Università degli Studi di Milano
Scuola dottorale in Humanae Litterae
Dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici
Corso di dottorato in Storia della lingua e letteratura italiana
(XXVI ciclo)
TOPOI TROBADORICI NEI RERUM VULGARIUM FRAGMENTA
Settore scientifico disciplinare L-FIL-LET/10
Tesi di dottorato di
GIULIA RAVERA
Tutor: Chiar.ma Prof.ssa CLAUDIA BERRA
Coordinatore del dottorato: Chiar.mo Prof. FRANCESCO SPERA
Anno accademico 2012-2013
2
INTRODUZIONE
Nel Canzoniere di Petrarca i trovatori sono oggetto di alcune citazioni esplicite. In
primo luogo, il recupero di forme metriche molto riconoscibili (sestine, canzoni 29 e
206) rappresenta un’aperta dichiarazione. È forse meno evidente, ma altrettanto
significativo, il caso di immagini riconducibili in modo puntuale alla tradizione
occitanica, prima fra tutte quella della “caccia impossibile”1. L’autore stesso, dunque,
invita a chiedersi quale sia l’effettivo ruolo dell’eredità provenzale nella sua raccolta
lirica.
Anche il prolungato interesse della critica favorisce tale interrogativo: infatti, gli studi in
merito sono stati numerosi e diffusi nel tempo, a partire dal Cinquecento. D’altro canto
la critica si è a lungo concentrata su aspetti molto specifici: un singolo fragmentum, un
singolo trovatore, singoli concetti ed occorrenze. I riscontri di carattere più generale
oggi disponibili sono legati a studi ormai lontani nel tempo e pensati come raccolte di
specifici luoghi sensibili, come nel caso di Scarano2, oppure risultano non accessibili al
lettore3.
Il discorso può essere perciò ampliato sia nella lettura del Canzoniere, considerato nel
complesso, sia rispetto al numero e alla varietà di componimenti trobadorici cui
accostare l’opera petrarchesca4. Il mio lavoro nasce proprio dall’intenzione di sottoporre
ad un’analisi d’insieme il contatto tra queste due diverse esperienze poetiche, per
approfondire la funzione e il significato del riuso occitanico nel Petrarca lirico. A questo
scopo è apparsa promettente la riflessione sugli elementi topici e convenzionali, definiti
o diffusi in ambito volgare tramite la poesia cortese e dunque passati alla produzione
petrarchesca. Tale scelta risulta efficace a livello metodologico, poiché si tratta di
soluzioni espressive (strutture discorsive ed immagini) al contempo ben delineate
rispetto al contesto e non isolate in sé né limitate ad uno specifico brano o richiamo. Al
contrario, tali elementi, riproponendosi in momenti diversi dell’elaborazione lirica,
rivelano su scala più ampia il gusto e le intenzioni dell’autore; la tipologia e la quantità
di riscontri consente di formulare ipotesi suggestive rispetto alle modalità della
composizione.
Prendere in esame il contatto tra Petrarca e i trovatori non significa, infatti, limitarsi a
segnalare in senso storicistico le fonti del Canzoniere, per quanto sia interessante
rilevare come il poeta tenesse in conto direttamente i modelli d’oltralpe, senza limitarsi
1
“Beato in sogno et di languir contento, / d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura estiva” (son. 212, vv 1-2)
e “Et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori” (sest. 239, vv
36-37). Ci sarà ampio spazio per trattare di tale recupero petrarchesco e dell’uso adynatico in generale.
2
Scarano 1901, di cui si tratterà nel corso del primo capitolo. Lo studioso ha proposto un repertorio di
luoghi petrarcheschi e trobadorici che dimostrassero un preciso recupero; gli studi successivi hanno in
parte criticato i risultati, per la tendenza ad accostare vere e proprie citazioni, più o meno mascherate, a
topoi o ancora a immagini in cui l’eco italiana (per lo più stilnovista o dantesca) fosse molto più
percepibile rispetto a quella occitanica.
3
Mi riferisco alla tesi di laurea discussa da Agostino Casu nell’anno accademico 1992-1993 e mai
pubblicata.
4
La selezione dei trovatori cui fare riferimento è stata ispirata in primo luogo all’autorevole antologia in
Riquer 1975; per indicazioni più specifiche si veda la Nota al testo.
3
alla mediazione dei propri antecedenti italiani5. A tale proposito è rilevante, per altro,
che gli eredi più prossimi della cultura occitanica, i Siciliani, non lascino tracce marcate
nel Canzoniere: è sintomatica la loro assenza (come d’altra parte quella dei siculotoscani) nel breve canone tracciato nella canzone “a citazioni” Lasso me.
Ciò che davvero preme mettere in luce è l’autonomia con cui l’eredità trobadorica viene
messa a frutto da Petrarca: il recupero della tradizione si configura come una
rifunzionalizzazione, una reinterpretazione delle convenzioni, focalizzata su un io del
tutto differente ed attraverso una lirica di concezione assolutamente nuova. La chiave di
tale prospettiva risiede nelle modalità stesse con cui Petrarca d’abitudine costruisce i
propri recuperi dalle auctoritates: ogni aspetto è oggetto di una radicale appropriazione
e personalizzazione, dapprima grazie all’attenta selezione, poi in forma di radicale
trasfigurazione. Ciò significa che ogni citazione esplicita è tale in virtù di una scelta ben
precisa e che, al contrario, recuperi e richiami sono spesso difficili da identificare6,
magari rifusi insieme ad altri riferimenti intertestuali o ricondotti a contesti
profondamente difformi rispetto a quelli di partenza7. Lo studio del riuso trobadorico,
dunque, offre utili informazioni sulla visione e sulla tecnica compositiva dello stesso
Petrarca.
Gli aspetti su cui appare più opportuno soffermare l’attenzione sono tre: convenzioni di
genere, organizzazione dei testi lunghi, singole immagini topiche. In questo modo sarà
5
Ciò non toglie ovviamente che la presenza di rimandi (soprattutto lessicali) allo Stil Novo e a Dante
(soprattutto alle petrose) nel Canzoniere costituisca un punto fermo della critica. Su tali aspetti e sulla
relativa bibliografia si tornerà in seguito.
6
Sulla questione si vedano Chessa 2005, pp. 13-23, e soprattutto Pagani 1946, pp. 50 segg, che fa
specifico riferimento alla questione trobadorica, sottolineando come il senso del contatto tra le due
esperienze poetiche, petrarchesca ed occitanica, non sia nei singoli luoghi, quanto nella concezione
complessiva della poesia come ricerca di perfezione ed eleganza attraverso una costante limatura.
7
Su tale aspetto del labor limae petrarchesco si sono soffermati numerosi critici, partendo dalle
affermazioni dello stesso Petrarca sui metodi funzionali e legittimi dell’imitazione, a partire dalla
memorabile metafora dell’ape, citata ad esempio da Ferraro 2008, pp. 16 segg. Pulsoni 1998, pp. 13-16,
fa riferimento in particolare alla Familiare XXIII, 19, in cui Petrarca distingue tra imitazione “nascosta” e
“palese”. Lo studioso riconduce poi il discorso al più delimitato problema del rapporto con Arnaut
Daniel: la citazione invita il lettore ad operare il confronto tra il testo che ha di fronte e i suoi modelli, ma
al di là di questo manca un’adesione piena e totale. Santagata 1996, p. 39, evidenzia come il legame con
la tradizione precedente non precluda affatto a Petrarca la possibilità di esprimere un’assoluta libertà e
modernità: “Moderno è il suo comportamento nei confronti della tradizione letteraria. Lo caratterizza un
ecumenismo che non ha riscontro nei rimatori coevi, pur così inclini all’ibridismo culturale. Al dettato di
Petrarca è sottesa non solo l’intera tradizione lirica in volgare (italiana, cioè, e provenzale), ma, si può ben
dire, tutta la gamma delle esperienze letterarie a lui accessibili […]. A differenziare Petrarca non è solo la
mole del suo bagaglio di letture (di cui va tuttavia sottolineata la straordinarietà), ma soprattutto la
consapevolezza del tipo di rapporto che egli instaura con la tradizione e quindi il dominio assoluto che
egli esercita su ciò che è suo e su ciò che fa suo.”
Sull’importanza della tradizione in Petrarca si veda anche Ferraro 2008, p. 16: “Non vi è nulla di più
estraneo a Petrarca di una scrittura spontanea […]. Tutto era in lui filtrato da una smisurata erudizione la
cui estensione, ancora in parte da accertare, è comunque superiore alle fonti espressamente dichiarate e di
certo più larga dei confini della sua biblioteca. La tradizione, sia quella più prossima in volgare che quella
prediletta in latino, sovrastava la sua ispirazione, predeterminando la selezione, sempre accorta e
ponderata, di metafore e similitudini e la scelta, ancor più meditata, di temi e motivi, come ogni altra
notazione, anche la più marginale”. Tuttavia: “Egli si era impegnato da tempo a precisare i termini di
un’imitazione che, imponendosi come obbligata, doveva comunque lasciare margini sufficienti
all’originalità personale”.
4
possibile assumere di volta in volta un punto di vista diverso, prendendo in esame
l’organizzazione complessiva della raccolta, porzioni ampie e articolate del testo, passi
più delimitati. Nei primi due casi appare particolarmente importante valutare il rapporto
del singolo testo con i componimenti limitrofi e in generale con il complesso della
raccolta. La disposizione dei fragmenta ha sempre, come è noto, una valenza ben
precisa e nessun momento della storia dell’io ha significato solo per se stesso. Ciò vale
a maggior ragione per i luoghi influenzati dalla tradizione occitanica: il richiamo
assume una sfumatura differente a seconda che sia collocato o meno nella “zona
avignonese”, cioè giovanile (o presunta tale)8, della raccolta e non sembra casuale che
gli elementi trobadorici tendano talvolta ad assommarsi in serie limitate di testi, come
avviene per 21-30, dove inoltre abbondano in modo significativo i metri lunghi. Il riuso
dell’eredità provenzale appare coinvolto nel processo di costruzione della
macrostruttura9.
Per quanto concerne invece i brani più localizzati, le aree semantiche più stimolanti
risultano in primo luogo quelle connesse all’amore disforico e alienante, nell’ambito del
quale l’incontro con i trovatori è particolarmente evidente; seguiranno le analisi della
rappresentazione femminile, il cui sviluppo procede di pari passo a quello dell’io lirico e
che quindi contribuisce alla definizione della figura principale, della gioia amorosa,
della mescolanza di spunti sacri e profani, degli elementi legati al tempo e allo spazio,
di alcuni aspetti metapoetici.
Sia sul piano macro che microtestuale l’attenzione sarà sempre concentrata sui fattori di
vicinanza e al contempo sulle strategie di appropriazione che contraddistinguono il riuso
trobadorico in Petrarca.
Conclusa l’osservazione testuale, ed anzi proprio in relazione all’importanza che la
componente occitanica dimostra nel Canzoniere, si intende proporre una riflessione di
carattere storico-biografico rispetto a quali opere provenzali potrebbe aver letto il poeta
aretino, e in quali occasioni.
Che Petrarca conoscesse i Provenzali in modo piuttosto approfondito lo suggeriscono
con eloquenza i testi, in particolare Canzoniere e Triumphi, dove anzi sembra di poter
intuire l’eco non solo delle opere in versi, ma anche di vidas e razos10. Numerosi critici
hanno insistito su tali aspetti11, benché non sempre le loro posizioni siano state concordi
rispetto alla quantità di componimenti occitanici accessibili nel XIV secolo12 e
soprattutto in merito al contesto che potrebbe aver favorito l’incontro del poeta con i
modelli transalpini. Spesso si è pensato che gli anni avignonesi – gli anni della
giovinezza e della formazione – debbano essere stati molto proficui, per quanto alle
8
Tale definizione è certamente da intendersi in riferimento agli equilibri e meccanismi interni alla
raccolta e dunque alla cronologia fittizia dei testi che vi sono inseriti, non alla datazione storica dei
componimenti.
9
Si farà perciò riferimento, in parallelo, alla contemporanea costituzione della prima raccolta epistolare e
al Secretum.
10
Viscardi 19702, p. 377.
11
Zingarelli 1935, Bertoni 1937, p. 82, Pagani 1946, p. 7, Contini 19704, Lanza 1978.
12
Casella 1936, p. 154 è ad esempio convinto che le letture di Petrarca in ambito trobadorico siano state
ampie e approfondite, ma che non fossero disponibili materiali diversi o più ricchi rispetto a quelli di cui
disponiamo oggi.
5
dichiarazioni di principio ben di rado sia seguita un’argomentazione davvero
approfondita13. D’altro canto non va sottovalutata l’importanza del contesto padovano e
delle letture di Petrarca negli anni ‘50, proprio quando Petrarca ripensava la propria
lirica e la sua organizzazione14. Lo stesso autore ne dà testimonianza nella celebre
postilla al sonetto Aspro core, la cui ispirazione è in parte ricondotta alla suggestione di
Arnaut Daniel.
Tuttavia tale affermazione non esclude affatto che ci siano state altre letture in momenti
e condizioni anche molto diversi. È difficile e potremmo dire antieconomico negare in
toto il contatto con la tradizione occitanica durante gli anni trascorsi in Provenza, dove
la competenza linguistica, la prossimità storico-culturale, la memoria locale e i coevi
tentativi di rinnovamento della tradizione possono con facilità aver influenzato il poeta
in fieri. Le due esperienze e le due fasi di scoperta e (ri)lettura non si escludono né
contraddicono a vicenda: esse coinciderebbero in effetti con due fasi significative per la
produzione petrarchesca, la formazione giovanile (Avignone) e la preparazione delle
raccolte (anni ‘50).
In mancanza di manoscritti o memorie che permettano di dare definitivo fondamento
alle nostre conoscenze sul tema, chiarendo così una cronologia trobadorica petrarchesca
che al momento resta indiziaria, sembra utile identificare le possibilità e le modalità di
lettura che contraddistinguevano il primo Trecento nel Midi. I fattori da prendere in
esame sono diversi: lo sviluppo socio-culturale dell’area avignonese, le biblioteche e in
generale i possessi librari documentati, l’ambiente pontificio e cardinalizio che Petrarca
frequentò a lungo, le amicizie e i rapporti intellettuali che possono aver influenzato il
poeta. Le sillogi, le diverse forme assunte dalla tradizione manoscritta (canzonieri, libri
d’autore, florilegi, raccolte biografiche), gli strumenti per studiare la lirica cortese, i
tentativi di risvegliarne l’eredità in una nuova epoca sono tutte tracce significative di
come il legame con la realtà culturale trobadorica fosse ancora vivo, benché in termini
necessariamente mutati rispetto a quelli originari. Questi molteplici elementi
permettono di ipotizzare che il contesto provenzale fosse favorevole, negli anni in cui
Petrarca vi visse, all’incontro con la letteratura occitanica, per quanto sia impossibile
fornire su simili basi indicazioni certe e riferite alla condizione del singolo individuo.
13
Possiamo citare in proposito le affermazioni di Hauvette 1929, p. 122, Viscardi 19702, p. 378, e
soprattutto di Perugi 1985 (ma la medesima opinione è alla base di vari interventi successivi; tali aspetti
saranno trattati con maggior ampiezza nel corso del primo capitolo).
14
Su tale posizione insiste, anche in polemica con Perugi, Santagata 1990. Per tali questioni si vedano la
trattazione più ampia nel primo capitolo e poi quella posta ad introduzione della seconda parte.
6
Nota al testo
I brani petrarcheschi sono tutti citati secondo l’edizione Santagata 1996.
Le opere provenzali sono sempre citate, quando possibile, secondo la singola edizione critica, secondo le
indicazioni fornite in bibliografia. Alegret, Marcoat, Amanieu de la Broqueira, Peire de Valeria e
Gausbert Amiel sono citati secondo l’edizione Viel 2011. Savaric de Mauleon, Pistoleta, Guilhem
Figueira, Blacasset, Peire Bremon lo Tort, Ponç de la Guardia, Giraut del Luc, Guilhem de Saint
Leidier, Giraudò lo Ros, Salh d’Escola, Arnaut de Tintinhac, Giraut de Salanhac, Aimeric de Sarlat,
Guilhem Magret, Uc de Lescura, Bertran de Born figlio, Ponç d’Ortafà, Raimon d’Avinhon, Engles,
Bertran de Ravenac, Bonifaci de Castellana, Guiraut d’Espanha, Raimon de Tors, Paulet de Marselha,
Olivier lo Templier, Guilhem d’Autpol, Raimon Gaucelm de Bezers, Matieu de Caersi, Joan Esteve,
Amanieu de Sescars, Formit de Perpinyà, Grimoart, Gausbert Amiel, Uc de Mataplana, Jausbertz de
Poicibot, Guilhem Raimon de Gironella, Federico III, il ciclo di sirventesi del 1285 e le pastorelle di
Guiraut Riquier sono citati secondo l’edizione Riquer 1975. Il re d’Aragona, Peire de Bussignac,
Jausbertz de Poicibot, Peire de Corbiac, Uc de la Bacalaira, Pons de Capduelh (Be s cujet venjar
Amors), Peire Rogier e Blacasset (Si mals d’amor m’auci ni m’es nozens) sono riportati secondo
l’edizione Piccolo 1948. Peire de la Cavarana, Peire de la Mula, Peire Guilhem de Luserna, Percivalle
Doria, Paolo Lanfranchi da Pistoia, Ferrarino da Ferrara e Calega Panzà sono citati secondo l’edizione
Bertoni 1915. Le opere delle trobairitz sono tratte dall’edizione Bec 1995; per quelle anonime, da cui non
si sono tratte citazioni, si possono leggere nell’edizione Gambino 2003, con qualche integrazione in
Riquer 1975.
7
CAPITOLO PRIMO
Il rapporto tra Petrarca e i trovatori: stato della questione
La questione del rapporto tra Petrarca e i trovatori1 non è certo una novità per gli studi
critici. Almeno a partire dal XV secolo, i lettori del Canzoniere hanno avuto
consapevolezza dell’influenza che la poesia occitanica aveva avuto sulla raccolta, grazie
anche ai chiari indizi seminati dall’autore a testimonianza del suo apprezzamento2,
quale il gruppo di Provenzali che figura nella schiera dei poeti amanti del Triumphus
Amoris. I tentativi di interpretare tale connessione hanno assunto prospettive, metodi,
ideologie differenti nel corso dei secoli. Non tutte le epoche sono state ugualmente
produttive, ma il dibattito non si è mai sopito del tutto ed anzi spesso ha conosciuto toni
vivaci. I limiti dei risultati raggiunti sono stati più volte sottolineati in momenti e con
intenzioni diversi, per poi ricordare l’urgenza di ulteriori progressi nella riflessione: il
problema, dunque, non ha mai smesso di apparire attuale3. La ricchezza e la varietà
degli studi disponibili consiglia una ricognizione di partenza sullo stato della questione.
Il criterio di riferimento è stato in primo luogo cronologico4, cercando di distinguere
fasi diverse del lavoro critico e quindi orientamenti e preferenze alternativi. La
ricchezza dei contributi novecenteschi, sia per quantità sia per varietà d’approcci, ha
reso opportuna un’attenzione più puntuale; gli ultimi decenni hanno favorito un
notevole approfondimento sul tema, benché spesso focalizzato su aspetti specifici più
che su una visione d’insieme.
1. Gli studi provenzali in Italia fra Cinque e Ottocento
Gli studi di provenzalistica5, a lungo trascurati nel Trecento e nella prima metà del
Quattrocento, tornano in auge nella Napoli aragonese in primo luogo grazie al Cariteo,
al secolo Benedetto Gareth. Petrarchista e catalano, egli si appassionò alla poesia
trobadorica anche per amor di patria, in nome della lingua “limosina”, come gli iberici
chiamavano sia il catalano coevo sia l’idioma degli antichi poeti. Gareth coinvolse nella
propria ricerca il nipote Bartolomeo Casassaggia, che era vissuto piuttosto a lungo in
Francia, e si avvalse di un’ampia raccolta di testi, definita “libro limosino” e poi
identificata nell’attuale codice M6. Non è un caso che la riscoperta della tradizione
occitanica sia dovuta a due catalani, legati ad una terra in cui quell’eredità era rimasta
1
Come introduzione generale alla questione si veda Antonelli 2006.
Tra le tracce più esplicite va certamente ricordato il riuso metrico.
3
Ricordiamo almeno due recenti inviti a non dimenticare la questione, in Fontana 1975 e Santagata 1985.
4
Tale impostazione segue comunque l’esempio di fonti più autorevoli sul tema, che si indicheranno via
via in nota.
5
Fonte fondamentale per tale ricostruzione è Debenedetti 1930 cui qui ci si ispira a titolo di compendio. I
medesimi temi sono recuperati, a scopo di sintesi e stimolo per gli studiosi, da Fontana 1975 e da
Grubbitzsch-Rodewald 1972, in breve e ad introduzione della sua riflessione su Arnaut Daniel.
6
Non risultano riferimenti anteriori che permettano di anticipare tale rinascita degli studi ed è
significativo che in precedenza i riferimenti al patrimonio codicologico, pur conservato in Italia, siano
rarissimi. Sulla conservazione dei manoscritti trobadorici si veda il sesto capitolo. Sul Casassaggia e sul
canzoniere M si veda in particolare Careri 1994.
2
9
viva a lungo e dove i documenti antichi abbondavano. Il Casassaggia, ormai nel 1515, si
occupò anche di alcune traduzioni per rispondere al desiderio di molti intellettuali,
venuti a conoscenza dei progressi dei due appassionati e del loro prezioso canzoniere;
l’esito di tale lavoro si è conservato ed ha il merito di delineare un primo serbatoio
lessicale della lingua occitanica, grazie al carattere letterale della versione.
Al di là dei legami linguistici, lo spunto per il recupero dell’eredità trobadorica veniva
dall’ammirazione nei confronti di Petrarca e dalla curiosità per le fonti che egli potesse
aver adoperato. Nel Cinquecento la convinzione che l’Aretino avesse ampiamente
imitato i poeti d’oltralpe era già diffusa, soprattutto per la loro menzione nei Triumphi.
L’Italia per altro rappresentava un contesto ideale per avviare la riscoperta della cultura
cortese, grazie alla quantità e alla qualità dei manoscritti che vi si erano conservati.
Erede delle precoci curiosità del Cariteo fu a Roma Angelo Colocci, che aveva discusso
con lo stesso Gareth di questioni provenzali, ne aveva letto una traduzione da Folchetto
da Marsiglia e ne aveva consultato il “Libro limosino”, che poi acquistò alla morte del
proprietario. Colocci non si preoccupò mai di riversare i suoi studi in un’opera
sistematica; pertanto, lasciò solo appunti e postille, considerazioni di metrica e storia
della lingua, confronti con l’italiano antico in tavole analitiche appena abbozzate. Il suo
contributo forse più interessante sono le segnalazioni di varianti rispetto ad altri
manoscritti, che egli in parte già possedeva, e che in parte ottenne dal marchese di
Mantova e dall’Equicola7. Anche Mario Equicola, infatti, partecipava pienamente al
clima di entusiastica riscoperta, coinvolgendo l’ambiente dei Gonzaga ed in particolare
Isabella8. A lui si deve, nel 1521, la prima pubblicazione a stampa di un testo
trobadorico9.
Una svolta essenziale negli studi provenzali si deve senza dubbio a Pietro Bembo10.
L’argomentazione condotta nelle Prose della volgar lingua (1525) sull’importanza
dell’idioma e della letteratura occitanici rispetto a quelli italiani, all’epoca soltanto agli
albori del proprio sviluppo, è stata infatti determinante nel dare nuovo impulso alla
ricerca. Le Prose dimostrano da parte di Bembo una consapevolezza pienamente matura
sulla questione trobadorica; la sua preparazione in merito si era avviata, probabilmente,
7
Sul contributo dell’Equicola e sulla sua connessione con Bembo si veda Meneghetti 2000, in cui si fa
riferimento in particolare allo studio di Corrado Bologna (1986) sul canzoniere N2.
8
Debenedetti si è interrogato in particolare sul periodo in cui possono essersi sviluppate le curiosità
provenzali dell’Equicola, allo scopo di verificare se la sua sia stata soltanto una generica partecipazione
ad una tendenza diffusa (ipotesi per cui in definitiva propende) o se in lui possa identificarsi un vero
precursore degli studi più maturi. La redazione del Libro de natura de Amore conservata a Torino (1511)
riporta solo brevissime menzioni di Arnaut Daniel e Folchetto da Marsiglia. È significativo però che nel
primo libro della Chronica di Mantua, iniziata nel ’16 e i cui primi quattro volumi erano ultimati nel ’19,
sia inserita per intero e tradotta la tenzone fra Sordello e un Peire Guilhem. Infine, nell’ultima redazione
del Libro de natura de Amore (1525) la conoscenza dei trovatori pare notevolmente approfondita: vi sono
raccolte numerose vidas e numerosi versi, che dimostrano l’intenzione di illustrare la concezione
dell’amore tipica dei trovatori.
9
Si tratta della già citata tenzone tra Sordello e Peire Guilhem.
10
Lo sottolinea in particolare Debenedetti 1930. Per il contributo del Bembo agli studi provenzali si veda
inoltre Pulsoni 2000.
10
negli anni romani11, favorita dalla collaborazione col Colocci12 e dalle conoscenze
linguistiche sempre più puntuali del futuro cardinale, soprattutto nell’ambito dell’antico
volgare italiano e dello spagnolo. Bembo poteva inoltre servirsi di vari codici, il cui uso
e possesso sono dimostrati dalle numerose postille: quelle su D e K13 sono le più ricche
e approfondite. Tali annotazioni riguardano per lo più lo studio delle figure femminili e
dei loro senhals, i nodi concettuali amorosi, notevoli raccolte di varianti e ipotesi
filologiche. Per quanto concerne lo scopo ultimo di tale impegno si può citare una
lettera14 al Tebaldeo del 1530, in cui Bembo è costretto a giustificare l’invio della sola
biografia di Bartolomé Zorzi, al posto delle molte richieste dall’amico. Bembo dichiara
la propria intenzione di preparare un’edizione dei trovatori, che avrebbe incluso vari
materiali biografici, forse aggiungendo note esplicative e traduzioni; in essa Arnaut
Daniel avrebbe presumibilmente occupato il posto d’onore15.
L’esempio del Bembo favorì ulteriori progressi nel corso del Cinquecento: in particolare
vanno ricordati gli sforzi congiunti dei modenesi Ludovico Castelvetro16 e Giovanni
Maria Barbieri17, il quale vantava per altro un’approfondita preparazione sul Petrarca,
che era sfociata nella pubblicazione di un commento nel ‘45. I due collaboratori
cercarono – con scarso successo – di ampliare le proprie basi grammaticali riferendosi
alle Razos de trobar e al Donato, di cui prepararono una traduzione oggi conservata.
Ebbero a disposizione alcuni manoscritti eccellenti, tra cui H, e raccolsero un corpus
piuttosto considerevole di varianti, versi, vidas e altre informazioni storiche, sempre con
l’intento di preparare anche le traduzioni dei materiali disponibili. Da tali comuni
interessi nacque, infine, un volume dedicato in primo luogo ad Arnaut Daniel: non
sembra casuale che la curatela sia stata affidata ad Antonio Anselmi, che a lungo era
stato scrivano al servizio del Bembo. Intanto Castelvetro si era sempre più impegnato
nel diffondere notizie sulla futura pubblicazione e nel mantenere utili contatti in tutta la
penisola. A Firenze studiò i versi provenzali del Purgatorio dantesco con Varchi ed
ebbe con lui uno scambio di commenti e traduzioni in merito alla sestina del Daniel. Lo
11
Anche in questo caso Debenedetti riflette sulla questione cronologica. Lo studioso è convinto che
l’interesse del Bembo per la tradizione occitanica sia relativamente tardo. In primo luogo negli Asolani
(1505) non c’è alcun riferimento ai Provenzali, mentre simili indicazioni abbondano negli anni successivi,
compresi ricordi e propositi in merito all’approfondimento sull’eredità trobadorica. Inoltre è venuta a
mancare l’unica prova a favore di una conoscenza precoce, cioè la convinzione che nei primi anni del
secolo i manoscritti K e D facessero parte della biblioteca estense e dunque fossero fruibili dal giovane
Bembo, che soggiornò a Ferrara piuttosto a lungo; tale opinione poi rivelatasi erronea era stata suggerita
in particolare dalla presenza nei codici di alcuni richiami a due nobildonne estensi. In realtà D è entrato a
far parte di quella biblioteca solo molto dopo il soggiorno del Bembo a Ferrara, mentre K non ne fu mai
acquisito.
12
Di tale rapporto non resta in realtà alcuna prova, se non l’attendibile informazione relativa ad una
tavola (oggi perduta) con elenchi di nomi e capoversi, inviata da Bembo a Colocci e ancora conservata
alla fine del ‘500.
13
Su H Bembo poteva trovare anche utili commenti duecenteschi ad Arnaut Daniel (in latino), mentre da
K derivano le notizie sui trovatori italiani, all’epoca piuttosto rare.
14
Per il riferimento bibliografico alla lettera, si veda Debenedetti, 1930, p.150.
15
È probabile che le traduzioni della vita e dell’incipit della sestina arnaldiana che ci sono rimaste fossero
volte a tale scopo.
16
Sul contributo di Castelvetro si vedano anche Frasso 1991, Barbieri 2009 e Pulsoni 2010.
17
Quest’ultimo contava per altro sulla conoscenza diretta della lingua e della cultura francese, perché era
vissuto oltralpe circa sei anni a partire dal ’38.
11
stesso Varchi prestò ai due studiosi un codice in suo possesso, C, all’inizio degli anni
‘50 e si lasciò coinvolgere a sua volta dall’entusiasmo: raccolse e compendiò le
grammatiche dell’occitano, studiò e tradusse alcune razos tramandate dalla raccolta
duecentesca di Bernart Amoros, curò un elenco sistematico di esempi tratti da C allo
scopo di sostenere le teorie del Bembo.
Anche Venezia venne contagiata dal passaggio del Castelvetro. Anton Francesco Doni
recuperò infatti le traduzioni approntate dal Bembo e le pubblicò; Beccadelli condivise
con i modenesi altri codici, in parte tratti dalla biblioteca di Torquato Bembo; infine, il
diffuso desiderio di consultare i manoscritti culminò nella creazione di nuove copie,
talvolta sopravvissute, come nel caso di F.
Tale fase particolarmente intensa viene interrotta dall’esilio del Castelvetro, accusato di
luteranesimo e costretto a fuggire dall’Italia. Sembra che a questo punto anche il
Barbieri abbia abbandonato gli studi, benché sino a quel momento egli soltanto si fosse
impegnato direttamente nel lavoro sui testi; tornò poi al Rimario o Arte del rimare18
solo negli ultimi anni della sua vita. L’opera si interrompe perciò al primo libro, che
contiene un’articolata ipotesi sull’origine araba della versificazione rimata, oltre
all’analisi della produzione lirica francese, provenzale, siciliana e italiana. Il secondo
libro, secondo la testimonianza del figlio Ludovico, avrebbe contenuto un vasto
approfondimento metrico. Tuttavia, anche in tale forma incompiuta l’opera ha notevole
valore: per la prima volta gli studi di provenzalistica disponevano di una raccolta di
informazioni ricca e sistematica, che spaziava dalle biografie, ai versi (in parte si tratta
dei soli capoversi, ma non mancano interi componimenti), alle traduzioni, per lo più con
l’accortezza di citare le fonti. Ludovico Barbieri cercherà a lungo di far pubblicare la
fatica del padre, ma è opinione condivisa dagli studiosi che l’assenza di una traduzione
completa fosse un ostacolo insormontabile; il filologo modenese non era giunto a
prepararla e nessuno – sembra – poteva ormai affrontarla, per mancanza di competenze
adeguate.
Non si fermarono, invece, i tentativi di raccogliere e conservare gli antichi versi
trobadorici: eccelse soprattutto il lavoro del cardinale Fulvio Orsini19, in parte con
l’aiuto di Vincenzo Pinelli, il quale acquistò i codici appartenuti al Bembo e soprattutto
realizzò una tavola comparativa sulla base di O, K e g. Simili contributi, benché meno
notevoli, si devono a Piero di Simon del Nero20 e Jacopo Corbinelli, filologo di notevole
prestigio anche se esperto più di francese che di provenzale. Il grave limite di tali
esperienze risiede però nel loro isolamento: per lo più gli studiosi si limitarono a
postillare codici e a raccogliere annotazioni, senza che nessuno si sia sentito abbastanza
preparato per affrontare la responsabilità della pubblicazione.
18
Su tale opera filologica ci si soffermerà, in relazione alla raccolta di Peire Cardenal preparata da Miquel
de la Tor, nel sesto capitolo, dove sarà fornita bibliografia specifica sulla questione.
19
Agli interessi provenzali del cardinale Orsini fa riferimento, oltre a Debenedetti 1930, anche Motta
2004.
20
Avremo modo di ricordarlo ulteriormente in riferimento alla tradizione della raccolta di Bernart
Amoros.
12
Va ricordato per l’ultimo quarto del XVI secolo anche il contributo di Jean de
Nostredame, significativa eccezione al generalizzato silenzio di Francia e Provenza
durante la riscoperta cinquecentesca della tradizione letteraria gallo-romanza.
D’altronde le Vies de plus célèbres et anciens poètes provençaux uscirono, nel 1575,
prima in traduzione italiana che in lingua originale, a Marsiglia, dove era fortissima la
presenza di italiani, presso uno stampatore italiano e con dedica ad Alberico Malaspina.
Nostredame ebbe a disposizione eccellenti fonti manoscritte e conobbe in modo
approfondito i precedenti studi italiani; tuttavia è noto21 che tali punti di riferimento
sono eclissati dalla fantasia narrativa dell’autore. Egli inoltre non mancò di prendere
posizione riguardo alla questione petrarchesca, concludendo spesso i capitoli sui diversi
poeti con la segnalazione di quanto l’Aretino ne fosse debitore22. Secondo Zingarelli23,
il biografo cinquecentesco avrebbe voluto in sostanza “far passare il Petrarca come uno
dei trovatori”. A questo scopo egli esaltò il soggiorno del poeta a Lombez, vicino a
Tolosa; la prossimità cronologica rispetto alle esperienze del Concistori permise al
Nostredame di insistere ulteriormente sui debiti del poeta e sugli incontri che ne
avrebbero favorito le capacità compositive24. Petrarca avrebbe addirittura partecipato
alla cerimonia di laurea e a quella di consegna del relativo premio nell’anno 1330:
un’invenzione forse suggerita dalla ben nota incoronazione poetica avvenuta a Roma
più di dieci anni dopo. In realtà non è possibile ipotizzare nessuna connessione tanto
forte con l’eredità occitanica nel contesto culturale avignonese25. Tali (infondate)
convinzioni erano destinate ad avere un certo seguito e rilevanti conseguenze critiche,
soprattutto perché erano riportate insieme a ricostruzioni tanto fantasiose26 da farle
apparire per contrasto abbastanza attendibili. Da una parte gli studiosi dei due secoli
successivi si sentirono autorizzati ad affermare l’esistenza di trovatori ancora attivi e
fedeli all’antica tradizione ancora nel pieno Trecento: un’ipotesi abbastanza sensata nel
caso della Napoli angioina, ma priva di sostanza per l’Avignone pontificia. A lungo
insomma è stata sottovalutata la crisi che in effetti pesò tra Trecento e Quattrocento
sulla cultura cortese, al di là di esperienze ed esperimenti poetici molto localizzati
(come nel caso di Tolosa e della sua poesia principalmente religiosa), senza considerare
che la conservazione erudita e libraria rappresentava ormai la forma principale di
21
Se ne tratterà con un maggiore approfondimento nel corso del sesto capitolo.
Tra le varie dichiarazioni del Nostredame, è particolarmente gustosa quella relativa ai tre sonetti contro
la Babilonia pontificia (fragmenta 136-138): l’immagine della città celerebbe un obiettivo polemico ben
diverso, cioè la madre del poeta Marchebruse, a sua volta nota rimatrice.
Il tema dell’indipendenza di Petrarca è divenuto particolarmente importante per la critica del ‘900, benché
avesse attirato l’attenzione degli studiosi già in precedenza. Su tale argomento si tornerà a breve.
23
Zingarelli 1935.
24
Si parlarà del Concistori e dell’interesse che può essere attribuito al viaggio di Petrarca in Guascogna
del 1330 nel quinto e nel sesto capitolo.
25
Il dissenso di Zingarelli ha fondamento: infatti, mentre è economico associare tale viaggio e il possibile
contatto con l’ambiente tolosano con un’occasione di lettura delle opere trobadoriche – classiche e
contemporanee –, è certamente eccessiva la conclusione che ne trae il biografo francese.
26
Petrarca, ad esempio, avrebbe partecipato a vere e proprie Corti d’amore e in tale contesto avrebbe
maturato la sua passione per Laura.
22
13
sopravvivenza per la tradizione trobadorica27. D’altro canto ancora all’inizio del ‘900
Gidel si affidava alle informazioni del Nostredame: Zingarelli censura ampiamente tale
perdurante fascinazione per gli aspetti “romanzeschi” e “avventurosi” associati alla
sfera trobadorica28.
Per il XVII secolo non si registrano novità eccellenti, a parte l’energico contributo di
Alessandro Tassoni, che per altro ebbe accesso alle carte del Barbieri (e lasciò qualche
annotazione interessante sulla sua biblioteca). L’aspetto più significativo delle
Considerazioni sopra le rime del Petrarca29, pubblicate a Modena nel 1609, è la decisa
polemica nei confronti del Nostredame e di tutti i detrattori del poeta aretino: la
produzione occitanica non offrirebbe nulla di tanto ingegnoso da aver realmente
influenzato il genio trecentesco. Al di là dell’atteggiamento un po’ fazioso, il Tassoni fu
abile nel ridefinire la cronologia petrarchesca, restituendo ad esempio al cantore di
Laura il primato su Ausias March, mentre a lungo la critica (soprattutto iberica) aveva
insistito sugli ampi prestiti del secondo al primo. Infine le Considerazioni offrono un
valido approfondimento grammaticale e lessicale, per la prima volta basato su puntuali
riscontri tra tradizione provenzale e testo petrarchesco. A Tassoni, infine, va
riconosciuto il primato cronologico nell’impegno sulla ricerca di raffronti tra
Canzoniere e corpus occitanico, in merito ad immagini, figure retoriche, costruzione
della frase.
