronologiche proprio al fine di creare una silloge unitaria316. La pastorella è contraddistinta da dettagli tematici e strutturali ricorrenti e riconoscibili, che di per sé, tuttavia, si colgono spesso anche altrove nella produzione cortese: è piuttosto la loro combinazione a risultare significativa317. La differenza è ad esempio molto evidente a livello espressivo se si osserva l’aspetto psicologico: la soggettività, dovuta alla centralità dell’io che parla in prima persona, è comune all’impostazione delle canzoni, ma nelle pastorelle si inserisce in un discorso “oggettivo”, perché drammatico e narrativo318. Uno dei momenti più rappresentativi del genere è la strofa incipitaria, che introduce ambientazione e personaggi. Non possono mancare indicazioni relative al tempo (di solito si tratta di indizi generici, utili però ad avviare la narrazione) e alla stagione (la primavera, cioè il periodo adatto ad un’esperienza gioiosa e vivificante); sono escluse soprattutto le forme più semplici. In Francia si notano lunghe stanze di versi brevi, uniti da rime molto fitte, esaltate anche dalla melodia vivace. Non si notano peculiarità strutturali significative; l’unico fattore di reale personalizzazione risiede nella lunghezza, poiché restano sia pastorelle bistrofi (le coblas singole sono probabilmente lacunose) sia testi molto lunghi, che arrivano sino a dodici stanze. Né è necessario che esse siano in numero pari. La lunghezza è al contrario più regolare in lingua d’oc, per la prevalenza di componimenti di cinque strofe, che garantiscono sufficiente articolazione in una misura comunque efficace per una fruizione orale. Molto variegata, infine, è anche la fenomenologia delle tornadas, che possono mancare o arrivare sino a quattro in un solo testo. Come sempre in ambito occitanico e francese, il testo poetico è pensato per essere cantato e accompagnato da musica, anche se le testimonianze di notazioni per le pastorelle sono pochissime e lasciano perciò nel dubbio sui ritmi più tipici di simili occasioni comunicative. Si può tuttavia sottolineare un principio valido in genere per le opere narrative: l’accompagnamento non dovrà essere troppo monotono, ripetitivo o cadenzato, in quanto contraddirebbe lo sviluppo naturale del discorso. Per tali aspetti si vedano Zink 1972 e Franchi 2006 (che nel capitolo terzo analizza tutti gli aspetti formali caratteristici del genere, i quali per altro non si rivelano definitori). Sono stati poi approfonditi il punto di vista maschile, che risalta soprattutto nell’incipit e nell’explicit, e il rapporto con la pastora, sbilanciato a livello sociale; ancora, l’ambientazione campestre e la frequente espressione di nostalgia e rimpianto per un amore passato (di solito di stampo cortese). Tuttavia, le costanti sono ancor più numerose, benché non sempre presenti in tutti i testi accolti sotto la definizione di pastorella: ad esempio la ritrosia, spesso temporanea, della fanciulla, l’offerta di doni, la definizione esplicita del ruolo sociale e “professionale” del personaggio femminile, la narrazione in prima persona. 315 Sempre a livello paratestuale, Franchi 2006, pp. 14 segg ricorda tre annotazioni simili su altrettanti codici francesi, la cui peculiarità consiste nell’associazione di più definizioni di genere, come se si trattasse di componimenti dalla natura mista o ambigua. 316 L’interesse dell’opera di questo trovatore rispetto al genere della pastorella si deve anche alla creazione di un vero e proprio ciclo: i diversi testi sono distribuiti nel tempo e mostrano una pastora sempre meno giovane, che però continua a rispondere in modo arguto al poeta. Un simile approccio si coglie anche nella produzione di Gavaudan, di cui però sono rimaste solo due pastorelle (considerando però che il suo corpus complessivo comprende allo stato attuale dieci testi), e in quella di Gui d’Ussel. Di questo trovatore restano due pastorelle implicitamente connesse ed un terzo componimento ispirato al genere, ma pensato come sua variazione, in quanto il dialogo si risolve in uno scambio educativo tra poeta e pastore su temi cortesi. Sui cicli di pastorelle in Guiraut Riquier, Gavaudan e Cerverì de Girona, si veda Franchi 2006, pp. 239-260. 317 Perciò in Franchi 2006, p. 117 si parla di “rifunzionalizzazione” degli strumenti poetici. 318 Su tale aspetto insiste, ad esempio, Jeanroy proprio nel tentativo di definire e differenziare il genere (Franchi 2006, pp. 35-37 e 103-104). 138 soltanto circostanze notturne319. La voce maschile introduce subito il proprio punto di vista, che domina la narrazione pur lasciando ampio spazio alle battute del dialogo320. Infine è determinante l’identificazione dello spazio, naturale321 ed isolato (come richiede la tematica erotica), spesso caratterizzato da un corso d’acqua. Il paesaggio ha un ruolo essenziale nell’individuare le peculiarità della situazione, anche nei suoi aspetti erotico-amorosi, tradizionalmente associati ai luoghi aperti, selvaggi, nascosti322. La differenza del contesto, insomma, contribuisce a costruire un diverso tipo di relazione amorosa e si accorda ad un nuovo canone femminile. In tal modo, il discorso può prendere avvio, per altro garantendo al racconto una certa verosimiglianza323, che qualifica ulteriormente l’io-narratore come testimone affidabile. È evidente dunque la distanza rispetto al genere lirico, in cui la referenzialità della rappresentazione è molto inferiore. Inoltre, la descrizione è spesso arricchita dal canto della fanciulla, da annotazioni sullo stato d’animo del cavaliere all’inizio della vicenda (di solito, nostalgico) o sul suo viaggio. Proprio l’incontro con la pastora avvia la narrazione vera e propria; la circostanza è spesso segnalata dall’uso del verbo “trobar” (al passato narrativo “trobei”), che non a 319 È interessante notare che per lo più viene prediletto il mattino, che condivide con la stagione primaverile l’implicito significato di “tempo rinnovato”. 320 La parte dialogica ha una connotazione dinamica. Vi si concentra la narrazione vera e propria, con lo sviluppo della tematica erotica; l’efficacia delle battute, benché spesso tanto lunghe da sembrare brevi monologhi (per lo più corrispondono all’intera unità metrica), è potenziata in ambito occitanico, creando uno scambio retorico in piena regola. Anche il passaggio dall’avvio in prima persona alla conversazione è codificato, come dimostra l’uniformità dei testi: la pastora pronuncia tra sé e sé una frase (un’esclamazione, una lamentela) che offre al cavaliere il destro per presentarsi ed avviare lo scambio. 321 Benché tale caso sia particolarmente rappresentativo e frequente, non è necessario che si tratti di campagna. Basta che il cavaliere sia lontano dallo spazio abituale del canto cortese – lungo una via, presso un bosco – come richiede l’elemento erotico. Unica eccezione si riscontra in Marcabru (A la fontana del vergier) dove il contesto, ancora cortese, del verziere si adatta al peculiare incontro, che infatti vede protagonista una dama e non una pastora. Non a caso, tale canzone fornisce forse l’esempio più lampante delle difficoltà incontrate dagli studiosi nello stabilire l’effettivo corpus del genere (per questo aspetto, Zink 1972). Si veda ad esempio l’analisi del componimento che offre Limentani 1977. 322 Campi e boschi, infatti, rimandano ad una realtà non civilizzata e avventurosa. A tal proposito, Zink 1972 ricorda le serrane galego-portoghesi (simili a pastorelle, ma molto più improntate all’elemento selvatico e quindi alla carnalità) e il tema tipicamente medievale di uomini e donne selvatici, che vivono allo stato pre-culturale adatto agli animali. Tali connessioni rivelano a monte dello sviluppo letterario le potenti suggestioni del folclore. 323 Ovviamente il concetto di verosimiglianza non va confuso con quello di realismo: l’ambiente rimane infatti estremamente evanescente, una nuova forma di locus amoenus, che delle tradizionali ambientazioni poetiche conserva sia la caratterizzazione sfumata sia l’idea di separazione dalla comunità umana. Il contesto è dunque riconoscibile, ma trasfigurato e tipizzato. Tuttavia Franchi 2006 sottolinea come alcuni testi mascherino sotto l’apparenza erotico-campestre un discorso socio-politico: in tal caso, il valore concreto dei dettagli rappresentativi assume una potenza ben maggiore. Joan Esteve, ad esempio, non si preoccupa nemmeno di nascondere tale interesse: attribuisce alla sua pastora la decisione di dedicarsi a Dio; di fronte a tale limite invalicabile, si avvia un dialogo politico attuale al posto del consueto corteggiamento. In altri componimenti, invece, ne è esaltata l’efficacia retorica, come nelle pastorelle di Guiraut Riquier, pensate per raccontare una vicenda nella sua evoluzione (fino a individuare, lo si è visto, veri e propri cicli di testi) e dunque caratterizzate da dettagli cronologici (data e ora) e geografici molto più ricchi rispetto all’usuale. 139 caso è il predicato tipico del canto poetico: all’azione si associa immediatamente ed esplicitamente un corollario narrativo324. Conclusa la descrizione del contesto e in parallelo della figura femminile, si procede alla caratterizzazione sociale e psicologica dei due personaggi: è determinante in tal senso il dialogo, che talvolta propone un’efficace mimesi linguistica e in generale fornisce indizi rivelatori attraverso l’utilizzo degli appellativi con cui pastora e cavaliere si chiamano a vicenda325. Nella rappresentazione occitanica il personaggio maschile è di frequente326 presentato come verseggiatore: ne derivano interessanti occasioni per riflessioni e valutazioni metapoetiche327. Il discorso acquista così ulteriore verosimiglianza, acuita dal fatto che il riconoscimento del poeta (e spesso anche le indicazioni sulla natura e sull’abbondanza della sua produzione) viene affidato alla voce femminile. D’altronde, insistere sull’identità dell’autore o comunque sul suo impegno poetico significa evidenziare il rovesciamento in atto dei generi più alti, che appunto costituisce uno dei significati della pastorella. Secondariamente, la presenza tangibile di un autore “esterno” e soprattutto la voce del personaggio femminile ridimensionano il peso dell’io che parla in prima persona: anche se il punto di vista resta parziale, la situazione non è incentrata interamente sulla figura maschile, il che costituisce un ulteriore fattore di differenziazione rispetto all’espressione lirica. Per tali ragioni, la pastorella è spesso definita un genere oggettivo. La comprensione del genere (ma anche della figura femminile) dipende dunque dall’ideale raffronto con la poesia cortese328. Ciò 324 Il verbo si trova in incipit in quindici testi su trentotto; in altri sei è presente, anche se viene posto in minor evidenza. Per il resto, si registrano soltanto i predicati “vezer”, “auzir”, “encontrar”. In cinque casi, infine, la presentazione dell’insieme è liberamente rielaborata, introducendo le percezioni del cavaliere secondo modalità autonome. 325 Per una tipologia di tali strumenti espressivi si veda Franchi 2006, pp. 205-218. 326 In ventidue testi su trentotto i riferimenti sono chiarissimi, quando non addirittura espliciti, e spesso rafforzati da altri indizi sparsi nel corso del componimento. 327 Nel ciclo delle pastorelle di Guiraut Riquier l’agnizione del poeta diviene programmatica, come dimostra l’inserimento del suo nome senza alcun mascheramento, e crea un legame macrostrutturale con le canzoni, dunque con il nucleo principale della raccolta, contribuendo perciò alla sua stessa costruzione. Un aspetto più frequente è l’inserimento del senhal usato per l’amata nelle parallele canzoni cortesi: l’identità della dama è salvaguardata, mentre viene rivelata quella del trovatore. Per una analisi di tali occorrenze si veda Franchi 2006, pp. 181-186. 328 Per tale riflessione si veda, oltre a Franchi 2006, pp. 187 segg, Picone 1979, pp. 75-87. Lo studioso, analizzando i casi antichi ed esemplari di Marcabru e Giraut de Bornelh, ha evidenziato la complementarietà del modello poetico e femminile campestre rispetto a quello cortese, che rispondono a diverse esigenze del medesimo universo assiologico e psicologico (maschile). Inoltre, il finale delle pastorelle non è quasi mai eversivo: la soddisfazione di un desiderio fisico consente infatti di rientrare pacificamente nelle logiche cortesi, che dunque non sono mai davvero abbandonate, benché d’abitudine nel corso del dialogo il cavaliere si lamenti del proprio stato e dell’amata indifferente e ingannatrice. Bisogna però tenere in conto la difficoltà dei lettori moderni nell’adeguare il proprio punto di vista a quello dei destinatari originari, limite che inficia anche l’attuale comprensione dei meccanismi all’origine del genere e della sua evoluzione (Franchi 2006). Rispetto alla struttura dialogica vanno tenuti inconto alcuni elementi ulteriori. È interessante ad esempio il confronto con il genere della tenzone, oppure la presenza nella vicenda pastorale di un secondo personaggio maschile, un pastore, che per lo più non intrattiene legami personali con la pastora (ma talvolta ne è il promesso sposo). La struttura dialogica ne viene arricchita, fino alla creazione di vere e proprie tenzoni pastorali (ad esempio sul tema delle malelingue) che di nuovo determinano una sovrapposizione e un confronto tra generi. Inoltre, la presenza di un ulteriore personaggio incrementa il 140 comprende le descrizioni fisiche (che possono essere simili o contraddittorie rispetto a quelle della dama), gli atteggiamenti, i dettagli esteriori (ad esempio, l’abbigliamento) e il rapporto tra personaggio e contesto naturalistico. Al di là dunque delle sovrapposizioni simboliche su cui si è interrogata la critica329, è ancora una volta l’implicito confronto tra generi – e caratteri femminili – ad essere importante330. Un problema fondamentale per l’identificazione del genere è quello della sua storia ed evoluzione, di cui si conosce ben poco331. Le ipotesi degli studiosi riguardano tre aspetti fondamentali: diverso uso delle fonti da parte di ciascun trovatore, differente rapporto dei Provenzali con la produzione oitanica e il ruolo di Marcabru, che con la sua interpretazione delle convenzioni rappresenta un vero spartiacque. Il punto di partenza essenziale è la datazione. Gli esempi più antichi in nostro possesso si devono a Marcabru e dunque risalgono a prima della metà del XII secolo (1140 circa); i suoi quattro epigoni si attestano a cavallo tra XII e XIII secolo e ne restano cinque testi (Giraut de Bornelh, Gavaudan, Cadenet, Gui d’Ussel). La produzione più tarda si dipana nel corso del Duecento, mentre il secolo successivo ha fornito pochissimi esempi del genere e solo nei primi decenni. Considerato che per la produzione in lingua d’oil resta un solo esempio anteriore al ‘200, a livello di tradizione manoscritta è il corpus occitanico ad offrire le indicazioni più antiche oggi disponibili; tuttavia tale primato è solo relativo, come dimostra il successo tardo e non molto diffuso del genere in area provenzale, in contrasto con la situazione francese. Bisognerà perciò ipotizzare che l’elaborazione oitanica sia anteriore, ma vessata da ingenti perdite. L’origine del genere rimane comunque un nodo di difficile soluzione. Un fattore inequivocabile è l’impressione che nella pastorella ci sia un elemento popolareggiante, che si nota soprattutto nelle battute ironiche che la pastora, socialmente inferiore, carattere oggettivo del discorso, tanto che è stata proposta una distinzione tra pastorelle “classiche e autodiegetiche” e pastorelle “intradiegetiche”. Tale aspetto è evidenziato anche da Zink 1972 nel distinguere le caratteristiche narrative di pastorelle francesi e provenzali: il contesto agreste e l’identificazione del personaggio femminile contraddistinguono, è vero, il genere, ma le caratteristiche attenuate della seduzione e dell’elemento erotico in area occitanica rimandano proprio al gusto e ai meccanismi della tenzone verbale, per quanto l’autore (e perciò il punto di vista) sia uno solo. Per la costruzione del dialogo si veda Franchi 2006, pp. 225-229 e 232-234. 329 Per una trattazione più ampia di tale aspetto si veda Franchi 2006, pp. 117 segg e in particolare pp. 187 segg; in particolare si sono alternate letture in chiave cristiana, letture sociologiche (la pastora incarnerebbe l’opinione pubblica) e poetiche (la pastora sarebbe figura della poesia stessa, una sorta di musa). A volte anche dettagli minuziosi rivestono notevole importanza, come le azioni che la giovane sta compiendo quando sopraggiunge il cavaliere o doni che quest’ultimo le promette. In particolare i capi d’abbigliamento, quali guanti e cinture, possono avere un significato sociale, suggerendo lusso o anche matrimonio. 330 In un componimento di Daude de Pradas, Amors m’envida e m somo, tale complementarietà e correlazione tra le diverse tipologie (ideologie) amorose è perfettamente tematizzata: il poeta infatti dichiara che la vera e completa esperienza d’amore deve comprendere due momenti, distinti e necessari, quello cortese e quello erotico. 331 Indizi inequivocabili si trovano nelle vidas, laddove si parla di “usanza antiga” (Cercamon), di “canzone” per testi chiaramente assimilabili alla pastorella (Gui d’Ussel) o similmente di “chantar” (Giraut de Bornelh). Per un’analisi più approfondita della questione e un tentativo di ricostruzione che tenga conto di tutti i fattori, si veda Franchi 2006, pp. 22-32. 141 rivolge all’uomo (il poeta, il cavaliere332) e più in generale nelle occasioni, affatto rare, in cui è il suo desiderio ad avere la meglio. Da qui sono derivate le difficoltà nel collocare il genere nell’insieme della produzione trobadorica, in particolare in merito alle manifestazioni più arcaiche, cioè quelle che, in linea teorica, dovrebbero aver attinto direttamente alla tradizione popolare333. Si pensi nello specifico a L’autrier jost una sebissa di Marcabru334: è sufficiente evidenziarne l’elemento rielaborativo, quasi rifondativo, rispetto alle pastorelle, o è necessario escludere qualunque parentela con il genere? Una risposta soddisfacente, per quanto tutt’altro che certa, si ottiene leggendo le pastorelle in lingua d’oil, la cui impostazione è molto più semplice335 rispetto a quella tipica in lingua d’oc, tanto da fornire una prova ulteriore sulla datazione più antica dello sviluppo del genere in Francia336 e su un possibile legame con eventuali antecedenti orali337. Anche la trattatistica coeva offre qualche testimonianza nella medesima direzione: le Razos de trobar, ad esempio, suggeriscono che il genere della pastorella sia particolarmente adatto ad uno sviluppo in francese. Il passaggio alla realtà occitanica (e dunque non solo le prove di Marcabru) rappresenterebbe perciò una vera e propria rifunzionalizzazione, a beneficio di un pubblico aristocratico, che riesce ad identificarsi con l’espressione poetica solo grazie alla preminenza del punto divista maschile e nobile. La più antica produzione oitanica invece rifletterebbe ancora una concezione borghese o comunque antiaristocratica, pronta a parteggiare per la figura femminile. 332 Tale aspetto non è solo implicito nell’identificazione autore – io poetico, ma viene spesso indicato attraverso l’immagine del cavallo su cui il personaggio maschile sta viaggiando attraverso la campagna. 333 È ovvia la natura parziale delle testimonianze che si sono conservate sino ad oggi, come suggerisce Zink 1972: la dimensione scritta si associa per sua stessa natura alla realtà colta e aristocratica. 334 Per un’analisi degli elementi moraleggianti contenuti nel componimento e il loro legame con il genere della pastorella secondo la concezione marcabruniana, si veda Biella 1965. 335 L’analisi di tali caratteristiche si trova in Zink 1972: in definitiva le pastorelle francesi propongono differenziazioni e caratterizzazioni molto nette e marcate, prive di sfumature. Domina l’inganno cui è esposta la pastora, presentato con abbondanza di dettagli realistici e spesso violenti; sia il personaggio maschile (cinico e lubrico) sia quello femminile (interessato agli esiti monetari dell’incontro) sono presentati come rozzi. Proprio la forte polarizzazione, il distacco tra i due personaggi e il gioco degli inganni (questa volta a scapito del poeta) sono gli elementi della pastorella marcabruniana che hanno permesso di individuarne la maggiore antichità e un più profondo legame rispetto alla tradizione francese. Tuttavia in Marcabru è già scomparso qualunque indizio di rozzezza e la figura della pastora volge già ad una radicale evoluzione, come dimostrano la sua scaltrezza e la sua eloquenza. Le pastorelle occitaniche evolvono da tale punto di partenza: nell’esaltazione della raffinatezza, negli atteggiamenti e nelle battute di dialogo, in cui la seduzione è per lo più tenue e rispettosa, o può addirittura mancare. 336 In effetti rimane traccia antichissima di una pastorella francese. Si tratta in realtà di un breve inserto all’interno di un poema più ampio, la cui protagonista è una pastora, appunto. L’elemento essenziale della sua caratterizzazione è la fede, la disposizione al martirio; tuttavia è vero che prima dello sviluppo agiografico si delinea una vicenda di (tentata) seduzione che anticipa da vicino il nuovo genere poetico. Tali peculiarità del testo e la sua collocazione cronologica hanno motivato l’impressione che questa sia non solo la più antica pastorella nota, ma la più antica in assoluto. Per tali ipotesi e considerazioni, si veda Zink 1972. 337 Lo stesso vale per i brevi ritornelli che in alcuni casi sono ancora presenti nelle pastorelle oitaniche. Tale elemento sembra avvallare in particolare l’ipotesi di Paris (presentata da Zink 1972 e poi citata in Franchi 2006, pp. 49-50), secondo il quale all’origine dei testi oitanici di questo tipo sono le canzoni di maggio, le feste pastorali e i balli collettivi all’aperto. Ovviamente nel passaggio alla formulazione colta della pastorella, gli elementi di demoniaco o quelli eccessivamente ferini scompaiono, rendendo evidente la distinzione tra elaborazione poetica e folclore. 142 Non mancano ipotesi alternative338, ma meno convincenti, come quella che vuole all’origine della rielaborazione di Marcabru la tradizione mediolatina339: ai trovatori si dovrebbe soltanto l’aggiunta del punto di vista maschile e dell’elemento satirico e sociale. La cronologia reciproca, però, non convince: appare più convincente l’idea che siano gli autori francesi ad aver influenzato quelli mediolatini, che potrebbero comunque aver sviluppato in modo autonomo una poesia amorosa agreste, poi arricchita dal contatto con le opere romanze340. Ancora, Faral ha proposto una convergenza tra la visione aristocratica occitanica o comunque cortese e l’esempio bucolico classico, cioè virgiliano (mentre esclude radicalmente l’elemento popolare). Tale posizione riflette la consapevolezza che gli aspetti più elevati ed elaborati del genere paiono connessi alla realtà provenzale, piuttosto che a quella francese, benché le pastorelle nella seconda lingua siano non solo più antiche ma anche più numerose. Si spiega così la proposta di Paris, secondo il quale il genere potrebbe essere nato nelle regioni di confine tra Francia e Midi, come Limosino e Poitou, cui sono legati sia trovatori che trovieri341. In realtà due elementi devono essere valutati con maggiore attenzione: da una parte la raffinatezza e il carattere elevato che contraddistinguono la poesia trobadorica, da cui deriva l’impressione che ci siano stati modelli anteriori improntati alla leggerezza e al libertinismo; dall’altra la preminenza, nel meccanismo tipico del genere, della componente narrativa rispetto a quella propriamente pastorale342. L’insistenza su tale ambientazione deriverebbe perciò soltanto dall’apprezzamento estetico per le situazioni naturalistiche e la primavera. In conclusione, il filo conduttore delle diverse teorie concerne il giudizio riservato alla figura femminile: se si insiste sul suo carattere positivo, si arriva ad ipotesi d’origine popolare, se invece si considerano critiche e parodie, si pensa ad una creazione aristocratica. D’altronde, la riflessione sull’origine del genere rappresenta anche la premessa delle numerose proposte e analisi relative al significato delle pastorelle: chi è il vero protagonista della dinamica, a chi si rivolge la benevolenza del poeta, quale prospettiva assiologica vuole suggerire l’incontro 338 Tali informazioni sono tutte tratte da Franchi 2006, pp. 39-51, dove si possono trovare anche utili indicazioni bibliografiche. 339 A tal proposito, escludendo la possibilità di giungere ad una ricostruzione certa, Zink 1972 propone un’efficace sintesi degli ambigui rapporti tra cultura latina e volgare intorno all’XI secolo, tra ricerca d’autonomia e originalità da una parte, e perdurante autorevolezza dall’altra. 340 Franchi 2006, pp. 47-49 cita in proposito le posizioni di Pillet. Per la riflessione sul ruolo degli antecedenti mediolatini, si vedano anche Zink 1972 e Biella 1965. La studiosa, in particolare, ha raccolto alcuni testi che possono aver influenzato i trovatori (e Marcabru in particolare), come l’Invitatio amice del X secolo, in cui è già presente la struttura dialogica, o il coevo Clericus et nonna, in cui non solo i personaggi dialogano, ma presentano il medesimo atteggiamento seducente e ritroso poi tipico di alcune pastorelle occitaniche. Gli esempi più rilevanti sono comunque tutti posteriori al Mille: essi cominciano a introdurre un più spiccato realismo e alcuni spunti rilevanti, come la disparità sociale e l’offerta di doni. Tuttavia è ancora la figura femminile ad essere superiore rispetto a quella maschile; il tono, infine, è spesso più biblico-moraleggiante che narrativo. Si possono ad esempio ricordare Poema d’Ivrea, De somnio e Declinante frigore. 341 È davvero troppo difficile, invece, accettare l’ipotesi che le due tradizioni nascano contestualmente in modo indipendente: gli indizi di una connessione e la condivisione di elementi compositivi sono troppo evidenti. 342 Non a caso Franchi 2006 sottolinea il rapporto tra pastorella, chansons dramatiques e chansons de mal mariée. Tali riflessioni risalgono anche a Delbouville citato sempre in Franchi 2006, p. 47. 143 pastorale343? In tale quadro esegetico ha perciò particolare valore l’idea di Zink344, che accoglie entrambi gli aspetti, aristocratico e popolare, poiché riconduce il nucleo essenziale del genere pastorella proprio alla contrapposizione innanzitutto tra due orizzonti sociali345 e secondariamente tra due tipologie di donne (e quindi di esperienza amorosa), che, lo si è già visto, ha un valore essenziale. Infatti, pastora e dama si oppongono sia a livello psicologico che sociale: l’una rimanda alla dimensione selvaggia e ferina, mentre l’altra esprime i valori e le regole della cortesia. Mentre la relazione con la seconda comporta di fatto una repressione, l’imposizione della misura sui propri istinti, la seconda esalta la sessualità: tale duplicità spiega perché abitualmente gli autori di pastorelle siano anche noti maestri dell’arte trobadorica classica346. In tale prospettiva, non ha più senso interrogarsi su quale sia il rapporto tra 343 Il problema essenziale, lo chiariscono con efficacia sia Zink 1972 che Franchi 2006, consiste nella difficoltà di attribuire il giusto valore all’ironia rivolta al cavaliere (particolarmente evidente nella pastorella di Marcabru, trovatore notoriamente censorio nei confronti dei suoi pari, per cultura e posizione sociale). Infatti, anche quando la pastora beneficia di una rappresentazione arguta che ne mette in risalto le qualità, a scapito della figura maschile, è arduo ipotizzare che la prospettiva popolare sia davvero proposta come preminente rispetto a quella aristocratica, cui in ogni caso appartengono autore, strumenti letterari e pubblico. È vero, come sottolinea Zink, che tutti i trovatori che hanno scritto pastorelle (a parte Gui d’Ussel) hanno un’origine sociale non nobile né agiata, ma il loro contesto d’appartenenza professionale resta quello cortigiano. Si può ipotizzare che il pubblico delle corti accettasse una forma di autoironia in virtù del divertimento offerto dal quadro pastorale, a sua volta spesso ridicolizzato. In effetti, la pastora è presentata, nella grande maggioranza dei casi, in termini negativi o comunque “rustici”: sensuale e disponibile, addirittura felice di tradire l’amico pastore, gli unici dubbi che la turbano sono pratici, non morali. E tuttavia a sua volta il cavaliere appare spesso ingrato nel finale, non mancano i casi in cui è violento nei confronti della fanciulla che lo rifiuta: difetti dunque gravi proprio sul piano morale. In definitiva, se la pastorella è pensata in termini di critica sociale, è necessario ipotizzare che la satira sia rivolta a entrambe le classi rappresentate. Un’altra possibilità vagliata da Zink concerne il distacco dalla morale cristiana e dunque un implicito attacco alla Chiesa. Simili considerazioni, però, accostano la pastorella alla lirica cortese in genere, nonché (fatte salve le ovvie differenze) alla produzione dei clerici vagantes. Tutte le manifestazioni letterarie d’amore, in sostanza, contraddicono l’insegnamento ecclesiastico, secondo il quale – nel Medioevo – l’unione carnale è comunque peccaminosa, persino nell’ambito del matrimonio (Duby 2002). In merito al punto di vista cristiano, infine, è interessante ricordare l’ultima evoluzione del genere, ormai sul finire del ‘200, quando anticipa la centralità della figura mariana determinata dalla poetica del Concistori del Gai Saber. Infatti, anche la fanciulla delle pastorelle tende ad una spiritualizzazione, che si concretizza nel sistematico rifiuto delle profferte del cavaliere. Tale aspetto appare ancor più sviluppato in area iberica, dove la lezione del trobadorismo tardo è recepita con particolare entusiasmo e in tempi piuttosto estesi: qui il genere della pastorella è in sostanza attestato solo in tali forme tardive. Per una ricognizione compiuta dell’evoluzione dalle pastorelle alla letteratura pastorale, debitrice del modello classico, e per l’influsso delle pastorelle su componimenti di ispirazione più ampia, si veda Zink 1972. 344 Zink 1972, recuperato in Franchi 2006, p. 51. L’idea di Köhler non è comunque molto distante (Franchi 2006, p. 51). La sua valutazione della pastorella parte dalla concezione sociologica che ha proposto più in generale per la poesia trobadorica, espressione delle insoddisfazioni e delle spinte sociopolitiche della piccola-nobiltà, priva di proprietà terriere e legata direttamente alla corte. L’incontro con la pastora offrirebbe ai cavalieri una facile ed immediata consolazione rispetto alle attese e alle frustrazioni imposte dal rapporto con la dama-signora. Per tali riflessioni socio-culturali sull’origine e sul significato della letteratura cortese si veda anche Köhler 1991. 345 Ne risulta che, nel momento in cui viene introdotta la peculiare situazione narrativa pastorale, i due personaggi e le loro vicende sono delineate con coerenza logica, secondo i diversi esiti che possono esserne immaginati. Si veda in particolare Zink 1972. 346 Ricollegandosi alla concezione “sociale” dell’amore cortese, in base alla quale la dama è figura del signore (per approfondire tale aspetto, Köhler 1991), Zink 1972 ha sottolineato come la rappresentazione vassallatica e sbilanciata dell’amore cortese elimini gli aspetti di sensualità più spontanea. In generale, la concezione cortese comporta una razionalizzazione della passione, sottomessa a leggi e ad un ideale di 144 pastorella e letteratura aristocratica: anche questo genere risponde infatti ad un’esigenza dei medesimi scriventi e dello stesso pubblico. 6. “Plazer” ed “enueg” È capitato in precedenza di far riferimento al genere del plazer347, vale a dire l’accostamento di immagini piacevoli, che descrivono, per lo più con progressione elencatoria, i gusti e i desideri del poeta. Ad esso si affianca per contrasto l’enueg, in cui l’autore esprime il proprio disappunto, descrivendo ciò che lo infastidisce o disturba. Entrambi i moduli sono molto apprezzati dalla poesia antica348 ed esempi ben riconoscibili si colgono anche nella letteratura italiana delle origini349; tuttavia nella maggior parte dei testi l’elenco non è protratto per tutto l’arco del componimento, evitando così la noia di un’eccessiva ripetizione. In molti casi, perciò, tali soluzioni si individuano all’interno di strutture più ricche ed articolate. Le occorrenze trobadoriche, non numerosissime ma ben riconoscibili, variano in modo notevole l’una rispetto all’altra, grazie anche al punto di vista soggettivo (ciò che piace, ciò che non piace), che favorisce la differenziazione tematica. Sono celebri in primo luogo i plazer di argomento guerresco di Bertran de Born: si ricordi ad esempio Be m plai lo gais temps de pascor, dove l’apprezzamento convenzionale per la primavera ha ben poco a che fare con il rinascere dell’amore. Simili preferenze sono espresse da Balcasset in Gerra mi play quan la vei comensar e da Bernart de Venzac in Belh m’es quan vei pels vergiers e pels pratz: tutti e tre gli incipit mostrano subito predicati pregnanti dal punto di vista lessicale rispetto al genere. Diversi spunti contenutistici possono essere riuniti nel medesimo discorso, come per Percivalle Doria: Felon cor ai et enic associa infatti questioni civili e politiche, riferimenti storici e giuramenti amorosi, su cui in particolare si soffermano le ultime due stanze. La medesima proporzione tra problemi guerreschi ed amorosi si legge in Ar agues eu mil marcs de fin argen di Pistoleta. L’equilibrio tematico è esattamente misura. Si noti comunque che, come suggerisce sempre Zink, la rappresentazione delle due figure femminili, benché diversa, non è del tutto contraddittoria: gli elementi di contatto sono numerosi. Inoltre è essenziale il rapporto con lo spazio: basta lo spostamento nell’orizzonte naturale per poter mettere da parte i vincoli e le norme imposte sia dalla Chiesa sia dalla cortesia. 347 Al plazer è strettamente imparentata la figura retorica della priamel, che consiste in un elenco composto da almeno tre cola, tra i quali l’io esprime una preferenza. Un esempio classico in ambito trobadorico si legge in Kalenda maia di Raimbaut de Vaqueiras. Si definisce priamel abbreviata un elenco del medesimo tipo in cui però siano nominati soltanto due elementi. Per tale analisi si legga Scarpati 2008, pp. 59-65. 348 Perugi 19901 ricorda come il genere dell’enueg si sia definito abbastanza precocemente e come alcuni esempi ne fossero diffusi in Italia già all’inizio del Duecento; il plazer ha invece una diffusione molto meno ampia. Anche Lanza 1978 ne sottolinea – oltre al carattere squisitamente provenzale – la scarsa diffusione; ne esalta però la flessibilità rispetto a contesti espressivi diversi, didascalici e comicorealistici, rispetto all’uso amoroso (molto limitato in Italia prima dello Stil Novo). 349 La struttura del plazer è con evidenza alla base delle quartine del sonetto cavalcantiano Biltà di donna e di saccente core e al medesimo modello è per lo più ricondotta anche l’idea di fondo del dantesco Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io. La medesima situazione sembra per certi aspetti ispirare l’avvio del fragmentum 225, dove Laura si trova in una barchetta insieme alle compagne. Tuttavia la prospettiva di fondo è ben diversa e si risolve in un’iperbolica celebrazione dell’amata. 145 opposto in Quan reverdejon li conderc: Amanieu de la Broqueira avvia con una classica immagine primaverile una canzone d’amore infelice altrettanto convenzionale, per interromperla però alla strofa quinta, inserendo un breve plazer d’argomento militare e cortese350. Cadenet, invece, associa gusti militari e principi cortesi nel plazer di Aitals com ieu seria, che nella seconda parte lascia spazio ad una vera e propria trattazione educativa. È affine il caso del sirventese anonimo Vai, Hugonet, ses bistensa, dove il plazer – d’argomento militare – è limitato alla quarta strofa; il resto della canzone non è però dedicato alla dama, ma a concretissime questioni di potere e denaro. Ad aspetti morali e cortesi è ispirata No m fai chantar amors ni drudaria di Peire Guilhem de Luserna, dove la struttura del plazer torna più volte in brevi affermazioni nel corso dell’intero testo. Il monaco di Montaudon, infine, accosta liberamente fattori amorosi, dettagli cortesi e semplice gusto per la vita in Mout me platz deportz e guayeza. Anche a livello sintattico e stilistico le soluzioni non devono necessariamente attenersi ad un modello prefissato. Lo si coglie con chiarezza in Ben sai e conosc veramen di Raimbaut de Vaqueiras, in cui non si registra mai il canonico “mi piace” seguito da un’enumerazione ordinata, ma si coglie più in generale un ideale di vita e una varietà di preferenze. Un plazer interamente dedicato alla sfera sentimentale si può leggere in Dompna, puois de mi no us cal di Bertran de Born: il poeta, infelice a causa della dama, cerca di consolarsi immaginando una donna inesistente, dotata di tutte le qualità migliori. È lo spunto per un lungo elenco di topoi cortesi, la cui struttura propone una variazione dei motivi tradizionali della canzone. Sarebbe opportuno aggiungere alla ricognizione del genere anche gli innumerevoli passi in cui i trovatori annoverano le molteplici qualità della loro dama: la bellezza, le parti del corpo, le doti spirituali. Non è necessario che sia esplicitata l’idea del “piacere”, perché l’elogio e la scelta stessa della donna da amare dipendono dalla soggettività del poeta. Osservando invece Ar ven la coindeta sazos di Bertran de Born, ma anche i già citati componimenti di Pistoleta e Peire Guilhem de Luserna si nota che l’espressione positiva dell’apprezzamento è giustapposta a quella negativa del disprezzo. In effetti, le liriche dedicate al solo modulo dell’enueg sono molto più rare: il genere appare quasi una specializzazione del solo monaco di Montaudon, che ne realizza diversi351. Il modulo elencatorio, su cui si impostano sia plazer che enueg, è notoriamente consono allo stile petrarchesco. Si pensi ai sonetti interamente dedicati all’elogio di Laura: l’enumerazione delle virtù, che certamente risponde ai canoni della tradizione, e in particolare di quella cortese, giunge ad uno sviluppo straordinario per ricchezza di immagini, rielaborazione dei topoi (di per sé molto diffusi), varietà delle fonti, articolazione sintattica. Così avviene nel sonetto 213: un unico periodo dedicato alle “gratie ch’a pochi il ciel largo destina” (v 1), di cui l’amata beneficia con particolare generosità. Un esempio affine si trova poco dopo nelle quartine di 215, quasi ad 350 Il poeta vi elenca infatti il suo gusto per le armi ben fatte, le belle azioni militari, ma anche le tipiche virtù cortesi. 351 Amicx Robert, fe que dey vos, Be m’enueia, per Saynt Marsal, Be m’enueia, per Sant Salvaire e Be m’enueia, so auzes dire? 146 incorniciare la rinuncia ad amore di 214 – ben presto abbandonata –; poco oltre, il sonetto 220 muta l’impostazione sovrapponendo all’enumerazione il modulo altrettanto convenzionale dell’“ubi sunt”352, che poi sarà ripreso nella sezione “in morte” in riferimento alla perdita di Laura e del suo bel corpo. Per ora, comunque, il significato è puramente elogiativo. Il riuso più personale e interessante dei due generi, però, concerne la rappresentazione naturalistica e la relazione dell’io con l’amata. In entrambi i casi, infatti, la reinterpretazione della struttura sintattica supera la retorica e partecipa all’espressione dei significati più forti della lirica petrarchesca. Si è già visto quanto la descrizione del paesaggio possa essere legata all’intimità del poeta, per il dialogo che si crea tra le due parti e la funzione di testimonianza che viene attribuita agli enti naturali. Essi sono introdotti in forma di elenco nella prima stanza di 126353: fino agli ultimi due versi (“date udienzia insieme / a le dolenti mie parole extreme”, vv 12-13) l’impressione dominante è quella positiva del locus amoenus ed è solo lo stato d’animo del poeta a riflettere una percezione negativa (retrospettiva) sullo spazio. Chiare, fresche et dolci acque, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna; gentil ramo ove piacque (con sospir’ mi rimembra) a le di fare al bel fiancho colonna; herba et fior’ che la gonna leggiadra ricoverse co l’angelico seno; aere sacro, sereno, ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse (vv 1-11). Una connessione molto simile tra sensazioni del poeta, natura e presenza dell’amata in quella stessa natura si coglie anche nel sonetto 162. Anche qui l’ambiente è testimone delle sofferenze del poeta e dunque ne partecipa; tuttavia l’intonazione complessiva è più lieve, anche perché mancano i riferimenti alla morte: Lieti fiori et felici, et ben nate herbe che madonna pensando premer sole; piaggia ch’ascolti sue dolci parole, et del bel piede alcun vestigio serbe; schietti arboscelli et verdi frondi acerbe, amorosette et pallide viole; 352 Tali strutture retoriche saranno analizzate anche in riferimento al genere del devinalh, nel corso del presente capitolo. 353 Per l’aspetto strettamente naturalistico di tale rappresentazione, nonché per il topico rapporto contrastivo tra dimensione interiore e spazio esteriore, si veda il paragrafo precedente. 147 ombrose selve, ove percote il sole che vi fa co’ suoi raggi alte et superbe; o soave contrada, o puro fiume, che bagni il suo bel viso et gli occhi chiari et prendi qualità dal vivo lume; quanto v’invidio gli atti honesti e cari! (vv 1-12)354. Si è già detto che 301 e 303 sono affini a 126 per la concezione della natura; diverso è però il motivo del dolore manifestato dall’io, non ricambiato nella canzone, luttuoso nei sonetti. Ancora una volta, la svolta funebre della vicenda sentimentale impone un cambiamento anche al riuso dei generi, e il plazer sugli enti naturali355 accentua la venatura di tristezza. Lo spazio naturale un tempo era ameno, ma ormai può esserlo solo nel ricordo: Valle che de’ lamenti miei se’ piena, fiume che spesso del mio pianger cresci, fere selvestre, vaghi augelli et pesci, che l’una et l’altra verde riva affrena, aria de’ miei sospir’ calda et serena, dolce sentier che sì amaro riesci, colle che mi piacesti, or mi rincresci, ov’anchor per usanza Amor mi mena (vv 1-8). Il medesimo punto di vista torna in 303, in particolare nella seconda stanza: Fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi, valli chiuse, alti colli et piagge apriche, porto de l’amorose mie fatiche, de le fortune mie tante, et sì gravi (vv 5-8). Il plazer viene ulteriormente trasformato nel sonetto 312. Le immagini elencate sarebbero di per sé apprezzabili – come d’altronde gli enti naturali di poco sopra – ma il poeta non può più godere di nulla da quando Laura è morta356. La perdita insomma giustifica la negazione stessa del genere357. Né per sereno ciel ir vaghe stelle, né per tranquillo mar legni spalmati, né per campagne cavalieri armati, né per bei boschi allegre fere et snelle; 354 È evidente che il sonetto rappresenta anche un’ulteriore occasione per elogiare la dama. Il recupero del genere e la sua trasformazione sono stati riconosciuti in particolare da De Robertis, citato in Santagata 1996, p. 1180. 356 Il poeta infatti definisce la sua vita “noia” (v 12), con termine tecnico dell’enueg, come nota Santagata 1996 a p. 1209, dove il sonetto 312 è definito appunto “plazer rovesciato”, secondo l’idea già di Wilkins. 357 La negazione è ancor più evidente se si pensa quanto la resa petrarchesca – in negativo – sia per contrasto affine a quella tradizionale – in positivo – di Cavalcanti nel già citato sonetto Biltà di donna e di saccente core; anche gli elementi citati sono in parte gli stessi. 355 148 né d’aspettato ben fresche novelle né dir d’amore in stili alti et ornati né tra chiare fontane et verdi prati dolce cantare honeste donne et belle (vv 1-8). Un’altra possibilità per la reinterpretazione del plazer è nell’elenco delle benedizioni, modulo di per sé già topico, di origine biblica, che Petrarca complica ed arricchisce sovrapponendovi suggestioni molteplici358. Nel sonetto 61 tale approccio raggiunge la sua estensione più ampia: Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, et l’anno, et la stagione, e ‘l tempo, et l’ora, e ‘l punto, e’l bel paese, e ‘l loco ov’io fui giunto da’ duo begli occhi che lagato m’ànno; et benedetto il primo dolce affanno ch’i’ ebbi ad esser con Amor congiunto, et l’arco, et le saette ond’i’ fui punto, et le piaghe che ‘nfin al cor mi vanno. Benedette le voci tante ch’io chiamando il nome de mia donna ò sparte e i sospiri, et le lagrime, e ‘l desio; et benedette sian tutte le carte ov’io fama l’acquisto, e ‘l pensier mio, ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’à parte (vv 1-14). Oltre all’ossessiva ripetizione, anche l’immediata vicinanza a 60 da una parte e 62 dall’altra incrementa l’efficacia dell’elenco. In entrambi i casi, lo si è visto, il poeta lamenta gli effetti dell’amore e il suo carattere erroneo. In 62, che insieme a 61 celebra l’anniversario dell’innamoramento, il poeta si limita a implorare l’aiuto divino, in 60 invece conclude il discorso con una vera e propria maledizione, la cui opposizione al tono di 61 non potrebbe essere più netta: “Né poeta ne colga mai, né Giove / la privilegi, et al Sol venga in ira, / tal che si secchi ogni sua foglia verde” (vv 12-14)359. Appaiono dunque meno energiche per estensione e posizione le benedizioni che chiudono i sonetti 284 e 290: “Sospira et dice: O benedette l’ore / del dì che questa via con li occhi apristi!” (vv 13-14)360 e “Benedetta colei ch’a miglior riva / volse il mio corso, et l’empia voglia ardente / lusingando affrenò perch’io non pera” (vv 12-14). Tuttavia, la portata semantica di quest’ultimo finale è notevole: la natura della benedizione è profondamente mutata dopo la morte di Laura, nel segno del suo 358 Santagata 1996, pp. 313-314. Abbiamo già citato questi versi nel presente capitolo; li riproponiamo per evidenziare il contrasto maledizione/benedizione. 360 Si ripropone qui, come in 61, la benedizione topica del momento dell’innamoramento, che spesso per convenzione il poeta lamenta o addirittura condanna quale momento di grave sfortuna, arrivando a desiderare che quell’incontro non fosse mai avvenuto. Per tale immagine topica si veda il capitolo successivo. 359 149 intervento salvifico. Entrambi gli aspetti, la benedizione e la rivalutazione dell’amore, trovano un parallelo e insieme una rifunzionalizzazione nel passaggio dalla prima alla seconda sezione. In un solo testo petrarchesco viene proposto un vero e proprio recupero dell’enueg361. Anche nel sonetto 174 l’enumerazione è esaltata dall’anafora in incipit di verso, per cui l’aggettivo “fera” scandisce il susseguirsi di tutto ciò che ha causato il dolore del poeta e ne merita perciò il biasimo: Fera stella (se ‘l cielo à forza in noi quant’alcun crede) fu sotto ch’io nacqui, et fera cuna, dove nato giacqui, et fera terra, ove’ pie’ mossi poi; et fera donna, che con gli occhi suoi, et con l’arco a cui sol per segno piacqui, fe’ la piaga onde, Amor, teco non tacqui, che con quell’arme risaldar la poi (vv 1-8). L’idea della maledizione, infine, e in particolare riferita al momento della propria nascita, si trovava già nella sestina 22: “et maledico il dì ch’i’ vidi ‘l sole, / che mi fa in vista un huom nudrito in selva” (vv 17-18). 7. “Planh” Con il termine planh si definiscono componimenti dedicati alla morte di una persona stimata, di cui dunque si lamenta la perdita362. Il significato letterale del vocabolo provenzale è in effetti “lamento”: il genere va perciò distinto, almeno in linea teorica, dalla consolatio, in cui si affronta la dipartita con tono consolatorio. L’antecedente mediolatino del planh è il planctus363, che infatti si focalizza sugli aspetti negativi 361 Ma si è visto che per certi aspetti lo stesso escondich va associato all’enueg in quanto elenco di prospettive spiacevoli, benché invocate e non biasimate. 362 Dal punto di vista della categorizzazione, il planh è d’abitudine considerato un “sottogenere” del sirventese, poiché ne condivide alcuni tratti essenziali, come il riferimento ad un avvenimento specifico, la situazione concreta, il richiamo spesso polemico alla società. Tuttavia non mancano alcuni elementi tipici della canzone, tra cui spicca per importanza l’insistenza sul dolore (che corrisponde alla sofferenza amorosa) contrapposto alla gioia (altra possibilità tipica per il poeta amante, sia essa affermata o negata), fino alla definizione stessa del travaglio come assenza di gioia. A tali tendenze tematiche ben si accordano, come vedremo, le consuetudini formali. In generale si nota come la produzione funebre si inserisca pienamente nella mentalità dell’epoca e dunque entro parametri cortesi. Non sarà a questo punto un caso che solo la poesia occitanica abbia lasciato esempi di pianto luttuoso abbastanza numerosi da identificare un genere vero e proprio, mentre i luoghi legati all’ambito epico sono rarissimi. Per tali aspetti si veda Schulze-Busacker 1979 passim. 363 Per una breve ricognizione degli antecedenti mediolatini e dell’evoluzione del genere si vedano Thiry 1978, soprattutto pp. 25-27, Schulze-Busaker 1979, che fa riferimento anche alla storia degli studi e soprattutto alle posizioni di Springer e Jeanroy, e Bertolucci Pizzorusso 2001. Sul paragone tra planh trobadorici e planctus latini è impostata inoltre la disamina dei lamenti funebri dedicati ai principi in area occitanica in Aston 1971, dove si fa anche riferimento alla mescolanza di elementi tipici del genere in componimenti diversi o piuttosto ad elementi espressivi consueti in altre forme, ma riproposti all’interno dei planh. Lo studioso evidenzia in modo significativo come il genere possa essere considerato 150 dell’avvenimento, piuttosto che alleviare le pene di chi resta. Nelle opere trobadoriche c’è talvolta spazio per una visione più serena, laddove si insista sul destino paradisiaco del defunto, con la possibilità di ampliare l’immagine in senso morale, come si nota con particolare evidenza nei componimenti tardi. Tuttavia il punto di vista dominante è quello di chi testimonia la perdita e perciò prevale la percezione del suo dolore364. La classificazione del genere è ancora una volta tarda365, ma già gli autori classici si dimostrano consapevoli delle specificità delle proprie opere, che spesso chiamano chant-plor, componimenti cioè il cui stile e la cui intonazione sono accordati alla materia366. Lo stesso Petrarca dà conto di tale peculiarità al verso 80 della canzone 268, dove si rivolge alla propria opera, come vuole la consuetudine del congedo, in questi termini: “canzon mia no, ma pianto”367. Dal punto di vista formale, però, si tratta pur sempre di un “canto”: i trovatori, infatti, non introducono alcuna novità metrica o tecnica, continuando nel solco della canzone e identificando il planh solo come genere tematico. Tale aspetto strutturale differenzia la produzione occitanica dal resto di quella romanza, aperta a scelte formali più specifiche, ed appare significativo rispetto a Petrarca: anche nel Canzoniere il planh sfrutta le strutture metriche più tipiche della poesia d’amore e recupera in particolare l’idea della solenne canzone d’addio368. I planh trobadorici si distinguono in due aree concettuali: lamenti dedicati alla dama e pianti per la morte del signore369. Una situazione intermedia si delinea a fronte della un’originale applicazione di una tradizione più ampia e articolata, da cui si origina un aspetto strutturale essenziale: la tendenza alla tipizzazione. Per i planh in ambito galego-portoghese si vedano infine Filguerda Valverde 1945 e Mattoso 1997. 364 Tali limitazioni tematiche valgono in particolare per la produzione occitanica. In altri ambiti romanzi e talvolta anche mediolatini c’è più spazio per la varietà, l’evoluzione, l’approfondimento morale e teologico, persino per la sovrapposizione di spunti concettuali eterogenei, ideologici e politici. Un aspetto fondamentale per comprendere tale cambiamento nel genere è l’influenza della coeva letteratura allegorico-didattica: la rappresentazione della morte di un individuo acquisisce una valenza esemplare e attraverso la narrazione della sua vita e soprattutto della sua morte l’autore intende portare un insegnamento utile ai lettori. Per tali questioni si veda Thiry 1978, pp. 37 segg. 365 Si fa qui riferimento alle Leys d’amor, in cui il genere è descritto con la maggior ampiezza possibile, tenendo conto del tema fondamentale che lo identifica, dei motivi più frequenti, della struttura e dello stile più tipici (di cui si trova un’efficace sintesi, benché non guardando direttamente ai testi, in SchulzeBusacker 1979). Per l’analisi di tale trattazione tarda si può consultare inoltre Thiry 1978 pp. 27 segg, dove si trovano i riferimenti anche ad altri – ancor più tardi e sempre isolati – tentativi di definizione. 366 Thiry 1978, pp. 29 segg descrive altri accorgimenti che dimostrano la consapevolezza e l’attenzione degli autori: la sapiente elaborazione degli elementi convenzionali, non solo al fine di creare un testo originale, ma anche per costruire un messaggio ben preciso, le cui finalità sono definite in modo puntuale (educative, esemplari, morali). Questo elemento però caratterizza ben poco la tradizione occitanica rispetto a quella romanza, poiché nel Midi il genere del planh non si sviluppa oltre le sue motivazioni di partenza. 367 La definizione di genere è interessantissima e rivela ulteriormente la connessione con la parallela tradizione occitanica. 368 Sono soprattutto i trovieri a sperimentare soluzioni espressive specifiche del genere, per cui si veda Thiry 1978, p. 27 e passim. 369 Ad essi è dedicata in particolare l’analisi in Aston 1971. Se ne ricordano alcuni esempi caratteristici: Giraut de Bornelh S’anc jorn agui joi ni solatz, Bertran de Born Seingner, per vos mi voill de joi estraire e A totz dic qe ja mais non voil, Aimeric de Belenoi Ai las, per que viu lonjamen ni dura, Cercamon Lo plaing comenz iradamen, Folchetto da Marsiglia Si com sel qu’es tan greujatz, Bartolomé Zorzi Sil monz fondes a maravilha gran, Guilhem de Berguedà Consiros cant e planc e plor, Aimeric de Peguilhan En aquelh temps que l reys mori, N’Amfos, Ja no cujey que m pogues oblidar e S’ieu anc chantiei alegres ni jauzens, Gaucelm Faidit Fortz chausa es que tot lo major dan, Guilhem de Saint Leidier Lo plus iratz 151 perdita della signora, cui il poeta riconosce con reverenza una superiorità socio-politica oltre che individuale, ma che celebra attraverso le medesime lodi riservate alla dama. Per il resto, la progressione del discorso è sempre molto riconoscibile, per la definizione di alcuni motivi topici e per l’utilizzo di immagini altamente convenzionali370, allo scopo di dimostrare la gravità dell’evento luttuoso371. A monte è ovviamente la scelta di un personaggio positivo, la cui dipartita rappresenti una perdita deprecabile per il poeta che la piange, ma anche per la società tutta; spesso però l’umanità iniqua non si accorge nemmeno della deprivazione subita372. Tra gli elementi immancabili figurano dunque l’elogio del defunto373, che rispecchia in pieno i panegirici di figure politiche eccellenti, o dell’amata, che corrisponde alla lode amorosa, nonché la prostrazione di chi parla. Il dolore infatti è presentato in chiave soggettiva: il poeta partecipa in prima persona della tragedia e ne avverte su di sé gli effetti con la medesima violenza fisica che caratterizza la descrizione dei patimenti sentimentali. L’espressione iperbolica della sofferenza comporta scelte retoriche ricorrenti, come l’invocazione, la preghiera, la personificazione; i principali interlocutori sono il defunto stesso, Dio e la Morte. Rivolgendosi al primo, l’io esprime soprattutto rammarico e talvolta una speranza rispetto al suo destino, ma è con gli altri destinatari che l’intonazione raggiunge la massima intensità. In entrambi i casi, infatti, l’autore può scegliere tra due prospettive: chiedere aiuto (per lo più allo scopo di morire, seguendo la persona alla cui assenza non si può far fronte) oppure esprimere la propria ira. Nel caso della Morte, non è difficile immaginare l’amarezza del risentimento; quando invece l’io rivolge il proprio rancore remaing d’autres chatius, Guiraut de Calanson Belh senher Dieus, quo pot esser sufritz, Matieu de Caersì, Tant suy marritz que no m puesc alegrar, Guilhem Augier Novella Quascus plor’e planh son dampnatge. 370 In merito alla convenzionalità e all’omogeneità dei testi si legga in primo luogo Schulze-Busacker 1979, che sottolinea come tale uniformità sia significativa anche rispetto all’ampio arco cronologico in questione, dal 1137 al 1343, secondo le date interne desumibili dai componimenti stessi. Anche Thiry 1978 sottolinea più volte nella sua analisi del genere la molteplicità di soluzioni cui gli elementi di per sé convenzionali possono portare. Tuttavia pare che tali affermazioni si adattino più ad altre e posteriori esperienze romanze, rispetto al corpus occitanico, i cui lamenti sono in effetti molto affini, anche perché, a differenza di ciò che avviene già con i trovieri, nei planh pochissimo spazio è dedicato alla descrizione della morte o a fatti storici cui il personaggio in questione abbia preso parte. Infine Aston 1971 ha sottolineato come gli elementi topici più caratteristici del genere lo accomunino al suo antecedente mediolatino. 371 Secondo Schulze-Busacker 1979 gli elementi davvero definitori, perché sempre presenti, sono solo l’annuncio della morte (secondo le forme della constatazione, della personificazione e della rappresentazione indiretta, tramite l’insistenza sul dolore) e la sofferenza che ne deriva. A sua volta l’espressione del dolore può assumere connotazioni diverse, a seconda di quanto lirica o piuttosto moraleggiante sia l’effusione, o ancora di quali elementi di contorno (altrettanto topici e riconoscibili) possono essere aggiunti. Tra di essi anche l’elogio, che invece Thiry 1978 ritiene quasi essenziale. 372 Tale spunto moraleggiante contraddistingue soprattutto i planh degli epigoni di Marcabru, come Cercamon, che dunque associano alla poesia una funzione educativa e censoria. Secondo SchulzeBusacker 1979 alcune manifestazioni peculiari del genere, come quella di Sordello, nascondono un intento satirico rispetto a tale prospettiva. 373 Accogliamo in questo caso l’opinione di Thiry 1978, sulla base degli elementi che sono parsi più frequenti nella lettura dei testi. 152 verso il Signore, gli esiti quasi blasfemi possono risultare sorprendenti374. Infine, allo scopo di intensificare il pathos, i trovatori spesso insistono sulle conseguenze morali di una perdita tanto dannosa: è frequente, ad esempio, che sia affermata la morte di tutte le qualità cortesi, insieme a quella di chi le proteggeva (il signore) o le incarnava (l’amata). Sordello prende in parte le distanze dalla convenzione del genere con il suo compianto per Blacatz, Planher vuelh en Blacatz en aquest leugier so375. Qui infatti l’elogio è mediato da un’immagine peculiare, a sua volta topica, ma d’abitudine legata alle relazioni amorose e alla subordinazione dell’innamorato alla dama. Il poeta infatti invita alcuni personaggi, nominati in modo esplicito, a spartirsi il cuore del valoroso Blacatz, al fine di ottenerne le qualità, di cui evidentemente sono manchevoli. Il componimento di Sordello rivela in sostanza una sovrapposizione di generi: al planh vero e proprio, la cui intonazione dolente domina soprattutto in incipit, è affiancata una critica mirata, tipica di numerosi sirventesi occitanici, che determina un’espressione più vigorosa nella parte centrale. Lo spunto del cuore mangiato è esplicitamente recuperato da Bertran d’Alamannon in Mout m’es greu d’En Sordel, car l’es faillitz sos senz, che si dichiara deluso dal collega, lo rimprovera per aver sprecato un simile cuore con infimi personaggi e propone dunque una spartizione tra i più valorosi. Resta così il gioco sulla convenzione di genere, ma si perde l’elemento polemico-politico. Lo stesso vale per Pus partit an lo cor En Sordel e N Bertrans di Peire Bremon Ricas Novas, che nella terza occorrenza della medesima peculiare soluzione cita esplicitamente i due antecedenti, già in incipit. Lo spunto diviene occasione per un’iperbolica estensione della spartizione entro tutti i popoli e i luoghi occidentali e in parte transmarini: proprio l’enumerazione delle coordinate geografiche sembra costituire il vero scopo del poeta. Il riuso del genere in collaborazione con elementi civili, che abbiamo visto nel caso di Sordello, si coglie anche in altri peculiari testi trobadorici, come in Aissi com hom plainh son fill o son paire, in cui Peire Cardenal rappresenta i peccatori come morti in chiave morale e spirituale. L’allontanamento dalla tradizione del planctus è ancor più netto, poiché la morte in senso stretto è addirittura eliminata. Lo stesso avviene in tre componimenti d’argomento amoroso, dove l’immagine della morte e il conseguente lamento sono volti ad esprimere l’insoddisfazione del drudo376. In Gran esfortz fai qui chanta ni s deporta Salh d’Escola piange l’amata come morta, per renderne in modo innovativo e metaforico la crudeltà, mentre in Se l mals d’amors m’auzi ni m’es nozens Blacasset si dispera per due donne splendide come fossero morte, quando invece hanno 374 Tale peculiare trattamento della materia sacra ben si accorda con la convenzionale mescolanza di divino e terreno che contraddistingue la rappresentazione amorosa; se ne parlerà con maggiore ampiezza nel corso del capitolo successivo. 375 La duplice identità del defunto, signore feudale e poeta, è particolarmente interessante per il lettore di Petrarca, che piange la morte di due poeti nel Canzoniere, Cino da Pistoia e Sennuccio del Bene. 376 Su tali testi si sono soffermate sia Bertolucci Pizzorusso 2001, nella sua riflessione sulla diffusione del lamento in morte in generi diversi dal planh canonico, sia Brunetti 2006, ragionando sulle forme di lontananza nella poesia trobadorica. 153 soltanto preso il velo377. Di nuovo Sordello trasforma l’abituale lamentazione per la dama scomparsa in oggetto di disputa teorica, quando nel partimens Uns amics et un’amia si domanda quale sia il comportamento corretto per l’innamorato rimasto solo, consolazione e ritorno all’amore oppure lutto senza speranza378. Questione molto simile viene proposta da Gui d’Ussel in N’Elias, de vos voill auzir, anche se forse in un’ottica semplificata379. Un effetto derisorio e parodico si coglie invece nel planh di Guilhem de Montanhagol, dedicato ad un amico poeta, dall’incipit Marritz cum homs mal sabens ab frachura. 7.1 “Planh” trobadorici in morte dell’amata In ambito trobadorico la morte dell’amata rappresenta in realtà una questione un po’ più delicata. Da una parte, infatti, sono rimasti pochissimi testi dedicati all’avvenimento, anche se, come ha evidenziato Marco Santagata, si possono ipotizzare perdite consistenti. Ben pochi autori piangono la scomparsa della dama, nessuno la ricorda oltre, per quanto la promessa di amarla in eterno rappresenti un topos diffuso, e non solo nei testi funebri380. I planh classici dedicati alla dama sono soltanto sei: De tot en tot es er de mi partitz di Aimeric de Peguilhan, Crezens, fis, verays et entiers di Gavaudan, De totz chaitius di Pons de Capduelh, Eu non chant ges per talan de chantar di Lanfranco Cigala, S’ieu ai perdut di Bonifaci Calvo e Ar pren camgat per tostemps de xantar di Raimbaut de Vaqueiras. Tale gruppo di testi381 può essere integrato attingendo alla produzione di due trovatori d’area iberica, Pero Garcia Burgalés, attivo dopo la metà del Duecento alla corte di Alfonso X, e Pedro di Barcelos, vissuto a cavallo tra XIII e XIV secolo382. In entrambi i casi l’importanza del tema funebre è evidente, o addirittura schiacciante nel piccolo canzoniere di don Pedro, che su quattro canzoni sopravvissute, lascia ben tre liriche in cui inveisce contro Dio per aver causato la morte dell’amata383. La medesima 377 Bertolucci Pizzorusso 2001 sottolinea però come entrare in convento significhi in definitiva “morire per il mondo” e comunque sparire, sottraendosi alle consuetudini della vita cortese ed anzi infrangendone la logica, anche a scapito del poeta. 378 Tale aspetto è particolarmente interessante rispetto alle conseguenze della morte dell’amata sull’atteggiamento e sulla poesia dell’innamorato, su cui sarà opportuno tornare con maggiore attenzione, soprattutto in riferimento alla soluzione petrarchesca. 379 Il partimens infatti oppone morte dell’amata e rifiuto da parte sua come possibili cause del dolore più grande, e dunque non propone una vera e propria riflessione sul comportamento giusto per un amante in lutto. 380 Santagata 1999, pp. 67 segg. 381 Tale corpus è stato identificato sia da Santagata 1999, p. 67, sia da Brunetti 2006. 382 I due tardi trovatori sono ricordati da Bertolucci Pizzorusso 2001 (il secondo come Don Pedro de Portugal) quali esempi di trasformazione del genere. 383 Que muyto bem me fez Nostro Senhor, Nom quer’a Deus por mha morte rogar, Tal sazom foy em que eu ja perdi. 154 tendenza alla blasfemia si coglie nei quattro planh del Burgalés384, benché si tratti di testi più vari ed articolati385. Aggiungiamo infine un ultimo esempio, che pare dimenticato. Anch’esso è convenzionale, ma rinnovato dall’inconsueto punto di vista: in Ab lo cor trist environat d’esmai è infatti un’anonima trobairitz a piangere il drudo perduto. L’esiguità del genere appare ancor più sorprendente se pensiamo alla centralità della figura femminile nella produzione occitanica, sia rispetto alla quantità di canzoni amorose sul totale delle opere provenzali, sia a confronto con le iperboliche dichiarazioni di devozione, fedeltà e desiderio che le contraddistinguono. Anche sul piano poetico l’espressione del cordoglio e il perpetuarsi del sentimento al di là della morte sarebbero stati del tutto giustificati, come in effetti avviene per Petrarca. Il concetto stesso di poesia cortese si regge sulla presenza di un oggetto d’amore, adorato ma irraggiungibile, con tutte le ben note dinamiche che ne derivano386. La sua brusca scomparsa non può che turbare il trovatore, ponendolo nell’incertezza anche sul proprio ruolo. Secondo Bertolucci Pizzorusso387 la difficoltà di gestire un simile cambiamento può costituire una prima motivazione per la rarità del tema stesso. D’altro canto, poiché la dama è un personaggio lirico e non storico, ciascun trovatore può scegliere liberamente se e come affrontare il problema, trovandosi invece in una condizione ben diversa nel caso della morte del signore, che costituisce un dato reale. Il valore sconvolgente della morte dell’amata è invece spesso registrato nelle vidas, che a tal proposito aggiungono dettagli assenti nelle canzoni, benché verosimili, al fine di descrivere le diverse fasi biografiche del loro soggetto o anche di motivare l’abbandono della vita e della produzione cortesi. Il caso più esemplare è quello di Folchetto da Marsiglia. Egli abbandonò i piaceri della corte in seguito alla conversione spirituale, che è in parte testimoniata dalle sue composizioni liriche, e che lo portò al vescovado e alla lotta contro gli eretici. Tuttavia nella vida si afferma che lo spunto per tale decisione fu la morte dell’amata, che avrebbe tolto ogni gusto e senso all’esperienza mondana388. Al contrario, il poeta può cercare di dissimulare l’importanza dell’evento luttuoso, per evidenziare piuttosto il ruolo della coscienza e della volontà nel proprio cambiamento esistenziale. Ciò accade in particolare nel canzoniere di Guiraut Riquier: il poeta non si 384 Come si vedrà, anche un quinto testo fa riferimento alla morte dell’amata, ma in un’ottica del tutto nuova: il poeta ringrazia il Signore che gli ha consentito di innamorarsi di nuovo. 385 Ja eu non ei oimais por que temer, che mancava nella rassegna di Bertolucci Pizzorusso 2011, Ai!, Deus, que grave coita de sofrer, Nunca Deus quis nulha cousa gran ben e Se eu a Deus algun mal mereci. 386 Su tale aspetto si è soffermata Brunetti 2006, mentre Santagata 1999 sembra attribuire minor peso a tale svolta nella logica amorosa. 387 Bertolucci Pizzorusso 2001. 388 Su tale aspetto si soffermano sia Bertolucci Pizzorusso 2001 sia Brunetti 2006, e soprattutto Antonelli 1994, che analizza anche in generale la svolta dalla giovinezza spensierata alla serietà matura: proprio questo potrebbe giustificare la rappresentazione della morte dell’amata. Un simile cambiamento, benché senza coinvolgere alcun planh, si può leggere nel corpus del primo trovatore, Guglielmo IX, che accosta componimenti giocosi o addirittura sguaiati a testi di carattere penitenziale. Infine, la stessa struttura tripartita del De amore di Andrea Cappellano può essere interpretata in tal senso. 155 sofferma sulla perdita dell’amata (1283), ma esalta la propria rinnovata dedizione a Dio e soprattutto alla Vergine, la quale prende il posto della dama nonché il suo senhal389. Sul piano tematico, i planh dedicati alla dama presentano alcune differenziazioni significative rispetto a quelli d’ispirazione civile. Si tratta in entrambi i casi di un genere molto stilizzato, contraddistinto da una topica codificata in modo puntuale; gli elementi amorosi riguardano l’insistenza sul ricordo, il desiderio di essere morti insieme o al posto dell’amata, la certezza che l’amore durerà per sempre, a prescindere dalla forzata separazione. Per comunicare il pathos della propria disperazione, i trovatori ripropongono più volte nell’arco del componimento il nome femminile (per lo più ancora mascherato dal senhal). Il fattore nominale, in particolare, ha avuto un impatto evidente sulla lirica italiana delle origini, anche prima dell’uso estensivo che ne ha fatto Petrarca. Lo si coglie nei pochi poeti che hanno riutilizzato il genere del planh, poco attestato prima di Dante390, a partire dalla Vita nova stessa: qui il nome proprio di Beatrice compare solo dopo la sua morte e alle occorrenze esplicite si aggiungono numerose allusioni391. 7.2 Il “planh” nel Canzoniere Nel Canzoniere, in quanto raccolta di liriche in primo luogo dedicata all’amore per Laura, la morte dell’amata e il lamento che ne consegue hanno un valore fondamentale. In tal senso, si può dire che Petrarca porti a compimento le premesse dei trovatori: un amore iperbolico non può che essere stravolto dalla scomparsa del suo oggetto. Mettendo a frutto anche l’esempio di Dante392, l’Aretino non si sottrae alla sfida di ripensare la propria poesia ed anzi sfrutta l’avvenimento funebre per imprimere alla raccolta una svolta essenziale. Già tale funzione dell’avvenimento e del genere funebre, nonché l’idea di una poesia che va oltre la perdita dell’amata, segnano una forte innovazione nel recupero della tradizione, laddove il canto in morte costituiva un momento isolato e di fatto una manifestazione poetica occasionale393. L’utilizzo di 389 È noto che Petrarca impone il medesimo ordine cronologico e assiologico tra conversione (o meglio, esigenza della conversione) e morte di Laura. Si è già fatto riferimento alle affinità che intercorrono tra Guiraut Riquier e il Canzoniere, in questo e nel capitolo precedente. Per le peculiarità della raccolta del trovatore iberico si veda anche il capitolo sesto. Di tali aspetti si è occupato, inoltre, Santagata 1999, pp. 65-67. Il caso di Guiraut è stato considerato anche da Antonelli 1994, in una più ampia disamina sulle bipartizioni nei canzonieri predanteschi, autoriali o meno. 390 In particolare Cino da Pistoia, citato ad esempio in Bettarini 1998, pp. 43 segg e in Malzacher 2013, pp. 31 e 159, dove si trovano ulteriori indicazioni bibliografiche. La studiosa sottolinea in particolare come prima della Vita nova ci fossero stati sia esempi di pianto per l’amata morta, anche in Italia, sia esperimenti sulla bipartizione di un canzoniere sistematico, come per Guittone, ma mai una sovrapposizione dei due elementi, come appunto in Dante. L’originalità del poeta era stata già esaltata da Santagata 1999, pp. 70 segg, anche in riferimento agli aspetti tematici, nell’ottica di una semplificazione, e da Antonelli 1994, che fa riferimento anche al caso di Guittone, evidenziando come il criterio fosse soltanto cronologico, benché pensato per esaltare l’evoluzione semantica della poesia. 391 Santagata 1999, p. 83. 392 Per la novità della poesia in morte di Beatrice si legga anche Singleton 1968, pp. 137. 393 Lo ha sottolineato, in riferimento ai trovatori, Aston 1971. Petrarca raccoglie però anche tale connotazione più convenzionale nei vari planh del Canzoniere dedicati a personaggi diversi dall’amata. In realtà anche Dante piange la morte di due personaggi oltre a Beatrice, il padre e l’amica di lei; in entrambi 156 diversi e illustri modelli consente di apprezzare a maggior ragione l’originalità di Petrarca, a partire dal modo in cui essi interagiscono. La precisa bipartizione dantesca394, con i suoi antecedenti, opera certamente a monte del Canzoniere; tuttavia la raccolta petrarchesca non è mai stata pensata come divisa in due parti equivalenti sul piano quantitativo, come accade invece per Dante395. Inoltre la struttura dell’opera petrarchesca nasce da una duplice giustificazione tematica. La distinzione delle due sezioni, infatti, è sì confermata dall’istanza amorosa e luttuosa già propria della Vita nova, identificando con ciò l’importanza dell’evento funebre, ma nasce in realtà dal cambiamento morale, già presente, come si è detto, in Guiraut Riquier396. Tale aspetto era rilevante anche nella prima metà del Canzoniere – lo si è visto ad esempio per le sestine –, ma è la canzone 264, il testo che apre la seconda parte, a proporre la mutatio animi, perciò rappresentando il primo traguardo del poeta. Grazie alla collaborazione fra spunti diversi, lo sviluppo dell’io intorno alla cesura risulta più complesso. Anche in merito ai singoli motivi, nella composizione dei suoi planh Petrarca dimostra di ricordare con dovizia i suoi antecedenti, in particolare transalpini. Vi si ritrovano infatti quasi tutti gli elementi topici che caratterizzavano i lamenti trobadorici e di cui la produzione italiana si era appropriata, con due eccezioni evidenti e significative. In primo luogo, mancano le dure requisitorie contro Dio, che spesso si riscontrano nei lamenti occitanici. Da una parte, Petrarca potrebbe aver risentito dell’influenza dantesca; dall’altra egli rispetta la coerenza del suo io lirico, che vive la spinta spirituale in modo incompleto e tormentato, ma non dimentica mai del tutto doveri ed aspirazioni cristiani. È vero però che rimane uno spazio di ambiguità nella concezione del sacro e nel rapporto tra dimensione celeste e realtà terrena: ciò suggerisce la perdurante importanza dei modelli provenzali e potenzia l’autoritratto petrarchesco, poiché lo distingue dalla visione dantesca. Si pensi ad esempio alla coppia di sonetti 344-345. Nel i casi però si tratta di prefigurazioni del più grave lutto, che non costituiscono, perciò, due casi autonomi. Se ne tratterà ulteriormente a breve. 394 La canzone Donna pietosa è esattamente a metà della Vita nova, e così la lunga visione premonitrice della morte di Beatrice che di fatto sostituisce la narrazione della morte vera e propria, che Dante preferisce sottacere. Ne consegue inoltre che la canzone elegiaca che piange l’avvenuta morte dell’amata, Gli occhi dolenti, apre la seconda metà del libello (la terza novena), sottolineando come alla partizione numerica corrisponda quella contenutistica. Su tali aspetti si è soffermata Malzacher 2013, pp. 162 e 171, in particolare evidenziando una corrispondenza posizionale tra Donna pietosa e il petrarchesco sonetto 184, cioè il primo componimento in cui il poeta realizza che anche Laura dovrà prima o poi morire e che si colloca in effetti subito dopo la metà dei 366 fragmenta. 395 Singleton 1968, pp. 13-38 ha messo in evidenza la centralità della morte di Beatrice rispetto alla struttura stessa della Vita nova: il “libello” infatti è tutto narrato a posteriori (possiamo anzi anticipare ad esso la distinzione tra personaggio e poeta descritta da Contini per la Commedia), è un “libro della memoria”. Dunque l’amante sa fin dall’inizio che Beatrice morirà e che ciò porterà conseguenze fondamentali. Non si può dire lo stesso in Petrarca: al di là del sonetto proemiale, certamente pensato “a posteriori”, e in parte della canzone 23, che riesamina l’inizio dell’esperienza amorosa, la prospettiva dell’io poetico suona in sostanza “presente” rispetto ai sentimenti espressi. Con ciò ancora una volta non si intende dare fiducia alla fittizia datazione che Petrarca associa ai propri componimenti, quanto evidenziare la condizione emotiva che il poeta attribuisce di volta in volta al suo io, senza sovrapporsi del tutto ad esso. 396 Per questo sembra opportuno precisare la “bipartizione tematica” di cui parla Malzacher 2013, p. 162 riferendosi alla sola questione laurana. 157 primo Petrarca dichiara che la beatitudine di Laura non gli procura alcuna consolazione (“né gran prosperità il mio stato adverso / pò consolar di quel bel spirto sciolto”, vv 1011); la necessità stessa di implorare perdono nel componimento successivo dimostra l’eccesso delle sue parole (cioè “quel che, se fusse ver, torto sarebbe”, v 4)397. Il poeta insomma non rinuncia a suggerire la responsabilità del cielo rispetto al proprio dolore, anche se in modo innovativo, appropriandosi di un motivo del tutto convenzionale398: […] / che sol ne mostrò ‘l ciel, poi sel ritolse / per adornarne i suoi stellanti chiostri (son. 309, vv 3-4) [Gli occhi dicevano] il ciel n’aspetta: a voi parrà per tempo; / ma chi ne strinse qui, dissolve il nodo, / e’l vostro per farv’ira vuol che ‘nvecchi (son. 330, vv 12-14) Dolce mio caro et precioso pegno / che Natura mi tolse, e ‘l Ciel mi guarda (son. 340, vv 1-2). L’io poetico ragiona ancora in termini terreni e di certo non è pronto ad elevare il suo sguardo oltre la dimensione mondana399. Il suo desiderio per Laura non viene meno, benché sia ora radicato nel ricordo, e il bisogno di rivederla, che trova spazio soprattutto nel filone delle visioni, urge al di là della prospettiva salvifico-escatologica400. Tale attaccamento è espresso in modo evidente nel componimento di annuncio della morte, il sonetto 267: “Per voi conven ch’io arda, e ‘n voi respire, / ch’i’ pur fui vostro; et se di voi son privo, / via men d’ogni sventura altra mi dole” (vv 9-11)401. Sia i modelli occitanici sia quello dantesco rappresentano dunque uno spunto, un punto di partenza nella reinterpretazione del genere. L’ampiezza stessa del Canzoniere contribuisce alla libertà del riuso petrarchesco. Benché il poeta proponga alcuni esempi di solenne canto in morte (268402, 331, 332), di fatto è l’intera seconda parte del Canzoniere a costituire un lunghissimo planh, una sfaccettata e approfondita espressione del proprio cordoglio, ad eccezione dei primi tre componimenti, degli ultimi sette ormai volti al superamento dell’esperienza amorosa e di alcune parentesi penitenziali. Le possibilità per elaborare la tematica luttuosa si accrescono quindi in 397 Il sonetto 346, che narra l’arrivo di Laura splendente in Paradiso, oltre a connettersi perfettamente ai due testi che precedono, suona quasi, nella successione lineare della raccolta, una riparazione rispetto alle parole avventate di 344. 398 Si pensi ai fragmenta 300, 309, 330, 332, 337, 340, 348, in cui il tema è presentato secondo diverse sfumature. In 360 invece la colpa è attribuita ad Amore, che ha fatto innamorare il poeta e poi gli ha sottratto ciò che desiderava. 399 È molto interessante la riflessione conclusiva di Fenzi in Picone 2007, p. 611, che sottolinea la necessità per l’io poetico di trovare un compromesso tra i due aspetti della relazione amorosa quale si configura dopo la morte di Laura, tra consapevolezza della sua beatitudine e desiderio persistente. 400 Così invece Dante: Santagata 1999, pp. 70 segg., Baranski in Picone 2007, pp. 617-640 e poi Malzacher 2013, pp. 159-254, che basa su tale opposizione la propria interpretazione del rapporto Canzoniere-Vita nova. 401 Il tema viene perciò introdotto da un metro “umile”, come sottolinea Bettarini 1998, pp. 46-48. Si delinea un interessante effetto introduttivo, come a preparare il terreno alla vera e propria esclamazione dolente, rappresentata anche in senso retorico dalla patetica interrogativa che apre 268, Che debb’io far? Che mi consigli, Amore? Il medesimo meccanismo si riscontra tra 27 e 28 (il sonetto introduce il tema della crociata, la canzone lo sviluppa) e tra 365 e 366 (preghiere a Dio e alla Vergine): se ne riparlerà a breve. 402 Per l’analisi di 268 si ricorda innanzitutto la ricostruzione filologica in Bettarini 1998, pp. 45-85. 158 modo notevole: i diversi dettagli convenzionali sono dilazionati, variati ed accostati ad elementi eterogenei403. Si osservi qualche luogo esemplare: Tempo è ben di morire, / et ò tardato più ch’i’ non vorrei. / Madonna è morta, et à seco il mio core; / […] / interromper conven quest’anni rei (canz. 268, vv. 2-6) Poscia ch’ogni mia gioia / per lo suo dipartire in pianto è volta, / ogni dolcezza de mia vita è tolta (canz. 268, vv 9-11) Ahi orbo mondo ingrato, / gran cagion ài di dever pianger meco, / ché quel bel ch’era in te, perduto ài seco (canz. 268, vv 20-22) […] ch’è salita / a tanta pace, et m’à lassato in guerra (canz. 268, vv 60-61) Non basta ben ch’Amor, Fortuna et Morte / mi fanno guerra intorno e ‘n su le porte (son. 274, vv 2-3) Occhi miei, oscurato è ‘l nostro sole (son. 275, v 1) Giusto duol certo a lamentar mi mena (son. 276, v 5) Le mie notti fa triste, e i giorni oscuri, / quella che n’à portato i pensier’ miei, / né di sé m’à lasciato altro che ‘l nome (son. 291, vv 12-14) Quant’ [invidia] a la dispietata et dura Morte, / ch’avendo spento in lei la vita mia, / stassi ne’ suoi begli occhi, et me non chiama! (son. 300, vv 12-14) Sol memoria m’avanza, / et pasco ‘l gran desir sol di quest’una: / onde l’alma vien men frale et digiuna (canz. 331, vv 10-12) […] volti subitamente in doglia e ‘n pianto, / odiar vita mi fanno, et bramar morte” (sest. 332, vv 5-6) Morte m’à morto, et sola pò far Morte / ch’i’ torni a riveder quel viso lieto / che piacer mi facea i sospiri e ‘l pianto (sest. 332, vv 43-45). In varie occasioni la spinta penitenziale si mescola al permanere dei legami terreni, cosicché le due tematiche si rinnovano a vicenda. Così avviene ad esempio nel sonetto 273, che per esortare l’anima al cambiamento ne descrive i tormenti, luttuosi e terreni ad un tempo: “Anima sconsolata, che pur vai / giugnendo legne al foco ove tu ardi?” (vv 34), “Deh non rinovellar quel che n’ancide” (v 9), “ché mal per noi quella beltà si vide, / se viva et morta ne devea tor pace” (vv 13-14). Un altro strumento efficace per l’appropriazione del genere è l’accostamento alla consolatio, come si è detto tipologia espressiva affine ma ben distinta, che deriva a Petrarca non tanto dalle fonti occitaniche quanto da quelle mediolatine. Al pianto infatti si alternano momenti di sollievo nel contatto con lo spirito di Laura, che appare più volte al poeta con intento rasserenante e persino morale404. Tipicamente petrarchesca infine è la scansione del tempo: come nella sezione “in vita” la vicenda amorosa era misurata dal passare degli anni, anche “in morte” il poeta 403 Tra i componimenti dedicati al lutto nel modo più classico ricordiamo 274-276, 288, 291, 294-296, 299, 300, 312-314, 320, 321, 326, 327, 338 (espressione del dolore ecumenico), 344, 352, 353. 404 Di tali apparizioni laurane si è parlato nel corso del presentecapitolo. 159 introduce due anniversari405, il terzo e il decimo, nonché l’indicazione puntuale della data terribile. O che bel morir era, oggi è terzo anno! (son. 278, v 14)406 Sai che ‘n mille trecento quarantotto, / il dì sesto d’aprile, in l’ora prima, / dal corpo uscìo quell’anima beata (son. 336, vv 12-14)407 Tennemi Amor anni ventuno ardendo, / lieto nel foco, et nel duol pien di speme; / poi che madonna e ‘l mio cor seco inseme / saliro al ciel, dieci altri anni piangendo408 (son. 364, vv 1-4). L’elemento funebre si inserisce negli equilibri complessivi della raccolta anche su un piano più generale. Infatti, il lamento per la scomparsa di Laura trova corrispondenza nella parte “in vita” grazie a prefigurazioni, presentimenti e anticipazioni di varia natura. In primo luogo, una serie di sonetti a ridosso della cesura mediana insiste sull’intuizione da parte del poeta che qualcosa di grave sta per accadere; essi sono a loro volta anticipati dalla graduale comprensione della necessità naturale che Laura, umana e mortale, muoia. Entrambi tali aspetti – il presagio e la consapevolezza – erano già presenti nella Vita nova409. Tuttavia Petrarca amplifica e sistematizza l’espediente, che acquisisce una precisa valenza strutturale e narrativa: come già attraverso le indicazioni cronologiche e gli anniversari, il poeta costruisce il senso della progressione, del tempo che scorre, della vicenda che si evolve (o che al contrario non si evolve a sufficienza). Ogni tassello contribuisce alla rappresentazione dell’io e delle sue dinamiche. 405 L’indicazione del primo anniversario è presente però anche nella Vita nova, dove comunque la scansione temporale aveva un rilievo notevolissimo, benché secondo strategie diverse (capitolo XXIII secondo la numerazione di Gorni). Per gli anniversari nel Canzoniere si veda il capitolo successivo. 406 Come segnala Santagata 1996, p. 1126 rifacendosi al Leopardi, il verso richiama da vicino quello in cui è indicato per la prima volta un anniversario dell’innamoramento, il settimo, al v 28 della sestina 30. Possiamo notare che sia il numero 7 che il 3 hanno una valenza simbolica: 7 in chiave romanza, ma anche biblica (il servizio d’amore, il servizio di Giacobbe), 3 in chiave trinitaria. Per una lettura recente del sonetto si veda ad esempio Malzacher 2013, pp. 239-246, dove si trova qualche utile indicazione bibliografica ulteriore. 407 A questo sonetto corrisponde il 211, nella cui seconda terzina è precisata l’indicazione della data dell’innamoramento: “Mille trecento ventisette, a punto / su l’ora prima, il dì sesto d’aprile, / nel laberinto intrai, né veggio ond’esca”. Sul giorno dell’innamoramento, nonché della morte di Laura e il problema del calendario liturgico si veda il classico studio di Martinelli 1972. 408 Il decimo anniversario in morte è anche l’ultimo della raccolta, ormai a ridosso della chiusura mariana e dunque parte della zona penitenziale con cui termina il Canzoniere. Il riferimento cronologico è in effetti parte di una più ampia retrospettiva sugli anni dell’innamoramento, i ventuno in vita e i dieci in morte, dando quindi all’occorrenza un significato peculiare. Il brano dimostra anche come la percezione del poeta innamorato resti coerente sino alla fine: ancora l’ardore e le sofferenze amorose gli paiono piacevoli e positivi. 409 Oltre alla morte di un’amica e del padre di Beatrice, vanno senza dubbio ricordati la prima visione di Amore, che piangente stringe tra le braccia un’ignara Beatrice, e il sogno-visione di Dante malato, che precede di pochissimo la morte dell’amata e che in effetti è il frutto del doloroso pensiero che anch’ella è umana. Oltre alle analisi nelle introduzioni ai singoli capitoli in Rossi 1999, si vedano anche Carrai 2008 e Malzacher 2013, pp. 160 segg. 160 Ella è sì schiva, ch’abitar non degna / più ne la vita faticosa et vile (son. 184, vv 7-8) […] Quanto questa in terra appare, / fia ‘l viver bello; et poi ‘l vedrem turbare, / perir vertuti, e ‘l mio regno con elle (son. 218, vv 6-8) Tanto et più fien le cose oscure et sole, / se Morte li occhi suoi chiude et asconde (son. 218, vv 13-14) Sì ch’io non veggia il gran publico danno, / e ‘l mondo remaner senza ‘l suo sole (son. 246, vv 9-10) Et venga tosto, perché Morte fura / prima i migliori, et lascia star i rei: / questa, aspettata al regno delli dei, / cosa bella mortal passa et non dura (son. 248, vv 5-8) Qual paura ò, quando mi torna a mente / quel giorno ch’i’ lasciai grave et pensosa / madonna […] (son. 249, vv 1-3) Or tristi auguri, et sogni et penser’ negri / mi dànno assalto, et piaccia a Dio che ‘nvano (son. 249, vv 13-14) Ché spesso nel suo volto veder parme / vera pietà con grave dolor mista (son. 250, vv 56) Non ti soven di quella ultima sera (son. 250, v 9) Non sperar di vedermi in terra mai (son. 250, v 14) È dunque ver che ‘nnanzi tempo spenta / sia l’alma luce che suol far contenta / mia vita in pene et in speranze bone? (son. 251, vv 2-4) Se per salir a l’eterno soggiorno / uscita è pur del bel’albergo fora, / prego non tardi il mio ultimo giorno (son. 251, vv 12-14) O dolci sguardi, o parolette accorte, / or fia mai il dì ch’i’ vi riveggia e oda? (son. 253, vv 1-2) […] O dura dipartita, / perché lontan m’ài fatto da’ miei danni? / La mia favola breve è già compita, / et fornito il mio tempo a mezzo gli anni (son. 254, vv 11-14) […] ciel, che lei aspetta et brama (son. 261, v 8). Nei versi citati410 si notano già alcuni elementi tipici del pianto funebre e quindi ben noti al lettore dei trovatori: la lode dell’amata che esalta il rimpianto per la sua scomparsa, l’idea di un amore che va oltre la vita terrena, il desiderio del poeta di morire prima di lei o almeno insieme a lei, la responsabilità del Cielo, che desidera adornarsi dello splendore muliebre. Petrarca dunque ripropone tratti essenziali della consuetudine espressiva trobadorica in un contesto del tutto innovativo. La consapevolezza della natura mortale di Laura è sottesa, inoltre, ai componimenti in cui il poeta ne presenti la malattia o la vecchiaia, sia essa già prossima o solo ipotizzata. La rappresentazione dell’amata in età matura costituisce a sua volta un topos, benché la sensibilità petrarchesca lo riproponga in termini differenti rispetto ai Provenzali411; l’aspetto più peculiare, però, si coglie nell’incontro tra motivo dell’età e dello scorrere del tempo e componente funebre. Quest’ultima, ancora una volta, appare slegata dal 410 E spesso il complesso dei componimenti cui si è fatto riferimento accentua tali aspetti, ad esempio sottolineando il timore del poeta, esprimendone il destino di dolore e morte, ampliando l’elogio delle bellezze in serie elencatorie. 411 Nel corpus trobadorico tale ritratto poco lusinghiero dell’amata non ha tanto a che fare con la durata della vicenda amorosa, come nel Canzoniere, quanto con la polemica o la derisione. Su tali aspetti si tornerà in modo più dettagliato nel capitolo seguente. 161 contesto in cui era d’abitudine collocata in ambito occitanico, determinando una forma ancora diversa di riuso delle convenzioni. Ch’i’ veggia per vertù degli ultimi anni, / donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento, / e i cape’ d’oro fin farsi d’argento, / et lassar le ghirlande e i verdi panni, / e ‘l viso scolorir […] (son. 12, vv 3-7) Questa anima gentil che si diparte, / anzi tempo chiamata a l’altra vita (son. 31, vv 1-2) […] mia speme già condutta al verde / […] / quanto cangiata, oimè, da quel di pria! (son. 33, vv 9-12) […] et se non fosse or tale, / piagha per allentar d’arco non sana (son. 90, vv 13-14) Or quei belli occhi […] / tal nebbia copre, sì gravosa et bruna, / che ‘l sol de la mia vita à quasi spento (son. 231, vv 6-8)412 Qual ventura mi fu, quando da l’uno / de’ duo i più belli occhi che mai furo, / mirandol di dolor turbato e scuro, / mosse vertù che fe’ ‘l mio infermo et bruno! (son. 233, vv 1-4)413. A segnalare la corrispondenza tra le due sezioni della raccolta, Petrarca inserisce dopo la morte di Laura alcuni ripensamenti sui presagi che ne aveva avuto, ma che non aveva saputo interpretare. Egli si pente perciò di non aver fatto tesoro di quelle rivelazioni, che gli avrebbero permesso di premunirsi contro le atroci sofferenze che ora patisce. Mente mia, che presaga de’ tuoi damni, / al tempo lieto già pensosa et trista, / sì ‘ntentamente ne l’amata vista / requie cercavi de’ futuri affanni (son. 314, vv 1-4) L’ultimo, lasso, de’ miei giorni allegri, / […] / giunto era, et facto ‘l cor tepida neve / forse presago de’ dì tristi et negri (son. 328, vv 1-4) O fido sguardo, or che volei tu dirme / partend’io per non esser mai contento? (son. 329, vv 3-4) Ch’i’ credeva […] / perder parte, non tutto al dipartirme (son. 329, vv 6-7) Ché già ‘l contrario era ordinato in cielo, / spegner l’almo mio lume ond’io vivea (son. 329, vv 9-10) Quel vago, dolce, caro, honesto sguardo / dir parea: To’ di me quel che tu poi, / ché mai più qui non mi vedrai da poi / ch’avrai quinci il pe’ mosso, a mover tardo (son. 330, vv 14) Come non vedestù nelli occhi suoi / quel che ved’ora, ond’io mi struggo et ardo? (son. 330, vv 7-8) Ne la fronte a madonna avrei ben lecto: / Al fin se’ giunto d’ogni tua dolcezza / et al principio del tuo amaro molto (canz. 331, vv 52-54). 412 Nei versi successivi il poeta si chiede come la Natura e Dio stesso possano permettere che ciò che è tanto bello sia rovinato in modo tanto indegno: di nuovo un’anticipazione delle accuse che il poeta rimasto in vita rivolge a chi gli ha sottratto l’amata. 413 Corollario della malattia di Laura in 231 è qui il contagio ai danni del poeta: la rappresentazione è giocata sul topico meccanismo dell’innamoramento, con gli sguardi omicidi (qui letteralmente) della dama che passano dagli occhi al cuore. Ai componimenti dedicati alle infermità di Laura che qui si sono citati corrisponde un ultimo luogo interessante, dove però è il poeta ad essere malato. Il sonetto 120 è in realtà un testo di corrispondenza ad un altro rimatore, scritto allo scopo di smentire le voci sulla propria morte, altro aspetto che riconduce in modo coerente, anche se meno immediato, alle dichiarazioni sulla caducità di Laura. 162 Quella dell’amata non è la sola morte pianta nel Canzoniere, come per altro già nel libello dantesco. Nella Vita nova però le due dipartite che anticipavano quella di Beatrice servivano in sostanza per annunciarla, poiché si trattava di personaggi strettamente legati a lei (l’amica e il padre); a tale scopo primario si aggiungeva l’idea del dolore patito dalla donna amata cui il poeta partecipava in prima persona. Diversamente, nel Canzoniere i planh 91, 92, 269, 271414, 287 e 322 hanno poco o nulla a che fare con Laura, e molto invece con l’io lirico e con la struttura della raccolta. Innanzitutto si noterà che ancora una volta i componimenti sono distribuiti in entrambe le sezioni, benché la seconda, per ragioni di tonalità complessiva oltre che di cronologia della narrazione415, ne catalizzi la maggior parte. La disposizione ne rivela anche la funzione nel progresso della raccolta. 91 piange la donna amata dal fratello416 e invita a cogliere l’occasione per la conversione, quel cambiamento che Petrarca aveva già invocato più volte per sé (54, 60, 62, 80…) senza mai concretizzarlo; la medesima associazione concettuale, ma rovesciata, si ritrova idealmente nella successione 264 (pentimento)-268(morte dell’amata). Con 92, in memoria di Cino da Pistoia, si torna alla dimensione amorosa e l’anafora dell’esortazione al pianto comunica con efficacia l’idea tipica del planh trobadorico per cui il dolore dovrebbe essere ecumenico, poiché tutto il mondo sconta la grave perdita: “Piangete, donne, et con voi pianga Amore; piangete, amanti, per ciascun paese” (vv 1-2), “Piangan le rime anchor, piangano i versi” (v 9), “Pianga Pistoia, e i citadin perversi” (v 12). Per altro, è topica anche l’incomprensione del valore del defunto e la conseguente associazione tra lamento per la morte e critica al tempo presente. Nell’insieme il sonetto sovrappone diversi aspetti significativi: la morte del poeta, l’elemento amoroso, la cecità degli uomini. La preminenza del cordoglio per Laura fa sì che nella seconda parte ogni nuova morte sia in qualche modo ricondotta alla sua: così nel planh per Giovanni Colonna, cui in realtà è dedicato ben poco spazio, e in quello all’amico e rimatore Sennuccio del Bene. La componente metapoetica vi viene arricchita per il riferimento ad altri poeti d’amore scomparsi, cui Petrarca invia il proprio saluto, culminando però col pensiero all’amata. Esso domina poi nel sonetto 271, anche perché la seconda sfortunata figura femminile è introdotta soltanto per creare un contrasto rispetto allo stato dell’io e al vero oggetto del suo amore. L’unico personaggio cui il poeta rivolga per intero la sua attenzione e le sue lacrime è l’amico Giacomo Colonna, anche se storicamente in notevole ritardo. Eppure nemmeno per Giacomo Petrarca impiega la forma solenne della canzone: il canto illustre in morte è riservato a Laura. 414 Il sonetto 271 non è tanto un lamento, quanto un’attestazione della morte di una seconda potenziale donna amata, la cui dipartita salva il poeta da un rinnovato giogo amoroso. È quindi un testo peculiare, soprattutto nella prospettiva del Canzoniere, su cui per altro ci siamo già soffermati nel corso del presente capitolo. 415 Si intende con questo la cronologia fittizia che Petrarca delinea all’interno del Canzoniere, nell’atto di ordinare gli episodi e, fisicamente, le liriche che compone, in relazione dunque alla loro funzione comunicativa e non all’effettiva datazione storica. 416 Tale ipotesi è di fatto accettata senza remore dalla critica, benché il testo non offra alcun appiglio esplicito: Santagata 1996, p. 445. Il sonetto è per certi aspetti più una consolatio che un planctus, in quanto il dolore per l’avvenimento tocca il poeta solo in modo indiretto ed anzi gli offre il destro per un discorso morale ed educativo. 163 La serie dei testi luttuosi non laurani propone alcune riflessioni. I sei brevi lamenti si inseriscono nella raccolta in perfetta armonia, poiché da una parte sono legati alla figura femminile – sia per l’intonazione generale della seconda sezione, sia per la frammistione interna con il tema amoroso, di cui si è parlato –, e dall’altra appartengono al più corposo gruppo di liriche dedicate a corrispondenti e interlocutori diversi. Certo, il tema principale (anche per quantità) è quello sentimentale, ma non è solo in tal senso che si definisce l’io poetico417. In questi versi si conferma il più completo e attento recupero del genere occitanico del planh, che i trovatori non hanno mai stato concepito come forma espressiva puramente amorosa: Petrarca dunque se ne appropria in tutte le declinazioni che i Provenzali avevano codificato. Il suo riuso appare perciò efficace sia nell’attenzione a tutti gli elementi caratteristici della tradizione (significati, immagini, contesti d’uso), sia nello sviluppo di quegli stessi strumenti verso prospettive nuove. Da una parte, il poeta porta alla sua piena evoluzione la poesia in morte dell’amata, dall’altra amplia le possibilità del genere luttuoso prima ancora che quella morte sia avvenuta. 7.3 Poeta e poesia dopo la morte dell’amata Il problema fondamentale del poeta-amante dopo la dipartita della sua dama è trovare un nuovo riferimento418. Il suo stato è confuso: a quali attività o prospettive è possibile (emotivamente) e lecito (per rispetto all’amata) rivolgersi? Dovrebbe morire, o magari entrare in convento, o soltanto cambiare il tema della propria poesia?419 Mentre le vidas tendono ad esaltare l’effetto spirituale della perdita, per spiegare l’abbandono della vita cortese da parte del loro protagonista, i testi poetici dimostrano che la rinuncia è meno ovvia e lineare di quanto non sembri420. Ad esempio, Lanfranco Cigala dichiara che la gioia è giusta anche nel lutto a patto che derivi da piaceri non 417 È un aspetto fondamentale per la comprensione del Canzoniere, su cui sarà necessario tornare con maggior ampiezza. 418 Su tale aspetto di incertezza si è soffermata in particolare Bertolucci Pizzorusso 2001, in merito ai trovatori. 419 È interessante notare che il medesimo problema dovrebbe porsi anche rispetto alla morte del signore, benché in termini meno intensi. In effetti, la rinnovata attribuzione del potere politico deve aver richiesto ogni volta un nuovo orientamento da parte del poeta, la capacità di adeguarsi e accattivarsi le simpatie delle nuove figure dominanti. Ciò vale a maggior ragione nei numerosi casi in cui il signore sia identificato come protettore e garante delle virtù e della cortesia stessa: la sua mancanza comporta una rapida decadenza del consesso sociale e uno stato ancor più amaro per il trovatore, soprattutto se si tratta di un autore dedito ad opere moraleggianti. Tuttavia la questione è più pressante nel caso della dama, almeno nella finzione poetica: secondo le dichiarazioni iperboliche tipiche della produzione sentimentale, dall’amata dipende la vita stessa del poeta, e spesso anche il suo intelletto, la sua capacità espressiva. L’incertezza dunque non è solo pratica, ma esistenziale. 420 Non solo la morte dell’amata porta a riflettere sui destini della poesia e sulla connessione che essa deve mantenere con la vicenda amorosa. Ad esempio, nella sua ventiduesima canzone, Raimbaut d’Aurenga si chiede se il sentimento e il canto che ispira devono coincidere o meno con l’aspetto fisico (erotico) dell’amore stesso e quali siano dunque i limiti del sentimento. In questo caso, perciò, il problema è già quello della presenza tangibile dell’amata, non però in terra, ma più precisamente nella camera da letto. Un altro luogo interessante si trova in Si be m partetz, mala dompna, de vos di Gui d’Ussel che dichiara ancora vivo il desiderio di cantare oltre la fine dell’amore. Di nuovo, il venir meno dell’amata non è letterale, ma relativo al solo poeta; tuttavia l’affermazione appare significativa sul piano generale. 164 amorosi: entro certi limiti, dunque, egli si sente legittimato al canto e alle attività mondane. Va ben oltre Pero Garcia Burgalés, che dopo il primo lutto, per cui aveva accusato Dio di ingiustizia e crudeltà, ritrova l’amore (e ne ringrazia il Signore), attuando una particolarissima versione del “cambio della dama”, concesso, come si è detto, agli amanti cortesi a fronte di serie motivazioni421. Le informazioni certe finiscono qui, poiché in mancanza di sillogi d’autore o per lo meno di datazioni certe non è possibile affermare se i diversi poeti che cantano la morte dell’amata siano tornati all’attività letteraria e in quali forme dopo la grave perdita. Resta indubbia invece l’assenza di poesia sull’amore oltre la morte: il lamento per l’avvenimento in sé sembra un limite invalicabile422 e l’unica eventuale possibilità di proseguire il canto lirico è trovarne un nuovo oggetto. La novità proposta da Dante e sviluppata da Petrarca appare perciò capitale. D’altro canto, se il punto partenza dei due poeti è simile, il risultato è profondamente diverso. La Vita nova delinea infatti un percorso coerente ed univoco: l’amata muore, è assunta in cielo423, il poeta si dispera, poi conosce un temporaneo sviamento tra consolazione e possibilità di un nuovo amore, ed infine grazie ad una visione torna a Beatrice e al cammino retto verso il cielo. La morte dell’amata porta dunque a compimento la funzione salvifica dell’amore ed imprime una nuova svolta alla poesia. La lirica dantesca, infatti, aveva già conosciuto una prima evoluzione essenziale grazie alla negazione del saluto – dallo Stil Novo cavalcantiano allo “stile della loda” –; ora, dopo aver subito una fase di stallo che corrisponde ad un’interruzione del percorso morale – afasia dopo la morte di Beatrice, tentazione cortese per la donna pietosa –, essa compie un altro passo avanti significativo. La “loda” già segnava lo spostamento dell’amore sul piano della spiritualità, della gratuità, di una poesia (e di un amore) che trova in sé le proprie ragioni; nel finale del libello sarà annunciata la necessità di un salto ulteriore, che solo una nuova opera (a posteriori diremmo la Commedia) potrà compiere. La morte dell’amata Beatrice ha dunque una funzione inequivocabile sul piano morale (cristiano) e letterario424. 421 Si delinea perciò in tale canzoniere la medesima situazione ipotizzata da Petrarca in 271, ma immediatamente scartata. È interessante notare che anche Dante vive la tentazione di un nuovo amore: la possibilità di riscontrare in più occasioni la medesima tendenza permette di ipotizzare che sia in gioco non solo una naturale propensione umana, ma anche una consuetudine letteraria accettata. 422 Sulla natura incerta e irrisolta dell’evoluzione morale e poetica nelle sillogi trobadoriche si veda l’efficace sintesi in Antonelli 1994. 423 È particolarmente interessante l’ipotesi di Gorni (nell’introduzione all’edizione Rossi 1999) sulla morte di Beatrice, che spiegherebbe anche il dichiarato silenzio del poeta sull’argomento: Beatrice potrebbe essere stata assunta in corpore il che motiverebbe una fusione tra l’amor carnis e l’amor caritatis, giustificando e sublimando in via definitiva il primo tramite il secondo. Ne derivano conseguenze fondamentali rispetto alla funzione conoscitiva dell’amore (di Beatrice), che per Dante è strumento di comprensione ed elevazione verso Dio, come dimostra per altro l’ultimo sonetto della Vita nova, Oltre la spera che più larga gira. Non potrebbe essere più netta la contrapposizione con Cavalcanti, che per altro si delinea in tutto l’arco del prosimetro (il commento di Rossi 1999 lo mette bene in luce). 424 Sull’evoluzione esistenziale e poetica determinata dall’evento funebre si leggano, oltre al commento e alle introduzioni in Rossi 1999: Antonelli 1994, Colombo 1994, Antonelli 2004, Carrai 2006, Malzacher 2013, soprattutto pp. 171 segg. La studiosa, come si è anticipato, si è ampiamente concentrata sulle divergenze che intercorrono tra la visione dantesca e quella petrarchesca, in tutto l’arco delle due raccolte e quindi delle vicende rappresentate. 165 Petrarca, invece, pone il problema in termini assai più ambigui. Egli infatti concepisce l’amata in chiave duplice: la donna reale e terrena, il cui corpo bellissimo si disfa tragicamente sotto terra e per la quale il desiderio non potrà mai spegnersi, e lo spirito beato accolto in cielo425. Le due immagini di Laura si alternano in tutto l’arco della seconda sezione, determinando i diversi atteggiamenti emotivi del poeta: disperazione, nostalgico desiderio, speranza, stanchezza per la vita nel secolo, bisogno di spiritualità, consolazione nel contatto con Laura stessa. Proprio il motivo delle visioni suggerisce quell’elemento di duplicità e alternanza: in quei momenti, infatti, Laura è presente e nello stesso tempo assente. La morte è una forma di separazione, di lontananza cui non c’è rimedio; l’assunzione in cielo, inoltre, ridefinisce in senso morale l’ontologica superiorità della figura femminile sull’io poetico, retaggio cortese ben percepibile nel Canzoniere. D’altra parte, la presenza costante dell’amore e dell’amata accanto (dentro) il poeta si riconfermano: come prima della morte l’allontanamento non poteva impedire che il viso di Laura comparisse davanti agli occhi dell’innamorato (127, 129…), così nel distacco definitivo c’è comunque spazio per l’incontro, benché in forma diversa. Prima la natura accoglieva le deformazioni percettive del poeta, ora la visione permette di dare corpo a tale presenza assidua, divenuta indispensabile alla sopravvivenza dell’io lirico426. Il sonetto 280 è emblematico rispetto all’ambiguità della connessione con lo spirito di Laura. Esso fa parte del ciclo sulle apparizioni valchiusane, che ricordano le visioni pastorali della prima sezione e portano consolazione al poeta, dunque secondo una prospettiva terrena; 280 però si distingue per l’invito di Laura a volgersi al cielo, che sarà ripetuto con maggior forza e con collocazione più significativa nella canzone 359. La voce stessa dell’amata compie un movimento duplice: scende a terra, ma invita al cielo427. D’altro canto lo stesso poeta compie un passo verso l’amata nel sonetto 302, poiché il suo “penser” lo eleva verso di lei: è vero che la percezione soggettiva dell’incontro rimanda facilmente alla dimensione dell’immaginazione, tuttavia Laura prende direttamente la parola per promettere la beatitudine: “Per man mi prese et disse: 425 Della scissione di Laura offre un’efficace rappresentazione Malzacher 2013, soprattutto alle pp. 237 segg. La studiosa però insiste in maniera molto netta sull’elemento terreno, come per altro in tutto il corso della sua riflessione sulle presenze della Vita nova nel Canzoniere, evidenziando la componente sensuale e peccaminosa come assolutamente preponderante, tanto da risultare quasi univoca. Come già si è detto, sono al contrario la complementarietà e la problematicità dell’io e del suo rapporto con Laura a costituire il tratto più caratteristico e interessante dell’opera. Su tali aspetti ci siamo già in parte soffermati trattando degli elementi pastorali nel corso del presente capitolo. 426 Abbiamo già anticipato il tema delle visioni. Malzacher 2013 passim, ma soprattutto nel primo e nell’ultimo capitolo, insiste proprio sulla “poetica della presenza” che distinguerebbe Petrarca da Dante, che dipinge una Beatrice spostata su un piano metafisico e dunque assiologicamente distante. Tale onnipresenza di Amore e dell’amata è assolutamente evidente nel Canzoniere, poiché essi costituiscono la prima “catena dorata” da cui in nessun modo il poeta può liberarsi; tale dominio perpetuo non deve essere confuso, tuttavia, con una parità nel rapporto con l’amata, come Malzacher sembra talvolta sostenere ad esempio nell’interpretazione del finale di 268 (Laura chiede al poeta di vivere per eternarne la memoria, pp. 180 segg.) o della presenza di Laura in veste di visione (pp. 215 segg.) Non bisogna infine tralasciare il peso che la morte di Laura determina sull’io, nel senso di una vera e propria lontananza che non sarà più colmata: su tale aspetto si è soffermato ad esempio Fenzi in Picone 2007, p. 601. 427 Un altro esempio pregnante è quello già citato dei sonetti 344-346, in cui è chiara la centralità del punto di vista del poeta, rispetto alla rappresentazione di Laura. Il suo stato celeste è assicurato, ed è il poeta a percepire tale condizione prima come una consolazione insufficiente e poi come gloria da celebrare. 166 In questa spera / sarai anchor meco, se ‘l desir non erra” (vv 5-6) e ancora “te solo aspetto, et quel che tanto amasti / e là giuso è rimaso, il mio bel velo” (vv 10-11)428. Una situazione simile si ripropone nel fragmentum 362, che significativamente si colloca dopo la critica ad Amore in 360 e a ridosso delle preghiere conclusive, ma in cui alla visione di Dio si affianca ancora il desiderio per Laura: “pregando humilemente che consenta / ch’i’ stia a veder et l’uno et l’altro volto” (vv 10-11). La duplicità delle tensioni va ricondotta nella sua sostanza al consueto dimidiamento dell’io, tra legami terreni ed aspirazioni celesti, rappresentato in modi differenti in tutto l’arco della raccolta e parallelamente nel Secretum429. Tra le due prospettive si nota anche un possibile compromesso nella maturità raggiunta dal poeta poco prima che l’amata morisse: il suo desiderio era sì terreno, ma aveva perso ogni carattere indegno e Laura cominciava a fidarsi430. Ancora una volta insomma, al centro della questione è l’io, dalla cui percezione è filtrata ogni realtà esterna, Laura e la sua morte comprese. 428 Riguardo alla natura delle visioni laurane, alla loro funzione e alla posizione dell’io rispetto ad esse, si oppongono due diverse letture critiche. La prima si deve a Santagata (con particolare riferimento a Santagata 1992), il quale attribuisce a Laura un ruolo salvifico, di guida spirituale, anche se ovviamente non secondo i parametri danteschi; ne deriva per il personaggio femminile una posizione molto più attiva e vivida rispetto all’io di quanto non si legga nella sezione “in vita”. Non basta perciò definirla una figura della memoria, del tutto mediata dall’io poetico, la cui valenza positiva si riduce soltanto allo stato celeste. Tale apporto più vivo e presente da parte di Laura è stato per altro sottolineato anche da Cherchi 2008, p. 107. Baranski, in Picone 2007, pp. 617-640, ritiene invece che manchi qualsivoglia connotazione trascendentale nell’immagine ultraterrena di Laura. La vera mediazione tra i due risiede nel pensiero, nell’immaginazione dell’io: le apparizioni sono del tutto legate alla sua percezione e si riducono perciò a prodotti della sua psiche. La vera Laura non torna al poeta: in parte è sotto terra, in parte in Paradiso. E la definitiva separazione dei due innamorati sembrerebbe comprovata dal sonetto in morte di Sennuccio del Bene, cui viene chiesto di mediare tra amata e amante, portandole il saluto. Le posizioni dei due studiosi sono in sostanza incompatibili, come sostiene nella sua conclusione lo stesso Baranski. Ciò non toglie che si possa proporre una terza lettura, di carattere sintetico. Da una parte, tutto il Canzoniere propone la visione soggettiva dell’io ed è quindi inevitabile che anche la percezione di Laura morta passi attraverso i suoi occhi e il suo stato d’animo. Ciò non impedisce che il poeta ne avverta (e dunque di riflesso il lettore) una diversa presenza: più lontana per certi aspetti, più attiva per altri (in relazione anche all’amore maturo e coscienzioso e alla comprensione di quanto il rifiuto sia stato benefico). È vero che tutte le visioni sono più o meno esplicitamente legate al pensiero del poeta, ma è altrettanto forte l’invito verso il cielo (180, 302, 359). Il modello positivo di Laura passa in effetti attraverso l’accettazione e la comprensione da parte dell’io, e non può avere esito fino a quando egli non ne sia convinto in prima persona: a quel punto può rivolgersi in preghiera direttamente al cielo, senza la mediazione di alcuna visione. In tal senso mi sembra quindi che l’elemento individuale e psicologico da una parte, e quello benefico di Laura dall’altra non si contrappongano, ma anzi siano strettamente connessi. 429 Sull’incapacità del poeta di fissarsi sui buoni propositi, di mettere a frutto la consapevolezza che pure non gli manca, sulle aspirazioni spirituali e sul senso di vergogna si sofferma anche Cherchi 2008, passim e soprattutto pp. 40-42. Lo studioso ritiene in particolare che il nodo che trattiene l’io da una svolta netta consista nell’inadeguatezza dei mezzi con cui cerca di raggiungerla. Egli cerca infatti di dominare le passioni con la ragione, senza accorgersi che la virtù deve nascere dalla fede, che sola gli consentirà di abbracciare con pienezza l’amore di carità e il sommo bene. D’altro canto, l’alternanza dei sentimenti, l’errore e le ricadute pongono l’amante in stretta relazione con l’uomo, il cristiano comune e dunque accentuano l’aspetto esemplare della raccolta. Lo studioso, inoltre, definisce il conflitto interiore dell’io come “psicomachia”: l’ambiguità nei sentimenti, nelle tendenze mai chiare o nette dipende dal carattere di “verità” (letteraria) della vicenda amorosa (p. 22). 430 Sull’evoluzione dei rapporti tra Laura e l’io poetico in vita si veda ad esempio Cherchi 2008, soprattutto pp. 123 segg. 167 È necessario, infine, approfondire il destino della produzione lirica dopo la morte dell’oggetto d’amore. Nel complesso, è evidente che Petrarca non abbandona la poesia laurana se non con l’affermazione di un afflato alternativo, l’altro amore – caritas – a lungo anelato. La giustificazione della scelta di continuare a cantare l’amata, che si contrappone a tutta la tradizione lirica fatta eccezione per Dante, si coglie nel finale di 268: Et sua fama, che spira in molte parti anchor per la tua lingua, prega che non extingua, anzi la voce al suo nome rischiari, se gli occhi suoi ti fur dolci né cari (vv 73-77). L’idea topica della poesia che deve innalzare il pregio della dama, celebrarlo e diffonderne la notizia è diffusissima già tra i trovatori, trova ampio spazio nel Canzoniere ed è in linea generale una motivazione essenziale del canto amoroso stesso, insieme alla necessità di dare sfogo al proprio animo431. Anche laddove non sia esplicitato, il principio è riconoscibile nelle lodi iperboliche a beneficio dell’amata. La morte, dunque, secondo Petrarca non invalida la funzione della poesia, le cui logiche sono alterate, ma non cancellate432. Sarà infine la stessa Laura, che in 268 per bocca di Amore chiedeva di essere ricordata433, a contraddire tale affermazione, lasciando al poeta solo il tempo per un’ultima recriminazione contro Amore e per la preghiera, aspetti che segnano per lui una significativa (anche se forse non definitiva) evoluzione: Quanto era meglio alzar da terra l’ali, et le cose mortali et queste dolci tue fallaci ciance librar con giusta lance (359, vv 39-42). Il dolore e la mancanza dell’amata giustificano inoltre in due casi distinti un’interruzione del canto, che il poeta immagina senza ritorno, ma che ben presto viene superata. Sono cesure funzionali alla struttura, che coincidono cioè con il punto finale di redazioni precedenti a quella definitiva; in essa tali epiloghi temporanei hanno comunque l’efficace ruolo di comunicare le incertezze e i turbamenti dell’io. 431 Tale intervento d’Amore e il richiamo alla poesia amorosa, benché in un contesto del tutto nuovo, determinano un’interessante mescolanza tematica, che per certi aspetti anticipa la sovrapposizione di genere di cui abbiamo parlato per 270 nel corso del presente capitolo. Per quanto riguarda il ruolo di Amore e dell’amata nella scelta di dedicarsi alla poesia, se ne tratterà con maggiore ampiezza nel capitolo successivo, sia in riferimento al legame canto-stagione sia in termini più strettamente metapoetici. 432 Malzacher 2013, pp. 180 segg interpreta il passo citato come segnale dell’accentuarsi dell’elemento terreno: Laura vuole rimanere in terra e accetta un rapporto più bilanciato col poeta, che è ora lei a pregare. Certo Laura qui appare in primo luogo donna terrena, ma se ne dice anche che ella “è viva”, v 70, affermazione che può avere senso solo in chiave spirituale. 433 Su questo elemento si è soffermata Bettarini 1987. 168 Or sia qui fine al mio amoroso canto: secca è la vena de l’usato ingegno, et la cetera mia rivolta in pianto (292, vv 12-14) Di rime armato, ond’oggi mi disarmo (304, vv 12). Ma si nota che la seconda affermazione è già molto meno energica della prima, e in effetti il ritorno alla comunicazione in versi è privo di sussulti: il poeta ricomincia semplicemente a piangere e cantare Laura. In 293 il ritorno alla poesia era invece sottolineato e giustificato da motivi del tutto personali, letterari e terreni: “S’io avesse pensato che sì care / fossin le voci de’ sospir’ miei in rima, / fatte l’avrei, dal sospirar mio prima, / in numero più spesse, in stil più rare” (293, vv 1-4). Le ragioni sia dell’interruzione sia del nuovo inizio della poesia risultano in generale coerenti con la rappresentazione complessiva dell’io e quindi col Canzoniere. Tuttavia tali momenti di discontinuità nella progressione lirica nascono da un’immagine convenzionale, ben testimoniata in ambito occitanico: non di rado i trovatori dichiarano di essere troppo tristi o di non avere più motivo di comporre, ovviamente per tornare subito dopo ai loro versi, anche perché si tratta d’abitudine di pretesti con cui avviare un nuovo componimento434. La poesia vince dunque sulla morte. In realtà, dopo gli inviti di Laura ad un vero rinnovamento interiore in 359, che sulla base del macrotesto sembrano fare finalmente breccia nella prospettiva dell’io, l’espressione lirica appare vittoriosa anche sulla spiritualità morale e penitenziale. Infatti, la prima diviene strumento della seconda, mediando la preghiera alla Vergine435. Con tale conclusione Petrarca supera l’impasse finale del Secretum, dove la catena più resistente pareva essere proprio quella delle opere non ancora compiute. In 366 egli consacra alla madre di Dio i propri versi: “Vergine, i’ sacro et purgo / al tuo nome et pensieri e ‘ngegno et stile, / la lingua e ‘l cor, le lagrime e i sospiri”436 (366, vv 126-128). Eppure, con quell’unica canzone si conclude anche la produzione mariana. A differenza dei trovatori che, una volta scoperta l’ispirazione religiosa, ne avevano fatto una prolifica fonte di espressione lirica, per Petrarca il genere lirico sembra fecondo solo in relazione ad un amore specifico, non quello di carità, ma quello laurano437. 434 La connessione tra morte ed espressione poetica, per cui la prima è dominata dalla seconda, si coglie con particolare evidenza nella sestina doppia 332 e in particolare nella selezione delle parole-rima. Per tali aspetti si legga Berra 1991. 435 Cherchi 2008, p. 169, definisce la canzone alla Vergine manifestazione di un canto nuovo, poiché è venuta meno Laura, che aveva ispirato quello “vecchio”. 436 Su tale aspetto si è soffermato anche Gorni 1987, che associa a tale consacrazione il fine ultimo cui tende la raccolta e dunque una svolta morale forte e definitiva. 437 La questione della centralità dell’amore è rilevante anche per comprendere la novità del Canzoniere petrarchesco in seno alla lirica trecentesca; per tale aspetto si veda Santagata 1996, pp. LI segg. 169 8. Preghiere alla Vergine e a Dio La componente penitenziale che caratterizza tutto l’arco del Canzoniere trova il proprio culmine nel finale, anche a livello poetico438. Tale climax è preparata dalla serie dei fragmenta 359-365, che dapprima chiudono la questione amorosa (ultima apparizione di Laura, invito alla conversione, dialogo con Amore) e poi approfondiscono la riflessione coscienziale439. Fino a questo momento il rapporto con l’amata ha conosciuto uno sviluppo essenziale al progresso intimo dell’io: esso era maturato prima che lei morisse, poi si era avviato grazie agli inviti di Laura stessa verso una prospettiva rinnovata, quando ancora persisteva un desiderio di carattere terreno, come dimostra il già citato sonetto 280. 365 introduce la forma della preghiera in apostrofe diretta, rivolgendosi a Dio; tale struttura d’altro canto aveva già trovato spazio nella raccolta, in particolare nel sonetto d’anniversario 62. Anche qui la posizione pone in rilievo la scelta dell’autore, poiché la serie 60-62 contrappone due atteggiamenti diversi (totale devozione a Laura e pentimento); l’eco del Pater Noster che apre 62 controbilancia le benedizioni del tutto profane di 61. 365, comunque, ha una più semplice funzione preparatoria rispetto all’espressione solenne della canzone 366, secondo la medesima strategia dispositiva che si osserva per 27-28 (canzone politica sulla crociata) e 267-268 (planh per Laura). 366 non è solo l’apice della prospettiva penitenziale: in modo coerente, anche la forma canzone e l’espressione lirica giungono ad un’elaborazione davvero articolata440. A livello metrico, oltre alla connessione con la tradizione trobadorica441, vanno sottolineati la lunghezza e il numero delle strofe, l’intricato sistema rimico, l’uso insistito dell’anafora442. 438 La preghiera conclusiva può essere intesa come la vera e propria mutatio animi, rispetto a quella imperfetta di 264 e della cesura centrale. Nella parte conclusiva, l’io esprime tutto il suo pentimento, che già più volte era stato accennato nel corso della raccolta; tuttavia a questa contritio cordis si deve accompagnare la confessio oris, l’ammissione della colpa, come sottolinea Cherchi 2008, pp. 20 segg. Come suggerisce il sonetto 1, con la sua visione retrospettiva sull’errore, l’intero Canzoniere è in sostanza una confessione e una presa di coscienza su di sé. Da tale “scandalo”, come lo definisce Cherchi, deriva anche il valore esemplare della raccolta. Il duplice aspetto di confessione e preghiera si ritrova certamente nella canzone conclusiva, dove l’orazione permette di recuperare una componente rituale che dà ufficialità (esemplarità) allo stato del poeta. 439 Per la funzione di stacco netto svolta dalla canzone alla Vergine si veda Cherchi 2008, passim e soprattutto l’ultimo capitolo, pp. 153 segg. 440 Tuttavia anche in tal senso la zona liminale del Canzoniere prepara l’esito conclusivo: già 359 presenta strofe lunghe e a prevalenza di endecasillabi, benché siano solo 6, e 360 è costruita già con le 10 strofe della tradizione mariana, ancor più lunghe (15 versi contro i 13 di 366), probabilmente in accordo con la progressione argomentativa del discorso. A tale impegno formale corrisponde, nella prima sezione, quello dedicato alla canzone 23: le stanze sono 8, ma di 20 versi ciascuna. 441 Si veda in particolare il capitolo primo e il riferimento a Lanfranco Cigala. Utili in tal senso anche le pp. 1417-1418 in Santagata 1996. 442 La ripetizione del termine “Vergine” in incipit di verso due volte per ciascuna stanza, in prima e nona posizione, richiama l’artificio delle coblas retronchadas e implicitamente quello delle coblas capdenals, in cui però d’abitudine era il termine “Donna” ad essere ripetuto. Tale appellativo, tuttavia, può essere riferito proprio alla Vergine, “domina” del Cielo, come avviene ad esempio in Peire de Corbiac. Per tali riflessioni e in generale per l’analisi strutturale della canzone si veda Santagata 1996, pp. 1418-1419. Su tali artifici si è soffermato anche Gorni 1987, evidenziando come sia limitante associare la cura retorica petrarchesca ad una semplice progressione da “litania”. 170 Come dimostrano già i riscontri metrici, all’origine della canzone mariana si colgono suggestioni occitaniche. Nel corpus provenzale si riconosce senza difficoltà un gruppo piuttosto nutrito e molto coeso di preghiere ed elogi rivolti sia a Dio che alla Madonna, pensati come ammissione dei propri peccati e come richiesta d’aiuto. Tale produzione è già tipica dell’epoca trobadorica classica e non va perciò limitata alla fase tarda. Per quanto gli autori del pieno Duecento ne siano attratti in modo particolare, i componimenti spirituali pertengono ancora alla vera tradizione cortese e non devono essere confusi con il successivo programmatico spostamento di attenzione dalla dama alla Vergine nel contesto borghese e post-inquisitoriale del Concistori tolosano443. Le canzoni religiose entrano così a far parte dei canzonieri. L’accostamento o la contrapposizione dei testi religiosi con generi e spunti divergenti corrisponde solo di rado ad una progressione del punto di vista del poeta, com’è invece per Petrarca, anche per la mancanza di un’organizzazione autoriale certa444. Talvolta però, magari in riferimento alla biografia, si intuisce una corrispondenza tra il canto religioso e una svolta dalla portata più ampia445. Si pensi a Folchetto da Marsiglia, a lungo cantore d’amore, ma destinato alla fede e alla carriera ecclesiastica: le prolungate ed elaborate preghiere al Signore in Vers Dieus, el vostre nom e de sancta Maria446 e Senher Dieus, que fezist Adam acquisiscono così un peso peculiare. Simile discorso si può avanzare per Guglielmo IX, la cui esigua ma illustre produzione è per lo più focalizzata sull’amore, l’erotismo, lo scherzo e il doppio senso. Tuttavia, se ne conserva anche un’invocazione a Dio – Pos de chantar m’es pres talenz – in cui il conte saluta i piaceri e le attività terreni, per altro con un certo rammarico, raccomandandosi al Cielo prima della morte, che egli avverte ormai prossima447. 443 Ciò non toglie che Petrarca possa aver conosciuto e valutato in quanto propri riferimenti anche tali testi; tuttavia la disponibilità delle più autorevoli fonti classiche è senza dubbio significativa. 444 Esempio eloquente è offerto dalla (non troppo abbondante) produzione di Falquet de Romans. Essa comprende diversi sirventesi, qualche canzone amorosa, due preghiere/confessioni rivolte a Dio (una in forma di ampio poemetto) ed un “saluto” all’amata. Per altri esempi di componimenti dedicati al Signore e al pentimento si vedano Cadenet IX e XXIV (con consigli a Blacatz). Quello della non autorialità dei canzonieri trobadorici è un problema molto significativo, cui non a caso si è già fatto riferimento. Per una trattazione specifica di tale aspetto, si vedano il sesto capitolo e i riferimenti bibliografici in esso contenuti. 445 Si fa qui riferimento alle manifestazioni intime e personali del sentimento religioso, che paiono più coerenti con l’espressione lirica petrarchesca. Ad un orizzonte comunicativo diverso appartengono invece i numerosi componimenti trobadorici dedicati alla religione in senso dottrinario e didattico (come Pax in nomine Domini di Marcabru), polemico-moralistico (gran parte dell’opera dello stesso Marcabru o di Peire Cardenal) o più spesso dedicati alle più varie questioni morali, arricchite però dalla consapevolezza che è necessario essere fedeli al Signore (ad esempio, Abans qe il blanc puoi sion vert attribuita a Peire d’Alvernha). 446 Benché la preghiera sia rivolta a Dio, è interessante che subito sia ricordata la Vergine: potrebbe non essere solo il portato della dottrina, ma anche l’influenza di convenzioni diffuse, che associano la grazia e la benedizione alla figura femminile, nel ruolo di vera e propria mediatrice. 447 Per tale svolta e al problema della crescita morale e spirituale nella tradizione trobadorica, che associa assiologicamente la giovinezza e la gioia cortese, si veda in particolare Antonelli 1994. Tali passi si sono già citati in precedenza, rispetto alla bipartizione dei canzonieri amorosi e al ruolo della morte dell’amata. 171 Resta isolato l’esempio di Guiraut Riquier, che, lo si è anticipato448, associa alla morte dell’amata una vera e propria conversione, la quale segna un cambiamento permanente nello stile del trovatore. Egli ha lasciato diverse opere mariane, come Ajssi quon es sobronrada o Humils, forfaitz, repres e penedens; piuttosto curiosa appare però Gauch ai, quar esper d’amor poiché si avvia come una classica canzone d’amore per poi spostarsi in modo piuttosto improvviso sul tema religioso, lasciando qualche incertezza su come intendere la struttura. Infatti, potrebbe essere nettamente bipartita oppure unitaria, a seconda che le immagini amorose siano intese in chiave letterale o metaforica. L’ambiguità tra la dedica alla Vergine a quella all’amata dimostra una caratteristica essenziale delle canzoni religiose trobadoriche. Le qualità attribuite alla Madonna possono infatti essere ricondotte per lo più a due precise aree concettuali: i topoi paradossali tipici della letteratura liturgica e le immagini convenzionali della lirica amorosa449. Da una parte, ella è astro, luce450 e legata al sole-Dio, stella del mare che guida durante i viaggi, fontana di misericordia e grazia, colei che sempre accorre se invocata, mediatrice con le sue preghiere rispetto al Signore, madre e figlia della medesima entità, vergine inviolata prima e dopo il parto. Dall’altra, la Vergine è descritta secondo i canoni della dama cortese, umile e nemica d’orgoglio (tranne che nei confronti del poeta), fiore di bellezza e pregio, migliore fra le migliori, piena in massimo grado di ogni virtù. Si leggano in tal senso opere quali Domna, dels angels regina di Peire de Corbiac, Verges, en bon’hora attribuita a Perdigon, Domna bona, bel’ e plazens di Folquet de Lunel, Domna, flor di Aimeric de Belenoi, Oi, Maire, filla de Dieu, En chantar d’aquest segle fals e Gloriosa sainta Maria di Lanfranco Cigala, Totz lo sabers del segle es foudatz e Vera Vergena, Maria di Peire Cardenal. La dedica e l’apostrofe alla Vergine possono essere appaiate a quelle rivolte a Dio, come in Lo pair’e ‘l filh e l sant espirital451 di Bernart de Venzac e in Dieus verays, a vos mi ren di Arnaut Catalan. E d’altro canto i versi per il Signore possono essere affiancati in modo molto simile a quelli per la dama, come fa Daude de Pradas in Qui finamen sap cossirar. L’incontro tra dimensione amorosa e prospettiva spirituale nel medesimo testo è particolarmente interessante per il lettore del Canzoniere, anche se in ambito trobadorico i due aspetti sono soltanto giustapposti452 e ben di rado analizzati in quanto problema complessivo della coscienza. Non mancano però eccezioni in tal senso, come rivela Gent es, mentr’om n’a lezer di Peire D’Alvernha, in cui pur 448 Per il canzoniere di Guiraut Riquier, già in parte affrontato nel capitolo precedente, si veda il capitolo sesto. 449 Per la floridità retorica della poesia mariana e per gli aspetti di reiterazione quasi ossessiva che la contraddistinguono si veda Gorni 1987. 450 Nella tradizione italiana, soprattutto stilnovistica e poi spesso anche in Petrarca, l’elemento della luce è tipico proprio dell’amata; tuttavia tale dettaglio appare rarissimo nei testi trobadorici. 451 L’elemento trinitario che si distingue in tale incipit non è infrequente nella produzione occitanica; è possibile leggere su questo argomento Zorzi 1954. 452 Più che alla complessa vita interiore di un Petrarca, bisognerà pensare al principio compositivo delle canzoni-sirventesi, cioè di genere misto, o al motivo topico della mescolanza di sacro e profano. Entrambi tali aspetti sono significativi rispetto al riuso petrarchesco, oltre che per la poetica trobadorica, e saranno approfonditi in questo e nel prossimo capitolo, rispettivamente dal punto di vista del genere e delle immagini convenzionali. 172 continuando ad elogiare la dama, dichiarandole che nessun’altra creatura terrena avrebbe potuto prenderne il posto, il poeta riconosce l’importanza di compiere un passo ulteriore verso il Cielo453. L’amore terreno è per sua natura inferiore a quello di carità454, ma se è “fino” può comunque migliorare e innalzare nella giusta direzione455. Come già la Vergine, così Dio non è solo invocato ma anche lodato e celebrato, benché spesso con soluzioni più libere e personali rispetto alle convenzionali preghiere alla Madonna: Lauzatz sia Hemanuel di Peire d’Alvernha, Pensius de cor e marritz di Lanfranco Cigala, Quan mi perpens ni m’albire di Aimeric de Peguilhan, Ben volgra, si far si pogués, Un sirventes novel vueill comensar e Dels quatre caps que a la cros di Peire Cardenal, il quale offre i toni più vivaci e una notevole varietà tematica456. Torniamo ora a Petrarca e alla canzone 366457. Anche una lettura superficiale rivela la presenza di numerosissimi spunti convenzionali, in primo luogo liturgici, come ad esempio: Vergine bella, che, di sol vestita, / coronata di stelle, al sommo Sole / piacesti sì che ‘n te Sua luce ascose (vv 1-3) Vergine pura, d’ogni parte intera, / del tuo parto gentil figliuola et madre (vv 27-28) Di questo tempestoso mare stella, / d’ogni fedel nocchier fidata guida (vv 67-68) Vergine sacra et alma (v 87). 453 Si leggano in particolare le tre strofe finali, e ad esempio i vv 50-55: “Amors, be m degra doler / si degus autr’enginhaire, / mas lo dreituriers iutiayre, / de vos me pogues mover, / que per vos er’enriquitz / essaussatz et enantitz”. 454 Una riflessione affine sul rapporto tra servizio d’amore e servizio a Dio si riscontra in L’onratz, jauzens sers di Gaucelm Faidit. 455 In tale accezione dell’amore cortese, più frequente di quanto non si pensi, si coglie un’interessante parentela tra la visione dei trovatori e quella stilnovistica e dantesca in particolare, che potrebbe rivelarsi utile anche rispetto alla riscrittura petrarchesca. Sugli effetti positivi dell’amor cortese, si veda anche il capitolo terzo; per il rapporto tra Petrarca e Dante, in riferimento alla funzione dell’amore, soprattutto il capitolo quarto, anche se la questione è stata più volte ripresa, data la sua importanza. 456 Andrebbero poi aggiunti i riferimenti a Dio in chiave parodica o blasfema. Abbiamo già citato i planh di Pero Garcia Brugalés, ma anche nelle sue liriche amorose l’insoddisfazione e il tormento sono sempre ricondotti alla responsabilità divina, con un atteggiamento d’accusa privo di qualsivoglia rispetto, anche se è di fronte alla dipartita dell’amata che il poeta raggiunge il culmine dell’insolenza, dichiarando di non credere nella Crocifissione e di voler vedere Dio morto. Caso ancor più interessante, anche per l’appartenenza al clero dell’autore, sono alcuni sirventesi del monaco di Montaudon, in cui si immagina un colloquio in Paradiso (L’autrier fuy en Paradis, Autra vetz fui in parlamen, L’autre jorn m’en pugiey el cel e Quan tuit aquist clam foron fat). Il poeta sfrutta la struttura della tenzone (e come tali i testi sono tramandati) per esporre direttamente a Dio i motivi della propria insoddisfazione ed alcune richieste. Ancora nella tradizione italiana si ricordano scene dal contesto simile, volte a rappresentare iperbolicamente l’amore, ma a scapito della serietà dell’orizzonte religioso, ad esempio in Giacomo da Lentini I’ m’aggio posto in core a Dio servire e Guido Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore (ultima stanza). Per la mescolanza di elementi sacri e profani, che si è già citata in precedenza, si veda in particolare il terzo capitolo. 457 Per un’analisi complessiva della canzone si veda Gorni 1987; un aspetto particolarmente interessante concerne la funzione di dedica, ancor più che di lode e certamente non di predicazione, del componimento conclusivo. 173 Ancor più interessante è la riproposizione di elementi caratteristici della rappresentazione di Laura: Amor mi spinge a dir di te parole (v 4) Vergine, s’a mercede / miseria extrema de l’humane cose / già mai ti volse […] (vv 9-11) Vergine, que’ belli occhi (v 22) Vergine santa, d’ogni gratia piena, / che per vera et altissima humiltate / salisti al ciel onde miei preghi ascolti458 (vv 40-42) Vergine sola al mondo senza exempio, / che ‘l ciel di tue bellezze innamorasti, / cui né prima fu simil né seconda (vv 53-55) Con le ginocchia de la mente inchine, / prego che sia mia scorta (vv 63-64). La logica è la medesima che si è riscontrata alla base delle canzoni mariane dei trovatori, e anche i topoi qui elencati hanno amplissima diffusione nella letteratura cortese e amorosa, in particolare l’idea che l’amata non abbia pari459. Il vero significato del riuso petrarchesco è piuttosto nella funzione che il componimento assume all’interno della raccolta. E tuttavia non basta l’idea che 366 segni la svolta, il cambiamento del poeta, poiché la preghiera poteva già avere il medesimo significato nelle opere occitaniche. La novità risiede piuttosto nel percorso amoroso e spirituale che la canzone alla Vergine conclude ed esalta, senza riuscire a cancellare del tutto l’ambiguità nello stato del poeta. Secondo un primo punto di vista, la canzone rappresenta una palinodia dell’amore per Laura, come suggerisce proprio il recupero delle immagini consuete. Alcuni passi rivelano in modo più esplicito la critica al proprio passato: la Vergine è “vera beatrice” (v 52) in contrasto con la fallace beatitudine degli affetti terreni, pianti preghiere e lusinghe sono passati “indarno” (v 80), sprecando il tempo del poeta, quelli di Laura erano solo “mortal bellezza, atti e parole” (v 85), e lo prova il fatto che lei sia ormai solo “terra” (v 92). Il culmine del ripensamento si trova però al verso 111: “Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso”. Eppure il medesimo verso suggerisce una diversa possibile prospettiva, che mette in evidenza la responsabilità del poeta: sono la sua cedevolezza ad amore, la sua incapacità di controllo e di volontà combattiva ad averlo tenuto lontano dal Cielo460. Tale interpretazione risulta forse più coerente con la rappresentazione di Laura nella seconda parte del Canzoniere, e in fondo anche con tutti i tratti riconducibili alla visione stilnovistica e soprattutto con un’affermazione della stessa canzone 366: “et per saperlo, 458 Ovviamente la rappresentazione della Vergine comporta un approccio iperbolico alle immagini utilizzate per Laura, la quale però similmente si trova in cielo e già prima della morte era oggetto delle preghiere del poeta, che si è trovato anche in ginocchio davanti al suo volere, esattamente come si presenterà (mentalmente) di fronte alla Madonna. Si tratta ancora una volta di elementi convenzionali, per i quali si rimanda al solito al capitolo terzo. 459 Per i topoi in generale e questo in particolare, si legga il capitolo successivo. 460 È questa ad esempio la posizione di Petrini 1993, pp. 5-25, che attribuisce la responsabilità allo “sguardo sensuale” del poeta su Laura che solo così ha su di lui l’effetto della mitologica Medusa. Un’interpretazione simile si trova inoltre in Cherchi 2008, p. 172: Medusa è sì Laura, ma nella percezione del poeta, non intesa come figura reale ed autonoma. 174 pur quel che n’avenne / fora avenuto, ch’ogni altra sua voglia / era a me morte, et a lei fama rea” (vv 95-97). Non si dimentichi che il rifiuto di Laura era inteso alla salvezza di entrambi e non ad una sadica coercizione sull’innamorato461. In entrambi i casi ciò che conta è capire quanto stabile possa essere la decisione del poeta. 366 chiude la raccolta e dunque di necessità assume un valore forte rispetto all’esito dell’io, di vera conversione oltre la quale la poesia amorosa, che aveva resistito alla mutatio animi e alla perdita del proprio oggetto, si esaurisce462. Petrarca, infine, “cambia la dama” come facevano i trovatori, e nel farlo cambia anche amore, dall’eros alla caritas463. D’altro canto, il Canzoniere è pensato anche secondo un’ottica circolare, come suggeriscono la natura peculiare del sonetto 1 (introduzione a posteriori, che assume più la prospettiva di 366, che quella di 2 o 3), la progressione calendariale dei 366 componimenti464, nonché la valenza esemplare insita nell’opera, che oltre a parlare dell’io lirico individuale, descrive le tensioni tipiche dell’Uomo in genere. La stessa canzone alla Vergine lascia pensare che la svolta non sia del tutto salda465, sia per l’intonazione amorosa che ancora riecheggia, per quanto potenzialmente palinodica, sia per l’impressione che Petrarca prima di chiedere grazia, chieda la forza di compiere l’ultimo distacco. Egli, infatti, cerca ancora una soluzione alle proprie sofferenze, al proprio turbamento, e la solidità interiore necessaria per cambiare mentalità: “Vergine d’alti sensi, / tu vedi il tutto, et quel che non potea / far altri, è nulla a la tua gran vertute: / por fine al mio dolore466” (vv 100-103), “Vergine, tu di sante / lagrime et pie adempi ‘l 461 Si è fatto riferimento più volte, nel corso di questo capitolo, a tale presa di coscienza da parte dell’io lirico. 462 Di questo avviso è in sostanza Cherchi 2008, che legge nella canzone alla Vergine una svolta forte e definitiva, segnata dal passaggio non solo dall’amore terreno a quello celeste, ma dalla ragione alla fede, che sola permette di superare vincoli, desideri, speranze mondane e acquisire compiutamente una visione nuova. Per tali aspetti si vedano in particolare le pp. 40-42, 47-48, 67-68, 79-80, e il capitolo finale pp. 153 segg. Lo studioso pone in realtà il problema del salto tra 360, dove la valutazione sull’amore resta sospesa, e 366 (o più in generale il blocco penitenziale che anticipa la chiusura). Cherchi in particolare cita le diverse opinioni di Dotti e Santagata, convinti rispettivamente che gli ultimi testi siano una sorta di aggiunta retorica, o piuttosto che si tratti di una risposta al sonetto di apertura, che dunque riesce a bilanciare la struttura complessiva, senza però armonizzare i due volti dell’io lirico. Cherchi ritiene comunque che le due “anime” del Canzoniere, da una parte, abbiano entrambe valore, costituendo due aspetti compresenti ed inalienabili, e dall’altra che esse non siano inconciliabili (pp. 153-157). La risoluzione deriverebbe dal superamento del conflitto attraverso la fede, che permette al contempo di uscire da sé verso una dimensione più ampia ed esemplare. Di fatto anche in Gorni 1987 si legge una simile convinzione sul valore forte e stabile della conversione finale. 463 A tal proposito è utile richiamare ancora una volta l’esempio di Guiraut Riquier, che per primo aveva proposto un vero e proprio cambio di dama, dall’amata alla Vergine, per la quale egli non utilizza soltanto il medesimo tipo di elogi, ma anche il senhal di Belh Deport. Tale occorrenza è interessante soprattutto perché anche in quel caso il cambiamento interiore era accompagnato dalla morte dell’amata, a differenza di ciò che avviene nei “cambi di dama” consueti, in cui semplicemente il poeta si allontana da chi lo ha a lungo maltrattato. 464 Per tali riflessioni sulla macrostruttura si rinvia in particolare a Roche 1974 e Biancardi 1995. 465 Nello stesso sonetto 1, d’altronde, Petrarca dice di essere solo “in parte altr’uom da quel” che era (v 4). 466 Per il valore di questo dolore terreno legato all’amore carnale rispetto all’elevazione spirituale e al Sommo Bene si veda l’ipotesi di Cherchi 2008, pp. 81 segg. Secondo lo studioso tale dolore fallace, perché privo di esito e destinato ad oscurare la preminenza dell’amore di carità, si contrappone ad un dolore utile, cioè quello della penitenza. La conversione per sua stessa natura passa attraverso rinuncia e 175 meo cor lasso, / ch’almen l’ultimo pianto sia devoto” (vv 113-115). Gli “altri/altro” che non hanno potuto vincere le catene sono Laura, che non è “vera beatrice”, ma anche il poeta stesso. E in effetti 366 non è un’esaltazione pervasa di gratitudine, ma ancora soltanto una preghiera, una richiesta. 9. Canzoni di crociata Per il sonetto 27 e la canzone 28 il legame con gli antecedenti trobadorici in merito al genere è davvero evidente. Entrambi i testi fanno riferimento alla crociata: quella promessa da Filippo IV di Valois nel 1332, bandita da Giovanni XXII nel 1333 e mai andata in porto467. Il primo componimento propone una sorta di introduzione al problema e al quadro contestuale, presentando l’imperatore (“il successor di Karlo” che “prese à già l’arme per fiacchar le corna / a Babilonia”, vv 1-4), il pontefice (“‘l vicario di Cristo”, v 5)468 e un destinatario occasionale e innominato, da riconoscere presumibilmente in Orso dell’Anguillara. Il riuso vero e proprio si delinea però con il metro lungo, un classico invito alla crociata, mediato dall’apostrofe a un misterioso interlocutore469, cui è dedicata a titolo quasi proemiale la prima stanza. Elevando l’intonazione complessiva attraverso numerose immagini e figure classiche470, Petrarca delinea un quadro di concordia e collaborazione contro i nemici comuni, la cui sconfitta richiede l’unione dei popoli occidentali. L’impressione di pace e serena determinazione è strettamente legata alla costruzione del più ampio discorso politico che si svolge nell’arco della raccolta, o meglio della sua prima sezione471, attraverso le tre canzoni 28, 53, 128472. La compattezza del ciclo, resa a prima vista meno evidente dalla lontananza tra i testi, è sorprendente, per disposizione, sofferenza, altrimenti non ha valore. Come si contrappongono due tipologie di amore si oppongono anche due diverse concezioni del tormento. 467 Per il contesto e i rimandi storico-politici del sonetto e della canzone si rinvia alle introduzioni e al commento in Santagata 1996, pp. 136-155. 468 Una possibile interpretazione della quartina dedicata al papa concerne il ritorno della Santa Sede a Roma: oltre all’importanza di sciogliere il passo a fini della datazione del componimento, tale riferimento è utile anche per il collegamento che si determina con la canzone 53, dedicata appunto a Roma, al suo passato e alle sue prospettive. 469 La tesi tradizionale propone l’identificazione dell’ignoto personaggio con l’amico Giacomo Colonna; Santagata ha invece sostenuto l’ipotesi relativa a Giovanni Colonna, frate domenicano e dedito a studi affini a quelli di Petrarca: per tale ipotesi si legga Santagata 1988, pp. 14 segg e la sintesi in Santagata 1996, pp. 142-155; per questo personaggio (e in generale per il problema dei destinatari legati alla famiglia Colonna) si veda anche il settimo capitolo. 470 Osservando le scelte stilistiche del poeta, appare fondata la breve riflessione di Cardini 1993 in conclusione del suo saggio sull’ideologia sottesa alle crociate (pp. 210-211), che coglie nella canzone petrarchesca un esempio eloquente di quel “problema turco” che lo studioso ritiene si sia sostituito all’ideale originario di crociata. I Turchi non rappresentavano solo un pericolo militare (che non a caso favorì gli ultimi tentativi di raccogliere gli stati occidentali in una guerra comune), ma soprattutto la controparte di un ambiguo rapporto culturale. Da una parte era evidente che commerciare e quindi relazionarsi civilmente con tale popolazione non era impossibile; dall’altra ai Turchi era associata la tradizione anticlassica, antiplatonica e averroista che in età preumanistica cominciava ad essere interpretata come causa della corruzione dell’eredità latina e greca. 471 In questo caso è significativo il riferimento alla forma Correggio: le tre canzoni vi figuravano già tutte e coprivano l’intera estensione della prima metà, conclusa originariamente dalla sestina 142. 472 Fonte fondamentale per il ciclo delle tre canzoni è Baldassari 2006, pp. 153-242. 176 elaborazione metrica, scelta delle rime473. L’unità della serie permette ai tre componimenti di sviluppare una progressione coerente, da una prospettiva integralmente positiva ad una visione negativa e sconsolata474. La crociata, infatti, ha un preciso valore ideologico, che giustifica il recupero del genere anche a fronte di progetti storici lungi dall’essere concretamente realizzati: è probabile che Petrarca ne fosse consapevole e comunque i fatti lo avrebbero dimostrato ben prima della chiusura della raccolta, anche solo secondo la prima redazione. Non è tanto importante l’esito concreto della spedizione; il poeta celebra l’unità dell’Europa, la fine delle lotte intestine, la concordia dei popoli. Nella concezione medievale, infatti, la crociata incarna il desiderio di pace475. 128 costituisce l’esatto contraltare di tale prospettiva: fallita la speranza di unità, restano appunto le guerre fratricide e le armate di mercenari, per la disperazione e la riprovazione del poeta476. La canzone di crociata offriva dunque una proficua occasione di riflessione, che già costituisce in parte una valida ragione per il riuso petrarchesco. E il genere si prestava bene in tal senso non solo per il tema di fondo, ma anche per le forme in cui era stato elaborato dai trovatori. L’attenzione per il problema della crociata in ambito lirico, e occitanico in particolare477, è precoce478 e determina una produzione poetica ben presto codificata 473 Tali aspetti vengono affrontati in Baldassari 2006, rispettivamente alle pp. 129-130, 130-140, 140-151. Lo studioso tiene inoltre conto dei criteri di selezione dei componimenti, presumibilmente composti prima di sviluppare l’idea di una raccolta coesa e poi rielaborati in vista dell’inserimento in essa. Lo scopo di Petrarca sembra quello di creare una stretta coesione formale tra i testi, evitando però le ripetizioni; un altro criterio fondamentale è la necessità di cancellare i riferimenti storici e personali, per cui vengono prescelti i testi dal respiro più universale e dunque adatti alla raccolta lirica. Possiamo forse aggiungere un confronto con i testi brevi, cui altrove nel Canzoniere è affidata la tematica politica: essi appaiono al contrario fortemente implicati nella realtà concreta dei fatti e del tempo, a partire dal sonetto 27, che forse ha anche la funzione di catalizzare quegli elementi contestuali che avrebbero stonato nel componimento più alto. Delle questioni polemiche si tratterà in modo specifico oltre nel presente capitolo. 474 Su tali aspetti si concentra il capitolo quinto in Baldassari 2006, pp. 153 segg e in particolare pp. 161162; va sottolineata soprattutto l’idea che 28 e 128 non si contrappongono, ma appaiono complementari. 475 Tali aspirazioni vengono sottolineate anche da Guida 1992, p. 24 segg in merito alla produzione d’oltralpe e soprattutto occitanica. Agli ideali di pace, che presentano spesso un’intonazione cavalleresca, si oppone la visione borghese, ben più concreta e pragmatica, secondo la quale simili imprese non servivano ad altro che a sperperare denaro e a mettere in pericolo vite umane. Esse inoltre causavano crescenti dissidi con i numerosi ed agguerriti fedeli dell’Islam e risultavano perciò a maggior ragione controproducenti. Per l’ideale della crociata e la sua funzione “paneuropea”, si veda anche Cardini 1993, pp. 181-211, dove si analizza in generale l’ideologia alla base delle spedizioni crociate: l’ideale e il suo sovvertimento, con tutte le disillusioni che ne conseguono. 476 Il principio è avvalorato dal confronto con altri passi petrarcheschi oltre a quelli del Canzoniere in cui siano riproposti i temi di crociata e guerre intestine, raccolti in Baldassari 2006, pp. 171 segg. 477 Per un’esaustiva raccolta antologica dei testi occitanici e francesi dedicati al tema della crociata, si consulti Guida 1992, pp. 43 segg (pp. 185 segg. per la parte provenzale). 478 Siberry 1985, p. 1 sottolinea come l’arco cronologico di riferimento per le riflessioni (e le critiche) sulla crociata comincia già con il 1095 e dunque con la prima spedizione. Ne seguiranno altre sette verso Oriente, per contare soltanto quelle maggiori, cui si affiancano le crociate contro gli eretici e quelle spinte da puri interessi politici in seno al papato, basti pensare ai contrasti tra il soglio pontificio e Federico II. È significativo rispetto a quanto detto su Petrarca che i trovatori (e come loro i cronisti e gli altri poeti lirici coevi) sostengano solamente la vera crociata, quella diretta in Terrasanta, cui guarda anche la canzone 28. Al contrario, ogni altra guerra per cui sia stata utilizzata la medesima definizione è percepita come il frutto di una strumentalizzazione, dell’avidità ben poco spirituale della Chiesa, e come tale è combattuta. Ciò comprende sia la crociata contro gli Albigesi (benché sia sempre meno attendibile l’opinione per cui i 177 grazie a strumenti espressivi ed immagini convenzionali. Tra i topoi479 più diffusi si riscontra l’insistenza sul sacrificio di Cristo e la necessità di servire il Signore480, in primo luogo per esprimere la propria gratitudine per la redenzione e la grazia ricevuta. Spesso il poeta dichiara di essere consapevole delle difficoltà che i soldati dovranno affrontare e non mancano i casi in cui onestamente il trovatore stesso esprima timore per la propria incolumità, come Gaucelm Faidit in Del gran golfe (il quale però è partito e teme piuttosto il viaggio di ritorno per mare), Raimbaut de Vaqueiras (Ben sai e conosc), Sordello (Lai al comte), Folchetto da Marsiglia (Huemais no y conosc). La componente narrativa favorisce l’inserimento di dettagli geografici, ma anche di informazioni storico-sociali concrete, che accrescono la ricchezza della rappresentazione481. D’altronde, gli stessi trovatori (o almeno così sostengono numerose vidas) sono stati spesso coinvolti in modo diretto nella crociata482: l’esperienza in prima persona contribuisce di certo a rendere più vivida l’espressione483. Il vero sviluppo del trovatori fossero catari e dunque si schierassero contro il pontefice per motivi legati alla fede), sia le prevaricazioni dei francesi sulla Provenza, sia le lotte per il potere in Italia. Insomma, il rifiuto per tali “crociate” è strettamente connesso alla censura contro le logiche e le politiche papali, e certo in tal senso l’appartenenza geografico-culturale e politica dei singoli poeti può aver avuto un certo peso: gli autori in questione provenivano da zone tradizionalmente poco favorevoli alla gestione (e agli abusi) della Chiesa. Si vedano in particolare le pp. 4-11, 162 e 176 in Siberry 1985. 479 La presente rassegna può essere integrata con quelle in Siberry 1988 e Baldassari 2006, pp. 162-190. 480 Ricordiamo ad esempio Qui saubes dar tant bon conseil denan di Elias Cairel, Consiros, com partitz d’amor di Aimeric de Belenoi, Bels amics cars, ven s’en vas vos estiu di Peire Vidal, Ara parra quel seran enveyos di Aimeric de Peguilhan, A l’honor Dieu torn en mon chan di Giraut de Bornelh (dove si parla in particolare di servizio a Dio), Seinhos, aujas, c’aves saber e sen di Guilhem d’Autpol, Tant suy marritz que no m puesc alegrar di Matieu de Caersì. Diverso il caso di Tot enaissi con fortuna de ven e Jhesus Cristz, nostre salvaire di Peire Cardenal, in cui non si tratta esplicitamente di crociate, ma (in modo eloquente) di “salvare Dio”. Il concetto è anche in Dels quatre caps que a la cros, in contesto in parte diverso. 481 Proprio per tale motivo spesso gli storici si sono interrogati sull’attendibilità di tali rappresentazioni, potenzialmente molto utili alla ricostruzione della società e degli avvenimenti del tempo. Va inoltre considerato l’ambiguo rapporto con le figure di potere che contraddistingue questa parte della produzione trobadorica: da una parte i promotori e i finanziatori della crociata dovevano essere nobili signori e ricchi mecenati, ed è dunque a loro che si rivolgono in primo luogo i sostenitori della crociata: sono loro che devono essere convinti. D’altro canto, l’atteggiamento dei singoli poeti andrà anche ricondotto all’influenza e alle risposte del pubblico più ampio, che in generale va riconosciuto quale interlocutore della lirica cortese. Per tale riflessione si veda Siberry 1988, che sottolinea inoltre la promettente coincidenza tra tali rappresentazioni e quelle delle coeve opere mediolatine, legate alla letteratura di crociata (come le prediche di S. Bernardo), ma anche goliardica e di intrattenimento (Carmina burana). Agli spunti storici si mescolano però anche suggestioni eroiche e letterarie (soprattutto legate al ciclo carolingio), nonché miracolose, considerato anche il valore spirituale e religioso associato alle missioni in Terrasanta. I prodigi in particolare erano oggetto di grande attenzione, poiché venivano interpretati come indizi del favore divino. Per tali aspetti si veda Guida 1992, pp. 19-20. 482 Non è un caso che le loro opere liriche siano state apprezzate anche come fonti storiografiche. Tale funzione, comunque, concerne soprattutto la storia delle idee: da una parte le canzoni di crociata (e in generale la letteratura trobadorica) sono pensate per una lettura in pubblico e dunque rappresentano strumenti di diffusione delle opinioni e in fondo anche di argomentazione, dall’altra in quanto frutto del proprio tempo, tali opere si fanno portatrici di opinioni correnti. In entrambi i casi non si tratta soltanto di un’espressione individuale, come riscontra Guida 1992, pp. 33 segg, seguendo la posizione di Throop (ivi citato). 483 Si pensi ad esempio alla frequenza e al tono personale con cui il tema è affrontato nelle opere di Gaucelm Faidit, che non solo invita alla partenza, ma descrive in prima persona le proprie difficoltà, i desideri e le incertezze. D’altro canto, anche il canto di crociata può essere percepito in sé come forma di 178 tema, però, deriva dagli spunti morali, teologici e polemici che vengono sovrapposti al nucleo di partenza, in un’elaborazione tanto coesa che è possibile distinguere i diversi fattori più a livello teorico che nell’effettiva lettura del testo. Innanzitutto la descrizione dei miscredenti484, per lo più succinta ma incisiva, che ne mette in evidenza la fede erronea senza possibilità d’appello485. Dal punto di vista morale sono invece evidenziati quei fattori che permettono di argomentare la necessità della partenza, come la promessa di mali terribili a chi si fosse sottratto, ma anche di grandi soddisfazioni e premi a chi fosse partito486. Dio infatti è pronto al giudizio, conosce i peccati di ciascuno487, ma è anche padre generoso488. L’aspetto più insistito, comunque, resta quello della critica a chi si sottrae alla chiamata, ponendo l’accento non solo sulla nequizia dei singoli, ma soprattutto sull’immoralità di chi dovrebbe guidare le schiere cristiane: il papa, il clero, i “baroni”. La corruzione delle guide spirituali e la meschinità del potere temporale sono in realtà argomento di moltissima produzione occitanica, nelle forme più varie di invettiva o insegnamento dottrinale489; nelle canzoni di crociata, però, la questione è più specifica e ci riporta a Petrarca. La colpa del pontefice, dei cardinali e dei feudatari, infatti, è quella di anteporre i propri interessi, di per sé già peccaminosi, al bene comune, continuando a dilaniare l’Occidente con lotte tra cristiani invece di occuparsi dei veri nemici490. Anche nella letteratura trobadorica si riscontra dunque la medesima associazione, e con la medesima intensità espressiva, tra ideale di pacificazione e occasione della crociata che si è vista in merito al Canzoniere. Tale connessione permette di approfondire ulteriormente la natura degli inviti alla partenza. Infatti, benché talvolta venga affermata partecipazione alla spedizione: Giraut de Bornelh vuole cantare per Dio (A l’honor Dieu torn en mon chan), Bertran de Born per far forza ai crociati (Ara sai eu de pretz quals l’a plus gran). 484 Non si nota in generale una distinzione ragionata fra Turchi, Saraceni, Musulmani o Pagani: il problema è sempre il medesimo. In alcuni casi la progressione del discorso permette di intuire che non si parla della Terrasanta, ma della Reconquista spagnola, ad esempio in Oimais no i conosc razo di Folchetto da Marsiglia e Felon cor ai et enic di Percivalle Doria. Come sottolinea Guida 1992, pp. 20 segg la visione degli occidentali è estremamente superficiale e parziale, in sostanza manichea; l’atteggiamento intollerante caratterizza soprattutto i francesi meridionali, più vicini all’area iberica e più legati alla tradizione di Carlo Magno e di Roncisvalle. 485 Si legga ad esempio Un sirventes vuelh far en aquest son d’En Gui di Uc de Saint Circ. 486 Per tale aspetto si veda Guida 1992, pp. 11 segg. Lo studioso ha sottolineato l’intensità delle aspirazioni morali che venivano associate alla partenza e soprattutto alla città di Gerusalemme, anche per la tendenza a sovrapporre l’immagine della città terrena a quella celeste. Trovatori e trovieri sono concordi nell’identificare nel pellegrinaggio in armi la via più breve ed efficace per essere ammessi al Cielo. Il voto e la partenza erano associati alla purificazione, al superamento dei vizi e degli istinti più bassi e quindi all’estinzione del senso di colpa. 487 Ara sai eu de pretz quals l’a plus gran, Bertran de Born. 488 In particolare A l’honor Dieu torn en mon chan, ma anche in altri sirventesi dello stesso Giraut de Bornelh. D’altro canto la questione della moralità cristiana può essere presentata anche in termini più ampi, come in Ai! Quan gen vens et ab quan pauc d’afan di Folchetto da Marsiglia. 489 Basti pensare alla gran parte dei versi di Marcabru o Peire Cardenal. Se ne tratterà nel paragrafo successivo. 490 È particolarmente esemplare per la sua focalizzazione sul tema delle lotte intestine la canzone di crociata di Lafranco Cigala Estier mon grat mi fan dir vilanatge. Per la medesima ragione, lo si è visto, le false crociate contro eretici, poteri politici, Impero bizantino meritano solo biasimo, perché invece di curarle, aggravano le contraddizioni interne. Secondo Guida 1992, pp. 30 segg, tale sfiducia motiva una graduale perdita di speranza e partecipazione all’idea stessa di crociata. Si veda anche Cardini 1993, pp. 181-211 (soprattutto p. 183) e 259-289 (soprattutto pp. 271-287). 179 una certa disillusione rispetto alle sconfitte subite491, ciò non impedisce il rinnovarsi degli entusiasmi e il permanere della convinzione che la missione cristiana sia meritoria e necessaria. L’insuccesso è anzi inteso come il sintomo di gravi peccati da espiare, che Dio ha voluto punire492. Ciò dimostra la forza dell’ideale crociato e il profondo bisogno di credere alle promesse legate alla partenza. Tuttavia, con il tempo si diffonde anche una visione più realistica, per cui già Pons de Capduelh, vissuto a cavallo tra XII e XIII secolo, ritiene che debba partire solo chi sia davvero motivato e disponga delle necessarie qualità fisiche; agli altri si raccomandano contributi economici493. Dunque si potrebbe ipotizzare, almeno per la seconda generazione di canzoni dedicate alla crociata, che anche i trovatori intendano il tema più come uno spunto di riflessione socio-politico-morale che come effettivo strumento fattuale, con una sensibilità che potrebbe poi aver favorito il riuso petrarchesco. La canzone di crociata si dimostra inoltre un genere piuttosto elastico, presso i trovatori494. Anche in componimenti di ispirazione unitaria, per cui la definizione di sirventese appare univoca, si inserisce facilmente l’eco della parallela produzione amorosa e della vita cortese dell’autore: Gaucelm Faidit, al momento della partenza, si preoccupa della fedeltà della sua amata (Tant sui ferm e dis vas amor), Marcabru adotta la prospettiva della fanciulla abbandonata dall’amato crociato (A la fontana del vergier)495, Raimon Gaucelm de Béziers scusa chi decida di non partecipare perché legato alla famiglia (Qui vol aver complida). Il motivo della separazione degli amanti è tanto importante da determinare un filone specifico, quasi un sottogenere della canzone di crociata, ben distinto da quello dell’invito, e soprattutto dalle sue manifestazioni più occasionali, legate cioè ad uno specifico contesto. Il punto di vista resta per lo più maschile, ma consente effusioni soggettive e in parte autobiografiche sullo stato d’animo di chi parte (o vorrebbe restare)496: si determina una peculiare sovrapposizione strutturale e concettuale tra canzone di crociata e canzone d’amore, in particolare se imperniata sull’idea della lontananza497. 491 Così Gaucelm Faidit in Fortz chausa. Sul tema della disillusione si veda Cardini 1993, pp. 259-289. Vere e proprie riflessioni sulla possibile erroneità della spedizione su un piano teologico sono rarissime; si ricordino ad esempio Non pot esser sofert atendut di Guilhem Ademar e En chant vuoill di Falquet de Romans. Guida 1992, pp. 30 segg ha sottolineato come proprio la decadenza delle gerarchie ecclesiastiche e le colpe del pontefice siano state spesso interpretate in tale direzione. 493 Guida 1992, pp. 29 segg, evidenzia come la produzione più tarda sulle crociate mostri una graduale evoluzione dell’opinione corrente: diminuisce l’afflato eroico, le canzoni si arricchiscono di tematiche molteplici e diversificate, aumentano sia un atteggiamento prudente sia le perplessità. 494 Per la varietà con cui viene declinato il genere e il rapporto tra oggettività e soggettività è utile la lettura di Dijksta 1994; già Siberry 1988 aveva approfondito il problema del sentimento amoroso rispetto alle esigenze militari della crociata (pp. 21-25). 495 Mescolando così canzone di crociata e canzone di donna, inserendo tra l’altro anche alcuni elementi propri della pastorella. 496 Proprio il legame con la famiglia e la preminenza dei sentimenti positivi e amorosi su quelli militari sembrano accentuarsi con il tempo, contribuendo a quell’evoluzione del tema di crociata verso forme meno univoche ed immediate sottolineata da Guida 1992, pp. 30 segg. 497 La collaborazione tra le due diverse aree poetiche si coglie anche nei componimenti di genere “misto”, in cui cioè la parte di sirventese e quella di canzone sono semplicemente giustapposte, e distinte in modo netto. A seconda dei casi, l’uno o l’altro spunto può risultare predominante sull’altro. Si leggano ad esempio Puois nostre temps comens’a brunezir di Cercamon, che in modo significativo tratta la questione 492 180 La sovrapposizione tra dimensione amorosa e impegno della crociata trova il suo culmine – negativo, sul piano morale – quando l’attaccamento sentimentale o il controllo che la dama esercita sul drudo impediscono la missione. I due esempi più eloquenti si trovano in Bertran de Born (ed è tanto più interessante che si tratti del famosissimo cantore d’armi!) e in Raimbaut de Vaqueiras. In Ara sai eu de pretz quals l’a plus gran, Bertran canta l’elogio di Corrado, condottiero destinato al successo in Terrasanta, cui in parte si rivolge direttamente in apostrofe; egli però non sembra prendere parte alla spedizione. Dapprima egli aveva rinunciato vedendo i potenti tanto restii a partire (“mas laisei m’en quar se tarzaven tan / li comt’e ill duc, lli rei e li princi”, vv 10-11), ma il vero problema è l’amore: “Pois vi midonz bell’e bloia / per que s’anet mos cors aflebeian, / q’eu fora lai, ben a pasat un an” (vv 12-15). Nel triplice congedo il concetto viene ribadito in modo inequivocabile: la canzone è inviata al signore, con la promessa di recarsi presto in suo aiuto, a patto però che tale separazione non offenda la dama: “Mas ben es vers qu’a tal domna m coman / se l passatge no ill platz, non crei que i an” (vv 49-50). I medesimi concetti e in parte i medesimi versi si trovano anche nella quarta strofa di Fuilhetas, vos mi preiatz qe ieu chan, benché per il resto il sirventese, dedicato ad aspre critiche contro un avversario, sia molto diverso498. Una differenza minima, ma molto significativa tra le due lezioni si nota al verso 15 del primo componimento: qui infatti viene precisato che “è passato più di un anno”. Se davvero tra i due testi si instaurasse, anche solo nella finzione letteraria, tale relazione cronologica499, Bertran ci fornirebbe non solo l’immagine di una grave indolenza causata dall’amore, ma anche il suo perdurare, gravissimo, nel tempo. delle crociate più in chiave morale e penitenziale che militare, oppure Chantars mi torna ad afan di Folchetto da Marsiglia, benché qui l’elemento amoroso sia considerato più che in chiave davvero sentimentale e cortese, secondo un’ottica morale, o ancora Fuilhetas, vos mi preiatz qe ieu chan di Bertran de Born. In Si soutils senz di Giraut de Bornelh lo scarto tra le due parti è attenuato da una stanza di passaggio, che esprime il timore per l’ira della dama, causata dalla prolungata assenza del drudo. Per il resto, al tema vero e proprio della crociata resta soltanto l’ultima stanza. Sia in Si soutils senz, sia in En un chantar, Giraut propone in realtà una tripartizione grazie all’ampio incipit metapoetico. In quest’ultima canzone lo stacco tra parte amorosa (infelice) e la richiesta di protezione a Dio in vista della partenza è nettissimo. Ancor più frequente è il caso della tornada del sirventese (soprattutto di crociata) dedicata alla dama, come suggerisce anche l’idea implicita del saluto, della separazione. Un esempio eloquente si riscontra in Baros Jezus, qu’en crotz fo mes di Peire Vidal: il corpo del sirventese è dedicato alla crociata secondo le convenzioni più tipiche, segue una stanza moraleggiante e piccata sui costumi femminili, mentre la conclusione riporta ai toni consueti delle dichiarazioni d’amore (salvo inserire una seconda dedica al signore). Baldassari 2006, pp. 195 segg ha sottolineato l’importanza di tale consuetudine rispetto alla scelta di Petrarca di concludere la canzone 28 riferendosi alla dama. Tuttavia, non va dimenticato che tali soluzioni corrispondono in ambito trobadorico alle abitudini invalse nelle canzoni d’amore, benché in direzione inversa: dopo aver dedicato l’intero testo alla dama, il poeta saluta il suo signore o un amico o il giullare, cui nella maggior parte dei casi invia il proprio testo, che dunque non risulta pensato in primo luogo per l’amata stessa. Un esempio di canzone interamente amorosa con congedo dedicato alla crociata è offerto da Gaucelm Faidit in Mas la bella de cui mi mezeis tenh. Sulle varie configurazioni possibili delle tornadas trobadoriche si è soffermato Vallet 2010. Sul genere misto nell’insieme si tornerà a breve. 498 Si fa qui riferimento all’edizione Paden 1986, pp. 410-421, che offre anche preziose informazioni filologiche sui testi. 499 Benché non resti una silloge autoriale di Bertran, è notevole che Paden 1986 disponga i due testi proprio nella successione Fuilhetas (XL) e Ara sai eu (XLI). 181 La medesima incertezza, nonché il medesimo andamento eterodiretto della volontà, si riscontrano in Ara pot hom conoisser e proar di Raimbaut de Vaqueiras, dove la contrapposizione tra dovere cristiano e vincolo amoroso è resa ancor più forte dalla struttura, poiché l’intera canzone è dedicata al solo tema della crociata, contraddetto improvvisamente dai versi finali. Nell’ultima stanza, infatti, Raimbaut si rivolge alla dama (qui il senhal è significativo del carattere militare dei versi precedenti) e lascia a lei ogni decisione: Bels Cavalliers, per cui fatz sos e motz, non sai si m lais per vos o m leu la crotz, ni sai cum an ni sai comen remaigna, que tant mi fai vostre bels cors plazer q’ieu muor s’ie us vei e, qand no us puosc vezer, cuich morir sols ab tot autra compaigna (vv 73-78). Oltre a questi versi che, come vedremo, paiono strettamente connessi all’elaborazione petrarchesca500, è utile ricordare anche due testi di Giraut de Bornelh. Nel primo, Si soutils senz, il poeta riconosce il diritto della dama a non volerlo lasciare partire, anche se ciò non lo trattiene dal seguire il re nella sua impresa. Gli sembra infatti sufficiente accettare di buon animo l’eventuale vendetta dell’amata: “E s’il es correillanz, / car s’auzet eschazer, / del venir, son plazer / fassa del ben veniar!” (vv 65-68). En un chantar rovescia completamente tale prospettiva: la dama è indegna, il poeta è ben contento di lasciarla, si fida di Amore e dei suoi doni, che gli sono promessi sin dalla nascita. Perciò egli è certo che tornato dalla crociata sarà onorato, non tanto come cavaliere, ma in primo luogo come amante: “cug esser pro fis c’al tornar / si’amics onratz e iauzitz” (vv 71-72). Un altro luogo interessante si legge in Peirol, Coras que m fezes doler, in cui l’immagine della crociata, cui si rinuncerebbe senza indugio pur di rivedere l’amata, è intesa non tanto come dovere militare, quanto come occasione di meritare il paradiso. Per altro il contesto è profondamente diverso, in quanto il componimento non è una canzone di crociata, quanto una classica chanso d’amore, in cui la partenza per la Terrasanta è evocata a titolo di iperbole nella dichiarazione di lealtà e desiderio: S’era part la crotz dels ris, don anc hom non tornet sai, non crezatz que m pogues lai retener nuills paradis. Tant ai assis mon voler en ma douss’amia (vv 41-46). 500 Per tale ragione erano già citati, benché limitatamente ai due congedi, in Baldassari 2006, nota 12, p. 196, che rimanda anche a Guida 1992, pp. 188 segg. e 202 segg. 182 È significativo che anche in Petrarca, nel ventottesimo fragmentum, un congedo amoroso si contrapponga ad una trattazione dedicata integralmente al sostegno della crociata: il legame con Laura impedisce al poeta di prendere parte all’impresa che pure aveva tanto elogiato, ed anzi descritto come dovere dell’uomo coscienzioso sul piano religioso e politico. Tu vedrai Italia et l’onorata riva, canzon, ch’agli occhi miei cela et contende non mar, non poggio o fiume, ma solo Amor che del suo altero lume più m’invaghisce dove più m’incende: né Natura può star contra ‘l costume (vv 106-111). La stanza è stata a più riprese oggetto della critica proprio per la peculiarità della sua collocazione501; la più recente interpretazione di Gabriele Baldassari pare particolarmente convincente: Il significato di questo distacco [dall’impresa sino a quel punto celebrata] non risiede però a mio avviso nel carattere di Petrarca, secondo la visione desanctisiana seguita da Figurelli, ma nel disegno del Canzoniere come storia del “giovenile errore” del poeta. La dichiarazione finale di O aspectata in ciel vale cioè a connotare negativamente, per contrasto con il destinatario e la cristianità unita nella crociata, la dedizione ad amore dell’io lirico. Questa interpretazione del congedo è incoraggiata soprattutto dagli “effetti di montaggio” perseguiti da Petrarca, cioè dalle relazioni della canzone con i componimenti limitrofi del liber502, ma anche da alcuni elementi nel testo stesso di O aspectata in ciel503. Leggendo in questa prospettiva la canzone 28 e il suo peculiare congedo, si colgono meglio anche il riuso del genere e il suo valore nella raccolta. Il fragmentum, infatti, contribuisce in modo determinante a costruire la storia e l’identità dell’io, sia rispetto al tema politico sia attraverso il brusco spostamento sul piano amoroso. Da una parte anche i componimenti di ispirazione civile vanno intesi come parte integrante del Canzoniere: essi rispondono ad un’esigenza di variatio, che però è ben lungi dall’esaurirne la funzione e l’importanza504. Dall’altra, l’io vede la pulsione amorosa 501 Carducci riteneva che Petrarca si rivolgesse qui in confidenza all’amico Giacomo Colonna, l’unico che poteva comprendere la natura intima della confessione, che altrimenti sarebbe parsa “impertinente”; Figurelli ritiene che Petrarca non possa essersi limitato ad una pedante imitazione dei trovatori e che dunque debba essere implicata la sua “natura”, in una prospettiva di ingenuo sfogo; per Santagata si tratta piuttosto di “modestia” rispetto al destinatario della canzone, rappresentato come personaggio oltremodo nobile e degno. Si cita qui da Baldassari 2006, pp. 196-197; si veda anche Santagata 1996, p. 154, dove è riportato anche il modello occitanico di Bertran de Born. 502 I rapporti intertestuali delle tre canzoni politiche e in particolare di 28 in seno al Canzoniere sono analizzati in Baldassari 2006, pp. 232 segg. 503 Baldassari 2006, p. 197. 504 Su tale argomento si tornerà a breve; il principio è ampiamente affrontato da Baldassari 2006, pp. 195 segg: “Una lirica di argomento politico non è solo il documento di un’ideologia, ovvero di una visione del 183 appropriarsi della sua esistenza per intero, dominando ogni altra passione, ogni dovere, ogni necessità: 28 cioè esprime con grande efficacia l’idea di un amore alienante, che impone all’innamorato una totale subordinazione505, cancellando persino l’urgenza degli imperativi morali. Certamente si tratta di un topos, che già caratterizzava le vicende amorose dei trovatori. Tuttavia esso acquisisce una valenza ben più complessa e una profondità molto maggiore in relazione ad una coscienza travagliata come quella espressa dal Canzoniere. D’altronde basta osservare i passi citati per accorgersi di una differenza radicale: mentre nei tre testi trobadorici ciò che trattiene il poeta è la volontà della dama, nel caso di Petrarca Laura non è nemmeno citata. Il limite viene dall’io stesso, dagli effetti che l’amore ha su di lui, dall’incapacità di gestire le pulsioni e di volgersi a passioni più alte: ancora una volta sono l’io e il suo errore ad essere al centro della questione, creando una dinamica del tutto nuova. Se si pensa poi al valore tradizionalmente associato al pellegrinaggio in armi dal punto di vista spirituale si comprende ancor meglio la perfetta coerenza di 28 e della sua conclusione. Il voto comporta una purificazione ed è il primo passo per avvicinarsi a Dio attraverso l’impresa. Tuttavia perché quella promessa abbia reale significato salvifico essa deve essere accompagnata da una profonda contrizione: la conversione precede la partenza e il pentimento deve accompagnare la penitenza, cioè il viaggio506. Ebbene, tale mutamento interiore è ancora lontano, addirittura impensabile fino a 264: anche i componimenti penitenziali della sezione “in vita”, quindi precedenti alla mutatio animi mediana sono comunque tutti posteriori a 28. Il cambiamento, d’altronde, è davvero definito solo con le preghiere conclusive. Un’ultima conferma viene dalla collocazione del componimento. Non solo 28 è prossima a tre tra le massime espressioni della sottomissione amorosa (23, 29, 30), ma anche alla prima affermazione cronologica forte della raccolta, intesa ovviamente in senso letterario e non biografico. La sestina 30, infatti, contiene la prima indicazione d’anniversario, il settimo507; suggerisce dunque una precisa datazione interna al 1334, considerando che l’incontro con Laura avviene nel 1327508. Come abbiamo anticipato, anche per 27 e 28, grazie alla puntuale connessione storica, si può ipotizzare una precisa datazione alla fine del ‘33 o all’inizio del ‘34509. La compresenza di spinte morali e irrazionali, destinate a vedere la vittoria delle seconde sulle prime, non è perciò generica o limitata alla successione orizzontale dei testi nella raccolta, ma avvalorata da una precisa coincidenza esistenziale. reale politico, ma anche la definizione di un rapporto tra l’io lirico, responsabile dell’enunciazione, e il reale tout court” (p. 195). 505 Tale aspetto sarà oggetto di particolare attenzione nel corso del capitolo successivo. 506 Per tali premesse rispetto alla visione occitanica e francese si veda Guida 1992, pp. 14 segg. 507 Abbiamo già accennato al valore simbolico di tale ricorrenza e alla sua presenza in diversi componimenti occitanici. Sulla questione si tornerà ancora nel quarto capitolo. 508 La coincidenza tra trentesimo componimento, trentesimo anno e settimo anniversario è stata evidenziata una prima volta da Durling, citato poi in Sturm-Maddox 1985, e poi riproposta in Baldassari 2006. Si vedano inoltre Santagata 1996, pp. 167-174 e Roche 1974, in particolare p. 157. Sulla sestina e la sua funzione nella progressione del Canzoniere e rispetto alla componente trobadorica nella raccolta si tornerà nel quarto capitolo. 509 Santagata 1996, p. 142. 