Le tesi del Bembo sullo sviluppo della lingua e della letteratura italiana erano ancora
ritenute imprescindibili: da tali presupposti partì tra gli altri Federico Ubaldini, che
dimostrò notevole piglio filologico. Catalizzatore essenziale delle nuove esperienze di
provenzalistica divenne la nuova Biblioteca Barberiniana, che sollecitò la riscoperta e lo
studio dei Documenti d’Amore di Francesco da Barberino, opera trecentesca basata
proprio sul recupero dell’antica versificazione trobadorica attraverso l’esperienza dal
vivo (Francesco aveva infatti affrontato un lungo viaggio in Provenza a beneficio della
sua opera). Grazie all’Ubaldini si rinvigorì anche il clima di scambio e collaborazione: il
filologo poté contare innanzitutto sulla Biblioteca Vaticana e successivamente
sull’intervento di Carlo Strozzi, che da Firenze gli portò una copia delle grammatiche
contenute in P (Biblioteca Laurenziana) e il suo codice F, passati poi entrambi alla
Barberiniana. La disponibilità delle grammatiche (di cui una erroneamente ritenuta
petrarchesca) si dimostrò essenziale: Ubaldini arrivò a comporre una sua lirica in
provenzale, oltre a pubblicare i Documenti nel 1640, dimostrando notevole cura ed
erudizione.
Ormai alla fine del secolo, cominciò a circolare anche l’opera di Francesco Redi, che
aveva arricchito di note il Bacco in Toscana: potendo contare su quattro codici (uno era
P ed un altro apparteneva allo Strozzi) e su amicizie importanti (il letterato ammise di
27
Della questione sulle diverse concezioni della letteratura trobadorica tra Duecento e Trecento, tra
prospettiva viva ed attuale, e visione antiquaria, si tratterà con maggior ampiezza nel sesto capitolo.
28
Zingarelli 1935, che fa riferimento a Gidel [Charles Antoine Gidel, Les troubadours et Pétrarque,
1857].
29
Per il commento del Tassoni al Canzoniere, si vedano Casella 1936 e Pazzaglia 2007.
14
aver ricevuto consigli essenziali dal poliglotta Anton Maria Salvini), riuscì ad ultimare
un monumento di lessicografia.
Gli studi settecenteschi tornarono, da una parte, all’illusorio modello del Nostredame e
dall’altra tentarono di portare ordine nei risultati accumulati nel corso dei due secoli
precedenti. Fu fondamentale il lavoro paziente e dottissimo del Crescimbeni, che si
dedicò ampiamente anche alla raccolta di informazioni storiche e biografiche. Egli ebbe
occasione di consultare e confrontare numerosi manoscritti, dimostrando abilità
soprattutto nell’identificare correlazioni fra i singoli fenomeni, come nel caso della
teorizzazione di Andrea Cappellano nel Liber Amoris rispetto alla questione delle Corti
d’amore, in precedenza spesso citata ma mai realmente chiarita. Salvini, che
Crescimbeni aveva coinvolto in qualità di esperto ed erudito, ne completò l’opera con
un’appendice di versi tradotti, tratti principalmente da K, P ed U, ma anche da Fazio
degli Uberti e Dante.
Il culmine dell’eredità bembiana si raggiunse però con gli studi del canonico Antonio
Bastero, barcellonese trasferitosi a Roma per amore della lingua e della cultura locali.
Cominciò a preparare una grammatica dell’italiano e giunse alla conclusione che tale
lingua doveva moltissimo al provenzale, tesi che sostenne – anche ad elogio del proprio
idioma natio – preparando la prima ampia raccolta sistematica di provenzalismi. Il suo
impegno nello spoglio linguistico è encomiabile, per il numero di studiosi (innanzitutto
il Crescimbeni), manoscritti e stampe anche francesi e spagnole che il Bastero volle
considerare, tanto che si è parlato di una Crusca provenzale. Tuttavia il principio
dell’opera, che per altro non giunse alla pubblicazione se non in minima parte, era
troppo elementare: bastava che un termine fosse utilizzato sia in italiano che in
provenzale perché ne fosse dichiarata una derivazione diretta. È forse più significativo
l’approfondimento che il Bastero propose rispetto all’opera del Crescimbeni, grazie alla
sua vasta ricognizione dei codici, nella forma di una Tavola dei poeti provenzali dell’età
d’oro. In essa sono considerati anche autori molto tardi (sino alla fine del ‘400) e in aree
diverse da quelle in cui originariamente si era sviluppato il trobadorismo, in primo
luogo la Catalogna.
Con il Settecento si conclude la grande stagione degli studi provenzali in Italia. Nel
frattempo, infatti, si erano risvegliati simili interessi in Francia, dove si affermò
l’esempio illustre del Raynouard, vera pietra miliare della riscoperta trobadorica; furono
raccolti con dovizia ed entusiasmo tutti i documenti sopravvissuti, producendo tra
l’altro copie anche dei tesori italiani.
Per la penisola va segnalato un ultimo avvenimento editoriale degno di nota: la
pubblicazione dell’opera del Barbieri per mano del Tiraboschi. Del Rimario si erano
salvate due copie manoscritte (una bella ed una minuta) e il Tiraboschi volle recuperarle
allo scopo di sostenere la tesi dell’origine araba della poesia, di cui era divenuto strenuo
fautore. L’indispensabile traduzione dei componimenti fu dapprima affidata ad Andrés,
che si rivelò più “curioso” che competente, e poi all’abate Gioacchino Pla, che portò a
15
termine il suo lavoro, non senza errori, nel 1787. Nel 1790 uscì a Modena l’Origine
della poesia rimata, con una prefazione encomiastica a memoria dell’autore30.
Nel corso dei tre secoli in cui l’Italia fu all’avanguardia negli studi provenzali i risultati
concreti non possono dirsi straordinari, come conclude Debenedetti31. Tuttavia, tale
impegno ha rappresentato un punto di partenza che nessuna ricerca successiva ha potuto
ignorare; inoltre, il diffuso entusiasmo ha favorito in modo determinante la
conservazione di documenti che in caso contrario sarebbero andati facilmente perduti.
Nel corso dell’Ottocento32 si è affermato con maggior insistenza tra gli studiosi il tema
dell’indipendenza (o mancata indipendenza) dimostrata da Petrarca rispetto ai trovatori;
la questione era già stata sollevata in precedenza e sarà ripresa con attenzione ancor più
significativa negli anni ‘30 del ‘900. In questa fase, comunque, i critici hanno cercato
per lo più di conciliare l’ormai innegabile familiarità del Petrarca con i modelli
occitanici e il desiderio di esaltarne l’originalità. In molti casi si è insistito sulle effettive
intenzioni del poeta e sulla sua abilità di rielaborazione, oppure sui condizionamenti
determinati dal contesto culturale. Su tale vincolo contingente e generale si è
concentrato ad esempio il Bartoli. Nella seconda metà del secolo si sono affermate
nuove tendenze di carattere positivista, che possono spiegare la ricerca di un approccio
“scientifico” per l’analisi delle fonti, come nel caso di Antoine Gidel. Lo studioso
raccolse nella sua opera monografica del 1857 – Les troubadours et Pétrarque –
l’esempio di Tassoni, ampliandone in modo notevole la ricerca attraverso un diretto e
puntuale studio dei testi33.
1.1 Alcuni esempi illustri di lavoro sui testi: Colocci, Bembo e Giulio Camillo
Come si è visto, la riscoperta della tradizione provenzale e della sua influenza sulla
lirica italiana (in primis petrarchesca), dipende in origine da contributi illustri. Lo studio
di codici e stampe postillati ha evidenziato innanzitutto l’impegno del Bembo; tuttavia
occorre ricordare almeno altri due casi: il famoso umanista Angelo Colocci e Giulio
Camillo, la cui importanza è rivelata proprio dalla confusione a lungo insoluta rispetto
agli interventi del più celebre cardinale.
Colocci (1474-1549) non si dedicò soltanto alla cultura e alla letteratura classiche, ma
anche allo studio e talvolta alla ricostruzione filologica dei canzonieri medievali:
italiani, occitanici e galego-portoghesi. Egli dimostrò particolare attenzione per le forme
linguistiche affini nelle diverse aree romanze, per la presenza nella lirica italiana di
elementi provenzali e per eventuali varianti dialettali. Sono ad esempio rappresentative
le postille che egli appose al codice M, registrando trasformazioni semantiche in lemmi
30
Il tema sarà trattato con maggior ampiezza nel corso del sesto capitolo.
Debenedetti 1930.
32
Per la parte finale di tale ricostruzione, si fa riferimento in particolare a Fontana 1975.
33
Il medesimo approccio si ritrova nel fondamentale lavoro di Scarano 1901, su cui si approfondirà a
breve e che ha rappresentato a lungo un punto di riferimento imprescindibile; per certi aspetti anzi si tratta
ancora di una pietra miliare, soprattutto per l’assenza o non reperibilità di analisi più recenti di carattere
altrettanto ampio, se non nella forma non sistematica di commenti al Canzoniere.
31
16
corrispondenti in aree linguistiche diverse e legittimando voci antiche (gallo-romanze e
siciliane, ma non dantesche né petrarchesche)34.
Colocci giunse dunque precocemente ad accertare che non solo i lirici duecenteschi, ma
anche le prime due Corone avevano avuto una certa familiarità con l’orizzonte
trobadorico; è possibile ipotizzare che egli intendesse anche delineare una storia della
letteratura romanza, che non poteva prescindere dalle sue radici cortesi.
La precisione del filologo si rivela in particolare laddove ci sia la possibilità di
confrontare le parallele annotazioni che egli ha inserite a margine dei suoi codici italiani
(nello specifico in corrispondenza di testi petrarcheschi, sul Vat. Lat. 4787) e di quelli
occitanici, allo scopo di illustrare il riuso della lingua e della letteratura straniera nella
tradizione italiana. Un esempio lampante è quello del termine “durenza”: Colocci lo
evidenzia a fianco dell’opera di Bertran d’Alamannon su M annotando il rimando a
Petrarca, e viceversa a fianco di quella petrarchesca nel codice 4787 segnalando la fonte
occitanica35.
Tra le sillogi provenzali conservate merita una certa attenzione il codice N2, per la
qualità dei componimenti sul piano testuale, ma anche per la peculiarità della loro
selezione, che corrisponde con evidenza al tentativo di creare un canone lirico
esemplare e di salvare dall’oblio testi provenzali poco diffusi36. Gli antecedenti di tale
raccolta non sono noti; è evidente però la cura dell’estensore, che quasi certamente
utilizzò più antigrafi e, almeno per le prime venti carte, un affine di I e K. Si tratta
dunque di un testimone valido, benché decisamente tardo; essendo stato esemplato
all’inizio del XVI secolo, esso rappresenta d’altronde un interessante punto di
riferimento per la valutazione degli studi di provenzalistica nell’epoca del Bembo. In
effetti, l’intento del copista-filologo appare per certi aspetti influenzato da interessi
petrarcheschi, come suggerisce anche una postilla in cui Petrarca è citato esplicitamente
per evidenziarne le curiosità e i debiti occitanici (ad esempio, in riferimento all’elenco
dei “Guglielmi” del Triumphus Amoris, per quanto non coincidano del tutto con quelli
presenti nella raccolta di N2).
Tuttavia il codice sembra nato in primo luogo dalla passione per i trovatori: è probabile
che il letterato, per approfondire la propria comprensione della tradizione occitanica, sia
partito da una silloge anteriore, forse antica, e ne abbia tratto una copia in pulito,
arrivando però a creare, come si è visto, una raccolta dalle caratteristiche autonome e
preziose. Durante tale operazione, egli deve aver colto l’affinità di certi brani occitanici
con alcuni passi petrarcheschi; tali coincidenze sono state segnalate direttamente su N2,
con riferimenti numerici al Canzoniere. I rimandi rivelano l’uso dell’edizione a stampa
34
Si fa qui riferimento alla ricerca esposta in Brea 2008. Il punto di partenza della studiosa sono due
indici, uno siciliano ed uno petrarchesco, conservati nel codice Vat. Lat. 3217: il primo corrisponde al
contenuto del medesimo codice, il secondo a parte dei testi presenti nel Vat. Lat. 4787, con evidenti
connessioni anche con le prime edizioni a stampa. Per una loro breve descrizione si veda Brea 2008, p.
248, in particolare nota 14. Per approfondire la questione si veda anche il lavoro di Bernardi 2008 sul
codice Vat. Lat. 4831, pp. 80-87.
35
Rispettivamente, cc. 244v di M e 157r del 4787.
36
Per l’analisi del codice cinquecentesco si vedano Bologna 1989 e Meneghetti 2000.
17
dei fragmenta pubblicata da Aldo Manuzio (1501). Non è certo difficile immaginare che
il medesimo filologo riportasse i richiami corrispondenti sulla propria copia del
Canzoniere. Ed in effetti è conservato un Petrarca aldino sui cui margini si conserva una
ventina di note, che rivelano una conoscenza della lirica occitanica più che
approfondita.
A lungo la critica è stata convinta che tali postille si dovessero al Bembo, fino a quando
Bertoni37 non condusse un serrato confronto tra i luoghi indicati nelle annotazioni e la
configurazione dei codici provenzali (K, D, O, H e forse anche A38) appartenuti o
utilizzati dall’autore delle Prose. Tra tali sillogi e i riferimenti petrarcheschi le
corrispondenze non sono stringenti. La confutazione delle convinzioni tradizionali39 ha
permesso di identificare l’ignoto postillatore con Giulio Camillo Delminio40 (1480 ca1544), cui oggi sono attribuiti N2 con le sue glosse e l’edizione aldina postillata.
2. Il rapporto tra Petrarca e i trovatori nel Novecento
Con il primo Novecento si sono avviate ricerche più puntuali, che attualizzano
l’approccio tassoniano e poi francese nell’attenzione alle singole occorrenze e ai loro
possibili antecedenti41. Il contributo più significativo in proposito è quello di Nicola
Scarano, del 190142, che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento obbligato per
l’ampiezza quantitativa, in virtù del numero di passi petrarcheschi e di autori provenzali
considerati. Oltre al vantaggio di una notevole apertura rispetto alla tradizione poetica
(non solo occitanica, ma anche italiana), tale repertorio si propose di riportare soltanto
passi in cui l’influenza di altri autori fosse particolarmente evidente, a garanzia della
veridicità del contatto.
A partire dai dati di Scarano, gli studiosi successivi hanno avanzato varie riflessioni
sulle strategie petrarchesche43. Petrarca si rivela ampiamente debitore dei suoi
antecedenti, soprattutto degli usi più convenzionali e topici, ma al tempo stesso
37
Bertoni 1932, citato poi in Bologna 1989. Bertoni, tuttavia, resta a lungo convinto che l’estensore di N2
sia in realtà Bembo, che poi abbia prestato il codice ad un amico (poi identificato nel Camillo) che vi
avrebbe apposto le note petrarchesche.
38
K, D, O e H erano detti rispettivamente primus, secundus, tertius e parvus; che il Bembo abbia avuto la
possibilità di leggere A è molto probabile, come anche che abbia avuto a disposizione vari altri codici,
benché non sia chiaro quali.
39
È di questo avviso ancora Cian 1932, che insiste sul punto con una certa veemenza, sottolineando per
altro la scarsa rilevanza di quei pochi fogli d’appunti, spesso presentati invece come un’innovazione
straordinaria, forse solo con intenti editoriali (a questo proposito, Cian lamenta l’incomprensione degli
addetti rispetto alle glosse più interessanti). Viene proposta anche una spiegazione relativa alla grafia,
appunto del Camillo e non del Bembo: il primo, amico del cardinale, ne avrebbe appuntato e
salvaguardato le riflessioni.
40
Per un’analisi approfondita dell’impegno di Giulio Camillo si vedano Zaja 2009 e Zaja 2010.
41
Non è molto noto il lavoro di Lommatzsch, citato in Fontana 1975, che ha insistito sulla derivazione
diretta di tre componimenti petrarcheschi da altrettante canzoni occitaniche (105/Eu m’escondich di
Bertran de Born, 134/Un sonet fai di Giraut de Bornelh, 12/En cest sonet di Arnaut Daniel). Il primo e
l’ultimo caso rappresentano ad oggi due luoghi comuni della critica petrarchesca, benché si tratti di
questioni critiche particolarmente vessate.
42
Scarano 1901.
43
Si fa qui particolare riferimento al contributo di Fontana 1975, che propone oltre alla propria opinione
uno spaccato degli studi precedenti.
18
impegnato nella trasformazione di tutti i materiali che recupera. La sua tecnica appare
diversificata: un singolo richiamo può costituire ad esempio il punto di partenza per un
intero componimento, oppure riproporsi in modo più limitato, ma in diversi testi. Gli
autori prediletti sono risultati Bernart de Ventadorn e Arnaut Daniel, i quali potrebbero
essere definiti l’uno più affine per sensibilità, l’altro più apprezzato a livello espressivo,
specialmente in senso tecnico. Non va però trascurata l’importanza di Peire Vidal e
Arnaut de Maruelh; a seguire, Folchetto da Marsiglia, Aimeric de Peguilhan e Aimeric
de Belenoi. La ricchezza e la varietà di tali modelli è essenziale non solo sul piano
stilistico, ma anche rispetto alla concezione amorosa che ciascun poeta propone: di volta
in volta, dunque, Petrarca seleziona la propria fonte in relazione allo stato d’animo su
cui si concentra, considerando che la profondità dell’analisi interiore e l’evoluzione
della vicenda spirituale costituiscono una delle innovazioni più significative nel
Canzoniere.
Benché la proposta di Scarano resti un valido caposaldo, la critica ne ha evidenziato
alcuni limiti44: soprattutto la mancanza di coincidenza in alcuni riscontri, che dunque
andranno considerati erronei. Poli ha sottolineato in particolare come ben pochi tra i
riscontri di Scarano risultino citazioni vere e proprie, identificandosi piuttosto come
coincidenze generiche45.
I dissensi più netti, comunque, riguardarono la questione dell’autonomia creativa di
Petrarca rispetto alla produzione più antica e soprattutto non italiana46. Evidenziare la
ricca messe di richiami trobadorici nel Canzoniere significava infatti sottolineare il
debito di Petrarca, che ne sminuiva l’originalità. La questione andava al di là del solo
poeta aretino per l’urgenza di definire l’effettivo debito dell’evoluzione poetica italiana
rispetto all’egemonia provenzale. Tale preminenza divenne un caposaldo della critica
francese, ma pareri affini si riscontrano anche presso alcuni studiosi italiani ed
europei47.
44
Si fa ancora riferimento principalmente al punto di vista e alla sintesi di Fontana 1975.
Poli 1993, p. 42, che cita anche le affini opinioni di Suitner e Perugi.
46
Come si è visto, tale tipo di preoccupazione non rappresenta di per sé una novità. Tuttavia gli studi del
primo Novecento, e significativamente soprattutto quelli degli anni ’30, mostrano un’attenzione molto più
accesa per il problema. D’altro canto, la convinta intenzione di sottolineare l’autonomia di Petrarca dalla
tradizione occitanica - da una parte esaltando la capacità dell’Aretino di trasformare ogni modello,
dall’altra recuperando il valore modellizzante della poesia toscana e stilnovista – ha motivato l’accusa di
un ritorno alla visione romantica. All’artista infatti viene di nuovo attribuito il ruolo di interprete dello
spirito del proprio tempo e soprattutto della propria nazione. Tale limite è stato evidenziato in particolare
da Casella 1936.
47
Si fa qui riferimento alla riflessione e alla sintesi in Cian 1936, dove sono citati Demoflot, Meyer e
Paris, il quale ha sostenuto che le tre Corone devono in sostanza la loro formazione culturale e poetica
alla lezione trobadorica. Per l’area germanica, Cian nomina Ruth, che affermò il ruolo della tradizione
lirica tedesca e dei Minnesanger rispetto allo sviluppo nostrano. Tra gli italiani, infine, possiamo ricordare
il De Lollis.
Cian, sostenitore della grandezza poetica italiana, non può comunque negare in toto l’influenza
occitanica. Egli anzi sottolinea i caratteri peculiari della lirica italiana duecentesca, nata già matura e
raffinata, e perciò molto meno energica, ma anche libera da restrizioni o sospetti da parte dei lettori.
L’esito gli pare in definitiva proficuo: lo sviluppo di tali manifestazioni culturali può delinearsi in modo
molto più rapido ed efficace, come nel caso della figura femminile. Gli aspetti negativi riguardano,
secondo Cian, la preclusione di alcuni ambiti culturali e poetici, esclusi in precedenza dalla tradizione, e
un eccesso di preziosismo o di attenzione alla forma. Il sistema letterario italiano, insomma, nasce senza
45
19
Nel caso specifico di Petrarca, diversi studiosi48 non potendo negare la connessione con
i Provenzali, ma non volendo accettarne in modo troppo netto la forza modellizzante,
hanno attribuito a tali recuperi la responsabilità di tutti gli aspetti meno innovativi nel
Canzoniere: “quanto c’è di freddo, di falso, di intellettualmente teso e lambiccato”49.
La prospettiva di Zingarelli50 esemplifica con efficacia la propensione ad esaltare la
creatività di Petrarca. Spinto da precise convinzioni ideologiche, lo studioso ha insistito
sulla natura esteriore dei pochi riferimenti rilevabili con assoluta certezza; ha
evidenziato inoltre “l’abisso culturale” che separa le due esperienze poetiche, oltre alle
differenze strutturali e tematiche51. Va per altro riconosciuta l’efficacia con cui
Zingarelli insiste sulla forza creativa di Petrarca: nella sua lirica non c’è spazio per
alcuna eco che non sia profondamente rielaborata e trasfigurata in vista del contesto
espressivo finale. In definitiva, Petrarca recupera dalla tradizione occitanica, secondo lo
studioso, soltanto strumenti lessicali e fraseologici adeguati al proprio stile. Fontana ha
però evidenziato il limite di tali affermazioni: la costante focalizzazione sulla personalità
dell’autore, più che sulla sua opera, ha comportato in alcuni casi l’incomprensione del senso di
quelle stesse trasformazioni tanto esaltate52.
Osservando poi le numerose dichiarazioni di poetica petrarchesche, Zingarelli ha
sottolineato l’assenza di affermazioni relative ai trovatori, ad eccezione della loro
rassegna nei Triumphi. Poiché in quel luogo la progressione dei personaggi non è
cronologica, andrebbe dunque valutata in chiave gerarchica: autori classici, italiani e poi
provenzali53.
Il medesimo intento apologetico informa tutte le considerazioni dello studioso sulla
questione, anche laddove il richiamo alla tradizione occitanica sia molto stringente. È il
caso della postilla ad Aspro core nel codice casanatense, del topos della caccia
la vitalità dell’innovazione, ma già ben definito, come si noterebbe nella produzione siculo-toscana. La
conquista dell’autonomia si dovrebbe piuttosto allo Stil Novo, una vera e propria rivoluzione che
impedirebbe di continuare a considerare la letteratura italiana quale figlia di quella straniera. Il legame
con i modelli non è del tutto dimenticato e rimangono occasioni per il loro recupero, come appunto nel
caso di Petrarca, soprattutto rispetto ad Arnaut Daniel. Tuttavia lo scarto è ormai fortissimo, come
dimostrano le posizioni polemiche di Dante rispetto ai guittoniani (con particolare riferimento al De
vulgari eloquentia).
48
Si ricordino ad esempio Tiraboschi, Ginguené e, più di recente e con diversi presupposti metodologici,
Baldelli. In particolare, il punto di vista di Tiraboschi e la sua convinzione che attribuire un primato ai
trovatori rispetto a Petrarca potesse non essere un elogio per i primi, vengono riprese e puntualizzate in
Fontana 1975.
49
Casella 1936, p. 155.
50
Zingarelli 1935; le posizioni di questo studioso e quelle di Debenedetti 1930 sono forse le più
energiche.
51
È essenziale la differenza tra i destinatari del discorso poetico: la dama per i trovatori, il lettore per
Petrarca, in cui l’apostrofe diretta all’amata è molto più rara. Ciò dimostrerebbe una finalità espressiva
più ampia, meno contingente, capace di guardare alla posterità.
52
Fontana 1975.
53
Petrarca conosce bene i trovatori, non è possibile negarlo, ma attribuirebbe loro un valore nettamente
inferiore nel complesso della tradizione lirica. Per quanto concerne invece Lasso me, la canzone 70 del
Canzoniere che segue la struttura “a citazioni”, Zingarelli 1935 identifica un principio esclusivamente
cronologico nella successione dei rimandi.
20
impossibile, delle strutture metriche e il genere della sestina, per gli spunti erotici, per
l’escondich54.
Non tutti i sostenitori della grandezza o anche della superiorità di Petrarca sui modelli
provenzali appaiono altrettanto rigidi. Mario Casella55, ad esempio, per quanto celebri il
poeta nazionale, riconosce l’affinità della concezione amorosa petrarchesca e
trobadorica in virtù del comune sostrato culturale, medievale e cristiano. Da tale
prospettiva derivano alcuni valori essenziali già nella visione trobadorica: la nobiltà
spirituale oltre (e poi al posto di) quella sociale, la misura e il controllo di sé, la virtù56.
Altro elemento essenziale e comune alla poesia amorosa dai trovatori a Petrarca è quello
della soggettività, dell’intimità del sentimento, che pone la figura femminile in secondo
piano, quale fattore puramente funzionale. La ricerca di un compromesso è ancor più
manifesta nelle affermazioni di Bertoni57. Secondo lo studioso, è vero che gran parte
degli spunti provenzali nel Canzoniere si limitano al piano formale, spesso con esiti
artificiosi; tuttavia quella tradizione è stata anche efficace fonte di ispirazione. Infatti,
proprio a partire dagli echi cortesi il poeta ha potuto progredire nella definizione di
materiali davvero personali, di un’espressione individuale: anche Bertoni, insomma,
esalta la capacità di rinnovamento alla base della produzione petrarchesca, capace di
cancellare qualsivoglia senso di ovvietà o ripetitività. In tali termini va dunque
interpretata l’affermazione secondo cui Petrarca sarebbe l’“ultimo rappresentante della
tradizione poetica provenzale e stilnovistica”58.
Anche Giacomo Pagani propone un bilancio degli studi precedenti, criticando i limiti
ideologici delle posizioni di Zingarelli e Chiorboli59, apprezzando l’intenzione di
Scarano, ma anche evidenziando la superficialità di molti fra i suoi riscontri60, infine
osservando la presenza in Petrarca degli strumenti retorici tipici della lirica cortese e
54
A Zingarelli 1935 si deve anche un’impietosa riflessione sui limiti della critica coeva. L’approccio
tradizionale, legato al principio critico secondo cui ciascun autore è necessariamente “legato ed
obbligato” alle convenzioni letterarie del suo tempo, ha spesso favorito una visione parziale e
un’eccessiva partecipazione personale da parte del singolo critico. Spesso, inoltre, gli studiosi si sono
accontentati di infondati “luoghi comuni” nell’ambito delle ricerche petrarchesche e provenzali, basati
però su fondamenta ben poco solide, senza cercare di valutarne a fondo la pregnanza effettiva. Un rifiuto
radicale dell’approccio critico tradizionale è stato espresso anche in Casella 1936, p. 153: l’attenzione
esclusiva sugli aspetti più circoscritti, soltanto su “notazioni puntuali e frammentarie” gli pareva ormai
inaccettabile. È necessario distinguere tra contenuti e strumenti comunicativi: la focalizzazione degli studi
filologici sugli stilemi e le formule retoriche ha a lungo impedito di cogliere il messaggio più profondo.
Ciò non toglie che anche Casella celebri Petrarca come colui che ha superato gli antecedenti occitanici
proprio grazie alla sua superiore tecnica formale (p. 162).
55
Casella 1936, in particolare pp. 166 segg.
56
Casella evidenzia in proposito il ruolo essenziale di Bernart de Ventadorn, cui spetta la definizione di
tale ideale cortese, ripreso e arricchito di numerose declinazioni diverse dai trovatori successivi. Da qui
l’ipotesi che tale aspetto abbia influenzato e favorito l’interesse di Petrarca per Bernart de Ventadorn,
oltre alla qualità della sua poesia.
57
Bertoni 1937. Si fa qui riferimento anche alla sintesi in Fontana 1975.
58
Bertoni 1937, p. 81. Una posizione simile è espressa anche da Singleton 1968, pp. 77-108, con la
significativa riserva relativa alla novità e alla modernità del percorso interiore delineato nel Canzoniere.
59
Pagani 1946, pp. 7-8.
60
Pagani 1946, pp. 24-25. Lo studioso intende mettere in luce come dietro lo spunto comune si
percepisca sempre la nuova sensibilità petrarchesca, che impedisce di concepire il contatto tra le due
realtà poetiche come semplice imitazione. Pagani ripercorre dunque la presenza trobadorica nel
Canzoniere e nei Triumphi (pp. 40 segg), con particolare attenzione alla canzone 366.
21
insieme il loro rinnovamento61. Anche Pagano, in conclusione, afferma l’originalità,
l’autonomia e la maggiore profondità delle soluzioni petrarchesche, senza però voler
negare il contributo dei trovatori62.
Il problema del rapporto tra Petrarca e i trovatori ha nuovamente suscitato l’interesse
degli studiosi negli anni ‘60 e ‘70. Una breve ma significativa ricognizione della
questione si deve a Umberto Bosco63, che pur esaltando l’originalità del poeta aretino ha
saputo identificare appieno il valore della tradizione e del suo riuso. Lo studioso
propone in primo luogo un’essenziale considerazione. Il fatto stesso di aver scelto quale
strumento d’espressione lirica l’idioma materno e non il latino comporta per l’Aretino
un necessario confronto con la tradizione volgare anteriore ed una sorta di sfida con i
predecessori provenzali, francesi e italiani. Implicitamente, tanto basta a giustificare
l’analisi stessa di quella connessione. A livello metodologico, Bosco ha fornito un
proficuo esempio di analisi stilistica e testuale capace però di andare oltre i singoli
riscontri, in vista di una ricognizione complessiva in merito all’opera e
all’atteggiamento dell’autore. Benché erede della grande tradizione medievale, Petrarca
ha saputo imporre ai suoi versi una misura e un controllo frutto di una consapevolezza
già umanistica64. Così gli è possibile superare gli artifici appariscenti e “schifiltosi” dei
Provenzali e del loro trobar clus, come anche il Roman de la Rose e addirittura –
benché solo dal punto di vista del dominio espressivo – la Commedia dantesca. Tali
osservazioni a proposito del linguaggio petrarchesco sono indubbiamente convincenti,
ed anzi hanno influenzato la critica successiva. Tuttavia, Bosco finì per condividere
l’approccio celebrativo tipico di gran parte degli studi italiani dei decenni precedenti: in
sostanza egli affermò che la competizione poetica con la tradizione non poteva che
essere vinta da Petrarca.
Anche secondo Viscardi65, i singoli spunti o le immagini isolate non sono tanto
importanti in sé, quanto strumento per ragionare sull’influenza generale che ne derivò
l’Aretino. I modelli d’oltralpe gli furono di certo essenziali nell’affinare la propria
capacità poetica, dunque uno strumento di maturazione e formazione letteraria. Solo in
tal senso può essere utile raccogliere le singole occorrenze e i richiami specifici. Ecco
perché lo studioso tornò ad insistere sui limiti della critica precedente, troppo
influenzata dall’esempio di Scarano e, a monte, di Tassoni. Simili ricerche sono
fuorvianti perché perdono di vista un aspetto essenziale: la rielaborazione sempre
operata in modo personale da Petrarca. Né d’altronde ne sono derivati risultati davvero
significativi, perché comunque le ricerche basate soltanto su riscontri puntuali non
61
Pagani 1946, pp. 28 segg, con particolare riferimento agli adynata, alle enumerazioni, ai giochi
antitetici, ma anche alle strutture metriche, in primo luogo la sestina (pp. 38-40).
62
Pagani 1946, pp. 53 segg.
63
Si tratta di una breve parentesi nel corso della presentazione di Petrarca nel più ampio quadro della
letteratura italiana, in Bosco 1965, pp. 158-163. Sul lavoro di Bosco in merito a Petrarca si è soffermato
Martellotti 1983, pp. 311-315.
64
Secondo Bosco, conseguenza felice di tale ridefinizione del linguaggio lirico è il trasferimento in esso
di una propria musicalità, che sostituisce pienamente l’accompagnamento musicale della tradizione
occitanica.
65
Viscardi 1970.
22
hanno saputo dimostrare e spiegare la connessione tra il poeta aretino e i suoi
antecedenti occitanici.
Nel 1975 Fontana ha ripreso il problema Petrarca-trovatori, sottolineando ancora una
volta l’insufficienza dei risultati fino ad allora raggiunti. Tuttavia il bilancio è positivo,
poiché l’abbondanza di strumenti critici rinnovati consente il progresso della ricerca:
edizioni critiche rigorose, conoscenza sempre più approfondita della biblioteca di
Petrarca, cognizione più puntuale sia della tradizione manoscritta che della letteratura
trobadorica nella sua fase tarda (trecentesca). Fontana ha concluso, quindi, la sua
panoramica riproponendo alcune domande fondamentali, ancora irrisolte: quali autori
Petrarca abbia letto, in quale contesto e secondo quale prospettiva – cioè attraverso
quale approccio ideologico, politico o culturale -; infine quale sia la proporzione tra
recupero e trasfigurazione66.
3. Arnaut Daniel
Dopo le analisi puntuali del primo ‘900 e gli intensi dibattiti, per lo più generali, degli
anni ‘30 e ‘70, la critica non sembra essersi più dedicata al rapporto Petrarca-trovatori
secondo una prospettiva d’ampio respiro67, nonostante le esplicite dichiarazioni sulla
necessità di simili ricerche.
Gli studi si sono concentrati piuttosto su aspetti specifici, più o meno delimitati, che
spaziano dal confronto tra Petrarca e singoli trovatori, all’approfondimento su alcuni
componimenti fondamentali, alla riflessione su immagini e strumenti retorici ben
delineati. Anche tale approccio, comunque, ha fornito interessanti risultati in merito alle
possibili letture petrarchesche e alle tecniche di riuso del poeta aretino, inoltre
suscitando, in qualche caso, momenti di vivace dibattito.
Il principale oggetto delle analisi più recenti è senza dubbio Arnaut Daniel. Il tentativo
di chiarire il legame di Petrarca con tale trovatore, soprattutto dal punto di vista della
cronologia, ha determinato una vera e propria polarizzazione degli studi, che ha lasciato
ben poco spazio ad altri autori o a sintesi più articolate. La questione si intreccia per
altro con il difficile nodo della datazione di alcuni fragmenta e risulta perciò ancor più
sensibile per i petrarcologi.
La presenza di Arnaut nel Canzoniere è molto rilevante, come appare evidente già dagli
studi cinquecenteschi e a maggior ragione dallo spoglio di Scarano; ciò spiega
l’abbondanza di riflessioni dedicate a tale aspetto, condotte per altro secondo criteri
piuttosto diversi.
A Perugi68 in particolare si deve una significativa proposizione di metodo: evitare di
concentrarsi su un’unica immagine, su un verso, spunto o fenomeno espressivo isolato,
66
Fontana 1975.
Va però ricordata la tesi di laurea di Agostino Casu, allievo di Santagata, discussa per l’anno
accademico 1992-1993, che non risulta pubblicata e non è perciò accessibile.
68
Perugi 19902. Dal punto di vista metodologico, anche Poli 1993 ha ribadito a proposito di Bernart de
Ventadorn alcuni criteri utili per la valutazione delle fonti nel Canzoniere in generale. Non va mai
trascurata la possibilità di poligenesi: la comparazione è tanto più efficace quanto meno numerosi sono i
modelli possibili. Una volta che essa sia stata identificata, la derivazione può essere ricondotta a quattro
67
23
privilegiando il contesto più ampio, sia rispetto all’opera petrarchesca che a quelle
trobadoriche. In questo modo, risulta più facile tenere in debito conto la capacità
dell’Aretino di accostare richiami diversi o al contrario di diffondere un singolo
riferimento in un discorso poetico articolato, anche a cavallo di più componimenti69.
Con simili affermazioni, Perugi prendeva le distanze dalle minuzie su cui spesso gli
studiosi si erano soffermati già dall’inizio del secolo, in particolare in merito alla
produzione di Arnaut70.
Già Gianfranco Contini, d’altronde, accennando al rapporto tra Petrarca e il trovatore in
una breve premessa all’edizione delle opere del Daniel71, aveva proposto una
ricognizione più ampia72. Nell’insieme, la lezione di Arnaut si dimostra particolarmente
efficace nei luoghi più “arguti e paradossali”, rispondendo ad un gusto “gotico e
manieristico”. Petrarca in effetti parte da recuperi puntuali e da citazioni vere e proprie
per arrivare però a far propria la sostanza di quel modello, declinandone gli schemi più
tipici a propria misura; egli stesso anzi ne diventerà fonte e tramite rispetto agli epigoni
cinquecenteschi.
Gli studiosi che hanno affrontato con maggior approfondimento il rapporto tra Petrarca
ed Arnaut Daniel sono Marco Santagata e Maurizio Perugi73, in uno scambio di opinioni
a tratti piuttosto acceso. Per entrambi il presupposto è nel Canzoniere stesso, in cui si
riscontrano non poche conferme dell’apprezzamento per il Daniel: la citazione della
pseudo-arnaldiana Razo e dreyt in Lasso me, i sonetti 12 e 13, la canzone 29 e il sonetto
forme diverse: topos di cui sia comunque ricostruibile una precisa influenza, accostamento di diversi
strumenti espressivi propri della tradizione, immagine la cui derivazione sia certamente monogenetica. Di
fatto, comunque, anche Santagata si ispira alla medesima prospettiva (in particolare si veda Santagata
1990, pp. 157-211).
69
Ciò non significa tuttavia perdere di vista la concretezza dei testi da analizzare, che ovviamente
rappresentano il punto di partenza per ogni riflessione teorica o ipotesi d’insieme.
70
Il problema riguardava non solo e non tanto una possibile focalizzazione eccessiva su singoli passi, che
anzi avrebbero avuto il valore della concretezza testuale. Canello ad esempio si concentrò sulle
occorrenze danieline di “aura”, allo scopo di dimostrare che sia per Petrarca sia per Arnaut non si trattasse
che di un senhal funzionale all’identificazione della dama, per altro contrapponendosi in modo
significativo all’eccesso della critica biografica nella ricerca di una Laura storicamente documentata. Ne
derivava però un’interpretazione molto libera del trovatore, alla cui lettera richiamava (polemicamente) il
Lavaud, insistendo piuttosto sui rapporti testuali intercorsi tra il Daniel e Petrarca. Per questo dibattito si
veda Lavaud 1911, in cui sono riassunte anche le posizioni di Canello. Per altro, alla confutazione sul
piano teorico corrispondeva anche lo scontro sui singoli passi. Alcuni riscontri del Canello vengono così
rifiutati (come tra la prima canzone petrarchesca e la sedicesima di Arnaut); altre occorrenze (come
l’immagine della lima del sonetto 16 o alcuni spunti della quarta ballata e della prima sestina) appaiono a
Lavaud troppo topiche per essere significative. Tra i luoghi rilevanti, dunque, egli ricorda soltanto la
quinta strofa della canzone 29 (che rimanda ai vv 36-38 della decima di Arnaut), secondo l’indicazione di
Castelvetro, e il primo verso del medesimo componimento (che recupera invece l’avvio della canzone
XIII), l’ovvia immagine della caccia impossibile (fragmentum 212 e ottava sestina), la fine della prima
strofa di 127 (che rimanda al v 14 di XVI), sempre secondo i suggerimenti di Castelvetro, come anche nel
caso del legame tra canzone 23 di Petrarca e XVI (v 39) di Arnaut; infine andrebbe recuperato il
suggerimento di Galvani in merito al rapporto tra sonetto 24 e canzone XVIII.