184 9.1 L’incontro di temi diversi e il genere misto. Testi occasionali e di corrispondenza Si è fatto cenno in precedenza al cosiddetto “genere misto”, definito talvolta nelle riflessioni metapoetiche o nella tradizione manoscritta canso-sirventes e simili. Si tratta di componimenti in cui tema amoroso e aspetti civili si incontrano, senza però mescolarsi, ed anzi delineando due sezioni nettamente distinte510. Le zone dedicate alla dama sono ispirate all’amor cortese e ai problemi che lo caratterizzano, dunque appaiono per lo più convenzionali e omogenee; i temi politici, morali o militari che interessano i versi restanti sono invece molto vari511. I componimenti di questo tipo risultano emblematici della varietà del corpus trobadorico, frutto dei molteplici interessi degli autori: per alcuni tra essi, come Giraut de Bornelh, Gaucelm Faidit o Guiraut Riquier, un approccio poliedrico è tipico, ma anche poeti celebri soltanto per un aspetto della loro produzione possono rivelare una capacità compositiva più articolata, come Marcabru e Bertran de Born. Parte della ricchezza dell’esperienza poetica occitanica dipende anche dal gusto per l’occasionalità, dall’attenzione al singolo fatto o a specifici personaggi512. D’altro canto, i testi che si limitano a tali elementi sono destinati a vita ed esemplarità minori, a rivestire insomma un ruolo limitato. Il panorama trobadorico nel suo insieme sembra noto a Petrarca, che certo ne tenne conto per l’alternanza delle differenti tematiche nel Canzoniere. Solo i tre sonetti contro Avignone costituiscono un ciclo continuo, il quale comunque è preceduto e seguito da componimenti dedicati alla dimensione sentimentale513. D’altronde la sovrapposizione 510 In qualche caso la distinzione tematica però non è del tutto univoca e schematica, rendendo la transizione tra aspetto amoroso ed elemento civile più sfumata: si veda ad esempio Leu chansoneta m’er a far di Guilhem de Montanhagol. 511 Se ne propongono qui alcuni esempi di ispirazione diversa: Be m’era bels chantars di Giraut de Bornelh, No m’agrad’ iverns ni pascors di Raimbaut de Vaquieras, Molt m’es dissendre car col di Bertran de Born, Bel m’es quan la roza floris di Peire d’Alvernha, S’a dreg fos chantars grazitz di Raimon de Miravall, Bels amics cars, ven s’en vas vos estius di Peire Vidal, Estat ai dos ans di Elias Cairel, Bel m’es cant son li frug madur di Marcabru, L’autrier m’anav’ab cor pensiu di Paulet de Marselha, Ogan, ab freg que fazia di Joan Esteve (in questo e nel caso precedente la parte amorosa è peculiare perché in forma di pastorella, così da rinnovare anche quel genere), Chant e deport, joi, dompnei e solatz di Gaucelm Faidit, Una chanso sirventes e Aucel no truob chantan di Falquet de Romans. Il penultimo testo offre anche un’interessante definizione del genere, che tiene conto della sua duplice natura. 512 Tale produzione prende corpo soprattutto attraverso specifici generi, in particolare tenzone, partimens e forme dialogiche in generale, e soprattutto coblas, passibili di scambi tra i poeti che creino veri e propri “botta e risposta” critici, polemici o anche umoristici. Esempi interessanti sono offerti da Uc de Saint Circ, Sordello, Peire Cardenal e Bertran d’Alamannon, tra gli autori che più hanno dato spazio a composizioni brevi, pensate per un dialogo a distanza (e che per ciò si distingue sia dalla tenzone che dal partimens). Per l’uso e la storia della cobla si veda comunque l’inizio del presente capitolo e le relative indicazioni bibliografiche. 513 Si può notare tuttavia che in varie zone della raccolta Petrarca adotta precise strategie per mediare il passaggio da un tema dominante all’altro. Si legga ad esempio il sonetto 24, in cui la riflessione metapoetica richiama per certi aspetti 23, mentre la deviazione dall’orizzonte laurano e l’uso della seconda persona anticipano i due testi di corrispondenza 25 e 26, nonché la tematica civile di 27 e 28. Nella canzone, d’altronde, il congedo amoroso riporta gradualmente a Laura e dunque a 29. Nel sonetto 93, che segue due planh in cui è presente l’aspetto amoroso, ma non in chiave laurana, il passaggio è 185 tra aree concettuali diverse non si riscontra solo nella successione dei componimenti, ma anche all’interno del singolo testo, a partire dalla canzone 28, che, lo si è visto, è un caso molto significativo di passaggio brusco dalla visione politica ai vincoli amorosi che le si contrappongono, fino ai sonetti 114 e 117, in cui la brevità della struttura evidenzia la rapidità dello spostamento. In tutto l’arco della raccolta sono poi collocati non pochi testi occasionali514, rivolti a personaggi a vario titolo legati all’autore515, che sembrano distogliere l’attenzione non solo dalla relazione sentimentale, ma anche dall’io nella sua assoluta centralità516. All’io e alla sua rappresentazione, però, vanno ricondotti tutti gli spunti presenti nel Canzoniere517. Proprio il fatto che sia l’io – e non Laura – l’oggetto dell’analisi petrarchesca richiede che essa non si limiti all’amore, ma esplori tutte le declinazioni che pertengono al soggetto. Come già per il riuso dei diversi generi poetici, al lettore viene offerto un quadro ricco ed articolato, frutto della ricerca di totalità518; in tal senso Petrarca poté sicuramente guardare ai trovatori. Tuttavia l’impegno poetico petrarchesco non ha solo valore letterario, ma anche esistenziale: tale prospettiva concerne sia l’io individuale, inteso in chiave psicologica ed emotiva, sia la componente esemplare altrettanto rilevante nell’economia del Canzoniere. 10. Polemica e questioni politiche La presenza di tematiche politiche nel Canzoniere non si limita alle tre canzoni 28, 53, 128, benché esse ne rappresentino la manifestazione più alta, anche in relazione alla funzione che i testi lunghi svolgono in quanto “pilastri” della raccolta. favorito di nuovo dallo spunto metapoetico. 108 si rivolge ad un amico, ma propone il ricordo di un incontro con l’amata, mentre in 114 la rappresentazione di Valchiusa è perfettamente coerente con quella dei testi amorosi in generale e in particolare 116-117. Anche 143 e 144 sono componimenti occasionali, slegati dalla vicenda principale, ma connessi ad essa grazie alla tematica amorosa, e lo stesso vale per 179, dove si fa anche chiaro riferimento a Laura. In 266, infine, le cause della lontananza prolungata da Avignone, che motiva l’invio del componimento al patrono Giovanni Colonna, sono legate all’amore per Laura. 514 D’altro canto, come si è visto, Aston 1971 sottolinea come il planh possa essere per certi aspetti considerato un genere occasionale. Inoltre, alla base di non pochi testi amorosi della prima sezione è uno spunto narrativo o una situazione particolare, che però si risolve, grazie al dominio della percezione soggettiva, in considerazioni più ampie e “fuori dal tempo”. Per tali considerazioni si legga Ambrosini 2004. 515 Non tutti infatti sono “amici” in senso stretto. Si vedano in particolare: 7-10, 24-26, 38, 40, 58, 91, 98, 103-104, 108, 114, 120, 139, 143-144, 179, in parte 232, 245, 266. Per quanto concerne la disposizione dei testi, essi si concentrano soprattutto nella prima sezione, ma non manca una ricerca di equilibrio nella seconda, per lo meno attraverso i componimenti di lamento in morte non riferiti a Laura, di cui si è trattato nel presente capitolo parlando del planh. 516 Per la relazione tra testi amorosi e tematiche divergenti rispetto all’io si veda anche Santagata 1996, pp. XXXVIII-XXXIX. 517 Baranski, in Picone 2007, p. 622, sottolinea in riferimento al sonetto 287 come il punto di vista dell’io sia talmente unitario e centralizzato da consentire l’inserimento di componimenti di corrispondenza e occasionali in genere, anche nell’ambito di coese serie laurane (nello specifico, quella delle visioni). 518 Su tale ricerca di onnicomrensività, che si è anticipata, sul solo piano metapoetico, nell’introduzione al presente capitolo, si tornerà con maggiore ampiezza nel quarto capitolo. 186 Sono celeberrimi i tre sonetti sulla corruzione avignonese, 136-138, che costituiscono un breve ma intenso ciclo polemico, strettamente connesso al genere medievale del vituperium519. Lo scopo dei tre fragmenta è condannare la corruzione del papa e del suo entourage, ma anche riproporre ancora una volta la questione della sede romana, secondo un’ottica diversa, non più possibilista ma critica520. Il biasimo rivolto alla novella Babilonia521, Avignone, appare perfettamente coerente con le riflessioni di 53 – dedicata all’ingiusta decadenza di Roma e all’urgenza del ritorno del pontefice alla sua sede legittima – e di 128 – focalizzata sulle divisioni italiane e sulla crisi della penisola522. Utili connessioni si colgono anche rispetto a 27 e 28: ad esempio l’idea che il soglio pontificio sarà purificato da un “novo soldan” (137, v 6) sembra suggerire un rovesciamento della crociata523. Nel sonetto 27, inoltre, Babilonia era già citata quale capitale degli infedeli che il nuovo imperatore (Filippo IV) avrebbe abbattuto; il testo presenta inoltre un quadro ideale di legami onesti, di istituzioni sane, sacre e rispettate, che dunque si contrappongono al disfacimento avignonese524. In 27 appare particolarmente rappresentativa l’immagine del matrimonio, tra il destinatario taciuto e l’“agna” che ne permette l’identificazione525. E non sarà un caso se il vizio su cui si insiste maggiormente nel ciclo anti-avignonese è quello della lussuria. Nella forma Correggio, la cui prima parte si concludeva poco oltre con la sestina 142, i tre sonetti offrivano un ultimo spazio di espressione politica. Anche nella redazione Vaticana il tema non amoroso torna a ridosso della svolta centrale, grazie all’inserimento del sonetto 259, l’unico testo in cui si riscontrino elementi polemici che non appartenesse alla forma più antica. Il poeta infatti è costretto a tornare ancora una volta nell’odiata città pontificia: “Ma mia fortuna, a me sempre nemica, / mi risospigne al loco ov’io mi sdegno / veder nel fango il bel tesoro mio” (vv 9-11). Il riferimento ad 519 I modelli principali per gli attacchi polemici e il loro sviluppo argomentativo sono latini, con particolare riferimento alla tradizione della retorica dimostrativa, volta al plauso o al biasimo. La tradizione manoscritta ben testimonia la diffusione e l’apprezzamento per le opere dedicate a tali aspetti (si veda la riflessione sull’insegnamento condotta nel quinto capitolo) e sicuramente i trovatori, ancor prima di Petrarca, hanno beneficiato di tali materiali. L’impegno occitanico ben si accorda con un principio morale valido in tutto l’arco del Medioevo: chi accusa o biasima giustamente, oppure elogi chi lo meriti, è degno di lode a sua volta. Bisogna dunque distinguere con attenzione fra accuse giuste e sordide delazioni, come quelle spesso lamentate anche nei versi d’amore, sotto forma di lamento contro le “malelingue” (se ne riparlerà con maggiore ampiezza nel prossimo capitolo). Per tali aspetti e per una dettagliata terminologia che nella lirica provenzale contraddistingue i concetti esposti si veda ThiolierMejean 1978; per la tradizione del vituperium con particolare riferimento all’Italia, anche Suitner 1977 e 20051, Pasquini 1980 e 1981, Picone 2002. A Suitner 1985 si deve in particolare l’analisi del genere mediolatino e poi provenzale del vituperium, che si associa anche ad altri generi o strumenti retorici ben noti all’epoca e in parte già trobadorici, come enueg e plazer, personificazione e “lamento”. In effetti la stessa Avignone-Babilonia dei tre sonetti 136-138 è presentata in veste di donna disgraziata. 520 Su tale aspetto si è soffermato in particolare Picone 2002. 521 L’associazione con Babilonia a scopo di scherno ed insulto è convenzionale, legata alla tradizione ereticale e spirituale (francescana), benché non in modo esclusivo; essa comporta spesso l’uso di topoi ben precisi, quali il richiamo alla donazione di Costantino, l’immagine del Tartaro, del mondo alla rovescia o della civitas diaboli. 522 Su tale coerenza d’insieme si è soffermato Baldassari 2006, pp. 239-242. 523 L’ipotesi è di Santagata 1996, pp. 676-677 (citata anche in Baldassari 2006, pp. 240-241). 524 Baldassari 2006, p. 241. 525 Santagata 1996, pp. 136-137. 187 Avignone ha qui una funzione duplice: innanzitutto la contrapposizione con l’amena Valchiusa526, descritta nelle quartine, secondariamente la costruzione dell’ambiente in cui si trova Laura527, che risulta coerente con quello dell’incontro e quindi della prima apparizione dell’amata528. I sonetti 136-138 non sono i primi in cui compaia l’accusa ad Avignone; sono infatti preceduti da 114 e 117529. Il primo si apre così: “De l’empia Babilonia, ond’è fuggita / ogni vergogna, ond’ogni bene è fori, / albergo di dolor, madre d’errori, / son fuggito io per allungar la vita” (vv 1-4). Segue la delizia di Valchiusa. La medesima contrapposizione si ripropone ai vv 1-4 di 117: “Se ‘l sasso, ond’è più chiusa questa valle, / di che ‘l suo proprio nome si deriva, / tenesse volto per natura schiva / a Roma il viso et a Babel le spalle”. Si ha perciò l’impressione che 259 sia costruito anche per corrispondere a queste due anticipazioni della polemica avignonese: i tre testi creano una sorta di cornice che comprende il ciclo anti-avignonese e la canzone all’Italia 128530. Nel complesso la tematica politica trova nel Canzoniere una disposizione che ne esalta la progressione logica. I due cicli – canzoni e sonetti – si intrecciano infatti in perfetto equilibrio. 27 introduce gli elementi occasionali e contestuali funzionali alla comprensione di 28, ma che sono termine di paragone anche per la rappresentazione di Avignone-Babilonia; inoltre comporta un’apertura in tono minore che equivale alle chiusure sia in Correggio (138) sia negli esiti successivi (259). 28 propone una visione positiva, che comincia a declinare in 53, dove però si respira ancora il senso della speranza per la vera sede pontificia. Ad essa si contrappongono le brevi rappresentazioni di 114 e 117, il disastro italiano di 128 e l’intensa polemica di 136138. 259 chiude, confermando la definitiva focalizzazione sulle manifestazioni più dirette dell’io, amorose e penitenziali. Tra gli antecedenti cui Petrarca può aver attinto per l’elaborazione degli spunti politici e polemici va citata in primo luogo la tradizione satirica latina e lo sviluppo delle forme letterarie moraleggianti e dottrinarie mediolatine. In ambito romanzo, invece, la produzione civile in versi ebbe notevole fortuna grazie all’impegno dei trovatori, che divennero modello essenziale per la produzione duecentesca italiana, e in particolare per 526 Anche il contrasto città/campagna, corruzione/libertà appartiene alle convenzioni del vituperium quando associato alla città. 527 Come sottolinea Santagata 1996 nella sua introduzione a p. 1037, questo e il precedente sono sonetti “della quotidianità”, questo concluso dalla stretta di mano, quello imperniato su uno scambio di parole. 528 Santagata 1996, p. 1037. Non è un caso che tale annotazione si collochi poco prima della cesura mediana e quindi della morte di lei, quasi a suggellare il lungo corso della relazione (in vita) tra i due amanti. 529 Già Picone 2002 aveva considerato la prospettiva più ampia rispetto alla presenza del tema politico nella raccolta, includendo per certi aspetti anche il sonetto 7; lo studioso si concentra in particolare sul problema della libertà espressiva e sulla maturazione dell’interiorità associate a Valchiusa, secondo un’opposizione interno/esterno, prigionia/libertà già convenzionale e in particolare dantesca. 530 Mancano qui riscontri numerici puntuali; se però escludiamo 259, aggiunto come si diceva a ridosso della cesura in una redazione più tarda, si nota che 114+117 / 128 / 136-138 sono disposti con grande equilibrio, a distanze reciproche uniformi, anche se non identiche. E anche la prossimità di 114 e 117 dà all’occhio l’impressione di un ciclo, benché 115 e 116 abbiano argomento eterogeneo (ma in 116 si ripropone l’ambientazione valchiusana). 188 i siculo-toscani531. Le esperienze occitaniche sono per altro piuttosto precoci: le prime risalgono già al XII secolo, benché solo nel successivo si delineino vere e proprie scuole, e realizzazioni più numerose532. Dal punto di vista tematico, è opportuno distinguere due filoni principali533, tra componimenti che si rivolgono alla società nel suo complesso e testi dedicati a singoli individui534. La prima tipologia è la più interessante, poiché comprende anche le requisitorie sul papato535, la cristianità, l’impero. La politica si mescola alla morale e alla satira536, e i poeti si ergono a maestri dei potenti, come dell’umanità tutta. Le opere più antiche, come il corpus marcabruniano, si concentrano soprattutto sui problemi della corte; la svolta fondamentale si deve a Peire Cardenal537, che inaugura una prospettiva critica d’ampio raggio, riferita a tutti gli strati sociali (eccetto il popolo) distinti nei tre ordini di base, cavalleresco, ecclesiastico e mercantile. Le colpe consistono nella divergenza dai compiti e dai doveri della propria classe, che interferisce con l’ordine naturale delle cose. Osservando il punto di vista dei diversi autori, nella successione delle tre generazioni trobadoriche, si coglie con chiarezza una prospettiva sempre più fosca: cresce il pessimismo, fino a rappresentazioni apocalittiche, per altro prive per lo più di oggettività storica ed intensamente emotive. Ad un presente desolato si contrappone l’immagine luminosa del passato, vera e propria età dell’oro, idealizzata ed appiattita nell’ottica delle speranze perdute. L’utilizzo dell’immagine classicissima dell’età dell’oro suggerisce una tendenza più generale per la poesia trobadorica civile, come già per quella amorosa: il diffuso ricorso ad elementi topici e convenzionali538. Tali forme stereotipate, che favoriscono l’effetto 531 Anche i modelli italiani hanno avuto notevole importanza rispetto all’elaborazione petrarchesca: per tali aspetti si vedano Pasquini 1980 e 1981, nonché Picone 2002. 532 L’elenco degli autori, anche solo quelli più importanti, dimostra la ricchezza di tale produzione: Marcabru, Peire Vidal, Giraut de Bornelh, Peire d’Alvernha, Peire Cardenal, Gaucelm Faidit, Guilhem Figueira, Gavaudan, Bertran Carbonel, Pons de Capduelh, Falquet de Romans, Guilhem de Montanhagol, Bertran d’Alamannon, Guiraut Riquer, Lanfranco Cigala, Cerverì de Girona, Guilhem de Berguedà. 533 Non si considerano in questa sede i componimenti militari, che appartengono sì al macrogenere del sirventese, ma non pertengono direttamente alla questione politica o alle forme di satira che le sono spesso affini. Va ricordato comunque che anche i componimenti guerreschi, benché spesso dedicati all’esaltazione delle forze militari, possono presentare interessanti riferimenti storici e valutazioni su avvenimenti contemporanei, che riguardano soprattutto la lotta tra Midi e Francia. 534 Questo tipo di componimenti mostra d’abitudine un’evoluzione molto inferiore rispetto a quella della polemica più articolata, perché la rappresentazione è quasi sempre inserita entro i parametri della società cortigiana. L’applicazione specifica del modello, invece, è molto varia: l’oggetto della polemica può concernere cavalieri, poeti, mariti, donne, nobili e signori e così via. Alla critica si accompagnano d’abitudine consigli e suggerimenti, a seconda dei casi ispirati a problemi concreti oppure esistenziali. 535 Per approfondire sulla produzione anticlericale si legga Vatteroni 1999, dedicato complessivamente alla questione. 536 Il rapporto tra questi diversi aspetti è affrontato in particolare in Vatteroni 1999, pp. 51-82. 537 Il contributo di tale trovatore è essenziale, tanto che egli è considerato un vero e proprio spartiacque rispetto all’evoluzione della poesia morale e satirica. La novità più interessante consiste nella capacità di articolare ciascun componimento secondo prospettive molteplici, morale, personale, politica. Il singolo avvenimento fornisce lo spunto per una riflessione più ampia, cosicché non manca né il senso della concretezza e della specificità storica, né l’approfondimento sul piano astratto. Per una piena comprensione del personaggio si veda Vatteroni 1999, pp. 15-50. 538 Thiolier-Mejean 1978 ha evidenziato, in riferimento alla poesia satirica, l’importanza delle regole retoriche tradizionali, rese autorevolissime dall’imposizione del latino come grammatica. La perfezione 189 modellizzante della produzione occitanica, si riscontrano sia come singoli elementi in contesti più ampi, dunque mescolati con numerosi spunti diversi, sia come tratti unici ed insistiti in composizioni omogenee e monotematiche. Gli strumenti espressivi coincidono spesso con quelli caratteristici della poesia amorosa, spesso a loro volta tipizzati539; è sempre molto marcata la componente cristiana. I componimenti di ispirazione religiosa e anticlericale sono i più originali, meno soggetti a ripetitività e banalizzazioni540. Infatti, i motivi per l’attacco polemico variano notevolmente in ciascun autore o anche nel singolo testo, e si sovrappongono generi e suggestioni diverse, anticlericale, politica, morale e così via. Il coinvolgimento dei temi della fede, inoltre, favorisce uno spostamento dall’avvenimento specifico e localizzato, ad aspirazioni e preoccupazioni universali, che determinano un respiro del tutto rinnovato. La satira rivolta alle istituzioni ecclesiastiche è particolarmente diffusa e sentita541, soprattutto nei confronti dell’autorità centralizzata e teocratica di Roma542, avvertita in molti casi come un’incombente minaccia (il che non può stupire nei luoghi della crociata albigese543). La censura di monaci e religiosi è di solito la meno virulenta544, mentre sono diffusi gli attacchi verso le regole troppo permissive, la dedizione ai piaceri terreni e carnali, la mancanza di scrupoli e la falsità dilagante. La della forma è spesso preminente rispetto all’elaborazione del contenuto e dell’argomentazione. Spesso perciò l’identità dell’autore si riconosce soltanto nella capacità di adattare gli strumenti più antichi e di gestire i vincoli metrici. 539 Tali forme di riuso e risemantizzazione sono state affrontate da Thiolier-Mejean 1978, che distingue elementi positivi, elementi negativi e tratti religiosi, derivati dalla predicazione, dalla sfera del pentimento o della fede in genere. 540 Sulle opere di carattere anticlericale si è concentrato soprattutto Vatteroni 1999 (si vedano in particolare le pp. 9-13 per la definizione della questione): benché talvolta il singolo testo comporti una certa ambiguità rispetto al genere morale in senso più ampio, lo studioso ha cercato di fissare i tratti di un sottogenere anticlericale specifico, che si rivela piuttosto unitario e definito. Un simile livello di distinzione da una parte beneficia della possibilità di fare riferimento all’esempio di Peire Cardenal, dall’altra è proprio la tematica ecclesiastica che appare nella maggior parte dei casi ben distinguibile. 541 Come ha sottolineato Thiolier-Mejean 1978, i contenuti e le modalità requisitorie dei componimenti morali e satirici, infatti, offrono interessanti indicazioni sulla formazione tipica degli autori provenzali, per altro in buona parte legati essi stessi alla sfera ecclesiastica (per tale aspetto si veda anche BrunelLobrichon 2000). Ne deriva in effetti una conferma della ricognizione sulla scuola e sugli studi medievali (per cui si veda il quinto capitolo); ne risultano esaltati cioè il contributo degli enti ecclesiastici e monastici, l’importanza della retorica (anche rispetto alla predicazione) e quindi dei modelli classici, la diffusione delle competenze giuridiche, l’influenza del contesto militare. 542 Per quanto concerne i temi anticuriali e gli attacchi all’autorità pontificia, Pasquini 1981 ha evidenziato la tradizionale distinzione critica di tre filoni: polemica dotta, sostanziata sul piano giuridico, storico e teologico, spesso in coerenza con i moti ereticali; letteratura (soprattutto narrativa) realistica; satira colta (gruppo a cui appartiene anche quella petrarchesca). Si tratta ovviamente di una semplificazione, poiché tali aspetti sono spesso sovrapposti e intrecciati, come nel caso di Dante. Può essere perciò più utile una “macrodistinzione” tra resa letteraria (spesso topica) e religiosa (l’intenzione è ben più fattuale e incisiva, e infatti ci si rivolge ad un pubblico più ampio). Dal canto suo, l’approccio letterario contribuisce a creare un mito: ne sono espressione sia Dante che Petrarca in ambito italiano, benché l’atteggiamento dei due poeti sia stato ben diverso a livello biografico. 543 Vatteroni 1999, pp. 93 segg e soprattutto pp. 101-113, ha sottolineato anche il legame che intercorre tra temi anticlericali e persecuzione dei catari, nel quadro complessivo delle questioni di fede ed organizzazione della Chiesa che hanno travagliato il XIII secolo, con particolare attenzione allo sviluppo dell’Ordine francescano. 544 Il che non impedisce la frequenza degli strali di Peire Cardenal, di solito molto esplicito nelle sue accuse. 190 letteratura volgare – e soprattutto quella duecentesca, ispirata dal forte moto di indipendenza spirituale che pervade tutta la società – recupera moti e problemi già affrontati dalla produzione mediolatina545, espressione dunque dei chierici. D’altro canto la produzione romanza dimostra notevole autonomia, nella prospettiva di una attualizzazione e rielaborazione della tradizione (Peire Cardenal si distingue anche in questo per il suo contributo essenziale)546; i laici, inoltre, rivelano una stupefacente vivacità e libertà d’espressione, probabilmente grazie alla protezione garantita da mecenati e aristocratici. L’approccio di fondo è in sostanza nuovo: non siamo più nell’orizzonte della scuola e delle considerazioni più blande, la poesia satirica – anche anticlericale – può fare propria la tradizione del vituperium, compresi i suoi toni più gravi ed espliciti. L’unico ambito in cui sembra sia stato esercitato un freno è quello dell’Inquisizione, la cui presenza nel Midi lasciava evidentemente poco spazio alla parola poetica547. Dunque le strutture della Chiesa rappresentano una parte (colpevole) di quella società (riprovevole) che già in generale era oggetto di lamentele in versi. Tuttavia, in ambito occitanico la riflessione sulla vita religiosa non si limita a tali aspetti e non di rado riguarda anche i temi della fede: all’interno di discorsi più articolati o perfino di veri e propri sermoni, già i primi trovatori affrontano questioni relative al giudizio universale, alla punizione dei malvagi e all’aiuto riservato ai giusti, o ancora ai miracoli e alla misericordia di Dio e della Vergine. Si è anticipata la riflessione sui componimenti dedicati alle preghiere o alla celebrazione religiosa, che possono comprendere anche 545 Thiolier-Mejean 1978 ha analizzato le fonti, osservando che i contributi preminenti vengono da modelli classici, spesso fruiti tramite la mediazione di opere mediolatine o in traduzione volgare (anche in lingua d’oc), da insegnamenti di stampo cristiano (prediche, exempla…) o ancora dalla precedente poesia religiosa, che spesso però è ricondotta a contesti espressivi del tutto alterati, cioè di stampo satirico. Tali modelli operano sia sul piano tematico, sia su quello formale, poiché ne derivano strumenti utili soprattutto alla costruzione argomentativa del discorso. 546 Vatteroni 1999, pp. 11-13 sottolinea la natura specifica e riconoscibile dell’approccio romanzo rispetto a quello latino, benché grosso modo coevo. La scelta stessa della lingua, anche a fronte dell’uso di immagini e concetti convenzionali, rappresenta un’innovazione, passibile per altro di letture provocatorie e sovversive. Una delle ragioni essenziali per cui la produzione anticlericale in latino è tanto diffusa nel Medioevo è proprio perché si avvale di una lingua ormai ignota alle masse. Infatti, nel momento in cui la critica viene dall’interno (considerato che gli scriventi in latino sono per lo più chierici o comunque figure legate all’orizzonte ecclesiastico) e difficilmente può raggiungere l’ampio pubblico dei laici, essa non costituisce una reale minaccia di ribellione. Non a caso gli argomenti che potevano essere trattati nelle prediche in volgare (che ormai cominciavano a diffondersi) erano vagliati e imposti dall’alto, mentre continuavano ad essere vietate le traduzioni della Bibbia. Come sottolinea Pasquini 1981, anche le opere laiche più virulente appaiono comunque meno energiche di quelle redatte da mistici e religiosi. Inoltre ancora durante tutto il ‘300 spesso si arriva a comprendere quale sia l’obiettivo polemico dei laici solo grazie alla cronologia del testo, tanto poco esplicito ne è il messaggio. La discontinuità linguistica proposta dai trovatori, dunque, ha anche un valore eversivo. Non c’è dubbio che almeno parte del corpus trobadorico di carattere moraleggiante abbia avuto circolazione anche in ambienti popolari, almeno per ciò che concerne le opere di Peire Cardenal e Guilhem Figueira: lo testimoniano le trascrizioni dei processi dell’Inquisizione. Sembra in effetti che il possesso dei loro versi fosse un indizio ulteriore di eresia, anche se non risulta che alcun trovatore sia stato perseguitato in prima persona o in relazione alla sua professione. 547 Tuttavia Vatteroni 1999, pp. 101-113 nota anche che per tale aspetto non esisteva alcuna tradizione anteriore cui ispirarsi, anche rispetto all’intonazione da prediligere, fattore che può aver costituito un limite determinante per l’elaborazione poetica. 191 spunti o interi brani tratti dalla liturgia ufficiale548. Bisogna, infine, evidenziare come i contenuti di fede comportino in diversi casi un più o meno implicito attacco nei confronti delle consuetudini e dei valori dell’amor cortese, che certo non si accorda pienamente con i dettami della religione549. 11. Alba Con il semplice termine di “alba” si indica un genere trobadorico molto specifico e riconoscibile, benché non ne restino numerose esempi, forse anche a causa della considerevole ripetitività della sua formulazione. Si tratta di testi per lo più brevi, in cui il verso corto e la lunghezza limitata delle strofe suggeriscono, insieme alla frequente presenza di un ritornello, un andamento ritmato e vivace. Il nodo di fondo è sempre il medesimo: gli amanti, dovendo superare i limiti imposti dal marito geloso o dai guardiani della fanciulla, si accontentano di incontri clandestini nella camera di lei durante la notte. L’alba, dunque, rappresenta la conclusione del convegno amoroso e come tale è avversata dalla voce maschile, che si rivolge alla dama preoccupata o ad una guardia (“gaita”), posta a controllare l’accesso alla camera. Il secondo punto di vista, mediato dalle parole del poeta stesso, esprime il timore per il possibile sopraggiungere degli antagonisti, una volta che il sole sia sorto. Il genere, perciò, sottende alcuni elementi fondamentali dell’amor cortese (la sua natura adulterina e le dinamiche sociali e psicologiche che ne derivano) e, se necessario, recupera dalla canzone i consueti dettagli elogiativi sulla dama. Al contempo, si distacca dalla visione più consueta dell’amore casto e puro, limitato nella maggior parte dei casi al bacio o alla stretta di mano, per portare a compimento gli spunti erotici più marcati. Essi comunque non mancano del tutto nelle consuete canzoni occitaniche: nell’“alba”, quindi, si sviluppano alcune possibilità secondarie del canto amoroso stesso. A sua volta la riformulazione esplicita dell’“alba” e degli altri generi bassi diviene modello per arricchire successivi componimenti dall’apparenza più tradizionale, inserendovi spunti più o meno eterogenei: basti pensare all’intonazione erotica in molta poesia di Raimbaut d’Aurenga, alla diffusa immagine della “chambra” in cui i trovatori vorrebbero entrare per vedere la dama che si cambia o per dormire con lei550, fino al culmine costituito da Lo ferm voler di Arnaut Daniel. Al genere nella sua ampiezza, insomma, corrisponde anche un più delimitato motivo sensuale, inserito senza difficoltà nella forma classica della canzone. Dal punto di vista del rapporto con la cultura cortese, l’“alba” appare simile alla pastorella, proprio in quanto forma poetica amorosa che integra e completa l’orizzonte del canto illustre, proponendo una prospettiva più materiale e quindi meno alta. 548 Nel corso del presente capitolo, con particolare riferimento alle canzoni mariane. È necessario comunque ricordare come una parte notevole della produzione satirica e polemica abbia un valore puramente occasionale, perché ispirata ad episodi e situazioni molto limitati. È verosimile tra l’altro che tali componimenti di carattere più circoscritto siano stati più facilmente perduti, dato il loro interesse specifico, rendendo oggi difficile una puntuale valutazione della tradizione. 550 Gavaudan lascia in merito un testo emblematico – L’autre dia, per un mati – in cui identifica la “gioia di camera” come simbolo stesso dell’erotismo e in fondo dell’amore. 549 192 Esempi convenzionali del genere si leggono in Reis glorios, verais lums e clardatz di Giraut de Bornelh, Gaita be, gaiteta del chastel di Raimbaut de Vaqueiras, Anc no m parti de solatz ni de chant di Gaucelm Faidit. Tra le soluzioni più peculiari si può invece ricordare Ad un fin aman fon datz di Guiraut Riquier, il quale rovescia la struttura consueta e invece di piangere l’alba, lamenta la lentezza con cui scorre il giorno, poiché desidera la sera e il momento dell’incontro551. Ancora diverso è l’approccio dell’anonima Eras diray ço que us dey dir: il riferimento al Signore era già presente nella preghiera d’apertura di Reis glorios e quindi potrebbe suggerire un contatto con Giraut de Bornelh, ma il resto della struttura appare innovativo. Ai topoi caratteristici del genere, infatti, l’autore aggiunge un punto di vista cavalleresco molto pronunciato, esaltato dal dialogo non con la dama, ma con innominati interlocutori maschili, cui il poeta offre una lezione di morale cortese, complicando così l’impostazione complessiva dell’opera. Un vero e proprio rovesciamento, infine, si legge in Axi con cel c’anan erra la via, in cui Cerverì de Girona aspetta con ansia l’arrivo del giorno. L’odio per la notte e la descrizione degli inferi lasciano pensare che il significato del testo risieda in un’interpretazione metaforico-simbolica di carattere cristiano. Petrarca non manca di recuperare anche il genere dell’“alba”, secondo strategie differenziate a seconda dei testi. In tre luoghi il riuso appare piuttosto fedele: le sestine 22 e 237, e il sonetto 255. Le tre occorrenze assumono una configurazione perfettamente coerente con il contesto in cui sono inserite. In 22, dove il termine “alba” è anche parola-rima552, l’immagine è davvero classica: “Con lei foss’io da che si parte il sole, / et non ci vedess’altri che le stelle, / sol una nocte, et mai non fosse l’alba” (vv 31-33). La situazione, qui solo ipotizzata a causa dell’amore infelice di cui il poeta è vittima, è la medesima che caratterizza le opere trobadoriche: l’incontro notturno, privo di testimoni, che giustifica l’odio per l’alba, poiché essa ne determina la conclusione. L’adynaton del v 33 non deriva dalle consuetudini espressive del genere, quanto dalla frequente e già arnaldiana associazione tra frustrazione, impossibilia e sestina553. Esso per altro ben si accorda alla connotazione del desiderio espresso in 22, il quale già in partenza è irrealizzabile, come si è detto, a causa del rapporto disfunzionale tra io lirico e Laura. La premessa stessa da cui nasce il genere dell’“alba” in ambito occitanico rafforza tale contesto petrarchesco: anch’essa infatti nega la soddisfazione del poeta, poiché il sole è destinato a sorgere, con la disperazione degli amanti, il cui pianto è in sostanza inutile. In 237 si ripropone una circostanza molto simile: un incontro notturno, vagheggiato dal poeta, ma impossibile a causa della disposizione d’animo dell’amata (“et questa ch’anzi vespro a 551 Secondo la definizione di Martin de Riquer, tale rovesciamento appartiene all’ambito della “serenata” (Riquer 1975, p. 1613). 552 Il termine e il concetto di “alba” tornano di per sé in numerosi altri componimenti: 22, 105, 127, 190, 219 (ma l’idea è implicita), 223, 239, 255, 291, 343. 553 Dell’origine dell’adynaton e del suo uso petrarchesco, trobadorico e classico si è parlato in questo stesso capitolo. 193 me fa sera / con essa et con Amor in quella piaggia / sola venisse a starsi ivi una notte; / e ‘l dì si stesse e ‘l sol sempre ne l’onde”, vv 33-36). Petrarca dunque riferisce l’episodio della “notte eterna” e la sua intonazione erotica alla prima persona solo in metri tradizionalmente connotati da un’aura sensuale, in cui si coglie l’esempio di Arnaut Daniel e della sua Lo ferm voler, dove era appunto già introdotta l’idea della camera e del convegno, desiderato ma non ancora realizzato. Proprio in 22, per altro, i richiami alla sestina arnaldiana sono particolarmente visibili. Inoltre, il recupero del genere è sempre declinato come speranza irrealizzabile e quindi come negazione del principio di partenza nell’uso provenzale, secondo cui l’incontro era stato consumato. Per i trovatori in effetti era possibile descrivere un concreto convegno amoroso, benché solo notturno, mentre a Petrarca è lecito soltanto desiderare e negare554. L’incipit del sonetto 255 conferma tale associazione tra metro e tema, poiché l’idea del convegno segreto e notturno non vi è negata, ma non è nemmeno associata all’io poetico. Si parla infatti degli amanti comuni, felici (cioè ricambiati), il cui stato d’animo è ben diverso da quello del poeta: “La sera desiare, odiar l’aurora / soglion questi tranquilli et lieti amanti” (vv 1-2). I medesimi versi suggeriscono per altro anche l’idea della “serenata” che si è vista in Guiraut Riquier. L’io si propone invece secondo un’ottica contrastiva, che annulla di fatto il presupposto stesso del genere “alba”: “a me doppia la sera et doglia et pianti, / la matina è per me più felice hora” (vv 3-4)555. La citazione nella sua struttura più consueta si accompagna così al suo rovesciamento. Una situazione simile, in cui l’io soffre la notte ancor più del giorno, si riscontra nella sestina 22, nelle sole prime tre stanze, e nella canzone 50, tutta impostata sull’opposizione tra il riposo serale di chi si affatica nel lavoro diurno e il poeta, che al calar del sole non trova requie556: “Ma, lasso, ogni dolor che ‘l dì m’adduce / cresce qualor s’invia / per partirsi da noi l’eterna luce” (vv 12-14), “ch’i’ pur non ebbi anchor, non dirò lieta, / ma riposata un’hora, / né per volger di ciel né di pianeta” (vv 26-28), “Ahi crudo Amor, ma tu allor più mi ‘nforme / a seguir d’una fera che mi strugge, / la voce e i passi et l’orme” (vv 3941), “fine non pongo al mio obstinato affanno” (v 52), “i miei sospiri a me perché non tolti / quando che sia? Perché no ‘l grave giogo? / Perché dì et notte gli occhi miei son molli?557” (vv 60-62). 554 È interessante notare la convergenza tra tale impostazione e l’interpretazione che abbiamo accolto per 206, in relazione (e negazione) a manifeste espressioni erotiche. Si veda l’argomentazione nello specifico paragrafo contenuto nel presente capitolo. 555 L’odio per la notte e le sue pene si associa ad un’altra immagine, convenzionale e molto diffusa già presso i trovatori, cioè quella dell’insonnia, che descrive con efficacia lo stato stravolto dell’amante, tanto che spesso è associata all’idea dell’inappetenza e in generale alla dimensione dei tormenti amorosi. Anche tale immagine è dunque topica e come tale sarà approfondita nel corso del prossimo capitolo. 556 L’opposizione tra normalità e condizione del poeta si è già affrontata, in riferimento alla rappresentazione naturalistica e stagionale, nel corso del presente capitolo e sarà ripresa nel prossimo in riferimento agli usi espressivi più convenzionali. 557 L’associazione di notte e giorno indica evidentemente la totalità del tempo e quindi esprime in termini iperbolici lo stato del poeta, in questo caso la sofferenza. L’associazione “notte e giorno” o anche “mattino e sera” costituisce in effetti un sintagma convenzionale per tale tipo di espressione emotiva, che non solo si registra in numerosi luoghi del Canzoniere, ma spesso anche nei trovatori, secondo formule assolutamente sovrapponibili a quelle della tradizione italiana. Tale formula convenzionale sarà puntualmente analizzata nel prossimo capitolo; tuttavia data la sua diffusione e il suo utilizzo in relazione 194 L’idea che la notte causi dolore non comporta comunque una rappresentazione grata e positiva del giorno: era così già in 50, come dimostra se non altro il v 62, e in sostanza anche in 255, dove la “felicità” è tale solo a paragone del tormento notturno. I medesimi concetti ritornano nel sonetto 223, in cui le quartine e la prima terzina si dilungano sull’“angosciosa et dura notte” del poeta; giunge poi l’aurora che porta la luce al mondo, ma non all’amante, per il quale l’unico vero sole è Laura558. In tutti i passi citati, e soprattutto in 22 e 50, si coglie con chiarezza il concetto per cui la disposizione d’animo del poeta rispetto al tempo e il suo perenne dolore lo contrappongono agli altri esseri viventi e in particolare alle dinamiche della società. Tale rappresentazione dei propri ritmi vitali, incoerenti rispetto a quelli più comuni, adatta un topos di origine già trobadorica, molto efficace nel rendere lo stravolgimento causato da Amore: si inserisce perciò alla perfezione nel quadro di alienazione e alterazione dell’io che già più volte si è anticipato559. 12. “Devinalh” Il termine occitanico devinalh significa “indovinello”. Il gusto per l’enigmistica, che certo accomuna il Medioevo latino e romanzo560, trova infatti espressione anche in ambito trobadorico grazie all’identificazione di un genere specifico. Perché un testo possa essere definito devinalh deve presentare alcune caratteristiche di forma e contenuto, non è sufficiente cioè che si classifichi come componimento di difficile comprensione, ispirato alla poetica del trobar clus561. Dal punto di vista dello stile, la complessità del testo è per lo più giocata su opposizioni, su contrasti logici che possono essere declinati in forma di affermazioni e negazioni alternate. Ne deriva per il lettore un senso di incertezza, di interrogazione, cui – almeno in origine – non faceva seguito una spiegazione, spingendo quindi gli stessi destinatari a fornirne una. Dal punto di vista tematico, si nota che la referenzialità del discorso rispetto al reale non è cancellata in toto, ma profondamente alterata eliminando alcuni riferimenti di base essenziali, la cui mancanza determina la natura sorprendente dell’opera. Tuttavia, la struttura chiusa e priva di esplicitazioni tipica dell’indovinello determina spesso l’impressione che si tratti di non-sense, a meno che non intervenga un chiarimento conclusivo da parte dell’autore. a contesti espressivi molteplici (in particolare la dimensione naturalistica e il principio dell’attesa/sopportazione) sarà richiamato più volte. 558 È netta invece la preferenza per il giorno in 353, dove però la rappresentazione ha valore puramente metaforico per rendere il corso della vita: il giorno perduto e rimpianto rappresenta la giovinezza, cioè il tempo in cui Laura era viva. L’intonazione e la resa dell’immagine appaiono perfettamente coerenti con il quadro luttuoso della seconda sezione, benché si sia ormai prossimi alla svolta conclusiva. 559 Tali aspetti saranno ripresi ed approfonditi nel corso del capitolo successivo. 560 Il modello è nella tradizione biblica ed esegetica, in cui il gioco degli opposti ha un preciso valore teologico, filosofico ed educativo. Tuttavia, se ne possono riconoscere echi ancora più antichi in ambito classico: ad esempio, numerosi studiosi ritengono che nella celebre opposizione catulliana “odi et amo” si possa leggere un interrogativo. Per tali aspetti si veda in particolare Carrai 1995. 561 Si pensi ad esempio alla complicata struttura di S’il cors es pres, la lengua non es preza di Raimbaut d’Aurenga o a molta poesia di Marcabru, come l’ambigua Pus la fuelha revirola. 195 Al di là di queste tendenze generali, le singole realizzazioni trobadoriche appaiono molto autonome562. L’esempio più antico appartiene a Guglielmo IX e l’incipit Farai un vers de dreit nien è piuttosto esplicito rispetto alla sensazione di spaesamento che il testo intende determinare nel lettore, cui non è fornita alcuna chiave di lettura563. Appare radicalmente opposta la strategia di Raimbaut d’Aurenga, che in Escoutatz non si limita a dare un’indicazione conclusiva, ma alterna nel testo immagini contrastanti e glosse esplicative, che dunque trasformano sino a negarla la struttura di partenza564. Al modello del primo trovatore tornano sia Giraut de Bornelh sia Raimbaut de Vaqueiras, per quanto secondo modalità diverse. In Un sonet fatz malvatz e bo, Giraut predilige un classico andamento per opposizioni, in cui però si coglie una notevole semplificazione sia per la riduzione dei rimandi interni e quindi della chiusura complessiva, sia grazie alla spiegazione finale (amorosa) fornita dall’autore565. Invece Raimbaut recupera l’idea di una parcellizzazione del testo, suddiviso secondo diversi interrogativi, come già in Guglielmo; tuttavia la conclusione di Las frevols venson lo plus fort propone una sintesi capace di richiamare l’intero sviluppo del discorso, anche se senza spiegarne il significato. In un altro testo, Savis e fol, humils et orgoillos, lo stesso Raimbaut tenta l’esperimento opposto, abbandonando il principio centripeto, per partire da un’affermazione generale che viene poi estesa ed arricchita in tutto l’arco del discorso. Va ricordato, infine, l’anonimo Suy e non suy, la cui peculiarità risiede nella tematica religiosa: il gioco dei contrasti ha un preciso valore ideologico e dottrinario, poiché esprime l’opposizione tra realtà terrena e sfera celeste566. L’identificazione del devinalh nasce dunque dalla compresenza di diversi elementi retorici e da una peculiare concezione del messaggio poetico, soprattutto nel rapporto con il destinatario. Di per sé, però, i singoli strumenti stilistici non sono vincolati allo specifico genere: in particolare, in molta poesia trobadorica si trovano sia le serie oppositive, sia la progressione elencatoria con cui si accumulano le immagini da contrapporre, sia le correlazioni interne, che creano una struttura al contempo chiusa e coesa, sia infine il gioco sui diversi nuclei tematici. Anche Can lo baschatges es floritz di Bernart de Ventadorn o Gen m’aten di Giraut de Bornelh sono pensati come successione di immagini contraddittorie, il cui uso è per altro coerente con uno dei topoi più diffusi e rappresentativi dello stato amoroso, appunto la contraddittorietà d’amore; Mas, com m’ave, Dieus m’aiut dello stesso Giraut de Bornelh sfrutta piuttosto la 562 Per un’ampia riflessione sull’evoluzione delle forme enigmistiche presso i trovatori si veda Pasero 1968, cui si fa qui riferimento. 563 La natura arcaica del testo si coglie nella sua articolazione per nuclei separati, come se ogni stanza ponesse un enigma diverso, che toglie unità e senso di progressione al discorso. 564 Per tale ragione vari critici hanno pensato che si trattasse di una parodia, più che di un tentativo di rinnovare il genere; Pasero 1968 ha però sottolineato come i riferimenti a Guglielmo IX siano troppo pochi per poter pensare ad un’imitazione parodica. 565 Pasero 1968 interpreta tale semplificazione come una vera e propria banalizzazione; questo potrebbe dimostrare che il genere avesse già perso la sua spinta creativa. 566 Tale contrapposizione risulta di per sé interessante a monte dell’esperienza petrarchesca, escludendo però l’applicazione dell’indovinello. Le strutture per contrasti, infatti, appaiono sempre legate nel Canzoniere alla tematica amorosa, cui pertengono in perfetta coerenza, data la convenzionale definizione dell’amore come contraddittorio. 196 successione di interrogative retoriche, per rendere l’incertezza su quale sia la reale natura di Amore. Il devinalh, dunque, esalta nella convergenza fra forma e contenuto la consueta attenzione dei Provenzali per l’elaborazione espressiva, da cui derivano in fondo anche le sperimentazioni sulla metrica, sulle rime e così via. Il genere inoltre incarna l’aspetto più giocoso della lirica567, nonché l’intenzione di costruire attraverso la versificazione una collaborazione o per lo meno una comunicazione con il destinatario (ascoltatore/lettore). L’originalità strutturale del devinalh e al contempo la possibilità di ricondurne i singoli elementi al più ampio serbatoio retorico della tradizione hanno favorito il recupero dei modelli oltre la fine dell’esperienza occitanica. Tuttavia, ben presto si perde il senso del legame tra impegno formale e gioco sul messaggio, lasciando spazio nella maggior parte dei casi a veri e propri esercizi di stile568. Tra fine Trecento e inizio Quattrocento la cultura tipica delle corti apprezza il virtuosismo esteriore, a scapito però dei contenuti. Il genere perciò non scompare, ma il suo equilibrio risulta alterato. Alcuni fragmenta si inseriscono pienamente nel filone del devinalh, raccogliendo a monte l’esempio trobadorico, probabilmente senza escludere il contributo dei più recenti esperimenti italiani. Il riuso del genere occitanico non comporta l’assunzione di un modello specifico o di una fonte diretta569, come già era stato nel caso dell’escondich; sono piuttosto il principio generale della struttura e lo scopo dell’impegno retorico a suggerire il richiamo alla tradizione. La realizzazione petrarchesca, d’altronde, non va considerata come un puro sfoggio di abilità stilistica: dagli antecedenti trobadorici deriva anche l’idea che il messaggio sia parte integrante della costruzione, in coerenza per altro con alcune affermazioni dello stesso Petrarca in merito al valore e alla legittimità della cura retorica570. La struttura del devinalh trova la sua manifestazione più caratteristica nel sonetto 134, Pace non trovo, et non ò da far guerra, che procede in tutto l’arco dei quattordici versi accumulando opposizioni topiche rispetto allo stato amoroso, con particolare attenzione ai concetti di prigionia e di morte per amore. Il numero dei contrasti è molto elevato: uno per verso nelle quartine, ad eccezione del secondo che ne presenta due per esigenze di variatio, mentre le terzine abbondano soprattutto di ossimori. Il finale esplicita la ragione dello stato incerto del poeta, in veste di accusa, offrendo così una spiegazione all’intero discorso: “in questo stato son, donna, per voi” (v 14). Il sonetto si inserisce 567 Basti pensare ad alcuni esiti comici della lirica trobadorica, ben riconoscibili ad esempio in Raimbaut d’Aurenga, in testi come Assatz sai d’amor ben parlar e Lonc temps ai estat cubertz (ma possiamo ricordare anche le opinioni di Canettieri 1996 sull’origine della sestina, di cui si è parlato all’inizio del presente capitolo). 568 Per la decadenza del genere si vedano sia Pasero 1968 sia Carrai 1995, dove viene analizzata con ampiezza la tradizione italiana anteriore a Petrarca. 569 Vanno perciò escluse citazioni esplicite o puntuali da un singolo testo. Si può comunque notare una certa affinità con l’elaborazione di Giraut de Bornelh, per la struttura coesa ed unitaria nel corso dell’intero componimento, ma anche per la scelta di fornire una spiegazione esplicita alla fine del testo. Poli 1993 ha inoltre sottolineato qualche localizzata corrispondenza lessicale tra il sonetto 134 (il vero e proprio devinalh del Canzoniere) e Bernart de Ventadorn. 570 Carrai 1995 ricorda in proposito l’opinione espressa dal poeta nelle Invective contra medicum, secondo cui la difficoltà è utile in quanto favorisce il piacere nella fruizione letteraria, la memorizzazione e in conseguenza l’apprendimento. 197 perfettamente nella successione dei fragmenta e nello sviluppo tematico del Canzoniere: esso partecipa della vicenda dell’io – pur senza aggiungere alcuna idea innovativa – e dunque non si limita all’eccentricità esteriore. Petrarca sfrutta le possibilità del genere per accentuare la consueta rappresentazione dolente e confusa dell’io, dimostrando inoltre l’affinità stilistica tra le contrapposizioni enigmistiche da una parte e le dittologie o i parallelismi, tipici del suo usus scribendi, dall’altra. La prolungata attenzione dell’autore per il genere si rivela anche in altri testi riconducibili al gusto per il gioco retorico e per le possibilità stilistiche più ricercate. In primo luogo vanno ricordati 132 e 133, legati al devinalh in un vero e proprio ciclo, e non solo per la prossimità nella raccolta571. 132 si apre con una successione di interrogative, in sostanza retoriche, intese a descrivere ancora una volta la contraddittorietà dello stato amoroso; più che una spiegazione, segue una puntualizzazione ai vv 10-11 che definisce il senso complessivo del testo (“Fra sì contrari venti in frale barca / mi trovo in alto mar senza governo”). 133 comporta invece una variazione strutturale più evidente: la tragicità dello stato amoroso passa qui attraverso una serie di metafore (il poeta come un bersaglio di fronte all’arciere, il suo venir meno come neve o cera, la colpa dell’amata e soprattutto dei suoi occhi). A questo punto la soluzione risiede in un parziale scioglimento delle immagini, che spiega l’effettiva relazione di causa-effetto all’origine della disperazione dell’io. In tutti e tre i componimenti si nota che l’artificio è funzionale ad esprimere il medesimo concetto: l’io e il suo dolore. Dal punto di vista tematico, inoltre, 132-134 si legano perfettamente ai testi circostanti, 131, che già presenta l’amore in chiave disforica, e 135, che per delineare il tormento sfrutta una serie di immagini fantastiche. Si passa così da versi molto elaborati sul piano esteriore, ma convenzionali per contenuto, ad una canzone più classica e piana, in cui però ciascuna stanza propone uno spunto tematico sorprendente. Ampie strutture oppositive si trovano poco oltre in 145 e 178, sonetti di nuovo dedicati alla rappresentazione della condizione amorosa: il suo tormento, la sua contraddittorietà, ma anche la sua inestinguibile fissità. Quest’ultimo aspetto motiva la serie di immagini che si susseguono nell’unico, lungo periodo di 145: non importa in quale situazione si trovi il poeta, egli afferma “sarò qual fui, vivrò com’io son visso, / continuando il mio sospir trilustre” (vv 13-14). Il verso conclusivo mostra come la funzionalità del riuso non consista nella generica riproposizione dell’io e della sua esperienza, ma nella peculiare occasione dell’anniversario. Essa rende necessario sottolineare non solo la condizione dell’amante, ma anche la sua costanza nel tempo. Da questo punto di vista il concetto di 178 è affine, anche se slegato da avvenimenti specifici; tuttavia il sonetto propone una nuova declinazione dell’elenco di contraddizioni. Infatti, mentre nelle quartine vengono enumerate diverse immagini 571 “Trittico del dreit nien” li definisce Santagata 1996, p. 648, secondo l’intuizione di Amaturo. Tuttavia lo studioso sottolinea anche come nei primi due l’elemento oppositivo sia assolutamente preminente su quello enigmistico, e infatti a p. 655 egli precisa come solo 134 rispetti in modo compiuto le convenzioni del genere. Carrai 1995 evidenzia soprattutto la mancanza di un interrogativo da spiegare, di una soluzione da cercare; inoltre illustra le connessioni concettuali e lessicali reciproche fra i tre testi. 198 sintetiche, secondo l’impostazione di 132 e 134, le terzine propongono una più ampia contrapposizione tra una possibile svolta penitenziale e la morte per amore, che in definitiva si rivela ancora una volta inevitabile: Un amico penser le mostra il vado, non d’acqua che per gli occhi si resolva, da gir tosto ove spera esser contenta; poi, quasi maggior forza indi la svolva, conven ch’altra via segua, et mal suo grado a la sua lunga, et mia, morte consenta (vv 9-14). L’effetto retorico dei contrasti, dunque, si inserisce con naturalezza ed efficacia nel quadro della più profonda lacerazione e contraddizione petrarchesca, quella tra amore e fede. Le interrogative che aprono 132 si ritrovano invece in 220572 e 299. I due sonetti, collocati rispettivamente poco prima e subito dopo la morte di Laura, creano un’interessante simmetria proprio in relazione al personaggio femminile. 220 è un componimento di elogio, in cui l’enumerazione delle qualità (soprattutto fisiche) dell’amata è rinnovata dall’artificio retorico, che mette a frutto la tradizione del devinalh, anche se in modo molto blando. I quesiti infatti sono riferiti all’origine delle doti femminili e benché non ci sia una soluzione conclusiva, di fatto le domande stesse comprendono la propria risposta, nel riferimento all’atto creatore di Amore, degli angeli e del sole. Ancora una volta l’elaborazione stilistica serve ad evidenziare un concetto importante della raccolta, per quanto non innovativo, determinando dunque un’efficace collaborazione tra forma e senso. Il medesimo principio si riscontra, potenziato, in 299, che di nuovo elenca ciò che di desiderabile era nell’amata, esprimendo però la nostalgia e il rimpianto della perdita. Anche in questo caso non è rilevante la mancanza di una risposta finale, sostituita dall’esclamativa che ripete in sintesi la disperazione del poeta, poiché l’implicita ma ovvia soluzione è che Laura è morta, il suo corpo è sotto terra, il suo spirito in cielo. A potenziare la struttura è l’utilizzo del modulo biblico e classico dell’ubi sunt573: in coerenza con l’evoluzione della vicenda, il poeta non si chiede più da dove vengano le bellezze, ma dove siano finite. L’idea dell’interrogativo che resta insoluto sino all’ultimo verso torna per certi aspetti in 224, benché anche qui le immagini che via via si accumulano siano in realtà del tutto topiche e non lascino dunque alcun dubbio sul riproporsi della consueta centralità dello stato amoroso infelice. Il discorso procede soprattutto per addizione, ma non manca qualche spunto contrastivo (il più notevole al v 12, “s’arder da lunge et agghiacciar da presso”); a livello sintattico, il sonetto è impostato su un unico periodo e su una serie di 572 220 riecheggia anche nei due sonetti che seguono. Infatti, 221 si apre con un’ampia interrogativa retorica sulle forze che lo costringono ad amare, mentre le domande di 222 sono inserite nel dialogo tra poeta e compagne di Laura. Nella prima quartina e nella prima terzina, l’io chiede alle giovani dove si trovi l’amata: per tale motivo, il sonetto si inserisce in una precisa tradizione di cui si trovano esempi anche in Cino da Pistoia e Dante (Santagata 1996, p. 939). 573 Tale uso convenzionale è già stato anticipato nel corso del presente capitolo. 199 ipotetiche coordinate, introdotte anaforicamente da “se”. In conclusione, un chiarimento nella principale: “vostro, donna, ‘l peccato, et mio fia ‘l danno” (v 14), che ricorda da vicino il finale di 134. La prima composizione enigmistica nel Canzoniere si trova però già al numero cinque, sonetto inserito nella serie dei testi introduttivi che, dopo il proemio in senso stretto, precisano i riferimenti entro cui si sviluppa la vicenda amorosa574. 5 è dedicato in particolare al nome dell’amata, che, lo si è visto, è destinato a diventare costante oggetto di attenzione ed elaborazione nel Canzoniere575; tuttavia il poeta, memore della lezione trobadorica e cortese, non lo presenta in modo esplicito, ma attraverso un acrostico doppio, la cui interpretazione è resa particolarmente difficile dall’assenza di segni diacritici in corrispondenza delle lettere da utilizzare. Quando io movo i sospiri a chiamar voi, e ‘l nome che nel cor mi scrisse Amore, LAUdando s’incomincia udir di fore il suon de’ primi dolci accenti suoi. Vostro stato Real, che ‘ncontro poi, raddoppia a l’alta impresa il mio valore; ma: TAci, grida il fin, che farle honore è d’altri homeri soma che da’ tuoi. Così LAUdare et REverire insegna la voce stessa, pur ch’altri vi chiami, o d’ogni reverenza et d’onor degna: se non che forse Apollo si disdegna ch’a parlar de’ suoi sempre verdi rami lingua mortal presumptuosa vegna576. L’efficacia del sonetto risiede in primo luogo nella corrispondenza tra gioco formale e tema principale, appunto il nome, in cui è contenuta la lode dell’amata. D’altronde, 5 si inserisce nella raccolta senza alcuno scarto anche su un piano più generale, rispetto cioè all’insieme degli elogi e all’insistenza su elementi topici, che qui compaiono per la prima volta, ma che avranno ampio corso nella raccolta577. Nel complesso, i testi qui citati offrono uno squarcio sul Petrarca più arcaico dal punto di vista retorico, per certi aspetti più “gotico”, o comunque più attento al gioco delle 574 Per tali aspetti strutturali e per le consuetudini retoriche su cui si basa, si veda l’introduzione di Santagata 1996 al sonetto 2, pp. 13-14. 575 Se n’è trattato in merito all’immagine dell’aura nel primo capitolo e si tornerà sul problema dell’invocazione e dell’uso del senhal nel capitolo successivo. 576 Si segue qui la versione in Santagata 1996, p. 26 anche per ciò che concerne le lettere implicate nello scioglimento del nome. Santagata 1996, pp. 26-27 presenta con chiarezza tutti i problemi interpretativi connessi al gioco nominale. 577 A conclusione di questa serie di testi molto elaborati dal punto di vista della forma si potrebbe aggiungere il sonetto 312, già citato come esempio di plazer rovesciato, per l’elenco delle negazioni che lasciano in dubbio il lettore sulla natura dello stato luttuoso del poeta sino al v 11. La collocazione di tale componimento è significativa poiché prossima alla chiusura, anche se non quanto 5 lo era all’apertura. 200 forme578. Tuttavia lo stile non è mai disgiunto dalla sostanza del messaggio, ed anzi appare strettamente funzionale all’espressione di concetti portanti nell’insieme del Canzoniere, rivelando con ciò anche l’utilità del riuso del genere trobadorico. Si possono notare alcune tendenze marcate, come la preferenza di tali strutture nei componimenti di lode o di disperazione, dove sia la progressione elencatoria, sia una tendenza all’accentuazione iperbolica trovano ampio spazio. Si tratta per lo più di testi “in vita” di Laura, senza che però il poeta rinunci a creare una certa simmetria con la seconda sezione. Infine, sono tutti sonetti: per quanto curato e prezioso, l’andamento del discorso appare spesso un po’ ripetitivo e il concetto di fondo molto specifico e ristretto. La misura breve era dunque la più adatta a mettere in risalto l’efficacia dell’esperimento, senza renderlo stanco, salvaguardando così la solennità tipica della canzone ed inoltre fornendo una sorta di variatio al metro più frequente nella raccolta. 13. Canzoni a quadri Una tipologia stilistica ben riconoscibile nel Canzoniere è quella delle canzoni a quadri. Con tale definizione, che coinvolge in particolare 22, 23, 50, 135 e 323, si intende sottolineare la natura per certi aspetti autonoma di ciascuna stanza, imperniata intorno ad un’immagine o ad una situazione specifica, benché il nucleo tematico di fondo sia unitario. 22 e 50 condividono la medesima idea di fondo: il poeta si contrappone a tutti gli altri esseri viventi, poiché oltre a soffrire durante il giorno, non ha riposo nemmeno di notte. Nel caso della sestina la contrapposizione è piuttosto sintetica e le sono dedicate soltanto le prime tre stanze: condizione regolare degli “animali” (I), tormento costante del poeta (II e III). La struttura a quadri si sviluppa con pienezza solo in 50, dove viene esaltata dalla sua reiterazione in tutte e cinque le stanze, dalla varietà dei bozzetti realistici creati dal poeta, che contrappone il proprio stato a quello di paesani e lavoratori579, dalla costruzione di ciascuna strofa. Infatti, l’opposizione io/altri viene riaffermata in tutte le unità metriche, in cui all’iniziale descrizione della normale routine umana segue per tramite dell’avversativo “ma” lo stato dell’io. A questo secondo elemento viene dedicato sempre più spazio: dai tre versi su 14 dell’incipit ai 12 della fine. Il tema di fondo, la sofferenza dell’io, è ovviamente convenzionale e consueto, soprattutto per il Canzoniere; tuttavia, le immagini realistiche e lo stile della descrizione naturalistica che fa da sfondo appaiono modernissimi nel recupero dei modelli classici, a partire dall’incipit virgiliano580. In 23 la successione delle stanze delinea una progressione narrativa: il poeta tratteggia la vicenda del proprio amore, sin dall’iniziale ribellione al giogo del dio, attraverso una 578 Come ha sottolineato Carrai 1995, tale scelta stilistica determina talvolta gravi problemi di datazione, poiché l’aspetto del testo suggerirebbe una collocazione alta, che non necessariamente corrisponde all’effettiva storia del componimento, alterato dal labor limae dell’autore e dalla sua collocazione nella raccolta. 579 La vecchietta, lo zappatore, il pastore, i marinai, i buoi. 580 Per i rimandi intertestuali si veda il commento in Santagata 1996, pp. 257-263. 201 serie di trasformazioni fisiche che ne alterano l’aspetto, rappresentando così gli effetti stravolgenti dell’esperienza sentimentale. Ogni strofa presenta un momento diverso nella storia dell’io e quindi una nuova trasmutazione581: perciò, pur nell’unità logica dell’intero componimento, ogni sua porzione ha anche uno statuto autonomo. Anche la canzone 135 è focalizzata sulla condizione tormentosa dell’io poetico, come i tre testi precedenti. Le sei stanze propongono sei diverse similitudini582 per comunicare il dolore amoroso; sono tutte immagini fantastiche583, già presenti nella tradizione romanza (in particolare le prime tre), ma pensate soprattutto in relazione alle fonti classiche584. Dall’io lirico all’amata si sposta infine 323585, che però pertiene ancora all’orizzonte della sofferenza, in quanto non solo si colloca nella sezione “in morte”, ma propone una serie di raffigurazioni allegoriche della dipartita di Laura586. È dunque lei, in questo caso, ad essere trasfigurata. Si è accennato a come lo sviluppo dei singoli spunti risenta spesso dell’esempio classico. Tuttavia è opportuno ricordare anche l’effetto modellizzante della tradizione romanza, sia per alcune delle immagini recuperate da Petrarca, sia a monte della struttura a quadri in genere. A questo proposito è possibile infatti riconoscere alcuni significativi antecedenti occitanici, in cui è stata elaborata l’idea di presentare diverse similitudini, più o meno articolate e tutte riconducibili al medesimo concetto di fondo, allo scopo di approfondire la condizione dell’io. In due componimenti il principio è stato portato alla sua massima evoluzione: Atressi com l’orifanz di Rigaut de Berbezilh587 e Qan lo freitz e l glatz e la neus di Giraut de Bornelh588. Il riuso petrarchesco si dimostra al contempo efficace, per l’occasione che la struttura offre di approfondire ulteriormente la figura e la storia dell’io, e innovativo, a partire dalla mescolanza di suggestioni diverse. 581 Si parte dalla seconda stanza, poiché la prima ha funzione proemiale: alloro, cigno, pietra, di nuovo uomo, ma privato della parola (e dell’autonomia), fonte, uomo per una breve parentesi e poi pura voce (eco), infine cervo. 582 L’idea della similitudine a paragone dello stato amoroso è in realtà piuttosto diffusa nel Canzoniere, al di là della struttura a quadri. Si vedano ad esempio 19, dove si parla degli animali notturni; 26, dove si assommano la nave che rischia il naufragio e il condannato che evita la morte; 33, con la vecchina che poi si ritrova in 50; 44, che presenta Cesare e Davide; 48, dove varie immagini sono distribuite nella prima quartina e nella prima terzina; 51, in cui spicca la figura di Dafne, affiancata però da altre immagini peculiari; 102, per i riferimenti a Cesare e Annibale; 311 e 353, dove ricorre anche se in modo differente l’idea dell’uccellino. Per l’elaborazione delle similitudini nella raccolta in generale si veda Berra 1992. 583 Fenice, calamita, catoblepa, fonte fredda di giorno e calda di notte, fonte che accende il fuoco spento e spegne quello acceso, fonte che uccide ridendo (ed infine, nel congedo,Valchiusa). 584 Per tale duplice aspetto si vedano Berra 1992, pp. 51-52, e il commento in Santagata 1996, p. 662. 585 Per l’analisi della canzone e i rapporti peculiari tra io e amata nell’arco del componimento, si veda Frare 1991. 586 Fiera, nave, lauro, fonte, fenice, donna. È interessante notare la parziale sovrapposizione delle immagini qui riferite a Laura e di quelle ricondotte al poeta in 135. 587 Il trovatore, d’altro canto, apprezza l’uso della similitudine in riferimento all’ambito animale in molti dei suoi componimenti, come ad esempio Atressi con lo leos e Atressi con Persavaus. Tali usi convenzionali saranno approfonditi, sulla base di esempi concreti, nel corso del capitolo successivo. 588 Per il rapporto particolarmente stretto tra i due componimenti e il fragmentum 135 si veda Berra 1992, pp. 51-52, in cui si trovano indicazioni anche sulle altre fonti petrarchesche, soprattutto italiane. 202 CAPITOLO TERZO Topoi trobadorici nei “Rerum vulgarium fragmenta” Per lo studio del rapporto tra Petrarca e i trovatori, l’osservazione delle strutture di genere e dei metri lunghi, pilastri del Canzoniere, si è dimostrata proficua. L’analisi testuale deve ora continuare in riferimento a passi più localizzati. L’obiettivo rimane evidenziare l’importanza del riuso trobadorico petrarchesco e al contempo l’autonomia del poeta aretino nel trasformare ed adattare la tradizione alla propria opera. A tale scopo, non si intende prestare attenzione a coincidenze o citazioni evidenti, ma isolate: esse sono senza dubbio importanti nel confermare l’interesse del poeta per i modelli transalpini, però non consentono di identificare e approfondire l’atteggiamento del poeta rispetto alla rifunzionalizzazione dei modelli. Al contrario, appaiono promettenti i topoi e gli usi ricorsivi1. Sono abbastanza numerosi e coerenti tra loro, cosicché si delinea un sistema coerente di immagini; d’altro canto risultano adatti alla rielaborazione personale e tanto variegati sul piano semantico da essere applicati a contesti espressivi diversi. Tali caratteristiche sono dunque ideali per tracciare il confronto tra esperienze poetiche diverse, nell’ottica del recupero e insieme della trasfigurazione. Poiché si tratta di elementi convenzionali, diffusi cioè ben al di là della sola produzione trobadorica, è necessario chiedersi se e fino a che punto l’incontro di Petrarca con i trovatori sia stato diretto, e quanto invece abbia pesato la mediazione dei poeti italiani che più avevano preso spunto dalla lezione occitanica, in particolare i Siciliani. È un dato accertato che la Scuola siciliana nasca dal recupero dell’esempio provenzale: nel corpus siciliano si ritrovano inevitabilmente concetti cortesi topici, che incontreremo anche parlando di Petrarca, come il servizio, la sottomissione, la bellezza impareggiabile, la volontà eterodiretta dell’amante, le sue sofferenze, le speranze, le preghiere e così via2. Un’impressione di comunanza tra l’Aretino e la Scuola siciliana è dunque ovvia; tuttavia vanno tenuti in conto alcuni fattori rilevanti che suggeriscono una preminenza dei trovatori rispetto ai Siciliani nell’interesse petrarchesco e dunque un suo studio diretto dei modelli transalpini, senza alcuna mediazione. La presenza occitanica nel Canzoniere è evidente e così l’ha voluta l’autore3; tra le immagini convenzionali di ispirazione provenzale ci sono anche numerosi spunti che risultano assenti o molto poco significativi nelle opere siciliane (almeno quelle che conosciamo4); rispetto alla tradizione italiana, Petrarca sembra aver prestato attenzione soprattutto allo 1 Le fonti di riferimento più autorevoli per gli usi topici nella poesia romanza medievale restano Curtius 1995, Menichetti 1965 e Vuolo 1962. 2 Per il confronto tra Siciliani e Provenzali, mi permetto di rimandare al mio contributo in Ravera 2013, soprattutto per la bibliografia che vi è raccolta. 3 Su tale aspetto si è insistito in particolare nell’introduzione e nel primo capitolo. 4 Si intende mettere in evidenza tale aspetto, quando significativo, di volta in volta nel corso dell’analisi testuale. 203 Stil Novo e a Dante (stilnovista, petroso e comico)5, trascurando i suoi antecedenti6; infine il poeta aretino aveva a disposizione, sia in Provenza che in Italia, strumenti efficaci per accostarsi direttamente alla tradizione provenzale, non più attuale, ma ancora molto autorevole. Infine, è vero che nel Triumphus Amoris il corteo di poeti non è precluso ai prestilnovisti7, tuttavia nella breve quanto programmatica serie di auctoritates nella canzone 70 Petrarca passa dallo pseudo-Arnaut allo Stil Novo e alle petrose, senza soffermarsi sulla lirica italiana precedente. La rappresentazione della vicenda amorosa nella poesia trobadorica è molto più vivace, variegata, complessa rispetto a quella siciliana, per sentimenti, sfumature e situazioni. Il caso delle strutture di genere, su cui ci siamo a lungo soffermati8, è davvero esemplare, sia per la ricchezza del corpus occitanico, sia per la maggiore uniformità di quello siciliano, in cui le uniche varianti rispetto alla canzone d’amore sono in sostanza quella di lontananza e quella di donna9. Gli antecedenti trobadorici dovevano pertanto apparire molto più interessanti per Petrarca, anche come serbatoio di immagini da riutilizzare (e trasformare), in vista della stratificata composizione del Canzoniere. L’autorevolezza della tradizione d’oltralpe, infine, contribuisce in modo significativo all’autoaffermazione e autolegittimazione poetica che l’autore costruisce attraverso il Canzoniere10. Guardando ai Provenzali, infatti, Petrarca risale all’origine della lirica volgare e si confronta con essa, in una prospettiva che non poteva reggere appieno nel caso dei Siciliani11. I passi da considerare sono molto numerosi. In primo luogo, si intende selezionare le immagini più caratteristiche e significative, sia rispetto al rapporto Petrarca-trovatori, sia in seno alla vicenda dell’io poetico, mettendo da parte i concetti più generali, diffusi e impersonali. Inoltre, sarà indispensabile procedere secondo una schematizzazione per certi aspetti artificiale: i singoli spunti risulteranno perciò avulsi dal contesto di partenza, in cui ciascuna immagine si trova per lo più affiancata o sovrapposta ad elementi anche molto diversi. Saranno affrontate sei aree semantiche principali: la natura disforica e alienante dell’amore, con i suoi effetti devianti rispetto al comportamento naturale e salutare; la rappresentazione dell’amata, strettamente connessa alla condizione dell’io e al suo sviluppo; alcuni aspetti positivi della vicenda amorosa; la mescolanza del sacro e del profano; le indicazioni spazio-temporali che 5 Su tale aspetto ci siamo già soffermati nel corso dei precedenti capitoli, cui si rimanda anche per le indicazioni bibliografiche. 6 Per la presenza di elementi guittoniani nel Canzoniere, comunque tutt’altro che assenti, si vedano Pierantozzi 1948 e Santagata 1985. 7 Per la proporzione nelle diverse presenze e nelle rispettive descrizioni si veda Caputo 1987, pp. 129 segg. 8 Si veda il capitolo precedente. 9 Per altro impensabile nel contesto del Canzoniere, in cui domina l’interiorità di un solo io poetico: lo si è già evidenziato nel corso del precedente capitolo. 10 Su tale aspetto ci si soffermerà nel capitolo successivo. 11 Anche il fondamentale riferimento a Dante e allo Stil Novo corrisponde alla medesima logica: si trattava di antecedenti illustri, nonché molto recenti, il confronto con i quali non poteva essere evitato: esso andava dunque finalizzato all’affermazione della propria innovativa proposta poetica. 204 danno corpo all’espressione lirica; alcuni fattori metapoetici coinvolti nella rappresentazione dell’io. Saranno dunque proposte, in riferimento a ciascun tema, le occorrenze petrarchesche e a seguire quelle trobadoriche più significative, senza ambizione di esaustività. 1. Un amore disforico ed alienante La vicenda amorosa che si delinea nel Canzoniere è in prevalenza tragica e sofferente, dapprima a causa del desiderio insoddisfatto, della durezza di Laura, delle speranze frustrate, del pentimento, poi in relazione alla morte dell’amata. Le tematiche affrontate nella prima sezione – e rievocate a titolo memoriale nella seconda – trovano puntuale riscontro in numerosi componimenti occitanici, benché i trovatori abbiano lasciato più spazio all’espressione di momenti gioiosi rispetto a quanto si legge nei fragmenta. Dopo la dipartita di Laura, il dolore assume una sfumatura ovviamente diversa, ma poiché si tratta in ogni caso di un amore senza prospettive, Petrarca riutilizza in parte i medesimi spunti, in chiave rinnovata. Gli aspetti negativi dell’amore possono essere ricondotti a due prospettive fondamentali: da una parte, le sofferenze, che hanno il valore di definire l’intonazione generale del discorso, e a cui possiamo associare le speranze disattese; dall’altra, la natura totalizzante e deviante dell’amore. In un percorso problematico come quello delineato nel Canzoniere, tra ansie, rimpianti, tentativi di cambiamento e frustrazioni, l’elemento disforico e snaturante del sentimento ha un’importanza capitale e il contributo dell’esempio trobadorico sembra essenziale proprio in tale direzione. L’io poetico ammette, spesso con un atteggiamento di piena e addirittura pacifica accettazione, di aver maturato priorità del tutto disfunzionali, di essere alienato da se stesso, dalle proprie necessità e dalle regole del consorzio civile. L’amore impedisce qualunque equilibrio salutare. 1.1 L’espressione topica della sofferenza La rappresentazione del dolore presenta già alle origini della tradizione italiana una forte connotazione topica, cui certamente ha contribuito l’esempio trobadorico, passando poi per le trasformazioni anche linguistiche imposte dalla produzione siciliana e toscana. Per le immagini che suggeriscono la sofferenza, dunque (ma come vedremo anche per gli elementi di base nel ritratto della figura femminile o per l’espressione della gioia e della speranza), l’aspetto convenzionale è fortissimo, al punto che sarebbe arduo suggerire contatti testuali precisi. Si delinea piuttosto un linguaggio di partenza comune e condiviso, che identifica in fondo il genere stesso della lirica, considerata anche l’importanza concettuale nella resa dell’amore e l’abbondanza quantitativa di tali spunti. Benché tutte queste immagini abbiano un’unica origine nella connotazione negativa dell’amore, le realizzazioni sono assai diversificate. Oltre al “dolore”, alla “pena”, alla “sofferenza”, ai “martiri”, al “tormento”, allo “sbigottimento”, agli “affanni” e allo 205 “strazio”, sia Petrarca sia i suoi predecessori hanno cercato modalità più efficaci per rendere la loro insoddisfazione. Lo strumento più adeguato è senza dubbio la metafora, che permette di rendere in termini fisici, e dunque più immediati e percepibili, la condizione interiore, per sua natura astratta e poco afferrabile. Si alternano e mescolano perciò il timore o la certezza di morire12, il senso di un peso insopportabile13, la lacerazione di una ferita che non guarisce14, l’accusa alle armi15 della dama e di Amore, descritto tipicamente come arciere16, la denuncia di un aiuto che non giunge mai o di una difesa del tutto assente17, la sensazione di essere sconfitti, di consumarsi e venir meno18, di essere costretti, sforzati19, imprigionati20 e legati21. All’io poetico non resta 12 Il tema della morte è molto sentito nel Canzoniere, non solo in riferimento agli avvenimenti luttuosi che vi sono registrati, a partire dalla dipartita di Laura. Tale motivo mescola urgenze e problemi diversi: non solo la convenzionale disperazione dell’amante, pur ampiamente testimoniata, ma anche il senso, per certi aspetti cristiano e per altri umanistico, della brevità della vita, della fuggevolezza del tempo, della vanità del mondo. 13 Il concetto è presente anche in ambito trobadorico, benché tali occorrenze siano molto generiche e poco sviluppate: più che altro si riconosce l’uso del termine “greu” ed affini, non a caso di solito tradotto semplicemente con “dolore”. 14 Questo tipo di immagine è piuttosto frequente e riconoscibile nei componimenti trobadorici, ma viene trattato in forme molto semplici e poco approfondite. Petrarca arricchisce le possibilità comunicative del topos, variando il lessico (ad esempio, ricordiamo la forma “pungere”, già siciliana, ma qui potenziata) o insistendo sull’idea del colpo, spesso attribuito agli occhi dell’amata, ma secondo una fenomenologia abbastanza varia. 15 Sia nei trovatori sia nel Canzoniere si fa riferimento alle armi di cui dispone l’io poetico, ma mentre per i primi, in quanto cavalieri, c’è spesso uno spazio di speranza o anche di riscatto, per Petrarca l’unica possibilità sono armi di difesa o le “armi della poesia”. È comunque molto più frequente che egli si dichiari disarmato. 16 Tale rappresentazione topica si nota soprattutto nei Provenzali e poi con interessante estensione proprio nel Canzoniere, mentre ne avevano fatto scarso uso i poeti siciliani. 17 I luoghi più interessanti in proposito, anche perché accomunano in modo significativo trovatori e Petrarca, sono quelli in cui l’io poetico si definisce privo di alcun mezzo per difendersi e dunque impossibilitato ad ottenere qualsivoglia risultato. La formula più riconoscibile è quella del “non mi val” e simili. 18 In diverse occasioni (ad esempio nei ff. 94, 198, 246, 256) Petrarca fa anche riferimento alla concezione fisiologica tipica di Cavalcanti e dello Stil Novo, rappresentando i propri spiriti atterriti o in fuga. 19 In questi casi, nella visione petrarchesca, la responsabilità è attribuita per lo più ad Amore, soprattutto laddove si introduca l’idea della forza, a differenza di quanto affermano i Provenzali, che accusano molto spesso madonna, ma in affinità con la concezione siciliana, che esclude forme troppo energiche di biasimo all’amata. Tuttavia Petrarca bilancia tale propensione rappresentando comunque in modo esplicito le colpe e la crudeltà dell’amata in contesti diversi: ella ad esempio non usa la forza o la violenza “fisiche”, perché le basta il movimento di un sopracciglio (sonn. 289 e 299). 20 Comprendiamo in tale area semantica le immagini concernenti catene, reti, nodi, trappole ed anche usi lessicali più semplici e immediati, come per i predicati “tenere” e “legare”. In tutti questi casi gli antecedenti trobadorici appaiono significativi; mancano invece corrispondenze per un’altra immagine espressiva ed affine, quella del giogo, piuttosto diffusa al contrario nella raccolta petrarchesca. 21 A tali immagini di costrizione si legano ulteriori sviluppi metaforici, presenti in parte già nella produzione occitanica, ma in altri casi tipici piuttosto del Canzoniere: qui ad esempio viene dato straordinario impulso alle metafore venatorie o all’idea dell’esca, che si riconnette sia alla dimensione della caccia e della pesca, che nei trovatori sono recuperate piuttosto come elementi contestuali e realistici della vita del poeta, sia a quella del fuoco, con il significato di miccia (si tornerà su questi aspetti in seguito). Al campo semantico della prigionia si associa inoltre il topos del corpo come nodo, legame o carcere, che comporta significativi risvolti spirituali e morali cristiani, importanti soprattutto nel contesto poetico petrarchesco. 206 che abbandonarsi a pianti, sospiri e lamenti22, nella consapevolezza che la libertà è perduta e la fuga impossibile. Due fattori sono essenziali nel protrarsi della situazione del poeta: il desiderio e la speranza. Entrambi i concetti sono riproposti in numerosissimi brani, sia nei fragmenta che nelle cansos occitaniche: il che appare ovvio, visto che l’atteggiamento del poeta e la sua incapacità di rinunciare a ciò che lo tormenta derivano proprio dal rinnovarsi delle attrattive e delle illusioni, che appaiono di volta in volta legate all’ambiguo comportamento dell’amata (soprattutto in ambito provenzale) o alla cecità passionale dell’innamorato. La matrice topica di tali immagini è percepibile con chiarezza anche all’interno del Canzoniere23: ad essa contribuisce per altro il numero elevatissimo di occorrenze. Tuttavia Petrarca attua diverse strategie di personalizzazione, da una parte legate alla specifica costruzione e al dettato di ciascun passo, cui contribuisce anche la sovrapposizione e l’accostamento di fonti diverse (con particolare riferimento a quelle classiche), dall’altra in relazione alla peculiare configurazione complessiva della raccolta. Una rilevante variazione nell’accezione delle immagini convenzionali deriva infatti, lo si è anticipato, dallo spostamento dall’amore in vita o in morte di Laura, nonché dalla riflessione morale e penitenziale sulla condizione dell’io e del suo amore terreno. La capacità petrarchesca di variazione ed arricchimento della tradizione appare con grande evidenza in merito all’espressione di desiderio e speranza. Mentre nei componimenti trobadorici i due concetti ricorrono per lo più in modo generico, quasi come un dato di fatto, nel Canzoniere le sfumature con cui essi sono presentati sono molteplici, anche solo per la varietà lessicale degli attributi che sono loro riferiti. Per quanto concerne invece l’idea della conquista, frequentissima in ambito trobadorico, benché di solito presentata in modo sintetico attraverso i predicati “prendere” e “conquistare”, nel Canzoniere è piuttosto rara e poco sviluppata, mentre trova ancora ampio spazio nelle opere siciliane. 22 Altre manifestazioni esteriori del dolore interiore, poco o affatto presenti nel corpus trobadorico, sono il pallore e il tremore, mentre in Provenza è più apprezzata l’immagine dell’inappetenza. 23 Nella ricca messe dei passi petrarcheschi relativi alla sofferenza amorosa vanno incluse anche immagini che non hanno riscontro diretto o preciso negli antecedenti trobadorici, legate piuttosto alla tradizione italiana. Si ricordi in primo luogo l’ardore amoroso, che, nei suoi aspetti metaforici o anche nelle altre possibili forme retoriche (similitudine e paragone innanzitutto) non sembra aver colpito l’immaginario occitanico, mentre trova amplissimo riscontro nelle opere dei Siciliani, da dove derivano gli spunti della cera che si scioglie o della salamandra che vive nel fuoco. Un’eccezione fondamentale alle consuetudini trobadoriche si riscontra però in Arnaut Daniel, coincidenza che difficilmente potrà sembrare casuale, data l’importanza storica del poeta, soprattutto rispetto all’immaginario dantesco e petrarchesco. Altri elementi tipicamente petrarcheschi riguardano il senso di fatica o di stanchezza, il veleno che scorre nel corpo del poeta giustificandone il tormento, l’impietrire o l’agghiacciare, derivati soprattutto dall’esempio stilnovistico e dantesco, mentre sono in sostanza assenti nella tradizione trobadorica. È vero però che all’idea del ghiaccio, come già in quella del fuoco, contribuiscono le tradizionali rappresentazioni climatiche e stagionali, che già nel corpus occitanico erano associate o contrapposte alla condizione dell’amante. Tali elementi vengono recepiti con efficacia da Petrarca, anche in quanto aspetti della disforia e dello snaturamento in amore, poiché la reazione dell’amante al tempo si contrappone a quella normale e comune. In seguito si tornerà sulla questione con maggior ampiezza. 207 1.1.1 La metafora della guerra Benché sia in alcune occasioni recuperata anche dai poeti siciliani, l’immagine della guerra, come metafora dello stato disforico dell’amante, trova la sua origine e il suo più ampio sviluppo in ambito trobadorico, anche per la corrispondenza tra motivo amoroso e rappresentazione realistica nella lirica civile. Petrarca mutua l’energico concetto della battaglia in amore, per quanto le occorrenze non siano numerosissime24 (1); ad essa associa l’uso della famiglia lessicale dell’assalto25, a sua volta ben testimoniata nel corpus trobadorico, che invece era assente in quello federiciano26 (2). Petrarca 1. […] veggendo quella spada scinta / che fece al segnor mio sì lunga guerra27 (son. 26, vv 7-8) Ma perch’io temo che sarrebbe un varco / di pianto in pianto, et d’una in altra guerra (son 36, vv 5-6) Poi mi rivolgo a la mia usata guerra (canz. 72, v 22) Io son de l’aspectar omai sì vinto, / et de la lunga guerra de’ sospiri (son. 96, vv 1-2) O riposto mio bene, et quel che segue, / or pace or guerra or triegue (canz. 105, vv 73-74) Ristretto in guisa d’uom ch’aspetta guerra (son. 110, v 2) Di ch’era nel principio de mia guerra / Amor armato […] (canz. 33-34) Pace non trovo, et non ò da far guerra (son. 134, v 1) Né però trovo anchor guerra finita (bal. 149, v 13) Avrem mai tregua? Od avrem guerra eterna? (son. 150, v 2) Guerra è ‘l mio stato, d’ira et di duol piena (son. 164, v 7) Sì lunga guerra i begli occhi mi fanno (son. 197, v 2) Di que’ belli occhi ond’io ò guerra et pace (son. 220, v 13) In tal paura e ‘n sì perpetua guerra / vivo ch’i’ non son più quel che già fui (son. 252, vv 12-13) Quando novellamente io venni in terra / a soffrir l’aspra guerra (canz. 264, vv 110-111) Non di lei, ch’è salita / a tanta pace, et m’à lassato in guerra (canz. 268, vv 60-61) Et le cose presenti et le passate / mi dànno guerra, et le future anchora (son. 272, vv 3-4) 24 Segnaliamo in questa sede le occorrenze di guerra e derivati; in qualche caso anche nel Canzoniere (“Ché ‘l die m’infiamma et pugne”, canz. 73, v 10; “L’aspectata vertù che ‘n voi fioriva / quando Amor cominciò darvi bataglia”, son. 104, vv 1-2; “Sempre conven che combattendo viva”, son. 124, v 8) si attestano immagini di battaglia dalla resa più varia e meno specifica a livello lessicale, consuete in ambito trobadorico. 25 All’immagine dell’assalto può essere associata quella dell’assedio, ben documentata, anche in chiave metaforica, nei versi trobadorici; in Petrarca ne resta una sola occorrenza, per altro implicita, nella prima quartina del sonetto 274: “Datemi pace, o duri miei pensieri: / non basta ben ch’Amor, Fortuna et Morte / mi fanno guerra intorno e ‘n su le porte, / senza trovarmi dentro altri guerreri?”. 26 Non riportiamo in questo caso l’uso già dantesco dell’“assalto dei dubbi”, a sua volta convenzionale, ma legato ad una diversa metafora. 27 L’amante che per lungo tempo si è sottratto alla signoria d’Amore per poi esserne conquistato non è in questo caso l’io poetico, ma il meccanismo complessivo resta quello convenzionale che si sta descrivendo. 208 Non basta ben ch’Amor, Fortuna et Morte / mi fanno guerra intorno e ‘n su le porte, / senza trovarmi dentro altri guerreri? (son. 274, vv 2-4) Dunque perché mi date questa guerra (son. 275, v 9) Et breve guerra per eterna pace (son. 290, v 4) Et mi contendi l’aria del bel volto, / dove pace trovai d’ogni mia guerra! (son. 300, vv 34) I’ so’ colei che ti die’ tanta guerra (son. 302, v 7) Tempo era omai da trovar pace o triegua / di tanta guerra […] (son. 316, vv 1-2) Dunque per amendar la lunga guerra / per cui dal mondo a te sola mi volsi (son. 347, vv 12-13) E’ mi tolse di pace et pose in guerra (canz. 360, v 30) […] s’io vissi in guerra et in tempesta (son. 365, v 9) Soccorri a la mia guerra (canz. 366, v 12). 2. Però, turbata nel primiero assalto, / non ebbe tanto né vigor né spazio / che potesse al bisogno prender l’arme (son. 2, vv 9-11) Ma la penna et la mano et l’intellecto / rimaser vinti nel primier assalto (son. 20, vv 1314) I’ dico che dal dì che ‘l primo assalto / mi diede Amor, molt’anni eran passati (canz. 23, vv 21-22) Io temo sì de’ begli occhi l’assalto / ne’ quali Amore et la mia morte alberga (son. 39, vv 1-2) Ma chi pensò veder mai tutti insieme / per assalirmi il core, or quindi or quinci, / questi dolci nemici, ch’i’ tant’amo? (son. 85, vv 9-11) Lasso, quante fiate Amor m’assale (son. 109, v 1) Dolci rime leggiadre / che nel primiero assalto / d’Amor usai, quand’io non ebbi altr’arme (canz. 125, vv 27-29) Questo un soccorso trovo tra gli assalti / d’Amore, ove conven ch’armato viva / la vita che trapassa a sì gran salti (son. 148, vv 9-11) Più volte già dal bel sembiante humano / ò preso ardir co le mie fide scorte / d’assalir con parole honeste28 accorte / la mia nemica in atto humile et piano29 (son. 170, vv 1-4) Et quinci et quindi il cor punge et assale (son. 241, v 8) Or tristi auguri, et sogni et penser’ negri / mi dànno assalto, et piaccia a Dio che ‘nvano (son. 249, vv 12-14) I’ vo pensando, et nel penser m’assale / una pietà sì forte di me stesso (canz. 264, vv 1-2) Amor m’assale, ond’io mi discoloro (son. 291, v 3) Vidi fra mille donne una già tale, / ch’amorosa paura il cor m’assalse (son. 335, vv 1-2). 28 L’idea che l’amante possa assalire l’oggetto del suo amore, benché con strumenti del tutto incorporei e metaforici, è coerente con la visione cavalleresca ed energica che i trovatori propongono di sé: si veda ad esempio Arnaut Daniel, II, vv 37-38, “Si ben m vau per tot a des daill, / mos pessamens lai vos assaill”. 29 Questa occorrenza appare piuttosto interessante: in primo luogo per la coerenza della metafora militare (assalto – nemica), secondariamente per l’atteggiamento attribuito all’io poetico. Da una parte infatti egli si trova nella posizione di agire nei confronti dell’amata, o almeno di provarci, il che ricorda, lo si è detto, l’approccio di molti trovatori; dall’altra però l’energia dell’atto viene attenuata, com’era ad esempio per i Siciliani, dall’invito che sembra venire da Laura stessa (il “sembiante” addolcito), dalla natura dell’assalto stesso (solo con parole) e la condizione costante del poeta (umiltà ed accortezza). 209 Trovatori 1. Amors, e que m farai ? / Si guerrai ja ab de te? (Bernart de Ventadorn, XXXVI, vv 28-29) Anc no m plac Amors per escut, / a cors batut, / d’un privat e d’autr’escondut (Giraut de Bornelh, XXIX, vv 96-98) Vers es qe longa sazo / ai estat en grans esmais / cargatz d’ira e d’esglais, / en gerra et en tensso (Uc de Saint Circ, XI, vv 10-13) Gerras ni plaich no m son bo / contr’amor e nuill endreig (Raimbaut de Vaqueiras, XIII, vv 1-2) Gerra m plai, si tot gerra m fan / amors e ma donna tot l’an30 (Bertran de Born, XLVII, vv 9-10) Perdre non dei lo gent servir / q’ai fait a cella qi m guerreia (Rambertino Buvalelli, IV, vv 9-10) Pero, com que m guerei / Amors, soi tals com dei (Aimeric de Belenoi, XIV, vv 19-20) Per qu’ieu non puosc sa guerra sols atendre (Arnaut de Maruelh, XV, v 3) D’uns mal essenhatz / parliers senes fe / ai gran guerr’ab me (Raimon Jordan, X, vv 5153) En amors a manhtas leys, / e de manhtas partz aduj / tortz e guerras e plaideys (Raimon de Miravall, XXVII, vv 9-11) E sa guerra es mi tan sobranseira, / que, si m fai mal, no n aus penre venjansa (Peire Vidal, XIII, vv 15-16) Cel qui s’irais ni guerreia ab Amor / jes que savis non fai al mieu semblan, / car de guerra vei tart pro e tost dan, / e guerra fai tornar mal en pejor (Aimeric de Peguilhan, XV, vv 14) Q’Amors m’auci e m guerreya / que sobre me si desreya (Gaucelm Faidit, XV, vv 35-36) Doncs poi aisso qe m guerreia / conosc que m’er a blandir (Peire Raimon de Tolosa, IV, vv 23-24) Vostra guerra nom tolia (Bartolomé Zorzi, IV, v 89) C’aissi con lo sieu mi gart / da l greu turmen que m guerreja / tant, qu’en sui pro vetz blancs gruecs (Bonifaci Calvo, II, vv 25-27). 2. Mas lai in Amors s’atura / er greu forsa defenduda, / si so coratge no muda / si c’alors meta sa cura (Bernart de Ventadorn, VIII, vv 13-16) Que l cors e tut trei / plus temen no ill movan desrei (Giraut de Bornelh, XLV, vv 59-60) C’al major briu calarai ma rancura (Folchetto da Marsiglia, VIII, v 44) E m fai amar lieys que m ten pres e m fui / et en fugens m’encaussa e m camina (Raimbaut de Vaqueiras, VI, vv 7-8) Ja non serai assaillitz / qu’en auta rocha es bastitz (Peire d’Alvernha, XIV, vv 17-18). 30 Il passo è particolarmente interessante in relazione al complesso dell’opera di Bertran de Born, noto cantore d’armi e soprattutto autore di diversi plazer dedicati proprio al gusto della battaglia. La dichiarazione al verso 9 risulta quindi ambigua rispetto a quale guerra gli piaccia, considerato che la prima strofa ha carattere militare: il primo verso introduce la guerra (reale) che subiscono i baroni malvagi. 210 1.1.2 L’esagerazione nell’espressione amorosa: iperboli Nell’espressione della sofferenza o anche del coinvolgimento nella relazione amorosa è ricorrente l’insistenza di carattere iperbolico31. La forma più caratteristica di tali esagerazioni, sia nel corpus trobadorico sia nell’opera petrarchesca, che dunque identifica un contatto particolarmente significativo tra le due esperienze poetiche, prevede la semplice affermazione di una quantità spropositata, di solito identificata dai numeri mille e cento32. Tipico è anche il concetto di infinità, che appunto potenzia l’aspetto iperbolico. Un’altra possibilità, che si trova soprattutto in Petrarca e in merito alle immagini dei sospiri e del pianto, dunque alla rappresentazione esteriore e fisica del dolore, concerne la durata, la frequenza e la generica abbondanza di quelle stesse manifestazioni. La continuità del dolore, in particolare, è spesso veicolata da sintagmi quali “notte e giorno”, “mattino e sera”, “in estate e inverno”33, “al sole e all’ombra”, che insistono sui ritmi cronologici e stagionali normali, cui si contrappone la costanza dell’amore, a prescindere dal contesto esteriore. Riportiamo innanzitutto i passi in cui l’iperbole esalta la sofferenza amorosa: Petrarca Non ò mai triegua di sospir’ col sole; / poi quand’io veggio fiammeggiar le stelle / vo lagrimando, et disiando il giorno (sest. 22, vv 10-12) Benché ‘l mio duro scempio / sia scripto altrove, sì che mille penne34 / ne son già stanche, et quasi in ogni valle / rimbombi il suon de’ miei gravi sospiri35 (canz. 23, vv 10-13) Ché perch’io non sapea dove né quando / me ‘l ritrovasse, solo lagrimando / là ‘ve tolto mi fu, dì et nocte andava (canz. 23, vv 54-56) Mi vedete straziare a mille morti (son. 44, v 12) I miei sospiri a me perché non tolti / quando che sia? Perché no ‘l grave giogo? / Perché dì et notte gli occhi miei son molli? (canz. 50, vv 60-62) Per lagrime ch’i’ spargo a mille a mille (bal. 55, v 7) 31 Per certi aspetti appartengono al medesimo gusto i paragoni di maggioranza o in forma di sopravanzamento, che si leggono piuttosto di frequente in ambito trobadorico; si legga su tale argomento Scarpati 2008, pp. 59-65. 32 La convenzionalità di tali motivi è dimostrata anche dalla loro presenza nel corpus siciliano, con quattro occorrenze di “mille” e tre di “cento”. 33 Sia l’idea della totalità del tempo, come topos specifico, che l’aspetto stagionale, già in parte affrontato nel capitolo precedente, saranno ulteriormente approfonditi nel corso del presente capitolo. 34 Un altro topos, volto a comunicare intensità, questa volta in riferimento all’amata stessa e alle sue qualità, è quello antichissimo dell’ineffabilità delle sue doti (e talvolta dei sentimenti che suscitano) o dell’insufficienza della poesia, che ci rimanda ad un altro campo semantico convenzionale molto diffuso, quello della modestia. Un esempio di iperbole in negativo, cioè proprio nel delineare un’affermazione di insufficienza poetica, si trova nella canzone 127, vv 87-89, laddove Petrarca evidenzia l’illusione di poter portare a compimento una missione letteraria tanto alta nel breve spazio di un componimento (o anche di una raccolta lirica). 35 Come si è anticipato, l’iperbole riferita all’attività poetica può essere comunque intesa all’esaltazione della profondità e della sofferenza dell’amore, come in questo caso: il sentimento spinge ad un iperbolico impegno nella composizione lirica. Ci sono anche casi in cui l’aspetto metapoetico vale semplicemente per se stesso, come nella canzone 119, v 7. 211 Che tra del mio [petto] sì dolorosi venti36 (sest. 66, v 30) Ché perch’io viva de mille un no scampa (son. 88, v 12) Il sempre sospirar nulla releva (canz. 105, v 4) E ‘nfiniti sospir’ del mio sen tolse! (canz. 105, v 56) Questo prov’io fra l’onde / d’amaro pianto […] (canz. 135, vv 20-21) Et perché ‘l mio martir non giunga a riva, / mille volte il dì moro et mille nasco, / tanto da la salute mia son lunge (son. 164, vv 12-14) Non, perché mille volte il dì m’ancida, / fia ch’io non l’ami, et ch’i’non speri in lei (son. 172, vv 12-13) Tutto ‘l dì piango; et poi la notte, quando / prendon riposo i miseri mortali, / trovomi in pianto, et raddoppiarsi37 i mali: / così spendo ‘l mio tempo lagrimando (son. 216, vv 1-4) Se sospirare et lagrimar mai sempre (son. 224, v 10) Onde e’ suol trar di lagrime tal fiume (son. 230, v 5) Sì profondo era et sì di larga vena / il pianger mio et sì lunge la riva (son. 230, vv 9-10) Ma lagrimosa pioggia et fieri venti / d’infiniti sospiri or l’ànno spinta (son. 235, vv 9-10) Non à tanti animali il mar fra l’onde, / né lassù sopra ‘l cerchio de la luna / vide mai tante stelle alcuna notte, / né tanti augelli albergan per li boschi, / né tant’erbe ebbe mai campo né piaggia, / quant’à ‘l mio cor pensier’ ciascuna sera (sest. 237, vv 1-6) Or vorria trar de li occhi nostri un lago (son. 242, v 4) O li condanni a sempiterno pianto (son. 252, v 8) Quando è ‘l dì chiaro, et quando è notte oscura, / piango ad ognor […] (son. 265, vv 6-7) Dovunque io son, dì et notte si sospira (son. 266, v 8) Che posso io più, se no aver l’alma trista, / humidi gli occhi sempre, e ‘l viso chino? (son. 269, vv 10-11) Mi dice con pietate – a che pur versi / degli occhi tristi un doloroso fiume? (son. 279, vv 10-11) I’ ò pien di sospir’ quest’aere tutto (son 288, v 1) Presso di sé non lassan [gli occhi] loco asciutto (son. 288, v 8) Quanto al misero mondo, et quanto manca / agli occhi miei che mai non fien asciutti! (son. 299, vv 13-14) Ma di menar tutta mia vita in pianto / e i giorni oscuri et le dogliose notti (sest. 332, vv 910) Or non parl’io, né penso, altro che pianto (sest. 332, v 18) Piansi et cantai: non so più mutar verso; / ma dì et notte il duol ne l’alma accolto / per la lingua et per li occhi sfogo et verso (son. 344, vv 12-14) […] Le triste onde / del pianto, di che mai tu non se’ sazio, / coll’aura de’ sospir’, per tanto spatio / passano al cielo, et turban la mia pace (canz. 359, vv 14-17) Ma io che debbo altro che pianger sempre (canz. 359, v 34) Vergine, tale è terra, et posto à in doglia / lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne / et de’ mille miei mali un non sapea (canz. 366, vv 92-94). 36 In questo caso, come in quello delle onde di pianto, è la metafora a contenere in sé l’aspetto iperbolico dell’espressione dolente. 37 In questo caso l’occorrenza è citata per il protrarsi del pianto e delle sofferenze notte e giorno; tuttavia anticipiamo che l’idea del raddoppiamento presenta un’interessante valenza convenzionale. Se ne riparlerà in modo più specifico a breve. 212 Trovatori E sol qu’ilh agues lo mile / de la dolor fer’ e mortal (Folchetto da Marsiglia, XIX, vv 4849) Per c’am mil tans / viure ab lieis trebaillatz (Sordello, XI, vv 25-26) Perdre non dei lo gent servir / q’ai fait a cella qi m guerreia / de cent sospirs, si Deus me veia (Rambertino Buvalelli, IV, vv 9-11) C’aisel que vol e non pot per un cen / trai peior mal qe cel qe pot no fai (Aimeric de Belenoi, VII, vv 17-18) Tem que serai escarnitz, / que mil vetz i sui falhitz (Peire d’Alvernha, XIV, vv 23-24) M’a mes de cent sospirs captal (Aimeric de Peguilhan, XLIII, v 2) Per q’eu teing plus a mal aissament / a la falsa non feira az autras cent (Guilhem de la Tor, XIII, vv 10-11) Mas mil sospirs li ren quec iorn per ces (Peire Raimon de Tolosa, XIV, v 14) Tan platz q’us dels sieus plazers / tolria mil desplazers (Arnaut Catalan, IV, vv 39-40). Distinguiamo dai luoghi dedicati al dolore l’espressione iperbolica legata in modo più generale alla rappresentazione dello stato amoroso: Petrarca Per fare una leggiadra sua vendetta, / et punire in un dì ben mille offese (son. 2, vv 1-2) Mille fiate, o dolce mia guerrera, / per aver co’ begli occhi vostri pace / v’aggio proferto il cor; ma voi non piace (son. 21, vv 1-3) Per far forse pietà venir negli occhi / di tal che nascerà dopo mill’anni, / se tanto viver pò ben colto lauro (sest. 30, vv 34-36) Tornar non vide il viso, che laudato / sarà, s’io vivo, in più di mille carte (son. 43, vv 1011) Tal ch’i’ depinsi poi per mille valli / l’ombra ov’io fui, ché né calor né pioggia / né suon curava di spezzata nebbia (sest. 66, vv 34-36) La qual ogni altra salma / di noiosi pensier’ disgombra allora, / sì che di mille un sol vi si ritrova (canz. 71, vv 79-81) Per mirar Policleto a prova fiso / con gli altri ch’ebber fama di quell’arte / mill’anni, non vedrian la minor parte / de la beltà che m’ave il cor conquiso (son. 77, vv 1-4) Pigmalion, quanto lodar ti dei / de l’imagine tua, se mille volte / n’avesti quel ch’i’ sol una vorrei38 (son. 78, vv 12-14) Poi mi condusse in più di mille scogli (sest. 80, v 10) Lasso, quante fiate Amor m’assale, / che fra la notte e ‘l dì son più di mille (son. 109, vv 1-2) 38 In questa e nell’occorrenza precedente, strettamente legate per l’appartenenza ai due testi sul ritratto di Laura, disposti a formare una coppia inscindibile, l’affermazione iperbolica non è riferita al poeta, ma a Pigmalione, che l’io paragona a se stesso rispetto alla sostituzione di un’immagine fittizia, ma consolatoria, a quella reale dell’amata. Tuttavia, grazie alla generale struttura comparativa e soprattutto per la superiorità che viene in sostanza riconosciuta a Laura e alla sua rappresentazione pittorica, implicitamente l’iperbole si riversa anche sull’espressione dell’amore del poeta. 213 Provan com’io son pur quel ch’i’ mi soglio, / né per mille rivolte anchor son mosso (son. 118, vv 13-14) Dico che, perch’io miri / mille cose diverse attento et fiso, / sol una donna veggio, e ‘l suo bel viso (canz. 127, vv 12-14) Mille piagge in un giorno et mille rivi / mostrato m’à per la famosa Ardenna / Amor, ch’a’ suoi le piante e i cori impenna (son. 177, vv 1-3) Lacci Amor mille, et nesun tende invano (son. 200, v 5) Quest’arder mio, di che vi cal sì poco, / e i vostri honori, in mie rime diffusi, / ne porian infiammar fors’anchor mille (son. 203, vv 9-11) Ch’i’ ò cercate già vie più di mille / per provar senza lor se mortal cosa / mi potesse tener in vita un giorno (canz. 207, vv 27-29) Ché, s’altro amante à più destra fortuna, / mille piacer’ non vaglion un tormento (son. 231, vv 3-4) Mille fiate ò chieste a Dio quell’ale / co le quai del mortale / carcer nostro intelletto al ciel si leva (canz. 264, vv 6-8) Poi mille volte indarno a l’opra volse / ingegno, tempo, penne, carte e ‘nchiostri (son. 309, vv 7-8) Vidi fra mille donne una già tale, / ch’amorosa paura il cor m’assalse (son. 335, vv 1-2) Ogni giorno mi par più di mill’anni / ch’i’ segua la mia fida et cara duce (son. 357, vv 12) Mille lacciuoli in ogni parte tesi (canz. 360, v 51) Et a costui di mille / donne electe, excellenti, n’elessi una (canz. 360, vv 97-98) Et per dir a l’extremo il gran servigio, / da mille acti inhonesti l’ò ritratto (canz. 360, vv 121-122). Trovatori Si m pren midonz e m’entrava / per ja mais a mila ns / tot als seus comans (Raimbaut d’Aurenga, XIV, vv 25-27) C’aicel jorn me sembla nadaus / c’ab sos bels olhs espiritaus / m’esgarda, mas so fai tan len / c’us sols dias me dura cen (Bernart de Ventadorn, XV, vv 46-49) Pos non qier dreig de faillimen / ai cent vetz perdut et perdrai (Giraut de Bornelh, XLI, vv 61-62) Qer l’am mil tans qu’ieu non solia (Uc de Saint Circ, XIV, v 16) E vos faitz mi pieitz per un cen / car fatz vostre comandamen (Elias Cairel, XII, vv 23-24) Vos puosc far mil vers sagramens / q’ie us serai plus obediens (Raimon de Miravall, XX, vv 46-47) En un jorn pert mais que no n cobr’en cen (Gaucelm Faidit, IV, v 31) Ni qu’ie’us camge per nul autr’amador, / si m pregavon d’autras donas un cen (Clara d’Anduza, I, vv 19-20) Ma bella dompna, no me laissaz morir, / qe mil aitant vos am qìeu no sai dir (Folquet de Romans, II, vv 28-29) Mas d’aquels mals me son vengut mil be39 (Bertran Carbonel, XI, v 11) 39 Quest’ultima occorrenza è indicativa di un uso piuttosto diffuso in area trobadorica: le formule iperboliche, infatti, vengono non di rado applicate anche all’espressione della gioia. Mancano invece casi 214 S’era mest cinq cens, / gensor e plus bella / l’apello las gens (Guilhem Peire de Cazals, VII, vv 51-53) […] que d’ans mil a / no naquet homs la pogues dir, non guil (Folquet de Lunel, VI, vv 67). 1.1.3 L’esagerazione nell’espressione amorosa: raddoppiamento (del dolore o del piacere) Un’altra soluzione peculiare rispetto all’accentuazione degli stati d’animo amorosi comprende il concetto di “raddoppiamento”, variante più specifica dell’idea – topica – del continuo accrescersi (per quantità e qualità) dei sentimenti stessi. La scelta lessicale è piuttosto esplicita e accomuna in modo singolare Petrarca e i trovatori; la differenza essenziale concerne il numero delle occorrenze (molto meno numerose in Petrarca, che però imposta sull’idea del raddoppiamento l’intera sestina 332) e la varietà di ciò che si accresce (in Petrarca solo dolore, più volte legato alla durata della notte – sonn. 216 e 255 –, e in un caso isolato il piacere)40. Petrarca Giunto m’à Amor fra belle et crude braccia, / che m’ancidono a torto; et s’io mi doglio, / doppia ‘l martir; onde pur, com’io soglio, / il meglio è ch’io mi mora amando, et taccia (son. 171, vv 1-4) Tutto ‘l dì piango; et poi la notte, quando / prendon riposo i miseri mortali, / trovomi in pianto, et raddoppiarsi i mali (son. 216, vv 1-3) A me doppia la sera et doglia et pianti (son. 255, v 3) L’alma, nudrita sempre in doglia e ‘n pene / […] / contra ‘l doppio piacer sì ‘nferma fue41 (son. 258, vv 9-11) Et doppiando ‘l dolor, doppia lo stile / che trae del cor sì lacrimose rime (sest. 332, vv 3940). Trovatori Car, on plus l’esgar, plus me vens / s’amors, e m dobla mos talens (Bernart de Ventadorn, V, vv 19-20) Ades doblara lh folia (Bernart de Ventadorn, XXX, v 20) Li dobla poders e razos (Giraut de Bornelh, XX, v 42) E doblon me l’esglai e il lonc sospire (Uc de Saint Circ, IV, v 21) E ja totz jornz dobla ma dziranza (Bertran d’Alamanon, XIX, v 14) paralleli in Petrarca, dove d’altronde la rappresentazione di uno stato sereno e soddisfatto è ben più limitata. 40 L’immagine trobadorica non lascia invece quasi alcuna impronta in Sicilia. 41 In questo caso a raddoppiare è il piacere, a fronte però di una reazione impreparata dell’innamorato e quindi di un esito comunque negativo. In un solo passo la connotazione del raddoppiamento è solo positiva, come accade invece più spesso tra i trovatori: “doppia dolcezza in un volto delibo” (son. 193, v 8). 215 Aquest’amor no pot hom tan servir / que mil aitans no il doble ls gazardos (Cercamon, VI, vv 7-8) Et enaissi doblatz me mon martire (Folchetto da Marsiglia, V, v 4) Mas ben podetz doblar vostra folia (Elias Cairel, I, v 22) E il dobla hom son perilos turmen (Aimeric de Belenoi, V, v 3) Mas a totz jors dobla ma voluntatz / de ben amar et esmer’ e meillura (Arnaut de Maruelh, XXI, vv 29-31) E que dobles mon dampnatge (Raimon de Miravall, I, v 38) Sueffre plus leu tota via / l’afan doblat quascun dia (Aimeric de Peguilhan, II, vv 23-24) Mais la dezir e dobla ma dolor (Peire Raimon de Tolosa, XIV, v 36) Eras ai de mal dos tans (Guiraut Riquier, XXIII, v 11) Pueis dobla m l’esmai (Guilhem Augier Novella, VII, v 22). 1.1.4 L’esagerazione nell’espressione amorosa: il dolore dell’amante è superiore ad ogni altro Una topica espressione iperbolica della sofferenza amorosa e dunque dell’amore stesso deriva inoltre dall’affermazione che nessun dolore possa essere pari a quello del poeta. I luoghi coinvolti non sono molti, né in Petrarca né in area provenzale, ma non per questo appare meno significativa la loro corrispondenza. Petrarca Servo d’Amor, che queste rime leggi, / ben non ha ‘l mondo, che ‘l mio mal pareggi42 (canz. 207, vv 97-98) Chè tanti affanni uom mai sotto la luna / non sofferse quant’io […] (sest. 237, vv 10-11) Non à ‘l regno d’Amor sì vario stile, / ch’è tanto or tristo quanto mai fu lieto. / Nesun visse già mai più di me lieto, / nesun vive più tristo et giorni et notti (sest. 332, vv 35-38) [L’anima] arse tutta: et martiro / simil già mai né sol vide né stella (canz. 135, vv 6970)43. Trovatori Anc nuls amans per sidons no sufri / tan gran dolor ni tan gran malanansa (Folchetto da Marsiglia, XVI, vv 29-30) Quar nulhs hom pieitz de me non tray (Arnaut de Maruelh, XXIV, v 43) A m si cargat de l’amoros afan / que l melhor cen no n sufririon tan (Aimeric de Peguilhan, XXVII, vv 6-7) Et anc nuills hom pres / ni repres / non cuich pieitz de mi trisses / e platz me q’ieu l traia (Arnaut Catalan, II, vv 29-32) 42 Per questi versi in particolare è stata notata la familiarità con Peirol (Mainta gens mi malrazona) e Bernart de Ventadorn (Non es meravelha). 43 Ai luoghi qui citati può essere per certi aspetti accostato il dialogo di Petrarca con il triste uccellino del sonetto 353, la cui desolazione appare al poeta in fondo meno grave della propria, inconsolabile e priva di soluzione: “I’ non so se le parti sarian pari, / ché quella che tu piangi è forse in vita, / di ch’a me Morte e ‘l ciel son tanto avari” (vv 9-11). 216 Si fara qu’anc non fo vius / hom, tant fos aclis ni sers (Bonifaci Calvo, II, vv v 14-15) Anc nuls amans per sidons no sufri / tan gran dolor ni tan gran malanansa (Peirol, XXI, vv 29-30). 1.2 La condizione straordinaria dell’amante: vivere e morire Come lo stesso Amore spiega nella seconda terzina del sonetto 15 (“Ma rispondemi Amor: Non ti rimembra / che questo è privilegio degli amanti, / sciolti da tutte qualitati humane?”), l’amante vive una condizione fuori dall’ordinario. Nella maggior parte dei casi, tale infrazione alle regole della natura si risolve in uno stato di eccezionale prostrazione e in un senso di esclusione rispetto alla vita comune. Tre immagini esprimono con particolare chiarezza tale prospettiva: la morte reiterata, il ritmo sonno-veglia turbato e la malattia inguaribile. È in effetti un topos diffusissimo quello per cui l’amante vive e muore in continuazione o, in alternativa, vive e muore allo stesso tempo44: tale concetto comunica la sensazione di un dolore oltremodo straziante che per di più non si risolve. In questo suo protrarsi e rinnovarsi esso crea uno stato talmente tormentoso da essere paragonato alla morte, senza che sopraggiunga davvero tale cesura, auspicabile talvolta proprio come unica via di fuga dal martirio45. Petrarca Mezzo tutto quel dì tra vivo et morto (canz. 23, v 89) Mi vedete straziare a mille morti (son. 44, v 12) Sì come i miei seguaci discoloro, / e ‘n un momento gli fo morti et vivi (son. 93, vv 3-4) Chi mi fa morto et vivo (canz. 105, v 89) O viva morte, o dilectoso male (son. 132, v 7) Et non m’ancide Amore, et non mi sferra, / né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio. / […] / et bramo di perir, et cheggio aita (son. 134, vv 7-10) Egualmente mi spiace morte et vita (son. 134, v 13) Et perché ‘l mio martir non giunga a riva, / mille volte il dì moro et mille nasco, / tanto da la salute mia son lunge (son. 164, vv 12-14) Non sa come Amor sana, et come ancide (son. 159, v 12) Non, perché mille volte il dì m’ancida, / fia ch’io non l’ami, et ch’i’ non speri in lei (son. 172, vv 12-13) Non ò medolla in osso, o sangue in fibra, / ch’i’ non senta tremar, pur ch’i’ m’apresse / dove è chi morte et vita inseme, spesse / volte, in frale bilancia appende et libra (son. 198, vv 5-8) Lasso, che pur da l’un a l’altro sole, / et da l’una ombra a l’altra, ò già ‘l più corso / di questa morte, che si chiama vita (son. 216, vv 9-11) Ove è la vita, ove la morte mia? (son. 222, v 3) 44 Una variante interessante si nota nel sonetto 277 del Canzoniere, v 4: “che ‘l desir vive, et la speranza è morta”, dove la compresenza di vita e morte si gioca su un piano diverso, benché ancora una volta topico, dell’esperienza amorosa. 45 Sulla natura topica di tale immagine si è soffermato anche Santagata 1996, p. 757. 217 Rendi agli occhi, agli orecchi il proprio obgetto, / senza qual imperfetto / è lor oprare, e ‘l mio vivere è morte (canz. 270, vv 41-43) Et voto et freddo ‘l nido in ch’ella giacque, / nel qual io vivo, et morto giacer volli (son. 320, vv 7-8). Tali occorrenze si inseriscono con efficacia in un quadro coerente. Infatti, in generale il momento della morte per l’amante è presentato come incombente: la Morte “ha già alzato il braccio” contro il poeta (sonetto 202) ed è al suo fianco (canzone 264). La presenza dell’elemento funebre nella vita di chi ama è dunque costante e lo stato intermedio tra vita e morte non è che il culmine di tale equilibrio. La definizione del topos è provenzale e la sua espressione nelle liriche cortesi appare interessante rispetto all’elaborazione petrarchesca; tuttavia, va ricordato che l’immagine era già stata recuperata nella poesia siciliana, dove se ne leggono cinque occorrenze (in quattro testi)46. Trovatori No posc viure ni morir (Bernart de Ventadorn, XXXVIII, v 28) Que per lieis val mos cors e viu e mor (Uc de Saint Circ, IV, v 36) Tan atendrai entre viur’ e morir (Rigaut de Berbezilh, VII, v 33) E no n pot hom trop viure ni morir (Cercamon, VI, v 52) Que m’auci desiran / e non pot far morir tant fin aman47 (Folchetto da Marsiglia, XX, vv 7-8) Es ma mortz e ma via (Sordello, XVI, v 48) Viure no puesc ni aus murir (Aimeric de Belenoi, II, v 12) So qu’ab vos a a viur’ ez a murir (Aimeric de Peguilhan, XXXIX, v 40) Don muer et viv’ et viv’ et muer (Gaucelm Faidit, XLIX, v 16) Que garrir / no m vol ni laissar morir (Guilhem de la Tor, VI, vv 11-12) Q’en vos es ma morç e ma via (Folquet de Romans, XIV, v 32) […] Per que ieu muer viven (Bertran Carbonel, IV, v 7) Me fay ira, viu mort anar (Gavaudan, III, v 32) Tant q’ieu no suy mortz ni vius (Guiraut Riquier, IV, v 14). 1.2.1 La condizione straordinaria dell’amante: la dama può ferire e guarire L’immagine della malattia e della guarigione, strettamente legata alla rappresentazione dell’amata, che al contempo causa il malessere ed unica può curarlo, amplia la medesima prospettiva di straordinarietà della condizione amorosa48. All’origine del topos è la leggenda della lancia di Peleo, tramandata dall’interpretazione ovidiana e 46 Per il topos si veda Menichetti 1965, p. 283, per i passi siciliani Ravera 2013, pp. 219-220. La contrapposizione dei due aspetti in riferimento all’amante rimane implicita, ma il contesto chiarisce che egli sta parlando di sé; lo conferma per altro l’immagine convenzionale secondo cui il poeta si presenta come amante fino, fedele e perfetto, che dunque merita la considerazione della dama o per lo meno il suo soccorso. 48 Per una breve storia del topos e alcune indicazioni bibliografiche si legga Santagata 1996, p. 397. 47 218 piuttosto nota agli autori medievali: oltre che nei trovatori, la si ritrova in diversi autori italiani, tra cui esponenti della Scuola siciliana, nonché nella Commedia. Petrarca Di quanto per Amor già mai soffersi, / et aggio a soffrir ancho, / fin che mi sani ‘l cor colei che ‘l morse (canz. 29, vv 15-17) I begli occhi ond’i’ fui percosso in guisa / ch’e’ medesmi porian saldar la piaga, / et non già vertù d’erbe, o d’arte maga, / o di pietra dal mar nostro divisa49 (son. 75, vv 1-4) Chi m’à ‘l fianco ferito, et chi ‘l risalda, / per cui nel cor via più che ‘n carta scrivo (canz. 105, vv 87-88) Cagion sola et riposo de’ miei affanni50 (canz. 127, v 42) Arde, et more, et riprende i nervi suoi, / et vive poi con la fenice51 a prova52 (canz. 135, vv 14-15) Non sa come Amor sana, et come ancide, / chi non sa come dolce ella sospira (son. 159, vv 12-13) Una man sola mi risana et punge (son. 164, v 11) Fe’ la piaga onde, Amor, teco non tacqui, / che con quell’arme rinsaldar la poi (son. 174, vv 7-8) Esser pò in prima ogni impossibil cosa, / ch’altri che Morte, od ella, sani ‘l colpo / ch’Amore co’ suoi belli occhi al cor m’impresse (son. 195, vv 12-14) Et [la capacità di] torre l’alme a’ corpi, et darle altrui (son. 213, v 11) Amor con tal dolcezza m’unge et punge (son. 221, v 12) Onde e’ suol trar di lagrime tal fiume, / per accorciar del mio viver la tela / […] / Sì profondo era et sì di larga vena / il pianger mio et sì lunge la riva / […] / Non lauro o palma, ma tranquilla oliva / Pietà mi manda, e ‘l tempo rasserena, / e ‘l pianto asciuga, et vuol anchor ch’i’ viva53 (son. 230, vv 5-14) Fuor di man di colui che punge et molce (son. 363, v 9). 49 Simile riferimento all’inutilità dei medicinali sulle ferite causate dall’amore si trova nella sestina 214 (vv 19-22: “Ma, lasso, or veggio che la carne sciolta / fia di quel nodo ond’è ‘l suo maggior pregio / prima che le medicine, antiche o nove, / saldin le piaghe ch’i’ presi in quel bosco), dove però non è riproposta esplicitamente la funzione straordinaria di Laura o di Amore in tal senso. 50 L’immagine qui è un po’ variata, e certamente più blanda nella sua valenza ossimorica, tuttavia il principio di fondo appare sempre il medesimo. 51 Sull’immagine della fenice in metafore e paragoni, petrarcheschi e provenzali, si tornerà nel corso del presente capitolo. 52 È la similitudine con la fenice a introdurre il concetto di rinascita, qui riferito in realtà non tanto al poeta in sé quanto al suo eterno desiderio per Laura. Tuttavia, la similitudine stessa e le modalità espressive metaforiche con cui è descritta la rinascita del desiderio nei versi citati e in generale nella sirma della stanza presentano la situazione come se si trattasse di una persona in carne ed ossa. L’immagine della fenice si trova anche in altri quattro componimenti; in 185, 321 e 323 è associata a Laura e non ne è rilevato lo straordinario potere di rinascita, quanto l’unicità, nella prospettiva di elogiare iperbolicamente l’amata. La lettura di 210 è invece più complessa: la critica è stata a lungo divisa sull’interpretazione, da cui dipende l’attribuzione dell’immagine stessa a Laura o all’io poetico. Appare particolarmente interessante la proposta di Santagata 1996, p. 904, secondo cui la fenice sarebbe contrapposta all’amante, che a differenza del mitico animale vede avvicinarsi la morte e non sente alcuna speranza di rinascere. In tal caso, cioè, avremmo una radicale negazione del topos amoroso. 53 L’intero sonetto è in effetti giocato sull’opposizione morte/vita: la prima causata abitualmente dalla durezza di madonna (soprattutto dopo la svolta in negativo di 206-207), la seconda finalmente concessa in dono all’amante. 219 Trovatori Sol nai de la milena part / qe mi nafret en un esagart / ab aitan m’agra gen garit / d’aqel mal colp qe m’a ferit (Raimbaut d’Aurenga, XXIII, vv 51-54) Car ab un doutz baizar m’aucis / si ab autre no m’es guirens; / c’atretal mes per semblansa / com de Pelaus la lansa / que del seu colp no podi’ om garir / si autra vetzno s’en fezes ferir54 (Bernart de Ventadorn, I, vv 43-48) Per son joi pot malaus sanar / e per sa ira sas morir (Guglielmo IX, VIII, vv 2-26) Qe m nafret gen al cor, ses colpo de lanssa, / ab un esgart de sos hueills amoros, / […] / e s’ab los huoills mi fetz cortesa plaia, / ill m’en saup ben cortesamen garir / per q’ieu lo i denoisser e grazir (Gaucelm Faidit, XI, vv 9-18) Aisso m fai lo dolz mals corte / d’amor, q’es d’aital escarida, / que can nafra d’una partida, / sana puois, et a m nafrat tan, / que garit m’a del mal d’antan (Gui d’Ussel, VI, vv 36-40) Ar ai ben d’amor apres / cum sap de son dart ferir; / mas cum pueys sap gent guerir / enqueras no sai ieu ges (Peire Raimon de Tolosa, II, vv 1-4). 1.2.2 La condizione straordinaria dell’amante: ciclo stagionale e ritmo giorno/notte Un topos diffusissimo nel corpus trobadorico è quello della descrizione naturale e soprattutto stagionale, di solito collocata in incipit55. In diverse canzoni tale introduzione serve solo ad evocare il contesto in cui si muove l’io poetico, soprattutto se si tratta di rappresentazioni primaverili associate implicitamente all’attività amorosa e canora56. Nella maggior parte dei casi, comunque, viene esplicitato per lo meno il principio secondo cui la primavera è la stagione in cui i sentimenti sbocciano, si è più propensi ad amare e, di conseguenza, a comporre versi57. Tuttavia, in varie occasioni il poeta nega tale assunto ed afferma di non aver alcuna voglia di cantare nonostante verdi 54 Come si è anticipato, il topos della lancia di Peleo ha una straordinaria diffusione nella lirica medievale, rispetto alla quale ha avuto un effetto modellizzante molto evidente. 55 È notevole che tale approccio sia quasi scomparso dai testi sopravvissuti della Scuola siciliana, dove anche solo l’evocazione paesaggistica e stagionale è ridotta al minimo. 56 Su tali rappresentazioni ci siamo già soffermati nel corso del capitolo precedente. Rispetto al confronto con i trovatori, si legga anche la descrizione primaverile dell’alba nel sonetto 219, vv 1-4, in cui però gli elementi fondamentali non riguardano tanto la stagione, che dunque ha la funzione di arricchire il quadro complessivo, quanto il momento del giorno, con il ritorno del sole, e il panorama valchiusano. Va evidenziato in particolare, come in parte già si è visto nel capitolo precedente, l’uso del gallicismo “retentir”: per alcuni riscontri puntuali con opere provenzali si veda Santagata 1996, p. 932. Un altro luogo interessante si trova nel sonetto 291, in cui di nuovo al posto della primavera viene descritta l’alba quale momento dell’amore, per altro in termini che ricordano in parte l’amenità della primavera stessa: “Quand’io veggio dal ciel scender l’Aurora / co la fronte di rose et co’ crin’ d’oro, / Amor m’assale, ond’io mi discoloro” (vv 1-3). L’associazione tra contesto e pensiero amoroso, infine, può delinearsi anche senza coinvolgere una stagione precisa, ma soltanto una rappresentazione naturalistica amena, di fatto corrispondente agli elementi topici della primavera. 57 In un caso (sestina 239) anche Petrarca ripropone tale meccanismo tradizionale; nella sestina doppia, invece, l’accrescersi del dolore viene associato al prolungarsi del canto, secondo un’altra possibilità ben nota già ai trovatori. Tale immagine deriva forse dal topos, trobadorico e poi petrarchesco, del canto come sfogo dal dolore. 220 foglie e cinguettii di uccellini, o al contrario di non voler rinunciare alla poesia nonostante il gelo. Simili risoluzioni metapoetiche sembrano il portato di un’altra e più significativa contrapposizione: quella tra stagione ed emozioni (gioiose in inverno, dolenti in primavera) e quindi tra comportamento comune e atteggiamento eterogeneo dell’amante. Questo aspetto del comportamento amoroso è a sua volta convenzionale e costituisce una variante rispetto alla più piana associazione topica tra tempo atmosferico o cronologico e sentimento. Entrambe le prospettive (accordo o contrapposizione tra l’io e la stagione) conoscono una notevole diffusione nei componimenti occitanici e lasciano tracce interessanti anche nei fragmenta, a partire dall’identificazione del momento dell’innamoramento. Certo, esso è posto in primavera in relazione alla Pasqua, creando la complessa e simbolica sovrapposizione tra sacro e profano, ripetutasi poi nel momento della morte di Laura, su cui tanto la critica si è esercitata. Resta però la coincidenza tra l’aprile pasquale e la tradizione dell’amore primaverile, che dunque viene sussunta all’interno del nuovo sistema simbolico-concettuale58. D’altro canto, Petrarca sviluppa l’idea della sua diversità e in fondo anormalità dell’innamorato, reinterpretando in particolare il suo rapporto con il ciclo notte-giorno, che risulta al contrario un motivo meno interessante per i Provenzali59. L’insistenza sui ritmi stagionali da una parte e quelli diurni dall’altra comporta la convergenza tra due diverse immagini convenzionali: la condizione innaturale dell’amante, nonché la costanza del suo amore e delle sue conseguenze, in ogni tempo, in ogni stagione, ad ogni età. Quest’ultimo aspetto è inoltre particolarmente marcato in formule ben riconoscibili, quali “notte e giorno” “estate e inverno” e così via60; il tema della costanza in amore, infine, si accompagna spesso all’uso dell’iperbole61. In questa rappresentazione entra in gioco un ulteriore elemento topico: l’innamorato infatti è convenzionalmente vittima dell’insonnia62. Di nuovo l’io poetico, petrarchesco e provenzale, è escluso dai ritmi normali per la natura, per gli animali, per la gente comune. Allo scopo di distinguere meglio le diverse tipologie di immagini qui proposte ne distingueremo quattro gruppi: 1. rappresentazione affine di stagione e stato d’animo, 2. contrapposizione tra condizione dell’io lirico e stagione (e quindi anche rispetto agli altri esseri viventi), 3. contrasto tra stato individuale e collettivo (espresso in modo esplicito), 4. insonnia (come caso particolare dell’irregolarità nel ritmo sonno-veglia). 58 Oltre al sonetto 67, in cui il mese di aprile ha un valore volutamente nascosto, citano esplicitamente il mese dell’innamoramento il sonetto 211 e la canzone 325. 59 Abbiamo anticipato tali aspetti in riferimento alle immagini stagionali e al genere dell’alba, nel corso del secondo capitolo. 60 Tale aspetto è stato anticipato nel precedente paragrafo e sarà ulteriormente ampliato nel corso del presente capitolo. 61 Lo si è anticipato in questo stesso capitolo. 62 In un caso, al contrario, il poeta rifiuta il sonno in quanto forma di morte che permetterebbe un indesiderato oblio dell’amore, inteso come motivo di vita per il poeta: “Il sonno è veramente, qual uom dice, / parente de la morte, e ‘l cor sottragge / a quel dolce penser che ‘n vita il tene” (son. 226, vv 9-11). 221 Petrarca 1. E ‘l rosignuol63 che dolcemente all’ombra / tutte le notti si lamenta et piagne, / d’amorosi penseri il cor ne ‘ngombra (son. 10, vv 10-12) Là ver’ l’aurora, che sì dolce l’aura / al tempo novo suol movere i fiori, / et li augelletti incominciar lor versi, / sì dolcemente i pensier’ dentro a l’alma / mover mi sento a chi li à tutti in forza, / che ritornar convenmi a le mie note (sest. 239, vv 1-6) L’acque parlan d’amore, et l’ora e i rami / et gli augelletti et i pesci e i fiori et l’erba, / tutti inseme pregando ch’i’ sempre ami (son. 280, vv 9-11) Amor che meco al buon tempo ti stavi / fra queste rive, a’ pensier’ nostri amiche (son. 303, vv 1-2) Et doppiando ‘l dolor, doppia lo stile / che trae del cor sì lacrimose rime (sest. 332, vv 3940). 2. Seguirò l’ombra di quel dolce lauro / per lo più ardente sole et per la neve / fin che l’ultimo dì chiuda quest’occhi (sest. 30, vv 16-18) Piacemi almen d’aver cangiato stile / dagli occhi a’ pie’, se del lor esser molli / gli altri asciugasse un più cortese aprile64 (son. 67, vv 12-14) In ramo fronde, over viole in terra, / mirando a la stagion che ‘l freddo perde, / et le stelle miglior’ acquistan forza, / negli occhi ò pur le violette e ‘l verde / di ch’era nel principio de mia guerra / Amor armato, sì ch’anchor mi sforza (canz. 127, vv 29-34) Qualor tenera neve per li colli / dal sol percossa veggio di lontano, / come ‘l sol neve, mi governa Amore (canz. 127, vv 43-45) Non vidi mai dopo nocturna pioggia / gir per l’aere sereno stelle erranti, / et fiammeggiar fra la rugiada e ‘l gielo, / ch’i’ non avesse i begli occhi davanti65 (canz. 127, vv 57-60) Ché quando nasce et mor fior, herba et foglia, / quando è ‘l dì chiaro, et quando è notte oscura, / piango ad ognor […] (son. 265, vv 5-7) Zephiro torna, e ‘l bel tempo rimena66 / […] / Ma per me, lasso, tornano i più gravi / 63 L’immagine dell’usignolo, spesso connotata in chiave affettiva, è particolarmente apprezzata da Petrarca forse per gli echi ovidiani e in generale classici che rievoca. È però significativo notare che anche per i trovatori questo animale si distingue in diverse occasioni dall’insieme indefinito degli uccellini, creando così un’associazione convenzionale con la realtà amorosa. Su tale immagine si tornerà con maggiore ampiezza nel corso del presente capitolo. 64 Certamente qui Petrarca fa riferimento non al mese in sé, ma alla data e quindi all’avvenimento del suo innamoramento per Laura. Tuttavia l’esito è ancora una volta una rivisitazione personale di un topos largamente attestato. 65 La canzone ripropone a più riprese una peculiare associazione tra la condizione del poeta e quella della stagione, che qui appare in un momento intermedio tra inverno e primavera. Petrarca infatti rinnova la tradizionale configurazione trobadorica, che ritroviamo più classica nel sonetto 310, attribuendo il nesso alla percezione individuale dell’io, che, dominato dall’amore, riconduce tutto ciò che vede nella natura all’amata, la cui presenza si moltiplica così in tutto il paesaggio. 66 In realtà l’intero sonetto è giocato sulla contrapposizione tra stagione e stato d’animo. La novità petrarchesca risiede in primo luogo nella motivazione del suo dolore: non più un amore infelice, ma la morte dell’amata. A ciò si aggiunge il diffuso recupero di elementi tematici classici, soprattutto virgiliani, al di là del topos trobadorico. 222 sospiri, che del cor profondo tragge / quella ch’al ciel se ne portò le chiavi67 (son. 310, vv 1-11) Ma la stagione et l’ora men gradita, / col rimembrar de’ dolci anni et de li amari, / a parlar teco con pietà m’invita (son. 353, vv 12-14). 3. A qualunque animale alberga in terra, / se non se alquanti ch’ànno in odio il sole, / tempo da travagliare è quanto è ‘l giorno; / ma poi che ‘l ciel accende le sue stelle, / qual torna a casa et qual s’anida in selva / per aver posa almeno infin a l’alba. / Et io, da che comincia la bella alba / a scuoter l’ombra intorno de la terra / svegliando gli animali in ogni selva, / non ò mai triegua di sospir’ col sole; / poi quand’io veggio fiammeggiar le stelle / vo lagrimando, et disiando il giorno (sest. 22, vv 1-12) Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina / verso occidente, et che ‘l dì nostro vola / a gente che di là forse l’aspetta, / [...] / talora [la vecchiarella] è consolata / d’alcun breve riposo, ov’ella oblia / la noia e ‘l mal de la passata via. / Ma, lasso, ogni dolor che ‘l dì m’adduce / cresce qualor s’invia / per partirsi da noi l’eterna luce. (canz. 50, vv 1-14) Come ‘l sol volge le ‘nfiammate rote / per dar luogo a la notte, onde discende / dagli altissimi monti maggior l’ombra, / […] / [lo zappador] ogni graveza del suo petto sgombra / […] / Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora, / ch’i’ pur non ebbi anchor, non dirò lieta, / ma riposata un’hora, / né per volger di ciel né di pianeta. (canz. 50, vv 15-28) Quando vede ‘l pastor calare i raggi / del gran pianeta al nido ov’egli alberga, / e ‘nbrunir le contrade d’oriente, / […] / ivi senza pensier’ s’adagia et dorme. / Ahi crudo Amor, ma tu allor più mi ‘nforme / a seguir d’una fera che mi strugge / la voce e i passi e l’orme (canz. 50, vv 29-41) Ma io, perché [il sole] s’attuffi in mezzo l’onde, / […] / et gli uomini et le donne / e ‘l mondo et gli animali / aquetino lor mali, / fine non pongo al mio obstinato affanno (canz. 50, vv 46-52) Veggio la sera i buoi tornare sciolti / da le campagne et da’ solcati colli: / i miei sospiri a me perché non tolti / quando che sia? Perché no ‘l grave giogo? (canz. 50, vv 58-61) Or che ‘l ciel et la terra e ‘l vento tace / et le fere e gli augelli il sonno affrena, / Notte il carro stellato in giro mena / et nel suo letto il mar senz’onda giace, / vegghio, penso, ardo, piango; et chi mi sface / sempre m’è inanzi per mia dolce pena (son. 164, vv 1-6) Tutto ‘l dì piango; et poi la notte, quando / prendon riposo i miseri mortali, / trovomi in pianto, et raddoppiarsi i mali: / così spendo ‘l mio tempo lacrimando (son. 216, vv 1-4) Vien poi l’aurora, et l’aura fosca inalba, / me no: ma ‘l sol che ‘l cor m’arde et trastulla, / quel pò solo adolcir la doglia mia (son. 223, vv 12-14) La notte affanno, e ‘l ciel seren m’è fosco68 (son. 226, v 7) La sera desiare, odiar l’aurora / soglion questi tranquilli et lieti amanti; / a me doppia la sera et doglia et pianti, / la matina è per me più felice hora (son. 255, vv 1-4). 4. Lagrima anchor non mi bagnava il petto / né rompea il sonno […] (canz. 23, vv 27-28) 67 Anche l’immagine delle chiavi del cuore, quella per aprire e quella per chiudere, è convenzionale (si veda Santagata 1996, p. 323); curiosamente sembra mancare nel panorama occitanico. 68 Questo verso suggerisce implicitamente che la percezione del tempo cronologico e atmosferico del poeta non è quella regolare o consueta. L’occorrenza anticipa perciò il discorso sulle priorità e i gusti innaturali tipici di chi ama, su cui torneremo a breve. 223 Lagrime triste, et voi tutte le notti / m’accompagnate, ov’io vorrei star solo, / poi fuggite dinanzi a la mia pace; / et voi sì pronti a darmi angoscia et duolo, / sospiri, allor traete lenti et rotti (son. 49, vv 9-13) Il sonno è ‘n bando, et del riposo è nulla; / ma sospiri et lamenti infin a l’alba, / et lagrime che l’alma a li occhi invia (son. 223, vv 9-11) O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne, / fonte se’ or di lagrime nocturne, / che ‘l dì celate per vergogna porto (son. 234, vv 1-4) Io non ebbi già mai tranquilla notte, / ma sospirando andai matino et sera (sest. 237, vv 13-14) El dì pensoso, poi piango la notte; / […] / sospir’ del petto, et de li occhi escono onde / da bagnar l’erbe, et da crollare i boschi (sest. 237, vv 20-24) Meravigliomi ben s’alcuna volta, / mentre le parla et piange et poi l’abbraccia, / non rompe il sonno suo, s’ella l’ascolta69 (son. 256, vv 12-14) Le mie notti fa triste, e i giorni oscuri, / quella che n’à portato i penser’ miei (son. 291, vv 12-13) S’esser non pò, qualchuna d’este notti / chiuda omai queste due fonti di pianto70 (sest. 332, vv 53-54) Né da te spero mai men fere notti (sest. 332, v 57). Trovatori 1. Per joi qu’ai d’els e del tems / chant, mas Amors mi asauta / qui ls motz ab lo son acorda (Arnaut Daniel, VIII, vv 7-9) Can la verz folha s’espan / e par flors blanch’ el ramel, / per lo doutz chan del auzel / se vai mos cors alegran (Bernart de Ventadorn, XXXVIII, vv1-4) Era, quan vei reverdezitz / los vergiers e cobra l’estatz, / me tira l cors plu ves solatz / que quan se desaguisa l’ans, / e l iois e l chans / dels auzels e l deportz e l critz / es m’uns envitz / de chantar, per qu’ieu m’esbaudei (Giraut de Bornelh, LXIX, vv 1-8) Farai chansoneta nueva / ans que vent ni gel ni plueva (Guglielmo IX, XI, vv 1-2) Ab lo pascor m’es bel q’eu chant, / en estiu, a l’entran de mai (Cercamon, V, vv 1-2) Er, quan renovella e gensa / estius ab fuelh’ et ab flor, / pus mi fai precx, ni l’agensa / qu’ieu chant e m lais de dolor (Sordello, I, vv 1-6) Mout mi platz lo doutz temp d’abril, / […] / d’un joi novel qe m’es al cor intratz, / qe m ven d’Amor a cui mi soi donatz: / per qu’ieu farai gais motz ab son plazen, / c’atendut ai la razon longamen (Elias Cairel, III, vv 1-9) Pos le gais temps de pascor / renovella e ve / vestitz de fueilh e de flor / chantarai dese (Aimeric de Belenoi, XVI, vv 1-4) Toz m’era de chantar geqiz, / tro q’uei vei q’es l’ivernz passatz / […] / per qe m sui un pauc alegraz (Rambertino Buvalelli, V, vv 1-6) Belhs m’es lo dous temps amoros, / lanquan lo mons reverdezis (Arnaut de Maruelh, XVI, vv 1-2). 69 Nel passo è implicita l’idea che lo spirito del poeta non trovi riposo durante la notte, ma si rechi dall’amata in preda ai costanti impulsi amorosi. 70 Nella morte, però; il sonno non basta. 224 2. Braitz, chans, quils, critz / aug dels auzels pels plaissaditz. / Oc ! Ma no los enten ni deinh; / c’un’ira m cenh / lo cor, on dols m’a pres razitz (Raimbaut d’Aurenga, VIII, vv 1-5) Ar resplan la flors enversa / pels trencans rancx e pels tertres, / cals flors ? Neus, gals e conglapis71 (Raimbaut d’Aurenga, XXXIX, vv 1-3) Belh m’es l’estius e l temps floritz, / quan l’auzelh chanton sotz la flor; / mas ieu tenc l’iver per gensor, / quar mais de joi m’i es cobitz (Jaufré Rudel, V, vv 1-4) Puoi nostre temps comens’a brunezir72 / e li verjan son de la fuelha blos, / […] / per joy d’amor nos devem esbaudir (Cercamon, VI, vv 1-6) E quant ieu cugey que l’auzelh / li fesson joy e la verders / […] / tost li fon sos afar camjatz. / Dels huelhs ploret josta la fon (Marcabru, I, vv 10-15) Al temps d’estiu, qan s’alegron l’ausel, / […] / mas eu no n ai d’amor si ben lo m voill, / ni pos ni dei aver nuill alegrage (Rambertino Buvalelli, XI, vv 1-7) Lo clar temps vei brunezir / e ls auzelletz esperdutz / […] / e ieu, que de cor cossir / per la gensor res qu’anc fos, / tan joios / sui, qu’ades m’es vis / que fuelh’ e flor s’espandis (Raimon Jordan, IV, vv 1-9) Deiosta ls breus iorns e ls loncs sers, / quan la blanc’autra brunezis, / vuelh que branc e cruelh mos sabers / d’un nou ioy que m fruich’e m floris73 (Peire d’Alvernha, XII, vv 1-4) Car sonetz d’auzel no m pais, / ni fresca flors de vergan / lo consir del cor no m trais (Raimon de Miravall, XIX, vv 10-12) Cantar vuoill amorosamen, / si tut no vei fuogllia ni for, / ci freç no fai ni gel paor (Folquet de Romans, IV, vv 1-3) Pus l’aura freida venta e corr, / […] / qu’auzelhs non chanta em plaissat, / ni l boscs non retin doussamen; / mas ieu ai tan lo cor jauzen, / qu’aissi l prenc ont ylh l’an laissat (Daude de Pradas, XV, vv 2-8). 3. Doncs mi fucilla e m floris e m fruch’Amors / el cor tan gen que la nueit me retsida / quant autra gens dorm e pauz’e sojorna (Arnaut Daniel, V, vv 5-7) Le gens tems de pascor / ab la frescha verdor / nos adui folh’ e flor / de diversa color, / per que tuih amador / son gai e chantador / mas eu, que planh e plor, / cui jois non a sabor (Bernart de Ventadorn, XXVIII, vv 1-9) Mais enics sui de l’alba, / e l destrics que l jorn nos fai (Raimbaut de Vaqueiras, XXV, vv 10-11). 4. Lo dormir pert, car eu lo m tolh (Bernart de Ventadorn, XLI, v 19) De man mol lieg man dur iaser (Giraut de Bornelh, XXII, v 29) 71 Qui la percezione alterata del poeta si deve, per una volta, ad una condizione felice, che gli permette di vedere l’inverno come se si trattasse della primavera. 72 È interessante notare che questa voce occitanica torna in Petrarca nel sonetto 223 (due volte citato nel presente paragrafo) nell’evocare le tenebre che scendono al tramonto: “Quando ‘l sol bagna in mar l’aurato carro, / et l’aere nostro et la mia mente imbruna” (vv 1-2). Per tali aspetti naturalistici si rimanda ancora una volta al precedente capitolo, con particolare riferimento alle strutture incipitarie stagionali. 73 Come si nota, la contrapposizione con i ritmi regolari della natura in alcune opere trobadoriche si propone anche in chiave positiva. 225 Qu’anc no fiu tan fort endurmitz / que no m reisides de paor (Jaufré Rudel, V, vv 17-18) Don mos cors non dorm ni non ri (Guglielmo IX, IX, v 9) Ni dorm ni veil, ni aug ni vei. / S’anc per amor anei veillian (Cercamon, III, vv 12-13) Amors, per cui plaing e sospir e veill (Raimbaut de Vaqueiras, X, v 2) E quant ieu cuich dormir trassaill (Rambertino Buvalelli, III, v 16) La nueg el lieg vir e torney (Arnaut de Maruelh, XXIV, v 41) Hieu velh la neug, quan deuria durmir (Raimon Jordan, XIII, v 28) Qe jes la nuoich non puosc el lieig dormir (Gaucelm Faidit, XVII, v 39) Qu’ieu en pert solatz e durmir (Folquet de Romans, XV, v 19). 1.3 Un’infinita dedizione Oltre alla sofferenza, un elemento fondamentale nella caratterizzazione dei rapporti amorosi nella lirica delle origini è la dedizione dell’io poetico alla dama. È senza dubbio l’esito dell’ideologia amorosa cortese, che pone l’amata al di sopra del poeta – socialmente, moralmente, ontologicamente – e a lui attribuisce il ruolo di vassallo. Benché tale tradizione si trasformi gradualmente nel passaggio in Italia e poi in Toscana, con il fondamentale contributo delle poetiche stilnovista e dantesca, alcuni aspetti di fondo di quella visione permangono. Laura, esattamente come le dame provenzali, è oggetto di una fedeltà totalizzante, che sconfina nell’adorazione. Il frequente elogio che le viene rivolto deriva dunque non solo dalle sue qualità, ma anche dal punto di vista dell’innamorato, che è sempre rivolto dal basso verso l’alto. Ciò non toglie che i topoi prescelti da Petrarca per esprimere la propria devozione siano attentamente selezionati e rinnovati. Nella produzione occitanica l’influenza della metafora feudale è molto profonda e ne derivano alcuni motivi ben riconoscibili e molto frequenti, come l’insistenza sugli ordini impartiti dall’amata o più di rado da Amore, o l’esplicita ammissione di sottomissione ed obbedienza, o infine la quasi ossessiva asserzione della propria lealtà, del proprio amore fino e non ingannevole. Tutti questi aspetti non compaiono in modo esplicito nel Canzoniere. Non è necessario: la dedizione del poeta viene chiaramente, benché implicitamente, suggerita nella più generale rappresentazione del rapporto amoroso. Per delinearlo, Petrarca seleziona alcune immagini molto forti (il servizio, il potere subito dall’innamorato, la signoria di cui egli non può liberarsi, la paziente sopportazione, l’inchino), convenzionali e senza dubbio già trobadoriche; le occorrenze non sono poi molto numerose, ma partecipano con efficacia dell’intonazione generale nella storia dell’io lirico. 1.3.1 Il servizio d’amore L’innamorato occitanico è servo e addirittura schiavo della sua dama: è un topos radicatissimo e assai ricorrente, poiché deriva direttamente dall’ideologia feudale su cui poggia l’amore cortese. La presenza dell’immagine si dirada nel passaggio dalla Provenza all’Italia, via via che gli aspetti socio-politici insiti nell’amore fino perdono 226 significato; resta comunque il tradizionale disequilibrio fra le due parti della relazione amorosa, che può essere declinato secondo prospettive e poetiche diverse. Ciononostante, nel Canzoniere petrarchesco viene recuperato anche in modo esplicito il concetto di servizio, efficace nel comunicare la disforia dell’amore alienante. I passi in questione non sono molti, ma di certo molto interessanti; essi propongono ancora una volta una varietà di sfumature e rielaborazioni. Al di là di tale molteplicità, comunque, è chiaro che per il poeta l’atto di servire comporta sempre una rinuncia a se stesso, un’alienazione delle proprie ragioni a favore dell’altro74. Petrarca Per Rachel ò servito, et non per Lia75 (canz. 206, v 55) Servo d’Amor76, che queste rime leggi, / ben non à ‘l mondo, che ‘l mio mal pareggi (canz. 207, vv 97-98) Ò servito a signor crudel et scarso (son. 320, v 12) Così ‘l mio tempo infin qui trapassato / è in fiamma e ‘n pene: et quante utili honeste / vie sprezzai, quante feste, / per servir questo lusinghier crudele! (canz. 360, vv 16-20) Di bon seme mal frutto / mieto; et tal merito à chi ‘ngrato serve77 (canz. 360, vv 113-114) 74 L’idea del servizio ricorre anche, in due occasioni, con accezione strettamente morale. Nel primo caso anche il contesto non è amoroso, ma politico e polemico: nel primo dei sonetti avignonesi, 136, la città corrotta e dunque la Curia che vi ha sede è definita “de vin serva, di lecti et di vivande” (v 7), ad indicare la schiavitù spirituale del peccato, la dipendenza che si crea rispetto a ciò che devia dalla moralità. Il secondo luogo interessante si trova al verso 2 del sonetto 308, dedicato (in chiave funebre) a Laura, che viene identificata come motivo per l’abbandono della corruzione urbana, ma anche per la scelta di permanere in Provenza, invece che in Italia: “Quella per cui con Sorga ò cangiato Arno, / con franca povertà serve ricchezze”. Qui la servitù, benché comporti una ricaduta morale, soprattutto se il servizio avveniva alle dipendenze di un’istituzione corrotta, implica la complessa questione della libertà morale e fattuale dell’uomo di spirito e intelletto, nonché il problema della clientelarità, che anche dal punto di vista biografico risulta centrale nel caso di Petrarca. 75 L’idea del servizio viene qui mutuata, a livello esplicito, dalla fonte biblica: il primo servo d’amore è Giacobbe, che accetta una lunga sottomissione, poi reiterata, per ottenere soddisfazione del suo amore per Rachele. Per altro in questo brano l’accezione petrarchesca ha valore soprattutto metaforico, a partire dai significati simbolici tradizionalmente associati alle due figure femminili: l’io poetico ha dunque atteso e penato con scopi nobili, legati all’interiorità del sentimento, e non pratici (cioè erotici). Per il significato dell’immagine nella canzone 206 e il riuso dell’escondich si vedano il capitolo precedente e i riferimenti bibliografici ivi presentati, in particolare Berra 2013. Ciò non toglie, comunque, che Petrarca qui possa alludere anche alla tradizione cortese e ad un topos tanto noto e diffuso che difficilmente poteva essere ignorato: non sarebbe certo l’unico caso nella raccolta in cui diverse fonti vengono sovrapposte. 76 In questo caso l’io poetico non si riferisce direttamente a se stesso, ma in apostrofe ai suoi compagni di sventura, di fatto includendosi nella definizione. È significativo che tale occorrenza si trovi proprio in 207, a stretto contatto quindi con l’immagine del servizio inclusa in 206: altrove in effetti gli innamorati, e dunque coloro che sono sottoposti alla signoria di Amore, sono definiti piuttosto suoi “fedeli” (ff. 58, 82, 93, 143, 177, 207, 264, 332), rispecchiando in tal modo un altro topos di lunghissimo corso nella poesia trobadorica, cioè l’affermazione accorata di sincerità ed onestà da parte del poeta, di solito alla dama, ma spesso anche ad Amore stesso. Sulla “fede amorosa” si tornerà nel corso del presente capitolo. 77 In questo e nel passo successivo è Amore a definirsi “servo” del poeta, rovesciando completamente il significato dell’immagine convenzionale. Tale effetto è strettamente connesso al significato della canzone e alla scena processuale che vi viene rappresentata: dapprima è l’innamorato a dichiararsi servitore sfruttato e maltrattato, poi Amore risponde alle accuse, insistendo sui vantaggi che la condizione amorosa avrebbe garantito all’io lirico stesso. Tale specularità di ruoli e punti di vista mette in maggiore evidenza 227 Et per dir a l’extremo il gran servigio, / da mille acti inhonesti l’ò ritratto (canz. 360, vv 126-127). Trovatori Qu’al sieu servir / sui del pe tro c’al coma (Arnaut Daniel, IX, vv 33-34) Dona, vostre domini ser (Raimbaut d’Aurenga, XXII, v 57) Totz tems volrai sa onor e sos bes / e lh serai om et amics et servire (Bernart de Ventadorn, XII, vv 22-23) E car sui vostre servire / dic vos ben seguramen (Giraut de Bornelh, II, vv 19-20) Servit aurai longamen / humils, francs, sers e leials / Amor, don ai pres grans mals (Uc de Saint Circ, VI, vv 1-3) Per que mos cors plus de vos no s cambia, / bella domna, de servir e d’onrar (Rigaut de Berbezilh, VIII, vv 6-7) Si l plagues qe qu li servis / e sivals d’aitant m’enriquis (Cercamon, II, vv 9-10) Fals fui per amor servir (Marcabru, VII, v 15) E quar sabetz c’al gizardon m’aten / ai perdut vos e l servir eissamen (Folchetto da Marsiglia, V, vv 13-14) Per q’ieu m’esfors de viur’ e de reinhar / ab joi, per leys plus coratjozamens / servir q’ieu am […] (Sordello, II, vv 3-5) E cel que plus la serv plus i pert (Elias Cairel, V, v 11) […] e qui la serf es mortz (Raimbaut de Vaqueiras, VIII, v 43) Dons e servirs e garnirs e larguesa / noiris amors com fai l’aiga lo peis (Bertran de Born, IV, vv 8-9) Tostemps er jois per mi coutz e servitz (Arnaut de Maruelh, XXI, v 8) Qu’ieu lh servirai hueimais, cossi que m an, / e serai li leials e ses enjan (Raimon Jordan, VIII, vv 26-27) Peire d’Alvernhe l’er cofes / tant de servir e d’orazos (Peire d’Alvernha, IX, vv 50-51) E n vol hom nomenatius / esser de dar e de servir / e d’ardimen e de garnir (Raimon de Miravall, IV, vv 14-16) […] et on plus l’ai servida / de mon poder, eu la trob plus ambriva (Peire Vidal, VII, 2728) Per qu’eu tuz temps li serai servidors / e farai tut zo qu’a plaiser li sia (Perdigon, XIII, vv 12-13) Ad aiso no m tenri’a dan / a lieis servir de bon talan (Guilhem Ademar, II, vv 16-17) Car servirs tot ben autrai: / per q’eu mon leial cor ai / et aurai / totz-tems en amor servir (Guilhem de la Tor, XI, vv 6-9) Qar se de servir vos mesclaz / ni us donaz allegrage (Folquet de Romans, VII, vv 7-8) Am desamatz per leis en grat servir (Arnaut Catalan, III, v 7) Amors, per aital semblansa / soi tengutz de vos servir / que m’avetz trach de cossir (Bertran Carbonel, VII, vv 1-3) Ben dei ponhar d’esser adreich servire (Bartolomé Zorzi, XVII, v 22). il problema essenziale del testo: l’amore terreno può essere positivo o ha solamente un’accezione ed esiti negativi? 228 1.3.2 La supremazia di Amore e dell’amata sul poeta L’attestazione più chiara del potere di cui dispongono Amore e madonna nei confronti del poeta è l’ammissione della signoria che esercitano. Tale immagine e il lessico che la veicola, sono strettamente legati all’origine feudale dell’amore cortese, ma si mantiene anche in ambito italiano. La differenza sostanziale tra l’uso trobadorico e quello petrarchesco concerne la distribuzione delle colpe: nel primo, è preminente il ruolo della dama, nel secondo si nota una maggiore equità tra Laura e Amore78. Nella poesia occitanica la rappresentazione dell’amata come signora è all’origine degli appellativi – frequentissimi in apostrofe – di “domna” e “midons”, derivati dalla forma latina “domina”, appunto “signora, padrona”. Tale uso passa alla tradizione italiana e al linguaggio petrarchesco79; tuttavia già per i trovatori si tratta di una formula rigidamente stilizzata più che di una metafora attiva e ciò vale a maggior ragione per il recupero nella penisola80. Questi luoghi testimoniano quanto sia pervasiva la percezione della superiorità della figura femminile rispetto all’io lirico. Petrarca Sì mi governa81 il velo82 (bal. 11, v 12) E dicea meco: Se costei mi spetra, / nulla vita mi fia noiosa o trista; / a farmi lagrimar, signor mio, riedi (canz. 23, vv 84-86) Questi poser silentio al signor mio, / che per me vi pregava, ond’ei si tacque (son. 46, vv 9-10) Lasso, che mal accorto fui da prima / nel giorno ch’a ferir mi venne Amore, / ch’a passo a passo è poi fatto signore / de la mia vita, et posto in su la cima (son. 65, vv 1-4) Non gravi al mio signor perch’io il ripreghi / di dir libero un dì tra l’erba e i fiori (canz. 70, vv 8-9) Così vedess’io fiso / come Amor dolcemente gli governa (canz. 73, vv 70-71) Questi son que’ begli occhi che l’imprese / del mio signor victoriose fanno / in ogni parte, et più sovra ‘l mio fianco (son. 75, vv 9-11) L’aura soave a cui governo et vela / commisi entrando a l’amorosa vita (sest. 80, vv 7-8) 78 Alla signoria di Amore e madonna, va accostata anche quella del desiderio, citata da Petrarca in due occorrenze: “Et poi che ‘l fren per forza a sé raccoglie, / i’ mi rimango in signoria di lui” (son. 6, vv 910); “Quando ‘l voler che con duo sproni ardenti, / et con duro fren, mi mena et regge” (son. 147, vv 1-2). Nel sonetto 211 si parla invece di “signoria dei sensi”: “regnano i sensi, et la ragion è morta” (v 7). In un caso invece Petrarca recupera il topos luttuoso della signoria della Morte personificata: “ché in dee non credev’io regnasse Morte” (son. 311, v 8). In un solo caso si dice che la ragione regna, cioè nella canzone 360, dove appare in veste di giudice (“Quel’antiquo mio dolce empio signore / fatto citar dinanzi a la reina / che la parte divina / tien di nostra natura e ‘n cima sede”, vv 1-4); alla conclusione del componimento, però, la ragione non rifiuta l’amore terreno e ciò ricorda per certi aspetti i numerosi brani in cui il poeta ne dichiara la morte. Sulla questione si tornerà comunque in modo più dettagliato. 79 Ad esempio: “Ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro” (son. 3, v 4). 80 Per tale ragione non consideriamo tali occorrenze in questa sede, con l’eccezione di alcuni luoghi in cui l’etimologia latina è particolarmente percepibile, tanto da suggerire di parafrasare il testo in modo esplicito con la forma “signora”. 81 Proponiamo le occorrenze di “governare” e “governo” solo quando sottintendano, in chiave metaforica, l’area semantica della politica e del regno. Escludiamo quindi la sfera nautica. 82 E cioè Laura. 229 Amor regge suo imperio senza spada (canz. 105, v 11) […] In questi pensier’, lasso, / nocte et dì tiemmi il signor nostro Amore (son. 112, vv 1314) Amor ne l’alma, ov’ella signoreggia, / raccese ‘l foco, et spense la paura (son. 113, vv 1213) In mezzo di duo amanti honesta altera / vidi una donna, et quel signor co lei / che fra gli uomini regna et fra li dei (son. 113, vv 1-3) Or vedi, Amor, che giovenetta donna / tuo regno sprezza, et del mio mal non cura (mad. 121, vv 1-3) Qual [fiore], con un vago errore / girando, parea dir: Qui regna Amore (canz. 126, vv 5152) Come ‘l sol neve, mi governa Amore (canz. 127, v 45) Amor, che nel penser mio vive et regna / e ‘l suo seggio maggior nel mio cor tene (son. 140, vv 1-2) Piangea madonna, e ‘l mio signor ch’i’ fossi / volse a vederla, et suoi lamenti udire (son. 155, vv 5-6) Così dunque fa’ tu: ch’i’ veggio exclusa / ogni altra aita, e ‘l fuggir val niente / dinanzi a l’ali che ‘l signor nostro usa (son. 179, vv 12-14) Amor, et vo’ ben dirti, / disconvensi a signor l’esser sì parco (canz. 207,vv 61-62) Amor par ch’a l’orecchie mi favelle, / dicendo: Quanto questa in terra appare, / fia ‘l viver bello; et poi ‘l vedrem turbare, / perir vertuti, e ‘l mio regno con elle (son. 218, vv 5-8) Onde, a chi nel mio cor siede monarcha, / sono importuno assai più ch’i’ non soglio83 (son. 235, vv 3-4) Ora né ‘l mio signor né le sue note / né ‘l pianger mio né i preghi pon far Laura / trarre o di vita o di martir quest’alma (sest. 239, vv 22-24) L’alto signor dinanzi a cui non vale / nasconder né fuggir, né far difesa (son. 241, vv 1-2) Or al tuo richiamar venir non degno, / ché segnoria non ài fuor del tuo regno (canz. 270, vv 29-30) Gli animi ch’al tuo regno il cielo inchina / leghi ora in uno et ora in altro modo (canz. 270, vv 91-92) Indi mi signoreggia, indi mi sforza (son. 278, vv 6) Ò servito signor crudele et scarso (son. 320, v 12) Or ài fatto l’extremo di tua possa, / o crudel Morte; or ài ‘l regno d’Amore / impoverito […] (son. 326, vv 1-3) Non à ‘l regno d’Amor sì vario stile (sest. 332, v 35) Vedeva a la sua ombra honestamente / il mio signor sedersi et la mia dea (son. 337, vv 78) Sì ch’elli è vinto nel suo regno Amore (son. 340, v 11) Del cibo inde ‘l signor mio sempre abonda (son. 342, v 1) Dammi, signor, che ‘l mio dir giunga al segno84 (son. 354, v 5) Quel’antiquo mio dolce empio signore (canz. 360, v 1) Per inganni et per forza è fatto donno / sovra miei spirti […] (canz. 360, vv 65-66). 83 Qui il poeta si riferisce all’amata. È interessante che al verso precedente si parlasse del regno celeste. Di queste forme di sincretismo si discuterà nel corso del presente capitolo. 84 230 Trovatori De midonz fatz dompn’e seignor (Raimbaut d’Aurenga, XXVII, v 25) E s’eu am so que no m deu eschazer, / forse d’amor m’i fai far vassalatge (Bernart de Ventadorn, XLII, vv 13-14) Mas d’aqesta serai comanz, / tan voil sa seignojria85 (Giraut de Bornelh, XLII, vv 60-61) Tan aves de conoissensa / per que us fan seingnor / amors, jovenz ab onor / e us portan hobediensa (Rigaut de Berbezilh, VI, vv 19-22) E pus ilh a de pretz la senhoria, / e de beutat part totas las plazeus, / non dey passar en re sos mandamens (Bertran d’Alamanon, IV, vv 5-7) A veritat seignoreia (Marcabru, XXXVII, v 28) S’ieu muor, q’en patz ai sofert chascun dia, / puois anc fui natz, la vostra seignoria (Elias Cairel, XII, vv 21-22) Belhs Cavaliers, tant es car / lo vostr onratz senhoratges (Raimbaut de Vaqueiras, XVI, vv 41-42) Midonz, qui sobra m seignoreia / tant que per pauc no m fai follir (Rambertino Buvalelli, IV, vv 19-20) Rics e ioios en vostra seignoria (Aimeric de Belenoi, IX, v 18) Ar ai senhor ab cui no m val merces (Monje de Montaudon, I, v 8) Per qu’ieu tenc car lo vostre senhoratge (Raimon Jordan, XI, v 8) C’aital es sos seynorius ! (Raimon de Miravall, IV, v 5) Mas mi platz tan vostre rics senhorius, / que quant aug dir de vos bonas lauzors, / aissi m’es gaugz e deleitz e sabors (Peire Vidal, IV, vv 8-10) Tro m pres en son seignoratge (Gaucelm Faidit, XVI, v 13) Qu’autra ricor / no i an ni senhoratge; / que pois domna s’avé / d’amar, prejar deu be / cavalier, s’en lui ve / poez’ e vassalatge (Castelloza, II, vv 49-54) Membre us, dompna, qan mi detz seignoriu (Guilhem Ademar, I, v 15) Tant ai mon core l sieu bel seignoratge (Cadenet, XVIII, v 11) Per q’ieu el sieu seignoratge / remaing tot vencudamen (Peire Raimon de Tolosa, IV, vv 52-53) Eu non quier / partir de sa senhoria (Bartolomé Zorzi, IV, vv 83-84) Ab franc vol et ab cor humil / soi totz sotz sa seingnoria, / ni ai cor qu’eu me n desapil, / si m dures mil anz ma via (Lanfranco Cigala, I, vv 51-54) Ni m stau aclin vers autre seingnoratge (Guilhem de Cabestanh, VII, v 28). 1.3.3 L’amante non ha potere su se stesso Un’altra espressione profondamente convenzionale è quella che veicola l’attribuzione del potere nella coppia. Il ruolo dominante è sempre della dama – soprattutto nei componimenti occitanici – o di Amore, mentre al poeta non resta che ammettere di non aver controllo su se stesso. Egli si trova del tutto spossessato della propria volontà. Per quanto il significato sia in sostanza il medesimo, le occorrenze petrarchesche, meno numerose, dimostrano maggiore creatività, variando molto il lessico, la situazione, le 85 È significativo che Giraut usi anche il senhal di “Mon Seinher”, ad esempio nella canzone 18, per indicare la dama. 231 scelte a livello di metafore86. Al contrario, il panorama trobadorico appare molto più uniforme. I Siciliani recuperano molto da vicino l’esempio provenzale, selezionando ulteriormente la scelta dei predicati, ridotti a tre sole forme, già presenti in ambito occitanico, ma inserite in un quadro lessicale un po’ più ampio87. La molteplicità delle soluzioni petrarchesche si conferma un’innovazione del Canzoniere. Petrarca Lo qual in forza altrui presso a l’extremo / riman legato con maggior catena (son. 8, vv 13-14) Ché tèn di me quel d’entro, et io la scorza (canz. 23, v 20) Sì bella com’è questa che mi spoglia / d’arbitrio […] (canz. 29, vv 4-5) Amor, tu che’ pensier’ nostri dispense (son. 48, v 5) Là ‘ve dì et notte stammi / adosso, col poder ch’à in voi raccolto (canz. 71, vv 55-56) Non me n’avidi, lasso, se non quando / fui in lor forza […] (son. 76, vv 4-5) Fuggendo la pregione ove Amor m’ebbe / molt’anni a far di me quel ch’a lui parve (son. 89, vv 1-2) Poi di man mi ti tolse altro lavoro; / ma già ti raggiuns’io mentre fuggivi (son. 93, vv 7-8) Ora a posta d’altrui conven che vada / l’anima che peccò sol una volta (son. 96, vv 13-14) Che ‘l mio adversario con mirabil arte / vago fra i rami ovunque vuol m’adduce (son. 107, vv 13-14) Come puoi tanto in me, s’io nol consento? (son. 132, v 8) Mi trovo in alto mar senza governo88 (son. 132, v 11) Fanno poi gli occhi suoi mio penser vano / perch’ogni mia fortuna, ogni mia sorte, / mio ben, mio male, et mia vita, et mia morte, / quei che solo il pò far, l’à posto in mano (son. 170, vv 5-8) Ov’è colei che mia vita ebbe in mano? (son. 299, v 12) Ogni giorno mi par più di mill’anni / ch’i’ segua la mia fida et cara duce89 (son. 357, vv 1-2) Fuor di man di colui che punge et molce (son. 363, v 9) Trovatori Non ai poder ni cor que m vir’aillors (Arnaut Daniel, V, v 12) 86 All’idea del potere altrui cui l’io poetico è sottomesso si può associare un’altra immagine topica, assente nella produzione occitanica, ma ben attestata in quella italiana, cioè quella delle chiavi del cuore, per cui si vedano i ff. 11, 17, 29, 63, 37, 63, 72, 91, 105, 143, 155, 275, 310. Possiamo ricordare infine anche l’immagine delle chiavi della ragione, che rimandano sempre all’idea del controllo su di sé e sulla propria volontà (ff. 76 e 105). 87 “Comandare”, “avere in balia”, “avere in podestà/potere”. Per il topos si veda Menichetti 1965, p. 67, per l’uso siciliano Ravera 2013, p. 210. 88 Cioè senza il controllo del poeta stesso. 89 Più in generale, è ben attestata nel Canzoniere l’immagine di Laura o talvolta di Amore come guida del poeta. Tale possibilità non è del tutto sconosciuta ai trovatori, ma certamente non altrettanto diffusa. Si vedano in particolare i ff. 73, 129, 135, 139, 163, 211, 306 (Amore) e 119, 142, 160, 270, 277, 316, 357, 358, 366 (la figura femminile, prima Laura e poi la Vergine). 232 Ses cor viu, car ab me no l’ai, / qu’il l’a en baillia!90 (Giraut de Bornelh, X, vv 23-24) E l’us segneir es Amors, q’en baillia / ten mon fin cor e mon fis pessamen (Uc de Saint Circ, II, vv 5-6) C’aissi m’a tot amors en sa baillia (Rigaut de Berbezilh, VIII, v 33) Car en vostra mantenenssa / me mis, Amors, franchament (Folchetto da Marsiglia, XII, vv 10-11) Per q’en vostra merce sui datz / a totz vostres manz obezir (Sordello, V, vv 19-20) Tant que dompna m tengues / del tot en son poder (Raimbaut de Vaqueiras, XIV, vv 3-4) S’ieu fos aissi segner ni poderos / de mi meteis, qe no m tengues amors / ni m’agues si del tot en son poder (Bertran de Born, XXXV, vv 1-3) De mi que sui totz el vostre poder (Arnaut de Maruelh, VII, v 25) Sui remanzutz, domn’, en vostre poder (Raimon Jordan, I, v 5) Ans plus temens c’us tos / soi lai on es poders (Raimon de Miravall, XIV, vv 45-46) Quant un hom es en autrui poder, / no pot totz sos talans complir, / ans l’aven soven a giquir / per l’autrui grat los eu voler. / Donc pos en poder me sui mes / d’Amor, segrai los mals e ls bes (Peire Vidal, XXXIX, vv 1-6) Qu’il m’a conques e m ten en sa bailia (Perdigon, XIII, v 5) Lonjamen m’a trebalhat e malmes / sens nulh repaus Amors en son poder (Aimeric de Peguilhan, XXXIII, vv 1-2) Car ieu mezeis m’anei metre cochos / en tal poder don era m vau plaignen (Gaucelm Faidit, XIII, vv 4-5) E ma vida el sieu poder (Guilhem de la Tor, XII, v 9) Mas q’al seu coman / sui e serai derenan (Peire Raimon de Tolosa, VIII, vv 27-28) […] mi ten en cura / et en poder, e dey la obezir (Bertran Carbonel, VI, vv 38-39) Qu’il m’ac mes en sa bailia (Bartolomé Zorzi, IV, v 81). 1.3.4 Appartenere all’amata L’esito ultimo di tale generalizzata sottomissione è l’ammissione di appartenere ad un’altra persona, per lo più l’amata. Mentre nelle opere provenzali il concetto è molto diffuso, in Petrarca i luoghi in cui esso sia esplicitato sono solo tre. D’altronde è l’intera raccolta, nell’insistenza sulla pervasività e sulla costanza dell’amore, al di là delle singole immagini che le esprimono, a comunicare a più riprese questo stesso concetto. Petrarca Non son mio, no. S’io moro, il danno è vostro (canz. 23, v 100) Per voi conven ch’io arda, e ‘n voi respire, / ch’i’ pur fui vostro; et se di voi son privo, / via men d’ogni sventura altra mi dole (son. 267, vv 9-11) Poi che suo fui non ebbi hora tranquilla, / né spero aver […] (canz. 360, vv 61-62). 90 In questo caso specifico ad essere in potere dell’amata è il cuore del poeta che tra l’altro, secondo la convenzione, anche fisicamente non si trova presso il poeta, ma con l’amata. Per il topos della separazione cuore/corpo e per il legame tra il cuore del poeta e l’amata, si veda oltre in questo capitolo. 233 Trovatori Preiatz liei don m’amors no s tol / qu’en aia merce cum del son (Arnaut Daniel, VI, vv 31-32) Domna vostre sui e serai (Bernart de Ventadorn, XXXIII, v 29) Mas tan sui sieus, si per sieu mi tengues, / puois fezes en cum del sieu a sa guia (Uc de Saint Circ, VII, vv 23-24) Que vostre sui e per vostre m respon (Rigaut de Berbezilh, VIII, v 26) C’aissi soi sieus con esser dei (Cercamon, III, v 30) Sieus seria, si m volia, sens bauzia e ses error (Marcabru, XXIV, v 15) E m tenc per sieu en tot bon covinen91 (Elias Cairel, XIV, v 9) Car vostre sui e per vostre m’autrei (Arnaut de Maruelh, XII, v 25) Vostre sui hieu aissi ses tot enguan (Raimon Jordan, VI, v 23) Car il m’a tot, c’autra no m dejna ges (Raimon de Miravall, V, v 16) Per qu’eu sui seus e serai tan quan viva (Peire Vidal, VII, v 35) Mas quar sui del tot sieus, / mielha que d’autrui ni mieus, / m’es plus grau quar m’auci (Aimeric de Peguilhan, XLIX, vv 5-7) Suy sieus, ses tot enjan (Gaucelm Faidit, XXXIV, v 49) Quar sieus suy per vendr’e per dar (Guilhem Ademar, IV, v 55) Bona dompna, mas vostr’om so / qu’autre no us me pot guerentir (Folquet de Romans, XV, vv 9-10) A vos mi do, ab voler tota via (Bertran Carbonel, III, v 18) Que m tengues per sieu, assatz / for mos dezirs complitz (Guiraut Riquier, XIII, vv 1415). 1.3.5 Rendersi all’amata Per precisare l’idea di dedizione, si tenga conto anche di un altro topos, diffusissimo in area occitanica, che nel Canzoniere è attestato solo in due, significative, occorrenze: la resa di sé e delle proprie “armi”, dovuta alle sofferenze amorose. Un concetto molto simile è veicolato dall’idea di “donarsi” all’amata: una sola occorrenza esplicita in Petrarca, numerose invece in ambito occitanico. Petrarca Mille fiate, o dolce mia guerrera, / per aver co’ begli occhi vostri pace / v’aggio proferto il cor; ma voi non piace / mirar sì basso colla mente altera (son. 21, vv 1-4) S’i’ ‘l dissi, il dir s’innaspri, che s’udia / sì dolce allor che vinto mi rendei (canz. 206, vv 30-31) Or, lasso, alzo la mano, et l’arme rendo / a l’empia et violenta mia fortuna (canz. 331, vv 7-8). 91 In questo caso, però, il poeta si riferisce ad Amore e non alla dama. 234 Trovatori Ans franchamen / li m ren (Arnaut Daniel, VII, vv 63-64) Pero totz fis mas juntas a li m rendi (Arnaut Daniel, XII, v 38) Ors ni leos non etz vos ges / que m aucizatz s’a vos me ren (Bernart de Ventadorn, XXXI, vv 55-56) Covenra c’al sue sejn rejn (Giraut de Bornelh, XXIV, v 23) Qu’ans mi rent a lieys e m liure (Guglielmo IX, XI, v 7) A cui mi suy de leyal cor rendutz (Bertran d’Alamanon, IV, v 3) A vos mi ren, pros dona cui ador (Folchetto da Marsiglia, XVII, v 46) A cuy m’autrey e m ren e m do (Sordello, IV, v 4) Dauna, io mi rent a bos (Raimbaut de Vaqueiras, XVI, v 25) M’ant si conquis c’ad autra no m puosc rendre (Arnaut de Maruelh, XV, v 24) A lieis mi do, liges, ses tot reguart (Raimon Jordan, XIII, v 20) Per zo m son eu del tot a leis rendutz (Raimon de Miravall, V, v 29) Bona domna, si us platz, a vos mi ren (Peire Vidal, X, v 65) A lei m’autrei e m rent e m do (Gaucelm Faidit, V, v 51) Qu’en vostre mercé m metrai (Azalais de Porcairagues, I, v 38) Per q’ieu li m ren (Folquet de Romans, V, v 10) Per so car fis ab fin cor finame / li m sui rendutz, si tot ben no m’acoil (Peire Raimon de Tolosa, V, vv 4-5) E quar me suy a lieys donatz (Guiraut Riquier, IV, v 28) A vos mi ren, qu’a mi dons mi rendatz (Daude de Pradas, XVI, v 39). 1.3.6 Colori d’Amore Amore lascia un segno visibile sul volto di chi entra a far parte della sua schiera: colori ben riconoscibili. Sia nel Canzoniere92 sia nei Provenzali le occorrenze non sono numerose, ma il confronto con gli antecedenti trobadorici chiarisce la matrice convenzionale del concetto. Si tratta di un’interessante variazione di un altro topos, ancor più radicato: tradizionalmente, il colore degli amanti (nonché quello della morte, secondo un’associazione a sua volta convenzionale) è il bianco, ad indicare il pallore. Petrarca Et io ne prego Amore, et quella sorda / che mi lassò de’ suoi color’ depinto (son. 36, vv 12-13) Volgendo gli occhi al mio novo colore / che fa di morte rimembrar la gente (bal. 63, vv 12) Vedete ben quanti color’ depigne / Amor sovente in mezzo del mio volto (canz. 71, vv 52-53) Quando sarai del mio colore accorto (son. 76, v 12) 92 Ad esse vanno aggiunti gli altri riferimenti al colore che arricchiscono la rappresentazione di Laura o della situazione amorosa (ff. 9, 36, 46, 71, 102, 125, 127). Ancora diverso, infine, l’uso in 125, dove il poeta si riferisce ai “colori retorici”. 235 Sì come i miei seguaci discoloro (son. 93, 3) Quinci in duo volti un color morto appare (son. 94, v 9) Amor m’assale, ond’io mi discoloro (son. 291, v 3) Talor mi trema ‘l cor d’un dolce gelo / udendo lei per ch’io mi discoloro (son. 362, vv 56). Trovatori E l vis s’en dezacolora (Bernart de Ventadorn, III, v 58) C’amors s’embria / lai on conois son par, / blancha e floria / e presta de granar (Marcabru, XXXII, vv 64-67) Colors d’autras beutatz (Arnaut de Maruelh, XI, v 41) Camjant mais de mil colors (Bonifaci Calvo, I, v 12). 1.3.7 Gesti che esprimono la subordinazione e la devozione Un chiaro segno della sottomissione dell’innamorato nei confronti della sua amata è la disponibilità a prostrarsi ai suoi piedi. I trovatori propongono un’immagine singolare, anche per la sua ricorrenza in componimenti e contesti diversi: l’io poetico, spesso a suggello di profferte di fedeltà e dedizione, si inginocchia di fronte alla dama e giunge le mani in atto di preghiera. La scena ha in effetti un sapore religioso (potremmo dire, un po’ blasfemo)93, cui si sovrappongono reminiscenze feudali: il vassallo d’amore si prostra ai piedi della sua signora, a seconda dei casi implorando perdono, aiuto o un accordo amoroso. L’analisi del Canzoniere rivela la presenza di un’immagine corrispondente e al medesimo tempo diversa. Anche l’io lirico petrarchesco si dichiara pronto a manifestare fisicamente la propria subordinazione a Laura, ma invece di “inginocchiarsi” egli dice “inchinarsi”94. La scelta lessicale sembra in parte dovuta al rispetto per la sfera religiosa: infatti, solo in due dei luoghi in cui l’atto di devozione è rivolto a Dio o alla Vergine (canzoni 28 e 366) Petrarca recupera il dettaglio delle ginocchia. In un terzo caso, all’interno della seconda similitudine con cui si apre il sonetto 226, il poeta attribuisce alla gratitudine verso Dio un inchino che giunge sino a terra. Quest’ultima indicazione, d’altronde, si ripropone anche in riferimento a Laura; più in generale nella raccolta non mancano numerose altre sovrapposizioni di elementi sacri e profani, che in parte si riscontrano proprio nei luoghi in cui ricorre l’immagine dell’inchino (sonetto 228)95. Possiamo inoltre ipotizzare che nel cambiamento lessicale sia coinvolto il riferimento ad un diverso contesto storico-sociale: non più l’ambiente feudale, le cui metafore 93 Della mescolanza e sovrapposizione di elementi sacri e profani si tratterà con maggior approfondimento nel corso del presente capitolo. 94 Tale forma è presente nel Canzoniere anche in luoghi diversi, in cui assume il più generico senso di abbassarsi, chinarsi, ad esempio in riferimento allo sguardo. 95 Anche l’analisi di tale aspetto compositivo consente un’interessante confronto tra Petrarca e trovatori e sarà materia del presente capitolo. 236 pertengono all’opera petrarchesca in modo limitato e molto stilizzato, ma quello cortigiano pre-umanistico. Dal punto di vista della vicenda amorosa, comunque, il concetto non cambia nel passaggio dalla Provenza all’Italia, e rivela un ulteriore spazio di riuso autonomo delle modalità espressive convenzionali. Petrarca Non la tocchar; ma reverente ai piedi / le di’ ch’io sarò là tosto ch’io possa (canz. 37, vv 118-119) Ratto inchinai la fronte vergognosa96 (canz. 119, v 65) Fuggo ove ‘l gran desio mi sprona e ‘nchina (son. 151, v 4) L’andar celeste, e ‘l vago spirto ardente, / ch’ogni dur rompe et ogni altezza inchina97 (son. 213, vv 7-8) Tal la mi trovo al petto, ove ch’i’ sia, / felice incarco; et con preghiere honeste / l’adoro e ‘nchino come cosa santa (son. 228, vv 12-14) Gli animi ch’al tuo regno il cielo inchina / leghi ora in uno et ora in altro modo (canz. 270, vv 91-92) Menami al suo Signor: allor m’inchino, / pregando humilemente che consenta / ch’i’ stia a veder et l’uno et l’altro volto (son. 362, vv 9-11). Trovatori Li dei totz temps estar als pes (Raimbaut d’Aurenga, VI, v 42) A genolhs e umilians (Bernart de Ventadorn, XXVI, v 34) Estiers no m sai vas sas armas deffendre / mas ab merce, que tan li suis aclis98 / qui non es jois ni autre paradis (Rigaut de Berbezilh, V, vv 5-7) Ja de sos pes no m partira (Cercamon, II, v 22) Mas iongz, aclis, per far tot son coman (Folchetto da Marsiglia, XX, v 24) De sol aitan mi tengr’ieu per paguatz: / que l vengues, mas jontas, denan, / e l mostres, de ginolhs ploran, / cum suy sieus endomenjatz (Alegret, I, vv 25-28) Q’eu degra estar totz temps de genoillos / a vostre pes, tro que fos franchamen (Rambertino Buvalelli, VII, vv 45-46) Qu’al sieu pays / estau aclis / mos mas ionhs ambedos (Aimeric de Belenoi, IV, vv 31-33) […] ves cuy ieu sui aclis (Arnaut de Maruelh, XVI, v 24) Qu’ie lh serai homs et aclis (Raimon Jordan, VII, v 49) Vengues ves lieis de ginolhos / e li disses un mot amoros (Peire d’Alvernha, IX, vv 2728) 96 In questo caso è sufficiente parafrasare il termine “inchinarsi” con un generico “abbassai”; tuttavia è interessante come il contesto della canzone, in cui il poeta dialoga e si confronta con la Gloria, suggerisca un’accezione particolarmente rispettosa ed ossequiosa dell’immagine. 97 Anche in questo brano alla lettera “inchinare” significa “piegare”: si tratta però dell’effetto dell’amata e della sua natura fuori dall’ordinario che determina anche la subordinazione del poeta. 98 Questa formula torna spessissimo nelle canzoni trobadoriche, oscillando tra l’immagine più articolata dell’inginocchiarsi e l’idea astratta della sottomissione. 237 C’adobatz li sui del rendre, / mas juntas e de genolhos (Raimon de Miravall, XXVIII, vv 35-36) Si, per merces, merce ill quier mercejan, / e de genoils, mas jonhtas et aclis (Gaucelm Faidit, VI, vv 29-30) Anz ditz chascus, qan vol prejar, / mans jointas e de genolos (Gui d’Ussel, XV, vv 35-36) Car ieu no il sui denan, / mans joingz, aclis, per far tot son coman (Folquet de Romans, XVI, vv 23-24) Gran talent ai cum pogues / de ginols ves lieys venir, / de tan luenh cum hom cauzir / la poiria que l vengues, / mas iuntas, far homenes (Peire Raimon de Tolosa, II, vv 17-21) Soplei vas vos, cui ieu am et açor (Peire Bremon Ricas Novas, XII, v 19) Que’s rend’a vos mas joynhz, de ginolhs (Guilhem Peire de Cazals, I, v 30) Lai joing mas mans e lai estau aclis (Peirol, XXII, v 10). 1.3.8 Una paziente attesa Tema frequentissimo nei componimenti occitanici è quello della sopportazione e dell’attesa: anche dal punto di vista lessicale99, i due aspetti sono strettamente legati, addirittura sovrapposti. Si tratta di un motivo rilevante, poiché contribuisce a veicolare alcuni principi essenziali dell’amore cortese. Attraverso l’attesa ed una strenua resistenza al dolore, il paziente vassallo d’amore garantisce che il processo di miglioramento interiore, fine ultimo dell’amore fine, sia efficace. D’altro canto, l’unico possibile stato d’animo che consenta all’io poetico di affrontare a lungo un rapporto amoroso per sua natura privo di sbocchi ed illegittimo è proprio la sopportazione. Talvolta, infine, il poeta si dichiara convinto di poter ottenere grandi soddisfazioni dall’amata dimostrandosi capace di sopportare100. Nel Canzoniere, l’idea di attesa o quella di sopportazione, ben riconoscibili anche se non molto frequenti, presentano declinazioni molteplici. Una prima variante rispetto al topos provenzale deriva dalla morte di Laura, che determina uno spostamento della prospettiva dell’attesa da una soddisfazione contingente a un ricongiungimento ultramondano. Un secondo passaggio è quello alla vita morale e cristiana, per tramite della stessa Laura, che nella sua beatificazione celeste costituisce un esempio formativo. Tali aspetti, infine, sono perfettamente coerenti con un fattore cardine nella moralità cortese e come tali già tipici della lirica trobadorica: la moderazione o misura, termine che nei Provenzali ritorna con altissima frequenza101. 99 Come si vedrà leggendo i testi, entrambi questi aspetti sono espressi attraverso il predicato “sofferir”; anche nell’uso italiano rimane tale sfumatura, al di là del significato già presente e poi moderno di “dolersi”; altra forma frequente, che identifica in modo più specifico l’idea dell’attesa, è “aten”, cui si aggiungono numerose varianti grafiche e diversi derivati. 100 Tale principio viene recuperato ed anzi ampliato (anche a livello di scelte lessicali) in ambito siciliano, anche perché si adatta all’atteggiamento tipico dell’amante (per tale questione si veda Ravera 2013). 101 Anche in Petrarca ricorre il termine “misura”, ma mentre nei trovatori l’obiettivo principale è ricordare, anche nella passione amorosa, l’importanza di non perdere di vista il modello di un corretto comportamento, nel Canzoniere è tendenzialmente uno strumento per comunicare proprio l’infrazione della norma, l’eccesso e quindi l’errore del desiderio o degli atteggiamenti ad esso ispirati. Si vedano in particolare la canzone 71 (“misurata allegrezza / non avria ‘l cor […],”, vv 64-65), il sonetto 90 (“e ‘l 238 Petrarca Non ò tanti capelli in queste chiome / quanti vorrei quel giorno attender anni102 (sest. 30, vv 11-12) Mie venture al venir son tarde et pigre, / la speme incerta, e ‘l desir monta et cresce, / onde e ‘l lassare et l’aspectar m’incresce (son. 57, vv 1-3) Io son de l’aspectar omai sì vinto, / et de la lunga guerra de’ sospiri (son. 96, vv 1-2) Quella ch’amare et sofferir ne ‘nsegna / e vol che ‘l gran desio, l’accesa spene, / ragion, vergogna et reverenza affrene (son. 140, vv 5-7) Alma, non ti lagnar, ma soffra et taci, / et tempra il dolce amaro, che n’à offeso, / col dolce honor che d’amar quella ài preso (son. 205, vv 5-7) Così di ben amar porto tormento103 (canz. 207, v 79) Indi et mansuetudine et durezza / et atti feri, et humili et cortesi, / porto egualmente, né me gravan pesi (son. 229, vv 5-7) Perché mai veder lei / di qua non spero, et l’aspettar m’è noia (canz. 268, vv 7-8) E ‘l rimembrare et l’aspettar m’accora, / or quinci or quindi104 […] (son. 272, vv 5-6) Ciò che s’indugia è proprio per mio damno (son. 278, v 12) Ch’alfine vinta fu quell’infinita / mia patientia, e ‘n odio ebbi la vita (canz. 360, vv 1415) Responde: - Egli è ben fermo il tuo destino; et per tardar anchor vent’anni o trenta, / parrà a te troppo, et non fia però molto. (son. 362, vv 12-14)105. vago lume oltra misura ardea”, v 3), il sonetto 154 (“tanta negli occhi bei for di misura / par ch’Amore et dolcezza et gratia piova”, vv 7-8). 