71
Contini 19705.
72
Va però ricordato che la riflessione di Contini prendeva le mosse da una questione più specifica, cioè
dall’eco arnaldiana che caratterizza l’avvio di Verdi panni (Rvf 29).
73
Ricordiamo in particolare tra le loro opere Perugi 1985, Beltrami-Santagata 1987, Santagata 1990,
Perugi 19902 e 19911.
24
Aspro core, il cui debito nei confronti del poeta provenzale è ammesso dallo stesso
Petrarca in una postilla74.
Il punto di maggior attrito tra i due studiosi riguarda la cronologia. Perugi75 ha cercato
infatti di delineare un diagramma cronologico delle letture arnaldiane del Petrarca,
attribuendo i primi contatti con il trovatore agli anni avignonesi, cui dovrebbe risalire
anche la lettura di Razo e dreyt, da anticipare entro il ‘37. Prova ne sarebbe la
collocazione di Arnaut a capo della schiera dei Provenzali nel Triumphus Amoris, per il
quale Perugi accetta la tradizionale datazione di Wilkins al 1342 (datazione, come è
noto, ormai per lo più respinta): sarebbe cioè dimostrato il precoce interesse per quel
trovatore in particolare. Nel corso degli anni ‘40 la conoscenza della sua opera si
sarebbe ampliata e approfondita, come testimonierebbe il riferimento a testi danielini
nel sonetto 1 e nella canzone 26476. L’esito di tali letture sarebbero nell’insieme le
considerevoli tracce lasciate dalla cultura cortese nella redazione Correggio (‘56-’58); le
aggiunte successive al ‘66, invece, suggerirebbero per gli anni della maturità una più
selettiva preferenza, sempre nell’ambito della produzione arnaldiana, per le canzoni VII,
X e XVI77.
Santagata78 però ha messo in dubbio i riferimenti cronologici “alti”, in particolare quelli
riferiti ai primi anni Trenta, cioè al periodo avignonese. La critica petrarchesca – e
proprio il contributo di Santagata è stato essenziale – ha infatti proposto negli ultimi
decenni un generale spostamento in avanti della datazione di molte opere, tra cui il
Triumphus Amoris, il sonetto 1 e la canzone 264, la redazione Correggio, prima forma
vera e propria del Canzoniere, e il Secretum79. Vari indizi consiglierebbero per altro di
postdatare anche i componimenti per cui una collocazione giovanile è da lungo tempo
accettata, come nei casi del sonetto 13 e della canzone 2980. Innanzitutto, Santagata
mette in evidenza il contenuto della postilla apposta al sonetto 265, in cui Petrarca
colloca la lettura arnaldiana che ha ispirato il componimento all’inizio degli anni ‘50: è
un’affermazione tanto rara ed esplicita rispetto agli studi provenzali da acquisire un
74
I diversi casi qui citati saranno approfonditi nel corso del presente capitolo.
Perugi 1985, pp. 236-240, 292 segg. e soprattutto 306 segg., e poi 19911. Come si vedrà, Perugi non si
è occupato direttamente di cronologia e interpretazioni petrarchesche, accettando indicazioni della critica
precedente (e non proprio recente) come le datazioni proposte da Wilkins e Appel, che gli studi più
innovativi tendevano invece ad abbandonare o a modificare in modo radicale.
76
La datazione dei due testi, strettamente connessa, è stata abbassata ai primi anni ’50 a seguito della
ridefinizione della cronologia del Secretum ad opera di Francisco Rico; si vedano per tali aspetti le note
introduttive ai componimenti in Santagata 1996, rispettivamente pp. 5-6 e 1055-1056.
77
Perugi 1985 aggiunge che le fonti petrarchesche paiono tratte preferibilmente da testimoni legati al
ramo dello stemma (per la tradizione manoscritta dei trovatori e le questioni filologiche si veda il sesto
capitolo).
78
In particolare Santagata 1990, soprattutto pp. 190 segg.
79
I fragmenta qui citati così come la redazione della raccolta, il Secretum, la composizione degli
epistolari e in particolare l’epistola Ad se ipsum sono strettamente legati rispetto al progetto letterario
complessivo dell’autore.
80
La questione di Verdi panni è complicata dalla sua struttura volutamente arcaizzante; si tenga sempre
presente che è tipico di Petrarca ricostruire uno stile coerente con gli anni giovanili in virtù della sede dei
componimenti nel Canzoniere (nello specifico, nella parte iniziale), a prescindere dall’effettivo momento
della composizione. Infine, non vanno trascurate le prolungate fasi di limatura che spesso hanno cambiato
anche radicalmente la conformazione di testi in origine giovanili.
75
25
valore fondamentale81. I legami intertestuali all’interno del Canzoniere offrono ulteriori
argomenti a sfavore di una datazione alta dei fragmenta implicati nella questione
trobadorica. La composizione di Lasso me82, o più probabilmente la sua revisione, è
strettamente connessa alla sistemazione delle tre canzoni degli occhi, 71-73, corrette (o
composte, come nel caso di 73) proprio all’inizio degli anni ‘50. Né offre alcuna
garanzia la collocazione incipitaria di 12 e 13, poiché tale zona della raccolta è stata
oggetto di costanti rielaborazioni da parte dell’autore. L’obiettivo “narrativo” e il
delinearsi di un’evoluzione interiore per l’io poetico suggeriscono che anche testi maturi
dal punto di vista della composizione (come è certo, ad esempio, per il sonetto 3) siano
stati pensati per esprimere esperienze e stati d’animo giovanili83, proprio come avviene
nella zona incipitaria delle Familiari84.
Certo non è necessario ipotizzare che Petrarca abbia letto Razo e dreyt contestualmente
alla composizione della canzone 70 in cui è citata; tuttavia, Santagata non intende
collocare la lettura dello pseudo-Arnaut prima del ‘50 (o al limite del ‘47), di fatto
riconducendo la conoscenza petrarchesca del Daniel in toto alle indicazioni associate ad
Aspro core. A favore di tali considerazioni è la coincidenza del trasferimento del poeta
nell’Italia settentrionale, dove in effetti le testimonianze manoscritte occitaniche erano
abbondanti. La medesima ricostruzione guarda in alcuni casi anche oltre gli anni ‘50 (1,
142, 175, 212, 219, 239, 264, 265) o poco oltre (279, 321, 325). Bisogna infine scendere
sino al ‘68 per la composizione di 197 e quindi per il definitivo recupero del topos
dell’aura nell’omonimo ciclo.
Sul piano testuale, Perugi85 aveva proposto una serie di riscontri tra Petrarca e Arnaut,
che desse fondamento alla considerazione generale della relazione tra i due poeti.
Santagata86 ha dibattuto su tali proposte, rifiutandone alcune e suggerendo qualche
integrazione. La divergenza di fondo concerne in primo luogo l’interpretazione della
natura topica di alcune immagini, che rende poco significativa la coincidenza tra i due
autori; in molti casi non è agevole distinguere tra una citazione o comunque un richiamo
puntuale e voluto, e un generico recupero della tradizione e di soluzioni convenzionali.
Talvolta, invece, è necessario valutare la preminenza degli antecedenti italiani rispetto a
quelli occitanici, con particolare riferimento a Dante87. Certo, il riconoscimento di simili
interferenze in alcuni luoghi non impedisce di cogliere al contempo la pregnanza e la
81
Nulla però impone di pensare che quella sia stata la prima lettura di Arnaut o dei trovatori in genere, né
dello specifico testo, Amor e jois, da cui appunto il poeta trae ispirazione. Per altro, qui Petrarca si
riferisce in modo esclusivo al lavoro su Aspro core e non ai suoi studi o al Canzoniere in generale.
82
Qui è appunto citata esplicitamente una canzone che, molto probabilmente, Petrarca riteneva di Arnaut
(benché tale convinzione oggi sia ritenuta con certezza erronea).
83
Per l’elaborazione petrarchesca della struttura-canzoniere e le relative falsificazioni cronologiche,
nonché per i conseguenti problemi critici, si vedano Santagata 1989, 1990 e 1992. Ma gli studi in merito
sono davvero numerosi; si possono tra gli altri ricordare: Porena 1935, Jenni 1973, Roche 1974,
Martinelli 1976, Gorni 1978 e 1991, pp. 113 segg, Jones 1983, De Robertis 1985, Brugnolo 1991,
Biancardi 1995, Cappello 1998, Niederer 2000, De Robertis 2001, Antonelli 2003, Rico 2003, Carrai
2005, Praloran 2003, 20071 e 2013.
84
A tale aspetto sono stati dedicati in particolare gli studi di Billanovich.
85
Perugi 1985, soprattutto nei capitoli IX e XI.
86
Santagata 1990, pp. 157 segg. e in particolare pp. 184-190.
87
Santagata 1990, p. 188.
26
pervasività dell’esempio arnaldiano. L’accostamento di echi diversi, ma coerenti, in
particolare se tratti dal medesimo autore, è in effetti un fenomeno tipico
dell’elaborazione petrarchesca. Un’altra difficoltà metodologica concerne i passi in cui
non è chiaro se il riferimento sia voluto e preciso, oppure solo un’allusione o addirittura
un richiamo spontaneo e inconsapevole.
Secondo le conclusioni di Santagata, i luoghi notevoli del Canzoniere sono solo
ventisei, ed ancor meno numerosi sono i testi arnaldiani che l’Aretino dimostra con
certezza di conoscere (II, VI, X, XIII, XIV, XV, XVI, XVIII).
Nel complesso, si delineano alcuni utili spunti di riflessione. Petrarca sembra aver
conosciuto per lungo tempo - o comunque abbastanza bene da coglierne precocemente
l’esempio - solo la sestina; lo dimostra il recupero alto del metro in 22, che nemmeno
Santagata intende postdatare. Per il resto, secondo lo studioso, il numero, la
collocazione e la natura dei riferimenti trobadorici (arnaldiani) lascerebbero intuire una
scarsa familiarità con la tradizione d’oltralpe fino agli anni ‘50. È interessante, inoltre,
che nei testi giovanili, come la sestina, o pensati per sembrare tali, come Verdi panni88,
l’esempio trobadorico abbia esito principalmente nelle soluzioni metriche. Petrarca tenta
così forme poco consuete, che restano nel Canzoniere a riprova del suo
sperimentalismo, per essere poi affinate (come per la nascita di un vero “genere”, la
sestina) o abbandonate. Arnaut è inizialmente legato “all’eccentrico, alla deviazione”:
non a caso, gli altri testi precocemente coinvolti nella scoperta del trovatore sono la
canzone 135 – arcaizzante – e la 105 – peculiare nella sua commistione con la frottola.
Alle particolarità formali si affiancano quelle tematiche. I componimenti e gli stati
d’animo giovanili (o pretesi tali) sono infatti consacrati all’amore carnale e passionale89.
Ebbene, tradizionalmente Arnaut e la sestina cui ha dato vita, nonché le “petrose” con
cui Dante si è appropriato di quell’insegnamento, sono associati proprio alla poetica
dell’amore erotico90.
Secondo Santagata, la definizione della forma Correggio e dunque la maturazione
poetica degli anni ‘50 hanno rappresentato il contesto e lo stimolo essenziale perché
Petrarca dimostrasse maggiore attenzione alle fonti occitaniche. Prima infatti sembra
dominare anche quantitativamente l’esempio di Dante, e soprattutto della produzione
petrosa, alla cui mediazione era in sostanza subordinato il recupero di Arnaut. Il
trovatore conosce il suo trionfo all’altezza di Lasso me, nella quale il suo stile91 assurge
a simbolo della fase giovanile dell’espressione petrarchesca. Il rapporto col Daniel e con
i Provenzali diviene così autonomo e diretto. Tuttavia permangono due rilevanti
limitazioni: la preminenza (o addirittura l’esclusività) dell’area tematica passionale e la
88
Tradizionalmente la canzone 29 è ritenuta giovanile; tuttavia sempre più studiosi tendono a postdatarne
la composizione agli anni ’50 o comunque alla maturità.
89
Rispetto a tale fase, Petrarca propone nel Canzoniere una svolta, segnalata da diversi momenti
palinodici o comunque di autoriflessione: ad esempio la canzone 70 – che ripercorre vari momenti della
lirica volgare fino a quella di Petrarca stesso e a cui segue un momento “stilnovistico” – la sestina 142 e
la sestina doppia. Avremo modo di riparlarne in seguito.
90
Non mancano però interpretazioni alternative, che insistono sulla visione spirituale intuibile al di là
della “lettera” del testo. Sulla sestina si approfondirà nel secondo capitolo.
91
Benché rappresentato nel fragmentum 70 da un componimento che non appartiene ad Arnaut, ma che
appunto imita ed anzi estremizza le sue prospettive poetiche.
27
profonda rielaborazione stilistica. Il trobar clus più marcato viene attenuato e ai modelli
sono imposte alcune caratteristiche espressive squisitamente petrarchesche, come le
dittologie e i parallelismi92.
La replica di Perugi non si è fatta attendere93. Lo studioso ritiene che molti dei contatti
identificati da Santagata siano troppo generici e che egli sia ancora influenzato dallo
spoglio di Scarano. Sembra mancare un’adeguata attenzione ai semplici topoi, che
devono essere distinti dagli usi specifici dei singoli autori. La ricostruzione di Santagata
gli appare inoltre troppo puntuale, e perciò rigida e limitante94. La cronologia ne risulta
confusa per quel che concerne la differenza tra composizione e revisione dei singoli
fragmenta, nonché spesso artificiosa, perché piegata alle convinzioni critiche dello
studioso, in particolare in relazione all’intenzione di postdatare le letture occitaniche
agli anni ‘50. Perugi nota inoltre qualche eccesso nel valore attribuito al labor limae
petrarchesco, laddove ci siano indicazioni certe solo per pochi versi o singoli
componimenti; a monte, gli pare eccessiva anche la fiducia con cui alcuni testi sono
ricondotti a brevi cicli o serie all’interno del Canzoniere.
Santagata, comunque, non avrebbe ben compreso lo scopo di Perugi stesso e della sua
ricostruzione95, che non intendeva focalizzarsi sull’aspetto cronologico, quanto sul più
ampio problema del rapporto Petrarca-Arnaut. L’obiettivo di delineare il quadro
generale di simili influenze culturali cambia ben poco in relazione alla datazione. Ciò
non impedisce, per altro, che Perugi si opponga fermamente una volta di più alle
proposte di Santagata a tal proposito, da una parte ritenendole prive di fondamento,
dall’altra sottolineando di nuovo gli indizi relativi agli anni avignonesi96.
Tra i recuperi arnaldiani nel Canzoniere due citazioni sono particolarmente evidenti e
interessanti, anche in virtù della loro natura adynatica, preziosistica e artificiosa: si tratta
della caccia impossibile del bue alla lepre e del tentativo di raccogliere l’aria97. La
seconda occorrenza deriva ulteriore importanza dalla connessione con l’immaginario
92
Va ricordato che le posizioni cui si è fatto riferimento a partire da Santagata 1990 sono anticipate
dall’analisi contenuta in Beltrami-Santagata 1987, cui si intende rimandare in modo più specifico in
merito alla questione di Razo e dreyt e della citazione petrarchesca in Lasso me.
93
Perugi 1990; non sono mancate esplicite accuse alle competenze più o meno adeguate del proprio
interlocutore.
94
Le critiche che i due studiosi si sono rivolti a vicenda mostrano che gli intenti e i problemi sono spesso
comuni, benché affrontati da punti di vista e secondo convinzioni differenti.
95
Con riferimento all’ampio percorso analitico in Perugi 1985.
96
Al problema della versione letta dall’Aretino, si intreccia quello relativo alla versione originaria e
all’attribuzione di Razo e dreyt. Perugi in particolare critica la ricostruzione testuale di Beltrami
(Beltrami-Santagata 1987), accusandolo di non aver tenuto in conto la lezione di K in modo
programmatico, forzando le lezioni proposte in base a tale obiettivo e non per ragioni testuali. Sia tale
sforzo critico, sia l’insistenza nell’attribuzione di Razo e dreyt a Guilhem de Saint Gregori (e a data
anteriore al 1229) sarebbero dovuti all’intenzione di ridefinire e posticipare la cronologia petrarchesca.
97
Le due immagini sono per altro connesse a livello concettuale, in quanto anche il tentativo di
raccogliere l’aria è una sorta di “caccia impossibile”. Per l’aspetto adynatico delle due immagini, in
riferimento agli altri impossibilia nel Canzoniere e alla storia dell’uso retorico, in particolare trobadorico,
si veda il capitolo secondo.
28
dell’aura in generale, che comprende il topos, il gioco nominale tipico di Petrarca,
l’imagery primaverile e naturalistica98.
Il concetto della caccia impossibile è forse il meno studiato tra i due, benché torni in due
diversi fragmenta, il sonetto 212 e l’ottava sestina. In primo luogo è un esempio
lampante del gusto di Petrarca per l’adynaton99 e il rovesciamento, che non di rado si
rivela nella raccolta e soprattutto nelle sestine; inoltre risponde all’apprezzamento per le
affermazioni sentenziose. La scelta compositiva dell’Aretino dev’essere in realtà
approfondita100 anche al di là degli antecedenti occitanici, cercandone le fonti tra i
proverbi mediolatini e romanzi101, che circolavano in ampie serie all’epoca
dell’autore102. Grazie a tali documenti è possibile stabilire che l’immagine era già
attestata nel X secolo (in lingua latina) e che ha un illustre, e ancor più antico,
antecedente in Plutarco (in lingua greca)103. Barbara Spaggiari104 si è dunque proposta
di ricostruire la diffusione e l’evoluzione del topos: tradizione classica (greca e latina) e
cultura romanza ne risultano strettamente connesse105. Sin dalle fasi più antiche,
l’immagine veicola significati coerenti con la resa occitanica e poi petrarchesca: il senso
dell’illusione, la consapevolezza di un’azione inutile e insieme l’incapacità di
abbandonare la speranza, per quanto vana.
L’importanza di Arnaut Daniel come antecedente dell’immagine è evidente (benché non
esclusiva), a partire dalla moltiplicazione delle suggestioni danieline in Beato in sogno,
sonetto 212. La tornada di Anz que sim, infatti, presenta la natura irrazionale del
trovatore e le sue aspirazioni impossibili attraverso una duplice fenomenologia: il bue
che caccia la lepre, ma anche il tentativo di “ammassare” l’aria106. Entrambi gli spunti si
ritrovano in 212, rispettivamente al v 2 (“d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura
estiva”107) e ai vv 7-8 (“et una cerva errante e fugitiva / caccio con bue zoppo e ‘nfermo
et lento”), dove il poeta aretino propone una considerevole variazione della preda da
98
Su tale aspetto si tornerà alla fine del presente capitolo.
Su tale strumento particolare si tornerà nel secondo capitolo.
100
Si fa innanzitutto riferimento all’analisi di Spaggiari 1982.
101
La produzione proverbiale caratterizza in realtà più la tradizione greca (Omero, Aristotele e poi sino
all’epoca romana con Plutarco) che quella latina (in particolare, Publio Sirio e lo pseudo-Catone).
102
Spaggiari 1982 fa in particolare riferimento alla raccolta curata da Singer.
103
Tale produzione è a sua volta mediatrice rispetto ad esempi ancor più antichi e in particolare all’opera
di Pindaro. Plutarco viene apprezzato durante tutto l’arco del Medioevo ed è ancora ricordato con una
certa frequenza in epoca umanistica; i suoi testi godono di un’amplissima diffusione. Non si tratta
comunque dell’unico recupero della materia adynatica classica, basti pensare a Gregorio Nazianzeno, le
cui opere – tradotte in latino e spesso ridotte allo stato di scolia o florilegi – sono molto apprezzate già
con la Rinascita carolingia e poi fino al ‘400.
104
Spaggiari 1982.
105
Il caso è particolarmente interessante perché tipico della cultura del tempo e soprattutto affine alle
tendenze culturali petrarchesche, non solo in virtù dell’amore per i classici, ma anche per l’accostamento
di influenze molteplici.
106
Per quanto concerne l’interpretazione del passo arnaldiano, è interessante la lettura di Picone 1995 in
chiave metapoetica. Il principio di fondo è l’adesione, per altro topica, dell’amante ai dettami d’Amore e
dunque ad una forza universale e sovrumana che può spiegare la diffusione in ambito lirico di concetti
iperbolici e paradossali.
107
Tale occorrenza è resa ancor più interessante dal ricorrere del gioco nominale “l’aura/Laura” su cui
torneremo alla fine del presente capitolo.
99
29
lepre a cerva, anche altrove immagine di Laura108. Come nel caso del bue, l’idea di
raccogliere le ombre assomma numerose fonti classiche: soprattutto gli echi virgiliani e
(indirettamente) quelli omerici dovrebbero essere noti sia al trovatore che a Petrarca109.
E non va trascurato nemmeno l’esempio illustre di Plutarco, nella cui opera si trovano
due occorrenze affini110.
Anche nella sestina Là ver l’aurora l’immagine impossibile e danielina del bue in
caccia (vv 36-37) è anticipata ai versi 10 e 29-30 da richiami adynatici che risentono
degli antecedenti occitanici e della cultura classica, questa volta principalmente latina,
sia sul piano della forma che del contenuto. La struttura sintattica del “prima che”
rimanda a Virgilio e ad Ovidio, mentre è topica l’inversione delle stagioni. Il verso 38
appare invece influenzato dall’eredità greca, per l’idea del canto rivolto a chi non può
udire. Di nuovo Petrarca varia l’oggetto della caccia, qui identificato nell’aria: “et col
bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura […]” (vv 36-37). Anche in
questo caso la scelta del poeta rimanda a precedenti trasfigurazioni di Laura nel
Canzoniere e in particolare ai frequenti giochi nominali; l’aver scelto proprio l’aura,
d’altronde, e soprattutto la resa del verso 37 richiamano ulteriormente la canzone
arnaldiana.
Un altro evidente intervento di Petrarca sull’immagine della caccia impossibile nella
versione danielina concerne il bue - accomunando per altro sonetto e sestina – che è
detto anche “zoppo”, ad esaltare ed aggravare l’impossibilità dell’atto venatorio. Tale
aspetto appare completamente nuovo, privo di fonti dirette111, che parlano tutt’al più di
buoi pigri. Si rivela a questo punto fondamentale il contributo di Erasmo da Rotterdam,
che rimandava all’Odissea e alla descrizione ivi contenuta di Ares ed Afrodite112.
Secondo la tradizione, i due adulteri sono puniti dal marito tradito113: con uno
stratagemma il lento e zoppo Efesto riesce ad intrappolare il veloce e possente Ares.
Tale passo, il cui evidente spessore morale motiva la ripresa del filosofo
cinquecentesco, è coerente anche rispetto all’insegnamento di Plutarco, il quale insiste
108
In particolare nel sonetto 190.
In Eneide ed Odissea l’ambientazione è quella dell’Averno; la vana speranza di stringere le anime
incorporee torna anche nel Purgatorio dantesco (canto II Dante e Casella, canto XXI Virgilio e Stazio). È
notevole la contraddizione per cui nel canto VI Virgilio e Sordello riescono invece ad abbracciarsi, in
nome della patria comune. A parte va considerato l’incontro con Guinizzelli nel canto XXVI, poiché è
piuttosto il fuoco che tiene lontano Dante.
In Petrarca si parla presumibilmente dell’amata, poiché proprio a Laura è dedicato il secondo emistichio
del medesimo verso.
110
Spaggiari 1985. La serie adynatica del terzo verso di 212 sembra anch’essa risentire della tradizione
greca, mentre il verso precedente mostra piuttosto un’impostazione trobadorica e danielina.
111
Per certi aspetti in contrasto con la straordinaria densità di fonti che si accumulano nei due testi in
analisi.
112
Spaggiari 1985. In pieno ‘500 Erasmo prepara una nuova raccolta di proverbi e adynata, che nei suoi
espliciti riferimenti a Pindaro ed Omero dimostra di risalire alla medesima tradizione e permette di
approfondire le modalità della diffusione testuale nei secoli precedenti. È così più agevole valutare
l’effettivo ruolo modellizzante di Arnaut Daniel, rispetto alla possibile importanza delle fonti anteriori;
tale associazione doveva essere chiara anche ai lettori del XVI secolo, come suggerisce il commento del
Vellutello al Canzoniere.
113
Egli attende il convegno amoroso dei due fedifraghi per poi bloccarli, nudi e inermi, sul letto con una
rete che non può essere spezzata.
109
30
sul valore delle specifiche qualità possedute dai singoli individui. Certo Petrarca non
lesse l’originale omerico in greco; tuttavia è noto che egli ne possedeva una traduzione
latina contenuta nelle Periochae di Ausonio114. Inoltre l’insegnamento omerico era
generalmente ritenuto utile ai cristiani, come dimostra la citazione dell’episodio di
Efesto in Gregorio Nazianzeno: sarebbe stata sufficiente a Petrarca anche tale fonte
indiretta, in quanto il dio era universalmente noto come zoppo. Infine, non è difficile
ipotizzare l’interesse petrarchesco per Plutarco e soprattutto per il De tranquillitate
animi, in cui era contenuta l’immagine della caccia impossibile115; è nota per altro la
curiosità del poeta per l’omonimo trattato senechiano116.
3.1 “Lasso me”
Il rapporto tra Petrarca e Arnaut Daniel è stato spesso affrontato in relazione a singoli
testi: componimenti che testimoniassero in modo evidente l’influenza del trovatore sul
Canzoniere o canzoni arnaldiane chiaramente apprezzate dall’Aretino.
È celebre il caso del fragmentum 70, che chiama in causa la questione filologica ancor
più complessa della canzone pseudo-arnaldiana Razo e dreyt: la riflessione sui due testi
ha stimolato un’intensa polemica tra gli studiosi, in particolare Perugi e Santagata.
Lasso me rimanda alla tradizione trobadorica secondo una triplice prospettiva e
costituisce dunque un campo di indagine particolarmente interessante.
In primo luogo, la struttura del testo guarda ad un genere occitanico peculiare e
piuttosto raro, la canzone “a citazioni”117: ciascuna strofa riporta un verso tratto da
un’opera considerata classica o autorevole, secondo l’esempio dei testi ritornellati118. La
presenza delle citazioni consente una duplice interpretazione. Da una parte è ovvio
pensare all’apprezzamento tipicamente medievale per le auctoritates, che conferiscono
autorevolezza al testo. Dall’altra Frank119 ha sottolineato l’aspetto umanistico, tanto più
importante a proposito di Petrarca, insito nella ricerca di conferma e confronto in un
panorama letterario anteriore e considerato “classico”.
114
Spaggiari 1982 sottolinea anche le varie conoscenze personali che avrebbero permesso a Petrarca di
raccogliere ulteriori indicazioni sul passo omerico, come il rapporto con Barlaam, continuativo a partire
dal 1342. Non va invece considerato il lavoro svolto per il poeta da Leonzio Pilato. Egli infatti tradusse
per l’Aretino i poemi omerici a partire da una copia in lingua originale, ma le note petrarchesche si
arrestano molto prima del passo in esame, lasciando intuire che egli non arrivò mai a studiarlo su quella
traduzione.
115
Proprio questa, anche indirettamente, potrebbe essere stata la fonte di Arnaut Daniel, come sembra
implicitamente suggerire l’analisi in Spaggiari 1982.
116
Va però ricordata anche un’altra occorrenza trobadorica affine. Nel sirventese S’ieu fos aissi segner ni
poderos, Bertran de Born rappresenta gli intenti irrealizzabili di re Riccardo affermando che egli caccia i
leoni con le lepri (v 15).
117
Per la questione del genere e del rapporto di Petrarca con il modello strutturale, si veda innanzitutto
Frank 1954.
118
Questa è per lo meno la convinzione di Frank, che si rifà a Jeanroy (Frank 1954, p. 259).
119
Frank 1954.
31
Il modello principale per Petrarca sembra essere stata la canzone Be m’a lonc temps
menat a guiza d’aura del monaco catalano Jofré de Foixà120, composta tra il 1280 e il
1290 circa. L’autore è piuttosto noto: è nominato in diversi documenti tra il ‘67 e il ‘95,
frequentò la corte di Barcellona soprattutto tra l’85 e il ‘90, qui divenne intimo del re e
incaricato della gestione delle finanze ecclesiastiche121. La sua canzone ha sei stanze più
una tornada (contro le cinque di Petrarca), ma sono solo cinque gli autori da cui si cita:
Arnaut de Maruelh (strofe I e II), Perdigon (strofe III e IV), Folchetto da Marsiglia
(strofa V), Gaucelm Faidit (strofa VI) e Pons de Capduelh (tornada). Sono autori tra
loro coevi, tutti riconducibili al quarantennio tra 1180 e 1220, e tutti testi molto noti122,
ad eccezione della seconda canzone di Perdigon123. Il risultato complessivo dimostra
notevole abilità tecnica; tuttavia Jaufré ha scelto per lo più versi enumerativi, e perciò
piuttosto semplici da inserire nel discorso. Il monaco poteva vantare – come lo stesso
Petrarca – un primato d’originalità nell’ambito del proprio idioma, poiché aveva
recuperato il modello strutturale in ambito non provenzale, ma francese: la canzone Se
par mon chant me dëusse aligier del troviere Gilles de Vieux-Maisons. Il suo nome è
ricordato in due documenti del 1211; egli inoltre fu di certo amico di Gace Brulé, autore
attivo soprattutto alla fine del XII secolo. I tre poeti da cui sono tratte le citazioni di
Gilles – Châtelain de Coucy, lo stesso Gace Brulé124 (cui si fa riferimento in due strofe
su quattro) e Blondel de Nesle – sono però contemporanei dei cinque cui avrebbe fatto
poi riferimento Jaufré de Foixà, a cavallo tra XII e XIII secolo. La correlazione
personale e testuale dell’autore francese col Brulé125 permette inoltre di ipotizzare la
datazione di Se par mon chant a circa il 1190.
Proprio al Brulé, e alla sua canzone Tant m’a mené in particolare, si deve anche la
struttura metrica scelta da Gilles (abab / bab) con la sola inversione dei generi delle
rime. Jaufré riprende da Gilles la medesima articolazione strofica, ma dimostra di
conoscere anche il modello più antico, poiché riproduce l’originaria alternanza dei
generi rimici. Non mancano per altro suggestioni a livello di struttura sintattica, benché
120
È Perugi 1985, pp. 230-236 a proporre l’efficace identificazione di questo personaggio con l’autore
delle Regles de trobar; l’idea che Petrarca ne abbia letto la produzione poetica lascia ipotizzare che ne
abbia conosciuto, almeno in modo superficiale, il trattato grammaticale. Su questa e le altre opere del
medesimo tipo in ambito occitanico si tornerà nel corso del sesto capitolo.
121
Zingarelli 1935, p. 108, associa questo autore al Concistori del Gai Saber. Tuttavia si noti che le date
della composizione e della fioritura della scuola non corrispondono; inoltre le informazioni biografiche
disponibili a proposito del monaco rimandano tutte a Barcellona e non a Tolosa. Si potrebbe pensare ad
una confusione con il Concistori barcellonese, sorto nella città catalana proprio ad imitazione degli
avvenimenti tolosani, tuttavia ciò imporrebbe di abbassare eccessivamente la datazione.
122
Infatti le loro testimonianze manoscritte sono molto numerose: Frank 1954, p. 261.
123
Tale scelta meno ovvia è forse giustificata dal fatto che la medesima canzone era servita da modello
per l’incipit di Be m’a lonc temps menat a guiza d’aura, caratterizzato dalla metafora della tempesta e del
naufragio per indicare la condizione dell’innamoramento: un’immagine, per altro, sorprendentemente
affine allo spirito petrarchesco.
124
Il caso di Gilles de Vieux-Maisons è particolare per la relazione personale che soggiace alle scelte
compositive. Non solo egli fu amico di Brulé, ma una delle sue due canzoni citate in Se par mon chant era
dedicata proprio a Gilles, tanto che l’opera “a citazioni” appare una sorta di risposta; non mancano
riferimenti interni che fanno pensare ad una vera e propria corrispondenza. A questo si aggiunge, lo si
vedrà, la simmetria metrica, che delinea una correlazione letteralmente “per le rime”.
125
Vedi nota precedente. Per ulteriori dati cronologici relativi ai testi di Brulé, si può consultare Frank
1954, pp. 263-264.
32
le immagini siano diverse, il che rafforza la percezione di un’influenza diretta di Brulé
sul monaco catalano126.
Il discorso relativo alle origini del genere “a citazioni” è comunque ancor più articolato,
perché coinvolge la tradizione mediolatina. In primo luogo la consuetudine del verso
autorevole, posto a conclusione della strofa, si afferma nelle quartine monorime tipiche
della poesia goliardica. Le fonti delle citazioni sono molteplici: opere classiche, bibliche
o evangeliche, a volte moderne. Pare che tale formula risalga a Gautier de Châtillon,
ben noto maestro dei chierici vaganti, legato dapprima alla corte inglese (dal 1166) e poi
all’arcivescovo di Reims (sino al 1175)127.
È probabile che a Gilles de Vieux-Maisons si debba la trasposizione di quell’esempio
latino in volgare e in ambito lirico, attraverso però un’ulteriore mediazione: gli inni
liturgici. In essi si ritrovano infatti due caratteristiche essenziali per le tre declinazioni
volgari (francese, provenzale e poi petrarchesca) della canzone “a citazioni”: la
solennità del verso scelto, che infatti è sempre un incipit, e la posizione finale nella
strofa. Tale collocazione era già tipica della produzione goliardica, ma il verso citato era
spesso banale, tratto da una porzione qualunque del testo prescelto. Inoltre, le soluzioni
liturgiche sono più affini a quelle liriche dal punto di vista metrico e ritmico: la lirica in
effetti non conosce mai strofe di quattro versi, cioè quelle tipiche della produzione
goliardica128. La tradizione degli inni è, tra l’altro, particolarmente longeva: furono
diffusi durante tutto il Duecento e ne compose persino il cardinale Jacopo Gaetani de’
Stefani, morto ad Avignone nel 1343. E la coincidenza cronologica e geografica con le
esperienze di Petrarca permette addirittura di ipotizzare che il poeta abbia letto in prima
persona qualche esemplare del genere129.
Più in generale va considerato il successo delle forme poetiche allusive, come appunto
quella “a citazioni”, in cui anche gli effetti ritmici possono risultare inconsueti: la loro
importanza non è forse straordinaria a livello quantitativo, ma di certo resistente nel
corso dei secoli (dalla seconda metà del XII al pieno XIV). Il gusto che ispira tali
manifestazioni espressive è squisitamente colto e letterario130.
D’altro canto l’interesse di Petrarca per Be m’a lonc temps menat a guiza d’aura può
anche essere stato motivato dalle caratteristiche espressive del testo, al di là della
struttura131. Da una parte, infatti, benché Arnaut Daniel non sia citato in modo esplicito,
la tessitura di Jaufré de Foixà risente enormemente del suo stile132. Dall’altra è probabile
126
Come sottolinea Frank 1954, p. 264, sono utili indizi relativi alla diffusione della lirica oitanica nella
Francia meridionale e in generale agli scambi tra le regioni d’oc e d’oil.
127
Ma già al 1163 è datato un suo testo satirico.
128
Diversa è invece la questione del verso citato. Nelle opere liturgiche la citazione viene sempre dagli
inni ambrosiani e dunque il verso è un ottosillabo, che è appunto la lunghezza tipica dell’inno; invece
nelle tre canzoni volgari si tratta di decasillabi (in quello petrarchesco endecasillabi), cioè le forme liriche
per eccellenza nelle rispettive tradizioni.
129
La medesima ricostruzione delle interdipendenze di genere è riassunta in Perugi 1985, pp. 230-236.
130
Frank 1954 rimanda alla classica riflessione di Curtius sulla letteratura (e sulla topica) medievale (ora
Curtius 1995).
131
Pulsoni 1998, pp. 239 segg.
132
Su tale aspetto si era pronunciato anche Rossi 1990, contestato però da Perugi 1994; le posizioni dei
due studiosi saranno ulteriormente approfondite nel corso del presente capitolo.
33
che Petrarca apprezzasse l’artificio formale delle citazioni perché conosceva i testi scelti
dal monaco. Infatti nei codici che tramandano la canzone non vengono precisati né gli
inserti poetici né la peculiarità strutturale nel complesso: il poeta aretino deve aver colto
da solo tali caratteristiche. Gli stessi testi citati potrebbero essere divenuti a loro volta
fonti nella composizione di alcuni fragmenta, come nel caso di Ben aio ‘l mal, il cui
esempio si coglie negli incipit dei sonetti 13 e 61133. Per altro le testimonianze delle
canzoni in questione sono piuttosto numerose, ad eccezione della stessa opera di Foixà e
di quella di Perdigon, tramandate solo da C ed R, in cui inoltre sono registrate tutte le
auctoritates del monaco134.
Altro elemento esplicitamente trobadorico del componimento petrarchesco è la fonte
della prima citazione: Razo e dreyt, che nella versione petrarchesca diviene Dreiz et
rayson135, secondo una lezione ortograficamente scorretta. Gli altri riferimenti
riguardano invece la poesia italiana, in particolare Cavalcanti, Dante e Cino da Pistoia,
sino all’autocitazione conclusiva, tratta dalla canzone 23 del Canzoniere stesso. Rispetto
alla scelta delle fonti e alla loro successione, basterà qui rinviare all’ampia letteratura
dedicata alla questione136, anticipando che si delinea un preciso percorso non solo
cronologico, ma critico e metapoetico. Tale elemento va dunque tenuto in conto a
proposito della considerazione che Petrarca riserva ai maestri provenzali, nonché a se
stesso137.
Il problema più difficile da affrontare in merito al fragmentum 70 concerne la
datazione138. Secondo Perugi139, che in proposito recupera l’opinione di Appel, Lasso
me sarebbe stata composta tra ‘37 e ‘40 a Valchiusa140. Come si è visto, la familiarità
133
La rima in –aura pare dunque favorire ulteriori recuperi trobadorici nella composizione petrarchesca:
Pulsoni 1998 propone in tal senso anche l’esempio della decima canzone di Arnaut Daniel (Ab gai so o,
secondo altre versioni, En cest sonet), in cui appunto figura tale rima (compresa la pregnante voce “aura”)
da cui Petrarca prende spunto in numerose occasioni, già citate nel corso di questo capitolo (ma si veda
Pulsoni 1998, pp. 188 segg).
134
Per altro i due codici sono strettamente connessi a livello genetico.