102 In realtà tutta la sestina 30 è dedicata al senso di attesa, di un amore senza scampo che si prolunga nel tempo a prescidere dai cambiamenti soggettivi nel poeta o da quelli oggettivi nel contesto che lo circonda. Sono tutti aspetti coerenti con l’indicazione conclusiva relativa al settimo anniversario, che rimanda, data la scelta del numero simbolico, al servizio di Giacobbe per il padre di Lia e Rachele. Qui il rimando biblico rimane implicito; appare però essenziale anche la matrice trobadorica (su questo aspetto si tornerà con ampiezza nel capitolo successivo). Nella conclusione di 206, di cui si è trattato in precedenza, è esplicitato il rimando biblico, mentre la durata del servizio non è indicata. I versi 11-12 della sestina sono a loro volta particolarmente significativi, poiché il poeta dichiara in modo esplicito la scelta di un’attesa e di una sopportazione paradossale ed iperbolica, volutamente senza fine. 103 Il concetto di amare bene, cioè secondo le regole e insieme secondo la morale, è tipico dell’amore cortese, e diffusissimo nelle opere trobadoriche, dove i poeti insistono con notevolissima frequenza sulle loro qualità di amanti (fedeltà, lealtà, devozione). Il loro amore si definisce perciò “fino”, con chiara valenza tecnica. Ovviamente tale amore perfetto comporta anche un atteggiamento paziente e dunque in questo brano Petrarca fonde due topoi di grande rilievo. 104 Le occorrenze successive alla morte di Laura, a parte quelle della ballata 324 e delle canzoni 270 e 360, che hanno un’impostazione retrospettiva, sono tutte imperniate sul concetto di “attesa di rivedere l’amata”. La canzone 270 ha per altro un’impostazione molto peculiare, per cui si veda il capitolo precedente. 105 A queste occorrenze si può aggiungere per la sua ispirazione di fondo, nonostante le scelte lessicali meno esplicite, la seconda terzina di Aspro core, che non a caso è ispirata, per ammissione dello stesso Petrarca, alla lettura di Arnaut Daniel: “Non è sì duro cor che, lagrimando, / pregando, amando, talor non si smova, / né sì freddo voler, che non si scalde”. Alla base del brano è l’idea, a sua volta convenzionale, secondo cui resistendo si ottengono straordinari risultati: questo topos però era stato recuperato già dai Siciliani, in quanto particolarmente coerente con il loro approccio più passivo e sottomesso rispetto a quello dei trovatori (Ravera 2013). 239 Trovatori Bernart, totz om deu aver dan, / s’a la cocha no sap sofrir (Bernart de Ventadorn, XIV, vv 25-26) E qe m feigna coindes e gais / e sufra; qe ls plus cars avers / dona bos suffrirs e temers (Giraut de Bornelh, XXIII, 16-18) Que sol es savis qui aten (Jaufré Rudel, V, v 13) A bon coratge bon poder, / qui s ben sufrens (Guglielmo IX, VII, vv 23-24) Ni mai no m’ platz q’ieu atenda / acort ni dura merce / ni plazer ni joi in be / que sofren amors mi renda (Uc de Saint Circ, XII, vv 6-9) E per aisso voill sofrir la dolors (Rigaut de Berbezilh, IX, v 25) Be ill lauzi fassa m pro musar, / q’eu n’aurai so que m n’es promes (Marcabru, XV, vv 35-36) Quar meils sai sufertar em patz (Folchetto da Marsiglia, XV, v 8) E no m recrei tan ni quan, / ans suffr’ e m vauc aturan, / qar cel consec qi aten (Peire de la Valeria, I, vv 10-12) Que farai? Soffr’en patz! (Elias Cairel, VIII, v 20) Que celans e temens / et homils e sofrens / vos sui, ses cor leugier (Raimbaut de Vaqueiras, XIV, vv 71-73) Don mi valgra mais sufrenssa (Monje de Montaudon, VII, v 3) Mas non es vers, que que us anetz guaban, / qu’anc us dels mieus fos trahitz per atendre106 (Raimon Jordan, IX, vv 16-17) Mas per la bona atendenssa / esper c’alcus iois m’en veigna (Peire d’Alvernha, I, vv 1112) E d’ela m platz que m fassa guizardo, / et a vos lais lo lonc atendemen / senes jauzir, qu’eu volh lo jauzimen (Peire Vidal, XLVI, vv 20-22) Q’ab mi dons mi fai remaner / amic e leyal e sufren / et a tot so c’a leis deu abelir (Perdigon, VI, vv 11-13) Puois no m’en gau ab precs ni ab lauzor / qu’eu en diga, sufren ni ab servir (Aimeric de Peguilhan, XVIII, vv 19-20) Mas de tot sui leials sofrire (Gaucelm Faidit, LII, v 39) S’es mieils c’aissi sofra et endur / o part son voler me perjur ? (Gui d’Ussel, XXIV, vv 89) Qe farai donc ? Atendrai / e veirai / s’amor me volra garir / del mal dont sovent sospir (Guilhem de la Tor, XI, vv 17-20) Per gen sufrir ai conques / de midons tot quan mi plai (Folquet de Romans, III, vv 19-20) Qu’ans farai tan de mezura / qu’ieu sufrirai to tem patz (Cadenet, XI, vv 14-15) Q’ieu plus aten, / porgues aver, ben fora plus ioyos (Peire Raimon de Tolosa, XVI, vv 67) Mais am lo talan e l dezir / sofrir, e l greu mal (Bertran Carbonel, I, vv 51-52) Quar quecs deu sofrir en patz (Bartolomé Zorzi, VII, v 16) 106 A parlare è Amore, che per tutto l’arco della canzone tenzona con il poeta innamorato. Tale struttura non costituisce un’invenzione isolata del Jordan, il che appare per altro significativo rispetto alla prospettiva petrarchesca nella canzone 360 (che si è analizzata con attenzione nel capitolo precedente); essa comunque appare il frutto della più generale consuetudine dell’apostrofe ad Amore, anche altrove presente nel Canzoniere e nei trovatori, anche se qui è meno attestata rispetto a quella a madonna. 240 Ni precx humils ses tot endenh, / celars, sufrirs, quecx si empenh (Guiraut Riquier, V, vv 26-27) 1.4 Priorità innaturali Il risultato della subordinazione ad Amore e a madonna è una condizione innaturale. L’io poetico si trova in balia dei suoi signori, non più capace di attribuire la giusta importanza a se stesso e alla propria salvezza. L’innamorato cioè sposta al di fuori di se stesso le proprie ragioni, si perde, rinuncia a qualunque autonomia di giudizio e demanda la propria identità alla figura femminile o talvolta ad Amore. Ecco dunque cosa si intende quando si afferma che la sottomissione amorosa si traduce in uno stato di vera e propria alienazione. Molteplici elementi contribuiscono alla rappresentazione di tale quadro; tuttavia è possibile proporne una tassonomia di massima. 1.4.1 Amare la dama più di se stessi Piegato alla volontà altrui e privo di controllo su se stesso, l’innamorato attribuisce alla dama un’importanza iperbolica, che comporta di necessità una svalutazione di se stesso. I suoi interessi passano dunque in secondo piano: è topica ad esempio l’affermazione secondo cui l’io poetico soffre, ma si preoccupa più dello stato dell’amata che del proprio. Simili soluzioni evidenziano in modo significativo la connessione tra Petrarca e i trovatori: in entrambi i casi le occorrenze non sono numerose, ma risultano profondamente significative. Petrarca Ch’i’ piango l’altrui noia, et no ‘l mio danno107; / et cieca al suo morir l’alma consente (son. 141, vv 13-14) Così di ben amar porto tormento, / et del peccato altrui cheggio perdono (canz. 207, vv 79-80) Più l’altrui fallo che ‘l mi’ mal mi dole (son. 216, v 12) S’aver altrui più caro che se stesso (son. 224, v 9) Per cui sempre altrui più che me stesso ami (son. 255, v 11) Chè non fu d’allegrezza a’ suoi dì mai, / di libertà, di vita alma sì vaga, / che non cangiasse ‘l suo natural modo, / togliendo anzi per lei sempre trar guai (son. 296, vv 912). 107 L’insistenza sul danno è molto rilevante: al di là dei luoghi in cui il poeta si preoccupa per l’amata, l’intero sistema semantico-lessicale di colpa/danno/pena è oggetto di notevole insistenza sia in Petrarca sia nei trovatori, che, riguardo a tale motivo, sembrano influenzare il poeta aretino ben più di quanto non avvenga per i Siciliani. 241 Trovatori Per me us o dic qu’anc non poc desamar / celha que m tol del tot joi e deport, / anz m’afortis ades on peger m’es (Arnaut Daniel, VI, vv 26-28) Ben so trafans / q’eu eis m’engan (Raimbaut d’Aurenga, XVI, vv 25-26) Tort n’a mas eu lo lh perdo, / e mos cors li reperdona, / car tan la sai bel’ e bona / que tuih li mal m’en son bo (Bernart de Ventadorn, IX, vv 21-24) En son plazer sia, / qu’eu sui en sa merce. / s’ilh platz que m’aucia, / qu’eu no m’en clam de re (Bernart de Ventadorn, XXV, vv 56-60) Qu’ieu am mas que re / neus me / no m’am tan (Giraut de Bornelh, XVI, vv 8-10) Pert mi e vos: gardatz si m dei marrir (Folchetto da Marsiglia, I, v 40) Car mos talans / non es d’als volontos / mas c’a mos ans / reing a sas voluntatz (Sordello, XI, vv 37-40) Aiso m destrui! / Mas lo joi de leis, quar l’am, me desdui (Amanieu de la Broqueira, II, vv 35-36) Q’en lei non voill metre garda / mas sa valor e son sen (Peire de la Valeria, II, vv 14-15) Anz iur per leis cui tenc al cor plus car / on plus fort l’am la cug petit amar (Aimeric de Belenoi, VII, vv 7-8) Eu am mais trop ab vos, / bella domna e pros, / totz temps far mon damnatge, / c’ab autra conqueses (Arnaut de Maruelh, XXII, vv 5-8) Per qu’eu no volh ricor / de terra ni d’aver / tan com far son plazer (Peire Vidal, XXXIV, vv 18-20) E s’ieu pert lieis cui me coman, / perdut ai me e joi e chan (Perdigon, III, vv 31-32) Qu’a me sui fals, tanta m vos finamen (Aimeric de Peguilhan, XXXIX, v 38) Qu’a far en tot sos comans / son faitz, e per lieys servir108 (Gaucelm Faidit, II, vv 15-16) Qe l cor e l cors e l saber e l veiaire / e l’ardimen e l sen e la vertut / ai mes en lieis, que no m n’ai retengut (Peire Raimon de Tolosa, VIII, vv 43-45) Que sai les que valia ll mieu / maltag […] (Bonifaci Calvo, IV, vv 21-22) Qar si trop mais non l’amasses qe vos, / non creiria qe fosses amoros (Lanfranco Cigala, IX, vv 15-16) Q’ab tal plazer sai dezirar s’amor / qe jauzentz sui d’aisso q’autres s’irais (Peire Bremon Ricas Novas, II, vv 23-24) […] que ferir / sap tan gen qu’om no n vol guerir (Folquet de Lunel, I, vv 39-40) Sylh, qu’ieu pus am, que no m fa nulg secors (Guiraut Riquier, XII, v 4) E conoissetz qu’autra ni me / no am tan, per la fe qu’eu dei (Guilhem Augier Novella, VI, vv 48-49) Mayntas vetz oblit mey, / qu’ieu lau vos e mercey (Guilhem de Cabestanh, V, vv 14-15) Com plus m’enliama / greumen, / e m’art e m’aflama, / n’ai melhor talen (Peirol, VII, vv 41-44). 108 Questo tipo di affermazione è particolarmente interessante e significativa, poiché evidenzia il radicale spossessamento dell’amante, la cui finalità esistenziale si risolve nell’amata, determinando la forma più piena di alienazione. 242 1.4.2 Accettare o desiderare la morte La disponibilità del poeta al dolore che l’esperienza amorosa gli procura può essere presentata secondo modalità diverse. Un primo elemento molto diffuso, anche nel Canzoniere, è il desiderio di morire: è un topos già provenzale. Le formule utilizzate in Provenza sono pressoché fisse (morire desiderando / morire di desiderio / desiderare di morire) a fronte delle molte realizzate nei fragmenta. Nella raccolta, d’altro canto, interviene come di consueto anche l’evoluzione della vicenda e della psicologia dell’io a determinare tale varietà: prima si tratta di morire per evitare le sofferenze amorose, poi per raggiungere l’amata, o per lo meno superare il dolore della sua perdita, mentre nei componimenti penitenziali la morte è associata al pericolo della punizione o alla speranza di salvezza. Petrarca Mentr’io portava i be’ pensier’ celati, / ch’ànno la mente desiando morta (bal. 11, vv 5-6) Chiamando Morte, et lei sola per nome (canz. 23, v 140) Et poi morrò, s’io non credo al desio (son. 47, v 14) Se col cieco desir che ‘l cor distrugge (son. 56, v 1) Quante volte m’udiste chiamar morte! (canz. 71, v 39) Ch’è bel morir, mentre la vita è dextra (son. 86, v 1) Vattene, trista, ché non va per tempo / chi dopo lassa i suoi dì più sereni (son. 86, vv 1314) Pien di quella ineffabile dolcezza / che del bel viso trassen gli occhi miei / nel dì che volentier chiusi gli avrei / per non mirar già mai minor bellezza (son. 116, vv 1-4) Et bramo di perir, et cheggio aita (son. 134, v 10) Simil fortuna stampa / mia vita, che morir poria ridendo (canz. 135, vv 80-81) Tu ài li strali et l’arco: / fa’ di tua man, non pur bramand’io mora, / ch’un bel morir tutta la vita honora (canz. 207, vv 63-65) Ché ben muor chi morendo esce di doglia (canz. 207, v 91) Sappia ‘l mondo che dolce è la mia morte (son. 217, v 14) Di dì in dì spero omai l’ultima sera / che scevri in me dal vivo terren l’onde / et mi lasci dormire in qualche piaggia (sest. 237, vv 7-8) Ch’è già di pianger et di viver lasso (son. 243, v 11) Se per salir a l’eterno soggiorno / uscita è pur del bel’albergo fora, / prego non tardi il mio ultimo giorno (son. 251, vv 12-14) […] morte, ogni altro bene non spero (son. 267, v 6) Tempo è ben di morire, / et ò tardato più ch’i’ non vorrei (canz. 268, vv 2-3) Deh perché me del mio mortal non scorza / l’ultimo dì, ch’è primo a l’altra vita? (son. 278, vv 7-8) […] onde morte piacque oltra nostro uso (son. 296, v 8) […] e di tal piaga / morir contenta, et vivere in tal nodo (son. 296, vv 13-14) Quant’a la dispietata et dura Morte, / ch’avendo spento in lei la vita mia, / stassi ne’ suoi belli occhi, et me non chiama! (son. 300, vv 12-14) 243 Noia m’è ‘l viver sì gravosa et lunga / ch’i’ chiamo il fine, per lo gran desire / di riveder cui non veder fu ‘l meglio (son. 312, vv 12-14) Così disciolto dal mortal mio velo / ch’a forza mi tien qui, foss’io con loro / fuor de’ sospir’ fra l’anime beate! (son. 313, vv 12-14) Nel qual io vivo, et morto giacer volli (son. 320, v 8) Queste sei visioni al signor mio / àn fatto un dolce di morir desio (canz. 323, vv 74-75) L’altra [la Morte] mi tèn qua giù contra mia voglia (ba. 324, v 7) I’ cheggio a Morte incontra Morte aita (son. 327, v 7) Il dolce acerbo, e ‘l bel piacer molesto / mi si fa d’ora in hora, onde ‘l camino / sì breve non fornir spero et pavento (canz. 331, vv 19-21) Odiar vita mi fanno, et bramar morte (sest. 332, v 6) Ditele ch’i’ son già di viver lasso, / del navigar per queste horribili onde (son. 333, vv 56) Ma tropp’era alta al mio peso terreste, / et poco poi n’uscì in tutto di vista: / di che pensando anchor m’agghiaccio et torpo (son. 335, vv 9-11) Et dolce incominciò farsi la morte109 (son. 352, v 14) Ma ‘l dolce viso dolce pò far Morte (son. 358, v 2) Dunque vien’, Morte: il tuo venir m’è caro. / Et non tardar, ch’egli è ben tempo omai; / et se non fusse, e’ fu ‘l tempo in quel punto / che madonna passò di questa vita (son. 358, vv 8-11) Et al Signor ch’i’ adoro et ch’i’ ringratio, / […] / torno stanco di viver, nonché satio (son. 363, vv 12-14). Trovatori E volria trop mai murir (Bernart Martì, IX, v 13) Car me mor e volh trapassar (Bernart de Ventadorn, XL, v 76) Per qu’ieu conosc e sai q’es vers / qe viures val meinz que morirs ? (Giraut de Bonelh, IX, vv 25-26) Per que m’agr’ops, s’ieu pogues, / c’al cor e als huoills, qe m fan / aver de ma mort talan (Uc de Saint Circ, I, vv 11-13) La dousa mort don eu voill estr’aucis (Rigaut de Berbezilh, V, v 39) C’adoncs viu sas quan m’aucio ill cossire (Folchetto da Marsiglia, II, v 5) Quar per quascu mor, languen, de dezire (Sordello, VII, v 4) Voluntatz l’es que deziran m’aucia, / e plaz me molt, pus aitan l’abelhis (Alegret, I, vv 56) Vezer volgra N’ Ezelgarda, / qar hai de morir talan (Peire de la Valeria, II, vv 1-2) E la mortz es ma maier esperansa (Aimeric de Belenoi, VI, v 24) Dompna, s’ieu muer per vostr’amor be m plai (Raimon Jordan, III, v 41) Per qu’aitals martz m’es vida naturals (Aimeric de Peguilhan, XXXVIII, v 21) E, pois li platz, mout m’es bons à sofrir, / car autramen non porri’ eu morir / tant bonamen, ni ab tant doutz martire (Gaucelm Faidit, XVII, vv 22-24) Car non sui lai on estai sos cors gens, / doutz e plazens, / que m’auci desiran (Folquet de Romans, XVI, vv 5-7) 109 Per il contatto con Laura, che è appunto defunta. L’immagine era già dantesca, nella Vita nova. 244 Pero tals m’a ses tot aisso conques / quem plagra meus si ‘lam volia aucire (Bartolomé Zorzi, XVII, vv 51-52) Prec que pessetz, o que tost m’auciatz (Cerverì de Girona, LX, v 38) E, si tut muoir, dei aver gioi coral, / car nuls viures mon dos morir non val (Peire Bremon Ricas Novas, III, vv 19-20) Ben garitz seria / s’ab tan doussa pena / midonz m’aucizia (Peirol, V, vv 30-32). 1.4.3 Meglio morire che vivere nel dolore o senza l’amata Una parziale variante si coglie nell’espressione della preferenza, che riconosce cioè nella morte una possibilità migliore rispetto ad altre condizioni alternative, con la tipica struttura “meglio… piuttosto che…”110. La preferenza per la morte è sottesa al desiderio e al rimpianto di non essere morti prima dell’amata: è un aspetto particolarmente interessante nel caso del Canzoniere, in virtù della bipartizione in vita e in morte di Laura. Il poeta avrebbe scelto di morire insieme o al posto dell’amata piuttosto che vivere il lutto. M’è più caro ‘l morir che ‘l viver senza (canz. 71, v 30) Il meglio è ch’io mi mora amando, et taccia (son. 171, v 4) I’ beato direi, / tre volte et quattro et sei, / chi, devendo languir, si morì pria (canz. 206, vv 52-54) […] O vivo Giove, / manda, prego, il mio in prima che ‘l suo fine (son. 246, vv 7-8) Madonna è morta, et à seco il mio core; / et volendol seguire, / interromper conven quest’anni rei (canz. 268, vv 4-6) Ma piango et grido: Ahi nobil pellegrina, / qual sententia divina, / me legò inanzi, et te prima disciolse (canz. 270, vv 96-98) O che bel morir era, oggi è terzo anno! (son. 278, v 14) Né vorrei rivederla in questo inferno, / anzi voglio morire et viver solo (son. 345, vv 1011). Trovatori Ben es mortz qui d’amor no sen / al cor cal que dousa sabor. / […] / Ja Domnedeus no m azir tan / qu’eu ja pois viva jorn ni mes / pois que d’enoi serai mespres / ni d’amor non aurai talan (Bernart de Ventadorn, XXXI, vv 9-16) […] don voill mais qe m’aucia / Amor cai loing, qe lai si non l’avia! (Giraut de Bornelh, LII, vv 39-40) Mas pero pieitz de mort es / qui vai languen desiran / e aten e non sap qan / li volra valer merces (Uc de Saint Circ, I, vv 51-54) A m faitz e m fai peiz de mort per un cen (Bertran d’Alamanon, XX, v 25) Qu’assatz val mais morir, al mieu semblan, / que totz temps viur’ ab pena ez ab afan (Folchetto da Marsiglia, XVI, vv 34-35) Q’eu am mais morir ab dolor, / qe de vos mi veng’aligriers (Sordello, X, vv 11-12) 110 La formula, tipica come si vedrà dei trovatori, passa anche in ambito siciliano, anche se i passi non sono numerosi. Se ne trova un’indicazione in Ravera 2013, pp. 225-226. 245 Quar mais mi platz honratz morirs / que vilhs entremescaltz iauzirs (Aimeric de Belenoi, II, vv 37-38) Mais vuelh qu’amors m’aucia / que grans gailhardia / qui ser recrezens (Arnaut de Maruelh, XIII, vv 25-27) Anz vuel murir qu’eu ancar non l’atenda (Perdigon, I, v 9) Mas vueill murir c’az autra m lais (Guilhem Ademar, V, v 30) Ausisetz me ! Que mielh es per un dos / morir qu’estar per tostemps doloyros (Bertran Carbonel, VIII, vv 15-16). 1.4.4 Suicidio Anche il dubbio o la tentazione di mettere fine alle proprie sofferenze togliendosi la vita costituisce un topos, già ben testimoniato in ambito trobadorico e poi ripreso dalla Scuola siciliana111. Anche in Petrarca si riconoscono alcune occorrenze di questo motivo. Petrarca [Il cuore] poria smarrire il suo natural corso: / che grave colpa fia d’ambeduo noi, / et tanto più de voi, quanto più v’ama (son. 21, vv 12-14) Subita vista, ché del cor mi rade / ogni delira impresa, et ogni sdegno / fa ‘l veder lei soave112 (canz. 29, v 12-14) Da me son fatti i miei pensier’ diversi: / tal già, qual io mi stancho, / l’amata spada in se stessa contorse (canz. 29, vv 36-38) S’io credesse per morte essere scarco / del pensiero amoroso che m’atterra, / colle mie mani avrei già posto in terra / queste membra noiose, et quello incarco (son. 36, vv 1-4) Ma se maggior paura / non m’affrenasse, via corta et spedita / trarrebbe a fin questa aspra pena et dura (canz. 71, vv 42-44) Io son già stanco di pensar sì come / i miei pensier’ in voi stanchi non sono, / et come vita anchor non abbandono / per fuggir de sospir’ sì gravi some (son. 74, vv 1-4) […] ma l’engordo / voler ch’è cieco et sordo / sì mi trasporta, che ‘l bel viso santo / et gli occhi vaghi fien cagion ch’io pera113 (canz. 135, vv 41-45) Se non ch’i’ ò di me stesso pietate, / i’ sarei già di questi pensier’ fora (son. 272, vv 7-8) Tal che, s’altri mi serra / lungo tempo il camin da seguitarla, / quel ch’Amor meco parla / sol mi riten ch’io non recida il nodo (canz. 268, vv 62-65) Et lei che se n’è gita / seguir non posso, ch’ella nol consente (bal. 324, vv 8-9) Mai questa mortal vita a me non piacque / (sassel’ Amor con cui spesso ne parlo) / se non per lei che fu ‘l suo lume, e ‘l mio: / poi che ‘n terra morendo, al ciel rinacque / quello 111 Per le diverse modalità con cui l’immagine si presenta in Provenza e in Sicilia, per la scarsa varietà stilistica e per il numero ridotto dei passi coinvolti, Ravera 2013, pp. 223-225. 112 L’interpretazione di tali versi in realtà non è del tutto univoca, come ricorda Santagata 1996, pp. 160161; tuttavia l’idea del suicidio è introdotta in modo esplicito dall’affermazione di volersene astenere, che si legge ai versi 36-38. L’interpretazione qui accolta è stata discussa e sostenuta da Spongano 1983. 113 In questo caso non si tratta di suicidio nella sua forma più letterale e diretta; il desiderio conduce l’io poetico alla sua fine attraendolo laddove soffre di più (presso l’amata). Tale immagine recupera e rielabora l’idea convenzionale del desiderio di ciò che fa male, su cui sarà opportuno tornare a breve. 246 spirito ond’io vissi, a seguitarlo / (licito fusse) è ‘l mi’ sommo desio (canz. 331, vv 2530). Trovatori Fol nesci, ben as pauc de sen, / qu’ela nonca t’amaria / per nom que per drudaria, / c’ans no t laisses levar al ven (Bernart de Ventadorn, XVII, vv 13-16) Eu m’arsera, car sui tan malananz, / […] / e resorsera ab sospirs et ab plors114 (Rigaut de Berbezilh, II, vv 39-41) […] e sufret que m’ausia / d’un dous dezir ple de desmezuransa (Aimeric de Belenoi, IX, vv 12-13) C’a mi mezeus mi cuja far aucir (Aimeric de Peguilhan, XVIII, v 9) A pauc, en ploran / no m’auci, car no il sui denan (Gaucelm Faidit, XLIII, vv 38-39). 1.4.5 Accettazione e ricerca della sofferenza Se l’io poetico desidera o per lo meno accetta di buon grado la propria morte, a maggior ragione accoglie la sofferenza. In diverse occasioni, sia nel corpus trobadorico sia nel Canzoniere, il dolore è descritto come fattore positivo o preferibile ad altre situazioni. L’innamorato, consapevole, sceglie il proprio male, invece che cercare di liberarsene. Tale concetto assume per Petrarca una valenza più articolata e complessa di quella che presenta nelle opere occitaniche, poiché coinvolge una fondamentale questione morale cristiana: il male amoroso non è tale solo in senso terreno, ma anche rispetto alla vita eterna e alla salute dell’anima. La scelta dell’errore, e la colpa che ciò rappresenta, sfumano dunque, soprattutto nei componimenti della seconda sezione, nell’ammissione penitenziale del peccato115. Raccogliamo qui i passi che suggeriscono il ruolo attivo dell’innamorato nel procurarsi o anche solo nell’apprezzare le proprie sofferenze. Petrarca Et altri, col desio folle che spera / gioir forse nel foco, perché splende, / provan l’alta vertù, quella che ‘ncende: / lasso, e ‘l mio loco è ‘n questa ultima schera (son. 19, vv 5-8) 114 In questo caso l’immagine del suicidio è mediata dall’ipotetico paragone con la fenice. L’esito consiste nell’attenuare l’immagine del suicidio stesso, poiché di fatto il poeta intende riservarsi anche una possibilità di tornare in vita. In ogni caso, attraverso immagini e soluzioni diverse, è consueto che l’innamorato, soprattutto provenzale, attenui la portata delle sue aspirazioni masochistiche. 115 In tale direzione volgono i riferimenti al male da disprezzare e al bene da cercare, come testimonia ad esempio il distico conclusivo del sonetto 255: “et chi m’acqueta è ben ragion ch’i’ brami, / et tema et odi chi m’adduce affanno” (vv. 13-14). Poiché il sonetto è molto vicino alla mutatio animi imperfetta che divide a metà l’opera, acquisisce una sfumatura penitenziale o comunque meditabonda e spirituale; ben diversa la collocazione di 39, che si propone ancora nel pieno della visione cortese, prima ancora del primo rifiuto verso amore (madrigale 54): “Da ora inanzi faticoso od alto / loco non fia, dove ‘l voler non s’erga / per no scontrar chi miei sensi disperga / lassando come suol me freddo smalto “ (vv 5-8). Qui la concezione è esclusivamente amorosa. 247 Però con gli occhi lagrimosi e ‘nfermi / mio destino a vederla mi conduce; / et so ben ch’i’ vo dietro a quel che m’arde (son. 19, vv 12-14) Allor saranno i miei pensieri a riva / […] / non ò tanti capelli in queste chiome / quanti vorrei quel giorno attender anni116 (sest. 30, vv 7-12) Del mio cor, donna, l’una et l’altra chiave / avete in mano; et di ciò son contento, / presto di navigare a ciascun vento, / ch’ogni cosa da voi m’è dolce honore (bal. 63, vv 11-14) Meco si sta chi dì et notte m’affanna, / poi che del suo piacer mi fe’ gir grave / la dolce vista e ‘l bel guardo soave (canz. 70, vv 38-40) Per gli occhi ch’al mio mal sì spesso giro (son. 79, v 8) L’amar m’è dolce, et util il mio danno / e ‘l viver grave […] (son. 118, vv 5-6) A ciascun passo nasce un penser novo / de la mia donna, che sovente in gioco / gira ‘l tormento ch’i’ porto per lei (canz. 129, vv 17-19) Pasco ‘l cor di sospir’, ch’altro non chiede117, / e di lagrime vivo a pianger nato118: / né di ciò duolmi […] (son. 130, vv 5-7) Ma io incauto, dolente, / corro sempre al mio male, et so ben quanto / n’ò sofferto, et n’aspetto […] (canz. 135, vv 39-41) Così sempre io corro al fatal mio sole / degli occhi onde mi vèn tanta dolcezza / che ‘l fren de la ragion Amor non prezza119 (son. 141, vv 5-7) Et perché ‘l mio martir non giunga a riva, / mille volte il dì moro et mille nasco, / tanto da la salute mia son lunge (son. 164, vv 12-14) Ad or ad ora a me stesso m’involo / pur lei cercando che fuggir devria (son. 169, vv 3-4) Acceso dentro sì ch’ardendo godo (son. 175, v 7) Onde ‘l vago desir perde la traccia / e ‘l suo sommo piacer par che li spiaccia, / d’error sì novo la mia mente è piena (son. 178, vv 5-8) L’esca fu ‘l seme ch’egli sparge et miete, / dolce et acerbo, ch’i’ pavento et bramo (son. 181, vv 5-6) Senz’acqua il mare et senza stelle il cielo / fia inanzi ch’io non sempre tema et brami / la sua bell’ombra, et ch’i’ non odi et ami / l’alta piaga amorosa, che mal celo (son. 195, vv 5-8) L’anima, poi ch’altrove non à posa, / corre pur a l’angeliche faville; / et io, che son di cera, al foco torno (canz. 207, vv 30-32) 116 Abbiamo già letto questo passo in merito al tema dell’attesa e della sopportazione, qui esplicito anche nel lessico. Tuttavia, al desiderio di prolungare lo stato di desiderio che il poeta sta vivendo si associa implicitamente la preferenza per il protrarsi delle sofferenze: il tono complessivo della sestina, infatti, non lascia dubbi su quanto negativa sia la condizione emotiva dell’io. 117 L’immagine metaforica della “fame d’amore” costituisce a sua volta un topos, di cui si tratterà in modo specifico in seguito, in questo stesso capitolo. Qui urge piuttosto mettere in evidenza la disponibilità del poeta al dolore. 118 Tale rappresentazione del proprio scopo esistenziale è piuttosto indicativa dello stato alienato in cui versa l’io poetico; è un tipo di rappresentazione ben attestato in Provenza, dove si coglie in diversi casi nella forma “nato per servire”. 119 Il passo costituisce il secondo termine di paragone nell’ampia similitudine che occupa le quartine; il primo è rappresentato dalla farfalla, che si dirige inconsapevole al fuoco e vi brucia. L’immagine è fortemente topica: recuperata già dai Siciliani, l’elaborazione originaria (almeno in ambito volgare) è però provenzale, con particolare riferimento a Folchetto da Marsiglia. Pertrarca l’aveva già utilizzata nel sonetto 19, senza però esplicitare la specifica natura dell’insetto: si legga dunque Santagata 1996, alle pp. 80 e 689-670. 248 […] che devea torcer li occhi / dal troppo lume, / et di sirene al suono / chiuder gli orecchi; et anchor non me ‘n pento, / che di dolce veleno il cor trabocchi (canz. 207, vv 81-84) Ben non à ‘l mondo, che ‘l mio mal pareggi (canz. 207, v 98) Beato in sogno et di languir contento120 (son. 212, v 1) Cieco et stanco ad ogni altro ch’al mio danno / il qual dì et notte palpitando cerco, / sol Amor et madonna, et Morte, chiamo (son. 212, vv 9-11) Lagrimar sempre è ‘l mio sommo diletto, / il rider doglia, il cibo assentio et tosco, / la notte affanno, e ‘l ciel seren m’è fosco (son. 226, vv 5-7) Cantai, or piango, et non men di dolcezza / del pianger prendo che del canto presi (son. 229, vv 1-2) I’ mi vivea di mia sorte contento, / senza lagrime et senza invidia alcuna, / ché, s’altro amante à più destra fortuna, / mille piacer’ non vaglion un tormento. / Or quei belli occhi ond’io ma non mi pento / de le mie pene, et men non ne voglio una (son. 231, vv 1-6) Qual ventura mi fu, quando da l’uno / de’ duo i più belli occhi che mai furo, / […] / mosse vertù che fe’ ‘l mio infermo et bruno! / […] / fummi il Ciel et Amor men che mai duro, / se tutte altre mie gratie inseme aduno (son. 233, vv 1-8) I miei corti riposi e i lunghi affanni / son giunti al fine. O dura dipartita, / perché lontan m’ài fatto da’ miei danni? (son. 254, vv 10-12) Quella che sol per farmi morire nacque, / perch’a me troppo, et a se stessa, piacque (canz. 264, vv 107-108) Et veggio ‘l meglio, et al peggior m’appiglio121 (canz. 264, v 136) Anima sconsolata, che pur vai / giugnendo legne al foco ove tu ardi? (son. 273, vv 3-4) Deh non rinovellar quel che n’ancide, / non seguir più penser vago, fallace, / ma saldo et certo, ch’a buon fin ne guide (son. 273, vv 9-11) I’ mi soglio accusare, et or mi scuso, anzi me pregio et tengo assai più caro, / de l’onesta pregion, del dolce amaro / colpo, ch’i’ portai già molt’anni chiuso (son. 296, vv 1-4) Ché non fu d’allegrezza a’ suoi dì mai / di libertà di vita alma sì vaga, / che non cangiasse ‘l suo natural modo, / togliendo anzi per lei sempre trar guai / che cantar per qualunque, e di tal piaga / morir contenta, et vivere in tal nodo (son. 296, vv 9-14) Et mi rammente la mia dura sorte: / ch’altri che me non ò di ch’i’ mi lagne (son. 311, vv 7-8) Tremando, ardendo, assai felice fui (son. 337, v 11) A me diede occhi, et io pur ne’ miei mali / li tenni, onde vergogna et dolor prendo (son. 355, vv 7-8) Poi seguo come misero et contento, / di dì in dì, d’ora in hora, Amor m’à roso (son. 356, vv 7-8) […] et quante utili honeste / vie sprezzai, quante feste (canz. 360, vv 17-18). 120 A questo stato di irrazionale accettazione della sofferenza segue la celebre ed adynatica caccia impossibile di eredità arnaldiana (v 2). Su tali aspetti ci siamo soffermati nel corso del capitolo precedente in merito all’uso dell’adynaton. 121 Peire d’Alvernha offre una corrispondenza quasi immediata: “tan tem que l mielhs lays e prenda l sordeys” (XII, v 27). 249 Trovatori Dreitz es lagrim / et arda e rim / qui ‘ncontra amor janguoilla (Arnaut Daniel, II, vv 2527) […] c’a martirs / leu deu venir anz q’el viva (Raimbaut d’Aurenga, IX, vv 46-47) Qar mos cors miels no s’aferma / en lai on fatz gen conqist / q’en sai on ai mon dan vist (Raimbaut d’Aurenga, IV, vv 46-48) Pero be sai c’uzatges es d’amor / c’om c’ama be non a gaire de sen (Bernart de Ventadorn, XIII, vv 26-27) Per trussar ni per divendres / non m destric que non engraixe (Giraut de Bornelh, XXIV, vv 41-42) Pero l mals m fora doussor (Folchetto da Marsiglia, IV, v 18) Qu’almens muer per la pus genta, / per qu’ieu prenc lo mal pe l be (Sordello, I, vv 15-16) Mas jes matraitz no m’enoia (Elias Cairel, VI, v 44) Qu’atressi m nafr’amors fort / cum vos de sa lansa, / estiers que gaug e deport / n’avetz et ieu pezansa (Raimbaut de Vaqueiras, XVII, vv 5-8) Que l’afans mi sembla doussor (Rambertino Buvalelli, III, v 38) Mon dan mi fai sa valors abelir / e mon destric […] (Aimeric de Belenoi, V, vv 33-34) Atressi vau enqueren mon dampnatge; / qu’ieu er’estortz d’afan e de folhia / e vuelh tornar lay on amors m’aucia (Monje de Montaudon, III, vv 25-27) Pero plazens e dolz e ses martire / mi sembla l mals, per lo ben qu’ieu n’aten (Arnaut de Maruelh, X, vv 22-23) Quon piegs me fai la pen’ e la dolors, / adoncs afflam e n sui plus cobeitos / de vostr’amor e n’ai mais de talen (Raimon Jordan, VI, vv 26-28) Mas de mi, las !, qu’enaisi l’er / e re non ai mas quan lo fays: / aiso meteys m’es lo grans iays (Peire d’Alvernha, IX, vv 23-24) Tan soi jausenz de vos que nuills afans / no m tol jauzir, que l vostres bel semblans / m’esjausis tan que l jorn que vos remir (Raimon de Miravall, XI, vv 21-23) No posc esse joios, / tro que m’en torn coitos / en la doussa preizo (Peire Vidal, XXXIV, vv 12-14) Que plus mi fai lo mals lo ben plazer (Perdigon, II, v 5) Mas a mi platz on plus me fai doler, / que lo mieus mals es de fin amador (Aimeric de Peguilhan, XXXIII, vv 28-29) Ja mais, nuill temps, no m pot ren far Amors / qe m sia greu, ni malastraitz ni afans (Gaucelm Faidit, IX, vv 1-2) E greu trebalhs e perilhos, / quan m’en ve, ges no m sembl’afans (Guilhem Ademar, XII, vv 24-25) Qe, si m faz mal, qe ja m n’azire; / tant gent lo m faitz, ses far adiramen, / ab bel semblan et ab acoillimen (Gui d’Ussel, I, vv 30-32) Per o qar / mi son douz li mal que m fai / per vos amors e ill esglai (Guilhem de la Tor, XI, vv 35-37) E jois val mil dos tanz / qu’es conquis ab affan / que l’autre joi non fan (Cadenet, III, vv 38-40) Qu’en mi fora tals sofrensa / per sos bes / qu’ieu sofrira totas res (Bartolomé Zorzi, IV, vv 42-44) Car lo maltraigz m’es tan douza sabors (Lanfranco Cigala, XIII, v 3) 250 Tant m’es plazens le mals d’amor (Guiraut Riquier, I, v 1) Donc dirai / que mout mi plai / sufrir aquel turmen, / don eu tan ric joi aten (Peirol, VII, vv 33-36). 1.4.6 Odio contro natura: dispiacere per se stesso e per il proprio bene Come apprezza e cerca ciò che andrebbe rifiutato e fuggito, così l’io poetico si trova spesso nella condizione di odiare ciò che dovrebbe custodire come un bene preziosissimo. Nel Canzoniere il motivo si declina soprattutto in due forme: l’odio per la libertà, che deriva direttamente da fonti trobadoriche, e l’odio per se stesso122. In entrambi i casi, la prospettiva petrarchesca si sposta facilmente dal piano amoroso a quello penitenziale. La libertà è quella dal giogo di Amore, ma anche quella dai beni terreni, e l’incapacità di occuparsi di sé si traduce nella frammentarietà accusata da Agostino nel Secretum, cui proprio la raccolta delle nugae dovrebbe opporsi, almeno a livello testuale. Un’unica occorrenza precisa resta invece nel corpus occitanico: essa appare però tanto significativa a livello semantico da meritare d’essere oggetto di riflessione, anche perché l’immagine dell’odio rimanda comunque più in generale allo stato di alterazione che abbiamo sin qui descritto. Petrarca […] et or con gran fatica / […] / in libertà ritorno sospirando (son. 76, vv 6-8) Fuggendo la pregione ove Amor m’ebbe / molt’anni a far di me quel ch’a lui parve, / donne mie, lungo fora a ricontarve / quanto la nova libertà m’increbbe (son. 89, vv 1-4) Et a me pose un dolce giogo al collo, / tal che mia libertà tardi restauro123 (son. 197, vv 34) Che perder libertate ivi era in pregio (sest. 214, v 12) Quel’uno è rotto; e ‘n libertà non godo / ma piango et grido […] (canz. 270, vv 95-96) Quella che fu mia donna al ciel è gita, / lasciando trista et libera mia vita (canz. 270, vv 107-108) Fuor di man di colui che punge et molce, / che già fece di me sì lungo stratio, / mi trovo in libertate, amara et dolce (son. 363, vv 9-11). V’aggio proferto il cor; ma voi non piace / mirar sì basso colla mente altera. / Et se di lui fors’altra donna spera, / vive in speranza debile et fallace: / mio, perché sdegno ciò ch’a voi dispiace, / esser non può già mai così com’era124 (son. 21, vv 3-8) 122 Elenchiamo brevemente altri passi petrarcheschi in cui ricorra l’idea dell’odio, secondo altre accezioni: ff. 86, 96, 195, 206, 255, 360. 123 In questo caso la situazione è ambigua, poiché da una parte il poeta si rende conto della lentezza che gli si impone rispetto al tentativo di restaurare la propria libertà; dall’altra il giogo è definito dolce, secondo il convenzionale uso ossimorico, su cui torneremo con maggior ampiezza nel corso del presente capitolo. 124 Nel sonetto 21 il concetto dell’odio per se stessi (qui alla lettera per il proprio cuore) è arricchito e motivato da quello dell’assunzione totale e acritica del punto di vista dell’amata, che incrementa la condizione alienata dell’io poetico. 251 […] ché ‘nsin allor io giacqui / a me noioso et grave (canz. 72, vv 26-27) Ma d’odiar me medesmo giunto a riva, / et del continuo lagrimar so’ stancho (son. 82, vv 3-4) Né del vulgo mi cal, né di Fortuna, / né di me molto, né di cosa vile (son. 114, vv 9-10) Forse, a te stesso vile, altrui se’ caro (canz. 129, v 24) Et ò in odio me stesso, et amo altrui. / Pascomi di dolor, piangendo rido; / egualmente mi spiace morte et vita (son. 134, vv 11-13) Ciò che s’indugia è proprio per mio damno, / per far me stesso a me più grave salma (son. 278, vv 12-13) Odiar vita mi fanno, et bramar morte (sest. 332, v 6) Me sconsolato et a me grave pondo (son. 338, v 4) Ch’alfine vinta fu quell’infinita / mia patientia, e ‘n odio ebbi la vita (canz. 360, vv 1415). Trovatori E usa m tant que mi n’azire (Raimbaut de Vaqueiras, XIII, v 44). 1.4.7 Gratitudine per la sofferenza Gli aspetti disforici dell’esperienza amorosa contemplano anche la gratitudine (nei confronti dell’amata o di Amore) per la sofferenza provata. In diversi casi, l’effetto ossimorico è dato dal ringraziamento che segue al lamento sulle proprie condizioni. Tale sfumatura è quella più tipica del Canzoniere petrarchesco, non solo nel singolo testo, ma anche grazie alle connessioni intertestuali125. Nei trovatori, invece, il tema della gratitudine trova spazio anche in contesti gioiosi o per lo meno non del tutto negativi. Anche in tali occasioni, tuttavia, resta l’impressione della subordinazione cui l’io poetico soggiace, che, lo si è visto, costituisce un elemento portante nella rappresentazione dei rapporti amorosi. Petrarca Et dico: Anima, assai ringratiar dei / che fosti a tanto honor degnata allora (son. 13, vv 78) Ringratio lui che’ giusti preghi humani / benignamente, sua mercede, ascolta (son. 25, vv 7-8) Felice l’alma che per voi sospira, / lumi del ciel, / per li quali io ringratio / la vita che per altro non m’è a grado! (canz. 71, vv 67-69) Poi mi rivolgo a la mia usata guerra, / ringratiando Natura e ‘l dì ch’io nacqui126 (canz. 72, vv 22-23) 125 Non consideriamo in questa sede l’occorrenza del sonetto 4, che ha solo valore perifrastico e iperbolico per indicare la straordinarietà di Laura attraverso la gioia del paese che ne ha ospitato la nascita, né quella del sonetto 26, in cui il termine “ringraziare” compare solo nella similitudine. 126 Non va dimenticato che altrove Petrarca maledice il giorno della propria nascita: per questi aspetti si veda il capitolo precedente. 252 Se ‘n altro modo cerca d’esser sacio, / vostro sdegno erra, et non fia quel che crede: / di che Amor et me stesso assai ringracio (son. 82, vv 12-14) Là dove più mi dolse, altri si dole, / et dolendo adolcisse il mio dolore: / ond’io ringratio Amore / che più nol sento, et è non men che suole (canz. 105, vv 57-60) Lei ne ringratio, e ‘l suo alto consiglio, / che col bel viso et co’ soavi sdegni / fecemi ardendo pensar mia salute (son. 289, vv 9-11) In atto et in parole la ringratio / humilemente127 […] (canz. 359, vv 12-13). Trovatori Leis mercei / d’eisa sa tortura (Bernart Martì, I, vv 37-38) Amars, onrars e carteners, / humiliars et obezirs, / loncs merceiars e loncs grazirs (Giraut de Bornelh, IX, vv 1-3) Per qe m dei ben esforssar / ab lauzar e ab bendir / de vostre ric pretz grazir (Uc de Saint Circ, XV, vv 11-13) D’aitan en dei midonz grazir / c’al cor m’estai maitin e ser (Rigaut de Berbezilh, IV, vv 49-50) Per que lh grazisc los mals qu’ieu tray / pels plazers qu’aten que n’auray (Sordello, VIII, vv 7-8) Que grazir dei, quan sospir ni m doill (Elias Cairel, XV, v 29) Et er li gratz aras mil tans (Arnaut de Maruelh, XIX, v 17) Don suy grazens / ad aquelh don m’es datz (Peire d’Alvernha, XVI, vv 69-70) Si d’Amor, que tot’ira vens, / no m vengues alcus gauzimens, / per qe il dei tot mon joi grazir (Raimon de Miravall, XX, vv 6-8) Per qu’ieu los dei grazir e merceyar (Aimeric de Peguilhan, VIII, v 52) Tuogll m’en, e met’ ab leis mos decs, / cui grazisc, car mi det e m crec (Gaucelm Faidit, XXI, vv 32-33) Am fort e sai celar / e grazir mals e bes (Gui d’Ussel, VI, vv 22-23) Qu’eu ren pretz ni deja grazir (Bonifaci Calvo, I, v 40) E dei lur grasir, / car mi fan murir (Peire Bremon Ricas Novas, III, vv 16-17) Moutas merces e motz gratz vo’n refier (Guilhem Peire de Cazals, V, v 59). 1.4.8 “Guiderdone” e ricompense L’obiettivo dell’innamorato cortese e dunque del suo amore fino è il miglioramento interiore, almeno su un piano generale ed ideale. Tuttavia egli ha anche uno scopo più contingente, che nella concretezza della relazione amorosa e dei testi poetici appare anche molto più spesso: il cosiddetto guiderdone. Nei componimenti trobadorici, tale ricompensa oscilla tra due estremi: una soddisfazione erotica più o meno esplicita oppure concessioni limitatissime (uno sguardo, il permesso di amare, la possibilità di 127 Qui il poeta ha certamente motivo per ringraziare Laura, che scende come spirito per guidarlo nel processo di conversione; tuttavia l’atteggiamento tra i due è sbilanciato come sempre nella raccolta. 253 cantare l’amata e così via), la cui accettazione da parte del poeta dimostra la sua devota sottomissione128. Nel Canzoniere la prospettiva erotica è in sostanza esclusa129. L’elemento di maggior rilievo è la privazione della ricompensa: la frequenza delle lamentele e l’insistenza sul dolore lasciano intuire quanto limitata sia la soddisfazione dell’amante. Nel caso di Petrarca, poi, la morte di Laura elimina qualunque possibilità di portare a compimento i sentimenti amorosi e non può che costituire una totale disfatta, a parte le apparizioni dello spirito e fino allo spostamento delle aspirazioni sul piano morale. Le occorrenze petrarchesche non sono molte, ma l’uso del termine tecnico “guiderdone” ha certamente un valore significativo. Per il resto, l’io poetico parla di desideri e speranze: tale spostamento sul piano interiore appare coerente con la più generale rinuncia agli elementi feudali130. Petrarca Poi che ‘l camin m’è chiuso di Mercede, / per desperata via son dilungato / dagli occhi ov’era, i’ non so per qual fato, / riposto il guidardon d’ogni mia fede (son. 130, vv 1-4) Et perduto il guadagno de’ miei damni (son. 298, v 8) Amor, quando fioria / mia spene, e ‘l guidardon di tanta fede, / tolta m’è quella ond’attendea mercede (bal. 324, vv 1-3). Trovatori Qu’e us servirai com bo senhor, / cossi que del guazardo m’an (Bernart de Ventadorn, XXXI, vv 51-52) Si ia d’Amor / poghes aver lauzor / ni ghizardo ni grat (Giraut de Bornelh, III, vv 1-3) C’ara es una sazos / que mal rend hom guizerdos (Uc de Saint Circ, VIII, vv 15-16) Amarait donch en perdos? (Folchetto da Marsiglia, XXIII, v 15) Puoi no m tenc per pajat d’amor (Sordello, XX, v 1) Los guizardos e las merces l’en ren (Elias Cairel, XIV, v 8) Vol qu om la sierv’e ren non guizardona (Raimbaut de Vaqueiras, V, v 24) Que m do un bays en guazardo (Arnaut de Maruelh, XIX, v 16) Et atendrai del guizardo qual er (Raimon Jordan, VIII, v 33) Tro que li n vengna guizardos (Peire d’Alvernha, IX, v 52) E servir ses gazardo / crei que captals en sofranha (Peire Vidal, V, vv 27-28) 128 Vanno invece escluse le ricompense monetarie, come si legge nel De amore di Cappellano, ma anche nei trovatori stessi, ad esempio nella canzone 10 di Bernart de Ventadorn. 129 Dopo la morte di Laura il poeta afferma con decisione che i suoi desideri sono sempre stati casti e che per tale ragione l’amata cominciava a fidarsi di lui. I passi in questione sono davvero significativi rispetto al messaggio complessivo della raccolta: si vedano i ff. 224, 230, 315, 316, 317, 334, 347, 362. Anche i trovatori, per altro, in diverse occasioni dichiarano che i loro desideri sono puri e nobili, in coerenza con l’amore fino che li ispira; manca però quella componente morale e spirituale, nonché di scavo introspettivo che, anche laddove resti implicita, dona al Canzoniere una complessità notevolmente maggiore. 130 Si veda, a titolo di esempio, il sonetto 168, vv 1-4: “Amor mi manda quel dolce pensero / che secretario anticho è fra noi due, / et mi conforta, et dice che non fue / mai come or presto a quel ch’io bramo et spero”. 254 Tem faillir pois, tant li platz lo perdos / e n creis amors e gratz e gazardos (Perdigon, VI, vv 23-24) Consec hom ben guizardo qui l’aten (Gaucelm Faidit, IV, v 34) Qu’elh’es tant ensenhad’e pros / que del tot m’er guazardonans (Guilhem Ademar, XII, vv 17-18) Ne null respeig, vas cela cui dezir, / que dels malstraigz null gazardo mi renda (Cadenet, XVIII, vv 6-7) Ni anc fis amans no l fo / ses cobrar bon gazardo (Folquet de Lunel, V, vv 26-27). 1.5 Elementi contraddittori nella vicenda amorosa Per rappresentare la natura incostante e problematica del proprio amore, l’io poetico – trobadorico prima e petrarchesco poi, come d’altronde anche in altri ambiti della produzione italiana delle origini – si affida spesso a due soluzioni espressive: l’ossimoro e la contraddittorietà131. Sia l’espediente retorico che i temi coinvolti appaiono assolutamente convenzionali; alla base si coglie il medesimo principio, cioè l’accostamento di elementi divergenti o anche opposti. Anche tale incoerenza contrassegna la vita amorosa come innaturale132. 1.5.1 Ossimori Petrarca Dentro pur foco, et for candida neve133 (sest. 30, v 31) Et la fera dolcezza ch’è nel core (canz. 37, v 62) E i dolci sdegni alteramente humili (canz. 37, v 101) Et benedetto il primo dolce affanno (son. 61, v 5) Principio del mio dolce stato rio (canz. 71, v 22) Che dolcemente mi consuma et strugge (canz. 72, v 39) Dissi: Oimè, il giogo et le catene e i ceppi / eran più dolci che l’andare sciolto (son. 89, vv 9-11) Che ‘n un punto m’agghiaccia et mi riscalda (canz. 105, v 90) L’amar m’è dolce, et util il mio danno (son. 118, v 5) Sento nel mezzo de le fiamme un gielo (son. 122, v 4) Cangiar questo mio viver dolce amaro (canz. 129, v 21) Che sempre m’è sì presso et sì lontano (canz. 129, v 61) 131 Si fa qui riferimento in primo luogo al meccanismo espressivo: non necessariamente le singole immagini si ritrovano tutte sia nei trovatori che in Petrarca, come rivelerà il confronto tra i diversi passi. 132 Tali aspetti di assurdità e paradossalità in amore si possono riconoscere anche nell’uso di adynata, di cui si è parlato nel corso del capitolo precedente. A questo si aggiungono gli effetti soprannaturali che possono essere associati alla presenza dell’amata; ad esempio ai versi 12-14 del sonetto 215: “et non so che nelli occhi, che ‘n un punto / pò far chiara la notte, oscuro il giorno, / e ‘l mel amaro, et adolcir l’assentio”. 133 L’associazione o contrapposizione tra freddo e caldo, ardore e ghiaccio e così via, è piuttosto diffusa nel Canzoniere; qui riportiamo solo i luoghi in cui le due sensazioni siano ossimoricamente compresenti, e non alternative presentate in modo ossimorico nel testo. 255 Né di ciò duolmi, perché in tale stato / è dolce il pianto più ch’altri non crede (son. 130, vv 7-8) Se ria, onde sì dolce ogni tormento? (son. 132, v 4) O viva morte, o dilectoso male (son. 132, v 7) Pascomi di dolor, piangendo rido (son. 134, v 12) E ‘l dolce amaro lamentar ch’i’ udiva (son. 157, v 6) O faticosa vita, o dolce errore (son. 161, v 7) Sempre m’è inanzi per mia dolce pena (son. 164, v 6) Et veggiola passar sì dolce et ria (son. 169, v 5) Ond’Amor di sua man m’avinse in modo / che l’amar mi fe’ dolce, e ‘l pianger gioco (son. 175, vv 3-4) L’esca fu ‘l seme ch’egli sparge et miete, / dolce et acerbo, ch’i’ pavento et bramo (son. 181, vv 5-6) Arder dì et notte: et quanto è ‘l dolce male / né ‘n penser cape, nonché ‘n versi o ‘n rima (son. 182, vv 10-11) Fia inanzi ch’io non sempre tema et brami / la sua bell’ombra, et ch’i’ non odi et ami / l’alta piaga amorosa, che mal celo (son. 195, vv 6-8) Le prime piaghe, sì dolci profonde (son. 196, v 4) Et a me pose un dolce giogo al collo (son. 197, v 3) Dolci ire, dolci sdegni et dolci paci, / dolce mal, dolce affanno et dolce peso (son. 205, vv 1-2) Alma, non ti lagnar, ma soffra et taci, / et tempra il dolce amaro, che n’à offeso (son. 205, vv 5-6) […] et anchor non me ‘n pento, / che di dolce veleno il cor trabocchi (canz. 207, vv 8384) Et me stesso reprendo / di tai lamenti, sì dolce è mia sorte, / pianto, sospiri et morte (canz. 207, vv 94-96) […] et èmmi ognora adosso / quel caro peso ch’Amor m’à commesso (son. 209, vv 3-4) Ch’i’ pur vo sempre, et non son anchor mosso / dal bel giogo più volte indarno scosso (son. 209, vv 7-8) Sappia ‘l mondo che dolce è la mia morte (son. 217, v 14) […] s’i’ moro, il danno. / Danno non già, ma pro: sì dolci stanno / nel mio cor le faville e ‘l chiaro lampo (son. 221, vv 4-6) Amor con tal dolcezza m’unge et punge (son. 221, v 12) Un languir dolce, un desiar cortese (son. 224, v 2) Lagrimar sempre è ‘l mio sommo diletto, / il rider doglia, il cibo assentio et tosco, /la notte affanno, e ‘l ciel seren m’è fosco (son. 226, vv 5-7) E ‘l piover giù dalli occhi un dolce umore (son. 228, v 6) Sì dolce del mio amaro è la radice (son. 229, v 14) De la mia donna al mio dextr’occhio venne / il mal che mi diletta, et non mi dole (son. 233, vv 9-10) I’ ò pregato Amor, e ‘l ne riprego, / che mi scusi appo voi, dolce mia pena, / amaro mio dilecto, se con piena / fede dal dritto mio sentier mi piego (son. 240, vv 1-4) Celando li occhi a me sì dolci et rei (son. 256, v 4) Quanti m’ài fatto dì dogliosi et lieti / in questa breve mia vita mortale! (son. 263, vv 3-4) Da l’altra parte un pensier dolce et agro (canz. 264, v 55) Né de l’ardente spirto / de la sua vista dolcemente acerba (canz. 270, vv 63-64) 256 Et quelle voglie giovenili accese / temprò con una vista dolce et fella (son. 289, vv 7-8) Anzi me pregio et tengo assai più caro, / de l’onesta pregion, del dolce amaro / colpo, ch’i’ portai già molt’anni chiuso (son. 296, vv 2-4) Et spento ‘l foco ove agghiacciando io arsi, / et finito il riposo pien d’affanni, / rotta la fe’ degli amorosi inganni / […] / et perduto il guadagno de’ miei damni (son. 298, v 3-8) O per me sempre dolce giorno et crudo (son. 298, v 13) Passato è ‘l tempo omai, lasso, che tanto / con refrigerio in mezzo ‘l foco vissi (son. 313, vv 1-2) […] et poche hore serene, / ch’amare et dolci ne la mente servo (son. 319, vv 3-4) Queste sei visioni al signor mio / àn fatto un dolce di morir desio (canz. 323, vv 74-75) Il dolce acerbo, e ‘l bel piacer molesto / mi si fa d’ora in hora, onde ‘l camino / sì breve non fornir spero et pavento (canz. 331, vv 19-21) Bello et dolce morire era allor quando, / morend’io, non moria mia vita inseme134 (canz. 331, vv 43-44) Già mi fu col desir sì dolce il pianto (sest. 332, v 19) Anchor io il nido di penseri electi / posi in quell’alma pianta; e ‘n foco e ‘n gelo / tremando, ardendo, assai felice fui ( son. 337, vv 9-11) Dolci durezze, et placide ripulse, / piene di casto amore et di pietate; / leggiadri sdegni […] (son. 351, vv 1-3) Poi seguo come misero et contento, / di dì in dì, d’ora in hora, Amor m’à roso (son. 356, vv 7-8) Quel’antiquo mio dolce empio signore (canz. 360, v 1) Ch’amaro viver m’à volto in dolce uso (canz. 360, v 45) Non è chi faccia et paventosi et baldi / i miei penser’, né chi li agghiacci et scaldi, / né chi li empia di speme, et di duol colmi (son. 363, vv 5-8) Mi trovo in libertate, amara et dolce (son. 363, v 11) Vergine pura, d’ogni parte intera, / del tuo parto gentil figliuola et madre135 (canz. 366, vv 27-28). Trovatori Ges no m’es clars / ni m’esquiva / est jois, don faz lez sospirs (Raimbaut d’Aurenga, IX, vv 15-17) Colps de joi me fer, que m’ausi (Jaufré Rudel, I, v 13) Ar aujatz gran follor / qu’arditz sui per paor (Folchetto da Marsiglia, I, vv 21-22) Qar totz m es douz l’afanz per soffertar (Sordello, X, v 11) Ans m’es l’afans dousors (Aimeric de Belenoi, XIV, v 4) Mas lo mals m’es de tan doussa sabor (Arnaut de Maruelh, IV, v 8) 134 Qui la “vita” del poeta è la sua amata, ma è comunque interessante l’effetto topico della morte e della vita che si accompagnano. E in effetti anche nell’esistenza paradossale del poeta quell’alternanza di vita e morte, di salute e malattia si delinea solo in relazione all’amata; perciò la sua scomparsa scardina l’intero meccanismo, come il poeta in effetti lamenta nella canzone 331. Ora la morte è solo morte, perché chi permetteva la rinascita è venuta meno. Alla tradizione trobadorica risale anche il paragone con il malato, che viene analizzato in Scarpati 2008, pp. 148-152. 135 Gli accostamenti paradossali tipici della liturgia mariana si inseriscono dunque in perfetta coerenza nella rappresentazione convenzionale dello stato amoroso. 257 Ves cela qui suau me trai (Peire Vidal, XLVIII, v 10) Ab un esgart qe m feiron doussamen (Aimeric de Peguilhan, VII, v 34) M’a si ferit e nafrat doussamens (Gaucelm Faidit, VI, v 6) Q’anc hom non feç tan bella mort (Folquet de Romans, XIV, v 68) Don una douza dolors (Bonifaci Calvo, I, v 13) Mout mi desmentis doussamen (Peire Bremon Ricas Novas, I, v 31) Lo dous cossire / que m don’ Amors soven (Guilhem de Cabestanh, V, vv 1-2) S’ab tan doussa pena / midonz m’aucizia (Peirol, V, vv 31-32). 1.5.2 Contraddittorietà dello stato amoroso Petrarca Ché non pur sotto bende / alberga Amor, per cui si ride et piagne (canz. 28, vv 113-114) Perché co llui cadrà quella speranza / che ne fe’ vaneggiar sì lungamente, / e ‘l riso e ‘l pianto, et la paura et l’ira136 (son. 32, vv 9-11) Amor, avegna mi sia tardi accorto, / vòl che tra duo contrari mi distempre (bal. 55, vv 1314) Lasso, nol so; ma sì conosco io bene / che per far più dogliosa la mia vita / Amor m’addusse in sì gioiosa spene (son. 56, vv 9-11) Et s’i’ ò alcun dolce, è dopo tanti amari, / che per disdegno il gusto si dilegua: / altro mai di lor gratie non m’incontra (son. 57, vv 12-14) Però, lasso, convensi / che l’extremo del riso assaglia il pianto (canz. 71, v 88) Et come Amor l’envita, / or ride, or piange, or teme, or s’assecura (canz. 129, vv 7-8) Se bona, onde l’effecto aspro mortale? / Se ria, onde sì dolce ogni tormento? (son. 132, vv 3-4) Fra sì contrari venti in frale barca / mi trovo in alto mar senza governo, / […] / ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio, / e tremo a mezza state, ardendo il verno (son. 132, vv 10-14) Pace non trovo, et non ò da far guerra; / e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio; / et volo sopra ‘l cielo, et giaccio in terra; / et nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbraccio (son. 134, vv 1-4) Et bramo di perir, et cheggio aita; / […] / Pascomi di dolor, piangendo rido; / egalmente mi spiace morte et vita (son. 134, vv 10-13) In riso e ‘n pianto, fra paura et spene / mi rota sì ch’ogni mio stato inforsa (son. 152, vv 3-4) Vegghio, penso, ardo, piango; et chi mi sface / sempre m’è inanzi per mia dolce pena: / guerra è ‘l mio stato, d’ira et di duol piena, / et sol di lei pensando ò qualche pace (son. 164, vv 5-8) Dal cor l’anima stanca si scompagna / per gir nel paradiso suo terreno. / Poi trovandol di dolce et d’amar pieno (son. 173, vv 3-5) 136 Tale accostamento è piuttosto significativo rispetto ai modelli trobadorici, poiché in provenzale un solo termine (“ira”) indica entrambi gli stati d’animo, rendendo più ricca ed ambigua la rappresentazione emotiva. 258 Per questi extremi duo contrari et misti, / con voglie gelate, or con accese / stassi così fra misera et felice; / ma pochi lieti, et molti penser’ tristi (son. 173, vv 9-12) Amor mi sprona in un tempo et affrena, / assecura et spaventa, arde et agghiaccia, / gradisce et sdegna, a sé mi chiama et scaccia, / or mi tene in speranza et or in pena, / or alto or basso il meo cor lasso mena (son. 178, vv 1-5) Benché n’abbia ombre più triste che liete (son. 181, v 4) Et qual sia più fa dubbio a l’intellecto, / la speranza o ‘l temor, la fiamma o ‘l gielo (son. 182, vv 3-4) Et di ciò insieme mi nutrico et ardo (canz. 207, v 39) Tal io, con quello stral dal lato manco, / che mi consuma, et parte mi diletta, / di duol mi struggo, et di fuggir mi stanco (son. 209, vv 12-14) Di que’ belli occhi ond’io ò guerra et pace, / che mi cuociono il cor in ghiaccio e ‘n foco? (son. 220, vv 13-14) Et benché ‘l primo colpo aspro et mortale / fossi da sé, per avanzar sua impresa / una saetta di pietate à presa, / et quinci et quindi il cor punge et assale (son. 241, vv 5-8) Né so se guerra o pace a Dio mi cheggio (son. 244, v 5) Dicea, ridendo et sospirando inseme (son. 245, v 10) In dubbio di mio stato, or piango or canto, / et temo et spero; et in sospiri e ‘n rime / sfogo il mio incarco: Amor tutte sue lime / usa sopra ‘l mio core, afflicto tanto (son. 252, vv 1-4) Sì ‘l cor tema et speranza mi puntella (son. 254, v 4). Trovatori Dont sovens l’uoills mi muoilla / d’ira e de plor / e de doussor, / car per joi ai que m duoilla (Arnaut Daniel, II, vv 42-45) Pero si’n sofr’ieu gran pena / qu’ins en mon cor sal e trenca, / […] / Mas non ai per qu’ieu n’aya gaug? / Quar us volers m’en abriva / e m ditz qu’en altre joy non ponh (Raimbaut d’Aurenga, V, vv 15-21) Que m fass’un iorn iauzir / e pueis tot l’an languir (Giraut de Bornelh, IV, vv 8-9) Mas per un ben que m’en eschai / n’ai dos mals, quar tan m’es de lonh (Jaufré Rudel, IV, vv 31-32) E maintas greus dolors / mescladas ab doussors (Uc de Saint Circ, IX, vv 3-4) Marritz mi ten e joios, / sovenchan, soven m’irais, / soven magris et engrais (Rigaut de Berbezilh, I, vv 37-39) Entre joi remaing et ira (Cercamon, II, v 29) Doas cuidas a i, compagner, / qe m donon joi e destorbier (Marcabru, XVIII, vv 1-2) Qu’er m’en conort et era n sui doptos, / pero l paors tem c’o apodererera, / mas un conort ai d’Amor a sazos (Folchetto da Marsiglia, XIII, vv 26-28) E m’es amar qar eu non sui amatz; / e m’es dolsors sos henz cors e sa faz, / e m’es amar q’il no m fai nul secors; / e m’es dolsors qe tan plazens non regna, / e m’es amar qar en s’amor no m degna (Sordello, XXXVIII, vv 4-8) Car mos enans mi par destrics / e totz mos majer gaugz dolors (Raimbaut de Vaqueiras, XXII, vv 3-4) E l ben e l mal mescladamen / q’eu n’ai, e l joi e l pessamen (Rambertino Buvalelli, I, vv 4-5) 259 Mas eu soi volpils et arditz / e fols e savis can s’ave, / cortes ab sels cui Iois mante / e vilans ab los ceschauzitz (Aimeric de Belenoi, XII, vv 33-36) Et am la tan c’ades on plus mi duelh / me fai lo jois de bon esper jauzir, / per que l’afans non pot esser engres (Arnaut de Maruelh, IV, vv 5-7) Qu’ieu vey e crey e sai qu’es vers / qu’amors engraissa e magrezis, / l’un ab trichar l’autr’ab plazers (Peire d’Alvernha, XII, vv 15-17) Qu’el cor m’art com us calius / e son plus glassatz que rius (Raimon de Miravall, IV, vv 37-38) D’Amor, segrai los mals e ls bes / e ls tortz e ls dreitz e ls dans e ls pros (Peire Vidal, XXXIX, vv 5-6) Entr’amor e pessamen / e bon cug e greu consir / e fin joi e lonc desir (Perdigon, V, vv 13) En greu pantais m’a tengut longamen / qu’anc no m laisset ni no m retenc Amors (Aimeric de Peguilhan, XXVII, vv 1-2) Dompna, greu puosc vius remaner, / car no us vei gaire ni vos me, / […] / pero, molt soven, m’alezer / en un bel plazer qe m reve, / c’ab los huoills del cor vos remire (Gaucelm Faidit, LII, vv 11-17) Dunt m’es vengutz aqest jois, no sai, / q’amors nuill ben no m’atrai (Guilhem de la Tor, IX, vv 4-5) Per so m don gaug e dol […] (Arnaut Catalan, III, v 15) C’aissi entre dos volers / m’estauc ab ris et ab plors (Bonifaci Calvo, I, vv 20-21) No m sai d’amor, si m’es mala o bona / o m val o m notz o m mante o m’azira (Guiraut Riquier, VII, vv 1-2). 1.6 Un amore totalizzante L’amore è un’esperienza totalizzante. I trovatori avevano insistito sull’impossibilità di smettere di amare e sulle vie con cui Amore cambia in modo radicale la percezione e l’atteggiamento dell’io. L’esperienza amorosa, in effetti, assume oltre ai caratteri di disforia e tormento, anche una connotazione ossessiva e pervasiva. Per altro i Provenzali passarono liberamente dalla lirica amorosa a quella civile, esattamente come nel Canzoniere sono compresi componimenti politici ed occasionali. Tuttavia al momento di affrontare le tematiche amorose, l’idea che il sentimento e la dedizione alla dama siano dominanti sull’esistenza dell’io poetico nel suo complesso è molto diffusa. Il medesimo concetto si ritrova in Petrarca: non sempre il numero delle occorrenze è molto elevato, ma esse contribuiscono in maniera significativa a definire il tono dell’insieme. 1.6.1 Un unico amore: unicità del desiderio, permanenza del sentimento La pervasività della condizione amorosa è in primo luogo evidente laddove il poeta, secondo diverse prospettive, suggerisce l’impossibilità di smettere di amare o di amare qualcuno o qualcos’altro oltre a madonna. Anche le gioie e i dolori che derivano dal rapporto con lei sono assolutizzati, insostituibili, non paragonabili. 260 Petrarca Poi che in me conosceste il gran desio / ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra (bal. 11, vv 3-4) Io, perché d’altra vista non m’appago (canz. 23, v 152) Né per nova figura il primo allora / seppi lassar, ché pur la sua dolce ombra / ogni men bel piacer del cor mi sgombra (canz. 23, vv 167-169) Ogni loco m’atrista ov’io non veggio / quei begli occhi soavi (canz. 37, vv 33-34) Et ciò che vidi dopo lor mi spiacque (canz. 37, v 40) Perché quel che mi trasse ad amar prima, / altrui colpa mi toglia, / del mio fermo voler già non mi svoglia (bal. 59, vv 1-3) Che d’ogni altra sua voglia / sol rimembrando anchor l’anima spoglia (bal. 59, vv 9-10) Come sparisce et fugge / ogni altro lume dove ‘l vostro splende, / così de lo mio core, / quando tanta dolcezza in lui discende, / ogni altra cosa, ogni penser va fore, / et solo ivi con voi rimanse Amore (canz. 72, vv 40-45) Tutti gli altri diletti / di questa vita ò per minori assai (canz. 73, vv 64-65) Poi temo, ché mi veggio in fraile legno, / et più che non vorrei piena la vela / del vento che mi pinse in questi scogli137 (sest. 80, vv 28-30) Perch’ànno a schifo ogni opera mortale: / lasso, così da prima gli avezzai! / Né mi lece ascoltar chi non ragiona / de la mia morte […] (son. 97, vv 7-10) Et l’imagine lor son sì cosparte / che volver non mi posso, ov’io non veggia / o quella o simil indi accesa luce (son. 107, vv 9-11) Or mi ritrovo pien di sì diversi / piaceri, in quel saluto ripensando, / che duol non sento, né sentì’ ma’ poi (son. 111, vv 12-14) Nel dì che volentier chiusi gli avrei [gli occhi] / per non mirar già mai minor bellezza (son. 116, vv 3-4) […] et ò sì avezza / la mente a contemplar sola costei, / ch’altro non vede, et ciò che non è lei / già per antica usanza odia et disprezza (son. 116, vv 5-8) Dico che, perch’io miri / mille cose diverse attento et fiso, / sol una donna veggio, e ‘l suo bel viso (canz. 127, vv 12-14) I’ vidi in terra angelici costumi / et celesti bellezze al mondo sole, / tal che di rimembrar mi giova et dole, / ché quant’io miro par sogni, ombre et fumi (son. 156, vv 1-4) Da’ begli occhi un piacer sì caldo piove / ch’i’ non curo altro ben né bramo altr’esca (son. 165, vv 7-8) Ma lo spirto ch’iv’entro si nasconde / non cura né di tua né d’altrui forza; / lo qual senz’alternar poggia con orza / dritto per l’aure al suo desir seconde (son. 180, vv 3-6) Sì come eterna vita è veder Dio, / né più così si brama, né bramar più lice, / così me, donna, il voi veder, felice / fa in questo breve et fraile viver mio138 (son. 191, vv 1-4) Dolce del mio penser hora beatrice, / che vince ogni altra speme (son. 191, vv 7-8) 137 La sestina 80 rappresenta metaforicamente il tentativo di sottrarsi al pericolo spirituale di un amore terreno, ma anche la difficoltà nel distacco dalle abitudini e dalle modalità di vita e pensiero ormai divenute consuete e radicate. Nel sonetto 349, ormai prossimo alla svolta finale, l’io poetico afferma di aver cambiato vita: “tutto ‘l viver usato ò messo in bando” (v 6). 138 In questo caso l’univocità del desiderio è riferita a Dio, quindi all’interno della similitudine; il paragone permette però di riferire parallelamente il medesimo concetto anche alla relazione tra il poeta e l’amata. 261 Pasco la mente di un sì nobil cibo, / ch’ambrosia et nectar non invidio a Giove, / ché sol mirando, oblio ne l’alma piove / d’ogni altro dolce, et Lethe al fondo bibo (son. 193, vv 1-4) Né però smorso i dolce inescati hami, / né sbranco i verdi et invescati rami / de l’arbor che né sol cura né gielo. / Senz’acqua il mare et senza stelle il cielo / fia inanzi ch’io non sempre tema et brami / la sua bell’ombra, et ch’i’ non odi et ami / l’alta piaga amorosa, che mal celo (son. 195, vv 2-8) Né posso dal bel nodo omai dar crollo (son. 197, v 7) Ch’i’ non veggio ‘l bel viso, et non conosco / altro sol, né questi occhi ànn’altro obiecto (son. 226, vv 3-4) Manda, prego, il mio in prima che ‘l suo fine: / sì ch’io non veggia il gran publico danno, / e ‘l mondo remaner senza ‘l suo sole, / né li occhi miei, che luce altra non ànno (son. 246, vv 8-11) Né l’orecchie, ch’udir altro non sanno (son. 246, v 13) Che presso a quei d’Amor leggiadri nidi / il mio cor lasso ogni altra vista sprezza (son. 260, vv 3-4) Per voi conven ch’io arda, e ‘n voi respire, / ch’i’ pur fui vostro; et se di voi son privo, / via men d’ogni sventura altra mi dole (son. 267, vv 9-11) Poscia ch’ogni mia gioia / per lo suo dipartire in pianto è volta, / ogni dolcezza de mia vita è tolta (canz. 268, vv 9-11) Ma io, lasso, che senza / lei né vita mortal né me stesso amo (canz. 268, vv 29-30) Rendi agli occhi, agli orecchi il proprio obgetto, / senza qual imperfetto / è lor oprare, e ‘l mio vivere è morte (canz. 270, vv 41-43) Ché ‘l mio volere altrove non s’invesca (canz. 270, v 58) Gli animi ch’al tuo regno il cielo inchina / leghi ora in uno et ora in altro modo; / ma me sol ad un nodo / legar potei, ché ‘l ciel di più non volse (canz. 270, vv 91-94) Dunque per amendar la lunga guerra / per cui dal mondo a te sola mi volsi, / prega ch’i’ venga tosto a star con voi (son. 347, vv 12-14) Questi m’à fatto men amare Dio / ch’i’ non deveva, et men curar me stesso: / per una donna ò messo / egualmente in non cale ogni pensero (canz. 360, vv 31-34). Trovatori Qu’esser cug em paradis / can de midons, c’aizi m lia / que vas autra no m appel, / auzi parlar ses folia, / sol c’om de leis me favel (Raimbaut d’Aurenga, XXIX, vv 45-49) Autr’amor no volh nien (Bernart de Ventadorn, XXX, v 56) Q’anc ren tant non puoc amar (Giraut de Bornelh, XXXIII, v 51) Per qu’ieu m’en fora pars; / mais a l’issent d’uns ortz / me mostret una sortz / qu’ieu fos a lieis comanz (Giraut de Bornelh, XLVII, vv 66-69) Que s’amor m’a si doussament vencut / que ieu non posc ni n’aus aver talan / que ja de lieis que m’auci desiran (Uc de Saint Circ, VII, vv 17-19) Mas qar sabez q’eu no us posc desamar (Bertran d’Alamanon, XXI, v 23) Pero d’amor – que l ver vos en dirai - / no m lais del tot ni no m’en puosc mover (Folchetto da Marsiglia, III, vv 15-16) Partir no m puesc ni no sai estar quetz (Raimbaut de Vaqueiras, VI, v 9) Que per ma fe / e’ l’amava mais que re (Raimbaut de Vaqueiras, XXIII, vv 7-8) 262 E us am mais qe tot qant es (Monje de Montaudon, VI, v 15) Ni ges no m’en sai partir (Monje de Montaudon, VII, v 5) Ges no pues cesser oblidos, / qu’el mon ren tant no m’abelis (Arnaut de Maruelh, XVI, vv 15-16) Mais am de vos lo solatz e l vezer / e l ben e l mal que m’en pot eschazer / qu’ades jauzir del plus ric joc qu’eu sai (Raimon Jordan, I, vv 13-15) Tot jausir d’autr’amor esquiu (Raimon de Miravall, XI, v 17) Qu’anc non camjei mon talen, / ni non am flor ni ramel, / mas per leis ai chan d’auzel (Peire Vidal, XVII, vv 46-48) Perdre la puesc, qu’ilh non perdra ja mi (Perdigon, III, v 33) Aissi m mis ieu pauc e pauc en la via, / que cujava amar ab mayestria / si qu’en pogues partir quan me volgues, / on sui intraz tan qu’issir non puesc ges (Aimeric de Peguilhan, XII, vv 5-8) Ja per verjan ni per fuelh ni per flor / mon fin cor mais non viraray de re / de vos, cui tenc per don’ e vuelh amar (Gaucelm Faidit, I, vv 10-12) Tot’autra amor tenh a nien, / e sapchatz ben que mais jois no’m sosté (Casteloza, I, vv 3334) Car eu l’am mai que nulha ren que sia (Comtessa de Dia, II, v 3) Qe, ja tant qant eu viurai, / mon cor de vos no m partirai (Guilhem de la Tor, XI, vv 5657) E car non puosc nuilla ren tant amar, / ella, si l platz, non deu ma mort voler (Folquet de Romans, XVI, vv 9-10) Que non es aurs ni argenz, / tors ni castels ni palais / qu’eu ames tan com un bais (Cadenet, V, vv 14-16) Farai sos manz a mo poder, / car res mai / tan no m plai (Peire Raimon de Tolosa, I, vv 37-39) Que, si tot say, que m vol aucir, / no m vuelh ni m’aus ni m puesc partir (Guiraut Riquier, I, vv 2-3) Pero non part ma voluntatz, / si tot n’estauc desesperatz (Peirol, I, vv 13-14). 1.6.2 Il poeta non può amare nessun’altra donna In modo più esplicito e specifico l’io poetico dichiara talvolta di non potersi innamorare di nessun’altra139. I brani più interessanti sono quelli in cui compaiono due precisazioni alternative: i beni (ricchezze e domini che sottintendono una dominazione politica), cui il poeta rinuncerebbe in favore dell’amore tanto desiderato, o le sofferenze che l’io lirico è disposto a sopportare pur di mantenere la connessione con l’amata, rifiutando in tal caso le gioie possibili con un’altra – ipotetica – donna140. 139 Per esprimere tale concetto sono frequenti le formule comparative del tipo “preferisco restare con lei/avere da lei…che…”, che possono essere associate al meccanismo della priamel abbreviata, di cui si è parlato nel capitolo precedente. 140 Sul topos si sofferma Santagata 1996, p. 785. 263 Petrarca Ricorro al tempo ch’i’ vi vidi prima, / tal che null’altra fia mai che mi piaccia (son. 20, vv 3-4) Et se di lui [il cuore] fors’altra donna spera, / vive in speranza debile et fallace (son. 21, vv 5-6) […] e ‘l pensier mio, / ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’à parte (son. 61, vv 13-14) Et tutte le altre bellezze indietro vanno (canz. 73, v 66) I begli occhi […] / m’ànno la via sì d’altro amor precisa, / ch’un sol dolce penser l’anima appaga (son. 75, vv 1-6) Quando giugne per gli occhi al cor profondo / l’imagin donna, ogni altra indi si parte (son. 94, vv 1-2) Amor in altra parte non mi sprona, / né i pie’ sanno altra via, né le man’ come / lodar si possa in carte altra persona (son. 97, vv 12-14) Et così meco stassi, / ch’altra non veggio mai, né veder bramo, / né nome d’altra ne’ sospir’ miei chiamo (canz. 127, vv 97-99) Pur mi consola, che languir per lei / meglio è che gioir d’altra; et tu me ‘l giuri / per l’orato tuo strale, et io tel credo (son. 174, vv 12-14) Quel sol, che solo agli occhi mei resplende (son. 175, v 9) Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo (son. 188, v 1) Sì crede ogni uom, se non sola colei / che sovr’ogni altra, et ch’i’ sola, vorrei (son. 203, vv 2-4) A cui io dissi: Tu sola mi piaci (son. 205, v 8) I’ nol dissi già mai, né dir poria / per oro o per cittadi o per castella141 (canz. 206, vv 4647) Send’io tornato a solver il digiuno / di veder lei che sola al mondo curo (son. 233, vv 5-6) Ma me sol ad un nodo / legar potei, ché ‘l ciel di più non volse (canz. 270, vv 93-94) Togliendo anzi per lei sempre trar guai / che cantar per qualunque, e di tal piaga / morir contenta, et vivere in tal nodo (son. 296, vv 12-14) Né altro sarà mai ch’al cor m’aggiunga, / sì seco il seppe quella seppellire / che sola agli occhi miei fu lume et speglio (son. 312, vv 9-11) Questo fu il fel, questi li sdegni et l’ire, / più dolci assai che di null’altra il tutto (canz. 360, vv 106-107). Trovatori Tant sai son pretz fin e certa / per qu’ieu no m posc virar aillors (Arnaut Daniel, VII, vv 23-24) Q’eu am des Luc tro ad Aug / la genssor, e m’en pelaug / tot hom c’autra per fadesc / engal’ab lieis en paresc (Raimbaut d’Aurenga, XXI, vv 25-28) E deuria s’en plus cochar, / c’al no deman ni voill d’ailors (Giraut de Bornelh, XVIII, vv 43-44) 141 L’interpretazione del passo non è però certa, poiché non è certa quella dell’intero componimento. La lettura secondo cui ciò che il poeta ha detto colpevolmente è una dichiarazione d’amore per un’altra donna è stata a lungo preferita dalla critica. Per i problemi interpretativi sull’escondich petrarchesco si veda il capitolo precedente. 264 Per qu’ieu autra non azori (Guglielmo IX, XI, v 20) Ja no s cuit qez eu m’atraia / vas autra […] (Uc de Saint Circ, V, vv 23-24) Mais am per vos morir / que d’autr’aver nuill joi, tan vos desir (Rigaut de Berbezilh, III, vv 21-22) Q’en autra non ai mon esper (Cercamon, II, v 26) Non ai poder que ves autra m’atenda (Folchetto da Marsiglia, XVI, v 9) Qu’autra no m plai que m retenha (Sordello, I, v 27) Tant que l cor me dis que d’autra non estia (Elias Cairel, XVI, v 27) C ad autra no m complaing, / ni puosc mais dompn’amar (Raimbaut de Vaqueiras, XIV, vv 118-119) S’ieu non am mais de vos lo cossirier / que de nuill autr’aver mon desirier (Bertran de Born, V, vv 11-12) Non sai autra del cel en ios / que m mandes ab leys remaner / veiatz s’ie us am ses falhensa / que ia pogues m’entendensa / vas si traire e de vos mover (Aimeric de Belenoi, III, vv 24-28) La honors m’en valria mais / que d’autre luec us ricx jays (Monje de Montaudon, VII, vv 24-25) E s’ieu ja l cor vir per amar alhors, / no m valha Dieus ni Merces ni Amors (Arnaut de Maruelh, VII, vv 20-21) D’aitan n’ai un bon confort, / que ves autra no m destuelh (Raimon Jordan, IV, vv 37-38) Lai sui plevitz e iuratz / q’ieu non am ves autre latz (Peire d’Alvernha, XIV, vv 25-26) Pot d’autras domnas auzir / cum n’i a manhtas en azir / quar ieu no m biays (Raimon de Miravall, XXXIV, vv 13-15) Que jois ni deportz ni solatz / d’autra no m don’ esbaudimen (Peire Vidal, XXXI, vv 1617) E vuelh trop mais perdre e far mon dan / ab vos, dona, qu’ab autra conquerer (Aimeric de Peguilhan, L, vv 19-20) Mas sol d’una que m destrenh, / pus que ieu autra non denh ! (Gaucelm Faidit, XV, vv 15-16) Dieu prec qu’ab mos bratz vos cenha, / qu’autre no m pot enriquir (Castelloza, III, vv 3940) Ans am mais em perdo chantar / de lieys qu’autr’amor conquistar (Guilhem Ademar, XII, vv 6-7) Ni mais autra tant no m plai (Gui d’Ussel, IV, v 23) Et am mais l’esper / de vos e l voler / bella douz’amia / qe d’un autr’aver / baizar ni jazer (Guilhem de la Tor, V, vv 68-72) Qued autra senhoria / non vuoill ni deman (Cadenet, XIX, vv 22-23) E qui d’autra mot me sona / perda Dieus, que non l’acuoill (Peire Raimon de Tolosa, X, vv 39-40) Non, que mais am per vertat / aver en lieis mon esper / que d’autra totz mon plazer (Bertran Carbonel, VII, vv 45-46) Et am mays de lieys l’esper / que d’autr’aver guiardo (Peire Bremon Ricas Novas, VII, vv 11-12) Que anc peuys d’autra no m sovenc (Gavaudan, I, v 9) E tan sai qu’en autr’amistat, / […] / no pot hom veyre tan astruc (Guilhem Peire de Cazals, IX, vv 10-12) 265 Qu’eu n’am mais sofrir en patz / penas e dans e dolors, / que d’autra jauzens amatz / grans bes faitz e grans socors (Re d’Aragona, I, vv 30-33) Que ses la vostra entendensa / no volgr’aver Proensa / ab tota Lombardia: / quan m’auretz dat so don m’avetz dig d’oc, / serai plus rics que l senher de Marroc! (Guilhem Augier Novella, V, vv 41-45). 1.6.3 Focalizzazione univoca del pensiero Un aspetto essenziale di un amore totalizzante è la ricorrenza del pensiero, risultato della costanza e dell’unicità del desiderio, che elimina qualunque fonte alternativa di attrazione. Petrarca Et un penser che solo angoscia dàlle, / tal ch’ad ogni altro fa voltar le spalle (canz. 23, vv 17-18) Sol con questi pensier’, con altre chiome, / sempre piangendo andrò per ogni riva (sest. 30, vv 32-33) S’io credesse per morte essere scarco / del pensiero amoroso che m’atterra, / colle mie mani avrei già posto in terra / queste membra noiose, et quello incarco (son. 36, vv 1-4) Amor, tu che’ pensier’ nostri dispense (son. 48, v 5) I’ rivolsi i pensier’ tutti ad un segno, / che parlan sempre de’ lor tristi danni (son. 60, vv 7-8) […] e ‘l pensier mio, / ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’à parte (son. 61, vv 13-14) La qual ogni altra salma / di noiosi pensier’ disgombra allora, / sì che di mille un sol vi si ritrova (canz. 71, vv 79-81) Empiendo d’un pensier alto et soave / quel core ond’ànno i begli occhi la chiave (canz. 72, vv 29-30) Io son già stanco di pensar sì come / i miei pensier’ in voi stanchi non sono (son. 74, vv 1-2) Ch’un sol dolce penser l’anima appaga (son. 75, v 6) Amor, con cui pensier mai non amezzo (son. 79, v 5) Fuggir vorrei: ma gli amorosi rai, / che dì et notte ne la mente stanno (son. 107, vv 5-6) Prima poria per tempo venir meno / un’imagine salda di diamante / che l’atto dolce non mi stia davante / del qual ò la memoria e ‘l cor sì pieno (son. 108, vv 5-8) Le [faville] trovo nel pensier, tanto tranquille / che di null’altro mi rimembra o cale (son. 109, vv 7-8) […] In questi pensier’, lasso, / nocte et dì tiemmi il signor nostro Amore (son. 112, vv 1314) A ciascun passo nasce un penser novo / de la mia donna, che sovente in gioco / gira ‘l tormento ch’i’ porto per lei (canz. 127, vv 17-19) Ma mentre tener fiso / posso al primo pensier la mente vaga (canz. 129, vv 33-34) Pien d’un vago penser che me desvia / da tutti gli altri, et fammi al mondo ir solo (son. 169, vv 1-2) Solfo et esca son tutto, e ‘l cor un foco / da quei soavi spirti, i quai sempre odo, / acceso dentro sì ch’ardendo godo, / et di ciò vivo, et d’altro mi cal poco (son. 175, vv 5-8) 266 Ne l’alma che pensar d’altro non vole (son. 246, v 12) Et se talor da’ belli occhi soavi, / ove mia vita e ‘l mio pensero alberga (son. 253, vv 910) Le mie notti fa triste, e i giorni oscuri, / quella che n’à portato i penser’ miei (son. 291, vv 12-13) Morta colei che mi facea parlare / et che si stava de’ pensier’ miei in cima (son. 293, vv 5-6) Mente mia, che […] / sì ‘ntentamente ne l’amata vista / requie cercavi de’ futuri affanni (son. 314, vv 1-4) I miei cari penseri e ‘l cor, lasciai! (son. 314, v 14) Et vo, sol in pensar, cangiando il pelo, / qual ella è oggi, e ‘n qual parte dimora (son. 319, vv 12-13) Sol di lei ragionando viva et morta (son. 333, v 9) Anchor io il nido di penseri electi / posi in quell’alma pianta […] (son. 337, vv 9-10) Ond’io voglie et pensier’ tutti al ciel ergo / perch’i’ l’odo pregar pur ch’i’ m’affretti (son. 346, vv 13-14) Per una donna ò messo / egualmente in non cale ogni pensero (canz. 360, vv 33-34). Trovatori Cant ieu m pes, , qui m fer ni m pela / no n pot far en als entendre (Raimbaut d’Aurenga, XVI, vv 36-37) Quar ben paretz que pessetz d’al / pos del mieu pensamen no us cal (Raimbaut d’Aurenga, XXV, vv 48-49) Be fai granda follor / qui met en fals senhor / tot son cor ni s’amor / ni tot son pessamen (Uc de Saint Circ, XIII, vv 1-4) Ni d’als mos cors no consira (Cercamon, II, v 28) C’anc, puois la vi, non puoc d’alre pensar (Folchetto da Marsiglia, XX, v 11) Lei, on a tot son pensar (Sordello, XV, v 17) Adoncx n’oblit totz mos autres pensars / e pens d’Amor, c’aisel pes m’es plus cars (Elias Cairel, XIV, vv 5-6) Mas ieu no soi consiros / mas de vos a grat servir (Raimbaut de Vaqueiras, XXX, vv 3334) E fora m meills fos aillors mos penssiers / don ieu agues calacom jauzimen (Rambertino Buvalelli, IX, vv 17-18) Qu’anc pueys qu’Amor la m mes el cor / no la trays nul pessars a l’or (Aimeric de Belenoi, II, vv 35-36) En aisso s pliu e s fia / que mais no s cambia / de vos mos pensatz (Arnaut de Maruelh, XIII, vv 21-23) Cui ieu am tan que d’als no puesc pessar (Raimon Jordan, III, v 19) Q’ieu non cossir de ren al / mas de servir a plazer / lieis de cui teing Miraval (Raimon de Miravall, VI, vv 61-63) Ja pois no pens de nulh autre jornal (Peire Vidal, XXIV, v 28) En amor son fermat tuich miei cossir / si q’en ren als non ai poder q els traia (Gaucelm Faidit, XI, vv 37-38) Lo cors, e l cor, e l pensamen / ai en leis que d’als no m sove (Gui d’Ussel, V, vv 41-42) 267 C’anc, puois la vi, non puoc d’alre pensar (Folquet de Romans, XVI, v 11) De fin’ amor son tuit mei pessamen / e mei desir e mei meillor jornal (Peire Raimon de Tolosa, V, vv 1-2) Qu’a penas ai en alre pessamen (Guiraut Riquier, XX, v 3) Anz m’es totz autres joys oblitz / vas l’amor don paucs bes ajust (Guilhem de Cabestanh, III, vv 13-14) E qan cossiriers m’ave / de nuill autr’afaire / s’amors me vent ost desfaire / ve us lo pro que m te (Peirol, IX, vv 29-32). 1.6.4 Il desiderio continua a crescere Un aspetto significativo nell’ossessività dell’amore è la costanza del desiderio. Il permanere della passione è espresso nell’affermazione, tutt’altro che isolata sia nelle opere trobadoriche sia (e soprattutto) nel Canzoniere, secondo cui il desiderio “cresce”142. Non solo cioè la situazione del poeta non prevede soluzione, ma tende ad aggravarsi, a farsi sempre più radicata. Petrarca Quanto ciascuna è men bella di lei / tanto cresce ‘l desio che m’innamora (son. 13, vv 34) La fera voglia che per mio mal crebbe (canz. 23, v 3) Lasso, se ragionando si rinfresca / quel’ardente desio (canz. 37, vv 49-50) Ch’i’ son già pur crescendo in questa voglia / ben presso al decim’anno, / né poss’indovinar chi me ne scioglia (canz. 50, vv 54-56) La speme incerta, e ‘l desir monta et cresce (son. 57, v 2) Trovo chi bella donna ivi depinge / per far sempre mai verdi i miei desiri (son. 158, vv 34) Anzi per la pietà cresce ‘l desio (son. 241, v 14) Preme ‘l cor di desio, di speme il pasce / […] / et s’io lo uccido più forte rinasce. / Questo d’allor ch’i’ m’addormiva in fasce / venuto è di dì in dì crescendo meco / e temo ch’un sepolcro ambeduo chiuda143 (canz. 264, vv 58-65) Di ciò m’è stato consiglier sol esso, / sempr’aguzzando il giovenil desio (canz. 360, vv 35-36). 142 Consideriamo a questo proposito, nel gruppo dei passi trobadorici, anche casi in cui per indicare la crescita del desiderio si usi l’idea di raddoppiamento. Come si è visto nel corso del presente capitolo, l’idea del raddoppiamento, legata alla sofferenza o anche ad altri aspetti della vicenda amorosa, costituisce anche ed anzi soprattutto un topos autonomo e ben riconoscibile. 143 Nel brano qui proposto si parla in realtà non del desiderio amoroso, nato dall’incontro con Laura, ma di quello per la gloria, sviluppatosi sin dall’infanzia del poeta; tuttavia nel complesso la canzone accomuna come un unico problema esistenziale le due catene che impediscono all’io poetico l’ascesa spirituale al vero bene. 268 Trovatori N’ai eu ia fatz ves non-caler, / que anz del ser / m’era si doblatz mon talanz (Giraut de Bornelh, XXV, vv 24-26) E l desir creis et mos ardimens mor (Uc de Saint Circ, IV, v 20) Pero l desir m’es ades plus cozens (Folchetto da Marsiglia, XX, v 21) Qan plus creis, dompna, l desiriers / don languisc qar no m faitz amor (Sordello, IX, vv 12) Amors adreit creis t’en l’auzir ? (Rambertino Buvalelli, IV, v 28) Mas era m son tan li dezir cregut / que re no sai cum sion sostengut (Raimon Jordan, XIII, vv 16-17) Qe mos desirs si dobles en baisans (Raimon de Miravall, XI, v 13) Doncs sui eu mortz, s’enaissi m renovela / aquest dezirs que m tol soven l’alena (Peire Vidal, VII, vv 23-24) Adoncs creis plus l’amors qe m lassa e m te (Aimeric de Peguilhan, XLI, v 16) Vas mi, e dobla mos chans / e l joys e l’enveya grans (Gaucelm Faidit, II, vv 29-30) Ades mi dobla l dezirier (Guilhem Ademar, III, v 14) Tant c’ades plus la desir, / on plus sovent la remir (Guilhem de la Tor, VIII, vv 49-50) Pros donns, mais per un cen / qu’al primier comensamen (Cadenet, XI, vv 54-55) E doblera mon talan (Peire Raimon de Tolosa, IX, v 50) Qu’ieu vuelh midons e dezir la voler / e, quant la vey, mais la dezir vezer (Guiraut Riquier, IV, vv 23-24) Dobla l’amors e nays e creys ades (Peirol, XXI, v 18). 1.6.5 Oblio e confusione Tragica conseguenza di un pensiero unico e di un desiderio senza scampo è la tendenza ad escludere ogni altro oggetto di interesse, e in parte i passi citati in precedenza lo dimostrano. Un esito particolarmente nefasto e dalle dense implicazioni etiche si verifica però quando l’io lirico dimentica o perde se stesso, la realtà che lo circonda, ciò che potrebbe essergli salutare. Sono esempi chiari di quella alienazione e alterazione rispetto ad un normale e salubre equilibrio interiore cui si è fatto più volte riferimento. A tali luoghi possiamo infine accostare quelli in cui l’innamorato si dimostra confuso o disorientato rispetto alla propria condizione reale: si tratta di un’ulteriore espressione di quanto l’amore sia destabilizzante144. Sia la metafora dell’oblio, sia la perdita dei punti di riferimento concreti accomunano passi petrarcheschi e trobadorici. Petrarca Vommene in guisa d’orbo, senza luce, / che non sa ove si vada et pur si parte (son. 18, vv 7-8) E mi face obliar me stesso a forza (canz. 23, v 19) 144 Sono particolarmente interessanti i luoghi in cui l’amante ammette di aver perso l’esatta cognizione del luogo e del tempo in cui si trova. 269 Da me son fatti i miei pensier’ diversi (canz. 29, v 36) Et die’ le chiavi a quella mia nemica / ch’anchor me di me stesso tene in bando (son. 76, vv 3-4) Qui dove mezzo son, Sennuccio mio / (così ci foss’io intero, et voi contento) (son. 113, vv 1-2) Così carco d’oblio / il divin portamento / e ‘l volto e le parole e ‘l dolce riso / m’aveano, et sì diviso / da l’imagine vera (canz. 126, vv 56-60) […] et nel primo sasso / disegno co la mente il suo bel viso. / Poi ch’a me torno, trovo il petto molle / de la pietate […] (canz. 129, vv 28-31) Ma mentre tener fiso / posso al primo pensier la mente vaga, / et mirar lei, et obliar me stesso (canz. 129, vv 33-36) Ad or ad ora a me stesso m’involo / pur lei cercando che fuggir devria145 (son. 169, vv 34) Quando mi vene inanzi il tempo e ‘l loco / ov’i’ perdei me stesso, e ‘l caro nodo (son. 175, vv 1-2) Onde ‘l vago desir perde la traccia / e ‘l suo sommo piacer par che li spiaccia, / d’error sì novo la mia mente è piena (son. 178, vv 6-8) Passa la nave mia colma d’oblio (son. 189, v 1) Rapto per man d’Amor, né so ben dove (son. 193, v 7) I’ nol posso ridir, ché nol comprendo: / da ta’ due luci è l’intellecto offeso, / et di tanta dolcezza oppresso et stanco (son. 198, vv 12-14) Che me stesso perdei / (né più perder devrei) (canz. 206, vv 43-44) I dolci colli ov’io lasciai me stesso (son. 209, v 1) Et vacillando cerco il mio thesoro / come animal che spesso adombre e ‘ncespe: / ch’or me ‘l par ritrovar, et or m’accorgo / ch’i’ ne son lunge, or mi sollievo or caggio, / ch’or quel ch’i’ bramo, or quel ch’è vero scorgo (son. 227, vv 7-11) Né pur il mio secreto e ‘l mio riposo / fuggo, ma più me stesso e ‘l mio pensero (son. 234, vv 9-10) Or tu ch’ài posto te stesso in oblio (son. 242, v 9) Ch’i’ son intrato in simil frenesia, / et con duro penser teco vaneggio; / né so se guerra o pace a Dio mi cheggio (son. 244, vv 3-5) In tal paura e ‘n sì perpetua guerra / vivo ch’i’ non son più quel che già fui, / qual chi per via dubbiosa teme et erra (son. 252, vv 12-14) Quante fiate, al mio dolce ricetto / fuggendo altrui et, s’esser pò, me stesso (son. 281, vv 1-2) Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente, / et le braccia et le mani e i piedi e ‘l viso, / che m’avevan sì da me stesso diviso, / e fatto singular da l’altra gente146 (son. 292, vv 1-4) Quand’io mi volgo indietro a mirar gli anni / ch’ànno fuggendo i miei penseri sparsi147 (son. 298, vv 1-2) 145 Nei due versi precedenti il poeta sottolinea come il pensiero amoroso non causi solo questa separazione interiore, ma anche una divergenza molto marcata rispetto alla gente comune, e quindi, in ultima analisi, un prolungato stato di solitudine. Della condizione innaturale e peculiare dell’io rispetto alla natura e alla gente comune si è già parlato nel corso del presente capitolo. 146 Benché tale aspetto si sia affrontato in merito ad immagini più specifiche (il ritmo veglia/sonno, l’alternanza giorno/notte, le stagioni etc), è chiaro che un’ammissione così esplicita ha un valore fortissimo rispetto alla rappresentazione psicologica ed esistenziale dell’io lirico. 270 Cominciai a mirar con tal desio / che me stesso e ‘l mio mal misi in oblio. / I’ era in terra, e ‘l cor in paradiso, / dolcemente obliando ogni altra cura (canz. 325, vv 44-47) Così dentro et di for mi vo cangiando, / et sono in non molt’anni sì dimesso, / ch’a pena riconosco omai me stesso (son. 349, vv 3-5) Questi m’à fatto men amare Dio / ch’i’ non deveva, et men curar me stesso (canz. 360, vv 31-32). Trovatori No sap lo cors trep o is duoilla (Arnaut Daniel, XI, v 36) D’Amor que y met tal creyssensa / que d’als non ai sovinensa (Raimbaut d’Aurenga, V, vv 10-11) Ai las, com mor de cossirar (Bernart de Ventadorn, XXXIX, v 9) Quecs jorn mi sembla plus d’un an / car non la vei, e no m rete (Uc de Saint Circ, III, vv 38-39) E quan m’en vauc, vejaire m’es / que tot perda il sen e il saber (Cercamon, I, vv 17-18) Tant i es mos cors pausatz / que l mensonja m sembla vers (Folchetto da Marsiglia, X, vv 21-22) De guiza m sui oblidatz148 (Folchetto da Marsiglia, XXI, v 4) Per q’es per mi qe us airatz, / qe m tol pessamen e consir? (Sordello, V, vv 39-40) Que oblidatz me lais del tot chaser (Elias Cairel, XII, v 34) Que gran temensa me n pren, e l damnatge / me fai tal mal que m fai anar aratge (Elias Cairel, XVI, vv 11-12) C’us sols jorns mi sembla trenta (Bertran de Born, XXXII, v 10) Mas tant sui pensius e marritz, / qe no sai que m dic ni qe m faz (Rambertino Buvalelli, V, vv 11-12) Que m’a fait si autras res oblidar (Aimeric de Belenoi, VI, v 27) Mas tan m’es dous entre cen mals us bes / que no m memra d’afan qu’eu anc n’agues (Monje de Montaudon, III, vv 28-29) Tot autre joi desconois et oblida (Arnaut de Maruelh, VIII, vv 9-10) Tan m’es lo dezirs corals / q’us ans me sembla jornals (Raimon de Miravall, X, vv 49-50) Qu’eu m’en oblit per leis qu’eu vei aital (Peire Vidal, XVIII, v 12) Atressi m’es tal dolors demezida / que m don’Amors que sol no m sai ni m sen (Perdigon, IV, vv 5-6) Tot cant m’acort en un mes o en dos / de cal guisa us pogues genseitz prejar, / m’oblit qan vei vostras bellas faissos (Gaucelm Faidit, XVII, vv 34-35) E sapchatz qu’esdeve soven, / quan cug dir razon d’autr’afar, / qu’el mieg m’oblit si del parlar, / no sai on m’o lays ni m’o prenc (Guilehm Ademar, IV, vv 21-24) En tanta guisa m men’ Amors / c’a penas sai si dei chanta (Gui d’Ussel, III, vv 1-2) E quel mal qu’ieu n’ai agut / oblit e meta en soan (Bartolomé Zorzi, III, vv 40-41) 147 L’essere “sparso” e dunque frammentario è un concetto fondamentale rispetto alla costruzione del Canzoniere, oltre che al messaggio del Secretum: proprio la dispersione interiore, cui fa riferimento anche il brano sopra citato dal sonetto 292, motiva il tentativo di raccogliere la propria anima nell’unità almeno poetica, primo passo nella ricerca di maturazione e conversione. Tale definizione spirituale di fragmenta è già stata citata in precedenza: d’altro canto la sua importanza è particolarmente centrale. 148 È utile citare questo passo per la coincidenza con l’immagine petrarchesca; si tenga però conto che esso è tratto da un planh per la morte del signore, e non da un testo amoroso. 271 Q’ieu non conosc lo mal dal be q’ieu n’ai (Lanfranco Cigala, XIII, v 2) Mi e quant es mi fezes oblidar (Guilhem de Cabestanh, VI, v 7). 1.6.6 Amore e la dama sono sempre vicini al poeta Elemento tipico dell’ossessione amorosa, che ne rappresenta al contempo un sintomo ed una causa, è la costante presenza di Amore o dell’amata accanto al poeta. Non importa che la situazione non sia reale e che il sentimento non sia nemmeno ricambiato: l’io lirico è dominato a tal punto dalla passione che ogni sua percezione è influenzata e alterata dallo stato interiore. Rappresentazioni convenzionali comprendono la personificazione di Amore da una parte e dall’altra il riflettersi del pensiero dell’io sugli oggetti che lo circondano: come si è visto, la mente dell’innamorato è sempre focalizzata sull’oggetto d’amore, cosicché la figura dell’amata finisce per stagliarsi in ogni luogo. Petrarca Così davanti ai colpi de la morte / fuggo: ma non sì ratto che ‘l desio / meco non venga come venir sòle (son. 18, vv 9-11) Amor piangeva, et io con lui talvolta, / dal qual miei passi non fur mai lontani (son. 25, vv 1-2) Mi piacquen sì ch’i’ l’ò dinanzi agli occhi, / ed avrò sempre, ov’io sia, in poggio o ‘n riva (sest. 30, vv 5-6) Ma pur sì aspre vie né sì selvagge / cercar non so, ch’Amor non venga sempre / ragionando con meco et io co llui (son. 35, vv 12-14) Et benedetto il primo dolce affanno / ch’i’ ebbi ad esser con Amor congiunto (son. 61, vv 5-6) Tal ch’i’ depinsi poi per mille valli / l’ombra ov’io fui, ché né calor né pioggia / né suon curava di spezzata nebbia (sest. 66, vv 34-36) Et potrete pensar qual dentro fammi, / là ‘ve dì et notte stammi / adosso, col poder ch’à in voi raccolto (canz. 71, vv 54-56) Et per lungo costume, / dentro là dove sol con Amor seggio, / quasi visibilmente il cor traluce (canz. 72, vv 4-6) Già prima ebbe per voi l’entrata Amore, / là onde anchor come in suo albergo viene (son. 84, vv 5-6) Ma ‘l bel viso leggiadro che depinto / porto nel petto, et veggio ove ch’io miri (son. 96, vv 5-6) Et l’imagine lor son sì cosparte / che volver non mi posso, ov’io non veggia / o quella o simil indi accesa luce (son. 107, vv 9-11) Ma se ‘n cor valoroso Amor non dorme (son. 108, v 12) Qui mi sto solo; et come Amor m’invita, / or rime et versi, or colgo herbette et fiori, / seco parlando, et a tempi migliori / sempre pensando: et questo sol m’aiuta (son. 114, vv 5-8) In una valle chiusa d’ogni ‘ntorno, / ch’è refrigerio de’ sospir’ miei lassi, / giunsi sol cum Amor, pensoso et tardo (son. 116, vv 9-11) 272 Et l’imagine trovo di quel giorno / che ‘l pensier mio figura, ovunque io sguardo (son. 116, vv 13-14) Colui che del mio mal meco ragiona / mi lascia in dubbio, sì confuso ditta149 (canz. 127, vv 5-6) Perch’agli occhi miei lassi / sempre è presente, ond’io tutto mi struggo (canz. 127, vv 9495) Talor m’arresto, et pur nel primo sasso / disegno co la mente il suo bel viso150 (canz. 129, vv 28-29) Sento Amor sì da presso / che del suo proprio error l’alma s’appaga151 (canz. 129, vv 3637) Quant’aria dal bel viso mi diparte, / che sempre m’è sì presso et sì lontano (canz. 129, vv 60-61) […] né chi lo scorga / v’è se no Amor, che mai nol lascia un passo, / et l’imagine d’una che lo strugge, / ché per sé fugge tutt’altre persone (canz. 135, vv 94-97) Trovo la bella donna allor presente / ovunque mi fu mai dolce o tranquilla (son. 143, vv 5-6) Ove ch’i’ posi gli occhi lassi o giri / per quietar la vaghezza che li spinge, / trovo chi la bella donna ivi depinge / per far sempre mai verdi i miei desiri (son. 158, vv 1-4) […] et chi mi sface / sempre m’è inanzi per mia dolce pena (son. 164, vv 5-6) Lei che ‘l ciel non poria lontana farme, / ch’i’ l’ò negli occhi, et veder seco parme / donne et donzelle, et sono abeti et faggi (son. 176, vv 5-8) Tu sai in me il tutto Amor […] (canz. 206, v 50) Et agli occhi depigne / quella che sol per farmi morir nacque152 (canz. 264, vv 106-107) Or in forma di nimpha o d’altra diva / che del più chiaro fondo di Sorga esca, / et pongasi a sedere in su la riva; / or l’ò veduto su per l’erba fresca / calcare i fior’ com’una donna viva, / mostrando in vista che di me le ‘ncresca (son. 281, vv 9-14) Amor che meco al buon tempo ti stavi / fra queste rive, a’ pensier’ nostri amiche, / et per saldar le ragion’ nostre antiche / meco et col fiume ragionando andavi (son. 303, vv 1-4) […] et sol tu che m’affligi, / Amor, vien’ meco, et mostrimi ond’io vada (son. 306, vv 1011) Tornami a mente, anzi v’è dentro, quella / ch’indi per Lethe esser non pò sbandita (son. 336, vv 1-2) Né costui né quell’altra mia nemica / ch’i’ fuggia, mi lasciavan sol un punto (canz. 360, vv 54-55). 149 Per antonomasia, chi parla col poeta dei suoi sentimenti e soprattutto gli detta, è Amore. L’idea della poesia come ispirata direttamente da Amore si è già anticipata nel capitolo precedente, trattando della sestina e della ricerca di perfezione formale. La rappresentazione di Amore come “dittatore”, comunque, trova il suo modello fondamentale in Dante (Purgatorio, XXIV) e torna nel Canzoniere, ff. 127 e 143. Sull’idea che direttamente da Amore vengano i contenuti della lirica sarà opportuno tornare in riferimento agli aspetti metapoetici, considerando anche gli antecedenti trobadorici. 150 Il senso di una spasmodica ricerca tra gli enti naturali era già nella canzone 39 di Raimbaut d’Aurenga (vv 33-36), ma senza esplicitare il concetto della presenza femminile nella natura. 151 Pensare all’amata lontana, come se fosse vicina, è una consolazione per il poeta sofferente; una situazione simile era stata proposta da Bernart de Ventadorn, XXV, che trova sollievo nell’immaginare il luogo dove si trova la dama. 152 Il soggetto è qui Amore, rappresentato come pittore: è un elemento soprattutto lentiniano, poi divenuto topico, ma qui riferito agli occhi e quindi all’idea di una visione costante ed ossessiva, e non al cuore, come vorrebbe la consuetudine. 273 Trovatori E vos, dopna, pensan, remir (Sordello, V, v 38) Que on que eu m’estei / lai on la vi la vei (Aimeric de Belenoi, XIV, vv 9-10) E us clam merce, sai pensan, e repaus, / on qu’ieu m’estey, mon cor en vostr’amor (Arnaut de Maruelh, IV, vv 26-27). 1.6.7 Il legame tra il cuore del poeta e l’amata La strettissima connessione tra l’io poetico e, a seconda dei casi, Amore o madonna trova la sua più compiuta espressione in riferimento alla condizione del cuore. Sono tre in particolare i fenomeni che possono intervenire: l’immagine della dama o altri elementi che la riguardino possono essere fissati nel cuore153, esso può essere rubato154 oppure può allontanarsi dal corpo dell’amante, nella maggior parte delle occasioni per restare con l’oggetto d’amore. È certamente vero che il principio dell’immagine dell’amata nel cuore155 viene precisata e definita da Giacomo da Lentini, e come tale recuperata dalla tradizione poetica toscana; tuttavia, le radici del topos si possono cogliere già nella rappresentazione trobadorica, che dunque merita attenzione. Petrarca Quando io movo i sospiri a chiamar voi, / e ‘l nome che nel cor mi scrisse Amore (son. 5, vv 1-2) Un dubbio: come posson queste membra / da lo spirito lor viver lontane? / Ma rispondemi Amor: Non ti rimembra / che questo è privilegio degli amanti, / sciolti da tutte qualitati humane? (son. 15, vv 10-14) Largata alfin con l’amorose chiavi / l’anima esce del cor per seguir voi; / et con molto pensiero indi si svelle (son. 17, vv 12-14) Or s’io lo scaccio, et e’ non trova in voi / ne l’exilio infelice alcun soccorso, / né sa star sol, né gire ov’altri il chiama (son. 21, vv 9-11) Questa che col mirar gli animi fura, / m’aperse il petto, e ‘l cor prese con mano, / dicendo a me: Di ciò non far parola (canz. 23, vv 72-74) Quel’ardente desio / che nacque il giorno ch’io / lassai di me la miglior parte a dietro (canz. 37, vv 51-52) 153 La tipica variante petrarchesca del topos, come vedremo, è giocata sull’identificazione Laura/lauro, per cui ad essere impiantata nel cuore non è soltanto, classicamente, l’immagine della dama, ma le sue stesse radici. In tal modo si amplifica il senso di connessione tra gli amanti, ma soprattutto la dipendenza di lui rispetto a lei. Per il topos, la sua origine e la sua evoluzione si vedano Mancini 1988 e Damiani 2000. 154 A sua volta l’io poetico petrarchesco può agire da ladro, rubando sguardi che non gli sarebbero destinati (ff. 73 e 207, oltre a 199, secondo una possibile lettura della seconda terzina). Sul topos del cuore rubato si sofferma brevemente Vanacker 2009, pp. 132-136, sottolineando la differenza tra questo e il motivo del cuore mangiato (per cui si veda Di Maio 1996): il primo indica la natura passiva e coercitiva dell’amore imposto al poeta, il secondo la fusione tra i due amanti. In realtà l’idea del cuore mangiato è tradizionalmente associata all’acquisizione delle qualità altrui, come nota in riferimento all’avvio della Vita nova Rossi 1999, p. 17 e come si intuisce leggendo alcuni planh civili di cui si è parlato nel capitolo precedente. 155 Per alcune annotazioni di riferimento sul topos, si veda Santagata 1996, p. 579. 274 Amor, tu che’ pensier’ nostri dispense, / al qual un’alma in duo corpi s’appoggia (son. 48, vv 5-6) Misero me, che volli / quando primier sì fiso / gli tenni nel bel viso / per iscolpirlo imaginando in parte / onde mai né per forza né per arte / mosso sarà […] (canz. 50, vv 6368) Uscir già mai, over per altri ingegni, / del petto ove dal primo lauro innesta / Amor più rami […] (son. 64, vv 5-7) Questi son que’ begli occhi che mi stanno / sempre nel cor colle faville accese, / per ch’io di loro parlando non mi stanco (son. 75, vv 12-14) Quando giugne per gli occhi al cor profondo / l’imagin donna, ogni altra indi si parte (son. 94, vv 1-2) Et del primo miracolo il secondo / nasce talor, che la scacciata parte / da se stessa fuggendo in parte / che fa vendetta e ‘l suo exilio giocondo (son. 94, vv 5-8) Ma ‘l bel viso leggiadro che depinto / porto nel petto, et veggio ove ch’io miri (son. 96, vv 5-6) E ‘l volto, et le parole che mi stanno / altamente confitte in mezzo ‘l core, / fanno le luci mie di pianger vaghe (son. 100, vv 12-14) Amor et Gelosia m’ànno ‘l cor tolto (canz. 105, v 69) La donna che ‘l mio cor nel viso porta, / là dove sol fra bei pensier’ d’amore / sedea, m’apparve […] (son. 111, vv 1-3) Pensosa mi rispose, et così fiso / tenne il suo dolce sguardo, ch’al cor mandò con le parole il viso156 (canz. 119, vv 88-90) Ch’aver dentro a lui [cuore] parme / un che madonna sempre / depinge et de lei parla: / a voler poi ritrarla / per me non basto, et par ch’io me ne stempre (canz. 125, vv 33-37) Ma pur quanto l’istoria trovo scripta / in mezzo ‘l cor (che sì spesso rincorro) / con la sua propria man de’ miei martiri (canz. 127, vv 7-9) Ivi è ‘l mio cor, et quella che ‘l m’invola; / qui veder poi l’imagine mia sola (canz. 129, vv 71-72) Et sol ad una imagine m’attegno, / che fe’ non Zeusi, o Prasitele, o Fidia, / ma miglior mastro, et di più alto ingegno (son. 130, vv 9-11) Furando ‘l cor, che fu già cosa dura (canz. 135, v 25) Il cor che mal suo grado a torno mando, / è con voi sempre in quella valle aprica157 (son. 139, vv 5-6) E ‘l suo seggio maggior nel mio cor tene (son. 140, v 2) […] et così bella riede / nel cor, come colei che tien la chiave (son. 143, vv 10-11) Quel dolce pianto mi depinse Amore / anzi scolpìo, et que’ detti soavi / mi scrisse entro un diamante in mezzo ‘l core (son. 155, vv 9-11) Quel sempre acerbo et honorato giorno / mandò sì al cor l’imagine sua viva / che ‘ngegno o stil non fia mai che ‘l descriva (son. 157, vv 1-3) Sento far del mio cor dolce rapina, / et sì dentro cangiar penseri et voglie (son. 167, vv 56) Del cor l’alma stanca si scompagna / per gir nel paradiso suo terreno. / Poi trovandol di dolce et d’amar pieno, / quant’al mondo si tesse, opra d’aragna158 / vede […] (son. 173, vv 3-7) 156 157 Qui il poeta si riferisce alla Gloria, ma il topos è riproposto senza alterazioni sensibili. In questo caso l’interpretazione del topos è morale e spirituale, non amorosa. 275 Il cor già volto ov’abita il suo lume (son. 177, v 14) Ma lo spirto ch’iv’entro si nasconde / non cura né di tua né d’altrui forza; / lo qual senz’alternar poggia con orza / dritto per l’aure al suo desir seconde (son. 180, vv 3-6) La dolce vista del beato loco, / ove ‘l mio cor co la sua donna alberga (son. 188, vv 1314) Talor ch’odo dir cose, e ‘n cor describo / perché da sospirar sempre ritrove (son. 193, vv 5-6) Per ritrovar ove ‘l cor lasso appoggi, / fuggo dal mi’ natio dolce aere tosco (son. 194, vv 5-6) I dolci colli ov’io lasciai me stesso (son. 209, v 1) Tal la mi trovo al petto, ove ch’i’ sia, / felice incarco […] (son. 228, vv 12-13) Torna tu [cuore] là [da Laura], ch’io d’esser sol m’appago (son. 242, v 5) Et parli al cor pur come e’ fusse or teco, / miser, et pien di pensier’ vani e sciocchi! / Ch’al dipartir dal tuo sommo desio / tu te n’andasti, e’ si rimase seco, / et si nascose dentro a’ suoi belli occhi (son. 242, vv 10-14) Il mio cor che per lei lasciar mi volle / (et fe’ gran senno, et più se mai non riede) (son. 243, vv 5-6) Fa con sue viste leggiadrette et nove / l’anime da’ lor corpi pellegrine (son. 246, vv 3-4) Quel giorno ch’i’ lasciai grave et pensosa / madonna, e ‘l mio cor seco! […] (son. 249, vv 2-3) Come già fece allor che’ primi rami / verdeggiar, che nel cor radice m’ànno, / per cui sempre altrui più che me stesso ami (son. 255, vv 9-11) L’alma, cui Morte dal suo albergo caccia, / da me si parte, et di tal nodo sciolta, / vassene pur a lei che la minaccia (son. 256, vv 9-11) Ben ti ricordi, et ricordar te ‘n dei, / de l’imagine sua quand’ella corse / al cor, là dove forse / non potea fiamma intrar per altrui face (canz. 264, vv 41-44) Un lauro verde, una gentil colomna, / quindeci l’una, et l’altro diciotto anni / portato ò in seno, et già mai non mi scinsi (son. 266, vv 12-14) Madonna è morta, et à seco il mio core (canz. 268, v 4) Il mio amato tesoro in terra trova, / che m’è nascosto, ond’io son sì mendico, / e ‘l cor saggio pudico, / ove suol albergar la vita mia (canz. 270, vv 5-8) Ove nacque colei ch’avendo in mano / meo cor in sul fiorire e ‘n sul far frutto (son. 288, vv 3-4) Soleasi nel mio cor star bella et viva, / com’alta donna in loco humile et basso (son. 294, vv 1-2) Né altro sarà mai ch’al cor m’aggiunga, / sì seco il seppe quella seppellire (son. 312, vv 9-10) Passato è ‘l viso sì leggiadro et santo, / ma passando i dolci occhi al cor m’à fissi: / al cor già mio, che seguendo partissi / lei ch’avolto l’avea nel suo bel manto (son. 313, vv 5-8) Quando a lor come a’ duo amici più fidi / partendo in guardia la più nobil salma, / i miei cari penseri e ‘l cor, lasciai! (son. 314, vv 12-14) Vidi un’altra [pianta] ch’Amor obiecto scelse, / subiecto in me Calliope et Euterpe; / che ‘l cor m’avinse, et proprio albergo felse (son. 318, vv 5-8) 158 Tale immagine in particolare è già trobadorica. Per alcuni riferimenti utili si veda anche Santagata 1996, p. 782. 276 Ché ‘n te mi fu ‘l cor tolto, et or sel tene / tal ch’è già terra, et non giunge osso a nervo (son. 319, vv 7-8) Che sotto le sue ali il mio cor tenne (son. 321, v 3) Ma pur ognor presente / nel mezzo del meo cor madonna siede, / et qual è la mia vita, ella sel vede (bal. 324, vv 10-12) Nelli occhi ov’habitar solea ‘l mio core / fin che mia dura sorte invidia n’ebbe, / che di sì ricco albergo li pose in bando (canz. 331, vv 37-39) Poi che madonna e ‘l mio cor seco inseme / saliro al ciel […] (son. 364, vv 3-4). Trovatori A, domna l plus confes / ome qez anc ames / acorres, si que pres / de vos sia mos cors ! (Raimbaut d’Aurenga, XXXIII, vv 27-30) E port el cor on que m’estei / sa beutat e sa fachura (Bernart de Ventadorn, XXIV, vv 3940) Tout m’a mo cor e tout m’a me / e se mezeis e tot lo mon (Bernart de Ventadorn, XLIII, vv 13-14) Et en dorment sotz cobertors / es lai ab lieis mos esperitz159 (Jaufré Rudel, II, vv 35-36) M’arma e mos cors vos roman en tenensa (Rigaut de Berbezilh, VI, v 47) Mos talans e sa semblansa / so e no so d’un entalh, / pueis del talent nays semblans160 (Marcabru, XIV, vv 13-15) Qu’inz el cor port, domna, vostra faisson / que m chastia qu’eu non vir ma rason (Folchetto da Marsiglia, XI, vv 9-10) Gen mi saup mon fin cor emblar (Sordello, IV, v 9) Blancas dens, hueils amoros, / e vejaire fresc e clar / ins e mon cor eu remir (Amanieu de la Broqueira, II, vv 20-22) Car sa beutatz mi destreing tant e m lia / que tant loignatz no sui qu’ab lieis no sia / mos cors […] (Elias Cairel, XII, vv 29-31) Ni s part de leis mos fis cors ni ma fes (Rambertino Buvalelli, XI, v 18) E mes si e mon coratge / tan fermamen rizen iogan / c’alre no ill quier ni no ill deman (Aimeric de Belenoi, VIII, vv 23-25) Amors, que mi a pres, / m’en fai plus enveios, / que m te vostras faissos / dedinz e mon coratge (Arnaut de Maruelh, XXII, vv 24-27) Mas en aisso m’asegur / per un messatgier qu’ieu n’ai, / mon cor que soven la vai (Raimon Jordan, IV, 30-32) Que lai, don mi mou l’esglays, / non tenha mon cor deziron, / on plus lo dezirs me cofon (Raimon de Miravall, XXVII, vv 22-24) 159 La precisazione che tale visitazione avviene durante il sonno attenua la potenza dell’immagine riconducendola alla più semplice e realistica dimensione del sogno; tuttavia si tratta di un esempio importante nel confronto con Petrarca, che a sua volta raggiunge l’amata in ispirito, non necessariamente durante il sonno (ad esempio, nel sonetto 362), dopo la morte di lei. 160 In questo caso il poeta non precisa dove si trovi l’immagine: lo possiamo intuire grazie alla concezione comune nel Medioevo rispetto all’origine d’amore (vista ed immoderata cogitatio dell’immagine derivata al cuore dalla visione). Il passo è perciò particolarmente interessante perché si riconnette a tematiche poi ampiamente sviluppate in area italiana, in particolare nell’ambito della Scuola siciliana e poi dello Stil Novo. In Petrarca non sono esplicitate, forse anche perché si trattava ormai di dati assodati, non più oggetto di discussione o percepiti come attuali. Tuttavia il contesto di partenza è il medesimo. 277 Ben sui astrucs, sol que mos cors lai sia (Peire Vidal, XI, v 15) La m fai desabellir / e de mon cor loignar (Aimeric de Peguilhan, XLVI, vv 24-25) Si vol que m lays de lieys, tuelha m lo sen / e l cor e ls huelhs, e pueys partirai m’en (Gaucelm Faidit, LIV, vv 13-14) Leis c’a l mieu cor el so (Gui d’Ussel, IV, v 11) Lo cor avez, dompna, q’eu lo vos lais / per tal coven q’eu no l voill cobrar mais (Folquet de Romans, II, vv 4-5) Car ges de cor no ai, / car cill, on bos prez s’atura, / lo m’emblet e no l qer mai / cobrar ni talan no ai (Peire Guilhem de Luserna, I, vv 6-9) Pueis, quan me vire, / ieu truep mon cor lai (Guilhem Augier Novella, VII, v 25-26). 1.6.8 Amore mantiene in vita. La metafora alimentare Un ultimo motivo va considerato in merito alla natura totalizzante dell’amore. In diverse occasioni, numerose soprattutto in Petrarca, il poeta ammette di essere debitore alla dama o all’amore, colto nei suoi vari aspetti, per la sua stessa vita. Nel Canzoniere, l’esito metaforico è davvero interessante, anche rispetto alla questione dell’alienazione: letteralmente, il poeta “vive di…” (lacrime, dolore, sguardi, visione e così via)161. Il poeta introduce così il campo semantico del nutrimento e dell’appetito, che talvolta viene trattato anche in modo più esplicito con l’uso della voce “fame”162. Benché nel dettaglio le soluzioni trobadoriche appaiano differenti, si nota la presenza nel corpus occitanico della medesima metafora, nell’ambito della quale viene esaltata soprattutto l’idea del “sapore d’amore”, talvolta sfruttata anche per esprimere le aspettative (di solito deluse) di gratificazione. Distinguiamo per comodità i due concetti: viviere di … (1) e nutrirsi/aver fame di … (2). Petrarca 1. Però che dopo l’empia dipartita / che dal dolce mio bene / feci, sol una spene / è stato infin qui cagion ch’io viva (canz. 37, vv 5-8) Io sentia dentr’al cor già venir meno / gli spirti che da voi ricevon vita (son. 47, vv 1-2) Pietà vi mosse; onde, benignamente / salutando, teneste in vita il core. / La fraile vita ch’ancor meco alberga, / fu de’ begli occhi vostri aperto dono, / et de la voce angelica soave. / […] / così destaro in me l’anima grave (bal. 63, vv 3-10) Di tai quattro faville, et non già sole, / nasce ‘l gran foco, di ch’io vivo et ardo (son. 165, vv 12-13) 161 Comprendiamo però anche alcuni passi in cui l’amata è definita “vita” del poeta. La metafora alimentare costituisce un topos di lungo corso, come attestano Curtius 1995, pp. 154-156 e Berra 1992, p. 39 nota 20. È interessante notare come essa, pur essendo ben attestata nei trovatori, non lasci quasi traccia in ambito siciliano: in un solo caso è attestata l’affermazione per cui l’amata toglie fame e sete (Guido delle Colonne, Ancor che ll’aigua per lo foco lasse, vv. 53-54). Di nuovo Guido delle Colonne utilizza la metafora tutta provenzale del sapore, in due occorrenze, per evidenziare come egli si cibi, sia pervaso da Amore (La mia gran pena e lo gravoso affanno, vv 25-26, e la mia vit’è sì fort’e dura e fera, v 40). Per tali aspetti della poesia siciliana si veda Ravera 2013, p. 230. 162 278 Acceso dentro sì ch’ardendo godo, / et di ciò vivo, et d’altro mi cal poco (son. 175, vv 78) Et se non fusse il suo fuggir sì ratto, / più non demanderei: che s’alcun vive / sol d’odore, et tal fama fede acquista, / alcun d’acqua o di foco, e ‘l gusto o ‘l tatto / acquetan cose d’ogni dolzor prive, / i’ perché non de la vostra alma vista?163 (son. 191, vv 9-14) S’i’ ‘l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella / del cui amor vivo, et senza ‘l qual morrei (canz. 206, vv 1-2) Li occhi soavi ond’io soglio aver vita (canz. 207, v 14) Però, s’i’ mi procaccio / quinci et quindi alimenti al viver curto, / se vòl dir che sia furto, / sì ricca donna deve esser contenta, / s’altri vive del suo, ch’ella nol senta (canz. 207, vv 48-52) Ove è la vita, ove la morte mia? (son. 222, v 3) Il sonno è veramente, qual uom dice, / parente de la morte, e ‘l cor sottragge / a quel dolce penser che ‘n vita il tene (son. 226, vv 9-11) Così in dubbio lasciai la vita mia (son. 249, v 12) A me pur giova di sperare anchora / la dolce vista del bel viso adorno, / che me mantene, e ‘l secol nostro honora (son. 251, vv 9-11) Et se talor da’ belli occhi soavi, / ove mia vita e ‘l mio pensero alberga (son. 253, vv 910) Vivo sol di speranza, rimembrando / che poco humor già per continua prova / consumar vidi marmi et pietre salde (son. 265, vv 9-11) Questa è del viver mio l’una colomna, / l’altra è ‘l suo chiaro nome, / che sona nel mio cor sì dolcemente (canz. 268, vv 48-50) È l’aura mia vital da me partita (son. 278, v 4) Volse in amaro sue sante dolceze, / ond’io già vissi, or me ne struggo et scarno (son. 308, vv 3-4) Ov’è il bel viso onde quel lume venne / che vivo et lieto ardendo mi mantenne? (son. 321, vv 6-7) Spegner l’almo mio lume ond’io vivea (son. 329, v 10) Solea da la fontana di mia vita / allontanarme, et cercar terre et mari (canz. 331, vv 1-2) Vissi di speme, or vivo pur di pianto (sest. 332, v 41) O usato di mia vita sostegno? (son. 340, v 4) Da’ più belli occhi, et dal più chiaro viso / che mai splendesse, et da’ più bei capelli, / […] / dal più dolce parlare et dolce riso, / de le man’, de le braccia […] / da’ più bei piedi snelli, / de la persona fatta in paradiso, / prendean vita i miei spirti […] (son. 348, vv 1-9). 2. Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core (son. 1, vv 1-2) Ch’i’ mi pasco di lagrime, et tu ‘l sai (son. 93, v 14) Pasco ‘l cor di sospir’, ch’altro non chiede (son. 130, v 5) Pascomi di dolor, piangendo rido (son. 134, v 12) Così sol d’una chiara fonte viva / move ‘l dolce et l’amaro ond’io mi pasco (son. 164, vv 9-10) Gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi (son. 190, v 13) 163 Per i rimandi bibliografici su tali convinzioni leggendarie si veda Santagata 1996, p. 839. 279 Pasco la mente d’un sì nobil cibo, / ch’ambrosia et nectar non invidio a Giove (son. 193, vv 1-2) Se le man’ di Pietà Invidia m’à chiuse, / fame amorosa, e ‘l non poter, mi scuse (canz. 207, vv 25-26) Et di ciò inseme mi nutrico et ardo (canz. 207, v 39) Queto i frali et famelici miei spirti (canz. 207, v 60) Pascendosi di duol, d’ira et d’affanno (son. 224, v 11) Send’io tornato a solver il digiuno / di veder lei che sola al mondo curo (son. 233, vv 5-6) Ei perché ingordo, et io perché sì bella? (son. 240, v 14) L’alma, nudrita sempre in doglia e ‘n spene / […] / contra ‘l doppio piacer sì ‘nferma fue, / ch’al gusto sol del disusato bene (son. 258, vv 9-12) Preme ‘l cor di desio, di speme il pasce (canz. 264, v 58) Il mio amato tesoro in terra trova, / che m’è nascosto, ond’io son sì mendico (canz. 270, vv 5-6) Di tua memoria et di dolor si pasce (son. 305, v 11) Quella per ch’io ò di morir tal fame (canz. 325, v 110) Li occhi belli, or in ciel chiari et felici / del lume onde salute et piove, / lasciando i miei qui miseri et mendici (son. 328, vv 9-11) Di memoria et di speme il cor pascendo (canz. 331, v 6) Così, mancando a la mia vita stanca / quel caro nutrimento in che di morso / die’ chi ‘l mondo fa nudo e ‘l mio cor mesto (canz. 331, vv 16-18) Onde qua giuso un ben pietoso core / talor si pasce delli altrui tormenti (son. 340, v 10) Del cibo onde ‘l signor mio sempre abonda, / lagrime et doglia, il cor lasso nudrisco (son. 342, vv 1-2) […] non questo tiranno / che del mio duol si pasce, et del mio danno (canz. 360, v 60) Et al Signor ch’i’ adoro et ch’i’ ringratio, / […] / torno stanco di viver, nonché satio (son. 363, vv 12-14). Trovatori 1. Car solamen / vezen / m’estai aizida: / ve us que m ten a vida! (Arnaut Daniel, VII, vv 3033) Lai on estai midonz, don ai gran fam (Arnaut Daniel, XII, v 12) Q’en als no sojorn ni engrais (Cercamon, IX, v 41) D’aquel joi viu, plus rics que l reis de Persa164 (Elias Cairel, V, v 42) Si cum li peis an en l’aiga lor vida / l’ai eu en joi e totz temps la i aurai165 (Arnaut de Maruelh, VIII, vv 1-2). 2. Lo cors m’abranda / e ill huoill n’ant la vianda (Arnaut Daniel, VII, vv 28-29) E pero res no m’afama / tant com s’amors, ni no m pais (Giraut de Bornelh, XXXIX, vv 31-32) 164 Questo tipo di paragoni, di carattere chiaramente iperbolico, sono molto diffusi in ambito trobadorico e lasciano ancora qualche traccia nei più prossimi epigoni siciliani. 165 La medesima tipologia di paragoni si trova più volte anche nel Canzoniere. 280 Quar senes lyeis non puesc viure / tant ai pres de s’amor gran fam (Guglielmo IX, XI, vv 11-12) Qe d’amor fui natz e noiritz166 (Marcabru, VI, v 12) Car sos bel ris ab sa gaia semblanssa / mi pars mos huoills, tant m’agrada l vezers (Folchetto da Marsiglia, XVII, vv 23-24) Ben sabetz ab qual vianda, / bela domna, puesc guerir (Raimon de Miravall, XXXIV, vv 46-47) E d’amar doussa sabor (Peire Vidal, XXVIII, v 15) Que mil aitan m’en an mais de sabor / li ben qu’Amors mi fai aras sentir (Perdigon, II, vv 3-4) Senes manjar, dompna, m poiriatz paiser / ab gen parlar, qe l cortes digz mi pai (Aimeric de Peguilhan, XLVII, vv 33-34) Q’om non sap las granz sabors / dels bes ni de las dolors / la greu penedensa / qui non sap, a ma parvensa (Guilhem de la Tor, VIII, vv 35-38) Per que no m platz s’amistatz derenan, / ni m pot far ben que ja m’agues sabor (Cadenet, XXVI, vv 11-12) Dìals no m soven ni no m fo saboros (Peire Raimon de Tolosa, XVI, v 17) May selh, que m vol, m’aura tost restaurat / aquel destric, tant l’a bos pretz sabor (Guiraut Riquier, XII, vv 14-15) Que fis cors a per fin’amor / finamen ab fina sabor (Daude de Pradas, XIII, vv 3-4) Qu’amors m’a dat saber, qu’aissi m noyris, / que s’om trobat non agues, trobaria (Guilhem de Montanhagol, VIII, vv 19-20). 1.7 Trascurare i propri doveri Si è parlato della condizione innaturale e dell’alienazione dell’amante secondo prospettive diverse, tuttavia riferite al solo piano individuale. Le scelte erronee dell’io poetico si ripercuotono in primo luogo su di lui, e in effetti non mancano i casi in cui egli ammetta di soffrire a causa propria: i trovatori d’abitudine ammettono di aver in qualche modo “fallito” nei confronti dell’amata, in Petrarca è spesso centrale l’aspetto morale e penitenziale; più in generale l’amante cortese si accorge talvolta di aver esagerato. Il problema si fa più complesso quando la disforia amorosa provoca conseguenze sul piano pubblico, quando cioè il poeta non riesce a compiere il proprio dovere a causa dei legami sentimentali. I luoghi in questione non sono molti, ma di certo molto significativi. Essi costituiscono d’altronde confessioni serie, benché non sempre si avverta un’intonazione pentita e consapevole da parte dell’autore. Mentre in generale le conseguenze dell’amore determinano comportamenti solo implicitamente contrari al vivere comune, qui si esplicita il carattere anti-sociale e dunque scorretto della vita amorosa. In Petrarca tale rappresentazione di sé si accosta all’autocoscienza dell’errore in chiave morale, rendendo il ritratto complessivo dell’amante ancor più complesso. L’uomo del Canzoniere sbaglia e riflette su di sé a tutti i livelli: spirituale, sociale, sentimentale, poetico. 166 In realtà in questo caso a parlare è l’interlocutore con cui Marcabru sta tenzonando. 281 Gli ambiti in cui il poeta ammette le proprie manchevolezze sociali sono in sostanza due, e coincidono perfettamente nel corpus occitanico e nella raccolta petrarchesca: l’impossibilità di partire per la crociata167 e il mancato servizio al proprio signore/patrono, in particolare nella forma di una prolungata assenza di cui ci si scusa, senza però promettere una data precisa per il ritorno168. Petrarca Tu vedrai Italia et l’onorata riva, / canzon, ch’agli occhi miei cela et contende / non mar, non poggio o fiume, / ma solo Amor che del suo altero lume / più m’invaghisce dove più m’incende: / né Natura può star contra ‘l costume. (canz. 28, vv 106-111) Dunque s’a veder voi tardo mi volsi / per non ravvicinarmi a chi mi strugge, / fallir forse non fu di scusa indegno169 (son. 39, vv 9-11) Signor mio caro, ogni pensier mi tira / devoto a veder voi, cui sempre veggio: / la mia fortuna (or che mi pò far peggio?) / mi tene a freno, et mi travolve et gira170 (son. 266, vv 1-4). Trovatori Chansso, drogomans / seras mon seignor Coino, / e no m’ochaiso / car ieu no l’ai vist enans (Elias Cairel, II, vv 45-48) Bels Cavalliers, per cui fatz sos e motz, / non sai si m lais per vos o m leu la crotz, / ni sai cum an ni sai comen remaigna, / que tant mi fai vostre bels cors plazer / q’ieu muor s’ie’us vei e, qand no us puosc vezer, / cuich morir sols ab tot autra compaigna (Raimbaut de Vaqueiras, XIX, vv 73-78) Per saludar torn entre ls lemozis / cellas qui ant pretz cabau / Mos Bels Seigner e mos Bels Cembelis / qieiron oimais qui las lau (Bertran de Born, IX, vv 9-12) 167 Tale aspetto è già stato presentato e commentato nel capitolo precedente, in merito alle canzoni di crociata: qui riproponiamo solamente i passi interessati, in riferimento alla loro valenza convenzionale. 168 Non va escluso che il medesimo atteggiamento umile e simili scuse vengano rivolte all’amata, in perfetta coerenza con la generale subordinazione del drudo. Ciò vale per una delle possibili interpretazioni del petrarchesco sonetto 39 (vedi nota seguente), ma anche per i trovatori, ad esempio Bernart de Ventadorn, XVI. 169 Come il testo citato di seguito, il sonetto 39 è interamente dedicato alle scuse per il proprio ritardo. Forse anche per la coincidenza tematica con 266, per il quale non sussistono dubbi interpretativi, il destinatario di 39 è oggi ritenuto per lo più Giovanni Colonna. Tuttavia la lettura più antica, in parte sostenuta da Santagata 1996, p. 216, vuole che l’interlocutore sia in realtà Laura stessa. Presentiamo dunque il passo a scopo di riflessione e non in virtù di un’interpretazione definitiva. Dei problemi attributivi nei sonetti colonnesi del Canzoniere si tratterà con maggiore ampiezza nel settimo capitolo. 170 In realtà l’intero componimento è dedicato alle scuse al cardinale Colonna, per il prolungato ritardo nel ritorno del poeta e cliente in Provenza. Nel sonetto Petrarca insiste sulla propria devozione nei confronti del patrono e indica l’affetto che gli porta, presentandolo come uno dei propri (amati) vincoli terreni, nonché sostegni. Tuttavia, storicamente, il componimento non è spontaneo, ma sollecitato dall’invio di un invito/reclamo per tramite di Sennuccio del Bene, cui qui Petrarca risponde per le rime. Inoltre, nel testo si intuisce l’assoluta preminenza dell’amore, la cui forza è vittoriosa sul poeta rispetto ad ogni altra possibile attrattiva. Il sonetto appare per certi versi connesso a 269, planh per lo stesso cardinale Colonna, subito successivo al ben più imponente dittico in morte di Laura (267-268), e soprattutto in gran parte dedicato proprio a lei, nel parallelismo tra le due contemporanee disgrazie. 282 Pueis vi midons, bell’e bloia, / per qe mos cors mi vai afreollan / lai for’ab vos, s’ieu en saupes aitan (Bertran de Born, XL, vv 26-28) Pois vi midonz bell’e bloia / per que s’anet mos cors aflebeian, / q’eu fora lai, ben a pasat un an171 (Bertran de Born, XLI, vv 12-14) Per paor n’ai tant estat / d’una douza amor coral / que m’aucizes, non per al172 (Aimeric de Belenoi, X, vv 12-14) Dompna, s’ieu muer per vostr’amor be m plai, / mas ja no cug vezer mon senhor guai (Raimon Jordan, III, vv 41-42) E car lai no m’a vegut, / Mos Audiart m’a tengut, / qe m tira plus q’adimanz / ab diz et ab faiz prezanz (Raimon de Miravall, XXXV, vv 65-68) Que, si tot no m par, / mon senhor suy mentire, / qu’ieu prec e reblan / de cor e de talan: / qu’estat n’ai mais d’un an, / ai fait gran folia / qu’ab luy aug venir / joy e pretz, tota via (Gaucelm Faidit, XXXIV, vv 70-77) E l Coms sap ben q’om non pot ren saber / de fin’amor qui amador guerreja, / ni drutz non deu ad amic dan tener: / per qu’ieu non pens q’el m’auses retener (Gaucelm Faidit, XXXV, vv 42-45) E quar estauc, que ades no m’empenh / ves Suria, Dieus sap perque m’ave / que ma domna, e l rey engles, mi te; / l’us per amor, e l’autre, per pauc faire / del gran secors que m’avia en coven; / ges no m remanh, mas ben iray, plus len / quar d’anar ai bon cor, don ges no m vaire, / qu’en nom de Dieu ai levat entresenh !173 (Gaucelm Faidit, LIV, vv 3340) Chanssons, vai t’en dreich per Monmelian / en Montferrat, e di m’al pro Marques, / q’en breu veirai lui e l comte de Bles, / […] / e digas li m leialmen, ses doptanssa, / qe Mos Conortz mi reten sai tan gen, / per q’ieu estau, qe no ls vei plus soven174 (Gaucelm Faidit, LXIII, vv 36-42) Per lieys m’en perdrai l rey Ferrans / e las cortz e ls dos e ls baros (Guilhem Ademar, XII, vv 43-44) S’era part la crotz dels ris, / don anc hom non tornet sai, / non crezatz que m pogues lai / retener nuills paradis (Peirol, XXIV, vv 41-44). 1.8 Divenire selvaggi Un’altra forma di deviazione rispetto al consorzio civile, che mette in evidenza la condizione del poeta, insieme tragica e fuori dall’ordinario, consiste nel divenire “selvatico”. Benché non si tratti di un’immagine molto frequente nella produzione occitanica (lo è maggiormente in quella siciliana), costituisce comunque un’espressione efficace delle conseguenze di un amore disforico e senza prospettive. Viene poi ripresa 171 Non solo la situazione è identica, ma anche i primi due versi di ciascun passo sono quasi perfettamente sovrapponibili; la variazione più significativa si coglie nella precisazione cronologica presentata nel secondo brano. Per tali aspetti filologico-testuali si veda il capitolo secondo, in riferimento alla canzone di crociata. 172 Il legame tra il momento amoroso e i doveri civili non è esplicitato, ma chiarito dal passaggio tra la prima strofa (civile e dedicata al signore) e la seconda, qui citata. 173 Tali affermazioni del poeta sono tanto più interessanti in quanto suonano in parte realistiche, visto che egli effettivamente fu crociato e lasciò numerose testimonianze liriche in tal senso. 174 Simile affermazione di scuse, ma rivolta alla dama, si trova in un'altra canzone di Gaucelm Faidit (LXV). 283 da Petrarca con una certa insistenza, sempre in relazione al tema del contrasto con la normalità. Petrarca Et maledico ‘l dì ch’i’ vidi ‘l sole, / che mi fa in vista un huom nudrito in selva (sest. 22, vv 17-18) Guarda ‘l mio stato, a le vaghezze nove / che ‘nterrompendo di mia vita il corso / m’àn fatto habitador d’ombroso bosco (sest. 214, vv 31-33) A la mia donna puoi ben dire in quante / lagrime io vivo; et son fatt’una fera (son. 287, vv 12-13) Ond’io son fatto un animal silvestro (son. 306, v 5). Trovatori Don m’avetz cor salvatge (Arnaut de Maruelh, XXII, v 17) Aissi farai lo conort del salvatge (Raimon Jordan, XI, v 32) Vos deu esser enojos e salvatges (Raimon de Miravall, III, v 24) C’aissi m’a faich vas las autras salvatge (Gaucelm Faidit, IX, v 25) Car salvatgies, / plens d’enveia, / ai estat (Gaucelm Faidit, X, vv 9-11) Que l’amador / vos tenon per salvatge (Castelloza, II, vv 13-14) Per que vos m’etz tan fers175 ni tan salvatges (Comtessa de Dia, II, v 34) Ben l’er al cor greu e fer e salvatge (Guilhem de Berguedà, XXV, v 35). 1.9 Follia e morte della ragione I topoi che esprimono la condizione dell’amante ne rivelano già di per sé la condizione psicologica priva di equilibrio. Ricorrono anche esplicite dichiarazioni, o meglio ammissioni, relative all’effetto di disturbo che l’amore determina nella mente del poeta. Il principio è il medesimo per i trovatori e per Petrarca. Ciononostante, la loro realizzazione è opposta, il che è tanto più significativo in quanto i Provenzali appaiono in sostanza concordi tra loro e il Canzoniere risulta in merito molto uniforme. Infatti, per i primi l’amante è folle, per il secondo è privo di ragione176. In effetti, quello della follia è un elemento consueto nelle logiche dell’amore cortese, come suggerisce la ben nota ambiguità nell’interpretazione dell’esperienza amorosa (terrena) tra fin’amor e fol’amor177. Per Petrarca, invece, sembra più rilevante sottolineare la rinuncia a un bene, quello della ragione, che lui stesso descrive come capitale all’inizio della canzone 360: “Quel’antiquo mio dolce empio signore / fatto citar dinanzi a la reina / che la parte 175 La definizione di “fera” ricorre più volte anche nel Canzoniere in riferimento a Laura. Tuttavia non manca qualche isolata eccezione a tale tendenza generale, come nel caso di Gui d’Ussel, I, v 36: “Qe l sens no i a poder contra l talan”. 177 Si veda a titolo introduttivo sul tema Picone 1998. 176 284 divina / tien di nostra natura e ‘n cima sede”178 (vv 1-4). Nel corso dell’intera raccolta la ragione appare sconfitta dal desiderio e dalla passione179. Tuttavia anche nel Canzoniere ricorre l’aggettivo folle: riferito al desiderio (in alternanza con “traviato”, “sfrenato”, “sviato”180 ed altre forme di simile significato), al pensiero d’amore, al pianto, con uno spostamento cioè dalla persona dell’innamorato alle sue manifestazioni181. Petrarca Sì traviato è ‘l folle mi’ desio (son. 6, v 1) Et la ragione è morta (canz. 73, v 25) Gli occhi invaghiro allor sì de’ lor guai, / che ‘l fren de la ragione ivi non vale (son. 97, vv 5-6) La voglia et la ragion combattuto ànno / sette et sette anni; et vincerà il migliore, / s’anime son qua giù del ben presaghe (son. 101, vv 12-14) Quella ch’amare et sofferir ne ‘nsegna / e vòl che ‘l gran desio, l’accesa spene, / ragion, vergogna et reverenza affrene (son. 140, vv 5-7) Degli occhi onde mi vèn tanta dolcezza / che ‘l fren de la ragion Amor non prezza (son. 141, vv 6-7) Fuggir disposi gl’invescati rami / tosto ch’incominciai di veder lume182 (sest. 142, vv 2930) Morta fra l’onde è la ragion et l’arte (son. 189, v 13) Per far lume al penser torbido et fosco (son. 194, v 7) Regnano i sensi, et la ragion è morta (son. 211, v 7) Ché ‘l duol pur cresce, et la ragion vèn meno (son. 236, v 3) I’ nol posso negar, donna, et nol nego, / che la ragion, ch’ogni bona alma affrena, / non sia dal voler vinta; ond’ei mi mena / talor in parte ov’io per forza il sego (son. 240, vv 58) Et questo ad alta voce ancho richiama / la ragione sviata dietro ai sensi (canz. 264, vv 102-103) L’arme tue furon gli occhi, onde l’accese / saette uscivan d’invisibil foco, / et ragion temean poco (canz. 270, vv 76-78) O caduche speranze, o penser’ folli! (son. 320, v 5). 178 Bisogna però notare che in precedenza Petrarca aveva usato una definizione molto simile per Amore: “ch’a passo passo è poi fatto signore / de la mia vita, et posto in su la cima” (son. 65, vv 3-4) 179 Ancora nella canzone 360 la Ragione, personificata in veste di giudice, non si pronuncia in modo definitivo sulle responsabilità di Amore (vv 155-157). Per il ruolo della canzone 360 nel delineare il rapporto tra Amore e poeta, nel segno del legame e insieme della fuga, si veda il capitolo precedente. 180 Quest’ultima forma, che torna come vedremo anche in riferimento alla ragione, ha una sfumatura morale molto coerente ed apprezzabile nel percorso penitenziale del Canzoniere. 181 Ricorre in due casi la forma “insano”, sinonimica, ma attenuata rispetto a “folle”: “per doglia insano” (son. 43, v 7), “’l primo [pianto] non d’insania voto” (canz. 366, v 112). 182 Quasi tutti i commentatori sono concordi nell’interpretare questo “lume” come luce della ragione, che pian piano l’innamorato sta riacquistando. Ovviamente tale interpretazione del topos dipende dalla natura penitenziale e dalla funzione originaria della sestina nella redazione Correggio. 285 Trovatori L’aer correi183, / quesc om folatura (Bernart Martì, I, vv 28-29) Cor ai fol (Raimbaut d’Aurenga, XVIII, v 58) Amors, e que us vejaire? / Trobatz mais fol mas can me ? (Bernart de Ventadorn, IV, vv 1-2) Auiatz ! E fon anc mais dicha / tan grans foli’en chantan ? (Giraut de Bornelh, VII, vv 45) Companho, farai un vers…covinen, / et aura i mai de foudatz no y a de sen, / et er totz mesclatz d’amor et de joy e de joven (Guglielmo IX, I, vv 1-3) Per q’es fol qui en amor cre / son sen, / ni ren fai qe il coman (Uc de Saint Circ, III, vv 10-11) […] pos ai perdut mon sen (Bertran d’Alamanon, XX, v 9) Et ieu fols fui la vegada (Cercamon, IV, v 26) Va, ben es fols qui s’i fia (Marcabru, XXV, v 26) Mas eu avia plivenssa, / tant quant amei follamen, / en aisso c’om vai dizen (Folchetto da Marsiglia, XII, vv 28-30) Mas grans follors m’atrais, fals’amors vana (Elias Cairel, XIII, v 5) En totz afars sui savis e gignos / mas midonz am tant q’ie n sui enfollitz (Raimbaut de Vaqueiras, XI, vv 9-10) Tornat m’agr’en la folor (Aimeric de Belenoi, VIII, v 2) E conosc be que folh sen e leugier / ai, s’ab aitan no m’en tenc per manen (Monje de Montaudon, II, vv 23-24) Qu’i assai / un fol ardimen (Raimon Jordan, VII, vv 8-9) Ni ia tant no m sabriatz dir, / que mai en la follia torn (Peire d’Alvernha, III, vv 10-11) Luenh es de joi e pres es de folhor (Perdigon, VII, v 16) Qu’estat n’ai mais d’un an, / at ai fait gran folia (Gaucelm Faidit, XXXIV, vv 74-75) E pus razos m’es falhida (Cadenet, XI, v 8) Sai q’ieu fauc follatge, / c’ad autrui don alegratge / et a mi pen’e tormen (Peire Raimon de Tolosa, IV, vv 7-9) Per que mos cors qu’a servit ses engan / a tal dona c’anc nom mostret amor, / c’al cap del cors noi trobes ses pro dan, ( senblera’n fols, si segues la follor (Bartolomé Zorzi, XV, vv 19-22) Domna, de vos chant e d’amor, / de qe m tenon fol li pluzor (Lanfranco Cigala, I, vv 6162). 1.10 I rapporti tra l’amante e il mondo esterno Un altro aspetto problematico nel rapporto tra il poeta e il mondo, la società e soprattutto l’amata concerne l’espressione dei sentimenti. Essa oscilla pericolosamente fra due estremi: l’eccesso e la preclusione. Da una parte, il poeta vorrebbe tenere segreto il proprio stato d’animo, che invece tende ad apparire nei gesti e nel volto; dall’altra vorrebbe poterlo comunicare alla dama, che spesso invece rifiuta ogni occasione di 183 L’idea dell’aria frustata ricorda per certi aspetti l’aria preda di Arnaut Daniel e Petrarca nelle immagini della caccia impossibile, di cui si è trattato con ampiezza nel primo capitolo. 286 intimità e dialogo. L’io lirico auspica quindi che per lo meno l’amata riesca ad interpretare ciò che traspare involontariamente, per trarne almeno un vantaggio: invariabilmente, si ha l’impressione che egli non abbia successo. 1.10.1 L’amore traspare nell’aspetto esteriore184: il pettegolezzo e il volgo Com’è noto, secondo la visione cortese l’amore fino, per sua natura adulterino, deve restare segreto: la questione dell’intimità è tanto sentita da aver generato altri due motivi portanti dell’ideologia amorosa cortese, la lotta contro le malelingue e l’uso del senhal, a protezione dell’identità femminile185. La capacità di mantenere il segreto e le frequenti promesse in tal senso sono due aspetti tipici nell’autorappresentazione dell’io lirico, che cerca di corteggiare e tranquillizzare l’amata. Nel Canzoniere il tema del pettegolezzo, legato ad una concezione sociale (e feudale) dell’amore, non è ripreso alla lettera; tuttavia si riconoscono alcuni spunti in cui, dietro la matrice classica, si può intuire anche l’influenza della tradizione romanza. Nell’imbarazzo dell’io poetico di fronte alla gente, nel voler evitare che il “vulgo” rida della propria condizione (è il topos della fabula vulgi: il poeta diviene oggetto del chiacchiericcio popolare) si legge una forma più evoluta, colta e sottile di un principio molto simile a quello applicato dai trovatori186. La premessa, in entrambi i casi, concerne il trasparire all’esterno di ciò che arde e si agita all’interno, nel cuore. Tale motivo è espresso di frequente in modo chiaro nel Canzoniere; nei trovatori, al contrario, le occorrenze esplicite sono poche e per lo più riferite al desiderio che l’amata voglia interpretare ciò che vede sul viso e negli atti del suo vassallo, divenendo pietosa. Tuttavia, anche sottinteso, è un fattore rilevante nelle dinamiche e nelle esperienze che il drudo si trova ad affrontare. Petrarca Ma ben veggio or sì come al popol tutto / favola fui gran tempo, onde sovente / di me medesmo meco mi vergogno (son. 1, vv 9-11) Di ch’io son facto a molta gente exempio (canz. 23, v 9) Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, / perché negli atti d’alegrezza spenti / di fuor si legge com’io dentro avampi (son. 35, vv 5-8) Certo cristallo o vetro / non mostrò mai di fore / nascosto altro colore, / che l’alma sconsolata assai non mostri / più chiari i pensier’ nostri, / et la fera dolcezza ch’è nel core (canz. 37, vv 57-62) Solo la vista mia del cor non tace (son. 49, v 14) 184 L’affermazione stessa per cui il viso del poeta rivela il suo stato d’animo è ben riconoscibile in ambito trobadorico ed importantissima in Petrarca, benché dal punto di vista espressivo tali occorrenze delineino una connessione meno immediata e stringente. 185 Sul nome dell’amata e il gioco di rivelazione/mistificazione in cui è coinvolto si tornerà nel corso del presente capitolo. 186 Si noti per contrasto che il poeta non ha nessun problema a comunicare, a “farsi udire” (son. 217, v 2) laddove l’espressione dei sentimenti sia letterariamente elaborata, cioè attraverso la sua poesia. Anche leggendo i trovatori si ha spesso l’impressione che la finzione lirica imponga di immaginare che il testo sia destinato ed effettivamente recapitato soltanto all’amata. 287 Dentro là dove sol con Amor seggio, / quasi visibilmente il cor traluce (canz. 72, vv 5-6) Per quel ch’i’ sento ov’occhio altrui non giunge (canz. 73, v 9) E ‘l cor negli occhi et ne la fronte ò scritto (son. 76, v 11) Così mancando vo di giorno in giorno, / sì chiusamente, ch’i’ sol me n’accorgo / et quella che guardando il cor mi strugge187 (son. 79, vv 9-11) Così potess’io ben chiudere in versi / i miei pensier’, come nel cor gli chiudo, / ch’animo al mondo non fu mai sì crudo / ch’i’ non facessi per pietà dolersi (son. 95, vv 1-4) Miri ciò che ‘l cor chiude / Amor et que’ begli occhi (canz. 125, vv 20-21) Et come Amor l’envita, / or ride, or piange, or teme, or s’assecura; / e ‘l volto che lei segue ov’ella il mena / si turba et rasserena, / et in un esser picciol tempo dura; / onde a la vista huom di tal vita experto / diria: Questo arde, et di suo stato è incerto188 (canz. 129, vv 7-13) Talor armato ne la fronte vène: / ivi si loca, et ivi pon sua insegna (son. 140, vv 3-4) Trova chi le paure et gli ardimenti / del cor profondo ne la fronte legge, / et vede Amor che sue imprese corregge / folgorar ne’ turbati occhi pungenti (son. 147, vv 5-8) Et mostravan di fore / la mia angosciosa et desperata vita (bal. 149, vv 7-8) Nel fondo del mio cor gli occhi tuoi porgi, / a te palese, a tutt’altri coverto (son. 163, vv 3-4) Lasso, ch’i’ ardo, et altri non me ‘l crede; / sì crede ogni uom, se non sola colei / che sovr’ogni altra, et ch’i’ sola, vorrei: / ella non par che ‘l creda, et sì sel vede (son. 203, vv 1-4) Ma spesso ne la fronte il cor si legge189 (son. 222, v 12) Se ne la fronte ogni penser depinto (son. 224, v 5) E ‘l vulgo a me nemico et odioso / (chi ‘l pensò mai?) per mio refugio chero: / tal paura ò di ritrovarmi solo190 (son. 234, vv 12-14) Quella ch’al mondo sì famosa et chiara / fe’ la sua gran virtute, e ‘l furor mio (son. 295, vv 13-14) Ov’è l’ombra gentil del viso humano / ch’ombra et riposo dava a l’alma stanca, / et là ‘ve i miei pensier’ scritti eran tutti? (son. 299, vv 9-11) Già tralucea a’ begli occhi il mio core, / et l’alta fede non più lor molesta (son. 317, vv 56) Tu che dentro mi vedi, e ‘l mio mal senti (son. 340, v 12) Or nel volto di Lui che tutto vede / vedi ‘l mio amore, et quella pura fede191 (son. 347, vv 6-7) Ch’ella, che vede tutti miei penseri, / m’impetre gratia, ch’i’ possa esser seco (son. 348, vv 13-14). 187 Qui, come poi in 95, il poeta ribadisce piuttosto la propria abilità nel tenere nascosti e segreti i suoi stati d’animo. Anche in questo l’amore appare contraddittorio. 188 Perfetta definizione della condizione contraddittoria tipica, come si è visto, per gli amanti. 189 Il concetto appare qui espresso come in una massima o in una regola generale; nello specifico, è riferito a Laura. 190 Non si ribalta in realtà il principio di partenza (il rifiuto per la gente), ma soltanto l’esito: poiché l’odio per se stesso, profonda manifestazione delle alterazioni interiori causate dall’amore, è ancor più radicato nell’animo del poeta di quello per la gente. 191 Il topos mantiene ancora la sua connotazione amorosa in relazione all’oggetto della visione (qui la fede del poeta è ancora rivolta all’amata), ma il principio che lo consente ha una matrice cristiana esplicita. 288 Trovatori Que tals joys m’a pres e m’azeis / dont ja non creirai fals prezic: / anz voill c’om mi tail la lenga / s’ieu ja de leis crei lauzenga (Raimbaut d’Aurenga, XXXVIII, vv 35-38) Si no fos gens vilana / e lauzenger savai, / eu agr’amor certana (Bernart de Ventadorn, XXXVII, vv 41-43) Dels lausengiers me tenc molt per garaz / […] / car m’an faidit del pais on estaz !192 (Giraut de Bornelh, LII, vv 33-35) Estz lauzengiers, lengua-trencas, / cuy Dieus cofonda et azir, / meton proeza en balans (Marcabru, XXXIV, vv 15-17) Q a lauzengiers sai q’abellira, / donna, q’estiers non lur garira (Raimbaut de Vaqueiras, XV, vv 49-50) Fals enveios fementit lausengier, / pois ab midonz m’avetz mes destorbier / be us lausera qe m laissasetz estar (Bertran de Born, VI, vv 49-51) Car enveios e lausengier, / per cui mainz bes d’amor dechai, / m’en fan paor, per qe m suffer (Rambertino Buvalelli, II, vv 17-19) No sai cum li m fassa saber / mon cor, que quant hieu m’o cossir / ades tem qu’autre s’o abir, / e guart sai e lay per vezer / si negus albira mon cor (Aimeric de Belenoi, II, vv 4145) Contra ls lauzengiers enveyos, / mal parlans, per qui jois delis (Arnaut de Maruelh, XVI, vv 36-37) Neis quan cossir de vos tem lauzengiers: / qui non parla, de que er messongiers ? (Raimon Jordan, XII, vv 16-17) E no mi tenran dan digz durs / d’omes iros / ni lauzengiers lengutz (Peire d’Alvernha, XVI, vv 24-26) Son belh cors, cortes e gay, / m’an fayt lauzengier / estranh, que m son guerrier (Raimon de Miravall, XXIX, vv 11-13) Per qu’al sue ric senhoriu / lauzengiers no pot far cors (Peire Vidal, XVI, vv 15-16) Plassa l mos bes, puois sieus sui domengiers, / a mon dan met gelos e lausengiers (Perdigon, IX, vv 21-22) En greu esmai et en greu pessamen / an mes mon cor et en granda error / li lauzengier e l fals devinador (Clara d’Anduza, I, vv 1-3) C’a dompna taing ben esquivar / lo bruit dels fals devinadors (Gui d’Ussel, III, vv 25-26) Eras diran lausenger envejos / qu’eu dic fencha, a ley de desleyal (Cerverì de Girona, LX, vv 15-16) Mas ar m’ave, mal grat mieu, far parer lo pensamen q’el cor no m pot caber (Daude de Pradas, XII, vv 2-3). 192 L’immagine consueta appare qui del tutto rovesciata, il che ricorda per certi aspetti il sonetto 234, in cui il volgo diviene strumento di protezione per Petrarca. Lì però si trattava di fuggire se stessi e il proprio dolore, in Giraut invece la dama e i suoi sguardi micidiali. Anche tale immagine ovviamente è topica e soprattutto offre un ulteriore riscontro in Petrarca nel sonetto 39, dove la necessità di restare lontano da casa (su cui ci siamo soffermati poco sopra) deriva proprio dal pericolo cui è esposto lo sguardo dell’io poetico. 289 1.10.2 Il desiderio di confidarsi con l’amata Una ragione di tormento molto sentita dai trovatori è l’impossibilità di confidare sentimenti, desideri e sofferenze all’amata. In numerosi componimenti l’io poetico lotta con se stesso per resistere alla tentazione di rivolgersi alla dama per chiederle comprensione, incerto se trasgredire o meno il preciso divieto che ella ha emesso. In diverse occasioni l’innamorato dichiara tristemente di aver perduto tutti i vantaggi di cui godeva nel momento in cui la dama ha appreso della sua condizione: l’amore dunque non deve solo rimanere ignoto al mondo, ma celato alla sua stessa destinataria. Anche Laura, da viva, si comporta in modo ostile verso i sentimenti del poeta193: il testo più rappresentativo è forse la ballata 11, in cui l’io lirico lamenta la perdita dello sguardo, seguita alla scoperta dei suoi desideri, sino ad allora rimasti nascosti. È interessante notare la differenza che Petrarca pare volutamente frapporre tra la propria vicenda amorosa e quella dantesca, proprio rifacendosi piuttosto alle fonti trobadoriche: mentre nella Vita nova Dante perde il saluto a seguito della strategia delle donneschermo, nel Canzoniere non viene coinvolta alcuna figura femminile secondaria194 ed è l’amore in sé a costituire l’oggetto del rifiuto da parte di Laura, richiamando perciò l’esempio provenzale195. Rispetto agli antecedenti occitanici, però, Petrarca introduce l’aspetto morale: il problema è l’ambiguità di quell’amore terreno, come dimostra l’insistenza del poeta ormai maturo sull’onestà (anche retrospettiva) della propria speranza, la scoperta degli intenti di Laura, e la disponibilità di quest’ultima dopo la morte, cioè quando ogni incertezza era ormai impossibile196. Petrarca Lassare il velo o per sole o per ombra, / donna, non vi vid’io / poi che in me conosceste il gran desio / ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra (bal. 11, vv 1-4) Pur mi darà tanta baldanza Amore / ch’i’ vi discovrirò de’ mei martiri / qua’ sono stati gli anni e i giorni et l’ore (son. 12, vv 9-11) Poi la rividi in altro habito sola, / tal ch’i’ non la conobbi, oh senso humano, / anzi le dissi ‘l ver pien di paura; / ed ella ne l’usata sua figura / tosto tornando, fecemi, oimé lasso, / d’un quasi vivo et sbigottito sasso (canz. 23, vv 75-80) Et se la lingua di seguirlo è vaga, / la scorta pò, non ella, esser derisa (son. 75, vv 7-8) 193 Nella seconda sezione e dopo la scomparsa dell’amata, l’io poetico comprenderà le vere e benevole intenzioni dell’amata. 194 Si è già insistito più volte sull’assenza di donne alternative a Laura nel Canzoniere, soprattutto in relazione all’accusa da cui il poeta si difende nella canzone-escondich 206. Il rapporto con la Vita nova sarà approfondito nel capitolo successivo. 195 Per i temi del rifiuto o della rinuncia ad Amore e gli aspetti che sembrano essere ripresi e trasfigurati da Petrarca si veda anche il capitolo precedente. 196 Abbiamo anticipato tale aspetto parlando del guiderdone; se ne tratterà ulteriormente in merito all’invecchiamento degli amanti. 290 Quella ch’amare et sofferir ne ‘nsegna / e vòl che ‘l gran desio, l’accesa spene, / ragion, vergogna, et reverenza affrene, / di nostro ardir fra se stessa si sdegna197 (son. 140, vv 58) Ma ‘l soverchio piacer, che s’atraversa / a la mia lingua, qual dentro ella siede, / di mostrarla in palese ardir non ave (son. 143, vv 12-14) Ite dolci penser’, parlando fore / di quello ove ‘l bel guardo non s’estende (son. 153, vv 56) Allor raccolgo l’alma, et poi ch’aggio / di scovrirle il mio mal preso consiglio, / tanto gli ò a dir, che ‘ncominciar non oso (son. 169, vv 12-14) Con che honesti sospiri l’avrei detto / le mie lunghe fatiche, ch’or dal cielo / vede, son certo, et duolsene anchor meco! (son. 316, vv 12-14) Pur, vivendo, veniasi ove deposto / in quelle caste orecchie avrei parlando / de’ miei dolci pensier’ l’antiqua soma (son. 317, vv 9-11) L’aura mia sacra al mio stanco riposo / spira sì spesso, ch’i’ prendo ardimento / di dirle il mal ch’i’ ò sentito et sento, / che, vivendo ella, non sarei stat’oso (son. 356, vv 1-4). Trovatori A mans chantan leis que m’ecolp’a tort, / qu’ieu n’ai lezer qu’estiers non parl’ab tres (Arnaut Daniel, VI, vv 6-7) Sitot m’o tenetz a foles / per tan no m poiria layssar / que ieu mon talan non disses (Raimbaut d’Aurenga, XXIV, vv 8-10) E qar no pot qec dia / dir a s’amiga son talan (Giraut de Bornelh, XLII, vv 78-79) De tal domna sui cubeitos, / a cui non aus dir mon talen (Jaufré Rudel, VI, vv 15-16) Ni ieu mezeis, tan tem faillir, / non l’aus m’amor fort l’asemblar (Guglielmo IX, VIII, vv 45-46) Ges no m’ausi conssirar / que vos prec, ni vos aus dir / cum m’en faitz languen morir (Uc de Saint Circ, XV, vv 41-43) Q’eu non l’aus dir com m’auci ab turmenz (Bertran d’Alamanon, XIX, v 6) Quans suy ab lieys si m’esbahis / qu’ieu no ill sai dire mon talan (Cercamon, I, vv 15-16) Mas per paor non fezes d’un mal dos / no vos ausi lo mieu maltrag devire (Folchetto da Marsiglia, V, vv 24-25) Vos, a cui non aus retraire / mos mals, per q’eu muor temenz (Sordello, V, vv 4-5) Sivals que li fos fortz d’aitan / que li disses, ben apensatz, / si cum yeu l’am finamen ses bauzia (Alegret, I, vv 19-21) Vai l denan merceian. / Non aus. Per que? Car val tan (Elias Cairel, VIII, vv 32-33) Qu’estiers non us aus descubrir / so qu’ieu ai e mon coratge (Raimbaut de Vaqueiras, XXX, vv 4-5) Voler l’aus eu, et aver cor volon, / mas no il aus dir mon cor, anz lo il rescon (Bertran de Born, XXIII, vv 7-8) Tal que a midonz sapcha dir / tot mon talan e mon desir (Rambertino Buvalelli, I, vv 2-3) Que non l’aus far parven / com l’am forsadamen (Aimeric de Belenoi, XIV, vv 32-33) Mas quar non aus mostrar mon cossirier / de tal guiza qu’a lieys no saubes mal (Monje de Montaudon, II, vv 27-28) 197 In questo caso non si rimprovera al poeta neppure di aver parlato, ma solo di aver mostrato esteriormente i propri sentimenti (l’immagine è quella di Amore e delle sue insegne sulla fronte). 291 Ges no l’aus mostrar ma dolor (Arnaut de Maruelh, V, v 8) Que neis mos precs non l’auzi far entendre (Raimon Jordan, II, v 13) Mas no l sai dir lauzenguas ni prezicx (Peire d’Alvernha, XII, v 33) C’a la bella de bon aire / non aus mostrar ni retraire / mon cor qu’ill tenc recondut (Raimon de Miravall, XXXVII, vv 15-17) E l deziriers que m’aura tost aucis: / et a n gran tort, mas eu non lo lh aus dire (Peire Vidal, XLI, vv 29-30) Pus descobrir non l’aus ma fin’amansa (Aimeric de Peguilhan, XXIX, v 18) E m’es fals e cossireos, / mas ieu non lo y auzei dir / e lai on plus la remir (Gaucelm Faidit, II, vv 25-26) Las! Ieu non aus mon messatge enviar / ni tant d’ardit non ai q’ieu l’an vezer (Folquet de Romans, XVI, vv 17-18) Que, quan sa dompn’a valor / e beutat e cortezia, / no l’auza son talan dir (Cadenet, II, vv 5-7) Morrai per mo nescies, / quar no l’aus mostrar ni dir / la dolor que m fai sufrir (Peire Raimon de Tolosa, II, v 9-11) Per so m don gaug e dol, qar no il aus dir / lo ben qe il vueilh, per q’ieu ab ioi m’açir (Arnaut Catalan, III, vv 15-16) E non l’aus mostrar mon talan (Daude de Pradas, II, v 5). 1.11 Metafore e similitudini Per rappresentare la condizione dell’innamorato, sia nel corpus trobadorico sia nel Canzoniere abbondano metafore e similitudini, per le quali, in alcuni casi, si può riconoscere una matrice comune. La resa petrarchesca appare però molto più elaborata e soprattutto approfondita. Lo si nota con particolare chiarezza a proposito della metafora della pesca198 e di quella della caccia. In entrambi i casi, le occorrenze trobadoriche sono pochissime199: nella maggior parte dei casi caccia e pesca sono affrontate in termini realistici e letterali. Petrarca, invece, sviluppa con ampiezza e varietà di soluzioni entrambe le immagini, in particolare quella venatoria: si passa da forme brevi a rappresentazioni più complesse. L’aspetto penitenziale gioca senza dubbio un ruolo centrale nel trasformare ed arricchire le immagini più convenzionali; anche in generale, però, si nota un’ispirazione esistenziale e analitica che non ha paragoni nella lirica occitanica. 198 Il poeta è preso all’amo e vittima dell’esca. Tuttavia nel Canzoniere l’esca può anche essere quella del fuoco: non sempre il contesto chiarisce in modo netto quale dei due campi semantici sia preminente. A sua volta, l’esca può essere associata alla dimensione venatoria o alle trappole in cui l’io poetico rischia di cadere a causa di Amore. 199 Un’unica occorrenza della metafora ittica si trova in Elias Cairel, VI, vv 35-37. Cinque autori propongono invece la metafora della caccia: Raimbaut d’Aurenga, XXXVIII, vv 31-32; Bernart de Ventadorn, XVI, vv 1-8; Elias Cairel, VI, vv 53-54 (nella tornada e con riferimento politico, non amoroso); Peire Vidal, XXXIII, vv 41-44; Bertran de Born, XIII (ma si tratta di un sirventese politico-militare). 292 1.11.1 Metafora equestre Rispetto all’area semantica equestre l’uso petrarchesco appare affine, nelle sue linee essenziali, a quello trobadorico, benché nel Canzoniere l’immagine sia ispirata, a livello concettuale, alla tradizione classica e in particolare al mito platonico dell’auriga. Tuttavia, il topos del freno e degli sproni, in particolare se legati al tema della ragione, è ben radicato nella lirica amorosa, tanto che si ritrova anche nella produzione siciliana200: ciò rende proficuo comparare l’approccio petrarchesco a quello occitanico. In entrambi gli ambiti, il concetto fondamentale è semplice: il poeta è dominato da Amore e dalla dama come se fosse guidato dalle briglie. Tale immagine propone in termini efficacissimi la condizione subordinata dell’amante e il suo essere forzato, sottomesso e guidato, a prescindere o spesso contro la propria volontà201. Petrarca Né mi vale spronarlo, o dargli volta, / ch’Amor per sua natura il fa restio. / Et poi che ‘l fren per forza a sé raccoglie, / i’ mi rimango in signoria di lui (son. 6, vv 7-10) Ma quell’ingiuria già lunge mi sprona / da l’inventrice de le prime olive (son. 24, vv 7-8) Largai ‘l desio, ch’i’ teng’or molto a freno, / et misil per la via quasi smarrita (son. 47, vv 5-6) Vergogna ebbi di me, ch’al cor gentile / basta ben tanto, et altro spron non volli (son. 67, vv 10-11) Et la ragione è morta, / che tenea ‘l freno, et contrastar nol pote (son. 73, vv 25-26) Ora veggendo come ‘l duol m’affrena (son. 87, v 12) Gli occhi invaghiro allor sì de’ lor guai, / che ‘l fren de la ragione ivi non vale (son. 97, vv 5-6) In quella parte dove Amor mi sprona / conven ch’io volga le dogliose rime (canz. 127, vv 1-2) E vòl che ‘l gran desio, l’accesa spene, / ragion, vergogna et reverenza affrene (son. 140, vv 6-7) Così sempre io corro al fatal mio sole / degli occhi onde mi vèn tanta dolcezza / che ‘l fren de la ragion Amor non prezza (son. 141, vv 5-7) Quando ‘l voler che con duo sproni ardenti, / et con duro fren, mi mena et regge (son. 147, vv 1-2) O bel viso ove Amor inseme pose / gli sproni e ‘l fren ond’el mi punge et vole (son. 161, vv 9-10) Ben veggio io di lontano il dolce lume / ove per aspre vie mi sproni et giri, / ma non ò come tu da volar piume (son, 163, vv 9-11) […] onde seco et con Amor si lagna, / ch’à sì caldi gli spron’, sì duro ‘l freno (son. 173, vv 7-8) Amor mi sprona in un tempo et affrena (son. 187, v 1) Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge (son. 211, v 1) 200 201 Ravera 2013, pp. 211-212. Non proporremo qui tutti i luoghi coinvolti, che sono molto numerosi, soprattutto nel Canzoniere. 293 Solea frenare il mio caldo desire, / per non turbare il bel viso sereno: / non posso più; di man m’ài tolto il freno, / et l’alma desperando à preso ardire (son. 236, vv 5-8) I’ nol posso negar, donna, et nol nego, / che la ragion, ch’ogni bona alma affrena, / non sia dal voler vinta […] (son. 240, vv 5-7) Mentre che ‘l corpo è vivo, / ài tu ‘l freno in bailia de’ penser’ tuoi (canz. 264, vv 32-33) Mi ritien con un freno / contra chui nullo ingegno o forza valme (canz. 264, vv 79-80) La mia fortuna (or che mi pò far peggio?) / mi tene a freno, et mi travolve et gira (son. 266, vv 3-4). Trovatori Mas si m tenetz ferme el fre / c’autra no m platz que m m’estre (Raimbaut d’Aurenga, XXVI, vv 55-56) Qu’ilh ades no m tenh’ en so fre (Bernart de Ventadorn, XVII, v 4) C’una dolors / que m sobreve, / me vira l fre (Giraut de Bornelh, I, vv 14-16) E mon cavals i cor tan len, / greu er c’uimais i ateigna (Jaufré Rudel, VI, vv 12-13) Si non pot aver caval, … compra palafrei202 (Guglielmo IX, II, v 18) De sol la paor ai fach fre203 (Marcabru, VIII, v 36) C’aisi m te / Amors prese l fre (Folchetto da Marsiglia, XIX, vv 6-7) Que sos amanz vol muera honradaman / d’armas, si n muor, que cil que ten en fre (Sordello, XVIII, vv 41-42) Hie m prenc ades ab ambas mas lo fre (Perdigon, VII, v 7) Aisso m tira si lo fre (Gaucelm Faidit, XXXVIII, v 37) Que ja m viretz lo fre, / amics, no n façatz re (Casteloza, II, vv 33-34) Que gras cavals, quan s’eslaisa, / tira be l fre e l’acaisa, / per que bos vasals crebanta (Guilhem Ademar, V, vv 14-16) Car fin’ amors tot al cobe lo fre (Bertran Carbonel, XI, v 19) Q’el destreing l’un e laiss’a l’autre l fre (Lanfranco Cigala, VII, v 13) E suy pojatz en la cella, / vostr’amistat me tira l fre (Guilhem de Berguedà, XXVIII, vv 14-15). 1.11.2 Metafora nautica Tra gli usi metaforici topici, quello legato alla sfera nautica è forse il più caratteristico della lirica petrarchesca. Il poeta porta l’immagine ad uno straordinario sviluppo, come si nota con chiarezza confrontando le occorrenze tratte dal Canzoniere con quelle proprie del corpus trobadorico204. Nell’uso petrarchesco si possono distinguere tre 202 Sia in questa che nella prima canzone di Guglielmo IX la metafora equestre assume una forma ben diversa da quella consueta, poiché essa risulta estesa a mascherare completamente la figura di uno degli amanti (le dame nella prima, un possibile amante nella seconda). 203 Qui il freno ha valore morale, in perfetta coerenza con le tematiche più tipiche e frequenti nel corpus marcabruniano; tuttavia l’autore si riferisce specificamente alla dimensione amorosa che intende censurare. 204 In area occitanica è più frequente, come mostreranno i luoghi citati, la comparazione che la metafora; per tale uso si legga anche Scarpati 2008, pp. 154-159. La medesima tendenza si coglie in ambito siciliano, dove però resta un'unica occorrenza, in forma appunto di paragone, che coinvolge anche l’immagine del porto. 294 diverse sfumature principali, di cui si darà conto nell’organizzazione dei passi citati: 1. un uso generico, 2. un’accezione esistenziale, per lo più morale e penitenziale, infine 3. un’interpretazione puramente amorosa205. Petrarca 1. Et non s’aspira al glorioso regno / certo in più salda nave (canz. 29, vv 41-42) Allor riprende ardir Saturno et Marte, / crudeli stelle; / et Orione armato / spezza a’ tristi nocchier’ governi et sarte (son. 41, vv 9-11) Del lito occidental si move un fiato, / che fa securo il navigar senza arte (son. 42, vv 9-10) Lo qual [spirito] senz’alternar poggia con orza206 (son. 180, v 5) […] or fa cavalli or navi / Fortuna, ch’al mio mal sempre è sì presta (son. 253, vv 13-14) Indi per alto mar vidi una nave, / con le sarte di seta, et d’òr la vela, / tutta d’avorio et d’ebeno contesta; / e ‘l mar tranquillo, et l’aura era soave, / e ‘l ciel qual è se nulla nube il vela, / ella carca di ricca merce honesta: / poi repente tempesta / oriental turbò sì l’aere et l’onde, / che la nave percosse ad uno scoglio (canz. 323, vv 13-21). 2. Chi è fermato di menar sua vita / su per l’onde fallaci et per li scogli / scevro da morte con un picciol legno, / non pò molto lontan esser dal fine207 (sest. 80, vv 1-4)208 […] O cruda mia ventura, / che ‘n carne essendo, veggio trarmi a riva / ad una viva dolce calamita! (canz. 135, vv 28-30) Dolce m’è sol senz’arme esser stato ivi, / dove armato fier Marte, et non acenna, / quasi senza governo et senza antenna / legno in mar, pien di penser’ gravi et schivi (son. 177, vv 5-8) Passa la nave mia colma d’oblio / per aspro mare, a mezza notte il verno, / enfra Scilla et Caribdi; et al governo / siede ‘l signore, anzi ‘l nimico mio209 (son. 189, vv 1-4) Regg’anchor questa stanca navicella / col governo di sua pietà natia (canz. 206, vv 39-40) Né mai saggio nocchier guardò da scoglio / nave di merci preciose carca, / quant’io sempre la debile mia barcha / da le percosse del suo duro orgoglio (son. 235, vv 5-8) Che giova dunque perché tutta spalme / la mia barchetta, poi che ‘nfra li scogli / è ritenuta anchor da ta’ duo nodi? (canz. 264, vv 81-83) 205 Alle immagini nautiche, soprattutto nel loro significato esistenziale, si associa spesso quella della tempesta, che rappresenta, in chiave metaforica, le difficoltà e le fatiche del vivere terreno. Le occorrenze nel Canzoniere sono tutt’altro che trascurabili, anche in contesti autonomi rispetto alle altre metafore marine (si vedano in particolare i ff. 41, 66, 73, 113, 189, 206, 235, 272, 277, 292, 303, 317, 323, 365, 366). 206 In questo caso l’uso di elementi nautici, per altro negati, in riferimento allo spirito è dovuto all’immagine realistica del poeta fisicamente in viaggio, sul Po e quindi navigando. 207 Il passo qui riportato costituisce solo l’avvio della sestina: come in parte si può leggere, ben quattro delle parole rima (scogli, legno, porto e vela) sono tratte dal campo semantico nautico e dunque l’intero componimento è basato su tale uso metaforico. 208 Per certi aspetti, comunque, la rappresentazione nautica della sestina 80 comprende anche l’idea di navigazione amorosa, che porta ad esiti pericolosi, o addirittura disastrosi. 209 In realtà l’intero sonetto utilizza una serie di metafore nautiche per rappresentare i vari aspetti del tormento amoroso e delle sue manifestazioni fisiche. Come già nel caso della sestina 80, gli aspetti esistenziali si sommano a quelli tipici della vicenda amorosa. 295 […] perch’ad uno scoglio / avem rotto la nave (canz. 268, vv 15-16) […] et poi da l’altra parte / veggio al mio navigar turbati i venti (son. 272, vv 10-11) Onde si sbigottisce et si sconforta / mia vita in tutto, et notte et giorno piange, / stanca senza governo in mar che frange, / e ‘n dubbia via senza fidata scorta (son. 277, vv 5-8) Rimaso senza ‘l lume ch’amai tanto, / in gran fortuna e ‘n disarmato legno (son. 292, vv 10-11) Ditele ch’i’ son già di viver lasso, / del navigar per queste horribili onde; / ma ricogliendo le sue sparte fronde, / dietro le vo pur così passo passo (son. 333, vv 5-8) Vergine chiara et stabile in eterno, / di questo tempestoso mare stella, / d’ogni fedel nocchier fidata guida, / pon’ mente in che terribile procella / i’ mi ritrovo sol, senza governo (canz. 366, vv 66-70). 3. Et non s’aspira al glorioso regno / certo in più salda nave (canz. 29, vv 41-42) […] et di ciò son contento, / presto di navigare a ciascun vento (bal. 63) Come a forza di venti / stanco nocchier di notte alza la testa / a’ duo lumi ch’à sempre il nostro polo, / così ne la tempesta / ch’i’ sostengo d’Amor, gli occhi lucenti / sono il mio sostegno e ‘l mio conforto solo210 (canz. 73, vv 46-51) L’aura soave a cui governo et vela / commisi entrando a l’amorosa vita / et sperando venire a miglior porto (sest. 80, vv 7-9) Fra sì contrari venti in frale barca / mi trovo in alto mar senza governo, / sì lieve di saver, d’error sì carca (son. 132, vv 9-12) A ciascun remo un penser pronto et rio / che la tempesta e ‘l fin par ch’abbi a scherno; / la vela rompe un vento humido eterno / di sospir’, di speranze et di desio. / Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni / bagna et rallenta le già stanche sarte, / che son d’error con ignorantia attorto (son. 189, vv 5-11) Et so che del mio mal ti pesa et dole, / anzi del nostro, perch’ad uno scoglio / avem rotto la nave (canz. 268, vv 14-16). Trovatori Me ditz q’ela m fo vel’e rems (Giraut de Bornelh, XIX, v 30) Qu’aissi con de nau perida / don res non pot escapar / mas per esfors de nadar (Rigaut de Berbezilh, I, vv 23-25) E puys guida l ferm’estela luzens / ias naus que van perillan per la mar (Sordello, II, vv 17-18) E failla m vens qan serai sobre mar211 (Bertran de Born, VI, v 39) 210 La rappresentazione di Laura, o più precisamente dei suoi occhi, come stella polare o comunque riferimento (eventualmente negato) essenziale nella vita (non solo amorosa) si ritrova più volte nell’arco della raccolta (ff. 63, 73, 160, 189, 272), prima di passare ad una simile identificazione volta però alla Vergine (canzone 366). In effetti, la celebrazione di Maria come stella maris, protettrice dei marinai, che torna appunto in 366, è topica. Inoltre, Laura è più volte indicata come “guida” del poeta, in alternativa ad Amore. Forse tali suggestioni hanno contribuito all’elaborazione dell’immagine qui citata nella versione di 73. 211 Qui l’immagine non ha valore metaforico, ma realistico, come d’altronde succede non di rado nelle rappresentazioni semi-biografiche dei trovatori, ad esempio laddove si parli di crociata. Tuttavia in questo 296 Qe cum la naus que meno lo tempiers, / que sobre l mar sofre pena e tormen, / ni a conseill si non Dieu q’es guidaire (Rambertino Buvalelli, IX, vv 27-29) Vos menes me cum fais l que l sieu trais / on hieu peri, si cum la naus en l’onda (Raimon Jordan, IX, vv 13-14) Atressi co l perilhans / que sus en l’aiga balansa, / que non a conort de vida, / tan sofre greu escarida, / que paors li tol membransa (Peire Vidal, II, vv 1-5) Aissi cum naus cui vens men’ a mal port (Perdigon, VII, v 11) Cum cel qe is ve el mieich del mar perir / e non i pot remaner ni issir (Gaucelm Faidit, XLVI, vv 29-30) Atressi cum la ballena, / quand li marinier son sus / e cid’estar ferms chascus, / ela ls fai totz perillar (Guilhem Ademar, XI, vv 24-27) Plus que la naus qu’es en la mar prionda / non ha poder de far son dreg viatge / entro que l venz socor de fresc auratge / e la condui a port de salvamen (Cadenet, XVIII, vv 1-4) Co l naus, cant pert los albres e ls timos, / que vay travers ves terr’ ab lo fort ven, / e motas vetz Dieus l’adutz salvamen / dedins bo portz […] (Bertran Carbonel, IV, vv 3235) E pren me n cum al marinier, / quan s’es empenhs en auta mar, / per esperansa de trobar / lo temps que mais dezira e quier / e quan es en mar prionda, / mals temps e braus la nau sobronda / tant qu’al perilh non pot gandir, / ni pot remaner ni fugir (Folquet de Lunel, I, vv 9-16). 1.11.3 L’immagine del porto L’immagine del porto, sicuro e rasserenante termine dell’esperienza individuale, è ben testimoniata nel Canzoniere; è meno frequente, invece, nei componimenti trobadorici, dove però se ne intuisce già una concezione topica. Come si è suggerito a più riprese, la prospettiva è diversa: mentre per i Provenzali il bisogno di giungere ad un esito salvifico ha una valenza puramente amorosa ed al limite genericamente esistenziale, per Petrarca l’idea del porto assume un forte significato spirituale, in relazione alla tematica penitenziale. Un’altra differenza essenziale consiste nell’approccio retorico e stilistico all’immagine: nel Canzoniere essa si configura come una metafora, la cui interpretazione esistenziale risulta ancor più spiccata, mentre i trovatori prediligono la similitudine212, che però veicola la medesima impressione di pace o di pace perduta. Ciò permette, pur nella differenza della concezione, di riconoscere una significativa comunanza. Petrarca Morte pò chiuder sola a’ miei penseri / l’amoroso camin che gli conduce / al dolce porto de la lor salute (bal. 14, vv 5-8) caso l’immagine ha una strettissima connessione con la dimensione amorosa, poiché parte del giuramento su cui si basa la struttura dell’escondich. 212 Alla lezione provenzale sembrano attenersi, senza scarti significativi, le tre occorrenze che si riscontrano nella poesia siciliana. 297 Et sperando venire a miglior porto, / poi mi condusse in più di mille scogli (sest. 80, vv 910) Signor de la mia fine et de la vita, / prima ch’i’ fiacchi il legno tra gli scogli / drizza a buon porto l’affannata vela213 (sest. 80, vv 37-39) Tal che, s’i’ arrivo al disiato porto, / spero per lei gran tempo / viver, quand’altri mi terrà per morto (canz. 119, vv 13-15) Non poria mai in più riposato porto / né in più tranquilla fossa / fuggir la carne travagliata et l’ossa (canz. 126, vv 24-26) Tal ch’incomincio a desperar del porto (son, 189, v 14) O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne (son. 234, vv 1-2) Vo ripensando ov’io lassai ‘l viaggio / da la man destra ch’a buon porto aggiunge (canz. 264, vv 120-121) Veggio fortuna in porto, et stanco omai / il mio nocchier, et rotte àrbore et sarte (son. 272, vv 12-13) Fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi, / valli chiuse, alti colli et piagge apriche, / porto de l’amorose mie fatiche (son. 303, vv 5-7) Tranquillo porto avea mostrato Amore / a la mia lunga et torbida tempesta (son. 317, vv 1-2) Pregate non mi sia più sorda Morte, / porto de le miserie et fin del pianto (sest. 332, vv 69-70) Sì che, s’io vissi in guerra et in tempesta, / mora in pace et in porto […] (son. 365, vv 910). Trovatori Si non o fas, tem que t port / tos fols volers a tal port / Que viuras apres la mort (Giraut de Bornelh, LXXVI, vv 29-31) Si no m secor, quar non truep a l’yssida / riba i port, gua ni pont, ni guerida (Sordello, II, vv 23-24) E vos, domna, ves cui estau aclis, / traietz m’a bon port, si cum etz de bon aire (Rambertino Buvalelli, IX, vv 31-32) Mas eras ai a bon port de salut (Guilhem Ademar, VII, v 33) E trag del peril ont era / a dreg port (Folquet de Romans, I, vv 13-14) Dona, flors de deport, / drecha via de port (Guiraut Riquier, XXIV, vv 51-52) La mars nos combat e l vens; / mostra nos via certana: / car si ns vols a bon port traire / non tem nau ni governaire (Peire de Corbiac, I, vv 43-46) Qu’en greu perill m’a laissat loing del port (Peirol, XXII, v 39). 1.11.4 Paragoni con gli animali Un altro strumento utile all’espressione dello stato amoroso è il paragone (più di rado la sovrapposizione metaforica) tratto dal regno animale. Tra i trovatori si delineano preferenze diverse: ad esempio, Rigaut de Berbezilh è noto per essere particolarmente 213 Queste due sono le occorrenze più interessanti, nella presente sede, rispetto all’uso della parola-rima “porto”; tuttavia anche nelle altre strofe il concetto veicolato dal termine resta in sostanza il medesimo. 298 versato nell’uso di immagini tratte dai bestiari. Testi pertrarcheschi come la canzone 135 dimostrano che il poeta aretino conobbe tali modelli. Nella maggior parte dei casi le rappresentazioni occitaniche sono piuttosto semplici e sobrie, legate alla stagionalità del canto degli uccelli e così via. Petrarca, invece, sembra apprezzare le immagini esotiche e leggendarie214, che chiamano in causa anche fonti classiche e colte. Tuttavia, si possono cogliere corrispondenze significative nella scelta delle immagini215, ad esempio quelle del cigno (Peire Vidal), della tigre (Rigaut de Berbezilh), della farfalla (Folchetto da Marsiglia), del leone (Uc de Saint Circ), del leopardo (Giraut de Bornelh), della salamandra (Peire Raimon de Tolosa). Particolarmente celebre e rilevante è il recupero da parte di Petrarca dell’immagine del bue come strumento di caccia, esplicita citazione da Arnaut Daniel, evidenziata dall’esito adynatico216: Beato in sogno et di languir contento, / d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura estiva, / nuoto per mar che non à fondo o riva, / solco onde, e ‘n rena fondo, et scrivo in vento (Canz. 212, vv 1-4) Et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori (Canz. 239, vv 36-37) Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura / e chaz la lebre ab lo bou / e nadi contra suberna217 (Arnaut Daniel, X, vv 43-45). Una comparazione particolarmente interessante tra corpus provenzale e Canzoniere concerne l’usignolo218. Anche altre tipologie di uccelli indicate in modo specifico ricorrono sia in Petrarca che nei trovatori, ma, a parte il caso della colomba, comunque limitato a poche occorrenze, si tratta di specie diverse tra l’uno e gli altri219. La coerenza tra l’approccio trobadorico e quello petrarchesco si coglie anche nelle scene di dialogo: sia nel Canzoniere sia in alcuni testi del corpus occitanico, l’io poetico dialoga con un uccellino, la cui specie può essere o meno menzionata. La funzione del dialogo è però 214 Simili soluzioni non mancano del tutto nemmeno in ambito trobadorico; ad esempio la rappresentazione del catoblepa nella canzone 135 ricorda da una parte l’immagine del basilisco, per i suoi effetti mortiferi, e dall’altra quella della pantera odorosa (Rigaut de Berbezilh), meravigliosa quanto letale. Entrambe le similitudini provenzali sono passate alla poesia siciliana; Petrarca sembra averne assimilato la sostanza, cogliendo però l’immagine in senso stretto da una tradizione diversa. Per le similitudini della canzone 135 e il rapporto con la tradizione occitanica si veda Berra 1992, p. 51. 215 È significativa e interessante l’assenza nel corpus provenzale dell’immagine del cervo, cara invece a Petrarca. 216 Per l’adynaton in Petrarca e nei trovatori si legga il capitolo precedente; per l’immagine della caccia impossibile, si veda anche lo studio sulle fonti nel capitolo primo. 217 Questo brano anraldiano è ovviamente fondamentale rispetto alla rappresentazione della caccia impossibile in Petrarca. L’ultimo verso di Arnaut qui citato potrebbe inoltre essere all’origine dell’immagine del nuoto nell’incipit di 212, dove appunto è proposta anche la caccia (Santagata 1996, p. 911). 218 Per la presenza dell’usignolo in Petrarca, che si è già anticipata nel corso del presente capitolo, si veda Santagata 1988, pp. 95 segg, dove si fa riferimento anche alle altre opere del poeta aretino. 219 Agli uccelli presta particolare attenzione l’analisi delle comparazioni trobadoriche in Scarpati 2008, pp. 95-107, che più in generale lascia ampio spazio all’ambito animale (pp. 94 segg). Tale interesse, spiccato in area provenzale, lascia tracce più limitate in Sicilia, dove è significativo che l’immagine dell’usignolo sia proposta in un solo caso. 299 significativamente diversa: mentre per Petrarca il mondo animale costituisce una pietra di paragone per esprimere la propria condizione interiore, i trovatori lasciano molto più spazio alla componente narrativa. L’uccellino diviene perciò il messaggero, che permette la comunicazione tra il drudo e la sua amata, e dunque partecipa alla vicenda d’amore220. Petrarca E ‘l rosignuol che dolcemente all’ombra / tutte le notti si lamenta et piagne, / d’amorosi penseri il cor ne ‘ngombra221 (son. 10, vv 10-12) Zephiro torna, e ‘l bel tempo rimena / e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia, / et garrir Progne et pianger Philomena (son. 310, vv 1-3) Quel rosignuol, che sì soave piagne / forse suoi figli o sua cara consorte (son. 311, vv 12). Trovatori E l rossinhols brayl’e crida / e son florit li vergier (Bernart Martì, VII, v 3) E l rossinhols s’estendilha / qe’m nafra d’amor tendilh222 (Raimbaut d’Aurenga, II, vv 2324) Com vos podetz de chant sofrir / can aissi auzetz esbaudir / lo rossinholet noih e jorn ?223 (Bernart de Ventadorn, II, vv 2-4) M’es le matins bels can sona / le rossinholet el plais (Giraut de Bornelh, XXXIX, vv 3-4) Quan lo rossinhols el foillos / dona d’amor e n quier e n pren (Jaufré Rudel, VI, vv 1-2) E l rossinholet s’afana / desotz la ramilla (Marcabru, XXI, vv 3-4) Lo rossinhols chanta tan dousamen / que negus chans d’auzel al sieu no s pren (Elias Cairel, XIV, vv 1-2) E il rossignolet c’auch braire / e l nous temps vertz e grazitz (Bertran de Born, XX, vv 56) E tota la nueg serena / chanta l rossinhols e l jais; / quecx auzel en son lenguatge (Arnaut de Maruelh, XVII, vv 3-5) E l rossinhol aug chantar el dezert (Raimon Jordan, XIII, v 2) La lazet’ e l rossinhol / am mais que mulh autr’auzel (Peire Vidal, I, vv 1-2) S’alegra e s’esbaudeja / lo rossignols, et dompneja / ab sa par pels plaissaditz (Gaucelm Faidit, XII, vv 3-4) Ni rossinhols non i crida / que lai en mai me reissida (Azalais de Porcairagues, I, vv 7-8) 220 Esempio particolarmente interessante si trova in Guilhem de Berguedà, XXV. Nel sonetto 10 il contesto non è amoroso o laurano, ma occasionale e di corrispondenza. Tuttavia l’immagine dell’usignolo è delineata esattamente nei toni e secondo i dettagli che si notano nei componimenti amorosi, evidenziando la natura topica dell’immagine. 222 La rappresentazione dell’usignolo appare particolarmente interessante poiché piange, come nel fragmentum 311; anche in 353 l’animale piange, ma è appunto solo un generico uccellino. 223 Il brano è particolarmente rappresentativo degli usi tipici dell’immagine, con particolare riferimento al corpus ventadoriano, in cui l’usignolo torna con notevole frequenza. Qui infatti si associano le due possibili interpretazioni principali: uccellino come simbolo della primavera e paragone tra comportamento animale e umano. Tale secondo aspetto, in questo caso, è proposto chiamando in causa un secondo elemento convenzionale, l’associazione stagione-amore-gioia-canto/poesia di cui si è già trattato. 221 300 El temps que l rossgnols s’esgau / e fais os vers sotz lo vert fuoill (Daude de Pradas, X, vv 1-2). Un’altra immagine molto rilevante nella raccolta petrarchesca è quella della fenice224, scelta a seconda dei luoghi per suggerire l’idea di continuità e sopravvivenza, oppure la straordinarietà di Laura. Petrarca Là onde il dì vèn fore, / vola un augel che sol senza consorte / di volontaria morte / rinasce, et tutto a viver si rinnova225 (canz. 135, vv 5-8) Questa fenice de l’aurata piuma / al suo bel collo, candido, gentile, / forma senz’arte un sì caro monile, / ch’ogni cor addolcisce, e ‘l mio consuma (son. 185, vv 1-4) Fama ne l’odorato et ricco grembo / d’arabi monti lei ripone et cela (son. 185, vv 12-13) Non da l’hispano Hibero a l’indo Ydaspe / ricercando del mar ogni pendice, / né dal lito vermiglio a l’onde caspe, / né ‘n ciel né ‘n terra, è più d’una fenice (son. 210, vv 1-4) È questo ‘l nido in che la mia fenice / mise l’aurate et le purpuree penne, / che sotto le sue ali il mio cor tenne, / et parole et sospiri ancho ne elice? (son. 321, vv 1-4) Una strania fenice, ambedue l’ale / di porpora vestita, e ‘l capo d’oro, / vedendo per la selva altera et sola, / veder forma celeste et immortale / prima pensai, fin ch’a lo svelto alloro / giunse, et al fonte che la terra invola: / ogni cosa al fin vola, / ché, mirando le frondi a terra sparse, / e ‘l troncon rotto, et quel vivo humor secco, / volse in se stessa il becco, / quasi sdegnando, e ‘n punto disparse (canz. 323, vv 49-59). Trovatori Plus qe ja fenis fenics / non er q’ieu non si’ amics (Raimbaut d’Aurenga, IV, vv 64-65) E s’ieu pogues contrafar / fenis, don non es mai us (Rigaut de Berbezilh, II, vv 37-38)226 E volh esser en vos Fenics / qu’autra jamais non amarai (Peire Vidal, XLV, vv 92-93)227. 2. Il ruolo della figura femminile Le dinamiche cortesi coinvolgono tradizionalmente tre protagonisti: l’io poetico, la dama, Amore228. Nella lirica trobadorica lo stato infelice di chi ama è ricondotto per lo 224 Per l’uso petrarchesco dell’immagine, soprattutto in riferimento a Laura, si veda la Lectura Petrarce di Ferroni 2011, in cui si trovano numerosi e significativi rimandi bibliografici. Lo studioso presta particolare attenzione agli antecedenti classici. Per le fonti e dunque sulla creatività della soluzione petrarchesca, nella fusione dei due filoni tradizionali (rappresentazione del poeta e ritratto dell’amata, molto più raro e non consueto fra i trovatori) si veda Zambon 1983. 225 Per l’uso degli elementi esotici e sovrannaturali nella canzone si veda il commento in Santagata 1996, pp. 662 segg. e i rimandi bibliografici. 226 Tali luoghi sono stati affrontati in Scarpati 2008, pp. 121-122 con particolare riferimento alla tecnica comparativa. 227 Tutti e tre i luoghi sono vagliati in Zambon 1983 come possibili antecedenti della fenice petrarchesca, quando riferita all’io poetico, all’interno di una più ricca messe di modelli cui l’Aretino potrebbe aver attinto. 301 più alle colpe dell’amata, crudele, insensibile, distratta, priva di pietà. Certo, anche Amore è ritratto non di rado in termini accusatori; ma la fin’amor ha in sé una connotazione positiva, ontologicamente contrassegnata da joi, che nella maggior parte dei casi impedisce una svalutazione complessiva e radicale. Per quanto concerne l’io lirico, infine, di tanto in tanto egli ammette di non essersi comportato in modo irreprensibile, giustificando perciò le ire di madonna. Tuttavia la sua caratterizzazione principale resta quella della vittima, che subisce più o meno passivamente. Nel Canzoniere la questione si complica e si fa più profonda. In primo luogo alla crudeltà di Laura si affianca quella di Amore: abbiamo già anticipato che tale redistribuzione delle responsabilità sembra dipendere più dalla rielaborazione italiana, e soprattutto siciliana229, che dalla visione occitanica. Nella raccolta petrarchesca la situazione appare quindi più equilibrata. Dopo la morte dell’amata, il suo atteggiamento viene riconsiderato: l’io poetico e con lui il lettore comprende lo scopo benefico della durezza che ella aveva dimostrato in vita. La crudeltà è rovesciata in salvazione. La fondamentale componente penitenziale della raccolta determina infine una significativa e prolungata, benché non lineare, riflessione sulle colpe dell’io stesso. L’incapacità di moderare i desideri, di rendere la passione misurata e proporzionata, di comprendere di cosa abbia davvero bisogno lo spirito determina la sconfitta dell’innamorato. La natura disforica del sentimento e l’alienazione che deriva dalla dedizione ossessiva all’oggetto del desiderio non sono più solo il frutto di una condizione infelice o di un amore non corrisposto; insomma, non sono più solo elementi descrittivi e rappresentativi della vicenda amorosa. Con Petrarca la problematicità dell’amore assume una valenza spirituale e morale del tutto nuova. Il riuso dei topoi trobadorici acquisisce dunque una specifica valenza in tale reinterpretazione dell’eros. Ciò vale sia per gli elementi disforici sin qui analizzati, sia per la resa della figura femminile, in cui ricorrono numerosi aspetti convenzionali. 2.1 La perfezione incarnata La rappresentazione fisica e morale di Laura prende le mosse da elementi ben noti, per quanto rinnovata sia dalla concezione petrarchesca dell’amore sia dalla costruzione di una vicenda unitaria e incomparabilmente complessa rispetto a quelle trobadoriche (la maturità, il cambiamento dei desideri, la morte, le apparizioni, la conversione finale). Anche solo a partire dalle caratteristiche estetiche attribuite a Laura si comprende come il poeta abbia saputo recuperare e rinnovare le convenzioni: i capelli biondi, l’incarnato pallido, i denti bianchi sono tutti tratti tipici della tradizione cortese. Eppure, la donna del Canzoniere assume anche una fisicità propria e speciale: le isotopie dell’aura e dell’auro rendono inconfondibili le chiome, così come l’insistenza su numerose e 228 Baldassarri 2004 ha evidenziato come tale centralità metta in ombra il ruolo della Fortuna, che però è più significativo di quanto non sembri a prima vista. 229 Nella produzione della Scuola le accuse dirette nei confronti della dama sono pochissime e per lo più mediate dal riferimento a specifiche caratteristiche fisiche o ad eventi, o ancora attenuate con soluzioni molteplici (Ravera 2013). 302 diverse parti del corpo (mani, braccia, piede, grembo, spalle e così via) consentono di dare alla figura femminile maggiore corporeità, pur restando entro i termini di una divinizzazione. Laura infatti, come le sue antenate occitaniche, è perfetta: lo sono la sua bellezza, il suo sguardo, il suo sorriso230 e la sua luce231; lo sono la voce, il canto e le parole che pronuncia; il portamento, l’incedere, nonché ogni aspetto del suo comportamento. Tale straordinarietà non si limita all’aspetto: si potrebbe dire che l’esteriorità non è che una manifestazione visibile della grandezza interiore. In entrambi gli ambiti, alla genericità delle affermazioni trobadoriche, che si limitano ad enunciare le doti che esaltano (bellezza, pregio, valore), si oppone la vivida rappresentazione petrarchesca, cui contribuiscono anche altre fonti ed altri topoi oltre a quelli cortesi (ad esempio quello della giovane vecchia232). Per quanto concerne invece le lamentele del poeta, nel corpus trobadorico gli aspetti più sentiti sono il tradimento e l’inganno, che si contrappongono alla fedele dedizione dell’innamorato e quindi identificano la scorrettezza e la crudeltà di madonna. Nel Canzoniere tali motivi sono estremamente ridimensionati, e soprattutto ricondotti ad Amore; lo stesso vale per le promesse infrante, su cui invece insistevano i Provenzali. Da una parte bisogna notare che per infrangere un patto o commettere un tradimento deve esserci stata una relazione o un contatto: tale antefatto è spesso sottinteso nei componimenti occitanici, benché la vicenda amorosa resti sfumata e incerta, mentre risulta assente nei fragmenta. Dall’altra, Petrarca sembra preferire una rappresentazione più generale della durezza di Laura, più volte definita “fera” ed anzi rappresentata nell’atto di ridere del pianto del poeta o di piangere per la sua gioia233. Sono tutti dettagli convenzionali e molto diffusi, come anche il tema della pietà mancata. Si tratta in effetti di un topos frequentissimo tra i trovatori e molto ben attestato nel Canzoniere: il vero difetto dell’amata è l’incapacità di concedere “mercede”. Secondo la concezione occitanica, l’immagine chiama in causa l’ideologia cortese e feudale: l’idea di mercede rispetto a quella di pietà, a volte chiaramente distinta anche sul piano lessicale, appare compromessa con il desiderio del “guiderdone”. Anche in Petrarca sono attestate le medesime voci, ma lo spostamento sul piano emotivo-psicologico appare evidente. 230 Sguardo e sorriso sono già per i trovatori veri e propri emblemi sia della bellezza che dell’effetto che essa ha sul poeta. Tali elementi ricorrono perciò con notevole frequenza, come sarà anche per Petrarca, non solo nelle descrizioni più ampie, ma anche in brani autonomi. 231 Sguardo e luce sono senza dubbio elementi tratti dall’insegnamento stilnovista; tuttavia non mancano anticipazioni in tal senso anche nei trovatori, che ancora una volta costituiscono una fonte di partenza anche per la letteratura italiana e le sue sperimentazioni ulteriori. 232 Tale topos è però già riconoscibile in alcuni componimenti occitanici, come la canzone 3 di Rigaut de Berzilh. Al topos possiamo inoltre accostare il confronto fra Laura e una donna anziana (son. 262), che mette in evidenza la maggiore saggezza e levatura spirituale dell’amata. Confronti fra le diverse età si trovavano, ad esempio, già in Bertran de Born, allo scopo di esaltare qualità tipicamente cortesi, che secondo l’ideologia dell’amore fino sono di necessità associate a joven, qualità questa che ha più a che fare con il comportamento, che con l’età anagrafica. 233 Si legga il sonetto 172. 303 2.1.1 Le parole dell’amata Un elemento della descrizione muliebre su cui i trovatori tornano di frequente è quello della parola. I “detti” sono importanti al pari dei “fatti” nel determinare o meno l’ammirazione nei confronti della donna, sia da un punto di vista sociale (il comportamento deve essere coerente con l’ambiente cortigiano in tutti i suoi aspetti), sia a livello amoroso (le parole comunicano spesso un senso di dolcezza, anche solo in modo implicito, e hanno dunque i medesimi effetti della visione)234. Tale tematica torna in Petrarca, che più volte elogia non solo le parole235, ma anche la voce e il canto di Laura236. Sono tutti elementi di seduzione, ma come tali hanno spesso effetti devastanti sul fragile ed ossequioso innamorato. Petrarca E ‘l suo parlare e ‘l bel viso, et le chiome (sest. 30, v 4) Et l’accorte parole, / rade nel mondo o sole (canz. 37, vv 86-87) Non era l’andar suo cosa mortale, / ma d’angelica forma, et le parole / sonavan altro che pur voce humana (son. 90, vv 9-11) In silentio parole accorte et sagge (canz. 105, v 61) I’ mi riscossi; et ella oltra, parlando, / passò, che la parola i’ non soffersi, / né ‘l dolce sfavillar degli occhi suoi (son. 111, vv 9-11) Qui cantò dolcemente, et qui s’assise; / […] / qui disse una parola, et qui sorrise (son. 112, vv 9-12) Così carco d’oblio / il divin portamento / e ‘l volto e le parole e ‘l dolce riso (canz. 126, vv 56-58) Et l’angelico canto et le parole (son. 133, vv 12) Et udi’ sospirando udir parole / che farian gire i monti et stare i fiumi (son. 156, v 7-8) Oltra la vista, agli orecchi orna e ‘nfinge / sue voci vive et suoi sancti sospiri (son. 158, vv 7-8) 234 All’interesse per tali elementi potrebbe contribuire anche la generale attenzione alla retorica e all’eloquenza che contraddistingue già l’ambiente occitanico e soprattutto i professionisti della parola. Tali aspetti non valgono solo a livello contestuale o metapoetico, ma si riflettono anche sulle logiche amorose. Bernart de Ventadorn, ad esempio, afferma che le parole nobili (“gen parlar”) costituiscono uno strumento essenziale nel corteggiamento e nella conquista amorosa che egli si propone nei confronti dell’amata (canzone 13, vv 44-45). 235 Nei trovatori, dove pure la dimensione comunicativa tra “io” e “tu” è introdotta di frequente a livello di invocazioni ed apostrofi, soprattutto in riferimento all’amata, è raro che il poeta le ceda la parola in modo davvero diretto, esclusi i generi dialogici per definizione, come la pastorella (per cui si veda il capitolo precedente). Tale soluzione trova invece spazio non trascurabile nel Canzoniere, nella seconda sezione e in parte già nella prima, nella fase del “presentimento” della morte di Laura, che parla al poeta attraverso sogni e apparizioni. Per tale aspetto si veda Tonelli 1994. 236 Sono rarissime le menzioni in tal senso in ambito occitanico (ad esempio si legga la canzone 46 di Giraut de Bornelh), e più che altro riferite alla speranza che la dama voglia cantare il testo che il poeta le ha inviato. In qualche caso il poeta-cavaliere evoca il canto della pastorella che incontra per caso. Per questo motivo non citiamo in questa sede tutte le occorrenze del canto riferite a Laura nel Canzoniere; ne ricorrono comunque alcuni esempi in relazione alla voce e alle parole nei versi riportati di seguito. Sul canto di Laura si può leggere l’analisi in Culcasi 1911. 304 Non sa come Amor sana, et come ancide, / chi non sa come dolce ella sospira, / et come dolce parla, et dolce ride (son. 159, vv 12-14) Miriam costei quand’ella parla o ride / che sol se stessa, et nulla altra, somiglia (son. 160, vv 3-4) Piaggia ch’ascolti sue dolci parole (son. 162, v 3) Et co l’andar et col soave sguardo / s’accordan le dolcissime parole (son. 165, vv 9-10) Così caddi a la rete, et qui m’àn colto / gli atti vaghi et l’angeliche parole (son. 181, vv 12-13) Se ‘l dolce sguardo di costei m’ancide / et le soavi parolette accorte (son. 183, vv 1-2) Talor ch’odo dir cose, e ‘n cor describo / perché da sospirar sempre ritrove, / […] / ché quella voce infin al ciel gradita / suona in parole sì leggiadre et care, / che pensar nol porìa chi non l’à udita (son. 193, vv 5-11) La bella bocca angelica, di perle / piena et di rose et di dolci parole (son. 200, vv 10-11) Occhi miei vaghi, et tu, fra li altri sensi, / che scorgi al cor l’alte parole sante (son. 204, vv 3-4) Dolce parlare, et dolcemente inteso (son. 205, v 3) Vertute, Honor, Bellezza, atto gentile, / dolci parole ai be’ rami m’àn giunto (son. 211, vv 9-10) E ‘l cantar che ne l’anima si sente, / […] / col dir pien d’intellecti dolci et alti (son. 213, vv 6-12) Onde le perle, in ch’ei frange et affrena / dolci parole, honeste et pellegrine? (son. 220, vv 5-6) Né l’orecchie, ch’udir altro non sanno, / senza l’oneste sue dolci parole (son. 246, vv 1314) Deposta avea l’usata leggiadria, le perle et le ghirlande e i panni allegri, / e ‘l riso e ‘l canto e ‘l parlar dolce humano (son. 249, vv 9-11) O dolci sguardi, o parolette accorte, / or fia mai il dì ch’i’ vi riveggia et oda (son. 253, vv 1-2) Far potess’io vedetta di colei / che guardando et parlando mi distrugge (son. 256, vv 1-2) Et parte d’un cor saggio sospirando / d’alta eloquentia sì soavi fiumi (son. 258, vv 3-4) Ivi ‘l parlar che nullo stile aguaglia, / e ‘l bel tacere, et quei cari costumi (son. 261, vv 910) Vostra vaghezza acqueta / un mover d’occhi, un ragionar, un canto (canz. 264, vv 52-53) Oimè il parlar ch’ogni aspro ingegno et fero / facei humile, ed ogni huom vil gagliardo! (son. 267, vv 3-4) Et facciamisi udir, sì come sòle, / col suon de le parole / ne le quali io imparai che cosa è amore (canz. 270, vv 51-53) Le parole che ‘ntese / avrian fatto gentil d’alma villa237 (canz. 270, vv 82-83) Le soavi parole e i dolci sguardi / ch’ad un ad un descritti et depinti ài (son. 273, vv 5-6) Orecchie mie, l’angeliche parole / sonano in parte ove è chi meglio intende (son. 275, vv 5-6) Post’ài silentio a’ più soavi accenti / che mai s’udiro, et me pien di lamenti (son. 283, vv 5-6) 237 In questo passo entra in gioco la funzione educativa dell’amore, tema tipicamente stilnovistico e dantesco, per cui però si possono intuire radici ancora anteriori. Di tali aspetti si parlerà ulteriormente nel corso del presente capitolo. 305 Col dolce mormorar pietoso et basso (son. 286, v 11) L’atto soave, e ‘l parlar saggio humile (son. 297, v 9) L’accorta, honesta, humil, dolce favella? (son. 299, v 6) Ch’al son de’ detti sì pietosi et casti / poco mancò ch’io non rimasi in cielo (son. 302, vv 13-14) Agli atti, a le parole, al viso, ai panni (son. 314, v 5) Et ella avrebbe a me forse resposto / qualche santa parola sospirando (son. 317, vv 12-13) Et acquetar i venti et le tempeste / con voci anchor non preste, / di lingua che dal latte si scompagne (canz. 325, vv 96-98) E ‘l parlar di dolcezza et di salute (canz. 325, v 96) E ‘n don le cheggio sua dolce favella (son. 336, v 8) Beata s’è, che pò bear altrui / co la sua vista, over co le parole (son. 341, vv 9-10) M’asciuga li occhi, et col suo dir m’apporta / dolcezza ch’uom mortal non sentì mai (son. 342, vv 10-11) Dal più dolce parlare et dolce riso (son. 348, v 4) Gentil parlar, in cui chiaro refulse / con somma cortesia somma honestate (son. 351, vv 56) Et formavi i sospiri et le parole (son. 352, v 3) E i buon’ consigli, e ‘l conversar honesto, / tutto fu in lei, di che noi Morte à privi (son. 354, vv 10-11) […] et s’adira / con parole che i sassi romper ponno (canz. 359, vv 69-70) Et sì dolce ydioma / le diedi, et un cantar tanto soave (canz. 360, vv 101-102) E ‘n mezzo ‘l cor mi sona una parola / di lei ch’è or del suo bel nodo sciolta (son. 361, vv 11-12) Mortal bellezza, atti et parole m’ànno / tutta ingombrata l’alma (canz. 366, vv 85-86)238. Trovatori E sona me gent e suau (Bernart de Ventadorn, XXI, v 36) Plus esser ver / als bels ditz et als bels semblanz / que m’a ia brau et orgoillos (Giraut de Bornelh, XXV, vv 43-45) A!, com son siei dit amoros (Jaufré Rudel, VI, v 22) S’ieu volia ben lauzar / […] / e l vostre avinen parlar (Uc de Saint Circ, XV, vv 31-34) E sobre totas deu prezar / de dig ver, segon mon albir, / d’ensegnamene de parlar (Cercamon, IV, vv 22-24) Qu’ab dousa sabor azesca / sos digz de felho azesc (Marcabru, XIV, vv 11-12) Ostatz de vos la beutat e l gen rire / e l douz parlar que m’afollis mon sen (Folchetto da Marsiglia, II, vv 22-23) Qu’ab ben dir et ab gen parlar / te tota la gen et apaya (Sordello, VIII, vv 14-15) E que mielhs sap bels plazers dir e faire (Elias Cairel, IV, v 46) E mieills acuoill e mieills parl’ e dompneia (Raimbaut de Vaqueiras, XII, v 22) Midonz na Elis deman / son adreich parlar gaban, / qe m don a midonz aiuda (Bertran de Born, VII, vv 27-29) 238 Alle occorrenze qui riportate vanno aggiunte quelle in cui effettivamente Laura parla in prima persona, rivolgendosi in modo diretto all’io poetico, e ancora quelle in cui è lui stesso a immaginare quello che l’amata (o meglio parti del suo corpo, il cui aspetto si rivela particolarmente eloquente) potrebbe dire. 306 Mos Restaurs a pretz e saber / e cortesia e gen parlar (Rambertino Buvalelli, III, vv 2122) Diz pro domn’e fai manta re / que par orguoils als afeblitz (Aimeric de Belenoi, XII, vv 19-20) Qu’enaissi sap d’avinen far e dir / ab purs plazers tot so qu’ill ditz ni fai (Arnaut de Maruelh, VIII, vv 11-12) E l gens parlars e l bel huelh amoros (Raimon Jordan, VI, v 35) Bel semblan n’ai en parvenssa / que gen m’acuoill e m razona (Peire d’Alvernha, I, vv 17-18) Qu’ilh sap tan gen laissar e far e der (Raimon de Miravall, XVIII, v 24) Sei dig an sabor de mel, / don sembla Sant Gabriel (Peire Vidal, XVI, vv 19-20) Mas ges hieu lieys no n creiria / per dig, si plus no n fazia (Aimeric de Peguilhan, II, vv 7-8) Qe de gaug e d’amor / so il vostre dich, e il faich son de lauzor (Gaucelm Faidit, VII, vv 83-84) Mi faitz orguolh en dichz et en parvença (Comtessa de Dia, II, v 13) C’ab bels semblans et ab digz plazentiers / mi mes al cor lo fuoc d’amor arden (Guilhem Ademar, X, vv 11-12) Tant son plazens e bellas sas faissos, / e l’adreitz cors, e l gens parlars chausitz (Gui d’Ussel, VII, vv 10-11) Et estai li tant gien parlars / c’a nuls tempo no vos dira re / mas onors e plasers e be (Folquet de Romans, IV, vv 14-16) Son pretz, s’onor gart Dieus e ls digz cortes (Peire Raimon de Tolosa, XIV, v 42) Et ab fals ditz et ab fals pessamen (Bertran Carbonel, II, v 42) Al nobleiar / del dous esguar, / a l’onrada captenensa, / al gent parlar (Guilhem Peire de Cazals, VIII, vv 69-72) E quar de tal domna so / qu’anc no fes ni dis mas pro (Folquet de Lunel, V, vv 8-9) Belhs acuilhirs, dig plazentier (Daude de Pradas, XI, v 51). 2.1.2 L’amata è straordinaria e superiore ad ogni altra La dama cortese e la sua erede petrarchesca sono perfette. Il paragone le vede sempre vittoriose, che si tratti del confronto con un’altra donna o che siano in gioco tesori inestimabili o infine che si parli della natura stessa e della sua creazione. In ambito trobadorico sono soprattutto i primi due aspetti ad essere sviluppati: nessuna donna può eguagliare l’amata, è meglio soffrire per lei che gioire con un’altra239, meglio avere anche solo un suo sguardo piuttosto che domini e possessi materiali anche preziosissimi240. Simili immagini sono presenti anche nel Canzoniere, ma con incidenza molto inferiore, mentre spazio molto più rilevante viene riservato al tema della 239 In parte tali immagini sono state anticipate trattando dell’unicità dell’amore e del suo oggetto: il poeta non può amare nessun’altra, a nessun costo. Il medesimo topos, tuttavia, ha anche il compito di evidenziare quanto la dama sia migliore e dunque degna d’amore e dedizione rispetto alle altre. 240 Nel Canzoniere tale topos viene proposto solo nella canzone 206, con una variante significativa: diviene cioè il termine di giuramento per convicere l’amata che l’amante non ha detto nulla di offensivo nei suoi confronti. Il passo è tanto più interessante in quanto non solo modifica l’immagine convenzionale, ma la integra in una struttura di genere, l’escondich, altrettanto tradizionale (e occitanica). 307 creazione: né Dio né la Natura potranno andare oltre questo loro capolavoro. Il concetto è già occitanico, ma in Provenza risulta meno diffuso. Nel corpus trobadorico, d’altro canto, sono apprezzate soprattutto formule sintetiche e ripetitive, con cui il poeta dichiara, senza bisogno di descrizione o argomentazione, che l’amata è “la più bella” o “la migliore”, con qualche variante lessicale (“mellhier”, “genser/gensor”, “belhazor”)241. Petrarca Così costei, ch’è tra le donne un sole (son. 9, v 10) Quando fra l’altre donne ad ora ad ora / Amor viene nel bel viso di costei, / quanto ciascuna è men bella di lei / tanto cresce ‘l desio che m’innamora (son. 13, vv 1-4) Perch’al viso d’Amor portava insegna, / mosse una pellegrina il mio cor vano, / ch’ogni altra mi parea d’onor men degna (mad. 54, vv 1-3) Tutti gli altri diletti / di questa vita ò per minori assai, / et tutte altre bellezze indietro vanno (canz. 73, vv 64-66) Ogni angelica vista, ogni atto humile / che già mai in donna ov’amor fosse apparve, / fora uno sdegno a lato a quel ch’i’ dico (son. 123, vv 9-11) Ove le belle membra / pose colei che sola a me par donna (canz. 126, vv 2-3) Veder pensaro il viso di colei / ch’avanza tutte l’altre meraviglie (canz. 127, vv 74-75) Miriam costei quand’ella parla o ride / che sol se stessa, et nulla altra, simiglia (son. 160, vv 3-4) Pur mi consola, che languir per lei / meglio è che gioir d’altra; et tu me ‘l giuri / per l’orato tuo strale, et io tel credo (son. 174, vv 12-14) Ma questa pura et candida colomba, / a cui non so s’al mondo mai par visse (son. 187, vv 5-6) Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo, / tu prima amasti, or sola al bel soggiorno / verdeggia, et senza par poi che l’addorno / suo male et nostro vide in prima Adamo (son. 188, vv 1-4) Tra quantunque leggiadre donne et belle / giunga costei ch’al mondo non à pare, / col suo bel viso suol dell’altre fare / quel che fa ‘l dì de le minori stelle (son. 218, vv 1-4) Ché, s’altro amante à più destra fortuna, / mille piacer’ non vaglion un tormento242 (son. 231, vv 3-4) Sendo di donne un bel numero eletto / per adornar il dì festo et altero, / sùbito scorse il buon giudicio intero / fra tanti et sì bei volti il più perfetto (son. 238, vv 5-8) Candida rosa nata in dure spine, / quando fia chi sua pari al mondo trove, / gloria di nostra etate? […] (son. 246, vv 5-7) Parrà forse ad alcun che ‘n lodar quella / ch’i’ adoro in terra, errante sia ‘l mio stile, / faccendo lei sovr’ogni altra gentile, / santa, saggia, leggiadra, honesta et bella243 (son. 247, vv 1-4) 241 A titolo di esempio, riportiamo un passo di Bernart de Ventadorn (“Messatgers, vai e cor / e di m a la gensor / la pena e la dolor”, XLIV, vv 73-75), uno di Peire Vidal (“Ara m te per seu / la genser sotz Deu / e del melhor sen”, XVII, vv 26-28) ed uno di Cercamon (“Tot la gensor que anc hom vis, / encontra lieys non pretz un guan”, I, vv 19-20). 242 Qui l’immagine topica è molto variata, ma se ne riconosce chiaramente la componente convenzionale. 308 Nocque ad alcuna già l’esser sì bella; / questa più d’altra è bella et più pudica (son. 254, vv 5-6) Non si pareggia lei qual più s’aprezza, (in qual ch’etade, in quai che strani lidi; / non chi recò con sua vaga bellezza / in Grecia affanni, in Troia ultimi stridi; / no la bella romana che col ferro / apre il suo casto et disdegnoso petto; / non Polixena, Ysiphile et Argia244 (son. 260, vv 5-11) Vera donna, et a cui di nulla cale, / se non d’onor, che sovr’ogni altra mieti (son. 263, vv 5-6) Più che mai bella et più leggiadra donna / tornami inanzi […] (canz. 268, vv 45-46) Togliendo anzi per lei sempre trar guai / che cantar per qualunque, e di tal piaga / morir contenta, et vivere in tal nodo (son. 296, vv 12-14) La lode mai non d’altra, et proprie sue, / che ‘n lei fur come stelle in cielo sparte, / pur ardisco ombreggiare, or una, or due (son. 308, vv 9-11) Or ài spogliata nostra vita et scossa / d’ogni ornamento et del sovran suo honore: / ma la fama e ‘l valor che mai non more, / non è in tua forza; abbiti ignude l’ossa (son. 326, vv 5-8) Vidi fra mille donne una già tale, / ch’amorosa paura il cor m’assalse (son. 335, vv 1-2) Quel, che d’odore et di color vincea / l’odorifero et lucido oriente, / frutti fiori herbe et frondi (onde ‘l ponente / d’ogni rara excellentia il pregio avea), / dolce mio lauro […]245 (son. 337, vv 1-5) Questo nostro caduco et fragil bene, / ch’è vento et ombra, et à nome beltate, / non fu già mai se non in questa etate / tutto in un corpo, et ciò fu per mie pene (son. 350, vv 1-4) Et a costui di mille / donne electe, excellenti, n’elessi una, / qual non si vedrà mai sotto la luna, / benché Lucretia ritornasse a Roma (canz. 360, vv 97-100) Ma ne’ suoi giorni al mondo fu sì sola, / ch’a tutte, s’i’ non erro, fama à tolta (son. 361, vv 13-14) Vergine saggia, et del bel numero una / de le beate vergini prudenti, / anzi la prima, et con più chiara lampa246 (canz. 366, vv 14-16). Poi che Dio et Natura et Amor volse / locar compitamente ogni vertute / in quei be’ lumi, ond’io gioioso vivo (canz. 73, vv 36-38) Le stelle, il ciel et gli elementi a prova / tutte lor arti et ogni extrema cura / poser nel vivo lume, in cui Natura / si specchia, e ‘l sol ch’altrove par non trova (son. 154, vv 1-4) 243 Il sonetto prosegue con un riconoscibile topos di modestia, incentrato sull’insufficienza della (propria) poesia e sull’ineffabilità della bellezza muliebre. Anche l’ipotesi della prima quartina, qui citata, è convenzionale, poiché richiama, anche se non alla lettera, un’immagine piuttosto diffusa nella tradizione trobadorica. A più riprese infatti i Provenzali avvertono la necessità di difendere la propria lode dell’amata, affermando che ciò che dicono non è un’esagerazione, ma la verità, comprovata anche da una breve visione. 244 Il riferimento a donne straordinarie e bellissime della storia, del mito o della letteratura è consueto nelle opere trobadoriche, dove però si ripetono in sostanza sempre le medesime fonti. Petrarca dunque appare accomunato ai modelli occitanici più che altro dal principio di fondo, oltre che dall’immagine convenzionale di Elena, qui presentata nel passo più ampio della serie; per il resto, il poeta arricchisce la propria rappresentazione con ritratti molto più variegati rispetto a quelli occitanici. In particolare si notano le figure femminili della tradizione romana e soprattutto Lucrezia, citata anche altrove nel Canzoniere. 245 La metafora dell’alloro rinnova in modo emblematico l’immagine topica. 246 La canzone 366 offre un interessante esempio di riuso del topos nel passaggio dalla materia amorosa a quella spirituale e penitenziale. 309 L’atto d’ogni gentil pietate adorno (son. 157, v 5) Allor inseme, in men d’un palmo, appare / visibilmente quanto in questa vita / arte, ingegno et Natura e ‘l Ciel pò fare (son. 193, vv 12-14) Man ov’ogni arte et tutti loro studi / poser Natura e ‘l Ciel per farsi honore (son. 199, vv 3-4) O Natura, pietosa et fera madre, / onde tal possa et sì contrarie voglie / di far cose et disfar tanto leggiadre (son. 231, vv 9-11) Ma chi né prima simil né seconda / ebbe al suo tempo, al lecto in ch’io languisco / vien tal ch’a pena a rimirar l’ardisco (son. 342, vv 5-7) Chi vuol veder quantunque pò Natura / e ‘l Ciel tra noi, venga a mirar costei, / ch’è sola un sol, non pur a li occhi mei, / ma al mondo cieco, che vertù non cura (son. 248, vv 1-4) Questa excellentia è gloria, s’i’ non erro, / grande a Natura, a me sommo diletto (son. 260, vv 12-13) Responde [Amore]: - Quanto ‘l Ciel et io possiamo, / e i buon’ consigli, e ‘l conversar honesto, / tutto fu in lei, di che noi Morte à privi (son. 354, vv 9-11) Come Dio et Natura avrebben messo / in un cor giovenil tanta vertute, / se l’eterna salute / non fusse destinata al tuo ben fare, / o de l’anime rare (canz. 359, vv 27-31)247. Trovatori Jois e solatz d’autra m par fals e bortz, / c’una de pretz ab lieis no i spot egar, / que l sieus solatz es dels autres soberiers (Arnaut Daniel, XV, vv 29-31) El mon non es mas un ares / per qu’eu joya pogues avere d’aquela no n aurai ges / ni d’autra non posc ges voler (Bernart de Ventadorn, X, vv 43-46) E pois trobar / no il poiria semblan ni par (Giraut de Bornelh, XXI, vv 97-98) Qu’anc no cug qu’en nasque semble / en semblan del gran linh d’Adam (Guglielmo IX, XI, vv 17-18) E val d’aitals una gran plena comba (Uc de Saint Circ, XXV, v 4) Si com l’estela jornaus / que non a paria, / es vostre rics pretz ses par (Rigaut de Berbezilh, III, vv 34-36) Tanz es de bel traill Gardacors / q’eu non volria agues mos cors / tan Acre ni Roais ni Surs (Bertran d’Alamanon, II, vv 37-39) Mas aitals es c’obs no i ha mais ni menz, / c’on nom pot meils fazonar per semblanza (Bertran d’Alamanon, XIX, vv 20-21) Anz desampar, per midonz cui ador, / tal que m’a fait gran ben e gran honor, / mas ben deu hom camjar ben per meillor (Folchetto da Marsiglia, XVII, vv 43-45) Tan l’am, qar val part la plasenz que son, / qu’endreg d’amor tenc chascun’en nien, / e quar non sai autr’el mon tan presan / de qu’ie n preses plaser jazen baisan (Sordello, III, vv 19-22) De la beutat qu’es en lei solamen / aurion pro d’autras pros donas cen (Elias Cairel, XIV, vv 22-23) C’amors e vos m’avetz tal ren promes / que val cen dos c’autra dompna m fezes (Raimbaut de Vaquieras, XI, vv 29-30) 247 Ai passi qui citati si possono accostare anche i luoghi in cui Laura sia definita gloria del suo tempo o, dopo la sua morte, gloria del cielo. Riprenderemo quest’ultimo elemento trattando della mescolanza tra elementi sacri e profani nel corso del presente capitolo. 310 […] e si del semblan / non trob dompn’a mon talan / qe m vailla vos q’ai perduda, / ja mais non vuoill aver druda248 (Bertran de Born, VII, vv 7-10) Contra l vostre cors qu’es complitz / de toz bes mas sol de merce249 (Aimeric de Belenoi, XII, vv 9-10) Sobre totas beutatz belh (Monje de Montaudon, VII, v 54) Mas tant es ders sobre tot’autra domna / vostre rics pretz, que de las melhors es / capduelhs e caps […] (Arnaut de Maruelh, IV, vv 18-20) Qu’a tota gen aug dire ad esfors / que l vostre pretz vai lo melhor sobran / e lauzengiers no us en pot tener dan (Raimon Jordan, VI, vv 14-16) Q’enquer non a pretz agut / dompna c’anc nasques de maire / qe contra l sieu valgues gaire (Raimon de Miravall, XXXVII, vv 24-25) Qu’eu no sai dopn’ el mond al meu albir / que tan se fass’ al conosenz grasir (Perdigon, XIII, vv 15-16) Que l sieus cars pretz es lo mielher dels bos, / pueys la beutatz es eguals la valensa (Aimeric de Peguilhan, XX, vv 33-34) Conortatz soi, qua ram tan bela ren, / qu’en tot lo mon, non cre, trobaria par (Gaucelm Faidit, VIII, vv 10-11) Qu’ieu n’ai chausit un pro e gen / per cui Pretz melhur’ e gença (Comtessa de Dia, I, vv 25-26) Q’ieu sui de tal enquistaire / c’ai d’entre cen bell’elesta / q’es, per esta mia testa, / de totas cen la bellaire (Guilhem Ademar, VI, vv 25-28) Dompna, ben sai certanamen / q’el mon non posc mais dompn’eslire / don qalsqe bes no si’ a dire, / o q’om pensan no formes plus valen (Gui d’Ussel, I, vv 19-22) Qu’ieu la triei, segon lo mieu semblan, / per la melhor de las autras reials (Cadenet, I, vv 22-23) Et a cen tans e mais / q’eu no s dic de valor (Peire Raimon de Tolosa, I, vv 23-24) Car a mos huelhs ami la plus plazen / dona del mon e la plus avinen, / la plus bel’ e la plus cuend’ e l plus pros (Bertran Carbonel, III, vv 5-7). Gensor de leis no poc faire Beltatz, / per qu’eu m’en ai gran pen’ e gran trebalha (Bernart de Ventadorn, XXXV, vv 23-24) Que natura, que tant gen la saup faire, / qan la formet plus bella e meillor / totz los bos aips del mon en lieis assis (Rambertino Buvalelli, IX, vv 37-39) Pros domna conoissens, / en cui es pretz e sens / e beutatz fin’ e pura, / que natura i mes (Arnaut de Maruelh, XXII, vv 41-44) Que, cum resplan roz’en rozier / gensetz d’autra flor de vergier, / sobra sobre totz ioys sos iays / del maior gaug qu’anc nasc ni nays (Peire d’Alvernha, XVII, vv 57-60) 248 Qui la possibilità che un’altra donna sia pari alla prima non è del tutto esclusa, benché appaia molto improbabile; la strofa successiva afferma d’altro canto che la ricerca è stata infruttuosa. Ciò che conta, comunque, è che la dama qui elogiata rappresenta l’emblema stesso della femminilità, che identifica l’ideale cui tutte devono adeguarsi. Segue la giocosa rappresentazione di una donna immaginaria che derivi ciascuna sua qualità da una donna reale, eccellente in quel dettaglio, ma non abbastanza nel complesso. 249 Questo tipo di rappresentazione dell’amata, che in fondo appare piuttosto accusatorio, è topico e molto diffuso, non solo presso i trovatori, ma anche in ambito italiano. 311 C’anc Natura no mes en lieis, s ocre, / ni plus ni meins, mas aco qe i cove (Aimeric de Peguilhan, XLI, vv 31-32) Cum i saup totz bes formar / ab sotil saber Natura (Guilhem Ademar, IX, vv 58-59) C’anc natura non obret tan / c’altra n fasses del sieu semblan (Gui d’Ussel, V, vv 27-28) Quar anc gensor creatura / no crey, que forms natura (Guiraut Riquier, IV, vv 26-27). 2.2 Desiderio di non aver mai visto l’amata A fronte delle difficoltà e delle sofferenze che derivano dallo stato amoroso e in particolare dall’atteggiamento dell’amata, l’io poetico arriva a desiderare di non averla mai conosciuta. Si noti che tali affermazioni si distinguono radicalmente dall’effettiva decisione di smettere d’amare o di cambiare l’oggetto del proprio desiderio250. Infatti, pur lamentandosi della propria condizione fino a metterne in discussione la motivazione originaria, l’io lirico non fa nulla per liberarsene ed anzi perservera nelle proprie abitudini. I luoghi trobadorici per lo più associano il momento del primo incontro ad una sciagura senza soluzione; nel Canzoniere le occorrenze sono poche e forse più generiche, poiché non si parla precisamente del contatto fatale, ma semplicemente di “visione”251. Petrarca Per quanto non vorreste o poscia od ante / esser giunti al camin che sì mal tiensi, / per non trovarvi i duo bei lumi accensi, / né l’orme impresse de l’amate piante?252 (son. 204, vv 58) Già sai tu ben quanta dolcezza porse / agli occhi tuoi la vista di colei / la qual ancho vorrei / ch’a nascer fosse253 per più nostra pace254 (canz. 264, vv 37-40) Cerchiamo ‘l ciel, se qui nulla ne piace: / ché mal per noi quella beltà si vide, / se viva et morta ne devea tor pace255 (son. 273, vv 12-14) Noia m’è ‘l viver sì gravosa et lunga / ch’i’ chiamo il fine, per lo gran desire / di riveder cui non veder fu ‘l meglio (son. 312, vv 12-14)256. 250 Di tali circostanze, affatto rare in ambito provenzale e per certi aspetti echeggiate nel Canzoniere, benché secondo una prospettiva del tutto nuova, si è parlato nel corso del precedente capitolo. 251 Sul tema dell’incontro si tornerà nel corso del presente capitolo. 252 È interessante che nel componimento successivo sia espresso esattamente il concetto opposto, cioè il rimpianto di chi non ha potuto incontrare l’amata. 253 Da notare che questo tipo di affermazioni si scontra con altre di carattere celebrativo in cui il poeta esalta l’importanza di aver visto e conosciuto Laura, compiangendo coloro che per motivi cronologici non ne hanno avuto la possibilità: si vedano i ff. 205, 248, 309. 254 Per questo luogo Santagata 1996, pp. 1057-1058 cita il modello di Aimeric de Peguilhan. 255 Per questo passo, Santagata 1996, p. 1114, ricorda, oltre agli antecedenti italiani, Peire Vidal e Folchetto da Marsiglia. 256 Ai brani qui citati possiamo associare i luoghi in cui l’io poetico dichiara che la dama è stata destinata soltanto a causarne le sofferenze, come nel sonetto 350: “Questo nostro caduco et fragil bene, / ch’è vento et ombra, et à nome beltate, / non fu già mai se non in questa etate / tutto in un corpo, et ciò fu per mie pene” (vv 1-4), o nella canzone 264: “quella che sol per farmi morir nacque” (v 107). 312 Trovatori Qu’al prim q’eu vi ma domna ez ylh me / m’agra be ops qu’adoncs no vis ieu re (Aimeric de Peguilhan, XXIX, vv 6-7) Mala us viron miei huoill, / si chausimens no us guia (Guilhem Ademar, I, vv 6-7) E for a m meills fos aillors mos penssiers (Guilhem Ademar, X, v 17). 2.3 La donna nemica e guerriera Topica definizione dell’amata è quella di “nemica”257, spesso anzi secondo la formula cristallizzata di “dolce nemica”, che ha origine proprio in Provenza. Non può stupire che l’io poetico la presenti in questi termini: la crudeltà giustifica l’inimicizia, mentre l’amore incrollabile del poeta spiega la dolcezza. L’effetto ossimorico è a sua volta perfettamente coerente con i tratti consueti della rappresentazione amorosa, contraddittoria e disforica. Petrarca Mille fiate, o dolce mia guerrera (son. 21, v 1) De la dolce et acerba mia nemica / è bisogno ch’io dica (canz. 23, vv 69-70) Mostrimi almen ch’io dica / Amor in guisa che, se mai percote / gli orecchi de la dolce mia nemica, / non mia, ma di pietà la faccia amica (canz. 73, vv 27-30) Et die’ le chiavi a quella mia nemica / ch’anchor me di me stesso tene in bando (son. 76, vv 3-4) Ma chi pensò veder mai tutti insieme / per assalirmi il core, or quindi or quinci, / questi dolci nemici, ch’i’ tant’amo?258 (son. 85, vv 9-11) Quel che mi fanno i miei nemici anchora / non è per morte, ma per più mia pena259 (son. 87, vv 13-14) Era ben forte la nemica mia, / et lei vid’io ferita in mezzo ‘l core (son. 88, vv 13-14) Lasso, non a Maria, non nocque a Pietro / la fede, ch’a me sol tanto è nemica260 (son. 95, vv 12-13) Or vedi, Amor, che giovenetta donna / tuo regno sprezza, et del mio mal non cura, / et tra duo ta’ nemici è sì secura (mad. 121, vv 1-3) […] et vo’ che m’oda / la dolce mia nemica anzi ch’io moia (canz. 125, vv 44-45) Questa bella d’Amor nemica, et mia (son. 169, v 8) Ò preso ardir co le mie fide scorte / d’assalir con parole honeste accorte / la mia nemica in atto humile et piano (son. 170, vv 2-4) Geri, quando talor meco s’adira / la mia dolce nemica, ch’è sì altera (son. 179, vv 1-2) 257 Oltre all’ininimicizia dell’amata e talvolta di Amore, si ricordi che il tema torna in riferimento ad aspetti vari della vicenda amorosa (ad esempio occhi e cuore, altra immagine convenzionale trobadorica, che si trova in Uc de Saint Circ o Lanfranco Cigala, o la sorte) e in chiave cristiana, soprattutto per identificare il demonio, definito nemico o avversario. 258 Tra i nemici, qui molteplici ma tutti legati all’effetto d’amore, è considerata anche Laura. 259 In questo caso non si parla direttamente di Laura, ma dei suoi occhi e del colpo che ne deriva. 260 Anche qui si nota uno spostamento da Laura alla “fede”, cioè alla fedele devozione che il poeta prova nei suoi confronti. 313 O la nemica mia pietà n’avesse (son. 195, v 11) Ma io nol credo, né ‘l conosco in vista / di quella dolce mia nemica et donna (son. 202, vv 12-13) Et la nemica mia / più feroce ver’ me sempre et più bella (canz. 206, vv 8-9) I’ pur ascolto, et non odo novella261 / de la dolce et amata mia nemica (son. 254, vv 1-2) Miri fiso nelli occhi a quella mia / nemica, che mia donna il mondo chiama (son. 261, vv 3-4) Già incominciava a prender securtade / la mia cara nemica a poco a poco (son. 315, vv 56) Né costui né quell’altra mia nemica / ch’i’ fuggia, mi lasciavan sol un punto (canz. 360, vv 54-55). Trovatori E per ma guereira cui am (Giraut de Bornelh, XVII, v 9) Douc’enemia, en vos amar / soi tan ferm lassatz ses cor var (Sordello, VI, vv 41-42) Que m’es mala e salvatja guerreira (Peire Vidal, XIII, v 10). 2.4 Metafore e paragoni per rappresentare l’amata: la natura, il fiore, lo specchio Tre particolari soluzioni si ripetono più volte tanto nel corpus trobadorico quanto nel Canzoniere al fine di rappresentare la natura meravigliosa dell’amata, in forma di metafora o di similitudine: gli elementi naturali, il fiore e lo specchio. 2.4.1 Metafore e paragoni naturalistici La bellezza della dama è talvolta evocata attraverso l’associazione con elementi naturali: sono topici in particolare la rosa per le labbra, le perle per i denti, la neve per la carnagione262, che nel caso di Laura si assommano all’oro dei capelli. È più raro invece l’ebano. È interessante notare che tale approccio alla lode fisica dell’amata trova un riscontro molto limitato in ambito siciliano (due sole occorrenze limitate alla rosa come termine di paragone per l’incarnato); è più comune invece che la dama sia apostrofata come “rosa” (nove occorrenze), eliminando però ogni preciso riferimento alla sua figura fisica e comunque focalizzandosi su un solo dettaglio estetico263. 261 Anche l’idea dell’assenza di comunicazione da parte dell’amata, per esprimere l’attesa frustrata e l’isolamento dell’amante, è piuttosto frequente nel corpus trobadorico, ad esempio in vari componimenti di Giraut de Bornelh. 262 Per il frequente paragone con la neve si veda Scarpati 2008, pp. 82 segg. 263 Di nuovo alla rosa pensano i Siciliani quando paragonano il rapporto tra l’amata e le altre donne a quello tra le diverse specie di fiori. Anche questa è un’immagine topica e già diffusa in ambito provenzale, ma risponde ad una concezione in parte diversa rispetto a quella sottesa al topos qui analizzato. 314 Petrarca Giovene donna sotto un verde lauro / vidi più biancha et più fredda che neve / non percossa dal sol molti et molt’anni (sest. 30, vv 1-3) L’oro et le perle e i fior’ vermigli e i bianchi, / che ‘l verno devria far languidi et secchi (son. 46, vv 1-2) Se mai candide rose con vermiglie / in vasel d’oro vider gli occhi miei / allor allor da vergine man colte, / veder pensaro il viso di colei / ch’avanza tutte l’altre meraviglie (canz. 127, vv 71-75) Et le rose vermiglie in fra la neve / mover da l’òra, et discovrir l’avorio / che fa di marmo chi da presso ‘l guarda (son. 131, vv 9-11) O fiamma, o rose sparse in dolce falda / di viva neve, in ch’io mi specchio et tergo (son. 146, vv 5-6) La testa òr fino, et calda neve il volto, / hebeno i cigli, et gli occhi eran due stelle, / onde Amor l’arco non tendeva in fallo; / perle et rose vermiglie, ove l’accolto / dolor formava ardenti voci et belle; / fiamme i sospir’, le lagrime cristallo (son. 157, vv 9-14) Amor fra l’erbe una leggiadra rete / d’oro et di perle tese sott’un ramo / dell’albor sempre verde ch’i’ tant’amo (son. 181, vv 1-3) Vedi quant’arte dora e ‘mperla e ‘nostra / l’abito electo, et mai non visto altrove (son. 192,vv 5-6) Di cinque perle oriental colore, / […] / diti schietti soavi, a tempo ignudi (son. 199, vv 57) Li occhi sereni et le stellanti ciglia, / la bella bocca angelica, di perle / piena et di rose et di dolci parole (son. 200, vv 9-11) Quella ch’à neve il volto, oro i capelli, / nel cui amor non fur mai inganni né falli264 (son. 219, vv 5-6) Onde tolse Amor l’oro, et di qual vena, / per far due treccie bionde? E ‘n quali spine / colse le rose, e ‘n qual piaggia le brine / tenere et fresche, et die’ lor polso et lena? / Onde le perle, in ch’ei frange et affrena / dolci parole, honeste et pellegrine? (son. 220, vv 1-6) Quand’io veggio dal ciel scender l’Aurora / co la fronte di rose et co’ crin d’oro (son. 291, vv 1-2) Sì texta, ch’oro et neve parea inseme (canz. 323, v 66) Parea chiusa in òr fin candida perla265 (canz. 325, v 80). Trovatori Doussa e fresqua e colorida / cum flors de may en rozier (Bernart Martì, VII, vv 38-39) C’anc de rosier no nasquet flors / plus fresca, ni de nuills brondeus (Giraut de Bornelh, XII, vv 16-17) 264 Qui il poeta descrive, in termini molto simili a quelli impiegati per Laura, l’Aurora (nella forma personificata della tradizione mitologica). Lo stesso vale per il passo citato dal sonetto 291, dove però l’associazione tra le due figure femminili viene esplicitato. 265 Nella medesima canzone Petrarca ritrae Laura metaforicamente in termini architettonici e scegliendo le sue immagini tra le pietre preziose, secondo un’ulteriore tradizione retorica molto ben attestata, soprattutto fra Siciliani e Siculo-toscani. 315 Denz plus blancas c’us cristals; / neus blanca non es aitals / cum sos cors rics de joven (Uc de Saint Circ, VI, vv 38-40) Guai’e blanca coma ermis, / plus fresca qe rosa nilis; (Cercamon, II, vv 37-38) Qui ve cum la neus e l calors, / so es la blanchesa e l colors (Folchetto da Marsiglia, IV, vv 27-28) Quar la rosa sembla lei de cui chan, / aultresi es la neus de l sieu senblan (Sordello, III, vv 5-6) Pel saur ab color de robina, / blanca pel col cum flors d’espina (Bertran de Born, XIII, vv 25-26) Qu’es blanca aissi cum nieus (Aimeric de Peguilhan, XLIX, v 29) Et a be plus fresca color / ce rosa ni flors d’angilen (Folquet de Romans, IV, vv 11-12) Vermelha cum flors de rozier / a sa color, ses gienh, e var (Folquet de Lunel, I, vv 33-34). 2.4.2 Fiore Oltre ai paragoni naturalistici, in cui può essere scelta anche l’immagine di fiori266, essa è proposta in termini metaforici e topici per indicare la perfezione. La dama trobadorica e così Laura si identificano col “fiore”, cioè il meglio del genere femminile, della bellezza in particolare, più di rado del pregio o della saggezza267. Petrarca Benché di sì bel fior sia indegna l’erba268 (son. 45, v 14) Poggi et onde passando, et l’onorate / cose cercando, e ‘l più bel fior ne colse (canz. 73, vv 35-36) Novo penser di ricontar mi nacque / in quante parti il fior de l’altre belle (canz. 127, vv 88-89) Qual miracolo è quel, quando tra l’erba / quasi un fior siede, over quand’ella preme / col suo candido seno un verde cespo! (son. 160, vv 9-11) Quel fiore anticho di vertuti et d’arme / come sembiante stella ebbe con questo / novo fior d’onestate et di bellezze! (son. 186, vv 9-11) Era un tenero fior nato in quel bosco (sest. 214, v 7) In nobil sangue vita humile et queta / et in alto intellecto un puro core, / frutto senile in sul giovenil fiore / e ‘n aspetto pensoso anima lieta (son. 215, vv 1-4) Candida rosa nata in dure spine (son. 246, v 5) 266 Per i paragoni trobadorici con i fiori e in particolare quello frequentissimo con la rosa, si veda Scarpati 2008, pp 68 segg. 267 Accogliamo qui alcuni paragoni con l’immagine del fiore che modificano anche sensibilmente l’impostazione convenzionale del confronto, per descrivere come Petrarca si appropri liberamente della topica associazione fiore-amata. Non elencheremo invece i luoghi dove il fiore sia quello dell’età, altro topos di carattere metaforico utile alla rappresentazione dell’età giovanile. 268 In questo caso l’immagine è lievemente diversa rispetto a quella topica vera e propria, poiché il sonetto coinvolge il mito di Narciso e la sua effettiva trasformazione in fiore, che si ipotizza per una Laura eccessivamente dedita al proprio aspetto. Tuttavia la scelta del fiore, tanto splendido da essere incomparabile al prato in cui dovrebbe trovarsi, non può che evocare anche la formula convenzionale vera e propria. 316 I’ la riveggio starsi humilemente / tra belle donne, a guisa d’una rosa / tra minor’ fior’, né lieta né dogliosa269 (son. 249, vv 5-7) Punta poi nel tallon d’un picciol angue, / come fior colto langue (canz. 323, vv 69-70) Or ài fatto l’extremo di tua possa, / o crudel Morte; or ài ‘l regno d’Amore / impoverito; or di bellezza il fiore / e ‘l lume ài spento, et chiuso in poca fossa (son. 326, vv 1-4) Pianger l’aer et la terra e ‘l mar devrebbe / l’uman legnaggio, che senz’ella è quasi / senza fior’ prato, o senza gemma anello (son. 338, vv 9-11) Fior di vertù, fontana di beltate (son. 351, v 7). Trovatori Lai m’aparec la bella flors de lis (Giraut de Bornelh, XIII, v 6) Flors de beltatz e flors d’onors, / flors de joven e de valors, / flors de sen e de corteszia, / flors de presz e ses vilania, / flors de totz bes senes totz mals (Uc de Saint Circ, XLIV, vv 3-7) D’onor e de beutat flors (Rigaut de Berbezilh, I, v 36) Quan pes quo am de totz bos ayps la flor (Sordello, VII, v 9) Car sai qu’es de beutat la flors (Elias Cairel, XV, v 12) E l sieus cars pretz q’es flors dels plus prezatz270 (Raimbaut de Vaqueiras, XXXIII, v 28) Eu sai la flor plus bella d’autra flor (Rambertino Buvalelli, VI, v 1) Domna, flor / d’amor271 (Aimeric de Belenoi, XI, vv 1-2) Flors de joi e d’amor (Arnaut de Maruelh, VI, v 26) Lo sieus dous esguars clars, / corals, dels gensors flors (Aimeric de Peguilhan, XLV, vv 9-10) Tan aut me crei Amors en ferm talan / per una bela flor e l sieu clar vis ! (Gaucelm Faidit, VI, vv 1-2) Caps de pretz, flors de beutat (Guilhem de la Tor, X, v 51) Ai, dousa flors ben olenz, / plus clara que flors de lis (Cadenet, V, vv 1-2) No volgra camiar leis, qu’es flor / de iovent e de ioi sabor (Peire Raimon de Tolosa, VII, vv 22-23) De tot be portas la flor (Bertran Carbonel, VII, v 54) Anav’ enqueren la flor / don podi’ esser garitz (Bartolomé Zorzi, X, vv 3-4) Flors de roza ses spina (Lanfranco Cigala, IX, v 6) Mirals e flors de dompnas e d’Amor (Peire Bremon Ricas Novas, XII, v 2) Quar flors es de totas beutatz (Guiraut Riquier, XXVI, v 39) Car flors vos es de vera conoissenza, / flors de beutat, flors de vera merce / flors a cui l mons […] (Peire Guilhem de Luserna, V, vv 13-15) E cum vos es de totas rays e flors (Guilhem de Cabestanh, V, v 44). 269 Il passo risente direttamente dell’esempio di Peire Vidal. Nel medesimo testo l’immagine del fiore ricorreva già in precedenza (v 10) per descrivere il valore dell’amore rispetto a tutti gli altri beni: “mas amors es flors e frugz de totz bes”. 271 Come accade d’abitudine, la rappresentazione mariana, cui la canzone è dedicata, è profondamente affine a quella amorosa. 270 317 2.4.3 L’amata e lo specchio: perfezione e vanità Nel Canzoniere l’immagine dello specchio vanta non poche occorrenze, che propongono però accezioni e significati differenti. Innazitutto bisogna distinguere tra lo specchio inteso nella sua concretezza materiale e l’uso metaforico. Nel primo caso, l’amata è presentata nella sua vanità, assorbita dalla contemplazione di se stessa, incurante del mondo che la circonda. Ciò comporta due conseguenze: l’inimicizia tra l’innamorato e lo specchio, l’implicita affermazione che la dama è bellissima, tanto da giustificare il suo narcisismo. Tale aspetto celebrativo è invece preponderante nelle occorrenze figurate. Esse sono caratterizzate da sfumature diverse, tutte riconducibili ad aree semantiche convenzionali in ambito lirico ed amoroso: lo “specchio di perfezione” o “di meraviglie” o ancora “della natura”. Nell’amata e nelle sue qualità, cioè, si specchia l’intera creazione, concepita in ottica ovviamente positiva, visto che l’immagine è pensata come elogio; il poeta a sua volta si vede riflesso in quel tutto, accentuando il senso di connessione (e subordinazione) tra i due personaggi272. Anche gli occhi sono talvolta definiti specchi, a sottolinearne soprattutto la luce: tale uso però appare strettamente legato alla tradizione italiana273. Le due possibilità precedenti sono invece attestate già in area provenzale: 1. la dama vi appariva già vittima della vanità, seduta per ore davanti allo specchio274, e 2. poi perfetta, culmine e summa del creato. Petrarca 1. Il mio adversario in cui veder solete / gli occhi vostri ch’Amore e ‘l ciel honora, / colle non sue bellezze v’innamora / più che ‘n guisa mortal soavi et liete. / […] / Non devea specchio farvi per mio danno, / a voi stessa piacendo, aspra et superba275 (son. 45, vv 111) Ma più ne colpo i micidiali specchi276, / che ‘n vagheggiar voi stessa avete stanchi277 (son. 46, vv 7-8) 2. Novella d’esta vita che m’addoglia / furon radice, et quella in cui l’etade / nostra si mira, la qual piombo o legno / vedendo è chi non pave (canz. 29, vv 25-29) O fiamma, o rose sparse in dolce falda / di viva neve, in ch’io mi specchio et tergo (son. 146, vv 5-6) 272 Bibliografia sul motivo topico si trova in Santagata 1996, p. 1210. Per tale ragione non ne teniamo conto in questa sede. 274 Per tale aspetto facciamo soprattutto riferimento a Bernart de Ventadorn. 275 Altri due passi in cui compare lo specchio nella sua accezione realistica (sonn. 168 e 361) sono riferiti al poeta e alla sua presa di coscienza del tempo che passa e dell’età che avanza. 276 Deve trattarsi degli occhi, che uccidono con lo sguardo che fa innamorare; tuttavia è sottintesa anche l’idea dello specchio, visto che Laura è di nuovo colta nell’atto di ammirare se stessa, come nel brano precedente. I due usi convenzionali si sovrappongono ed intrecciano. 277 Va notato come Petrarca riproponga l’immagine di Laura-Narciso in un’unità testuale unitaria, a formare un ciclo coeso. 273 318 Le stelle, il cielo et gli elementi a prova / tutte lor arti et ogni extrema cura / poser nel vivo lume, in cui Natura / si specchia, e ‘l sol ch’altrove par non trova (son. 154, vv 1-4) Così lo spirto d’or in or vèn meno / a quelle belle care membra honeste / che specchio eran di vera leggiadria (son. 184, vv 9-11) Né altro sarà mai ch’al cor m’aggiunga, / sì seco il seppe quella seppellire / che sola agli occhi miei fu lume et speglio (son. 312, vv 9-11) Taciti sfavillando oltra lor modo, / dicean: - O lumi amici che gran tempo / con tal dolcezza feste di noi specchi278 (son. 330, vv 9-10)279. Trovatori 1. Domna, maldit sion miraill! (Raimbaut d’Aurenga, XXIII, v 119) Be deuri’aucire / qui anc fetz mirador, / can ben m’o cossire, / no n ai guerrer peyor. / Ja l jorn qu’ela s mire / ni pens de sa valor, / no serai jauzire / de leis nide s’amor (Bernart de Ventadorn, XXV, vv 41-48) Que, quan ve el mirador, / la gran beutat que l’enansa, / remebran son pretz aussor, / tem que non denh penr’esmansa (Sordello, XII, vv 22-25) Mas qan si ve dinz son miraill / color de robin ab cristal (Raimbaut de Vaqueiras, VII, vv 45-46) De Joy Novelh me tenc be per paguat, / no l’enguana de re lo miradors (Daude de Pradas, III, vv 45-46). 2. Miralhs, pus me mirei en te (Bernart de Ventadorn, XLIII, v 21) En leis sembla qe i a mirail (Giraut de Bornelh, XIX, v 20) Sapchatz, miraill, c’aisi es mos amars / en liei, que totz m’es faillitz mos agaitz (Elias Cairel, XIV, vv 43-44) […] Ni ‘n tan clar mirador / no is taing que ja s’esagart hom ni s remire (Rambertino Buvalelli, VI, vv 44-45) Car mos cors es miraillz de sa faiso (Aimeric de Belenoi, V, v 15) E miraill de beutat (Arnaut de Maruelh, VI, v 27) Quo l bazalesc qu’ab joy s’anet aucir, / quant el miralh se remiret e s vi, / tot atressi etz vos miralhs de mi, / que m’aucietz quan vos vei ni us remir (Aimeric de Peguilhan, L, vv 29-32) Quar vos etz flors e miralhs de valor (Gaucelm Faidit, I, v 22) La belha qu’es flors e miralhs e lutz (Peire Raimon de Tolosa, XVI, v 13) Qu ill es mirails e flors / de totas las meillors (Peire Bremon Ricas Novas, XI, vv 25-26) 278 Da notare che al v 7 il poeta già scriveva: “come non vedestù nelli occhi suoi”, anticipando ed ampliando l’associazione occhi-specchi. 279 A questo gruppo di passi possiamo aggiungere ancora due occorrenze, diametralmente opposte. Da una parte, nella canzone 23 il comportamento duro di Laura è descritto come utile e formativo anche attraverso la metafora dello specchiarsi in Dio: “Et se contra suo stile ella sostene / d’esser molto pregata, in Lui si specchia, / et fal perché ‘l peccar più si pavente” (vv. 127-129). Dall’altra, nel sonetto 136 lo specchio, presentato in chiave reale e materiale, diviene strumento e simbolo della corrotta lussuria alla corte papale: “vanno trescando, et Belzebub in mezzo / co’ mantici et col foco et co li specchi” (vv 1011). 319 Sal d’aitan qu’om non pot issir / de brau amar, qu’e liei s remir (Folquet de Lunel, I, vv 23-24). 2.5 Il nome dell’amata Il tema del nome dell’amata è centrale, anche se in modo e per ragioni diverse, sia nell’ideologia cortese che nel Canzoniere280. Per i trovatori, come si è anticipato, la scelta di rivelare o meno l’identità dell’amata è gravida di significati, l’impegno nella scelta del senhal è essenziale (anche perché esso costituisce un ulteriore elemento distintivo di ciascun autore), la resistenza alla curiosità altrui è spesso ardua. Possiamo dunque schematizzare così il motivo del nome amato nei componimenti occitanici: uso del senhal, rifiuto di rivelare il nome, allusione al nome. Al contrario ciò che sempre deve essere rivelato in modo esplicito è l’identità del destinatario: nelle tornade elogiative dedicate a mecenati femminili, lodati in termini sostanzialmente amorosi, si crea una certa ambivalenza rispetto al nome sottaciuto dell’amata. Riprendendo probabilmente anche la tradizione del senhal, Petrarca crea continui giochi sul nome e sull’identità di Laura, attraverso le celebri isotopie di lauro, aura e auro. Inoltre, non mancano riferimenti più diretti, retoricamente mascherati come nel sonetto 5 oppure espliciti, fino all’uso semplice e univoco del nome “Laura”281. Si tenga dunque in conto in generale il riuso petrarchesco del senhal trobadorico nelle isotopie. Qui proponiamo piuttosto i riferimenti più diretti al nome, le cui occorrenze sono molto meno numerose (e in ambito occitanico anche molto più univoche)282. Petrarca Quando io movo i sospiri a chiamar voi, / e ‘l nome che nel cor mi scrisse Amore283 (son. 5, vv 1-2) Chiamando Morte, et lei sola per nome (canz. 23, v 140) Benedette le voci tante ch’io / chiamando il nome de mia donna ò sparte (son. 61, vv 910) Non è mancata omai la lingua e ‘l suono / dì et notte chiamando il vostro nome (son. 74, vv 7-8) Et voglio anzi un sepolcro bello et biancho, / che ‘l vostro nome a mio danno si scriva / in alcun marmo […] (son. 82, vv 5-7) 280 Per il gioco fonico-semantico sul nome di Laura (lauro-l’aura) si veda il capitolo primo. Il gioco sul nome dell’amata coinvolge importanti questioni cronologiche e redazionali: le isotopie, infatti, sono assenti nella primissima parte del Canzoniere (fino alla sestina 80), con l’eccezione del madrigale 52, per cui si ipotizza una composizione autonoma e galante, in cui la menzione dell’aura non avrebbe avuto alcun significato sottinteso, poi rifunzionalizzato dall’inserimento nella raccolta. 282 Va notato che l’ultima occorrenza di questo tipo vede lo spostamento da Laura alla Vergine, con la sostituzione del punto di riferimento, dalla dimensione sensuale a quella spirituale, cui ormai si è fatto più volte riferimento: “Vergine, i’ sacro et purgo / al tuo nome et penseri et ‘ngegno et stile” (vv 126-128). 283 Come si è anticipato nel corso del precedente capitolo, trattando delle strutture retoriche più marcate, il sonetto 5 continua con un doppio acrostico che rivela il nome dell’amata secondo due dizioni diverse, LAURET(T)A e LAUREA. 281 320 Né mi lece ascoltar chi non ragiona / de la mia morte; / et solo del suo nome / vo empiendo l’aere, che sì dolce sona (son. 97, vv 9-10) Però mi dice il cor ch’io in carte scriva / cosa, onde ‘l vostro nome in pregio saglia (son. 104, vv 5-6) Et così meco stassi, / ch’altra non veggio mai, né veder bramo, / né ‘l nome d’altra ne’ sospir’ miei chiamo (canz. 127, vv 96-98) Del vostro nome, se mie rime intese / fossin sì lunge, avrei pien Tile et Battro, / la Tana e ‘l Nilo, Atlante, Olimpo et Calpe (son. 146, vv 9-11) Stella difforme et fato sol qui reo / commise a tal che ‘l suo bel nome adora, / ma forse scema sue lode parlando (son. 187, vv 12-14) Laurea mia con suoi santi atti schifi (son. 225, v 10) Temprar potess’io in sì soavi note / i miei sospiri ch’addolcissen Laura284 (sest. 239, vv 78) Né ‘l pianger mio né i preghi pòn far Laura / trarre o di vita o di martir quest’alma (sest. 239, vv 23-24) Questa è del viver mio l’una colomna, / l’altra è ‘l suo chiaro nome, / che sona nel mio cor sì dolcemente (canz. 268, vv 48-50) Anzi la voce al suo nome rischiari, / se gli occhi suoi ti fur dolci né cari (canz. 268, vv 7677) Et dico sospirando: Ivi è Laura ora (son. 291, v 4) Né di sé m’à lasciato altro che ‘l nome (son. 291, v 14) Forse averrà che ‘l bel nome gentile / consecrerò con questa stanca penna (son. 297, vv 13-14) Consecrata fra i nobili intellecti / fia del tuo nome qui memoria eterna (son. 327, vv 1314) Or avess’io un sì pietoso stile / che Laura mia potesse torre a Morte (sest. 332, vv 49-50). Trovatori Eu non aus dir qui m’aflama (Arnaut Daniel, VII, v 27) Pero non l’aus nomnar / per paor d’encuzar / qe l dreices lo coissi (Giraut de Bornelh, XLVIII, vv 62-64) Vezer volgra N’ Ezelgarda285 (Peire de la Valeria, II, v 1) Ab cui eu m’apel Tristan / e tot per aital semblan / a m pres per entendedor (Bertran de Born, XXIX, vv 60-62) 284 Nella sestina 239 Petrarca sceglie tra le parole-rima la forma “aura”, che risulta così in particolare evidenza. Va sottolineato che a livello paleografico mancando d’abitudine i segni d’interpunzione come l’apostrofo, le voci l’aura e laura sono esattamente omografe; in questo verso però il contesto permette un’interpretazione a favore del nome dell’amata. Noteremo anche che esso compare in modo così esplicito già nella prima sezione e dunque prima della morte di Laura, anche se si tratta solo di due occorrenze e nel medesimo testo, e comunque oltre la metà della raccolta: in questo Petrarca rifiuta l’esempio della Vita nova, in cui il nome di Beatrice viene citato in modo chiaro e diretto solo dopo la dipartita dell’amata. 285 Per alcuni trovatori, come si vede, indicare esplicitamente il nome della dama non costituisce un problema. Non è del tutto chiaro, però, quanto il personaggio specifico dovesse essere riconoscibile per un lettore o ascoltatore dell’epoca, soprattutto in un’area diversa da quella d’origine, in mancanza di indicazioni che andassero al di là del solo nome proprio. Come è ovvio data la diversa funzione comunicativa, dediche e tornade sono molto più dettagliate in proposito. 321 De lieis lauzar no serai trop parliers, / qu’entendrion de cui sui cavalliers / s’ieu dizia lo quart de sa valensa (Raimon Jordan, XII, vv 55-57) La bela Na Guilhalmona, / ni es falsa ni felona (Peire Vidal, VI, vv 26-27) Q’en deu esser plus gaia ma chanssos / sol car li platz que sos bels noms i fos (Gaucelm Faidit, XI, vv 8-9) Na Maria, pretz e fina valors (Na Bieirs de Romans, I, v 1) Bels Noms, ges no m recré / de vos amar jassé (Castelloza, II, vv 59-60) Que de midonz Na Maria / parles re que fos benestan (Gui d’Ussel, V, vv 62-63) Bella Lionors, guirenssa / trob’ ab vos pretz ses faillenssa (Arnaut Catalan, II, vv 41-42) Qu’escriut m’a mos Noms Verais (Bartolomé Zorzi, IV, v 8) Le noms ditz qui l sap declarar, / qu’es clar’e munda de follia (Guilhem de Montanhagol, VII, vv 39-40). 3. Aspetti positivi dell’amore La vicenda amorosa non può essere soltanto negativa. Momenti di gioia, la sensazione che la speranza possa giungere a reale compimento, l’impressione che la dama si preoccupi per chi la adora sono tutti aspetti necessari sia a giustificare l’attaccamento amoroso, sia a far sì che la vicenda stessa si prolunghi, confermando l’io lirico nel suo desiderio passionale, sia infine a garantire una certa varietà di toni e situazioni a livello poetico. Nel corpus occitanico la distinzione tra momenti di disperazione e fasi di estasi è piuttosto rigida, anche se essi possono susseguirsi all’interno del medesimo componimento. Ad esempio, in una circostanza di perfetta soddisfazione può intervenire un improvviso cambiamento, magari giustificato da una colpa dello stesso poeta; oppure, a fronte di una profonda prostrazione, egli può riscoprire un’incrollabile fiducia. In assenza di raccolte preordinate, manca l’impressione di un’evoluzione lineare tra uno stato d’animo o un atteggiamento e l’altro. Resta chiaro comunque che l’esperienza amorosa è fatta di alti e bassi, in una costante contraddittorietà. Tali elementi si ripropongono senza dubbio nel Canzoniere petrarchesco, dove forse la proporzione tra momenti felici e drammatici è più sbilanciata a favore del secondo aspetto, che in ogni caso appare preminente anche per i trovatori. La vera differenza, però, risiede nella costruzione unitaria della raccolta, in cui le diverse prospettive si susseguono secondo una linea di certo non univoca né sempre coerente, ma continua. Si pensi ad esempio alla coesa serie 205-207 in cui il sonetto rappresenta il culmine di una fase serena, che porta il poeta ad affermazioni esplicite sui suoi sentimenti; l’escondich costituisce un momento di passaggio in cui scusandosi l’innamorato cerca di ripristinare l’idillio incrinato, mentre la canzone attesta in modo esplicito la fine della gioia e l’inizio di nuovi tormenti. Anche l’interpretazione dei cosiddetti “aspetti stilnovistici” del Canzoniere è interessante a questo proposito286. Infatti, l’attribuzione di un valore salvifico all’amore e all’amata comporta una concezione positiva delle fatiche e delle 286 Si è anticipato il riferimento a tale aspetto del Canzoniere e alla zona che più ne è caratterizzata nel precedente capitolo (e in parte anche nel primo). 322 sofferenze, che possono con ciò essere accolte e non solo lamentate. Ad esempio, le “canzoni sorelle” tentano di procedere in tale direzione, anche se non riescono ad escludere del tutto la componente disforica e contraddittoria dell’amore. Anche la morte di Laura, paradossalmente, non porta solo una nuova forma di dolore, ma anche una rinnovata possibilità di contatto e conforto (visioni), nonché di salvezza (la consapevolezza delle ragioni del diniego, le parole che invitano al cielo). In definitiva, quella contraddittorietà tra gioia/sofferenza sempre tipica dell’amore e ben riconoscibile nel complesso dei canzonieri cortesi assume nuovi significati e funzioni nella struttura innovativa della raccolta petrarchesca. Cercheremo ora di approfondire alcuni elementi convenzionali nell’espressione dell’estasi amorosa (dolcezza, effetti della visione), alcuni dettagli positivi nel rapporto con l’amata (pegni), infine e soprattutto gli esiti vantaggiosi che possono derivare all’io poetico sul piano spirituale. 3.1 La dolcezza Il campo semantico della dolcezza è forse il più frequente nella rappresentazione delle gioie amorose. È l’effetto che emana da madonna, capace di lenire le sofferenze pur costanti e non a caso spesso inserito in coppie ossimoriche, come nel caso, già visto in riferimento alla rappresentazione dell’amata, della “dolce nemica”. Possiamo distinguere tra brani in cui il poeta dichiara di essere conquistato dalla dolcezza ed altri in cui la sua percezione resta implicita; qui l’espressione del concetto è affidata semplicemente all’aggettivazione287. Petrarca Et s’i’ ò alcun dolce, è dopo tanti amari, / che per disdegno il gusto si dilegua: / altro mai di lor gratie non m’incontra288 (son. 57, vv 12-14) Dico ch’ad ora ad ora, / vostra mercede, i’ sento in mezzo l’alma / una dolcezza inusitata et nova (canz. 71, vv 76-78) Così de lo mio core, / quando tanta dolcezza in lui discende, / ogni altra cosa, ogni penser va fore, / et solo ivi con voi rimanse Amore. / Quanta dolcezza unquancho / fu in cor d’aventurosi amanti, accolta / tutta in un loco, a quel ch’i’ sento è nulla (canz. 72, vv 4148) Ma non in guisa che lo cor si stempre / di soverchia dolcezza, com’io temo, / per quel ch’i’ sento ov’occhio altrui non giugne (canz. 73, vv 7-9) Onde più volte sospirando indietro / dissi: Oimè, il giogo et le catene e i ceppi / eran più dolci che l’andare sciolto (son. 89, vv 9-11) 287 Le occorrenze di questo secondo tipo sono numerosissime e molto sintetiche e dunque in questa sede è preferibile tralasciarle, prestando maggiore attenzione ai luoghi in cui sia chiaramente coinvolta la dimensione emotiva dell’io poetico. 288 Anche il lamento per la gioia insufficiente è topico e come tale lo riportiamo. L’immagine proposta dal sonetto 57, comunque, ricorda per contrasto un altro topos molto diffuso in ambito trobadorico: la gioia si gusta di più quando giunge dopo numerose sofferenze. 323 L’aura soave che dal chiaro viso / move col suon de le parole accorte / per far dolce sereno ovunque spira (son. 109, vv 9-11) Pien di quella ineffabile dolcezza / che nel viso trassen gli occhi miei (son. 116, vv 1-2) Et son di là sì dolcemente accolti (son. 117, v 9) L’amar m’è dolce, et util il mio danno (son. 118, v 5) Per più dolcezza trar degli occhi suoi (canz. 119, v 34) Così sempre io corro al fatal mio sole / degli occhi onde mi vèn tanta dolcezza (son. 141, vv 5-6) Trovo la bella donna allor presente / ovunque mi fu mai dolce o tranquilla (son. 143, vv 5-6) Ma freddo foco et paventosa speme / de l’alma che traluce come un vetro / talor sua dolce vista rasserena (son. 147, vv 12-14) Per quel ch’io sento al cor gir fra le vene / dolce veneno, Amor, mia vita è corsa (son. 152, vv 7-8) Tanta negli occhi bei for di misura / par ch’Amore et dolcezza et gratia piova. / L’aere percosso da’ lor dolci rai / s’infiamma d’onestate […] (son. 154, vv 7-10) Qual dolcezza è ne la stagione acerba / vederla ir sola coi pensier’ suoi inseme (son. 160, vv 12-13) Così sol d’una chiara fonte viva / move ‘l dolce et l’amaro ond’io mi pasco (son. 164, vv 9-10) Ma ‘l suon che di dolcezza i sensi lega (son. 167, v 9) Amor mi manda quel dolce pensero / che secretario anticho è fra noi due (son. 168, vv 12) Forma senz’arte un sì caro monile, / ch’ogni cor addolcisce, e ‘l mio consuma (son. 185, vv 3-4) Dolce del mio penser hora beatrice (son. 191, v 7) Vedi ben quanta in lei dolcezza piove (son. 192, v 3) Nel qual provo dolcezze tante et tali (son. 194, v 9) Da ta’ duo luci è l’intellecto offeso, / et di tanta dolcezza oppresso et stanco (son. 198, vv 13-14) Dolci ire, dolci sdegni et dolci paci, / dolce mal, dolce affanno et dolce peso, / dolce parlare, et dolcemente inteso, / or di dolce òra, or pien di dolci faci289 (son. 205, vv 1-4) Ch’i’ non vo’ dir di lei: ma chi la scorge, / tutto ‘l cor di dolcezza et d’amor gli empie, / tanto n’à seco, et tant’altrui ne porge; / et per far mie dolcezze amare et empie, / o s’infinge o non cura, o non s’accorge, / del fiorir queste inanzi tempo tempie (son. 210, vv 9-14) Et non so che nelli occhi, che ‘n un punto / pò far chiara la notte, oscuro il giorno, / e ‘l mèl amaro, et adolcir l’assentio (son. 215, vv 12-14) Amor con tal dolcezza m’unge et punge (son. 221, v 12) Quel pò solo adolcir la doglia mia (son. 223, v 14) Cantai, or piango, et non men di dolcezza / del pianger prendo che del canto presi (son. 229, vv 1-2) Sì dolce è del mio amaro la radice (son. 229, v 14) 289 In questo passo l’elemento più interessante, al di là del prolungato ossimoro, è proprio la ripetizione del termine “dolce” o di suoi derivati, che mette bene in luce la natura ossessiva del sentimento e la pervasività dei suoi effetti. Il termine torna per altro ancora tre volte oltre la prima quartina. 324 Sì dolcemente i pensier’ dentro a l’alma / mover mi sento a chi li à tutti in forza (sest. 239, vv 4-5) Et se talor da’ belli occhi soavi, / ove mia vita e ‘l mio pensero alberga, / forse mi vèn qualche dolcezza honesta (son. 253, vv 9-11) L’alma tra l’una et l’altra gloria mia / qual celeste non so novo dilecto / et qual strania dolcezza si sentia (son. 257, vv 12-14) Vive faville scian de’ duo bei lumi / ver’ me sì dolcemente folgorando (son. 258, vv 1-2) Già sai tu ben quanta dolcezza porse / agli occhi tuoi la vista di colei (canz. 264, vv 3738) L’altra è ‘l suo chiaro nome, / che sona nel mio cor sì dolcemente (canz. 268, vv 49-50) Tornami avanti, s’alcun dolce mai / ebbe ‘l cor tristo […] (son. 272, vv 9-10) Secondo lei conven mi regga et pieghi, / per la dolcezza che del suo dire prendo, / ch’avria vertù di far piangere un sasso (son. 286, vv 12-14) Quel rosignuol, che sì soave piagne / forse suoi figli o sua cara consorte, / di dolcezza empie il cielo et le campagne (son. 311, vv 1-3) Qual dolcezza fu quella, o misera alma! (son. 314, v 9) Spirto già invicto a le terrene lutte, / ch’or su dal ciel tanta dolcezza stille (322, vv 5-6) Ivi m’assisi; et quando / più dolcezza prendea di tal concento / et di tal vista, aprir vidi uno speco (canz. 323, vv 43-45) Con quella man che tanto desiai, / m’asciuga li occhi, et col suo dir m’apporta / dolcezza ch’uom mortal non sentì mai (son. 342, vv 9-11) Ripensando a quel ch’oggi il ciel honora, / soave sguardo, al chinar l’aura testa, / al volto, a quella angelica modesta / voce che m’adolciva, et or m’accora (son. 343, vv 1-4). Trovatori Que na devisa Messoigna, / que tant soaument caloigna, / mens poiria falsar un fil (Arnaut Daniel, IV, vv 30-32) La dousa votz ai auzida / del rosinholet sauvatge290 / et es m’ins el cor salhida / si que tot lo cosirer / e ls mal trahiz qu’amors me dona, / m’adousa e m’asazona291 (Bernart de Ventadorn, XXIII, vv 1-6) Ab atraich d’amor doussana (Jaufré Rudel, III, v 12) Aitant doussament m’apaia / quanz q’iqu aia / de turmens / sos francs cars humils parvens (Uc de Saint Circ, V, vv 19-22) Que, quant en re m’azir, / del doutz pensar pert l’ir’ab l’esjauzir (Rigaut de Berbezilh, III, vv 32-33) Tot jorn perpren e m creis e m nais / uns rams de joi plens de dousor (Cercamon, IX, vv 37-38) Mi ven mesclamens la sabor / si qu’e la boca m nais dossors (Folchetto da Marsiglia, IX, vv 34-35) Qe dolsors m’es qar ma dols’amia (Sordello, XXXVIII, v 3) 290 L’effetto consolatorio della natura è ben attestato anche in Petrarca, in associazione con il tema della testimonianza naturale e con quello della ricerca di solitudine. 291 Il brano propone entrambe le accezioni tipiche dell’immagine, qui riferita non direttamente alla dama, come è più tipico, ma comunque a circostanze amorose: da una parte la semplice aggettivazione – che anche nei trovatori come in Petrarca è la soluzione più frequente – dall’altra nella rappresentazione dello stato intimo dell’io lirico. 325 Et estai si dedinz tant doussamen / que mais no i pot intrar autre penssiers (Rambertino Buvalelli, VII, vv 3-4) E pero tan gran dousor / ai al cor d’una honor (Aimeric de Belenoi, VIII, vv 10-11) Et a m tant de doussor / lo vostr’enseignamens (Arnaut de Maruelh, VI, vv 20-21) Tant m’es dous e fis sos vezers, / pel ioy que m n’es al cor assis (Peire d’Alvernha, XII, vv 36-37) Del solas qu’era m pejura, / que m demostret dous e plazen (Raimon de Miravall, II, vv 11-12) Amors mi te jauzet e deleitos, / Amors mi ten en son dous recaliu (Peire Vidal, XXIX, vv 9-10) A fin’Amor grazisc lo douz dezir / que m fai estar en tant fina doussor (Perdigon, II, vv 10-11) Tant doussamen mi ven nafrar e poigner / q’ieu non o sen, ni no sai ab qe m poing (Aimeric de Peguilhan, XLVII, vv 25-26) D’una doussor d’amor qe m venc ferir (Gaucelm Faidit, XVII, v 14) C’al departir me dones un dolz bais / tan dolzemen lo cor del cors me trais (Folquet de Romans, II, vv 2-3) Que tant vas lieis s’umelia / mos cors d’umelian dousor / qe m teing per pagatz de dolor (Lanfranco Cigala, I, vv 55-57) Nuills hom no s’auci tan gen / ni tan dousamen / ni fai son dan ni folleia / cum cel qu’en amor s’enten (Peirol, III, vv 1-4). 3.2 Pegni d’amore Il segno palese e materiale dell’esistenza di una relazione amorosa con la dama, o per lo meno dell’accettazione da parte sua del corteggiamento del poeta, è il pegno. La sua importanza è perciò evidente e non a caso esso costituisce un topos ben attestato nelle opere trobadoriche292. Qualche traccia dell’immagine convenzionale si ripropone anche nel Canzoniere, dove però l’unico pegno che conta per il poeta è l’amata stessa, mentre i simboli tipici della metafora feudale (anello, cintura e così via) non compaiono più. Petrarca Quanto il sol gira, Amor più caro pegno, / donna, di voi non ave (canz. 29, vv 57-58) Caro, dolce, alto et faticoso pregio293 (sest 214, v 13) Dolce mio caro et precioso pegno / che Natura mi tolse, e ‘l Ciel mi guarda (son. 340, vv 1-2)294. 292 Tuttavia nella maggior parte dei casi più che di un oggetto specifico (di solito topico e feudale, come la cintura o l’anello), il poeta parla di un generico “dono” da parte dell’amata. In generale l’idea del pegno è implicitamente associata a quella del patto amoroso, che il pegno suggella e garantisce: anche questo è un motivo piuttosto diffuso in area provenzale, nonostante l’amore del poeta sia nella maggior parte dei casi non ricambiato o comunque non ricambiato appieno. 293 Questa occorrenza non è precisa quanto le altre rispetto alle immagini in questione; tuttavia il termine pregio qui comprende il significato di “oggetto prezioso” e quello di “premio” (si veda Santagata 1996, p. 919), entrambi coerenti con l’idea del pegno. 326 Trovatori Que ges lanza ni cairel / non tem, ni brans asseris, / can bai ni mir son anel (Raimbaut d’Aurenga, XXIX, vv 57-59) Anz que trop s’agazaill / ni don ganz ni fermaill295 (Giraut de Bornelh, XLVI, vv 72-73) E qe m donet un don tan gran, / sa drudari’e son anel (Guglielmo IX, IX, vv 21-22) Bella dompna, aitant arditz e plus / fui qan vos quis la joia del cabeill (Raimbaut de Vaqueiras, X, vv 25-26) Per que fora dreitz e razos / qe m n’avengues calq’ onratz dos (Rambertino Buvalelli, III, vv 39-40) Que l do que m detz, domn’ ab digz amoros, / me creis el cor, per qu’eu sui d’engan blos (Arnaut de Maruelh, XXI, vv 20-21) Et apres, mangas e cordos (Raimon de Miravall, XXXII, vv 12) Quant ieu remir mon anel (Peire Vidal, I, v 26) Si fos per amor donatz / us cordos, qu’a dreg solatz / n’issi’ acortz e covitz (Aimeric de Peguilhan, XXXIV, vv 34-36) Qan preses mon anellet d’or (Folquet de Romans, XIV, v 57) E no us cuidetz q’ieu m’oblit lo cordon / qe m det l’altrier de sa gonella groga (Guilhem de Berguedà, II, vv 8-9) Ja no m man letra ni sagelh, / ni no m don cordo ni anelh (Daude de Pradas, XI, vv 4748). 3.3 Effetti positivi della visione L’incontro con l’amata e la sua visione hanno in prevalenza esiti sconvolgenti sul poeta, che si sente svenire, è incapace di parlare e insomma è impedito di tutte le proprie facoltà. Tuttavia non mancano anche effetti positivi296, che possono accompagnarsi a quelli dolorosi e talvolta essere addirittura preminenti. In entrambi i casi comunque si riconfermano l’influenza e il dominio che la dama vanta sul poeta, nonché la natura straordinaria e a volte paradossale della sua condizione. Petrarca Vero è che ‘l dolce mansueto riso / pur acqueta gli ardenti miei desideri, / et mi sottragge al foco de’ martiri, / mentr’io son a mirarvi intento et fiso (son. 17, vv 5-8) 294 Il termine pegno torna anche nel sonetto 39, v 14, dove però il poeta si riferisce a se stesso e alla sua fede: a seconda di come si interpreti il destinatario, Giovanni Colonna o Laura, la fede sarà quella del cliente verso il patrono o quella amorosa. 295 Il poeta qui non si riferisce tanto a se stesso e alla sua dama, quanto ai meccanismi dell’amore fino in generale, che propone in qualità di esperto e maestro. È interessante inoltre la scelta degli oggetti, poiché sia guanto che fermaglio hanno acquisito una precisa valenza simbolica di carattere feudale. 296 Non a caso il desiderio di tornare a vedere l’amata è un topos ben attestato, sia nelle opere provenzali che nei versi petrarcheschi. 327 Et se pur s’arma talor a dolersi / l’anima a cui vien mancho / consiglio, ove ‘l martir l’adduce in forse, / rappella lei da la sfrenata voglia / sùbita vista, ché del cor mi rade / ogni delira impresa, et ogni sdegno / fa ‘l veder lei soave (canz. 29, vv 8-14) Che quando io mi ritrovo dal bel viso / cotanto esser diviso, / col desio non possendo mover l’ali, / poco m’avanza del conforto usato (canz. 37, vv 28-31) Di sospir’ molti mi sgombrava il petto, / che ciò ch’altri à più caro, a me fa vile: / però che ‘n vista ella si mostra humile / promettendomi pace ne l’aspetto (son. 78, vv 5-8) Or mi ritrovo pien di sì diversi / piaceri, in quel saluto ripensando, / che duol non sento, né sentì’ mai poi (son. 111, vv 12-14) Pien di quella ineffabile dolcezza / che del bel viso trassen gli occhi miei / […] / lassai quel ch’i’ più bramo […] (son. 116, vv 1-5) Conobbi allor sì come in paradiso / vede l’un altro, in tal guisa s’aperse / quel pietoso penser ch’altri non scerse: / ma vidil’io, ch’altrove non m’affiso (son. 123, vv 5-8) Ma freddo foco et paventosa speme / de l’alma che traluce come un vetro / talor sua dolce vista rasserena (son. 147, vv 12-14) Sì come eterna vita è veder Dio, / né più si brama, né bramar più lice, / così me, donna, il voi veder, felice / fa in questo breve et fraile viver mio (son. 191, vv 1-4) Solea lontana in sonno consolarme / con quella dolce angelica sua vista / madonna; or mi spaventa et mi contrista (son. 250, vv 1-3) A me pur giova di sperare anchora / la dolce vista del bel viso adorno, / che me mantene, e ‘l secol nostro honora (son. 251, vv 9-11) Già sai tu ben quanta dolcezza porse / agli occhi tuoi la vista di colei (canz. 264, vv 3738) Quanto gradisco che’ miei tristi giorni / a rallegrar de tua vista consenti! (son. 282, vv 56) Sì ‘ntentamente ne l’amata vista / requie cercavi de’ futuri affanni (son. 314, vv 3-4) L’aura et l’odore e ‘l refrigerio et l’ombra / del dolce lauro et sua vista fiorita, / lume et riposo di mia stanca vita (son. 327, vv 1-3) Beata s’è, che pò beare altrui / co la sua vista, over co le parole (son. 341, vv 9-10) Con quella man che tanto desiai, / m’asciuga li occhi, et col suo dir m’apporta / dolcezza ch’uom mortal non sentì mai (son. 342, vv 9-11). Trovatori C’anc nuilla sazo non fo, / s’ieu vis sa gaia fasso, / que anc trebailla ni dan / sentis ni mal ni affan (Uc de Saint Circ, V, vv 15-18) Mot me platz quant eu la remir: / tot lo cor mi fai esbaudir (Rigaut de Berbezilh, IV, vv 24-25) Dompna, tot eissamenz / com eu sui doloros / quan eu me loing de vos, / sui eu sobrejauzens / qan me retorn’amors / lai on eu vos revei (Sordello, XXXVII, vv 1-6) Que la nuoich fai parer dia / la gola, e qi n vezia / plus en jos, / totz lo mons en genssaria297 (Bertran de Born, VIII, vv 45-48) Que qui la ve totz temps sera joios (Rambertino Buvalelli, VI, v 30) 297 Il topos appare qui rinnovato sia dall’applicazione esplicitamente erotica, sia dall’incontro con immagini adynatiche. 328 Quan son bel vis clar / e son gen cors remire, / dreit e benestan; / et ai joya tan gran / can mi fai bel semblan / d’amor, que par que m ria (Gaucelm Faidit, XXXIV, vv 57-62) Mas, can sai c’a vos deing venir / e sai qe vos veiran miei oill, / tant de joi’ e mon cor acoill / e tan son joios miei cossir (Guilhem de la Tor, XII, vv 41-44) Quan vostra fresca color / avinen ses maestria / ni l vostre gen cors remir, / sui tan jauzens qu’al partir / m’en creis ir’ e feunia (Cadenet, II, vv 49-53). 3.4 Migliorare attraverso l’amore L’effetto positivo dell’amore – ovviamente l’amore nobile e puro – si delinea a livello spirituale: educato dall’esempio di madonna e ispirato dai sentimenti amorosi l’amante vive un processo di innalzamento interiore. Tale miglioramento costituisce in effetti il fine ultimo dell’amore cortese e ne giustifica sia i tormenti sia le trasgressioni sociali. Come è noto, sarà lo Stil Novo a reinterpretare tali prospettive, in Provenza ancora legate ai meccanismi e ai valori mondani e cortigiani, nell’ottica di una vera e propria evoluzione interiore e spirituale, in linea con il generale spostamento della poetica amorosa dall’esteriorità all’interiorità. Il culmine di tale processo si deve a Dante e alla Vita nova, in cui la questione si fa morale e religiosa: il ruolo dell’amata, la sua morte e i contatti che ella rinnova dall’aldilà sono dunque concertati in chiave strettamente cristiana. Tale progresso nei contenuti della lirica rappresentava una tradizione celebre e recente, che non poteva non lasciare il segno nel Canzoniere, dove in effetti sono state riconosciute “fasi” o “svolte” stilnovistiche, con particolare riferimento alla serie delle canzoni 70-73. Tuttavia il rapporto con i modelli stilnovistici e soprattutto con Dante e il suo prosimetro è tutt’altro che lineare: la rivalutazione dell’amore e della sua valenza spirituale non è né completa, né pacifica, né definitiva298. In tal senso si sono rivelate essenziali l’attenta lettura delle “canzoni degli occhi” – soprattutto di 73 – e lo studio parallelo del Secretum299; d’altronde potremmo sottolineare anche l’importanza in tal senso di tutti i momenti di alternanza o ambivalenza che segnano la vicenda amorosa, ben oltre quella che tradizionalmente è definita “cesura stilnovista” e in fondo anche dopo la morte di Laura, tra rimpianti, consolazione e nuovi bisogni. Si pensi semplicemente alla canzone 207, che dichiara terminato un tempo in cui l’aiuto e il sostegno dell’amata non era venuto meno, riaprendo una stagione di sofferenze, in cui il poeta ricade in logiche che sembravano ormai superate. Petrarca dunque non accetta i risultati dei suoi antecedenti in modo passivo, ma li inserisce nella travagliata e complessa vicenda del Canzoniere, adattandoli alla sua problematicità e mancanza di risoluzione definitiva. A questo si aggiunga che le occorrenze interessanti in proposito sono anche anteriori alle “canzoni sorelle” e in un 298 Tali aspetti sono già stati anticipati nel corso del capitolo precedente; si fa particolare riferimento alle letture in Praloran 2007 e Berra 2010. 299 Nel Secretum infatti Agostino condanna l’amore terreno in tutte le sue forme, negando che esistano sentimenti tali da comportare una reale crescita interiore: il processo verso l’amore di carità è tutt’altro. Per l’importanza di tale analisi in parallelo e gli aspetti di cronologia delle opere petrarchesche si veda in particolare Berra 2010. 329 caso incontrano un celebre luogo d’ispirazione occitanica, la canzone 29300. Si aggiunga infine un ultimo fattore: in alcuni casi e ancora nella canzone 72, che rappresenta il culmine della svolta “dolce” e “stilnovistica” prima della ricaduta in 73, l’autore associa alla capacità educativa e morale dell’amore l’utile effetto di distinguere dal volgo301, secondo una prospettiva molto terrena e sociale, del tutto coerente con la tradizione cortese. Per questo appare legittimo ed interessante riflettere anche sui modelli più lontani, la cui concezione di un amore utile e formativo era sì trattata in modo più superficiale, ma comunque tanto certa e radicata da costituire un vero e proprio topos. Né con ciò si intende suggerire che il cantore di Laura non abbia tenuto in debito conto la lezione stilnovistica, come risulta al contrario dagli spogli lessicali e stilistici, o che non abbia anche in questo caso imposto la propria personale interpretazione. Due elementi in particolare appaiono profondamente innovativi: l’esplicita presa di coscienza del valore positivo del diniego subito mentre l’amata era in vita e le apparizioni di Laura defunta, volte sì alla consolazione, ma anche all’esortazione. La costruzione petrarchesca appare così stratificata e molteplice: una forte componente penitenziale cristiana, che caratterizza in generale il Canzoniere e che trova un veicolo efficace nell’esempio postumo di Laura; la natura positiva di Laura, che ha saputo gestire e guidare anche oltre la propria dipartita i desideri illegittimi dell’io poetico; l’importanza del diniego, che non cancella la tensione ed anzi di fatto la mantiene. Ai tre aspetti sembrano corrispondere tre prospettive diverse, contrastanti e forse anche contraddittorie dell’amore, che pure convivono nella raccolta: amore terreno, suscitato da desiderio carnale, che dunque va abbandonato; amore puro che rimane casto e fornisce un esempio educativo; amore alto che distingue e nobilita socialmente. Si può dunque ipotizzare una triplice visione, sintetizzata nell’innovazione petrarchesca: cristiana, post-stilnovistica, erede della tradizione cortese. Petrarca Da lei ti vèn l’amoroso pensero, / che mentre ‘l segui al sommo ben t’invia, / pocho prezando quel ch’ogni huom desia (son. 13, vv 9-11) Et se contra suo stile ella sostene / d’esser molto pregata, in Lui si specchia, / et fal perché ‘l peccar più si pavente: / ché non ben si ripente / de l’un mal chi de l’altro s’apparecchia (canz. 23, vv 126-131) Né quella prego che però mi scioglia, / ché men son dritte al ciel tutt’altre strade, / et non s’aspira al glorioso regno / certo in più salda nave (canz. 29, vv 39-42) Che l’essermi contesa / quella benigna angelica salute / che ‘l mio cor a vertute / destar solea con una voglia accesa (canz. 37, vv 91-94) 300 Anche la canzone 29, come le “canzoni degli occhi” e il Secretum, chiama in causa dibattute questioni cronologiche. Come si è già suggerito, se effettivamente la sua data potesse essere abbassata agli anni ’50, per lo meno a livello di revisione, la coincidenza tematica di questo passo con il gruppo 71-73 risulterebbe avvalorata. 301 Il disprezzo per il volgo è un altro topos ampiamente diffuso e ben attestato in Petrarca, che si riscontra già in alcuni testi trobadorici, in primo luogo come motivazione a sostegno di uno stile difficile e ricercato. Si legga ad esempio la canzone 31 di Raimbaut d’Aurenga, vv 1-7. 330 Gentil mia donna, i’ veggio / nel mover de’ vostr’occhi un dolce lume / che mi mostra la via ch’al ciel conduce (canz. 72, vv 1-3) Questa è la vista ch’a ben far m’induce, / et che mi scorge al glorioso fine; / questa sola dal vulgo m’allontana (canz. 72, vv 7-9) Poi ch’io li vidi in prima, / senza lor a ben far non mossi un’orma: / così gli ò di me posti in su la cima, / che ‘l mio valor per sé falso s’estima302 (canz. 73, vv 57-60) Et son fermo d’amare il tempo et l’ora / ch’ogni vil cura mi levar d’intorno; / et più colei, lo cui bel viso adorno / di ben far co’ suoi exempli m’innamora (son. 85, vv 5-8) L’opra è sì altera, sì leggiadra et nova / che mortal guardo in lei non s’assecura303 (son. 154, vv 5-6) L’aere percosso da’ lor dolci rai / s’infiamma d’onestate, et tal diventa, / che ‘l dir nostro e ‘l penser vince d’assai. / Basso desir non è ch’ivi si senta, / ma d’onor, di vertute: or quando mai / fu per somma beltà vil voglia spenta? (son. 154, vv 9-14) Ch’altro lume non è ch’infiammi et guide / chi d’amar altamente si consiglia304 (son. 160, vv 7-8) Nel qual honesto amor chiaro revela / sua dolce forza et suo santo costume (son. 230, vv 3-4) Ma tu, ben nata che dal ciel mi chiami, / per la memoria di tua morte acerba / preghi ch’i’ sprezzi ‘l mondo e i suoi dolci hami (son. 280, vv 12-14) […] et nel parlar mi mostra / quel che ‘n questo viaggio fugga o segua, / contando i casi de la vita nostra, / pregando ch’a levar l’alma non tarde (son. 285, vv 10-13) Ir dritto, alto, m’insegna; et io, che ‘ntendo / le sue caste lusinghe e i giusti preghi / col dolce mormorar pietoso et basso, / secondo lei conven mi regga et pieghi (son. 286, vv 912) Or comincio a svegliarmi, et veggio ch’ella / per lo migliore al mio desir contese, / et quelle voglie giovenili accese / temprò con una vista dolce et fella (son. 289, vv 5-8) Come va ‘l mondo! Or mi diletta et piace / quel che più mi dispiacque; or veggio et sento / che per aver salute ebbi tormento, / et breve guerra per eterna pace (son. 290, vv 1-4) La falsa opinion dal cor s’è tolta, / che mi fece alcun tempo acerba et dura / tua dolce vista: ormai tutta secura / volgi a me gli occhi, e i miei sospiri ascolta (son. 305, vv 5-8) Quel sol che mi mostrava il camin destro / di gire al ciel con gloriosi passi, / tornando al sommo Sole, in pochi sassi / chiuse ‘l mio lume e ‘l suo carcer terrestro (son. 306, vv 1-4) Lei non trov’io: ma suoi santi vestigi / tutti rivolti a la superna strada / veggio, lunge da’ laghi averni et stigi (son. 306, vv 12-14) Fedel mio caro, assai di te mi dole, / ma pur per nostro ben dura ti fui (son. 341, vv 1213) Leggiadri sdegni, che le mie infiammate / voglie tempraro (or me n’accorgo), e ‘nsulse (son. 351, vv 3-4) 302 È interessante notare che qui il principio dell’amore che guida al bene e dell’amata come modello positivo si mescola con uno dei punti forti dell’alienazione amorosa: la sfiducia in sé e la rinuncia al proprio giudizio autonomo. 303 Il concetto di per sé appare strettamente imparentato allo Stil Novo. 304 Il passo adombra una concezione molto tradizionale del rapporto e della tipologia amorosa, benché rifusa in un contesto del tutto rinnovato. 331 Fior di vertù, fontana di beltate, / ch’ogni basso penser del cor m’avulse; / divino sguardo da far l’uomo felice, / or fiero in affrenar la mente ardita / a quel che giustamente si disdice (son. 351, vv 7-11) Quella mi scorge ond’ogni ben imparo (son. 358, v 4) Et ella: “A che pur piangi et ti distempre? / Quanto era meglio alzar da terra l’ali, / et le cose mortali / et queste dolci tue fallaci ciance / librar con giusta lance, / et seguir me, s’è ver che tanto m’ami” (canz. 359, vv 38-44) Che penser basso o grave / non poté mai durar dinanzi a lei (canz. 360, vv 103-104) Da mille acti inhonesti l’ò ritratto, / ché mai per alcun pacto / a lui piacer non poteo cosa vile (canz. 360, vv 122-124) Et per saperlo, pur quel che n’avenne / fora avvenuto, ch’ogni altra sua voglia / era a me morte, et a lei fama rea (canz. 360, vv 95-97). Trovatori Ges non ai mon cor voiant / d’amor quan m’en vauc prezan / per Na Dezirada (Bernart Martì, III, vv 33-35) Tot jorn meillur et esmeri / car la gensor serv e coli (Arnaut Daniel, X, vv 8-9) Dompna, ieu vos dei grazir / so qu’ieu sai ben far e dir (Raimbaut d’Aurenga, XXX, vv 64-65) Ben a mauvais cor e mendic / qui ama e no s melhura, / qu’eu sui d’aitan melhuratz / c’ome de me no vei plus ric (Bernart de Ventadorn, XXIV, vv 17-20) A mi meillura mos talenz (Giraut de Bornelh, XV, v 11) Bel paradis, tuit li dotze reingnat / aurion pro del vostr’enseignamen (Rigaut de Berbezilh, IX, vv 45-46) Ja non creirai, qi qe m’o jur, / que vis non esca de rasim, / et hom per amor no meillur305 (Marcabru, XIII, vv 25-27) Qu’aitan be pot far fin aman / amors del petit cum del gran (Sordello, VIII, vv 19-20) Quar per vos vei pretz levar / ez enriquir / cascus en brui (Amnieu de la Broqueira, II, vv 24-26) E cel qui sa joia agarda / non ha ges fol pensamen (Peire de la Valeria, II, vv 16-17) C’amors fa ls mellors meillurar / e ls plus malvatz pot far valer (Raimbaut de Vaqueiras, VII, vv 13-14) Pueis avetz bona captenensa / per que tot melhura e gensa (Aimeric de Belenoi, III, vv 12-13) E m son per vos, dompna, tan meilluratz (Monje de Montaudon, V, v 21) Qu’Amor me ditz, quant ieu m’en vuelh estraire, / que mainhtas vetz puej’ om de bas afaire / e conquier mais que dregz no cossentria306 (Arnaut de Maruelh, II, vv 26-28) Dona per cui lo mons melhur’ e gensa (Raimon Jordan, XII, v 10) Ben es fis, de gran valenssa / mos cors, s’aqest m’abarona / per cui totz pretz creis e genssa (Peire d’Alvernha, I, vv 41-43) 305 La medesima concezione positiva dell’amore, che in realtà non è incoerente con la visione censoria di Marcabru, il cui oggetto sono piuttosto coloro che fingono di dedicarsi all’amore puro, macchiandone il nome stesso, si riscontra potenziata nella canzone 40. Qui l’autore più che esaltare le facoltà positive di amore ne evidenzia per contrasto le capacità distruttive nei confronti di chi non ne è davvero degno. 306 L’esempio di Arnaut de Maruelh mostra con chiarezza le ripercussioni sociali del miglioramento dovuto all’amore cortese. 332 Qu’en luec bos pretz no s’abria / leu, si non ve per amia (Raimon de Miravall, XXIV, vv 13-14) Ancaras trob mais de ben en Amor, / qe l vil fai car e l nesci gen parlan, / e l’escars larc, e leial lo truan, / e l fol savi, e l pec conoissedor; / e l’orgoillos domesga et homelia (Aimeric de Peguilhan, XV, vv 17-21) En amar be meillur outra poder (Gaucelm Faidit, III, v 12) Ab aisso m’a joi e deport rendut / e mon saber esders e meillurat (Guilhem Ademar, VII, vv 17-18) Mas tant sabetz los bens triar / dels mals, e ls sens de las follors (Gui d’Ussel, III, vv 4546) Ans d’amar leis m’asegur / e m’atur / e m meillur (Guilhem de la Tor, VI, vv 77-79) E pus de ben amar meilhur, / segon razo, / trop en dey far mielhs motz e so (Peire Raimon de Tolosa, XI, vv 5-7) Aissi m’a dat fin’amor conoissensa / com natura la don’ a esparvier (Bertran Carbonel, VI, vv 1-2) Tant afinat fin aman / c’afinar plus non poiria307 (Bartolomé Zorzi, VI, vv 66-67) Q’usquecx jau joy e’s melhuyr e s’enansa (Guilhem Peire de Cazals, I, v 5) Mout me tenc ben per pagatz / del saber, que m’es vengutz / per ben amar non amatz (Guiraut Riquier, XVI, vv 1-3). 4. Mescolanza di sacro e profano Componente significativa e per certi aspetti problematica del Canzoniere è anche la sovrapposizione tra la dimensione sacra e quella profana. Comprendiamo in tale definizione tutti i luoghi in cui la rappresentazione dello stato amoroso o dell’amata chiamino in causa elementi pertinenti la sfera della divinità, in chiave metaforica o di paragone, o anche soltanto in scelte lessicali (appunto il termine “sacro”, oppure il predicato “adorare”) la cui scelta appare tutt’altro che casuale. In primo luogo, va sottolineata la corrispondenza fra simili accostamenti e la natura stessa della raccolta petrarchesca, che nasce dalla tensione interiore tra desideri terreni e spinte penitenziali. La dicotomia tra i due aspetti è dunque centrale; tuttavia non si dimentichi che nei passi in esame il fattore sacrale ha valore soltanto nella definizione del piano amoroso e non significato in sé, con qualche parziale eccezione poco prima della chiusura della raccolta. La coerenza dell’immagine con l’insieme della rappresentazione è ancor più significativa. Da un parte, rifunzionalizzare l’espressione del sacro a vantaggio di ciò che è mortale e terreno appare una nuova forma di alienazione, di divaricazione dal dovere e dal senso comune, dal sentire normale. Dall’altra, la rappresentazione di Laura come divinità è coerente con la superiorità e straordinarietà che le viene di consueto attribuita, in termini per altro topici. Infine, il ruolo che ella assume dopo la morte, di guida ed esempio, e quindi il tentativo di reinterpretare l’amore in termini salvifici ripropongono in chiave diversa (meno eterodossa) la medesima associazione, 307 L’immagine dell’oro che raffina, utilizzata come paragone o come metafora, non solo è topica, ma anche molto diffusa e celebre, a partire dalla tradizione occitanica sino a quella italiana. 333 soprattutto se si pensa che a fronte degli inviti di Laura al cielo il poeta continua a celebrarne corpo e memoria. Fino alla canzone 360, quindi, la raccolta mantiene un filo conduttore riconoscibile dal punto di vista dell’ambiguità e dell’indecisione, che si ripropone in fondo anche nei sonetti penitenziali, come nella bipartizione tematica di 362 o nel dolore ancora non sopito di 363. Ecco perché diversi studiosi hanno affermato che la conclusione e la canzone alla Vergine costituiscono un salto piuttosto brusco ad una visione più univoca e decisa, benché non sia necessario interpretare l’immagine di Medusa con quella di Laura in sé e per sé e per quanto siano ancora ribaditi i suoi sforzi per evitare il peccato rifiutando il poeta308. D’altro canto, le immagini che uniscono sacro e profano hanno un’impostazione convenzionale. Ed è difficile non pensare innanzitutto a Dante, alla Beatrice figura Christi della Vita nova, guida al cielo, dove potrebbe essere addirittura assunta in corpore309, e oggetto del pellegrinaggio e della predicazione del poeta. Ma come si è visto l’associazione Beatrice-Cristo è finalizzata ad attribuire all’amata un effettivo ruolo salvifico a vantaggio del poeta: per quanto anche Laura si adoperi per il suo fedele, nulla nel Canzoniere autorizza una lettura altrettanto netta e lineare della vicenda amorosa. Perciò, ancora una volta, giova ricordare che il topos della mescolanza di sacro e profano appartiene già alla lirica amorosa trobadorica, benché in forme molto meno elaborate e dalla blasfemia a volte quasi esplicita. 4.1 Preghiere La preghiera rivolta alla donna amata è assolutamente topica, tanto che il significato originario, religioso, dell’atto di invocare e di chiedere umilmente aiuto non è quasi più percepito. D’altra parte, nel complesso degli elementi che rimandano alla sfera del sacro anche l’atto di pregare recupera in parte la sua valenza basilare, soprattutto se accostato ad un atteggiamento devoto e supplice quale quello dell’amato. Quest’ultimo aspetto è ben testimoniato in ambito sia trobadorico che petrarchesco, lo si è già notato a proposito delle immagini che esprimono subordinazione e sudditanza. Petrarca Et se contra suo stile ella sostene / d’esser molto pregata, in Lui si specchia (canz. 23, vv 127-128) Ch’ancor poi ripregando, i nervi et l’ossa / mi volse in dura selce […] (canz. 23, vv 136137) Et io ne prego Amore, et quella sorda / che mi lassò de’ suoi color’ depinto, / et di chiamarmi a sé non le ricorda (son. 36, vv 12-14) 308 Per tali aspetti nell’interpretazione di 366 e le diverse ipotesi di Santagata e Cherchi si veda il capitolo precedente. 309 Tale possibilità è presentata nell’introduzione di Gorni all’edizione del prosimetro a cura di Rossi 1999, ma un simile accenno si coglie già in Singleton 1968, pp. 13-38. Tali elementi sono stati già in parte affrontati nel capitolo precedente. 334 Questi poser silentio al signor mio, / che per me vi pregava, ond’ei si tacque (son. 46, vv 9-10) Da ora inanzi ogni difesa è tarda, / altra che di provar s’assai o poco / questi preghi mortali Amore sguarda. / Non prego già, né puote aver più loco, che mesuratamente il mio cor arda (son. 65, vv 9-13) Che se non è chi con pietà m’ascolte, / perché sparger al ciel sì spessi preghi? (canz. 70, vv 3-4) Non gravi al mio signor perch’io il ripreghi (canz. 70, v 8) L’amar m’è dolce, et util il mio danno, / e ‘l viver grave; et prego ch’egli avanzi / l’empia Fortuna, et temo non chiuda anzi / Morte i begli occhi che parlar mi fanno (son. 118, vv 5-8) Ite, caldi sospiri, al freddo core, / rompete il ghiaccio che Pietà contende, / et se prego mortale al ciel s’intende, / morte o mercé sia fine al mio dolore (son, 153, vv 1-4) Troppo felice amante mi mostrasti / a quelle che’ miei preghi humili et casti / gradì alcun tempo, or par ch’odi et refute (son. 172, vv 6-8) Tal la mi trovo al petto, ove ch’i’ sia, / felice incarco; et con preghiere honeste / l’adoro e ‘nchino come cosa santa (son. 228, vv 12-14) Né ‘l pianger mio né i preghi pòn far Laura / trarre o di vita o di martir quest’alma (sest. 239, vv 23-24) […] O vivo Giove, / manda, prego, il mio in prima che ‘l suo fine (son. 246, vv 7-8) Se per salir a l’eterno soggiorno / uscita è pur del bel’albergo fora, / prego non tardi il mio ultimo giorno (son. 251, vv 12-14) Ma infin a qui niente mi releva / prego o sospiro o lagrimar ch’io faccia (canz. 264, vv 910) Non è sì duro cor che, lagrimando, / pregando, amando, talor non si smova, / né sì freddo voler, che non si scalde (son. 265, vv 12-14) Pregando ch’a levar l’alma non tarde: / et sol quant’ella parla, ò pace o tregua (son. 285, vv 13-14) Pregate non mi sia più sorda Morte (sest. 332, v 69) Prego che ‘l pianto mio finisca Morte (sest. 332, v 75) Prega ch’i’ venga tosto a star con voi (son. 347, v 14) Vergine, s’a mercede / miseria extrema de l’humane cose / già mai ti volse, al mio prego t’inchina (canz. 366, vv 9-11) Vergine santa, d’ogni gratia piena / che per vera et altissima humiltate / salisti al ciel onde miei preghi ascolti (canz. 366, vv 40-42) Vergine, quante lagrime ò già sparte, / quante lusinghe et quanti preghi indarno310 (canz. 366, vv 79-80). Trovatori Si saubes tan Dieu predicar / ben sai c’ap se m’alberguera / c’ades, cant ieu cug orar, / deu pregar Dieu, creisetz311 (Raimbaut d’Aurenga, XXVI, vv 17-20) 310 Qui il poeta si riferisce alle preghiere amorose, contrapposte a quelle cristiane sinora rivolte direttamente alla Vergine. 311 L’interesse del passo deriva soprattutto dalla sua collocazione nella canzone: infatti, benché a prima vista possa sembrare un’ortodossa dichiarazione spirituale, in realtà il testo è dedicato alle richieste e alle 335 E prec la del seu amador / que l be que m fara, no m venda / ni m fassa far lonj’a tenda (Bernart de Ventadorn, XIX, vv 27-29) E si l plagues mos enqerers / ni mos preiars ni mos servirs (Giraut de Bornelh, IX, vv 1718) […] Las! Tan la vau pregan / qan / ni ja ren de leis me n jauza (Jaufré Rudel, VII, vv 3436) E quant la prec del romaner / non vol mas paraulas auzir (Rigaut de Berbezilh, IV, vv 1314) Per merce vos voill pregar (Sordello, V, v 23) Si m’a bon cor ara lh prec e l’incaut / que m do sa joy e m prometa salutz312 (Raimbaut de Vaqueiras, V, vv 33-34) E prec Aor que ia cor no m mezes / qu’ieu vos pregues, domna, car tem que us pes; / e s’aissi us prec, domna, forsadamen, / no m’en sia ia pieitz si mieills no m n’es (Monje de Montaudon, I, vv 41-44) C’ab doutz precs cars, humilmen, / merceian cum fis amaire (Arnaut de Maruelh, XXV, vv 13-14) E, mas tant es vostre cors orgulhos / que mos preiars no us es bos (Raimon Jordan, X, vv 37-38) E pus servirs ni preyars pro no m te, / fols serai hieu si mais sospir ni plor (Perdigon, VII, vv 21-22) Prec qe m valgues / vostre cors cortes / amoros / e joios (Guilhem de la Tor, V, vv 15-18). 4.2 Fede amorosa L’espressione della devozione in senso più fideistico presenta però alcune significative divergenze tra un’esperienza poetica e l’altra. I trovatori si dichiarano per lo più “fis”, termine che assomma sfumature molteplici legate sì alla fedeltà, ma anche alla finezza dell’amore puro, appunto la fin’amor. Petrarca, invece, mette da parte quest’ultimo aspetto e il suo retaggio cortese, che pure lasciava qualche traccia nel “sentimento alto” di cui si è parlato in precedenza. In effetti egli non si dichiara “fedele”, ma compie un passo ulteriore nella frammistione dei piani semantici parlando esplicitamente di “fede”. Un’altra differenza essenziale si coglie riguardo ai destinatari: per i trovatori soprattutto l’amata, in Petrarca spesso anche Amore. E nel Canzoniere si aggiungono, a complicare la situazione e in fondo a ribadire proprio quella tendenza alla mescolanza che stiamo analizzando, le preghiere rivolte a Dio e alla Vergine. Tali aspetti erano certamente presenti anche nel corpus occitanico313, ma l’assenza di macrostrutture coese limita l’effetto di tale variazione tematica, esaltando piuttosto l’identità autonoma di ciascun componimento. preghiere che il drudo rivolge all’amata. Quel tipo di preghiera è dunque il modello e la richiesta appare in sostanza terrena. 312 La natura della richiesta è particolarmente interessante rispetto alla questione degli esiti positivi dell’amore fino, nel confronto con i successivi esiti stilnovistici. 313 Si è affrontato tale aspetto nel corso del capitolo precedente. 336 Petrarca Però, s’un cor pien d’amorosa fede / può contentarve senza farne stracio, / piacciavi omai di questo aver mercede (son. 82, vv 9-11) Lasso, non a Maria, non nocque a Pietro / la fede, ch’a me sol tanto è nemica; / et so ch’altri che voi nessun m’intende (son. 95, vv 12-14) Dagli occhi ov’era, i’ non so per qual fato, / riposto il guidardon d’ogni mia fede (son. 130, vv 3-4) Infinita bellezza et poca fede, / non vedete voi ‘l cor nelli occhi mei? (son. 203, vv 5-6) S’una fede amorosa, un cor non finto (son. 224, v 1) I’ ò pregato Amor, e ‘l ne riprego, / che mi scusi appo voi, dolce mia pena, / amaro mio dilecto, se con piena / fede dal diritto mio sentier mi piego (son. 240, vv 1-4) Ché mortal cosa amar con tanta fede / quanta a Dio sol per debito convensi (canz. 264, vv 99-100) Rotta la fe’ degli amorosi inganni (son. 298, v 5) Già traluceva a’ begli occhi il mio core, / et l’alta fede non più lor molesta (son. 317, vv 5-6) Amor, quando fioria / mia spene, e ‘l guidardon di tanta fede, / tolta m’è quella ond’attendea mercede (bal. 324, vv 1-3) A madonna et al mondo è la mia fede (son. 334, v 4) Vedi ‘l mio amore, et quella pura fede / per ch’io tante versai lagrime e ‘nchiostro (son. 347, vv 7-8) Che se poca mortal terra caduca / amar con sì mirabil fede soglio, / che devrò fare di te, cosa gentile? (canz. 366, vv 121-123). Trovatori L’ai fe don no m puesc estaire, / tan li suy fizel amaire / ses falhir, so us iure us pliu (Bernart Martì, VII, vv 19-21) Gran mal m’a faih ma bona fes (Bernart de Ventadorn, X, v 36) E serai vos tan fis (Giraut de Bornelh, III, v 26) E deuria m, domna, l fis cors valer, / car conoissetz que ja no m recreirai (Folchetto da Marsiglia, III, vv 23-24) Tos temps serai ves amor / fis e ferm ab cor veray (Sordello, XII, vv 1-2) Pero be m pes que mi aia valgut / ma bona fes, car amei leialmen (Elias Cairel, XIII, vv 9-10) Que d’enjan a far se vira / mos cors, e sui fis amaire (Raimon de Miravall, I, vv 15-16) Fis amics sui ben amans (Peire Vidal, II, v 41) Ni us amarai de bon cor e de fe / tro que veirai si ja m valria be (Casteloza, I, vv 10-11) Quez eu li fos fins e verais (Guilhem Ademar, III, v 19) A vos, Amors, vuelh mostrar en chantan / quo m pres midons, ni per que, ni ab quais, / ni on me mes, sos homs fis e leials (Cadenet, I, vv 8-10) Cuy suy fis amayre (Peire Raimon de Tolosa, IX, vv 4) Saubes com ieu li soi fis (Arnaut Catalan, I, v 6). 337 4.3 Situazioni o immagini sacre applicate alla vicenda del poeta Vari elementi diversi dimostrano nell’atteggiamento dell’io poetico una tendenza alla sovrapposizione tra la sfera sacra e quella profana. Accomunano ad esempio la rappresentazione occitanica e quella petrarchesca i paragoni più generali tra il sentimento religioso e la vicenda amorosa: è convenzionale in questo caso la concezione di fondo, mentre le singole realizzazioni sono dettate dal contesto ed è soprattutto l’interpretazione petrarchesca ad apparire originale. Ancora più tipica della lirica trobadorica è la tendenza a coinvolgere Dio nelle circostanze sentimentali in cui si trova l’io poetico: egli invoca aiuto, rivolge accuse, chiede che l’amata sia protetta e così via. In qualche caso il medesimo punto di vista torna anche nel Canzoniere, dove però la sovrapposizione di umano e divino si fa ancor più articolata. Due aspetti sono particolarmente notevoli: l’amore che si trasforma in vera e propria adorazione e il ruolo di Laura come mediatrice verso il Cielo. Infatti, se da una parte attribuire all’amore una funzione educativa permette di rivalutarlo, almeno in parte e temporaneamente, dall’altra inevitabilmente la sfera del sacro è ricondotta a quella profana dal contatto con un sentimento che resta terreno. Lo si coglie soprattutto nei passi in cui l’io lirico sembra rivolgersi a Dio e al Cielo solo perché là si trova madonna, senza la quale dunque le tendenze spirituali sarebbero (ancora) più deboli. Petrarca […] onde i miei guai / nel commune dolor s’incominciaro314 (son. 3, vv 7-8) Così, lasso, talor vo cerchand’io, / donna, quanto è possibile, in altrui / la disiata vostra forma vera315 (son. 16, vv 12-14) Or ch’al dritto camin l’à Dio rivolta316, / […] / et se tornando a l’amorosa vita, / per favi al bel desio volger le spalle, / trovaste per la via fossati o poggi, / fu per mostrar quanto è spinoso calle (son. 25, vv 5-12) I’ temo di cangiar pria volto et chiome, / che con vera pietà mi mostri gli occhi / l’idolo mio, scolpito in vivo lauro (sest. 30, vv 25-27) Lasso, non a Maria, non nocque a Pietro / la fede, ch’a me sol tanto è nemica (son. 95, vv 12-13) Et se prego mortale al ciel s’intende, / morte o mercé sia fine al mio dolore (son. 153, vv 3-4) Stella difforme et fato sol qui reo / commise a tal che ‘l suo bel nome adora, / ma forse scema sue lode parlando (son. 187, vv 12-14) 314 L’accostamento dell’elemento profano a quello sacro è reso ancor più evidente dall’organizzazione del discorso nel sonetto: dapprima i due temi sono alternati (la prima quartina è esattamente divisa a metà), ma nelle terzine domina ormai l’aspetto amoroso, e in fondo la lamentela che urge al poeta concerne il fatto che l’amata non ricambi. L’amore insomma ha la meglio sulla fede e risulta l’istanza preminente. 315 Come è noto, il celeberrimo sonetto della “Veronica” è per gran parte dedicato alla descrizione del pellegrinaggio verso Roma allo scopo di vedere la vera icona di Cristo, cui nel finale è paragonato l’atteggiamento del tutto profano del poeta innamorato. 316 Il retto percorso sarebbe qui quello amoroso, concesso ed anzi favorito da Dio. 338 Sì come eterna vita è veder Dio, / né più si brama, né bramar più lice, / così me, donna, il voi veder, felice / fa in questo breve et fraile viver mio (son. 191, vv 1-4) Pasco la mente d’un sì nobil cibo, / ch’ambrosia et nectar non invidio a Giove317 (son. 193, vv 1-2) S’i’ ‘l dissi, io spiaccia a quella ch’i’ torrei / sol, chiuso in fosca cella, / dal dì che la mamella / lasciai, finché si svella / da me l’alma, adorar: forse e ‘l farei (canz. 206, vv 3236) Tal la mi ritrovo al petto, ove ch’i’ sia, / felice incarco; et con preghiere honeste / l’adoro e ‘nchino come cosa santa (son. 228, vv 12-14) […] O vivo Giove, / manda, prego, il mio in prima che ‘l suo fine318 (son. 246, vv 7-8) Parrà forse ad alcun che ‘n lodar quella / ch’i’ adoro in terra, errante sia ‘l mio stile (son. 247, vv 1-2) Ché mortal cosa amar con tanta fede / quanta a Dio sol per debito convensi (canz. 264, vv 99-100) L’acque parlan d’amore, et l’òra e i rami / […] / tutti inseme pregando ch’i’ sempre ami. / Ma tu, ben nata che dal ciel mi chiami, / […] / preghi ch’i’ sprezzi ‘l mondo e i suoi dolci hami319 (son. 280, vv 9-14) Et m’ài lasciato qui misero et solo, / talché pien di duol sempre al loco torno / che per te consecrato honoro et còlo (son. 321, vv 9-11) Deh qual pietà, qual angel fu sì presto / a portar sopra ‘l cielo il mio cordoglio?320 (son. 341, vv 1-2) Ch’assai ‘l mio stato rio quetar devrebbe / quella beata, e ‘l cor racconsolarsi / vedendo tanto lei domesticarsi / con Colui che vivendo in cor sempre debbe321 (son. 345, vv 5-8) Ond’io voglie et pensier’ tutti al ciel ergo / perch’i’ l’odo pregar pur ch’i’ m’affretti (son. 246, vv 13-14) Or nel volto di Lui che tutto vede / vedi ‘l mio amore, et quella pura fede / per ch’io tante versai lagrime e ‘nchiostro (son. 350, vv 6-8) Sì forte ti dispiace / che di questa miseria sia partita, / et giunta a miglior vita; / che piacer ti devria, se tu m’amasti / quanto in sembianti et ne’ tuoi dir’ mostrasti (canz. 359, vv 1822). 317 Il sincretismo petrarchesco, nell’uso di elementi classici e mitologici, accentua l’effetto di sovrapposizione delle diverse aree semantiche. 318 La richiesta di aiuto a Dio per desideri e problemi prettamente amorosi e dunque terreni è aggravata da una parte da un desiderio di morte evidentemente autolesionista, anche se non suicida, e dall’altra dalle ragioni che spingono a rifiutare la vita. L’affezione verso il mondo, infatti, dovrebbe essere cancellata dal desiderio di ascesa spirituale e dal pensiero della dimensione celeste, non in virtù delle sofferenze amorose. 319 Si noti che la prima metà del sonetto è interamente dedicata alla memoria di Laura e al permanere del legame amoroso nel contesto ameno di Valchiusa. 320 Gli angeli compaiono qui al servizio di lutti terreni (la morte dell’amata) ed inviati non a Dio, ma ad una signoria alternativa, cioè l’amata stessa. 321 Nel sonetto 345 l’io poetico risponde a se stesso e si autocorregge, dopo che nel sonetto 344 aveva dichiarato di non sentire alcuna cosolazione rispetto alla perdita di Laura per il fatto di sapere che ella è stata assunta alla beatitudine dei giusti: “Né gran prosperità il mio stato adverso / pò consolar di quel bel spirto sciolto” (vv 10-11). Tale duplice prospettiva è stata anticipata nel capitolo precedente. 339 Trovatori Aqist d’aver amassaire, / malparlier, lengatrenchan, / qi m cujavon d’amor traire, / ma si Dieus vol far mon coman, / ja us non er al Lavador322 (Bernart Martì, IX, vv 22-26) Ges per janguoill no m vir aillor, / bona dompna, ves cui ador (Arnaut Daniel, II, vv 1920) Anz vos desir / plus que Dieus cill de Doma (Arnaut Daniel, IX, vv 84-85) Pro m’a dat sol lieys no pert; / Dieus m’a pagat a ma guiza (Raimbaut d’Aurenga, III, vv 22-24) Et s’aissi pert s’amistat, / be m tenh per dezeretat / d’amor e ja Deus no m do / mais faire vers ni chanso323 (Bernart de Ventadorn, VI, vv 21-24) Mas si Deus m’air, / s’ieu veramen / ben no cre324 (Giraut de Bornelh, XXXV, vv 40-42) Senher Dieus, quez es del mon capdels e reis, / qui anc premiers gardet con, com non esteis ?325 (Guglielmo IX, III, vv 7-8) Cui Dieus vol ben si l’aiuda, / c’a mi volc ben longamen, / qe m det un ric joi gauzen / de vos, c’ora ai perduda (Uc de Saint Circ, X, vv 11-14) Car Dieu e cilh a cui me sui donatz / m’an trait de ioi e mis en pensamen326 (Bertran d’Alamanon, XX, vv 3-4) Era n lau Dieu e Saint Joan, / c’ab tal amor vau amoran (Cercamon, III, vv 16-17) Sol Dieus mi gart de revolim, / q’en aital amor m’aventur / on non a engan ni refrim (Marcabru, XIII, vv 18-19) Peire Guilhem, tot son afan / mes Dieus en leis far per mon dan (Sordello, XIV, vv 7-8) E qar mei oill l’an chausida / a Deu prec que mi don vida / per servir son bel cors gen (Peire de la Valeria, II, vv 20-22) E prec Dieu que m’aujatz e m siatz umana (Elias Cairel, XV, v 5) Ben es vers c’a orsa m menet, / e fis que fols quar lei ai cout (Raimbaut de Vaqueiras, XXXII, vv 15-16) Faich ai longa carantena, / mas oimais / sui al digous de la Cena (Bertran de Born, VIII, vv 10-12) Si m don de vos bon’estrena / Dieus, tortz ed e desmesura (Rambertino Buvalelli, VIII, vv 49-50) Sill que m don Dieus tener nuda (Aimeric de Belenoi, XVII, v 16) Mas Dieus me don tal mal don ieu enratge / que lo y dia tot per plan auranatge327 (Monje de Montaudon, III, vv 14-15). 322 La richiesta di un intervento divino a difesa del poeta e dell’onore della dama contro le malelingue è assolutamente topica. Qui la convergenza tra componente amorosa ed intervento divino è complicata dal riferimento a problemi morali, in particolare l’accumulo delle ricchezze; nei versi successivi viene esplicitamente citato Marcabru, proprio in qualità di retto censore dei costumi immorali. 323 L’immagine è qui arricchita dal doppio coinvolgimento divino: non solo nella sfera amorosa, ma a livello poetico. 324 La struttura ricorda per certi aspetti le formule tipiche e stereotipate del genere escondich di cui si è trattato nel capitolo precedente. Il coinvolgimento di Dio in questo tipo di giuramenti e promesse è molto frequente in ambito trobadorico. 325 La contraddizione tra invocazione a Dio e tematica profana è qui accentuata dal carattere chiaramente erotico del problema. 326 La prima e la seconda strofa sono interamente dedicate alla responsabilità di Dio rispetto all’infelicità amorosa del poeta: la rappresentazione è particolarmente interessante perché il Signore, accomunato al v 3 alla dama, sostituisce in toto la figura pagana di Amore. 340 E francha res, merce d’aquest peccaire (Arnaut de Maruelh, XX, v 29) Que s’era cochatz de mort / non querr’ a Dieu tan fort / que lai ssus em paradis / m’aculhis, / quon que m des lezer / d’una nueg ab lieis jazer (Raimon Jordan, IV, vv 4954) Si no m fos per que s n’azir / mes mi fora en canonja (Peire d’Alvernha, II, vv 47-48) Mon Audiart sal Dieus e sa companha328 (Raimon de Miravall, XIII, v 49) Que, si m’ajut Deus ni fes, / al cor m’estan sei dous ris (Peire Vidal, IX, vv 27-28) E a m leial e fizel / e just plus que Deus Abel329 (Peire Vidal, XVI, vv 29-30) Lei qu’aor / prec, si ll platz, / que no s deslatz (Perdigon, V, vv 16-18) Qe Dieus mi fes per far son mandamen (Gaucelm Faidit, VIII, v 14) A Dieu coman Belesgar / e plus la ciutat d’Aurenja (Azalais de Porcairagues, I, vv 41-42) Dieu prec que gran joi l’atraia (Comtessa de Dia, I, v 12) […] salve Dieus sa testa! (Guilhem Ademar, VI, v 19) Mas ja Dieus no m don ben d’amor, / s’ieu non am plus bell’e meillor (Gui d’Ussel, VII, vv 48-49) Ben cuch esser en paradis (Folquet de Romans, XIV, v 82) A Dieu me coma, / qe m vau trebaillan (Peire Raimon de Tolosa, VIII, vv 33-34) Vos clam merce per dieu e per pietatz (Bartolomé Zorzi, XVII, v 69) Mas Dieus non vol desesperat, / per c’ades atent e desir (Peire Bremon Ricas Novas, IX, vv 39-40) Crey que m det Dieus aquest parelh (Gavaudan, II, v 42) S’ieu per crezensa / estes vas Dieu tan fis, / vius ses falhensa / intrer’ em paradis (Guilhem de Cabestanh, V, vv 35-38) […] e ja a Dieu non playa / que ja vas me fas’aital falhimen / qu’autra m deman e que de lieys m’estraya (Peirol, XIX, vv 18-20) D’elhs no m cal, sol que Dieus me gar / midons e m do so qu’en volria (Guilhem de Montanhagol, VII, vv 22-23). 4.4 Rappresentazione dell’amata attraverso il sacro Nel corpus trobadorico l’attribuzione di responsabilità a Dio rispetto alla vicenda terrena dell’amore è piuttosto frequente. Da tale tendenza appare in parte esclusa la rappresentazione della figura femminile: per esaltarla sembra sia sufficiente averne dimostrato la superiorità sulle altre donne, senza coinvolgere aspetti sovrumani. 327 La produzione del monaco di Montaudon si distingue particolarmente per la paradossale insistenza su elementi blasfemi o comunque irrispettosi verso l’immagine tradizionale della religione. Ne restano varie canzoni ambientate in Paradiso, dove l’io poetico si intrattiene familiarmente con il Signore su argomenti molteplici. 328 Questo tipo di richiesta è molto diffuso in ambito trobadorico, sia in riferimento alla dama che in merito al mecenate/destinatario del testo, nella tornada. La forma più tipica, comunque, è quella propria del planh, dove la richiesta di protezione è strettamente legata alla dipartita di una persona cara (la dama o il signore), alla cui anima si vorrebbe garantire un esito felice. 329 L’intera canzone 16 appare ispirata da elementi sacri riletti in termini profani: non solo la fedeltà del poeta è paragonata a quella di Abele, ma il suo amore a quello di Giacobbe per Rachele (immagine già significativa per Petrarca, come si è visto nel capitolo precedente e si approfondirà nel successivo), mentre le qualità dell’amata sono associate a quelle di san Gabriele. 341 Non è così, invece, nel Canzoniere, dove il ritratto di Laura sconfina più volte nell’orizzonte del sacro. In primo luogo ciò si nota bene nella celebrazione della sua luminosa bellezza: l’amata è paragonata a ninfe e dee, con sincretismo paganeggiante riservato anche al Signore e alla Vergine; le viene più volte attribuito l’aggettivo “santo”, e non solo dopo la morte quando per lo meno le deve essere riconosciuto lo statuto di beata; ella inoltre è una viva testimonianza dell’esistenza e delle caratteristiche del Cielo per coloro che abitano in terra, e viceversa spiega perché il divino possa amare il mondo mortale330; infine, più volte si suggerisce che ella sia frutto diretto ed altissimo della creazione divina331. Tali elementi elogiativi sono proposti dapprima in vita e poi in morte dell’amata, per esprimere il profondo rimpianto dell’amante. E proprio la morte di Laura amplia e rafforza la possibilità di associarne la figura al cielo: la sua dipartita ha una funzione esemplare come quella di Cristo e provoca (o dovrebbe provocare) nella natura simili effetti straordinari e devastanti332. Petrarca Et se contra suo stile ella sostene / d’esser molto pregata, in Lui si specchia, / et fal perché ‘l peccar più si pavente (canz. 23, vv 127-129) Poi ch’a mirar sua bellezza infinita / l’anime degne intorno a lei fier sparte (son. 31, 7-8) Et s’io potesse far ch’agli occhi santi / porgesse alcun diletto (canz. 70, vv 15-16) Ver’ me volgendo quelle luci sante (son. 108, v 3) Conobbi allor sì come in paradiso / vede l’un l’altro, in tal guisa s’aperse / quel pietoso penser ch’altri non scerse (son. 123, vv 5-7) Voler ch’è cieco et sordo / sì mi trasporta, che ‘l bel viso santo / et gli occhi vaghi fien cagion ch’io pèra (canz. 135, vv 42-44) Le stelle, il cielo et gli elementi a prova / tutte lor arti et ogni extrema cura / poser nel vivo lume, in cui Natura / si specchia, e ‘l sol ch’altrove par non trova (son. 154, vv 1-4) L’atto d’ogni gentil pietate adorno, / e ‘l dolce amato lamentar ch’i’ udiva, / facean dubbiar, se mortal donna o diva / fosse che ‘l ciel rasserenava intorno (son. 157, vv 5-8) Qual nimpha in fonti, in selve mai qual dea, / chiome d’oro sì fino a l’aura sciolse? (son. 159, vv 5-6) Vedi lume che ‘l cielo in terra mostra (son. 192, v 4) Raccolto à ‘n questa donna il suo pianeta, / anzi ‘l re de le stelle […] (son. 215, vv 5-6) Come Natura al ciel la luna e ‘l sole, / a l’aere i venti, a la terra l’herbe et fronde, / a l’uomo et l’intellecto et le parole, / et al mar ritollesse i pesci et l’onde: / tanto et più fien le cose oscure et sole, / se Morte li occhi suoi chiude et asconde (son. 218, vv 9-14) 330 È interessante notare che il medesimo merito viene riproposto in riferimento alla Vergine nella canzone 366, secondo uno spostamento da una figura femminile all’altra emblematico della mutatio animi conclusiva. 331 I trovatori insistono spesso sull’impossibilità che Dio crei un’altra donna simile. È quasi paradossale l’effetto dell’immagine rovesciata, quando iperbolicamente anche i difetti della dama, di cui il poeta si lamenta, sono ricondotti alla creazione divina (Cercamon, V, v 39). In un caso infine (Arnaut de Maruelh, canzone 18) la creazione della dama e delle sue iperboliche qualità viene associata ad Amore, cui di solito è riservato soltanto il merito di aver scelto proprio quell’oggetto del desiderio per il poeta, come anche nel caso della canzone 360 di Petrarca, nelle parole dello stesso Amore. 332 Si tratta di un elemento ben noto della tradizione cristologica, che Petrarca riprende esplicitamente nei primi due versi del sonetto 3. 342 Laurea mia con suoi santi atti schifi (son. 225, v 10) Nel qual honesto amor chiaro revela / sua dolce forza et suo santo costume (son. 230, vv 3-4) Ma Tu come ‘l consenti, o sommo Padre, / che del Tuo caro dono altri ne spoglie (son. 231, vv 13-14) Et fa qui de’ celesti spirti fede (son. 243, v 3) E ‘l mondo remaner senza ‘l suo sole (son. 246, v 10) Faccendo lei sovr’ogni altra gentile, / santa, saggia, leggiadra, honesta et bella (son. 247, vv 3-4) Ma come è che sì gran romor non sone / per alti messi, et per lei stessa il senta? (son. 251, vv 5-6) Or fia già mai che quel bel viso santo / renda a quest’occhi le lor luci spente (son. 252, vv 5-6) Né d’esser tocco da’ suoi sancti piedi (canz. 268, v 26) Oimè, terra è fatto ‘l suo bel viso, / che sole far del cielo / et del ben di lassù fede fra noi (canz. 268, vv 34-36) Or in forma di nimpha o d’altra diva / che del più chiaro fondo di Sorga esca (son. 281, vv 9-10) Membrando il suo bel viso et l’opre sante (son. 287, v 14) Che solean fare in terra un paradiso (son. 292, v 7) Or son fatto io per l’ultimo suo passo / non pur mortal, a morto, et ella è diva (son. 294, vv 3-4) Che mai rebellion l’anima santa / non sentì poi ch’a star seco fur giunte (son. 297, vv 3-4) Quanta invidia a quell’anime che ‘n sorte / ànno or sua santa et dolce compagnia (son. 300, vv 9-10) Lei non trov’io: ma suoi santi vestigi / tutti rivolti a la superna strada / veggio, lunge da’ laghi averni et stigi (son. 306, vv 12-14) Volse in amaro sue sante dolceze (son. 308, v 3) Ché ‘n dee non credev’io regnasse Morte (son. 311, v 8) Passato è ‘l viso sì leggiadro et santo (son. 313, v 5) Qualche santa parola sospirando (son. 317, v 13) Vedove l’erbe et torbide son l’acque, / et vòto et freddo ‘l nido in ch’ella giacque (son. 320, vv 6-7) Come poss’io, se non mi ‘nsegni, Amore, / con parole mortali aguagliar l’opre / divine […] (canz. 325, vv 5-7) Cosa nova a vederla, / già santissima et dolce anchor acerba (canz. 325, vv 78-79) Vedea a la sua ombra honestamente / il mio signor sedersi et la mia dea (son. 337, vv 7-8) Lasciato ài, Morte, senza sole il mondo / oscuro et freddo, Amor cieco et inerme (son. 338, vv 1-2) Pianger l’aer et la terra e ‘l mar devrebbe / l’uman legnaggio, che senz’ella è quasi / senza fior’ prato, o senza gemma anello (son. 338, vv 9-11) Li angeli electi et l’anime beate / cittadine del cielo, il primo giorno che madonna passò, le fur intorno / piene di meraviglia et di pietate (son. 346, vv 1-4) Ella, contenta aver cangiato albergo, / si paragona pur coi più perfecti (son. 346, vv 9-10) De la persona fatta in paradiso (son. 348, v 8) Donna che lieta col Principio nostro / ti stai, come tua vita alma rechiede (son. 350, vv 12) 343 Sol per piacer a le sue luci sante (son. 350, v 14) Già ti vid’io, d’onesto foco ardente, / mover i pie’ fra l’erbe et le viole, / non come donna, ma com’angel sòle (son. 352, vv 5-7) Nel tuo partir, partì del mondo Amore, / et Cortesia, e ‘l sol cadde del cielo, / et dolce incominciò a farsi la morte (son. 352, vv 12-14) Né minacce temer debbo di morte, / che ‘l Re sofferse con più grave pena, / per farme a seguitar costante et forte; / et or novellamente in ogni vena / intrò di lei che m’era data in sorte, / et non turbò la sua fronte serena (son. 357, vv 9-14) Non pò far Morte il dolce viso amaro, / ma ‘l dolce viso dolce pò far Morte. / Che bisogn’ a morir ben altre scorte? / Quella mi scorge ond’ogni ben imparo; / et Quei che del Suo sangue non fu avaro, / che col pe’ ruppe le tartaree porte, / col Suo morir par che mi riconforte (son. 358, vv 1-7) Volo con l’ali de’ pensieri al cielo / sì spesse volte che quasi un di loro / esser mi par ch’àn ivi il suo thesoro333 (son. 362, vv 1-3) Menami al suo Signor: allor m’inchino, / pregando humilemente che consenta / ch’i’ stia a veder et l’uno et l’altro volto334 (son. 362, vv 9-11) Vergine santa, d’ogni gratia piena (canz. 366, v 40) Or tu, donna del ciel, tu nostra Dea335 (canz. 366, v 98). Trovatori Non poc plus / neis Jhesus / far de tals, car totz absems / als bos aips don es plus auta / cella c’om per pros recorda (Arnaut Daniel, VIII, vv 36-40) Dieus retenc lo cel el tro / a sos ops ses compaigno, / ez es paraula certana, / c’a mi donz laisset en patz / c’a seignoriu vas totz latz (Raimbaut d’Aurenga, XXX, vv 50-54) Ai, bon’amors encobida, / cors be faihz, delgatz e plas, / frescha chara colorida, / cui Deus formet ab sas mas (Bernart de Ventadorn, XXX, vv 50-53) Quar anc genser crestiana / no fo, ni Dieus no la vol (Jaufré Rudel, III, vv 17-18) E pois Dieus l’a mes en aital carera / q’en sa valor avem tuich esperansa (Uc de Saint Circ, XVIII, vv 8-9) Domna, Dieus vos salv e us gar / c’om ren no i pot meillurar / en vostra finas lauzors (Rigaut de Berbezilh, I, vv 46-48) Qu’ieu no cre jes que merces aus faillir / lai on Dieus volc totz autres bes aizir (Folchetto da Marsiglia, I, vv 9-10) 333 La ragione del pensiero rivolto al cielo è Laura, non Dio, esattamente come il tesoro, qui iperbolicamente presentato non solo come oggetto di venerazione da parte del poeta, ma di tutto il Paradiso. 334 L’oggetto della richiesta, che il poeta non si vergogna di rivolgere a Dio, mescola apertamente desideri e bisogni di natura contraddittoria (stare nel regno di Dio, riguadagnare la compagnia dell’amata). È vero che il volto di Laura potrebbe essere qui solo simbolo della beatitudine e di coloro che ne godono, e quindi per traslato del desiderio di pace nell’aldilà; tuttavia l’aspirazione a morire e il bisogno di rincontrare l’amata sono temi troppo diffusi nella seconda sezione del Canzoniere per non avvertirne l’influenza anche in questo luogo. È inoltre interessante la definizione attribuita a Dio: non “nostro” Signore, ma “suo”. Forse il poeta sottolinea così di non essere ancora parte del coro dei beati, ma non si può trascurare che nella terzina successiva egli di fatto si rappresenti come destinato alla salvezza, anche se non nell’immediato. 335 Il poeta qui passa, utilizzando un’immagine già ben presente nel Canzoniere, dall’amata alla Vergine, come già nel caso del passo precedente; l’approccio sincretico si è già visto nella rappresentazione di Dio come Giove. 344 La plus corteza e la plus guaya / e la plus plazen que Dieus aya (Sordello, VIII, vv 5-6) Con mais vos fa Dieus e valors valer (Raimbaut de Vaqueiras, XXXIII, v 13) Si Dieus volgues sa gran beutatz devire, / granren pogra d’autras dompnas honrar (Arnaut de Maruelh, XV, vv 15-16) Tant vos det Dieus d’astre e de poder, / bona dona, que hom no us va vezer (Raimon Jordan, I, vv 41-42) Tant es bona, fin’e vera, / franc’e de gentil natura / que Dieus, quan lieys fe, no fera / mais tam belha creatura, / no non fa d’aital figura, / no tan no s’i alezera (Raimon de Miravall, I, vv 25-30) Qu’aissi us fetz Deus de faisso / que natura i pert razo (Peire Vidal, II, vv 59-60) Et en sos faitz es d’aitals guizerdos / qu’el honra Dieu et tot bon pretz mante / per qu’el lo creis e l’enanssa e l soste (Perdigon, II, vv 53-55) La melher q’anc dieus feçes (Aimeric de Peguilhan, XVI, v 11) Vostr’ es lo laus – e mi, en paradis, / podetz metre de joi e d’alegransa (Gaucelm Faidit, VI, vv 38-39) […] e si m laissatz morir / feretz pechat, e serai n’en tormen (Casteloza, I, vv 46-47) Dieus don qu’il vuoilla humilitat aver / si cum en lieis es proeza e jovens (Folquet de Romans, XVI, vv 28-29) Pero si m valgues amors / tan que m’entendensa / midons abelhis, / plus ric ioy que Paradis / agr’, a ma parvensa (Peire Raimon de Tolosa, IX, vv 23-27) C’om nom poiri’ escrire / sos gais digs ab bel semblan / qe i a volgut assire / Dieus a men […] (Arnaut Catalan, VII, vv 12-15) Mas on Dieus mays a donat / de bon sen e de valor (Bertran Carbonel, VII, vv 17-18) Que si plagues amar a Dieu / dompna del mon, avinen plai / auri’ en leis, que chausid ai (Bonifaci Calvo, IV, vv 31-32) Jhesus vos fass’al sieu servir / el clar paradis resplandir / entre las verjes coronar (Gavaudan, III, vv 57-58) Que tug aquilh son siei coral amic / que la vezon tan gen: Dieus l’acomplic! (Folquet de Lunel, III, vv 47-48) Dompna, cel vers Dieus qui formet / vostre gen cors franc, plazentier (Daude de Pradas, II, vv 11-12) Quelh eys Dieus, senes fallida, / la fetz de sa eyssa beutat (Guilhem de Cabestanh, I, vv 56) Que sa beutatz desus del cel partis, / que tan sembla obra de paradis / qu’a penas par terrenals sa conhdia (Guilhem de Montanhagol, VIII, vv 28-30). 5. Elementi spaziali e cronologici nella vicenda d’amore Sia i trovatori che Petrarca offrono al lettore alcuni dettagli utili a ricostruire il contesto della storia d’amore, sia sul piano spaziale che su quello cronologico. In primo luogo, tali precisazioni danno profondità e ricchezza alla storia su un piano puramente narrativo, che nel Canzoniere in particolare ha la funzione di disporre e costruire il percorso esistenziale dell’io. Secondariamente, le indicazioni spazio-temporali acquisiscono una valenza simbolica centrale, ad esempio quando il poeta ammette quanti anni ha dedicato al servizio amoroso, o che la vecchiaia ormai si avvicina o che la propria percezione del tempo è distorta. Anche tali aspetti, dunque, sono parte 345 integrante dell’autoritratto alienato e disfunzionale che abbiamo fin qui tratteggiato. Essi propongono un’ulteriore ed importante occasione di recupero e riuso della tradizione da parte di Petrarca, attraverso una sua profonda trasformazione in chiave personale. 5.1 I luoghi in cui si sviluppa la storia d’amore Due sono i luoghi cui torna con maggiore frequenza il pensiero dell’amante, sull’onda del ricordo o dietro la spinta del desiderio: quello dove vive l’amata336 e quello in cui è avvenuto il primo incontro. Grazie alla complessa configurazione della sua raccolta lirica, Petrarca attribuisce ad entrambi i luoghi un significato particolare: basti pensare a tutta la dinamica dei suoi spostamenti (allontanamenti o avvicinamenti) rispetto ad Avignone, a Valchiusa, alla Provenza in genere e all’Italia, o anche all’associazione tra un luogo preciso e una data altrettanto specifica ed ancor più simbolica, il 6 di aprile. A loro volta, però, anche i trovatori avevano descritto un’efficace dinamica tra il luogo del desiderio e la necessità di allontanarsene oppure l’intenzione di rimanervi, secondo soluzioni certamente meno elaborate e più superficiali, ma nella loro componente convenzionale del tutto coerenti alle scelte che avrebbe compiuto Petrarca. Petrarca Et or di picciol borgo un sol n’à dato, / tal che natura e ‘l luogo si ringratia / onde sì bella donna al mondo nacque (son. 4, vv 12-14) A pie’ de’ colli ove la bella vesta / prese de le terrene membra pria / la donna che colui ch’a te ne ‘nvia / spesso dal somno lagrimando desta (son. 8, vv 1-4) I’ benedico il loco e ‘l tempo et l’ora / che sì alto miraron gli occhi miei (son. 13, vv 5-6) Canzon, s’al dolce loco / la donna nostra vedi337 (canz. 37, vv 113-114) Io amai sempre, et amo forte anchora, / et son per amar più di giorno in giorno, / quel dolce loco, ove piangendo torno / spesse fiate, quando Amor m’accora (son. 85, vv 1-4) E ‘l fiero passo ove m’agiunse Amore (son. 100, v 9) Aventuroso più d’altro terreno, / ov’Amor vidi già fermar le piante / ver’ me volgendo quelle luci sante / che fanno intorno a sé l’aere sereno (son. 108, vv 1-4) Persequendomi Amor al luogo usato (son. 110, v 1) Tosto che giunto a l’amorosa reggia338 / vidi onde nacque l’aura dolce et pura (son. 113, vv 9-10) I miei sospiri più benigno calle / avrian per gire ove lor spene è viva: / or vanno sparsi, et pur ciascuno arriva / là dov’io il mando, che sol un non falle. / Et son di là sì dolcemente 336 A questo si aggiunge, soprattutto nel Canzoniere, il luogo in cui l’amata è nata (in un caso, nel sonetto 295, interpretato in senso morale e cristiano, cioè come Dio che ha creato l’anima e a cui l’anima torna dopo la morte come alla sua vera dimora). In un caso (sonetto 194) il poeta cita anche il proprio luogo di nascita, in termini generici, cioè come Italia cui si rinuncia in favore della Provenza solo in virtù dell’amata. Infine, due volte viene citato il momento di nascita dell’amata, nelle canzoni 29 e 325. 337 Poco sopra tale luogo era stato definito albergo di “honestate et cortesia”. 338 La critica è in sostanza concorde che si tratti del luogo dove dimora, o meglio dimorava l’amata al momento dell’innamoramento. Non è rilevante in questa sede che si interpreti più precisamente “dimora” o “ingresso della regione”: per tali aspetti si veda piuttosto Santagata 1996, p. 530. 346 accolti, / com’io m’accorgo, che nessun mai torna: / con tal diletto in quelle parti stanno (son. 117, vv 5-11) Torna a la mente il loco / e ‘l primo dì ch’i’ vidi a l’aura sparsi / i capei d’oro, ond’io sì subito arsi (canz. 127, vv 81-83) Quando mi vene inanzi il tempo e ‘l loco / ov’io perdei me stesso, e ‘l caro nodo (son. 175, vv 1-2) Pur quel nodo mi mostra e ‘l loco e ‘l tempo (son. 175, v 14) Ma ‘l bel paese e ‘l dilectoso fiume / con serena accoglienza rassecura / il cor già vòlto ov’abita il suo lume (son. 177, vv 12-14) L’altro coverto d’amorose piume / torna volando al suo dolce soggiorno (son. 180, vv 1314) Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo, / tu prima amasti, or sola al bel soggiorno / verdeggia […] / Stiamo a mirarla: i’ ti pur prego et chiamo, / […] / L’ombra che cade da quel’humil colle, / […] / crescendo mentr’io parlo, agli occhi tolle / la dolce vista del beato loco, / ove ‘l mio cor co la sua donna alberga (son. 188, vv 1-14) I dolci ov’io lasciai me stesso (son. 209, v 1) Solo al mondo paese almo, felice, / verdi rive fiorite, ombrose piagge, / voi possedete, et io piango, il mio bene (son. 226, vv 12-14) Sovra dure onde [la Durenza], al lume de la luna / canzon nata di notte in mezzo i boschi, / ricca piaggia vedrai deman da sera (sest. 237, vv 37-39) Mira quel colle, o stanco mio cor vago: / ivi lasciammo ier lei, […] / Torna tu là, ch’io d’esser sol m’appago (son. 242, vv 1-5) Ma mia fortuna, a me sempre nemica, / mi risospigne al loco ov’io mi sdegno / veder nel fango il bel tesoro mio (son. 259, vv 9-11) I’ ò pien di sospir’ quest’aere tutto, / d’aspri colli mirando il dolce piano / ove nacque colei ch’avendo in mano / meo cor in sul fiorire e ‘n sul far frutto (son. 288, vv 1-4) Ove giace il tuo albergo, et dove nacque / il nostro amor, vo’ che abbandoni et lasce339 (son. 305, vv 12-13) Sento l’aura mia anticha, e i dolci colli / veggio apparire, onde ‘l bel lume nacque (son. 320, vv 1-2) È questo ‘l nido in che la mia fenice / mise l’aurate et le purpuree penne (son. 321, vv 12). Trovatori Ni non presi destoutas / al prim qu’intriei el chastel dinz lo decs, / lai on estai midonz […] (Arnaut Daniel, XII, vv 10-12) Qe d’autra part non aug ni veich / mas vas la terra e vas l’endreich / on mas vos vei, mai n’ai de dol (Raimbaut d’Aurenga, XXIII, vv 71-73) Per que es molt gran merce / qui m mentau neis lo castel / on jai […] (Raimbaut d’Aurenga, XXIX, vv 50-53) Mas fals lauzenger engres / m’an lugnat de so pais (Bernart de Ventadorn, XX, vv 10-11) Luenh es lo castelh e la tors / on elha jai e sos maritz (Jaufré Rudel, II, vv 17-18) Lai, el regneon mi donz estai (Cercamon, V, v 44) 339 Il contesto è valchiusano e al contempo luttuoso: l’“albergo” di Laura ora non può che essere nel sepolcro. 347 Selha que m degra messatge / enviar de ss’encontrada (Marcabru, XXVIII, vv 22-23) Hon qu’ieu estey, lai sopley et azor / on ylh estai, que plai als fis cortes (Sordello, VII, vv 25-26) Gaita be, gaiteta del chastel340 (Raimbaut de Vaqueiras, XXV, v 1) E pren comjat del repaire / on tant gen fui acuillitz / on nais jois, sens e valors (Bertran de Born, XX, vv 16-18) A Dieu coman la terra on il lestai, / e l douz pays on nasquet eissamen (Rambertino Buvalelli, VII, vv 25-26) Per aital geng me fez mos sens partir / del sieu pais que no vis son cors gen (Aimeric de Belenoi, V, vv 9-10) Ves lo pais, pros dompna issernida, / repaus mos huoills on vostre cors estai (Arnaut de Maruelh, VIII, vv 25-26) Car m’en avenc per sa terra passar (Raimon Jordan, II, v 8) Al dessebrat del pas / on m’avi’amors conquis (Peire d’Alvernha, II, vv 1-2) Anz, car eu vas leis no pas, / li trametrai, lai on es, / chanson faita de merces (Raimon de Miravall, XVII, vv 4-6) Mos cors s’alegr’e s’esjau / per lo gentil temps suau / e pel castel de Fanjau / que m ressembla Paradis (Peire Vidal, IX, vv 1-4) Q’en pays estraing / sui, e non vei messatge (Gaucelm Faidit, XIV, vv 5-6) Que ves son pays me vire (Folquet de Romans, I, v 29) Lai, al renc de Barsalona, / estai l’amors qu’amar suoill (Peire Raimon de Tolosa, X, vv 37-38) Lai on es proeza certana, vas Salve t’en vai, e no t trics (Daude de Pradas, I, vv 41-42). 5.2 Indicazioni geografiche precise Si nota facilmente che l’indicazione dei luoghi dell’amore, soprattutto in Petrarca, manca di precisione. Anche la rappresentazione di Valchiusa non vale tanto in sé, quanto per ciò che rappresenta: appunto il luogo dell’amore. A questo possono poi aggiungersi elementi ulteriori: il carattere evocativo della natura amena, la contrapposizione con la città corrotta, per il poeta aretino, il legame con i luoghi della vita politica e militare, per i trovatori. Tuttavia, al centro è la persona amata e lo spazio ha valore di conseguenza. D’altro canto non mancano, né nel Canzoniere né nelle opere occitaniche, indicazioni geografiche più specifiche e realistiche, che danno conto di viaggi e spostamenti. Il significato di tali informazioni è notevole se pensiamo all’importanza del motivo della lontananza e della separazione nella lirica amorosa341. Attraverso dettagli anche limitati sul viaggio, l’io poetico ci appare davvero lontano dalla sua amata e la sua sofferenza 340 La rappresentazione del luogo in cui gli amanti si incontrano, e dunque dove presumibilmente vive l’amata, resta implicita, espressa attraverso la convenzione del genere alba: in questo caso infatti gli amanti si incontrano per una notte affidandosi alla fedeltà e alla vista di una guardia che vigili sulla loro alcova. 341 Tale aspetto è stato anticipato in qualità di vero e proprio genere nel capitolo precedente. 348 ancor più straziante; è utile considerare simili indicazioni referenziali come consapevole tecnica comunicativa. La questione non è però così semplice. Non possiamo infatti tralasciare le questioni storiche, politiche e sociali che potrebbero essere sottintese alle suggestioni spaziali provenzali, considerato anche il panorama di faziosità tra regioni e corti diverse. Né si può limitare l’interpretazione dei luoghi petrarcheschi all’aspetto biografico: è ben noto che, come la cronologia dei testi è falsificata al fine di creare una successione efficace dal punto di vista esistenziale ed esemplare, lo stesso vale per i luoghi e gli spostamenti. Il viaggio per altro non è mai solo del corpo, ma lo è anche dello spirito, in chiave sia amorosa (la vicenda dell’io che ama Laura) che morale (la tensione di un io cristiano, ma anche coinvolto dalla dimensione terrena). Sono premesse inevitabili; per il momento comunque ciò che ci interessa è il recupero di una strategia rappresentativa funzionale alla vicenda amorosa, applicata ad un contesto nuovo e sempre più stratificato a livello semantico342. 5.2.1 Viaggi Petrarca Del mar Tirreno a la sinistra riva (son. 67, v 1) L’aspetto sacro de la terra vostra343 (son. 68, v 1) Et che ‘l notai là sopra l’acque salse, / tra la riva toscana et l’Elba et Giglio (son. 69, vv 78) Per mezz’i boschi inhospiti et selvaggi, / onde vanno a gran rischio uomini et arme344 (son. 176, vv 1-2) Po, ben puo’ tu portartene la scorza / di me con tue possenti et rapide onde (son. 180, vv 1-2) Rapido fiume che d’alpestra vena / rodendo intorno, onde ‘l tuo nome prendi (son. 208, vv 1-2). Trovatori A Mon-Joi, e non disses / que m cuges engasconir, / mas er mo fren vir / de ssaj Quablais (Giraut de Bornelh, XXXII, vv 52-56) En Alvergnhe, part Lemozi, / m’en anei totz sols a tapi (Guglielmo IX, V, vv 11-12) En Alvergne et en Fores / et en Veslai, / lai on no sabon qi s’es / ni ls trag q’el trai345 (Uc de Saint Circ, XXIV, vv 27-30) Miels-de-domna, s’ieu sui sai vas Palensa (Rigaut de Berbezilh, VI, 46) Per q’ieu ai talan que fassa / saber lai en terra grega (Elias Cairel, VI, 5-6) 342 Annotiamo solo di sfuggita che la rappresentazione spaziale nel Canzoniere è arricchita da numerosi riferimenti astronomici, che sono invece rarissimi nel corpus trobadorico. 343 Il poeta si riferisce implicitamente a Roma. 344 Il poeta fa qui riferimento all’attraversamento del bosco delle Ardenne. 345 La canzone è un tipico esempio di insulti o critiche organizzati secondo un elenco di aree geografiche, come vuole un topos piuttosto riconoscibile in ambito occitanico. 349 Jujar, to proenzalesco, / s’eu aja guazo de mi, / non prezo un genoì. / No t’entend plui d’un Toesco / o Sardo o Barbarì346 (Raimbaut de Vaqueiras, III, vv 71-75) Per vos serai estrains de mon pays / e m mudarai part Angau (Bertran de Born, IX, vv 1920) Ben m’agra vist l’Avergnaz plus soven / a Monbrisio, et tuit mei benvolen, / mas tengut m’an Petaus et Engolmes (Monje de Montaudon, I, vv 73-75) Anc non aniey tans camis / ves Francs ni ves Sarrazis (Peire d’Alvernha, II, vv 17-18) Per totz temps lais Alberges / e remanh en Carcasses (Peire Vidal, IX, vv 22-23) Que s’amassetz aissi cum vos vanatz, / no us foratz tant de Tolosa loignatz (Aimerc de Peguilhan, XIX, vv 47-48) Vas Montferrat ten ta via / a mon Tesaur, ses faillia (Gaucelm Faidit, LXIV, vv 55-56) Narbona, on qu’ieu si’anans, / lai volf e vir’e vai mos chans (Guilhem Ademar, IX, vv 57-58) Lanqan vinc en Lombardia, / una bella domna pros / me dis, per sa cortezia (Arnaut Catalan, V, vv 1-3) Per de Luserna s gar (Peire Guilhem de Luserna, III, v 20) Arondeta, del rei no m posc partir / q’a Tholoza no l m convenga seguir (Guilhem de Berguedà, XXV, vv 25-26) En Vianes anera plus soven, / mas per midonz remain sai Alvergnatz (Peirol, XIII, vv 4647). 5.2.2 Paragoni e iperboli Indicazioni geografiche precise e apparentemente realistiche possono anche essere usate a scopo retorico, con effetto per lo più iperbolico, per indicare cioè la totalità del mondo oppure per evocare luoghi esotici in cui sia accettabile che le regole della natura siano scardinate o ancora per creare paragoni con la situazione amorosa o per gusto di onomastica dotta. Di reale dunque resta solo il nome geografico in sé, non la funzione descrittiva con cui è proposto o gli avvenimenti che vi si associano. Petrarca Forse sì come ‘l Nil d’alto caggendo / col gran suono i vicin’ d’introno assorda347 (son. 48, vv 9-10) Ma io, perché [il sole] s’attuffi in mezzo l’onde, / et lasci Hispagna dietro a le sue spalle, / et Granata et Marrocho et le Colonne (canz. 50, vv 46-48) Qual Scithia m’assicura, o qual Numidia, / s’anchor non satia del mio exilio indegno / così nascosto mi ritrova Invidia? (son. 130, vv 12-14) 346 La famosa tenzone bilingue di Raimbaut de Vaqueiras è un documento linguistico-letterario importantissimo. Qui ci interessa più che altro l’implicita testimonianza relativa a spostamenti ed incontri reali, che il testo lirico registra, e che si sovrappongono ad usi diversi delle coordinate geografiche. Infatti, gli esempi di tedeschi, sardi (di necessità ben distinti dai genovesi) e barbari rappresentano per iperbolica antonomasia realtà distanti, ignote, persino esotiche. D’altra parte costituiscono anche realtà geo-linguistiche reali, che il poeta deve entro certi limiti aver conosciuto. 347 La scelta del Nilo ha evidentemente un valore topico, poiché torna più volte in Petrarca e si riscontra anche nei trovatori, ad esempio in Arnaut Daniel. 350 Là onde il dì vèn fore (canz. 135, v 5) Una petra è sì ardita / là per l’indico mar […] (canz. 135, vv 16-17) Un’altra fonte à Epiro (canz. 135, v 61) Fuor tutti i nostri lidi / ne l’isole famose di Fortuna (canz. 135, vv 76-77) I’ da man manca, e’ tenne il camin dritto; / i’ tratto a forza, et e’ d’Amore scorto; / egli in Ierusalem, et io in Egipto348 (son. 139, vv 9-11) Del vostro nome, se mie rime intese / fossin sì lunge, avrei pien Tile et Battro, / la Tana e ‘l Nilo, Atlante, Olimpo et Calpe. / Poi che portar nol posso in tutte et quattro / parti del mondo, udrallo il bel paese / ch’Appennin parte, e ‘l mar circonda et l’Alpe (son. 146, vv 9-14) Non Tesin, Po, Varo, Arno, Adige et Tebro, / Eufrate, Tigre, Nilo, Hermo, Indo et Gange, / Tana, Histro, Alpheo, Garona, e ‘l mar che frange, / Rodano, Hibero, Ren, Sena, Albia, Era, Hebro (son. 148, vv 1-4) Non da l’hispano Hibero a l’indo Ydaspe, / ricercando del mar ogni pendice, / né dal lito vermiglio a l’onde caspe, / ne ‘n ciel né ‘n terra, è più d’una fenice (son. 210, vv 1-4) Perduto ò quel che ritrovar non spero / dal borrea a l’austro, o dal mar indo al mauro (son. 269, vv 3-4). Trovatori Bertran, non cre de sai lo Nil / mais tant de fin joi m’apoigna / tro lai on lo soleils ploigna, / tro lai on lo soleills plovil (Arnaut Daniel, IV, vv 49-52) M’i fos enpres ab talan / sai entre l Monteill e Gorda (Raimbaut d’Aurenga, XXXIV, vv 43-44) De llai don s’abriva l Nils / tr osai on sols es colganz (Giraut de Bornelh, XXXVIII, vv 52-53) Enanz qe faillimen fezes, / don er parlat tro en Peitau349 (Cercamon, V, vv 41-42) Q qan no vei sas faichos / si be m soi en mon pais, / cuig esser loing en Espagna (Folchetto da Marsiglia, XXIII, vv 19-21) C’una basseta m’a conques / tals que de Paris tro al Groing / gensser non es ni mieills no ill vai / a nuilla de fin pretz verai (Gausbert Amiel, I, vv 24-27) Q’eu no vuoill aver Torena / ni Roais, / ses lieis qe ja no m retena (Bertran de Born, VIII, vv 12-14) Si per amic / mi tengues la plus gaya / fag m’agra ric / mielhs que qui m dones Blaya (Aimeric de Belenoi, IV, vv 71-74) La genser dona qu’ieu anc vis, / ni que sia el mon, so crey, / luenh ni pres en negun pays (Arnaut de Maruelh, XXIV, vv 22-24) Amer’ieu plus que Roays (Peire d’Alvernha, II, v 27) E mais dezir vostr’amansa / que Lombardia ni Fransa (Peire Vidal, VI, vv 7-8) Zo que mais val que Alixandra / e meill de nul’autra ricor (Peire Raimon de Tolosa, VII, 31-32). 348 Il passo ha valore esclusivamente morale e così il componimento da cui è tratto, che pure rappresenta una pausa non solo logica ma anche spaziale rispetto alla vicenda d’amore. 349 In questo caso il riferimento iperbolico ha valore negativo, di critica alla dama traditrice, la cui fama infelice si diffonde per tutto il Midi. 351 5.3 Indicazioni cronologiche nella vicenda amorosa (anniversari) Uno degli aspetti più noti del Canzoniere petrarchesco concerne la sua scansione temporale. La costruzione della raccolta e al contempo quella della vicenda amorosa si basano infatti su una serie di anniversari350 che segnalano lo scorrere del tempo e l’evoluzione (o per certi aspetti la stasi) della storia, rispetto prima all’amore e poi alla morte dell’amata351. Ad evidenziare tale elaborazione cronologica e al contempo ad esaltarne gli indubbi significati simbolici, Petrarca esplicita le date dell’innamoramento e della dipartita di Laura, che segnano come pietre miliari l’esistenza dell’io lirico. La loro coincidenza reciproca e con il giorno di Pasqua determina una stratificazione di significati cui la critica si è a lungo dedicata e che ci limitiamo a ricordare a titolo generale. Petrarca disponeva per quella che di fatto è una notevolissima innovazione di alcuni modelli parziali. Il più vicino in termini di tempo e forse di ispirazione è Dante: nella Vita nova, infatti, pur senza esplicitare le date, il poeta calcola lo scorrere del tempo tra gli avvenimenti principali e cita un anniversario cardine, cioè il primo dalla morte di Beatrice. Non mancano però anche significativi antecedenti provenzali: da una parte la raccolta autoriale di Guiraut Riquier352, scandita dalla datazione dei componimenti, a livello dunque paratestuale, e dall’altra il motivo non frequentissimo ma abbastanza diffuso degli anni del servizio amoroso. Diversi poeti, infatti, insistono sulla gravità delle loro sofferenze indicandone con precisione la durata. Tutto ciò consente di ipotizzare che la numerazione degli anni d’amore abbia una matrice convenzionale e come tale sia passata dalla tradizione cortese al nostro autore. Inoltre, è possibile intuire una sorta di sintesi all’origine dell’invenzione petrarchesca: il motivo convenzionale acquista maggiore precisione sia nella numerazione degli anni sia nella citazione delle date, e soprattutto viene riproposto in modo reiterato, trasportando però quella continuità dal piano paratestuale a quello testuale. A tali indicazioni va infine aggiunta quella relativa al momento dell’innamoramento in sé, proposta non tanto in termini precisi, ma come rappresentazione del momento che ha cambiato la vita del poeta353. 350 Su possibili antecedenti di tale uso, sia in ambito romanzo che latino, si è soffermato Carrai 2004, mettendo in evidenza l’importanza della tradizione neolatina e dei trovatori in particolare, oltre che dell’esempio dantesco, ma anche l’originalità della soluzione petrarchesca in cui l’anniversario diviene principio strutturale. Proprio seguendo tale punto di vista, anche Cappello 1998, pp. 219-221, si è soffermato sul meccanismo degli anniversari. 351 Il motivo del tempo che passa e dunque il senso di una vicenda che si protrae a lungo giustificano la frequenza di un altro motivo tipico della lirica amorosa, e comune in particolare a Petrarca e ai trovatori: il ricordo. Più volte, infatti, l’io lirico si sofferma a pensare alla propria storia, a ciò che ha perso o ottenuto, a un particolare momento dell’amore vissuto. Il tema, coerente per altro anche con il topos della separazione e della lontananza, comporta a sua volta un ulteriore arricchimento della rappresentazione, ad esempio con l’immagine della nostalgia o con l’espressione delle conseguenze del ricordo stesso, dolcezza, conforto, mancamento e così via. 352 Su tale argomento ci soffermeremo nel sesto capitolo. 353 Le prime due strofe della canzone 23 insistono ampiamente, ma implicitamente, su questo momento fondamentale. 352 Petrarca I’ benedico il loco e ‘l tempo et l’ora / che si alto miraron gli occhi miei354 (son. 13, vv 56) Ricorro al tempo ch’i’ vi vidi prima (son. 20, v 2) Ma l’ora e ‘l giorno ch’io le luci apersi / nel bel nero et nel biancho (canz. 29, vv 22-23) Che s’al contar non erro, oggi à sett’anni / che sospirando vo di riva in riva (sest. 30, vv 28-29) Ch’i’ son già pur crescendo in questa voglia / ben presso al decim’anno (canz. 50, vv 5455) Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, et l’anno (son. 61, v 1) Or volgi, Signor mio, l’undecimo anno / ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo (son. 62, vv 9-10) Gli altri asciugasse un più cortese aprile (son. 67, v 14) S’al principio risponde il fine e ‘l mezzo del quartodecimo anno ch’io sospiro (son. 79, vv 1-2) Et son fermo d’amare il tempo et l’ora / ch’ogni vil cura mi levar d’intorno (son. 85, vv 56) La voglia et la ragion combattuto ànno / sette et sette anni; et vincerà il migliore (son. 101, vv 12-13) Fuggir vorrei: ma gli amorosi rai, / che dì et notte ne la mente stanno, / risplendon sì, ch’al quintodecimo anno / m’abbaglian più che ‘l primo giorno assai (son. 107, vv 5-8) Pien di quella ineffabile dolcezza / che del bel viso trassen gli occhi miei / nel dì che volentier chiusi gli avrei / per non mirar già mai minor bellezza (son. 116, vv 1-4) Rimansi a dietro il sestodecimo anno / de’ miei sospiri, et io trapasso inanzi (son. 118, vv 1-2) Dicesette anni à già rivolto il cielo (son. 122, v 1) Torna a la mente il loco / e ‘l primo dì ch’i’ vidi a l’aura sparsi / i capei d’oro, ond’io sì subito arsi (canz. 127, vv 81-83) Nel dì ch’io presi l’amoroso incarco (son. 144, v 6) Sarò qual fui, vivò com’io son visso, / continuando il mio sospir trilustre355 (son. 145, vv 12-14) Quel sempre acerbo et honorato giorno / mandò sì al cor l’imagine sua viva (son. 157, vv 1-2) Quando mi vene inanzi il tempo e ‘l loco / ov’io perdei me stesso, e ‘l caro nodo (son. 175, vv 1-2) Pur quel nodo mi mostra e ‘l loco e ‘l tempo (son. 175, v 14) Fammi risovenir quand’Amor diemme / le prime piaghe, sì dolci profonde (son. 196, vv 3-4) Mille trecento ventisette, a punto / su l’ora prima, il dì sesto d’aprile, / nel laberinto entrai, né veggio ond’esca (son. 211, vv 12-14) Così venti anni, grave et lungo affanno (son. 212, v 12) 354 Questo tipo di struttura elencatoria, soprattutto nella forma del tricolon, sia in polisindeto che in asindeto, è abbastanza frequente ed ha precisi riscontri nello stile trobadorico, soprattutto arnaldiano. 355 Il sonetto 145 pone la nota questione dell’inversione cronologica rispetto a 118 e 122, che corrispondono a sedici e diciassette anni. Il problema è presumibilmente legato all’ampliamento della forma Correggio e dunque ad una svista nella ricomposizione della serie via via che i testi aumentavano. 353 Et son già ardendo nel vigesimo anno (son. 221, v 8) Homini et dei solea vincer per forza / Amor, come si legge in prose e ‘n versi: / et io ‘l provai in sul primo aprir de’ fiori356 (sest. 239, vv 19-21) Un lauro verde, una gentil colomna, / quindeci l’una, et l’altro diciotto anni / portato ò in seno, et già mai non mi scinsi357 (son. 266, vv 12-14) L’ardente nodo ov’io fui preso d’ora in hora, / contando, anni ventuno interi preso, / Morte disciolse, né già mai tal peso / provai, né credo ch’uom di dolor mora (son. 271, vv 1-4) O che bel morir era, oggi è terzo anno! (son. 278, v 14) Sospira et dice: - O benedette l’ore / del dì che questa via con li occhi apristi! – (son. 284, vv 13-14) Al tempo che di lei prima m’accorsi: / onde subito corsi, / ch’era de l’anno et di mi’ etate aprile (canz. 325, vv 11-13) Sì nel mio primo occorso honesta et bella / veggiola in sé raccolta, et sì romita (son. 336, vv 5-6) Sai che ‘n mille trecento quarantotto, / il dì sesto d’aprile, in l’ora prima, / del corpo uscìo quell’anima beata (son. 336, vv 12-14) Tennemi Amor anni ventuno ardendo, / lieto nel foco, et nel duol pien di speme; / poi che madonna e ‘l mio cor seco inseme / saliro al ciel, dieci altri anni piangendo (son. 364, vv 1-4). Trovatori Ab mon vers qu’ai fait pres d’an nou358 (Raimbaut d’Aurenga, X, v 47) Quand nos vim / sempr’es al cim (Raimbaut d’Aurenga, XVIII, vv 73-74) Depus anc la vi m’a conques (Bernart de Ventadorn, V, v 22) Pois fom amdui efan, / l’am ades e la blan (Bernart de Ventadorn, XXVIII, vv 25-26) Sivals lo jorn que eu podia / son bel cors gai plazen vezer, / no m podia mals dan tener (Uc de Saint Circ, III, vv 7-9) Miels-de-domna, que fugit ai dos anz (Rigaut de Berbezilh, II, v 50) C’ab bel semblan m’a tengut en fadia / mai de dez ans, a lei de mal deutor (Folchetto da Marsiglia, VII, vv 6-8) E mon seigner m’ac pres de lieis assis / son brun feltr’emperiau (Bertran de Born, IX, vv 27-28) Mas de mi n’a dos ans passat al men / qu’ie us son privatz qu’anc de re no us enques (Monje de Montaudon, I, vv 65-66) 356 L’immagine di Amore vittorioso, cui nessuno, né uomo né dio può resistere, è assolutamente topica e si trova già in ambito trobadorico. Si legga ad esempio la canzone 4 di Bernart de Ventadorn. 357 Di nuovo il conteggio è contraddittorio, poiché i diciotto anni ricorrono dopo i venti riportati in 212 e 221. L’altra indicazione cronologica si riferisce al rapporto clientelare (ma anche personale) con il cardinale Giovanni Colonna, destinatario del componimento. Mentre la dedica anche di interi testi a patroni ed altre figure politiche è consueta in ambito trobadorico, non lo è l’utilizzo di riferimenti cronologici. Semmai i Provenzali insistono sulle proprie intenzioni future, la cui identificazione temporale resta generica ed imprecisa. 358 Non si tratta in questo caso di un’indicazione di durata, ma comunque ne deriva un interessante riferimento cronologico rispetto all’evoluzione della relazione amorosa. 354 Qe, per Dieus359, set360 anz a be / qe us am de cor e us desir (Monje de Montaudon, VI, vv 19-20) Qu’en domney ses totz enguans / es greus termes de tres ans (Raimon de Miravall, X, vv 53-54) Passat son cinc mes et dui an (Raimon de Miravall, XV, v 49) N’ai ieu joguat cinc ans entiers (Raimon de Miravall, XXIV, v 44) Q’en un sol jorn m’an tolgut / tot qant avi’en dos ans / conques ab mainz durs affans (Raimon de Miravall361, XXXV, vv 7-9) Al prim qu’ieu Midons vi (Aimeric de Peguilhan, XLIX, v 20) Al prim q’ie us vi, m’agr’ops, dompna, que fos (Gaucelm Faidit, XVII, v 9) Q’en breu aura environ de set ans / qe m fetz amar tant fort, senes mesura (Gaucelm Faidit, XLVI, vv 3-4) Et de mi a passat un an (Gui d’Ussel, v 17) Per lo dous ris e l’amoros semblan / que m fetz midons al prim esgardamen (Cadenet, I, vv 4-5) On m’a tengut, senes tot chauzimen / non sol un an, ans crezatz certamen / seran complit set ans al prim erbatge (Cadenet, I, vv 12-14) Don ay gran dol, aissi com alegrier, ( don’, aic per vos can vos vi de primier (Bertran Carbonel, II, vv 9-10) Dos ans ai atendut e mais / lo don que m covenc e m promes (Peire Bremon Ricas Novas, V, vv 19-20) Car ben son pasat dui an / c’ieu non vi, mas en pensan (Peire Bremon Ricas Novas, X, vv 58-59) Ben a dos anz passatz, / e jes no m’en recre (Peire Bremon Ricas Novas, XI, vv 17-18) Tot autressi ai sercat trenta mes (Peire Bremon Ricas Novas, XII, v 13) E l dezirs a m fag languir / XX ans, quar creire m fazia (Guiraut Riquier, XXII, vv 17-18) Qu’ieu avia malanans / estat d’ans XX fis amaire, / e pueys a m tengut V ans / guerit ses ioy del maltraire (Guiraut Riquier, XXIII, vv 6-9) Si m destrenhetz mon fin cor en un loc / ben a tres ans, qu’anc d’un voler no s moc (Guilhem Augier Novella, V, vv 35-36). 5.4 L’età degli amanti Tratto ricorrente della rappresentazione lirica è l’età che avanza. L’immagine può essere declinata secondo due diverse prospettive: la prima, piuttosto frequente sia nei trovatori che in Petrarca, insiste sul rapporto tra vicenda amorosa e invecchiamento. L’una è 359 Questo tipo di interiezione è piuttosto diffuso in ambito trobadorico; benché non costituisca un’immagine specifica e peculiare, evidenzia comunque la tendenza a mescolare elementi del sacro e dimensione del profano, che l’identità dell’autore (monaco e poeta d’amore, spesso con chiare venature erotiche) accentua a sua volta. Della compresenza di eros e dimensione divina si è già trattato, per le immagini più peculiari ed elaborate, nel corso del presente capitolo. 360 Come vedremo nel corso del quarto capitolo, il valore simbolico del numero 7 e soprattutto del relativo anniversario è molto significativo. 361 I quattro testi di anniversario che si colgono nella produzione di Raimon de Miravall sono particolarmente significativi rispetto ad un preciso gusto poetico che troverà le sue più piene e consapevoli conseguenze nel Canzoniere. Per quanto concerne la successione dei testi, se ne ricava ben poco: manca un intervento autoriale documentato e non è affatto certo che la dama di cui si parla nei diversi testi sia sempre la medesima. 355 causa dell’altro, che spesso risulta accelerato dalle sofferenze. D’altra parte, il senso degli anni che passano contribuisce anche alla costruzione della storia, esattamente come il ricorrere degli anniversari e la precisazione della durata dell’amore: la vicenda acquisisce cioè maggiore profondità cronologica. Tuttavia tale approccio è tipico principalmente di Petrarca che, considerando Laura una donna nella sua concretezza, la rappresenta come tale e soprattutto considera in tutti i suoi aspetti il percorso esistenziale del Canzoniere362. Anche la relazione età-desiderio è caratteristica della concezione petrarchesca: evidenziare la permanenza del secondo a dispetto della prima è sintomo del malessere interiore e del dramma morale dell’io lirico363. Petrarca Se la mia vita da l’aspro tormento / si può tanto schermire, et dagli affanni, / ch’i’ veggia per vertù degli ultimi anni, / donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento364 (son. 12, vv 1-4) O colle brune o colle bianche chiome, / seguirò l’ombra di quel dolce lauro (sest. 30, vv 15-16) I’ temo di cangiar pria volto et chiome, / che con vera pietà mi mostri gli occhi / l’idolo mio […] (sest. 30, vv 25-27) Sol con questi penser’, con altre chiome, / sempre piangendo andrò per ogni riva (sest. 30, vv 32-33) Quel foco ch’i’ pensai che fosse spento / dal freddo tempo et da l’età men fresca, / fiamma et martir ne l’anima rinfresca (bal. 55, vv 1-3) Se bianche non son prima ambe le tempie / ch’a poco a poco par che ‘l tempo mischi (son. 83, vv 1-2) In questa passa ‘l tempo, et ne lo specchio / mi veggio andar ver’ la stagion contraria / a sua impromessa, et a la mia speranza. / Or sia che pò: già sol io non invecchio; / già per etate il mio desir non varia (son. 168, vv 9-14) Di dì in dì vo cangiando il viso e ‘l pelo (son. 195, v 1) 362 Il meccanismo degli anniversari e la rappresentazione di una Laura ormai matura sono già stati affrontati nel capitolo precedente, in riferimento al genere del planh. 363 Va ricordato anche il topos dell’imbarazzante amore senile, che si trova ad esempio nel sonetto 271 (Santagata 1996, p. 1109) e che invece non ha risonanza nei trovatori. 364 Il sonetto prosegue nella quartina successiva descrivendo la vecchiaia di una Laura ormai sfiorita. Tale ritratto è inusitato, soprattutto se pensiamo all’idealizzazione sempre più disincarnata operata dalla poesia italiana dai Siciliani agli stilnovisti; qualche anticipazione si può trovare presso i trovatori, più aperti a soluzioni realistiche, in particolare in componimenti di accusa o di scherno nei confronti del personaggio femminile. Sono comunque casi molto isolati e tutt’altro che canonici rispetto ai dettami della fin’amor. Si pensi ad esempio alla canzone 28 di Bernart de Ventadorn, dove il poeta dichiara sì il suo amore profondo, dedito e di lunghissima data, ma di fatto minaccia anche la sua dama ricordandole che nella vecchiaia sarà lei a pregare lui di manifestarle ancora il consueto desiderio. Il sonetto 12 anticipa per certi aspetti il tema delle “oneste voglie” che si è anticipato in questo stesso capitolo a proposito del guiderdone e poi della confidenza tra gli amanti. Qui, infatti, a titolo di ipotesi per il futuro, è già presentata l’idea dell’amata ormai fiduciosa nei confronti dell’amante, e dunque disposta ad ascoltarne le confidenze: la vecchiaia elimina ogni sospetto, perché tende a smorzare l’impeto erotico. Nel sonetto 12, perciò, il poeta non sembra ancora attribuirsi, come invece farà esplicitamente dopo la cesura mediana e la morte di Laura, intenzioni limpide e caste, tali sia nel presente (luttuoso) sia nel passato (amoroso e infelice). 356 Non so s’i’ me ne sdegni / che ‘n questa età mi fai divenir ladro / del bel lume leggiadro, / […] / Così avess’io i primi anni / preso lo stil ch’or prender mi bisogna, / ché ‘n giovenil fallir è men vergogna365 (canz. 207, vv 7-13) O s’infinge o non cura, o non s’accorge / del fiorir queste inanzi tempo tempie (son. 210, vv 13-14) Che se col tempo fossi ito avanzando / (come già in altri) infino a la vecchiezza (son. 304, vv 10-11) Tutta la mia fiorita et verde etate / passava, e ‘ntepidir sentia già ‘l foco / ch’arse il mio core, et era giunto al loco / ove scende la vita ch’al fin cade (son. 315, vv 1-4) Poco avev’a ‘ndugiar, ché gli anni e ‘l pelo / cangiavano i costumi: / onde sospetto / non fora il ragionar del mio mal seco (son. 316, vv 9-11) Fra gli anni de la età matura honesta (son. 317, v 3) Et vo, solo in pensar, cangiando il pelo (son. 319, v 12) E ‘l vostro per farv’ira vuol che ‘nvecchi (son. 330, v 14) Or l’andrò dietro, omai, con altro pelo (canz. 331, v 60) Ché vo cangiando il pelo, / né cangiar posso l’ostinata voglia (canz. 360, vv 41-42) Dicemi spesso il mio fidato speglio, / l’animo stanco, et la cangiata scorza (son. 361, vv 1-2). Trovatori Lassa, que s fara jamais? / Tan greu cug revena, / tant ha blava vena, / c’uns veillums langora (Bernart Martì, I, vv 33-36) Qu’en liei amar volgra murir senecs (Arnaut Daniel, XIV, v 24) Quar li dic so don soi madurs366 (Raimbaut d’Aurenga, X, v 40) A, tantas vetz / m’a trag nesis parlars / joi d’entels mans, per qu’esdevenc liars ! (Giraut de Bornelh, VII, vv 10-12) E per la carn renovelar / que no puesca enveillezir (Guglielmo IX, VIII, vv 35-36) Mas vos n’auretz oimais lezer, / q’em breu temps perdretz la color! (Elias Cairel, vv 4344) Ben es tornad’en debais / la beutat qu’ill avia, / e no l’en te pro borrais / ni tefinhos que sia, / et es ben razos hueimais, / que l jovens te sa via (Raimbaut de Vaqueiras, XXIII, vv 31-36) Q’eu l vos celera iasse, / si no m temses veillezir (Monje de Montaudon, VI, vv 10-11) Qu’ans serai totz gris / qu’ilh m’entenda (Raimon Jordan, VII, vv 54-55) S’om deu laissar per razon / sidonz, pos es veillezida367 (Raimon de Miravall, XLIV, vv 4-5) Qu’en breu serem ja velh et ilh et eu (Peire Vidal, XXIV, v 6) 365 Anche il motivo dell’imbarazzo per l’uomo maturo che si trova in una situazione emotiva adatta all’età giovanile è convenzionale e diffuso, anche se non tipico dei trovatori. 366 Nella canzone 35, lo stesso Raimbaut suggerisce una soluzione del problema: la poesia, che in genere è presentata come strumento di sfogo (tema su cui si tornerà a breve), garantisce una possibilità di ringiovanire. 367 Non si parla però di una dama in particolare, ma di una linea di comportamento generale, su cui due interlocutori si affrontano in forma di tenzone. Concetto molto simile si trova nelle canzoni 6 e 42 di Peire Vidal, che esprime un generale rifiuto per le donne che abbiano superato una certa età. 357 On sui ebaiz e torbaz; / qu’ela m prega e m diz çastian / que m lais de donei e de çan, / que trop sui vellz ad obs d’aman (Aimeric de Peguilhan, XLIV, vv 4-7) E fara m canudir a flocs, / si no m socor abans d’un an (Guilhem Ademar, II, vv 8-9) Et en breu temps vos perdrez la beltat (Gui d’Ussel, II, v 24). 5.5 Alterne sorti della vicenda d’amore La vicenda d’amore si distende nel tempo e perciò è soggetta a cambiamenti anche radicali. Ciò non si nota soltanto nel Canzoniere, percorso unitario e al contempo vario e contraddittorio, ma anche nei componimenti occitanici. In varie occasioni, infatti, l’io poetico lamenta una gioia passata ora trasformatasi in sofferenza o al contrario gioisce di un imprevedibile miglioramento. L’organizzazione dell’esperienza amorosa in più momenti in parte contraddittori appare perciò convenzionale. Tuttavia nella raccolta petrarchesca la svolta costituita dalla morte di Laura giustifica la gran parte di tali passi, la cui natura topica appare così inserita e giustificata da un preciso contesto esistenziale. Petrarca Seco parlando, et a tempi migliori / sempre pensando: et questo sol m’aita (son. 114, vv 7-8) Amor, Fortuna et la mia mente, schiva / di quel che vede e nel passato volta (son. 124, vv 1-2) Né spero i dolci dì tornino indietro, / ma pur di male in peggio que ch’avanza (son. 124, vv 9-10) Ben mi crea passar mio tempo omai / come passato avea quest’anni a dietro, / senz’altro studio et senza novi ingegni: / or poi che da madonna i’ non impetro / l’usata aita, a che condutto m’ài (canz. 207, vv 1-5) I’ mi vivea di mia sorte contento, / senza lagrime et senza invidia alcuna, / […] / Or quei belli occhi ond’io mai non mi pento / de le mie pene, et men non ne voglio una, / tal nebbia copre, sì gravosa et bruna (son. 231, vv 1-7) O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne, / fonte se’ or di lagrime nocturne (son. 234, vv 1-3) Ivi lasciammo ier lei, ch’alcun tempo ebbe / qualche cura di noi, et le ne ‘ncrebbe (son. 242, vv 2-3) Tornami avanti, s’alcun dolce mai / ebbe ‘l cor tristo; et poi da l’altra parte / veggio al mio navigar turbati i venti (son. 272, vv 9-11) Amor che meco al buon tempo ti stavi / fra queste rive, a’ pensier’ nostri amiche (son. 303, vv 1-2) I dì miei fur sì chiari, or son sì foschi (son. 303, v 12) Da sì lieti pensieri a pianger volta (son. 305, v 4) Volse in amaro sue sante dolceze368 (son. 308, v 3) Passato è ‘l tempo omai, lasso, che tanto / con refrigerio in mezzo ‘l foco vissi (son. 313, vv 1-2) 368 Non solo il concetto, ma la specifica immagine ha valore topico e si trova già nei componimenti trobadorici. 358 Mente mia, che presaga de’ tuoi damni, / al tempo lieto già pensosa et trista (son. 314, vv 1-2) Presso era ‘l tempo dove Amor si scontra / con Castitate, et agli amanti è dato / sedersi inseme, et dir che lor incontra (son. 315, vv 9-11) Che tenne gli occhi mei mentr’al ciel piacque / bramosi et lieti, or li tèn tristi et molli (son. 320, vv 3-4) L’ultimo, lasso, de’ miei giorni allegri / che pochi ò visto in questo viver breve (son. 328, vv 1-2) Mia benigna fortuna e ‘l viver lieto, / i chiari giorni et le tranquille notti / e i soavi sospiri e ‘l dolce stile / che solea resonare in versi e ‘n rime, / vòlti subitamente in doglia e ‘n pianto (sest. 332, vv 1-5) Pieno era il mondo de’ suoi honor’ perfecti, / allor che Dio per adornarne il cielo / la si ritolse: et cosa era da lui (son. 337, vv 12-14) Fu forse un tempo dolce cosa amore, / non perch’i’ sappia il quando: or è sì amara (son. 344, vv 1-2). Trovatori Quar anc fui proatz d’Amor, / c’al comensar me fon pia / mas ora m torn’en bauzia / tot quan ditz, / per que m tenc per avelitz (Bernart Martì, IV, vv 10-14) Si m cocha l bes q’eu n’aic! Q’el luec tornes!369 (Raimbaut d’Aurenga, XXXIII, v 26) Del melhs del mon sui jauzire, / e s’eu anc fui bos sofrire, / ara m’en tenh per garit (Bernart de Ventadorn, XXVII, vv 12-15) Qar del be / qe m’a volgut / reconosc qe s vira (Giraut de Bornelh, XI, vv 15-17) Ai Dieus, tant plazens mi fo / lo jois e tant mi saup bo, / e tant aic avinen vida ! / Mas aora m’es faillida, / q’ieu me sent d’aut bas cazut / e l cor de tut ric joi nut (Uc de Saint Circ, X, vv 15-20) E pois d’amor me sui partitz / cum hom issillatz e faiditz, / tot’ autra vida m sembla mortz / e totz autre jois desconortz (Raimbaut de Vaqueiras, XXII, vv 9-12) Mout eron doutz miei cossir / e ses tot marrimen, / quan la bell’ ab lo cors gen, / […] / e car ill no m rete, / ni l’aus clamar merce, / tuich solatz mi son estraing, / pos de lieis jois mi sofraing (Arnaut de Maruelh, XXV, vv 1-10) Ailas ! Tan amoros semblan / mi mostret al primier deman; / mas aras ilh m’o va camjan (Raimon de Miravall, XV, vv 13-15) Estat ai gran sazo / marritz e consiros, / mas ar sui delechos / plus qu’auzel ni peisso (Peire Vidal, XXXIV, vv 1-4) Qu’en la boca m fes al prim doussezir / so que m’a fag pueys al cor amarzir (Aimeric de Peguilhan, XX, vv 7-8) Si be m camjet per lui nesciamen (Gui d’Ussel, II, v 13) Qu’en plor a tornada ma gigua (Daude de Pradas, VII, v 30) D’estranha maneira / sol esser amors / salvatg’ e guerreira / e mala totz jors. / Ar m’es lauzengeira / sus totz amadors (Peirol, XXV, vv 13-18). 369 L’esclamazione è particolarmente rappresentativa dello stato d’animo del poeta, ma l’intera canzone è in realtà dedicata alla contrapposizione tra i “tormenti felici” del passato e la totale devastazione del presente. 359 5.6 Continuità dell’amore (notte e giorno) Tanto nel corpus trobadorico quanto nel Canzoniere ricorre con elevata frequenza il sintagma “notte e giorno”370. Esso viene utilizzato per sottolineare il continuo riproporsi di un determinato aspetto della vicenda amorosa, solitamente negativo: il poeta sottolinea così, con un ulteriore strumento convenzionale, la tragicità e l’anormalità della propria condizione. Tale immagine è dunque convergente con la rappresentazione stagionale in cui lo scorrere dell’anno consente al poeta di insistere sulla propria resistenza e perseveranza371. La formula “notte e giorno”, però, risulta particolarmente evidente nella sua cristallizzazione, risultando una consuetudine particolarmente significativa, sia per l’espressione dell’amore nel tempo, sia per il confronto tra Petrarca e i trovatori372. Petrarca […] solo lagrimando / là ‘ve tolto mi fu, dì et nocte andava (canz. 23, vv 55-56) Che sospirando vo di riva in riva / la notte e ‘l giorno, al caldo ed a la neve (sest. 30, vv 29-30) Cercan dì et nocte pur chi glien’appaghi (canz. 37, v 64) Però che dì et notte indi m’invita (son. 47, v 7) Perché dì et notte gli occhi miei son molli? (canz. 50, v 62) Meco si sta chi dì et notte m’affanna (canz. 70, v 38) Et potrete pensar qual dentro fammi, / là ‘ve dì et notte stammi (canz. 71, vv 54-55) Torto mi face il velo / et la man che sì spesso traversa / fra ‘l mio sommo dilecto / et gli occhi, onde dì et notte si rinversa (canz. 72, vv 55-58) Dì et notte chiamando il vostro nome (son. 74, v 8) Altri dì et notte la sua morte brama (canz. 105, v 30) Fuggir vorrei: ma gli amorosi rai, / che dì et notte ne la mente stanno (son. 107, vv 5-6) Lasso, quante fiate Amor m’assale, / che fra la notte e ‘l dì son più di mille (son. 109, vv 1-2) […] In questi pensier’, lasso, / nocte et dì tiemmi il signor nostro Amore (son. 112, vv 1314) Al celato amoroso mio pensero, / che dì et nocte ne la mente porto (canz. 127, vv 100101) Di queste pene è mia propia la prima, / arder dì et notte […] (son. 182, vv 9-10) Notte et dì meco disioso scendi (son. 208, v 3) Cieco et stanco ad ogni altro ch’al mio danno / il qual dì et notte palpitando cerco (son. 212, vv 9-10) 370 È attestata anche la formula equivalente “mattino e sera”, soprattutto nei trovatori. Abbiamo infatti già citato tale formula sia in riferimento ai topoi naturalistico-stagionali, sia in riferimento alla sopportazione e all’attesa, nel presente capitolo. 372 Va notato però che tale formula ricorre con frequenza significativa nella produzione siciliana (otto occorrenze). La differenza sostanziale concerne il minor sviluppo, nell’insieme, di tutti gli aspetti che delineano la disforia dell’amante, in particolare il senso di costante oppressione amorosa. Mancano anche le significative connessioni con le immagini naturali, che si leggono soprattutto in Petrarca. 371 360 Non sofferse quant’io: sannolsi i boschi, / che sol vo cercando giorno et notte (sest. 237, vv 11-12) Quando è ‘l dì chiaro, et quando è notte oscura, / piango ad ognor […] (son. 265, vv 6-7) Dovunque io son, dì et notte si sospira (son. 266, v 8) Lo qual dì et notte più che lauro o mirto / tenea in me verde l’amorosa voglia (canz. 270, vv 65-66) Onde si sbigottisce et si sconforta / mia vita in tutto, et notte et giorno piange (son. 277, vv 5-6) Le mie notti fa triste, e i giorni oscuri373 (son. 291, v 12) Ma dì et notte il duol ne l’alma accolto (son. 344, v 13). Trovatori Domna, can mi colc la sera, / la nueyt (e tot iorn) cossir (Raimbaut d’Aurenga, III, vv 3334) Noih e jorn me fai sospirar / si m lassa del cor la razitz (Bernart de Ventadorn, XL, vv 78) Ni l mal qe n trac maitis e sers (Giraut de Bornelh, IX, v 20) Tres enemics e dos mals segnors ai, / c’usqecs poigna nuoig e jorn cum m’aucia (Uc de Saint Circ, II, vv 1-2) Sest trais del meils la briola / plen’ al mati et al ser (Marcabru, XXXVIII, vv 29-30) Que maitin e ser / mi fai doussamen doler (Folchetto da Marsiglia, X, vv 39-40) Ab fin’amor qe m destreing noch e dia (Sordello, XXXVIII, v 2) Cossi nueg e dia / s’amors m’aucizia (Aimeric de Belenoi, IV, vv 6-7) L’ensenhamens e l pretz e la valors / de vos, domna, cui soplei nueit e dia, / m’an si mon cor duit de belha paria (Arnaut de Maruelh, XII, vv 1-3) Qu’en la vostras merceys / s’aten la nueyt e l dia (Raimon de Miravall, XXIX, vv 56-57) Una chanso ai fata mortamen / si qu’eu no sai dire com ni consi, / qu’anc noit ni jorn, de ser ni de mati, / non tenc mon cor ni nulh mon pensamen (Peire Vidal, XII, vv 1-4) Eu q’Amors em d’aital guis’enpres / qu’ora ni jorn, nueg ni mati ni ser, / no s part de me ni eu de bon Esper (Perdigon, I, vv 37-39) S’Amors, ce regna / e me, giors e sers e matis (Gaucelm Faidit, XVIII, vv 20-21) Tant va ives lai sers e matis (Guilhem Ademar, III, v 12) Q’ainch puois no fui ses joi noit ne dia (Folquet de Romans, V, v 11) Que noit ni iorn no s pot de vos partir (Peire Raimon de Tolosa, V, v 32) Tan fan d’enuei nueche dia / fals lausengier enuios (Arnaut Catalan, V, v 33) Sim trebalh la nuoich el dia (Bartolomé Zorzi, VI, v 59) Qu’ieu veni’a lieys e de nueitz e de dias / totas las veguadas que’m mandava’ a se (Guilhem Peire de Cazals, X, vv 11-12) Que nuech ni jorn la fin’amor no m gic / qu’ieu port a lieis, que d’amar m’afortic (Folquet de Lunel, III, vv 7-8) Ni res no y falh, ans resplan nuech e dia (Guiraut Riquier, XXVII, v 34) Per vos, bella dous’amia, / trac nueg e jorn greu martire (Guilhem Augier Novella, V, vv 1-2) 373 Questa occorrenza appare mediana tra l’immagine di “notte e giorno” come totalità del tempo e quella della costanza del dolore, diurno e notturno, che differenzia il poeta dai ritmi normali delle altre creature. 361 La nuoich mi trebaill e l dia / no m laiss’ en patz (Peirol, XVI, vv 25-26). 6. L’amore e la poesia La produzione trobadorica è ricchissima di passi metapoetici, in cui l’io lirico/autore si riferisce alla propria attività letteraria secondo prospettive molteplici. Una prima annotazione diffusissima è quella che collega più o meno in modo diretto ed esplicito il canto poetico all’amore, alla gioia, alla stagione; tali elementi possono essere tutti presenti o meno. Si tratta di un’associazione piuttosto meccanica, che come tale non lascia tracce significative nel Canzoniere. L’approccio occitanico appare invece più simile a quello petrarchesco quando si tratti di commentare le caratteristiche tecniche del proprio canto, fondendo l’autoanalisi e la critica all’espressione lirica stessa. Tali annotazioni nel panorama provenzale assumono due valenze spesso sovrapposte: da una parte il poeta commenta lo specifico testo che va componendo e ne offre una descrizione e talvolta una chiave di lettura, legata allo specifico contenuto e ad un determinato stato d’animo; dall’altra propone più in generale le proprie intenzioni e i propri gusti poetici. La lirica cioè costituisce anche uno spazio adeguato alla teorizzazione e al dibattito, come dimostra la famosa querelle sugli stili, leu e clus374. Il caso del Canzoniere appare ben diverso. Non mancano i commenti sullo stile (si pensi ad esempio alla prima metà della canzone 125), ma sono legati alla vicenda amorosa, pertengono soltanto al punto di vista interno all’espressione lirica. Infatti, lo stile che viene descritto – in più occasioni aspro – trova le sue ragioni proprio nell’emotività dell’io poetico – di solito disperato. Un’altra corrispondenza si coglie nella decisione, poi sempre negata, di abbandonare il canto, cui segue una motivazione per il ritorno alle rime. Di solito il meccanismo ha un’origine sentimentale: il poeta soffre troppo per continuare a cantare, mentre le ragioni per ricominciare a comporre possono essere legate alla vicenda amorosa (il bisogno di comunicare, ad esempio) oppure all’insistenza di mecenati e pubblico (come nel caso di Petrarca)375. Agli inserti metapoetici possiamo associare gli elementi di carattere intertestuale, in primo luogo il riferimento ad altri autori. Per i trovatori citare gli altri cantori significa nella maggior parte dei componimenti una sfida o un’occasione di insulto e derisione, ma non mancano i ritratti di amici e, per Blacatz, il compianto funebre. Questi due ultimi aspetti non solo si ritrovano nel Canzoniere, ma vi sono addirittura potenziati grazie allo spazio riservato ai testi occasionali e di corrispondenza. Riferimenti interessanti, infine, sono dedicati alle fonti, trattate come auctoritates cui affidarsi, ai proverbi, che comportano un altro tipo di saggezza ed autorevolezza, e a 374 Per tale aspetto si veda l’ampia e articolata trattazione in Paterson 1975. Il tema è molto marcato, ad esempio, nel corpus ventadoriano, dove tentazione e indecisione sono riproposte in numerosi componimenti diversi. Le due occorrenze petrarchesche sono state analizzate nel capitolo precedente, in riferimento alle sorti della poesia amorosa dopo la morte dell’amata. 