135
Si tornerà ampiamente sulla questione, sia rispetto alla lezione di tale incipit, sia in merito alla
questione dell’attribuzione.
136
Si fa qui riferimento a Santagata 1990, pp. 327 segg.
137
L’opera ha una forte valenza palinodica e autoriflessiva, criticando e chiudendo la fase giovanile (per
cronologia e ideologia) della produzione petrarchesca: sono aspetti che suggeriscono ulteriormente la sua
importanza e il suo interesse.
138
Tale aspetto delicato si inserisce nella più ampia ed altrettanto vessata questione della cronologia delle
letture petrarchesche dedicate ai trovatori e ad Arnaut Daniel in particolare, per il quale si veda lo
specifico paragrafo in questo capitolo. Più in generale, la collocazione cronologica delle opere
petrarchesche è spesso complessa.
139
Perugi 1985.
140
Perugi 1985, pp. 240-250. Lo studioso ricostruisce così la cronologia di quegli anni: tra ’36 e ’37
Petrarca vive una crisi spirituale legata al viaggio a Roma; tornato in Provenza compra la casa di
Valchiusa; si reca a Napoli e di nuovo a Roma per l’incoronazione poetica (1341) e torna a Valchiusa
solo nel ’42, dopo il soggiorno parmense. Sono questi gli anni in cui si dedica al Triumphus Amoris, nel
quale elenca i trovatori maggiori, tra cui spicca proprio Arnaut Daniel, che dunque deve aver conosciuto
prima del ’38.
La canzone 70 va associata, secondo Appel 1924 (cui fa riferimento Perugi 1985, soprattutto nel primo
capitolo e alle pp. 236 segg), agli altri due testi (giovanili) in cui il recupero di Arnaut è palese: sonetto 13
e canzone 29, che da una parte potrebbe avere una sfumatura parodica e dall’altra sembra già risentire
34
petrarchesca con il modello danielino gli sembra anteriore, considerando l’influenza
della canzone Ar vei vermeills sull’incipit e sulla metrica del fragmentum 29, Verdi
panni, che gli studiosi per lo più riconducono agli anni avignonesi141. In effetti, è
proprio il legame tra Lasso me e Razo e dreyt a complicare il quadro: quando e dove
Petrarca ha letto quella canzone? Secondo Perugi, nella solitudine dell’amata Valchiusa,
durante i primi anni dopo l’acquisto della casa, Petrarca avrebbe avuto occasione di
leggere in parallelo Joifré de Foixà e lo pseudo-Arnaut, magari sul medesimo codice.
D’altro canto, sempre secondo Perugi, Petrarca doveva aver già avuto a disposizione – e
abbastanza a lungo perché potesse apprenderne l’esempio – una raccolta arnaldiana: è
un’ipotesi necessaria rispetto alla datazione alta di Verdi panni.
Come ha evidenziato Santagata, la collocazione cronologica della canzone 70 è però
connessa anche a quella delle canzoni degli occhi, che nel Canzoniere la seguono
immediatamente142. Della terza, in particolare, resta un frammento molto rielaborato nel
“codice degli abbozzi”, dove è registrata anche la data della composizione: 1353. La
revisione che ne è seguita deve aver coinvolto le altre due “sorelle”, 71 e 72, poiché il
trittico è fortemente unitario e svolge nell’insieme una funzione essenziale rispetto al
dipanarsi della raccolta. Infatti, dopo il bilancio metapoetico di Lasso me, 71-73
propongono una svolta poetica ed amorosa, per certi aspetti erede dello Stil Novo143, e
dunque un diverso approccio alla figura dell’amata. Tale cambiamento trova
nell’economia del Canzoniere e del percorso interiore dell’io uno stimolo nel viaggio a
Roma cui si riferiscono i sonetti 67 e 69. In tutta questa zona restano le tracce di una
revisione (se non di una composizione) piuttosto tarda, strettamente legata alla
configurazione della forma Correggio, quindi nel pieno degli anni ‘50144.
Un ulteriore fattore dirimente concerne Nel dolce tempo de la prima etade, l’ultima
canzone citata in Lasso me. Sempre secondo Santagata, perché Petrarca le attribuisse un
così elevato valore rappresentativo rispetto al proprio impegno lirico, la canzone doveva
aver raggiunto la sua forma definitiva. Benché l’idea e le prime fasi rielaborative
risalgano con certezza agli anni giovanili – la prova è ancora una volta nel “codice degli
abbozzi” –, le postille rivelano importanti interventi tra il ‘50 e il ‘51, nonché ritocchi
finali all’altezza del ‘56, quando cioè la canzone diviene la ventitreesima del
Canzoniere.
Tuttavia in sé la lettura di Razo e dreyt non è strettamente vincolata alla composizione
del testo in cui è citata, anche perché sarebbe limitante attribuire all’incontro con la
canzone pseudo-arnaldiana l’ispirazione di un componimento tanto importante nel
della particolare sintassi di Razo e dreyt. In definitiva, Perugi, come in precedenza Appel, propende per la
scoperta valchiusana dei trovatori.
141
Come si è visto nel paragrafo precedente, la questione è tutt’altro che chiusa, almeno per quel che
concerne la revisione del componimento.
142
Per la ricostruzione relativa alla macrostruttura si veda Santagata 1990, pp. 327 segg., ma in parte già
pp. 273 segg.
143
La questione è anche in questo caso ben più complessa: la svolta non è né lineare né definitiva. Si
vedano in proposito Praloran 2007 e 2013 e Berra 2010.
144
Si considerino altri due fattori che mettono in rilievo tale serie di testi: si tratta di ben quattro canzoni
vicine (perciò paragonabili nel Canzoniere solo alla serie 125-129), posizionate esattamente a metà della
sezione in vita (nella redazione Correggio, appunto).
35
percorso poetico della raccolta petrarchesca. Inoltre, proprio una citazione dilazionata
nel tempo e a memoria spiegherebbe perché Petrarca inverta i due termini incipitari,
errando dunque nel presentare il verso provenzale145.
3.2 “Razo e dreyt” / “Drez et rayson”
Le testimonianze di Razo e dreyt sono scarse e soprattutto non proprio coerenti. Solo
due manoscritti tra quelli sopravvissuti la tramandano, C e K146, per altro con incipit
diverso: la lezione corretta nel primo e Dreg erazos nel secondo147, cioè una versione
assai vicina a quella erronea citata da Petrarca148. Santagata149 in una prima ipotesi ha
attribuito l’errore al poeta aretino, che potrebbe aver influenzato i testimoni successivi,
ma poi ha affermato che l’origine dell’inversione potrebbe essere dovuta alla tradizione
italiana dei codici trobadorici e per loro tramite essere giunta al poeta. Perugi150 ha
sostenuto per lo più la seconda interpretazione, ritenendo che il poeta leggesse il testo in
una silloge imparentata con K; fenomeni di inversione come quello che si delinea tra C
e K, d’altronde, sono tutt’altro che rari, senza perciò dover immaginare alcuna
responsabilità da parte di Petrarca. Tuttavia è probabile che Petrarca non leggesse
proprio K151. Il testo di K in effetti non si propone come una fonte affidabile: è, infatti,
145
Nel Canzoniere, infatti, la canzone suona Drez et rayson. L’ipotesi è di Santagata 1990, pp. 327 segg.,
che però non esclude che l’errore nell’incipit dipenda da una particolare tradizione italiana, anche perché
non è del tutto assente dai testimoni manoscritti. Se invece si accetta l’ipotesi della citazione a memoria,
potrebbe essere stata proprio la lezione petrarchesca ad aver influenzato i testimoni. Sulla questione si
tornerà a breve.
146
Per le indicazioni relative ai codici, si veda il sesto capitolo. Si noti per altro che in C la canzone è
preceduta e seguita da componimenti di Arnaut Daniel.
147
I due termini dell’incipit hanno un preciso valore tecnico in ambito poetico: la razo è il soggetto
dell’opera, mentre dreyt indica la legittimazione del canto, anche a garanzia della sua originalità.
148
“Drez et rayson es qu’ieu ciant e m demori”, canzone 70, v 10.
149
Santagata 1990, pp. 327 segg.
150
Perugi 19912, che riprende le ipotesi di Perugi 1985, in particolare i capitoli I e IX, e al contempo
risponde a quelle di Beltrami-Santagata 1987 e Santagata 1990, pp. 157 segg. e 327 segg. Lo studioso ha
comunque dimostrato una certa incertezza (Perugi 1985 e 1990), laddove ha suggerito l’influenza
petrarchesca sull’effettiva lezione del testo in concomitanza con il passaggio della tradizione dalla
Provenza all’Italia. Tali condizionamenti locali spiegherebbero la variazione di alcune lezioni, come il
nome proprio “Franceschin”, che talvolta si è pensato riferito proprio a Petrarca. Sulla questione si tornerà
oltre.
151
Corrado Bologna (Bologna 1993 [1986]) ha riconosciuto la mano che vi trascrive Razo e dreyt, diversa
da quella principale nel codice, come tipica della metà del Trecento; tale versione, perciò, potrebbe essere
troppo tarda perché Petrarca se ne sia avvalso, a seconda cioè del momento in cui si collocano le sue
letture provenzali. Santagata 1990, p. 327 segg, ne tiene conto nel suo tentativo di postdatare Lasso me;
Asperti-Pulsoni 1989 propendono a questo punto per attribuire ai codici Sg e a, o più probabilmente alla
tradizione che ne discende, un contributo essenziale rispetto alla formazione trobadorica di Petrarca,
benché le prove in tal senso non siano particolarmente solide. Per Perugi 19911 è l’occasione per ribadire
la propria convinzione secondo cui Petrarca lesse la canzone in Provenza e in tempi alti, prima cioè che in
Italia potesse circolare la versione di K. Ne consegue l’ulteriore affermazione per cui le letture giovanili
dell’Aretino non si sarebbero limitate alla sestina.
Anche l’identificazione della provenienza del copista di K ha diviso i critici: Perugi (1985 e 19902)
propende per un’origine provenzale, ma cerca di spiegare alcuni cambiamenti nella lezione di K rispetto a
quella di C in riferimento al passaggio in Italia. Sull’interpretazione dei medesimi passi è tornato a più
riprese Pulsoni (Asperti-Pulsoni 1989, Pulsoni 1993 e 1998), evidenziando la difficoltà del testo e quindi
36
lacunoso, poiché mancano la quarta e la quinta strofa. Dal canto suo C presenta non
pochi problemi, per la presenza di numerosi versi invertiti o ipometri; perciò Perugi
ritiene comunque che il testo migliore a livello qualitativo sia quello di K. Tale opinione
è in parte contraddetta dall’evidente autonomia esercitata dal suo copista (o forse anche
dai giullari), quasi certamente italiano, piuttosto prono alla rielaborazione: la natura di
tali interventi sembra condizionata dal bisogno di farsi comprendere da un pubblico per
il quale il provenzale non era lingua madre. Va notato inoltre che non di rado i
cambiamenti introdotti nel testo provocano la sostituzione della rima con l’assonanza,
soluzione del tutto estranea alla tradizione trobadorica. Alcuni cambiamenti a livello
lessicale, inoltre, sembrano rivelare l’influenza su K del contesto socio-culturale italiano
e dunque potenzialmente affine a quello in cui visse (e lesse) Petrarca.
All’origine della canzone è indubbiamente il modello danielino152, che l’autore segue
con notevole fedeltà, il che spiega facilmente la tradizionale attribuzione del testo
proprio ad Arnaut; inoltre la convinzione di Petrarca in tal senso153, resa evidente –
benché non esplicitata - dalla sua citazione in Lasso me, potrebbe aver influenzato
l’opinione dei letterati posteriori154. È infine probabile che parte della tradizione
indicasse il testo come di Arnaut: dunque lo stesso Petrarca potrebbe averlo letto sotto
questo nome. Nessun canzoniere trobadorico sopravvissuto riporta tale testimonianza:
in K, infatti, il testo è anonimo, mentre in C è attribuito a Guilhem de Saint Gregori –
attribuzione che Perugi censura immediatamente come infondata, in contrasto con le
convinzioni di Beltrami e Santagata155.
Oltre alle due fonti principali, C e K, rimane però il “frammento Strozzi”, conservato
appunto nel codice Laurenziano Strozzi 178156, che pur essendo assimilabile a C per la
lettera dell’incipit, se ne distingue per l’attribuzione ad Arnaut Daniel157. È difficile
la probabilità che i copisti siano caduti in errore. Lo studioso propende in sostanza per una realizzazione
integralmente italiana di K.
I medesimi riferimenti, infine, erano stati presi in esame da Beltrami-Santagata 1987, che raccomandano
però particolare prudenza, per l’assenza di indicazioni affidabili sui nomi e i personaggi citati nella
canzone.
152
Altro probabile antecedente di Razo e dreyt è un’opera latina della fine del XII secolo, il Pamphilus,
che a sua volta trattando di questioni amorose si riferisce principalmente ad Ovidio. La connessione
tematica è piuttosto evidente, benché la gran parte dei contenuti sia di certo topica e convenzionale. Vedi
Perugi 1985.
153
È davvero difficile pensare che Petrarca abbia spontaneamente e consapevolmente citato figure
mediocri come Guilhem de Saint-Gregori o Guilhem de Murs (le possibili attribuzioni alternative ad
Arnaut Daniel). Pulsoni 1998, pp. 239 segg. ritiene che questo sia un ulteriore indizio del fatto che
Petrarca non abbia letto K o che comunque non abbia fruito soltanto di tale codice, poiché qui manca
l’attribuzione ad Arnaut Daniel, necessaria per spiegare l’attenzione del poeta verso un testo poco efficace
come Razo e dreyt.
154
Fino alle riflessioni del Muratori (1711), l’attribuzione non è mai messa in dubbio, ad eccezione di chi
citi Nostredame, come Tassoni, poiché il biografo francese riteneva che l’autore della canzone fosse
l’ignoto (forse fittizio) Boyer. Bisogna comunque considerare che da una parte all’autorità di Petrarca si
assomma quella di Bembo, che di fatto ne segue l’esempio; dall’altra quasi nessun critico o filologo cita
questo testo.
155
Perugi 1985 e seguenti, Beltrami-Santagata 1987.
156
Perugi sembra trascurare tale parte della tradizione manoscritta.
157
Non va escluso, in ogni caso, che l’attribuzione del frammento Strozzi sia influenzata dall’autorevole
opinione implicitamente espressa da Petrarca con la sua citazione, considerando che il codice è stato
esemplato nel ‘300; né si può escludere a priori che sia piuttosto Petrarca ad aver influenzato la lezione di
37
immaginare che il copista o l’antigrafo di K, essendo a conoscenza di un’attribuzione
tanto prestigiosa, la scartassero a favore dell’anonimia; perciò pare più probabile che in
Italia siano circolate due tradizioni del tutto autonome158.
Già gli studi cinquecenteschi, comunque, avevano cercato di approfondire la questione.
Bembo in particolare affermò con sicurezza per Razo e dreyt la paternità di Arnaut
Daniel, contrastata in primo luogo dal Castelvetro, che evidenziava le incoerenze tra lo
stile della canzone e quello del grande trovatore159. Bembo era però un’autorità e un
punto di riferimento imprescindibile: quasi certamente dipende dalla sua anche
l’opinione di Giulio Camillo, che forse non poté nemmeno leggere per esteso la
K. Tali aspetti si sono comunque già affrontati. Di fatto, la canonica attribuzione ad Arnaut, sostenuta
ancora da Appel all’inizio del ‘900 (Appel 1924 citato in Frank 1954), si è sempre basata soltanto su tale
postilla. Ancora Zingarelli 1935, che raccoglie le opinioni discordi degli studiosi cinquecenteschi dichiara
di accettare la paternità arnaldiana, almeno “a livello intuitivo”.
158
La tradizione manoscritta riserva ancora qualche utile indicazione, analizzata in Asperti-Pulsoni 1989
e Pulsoni 1993. Un’ipotesi da non trascurare, infatti, è quella secondo cui la canzone fosse presente nel
canzoniere del conte di Sault (di cui si riparlerà con maggiore ampiezza nel corso del sesto capitolo).
Purtroppo il Nostredame, fonte utile rispetto alla conoscenza del codice perduto, non lo è altrettanto per
quanto concerne la canzone citata da Petrarca, confermandosi anzi pronto a falsificazioni e costruzioni
immaginifiche. In particolare, egli prende spunto dai primi studi cinquecenteschi sulle presenze
occitaniche nel Canzoniere e dai commenti a Lasso me per asserire di aver letto l’ignota canzone, di cui
per lo più era noto solo il verso iniziale, vista la sua presenza in due soli codici (il caso di Bembo, che
possedeva K, è eccezionale). L’incipit Razo e dreyt diviene, nel Glossario, l’apertura di un
componimento di Rigaut de Berbezilh, ben noto invece in tutta la sua estensione (Tuit demandon qu’es
devengud’Amor). Per altro tale erronea associazione motiva una notevole variazione del verso incipitario
di Razo e dreyt in sede di rima, che diviene: “Drech e razon es qu’yeu chante d’amour”. Non stupiscono
invece l’inversione dei due termini iniziali (così in K e nel Canzoniere) e l’adattamento grafico alla
pronuncia francesizzante. Nostredame, comunque, sembra influenzato dalla lezione citata da Vellutello
nel suo commento a Petrarca, che in effetti il biografo doveva ben conoscere (Asperti-Pulsoni 1989, p.
166). Nelle Vies il Nostredame cambia posizione, da una parte utilizzando il primo verso di Razo e dreyt
come incipit di un falso dell’amico Boyer (che ne risulta nobilitato), dall’altra riportando l’attribuzione ad
Arnaut Daniel, dapprima con un’affermazione autonoma, poi citando un’ulteriore fonte erudita, il Monges
des Isles d’Or.
Ovviamente è possibile che la canzone fosse in effetti presente nel codice di Sault – magari proprio sotto
il nome di Rigaut – e che il Nostredame non sia in questo caso colpevole di alcuna falsificazione (benché
le sue consuetudini come biografo non rappresentino buone credenziali): in tal caso si potrebbe pensare
ad un errore, ad una sovrapposizione di più testi, giustificata magari da una citazione mnemonica. Tale
confusione potrebbe esser stata favorita dalla contiguità delle sezioni di Rigaut e Arnaut nel codice del
conte (secondo la ricostruzione di Chabaneau e Anglade 1911).
Se si accetta l’ipotesi che Razo e dreyt fosse nella silloge del conte, si ottiene un utile strumento rispetto
alla comprensione della sua tradizione complessiva: la versione di Sault, infatti, sembra coerente con
quella di K (affine a quella petrarchesca). Petrarca potrebbe aver avuto accesso a tale tradizione
“orientale”: un’ipotesi suggestiva, non tanto perché sia necessario identificare quale specifico documento
il poeta avesse a disposizione per la sua citazione, quanto perché ne deriverebbero rilevanti conseguenze
rispetto al tipo di materiali trobadorici cui in generale egli avrebbe avuto accesso. Per altro, tale zona del
Midi appare coerente con i luoghi della sua giovinezza e della sua formazione. Ne sarebbero poi
influenzate anche le considerazioni sulla lettura di Amor e jois, testimoniata dalle affermazioni dello
stesso Petrarca rispetto alla composizione di Aspro core: anche tale testo sembra infatti legato alla
tradizione del codice a (la raccolta di Bernart Amoros) e di Sault, benché non ci siano elementi per
pensare che Petrarca abbia utilizzato uno dei due codici (Asperti-Pulsoni 1989). Tali codici risultano
imparentati con alcune sillogi preparate in Italia, come H e L, le cui glosse paiono derivare proprio da
simili fonti d’oltralpe. Insomma, al di là dell’impossibilità di proporre certezze o ricostruzioni più
stringenti, ne deriva comunque un quadro coerente al contesto culturale in cui si è mosso il poeta aretino.
159
Sottolineando in particolare il dettaglio tecnico del verso diviso in due emistichi, del tutto assente in
Arnaut.
38
canzone. Ad entrambi si rifece poi il Vellutello, che a sua volta influenzò gli intellettuali
coevi, affermando in linea definitiva l’attribuzione danielina160. Si possono a questo
punto formulare tre ipotesi. Il copista di L5 (o di un suo antecedente) potrebbe aver
avuto accesso alla stessa fonte che usò Petrarca (o a documenti affini); il poeta aretino
perciò potrebbe aver conosciuto la versione originale di Razo e dreyt, che avrebbe
volontariamente modificato in Drez e rayson per motivi prosodici, inserendo il verso
nell’endecasillabo italiano. Una seconda valida possibilità, secondo l’indicazione di
Pulsoni161, concerne la graduale evoluzione del testo, insieme a quella della raccolta
nella sua interezza verso le redazioni Correggio e Chigi. Infine la postilla potrebbe
dipendere dal Canzoniere stesso, da cui lettori e copisti avrebbero tratto l’indicazione.
Al di là dell’autorialità del testo, il riferimento al modello arnaldiano ha consentito ai
critici di spiegare in modo più approfondito il contenuto della canzone e la sua
elaborazione formale162: gli strumenti retorici con cui è segnalata la continuità delle
strofe, le rime isolate e difficili. La prepotente influenza di Arnaut permette di intuirne
una profonda conoscenza da parte dell’autore; egli si dimostra ben poco autonomo e
creativo, in alcuni casi addirittura poco comprensibile. Inoltre le caratteristiche
linguistiche e stilistiche163 consentono di stabilire con certezza che il testo appartiene ad
un’epoca posteriore164 rispetto a quella in cui visse e compose il Daniel.
Le caratteristiche della canzone sono illuminate da alcune interessanti connessioni
intertestuali, in primo luogo con il testo che la segue in K, La beutat nominativa165, e un
160
La questione, tuttavia, non deve essere parsa poi così limpida al Bembo stesso, che sulla citazione
petrarchesca è tornato più volte, come dimostrano gli appunti preparatori all’edizione aldina del
Canzoniere (1501). A quell’altezza probabilmente egli non disponeva ancora di K, poiché la lezione ivi
contenuta non è mai citata nelle note; esse testimoniano comunque quattro versioni diverse, una in
particolare coincidente con quella del codice Laurenziano Strozzi. Tale indizio sulla lettura del
manoscritto laurenziano da parte di Bembo è molto rilevante, per l’attribuzione ad Arnaut che vi è
registrata; inoltre la lezione del verso provenzale è molto vicina alla forma conservata in C, ben più che a
quella petrarchesca, che Bembo conosceva direttamente grazie al codice poi Vat. Lat. 3195. Il codice
Laurenziano appare in effetti ben informato, anche in merito all’attività di Petrarca, come dimostra la
presenza di note e postille che mancano persino nel “codice degli abbozzi”. Il problema rimase insoluto:
Bembo continuò a cercare codici più affidabili (si veda la lettera al Fregoso del 1529, citata in
Debenedetti 1930) e non giunse mai alla pubblicazione della canzone.
161
Pulsoni 1998, pp. 239 segg. e per la questione codicologica anche pp. 267-280.
162
Per un’analisi stilistica puntuale della canzone, in relazione ai dettami retorici mediolatini di Matteo di
Vendôme (XII-XIII sec) e ad altri testi pseudo-danielini stilisticamente affini a Razo e dreyt, si veda
Perugi 1985, pp. 251 segg. È particolarmente interessante il file rouge identificato da Perugi nel termine
“nominativa” che ricorre in vari testi trobadorici, in parte connessi a Rodez, sino a Petrarca.
163
L’analisi linguistico-stilistica (Perugi 1985) è stata ripresa e ampliata dallo stesso Perugi (19902):
l’estrema insistenza retorica rende il messaggio poco chiaro, il tono è incostante fra elementi alti e bassi,
nonché di diversa origine linguistica. Anche le fonti sono molteplici e discontinue, presentate come per
sfoggio d’erudizione.
164
Anche se gli studiosi non concordano su quanto posteriore vada considerata.
165
Entrambi i testi sono trascritti sull’ultima carta del codice da mano diversa da quella principale:
sull’ordinamento del codice e i collegamenti che ne derivano Perugi 1985 si è soffermato con una certa
ampiezza. I due testi sono molto simili, in quanto esercizi scolastici ben poco autonomi. La beutat
nominativa rimanda ad uno scambio di coblas in cui fu protagonista Rostanh Berenguier de Marselha,
personaggio di cui si conosce ben poco oltre alle informazioni inaffidabili tramandate dal Nostredame.
Pare sia l’autore di una canzone contro i Templari posteriore alla caduta di Acri (1291) e di un’altra in
onore del cavaliere che protesse la città, Folcho de Villaret.
39
sirventese sulla crociata di Cerverì de Girona. Tale componimento è databile al 1269,
grazie al riferimento a Jaume I; esso condivide con lo pseudo-Arnaut quasi tutte le
parole in sede di rima, il gusto per la complicazione sintattica e la ricerca di lessico
inconsueto.
Più in generale Razo e dreyt va ricondotta alla cultura cortese tarda166, erede della
letteratura occitanica classica, ma al contempo frutto di una fase decadente167. Infatti
anche per Raimon de Cornet, il più importante tra i trovatori tardi, Arnaut Daniel
rappresenta il modello principale, spesso citato in modo puntuale ed esplicito. Inoltre in
coerenza con i dettami del Concistori del Gai Saber, esperienza culturale dominante per
l’ultima fase del trobadorismo, Razo e dreyt può essere interpretata anche in chiave
spirituale e morale168.
Considerando le caratteristiche cronologiche ed espressive del componimento, Perugi ha
ipotizzato che la fonte di K abbia trovato i due testi in un antigrafo simile al codice f169,
contrassegnato da testi molto omogenei per datazione (fine ‘200 - inizio ‘330), tipologia
(coblas) e localizzazione regionale. Le medesime circostanze cronologiche e
geografiche segnerebbero dunque la composizione e la diffusione di Razo e dreyt; per
altro la presenza di testi brevi potrebbe aver favorito il passaggio della raccolta in
Italia170.
Beltrami-Santagata 1987 negano uno stretto rapporto tra i due testi, accomunati semplicemente dal
rapporto imitativo con gli autori dell’epoca classica.
Rostanh in particolare fu poeta dedito alla retorica più banale e scolastica ed imitatore di Arnaut Daniel,
nella forma e nei contenuti, fino alla creazione di veri e propri centoni. Tuttavia Perugi 1985, pp. 192
segg. ritiene che egli non possa essere l’autore di Razo e dreyt poiché cita in un altro testo un certo
“Sancinier” suo amico, nome che corrisponde con grafia diversa al “Sanguiniers” con cui l’autore della
canzone pseudo-arnaldiana si autodefinisce. Gli autori delle due canzoni non possono essere considerati
la medesima persona, ma appaiono in qualche modo connessi.
166
Su tale fase della tradizione trobadorica si tornerà con maggiore approfondimento nel corso del sesto
capitolo.
167
Tale aspetto viene sottolineato soprattutto da Perugi 1985, mentre Beltrami e Santagata propendono
per una datazione più alta.
168
Sui caratteri della produzione tarda e in particolare su quella di Raimon de Cornet si è soffermato
Perugi 1985, pp.94-142. Altri utili riferimenti al contesto culturale da una parte e al diffuso recupero del
modello arnaldiano dall’altra possono coinvolgere due personalità significative per l’epoca: Pey de
Ladils, che fu in corrispondenza poetica con Cornet e ne subì fortemente l’influsso, e Joan de Castellnou,
che fu protagonista delle esperienze trobadoriche tarde a Barcellona e in Catalogna, in riferimento proprio
al Concistori.
169
Se ne parlerà nel corso del sesto capitolo. In Perugi 19902 la riflessione sull’affine di f è molto ricca:
l’area di riferimento è quella provenzale in senso stretto, con particolare attenzione alla zona tra Avignone
e Orange. Lo dimostrerebbero le caratteristiche paleografiche, grafemiche e linguistiche che potrebbero
derivare non dal singolo manoscritto, ma dai suoi antecedenti.
Va notato in particolare che sia f sia C, dove è testimoniata Razo e dreyt, appartengono al ramo y della
tradizione; in f è presente inoltre lo scambio di coblas da cui dipende La beutat nominativa.
Tale ipotesi è ripresa da Bologna 1993 [1986], in cui brevemente si fa riferimento al contatto di Petrarca
con Jacopo Stefaneschi in ambiente avignonese, che potrebbe essere stato il tramite per la lettura di una
simile silloge, considerata dall’autore con ogni probabilità una raccolta modesta. Lo studioso è tornato sul
tema delle citazioni contenute in Lasso me anche in tempi più recenti, per cui si veda Bologna 2003.
170
La penisola infatti ha dimostrato particolare inclinazione verso i testi brevi, come suggerisce la
preparazione di florilegi. Secondo Perugi 19902 tale passaggio potrebbe in realtà coincidere con la
migrazione dell’autore del testo: Razo e dreyt sarebbe perciò nata come presentazione e auto-propaganda
di un trovatore in cerca di nuovi mecenati. Da questo deriverebbero anche le caratteristiche testuali della
canzone, densa, ricca ed erudita.
40
Valutando la provenienza dei testimoni sopravvissuti e i riferimenti interni al testo171,
Perugi sostiene che la canzone appartenga all’area tra Narbona e la Provenza, e
probabilmente a Tolosa. Lo studioso pensa in particolare a Rodez172, il più noto ed
importante tra i piccoli centri in cui la poetica cortese resisteva all’inizio del ‘300; i
signori e gli intellettuali della corte furono in contatto sia con gli ultimi grandi trovatori,
Guiraut Riquier e Cerverì de Girona, sia con poeti poi legati al Gai Saber173. Qui il
sostegno ai trovatori rappresentava un’antica e florida abitudine174 e Perugi ipotizza in
conclusione che proprio Rodez abbia fornito l’ambiente ideale alla stesura della
canzone. Dopo tale ricostruzione, lo studioso avanza una proposta sul possibile autore
di Razo e dreyt nella persona di Guilhem de Murs175, del quale restano sei
componimenti176, un sirventese e cinque tenzoni con Guiraut Riquier. Una tenzone è
databile a prima del ‘66 grazie al riferimento ad una nota rivolta spagnola, mentre il
sirventese risale al ‘69, poiché richiama il medesimo progetto di crociata citato da
Cerverì. La successione dei testi mostra un incremento nell’importanza di Arnaut Daniel
quale modello di stile, e della sfera religiosa e morale a livello delle tematiche. Forma e
contenuto sono dunque perfettamente omogenei rispetto a Razo e dreyt, che però appare
più ambiziosa, quasi si proponesse di riassumere tutti gli elementi essenziali della
poetica arnaldiana: Perugi interpreta la scelta dei modelli e dell’impostazione
171
Perugi 1985, pp. 39-55, fa riferimento in particolare al già citato appellativo “Sanguiniers” che l’autore
riferisce a se stesso. Si tratterebbe di un’indicazione geografica, come suggerisce la comparazione con
simili occorrenze in altri poeti, riferita ad una “terra de sanguin” associata altrove a un “port (o pont) de
sorc”, cioè probabilmente il punto di pedaggio sulla Sorgue, il fiume che scorre da Valchiusa ad
Avignone. Ciò rafforza l’opinione di Perugi secondo cui Petrarca avrebbe letto le opere trobadoriche o
almeno quelle di Arnaut Daniel in età giovanile e in Provenza. Sull’appellativo sono poi tornati BeltramiSantagata 1987, proponendo l’identificazione di “Sanguiniers” con un militare legato al signore di Tolosa
nell’ambito delle lotte familiari per il controllo della regione.
172
Delle piccole corti in cui il trobadorismo poté sopravvivere più a lungo si tratterà nel sesto capitolo.
Dopo l’analisi in Perugi 1985, Perugi 19902 riprende e approfondisce la riflessione in merito alle corti che
ospitarono i trovatori tardi, in riferimento all’area veneta. Tuttavia bisogna ricordare che le raccolte che
contengono i componimenti tardi (compresi K, f e quindi il suo ipotetico affine) contengono spesso anche
testimonianze dell’età d’oro.
173
Perugi 1985 nota in proposito che proprio questi due poeti avviano il graduale spostamento dalla
tematica amorosa propriamente intesa a quella dell’amore spirituale e mariano. Inoltre c’è una
convergenza anche a livello di testimoni manoscritti: sono infatti centrali C ed R, oltre ad Sg, dove non è
presente Razo e dreyt, ma che tramanda le opere di Cornet.
174
In tale contesto vanno infatti collocati vari componimenti di Bertran d’Alamannon, Bertran Carbonel,
Folquet de Lunel e soprattutto Sordello, che cantò la figlia del signore. Alla signora di Rodez è dedicata
anche la canzone XIX di Raimbaut d’Aurenga, che per struttura ed elaborazione retorica potrebbe aver
rappresentato un importante modello per Razo e dreyt (Perugi 1985, pp. 254-255).
175
Identificare con esattezza questo personaggio è tutt’altro che semplice. In Provenza ci sono due centri
chiamati Murs, uno vicino ad Aveyron ed uno vicino a Valchiusa, entrambi piuttosto coerenti con il
riferimento a Rodez. È certo che non si tratta di un nobile catalano, ma potrebbe essere il Guilhem de
Murs testimone di un’autenticazione nel ’65 a Mur-de-Barrez, che era sotto la dominazione aragonese (e
questo potrebbe spiegare le connessioni con l’area iberica annoverate tra i dati biografici del trovatore)
senza però perdere il legame con Rodez (il conte era l’amministratore dell’area). A questo punto però non
sarebbe Murs vicino a Valchiusa a dare i natali (e il nome) al poeta, eliminando un potenziale fattore di
coerenza con il “sanguiniers” di Razo e dreyt, almeno per come lo interpretava lo stesso Perugi.
176
Tali opere sono tramandate soltanto da R, C (il sirventese) e f (una tenzone).
41
complessiva in riferimento al desiderio di distinguersi dalla produzione coeva in
decadenza177.
Proprio la concentrazione di artifici retorici, l’impressione insomma di leggere una
summa della maniera danielina, potrebbero aver colpito l’attenzione di Petrarca, che
secondo lo studioso ben conosceva ed apprezzava Arnaut almeno dalla fine degli anni
‘30178. Il tramite per la scoperta di Razo e dreyt dovrebbe essere una silloge affine ad f,
in cui però fosse presente, oltre alla canzone pseudo-danielina, un corpus arnaldiano
anche molto ristretto ma rappresentativo. Perugi considera in proposito le relazioni
diplomatiche e politiche del giovane Petrarca, e in particolare alcune famiglie
cardinalizie di origine italiana, tra cui gli Orsini e i Colonna, cioè i primi e i più duraturi
protettori del poeta179. Altri indizi utili potrebbero derivare dall’origine guascona della
madre di Giovanni e Giacomo Colonna, nonché l’acquisizione da parte di quest’ultimo
del vescovado di Lombez, nella medesima area180.
Sulla questione sono tornati in seguito Beltrami e Santagata181. I due studiosi
concordano con Perugi sul fatto che Razo e dreyt non possa essere realmente di Arnaut
Daniel, quasi “troppo arnaldiana” per non essere un’imitazione ed anzi una celebrazione
del grande trovatore. Tuttavia, anche solo la valutazione estetica del componimento
diverge dall’opinione di Perugi, poiché i due studiosi evidenziano l’uniformità del
risultato rispetto alla tradizione occitanica, più che l’eccesso di manierismo.
Il primo significativo fattore di contrapposizione concerne comunque la datazione del
testo, che Beltrami e Santagata ritengono possibile anticipare addirittura all’inizio del
Duecento; infatti il riferimento alle “tonache corte” (vv 49-50), che Perugi interpretava
come segnale del legame con gli ambienti spirituali182, può essere semplicemente
177
Perugi 1985 ritiene che all’origine di tale urgenza ci sia una motivazione comunicativa stringente. Le
opere di Guilhem de Murs, infatti, dimostrano un progressivo allontanamento dalla corte e testimoniano
un rapporto sempre più difficile con la corte e il suo signore. La ricerca di approfondimento nella sua
produzione lirica sembra sgradita a chi identifica nella poesia solo uno strumento di divertimento. Tale
contrapposizione di gusti potrebbe essere all’origine della ricerca di autonomia da parte del trovatore e
della conseguente mancanza di generosità nei suoi confronti da parte del conte. Si vedano in particolare le
pp. 104 segg (e soprattutto 210).
178
D’altro canto, per Perugi 19902 proprio simili letture avrebbero invogliato il poeta alla scoperta degli
autori maggiori.
179
L’ipotesi di Perugi 1985, pp. 240 segg. non dipende soltanto da una generica valutazione dell’ambiente
culturale formatosi intorno ai personaggi più ricchi e prestigiosi. Lo studioso infatti ha evidenziato come
tali famiglie fossero state spesso favorevoli alla fazione degli spirituali, come forma di contrapposizione a
Bonifacio VIII. Razo e dreyt potrebbe aver suscitato la loro attenzione se fosse corretta l’interpretazione
polemica fornita dallo stesso Perugi, secondo la quale il testo allude proprio a quegli scontri morali e
soprattutto istituzionali. È certo comunque che all’epoca di Petrarca tali questioni appartenevano alla
storia della Chiesa ed avevano perso qualsivoglia attualità.
180
Di fronte a tali indicazioni di massima si ferma anche Perugi 1985: è giusto segnalare le occasioni in
cui Petrarca potrebbe aver reperito del materiale trobadorico, ma la natura di tali testimonianze e la loro
quantità ci sono precluse.
La questione della circolazione dei manoscritti e delle relazioni intellettuali di Petrarca quali possibili
fonti per le letture trobadoriche sarà ripresa in termini più generali nel corso del quinto, sesto e settimo
capitolo.
181
Beltrami-Santagata 1987.
182
Perugi 1985.
42
spiegato in relazione alle coeve discussioni sull’abbigliamento del clero regolare183,
senza che le questioni francescane rappresentino un vincolo cronologico. Un’altra
indicazione utile riguarda lo sfondo politico che emerge dal componimento: mentre
dopo il 1271 l’attribuzione dei titoli ai signori del tolosano è piuttosto ambigua e
confusa, rivelando difficili rapporti con l’autorità regia francese, fino agli anni Trenta
rimane preminente e univoca l’autorità locale dei conti, benché l’area fosse stata
conquistata dal re Luigi VIII già nel 1226 e fosse poi passata ufficialmente a far parte
della corona francese nel 1229 sotto Luigi IX. La lettera della canzone sembra riferirsi
alla realtà provenzale e alla fase alta della conquista della regione, piuttosto che alla
monarchia francese. Inoltre è necessario rivedere i termini del rapporto tra la canzone e
il sirventese di Cerverì de Girona, che condividono lo schema metrico. D’abitudine è
nel sirventese, ritenuto meno prestigioso, che si imita la struttura di una canzone, e non
viceversa184. Un inusuale passaggio dalla forma “inferiore” a quella “superiore” nel caso
di Razo e dreyt è ancora meno probabile, poiché il sirventese di Cerverì presenta una
rima al mezzo assente nella canzone: è difficile pensare che il genere più alto abbia non
solo ripreso, ma anche semplificato un modello più umile. Con tali posizioni concorda
Pulsoni185, che evidenzia anche la consuetudine duecentesca di non comporre struttura
metrica e melodia originali per i testi di crociata, come era richiesto per un testo lirico.
L’affermazione della dipendenza di Cerverì da Razo e dreyt e non viceversa è essenziale
per confutare sia la datazione sia l’attribuzione di Perugi: ne deriva infatti un terminus
ante quem (1269) incoerente con il periodo in cui Guilhem de Murs cominciò a scrivere,
negli anni ‘60 del Duecento. A livello cronologico i due studiosi sostengono quindi una
collocazione relativamente alta (intorno al 1229), benché di necessità posteriore
all’attività di Arnaut Daniel. Un ultimo spunto significativo per la datazione viene dalla
tornada: la frase “qui que sai rest” è infatti un probabile rinvio alla crociata, come rivela
il confronto con altri testi coevi, più semplici da datare. La frequenza con cui il tema
ritorna nei versi dell’epoca ne rivela l’attualità e l’interesse, favorendo perciò a maggior
ragione la contestualizzazione della canzone.
Beltrami e Santagata si sono poi soffermati sull’attribuzione di C a Guilhem de SaintGregori, che Perugi tralasciava. Al trovatore sono attribuiti cinque testi, di cui tre
contestati: ciò avviene cioè in tutti i casi in cui era possibile addurre un’alternativa
(mentre per gli altri due testi – Razo e dreyt e la tenzone con Blacatz – l’alternativa era
l’anonimato). In effetti, un altro testo di Guilhem presenta un problema filologico e
letterario simile a quello che si è descritto per la canzone pseudo-arnaldiana. Infatti, Be
m platz lo gais temps de pascor, associata talvolta a Bernart de Ventadorn, talvolta al
Saint-Gregori, è sì un testo chiaramente ventadoriano, ma in modo tanto generico,
esplicito e manieristico da apparire un’imitazione. Una fonte ulteriore, però, riconduce il
183
Si tratta di un tema particolarmente attuale durante il primo quarto del XIII secolo, come dimostrano
gli statuta conciliari di Montpellier del 1215, in cui vengono riportate letteralmente le medesime parole
che si trovano nella canzone.
184
Così invece secondo Perugi 1985.
185
Pulsoni 1998, pp. 245 segg., che considera anche l’empirica osservazione per cui nessun testo del
trovatore di Girona è mai stato imitato.
43
componimento a Blacasset, il figlio di Blacatz, che altrove tenzona proprio col SaintGregori. Infine, Guilhem potrebbe essere l’autore (ma di nuovo resta anche una seconda
attribuzione possibile, benché poco credibile, a Bernart de Ventadorn) di una sestinasirventese, Ben grans avolesa, che ripropone le medesime rime utilizzate in una canzone
di Arnaut Daniel. L’immagine che ne deriva per Guilhem de Saint-Gregori è quella,
coerentissima, di un abile imitatore, dedito soprattutto a due tra i più grandi trovatori
dell’epoca d’oro186; anche il contesto dei rapporti poetici e dialettici appare unitario e
credibile.
3.3 “Aspro core”
Il caso del sonetto 265, Aspro core, è stato oggetto di particolare attenzione, e non a
caso: soltanto per tale testo, infatti, Petrarca dichiara in modo esplicito la dipendenza
rispetto a un trovatore. Non stupisce che si tratti proprio di Arnaut Daniel187, indicato in
una postilla188 come punto di partenza nella composizione del fragmentum189. Di tale
annotazione è perduto l’originale190, ma ne restano quattro testimonianze: nel codice
Casanatense191 a Roma, nel Palatino a Parma, nell’Harleiano a Londra e in un
incunabolo milanese, anch’esso oggi conservato a Londra.
Le quattro lezioni presentano alcune differenze, in primo luogo rispetto al contesto in
cui è avvenuta la lettura del modello: P segnala non il giorno del mese, ma la festa del
santo corrispondente; C e H192, invece di segnalare il momento del giorno (“pridie”,
all’alba) propongono il luogo (“Padue”, Padova). Rispetto a tali alternative, i critici non
sono del tutto concordi. Perugi193 ha sostenuto la lezione “pridie” poiché ritiene che se
Petrarca avesse voluto nominare la città veneta avrebbe utilizzato la forma aulica
186
Su tale attribuzione – come d’altronde su nessun’altra tra quelle proposte – non concorda Pulsoni
1998, pp. 256-257, secondo cui il copista di C è stato influenzato dal nome citato al v 46 e dall’usus
scribendi del trovatore, consueto imitatore di Arnaut Daniel.
187
Ciò non cancella l’importanza delle fonti classiche – su cui insiste in particolare Zingarelli 1935, anche
allo scopo di limitare la portata dei modelli trobadorici rispetto al poeta aretino; spiccano in particolare
Tibullo, Properzio, Ovidio e Lucrezio. Tali antecedenti sono stati fondamentali per i trovatori stessi e poi
per i poeti italiani anteriori a Petrarca, come dimostra la presenza del medesimo concetto su cui si
fondano le terzine di Aspro core (l’acqua che nel tempo buca la roccia, a segnalare il valore di pazienza e
resistenza, sia in Bernart de Ventadorn che in Chiaro Davanzati).
188
La postilla è stata pubblicata per la prima volta nel 1891 da Appel (Perugi 1985).
189
Anche in tal caso il giudizio della critica è stato a lungo influenzato da punti di vista parziali.
Zingarelli 1935 ha insistito sull’autonomia della composizione petrarchesca, per stile e contenuto
fondamentale: l’importanza della postilla consisterebbe dunque nell’aver rivelato un legame che
altrimenti non si sarebbe mai intuito a partire dal solo testo. Lo studioso perciò rifiuta ancora una volta
l’idea dell’imitazione, per evidenziare la rielaborazione attuata da Petrarca a partire da un semplice
spunto, da un’ispirazione che non cancella l’autonomia del risultato. Aspro core sarebbe dunque
rivelatore di un principio valido per tutti i recuperi che caratterizzano il Canzoniere.
190
L’originale si trovava infatti su uno dei fogli sparsi parte dei quali oggi costituisce il codice Vat. Lat.
3196. Purtroppo quel foglio in particolare è stato inviato al re di Francia Francesco I; se ne ha ancora
notizia nel Cinquecento, quando Beccadelli affermava che la responsabilità della dispersione degli
autografi fosse di un certo Baldassarre da Pescia. Per tali informazioni si veda Perugi 1985, p. 295.
191
È la testimonianza principale, contenuta nel codice 924, carta 101r.
192
Qui si tratta però di una correzione successiva.
193
Citato in Pulsoni 20031, cui qui si fa ampio riferimento per questa ricostruzione.
44
“Patavii”. Tuttavia non è raro che il poeta scriva proprio “Padue” nelle sue annotazioni
private ed è significativo che il copista di H si corregga passando dall’informazione
cronologica a quella geografica, segnalando forse il ritrovamento di una fonte più
autorevole.
La questione si fa più complessa e rilevante se si osservano le diverse redazioni del
verso arnaldiano citato nella postilla come fonte per il sonetto, tratto dalla canzone XIV
Amors e jois:
C
H
P
Aman prians fafrancha cor suffers
Aman prians lafrancha cor suffers
Aman prian la francha cor huffres
Vanno poi considerate le testimonianze dei codici trobadorici che conservano il testo:
K Caman preian safrancha cors hufecs
T Caman preian safranca cor ufecs
a Caman preian sa franca cor ufecs194
La mancanza della congiunzione iniziale nelle versioni registrate dalla postilla può
facilmente essere ricondotta a Petrarca stesso, in quanto egli cita il verso in assoluto,
come una sentenza e non come parte di un discorso più ampio. Per quanto concerne
l’ultimo termine, la lezione corretta è “ufecs”: il passaggio a “suffers” si spiega
facilmente come banalizzazione influenzata dal verbo “soffrire”, mentre è più difficile
motivare quello in “hufecs”. In generale, comunque, le redazioni tarde e italiane (tra cui
K, presumibilmente esemplato appunto nella penisola) testimoniano la graduale perdita
di un’attuale e compiuta padronanza della lingua provenzale195, cui in generale può
essere imputata la corruzione del verso.
Qualche ulteriore indizio viene dall’analisi del sonetto petrarchesco. Le quartine, che
non subiscono alcuna alterazione nel passaggio dal “codice degli abbozzi” al Vat. Lat.
3195, sono ispirate ad un sonetto di Guinizzelli, Sì sono angoscioso e pien di doglia. Al
contrario le terzine conoscono un prolungato ed intenso processo correttorio (che
coinvolge in particolare la successione rimica), volto in primo luogo ad eliminare
contatti ed assonanze con altri luoghi prossimi del Canzoniere. Il verso ripreso da
Arnaut è il 13 - “Pregando amando talor non si scalde”, poi corretto in “smova” – che si
inserisce con le sue modifica nella prolungata ricerca di equilibrio espressivo.
Infine è possibile proporre qualche considerazione sulle date della composizione.
Petrarca indica in nota il 21 settembre 1350, quando in effetti si trovava a Padova, dove
potrebbe essersi avvantaggiato della mediazione del duca Giacomo da Carrara, in un
ambiente in cui la tradizione cortese e i materiali trobadorici sono sopravvissuti più a
194
Perugi 1985, p. 302 segg sottolinea che si tratta soltanto di differenze testuali non rilevanti sul piano
semantico. Lo studioso ritiene inoltre che Petrarca leggesse “aman prian fa francha cor huffs”.
195
Tale aspetto si affronterà nuovamente nel quinto capitolo, con particolare riferimento a Resconi 2008 e
Pulsoni 20032.
45
lungo196. Per le modifiche alla terzina finale sono indicati giorno e mese (2 ottobre), ma
non è chiaro se si tratti del medesimo anno. Infatti gli ultimi ritocchi e la trascrizione in
ordine risalgono solo al 1356 (in particolare, al 6 novembre).
3.4 “Verdi panni”
La canzone 29197 ben rappresenta le tendenze più difficili della poesia petrarchesca,
definite talvolta “gotiche” e spesso considerate secondarie rispetto all’insieme del
Canzoniere198. In questo caso, non si tratta di allusioni ambigue o manierate, quanto
dell’elaborata composizione di ritmo e suoni199. Verdi panni presenta in effetti una
forma metrica ancor più peculiare e raffinata rispetto alla sestina, anche perché meno
tipizzata200; a tale genere risulta però imparentata, come suggerisce anche
l’organizzazione della raccolta petrarchesca, per la vicinanza a 22 e 30. Secondo
Bettarini201, la canzone è una sorta di variante della forma sestina202 volta a comunicare
enigmaticità e tormento: dunque uno strumento espressivo raffinatissimo e funzionale.
La struttura propone un andamento ricorsivo, che identifica con efficacia lo stato
interiore non lineare dell’io poetico; d’altronde, il fragmentum 29 nasce da una
prospettiva fortemente contrastata, dolente e chiusa203, benché il finale si rassereni nel
segno della lode. Simili osservazioni dimostrano la peculiarità del recupero
petrarchesco, pur confermato dall’analisi testuale204: Er vei vermeilz205 presentava infatti
un paesaggio primaverile allegro e piacevole.
196
Va però considerato che non necessariamente questa fu la prima lettura della canzone di Arnaut, né
dell’opera del trovatore in generale (o di altri Provenzali).
197
Come si è anticipato, Verdi panni è direttamente coinvolta nella questione cronologica dibattuta da
Santagata 1990 e Perugi 1985 segg. In particolare, il primo sostiene che la datazione giovanile proposta
dal secondo (e tradizionalmente invalsa) non sia efficace e insiste per postdatare le letture trobadoriche
petrarchesche e le composizioni ad esse legate.
198
Bettarini 1998 definisce la canzone un “caso limite”, ma non un’“eccezione” nella raccolta. Per
l’analisi formale e contenutistica della canzone si vedano anche Bettarini 2005, pp. 156-158, e Molinari
2008, che inoltre approfondisce i rapporti intertestuali del fragmentum 29.
199
Tali peculiarità saranno approfondite nel corso del presente capitolo, parlando delle più generali
influenze trobadoriche su metrica e forma.
200
Si tratterà della forma metrica del testo nel corso del presente capitolo.
201
Bettarini 1998.
202
Per certi aspetti, il legame con la sestina arnaldiana è evidenziato dall’alternanza di endecasillabi e
settenari, che ricorda la presenza del verso breve in apertura di strofa in Lo ferm voler.
203
Bettarini 1993 suggerisce una peculiare, ma interessante connessione simbolica con i fattori numerici
della canzone, sette (i versi di ciascuna strofa) e nove (le rime), cioè i numeri infausti secondo l’astrologia
antica.
204
In particolare per quel che concerne la metrica: coblas unissonans di sette versi irrelati dalle lunghezze
ineguali. Per altro caratteristiche simili ricorrono anche in altre due canzoni arnaldiane, Ans que sim e
L’aur’amara, che presumibilmente Petrarca conosceva e che potrebbero essere all’origine dell’insistita
elaborazione fonica di Verdi panni. La coincidenza delle rime con quelle di Razo e dreyt non rappresenta
necessariamente un elemento stringente, almeno secondo Bettarini 1993.
205
Bettarini 1993 sottolinea in questa occasione che la medesima canzone (in particolare il secondo
verso) è fonte anche per altri componimenti petrarcheschi: il v 37 di 71 e il v 25 di 142.
46
Il legame tra il fragmentum 29 e la canzone 13 di Arnaut Daniel è ormai un vero e
proprio topos critico206; Grubbitzsch-Rodewald207 ha anzi insistito sull’esemplarità del
testo petrarchesco proprio per la presenza scoperta del modello occitanico, a livello
strutturale e di imagery. Al di là dell’associazione metrico-formale, Petrarca si ispira al
modulo elencatorio, paratattico ed allitterante che caratterizza i primi due versi della
canzone danielina (v 1 serie nominale, v 2 serie aggettivale); Petrarca farà propria tale
formula recuperandola anche in contesti autonomi sul piano strutturale, come nei
fragmenta 71 e 142. Dal medesimo modello deriva anche il gusto per gli elementi
coloristici208.
Arnaut si diffonde sulla topica immagine della primavera, con particolare attenzione a
quella stagione artificiale che Amore sa creare in ogni tempo e luogo, secondo la
convenzionale associazione tra stato amoroso e contesto naturalistico di rinascita. Il
Daniel recupera così l’esempio di vari trovatori che lo avevano preceduto, tra cui spicca
Bernart de Ventadorn. Entrambi gli antecedenti tornano anche in Petrarca, e proprio
nella canzone 29, alla quale a sua volta va ricondotto lo sviluppo dell’immagine
primaverile del Triumphus Amoris. È utile inoltre considerare il contributo di Raimbaut
d’Aurenga, dal quale sembra provenire l’uso elencatorio poi declinato in senso
naturalistico dal Daniel: a Raimbaut spetta perciò il merito d’aver recuperato e
rielaborato tali movenze stilistiche già latine e poi medio-latine.
A livello di contenuti, però, le fonti per l’incipit petrarchesco Verdi panni vanno cercate
altrove. Si può innanzitutto pensare alle descrizioni delle vesti ecclesiastiche del
Duecento209 dove quei colori sono vietati, oltre ovviamente alla semplice osservazione
dei costumi correnti delle donne del tempo. Antecedente letterario interessante è poi il
Roman de la Rose (ma più in generale si può far riferimento alla letteratura francese),
dove le descrizioni dell’abbigliamento e dei suoi colori sono piuttosto frequenti. È
notevole in particolare l’opposizione tra “sanguigni”210 e “persi”, che si trova già nel V
canto dell’Inferno dantesco, quando parla Francesca. L’intera serie dei quattro colori in
29 si riscontra invece nella descrizione del pavimento nella stanza in cui è custodito il
sacro Graal nel Perceval e nel Cliges di Chretien de Troyes. La medesima immagine e
quindi la stessa successione di colori vengono riprese, infine, nel Mare amoroso211.
Il termine “sanguigno”212, secondo Perugi213, potrebbe essere ricondotto alla regione di
Sanguin e al suo castello, che si ritrova nello stesso Chretien, nel romanzo di Gauvain e
nella tenzone di Guilhem Rainol d’At come indicazione dell’origine della dama. Simile
206
Perugi 2000. Si è anticipata la questione trattando gli aspetti metrici in questo capitolo.
Grubbitzsch-Rodewald 1972.
208
Tali aspetti sono stati evidenziati in primo luogo da Contini, citato in Perugi 2000.
209
Lo studio è di Mansi, citato in Perugi 2000.
210
Grubbitzsch-Rodewald 1972 chiarisce che “vertz” corrisponde a “verdi” e “vermeills” a “sanguigni” e
ritiene, inoltre, che “persi” sia un evidente provenzalismo.
211
Il riferimento al Mare amoroso è particolarmente interessante per la ricchezza di richiami intertestuali
e immagini convenzionali che caratterizza l’opera.
212
Per le voci “sanguigno” e “perso” si vedano anche il commento di Santagata 1996, pp. 158-159, e di
Bettarini 2005, p. 158, che fanno riferimento soprattutto a Dante.
213
Perugi 2000.
207
47
riferimento si trova d’altronde nella canzone pseudo-arnaldiana citata da Petrarca in
Lasso me214.
La canzone 29 insomma è ricchissima di rinvii e richiami, dimostrando per altro
l’apertura di Petrarca ai modelli più disparati, anche senza bisogno di ipotizzare che li
conoscesse tutti direttamente. Andiamo perciò ben al di là di quello arnaldiano, benché
esso sia il più attivo e sentito215.
Grubbitzsch-Rodewald216 ha poi evidenziato come al richiamo incipitario ne
corrisponda un secondo altrettanto evidente, ormai sul finire della canzone. I vv 50-52
di Verdi panni riprendono ed estendono a livello d’intensità il congedo arnaldiano. Il
contesto di fondo è topico (ineffabilità della bellezza della dama, difficoltà della lode),
ma la connessione con il modello occitanico determina un peculiare e innovativo effetto
di competizione217. Non basta, perché un terzo collegamento si offre ai vv 19-21,
laddove – secondo l’interpretazione tradizionale218 – Petrarca teme nella sua umiltà
l’orgoglio e l’ira della dama. I due concetti opposti (orgoglio e umiltà) erano infatti già
nel modello arnaldiano (vv 12-14); tuttavia Daniel li riferisce entrambi a se stesso e
rappresenta così il peculiare comportamento di chi segua la cortesia. GrubbitzschRodewald si sente perciò in dovere di leggere diversamente il testo petrarchesco (ma già
Chiorboli l’aveva ipotizzato): l’ira e l’orgoglio da trattenere saranno piuttosto quelli
dell’io poetico. In tal modo la logica della stanza risulterebbe più coesa e il discorso si
riallaccerebbe meglio ai vv 12-14, dove Petrarca afferma che lo sguardo di Laura
cancella ogni contrasto.
4. Aspetti metrici: “Verdi panni” e “S’i’ ‘l dissi mai”
Il ben noto e peculiare atteggiamento di Petrarca verso i propri modelli, tra rifiuto
dell’imitazione pedissequa e costante rielaborazione, non favorisce la ricerca di calchi e
di richiami espliciti, al di là delle poche citazioni volutamente visibili219. Può essere
utile perciò partire dalle fondamenta della composizione, vale a dire dalle strutture
metriche e rimiche220, che intrattengono un rapporto essenziale con la tradizione come
impalcatura tecnico-retorica del discorso in versi221.
214
Vedi Perugi 1985, ma le posizioni dello studioso sono già state riproposte in questo capitolo.
Perugi 2000 precisa però che la connessione al v 3 è molto generica, anche perché l’affermazione è
convenzionale in ambito occitanico.
216
Grubbitzsch-Rodewald 1972.
217
Grubbitzsch-Rodewald 1972 riprende l’idea di una competizione in merito alla difficoltà e all’oscurità
dello stile, che in Verdi panni appare ancor più chiuso e denso. La studiosa offre un’analisi dettagliata
anche sul piano dei contenuti, nella quale rimanda anche alle opinioni dei commentatori antichi ed
evidenzia ulteriori modelli, in primo luogo antichi, a partire da Ovidio.
218
In realtà Santagata 1996, p. 162 cita due letture possibili: l’una risale a Leopardi (quella che
Grubbitzsch-Rodewald ritiene “tradizionale”), l’altra al Chiorboli. La seconda anticipa proprio la
prospettiva di Grubbitzsch-Rodewald 1972.
219
Entrambi tali aspetti sono stati anticipati nell’introduzione e nel corso del presente capitolo.
220
Va aggiunta la questione del rapporto con il genere, su cui si tornerà in modo più specifico ed
approfondito.
221
Sulla metrica petrarchesca sono disponibili alcune ricognizioni d’ampio respiro: Praloran 2003 (i saggi
sono in particolare dedicati a rime e ritmo) e 2013 (che propone una riflessione sulle canzoni e sui loro
215
48
Come già dimostrò l’analisi di Fubini222, nell’uso petrarchesco della forma canzone si
riscontra, nel complesso, una forte omogeneità, benché ogni testo presenti tratti
autonomi che lo differenziano da ogni altro223. Gli aspetti più rilevanti di tale coesione
si colgono nel ritmo e nella progressione del discorso, la cui concezione di fondo si
mantiene in sostanza uniforme al di là delle singole declinazioni metrico-strutturali. A
maggior ragione, quindi, si coglie con particolare evidenza l’autonomia di alcune
soluzioni224, che dimostrano come Petrarca si sia orientato nella ricerca di forme nuove.
Lo sperimentalismo petrarchesco, in realtà, si mostra soprattutto nell’appropriazione di
configurazioni arcaizzanti e, in qualche caso, isolate. Il tipo di fronte più frequente nel
Canzoniere è già di per sé un esempio in tal senso. Tale struttura infatti è rarissima: è
stata usata da Dante in due sole occasioni (la canzone plurilingue Ai faux ris e l’unica
canzone morale dantesca che Petrarca abbia imitato, Voi che intendendo). Anche in area
provenzale se ne registra un solo esempio, per altro poco noto e importante: Lo deziriers
del trovatore Esperdut. Nella medesima direzione volge la fronte di Lasso me, in cui
Petrarca sceglie di rifarsi all’orizzonte occitanico in coerenza con il modello trobadorico
rapporti nel complesso), Zenari 1999, Pulsoni 1998, pp. 23-238. L’elaborazione metrica ha meritato
particolare cura da parte del poeta, come dimostra l’osservazione dei trecentodiciassette sonetti, che
costituiscono l’85% della raccolta e presentano quindici strutture rimiche diverse, di cui tre specifico
frutto dell’innovazione petrarchesca. Non mancano formule arcaiche (siciliane e in parte siculo-toscane),
benché rappresentino una componente minoritaria dell’insieme. L’unico genere in cui si ripeta
puntualmente la medesima organizzazione formale è la sestina, e non sempre nel caso del congedo: tale
omogeneità dipende dalla natura stessa del genere, oltre che dall’intenzione modellizzante dell’autore,
che è responsabile della sua codificazione. Anche nel caso dei madrigali si assiste ad un’innovazione
nella storia letteraria, poiché i quattro del Canzoniere sono i primi attestati in ambito culturale “alto”; per
altro a loro volta tali componimenti presentano caratteri distinti l’uno rispetto all’altro. Anche nelle
canzoni (e così nelle ballate) la struttura è continuamente variata, con due significative eccezioni: la serie
71-73 (le “canzoni degli occhi”) e la coppia 270-325 (la peculiarità di tale connessione rispetto alla
posizione nella raccolta e alla datazione è ampiamente analizzata in Pulsoni 1998, pp. 23-92). Ciò non
toglie comunque che spesso tra componimenti vicini si notino somiglianze più o meno stringenti; può ad
esempio essere ripetuta la medesima disposizione rimica, con diversa lunghezza dei versi. Il rifiuto per le
ripetizioni si coglie nella scelta delle rime da escludere dalla redazione finale della raccolta; il medesimo
principio comporta inoltre un attento e misurato rapporto con le soluzioni metriche utilizzate dai poeti
anteriori, soprattutto italiani. Per tale ragione appaiono particolarmente rilevanti i richiami a Dante in 174
(alle “petrose”, modello diffuso in tutto il Canzoniere, e soprattutto a Io son venuto) e a Frescobaldi in
119 (ma a sua volta egli si era ispirato a Dante). Pulsoni 1998, pp. 44 segg ricorda ulteriori esempi di
contatto metrico tra Petrarca e altri poeti italiani; in essi però sia la relazione sia la sua direzione sono
meno chiare ed univoche.
In particolare va sottolineata la studiata disposizione dei diversi metri all’interno della raccolta: la prima
sezione, infatti, è molto più varia, poiché comprende tutti e quattro i madrigali, sei ballate su sette, otto
delle nove sestine (nella seconda sezione rimane solamente la sestina doppia, che parte della critica
interpreta in chiave palinodica, sia rispetto alla struttura sia rispetto ai contenuti sensuali). Diminuiscono
anche le canzoni (nove rispetto alle venti della prima sezione), ma in modo più proporzionato
all’ampiezza ridotta della seconda parte e comunque dimostrando la notevole importanza di tale forma,
grazie alla sua collocazione in apertura (264) e chiusura (366) della sezione stessa. La distribuzione delle
canzoni nel Canzoniere in riferimento alle loro peculiarità strutturali era già stata analizzata da Elwert
1983; ricordiamo infine il repertorio di Gorni 2008, in cui sono analizzate le forme metriche italiane dalle
origini al Cinquecento.
222
Fubini 1970, pp. 237 segg.
223
Concorda Praloran 2013, che parla di sperimentazione e varietà a partire dall’uniformità; la
differenziazione dei singoli testi non cancella dunque l’impressione complessiva di classicismo.
224
In considerazione, anche, di come la costruzione metrica influenzi la cifra melodico-tonale del singolo
testo.
49
della canzone cum auctoritatibus e con la prima delle citazioni225. Il culmine di tale
tendenza sperimentale si coglie però nella struttura provenzaleggiante dei fragmenta 29
e 206226: l’evidenza del recupero è dovuta anche alla rarità di simili forme in ambito
siciliano e siculo-toscano227, considerando che al contrario la loro diffusione nella
tradizione trobadorica è considerevole. È un omaggio esplicito, una dichiarata scelta in
senso arcaizzante228. Fubini ha sottolineato inoltre il forte significato programmatico
insito nella scelta di tornare ad una tradizione anteriore a Dante: prima della lezione
stilnovista e soprattutto che la forma canzone raggiungesse la sua definizione definitiva
nel De vulgari eloquentia.
La complessa impostazione di S’i’ ‘l dissi mai è basata su coblas doblas e tre sole
rime229. Ne deriva inevitabilmente una costante riproposizione dei medesimi temi e
concetti; si spiega così la brevità delle stanze230. Al contempo, il poeta è spinto a
sfruttare appieno le potenzialità della sua materia, giocando sulla varietà degli effetti e
delle combinazioni. Il tema centrale ben corrisponde alle caratteristiche formali: da una
parte, il componimento è imperniato su un singolo, ossessivo problema, come vuole il
genere prescelto. Dall’altra, il genere stesso offre pochissime attestazioni e tutt’altro che
attuali. Secondo la tarda tassonomia trobadorica, infatti, si tratta di un escondich, di cui
resta un solo esempio “classico” grazie a Bertran de Born231; esso è definito dalla
necessità di convincere l’amata che il poeta non le ha rivolto nessuna offesa, a fronte di
un’accusa infamante. Il poeta invoca quindi su di sé un’iperbolica serie di sfortune nel
caso in cui sia trovato colpevole, appunto a dimostrazione della propria innocenza.
Petrarca evidenzia il principio fondante del testo con una marcata reiterazione della
formula incipitaria (pur con qualche variazione) al primo, terzo e quinto verso di
ciascuna stanza. La quinta strofa propone però un rivolgimento sintattico, segnalato
dalla forte avversativa “ma”, per cui all’ipotetica (se ho davvero commesso tale
colpa…) è sostituita un’affermazione negativa. È peculiare anche il finale, poiché il
commiato è sostituito da una ripetizione dell’idea di partenza. Il gioco della ripetizione
variata si riflette nella successione delle rime: le tre che si ripropongono lungo tutta la
canzone presentano un’alterazione dispositiva nel passaggio dalla seconda alla terza
strofa e poi di nuovo dalla quarta alla quinta, segnalando appunto l’andamento delle
225
Della canzone petrarchesca e la pseudo-arnaldiana Razo e dreyt si tratterà in modo specifico nel corso
del presente capitolo. Possiamo anticipare, però, che non tutti gli studiosi sono concordi rispetto alla
definizione di tale componimento: mentre Elwert lo considera “provenzaleggiante”, Praloran 2013 pp. 52
segg (dove è citata anche la posizione di Elwert) insiste sull’inadeguatezza di un termine tanto vincolante,
affermando che si tratta di una semplice somiglianza.
226
Andrebbe aggiunto il recupero del genere sestina, di cui ci si occuperà in modo più specifico nel
capitolo seguente, in quanto vero e proprio genere.
227
Cioè le uniche esperienze poetiche italiane anteriori a Petrarca che guardino direttamente e
frequentemente alla tradizione occitanica.
228
Fubini 1970 le definisce, a p. 245, canzoni che hanno qualcosa di “conciso, concentrato”, addirittura le
“petrose” di Petrarca.
229
Per un’analisi metrico-stilistica della canzone si rinvia anche a Pagani 1946, pp. 34 segg.
230
È interessante notare che tali vincoli e tratti espressivi accomunano la canzone alle sestine. D’altronde,
anch’esse sono il frutto della sperimentazione su una forma rara (e dalle origini piuttosto arcaiche);
tuttavia la regolarità e la funzionalità della struttura ha permesso a Petrarca di crearne un vero e proprio
genere, fissato ed autonomo, mentre l’esperimento di 206 è destinato a rimanere isolato.
231
Su tale argomento si tornerà con maggior ampiezza in questo e nel capitolo successivo.
50
stanze a coppie. L’effetto è in parte artificioso, ma non per questo meno elegante;
l’insieme presenta anzi un respiro particolarmente ampio ed articolato, ulteriormente
impreziosito dai numerosi riferimenti storici e letterari.
Un secondo esempio di metrica provenzale232 nel Canzoniere si riscontra in Verdi
panni233. Qui le rime di ciascuna stanza sono irrelate, secondo una progressione
unissonans234 che sposta i legami fonici dalla strofa all’intero testo. Dunque anche tale
canzone propone un andamento ricorsivo, l’impressione del ciclico ritorno di elementi
già noti; non si tratta più, però, di ripetizioni variate, quanto di singoli elementi
riproposti in un contesto fortemente differenziato. Il ritmo è più lento e meno scandito,
rispetto a quello di 206, mentre l’impostazione appare più complessa. Gli enjambements
evidenziano il fluire lento del discorso; il lessico prezioso e ricercato fa risaltare i
richiami lontani delle rime, a loro volta rare e consonantiche. Le affermazioni sono
quasi sentenziose, nella loro studiata brevità; infine, abbondano le inversioni, in
particolare quelle di soggetto e complemento oggetto.
La riflessione sulla struttura di Verdi panni è stata affrontata anche da GrubbitzschRodewald235. Secondo la studiosa, la canzone non rimanda solo genericamente alle
soluzioni più tipiche in ambito occitanico, ma in particolare alla produzione di Arnaut
Daniel, a partire dalla canzone Er vei vermeills236. Si possono però identificare anche
alcune differenze, in parte ovvie, ma significative rispetto alla configurazione testuale.
Petrarca deve necessariamente rinunciare ai versi tipici della poesia occitanica
(octosyllabes e decasyllabes), sfruttando piuttosto i settenari e gli endecasillabi della
canzone italiana. Aumenta il numero delle strofe da 6 (la lunghezza più frequente nelle
opere trobadoriche) a 8, mentre il congedo è abbreviato a soli due versi. Alla preziosità
consonantica e alla rarità delle rime arnaldiane, Petrarca aggiunge numerosi artifici
fonico-retorici (rime derivative, equivoche, consonanti e assonanti), che sono sì tipici
dello stile danielino, ma non di Er vei vermeills: la stratificazione delle fonti è più
articolata di quanto non appaia a prima vista237.
232
Non provenzale, ma arcaica è piuttosto 23, canzone giovanile e poi rielaborata nella maturità, senza
però perdere l’ispirazione dantesca. Le stanze sono lunghissime e discorsive anche per l’assoluta
preminenza dell’endecasillabo. Domina l’attenzione alla struttura retorica e alla densità del discorso, più
che per l’armonia e la fluidità fonica. Per questo Fubini 1970, pp. 246 segg. non la ritiene - nonostante la
revisione relativamente tarda – un componimento maturo, a confronto con 50 e 129. Sulla struttura di 23
si veda anche Praloran 2013 pp. 40 segg, che la ritiene arcaica e guittoniana.
233
Per l’analisi formale e strutturale di tale testo si vedano inoltre Bettarini 1998, Bettarini 2005 pp. 156
segg, Molinari 2008.
234
Per una breve e generale ricognizione di tale forma strofica si veda Beltrami 2002, p. 101. La
definizione di unissonans deriva dal ritorno delle medesime rime e dunque dei medesimi suoni in tutto
l’arco del testo; valgono in alternativa denominazioni come estrampas, cioè storpie, o dissolutas, sciolte,
per il collegamento “lontano” dei suoni. Al contrario, la stanza abituale per la canzone italiana, in cui cioè
le rime cambiano in ciascuna strofa e trovano la loro corrispondenza all’interno della stanza stessa, si dice
singulars o divisa.
235
Grubbitzsch-Rodewald 1972: tale analisi segue quella di Fubini a breve distanza, in una temperie
culturale e critica affine.
236
È questo un altro punto fermo della critica petrarchesca, su cui si tornerà nel corso del presente
capitolo trattando di singoli componimenti.
237
La medesima tendenza si registra nel lessico, ricco di provenzalismi al di là del solo esempio
arnaldiano. Non mancano per altro echi dalla tradizione italiana, e soprattutto dallo Stil Novo, e da quella
51
L’analisi dei due testi è stata affrontata nuovamente da Pulsoni, con risultati del tutto
coerenti, nonostante la distanza cronologica238. Il modello per la combinazione di coblas
doblas e tre rime in 206 è presumibilmente arnaldiano, tratto dalla Canso do ill: una
delle tre rime scelte da Petrarca per tornare unissonans lungo tutta la canzone richiama
fonicamente una di quelle di Arnaut Daniel. Tuttavia gli equilibri strutturali nel rapporto
fronte/sirma sono invertiti rispetto all’ideazione del trovatore. A proposito di 29, invece,
Pulsoni ha evidenziato l’aggiunta delle due rime al mezzo rispetto alla struttura tipica
delle canzoni provenzali e in particolare all’antecedente danielino239; tale innovazione
determina un’ulteriore complicazione e dunque una forma di competizione240.
Pulsoni ha inoltre considerato la questione delle rime, rispetto alle quali il rapporto tra
Petrarca e la tradizione trobadorica è ben più significativo di quanto non sia con quella
italiana, Dante compreso241. Spiccano in particolare alcune riprese puntuali (da modelli
provenzali in cui abbondino le rime femminili), tra le quali sono interessanti
specialmente quelle che comportano il recupero di un’intera clausola, mentre vanno
escluse quelle di rime diffusissime e banali, sia in Provenza che in Italia.
Soprattutto due esempi sono significativi per la carica semantica che veicolano, “alba” e
“aura”. “Alba” è parola-rima nella sestina 22, ripresa dall’arnaldiana Lo ferm voler,
dove ha la medesima posizione in clausola; non ce ne sono paralleli in Italia. La scelta
del termine nell’ambito della sestina, la cui struttura determina la sua ripetizione in
ciascuna stanza, ha un valore ben preciso rispetto alla tradizione occitanica, poiché esso
era il primo tratto distintivo dell’omonimo genere. “Alba”, in frequente anafora,
esprimeva infatti l’ansia degli amanti fedifraghi al sopraggiungere del giorno proprio
grazie alla sua continua reiterazione, quasi come in un ritornello242.
La rima in “aura/-aura” ha in primo luogo grande importanza in relazione al dibattito
sull’origine del topos del vento che proviene dall’amata e sulle possibili influenze
trobadoriche subite da Petrarca oltre a quella ventadoriana. Altro elemento centrale è la
sua assenza nella lirica italiana. È vero, d’altronde, che non sono numerosi nemmeno gli
latina. Bettarini 1998 recupera tali impressioni, giungendo a sostenere che al principale modello danielino
si sovrapponga l’influenza di un secondo testo di Arnaut, Anz que sim, che Petrarca conobbe certamente,
poiché è la fonte dell’immagine della caccia impossibile (di cui si è già trattato nel corso di questo
capitolo). L’aggiunta della rima al mezzo, altro elemento che distingue il componimento petrarchesco da
quello trobadorico, potrebbe invece essere legata all’esempio di Razo e dreyt. Non manca infine qualche
affinità con L’aura amara, altro antecedente che doveva risultare interessante per Petrarca in virtù
dell’immagine topica dell’aura (per cui si rimanda alla fine del presente capitolo).
238
Pulsoni 1998, pp. 23-92 e soprattutto 47 segg. La distanza cronologica è tanto più significativa in
riferimento alle differenze metodologiche, rispetto al valore attribuito all’analisi strutturale e formale.
239
Della specifica relazione tra Petrarca e Arnaut Daniel e del caso ancor più particolare di Verdi panni si
è già parlato nel corso del presente capitolo.
240
Pulsoni 1998, pp. 47 segg. Simili interventi non sono rari già nei contrafacta occitanici.
241
Tale tendenza appare evidente anche laddove l’uso dantesco sia affine a quello trobadorico: infatti il
secondo appare preminente rispetto alla concezione petrarchesca. Si veda Pulsoni 1998, pp. 47 segg.
242
In particolare Pulsoni 1998, pp. 175 segg. ritiene che in questo caso Petrarca abbia in mente l’alba Reis
glorios di Giraut de Bornelh, e soprattutto un verso dell’ultima stanza (“qu’ieu non volgra mays fos alba
ni iorn”), un’immagine della quale caratterizza in effetti il finale della sestina petrarchesca. Ne
deriverebbero interessanti conseguenze rispetto alle letture trobadoriche del poeta, non solo a livello di
datazione, ma anche rispetto alla tradizione manoscritta, in quanto l’ultima strofa giraldiana è testimoniata
solo dai codici R e T (che è inoltre uno dei pochi a tramandare Amors e jois di Arnaut Daniel, fonte
esplicita del sonetto 265).
52
antecedenti provenzali: si conoscono solo le occorrenze in Arnaut Daniel (Ab gai so)243
e in Jaufré de Foixà (Ben m’a tengut). Per altro, anche Petrarca usa questa parola-rima
solo nella sestina 239, in cui le immagini adynatiche e le altre parole-rima244
confermano il legame con Arnaut.