375 362 personaggi celebri della letteratura376. Mentre i Provenzali prediligono l’orizzonte romanzo e soprattutto il filone bretone, Petrarca dimostra la propria prospettiva preumanistica lasciando spazio alla tradizione classica. In questa sede è però più utile osservare i luoghi in cui gli elementi metapoetici siano direttamente coinvolti nella rappresentazione amorosa: la lode377 dell’amata e le sue problematicità, la comunicazione con la dama, il ruolo dell’amata stessa e di Amore nello sviluppo della lirica, il rapporto tra necessità interiori ed espressione esteriore378. 6.1 Ineffabilità e insufficienza poetica Poiché l’amata è perfetta, straordinaria, ultraterrena non è certo agevole lodarla. Il poeta si prova nell’impresa con tutte le proprie forze, ma talvolta deve ammettere l’eccesso delle qualità muliebri o la propria insufficienza379. In tale motivo assolutamente topico (non solo romanzo, non solo trobadorico) sembrano fondersi due istanze a loro volta convenzionali: l’iperbole nell’elogio dell’amata e la modestia di chi scrive. Petrarca Ma: taci, grida il fin, ché farle honor / è d’altri homeri soma che da’ tuoi (son. 5, vv 7-8) Ma trovo peso non da le mie braccia, / né ovra da polir colla mia lima (son. 20, vv 5-6) Né mai in sì dolci o in sì soavi tempre / risonar seppi gli amorosi guai, / che ‘l cor s’umiliasse aspro et feroce (canz. 23, vv 64-66) So io ben ch’a voler chiuder in versi / suo laudi, fora stancho / chi più degna la mano a scriver porse: / qual cella è di memoria in cui s’accoglia / quanta vede vertù, quanta beltade, / chi gli occhi mira d’ogni valor segno, / dolce del mio cor chiave? (canz. 29, vv 50-56) Poiché la vita è breve, / et l’ingegno paventa a l’alta impresa, / né di lei né di lui molto mi fido; / ma spero che sia intesa / là dov’io bramo, et là dove essere deve (canz. 71, vv 1-5) Non perch’io non m’aveggia quanto mia laude è ‘ngiuriosa a voi: / ma contrastar non posso al gran desio, / lo quale è ‘n me da poi / ch’i’ vidi quel che penser non pareggia, / non che l’avaglia altrui parlar o mio (canz. 71, vv 16-21) Né già mai lingua humana / contar poria quel che le due divine / luci sentir mi fanno (canz. 72, vv 10-12) 376 Tale senso di dialogo con la tradizione, con i grandi modelli del passato si coglie anche in uno specifico topos letterario, definitosi proprio in seno all’opera petrarchesca, secondo cui il poeta parla con i libri (per tale osservazione si veda Chines 2010, pp. 13-29). 377 Non elencheremo in questa sede tutti i luoghi pertinenti, ma è utile notare che la lode è tematizzata anche in modo autonomo. L’importanza del motivo e l’urgenza dell’atto elogiativo da parte dell’io poetico sono testimoniate dalla notevole frequenza con cui il termine ricorre sia nel corpus trobadorico sia nel Canzoniere. 378 Per una panoramica dei luoghi e degli aspetti metapoetici più significativi nel Canzoniere si veda Funke 2003. 379 In un caso Petrarca nega tale principio attribuendo tutta la responsabilità ad Amore, da cui, come vedremo, derivano le capacità intellettive ed espressive degli amanti: “et onde vien l’enchiostro, onde le carte / ch’i’ vo empiendo di voi: se ‘n ciò fallassi, / colpa d’Amor, non già defecto d’arte” (son. 74, vv 1214). 363 I’ non poria già mai / imaginar, nonché narrar, gli effecti / che nel mio cor gli occhi soavi fanno (canz. 73, vv 61-63) Et se la lingua di seguirlo è vaga, / la scorta pò, non ella esser derisa (son. 75, vv 7-8) Così potess’io ben chiudere in versi / i miei pensier’, come nel cor gli chiudo (son. 95, vv 1-2) Se ‘l penser che mi strugge, / com’è pungente et saldo, / così vestisse d’un color conforme (canz. 125, vv 1-3) A voler poi ritrarla / per me non basto, et par ch’io me ne stempre (canz. 125, vv 36-37) Come fanciul ch’a pena / volge la lingua et snoda, / che dir non sa, ma ‘l più tacer gli è noia, / così ‘l desir mi mena / a dire, et vo’ che m’oda / la dolce mia nemica anzi ch’io moia (canz. 125, vv 40-45) Ben sai, canzon, che quant’io parlo è nulla / al celato amoroso mio pensero (canz. 127, vv 99-100) Poi che portar nol posso in tutte et quattro / parti del mondo, udrallo il bel paese / ch’Appenin parte, e ‘l mar circonda et l’Alpe (son. 146, vv 12-14) Che ‘l dir nostro e ‘l penser vince d’assai (son. 154, vv 9-11) Che ‘ngegno o stil non fia mai che ‘l descriva (son. 157, v 3) […] et quanto è dolce ‘l male / né ‘n penser cape, nonché ‘n versi o ‘n rima (son. 182, vv 10-11) Se Virgilio et Homero avessin visto / quel sole il vegg’io con gli occhi miei, / tutte lor forze in dar fama a costei / avrian posto, et l’un stil coll’altro misto (son. 186, vv 1-4) Ennio di quel cantò ruvido carme, / di quest’altro io: et oh pur non molesto / gli sia il mio ingegno, e ‘l mio lodar non sprezze! (son. 186, vv 12-14) I’ nol posso ridir, ché nol comprendo: / da ta’ duo luci è l’intellecto offeso, / et di tanta dolcezza oppresso et stanco (son. 198, vv 12-14) Ch’agiunger nol pò stil né ‘ngegno humano (son. 200, v 8) Ch’è da stanchar ogni divin poeta (son. 215, v 8) Ch’i’ nol so ripensar, nonché ridire (son. 221, v 13) Lingua mortale al suo stato divino / giunger non pote: Amor la spinge et tira (son. 247, vv 12-13) Allor dirà che mie rime son mute, / l’ingegno offeso dal soverchio lume (son. 248, vv 1213) Ivi ‘l parlar che nullo stile aguaglia (son. 261, v 9) Qual ingegno a parole / poria aguagliare il mio doglioso stato? (canz. 268, vv 18-19) Et se come ella parla, et come luce / ridir potessi, accenderei d’amore (son. 283, vv 1213) Se quell’aura soave de’ sospiri / […] / ritrar potessi […] (286, vv 1-5) Ma l’ingegno et le rime erano scarse / in quella etate ai pensier’ novi’ e ‘nfermi (son. 304, vv 7-8) Mai non poria volar penna d’ingegno, / nonché stil grave o lingua, ove Natura / volò, tessendo il mio dolce ritegno (son. 307, vv 9-11) Da poi più volte ò riprovato indarno / al secol che verrà l’alte bellezze / pinger cantando, a ciò che l’ame et preze (son. 308, vv 5-7) Vuol ch’i’ dipinga a chi nol vide, et mostri, / Amor, che ‘n prima la mia lingua sciolse, / poi mille volte indarno a l’opra volse / ingegno, tempo, penne, carte e ‘nchiostri (son. 309, vv 5-8) 364 Tacer non posso, et temo non adopre / contrario effecto la mia lingua al core, / che vorria far honore / a la sua donna, che dal ciel n’ascolta (canz. 325, vv 1-4) Come poss’io, se non m’insegni, Amore, / con parole mortali aguagliar l’opre / divine, et quel che copre / alta humiltate, in se stessa raccolta? (canz. 325, vv 5-8) I miei gravi sospir’ non vanno in rime, / e ‘l mio duro martir vince ogni stile (sest. 332, vv 11-12) Alto sogetto a le mie basse rime (sest. 332, v 24) Perché non furo a l’intellecto eguali, / la mia debile vista non sofferse (son. 339, vv 7-8) Dammi, signor, che ‘l mio dir giunga al segno / de le sue lode, ove per sé non sale (son. 354, vv 5-6). Trovatori E non suy de reu guabaire / qu’assatz n’es plus qu’ieu non diu (Bernart Martì, VII, vv 4142) Ja mos chantars no m’er onors / encontral gran joi c’ai conques, / c’ades m’agr’ops si tot s’es bos / mos chans fos melher que non es (Bernart de Ventadorn, XXII, vv 1-4) Anc mai nom poc hom faisonar (Guglielmo IX, VIII, v 13) Al sieu lauzar non sui eu pro sabenz (Bertran d’Alamanon, XIX, v 19) Es plus bella q’ieu no sai dir (Cercamon, IV, v 16) Parer non pot per dic ni per senblan / lo bens ce vos voigll […] (Folchetto da Marsiglia, XXII, vv 12-13) Volgr’ieu retraire las faissos, / mas gran paor ai de faillir (Elias Cairel, III, vv 21-22) Certo que en so lengaio / sa gran beutà dir non so (Raimbaut de Vaqueiras, XVI, vv 1314) E s’ieu no n dic de ben tan cum deuria, / per so m’en lais q’hom dire no l sabria (Rambertino Buvalelli, VI, vv 17-18) C’a l vostre laus dire m sofranh lezers (Arnaut de Maruelh, XII, v 12) […] c’a penas nulhs lauzars / pot sos ricx pretz ni sas faisos / nomnar ni cointar en chansos (Raimon de Miravall, IX, vv 52-54) Del ric pretz nominatiu / creis tan sa fina valors / que no pot sofrir lauzors / la gran forsa del ver briu (Peire Vidal, XVI, vv 31-34) Car una on creis e nais / bes plus c’om non pot dir (Aimeric de Peguilhan, XLVI, vv 2223) Re no sai dir cum esteya, / que de dol muer e d’enveya (Gaucelm Faidit, XV, vv 33-34) Dompn’Alazaitz, tant vos fasetz lauzar / a tot lo mon c’a mi non cal parlar (Gui d’Ussel, VII, vv 45-46) Trop vos am mais qu’ieu no sai dir (Folquet de Romans, XV, v 18) Bel’e plazens e benestans / mil tans plus que dire no say (Peire Raimon de Tolosa, XI, vv 12-13) E s’ieu tan gen non o sai dir / co al sieu cabal / pretz tanh, sapchaper veritat / que mos sabers no sec ma volontat (Bertran Carbonel, I, vv 7-10) On jois e pretz estai / mais q’ieu non dic ni sai (Peire Bremon Ricas Novas, XI, vv 38-39) Quar Gavaudan no pot fenir / lo planch ni l dol que l fa martir, / jamais res no l pot conortar (Gavaudan, III, vv 60-62) 365 […] qu’en re tan mais no s’asubtila / mos cars sabers, qu’ieu no n ai tan subtil / que pogues dir luna part de las mil / lauzors qu’om pot de lieis dir […] (Folquet de Lunel, VI, vv 3-6). 6.2 Afasia Un secondo motivo che associa amore e capacità di esprimersi è quello del mutismo temporaneo e improvviso di cui è vittima il poeta quando si trova di fronte alla dama. Si tratta di un topos molto diffuso nei versi trobadorici, ripreso poi in ambito siciliano (si pensi al celebre passo in Meravigliosamente di Giacomo da Lentini) ed arrivato sino a Petrarca. È certo una delle immagini più convenzionali, che tuttavia nel Canzoniere viene affrontata con una certa originalità, ad esempio nell’apostrofe diretta alla lingua, o comunque efficacia, come nell’idea metaforica del nodo. Per altro si tratta di uno spunto perfettamente coerente con la rappresentazione di un amore snaturante e disforico: non si può infatti immaginare niente di più sconvolgente per un poeta che il fatto di rimanere “senza parole”, di non poter più controllare, non solo la propria volontà, ma anche la propria eloquenza. Quell’eloquenza che per contrasto, lo si è detto, l’amata domina tanto bene. Petrarca Perch’io t’abbia guardato di menzogna / a mio podere et honorato assai, / ingrata lingua, già però non m’ài / renduto honor, ma facto ira et vergogna380 (son. 49, 1-4) Solamente quel nodo / ch’Amor cerconda a la mia lingua quando / l’umana vista il troppo lume avanza, / fosse disciolto, i’ prenderei baldanza / di dir parole in quel punto sì soave (canz. 73, vv 79-83) Ruppesi intanto di vergogna il nodo / ch’a la mia lingua era distretto intorno / su nel primiero scorno381 (canz. 119, vv 76-78) Ma ‘l soverchio piacer, che s’atraversa / a la mia lingua, qual dentro ella siede, / di mostrarla in palese ardir non ave (son. 143, vv 12-14) Più volte già dal bel sembiante humano / ò preso ardir co le mie fide scorte / d’assalir con parole honeste accorte / la mia nemica in atto humile et piano. / Fanno poi gli occhi mio penser vano / […] / Ond’io non poté’ mai formar parola / ch’altro che da me stesso fosse intesa: / così m’à fatto Amor tremante et fioco (son. 170, vv 1-9). Trovatori Arnautz ama e no di nems, / c’Amors l’afrena la guata / que fols no la ill comorda382 (Arnaut Daniel, VIII, vv 55-57) 380 Come si vedrà nel gruppo dei luoghi trobadorici, anche Giraut de Bornelh si lancia in un’apostrofe alla propria lingua. 381 Qui però il problema non è tanto l’amore, quanto la vergogna e la reverenza, anche perché la donna che l’io poetico si trova di fronte è la Gloria. 382 In questo caso però il ruolo di amore e l’impedimento che ne deriva al poeta appaiono quasi condizioni positive, poiché impediscono esagerazioni indebite ed anzi controproducenti. 366 Al meu nesci chaptenemen / et a la gran vilania / per quel lh lenga m’entrelia / can eu denan leis me prezen (Bernart de Ventadorn, XVII, vv 37-40) Car soi trop vergoignos e fis / Non l’as re quis ? / Ieu ? Per Dieu, non!383 (Giraut de Bornelh, V, vv 13-15) Vos vos calaretz, / Na Parlieira-Boch’un dia, / fe que dei mon paire! (Giraut de Bornelh, XLIX, vv 61-63) E fail me l sens tant q’ieu non sai que dire (Uc de Saint Circ, IV, v 22) Qe l cor la bocha menassa / car so q’ieu plus desir nega (Elias Cairel, VI, vv 45-46) Si’ hom pessatz ab tan de marrimens / que no ill puosca sivals sos covinens / dir e mostrar […] (Rambertino Buvalelli, VI, vv 41-44) E s’ieu en re mensprenc el dir, / sobretemers me fai falhir, / que fai humilhs los plus espertz (Arnaut de Maruelh, V, vv 12-14) Qu’aissi m’ave quan vei vostras faissos: / la lengua m falh e l cor ai temeros (Raimon Jordan, XI, vv 5-6) Pueys ab cor fait, quant ai mon cosselh pres, / venc denant lieys que l cug dir mon voler; / e quand la vey, no sau s’es per amor / o per temer o per sa gran ricor, / torn ses parlar mutz, e non per orguelh (Aimeric de Peguilhan, XXXIII, vv 35-39) Las! Que farai, que ren non l’aus retraire, / anz, qan la vei, estau a lei de mut (Peire Raimon de Tolosa, VIII, vv 29-30). 6.3 L’origine del canto è nell’amore Il canto d’amore non nasce semplicemente dai desideri e dai sentimenti del poeta: Amore e madonna hanno in tal senso un’enorme responsabilità. In primo luogo, alla loro ispirazione si deve la capacità stessa del poeta. Secondariamente, in diverse occasioni Amore appare come mandante e garante384 del canto385, mentre la dama, soprattutto in Provenza, può decidere liberamente di impedirlo o di favorirne un nuovo inizio. Si ripropongono così, in chiave metapoetica, alcuni elementi tipici e convenzionali della vicenda amorosa nel suo complesso: la subordinazione dell’innamorato, il potere di amata ed Amore su di lui, l’alienazione di ciò che più definisce l’identità stessa dell’io, cioè la sua poesia386. Va notato brevemente che i Siciliani non apprezzano in proposito l’esempio dei loro antecedenti: infatti, l’immagine 383 Questo tipo di interiezione vocativa è frequentissima nei trovatori e con il suo tono da imprecazione suona peculiare, almeno all’orecchio del lettore moderno, portato a leggervi un’esagerazione un po’ blasfema. 384 Intendiamo qui evidenziare il ruolo attivo e diretto d’Amore; si tenga però in conto che per i trovatori è consueta l’associazione tra stagione-gioia/amore-attività poetica, che in modo diverso riconduce proprio al sentimento l’origine della composizione poetica. Tale aspetto è stato trattato in relazione alle topiche immagini naturali nel corso del presente capitolo. 385 Ad “amore” come sentimento possiamo invece associare, nella medesima funzione, il cuore: “Però mi dice il cor ch’io in carte scriva” (son. 104, v 5). Per quanto concerne i trovatori, tali immagini corrispondono ad una realtà biografica e sociale ben precisa, in quanto il canto poetico nasceva in effetti dalla commissione, o per lo meno dal generale apprezzamento (e quindi dal contributo economico) del signore e della sua corte. Tale aspetto è registrato in più di un’occasione all’interno dei testi poetici, con una certa insistenza, ad esempio, nell’opera di Bertran de Born. 386 In ambito trobadorico è inoltre molto frequente il motivo dell’apprezzamento o dell’apprezzamento mancato da parte della dama nei confronti del canto. Ritroviamo tale spunto solo in tre componimenti petrarcheschi, 70, 239, 332, in cui le possibilità del poeta appaiono molto fosche, o per lo meno dubbie. 367 viene ripresa solo in due occasioni, una volta in riferimento all’amata ed una guardando ad Amore. Petrarca Onde s’alcun bel frutto / nasce di me, da voi vien prima il seme (canz. 71, vv 102-103) Poi che per mio destino / a dir mi sforza quell’accesa voglia / che m’à sforzato a sospirar mai sempre, / Amor, ch’a ciò m’invoglia, / sia la mia scorta, e ‘nsignimi ‘l camino, / et col desio le mie rime contempre (canz. 73, vv 1-6) Più volte Amor m’avea già detto: Scrivi, / scrivi quel che vedesti in lettre d’oro, / sì come i miei seguaci discoloro, / e ‘n un momento gli fo morti et vivi (son. 93, vv 1-4) Qui mi sto solo; et come Amor m’invita, / or rime or versi, or colgo herbette et fiori (son. 114, vv 5-6) Però ch’Amor mi sforza / et di saver mi spoglia, / parlo in rime aspre, et di dolcezza ignude (canz. 125, vv 14-16) Collui che del mio mal meco ragiona / mi lascia in dubbio, sì confuso ditta387 (canz. 127, vv 5-6) Quand’io v’odo parlar s’ dolcemente / com’Amor proprio a’ suoi seguaci instilla (son. 143, vv 1-2) Indi mi mostra quel ch’a molti cela, / ch’a parte a parte entro a’ begli occhi leggo / quant’io parlo d’Amore, et quant’io scrivo (son. 151, vv 12-14) Lingua mortale al suo stato divino / giunger non pote: Amor la spinge et tira, / non per election, ma per destino (son. 247, vv 12-14) Et sua fama, che spira / in molte parti anchor per la tua lingua, / prega che non extingua388 (canz. 268, vv 73-75) Morta colei che mi facea parlare / et che si stava de’ pensier’ miei in cima (son. 293, vv 5-6) I’ pensava assai destro esser su l’ale, / non per lor forza, ma di chi le spiega, / per gir cantando a quel bel nodo eguale (son. 307, vv 1-3) Vuol ch’i’ dipinga a chi nol vide, et mostri, / Amor, che ‘n prima la mia lingua sciolse (son. 309, vv 5-6) Come poss’io, se non m’insegni, Amore (canz. 325, v 5) Chiaro segno Amor pose a le mie rime / dentro a’ belli occhi, et or l’à posto in pianto (sest. 332, vv 25-26) Solo per me, che ‘l suo intellecto alzai / ov’alzato per sé non fora mai389 (canz. 360, vv 89-90) Amor mi spinge a dir di te parole (canz. 366, v 4). 387 L’immagine di Amore dittatore è però influenzata da Dante (Purgatorio XXIV). Qui la richiesta è di Laura, ma mediata dalle parole di Amore. 389 Nella stanza successiva Amore precisa che proprio a lui si deve la fama poetica dell’innamorato, il quale in precedenza aveva prodotto solo “parolette” poco apprezzate e in effetti prive di importanza, addirittura menzognere. 388 368 Trovatori M’enseign’Amors qu’ieu fassa adonc / chan que non er segons ni tertz (Arnaut Daniel, XI, vv 6-7) Farai, c’Amors m’o comanda, / breu chansson de razon loigna (Arnaut Daniel, XVI, vv 34) Que mais d’amor don m’estaca / no chantari’ab nulhs augurs / tro plais vengues entre nos ams (Raimbaut d’Aurenga, X, vv 16-18) Gent estera que chantes, / s’a mon Conort abelis, / mas eu no cre que m grazis / re que lh disses ni lh mandes (Bernart de Ventadorn, XX, vv 1-4) Q’estiers no m feira frugz ni flors / ni l genz pascors / ioi ni solatz / mas vailla m chausimens, si l platz390 (Giraut de Bornelh, XVII, vv 7-10) Una chanzon dimeia ai talan / q’ieu la fassa ab gai sonet cortes, / e ges d’aitant no mi fo’ entremes, / mas forza m’en amors e m’o enanza (Bertran d’Alamanon, XIX, vv 1-4) […] quar ylh m’a donat l’art e l genh (Folchetto da Marsiglia, XVI, v 6) Bel m’es ab motz leugiers a far / chanson plazen et ab guay so, / que l melher que hom pot triar, / […] / no vol ni l plai chantar de maestria (Sordello, IV, vv 1-5) Abril ni mai non aten de far vers / que Finamors me n dona l geing e l’art (Elias Cairel, V, vv 1-2) Voill far ab gai sonet leuger / coinda chanzon, pos a lei plai / de cui eu chan […] (Rambertino Buvalelli, II, vv 3-5) Que eu ai sotil sen ferm / per lieis, don non ai fermansa (Aimeric de Belenoi, XVII, vv 910) Ans am ieu lo chant e l ris391 (Monje de Montaudon, XIII, v 22) Que son en vos, bona domna valenz, / me donon gienh de chantar e sciensa (Arnaut de Maruelh, I, vv 4-5) Que totz jorns muer, pus no m’en vol mover (Arnaut de Maruelh, XVI, v 20) E sapchatz, s’ieu tant non l’ames, / ia non saupra far vers ni sos, / ni non o feira s’ilh no fos (Peire d’Alvernha392, IX, vv 47-49) A vostr’ops ai retengut / toz faiz de druz benestanz, / e Miraval e mos chanz (Raimon de Miravall, XXXV, vv 57-59) E s’eu sai ren dir ni faire, / ilh n’aja l grat, que sciensa / m’a donat e conoissensa, / per qu’eu sui gais e chantaire (Peire Vidal, XIX, vv 22-25) A lieys o deuria grazir / si ja fas bos motz ni guai so (Folquet de Romans, XV, vv 3-4) Car vos me datz joi e alegramen, / e mi donatz genh e saber e sen (Bertran Carbonel, III, vv 21-22) Que mandatz – e preguatz / suy de chant, per que l fatz (Guilhem Peire de Cazals, IV, vv 9-10) No m notz ni m’aiuda estatz / ni res for Deus et amors (Re d’Aragona, I, vv 8-9). 390 Il poeta cioè nega un altro topos ben noto, cioè il legame stagione-canto-amore, per sottolineare il dominio che l’amata detiene su di lui e sulla sua poesia. 391 La commissione viene in questo caso da Dio stesso, in una delle manifestazioni più efficaci ed esplicite della mescolanza di sacro e profano: il poeta si trova improvvisamente davanti al Signore, che gli raccomanda di dedicarsi alla poesia piuttosto che alla clausura monacale. 392 Tuttavia nella sua undicesima canzone, il trovatore dichiara che le medesime capacità canore derivano da Dio e dai suoi doni. Simile spostamento si riconosce nel Canzoniere: nella canzone 366 Petrarca consacra alla Vergine i propri versi, spezzando di fatto il legame poesia-amore-Laura. 369 6.4 Poesia come sfogo Un ultimo topos che accomuna trovatori e Petrarca concerne la funzione della poesia come sfogo, come liberazione dell’animo dal peso delle sofferenze. L’aspetto più interessante è forse nella profonda connessione che si istituisce tra i due aspetti dell’esistenza dell’amante/poeta. Petrarca Perché cantando il duol si disacerba (canz. 23, v 4) Et perché un poco nel parlar mi sfogo (canz. 50, v 57) Et col desio le mie rime contempre: / ma non in guisa che lo cor si stempre / di soverchia dolcezza, com’io temo (canz. 73, vv 6-8) Chi verrà mai che squadre / questo mio cor di smalto / ch’almen com’io solea possa sfogarme? (canz. 125, vv 30-32) Ma pur quanto l’istoria trovo scripta / in mezzo ‘l cor (ché sì spesso rincorro) / co la sua propria man de’ miei martiri, / dirò, perché i sospiri / parlando àn triegua, et al dolor soccorro (canz. 127, vv 9-11) In dubbio di mio stato, or piango or canto, / et temo et spero; et in sospiri e ‘n rime / sfogo il mio incarco […] (son. 252, vv 1-3) Cerco parlando d’allentar mia pena (son. 276, v 4) Et certo ogni mio studio in quel tempo era / pur di sfogare il doloroso core / in qualche modo, non d’acquistar fama (son. 293, vv 9-11) Piansi et cantai: non so più mutar verso; / ma dì et notte il duol ne l’alma accolto / per la lingua et per li occhi sfogo et verso393 (son. 344, vv 12-14). Trovatori E car no posc aver joi ni solatz, / chan per conort cen vetz que sui iratz (Bernart de Ventadorn, XXII, vv 31-32) Un novel chan / que m’ira conortan / de l’ir e de l’afan (Giraut de Bonelh, XXXIV, vv 89) Mas per so chan, c’oblides la dolor (Folchetto da Marsiglia, XI, v 3) Per melhs sofrir lo maltrait e l’afan / que m don’Amors, don eu no m posc defendre, / farai chanso tal qu’er leus per aprendre (Peire Vidal, XLI, vv 1-3) Tro que m’esfortz de far una chanso / que m rissida d’aquelh turmen on so (Perdigon, IV, vv 8-9) Ara cove / qe m conort en chantan / del mal c’Amors mi fai sofrir e traire, / c’aissi m’ave, cum ieu plus soven chan, / q’ieu soi plus gais e de meillor solatz / e n’alegre mon cor, qan sui iratz (Gaucelm Faidit, XXV, vv 1-6) Anz voill un nou vers comenzar / per conortar / mi meteis, car amor / mi destreing fort e m dona grant dolor; / mas eu ades chant e m deport e m ioc (Peire Raimon de Tolosa, VII, vv 6-10) 393 L’associazione tra canto e pianto è già trobadorica. Si veda ad esempio Bernart Marti, I, vv 17-18: “delh amor terrena / soven chant e plora”. 370 […] ni m voil pero tener / de far chanson, qe ben ieu ia garria / del mal d’amor, q’eu tem fort que m’aucia (Lanfranco Cigala, III, vv 4-6). 7. Altri topoi La classificazione dei luoghi convenzionali ha fin qui compreso soltanto le immagini che, ricondotte ad un ipotetico sistema, illustrassero la direzione generale e il significato del contatto tra Petrarca e i trovatori394. Tuttavia i motivi topici che accomunano il poeta aretino alla tradizione romanza sono ancor più vari e numerosi; molti di essi, per altro, dimostrano una profonda coerenza con la peculiare concezione della vicenda amorosa che si è man mano descritta. Ciò vale ad esempio per il tema dell’esilio, legato da una parte alla (convenzionale) situazione di lontananza e dall’altra alla centralità dell’amata nella vita del poeta, che riconosce in lei la propria “patria”, cioè la propria appartenenza. L’immagine dell’invidia è in origine connessa soprattutto alle malelingue, ma può essere presentata anche in riferimento all’io lirico e al suo rapporto con l’oggetto del desiderio, il quale inoltre è definito in diverse occasioni come “tesoro”. Anche il confronto con Amore passa attraverso alcuni elementi tipicizzati. In primo luogo l’idea che l’innamorato non conoscesse la forza del dio e dunque sottovalutasse la necessità di difendersene; ancora, l’assenza di mezzi per gestire o ridurre la sofferenza emotiva oppure la definizione di quello stesso dolore come primo vero tormento che il poeta abbia mai sperimentato. Appaiono topiche anche alcune peculiari reazioni dell’amante alla propria situazione, come un eccesso di lamenti che disturbano lui stesso, il canto mescolato o alternato al pianto, il tentativo di mascherare con una gioia forzata lo stato d’animo reale, la ricerca di solitudine395. L’incontro tra il poeta e Amore può inoltre essere mediato dal campo semantico giuridico, per cui sono evocate le leggi d’amore, vere e proprie arringhe dell’amante contro il suo ingiusto signore o l’impressione che sia in gioco un giudizio, magari da parte della dama. Nel Canzoniere tali aspetti sono introdotti nella loro forma più compiuta e complessa, nel lungo scontro verbale cui è dedicata la canzone 360396. A loro volta i riferimenti contestuali, soprattutto cronologici, favoriscono alcune evidenti soluzioni convenzionali, come la rappresentazione degli influssi astrali sulla nascita o l’innamoramento, il richiamo ad Adamo per suggerire l’intero corso della storia umana oppure, su un piano più soggettivo, la percezione alterata dell’io poetico rispetto a spazio e tempo397. 394 Non abbiamo qui riproposto la questione dell’aura, già ampiamente affrontata dalla critica e presentata nel corso del primo capitolo. 395 La resa petrarchesca di tale motivo, tuttavia, non ha eguali in ambito trobadorico, per frequenza, intensità e approfondimento sullo stato interiore. 396 Tale atteggiamento riflessivo e argomentativo sulle questioni amorose è per certi aspetti imparentato con la pratica cortese tarda delle Corti d’Amore, in cui dame e cavalieri esperti si riunivano per discutere della natura dell’amore e dei comportamenti connessi ad esso. Per tale argomento si veda anche il capitolo sesto. 397 Di tale immagine si è in parte dato conto presentando le occorrenze relative alla confusione propria dello stato amoroso. 371 Infine, è opportuno ricordare gli aspetti più tipici nella struttura stessa della composizione in versi, in particolare la sua conclusione: tornada o congedo che sia, di frequente essa contiene un’apostrofe alla canzone stessa e l’invio ad un destinatario, spesso la dama, anche se per i trovatori non si tratta necessariamente di quella celebrata nel testo stesso, ma della signora. 8. Conclusioni Sono dunque numerosi i punti di contatto tra la poesia trobadorica e quella petrarchesca, in particolare per quanto concerne l’utilizzo di immagini convenzionali. Tre conclusioni, in particolare, appaiono significative. L’uso dei topoi è spesso legato a snodi essenziali della vicenda amorosa; essi individuano cioè motivi fondamentali nella definizione stessa di una esperienza sentimentale (e quindi poetica) ben precisa, contrassegnata soprattutto da contraddittorietà, paradossalità, sofferenza o almeno incertezza, subordinazione e disequilibrio. Il contatto tra Petrarca e i Provenzali appare quindi particolarmente significativo in merito agli aspetti di disforia e disfunzionalità del sentimento. Ma mentre per i trovatori tali aspetti possono essere considerati il corollario dell’ideologia cortese, a sua volta sbilanciata e paradossale, nel Canzoniere essi assumono una valenza più profonda, in relazione alle conseguenze morali, spirituali e cristiane che l’eccesso di un amore terreno ed erroneo comporta. Proprio in virtù dei nuovi significati che il poeta aretino attribuisce alla propria composizione lirica, ed anzi in vista di una nuova poesia lirica, le immagini della tradizione sono sottoposte a costanti reinterpretazioni. L’esito dunque dell’analisi comparativa è proprio quello di identificare il contatto e al contempo mettere in luce la differenza. 372 CAPITOLO QUARTO Il significato della presenza trobadorica nel Canzoniere petrarchesco I topoi di origine provenzale o che per lo meno rivelano l’eredità occitanica nell’opera petrarchesca appaiono dunque numerosi, diversificati e diffusi. La presenza trobadorica nel Canzoniere si dimostra perciò significativa a livello quantitativo e soprattutto qualitativo: essa infatti risulta connessa ad alcuni momenti ed aspetti essenziali nella vicenda amorosa proposta nella raccolta. Con ciò non si intende, ovviamente, che Petrarca abbia trovato nell’esempio occitanico un modello cui adeguarsi in modo immediato ed acritico. Piuttosto, i materiali della tradizione cortese gli offrivano un punto di partenza, la cui funzione nei fragmenta è duplice: nella storia, rispetto alla condizione dell’io poetico, nella composizione, per far evolvere quello stesso io lirico. L’innamoramento si avvia infatti secondo una connotazione cortese, la cui componente passionale è non di rado evidenziata, ma nella quale è ancor più centrale la generale disfunzionalità, appunto quella natura disforica di cui si è parlato in relazione ai topoi trobadorici. L’insegnamento degli antecedenti d’oltralpe appare quindi fondamentale in questa fase e trova la sua massima evidenza nella serie dei testi 22-301, dove non a caso si affiancano le prime due sestine, il bilancio dell’innamoramento stesso nella canzone 232, il recupero dell’invito alla crociata, con dichiarazione degli effetti nefasti d’amore, in 27 e 28, la peculiare struttura e la complessa tematica della canzone 29. Tuttavia, ancora una volta non è possibile parlare di recupero dei modelli senza sottolineare al contempo il carattere personale dell’uso petrarchesco, che sempre si configura come trasformazione e interpretazione creativa, anche laddove intenda riallacciarsi in modo esplicito alla tradizione. Al lettore del Canzoniere non possono sfuggire la profondità dello scandaglio psicologico e la complessità dell’io petrarchesco, al di là dell’origine dei materiali di base; la stessa datazione dei testi (23 e 29 in particolare), ben più tarda di quanto non suggerisca la loro posizione, rivela la maturità del pensiero e della tecnica rielaborativa dell’autore. D’altro canto, la finzione di testi solo in apparenza giovanili è pensata proprio in accordo con la ricostruzione di un’inesperienza amorosa letta e meditata, in realtà, a posteriori. Su tale avvio si innestano i tentativi e le esperienze successive: i momenti di pentimento e ritrattazione, a partire dal madrigale 54, prima vera cesura della raccolta, le ricadute, il parziale spostamento verso una visione stilnovistica dell’amore, alla ricerca di una sintesi (impossibile) tra dimensione mondana e caritas. Sarebbe però erroneo pensare che la componente occitanica si arresti entro i primi 70 componimenti, prima cioè della cosiddetta svolta delle “canzoni sorelle”3, esattamente come gli elementi stilnovisti non si limitano a seguire quella stessa svolta: il rapporto di Petrarca con la tradizione segue un’impostazione molto meno rigida e si diffonde nell’arco dell’intera raccolta. Tale 1 Su tale aspetto si tornerà in seguito con maggiore ampiezza. Gli studi sulla composizione, la collocazione e il significato della “canzone delle trasformazioni” sono numerosi; si vedano in primo luogo i commenti in Santagata 1996 e Bettarini 2005, ed inoltre Martinelli 1977, pp. 19-102, e Santagata 1990, pp. 327 segg. 3 La si è già citata più volte; per i rimandi bibliografici si rinvia al secondo capitolo. 2 373 osservazione conduce a tre ordini di considerazioni. In primo luogo l’autore tratta le sue fonti in modo libero, imponendo loro anche in tal senso le proprie esigenze e la propria personalità; la mescolanza di spunti diversi risponde in fondo al medesimo criterio. Secondariamente, la non linearità nella successione dei momenti poetici e nell’ispirazione corrisponde in modo efficace alla ricorsività e circolarità a livello esistenziale, che caratterizzano la storia dell’io, sia in senso individuale che esemplare. Infine, come già si è visto nei due capitoli precedenti, il riuso dei modelli trobadorici assume forme e significati nuovi al di là del semplice paradigma dell’“amore giovanile ed erotico”. I materiali cortesi rappresentano infatti un utile strumento per veicolare la persistenza di un amore alienante e tragico nella storia dell’io, oltre la presa di coscienza, la parziale mutatio animi, la morte dell’amata, i suoi inviti a seguirla in cielo. L’accostamento tra tale concezione dell’amore e visioni diverse, che da alternative diventano ora complementari, rende l’idea stessa di passione (terrena, mondana e quindi per certi aspetti sempre sensuale) molto più stratificata di quanto non sia mai stata in precedenza. Si accentua perciò anche la trasfigurazione della tradizione e la percezione della specificità nella lirica petrarchesca. A tale proposito è rilevante ricordare la presenza e la distribuzione dei diversi generi nell’arco di tutto il Canzoniere, nonché il loro riuso secondo significati difformi rispetto a quelli originari, fino ai sonetti penitenziali, in cui pure permane la dedizione verso Laura, alla canzone 366, che a sua volta presenta elementi di ambiguità e problematicità, e di nuovo al sonetto 1, che circolarmente chiude e riapre la raccolta. 1. La ricerca della totalità Una lettura continua del Canzoniere, l’osservazione dei molteplici materiali ch’esso recupera ed unisce, la presenza dei modelli – in particolare trobadorici – comunicano una forte impressione di vastità e varietà4. Proprio la riflessione complessiva sulla raccolta porta alla convinzione che uno degli obiettivi principali del suo autore potesse essere la creazione di una summa, di una totalità lirica. Sulla base di tale principio, l’itinerario interiore dell’io si apre alla prospettiva il più ampia possibile, agli echi e alle influenze più diverse, raccogliendoli e consustanziandosene. Simile approccio appare da una parte perfettamente coerente con l’intento di attribuire a quell’io individuale anche una funzione esemplare. Né dall’altra risulta contraddittorio rispetto a ciò che conosciamo della personalità di Petrarca, al suo impegno per il rinnovamento culturale, innanzitutto nel senso di un recupero della grande tradizione classica, ma anche al suo essere uomo del proprio tempo, cioè quello della lirica cortese, del suo sviluppo italiano e toscano, nonché l’epoca delle “summae” e delle enciclopedie. D’altro canto, gli studi lessicali e stilistici hanno dimostrato quanto notevole sia all’atto pratico il contributo della produzione lirica italiana nella poesia petrarchesca, a prescindere dalle ben note 4 Tali aspetti di onnicomprensività si sono anticipati nel secondo capitolo, in riferimento agli elementi metapoetici ed esistenziali. 374 affermazioni dell’autore, soprattutto in merito a Dante: non dovrebbero restare dubbi sull’effettiva conoscenza e sull’interesse di Petrarca per le esperienze che di poco lo avevano preceduto. Naturalmente, ricerca della totalità non significa centone né plagio: il poeta aretino si propone piuttosto come l’erede della tradizione, colui che si è identificato con la lezione dei magistri poetici per poi superarla e dar vita, attraverso la propria interpretazione, a qualcosa di nuovo, che apre una nuova fase, nuove possibilità e prospettive. 1.1 La totalità poetica L’intenzione di autolegittimarsi quale erede e insieme rinnovatore dei grandi autori volgari non è certo sottaciuta nel Canzoniere. Ciò è chiaro già nella sua prima redazione, dove la canzone 70 spiccava per la posizione centrale, a metà della prima sezione, aprendo un eccentrico gruppo di quattro canzoni, poste in primo piano dall’inedita serie di forme lunghe e dall’identità metrica di 71-73. Lasso me si presentava poi peculiare anche a livello strutturale, nel recupero dell’arcaica progressione “a citazioni”, di fatto essa stessa citazione della grande stagione trobadorica, ed utilissima al messaggio metapoetico del suo autore. Essa contiene infatti un elenco di maestri5, che si propone esso stesso ricco e vario, come i modelli della raccolta nel suo complesso: struttura metrica trobadorica con ascendenze oitaniche e mediolatine6, pseudo-Arnaut Daniel – l’emblema dello stile chiuso e retoricamente sovraccarico –, Cavalcanti – stilnovismo dolente e filosofia dell’amore –, Dante petroso – versione italiana del trobar clus e car –, Cino da Pistoia – stilnovismo dolce ed ormai tardo –; infine il fragmentum 23. La decisione di concludere con un proprio componimento equivale ad un’autoproclamazione e la scelta della canzone delle trasformazioni non necessita forse di essere ulteriormente motivata e commentata. Si tratta infatti di un testo lunghissimo, difficile e denso, che aveva richiesto una prolungata elaborazione e che a sua volta aveva la funzione di un bilancio rispetto all’esperienza amorosa giovanile; esso inoltre recuperava già, per certi aspetti, spunti molteplici dalla produzione anteriore, inserendoli però in un complesso espressivo davvero nuovo. È un componimento ampio e discorsivo, che non riflette, è vero, sulla natura dell’amore, ma, mostrandone con grande efficacia la fenomenologia e i diversi aspetti, soprattutto dolenti, insegna implicitamente cosa siano le passioni terrene. La canzone 23 è poi ricca di topoi ed immagini convenzionali, che la accomunano anche al passato cortese, ed è inserita per altro in una fase della raccolta in cui la concezione amorosa è ancora giovanile e fisica, riallacciandosi perciò alla gran parte della produzione occitanica. Dominano la disforia, la sofferenza, l’innaturalità, che in modi molto diversi possono richiamare le proposte liriche dei trovatori e quelle di Cavalcanti. La struttura a quadri che caratterizza 23 aveva a sua volta illustri antecedenti romanzi, 5 Per la riflessione sulle citazioni della canzone 70, si veda in particolare Santagata 1990, pp. 327 segg, cui si è fatto riferimento anche nel corso del primo capitolo. 6 Sulla complessa origine della struttura “a citazioni” ci siamo già soffermati nel corso del primo capitolo. 375 così come l’associazione amante-animali o il gusto per le rappresentazioni fantastiche7. Non mancano puntuali rimandi danteschi, a partire dall’impietramento, o stilnovistici, come l’insistenza convenzionale sullo sguardo; qualche piccolo cenno è riservato anche alla dimensione più tenue dell’esperienza amorosa, come nella scelta lessicale dell’incipit o nell’immagine fugace di una Laura temporaneamente pietosa. Anche le altre citazioni appaiono scelte secondo un criterio ben preciso. Alla più autorevole produzione lirica romanza (rappresentata, secondo la probabile percezione petrarchesca, da uno degli autori più celebri) si associano le due esperienze più innovative e recenti dell’ancor giovane tradizione italiana. I quattro componimenti creano inoltre peculiari corrispondenze interne: il trovatore “chiuso” per eccellenza è richiamato dal suo emulo e rinnovatore fiorentino, mentre dello Stil Novo sono presentati entrambi i volti, quello dolente e quello lieve. Si determina così anche una compresenza di stili d’ispirazione diversa, che accentua l’impressione di varietà e ricchezza. A suggello e culmine di tali molteplici indirizzi si trova appunto 23. Nella canzone 70 il poeta rivela dunque la propria posizione rispetto alla storia letteraria. Essa però non si limita ad un singolo testo, ma appare alla base delle scelte poetiche complessive nella raccolta. Il Canzoniere risulta infatti costruito a partire da generi, maniere e strumenti diversi, riuniti sotto l’egida di un unico io lirico, di un linguaggio uniforme e di un’univoca volontà autoriale. Nella ricerca di onnicomprensività la metrica costituisce un esempio molto chiaro. Non solo Petrarca recupera le forme ormai classiche della lirica italiana, definite in modo autorevole da Dante nel De vulgari eloquentia, ma si propone come esempio ed autorità nella selezione delle soluzioni da accogliere come lecite. Da una parte egli recupera la sestina, che l’autore della Commedia aveva utilizzato solo a scopo di sperimentazione, e la codifica come genere vero e proprio; dall’altra anticipa l’affermazione letteraria della frottola e soprattutto del madrigale, rispetto al quale è significativa la scelta di non limitarsi ad un unico esemplare8. Al contempo, il poeta aretino si sente libero di tornare agli esempi arcaici e pre-danteschi dei trovatori per quanto concerne la canzone, o di sperimentare serie rimiche diverse nel caso del sonetto. Tale sperimentalismo metrico appare perciò ispirato al doppio principio del superamento di chi lo aveva preceduto e dell’onnicomprensività. Sui generi ci siamo già soffermati con dovizia: basterà sottolineare nuovamente la loro varietà, che si coglie appieno ripensando all’autonomia e molteplicità comunicativa dei loro modelli nella natia Provenza, le modalità attive del riuso e quindi l’adattamento cui i canoni di genere sono sottoposti per entrare a far parte della raccolta stessa, la loro distribuzione in tutto il Canzoniere, in particolare anche dopo la morte di Laura, che impone una rifunzionalizzazione ancor più evidente. Anche gli stili che caratterizzano via via la raccolta sono diversificati: nomineremo in primo luogo gli esiti di stampo stilnovistico, per le ovvie implicazioni sul piano 7 Per tali aspetti si vedano i capitoli secondo e terzo, rispettivamente per la struttura e per le immagini convenzionali. 8 Allo stesso Petrarca si deve la definitiva selezione delle rime concesse in quanto “esatte”, contribuendo ad estinguere l’abitudine alla cosiddetta rima siciliana. 376 dell’eredità poetica recente e del suo stravolgimento, e poi ovviamente le manifestazioni tragiche e luttuose (trobadoriche, cavalcantiane), quelle euforiche (per certi aspetti già provenzali e di certo non preminenti nel Canzoniere), quelle retoriche e artificiose (ancora una volta occitaniche, ma anche siculo-toscane). Non dimentichiamo, inoltre, che ai numerosi modelli volgari si affiancano costantemente quelli classici e mediolatini. Il problema del rapporto con la tradizione, che comprende quello della posizione del Canzoniere in essa, trova un ultimo corollario nelle numerose dichiarazioni metapoetiche che caratterizzano i fragmenta. Tale pratica è senza dubbio convenzionale: ne abbiamo già trattato in merito ai trovatori, ma è evidentemente un fattore già classico e poi diffusissimo, si pensi anche solo alla Vita nova e alla Commedia. L’aspetto più interessante è forse quello dell’autodefinizione che l’autore offre ai suoi interlocutori: il poeta si presenta come tale, prendendo su di sé meriti, limiti (topici) e responsabilità. Ancora una volta, i trovatori avevano offerto un esempio magistrale in tal senso, raffigurandosi al contempo come nobili, vassalli, amanti, cavalieri e appunto uomini di lettere. Non sono affatto rari i testi in cui esplicitamente il trovatore riesca a citare, in modo più o meno coerente con la vicenda sentimentale, il proprio nome a titolo di firma, data anche la posizione d’abitudine prossima alla conclusione. Lo avrebbero fatto poi i Siciliani (Giacomo da Lentini e Giacomino Pugliese, per lo meno) e ancora Dante. Forse il poeta laureato non ne aveva bisogno: la centralità dell’io, anche in senso autoriale, non lascia alcuna incertezza. 1.2 La totalità amorosa Il contatto con esperienze letterarie diverse e il recupero di generi molteplici dalla tradizione occitanica favoriscono nel Canzoniere la costruzione di una vicenda d’amore non solo complessa, ma anche complessiva. Nella raccolta, infatti, si dipana un racconto che raccoglie tutte le situazioni più tipiche di una storia d’amore d’ascendenza cortese: speranze intense e fuggevoli, energici rifiuti da parte dell’amata, attimi di felicità e fasi di disperazione, separazioni, viaggi, ritorni e nuovi incontri, sino alla morte del personaggio femminile, che consente, nella reinterpretazione petrarchesca, una diversa forma di contatto attraverso le visioni. Anche il contributo dantesco, legato alla produzione stilnovistica e soprattutto alla Vita nova, è significativo: il prosimetro dantesco fornisce un modello immediato, autorevole e recente ad eventi centrali come l’improvvisa perdita di ogni disponibilità da parte dell’amata9, la sua stessa morte10, 9 Si è già anticipata nel capitolo secondo la svolta della ballata 11, in cui Laura rifiuta di mostrare il viso al poeta, dopo essere venuta a conoscenza dei suoi sentimenti. Situazioni simili si trovano nelle canzoni occitaniche e anticipano la negazione del saluto, con tutte le sue conseguenze, da parte di Beatrice alla fine dell’episodio delle donne-schermo. 10 Come abbiamo visto parlando del genere del planh anche in ambito provenzale, benché accada di raro, può essere registrata la morte dell’amata. Ciò che manca è una letteratura dedicata alla dama una volta che ella sia morta, cioè una lirica di carattere memoriale. Anche per il confronto tra Petrarca e Dante rispetto al tema luttuoso si rimanda al secondo capitolo. 377 l’apparizione di una nuova donna11 o l’incontro in spiritu, benché avessero già antecedenti provenzali. Petrarca dunque recupera tali spunti e li potenzia: l’intera seconda sezione del Canzoniere testimonia l’efficacia espressiva della tematica luttuosa, sfruttando in modo del tutto nuovo la svolta funebre sperimentata da Dante. A tutto ciò si affianca la componente penitenziale, che costituisce una specifica innovazione petrarchesca. Disseminati nel corso dell’intera vicenda, i momenti di pentimento e ripensamento non solo rendono più profondo e complesso l’io lirico, ma anche più completa la sua storia. Nessun aspetto dell’amore sembra insomma trascurato, a partire proprio dalla bipartizione di fondo tra eros e caritas, nelle loro molteplici sfumature e attraverso diversi tentativi di mediazione, rispetto ai quali sia gli antecedenti trobadorici, sia e soprattutto l’esempio stilnovistico appaiono fondamentali12. Alla varietà tematica corrisponde per certi aspetti quella metrica, non solo perché alcuni generi sono tradizionalmente legati a specifiche tipologie di contenuto13, ma anche perché rispetto alla forma preminente del sonetto le altre strutture possono segnalare momenti peculiari della vicenda. Le cesure penitenziali, ad esempio, sono associate nelle loro occorrenze più marcate al madrigale (54, la prima interruzione dell’amore), alla sestina (in ben tre casi su nove, 80, 142 e 214) e soprattutto alla canzone (105, per altro con l’introduzione della frottola, 264 e 366, ma anche, in modo diverso, 359 e 360). Si è anticipato, d’altronde, come le canzoni, il metro nobile per eccellenza, possano essere considerate i pilastri del Canzoniere, di cui evidenziano appunto gli snodi essenziali, anche a livello puramente amoroso, ad esempio, canzone di lontananza (37), escondich e interruzione dell’amore sereno (206), planh (268). 1.3 La totalità esistenziale La novità del Canzoniere è stata più volte associata alla trasformazione nel concetto stesso di poesia lirica e dunque allo scavo introspettivo dedicato ad un io sfaccettato e molteplice, di cui sono colti numerosi aspetti diversi. Anche in merito alle sfumature dell’io protagonista si ripropone così l’idea di totalità e complessità. In effetti, egli non si propone solo in qualità di amante – con tutte le diverse prospettive cui si è fatto riferimento – o di letterato, ma anche come una figura dotata di coscienza morale e di consapevolezza politico-sociale, ed infine come personaggio che partecipa di relazioni molteplici14. Petrarca cioè dà vita ad un io dotato di un’esistenza completa, per quanto senza dubbio gli aspetti amoroso e penitenziale, e quindi il rapporto con Laura, siano preminenti. È evidente infatti che l’alternativa fondamentale alle problematiche sentimentali è costituita dai dubbi morali e dalle tensioni spirituali, che anzi creano 11 Nel caso di Petrarca, come si è visto nel capitolo secondo, si tratta di una parentesi brevissima, ben diversa dalla questione della donna pietosa nella Vita nova. 12 Per tali aspetti si vedano anche i capitoli secondo e terzo. 13 È ben noto l’esempio della sestina, generalmente associata a contenuti sensuali o comunque ad un amore di carattere mondano; tanto più significativo, quindi, risulta l’uso palinodico di Petrarca nelle tre sestine penitenziali. Per il genere e l’interpretazione petrarchesca si veda il capitolo secondo. 14 Per i testi occasionali e di corrispondenza si veda il capitolo secondo. 378 quella dicotomia interiore che giustifica il percorso stesso del Canzoniere, lo differenzia da qualunque esperienza lirica anteriore15 e lo connette ad altri ambiti della produzione petrarchesca, in particolare al Secretum e all’epistolario. Tuttavia, per quanto minoritari a livello quantitativo, anche i componimenti politici, occasionali e di corrispondenza contribuiscono a definire l’identità dell’io, le sue convinzioni e le sue priorità, anche in negativo, laddove, come nella canzone 28, sia ribadita la preminenza dell’amore16. Aspetto questo che si ripropone anche in merito alle relazioni interpersonali, ad esempio quando il pianto per la morte di un amico (Sennuccio) o del patrono (il cardinale Colonna) è posto in secondo piano dalla nostalgia per Laura. È un esito inevitabile, se pensiamo alla costanza della sua presenza, che nemmeno la morte riesce ad attenuare. Per altro, proprio la durata della relazione amorosa comporta un’evoluzione nella figura femminile, la cui mutevolezza procede di pari passo con le alterne vicende dell’amore, motivandole e giustificandole. Le due tappe fondamentali di tale mutamento si leggono rispettivamente nei fragmenta 268 e 366. Alla morte di Laura, l’atteggiamento nei confronti dell’amante e la valutazione della vicenda amorosa cambiano radicalmente, segnando una prima svolta essenziale17. Nella canzone alla Vergine, invece, la storia dell’amore per Laura conosce un’interruzione piuttosto brusca, nonostante la tematica cristiana dei sonetti 364 e 365, poiché la centralità dell’amata era evidente ancora in 362. L’ultimo fragmentum propone invece la sostituzione della donna, rimasta tale nonostante la beatificazione, con la Madre di Dio, che consente di dare a questa mutatio animi conclusiva un carattere almeno in parte definitivo. Laura dunque partecipa dal primo all’ultimo momento al percorso interiore dell’io e ne costituisce un motore essenziale. Di nessun altro personaggio si può dire lo stesso; d’altro canto la distribuzione dei testi di corrispondenza in tutto l’arco della raccolta comunica ugualmente, benché il destinatario continui a mutare18, l’impressione che il poeta mantenga viva una connessione con la realtà al di là dell’amore. Tale realtà determina un’influenza ancora maggiore sull’io poetico, sia come contesto in cui egli opera, sia come interlocutore ultimo del suo discorso lirico. Il Canzoniere, infatti, presenta l’io poetico nel confronto con il “volgo”, sfuggito e vituperato19, ma poi sorprendentemente apprezzato come via di fuga dalle proprie ossessioni, dimostrando così un’ulteriore forma di evoluzione nel corso della raccolta. D’altro canto anche la natura rappresenta un termine di confronto quasi costante, in tutte le fasi della vicenda, 15 E in fondo posteriore, se pensiamo a quanto superficiale e convenzionale sia destinata a diventare la tematica penitenziale negli epigoni del petrarchismo, benché già nel loro modello la rappresentazione fosse filtrata e puramente letteraria. 16 Lo si è visto nel capitolo secondo e ribadito nel terzo, in relazione alle immagini topiche. 17 Per la rivalutazione dell’atteggiamento di Laura in vita e per le assicurazioni sull’onestà dei desideri del poeta, a posteriori, si veda il secondo capitolo (ma con riprese nel terzo). 18 Va per altro ricordato che alcuni destinatari, come Orso dell’Anguillara o Sennuccio del Bene, tornano più volte nel Canzoniere, anche in luoghi distanti. 19 Se n’è parlato, a confronto con i trovatori e il problema delle “malelingue”, nel capitolo terzo. 379 testimone anzi di quella storia, confidente dell’amante sofferente, rifugio nella sua ricerca di solitudine, ultima memoria dell’amata ormai scomparsa20. A monte, a legittimare l’intera scrittura poetica, è l’incontro con il “voi” dei lettori/ascoltatori. Benché il testo lirico, per sua stessa natura, non accolga apostrofi o appelli diretti nella finzione di un messaggio spontaneo, rivolto in fondo a se stessi o all’oggetto del desiderio21, il Canzoniere si apre con il celebre “voi” del sonetto proemiale e riconduce a quel dialogo, a quel confronto tutto l’itinerario emotivo dell’innamorato22. Tali elementi dialettici, nel rapporto con Laura, ma anche al di là di esso, rafforzano l’impressione che l’io lirico viva davvero, abbia un’esistenza sfaccettata e articolata, che si esprime e comunica con i versi. In realtà i fragmenta nascono, proprio all’opposto, da una costante e curatissima elaborazione letteraria, che pone ogni dettaglio sotto l’egida della lima poetica. Ancora una volta la cronologia della composizione, le alterazioni e le finzioni petrarchesche rivelano con assoluta chiarezza la natura letteraria e “costruita” dell’opera. La quale però è pensata proprio come microcosmo perfetto e minuziosamente calibrato intorno a quell’io di cui la complessa e complessiva vita interiore si rivela in tutte le sue sfumature. 2. Il confronto con Dante e con la Vita nova Il confronto tra il Canzoniere petrarchesco e il suo più prossimo antecedente, la Vita nova, appare pressoché inevitabile23. Con la parziale eccezione di Guiraut Riquier24 e di Guittone d’Arezzo, mancano altri esempi di raccolte liriche non solo unitarie ed organizzate dall’autore, ma soprattutto pensate come una progressione continua e coerente. Nel caso del trovatore spagnolo, l’impostazione era ancora molto semplice ed esteriore, sia per la centralità dell’elemento paratestuale, sia per la separazione piuttosto netta tra fase amorosa e momento cristiano a cavallo della morte dell’amata, che dunque già acquisiva una peculiare funzione di spartiacque. Ancor più marcata risulta la bipartizione del canzoniere guittoniano, in cui si susseguono di fatto due io diversi, ispirati ad obiettivi e concezioni letterarie radicalmente opposti. Il prosimetro dantesco, invece, propone un percorso narrativo e riflessivo coeso, che si presenta al contempo amoroso, interiore e poetico. L’io lirico affronta un itinerario 20 Tale funzione della natura è stata analizzata nel secondo capitolo. Come già si è accennato, anche per i trovatori l’implicita funzione primaria della composizione poetica è nell’opportunità di sfogarsi (per l’immagine topica si veda il capitolo terzo) e dialogare con l’amata, che nella finzione letteraria è la destinataria principale della lirica stessa. 22 Sull’alternanza di diversi interlocutori nella raccolta, si veda anche Sapegno 2003. 23 Al confronto tra Dante (lirico) e Petrarca si è fatto più volte riferimento nel corso del secondo capitolo. Un ampio confronto tra i due autori, con particolare riferimento alla morte dell’amata e al suo esito, spirituale e poetico, si trova in Malzacher 2013. Si focalizza invece sulla differente concezione dell’amore il breve contributo in Picone 1998. Alla diversità della rappresentazione autobiografica in questi ed altri classici italiani è dedicato invece Guglielminetti 1977, in particolare pp. 42-72 per la Vita nova e pp. 101158 per il caso petrarchesco, anche al di là del Canzoniere. 24 Si è fatto più volte riferimento a questo trovatore, nel primo e nel secondo capitolo. Per la peculiarità della sua raccolta si veda l’analisi nell’ultimo capitolo. 21 380 evolutivo come amante (dall’esteriorità del saluto all’interiorizzazione nel segno della lode, e ancora dalla memoria di Beatrice defunta alla sua visione in cielo, dopo la fase di sviamento), come uomo (in tal senso è fondamentale l’associazione tra Beatrice/amore da una parte e la conoscenza/fede dall’altra), come poeta. Sono dunque a grandi linee i medesimi ambiti – amoroso, esistenziale, letterario – su cui si concentra l’autoanalisi petrarchesca; tuttavia, soprattutto per quanto concerne i primi due aspetti la soluzione dei due poeti è profondamente diversa. Nella Vita nova la progressione non è solo coesa, ma limpida e lineare, e in tale chiarezza si inserisce senza incertezze anche la regressione dovuta alla donna pietosa. Non c’è dubbio che l’io si muova per errori, cambiamenti, prese di coscienza, ma non dimostra reali incertezze e nella sua unica caduta si coglie la preparazione della svolta finale. Nel medesimo processo si inserisce anche la morte di Beatrice, che consente uno spostamento delle aspirazioni e una trasformazione nella concezione dell’amore essenziali rispetto all’esito finale, benché ovviamente anche Dante viva un periodo di dolore e spaesamento, cui corrisponde una tipologia poetica precisa, di carattere elegiaco25. È forse anche in virtù di tali elementi che sorge tanto spontaneo il collegamento tra il libello e le opere successive, Convivio e Commedia in particolare, benché non si possa attribuire all’autore una simile preordinazione già al momento di comporre il sonetto Oltre la spera e l’ultimo capitolo della Vita nova. Nella quale d’altronde già si percepisce quel senso di ascensione decisa e dritta alla meta che caratterizzerà, per ragioni anche narrative e strutturali, il viaggio oltremondano26. Non si cerchi nulla di simile nel Canzoniere, che non a caso si propone come raccolta di frammenti. L’io poetico petrarchesco continua a deviare dalla strada maestra, a tornare sui propri passi; le sue dichiarazioni morali sono per lo più venate dalla richiesta di aiuto, dalla preghiera di ottenere la salvezza o anche solo la forza per risollevarsi, e persino la celebre canzone della mutatio animi, 264, si propone come un dibattito tra la coscienza spirituale e i pensieri mondani, che nella chiusa appaiono ancora tutt’altro che spenti. Non manca qualche pietra miliare in tale lenta ed involuta crescita interiore, come la prima cesura nel madrigale 54 o la sestina 14227, che doveva non a caso chiudere la prima sezione nella redazione Correggio; ciononostante non si tratta di momenti risolutivi, e, come si è visto, persino il finale nel segno della Vergine ha lasciato dubbiosi lettori e critica, se non altro per l’ambiguità nell’interpretazione dell’immagine di Medusa e per l’effetto di circolarità determinato dal proemio. Nella sua fragilità e irresolutezza, l’io del Canzoniere suona molto più umano: l’esempio che egli può offrire è perciò molto diverso rispetto a quello, altrettanto voluto dall’autore, 25 Su questa componente della Vita nova si veda Carrai 2006. Tale linearità è evidenziata ad esempio in Singleton 1968, pp. 77-108. 27 Con i suoi toni di speranza e l’efficace anafora conclusiva, la sestina appare per certi aspetti più solida e decisa anche rispetto alla canzone 264, il cui verso finale (“e veggio ‘l meglio, et al peggior m’appiglio”) anche per l’uso dell’indicativo presente, lascia intuire il perdurare di un atteggiamento tutt’altro che penitenziale. Appare per altro molto interessante che la cesura mediana abbia assunto un tono tanto diverso nella successione delle redazioni, anche se forse la perdurante incertezza di 264 è ancor più coerente con l’immediato ritorno al discorso amoroso (sonetto 265) e mette in maggiore evidenza la svolta forte del finale. 26 381 che può derivare dalla Vita nova. Lo stesso vale in effetti per i due personaggi femminili. Beatrice, figura eterea figlia dello Stil Novo, viene ben presto interiorizzata nell’ottica dello stile della loda e di un amore autosufficiente; poi riappare beata e forse assunta in corpore28, certamente figura Christi29 e oggetto di pellegrinaggio, garanzia con il suo amore di una “intelligenza nuova” e superiore, ormai sul finire del prosimetro, che si chiude proprio per l’insufficienza della poesia che voglia cantare le lodi dell’amata divinizzata. Laura, invece, è in primo luogo una donna, nella sua fisicità e sensualità, che restano oggetto di desiderio, benché nella forma del rimpianto, anche dopo la morte, pur nella consapevolezza che quel “bel velo” sia sotto terra e destinato a divenire polvere30. Le apparizioni spirituali post mortem, che pure in più occasioni acquisiscono una valenza educativa nei confronti del poeta (si vedano ad esempio i sonetti 280 e 282, o la canzone 259), sono per lo più finalizzate alla sua consolazione, che attenuando il dolore della perdita non elevano, comunque, l’io poetico dal suo stato terreno. La stessa dipartita di Laura non assume connotati diversi rispetto ad un naturale evento luttuoso, tipico della condizione mortale degli umani; nella medesima chiave viene presentata anche la reazione dell’innamorato, così come voleva la tradizione già trobadorica (planh) o mediolatina (planctus). Le “catene dorate” che avvincono Francesco alle sue passioni mondane permangono, quindi, oltre la perdita del loro oggetto fisico; né d’altra parte Petrarca ha voluto limitare i tentativi morali del suo io lirico a fenomeni puramente biografici o ad influenze esteriori. Così, la mutatio animi imperfetta della metà avviene prima della morte di Laura e parimenti quella conclusiva segue alcuni testi che ribadiscono il legame con la donna, oltre all’aspirazione verso il divino (361 e 362), benché le canzoni 359 e 360 affermassero rispettivamente l’invito al cielo e una decisa critica ad Amore. Rispetto alla Beatrice figura Christi della Vita nova, l’associazione di Laura alla dimensione religiosa appare molto più vicina a quella mescolanza di sacro e profano che già caratterizzava numerosi testi trobadorici31. I sonetti 1632 e 362 sono due testi emblematici in tal senso, anche per la loro collocazione agli antipodi della raccolta. Da una parte un poeta ancora giovane, nel pieno della fase erotica della sua passione amorosa, cerca ovunque le tracce dell’amata, così come i pellegrini sulla strada per Roma sperano di vedere Cristo riflesso nella Vera Icona33; dall’altra l’io poetico, 28 Si è già fatto riferimento alla suggestiva ipotesi di Gorni, per cui si veda l’Introduzione in Rossi 1999. Singleton 1968, pp 154 segg, ha evidenziato come tale associazione non possa essere considerata un’allegoria né una metafora, per il carattere miracoloso insito in Beatrice stessa. Tale aspetto è determinante nel superare la contraddizione tra la visione cortese e quella religiosa, che non può accettare il dominio univoco e totalizzante dell’amata sull’io poetico. In Dante si determina invece una sintesi: l’amata è sì tramite verso la dimensione divina, ma non scompare per lasciarle spazio, i due ambiti non si escludono a vicenda. 30 Sulla complessità della prospettiva petrarchesca rispetto all’amata dopo la morte ci siamo già soffermati nel secondo capitolo. 31 Se n’è trattato, in termini diversi, nel corso del secondo e soprattutto del terzo capitolo. 32 Sull’interpretazione tradizionale di Movesi il vecchierel e su diverse proposte di lettura ha approfondito Fenzi 1996, con particolare riferimento all’ipotesi di Barberi Squarotti ivi citata. 33 Tale episodio appare d’altro canto un perfetto parallelo con quello dei pellegrini sul finire del libello dantesco, che però assume un’intonazione profondamente diversa rispetto al luogo petrarchesco, in 29 382 prossimo alla preghiera e alla penitenza conclusiva, chiede a Dio di restare in Paradiso, prolungando la sua temporanea visione del Signore e al tempo stesso dell’amata34. La contrapposizione tra le due forme d’amore, che sono poste a confronto in termini paradossali proprio all’inizio della vicenda sentimentale nel sonetto 3, non può essere del tutto risolta: pur nella sovrapposizione, i due aspetti si avvertono sempre in modo distinto, anche quando Laura, beata, siede nell’Empireo con Dio. Paiono significative in tal senso le tappe intermedie che hanno portato il poeta ad una maggiore spiritualizzazione del suo rapporto con l’amata, che, vale la pena ripeterlo, resta donna fino alla fine, legata ad un ricordo terreno che non sbiadisce. Anche quando nella seconda sezione il poeta accetta il rifiuto di Laura come salvifico o insiste sull’evoluzione dei propri desideri, che nel corso del tempo avevano perso ogni tratto sospetto, tale coscienza appare il frutto di una lenta maturazione e della vecchiaia del poeta, e restano con ciò in un’ottica fortemente umana. Tali momenti di rinnovamento, in effetti, non riescono a segnare una vera svolta, ma piuttosto un cambiamento nel segno della continuità col passato. L’io rimane lo stesso io. Come non è possibile attribuire all’io petrarchesco una netta e lineare evoluzione verso la dimensione spirituale, sarebbe erroneo anche affermare che egli rimanga esclusivamente legato al piano temporale35. La sua interiorità articolata e complessa e le numerose sfumature analizzate dall’introspezione del Canzoniere costituiscono proprio la novità della lirica petrarchesca rispetto alle esperienze poetiche precedenti, compresa quella dantesca. La concezione della propria opera e il rapporto con la tradizione anteriore segna un’ulteriore differenza tra Canzoniere e Vita nova. Sia Petrarca sia Dante propongono la raccolta come summa della loro poesia, e dunque momento di autoriflessione e confronto con i modelli del passato. Sulla ricerca di ricchezza e totalità nel caso dei fragmenta si è già detto, mentre è celebre la tendenza di Dante alla meditazione su di sé e i propri strumenti espressivi, nonché a sussumere le esperienze pregresse nelle nuove fasi compositive, non solo nel prosimetro giovanile, ma anche nel Convivio, nella Commedia e, in modo diverso, nel De vulgari eloquentia. Nella Vita nova il percorso letterario appare lineare, come graduale crescita e trasformazione, in coerenza con l’evoluzione dell’io poetico36. La raccolta si apre con una composita fase giovanile, in cui si susseguono (e non mescolano37) la componente guittoniana degli inizi, dedita alla ricchezza retorica, l’influenza del “padre” Guinizzelli e soprattutto del primo amico Cavalcanti. Torna anche l’esempio trobadorico, a livello relazione al contesto in cui è collocato, alla generale rappresentazione di Beatrice e all’atteggiamento del suo amante. 34 Mentre il viaggio spirituale richiama la conclusione della Vita nova, per quanto Dante parli di sospiro, la visione divina, con quella non troppo implicita promessa di salvezza (362, vv 12-14) ricorda il finale della Commedia, invertendo l’ordine rispetto alla preghiera alla Vergine, che pure non può sfuggire al confronto con quella del canto XXXIII. 35 Si è già parlato nel capitolo secondo della posizione di Malzacher 2013 in merito al confronto tra Petrarca e Dante, soprattutto rispetto alla morte di Laura e Beatrice. 36 Tali aspetti sono trattati con grande chiarezza e sintetica efficacia nell’Introduzione e nelle note in Rossi 1999. 37 Come invece avviene nel Canzoniere. 383 di immagini e situazioni cortesi, con particolare riferimento al motivo delle donneschermo e al riuso del genere della pastorella, che pure passava per il recupero cavalcantiano. La vera svolta a livello espressivo si colloca prima della morte di Beatrice, a differenza di quella morale, in perfetta corrispondenza con il cambiamento della concezione amorosa. Si tratta del ben noto passaggio allo stile della loda, all’amore in sé e per sé38, inaugurati dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore. Non è certo un caso che nella Commedia Dante citi proprio questa canzone quale emblema del proprio contributo all’evoluzione della lirica, proprio come Petrarca richiama la canzone 23 in Lasso me, a segnare il proprio successo nel rinnovamento della tradizione lirica. Con la sua lode disinteressata e il suo amore che non dipende più da alcun fattore esterno, né la visione né il saluto né alcuna forma di soddisfazione materiale, Dante crea una netta cesura rispetto all’ideologia cortese. La fase luttuosa della poesia elegiaca39 e la parentesi regressiva che in onore della donna pietosa riporta modalità comunicative affini a quelle dell’avvio non costituiscono una vera inversione di tendenza, ma solo una temporanea sperimentazione divergente, in accordo con la momentanea deviazione psicologica e morale. Infine, Dante ritrova la sua Beatrice/beatrice e con essa le nuove prospettive della propria poesia, cui anzi si chiede un’ulteriore evoluzione, per ora non ben definita. Ancora una volta, manca nel Canzoniere un percorso univoco e coeso simile a quello dantesco. C’è spazio, è vero, per la crescita dell’io: ad esempio la presa di coscienza sulle ragioni di Laura nel suo essere scostante o l’attenuarsi dell’aspetto sensuale non potrebbero aver luogo all’inizio della raccolta e in generale prima della morte dell’amata. Tuttavia una successione di fasi poetiche precisamente distinguibili è solo accennata, e solo nella prima parte della redazione Correggio, pensata come nucleo molto più unitario, nonché breve, rispetto a quella definitiva. Vi si distinguono in effetti il ben noto recupero della poetica stilnovistica (70-73) e, prima, una zona strettamente legata all’influenza trobadorica (22-30). Petrarca sostituisce così all’amore più marcatamente erotico di stampo cortese un amore sempre terreno, ma salvifico ed accettabile sul piano morale, di carattere stilnovistico. Eppure, lo si è visto, la situazione non è affatto così lineare, nemmeno nella prima versione del Canzoniere. In primo luogo l’esempio stilnovista si inserisce nella raccolta petrarchesca solo in modo parziale, incompiuto e problematico, come risulta evidente dalla molteplicità tematica ed emotiva di 71 e 73, in contrasto con la maggiore e serena univocità di 72. Secondariamente materiali di entrambe le tipologie (stilnovistica e trobadorica) si riscontrano prima e dopo tali apparenti spartiacque, basti pensare alla rappresentazione positiva dell’amore per Laura nella parte finale di 29, non a caso canzone esplicitamente 38 Sulla novità dello stile e sugli elementi psicologici e spirituali che ad essa si accompagnano si sofferma Singleton 1968, nel capitolo terzo. 39 Come ha sottolineato Singleton 1968, pp. 77-108, la poesia in morte ha comunque il valore di cancellare la presenza fisica (e cortese) del dio Amore, che invece si mantiene nel Canzoniere dopo la morte di Laura, evidenziando la mancanza di linearità nel percorso dell’io, su cui si tornerà a breve. Di nuovo dunque, dopo la svolta “della loda”, si assiste ad un superamento rispetto al quale non potrà più esserci alcun passo indietro. 384 trobadorica per tematiche e struttura. L’abbandono della chiusa unità della redazione Correggio non farà che accentuare tali caratteristiche, con l’inserimento di nuove sestine, solo in parte palinodiche, di nuovi momenti di cedimento e desiderio, di nuovi esempi di generi arcaici, ben al di là della zona incipitaria. In fondo, le affermazioni morali e penitenziali che insistono sulla necessità di rivolgersi a Dio revocano in dubbio la funzione di amore quale tramite, così come Dante l’aveva proposta nel suo prosimetro. Anche la definizione di quali aspetti dello stilnovismo siano riproposti nel Canzoniere appare a sua volta problematica. Non c’è dubbio che vi lascino traccia i motivi più esteriori e convenzionali: l’insistenza sullo sguardo, sulla luminosità dell’amata, ma è significativo che il saluto abbia un effetto sì dolce, ma non salvifico. Anche per la rappresentazione dei vantaggi che derivano dall’amore, Petrarca assume una posizione intermedia tra quella tipica dello Stil Novo e quella cortese dei trovatori, secondo una prospettiva personale legata anche al problema morale40. Laura, lo si è detto, è ben più donna che angelo, per quanto certamente sia una creatura straordinaria e senza pari: anche tali elementi però appaiono una rielaborazione e un’evoluzione personale di una tradizione convenzionale che ha le radici al di là delle esperienze italiane, in ambito occitanico. Appare particolarmente interessante la questione della loda, da intendere in quanto concezione e stile tipicamente danteschi, poiché l’elogio nelle sue forme più ovvie e letterali costituisce un topos essenziale della lirica amorosa già trobadorica, che si riconferma fondamentale anche nel Canzoniere, rispetto sia alle qualità fisiche sia a quelle interiori dell’amata. Per quanto Petrarca rinunci agli scopi sociali, feudali, sensuali e in generale esteriori che avevano contraddistinto, secondo molteplici variazioni, la condizione dell’amante cortese, con difficoltà potremmo definire il suo amore interiorizzato ed autosufficiente. La disperazione e lo sconforto che segnano l’intera raccolta hanno ben poco a che fare con la serenità risolta di Tanto gentile e tanto onesta pare. Ancora una volta, Petrarca torna alla dimensione cortese, recupera ciò che sente affine della produzione italiana, anche prestilnovista, e crea un linguaggio che lo contraddistingue in modo univoco e nuovo. Tale innovazione della lirica, dei suoi obiettivi e delle sue forme, nell’espressione e nei contenuti, passa attraverso una regressione, cioè attraverso il recupero di ciò che poteva apparire arcaico e superato a confronto con la sperimentazione dantesca. Gli strumenti del passato, attraverso la trasfigurazione petrarchesca, appaiono invece forieri di una nuova vita, di rinnovate possibilità: Petrarca sembra fare un passo indietro, ma così trova un’occasione di superamento rispetto a chi lo aveva preceduto. Sul piano della Commedia il confronto con Dante poneva forse difficoltà scoraggianti, non così su quello della lirica. In modo diverso, dunque, sia Dante sia Petrarca hanno avvertito la necessità di confrontarsi con il passato, con la storia della letteratura. Nella Vita nova la posizione che l’autore assegna a se stesso resta per lo più implicita, nei riferimenti non di rado polemici a Cavalcanti (il modello più prossimo) e nella graduale 40 Di tali aspetti si è trattato nel corso del capitolo terzo, in riferimento alle specifiche immagini. Non si dimentichi inoltre il fondamentale parallelo con il Secretum. 385 progressione/evoluzione che il libello stesso riproduce. Il rinnovamento insito nello Stil Novo sarà dichiarato solo più avanti, nel Purgatorio, dove Bonagiunta da Lucca, non cita la maniera del padre o quella del primo amico, ma proprio Donne ch’avete e implicitamente lo stile della loda. Petrarca non aspetta tanto: già nella canzone 70, prima di introdurre quella parziale svolta che lo avrebbe posto a diretto confronto con il movimento poetico cui Dante aveva preso parte, in posizione rilevata nella raccolta cita se stesso quale erede e insieme nuovo orizzonte della tradizione lirica. E che il testo citato fosse precoce in quella stessa raccolta e posto in apertura della zona trobadorica non sembra un dato trascurabile. Da subito il Canzoniere si propone completo e maturo. La ricerca della totalità poetica che lo contraddistingue, e che manca nell’ordinata e lineare Vita nova, appare a maggior ragione coerente. 3. Una serie trobadorica nel Canzoniere La serie dei fragmenta 22-30 identifica un momento trobadorico molto evidente nella raccolta. Petrarca pone a cornice due coppie di testi lunghi, disposti a chiasmo, 22-23 (sestina-canzone) e 29-30 (canzone-sestina), tutti caratterizzati da interessanti peculiarità formali ed emblematici sul piano del contenuto rispetto alla condizione dell’io poetico. In tutti e quattro i testi, egli appare soggiogato da un amore terreno e passionale, privo di controllo su di sé e vessato da costanti tormenti da cui non può liberarsi. Le due sestine mettono soprattutto in evidenza l’innaturalità del suo stato, in contrasto con la natura e con gli altri esseri viventi, sfruttando la convenzionale associazione della forma metrica, delle tematiche sensuali e disforiche, degli adynata. La canzone 23 propone attraverso la serie delle trasformazioni il dolente avvio della vicenda amorosa, chiarendone implicitamente il significato, mentre la canzone 29 ribadisce la sofferenza del poeta, che lo porta quasi alla piena irrazionalità. D’altro canto la seconda metà del componimento propone una rivalutazione dello stato amoroso41, in quell’ottica di guadagno e miglioramento che, lo si è visto, nel Canzoniere suona spesso a cavallo tra l’esempio trobadorico e quello dantesco/stilnovistico42. Dal punto di vista delle tematiche e delle immagini, soprattutto quelle convenzionali, il legame con la tradizione occitanica è evidente; a ciò si aggiunge una connessione altrettanto chiara sul piano strutturale. 22 e 30 sono le prime due sestine della raccolta e pongono le basi per la codificazione del genere; la struttura di 29 è dichiaratamente arcaica, legata per di più all’esempio clus e car di Arnaut Daniel43; 23, che appare invece modernissima nella sua impostazione discorsiva, mutua comunque la forma delle canzoni a quadri e gioca con la consuetudine delle similitudini animali, oltre che con gli effetti sovrannaturali e fantastici. Il legame che definisce ciascuna coppia di testi, la corrispondenza fra di essi e la generale ispirazione trobadorica appaiono ancora più significativi osservando un ulteriore dettaglio. La sestina, infatti, nasce come genere 41 Per tale peculiare struttura discorsiva si veda il secondo capitolo. Si veda in particolare il capitolo terzo. 43 Per l’analisi metrica della canzone si veda il capitolo primo. 42 386 chiuso, ricco e complesso a livello retorico, denso sul piano del significato. 22 e 30 non fanno davvero eccezione a tale tendenza, ma a confronto con 23 e 29 appaiono componimenti ben più lineari ed accessibili. Parte del loro carattere disteso dipende dall’abbondanza di immagini naturalistiche che, nel caso di 22, paiono anticipare l’ariosità della canzone 50, dove torna anche l’andamento oppositivo tipico della prima sestina. Al contrario, le due canzoni risultano ostiche e complesse, 23 soprattutto nella progressione del discorso, 29 come trionfo di involuzione sintattica e densità nell’imagery, vera erede delle sperimentazioni espressive del Daniel. Proprio la difficoltà di 23 potrebbe giustificare la scelta di inaugurare il gruppo dei testi nobili e lunghi non con una canzone, genere solenne per eccellenza, ma con una sestina, che presentando la condizione dell’amante funge quasi da introduzione alla lunga, intensa progressione discorsiva delle trasformazioni. D’altro canto, le sestine erano considerate canzoni, benché ne costituissero un sottogenere peculiare; infine, potrebbe aver contato anche la volontà di impostare l’andamento chiastico e la necessità, su cui torneremo, di porre la sestina 30 proprio in quella posizione. La collocazione dei quattro componimenti li mette in evidenza rispetto al corpus dei versi lunghi non solo perché essi lo avviano, ma anche per la peculiare successione che creano. Infatti, se si considerano le sestine insieme alle canzoni, i due gruppi 22-23 e 28-30 anticipano in perfetta linearità le due celebri serie 70-73 e 125-129, che sono dunque meno isolate di quanto non sembri. Ciascun nucleo identifica un momento tematico significativo, a cavallo della metà della prima sezione: 22-23 l’inizio dell’innamoramento, 28-30 il permanere dei suoi effetti alienanti (e il sottrarsi del poeta ai suoi doveri civili nella canzone di crociata ne è una componente significativa), 70-73 la natura (parzialmente) positiva dell’amore, 125-129 l’onnipresenza dell’amore, attraverso la distorta immaginazione del poeta. L’aspetto metapoetico, trobadorico nei primi due casi, stilnovista nel terzo, accomuna in particolare 22-23/28-30 a 70-73. L’elemento trobadorico contraddistingue infatti anche la canzone 28, benché solo in merito al contenuto, e quindi per estensione anche 27, che in sostanza è un’introduzione contestualizzante alla riflessione del testo lungo. Si tratta, lo si è visto44, di due componimenti di crociata: nella canzone sia l’invito sia il problema amoroso affrontato nel finale si ricollegano direttamente a precisi esempi occitanici. I restanti tre componimenti, i sonetti 24-26, che spezzano in due metà il momento trobadorico, presentano una connotazione particolare, in quanto dedicati principalmente all’aspetto metapoetico; 25 e 26 sono inoltre pensati in chiave corresponsiva. Appaiono perciò una sorta di inciso, di parentesi, che da una parte media il passaggio dall’ambito amoroso (23) a quello politico (27-28)45, dall’altra non crea contraddizioni nella zona trobadorica, in quanto sia la componente occasionale sia quella metaletteraria le sono affini. Per altro, già 23 presentava alcuni spunti sull’attività canora del poeta, anche attraverso la trasfigurazione in cigno46. Infine, a completare la decade si può aggiungere 44 Si veda il capitolo secondo e la questione del genere. Il ritorno all’aspetto amoroso si deve alla peculiare conformazione del congedo di 28, sulla cui importanza ci siamo già soffermati. 46 Per tali aspetti si veda anche la lectura in Santagata 1981, pp. 66-67. 45 387 il sonetto 21, che introduce senza scarti rilevanti la tematica amorosa infelice e il motivo topico della durezza di madonna, poi approfonditi in 22 e 23. La ricchezza della serie nel suo complesso è a sua volta molto significativa e interessante in quanto riproduce in scala ridotta quelle caratteristiche di varietà poetica che identificano il Canzoniere nel suo complesso e soprattutto il riuso delle forme trobadoriche. Tale rapporto con i modelli provenzali, pur anticipato dalla presenza di topoi e situazioni convenzionali nei primi venti componimenti della raccolta, si esplicita con grande evidenza proprio a partire da 22 e culmina nella sestina 30. La struttura e soprattutto la collocazione della serie acquisisce significato ancora maggiore se la si osserva a partire dalla sua conclusione. La sestina 30, infatti, è il primo componimento di anniversario, il settimo: “che s’al contar non erro, oggi à sett’anni / che sospirando vo di riva in riva / la notte e ‘l giorno, al caldo ed a la neve” (vv 28-30). La scelta di partire proprio da questo numero non è affatto casuale: i sette anni del servizio appartengono in primo luogo alla tradizione biblica e alla vicenda di Giacobbe47, secondariamente alla tradizione trobadorica. Tale riferimento non concerne solo la sistemazione ideologica dell’idea di servizio all’interno dell’ottica cortese, con tutte le conseguenze relative alla perdita di sé e alla sottomissione all’amata o ad Amore, ma anche il topos relativo alla precisazione della durata della schiavitù amorosa48. Tre trovatori indicano proprio i sette anni come esempio di servizio particolarmente prolungato e sofferto: il monaco di Montaudon (Cel qui qier cosseil e l cre, vv 19-20), Gaucelm Faidit49 (Mout a poignat Amor en mi delir, v 3) e Cadenet (Ab leial cor et ab humil talan, vv 13-14). La coerenza con il motivo dell’ossessione amorosa disforica rende particolarmente adeguata l’associazione tra prima ricorrenza e genere metrico. Il settimo anniversario dell’amore per Laura, iniziato con l’incontro del 6 aprile 1327, cade precisamente nel 1334, l’anno in cui Petrarca, nato nel 1304, compiva trent’anni50. Ecco perché la collocazione di quell’annotazione non solo in una sestina, ma proprio in quella posizione appariva obbligata. A sua volta, anche la posizione di 23 appare calcolata con precisione, poiché la canzone descrive l’avvio dell’esperienza amorosa (1327), i cui avvenimenti corrispondono ai ventitré anni dell’autore. Un’ulteriore corrispondenza numerica concerne il genere sestina (22, che apre la serie, e 30, che la 47 Su tale fonte biblica ci siamo già soffermati nel capitolo secondo, in riferimento all’interpretazione dell’escondich, e nel terzo, in merito al topos del servizio amoroso, che viene riproposto proprio anche in 206. Per il duplice servizio e la questione di Lia e Rachele si veda Berra 2013; per il valore simbolico del numero sette, Dotti 1987, p. 629. Si leggano anche Durling 1971, p. 17 e Calcaterra 1942, pp. 231-234. Anticipiamo però come il numero 7 rappresenti la totalità, in quanto somma dei numeri 3 (la trinità, le virtù teologali) e 4 (le virtù cardinali, ma anche gli elementi e quindi il mondo). È interessante notare come il quattordicesimo anniversario dell’amore per Laura riprenda il medesimo numero: “La voglia et la ragion combattuto ànno / sette et sette anni; et vincerà il migliore, / s’anime son qua giù del ben presaghe” (son. 101, vv 12-14). 48 Si veda il capitolo terzo. 49 Tale riferimento è precisato anche nel commento in Bettarini 2005. 50 Tale corrispondenza è già stata anticipata nel secondo capitolo, trattando della peculiare collocazione della canzone 28 e del suo significativo congedo. Per l’associazione sestina-età del poeta si vedano la breve annotazione in Santagata 1996, pp. 167-174, Roche 1974, in particolare p. 157, Sturm-Maddox 1985, in cui è citato lo studio di Durling, ripreso in Baldassari 2006. 388 chiude e presenta il riferimento cronologico): esso infatti è tutto giocato intorno al numero sei, che corrisponde alla data dell’innamoramento (e della morte). Un ulteriore indizio numerologico rispetto al valore di svolta che potrebbe essere associato alla decade trobadorica si coglie in relazione al sonetto 21. Le età dell’uomo, infatti, sono tradizionalmente organizzate in settennati, numero che tra l’altro coincide con quello del primo anniversario celebrato da Petrarca; dai sette ai vent’anni si era considerati ancora adolescenti, dunque in una condizione di immaturità. L’innamoramento si colloca invece in una fase sì giovanile, ma ormai più prossima alla maturità, e dunque le conseguenze che da esso derivano – come non pensare al congedo di 28 o alla “delira impresa” di 29 – ricadono nella piena responsabilità dell’amante. La zona trobadorica perciò risulta centrale non solo in senso poetico, storico-letterario e culturale, ma anche in chiave esistenziale. Ciò incrementa l’impressione di coerenza con la successiva “svolta” stilnovistica, che a sua volta non ha solo una valenza metapoetica, ma concerne anche la prospettiva amorosa. In entrambi i casi, lo si è anticipato, la forte caratterizzazione poetica dei testi non costituisce né un cambiamento improvviso a livello di contenuti né una cesura netta, visto che le tematiche in questione e le immagini convenzionali si riscontrano già in precedenza nonché successivamente. Se ampliamo l’osservazione alle zone anteriori del Canzoniere, noteremo un’ulteriore parcellizzazione della raccolta in due momenti riconoscibili. Innanzitutto i primi dieci fragmenta costituiscono l’initium narrationis, poiché comprendono il proemio e presentano i termini generali della vicenda, i suoi protagonisti, per concludere con quattro testi di corrispondenza i cui destinatari assumono l’aspetto di interlocutori privilegiati per la raccolta stessa51. I successivi dieci componimenti ampliano le coordinate complessive dello stato interiore dell’io, che saranno riassunte e precisate nella zona trobadorica con il bilancio narrativo di 23 e l’insistenza sulle sofferenze in 22, 29 e 30, fino dunque al primo anniversario. Cominciano tra l’altro ad assommarsi i primi metri difformi rispetto alla preminenza del sonetto, già prima della sestina grazie alle due ballate 11 (che per altro già propone un momento di passaggio nella condizione amorosa) e 14. Altri testi d’impostazione occitanica (la sestina disforica 66, la canzone di lontananza 37, il plazer e le benedizioni di 61) prolungano le premesse dell’intensa serie 22-30. Già prima del tentativo stilnovista l’io poetico avverte la necessità di un cambiamento spirituale (si leggano ad esempio 54, 60, 62), per cui le affermazioni di 72 non paiono sufficienti. La vera svolta – per fermarci alla redazione Correggio e alla fase più coesa del Canzoniere – si avrà con la sestina 142, preannunciata dalla palinodia della sestina 80. La coerenza dei momenti trobadorico e stilnovista suggerisce un’elaborazione parallela. La creazione della prima raccolta matura e del suo proemio viene ormai collocata in modo pacifico ai primi anni ‘50, contestualmente alla creazione delle Familiari come corpus unitario ed ordinato e alla stesura o forse alla rielaborazione del Secretum. Ai medesimi anni viene grossomodo ricondotta la composizione o revisione di 70 e delle tre “canzoni sorelle”, vale a dire la sistemazione dell’elemento stilnovista. Allo stesso 51 Per tali aspetti strutturali si veda Santagata 1996, pp. 13 segg e rimandi. 389 periodo e allo stesso spirito potrebbe risalire anche l’identificazione di una zona trobadorica. Essa non esaurisce la presenza occitanica nella raccolta, ma con la sua unità determina un’impressione di maggiore coesione rispetto ai riferimenti occitanici nel complesso e veicola su di essi un preciso significato, ancor più evidente a confronto con il messaggio delle “canzoni degli occhi”. 390 PARTE SECONDA Vita culturale e letture trobadoriche nel Trecento A fronte della notevole e significativa presenza trobadorica nel Canzoniere, è legittimo domandarsi quale tipo di materiali Petrarca avesse a disposizione, dove e in quale fase della sua vita possa averli letti, quali stimoli abbia ricevuto dalla vita culturale del suo tempo1. I momenti più favorevoli al suo incontro con la produzione provenzale appaiono in sostanza due. In primo luogo, il poeta stesso suggerisce l’importanza del soggiorno padovano negli anni della maturità, quando annota la lettura della canzone danielina Amors e jois quale spunto per il sonetto Aspro core: siamo nel 1350, a Padova2. È un fattore determinante per l’ipotesi di Santagata3, avvalorata in effetti dalla centralità dell’area veneta nella creazione e nella conservazione dei testimoni manoscritti occitanici. D’altro canto, la suggestione della giovinezza trascorsa in Provenza è troppo forte per essere ignorata. Petrarca visse a lungo e a più riprese nel Midi: ser Petracco trasferì la famiglia a Carpentras nel 1312 ed, escludendo gli anni dello studio universitario e i viaggi in Italia, Petrarca rimase legato a questi luoghi – Avignone e Valchiusa – sino al definitivo spostamento nella penisola avvenuto nel 1353. Si trattò inoltre di un momento essenziale nella formazione della personalità petrarchesca. Sono infatti gli anni dello studio, delle letture, in cui si manifestano e consolidano le passioni intellettuali. A Carpentras Convenevole da Prato impartì al giovane Francesco l’educazione elementare; ad Avignone il futuro poeta acquisì familiarità con l’ambiente pontificio e cardinalizio, sino a diventare cliente dei Colonna; nella città della curia visse anche i giorni spensierati dopo la morte del padre, dedicati ai piaceri mondani, di cui anche la letteratura poté facilmente essere parte. Avignone fu il luogo dell’incontro con Laura, Valchiusa quello della fantasia amorosa e dell’otium favorevole agli studi. Infine qui si situa anche la Babilonia terrena che, dopo aver mostrato cosa fosse davvero la vita politica con la sua corruzione, suscitò lo sdegno e la condanna morale del poeta. Sarebbe dunque difficile, e poco economico, non tenere in conto il contesto provenzale quando si rifletta sulla cultura trobadorica di Petrarca. L’assenza di documenti o indicazioni oggettive impedisce una certezza definitiva; tuttavia l’osservazione di diversi elementi contestuali alla presenza di Petrarca in area occitanica, che si intende presentare e approfondire nei prossimi capitoli, consente di formulare un’ipotesi stimolante. Il giovane Petrarca potrebbe aver beneficiato di un primo contatto con il 1 Più in generale le letture volgari di Petrarca costiuiscono ancora per certi aspetti un campo di indagine promettente e tutt’altro che esaurito, come hanno sostenuto autorevolmente Billanovich 1961, pp. 336 segg e Frasso 1974, benché senza dubbio gli studi sul lessico comico, stilnovistico e prestilnovistico nel Canzoniere abbiano fornito un importante contributo in tal senso (per le numerose indicazioni bibliografiche si veda il secondo capitolo). 2 Tali aspetti sono stati anticipati nel corso del primo capitolo; per la postilla si rimanda comunque a Santagata 1996, p. 1069. 3 Si veda Santagata 1990, con particolare riferimento al paragrafo 8 del capitolo quarto (pp. 190 segg.), dove la riflessione è dedicata specificatamente alla cronologia delle letture danieline in netto contrasto con Perugi 1985. Tali aspetti sono stati trattati con ampiezza nel corso del primo capitolo. 391 corpus trobadorico negli anni della formazione e nei luoghi da cui quella tradizione era derivata, dove, come vedremo, si erano conservati con abbondanza le testimonianze, nonché un interesse attivo verso quell’eredità lirica, benché in forme molto mutate rispetto a quelle originarie. La scoperta dei celebri, ma a lungo dimenticati antecedenti potrebbe essere stata contestuale all’approfondimento sulla lirica italiana (oltre che sui classici), contribuendo perciò a consolidare non solo le curiosità, ma anche i progetti intellettuali del poeta in fieri. Ciò non implica che tali precoci letture abbiano esaurito il confronto con le opere dei trovatori: gli anni padovani devono aver offerto ad un Petrarca ormai maturo e dunque ricettivo un rinnovato e magari ampliato incontro con i Provenzali. I luogo era ideale, ma lo era soprattutto la fase intellettuale che il poeta stava vivendo, per creatività e volontà progettuale. Sono gli anni delle raccolte, Familiares e Canzoniere, della sistemazione, della ricerca di unità. In questo periodo vedono la luce o sono messi a punto i testi che marcano gli snodi della raccolta nella sua prima redazione vera e propria, e la più coesa. Nel medesimo arco di tempo Petrarca recupera l’orizzonte stilnovistico e il difficile esempio dantesco, creando il nucleo forte delle “canzoni sorelle”, che danno appunto una collocazione specifica a quell’antecedente tanto prestigioso e problematico. Le stesse esigenze compositive potrebbero aver spinto, al contempo, al recupero dei trovatori e alla piena sistemazione del loro esempio all’interno della raccolta lirica. Non è necessario dunque immaginare che Petrarca abbia appreso la lezione occitanica in un’unica fase; le letture giovanili sembrano proficue rispetto alle prime composizioni e all’interiorizzazione o personalizzazione dei modelli, come avviene nella codificazione del genere sestina, cui andrà attribuita una datazione “alta”. Una seconda occasione di riflessione sulla medesima tradizione (non necessariamente gli stessi testi) appare finalizzata ad un riuso coerente dei modelli stessi, capace di veicolare un preciso significato. Gli aspetti storici e contestuali utili ad illuminare, almeno in linea generale, il quadro culturale in cui si è formato il giovane poeta sono molteplici. Innanzitutto è opportuno considerare la vivace realtà avignonese, che offriva scambi e confronti stimolanti: nell’ambiente curiale e cardinalizio da un lato, nelle biblioteche e nelle scuole dall’altro. Tali strumenti educativi non contraddistinguono in particolare il caso petrarchesco né la regione provenzale, ma anzi nel Basso Medioevo accomunavano tutti gli studenti che non si fermassero ad una preparazione di base. Non per questo, però, esse sono meno rilevanti sul piano intellettuale e formativo. Vi è poi la complessa questione dell’eredità trobadorica. Posto che non restano documenti espliciti o possessi librari che risalgano all’Aretino4, è necessario affidarsi alla ricostruzione della tradizione manoscritta, per comprendere quali materiali e testi antichi fossero noti ed accessibili alla sua epoca. Inoltre nella prima metà del secolo, la poesia cortese non è ancora concepita soltanto in chiave antiquaria, ma viene ancora 4 Nel loro studio su Razo e dreyt Asperti-Pulsoni 1989 sottolineano come in generale la perdita gravissima di testimoni e codici utili, perfino di interi rami della tradizione manoscritta legata ai trovatori, renda difficilissimo se non impossibile risalire alle specifiche letture degli intellettuali italiani. 392 esercitata. Anche tale prospettiva deve essere vagliata, poiché le manifestazioni del trobadorismo tardo sono parte integrante del contesto culturale occitanico trecentesco. È vero che gli ultimi trovatori non sono all’altezza dei classici e che la distanza tra le generazioni doveva essere particolarmente chiara alla sensibilità culturale di Petrarca. Tale produzione, però, era più accessibile ed in modo più immediato: potrebbe dunque aver offerto una mediazione rispetto allo studio delle opere dell’età “dell’oro”5. Infine, è possibile investigare alcune esperienze personali ed i rapporti d’amicizia del poeta, che gli consentirono ulteriori contatti culturali; Petrarca fu ben presto considerato un modello e celebrato per la sua superiorità, ma questo non ha determinato il suo isolamento o una totale autonomia. Bisogna d’altro canto premettere i limiti che gravano su una simile ricostruzione. I documenti sopravvissuti ed analizzati dai critici dimostrano ancora una volta la preminenza del latino nella cultura ufficiale: non risulta che la lingua provenzale fosse insegnata6, ma la lettura delle opere trobadoriche e l’apprendimento delle relative tecniche compositive erano legati a realtà ben definite, cioè a quegli ambienti in cui si tentava un tardo risveglio dell’eredità cortese. Né è agevole calcolare quali e quanti canzonieri occitanici fossero presenti in un dato luogo, in un dato momento7. A livello scolastico e nei fondi delle biblioteche non si trovano dunque, per lo meno non citati in modo intellegibile, canzonieri trobadorici. Più in generale, sono pochi gli strumenti per approfondire sugli interessi volgari degli intellettuali del pieno XIV secolo: tutt’al più vi si accenna, poiché l’attenzione è focalizzata sugli aspetti di novità e dunque sui segnali sempre più eclatanti della svolta umanistica8. La stessa biblioteca di Petrarca ci è nota soprattutto per quanto concerne la parte latina9, mentre per decifrare i suoi interessi in ambito volgare è stato necessario scandagliare le sue opere e il suo usus scribendi. Poiché però la questione appare rilevante, si intende proporre la ricognizione complessiva delle occasioni cui potesse accedere un letterato in via di formazione nella Provenza del Trecento, rinunciando a definire informazioni puntuali sul singolo caso. Permane, certo, la consapevolezza che il problema sia ancora aperto, che le ipotesi valide siano diverse, che la soluzione non sia definitiva. 5 Si veda per questo anche Lo Parco 1915; un’ipotesi simile è stata proposta nelle sue conclusioni anche in Perugi 1985. 6 Si vedrà che comunque è stata formulata qualche ipotesi in questo senso, ma sempre in riferimento a lezioni private e forse occasionali. 7 Non si potrà che basarsi sulle informazioni disponibili e quindi sui materiali effettivamente sopravvissuti sino ad oggi, nonché sulle ipotesi che ne hanno derivato i filologi. 8 Tale precedenza si rispecchia nelle opere degli studiosi, che si sono dedicati con abbondanza alla riscoperta degli studi latini e classici degli intellettuali trecenteschi, e di conseguenza su questo tipo di patrimoni librari. 9 Si legga in particolare Billanovich 1961, pp. 336 segg. Lo studioso cita anche l’esempio affine di altri letterati preumanisti, come i padovani Lovato Lovati e Albertino Mussato, contemporanei di Dante e del padre di Petrarca, di cui si conosce piuttosto bene la biblioteca latina, importantissima per il loro ruolo intellettuale di anticipatori. Al contrario la loro produzione volgare e così le opere romanze che lessero sono quasi del tutto ignote o perdute. 393 CAPITOLO QUINTO Aspetti della vita culturale trecentesca 1. Il contesto culturale avignonese Nel 1316 il neoeletto pontefice Giovanni XXII comprese che per una gestione più semplice della propria curia era necessaria una sede stabile, dopo i ripetuti trasferimenti dovuti all’incertezza di Clemente V. La scelta ricadde su Avignone, che non poteva vantare alcun prestigio storico o spirituale, ma godeva di un’ottima posizione geografica: fuori dalla diretta giurisdizione del re di Francia, lontano dalle fazioni romane, centrale e dunque favorevole a viaggi e spostamenti, anche grazie alla vicinanza del Rodano1. L’intera regione presentava per altro numerosi vantaggi, grazie ai suoi centri urbani particolarmente vivaci e alle caratteristiche della campagna, adatta alla colonizzazione. La città beneficiò enormemente dell’arrivo dei papi2. All’inizio del Trecento era un piccolo centro privo di reali attrattive ed anzi ricordato soprattutto per le sue mancanze: le case basse, scure, poco areate, le vie strette e sporche, l’urbanistica poco funzionale3. Grazie al suo improvviso prestigio, la crescita anche materiale fu impressionante; la continua affluenza di “cortesani4”, così chiamati perché spinti in Provenza dalla presenza della curia pontificia, comportò uno stato di sovraffollamento, testimoniato dal censimento voluto da Gregorio XI5. In partenza Avignone contava tra i cinque e i seimila abitanti6, entro gli anni Cinquanta del Trecento trentacinquemila persone vi risiedevano stabilmente, ma la situazione era fluida perché l’immigrazione, i soggiorni brevi e le partenze erano costanti: basta pensare agli studenti, ai mendicanti, a chi cercava una qualunque forma di beneficio da parte della Chiesa7. Il fascino della curia non si estinse mai8, sino al rientro a Roma: anche dopo le grandi epidemie del ‘48 e del ‘61 la popolazione, decimata dalla peste, risalì rapidamente alle cifre degli anni precedenti. È facile immaginare i disordini e la difficoltà nell’organizzare una tale popolazione; il problema principale – mai realmente risolto – concerneva le abitazioni9: i prezzi erano esorbitanti, le prime famiglie cardinalizie che avevano seguito il pontefice occuparono gli alloggi disponibili, senza alcun riguardo per una distribuzione paritaria tra coloro che avrebbero lavorato per e presso il papa. A queste necessità si cercò di far 1 Su questo aspetto si veda l’approfondita analisi in Guillemain 1962, pp 77-88. In queste pagine si può inoltre trovare un’utile ricostruzione del contesto politico e feudale della regione. 2 Informazioni dettagliate si trovano innanzitutto in Quaglioni 1994. 3 Mollat 1964, p. 464. 4 Guillemain 1962, pp. 653-672. 5 Sul censimento e la situazione demografica dell’Avignone papale, si veda Quaglioni 1994, p. 278 ed anche Mollat 1964. 6 Sono i cosiddetti cittadini: Guillemain 1962, pp. 628-642. 7 Su questo tema si concentra Guillemain 1962, pp. 514-532. 8 Per approfondire sulla questione, si può consultare anche Guillemain 1962, pp. 497-560, dove in particolare viene trattata la trasformazione fisico-materiale della città (pp. 497-508), oltre a quella sociale (pp. 508-514). 9 Per tale questione in riferimento alla biografia del giovane Petrarca si veda Suitner 20053. 395 fronte con un progressivo ampliamento fuori dalle mura, sino alla costruzione di una vera e propria seconda città. Tra i nuovi abitanti erano numerosissimi gli italiani, che rappresentavano più del 20% della popolazione totale; essi provenivano soprattutto da Firenze e dal centro-nord, e si occupavano in gran parte di attività finanziarie10. I tedeschi giunsero in numero sufficiente per fondare una confraternita11 ed era ben radicata anche la presenza di famiglie ebraiche12; è difficile misurare l’esatta configurazione delle clientele in ambito ecclesiastico, per il loro carattere fortemente mobile. È certo, comunque, che i cardinali si concessero un tenore di vita principesco, contando evidentemente su rendite adeguate; d’altro canto il personale ecclesiastico non veniva mantenuto direttamente dalla singola “corte”, ma grazie alla concessione di benefici da parte del pontefice (ottenuti attraverso la mediazione dei cardinali stessi)13. Si prestava costante attenzione a tutto ciò che poteva favorire il prestigio della famiglia, dunque ampio spazio era riservato ai poeti, che ne componevano gli elogi: da qui un mecenatismo decisamente attivo, benché selettivo. La vita economica era particolarmente fiorente; le attività bancarie e di commercio divennero sempre più vivaci, grazie all’immigrazione concentrata principalmente nel settore dei servizi. Non a caso, finché la curia papale restò in Provenza e persino negli anni successivi, città e regione non dovettero temere alcuna crisi. Avignone si evolvette in breve tempo in una vera e propria metropoli dalla notevole varietà demografica: “una popolazione cosmopolita trasformò la città”, che divenne una “capitale amministrativa e, conseguentemente, […] un centro economico e finanziario”14. E della metropoli Avignone conobbe i vantaggi e gli svantaggi. Aumentarono i crimini, le violenze e soprattutto la corruzione, alimentata dal potere e dalla disponibilità di denaro. Si raccolsero in città avventurieri, usurai, prostitute, giovani fuggiti dalla famiglia: fu necessario organizzare, in effetti, un buon sistema di polizia15. Al contempo però si svilupparono le arti e il mecenatismo: la città crebbe anche per l’eccellenza intellettuale, non solo come luogo d’attrazione politica e religiosa. La richiesta di prodotti culturali e di strumenti di formazione fu particolarmente alta, e l’offerta sempre più intraprendente. L’attività intellettuale beneficiò dell’incontro tra influenze, tradizioni ed esperienze diverse; vennero allettati o invitati esplicitamente artisti, studenti e studiosi, ecclesiastici 10 Un’ampia ricostruzione in tal senso si può trovare in Guillemain 1962, pp. 591-614; alle pp. 549-554 è presentata un’analisi più generale delle origini degli immigrati. A proposito delle loro professioni, in cui si denota una distinzione fra intellettuali, artisti ed esperti in questioni tecniche e manuali, si vedano anche le pp. 561-590. 11 Mollat 1964, p. 465. 12 Guillemain 1962, pp. 642-652. 13 Sulla ricchezza e lo status delle famiglie cardinalizie, si veda Quaglioni 1994, p. 262, dove è possibile trovare ulteriori indicazioni bibliografiche; è approfondita anche la ricostruzione in Mollat 1964. Sulle clientele cardinalizie può essere inoltre consultato Guillemain 1962, pp. 251-276, con particolare attenzione alla presenza di intellettuali (pp. 263-264) e alla formazione di vere e proprie corti (pp. 272 segg.). 14 Quaglioni 1994, pp. 239 e 264. 15 Mollat 1964 e Quaglioni 1994. 396 e letterati di provenienza e formazione diversa16. Parte e conseguenza di questo panorama multiforme è il plurilinguismo: presso la curia era particolarmente evidente l’intreccio di latino – lingua ufficiale delle attività amministrative –, italiano17, francese e provenzale – la lingua locale. È facile immaginare la vitalità e la vivacità di questo ambiente anche a livello quotidiano. Il considerevole e costante afflusso di denaro rappresentò un fattore essenziale di tale evoluzione, ma fu determinante anche la stabilità della residenza pontificia: la spesa si concentrò in un solo luogo e maturò l’impegno nel mecenatismo18. L’influenza di alcuni papi (ad esempio Clemente VI e Gregorio XI) e cardinali (soprattutto italiani) particolarmente appassionati d’arte fu tanto forte da creare una vera e propria “moda” e dunque un’abitudine condivisa. La costruzione del Palazzo dei papi – e l’impressionante impegno architettonico e decorativo che la caratterizzò – costituì un cambiamento essenziale per l’immagine della città, ma non bisogna con ciò dimenticare le numerose fondazioni di palazzi, di chiese e di altri edifici religiosi ad opera dei pontefici stessi e di numerosi cardinali. Vennero inoltre convocati i pittori più in vista, a partire dal celebre Simone Martini. Si diffuse il gusto per le collezioni, la ricerca degli oggetti più bizzarri, ma anche la raccolta di piante e animali, che arricchivano soprattutto i giardini19. In fondo la biblioteca pontificia è innanzitutto un’altra, straordinaria, collezione: i ricchi e i potenti condivisero sempre più spesso il gusto per la bibliofilia, con evidente interesse preumanistico. La circolazione libraria fu davvero notevole: sin da giovane Petrarca poté avvantaggiarsene, grazie anche alla generosità, alle possibilità economiche e alle curiosità del padre20. Beneficiò di questo clima anche la musica, perché papi e cardinali tenevano molto alla rappresentatività delle loro cappelle; più in generale si ampliò e rinnovò tutto l’entourage ecclesiastico21. La corte avignonese vantava un lusso senza pari, feste interminabili (che senza dubbio si esposero alle critiche moraleggianti, comprese quelle di Petrarca) e doni fin troppo generosi22. Il periodo avignonese è all’origine di un ulteriore accentramento di potere, spirituale e temporale, nelle mani del pontefice. Crebbe perciò la curia, che doveva gestire un ruolo 16 Non a caso su questo tema Jullien de Pommerol-Mofrin 1991 conclude: “Tout ce monde de savants, lettrés et artistes composait un terrain qui allait se révéler particulièrement favorable à l’épanouissement de ce qu’on a pu appeler le premier humanisme” (p. 77). 17 D’Ancona 1884 insiste su questo aspetto in riferimento all’apprendimento linguistico di Petrarca, che era rimasto troppo poco con la famiglia e soprattutto nella terra d’origine. Anche Zingarelli 1935 sottolinea l’importanza della lingua italiana ad Avignone, nonché il fatto che gli italiani (e italofoni) nell’Avignone pontificia erano per lo più persone di notevole cultura: artisti, giurisperiti, ecclesiastici. Lo studioso ritiene inoltre che il pubblico ideale di Petrarca deve essere stato italiano, in senso anche “nazionale”, oltre che linguistico. 18 In Renouard 1954, che costituisce un buon riferimento in generale sugli anni del papato avignonese, si calcola che il totale delle entrate destinato agli investimenti artistici ammonti al 4% (p. 112). 19 Sul tema e per un elenco dettagliato degli oggetti collezionati, si veda Renouard 1954, p. 113. 20 Alcuni episodi della biografia petrarchesca dimostrano la precocità di tali interessi: ad esempio il “rogo” cui Petracco sottopose i volumi del figlio, che si distraeva dagli studi di diritto, per salvare, comunque, un vecchio Virgilio e una “Rhetorica” di Cicerone di fronte alle lacrime del figlio. Lo stesso Petrarca lo racconta nella Senile XVI, 1. Per la biografia di Petrarca si legga Wilkins e per l’episodio particolare anche Billanovich 1985, p. 62. 21 Solo i cappellani che officiano nella cappella pontificia sono una trentina (Mollat 1964, p. 467). 22 Mollat 1964, pp. 503-515. 397 politico sempre più ampio: ne derivò in primo luogo la necessità di una struttura burocratica più articolata e funzionale, che richiedeva personale capace. Il rinnovamento degli organismi pontifici determinò a sua volta la trasformazione delle attività culturali e scolastiche: come si vedrà, le richieste professionali orientarono l’offerta universitaria e le modalità dello studio. Il calcolo effettivo del numero di occupati presso il pontefice è piuttosto difficile, per la forte oscillazione nel tempo, la variazione nelle cariche concesse, l’iniziale ambiguità tra dono e stipendio. Si parla comunque di più di cinquecento persone: praticamente solo uomini, in gran parte ecclesiastici, cui era riservato il servizio personale, mentre laici formavano la scorta e si occupavano di questioni materiali23. Non è sempre lineare, inoltre, la distinzione tra funzionari veri e propri, e “familiari”, che si occupavano della persona del papa o lavoravano nel suo entourage più ristretto, ma la cui definizione tese col tempo ad estendersi24. Essi costituivano la curia in senso stretto, che ammontava comunque a circa duecentocinquanta persone. Le attività da considerare erano le più varie: l’organizzazione delle elemosine, la preghiera e la musica, i tribunali25. Ovviamente della corte papale facevano parte in prima istanza i cardinali: fermo restando il potere per così dire regio del papa, essi condividevano le decisioni e dunque avevano ampio spazio per promuovere i propri interessi personali e nazionali. Ad Avignone si riproposero ben presto le alleanze e le faziosità che avevano minato la vita romana26. La centralità economica e politica, dunque, nonché l’impulso culturale che mediò fra le diverse aree dell’Europa cristiana, guadagnarono ad Avignone una straordinaria importanza: e tale ruolo si mantenne persino oltre il ritorno dei papi a Roma. Nel Midi, comunque, l’ambiente di cultura per eccellenza restava l’università27: i letterati erano per la maggior parte studenti di grado superiore e laureati, mentre gli altri 23 Una sola donna è registrata presso la curia avignonese, con compiti di lavanderia. Per questi dati, si veda in particolare Quaglioni 1994, pp. 264 segg. 24 A parte vanno considerati i familiari in senso biologico, che attorniano il papa e ne attendono benefici: fratelli, nipoti, cugini, oltre a alleati di varia natura. In questo caso sono registrate anche figure femminili: sorelle, cognate e nipoti sono solitamente annoverate come “dame della famiglia del papa” (Mollat 1964, p. 467). 25 Date le dimensioni e le molteplici funzioni della curia è facile immaginare quanto ampio ed eterogeneo fosse l’insieme degli stipendiati presso il Palazzo dei papi, dalle cucine agli insegnanti di teologia agli stallieri. Mollat 1964 ne ha offerto una ricostruzione particolarmente ricca. Sulla questione dei familiari (pp. 149-180) e degli stipendiati dalla curia in genere si veda anche Guillemain 1962. 26 Sul ruolo effettivo dei cardinali al fianco del pontefice, si veda Guillemain 1962, pp. 225-250. 27 Secondo la ricostruzione di Quaglioni 1994, d’altro canto, la cultura tardo-medievale nel suo insieme non può essere realmente compresa senza tenere conto della realtà universitaria, al di là, dunque, anche della Scolastica. Spesso gli studiosi hanno segnalato per il Trecento la fine della fase più creativa ed innovativa rispetto all’educazione e all’attività intellettuale in genere, che lascerebbe spazio soltanto ad una professionalizzazione della cultura e degli intellettuali. Tuttavia Quaglioni sottolinea come l’organizzazione istituzionale si sviluppi necessariamente insieme alla sfera della dottrina. È vero che il dibattito teologico langue, fattore che influenza la preparazione dei prelati (senza per questo necessariamente negare ogni interesse per la teologia, come invece propone Guillemain 1962). Cresce, al contrario, in modo impressionante l’attività giuridica, anche nei suoi aspetti teorici: lo studio, il dibattito, la riflessione, che influenzano anche gli sviluppi della filosofia. L’università trecentesca si avvia dunque in questa peculiare direzione, rispondendo alle necessità effettive e pratiche della società e della Chiesa; proprio questo spiega in parte il crescente interesse e contributo delle istituzioni ecclesiastiche alla vita degli studia. Gli organismi ecclesiastici e soprattutto la curia avignonese non si basano tanto sulla speculazione, quanto sugli strumenti più adatti ad un’efficace gestione, anche amministrativa. Per utili 398 ambienti di formazione o di semplice scambio culturale appaiono marginali. In effetti Avignone era l’unico centro dal respiro cosmopolita: altrove la vita culturale risulta chiusa e localizzata. Tale vitalità dell’orizzonte educativo è tanto più sorprendente in quanto un sistema scolastico ben strutturato aveva tardato ad affermarsi nel meridione ben più che nel nord della Francia28. I primi studia della regione, dedicati alle artes, alla teologia e alla filosofia, risalivano all’inizio del ‘20029: le ricostruzioni storiche hanno dimostrato che spinte sociali in tal senso si erano già delineate nel secolo precedente, ma senza che si mettessero in moto altri fattori essenziali. Alla fine del XIII secolo, la fondazione di un’università richiedeva il sostegno delle autorità politiche; nel Trecento il loro interesse si dimostrò sempre più marcato, e il contributo all’università cominciò ad essere riconosciuto come forma di prestigio per gli organismi cittadini, per il sovrano e i poteri temporali, per la Chiesa30. E in effetti proprio il papato si impegnò per lo sviluppo dei centri meridionali, in primo luogo a Tolosa ed Avignone, ma anche Cahors, Grenoble, Orange31. Anche in Italia continuarono ad essere fondati nuovi studia: prosperano quelli di Pisa, Firenze, Siena, Pavia e Perugia32. La conferma pontificia divenne un elemento frequente e poi imprescindibile, sia che contribuisse alla nascita di una nuova istituzione, sia che ne sancisse una già esistente. Ne derivò anche una maggiore uniformità, mentre le iniziali fondazioni spontanee, nate da scuole locali e preesistenti, erano state caratterizzate da una libera varietà33. L’interesse dei potenti era d’altronde motivato dalle loro necessità pratiche, cui si è già accennato a proposito della indicazioni bibliografiche su questo tema si veda Quaglioni 1994, p. 367. In merito ai due tipi di diritto, civile e canonico, è stata proposta una specializzazione geografica delle attività intellettuali e professionali, per cui si veda Gouron 1978; per il caso particolare di Tolosa, il rapporto tra sovrano e università e l’influenza del primo sulla seconda, è interessante Dossat 1970, pp. 79-84. Per un quadro generale sulle università e della vita culturale del tempo si vedano Ruegg 1992 e Verger 1999. 28 Per quel che concerne la storia delle scuole nel Midi, le informazioni sono scarse; in ogni caso i documenti non offrono alcuna sorpresa: in epoca carolingia sono ben attestate le scuole monastiche e canonicali secondo l’organizzazione consueta, le testimonianze successive provano la graduale crescita di professionisti attivi, che permette di immaginare l’aumento dei luoghi di studio, anche privati. Ci sono poi indicazioni specifiche di occasioni d’apprendimento in ambito secolare: soprattutto per medicina e grammatica. Si veda ad esempio Smith 1958, con particolare riferimento al caso di Tolosa. 29 La facoltà di più antica fondazione nel Midi è quella di medicina a Montpellier, cui segue quella di diritto nella medesima città. 30 Il ruolo delle autorità pubbliche comincia ad essere evidente già dal primo quarto del Duecento, con un netto scarto rispetto alle fondazioni spontanee del XII secolo. Le prime istituzioni a comprendere i vantaggi (e il prestigio) che derivano da un’organizzazione universitaria sono quelle borghesi e comunali, in primo luogo italiane; esse sono motivate anche dalla competizione tra città. Dunque è probabile che l’intervento dei sovrani si sia ispirato proprio a questo esempio. Per approfondire si legga Smith 1958, p. 33. 31 Per lo studio di alcune università della Linguadoca sorte in questo periodo o poco prima, si possono leggere i saggi di Caille, Llobet e Edwards in AAVV 1970. 32 Più in generale tutta l’Europa centrale è coinvolta in questa fase di arricchimento e rinnovamento. 33 Sono i casi di Bologna, Parigi, Montpellier e Oxford. Si vedano Verger 1982, pp. 75-81 e Verger 1997, pp. 70 segg. Qui si distingue in particolare fra tre tipologie di fondazioni: spontanea, per migrazione da uno studium già avviato (come Cambridge da Oxford e Padova da Bologna) e per intervento di un’istituzione politica o ecclesiastica. Nei primi due casi, l’attività si avvia nella pratica senza riconoscimenti ufficiali, anzi in alcuni casi con piglio volutamente provocatorio, per poi ottenere licenze e concessioni. Le università “di fondazione” sono tipiche soprattutto del Trecento e del Quattrocento (ad esempio, Tolosa); è una pratica in realtà già duecentesca (come nel caso ben noto di Napoli), ma fino al secolo successivo ebbero maggiore successo le realtà spontanee. 399 Chiesa, ed influenzò gli indirizzi dell’attività intellettuale: la burocrazia e l’amministrazione in costante sviluppo non potevano che essere affidate ad esperti di diritto. La preminenza della giurisprudenza sulla teologia34, tipica del Trecento e soprattutto delle aree meridionali35, deriva anche da queste spinte, che per altro non si limitarono alla curia avignonese, ma interessarono la Chiesa tutta. Anche i compiti pastorali e spirituali erano affrontati innanzitutto nell’ottica di una buona gestione, organizzativa oltre che morale e politica: era ormai venuta meno l’urgenza delle eresie duecentesche36. Certo è stato essenziale che si stabilissero in area provenzale esperti di diritto, di origine soprattutto italiana e bolognese, che si avviassero collegi abbastanza solidi da giustificare la successiva formazione di corsi continuativi ed infine la concessione di benefici37. Gli studia laici appaiono i più dinamici, anche per i loro vivaci rapporti con le altre istituzioni cittadine; l’attività di quelli legati agli ordini mendicanti fu molto più chiusa, escludendo i laici e spesso limitandosi addirittura ai membri degli ordini stessi. Ne era particolarmente rigido anche il cursus studiorum, che organizzava le discipline – e quindi gli istituti da frequentare - secondo una gerarchia prestabilita38. Tuttavia non mancarono casi di contatti o anche di fusione con le libere università sviluppatesi nel frattempo; inoltre, pur nel loro isolamento, le istituzioni mendicanti risultano esperienze molto più vitali rispetto alle scuole capitolari e vescovili di un tempo. Infatti, la mediazione culturale verso altri ambiti di formazione non era del tutto esclusa ed avveniva principalmente attraverso l’apertura delle biblioteche e l’attività di predicazione. 34 Sul “fallimento della teologia universitaria” si è concentrato ad esempio Verger 1982, pp. 158-171. Da una parte prevale la moltiplicazione delle scuole riconosciute, dopo la forte centralizzazione duecentesca; dall’altra coloro che compiono sino in fondo gli studi teologici sono pochissimi, per la difficoltà della disciplina e per l’importanza attribuita al diritto. Non è però solo un problema quantitativo: anche la qualità dell’insegnamento sembra decadere e soprattutto incapace di rinnovamento. È vero che non mancano nuove teorizzazioni e riflessioni addirittura rivoluzionarie (Occam), ma il metodo resta ancorato alla vecchia Scolastica. 35 La prima vera facoltà di teologia nell’Europa meridionale nasce tardissimo, curiosamente quando la preminenza del diritto è già da tempo in piena consonanza con la mentalità religiosa che si è descritta e le necessità concrete della società (1360). Si veda Verger 1997, p. 73. Fino a questo momento, al sud la teologia si era studiata in semplici scuole; al contrario al nord è sempre stata la tradizione teologica a dominare, secondo il modello parigino, il quale si rivela tanto forte da imporre alle altre università un vero e proprio adeguamento (mentre il diritto vi è poco sviluppato). 36 Può essere utile per questi aspetti Verger 1982, pp. 172 segg. Verger, in particolare, associa gli evidenti problemi pratici della Chiesa alla concezione della fede che si diffonde nel Medioevo tardo: da una parte computazionale (come si nota nel caso del calcolo delle indulgenze o nella richiesta di messe ed elemosine), dall’altra timorosa dell’insufficienza delle proprie manifestazioni e dunque attenta “alle regole” (p. 173). Il prete è un ministro, che deve conoscere una tecnica ed un rituale. 37 La migrazione di maestri già esperti e magari conosciuti verso nuove città dove fondare proprie scuole e studia si fa sempre più frequente all’inizio del ‘200, anche se soprattutto in Italia (a Vicenza ed Arezzo, ad esempio). Vedi Smith 1958, p. 33. 38 La questione è affrontata con sintesi efficace in Verger 1997. Gli studia mendicanti hanno un’organizzazione del tutto autonoma e specifica, benché siano equiparati in toto a quelli comuni. Non sono innovativi, invece, i programmi, dalla grammatica alla teologia. D’altronde il rigore con cui è gestita l’educazione ottiene risultati significativi: non a caso la fondazione di collegi nel ‘300, pensati per preparare all’università vera e propria, emula il sistema dei conventi (sarà un vero e proprio successo, minato però dai costi proibitivi e dalla rapida diffusione di epidemie). Per il problema degli studi all’origine degli ordini domenicano e francescano si veda Verger 1982, pp. 125-134. 400 La ricostruzione della temperie culturale avignonese passa anche attraverso la riflessione sui gusti dei singoli papi e quindi sull’influenza che essi hanno determinato su tutta la curia39. Tutti i papi avignonesi completarono il loro corso di studi in ambito universitario40, per lo più dedicandosi al diritto – funzionale alla gestione del potere – eccetto Benedetto XII e Clemente VI, che si specializzarono in teologia41. Il loro intervento in ambito artistico fu costante, soprattutto per ciò che concerneva le arti figurative e le attività letterarie, con ovvi intenti ideologici e apologetici. Documenti numerosi e precisi testimoniano di un prolungato interesse, dell’ampliamento del patrimonio librario, della partecipazione (e dell’influenza) alle varie correnti di pensiero del tempo: tali tendenze si comunicarono, lo si è visto, ai cardinali. Nella figura di Giovanni XXII (1245ca-1334), ad esempio, si coglie il pieno riflesso di quella tendenza tipicamente medievale definita nel ‘500 “enciclopedismo” e che originariamente identifica un’attenzione allo scibile umano il più ampia possibile e riunita in un solo nucleo educativo, il libro anche fisicamente inteso. Sotto il pontificato di Giovanni la curiosità per questo approccio aperto, potenzialmente onnicomprensivo si mantenne particolarmente viva, come dimostra la stesura di nuove summe42; è un fenomeno peculiare, poiché simili trattati sono diffusissimi nel ‘200, ma molto meno numerosi nel ‘300. È dunque una fase di vigore, non tanto quantitativo, quanto qualitativo che si delinea circa tra il 1315 e il 1340, e trova il suo esito materiale in volumi preziosi e costosi, dal forte valore simbolico. A completare il ritratto di questo pontefice, si consideri la descrizione che ne offre Petrarca nei suoi Rerum memorandarum libri in qualità d’uomo preciso e zelante negli studi. Un contributo forse ancora più diretto alla vita culturale si deve a Clemente VI (12911352), anche se orientato in modo ben più marcato sulle questioni teologiche. Il giovane Pierre Roger, infatti, si era laureato in teologia e partecipò con grande energia alle controversie del suo tempo. A partire dagli anni Trenta il suo impegno come autore si concentrò esclusivamente sui sermoni, che pur abbandonando le polemiche e le dissertazioni dottrinali o dogmatiche, rappresentavano lo strumento principale per l’affermazione dei nodi teologici che la corte avignonese doveva affrontare. Per altro il punto di vista del cardinale (e poi del pontefice) fu sempre più influenzato, e in modo sempre più manifesto, dalle preoccupazioni politiche. A proposito di Clemente VI, gli studiosi si avvantaggiano anche della fortunata conoscenza della sua biblioteca privata, caso davvero raro per il Medioevo. I volumi che gli sono appartenuti sono infatti confluiti nella più ampia collezione pontificia ed oggi se ne osserva la dispersa presenza tra Francia, Italia e Vaticano. Al momento della sua 39 Per ulteriori indicazioni in proposito, si veda anche Guillemain 1962, pp. 116-148. Con l’eccezione, lo si vedrà, di Gregorio XI, che pure fu studente di teologia e diritto a livello superiore. 41 Anche per questi aspetti può essere utile la consultazione di Quaglioni 1994, con particolare riferimento alle pp. 281-286 su Clemente VI e la sua “doppia” preparazione culturale. 42 Si pensi ad esempio alle opere di Paolone da Venezia, che soggiornò a lungo ad Avignone e scrisse numerose opere a posteriori definite enciclopediche. Egli dichiara apertamente di essersi ispirato non solo alla sua concezione dell'universo e della storia, ma anche ai gusti del suo pubblico; inoltre è interessante notare che vari codici tra quelli che ci trasmettono le sue opere hanno un aspetto ufficiale, lussuoso, sono dunque oggetti destinati al mondo aristocratico e politico. 40 401 morte tale patrimonio comprendeva circa cento tomi, ma in questo numero si considerano solo quelli che con certezza gli appartennero personalmente; è stato inoltre possibile tracciare la progressiva costituzione della raccolta. Le informazioni più scarne sono quelle relative agli anni giovanili, che videro Roger studente a Parigi, dove probabilmente seguiva il normale corso degli studi, senza cioè legami con gli ordini mendicanti. Si interessò alla medicina, alle scienze naturali, alla matematica e all’astronomia; particolarmente vivace fu la sua curiosità per Aristotele, che affrontò attraverso il commento di Averroè, come dimostrano le sue postille autografe. Raccolse in un codice, con scopi puramente personali di approfondimento, le proprie annotazioni ai testi filosofici e di scienze naturali, creando dei veri e propri commentari. Le sue riflessioni su Aristotele invece vennero fatte copiare su un manoscritto autonomo, forse con l’intenzione di usarlo per l’insegnamento, ma probabilmente anche in vista della pubblicazione. Si nota dunque un’evoluzione dalle prime note sintetiche, ai riassunti, alle considerazioni più ampie e originali. Lo stesso spostamento verso la maturità intellettuale e il ruolo di insegnante si coglie in merito alla lettura delle opere religiose, tra le quali spiccano per quantità Tommaso d’Aquino, sant’Agostino e Bonaventura da Bagnoreggio. Mentre studiava al contempo presso la facoltà di arti e quella di teologia, si accostò anche al diritto, ma non è chiaro se si sia trattato di un semplice interesse o di vera e propria frequenza universitaria. Sviluppò nel frattempo la propria attività di predicatore, rivolgendo i suoi scritti soprattutto agli altri prelati; si riscontrano annotazioni su opere altrui, florilegi, glossari, dizionari preparati per motivi di studio. Anche nella maturità continuò a prediligere Aristotele e Seneca, ma lesse anche molti contemporanei. Conosciamo molto meglio il periodo del suo cardinalato a Rouen, dal 1330. Continuò l’attività di predicatore, che favorì la costituzione di un nuovo nucleo nella sua biblioteca; tuttavia non vennero meno gli interessi eterogenei degli anni universitari, passioni che a loro volta favorirono nuovi ampliamenti nel patrimonio librario, particolarmente nel campo dell’esegesi. Durante gli anni del pontificato aumentarono notevolmente le acquisizioni librarie, ma diminuirono le dettagliate indicazioni cronologiche un tempo fornite dagli ex libris e da altri documenti. Tali dettagli si fanno più rari quando il possesso di libri diviene ovvio e quotidiano, lasciando alle “marche di possesso” solo una funzione araldica o di dedica da parte di chi fa un dono. Per questo periodo inoltre è difficoltoso distinguere tra gli acquisiti personali e quelli della biblioteca pontificia in generale; una parte considerevole di questi testi privati doveva essere conservata nello studio personale del pontefice, a segnalarne proprio lo statuto peculiare. I suoi gusti non paiono comunque mutati nella sostanza; essi sono però influenzati dalle cure del ruolo ufficiale, da cui deriva la ricerca di numerosi e molteplici trattati, come quelli sul calendario. L’esegesi si mantenne la priorità, mentre venne riservato uno spazio minore alla teologia speculativa; il pontefice continuò inoltre la preparazione e la raccolta (in vista della pubblicazione) dei suoi sermoni, che confermano l’attività di predicatore. È invece una novità la compilazione di testi legati alla devozione e alla spiritualità (libri d’ore, agiografie, breviari). 402 Infine alcuni codici mostrano chiaramente di essere stati commissionati dal pontefice; sono soprattutto opere di patristica, in parte integrali, in parte antologie di estratti. Tra i classici spiccano un volume di Seneca, posseduto sin dalla giovinezza, e il compendio di Cicerone, richiesto a Petrarca. Gli interessi di Clemente VI appaiono nell’insieme molto diversificati, ma si disegna anche una certa continuità e un ampliamento abbastanza progressivo da risultare coerente anche in relazione agli sviluppi biografici. Per altro, il modo in cui Roger usava ed annotava i testi si mantenne invariato sino alla vecchiaia, determinando un ulteriore fattore di omogeneità. Rispetto alle annotazioni è però possibile cogliere una differenziazione funzionale. A differenza delle opere scritte dallo stesso Clemente VI, i cui codici, rimasti in possesso dell’autore, non paiono utilizzati, i testi universitari presentano appunti pensati per approfondire e capire, su un piano di studio individuale e non di argomentazione pubblica; al contrario i testi utili alla predicazione sono punteggiati di note ampie ed articolate. In entrambi i casi, comunque, si ha l’impressione che lettura e scrittura si compenetrino, siano parte integrante nello studio e nell’uso del testo. L’aspetto fisico dei volumi, inoltre, spesso rivela la loro origine e la loro funzione: ci sono libri chiaramente commissionati, preparati in perfetto ordine e secondo lo standard universitario parigino; altri nascono con margini ampi per permettere un fitto commento; alcuni sono piccolissimi, da viaggio; altri infine enormi, pensati per appoggiarli sul pulpito. Anche da questo punto di vista, l’attività di studio del papa riflette gli usi e le tendenze del suo tempo. A testimonianza del suo costante lavoro sui testi ci restano anche alcuni suoi quaderni, riempiti di note varie, un po’ disorganiche e certamente pensate solo in chiave personale, come dimostra anche lo specchio di scrittura irregolare e la notevole libertà nell’impaginazione. Questi documenti sono sopravvissuti attraverso vicende alterne, in parte smembrati, in parte accorpati senza logica; spesso non si è compreso il loro valore, non solo storico, ma anche intellettuale. I libri autografi del pontefice sono infine individuati da tratti devozionali, versi liturgici abitualmente apposti sul margine alto del foglio e per lo più dedicati alla Vergine, quasi una richiesta di protezione all’avvio della scrittura e una firma al tempo stesso. Non mancano casi, però, in cui il verso sia apposto ad un passo particolarmente significativo, per cui funge da segnale e insieme da commento. Sulla formazione del futuro Gregorio XI, al secolo Pierre Roger de Beaufort, si conosce molto meno. Nacque intorno al 1330, esponente della piccola nobiltà provenzale e ben presto fu spinto agli studi religiosi e poi teologici, che egli completò con approfondimenti di diritto canonico. Già prelato, chiese licenza dai suoi impegni ecclesiastici per seguire lezioni di diritto civile, un impegno che proseguì anche quando fu nominato cardinale. Non è chiaro, però, quale università abbia frequentato; i suoi lasciti ad Angers motivano l’opinione degli studiosi settecenteschi, secondo cui egli avrebbe studiato in quello studium. Mancano però prove più stringenti; restano invece indizi documentati dei suoi rapporti con un maestro di Orleans, un personaggio legato alla famiglia Roger, dalla quale egli ricevette notevole appoggio nella carriera. Sarebbe 403 significativo, infine, valutare se il futuro pontefice abbia studiato anche in Italia, possibilmente a Perugia, per approfondire ulteriormente la dibattuta questione delle influenze culturali italiane sul papato avignonese. Tutte le biografie antiche concordano nell’affermare che Clemente VI, in veste di zio, lo abbia mandato a Perugia, non si sa se per seguire solo corsi di diritto canonico o anche romano. Tuttavia queste fonti dipendono da un’origine unica e non molto affidabile, a causa dell’incertezza che grava sui documenti di partenza. Altre possibili informazioni vengono da racconti fortemente encomiastici, da cui non è semplice trarre indicazioni davvero attendibili. È però certo che Gregorio XI non giunse mai ad ottenere la licenza finale. Va poi considerata la regolare educazione impartita agli uomini di prestigio in epoca avignonese, il cui esempio più eloquente si coglie nelle fila dei cardinali43. Gli strumenti per approfondire tali percorsi di formazione sono molteplici. A parte i documenti ufficiali, legati agli specifici luoghi in cui era offerto l’insegnamento, vanno tenuti in considerazione testamenti ed inventari – che permettano di individuare il patrimonio librario effettivamente disponibile –, gli epistolari privati, e soprattutto le lettere che mostrano la connessione con la curia ed i compiti ufficiali (suppliche, concessioni di benefici etc). È inoltre molto utile il vaglio delle opere scritte dai singoli personaggi o anche dai loro sottoposti e dipendenti, che possono rivelare le prospettive e gli interessi dei loro superiori; infine, le cronache del tempo forniscono talvolta informazioni rilevanti. Sulla base di queste fonti, Pierre Jugie ha affrontato lo studio sulla preparazione di novantaquattro dei centotrentaquattro cardinali ordinati durante il periodo avignonese; vi sono compresi perciò anche alcuni già nominati entro gli anni ‘40, dunque nella fase in cui Petrarca compie la propria educazione, oltre ad essere maggiormente legato alla città pontificia e ai rapporti clientelari che la caratterizzano. Quasi tutti i nuovi porporati erano originari dell’area occitanica, con particolare riferimento al Limosino e alla zona di Quercy. Per nove di essi la nostra conoscenza del percorso formativo è compiuta: se ne escludono gli apprendistati più ovvi e meno interessanti, perché affrontati in base ai rigidi dettami degli ordini monastici o regolari d’appartenenza. Grazie a famiglie evidentemente facoltose, molti dei futuri cardinali studiarono privatamente; Elie-Talleyrand de Perigord e Androin de la Roche invece frequentarono le scuole collegiali. Sono meno numerosi del previsto coloro che ebbero accesso ad una preparazione universitaria: Gui de Boulogne, il cui precettore era definito “maestro nelle artes”, ebbe la possibilità di frequentare la facoltà di arti (benché solo quelle del trivium) probabilmente a Parigi; di Étienne II Aubert si sa che poté studiare “lettere”, grazie ad una dispensa dal risiedere nei propri benefici44. 43 Possono essere considerate quali fonti essenziali per questo aspetto Jugie 2008 e Guillemain 2003. Per integrare lo studio della realtà avignonese con quello del coevo orizzonte romano si può consultare Rehberg 1999. 44 Questo tipo di concessioni è in realtà molto frequente: in linea teorica, infatti, i prelati dovrebbero interrompere lo studio all’ottenimento di un beneficio per risiedervi, caso che non è quasi mai attestato. 404 Dei centodieci cardinali considerati invece da Guillemain, circa la metà ha avuto contatti documentati con l’ambiente universitario. L’ambito prediletto era il diritto (civile, canonico o entrambi), a seguire la teologia, mentre era molto meno frequente la medicina; è evidente che queste scelte tengono in conto gli interessi della famiglia ed hanno in genere risvolti concreti, poiché i rapporti personali che si creano negli anni di studio avevano spesso una valenza politica ed un esito duraturo45. In molti casi la preparazione scolastica appare meno rilevante della concreta esperienza acquisita negli ambiti amministrativo, giuridico e diplomatico, che dava i suoi frutti anche al culmine della carriera ecclesiastica46. La Francia era l’area preferita per la specializzazione, e soprattutto il meridione (Montpellier, Tolosa), ma non solo (Orleans e Parigi); tuttavia anche i prestigiosi studia di Bologna e Perugia erano ben rappresentati. Qualcuno rimase ad Avignone per studiare diritto, ma erano di gran lunga preferiti gli altri famosi centri di eccellenza vantati dal Midi, che inoltre presentavano minori difficoltà pratiche nella ricerca di un alloggio. Andrà notato che la straordinaria autorità dell’insegnamento teologico parigino comporta un’affluenza non proporzionata al numero poco rilevante di porporati settentrionali; tuttavia, dopo la fondazione della facoltà di teologia, la meta in assoluto più apprezzata diviene Tolosa. I frutti dell’educazione ricevuta non vanno a vantaggio soltanto della carriera ecclesiastica: alcuni futuri cardinali sfruttarono la licenza docendi diventando a loro volta professori. 2. Biblioteche La cultura, nel Medioevo, si identifica in primo luogo con lo sviluppo della memoria, come dimostra la tendenziale assenza di note per i professori e di appunti per gli allievi a sostegno delle lezioni universitarie. Tuttavia è anche una cultura “del libro”47, oggetto che acquisisce una profonda valenza simbolica, anche in chiave sociale. La formazione parte, infatti, dalla lettura di testi autorevoli, e come tali necessariamente educativi. Indubbiamente l’accesso a tali strumenti è raro, tutt’altro che semplice, innanzitutto per ragioni economiche: per questo le biblioteche private, persino le più notevoli, sono quasi sempre abbastanza esigue. A maggior ragione è significativa, dunque, la frequentazione di biblioteche pubbliche48. 45 Tra questi rapporti, d’altronde, non vanno dimenticati quelli col pontefice stesso o col sovrano, che possono orientare in modo determinante il percorso di ciascun prelato. 46 Al contributo di Guillemain può essere accostata la riflessione di Quaglioni 1994, che insiste sull’importanza degli studi giuridici e delle corrispondenti facoltà per la cultura trecentesca e il ruolo svolto dalla Chiesa, cui si è già fatto riferimento nel presente capitolo. 47 Verger 1997. 48 Ovviamente il termine non va inteso in senso moderno, quanto in contrapposizione con l’idea di un patrimonio puramente individuale. Anche le biblioteche familiari, se la famiglia mantiene una clientela, come nel caso dei cardinali, hanno in fondo una funzione ed una risonanza ben più ampie, poiché consentono un accesso diversificato. 405 Il caso di Petrarca49 è senza dubbio fuori dall’ordinario, per la preziosa possibilità di accesso ai più ampi patrimoni librari del tempo, come studente universitario prima, poi come appartenente agli ordini minori, intimo di vari tra i pontefici avignonesi e cliente dei Colonna, deve aver avuto50. Le collezioni librarie di cui resta notizia presentano una notevole omogeneità, nel segno di un’erudizione universalizzata e comune. Variano certamente i commenti alle opere maggiori, a seconda di ciò che il proprietario aveva preferito o potuto procurarsi; diversità ancora maggiore si riscontra a proposito delle opere più recenti, laddove ci siano, anche in base ai gusti del singolo. Il fondamento dei diversi patrimoni è comunque sempre riconoscibile: auctoritates, manuali, opere religiose o utili alla professione. Domina il latino e la presenza di eventuali volumi in volgare è d’abitudine riportata nei cataloghi senza distinzioni, in voci collettive ed imprecise. Tale uniformità, che si conferma a livello diastratico (entro gli ambienti in cui la lettura è diffusa) e diatopico (nell’occidente cristiano), si mantiene in sostanza nel ‘400, con ovvio aumento dei titoli classici grazie alle ricerche e agli studi di un umanesimo sempre più progredito51. Tuttavia proprio la noncurante imprecisione che spesso penalizza i volumi volgari consente di ipotizzare qualche apertura per le opere provenzali nelle biblioteche private e meno ufficiali. Pur nell’omogeneità nei contenuti, sono molteplici le istituzioni e i contesti in cui può essere stata realizzata una raccolta libraria: si intende perciò offrirne una panoramica il più possibile esaustiva. A questo scopo saranno citati in questa sede alcuni casi peculiari, non immediatamente fruibili da parte di Petrarca, come quello della biblioteca regia francese. A quelle principesche, invece, possono essere associati i patrimoni cardinalizi e nobiliari in genere, interessanti perciò anche nella ricostruzione del contesto culturale in cui visse il poeta aretino. 2.1 La biblioteca pontificia52 La biblioteca pontificia53 conobbe vicende alterne nel corso del Medioevo. Nel ‘200 il patrimonio librario era conservato in Laterano, dopo un momento di grave crisi tra X e XI secolo, in cui si erano registrate ingenti perdite. Partendo da Roma in un momento di 49 È vero ch’egli arriverà a raccogliere una straordinaria biblioteca privata e che ci sono noti alcuni suoi possessi librari già in età precoce, ma certamente si è trattato di un processo lento e graduale, culminato negli anni della maturità. 50 E sono d’altronde lo strumento che ha permesso lo sviluppo dei suoi interessi di bibliofilo e le sue scoperte filologiche. 51 In Verger 1997 sono citati alcuni studi, dedicati a specifici ambiti socio-culturali, che confermano tali considerazioni generali: le biblioteche dei parlamentari (studiate da Françoise Autrand, p. 108), dei canonici più colti (p. 110), degli intellettuali siciliani (studiate da Bresc, p. 111), dei medici dell’Italia settentrionale (p. 112), degli uomini di Chiesa e dei giuristi (pp. 123-150). 52 Alcune indicazioni bibliografiche fondamentali sulla biblioteca pontificia: Jullien de PommerolMonfrin 1989 e 1991, Fleck 2006, Manfredi 2006 e Quaglioni 1994, pp. 376-380. 53 Per una ricognizione generale sul tema della biblioteca pontificia, con ulteriori rinvii bibliografici, si può vedere Jullien de Pommerol-Monfrin 1991 (soprattutto la prefazione). 406 difficoltà e pericolo, Bonifacio VIII cercò di garantire l’integrità di quei possessi, facendoli spostare ad Anagni. A lui si deve anche il primo inventario conservato, che risale al 1295 e comprende quattrocentoquarantatré testi. Un ulteriore trasferimento si deve a Benedetto XI, che dapprima ordinò il passaggio a Perugia e poi quello via mare in Francia: quest’ultimo viaggio fu però interrotto e i libri vennero temporaneamente conservati ad Assisi, dove se ne mantenne a lungo la sede ufficiale. Di questo patrimonio disperso resta il catalogo voluto da Benedetto XII durante il restauro degli ambienti in cui i libri erano conservati (ma già Giovanni XXII aveva dimostrato interesse per la questione nel 1327). Tra il 1336 e il 1337 Giovanni d’Amelia registrò seicentoquarantacinque volumi, che nel 1345 risultavano già perduti54. Non è chiaro quale parte di questa biblioteca sia effettivamente arrivata ad Avignone, formando così il nucleo della nuova collezione pontificia conservata nel Palazzo dei papi; gran parte della raccolta, comunque, fu qui creata ex novo grazie ad acquisti, copie, donazioni, lasciti testamentari, spoliazioni, cioè requisizioni dei beni, e dunque anche dei libri, appartenuti ad alti prelati, dopo la loro morte (sappiamo però che parte dei testi “spoliati” potevano tornare ai legittimi proprietari o ai loro eredi in particolari circostanze). L’istituzione formale di una nuova biblioteca pontificia con una collocazione definitiva è il frutto dell’intervento di Giovanni XXII, dopo il 131655. Si tratta di un evento di notevolissimo significato, considerando che la biblioteca costituiva uno dei simboli fisicamente più appariscenti del potere e del prestigio del pontefice; le collezioni, gli acquisti, la ricerca dei testi avevano anche un preciso significato ideologico. Istituire una vasta biblioteca significava legittimare la nuova sede avignonese, indicandone il carattere stabile ed ufficiale; non sarà quindi un caso che i successivi spostamenti del soglio pontificio abbiano comportato interventi simili. Durante l’(anti)papato di Benedetto XIII, una parte dei testi fu separata dal nucleo centrale del patrimonio perché seguisse il pontefice nella sua nuova sede a Peniscola, vicino a Valencia (1409). In questo caso l’affermazione politica insita nell’appropriazione e nello spostamento della biblioteca è ancor più evidente: Benedetto, papa illegittimo, doveva legittimare il proprio ruolo contro i numerosi avversari. Le ricostruzioni suggeriscono che siano stati coinvolti i testi conservati nello studio del papa, che già abitualmente erano separati dalle altre collezioni e soprattutto dagli ambienti più pubblici del palazzo, ai quali erano ammessi ospiti dal rango sociale variegato. Cominciò a questo punto la lenta dispersione di uno dei patrimoni librari più vasti ed importanti dell’intero Medioevo, in un processo graduale che durò di fatto sino al ‘500. D’altro canto, una raccolta di codici è un’affermazione di prestigio anche per il semplice valore materiale. E certamente anche l’aspetto culturale è rilevante, sia in senso proprio, 54 Questo dato, che corrisponde al numero riportato dal catalogo redatto a Perugia nel 1311, si trova in Quaglioni 1994, utile per una ricognizione più generale, benché sintetica, della storia della biblioteca. Jullien de Pommerol-Monfrin 1991 riferisce per il catalogo di Benedetto XII la cifra di quattrocentotrentatré articoli, dove appunto non si parla di volumi, ma di “articoli” dell’elenco, il che potrebbe spiegare la discordanza. 55 Una breve, ma efficace sintesi di tale processo si trova anche in Guillemain 1962, pp. 127-129. 407 in quanto l’oggetto libro è strumento per il miglioramento intellettuale, sia in senso sociale, laddove la commissione o l’acquisto di volumi divenga simbolo di mecenatismo e gusto per l’arte. Non a caso – lo si è visto – le collezioni librarie divennero una moda e anche i cardinali spesso furono proprietari d’interessanti biblioteche, organizzate secondo i medesimi principi di quella pontificia, benché su scala ridotta56. Allo stato attuale sono stati riconosciuti circa cinquecento volumi che hanno fatto parte della collezione pontificia; possediamo inoltre ventisette inventari d’impostazione differenziata, dei quali solo dieci vengono considerati di primaria importanza. Abbondano infine i documenti d’archivio, relativi soprattutto alle pratiche di acquisto o di acquisizione dei testi. Tra gli inventari che si sono conservati, due sono particolarmente interessanti per la ricostruzione della biblioteca nella sua fase più alta: la Recensio Urbaniana preparata durante il papato di Urbano V, e la Recensio gregoriana, che si deve a Gregorio XI. La quasi totalità degli altri si riferisce al pontificato di Benedetto XIII e ai problemi connessi alla dispersione dei tomi. Il primo dei due inventari risale al 1369; se ne occupò Philippe de Cabassoles57, cardinale di Gerusalemme e amico personale del Petrarca, uomo molto colto e proprietario a sua volta di una notevole biblioteca; è probabile che sia stato aiutato dal bibliotecario Raymond Dachon. Si tratta di un inventario patrimoniale completo, che doveva idealmente favorire il trasferimento dei volumi a Roma in occasione del ritorno del papato alla sua sede storica (poi rimandato). Nell’identificazione dei singoli testi, il metodo deriva proprio da questa esigenza, nonché dalla difficoltà di tenere sotto controllo l’elevato numero di volumi, spesso per altro copie plurime della medesima opera. Per essere certi dell’esemplare di cui si sta parlando, vengono indicate le caratteristiche della legatura, la prima parola del secondo foglio e l’ultima del penultimo. L’elenco è organizzato in base alle stanze in cui i tomi erano collocati (otto, più due in cui si trovavano documenti eterogenei) e poi per argomento o autore, nell’ambito di ciascuna; il totale è di circa duemila volumi58. Tuttavia si nota una progressiva riduzione dei dettagli riferiti, forse motivata dalla mancanza di tempo; proprio tale incompletezza potrebbe aver rappresentato un’ulteriore motivazione per avviare una nuova catalogazione sotto il pontificato di Gregorio XI. Gli ambienti coinvolti nell’organizzazione dei libri sono vari, ma quello definito in modo più chiaro è la camera prope capellam cardinalis, uno spazio probabilmente non dedicato allo studio, ma solo all’accumulazione e alla conservazione dei testi; esso ha però un valore notevole per la vicinanza agli appartamenti privati del pontefice59. I volumi citati per tale ambiente sono tutti latini e per lo più legati all’attività 56 Si veda su questo argomento Renouard 1954, p. 114. I patrimoni più significativi in ambito cardinalizio risultano attestati intorno ai centocinquanta-duecento manoscritti. 57 Per una sintesi biografica su questo personaggio e sui suoi rapporti con Petrarca si veda il capitolo settimo. 58 Il dato è tratto da Jullien de Pommerol-Monfrin 1991, p. 6. 59 Per una descrizione degli ambienti privati del pontefice e del loro ampliamento si veda Jullien de Pommerol-Monfrin 1991, pp. 4 e 6-7. 408 ecclesiastica. Sono segnalati quattro dottori della Chiesa latina, numerosi teologi recenti, qualche filosofo (in una sezione ben distinta); Seneca è l’unico classico associato alle opere importanti perché interpretato in chiave cristiana, come era frequente all’epoca e come consentivano in particolare alcune opere e commenti riscoperti proprio nel ‘300. A livello quantitativo gli autori più presenti sono sant’Ambrogio e Tommaso d’Aquino; le opere religiose non strettamente curiali e canoniche sono escluse. I testi biblici sono rispettosamente conservati a parte60; similmente, sono separati dal nucleo principale della raccolta alcuni classici - Cicerone, Macrobio, Svetonio, Plinio, Livio – ma la motivazione è ben diversa, quasi non fossero vere auctoritates. Si coglie molto bene una progressiva apertura verso nuovi ambiti di pensiero, ad esempio nelle sezioni riservate agli autori ebrei o arabi, o a temi attuali, com’era ancora quello delle crociate61. Sin dai primi pontificati avignonesi, i documenti su cui sono registrate le richieste di ricerca o d’acquisto da parte dei papi testimoniano una crescente attenzione anche per i classici, benché a fronte di cifre non troppo elevate62. Tuttavia quella pontificia è in primo luogo una biblioteca funzionale, destinata a favorire le attività amministrative, politiche e liturgiche della curia, ed essa si mantiene tale sin quasi alla fine del secolo. I collaboratori del papa necessitano di opere di diritto, di testi teologici e patristici, mentre non chiedono manuali di retorica o raccolte letterarie, tanto meno moderne63. A questo si aggiungono le finalità di studio64: è una possibilità di cui godono tutti i visitatori del pontefice (diplomatici e intellettuali) e gli universitari della città. A loro erano probabilmente utili i testi esegetici e le informazioni sulle eresie; questo spiega in parte anche il patrimonio storiografico65. Gli inventari contengono anche una descrizione fisica di molti tomi: risultano numerosi i prodotti di lusso. Viene condotta una politica estetica molto attenta che concepisce il valore monetario e la cura esteriore come parte integrante nell’attribuzione di importanza ad un codice. La considerazione dell’aspetto esteriore spesso può essere rivelatrice del ruolo che veniva in origine attribuito al libro. Alcuni di questi volumi 60 In generale i libri destinati al servizio divino sono sempre separati dai libri per lo studio o comunque legati alla biblioteca vera e propria, anche nei monasteri e nelle cattedrali. Vedi Billanovich 1961, p. 335. Tale concezione si riflette anche nella percezione dei laici, come nei casi di Petrarca e Boccaccio, i quali, ad esempio nelle loro disposizioni testamentarie, non solo dimostrano di considerare distintamente i testi religiosi (e d’uso quotidiano, come il breviario) dalle opere letterarie, ma quest’ultime fra loro, dividendo opere latine, greche e volgari. 61 Per questo aspetto è utile anche la sintesi in Renouard 1954. 62 Jullien de Pommerol-Monfrin 1991 riserva alcune utili pagine alla questione dei classici nella biblioteca pontificia (pp. 76-87), sottolineando tra l’altro l’influenza diretta di Petrarca, ben oltre la sua partenza definitiva dalla città, nonché dopo la sua morte. Con Urbano V aumentano i documenti rari e Gregorio XI può a buon diritto essere considerato partecipe della prima evoluzione umanistica. È particolarmente approfondita l’analisi della collezione di Benedetto XIII, cui lo studio è dedicato: interessa soprattutto notare che le grammatiche latine sono quelle tipiche del tempo: Prisciano e Marziano Capella, con l’aggiunta di Servio, meno diffuso (e infatti ne erano presenti due manoscritti, contro i sette di Prisciano). Manca invece Donato. 63 Jullien de Pommerol-Monfrin 1991, p. 62: “ne recherchaient ni manuels de rhétorique, ni recueils de littérature antique et moderne”. È stato in effetti calcolato che nel 1375 i volumi di teologia rappresentavano l’87% del totale, quelli di diritto solo il 7% e quelli legati alle artes in generale il 6%. 64 Lo stesso Petrarca avrà avuto accesso alla biblioteca e molto probabilmente il permesso di prenderne in prestito i volumi. 65 Per approfondire su questo aspetto si può consultare soprattutto Jullien de Pommerol-Monfrin 1991. 409 furono doni prestigiosi, implicito suggello di relazioni politiche o tacita richiesta di sostegno e favori; le miniature potevano nascondere specifiche affermazioni ideologiche, soprattutto in un periodo come quello della “cattività avignonese” che suscitò polemiche e critiche (argomento che appare per altro rigidamente escluso dagli orizzonti di lettura dei pontefici). Tale osservazione materiale conferma alcune annotazioni che si erano anticipate: la munificità di papi e cardinali, e il valore simbolico del libro, oggetto “di prestigio”. L’inventario voluto da Gregorio XI nel 137566 è invece un vero catalogo ordinato in sezioni, che comprende milletrecentotto voci, e si basa sull’organizzazione degli armadi, forse direttamente sulle tabelle affisse a ciascuno di essi. Vanno poi aggiunte due liste di libri conservati all’esterno, cioè quelli di proprietà personale del pontefice in carica. Anche qui ci si riferisce principalmente ad un solo ambiente, la libreria magna, cioè la camera già citata. L’intento della catalogazione non è più pratico e solo amministrativo, com’era per l’inventario precedente; interviene infatti un principio di tipo biblioteconomico. Spesso i volumi beneficiano di descrizioni lunghe e dettagliate, perché lo scopo è favorire un facile reperimento dei testi, per quanto l’organizzazione fisica sia ancora quella di un archivio, più che di una biblioteca vissuta nel quotidiano67. Si passa dunque da un criterio esteriore ad un paradigma contenutistico, con il risultato di rendere per noi perfettamente complementari e molto utili i due inventari. Non è un caso che l’estensore del primo fosse un colto notaio, mentre quello del secondo un esperto di classici, Pierre Ameilh de Brenac68; ma anche la formazione e gli interessi intellettuali di Gregorio XI avranno avuto il loro peso rispetto alla rinnovata concezione della biblioteca69. L’efficacia del secondo documento sarebbe forse impensabile senza la possibilità di fare affidamento sul primo; d’altro canto è probabile che nel frattempo, proprio basandosi sull’inventario del ‘69, la biblioteca fosse stata riordinata. Resta la distinzione di base tra opere religiose e profane, con i testi biblici separati da tutti gli altri. La tipologia dei volumi rimane in sostanza quella evidenziata nel ‘69, ma aumenta il posseduto per ciascun autore, classici compresi, tanto che Seneca perde il suo primato assoluto. In tale ridefinizione delle proporzioni si può leggere l’influsso dei primi umanisti, e in primis dell’esempio petrarchesco: le auctoritates latine sono ormai del tutto accolte come modelli di pensiero e di stile70. Attraverso tali fonti, dunque, è possibile avere un’immagine piuttosto chiara dell’organizzazione della biblioteca, voluta già dal primo papa Roger, Clemente VI (con l’aiuto del bibliotecario Jean Cot, a noi noto grazie anche alla testimonianza di 66 L’originale è in realtà quasi integralmente perduto: ne resta però un’ottima copia del 1394. Vedi Jullien de Pommerol-Monfrin 1991, p. 9. 67 A questo proposito, il catalogo di Gregorio XI presenta un’appendice interessante. È un’aggiunta posteriore non datata, in cui si aggiorna l’elenco dei volumi posseduti, senza più seguire l’ordinamento per “armadi”, segno che probabilmente si era passati ad una disposizione più accessibile dei testi, su scaffali o leggii. Vedi Jullien de Pommerol-Monfrin 1991, p. 11. 68 Originario del limosino, era amico del bibliotecario Dachon. 69 Jullien de Pommerol-Monfrin 1991, p. 9: “son expérience d’étudiant ne fut sans doute pas étrangère à la reforme qu’il entendait, toutes affaires cessantes, introduire dans la bibliothèque”. 70 Riferimento utile e sintetico è ad esempio in Renouard 1954. 410 Petrarca), oltre che ad Urbano V e Gregorio XI; essa è definita ordinacio vetus, in contrasto con quella nova, come viene chiamata quella commessa da Benedetto XIII. Il catalogo di quest’ultima risale al 1407 e testimonia la presenza di millecinquecentottantadue volumi conservati nella “torre del papa” o “torre del tesoro”71. Gli inventari mostrano la presenza di “libri di poeti”, indicati in una sezione specifica: sono compresi numerosi autori latini, tra cui spiccano i classici Virgilio e Sallustio, i tardi Cassiodoro e Boezio, nonché trattati dedicati alla poesia (in particolare la Poetria nova con relativa glossa)72. In una valutazione generale, il contenuto della biblioteca pontificia è notevolissimo per quantità, meno per qualità: è vero che si nota un graduale ampliamento degli autori e degli argomenti, ma per lo più i titoli ricorrono senza significative variazioni. È una tendenza tipica degli ambienti ecclesiastici, che si conferma osservando le notizie disponibili sui patrimoni cardinalizi e vescovili. Con ciò non si intende sottovalutare l’attenzione dei papi per le novità culturali, né la loro curiosità di veri intellettuali, dimostrate invece dal puntuale controllo di tutti i volumi acquistati, nonché dalle commissioni stabilite in prima persona73. 2.2 Biblioteche universitarie74 Al momento della loro fondazione, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, le università mancavano di organizzazione e di strumenti per l’insegnamento; tale problema si pose con particolare evidenza fino a quando esse affermarono la propria indipendenza, anche economica, dalla Chiesa. Erano dunque gli studenti ad avere il compito di procurarsi, da soli, i testi per lo studio, compresi i manuali; ogni studium consentiva loro un certo periodo di tempo (si parla, nell’insieme, di anni) per recuperare tutti i materiali necessari. D’altronde le cifre erano proibitive: non a caso restano numerose prove del fatto che i libri fossero impegnati per far fronte alle spese quotidiane, a partire da quelle per l’alloggio. Molti studenti si risolvevano a copiare i testi di proprio pugno. L’importanza economica dell’oggetto libro è testimoniata anche dal fatto che gli allievi portassero sempre a casa i loro testi una volta terminato il corso degli studi; nel caso in cui morissero durante gli anni universitari, i genitori pretendevano non di rado che almeno i libri fossero restituiti alla famiglia. Anche per queste ragioni già dal ‘200, ma soprattutto dal ‘300, in molte città universitarie vennero fondati collegi che, grazie a donazioni di benefattori o al 71 Il contenuto della biblioteca pontificia in questa fase è pubblicato e commentato in Maier 1965; notevole la presenza di volumi di giurisprudenza, filosofia naturale e morale, logica e matematica, epistole, storiografia (con spazio per le cronache medievali), medicina. 72 Maier 1965, pp. 177-179. In Jullien de Pommerol-Monfrin 1991 si trova un’ampia e dettagliata ricostruzione della biblioteca, della sua organizzazione e del suo trasferimento, con attenzione anche alle curiosità intellettuali di papa Benedetto XIII e al suo gusto per gli autori contemporanei. 73 Jullien de Pommerol-Monfrin 1991 sviluppa questo aspetto soprattutto in riferimento a Benedetto XIII, pp. 56 segg. 74 Riferimento essenziale sul tema è Jullien de Pommerol 1989. 411 contributo degli ordini mendicanti, offrivano borse di studio; i documenti relativi a tali istituzioni restano in quantità significative e sono quindi utili per la ricostruzione della circolazione libraria, anche più degli inventari veri e propri. I collegi ospitarono spesso una biblioteca, formata grazie ai lasciti testamentari dei benefattori, salvati dalla dispersione attraverso clausole precise; a queste collezioni, dapprima piuttosto povere, poi sempre più ampie, gli studenti potevano di solito accedere liberamente75. Tuttavia tali soluzioni non rappresentarono il caso più frequente; inoltre solo dal ‘400 in poi si può parlare di vere biblioteche interne ai singoli studia76. Dunque, sino a tutto il ‘300 il meccanismo principale per l’approvvigionamento dei testi è ancora quello delle pece e della copiatura individuale a mano: sono gli studenti ad acquistare autonomamente i loro volumi. Ciò non toglie che ci siano esempi precoci ed illustri di biblioteche universitarie: la Sorbona77 e la Navarre a Parigi, sotto la protezione del sovrano, e la Foix a Tolosa, di fondazione ecclesiastica. Non è semplice conoscere l’esatto contenuto di queste prime raccolte librarie; gli inventari conservati sono pochi e quasi nessuno è anteriore al ‘400. In ogni caso questi documenti mostrano una notevole eterogeneità, rispetto all’approfondimento sulle singole discipline e all’organizzazione di ciascuna biblioteca. In linea di massima è evidente una dicotomia tra i centri di studio settentrionali e quelli meridionali: nei primi abbondano le opere teologiche, nei secondi quelle giuridiche, in perfetta ed ovvia consonanza con la tipologia delle facoltà più apprezzate e frequentate. Una caratteristica ricorrente è comunque la tendenziale e generalizzata incompletezza delle collezioni, sia giuridiche sia d’argomento biblico. La lingua prevalente è il latino, ma c’è qualche traccia di opere volgari, evidentemente entrate a far parte di queste biblioteche grazie a donazioni. 2.3 Biblioteche di enti religiosi78 La storia delle biblioteche ecclesiastiche è segnata in modo determinante dall’evoluzione culturale duecentesca. Le istituzioni scolastiche religiose, monastiche in primo luogo, ma anche capitolari, vennero duramente colpite dai cambiamenti socioculturali che contraddistinsero questo secolo: la Chiesa perse il monopolio dell’educazione, che comprendeva la produzione e la conservazione librarie. È dunque lecito domandarsi in che modo i centri monastici e vescovili si siano adattati al nuovo contesto, mentre fiorivano le scuole laiche e le botteghe artigiane di copisti, i programmi educativi evolvevano lasciando uno spazio sempre maggiore alle arti liberali 75 Spesso i collegi e gli studia degli ordini mendicanti hanno collezioni più aggiornate e moderne, a differenza degli antichi centri monastici e capitolari, il cui valore è soprattutto legato alla conservazione (Verger 1997, pp. 103 segg.). 76 Per la nascita delle prime vere biblioteche universitarie, si veda Verger 1997, pp. 105-106. 77 Uno studio interessante, anche se riferito ad anni posteriori rispetto a quelli in questione, si trova in Vielliard 1978; è un dato notevole che anche in pieno Rinascimento alla Sorbona mancassero le opere degli umanisti, sia italiani che francesi. 78 Su questo tema si vedano Garand 1989 e Koeppeli 1966. 412 e al diritto, e infine la formazione religiosa veniva affidata, almeno al suo livello più alto, alle università degli ordini mendicanti. Come hanno rilevato le ricerche della Garand sull’area francese, con risultati che paiono rappresentativi per tutto l’occidente europeo, le biblioteche benedettine conobbero un parziale ripensamento della propria collezione: lo denota ad esempio l’aumento significativo dei testi dedicati alle arti liberali, nella prima metà del XIII secolo. Dunque, ne beneficiarono soprattutto grammatica, retorica, logica, musica e astronomia, ma anche il diritto (canonico) e la medicina divennero oggetto di lettura, con particolare attenzione agli autori classici; spiccano inoltre le traduzioni da Aristotele e i commenti cristiani dedicati alle sue opere. Tale evoluzione lasciò segni particolarmente evidenti in quei monasteri che ancora vantavano un impegno diretto nell’educazione, e che anzi talvolta erano legati a corsi universitari. Uno sviluppo sensibile si coglie anche nel campo della teologia, con un notevole arricchimento sul piano dei commenti mediolatini ai testi sacri, o più in generale delle opere d’argomento spirituale; gli orizzonti classico e medievale si accostavano ormai pacificamente nello studio della storia. Non mancava qualche volume in volgare (francese), di stampo per lo più didattico; tuttavia spesso erano comprese anche opere meno prevedibili, come il Roman de la Rose. L’attualità di tali acquisizioni è evidenziata in prima istanza dalla rinnovata sistemazione fisica dei volumi, basata sulla materia e sull’ambito d’uso, dunque in relazione alle effettive necessità formative. Certo, l’accesso a queste biblioteche era di norma riservato a coloro che vivevano nel monastero, ma per i testi non rari e d’utilizzo non troppo consueto c’era la possibilità del prestito, in qualche caso anche all’esterno. Negli ambienti vescovili le scelte tematiche appaiono molto simili, con attenzione addirittura maggiore al diritto e agli autori profani: non solo nel caso dei manuali di grammatica, ma anche di romanzi, chansons de geste e raccolte di versi. In alcuni casi la scelta è ovvia, perché motivata dalle necessità degli insegnanti – come anche nel caso dei monasteri dove sopravvivevano scuole. È vero tuttavia che di molti autori volgari, anche celebri come il Boccaccio, vennero accolti solo gli scritti latini. Non mancavano le opere classiche, cui si affiancarono ben presto i trattati dei primi umanisti. Per contro, pare che minor importanza sia stata attribuita ai testi di studio e ai manuali, con l’eccezione di quelle biblioteche capitolari che avevano mantenuto un rapporto diretto con la scuola, talvolta anche con l’università; nei centri più piccoli e isolati l’unico settore tradizionale ad essere rinnovato ed ampliato fu quello liturgico. La scelta dei volumi da acquisire dipendeva anche dal luogo e dalla funzione che caratterizzavano il capitolo cattedrale: ad esempio, una forte presenza di canonici italiani poteva comportare una maggior attenzione al diritto romano79. Il rinnovamento del patrimonio librario negli ambienti capitolari riveste un notevole interesse, perché essi consentivano l’accesso di esterni – per lo meno religiosi – cui era dedicata una parte specifica della sala di lettura. 79 Qualche esempio può essere illuminante: il collegio di Tours, dove erano presenti molti canonici letterati, tra cui anche docenti di Parigi; la cattedrale di Puy, con la sua collezione liturgica inferiore per quantità e qualità a quella di diritto e artes. 413 Le biblioteche legate agli istituti ecclesiastici affiancavano, insomma, testi sacri e religiosi (tra i quali, oltre ai materiali liturgici e in generale a quelli connessi all’attività ecclesiastica, andranno annoverati lettere pontificie, documenti concernenti l’Inquisizione e la censura), e opere classiche80. Tuttavia tale settore divenne davvero significativo solamente in età moderna, quando cioè anche le istituzioni religiose furono influenzate da una prospettiva umanistica. 2.4 Biblioteche private Benché non siano numerosi, sono particolarmente interessanti i documenti legati alle biblioteche private tra ‘200 e ‘300, a maggior ragione laddove si tratti di realtà borghesi, non implicate dunque nella gestione del potere o in questioni politiche e diplomatiche. La “biblioteca di un notaro aretino81” ce ne offre un esempio significativo: la sua ricostruzione parte dal testamento redatto appunto dal notaio Simone figlio di Benvenuto di Bonaventura della Teca, nel 1338. Ne beneficiarono varie istituzioni religiose di Arezzo, secondo una scelta presumibilmente motivata dalla decisione di farsi seppellire nella chiesa di S. Domenico. In particolare, Simone divise la sua biblioteca tra Francescani e Domenicani. I testi inclusi nell’elenco non sono affatto rari, anzi il caso aretino risulta davvero rappresentativo delle letture e dell’educazione dell’epoca, anche se questo notaio vantò indubbiamente un livello culturale alto, soprattutto sul piano letterario e filosofico. Tale aspetto è in parte giustificato dalla probabile duplice professione di Simone, notaio e maestro: di lui non sappiamo molto, ma potrebbe aver insegnato anche presso lo studium aretino. I classici in suo possesso non erano pochi (Boezio, Tito Livio, Macrobio, Sallustio, Terenzio, Cicerone, Agostino, Cassiodoro, Apollonio, Seneca, Aristotele); egli disponeva però di una sola grammatica, il Catholicon, mentre mancavano altri testi tipici dell’ambiente scolastico. Purtroppo tali informazioni, importanti sul piano storico e per la ricostruzione del contesto culturale, non offrono contributi rispetto alle letture volgari. Tuttavia se ne può trarre un’altra utile considerazione a proposito degli scambi librari tra mondo laico ed ecclesiastico, favoriti dalla frequenza dei lasciti testamentari di privati a enti ecclesiastici, dovuti a motivi devozionali e penitenziali. Si rivela così un’ulteriore forma di circolazione dei testi classici, anche prima che l’età umanistica vera e propria li favorisse su scala più ampia. Possiamo pensare che eventuali possessi volgari siano similmente passati anche alle biblioteche religiose e attraverso di esse siano stati letti da utenti più vari e numerosi? Per lo meno è possibile ipotizzare che anche quegli ambienti ne abbiano favorito la conservazione, se non la circolazione. Patricia Stirnemann82 si è occupata di simili problemi a proposito della Francia settentrionale, sottolineando in modo specifico l’importanza della svolta intellettuale 80 Per un elenco dettagliato si veda Koeppeli 1966. Pasqui 1989. 82 Stirnemann 1989. 81 414 che si delinea tra XII e XIII secolo, quando viene fondata l’università di Parigi, nello stesso periodo in cui la classe nobiliare è interessata da un’importante evoluzione sociale. Partendo dal presupposto che ben pochi avevano disponibilità economiche tali da permettere il possesso di libri, le biblioteche private borghesi assunsero in linea di massima tre configurazioni. Innanzitutto si riscontrano piccole raccolte, entro i dieci volumi, per lo più legate alla professione del proprietario: in primis maestri83 ed ecclesiastici. Vanno poi considerate collezioni un po’ più ampie, difficili da rintracciare a causa delle dispersioni seguite ai lasciti testamentari, di cui spesso beneficiarono enti pubblici o eredi molteplici. L’interesse di queste biblioteche, nella maggior parte dei casi appartenute ad ecclesiastici, risiede nello spazio che viene concesso alle curiosità individuali, ma anche nella loro capacità di riflettere la realtà culturale del tempo e la sua evoluzione. Per i patrimoni davvero vasti, infine, bisogna pensare alle corti principesche o addirittura reali, che esprimono necessità diversificate, didattiche, amministrative, morali, cortesi, d’intrattenimento; quest’ultimo aspetto si lega all’attività di mecenati eventualmente svolta dai proprietari a vantaggio di poeti e letterati. Tali biblioteche si sono conservate più a lungo, perché superarono nella gran parte dei casi il passaggio in eredità senza essere smembrate, in quanto patrimonio associato alla gestione del potere (ed anzi suo simbolo). Osservando i libri, e perciò gli interessi degli aristocratici inseriti nei ranghi della Chiesa, si nota già nel XII secolo una certa ricchezza: a prescindere dagli immancabili testi religiosi, abbondavano i classici, i trattati di diritto, le opere teologiche, i volumi d’argomento tecnico e scientifico, i testi storiografici. La percezione che siano in gioco precise scelte intellettuali deriva soprattutto dalla presenza di autori talvolta poco conosciuti dai contemporanei. È più difficile conoscere, invece, il contenuto esatto delle sempre più numerose biblioteche principesche, per la maggiore rarità degli inventari e di altri documenti. È chiaro comunque che erano diffuse le opere di storia, i classici, ma anche gli autori latini coevi. Man mano che la preparazione media dei laici migliorava, a partire dal XII secolo, si diffusero le opere letterarie d’intrattenimento e più in generale i volumi volgari, come testimoniano le traduzioni in volgare di trattati religiosi. La consunzione materiale di questi volumi ne dimostra per altro l’uso assai assiduo; l’attenzione ai volumi profani è segnalata, inoltre, dal lusso che li caratterizza, fino ad arrivare a veri e propri oggetti d’arte. Nel medesimo periodo, nelle biblioteche reali si coglie un’evoluzione non solo quantitativa, ma qualitativa, nella maggiore partecipazione alla vita culturale da parte delle donne. Com’era prevedibile, è significativa la presenza di testi religiosi, anche 83 In merito ai patrimoni privati, i documenti legati ai lasciti testamentari rivelano che i maestri già all'inizio del '200 possiedono biblioteche eccellenti se paragonate alla diffusione dei libri all'epoca; il contenuto dipendeva necessariamente dalla professione e perciò abbondano i testi tecnici e i manuali. Simili criteri informano spesso parte delle raccolte librarie delle case nobiliari, dove la formazione dei giovani avveniva spesso in forma domestica e privata. 415 liturgici, e scolastici, che dovevano consentire la preparazione dei giovani allevati a corte; la letteratura profana oscillava a seconda delle inclinazioni del singolo sovrano e quindi del suo seguito. Ad esempio, Luigi IX detto il Santo è noto per non essere stato un mecenate di poeti (siamo alla metà circa del Duecento), mentre Maria di Brabante, seconda moglie del suo successore, rivoluzionò radicalmente la situazione; anche Filippo IV è celebre per aver apprezzato la letteratura cortese, anche se soprattutto quella orientale. 2.5 La biblioteca dei Colonna Conoscere la biblioteca della famiglia Colonna in Avignone e in generale la diffusione dei testi nell’ambito della sua clientela sarebbe essenziale al fine di ricostruire la formazione del giovane Petrarca, ben presto legato come amico (1325 ca) e dipendente (1330) a questa dinastia cardinalizia. Nell’Archivio Vaticano è conservato un documento utile in proposito, un codice pergamenaceo che in sessantanove carte elenca i possessi del cardinale Pietro Colonna (1260ca-1326), comprese le entrate dei suoi benefici per gli anni 1313-1317; a tale testimonianza si può aggiungere quella del suo testamento84. Parte del patrimonio era composto da libri, di cui resta un elenco considerevolissimo innanzitutto per quantità, poiché ammonta a centosessanta codici. L’inventario rivela per altro una forte omogeneità di contenuto rispetto al patrimonio papale; sono elencati infatti testi sacri, d’argomento religioso (tra cui diciassette Bibbie) e di patristica; testi giuridici; opere sulla storia antica ed ecclesiastica; un testo di medicina. Sono solo tre le opere propriamente letterarie qui citate: le lettere di Seneca, una raccolta di versi latini e un non precisato volume “volto alla distrazione”. Il limite di tale ricostruzione risiede nell’impossibilità di definire i gusti più personali del cardinale, perché circa metà dei suoi volumi derivava direttamente dalla biblioteca del cardinale Pietro Peregrosso, acquistata in blocco alla sua morte (1295). Tra gli elementi più notevoli andranno considerati l’abbondanza di autori contemporanei e la generale scarsità di versi, anche di argomento sacro. 3. La realtà scolastica85 L’interesse per l’istituzione scolastica in questa sede si giustifica in primo luogo con l’intenzione di non tralasciare nessun aspetto della vita culturale quale la conobbe Petrarca, e dunque nessuna delle esperienze formative che ne caratterizzarono la giovinezza. 84 Per queste informazioni si vedano in particolare Kuhn-Steinhausen 1951 e il DBI, alla voce Colonna, Pietro. 85 I riferimenti bibliografici utili in merito sono numerosi: Manacorda 1980, Scaglione 1976, Camargo 1983, Huntsman, 1983, Murphy 1974 e 1989, Taleo 1960, Black 1991, 19961 e 19962, Billanovich-Monti 1979, Milani 2007, Bagni 1984, Grendeler 1991, Verger 1996, 1997 e 1982, Fletcher 1994, Percival 1975, Viscardi 19704, Curtius 1995. 