Altre rime d’origine trobadorica sono quelle in –erga (di cui restano sette attestazioni
oltre a quella in Lo ferm voler)245, -ampa (arnaldiana e poi diffusa in Italia246), -endi
(danielina e rarissima tra i poeti italiani), -ena247, -enta (la fonte è Quan lo dous
temps248), -ola249, -omba (che ha varie testimonianze italiane e latine, ma sembra
derivare a Petrarca dall’uso arnaldiano250), -orna (rara anche in Provenza, a parte due
occorrenze in Arnaut Daniel), -ui (con una ripresa molto fedele dall’anonima Suy e no
suy). La centralità di Arnaut Daniel è evidente: non a caso è il trovatore che Petrarca
richiama in modo più esplicito, e rime e rimanti non fanno eccezione. Tale singolarità di
trattamento motiva l’ipotesi di Pulsoni, secondo il quale il diffuso contatto con il
trovatore avrebbe anche il valore di mascherare alcuni debiti danteschi (soprattutto dalle
petrose), grazie all’esaltazione della fonte originale e comune.
5. Singoli trovatori, singoli testi, singole immagini
Benché il legame tra Petrarca e Arnaut Daniel sia fondamentale ed abbia catalizzato le
energie degli studiosi, non sono mancate riflessioni sul rapporto tra il poeta aretino ed
altri trovatori, con particolare attenzione per alcuni testi o immagini significativi. Tali
ricerche, comunque, confermano la tendenza degli studi recenti ad evitare un approccio
analitico di respiro più ampio.
243
Tale testo arnaldiano è fonte di numerosi richiami nel Canzoniere, individuati in Pulsoni 1998, pp. 178
(si noti che il testo è spesso noto con incipit diverso, En cest sonet).
244
Le due parole-rima “fiori” e “alma” si trovano in clasusola nella pseudo-arnaldiana Razo e dreyt; la
rima in –ori è anche in Lasso me, data la citazione del medesimo incipit.
245
Pulsoni 1998, pp. 271 segg. evidenzia come la relazione con la sestina arnaldiana sia la più
interessante e come la scelta petrarchesca si accompagni a numerosi riferimenti trobadorici intrecciati.
Tale aspetto è particolarmente significativo, in quanto conferma, al di là dell’esistenza di altre attestazioni
italiane pre-petrarchesche, la volontà del poeta di riconnettersi all’eredità occitanica.
246
È vero che gli esempi danteschi cui Petrarca poteva far riferimento sono numerosi, ma il poeta conosce
certamente il componimento danielino in cui si trova tale rima, poiché lo riprende in modo piuttosto
esplicito in 203.
247
In sé la rima è comune; la connessione con il corpus trobadorico e in particolare con il v 50 di Un vers
farai di Raimbaut d’Aurenga deriva però dalla peculiarità del rimante “affrend”, da cui sembra
influenzato il verso 11 di Rvf 147. La rima sembra veicolare ulteriori richiami provenzali, in particolare a
Rambertino Buvalelli, anche al verso incipitario di 210.
248
L’attribuzione della canzone è tutt’altro che ovvia; conta però soprattutto l’impressione che Petrarca la
ritenesse di Bernart de Ventadorn. Pulsoni 1998, pp. 219-222 evidenzia infatti gli altri riferimenti al
trovatore sul piano di lessico e stile, che sembrano accordarsi alla scelta del rimante.
249
In realtà tale rima è molto più tipica della produzione italiana che di quella trobadorica, ma Pulsoni
1998, pp. 222-223 ritiene che il suo uso in 360 dipenda direttamente dall’influenza di Arnaut Daniel e in
particolare della canzone XVI, di certo nota a Petrarca poiché fonte dell’immagine della caccia
impossibile. Sia nel testo petrarchesco che in quello del trovatore, inoltre, si trova il concetto della scuola
d’Amore.
250
Gli esempi trobadorici vanno al di là delle due occorrenze danieline (Lanquan son passat e Si m fos
amors); tuttavia, a parte quello di Elias Cairel, tutti sembrano dipendere proprio da Arnaut. Si m fos
amors ebbe un notevolissimo successo anche in ambito italiano.
53
5.1 Bernart de Ventadorn
Come già nel caso di Arnaut Daniel, anche la connessione tra Petrarca e Bernart de
Ventadorn è divenuta un punto fermo per la critica. Tuttavia, anche in proporzione
rispetto al numero inferiore di componimenti o brani coinvolti, gli studi in merito sono
meno numerosi e soprattutto focalizzati per lo più su singole occorrenze.
Osservando i contatti tra il poeta aretino e il trovatore, Poli251 ha indicato una tipologia
di aspetti tematici intorno a cui si raccolgono le suggestioni più evidenti. In primo
luogo, la dimensione naturale, come nel caso della metafora tessile per la Natura
personificata (Petrarca, 305 /Bernart de Ventadorn, 16), dove l’analogia è ritmica e
metrica, semantica e morfologica. Tuttavia Petrarca inserisce ulteriori dettagli
metaforici, precisando l’elemento tessile rispetto all’immagine della creazione. Alla
medesima categoria può essere ricondotta la similitudine col ramo e con la foglia nel
vento, duttili e leggeri (Petrarca, 307 / Bernart de Ventadorn, 29): l’affinità rispetto al
modello occitanico è particolarmente marcata, ma risolta in un contesto del tutto
autonomo. Bisogna poi ricordare l’incipit di Can la frej’aura venta nei “sonetti
dell’aura”252 e un altro fragmentum molto celebre, il sonetto Aspro core. Qui il
riferimento ad Arnaut è arricchito dall’immagine della goccia d’acqua che, col tempo,
scalfisce la pietra: essa risale a Bernart de Ventadorn (Conortz, era sai ben)253.
Vanno considerate inoltre le rappresentazioni della dama o del rapporto che il poeta ha
potuto costruire con lei. Così è innanzitutto per l’associazione tra “chiaro viso” e “begli
occhi” (Petrarca, 348 / Bernart de Ventadorn, 37)254, e forse più in generale per la
semplice immagine del “chiaro viso” (Petrarca, 109 / Bernart de Ventadorn, 37)255,
nonché per la serie di rimanti “conquiso”, “viso”, “paradiso”256. Sul versante della
relazione con madonna possono essere ricordati l’ultimo incontro prima della definitiva
separazione (Petrarca, 328-330257 / Bernart de Ventadorn, 6), il velo che impedisce di
251
Poli 1993. Per i rimandi che seguono si fa innanzitutto riferimento a tale studio, oltre che a Allegretti
1993 e Noferi 2001.
252
Sulla questione si ritornerà con maggiore ampiezza alla fine del presente capitolo.
253
Oltre che a Chiaro Davanzati; il riscontro è in Zingarelli 1935.
254
Va però tenuta in conto anche l’influenza di Cino da Pistoia. Si è pensato in effetti che il modello
ventadoriano, essenziale in ambito occitanico, fosse in realtà secondario per Petrarca, il quale pare
irraggiare in molteplici occasioni (348, 233, 283) l’incipit ciniano proposto in 111, cui si possono
accostare secondo Suitner due luoghi paralleli in 110 e 91. Cino sarebbe stato dunque, in questo caso,
mediatore rispetto al contatto con Bernart de Ventadorn. Tuttavia solo nel trovatore e in Petrarca i due
termini sono inseriti nel medesimo verso e evidenziati dalla serie rimica “viso/paradiso/conquiso”,
presente, per quanto riguarda i Provenzali, solo in Gaucelm Faidit, 6. Dunque l’importanza del modello
ventadoriano non è tanto nei materiali (riscontrabili anche in altre possibili fonti) quanto nella loro
composizione.
255
Il medesimo discorso non vale invece per i “begli occhi”, nelle loro sessantanove occorrenze, o per
l’immagine del paradiso (dodici occorrenze di cui dieci in rima).
256
I componimenti petrarcheschi in questione sono 77, 109 e 348. I primi due sono databili a prima del
1358; l’inserimento nella raccolta di 348 è tardo (1373-74). Tuttavia la connessione tra i tre testi permette
di ipotizzare che la composizione del terzo sia anteriore.
257
Ma tale aspetto è anticipato in 249 e 250.
54
vedere258 (Petrarca, 329 / Bernart de Ventadorn, 6)259 e infine la rappresentazione dello
specchio come nemico (Petrarca, 45 / Bernart de Ventadorn, 25 e 43). Qui
l’associazione è solo tematica, ma non manca qualche ripresa più puntuale, come per i
termini “adversario” ed “exilio”260.
Infine, possono essere individuati come comuni alcuni elementi rappresentativi dello
stato del poeta. Così è per l’idea di essere ciò che si è soliti (Petrarca, 118 / Bernart de
Ventadorn, 27), che nel poeta aretino è accentuata grazie all’uso dell’affermazione al
posto della negazione, che dà un senso di continuità prolungata, e per il principio
secondo cui a volte si perde una parte dei propri beni, ma non la loro totalità (Petrarca,
329 / Bernart de Ventadorn, 6, in contesti però radicalmente diversi261)262.
5.2 Bertran de Born
Benché nella redazione definitiva del Triumphus Amoris il suo nome sia cancellato,
Bertran de Born figura nella schiera dei trovatori in una versione precedente del terzo
capitolo. Dunque non c’è ragione di dubitare che Petrarca ne conoscesse, almeno in
parte, i versi: anzi, proprio l’espunzione del nome lascia intuire che il poeta aretino
conoscesse del trovatore ben più che il nome. La correzione si spiegherebbe cioè in
relazione alla percezione dell’incoerenza tra il “cantore delle armi” e i poeti d’amore.
Anche lo stile della lezione abbandonata conferma tali impressioni: per quanto in essa si
neghi che Bertran sia stato davvero un guerriero, ma solo poeta bellicoso (affermazione
per altro falsa), i versi petrarcheschi risultavano debitori proprio delle immagini e delle
metafore più connotate in senso guerresco.
Il medesimo legame si ripropone poi nel Canzoniere, per la presenza nella raccolta di un
escondich263: benché quello di Bertran non rappresenti per Petrarca una fonte diretta264,
resta un esempio illustre del genere (l’unico d’età classica per noi, e forse tale già nel
258
In realtà nel Canzoniere l’immagine del velo assume una connotazione molto più articolata, anche in
virtù della sua elevata ricorrenza. Da una parte il velo è un dettaglio galante nella rappresentazione della
dama, che veicola specifiche dinamiche nella relazione amorosa, tra attrazione e repulsione; entrano in
caso in proposito anche i costumi dell’epoca. Dall’altra il termine assume valenze metaforiche, più
immediate (velo come corpo e dunque carcere dell’anima) o più articolate (il velamen poetico che
nasconde il messaggio riposto del testo). A parte l’interpretazione metapoetica, le due letture terrena e
spirituale determinano una notevole tensione, che rende la polisemia dell’immagine tanto più significativa
per la storia dell’io petrarchesco. Per tali riflessioni si veda Chines 2000, pp. 15 segg.
259
Qui la connessione formale appare in modo più evidente; tuttavia sono numerosi i luoghi petrarcheschi
in cui è la dama a nascondersi, come avviene nell’opera del trovatore.
260
La connessione era già stata evidenziata da Scarano 1901. L’approccio di Bernart presenta una
peculiarità cui Petrarca rinuncia, cioè la valenza simbolica degli occhi impenetrabili della dama che
rappresentano la non corresponsione a livello sentimentale. In generale, l’immagine rimanda al mito di
Narciso, al topos più generale dello specchio e a quello della vista come fonte di innamoramento.
261
Per altro in Petrarca è presente anche l’idea esattamente opposta.
262
Su alcuni luoghi particolarmente significativi per il contatto tra Petrarca e Bernart de Ventadorn si è
soffermato anche Pagani 1946, pp. 13 segg e 25 segg, cercando però di identificare simili rapporti anche
con Arnaut Daniel, Gaucelm Faidit e Arnaut de Maruelh.
263
Per le caratteristiche, la storia e il riuso petrarchesco del genere, si veda il secondo capitolo.
264
Ci sarà occasione di riprendere tale questione.
55
Trecento265). Perciò, è utile sottolineare qualche elemento di contatto tra i due autori
che, poco rilevante rispetto all’interpretazione di S’i’ ‘l dissi mai, può essere invece
interessante sul piano di rapporti più generali.
Martin de Riquer266, che ha evidenziato il debito petrarchesco rispetto ai canoni del
genere, sottolineando anche quanto poco probabili siano i contatti tra l’Aretino e i poeti
galego-portoghesi, fa riferimento all’immagine della tempesta, comune a Bertran ed a
Petrarca. Suitner267, che prende le mosse dall’analisi del Riquer, insiste piuttosto sul
disgusto da parte della dama come possibile pena subita dal poeta, che nel caso del
trovatore era in realtà frutto di una vergognosa incapacità sessuale. In Petrarca la
rappresentazione dell’amata adirata è arricchita dal riferimento alla segregazione:
imprigionato, il poeta continuerebbe imperterrito ad amare Laura. Tale concetto può
essere interpretato sia come separazione o rinuncia al mondo – e in tal caso la
produzione occitanica ne vanterebbe numerosi antecedenti, ad esempio in Rigaut de
Berbezilh – sia come aspirazione ad essere rinchiuso con l’amata, proprio come dice
Bertran nel suo escondich. Anche Petrarca, cioè, potrebbe lasciar spazio ad un intento
erotico, anch’esso ben attestato in area occitanica, ma rilevante in primo luogo rispetto
allo specifico modello268.
Petrarca, come sempre, adegua le fonti al proprio scopo poetico, livellando il discorso
alle manifestazioni dell’io e del suo amore più tipiche del Canzoniere. Tale intento gli
consente anche il recupero di altri elementi tradizionali ed apparentemente incoerenti,
quale il giuramento su “oro, cittadi e castella” del v 47, che non solo richiama
l’ambiente cortigiano, ma quello trobadorico in particolare, considerato anche che la
coppia “città-castelli” si riscontra in Bertran de Born, Raimbaut de Vaqueiras e Peire
Vidal. Inoltre la descrizione naturalistica, oltre ai tratti tipici della poesia petrarchesca,
subisce gli echi di plazer ed enueg269.
È topica infine la correlazione tra stato d’animo e tonalità del canto, che si inasprisce di
fronte allo sdegno della dama. Suitner riconosce in questo il ruolo del modello dantesco,
ma il concetto non è estraneo alla produzione occitanica.
5.3 Lanfranco Cigala
La fase tarda dell’epoca trobadorica si contraddistingue per la diffusione di
componimenti dedicati alla Vergine Maria, già prima dello sviluppo del Concistori del
Gai Saber e della sua ideologia poetica religiosa e moraleggiante270. Gli ultimi trovatori
considerati classici, come Guiraut Riquier e Cerverì da Girona, organizzano il proprio
265
A parte gli esempi tardi legati al Concistori tolosano.
Riquer 1951-51.
267
Suitner 20052.
268
Anche su tale aspetto sarà necessario tornare; basti anticipare che la questione della colpa sottesa a 206
è piuttosto dibattuta dalla critica, con interventi anche molto recenti, e che un elemento erotico così
esplicito appare fuori luogo in una rappresentazione amorosa quale quella del Canzoniere.
269
Non manca in effetti qualche riscontro con il più tipico plazer petrarchesco, il sonetto 312.
270
Per tale ricostruzione e soprattutto per il riferimento a Lanfranco Cigala si fa particolare riferimento a
Perugi 19912.
266
56
canzoniere intorno ad una svolta, in forma di conversione, per cui all’amore per la dama
si sostituisce la lode alla madre di Dio. La presenza di simili tematiche diviene così una
caratteristica frequente, ed anzi definitoria, delle raccolte d’autore; i testi di conversione
si collocano per lo più nella parte finale, quasi come una richiesta di indulgenza nei
confronti delle passate esperienze amorose. Non c’è dubbio che la concezione dei
Rerum vulgarium fragmenta in merito ai medesimi spunti sia ben più profonda, ampia
ed articolata, anche rispetto alla macrostruttura; tuttavia le radici di tali aspetti sono più
antiche e diffuse. Oltre all’esempio provenzale vanno poi ricordati alcuni antecedenti tra
i trovieri (in particolare Thibaut de Champagne, le cui opere però impediscono una
datazione stringente) e i poeti catalani, epigoni tardi della tradizione occitanica; spicca
soprattutto Alfonso X, sia per le sue cantigas de Santa Maria sia per la sua attività di
mecenate.
Al di là di tali affinità generiche, si possono cogliere anche punti di contatto più
puntuali.
Come è noto, il Canzoniere petrarchesco si chiude proprio con una canzone dedicata
alla Vergine, dopo una serie di componimenti in cui l’elemento penitenziale, presente in
vario grado in tutto l’arco della raccolta, diviene evidentissimo. La struttura metrica di
366 è coerente con la tradizione cui appartengono sia il soggetto sia la destinataria del
componimento: il numero delle stanze, dieci, oltre a rispecchiare la canzone mariana del
poco noto Antoni del Verger, raddoppia quello consueto già in Perdigon (canzone 15),
Peirol (15)271, Peire de Corbian (1) e Peire Cardenal (70), in cui la peculiarità consisteva
nella riduzione delle strofe, abitualmente sei. Tuttavia tali casi rivelavano ancora una
matrice arcaica, in quanto la differenza tra tema mariano e convenzione cortese era
esaltata dalla distinzione formale tra versi brevi (tradizione liturgica) e lunghi
(consuetudini liriche). Per l’uso dei canonici décasyllabes (o in qualche caso degli
octosyllabes) bisogna attendere Bernart d’Auriac (1), Folquet de Lunel (2) e soprattutto
Peire Guilhem de Luserna (1), in cui è già introdotta l’insistente anafora di domna che si
ripropone anche in Petrarca. Gli autori più rilevanti per lo sviluppo del genere restano
però Guiraut Riquier272 (44 e 88 soprattutto) e Cerverì de Girona (1), in cui d’altra parte
manca l’anafora.
Tutti gli autori citati possono, tuttavia, essere ricondotti a fonti ed ispirazioni anteriori:
ad esempio Raimon Jordan (12) per Luserna, Rigaut de Berbezilh (5, già in cinque
strofe) per Auriac e Lunel, Arnaut de Maruelh (5) per Cerverì, Cadenet (1) per Riquier.
Si riconferma così il legame tra formalizzazione classica ed evoluzione mariana.
In tale contesto Lanfranco Cigala si propone come un innovatore con la sua En chantan
d’aquest in dieci strofe, benché il suo esempio non sia recepito immediatamente. Infatti
Bertran d’Alamannon (4) imita la sua canzone mariana riportandone però la misura alle
più classiche cinque strofe. Intanto la terminologia mariana tipica del genere comincia a
diffondersi.
271
Le due canzoni di Perdigon e Peirol sono l’una il contrafactum dell’altra, come indica il puntuale
recupero della serie rimica e dunque della struttura metrica in tutti i suoi elementi. Poiché non si dispone
di una datazione precisa, non è possibile stabilire quale delle due abbia fornito il modello all’altra.
272
Al trovatore si deve il modello poi fondamentale nell’ambito del Concistori.
57
L’esempio di Lanfranco viene recuperato da Petrarca con particolare attenzione, per
quanto l’Aretino conosca probabilmente anche l’antecedente principale del trovatore
genovese, Peire de Corbian (Domna, del angels273) da cui dovrebbe derivare
l’andamento liturgico. D’altro canto la regolata varietà della produzione del Cigala
mostra una significativa affinità rispetto alle tematiche e agli stati d’animo affrontati da
Petrarca, per la compresenza di aspetti amorosi, penitenziali e morali, luttuosi274.
È perciò opportuno approfondire sulla produzione religiosa del trovatore. Ne sono
sopravvissuti solo quattro testi, che la tradizione propone come un piccolo canzoniere
unitario, visto che tre di quei componimenti sono vicini in tutti i manoscritti. La quarta
canzone, Pensius, è di solito separata dalle altre per motivi tematici, in quanto rivolta a
Dio e non alla Vergine. Oi Mairie è ancora in cinque strofe, una vera litania in cui
domina il tono dell’invocazione; Gloriosa Santa Maria e En chantan sono dedicate al
pentimento e quindi alla confessione delle proprie colpe.
Tutti questi elementi sono in effetti riconoscibili nella composizione petrarchesca ed
acquisiscono particolare interesse nella zona liminare della raccolta. In particolare va
ricordato che i sonetti che precedono la canzone finale sono dedicati al Padre eterno,
creando quindi la medesima duplicità di destinatari della preghiera che si nota in Cigala.
Tuttavia tale accostamento non è solo occitanico, poiché si riscontra anche in alcune
fonti mediolatine; gli stessi modelli, provenzali e latini, si assommano secondo Perugi275
nell’influenzare la collocazione vicina delle due ultime canzoni, 360 e 366. 360 infatti
propone il confronto verbale tra Francesco e Amore presso il tribunale della Ragione: da
una parte si può pensare alle tenzoni trobadoriche, dall’altra al genere del conflictus, in
cui la disputa assume la forma di un vero e proprio giudizio276. In Cigala, infine, si
ritrovano espressioni affini a quelle scelte da Petrarca per rendere le parole e
l’atteggiamento di Laura che riappare in sogno o in visione all’amante, cioè nelle ultime
occasioni di contatto tra Francesco e l’amata nella parte in morte dei Rerum vulgarium
fragmenta277.
La possibilità di riscontrare contatti più puntuali tra i due poeti è estremamente limitata,
in quanto legata ad immagini topiche e convenzionali. Tuttavia non mancano
convergenze significative nelle due canzoni mariane, che si possono riassumere
brevemente:
Petrarca, v 4 / Lanfranco, v 5; Petrarca, vv 14-15 / Lanfranco v 52; Petrarca, vv 38-39 /
Lanfranco, v 36; Petrarca, v 55 / Lanfranco, v 65.
273
Questa canzone è talvolta attribuita a Peire d’Alvernha.
Nell’insieme l’ordinamento del corpus di Cigala non è affatto ovvio; l’ipotesi più accreditata si basa
sui codici IKa, la cui testimonianza appare particolarmente logica ed efficace, in quanto rispecchia il
generale andamento per genere dei canzonieri (cinque canzoni d’amore, tre canzoni mariane, una tenzone,
un planh per l’amata defunta, cinque sirventesi, una canzonetta amorosa-dottrinale, la preghiera a Dio, un
elogio al sovrano).
275
Perugi 19912.
276
Tale aspetto appare invece del tutto sfumato nelle tenzoni e nei partimens tra trovatori.
277
Nel Canzoniere, però, si tratta spesso di visioni, più che di sogni.
274
58
5.4 Guiraut Riquier
È molto probabile che l’opera di Guiraut Riquier abbia offerto un modello rilevante per
la composizione del Canzoniere petrarchesco278: è l’unico canzoniere d’autore
occitanico accertato, dedicato ad un’unica donna, secondo la prospettiva di una
progressiva spiritualizzazione. È proprio la morte dell’amata a favorire il passaggio
dalla lode terrena a quella celeste, che il poeta dedica alla Vergine279. È noto, inoltre280,
che l’intero corpus riquieriano è disseminato di indicazioni cronologiche ed elementi
numerologici e simbolici, che acquisiscono una particolare funzione rispetto alla
macrostruttura della raccolta.
L’analisi che Perugi281 ha dedicato al rapporto tra Petrarca e il trovatore si è concentrata
proprio su tali dettagli numerici, allo scopo di approfondire il contributo che Riquier
può aver esercitato rispetto al poeta aretino. I testi, canzoni e sirventesi, sono in numero
pari, e dunque perfettamente divisibili in due metà speculari, la cui demarcazione cade
tra diciottesimo e diciannovesimo componimento, che corrispondono al 19 e al 20
febbraio dell’anno centrale e più attivo rispetto alla produzione complessiva del
trovatore. I due componimenti più complessi dal punto di vista formale (le due cansos
redondas) occupano le posizioni diciassette e trentasei; la morte della dama cade a circa
due terzi della raccolta e la lirica finale fa da contrappeso al planh per l’amata, in quanto
essa piange la decadenza (la morte) della cultura cortese. Nella raccolta è infine presente
un terzo canto luttuoso, dedicato a Almarico IV. In questo modo è possibile dividere il
canzoniere in tre parti; il ciclo centrale è ulteriormente frammentato dalla bipartizione
che domina in generale la raccolta.
Nel primo gruppo di testi le tematiche principali riguardano la decadenza di corti e
cortesia, di cui l’amore non ricambiato del poeta è un chiaro segnale. Il senhal che
diverrà poi abituale per la dama ricorre solo cinque volte, in quattro testi. La seconda
parte, successiva allo spostamento del poeta presso una diversa corte, è dedicata ad
Alfonso X; il poeta è ormai famoso – e ne ringrazia l’amata – ma non è ancora
soddisfatto. I due testi di anniversario descrivono gli insuccessi dell’io poetico, in amore
e in poesia: torna perciò il tema (trobadorico) della speranza insoddisfatta. Compaiono i
primi testi religiosi, che rappresentano invece un’univoca possibilità compositiva
nell’ultima sezione, in cui il tema amoroso ricorre solo in chiave allegorica e simbolica.
La scelta morale e quasi “monastica” del poeta corrisponde al suo abbandono delle
corti: è morta l’amata e quindi anche le qualità morali che in lei si incarnavano. Di
nuovo, il senhal della dama torna solo quattro volte, probabilmente risemantizzato (ma
non è chiaro se si riferisca alla Vergine o sia semplicemente usato come sostantivo). Si
278
In questa sede affrontiamo soltanto gli aspetti che potrebbero collegare direttamente il trovatore
spagnolo al Canzoniere; per le caratteristiche della sua raccolta poetica si veda il sesto capitolo.
279
A questo proposito Perugi 1999 sottolinea come al trovatore non sia riservato spazio sufficiente
nell’analisi di Santagata 1996.
280
Tali aspetti strutturali saranno approfonditi nel sesto capitolo, in riferimento alle prime raccolte
d’autore.
281
Perugi 1999.
59
noti che secondo Perugi282 tale trasfigurazione della figura femminile è pienamente
tangibile anche nel Canzoniere petrarchesco.
La raccolta si chiude con il ventisettesimo sirventese, cui seguono alcuni testi
d’appendice; la scelta di concludere con un sirventese potrebbe dipendere dall’abitudine
all’organizzazione per generi delle sillogi classiche.
5.5 “Quan lo dous tems”
Un’altra canzone provenzale rilevante per la critica petrarchesca ed erroneamente
attribuita ad un trovatore di grande prestigio è Quan lo dous tems, per tradizione legata
al nome di Bernart de Ventadorn283. La connessione con Petrarca concerne in primo
luogo i vv 44-45284 del testo occitanico, che appaiono ripresi in due versi del sonetto
petrarchesco 362285, in cui il poeta prega che gli sia consentita la visione dell’amata.
L’attesa pare interminabile, a prescindere dalla sua reale durata, come segnala
l’indicazione numerica (iperbolica: “vent’anni e trenta”) degli anni che passano. Al v 36
della canzone pseudo-ventadoriana si nota anche il ricorrere dell’immagine dell’aura,
aggettivata come “dous’aura”, che potrebbe aver stimolato l’attenzione di Petrarca.
Potrebbe infine esserci una corrispondenza tra i rimanti dei vv 17-22 della canzone e i
vv 11-12 del sonetto.
La questione va poi ampliata in riferimento ad altri testi apocrifi286, che in E sono tutti
attribuiti a Bernart, componendo un gruppo coeso di quattro canzoni. Inoltre, tra di esse
non solo Quan lo dous tems, ma anche Ab cor leial fanno pensare ad ambienti vicini a
quelli frequentati dal giovane Petrarca, in quanto entrambe appartengono alla sfera di
Rodez, cui Perugi287 attribuisce la composizione di Razo e dreyt.
Certo, l’immagine dei “venti-trent’anni” potrebbe essere semplicemente un topos, ed
anzi tanto noto da non presentare problemi rispetto al passaggio linguistico dal
provenzale all’italiano. L’immagine si ritrova infatti anche in Bertran de Born, canzone
27 (e di nuovo l’attribuzione non è concorde) ed ha un’ascendenza giuridica, legata
all’usucapione, secondo la fonte di Isidoro288. Le stesse opere petrarchesche offrono un
altro luogo significativo, nel riferimento a Maria Maddalena della Senile 14, 15, dove si
parla della leggenda della sua permanenza nella Baume. Conferma la connessione fra
questi elementi il testo provenzale Ad onor del senhor, in cui torna un’ultima volta la
medesima enumerazione, ma in relazione al pentimento: tale fattore tematico concorda
sia con l’immagine della Maddalena sia con il tono preminente nella zona finale del
Canzoniere.
282
Perugi 1999.
Per l’analisi di tale associazione si fa riferimento principalmente ad Allegretti 1993.
284
Va in particolare notato che la lezione del codice E li lega in rima.
285
Lo aveva già evidenziato Scarano 1901.
286
Si notano però banalizzazioni e un incongruo uso di un’estesa proverbialità; il passo più significativo è
proprio quello dell’aura, che rimanda appunto ad un’immagine emblematica della poesia di Bernart de
Ventadorn. Stessa banalizzazione si trova in Arnaut de Tintinhac “Mouz desider l’aura doussana”.
287
Perugi 1985.
288
Si è talvolta ipotizzata un’origine biblica, secondo un’interpretazione che ora pare abbandonata.
283
60
L’interesse dell’esempio “ventadoriano” concerne il parallelismo con Razo e dreyt: le
modalità compositive sono simili, i testi sono tardi e presentano caratteristiche affini a
quelle dei centoni, sono inoltre posti, in modo erroneo, sotto l’egida di un autore
celeberrimo. Le medesime affinità si colgono nelle modalità della loro trasmissione,
poiché si tratta di esempi dell’ultimo trobadorismo, forse assimilabili all’ambiente di
Rodez. Tali coincidenze possono forse rivelare qualche informazione sulle letture
trobadoriche petrarchesche.
5.6 “Quando fra l’altre donne”
Come nel caso di Verdi panni, anche nel sonetto 13289 si avverte chiaramente l’influsso
di Arnaut Daniel e in particolare della canzone Amors e jocs e luecs e temps. In realtà
Quando fra l’altre donne presenta un tema ed una situazione fortemente topici ed anche
l’uso dei due sostantivi “luogo e tempo” (cui nel testo italiano si aggiunge “ora”) in
coppia non può essere definito raro. A parte il ritmo danielino dell’elenco, è forse più
interessante notare la presenza di un possibile riferimento parallelo nel sonetto 12: ne
deriverebbe una dislocazione della fonte in luoghi distinti eppure vicini e connessi,
piuttosto tipica dell’usus scribendi petrarchesco. Infatti l’immagine dell’innamorato che
spera almeno in una soddisfazione senile, che di solito viene fatta risalire a Dante,
potrebbe in realtà connettere Se la mia vita da l’aspro tormento proprio alla già citata
canzone XIV Amors e jocs.
Tuttavia tali riscontri impediscono ipotesi definitive in merito alla composizione dei due
sonetti. Da una parte è indubbio che la macrostruttura del Canzoniere nasca da
accostamenti ben studiati anche per quel che concerne la prossimità e la coerenza delle
fonti e dei rinvii intertestuali. Dall’altra la zona iniziale della raccolta rende
particolarmente problematica la ricostruzione delle fasi e delle modalità compositive,
per l’intenzione del poeta di fingere una datazione alta anche per componimenti maturi.
5.7 “Aura-mot” e “aura-situation” dai Provenzali a Petrarca: il lavoro della critica
Il topos dell’aura – la brezza che viene dal viso o dal paese della donna amata – in
ambito occitanico costituisce per lo più un’immagine puntuale e circoscritta, ben
riconoscibile. Per Petrarca, invece, esso rappresenta un utile spunto per arricchire il
ritratto di Laura e dei propri sentimenti, partendo dal presupposto che la figura
femminile è spesso rappresentata nel Canzoniere attraverso metafore, allegorie290 e
perifrasi. Le associazioni più tipiche e celebri sono quelle veicolate da assonanze e
giochi nominali291: in primo luogo quelli tra Laura e lauro, che hanno favorito il
289
Per la riflessione sul sonetto 13 si fa particolare riferimento a Santagata 1990, pp. 157 segg.
In proposito Contini 19704 arriva a ritenere l’uso petrarchesco del termine “aura”, che di per sé
indicherebbe soltanto un fenomeno atmosferico, un vero “abuso” metaforico.
291
Secondo la definizione di Segre 1985, si tratta di effetti di “decomposizione del nome”. La forma
retorica più tipica è quella metaforica; tuttavia non mancano casi in cui alla sovrapposizione semantica si
sostituisce un accostamento, le cui forme possono essere molto diverse, il che richiede l’intervento
autonomo del lettore rispetto alla comprensione e al collegamento dei diversi elementi. In generale,
290
61
recupero del mito dafneo a partire da Ovidio292, e poi quelli tra Laura e l’aura, in cui
l’omofonia (e, anticamente, l’omografia) è completa293. Segre294 definisce tali interventi
sul nome e quindi sull’immagine di Laura “isotopie”, per evidenziare che la questione
non si limita al livello fonico, al puro estetismo formale, ma coinvolge il piano
semantico. Al ricorrere dei suoni corrisponde, infatti, la riproposizione del significato,
che non sarà tanto quello letterale delle immagini sovrapposte al personaggio femminile
(lauro, aura, oro295, aurora), quanto quello figurato, riconducendo così la figura
dell’amata a se stessa. La semplice immagine dei trovatori diviene perciò, nelle mani di
Petrarca, un principio strutturale; tale aspetto è a maggior ragione evidente se si pensa
che un intero ciclo di sonetti (194, 196-198) è definito proprio dal riferimento all’aura.
Tali considerazioni e l’attenzione che la critica ha a lungo dimostrato per la questione
giustificano un approfondimento in questa sede.
Contini, d’altronde, ha evidenziato l’importanza dell’elaborazione petrarchesca in tali
luoghi al di là dell’emblema laurano296. Infatti l’interesse dei passi in esame risiede
anche nella loro esemplarità rispetto alla lingua del Canzoniere e alle abitudini del poeta
nel rapporto con le fonti: trasformazione e rilettura autonoma.
In primo luogo vanno considerati gli effetti dell’alterazione linguistica del vocabolo:
esso può essere arricchito dalla presenza di aggettivi, che creano coppie destinate a
un’elevata frequenza, quasi si trattasse di formule fisse, oppure può essere inserito in
giri sintattici e sintagmi più ampi (ugualmente volti alla fissazione) o infine sostituito
(per Contini “dissolto”) da una serie di sinonimi o comunque voci affini, in forma di
dittologia o elenco.
La ricorrenza di “aura” e delle forme equivalenti è consistente: alcuni luoghi sono
particolarmente interessanti, come nel caso della sestina 239297, in cui “aura” è parola-
Chiecchi 1987 ha evidenziato come l’effetto paranomastico in Petrarca non sia mai un vezzo fonico fine a
se stesso, anche al di là del coinvolgimento del nome dell’amata. Tali procedimenti retorici, infatti,
entrano a buon diritto nella definizione dello stile dell’autore, in cui la forma ha sempre un ruolo attivo
nella definizione del significato (nel caso dei “sonetti dell’aura” si vedrà che ciò non vale solo rispetto
all’amata, ma anche in riferimento agli eventi del passato e allo stato d’animo presente che il poeta
intende esprimere). Lo studioso ha inoltre sottolineato come l’anticipazione del gioco linguisticonominale rispetto alla forma tangibile dell’oggetto comporti per la creazione petrarchesca uno statuto
peculiare rispetto alle consuetudini nominalistiche medievali, imperniate sul principio nomina sunt
consequentia rerum.
292
Per una panoramica dell’uso petrarchesco del mito si veda Chines 2010, pp. 32 segg.
293
Le occorrenze più originali e interessanti sono quelle in cui Petrarca arricchisce la singola immagine
attraverso dettagli naturalistici o d’estetica femminile, o ancora sovrapponendo immagini e riferimenti
diversi, ad esempio laddove le foglie del “lauro” sono mosse dall’“aura”, oppure i capelli arricciati
dall’“aura” sono “dorati”. Le soluzioni metaforiche, che sottintendono il gioco fonico-nominale, risultano
poi ancora più varie grazie alla possibilità di sfruttare numerose forme sinonimiche.
294
Segre 1985 e Segre 1993: allo studioso e ai due celebri studi si deve un’approfondita analisi del ciclo
dei sonetti specificatamente dedicati al motivo dell’“aura” (194, 196-198), comprese le loro relazioni
intertestuali (195, 320-322, 246, 327).
295
Per motivi fonici, e per la possibilità di giocare sulla sovrapposizione con il lauro, Petrarca usa
principalmente la forma latinizzata “auro”.
296
Contini 19704, ma con riferimento anche a Contini 19703 per il quadro linguistico.
297
In contrasto con l’opinione di alcuni studiosi, che l’attribuivano agli anni ’40, Wilkins ha dimostrato
che il componimento è stato inserito nella raccolta solo all’inizio degli anni ’70.
62
rima, o nel già citato ciclo298, in cui “aura” è sempre in incipit299. Nel caso dei quattro
sonetti c’è di più: alla semplice “parola aura” si aggiunge la cosiddetta “aurasituation”300. In generale, infatti, è necessario distinguere le occorrenze in cui si riscontri
soltanto il termine aura, benché dotato di una valenza simbolica, e quelli in cui è
introdotto il topos nella sua massima estensione. Infatti dall’immagine più articolata
derivano ulteriori spunti tematici, come il ricordo del passato, l’inizio della passione,
l’incremento delle sofferenze. Sia l’uso più semplice sia quello più articolato devono la
loro formulazione letteraria alla produzione provenzale; tuttavia il processo creativo è
stato ben diverso301.
Un primo riscontro significativo è offerto da En cest sonnet di Arnaut Daniel, in cui una
delle rime è appunto in –aura; in particolare, al v 12 la parola in sede di rima è
semplicemente “aura” e al v 43 è “l’aura”. Un uso simile torna anche nella nona e nella
sedicesima canzone di Arnaut302: nei tre testi è sempre possibile un’interpretazione
simbolica, che appare più evidente quando è segnalata dall’aggettivazione “doussa” o
“amara”. Tali precisazioni, infatti, introducono una valenza psicologica o, come dice
Contini, l’impressione che l’io poetico coglie dalla natura circostante, positiva o
negativa.
L’esempio arnaldiano è molto rilevante in vista dell’apprezzamento da parte di Petrarca.
Tuttavia equivalenti occorrenze del termine “aura” sono piuttosto diffuse. A partire da
Marcabru, l’aura (“fredda” o “doussa” a seconda della polarizzazione scelta dall’autore)
diviene un fattore imprescindibile negli incipit stagionali, frequentissimi nella
produzione trobadorica303; in tre suoi componimenti il termine è proprio al primo verso
(Per l’aura…, Quam l’aura… e Hueymais), e in uno si riscontra un sinonimo (A
l’alena…)304. Gli epigoni di Marcabru, quali Bernart Mari, Guilhem Ademar, Cercamon
e Guiraut de Calanson, recuperano il suo esempio anche rispetto all’immagine dell’aura,
accompagnandola con un’aggettivazione sorprendentemente omogenea. È ancor più
significativo che simili influenze coinvolgano anche autori autonomi e innovativi
(Raimbaut d’Aurenga e Peire d’Alvernha) o addirittura polemici rispetto al modello
marcabruniano (Giraut de Bornelh, che ancora una volta propone l’idea dell’aura in
incipit, in Con la brun’aura, o Arnaut de Maruelh in Belhs m’es). Tali usi metaforici di
298
Benché i sonetti sembrino rimandare a fatti biografici da collocare tra ’42 e ’45, la loro composizione
o per lo meno la loro revisione dovrebbe datare alla fine degli anni ’60.
299
Contini definisce tale posizione rilevata una sorta di “rima invertita”.
300
La definizione è di Contini 19704 ed è divenuta un vero e proprio termine tecnico per gli studiosi
successivi.
301
Per tale ricostruzione si fa riferimento in primo luogo a Contini 19704. Non vengono qui considerate le
occorrenze di “aura” con valore concreto e referenziale, ma solo i passi in cui sia implicato un significato
simbolico ed evocativo. È quella che Contini definisce “identità di gusto”.
302
Tra i testi petrarcheschi vanno in proposito considerati soprattutto 212 e 239 che presentano una stretta
connessione con le tre canzoni del trovatore.
303
Su questo aspetto e in generale sulle rappresentazioni naturalistiche amene si concentra ampiamente
D’Heur 1975.
304
La frequenza del motivo può spiegare perché alcuni testi troppo tardi siano attribuiti proprio a tale
trovatore, come Mout dezir di Arnaut de Tintinhac o Lanquan cor di Bernart de Venzac.
63
“aura” caratterizzano l’orizzonte occitanico più aristocratico, a livello poetico,
intellettuale o sociale305.
I due fautori dello stile leu, Giraut de Bornelh e Arnaut de Maruelh, partecipano
dell’elaborazione dell’“aura-situation”, benché attraverso espressioni sintetiche: nei loro
testi infatti la singola voce “aura” richiama le soluzioni più articolate di poeti
contemporanei. Per le metafore più ampie, tuttavia, i punti di riferimento essenziali
restano Bernart de Ventadorn (Can la frej’aura venta, che vanta una notevole capacità
modellizzante)306 e Peire Vidal (Ab l’alen tir)307. Si possono poi citare Can lo dous
temps, sempre di Bernart, il frammento anonimo Vein, aura doussa, que vein d’outra lo
mar308, l’alba anonima En un vergier, in cui la scelta di una voce femminile comporta
una sovrapposizione con il genere delle cantigas de amigo309, e un passo del più ampio
componimento Altas undas310. Gli ultimi tre testi presentano un’interessante
305
Contini 19704.
Secondo D’Heur 1972 la canzone è databile (senza possibilità d’essere più precisi) tra 1150 e 1180. La
tradizione manoscritta presenta inoltre una variante per il verso incipitario. La maggior parte dei codici
riporta “douss’aura” o in qualche caso “aura doussa” (cui possono essere accostate altre varianti
grafiche); tuttavia Roncaglia 1952 ritiene che tale forma si debba ad una banalizzazione causata dai
copisti e sceglie piuttosto la lezione minoritaria “frej’aura” in qualità di lectio difficilior, seguendo
l’indicazione di Appel (citato in Roncaglia 1952). Concorda con tale interpretazione anche D’Heur 1972,
che evidenzia ulteriormente il carattere scontato e topico dell’aggettivo “doussa”; esso rimanda in effetti
alle numerose descrizioni di loci amoeni e contesti naturalistici, anche generici. A tale riflessione lo
studioso aggiunge un’interpretazione biografica del verso ventadoriano, ritenendo che il poeta indichi nel
vento freddo le terre settentrionali in cui si è trasferita – causando appunto una situazione di lontananza
che giustifica il recupero dell’immagine dell’“aura” – la donna amata, Eleonora d’Aquitania, divenuta
regina d’Inghilterra per via di matrimonio. A tali convinzioni si contrappongono quelle di Contini 19704 e
Barbara Spaggiari 1985, la quale in particolare rifiuta di limitare la propria interpretazione ai fattori
metereologici, prestando attenzione al significato più profondo del motivo convenzionale. La brezza che
viene dall’amata, spesso portandone il profumo, ha infatti il valore di creare un legame tra i due amanti
separati, suscitando un senso di conforto o nostalgia. Per tali ragioni ella sostiene la lezione “doussa”. La
coerenza semantica dell’aggettivo non è però l’unico argomento utile: bisogna inoltre considerare che il
sintagma “aura doussa” torna anche altrove in Bernart e che il suo contrario (utilizzato ad esempio da
Arnaut Daniel, per sottolineare il rifiuto che gli oppone l’amata) è “amara”. È “freja” perciò ad apparire
una banalizzazione, poiché appiattisce la comunicazione poetica ai soli dati biografici ed atmosferici,
mentre le altre possibilità comportano una forte pregnanza emotiva.
307
La critica ha sempre sottolineato il loro ruolo, sin dalle prime analisi in merito: Contini 19704 ricorda
in particolare la lettura di Crescini.
308
Del frammento, probabilmente piuttosto antico (XII secolo), resta solo l’incipit che abbiamo riportato,
conservato insieme alla melodia nel Jeu de Saint’Agnes, un testo provenzale trecentesco. D’Heur 1975
ritiene che l’associazione con il Jeu sia significativa: l’anonimo autore avrebbe citato l’immagine
dell’aura perché ispirato dall’opera perduta, che quindi potrebbe aver lasciato altre tracce nel Jeu stesso.
In effetti, l’osservazione del componimento permette di cogliere qualche affinità a livello di immagini con
Altas undas.
309
Anche in tal caso, la datazione è difficile e basata soltanto sullo studio della lingua: non prima della
metà del XII secolo, non oltre la metà del XIII secolo. Secondo D’Heur 1975 è comunque più probabile
che l’alba sia posteriore ad Altas undas anche se i contatti tra i due testi non impongono con certezza la
priorità dell’uno sull’altro.
310
Per le peculiarità di tale componimento, si veda in particolare Spaggiari 1985, pp. 242-248. La patina
linguistica e la presenza del testo nel codice barcellonese Sg fa pensare che l’anonimo autore sia un
iberico, forse catalano; la regione per altro resta a lungo attiva nella produzione di stampo provenzale ben
oltre la crisi della Provenza in senso stretto. D’Heur 1975 al contrario si era dichiarato poco convinto di
tale ipotesi, affermando che le caratteristiche linguistiche del testo, di cui rimane un’unica testimonianza,
potrebbero dipendere dal copista. Il genere è ambiguo, ma mostra evidenti debiti nei confronti delle
cantigas de amigo galego-provenzali: una donna si lamenta per la partenza dell’amato, ma non è chiaro se
306
64
compromissione con l’orizzonte popolare: nel caso dell’alba, anche il genere
contribuisce a tale impressione, mentre nel testo di Bernart de Ventadorn le concessioni
ad un tono poco ricercato appaiono inconsuete e peculiari, forse dovute al contatto con
la tradizione delle meno nobili canzoni di crociata.
Partendo da tali indicazioni testuali, Jean-Marie D’Heur311 ha proposto un’articolata
analisi del topos, traendone in primo luogo una conclusione generale: l’apostrofe al
vento è d’abitudine accompagnata dall’invocazione alle onde. L’associazione è del tutto
giustificata, per altro, dalle tipiche circostanze in cui l’innamorato si rivolge alle forze
naturali: separato dall’oggetto d’amore e in viaggio. In Altas undas l’ambientazione
marina è evidente sin dall’incipit. L’io poetico, che si intuisce femminile, si trova sulla
spiaggia o comunque in prossimità dell’acqua. Con sentimenti altalenanti e intonazione
lamentosa, pone agli enti atmosferici domande angosciate sul suo drudo lontano, che
tarda a tornare: il vento in particolare assume una funzione di connessione e
comunicazione tra i due personaggi, e l’idea di scambio si tinge talvolta di una
sfumatura erotica. Il frammento Vein, aura douza que vens d’outra la mar conferma
l’associazione mare/vento e dunque basta a suggerire un contesto di lontananza o di
viaggio.
Per comprendere lo sviluppo dell’immagine è essenziale chiarire i contatti tra la
tradizione occitanica ed altre realtà letterarie anteriori o coeve. In primo luogo va
considerata la produzione in lingua d’oil. Ad esempio, il concetto di “aura” torna nella
quarta strofa di una canzone di crociata, Chanterai por mon corage di Guiot de
Dijon312, in un’interpolazione al poema oitanico Charroi de Nîmes313 e in un verso del
Roman de Troie, in cui però la descrizione del contesto primaverile potrebbe derivare
proprio da Bernart de Ventadorn314.
egli sia stato costretto ad allontanarsi per motivi militari o perché straniero. Anche la datazione è incerta,
ma è probabile che non si debba scendere oltre il primo quarto del ‘200, soprattutto in base
all’attribuzione del testo, che Sg inserisce nella sezione di Raimbaut de Vaqueiras (tale attribuzione, come
per altro molte nella medesima zona del codice, è certamente erronea, ma può essere facilmente spiegata
in base alla peculiarità del testo, che ben si adatterebbe alle sperimentazioni amate dal trovatore).
311
D’Heur 1975.
312
Per una breve caratterizzazione del testo si veda Spaggiari 1985, pp. 249-254. Probabilmente si tratta
di un’imitazione oitanica di Can la frej’aura venta, secondo la redazione “aura doussa”, come ha
sottolineato D’Heur; al nord, è la tradizione occitanica in generale (ad esempio, l’opera di Guglielmo IX)
ad aver avuto molta influenza, come accade abitualmente nei testi di crociata, in cui però è significativo
anche il lascito della tradizione mediolatina. D’Heur 1975 ha inoltre sottolineato la particolare affinità di
tale testo con Altas undas e con il passo del Charroi de Nîmes in cui compare il topos dell’“aura”.
Nemmeno in questo caso la datazione è chiara, soprattutto perché è difficile stabilire a quale crociata si
faccia riferimento, se alla terza o alla quinta; bisognerà dunque accontentarsi di collocare la canzone tra
fine XII e inizio XIII secolo.
313
Si tratta della redazione testimoniata dal codice D, in corrispondenza dei versi 823-848. Come spiega
D’Heur 1975, l’occasione narrativa è fornita da un momento di requie in cui l’eroe Guglielmo (il futuro
Guglielmo d’Orange), mentre viaggia verso la Provenza, è raggiunto da un vento che proviene dalla sua
patria in Francia e lo riporta indietro per un momento. D’Heur ha anche sottolineato l’affinità di questo
passo con la canzone di Peire Vidal e ancor più con Altas undas, ma il contesto non amoroso ricorda
anche l’uso dell’immagine dell’“aura” in contesti non amorosi in seno alla letteratura araba. Su tale
aspetto si tornerà a breve; possiamo anticipare il riferimento a Spaggiari 1985.
314
A tali riferimenti Spaggiari 1985 aggiunge un passo del De amore di Andrea Cappellano. Nell’insieme
tale piccolo corpus presenta alcuni tratti di ambiguità, poiché appare al contempo coeso e dispersivo,
anche dal punto di vista della tradizione testuale. Roncaglia ha ipotizzato che per tutti ci sia in origine un
65
In definitiva sembra che proprio a Bernart risalgano tutte le elaborazioni dell’immagine
oggi note per l’area romanza315, comprese quelle più semplici e popolareggianti, anche
grazie alla natura piana e lineare della sua rappresentazione: a tale conclusione
giungono concordi Contini, Roncaglia e D’Heur316. Quest’ultimo in particolare mette in
risalto il ruolo di Bernart rispetto al passaggio già descritto da “aura-mot” a “aurasituation”.
D’Heur si sofferma, inoltre, sulla probabile relazione che intercorre, almeno in merito al
topos del vento, tra lirica e poesia drammatica, in quanto, lo si è visto, è tipico che l’io
poetico si rivolga direttamente alla brezza. Non è raro che se ne sviluppi una sorta di
dialogo, benché uno degli interlocutori sia per necessità muto. Tale evoluzione è tipica
ad esempio delle canzoni di crociata, in cui il drudo è stato costretto ad abbandonare la
dama per motivi militari ed ella se ne lamenta; più in generale l’elemento dialettico
esprime l’incertezza e la speranza che caratterizzano la situazione di reciproca
lontananza fra gli amanti. Nelle albe la struttura dialogata è particolarmente evidente,
imperniata come è noto sulla preoccupazione per il sorgere del sole e quindi per il
risveglio del marito geloso o dei custodi della dama.
La riflessione di Martin de Riquer317 si è invece concentrata soprattutto
sull’osservazione dei caratteri specifici che ciascun autore ha imposto al motivo
dell’“aura”. In particolare per i componimenti amorosi, lo studioso ha sottolineato il
ruolo della bocca con cui si avverte lo spirare della brezza. Peire Vidal vuole aspirare o
addirittura “bere” quell’aria, e il medesimo predicato torna nell’alba anonima; in Altas
undas la fanciulla che si lamenta sulla riva del mare apre la bocca, mentre a proposito di
Guglielmo d’Orange si parla di narici (un elemento meno sensuale, forse in virtù del
contesto politico-militare del Charroi de Nîmes). Riquer sottolinea per questo l’idea che
al vento sia spesso associato, almeno in ambito amoroso, l’“alito” (“alen”, esplicito
nell’incipit vidaliano), inteso ovviamente come alito profumato, che non solo ricorda
l’amata ma ne sostituisce i baci.
Bernart de Ventadorn appare dunque il modello portante per quanto concerne la
tradizione romanza. Tuttavia restano in sospeso alcuni interrogativi sull’origine del
topos. L’elaborazione occitanica (ventadoriana) è autonoma? Quali fonti anteriori
possono averla ispirata?
testimone comune, mentre D’Heur ritiene più probabili due origini distinte, separando cioè testi cortesi e
drammatici.
315
Perugi 1994 insiste sull’unità delle occorrenze legate all’aura, anche sulla base del loro scarso numero:
per tali esempi non è economico parlare di poligenesi, ma solo per l’ambito occitanico e oitanico,
escludendo cioè del tutto la questione araba. Ciò non impedisce di notare con D’Heur 1975 che gli
epigoni oitanici mostrano una certa autonomia, per quanto risentano con evidenza dell’esempio
ventadoriano. Lo denota ad esempio il contesto espressivo, spesso legato alle crociate. Resta il dubbio che
il frammento Vein, aura doussa, citato nel Jeu de Sant’Agnes e di cui si riparlerà, possa essere ancora più
antico, perché nel medesimo componimento sono citati anche passi tratti dalle opere di Guglielmo IX,
suggerendo una diversa area di gusto.
316
Roncaglia 1952, Contini 19704, D’Heur 1975.
317
Riquer 1953.
66
Roncaglia318 esclude che la fonte sia classica319: anzi proprio la novità dell’immagine di
Bernart ne costituirebbe il fascino e ne avrebbe facilitato la diffusione. Lo studioso ha
quindi avanzato un’ipotesi relativa alla tradizione poetica amorosa araba320, che
coinvolge sia l’Oriente in senso stretto sia la Spagna musulmana. Anche in tale
contesto, infatti, spicca un’immagine affine a quella dell’“aura-situation” galloromanza. All’altezza del secolo XI, cioè quando si avviano le esperienze dei trovatori,
gli autori arabi sono inseriti in un orizzonte culturale ampio ma anche coeso, per spazi,
tempi e condivisione dei modelli. L’occasione dell’incontro di tale tradizione con
l’Occidente romanzo e cortese potrebbe essere stata favorita dalle corti spagnole rimaste
cristiane, in cui erano presenti cantori e musici di lingua araba: la testimonianza relativa
a simili occasioni è in un racconto che comprende in forma metanarrativa anche esempi
delle narrazioni con cui il signore era intrattenuto. E proprio in tale testo ricorre il
motivo dell’aura321. Benché simili contatti culturali siano probabilmente limitati ed
occasionali, nulla vieta che siano stati anche fruttosi; per altro l’orizzonte cortigiano,
l’ambiente iberico (e soprattutto catalano) e la presenza di poesia in musica, intonata da
artisti itineranti, sono tutti elementi coerenti con la realtà trobadorica, che possono
quindi aver favorito eventuali scambi culturali.
La posizione di Roncaglia è comunque prudente. La circolazione di un singolo spunto
poetico non significa necessariamente l’imposizione di un articolato sistema di pensiero
o di gusto; anzi, proprio la natura limitata dell’influenza orientale spiegherebbe
l’indubbia rielaborazione autonoma cui il motivo è stato sottoposto in ambito
provenzale. Da tale riformulazione potrebbe poi essere derivata una nuova tradizione, a
questo punto del tutto autonoma rispetto a quella di partenza.
Contini e D’Heur322 si oppongono all’opinione di Roncaglia323, sostenendo che
all’origine della tradizione araba e di quella occitanica si delineasse un caso di
poligenesi. D’Heur in particolare, sottolineava i diversi contesti di appartenenza cui
risalgono gli autori occidentali e quelli orientali, soprattutto rispetto alla tipologia dei
loro viaggi e spostamenti, cui si deve quello stato di lontananza che dà senso al topos:
per mare i primi, nel deserto i secondi. Piuttosto andrebbe approfondito il ruolo di
Bernart de Ventadorn e soprattutto il rapporto tra genere lirico e canzoni di crociata,
nelle quali in effetti il motivo dell’aura trova spazio quanto nelle canzoni amorose.
La visione di Barbara Spaggiari324, che a sua volta ha sostenuto l’ipotesi della
monogenesi araba, appare invece più decisa325. Le prove risiederebbero in alcune
caratteristiche del topos stesso, e proprio nella versione occidentale.
318
Roncaglia 1952.
Si vedrà come Rossi 1990 sostenga esattamente il contrario, esaltando l’antecedente ovidiano.
320
Sono le posizioni riprese ed approfondite, lo vedremo, in Spaggiari 1985.
321
Si tratta del racconto del medico Ibn al-Kattani: siamo tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo alla
corte del conte di Castiglia, a Burgos.
322
Contini 19704 e D’Heur 1975.
323
Contini 19704, D’Heur 1975 e Roncaglia 1952.
324
Spaggiari 1985.
325
Tale ipotesi le sembra più coerente ed economica. Tuttavia, la difficoltà nell’individuare un’univoca
occasione di contatto fra Oriente e Occidente, di cui si riparlerà a breve, impedisce anche alla studiosa di
escludere completamente la poligenesi.
319
67
In ambito orientale, l’origine del motivo è preislamica e legata alla tradizione orale,
benché dotta; la codificazione definitiva sembra risalire al X secolo, in particolare nella
regione di Baghdad. Un primo contesto letterario interessante è quello delle Mille e una
notte, in cui alla narrazione in prosa sono non di rado inframmezzati alcuni versi. In tali
spazi poetici si nota a più riprese il motivo della brezza, secondo molteplici
declinazioni; il vento può essere ad esempio rappresentato come un messaggero e tale
aspetto suggerisce di per sé una forma di comunicazione e contatto tra gli amanti,
benché senza arrivare all’“aura-situation” vera e propria326. La debolezza di tale
riferimento consiste nella datazione tarda di gran parte delle redazioni della raccolta;
tuttavia i due brani in cui l’immagine è più evidente e insistita sono più antichi della
raccolta completa, e potrebbero risalire addirittura al IX secolo.
Le possibili occasioni per il passaggio del motivo in Occidente sono molteplici e
rendono perciò difficile un preciso inquadramento storico. D’altronde non mancano
alcuni utili punti di riferimento, relativi in particolare alle tre forme preminenti di
contatto tra Est ed Ovest in età medievale: Spagna musulmana327, pellegrinaggi e
crociate. È proprio quest’ultima, secondo Spaggiari, l’occasione più favorevole in cui la
letteratura amorosa araba possa aver affascinato e influenzato gli stranieri; infatti i
crociati, che spesso si stabilirono in Oriente o comunque vi abitarono per lungo tempo,
hanno acquisito i costumi locali, mentre non risulta che sia avvenuto il contrario, per il
manifesto senso di superiorità dimostrato dagli islamici. Mancano le prove che trovatori
e giullari abbiano effettivamente partecipato alle spedizioni per liberare il Santo
Sepolcro (benché tale tema sia molto diffuso nella letteratura provenzale); tuttavia altre
occasioni di contatto, scambio e comunicazione non devono essere mancate. A livello
cronologico l’ipotesi funziona, in quanto i componimenti più antichi in cui sia
sviluppata l’“aura-situation” in senso stretto sono posteriori alla seconda (Bernart de
Ventadorn) o alla terza crociata328.
Spaggiari, inoltre, insiste sui generali punti di contatto tra poesia amorosa araba329 e
tradizione trobadorica. Anche in Oriente si sviluppano narrazioni biografiche o raccolte
di frammenti, simili rispettivamente a vidas e razos e ai florilegi; spesso la poesia è
cantata o comunque pensata per avere un accompagnamento musicale; non mancano
esempi di trattatistica, sia sul concetto di amore, sia sui diversi generi letterari e sulle
326
Anche al di là delle sole Mille e una notte, si nota una considerevole uniformità: l’immagine diviene
ben presto convenzionale. Il vento porta all’amante il ricordo della dama o anche sue notizie,
impregnandosi del suo profumo o talvolta del suo respiro. In alcuni casi tale contatto costituisce un
lenitivo, una consolazione per l’amante disperato. Con il tempo si evolve e differenzia la possibile
reazione del drudo: a volte si reca nel luogo da cui la brezza si è originata, in altri casi si limita ad
attendere un vento particolare o rivolge il viso in una specifica direzione. Può anche, in qualche brano,
aprire la bocca o inspirare profondamente.
327
Qui però si diffonde soprattutto la cultura berbera o udrita.
328
Bisogna notare che le indicazioni disponibili per la datazione dei testi citati in Contini 19704 – cioè
proprio quelli ripresi da Spaggiari 1985 – sono coerenti con tale ipotesi, benché non siano numerose.
329
Spaggiari 1985 approfondisce anche sulla storia della poesia amorosa araba, dalla fase beduina, in cui
la lirica funge da prologo per altre tipologie letterarie e spesso si caratterizza per la rappresentazione di
drammatiche separazioni tra gli amanti, fino allo sviluppo di un genere lirico autonomo.
68
tecniche compositive. Proprio in un’opera di tal genere, alla fine dell’XI secolo, si trova
un riferimento all’aura: il vento che consente al drudo di sopravvivere330.
Contrapponendosi in particolare a Roncaglia, che aveva negato per il topos dell’aura la
centralità dei modelli classici, e in generale ai sostenitori della teoria araba, Rossi331 ha
sostenuto più di recente la necessità di rivolgersi all’eredità latina. Bisogna ammettere
che nella tradizione classica gli antecedenti significativi non sono numerosi. Un primo
riferimento è, al solito, Ovidio: nelle due versioni della favola di Cefalo e Procris (Ars
amatoria III, 764 segg, Metamorfosi, 818 segg e 861 segg) la brezza è oggetto di
un’attenta rappresentazione, anche se non si tratta ancora della specifica immagine del
vento che viene dal paese dell’amata. Anche altri luoghi mostrano un’elaborazione
espressiva affine, ad esempio in Amores II, 9, dove il poeta in balia dell’aura amorosa
viene paragonato ad una nave nella tempesta332. Ovidio, rielaborando spunti che
risalgono in realtà a Properzio333, propone due diverse letture metaforiche
dell’immagine: il “vento delle passioni” e l’aria che mette in fuga o al contrario ritempra
le energie dell’amante. Il contributo più rilevante del poeta latino riguarda, però, il
lessico: infatti, il vento è qui già “aura”, sovrapponendo perciò l’elemento naturalistico
a quello mitologico, cioè evocando l’omonima ninfa. Ovidio, inoltre, propone per primo
quel tipo di gioco nominale poi fondamentale nell’elaborazione petrarchesca: “aura” è
accostato ad “aurora”, interpretabile anche come dea Aurora. Infine, è già riconoscibile
la duplicità tra “aura” come singolo termine, eventualmente caricato di significati
simbolici, e una sorta di “aura-situation”, intesa qui come configurazione più articolata.
È ben noto che Ovidio è un modello frequente ed essenziale per Petrarca334 e non solo
nel Canzoniere. Per limitarci ai passi ovidiani in cui ricorre l’idea dell’aura, il racconto
dedicato all’infelice Procris viene citato innanzitutto nelle Familiari, in un elenco di
tragedie amorose causate dalla gelosia, nel quale il poeta dichiara di ricordarlo
chiaramente senza l’ausilio dei libri. Simili richiami si riscontrano nell’Africa, nel De
remediis utriusque fortunae e nel Triumphus Amoris, laddove si parla di bellezza
330
L’ipotesi di Spaggiari 1985 prende le distanze da Roncaglia 1952 in merito all’area iberica. La
letteratura spagnola d’epoca araba non sembra offrire spunti di particolare interesse. Infatti la brezza è per
lo più citata in contesti stagionali (primaverili) e l’unico profumo che si diffonde è quello dei fiumi; si
tratta soltanto di una versione rinnovata del topos del locus amoenus. Il motivo dell’“aura” nella sua
declinazione più piena ed originale non è comunque ignoto in area iberica, grazie alla presenza delle
opere arabe classiche; tuttavia rimane espressione della cultura più tradizionale e le uniche rielaborazioni
locali appaiono molto distanti dalla concezione poi trobadorica, in quanto esulano dal genere amoroso. Il
topos diviene, infatti, essenziale quando si avvia la Reconquista e la tradizione culturale degli invasori
viene rifiutata in una prospettiva di indipendenza e “nazionalismo”. Il contesto non è amoroso: il motivo
convenzionale è riutilizzato in riferimento all’eroe nel panegirico oppure, se è in gioco la memoria,
veicola la nostalgia per la città amata che si è dovuta abbandonare. Tali occorrenze non risultano in
definitiva significative rispetto a quelle trobadoriche.
331
Rossi 1990.
332
Tale immagine sarà poi molto cara a Petrarca, che però la sottoporrà ad energiche trasformazioni.
333
Per il vento amoroso si ricordi ad esempio II, 12 (Rossi 1990).
334
Tra i luoghi petrarcheschi in cui si trova il topos dell’“aura”, Rossi considera con attenzione 194, 196,
327, 109 e 133. Negli ultimi due casi, in particolare, va considerata anche la variante secondo cui il vento
non spira dal paese, ma dal viso dell’amata.
69
femminile. Sia nell’Ars amatoria che nelle Metamorfosi335 si riscontrano spunti
interessanti rispetto alla futura composizione petrarchesca: il contesto tipico del locus
amoenus, la confusione (e il gioco nominale) tra vento e personificazione336, il dialogo
diretto (alla seconda persona singolare) con l’aura stessa, il dardo337, il racconto in
prima persona che suggerisce una sfumatura lirica e memoriale, la presenza – nei
medesimi versi – dell’immagine del lauro338, l’effetto di autocitazione nel richiamo al
mito di Dafne339.
A Ovidio, dunque, va riconosciuto un ruolo essenziale, che potrebbe essere all’origine
dell’interpretazione trobadorica340; al suo esempio vanno poi accostate le descrizioni
naturalistiche di Virgilio, anch’esse destinate ad aver ampia risonanza341.
L’ipotesi ovidiana è stata poi contrastata duramente da Perugi342. Certo, il poeta latino è
stato un riferimento fondamentale per Petrarca, ma non è detto che ciò valga anche nel
caso dello specifico topos, e soprattutto per la tradizione trobadorica. A Perugi paiono in
sostanza privi di solidità i riscontri proposti da Rossi tra Metamorfosi, Amores e
Canzoniere343; inoltre gli sembra che nel modello latino la brezza non si identifichi con
la figura femminile (almeno non più di tutti gli altri elementi naturali citati), ma faccia
soltanto parte del quadro ameno complessivo. D’altro canto, per Ovidio (e in generale
nella lirica latina) la brezza rappresenterebbe soltanto un concetto atmosferico, che può
sì caricarsi di valenze metaforiche ed acquisire la specifica funzione di acquietare i
bollori erotici, ma senza specifica relazione con le dinamiche degli amanti.
Quali potrebbero essere, dunque, le fonti di Petrarca? Non si può dubitare che egli
conoscesse per lo meno Can la frej’aura di Bernart de Ventadorn e Ben m’a lonc temps
di Joifré de Foixà, modello per la canzone “a citazioni”, che presenta in effetti una rima
in –aura. Ci sono poi da considerare le tre canzoni di Arnaut Daniel citate da Contini344.
Perugi per altro insiste sull’autonomia del poeta aretino, sulla sua abilità nel mescolare,
rielaborare e quindi nascondere le fonti; resta inoltre l’impressione che egli abbia tenuto
in conto sia la tradizione popolare che quella aristocratica, sia lo stile leu che quello
clus.
335
Rossi propone però una possibile distinzione tra i due modelli in merito al riuso petrarchesco. Nelle
Metamorfosi la componente memoriale è piuttosto evidente e, nel passo dedicato a Procris, sollecitata
proprio dall’“aura-situation”. Anche per questo, lo studioso associa il poema alla sezione “in morte” del
Canzoniere, mentre l’Ars amatoria risulta una fonte più affine alla parte “in vita”.
336
In Ovidio il gioco, cui abbiamo già accennato, tra aura/Aura/aurora/Aurora è evidenziato dalla
possibilità di sovrapposizione con il personaggio femminile di Procris.
337
Da una parte il dardo di Cupido, immagine convenzionale che trova ampio spazio nel Canzoniere, e
dall’altra quello del drudo che uccide per errore l’amata, squisitamente ovidiano.
338
Altro elemento che, come è noto, si inserisce nel quadro dei giochi nominali riferiti a Laura.
339
In tal caso, non solo per Petrarca è fondamentale il mito stesso, per la creazione del personaggio
poetico di Laura, ma anche l’effetto di intertestualità interna, tipico del Canzoniere e ben riconoscibile nel
“ciclo dell’aura”.
340
O per lo meno all’origine della rilettura petrarchesca delle fonti trobadoriche.
341
Rossi 1990, comunque, non esclude del tutto una possibile origine orale e forse popolare per il topos,
latina (e non araba) e anteriore ad Ovidio.
342
Perugi 1994.
343
Lo stesso discorso si ripropone in merito alle occorrenze dell’aura in Boccaccio e alla riflessione di
Rossi sulle possibili influenze ovidiane.
344
Contini 19704: lo studioso ne ha evidenziato le affinità con il testo petrarchesco.
70
Spaggiari345 riteneva invece che il ruolo dei modelli occitanici rispetto a Petrarca non
fosse stato considerevole346, in quanto non sono che in minima parte testi lirici in senso
stretto, quanto canzoni di donna o di crociata. La studiosa insiste piuttosto sulla
probabile mediazione di Boccaccio e delle sue opere napoletane: la rappresentazione
dell’“aura-situation” in essa contenuta appare più coerente rispetto alla concezione
petrarchesca347. Proprio Boccaccio per altro potrebbe aver messo a frutto gli antecedenti
arabi, grazie alla ricchissima biblioteca della corte angioina, in cui erano conservate
copie e traduzioni di numerose opere orientali.
A Boccaccio, comunque, aveva già pensato Contini e la medesima ipotesi è vagliata
anche da Rossi348, con particolare riferimento all’Amorosa visione. Tuttavia allo
studioso sembra improbabile che questa sia stata una fonte esclusiva o anche solo
preminente, perché mancano elementi che sono invece essenziali in Petrarca. L’amico
Boccaccio potrebbe aver piuttosto fornito uno spunto per rileggere con maggiore
curiosità e attenzione i modelli latini. Quegli stessi modelli erano noti a tutto
l’Occidente cristiano e dunque anche ai trovatori349.
345
Spaggiari 1985.
Tuttavia la studiosa ammette che, a livello di trasmissione testuale, tutte le opere citate erano
accessibili a Petrarca; in particolare vanno ricordati i manoscritti C (in cui sono presenti ben tre testi
essenziali per la questione dell’aura), narbonese e trecentesco, il catalano Sg e i fogli del Chigiano
originari della Provenza sud-occidentale. Per altro, nota sempre Spaggiari 1985, tali testimonianze
riportano proprio all’area e alla tradizione che Perugi 1985 ha indicato come essenziale per la
composizione e la ricezione di Razo e dreyt.
347
Spaggiari 1985 cita anche un passo dantesco – Purgatorio XXIV, vv 149-150 – in cui però il poeta si
limita all’uso di “aura” come parola dal valore simbolico, senza sviluppare la “situation”, come sarà per le
altre due Corone.
348
Contini 19704, Rossi 1990.
349
Rossi in particolare è convinto che Joifré de Foixà abbia letto Ovidio con attenzione. Tale posizione di
Rossi, lo si è visto, viene duramente avversata da Perugi 1994: egli nega che l’incipit della canzone “a
citazioni” di Joifré de Foixà rimandi ad Ovidio. Infatti mentre il poeta latino – e così Properzio che ne è
antecedente diretto – pensava alla brezza amorosa che viene da Cupido, nella canzone trobadorica
l’immagine (per altro comunque topica) è quella della tempesta. La rima in –aura che contraddistingue la
prima clausola del testo è piuttosto di derivazione arnaldiana, quel modello tanto amato da Petrarca.
Secondo Perugi, proprio l’eco arnaldiana avrebbe spinto il poeta a riflettere e poi a recuperare la peculiare
struttura metrica di Jaufré, mentre per Rossi il medesimo valore di tramite dovrebbe essere attribuito alla
memoria classica.
346
71
PARTE PRIMA
Il rapporto tra Petrarca e i trovatori: analisi testuale
CAPITOLO SECONDO
Riuso dei generi poetici nel Canzoniere
Ad una prima lettura il Canzoniere e il suo linguaggio appaiono ispirati all’omogeneità,
alla coerenza, alla maggiore unità possibile. Tuttavia un’analisi più approfondita rivela
la ricchezza e la natura sfaccettata della costruzione petrarchesca, come d’altronde
hanno evidenziato gli studi critici sulla relazione tra i fragmenta e la tradizione
precedente1, non ultimi proprio quelli dedicati ai modelli trobadorici. Nessun contatto
con gli antecedenti sfugge però alla trasformazione imposta dall’autore: più che debiti, i
richiami a tali modelli vanno considerati spunti di rielaborazione personale. Ogni
elemento espressivo è pensato non solo in vista del singolo componimento, ma anche
dell’insieme, e dunque alla rappresentazione dell’io lirico e alle specifiche necessità
dell’autore2. La stessa impressione di armonia e coerenza è creata a partire da strumenti
molteplici e ben calibrati. E vale la pena notare che tale dialettica tra omogeneità e
differenza si accorda perfettamente con l’idea di fragmentum: il “pezzo” di anima – e
quindi il singolo componimento – che da “sparso” deve essere raccolto e ricondotto ad
unità – al Canzoniere.
Un elemento centrale rispetto a tale prospettiva è costituito dal riuso dei generi
tradizionali, in particolare occitanici: nella macrostruttura unitaria del “canzoniere
lirico”, Petrarca inserisce testi improntati a soluzioni divergenti, sia per quanto concerne
la metrica, sia a livello tematico. L’unità della raccolta nasce quindi a partire da una
selezionata e controllata varietà, che colpisce innanzitutto nella diversificazione dei
metri, a partire dall’evidente scarto quantitativo tra la lunghezza minima del madrigale e
quella massima della canzone solenne.
Il recupero di generi differenti è d’altronde emblematico di un’altra caratteristica
essenziale dell’autorialità petrarchesca: l’intervento del poeta domina ogni singolo
aspetto e perciò ogni lascito della tradizione letteraria è sottoposto al suo vaglio e ad una
profonda personalizzazione. Il concetto di “riuso”, quindi, non va inteso come banale
citazione o imitazione, quanto come appropriazione e applicazione di strumenti già noti
secondo modalità, con obiettivi e in contesti nuovi. Con la mia analisi mi ripropongo di
approfondire il rapporto di Petrarca con gli antecedenti trobadorici in merito a tali
strutture, sia rispetto a ciò che permette di identificarne la presenza e l’origine, sia in
merito alla loro trasfigurazione e al loro rinnovamento, e quindi allo specifico
significato che esse assumono nel Canzoniere.
1
Particolarmente significativo è apparso il problema dell’influenza dantesca, petrosa e stilnovistica, in
primo luogo sul piano dei prestiti lessicali. Per tali questioni possono essere consultati ad esempio Neri
1951, Santagata 1969, Possiedi 1974, Suitner 1977, Trovato 1979, De Robertis 1983, Santagata 1985,
Picone 1993, Fenzi 2002, Bologna 2003, Pastore Stocchi 2004, Berra 2007. Per una bibliografia più
completa si veda inoltre Malzacher 2013, pp. 15-16, 26-30 e 30 segg con riferimento in particolare alla
Vita nova.
2
Per la natura particolare e moderna dell’io lirico petrarchesco si veda Santagata 2006, pp. 31-34.
73
Il recupero dei generi metrici è per sua natura piuttosto evidente, il che rende immediato
il riconoscimento dei luoghi sensibili3. Il contributo personale del poeta si coglie, oltre
che nella scelta delle forme da riproporre4, nella loro calibrata quantità e distribuzione
nell’arco della raccolta: è massima la presenza del sonetto, forma “media” per
lunghezza e intensità, minima quella delle soluzioni meno nobili, ballata e madrigale5. È
inoltre significativo il rispetto oppure il rifiuto dell’associazione convenzionale tra una
determinata forma e un’area semantica o una tipologia di contenuto, come nel caso della
sestina, d’abitudine impiegata in relazione a motivi sensuali6. Da una parte, ciò significa
che la decisione di avvalersi di specifici metri o strutture espressive non dipende
soltanto da esigenze stilistiche, ma veicola anche un messaggio ben preciso. Dall’altra,
il rapporto tra struttura e contenuto offre all’autore un’ulteriore occasione di
rielaborazione delle soluzioni convenzionali e del loro significato.
Quando si tratta, invece, di generi tematici l’autonomia dell’autore risulta non di rado
molto marcata: la sua adesione ai modelli è talvolta limitata a un singolo elemento
rifuso in un quadro del tutto eterogeneo, magari confinato in una breve porzione del
testo, come avviene per la pastorella. Il riferimento agli antecedenti appare spesso
parziale e mascherato: lo si nota molto bene nella sovrapposizione o nell’accostamento
di influenze ed esempi diversi, soprattutto classici. Proprio tali caratteristiche rendono
talvolta complesso isolare il recupero di una specifica struttura; tuttavia, non c’è dubbio
che il riferimento al sistema tradizionale dei generi, in particolare trobadorici, sia
fondamentale nella lettura del Canzoniere, dove si passa dalla classica canzone di
lontananza all’indovinello, dal giuramento al pianto funebre, dalla canzone morale a
quella di crociata, e così via. Proprio i Provenzali avevano prestato particolare
attenzione alle diverse declinazioni dell’esperienza amorosa, oltre a quelle della vita
civile e politica. Ecco perché tali modelli sono centrali rispetto al recupero dei generi
tematici. La produzione italiana, invece, soprattutto quella siciliana e quella stilnovista,
aveva imposto limiti precisi al proprio orizzonte poetico, riducendo e selezionando la
materia lirica anche all’interno della sfera amorosa.