416 D’altro canto gli studi di grammatica e di poetica dedicati al latino divennero tra metà Duecento e inizio Trecento il modello per preparare opere che favoriscano l’acquisizione delle competenze tecniche e linguistiche relative al provenzale e alla letteratura cortese. Infatti, benché nulla faccia pensare a “scuole” che rispondessero a simili esigenze, sicuramente circolarono materiali pensati per l’apprendimento in ambito poetico e volgare. Le informazioni disponibili sul sistema scolastico medievale non sono molto numerose: solo a proposito dell’istruzione universitaria è agevole una piena ricostruzione, e non sempre per quanto concerne programmi e metodi, mentre per quella inferiore, almeno sino al Duecento, restano quasi soltanto documenti notarili, in cui talvolta sono nominati magistri e grammatici. Qualche indicazione più estesa può essere raccolta per il XIII secolo, ad esempio a proposito dell’estensione dell’insegnamento elementare all’“abbaco”, cioè all’aritmetica in senso pratico. Con il Trecento le fonti divengono più abbondanti, ma sono solo parzialmente utili allo studio dei secoli precedenti: sono utili piuttosto a chiarire la graduale trasformazione del sistema scolastico verso l’organizzazione umanistico-rinascimentale. Basta, comunque, per rilevare che sino alla svolta tre-quattrocentesca, il principio dominante è la fiducia nelle qualità del singolo insegnante86. Come si configura, dunque, l’orizzonte scolastico sul finire del Medioevo87? La base della cultura medievale si identifica innanzitutto col latino, la lingua scritta e grammaticale per eccellenza, resa prestigiosa dall’eredità classica e letteraria, ma anche sacralizzata dall’uso cristiano e dai Padri della Chiesa88. Tale concezione è in parte favorita dal suo statuto non democratico: la massa ne ha perso qualunque competenza, è la lingua dei dotti, dei litterati e dunque associata alla scrittura e allo studio. Le testimonianze di volgare scritto sono tali da permettere l’ipotesi che i maestri elementari insegnassero anche una base grammaticale per la “lingua naturale”, almeno nelle primissime classi. Tuttavia, è molto improbabile che siano esistite scuole dedicate solo al volgare; piuttosto si sarà trattato dello strumento con cui il maestro comunicava con gli studenti più giovani, al cui livello non pochi si fermavano89. Per il resto, la scuola era in latino; anche chi ottenesse solo una formazione molto superficiale, insufficiente per parlare di “cultura”, ne aveva un’infarinatura; il livello di preparazione poteva essere molto differenziato, a seconda di quanto fossero durati gli studi e dell’abilità del maestro. 86 Verger 1982, p. 41: i centri davvero notevoli, anche per l’insegnamento superiore, sono pochissimi e soprattutto hanno vita breve, poiché la loro efficacia dipende integralmente dalla presenza di un illustre insegnante, che poteva trasferirsi o abbandonare la professione. 87 Un riferimento utile per la sua ampiezza, nella considerazione degli influssi orientali e dell’organizzazione del sapere, è AAVV 1975, in particolare i saggi di McKeon e Gregory. Per l’evoluzione della scuola nell’Alto Medioevo si vedano Vergier 1982 e 1997. 88 Alcuni autori di manuali scolastici sostengono che l’insegnamento del latino è lo scopo primario della scuola (Viscardi, 19704). 89 Si veda ad esempio Verger 1997, soprattutto le pp. 20-21. 417 Un ulteriore elemento che definisce in modo essenziale90 il percorso degli studi sono le arti liberali91, nella loro ripartizione in trivium (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivium (aritmetica, geometria, musica e astronomia92), di origine classica93. Il valore di tale ripartizione si coglie pienamente nel rapporto tra educazione elementare e livello universitario. La prima, in particolare nelle sue forme più efficaci ed approfondite, rappresenta la base su cui si innesta il secondo e ne è la “copia semplificata”94: la formazione superiore, infatti, riparte dalle sette artes, cui è dedicata una facoltà specifica, preliminare a qualunque specializzazione (teologia, diritto, medicina)95. Durante gli studi di base, resta ben poco spazio per altre discipline. In rari casi – e soprattutto in ambiente ecclesiastico – potevano essere impartiti rudimenti di diritto, fondamentale per l’impegno professionale. Al contrario sono sempre escluse le lingue, il cui apprendimento, se necessario, era lasciato alla pratica e quindi ai viaggi. 90 Il riferimento alle artes è molto frequente e diffuso. Si legga ad esempio il partimens Guilhem, prims iest en trobar a ma guiza di Guilhem Augier Novella, in cui le sette arti liberali sono identificate come summa dello scibile umano. 91 La centralità delle arti liberali rispetto al metodo didattico risale all’antica Grecia, secondo la tradizione tale rinnovamento del sistema formativo si deve a Ippia di Elide. Mentre Platone fallisce nel suo intento di focalizzare l’educazione sulla filosofia, il tentativo di Isocrate è stato efficace: egli propone una mediazione, per cui la cultura generale (originaria definizione delle “arti liberali”) doveva rappresentare un punto di partenza per arrivare alla filosofia. In merito all’epoca romana è particolarmente rappresentativo il punto di vista di Seneca, che identifica le artes in relazione a ciò che è degno di un uomo libero e dunque non tende al guadagno materiale. Intanto, sul finire dell’età antica, alla filosofia non è più attribuita alcuna specifica funzione formativa e alle artes resta il ruolo di unica struttura dell’apprendimento. Per l’elaborazione e la sistemazione del sistema delle sette arti liberali vanno ricordati Marziano Capella e sant'Isidoro. Ad Isidoro di Siviglia si devono poi le Etimologie, eredi anch’esse delle grammatiche classiche, almeno sul piano strutturale. Boezio, di cui è essenziale il contributo all’aritmetica, riprende i precedenti agostiniani e procede ulteriormente nella definizione delle arti liberali: a lui si devono la distinzione di trivio e quadrivio, l'organizzazione di base delle diverse discipline e la definizione del ruolo della grammatica. 92 L’interesse per queste discipline, in gran parte dimenticate nei primi secoli dell’Alto Medioevo, si era già ravvivato in epoca carolingia. 93 Secondo Verger 1997 l’organizzazione antica degli studi viene come “traviata” dalla concezione medievale, ad esempio nella preferenza per la logica più che per la dialettica in senso proprio, o negli accenni di filosofia. Domina in generale Aristotele, modello anche a livello metodologico, per l’argomentazione e la classificazione dei fenomeni. Curtius 1995 ha evidenziato due diverse teorie, in parte comunque concordi, diffuse nel Medioevo in riferimento alle arti liberali. Da una parte, la posizione patristica, che deriva dalla tradizione ebraica e alessandrina; permane certamente l’influsso della filosofia greca, che per il tramite della riflessione religiosa giunge sino alle scuole teologiche di Alessandria ed infine ai Padri della Chiesa, che pure non sempre sono concordi tra loro. Tale eredità orientale giunge sino a Cassiodoro, il cui ruolo nella sistemazione delle artes e del sistema scolastico in senso cristiano è stato essenziale. Una seconda teoria è definita “profana” e riconduce le sette arti alla religione pagana oppure agli influssi della cultura egizia o ancora alla natura e ai sette pilastri della saggezza. 94 Verger 1997, p. 68. 95 Una buona preparazione elementare, magari con l’aggiunta di un apprendistato efficace, era spesso già sufficiente per l’avvio professionale (Verger 1997); il percorso compiuto sino alla licenza superiore era nella maggior parte dei casi solo un modello ideale, che addirittura gran parte dei maestri elementari non aveva portato a compimento. Si è già parlato, inoltre, della preferenza per la teologia tipica dei paesi nordici e della prevalenza del diritto in area meridionale. 418 Non è molto diffusa nemmeno la storia, concepita più come complemento di altre aree di studio che come dimensione autonoma96. In quanto discipline preliminari ad ogni altro apprendimento, grammatica e, in parte, retorica sono assolutamente centrali: tale importanza spiega perché si discuta tanto delle modalità con cui debbano essere apprese. A ciò si aggiunge la loro finalità principale come strumenti per la comprensione dei testi sacri e la predicazione; esse costituiscono anche il saldo riferimento con cui orientarsi nei testi letterari senza lasciarsi sviare dal puro (e peccaminoso) gusto per la forma. La grammatica, se la si interpreta nei termini legittimi, può essere considerata utile anche in riferimento alla vita della comunità: offre una professione rispettata e insegna la virtù, determinando una ricchezza sia esteriore che interiore97. Nonostante il problema della funzione e dell’interpretazione delle letture classiche, la presenza degli auctores si mantiene costante per tutto il Medioevo; di fatto la visione cristiana non impedisce un apprezzamento anche estetico. Benché la polemica contro la tradizione pagana non venga meno, il continuo riferimento alle auctoritates (e alla loro lingua) è salvaguardato dal conservatorismo della scuola; dunque nella pratica lo studio della grammatica non serve solo alla comprensione dei testi religiosi. La scelta ed eventualmente la preparazione dei manuali98 è fondamentale, in primis per la grammatica99. Anche in tal senso, la tradizione classica offre modelli indiscutibili, nonché i materiali veri e propri: in parte si usano i manuali antichi, in parte vengono composti nuovi trattati ispirati al loro esempio, inoltre i testi letterari su cui esercitarsi sono quelli della grande tradizione100. Tuttavia sono i manuali d’epoca medievale ad aver avuto la diffusione più notevole, continuando ad essere utilizzati in età umanistica, quando in linea teorica erano stati ampiamente superati (e disprezzati), senza che ne derivasse però la preparazione di materiali altrettanto convincenti. Lo strumento didattico essenziale è il dialogo, anche in forma di vera e propria disputa; l’approccio orale si riflette nella stesura dei trattati, per lo più impostati come scambio 96 Non appartengono all’orizzonte scolastico le discipline che richiedano sperimentazione o osservazione della natura; le arti tecniche si apprendono a bottega e con l’apprendistato. 97 Tale concezione cristiana del cursus studiorum resta valida sino a tutto il ‘600. 98 Restano tracce di tali testi in tutti gli ambienti in cui avveniva l’insegnamento, in particolare nelle case dei maestri e nelle abitazioni di famiglie benestanti i cui figli erano educati privatamente. I testi utili allo studio hanno una sede specifica anche nei monasteri e nelle cattedrali. Le biblioteche monastiche e religiose hanno spesso conservato, anche in ambito scolastico, testi antichissimi, probabilmente più per tendenze conservative, che per la loro effettiva utilità pratica. Per quanto riguarda la pedagogia, gli estensori di manuali corrispondono a quelli delle norme per trattare i ragazzi. Il rapporto insegnante/alunno deve essere stato molto rigido, soprattutto nelle scuole episcopali, per ammorbidirsi gradualmente in quelle laiche. 99 Il termine grammatica deriva dal greco “lettera”; per Platone e Aristotele tale disciplina concerne solo la lettura; è in età ellenistica che si aggiunge il commento ai poeti ed è Quintiliano che definisce questi due momenti, la scienza di parlare correttamente e la letteratura. E infatti litteratura, da littera, comincia ad essere utilizzato in alternativa a grammatica. Conseguenza di tale allargamento è una perdita di distinzione rispetto alla retorica. 100 La struttura stessa delle biblioteche medievali, così come ci è restituita dagli inventari, mostra lo strettissimo legame tra apprendimento della grammatica e approccio agli auctores: si succedono dunque manuali di grammatica e retorica, opere storiografiche e poetiche. La grammatica e la retorica si apprendono leggendo le auctoritates e servono innanzitutto per comprendere appieno quelle stesse opere. 419 di battute o serie di interrogazioni. Tutto ciò rivela la funzione essenziale della dialettica. Le tre discipline del trivio, perciò, si sostengono e compendiano reciprocamente, il che evidenzia a maggior ragione la loro importanza come ossatura dell’educazione occidentale: la grammatica è arricchita da una prospettiva retorica, per l’argomentazione e l’attenzione allo stile, mentre il procedimento logico e dimostrativo beneficia della dialettica101. Anche la filosofia contribuisce in modo rilevante allo studio grammaticale, nell’analisi delle funzioni logiche e semantiche (sintassi)102. Nella realtà quotidiana della scuola, per lo meno elementare, il ricorso all’esempio rimane il principio di partenza. Le esigenze pedagogiche impongono di attenersi al testo preso in esame (classico103 o appositamente composto): a questo livello la retorica influisce più della dialettica. In tal modo, anche lo studente alle prime armi concepisce un triplice obiettivo: comprensione dei meccanismi linguistici; buone competenze nell’espressione scritta e orale, oltre che nella lettura; un primo contatto con la letteratura. L’evoluzione dei manuali di grammatica latina è abbastanza chiara: se ne possono individuare diversi periodi, a seconda di come cambia il rapporto con la tradizione classica. Essa domina in modo evidentissimo in età tardo-antica e poi nel periodo carolingio. Le compilazioni di riferimento sono (e saranno a lungo) quelle di Donato e Prisciano104; ma sono fondamentali anche gli sforzi di sant’Agostino e Marziano Capella, Boezio e Cassiodoro per la cristianizzazione dell’eredità latina; Cassiodoro in particolare prepara il primo manuale specifico per la scuola cristiana. In un secondo momento si diffondono le prime compilazioni medievali che non si limitano alla sistemazione del patrimonio antico, ma lo rinnovano ed ampliano: in particolare hanno ampia diffusione alcuni ponderosi trattati in versi d’origine inglese e francese. Intanto, i materiali della tradizione continuano ad essere conservati ed usati, ma spesso in una versione reinterpretata, cioè attraverso una profonda attualizzazione105. Una nuova fase di rinnovamento si deve alle teorie umanistiche e rinascimentali, nel ‘400 avanzato. In tutto il XIV secolo la produzione grammaticale sembra affievolirsi, probabilmente perché i materiali già disponibili appaiono adeguati. D’altro canto, lo si è anticipato, 101 Si spiegano, così, alcune caratteristiche della Scolastica (per la cui evoluzione si legga Verger 1982, pp. 135-148 e p. 158 segg) non a caso una delle manifestazioni più riconoscibili dell’esperienza universitaria medievale; la preminenza dell’atteggiamento logico, in particolare, spinge sempre più ad accantonare le auctoritates classiche nell’apprendimento della lingua, inventando per gli esercizi esempi appositi. 102 Si notano in proposito significative innovazioni metodologiche, poiché non si parte dai dati morfologici, e i modi espressivi (significandi) sono definiti in base a principi astratti. Il medesimo approccio si riscontra d’altronde nello studio dell'ordo verborum di frase e periodo: lo scopo ultimo è conoscere il linguaggio in sé e attraverso di esso la struttura stessa del mondo. 103 In tal caso si può sottolineare una delle occasioni più tipiche di percezione storica, poiché l’opera viene presentata anche come prodotto del suo tempo. 104 Di Donato sono diffuse due versioni, l’ars minor – dieci pagine in forma di domande e risposte – e l’ars maior. L’Institutio grammatica di Prisciano, composta a Bisanzio nel VI secolo, è una trattazione più completa perché offre già una base di letteratura. 105 Ciò vale anche per gli studi universitari. 420 anche in età rinascimentale sono le opere teoriche a rinnovarsi, e non i manuali per lo studio elementare. I testi di gran lunga più comuni, per la grammatica, sono dunque Prisciano e Donato106 (gli altri trattati tardo-antichi sono molto meno autorevoli); il secondo è assolutamente preminente in Italia, dove si predilige un atteggiamento conservativo, anche quando nei paesi nordici si erano già diffuse nuove compilazioni originali, benché ispirate ai classici. Tuttavia nelle scuole si preferiscono adattamenti e attualizzazioni del manuale latino, tra cui spicca per diffusione e resistenza il cosiddetto Ianua107. Tale semplificazione, comunque ricca e ben articolata sul piano del contenuto108, ha ispirato varie compilazioni d’ampio respiro, come le Derivationes e il Catholicon. A prescindere dal testo di riferimento, il maestro seleziona i testi e li affronta secondo il proprio metodo. Le tracce di un approccio personale (e di una variante linguistica locale) restano spesso sui margini dei testimoni manoscritti. Tali informazioni rivelano anche un’evoluzione graduale degli interessi, più rapida nelle zone settentrionali che in quelle meridionali, verso questioni e dettagli grammaticali sempre più limitati e minuziosi109. La forma secondo cui sono presentati i contenuti grammaticali varia sensibilmente nelle diverse aree geografiche. Mentre in Francia e in Inghilterra110 i trattati sono per lo più in versi, in Italia si predilige ancora la forma catechetica, il che giustifica ulteriormente la prolungata preminenza delle opere antiche. Non sono preclusi momenti di scambio: i 106 Questi testi autorevoli restano nei programmi ufficiali nelle facoltà di arti, quindi al livello più alto dell’insegnamento grammaticale. Se però si guarda all’esempio di Parigi, si nota un ammorbidirsi delle imposizioni nel corso del ‘300, che suggeriscono criteri meno rigidi per l’attribuzione della licenza finale, almeno rispetto alle competenze in latino. Vedi Kibre 1978, p. 218. Un’altra possibile ragione per questa tardiva preferenza verso manuali medievali, cui si è già accennato, potrebbe essere la contrapposizione tra autori pagani e cristiani. Il Doctrinale di Alessandro di Villadieu, un francescano, è ad esempio molto apprezzato, come anche il Graecismus di Eberardo di Bethune: in entrambe le opere gli esempi sono tratti da testi cristiani. 107 Se ne conoscono due versioni: una rappresenta il manuale vero e proprio, l’altra comprende una sezione più estesa dedicata all’analisi delle parti del discorso. La redazione estesa è tipica soprattutto del XIII secolo, quando gli studi grammaticali conoscono una fase di intensa vitalità e diffusione. Nel Trecento si torna in molti casi alla versione breve, laddove si fa più precisa la distinzione tra corsi di livello diverso e i maestri dalla preparazione più limitata lasciano sempre più spazio al volgare. La rielaborazione dell’Ars minor donatiana nasce già nell’Alto Medioevo, probabilmente a causa dell’insoddisfazione per strumenti d’apprendimento pensati per chi parlasse la lingua da studiare. Vari argomenti andavano integrati: paradigmi, coniugazioni e declinazioni, che non a caso erano presenti nell’opera di Prisciano, destinata anche all’est dell’Impero e quindi a parlanti greci. Quest’ultimo trattato è anche un modello metodologico fondamentale dall’XI secolo in poi, per le partitiones che analizzano versi poetici (nello specifico il primo di ciascun libro dell’Eneide) segmentandoli in minime partizioni. Questo approccio si sovrappone così a quello proposto da Donato, organizzato intorno alle otto parti del discorso. Un superamento della prospettiva donatiana si ha anche in relazione al già citato passaggio da uno sguardo ampio e generale, che l’Ars minor ben rappresentava, allo scambio di domande e spiegazioni sempre più minuziose. Anche a questo proposito, benché la terminologia sia sempre quella di Donato, i contenuti si devono spesso a Prisciano. 108 Tale giudizio vale però solo per la versione utilizzata sino al ‘300; quella quattrocentesca diviene brevissima e molto superficiale. 109 Si diffonde anche un approccio in apparenza più concreto, perché più aderente al testo nella sua realtà storica: è l’approccio dei modistae, così definiti per il loro studio dei modi significandi, diffuso soprattutto nella Francia settentrionale a partire dall’XI-XII secolo e favorito dallo studio di Aristotele. 110 L’antecedente forse più illustre di questa attività compilatoria è probabilmente il Venerabile Beda. 421 principali trattati in versi circolano anche in Italia, mentre in Francia sono attestati manuali dall’impostazione classica, anche se di solito redatti già in volgare – una tendenza, questa, sempre più diffusa111. Il bisogno di simili traduzioni testimonia la padronanza del latino sempre inferiore da parte dei giovani. Soprattutto nelle aree meridionali, infine, è apprezzata una soluzione manualistica composita che raccoglie con intento di esaustività trattati su argomenti diversi. È essenziale, inoltre, la produzione di glossari: quelli classici, non più accessibili, vengono sostituiti da nuove compilazioni, redatte spogliando testi biblici e medievali, con esiti censurati dagli umanisti. In ambito lessicografico112 il ricorso al volgare è ben presto costante: dopo la stagione dei grandi dizionari monolingui (come il famoso Papia), con il Trecento il bilinguismo è generalizzato. Nella lingua materna possono essere riportate non solo sintetiche traduzioni, ma anche interi versi, di solito anonimi, in funzione esplicativa. Lo studio elementare della grammatica, in ambito sia pubblico sia privato, si articola in tre livelli, concepiti in relazione all’uso del manuale (prima, durante e dopo la sua lettura) e alle diverse competenze degli insegnanti. Solo alla fine gli studenti giungono a studiare i testi e quindi la lingua degli autori. La memoria è costantemente esercitata, in quanto utile all’apprendimento linguistico; intanto, gli alunni iniziano a leggere, prima con la tabula o carta per imparare l’alfabeto, poi con il salterio per esercitarsi nella lettura vera e propria. Il nome indicherebbe una raccolta di salmi, ma è probabile che si intenda semplicemente una raccolta di letture religiose, che dunque educavano anche in senso morale. È probabile che nella lettura si distinguessero due fasi: la pura comprensione della lettera (testo) e il vero apprendimento linguistico e stilistico attraverso l’osservazione del testo, che richiedeva la piena comprensione del senso (senno); poteva essere utilizzata anche una traduzione interlineare. Solo a questo punto si avvia il corso di latino vero e proprio, che si articola in minor, mediocris e maior a seconda delle regole insegnate. La morfologia ha meno importanza della sintassi, la quale comprende lo studio della composizione della frase e del discorso, oltre ad alcuni rudimenti di ornatus, anticipando la retorica. In questa fase vengono di certo letti gli autori classici: molti umanisti (e in parte lo stesso Petrarca) hanno biasimato l’eccessivo spazio concesso a figure minori e tarde, ma la grande tradizione degli auctores non è mai venuta meno113. Le fonti distinguono tra maiores (autori classici) e minores (autori medievali114), ma non esiste un concetto corrispondente a quello moderno di “classicità”: se un’auctoritas è riconosciuta come tale, non sono necessarie ulteriori distinzioni. Si privilegia la poesia (Virgilio, Ovidio, 111 In effetti la chiusura dei singoli ordini monastici rappresenta un vincolo e un limite molto più percepibile rispetto alla nazionalità. 112 L’attenzione al vocabolario, come quella per la struttura della frase, va al di là dell’apprendimento linguistico, verso la nuova attitudine alla traduzione delle opere latine in volgare. Per sostenere questa pratica, che sembra essersi sviluppata in primo luogo in ambito bolognese, sono preparati strumenti specifici. 113 Il momento di maggiore crisi si delinea nel XII secolo, in relazione al trionfo della dialettica e al rifiuto delle metodologie tradizionali da parte degli studenti. 114 Medievali, ma ritenuti classici sono ad esempio i Disticha Catonis, mentre sono preparati apposta per gli studenti testi diffusissimi quali l’Aesopus e il Teodulus. 422 Stazio, Lucano), ma tra i prosatori sono apprezzati Cicerone, Boezio, Sallustio e dal ‘300 Valerio Massimo115. Le opere più tipiche e diffuse sono definite “curriculari”; hanno sempre un contenuto esemplare anche in senso morale. Si sono conservate ampie antologie cui il docente poteva attingere, che mostrano la preferenza per i contenuti mitologici, geografici, retorici, ma non mancano testi che permettessero utili considerazioni stilistiche. Solo gradualmente, progredendo verso le classi superiori, le spiegazioni e i commenti morali (ma anche retorici) acquisiscono maggior profondità. Si legge e commenta in latino, poi si passa alla parafrasi e alla spiegazione grammaticale; in questa fase più avanzata il volgare è escluso, anche perché manca di uno statuto grammaticale forte (e di strumenti pedagogici) che permettano di parlarne con un approfondimento paragonabile a quello ora dedicato alla lingua classica. Ciò non toglie che dopo il corso di grammatica si tornasse all’uso della lingua materna: molte glosse sono in volgare, soprattutto dalla seconda metà del ‘300, ma già dal pieno ‘200 per gli autori minori, come Boezio, mentre le postille alle opere delle grandi auctoritates (ad esempio Cicerone) rimangono quasi sempre latine. La produzione manualistica dedicata alle artes dictandi si sviluppa con abbondanza tra XII e XIII secolo, in relazione da una parte alle facoltà di diritto, fino a quando esse acquisiscono sufficiente autonomia intellettuale, dall’altra all’ambiente comunale, per quanto embrioni di tali discipline si fossero delineati già in ambiente ecclesiastico116. Nell’XI secolo117 si diffondono i primi testi didascalici118, che restituiscono nuova vita allo studio dell’ornatus e all’amore per lo stile. É essenziale in tal senso poter disporre di modelli per la compilazione di lettere e documenti119; la definizione stessa di ars dictamini suggerisce però una concezione più vasta. Infatti, sin dall’epoca antica non si dettano solo epistole e documenti ufficiali, ma anche scritti letterari dall’elaborazione particolarmente ricercata; ben presto dictare significa piuttosto “scrivere, comporre” e poi “comporre in versi”. I primi trattati didattici medievali d’argomento retorico sono stati redatti tra la fine del XII e la fine del XIII secolo. Il limite di tali documenti è rappresentato dalla noncuranza per il momento orale, che è invece un fattore essenziale nella pratica della retorica; è significativo che gli autori siano per lo più maestri di grammatica. In effetti, anche per l’analisi dei tropi e in generale le considerazioni sull’ornatus, i principi propriamente 115 Per le testimonianze sugli autori letti abitualmente si vedano in particolare le pp. 59-62 di Curtius 1995. 116 Per una sintetica storia delle sopravvivenze retoriche nell’Alto Medioevo, tra decadenza dell’élite romana e contributo del clero anglosassone e irlandese, si veda Boglar 1982. Tuttavia, lo studioso ritiene che le applicazioni scolastiche, poetiche ed epistolografiche della retorica tra Duecento e Trecento segnino quasi un eclissarsi della disciplina in sé, fenomeno che giustificherebbe in parte la definizione di “secoli bui e barbari” da parte degli umanisti in riferimento a tutto il Medioevo. 117 Da una parte in questo periodo si irrigidisce l’associazione tra retorica e composizione epistolografica; dall’altra restano le tracce della concezione antica, spirituale della retorica come modello di vita, improntata all’insegnamento di Cicerone, Quintiliano e Agostino. 118 Alcuni esempi celebri: Ekkehart IV in Germania, Marbodo di Rennes in Francia (Curtius 1995, p. 87). 119 Raccolte di modelli esistono sin dall’epoca merovingia e carolingia, al servizio di corti e cancellerie; l’esempio della raccolta epistolare di respiro letterario è però classico, come nei casi di Cicerone, Seneca, Plinio e più tardi Cassiodoro. Per questi aspetti si veda in particolare Curtius 1995, pp. 87-88. 423 retorici si mescolano e confondono con quelli grammaticali. D’altro canto era già classica la concezione estesa della grammatica come “arte dell’espressione corretta” e quindi base della letteratura: si giustifica l’identificazione della disciplina quale punto di riferimento per tutta la formazione successiva, storica, poetica e retorica, nonché rispetto alla lettura di testi biblici e religiosi120. Nei manuali di retorica si coglie però l’intenzione di fornire strumenti più specialistici rispetto alle basi grammaticali. Non ci si limita più a riflettere sulle forme del discorso e sui loro collegamenti nella frase e nel periodo: bisogna guardare all’effettiva composizione del testo. L’apprendimento si completa attraverso i commentari, che servono ad approfondire la lettura di opere grammaticali o di testi letterari. Gli aspetti della retorica cui si presta maggior attenzione sono quelli logici, lasciando da parte i paradigmi storici d’eredità classica; di fatto, la disciplina è soprattutto impegnata a favore di attività pratiche, come la predicazione, la mnemotecnica, l’epistolografia. Ai tentativi di approfondimento fa spesso seguito una visione settoriale: si parla ad esempio di grammatica precettiva, grammatica speculativa, studio del ritmo, ars dictaminis. In questo contesto si sviluppa l’ars poetriae121 o retorica letterariamente intesa, un fenomeno piuttosto concentrato sul piano della cronologia e degli autori coinvolti122, per altro a lungo poco considerati, ma attualmente ritenuti importanti per l’influenza sulla coeva letteratura latina e volgare. La definizione di questa ars è questione complessa: gli intellettuali del Medioevo distinguono puntualmente retorica e poetica, riconoscendo che solo parte dell’esperienza del versificatore può essere ricondotta alla seconda disciplina del trivio. La poesia ha una sua complessità specifica e strumenti propri; inoltre deve essere considerata in relazione al dibattuto problema del rapporto tra forma e contenuto. Tuttavia non va trascurata la costante connessione di poesia e artes in genere, considerate prevalentemente in chiave tecnica e pragmatica, in quanto fonti e modelli per la scelta degli argomenti e degli strumenti espressivi. In definitiva, le arti danno fondamento all’espressione letteraria, che a sua volta le 120 Lo statuto in sostanza ambiguo della disciplina si spiega meglio in relazione alla tripartizione che le è imposta entro il XII secolo tra ambito dimostrativo (che dunque coinvolge anche l’ambito della legge e dell’avvocatura), pratiche scolastiche (in relazione con l’orizzonte logico e dialettico) e prospettive filosofiche. La prospettiva argomentativa e dimostrativa non concerne comunque solo le pratiche tribunalizie: diviene ad esempio uno strumento imprescindibile di alcuni generi letterari, come l’agiografia, in cui però non conta tanto la tradizione tecnica dei retori classici quanto le abilità persuasive proprie dell’oralità. Col tempo anche in tale ambito si avverte l’influenza degli insegnamenti scolastici, piegati però necessariamente alle mutevoli esigenze del pubblico. Nelle sue applicazioni logicodialettiche, la retorica serve le intenzioni critiche e analitiche dei riscopritori di Aristotele; dall’eredità dell’oratoria sono tratti infatti i mezzi per formulare con efficacia i paradossi e le sentenze proprie dell’analisi scolastica. Infine, sul piano filosofico, ci si scontra con la definizione e l’uso di favole e miti nel processo conoscitivo, questione che crea dubbi e suscita approfondite riflessioni dai tempi di Agostino e Macrobio; domina in proposito una prospettiva neoplatonica. Per questi aspetti si veda in particolare Hunt 1982 e in parte Bolgar 1982. Quest’ultimo in realtà propone una tripartizione non del tutto coincidente, poiché sottolinea la distinzione tra arte della persuasione, arte poetica e della scrittura, arte del parlare in pubblico in merito a questioni pubbliche (per la quale era essenziale il riferimento a Cicerone). 121 Per lo sviluppo di tali artes tra XII e XIII secolo si legga Scarpati 2008, pp. 29-36. 122 Matteo di Vendome Ars versificatoria, Gervasio di Melkley Ars versificaria, Geoffroi de Vinsauf Poetria nuova e Documentum, John of Garland De arte prosayca, metrica et rithmica, Eberhardil il Tedesco Laborintus. 424 legittima. Gli strumenti espressivi nella loro valenza “tecnica” influenzano le discettazioni di teoria letteraria, la riflessione sul linguaggio adatto ai diversi campi culturali, le forme della comunicazione (con particolare riferimento all’inventio degli argomenti). La questione non è certo semplificata dai nodi religiosi e morali che permangono nella valutazione della forma, persino in età umanistica: fino a che punto è lecito prestarle attenzione? In che termini può non essere considerata solo una “piacevolezza pagana”? Qual è il giusto rapporto tra invenzione e verità nell’elaborazione letteraria? L’ornatus è in effetti a lungo definito (spesso polemicamente) un “velo” metrico, ritmico e retorico rispetto al contenuto di verità che la poesia può offrire; la sua utilità è dubbia soprattutto se confrontata alla semplicità della parola divina (lo stesso Petrarca sembra condannare in più luoghi il letterato “puro” - De suis ipsius et multorum ignorantia, Fam. 16 e 14, Posteritati). Per essere accettata, la bellezza non deve essere colta in sé, ma deve essere funzionale alla circolazione e alla comprensione del messaggio123. Le fonti per gli studi retorici sono soprattutto latine – dominano il De inventione ciceroniano e dall’XI secolo la Rhetorica ad Herennium, ritenuta anch’essa di Cicerone; dal IX secolo è abbastanza diffuso anche Quintiliano, le cui Institutiones circolano incomplete, come per altro il De oratore e l’Orator ciceroniani124. Altre opere godono di una circolazione significativa, benché non amplissima, come le Controversiae e le Suasoriae di Seneca il Vecchio. Il Brutus di Cicerone, il Dialogus di Tacito e le opere minori di Quintiliano sono riscoperti solo nel Trecento, anche se i monasteri ne conservano copie del XII secolo. Sono interessanti soprattutto i manuali che offrano strumenti tecnici puntuali, mentre vengono a lungo trascurate le opere di carattere più intellettuale o filosofico, come di fatto quelle aristoteliche125. Vari tra questi trattati, comunque, e soprattutto quelli meno noti, sono sfruttati prevalentemente come serbatoi di exempla e spunti narrativi, piuttosto che in senso tecnico. È interessante infine che la 123 Rispetto al complesso rapporto tra le diverse arti, può essere interessante cercare di capire la posizione del Petrarca, benché i passi interessati dalla questione siano ben pochi, a favore di una generica sovrapposizione tra poetica e artes o addirittura con gli studi profani in genere. Da una parte andrà considerata una nota filologica apposta ad Aristotele, in cui si insiste che egli non si era riferito all'”eloquenza oratoria” ma a quella “poetica”; tuttavia la distinzione qui non viene approfondita, poiché lo scopo argomentativo si riduce alla difesa delle lettere in generale. Dall'altra, l'affermazione per cui la poesia sarebbe la principale fra le arti liberali con riferimento alle parole di Ovidio. Il criterio valutativo non può (più) essere l'utilità, che è propria delle arti meccaniche, ma sarà la preziosità. Se la centralità della forma – suggerita nello stesso Petrarca dall'uso di “eloquenza” come sinonimo di poesia – può portare ancora qualche disagio a livello morale, resta la convinzione che sia proprio questo lo strumento che consente la comunicazione, l'esternare l'interiorità, di cui pure si occupano teologia e filosofia. Ecco dunque che l'oratoria ha di per sé una funzione morale (l'interpretazione petrarchesca sembra in proposito legata alla visione ciceroniana e poi agostiniana, piuttosto che a quella aristotelica). Ne consegue però nuovamente che l'elaborazione formale debba essere aderente al messaggio e finalizzata ad esso, non eccessiva. Non a caso Petrarca legge nelle sue fonti classiche che la virtù maggiore del retore è la moderazione. 124 Sarà Poggio Bracciolini a riscoprire le Institutiones nella forma completa tra 1420 e 1430, mentre i trattati ciceroniani sono ritrovati dopo il 1421. Non è del tutto chiaro quali porzioni se ne conoscessero in precedenza e quanto distinte l’una dall’altra. 125 In particolare è questo il destino della Retorica, che circola in versione latina, ma è considerata prevalentemente in chiave etica. 425 maggior parte dei loro testimoni si concentri in Francia, ad indicare un interesse molto localizzato. Il successo della retorica si deve soprattutto all’attenzione che avevano continuato a riservarle gli autori e i teorici tardo-antichi, nonché all’uso che aveva caratterizzato la predicazione patristica. In effetti quelle fonti e quegli usi veicolano il definitivo recupero medievale dei principi retorici anche in senso pragmatico, sul piano giuridico con l’ars dictandi126 e su quello religioso con l’ars predicandi, cosicché diviene possibile accostare alla visione astratta delle scuole l’uso concreto nella vita cittadina. L’organizzazione del sapere superiore nelle sette artes liberali127 ha la funzione di ordinare e organizzare l’apprendimento in strutture solide e chiare, creando un sistema efficace anche rispetto alle diverse interrelazioni128. A livello universitario129, tale struttura è un paradigma unificante, poiché è un punto di riferimento per tutti gli studenti, soprattutto nelle facoltà dell’Europa settentrionale130. Lo studio della grammatica presenta una differenza essenziale rispetto all’approccio elementare: non importano più gli aspetti compositivi ed espressivi, ma la speculazione. Il programma di studio era lungo e articolato in modo puntuale131; era prevista una distinzione tra due titoli o diplomi, il “baccellierato” e la “maestranza”, che era imprescindibile per accedere ai corsi superiori132. Il contenuto delle lezioni tiene necessariamente conto dei diversi livelli di preparazione, in cui ancora una volta vengono ripartiti gli allievi: ad esempio le opere di Aristotele sono lette solamente nell’ambito delle classi più avanzate. Alcune delle maggiori università presentano tuttavia una struttura più semplice: non comprendono le facoltà di arti, che sono date per scontate, e si specializzano esclusivamente in diritto o in medicina133. Le materie affrontate sono 126 Quest’ars si definisce in connessione con l’ambiente cancelleresco, e dunque con le attività notarili e in genere con la vita socio-politica. 127 Tra XII e XIII secolo sono in realtà diffuse anche categorizzazioni alternative: la bipartizione aristotelica, poi fatta propria da Cassiodoro, tra filosofia speculativa e pratica (cui Aristotele aggiungeva come terzo orizzonte la poetica); la tripartizione stoica (ma ritenuta platonica) tramandata da sant'Agostino, tra fisica, morale e logica; la tassonomia araba ispirata alle opere di Aristotele; la distinzione agostiniana tra res e signa (che di fatto è sovrapponibile a quella tra trivio e quadrivio) impostata sulle categorie classiche di saggezza ed eloquenza; la divisione morale di magia e filosofia; l'ovvia separazione di conoscenza terrena o umana e quella divina. 128 Benché nella pratica solo gli ordini mendicanti riescano ad offrire un ciclo di studi preuniversitario davvero efficiente e completo (Verger 1997). 129 Kibre 1978 ne riporta qualche testimonianza. Negli statuti di Parigi ed Oxford sono indicati i programmi di studio per la grammatica; per la retorica, cui non si fa cenno nei documenti ufficiali, restano alcune descrizioni dei corsi ad opera di studenti. 130 Si prenda ad esempio il caso parigino, illustrato, con particolare riferimento al ‘300 e al ‘400, in Kibre 1978, pp. 216-217. A p. 218 si trova anche un’interessante spiegazione della sovrapposizione, tipica di Parigi e dei centri che emulano la sua organizzazione, tra branche della filosofia (razionale, naturale e morale) e arti in senso stretto (quelle del trivio dovrebbero essere comprese nella filosofia razionale, in quella naturale sono raccolte quelle del quadrivio). 131 Per programmi, metodi e titoli, si veda l’efficace sintesi in Verger 1982, pp. 94-105. 132 L’associazione tra arti e medicina, in particolare, è fondamentale ed antichissima. In ambito classico, e soprattutto greco, si afferma il principio secondo cui la preparazione del medico, prima che tecnica, deve essere logica e razionale, per guidarne cioè il giudizio. Per la diffusione classica di tali principi, vedi Kibre 1978. 133 A proposito dell’organizzazione di questi corsi, si veda Kibre 1978, pp. 223-227. 426 ridotte allo stretto indispensabile; per il resto, il programma di studio per raggiungere il medesimo titolo deve essere affine, a prescindere dalla collocazione geografica o dal tipo di fondazione. Le materie profane (diritto e medicina) rifiutano uno statuto di pura propedeuticità o inferiorità rispetto alla teologia e rappresentano ben presto traguardi autonomi e riconosciuti per un apprezzabile cursus studiorum. Per altro sono proprio gli ambienti legati alle discipline laiche ad aver determinato il maggior dinamismo negli ambienti universitari, con le sole eccezioni di Parigi e Oxford. In conclusione, nel Trecento, epoca di passaggio tra Medioevo e Rinascimento, l’insegnamento di grammatica, retorica e logica mantiene un’ampia diffusione: “Furono insegnate durante il Trecento in Italia – ciò che significa sopra tutto Italia settentrionale e centrale – nelle scuole inferiori da maestri ancora rozzi, ma appassionati; e, per l’alto grado a cui ormai era salita la civiltà italiana, incredibilmente numerosi”. Ad esempio, “si successero nella piccola Treviso una settantina di questi maestri”134. Intanto, nell’ambito dell’insegnamento universitario e della retorica in particolare si avvia la riforma della cultura (e dell’educazione) che contribuisce alla nascita dell’umanesimo. E in primo luogo bisogna riferirsi a Padova, al suo antico Studium e a personaggi come i filosofi Rolando da Piazzola135, Pietro d’Abano136 e Marsilio da Padova137 o come i giuristi Lovato Lovati138 e Albertino Mussato (che fu anche 134 Billanovich 1978, pp. 377; la pagina successiva presenta alcuni casi particolari di questa tendenza. Non ne restano notizie molto precise. È noto che fu eminente giurista padovano, che partecipò attivamente alla vita politica della sua città, schierandosi con la fazione guelfa sia al tempo di Enrico VII sia a quello di Ludovico il Bavaro. Non è chiaro nemmeno quando sia morto: sicuramente dopo il 1324 e prima del 1333. 136 Nasce ad Abano intorno al 1250; prima di arrivare ad insegnare a Padova viaggia a lungo, in particolare a Costantinopoli e probabilmente a Parigi. Questi contatti culturali gli permettono di approfondire la sua visione filosofica, che rinnova la tradizione nel segno dell’incontro tra la cultura greca e quella araba. Non a caso in questo ambito la realtà padovana è particolarmente progredita, soprattutto per quel che concerne lo studio e l’interpretazione di Aristotele. È probabile che le sue posizioni moderne non siano state del tutto comprese, in particolare per l’assoluta preminenza nella sua speculazione della filosofia naturale, a scapito della teologia: la condanna definitiva come eretico arrivò nel 1315 e pare che il corpo fosse bruciato dopo la morte (sicuramente avvenuta entro il 1318). 137 Originario di Padova (vi nasce tra il 1275 e il 1280) vi studia medicina, secondo la tradizione definita da Pietro d’Abano; si perfeziona però come teologo a Parigi, dove entra in contatto con gli ambienti spirituali dell’ordine francescano. Proprio per questo motivo ripara in Germania, dove entra a servizio di Ludovico il Bavaro, per accompagnarlo poi in Italia ed assisterlo durante l’incoronazione. Le sue riflessioni filosofiche sono dedicate in particolare alla politica, con l’intenzione di rinnovare la concezione aristotelica, con posizioni che non potevano non influire anche sulla percezione della Chiesa, in contrasto con l’affermazione del potere politico (e della ricchezza) del pontefice. Muore a Monaco di Baviera nel 1343 circa. 138 Nasce a Padova entro il 1240, figlio di Rolando di Giovanni detto Lovato. La famiglia, di tradizione notarile, godeva di notevole prestigio in città e di utili relazioni politiche. Nel 1257 Lovato è già indicato come notaio insieme al padre; viene poi ammesso nel Consiglio dei giudici, attività che svolse almeno sino al 1307. Non rinunciò nemmeno alla carriera politica, diventando podestà di Bassano nel 1282, poi arbitro fra i comuni della zona e infine podestà di Vicenza nel 1292. Nel frattempo era stato investito cavaliere. Tuttavia l’importanza del Lovati è legata innanzitutto alle sue ricerche di bibliofilo, alla sua passione e al suo studio dei classici: in tal senso egli ha avuto un ruolo determinante nell’avvio della cultura umanistica. Egli fu in particolare copista ed editore di opere classiche riscoperte o rinnovate a livello filologico: particolarmente eclatante è il caso di Livio (si vedano in generale gli studi di Billanovich). Resta anche parte della sua produzione letteraria, in gran parte perduta, ma evidentemente molto varia: comprende sicuramente epistole metriche, carmina, opere politiche ed esercizi di retorica. Muore nel 1309. 135 427 incoronato poeta e storico nel 1315)139. L’intreccio di relazioni intellettuali che seppero costruire è fondamentale, in particolare con gli studiosi di Vicenza e Verona, ma anche con l’ambiente bolognese. A Bologna infatti insegnò Giovanni del Virgilio140, che si era formato, in parte, a Padova e che è considerato il primo maestro di grammatica e retorica del nuovo corso. La medesima mediazione, ma in senso inverso, si deve a Pietro da Moglio141, bolognese, allievo di Giovanni, poi maestro in una sua scuola privata ed infine insegnante all’università, padovana prima e poi di nuovo bolognese. Anche a Pietro va attribuito un essenziale rinnovamento negli studi, soprattutto retorici, grazie ai suoi commenti ai classici142, oltre alla costante passione di bibliofilo143. 139 Il Mussato è particolarmente illustre tra i responsabili dell’innovazione scolastica e la svolta preumanistica, oltre ad essere considerato uno degli storiografi più eminenti del suo tempo. Nasce a Padova nel 1261; comincia ben presto a partecipare alla vita politica della sua città, che lo porterà a sostenere con energia la fazione imperiale (sarà presente all’incoronazione di Enrico VII come rappresentante ufficiale della sua città) e a subire i rivolgimenti degli anni successivi (non a caso muore povero e in esilio a Chioggia nel 1329, dopo che l’anno prima Cangrande aveva preso il potere a Padova). Le sue opere latine dimostrano l’importanza essenziale dei modelli classici: come storiografo abbandona la linea delle cronache e guarda all’esempio di Livio, come poeta è innanzitutto tragediografo. 140 Giovanni nasce a Bologna da famiglia padovana (o forse emiliana) prima del 1300; il soprannome deriva probabilmente dalla sua particolare devozione nei confronti del poeta latino. Comincia ad insegnare nel ’21 a Bologna, dove si è formato: alcuni documenti ufficiali del comune segnalano l’inizio delle sue lezioni dedicate ad alcune auctoritates classiche. Per questo tale avvenimento è considerato l’avvio dell’insegnamento umanistico nelle università italiane. L’insegnamento a Bologna si interrompe per qualche anno tra ’23 e ’26, forse per un ritardo nei pagamenti o per un’ingiustizia subita a causa delle autorità giudiziarie; nel periodo trascorso a Cesena, Giovanni prepara un’egloga che sarà poi inviata al Mussato. Nel ’27 torna a Bologna, ma non resta notizia del ritorno all’insegnamento: perciò si ipotizza che la morte di Giovanni sia avvenuta di lì a poco. Giovanni è celebre, oltre che per il suo contributo al rinnovamento dell’educazione, per varie opere latine, conservate nel codice laurenziano XXIX, 8, e per vari testi legati all’insegnamento. Ancor più rilevanti sono però i suoi rapporti con due personalità centrali dell’epoca: Dante e Boccaccio. Con Dante, Giovanni intrattenne una corrispondenza letteraria tra ’19 e ’21; Boccaccio invece fu copista d’eccezione delle opere di Giovanni, proprio sul citato Laurenziano. 141 Nasce all’inizio del ‘300 (probabilmente entro il 1313) e nel 1331 è notaio, secondo la tradizione di famiglia. Deve aver studiato a Bologna, probabilmente secondo il modello di Giovanni del Virgilio, del cui metodo è chiaramente debitore. Tuttavia non si sa molto né dei suoi studi né del suo avvio all’insegnamento, fino al 1347 quando ottiene il permesso di aprire una propria scuola insieme al fratello; per la sua docenza è certamente pagato dal comune a partire dai primi anni ’50. Come maestro Pietro ottiene una certa fama, soprattutto grazie agli eccelsi risultati di alcuni suoi allievi e alla loro affettuosa memoria, come nel caso di Coluccio Salutati, che mantenne rapporti con il maestro sino alla sua morte. Dopo il periodo bolognese si trasferisce a Padova per sei anni a partire dal 1362; qui sicuramente lesse le opere di Petrarca e poté incontrarlo e stringere un rapporto più intimo col celebre poeta (alcuni studiosi vorrebbero anticipare il contatto tra i due al periodo bolognese, identificando in Pietro il destinatario della Metrica ad Omero, ma la ricostruzione di Billanovich sembra ormai escluderlo definitivamente). Dal 1364, comunque, la loro corrispondenza è decisamente nutrita e in parte di allarga ai migliori allievi del Moglio, Francesco da Fiano e Giovanni di Matteo Fei. L’ultimo documento universitario in cui Pietro sia nominato risale al 1380 e agli stessi anni risale l’ultima sua epistola sopravvissuta; muore, compianto soprattutto dal Salutati, nel 1383. Il suo impegno più significativo è quello filologico, di accanito bibliofilo e profondo estimatore dei classici. In particolare va ricordato il lavoro su Terenzio, ma anche su Seneca, il commento a Boezio, lo studio di Cicerone, Stazio e Valerio Massimo. Per quanto concerne la retorica, oltre allo studio della Rhetorica ad Herennium, non va dimenticato il commento alla Poetria nova di Goffredo di Vinsauf. 142 Per un elenco delle opere note di Pietro da Moglio, si veda Billanovich 1978, p. 368. Per il suo lavoro su Terenzio e i rapporti con Petrarca si legga Arzàlluz 2006. 143 A lui si deve il ritrovamento di un antico Terenzio in S. Domenico a Bologna (Billanovich 1978, p. 369). 428 Con questo contesto veronese-padovano Petrarca intrattiene un rapporto precoce e fruttuoso, che favorisce il suo ruolo imprescindibile nell’evoluzione dell’Umanesimo: da una parte egli raccoglie le innovazioni sviluppatesi nell’insegnamento, dall’altra i docenti ne diffondono la lezione presso i loro allievi144. 144 Pietro da Moglio lesse ai suoi studenti, ad esempio, alcune pagine del Bucolicum carmen e forse sollecitò l’Aretino a scrivere ad Omero (Billanovich 1978, pp. 373-374). 429 CAPITOLO SESTO Circolazione di testi e cultura trobadorica nel Trecento 1. Diffusione, sopravvivenza e tipologia dei canzonieri trobadorici Bisogna rinunciare, almeno per il momento, ad identificare che tipo di manoscritti abbia letto Petrarca (e a maggior ragione ad individuare codici specifici). Gli studi filologici permettono però di approfondire sul patrimonio codicologico sopravvissuto, dunque disponibile anche all’epoca del poeta, nonché di ricostruire i fenomeni e gli spostamenti che hanno interessato la tradizione entro il Trecento. Le letture petrarchesche devono essere state vincolate da tali meccanismi di diffusione e conservazione, in cui sono coinvolti i canzonieri, ma anche le raccolte di frammenti, di biografie, di singoli autori o editori. La produzione trobadorica si sviluppa precocemente (già alla fine dell’XI secolo) delineando una prospettiva laica inusuale anche a confronto con la contemporanea letteratura volgare, i cui primi esperimenti sono legati alla sfera clericale, come denota l’ambiente della preparazione e della conservazione dei codici1. Tuttavia la tradizione manoscritta delle opere occitaniche non rispecchia tale primato e si attesta anzi tardi, solo a partire dalla metà del ‘200. I testimoni fondamentali della produzione provenzale sono quaranta; ad essi possono essere aggiunti alcuni testimoni indiretti, con i quali si arriva a novantacinque fonti, ed è questo il numero abitualmente indicato dagli inventari (può poi essere aggiunto qualche altro ritrovamento successivo). Possono inoltre essere considerate alcune raccolte di opere catalane o francesi che contengono frammenti provenzali; altri brevi lacerti, infine, si sono conservati in alcuni codici di natura eterogenea. Il quadro completo di questa tradizione risulta, dunque, piuttosto articolato. Secondo l’analisi di Avalle, su novantacinque testimoni, cinquantadue sono italiani (area lombarda e veneta in testa), diciannove occitanici, quattordici francesi e dieci catalani. Da una parte è probabile che molto si sia perduto, e soprattutto in Provenza, a causa delle guerre, delle distruzioni, del sospetto con cui la cultura profana venne considerata dall’Inquisizione e dalla Chiesa in genere a partire dall’inizio del Duecento. In Italia e in Catalogna la conservazione è stata certamente favorita dalla forte affermazione locale di una produzione originale, ma in lingua provenzale; in Francia invece era stata più rapida l’appropriazione delle forme cortesi ad opera dei trovier, in lingua d’oil e dunque secondo una prospettiva locale. D’altro canto la datazione tarda dei codici e la loro diffusione prevalente in un’area linguistica eterogenea rispetto a quella originaria spingono ad ipotizzare che la prima circolazione delle opere nell’area 1 Avalle 1961 ha sottolineato il ruolo dei monasteri (soprattutto benedettini) in tal senso; lo studio dei codici sopravvissuti rivela la solidità della tradizione romanza sin dalle sue origini, sia perché distinta da quella delle opere latine, sia perché capace di coinvolgere aree molto distanti da quelle in cui le opere erano state composte. La provenienza variegata dei codici dimostra infatti un'estesa diffusione dei testi volgari, e dunque la solidarietà culturale e gli scambi tra zone molto diverse. 431 d’origine sia stata orale; il passaggio alla scrittura si legherebbe al bisogno (tardo) di sistemarle in un corpus e di renderle così più fruibili per chi ne conoscesse poco la lingua. Una lunga circolazione orale comporta molteplici (incontrollate) occasioni per il passaggio alla raccolta scritta, che determinano una tradizione composita; essa appare ancor più complessa per l’elevata possibilità di contaminazioni e per l’eventuale esistenza di più redazioni d’autore. Poiché i componimenti in questione sono pensati per l’esecuzione davanti al pubblico, l’ipotesi di una diffusione orale è molto verosimile; ciononostante si tratta di testi troppo articolati perché la composizione non si sia avvalsa della scrittura o per lo meno della dettatura; inoltre è probabile che anche le performances dei giullari fossero facilitate da fogli sparsi o rotuli. È dunque presumibile che per decenni intere raccolte di versi siano state diffuse in questa forma, anch’essa provvisoria, ma non quanto quella puramente orale. Tale duplice diffusione segna non solo l’area occitanica, ma anche le zone limitrofe, soprattutto l’Italia, per l’abbondanza di scambi e contatti: qui, dunque, la cultura cortese deve essere stata ben nota prima delle compilazioni antologiche. Per contro, quando esse cominciano a rappresentare la soluzione più tipica, la fruizione delle opere pare assumere nuove modalità, più erudite: proprio questo potrebbe essere, almeno in parte, il senso dei materiali biografici, al di là del loro valore di mediazione tra due diverse realtà culturali, provenzale e italiana. In tale contesto permaneva comunque una concezione viva ed attuale dell’ideologia trobadorica, ma una circolazione orale non poteva conservare la sua funzione originaria. La gravità delle perdite subite dal patrimonio codicologico anteriore al Duecento si coglie appieno considerando quanto poco si conosca anche degli altri generi cortesi, destinati con maggiore evidenza alla lettura, il cui successo nel XII secolo non è stato sufficiente a preservarne le testimonianze in modo più consistente. Un altro fattore da tenere in conto è la necessità di documenti antichi accessibili e in buone condizioni perché fosse possibile realizzare esemplari di qualità pari a quella di alcuni manoscritti giunti sino a noi; sopravvivono, inoltre, tracce indicative di raccolte curate dagli autori, quindi antiche e pensate come sillogi scritte. Una causa della scarsa protezione e quindi conservazione dei volumi più antichi potrebbe derivare proprio dalla creazione di nuovi strumenti, percepiti come più attuali, tra ‘200 e ‘300. Un’ipotesi articolata, che cioè valorizzi cause e fenomeni molteplici, spiega in modo più efficace lo stato effettivo della tradizione; per altro le varianti significative (non dovute cioè a semplici errori di copisti) ben si adattano ad essere spiegate di volta in volta in relazione alla diffusione orale, agli interventi autoriali o al normale deterioramento della tradizione nel processo di copiatura. Anche Viscardi2 ha proposto un’interessante riflessione rispetto alla collocazione cronologica delle sillogi sopravvissute e al loro significato storico-letterario. Lo studioso concorda sul fatto che ampie raccolte trobadoriche, variamente legate a quelle a noi note, circolassero già prima del Duecento; egli rifiuta perciò il principio per cui l’impegno alla sistematizzazione seguirebbe in toto la fine della fase creativa più vivace, lasciando dunque spazio ad un approccio puramente conservativo. Vari elementi, invece, permettono di evidenziare una 2 Viscardi 19702. 432 connessione precoce tra poesia e critica (le dichiarazioni polemiche, le affermazioni di poetica, sullo stile e sul rapporto con il pubblico, le teorizzazioni programmatiche affidate ai generi dialogici – soprattutto alle tenzoni); tali elementi si accordano pienamente con il rapido riconoscimento della produzione trobadorica come esperienza tecnica ed artistica autorevole. La consapevole organizzazione delle sillogi riflette questa mentalità, la quale a sua volta appare coerente con alcune tendenze tipiche della cultura medievale: Viscardi infatti ha ricordato l’importanza per la tradizione accademica medievale del confronto in ambito letterario, cioè la convergenza tra produzione e valutazione. Non si tratta certo di un approccio solamente volgare: già le sillogi mediolatine di prosa e poesia sono pensate anche per offrire un’occasione di riflessione, e proprio simili intenzioni spiegano lo spazio concesso ad opere contemporanee, benché non autorevoli quanto quelle antiche. Questo tipo di raccolte conosce notevole sviluppo in età carolingia, ma il loro modello sembra risalire a tempi ancora anteriori (Viscardi propone l’esempio dell’Anthologia latina di epoca vandalica). Tale riflessione invita a ripensare la natura dei primi canzonieri trobadorici, tra approccio antiquario e strumento di analisi rispetto a un consapevole e rispettato “fatto d’arte”3. Ne deriva per altro che l’attenzione di cui beneficia la letteratura occitanica sia comparabile a quella riservata alla letteratura colta per eccellenza, quella latina. Se però il retaggio di quest’ultima impone i metodi e le prospettive della scuola, le esperienze volgari godono invece di una circolazione più libera e persino più ampia in termini di lettori, compilatori di raccolte, aree di ricezione. Tornando alla tradizione testuale e alle molteplici lezioni che la caratterizzano, Avalle4 ritiene che siano esistiti veri e propri collettori di varianti, editiones variorum, che possono aver dato vita ad apografi e quindi a linee della tradizione di volta in volta differenti: è questo, probabilmente, il caso del codice . Nessuna di queste sillogi composite si è conservata, bisogna perciò accontentarsi di ricostruzioni su base logica e storica. La creazione di tali volumi dipende dalle tendenze dei singoli scriptoria, e se ne può facilmente immaginare la funzione pratica: i giullari potevano sfruttarli per cambiare la loro esecuzione a seconda del pubblico cui si rivolgevano, intervenendo ad esempio sulla metrica o sulla tornada. Proprio la centralità della strofa finale rispetto alla variabilità nell’uso del testo comporta però un limite per tale ipotesi: la presenza di varianti dovrebbe essere concentrata nelle sole parti in cui è davvero utile, lasciando univoco il testo rimanente. Ovviamente a questi problemi si intrecciano quelli legati all’autorialità: il cambiamento potrebbe o meno essere previsto dall’autore, ed è facile immaginare veri e propri adattamenti, rielaborazioni, interpolazioni estranei all’intenzione originaria. 3 Si vedrà quanto sia importante la distinzione tra diverse prospettive in epoca trecentesca, quando cioè mutano gli equilibri tra ciò che è composto ex novo e il peso della tradizione. 4 Avalle 1961; non tutti gli studiosi, però, sono concordi con la sua interpretazione. 433 Lo sviluppo della tradizione manoscritta trobadorica può essere immaginato secondo alcune fasi fondamentali (fatte salve le opinioni non sempre concordi degli studiosi5). Innanzitutto la composizione avviene per iscritto, poi i testi sono copiati su rotuli slegati (o Liëderblatter), pensati solo per l’utilizzo da parte dei giullari, non per la lettura né per la conservazione. In alcuni casi vengono preparate anche raccolte dedicate a singoli autori (Liederbücher), compilate da loro stessi o da loro estimatori (i casi a noi noti con una certa sicurezza, ma con la possibile eccezione di Peire Vidal, vanno datati almeno alla metà del ‘200). Si procede intanto, forse sin dalla fine del XII secolo, alla realizzazione di Gelegenheitssammlungen, cioè canzonieri creati semplicemente come raccolte di singoli rotuli, con ordine forse già per autore, ma più probabilmente casuale, cioè basato sul progressivo reperimento dei singoli documenti. Non se ne conosce nessuna, ma alcune antologie, caratterizzate da sezioni in cui la successione dei componimenti non è giustificata da alcun criterio evidente, fornirebbero la prova della loro esistenza6. Seguono sillogi ordinate per lo più per autore7, che devono essere apparse circa all’inizio del ‘2008; il criterio strutturale che le contraddistingue si afferma rapidamente, ma al contempo gli esiti concreti sono complicati dal desiderio di aggiungere nuovi testi di autori già inseriti quando ormai la composizione della raccolta è già avviata. Queste sillogi sono in fondo “raccolte di canzonieri individuali”9 che nascono dall’aspirazione ad una conservazione estensiva, senza applicare criteri di selezione, anzi preservando tutti i testi reperibili di tutti gli autori noti, a prescindere dal loro effettivo valore. Tali canzonieri assumono due configurazioni prevalenti: da una parte, volumi ispirati ad un’occasione, dall’altra sillogi più ampie, costituite raccogliendone varie del tipo più semplice e breve. Tra i codici a noi noti restano, secondo l’analisi di Avalle, sia esempi del primo tipo (H, L, O, P, f e parte di R10) sia del secondo (tutti gli altri). Parte di R segue un ordinamento cronologico; A, B, D, I, K e parte di L un ordine cronologico-estetico; M, T, U, a, c un ordine estetico; infine C, G, J, N, Q, S, W, parte di E ed una piccola porzione di R si affidano ad un ordinamento definito “religioso”, dunque ispirato ad un gusto tardo (fine del XIII secolo). La seconda parte di E è in ordine alfabetico, mentre V e X sono troppo frammentari perché vi si 5 Ad esempio, Borghi Cedrini 2006 sostiene questa ipotesi, ma con la riserva per cui non potrebbe essere applicata a tutta la linea della tradizione manoscritta, soprattutto considerando quanto più ampia essa debba essere stata almeno ai rami (e quindi in tempi) alti. 6 Proprio in una di queste antologie è stata ritrovata una dedica di Folquet de Lunel ad un suo mecenate, che ha suscitato numerose ipotesi sull’effettivo ruolo dei singoli autori nella creazione di queste o simili raccolte. 7 Eventualmente oltre al diffuso criterio tassonomico che distingue i generi in base al loro prestigio. 8 Seguiamo qui la riflessione di Avalle 1961 e 1985; Meneghetti 1999 propone di spostare in avanti questa fase rielaborativa, sulla base dell’assenza di documenti anteriori e della datazione presunta del Liber Alberici, ricostruibile grazie alla sua copia Da. La bipartizione di quest’ultima – una sezione ordinata per autori ed una frammentaria, priva di un ordine evidente – potrebbe indicare una fase di passaggio da soluzioni più antiche a sillogi pensate appunto per autore. Tale ridefinizione cronologica, comunque, non impedisce alla studiosa di rivedere i rapporti tra antologie e Liederbücher (intesi qui solo come “libri d’autore” e non in senso più ampio), affermando che probabilmente sono questi ultimi ad essere stati ispirati dal criterio strutturale tipico delle sillogi più complesse e moderne. 9 Meneghetti, 1999. 10 Alcune caratteristiche essenziali dei codici principali saranno trattate nel corso del presente capitolo; per un orientamento generale e sintetico si veda la scheda riassuntiva in appendice. 434 riconosca una distinzione chiara. Tuttavia secondo Maria Luisa Meneghetti, proprio in V si può cogliere una fase anteriore alla risistemazione dei componimenti in antologie ordinate per autore: le parti rimaste bianche testimonierebbero proprio il tentativo del copista di passare ad un nuovo criterio (individuale ed autoriale) a partire da sillogi più antiche. La tendenziale omogeneità geografica e cronologica di cui si è parlato a proposito dei canzonieri sopravvissuti non impedisce una notevole varietà strutturale, come denota per altro la necessità di applicare le categorie generali con elasticità o considerando soltanto singole parti di ciascun canzoniere. Sempre al fine di distinguere diverse tipologie antologiche, è utile la categorizzazione di Maria Luisa Meneghetti: da una parte le “raccolte-rassegna” (o “raccolte-panorama”) d’ispirazione più ampia e generica, che riflettono un approccio “onnivoro” da collezionisti e che possono basarsi su diversi criteri tassonomici, dall’altra le “raccolte-manifesto”, la cui preparazione è legata ad una singola scuola poetica. Gli esempi di questo secondo tipo sono rarissimi per il Medioevo, tardi e soprattutto latini. Non tutti i critici si sono dimostrati davvero convinti dalle proposte di Avalle, come nel caso di Cingolani, cui la successione “verticale” che si è descritta per la composizione di raccolte pare troppo rigida. Egli ha insistito perciò sulla necessità di integrarla con passaggi “orizzontali”: una raccolta d’ispirazione già evoluta può essere arricchita con materiali eterogenei, ad esempio attingendo ad un singolo rotulo. Questo per altro giustificherebbe relazioni significative tra codici molto lontani nello stemma, in virtù dell’ampia circolazione di queste fonti non fisse. Anche per la questione delle partizioni interne è sollevata qualche obiezione, rispetto all’importanza di considerare la presenza (e le modalità della presenza) di testi non lirici, oppure gli intenti che traspaiono dai modi dell’antologizzazione11. Gli studi filologici hanno dimostrato che la contaminazione tra le diverse linee genetiche è diffusissima già nelle loro fasi più antiche. A parte il caso peculiare di Peire Vidal, per il quale pare che due diversi Liederbücher siano confluiti nell’archetipo12, in generale già le Sammlungen risultano sovrapposte (è successo ad esempio per H e G). Ai piani intermedi dello stemma si distinguono tre rami, i quali hanno capostipiti già compositi13. La prima famiglia ha origine da (che alcuni studiosi chiamano X1), che, lo abbiamo visto, potrebbe essere addirittura un’editio variorum, per definizione frutto della confluenza di più tradizioni. Tale gruppo di codici ha un’importanza davvero notevole, perché la sua esistenza “è uno dei pochi punti fermi della tradizione manoscritta trobadorica”14. Avalle identifica, nel percorso verso la composizione di questo ramo, cinque diverse componenti, benché non tutte abbiano necessariamente dato frutto in ciascuno dei codici che appartengono alla famiglia. Si ipotizza 11 Cingolani 1988 ha evidenziato questi punti da una parte come integrazione, più che come alternativa, al metodo ricostruttivo di Avalle, e dall’altra riferendosi principalmente alla tradizione dei materiali biografici. 12 Ci sarà modo di tornare sulla questione. 13 La ricostruzione di Avalle 1961 tiene in conto quella anteriore del Gröber e in parte le corrisponde, anche se con definizioni non sempre coincidenti; ad esempio il ramo y di Avalle coincide in gran parte (ma non del tutto) con quello detto m dallo studioso tedesco. 14 Avalle 1961, p. 109. 435 innanzitutto un archetipo, h2, e un suo intermediario (che ha vari paralleli negli altri rami della tradizione). Va poi considerato r2, codice probabilmente affine a C che deve aver portato testi diversi o varianti per quelli già raccolti: si nota ad esempio la sopravvivenza di alcune di tali lezioni alternative ancora in D. Con si indica una silloge affine a Da, cioè una sezione del tutto autonoma del codice D e derivata dalla famosa raccolta preparata da Uc de Saint Circ per Alberico da Romano e detta appunto Liber Alberici: le è tanto affine da poter essere identificato proprio con quell’illustre antigrafo15. Un antecedente di si definisce e rappresenta il legame per cui L fa parte di questa prima famiglia; andrebbero considerati inoltre alcuni altri contributi, tra cui spicca per interesse un codice affine a Q. In generale, comunque, antecedenti e discendenti16 di dimostrano la centralità dell’area veneta: sono provenzali solo i trecenteschi E e J17. È probabile che una filiazione di sia stata portata in Francia, mentre, sempre secondo Avalle, è meno facile che in tutti e due i casi si sia trattato di copisti provenzali in Italia. Anche per i manoscritti esemplati in area veneta va ipotizzato il lavoro di differenti scriptoria, luoghi di copiatura, ma anche di progettazione culturale; alcuni codici sono piuttosto tardi, altri presentano mani, postille, aggiunte tipiche non di professionisti, ma di studiosi ed appassionati. L’abbondanza dei codici veneti (sono numerosi anche quelli più tardi e dunque meno rilevanti) evidenzia ulteriormente l’importanza generale dell’Italia settentrionale rispetto alla diffusione e alla conservazione della cultura trobadorica, nonché la vivacità con cui si aderì a tale eredità in quest’area. Si è visto che, anche se a distanza di secoli, la grande ripresa degli studi di provenzalistica avvenne soprattutto grazie a Pietro Bembo, originario proprio dell’area veneta e non a caso interessato anche a trovatori locali, che per lo più avevano suscitato minore attenzione. Appartengono ad una costellazione distinta18 C, M, G, Q19, R20, T21, f, come in parte a, c 15 Il codice D è dunque composito. La prima sezione, che ha un’impostazione in tutto tradizionale, è stata datata al 1254, risultando perciò la testimonianza più antica in nostro possesso; la sezione Da è di certo più tarda, ma l’antigrafo celeberrimo di cui si è detto è datato al 1245, dunque si tratta comunque di un esemplare di particolare rilievo. Con Db si indica una sezione dedicata ai soli sirventesi di Peire Cardenal, mentre Dc identifica un florilegio il cui estensore si firma Ferrarino da Ferrara; la datazione di quest’ultima parte si colloca all’inizio del Trecento. Il manoscritto non si è mai allontanato dall’area veneta cui appartiene e lì è stato consultato ed ampiamente postillato, tra gli altri, da Bembo. 16 Secondo Avalle 1961 (e in sostanza concorda anche Folena 1990) appartengono al primo ramo A, parte di a, B, O2, parte di T, D e Da, I, K, N2, N, L (in parte), H, b, J ed E. 17 Anche e, la copia settecentesca del libro di Miquel de la Tor, presenta qualche problema di collocazione. 18 Anche in questo caso, Folena 1990 concorda con la ricostruzione di Avalle 1961. 19 Il codice Q presenta una peculiarità nell’impaginazione, poiché il copista ha distinto i singoli versi. È un tratto tipico della terza tradizione, secondo l’analisi di Folena 1990. 20 R è noto anche come codice d’Urfè. 21 Secondo Folena 1990 T potrebbe rappresentare un punto di contatto fra prima e seconda tradizione, in quanto legato alle modalità compositive e alle caratteristiche testuali di y, ma al contempo italiano e imparentato con esponenti di . D’altro canto, lo stesso Folena evidenzia l’esito italiano di questa linea della tradizione quando parla di G, in coerenza con la ricostruzione di Zufferey e senza bisogno di ipotizzare connessioni stringenti rispetto alla prima tradizione. Come ha sottolineato lo stesso Folena 1990, T presenta una peculiare struttura composita, che comprende un’opera in lingua d’oil, una raccolta di versi realizzata da un copista quattrocentesco e poi i testi raccolti da una mano trecentesca. Un altro fattore di interesse è rappresentato dalla presenza della canzone Amors 436 e le citazioni poetiche contenute nel Breviari d’amor di Ermengau22. All’origine è y, non tanto un codice quanto uno scriptorium, quindi una specifica concezione di silloge e un insieme costante di fonti, in ambiente provenzale – tra Béziers e Narbona. I codici sopravvissuti derivano da quattro interposti: (che corrisponde a nel primo ramo), (omologo per posizione a ), – che sembra autonomo rispetto all’archetipo – e x2, che dev’essere un discendente di . Esso crea così una connessione tra i primi due rami23 ed inoltre deve essere stato italiano. Per altro queste quattro fonti hanno conosciuto scambi e intrecci numerosissimi e confusi: R e in parte C presentano una struttura utile per tale ricostruzione, poiché hanno tenuto distinti i loro modelli, che invece in altri codici sono sovrapposti liberamente, derivandone sezioni diverse. I codici che appartengono alla seconda famiglia sono per lo più trecenteschi; il Breviari d’amor offre una precisa data ante quem (1288). Bisogna inoltre ipotizzare vari interposti perduti che abbiano segnato un graduale spostamento della tradizione dall’area occitanica (cui appartengono C ed R) all’Italia (da cui provengono G, Q, T, M). Al di là delle caratteristiche testuali, è la trasmissione della notazione che talvolta accompagna i testi poetici ad indicare chiaramente il legame tra queste sillogi: R la mutua da y e così anche G, ma con tramiti differenti, mentre i canzonieri francesi (ma dal contenuto in parte occitanico) W e X devono aver guardato ad , che poi è confluito proprio in y. Un terzo gruppo di fondamentale importanza, ancora una volta riconducibile ad un collettore di varianti, conta quattro codici italiani (P, S, U, c), i cui rapporti reciproci sono piuttosto lineari. I manoscritti sono strettamente legati a coppie: P e S, che condividono un antecedente comune, U e c. Le loro fonti paiono affini a quelle di e y. S (inizio del ‘30024) e P (1310) sono i più antichi, mentre c è quattrocentesco. È probabile che il loro capostipite sia italiano, e che le tracce di origine francese e provenzale che caratterizzano P ed S siano il frutto di contatti con la tradizione delle chansons de geste ed altre simili, avvenuto in Italia, piuttosto che di spostamenti all’estero. La peculiarità dei modelli del terzo ramo consiste nella loro apparente estraneità all’archetipo ricostruito all’origine delle altre due famiglie.25 Le loro varianti sono inoltre problematiche da un punto di vista filologico: saranno autoriali o successive? E in che ambiente si sono determinate? In questo caso è lo studio di c ad e jois di Arnaut Daniel, che Petrarca ha letto certamente, poiché lo dichiara nella famosa postilla latina al sonetto Aspro core. La canzone è testimoniata da un solo altro codice, a, e per questo si è pensato che T sia padovano: qui potrebbe averlo letto lo stesso Aretino (nella medesima postilla egli dice di trovarsi a Padova) o comunque su un suo affine, magari esemplato (per la parte provenzale e trecentesca) nel medesimo contesto. 22 Secondo Folena 1990 è proprio questo personaggio ad avere un ruolo centrale nella diffusione dei testi trobadorici alla fine del Duecento, con una posizione molto simile a quella attribuita a Uc de Saint Circ per il Veneto. 23 Una prima connessione si coglie nella configurazione della famiglia detta , dove il contatto con y viene dalle fonti rispettivamente affini a C e Q. 24 Secondo Folena 1990 la datazione può essere anticipata alla fine del secolo precedente. Il codice è contraddistinto da numerose postille in latino; l’uso della lingua alta ed ufficiale per commentare testi poetici in volgare potrebbe essere segno dell’interesse e della considerazione con cui quei componimenti erano valutati. 25 Si è già accennato alla possibilità che fonti di questo tipo abbiano lasciato tracce anche in codici che appartengono agli altri due filoni, e soprattutto a quello di y. 437 offrire qualche risposta: parte di tale silloge discende infatti dalla fonte di G e Q (secondo gruppo), affine in particolare a e x2. I modelli del terzo gruppo che non risalgono all’archetipo, dunque, potrebbero comunque provenire dall’ambiente di y. Nei codici si notano interessanti segni di affinità reciproca e soprattutto tracce provenzali coerenti con l’area di Bèziers e Narbona; in conclusione un affine di G potrebbe esser stato fonte di C ed f. Altre caratteristiche di P ed S fanno pensare ad un contatto con un discendente di 26. Benché Avalle ammetta che le possibili configurazioni della tradizione di ciascun codice a noi noto siano pressoché infinite, è possibile delineare uno stemma di massima, o per lo meno un “canone”. In esso si nota soprattutto l’isolamento di H, che per tutta la seconda parte è autonomo rispetto all’archetipo; tuttavia esso presenta elementi di contatto con . I problemi essenziali nella gestione di una tradizione tanto ampia sono la contaminazione antica e diffusa, nonché l’impossibilità di approfondire sulla conformazione dell’archetipo, a causa dei complessi rapporti in gioco ai piani inferiori dello stemma. Per altro, alcuni manoscritti testimoniano l’esistenza di altre tradizioni indipendenti: V, O, Sg, la raccolta di Bernart Amoros, probabilmente il codice appartenuto al conte di Sault. C’è però qualche contatto con , ed . Il quadro così delineato permette di percepire indizi di tradizioni molto più antiche rispetto ai testimoni che si sono conservati, il che ci riporta all’idea che il patrimonio di origine occitanica, presumibilmente ricchissimo, sia stato radicalmente intaccato dalle perdite. I dati presentati sinora possono essere integrati dall’analisi riassuntiva di Pulsoni27 (la cui ricostruzione appare coerente con il quadro linguistico proposto da Zufferey, di cui si tratterà in seguito). Pulsoni, infatti, ha evidenziato come il 91% dei testimoni in nostro possesso sia stato realizzato tra ‘200 e ‘300, con netta inferiorità del pieno XIII secolo. La ripartizione geografica offre interessanti riscontri sul piano cronologico: i codici duecenteschi sono per lo più italiani, seguono Francia e Midi; la preminenza italiana si accresce ulteriormente per gli anni a cavallo fra i due secoli, quando l’importanza della Francia è messa in ombra dalla vivace attività scrittoria dei catalani. Nel pieno ‘300 cala la percentuale di manoscritti italiani, a favore di quelli provenzali. Tali informazioni concordano con ciò che si conosce in merito alla sopravvivenza delle attività poetico-culturali di stampo trobadorico dopo l’età d’oro dei grandi classici. Dapprima, in relazione alla crociata albigese, alla decadenza politica della regione occitanica e quindi alle condizioni precarie della nobiltà e delle corti locali, i trovatori si spostano in Italia. Qui ed in particolare nella Marca Trevigiana la ricezione entusiastica delle loro opere spiega facilmente la preparazione di numerose sillogi e la sistemazione dei materiali biografici. Sul finire del Duecento è però l’area catalana a divenire erede 26 La questione dei rapporti tra i tre rami della tradizione è indubbiamente complessa; si rimanda dunque ad Avalle 1961, che sommando la critica esterna e quella interna poté arricchire la ricostruzione anteriore del Gröber, il quale si era arrestato dopo aver riconosciuto i tre principali gruppi di codici. Per la ricostruzione stemmatica si veda in particolare p. 124. 27 Pulsoni 2004. 438 attivissima della cultura cortese, come dimostra anche la produzione di manuali grammaticali. Nel primo quarto del ‘300, l’esperienza del Concistori del Gai Saber a Tolosa si inserisce in una fase di rinnovato interesse per le origini culturali locali in area provenzale. È interessante notare, sempre grazie all’analisi di Pulsoni, che i codici occitanici sono per lo più collocabili in una sede precisa, mentre questa possibilità è quasi sempre esclusa nei casi catalani e italiani. In quest’ultimo ambito, a parte il codice napoletano M, il cui copista era comunque di origine settentrionale, tutti i manoscritti vengono dal nord, con assoluta preminenza del Veneto, cui seguono Lombardia e Toscana. L’ordinamento più diffuso nell’insieme è quello per autore, ma i codici veneti si distinguono per la preminenza attribuita all’organizzazione per generi. Data la presenza di Uc de Saint Circ alla corte dei da Romano, si può pensare che tale principio corrisponda ad una prospettiva più antica e tradizionale28. La musica è quasi sempre trascurata e le note sono riportate solo in G: tale approccio è prevedibile in Italia, dove il legame poesia-musica si spezza precocemente, già con la Scuola siciliana. È però curioso che lo stesso fenomeno si verifichi in area occitanica, dove solo R presenta la notazione, in contrasto con le preferenze oitaniche: in Francia l’attenzione per le indicazioni musicali è fortissima, come dimostrano circa due codici su tre. Su un piano diverso si pone la riflessione di Zufferey29, focalizzata sui quaranta canzonieri trobadorici in senso stretto30: essi possono essere divisi in alcuni gruppi, in base all’organizzazione del loro contenuto e alle caratteristiche linguistiche, la cui analisi ha contribuito in modo essenziale a rivelare l’origine geografica dei codici e i loro rapporti reciproci. Innanzitutto va ricordata la tradizione alverniate, che si prolunga in una linea veneta; questa famiglia viene così definita perché i manoscritti che le appartengono si aprono con il corpus delle opere di Peire d’Alvernha (A, D, I, K). Tuttavia il gruppo è integrato da altri due codici (B, a) che sono imparentati ai precedenti, benché si aprano con i componimenti di Giraut de Bornelh. Tali manoscritti rimandano al Midi o all’Italia settentrionale; possono essere ulteriormente classificati come Ia, Ib e II, in base alla collocazione cronologica. 28 Si può notare che questa ipotesi non contrasta con quella di Avalle, secondo il quale proprio l’organizzazione per autori era un segno di evoluzione nella creazione dei canzonieri. È vero però che il criterio per cui si distinguono e dunque evidenziano le diversità di genere è tipico anche delle altre sillogi, non trobadoriche, prodotte in Italia. 29 Zufferey 1987. 30 Nella sua analisi Pulsoni 2004 sceglie di considerarne cinquanta, ma concorda nel tralasciare tutte le forme di tradizione indiretta. A differenza di Zufferey, egli considera come volumi autonomi i canzonieri un tempo unici, ma oggi fisicamente distinti perché smembrati nel corso del tempo. Infine, lo studioso tiene conto di concezioni o progetti diversi che possono essere colti alla base delle singole sezioni di codici apparentemente unitari, ma che nella sostanza sono compositi. Non prende invece in esame i descripti, anche se il loro antigrafo è perduto, qualora esso sia puntualmente ricostruibile; i codici perduti sono analizzati solo laddove se ne conosca bene il contenuto. 439 B, A e A1 sono strettamente connessi, a partire dalle mani che li hanno esemplati, tutte provenzali31: le note lasciate per i miniatori rivelano una scarsa conoscenza dell’italiano e nelle vidas sono stati corretti alcuni italianismi, che le contraddistinguono invece in altri testimoni. Ovviamente nulla vieta che i tre manoscritti siano stati preparati in Italia, anche se da copisti di origine occitanica. Si tratta più in generale di realizzazioni molto vicine tra loro, anche se non identiche. L’area cui rimanda la patina linguistica comprende l’Alvergna, il Verlay, il Vivarais e il Gévaudan, anche se si avverte una particolare influenza dell’alta Alvergna, significativamente la zona da cui proviene Bernart Amoros, creatore della raccolta conservata in a. Non a caso, in tutte e tre le sillogi gli autori locali sono molto rappresentati; alcuni indizi fanno percepire una notevole familiarità – come il richiamo a personaggi importanti per la regione, uno fra tutti il Delfino d’Alvernha, poeta e mecenate che ebbe rapporti con alcuni celebri autori originari di tale area. B è il più antico, ma è probabile che sia stato il suo copista a sovvertire l’ordine dei componimenti in ogni sezione (l’organizzazione è per genere e per autore); il suo scopo dev’essere stato adattare la raccolta al contesto del pubblico. Il copista di A è invece responsabile del cambiamento nella successione dei generi (le tenzoni vi sono anteposte ai sirventesi), mentre non è chiaro se la divergenza che intercorre tra A e B a proposito dell’ordine dei testi di ciascun autore si debba all’uno o all’altro. Un’ulteriore distinzione tra i due concerne la maggiore ampiezza di B, rispetto alla quale secondo Zufferey è più economico ipotizzare una riduzione da parte di A, piuttosto che l’uso di una seconda fonte da parte di B. Un legame ancor più stringente si coglie a proposito di A e A1, come dimostrano l’ordine dei componimenti e l’analisi testuale, benché nemmeno queste due raccolte siano perfettamente sovrapponibili32. La formazione di una specifica tradizione alverniate può essere stata favorita dalle attività culturali promosse dalla corte di Puy-en-Velay, dove le ambizioni poetiche e i valori cavallereschi furono a lungo apprezzati. Qui si trovò anche Uc de Saint Circ, che può aver costituito un tramite con il Veneto; tuttavia il suo passaggio avrà rappresentato solo un momento illustre nel corso di scambi consueti tra Provenza e Italia, mantenuti vivi dai frequenti spostamenti degli autori nelle due direzioni. Tali considerazioni rendono davvero plausibile l’ipotesi secondo cui alcuni importantissimi canzonieri italiani deriverebbero dal ramo alverniate, tra i quali l’antenato del famoso e perduto Liber Alberici e dunque di D. Quest’ultimo presenta lo stesso ordinamento arcaico (basato sul genere) che troviamo in B, ma B è probabilmente più recente di D o per lo meno della sua fonte, perché contiene anche materiale biografico, come A, A1, I e K. A è stato esemplato tra fine ‘200 e inizio ‘300; l’antigrafo sembra veneziano, come suggeriscono la precisione e la ricchezza che caratterizzano il corpus biografico e poetico di Bartolomé Zorzi (in effetti nel ‘400 il codice apparteneva al doge Marco 31 Folena 1990 non concorda con questa attribuzione, poiché ritiene che la mano di A sia veneta, e non solo la fattura del codice. 32 Jeanroy, nella sua bibliografia dei canzonieri trobadorici (Jeanroy 1916) afferma invece che si tratta di una copia di A, né concorda con l’identificazione della mano, che stima italiana. 440 Barbarigio, che può averlo avuto dal padre). Segue il frammento A1, dell’inizio del ‘300, caratterizzato da un’impronta italiana più marcata; il suo stato attuale è frutto di uno smembramento avvenuto alla fine del ‘400. I e K33 sono due codici gemelli, le loro divergenze sono limitatissime: K ha due testi in più, uno dei quali lo apparenta alla raccolta di Bernart Amoros, mentre gli manca la sezione dedicata a Blacasset. Questo dato è significativo per la ricostruzione della sua storia, poiché avvicina K ad A e lo separa da B e I, che potrebbero aver guardato ad una fonte secondaria rispetto a quella comune, con effetto contaminante. La posizione della serie di coblas dedicate alla crociata aragonese, che in I chiudono la sezione delle canzoni, riconduce invece K a C, che però appartiene ad un gruppo distinto; infine, I presenta una tenzone aggiuntiva. I “gemelli” sono sicuramente veneti e realizzati a cavallo tra XIII e XIV secolo. Dalla stessa area provengono due frammenti detti K1 e K11, peculiare per la successione di più mani e l’uso di una fonte complementare, ma sempre legata alla tradizione alverniate. Appartiene ad essa anche la raccolta di Bernart Amoros (a), il cui studio pone numerosi problemi filologici e linguistici, soprattutto a causa delle incomprensioni del Tarascon, il copista34. Egli infatti, ha stravolto persino la composizione d’insieme del canzoniere, cosicché ne è stata tramandata una versione manchevole rispetto all’originale perduto, come ha dimostrato la ricostruzione degli studiosi. In ogni caso, l’originale deve aver conosciuto l’incontro tra due influenze linguistiche; l’impronta della fonte potrebbe essersi realmente conservata, se Bernart è davvero stato fedelissimo come dichiara; d’altronde egli deve aver influenzato a sua volta il dettato con la parlata dell’alta Alvergna, evidente ad esempio nell’introduzione. A questo gruppo di codici va ancora aggiunto O. Spesso gli studiosi ne evidenziano la tripartizione, ma Zufferey consiglia piuttosto di distinguerne due sezioni. La seconda è profondamente affine ad a: vi sono infatti raccolti gli stessi testi e anche la disposizione dei componimenti per ciascun autore è la medesima. Non è però chiaro se vi sia stata una fonte comune o se per quella parte O dipenda direttamente da a. Questo legame tra a e O offre uno strumento per precisare la complessa collocazione linguistica del primo, che risulterebbe connesso a B, A e A1, anche se probabilmente è debitore di un modello un po’ più meridionale, tra Linguadoca e Provenza. Quest’origine si sarà presumibilmente riflessa anche sul perduto codice appartenuto al conte di Sault35, che dovrebbe derivare dal medesimo modello utilizzato da Bernart. Una seconda linea distinguibile nella tradizione manoscritta trobadorica è quella linguadociana, che poi scende in area lombarda. I codici che la compongono si riconoscono innanzitutto per l’apertura dedicata a Folchetto da Marsiglia o più di rado a Marcabru, secondo scelte il cui criterio è forse cronologico, ma eventualmente anche geografico o estetico. L’origine di questi manoscritti è in alcuni casi occidentale e in altri meridionale. Da una parte, dunque, vanno considerati C e R, il primo narbonese ma con influenze catalane, il secondo d’inizio ‘300 e tolosano, ma con elementi guasconi. L’origine di R è confermata da alcune pagine rimaste inizialmente bianche, che sono 33 K deve parte della sua fama alle postille che vi ha lasciato Bembo, che ne fu proprietario. Si veda il paragrafo dedicato in particolare alla raccolta di Amoros. 35 Si veda il paragrafo specificamente dedicato a questa raccolta perduta. 34 441 state riempite con testi legati al Concistori du Gai Saber. A questi due vanno associati quattro testimoni italiani: M4, G, Q, il frammento e. Un secondo gruppo è costituito da b, E (originario di Montpellier36), J (proveniente da Nîmes)37, cui rimanda il frammento p tramite la mediazione di f. A questi codici vanno accostati gli italiani L38 e N, mantovano e di proprietà dei Gonzaga già dal ‘300. R è il canzoniere più ampio a noi noto, anche perché non è un canzoniere soltanto lirico. Questa disomogeneità si percepisce chiaramente nell’organizzazione generale, poiché le sezioni liriche sono di tanto in tanto interrotte da testi eterogenei e da gruppi di tenzoni, che dunque non godono di uno spazio autonomo e circoscritto. La composizione della raccolta è comunque unitaria, come garantiscono le caratteristiche linguistiche; dunque è probabile che l’ordinamento poco convenzionale sia almeno in parte voluto. Piuttosto, è marcata l’impressione che siano state interpolate fonti diverse. C è molto legato a R e tuttavia permangono alcuni fattori distintivi, oltre alle differenze geografiche: mancano alcune lettere e tenzoni (che però potevano trovarsi su alcuni fogli caduti), ed è più ricco il corpus di Guiraut Riquier. Il confronto su questo punto è rivelatore: il copista di R, infatti, interrompe bruscamente questa sezione, dichiarando che nel suo modello il finale della canzone non c’è. Considerando che Riquier era di origine narbonese come C, l’ipotesi più economica è quella secondo cui il modello lacunoso proverrebbe da Tolosa, come R, dove sarà mancato un sostituto immediatamente attingibile; C potrebbe invece aver completato la fonte comune con un secondo modello, più ampio. C presenta una struttura rigorosa: canzoni e sirventesi sono separati, ciascun gruppo è organizzato per autore e i diversi poeti si susseguono in base alla quantità di testi pervenuti (decrescente); seguono qualche anonimo e i generi dialogici. Il codice comprende due tavole dei contenuti, una secondo l’ordine effettivo della raccolta ed una in ordine alfabetico. Il copista appare molto attento all’autorialità dei testi; deve aver collazionato le sue tavole per segnalare eventuali discrepanze nelle attribuzioni, per le quali per lo più concorda con R. Con b si indica un manoscritto della Biblioteca Vaticana, che comprende cinquantadue carte vergate dal filologo Barbieri, la fonte principale per la ricostruzione della perduta raccolta preparata da Miquel de la Tor con le opere di Peire Cardenal39. Quarantaquattro fogli sono copia di quella silloge, mentre i precedenti otto presentano una lista di citazioni provenzali con traduzione in italiano che corrispondono alle prime centoquattordici pagine dell’opera in cui Barbieri ha messo a frutto le sue conoscenze trobadoriche. A questo nucleo nel codice vaticano sono poi aggiunte altre sezioni autoriali, secondo la struttura tipica dei canzonieri trobadorici; l’ordine che se ne può ricostruire è molto peculiare, per l’alternanza tra autori importanti ed autori minori, e rimanda a Q, M e N – anche se solo per il tipo di metodo e non per l’effettiva 36 Favati 1961 si limita a parlare di Linguadoca in generale, come nel caso di R. Che sembrerebbe imparentato abbastanza da vicino proprio con E. Si veda Folena 1990. 38 Jeanroy, nella sua analisi bibliografia, suggerisce che possa essere copia di un codice provenzale, benché certamente L sia di fattura italiana. 39 Il discorso sul “libre” sarà ripreso ed ampiamente approfondito nel corso del presente capitolo. 37 442 successione dei testi. Il criterio era probabilmente solo pratico, cioè si cercava di far iniziare il fascicolo con un nome importante e poi di riempirlo per non sprecare spazio. Anche il codice E è vicino a b, per la sua origine geografica e linguistica, nonché per la natura delle sue fonti. Benché non tutti gli studiosi siano concordi (ad esempio Bertoni40), si può ipotizzare che sia stato realizzato in Linguadoca nel ‘300, per poi passare in Italia (nel ‘400 faceva parte della biblioteca degli Estensi). Si avverte in particolare l’influenza della zona di Béziers, aspetto coerente con la considerevole presenza all’interno della raccolta di trovatori della medesima area. Il codice è organizzato in quattro parti: dapprima canzoni e sirventesi, i cui autori sono disposti dapprima per importanza e poi in ordine alfabetico; seguono biografie, tenzoni e danzas anonime. E discende da due diversi rami della tradizione, e y. M è stato esemplato a Napoli tra la fine del ‘200 e l’inizio del ‘300, come dimostrano le decorazioni floreali e la filigrana, ma la mano è settentrionale41. Sembra dunque che la corte angioina a Napoli abbia attirato appassionati di poesia trobadorica, forse anche sotto l’influenza delle esperienze siciliane e siculo-toscane, che guardano con insistenza ai modelli transalpini. Con questo non si può ipotizzare alcuna continuità istituzionale rispetto al regno di Federico II, il quale soggiornò pochissimo a Napoli (che all’epoca era un centro secondario) e non si dedicò mai alla protezione di trovatori trasferitisi in Italia. Per altro, anche se fosse possibile individuare interessi occitanici tra gli aristocratici meridionali in età sveva, la crisi della classe nobiliare tra XIII e XIV secolo, causata anche dalla repressione angioina, basterebbe ad attenuare radicalmente i fattori di continuità rispetto alla vita culturale del pieno Trecento. A loro volta gli angioini paiono limitare le connessioni con la tradizione siciliana, a favore dei rapporti con l’Italia centrale e la Toscana42. Per la collocazione storico-geografica di M è utile considerare soprattutto due gruppi di testi, i sirventesi da una parte, e le tenzoni dall’altra, i cui autori in gran parte corrispondono. I primi sono di argomento per lo più politico; i poeti sono provenzali e il periodo di riferimento coincide con i decenni centrali del Duecento, cui riconducono alcuni riferimenti espliciti a Federico II o a Carlo I d’Angiò. Le ventisette tenzoni rimandano alla medesima area, ma alternano testi molto antichi e noti a versi tardi ed altrimenti sconosciuti, che risalgono quasi senza eccezioni alla metà del ‘200. La parte dedicata alle canzoni presenta caratteristiche opposte: gli autori sono ben attestati ed antichi (si parte dalla fine del XII secolo), quelli più recenti e meno importanti sono davvero pochi, uno solo è connesso al periodo angioino. Tuttavia anche tra i classici sono preferiti quelli che erano stati legati all’area provenzale in senso stretto. Tale marcata localizzazione può apparire stridente in un codice la cui preparazione materiale è avvenuta presso la corte di Napoli, ma le ipotesi per spiegare tale fenomeno 40 Bertoni 1937. Attualmente il codice appartiene alla Bibliothèque nationale di Parigi, dopo essere stato a lungo conservato alla Biblioteca Vaticana. Momenti illustri della sua storia sono stati il possesso da parte del Cariteo alla fine del '400 e poi del Colocci. 42 Gli studiosi, comunque, non sono concordi sulla questione della produzione provenzale nell'Italia meridionale; Jeanroy 1934 pare favorevole, mentre un esempio di argomentazione a sfavore si trova in Ruggeri 1953. 41 443 sono piuttosto semplici: un copista o una fonte provenzali giunti in Italia, magari proprio al seguito del nuovo sovrano angioino. Qualche problema concerne invece la committenza, poiché numerosi tra i componimenti politici sono chiaramente antifrancesi, arrivando sino all’esplicita esaltazione di Federico II o di Manfredi. La Chiesa è guardata con sospetto o con aperta polemica, nel rifiuto soprattutto della crociata; il ritratto di Carlo è d’abitudine più blando, ma senza dubbio non positivo. Non mancano esiti davvero vigorosi, non tanto in veste di attacchi personali, ma nella forma della riflessione etica, partendo magari dalla corruzione della Chiesa o dalla critica agli ordini mendicanti. Simili prospettive non possono che sorprendere in una Napoli francese e filopapale, e in un’epoca in cui era ben viva la damnatio memoriae degli svevi. D’altro canto, il punto di vista proposto da M non è neppure quello del sostegno oltranzistico per i precedenti conti di Provenza o per i signori locali, spesso a loro volta oggetto di critiche vivaci, il che fa pensare ad una produzione libera ed indipendente; proprio l’intensità dei toni e dell’ironia appare il filo conduttore nella creazione dell’antologia. Vi si uniscono inoltre i testi più antichi e feudali a quelli più tardi e cittadini: tale varietà contestuale comporta una certa apertura verso nuovi problemi. Domina inoltre un modello espressivo unitario, la produzione civile e moraleggiante di Peire Cardenal, che si ripropone quale punto di riferimento essenziale anche in f e C. Quest’ultimo codice presenta una significativa sezione di sirventesi fortemente orientata a livello politico, a tutto vantaggio della figura di Manfredi. È vero che in C la componente religiosa è molto forte, tanto che si è pensato che il committente fosse un ecclesiastico, ma è indubbia anche la centralità degli attacchi antifrancesi e antiangioini in particolare, nonché delle critiche virulente verso il clero corrotto. I testi contenuti in tale silloge appaiono soprattutto occidentali (Linguadoca e tolosano, anche se molti autori non sono nativi di queste zone), benché debbano aver goduto di una certa diffusione anche in Italia, e sono citati da vari autori più tardi. Tornando ad M, il punto di vista dominante va attribuito alla nobiltà provenzale, avversa al potere centrale dei conti, legata alla tradizione terriera e feudale, ben lontana dalla realtà comunale. Lo prova anche l’assenza di testi che dichiarino una qualunque opposizione a tale classe sociale, mentre un atteggiamento critico di questo tipo è attestato nelle rime di vari altri canzonieri. È coerente infine anche la datazione di gran parte dei testi alla metà del ‘200. Resta da considerare la piccola sezione dedicata ai cinque discordi anonimi43, che in M costituiscono quasi un’appendice ai sirventesi. Solo altri due codici presentano uno spazio autonomo per questo metro, S e N; tale elemento di coerenza, nonché alcuni tratti testuali (in particolare le correzioni introdotte, sembra, in una revisione immediatamente successiva alla preparazione del manoscritto) fanno pensare che M debba essere accostato al ramo della tradizione, legato soprattutto al Veneto. È una possibilità particolarmente interessante, anche per l’occasionale presenza in M di testi d’origine 43 Il criterio alla base della sezione è forse più genericamente l'importanza dell'accompagnamento musicale, poiché si nota l'errore nella definizione dell'estampida Kalenda maia come discordo. In effetti i due generi sono affini tra loro e con i lai per l'uso di versi brevi e per l'andamento ritmato, tanto che già gli antichi compilatori di raccolte e trattati hanno gravi problemi di classificazione. 444 italiana. Inoltre nei codici che appartengono a questa famiglia è tipica la divisione di canzoni e sirventesi; si notano anche collegamenti nelle decorazioni miniate, non tanto nella tecnica (francese), quanto nei soggetti cavallereschi, che sarebbero per altro giustificati dalla connessione dei componimenti alla sfera sociale aristocratica. Per spiegare i molteplici rapporti di parentela intrattenuti da M, si potrebbe pensare ad una mediazione veneta rispetto a fonti alverniati e poi limosine; la preparazione della silloge e il suo progetto politico, evidenziato da Asperti44, potrebbero dunque essere già provenzali. Il graduale passaggio di copia in copia può aver poi diffuso tale struttura in Veneto e a Napoli. D’altro canto, la straordinaria vitalità dei centri veneti potrebbe giustificare anche una preparazione italiana. In entrambi i casi, è plausibile che l’influsso veneto giunga in ambito napoletano, come per altro la presenza a corte di un estensore settentrionale (italiano) e l’attenzione per il genere non strofico. Tale ipotesi, che combina una preparazione napoletana di materiali non napoletani, permetterebbe di spiegare in modo soddisfacente le tematiche apparentemente incoerenti al contesto angioino; lo scopo del copista sarebbe stato quello di sfruttare appieno un modello già disponibile; per altro non è da escludere che il contenuto politico fosse già percepito come non attuale, e quindi non foriero di preoccupazione. È più difficile valutare la situazione di J. Esso è affine ad E per grafia, ha però sicuramente integrato una fonte che pare provenzale con un modello italiano per i testi dei trovatori originari della penisola; la lunghezza ridotta fa inoltre pensare che sia gravemente mutilo. È difficoltoso anche stabilire a quale gruppo appartenga: potrebbe inserirsi in quello provenzale-lombardo, ma l’incipit è peculiare, perché dedicato a Peire Cardenal (e la numerazione garantisce che si tratta di una scelta precisa e non del frutto di una lacuna). A livello linguistico, anche questo codice si situa tra Linguadoca e Nîmes. La preminenza attribuita a Peire Cardenal collima con l’appartenenza a questa zona geografica, poiché è proprio qui che Miquel de la Tor sembra aver raccolto le opere del poeta per il suo “libre”. L’impostazione generale cambia radicalmente nel breve frammento p, dedicato a Gaucelm Faidit, pensato come successione prima di tutti i materiali biografici (vidas e razos) e poi di tutti i testi in versi. Il suo modello deve essere italiano, come dimostra la base linguistica, ma il copista di p le ha sovrapposto una patina occitanica affine a quella di J. Il frammento subisce insomma influenze molteplici ed è dunque probabile che il suo modello sia appartenuto a quella che Avalle45 ha definito “terza tradizione”. A questo punto è necessario individuare un terzo gruppo di testimoni, legato alla regione provenzale in senso stretto e che comprendono soltanto una raccolta di trentatré coblas di Bertran Carbonel e il codice f. Quest’ultimo, noto anche come “canzoniere Giraud”46, risale alla prima metà del ‘300, quando la Provenza era già una contea 44 Asperti 1995. Avalle 1961. 46 Giraud è il nome del filologo che ne fu possessore e che poi lo donò alla biblioteca imperiale nel 1859. Il codice ha alle spalle una storia intensa: la mano che ha scritto sui fogli di guardia potrebbe dimostrare che esso sia appartenuto nel '500 a Jean de Nostredame, di cui si è parlato in qualità di biografo dei trovatori nel corso del primo capitolo. La medesima mano si ritrova su alcuni fogli sciolti (oggi conservati alla biblioteca di Carpentras) dove dichiara di aver posseduto proprio il Giraud. Tutte le testimonianze 45 445 angioina; ha quattro estese lacune, ma è ricostruibile nella sua interezza grazie all’elenco di capoversi che un lettore cinquecentesco ha registrato sui fogli di guardia (ma senza ripetere i testi doppi). Comprende centoottantacinque componimenti oltre a numerose coblas esparsas ed è organizzato in due parti, ben distinte sul piano testuale e cronologico. La prima è eterogenea, molti testi sono in testimonianza unica e piuttosto tardi (il periodo è compreso tra 1270 e 1310), mescolati a qualche nome più autorevole e anteriore (metà del ‘200). Il fattore unificante è la Provenza (in particolare l’area di Tarascon, nella Rhône), che in molti casi è la terra d’origine dell’autore o per lo meno luogo in cui si è sviluppata la sua produzione: si tratta dunque di una sezione a forte connotazione regionale. La seconda parte è speculare, perché contiene soprattutto testi di trovatori classici, risalenti al XII o al XIII secolo, ma anche alcuni componimenti più tardi (sempre in testimonianza unica e provenzali), che danno quindi unità all’insieme. Da questa distinzione cronologica deriva anche una differenziazione tematica fra le due parti, poiché i testi degli autori tardi solo di rado sono amorosi (abbondano motivi moralistici, precettistici, satirici, giocosi), secondo le tendenze tipiche dell’ultimo trobadorismo, mentre la sfera cortese e sentimentale domina nei classici. I poeti minori inseriti nella seconda metà sono scelti con coerenza per adattarsi a questa linea tematica. Ne consegue infine una divaricazione di genere e in parte metrica: le opere amorose sono canzoni, le altre molto più varie47. Si può dunque intuire che siano questi i criteri che hanno guidato la preparazione della raccolta48, anche se sono poco evidenti ad un primo sguardo, perché mascherati dal disordine nella successione dei testi, i cui autori spesso sono riproposti in punti diversi. La seconda sezione può essere ulteriormente divisa in tre momenti, scanditi dai componimenti di Folchetto da Marsiglia. Le quattro partizioni complessive potrebbero essere ciascuna il portato di un ramo diverso della tradizione; purtroppo l’analisi linguistica non aiuta né a confermare né a smentire tale ipotesi, perché le caratteristiche (soprattutto a livello grafico) sono irregolari e fluttuanti in tutta la silloge. È comunque possibile precisare che l’area di appartenenza è quella di Arles, che d’altronde insieme a Tarascon individua la zona d’origine di vari unica presenti nella raccolta; vi si rivela così la presenza di un piccolo, ma significativo centro poetico ancora attivo nel ‘300. Il copista si lascia influenzare notevolmente dalle tendenze linguistiche locali, soprattutto per i testi privi di una lunga tradizione scritta. Il legame territoriale è insomma fortissimo, ed anzi la prima parte del codice, che ne è più caratterizzata, si dimostra anche per questo molto interessante. Le va riconosciuto un peculiare valore storico: infatti gli autori che tramanda sono di poco anteriori a quelli mostrano una permanenza di questi documenti nell'area d'origine. Per altro le note di Carpentras e l'opera biografica del Nostredame rimandano ad un altro codice, il famoso e perduto manoscritto del conte di Sault. Le tracce del Giraud si perdono dal '500 alla Rivoluzione francese, quando riappare in possesso dei marchesi Simione, i cui discendenti ne fecero dono appunto a Giraud. Oggi è conservato alla Bibliothèque nationale a Parigi. 47 Non ha valore critico l'anticipazione – di per sé rara e dunque peculiare – dei generi minori, rispetto alle canzoni. Infatti, la prima parte è scritta su fascicoli autonomi, che probabilmente erano in fondo e poi sono stati anticipati, anche se questo spostamento deve essere stato piuttosto precoce, visto che la numerazione quattrocentesca delle pagine non ne è stata alterata. 48 Fanno eccezione due sirventesi, inseriti nella seconda parte: due componimenti peculiari e molto difficili da decifrare, nel contenuto e nelle soluzioni metriche adottate. 446 attivi nell’ambito del Concistori49 e rappresentano una fase di passaggio tra la fine dell’epoca d’oro e il periodo tolosano. Sono ancora professionisti e non appassionati dilettanti; l’accostamento ai classici potrebbe essere in fondo il riconoscimento di queste capacità. Il canzoniere f appare perciò un documento eccezionale rispetto all’evoluzione della cultura trobadorica e dei gusti letterari trecenteschi: esso illustra il venir meno di ogni prospettiva feudale o cavalleresca, e lo evidenziano bene i sirventesi e i testi moraleggianti, dove ad esempio scompare la questione del rapporto fra clero e nobiltà. La prima sezione rappresenta piuttosto una raccolta borghese ed urbana (come suggerisce anche la veste materiale del codice), in cui il punto di vista religioso è preminente rispetto a quello politico, e non manca una certa occasionalità. Se si pensa al contesto storico, il legame con la casa d’Angiò è labile, limitato alla congruenza spaziale e temporale, oltre che al ruolo degli angioini nel cambiamento del quadro culturale occitanico in genere. Fanno in parte eccezione alcuni componimenti esplicitamente occasionali, talvolta introdotti da una dedica, ma sono elementi insufficienti per pensare a un patronato vero e proprio da parte degli Angiò, o anche solo ad una frequentazione molto assidua di singoli poeti. L’interesse di Carlo non sembra particolarmente vivo finché resta in Provenza, dove le sue relazioni documentate sono essenzialmente politiche; il suo ruolo di mecenate si rinsalda solo dopo l’impresa italiana, nella stabilità della corte napoletana, e qui in effetti convergono numerosi intellettuali e aristocratici. La tradizione provenzale sembra mantenersi autonoma nella sua regione d’origine, ma al contempo è sradicata dalla società e dall’ideologia in cui era nata. Per questo vi si riconosce l’influenza di nuove esigenze: i valori e le forme classiche sono oggetto di una netta trasformazione, sono diversi i problemi e le ansie spirituali cui si dà ascolto. Un altro aspetto di questo contesto è il senso di chiusura, di isolamento, premessa per l’esaurimento di una temperie culturale ormai stanca; l’unico possibile orizzonte di scambio è al momento con l’area catalana, che appare ben più vivace e propositiva. E in effetti la prossimità del declino lascia qualche segno visibile in f, come nell’assenza di autori recentissimi o contemporanei all’estensore dell’antologia, cioè i poeti che lavorarono per l’ultimo conte provenzale e per Carlo d’Angiò. È una frattura simile a quella che interessa la metà del Duecento quando diminuiscono i poeti propriamente provenzali, non a caso dimenticati anche da Francesco da Barberino, che viaggiando per la Provenza nel primo ‘300 raccolse notizie dei trovatori locali. Il cambiamento in atto è travolgente, anche se graduale, e gli angioini ne sono stati un fattore catalizzante, anche se probabilmente non scatenante. Rimangono in ogni caso importanti elementi di continuità nella forma, innanzitutto nella metrica, uno degli aspetti più evidenti dell’eredità dei grandi trovatori50. Anche i topoi beneficiano di notevole stabilità, salvaguardati proprio dalla loro natura convenzionale, che ne permette l’uso immediato a prescindere dallo specifico contesto socio-culturale. 49 La medesima collocazione cronologica e dunque un simile valore storico vanno riconosciuti ai catalani testimoniati dal canzoniere Ripoll, anche se per una diversa realtà geografica e culturale. 50 Tale eredità formale sopravvive almeno sino alla fine del ‘300: basti pensare alle canzoni dalla struttura metrica provenzale nel Canzoniere petrarchesco. 447 Il codice f, quindi, è in tutti i sensi un testimone prezioso del suo tempo e del modo in cui i testi trobadorici continuano ad essere composti, letti, diffusi e conservati. A livello storico e filologico, è significativo che in f si colgano somiglianze con R sul piano sia linguistico che testuale. È presumibile che nel secondo alcuni autori siano stati affrontati guardando ad una fonte provenzale (ad esempio Bertran Carbonel – Marsiglia – e Guilhem de l’Olivier – Arles) ed è interessante che siano autori di interesse soprattutto locale. Come si è visto, la tradizione provenzale conosce prolungamenti non solo in Italia, ma anche in Catalogna e in Francia. Una mano catalana si coglie chiaramente in V (metà del ‘200) e Z (metà del ‘300), ma anche in un frammento (di fine ‘300 o anche più tardo) conservato oggi a Madrid. In area francese i testimoni importanti non sono molto numerosi: Y è un codice integralmente trobadorico, W e X sono manoscritti di natura eterogenea in cui sono inseriti anche testi occitanici. Zufferey, infine, ha integrato le informazioni linguistiche con un ulteriore studio “stemmatico”, che si affianca a quello di Avalle. Le famiglie di testimoni restano comunque tre: secondo la terminologia di Zufferey, , e . La prima è certamente la più conservativa; il codice J ne rappresenta al meglio le tendenze, mentre A, che pure le appartiene, in parte se ne discosta. La seconda individua un’area più occidentale, ma conosce una connessione con il primo ramo grazie alla mediazione del manoscritto M, che d’altra parte è imparentato anche con D. La terza famiglia, infine, è in origine provenzale, ma i suoi discendenti sono sempre più spostati verso la Linguadoca; è rappresentata in sostanza da T e D, che però risulta contaminato dal contatto con e con M51. La ricognizione dei testimoni sopravvissuti aiuta a definire quali materiali fossero effettivamente disponibili alla lettura tra Due e Trecento, in Italia e in Provenza, pur nei limiti imposti dalle ampie perdite subite dal patrimonio librario. Qualche ulteriore indagine può essere utile per comprendere quali interessi e quali competenze permanessero fra gli uomini colti del ‘300. E la questione si complica in primo luogo a proposito dell’Italia, dove è forse più difficile pensare che la tradizione trobadorica, che pure vi si era ampiamente diffusa, fosse a lungo percepita come viva. L’opera di Dante, ad esempio, rappresenta un terreno di studio fertile, in virtù degli incontri con vari trovatori nel corso del viaggio ultraterreno52 e a maggior ragione grazie 51 Uno spazio privilegiato per una ricerca come quella condotta da Zufferey è il corpus di Peire Cardenal, poiché Miquel de la Tor lo sistemò in un vero e proprio “libro”, con un ordinamento riconoscibile. Nel trattamento della sezione dedicata a questo poeta, T si rivela il più conservativo, in coerenza con la famiglia cui appartiene; tuttavia questo manoscritto è stato esemplato in Italia nel '400 e i suoi caratteri linguistici impongono di ipotizzare almeno due passaggi, in Provenza e nella Linguadoca occidentale. Anche J introduce pochi cambiamenti, sia sul piano linguistico che su quello della successione dei testi. Invece i copisti di A ed M sono influenzati da marcati usi autonomi e, poiché cercano di rendere il testo omogeneo, finiscono per modificarlo al fine di integrare le proprie abitudini locali. R e C appaiono piuttosto vicini al “libre” come è stato ricostruito, almeno sul piano linguistico, poiché provengono in sostanza dalla medesima area. I presenta le innovazioni maggiori; D si basa sulla consultazione di due fonti diverse, una affine a T ed una vicina ad A. 52 Si vedano in particolare Pulsoni 2003 e Resconi 2008. 448 alla breve composizione in lingua d’oc attribuita al lussurioso Arnaut Daniel nel canto XXVI del Purgatorio. Qualche traccia di decadenza nelle competenze linguistiche è rintracciabile già nell’uso di Dante o comunque del suo tempo; man mano che le cantiche sono copiate e commentate il peggioramento nella comprensione di quei versi è sensibile (e non ne è escluso nemmeno Boccaccio), in particolare perché si avverte sempre più la patina francese. Anche le notizie sui personaggi riportate dai commentatori divengono via via più fantasiose e basate soltanto sulle narrazioni biografiche conservate dalla tradizione manoscritta. L’unica eccezione davvero meritevole si coglie nel commento alla Commedia realizzato da Pietro Alighieri; si è pensato che egli fosse stato favorito dall’amicizia col Petrarca, che certamente conosceva la lingua per motivi biografici, oltre ad aver probabilmente letto le vidas. Un’altra possibilità di ricerca concerne aree specifiche, in cui sia possibile riconoscere la diffusione e l’influenza della cultura cortese; Asperti53, in particolare, si è concentrato sulla realtà angioina. Quando la Provenza perde la sua autonomia alla fine del governo di Raimondo Berengario V, il potere passa a Carlo I d’Angiò, che pur essendo francese54 conferma l’apprezzamento e la disponibilità del suo predecessore nei confronti dei trovatori; molti di loro diventeranno anzi suoi collaboratori politici, seguendolo nella sua discesa in Italia e ricoprendo vari incarichi diplomatici55. La sua figura è stata a lungo trascurata dagli studi d’italianistica e di provenzalistica, in parte per la sua origine francese ed inoltre per il diffuso giudizio storico negativo sui suoi rapporti col papato e i poteri locali. Tuttavia proprio l’importanza di Carlo rispetto ai rivolgimenti politici di fine ‘200 rende imprescindibile la valutazione del suo ruolo nella coeva vita intellettuale. Che influenza ha avuto questa fase storico-culturale sulla trasmissione dei codici trobadorici? Osservare i testi, i loro accostamenti, l’organizzazione interna delle sillogi significa comprendere i gusti e le concezioni letterarie di un’epoca, e un’epoca di particolare importanza per i cambiamenti culturali che la contraddistinguono. In alcuni casi la responsabilità di tali scelte dovrà essere attribuita al singolo estensore, in relazione ai suoi scopi e agli interessi personali. In molti altri sarà stato determinante il contesto in cui ha preso forma l’antologia, che spesso lascia la sua impronta anche durante le fasi successive di risistemazione o di copiatura, dunque nel costituirsi della tradizione. In generale, la situazione in cui si trova l’estensore della raccolta ne determina il contenuto. Meyer56 fu convinto sostenitore della selezione dei testi all’origine delle raccolte, dunque come premessa per la conservazione vera e propria; ed anche Avalle ha sottolineato come spesso alla base di una silloge d’ampio respiro si colga un preciso progetto comunicativo57. Basti pensare alle compilazioni destinate alla scuola o legate a specifici ambienti culturali. Altri studiosi hanno evidenziato, invece, il 53 Asperti 1995. Egli è noto infatti per la sua attività di mecenate a favore di poeti di lingua d'oil. 55 Si pensi in particolare alla biografia di Sordello. 56 Meyer 1871, p. 5, citato inoltre in Asperti 1995, p. 15. 57 Avalle 1985. 54 449 desiderio di molti copisti di salvare semplicemente quanti più testi possibile, come si nota nella tendenza ad aggiungere nuovi componimenti in tutti gli spazi rimasti disponibili durante precedenti fasi di compilazione; un’acquisizione meno generosa sarà però stata più tipica nel caso dei generi minori, ed è ovvio quanto sia determinante l’effettiva disponibilità o assenza di fonti. La considerazione della raccolta nel suo insieme, con la sua storia e il suo contesto storico-geografico ha dunque un enorme valore: le singole rime sono coinvolte nella storia del volume cui appartengono e al contempo è l’antologia completa ad avere reale circolazione, influenzando così le esperienze culturali successive. Solo M ed f sono nati in ambiente angioino e a Napoli in particolare; altri (F, P) ne hanno comunque subito un’influenza importante, in particolare per la struttura articolata, frutto della mescolanza di fonti diverse e dell’accostamento di nuclei autonomi, talvolta d’ispirazione molto diversa. F, il chigiano conservato alla Biblioteca Vaticana, organizza il suo contenuto in tre sezioni: una raccolta autoriale dedicata a Sordello, un florilegio ed una parte composita, che comprende due tenzoni e quattro coblas (cui una mano posteriore ha aggiunto una canzone). Il canzoniere dunque si apre con un riconoscimento senza precedenti ad un singolo trovatore, personaggio per altro legato alla Provenza e alla sua aristocrazia. Come accade anche in H, Sordello rappresenta il perno per l’aggregazione di altri testi, i quali rendono la prima sezione più varia, anche sul piano dei modelli cui l’estensore deve aver avuto accesso. La loro ricerca è stata puntuale e consapevole, al fine di raccogliere componimenti rari e molto tardi, che però rispettassero precise concezioni, a livello cronologico, geografico ed ideologico: infatti, vengono evitati i sirventesi politici e le rime dal tono dimesso, fornendo, soprattutto dell’autore principale, un’esemplare immagine cortese. Tali caratteristiche, e soprattutto la natura inconsueta dei testi, si riscontrano anche nella parte finale e la rendono riconoscibile pur nella sua disomogeneità. In generale, si nota l’attenzione ai poeti del pieno ‘200 e alla realtà provenzale (per altro, anche nell’appendice permane l’effetto centripeto di Sordello). Un polo alternativo riconoscibile è quello estense; anche per questo la tradizione di partenza sembra essere veneta ed è interessante il legame (probabilmente a distanza non troppo ravvicinata) con Dc, cioè il florilegio di Ferrarino da Ferrara. Rispetto a questa silloge, F appare innovativo, in virtù del suo interesse per Sordello e la Provenza, ma anche per l’apprezzamento delle forme poetiche responsive, che diviene un principio strutturale. L’origine di F resta poco chiara. La datazione dei testi impedisce di risalire a prima degli anni ‘50 del Duecento, dunque siamo in piena età angioina; tuttavia la compresenza di Provenza e area estense, dove in effetti si rifugiarono molti trovatori d’oltralpe, fa pensare all’Italia. Non è difficile immaginare che qui fosse disponibile un florilegio anteriore (risalente anche solo agli anni ‘40) e d’impostazione tradizionale, che costituisca la fonte della sezione centrale di F e il tramite con Ferrarino58. L’innovazione di F consiste nel non aver rinunciato all’interezza dei testi, e questa 58 L’ipotesi di Asperti 1995 sulla datazione del florilegio di Dc – senza scendere cioè sino al primo decennio del Trecento, come invece ritengono molti studiosi – favorisce la spiegazione del suo contatto con F. 450 preferenza per l’antologia rispetto alla raccolta di frammenti potrebbe testimoniare una passione ancora viva per la poesia trobadorica, e soprattutto per gli aspetti cortesi e cavallereschi tipici della Provenza ai tempi di Sordello. È molto probabile che anche P, oggi alla Laurenziana di Firenze, sia d’origine centroitaliana; lo unisce a F un simile uso delle fonti e la scelta dei testi. L’impostazione del codice è tutt’altro che lineare; il corpus principale è costituito da un gruppo di canzoni provenzali (di cui almeno un fascicolo è caduto), una serie di coblas e alcuni testi grammaticali. Una seconda mano ha copiato le vidas e le razos, in una sezione rimasta acefala, e una terza è responsabile dell’inserimento di un testo misogino dalla forte patina anglo-normanna. Una quarta mano è francese e la si riconosce in un’opera moralistica; c’è poi un glossario chiaramente fiorentino. Anche se il copista principale è umbro, è probabile che il codice sia stato preparato in Toscana, come suggerisce l’asse di diffusione della tradizione trobadorica che si delinea tra questa regione e il Veneto. Non si pensi tanto allo spostamento di interi canzonieri, quanto alla circolazione di singoli testi o piccole raccolte; l’occasione dei contatti può essere identificata in unioni matrimoniali o incontri diplomatici. P in particolare deve aver avuto una fonte settentrionale e infatti sembra imparentato con S; sono forse intervenute mediazioni toscane o precisamente fiorentine, ma non si evidenziano contatti puntuali con alcuno dei codici veneti a noi noti. Un’altra peculiarità contraddistingue l’apertura della silloge: i quattro testi attribuiti a Blacasset (uno in realtà è opera di un poeta minore e tardo) fanno pensare ad una scelta ideologica in senso cortese e cavalleresco, che deve essere consapevole, poiché il primo componimento è stato appositamente tratto da una fonte diversa rispetto a quella dei successivi. L’impressione di una scelta ponderata si conferma per i testi civili e guerreschi che seguono, in testimonianza unica e tarda (ben più di quanto non indicherebbe l’attribuzione erronea talvolta proposta dall’estensore). La sezione delle coblas presenta a sua volta parecchi problemi; è molto variegata (testimonianze uniche, parti di canzoni, tenzoni etc) e non sempre è possibile rintracciare l’origine dei singoli materiali, che sono in gran parte adespoti. Permangono una certa affinità con la sezione principale e un legame con l’ambiente estense; questo elemento non solo connette P ad altre sillogi (H in particolare), ma inoltre riconduce questa sua sezione alle ultime, creando una sorta di coerenza interna. D’altronde, come in F, all’influenza estense si affianca un evidente richiamo alla realtà provenzale, soprattutto sul finire del gruppo delle coblas, dove i testi cominciano ad allungarsi, appare qualche attribuzione e abbondano i testi politici. Cominciano a diffondersi i riferimenti a Carlo d’Angiò, anche solo nelle rubriche; essi rappresentano un fattore unificante rispetto ad alcuni versi di chiara tradizione italiana, perché il loro accostamento alle coblas spiccatamente provenzali sembra ricostruire il percorso di Carlo verso l’Italia, in un quadro estremamente attuale. Spicca infine la serie delle coblas del marsigliese Bertran Carbonel, che sono conservate in soli quattro codici, P R f (raccolte fortemente regionali) e q (manoscritto molto tardo). Questi sono i fattori strutturali preponderanti, ma nella raccolta non mancano spinte centrifughe, come nei testi francesi o dalla patina linguistica settentrionale, oppure in passi per cui la scelta appaia casuale o addirittura in 451 brani non trobadorici. Ecco perché la raccolta non si può definire organica; d’altronde per riconoscere tale caratteristica sarebbe bastata l’alternanza di testi filoangioini, guelfi e ghibellini (d’ispirazione toscana o catalana). Si nota comunque una certa continuità ed è proprio la figura di Carlo I a favorirla. L’unità dell’insieme si rispecchia nel suo ruolo politico, nel suo arrivo in Italia e nelle reazioni che ha suscitato; il contesto resta aristocratico e quindi coerente con la prospettiva cortese e il recupero dell’illustre lingua occitanica. Per quanto il codice sia organizzato in più momenti, essi sono però indivisibili grazie ai costanti rimandi interni. Si è ipotizzato che lo scopo fosse didattico, principalmente per la presenza delle opere grammaticali; ma i testi sono troppo recenti ed attuali, affatto illustri, per rispondere appieno a tale intento. Piuttosto testimoniano un interesse ancor vivo ed attivo per la cultura trobadorica, nonché il valore della lingua che ne è veicolo; non si può escludere che il recupero sia stato favorito dal prestigio del sovrano, che a quelle opere era legato per motivi politici. Il disordine stesso della struttura non è solo il segno di un’epoca tarda, ma anche l’impronta dell’attualità. E l’attualità dell’epoca angioina è instabile, di transizione, aspetti che giustamente si riflettono nei prodotti culturali: è un criterio unitario per manifestazioni intellettuali ed artistiche anche molto diversificate. Tali considerazioni sono dunque valide per tutti i canzonieri coinvolti in questo orizzonte, come ha sottolineato Asperti: “L’irregolarità materiale, la mancanza di stabilità della tradizione manoscritta e dei canzonieri che la riflettono non sono liquidabili come portato naturale dell’intrinseca fragilità dell’epoca tardiva. Tali caratteristiche evidenziano […] un ulteriore tratto tipizzante di ordine più ampio, che contraddistingue ed associa, secondo diverse modalità, quelle che ho definito ‹‹presenze angioine››”59. Queste manifestazioni non cancellano la tradizione trobadorica “classica”, ma “la attualizzano, riportandola in linea con gli interessi del momento; così che da un lato riscontriamo, appunto, la revisione coerente di un modello formale – metricolinguistico – consolidato, ma ormai anche quasi svuotato di elementi vitali, dall’altro il recupero di temi e modelli di antica impronta cavalleresca all’interno di una poesia, anche non più composta da ‹‹cavaliere››, dedicata agli avvenimenti di attualità”60. Ne risulta anche un marcato cambiamento di canone, nella scelta di nuovi punti di riferimento (si pensi a Sordello) e nell’apertura ad autori minori61. Rispetto alla tradizione viene però attuata una selezione: sono privilegiati gli argomenti civili, coerenti anche con il contesto urbano e comunale, mentre la radicata attenzione al piano locale è in parte segno della decadenza. Da questo punto di vista P è rappresentativo di un tempo in cui convivono le tracce del declino e tentativi ancora vividi e creativi. Anche altri codici suggeriscono la presenza di trovatori alla corte napoletana e la diffusione di queste esperienze culturali, pur con una tradizione non estesa, perché già posteriore alle fasi di intensa trascrizione dei classici. È questo il caso del manoscritto 59 Asperti 1995, pp. 215-216. Ibidem. 61 È però interessante notare, sempre con Asperti 1995, che “non si impone un canone nuovo, ma piuttosto si adatta il vecchio” (p. 216). 60 452 H, duecentesco e di origine provenzale (attualmente si trova alla Biblioteca Vaticana) e piuttosto anomalo nella struttura. In primo luogo, nel canzoniere si distinguono due parti; la prima presenta alcuni testi interpolati che costituiscono un gruppo distinto, perché derivato da una fonte secondaria. La seconda parte ha in generale il carattere di un’aggiunta rispetto al nucleo di partenza, come suggerisce la successione casuale dei testi. Tuttavia la raccolta nel suo insieme è pensata con notevole attenzione, mettendo in luce legami significativi tra le opere: ad esempio l’estensore affronta i componimenti anonimi o d’attribuzione problematica cercando di intuire almeno a quale ambiente appartengano, in senso geografico o culturale, e quindi accostandoli alla produzione di autori maggiori, come Sordello o Blacatz. Questo approccio è particolarmente evidente nel caso dell’interpolazione alla prima parte, laddove proprio il riferimento a Sordello costituisce il criterio essenziale nella scelta dei testi; poiché è solo questo il principio unificante, non stupisce che la successione sia poco organica, senza una rigorosa distinzione per autore. Le medesime caratteristiche si ritrovano nella seconda parte, dove per altro continua la ricerca di connessioni logiche fra i componimenti. L’abbondanza di scambi di coblas, cioè dialoghi in forma abbreviata, si spiega con l’intenzione di sostituire la tradizionale sezione finale di tenzoni. I testi sono per lo più abbastanza antichi (di rado si supera il primo quarto del ‘200); i più tardi sono quelli della sezione interpolata, collocabili alla fine degli anni ‘30. Considerata la datazione di H, è probabile che sia stato il copista del suo modello ad aggiungerla, forse negli anni ‘40-’50 del Duecento, quando cioè quei testi erano ancora attuali. Tali indicazioni cronologiche e le caratteristiche testuali della prima sezione rimandano al Veneto e al ramo della tradizione. Per altro, gran parte dei testi più recenti riconduce all’Italia, con l’ovvia eccezione della sezione interpolata, dedicata a Sordello, il quale però deve essere stato apprezzato nella regione da cui proveniva, e del consistente gruppo di coblas che costituisce la conclusione della raccolta. Queste opere, spesso in tradizione unica, sono infatti dichiaratamente provenzali e di poco anteriori alle opere interpolate; per questo è interessante ipotizzare che le due aggiunte siano coeve e basate sul medesimo progetto, nonché eventualmente legate alla medesima fonte. Anche nel codice E della Bibliothèque nationale di Parigi c’è una zona distinta, anche fisicamente visto che occupa la posizione liminale, che può essere utile per una ricostruzione della cultura provenzale (ed angioina). Le ultime tre carte sono materialmente diverse dal resto del codice: la legatura segnala un’aggiunta e la pergamena è di qualità migliore, benché la mano sia la medesima. Su queste pagine sono riportati due gruppi di testi. In primo luogo una serie di dansas o baladas62, cui 62 Questo genere minore nasce piuttosto tardi, dopo la metà del '200, benché sporadici esempi si trovino già prima e ben presto sia codificato anche in relazione all'uso della musica. Dapprima se ne diffondono forme irregolari, ma poi se ne definisce una tipologia stabile per tutto il '300. Il codice E ne è un testimone di primaria importanza, perché precocissimo e molto ricco. Non solo: il manoscritto appartiene all'area da cui il genere pare diffondersi e a cui rimandano altre simili antologie (soprattutto catalane). Purtroppo E non reca traccia (a differenza di W) di musica o coreografie, che invece sono caratteristiche costanti di questo tipo di testi. Non si può escludere qualche influenza francese, comunque, che sarà fondamentale per la diffusione dei generi musicali, soprattutto in Italia. 453 viene aggiunto l’adattamento provenzale di una canzone francese63; tutti i testi sono adespoti e non era previsto alcuno spazio per le rubriche; segue una coppia di canzoni che si ritrovano nel medesimo ordine e con la medesima attribuzione in C. Non ci sono dubbi sul fatto che questa sia un’aggiunta posteriore: lo indica con certezza il fatto che nel resto della silloge sia seguito con rigore l’ordine alfabetico e per autore. I testi dell’appendice costituiscono un gruppo coeso in virtù della loro uniformità stilistica; non si può perciò affermare che la loro posizione subordinata si debba all’inferiorità di genere (cui invece risale la scelta di presentare le dansas anonime). L’aggiunta deve essere stata di poco successiva alla preparazione del nucleo principale, considerato che è stata realizzata dal medesimo copista ed è caratterizzata dalle medesime decorazioni che ornano la prima parte; la questione andrà dunque ricondotta all’uso di fonti diverse. I testi finali sono contraddistinti dalla medesima origine storica e geografica, risalgono cioè alla corte di Carlo I d’Angiò e agli anni ‘50-’60 del Duecento; sono in particolare frequentissimi i riferimenti espliciti o comunque chiari al signore e alla sua sposa. Tale origine risalta a maggior ragione in quanto i testi della sezione principale sono tutti anteriori o originari di altre zone. Le pagine finali di E sono dunque strettamente legate all’impostazione di base di f. Il caso di W è ancora differente, poiché il codice è caratterizzato da aggiunte chiaramente autonome rispetto al nucleo originario, benché molto vicine a livello cronologico; la raccolta di partenza è organizzata per autore, ma il copista ha lasciato degli spazi bianchi per dividere le singole sezioni. Su queste pagine sono stati riportati da mani diverse tra fine ‘200 e inizio ‘300 alcuni componimenti francesi o provenzali, e in alcuni casi spartiti musicali. Proprio questa attenzione alla notazione, segnale di un intervento qualitativamente notevole, insieme alla quantità di tali aggiunte (quarantaquattro testi) rendono speciale la configurazione del manoscritto rispetto alle forme tradizionali. W rivela inoltre una certa comunanza con M, poiché il gruppo di testi da cui nasce la raccolta è il medesimo; tra di essi si notano alcuni mottetti (condivisi anche da T) databili a metà del XIII secolo (ma M ne presenta anche di più recenti): essi sono significativi in quanto rivelano una considerevole attenzione verso i gusti più moderni e innovativi. Tali interessi riguardano soprattutto la musica, come denota la presenza dei testi strumentali, non sempre accostati ai versi, e l’abbondanza di componimenti a ballo. W suggerisce però ulteriori riflessioni, perché nell’alternanza di opere francesi e provenzali dimostra un reale bilinguismo: i componimenti in lingua d’oc sono i più tardi e non subiscono alcuna influenza dalla lingua d’oil. Per altro, buona parte di queste Sul genere della balada si veda Bec 1992, pp. 105-117. 63 Questo accostamento è particolarmente significativo, in quanto denota un superamento della tradizionale discriminazione fra il genere maggiore e quelli inferiori, a vantaggio della percezione di una coerenza tra forme connesse alla musica. Per altro è evidente l'influenza della regione settentrionale, da cui proviene il grande apprezzamento per il ritornello, il cui uso finisce per modificare la struttura tipica della canzone. Non a caso proprio nella Provenza di Raimondo Berengario V e di Carlo I sono state recuperate strutture metriche non locali, ma tipiche dei trovieri. Altri tratti riconoscibili ne sono l'assonanza al posto della rima o le immagini e i temi più realistici. La corte angioina in Provenza pare distinguersi per le notevoli capacità di ricezione e trasformazione delle forme letterarie straniere. 454 aggiunte trobadoriche appartiene al genere delle dansas che, lo si è visto, presenta una forte connessione con Carlo d’Angiò (qui a volte già indicato come re, denunciando una cronologia decisamente bassa) e con la Provenza in senso stretto. Non sarà allora un caso che tra le aggiunte si trovi anche una canzone di Blacasset, che rimanda al medesimo ambiente, anche se in anni anteriori. Si ripropone l’apprezzamento per il genere discordo, questa volta condiviso da Francia e Midi. Per quanto concerne i testi occitanici, i richiami alla figura di Carlo e le caratteristiche paleografiche riconducono alla sfera provenzale e angioina, anche se per W è in gioco solo un contatto culturale (la fattura materiale è settentrionale). I dati sin qui raccolti permettono di ipotizzare l’intervento di un copista cui fosse familiare la realtà meridionale (provenzale? napoletana?) o forse uno spostamento del codice stesso verso sud. 2. Il ruolo di Veneto e Monferrato nella diffusione italiana della cultura cortese64 Al fine di comprendere la diffusione della tradizione occitanica e la sua rilettura tarda non si può prescindere dal passaggio in Italia, che è all’origine, lo si è anticipato, della sistemazione di moltissimi fra i canzonieri noti. I primi contatti italiani con l’orizzonte trobadorico si delineano già dalla fine del XII secolo e sono ancora attivi all’inizio del XIV. L’ambiente più fecondo per tale scambio culturale è quello delle corti feudali e signorili dell’Italia settentrionale; ciò non toglie che l’eco dell’illustre tradizione giunga anche in ambiente comunale, sempre nel nord della penisola. L’identificazione con le prospettive cortesi diviene una vera e propria moda per la classe aristocratica, e un ulteriore fattore unificante in un ambiente sociale che spesso presenta tratti condivisi a livello internazionale. Gli spostamenti frequenti dei trovatori e i contatti con corti diverse sono tipici e proficui sin dalle origini o quasi, anche se dapprima si limitano per lo più alla regione occitanica. Laddove si offra l’occasione per un viaggio più ampio, la preferenza per l’Italia è favorita da anteriori e positive connessioni a livello politico, dinastico e matrimoniale, oltre che geografico e linguistico65. Tale connessione diverrà determinante e davvero prevalente nel primo Duecento. Due momenti storici facilitano particolarmente la migrazione verso sud e dunque la circolazione delle opere provenzali in Italia, costituendo un fattore determinante per lo sviluppo di nuove esperienze culturali locali: da una parte le crociate, che determinano sempre veri e propri spostamenti di massa, dall’altra la repressione albigese, che spinge numerosi autori alla fuga oltre le Alpi. Il contesto socio-culturale e le condizioni professionali che accolgono i trovatori sono chiaramente vantaggiosi: la vita intellettuale appare già caratterizzata da influenze galloromanze, 64 Alcune fonti molto utili per l’argomento sono Viscardi 19702, Cavaliere 1973, Casini 1985, Folena 1991 e gli interventi di Guida e Antonelli in Lachin 2008; una sintesi interessante si trova anche in Bologna 1993. 65 Viscardi 19702 ha sottolineato l’importanza storica di questi contatti rispetto non solo alla cultura cortese, ma medievale in genere, con particolare riferimento alla costituzione delle prime sillogi trobadoriche, su cui già ci si è soffermati. 455 benché sia inevitabile pensare ad una preminenza della sfera ecclesiastica. I modelli volgari hanno avuto a questo punto un successo pervasivo, attraverso l’acquisizione di un nuovo sistema ideologico, linguistico ed espressivo, dapprima come imitazione puntuale, poi come rielaborazione più libera. Alla piena appropriazione della tradizione si accompagna ben presto l’impegno nella sistemazione dei materiali poetici, secondo un’ottica critica, erudita e filologica. La prima meta dei trovatori che espatriano è il Piemonte, ma ben presto il Veneto si dimostra la regione più vitale, grazie anche alle caratteristiche peculiari secondo cui qui si afferma la tradizione transalpina66. Sono in primo luogo coinvolte le famiglie nobili della Marca Trevigiana, con assoluto spicco degli Ezzelini, degli Estensi e dei Caminesi; a Vicenza sembrano interessati anche gli ambienti universitari. È poi peculiare la frequente contaminazione tra eredità provenzale e influssi francesi, poiché la letteratura locale recepisce entrambe quelle esperienze. Il contributo francese domina nell’epica ed è anteriore a quello provenzale, che però resta insuperato nella lirica; inoltre i modelli francesi giungono ad un prestigio davvero significativo solo nel Trecento, quando cioè la produzione di stampo occitanico viene gradualmente meno. Un’ulteriore distinzione si deve al contesto sociale in cui le due influenze si sviluppano con maggiore energia: il trobadorismo per sua natura guarda alle corti (perciò ad esempio si diffonde in Veneto, ma non nella Repubblica veneziana), mentre gli esperimenti di stampo francese si diffondono più facilmente nei comuni e convergono con la passione per la storiografia, con esiti particolari. La realtà cortigiana favorisce anche una professionalizzazione dei poeti, mantenuti dal signore-mecenate; le esperienze trobadoriche in altre aree d’Italia e in un orizzonte borghese non determinano risvolti di questo tipo. L’area veneta è per altro una zona “laterale”, che più facilmente conserva gli aspetti culturali tradizionali; Folena67 vi identifica una sorta di “custodia” di una lingua sempre meno viva, ben presto resa secondaria dalla dominazione francese in area occitanica, e poi qui recuperata solo temporaneamente in manifestazioni culturali tarde quali quelle del Concistori del Gai Saber e delle Leys d’amor. La percezione del ruolo della Marca Trevigiana è acuita dall’approccio critico degli appassionati veneti, che oscillano tra la prospettiva filologica e la curiosità biografico-narrativa. La medesima zona appare centrale in merito all’irradiamento della tradizione manoscritta trobadorica. Gli scriptoria della Marca sono estremamente vitali; la quantità e l’importanza dei codici sono manifeste. Grazie all’ambiente veneto la cultura occitanica è raccolta in strumenti che sapranno garantirne la conservazione anche in una fase storica in cui la tradizione si disperde e frammenta. Nascono così le grandi antologie, la cui struttura ragionata in diverse sezioni testimonia la volontà di tramandare il sistema culturale cortese nella sua complessità; spesso il criterio è in primo luogo cronologico, ma ad esso può sovrapporsi una visione critica, letteraria o morale-spirituale. Parte integrante di tale processo di sistemazione sono le narrazioni 66 Per la considerevole migrazione dei trovatori in Italia e soprattutto in Veneto a causa della crociata albigese si vedano gli interventi di Roquebert e Gouiran in Lachin 2008. 67 Folena 1991. 456 biografiche (vidas e razos), ma si notano anche costanti esteriori, come le decorazioni miniate, che aiutano a definire l’appartenenza, anche geografica, e la tipologia libraria. I tre rami principali della tradizione risalgono tutti al Veneto. La tradizione manoscritta sviluppatasi in Italia è ricca e tuttavia tarda, non solo rispetto al patrimonio provenzale – perduto, ma facilmente ipotizzabile – ma anche a confronto con l’attività dei copisti catalani che diffondono le prime antologie già alla fine del XII secolo. In tal senso è essenziale quel contatto tra la realtà italiana e quella provenzale che si è detto anteriore sia all’emigrazione dei trovatori sia alla stesura delle più antiche raccolte sopravvissute; inoltre alcuni componimenti confermano con i loro richiami più o meno espliciti che l’interesse italiano per la cultura provenzale risale al medesimo periodo di quello catalano. In un’opera databile agli anni ‘70 del XII secolo (o addirittura prima, secondo Ugolini68) è nominato un “lombartz” (che sarà da intendere genericamente come “italiano del nord”) in un elenco caricaturale di trovatori redatto da Peire d’Alvernha. Questo “grazioso” personaggio, come lo definisce il trovatore, è ignoto, se non come autore di versi di incitamento ai suoi conterranei vigliacchi. Il primo testo noto di un trovatore italiano, rivelato in quanto tale da licenze ed errori grammaticali, è un altro sirventese, un po’ irregolare nella forma, ma molto energico nel ritmo; esso è dedicato alla guerra condotta dalla Lega lombarda contro Enrico VI, con una descrizione della geografia della Marca Trevigiana davvero precisa. La dedica si rivolge ad un feudatario antimperiale e rimanda ad un ambiente in cui il mecenatismo verso i poeti era abituale; il componimento è infine inviato ad un ignoto veronese, scelta che fa pensare alla medesima provenienza anche per l’autore. Per questo testo le rubriche riportano in effetti il nome di Peire de la Cavarana (o Caravana), attributo di cui è attestata l’esistenza come cognome (forse derivato dal nome comune arabo “caravana”) e probabilmente connesso proprio ad una frazione di Verona, detta Ca’ Varana. Al medesimo periodo risalgono le prime precoci presenze trobadoriche nel Monferrato, dove spiccano Raimbaut de Vaqueiras (che qui muore nei primissimi anni del XIII secolo) e Peire Vidal (di cui ci restano componimenti dedicati a signori italiani che detenevano il potere negli ultimi anni del XII). L’attività dei primi trovatori italiani in Veneto può essere connessa al mecenatismo estense, che favorì l’arrivo dei primi profughi dalla Provenza. All’inizio del ‘200 questa corte, che in origine si trovava sui colli Euganei, cominciava a fiorire, anche grazie agli interessi culturali di Azzo VI, famoso per le sue mire espansionistiche verso Verona, Ferrara e Ancona, sostenitore di Federico II e morto nel 1212. Sappiamo che egli ospitò vari trovatori, tra i quali l’illustre Aimeric de Peguilhan, attivo fino al 1228 circa, figura di particolare interesse non solo per la sua prolificità, ma anche perché tramite tra due generazioni: la prima ad essere giunta in Italia (Vaqueiras) e l’ultima che vi compone opere originali (Sordello). Nei suoi planhs dedicati alla morte di Azzo nomina vari altri poeti presenti a corte, tra cui Falquet de Romans. Le figlie di Azzo, inoltre, hanno rappresentato un importante stimolo alla letteratura cortese; soprattutto Beatrice – poi 68 Ugolini 1949. 457 entrata in convento – fu destinataria di un’intensa produzione galante, in cui si notano caratteristiche espressive tipicamente occitaniche, come il mascheramento militare dei temi amorosi, secondo la definizione del “torneo di dame”, o i partimens con giudizio conclusivo. Nelle dediche, Beatrice è spesso associata a Guglielmo Malaspina, come se tra i due ci fosse una connessione; si è pensato perciò alla promessa di un matrimonio diplomatico, impedito però dalla prematura morte di lui. La questione non è oziosa, perché un legame di tal genere contribuirebbe già ad illustrare l’influenza poeticoculturale degli estensi in area mantovana. La morte di Azzo, comunque, non causa alcuna perdita di interesse verso la vita poetica e culturale, che anzi si riconferma nella nuova corte estense a Ferrara (a partire dagli anni ‘40), dove operano ad esempio Guilhem Raimon e Ferrarino da Ferrara, di cui restano le tenzoni. Nella sfera estense si muove anche Rambertino Buvalelli, podestà bolognese, dunque legato alla vita comunale e proprio in un centro che ben poco ebbe a che fare con la tradizione trobadorica; questo spiega l’attenzione del Buvalelli per la Marca Trevigiana e la sua conoscenza di Elias Cairel, famoso trovatore, citato anche come messaggero dei componimenti del podestà. Se, come sembra, egli potesse essere identificato con il Cairel seguace di Arnaut Daniel, avremmo un’indicazione certa di connessioni e contatti tra area veneta e realtà monferrina, poiché è presso questa corte che il secondo Elias è attestato con certezza. Durante il governo di Azzo VII, l’attività letteraria ruota intorno a sua moglie Giovanna, elogiata anch’ella da Aimeric de Peguilhan, come dall’italiano Peire Guilhem de Luserna, che lascia un’interessante definizione dei suoi colleghi come “provenzali”, secondo un’indicazione più poetica che geografica o biografica. A Giovanna dedicò dei versi anche Uc de Saint Circ, che dunque potrebbe aver vissuto alla corte estense prima di stabilirsi presso i da Romano. La poesia amorosa e le immagini femminili appaiono sempre più rarefatte; si accentua cioè una visione spirituale, che mette da parte i contenuti più realistici e sensuali e che rivela l’influenza di un’ispirazione religiosa. Tale prospettiva è tipica della produzione tarda soprattutto nella natia Provenza, dove la dama sarà infine sostituita dalla Vergine. La morte di Giovanna (1233) segna una svolta negativa: gli scarsi riferimenti ad Azzo VII e la mancanza di menzioni ai suoi figli lasciano intuire che le esperienze letterarie cortesi sono sempre meno vitali. Non sarà forse casuale che il florilegio di Ferrarino da Ferrara, l’unico autore che pare ancora attivo in area estense in quest’ultima fase, si collochi proprio in tale contesto di decadenza. La coincidenza suggerisce cioè che l’attività di raccolta e di sistemazione abbia soppiantato quasi integralmente la composizione. D’altronde egli dovrà abbandonare l’area estense e la città, rivolgendosi ad una corte di stampo più tradizionale, quella dei da Camino, ambiente forse più coerente ad una tradizione come quella trobadorica. Dal medesimo ambiente prende le mosse anche Sordello, originario di Goito presso Mantova, per compiere un percorso inverso a quello dei suoi contemporanei, tornando cioè in Provenza (probabilmente già nel ‘29, ma viaggiando anche in Spagna e Portogallo). Le vidas suggeriscono la singolarità della sua esperienza quando insistono sull’autonomia del trovatore, esponente della povera nobiltà di campagna, desideroso (e capace) di costruire da solo 458 la propria fortuna, secondo un ideale di fatto borghese, per una volta inteso in senso positivo. È probabile che egli abbia girato diverse corti e città, anche come giullare; non è chiaro se abbia cominciato a scrivere a Mantova o solo dopo aver iniziato a frequentare la corte estense. Qui, comunque, è ricordato dispregiativamente dal Peguilhan, che lo annovera tra i giovani trovatori in una sorta di scontro generazionale in ambito poetico. La prima produzione di Sordello, di cui per altro non si conosce molto, è in effetti rivelatrice dell’approccio innovativo degli autori più giovani, che apprezzano soprattutto le forme dialogiche, rinnovandole in veste oltremodo polemica e comica, fino a quelle che Folena definisce “scene da taverna”. La dimensione cortese diviene secondaria, anche se è difficile pensare che le tematiche amorose fossero del tutto abbandonate (piuttosto ne saranno andate perdute le testimonianze)69. Le uniche vicende sentimentali che gli sono attribuite hanno in realtà carattere narrativo e biografico, più che lirico: si tratta della famosa questione di Cunizza da Romano e del suo rapimento70, ma anche di un matrimonio segreto con una giovane nobile, che lo avrebbe costretto alla fuga in Provenza, da cui sarebbe tornato al seguito di Carlo d’Angiò. Anche Treviso71 è un centro culturale molto vitale, non solo rispetto alla letteratura provenzale, ma anche per le esperienze di stampo francese e toscano. Resta notizia della vivace attività degli scriptoria, delle feste cortesi, dei tornei di dame e delle Corti d’Amore (note anche come Castelli o Palazzi d’Amore), cioè situazioni cortesi da cui deriva una produzione poetica specifica. Per l’occasione viene ricostruito un vero e proprio castello, di cui si ricorda soprattutto lo sfarzo; qui si radunano le dame e ai cavalieri spetta l’impresa di espugnarlo. L’intera situazione viene poi trasfigurata sul piano poetico come una metafora amorosa. Treviso rappresenta anche il centro principale dell’attività di Uc de Saint Circ, di cui restano numerose informazioni, probabilmente perché la sua vida è autobiografica. Giovane precoce e interessato alla poesia, nonché alle imprese degli uomini illustri, viaggia moltissimo nel Midi, in Spagna e poi in Italia, fermandosi dapprima in area lombarda. Qui la sua prospettiva cambia radicalmente: è legato alle corti, ma in ambito soprattutto urbano e quindi a contatto con la dimensione borghese. Dapprima continua l’attività di trovatore e giullare, muovendosi tra varie corti e mantenendo viva la linea classica del trobadorismo cortese e cavalleresco, per poi stabilirsi a Treviso. Collabora con gli Ezzelini e si sposa: pare che a questo punto abbia abbandonato la composizione di versi galanti. La sua produzione più tarda si concentra sulle vicende politiche contemporanee: nello scontro tra Ezzelino ed Alberico da Romano, egli resta fedele al 69 Per altro la produzione dello stesso Sordello dimostra che la tradizione amorosa cortese è ancora ben presente. 70 La vicenda è davvero molto nota, per lo scandalo che suscitò, almeno secondo le fonti biografiche. Cunizza aveva sposato per motivi politici il signore di Verona; quando il violentissimo fratello Ezzelino riuscì ad ottenere con le armi il controllo della città, quel matrimonio si rivelò inutile. Egli avrebbe perciò preteso di riavere la sorella (probabilmente per destinarla ad un'unione più proficua); secondo le vidas Sordello, incaricato di rapire la giovane, se ne sarebbe innamorato, complicando sul piano personale una vicenda dai risvolti pubblici. 71 Per la realtà culturale trevigiana si veda oltre il paragrafo dedicato a vidas e razos. 459 secondo e a posizioni filoguelfe (come dimostra la sua invocazione a favore di Faenza, quasi completamente piegata da Federico II). Non si sa più nulla di lui dopo il ‘53, quando un documento ufficiale lo dichiara eretico ed usuraio, attività che potrebbe effettivamente aver svolto sotto la protezione di Alberico, venuta però meno con la disgrazia della famiglia. Uc è noto soprattutto per il suo impegno nella sistemazione della tradizione trobadorica e dei materiali biografici; entro il ‘54 porta a termine l’antologia per Alberico, nota appunto come Liber Alberici, che raccoglieva più di duecentocinquanta testi di un centinaio di autori. Per quanto concerne vidas e razos, egli fu in parte editore di documenti che aveva portato dalla Provenza (lo dimostra anche la patina linguistica evidente in alcuni casi), in parte autore in prima persona di nuovi racconti. La forza del suo intervento è resa palese dall’effetto modellizzante che ne deriva: alcune vidas sono troppo tarde per essere sue e tuttavia vi è replicata sempre la medesima impostazione. Infine Uc potrebbe essere autore anche di un’opera grammaticale, il Donat proensal, attribuito in realtà a un altrimenti ignoto Uc Faidit; faidit però significa “straniero” e dunque potrebbe trattarsi soltanto di un soprannome. Uno dei destinatari dell’opera inoltre è il podestà di Treviso e dunque in contatto con i da Romano; l’opera presenta varie caratteristiche che potrebbero far pensare ad una composizione in Veneto, anche se non da parte di un veneto. Si tratterebbe di un’indicazione di primaria importanza per completare il quadro di un’intensa e variegata attività, benché sempre connessa alla tradizione trobadorica. A fronte della straordinaria centralità della regione, resta traccia di un solo trovatore di origine anagrafica veneta, Bartolomé Zorzi, di cui non restano documenti d’archivio, ma due vidas e l’apprezzamento del Bembo. È noto che egli fu nobile e come tale ebbe un incarico di castellanato dal doge, per proteggere alcuni territori dominati dalla Serenissima. Fu però anche mercante e proprio durante un viaggio commerciale venne fatto prigioniero dai genovesi; è appunto nel periodo della prigionia che si avvia la sua esperienza poetica, in una fase in cui molti degli autori italiani erano ormai morti. Genova tuttavia manteneva un interesse ancora vivo per la tradizione occitanica, grazie anche all’attività di Bonifaci Calvo, di cui non resta alcuna biografia, ma che di certo viaggiò molto tra Francia, Midi e Galizia. Il dialogo tra questi due autori segna una nuova fase di dibattito politico in versi, vivace, ma senza polemiche volgari, con sfoggio dunque di virtù civili, cortesia e misura. Si tratta certamente di una produzione occasionale, ma comunque capace di far propri i grandi ideali dell’età trobadorica classica e di offrire un contributo morale più ampio. Tipiche della fase tarda, oltre che rappresentative del periodo che Zorzi passò in prigione, sono le sue rime penitenziali, che ripropongono i medesimi valori morali in chiave però religiosa e spirituale. Più o meno coeva è anche l’abile attività poetica del giudice genovese Lanfranco Cigala, di cui restano notizie legate agli ultimi anni Trenta (ma per quanto riguarda l’attività politica e diplomatica si arriva sino agli anni ‘50). La Toscana, dove comunque la produzione trobadorica sarebbe divenuta modello anche diretto per i cosiddetti siculo-toscani e non solo tramite la mediazione della Scuola siciliana, non sembra però ospitare importanti autori in lingua d’oc. Per Firenze va 460 ricordato però il marsigliese Raimon de Tors, che si trova in Italia certamente prima della discesa di Carlo I. Intanto in Veneto la cultura cortese conosce ormai la sua piena decadenza; ultimo baluardo ne sono i Caminesi, e in particolare Gherardo, i quali avevano esteso il loro potere grazie alla caduta dei da Romano e lo mantengono sino agli anni Ottanta. D’altro canto proprio il legame della poesia trobadorica con i da Romano di certo non ne favorisce l’apprezzamento nella seconda metà del secolo, considerato il disprezzo con cui gli Ezzelini sono ricordati. La grande fioritura del trobadorismo in Italia va dunque collocata prevalentemente tra 1215 e 1260, anche se non ne manca qualche manifestazione più tarda, come nei casi di Dante da Maiano e Paolo Lanfranchi da Pistoia. 3. I florilegi72 La tradizione manoscritta trobadorica rivela la predilezione dei copisti tardi per due strategie di acquisizione testuale: l’ampliamento dei componimenti attraverso l’interpolazione di stanze spurie oppure la loro riduzione, fino alla scelta di una cobla singola. Il primo caso si risolve in un’imitazione dalla qualità fortemente variabile, che però può arrivare alla totale identificazione causando gravi difficoltà nell’indagine filologica. Il secondo tipo di intervento può invece derivare da una forte coscienza critica73, laddove con piena e consapevole capacità artistica si colga la parte migliore del lavoro poetico altrui. Può trattarsi di passi particolarmente densi a livello formale o molto rappresentativi delle concezioni intellettuali e letterarie dell’autore; tuttavia è evidente che l’imposizione di una scelta non autoriale ha una valenza in parte tendenziosa, a maggior ragione laddove tale intervento sia caratterizzato dalla piena coscienza dell’operazione intellettuale in gioco. Al contrario, sono manifesti i casi in cui questa riduzione sia da identificare con una degradazione, soprattutto se i brani estrapolati non sono accompagnati da alcuna forma di contestualizzazione e di attribuzione. Vari studiosi (come Grober e Bertoni) hanno suggerito che le antologie costruite con frammenti di questo tipo – dette “florilegi” - avessero una funzione educativa. Oggi, in realtà, sembra più determinante l’influenza del gusto: bisogna considerare da una parte l’ampia diffusione di tali testi parcellizzati in epoca tarda, fra ‘200 e ‘300, dall’altra le soluzioni ben diverse cui ha portato, più o meno nel medesimo periodo storico, l’intenzione didattica rispetto alla tradizione occitanica. Si pensi ai manuali veri e propri o ai trattati teorici, arricchiti da elenchi esemplificativi. Prendendo invece in esame il criterio delle preferenze in fatto di poesia, si noteranno alcune tendenze tipiche solamente di florilegi e raccolte di coblas74: assenza degli autori più antichi e delle donne, mancanza anche integrale degli italiani, che sono invece presenti nei canzonieri d’ispirazione più ampia, i quali partono presumibilmente dalle stesse 72 Alcuni utili riferimenti si trovano in Meneghetti 1989 e 1991, e Noto 2006. Meneghetti 1989 parla di “orgoglio critico” e cita in particolare l'esempio di Ferrarino da Ferrara e il suo florilegio del codice D. 74 Per il genere della cobla si veda ad esempio Poe 2000. 73 461 fonti o comunque da modelli molto simili. Ne deriva per i florilegi l’immagine di un prontuario di facile accesso, non tanto a scopo poetico, quanto galante ed occasionale. A livello storico-culturale, mettere in primo piano l’influenza del gusto ha delle conseguenze notevoli: ciò significa infatti che la concezione degli estensori di florilegi rispetto ai testi non è necessariamente antiquaria, ma spesso viva ed attuale, per quanto il pubblico di riferimento sia ben diverso da quello cui si rivolgevano in origine i trovatori. Sono noti, allo stato attuale, almeno due florilegi la cui composizione è sicuramente autonoma: quello di Ferrarino da Ferrara (di cui restano due testimonianze, ma quella conservata nel codice D è una versione abbreviata) e quello riportato dal manoscritto F. Tuttavia le due raccolte sono imparentate, come dimostra la scelta spesso affine non solo degli autori, ma anche dei testi e dei passi da riproporre; l’ipotesi più promettente è che i due copisti abbiano avuto accesso, in modo autonomo, alla medesima fonte, cioè una terza ed anteriore antologia di frammenti (o a sillogi derivate da essa). L’importanza di queste peculiari raccolte è suggerita anche dalle serie di coblas cui sono dedicate specifiche sezioni in numerosi canzonieri: esse, come si vedrà, sono connesse da vicino ai florilegi in senso stretto. Nel manoscritto J, ad esempio, il gruppo delle coblas consente di risalire appunto ad un florilegio, caratterizzato per altro da varie coincidenze con D ed F. Tuttavia, la fonte è quasi certamente diversa ed anzi essa accomuna questa porzione di J alle simili sezioni di G, Q, P, e T; si individua così una seconda antologia “antica”. La scelta dei testi e il loro ordinamento (decrescente, in base all’ampiezza della porzione di testo antologizzata) escludono una parentela diretta con D ed F, mentre garantiscono rapporti abbastanza stretti tra gli altri codici, soprattutto G e Q, quasi sovrapponibili. È inoltre possibile ipotizzare che J e P siano i testimoni più tardi. Queste comuni ascendenze testuali non cancellano alcune differenze essenziali tra le raccolte. Innanzitutto il florilegio può inserirsi all’interno di un canzoniere di più ampio respiro a seconda dei casi come un blocco autonomo e slegato oppure come parte integrante di un progetto più ampio. A questo punto entrano in gioco aspetti ulteriori da valutare: preferenze di stile, di ideologia, di temi e così via, che isolano le diverse realizzazioni. Un fattore essenziale è inoltre quello della provenienza dei manoscritti. Solamente J presenta un legame forte con il Midi, poiché qui viene esemplato, ma anche in questo caso prevale la connessione con l’Italia (da cui provengono invece tutti gli altri codici citati), poiché almeno l’ultima parte è copiata da un antigrafo italiano, trasferito evidentemente in area occitanica. In base ai documenti disponibili, dunque, l’idea di raccogliere frammenti di testi appare italiana, aspetto che a sua volta permette di riflettere sull’identità di destinatari ed “editori”. Ad esempio, si può pensare ad una correlazione tra queste antologie e la diffusione di testi poetici brevi, come i sonetti, che dimostra un particolare apprezzamento per la forma sintetica75. Le prime sillogi di coblas note risalgono alla seconda metà del ‘200; sono dunque posteriori ai primi 75 Va considerata, ad esempio, l’ampia raccolta di Guittone. 462 florilegi, ma coeve alla loro tarda e più vivace diffusione. La polivalenza del sonetto, inoltre, mostra che la coerenza non è solo nella misura, ma anche nella funzione comunicativa dei testi, i cui temi rivelano prospettive diversificate, dall’ambito morale a quello comico, dalle forme trobadoriche classiche alle questioni più attuali. L’identificazione delle serie di frammenti con un genere autonomo è inoltre favorita dalle caratteristiche tassonomiche dei canzonieri peninsulari (compresi quelli dedicati alla letteratura italiana delle origini), in cui ogni genere o gruppo di testi è precisamente individuato e distinto, coblas comprese. A monte dei florilegi e delle antologie a noi noti, dunque, traspare una tradizione specifica, anteriore alla fine del ‘200, parallela a quella dei generi alti, ma distinta da essa, anche perché le forme brevi, per quando molto diffuse e piuttosto antiche, sono sempre considerate inferiori nella scala dei generi76. È facile immaginare che i testi parcellizzati abbiano avuto un ruolo centrale nell’attività orale dei giullari, favorendo l’apprendimento mnemonico ed offrendo una ricchezza utile a divertire gli ascoltatori. Può essere interessante osservare qualche caso particolare. Il florilegio di Ferrarino da Ferrara è tramandato innanzitutto dall’ultima parte del codice D, detta Dc, la quale si distingue con chiarezza per la mano diversa e più tarda rispetto a quelle delle sezioni precedenti (Italia settentrionale, tra 1330 e 1340, con alcuni errori immediatamente corretti). I testi che compongono l’antologia sono duecentoventisei, di cui undici completi, nonché alcuni composti sin dall’origine come coblas singole o in coppia. La qualità della raccolta è davvero notevole, basti pensare che un solo componimento è privo di intestazione e che soltanto in due casi l’attribuzione è sbagliata: tale risultato è significativo non solo a confronto con l’altro ampio florilegio a noi noto (F), ma anche rispetto alle sezioni specifiche in vari canzonieri più ampi e articolati. Non si può escludere che, come ritiene ad esempio Viscardi77, l’antologia sia stata pensata o almeno utilizzata per l’insegnamento, impressione favorita dall’appellativo di “maestro Ferrari”, che viene attribuito all’estensore, oltre che dalla precisione dell’insieme78. D’altra parte, alcuni studiosi hanno pensato che in alcuni centri italiani ci siano stati corsi regolari – anche se privati – di lingua provenzale, e questo impegno spiegherebbe anche la diffusione delle coeve opere grammaticali. Le fonti principali di Dc sembrano due: il Liber Alberici (che è anche la fonte di Da, cioè la prima parte del medesimo manoscritto) e un antecedente che accomuna Dc a tutto D, oltre che al cosiddetto libro di Miquel de la Tor. Questo secondo modello potrebbe essere servito, almeno in parte, anche alla preparazione del codice italiano K, a sua volta imparentato da vicino con I. Tali legami non impongono tuttavia che i tre testimoni Dc, I e K siano sempre concordi: il legame viene meno in relazione a ben ventiquattro testi, quattro dei quali tramandati da Dc in testimonianza unica. Il quadro di queste connessioni intrecciate è inoltre arricchito dal fatto che Dc è riconducibile anche ad una sezione di H, veneta e trecentesca; essa non pare derivare da nessuna delle tre grandi 76 Sul tema si vedano Paden 2000, Picone 2000, Bec 1992, pp. 87-104. Viscardi 19702. 78 Ciò non toglie che non sembra questo lo scopo, o almeno non la funzione principale ed originaria, del florilegio come tipologia di genere. 77 463 linee in cui si articola, nell’insieme, la tradizione manoscritta trobadorica79. Si è anticipato che una probabile fonte accomuna Dc e J; un ulteriore modello accosta Dc al codice del monaco Bernart Amoros, il quale va probabilmente assegnato alle linee dette e . Infine è stata ipotizzata una fonte che contenesse una raccolta di opere del solo Sordello. Non è detto ovviamente che questo complesso lavoro di ricerca testuale si debba proprio a Ferrarino; è anzi probabile che egli copiasse un’antologia più antica già pensata come florilegio. La composizione originaria, comunque, deve essere avvenuta in momenti diversi, visto che la scelta delle citazioni appare ispirata a due paradigmi differenti: una prima tendenza comporta la scelta dei versi più significativi per ogni componimento, la seconda, posteriore, prevede semplicemente la trascrizione dell’incipit e poi il taglio del testo una volta che la porzione riportata appariva sufficiente. La parte ispirata a questo secondo principio non deve necessariamente essere stata preparata in un’unica occasione, ma potrebbe derivare dal graduale recupero di testi da singole raccolte autoriali; potrebbe poi essere stata aggiunta alla prima sezione, la quale, invece, costituisce un florilegio dalla concezione più matura, nonché un nucleo unitario. Alcune aggiunte conclusive potrebbero, infine, essere dello stesso Ferrarino, il quale in questo caso sarebbe responsabile della decisione di rendere ancora più brevi i passi riportati. 4. “Vidas” e “razos”80 Un altro aspetto della diffusione della poesia trobadorica rilevante per la sua fruizione tarda sono le vidas e le razos, rispettivamente biografie di autori e spiegazioni (biografiche) della “ragione” a monte di componimenti letterari. Tali narrazioni hanno avuto, lo si vedrà, una funzione essenziale rispetto alla ricezione della cultura cortese, in primo luogo perché hanno favorito il passaggio verso realtà culturali eterogenee. D’altro canto, tale mediazione ha comportato una riappropriazione dell’eredità occitanica e la definizione per essa di nuovi valori e significati, che a loro volta hanno condizionato le interpretazioni successive (trecentesche). Sono accertati solo due autori a proposito dei materiali biografici tramandati per i trovatori, a dispetto della loro notevole quantità. Da una parte Uc de Saint Circ firma esplicitamente tre testi (la vida di Bernart de Ventadorn e le razos di Savaric de Mauleon); tuttavia gli sono attribuiti quasi tutti gli altri, in alcuni casi con certezza, in altri con buona approssimazione. La sua riorganizzazione del corpus biografico risale alla prima metà del ‘200. Uc arriva in Italia nel 1220 circa, come suggeriscono anche i dati linguistici ricostruibili sulla base dei testimoni; non è possibile, d’altra parte, ipotizzare una datazione molto posteriore, poiché l’attività di Uc a corte diffonde quasi subito l’uso degli stessi materiali biografici. L’intervento autoriale del trovatore 79 Si tratta, come si è visto nel paragrafo dedicato alla circolazione dei codici trobadorici, dei rami indicati da Avalle come , y e “terza tradizione”. 80 Su questo argomento si vedano in particolare Panvini 1952, Favati 1953 e 1961, Liborio 1982, Meneghetti 1984, Cingolani 1988 e l’intervento di Meneghetti in Lachin 2008. 464 concerne la sistemazione scritta di tali narrazioni, le quali devono aver conosciuto in precedenza una circolazione orale. La composizione originaria di alcuni testi è infatti databile a prima del 1219, come rivelano i riferimenti a personaggi storici noti; in alcuni casi la collocazione cronologica è addirittura anteriore al XIII secolo. Osservando inoltre il rapporto tra vidas e razos, si nota che il loro inserimento in raccolte scritte ed organiche è grossomodo coevo; tuttavia nelle prime si coglie un’influenza delle seconde, rispetto sia ai contenuti della narrazione, quando manchino informazioni storiche sulla vita del singolo poeta, sia alla correzione di alcuni errori. Si può presumere, quindi, che la circolazione orale delle razos sia precedente a quella delle vidas. È invece tardo il contributo di Miquel de la Tor che, nel preparare la raccolta delle opere di Peire Cardenal, dopo gli anni ‘70 del ‘200, vi inserisce un approfondimento biografico, dedicato appunto a quell’autore. L’impegno di Miquel appare insomma eccezionale, sia per la peculiarità di un “libro” dedicato ad un singolo autore, sia per l’inconsueta occasione compositiva del testo biografico. A parte questo esempio isolato, il contesto in cui si è formato il corpus biografico appare unitario ed omogeneo; esso è legato all’area veneto-trevigiana, e soprattutto all’ambiente dei da Romano. L’area della Marca Trevigiana, dominata dai ben noti fratelli Ezzelino ed Alberico, mantiene a lungo un’organizzazione feudale: l’aristocrazia continua a preferire residenze in campagna piuttosto che in città, la borghesia gode di sviluppo ed importanza limitati, gli ambiti letterario-culturale e notarile o professionale in genere si mantengono a lungo distinti, permane una masnada, cioè un esercito personale di uomini senza terra, che apprezzano la vita di corte. Tali condizioni sono tutt’altro che moderne e creano un ambiente ideale per la ricezione della poesia e delle antiche consuetudini trobadoriche. Il loro recupero passa anche attraverso l’uso delle vidas e delle razos, le quali presentano l’autore e il componimento; esse introducono all’esecuzione e permettono una più piena comprensione. I testi biografici hanno dunque in primo luogo una funzione educativa a vantaggio del pubblico, sia rispetto alle singole manifestazioni di poesia, sia nell’incontro con l’ideologia cortese nell’insieme. Tale funzione introduttiva dev’essersi dimostrata utile anche per i giullari e i loro ascoltatori: è perciò ancor più efficace l’ipotesi di una circolazione pregressa ed orale dei materiali biografici già in Provenza. Tuttavia in area occitanica l’unica sistemazione che è lecito immaginare consiste nella trascrizione di ciò che si ascolta. Ora invece, benché l’effettiva fruizione continui ad essere prevalentemente orale, vengono preparate raccolte organiche e sistematiche, tanto unitarie nella struttura da non comunicare alcun senso di evoluzione. Le caratteristiche più evidenti sono la serialità delle narrazioni e l’interdipendenza di ciascuna rispetto ad un altro testo letterario: in esso i racconti biografici trovano la loro stessa giustificazione. Le razos in particolare rivelano una profonda interdipendenza: i rimandi reciproci sono frequenti e talvolta coinvolgono anche testi assenti nel singolo canzoniere o addirittura non conservati, noti dunque solo attraverso la citazione indiretta in altre narrazioni biografiche. Tali legami dimostrano che le razos hanno costituito un corpus precocemente unitario. Alcuni testimoni autorevoli per posizione stemmatica indicano inoltre l’esistenza di una serie ordinata, 465 secondo la quale si sarebbe definita in partenza la tradizione. Tale fattore ha spinto ad ipotizzare che in origine le razos non fossero anteposte ai singoli componimenti, ma costituissero gruppi unitari alternati a sezioni liriche altrettanto circoscritte, senza la necessità vincolante di puntuali rimandi tra prosa e verso. La struttura più antica si è conservata solo in un manoscritto; tuttavia possono esserne indizi alcune caratteristiche peculiari di altri codici, come riferimenti a incipit di liriche non contenute nella silloge, oppure l’indicazione di “canzoni” al plurale, quando alla razo ne segue una sola. Talvolta rimangono i segni di una rielaborazione in più fasi: in alcune razos il copista dichiara di seguire una fonte biografica anteriore o di proporne un riassunto. Alcune narrazioni sembrano derivare dalla fusione di diversi antecedenti, in parte anche connettendo rami distinti della tradizione; altrove si nota l’utilizzo della medesima fonte per narrazioni dall’esito divergente. Gravi scorrettezze, confusioni marcate, incongruenze peculiari sembrano risalire proprio a queste forme di rielaborazione: risultano, infatti, troppo intrecciate alle fasi alte della tradizione per poter essere attribuite a semplici errori e varianti di copista, che pure in seguito non sono mancati. Il lavoro sui testi è stato probabilmente finalizzato a creare un’omogeneità tra le sezioni di vidas e razos, in origine autonome, al fine di determinare collezioni coerenti; tale tendenza si è accentuata man mano che la tradizione si ampliava, dunque in corrispondenza con le parti più basse dello stemma. I materiali biografici contribuiscono, dunque, in modo determinante al recupero dei principi cortesi, ma al contempo ne mostrano una nuova interpretazione. Essa non deriva soltanto dalla trasposizione in un’epoca e in una società differenti; si cerca infatti di creare per il nuovo pubblico un sistema di riferimento uniforme e aproblematico, mettendo da parte i punti di vista molteplici che avevano caratterizzato il periodo classico del trobadorismo. In tale visione rinnovata si possono cogliere alcune costanti: la preferenza per le tragedie eroiche (sempre più esagerate) e i giochi galanti; la complicazione nel rapporto tra sentimento e attività poetica, per cui il canto perde efficacia rispetto allo stato infelice del poeta; l’importanza della condizione sociale, anche in merito alla conquista dell’amore e al servizio, per cui i limiti di uno status inferiore possono essere superati solo attraverso la garanzia del potente e buon feudatario. Resta invece l’idea che l’unica ricompensa desiderata ed ottenuta consista nel canto e nel servizio in sé. Alcuni valori fondanti della cultura trobadorica vengono stravolti: ad esempio, la centralità della misura, la cui assenza può determinare tragiche conseguenze, diviene motivo per una completa accettazione dello status quo. Si acuisce la distanza tra esperienza reale dell’amore e dimensione letteraria: è comune la finzione dello stato amoroso, che consente di dedicarsi all’attività poetica e così di mantenersi economicamente. La cultura cortese sopravvive insomma come costume letterario e galante. Osservando i due versanti della produzione di Uc de Saint Circ è possibile avere una piena percezione della distanza tra le concezioni antica e tarda. Egli infatti aderisce inizialmente alla maniera tradizionale; trasferitosi in Italia si dedica con successo alle biografie, con intenti educativi e narrativi espliciti, che ben spiegano le divergenze dei suoi componimenti più tardi rispetto alle forme classiche. 466 Sul piano tematico, vidas e razos mostrano innanzitutto che i poeti non incuriosiscono tanto in quanto personaggi storici e che il fine non è l’attendibilità dei dati proposti; domina piuttosto una generale tendenza all’idealizzazione e all’invenzione romanzata. A questo proposito, dunque, si coglie un’ulteriore alterazione del rapporto tra realtà e letteratura. La questione dell’attendibilità è per altro un nodo critico essenziale e su questo punto gli studiosi non sono sempre concordi. In generale si insiste sulla libertà con cui vengono redatte le affermazioni biografiche, che sembrano prendere amplissimo spunto dai testi poetici, piuttosto che dai fatti storici. In altri casi, tale inattendibilità è attribuita alla distanza cronologica tra avvenimento e narrazione, e non a malafede o al gusto dell’invenzione – gusto che per altro appare coerente con la concezione medievale dell’autorialità e della legittimità di rielaborare il testo. Perciò, per lo meno i racconti più antichi andrebbero considerati abbastanza affidabili. Panvini81 in particolare ha difeso con ottimismo la validità documentaria di quelle narrazioni, ritenendo che i resoconti biografici non derivino dai testi poetici, ma da fonti scritte o dalla tradizione dei racconti che rallegravano le corti. I dati palesemente leggendari non sarebbero il frutto della sovrapposizione tra letteratura e realtà, ma di quell’aura romanzesca che nell’ambiente cortigiano spesso trasfigurava l’immagine degli autori e delle loro imprese amorose. L’uso parallelo di fonti storiche solide sarebbe garantito dalla citazione veritiera di alcuni fatti e personaggi. Accolta l’ipotesi che vidas e razos servissero a rifunzionalizzare la poesia trobadorica, è stato possibile riconoscere alcuni modelli lontani che potrebbero averle condizionate. Si è pensato, ad esempio, agli aitia di Callimaco o alle adab arabe, che avevano proprio lo scopo di introdurre testi poetici. Fonti ancor più vicine ed accessibili sono i lais bretoni, in cui si delinea in modo simile un passaggio triplice tra fatto concreto, rielaborazione lirica e racconto (benché in versi); vanno poi considerate le agiografie, che hanno notevolissima diffusione nella letteratura medievale e che possono essere accostate alle vidas per la loro struttura narrativa breve. In quest’ultimo caso manca però la funzione esplicativa rispetto al testo liturgico di partenza. Gli accessus ad auctores, infine, offrono un confronto particolarmente efficace: sono testi concisi, funzionali all’introduzione e al chiarimento di opere considerate maggiori, quali un’auctoritas o, più spesso, un commento ad essa. Talvolta tali strumenti sono legati anche a testi letterari e in questi casi l’invenzione appare molto più libera. Dalla fine del XII secolo cominciano a circolare raccolte di accessus autonome, in cui i testi introduttivi sono slegati dalle opere cui si riferiscono; anche tali raccolte rivelano uno schema fisso e ripetitivo. Sul piano dei contenuti le somiglianze sono altrettanto notevoli; gli accessus si concentrano infatti sul racconto in sé e non sulla sua forma, per spiegare un significato nascosto e rivelare la ragione (cioè la razo) del discorso principale. Non mancano nemmeno materiali squisitamente biografici, paragonabili dunque alle vidas, e parimenti caratterizzati da vivaci invenzioni fantastiche o da informazioni prive di consistenza storica, tratte dalle opere stesse. Si riscontra dunque il medesimo rapporto tra vita e letteratura che appare alla base delle narrazioni 81 Panvini 1952. 467 trobadoriche. Gli accessus dedicati alle opere ovidiane offrono un esempio magistrale di tale connessione, per i loro elementi amorosi e moralistici, nonché per l’uso duecentesco di apporre simili introduzioni anche ad opere volgari, qualora fossero ispirate ai classici. Come si è visto la storia dei materiali biografici trova il suo culmine nella sistemazione scritta ed organica in Italia e la tradizione manoscritta82 lo conferma. I codici più ricchi ed importanti sono I e K; tuttavia l’assenza di alcuni errori genetici, fondativi dello stemma, potrebbe dimostrare che la versione di B è più antica, benché questo codice sia stato spesso trascurato. Un altro indicatore dei rapporti fra i testimoni concerne le vidas di Marcabru, Sordello e Bartolomé Zorzi, che sono assenti in B, presenti in A, ridotte allo stato di razos in I e K. Favati ha dunque proposto questa ricostruzione: B conserva la versione più antica e vicina alla raccolta originale, A testimonia un’aggiunta successiva (è noto che non tutte le biografie sono state sistemate o scritte nello stesso momento da Uc de Saint Circ), I e K recuperano quell’aggiunta e la propongono rielaborata, mentre in altre zone dello stemma essa potrebbe essere caduta. La situazione di F è diversa, poiché esso appartiene al medesimo ramo di I e K, ma al contempo è vicino ad una versione più antica persino del loro perduto antecedente (Xv), la quale trova in F un testimone fedele, privo di rimaneggiamenti e ampliamenti. N2 presenta una posizione intermedia: in parte è imparentato con F, in parte condivide le aggiunte di I e K. In tutto l’arco della tradizione, comunque, vanno ipotizzati diversi momenti rielaborativi, come quelli che caratterizzano E; è in questo modo che si sono delineate le redazioni divergenti giunte sino a noi. I codici che tramandano vidas e razos sono riconducibili a tre famiglie: la prima comprende A, B, O, a; la seconda I, K, N2; la terza H, P, R, E. Gli estensori di queste sillogi hanno probabilmente consultato più fonti, a seconda del pubblico cui intendevano rivolgersi; domina comunque la tradizione veneta e l’impronta del ramo . N2 rappresenta il caso più peculiare anche a livello testuale, perché per le vidas si associa a I e K, ma per le razos è imparentato anche con H e P. Per questa analisi Avalle si è basato innanzitutto sulla sua ricostruzione stemmatica ed inoltre sulla concezione di una tradizione articolata in più fasi83. Tuttavia alcuni studiosi (come Cingolani84) ritengono che sia più proficuo partire da una visione geografica, cioè dagli spostamenti e dalla posizione attuale di testi e raccolte sopravvissuti. Il metodo si applica particolarmente bene alle narrazioni biografiche, che ancora una volta sono organizzate su tre direttrici: racconti trascritti in Italia, ma poi tornati nel Midi ormai pacificato alla fine del Duecento, area veronese (molto produttiva ed avvantaggiata dalla presenza di provenzali), uno o più scriptoria veneti vicini alla fonte primaria, cioè ad Uc de Saint 82 A proposito della tradizione manoscritta dei materiali biografici, non solo è necessario considerare che i rapporti fra i codici non sono puntualmente sovrapponibili a quelli che riguardano il corpus poetico (con particolare riferimento alla ricostruzione stemmatica di Avalle 1961). Inoltre Favati ha sottolineato come anche tra la trasmissione delle vidas e quella delle razos ci siano divergenze molto significative. Per tale questione si rimanda in particolare a Favati 1961. 83 Avalle 1961. Della generale proposta ricostruttiva dello studioso si è già parlato nel corso del primo paragrafo. 84 Cingolani 1988. 468 Circ. La tripartizione giustifica l’impressione che ci fossero più fonti attive: infatti, sempre secondo Cingolani, alcuni codici, e soprattutto R ed M, rivelano stili diversi. Da un parte è coinvolta anche l’area italiana, dall’altra si determina così una certa evoluzione nel genere. In tale ricostruzione trovano spazio sia creazioni arcaiche, anteriori al contributo di Uc, sia narrazioni sempre più estese, che anticipano il gusto per la novellistica vera e propria. È facile dunque immaginare che tale percorso individui anche un’evoluzione cronologica, oltre che testuale. Alle diverse forme compositive si associano poi concezioni organizzative altrettanto divergenti, dalla soluzione più sintetica, con la sola razo prima del testo, ad altre più articolate, grazie all’inserimento della vida. Queste integrazioni possono essere anteposte al singolo testo o all’insieme dei componimenti di uno specifico autore, segnalando un intento biografico ancor più deciso, oppure tali racconti possono costituire una sezione distinta. Le diverse configurazioni rappresentano un ulteriore fattore di familiarità o estraneità fra codici, come l’organizzazione della pagina, che può addirittura rivelare divergenti modelli storici e culturali (ad esempio latini o ecclesiastici). 5. Canzonieri dedicati a singoli autori e raccolte d’autore Le sillogi liriche in cui, pur in mancanza di autografi e idiografi, sia possibile intuire un ordinamento autoriale sono definite “libri d’autore”, e possono eventualmente rappresentare solo una fase nel percorso evolutivo di una raccolta, o essere parte di una collezione per il resto perduta. Bisogna prestare attenzione alla distinzione tra libri d’autore in senso stretto, cioè pensati e organizzati dal poeta stesso, e raccolte d’autore come antologie dedicate ad uno specifico poeta, senza che ne sia coinvolto l’intervento85. In entrambi i casi, il concetto di “raccolta d’autore” non può che rivestire notevole interesse per chi studi il Canzoniere petrarchesco, la cui sapiente struttura può aver beneficiato di antecedenti occitanici, oltre che italiani86. A tale aspetto va poi affiancata ancora una volta l’utilità di vagliare una significativa modalità di diffusione del patrimonio culturale trobadorico, che avrà influenzato la percezione dei lettori. Le raccolte d’autore medievali che ci sono state tramandate sono pochissime e ancor più rari sono i canzonieri che si definiscano esplicitamente tali. La tradizione lirica cui abbiamo accesso è per lo più il frutto di selezioni e accostamenti voluti da committenti, copisti e studiosi, o resi necessari dall’effettiva disponibilità materiale dei testi in un determinato momento. 85 Sulla questione si leggano innanzitutto Avalle 1960, 1961 e 1985, Viscardi 19701, Brugnolo 1987, Bertolucci-Pizzorusso 19891, 19892 e 1991, Roncaglia 1991, Vatteroni 1998, Meneghetti 1999, Bourgain 2006 e Meliga 2006. 86 Per completare il discorso a proposito dei canzonieri d’autore italiani, si vedano Avalle 1985, Brugnolo 1987, Bertolucci 1989 e Meneghetti 1999. Sulla storia della forma canzoniere e in particolare sulla sua definizione terminologica, si veda anche l’utile sintesi in Gorni 1993, pp. 113-135. 469 Dunque la percezione moderna dei testi antichi è alterata da tali risistemazioni, che inoltre limitano la nostra comprensione del percorso autonomo compiuto da componimenti isolati o piccoli gruppi di rime, prima di successivi interventi organizzativi. In alcuni casi è lecito domandarsi, in particolare, se a monte delle collezioni superstiti possa esserci un contributo autoriale; anche gli esempi classici e mediolatini testimoniano il costante bisogno da parte dell’autore di andare oltre l’occasionalità e la singolarità del testo, verso una configurazione continuativa. Il criterio più promettente per questo tipo di analisi consiste nell’identificare scelte strutturali ingegnose e creative, dal punto di vista della quantità e della qualità. Si tratta insomma del principio della lectio difficilior, abituale nelle riflessioni filologiche a proposito di forma, ritmo, usi linguistici etc. Indubbiamente il quadro è reso più complesso e fluido dalle modalità di pubblicazione tipiche del Medioevo: il testo rimane presso l’autore anche dopo essere stato diffuso ed è quindi esposto parallelamente ad una doppia rielaborazione, autoriale e di copista, per cui si può delineare una tradizione anteriore e alternativa rispetto alla versione ultima dell’opera voluta dall’autore. Sono tipiche d’altronde le incomprensioni legate agli interventi di editori e amanuensi: è un pericolo reale soprattutto quando la raccolta è lunga e complessa. Infine è determinante la frequente tendenza medievale all’anonimato: rispetto all’esistenza di raccolte trobadoriche autoriali, è significativo che proprio i Provenzali abbiano per primi rifiutato tale costante87. Per una ricerca sulle raccolte d’autore, due condizioni sono preliminari ed essenziali: la sopravvivenza di un numero sufficiente di testi di uno stesso autore e la loro ridotta dispersione. Un indizio utile per lo studioso consiste nell’omogeneità delle opere e nella possibilità di scorgere una logica nella loro successione. In secondo luogo, i riferimenti essenziali nella valutazione di un “canzoniere” in senso stretto sono gli aspetti di intertestualità, perché elaborati al fine di produrre sovrasenso. Alcune tendenze sono particolarmente frequenti e percepibili: coppie di componimenti, legame tra explicit e incipit accostati, sino alle più varie connessioni tematiche e formali. Talvolta si riconoscono elementi che uniscono l’intera raccolta, mentre in altri casi ne è coinvolta solo una frazione, più o meno ampia; i fattori in questione possono essere esteriori (distributivi e quantitativi) o interni (ad esempio se si delinea uno sviluppo narrativo). Certamente i dati di carattere cronologico sono molto rilevanti, soprattutto perché in diversi casi sono esplicitati o comunque accessibili; infine anche i dettagli puramente materiali possono aiutare nell’analisi. Giungere ad un’ipotesi definitiva è tutt’altro che semplice, soprattutto nella pratica effettiva dei manoscritti sopravvissuti, in cui il canzoniere voluto dall’autore o curato da un editore consapevole non può che essere cercato all’interno di antologie più 87 Su questo punto riflette ad esempio Roncaglia 1991, che però sottolinea anche il permanere di una concezione collettiva della letteratura anche in ambito occitanico, come dimostra proprio la prevalenza di antologie e la diffusione dei florilegi. 470 stratificate88. In alcuni codici la successione ordinata dei testi non si è conservata per intero oppure è inframmezzata da opere di altri poeti, mentre è proprio la contiguità a suggerire con evidenza la raccolta d’autore. Un fattore di frazionamento frequente, ad esempio, è la separazione dei generi in sezioni distinte, che spesso caratterizza le sillogi trobadoriche; inoltre, i diversi testimoni possono non essere concordi per aver subito alterazioni e vicende diverse. Né tali difficoltà né il numero ridotto di esemplari effettivamente individuabili impediscono però di ritenere, ad esempio secondo l’opinione di Furio Brugnolo o di Valeria Bertolucci, che in origine l’impegno autoriale nella costruzione di una struttura ben definita fosse un’abitudine piuttosto diffusa. In ambito provenzale, ad esempio, è certa una sistemazione puntuale da parte di Guiraut Riquier, e sono sempre più accettate simili ipotesi per Peire Vidal89 e Cerverì de Girona, anche se non per la loro intera produzione. Una ricostruzione meno battuta concerne invece Pons de la Guardia, mentre per Peire Cardenal è certo che sia stata pensata una silloge ordinata, ma dall’appassionato Miquel de la Tor. Il caso di Gaucelm Faidit resta infine alquanto incerto tra organizzazione autoriale e intervento di un editore/copista. Per lo più questi primi esperimenti documentati in ambito volgare datano a oltre la metà del Duecento, con l’eccezione di Peire Vidal, la cui esperienza poetica si colloca a cavallo tra XII e XIII secolo. D’altro canto, non si può escludere che tale pratica sia anche molto più antica, come ha affermato Avalle90, sottolineando il valore esemplare delle parallele sperimentazioni messe in atto dai Minnesanger. 5.1 Guiraut Riquier Un esempio ben noto di canzoniere autoriale sopravvissuto è quello di Guiraut Riquier, trovatore tardo, attivo ancora alla fine del ‘20091. In effetti, la sua raccolta presenta una struttura organica ed evidentemente unitaria, senza pari in ambito occitanico, tanto che essa costituisce il termine di paragone fondamentale per ulteriori ricerche e ipotesi, anche in riferimento ad altri autori. Il “libro” di Guiraut è stato conservato, per la sola parte lirica, da due codici pienamente concordi (C ed R), entrambi caratterizzati da corpose rubriche che sottolineano la 88 Come in parte si è già visto, è questa la pratica più diffusa in ambito medievale, per suggestione dei canzonieri mediolatini e poi trobadorici, influenza questa particolarmente sentita in Italia. L’ordinamento interno più tipico è quello per generi, che riconosce il predominio alla canzone; i copisti italiani tendono poi a sovrapporre criteri di gusto e critica, nonché parametri di carattere storiografico, come si nota già alla fine del ‘200 nel Vaticano Latino 3793. Queste prospettive vanno in parte accostate, almeno secondo Brugnolo 1987, alla grande innovazione dei primi veri canzonieri, la Vita nova e i Rerum vulgarium fragmenta, che a lungo rimarranno esempi isolati, quasi una “novità eccessiva”, che però chiude una fase evolutiva (mentre ci vorrà più tempo perché contribuiscano ad avviarne una nuova). 89 Con questo non si vuole suggerire che tutti gli studiosi ne siano persuasi. Meneghetti 1999, ad esempio, ha sottolineato a proposito di Peire Vidal come l’ipotesi di una raccolta d’autore si fondi su prove piuttosto esigue ed esclusivamente testuali. 90 Avalle 1960. 91 Si è già fatto riferimento alla cura di questo autore per il proprio canzoniere nel primo e a più riprese nel secondo capitolo. Sulla produzione di Guiraut Riquier si vedano Anglade 1905, Bertolucci Pizzorusso 2001, pp. 331-332, Bossy 2001. Per la ricostruzione filologica della raccolta si considerino in particolare Bertolucci-Pizzorusso 19891, 19892 e 1991, e Meneghetti 1999. 471 continuità dei testi; soprattutto essi offrono informazioni che sembrano risalire al poeta in persona, poiché non possono essere ricavate dai versi stessi. La successione delle rime è evidenziata dalla precisissima indicazione delle date di composizione, che si distribuiscono in un arco di tempo piuttosto ampio, dal ‘54 al ‘92. Il manoscritto C riporta anche un’epigrafe con cui il copista dichiara di aver lavorato sull’originale; la forma di questa nota lascia supporre che l’abbia scritta proprio l’estensore di C e che non si tratti semplicemente di un’indicazione anteriore, trovata sull’antigrafo, perché entrata a far parte a sua volta della tradizione. L’epigrafe inoltre propone una sorta di titolo e un’indicazione di massima dei generi coinvolti nella struttura d’insieme della raccolta, dati che dunque potrebbero venire dall’originale di Riquier. A tale avvio corrisponde in conclusione una preghiera alla Vergine e a Cristo, che ha anche la funzione di dedica: i due accorgimenti hanno l’effetto di evidenziare dal punto di vista strutturale incipit ed explicit. Purtroppo le certezze si fermano a questo, poiché non è semplice valutare quanti cambiamenti possano aver introdotto i copisti nei brevi passi in prosa. I codici, inoltre, divergono su un’ulteriore componente del canzoniere originale, perché R dà grande importanza alla notazione, mentre C la trascura completamente. Le modalità meccaniche della negligenza dimostrata da questo secondo copista possono essere di notevole aiuto: infatti, nelle rubriche permangono rimandi sospesi, che si spiegano solo ipotizzando che l’antigrafo contenesse la notazione e che C l’abbia omessa. La conformazione dei due codici permette di intuire modelli affini, anche se non coincidenti. Entrambi presentano per altro pochissime precisazioni discorsive nelle sezioni dedicate ad altri autori (in R mancano addirittura quelle attributive), cosicché il paratesto individua quella porzione specifica dell’antologia che identifica il “libre”, distinguendola dal resto della silloge. Per quanto concerne R, dove la successione dei testi non sempre è perfettamente ordinata e spesso interrotta, l’unità strutturale è comunque compiuta, grazie non solo alle rubriche, ma anche alle iniziali miniate riservate ai testi di Riquier (oltre che alla primissima lettera dell’intera silloge). Dal punto di vista testuale, i testimoni sono in sostanza concordi nelle porzioni in prosa, a parte il fatto che R è molto più affrettato, ricco di abbreviazioni, privo della numerazione e spesso dell’indicazione del mese nella data di composizione (quasi sempre presente in C). La valutazione di altri eventuali principi strutturali oltre a quello cronologico non è ovvia, a parte l’evidente distinzione macroscopica in base al genere. La canzone è identificata come tradizionalmente più prestigiosa e, nel caso specifico di Guiraut, le tenzoni sono condannate a rimanere escluse dal nucleo forte della raccolta, tanto che la loro funzione nello sviluppo del continuum poetico è tutt’altro che chiara. Nella sezione delle canzoni si colgono elementi di connessione anche sul piano tematico ed espressivo, che da una parte isolano alcuni sottogruppi di testi e dall’altra li riuniscono in una successione coerente. Innanzitutto sono raccolti i testi dedicati all’amore terreno, in parte consacrato alla dama, in parte rinnovato nella serie delle pastorelle; segue – in corrispondenza con l’età matura – lo spostamento ad un amore celeste. È una seconda stagione emotiva e poetica legata alla prima dall’uso delle medesime immagini e soprattutto dello stesso senhal, che ora indica la Vergine. La 472 struttura complessiva è dunque bipartita, con l’ulteriore distinzione tra sezione in vita e in morte della dama amata. Lo studio dei singoli componimenti, inoltre, ha rivelato che la cronologia identificata dalle rubriche si riflette anche all’interno dei singoli testi; questi richiami divengono sempre più evidenti man mano che ci si avvicina ad un gruppo di componimenti in cui la vicenda amorosa è seguita quasi giorno per giorno. Un ulteriore fattore di unità concerne la numerologia: la passione per le cifre è ben testimoniata nell’intera produzione del poeta. Lo sviluppo cronologico e spirituale comporta un’attribuzione di senso univoca per ciascun componimento, la cui posizione è vincolante; tuttavia non manca un’impressione di dinamismo, anche in virtù dei diversi cicli e delle diverse fasi narrative. Come ha spiegato Valeria Bertolucci, il complesso impegno dedicato da Riquier alla sua silloge sembra volto ad un obiettivo più ambizioso della pura piacevolezza nella lettura; l’evoluzione del discorso acquisisce un valore didattico, come se ci si rivolgesse ad un aspirante poeta con un insegnamento retorico e letterario. La consapevolezza del trovatore è del tutto matura, tanto che sarà impossibile trovare una simile ricchezza di strumenti compositivi negli anteriori tentativi di creare una raccolta organica. Un primo limite, invece, va colto nella natura molto semplice ed esteriore dei legami tra i testi, per cui la raccolta appare sì unitaria, ma a partire da materiale eterogeneo. D’altronde, Maria Luisa Meneghetti ha evidenziato come all’origine di questa raccolta non risulti alcuna selezione testuale che permetta di delineare un discorso unitario, aspetto che invece sarà presto essenziale nella definizione stessa di “canzoniere”. L’elaborazione della struttura è presumibilmente tarda, posteriore alla gran parte della produzione di Riquier e quindi riconducibile agli anni ‘90: l’autore infatti dimostra una visione già complessiva, come richiede soprattutto l’equilibrio numerico e numerologico cui si è accennato. Valeria Bertolucci ha inoltre fornito un quadro contestuale molto interessante per comprendere appieno il contributo di Guiraut. Di origine iberica, egli fu legato soprattutto alla corte di Alfonso X, il quale fu grande estimatore di poesia cortese e a sua volta rimatore; proprio nei medesimi anni è stata preparata una silloge di suoi componimenti, contrassegnata da unità, coerenza e simmetria. Il tema dominante è mariano, come nella seconda metà della raccolta riquieriana e in coerenza con le tendenze della poesia provenzale tarda; la scelta è consapevole, poiché il re fu anche rimatore profano. Il canzoniere di Alfonso appare molto rigido nella struttura, anche nei frequenti dettagli numerologici: i testi sono cento ed organizzati in decine marcate dalla differenza di genere, secondo una scansione evidenziata dalla presenza, ogni dieci, di un testo di genere eterogeneo rispetto a quelli circostanti. L’appendice, le successive estensioni della raccolta e le illustrazioni recuperano e ribadiscono tale ordinamento. La natura ponderata del progetto si coglie nella revisione testuale, volta via via ad aggiornare i riferimenti interni ai singoli componimenti quando ne varia il numero complessivo; la numerazione è puntuale come la presenza di rubriche; i due testi d’apertura e chiusura sono invece esterni alla numerazione. Anche la notazione è sempre indicata con precisione. In effetti, la differenza essenziale tra la proposta di Riquier e quella del sovrano concerne il genere di riferimento: il primo guarda esclusivamente ad una prospettiva 473 lirica, mentre il secondo, lasciando ampio spazio alla componente miracolistica, si ispira soprattutto a movenze narrative. A loro volta le narrazioni di stampo mariano e miracolistico offrono esempi contestuali di raccolte organizzate con precisione, come nel caso, sempre iberico, di Gautier de Coinci in cui si riscontrano simili criteri cronologici, segnali d’apertura e chiusura, nessi intertestuali anche stilistici. 5.2 Peire Vidal92 La questione di un’ipotetica silloge autoriale preparata da Peire Vidal è irrisolta; la sua ricostruzione è ritenuta possibile da filologi autorevolissimi come Avalle, mentre vari altri studiosi ritengono che i dati a disposizione siano insufficienti. Lo stesso Avalle ha ammesso che la tradizione dei testi vidaliani è molto aperta e tarda; tuttavia il critico ritiene accessibile la definizione di un codice più antico e perduto, partendo dagli errori e dall’ordinamento dei testi nei canzonieri oggi disponibili. Le sillogi sopravvissute individuano due famiglie distinte, da una parte C ed R, dall’altra I, K, Da e H, che a volte sono concordi anche con N e Q. Il coinvolgimento di Da offre un riferimento cronologico nel segno del Liber Alberici da cui deriva, il quale è sicuramente anteriore al 1260, anno della morte del suo destinatario Alberico da Romano. Alcuni gruppi di componimenti rimangono stabili in tutti i codici, testimoniando probabilmente l’esistenza di un antecedente comune smembrato in fascicoli: ciò spiegherebbe perché l’associazione fra i testi all’interno di ciascun gruppo permane, mentre la successione dei gruppi stessi varia. Si individua così un nucleo fisso di diciannove canzoni, cui poi si sono aggiunte altre liriche già nell’ipotetico capostipite cui risale la famiglia I, K, Da, H, N, Q93. Altri codici (A, E, S) hanno qualche punto di contatto con tale ramo, ma non mancano elementi di connessione anche con quello alternativo (C-R), il quale in particolare deve aver avuto per i testi di Vidal un capostipite comune con E, definito . Tuttavia E è legato anche al gruppo , poiché entrambi sono associati dall’appartenenza nello stemma generale al ramo . R è forse il più fedele al codice antico ipotizzato, come potrebbe indicare l’ordinamento di tre apocrifi vidaliani, ma C – seguito da A – è il più affidabile. Questi due codici sono inoltre molto vicini tra loro: differiscono infatti per un solo testo, che A sembra aver recuperato dal ramo , forse a seguito della caduta di una pagina. Qualche altro scarto si comprende facilmente sulla base dei normali meccanismi di copiatura. Della silloge vidaliana si riconoscono dunque diciannove testi grazie al confronto tra C e il gruppo +E; i componimenti dovevano originariamente susseguirsi in ordine cronologico, evidentissimo ad esempio per undici dei testi di A. Sono solo tre le rime che nei codici si sottraggono radicalmente a questo principio, fatto che potrebbe essere motivato dall’uso di una fonte secondaria forse già a livello archetipico. Ne deriva 92 Riferimento essenziale è Avalle 1960. Si noti che, sempre secondo la ricostruzione di Avalle 1960, N e Q sono separati da passaggio, . 93 474 da un ulteriore dunque una serie ampliata sino a sedici canzoni, cui si aggiunge una coppia (17 e 18) indivisibile per tema94. La prima ipotesi da formulare concerne a questo punto l’estensore della raccolta di partenza, che per Avalle è lo stesso Peire Vidal. Lo suggeriscono la precisione dei parametri compositivi, la scelta dell’ordine cronologico e non metrico o formale, che sarebbero stati più familiari ad un copista, ed infine la tipologia degli errori riconducibili all’archetipo x, che lasciano supporre che il suo estensore abbia letto un antigrafo dalla grafia non calligrafica, ma individualizzata. Già in x devono essere entrati i testi vidaliani che non risentono della struttura ponderata attribuita ad O; ma anche in sono stati inseriti testi nuovi, che infatti non lasciano traccia in e , e che giungono in alcuni codici (A, B, D, E, H, e, T, J, N) al di fuori della “raccolta d’autore”, grazie al fatto che essi appartengono ad nello stemma generale. D’altro canto la probabile conformazione di collettore di varianti di complica ulteriormente i rapporti tra i codici: ad esempio anche R ed E ne discendono in parte. Va infine considerato che l’intera tradizione è contaminata. A proposito del contenuto, la scelta dei testi è eclettica, con una certa preminenza delle canzoni d’argomento provenzale in senso stretto. Ecco perché è probabile che l’autore abbia raccolto i suoi testi nel passaggio attraverso la Provenza durante il suo viaggio dalla Spagna all’Italia, come suggerisce qualche riferimento storico nei testi, utile anche ai fini della datazione, da collocare probabilmente tra 1201 e 1202. La tradizione lascia intuire anche l’esistenza di altre due raccolte, la seconda delle quali in particolare sembra composta da otto canzoni e potrebbe essere ancora più antica; l’intervento autoriale è qui suggerito dall’ordine inconsueto dei testi, perché volutamente inverso rispetto a quello cronologico. Avalle ha dunque pensato che si trattasse di un gruppo di componimenti preparato per i giullari. I codici che permettono tali riflessioni rimandano al ramo y dello stemma: poiché in parte coincidono con quelli che discendono dall’archetipo x, la peculiarità di questa famiglia consiste nella capacità di raccogliere tradizioni differenti. 5.3 Cerveri de Girona A proposito dell’impegno compositivo di Cerveri de Girona, anch’egli trovatore tardo e spagnolo, restano ben pochi indizi. Infatti, è stata tramandata95 una sua affermazione rispetto all’intenzione di “dire pubblicamente” a corte, cioè di pubblicare, ventidue sue opere, di cui è precisato anche il genere. Di questo autore si sono però salvati numerosissimi testi, rendendo davvero difficile ricostruire quali fossero quelli destinati a tale raccolta; non sono sopravvissute neppure indicazioni ulteriori rispetto alla cronologia o all’ordinamento. Tuttavia altri fattori paiono promettenti. Infatti, la tradizione è molto compatta in questo caso, poiché si concentra quasi esclusivamente nel canzoniere Sg; la destinataria e dunque la donna amata è una sola; sono 94 La rappresentazione dello stemma si trova in Avalle 1960, non a caso ad introduzione dell’edizione critica di Peire Vidal. 95 Bertolucci 19891. 475 sopravvissute anche alcune rubriche d’origine probabilmente autoriale e comunque molto omogenee. Il genere lirico offre un altro elemento di coesione: la successione dei testi, anche se in parte ricostruita, determina in modo affidabile un graduale passaggio dalla sfera amorosa a quella spirituale, in perfetto accordo con le tendenze culturali dell’epoca in cui visse l’autore. 5.4 Gaucelm Faidit La produzione di Gaucelm Faidit offre un’interessante opportunità di riflettere sulla struttura dei Liederbücher: i testimoni che la tramandano e soprattutto i componimenti sopravvissuti sono particolarmente numerosi. Purtroppo però mancano indicazioni sufficienti per accertare se la raccolta si debba all’autore o ad un copista. Viscardi96 ha individuato dodici brevi gruppi di testi il cui ordine interno si mantiene stabile in canzonieri dall’origine storico-geografica anche molto diversa. Cercando invece serie di liriche più estese, ha riscontrato nove opere che tornano in successione costante in dieci canzonieri, nonché alcune coppie sempre indivise. È dunque possibile ipotizzare che le serie brevi si debbano al riproporsi di fogli sciolti sempre con le medesime associazioni, mentre il gruppo più ampio potrebbe risalire all’esistenza di un Liederbüch97. Secondo Vatteroni, questi indizi sono sufficienti ad affermare una parentela o comunque una forte coerenza tra testimoni che appartengono ai due rami principali della tradizione, e y98; i codici di y, però, sembrano isolati gli uni dagli altri rispetto al trattamento della sezione di Faidit, come se vi avessero avuto accesso autonomamente. Il comportamento dei codici che costituiscono il terzo ramo della tradizione, individuato da Avalle99, è ancora differente, poiché essi concordano con solo per la serie lunga, è perciò è possibile che lascino intravedere una fase più antica della raccolta. Il confronto di tali rapporti con lo stemma dedotto dai dati testuali non è conclusivo, poiché solo parte delle connessioni individuate con i due diversi metodi sono sovrapponibili. 5.5 Peire Cardenal: il “libre” di Miquel de la Tor Le opere di Peire Cardenal sono state raccolte in una silloge100 autonoma dall’appassionato copista Miquel de la Tor a Nîmes, intorno al 1275101. Il “libre” deve 96 Viscardi 19701, che è poi il riferimento essenziale sulla questione insieme a Vatteroni 1998. Viscardi 19701 in realtà ha proposto di ipotizzare più fasi evolutive intermedie, ma Vatteroni 1998 ha evidenziato il limite di tale proposta: esse non possono essere puntualmente isolate, anche a causa della sovrapposizione delle serie più ampie costituitesi in seguito. 98 Tale ipotesi non trova concorde Meneghetti 1999, che ritiene la coerenza delle serie di testi insufficiente nei testimoni del ramo y. 99 Avalle 1961. 100 Su questa silloge possono essere consultati Debenedetti 1924, Zufferey 1987, Careri 1991 e 1996, Vatteroni 1998. 101 Vatteroni 1998 precisa che il momento della compilazione potrebbe essere un poco anteriore alla morte del Cardenal (avvenuta appunto nel ’75) o subito posteriore, non oltre il 1280. 97 476 aver dapprima conosciuto una circolazione autonoma, per poi essere stato integrato in canzonieri più ampi; in T e D, ad esempio, forma una sezione autonoma, anche a livello materiale, visto che nel primo caso la mano è diversa e nel secondo è differente anche la datazione, più tarda. Negli altri testimoni le opere di Cardenal possono costituire semplicemente il gruppo iniziale (I, K, M) o finale (A) nella sezione dei sirventesi, mentre in J aprono l’intero canzoniere. Infine in R e in C la distinzione si perde del tutto. La coerenza della struttura interna, comunque, si è in gran parte salvata, anche se è divenuta più flessibile in R, C e M, ed è molto alterata in D e T. L’osservazione dell’ordinamento e lo studio linguistico condotto da Zufferey102, permettono di sostenere che in alcuni casi sono state sommate più fonti, talvolta solo per integrare qualche testo, ma in qualche caso in modo sistematico, come avviene in D. Indubbiamente ci sono vari passaggi intermedi tra la raccolta originaria e la compilazione dei codici sopravvissuti103. L’analisi della tradizione condotta da Vatteroni104 ha rivelato ulteriori elementi. Le difformità di D, T ed anche M potrebbero essere ricondotte all’uso di fonti alternative al “libre” già costituito, nella forma di fogli sparsi, che rappresenterebbero una fase molto antica della tradizione; T in particolare è il testimone più attendibile a livello testuale, molto meno invece sul piano strutturale. C, R, I, K105, J, che sono tra loro molto affini, sembrerebbero partire dal Liederbüch preparato da Miquel, che però finisce per essere smembrato, il che spiegherebbe le oscillazioni nell’ordinamento. Secondo la ricostruzione testuale di Gröber, in gran parte accolta anche da Zufferey106, il nucleo fondamentale della raccolta consisterebbe in cinquantacinque componimenti, nove dei quali determinano una prima serie su cui concordano quasi tutti i codici; si presume che questo sia il gruppo d’apertura della raccolta. Si procede poi con altri nuclei isolabili, il cui ordinamento interno presenta una buona coerenza anche nei testimoni non riconducibili (almeno in partenza) alla medesima tradizione. La configurazione dei piccoli gruppi potrebbe dipendere dalle modalità con cui si sono conservati e diffusi i fogli sparsi cui deve avere attinto per il suo “libre” lo stesso Miquel107. 102 Vedi sopra il paragrafo sulla circolazione dei manoscritti. Per gli antecedenti di T, ad esempio, possono essere contati almeno due passaggi, segnalati da collocazioni geografiche diverse – provenzale e limosina – prima dell’arrivo dell’antigrafo in Italia, dove T appunto è stato esemplato. 104 Vatteroni 1998. 105 Questo caso è in realtà ancora diverso, perché il copista comincia la sezione dedicata a Cardenal con una vida e due sermoni. Non si tratta però di liriche e, secondo Zufferey 1987, proprio la discrepanza rispetto ai sirventesi, che avrebbero dovuto aprire la sezione, potrebbe aver motivato l’interruzione della loro trascrizione. Non secondo Vatteroni 1998, il quale riconduce l’aggiunta al ritrovamento di una fonte ulteriore, forse proprio quei fogli sparsi che rappresentano una fase più antica della tradizione. Che si tratti di un’aggiunta è comunque certo a livello materiale, come denotano le caratteristiche della pergamena. 106 Zufferey 1987; per la posizione di Gröber si veda invece Avalle 1961. 107 A livello testuale, Gröber (citato da Avalle 1961) ha cercato di rintracciare l’area della tradizione cui vanno attribuiti i materiali utilizzati da Miquel de la Tor per la sua raccolta. Questo l’esito: K1+m (=Tb+M+As). 103 477 Sappiamo dell’esistenza di una raccolta preparata dal “maestro Miquel de la Tor” grazie a due fonti attendibili. Nel ‘500 il filologo modenese Barbieri ne possiedeva una copia, che gli servì per la sua raccolta trobadorica incompiuta, intitolata “Origini della poesia rimata”108, oltre che per le sue collazioni, che sono raccolte nel codice b, oggi alla Biblioteca Vaticana (Barb. Lat. 4087). Tale testimone è il frutto del confronto tra le lezioni testimoniate in Z e in M: il suo ritrovamento ha rappresentato una scoperta fondamentale perché il manoscritto contiene una copia dei testi che il Barbieri ha tratto proprio dalla raccolta di Cardenal (Z) e dunque offre uno strumento utilissimo per distinguere questa dalle altre fonti provenzali109 accessibili al filologo110. Tale sezione consiste di quarantaquattro fogli (definiti b2), preceduti da otto carte (b1)111 su cui sono riportate citazioni provenzali con traduzione italiana, che corrispondono puntualmente all’antologia creata dal Barbieri, secondo l’edizione ancora diffusa nel ‘700. L’antigrafo di questa trascrizione non coincide con le fonti da cui dipende il manoscritto dell’antologia, di cui si conoscono una minuta (ricchissima di citazioni provenzali) ed una bella copia. Già nel ‘400 comunque un testamento spagnolo recava notizia di un manoscritto associato al nome di Miquel. È molto difficile immaginare che si trattasse del medesimo codice poi in possesso del Barbieri; non si può invece escludere che la versione conservata in area iberica fosse l’originale. Anche nell’800 sono giunte dalla Spagna indicazioni preziose, benché siano state poco sfruttate, che attestavano la riscoperta di un peculiare codice trobadorico; in realtà la dichiarazione era parzialmente fallace, poiché il proprietario parlava di un poeta di Montpellier, di cui il codice sarebbe stato raccolta esclusiva. Bisognerà ipotizzare che egli si sia confuso rispetto alle affermazioni di Miquel, estensore della silloge (non autore dei suoi testi), che dichiara di essere originario, appunto, di Montpellier. La raccolta risulta in parte ricostruibile accostando agli appunti del Barbieri le testimonianze di altri studiosi, tra cui in particolare Alessandro Tassoni, che usò l’originale del “libre” o una sua copia diretta per analizzare parte delle citazioni occitaniche di Petrarca. Va poi ricordato il canonico Gioacchino Plà, che nella sua antologia settecentesca mescolò varie fonti diverse, tra cui b2 (in una versione in cui era ancora presente la parte attualmente strappata, benché il codice fosse già parzialmente mutilo nel ‘600). Il Plà lasciò anche alcune note relative ad un’antica edizione 108 L’opera è rimasta inedita sino al 1790, anno dell’edizione Tiraboschi. Se ne é già trattato, dal punto di vista della rinascita degli studi provenzali, nel corso del primo capitolo. 109 Si tenga in conto che Barbieri utilizzò quattro fonti, che chiamava “libro di Michele”, “libro in asc (cioè rilegato con assicelle)” che era copia di M, “libro slegato” e “libro siciliano”. Per qualche informazione sul destino della biblioteca del filologo, si veda Careri 1991, pp. 330 segg. Debenedetti 1924, che già aveva affrontato la questione del “libre” in riferimento al lavoro del Barbieri (e in più in generale al suo impegno come provenzalista insieme al Castelvetro, di cui si è parlato nel capitolo primo), affermò che le indicazioni dello studioso rivelano anche il suo studio di D (citato apertamente), C e K. Tali codici non paiono però fonti dirette per il Rimario. 110 Il lavoro filologico sui provenzali del Barbieri non si è limitato al Cardenal e alla raccolta. Sappiamo che egli preparò un piccolo codice coi soli testi di Arnaut Daniel, che studiò il Donatz proençal e che la parte incompleta del suo Rimario doveva essere dedicata alle strutture metriche trobadoriche. 111 Dunque, b1 e b2 sono distinti solo sul piano filologico, non su quello materiale. 478 corrispondente a b1 e b2, che nell’insieme vengono definite b4. Egli parlava di un codice di sua proprietà: dev’essere una copia della raccolta del Barbieri, che si intuisce tarda e di mano poco esperta. Il Plà, inoltre, deve aver avuto in suo possesso materiali riconducibili ad una duplice tradizione, quella dei codici M e Z (il “libre” appunto), cioè proprio i manoscritti confrontati dal modenese. La testimonianza di questi canzonieri si riflette in un terzo manoscritto, definito Mh2112, dove le due tradizioni non si fondono, ma originano due sezioni distinte, rispettivamente g3 e b3113: quest’ultima diviene dunque un ulteriore strumento per la ricostruzione della silloge di Miquel. Grazie al confronto con le citazioni del Barbieri, infatti, è dimostrato che l’ordinamento di Mh2 per i quarantacinque testi derivati da b3 è quello antico; questa sezione del codice madrileno, inoltre, riempie perfettamente le lacune lasciate dal filologo modenese nelle sue citazioni. Laddove il Plà parlava di due codici distinti, è economico immaginare che egli si riferisca alle due parti autonome proprio di Mh2, che può essere così identificato con la silloge che lo studioso dichiarò in suo possesso. Il Barbieri ha lasciato, inoltre, alcune annotazioni su una copia, oggi a Venezia, del De vulgari eloquentia edito dal Trissino, con le quali correggeva gli incipit trobadorici citati da Dante. I documenti a noi noti e le loro relazioni possono così essere sintetizzati, secondo la ricostruzione di Maria Careri114: LibMich = Z Barbieri Origine ramo spagnolo, noto tra ‘400 e ‘800 b2 + M note al DVE Minuta b1 Bella copia Edizione del Tiraboschi (annotata dal Plà) b3 g3 M Mh2 Antologia del Plà (e) 5.6 Bertran de Born115 Anche per questo celebre trovatore resta traccia di una raccolta autonoma, di certo non autoriale, ma pensata da un amatore, la quale ebbe circolazione solamente in Italia. Il copista sceglie numerosi componimenti del poeta, misti per genere, e poi in gran parte li 112 Il codice è conservato a Madrid e reso riconoscibile da due indicazioni sul dorso, “trobes en lemosin” e “cod de poesias provenzales”. Comprende sessantaquattro testi lirici, alcuni dei quali doppi, e tre vidas; è organizzato in due parti: una è imperniata intorno a Peire Vidal, l’altra è più varia. La presenza delle rime doppie è rilevante, perché ha permesso un lavoro critico (e a volte una vera e propria contaminazione) all’estensore di e. 113 Dovrebbe corrispondere alle carte 7-15 della raccolta di Miquel, in base alla sua ricostruzione. 114 Careri 1991. 115 Per questo studio si veda Bertolucci-Pizzorusso 1991. 479 commenta in prosa. Ne sono testimoni F, I e K; nei “gemelli” la disposizione è peculiare perché il commento si trova alternativamente prima e dopo i testi, probabilmente per rispettare il generale criterio di impaginazione, mentre in F la parte in prosa è sempre anticipata, sostituendo la razo. La scelta del copista di I e K è evidenziata dall’inchiostro, nero per i versi (cui sono accomunate anche le razos, per le quali la tradizione non presenta nessuna anomalia rispetto al restante patrimonio trobadorico) e rosso per la prosa: l’obiettivo è mantenere l’alternanza. È un vincolo determinante per l’estensore, e piuttosto faticoso, poiché lo costringe continuamente a inserire rimandi per chiarire quale prosa si riferisca a quale componimento (né mancano errori e cancellature). La produzione di Bertran de Born offriva la possibilità di evidenziare un’uniformità al contempo tematica e di genere, nel segno del sirventese. Si tratta di una tendenza e non di una regola; tuttavia la reale oscillazione tra i generi viene ignorata con una precisa scelta strutturale: le canzoni, infatti, non sono presentate come tali, per dare l’impressione che non ci sia alcuna discrepanza nell’insieme. Un altro criterio risulta evidente se si considerano insieme a Bertran, l’autore principale, gli altri poeti che gli sono accostati: anche in tal senso si cerca di insistere sull’unità di forma e contenuto. Ne consegue ad esempio l’associazione tra l’opera poetica e l’estrazione sociale nobile, secondo una focalizzazione che ben si accorda con le vicende e i problemi socio-politici del Veneto del tempo; sulla base dei testimoni che sono sopravvissuti, si può presumere che la raccolta sia stata preparata proprio in quest’area. La forma prosimetrica che caratterizza la silloge ha un valore storico particolare. È vero che in questo caso assume una configurazione gerarchizzata, per la preminenza delle parti scritte dall’autore rispetto a quelle preparate dal suo estimatore; tuttavia proprio tale soluzione ha favorito la creazione dei primi veri “libri” lirici organizzati in una macrostruttura116. 6. La vicenda peculiare di due sillogi: Bernart Amoros e il conte di Sault È utile trattare autonomamente due raccolte peculiari, non tanto per il contenuto (sono entrambe classiche sillogi trobadoriche), quanto per la loro storia. Da una parte, il canzoniere compilato da Bernart Amoros è un raro esempio di raccolta ragionata, anche se questa volta non dedicata ad un singolo autore, quanto alla tradizione nell’insieme. Dall’altra, il codice in origine appartenuto al conte di Sault è stato poi in possesso di un personaggio illustre ed importante per l’evoluzione della provenzalistica, il Nostredame117. I due manoscritti sono perduti, ma ricostruibili; entrambi sono legati alla Provenza e probabilmente vi rimasero per un certo periodo, aspetto determinante rispetto alle possibili letture petrarchesche. 116 117 Ovviamente l’esempio per eccellenza è la Vita nova di Dante. Il “biografo dei trovatori” è stato ampiamente citato nel corso del primo capitolo. 480 6.1 Il canzoniere di Bernart Amoros Bernart Amoros era un monaco alverniate, vissuto a cavallo tra ‘200 e ‘300, noto per aver preparato una silloge trobadorica, definita a118, in cui si autonominò esplicitamente quale estensore. Egli dichiarò di aver viaggiato molto in Provenza, di aver conosciuto numerosi trovatori e di aver letto con attenzione le loro opere; affermò infine di aver mantenuto il medesimo puntiglio durante la copiatura dei testi. Indubbiamente la sua appartenenza linguistica all’area occitanica è molto significativa; l’antologia che ci ha tramandato dimostra inoltre che egli possedeva un buon livello culturale. Il suo canzoniere non è stato organizzato in base ai generi, ad eccezione delle tenzoni, che costituiscono un gruppo a parte a conclusione del libro; è ipotizzabile che tale struttura fosse già propria del modello da cui sono tratti i testi. Nella prima metà circa si trovano numerosi componimenti in testimonianza unica; la sezione delle tenzoni è invece strettamente imparentata con il codice trobadorico O, come rivelano puntuali coincidenze testuali. Tale rapporto motiva qualche dubbio a causa della notevole distanza geografica tra le due sillogi, in quanto O è italiano e trecentesco, mentre Bernart scrive forse già negli anni ‘70 del Duecento. È difficile sostenere che il codice di Amoros sia arrivato in Italia così presto, ma solo accettando questo passaggio si può pensare che O sia copia parziale del codice del monaco. Non è chiaro, per altro, in quale ramo della tradizione vada collocata la silloge, in cui è molto probabile che si intreccino più influenze; si può però ipotizzare che una delle fonti di Bernart fosse imparentata con il codice del conte di Sault, che quasi certamente conteneva alcuni testi119 ora tramandati solo dalla silloge di Amoros. Va evidenziata inoltre la connessione di a con altri canzonieri a proposito delle sezioni dedicate ad alcuni autori: I e K per Bonifaci Calvo e Lanfranco Cigala, A per Daude de Pradas. Si parla però sempre soltanto di affinità, e non di identità o derivazione diretta. L’originale della raccolta composta da Bernart Amoros si è conservato sino alla fine del ‘500: apparteneva a Lione Strozzi e lo utilizzò Piero del Nero per collazionare e correggere la copia dello stesso codice a che Jacques de Tarascon aveva approntato per lui. Oggi ci resta solamente quella copia, smembrata – non si sa in quali circostanze – in due parti, il frammento detto “Campori”, perché appartenuto all’omonimo marchese e oggi conservato alla Biblioteca estense a Modena, e il frammento della Biblioteca riccardiana (ms 2814) a Firenze. Nella copia del Tarascon mancano numerosi componimenti, che però del Nero poté leggere nell’originale. Egli infatti ne collazionò trentotto annotando le varianti su due altri codici, Fa e Ca. Tuttavia un indice di capoversi ritrovato alla Biblioteca di Firenze mostra che i componimenti mancanti sono in realtà più numerosi e pari a centodieci. È stato così possibile ricostruire, nonostante alcune discrepanze testuali, un’ulteriore fase di lettura svolta da del Nero sull’originale (senza a quanto pare collazionare i testi per iscritto), a confronto con i codici detti Gaddi e Adriani. Proprio le loro tavole 118 119 Per la bibliografia sulla raccolta, si vedano Bertoni 19111 e 19112. Della ricostruzione del codice si tratterà nel corso del paragrafo successivo. 481 consentono la piena ricostruzione della raccolta perché del Nero le ha copiate in fondo al complemento Campori. Inoltre, alcuni testi erano probabilmente illeggibili, perché sbiaditi, altri erano doppi. In generale, è probabile che Tarascon abbia in alcuni casi trascurato le richieste o le indicazioni di del Nero nel preparare la sua copia. A livello testuale comunque la sua qualità è buona, rivelando un copista preciso, ma poco colto e preparato; l’origine dei suoi errori è dunque abbastanza semplice da comprendere, tanto da favorire persino la valutazione di qualche guasto già presente nell’antigrafo usato dal Tarascon. 6.2 Il canzoniere del conte di Sault Più volte è capitato di citare il manoscritto noto semplicemente come “del conte di Sault” perché a lui appartenuto; questo codice è sì perduto120, ma ricostruibile sulla base di alcune citazioni, studiate in particolare da Camille Chabaneau e Joseph Anglade121. I documenti fondamentali per tale impresa filologica si devono al Nostredame122 (15221577) noto per la sua fantasiosa e letteraria raccolta di biografie trobadoriche123, che lo vede ben più novellatore che erudito. Tuttavia è importante che egli ricordi la lettura del codice scomparso, sia nel proemio alle sue “Vite”, sia in un’epistola d’argomento eterogeneo, sia in alcune pagine manoscritte conservate oggi presso la biblioteca di 120 Alcuni studiosi, tra cui Meyer, hanno cercato di identificarlo con alcuni manoscritti sopravvissuti, ma senza successo: B ed M sono troppo piccoli, K e A erano in Italia nel '500, quando Nostredame leggeva il codice del conte in Provenza, mentre I, che sarebbe coerente sia per la quantità di testi che tramanda sia per la sua storia, appare non sovrapponibile a livello testuale. 121 Per la ricostruzione del codice si vedano Chabaneau-Anglade 1911 e Anglade 1970. 122 Tra le sue opere andranno ricordate, oltre alla nota antologia biografica, un’agiografia dedicata a S. Hermentaire, alcuni componimenti in versi, il glossario provenzale di cui si dirà a proposito dei fogli conservati a Carpentras (e in copia ad Aix-en-Provence), nonché una cronaca della Provenza redatta in duplice lingua. Tale interesse storiografico si riflette anche nelle “Vite”, in cui lo scopo di far conoscere l’antica letteratura è rilevante, ma non principale; l’intento cronografico è motivato dall’orgoglio di provenzale, oltre che dal desiderio di far piacere ai potenti locali (non mancano tentativi di far derivare le famiglie nobili del suo tempo dai trovatori più illustri). Nostredame ha scritto prevalentemente in età matura: benché la cronologia delle diverse opere non sia chiara (soprattutto in merito alle differenti versioni della raccolta biografica), è certo che esse sono tutte vicinissime e tarde. 123 Le invenzioni dell’autore riguardano soprattutto i trovatori per cui non aveva scoperto fonti biografiche abbastanza ricche ed interessanti. La soluzione più frequente prevedeva la rielaborazione in forma narrativa di suggestioni presenti nell’opera poetica; laddove essa offrisse spunti troppo limitati, Nostredame procedette riunendo più testi eterogenei sotto il nome di un unico autore, cosicché ne risultasse un insieme sufficientemente elaborato e intrigante. Un peculiare spazio di invenzione gli era inoltre concesso dalle fonti in altre lingue (soprattutto italiano), traducendo le quali trovava facilmente spazio per inserire dettagli fittizi. Inoltre egli contestualizzò nel passato fatti e personaggi (poeti, in particolare) della Provenza del suo tempo. Non andrà dimenticata l’invenzione di numerose “corti d’amore”, ispirata ad alcune manifestazioni di questo tipo effettivamente trobadoriche, ma con la licenza di elencarne partecipanti e avvenimenti fittizi. Il contenuto spesso fumoso è mascherato con sapienza, grazie ad uno stile convenzionale, spesso addirittura formulare. Per quel che concerne la scelta degli autori e dei testi da citare, l’intento dell’estensore non è sempre chiaro, né aiutano le fluttuazioni che l’opera ha conosciuto nel corso delle sue diverse redazioni. È evidente comunque che il Nostredame si è posto costantemente il problema dell’importanza dei poeti da presentare, sulla base della qualità e della quantità dei materiali disponibili per ciascuno di essi. 482 Carpentras. Del medesimo codice resta infine la testimonianza posteriore ed autonoma di Reimond de Soliers124, che però nulla aggiunge alle precedenti. Il problema principale rispetto alla testimonianza del Nostredame è la sua reticenza sulle fonti che ha utilizzato: la principale dovrebbe essere una silloge trobadorica di cui si è salvata una copia presso la Biblioteca Riccardiana (con segnatura 2814); egli ha poi utilizzato la silloge di Bernart Amoros, probabilmente nella veste originaria, e forse il codice f. È però evidente che egli ha fatto riferimento anche al codice del conte125 ed anzi Bartsch126 ha sottolineato come proprio la figura storica del nobile proprietario possa essere stata d’ispirazione per due autori fittizi citati nelle “Vite”. A queste informazioni, il Nostredame aggiunse un’ulteriore indicazione: sarebbe esistito un secondo manoscritto appartenuto al conte, che potrebbe essere stato tanto simile ad a o ad f, fonte sicuramente importante e al tempo di proprietà del biografo, da renderne superflua la citazione127. Molto probabilmente il Nostredame ha utilizzato vari altri codici, di cui alcuni perduti: affini di g, O, I-K-d ed S. La sua mano si riconosce nelle postille di T, in cui però non ci sono testi biografici, ma solo poetici. Questi rapporti intricati a livello di tradizione non comprendono però alcuna derivazione diretta: Chabaneau ha evidenziato, ad esempio, come il codice di Sault non possa essere identificato con l’antigrafo del Riccardiano, cioè la fonte primaria per la raccolta biografica. Sulla base dei fogli di Carpentras (una versione manoscritta delle “Vite” più una lista di testi128 che il Nostredame aveva approntato come materiali 124 Soliers, ricordato per una cronaca della Provenza, trasse una lista di testi e autori dalle “Vite” del Nostredame; un primo problema è rappresentato dalla difficoltà di capire quale versione dell’opera leggesse. Secondariamente, questa lista non combacia esattamente con l’antologia: presenta varie lacune e per contro aggiunge una quindicina di nomi che vi erano assenti. Alcuni indizi lasciano pensare che Soliers si riferisse ad una redazione anteriore a quella definitiva – infatti parla al futuro della pubblicazione – il che spiegherebbe la discrepanza nel numero di nomi citati: mentre il Nostredame doveva per il momento limitarsi a quei poeti di cui aveva sufficienti notizie per le sue biografie, Soliers, autore di una banale lista, poteva estendere i propri riferimenti. 125 Questo manoscritto deve aver costituito in particolare la fonte primaria della prima redazione dell’antologia, conservata nei fogli di Carpentras in cui si legge anche il glossario. Gli altri riferimenti per quella versione paiono gli antichi commenti alle citazioni occitaniche in Dante e Petrarca. Proprio la preminenza del manoscritto di Sault nell’ambito di una redazione alta consente l’ipotesi che Nostredame abbia avviato il suo lavoro di biografo con la traduzione delle vidas contenute in quel codice. 126 Per le sue posizioni si vedano le ricostruzioni in Chabaneau-Anglade 1911 e Anglade 1970. 127 Il discorso sulle fonti del Nostredame è in realtà ancor più complesso, poiché egli dichiarò la propria dipendenza dai testi di tre religiosi. Innanzitutto il Monge de Montuajar, cioè il trovatore noto come monaco di Montaudon, di cui Nostredame imita puntualmente (anche se con qualche inesattezza) un sirventese denigratorio dei poeti suoi contemporanei. Meno importante è il richiamo a Saint Cesari, monaco del medesimo monastero, identificato con Uc de Saint Circ. Entrambi sono fittiziamente riferiti dall’autore all’ambiente provenzale. Infine, il Monge des Isles d’Or, cioè lo stesso Soliers, definito addirittura fonte principale. Dobbiamo dunque pensare che il rapporto tra i due rispetto alla condivisa passione per il trobadorismo sia reciproco? Secondo Anglade 1970 si può cogliere una spiegazione nella figura di Denys Faucher, che potrebbe essere l’antecedente storico di questo personaggio, sorta di copertura letteraria della fonte reale. Faucher fu autore di opere storiografiche, ma con approccio molto simile a quello del Nostredame: nelle sue opere si trovano talvolta le medesime falsificazioni. Il contatto è molto stretto, sino alla vera interpolazione. Infine, Nostredame citò altri personaggi che dovrebbero dare autorevolezza al suo racconto: figure probabilmente inventate, di cui non resta alcun dato documentario. 128 Questa lista è detta provenire proprio dal manoscritto perduto, benché siano indubbie varie integrazioni; Nostredame ne lascia anche una seconda, inserita nella versione di Aix dei medesimi fogli, e 483 preparatori) e del glossario129 che egli aveva pensato per lavorare alla medesima opera biografica, lo studioso ha ricostruito innanzitutto quali componimenti e in che ordine (secondo un’organizzazione per autore) fossero compresi nella silloge di Sault, nonostante il fatto che i richiami non siano sempre chiari, anche per l’estrema sintesi cui sono talvolta ridotte le citazioni130. Si noti che per la sua ipotesi, Chabaneau si basa solo sui riferimenti espliciti del manoscritto (che poi saranno assenti nella versione stampata delle “Vite”), mentre non accoglie quelli probabili, ma non accertati, che è possibile estrapolare dai versi inseriti all’interno della narrazione biografica vera e propria. A livello testuale e organizzativo, il codice del conte appare strettamente imparentato con la raccolta di Bernart Amoros; un aspetto di somiglianza particolarmente significativo si nota nella sezione delle tenzoni. Non mancano però rilevanti segni di distinzione, come l’assenza di alcuni testi o di intere sezioni d’autore, e la divergenza di alcune attribuzioni; devono essere state piuttosto diverse anche le vidas. È dunque presumibile che a e il codice di Sault abbiano un antenato comune, discendendone però non troppo da vicino, su binari abbastanza divaricati. Proprio tale somiglianza, inoltre, potrebbe spiegare le affermazioni del Nostredame in merito all’esistenza di un secondo manoscritto appartenente al conte, di cui al momento non si sa nulla. In effetti potrebbe trattarsi di un discendente, magari in parte divergente, della silloge di Bernart Amoros, che pure – lo si è visto – il Nostredame conosceva. Un’altra ipotesi degna di attenzione è che egli nominasse come secondo volume semplicemente un secondo tomo, una seconda parte, della medesima raccolta, in origine unitaria131. A livello materiale, il codice del conte è descritto come ampio, pergamenaceo, decorato con inchiostri oro e azzurro, e con i simboli del proprietario. Gli autori che comprendeva sono più di ottanta, per lo più d’origine illustre, con una certa attenzione anche ai personaggi femminili. La lingua è esclusivamente d’oc. La struttura interna non deve aver comportato nulla d’originale, ma le tipiche caratteristiche delle grandi sillogi trobadoriche. 6.3 Canzoniere N Sarà forse utile qualche informazione su un altro codice che potrebbe aver attraversato la biografia petrarchesca, il canzoniere mantovano N. Oltre all’origine anche la appunto nota come “tavola di Aix”. Essa ha un notevole valore, poiché testimonia di una fase redazionale anteriore a quella cui si riferiscono i fogli di Carpentras. 129 Nel manoscritto di Carpentras ne restano due diverse redazioni. La prima si riduce a soli tre fogli, che spesso comprendono un semplice elenco, sprovvisto addirittura delle traduzioni; la seconda è quella più rilevante, perché più ricca e soprattutto perché contrassegnata dagli espliciti riferimenti al codice di Sault. 130 La lista è contrassegnata da vari simboli, non sempre semplici da sciogliere; in particolare non è chiaro il criterio per cui a volte essi mancano del tutto. 131 Anglade 1970 legge i documenti in piena coerenza con quanto aveva fatto Chabaneau, allontanandosi dalla sua ipotesi solo per proporre di identificare il secondo codice con la raccolta di Bernat Amoros. Bartsch, invece, non concorda affatto con questa ricostruzione: i due codici citati sarebbero del tutto distinti, l’uno fonte centrale per Nostredame, l’altro solo aggiuntiva; il primo sarebbe inoltre l’antigrafo di a. 484 circolazione è stata in prevalenza veneta (anche se non in modo esclusivo) almeno sino al ‘500. La silloge comprende tutti i trovatori di certo noti a Petrarca132, ad eccezione di Guilhem de Cabestanh. È particolarmente importante la sezione dedicata a Bernart de Ventadorn (in effetti molto significativo anche nell’orizzonte petrarchesco) per l’abbondanza di aggiunte e postille a margine: due mani italiane, una trecentesca e una quattrocentesca hanno arricchito in questo modo tutto il codice. Un’altra peculiarità del codice si trova alla carta 52v (o 53v a seconda delle numerazioni) dove è inserito un atto imperiale di cessione della cittadinanza: l’autorità era quella di Carlo IV, il beneficiario Giacomino Painelli con tutta la sua discendenza; a chiedere questo intervento era proprio Andrea Painelli da Mantova, corrispondente del Petrarca133. Tale connessione non prova nulla, nello specifico, ma invita a porsi ancor più domande su questo personaggio, come suggerisce già Frasso134: sarà stato anche rimatore volgare? Ci saranno stati incontri e discussioni di carattere letterario con Petrarca? 7. Il contesto della produzione tarda135 Il declino della poesia trobadorica è certamente connesso alla contemporanea decadenza della regione provenzale, che perse la sua indipendenza non solo amministrativa, ma anche linguistica e culturale. Non si intende tuttavia affermare che tra ‘300 e ‘400 il livello della vita intellettuale nel Midi fosse sensibilmente inferiore alla media della cristianità occidentale, dunque senza considerare i centri di particolare eccellenza, quali Parigi, Oxford e Bologna. Rispetto alle materie di studio, agli strumenti disponibili e alla preparazione dei maestri il quadro d’insieme era piuttosto omogeneo, grazie anche a frequenti scambi e spostamenti. Nell’Europa meridionale erano in ritardo e meno diffusi gli studi più teorici e astratti, dedicati alle arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e caratterizzati da metodi specifici. Al nord veniva di gran lunga preferita una prospettiva speculativa, mentre al sud dominavano discipline che offrissero un esito concreto e professionale, come il diritto e la medicina136. Tali aspetti di uniformità non cancellano le effettive difficoltà che l’intellighenzia provenzale doveva affrontare. Innanzitutto, la nobiltà meridionale versava in uno stato di grave crisi137 e non è certo un dato da sottovalutare, dato che è questa la realtà sociale e culturale in cui si era sviluppata la tradizione trobadorica, in riferimento a gusti ed aspirazioni ben riconoscibili138. Già nel tardo ‘200 i mecenati erano pochi e concentrati nelle corti più piccole, illuminate, ma politicamente marginali; esse divennero sempre 132 Così Frasso 1974, probabilmente in riferimento al Triumphus Amoris. Per questo personaggio si veda il paragrafo dedicato agli “amici e corrispondenti”. 134 Frasso 1974; tale questione è già stata affrontata con maggiore dettaglio nel primo capitolo. 135 Sul tema in generale si vedano Jeanroy 1949 e Meyer 1871. 136 Anche se in riferimento ad un discorso diverso, questi aspetti sono stati già introdotti nel capitolo precedente, nel paragrafo dedicato all’educazione scolastica e universitaria. 137 “La guerre avait ruiné la plupart des grands seigneurs du Midi” Anglade 1927, p. 156. Ma anche il fasto e le spese eccessive hanno avuto la loro parte (p. 200). 138 Mi riferisco alle interpretazioni sociali che sono state proposte da vari studiosi rispetto alla nascita della cultura cortese e trobadorica; si vedano in particolare Köhler 1991 e Duby 2002. 133 485 più isolate e le loro manifestazioni culturali via via più flebili, sino a scomparire. I centri di Rodez139, Foix, Comminges, Astarac, Ile-Jourdain, Narbona individuano l’area geografica in cui si è sviluppata l’ultima fase del trobadorismo, tra Ruergue, Linguadoca, Guascogna e ovviamente Tolosa, nel sud-ovest della Francia. Al di là dell’area occitanica, vanno inoltre considerate la corte castigliana di Alfonso X, quelle aragonesi di Giacomo I e Pietro III, quella italiana degli Estensi, e più in generale l’area trevigiana in Italia e la Catalogna. La poesia trobadorica si mantenne perciò in vita, per quanto in una fase di indubbio declino, in tutte le zone in cui la sua diffusione e il suo splendore avevano avuto gli esiti più significativi. La resistenza dei piccoli centri dimostra che i cambiamenti culturali non si devono tanto, o almeno non subito, ad una netta evoluzione nelle preferenze del pubblico: laddove si manteneva attivo un ambiente affine a quello originario, la tradizione cortese rimaneva attuale, e per un certo periodo non le mancò una certa vivacità. Le sorti dei singoli generi rivelano la medesima dipendenza dal contesto sociale: la canzone amorosa, che era nata in modo più diretto dal sistema feudale, conobbe la crisi maggiore, mentre i sirventesi civili e polemici, legati agli avvenimenti storici, ma più facili da adattare alle diverse situazioni, furono apprezzati per gran parte del ‘200. L’importanza essenziale dell’orizzonte cortigiano (in presenza e poi in assenza) ridimensiona il ruolo della crociata140, delle violenze in genere e delle lotte politicoreligiose141: tali fenomeni certamente accelerarono e favorirono le trasformazioni sociali e quindi culturali, che però erano in atto già in precedenza. D’altronde è ragionevole dubitare che la vita culturale di un’intera regione, per altro particolarmente illustre, fosse vincolata ad un singolo e limitato sistema di garanzie e di pubblico. Da qui l’interesse per la riflessione di Meyer in merito alle responsabilità francesi: la dominazione settentrionale potrebbe essere stata più determinante di quanto si pensi142. Non sono in causa tanto la violenza bellica o l’imposizione di un idioma estraneo come lingua dominante, visto che l’aristocrazia meridionale usò quella natia ancora per lungo tempo, quanto l’affermazione di una nuova e diversa tradizione letteraria, quella oitanica; essa si rivolgeva per altro ad un pubblico e ad una cerchia di intellettuali molto limitati. I tentativi di recuperare la tradizione trobadorica come realtà viva e attuale (si pensi a Tolosa e al Concistori del Gai Saber) rappresentavano in tal senso anche la speranza di riguadagnare autonomia. Eppure, proprio il carattere ormai borghese che contraddistingueva tali esperienze dimostra che il cambiamento, per quanto graduale, era irreversibile. 139 Anglade 1927 (p. 196 segg.) ha evidenziato la particolare importanza di questa area nell’età della decadenza sino al primo ‘300. Vi si tenne anche uno dei primi (o forse il primo) concorso poetico, preludio all’organizzazione del Concistori: lo vinse Guiraut Riquier con una rappresentazione allegorica, che anticipa la sostituzione definitiva della materia sacra a quella profana in epoca tarda. 140 Sulle devastazioni dovute alla crociata contro gli albigesi, in stretta connessione con le reazioni dei trovatori, si veda Anglade 1927, pp. 153 segg. 141 Sull’Inquisizione e in particolare la posizione di alcuni trovatori si veda Anglade 1927, pp. 157 segg. 142 Anglade 1927 osserva parallelamente le scarse simpatie che i trovatori rimasti in area occitanica dimostrano ai nuovi regnanti (p. 160). 486 Il tardo Duecento e il primo Trecento rappresentarono insomma una fase di passaggio di fondamentale importanza per la cultura trobadorica. Gli elementi di dispersione e confusione furono numerosi: in tal senso il clima di violenza deve aver avuto notevole importanza. Ben si comprende quanto disastrosa sia stata la perdita di documenti e testi, a danno anche della produzione trobadorica classica: Meyer ipotizzò che già sul finire del ‘200 non si conoscesse molto più di ciò che leggiamo oggi, e si è visto come le posizioni di Avalle e Pulsoni siano in sostanza concordi143. Né è rimasto molto della produzione di quegli anni: le scarse raccolte sopravvissute sono in gran parte sovrapponibili, forse perché dipendenti dalla medesima fonte, e gran parte dei testi è nota in testimonianza unica, a riprova della loro scarsa diffusione. Intanto la figura del poeta cambiava radicalmente: non si trattava più di professionisti che vivono del loro talento, ma di dilettanti appassionati, che si mantenevano con varie attività e che spesso disponevano di una preparazione culturale mediocre. La bassa qualità della composizione ne era in parte conseguenza144; a questo si aggiungeva uno sguardo spesso limitato, chiuso nell’orizzonte locale, come dimostrano le sillogi preparate nel ‘300, nemmeno troppo avanzato. Appare peculiare anche l’appartenenza sociale dei nuovi trovatori: con l’eccezione del Concistori originario, almeno nei primi anni dopo la sua fondazione, il recupero della tradizione trobadorica vide protagonisti moltissimi rappresentanti della realtà ecclesiastica, in primo luogo monastica; in tal senso sono molto rappresentative le esperienze catalane, come indica anche la composizione del codice Sg, avvenuta in ambito monastico. Alle condizioni contestuali può infine essere ricondotta un’ulteriore caratteristica della produzione tarda: il pessimismo. I poeti si concentrarono soprattutto sulla decadenza della società, sui problemi politici e militari dell’aristocrazia, sulle condizioni della Chiesa. Non di rado la critica si fece aperta polemica o addirittura istigazione alla rivolta. 7.1 La tradizione della produzione tarda A testimonianza della produzione tarda restano in particolare quattro manoscritti, due dei quali riuniti sotto l’indicazione di Registre de Cornet e legati all’area tolosana. Non se ne conosce la storia fino al ‘700 e il loro stato non è affatto buono. Il terzo codice è noto come Sg, originario di Barcellona e mutilo, ma la prima parte indica chiaramente che si tratta di un oggetto di lusso; la mano è trecentesca e catalana. Sono tutte raccolte fortemente localizzate a livello regionale, anche se i riferimenti proposti da Sg sono più ampi, visto che comprende anche una sezione antologica classica. Il quarto manoscritto è quello di Ripoll, anch’esso conservato a Barcellona: qui la sezione trobadorica è molto 143 Se n’è parlato all’inizio del presente capitolo. A questo aspetto può in parte essere associata la valutazione dei diversi strati sociali presso cui si era conservata memoria della tradizione letteraria: una varietà molto maggiore rispetto a quella delle origini. 144 487 limitata e in gran parte d’argomento grammaticale più che poetico (il resto della raccolta, poi, riguarda opere latine)145. 8. Il “Breviari d’amor146 Lo stato di decadenza che si è descritto viene avvertito già alla fine del ‘200: i primi tentativi di invertire tale tendenza sono infatti ben precedenti alla fondazione del Concistori. Al biennio 1288-89, ad esempio, risale il proposito di ridefinizione e rinnovamento dell’esperienza trobadorica elaborato da Matfre Ermengau (morto dopo il 1320). Egli si impegnò nella compilazione del Breviari d’amor, in cui spiegava i fondamenti della tradizione occitanica a beneficio di aspiranti poeti ancora inesperti, affinché quella stessa tradizione potesse rinascere. L’opera è organizzata in due parti; la struttura stessa riflette l’atmosfera tipica del Midi sotto la dominazione francese e l’influsso dell’Inquisizione, anticipando, inoltre, alcune caratteristiche essenziali dell’approccio tolosano. La prima sezione si apre, infatti, con un’ampia spiegazione della creazione del mondo su basi teologico-scientifiche. La seconda si focalizza sulla tradizione poetica e sulla spiegazione delle sue caratteristiche; in realtà la trattazione assume la forma di un processo alla poesia trobadorica e rivela che l’autore ha semplicemente declinato in termini letterari la consueta predicazione morale coeva. Il suo scopo era guidare il lettore verso una conversione in chiave prima generale (come cristiano) e poi particolare (come poeta): sono gli stessi due aspetti secondo cui è affrontata la critica alla decadenza del presente (società e cultura). In questo cosiddetto “trattato pericoloso”, Ermengau si confrontava con vari detrattori della poesia antica, avvalendosi di numerose citazioni dal corpus occitanico. Gli attacchi più virulenti erano destinati alle donne e ai giullari, mentre i trovatori erano distinti sul piano sociale, benché colpevoli di aver favorito con le loro parole il rischio di peccare. L’autore distingueva se stesso e la sua opera da tutte queste categorie grazie alla sua volontà di critica universale, che lo salvava dal condividere le colpe altrui. È chiaro che il peccato dei poeti concerneva la parola. La soluzione consisteva dunque nel ritorno alla parola pura, edenica; ma come sradicare la tradizione poetica da quei contenuti colpevoli che le erano così propri? A fronte di tali interrogativi morali, Ermengau sviluppò una vera e propria palinodia: quella società e quella poesia tanto deprecate potevano essere recuperate nella prospettiva di un cambiamento, di una vera rinascita, anche morale. Solo in tal senso potevano essere elogiate. Il percorso evolutivo si spiegava in riferimento all’amore, cioè il principio unificante della raccolta e del mondo. Da una parte, la poesia trobadorica cantava un amore sbagliato, che nell’ottica del servizio feudale stravolgeva la volontà di Dio (e del suo amore-carità): l’amore terreno fra uomo e donna doveva essere finalizzato alla procreazione. La spinta carnale tipica di tanta letteratura occitanica, perciò, non poteva in alcun modo essere salvata. Inoltre, l’amore era il principio unificante e vivificante dell’uomo e quindi lamentarsene 145 146 Il riferimento essenziale per tali aspetti resta Jeanroy 1949. Si veda in particolare Galent-Fasseur 2000. 488 come fanno i poeti-vassalli non poteva che essere un errore; anzi, proprio i loro pianti continui erano una probabile causa dell’esaurimento della loro cultura. Ermengau non poteva però rinunciare a salvare la tradizione cortese, almeno nei suoi aspetti più innocui: prova di tale profondo desiderio è l’abbondanza delle citazioni, da cui nasceva una raccolta vera e propria, al di là della funzione argomentativa per cui erano introdotte. Tuttavia, perché la poesia provenzale rinascesse realmente, anche se per breve tempo, erano necessarie una riorganizzazione e una rilettura complessiva della tradizione, che si sarebbero delineate solo con il Concistori a Tolosa. 9. Le grammatiche del provenzale147 Il ritardo con cui si sviluppano le grammatiche volgari si spiega facilmente in relazione all’assoluta preminenza e autorevolezza del latino, che accentra gli studi linguistici in quanto “grammatica” per definizione. E la concezione del volgare come lingua naturale e spontanea resta profondamente radicata anche quando si afferma un canone letterario romanzo ampiamente riconosciuto. Il volgare occitanico è il primo ad aver beneficiato di una grammaticalizzazione, un impegno che si sviluppa già della fine del XII secolo. Tale precocità è particolarmente notevole se si pensa che per una codificazione delle altre lingue romanze bisogna attendere almeno sino al ‘400. Indubbiamente il caso provenzale conosce il vantaggio rilevantissimo di una letteratura e quindi di una lingua non solo istituzionalizzate ed autorevoli, ma anche caratterizzate da una diffusione internazionale, che richiede un apprendimento scolastico non troppo diverso da quello del latino (qualcosa di simile avviene poco più tardi per il francese antico) e dunque strumenti adeguati. Per questo motivo, sembra utile e rilevante occuparsi della produzione manualistica occitanica, la cui funzione – lo si vedrà – è strettamente legata alla composizione poetica, rappresentando un elemento di mediazione rispetto all’eredità trobadorica148. Le grammatiche hanno inoltre influenzato altri strumenti utili alla lettura quotidiana della poesia cortese, non solo intesa come studio, quali i glossari: la loro diffusione o per lo meno il loro influsso indiretto potrebbero essere più pervasivi di quanto si immagini. A metà ‘200 i manuali del provenzale hanno già una diffusione piuttosto ampia ed inoltre dimostrano una autonoma consapevolezza nel rapporto con i modelli latini. Al primato cronologico va aggiunta la peculiarità di un approccio enciclopedico, che assomma cioè competenze grammaticali, retoriche, metriche, prosodiche e musicali. La varietà delle considerazioni proposte si giustifica in relazione allo scopo di tali compilazioni, che intendono insegnare una concreta pratica poetica. Ciò non toglie che il modello di partenza provenga dal Donatus latino, il quale appare talmente autorevole 147 Si rimanda ai due paragrafi successivi per la trattazione di alcune opere dallo statuto storico e autoriale peculiare, le importantissime Leys d’amor e i trattati grammaticali di Raimon de Cornet, che completano la panoramica degli studi grammaticali relativi al trobadorismo tardo. Alcuni rimandi bibliografici essenziali sono Marshall 1969, 19721, 19722, 19723 e 19724, Percival 1975, Swiggers 1989 e 1997, Lione 2000. 148 Tale legame tra grammatica e poetica che giustifica per certi aspetti un’associazione tra latino e volgare è stato anticipato nel capitolo precedente, in merito ai manuali scolastici. 489 da non essere messo in discussione nemmeno in materia di grammatica volgare149. I primi trattati romanzi hanno caratteristiche espositive comuni: domina la morfologia rispetto alla sintassi, non è particolarmente sviluppata la sezione di fonetica, che può perfino essere assente, particolare attenzione è invece rivolta alle categorie semantiche. Non sempre è presente un corpus di esempi, ma è essenziale l’analisi di un testo che fornisca un paradigma di riferimento. La funzione di tali opere è strettamente pragmatica, devono infatti fissare una lingua secondo la forma indicata da documenti autorevoli, che sono sostanzialmente rintracciati in ambito letterario; richiami diversi sono rari nella riflessione sul provenzale, anche se non impossibili, tratti ad esempio dall’orizzonte giuridico. È frequente, benché non necessario, che l’autore sia madrelingua; per i destinatari vale piuttosto il contrario. Proprio sulla base del pubblico, oltre che dello scopo, ai quali pensa ciascun autore, è possibile proporre una tassonomia dei trattati conservati: ad esempio Raimon Vidal si inserisce linearmente nella tradizione occitanica, poiché si rivolge a poeti e letterati, con l’obiettivo non troppo mascherato di mettere in luce la propria erudizione. Per Uc Faidit (che secondo alcuni studiosi andrebbe identificato con Uc de Saint Circ) è fondamentale dimostrare che per il provenzale sono adatti i medesimi parametri e paradigmi linguistici in uso per il latino: dunque il ricorso ai modelli scolastici è costante, mancano gli spunti poetici e retorici, a tutto vantaggio dei semplici principi grammaticali (ad eccezione del rimario, unica sezione della sua opera in cui si faccia riferimento ai grandi trovatori). La sua intenzione è dunque marcatamente linguistica, e non poetica. Le Leys d’amor, dato l’intento di rifondare l’antica tradizione poetica, mantengono un legame fortissimo con la produzione letteraria; dunque anche il recupero delle fonti grammaticali autorevoli è condizionato da tale obiettivo. Un altro fattore distintivo può risiedere nel valore normativo del testo. Raimon Vidal, ad esempio, propone regole dallo statuto particolarmente marcato, a partire dalla selezione di una precisa varietà linguistica (ed anzi questo è l’unico aspetto linguistico in senso stretto su cui l’autore si sofferma); Uc preferisce invece descrivere e testimoniare i diversi usi concessi dall’autorità degli autori. Nelle Leys non c’è una norma esplicitamente imposta, ma le modalità dell’esposizione la implicano in modo sottinteso, sia sul piano poetico che su quello linguistico. I trattati grammaticali hanno un’indubbia importanza per la ricostruzione del contesto trobadorico tardo, nonché per i tentativi di recupero della cultura cortese nella prima metà del Trecento ed oltre. Tuttavia bisogna ammettere che nessuna di queste opere è all’origine di una tradizione specifica ed autonoma, ad eccezione delle Leys d’amor, che per altro godevano di un forte carattere istituzionale grazie al legame con il Concistori del Gai Saber a Tolosa. L’analisi grammaticale, dunque, sembra segnare una fase di riscoperta e rinnovato apprezzamento, ma al contempo una cesura e una svolta. Questo non vale soltanto per la regione occitanica, ma anche per le aree iberica e italiana, dove la cultura provenzale aveva avuto un’influenza fondamentale. 149 Per l’autorevolezza di tale testo e per la manualistica scolastica in generale, si veda il capitolo precedente. 490 Molto noto e spesso citato è Raimon Vidal, autore delle Razos de Trobar. Egli si firma esplicitamente nella sua opera e con lo stesso nome è indicato sia nelle Leys d’amor sia nelle Regles de trobar; inoltre è autore di alcune canzoni trobadoriche. Egli era originario di Besalù, vicino a Gerona: tale identità catalana si riflette in alcune tipiche imperfezioni nel sistema rimico dei suoi versi, nonché nel frequente riferimento a signori politici e a corti d’area iberica. I richiami a precisi fatti storici (a parte quelli più antichi o fortemente narrativi) permettono di ipotizzare una datazione: l’attività poetica di Vidal si colloca per lo più nel secondo decennio del ‘200, con la possibilità di risalire anche a qualche anno prima. Nell’opera grammaticale i poeti più tardi fra quelli citati sono Folchetto da Marsiglia e Peirol, dunque attivi alla fine del XII secolo. Un fatto interessante concerne Raimon de Miraval, mai citato nelle Razos ed invece modello frequente nelle canzoni, dove per contrasto sono molto attenuati i richiami agli autori più famosi. Per questo si può ipotizzare che l’opera grammaticale sia anteriore al corpus poetico di Vidal e precedente alla frequentazione della corte dove l’autore avrebbe conosciuto lo stesso Miraval ed altri personaggi in vista dell’epoca, come Uc de Mataplana. L’appartenenza geografica deve aver accomunato l’autore al suo pubblico, come suggeriscono gli interessi linguistici cui le Razos cercano di rispondere. Tuttavia, il contesto della composizione rimane oscuro; nel rapporto con i destinatari si parte dal presupposto che siano del tutto ignoranti a livello grammaticale, ma al contempo capaci di giudicare la poesia. D’altronde, alla capacità di comprendere può far seguito quella di comporre ed è questo lo scopo che Vidal si prefigge; egli si rivolge indiscriminatamente a provenzali e stranieri, ma presta particolare attenzione ai catalani, visto che molte indicazioni dovevano essere inutili per francesi, italiani e castigliani. Vidal non sembra nemmeno legato ad una corte particolare o ad un sovrano, benché sia in sostanza ovvio che il pubblico interessato alla sua opera sia soltanto aristocratico. L’autore è inoltre animato da un intenso desiderio di insegnare ed educare; solo in queste vesti si impegna per far parte della società (nobiliare). Tale premessa didattica, in base alla quale l’autore può ergersi a giudice dei poeti e delle opere di maggior valore, è in gran parte disattesa. Manca infatti una reale visione critica né si coglie un’effettiva capacità di sottolineare per ciascun trovatore gli aspetti esemplari, che dunque a buon diritto potevano essere considerati modellizzanti. Anche sul piano linguistico le mancanze sono molte: ad esempio prosodia, metrica e musica sono completamente trascurate. L’esposizione è priva di sistematicità e ben presto prosegue stancamente, dopo una partenza segnata dall’entusiasmo. L’opera si limita in gran parte a un’analisi morfologica di nomi, pronomi e verbi; tuttavia è probabile che l’autore avesse un obiettivo ben diverso da quello delle grammatiche vere e proprie, quali sarebbero state il Donatz proensal e le Leys d’amor. Infatti sceglie un metodo differente, basando il proprio approccio didattico piuttosto sul riconoscimento degli errori che un poeta potrebbe commettere e che deve invece evitare; il primo principio è quello di seguire i modelli più adatti al contesto. Ne derivano perfino accenti polemici verso i contemporanei ritenuti meno capaci. Quest’ultimo aspetto determina un carattere peculiare delle Razos, che si rivolgono così anche al pubblico della poesia, non solo ai 491 suoi potenziali autori, secondo la convinzione per cui il gusto non esercitato ha portato troppo spesso al successo chi non lo avrebbe meritato. Il valore storico del trattato risiede anche nella consapevolezza della crisi in cui sta cadendo la poesia trobadorica, sempre più convenzionale e ripetitiva. Per contro, c’è ampio spazio per l’elogio della tradizione e della lingua in cui la cultura cortese si è originariamente espressa: la poesia ha un valore universale, il provenzale è una lingua squisitamente letteraria ed appresa, scritta (e dunque i singoli dialetti non hanno importanza), autorevole e classica. Lo standard è delineato in modo definitivo, sia sul piano geografico che su quello letterario, benché al contempo l’eredità provenzale sia ancora percepita come viva: l’autore si colloca perciò in una complessa fase di passaggio dall’età classica a quella tarda. Nel considerare quel patrimonio, Vidal dimostra spesso il suo punto di vista di straniero, nella posizione cioè di chi per forza di cose commetterà qualche errore (e ne sono presenti nelle stesse Razos), ma che può vantare un’utile prospettiva esterna e distaccata. D’altra parte, anche in relazione a questi principi si avverte la mancanza di uno spartiacque coerente e costante nel valutare l’errore rispetto a semplici varianti. Alla fine del ‘200 lo sconosciuto Terramagnino da Pisa compone la Doctrina d’acort, versificando le Razos de trobar. La datazione è pressoché certa in virtù dei vari riferimenti storico-letterari sparsi nel testo, che confermano per altro la grande ammirazione per Guittone d’Arezzo e il generale legame con la Sardegna: per questo si è ipotizzato che l’autore facesse parte delle forze pisane sull’isola. Sono invece ignote le circostanze della composizione o gli intenti comunicativi di Terramagnino: è probabile che egli volesse semplicemente modernizzare un’opera che riteneva utile, adattandola alla moda dei trattati in versi, ormai dominante. Coerentemente, molte citazioni sono sostituite, forse per rispondere ad un cambiamento di gusto; tuttavia gli autori selezionati restano antichi, con riferimento alla fine del XII secolo e all’inizio del XIII. Un indizio potrebbe venire dalla ridottissima circolazione dell’opera, forse imputabile all’intenzione di soddisfare una ristretta cerchia di dilettanti appassionati. Le citazioni, i rinvii al Donatus e le spiegazioni grammaticali aggiunte dal versificatore ne dimostrano la preparazione piuttosto superficiale. La sua conoscenza del provenzale non è più viva ed attuale, ma appresa attraverso la lettura degli auctores antichi; l’approccio somiglia a quello di un antiquario o un erudito (ferma restando l’ignoranza dell’autore). Proprio tale concezione del volgare come “grammatica” e dunque oggetto di apprendimento favorisce in Terramagnino un atteggiamento conservatore; tuttavia ciò non basta perché egli eviti di introdurre nel testo nuovi errori ed irregolarità, anche a scapito di forme corrette nella versione originale. La sua preparazione insufficiente si riflette nella composizione stessa dell’opera, spesso caratterizzata da scelte espressive deboli; lo rivelano in primo luogo il sistema rimico e la limitata consapevolezza in merito al sistema fonetico provenzale. Gli studiosi ritengono perciò che l’autore abbia avuto a disposizione solo le Razos stesse e un canzoniere da cui trarre le nuove citazioni; è del tutto escluso che abbia avuto esperienza diretta delle performances orali. Per altro egli non affronta alcuna riflessione sul pubblico, sul parlato, sulle diverse aree linguistiche e dialettali della regione occitanica, temi presenti invece nell’originale. In 492 effetti, al di là di alcune aggiunte esplicative, focalizzate soprattutto sui diversi paradigmi di prosa e verso, Terramagnino tende in sostanza a tagliare, cancellando materiali non più utili e i giudizi di Vidal, troppo personali e parziali. Il versificatore infine offre al lettore qualche raccomandazione, che però dimostra ancora una volta la sua superficialità: rifiuta le strutture troppo complesse, propone l’uso di una sola persona verbale nel medesimo testo, insiste sulle forme più semplici per sintassi e accentazione del verso. Per la realtà iberica, e in particolare aragonese, è centrale la figura di Joan de Castelnou, che vi ha promosso una rinnovata mediazione rispetto alla tradizione trobadorica, già diffusa da secoli soprattutto in Catalogna. Il destinatario della sua opera è in effetti un nobile catalano, Dalmau de Rocaberti, la cui committenza dimostra l’interesse degli intellettuali catalani per l’apprendimento del provenzale, nonché la notorietà raggiunta dalle Leys, modello ormai imprescindibile in questo periodo. Di Castelnou si conoscono undici componimenti, in parte amorosi, in parte sirventesi, dedicati principalmente all’invito alla crociata; il suo corpus aderisce in modo rigoroso alla lezione del Concistori. Ne restano inoltre due opere grammaticali. Una – Compendi de la coneixença dels vicis en els dictats del Gai Saber – intende approfondire la dottrina veicolata dalle opere del Concistori tolosano; l’altra ha la struttura di un glossario e si propone di arricchire e correggere il trattato grammaticale di Raimon de Cornet, il Doctrinal de trobar. In generale l’interesse non è rivolto alle questioni grammaticali, pur non del tutto assenti, quanto allo stile e alle figure retoriche. Dunque l’ispirazione è in primo luogo poetica e l’intento è quello di prevenire errori e imprecisioni in cui i trovatori del tempo potevano incorrere facilmente. Il limite principale di questo breve manuale risiede nella mancanza di sistematicità e organicità, difetti certamente non imputabili ai modelli di partenza. È probabile che il Compendi sia anteriore alla versione definitiva delle Leys, guardando perciò ad una redazione incompleta. Il Glossari dev’essere invece posteriore: è databile con buona approssimazione al 1341 ed è certo che si ispiri al Doctrinal di Cornet già compiuto. Anche in questo caso, però, il modello delle Leys è determinante, ed anzi Castelnou ne offre il primo riferimento ufficiale. D’altra parte l’autore contrappone all’opera di Cornet una critica molto aspra: egli è dichiarato poeta impreciso e superficiale, e implicitamente considerato grammatico ignorante150. Per le sue correzioni, infine, Castelnou sfrutta con efficacia, sia per la grammatica che per le questioni poetiche, i modelli latini, oltre appunto alle Leys. L’opera grammaticale di Uc Faidit è oggi nota con il titolo provenzale di Donatz proensals, ma a lungo questa è stata una semplice alternativa alle forma latina (Donatus provincialis) e a quella volgare (Donato prodensal). L’attribuzione suscita opinioni discordi: per alcuni è indubitabile (Marshall151), per altri celerebbe il ben più famoso Uc 150 Alcuni studiosi hanno addirittura pensato che la seconda fatica grammaticale del Cornet potesse essere un tentativo di autocorreggersi e insieme di rispondere alle accuse del Castelnou. 151 Marshall 1969. 493 de Saint Circ152. I destinatari sono Giacomo di Mora e Corraduccio di Sterleto, due nobili italiani legati alla curia di Federico II. Il primo ricoprì varie cariche pubbliche a Spoleto e partecipò all’attentato contro l’imperatore; non a caso fu anche collaboratore del papa. Il secondo, invece, fu legato soprattutto a Manfredi e può forse essere riconosciuto in una citazione di Guittone d’Arezzo. La connessione fra questi due personaggi è nota solo fino al 1246, che è quindi un attendibile terminus ante quem per l’opera loro destinata; il periodo più probabile per la stesura del trattato va dal ‘43 al ‘45, ma non si possono escludere i vent’anni precedenti. D’altro canto il finale dell’opera, in latino, sembra alludere alla disgrazia in cui Giacomo era caduto dopo il suo tradimento e all’esilio cui era stato condannato (1246): è quindi probabile che il trattato sia stato commissionato non molto prima e che l’autore abbia potuto finirlo solo quando la protezione del destinatario si rivelava inutile. Per altro è più difficile pensare che Giacomo si sia interessato alla poesia cortese dopo la caduta politica. Il luogo della composizione rispecchia l’origine dei destinatari; anche i codici cui Uc sembra aver attinto sono tutti italiani. L’opera è inoltre piuttosto nota in Italia fino all’inizio del ‘300 (per essere poi dimenticata e infine riscoperta nel corso del ‘500), mentre non è mai citata nei manuali di grammatica redatti in Provenza o in area iberica. Tuttavia la scarsa fortuna in area occitanica potrebbe essere solo apparente, poiché – lo si vedrà – Molinier tiene conto del Faidit quando compone le Leys, anche se senza dichiararlo esplicitamente. Nella penisola italiana viene tradotta ed utilizzata come punto di riferimento per altri testi linguistici, ad esempio glossari del provenzale. E non sarà un caso che nell’opera si riflettano puntualmente interessi locali: toponimi, problemi di pronuncia, calchi della lingua d’origine in provenzale. L’attenzione al pubblico impedisce di pensare che la scelta linguistica sia immotivata: la composizione di questa grammatica direttamente in lingua occitanica (e non in latino) deriva presumibilmente dalla sua buona e diffusa conoscenza, per lo meno da parte dei destinatari. Esiste poi una traduzione in latino, che deve essere stata approntata da un madrelingua provenzale, come denota l’insistenza sulle questioni di pronuncia. Lo scopo di questa traduzione, che appartiene ad un contesto vicinissimo a quello dell’originale, è favorire la circolazione e la comprensione del trattato, la cui versione in provenzale dev’essere risultata difficile da comprendere nel giro di pochi anni, almeno sulla base delle incomprensioni di cui sono vittima i versi provenzali del Purgatorio dantesco153. Potrebbe essere stato addirittura l’autore ad aver chiesto una rielaborazione. L’impostazione non è originale, ma ispirata ai manuali latini e in particolare al celeberrimo Donatus, cui fa chiaro riferimento anche il titolo Donatz. Rispetto all’impianto di partenza (classificazione e lessico), Faidit aggiunge alcune liste di verbi e rime, ed affianca al modello principale definizioni tratte per lo più da Prisciano. Rispetto alle altre grammatiche del provenzale, il Donatz si dimostra piuttosto approfondito sul piano linguistico, e completo in particolare per l’interesse verso la metrica. Faidit parte dunque dal materiale che ha trovato nelle scuole e che poi gestisce 152 Si legga Swiggers 1989. Si è già accennato a questo aspetto in merito alle vidas e alle razos, in questo stesso capitolo. Si rimanda nuovamente a Pulsoni 20032 e Resconi 2008. 153 494 liberamente, a volte seguendo i suoi modelli molto da vicino, in altri casi in piena autonomia. Le definizioni sono proposte in modo semplice e sintetico, senza ricadute ideologiche o riflessioni approfondite, che pure caratterizzano gran parte degli studi grammaticali dell’epoca. Il principio fondante è pragmatico ed educativo, e l’approfondimento si riduce ulteriormente man mano che si procede. A livello di contenuto non manca qualche forzatura, a causa della necessità di applicare ad una lingua romanza le categorie del latino: anche in questo senso, l’opera mostra un’evoluzione verso il finale, in quanto le omissioni sono sempre più accettate. L’attenuarsi dello schema compositivo di partenza comporta anche una perdita di ordine e sistematicità. L’oggetto del trattato è semplicemente il provenzale; non si precisa, cioè, se si parli di lingua scritta o dell’orale, anche se l’importante sezione dedicata all’uso delle rime suggerisce che l’autore abbia pensato soprattutto all’orizzonte letterario. Egli si prefigge di fornire uno strumento per comporre poesia o almeno per leggerla con piena competenza, partendo dalle proprie conoscenze personali, senza cioè aspirare ad offrire una norma vera e propria. Infatti hanno ampio spazio forme molto rare né si impone una scelta tra le diverse alternative morfologiche e fonetiche: le indicazioni dell’autore restano insomma linee guida non troppo vincolanti. Non è chiaro, inoltre, quale influenza abbia avuto sulla percezione dell’autore l’uso vivo della lingua; alcuni fattori, comunque, lasciano intuire una sua origine guascona o forse linguadociana. Un aspetto di normalizzazione si coglie invece nella tendenza ad evitare le forme troppo locali, favorendo l’uso letterario più diffuso e una definizione della lingua come genericamente occitanica. Più in particolare, non sono del tutto evidenti i principi seguiti nel lavoro sul lessico; senza dubbio l’autore dispone di conoscenze molto estese in questo campo, che gli permettono di aggiungere anche voci usate soltanto dai trovatori italiani. In generale l’approccio di Faidit è estensivo: parte dalla propria regione, ma aspira a considerare l’intero Midi ed infine tutta l’area in cui è utilizzata la lingua occitanica. La sua grammatica non è quindi un manuale dogmatico, ma delinea un’immagine ricca e piuttosto fedele dell’uso variegato dei trovatori, con la pecca di non offrire uno strumento pienamente ordinato e puntuale. Si nota anche l’assenza di qualsivoglia indicazione su ciò che è corretto o scorretto: così nulla deve essere necessariamente escluso. L’opera presenta alcune significative mancanze, come la sintassi, e notevoli omissioni; probabilmente tali scelte si spiegano in relazione alla padronanza comune delle categorie latine di partenza o ai tratti in parte simili delle lingue proprie di autore e destinatari. Certamente anche le specifiche richieste, i gusti o le competenze già proprie dei lettori sono stati determinanti. Sono invece ben note le vicende compositive delle Regles de trobar, composte da Joifré de Foixa154 in Sicilia, durante il regno di Jacme II, alla fine del ‘200. L’autore, di 154 L’opera di questo poeta è particolarmente interessante in quanto egli è fonte diretta di Petrarca per la struttura della canzone “a citazioni” applicata in Lasso me, il fragmentum 70. Se n’è ampiamente trattato nel corso del primo e in parte del quarto capitolo. 495 origine nobiliare e catalana, è un frate francescano e poi monaco benedettino, ma si impegna anche in una vivace vita mondana e diplomatica. Mantiene stretti contatti con i re aragonesi e riveste cariche importanti presso diversi monasteri, intrattenendo rapporti frequenti col pontefice, fino a divenire abate a Palermo. È indubbiamente un uomo erudito, come dimostra la sua produzione poetica, per il resto di scarso rilievo. L’opera grammaticale gli viene commissionata direttamente dal sovrano, a testimonianza del rinnovato interesse per la cultura trobadorica: proprio per favorirne la diffusione, Joifré si rivolge anche a chi non conosce il latino e non può comprendere un linguaggio troppo tecnico, come quello scelto, ad esempio, da Vidal. In effetti, il modello di Foixa sono le Razos de trobar, benché tale connessione resti implicita; per altro è una dipendenza non vincolante, che anzi assume i caratteri di una libera rielaborazione. È essenziale che l’insegnamento sia accessibile, perciò le informazioni sono basilari, l’espressione molto semplice; le spiegazioni sono però vivide, perché derivano dalla conoscenza e dall’uso diretti della lingua e della poesia. Tali competenze garantiscono per altro l’assenza di confusione tra provenzale e catalano, la lingua madre dell’autore. I concetti, anche i più basilari, vengono sempre spiegati con accuratezza; le categorie, di origine latina, sono tradotte e chiarite, cosicché morfologia, sintassi, ritmica e prosodica non rappresentino una sfida. Pur partendo dalla medesima struttura, gli esiti di Regles e Razos sono molto diversi: con le prime, Foixa crea uno strumento d’insegnamento davvero efficace, anche se un po’ pesante alla lettura. Non propone invece alcun approccio critico: da una parte il suo scopo è solo familiarizzare alle pratiche poetiche, dall’altra gli autori affrontati sono ormai troppo antichi, percepiti come veri classici, perché siano oggetto di un giudizio non reverenziale. Tale rapporto di lontananza non implica però una prospettiva antiquaria; il contesto della composizione e le caratteristiche dell’opera lasciano intendere, infatti, il desiderio dei destinatari di scrivere in prima persona, inserendosi quindi in una tradizione viva. D’altro canto, l’autore non si riferisce solo alla tradizione scritta, ma anche all’uso orale, segnalandone differenze e contrasti. Le Regles de trobar hanno una notevole importanza storica, perché anticipano le prospettive e gli intenti delle Leys d’amor, per quanto con consapevolezza inferiore, qualche imprecisione (soprattutto nei dettagli) e un’eccessiva tendenza al dogmatismo. L’opera di Foixa risulta insomma rappresentativa della propria epoca. Rivela infatti la riscoperta e il gusto vivo di una lingua, che però appartiene al passato e per cui sono necessari costanti chiarimenti, secondo un approccio che non è più attuale, ma non ancora di pura conservazione. Non si è persa coscienza dell’oralità, ma musica e rappresentazione dal vivo non suscitano più alcuna curiosità. Permane la preminenza già altomedievale delle classificazioni latine, senza però la familiarità che sarà umanistica: è sempre necessario accompagnarle con spiegazioni, approfondimenti ed esempi. L’anonima Doctrina de conpondre dictats presenta uno statuto ben più ambiguo. Non è pensata come trattato autonomo: l’autore, infatti, dichiara di aver cominciato a scrivere per completare un altro manuale che non viene nominato. L’importanza delle Razos vidaliane e la collocazione ravvicinata delle due grammatiche nell’unico codice che 496 tramandi la Doctrina155 hanno determinato la persistente ipotesi che il modello di riferimento fossero proprio le Razos e che l’autore potesse addirittura essere il medesimo, Raimon Vidal. Tuttavia, la Doctrina mostra un impianto molto diverso da quello dell’opera maggiore. È molto più sistematica ed impersonale; cambia la persona del destinatario – dal voi al tu; il tono è ben diverso e lo stesso vale per la datazione (seconda metà del ‘200). Per queste ragioni appare più efficace l’idea che la Doctrina sia in realtà complemento delle Regles, che in effetti terminano all’improvviso, come se mancasse una conclusione. Dal punto di vista tematico i due trattati sono del tutto coerenti, poiché lo studio sui generi proposto dall’anonimo arricchisce efficacemente le spiegazioni offerte da Joifré; non ci sono mai sovrapposizioni di contenuto e la tipologia di destinatario è la medesima. Vari spunti offerti dalla Doctrina sembrano rivolgersi all’area catalana, un altro elemento di coerenza rispetto alle Regles e al loro autore. Sono affini anche il punto di vista e lo stile, sia nell’esposizione esplicativa, sia negli esempi. Il valore della Doctrina è notevolissimo, per la proposta di un sistema di generi: è un contributo decisivo alla definizione di una tradizione forte e, di conseguenza, per la concreta pratica poetica che voglia farne parte. L’autore crea in effetti uno strumento parallelo ai manuali latini, pur nella limitante mancanza di prospettiva storicocronologica, che schiaccia sul presente la caratterizzazione dei generi. La causa è la preparazione non troppo puntuale dell’autore; lo conferma la maggiore precisione nella trattazione dei generi minori, che avevano acquisito grande importanza nel corso del ‘200 e dunque rispondevano ad un gusto più attuale. D’altronde, proprio l’ossessione per le tassonomie e le denominazioni precise è tipica del trobadorismo tardo: infatti risulta coerente non solo con le esperienze del Concistori del Gai Saber (metà ‘300), ma già degli ultimi grandi poeti, come Cerveri de Girona e Guiraut Riquier (fine del ‘200). Per contro, l’organizzazione del discorso è rigorosa e funzionale: l’autore non è colto, ma scrupoloso. Due ultime grammatiche del provenzale completano il panorama della trattatistica: sono i testi tramandati dal Ripoll 129, frutto del medesimo autore anonimo e catalano (la conclusione del secondo cita il primo ed offre un’apologia di entrambi). Anche questo estensore risulta ben poco preparato, conosce i classici solo attraverso la mediazione delle antologie e dei manuali più recenti, le sue liste di vocaboli e il rimario sono incompleti. Lo scopo è arricchire le Regles, che sono presenti nella medesima silloge; tale relazione permette una datazione di massima, tra la fine del ‘200 e l’inizio del ‘300. Non solo i due trattati, ma il manoscritto stesso rivestono un interesse molto localizzato, in quanto la preparazione della raccolta risponde alle curiosità specifiche dei monaci di Ripoll. Il pubblico è chiaramente composto da dilettanti appassionati, privi di preparazione, che vogliono mettersi alla prova con la pratica poetica. Bastano 155 In apparenza, nel manoscritto le due opere sono contigue. In realtà in origine i trattati erano separati da una pagina bianca, che è stata riempita con un componimento in versi, trascritto però come se si trattasse di prosa. La connessione grafica e materiale tra i testi, che a lungo ha ingannato gli studiosi, è dunque solo fittizia. 497 informazioni semplici, basilari, senza approfondimento, soprattutto rispetto alla questione dei generi. Alle scarse conoscenze dell’autore andranno imputati i numerosi passi oscuri, incompleti, privi di qualsivoglia tecnicismo; la sezione meno efficace è quella dedicata al sistema rimico. Le fonti sono poche ed affrontate in modo superficiale; la loro scelta dipende inoltre da una prospettiva chiusa e decentrata. Tali aspetti, come d’altro canto la collocazione cronologica, mostrano profonda coerenza con l’approccio antiquario tipico dei due trattati nell’affrontare la materia trobadorica. Tuttavia per gli studiosi questi testi hanno una funzione fondamentale, poiché spiegano quanto e come la cultura cortese sia sopravvissuta nei centri più piccoli, in una fase di decadenza che ben si riflette nella pedanteria superficiale delle grammatiche stesse. Le classificazioni e gli studi di questa fase tarda possono apparire aridi, ma hanno il merito di salvare una tradizione importante, benché morente, con i (pochi) strumenti a disposizione. I trattati grammaticali dedicati al provenzale tra metà ‘200 e inizio del ‘300 vantano un valore eccezionale rispetto alla storia della cultura cortese e trobadorica, e al suo studio. La continuità dell’interesse per le questioni grammaticali consente infatti di comprendere il significato attribuito a quella tradizione letteraria durante una fase di passaggio: dalla grande stagione poetica (la stagione “d’oro” o classica), il cui punto di riferimento essenziale si colloca nel Midi di Francia, all’età tarda. È noto che nel pieno ‘300 si è cercato di recuperare un passato ormai perduto, a Tolosa, grazie al Concistori del Gai Saber, e in aree decentrate, come la Catalogna; qui la tradizione occitanica è raccolta con grande entusiasmo, ma non più dominata. Il tono è sempre meno professionale, da amatori che scrivono per gusto poco più che personale; e tale aspetto ben si accorda con la frequente mancanza di sistematicità. Al contempo, gli appassionati estensori hanno lasciato testimonianza di molti dettagli testuali e linguistici, e numerose citazioni, che rivestono una notevole utilità per gli studi filologici. La manualistica partecipa della graduale evoluzione negativa che investe il mondo occitanico ed anzi tende a decadere essa stessa: si affievoliscono sempre più le competenze dei destinatari e dunque si rendono necessari interventi esplicativi più insistiti da parte degli autori, che accrescono le informazioni oggi utili. Si intuisce una divaricazione tra i pochi che ancora possono apprezzare realmente l’eredità trobadorica e i molti, che ne godono soltanto una conoscenza superficiale, in veste sempre più antiquaria. Il Concistori del Gai Saber e le Leys d’amor segneranno un’inversione di tendenza ed un significativo cambiamento di prospettiva, nel tentativo di riportare l’esempio dei trovatori agli antichi fasti e alla pratica corrente. 498 10. Il “Concistori du Gai Saber”156 e le “Leys d’amor157 10.1 Il “Concistori du Gai Saber” Nel 1323 sette esperti della tradizione trobadorica si riuniscono a Tolosa per “dedicarsi alla scienza”, per raggiungere cioè quel “buon sapere” necessario a comporre con efficacia versi in lingua romanza, e dunque per educare altri aspiranti poeti e gli sciocchi amanti; insomma per vivere felici. L’estrazione sociale dei sette appassionati è per lo più borghese158 (mercanti, notai, banchieri), uno solo è nobile; sono inoltre tutti laici, anche se col tempo la partecipazione degli ecclesiastici alla futura “accademia” diverrà determinante. È una significativa trasformazione sociale per un patrimonio culturale nato presso le corti, che si accompagna ad una svolta morale e spesso religiosa: cambiano radicalmente i soggetti e i temi tipici della poesia. I nomi dei fondatori, non provenzali, rivelano un altro cambiamento storico-sociale rilevante, poiché riflettono le sorti del Midi dopo la crociata albigese: l’aristocrazia locale è decaduta, gli ultimi mecenati e gli ultimi poeti sono scomparsi insieme, in una fase di grave decadenza culturale e politica, mentre la regione meridionale perde la sua autonomia. Nasce così il Concistori del Gai Saber, dal desiderio di far rivivere la poesia cortese, insieme attualizzandola e dunque imponendole nuove regole. Il bisogno di rigidi principi e di puntuale correttezza si coglie chiaramente nei pochi testi noti del nobile Bernard de Panassac, l’unico tra i membri originari del gruppo di cui resti qualche informazione biografica, per quanto vaga e probabilmente leggendaria. Ne sono sopravvissute due canzoni, una dedicata alla Vergine ed una amorosa più tradizionale, che presenta notevole ardimento formale. Le scelte tematiche ed espressive rendono i due componimenti davvero rappresentativi della loro epoca: da una parte lo spostamento dell’oggetto d’amore dalla dama alla madre di Dio (e dunque dall’amor carnis all’amor caritatis), come raccomanda la prospettiva morale dei nuovi poeti; dall’altra l’attenzione al formalismo più artificioso, tipica dell’età tarda. Non è semplice ricostruire gli antecedenti diretti di tale esperienza tolosana e dunque le sue origini. Infatti per quanto cerchi di rivitalizzare una tradizione sempre più dimenticata, il Concistori non può che avere una prospettiva “a posteriori”; al contrario gli ultimi grandi trovatori (Guiraut de Riquier, Cerveri de Girona...) si erano inseriti direttamente nella scia dell’antico trobadorismo, benché già si delineasse uno spostamento verso tematiche morali e religiose. Il Concistori favorisce una certa continuità proprio perché cerca di garantire, attraverso il compromesso e i necessari cambiamenti, un legame con l’epoca d’oro delle corti e dei trovatori. In tal senso 156 Anticipiamo alcuni riferimenti bibliografici essenziali: Jeanroy 1914 e 1934, Anglade 1927, pp. 200 segg, Noulet-Chabaneau 1973, Passerat 2000. Per il confronto tra produzione del Concistori e l’antecedente di Guiraut Riquier, si veda in particolare Anglade 1905. 157 Si vedano Salvat 1964, Anglade 1920 e 1971. 158 Sull’impoverimento della nobiltà e sul prestigio sempre maggiore della borghesia, si veda anche Anglade 1927, p. 200. 499 l’esperienza tolosana ha il valore di una duplice trasmissione di sapere: formale e grammaticale, spirituale e morale. Ma sino a questo momento, in che modo era sopravvissuta e come era considerata l’eredità occitanica tra la fine del ‘200 e la prima metà del ‘300? In parte si è già risposto a questo interrogativo, descrivendo il contesto tardo e la produzione grammaticale, ma la questione può essere ulteriormente approfondita. Alcune corti dimostrano ancora un significativo interesse per la cultura provenzale “classica”, come nel caso di Rodez, che per altro mantiene relazioni abbastanza assidue con la Rouergue e l’Albigeois, e quindi con Tolosa; anche in Linguadoca l’attività poetica non viene del tutto meno. Il tramite è rappresentato da autori, come Guilhem d’Alaman o Raimon de Cornet padre, che mantengono le abitudini del passato: si affidano al sostegno di mecenati e vivono in modo itinerante. Almeno per l’area tolosana, è necessario inoltre supporre che ci siano stati incontri e manifestazioni poetiche collettive prima che si sviluppasse un’accademia vera e propria, anche senza regolarità né tanto meno con pretese di ufficialità. Sono proprio queste ultime le novità introdotte dal Concistori. La ricerca di istituzionalizzazione si manifesta pressoché subito, come suggerisce l’immediata organizzazione di un “torneo” per il 1324: con una lettera aperta, tutti i trovatori ancora attivi sono invitati a presentare le loro opere (vincerà Arnaut Vidal, che non a caso aveva scritto in onore della Vergine). Il gruppo può ora ufficialmente definirsi una compagnia letteraria; intanto la regolarizzazione dell’impegno culturale si spinge oltre. Il Concistori diviene ben presto una sorta di “università trobadorica”, un’accademia in cui si lavora secondo regole precise: essa concede i titoli di dottore e baccelliere, ma solo a chi prometta di seguire sempre le Lois e le Fluers du Gai Saber, e soprattutto affronti un esame a sua volta sempre più codificato. Il parallelo con l’università è particolarmente efficace, non solo per le somiglianze a livello organizzativo, ma proprio in relazione al contesto storico-culturale. A Tolosa la fondazione dello Studium non era recente: risaliva infatti al 1229, grazie al duplice contributo di papato e corona. Tuttavia l’acquisizione di maggiore autonomia all’inizio del ‘300 ne aveva rinnovato le prospettive, richiedendo nuovi statuti e regole più stringenti. Il rapporto con i rinnovati esperimenti provenzali resta comunque “a distanza”: è in effetti interessante che nell’ambiente del Concistori manchino completamente esponenti del mondo accademico. L’impianto educativo e il bisogno di criteri forti cui uniformarsi nella pratica letteraria sfociano rapidamente nella compilazione di un manuale di riferimento, le Leys d’amor, composte originariamente da Guilhem Molinier e Berthomieu Marc; poco dopo, però, Molinier risulta l’unico incaricato della redazione e del perfezionamento linguistico, e come tale viene nominato cancelliere. Come si vedrà, il trattato conosce diverse redazioni e numerosi rimaneggiamenti, forse dovuti alle richieste e all’intervento dei committenti; nel 1356, comunque, le “leggi” sono pronte e diffuse. I primi destinatari sono laici e tolosani: si notano alcuni esponenti del mondo universitario, a ribadire una forma di connessione tra le due istituzioni, benché nella totale autonomia reciproca. Il “gai saber” riceve così un riconoscimento pubblico ed ufficiale, la sua “scienza” viene 500 accreditata come tale; l’intenzione educativa beneficia di uno statuto forte, essenziale per le sue future manifestazioni pratiche. Tra i primi destinatari del trattato è inoltre indicato il Grande Inquisitore. La nuova organizzazione poetica aveva bisogno della sua approvazione e protezione, in un contesto in cui tutte le manifestazioni sociali e culturali avevano risentito gravemente della repressione religiosa. Non ci sono prove esplicite che i trovatori siano stati inquisiti o perseguitati in modo specifico, anche se è chiaro che la decadenza della dimensione cortese è legata anche a questo contesto di violente trasformazioni. In ogni caso l’uso rinnovato del volgare e la rinascita di una poesia amorosa e profana potevano facilmente sollevare sospetti. Ancora nel pieno Trecento, dopo una fase di aperture e compromessi, la prudenza è del tutto giustificata; si insiste perciò sul fatto che anche la liturgia è in fondo poesia, sia nelle Leys, sia nei componimenti di Raimon de Cornet, l’autore più importante nell’ambiente del Concistori. Lo spirito di fondo di questa rinascita letteraria è dunque ortodosso, in coerenza, lo si è anticipato, con l’approccio degli ultimi grandi trovatori (si può citare ancora Folquet de Lunel). Il passaggio dall’amata terrena alla Vergine non è stato improvviso: già sul finire del ‘200 l’amore viene trattato in termini mistici e la figura femminile si fa troppo perfetta per essere umana, il sacro e il profano sono sempre più difficili da distinguere159. Il principio per cui l’amore e la poesia che lo esprime innalzano ed educano si ridefinisce facilmente in senso morale e cristiano: sono tutte tendenze già tipiche delle prime grammatiche del provenzale e di raccolte come il Breviari d’amor. In fondo, tale concezione dell’amore puro non è nuova: ad esempio già Guilhem de Montanhagol affermava che dall’amore – la vera fin’amor – deriva la castità. Più in generale non va dimenticato che, al di là delle manifestazioni erotiche pur ben presenti nelle opere trobadoriche classiche, lo scopo della fin’amor, non a caso amore fino, puro, che quindi purifica e raffina, è proprio il miglioramento interiore160. D’altronde la Chiesa controllava le manifestazioni culturali ben prima del Trecento, e soprattutto in quella fase di fine Duecento in cui i gusti degli intellettuali e gli interessi delle autorità sembrano gradualmente convergere. L’onnipresenza delle strutture ecclesiastiche e le imposizioni che ne derivano non possono certo stupire; già da tempo per altro si era imposto un altro fattore determinante per l’evoluzione della cultura, la spiritualità degli ordini mendicanti, soprattutto di quello francescano. Certo, l’esperienza del Concistori va ricondotta alla sopravvivenza della tradizione occitanica, ma è innanzitutto erede di un più ampio contesto e di una concezione della vita intellettuale ben definita e già affermata. 159 Anglade 1927 sottolinea efficacemente alcuni fattori di questo passaggio, a partire dalla fondazione nel Midi di alcuni culti mariani ad opera dell’Inquisizione (come la Confraternita del rosario) e dunque grazie principalmente ai domenicani. In effetti si tratta di un aspetto della fede cristiana dalla grazia particolare, che dunque facilmente poteva conquistare le coscienze. Il passaggio dalla dama alla Vergine appare al contempo il frutto della debolezza della cultura provenzale: incapace di creare forme espressive nuove, dedicate in modo specifico a questa spiritualità, si adattano quelle tradizionali, profane (pp. 194-195). 160 Sono i concetti fondamentali dell’amor cortese, di cui è fonte autorevolissima il De amore di Andrea Cappellano. Le sintesi in merito sono molto numerose, si legga ad esempio Mölk 1996; gli aspetti del miglioramento si sono comunque già affrontati nel corso del terzo e in parte del quarto capitolo. 501 I componimenti nati dall’ambiente del Concistori sono noti grazie ad alcune sillogi, in cui è costante la preminenza di Raimon de Cornet; il canzoniere più importante è quello preparato da Guillaume de Galhac, “mainteneur” del gruppo alla metà del ‘400. Per il secolo e mezzo circa che va dalla fondazione dell’accademia alla compilazione della raccolta, restano sessantadue componimenti, quantità certo molto inferiore rispetto all’effettiva produzione, ma comunque indicativa della qualità – mediocre – dell’attività poetica del periodo. Alcuni testi sono comunque gradevoli grazie alla vivacità del ritmo, che li identifica ancora in relazione all’esecuzione musicale, come nel caso delle danze. Abbonda la produzione dedicata alla Vergine, come ai temi religiosi e spirituali: la cultura cortese viene profondamente reinterpretata ed appare determinante la dipendenza dalla tradizione delle litanie, a livello tematico e formale (sino alla traduzione vera e propria)161. Il ricorso all’allegoria o un’intonazione occasionale o ancora qualche accenno biografico possono rendere più vivace e ricca la composizione; per altro i riferimenti all’attualità rivelano una matrice ormai completamente borghese. I concetti e gli argomenti sono d’abitudine molto semplici, quasi ingenui, ma l’atteggiamento degli autori non manca di decisione ed energia. Per queste manifestazioni trobadoriche tarde si può parlare di un sostanziale insuccesso, benché i poeti del Concistori si mantengano attivi piuttosto a lungo. Può esserne imputata l’imposizione della componente religiosa: spesso i nuovi caratteri espressivi e interpretativi non si adattano con efficacia alla tradizione occitanica, mentre la riduzione del poetabile è causa del senso di monotonia. Ci si può chiedere se tali trasformazioni fossero effettivamente necessarie, se l’Inquisizione nel Midi fosse davvero così soffocante e limitante. Non sarebbe bastato purgare e attenuare le tematiche tradizionali162? La questione è in sostanza aperta, perché i fattori in gioco rispetto alla decadenza della cultura provenzale sono molteplici e non tutti gli studiosi sono concordi sull’effettivo ruolo della Chiesa163. Un altro fattore da considerare è la prospettiva aristocratica dei poeti, che li spinge a rifiutare strumenti espressivi che avrebbero potuto rinnovarne la produzione, come il contatto con generi popolari o l’apertura verso un pubblico più ampio164. Infine, sono determinanti la ricerca di regole precise, nonché la loro rigida applicazione, che rende 161 Secondo Anglade 1927 (p. 159) la presenza non solo dell’Inquisizione, ma di numerose nuove fondazioni monastiche e mendicanti influenzano profondamente la visione culturale occitanica, mutandone l’“anima”, il fondamento. 162 Le tematiche tipiche della cultura cortese e la sua stessa assiologia sono necessariamente incoerenti con i dettami della Chiesa, a partire dalla condizione di adulterio in cui di necessità si trovano gli amanti. A questo si aggiunge un’impressione di “paganesimo” nella rappresentazione di rapporti e valori morali (Anglade 1927, p. 159). In ogni caso questi aspetti sono già stati anticipati. 163 Tuttavia Anglade 1927 riporta qualche documento significativo. Innanzitutto, a un eretico interrogato viene domandato se abbia mai letto le poesie di Guilhem Figueira, che scontano l’inimicizia della Chiesa per il loro autore (p. 158). Inoltre, alcuni trovatori tardi (Guiraut Riquier e Folquet de Lunel) lasciano intendere come le gerarchie ecclesiastiche concepissero la poesia come un peccato (p. 158). 164 Per queste rinunce, si veda anche Anglade 1927, p. 206. 502 l’ispirazione poetica tassonomica, più che spontanea165. Tali principi hanno avuto, senza dubbio, il valore di una garanzia, poiché contribuivano a salvaguardare i contenuti morali e quindi rassicuravano in merito alla ricezione sociale della lirica. Ben presto però hanno acquisito un significato molto più esteso, determinando l’espressione poetica a tutti i livelli, ed anzi influenzandola ben al di là del solo Concistori. Altro interrogativo non del tutto risolto concerne l’effettivo rapporto con le fonti, cioè i modelli trobadorici classici. Sembra indubbio che in quest’area e in questo periodo fosse possibile procurarsi delle antologie: ad esempio i codici C e R sono di poco anteriori alle esperienze del Concistori e originari della medesima zona. Inoltre in varie corti provenzali sono ancora attivi poeti i cui versi dimostrano che l’insegnamento antico è ancora vivo – Narbona, Guascogna, Catalogna, Aragona, Foix e Rouergue. A dispetto di questa concreta disponibilità, gli autori tolosani rivelano di conoscere ben poco quelle auctoritates che spesso citano, più che altro in quanto nomi illustri. Lo stesso vale per la definizione dei generi (i “fiori”). Essi sono concepiti in chiave gerarchica: resta la concezione della canzone “amorosa” come orizzonte più pregevole; l’eredità dei sirventesi è raccolta da testi di lode o satira, fortemente occasionali; gli spunti più leggeri sono sviluppati in forma di danze, mentre con planh e pastorella (minoritari per altro a livello quantitativo) si indicano realizzazioni eterogenee rispetto alle caratteristiche originarie. Anche a livello di cultura classica la situazione è ben poco vitale, benché certamente anche gli autori tardi conoscano il latino. Il valore fondamentale di questa fase del trobadorismo concerne dunque l’aspetto storico, da una parte per l’impegno stesso nel recupero degli antichi, dall’altra per l’evoluzione imposta alla lingua, alle forme poetiche, ai generi. La nuova poesia è in effetti orientata all’esaltazione della forma. Dilaga l’amore per l’oscurità, la ricercatezza, il gioco di simboli ed allegorie, raggiungendo eccessi che dimostrano la perizia tecnica, ma risultano al contempo freddi. È un effetto un po’ contraddittorio rispetto allo scopo esplicito di esprimere e comunicare “gioia”, la quale costituisce un diffuso leitmotif nei titoli, nei nomi, nelle definizioni. Tale insistenza deriva da celebri autorità medievali (come lo pseudo-Catone) secondo cui la scienza e l’arte si associano per natura alla gioia e alla soddisfazione. Anche per questo, tra i temi più amati figurano il quadro bucolico, il canto, il mese di maggio. Ovviamente, considerata l’assoluta preminenza dei valori morali e religiosi, nonché l’associazione di partenza con la scienza, la gioia dev’essere razionale, ponderata e controllata. Dominano come sempre le regole, che rendono misurato ogni sentimento. A livello formale si nota uno scadimento nell’uso dell’ornatus e degli artifici retorici, per qualità e quantità. Non si dovrà comunque pensare che la guida del Concistori sia completamente limitante. Si può ad esempio anticipare la libertà di autori come Cornet nella scelta dei temi. Il panorama culturale nella Francia meridionale del ‘300 non si limita all’Accademia: nella stessa Tolosa e soprattutto nel Limosino ci sono ancora 165 Anglade 1927, p. 202. 503 intellettuali liberi, magari in buoni rapporti col Concistori e quindi aperti alle sue indicazioni in fatto di lingua e grammatica, ma per il resto autonomi. 10.2 Le “Leys d’amor” Le Leys d’amor sono la più alta espressione del Concistori. Si tratta di un manuale di poetica trobadorica cui autore e committenti attribuiscono la funzione di salvaguardare la lingua166, la cultura e la poesia occitanica; è ovvio il riferimento ai grandi autori dell’età “classica”, anche se spesso alle dichiarazioni non fa seguito la sostanza. Il punto di vista offerto dal trattato è peculiare: è inevitabile la divaricazione cronologica rispetto all’eredità cui si vuole attingere, ma al contempo ci si identifica pienamente con la tradizione cortese, tanto che c’è ampio spazio per la sua attualizzazione. Lo si nota chiaramente nell’analisi linguistica: gli spunti etimologici, semantici e formali devono ricostruire il patrimonio provenzale, ma anche rileggerlo in senso scientifico (in nome della gaia scienzia) e la passione del tardo Medioevo per la tassonomia si sposa perfettamente con tali intenzioni. Le Leys non sono né l’unico né il più precoce tentativo di sistematizzare la cultura trobadorica, e tuttavia hanno un’importanza peculiare. In primo luogo, derivano uno statuto di ufficialità e prestigio dal Concistori, che aveva ottenuto riconoscimenti ed attenzione da parte di altre istituzioni e dagli intellettuali del Midi. Secondariamente, il manuale circola ben al di là della sola Provenza e dunque influisce sulla percezione trecentesca della tradizione trobadorica anche in area iberica (Catalogna, Castiglia e Portogallo) – dove gode di un’amplissima ricezione -, in Francia e in Italia. Il caso della Catalogna è forse il più significativo. Qui l’uso della lingua provenzale in poesia era resistito per tutto il ‘200; quando, infine, all’inizio del ‘300 prevale la lingua materna, i modelli trobadorici mantengono comunque un ruolo essenziale e tale tendenza viene rafforzata dal contatto con le esperienze tolosane. In realtà le Leys circolano soprattutto rimaneggiate: se ne conosce una traduzione in prosa catalana e una trasposizione in versi dal titolo Flors del Gai Saber, che contiene i medesimi insegnamenti e le medesime citazioni della versione in prosa, ma intende favorire la memorizzazione. In effetti, i poeti catalani saranno gli unici epigoni del Concistori, soprattutto dopo il suo esaurimento: non solo con la produzione poetica, ma anche con quella retorico-grammaticale, di cui si è parlato. Non importa che le opere poetiche presentate e le citazioni puntuali non siano le stesse: la comunanza si coglie nei principi di base, nella codificazione, nella terminologia. È poi indicativa la costituzione di una parallela accademia barcellonese: anche qui viene organizzato un concorso annuale, tanto prestigioso da ricevere il sostegno e la protezione del sovrano, e capace di fornire un titolo ufficiale. Al contrario l’influenza delle Leys viene percepita molto poco in area francese: i trattati di retorica per la lingua d’oil lo dimostrano chiaramente. È poi davvero curioso che 166 Proprio questo aspetto può essere considerato il più significativo, anche in riferimento al periodo storico: la lingua si modifica sempre di più in varianti dialettali e dunque il riferimento alle modalità classiche e letterarie assume un significato peculiare (Anglade 1927, pp. 202-203). 504 questa distanza si avverta anche da parte di autori di origine tolosana, ma legati professionalmente a Parigi e alla sua università. Opera importantissima, dunque, le Leys d’amor devono il loro titolo, definitivo almeno dal 1341, ai sette fondatori del Concistori, o almeno questo è ciò che sostiene l’autore, Guilhem Molinier. A lungo però ne circolano altre possibili definizioni, quali Leys del Gai Saber e Flors del Gai Saber. In certi casi esse divengono una sorta di sottotitolo: i flors in particolare possono riferirsi all’immagine topica dei “fiori di retorica”, materia che certo trova ampio spazio nel trattato. Delle Leys restano quattro redazioni. Per la prima è stato ipotizzato un periodo piuttosto ampio (1328-1337), fin troppo per chi, come Jeanroy167, ritiene che la composizione dell’opera debba seguire da vicino la fondazione dell’accademia e non possa perciò essere di molto successiva al 1330. L’uso manualistico cui le Leys sono destinate può illuminare la questione: da una parte l’autore deve aver compiuto sufficienti studi preparatori, dall’altra una composizione abbastanza rapida è verosimile, per l’urgenza di fornire utili linee guida a chi partecipasse ad esami e competizioni nell’ambiente dell’accademia. Si tratta comunque di ipotesi, anche perché la prima versione del testo è perduta; la sua effettiva esistenza non è nemmeno certa, benché la renda probabile l’impressione che altri grammatici (Castelnou in particolare) si siano ispirati ad essa in tempi troppo precoci per le redazioni a noi note. La seconda, in cinque parti168, è stata completata entro il 1341, come suggeriscono alcuni riferimenti interni e le citazioni, che qui appaiono già con il titolo completo; si ricordi, però, che per la sua composizione è stato ipotizzato anche un periodo un po’ più ampio (1337-1343). La terza è quella abbreviata, in tre parti; è finita, forse attraverso più fasi, entro il 1356. Alcuni richiami interni sono particolarmente rivelatori: nella redazione in tre parti si notano la figura di Giovanni XXII (morto nel 1334), mentre in quella in cinque parti sono nominati Filippo IV (che fu a Tolosa nel ‘36) e Gastone II (morto nel 1343)169. Altre indicazioni cronologiche utili riguardano Molinier e Marc, il suo coautore. Il primo fu nominato cancelliere, ricevendo l’ordine di terminare l’opera (cioè probabilmente di correggerla), nel 1355, mentre Marc fu certamente a Tolosa come lettore e poi come professore solo a partire dal ‘35. Infine, possono essere considerate come ulteriori redazioni del medesimo testo anche la fortunata traduzione in catalano e la versificazione del testo, cui si è accennato. La prima è perduta, ma deve essere stata una versione breve, una sorta di compendio preparatorio e temporaneo, che comprendeva, sembra, solo una parte degli argomenti. 167 In Jeanroy 1914, l’edizione critica delle Leys d’amor. A pagina 106, Jeanroy parla di una versione in sei parti da cui avrebbe preso spunto, abbreviandola, la versificazione catalana. Non è chiaro a cosa si riferisca o se sia un'erronea sovrapposizione rispetto alla versione lunga in cinque parti. Infine, la sesta parte potrebbe coincidere con il dizionario in appendice. 169 Jeanroy indica anche la presenza nella redazione in cinque libri di un riferimento alla guerra tra Francia e Galles che si svolse tra 1355 e 1356. Tuttavia questo dato appare in contraddizione con la sua affermazione per cui quella redazione sarebbe compiuta entro il '41 (né questa aporia viene segnalata o spiegata). Si potrebbe pensare semplicemente ad un refuso nel testo dello studioso. Egli per altro in qualche luogo della sua analisi cita talvolta una redazione in sei libri, su cui però mancano indicazioni più precise. 168 505 Nelle due redazioni che si possono considerare complete, benché di lunghezza differente, la prima sezione costituisce una sorta di momento autonomo ed ha contenuto multiforme. Una prima parte è storica, focalizzata sulla nascita del Concistori stesso; segue una riflessione sulla poesia religiosa, per poi proseguire con due trattatelli rispettivamente di etica e di retorica, che introducono tutti i concetti fondamentali per l’attività dell’accademia. Le fonti sono numerose, anche se non è chiaro quanto bene le conoscesse l’autore o quanto si sia accontentato di rielaborazioni ed excerpta. I modelli principali risultano Aristotele e Cicerone, ma dev’essere stata fondamentale la mediazione di Brunetto Latini e soprattutto del Tresor, almeno per gli argomenti retorici. Attraverso quest’opera (di cui circolava anche al sud la versione in lingua d’oil, anche se forse esistevano traduzioni in quella d’oc), Molinier accede ad ulteriori fonti indirette, ad esempio Salomone e lo pseudo-Seneca, grandi maestri cui l’autore dice di essere grato, ammettendo la propria “scienza” insufficiente. Per i contenuti retorici e filosofici altri modelli diretti sono Isidoro di Siviglia e l’Ars loquendi et tacendi di Albertano da Brescia (già comunque utilizzato dal Latini, che anzi disponeva di altre due sue opere, il Liber consolationis e il De amore Dei); egli a sua volta guarda con notevole abbondanza ai classici e Molinier recepisce così tali fonti, per quanto tagli quasi integralmente gli esempi. Non mancano ampi spazi di rielaborazione, con considerazioni autonome e aggiunta di nuove citazioni: come ovvio l’attenzione si rivolge innanzitutto ai trovatori, modelli fondamentali anche per le questioni retoriche. Attraverso gli esempi tratti dalla produzione moraleggiante del Duecento, l’autore introduce anche abbondanti spunti polemici; per i contenuti teologici è essenziale il riferimento allo pseudo-Tommaso del Compendium theologiae veritatis, che Molinier in parte traduce alla lettera ed in parte rielabora. Lo affianca infatti ad altre autorità, tra cui spiccano i testi patristici e i grandi della Chiesa (Agostino, Bernardo, Gregorio, Tommaso, Paolo, Ambrogio), l’Antico Testamento, ma anche opere più recenti (Pietro Alfonso, S. Martino da Braga confuso però con Seneca) o classiche (Cicerone, Cassiodoro, Esopo, Panfilo). Sono pochi i greci (Gorgia, Socrate, Pitagora, Aristotele e in misura minima Platone) e le opere mediche (Ippocrate, Galieno e Avicenna). Il principio di fondo è squisitamente medievale: la forza dell’autorità e l’energia dell’argomentazione hanno grandissimo peso, mentre viene attribuito scarso valore all’originalità della trattazione. Ciò non toglie che spesso le fonti siano introdotte in modo impreciso, inesatto, confuso, senza nemmeno il tentativo di nominarle: l’intento è in sostanza l’accumulazione di quante più citazioni possibile. Tra i vari documenti sono privilegiati i contributi più polemici e forti a livello morale: ad esempio ricorrono il biasimo verso il clero corrotto e la preoccupazione per lo stato dei diseredati. Per la trattazione grammaticale vengono nominate esplicitamente solo tre fonti: Prisciano, Isidoro di Siviglia e Donato, cui vanno aggiunti alcuni minori non dichiarati. Si può ad esempio intuire il ruolo di Pietro Elia quale mediatore rispetto a Prisciano, di Alexandre de Villadieu (Doctrinale), di Everardo di Betunia (Grécisme), di due famosi glossari (il Catholicon e il Elementarium Doctrinae Rudimentum di Papia). Sono tutti testi molto noti e diffusi, soprattutto in ambiente universitario; la struttura del discorso 506 si ispira dunque a quella dei manuali latini, in primo luogo classici e poi contemporanei. Gli aspetti linguistici analizzati riguardano fonetica, accentazione, metrica (struttura del verso, pause, sistema rimico, tipologia delle strofe), morfologia (nome, verbo, pronome, aggettivo, genere, casi, articolo, avverbio, preposizioni), etimologia e sintassi. La redazione lunga delle Leys è interrotta; il quinto libro si sarebbe concentrato sull’amore in senso sia poetico che morale. Non ne resta che l’avvio, che propone una lezione di stile e metrica, in base alla consapevolezza del valore che pertiene l’ordo verborum e la relazione tra le parti della frase. Segue un dizionario delle rime usate dai trovatori. Le spiegazioni grammaticali sono piuttosto efficaci: Molinier è capace di sfruttare appieno le sue fonti, tenendo al contempo presenti le differenze che intercorrono tra il latino dei modelli e il provenzale. Inoltre, mette a frutto la propria conoscenza di alcuni trovatori (soprattutto tardi, ma non solo). Riesce a riconoscere e censurare gli usi erronei, nonché a distinguere i singoli dialetti (classificati su base diocesana). In tal senso il suo riferimento è l’uso tipico di Tolosa, dove lo studio aveva salvaguardato una lingua ancora piuttosto vicina a quella classica dei trovatori. La preminenza dei modelli latini per il genere del trattato non implica che l’autore non conoscesse o non tenesse in conto le anteriori grammatiche del provenzale, anzi proprio la funzione regolatrice attribuita alle Leys rendeva necessaria una sistemazione di tutti i materiali disponibili. Essi comprendono anche opere di pura poetica, cioè prive di spiegazioni o riflessioni grammaticali, di cui sono rimaste tracce molto limitate, che tuttavia Molinier sembra aver letto. Tra le grammatiche, gli sono familiari Raimon Vidal e Uc Faidit. Molinier dimostra un rigore maggiore di Vidal, poiché non consente di scegliere tra diverse alternative, imponendo per lo più soluzioni univoche, come richiede d’altronde il normativismo dell’accademia. Il suo atteggiamento concorda con quello di Faidit, la cui impostazione è però troppo semplice perché sia considerata la fonte principale delle Leys, ben più elaborate. Il confronto più significativo è quello con il Doctrinal de trobar di Raimon de Cornet170, per la vicinanza cronologica, per l’appartenenza di entrambi all’ambiente tolosano, per l’intenzione comune di favorire l’apprendimento di aspiranti poeti e laureandi. Può essere utile alla comprensione della vita culturale tolosana, tanto importante per chi studi la fase tarda del trobadorismo, contestualizzare le attività intellettuali. A parte la storia della città, è particolarmente interessante l’evoluzione dello studium univesitario, centro d’eccellenza e luogo d’attrazione che permise lo sviluppo dell’intera regione171. 170 Per questo trovatore, il più importante dell’età tarda, si veda il paragrafo successivo. 171 Fonti essenziali sono Smith 1958 e in generale AAVV 1970. 507 10.2.1 La città La fondazione di Tolosa è romana, sono registrati scontri con i barbari nell’età tardoantica. Ma per questo periodo le informazioni non sono numerose. All’inizio dell’epoca feudale la città diviene il punto di riferimento di una dinastia vassallatica che da una parte assume il dominio di quasi tutta la Linguadoca (con titoli diversi, compreso quello di marchesi di Provenza), ma dall’altra conosce frequenti spartizioni territoriali fra eredi maschi, secondo una politica dinastica poco efficace. Dal punto di vista culturale, questa corte172 è una delle più fastose ed accoglienti per i trovatori, già nell’età “d’oro”, e nota per la prodigalità dei suoi signori. Ne fecero parte ad esempio Marcabru e, nel suo periodo di maggior splendore, Bernart de Venadorn, Peire Rogier, Peire Raimon, Folquet de Marseille, Peire Vidal173. Poco dopo vi si trovano anche Raimon de Miraval ed una trobairitz nota come “dama lombarda”174. Nel medesimo periodo la città rappresenta un centro religioso di notevole importanza, e infatti vi si tengono numerosi concili. D’altro canto in generale nel Midi, e in particolare nel tolosano, il clero non risulta particolarmente attivo a livello culturale e proprio nella fase in cui altrove la vita intellettuale dipende maggiormente dalla Chiesa: dalla regione non proviene nessuno studioso o artista memorabile, e i cataloghi disponibili mostrano una singolare povertà di manoscritti anche per le abbazie più ricche. Sono molto più dinamici i laici. Si sviluppano lo studio del diritto e della medicina, ma anche la poesia in volgare: la Linguadoca partecipa delle origini della cultura cortese. I conti di Tolosa non sono mecenati di primissimo piano, ma diversi trovatori sono a vario titolo legati alla loro corte, e in particolare ad Alfonso Giordano e Raimondo V. Tuttavia non sembrano connessioni durature o di particolare importanza, perché non si sono salvati componimenti d’elogio o dedicati a questi signori in modo esplicito. Nel frattempo crescono notevolmente le arti figurative e l’architettura, caratterizzate da manifestazioni singolari e piuttosto riconoscibili, anche se soprattutto delle costruzioni medievali è rimasto poco. Dal punto di vista economico, Tolosa è una città solida e indipendente, anche se del tutto secondaria a livello commerciale; vanta inoltre un costante afflusso di pellegrini. Il declino si avvia con la questione catara: la crociata e l’Inquisizione si abbattono sulla città con particolare violenza; in effetti risulta che Tolosa sia stata un centro attivo e vivace anche sul piano del pensiero religioso, non sempre però considerato ortodosso. Ai problemi spirituali e agli interventi pontifici, vanno aggiunte le lotte per il potere politico, che vedranno vittoriosa la monarchia francese: l’epoca delle violenze e degli scontri può dirsi conclusa solo con il 1229, quando Raimondo accetta la sconfitta nel trattato di Parigi. La Linguadoca mantiene comunque la propria indipendenza sino al 1271, quando, alla morte del conte Alfonso, Filippo III riesce ad annettere la regione. Le informazioni disponibili in merito al sistema scolastico locale non sono molte. Certamente in epoca romana Tolosa poté vantare buone scuole, come testimonia 172 Sulla storia e sul ruolo culturale di questa corte di veda Anglade 1927, pp. 11 segg. È al potere Raimondo V (1148-1194): vedi Anglade 1927, p. 14 (dove si cita anche Meyer). 174 Su questo personaggio si veda Anglade 1927, pp. 121-123. 173 508 Ausonio, ma in età medievale sembra che la loro organizzazione fosse gravemente decaduta. Tuttavia nel periodo carolingio e nel contesto monastico l’attività educativa deve aver mantenuto una qualche floridità. Lo sviluppo bassomedievale dell’educazione e delle professioni appare in linea con quello tipico del Midi e dell’Europa occidentale in genere175. 10.2.2 L’università L’università di Tolosa ha una notevole importanza storica. Da una parte la sua nascita è legata allo specifico contesto del Midi e alle sue problematiche. Dall’altra, essa diviene un centro dalle numerose attrattive (vanta infatti un costante afflusso di studenti aragonesi), partecipa sia alla storia locale, sia a quella pontificia in generale, compresa l’epoca dello Scisma e della Guerra dei Cent’anni. Infine coinvolge l’interesse e l’intervento della monarchia francese. Le radici dell’istituzione universitaria a Tolosa sono nel trattato di Parigi, in cui è inserita una clausola che impone un investimento abbastanza cospicuo per il mantenimento di insegnanti: la preminenza della teologia lascia intuire l’intenzione di combattere l’eresia attraverso l’istruzione, benché ci sia spazio anche per il diritto176 e le arti liberali. È Giovanni di Garland, uno dei primi e più prestigiosi docenti dello studium a dar conto di tale motivazione: in una lettera circolare del 1229, non firmata, studenti ed insegnanti sono letteralmente associati a veri crociati, che si sostituiscono agli armati dopo vent’anni di guerra, con l’intento puntuale di operare pacificamente. E le strutture universitarie si rivelano efficaci, modificando con la loro stessa organizzazione e il loro spirito la società feudale e borghese177. Già negli anni precedenti, tuttavia, si colgono chiari indizi della futura fondazione ed è già determinante l’intervento ecclesiastico: la fede rimarrà sempre il punto di riferimento essenziale. Un contributo particolare si deve a Romano Bonaventura, della cui origine e dei cui studi non si sa quasi nulla, ma che certamente è nominato cardinale nel 1216; già esperto di problemi d’eresia, è inviato in Francia nel ‘25 e cerca di calmare le dispute tra lo studium parigino e il cancelliere, questione in cui sarà implicato ancora nel ‘29. Negli anni successivi è ancora coinvolto nella concessione di fondi per lo studio della teologia e il sostegno agli studenti poveri (col tramite del vescovo) ad Avignone. Insomma la questione educativa gli è familiare: per questo si pensa che proprio il legato pontificio possa essere intervenuto in prima persona nel caso di Tolosa. Uomo di fiducia di Bonaventura, ma apprezzato a quanto pare anche dal conte, è poi l’abate cistercense Guerin, dal quale sembra derivi l’effettiva organizzazione dell’università, la quale dunque risulta a maggior ragione inserita nelle fila della Chiesa. Sono scelti alcuni professori di teologia di Parigi, estranei perciò alla pericolosa 175 Per la presenza a Tolosa di una scuola episcopale di un certo valore, anche rispetto alla questione dell’insegnamento teologico, si veda il saggio di Vicaire in AAVV 1970. 176 L’insegnamento tolosano portò anzi significative innovazioni nell’approccio alla materia. Vedi Gilles 1970. 177 Delaruelle in AAVV 1970, p. 24. 509 temperie spirituale meridionale e al contempo facili da attrarre a causa degli scontri che ancora sconvolgevano il celebre studio settentrionale. Non va poi dimenticata la costante vigilanza del vescovo, necessariamente ortodosso. Mancano indicazioni affidabili sulle reazioni degli abitanti alla creazione dello studium, che di fatto costituisce un’imponente forma di ingerenza dall’esterno, innanzitutto politica. Le testimonianze disponibili, il cui tono è marcatamente ottimista, sono un po’ più tarde (di nuovo, Giovanni di Garland) e comunque interne all’ambiente universitario, che nel suo insieme (studenti e docenti) era “un corpo estraneo”178 rispetto alla cittadinanza. A questo proposito è interessante anticipare che in tempi relativamente brevi l’università diviene davvero occitanica, come dimostrano l’aggiunta dei corsi di diritto civile, oltre che canonico, e la disponibilità di un insegnamento (anche se non di una facoltà) di medicina, nell’ambito delle artes179. Per quanto concerne l’avvio dei corsi veri e propri, è noto il ruolo di due docenti, uno in particolare piuttosto celebre, il già citato Giovanni di Garland. Inglese, dopo i primi studi nella terra d’origine, si trasferisce a Parigi, dedicandosi soprattutto all’insegnamento del latino nel “Chiostro di Garlande” fino ai disordini del ‘29. È soprattutto il meridione, e Tolosa in particolare, ad influenzare le sue opere, come il poema sulla crociata albigese; esse offrono ben poche informazioni sul suo impegno quotidiano presso il nuovo studium, ma è chiaro che egli integra l’insegnamento grammaticale con contenuti morali, teologici e agiografici. È suo collega il domenicano italiano Rolando di Cremona, che aveva insegnato filosofia a Bologna: arrivato a Tolosa nel 1230 si impegna immediatamente nella lotta all’eresia180. Segue a tale inizio entusiastico una fase di grave crisi. Da una parte continuano con violenza le persecuzioni contro gli eretici, dall’altra il conte versa in gravi difficoltà economiche a fronte delle enormi imposizioni del trattato di Parigi. Da Roma, Gregorio IX cerca di contribuire alla sopravvivenza dello studium concedendogli le libertà di cui godeva quello parigino e garantendogli la protezione delle istituzioni (comprese quelle laiche)181. Tuttavia la situazione è complessa e convulsa, sia rispetto al funzionamento dell’Inquisizione e al suo rapporto con le altre autorità ecclesiastiche, sia sul piano politico, per i tentativi del conte Raimondo di trovare nuovi alleati182. Solo negli anni Quaranta l’università di Tolosa comincia a svilupparsi realmente: non se ne conosce con precisione il corpo docente, ma ci sono attestazioni certe della crescita degli spazi dedicati al soggiorno degli studenti e ai primi collegi183, il che fa pensare ad un aumento nel numero degli allievi iscritti. 178 Dossat in AAVV 1970, pp. 60-61 Dossat in AAVV, 1970, p. 62. 180 A proposito di questi docenti, il loro lavoro a Tolosa e le loro posizioni rispetto all’insegnamento, si vedano i saggi di Vicaire e Dossat in AAVV 1970. 181 Sui contributi dei pontefici nel XIII secolo si possono consultare le pp. 70-77 di Dossat 1970. 182 Vedi Smith 1958, pp. 61 segg. 183 Per approfondire su questo argomento si può leggere il saggio di Faury in AAVV 1970. I collegi sono in parte la risposta alle condizioni di vita durissime in cui versano gli studenti più poveri (Dossat 1970, p. 86). 179 510 Segue un’ulteriore fase di difficoltà, dovuta alla lenta riorganizzazione di Tolosa e dell’intera regione a seguito dell’annessione operata da Filippo III di Francia: le dispute si fanno sempre più numerose, sia tra gli aristocratici che tra gli ecclesiastici. Insomma, sino al pieno Trecento la crescita dello studium è lentissima e quasi priva di eventi significativi, in particolare dopo la morte di Raimondo: probabilmente è anche per questo che mancano informazioni e documenti rilevanti184. Con il XIV secolo si delinea invece una svolta. La validità del corso di diritto canonico viene riconosciuta ufficialmente da Bonifacio VIII (che vi destina alcune concessioni) e dall’ordine cluniacense (che lo raccomanda ai suoi membri). Sono proprio questi i corsi che ottengono il maggiore successo e l’affluenza più costante185. Intanto la curia pontificia si sposta ad Avignone: i vescovi di Tolosa e Béziers diventano cardinali ed avranno contribuito a sollecitare l’interesse dei papi verso l’università, che infatti riceve nuovi benefici. È particolarmente evidente l’attenzione di Giovanni XXII, nativo di Cahors (dove, non a caso, sorgerà ben presto un altro studio). Cresce il prestigio di università e città, si ampliano le strutture architettoniche, aumentano le cariche direttamente concesse dai pontefici al loro entourage nel contesto tolosano. Quest’ultimo fattore ha una notevole importanza per l’attrazione di nuovi studenti, le cui speranze di carriera sono sollecitate dalla creazione di nuove posizioni di potere. Nel frattempo, cominciano a giungere le prime concessioni reali186 a favore dell’università, che tra 1309 e 1329 è nel pieno della sua floridità (non si può dire lo stesso per la regione, che subisce numerose calamità, dall’inondazione del 1310 alle successive epidemie e carestie). Nei decenni successivi, lo studium conosce la costante ingerenza dei due poteri nella gestione e nella protezione delle attività quotidiane come degli eventuali disordini. Una questione di particolare interesse concerne la facoltà di teologia. Tale settore degli studi è ufficialmente assente a Tolosa, forse per l’insufficienza di maestri qualificati che se ne occupassero: restano però i documenti della disputa col papato (che interviene ricordando che la licenza di laurea in quell’ambito non è abitualmente concessa a Tolosa) e con Parigi, evidentemente interessata a mantenere i propri privilegi di studium teologiae. Il problema sarà risolto solo una trentina d’anni dopo, nel 1360, con la creazione di una facoltà di teologia vera e propria, ratificata da Innocenzo VI; tuttavia è certo che sino a quel momento l’università di Tolosa non smette di organizzare scuole dedicate a quella materia e che sin dai tempi di Rolando da Cremona insegnamenti di teologia sono impartiti con regolarità. Alla sua partenza, tale impegno è affidato sempre a domenicani, generalmente estranei al Midi187, confermando perciò l’attenzione all’ortodossia. D’altronde, anche se in modo ufficioso, il carattere abituale di tale insegnamento è di fatto già stato riconosciuto dai papi, tramite concessione di benefici, a partire da Clemente VI. I suoi successori, e soprattutto Urbano V e Gregorio XI, sono 184 Vedi Smith 1958, p. 72. Dossat in AAVV 1970, pp. 65-68. 186 Per il rapporto con l’autorità regia, si veda Dossat in AAVV 1970, pp. 79-84 (le pagine seguenti approfondiscono il rapporto con i poteri locali). È particolarmente interessante la connessione tra amministrazione e studio del diritto, cui si è già accennato per il Midi in generale; proprio la richiesta di giureconsulti può motivare il grande successo dei corsi di diritto, civile oltre che canonico. 187 Dossat in AAVV 1970, p. 63, e per la questione della facoltà di teologia in generale, pp. 68-69. 185 511 stati a loro volta forti sostenitori della neonata facoltà, garantendole in particolare la costruzione di numerosi collegi188. 11. Raimon de Cornet189 Raimon de Cornet nasce probabilmente alla fine del ‘200, originario di Saint-Antonin de Rouergue, ed è ancora vivo a metà del ‘300; è attivo come poeta probabilmente tra il ‘20 e il ‘49. Per il resto la questione cronologica non è chiara ed è oggetto di dibattito fra gli studiosi (Perugi in particolare rifiuta la ricostruzione di Chabaneau). È certo che, avviatosi alla carriera ecclesiastica, passa dal clero secolare all’ordine minoritico, all’interno del quale resta per brevissimo tempo; torna poi al clero secolare ed infine diviene monaco, entrando probabilmente nell’ordine cistercense. È possibile che egli abbia avvertito il pericolo di avvicinarsi eccessivamente agli spirituali, in primo luogo Pietro di Giovanni Olivi190. Tra i suoi contemporanei Cornet è piuttosto noto e stimato; nel corso del tempo si lega a diverse corti (soprattutto in area spagnola) dove ancora riesce a trovare mecenati generosi. A queste relazioni si devono i testi elogiativi dedicati ad esponenti dell’aristocrazia. Al di là di questi contatti altolocati, per l’esperienza poetica del Cornet è centrale il rapporto con il Concistori du Gai Saber, mediato dalle amicizie strette durante gli anni di studio presso l’università di Tolosa e fondamentale per comprendere meglio il ruolo del tardo trovatore nel contesto del Midi. La competenza di Cornet in merito alla tradizione trobadorica sembra, tuttavia, migliore di quella di compagni e colleghi: egli si appella spessissimo ai modelli classici, anche se sono citati esplicitamente solo Peire Cardenal, At de Mons191 e un Aimeric (probabilmente de Peguilhan); tuttavia anche Gaucelm Faidit, Raimon Jordan e Raimbaut de Vaqueiras sono certamente fonti importanti. Tali legami con la grande poesia del passato si rivelano chiaramente nella creazione di veri e propri contrafacta, soprattutto sirventesi che il poeta stesso definisce tali. Perciò, egli è stato definito l’ultimo vero trovatore, erede della grande tradizione cortese conclusasi con Guiraut Riquier, ma anche tramite verso la nuova concezione della poesia, legata appunto al Concistori e alle Leys192. Cornet dimostra poi una particolare venerazione per gli autori più oscuri e le realizzazioni formali più complesse. Nella sua poesia in effetti è costante l’attenzione alla forma, al ritmo, ai giochi di rime, con effetti di grande artificiosità, ricercatezza e difficoltà: questa passione per il trobar clus coincide con il riaccendersi di 188 Questo aspetto è trattato con particolare ampiezza in Smith 1958. Per il trovatore, il più importante della sua generazione, si vedano Jeanroy 1949, Noulet-Chabaneau 1973, Perugi 1985, Passerat 2000 e 2003. 190 Per lo più le informazioni di cui disponiamo sull’autore derivano dalla sua produzione poetica, dove per altro anche i richiami alla storia contemporanea sono tutt’altro che numerosi e chiari. Per la questione dell’ordine minoritico e della fazione spirituale, si veda Huchet 1991, pp. 180-181. 191 In realtà At de Mons è uno degli ultimi poeti di Tolosa, prima del Concistori stesso e dunque rappresenta già un momento di decadenza o per lo meno la fase immediatamente precedente (Anglade 1927, pp. 187 segg.). 192 Huchet 1991, p. 174. 189 512 una vera e propria moda. D’altro canto, mentre l’ornatus è ricchissimo e denso, la metrica e la struttura sintattica sono molto semplici e spesso poco significative. Il virtuosismo è dunque concentrato principalmente nel lessico e nelle rime, abitualmente preziose e difficili, nonché piegate a regole inflessibili. Un fattore ulteriore di ricchezza e complessità si deve ai giochi numerici e calcolatori, che da una parte rispondono al gusto dei trovatori tardi (contraddistinguono ampiamente, come si è visto, l’organizzazione delle raccolte d’autore d’area iberica alla fine del Duecento) e dall’altra servono quasi ad esaltare le capacità e la preparazione del loro autore193. I suoi versi sono tramandati da tre codici, siglati A, B, Sg (noto anche come codice Noulet, dal nome dello studioso che se n’è occupato)194. Lo scopo del copista di A era probabilmente una raccolta dedicata al solo Cornet: ne recupera trentasei testi e li organizza sistematicamente per genere (parte di questa sezione iniziale è perduta perché le prime pagine del codice sono cadute). Tuttavia questi testi non erano sufficienti a riempire le carte disponibili: è la ragione più plausibile per l’inserimento di altri autori in una silloge di questo tipo. L’estensore deve però aver trovato in un secondo tempo altri componimenti dell’autore principale e dunque li ha aggiunti, ma intercalandoli via via a quelli di Pey de Ladies. La struttura di B è perfettamente affine a questa terza sezione, poiché presenta solo opere di Cornet e di Ladies. In conclusione i testi noti per il Cornet sono quarantaquattro, attribuitigli come unico autore, cui si aggiungono quattro sue tenzoni con vari poeti, dieci tenzoni con il Laides (del quale restano otto liriche)195. La produzione di Cornet è ricca e disomogenea, caratteristiche che testimoniano l’intenzione di affrontare i generi più disparati; se ne possono ricostruire momenti diversi, che comunque presentano spesso una significativa coerenza interna e reciproca, come per la produzione didattica e morale, le tenzoni e i partimens, e perfino nei testi ispirati alle esperienze di beghinaggio. Le opere didattiche e morali paiono risalire agli anni della maturità, cioè alla fase più tranquilla della sua vita, mentre quelle amorose (le canzoni) vanno probabilmente attribuite al periodo giovanile, in parte forse anteriore ai voti. Nel corso della sua vita, comunque, Cornet si è sempre mantenuto attivo in ambito mondano, come dimostrano i componimenti (in parte occasionali) e la quantità di mecenati che lo hanno protetto. Tale molteplicità suggerisce che Cornet non abbia accettato i limiti imposti dall’accademia tolosana; ad esempio ha accostato alle dediche alla Vergine temi più tradizionali – l’amore per le dame e le cortesie, i piaceri della vita e della tavola cantati nei plazer. Non manca un’interpretazione dell’amore tutt’altro che platonica ed anzi 193 Per la dedizione dell’autore all’elaborazione stilistica ed alcuni esempi di tale impegno, si veda Huchet 1991, pp. 184 segg. Al medesimo studioso si deve un’interessante definizione dello stile rispetto all’espressione del singolo rispetto alla tradizione: “Le style est tension à l’égard d’une loi et renoncement à une transgression totale […]. Le style se présente comme une formation de compromis exprimant la singularité d’un sujet et, en creux, le code dont il s’écarte […]. Le style fait donc lien entre le sujet et le code” (p. 178). 194 Ne mancano edizioni recenti; valgono ancora come riferimento essenziale i lavori di Chabaneau, Noulet e Jeanroy. 195 Tale calcolo deriva dalle ricerche di Chabaneau; non concorda perfettamente Huchet 1991, che parla di cinquantacinque testi. 513 erotica e ardente, proprio ciò che il Concistori cercava di cancellare. Si torna poi ad una visione classicamente trobadorica dell’amore aristocratico, fedele alla singola dama, ma al contempo adulterino; la convenzionalità caratterizza anche l’attacco misogino, benché su un piano ben diverso, per quanto rinnovato dal gioco parodico imposto al genere della pastorella, che funge da struttura del discorso. Per l’amata viene scelto il senhal di “rosa”, che diviene così la firma dell’autore, il quale inserisce spesso il termine nei suoi componimenti, anche con valore letterale. Non sono esclusi temi attuali e politici o critiche al mondo ecclesiastico, che dimostrano l’attenzione di Cornet al quadro storico coevo: così ad esempio nell’invocazione alla crociata. Anche in questo caso, il poeta rinnova l’espressione tradizionale, mescolando punti di vista diversi, cosicché la prospettiva più bassa e volgare sia sempre accostata a quella più ascetica e pura. Come variano generi e temi, cambiano notevolmente anche i toni, dall’entusiasta, al fiducioso, al deluso, al polemico. Alla produzione spirituale di contenuto teologico si alterna quella satirica e irrisoria, anche ai danni della Chiesa; la linea anticlericale della poesia di Cornet ha d’altronde un valore storico particolare, oltre che una notevole frequenza. Testimonia infatti il permanere di un filone che era stato importante per il trobadorismo classico, nonché uno spazio critico che gli anni dell’Inquisizione non avevano potuto cancellare. Per questa ragione è illuminante che in varie occasioni il tardo Raimon sia confuso con Peire Cardenal, suo modello fondamentale e vero capostipite della poesia polemica occitanica. Qualche esempio di tale produzione può rivelarsi interessante. Cornet nomina versa un poema piuttosto ampio e articolato dedicato alla critica sociale e volto a suscitare la conversione. Secondo il modello convenzionale degli “stati del mondo”, vengono passate in rassegna tutte le classi sociali, ispirandosi al tema, altrettanto topico, del mondo folle e rovesciato. L’attacco alla curia avignonese è qui particolarmente violento, ma non sono da meno le requisitorie contro le alte sfere vescovili e gli ecclesiastici a diretto contatto con i fedeli. Con piena coerenza, Cornet non rinuncia alla condanna dei conventuali dell’ordine minoritico, benché a questo attacco sia riservato anche uno specifico sirventese. Paiono salvarsi soltanto gli spirituali, che sullo stato della Chiesa condividevano per altro la cupa opinione del poeta. Il breve passo della versa loro dedicato è però molto oscuro; per questo sono forse più significativi i tre componimenti definiti Joy spirituel, che reinterpretano in chiave francescana i principi tradizionali dell’amor cortese196. La scelta tematica e formale è dunque molto varia ed inoltre impreziosita da una notevole capacità creativa nel delineare singole immagini ed accostamenti peculiari. Non si può dire lo stesso per la scelta dei soggetti, per lo più poco originali, ed anzi spesso battutissimi. 196 Le caratteristiche espressive di tali componimenti rivelano chiaramente l’approccio del Cornet alla materia storica e contestuale. Non si dovrà infatti pensare ad un impegno concreto e fattivo, ma ad un’elaborazione retorica che attualizza la tradizione e gli usi più convenzionali. Un “jeu verbal”, lo definisce Huchet 1991 (p. 176), che serve a mostrare “l’habilité rhétorique” dell’autore. 514 Cornet è infine ricordato per una delle più significative grammatiche della lingua provenzale, il Doctrinal de trobar, che è al contempo un vero manuale di poetica. Il trattato risale al 1324, in coincidenza con il primo concorso indetto dal Concistori ed è forse pensato come manuale istruttivo per gli aspiranti candidati, tuttavia la conclusione rivela un respiro più ampio, grazie alla dedica a Pedro, figlio di Alfonso IV d’Aragona. L’opera è piuttosto breve, in versi ed organizzata in quattro sezioni; l’ultima in particolare è incentrata sui classici della tradizione trobadorica. La parte focalizzata sulle spiegazioni grammaticali è succinta e superficiale, manca soprattutto di sistematicità nell’esposizione, benché la struttura di fondo sia tratta dal Donatus, che come si è visto costituiva un imprescindibile punto di riferimento. Le altre sezioni sono dedicate all’accentazione, alle strutture metriche, alle rime, alle figure retoriche e ai generi lirici. Lo scopo dell’opera, redatta integralmente in lingua provenzale, è concentrarsi sulla versificazione occitanica e sulla grammatica che ne è caratteristica, e proprio per questo le auctoritates sono riconosciute nei trovatori dell’età d’oro. Il trattato ha un valore principalmente storico, anche per la possibilità di confrontarlo con le coeve Leys d’amor: temi, problemi, attenzione alle questioni e ai contenuti morali, lacune, errori sono in sostanza i medesimi. In effetti sono stati ipotizzati stretti rapporti di derivazione o per lo meno di ispirazione reciproca tra i due testi, benché i diversi studiosi intendano la relazione in senso diverso: Jeanroy pensa che Cornet non sia il modello, ma il beneficiario, Passerat propone l’opinione opposta197. Potrebbe però essere più proficuo porre l’accento non tanto su possibili rapporti diretti, quanto sulla comunanza dell’ambiente di appartenenza, nonostante le differenze strutturali; si può addirittura ipotizzare che nel contesto tolosano si siano svolti veri e propri dibattiti e discussioni. È evidente d’altronde che a Tolosa e presso il Concistori, da cui deriva la commissione ufficiale per le Leys, è profondo l’interesse per i contributi di carattere grammaticale. Inoltre Cornet aveva già scritto un’opera di questo tipo (intitolata Letra) in età giovanile e conferma anche successivamente il suo interesse per l’orizzonte grammaticale componendo una seconda opera in versi198, che egli chiama Reglas per trovar, citando dunque implicitamente Raimon Vidal. Lo scopo di questo trattato, che rimase incompiuto, è sempre offrire aiuto ai giovani che vogliono scrivere, ma non riescono ad evitare censurabili errori e mancanze: non potranno che guardare alle modalità espressive e all’insegnamento degli antichi trovatori. In questa occasione l’autore afferma nuovamente la propria adesione al Concistori e il suo debito intellettuale verso l’ambiente tolosano, dove aveva trovato una buona educazione e la corona poetica. 197 198 Jeanroy 1949, Passerat 2000 e 2003. In realtà la datazione posteriore rispetto al Doctrinal non è certa, ma frutto dell’ipotesi di Jeanroy. 515 CAPITOLO SETTIMO Esperienze culturali e rapporti intellettuali del giovane Petrarca Le scoperte sulle conoscenze latine di Petrarca sono state molto ampliate nel tempo, grazie in particolare alla ricostruzione della sua biblioteca; al contrario resta pressoché inalterata la difficoltà (e addirittura l’impossibilità) di chiarire i suoi interessi in ambito volgare. Rispetto alle letture provenzali la situazione è forse ancor più vaga che per quelle italiane: già quando nel ‘500 gli studi di provenzalistica vivono una vera e propria rinascita e ci si interroga sul significato delle citazioni petrarchesche1, i documenti relativi a tale aspetto dell’educazione del poeta appaiono perduti. È un segnale evidente che la fase occitanica della storia poetica in nell’epoca della “rivoluzione” culturale umanistica e rinascimentale non rappresentava più una priorità2. Dopo aver affrontato il generale contesto intellettuale, scolastico e trobadorico in cui Petrarca è vissuto e in mancanza di documenti specifici sulle sue curiosità romanze, è comunque possibile arricchire il suo ritratto in riferimento alle relazioni personali e ai contatti individuali, soprattutto quelli che riguardano il periodo della formazione. Gli incontri con gli uomini di cultura della sua epoca sono stati indubbiamente utile veicolo di scambio e confronto a livello letterario. Tuttavia, anche in tal senso sono preminenti i fattori di rinnovamento e quindi l’attenzione alla classicità: sia nelle fonti di cui disponiamo, sia nell’atteggiamento e negli entusiasmi degli intellettuali. 1 È fondamentale in tal senso il ruolo di Bembo. Tali aspetti sono stati approfonditi nel corso del primo capitolo. 2 Studiando gli interessi petrarcheschi di Federico Borromeo, alla luce dei rinnovati studi filologici nella Milano di fine Cinquecento, Motta 2004 ha illustrato quale importanza avesse al tempo la conoscenza dell’eredità trobadorica in riferimento agli studi su Petrarca. Grazie alla mediazione di Fulvio Orsini, che ne era stato maestro, Borromeo dispone della raccolta e del dizionario provenzali preparati da Giovanni Maria Barbieri (per il quale si veda il capitolo precedente). L’interesse del cardinale è testimoniato anche da alcune sue riflessioni sui generi letterari, in cui da una parte cita quale fonte di Petrarca un innominato poeta portoghese tradotto in “limosino” (tuttavia poi si parla di “lingua d’oca” e di lingua dei “poeti provenzali” in genere – p. 238). Dall’altra, Borromeo propone un’imprecisata connessione tra Petrarca e la tradizione trobadorica; tale convinzione gli viene dalla testimonianza dello stesso Fulvio Orsini, il quale si era vantato di possedere un canzoniere trobadorico un tempo di proprietà dell’Aretino. Del codice si descrivono le notevoli dimensioni e la grafia antica; esso viene poi accostato ad altri simili documenti di cui circolava notizia (un manoscritto di Avignone ed uno appartenuto ad Aldo Manuzio). Ciò che si ricava soprattutto, però, è la scarsa consapevolezza che un uomo di straordinaria cultura, quale appunto il cardinale, poteva vantare in merito alla letteratura occitanica alla fine del XVI secolo: Borromeo dichiara che di quegli autori “non c’è molta cognitione” e addirittura ritiene necessario correggere l’informazione a lungo corrente per cui la poesia provenzale sarebbe stata il prodotto della curia pontificia in Provenza, mentre invece si trattava di un’esperienza ben più antica (p. 238; alle pp. 238-239 si trovano numerose indicazioni sui manoscritti citati). Ovviamente il riferimento più interessante è quello al codice trobadorico appartenuto, forse, a Petrarca: Orsini lo aveva catalogato segnalandone il contenuto (poesie di centoventi autori) e le note a margine, attribuite appunto a Petrarca e Bembo. Il canzoniere è oggi identificato nel codice K, ora a Parigi, che in effetti appartenne al Bembo ma, come sostiene Motta, “senza fondamento era ipotizzato che le notazioni del precedente possessore risalissero al Petrarca” (p. 239). Anche Bertoni 1937 aveva accennato alla possibilità che si fosse conservata una silloge un tempo posseduta da Petrarca; anche in questo caso però è evidente l’incertezza nel riportare una semplice opinione corrente. 517 1. La formazione elementare e universitaria Come si è visto, nel Basso Medioevo la formazione (di base e superiore) è istituzionalizzata: la sua organizzazione condivisa e per così dire standardizzata la rende più accessibile allo studioso moderno rispetto agli interessi individuali. 1.1 L’educazione elementare e Convenevole da Prato Petrarca apprese i rudimenti delle artes privatamente, a Carpentras3. Perciò non è possibile far riferimento ad una struttura educativa ufficiale e documentata; per comprendere quali strumenti egli abbia avuto a disposizione, bisogna da una parte tener conto del sistema scolastico tipico del suo tempo4 e dall’altra valutare la figura del maestro, dalle cui capacità dipendeva in larga parte il successo degli allievi5. La figura di Convenevole da Prato è poco nota6: egli viene ricordato più che altro come maestro elementare di Petrarca e se ne conosce principalmente ciò che testimoniò il suo illustre allievo. Nacque a Prato fra il 1270 e il 12757, figlio di Acconcio di Ricovero; all’inizio degli anni Novanta prese gli ordini minori, in un documento del 1305 è ricordato in qualità di notaio. L’attività notarile era consueta sia nella famiglia paterna che in quella materna; entrambe appartenevano all’ambito ghibellino ed erano quindi ben poco apprezzate a Prato, dove dominava la fazione guelfa. Nel 1306 Convenevole raggiunse i parenti a Pisa, dove si erano rifugiati a causa di scontri politici; qui si trovò anche Petrarca tra l’11 e il ‘12 ed è quindi possibile che già in questo periodo sia cominciato il suo magisterio. Se ne perdono le tracce fin quando è testimoniata la sua presenza ad Avignone, nel ‘17; tuttavia la sua attività di precettore del giovane Francesco va collocata negli anni immediatamente precedenti, tra ‘12 e ‘16. In Provenza, Convenevole esercitò solo in minima parte l’attività di notaio, per dedicarsi con assoluta preminenza all’insegnamento di grammatica e retorica. Non risulta che 3 Petracco fece stabilire qui la famiglia in primo luogo a causa dell’estrema difficoltà nel trovare un alloggio ad Avignone; tuttavia le strutture amministrative e giuridiche di Carpentras, che era stata temporaneamente sede di Clemente V e Giovanni XXII, la rendevano ancor più adatta a molti degli esuli, soprattutto italiani. In Suitner 20053 vengono delineati tali fattori contestuali e approfondito il ricordo di Petrarca: lo stesso poeta affronta l’argomento nella Senile X, 2. 4 Se n’è trattato ampiamente nel quinto capitolo. 5 Per altro si è visto come tale principio valga anche in scuole dall’impostazione più articolata e dall’utenza più ampia. 6 Per il personaggio di Convenevole da Prato si veda anche D’Ancona 1884. A livello di deduzione, lo studioso sottolinea come l’assenza di indicazioni in merito suggerisca che Convenevole non aveva avuto una preparazione giuridica; ipotizza poi che la sua formazione superiore abbia avuto luogo a Bologna piuttosto che a Firenze. Per ulteriori e più recenti approfondimenti sulla figura e la biografia di Convenevole da Prato si vedano Giani 1913, Piattoli 1933, Frugoni-Piattoli-Petrucci 1969, Billanovich-Polizzi 1997. 7 Tuttavia in proposito le opinioni sono discordanti, dovute alle difficoltà interpretative poste dalla Senile petrarchesca a Luca da Penna che rappresenta appunto la fonte principale a nostra disposizione sul pratese. Se i rapporti di Convenevole con Niccolò da Prato andassero effettivamente ricondotti all’attività scolastica, anche ammettendo che il primo fosse giovanissimo quando insegnava al secondo, bisognerebbe anticiparne la data di nascita a prima della metà del secolo (BDI, p. 564). 518 abbia saputo conquistarsi particolari vantaggi presso la curia; di fatto gli fu essenziale l’amicizia di Petracco prima e di Petrarca poi, che gli offrì aiuti nelle forme più disparate, compresi prestiti di denaro e di libri8. Nel 1336 Convenevole, anziano e privo di allievi, tornò in Toscana, dove però morì al più tardi all’inizio del ‘38. Petrarca lo ricordò ancora una volta in un’ultima lettera con grandissimo affetto, sottolineando le onorificenze che finalmente il maestro poté ottenere, anche se postume. Dei suoi studi elementari il poeta parla principalmente in tre sedi: la Senile X, 2 a Guido Sette, la Posteritati e la Familiare XXIV, 1 a Philippe de Cabassoles. La testimonianza molteplice di Petrarca tramanda l’immagine di Convenevole come intellettuale appassionato, ma improduttivo9, poco dedito alla scrittura e all’approfondimento. Certo a lui si deve un esempio formativo rispetto all’amore per i classici e al senso del colloquio diretto con gli auctores10. Nel periodo universitario Petrarca si inserisce in una realtà sociale e culturale molto più ampia e variegata, dunque potenzialmente più proficua per l’arricchimento degli interessi e della consapevolezza intellettuali. Anche a questo proposito, sono piuttosto chiari gli elementi organizzativi, comuni e istituzionalizzati, mentre a livello individuale è spesso necessario accontentarsi delle ipotesi degli studiosi. 1.2 Montpellier Il periodo che Petrarca trascorse a Montpellier tra il 1316 e il 132011, avviandosi allo studio del diritto, è noto principalmente grazie a ciò che il poeta stesso ne ha raccontato in tre epistole. Nella Familiare XX, 4 fa riferimento ai sette anni dedicati alla giurisprudenza: fu il padre ad imporgli l’impegno universitario a partire dall’età di quattordici anni, prima a Montpellier e poi a Bologna12. È probabile che ser Petracco – e così il padre di Guido Sette, l’amico con cui Francesco condivise le sue esperienze di studente – lo avesse accompagnato; né è escluso che egli avesse scelto personalmente gli insegnanti del figlio. Nella Posteritati Petrarca precisa quanti anni ha passato presso 8 È famoso l’episodio del De gloria, che ufficialmente Petrarca prestò al vecchio maestro per motivi di studio, ma che poi venne impegnato. Convenevole non poté accettare per orgoglio che l’allievo lo riscattasse a sue spese, ma non ebbe i fondi per farlo a sua volta, e così causò la perdita del prezioso volume. (DBI, p. 565). 9 Petrarca insiste soprattutto sulla tendenza del maestro ad iniziare di continuo nuovi progetti senza poi svilupparli. In effetti di Convenevole non resta nulla, se non un poema, definito Regia carmina, che di fatto ha un andamento centonistico, per altro anonimo e di dubbia attribuzione. Oltre alle edizioni commentate dell’opera, se ne può leggere un’analisi in Frugoni 1980. 10 D’Ancona inoltre evidenzia il ruolo che Convenevole deve aver avuto nell’apprendimento linguistico di Petrarca, al di là della lingua parlata in casa (da cui per altro Francesco fu a lungo lontano e avendo comunque perso molto presto i genitori) e dell’elevata presenza di italofoni nell’ambito della curia avignonese. Non è impossibile d’altronde che proprio il maestro gli avesse mostrato per primo alcune liriche in volgare italiano, sollecitando così la curiosità dell’allievo. 11 A proposito di questa esperienza universitaria di Petrarca si vedano Lo Parco 1915 e Martin 1961. 12 Spesso i critici hanno interpretato la definizione di “pubertà” che Petrarca usa nella lettera riferendosi ai quindici anni, ma in età classica questa fase della vita inizia d’abitudine proprio ai quattordici. 519 lo studium francese, mentre nella Senile X, 2 offre una breve descrizione del contesto dell’università, spiegando quanto fosse fiorente la città, pur nel difficile equilibrio fra i due poteri dominanti (il re di Maiorca e il re di Francia, destinato a prendere il sopravvento13): ne vengono ricordate anche la tranquillità, la ricchezza, la presenza di maestri e studenti di grande valore, in contrasto con la decadenza del presente14. A parte le informazioni sull’organizzazione generale, è noto che l’attività di studente di Petrarca non fu molto proficua, mentre egli cominciava ad appassionarsi ai classici. Infatti, si colloca in questi anni il famoso episodio dei libri bruciati dal padre15. Un elemento difficile da valutare è quanto Petrarca abbia potuto apprendere al di là del puro diritto. È importante, anche se non determinante, il fatto che l’università offrisse anche una facoltà di arti, per completare la formazione di base: non solo trivio e quadrivio, ma in parte anche le artes dictandi e concionandi. Per quanto concerne le opere volgari, anche ammettendo l’assenza di una scuola di retorica, come sostiene il Lo Parco16, ed accettando in toto le affermazioni dello stesso Petrarca, che in occasione della sua orazione al re di Francia (1361) dichiarò di non conoscere il francese17, il contesto di Montpellier era davvero favorevolissimo alla lettura di testi provenzali18. Era essenziale in proposito la vicinanza con Tolosa, dove a breve si sarebbe avviata l’esperienza del Concistori del Gai Saber, e di Narbona, uno dei centri della produzione trobadorica classica; la stessa Montpellier, comunque, aveva partecipato in primo piano alla stagione d’oro della poesia cortese. È facile immaginare che circolassero ancora testimoni della tradizione occitanica, considerando che su tali materiali, anche antiquari, deve essersi basato, se non altro, il recupero tolosano. Abbondavano inoltre gli studenti d’area provenzale e linguadociana, grazie ai quali il giovane Petrarca potrebbe aver approfondito la propria conoscenza linguistica e letteraria; nulla vieta di pensare che siano stati proprio i compagni a fornirgli testi o raccolte da leggere, senza che sia necessario ipotizzare che egli ne abbia possedute in prima persona. Tuttavia è forse troppo presto per immaginare occasioni mondane in cui Petrarca abbia declamato carmi non suoi (italiani e provenzali): tale è invece l’opinione del Lo Parco, che parte dall’esempio delle esperienze sociali del poeta successive e più mature, di cui resta testimonianza per il periodo bolognese. 13 Il regno di Maiorca era nato non molto tempo prima, verso la metà del ‘200, per offrire un’occasione di governo al secondogenito del re d’Aragona; divenne ben presto oggetto d’interessi da parte degli altri potenti europei, che godevano di possibilità politiche ed economiche ben più ampie e stabili. Tali frizioni non sembrano aver comportato gravi conseguenze alla città e all’università di Montpellier, entrambe protette dalla vivace situazione economica. Tuttavia il quadro politico si aggravò alla metà del Trecento, quando il piccolo regno venne ripartito tra Francia ed Aragona. Iniziò infatti una fase di grave decadenza per la città: tale condizione continuò a peggiorare a causa dei successivi attriti tra Francia e Navarra, che determinarono sorti altalenanti per l’intera regione. 14 Il tema è molto diffuso nelle epistole e anche nelle rime di corrispondenza, in particolare del Petrarca maturo; la Senile in questione risale al 1368. 15 L’episodio è stato anticipato nel quinto capitolo. 16 Lo Parco 1915. 17 La dichiarazione, presumibilmente menzognera, era motivata dalla necessità di giustificare la decisione di parlare in latino, scelta che a sua volta non aveva origine da semplici impedimenti nella conoscenza linguistica, ma da una precisa volontà culturale. 18 Lo suggerisce in effetti anche lo stesso Lo Parco 1915. 520 1.2.1 L’università di Montpellier Non sarà superfluo, a questo punto, contestualizzare il soggiorno di Petrarca presso lo studium provenzale, in riferimento alla sua antica storia19. L’antica università venne fondata a cavallo tra XII e XIII secolo, ufficialmente solo come insieme delle Écoles de Montpellier, allora in piena autonomia rispetto all’autorità pontificia. Solo nel 1289 Niccolò IV ratificò la fondazione dello studium, con lo scopo di organizzare e classificare le attività educative della città, riferendosi specificatamente alle facoltà di arti, medicina e diritto. L’istituzione rimase incompleta, dunque, per l’assenza della teologia20. La scuola di diritto21 vantava una lunga tradizione: quando il “Placentino”, nel 1165 circa, vi portò il suo metodo bolognese, i corsi erano già attivi da qualche tempo. La sua docenza segnò quasi un cinquantennio di grande floridezza e riconosciuta eccellenza, cui seguì una fase di piatta mediocrità. Solo dopo la metà del ‘200, quando la città era ormai possesso aragonese, il re Jayme I cercò di invertire la tendenza, con la nomina di nuovi luminari. L’intervento regio, che si era svolto senza consultare il vescovo, provocò la reazione del pontefice, che si impegnò a favore del benessere cittadino: in particolare, il vescovo venne investito dell’autorità di nomina per i professori e dunque fu invitato ad esercitarla con solerzia22. Sul finire del XIII secolo, la scuola – poi facoltà – di diritto si avviò ad una nuova fase di splendore e all’inizio del Trecento l’interesse della vicina curia avignonese sarebbe stato ancora maggiore. I corsi erano numerosi, dedicati al diritto sia romano che canonico. L’organizzazione era tipicamente italiana e non francese (parigina); gli studenti erano organizzati in base all’area di provenienza, provenzale, borgognona e catalana. Nel frattempo erano nate le scuole di medicina23 e di arti. La prima, in realtà, affondava le sue radici in studi anteriori, le cui prime testimonianze risalgono al 113724; alla fine del secolo la pratica della professione, e dunque la formazione necessaria, venne liberalizzata, forse per far fronte all’aumento della popolazione. Con tale atto, Guilhem II sancì nel 1180 il pieno avvio della scuola e pose le premesse per la sua crescita. Tuttavia la sua organizzazione e i suoi statuti dipendevano ancora dalla Chiesa e dal 19 Utile riferimento bibliografico è Bories 1970. Tuttavia non erano assenti scuole di teologia, benché non dessero diritto ad una licenza di laurea: Bories 1970, p. 94. D’altronde, anche se se ne conosce ben poco, bisogna supporne l’esistenza in base alla necessità di preparare i novizi; inoltre alla metà del Duecento è nota una scuola gestita dai Predicatori. A Montpellier si trovava poi il famoso Alano di Lilla, di formazione parigina, che certamente scrisse qui parte delle sue opere e potrebbe anche aver insegnato (Delaruelle 19703). 21 Per le modalità tipiche dello studio del diritto e la loro evoluzione nel corso del Duecento, si veda Gilles 1970. 22 È questa una differenza fondamentale rispetto all’organizzazione di Tolosa, che invece per molti aspetti si è tentati di paragonare a quella di Montpellier, se non altro per la vicinanza cronologica e l’intervento parimenti costante del pontefice (su questo confronto, Delaruelle 19702). A Tolosa, infatti, dominava da una parte il recupero dell’esempio parigino e dall’altra l’influenza del capitolo, che invece a Montpellier aveva dovuto cedere il passo ad un “cancelliere” interno all’università, cioè scelto tra i professori. 23 È questa la disciplina dominante, anche rispetto al diritto: la contrapposizione con Tolosa non potrebbe essere più netta. Per le modalità del suo esercizio e del suo insegnamento, in stretta relazione più con la teologia che con la scienza in senso proprio, si veda Delaruelle 19703, pp. 232-240. 24 Bories 1970, p. 98. 20 521 legato pontificio Conrad, che si trovava nel Midi come difensore dell’ortodossia: la pratica dell’insegnamento rimase libera, e dunque basata su piccoli gruppi di allievi raccolti intorno ad un docente, ma fu definito in modo puntuale il cursus studiorum. Le singole scuole furono regolate e riunite solo nel 1240: fu l’ultimo cambiamento significativo per la formazione medica a Montpellier, per la quale sarebbe poi bastata la solerte vigilanza dei papi e dei loro legati25. Alla base dei corsi specializzanti fu sempre l’insegnamento della grammatica e della logica: dunque erano queste le discipline scolastiche di più antica definizione. Tuttavia a lungo si è trattato soltanto di semplici scuole elementari la cui organizzazione di base era a grandi linee comune a tutto l’occidente cristiano. In assenza di documenti puntuali, si può ipotizzare che la presenza di tali scuole fosse molto diffusa anche a Montpellier. Qui l’organizzazione centrale e dunque una maggiore specializzazione nel settore delle artes vennero raggiunte solo nel 1242 grazie al vescovo Jean de Motlaur, che in sostanza imitò lo statuto della scuola di medicina. 1.3 Bologna Tra il 1320 e il 1326 Petrarca si spostò a Bologna per continuare gli studi di diritto26: la città era un centro economicamente fiorente, come testimoniano l’ampliamento del tessuto urbano e il suo arricchimento architettonico, ed ancora molto prestigioso nel campo del diritto, meta di studenti soprattutto dalla Francia e dalla Provenza27. Petrarca, nelle epistole già citate, lascia intravedere le piacevolezze cui potevano abbandonarsi gli studenti, ma più in generale vari autori dell’epoca prendono spunto dal vivace contesto bolognese, come Giovanni del Virgilio per il suo Diaffonus. I tentativi di ricostruire questa fase della giovinezza di Petrarca non sono molti e devono purtroppo limitarsi agli aspetti strettamente biografici, in particolare ai vari spostamenti tra l’Italia e la Francia. Già nel ‘21 Francesco, il fratello Gherardo e l’amico Guido Sette, che avevano condiviso il trasferimento presso questo secondo studium, si dovettero allontanare insieme al loro precettore, a causa di tumulti studenteschi che determinarono addirittura alcune condanne a morte28. I tre ripresero le lezioni nel ‘22, ma tra il ‘24 e il ‘25 tornarono nuovamente in Provenza. Nel 1326 la morte di Petracco costrinse i suoi figli al definitivo rientro in patria. Wilkins ha il merito di aver ampliato il discorso sul periodo formativo di Petrarca, con una ricognizione delle sue letture classiche: ad esempio, l’acquisto nel 1325 del De civitate Dei di sant’Agostino, documentato dallo stesso Petrarca all’interno del codice. 25 Per lo sviluppo della scuola di medicina, si veda anche Delaruelle 19703. Su tale argomento, riferimenti bibliografici generali si trovano in Zaccagnini 1934 e Foresti 1977, pp. 18-26. 27 Per tali informazioni si veda in particolare Zaccagnini 1934. 28 I tumulti in realtà si intrecciavano a scontri e incertezze politiche. Dapprima il gruppo deve aver progettato di restare in Italia, con la prospettiva di tornare presto a Bologna; si fermarono probabilmente – come suggeriscono sia Wilkins sia Foresti – a Rimini, Imola, forse Pesaro. Passarono poi a Venezia e, nella fondata convinzione che la situazione non si sarebbe risolta rapidamente, da lì tornarono oltralpe. 26 522 Zaccagnini e Lo Parco29, d’altronde, hanno ritenuto che Petrarca non ascoltasse solo lezioni di diritto, ma seguisse i corsi di famosi “illustratori di classici”30, quali Bartolino di Benincasa da Canulo e Giovanni del Virgilio31. Wilkins inoltre esalta le capacità del poeta come studente di diritto, mentre gli altri critici insistono tendenzialmente sull’insuccesso di questa come della precedente esperienza universitaria. Lo studioso propone infatti di distinguere dalla pratica legale, che il giovane poeta dichiara di non poter tollerare, l’apprezzamento e quindi l’impegno di Petrarca rispetto agli elementi teorici, da cui egli sembra incuriosito per la nobiltà della disciplina, lasciando perciò sperare in risultati brillanti. Wilkins continua riferendosi alla già citata Senile X, 2, in cui Petrarca descrive i divertimenti e per così dire gli eccessi della vita da studenti: lo scopo dello studioso è approfondire gli incontri dell’autore in questi anni. Alcuni furono in effetti alla base di amicizie davvero durature, come nel caso di Tommaso Caloiro e soprattutto di Giacomo Colonna. Più in generale va considerato il contatto con la produzione letteraria volgare, che rappresenta al contempo la tradizione, ma anche una realtà viva ed attuale nelle abitudini sociali e mondane dei giovani. È molto probabile che lo stesso Petrarca abbia cominciato a comporre in questi anni, anche se nessuna rima così antica risulta sopravvissuta; d’altronde è limitante affermare che egli “venne per la prima volta in contatto con uomini e giovani che scrivevano poesia non già nel latino delle scuole, bensì nella loro lingua viva”32. Infatti, anche nella Provenza in cui Francesco si era formato perdurava l’uso della lingua natia: rimangono chiaramente le tracce degli ultimi epigoni del trobadorismo, animati dal medesimo spirito da cui sarebbe nato pochi anni dopo il Concistori du Gai Saber. 1.3.1 L’università di Bologna Lo studium bolognese è a buon diritto uno dei più famosi33. Benché la sua fondazione, una delle più antiche, presenti ancora contorni piuttosto sfumati, se ne possono delineare alcuni fattori essenziali: la riscoperta della tradizione romana attraverso il Corpus iuris civilis, il tentativo di rinnovarne ed approfondirne l’interpretazione, l’evoluzione dell’insegnamento, ispirata proprio dall’opera di Giustiniano. L’università nacque dalla riforma delle scuole nel corso del XII secolo (e addirittura dalla fine dell’XI), in una fase che coincise con il massimo sviluppo del comune, favorito dall’indebolimento dell’impero, in lotta con il papato. Proprio l’organizzazione politica potrebbe aver fornito il modello per l’avvio delle prime societates di studenti e 29 Zaccagnini 1934, Lo Parco 1915. Zaccagnini 1934, p. 241 31 Di Giovanni del Virgilio si è già parlato nel quinto capitolo. Per Bartolino da Canulo vedi Zaccagnini 1924. 32 Zaccagnini 1934, p. 14. 33 Riferimenti utili per questo tema si trovano in particolare in Verger 1982, AAVV 1990, Dolcini 2007 e Mazzanti 2007. 30 523 insegnanti34. Mentre a Parigi vedeva la luce una corporazione di docenti, a Bologna il passaggio al XIII secolo comportò una vera svolta, in cui sarebbe risultato centrale il ruolo degli studenti. Gli insegnanti, infatti, erano protetti dalle istituzioni del comune, in quanto locali35; gli allievi, invece, non vi appartenevano e dunque sentirono la necessità di sostenersi a vicenda, in una fase in cui le garanzie concesse dall’imperatore perdevano la loro efficacia. La forza degli studenti risiedeva nello stato civile laico della maggioranza dei docenti, che dunque erano mantenuti dai pagamenti dei loro stessi allievi. Va per altro notato che la loro maturità – l’età media era più alta che a Parigi – e la sicurezza socio-economica – gran parte degli alunni era d’origine aristocratica – favorirono un’efficace gestione dello studium. I diritti degli studenti vennero riconosciuti da Onorio III nel 1219, che cercò di garantire anche l’autonomia dei professori rispetto al comune. La situazione si stabilizzò tra 1228 e 1229: le istituzioni comunali riconobbero gli studenti stranieri, che quindi non ebbero più bisogno di garanzie autonome. La presenza di numerose altre università in Italia, inoltre, limitò l’urgenza della secessione. 2. Amici e corrispondenti del Petrarca La vivacità delle relazioni personali intrattenute da Petrarca sin dagli anni avignonesi (e – lo si è visto - già all’università, per lo meno a Bologna) è evidente in tutte le ricostruzioni biografiche. È ben nota la familiarità del poeta con gli uomini più in vista del suo tempo, con i protagonisti della vita politica, militare e soprattutto culturale. La ricchezza di tali contatti motiva per altro l’interesse dell’epistolario e dunque l’impegno compositivo del poeta nella sua preparazione; certamente la mole delle due raccolte, Familiari e Senili, è essa stessa valida prova di una prassi comunicativa costante. La collaborazione tra bibliofili è altrettanto documentata: la circolazione dei classici riscoperti di recente si basava innanzitutto sullo scambio tra appassionati, nel desiderio di condividere e partecipare. Rispetto agli studi latini, le amicizie di Petrarca sono state scandagliate in modo approfondito, come sempre grazie alla maggiore disponibilità di documenti in merito al rinnovamento umanistico. La vivacità di tale contesto culturale in evoluzione, inoltre, si coglie in modo evidente pensando a quanti uomini d’arme, personaggi politici o professionisti della mercatura siano attivi a livello intellettuale: il loro desiderio di ampliare ed aggiornare le proprie letture favorisce ulteriormente il clima di dialogo e confronto. Si sono anticipati i limiti che gravano su un’analisi dedicata alla tradizione volgare, e in particolare occitanica: il disinteresse nelle testimonianze dell’epoca, l’assenza di indizi 34 Come sottolinea Verger 1982, è difficile trovare informazioni più precise sulle modalità di formazione di queste prime associazioni. La mancanza di documenti potrebbe essere motivata da un’intrinseca contraddizione tra il diritto stesso (romano, e dunque imperiale) e le organizzazioni private, che da quel diritto, in linea teorica, non erano contemplate. Per altro spesso i giuristi sono in effetti sostenitori dell’imperatore (Verger 1982, p. 71). 35 Alla fine del XII secolo il comune impone agli insegnanti di giurare di non trasferirsi fuori dalla città, per evitare il pericolo di secessione tanto frequente a Parigi. Il tentativo non fu sempre sufficiente, come nel caso della fondazione di Padova. Verger 1982, pp. 73-74. 524 concreti, la centralità del latino pre-umanistico. Tuttavia sembra tutt’altro che impossibile che nel corso dei medesimi incontri e delle discussioni letterarie possano aver trovato spazio anche curiosità meno rivoluzionarie, ma altrettanto colte e utili a chi si dedicasse alla poesia. Una volta accertato che l’eredità romanza (trobadorica) continuò a lasciare il segno nella produzione trecentesca, come nel caso del Canzoniere, non si potrà immaginare un metodo più efficace per la circolazione e la conservazione dei testi rispetto allo scambio tra letterati. Ancora una volta, perciò, si cercherà di offrire il quadro più ricco e articolato possibile, a sostegno di tale ipotesi. Già negli anni ‘40, dopo l’incoronazione poetica a Roma, Petrarca divenne il centro di una fitta rete di scambi epistolari e di rime: erano già numerosi gli ammiratori (e gli adulatori) che aspiravano ad entrare in contatto con l’autore ormai famoso36 (non sarà un caso che egli prendesse di rado l’iniziativa e si limitasse per lo più a rispondere). Non mancano le fonti in merito a tali rapporti: i volumi delle epistole preparati dal poeta, il “codice degli abbozzi” (Vat. Lat. 3196), con i nomi che Petrarca ha tramandato, alcune rime di risposta raccolte tra le Estravaganti, infine la tradizione veneta, che trova origine, pare, proprio da uno o più di quegli amici di penna. Nel caso di Petrarca, le rime di corrispondenza risalgono in grandissima parte agli anni giovanili; alcune sono posteriori alla morte di Laura, ma ben poche sono frutto della piena maturità. L’insieme è oltremodo vario, dato anche il carattere occasionale che ne contraddistingue la composizione: si contano tenzoni, testi riflessivi dedicati a questioni attuali, veri e propri pezzi “d’intrattenimento”. Di conseguenza i temi affrontati sono numerosi: non è esclusa l’ispirazione amorosa, ma prevalgono i soggetti non lirici, che difficilmente avrebbero trovato spazio nel Canzoniere. Tra i soggetti più interessanti, perché anche altrove caratteristici della produzione petrarchesca, si ricordano l’otium letterario, il valore dell’amicizia, la desolazione per la crisi del presente: testi insomma di meditazione morale e politica, contrassegnati da un andamento lento e latineggiante. La natura eterogenea di tale produzione è confermata anche dai modelli e dalle fonti scelti da Petrarca, in particolare per i richiami mitologici. Ci si potrebbe chiedere quale sia la differenza tra gli amici con cui Petrarca corrisponde, in parte destinatari anche di fragmenta inseriti nel Canzoniere, e i semplici corrispondenti. Non si tratta tanto della tipologia della composizione o dei temi affrontati nei diversi casi, quanto del valore che il poeta scorge nel loro animo, anche sul piano morale. Uno spunto interessante viene ad esempio dal Triumphus Amoris, dove Sennuccio (Sennuccio del Bene) e Franceschino (Franceschino degli Albizzi) sono apprezzati per la loro “umanità”, termine già classico per indicare le qualità spirituali e morali più importanti. Non sempre è agevole, tuttavia, definire l’identità e la personalità di molti fra i sodali del poeta, a parte, appunto, il loro ruolo di amici del celebre autore. Né si tratta di un problema recente, come si comprende dalle parole di Cochin, già nel 1892: “N’existe 36 Fonti principali a proposito di tali rapporti d’amicizia e corrispondenza sono Proto 1907 e Cremonini 2007. 525 pour nous que comme amis de Pétrarque, âmes exquises mais cachées dans de vies modestes, et qui seraient restées ignorées à jamais, si elle n’aveient été tirées de leur obscurité par l’éclat d’une souveraine amitié. Tels Socrate, Lelius, Nelli”, aggiungendo che sono proprio questi gli amici più intimi, più “tendres”37. La questione si complica in relazione ai loro gusti intellettuali e alle loro scelte librarie: “Desidereremmo trovare i volumi […] sia in latino, sia, e soprattutto, in volgare o provenzale o francese […] Mentre, infatti, notiamo riempirsi i palchetti dedicati alle sezioni classiche – latina e perfino, ora, greca – delle biblioteche di ser Francesco e dei suoi sodali, con rammarico vediamo rimanere deserti quelli riservati alle opere in volgare: e fitte tenebre avvolgono le letture volgari della più forte cerchia intellettuale del Trecento”38. Al di là degli obiettivi del presente studio, tale impedimento è tanto più grave se si pensa che sono in gioco figure centrali per l’evoluzione culturale preumanistica, intellettuali ed appassionati che compongono quella cerchia sempre più varia ed attiva per la quale Petrarca rappresenta un punto di riferimento essenziale. Si intende a questo punto proporre una panoramica delle relazioni intrattenute da Petrarca, con particolare attenzione agli anni della giovinezza e della prima maturità39. I criteri di scelta riguardano l’attività poetica; perciò saranno considerati i rimatori che hanno composto versi in corrispondenza con l’Aretino, a prescindere dal fatto che i testi petrarcheschi siano stati inclusi nel Canzoniere o meno, e senza vincoli cronologici, anche per la difficoltà (e spesso l’impossibilità) di avere certezze in merito. D’altro canto è sembrato opportuno considerare i destinatari delle Familiari, che possono rappresentare un punto di riferimento piuttosto oggettivo, benché i limiti cronologici, anche in questo caso tutt’altro che univoci, siano ben più estesi del periodo ascrivibile alla formazione40. 2.1 Philippe de Cabassoles L’amicizia di lunga data con il provenzale Philippe de Cabassoles41 è particolarmente interessante: i due sodali ebbero infatti una forte affinità sul piano intellettuale, oltre ad appartenere entrambi all’ambiente avignonese e papale. Philippe rappresenta in modo esemplare i vertici politici ed ecclesiastici cui un uomo colto e capace poteva giungere nel Trecento. Nato nel 1305, nel ‘34 era già vescovo di Cavaillon, dove svolgeva anche compiti amministrativi e di governo, grazie ai suoi studi di diritto civile, condotti ad Orléans. A partire dal 1343 divenne membro del Consiglio di reggenza del regno di Napoli, per poi dedicarsi a vari compiti diplomatici affidatigli 37 Cochin 1892, p. 5. Frasso 1974, pp. 196-197. 39 Le informazioni biografiche sono tratte in primo luogo dal Dizionario Biografico degli Italiani (DBI) e da Dotti 2009. Altri riferimenti bibliografici utili saranno indicati di volta in volta. 40 Per altro in questo modo saranno vagliati anche i primi anni ’50 e dunque il periodo in cui Santagata ritiene che Petrarca abbia affrontato per lo meno le principali letture trobadoriche. 41 Su questo personaggio si vedano ad esempio Monti 1997 e Wilkins 1978, cui si può aggiungere Villar 1997. 38 526 dal pontefice. Negli anni Sessanta fu nominato patriarca di Gerusalemme, vicario generale di Avignone e cardinale (1368). La sua carriera ecclesiastica e politica fu favorita dallo zio paterno, che ebbe un ruolo di spicco nella mediazione tra gli angioini a Napoli e il pontefice. A questo zio fu legato lo stesso Petrarca, tanto che si è ipotizzato che egli avesse favorito l’incontro dell’Aretino con Roberto d’Angiò e quindi la sua laurea poetica, benché il poeta non accenni mai a tale intervento. Philippe e Petrarca si incontrano ad Avignone. Una Familiare del ‘38 parla proprio della recente amicizia; in una Senile del ‘71/’72 Petrarca racconta che l’amico gli aveva chiesto un carme dedicato alla Maddalena, composto nel ‘37 circa durante una visita a Marsiglia, dove si diceva ch’ella avesse affrontato la sua penitenza. Proprio nel ‘37, probabilmente, il loro legame ebbe occasione di consolidarsi: Petrarca, tornato in Provenza, visitò il Cabassoles e gli offrì una consolatoria per la morte del fratello. I due si rincontrarono a Napoli all’inizio degli anni ‘40 ed entrambi intrattennero rapporti cordiali con re Roberto. Il loro sodalizio era ormai un’amicizia come dimostra il rapido passaggio al “tu” nella corrispondenza. Nel ‘46, Philippe tornò in Provenza; tuttavia i due furono tenuti separati dai rispettivi, numerosi impegni e viaggi. Eppure il loro rapporto non sembra affievolirsi, anzi questa si profila come una delle amicizie più intime e durature dell’Aretino. Petrarca scrisse al Cabassoles ventiquattro epistole nel corso della vita e gli inviò tre delle proprie opere, dietro richiesta in parte documentata; del corrispondente non resta invece alcuna missiva, benché sia chiaro (e in sette casi esplicito) che lo scambio di lettere era reciproco; per altro i materiali superstiti testimoniano una logica unitaria. Le opere petrarchesche che interessarono il Cabassoles suggeriscono che il dialogo fra i due sia stato in gran parte ispirato al comune ideale di otium letterario. Il legame d’amicizia si rinsaldò intorno all’amore condiviso per Valchiusa, che era parte della diocesi e del feudo di Philippe; entrambi avvertirono il rimpianto per la serenità e lo studio in quel luogo, e non a caso il Cabassoles fu il dedicatario del De vita solitaria. Petrarca gli concedette inoltre di prendere in prestito i libri dalla casa provenzale, anche quando egli ne era lontano: il vescovo, però, non osò mai accettare tale invito. La corrispondenza testimonia anche un altro argomento di condivisione in merito ai valori morali: infatti proprio al Cabassoles Petrarca inviò la requisitoria contro Benedetto XII, ormai morente, redatta nel ‘42. Egli fu inoltre destinatario o lettore anche di altre tra le Sine nomine. L’interesse comune per la politica e le sorti del papato si rivelarono di nuovo al momento dell’elezione di Urbano V, favorevole al ritorno della curia in Italia. Tale progetto fu particolarmente apprezzato dai due; Petrarca scrisse al pontefice dopo aver chiesto consiglio al Cabassoles, il quale cercò a lungo di far incontrare il celebre poeta e il papa. Un ulteriore e peculiare progetto li vide forse collaboratori, a vantaggio della promozione culturale e religiosa del vescovado di Cavaillon, attraverso la costituzione di una biblioteca. L’impresa portò ad una considerevole donazione libraria da parte di Philippe nel 1347 a beneficio in primo luogo dei canonici. Alcuni testi erano pensati specificatamente per la formazione del clero e dei cittadini “onesti”, nella 527 consapevolezza della profonda ignoranza in cui versavano per primi i sacerdoti. Il documento che descrive tale lascito comprende precise indicazioni sulla conformazione anche fisica della biblioteca, sulla necessità di vincolare l’uso e il prestito dei volumi fondamentali all’educazione o sull’esigenza di legarli ai leggii, secondo l’abitudine consueta per gli ordini mendicanti. La donazione comprendeva anche beni materiali e prevedeva l’istituzione di una nuova cappella. L’interesse di tale intervento risiede nelle ampie possibilità di accesso alla raccolta di testi, sospeso soltanto nelle ore canoniche; solo il vescovo godeva di privilegi, mentre erano equiparati canonici, predicatori, ecclesiastici esterni e laici, benché il controllo da parte del clero fosse marcato. Si trattava di una grande novità, dunque, che anticipava il progetto di una biblioteca pubblica pensato da Petrarca negli anni della maturità a vantaggio di Venezia. E benché fossero in gioco anche intenti di valorizzazione della propria sede vescovile e della propria famiglia, l’intento di fondo del Cabassoles appare in primo luogo culturale. Purtroppo il progetto fu in parte sconfessato dalle disposizioni testamentarie dello stesso Philippe, che nel ‘73 fu sepolto nella certosa di Bonpas, cui venivano destinati alcuni volumi sino ad allora conservati a Cavaillon, dove per altro scomparvero anche testi donati da Giovanni XXII e da Petrarca. Altri codici della biblioteca erano destinati a parenti, soprattutto nipoti di cui si volevano favorire gli studi. Tuttavia due documenti del ‘69 (un inventario ed una riaffermazione della donazione) dimostrano il perdurante, anche se contraddittorio, tentativo di preservare l’unità della raccolta. Il Cabassoles continuò comunque a gestire la biblioteca come un dominio privato; ciò non toglie che l’ideale di partenza fosse modernissimo e significativo sia della persona del vescovo, sia della consonanza dei suoi interessi rispetto a quelli di Petrarca. 2.2 Dionigi da Borgo Sansepolcro L’amicizia con Dionigi da Borgo Sansepolcro42 ebbe grande rilevanza per Petrarca, anche sul piano intellettuale e spirituale, nel segno della scoperta di sant’Agostino. I due si incontrarono nel ‘33; poco dopo Dionigi donò all’amico le Confessiones. Fu lui, inoltre, il destinatario dell’epistola del Monte Ventoso, che allegoricamente rappresenta l’ascesa spirituale e la svolta morale: la connessione fra i due sodali si dimostra ancor più solida. Dionigi nacque intorno al 1300 a Sansepolcro, vicino ad Arezzo; la famiglia è ignota, ma forse riconoscibile nei de’ Roberti. Entrò giovanissimo nell’ordine degli agostiniani e proprio questo favorì i suoi studi, poiché il suo vivace ingegno venne ben presto apprezzato e stimolato. Del suo percorso formativo si conosce soltanto la fase culminante: grazie al suo ruolo di frate, completò la propria formazione a Parigi presso la facoltà di teologia, dove l’ordine inviava solamente i membri più capaci. Vi si trovò certamente tra ‘17 e ‘18, quando 42 Su Dionigi possono essere consultati utilmente Dotti 2000, Velli 2001, Bartoli Langeli 2001, Maierù 2001 (e nel complesso il volume di atti da cui sono tratti gli ultimi tre contributi). 528 lesse Pietro Lombardo, e completò gli studi teologici nel ‘24; lo studium rappresentò anche il suo primo orizzonte professionale, poiché egli vi insegnò almeno sino al 1328. Per il resto, e per la sua educazione elementare in particolare, bisognerà riferirsi alle regole e alle consuetudini dell’ordine43, che prevedevano, prima di giungere alla specializzazione teologica necessaria all’apostolato, una buona base di grammatica, logica e filosofia. Tuttavia tale esito era riservato agli allievi più promettenti; un altro fattore di chiusura era costituito dagli ambienti in cui si svolgevano i corsi, legati all’ordine stesso. Lo denota soprattutto l’organizzazione dell’università e la scelta di docenti interni, a meno che non vi fosse un bisogno stringente di integrarne le presenze. Nel 1329 Dionigi si spostò ad Avignone, dove insegnò presso lo studium del suo ordine; intanto strinse importanti relazioni con i Colonna e gli Orsini, e svolse le prime missioni diplomatiche, anche a favore dell’ordine. Infine, dal ‘37 al ‘42, anno della morte, fu a Napoli, dove, al di là degli impegni diplomatici, continuò probabilmente la carriera di professore, sempre in relazione alla realtà agostiniana. Anche qui, come a Parigi e presso la curia pontificia, beneficiò di un contesto culturale di notevole rilievo; proprio in questi anni compose le sue opere più rilevanti. Nel 1340, infine, venne nominato vescovo di Monopoli, ma della sua breve attività pastorale resta ben poco. È naturale pensare che l’amicizia tra Petrarca e Dionigi sia stata rafforzata dalla condivisione di interessi culturali, tra i quali spicca l’amore per i classici. Tale apprezzamento è stato favorito nel caso di Dionigi dal contesto parigino44; sappiamo inoltre che egli compose alcuni commenti, oggi perduti, a Virgilio, Ovidio e Seneca, resta invece quello a Valerio Massimo45. È curiosa per contro la sua scarsa attenzione alla IV decade liviana, novità recentissima ed essenziale, cui era rivolto l’entusiasmo di numerosi intellettuali. La motivazione di tale predilezione verso l’opera storiografica più tarda e meno autorevole può essere colta nell’intenzione morale e religiosa del suo impegno di commentatore, che lasciava da parte le questioni puramente storiche. Si spiegherebbe così anche l’impressione che delle numerose fonti, citate nel prologo alla sua opera, Dionigi abbia letto solo estratti e florilegi, senza affrontare una ricerca più approfondita. Non si intende con questo negargli il titolo di uomo colto ed erudito, anche in considerazione di quanto fosse naturale durante il Medioevo accontentarsi, per le letture antiche, di rielaborazioni recenti: è anzi proprio a Petrarca che si deve un cambiamento significativo in tal senso e la costante ricerca dell’opera originaria. Nemmeno la poesia fu terreno fertile per le riflessioni di Dionigi: per lo più egli pare considerarla utile serbatoio di dati documentari o exempla, e solo in riferimento ai testi 43 Si noti che il cursus studiorum degli ordini mendicanti era di solito molto simile, poiché derivava da quello impostato dai domenicani, gli unici che si erano proposti sin dalle origini la specifica dedizione agli studi. Anche i testi di riferimento erano in sostanza i medesimi, almeno per i corsi di logica e filosofia, con netta prevalenza di Aristotele, Porfirio e Pietro Ispano. 44 A Parigi, inoltre, si interessò all’astrologia giudiziaria, guadagnandosi la fama di vero veggente. (DBI, p. 194). 45 Non dovrà stupire eccessivamente che di questo autore Dionigi conoscesse solo i nove testi “canonici” e non il decimo, benché proprio Petrarca si fosse impegnato a ricostruirlo, poiché tale era la condizione di gran parte degli intellettuali coevi. 529 canonici del percorso scolastico. Mancano del tutto annotazioni sulla lingua o sullo stile. 2.3 Tommaso Caloiro46 Tommaso Caloiro47 nacque a Messina nel 1302, da una famiglia che nel ‘300 risultava ancora ignota, ma che ebbe qualche prestigio a livello locale nel secolo successivo. Cominciò gli studi di diritto nella città natale e li concluse a Bologna, dove studiò a partire dal 1319. Nel ‘21 a seguito dei disordini e delle condanne a morte che ne seguirono, il Caloiro si spostò, come molti compagni, all’università di Siena, godendo di un soggiorno utile per l’apprendimento della lingua toscana: essa diede fondamento alla sua attività di poeta. Tornò a Bologna nel 1322 e qui incontrò il Petrarca. Tale contatto potrebbe essere stato proficuo per l’Aretino sul piano poetico, poiché è molto probabile che a questo punto il Caloiro avesse già iniziato a comporre: tale esempio potrebbe aver favorito l’interesse dell’amico. Tra il ‘24 e il ‘25, terminati gli studi, Caloiro rientrò in patria, dove continuarono sia la formazione che gli esperimenti letterari, senza però che egli riuscisse ad ottenere alcuna visibilità. Si dedicò quindi principalmente all’attività forense e iniziò nel frattempo gli studi di filosofia. Gli ultimi anni della sua vita, conclusasi nel 1341, non sono noti e la sua partecipazione alle vicende politiche è oggetto di sole congetture. Ce ne resta un solo sonetto databile al 1330 e conservato grazie alla risposta in versi del Petrarca: è evidente che, a prescindere dalle influenze reciproche negli anni degli studi, a questo punto la maniera dominante nell’ispirazione del messinese era petrarchesca. Petrarca scrisse all’amico varie lettere, gli dedicò due consolatorie inviate ai fratelli Giacomo e Pellegrino e infine lo ricordò un’ultima volta con affetto nella Familiare IX, 2. 2.4 Sennuccio del Bene Sennuccio48 nacque a Firenze tra il 1270 e il 1275, figlio di Benuccio di Senno del Bene; la famiglia apparteneva alla fazione guelfa bianca. Egli fu dunque costretto all’esilio dalla vittoria dei neri; non sono note le vicende dei primi anni dopo la fuga, ma è certo che nel 1311 si trovava a Milano, in concomitanza cioè con il passaggio di Enrico VII. Si arruolò nel suo esercito e partecipò all’assedio di Firenze: per questo fu ufficialmente condannato all’esilio e alla confisca dei beni. È possibile, come suggerisce la dedica di un suo componimento, che abbia soggiornato in Lunigiana presso i Malaspina; nel ‘16, in ogni caso, era già al servizio della curia avignonese, quando Giovanni XXII venne eletto al soglio di Pietro. Conobbe Petrarca nell’ambiente dei Colonna. I due furono ben presto uniti amichevolmente dalla comune passione per la 46 È noto e citato anche come Caloira e Caloria. Per questo personaggio si veda anche Fenzi 2007 e in generale la bibliografia proposta dal DBI, con particolare interesse per Lo Parco 1933. 48 Sulla figura di Sennuccio del Bene si leggano in particolare Tuccini 2003, Piccini 2004 (introduzione biografica e critica al personaggio, edizione critica e commentata delle rime), Livraghi 2013. 47 530 poesia toscana e per la letteratura classica; è probabile che le conversazioni che spesso devono averli impegnati nella domus abbiano talvolta appassionato anche il cardinale. In tale contesto, Sennuccio abbandonò definitivamente gli interessi politici, adattandosi alla nuova identità di intellettuale “cortigiano”. Tale cambiamento e le relazioni strette in Provenza gli ottennero il permesso di rientrare in Firenze nel ‘26, a condizioni lievi, ma umilianti; non è chiaro se e quando esse furono soddisfatte, si sa soltanto che il del Bene rientrò a Firenze nel ‘39 con l’incarico di rettore dell’ospedale S. Bartolomeo di Mugnone (che poi passerà a suo figlio) e vi rimase fino alla morte, avvenuta nel 1349. Petrarca lascia notizia di due suoi viaggi a Napoli e ad Avignone, dove i due amici si rividero e scambiarono versi; all’incontro potrebbe aver partecipato anche Franceschino degli Albizzi, un altro poeta esiliato da Firenze. Le parole che l’Aretino riserva all’amico nell’epistolario, nei suoi versi (soprattutto nei Triumphi) e nella nota obituaria del Virgilio ambrosiano dimostrano l’affetto sincero, la stima per la tempra morale e l’apprezzamento per l’uomo di cultura. Di Sennuccio restano solo quattordici componimenti, per lo più sonetti, che dimostrano la piena e capace adesione all’indirizzo stilnovistico. 2.5 Ludwig van Kempen (o Ludovico “Santo” di Beringen)49 Intimo amico di Petrarca sin dal 1330, da lui chiamato Socrate per la gravità dei costumi e la cortesia, Ludovico nacque nel Kempen nel 1304. Beringen in particolare è una piccola città nell’arcidiocesi di Campine, vicino a Lione, dunque in quella che all’epoca era definita “Germania inferiore”, cioè i paesi Bassi. L’attributo di Santo (o Sanctus) è forse traducibile in fiammingo, come se si trattasse di un cognome, nella forma Heyliger50. Dal 1330 al 1361 (anno della sua morte), Ludovico visse presso la curia pontificia di Avignone e più precisamente nella domus dei Colonna, di cui fu chierico, cantore e cliente. Si dedicò anche alla prosa latina: della sua produzione restano due esempi, una narrazione storica ed un trattato didattico d’argomento musicale51; infine, come ha dimostrato Billanovich, fu anche bibliofilo e partecipò ai primordi dell’umanesimo insieme all’amico Petrarca. Una testimonianza dei rapporti tra Ludovico e il poeta (che, secondo Cochin, sarebbero stati ancor più intimi che con Lelio) viene probabilmente dall’Egloga X, in cui i due personaggi sono in effetti maschere dell’autore stesso e del musico. Il personaggio autobiografico di Silvano52 si diffonde in meditazioni e confidenze personali, che in 49 Utili fonti su questo personaggio sono Cochin 1918-19 e Billanovich 1996; per uno studio più recente sulla figura del musico e sui rapporti tra Europa settentrionale e meridionale si veda anche Papy 2005. 50 Cochin 1918-19. 51 Su questo trattato si diffonde in particolare Cochin 1918-19: il titolo Sentencia in musica sonora subiecti ne indica anche lo specifico argomento, che secondo il medesimo studioso doveva essere oggetto anche di un secondo approfondito saggio, oggi perduto. 52 Sui mascheramenti bucolici delle egloge e in particolare sui personaggi di Stupeus e Silvanus, si veda Chines 2010, pp. 55 segg. 531 parte possono essere ricondotte al dolore per la morte dell’amata e in parte si concentrano su questioni letterarie: la carriera poetica e il legame con l’erudizione classicistica53. Non è da escludere, infine, che Socrate abbia offerto a Petrarca utili consigli in materia musicale in vista dell’intonazione delle sue rime54. 2.6 Raimondo Subirani Petrarca ricorda il Subirani, oltre che in qualità di giurista, come bibliofilo appassionato soprattutto di Livio. Secondo la ricostruzione di Billanovich55, che ne intuì l’origine guascona (da cui il nome Raymond de Soubiran), egli studiò a Tolosa, dove in effetti rimase ad insegnare. Fu cappellano papale, ma in qualità di politico e diplomatico fu legato soprattutto all’Inghilterra. Morì nel 1330: è questo l’unico riferimento utile per datare le lettere inviategli da Petrarca e dunque il loro rapporto d’amicizia. 2.7 Paganino da Bizzozzero Paganino nacque a Bizzozzero all’inizio del Trecento, in una famiglia nobile dell’area di Varese. Fu consultor di Luchino Visconti ed ebbe un ruolo importante nella fase di espansione della sua signoria, anche in qualità di podestà di Parma, carica che ricoprì dal 1346 al 1349, quando morì durante la grande pestilenza. 2.8 Guido Gonzaga Guido Gonzaga era figlio di Luigi I, colui che aveva portato la famiglia alla vera grandezza. Nacque alla fine del Duecento, ma non se ne sa nulla sino al 1328, quando partecipò col padre alla conquista della signoria mantovana. La questione dell’amministrazione mantovana in tale fase è piuttosto complessa, in primo luogo per la sua configurazione mutevole, a seconda che i governanti siano nominati dai consigli comunali, in veste di capitani del popolo, o dall’imperatore, come vicari. Secondariamente, Guido dovette lottare non poco per guadagnarsi del peso politico, schiacciato dal padre, poi dai fratelli e dalle loro truppe, infine dai figli, benché i documenti tendano infine a riconoscergli una certa centralità. Intanto i Gonzaga si trovarono implicati nelle vicende politico-militari dell’Italia settentrionale, a fianco dei Visconti, ma cercando di mantenere buoni rapporti con gli Estensi; una fase fondamentale fu determinata dalla rottura con gli Scaligeri. Anche l’alleanza con i Visconti (e soprattutto con Luchino) conobbe in realtà momenti alterni fino allo scontro in campo aperto, mentre le lotte interne alla famiglia per la gestione del potere diventavano sempre più evidenti e violente. L’impegno di Guido trovò il suo culmine 53 Su questo tema Petrarca si dilunga per ben quattrocento versi. Cochin in particolare ha sostenuto, avvalendosi di una postilla petrarchesca, la tesi secondo cui l’Aretino avrebbe sottoposto al vaglio musicale tutti i fragmenta prima di includerli nel Canzoniere. Vedi Cochin 1918-19, p. 10. 55 Billanovich 1981, pp. 50-52. 54 532 nella nomina a capitano generale di Mantova, carica che ricoprì dal 1360 alla morte, avvenuta nel 1369. È ricordato come grande amante delle lettere ed ammiratore di Petrarca, che ne fu ospitato a Mantova in più occasioni e che gli fece dono del Roman de la Rose, accompagnandolo con la Metrica 3, 30. Proprio questa attenzione alla vita culturale differenzia Guido dai fratelli e gli attribuisce un’immagine di signore meno focalizzata solo sulla forza militare56. 2.9 Marco Portonario da Genova Di questo personaggio si sa solo ciò che ne dice Petrarca nel suo epistolario: fu studente di diritto e si dedicò all’attività politica al servizio della sua città, anche se avrebbe desiderato dedicarsi alla vita monastica. 2.10 Giovanni dell’Incisa Parente oltre che amico intimo del Petrarca, Giovanni fu maestro di teologia e priore del convento di S. Marco a Firenze. È facile immaginare che sia stato accomunato a Petrarca dall’interesse per la lettura, come potrebbe dimostrare la richiesta di aiuto da parte del poeta per la ricerca di alcuni volumi nelle biblioteche toscane57. 2.11 Giovanni d’Arezzo Le conoscenze disponibili a proposito della vita di Giovanni ruotano intorno a due fattori principali: l’attività diplomatica e l’amicizia con Petrarca. Di qualche anno più giovane del poeta, Giovanni divenne cancelliere e ambasciatore dei Gonzaga di Mantova, al servizio in particolare di Guido e dei figli. Da loro viene inviato ad Avignone, dove conobbe Petrarca probabilmente già nel periodo in cui era studente a Bologna, durante una delle sue visite a casa. Negli anni successivi la sua attività diplomatica continuò presso il papa, l’imperatore, i Visconti. D’altro canto Giovanni dimostrò di non considerare l’impegno politico come il più degno: egli, ad esempio, fu tra gli amici che rimproverarono il Petrarca della sua scelta di stabilirsi a Milano, proprio secondo l’argomentazione per cui filosofia e letteratura non devono essere accantonate a vantaggio della vita pubblica. L’ultima lettera di Petrarca all’amico, databile al 1358, vede quest’ultimo finalmente ritirato in campagna, secondo i suoi desideri; la data della sua morte è ignota, ma certamente poco posteriore. 56 Inizia così una lunga e prospera tradizione di mecenatismo e impegno intellettuale per la signoria dei Gonzaga, nota nei due secoli successivi soprattutto per gli incrementi librari. In particolare in Frasso 1974 sono evidenziati i rapporti con gli Estensi, che possono aver favorito l’interesse per la poesia trobadorica e la circolazione di antiche sillogi (con particolare riferimento ai codici M e N); tuttavia si tratta già della fase di “riscoperta” degli studi provenzali nel tardo Rinascimento. 57 Tale richiesta è testimoniata nella Familiare III, 18. 533 2.12 Angelo (Lello) di Pietro Stefano Tosetti Di origine romana, in gioventù il Tosetti58 fu molto legato ai Colonna, prestando servizio per Giacomo a Lombez e poi per il cardinale Giovanni ad Avignone. Alla sua morte tornò a Roma, dove si sposò, ebbe dei figli e morì nel ‘63 a causa della pestilenza. I Colonna furono anche il tramite per l’incontro con Petrarca (1330), di cui divenne amico intimo e di lungo corso, guadagnandosi il soprannome di Lelius. La sua attività principale si svolse in ambito militare e politico, e il suo successo non sarà estraneo alla prosecuzione dei rapporti con i Colonna, ad Avignone e a Roma. Qui nei primi anni Cinquanta si legò in particolare a Stefanello, figlio di Stefano Colonna il Giovane, e proprio a causa di tumulti e rivolgimenti che videro sconfitto il Colonna, anche il Tosetti fu costretto a rientrare presso la curia pontificia. Nel 1354, anche grazie alla mediazione epistolare del Petrarca, ebbe l’opportunità di incontrare l’imperatore Carlo IV di Boemia; per altro Lelio fece parte della delegazione pontificia a Pisa e poi a Roma, dove nel corso dell’incoronazione imperiale pronunciò un’apprezzata orazione augurale, per poi reggere la Bibbia su cui il sovrano giurava. I rapporti con l’imperatore si mantennero vivi nel tempo, come dimostrano due epistole inviategli dal Tosetti. Lelio è inoltre ricordato per i suoi interessi letterari, e i versi sia italiani che latini. Gli studi sul Trecento italiano lo ritraggono insomma come una figura di rilievo in campi diversi e soprattutto capace di entrare in relazione con personaggi di primissimo piano, al di là del solo Petrarca. 2.13 Barbato da Sulmona Barbato59 nacque a Sulmona tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento; non se ne conoscono gli studi, ma, avviato alla professione del nonno, divenne certamente notaio entro il 1325. Ben presto entrò a servizio presso la corte angioina di Napoli, dove ricoprì vari incarichi, dapprima soprattutto diplomatici, e ricevette i primi benefici. La critica ritiene che la sua brillante carriera si debba, oltre che alle qualità personali, alla preparazione culturale, approfondita proprio grazie all’ambiente della corte e alla biblioteca regia. Le sue doti intellettuali furono messe a frutto nel passaggio dagli uffici finanziari a quelli cancellereschi: in particolare gli venne affidato l’incarico di segretario regio negli ultimi anni di regno di Roberto e durante il travagliato governo di Giovanna. Conobbe Petrarca durante il viaggio di quest’ultimo a Napoli nel 1341; ne divenne intimo amico (soprattutto dopo il secondo ed ultimo incontro), come testimonia la dedica delle Metriche, e ne sostenne e diffuse ampiamente la fama. Nel frattempo si approfondirono le sue relazioni con gli uomini di cultura della Napoli angioina, tra cui Giovanni Barrili, un altro corrispondente di Petrarca. Barbato non lasciò alcuna produzione letteraria, a parte due modesti epigrammi latini di dubbia attribuzione, pensati e forse inviati a Cola di Rienzo, e il commento ad un’epistola di Petrarca 58 59 Su questo personaggio e i suoi rapporti con Petrarca si veda anche Hornstein 1948. Su Barbato da Sulmona e le sue opere si vedano Papponetti 2004 e Papponetti-Monti 2004. 534 all’Acciaiuoli, intitolata Institutio regia nelle Familiari. Morì a Sulmona nel 1364, dopo alcuni anni di vita tranquilla e ritirata. 2.14 Giovanni d’Andrea Bolognese (o giunto a Bologna molto giovane), Giovanni dev’essere nato intorno al 1271. I genitori, la cui origine è ignota, giunsero in città da un piccolo centro degli Appennini e il padre Andrea aprì una scuola di grammatica, per prendere poi gli ordini sacri. Giovanni, invece, cominciò ben presto ad occuparsi di diritto, dedicandosi anche alla teologia ed infine al diritto canonico. Insegnò allo studium dal 1302, ma i contatti con l’ambiente universitario dovevano essersi già avviati in precedenza; nel 1306, in un momento di conflitti e scontri, si allontanò da Bologna a causa dell’interdetto del legato pontificio Orsini, ma vi tornò nel 1309, dopo un periodo di insegnamento a Padova. I disordini del ‘16 lo videro protagonista della riscrittura dello statuto dell’università al fianco degli studenti, che si erano rivoltati: in tale contesto Giovanni godette una preminenza sempre più palese. Il suo ruolo fu tuttavia meno rilevante nella riconciliazione che seguì agli scontri del ‘22, forse a causa del suo coinvolgimento personale nella questione. Intanto conobbe Petrarca, studente a Bologna, e partecipò alla vita pubblica su scala più ampia, a sostegno di Giovanni XXII; il papa ne favorì quindi il prestigio sempre maggiore in città, anche al di là dello studio. Collaborò in particolare con il nipote del pontefice, Bertrand du Poujet, che dal 1327 al 1334 fu di fatto signore della città; minor accordo caratterizza, invece, il suo rapporto con Taddeo Pepoli, che prese il posto del Poujet dopo un breve ritorno al governo comunale. Giovanni morì di peste nel 1348, dopo qualche anno di vita ritirata. Lasciò numerose opere d’argomento giuridico, soprattutto commentari e trattati; Petrarca non lo ricorda come letterato di particolare rilievo, ma pare che egli abbia favorito utili discussioni letterarie, oltre che giuridiche, tra i suoi alunni60. 2.15 Andrea da Mantova61 (Andrea Painelli da Goito) Di Andrea Painelli, personaggio a lungo trascurato dagli studi critici, si conosce molto poco, né aiutano le epistole (due Familiari e una Metrica) che gli inviò Petrarca: il loro tono è ben poco personale e lo stesso vale per il tema, legato al biasimo di comuni conoscenti. Sappiamo che nel ‘51 Andrea poteva già fregiarsi del titolo di magister e deve aver goduto di notevole prestigio, poiché gli viene riconosciuto esplicitamente, ad esempio, dai frati di S. Genesio nel territorio di Goito e nell’ambiente dei Gonzaga. Nel ‘54 fu descritto come una persona affidabile e fedele, di cui perciò si richiedeva la presenza, da Carlo IV in un’epistola ai signori di Mantova, intesa per altro a raccomandare l’intera famiglia Painelli. Proprio in un resoconto dell’incontro diplomatico tra imperatore e 60 61 Così per lo meno ritiene Cochin 1922, p. 104. Su questo personaggio si veda in particolare Frasso 1974. 535 Gonzaga, Andrea viene presentato come valente poeta latino: restano in particolare alcuni suoi epitaffi. Ne viene inoltre illustrato il ruolo politico, in qualità di protonotaro dell’imperatore, oltre che di consigliere presso la corte mantovana: egli continuò in effetti a far parte della cancelleria imperiale per alcuni mesi, durante tutto il soggiorno italiano del sovrano. Tornò quindi al servizio dei Gonzaga, per cui svolse numerosi compiti diplomatici nell’ambito delle lotte nell’Italia settentrionale, con atteggiamento in sostanza filovisconteo; negli anni Sessanta però si rinnovarono anche i suoi rapporti con l’imperatore, cui si devono il viaggio di Andrea presso la corte boema e il suo ruolo al seguito del sovrano durante il secondo soggiorno nella penisola. Rimase coinvolto (forse ingiustamente) in uno scandalo che rischiava di minare i rapporti fra Gonzaga e Visconti: per questo venne giustiziato fra ‘83 e ‘84. 2.16 Guido Sette62 Nato a Luni nel 1304, Guido fu intimamente legato a Petrarca sin dalla prima giovinezza: i due si conobbero, infatti, in Provenza, dove la famiglia Sette si era trasferita dalla Lunigiana più o meno nello stesso periodo in cui anche ser Petracco giunse con la propria nella città pontificia. I due ragazzi dunque furono a lungo compagni di studio, a Carpentras, a Montpellier e a Bologna: le notizie disponibili sul futuro vescovo dipendono proprio da Petrarca e dai suoi riferimenti alla comune formazione nell’epistolario. In qualità di futuro ecclesiastico, è probabile che Guido seguisse soprattutto corsi di diritto canonico, ma non si può escludere che si sia interessato anche all’orizzonte civile e che si sia laureato in utroque iure; pare comunque certo che egli, a differenza dell’amico, abbia completato gli studi sino alla licenza. Sette compare in alcuni documenti del 1336 come vicario del vescovo di Genova Acciaiuoli63: negli anni precedenti deve aver compiuto i vari gradi della carriera ecclesiastica, probabilmente tra Bologna e Genova. Fino al ‘47, data entro la quale fu nominato prelato della cattedrale di Genova, i suoi spostamenti e i suoi impegni non sono chiari; per questo periodo resta soltanto un’intima Familiare del ‘42 e l’ipotesi di Zaccagnini che abbia trascorso del tempo ad Avignone. Qui, in effetti, potrebbe aver soggiornato a lungo a prescindere dal suo ruolo di arcidiacono a Genova, perché nel ‘53 Petrarca gli scrisse interrogandosi sulla sua decisione di restare in quel luogo, il più abominevole del mondo. Divenne arcivescovo di Genova nel ‘5864; nel ‘61 fondò il monastero benedettino di Cervara, dove morì nel ‘6765. 62 Su questo personaggio si veda in particolare Zaccagnini 1934. Lo studioso indica come proprie fonti le epistole dello stesso Petrarca e alcuni documenti contenuti nell’Archivio di Stato di Bologna. 63 Non è noto con esattezza quando abbia ricevuto tale incarico; in ogni caso non prima del ’34, poiché sino a quell’anno il vicario a Genova è Pietro Fiassani (o Fiessani) di Penne. Guido Sette mantenne la carica fino al ’37, anche se i documenti relativi ad alcune condanne pronunciate quando era già stato nominato il suo successore lasciano pensare che abbia continuato ad esercitarla per qualche tempo oltre la fine dell’incarico ufficiale. 64 Secondo Zaccagnini 1934, potrebbe avere questo incarico già dal ’51. 65 Zaccagnini ritiene che Guido abbia abbandonato la sua carica già nel ‘67, morendo solo l’anno successivo. 536 2.17 Giovanni Coci Esponente dell’ordine agostiniano degli Eremitani, Giovanni Coci fu maestro di teologia, e così gli si rivolge Petrarca nell’unica Familiare che gli abbia indirizzato; fu inoltre curatore della biblioteca pontificia ad Avignone. Ricoprì la carica di vescovo nelle tre diocesi suffraganee di Vence, Grasse e Saint-Paul-Trois-Châteaux dal 1347. Morì nel 1361. 2.18 Giovanni Aghinolfi Originario di Arezzo e nato alla fine nel Duecento, conobbe Petrarca ad Avignone: i due, accomunati dagli interessi letterari, divennero amici. Fu diplomatico di un certo successo a Mantova presso i Gonzaga, ma abbandonò la carriera pubblica negli ultimi anni della vita per ritirarsi in patria. 2.19 Bruno Casini Bruno Casini nacque a Firenze tra il ‘18 e il ‘19. Non se ne conosce la formazione, ma già piuttosto giovane divenne maestro di retorica e proprietario di una scuola pubblica; si inserì così nella linea culturale indicata da Brunetto Latini. Tuttavia egli è noto per aver interpretato la materia tradizionale in modo innovativo, non solo per le concezioni secondo cui era proposta, ma anche per il metodo di insegnamento, che ad esempio prestava grande attenzione all’actio, rispetto alla voce e al corpo. Fu in contatto con tutti gli esponenti più illustri della vita culturale fiorentina, in particolare con alcuni amici e conoscenti di Petrarca, tra cui Giovanni dell’Incisa, Sennuccio del Bene, Zanobi da Strada. Giovanni e Zanobi, in particolare, favorirono l’inizio del suo scambio epistolare con l’Aretino: grazie a loro poté scrivere a Petrarca quando nel ‘48 il poeta si fermò a Parma senza poi spingersi sino a Firenze, durante il viaggio interrotto alla volta di Roma. Nell’epistola, perduta, era contenuto un componimento latino, che lamentava il mancato incontro con il celebre autore e un riferimento all’Africa. Restano però la Familiare di risposta e l’epistola metrica che la accompagnava: Petrarca vi elogia il testo a lui dedicato e l’ingegno del suo autore (le cui composizioni sono apprezzate anche in una seconda Familiare). Casini è inoltre autore di un trattato sulla teoria del discorso dal titolo De figuris generibusque loquendi. Morì di peste molto giovane, nel 1348. 2.20 Lapo da Castiglionchio (Giacomo da Firenze) Aristocratico, nacque a Firenze all’inizio del Trecento. Benché la sua carriera si sia svolta principalmente in veste di canonista e insegnante allo Studio fiorentino, Lapo si dedicò ampiamente anche agli studi letterari e all’attività politica, che gestì con grande veemenza, sino a subire l’esilio. Si trasferì allora a Padova, dove ebbe l’opportunità di insegnare, e poi a Roma, dove proseguì il suo impegno pubblico; morì però di lì a poco, 537 nel 1381. Fu un bibliofilo davvero appassionato: non a caso fece dono a Petrarca, dopo averlo conosciuto a Firenze nel ‘50, di una copia incompleta dell’opera di Quintiliano e di quattro orazioni ciceroniane. 2.21 Giberto Baiardi Non si conosce quasi nulla di questo personaggio. Fu un buon maestro di grammatica a Parma, sua città natale, dove si occupò dell’educazione di Giovanni, il figlio di Petrarca: il poeta gli scrive appunto in tale veste. 2.22 Orso dell’Anguillara Nacque a Roma all’inizio del ‘300, ma non se ne hanno notizie sino ai primi anni Venti, quando il papa gli concedette nell’arco di breve tempo tre canonicati. Tuttavia nel 1331 cominciò col fratello una politica aggressiva nei confronti dei territori della Chiesa a vantaggio dei propri, attaccando in primo luogo Sutri. Alla sconfitta – e al matrimonio con una figlia di Stefano Colonna – seguì la rottura e lo scontro armato col fratello; tali contrasti si inseriscono nel contesto più generale dei disordini causati dall’inimicizia e dalle lotte di potere tra patrizi romani. È proprio in tale periodo conflittuale, nel 1336, che Petrarca fu ospite di Orso: ne divenne amico piuttosto intimo e ne lasciò un ritratto fortemente elogiativo. L’Anguillara in effetti viene ricordato come uomo colto e amante della poesia; potrebbe dimostrarlo anche la sua presenza all’incoronazione poetica di Petrarca nel ‘41. Seguirono anni di serenità, nel segno del governo di Roma e della pacificazione tra i diversi rami della famiglia, grazie anche alla mediazione di Cola di Rienzo. Orso morì entro il 1366. 2.23 Lancillotto Anguissola Nobile d’origine piacentina, Lancillotto Anguissola è noto innanzitutto come cavaliere, titolo che acquisì ufficialmente nel ‘39, a seguito della battaglia di Parabiago, in cui aveva combattuto a favore dei Visconti. In realtà le sue prime imprese non si erano svolte a sostegno dei milanesi, in particolare nel 1336, quando Azzo Visconti assediò Piacenza e l’Anguissola cercò di conquistarla per proprio conto. D’altro canto gli impegni militari e politici lo occuparono via via sempre meno: Lancillotto scelse infatti di dedicarsi principalmente alla poesia. Se ne conoscono soltanto sonetti e canzoni d’ispirazione amorosa, che in più occasioni inviò agli amici (e in primo luogo a Petrarca). Trascorse gli ultimi anni a Padova presso i Carraresi, dove si era trasferito nel 1350; qui morì tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. 2.24 Luca Cristiani Luca Cristiani nacque intorno al 1300 a Ferentino, presso Frosinone, come rivela la bolla pontificia che gli concedeva un canonicato in Francia; Petrarca però lo ricorda 538 piacentino, forse perché a Piacenza ricoprì a lungo la carica di prevosto. L’Aretino lo conobbe a Bologna, dove studiarono insieme diritto, e la loro frequentazione proseguì negli anni avignonesi, poiché anche il Cristiani fu familiare del cardinale Colonna. La loro amicizia dev’essere stata piuttosto intima, come dimostra il soprannome – Olimpio - con cui Petrarca lo chiamò sempre. Da una preoccupata Familiare inviata a Socrate e dalla protesta ufficiale che Petrarca rivolse ad alcuni rappresentanti di Firenze, è noto che il Cristiani fu vittima dei briganti mentre attraversava gli Appennini vicino alla città toscana: l’amico con cui viaggiava fu ucciso, mentre Luca riuscì a salvarsi e a fuggire. La citata concessione del beneficio francese (1353) è l’ultima informazione disponibile sul Cristiani, della cui morte non si conosce alcun dettaglio. 2.25 Bartolomeo Carusi Il Carusi è meglio noto come “Bartolomeo di Urbino”, anche perché l’attribuzione del cognome si deve a biografi tardi; non se ne conosce la data di nascita o l’origine precisa. Entrò nell’ordine degli Eremitani di sant’Agostino e, dopo aver studiato a Parigi, divenne lettore a Bologna, dove rimase dal ‘21 al ‘43: qui dunque poté incontrare Petrarca, oltre a Giovanni d’Andrea, amico anche dell’Aretino. È ricordato in particolare per due opere erudite, composte con l’avvallo del suo maestro bolognese Dionisio di Modena, il Milleloquium veritatis Augustini, dedicato a Clemente VI, che gli valse la nomina a vescovo di Urbino, e il Milleloquium D. Ambrosii, commissionato proprio dal pontefice. Per concludere la prima, e più importante, Bartolomeo chiese al Petrarca di scrivere alcuni versi; egli li accompagnò con una lettera in cui esalta l’intelletto dell’amico, il quale aveva impegnato grandi facoltà per un lavoro umile, anche se utilissimo ai lettori. Anche altre sue fatiche letterarie (ad esempio il De Romani Pontificis Christi Vicarii auctoritate) ebbero vasta eco all’epoca, soprattutto perché si inserivano nella vessata questione della legittimità del papa: Bartolomeo rimase fedele al suo ordine, che si schierò contro Ludovico il Bavaro. Morì nel 1350. 2.26 Giovanni da Bunio Questo personaggio è ignoto. Se ne conosce solo ciò che ne dice Petrarca nell’unica epistola che gli abbia inviato: i due furono compagni di studi a Bologna. 2.27 Niccolosio Bartolomei Niccolosio Bartolomei nacque a Venezia nel 1311, da famiglia lucchese di mercanti da poco trasferitasi nella Repubblica. Dopo aver compiuto buoni studi umanistici, si dedicò come il padre alla mercatura, con notevole profitto. Ancora nel 1331 era sicuramente a Venezia, dove insieme agli altri lucchesi prestò giuramento a Giovanni di Boemia, che si era impadronito della loro città d’origine; intanto aveva avviato con i fratelli la costruzione della Certosa di Farneta, secondo l’imposizione del padre, ma anche con notevole sollecitudine personale. Lo ricordano poi alcuni prestiti sostanziosi e dal 539 particolare valore politico (non solo al governo di Lucca, ma anche a Edoardo III di Inghilterra), nonché gli onori che gli furono resi in patria al suo ritorno (1369). Vi ricoprì infatti varie cariche pubbliche ed ebbe contatti con personaggi illustri in tutta Italia. Morì nel 1388 e venne sepolto a Farneta; il suo testamento lascia beni consistenti proprio alla Certosa, compresa una notevole collezione libraria. La biblioteca dimostra l’interesse che il Bartolomei aveva maturato per la vita culturale e soprattutto per i classici, ben oltre gli anni degli studi; tale perdurante passione può spiegare i buoni rapporti con vari intellettuali di spicco, tra cui Petrarca, Boccaccio e Coluccio Salutati, testimoniati dalla sua ricca corrispondenza. 2.28 Filippo di Vitry Teorico e compositore musicale66, traduttore delle Metamorfosi di Ovidio, ecclesiastico, ma anche uomo politico e diplomatico, Filippo nacque a Vitry nel 1291. Fu legato a Giovanni XXII, Carlo IV e Filippo VI; nel ‘51 divenne vescovo a Meaux dove morì nel ‘61. L’amicizia col Petrarca è testimoniata dalla dolente partecipazione di quest’ultimo a tale perdita, registrata nel Virgilio Ambrosiano con la consueta nota obituaria. 2.29 Guglielmo da Pastrengo Guglielmo da Pastrengo è famoso per i suoi studi di diritto e letteratura, ma soprattutto per il contributo alla cultura pre-umanistica in ambito veronese. Nacque nel 1290 circa a Verona; l’appellativo si deve all’origine della famiglia paterna, che godeva di diritti feudali, oltre che di benefici economici, nella zona di Pastrengo. Studiò diritto a Bologna per diventare notaio e soprattutto giudice, rientrando di certo a Verona entro il ‘21. Qui, durante il governo di Cangrande Della Scala, ricoprì varie cariche pubbliche e svolse il ruolo di ambasciatore; la sua carriera si mantenne prestigiosa anche dopo la morte del suo protettore. Negli ultimi anni ‘30 venne inviato due volte in ambasciata ad Avignone, dove si recò con Azzo da Correggio: qui conobbe Petrarca, al cui prestigio presso la curia si affidò per il buon esito della missione a favore degli Scaligeri. In realtà in breve tempo la fortuna di Alberto e Mastino II della Scala declinò definitivamente di fronte alle armi dei fiorentini; tuttavia i documenti dimostrano il ruolo efficace che Guglielmo svolse a favore della sua città. La sua importanza continuò ad essere riconosciuta anche dopo nuovi disordini pubblici, che causarono l’avvicendarsi al potere di diversi esponenti della famiglia della Scala, in una serie di scontri violenti e di condanne a morte. Tali rivolgimenti pesarono, ad esempio, su Giovanni, il figlio di Petrarca, che forse proprio a causa delle amicizie paterne, venne accusato di legami con i congiurati che avevano temporaneamente usurpato il potere. Proprio Guglielmo potrebbe essere intervenuto perché l’esilio e la sottrazione del canonicato, concessogli a 66 A lui si deve, a quanto pare, il nome stesso di Ars nova, alla quale per altro diede un impulso essenziale in Francia. Per l’ars si veda Cerocchi 2010. 540 Verona nel ‘52, gli fossero revocati (tuttavia il giovane morì poco prima che i provvedimenti a suo carico fossero cancellati). A partire dagli anni Quaranta, comunque, Guglielmo si dedicò sempre più al suo impegno di giurista, in particolare al servizio delle istituzioni religiose. Morì a Verona, nel 1363; va ricordato anche come autore del De originibus e del De viris illustribus, che lo impegnò almeno dal ‘37 e fino agli anni Cinquanta, consacrandone l’immagine di erudito umanista. Della sua corrispondenza con Petrarca restano pochi frammenti, che permettono però di intuire uno scambio epistolare costante e un legame intimo. Le tematiche e lo stile delle lettere sopravvissute dimostrano la comune passione per la lettura e soprattutto per i classici, l’ideale dell’otium letterario, l’interesse per la ricerca e l’impegno di bibliofili, soprattutto in un contesto tanto promettente quale quello di Verona. Tale amicizia intensa e prolungata spiega bene perché proprio a Guglielmo Petrarca abbia affidato la cura “paterna” del suo Giovanni, mentre per gli aspetti scolastici il poeta si era rivolto a Rinaldo Cavalchini. La connessione tra i due sodali è infine suggerita dalla stesura di due opere parallele – e dal medesimo titolo – lavoro per cui è indubbio che Guglielmo abbia sentito l’influenza dell’Aretino, il quale a sua volta potrebbe essersi avvalso del contributo dell’amico, come dimostra ad esempio la richiesta di un volume che gli era indispensabile (Familiare IX, 15)67. 2.30 Johannes von Neumarkt Jan ze St eda, poi più noto con il titolo episcopale, nacque nel 1310. Legato a Carlo IV e suo cancelliere imperiale, ottenne diversi vescovadi; morì nel 1380. Fu un buon umanista ed ebbe soprattutto il merito di far conoscere le opere dell’amico Petrarca in patria. In effetti, la Familiare X, 6 dedicata a Johannes tratta proprio della cultura umanistica e ha il valore storico di aprire per il suo autore una prospettiva europea. 2.31 Niccolò Acciaiuoli Niccolò Acciaiuoli nacque nel 1310 in Val di Pesa; il padre è ricordato per essere un figlio illegittimo. Niccolò viene descritto dal Villani come un uomo di bell’aspetto, eloquentissimo, anche se “senza lettere”68. Ciò non toglie che egli abbia ricevuto un’educazione elementare non trascurabile: fu infatti allievo di Giovanni Mazzuoli da Strada, padre di Zanobi e maestro anche del giovane Boccaccio. Egli divenne dapprima mercante e come tale arrivò a Napoli, come ricorda proprio il certaldese; tuttavia, desideroso di migliorare la propria condizione, entrò al servizio di una cognata di re Roberto, della quale fu successivamente amante e rappresentante in Grecia. Questo favorì la sua acquisizione di terre e ben presto anche di cariche pubbliche al servizio del sovrano. Dopo la morte del re, passò al servizio di Luigi di Taranto, di cui favorì il matrimonio con la regina Giovanna (e si pensa che possa essere implicato nell’omicidio 67 Sulle affinità intellettuali di Petrarca e di Guglielmo, con particolare riferimento ai classici e al caso di Pomponio Mela, si veda Fiorilla 2008. 68 DBI, p. 87. 541 del suo primo marito). Di fatto fu anche al servizio della regina, favorendone i rapporti con la curia pontificia nel periodo in cui ella dovette rifugiarsi in Provenza, e poi il ritorno in Italia; tuttavia fu anche fautore della lotta del consorte per il pieno controllo del potere ai danni della regina ed infine protagonista delle violenze che la portarono alla definitiva caduta. Quando Luigi ebbe pieni poteri, l’Acciaiuoli, già ricchissimo e noto per la sua magnificenza, gestì di fatto la direzione del regno. Il suo ruolo fu fondamentale anche per la vittoria sugli ungheresi che avevano invaso l’Italia e per la riacquisizione della Sicilia, anche se non integrale. Proprio l’impossibilità di riconquistare Catania e la grave sconfitta di Acireale, della quale Niccolò non aveva alcuna responsabilità, fornirono un pretesto ai suoi avversari per farlo allontanare dalla corte: egli fu dunque inviato presso il pontefice per ottenerne l’aiuto a favore degli Angiò. Tornò infine a Napoli, dove la sua presenza fu determinante per il consolidamento del predominio angioino in Sicilia e per l’alleanza con l’esercito ungherese. Morì poco dopo, nel 1364, quando di nuovo infuriavano le maldicenze dei suoi avversari, questa volta ai danni del suo prestigio presso il papa. Non fu uomo di cultura in prima persona, nonostante le opere che finanziò e curò soprattutto in ambito architettonico (in particolare la certosa di Val d’Ema), ma ebbe – anche in virtù dei suoi contatti e del suo ruolo politico – molti legami con gli intellettuali del tempo, in particolare Petrarca, Zanobi da Strada e Boccaccio. Quest’ultimo ne attendeva il sostegno economico e una posizione privilegiata presso la corte di Napoli; egli rimase però insoddisfatto e probabilmente per questo lasciò dell’Acciaiuoli un terribile ritratto nel libello inviato al Nelli. 2.32 Zanobi da Strada Zanobi69 nacque a Strada, vicino Firenze, nel 1312, figlio di Giovanni Mazzuoli, un maestro di scuola di cui seguì le orme. Divenne ben presto grande ammiratore del Petrarca che poté incontrare a Firenze nel 1350. Poco dopo si trasferì a Napoli, chiamato da Niccolò Acciaiuoli che nel frattempo vi aveva acquisito una posizione di grande prestigio; ricevuta la corona poetica per i suoi versi latini, si trasferì ad Avignone, dove nel ‘59 divenne segretario apostolico. Morì nel 1361. 2.33 Francesco Nelli Francesco Nelli70, ammiratore fiorentino di Petrarca, poté conoscere il poeta nel 1350. Ne divenne assiduo corrispondente e strinse con lui un’amicizia che, benché tarda, fu tuttavia intima e particolarmente affettuosa. Al Nelli sono dedicate le Senili, con il nome, poi sempre usato dall’Aretino, di Simonide. Sono poco note le vicende della sua vita, se non grazie al ricco epistolario intrattenuto col Petrarca stesso, di cui restano le testimonianze di entrambi i mittenti. Esponente di una famiglia fiorentina antica e 69 Sull’impegno culturale di Zanobi da Strada si vedano ad esempio Baglio 2000 e Brambilla 2000. A proposito di questo personaggio è ancora utile il contributo in Cochin 1892; sull’epistolario con Petrarca si veda anche Chiecchi 2003. 70 542 prestigiosa, Nelli appare però in difficoltà sul piano economico: divenne notaio e poi priore della chiesa dei Santi Apostoli, in una posizione professionale forse non troppo soddisfacente, ma di certo impegnativa. Petrarca infatti lo ricorda “occupatissimo” e dunque sfortunatamente privato dell’otium letterario. La formazione è per lo più ignota, ma si può immaginare che sia stata in sostanza quella tipica dell’epoca; proprio le lettere dimostrano che Francesco fu un allievo fedele alla tradizione dell’ars dictamini. Tuttavia egli fu anche un appassionato di classici, già prima dell’incontro con il suo modello, che per altro ne avrebbe favorito il notevole sviluppo stilistico e un significativo incremento nell’erudizione, evidenti sempre nelle epistole. Nelli fu forse attivo anche come poeta, o almeno così lo ricorda Petrarca – che sceglie il soprannome di Simonide proprio perché egli fu “prete e poeta” – e lui stesso parla della sua musa; tale definizione non impedisce comunque ch’egli si sia esercitato soprattutto nella prosa. Fu inoltre appassionato bibliofilo, sollecitato ancora una volta dal celebre amico, per il quale cercò spesso volumi di classici o si fece intermediario (ad esempio, presso Lapo da Castiglionchio). Nel 1357 è probabilmente ad Avignone, che descrive con i medesimi toni moraleggianti del sodale e dove insegnò al suo Giovanni; nel ‘61 si trasferì a Napoli, dove aveva ottenuto un incarico pubblico grazie all’Acciaiuoli. Furono gli anni più attivi della sua vita e forse fin troppo faticosi, come si evince dalle descrizioni e dal tono delle sue epistole. Morì due anni dopo, di peste. 2.34 Bartolomeo Carbone dei Papazzurri Bartolomeo Carbone nacque a Roma. Divenuto domenicano, visse per un certo periodo ad Avignone dove conobbe Petrarca: tale amicizia appare piuttosto intima, visto che Bartolomeo venne ospitato qualche anno dopo nella casa di Venezia. Nel corso di un quindicennio a partire dalla fine degli anni Quaranta, divenne vescovo di Teano, Chieti e Patrasso; morì nel ‘65. 2.35 Giovanni Barrili Nobile napoletano, il Barrili fu uno dei più alti funzionari di Roberto d’Angiò ed ebbe una brillante ed intensa carriera politica tra il 1330 e il 1350 circa, che coinvolse tutti i centri di potere del regno. Svolse in particolare delicati compiti diplomatici. Ebbe ad esempio un ruolo centrale nell’ambasciata a Luigi d’Ungheria il cui scopo era evitare che Napoli fosse abbandonata ai saccheggi; meno efficace fu invece il suo intervento in Provenza, dove la sua nomina a siniscalco non fu accettata dai poteri locali, con il rischio dunque di arrivare alla guerra civile. Tuttavia il suo prestigio, che pure si mantenne abbastanza vivo sotto il regno di Giovanna, era destinato a spegnersi poco dopo la morte di re Roberto, di fronte al potere sempre più ampio dell’Acciaiuoli. Morì nel ‘55, probabilmente a Napoli. Conobbe Petrarca a Napoli nel ‘41, quando avrebbe dovuto accompagnarlo all’incoronazione (cadde però in un’imboscata ad Anagni) e il loro sodalizio, testimoniato dall’abbondante corrispondenza, si rinsaldò nel ‘43, in occasione di un secondo incontro. L’Aretino lo rappresenta allegoricamente come figura 543 della lealtà e della saggezza nella seconda egloga del Bucolicum carmen. Non fu un erudito né un letterato o un poeta, ma certamente partecipò alla vivace vita culturale patrocinata dal sovrano angioino e godette di una buona preparazione di base. 2.36 Rinaldo Cavalchini Nato presso Verona tra 1288 e 1290, Rinaldo Cavalchini è noto soprattutto per l’imponente scuola che fondò per insegnare filosofia, letteratura e grammatica, con criteri modernissimi che sembrano anticipare quelli definiti da Guarino Guarini. Lo studio, ancora organizzato intorno alle arti di trivio e quadrivio, prevedeva però un’estensione delle discipline e l’attenzione al benessere del corpo; le passeggiate fuori dalla città offrivano inoltre nuovi spunti per l’insegnamento della storia locale, con un approccio in effetti innovativo. Il Cavalchini ne derivò notevole prestigio, come testimonia ad esempio l’incarico di preparare l’iscrizione per il monumento funebre di Cangrande I e probabilmente anche quello di Mastino II. Ricevette un’ottima educazione, tipica dell’ambiente veronese del primo Trecento, debitrice dell’influenza dantesca e per molti aspetti preumanistica; l’avrebbe poi messa a frutto con il suo impegno nell’approfondire gli studi letterari. Entro il ‘32 non solo la scuola era ben avviata, ma Rinaldo aveva anche preso gli ordini, benché non sia possibile fornire una datazione più precisa. Già dal ‘39 fu in ottimi rapporti con Petrarca, grazie alla mediazione di Guglielmo da Pastrengo; lo conobbe di persona a Verona nel ‘45, quando gli venne affidato Giovanni perché gli impartisse l’educazione elementare (anche se non in modo continuativo, questo impegno proseguì fino alla metà degli anni ‘50). Non restano tracce di una loro corrispondenza anteriore, ma il tono della Metrica che Petrarca gli dedicò nel ‘43 lascia forse intendere uno scambio epistolare abbastanza consueto; da quel momento comunque è possibile ricostruire contatti piuttosto regolari. Nelle missive di Petrarca al comune amico Guglielmo da Pastrengo si coglie il ritratto del Cavalchini come uomo non solo colto, ma davvero appassionato allo studio e soprattutto alla ricerca filologica: lo dimostrano a maggior ragione le richieste di prestiti librari. D’altro canto, ne vengono ricordati il rigore e la serietà morali anche nell’occuparsi dei suoi allievi, e la forte e coerente fede religiosa. Morì a Verona nel ‘62; della sua produzione rimangono alcune composizioni latine. 2.37 Matteo Longhi Originario di Bergamo e nobile per nascita, studiò giurisprudenza a Padova o Bologna; sembra fosse divenuto diacono già nel 1310. Conobbe Petrarca prima del ‘47, quando la loro amicizia si consolidò grazie al soggiorno a Valchiusa; all’amico procurò un codice con l’Achilleide di Stazio, ancor’oggi conservato. 544 2.38 Ponzio Sansone Prevosto di Cavaillon, la diocesi di Philippe de Cabassoles, Ponzio Sansone è personaggio quasi ignoto. Petrarca però lo ricorda a Philippe come amico di vecchia data, uomo notevole per tempra morale e buon conoscitore delle lettere. 2.39 Checco di Meletto Rossi Originario di Forlì, Checco Rossi è noto come cancelliere dell’Ordelaffi, il capitano del popolo della sua città, insieme al quale dovette fuggire dopo la riconquista del territorio da parte delle truppe pontificie. Spostatosi a Bologna, ebbe rapporti con i Malatesta di Rimini; fu amico di Petrarca e Boccaccio, anche in qualità di poeta e letterato. 2.40 Pandolfo Malatesta Nato nel 1325, primogenito di Malatesta “Antico” Malatesta, fin da giovanissimo Pandolfo fu attivo come condottiero al servizio delle signorie settentrionali più potenti. Il vicariato imperiale concesso da Ludovico il Bavaro gli guadagnò il dominio di Pesaro nel ‘43; il suo ruolo fu consolidato nel ‘55 dalla concessione di vicariati apostolici a Pesaro, Rimini, Fano e Fossombrone; tuttavia il potere rimase principalmente nelle mani dello zio Galeotto e dunque Pandolfo continuò la sua carriera militare. Sono anni segnati anche dal pellegrinaggio in Terrasanta e da rapporti diplomatici altalenanti, in cui non mancarono scontri anche a svantaggio del Malatesta. Solo nel 1372 succedette allo zio paterno come guida della famiglia, per morire però l’anno successivo. L’impegno politico e la continua partecipazione agli avvenimenti militari della penisola hanno reso la figura di Pandolfo particolarmente affascinante; egli fu, però, anche grande appassionato di poesia e letteratura in genere, nonché mecenate. Insieme al fratello contribuì enormemente a rinsaldare il potere della famiglia proprio attraverso l’attività culturale, riscattando cioè una dinastia che sino a questo momento non aveva brillato quanto a vita intellettuale. Ben presto tale impegno si ispirò ad ideali umanistici, che spiegano anche la sua profonda ammirazione per Petrarca, che riuscì a conoscere nel ‘56, quando il Malatesta divenne comandante presso i Visconti. Tale rapporto in origine sbilanciato nei confronti del maestro lasciò spazio ad un’amicizia che nell’intonazione del sonetto 104 dedicato a Pandolfo dall’Aretino appare piuttosto intima. Ne è prova in fondo anche l’invio di una copia del Canzoniere secondo quella redazione che si dice appunto “Malatesta”. Sia l’orazione funebre anonima che gli fu dedicata sia alcune sue richieste in forma epistolare rivelano infine che Pandolfo fu appassionato bibliofilo. 2.41 Pietro dei Pittavi (Pierre Bersoire) Pietro dei Pittavi nacque vicino a Poitiers alla fine del Duecento. Scelse la vita monacale, prima come francescano, poi come benedettino; tuttavia visse a lungo presso 545 la curia avignonese, dove conobbe Petrarca già nel ‘38, divenendone non solo amico, ma anche estimatore. All’inizio degli anni ‘50 fu a Parigi per motivi di studio, ma venne accusato di eresia e imprigionato, anche se per breve tempo. Verso la fine della vita, grazie ad importanti protezioni, entrò nel priorato di sant’Eligio a Parigi, dove morì nel ‘62. A lui si devono varie opere latine d’argomento morale e una traduzione in francese di Tito Livio; fu inoltre l’unico ad avere l’occasione di leggere alcuni passi dell’Africa con il consenso dell’autore (a parte gli episodi legati alla laurea poetica). 2.42 Enrico Pulice Conosciamo molto poco su tale personaggio e sulla sua famiglia. Enrico fu figlio di Giovanni da Custoza e fratello di Conforto, l’autore di una cronaca vicentina; fu notaio per professione e poeta latino. In ambito culturale, inoltre, sembra aver avuto un ruolo significativo rispetto all’umanesimo vicentino. 2.43 Albertino da Cannobio Se ne conosce molto poco. Originario del novarese, Albertino fu medico e uomo di buona cultura. La Familiare inviatagli da Petrarca potrebbe essere una risposta ad un’epistola latina in esametri. 2.44 Azzo da Correggio Petrarca pare stimare la famiglia Correggio, ed Azzo in particolare, tra i suoi amici più degni, il che non ha mancato di stupire la critica, abituata sin da Carducci ad un’opinione estremamente negativa sul correggese71. Masnovo72 cita in proposito un dimenticato studio di Franco Ridella sul “Petrarca parmense”, in cui si evidenzia la consonanza di gusti e passioni che potrebbe giustificare il legame tra i due, a prescindere dalle azioni politiche di Azzo. Tuttavia il Masnovo non si accontenta di tale prospettiva, ed insiste nel dimostrare che le azioni di Azzo sono semplicemente vittime del travisamento e dell’incomprensione da parte di storici e critici moderni. È necessario piuttosto valutare le sue scelte politiche alla luce dell’effettivo contesto storico, dunque in considerazione del passaggio dal comune alla signoria, in una fase di lotte e contrasti particolarmente violenti. Azzo appare insomma una figura tipica del Trecento, ma al contempo egli risulta proiettato verso la nuova stagione umanistica. Il Masnovo si è soffermato anche su tale aspetto, sottolineando l’amore di Azzo per i classici e l’epoca romana, da cui sarebbero forse derivati il desiderio di gloria, di viaggiare e scoprire, nonché una certa passione per il lusso. D’altro canto nei quattro anni del suo governo a Parma egli riunì artisti, intellettuali e letterati, con un atteggiamento di mecenatismo encomiabile; ricevette un’ottima educazione nelle scienze e nelle lettere, e Petrarca ne 71 Masnovo 1934, pp. 181-182. Masnovo 1934. Sul soggiorno parmense di Petrarca si vedano anche Rizzi 1934 e Dotti 2006 (ma l’intera raccolta da cui è tratto il contributo di Masnovo è legata alla memoria parmense del poeta). 72 546 ricorda le qualità di intelligenza, perspicacia e memoria73. Le sue leggi, infine, furono in sostanza liberali e più in generale ispirate ad una moderna intenzione di sistematizzazione. 2.45 Bernardo Anguissola Nobile piacentino, Bernardo Anguissola fu molto legato ai Visconti, anche per tradizione familiare; proprio tale legame è all’origine del suo incarico come podestà di Como, voluto in particolare dall’arcivescovo Giovanni. I rapporti con Petrarca sono testimoniati da due Familiari del libro diciassettesimo e dalla nota obituaria redatta nel Virgilio ambrosiano alla morte dell’Anguissola, avvenuta nel 1359. 2.46 Domenico de Apibus Domenico è noto piuttosto come Croto o Crotto, il nome che assunse nella gestione della scuola di logica e retorica del padre a Bergamo, sua città d’origine. Nacque intorno al 1300, ebbe una buona preparazione culturale, come dimostra anche il conseguimento del titolo universitario di magister; si dedicò sempre all’insegnamento, fino all’anno della morte, nel 1361. 2.47 Moggio Moggi Il Moggi è un altro degli insegnanti di grammatica e retorica cui Petrarca chiese aiuto per l’educazione del figlio. Nato nel 1325 circa e originario di Parma, vi fondò una scuola, di cui beneficiarono i figli di Azzo da Correggio, cui fu sempre molto legato. Lo seguì infatti nel suo esilio a Verona, dove collaborò nella scuola del Cavalchini, e a Milano, dove entrò definitivamente a servizio del Correggio. Morì certamente dopo il 1388. 2.48 Benintendi Ravignani Il Ravignani nacque a Chioggia intorno al ‘18; dapprima fu notaio, ma fece carriera nel governo della Serenissima come diplomatico. Conobbe Petrarca a Venezia nel ‘54 in occasione di un’ambasceria e lo rivide per lo stesso motivo a Milano nel ‘55. Con lui Petrarca discusse del progetto di lasciare i suoi libri a Venezia e, in qualità di amico, si impegnò a diffonderne il Bucolicum carmen, compresi gli ampliamenti successivi alla prima redazione. È autore di versi ed epistole in latino, nonché di una cronaca veneziana. Morì nel 1365. 73 Bigi 1865. 547 2.49 Neri Morando Originario di Forlì, Neri Morando fu segretario della repubblica di Venezia. Qui conobbe Petrarca nel ‘54 e i contatti tra i due si mantennero frequenti in relazione alla questione imperiale e ai rapporti con Carlo IV. Morando si impegnò anche alla diffusione delle aggiunte al Bucolicum carmen. 2.50 Iacopo da Imola Nel “codice degli abbozzi” resta un sonetto che Petrarca inviò ad un ignoto “Iacopo da Imola”, in risposta ad un componimento non conservatosi: di questo personaggio non si conosce altro. 2.51 Pietro Dietisalvi Resta un suo sonetto corresponsivo nel “codice degli abbozzi”, insieme alla risposta di Petrarca (la cui datazione è certamente giovanile). Del Dietisalvi si conosce ben poco oltre a questo: fu senese e nacque tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento. 2.52 Antonio Beccari Il Beccari è più noto come Antonio da Ferrara, dove nacque nel 1315; l’origine umile (il cognome viene probabilmente dall’attività tradizionale della famiglia, cioè quella di beccai) viene più volte menzionata nelle sue rime, insieme ai sacrifici sopportati dal padre perché i due figli avessero una buona educazione umanistica. È ricordato, oltre che come rimatore, per la vita movimentata, segnata da continui spostamenti (dovuti talvolta a bandi e condanne) e dalla passione per il gioco. Visse in vari centri italiani, al servizio di numerosi signori diversi; non si conoscono gli ultimi anni della sua vita né la data esatta della morte, avvenuta comunque entro il ‘74. Della sua produzione poetica è apprezzata soprattutto la vena comica e giocosa, oltre alla sua interessante consuetudine allo scambio di rime74; tuttavia non è un caso che i suoi testi più interessanti siano quelli che compongono la corrispondenza con Petrarca, ben conservata. L’Aretino, inoltre, cita il Beccari in una Senile, dove tempera il proprio giudizio positivo sul suo ingegno, che aveva fin troppo esaltato nei sonetti. Le liriche petrarchesche in questione, per altro escluse dal Canzoniere e legate alla tradizione estravagante, sono databili agli anni Quaranta. 2.53 Roberto dei conti Guidi da Battifolle Figlio primogenito di Simone II, Roberto nasce tra 1315 e 1320. Riceve un’educazione militare, tradizionale per la famiglia, che godeva dell’autorità comitale su territori che si 74 Sulla sua opera si legga ad esempio Sarteschi 2008. 548 estendevano nella zona appenninica tra Toscana e Romagna; tuttavia sembra che abbia avuto la possibilità di approfondire anche una preparazione umanistica, che suscitò particolarmente la sua passione. Sono ben note le sue imprese politiche e militari, dapprima a fianco del padre, e soprattutto in relazione alla tradizionale fedeltà dei conti Guidi a Firenze e alla questione imperiale. Indubbiamente giova alla sua memoria il contatto con Petrarca: il poeta scrive al conte da Venezia tra ‘63 e ‘64 una Senile in cui ricorda i suoi studi. Da quell’epistola nasce una corrispondenza abbastanza nutrita che comprende un sonetto del conte e la risposta (rimasta estravagante) dell’Aretino. Tale scambio doveva essere noto nell’ambiente fiorentino, poiché Coluccio Saluti scrive al conte per dolersi con lui della morte del poeta; Roberto muore comunque meno di un anno dopo, nel 1375. 2.54 Andrea Stramazzo da Perugia Non si conosce quasi nulla di questo personaggio, tanto che Santagata lo definisce un “fantasma senza identità”75; ne resta in sostanza il sonetto inviato a Petrarca, cui l’Aretino rispose con il fragmentum 24. L’unica associazione convincente76, per quanto si tratti comunque di un’ipotesi incerta, è quella con un Muzio Stramazzo di Perugia, che avrebbe inviato quattro sonetti a Petrarca, ricevendone altrettante risposte77. Per quanto concerne la sua unica prova poetica attribuibile con certezza, vanno evidenziati i forti tratti linguistici regionali e l’impianto dichiaratamente petrarchesco. 2.55 Geri Gianfigliazzi Nemmeno di Geri Gianfigliazzi restano molte informazioni: egli è principalmente noto proprio per i suoi scambi di rime con Petrarca. In realtà l’unica notizia certa concerne il sonetto 179, risposta per le rime appunto a Geri, che aveva inviato la “proposta” in Messer Francesco, chi d’amor sospira. Tuttavia si è ipotizzato che il medesimo componimento abbia ispirato il fragmentum 60 e che Geri sia destinatario anche del 13178. Fu fiorentino e guelfo: all’arrivo di Enrico VII è indicato in un elenco di ribelli (1313), senza che faccia seguito, comunque, una reale condanna. È interessante che nel medesimo documento siano citati alcuni altri Gianfigliazzi, tra cui Niccolò, noto come titolare dell’omonimo banco, e due cugini. Non ne è però indicata alcuna parentela, né 75 Santagata 1996, p. 124. Lo studioso passa in rassegna le numerose proposte di identificazione e attribuzione avanzate dalla critica per il perugino, in riferimento ad alcune fuggevoli apparizioni nell’epistolario (Familiare XXIV, 12; Senile XVI, 7; Metrica 1, 9) o alla complessa interpretazione del sonetto 166. 76 Andrea Stramazzo è stato inoltre confuso con l’altrettanto ignoto Muzio da Perugia, supposto autore di un sirventese sulla decadenza italiana datato ai primissimi anni del ‘400; il suo autore è un altro “fantasma”, che potrebbe essere nato negli anni ’70 del Trecento ed essere divenuto frate. 77 In Santagata 1996, pp. 124-125, si trovano le indicazioni bibliografiche delle edizioni di tale serie. 78 Per tale questione si veda Santagata 1996, in particolare p. 791, che rimanda anche allo studio condotto da Rosanna Bettarini su 131. 549 Geri risulta mai coinvolto nelle difficili questioni economiche e giudiziarie ben note invece nel caso di Niccolò, accusato di usura per i tassi di prestito che imponeva. 3. Il rapporto con la famiglia Colonna79 Quando nel 1326 Petrarca tornò definitivamente ad Avignone dopo l’ultimo periodo trascorso a Bologna, le ricchezze lasciategli dal padre permisero a lui e al fratello Gherardo di vivere in spensieratezza per qualche tempo. La conoscenza di Giacomo Colonna era recente80 e l’amicizia con Francesco non poteva essere ancora molto approfondita; non lo erano – sembra - nemmeno i rapporti con il resto della famiglia cardinalizia, anche se certamente erano ben avviati (forse già dal ‘2581). L’incontro con il cardinale Giovanni può forse essere datato al 132782; d’altronde già quando Petracco era in vita, Francesco deve aver avviato le prime relazioni clientelari, benché a quanto pare soprattutto con Orsini e Longhi. Entro il 1330 la situazione appare molto mutata: si delineava ormai l’imperativa esigenza di cercare una professione e Petrarca scelse l’ambito ecclesiastico, ma rifiutò sempre gli incarichi che coinvolgessero attività pastorali.83 Intanto il sodalizio con Giacomo si era consolidato, come dimostra la presenza di Petrarca nel seguito che lo accompagnò a Lombez84 in Guascogna, sua nuova sede vescovile85: anche grazie al suo contributo, in autunno il poeta divenne cappellano di famiglia sotto la protezione del cardinale Giovanni Colonna, fratello di Giacomo. Fino al ‘37 tale legame sarebbe rimasto stretto e costante, mantenendosi comunque stabile per i successivi dieci anni, 79 Riguardo a questo tema sono disponibili alcuni riferimenti particolarmente utili: Morici 1899, Foresti 1934, 19771 e 19772, Chiorboli 1935, Billanovich 1981, Santagata 1988 e 1996. 80 L’incontro deve essere avvenuto a Bologna, dove Giacomo e Francesco seguono i corsi di Giovanni d’Andrea, poi corrispondente del Petrarca. 81 Lo suggeriscono alcune annotazioni relative all’acquisto di libri (Billanovich, 1981) e una Senile (Cochin 1922). 82 Secondo Cochin 1922 lo suggerirebbe l’egloga VIII, databile al 1347, in cui si parla di un rapporto durato “vent’anni”. 83 Non è nemmeno certo che arrivi agli ordini minori in senso proprio. Si veda per questo Wilkins 2003, p. 16. 84 Lombez è una piccola città francese, che secondo Cochin 1922 contava anche meno di duemila abitanti. La diocesi, una delle più piccole, venne fondata nel 1317, in un periodo in cui Giovanni XXII aumentò notevolmente il numero dei vescovi, scegliendone le sedi secondo ragioni non sempre chiare. In origine la zona apparteneva ad un’antica abbazia benedettina, che nell’VIII secolo era passata sotto la giurisdizione del capitolo di Tolosa, come dimostra l’origine degli abati sino al ‘300; l’abbazia aveva a questo punto assunto la regola dell’ordine agostiniano. L’abate, come poi il vescovo, era sotto la giurisdizione dei conti di Comminges (alla cui famiglia fu per altro riservato l’onore di fornire il primo vescovo). Giacomo Colonna, il secondo a ricoprire questa carica, era a sua volta legato all’aristocrazia feudale locale, per parte di madre. Il suo insediamento può essere immaginato come una sorta di “festa feudale” e la sua corte avrà avuto caratteristiche simili. 85 È anche l’occasione per due nuovi sodalizi davvero duraturi, con Lello di Pietro Stefano dei Tosetti (Lelius) e Ludwig van Kempen (Socrates), e forse per una sosta a Tolosa, che sarebbe assai interessante per i possibili contatti culturali e letterari. Il soggiorno a Lombez è ricordato da Petrarca come particolarmente piacevole, non tanto per il luogo – che anzi descrive in termini piuttosto negativi – quanto per la compagnia e la conversazione (Giacomo è molto apprezzato perché particolarmente facondo). Su tali aspetti e sulle attività quotidiane del gruppo si sofferma Cochin 1922, che alle pp. 113 segg. suggerisce quali attività culturali e letterarie devono essere state frequenti: lo richiederebbe il gusto di Giacomo per la letteratura, ricostruito sulla base della costante attenzione per la fama dell’amico Petrarca. 550 benché in modo altalenante, fino alla morte del cardinale, avvenuta a causa della pestilenza del ‘48. In riferimento a tale occasione (ma forse in ritardo di quasi un anno86) Petrarca scrisse una consolatoria al padre di Giovanni, Stefano il Vecchio, che in quell’anno tragico aveva perso numerosi familiari. Il contatto con la famiglia Colonna, potentissima e colta, si rivelò essenziale per il giovane Petrarca, che dopo la morte del padre non avrebbe certamente avuto i fondi necessari per alimentare la passione per i libri, tanto meno gli interessi filologici e retorici. Tuttavia, il rapporto con il cardinale non fu certo idilliaco; ben presto Petrarca avvertì frustrazione e desiderio di una maggiore libertà, che si colgono ad esempio nel prolungarsi dei viaggi87 o nella lentezza di risposte e missive (comprese quelle in versi). Ciò non toglie che la presenza dei Colonna sia importantissima nei Rerum vulgarium fragmenta: da una parte è il riflesso di un’influenza fondamentale a livello biografico, dall’altra è spesso un tramite efficace per le tematiche socio-politiche, minoritarie per quantità, ma sempre significative. Come ha sottolineato Santagata88, i Colonna sono parte della storia del Canzoniere, per quanto la raccolta in senso stretto sia nata molto dopo che quella connessione si era affievolita. Non a caso al compianto di Laura fa seguito immediatamente quello per Giovanni, poco dopo l’inizio della seconda sezione (rispettivamente 267-268 e 269). Sembra dunque utile ripercorrere le tracce di quella presenza, attraverso l’analisi89 di alcuni componimenti rappresentativi90. Il primo sonetto del Canzoniere in cui compare un personaggio estraneo alla vicenda amorosa è il settimo, in cui Petrarca esorta un amico a non abbandonare la sua impresa letteraria; la struttura è interlocutoria e coinvolge direttamente il destinatario, ma non impone di immaginare una corrispondenza reale. Le ipotesi relative all’identità di tale amico sono numerose: tra gli altri, sono stati citati Boccaccio, Orso dell’Anguillara, Giacomo Colonna, il messinese Tommaso Caloiro. Medardo Morici91 ha criticato in particolare quest’ultimo suggerimento, ipotesi del Lo Parco92, poiché le prove a favore gli sembravano insufficienti: esse si riducono alla coincidenza cronologica tra la corrispondenza epistolare e il sonetto (la cui data è solo presunta), all’amicizia intima e all’attività poetica del Caloiro. Essa d’altro canto non è sufficiente per immaginarlo 86 Wilkins 2003, p. 97. Lo testimoniano ad esempio due sonetti di corrispondenza, il 39, trasfigurato poi dall’inserimento nel Canzoniere, di cui avremo modo di riparlare, e il 266. 88 Santagata 1988, pp. 7-8. 89 Al di là dei rimandi specifici citati di volta in volta, il riferimento essenziale restano le note di commento al Canzoniere in Santagata 1996. 90 Al novero dei testi “colonnesi” vanno aggiunti, oltre a quelli presenti in questa analisi, 103, 266 e 269, che non presentano significative incertezze. Il primo è un sonetto dedicato a Stefano il Giovane a seguito di una sua vittoria sugli Orsini e dovrebbe essere stato redatto nel 1333, alla fine del viaggio nell’Europa centro-settentrionale. Il secondo sonetto contiene le scuse di Petrarca per il ritardo nel tornare in Provenza, in riferimento all’effetto mortifero del desiderio amoroso, e si rivolge al cardinale Giovanni. La risposta da parte sua è contenuta in un sonetto composto da Sennuccio del Bene (Petrarca stesso lo trascrisse sul “codice degli abbozzi”). Infine, 269 è il planh in morte del cardinale, che si inserisce però nel più generale compianto per la dipartita di Laura. 91 Morici 1899. 92 Citato in Morici 1899; per il contributo di Lo Parco sulla figura di Tommaso Caloiro si veda anche Lo Parco 1933. 87 551 impegnato in una vera “impresa”, com’è definita nel componimento; Morici pensò piuttosto a Giovanni Colonna di S. Vito, signore di Genzano e fratello di Stefano il Vecchio93, poiché interpretava l’impresa in chiave spirituale e non letteraria. La prima parte del fragmentum in effetti potrebbe suggerire questa lettura, perché affronta problematiche morali e critica la società del tempo. Giovanni infatti aveva scelto di vivere in povertà e umiltà; tuttavia, divenuto anziano e malato, potrebbe aver cominciato a lamentarsene col Petrarca, il quale potrebbe aver cercato di rinsaldarne il proposito. La prova principale è limitata comunque alla parallela produzione epistolografica di Petrarca. Santagata, a sua volta, ha proposto il riferimento ad un diverso Giovanni Colonna, un frate del ramo di Gallicano94, compagno di studi del poeta, anch’egli appassionato di filologia e di Livio in particolare, autore di un’opera storiografica, il De viris illustribus. Proprio ad essa potrebbe essersi riferito Petrarca, invitando l’amico a non demordere. Se si trattasse del frate, sarebbe per altro possibile inferire una datazione stringente: Giovanni iniziò la sua opera ad Avignone e la terminò a Roma nel ‘32, il sonetto potrebbe dunque risalire al ‘31-’32. Tale riferimento letterario appare in perfetto accordo con la rappresentazione petrarchesca e la sua forte carica morale, nonché con l’evidente presenza del modello ciceroniano95, soprattutto nella definizione sapienziale dell’Elicona; il De viris illustribus del Colonna, infatti, è un’opera ampia, complessa ed elevata per contenuto. Alcuni spunti tematici sono comuni al sonetto e all’opera di Giovanni, come il disprezzo per la curia avignonese, che entrambi ben conoscevano, e la contrapposizione otium/negotium. Anche in questo caso vale il criterio dell’intertestualità: i medesimi problemi sono affrontati in 114 e in alcune epistole petrarchesche rivolte al medesimo destinatario. La prima quartina, infine, mostra un legame tanto netto con la canzone 28 da lasciar pensare ad un unico discorso parcellizzato. L’ipotesi di Santagata, inoltre, permette di collocare con coerenza il settimo sonetto tra il sesto e l’ottavo: infatti anche i destinatari dei successivi tre testi sono esponenti della famiglia Colonna, mentre il collegamento con il precedente si coglie nel contenuto96. Tale legame tra i testi contigui, infine, attenua la peculiarità dell’aver anteposto il frate al cardinale, cioè il personaggio più autorevole, e a Giacomo, l’amico intimo. Anche il destinatario del sonetto decimo ha suscitato diverse ipotesi: Stefano Colonna97, 93 In realtà Phelps – citato in Santagata 1988, pp. 36-37 – ha chiarito l’indebita sovrapposizione tra i due omonimi Giovanni Colonna: il presunto signore di Genzano e il frate del ramo dei Gallicano, realmente esistito e in ottimi rapporti con Petrarca. 94 Su tale personaggio poco noto si veda anche il recente contributo in Modonutti 2012. 95 Le Tusculanae disputationes in particolare. Cfr Santagata 1988, p. 47. 96 Nel sonetto 6 Petrarca descrive il proprio traviamento, la follia amorosa; come sottolinea Santagata, un problema molto simile, ma su scala ben più ampia, perché riferito alla società contemporanea, fa da sfondo al settimo. Avignone costituisce così un fattore unificante anche come ambiente: la città rappresenta l’ambito della corruzione personale e generale. Il polo opposto è costituito invece da Roma, che si contrappone alla “Babilonia” provenzale. 97 Tale ipotesi si deve soprattutto alla famosa lettura di Carducci: Petrarca, a Lombez insieme a Giacomo, inviterebbe Stefano il Vecchio a raggiungerli. Il coinvolgimento del patriarca dei Colonna spiegherebbe i richiami storici, per i difficili rapporti che egli aveva intrattenuto con Bonifacio VIII e Ludovico il Bavaro. Cfr Santagata 1988, pp. 85-86, e il DBI. 552 il cardinale o l’amico Giacomo? Secondo Foresti98 deve trattarsi di quest’ultimo, perché solo il rapporto più intimo col vescovo giustificherebbe appieno il tono amichevole e l’uso del “tu”. Santagata recupera tale proposta, precisando che il luogo campestre rappresentato nel sonetto dev’essere Valchiusa (il che permetterebbe anche di abbassare la datazione99). L’opposizione tra locus amoenus e centro urbano, identificato come luogo di aggregazione istituzionale, è un topos diffuso nelle opere petrarchesche, e in particolare nella Metrica100 a Giacomo Colonna in cui racconta del primo anno trascorso nella valle provenzale101. Il dettaglio più riconoscibile è quello del colle: sarà da identificare con la rupe valchiusana di cui altrove parla il poeta e su cui era possibile inerpicarsi per vedere Avignone. Secondo Cochin, invece, il soggiorno agreste è quello di Lombez102. È rilevante, comunque, che i due sonetti 7 e 10 siano dichiaratamente colonnesi, a prescindere da quale ne sia lo specifico destinatario; tra di essi Petrarca colloca due componimenti di corrispondenza meno espliciti, anche se ne è chiara l’impostazione clientelare, poiché si tratta di biglietti d’accompagnamento per alcuni doni. La questione dei destinatari ha una soluzione ancor meno accessibile. Le colombe del sonetto 8 potrebbero ricollegarsi all’amore per la caccia che Giovanni Colonna dichiara nel tentativo di non far partire Petrarca dalla Provenza: tuttavia Santagata103 ammette che è solo un “esile filo”. È forse più interessante il parallelo che lo studioso propone con il secondo libro delle Familiari, le cui lettere sono in gran parte dedicate ad esponenti della famiglia. Data l’affinità cronologica e progettuale delle due raccolte, quella epistolare e quella lirica, è facile pensare che si ripeta in entrambe la medesima serie di interlocutori: dopo frate Giovanni e il vescovo Giacomo, mancherebbero il cardinale Giovanni e Agapito (cui sarebbero dunque inviati i tartufi). Il vescovo di Luni è per altro già presente nel Canzoniere: è di certo il destinatario del sonetto 58, che a sua volta accompagna un dono (siamo tra il ‘37 e il ‘38). 98 Foresti 1934. La questione della datazione è al solito piuttosto travagliata e coinvolge il lessico scelto da Petrarca per rappresentare la scena bucolica, soprattutto a proposito dell’usignolo. Bisogna infatti considerare la relazione con simili usi nel Canzoniere (in testi che risalgono ai primi anni ’50) e nelle epistole (un po’ anteriori). Per l’intera analisi, si veda Santagata 1988, pp. 95 segg. 100 Metriche I, 6 (1338). Il collegamento con l’epistola potrebbe anche spiegare l’uso del “noi”, che non conosce altri esempi nel Canzoniere e perciò ha fatto pensare ad un caso particolare, come quello del gruppo di amici raccolto a Lombez. Tuttavia Santagata 1988, pp. 103 segg, ha dimostrato come già nella lettera Petrarca parli al plurale, perché si associa, quasi come amici, i libri che gli fanno compagnia nel contesto di Valchiusa. Nel sonetto potrebbe riproporsi la medesima situazione psicologica. La relazione con l’epistola, infine, spiega anche la funzione del sonetto come invito, tale da imporgli una valenza quasi di biglietto d’accompagnamento, la stessa che pertiene – esplicitamente – ai sonetti 8 e 9 del Canzoniere. 101 Si può inoltre ipotizzare che la descrizione della città sia arricchita da simboli, che il lettore medievale avrebbe sciolto con maggiore facilità rispetto a quello moderno. Santagata 1988, pp. 100 segg ha però evidenziato come la rappresentazione sia idealizzata e sincretica, ad esempio nell’immagine del teatro ben più classica che medievale, e che dunque potrebbe semmai indicare Roma. All’antica capitale, piuttosto che ad Avignone, fa pensare anche il concetto di “palazzo”, che appare associato ad un potere legittimo e dunque incoerente con la tipica percezione petrarchesca della nuova sede pontificia. Infine la loggia richiama il palazzo del Laterano, dove proprio affacciandosi alla loggia il papa era solito dare la benedizione, e che da poco era stata affrescata da Giotto. 102 Cochin 1922, pp. 116-121. 103 Santagata 1988, pp. 109-111. 99 553 La canzone 28 è dedicata invece alla crociata bandita da Filippo II di Valois nel 1333 per volontà di Giovanni XXII104, e in base ai riferimenti interni sembra composta tra la fine di quell’anno e l’inizio del successivo. L’ipotesi tradizionale, che risale a Carducci ed è stata sostenuta soprattutto da Billanovich, vuole che il destinatario della canzone sia Giacomo Colonna. Concordava il Cochin, soprattutto per la descrizione del destinatario come capace oratore105. Santagata ha proposto un’attribuzione alternativa, riferendosi di nuovo a frate Giovanni Colonna, che in effetti nel ‘33 potrebbe essere stato a Roma, invece che ad Avignone come si è sempre ritenuto106. Il riferimento ad un secondo viaggio in nave ai versi 7-10 si spiegherebbe così perfettamente, poiché pochi anni prima il Colonna aveva affrontato un pellegrinaggio in Terra Santa. Inoltre l’immagine del “cieco mondo” si giustifica meglio in relazione ad un ecclesiastico che abbia rinunciato al secolo, come appunto Giovanni, frate domenicano. Anche in questo caso, infine, si notano significative connessioni tra le immagini della canzone e quelle della corrispondenza con lo stesso Giovanni107. Tale ipotesi ha però anche una pecca, poiché i rapporti tra Petrarca e il frate si intensificarono solo dagli anni ‘40; tuttavia qui è la loro condivisione intellettuale ad essere essenziale. Né il riferimento allo stato amoroso del poeta impedisce l’identificazione del destinatario con un religioso: in primo luogo quell’esperienza doveva essere già pubblicamente nota, inoltre anche in altri testi di cui il frate è il probabile destinatario (7 e 114) si fa riferimento al medesimo tema. Anzi si delinea in tal modo un legame importante tra componimenti eterogenei, e tra di essi e il nucleo centrale della raccolta; infine l’aspetto sentimentale è coerente con l’affermazione, più volte ripetuta, secondo cui il frate aveva sì superato, ma in precedenza conosciuto, le passioni terrene. Sono legati alla famiglia Colonna anche i sonetti 39 e 40, che insieme al 38 a Orso dell’Anguillara creano una coesa serie di testi corresponsivi. Il 39 presenta senza dubbio una situazione di lontananza, che anzi si prolunga tanto da imporre una giustificazione. Tale aspetto motiva la convinzione di molti studiosi che il destinatario sia di nuovo il cardinale Giovanni, cui si chiede venia per la lunga assenza, dovuta alla necessità di fuggire dagli sguardi mortali di Laura. 104 Il sonetto 27 si rifà alla medesima occasione: non a caso i due componimenti furono inviati insieme a Orso dell’Anguillara. Tuttavia il sonetto è anteriore, scritto tra il ’31 e il ’32 (sicuramente entro marzo, dati i richiami storici). 105 Cochin 1922, pp. 122-123. 106 Su questo punto però la certezza è da escludere: bisogna accontentarsi della possibilità che Giovanni non fosse già più ad Avignone, come per altro sembrano suggerire le fasi editoriali della sua opera storiografica. Per tali argomentazioni si veda Santagata 1988, pp. 23 segg. 107 Santagata 1988, pp. 14 segg, afferma comunque che l’unica altra ipotesi accettabile concerne l’amico Giacomo, legato a Orso (il destinatario materiale del testo) che ne aveva sposato la sorella. Il vescovo però non collima con il ritratto dell’intellettuale ai versi 76-83. Giacomo infatti aveva compiuto studi classici, ma senza arrivare mai ad una competenza del latino davvero salda; si era concentrato sul diritto e aveva affrontato qualche prova in lingua volgare, senza che questo basti per definirlo esperto della cultura moderna, né risulta che abbia nutrito interessi storici. Tutte queste competenze caratterizzano invece frate Giovanni, che aveva studiato e scritto anche di storia contemporanea. Giacomo inoltre non ha lasciato nessuna opera, pur essendo spesso ricordato come un buon oratore, né ha mai dimostrato particolare interesse per la crociata, mentre Giovanni come predicatore e missionario era stato mandato proprio in Oriente pochi anni prima. 554 Secondo Foresti108, e Santagata109 pare in sostanza concorde, l’occasione sarebbe il viaggio a Roma del 1337; tale datazione pare coerente con quella (probabile) dei due testi precedenti. Tuttavia proprio Foresti dubitava che il destinatario fosse il cardinale, poiché del viaggio (e del ritardo) si parla al passato; inoltre Petrarca, al momento di scrivere, dovrebbe trovarsi ad Avignone (la “fuga” del v 4 avverrebbe dalla città pontificia a Valchiusa) e dunque non avrebbe bisogno di inviare nulla al suo patrono, potendosi finalmente presentare di persona. Allo studioso non sembra accettabile nemmeno il riferimento a Laura (proposto da Carducci e non del tutto escluso da Santagata110): infatti sarebbe bizzarro sia il riferimento all’amata in terza persona sia la giustificazione per una separazione che permane, visto che la fuga dai suoi sguardi continua oltre il viaggio. L’interpretazione del sonetto 40 appare ancor più intricata: il poeta si rivolge ad un amico romano per chiedergli in prestito un volume, necessario ad una sua – imprecisata - opera storiografica. L’ipotesi tradizionale risale di nuovo al Foresti111 ed è stata poi recuperata da Billanovich112: il destinatario sarebbe Giacomo Colonna, che nel 1331 aveva ereditato l’enciclopedia storica preparata da Landolfo Colonna, canonico di Chartres; all’interno di quella raccolta era presente anche Livio113, di cui Petrarca aveva bisogno per portare a termine il De viris illustribus. Il v 4 rimanda all’opera di cui il Petrarca si stava occupando e dunque il “padre” del v 11 deve essere Livio (non sant’Agostino, com’era stato proposto in precedenza). Il testo di Livio era contenuto anche in un altro codice di Landolfo, lo stesso che Petrarca avrebbe acquistato nel 1351; il poeta dichiara però in una postilla di averlo consultato già in precedenza. All’interno di quel manoscritto è inoltre conservata una lettera d’accompagnamento, firmata dal cardinale Colonna, in cui si concede al poeta piena libertà d’utilizzo: essa sarebbe, secondo Foresti, una risposta in prosa al sonetto. Santagata114 ha espresso piena concordia per ciò che concerne l’individuazione del libro; tuttavia ha proposto di nuovo come destinatario del componimento frate Giovanni Colonna, nipote di Landolfo, che aveva condiviso con lui il gusto degli studi e che era certamente in grande familiarità col Petrarca. Si è riaperta così anche la questione del “padre” citato nel sonetto: già per Foresti e Billanovich, infatti, poteva essere riferito non tanto all’auctor, quanto allo stesso Landolfo, il proprietario del codice. Billanovich in particolare citava la variante “tuo padre”, tramandata da fonti alternative: tale soluzione, forse autoriale ma poi scartata, avrebbe molto più senso se rivolta a Giovanni che a Giacomo, per una questione di assiduità di rapporti con Landolfo. 108 Foresti 19772. Santagata 1996, pp. 216-219. 110 Santagata 1996, p. 216. 111 Foresti 19772. 112 Billanovich 1947, 1959, 1981 e 1996, cui si possono aggiungere Billanovich 1979, citato in Santagata 1996, p. 221, e Arzàlluz 2009. 113 Santagata 1988, p. 24: è l’attuale codice Parigino latino 5690. Sulla questione del manoscritto di Livio e sul lavoro filologico di Petrarca si vedano, oltre agli studi di Billanovich, anche Crevatin 2011 e Ciccuto 2011. Per il codice postillato cui si fa riferimento si veda anche Ciccuto-Crevatin-Fenzi 2012. 114 Santagata 1988, pp. 57 segg, e 1996, pp. 220-221, dove sono ricordati anche gli altri riferimenti bibliografici. 109 555 Anche l’identificazione dell’opera petrarchesca in gioco non è scontata; infatti, benché l’avesse iniziata dopo il De viris illustribus, al momento di scrivere il sonetto (tra ‘38 e ‘39) Petrarca si dedicava con fervore all’Africa. Nulla vieta che egli stia parlando del poema: così si spiegherebbero meglio il “novella” del v 2 e la metafora tessile, più tipica della poesia che della prosa115. Secondo l’analisi di Santagata il sonetto 40 è, inoltre, legato alla canzone 28, per i rispettivi v 6 e vv 76-77: tale connessione rafforza l’idea che i due testi siano rivolti al medesimo destinatario. Infine, alcuni dettagli biografici offrono ulteriori prove a favore del frate. Egli ricevette in eredità da Landolfo il codice di Lattanzio; partecipò inoltre al restauro degli Ab Urbe condita e infatti sul manoscritto sono presenti note di suo pugno, mentre manca la grafia di Giacomo. Se il libro non fosse del frate, davvero egli avrebbe osato correggere il già famoso Petrarca? Bisogna però ammettere che il riferimento al vescovo rende gli spostamenti del codice molto più logici: Giacomo potrebbe averlo portato dall’Italia ad Avignone, dove di certo Petrarca lo acquistò nel ‘51. Gravi incertezze gravano sulla datazione e sull’identificazione del destinatario anche nel caso del sonetto 99; le due ipotesi più battute riguardano il fratello Gherardo al tempo della monacazione e, di nuovo, frate Giovanni Colonna. Foresti116 ritenne migliore per questa seconda soluzione, poiché riteneva che il tono con cui Petrarca si rivolge al fratello fosse d’abitudine diverso, in particolare dopo la sua scelta spirituale: profonda familiarità – mentre qui si usa il “voi” – e ammirazione. A proposito della collocazione cronologica, Foresti era convinto che il sonetto risalisse al 1336 circa, sulla base di paralleli con alcune epistole e del desiderio di partire per l’Italia: non solo Petrarca ne parla altrove proprio al frate, ma sarebbe realmente partito per quel viaggio nel ‘37. Il sonetto 322, a Giacomo Colonna, è la tardiva risposta per le rime alle congratulazioni in versi per la laurea poetica (1341)117. Il sonetto del vescovo, composto in quello stesso anno a Lombez, è stato copiato nel 1366 da Petrarca nel “codice degli abbozzi” insieme alla propria risposta118, anche se forse questa versione è stata ritoccata dal poeta. Giacomo morì poco dopo aver scritto all’amico, che dunque non ebbe il tempo di rispondergli119; lo avrebbe fatto molto tempo dopo, ma non è chiaro quando. Secondo Foresti120 la composizione è anteriore al rientro in Provenza dall’Italia, dunque al 1345: non è necessario che siano passati molti anni perché il poeta si scusi del ritardo, poiché la percezione del tempo è psicologica, dettata dal senso di colpa. Santagata121 non 115 La definizione implicita di opera storica al verso 4 si adatta ad entrambe le opere petrarchesche (Santagata 1988, p. 57 segg). Nel caso del De viris illustribus, l’identificazione si deve alla lettura del proemio; in quello dell’Africa i due “veri” sono quello storico e quello allegorico. 116 Foresti 1977. 117 Su questo componimento si veda anche Cochin 1922, pp. 127-131. 118 È interessante notare che subito prima si trova il sonetto che Sennuccio del Bene aveva scritto a nome di Giovanni Colonna in risposta al petrarchesco 266. Foresti (Foresti 1934) si ferma a valutare lo stile del vescovo, definendolo “primitivo”, sia per una certa ingenuità, sia per la ricercatezza delle soluzioni espressive, a partire dalle serie rimiche. 119 Resta però un altro segno del suo dolore: una lunga consolatoria al cardinale Giovanni, datata al 1342, in cui è ricordato proprio il sonetto del vescovo. 120 Foresti 1934. 121 Santagata 1988, pp. 61-62 e 1996, pp. 1238-1239, dove sono citati anche Foresti e Chiorboli. 556 concorda con tale datazione e predilige l’ipotesi del Chiorboli122 sugli anni tra ‘51 e ‘65. Anche l’interpretazione dei versi 8-9 è tormentata: vi si parla di una “morte” che avrebbe allontanato il poeta dalle rime123, e questo giustificherebbe il ritardo nella risposta. Foresti sostiene che si debba pensare alla morte del Colonna e non a quella di Laura, perché ad essa non era seguito il silenzio, ma un’intera sezione del Canzoniere. Tale lettura dipende però dall’interpretazione di Leopardi, che per Santagata è valida solo in riferimento alla lezione testimoniata dal “codice degli abbozzi”. La forma definitiva del testo va invece sciolta, secondo lo studioso, non in riferimento all’attività poetica in toto, ma ad uno specifico stile; quindi la morte in questione dovrebbe essere proprio quella di Laura, che aveva comportato un’evoluzione nelle “rime sparse”. La presenza dei Colonna nel Canzoniere è dunque tutt’altro che trascurabile: non tanto per la quantità dei testi coinvolti, quanto per la loro distribuzione in tutto l’arco della raccolta e quindi della vicenda dell’“io”, nonché per il numero dei personaggi coinvolti. Può stupire la scarsa presenza di Giacomo, poiché la sua amicizia con il poeta fu intima e duratura; tuttavia bisogna ricordare che il vescovo di Lombez morì giovane e prima che Petrarca avesse dato forma compiuta alle sue opere maggiori. Non a caso il suo ruolo è poco incisivo anche nelle altre grandi raccolte. Al contrario, è piuttosto radicata la presenza del Cardinale: la motivazione non sarà tanto legata a questioni intellettuali, quanto all’effettiva e prolungata influenza che egli ebbe sul poeta a livello biografico. 3.1 Informazioni biografiche sugli esponenti della famiglia Colonna legati a Petrarca 3.1.1 Giacomo Figlio di Stefano il Vecchio, del ramo di Palestrina, e di Guacerande de l’Isle-Jourdain, Giacomo Colonna nacque in Francia, dove la famiglia si trovava per sfuggire alla vendetta di Bonifacio VIII, tra il 1300 e il 1301. Venne avviato alla carriera ecclesiastica ancora giovanissimo, come tre dei sei fratelli: nel ‘16 fu nominato canonico (e accumulò ben presto benefici e prebende), nel ‘28 divenne vescovo di Lombez, in Guascogna, terra d’origine della madre124. Tale nomina rappresentò un atto di gratitudine da parte del pontefice, poiché Giacomo aveva avuto il coraggio di affiggere sulla porta di san Marcello a Roma la bolla di scomunica contro l’imperatore Ludovico il Bavaro. L’anno precedente aveva terminato con regolarità gli studi giuridici a Bologna, lo studium dove aveva incontrato Petrarca125; del suo impegno universitario resta una notifica ufficiale, perché nel ‘22 Giovanni XXII gli aveva concesso il diritto di non risiedere nella sua canonica di Noyons, proprio per seguire le lezioni. Dunque nel 122 Chiorboli 1935. “Stile” avrà infatti questo valore generico, piuttosto che riferirsi ad una tecnica espressiva peculiare. 124 Andrà notato che per questa carica il Colonna ebbe bisogno di una duplice licenza, poiché non aveva l’età necessaria e non era ancora stato ordinato sacerdote. 125 La natura profondamente affettuosa dei loro rapporti è ad esempio ricordata in Foresti 1934; lo studioso ha sottolineato in particolare come ancora nel 1374 Petrarca ripensasse all’amico in toni di estremo apprezzamento ed intensa nostalgia. 123 557 1330 il Colonna si trasferì da Roma a Lombez passando da Avignone per visitare il pontefice e il fratello cardinale: qui ritrovò certamente il compagno di studi, che lo accompagnò nel viaggio verso la nuova sede vescovile. Il loro ultimo incontro avvenne a Roma: Giacomo vi era stato inviato dal papa nel ‘33 per sanare le violenze esplose tra le fazioni avverse di Orsini e Colonna, e vi si trattenne per sette anni. Petrarca, che avrebbe voluto accompagnarlo, ma non aveva potuto a causa del ritardo nel rientro dalle Fiandre, lo raggiunse nel ‘37. Nel 1341 Giacomo fece ritorno alla sua diocesi, di nuovo passando per Avignone; morì però in quello stesso anno, pur facendo in tempo a sapere della prossima laurea poetica del Petrarca e a scrivergli il sonetto di felicitazioni. L’Aretino, come si è visto, gli rispose solo molti anni dopo; intanto, nel ‘42, scrisse due consolatorie per la morte dell’amico, al cardinale Giovanni Colonna e a Lelio. Grazie ad un’epistola del poeta a Philippe de Cabassoles (1370), inoltre, è noto che il vescovo era appena stato nominato patriarca di Aquileia: tale incarico gli aveva suscitato la sensazione di essere stato beneficiato eccessivamente. Secondo la ricostruzione di Foresti, l’amicizia tra Petrarca e il Colonna fu dettata da una forte consonanza di gusti, con particolare riferimento alle lettere, compreso il diletto per la poesia volgare126. L’impegno di Giacomo a livello culturale è stato asserito anche dal Cochin, il quale ha evidenziato il valore della curia che si raccolse a Lombez, non solo in senso spirituale: lo studioso la riteneva un caso emblematico della Francia trecentesca127. 3.1.2 Giovanni (cardinale) Fratello di Giacomo e figlio di Stefano il Vecchio, Giovanni Colonna fu probabilmente il secondogenito. Le vicende politiche in cui fu coinvolto nel 1290 lasciano infatti pensare che in quell’anno non fosse già più giovanissimo: si trovava insieme al padre, rettore della Romagna, probabilmente per completare la sua formazione, ed entrambi vennero fatti prigionieri a Ravenna dai da Polenta. Per averne ulteriori notizie bisogna attendere il 1327, quando è citato come notarius pape, titolo che indica una compiuta formazione giuridica128; a questo punto, venne nominato cardinale. Nel corso della sua carriera ventennale ottenne numerosissimi benefici in varie diocesi occidentali; inoltre godette di una posizione politica di notevole peso, come dimostrano il suo ruolo diplomatico in sede di conclave (durante le elezioni di Benedetto XII e Clemente VI), e soprattutto la sua funzione di mediatore tra Avignone e Roma, svolta sino al 1348. Tale ruolo lo portò ad essere coinvolto direttamente nella vicenda di Cola di Rienzo. Le fonti tramandano un’immagine piuttosto dettagliata della domus del Colonna ad Avignone, tanto ricca e prestigiosa da rappresentare una potente attrazione per i giovani chierici; i numerosi clienti del cardinale provenivano per lo più da Roma e dalle altre 126 Foresti 1934, p. 139. Cochin 1922. 128 È possibile che egli sia stato anche giudice supremo a Roma, ruolo che non contrasta con il quadro sinora ricostruito, ma per cui non ci sono prove certe (DBI, p. 333). 127 558 zone italiane di influenza della famiglia, Palestrina in primo luogo. Non mancano però i fiamminghi – tra cui il musicista Ludovico Santo di Beringen, il futuro Socrate, intimo amico del Petrarca – e i toscani – andrà ricordato Sennuccio del Bene, sodale e corrispondente in versi dell’Aretino. Il ritratto del cardinale che Petrarca ci ha lasciato nella Posteritati evidenzia quanto sia stato essenziale per il poeta il rapporto con la famiglia. Il Colonna è ricordato più come un padre che come un padrone; la formazione e il prestigio del poeta beneficiarono enormemente delle possibilità che derivavano dall’ambiente cardinalizio e dall’apprezzamento del patrono. Restano infatti chiari indizi dell’intimità e della fiducia reciproca, come dei consigli che i due si offrirono a vicenda e soprattutto delle ampie concessioni di cui Petrarca poté godere, in particolare nella libertà d’azione e movimento. I ricordi più affettuosi del poeta non vanno dunque tacciati di disonestà; tuttavia non possono nemmeno cancellare aspetti di acredine altrettanto evidenti. Si legga ad esempio la bucolica Divortium: vi si delinea la definitiva separazione dal cardinale, dopo circa diciassette anni di servizio, benché esso fosse divenuto via via meno assiduo; i toni sono quelli violenti del risentimento e addirittura della condanna verso la ricchezza e il potere. È vero d’altronde che il distacco non fu causato tanto da difficoltà relazionali, quanto dalla nostalgia per la patria, dal bisogno di cambiamento e movimento, dalla ricerca di libertà intellettuale. La partenza per l’Italia fu inoltre motivata nell’immediato dalla situazione politica romana durante l’attività di Cola di Rienzo. L’epistolario del Petrarca, nel suo complesso, tramanda un’immagine positiva del cardinale, sia sul piano morale (umiltà pur nella straordinaria potenza) sia su quello intellettuale; egli appare aperto alle novità e attento osservatore, anche se non si specificano mai interessi letterari o studi approfonditi. Giovanni Colonna morì nel ‘48, un anno dopo la partenza del poeta, durante la pestilenza. Gli sopravvisse solo il padre, cui Petrarca scrisse una consolatoria, meno appassionata e intensa per affetto ed elogi rispetto a quella per l’amico Giacomo, come a distinguere tra il sodale e il patrono. 3.1.3 Giovanni (frate) Giovanni appartenne al ramo di Gallicano della famiglia Colonna, figlio di Bartolomeo di Giovanni; non è certa la data della sua nascita, da collocare comunque nell’ultimo decennio del Duecento. È noto però che studiò in Francia: dal 1315 a Chartres, a Troyes e ad Amiens, e dal ‘20 a Parigi, data entro la quale egli deve essere entrato nell’Ordine domenicano. Nel ‘24 fu nominato predicatore generale dell’ordine, ma ricoprì anche la carica di cappellano del vescovo Giuseppe Conti fino al ‘32. Risalgono a questo periodo i suoi viaggi in Oriente e il pellegrinaggio in Terrasanta - cui fa riferimento Petrarca, nelle rime e nell’epistolario – nonché la prima opera storiografica, il De viris illustribus. Dopo un lungo periodo di studi trascorso principalmente ad Avignone, nel ‘38 ottenne un nuovo incarico a Roma e infine nel ‘39 divenne lettore nel priorato di Tivoli, dove 559 visse fino alla morte (avvenuta probabilmente tra ‘43 e ‘44). Ormai malato, si dedicò agli studi e alle sue ultime opere, in particolare al Mare historiarum. La corrispondenza tra Petrarca e Giovanni – sulla cui identificazione ormai ci sono ben pochi dubbi – fu intensa (ne restano otto Familiari) e vivace dal punto di vista intellettuale. Il Colonna fu appassionato studioso di filosofia, uomo colto, con cui Petrarca poteva discutere di classici; gli consigliò infatti la lettura di Seneca e Cicerone, e non a caso proprio a lui dedicò la sua commedia giovanile Philologia. Le opere letterarie ne dimostrano la forte predilezione per la storia (e per la biografia), che ben si accorda alla natura delle composizioni latine cui Petrarca attendeva negli anni ‘40. La preparazione del Colonna appare per altro notevole e molteplice: classica, medievale, cristiana e pagana. 3.1.4 Landolfo La figura di Landolfo è rilevante non tanto per i suoi contatti diretti col Petrarca, che non paiono molto assidui, quanto per la sua figura di intellettuale e bibliofilo che influenzerà anche l’Aretino, soprattutto in relazione alla questione filologica liviana. Landolfo Colonna, figlio di un omonimo esponente del ramo di Gallicano, nacque intorno al 1250; studiò diritto a Bologna, sino a divenire magister. Vari documenti attestano la sua carriera ecclesiastica e i numerosi benefici che riuscì ad ottenere, occupandosi anche degli aspetti amministrativi e finanziari delle sue prebende. Restano inoltre dettagliate notizie dei suoi interessi culturali, grazie ai registri della biblioteca capitolare di Chartres dove fu canonico: è evidente la predilezione per i classici. Le sue opere sopravvissute risalgono tutte al periodo trascorso a Chartres, prima della rottura definitiva con il capitolo alla metà degli anni ‘20; sono trattati d’argomento religioso e liturgico, ma anche politico (in riferimento alle questioni imperiali) e storico, che rivelano un abbondante uso di fonti latine, nonché un approccio fortemente scolastico e tradizionale. Sono ancor più famosi e interessanti i volumi di cui fu proprietario, tra tutti il codice di Lattanzio e il Livio che poi sarà di Petrarca (oggi conservato a Parigi): manoscritti che tramandavano documenti fondamentali a livello filologico, anche se non sembra che il loro proprietario ne fosse pienamente consapevole. Vari tra questi testi furono per altro acquistati proprio dall’Aretino alla morte del Colonna (1331): il codice che riuniva il Livio già rielaborato criticamente da Petrarca, Floro e l’opera storica di Ditti Cretese, ma anche due miscellanee d’argomento sacro. 3.1.5 Stefano il Vecchio Erede del potente ramo di Palestrina, Stefano Colonna nacque intorno al 1265: permettono di stabilirlo le date del matrimonio (1286) e dei primi incarichi pubblici (1288). Egli fu protagonista delle lotte della famiglia contro Bonifacio VIII, che comportarono la sua scomunica e la perdita dei possedimenti di famiglia; dapprima Stefano resistette, ma di fronte alla caduta di Palestrina fu costretto a sottomettersi a Rieti. Seguì un esilio lungo cinque anni: i suoi spostamenti non sono chiari, ma è certo 560 che egli visse prevalentemente in Francia. Rientrò in Italia alla fine del 1303, dopo la morte di Bonifacio VIII; riprese ben presto l’attività pubblica, recuperando, anche grazie ad un accordo con i Caetani, parte del denaro perduto e i propri possedimenti. Il pieno reintegro si deve a Clemente V, che nel 1306 annullò tutte le condanne e gli espropri imposti dal suo predecessore. Tuttavia, il Colonna dovette affrontare un periodo di aspri contrasti con i Caetani e una prolungata politica diplomatica e militare volta al recupero di tutti i beni che gli erano stati sottratti e che non aveva ancora potuto riconquistare, in una lotta che coinvolse anche gli Orsini. I Colonna poterono a questo punto beneficiare dell’appoggio pontificio, nonostante una parentesi filoimperiale, cui seguì per altro lo spostamento di Stefano sul fronte angioino, che gli causò nuovi scontri a Roma con Ludovico il Bavaro, il quale un tempo lo aveva favorito. Le cariche ecclesiastiche ottenute dai figli Giovanni e Giacomo testimoniano la definitiva scelta antimperiale. Ancora negli anni Trenta Stefano partecipò attivamente (e bellicosamente) alla vita politica, impegno che culminò nell’interessamento a Cola di Rienzo, dapprima cercando la collaborazione e soprattutto posizioni di potere, poi scontrandosi apertamente con la Repubblica. Morì probabilmente nel 1349; Petrarca lo ricorda, secondo i moduli classici, come uomo straordinario e maestoso, nel corpo e nell’anima. Altre fonti coeve confermano tale ritratto, al di là dunque del desiderio di far piacere ai propri mecenati: l’Anonimo romano, ad esempio, lo elogia profondamente nei passi in cui tratta le vicende legate a Cola. D’altronde proprio il suo coinvolgimento in settant’anni di storia romana e internazionale, nonché la capacità di riconquistare il potere e il prestigio dopo la fase tragica vissuta alla fine del Duecento sono prove della sua tempra e delle sue abilità politico-militari. 3.1.6 Stefano il Giovane Stefano Colonna (detto anche Stefanuccio) era il figlio maggiore di Stefano il Vecchio, nato intorno al 1300. Il suo primo incarico noto risale al 1332 e lo vede immediatamente implicato nella sfera angioina; fu inoltre coinvolto nelle lotte contro gli Orsini, anche se non è chiaro quale fosse il suo ruolo effettivo nel clima di violenza che caratterizzò quegli anni. Le versioni offerte da Villani e da Petrarca sono infatti contraddittorie129. Anche i viaggi ad Avignone degli ultimi anni Trenta e dei primi Quaranta dimostrano il suo ruolo e il suo prestigio nelle coeve vicende romane, compresa la questione del rientro del pontefice nella sua sede originaria e l’indizione del giubileo. È inoltre direttamente coinvolto nella presa del potere da parte di Cola di Rienzo, sulla cui nuova costituzione giurò al pari degli altri aristocratici dell’Urbe. Tuttavia come il padre finì con l’abbandonare tale partito e perse la vita durante gli scontri del ‘47, insieme al figlio Giovanni e a vari altri membri della famiglia. 129 Petrarca, forse giustificato dal contesto epistolare e dalla comunicazione diretta con l’interessato, ne tesse le lodi, mentre il Villani ne tramanda un’immagine molto meno lusinghiera; tale ritratto per altro corrisponde in maniera significativa alla narrazione della sua morte offerta dall’Anonimo romano. 561 3.1.7 Agapito Agapito Colonna era il più giovane dei figli maschi di Stefano il Vecchio; conobbe Petrarca a Bologna, dove intraprese gli studi di diritto tra ‘22 e ‘26 circa, come testimonia la concessione pontificia (la stessa destinata anche al fratello Giacomo) di non risiedere nei propri benefici per motivi di studio. Si era infatti già avviato alla carriera ecclesiastica, diventando canonico nel ‘16, accumulando poi numerose prebende sino al canonicato in S. Giovanni in Laterano nel ‘32. Divenne vescovo di Luni nel ‘44, grazie al rifiuto di Clemente VI di riconoscere il candidato scelto dal capitolo, poiché fedele a Ludovico il Bavaro; morì però quello stesso anno. È molto probabile che le due Familiari rivolte da Petrarca ad un non precisato “Agapito Colonna”130 siano state indirizzate proprio al vescovo (prima però che assumesse tale carica, o ne sarebbe esplicitato il titolo); l’Aretino parla certamente di lui, comunque, nella Senile XV, 1 in cui invita Stefano Colonna, preposito a Saint-Omer, a riprendere i libri che Agapito gli aveva prestato e che erano ancora in suo possesso. Si tratta però soltanto di opere di diritto civile e canonico (Petrarca scherza sul fatto che non avrebbe tanto insistito per la restituzione se si fosse trattato di classici). In ogni caso, il rapporto tra poeta e futuro vescovo appare abbastanza personale e florido, anche dal punto di vista intellettuale. 130 Secondo alcuni studiosi l’assenza di precisazioni impedisce di pensare a questo Agapito “seniore”, perché già prelato di una certa importanza, anche se non ancora vescovo. (BDI, p. 255) 562 CONCLUSIONE L’osservazione del Canzoniere ha confermato l’importanza della presenza trobadorica nel Petrarca lirico. Il riuso della tradizione occitanica si è dimostrato significativo sia sul piano della quantità sia su quello della qualità: dai modelli provenzali Petrarca recupera numerose immagini convenzionali e molteplici strutture di genere che contribuiscono alla creazione dell’io poetico e della sua vicenda amorosa e spirituale. Proprio questa capacità di appropriarsi delle fonti, di trasformarne l’insegnamento per fini e in contesti del tutto rinnovati rappresenta l’aspetto di maggior interesse. La definizione della propria identità poetica e la legittimazione di una nuova proposta espressiva passano anche attraverso il recupero e la sistemazione delle esperienze culturali precedenti. In tal modo la componente trobadorica entra in contatto con la dimensione classica, con quella prestilnovista, quella stilnovista e quella petrosa: da tutti questi modelli Petrarca deriva un esempio formativo ed un’occasione di superamento. Il poeta definisce così la propria autonoma posizione rispetto ai maestri, Dante innanzitutto, esaltando il proprio contributo alla storia letteraria. La produzione provenzale fornisce in particolare un campionario vasto e vario di situazioni amorose, che, una volta recuperate e rielaborate, consentono di identificare nel Canzoniere una summa dell’esperienza sentimentale (e dunque anche delle forme poetiche ad essa connesse): sofferenza, alienazione, schiavitù, gioia, miglioramento interiore, lontananza e separazione, perdita dell’amata. Ampie strutture discorsive e concetti localizzati partecipano al lungo intricato percorso dell’io nella selva dell’amore erotico, fino alla vittoria di quello caritatevole, per quanto incerta e forse incompleta. Anche per tale svolta Petrarca ha saputo cogliere aspetti utili della poesia dei suoi predecessori transalpini, a maggior ragione trasformandola ed imprimendole una nuova direzione, in quel complesso e stratificato ritratto morale che si legge nei Rerum vulgarium fragmenta. La componente che più beneficia dell’esempio trobadorico resta però quella disforica: la rappresentazione di un amore per lo più infelice, dolente e tragico, che distrugge l’amante sul piano interiore e su quello sociale, che stravolge le sue priorità e rende innaturale il suo comportamento. Nel Canzoniere questa faccia della condizione amorosa è fondamentale, in coerenza per altro con il nucleo profondo del Secretum; per delineare l’immagine di quella “catena dorata” l’autore ha saputo fare tesoro dei suoi modelli cortesi. Per approfondire il discorso sul contatto tra Petrarca e i trovatori si è cercato di ricostruire almeno in parte la vita culturale nell’ambiente avignonese, le relazioni intellettuali del giovane poeta e le modalità di sopravvivenza della letteratura occitanica nella prima metà del Trecento. Per quanto non rimangano indizi puntuali delle forme e della cronologia delle letture provenzali compiute dal poeta, la situazione del Midi appare interessante. Gli studi storico-sociali restituiscono l’immagine di una realtà vitale e ricca sul piano intellettuale e scolastico, in cui fervono lo scambio culturale e la curiosità. Le strutture istituzionali non offrono prove della presenza di documenti trobadorici, ma si intuiscono possibili occasioni di circolazione per le opere cortesi. 563 D’altro canto, la loro sopravvivenza e i tentativi di renderne attuale l’eredità al di là della semplice conservazione archivistica garantiscono la presenza di materiale adeguato allo studio e al recupero testuale, quali si leggono nell’opera petrarchesca. Gli anni giovanili, perciò, si confermano un momento potenzialmente rilevante nella formazione poetica di Petrarca, anche in merito all’incontro, che si è visto fondamentale, con la tradizione trobadorica e i suoi topoi. 564 BIBLIOGRAFIA 1. Opere petrarchesche Bettarini, Rosanna 2005 Petrarca. Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta), Torino, Einaudi Dotti, Ugo 2009 Petrarca. Le familiari, 5 voll., Torino, Nino Aragno editore Dotti, Ugo 2011 Petrarca. Secretum, Milano, BUR Rizzoli Fenzi, Enrico 1992 Petrarca. 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Metamorfosi delle chiome femminili tra Petrarca e Tasso, Roma, Salerno “In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori”: Zur Adynata-Haufung in Petrarcas Sestine “Là ver’ l’aurora” in Romanische Furschungen, vol 93, Francoforte sul Meno, Klostermann, pp. 372-382 Il nodo che…me ritenne. Riflessi intertestuali della “Vita Nuova” di Dante nei “Rerum vulgarium fragmenta” di Petrarca, Firenze, Franco Cesati editore Retorica dell’esilio nel canzoniere di Petrarca in Bollettino di italianistica, vol 8, Roma, Carocci, pp. 71-93 La biblioteca di Febo: mitologia e allegoria in Petrarca, Firenze, Cesati Il bacio a madonna Laura, Catania, Giannotta editore Scritti petrarcheschi, Roma/Padova, Antenore Pétrarque et Montpellier in Studi petrarcheschi, vol 7, Bologna, Minerva, pp. 231-233 Martinelli, Bortolo 1972 “Feria sexta aprilis”. La data sacra nel Canzoniere di Petrarca in Rivista di storia e letteratura religiosa, vol 8, Firenze, Olschki, pp. 449-484 Martinelli, Bortolo 1976 L’ordinamento morale del canzoniere di Petrarca in Studi provenzali, vol 8, Bologna, Minerva, pp. 93-167 Martinelli, Bortolo 584 1977 Masnovo, Omero 1934 Mazzoni, Guido 1930 Mazzotta, Giuseppe 1993 Mercuri, Roberto 2003 Michel, Alain 2011 Molinari, Carla 2010 Monteverdi, Angelo 1925 Monteverdi, Angelo 1925 Monti, Carla Maria 1989 Morelli, Giovanna 2006 Morici, Medardo 1899 Neri, Ferdinando 1951 Petrarca e il Ventoso, Milano/Roma, Minerva Italica Francesco Petrarca e Azzo da Correggio in Parma a Francesco Petrarca, Parma, Fresching, pp. 181-224 L’“escondig” del Petrarca in Convegno petrarchesco, Arezzo, Reale accademia Petrarca, pp. 53-59 The worlds of Petrarch, Durham/London, Duke university press Frammenti dell’anima e anima del frammento in Critica del testo, vol 6, Roma, Viella, pp. 67-92 Lectures de Pétrarque in La bibliothèque de Pétrarque. Livres et autour d’un humaniste, Turnhout, Brepols, pp. 9-19 Lectura Petrarce. Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi, Padova/Firenze, Olschki, pp. 347-369 La “tedesca rabbia” in Giornale storico della letteratura italiana, vol 86, Torino, Loescher, pp. 196-199 Tedesca rabbia in Giornale storico della letteratura italiana, vol 86, Torino, Chiantore, pp. 196-199 Mirabilia e geografia nel “Canzoniere”: Pomponio Mela e Vibio Sequestre in Studi petrarcheschi, vol 6, Padova, Antenore, pp. 91-123 “Acto tibi triennium”: Francesco Petrarca allo Studio di Bologna in Petrarca, l’Umanesimo e la civiltà europea. Quaderni petrarcheschi, 2 voll, Firenze, Le Lettere, pp. 261-346 Francesco Petrarca e Giovanni Colonna da S. Vito, [estratto dal Giornale dantesco, quaderni V-VI], Firenze, Olschki Il Petrarca e le rime dantesche della Pietra in Letteratura e leggende, Torino, Chiantore, pp. 53-72 Niederer, Christoph 585 2000 La bipartizione in vita/in morte del “Canzoniere” di Petrarca in Petrarca e i suoi lettori, a cura di Vittorio Caratozzolo e Georges Guntert, Ravenna, Longo editore, pp. 19-41 Noferi, Adelia 1962 Noferi, Adelia 2001 Nolhac de, Pierre 1892 Ouy, Gilbert 1997 Pacca, Vinicio 1998 Pacca, Vinicio 2006 Pancheri, Alessandro 2007 Paolino, Laura 1993 Paolino, Laura 2000 Paolino, Laura 2001 Pasquini, Emilio 1981 Pastore Manlio 1981 586 L’esperienza poetica del Petrarca, Firenze, Le Monnier Frammenti per i “Fragmenta” di Petrarca, a cura di Luigi Tassoni, Roma, Bulzoni editore Petrarque et l’humanisme, Paris, Bouillon Petrarque et les humanistes français in Petrarca, Verona e l’Europa. Atti del convegno internazionale di studi, a cura di Giuseppe Billanovich e Giuseppe Frasso, Padova, Antenore, pp. 415-434 Petrarca, Roma, Laterza Petrarca e il canone degli “auctores”, tra antichi e moderni in Petrarca, l’Umanesimo e la civiltà europea. Quaderni petrarcheschi, 2 voll, Firenze, Le Lettere, pp. 605-628 Petrarca 1336-1337 in Studi di filologia italiana, vol 65, Firenze, Le Lettere, pp. 49-64 “Ad acerbam rei memoriam”. Le carte del lutto nel Codice Vaticano latino 3196 di Francesco Petrarca in Rivista di letteratura italiana, vol 11, Pisa/Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, pp. 73-102 Il codice degli abbozzi. Edizione e storia del manoscritto Vaticano Latino 3196, Milano/Napoli, Ricciardi Ancora qualche nota sui madrigali di Petrarca (RVF 52, 54, 106, 121) in Italianistica, vol 30, Pisa/Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, pp. 307-324 Il mito polemico di Avignone nei poeti italiani del Trecento in Aspetti culturali della società italiana nel periodo del papato avignonese, Convegni del centro di studi sulla spiritualità medievale XIX, Todi, Accademia Tudertina, pp. 259-309 Stocchi, I sonetti 3 e 61 in Lectura Petrarce, vol 2, Padova/Firenze, Olschki, pp. 3- 23 Pastore Stocchi, 2004 Pastore Manlio 2007 Petrarca e Dante in Rivista di studi danteschi, vol 4, Roma, Salerno editrice, pp. 184-204 Stocchi, Petrie, Jennifer 1983 Petrarca e i potenti della terra in Francesco Petrarca: da Padova all’Europa, Roma/Padova, Antenore, pp. 37-50 Petrarch: the Augustan poets, the italian tradition and the Canzoniere, Dublino, Irish accademic press Petrini, Mario 1993 La risurrezione della carne. Saggi sul Canzoniere, Milano, Mursia Petrucci, Armando 1967 La scrittura di Francesco Petrarca, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Picone, Michelangelo Tempo e racconto nel “Canzoniere” di Petrarca in Omaggio a Gianfranco 19931 Folena, Padova, Editoriale Programma, pp. 581-592 Picone, Michelangelo 19932 Riscritture dantesche nel “Canzoniere” di Petrarca in Rassegna europea di lettura italiana, 2, pp. 115-125 Picone, Michelangelo 1998 Theories of love and the lyric tradition from Dante’s “Vita nuova” to Petrarch’s “Canzoniere” in Romance notes, vol 39, Chapel Hill, University of Carolina, pp. 83-93 Picone, Michelangelo Avignone come tema letterario: Dante e Petrarca in L’Alighieri, vol 20, 2002 Ravenna, Longo editore, pp. 5-22 Picone, Michelangelo 20031 Il viaggio di due motivi lirici in Percorsi della lirica duecentesca, Fiesole, Cadmo, pp. 125-165 Picone, Michelangelo 20032 Un dittico petrarchesco: Rvf 2-3 in Critica del testo, vol 6, Roma, Viella, pp. 323-336 Picone, Michelangelo 587 2007 Picone, Michelangelo 2011 Pierantozzi, Decio 1948 Possiedi, Paolo 1974 Praloran, Marco 2003 Praloran, Marco 20071 Praloran, Marco 20072 Praloran, Marco 2009 Praloran, Marco 2013 Proto, Enrico 1907 Proto, Enrico 1911 Rafti, Patrizia 1995 Regan, Mariann S. 1974 588 Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, a cura di Michelangelo Picone, Ravenna, Longo editore Dentro la biblioteca di Petrarca in La bibliothèque de Pétrarque. Livres et autour d’un humaniste, Turnhout, Brepols, pp. 21-34 Il Petrarca e Guittone in Studi petrarcheschi, vol 1, Bologna, Minerva, pp. 148 segg Petrarca petroso in Forum italicum, vol 4, Buffalo, State university of New York, pp. 523-545 Alcune osservazioni sulla costruzione della forma-canzoniere in Petrarca in L’io lirico: Francesco Petrarca. Radiografia dei “Rerum vulgarium fragmenta”, a cura di Giovannella Desideri, Annalisa Landolfi, Sabina Marinetti, Roma, Viella Alcune osservazioni preliminari sul senso della forma nel Canzoniere in Francesco Petrarca: da Padova all’Europa, a cura di Gino Belloni, Giuseppe Frasso, Manlio Pastore Stocchi e Giuseppe Velli, Roma/Padova, Antenore, pp. 73-114 Le “canzoni degli occhi”: una interpretazione in Stilistica e metrica italiana, vol 7, Firenze, Edizioni del Galluzzo, pp. 33-75 La canzone delle citazioni (Rvf 70) in La citazione. Quaderni del circolo filologico linguistico padovano, vol 19, Padova, Esedra, pp. 183-196 La canzone di Petrarca. Orchestrazione formale e percorsi argomentativi, a cura di Arnoldo Soldani, Roma/Padova, Antenore Del Petrarca e di alcuni suoi amici [estratto dal Giornale dantesco], Firenze, Olschki Per un madrigale del Petrarca in Rassegna critica delle lettere italiane, Napoli, Jovene, pp. 3-20 Alle origini dei Rerum vulgarium fragmenta in Scrittura e civilità, vol 19, Firenze, Olschki, pp. 199-221 Petrarch’s courtly and christian vocabularies: language in “Canzoniere” 61-63 in Romance notes, vol 15, pp. 527-531 Rico, Francisco 1976 Rico, Francisco 2003 Rizzi, Fortunato 1934 Roche, Thomas P. 1974 Romanò, Angelo 1953 Rossi, Luciano 1990 Ruiz Arzàlluz, Inigo 2006 Ruiz Arzàlluz, Inigo 2009 Sabbadini, Remigio 1906 Santagata, Marco 1969 Santagata, Marco 1975 Santagata, Marco 1985 Santagata, Marco 1989 “Rime sparse”, “Rerum vulgarium fragmenta”. Para el titulo y el primer soneto del “Canzoniere” in Medioevo romanzo, vol 3, Napoli, Macchiaroli, pp. 101-138 “Sospir trilustre”. Le date dell’amore e il primo “Canzoniere” in Critica del testo, vol 6, Roma, Viella, pp. 31-48 Francesco Petrarca e il decennio parmense (1341-1351), Torino, Paravia The calendrical structure of Petrarch’s “Canzoniere” in Studies in philology, vol 71, Chapel Hill, University of North Carolina press, pp. 152172 I sonetti dell’aura in L’approdo, Roma/Torino, Edizioni radio italiana, pp. 71-78 Per la storia dell’”Aura” in Lettere italiane, vol 42, Firenze, Olschki, pp. 553-574 Petrarca, el texto de Terencio y Pietro da Moglio in Quaderni petrarcheschi, voll XV-XVI, Firenze, Le Lettere, pp. 765-812 Terenzio, Landolfo Colonna, Petrarca in Studi petrarcheschi, vol 22, Roma/Padova, Antenore Il primo nucleo della biblioteca del Petrarca in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di scienze e letteratura, vol 36, pp. 369-388 Presenze di Dante “comico” nel “Canzoniere” del Petrarca in Giornale storico della letteratura italiana, vol 146, Torino, Chiantore/Loescher, pp. 164-211 Connessioni intertestuali nel Canzoniere del Petrarca in Strumenti critici, vol 26, Torino, Einaudi, pp. 80-112 Prestilnovisti in Petrarca in Studi petrarcheschi, vol 2, Padova, Antenore, pp. 85-129 Dal sonetto al Canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un 589 genere, Padova, Liviana Santagata, Marco 1990 Santagata, Marco 1992 Santagata, Marco 1999 Santagata, Marco 2006 Sapegno, Maria Serena 2003 Sarteschi, Selene 2008 Savoca, Giuseppe 2008 Segre, Cesare 1985 Segre, Cesare 1993 Shapiro, Marianne 1980 Spaggiari, Barbara 1991 Spinetti, Mariarosaria 1991 Spongano, Raffaele 1983 590 Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, Bologna, Mulino I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, Il Mulino Amate e amanti. Figure della lirica amorosa fra Dante e Petrarca, Bologna, Mulino L’io lirico in Quaderni petrarcheschi, voll XV-XVI, Firenze, Le Lettere, pp. 23-34 Tu, Voi: a chi si parla? in Critica del testo, vol 6, Roma, Viella, pp. 93-102 Antonio Beccari. Osservazioni su la canzone ‘disperata’ "Le stelle universali e i ciel rotanti" in Rassegna europea di letteratura italiana, vol 31, Pisa/Roma, Frabrizio Serra editore, pp. 29-40 Il Canzoniere di Petrarca tra codicologia ed ecdotica, Firenze, Olschki Les isotopies de Laure in Exigences et perpectives de la sémiotique, a cura di Herman Parret e Hans-George Ruprecht, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins Publishing company, pp. 811-826 I sonetti dell’aura in Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, pp. 43-65 Hieroglyph of time. The petrarchan sestina, Minneapolis, University of Minnesota press Le origini di “estivo” e un luogo del Petrarca in Lingua nostra, vol 52, Firenze, Le Lettere, pp. 44-52 Beatrice e Laura: sue mondi a confronto in Beatrice nell’opera di Dante e nella memoria europea 1290-1990, a cura di Maria Picchio Simonelli, Firenze, Cadmo, pp. 279-291 Francesco Petrarca tentato di morire in Studi e problemi di critica testuale, Bologna, Cassa di risparmio di Bologna, pp. 55-67 Stierle, Karlheinz 1995 Il sonetto CCCLIII in Lectura Petrarce, vol 15, Padova/Firenze, Olschki, pp. 231-247 Stierle, Karlheinz 2003 Sturm-Maddox, Sara 1985 Suitner, Franco 1977 Suitner, Franco 1985 Suitner, Franco 1991 Suitner, Franco 20051 Tateo, Francesco 2008 Tilden, Jill 1975 Tonelli, Natasha 1994 Tonelli, Natasha 1996 Tonelli, Natascia 2000 “Di collo in collo”. La spazialità in Dante e Petrarca in Studi sul canone letterario del Trecento, Ravenna, Longo, pp. 99-121 Rime sparse 25-28: the metaphors of choice in Neophilologus, vol 69, Amsterdam, Walters, pp. 225-235 Petrarca e la tradizione stilnovistica, Firenze, Olschki, pp. 16-18 L’invettiva antiavignonese del Petrarca e la poesia infamante medievale in Studi petrarcheschi, vol 2, Padova, Antenore, pp. 201-210 Le rime del Petrarca e l’idea della donna “Beatrice”: convenzioni letterarie e realtà psicologica in Beatrice nell’opera di Dante e nella memoria europea 1290-1990, a cura di Maria Picchio Simonelli, Firenze, Cadmo, pp. 261-278 L’invettiva antiavignonese del Petrarca in Dante, Petrarca e altra poesia antica, Fiesole, Cadmo, pp. 113-121 Performance lirica nel Canzoniere di Petrarca in La parola del testo, Roma, Zauli, pp. 267-284 Spiritual conflict in Petrarch’s Canzoniere in Petrarca (13041374).Beitrage zu Werk und Wirkung, a cura di Fritz Schalk, Francoforte sul Meno, Klostermann, pp. 287-319 Le parole di Laura nei Rerum vulgarium fragmenta in Rivista di letteratura italiana, vol 12, Pisa/Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, pp. 293-312 Noterella sulla pastoralità di Petrarca: Giraut de Bornelh in RVF CCXLV, 2 in Italianistica, vol 25, Pisa/Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, pp. 261-264 I sonetti 2 e 3 dei Rerum vulgarium fragmenta, in Lectura Petrarce, vol 20, Padova/Firenze, Olschki, pp. 173-190 Trovato, Paolo 591 1979 Vanacker, Janis 2009 Vanossi, Luigi 1980 Varanini, Gian Maria 2006 Velli, Giuseppe 1995 Vianello, Nereo 1976 Vickers, Nancy 1981 Villar, Milagros 1997 Vitale, Maurizio 1996 Vitale, Maurizio 2005 Wilkins, Ernest 1978 Wilkins, Ernest 1978 Wilkins, Ernest 1978 Wilkins, Ernest 2003 Zaccagnini, Guido 592 Dante in Petrarca, Firenze, Olschki, p. 12 Non al suo amante più Diana piacque. I miti venatori nella letteratura italiana, Roma, Carocci pressonline, pp. 125-140 Identità e mutazione nella sestina petrarchesca in Cultura neolatina, vol 40, pp. 281-299 Le signorie trecentesche e Francesco Petrarca. Appunti storiografici in Quaderni petrarcheschi, voll XV-XVI, Firenze, Le Lettere, pp. 151-168 Petrarca e Boccaccio: tradizione, memoria, scrittura, Padova, Antenore I libri del petrarca e la prima idea di una pubblica biblioteca a Venezia in Miscellanea marciana di studi bessarionei, Padova, Antenore, pp. 435-451 Re-membering Dante: Petrarch’s “Chiare, fresce et dolci acque” in Modern language notes, vol 96, Baltimore, John Hopkins university press, pp. 1-11 El texto y inedito de una epistola de Petrarca dirigida a Philippe de Cabassoles (Fam VI 9) in Petrarca, Verona e l’Europa. Atti del convegno internazionale di studi, a cura di Giuseppe Billanovich e Giuseppe Frasso, Padova, Antenore, pp. 271-285 La lingua del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) di Francesco Petrarca, Padova, Antenore Cultura e lingua a Milano nel Trecento in Petrarca e la Lombardia, a cura di G. Frasso, G. Velli e M. Vitale, Roma/Padova, Antenore, pp. 31-50 Philippe de Cabassoles on Petrarch in Studies on Petrarch and Boccaccio, Padova, Antenore, pp. 141-153 Petrarch’s “exul ab Italia” in Studies on Petrarch and Boccaccio, Padova, Antenore, pp. 255-266 Petrarch’s last return to Provence in Studies on Petrarch and Boccaccio, Padova, Antenore, pp. 272-285 Vita del Petrarca, Milano, Feltrinelli [prima edizione italiana 1964] 1934 Guido Sette amico del Petrarca in Parma a Francesco Petrarca, Parma, Fresching, pp. 237-247 Zambon, Francesco 1983 Sulla fenice del Petrarca in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca. Dal Medioevo al Petrarca, vol 1, Firenze, Olschki, pp. 411-427 Zenari, Massimo 1999 4. Petrarca e i trovatori Allegretti, Paola 1993 Antonelli, Roberto 2005 Appel, Carl 1924 Barbieri, Andrea 2009 Battaglia, Salvatore 1964 Repertorio metrico dei Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca, Roma/Padova, Antenore La tradizione manoscritta di Bernart de Ventadorn e un luogo del Petrarca in La filologia romanza e i codici. Atti del convegno di Messina - 1991, a cura di S. Guida e F. Latella, Messina, Sicania, pp. 663-683 Avere e non avere: dai trovatori a Petrarca in Vaghe stelle dell’orsa…L’io e il tu nella lirica italiana, a cura di Francesco Bruni, Venezia, Marsilio, pp. 41-75 Petrarka und Arnaut Daniel in Archiv fur das Studium der neutre Sprachen und Literaturen, vol 147, pp. 212-235 Nuovi postillati di Lodovico Castelvetro in Giornale storico della letteratura italiana, vol 186, Torino, Loescher, pp. 595-603 Le rime “petrose” e la sestina (Arnaut Daniel, Dante e Petrarca), Napoli, Liguori Beltrami, Pietro e Santagata, Marco 1987 “Razo e dreyt ay si ‘m chant e ‘m demori”. Un episodio della cultura provenzale del Petrarca, Rivista di Letteratura Italiana, vol 4, Pisa, Fabrizio Serra editore, pp. 9-89 Bernardi, Marco 2008 Lo zibaldone colocciano Vat. Lat. 4831, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Bertoni, Giulio 1932 Le citazioni provenzali del Bembo nel Petrarca aldino del 1521 [appendice a Pietro Bembo postillatore del canzoniere petrarchesco], in Giornale storico della letteratura italiana, Torino, 593 Chiantore, pp. 263-266 Bertoni, Giulio 1937 Bologna, Corrado 1989 Bosco, Umberto 1965 Brea, Mercedes 2008 Calcaterra, Carlo 1942 Careri, Maria 1994 Casu, Agostino 1992-1993 Chiorboli, Ezio 1928 Cian, Vittorio 1932 Contini, Gianfranco 19701 Contini, Gianfranco 19702 Contini, Gianfranco 19703 594 Lingua e poesia: saggi di critica letteraria, Firenze, Olschki, pp.77103 Giulio Camillo, il canzoniere provenzale N2 e un inedito commento al Petrarca in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia a cinquant’anni dalla sua laurea, vol 1, Modena, Mucchi, pp. 187-213 Francesco Petrarca, Bari, Laterza, p. 159 De los limosini a los siculi, Dante y Petrarca in Angelo Colocci e gli studi romanzi, a cura di Corrado Bologna e Marco Bernardi, Città del Vaticano, Biblioteca apostolica vaticana, pp. 245-266 Nella selva del Petrarca, Bologna, Cappelli, pp. 179-208 Bartolomeo Casassaggia e il canzoniere provenzale M in La filologia romanza e i codici, Messina, Università degli studi La tradizione lirica provenzale nei “Rerum vulgarium fragmenta”. Contributi ed ipotesi per un repertorio. Tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa. I sonetti introduttivi alle “Rime sparse” in Studi petrarcheschi. Omaggio di Arezzo al suo poeta nel 1928, Arezzo, Editoriale italiana contemporanea, pp. 65-77 Le cosiddette “annotazioni” di M. Giulio Camillo Delminio sopra le rime del Petrarca [appendice a Pietro Bembo postillatore del canzoniere petrarchesco], in Giornale storico della letteratura italiana, Torino, Chiantore, pp. 259-263 Saggio di un commento alle correzioni del Petrarca volgare in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, pp. 5-32 Correzioni grammaticali petrarchesche in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, pp. 33-34 Preliminari sulla lingua del Petrarca in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, pp. 169-192 Contini, Gianfranco 19704 Contini, Gianfranco 19705 Debenedetti, Santorre 1930 Di Girolamo, Costanzo 1981 Flamini, Francesco 1910 Fontana, Alessio 1975 Frank, Istvan 1954 Frasso, Giuseppe 1974 Frasso, Giuseppe 1991 Fubini, Mario 1970 Gaspary, Adolfo 1887 GrubbitzschRodewald, Helga 1972 Prehistoire de l’aura de Petrarque in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, pp. 193-200 Premessa a un’edizione di Arnaut Daniel in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, pp. 311-318 Tre secoli di studi provenzali, Firenze, Bemporad Forma e significato della parola-rima nella sestina in XIV congresso internazionale di linguistica e filologia romanza, vol 5, a cura di Alberto Varvaro, Napoli/Amsterdam, Macchiaioli-Benjamins, pp. 259-272 Tra Valchiusa e Avignone in Giornale storico della letteratura italiana, suppl. 12 La filologia romanza e il problema del rapporto Petrarca-trovatori in Petrarca (1304-1374). Beitrage zu Werk und Wirking, a cura F. Schalk, Francoforte, Klostermann, pp. 51-70 La chanson “Lasso me” de Petrarque et ses predecesseurs in Annales du Midi, vol 66, Tulouse, Privat, pp. 259-268 Petrarca, Andrea da Mantova e il canzoniere provenzale N in Italia medioevale e umanistica, vol 17, Padova, Antenore, pp. 185-205 Per Ludovico Castelvetro in Aevum, vol 65, pp. 453-478 La metrica del Petrarca [in particolare Le canzoni provenzali] in Metrica e poesia. Lezioni sulle forme metriche italiane, vol 1, Milano, Feltrinelli, pp. 214-298 Storia della letteratura italiana, Torino, Loescher Petrarca und Arnaut Daniel. Petrarcas imitationstechnik in der kanzone “Verdi panni” in Arcadia, vol 7, Berlino, Gruyter, pp. 135595 157 Hernandez Esteban, Maria 1987 Meneghetti, Maria Luisa 2000 Pagani, Giacomo 1948 Pazzaglia, Mario 2007 Perugi, Maurizio 1985 Perugi, Maurizio 19901 Perugi, Maurizio 19902 Perugi, Maurizio 19911 Perugi, Maurizio 19912 Perugi, Maurizio 1994 Perugi, Maurizio 1999 Perugi, Maurizio 596 Procedimientos compositivos de la sextina de Arnaut Daniel a Fernando de Herrera in Revista de literatura, Madrid, Consejo superior de investigaciones cientificas, pp. 351-424 Bembo, Equicola e i trovatori in in Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, a cura di S. Morgana, M. Piotti, M. Prada, Milano, Cisalpino, pp. 23-35 Petrarca e la poesia trobadorica, Rovigo, Istituto padano di arti grafiche Il commento ai Rerum vulgarium fragmenta petrarcheschi di A. Tassoni in Studi e problemi di critica testuale, vol 74, Pisa/Roma, Serra, pp. 117-140 Trovatori a Valchiusa. Un frammento della cultura provenzale del Petrarca, Padova, Antenore L’escondit del Petrarca in Lectura Petrarce, vol 10, Firenze, Olschki, pp. 201-228 Petrarca provenzale in Quaderni petrarcheschi, Firenze, Le Lettere, pp. 109-181 A proposito di alcuni scritti recenti su Petrarca e Arnaut Daniel in Studi Medievali, vol 32, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, pp. 369-384 Lanfranco Cigala nell’epilogo dei “Rerum vulgarium fragmenta” in Studi Medievali, vol 32, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, pp. 833-841 Ancora sul tema dell’aura in Studi Medievali, vol 35, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, pp. 823-834 Numerologia mariana in due antecedenti del Petrarca: il canzoniere di Guiraut Riquier e la canzone a Maria di Lanfranco Cigala in Anticomoderno, vol 4, pp. 25-43 2000 Picchio Simonelli, Maria 1974 Picchio Simonelli, Maria 1978 Poli, Andrea 1993 Porena, Manfredi 1935 Pulsoni, Carlo 1993 Pulsoni, Carlo 1995 Pulsoni, Carlo 1996 Pulsoni, Carlo 1998 Pulsoni, Carlo 2000 Pulsoni, Carlo 20031 Pulsoni, Carlo 2010 “Verdi piani” non “Verdi panni” (La canzone “Er vei vermeilz” di Arnaut Daniel in Dante e in Petrarca) in Carmina semper et citharae cordi. Etudes de philologie et de metrique offertes a Aldo Menichetti, a cura di M. Gerard-Zai, P. Gresti, S. Perrin, P. Vernay, M. Zenari, Editions Slatkine, Ginevra Lirica moralistica nell’Occitania del XII secolo: Bernart de Venzac, Modena, Mucchi La sestina dantesca fra Arnaut Daniel e il petrarca in Figure foniche da Petrarca ai petrarchisti, Firenze, Licosa, pp. 1-15 Bernart de Ventadorn in Petrarca in Filologia e critica, vol 18, pp. 20-44 L’ordinamento del canzoniere petrarchesco e le due grandi canzoni politiche in Rendiconti della R. Accademia Nazionale dei Lincei, 6, 11, Roma, Bardi, pp. 129-234 Pietro Bembo e la tradizione della canzone “Drez et razo es qu’ieu ciant e m demori” in Rivista di Letteratura Italiana, vol 11, pp. 283304 Sulla morfologia dei congedi della sestina in Aevum, Milano, Università Cattolica, pp. 505-520 Petrarca e la codificazione del genere sestina in Anticomoderno – La sestina, vol 2, Roma, Viella, pp. 55-65 La tecnica compositiva nei Rerum vulgarium fragmenta. Riuso metrico e lettura autoriale, Roma, Bagatto Bembo e la letteratura provenzale in Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, a cura di S. Morgana, M. Piotti, M. Prada, Milano, Cisalpino, pp. 37-54 “Propter unum quod […] leggi in cantilena Arnaldi Danielis”: una citazione del Petrarca volgare in Critica del testo, vol 6, Roma, Viella, pp. 337-348 Castelvetro e la lirica provenzale in La parola del testo, Roma, 597 Zauli, pp. 127-144 Riquer, de Martin 1951-52 Santagata, Marco 1983 Santagata, Marco 1988 Santagata, Marco 1990 Scarano, Nicola 1901 Scherillo, Michele 1919 Segré, Carlo 1904 Spaggiari, Barbara 1982 Suitner, Franco 20052 Suitner, Franco 20053 Toya, Gianluigi 1960 Viscardi, Antonio 19703 Zaja, Paolo 2009 Zaja, Paolo 598 El “escondit” provenzal y su pervivencia en la lìrica romànica in Boletín de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona, Barcellona, Real Academia de Buenas Letras, pp. 1-17 Il giovane Petrarca e la tradizione poetica romanza: modelli ideologici e letterari in Rivista di Letteratura Italiana, pp. 11-61 Petrarca e i Colonna. Sui destinatari di R.v.f. 7, 10, 28, Lucca, Pacini Fazzi Petrarca e Arnaut Daniel in Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, Bologna, il Mulino, pp. 157-211 Fonti provenzali e italiane della lirica petrarchesca, Torino, Loescher, pp. 250-360 [Estratto da: Studi di filologia romanza] Le origini e lo svolgimento della letteratura italiana, vol 1, Milano, Hoepli, pp. 354-355 La patria poetica del Petrarca in Nuova antologia, Firenze, Le Monnier, pp. 177-194 “Cacciare la lepre col bue” in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, vol 12, Pisa, Scuola Normale Superiore di Pisa, pp. 1333-1409 Petrarca e il trovatore Bertran de Born in Dante, Petrarca e altra poesia antica, Fiesole, Cadmo, pp. 85-97 Petrarca in Provenza in Dante, Petrarca e altra poesia antica, Fiesole, Cadmo, pp. 107-111 Introduzione in Arnaut Daniel. Canzoni, Firenze, Sansoni, pp. 106113 Ricerche e interpretazioni mediolatine e romanze, Milano/Varese, Cisalpino Chiose al Petrarca: Giulio Camillo, Roma/Padova, Antenore 2010 Nuove schede su Giulio Camillo commentatore del Petrarca in Giornale storico della letteratura italiana, vol 187, Torino, Loescher, pp. 55-93 Zingarelli, Nicola 1935 5. Allegretti, Paola 1992 Amado, Claudie 2000 Anglade, Joseph 1905 Anglade, Joseph 1928 Anglade, Joseph 1970 Petrarca e i trovatori in Scritti di varia letteratura raccolti a cura degli amici in occasione del suo commiato dalla scuola, Hoepli, Milano, pp. 384-411 Studi sui trovatori Il geistliches Lied come marca terminale nel canzoniere provenzale C in Studi medievali, vol 33, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, pp. 721-735 Clercs et moines dans la sphère courtoise (XII-XIII siècle) in Cahiers de Fanjeaux, vol 35, Eglise et culture en France méridionale (XII-XIV siècles), Tulouse, Privat, pp. 127-136 Le troubadour Guiraut Riquier. 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Problemi di metodo ed esperienze di lavoro, Roma, Salerno, pp. 363-382 Écrits sur les troubadours et la lyrique médiévale, Paris, Paradigme Osservazione sulla tradizione manoscritta della lirica d’oc e d’oil in area lorenese in Critica del testo, vol 7, Roma, Viella, pp. 425-446 “Lo ferm voler” di Arnaut Daniel: noterella per una traduzione in Anticomoderno – La sestina, vol 2, Roma, Viella, pp. 9-19 Libri e canzonieri d’autore nel Medioevo: prospettive di ricerca in Morfologia del testo medievale, Bologna, Mulino, pp. 125-146 Il canzoniere di un trovatore: il “Libro” di Guiraut Riquier in Morfologia del testo medievale, Bologna, Mulino, pp. 87-124 Osservazioni e proposte per la ricerca sui canzonieri individuali in Lyrique romane médiévale: la tradition de chansonniers, a cura di Madeleine Tyssens, Liegi, Biblioteca della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università di Liegi, pp. 273-302 Bertolucci Pizzorusso Valeria 2001 Bertoni, Giulio 19111 Bertoni, Giulio 19112 Biella, Ada 1965 Billy, Dominique 1993 Borghi Cedrini, Luciana 2006 Bossy, Michel-André 2001 Bourgain, Pascale 2006 Brunel, Clovis 1995 La mort de la dame dans les genres lyrique autre que le planh in VI congrès international. Le rayonnement de la civilisation occitane à l’aube d’un nouveau millenaire, a cura di Georg Kremmitz, Barbara Czernilofsky, Peter Cichon, e Robert Tanzmeister, Wien, Praesens, Wissenschafts Verlag, pp. 327-333 Introduzione in Il canzoniere provenzale di Bernart Amoros (sezione riccardiana), Friburgo, Università di Friburgo, pp. 7-23 Introduzione in Il canzoniere di Bernart Amoros (complemento Càmpori), Friburgo, Università di Friburgo, pp. IX-XXXI Considerazioni sull’origine e sulla diffusione della pastorella in Cultura neolatina, vol 25, Modena, Società tipografica modenese, pp. 236-267 La sextine à la lumière de sa préhistoire: genèse d’une forme, gnèse d’un genre in Medioevo romanzo, vol 18, Bologna, Mulino, pp. 207239 e 371-402 I “libri” della poesia trobadorica in Liber, fragmenta, libellus prima e dopo Petrarca. In ricordo di D’arco Silvio Avalle, Firenze, SismelEdizioni del Galluzzo, pp. 69-80 Alphonse le Sage et la compilation des oevres de Guiraut Riquier in VI congrès international. Le rayonnement de la civilisation occitane à l’aube d’un nouveau millenaire, a cura di Georg Kremmitz, Barbara Czernilofsky, Peter Cichon, e Robert Tanzmeister, Wien, Praesens, Wissenschafts Verlag, pp. 180-189 Manuscrits de poètes et passage en recueil au XII siècle in Liber, fragmenta, libellus prima e dopo Petrarca. In ricordo di D’arco Silvio Avalle, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, pp. 23-34 Bibliographie des manuscrits litteraires en ancient provençal, Paris, Librairie Droz 601 BrunelLobrichon, Geneviève 2000 Brunetti, Giuseppina 2006 Canettieri, Paolo 1993 Canettieri, Paolo 1996 Careri, Maria 1991 Careri, Maria 1996 Casella, Mario 1938 Casini, Tommaso 1885 Cavaliere, Alfredo 1973 Chabaneau, Camille 1882 602 La formation des troubadours, hommes de savoir in Cahiers de Fanjeaux, vol 35, Eglise et culture en France méridionale (XII-XIV siècles), Tulouse, Privat, pp. 137-148 Stanze, echi, donne lontane : per l’interpretazione di alcuni luoghi trobadorici in Studi di filologia romanza offerti a Valeria Bertolucci Pizzorusso, vol 2, Ospedaletto, Pacini, pp. 347-379 La sestina e il dado. Sull’arte ludica del trobar, Roma, Colet Il gioco delle forme nella lirica dei trovatori, Roma, Bagatto Alla ricerca del libro perduto: un doppio e il suo modello ritrovato in Lyrique romane médiévale: la tradition de chansonniers, a cura di Madeleine Tyssens, Liegi, Biblioteca della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università di Liegi, pp. 329-378 Per la ricostruzione del “Libre” di Miquel de la Tor. Studio e presentazione delle fonti in Cultura neolatina, vol 56, Modena, Società tipografica modenese, pp. 251-408 Poesia e storia in Archivio storico italiano, vol 2, Firenze, Olschki, pp. 3-63 e pp. 153-199 I trovatori nella Marca Trevigiana in Propugnatore, vol 18, Bologna, Gaetano Romagnoli, pp. 147-187 Provenzale, poesia. 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Atti del convegno tenutosi all’Università autonoma di Barcellona, 16-18, 23-24 ottobre 1997, a c. di Rossend Arques, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici italiani, pp. 205-214 De Robertis, Domenico 1961 Di Girolamo, Costanzo 1976 Di Maio, Mariella 1996 Il libro della “Vita nuova”, Firenze, Sansoni Forma e significato della parola-rima nella sestina in Teoria e prassi della versificazione, Bologna, Mulino, pp. 155-167 Il cuore mangiato: storia di un tema letterario dal Medioevo all’Ottocento, Milano, Guerini Frasca, Gabriele La furia della sintassi: la sestina in Italia, Napoli, Bibliopolis 1992 Fucilla, Joseph 1936 Petrarchism and the modern vogue of the figure “adynaton” in Zeitschrift fur Romanische Philologie, vol 56, Tubinga/Graz, Verlag/Druck, pp. 671-681 Gavazzeni, Franco 1984 Approssimazioni metriche sulla terza rima in Studi danteschi, vol 56, Firenze, Sansoni, pp. 1-82 Gorni, Guglielmo 2003 Repertorio metrico della canzone italiana dalle origini al Cinquecento, Firenze, Franco Cesati Hauvette, Henri La France et la Provence dans l’oeuvre de Dante, Paris, Boivin and C 1929 éditeurs Insana, Jolanda (a cura di) Andrea Cappellano. 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Verità e finzioni dell’io autobiografico, a cura di Francesco Bruni, Venezia, Marsilio, pp. 57-67 Percival, Keith 1975 The grammatical tradition and the rise of the vernaculars in Current trends in linguistics, Historiography of linguistics, vol 13, Mouton, Le Hague, pp. 231-275 Peri, Massimo 2004 Ma il quarto dov’è? Indagine sul topos delle bellezze femminili, Pisa, Edizioni ETS, pp. 167-306 Picone, Michelangelo 1979 “Vita nuova” e tradizione romanza, Padova, Liviana Picone, Michelangelo 2003 Studi sul canone letterario nel Trecento, Ravenna, Longo Pulsoni, Carlo 20032 I versi provenzali della Commedia e le loro traduzioni antiche, in Romanica vulgaria – quaderni vol 15 Studi sulla traduzione ‘95/’97 L’Aquila/Roma, Japadre, pp. 187-244 Ravera, Giulia 2013 Immagini belliche dai Provenzali ai Siciliani in Carte Romanze. Rivista di filologia e linguistica romanze dalle Origini al Rinascimento, vol 2, Milano/Torino, pp. 179-249 Rossi, Luca Carlo (a cura di) Dante. Vita nova, Milano, Mondadori 1999 Santangelo, Salvatore 1921 Dante e i trovatori provenzali, Catania, Giannotta Singleton, Charles 626 1968 Vatteroni, Sergio 1991 Vuolo, Emilio 1962 Saggio sulla “Vita nuova”, Bologna, Mulino Ancora sulle fonti provenzali della sestina di Dante in Studi mediolatini e volgari, vol 37, Pisa, Pacini editore, pp. 169-177 Introduzione e note in Il mare amoroso, Roma, Università, Istituto di filologia moderna 627 INDICE INTRODUZIONE p. 3 CAPITOLO PRIMO Il rapporto tra Petrarca e i trovatori: stato della questione 9 1. Gli studi provenzali in Italia fra Cinque e Ottocento 9 1.1 Alcuni esempi illustri di lavoro sui testi: Colocci, Bembo e Giulio 16 Camillo 2. Il rapporto tra Petrarca e i trovatori nel Novecento 18 3. Arnaut Daniel 23 3.1 “Lasso me” 31 3.2 “Razo e dreyt” / “Drez et rayson” 36 3.3 “Aspro core” 44 3.4 “Verdi panni” 46 4. Aspetti metrici: “Verdi panni” e “S’i’ ‘l dissi mai” 48 5. Singoli trovatori, singoli testi, singole immagini 53 5.1 Bernart de Ventadorn 54 5.2 Bertran de Born 55 5.3 Lanfranco Cigala 56 5.4 Guiraut Riquier 59 5.5 “Quan lo dous tems” 60 5.6 “Quando fra l’altre donne” 61 5.7 “Aura-mot” e “aura-situation” dai Provenzali a Petrarca: il lavoro della 61 critica 629 PARTE PRIMA Il rapporto tra Petrarca e i trovatori: analisi testuale 73 CAPITOLO SECONDO Riuso dei generi poetici nel Canzoniere 73 1. Identificazione e classificazione dei generi trobadorici 75 2. Canzoni d’amore 78 2.1 La disperazione dell’amante: i fragmenta 207, 270 e 29 80 2.2 Lontananza 84 2.3 Fratture nella vicenda amorosa 87 3. Sestina 96 3.1 “Adynata” 109 4. “Escondich” 120 5. Descrizione stagionale ed elementi pastorali 126 5.1 Il riuso della pastorella (madrigali petrarcheschi) 5.1.1 Pastorelle trobadoriche 133 137 6. “Plazer” ed “enueg” 145 7. “Planh” 150 7.1 “Planh” trobadorici in morte dell’amata 154 7.2 Il “planh” nel Canzoniere 156 7.3 Poeta e poesia dopo la morte dell’amata 164 8. Preghiere alla Vergine e a Dio 170 9. Canzoni di crociata 176 9.1 L’incontro di temi diversi e il genere misto. Testi occasionali e di 185 corrispondenza 630 10. Polemica e questioni politiche 186 11. Alba 192 12. “Devinalh” 195 13. Canzoni a quadri 201 CAPITOLO TERZO Topoi trobadorici nei “Rerum vulgarium fragmenta” 1. Un amore disforico ed alienante 1.1 L’espressione topica della sofferenza 203 205 205 1.1.1 La metafora della guerra 208 1.1.2 L’esagerazione nell’espressione amorosa: iperboli 211 1.1.3 L’esagerazione nell’espressione amorosa: raddoppiamento (del 215 dolore o del piacere) 1.1.4 L’esagerazione nell’espressione amorosa: il dolore dell’amante è 216 superiore ad ogni altro 1.2 La condizione straordinaria dell’amante: vivere e morire 1.2.1 La condizione straordinaria dell’amante: la dama può ferire e guarire 217 218 1.2.2 La condizione straordinaria dell’amante: ciclo stagionale e ritmo 220 giorno/notte 1.3 Un’infinita dedizione 226 1.3.1 Il servizio d’amore 226 1.3.2 La supremazia di Amore e dell’amata sul poeta 229 1.3.3 L’amante non ha potere su se stesso 231 1.3.4 Appartenere all’amata 233 1.3.5 Rendersi all’amata 234 1.3.6 Colori d’Amore 235 1.3.7 Gesti che esprimono la subordinazione e la devozione 236 1.3.8 Una paziente attesa 238 1.4 Priorità innaturali 1.4.1 Amare la dama più di se stessi 241 241 631 1.4.2 Accettare o desiderare la morte 243 1.4.3 Meglio morire che vivere nel dolore o senza l’amata 245 1.4.4 Suicidio 246 1.4.5 Accettazione e ricerca della sofferenza 247 1.4.6 Odio contro natura: dispiacere per se stesso e per il proprio bene 251 1.4.7 Gratitudine per la sofferenza 252 1.4.8 “Guiderdone” e ricompense 253 1.5 Elementi contraddittori nella vicenda amorosa 1.5.1 Ossimori 255 1.5.2 Contraddittorietà dello stato amoroso 258 1.6 Un amore totalizzante 260 1.6.1 Un unico amore: unicità del desiderio, permanenza del sentimento 260 1.6.2 Il poeta non può amare nessun’altra donna 263 1.6.3 Focalizzazione univoca del pensiero 266 1.6.4 Il desiderio continua a crescere 268 1.6.5 Oblio e confusione 269 1.6.6 Amore e la dama sono sempre vicini al poeta 272 1.6.7 Il legame tra il cuore del poeta e l’amata 274 1.6.8 Amore mantiene in vita. La metafora alimentare 278 1.7 Trascurare i propri doveri 281 1.8 Divenire selvaggi 283 1.9 Follia e morte della ragione 284 1.10 I rapporti tra l’amante e il mondo esterno 286 1.10.1 632 255 L’amore traspare nell’aspetto esteriore: il pettegolezzo e il volgo 287 1.10.2 Il desiderio di confidarsi con l’amata 1.11 Metafore e similitudini 290 292 1.11.1 Metafora equestre 293 1.11.2 Metafora nautica 294 1.11.3 L’immagine del porto 297 1.11.4 Paragoni con gli animali 298 2. Il ruolo della figura femminile 301 2.1 La perfezione incarnata 302 2.1.1 Le parole dell’amata 304 2.1.2 L’amata è straordinaria e superiore ad ogni altra 307 2.2 Desiderio di non aver mai visto l’amata 312 2.3 La donna nemica e guerriera 313 2.4 Metafore e paragoni per rappresentare l’amata: la natura, il fiore, lo 314 specchio 2.4.1 Metafore e paragoni naturalistici 314 2.4.2 Fiore 316 2.4.3 L’amata e lo specchio: perfezione e vanità 318 2.5 Il nome dell’amata 320 3. Aspetti positivi dell’amore 322 3.1 La dolcezza 323 3.2 Pegni d’amore 326 3.3 Effetti positivi della visione 327 3.4 Migliorare attraverso l’amore 328 4. Mescolanza di sacro e profano 333 4.1 Preghiere 334 633 4.2 Fede amorosa 336 4.3 Situazioni o immagini sacre applicate alla vicenda del poeta 338 4.4 Rappresentazione dell’amata attraverso il sacro 341 5. Elementi spaziali e cronologici nella vicenda d’amore 345 5.1 I luoghi in cui si sviluppa la storia d’amore 346 5.2 Indicazioni geografiche precise 348 5.2.1 Viaggi 349 5.2.2 Paragoni e iperboli 350 5.3 Indicazioni cronologiche nella vicenda amorosa (anniversari) 352 5.4 L’età degli amanti 355 5.5 Alterne sorti della vicenda d’amore 358 5.6 Continuità dell’amore (notte e giorno) 360 6. L’amore e la poesia 362 6.1 Ineffabilità e insufficienza poetica 363 6.2 Afasia 366 6.3 L’origine del canto è nell’amore 367 6.4 Poesia come sfogo 370 7. Altri topoi 371 8. Conclusioni 372 CAPITOLO QUARTO Il significato della presenza trobadorica nel Canzoniere petrarchesco 1. La ricerca della totalità 634 373 374 1.1 La totalità poetica 375 1.2 La totalità amorosa 377 1.3 La totalità esistenziale 378 2. Il confronto con Dante e con la Vita nova 380 3. Una serie trobadorica nel Canzoniere 386 PARTE SECONDA Vita culturale e letture trobadoriche nel Trecento 391 CAPITOLO QUINTO Aspetti della vita culturale trecentesca 395 1. Il contesto culturale avignonese 395 2. Biblioteche 405 2.1 La biblioteca pontificia 406 2.2 Biblioteche universitarie 411 2.3 Biblioteche di enti religiosi 412 2.4 Biblioteche private 414 2.5 La biblioteca dei Colonna 416 3. La realtà scolastica CAPITOLO SESTO Circolazione di testi e cultura trobadorica nel Trecento 1. Diffusione, sopravvivenza e tipologia dei canzonieri trobadorici 416 431 431 2. Il ruolo di Veneto e Monferrato nella diffusione italiana della cultura 455 cortese 3. I florilegi 461 4. “Vidas” e “razos” 464 5. Canzonieri dedicati a singoli autori e raccolte d’autore 469 5.1 Guiraut Riquier 471 5.2 Peire Vidal 474 5.3 Cerveri de Girona 475 5.4 Gaucelm Faidit 476 5.5 Peire Cardenal: il “libre” di Miquel de la Tor 476 635 5.6 Bertran de Born 6. La vicenda peculiare di due sillogi: Bernart Amoros e il conte di Sault 480 6.1 Il canzoniere di Bernart Amoros 481 6.2 Il canzoniere del conte di Sault 482 6.3 Canzoniere N 484 7. Il contesto della produzione tarda 485 7.1 La tradizione della produzione tarda 487 8. Il “Breviari d’amor” 488 9. Le grammatiche del provenzale 489 10. Il “Concistori du Gai Saber” e le “Leys d’amor” 499 10.1 Il “Concistori du Gai Saber” 499 10.2 Le “Leys d’amor” 504 10.2.1 La città 508 10.2.2 L’università 509 11. Raimon de Cornet CAPITOLO SETTIMO Esperienze culturali e rapporti intellettuali del giovane Petrarca 1. La formazione elementare e universitaria 512 517 518 1.1 L’educazione elementare e Convenevole da Prato 518 1.2 Montpellier 519 1.2.1 L’università di Montpellier 1.3 Bologna 1.3.1 L’università di Bologna 2. Amici e corrispondenti del Petrarca 2.1 Philippe de Cabassoles 636 479 521 522 523 524 526 2.2 Dionigi da Borgo Sansepolcro 528 2.3 Tommaso Caloiro 530 2.4 Sennuccio del Bene 530 2.5 Ludwig van Kempen (o Ludovico “Santo” di Beringen) 531 2.6 Raimondo Subirani 532 2.7 Paganino da Bizzozzero 532 2.8 Guido Gonzaga 532 2.9 Marco Portonario da Genova 533 2.10 Giovanni dell’Incisa 533 2.11Giovanni d’Arezzo 533 2.12 Angelo (Lello) di Pietro Stefano Tosetti 534 2.13Barbato da Sulmona 534 2.14 Giovanni d’Andrea 535 2.15Andrea da Mantova (Andrea Painelli da Goito) 535 2.16 Guido Sette 536 2.17 Giovanni Coci 537 2.18 Giovanni Aghinolfi 537 2.19 Bruno Casini 537 2.20 Lapo da Castiglionchio (Giacomo da Firenze) 537 2.21Giberto Baiardi 538 2.22 Orso dell’Anguillara 538 2.23 Lancillotto Anguissola 538 2.24 Luca Cristiani 538 2.25 Bartolomeo Carusi 539 637 638 2.26 Giovanni da Bunio 539 2.27 Niccolosio Bartolomei 539 2.28 Filippo di Vitry 540 2.29 Guglielmo da Pastrengo 540 2.30 Johannes von Neumarkt 541 2.31 Niccolò Acciaiuoli 541 2.32 Zanobi da Strada 542 2.33 Francesco Nelli 542 2.34 Bartolomeo Carbone dei Papazzurri 543 2.35 Giovanni Barrili 543 2.36 Rinaldo Cavalchini 544 2.37 Matteo Longhi 544 2.38 Ponzio Sansone 545 2.39 Checco di Meletto Rossi 545 2.40 Pandolfo Malatesta 545 2.41 Pietro dei Pittavi (Pierre Bersoire) 545 2.42 Enrico Pulice 546 2.43 Albertino da Cannobio 546 2.44 Azzo da Correggio 546 2.45 Bernardo Anguissola 547 2.46 Domenico de Apibus 547 2.47 Moggio Moggi 547 2.48 Benintendi Ravignani 547 2.49 Neri Morando 548 2.50 Iacopo da Imola 548 2.51 Pietro Dietisalvi 548 2.52 Antonio Beccari 548 2.53 Roberto dei conti Guidi da Battifolle 548 2.54 Andrea Stramazzo da Perugia 549 2.55 Geri Gianfigliazzi 549 3. Il rapporto con la famiglia Colonna 550 3.1 Informazioni biografiche sugli esponenti della famiglia Colonna legati a 557 Petrarca 3.1.1 Giacomo 557 3.1.2 Giovanni (cardinale) 558 3.1.3 Giovanni (frate) 559 3.1.4 Landolfo 560 3.1.5 Stefano il Vecchio 560 3.1.6 Stefano il Giovane 561 3.1.7 Agapito 562 CONCLUSIONE 563 BIBLIOGRAFIA 565 1. Opere petrarchesche 565 2. Opere trobadoriche 565 2.1 Singoli autori 565 2.2 Antologie e repertori 572 2.3 Opere retoriche 573 3. Studi su Petrarca 574 4. Petrarca e i trovatori 593 5. Studi sui trovatori 599 639 640 6. Studi sul contesto storico 612 7. Altri studi 623