La raccolta petrarchesca si configura così come “un’enciclopedia delle forme poetiche”,
una summa del poetabile, sia sul piano della struttura sia su quello delle tematiche7.
Tale ricerca di onnicomprensività ha un valore fortissimo sul piano metapoetico,
rispetto alla posizione che Petrarca si attribuisce a confronto con la tradizione letteraria.
3
Come si è visto nel primo capitolo, l’evidenza dei recuperi trobadorici in ambito metrico costituisce una
citazione particolarmente scoperta (e voluta).
4
Non mancano d’altronde spazi di rielaborazione, come si noterà rispetto al processo di codificazione
della sestina, o come si è visto in merito alla canzone 29, la cui struttura, ispirata alla poesia di Arnaut
Daniel, è arricchita dall’inserimento delle rime al mezzo.
5
Appare significativa in tal senso la diversa proporzione nella prima e nella seconda sezione, motivata
non solo dalla differente lunghezza delle due parti, ma anche dalle esigenze comunicative del poeta (si
veda nuovamente Pulsoni 1998, pp. 23 segg).
6
Tale direzione era stata indicata dagli esempi di Arnaut Daniel e Dante. Come vedremo, Petrarca in
parte fa proprio e in parte nega – in forma palinodica – l’uso topico del genere. Discorso simile vale
anche per il madrigale; tali aspetti verranno comunque approfonditi nel corso del presente capitolo.
7
Tale aspetto di onnicomprensività, che non concerne solo l’aspetto metapoetico, ma anche la
dimensione esistenziale e quella amorosa, sarà affrontato con maggiore profondità nel capitolo quarto.
74
Il poeta si mette alla prova e dimostra le proprie capacità negli ambiti più disparati,
emulando e sorpassando i suoi antecedenti; inoltre, portando a compimento la sintesi e
il superamento rappresentati dalla raccolta stessa, egli guarda alle innovazioni dei
contemporanei, agli sviluppi della teoria musicale e alla nascita di nuovi generi, come
nel caso del madrigale8.
Certo, tale molteplicità di forme non si spiega solo in vista dell’autoaffermazione di
Petrarca come poeta. Le diverse soluzioni che caratterizzano il Canzoniere sono
finalizzate all’espressione delle molteplici fasi attraversate dall’io lirico, delle sue
contraddizioni, delle sue problematiche, della sua vicenda complessiva. Strutture
tematiche e formali diverse permettono di insistere su intonazioni differenti, di volta in
volta solenni, sensuali, elegiache, lievi, dolenti e così via9. Rispetto a tali snodi narrativi
ed emotivi, spicca l’importanza dei metri lunghi: benché la raccolta vada considerata nel
complesso, senza trascurare la novità o la capacità espressiva delle forme brevi, i nuclei
concettuali più forti e quindi i pilastri del discorso poetico si riscontrano nelle canzoni10.
Nulla vieta infine di ipotizzare che il poeta si sia anche preoccupato di evitare
un’eccessiva ripetitività in un’opera tanto ampia e corposa come il Canzoniere,
alternando ritmi, suoni, lunghezze, motivi e immagini diversi.
1. Identificazione e classificazione dei generi trobadorici
La varietà delle realizzazioni trobadoriche giustifica pienamente una puntuale
attenzione alla classificazione dei generi lirici; tuttavia essa ha interessato in modo quasi
esclusivo il trobadorismo tardo (in particolare, trecentesco)11. Tali interventi di
sistematizzazione sono comunque significativi, poiché documentano l’autorevolezza
della produzione occitanica su larga scala: tale prestigio appare particolarmente solido
per la durata nel tempo e la diffusione geografica. D’altro canto quegli stessi contributi
risentono dei limiti tipici della cultura medievale: per tutto il Medioevo, infatti, manca
8
Rispetto ai generi tipici della tradizione trobadorica spicca una sola notevole assenza: il “salut d’amor”,
sorta di epistola che iniziava e finiva appunto portando alla dama il “saluto” del poeta. Si tratta di
componimenti lunghi, di cui non si conservano numerosi esempi (possiamo ricordare le prove di
Raimbaut d’Aurenga, Falquet de Romans e Amanieu de Sescars; particolare anche quella offerta da
Sordello, dove il saluto, di solito molto ampio, risulta ridimensionato ad una cobla singola), i cui motivi
di fondo appaiono in sostanza gli stessi della canzone amorosa. Per tale ragione, forse, Petrarca rinunciò a
cimentarsi nel genere, in cui per altro l’elemento più caratteristico è il dialogo diretto con l’amata,
artificio diffuso anche in gran parte delle canzoni cortesi e ripreso talvolta nel Canzoniere. In due sonetti,
110-111, il tema si propone in chiave stilnovistica, perché al centro dell’attenzione è il saluto che il poeta
riceve da parte dell’amata. Quest’ultimo motivo veicolava in effetti valenze semantiche profonde, mentre
il saluto del poeta alla dama rispecchiava solamente una consuetudine cortese: si può pensare che anche
tale aspetto abbia pesato sulle scelte di Petrarca. Tra i fragmenta mancano anche le “canzoni di donna”,
per altro più frequenti nella tradizione galego-portoghese che in quella occitanica in senso stretto. La
motivazione della scelta petrarchesca è a tal proposito evidente: nessun punto di vista, eccetto quello
dell’io poetico, poteva trovare spazio nella raccolta.
9
Su tale aspetto, che coinvolge in termini più articolati la scelta degli strumenti espressivi, linguistici,
stilistici e tematici, si tornerà con maggiore ampiezza più oltre.
10
Si veda per tale affermazione la nota 16 a p. 61 in Praloran 2013, che a sua volta cita la posizione di
Martinelli. In Martinelli 1977, pp. 85-86 lo studioso si sofferma infatti sulla difficoltà del labor limae che
deve aver contraddistinto proprio le canzoni negli anni decisivi per la concezione del Canzoniere.
11
Tali tassonomie presentano perciò il considerevole rischio di risultare anacronistiche.
75
una “teoria dei generi” vera e propria. Ogni possibile tassonomia non è che
un’astrazione realizzata a partire dai testi concreti, che, a loro volta, rispondono alle
attese del pubblico12; si spiega così l’intensificazione di alcuni elementi ben
riconoscibili ed evidentemente apprezzati, la cui ricorsività rappresenta il punto di
partenza per successive categorizzazioni13. Ciò non toglie che alla base della poesia
provenzale, come delle teorizzazioni e classificazioni ad essa dedicate, resti
l’insegnamento retorico latino, benché affrontato con ampi margini di originalità e
indipendenza14.
Dalle trattazioni medievali sui generi trobadorici si può trarre un elenco di circa
venticinque voci15, molto utili a livello teorico e come strumento per orientarsi nella
comprensione dei testi, ma poco stringenti su un piano complessivo. Esse infatti non
tengono conto né dei componimenti in cui sono mescolate o accostate prospettive
molteplici, né di quelli troppo poco caratterizzati per essere inseriti in una categoria. A
monte del contatto tra generi distinti, possono entrare in gioco sia la libera elaborazione
ed applicazione delle convenzioni ad opera dei singoli poeti, sia la condivisione dei
medesimi strumenti espressivi in ambiti per il resto autonomi. È questo il caso di
strutture metriche, forme musicali, ornamenti retorici, modalità diegetiche (in
particolare dialoghi). Un ultimo limite di simili tassonomie si riscontra nella difficoltà di
identificare la graduale evoluzione di ciascun genere, che inevitabilmente si è delineata
nell’ampio lasso di tempo in cui l’esperienza trobadorica è stata vitale, tra la fine
dell’XI secolo e l’inizio del XIV.
Va poi analizzata la diffusione di ciascun genere, guardando in primo luogo al numero
di testi che si sono conservati. Da un punto di vista puramente quantitativo, infatti, gran
parte della poesia occitanica a noi nota si concentra negli anni centrali dell’epoca
trobadorica, tra 1180 e 1220 circa: in tale arco cronologico l’incremento dei
componimenti è rapidissimo, anche se è probabile che per le fasi più arcaiche si sia
12
Tale aspetto è stato evidenziato anche da Pickens 2000, che esalta la corrispondenza tra creazione e
fruizione orale in quanto momenti distinti, ma strettamente connessi dell’esperienza lirica.
13
Un’interessante definizione del concetto di genere si trova in Bec 1992, pp. 87 segg. Lo studioso
sostiene che, per essere tale, un genere debba in primo luogo essere concepito come tale al tempo della
sua creazione, cioè da parte degli autori che ne usufruiscono e del pubblico cui si rivolgono. È senza
dubbio importante anche per la sua collocazione cronologica la testimonianza della tradizione
manoscritta: codici e rubriche sono spesso organizzati in relazione alle differenze di genere fra i testi. È
inoltre essenziale che l’innovazione abbia avuto un seguito, degli imitatori, altrimenti essa rimane una
sperimentazione isolata e non formalizzata (come è evidente nel caso della sestina nei diversi casi di
Arnaut Daniel e Petrarca). Per quanto concerne invece le marche di genere all’interno dei testi, che
possono riguardare sia forma che contenuto, gli elementi essenziali sono la loro ricorsività e la puntuale
organizzazione, anche laddove siano in gioco pochi tratti riconoscibili. I luoghi più tipici in tal senso sono
incipit ed explicit.
14
Per tali riflessioni generali, è particolarmente utile Kelly 2000, pp. 191 segg; lo studioso offre inoltre
un’interessante sintesi dei diversi aspetti e contesti secondo cui i trovatori hanno recuperato ed applicato
la tradizione retorica. Sulla relazione tra retorica e differenziazione di genere, con particolare riferimento
alle prime riflessioni grammaticali per le lingue volgari, si veda anche Dagenais 2000. Altri contributi
utili sono in Kelly 2011.
15
Paden 2000, pp 21 segg: canso, tenzone, sirventese, vers, alba, planh, canzone di crociata, pastorella,
dansa, descort, enueg, escondich, esdemessa (o sforzo), estampida, estribot, fabla, fablel, lettera, mezzosirventese, plazer, canzone mariana, serena, sestina, vanto e un non precisato “non so cosa sia” (già così
in provenzale).
76
perso molto, troppo perché il giudizio sia definitivo. Segue una lunga, lenta fase di
decrescita nella stagione più tarda, quando cioè si avvia la decadenza della cultura
cortese16. Nell’insieme, il genere che vanta il maggior numero di testimonianze in
ambito provenzale è la canzone (40% dei testi), cui seguono il sirventese (21%) e la
cobla singola (19%)17; tuttavia, tra i testi più antichi18 – in particolare all’epoca di
Marcabru e dei suoi epigoni più fedeli – spicca la produzione di versi civili (politici e
morali), mentre la presenza dei generi minori e della cobla in particolare si rafforza solo
nel periodo più tardo19. A livello cronologico, dunque, classificazione delle forme
espressive e diffusione di quelle meno nobili coincidono, suscitando qualche ulteriore
riflessione. Infatti, le varie categorizzazioni, per quanto autorevoli (come quella delle
Leys d’amor)20 e basate sull’osservazione dei testi, sono tutte posteriori alla
formulazione “classica” della poesia cortese, ed anzi derivano da essa. Ciò significa che
i trovatori dell’età d’oro scrivevano sì basandosi su punti di riferimento condivisi, ma al
contempo secondo modalità molto più libere ed individuali. Quando invece, accanto e a
monte della versificazione viene imposta una concettualizzazione, è favorito lo sviluppo
di generi più chiusi, le cui prospettive sono più specifiche e limitate rispetto alle ampie
possibilità un tempo garantite da canzone e sirventese21. Tale percezione della poesia
16
Delle probabili cause di tale decadenza e delle ultime manifestazioni della cultura trobadorica si tratterà
nel corso del sesto capitolo.
17
La denominazione di tale genere – che si deve probabilmente alle affermazioni di Guilhem Maigret
proprio in una cobla esparsa (inizio del Duecento) – è piuttosto ambigua, poiché il medesimo termine
indica la stanza di canzone o un componimento autonomo: in tutti i trattati due e trecenteschi si ripropone
la medesima polisemia. Da questo termine derivano definizioni quali “cobleiar” e “coblejador”,
rispettivamente per indicare composizione e poeta che si specializza in essa. Per tale disamina, si veda
Poe 2000.
18
Bisogna però ricordare che le manifestazioni poetiche più antiche non conoscono una distinzione
stringente tra canzoni e sirventesi: spesso all’interno dei testi si registrano definizioni molto ampie e
generiche, come quella di vers, mentre gli usi e le indicazioni metapoetiche dei singoli autori spesso non
si corrispondono. La puntuale distinzione fra canzone e sirventese è di certo posteriore alla metà del XII
secolo (Paden 2000). Anche Pickens 2000 ha insistito su tale aspetto, indicando un primo spartiacque
negli anni ’70 del XII secolo; appare essenziale la ambigua distinzione tra vers e canso, termine che
comincia ad affermarsi con Bernart de Ventadorn e Giraut de Bornelh, ma che solo con Arnaut Daniel
diviene davvero univoco. L’epoca dei primi trovatori è particolarmente problematica anche per le
riflessioni a posteriori, comprese quelle moderne: infatti, come ha puntualizzato Bec 1992, pp. 87 segg, la
quantità dei testi sopravvissuti è insufficiente per identificare gruppi coesi di opere. Lo studioso ha inoltre
evidenziato il valore delle dichiarazioni metapoetiche dei trovatori, soprattutto i più antichi: non tanto sul
piano del genere, ma come esaltazione delle proprie innovazioni tecniche. Sulla questione di forme e stili
si veda Paterson 1975. Successivamente, anche vidas e razos offrono un utile contributo in tal senso,
distinguendo tra modalità “antiche” e “moderne” di poetare (benché il criterio non sia sempre ben chiaro).
Per la varietà dei termini tecnici in questione e l’evoluzione delle relative definizioni da Guglielmo IX a
Jaufré Rudel e da Marcabru a Bernart Marti, si veda in particolare Bec 1992.
Al problema delle definizioni tecniche è per certi aspetti congiunto quello delle scelte stilistiche: per un
approfondimento sulla diatriba che ne derivò in ambito trobadorico in pieno XII secolo è particolarmente
efficace Paterson 1975; sono utili anche Di Girolamo 1983 e Canettieri 1996.
19
Come riporta Poe 2000, la cobla più antica oggi nota si deve a Folchetto da Marsiglia, cui seguono
Raimbaut de Vaqueiras e Peire Vidal; tuttavia il primo trovatore a comporne in modo sistematico,
accelerandone l’identificazione come genere specifico, è Guilhem de Berguedan.
20
Vale la pena di ricordare anche la Doctrina de conpondre dictats, anonima ma da attribuire con ogni
probabilità a Joifré de Foixa; sulla manualistica retorico-grammaticale si tornerà nel sesto capitolo.
21
Al contempo, il trobadorismo tardo, per quanto vincolato da esigenze ed imposizioni moraleggianti o
religiose, non perde di vista l’insegnamento dei grandi poeti sul piano dell’elaborazione formale. Si
77
spiega in parte anche il passaggio della cultura cortese – avvenuto nello stesso periodo –
dall’ambiente cortigiano a quello accademico, fino alla concezione della letteratura e
della laurea poetica in termini universitari nell’ambito del Concistori22.
La cobla in particolare dimostra di essere un genere tutt’altro che secondario23 per
l’attenzione che i trovatori le hanno garantito in Provenza, Francia e Italia a cavallo tra
‘200 e ‘300; è vero, però, che la considerazione sul piano teorico non è stata altrettanto
rilevante. Si tratta in effetti dei componimenti meno elaborati dal punto di vista formale,
dedicati quasi esclusivamente a temi comici o occasionali; nella gerarchia della
tradizione trobadorica, perciò, vengono persino dopo la tenzone. Tuttavia la quantità di
testi tramandati ne evidenzia l’efficacia strutturale ai fini comunicativi e
l’apprezzamento dei poeti a livello d’uso. Ne esistono per altro varie tipologie24: le
coblas possono essere nuclei isolati e poi interpolati in più ampi componimenti ad esse
estranei, oppure possono essere estrapolate da opere più estese e venire diffuse come
brani autonomi25; le coblas esparsas sono invece pensate già in origine per essere fruite
come testi singoli. Infine, tali brevi componimenti in sé conclusi sono concepiti anche
per creare uno scambio dialogico tra due poeti, che si distingue chiaramente da tenzone
e partimens (la cui struttura è per altro più coesa ed unitaria) poiché non veicolano una
diatriba ben articolata, bensì insulti e facezie reciproche. Le esigenze espressive cui
rispondono le coblas sono molteplici e disomogenee – problemi morali, propaganda,
divertissements, inviti più o meno occasionali, richieste, rappresentazioni realistiche e
così via. Un tratto costante, comunque, si riscontra nella loro maggiore semplicità e, di
conseguenza, nella loro maggior accessibilità per poeti di capacità ed aspirazioni
diverse. Si spiega a maggior ragione il successo tardo del genere, in un’epoca cioè in cui
un fenomeno culturale elitario e aristocratico come la poesia cortigiana si stava ormai
diffondendo in ambito borghese. Infine, la flessibilità della cobla la rende uno
strumento ideale per provarsi nei generi più diversi, aggirando le regole della canzone
“classica”, percepite come troppo rigide, e rispondendo alle esigenze dell’epoca tarda,
compresa la curiosità per le tipologie testuali meno consuete ed alte26.
2. Canzoni d’amore
Il genere per eccellenza della tradizione cortese è la canzone amorosa. Il metro stesso
nasce per esprimere le vicende sentimentali: solo per la canzone d’amore si impone
l’obbligo di un’impostazione metrica, ritmica e musicale sempre originale, mentre al
sirventese e ai temi civili non spetta che una ripetizione delle combinazioni già usate
assiste anzi ad un’estremizzazione e ad un irrigidimento nell’uso esuberante di artifici ed abbellimenti
stilistici.
22
Di tali aspetti si tratterà nel corso del sesto capitolo.
23
Sulla questione si è soffermata in particolare Poe 2000, cui si fa ampio riferimento in queste pagine.
24
Esse sono però basate su una categorizzazione moderna, benché derivata dall’osservazione dei testi
antichi.
25
I florilegi (di cui si parlerà nel sesto capitolo) derivano da simili operazioni di recupero.
26
Per un’utile riflessione generale sull’opposizione tra generi alti, bassi o “ibridi”, si veda Picone 1979,
pp. 73 segg.
78
altrove. È ovvio dunque pensare che Petrarca abbia guardato innanzitutto alla forma più
illustre della produzione trobadorica, anche al di là della mediazione italiana e della
classificazione dantesca. Ed è significativo che l’esito di tale attenzione non sia soltanto
l’imitazione esteriore delle due canzoni arcaizzanti 29 e 206, ma anche l’innovativo
recupero di alcune tra le molteplici letture dell’esperienza sentimentale che la canzone
amorosa provenzale aveva proposto, dunque sul piano del contenuto.
Un primo elemento essenziale nella vicenda amorosa cortese è la polarizzazione dei
sentimenti: l’alternanza e talvolta la mescolanza di gioia e dolore. La contraddittorietà
dello stato amoroso è uno dei topoi più diffusi e riconoscibili; spesso il poeta dichiara
apertamente di vivere in una costante indecisione tra soddisfazione e disperazione.
Oppure componimenti in sé coerenti, gioiosi o infelici, si alternano nell’opera
complessiva del medesimo autore; infine, un singolo testo può dar conto di entrambe le
prospettive, mescolandole o accostandole. Petrarca ha esplorato tutte queste possibilità,
benché l’espressione del dolore conosca maggior sviluppo rispetto a quella della
beatitudine, cui non sono dedicati componimenti d’ampio respiro, ma solo porzioni di
essi o piuttosto metri brevi27. Alla sofferenza, invece, sono consacrate interamente le
canzoni 37 e 207, ma sviluppano il medesimo tema anche le sestine focalizzate
sull’amore terreno (22, 30, 66, 237, 239); lo stesso vale per le canzoni 23, 29, 50 e 135,
per quanto il discorso vi assuma una configurazione molto peculiare ed autonoma28.
Una riflessione molto simile può essere proposta per altri due temi forti delle canzoni
trobadoriche, spesso nucleo portante di intere liriche: l’elogio alla dama e la dedizione
del poeta. Certamente i due temi sono ben testimoniati nel Canzoniere – e soprattutto il
primo – ma piuttosto in testi brevi, o all’interno di riflessioni più ampie e quindi in
stretta connessione all’espressione del tormento dell’io, che ha sempre una posizione
centrale29.
Ben cinque canzoni sono inoltre ispirate al problema della lontananza, a partire dal già
citato fragmentum 37, e ad esse vanno aggiunti non pochi sonetti; si tratta di una
variante tipicamente trobadorica sul tema del lamento amoroso, ancora nell’ambito della
grande canzone cortese.
Fin qui il recupero petrarchesco appare in sostanza un adattamento dei generi,
identificabili in modo preciso, alle logiche complessive della raccolta e alla storia
peculiare del suo io lirico. Altri testi e dunque altri momenti di quella vicenda, che a
prima vista suonano del tutto originali e tipicamente petrarcheschi, possono a loro volta
nascondere un’eco trobadorica, che dev’essere però rintracciata ed evidenziata oltre la
trasfigurazione operata dall’autore, ancor più radicale rispetto al consueto. Infatti, alcuni
27
Persino nelle “canzoni degli occhi” la rappresentazione salvifica di Laura e dell’amore per lei non è
univoca e non manca il riferimento alle difficoltà del poeta.
28
Ancora diverso è il caso dei lamenti in morte di Laura, in cui il tema essenziale resta la disperazione
dell’amante, ma per ragioni e secondo prospettive del tutto differenti, come dimostra talvolta la
reinterpretazione dei dolori passati in qualità di gioie e fortune, attraverso il filtro deformato del lutto e
del ricordo. Sul genere del planh si tornerà in modo specifico nel corso del presente capitolo.
29
Fa in parte eccezione la canzone 119, in cui l’esercizio dell’elogio muliebre si ripropone due volte:
nella rappresentazione della Gloria, che appare a Petrarca in veste di donna bellissima, e nella descrizione
di Laura da parte della Gloria stessa, che anticipa al futuro poeta il suo destino di innamorato.
79
spunti del tutto legittimi nel panorama provenzale (feudale), come il cambio della dama
o l’abbandono dell’amore (e della sua poesia), in sé e per sé sono impensabili nel
Canzoniere; tuttavia Petrarca potrebbe averne tratto ispirazione nel delineare la novità
della sua “storia”, in termini profondamente rinnovati.
2.1 La disperazione dell’amante: i fragmenta 207, 270 e 29
La tradizione del canto dolente e d’ampio respiro, frequentissima tra i trovatori30, è
recuperata da Petrarca nella sua forma più classica nella canzone 207. Gli elementi
convenzionali vi abbondano: l’apostrofe lamentosa e colpevolizzante ad Amore31, la sua
rappresentazione come arciere32, le qualità fisiche e morali dell’amata a motivazione
dell’attaccamento del poeta33, l’ardore amoroso34, la necessità di celare i sentimenti, ma
anche l’incapacità del poeta di rispettare tale imposizione35, le colpe della dama e il fio
pagato dall’amante36, il servizio ad Amore37, il nutrimento amoroso38, lo sguardo
dell’amata, la morte per amore39, la mancanza di pietà, gli “invidiosi” che possono
averla causata40. Quest’ultimo elemento, che rimanda alle malelingue tipiche dei versi
provenzali, non è affatto diffuso nel Canzoniere, ma è motivato qui dalla vicinanza a
206, l’escondich in cui il poeta deve difendersi da un’ingiusta accusa rivoltagli
dall’amata, evidentemente convinta da voci calunniose41. L’abbondanza dei topoi, il
dettaglio sui pettegoli e la connessione con un testo esplicitamente (volutamente)
provenzale rafforzano l’impressione che alla base del fragmentum 207 operi una
struttura convenzionale.
L’appropriazione e la trasformazione della forma tradizionale dipendono in linea
generale dal suo inserimento nella vicenda dell’io petrarchesco e nello specifico dalla
posizione in cui è collocata la canzone. Infatti, nei suoi tratti essenziali, essa si
adatterebbe perfettamente all’apertura della raccolta e all’inizio del percorso emotivo ed
30
Gli esempi sono davvero numerosissimi, troppi anche solo per fare una scelta. Basti pensare che anche
per quei poeti che hanno reso famose le intonazioni più dolci e lievi, come Bernart de Ventadorn,
l’espressione del dolore è una costante irrinunciabile.
31
“La colpa è vostra, et mio ‘l danno et la pena”, v 78.
32
“Aspett’io pur che scocchi / l’ultimo colpo chi mi diede ‘l primo”, vv 85-86.
33
“Li occhi soavi ond’io soglio aver vita, / de le divine lor alte bellezze / furmi in sul cominciar tanto
cortesi”, vv 14-16.
34
“L’anima, poi ch’altrove non à posa, / corre pur a l’angeliche faville; / et io, che son di cera, al foco
torno”, vv 30-32.
35
“Or, bench’a me ne pesi, / divento ingiurioso et importuno”, vv 20-21. Su tale immagine convenzionale
si tornerà nel prossimo capitolo.
36
“Così di ben amar porto tormento, / et del peccato altrui cheggio perdono”, vv 79-80.
37
“Servo d’Amor, che queste rime leggi”, v 97.
38
“Di mia morte mi pasco, et vivo in fiamme: / stranio cibo, et mirabil salamandra”, vv 40-41. Per la
convenzionale immagine alimentare si veda il capitolo successivo.
39
“Ché ben muor chi morendo esce di doglia”, v 91.
40
“Se le man’ di Pietà Invidia m’à chiuse, / fame amorosa, e ‘l non poter, mi scuse”, vv 25-26.
41
Su tali aspetti si tornerà nel presente capitolo in riferimento al genere dell’escondich. Possiamo intanto
anticipare il riferimento bibliografico a Berra 2013, utile anche rispetto alla relazione tra 205, 206 e 207.
Si noti per altro come la vicinanza ad un componimento esplicitamente provenzaleggiante per metro (si
veda il capitolo primo) e per genere (appunto, l’escondich) sia coerente con la percezione dell’influenza
occitanica che si coglie in 207.
80
esistenziale, laddove domina nelle sue varie declinazioni l’idea dell’amore non
corrisposto. Scelta per essere il fragmentum 207, invece, la canzone si propone al
contrario come emblema di una fase avanzata nell’esperienza amorosa: siamo ormai sul
finire della sezione “in vita”, il poeta non è più giovane e perciò la consueta pena
amorosa è aggravata dall’imbarazzo (per altro topico) di un amore senile: “Non so s’i’
me ne sdegni / che ‘n questa età mi fai divenir ladro / del bel lume leggiadro” (vv 7-9) e
ancora “Così avess’io i primi anni / preso lo stil ch’or prender mi bisogna, / ché ‘n
giovenil fallir è men vergogna” (vv 11-13). La canzone chiarisce così, e con particolare
energia grazie al suo statuto di genere alto, che l’esperienza amorosa è ricaduta nelle sue
modalità più deleterie, negando la speranza di un amore sereno, salvifico e produttivo42.
207 insomma sembra negare a distanza la svolta delle “canzoni sorelle” o per lo meno la
sua durata, quando recita “or poi che da madonna i’ non impetro / l’usata aita […]” (vv
4-5) oppure “Li occhi soavi ond’io soglio aver vita, / de le divine lor alte bellezze /
furmi in sul cominciar tanto cortesi” (vv 14-16), mostrando poi che quell’aiuto è venuto
meno43.
Osservando le altre canzoni petrarchesche, si ha l’impressione che due testi offrano una
sottile connessione con 207. In primo luogo 27044, dove il possibile collegamento è
sottolineato anche dalla suggestiva ripetizione numerica relativa alla posizione seriale
dei due testi. Tale fragmentum, tra i primi della sezione “in morte”, è innegabilmente un
planh: il dolore per cui piange il poeta è ora quello per la dipartita di Laura, riprendendo
la solenne elegia di 268 e preludendo al tono che sarà dominante fino alla fine della
raccolta. Tuttavia in 270 l’io non si limita a questo, ma propone una sfida ad Amore,
giocando sull’esempio di Orfeo ed Euridice45: il poeta può amare solo Laura, dunque
42
Tale interpretazione si basa su una lettura intertestuale d’ampio respiro, ma non intende con ciò
dimenticare la connessione ravvicinata con la canzone precedente: sul piano della successione narrativa la
motivazione dell’atteggiamento di Laura e quindi del dolore del poeta si coglie in 206 e nella colpa ivi
negata.
Va inoltre evidenziato che già al momento della sua affermazione, la prospettiva amorosa positiva è
contradditoria e limitata: si vedano per tale aspetto soprattutto la lectura in Berra 2010, i contributi in
Praloran 20072 e 2013, e l’ipotesi di un “anti-stilnovismo” mascherato proprio nelle “canzoni sorelle”, in
Malzacher 2013.
43
La questione delle “canzoni sorelle”, della svolta stilnovistica nel Canzoniere e di una concezione
positiva dell’amore è stata e sarà citata più volte, rispettivamente nel corso del primo e del presente
capitolo. Ci sarà modo di riprendere e approfondire il problema, anche in relazione alla possibile
interpretazione della presenza trobadorica nella raccolta, nel quarto capitolo. Possiamo comunque ribadire
alcuni riferimenti bibliografici fondamentali: Bonora 1984, Santagata 1990, Petrini 1993, pp. 83 segg.,
Praloran 20072, Berra 2010, Praloran 2013, pp. 66-109 e Malzacher 2013, utile anche per la sintesi sui
contributi precedenti. Sulla cesura rappresentata dalla canzone 70 si vedano infine Caputo 1987, pp. 119170 e Praloran 2009.
44
Per il commento e una panoramica sulla componente luttuosa nella canzone si vedano Bettarini 1998,
pp. 61-83 e il commento introduttivo in Bettarini 2005, pp. 1219-1222. La studiosa si era già dedicata alla
canzone e al sonetto che la precede, in riferimento all’intertestualità con la tradizione italiana, in Bettarini
1987. Per la presenza di tali testi o loro porzioni nel “codice degli abbozzi” e la loro graduale
composizione si veda invece Paolino 1993.
45
Per il rapporto tra la figura del poeta e la tradizione (soprattutto ovidiana) di Orfeo, si consulti Chines
2010, pp. 32 segg.
81
ella dovrà essere riportata indietro dagli Inferi, se Amore vuole averlo di nuovo in
proprio potere.
Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo antico,
come par che tu mostri, un’altra prova
meravigliosa et nova,
per domar me, conventi vincer pria.
Il mio amato tesoro in terra trova,
che m’è nascosto, ond’io son sì mendico,
e ‘l cor saggio pudico,
ove suol albergar la vita mia;
et s’egli è ver che tua potentia sia
nel ciel sì grande come si ragiona,
et ne l’abisso (perché qui fra noi
quel che tu val’ et puoi,
credo che ‘l sente ogni gentil persona),
ritogli a Morte quel ch’ella n’à tolto,
et ripon’ le tue insegne nel bel volto (vv 1-15).
Il significato principale del componimento è univoco, l’insistenza sull’unicità di Laura e
del sentimento che Petrarca ha provato per lei (“ché ‘l mio volere altrove non
s’invesca”, v 58; “Ma poi che Morte è stata sì superba / che spezzò il nodo ond’io temea
scampare, / né trovar poi, quantunque gira il mondo, / di che ordischi ‘l secondo”, vv
69-72; “Certo omai non tem’io, / Amor, de la tua man nove ferute; / indarno tendi
l’arco, a voito scocchi”, vv 102-104)46. Dal punto di vista della struttura, però, l’esito
appare davvero peculiare, tanto che risulta difficile limitare la definizione della canzone
al semplice lutto per l’amata. Infatti, l’ipotesi paradossale che Laura risorga dall’Averno
comporta l’idea che il poeta torni alle sofferenze amorose, che appunto il dio vorrebbe
imporgli di nuovo. A differenza dei vari luoghi nella seconda sezione in cui Petrarca
descrive le pene di un tempo (dolci a confronto della sofferenza presente) in termini di
ricordo lontano, già vissuto e perduto per sempre, qui si parla di un eventuale e futuro
ritorno ad esse. Ne deriva la sensazione che 270 abbia lo statuto particolarissimo di
“genere misto”, per contesto lamento funebre, per ispirazione canzone amorosa. E
canzone amorosa infelice, non solo perché Laura è morta, e dunque nessun’altro tono
poteva essere adeguato in tale fase della raccolta, ma anche perché ciò che Amore può
offrire sono pur sempre pene.
Un altro collegamento significativo unisce 207 a 29. La famosa Verdi panni non oppone
alcun dubbio rispetto alla matrice trobadorica che l’ha ispirata, almeno sul piano
formale, per struttura e stile47. Anche qui, come nelle sestine poco distanti, il poeta si
46
La questione è fondamentale e tutt’altro che ovvia: avremo occasione di approfondirla in merito
all’interpretazione dell’escondich petrarchesco e alle consuetudini del planh trobadorico nel corso del
presente capitolo.
47
Sulle citazioni e i riferimenti della canzone ci si è già soffermati nel corso del primo capitolo.
82
mostra in preda alla passione, stravolto dall’amore, disperato, prono ad atti
irragionevoli. Insieme a 2348, 22 e 30, 29 propone, poco oltre l’apertura della raccolta,
l’espressione più violenta e più sentita dello strazio amoroso, con una tale complessità
formale da comunicare anche sul piano del ritmo e del suono il difficile stato in cui
versa il poeta. Verdi panni, però, presenta una peculiarità ulteriore: dopo cinque strofe
di inequivocabile strazio, la prospettiva cambia. Amore diviene strumento di rettitudine,
Laura viene elogiata, il poeta non ha quindi alcuna intenzione di ribellarsi: “né quella
prego che però mi scioglia / ché men son dritte al ciel tutt’altre strade / et non s’aspira al
glorioso regno / certo in più salda nave” (vv 39-42). Sul medesimo tono si mantiene
tutto il resto della canzone, fino al suggello conclusivo: “Quanto il sol gira, Amor più
caro pegno, / donna, di voi non ave” (vv 57-58)49. Ne derivano due considerazioni. In
primo luogo, la canzone 29 anticipa una concezione positiva, salvifica dell’amore e
dunque si pone in relazione alle “canzoni degli occhi” e alla loro svolta, suggerendo una
specifica tendenza nella concezione amorosa. Da qui un possibile parallelo con 207, che
descrivendo la fine di una fase idilliaca, sembra rispondere proprio a quella svolta,
negandola50. Secondariamente, la canzone 29 risulta organizzata in due porzioni
nettamente distinte, a seconda della percezione dell’io, disperato prima, grato poi,
proprio a cavallo dei citati versi 39-42. Una struttura molto simile si riscontra nella
canzone 71, significativamente la prima delle “canzoni sorelle”. Anche lì è netto ed
esplicito il passaggio dalla parte dolente, che può essere ricondotta alle affermazioni di
70 e in generale a tutta la poesia dell’amore giovanile, al momento speranzoso, che
intende proporre una concezione consolatoria e positiva dell’amore: “Dolor, perché mi
meni / fuor di camin a dir quel ch’i’ non voglio?” (vv 46-47)51.
Tale bipartizione è interessante: benché non costituisca un genere vero e proprio, essa
identifica comunque una modalità familiare e piuttosto diffusa tra i trovatori. Essa
permette infatti di proporre la topica contraddittorietà dell’amore secondo
un’argomentazione ordinata52, fornendo magari, come nel caso di Petrarca, una
motivazione al netto passaggio tonale, ad esempio attraverso la preghiera alla dama,
perché non si offenda delle lamentele espresse in precedenza. Così avviene in
48
Come si è anticipato, anche 23, 50 e 135 esprimono la sofferenza dell’amante; tuttavia le loro
peculiarità formali suggeriscono di trattarne in modo indipendente, come si vedrà nel corso del presente
capitolo.
49
Brevissimo congedo con apostrofe, quasi dedica alla dama e di tono puramente elogiativo che ricorda
molti esempi trobadorici.
50
Se n’è parlato nel corso del presente paragrafo. Tale ruolo salvifico passerà poi al rifiuto di Laura,
motivato da intenzioni spirituali e non da disinteresse. Tale prospettiva è simboleggiata in particolare
dalla perdurante preoccupazione di Laura per il poeta, che si rivela nelle numerose apparizioni post
mortem e culmina nella canzone 359. Tali aspetti saranno approfonditi nel corso del presente capitolo.
Sulla concezione di un amore positivo in Petrarca, a confronto con l’amore-virtù dei trovatori e con la
concezione dantesca, anticipiamo per ora l’interpretazione in Cherchi 2008, p. 183, che fa riferimento in
particolare al problema della volontà, della ragione e della fede.
51
Va almeno citata anche la canzone 125, in cui la prima parte esprime un violentissimo dolore, causato
dalla separazione dall’amata (l’avvenimento è suggerito dal sonetto 123), mentre la seconda parte si
addolcisce nella rappresentazione bucolica.
52
Non si confonda dunque tale artificio strutturale con la più diffusa commistione e confusione di gioia e
dolore. Anche tale soluzione è ben documentata nel Canzoniere, ad esempio nel coeso gruppo di sonetti
167-170.
83
Contr’Amor vau durs et enbroncs di Raimon de Miravall. Bernart de Ventadorn pensa
di non avere speranze, per poi accorgersi delle possibilità feconde di cui dispone in A,
tantas bonas chansos, mentre in Tant ai mo cor ple de joya il discorso si avvia nel
segno della soddisfazione per concludersi nel tormento. Giraut de Bornelh non avverte
il bisogno di alcuna mediazione tra le due parti in Amors, e si m clam de vos,
esprimendo le proprie ragioni di gioia, subito dopo aver concluso le proprie accuse ad
Amore. In Ia m vai revenen lo stacco è ancor più netto, poiché dopo aver rievocato i
momenti di gioia, il poeta spiega che il suo amore è addirittura destinato alla fine per la
propria incapacità di sopportare i tormenti53. Altri luoghi significativi occorrono in
Amar dei di Bernart Marti, Ges en bon vers non posc falhir di Peire Rogier, Arondeta,
de ton chantar m’azir di Guilhem de Berguedà e Estat ai gran sazo di Peire Vidal, i cui
versi conclusivi sono talmente duri e negativi da far supporre che non si riferiscano alla
medesima dama dell’incipit, quanto all’amata di un tempo ormai abbandonata.
2.2 Lontananza
Oltre alla crudeltà della dama e di Amore, un motivo topico di sofferenza per il drudo è
la lontananza dalla sua amata54. Il modello fondamentale del tema è senza dubbio
nell’opera di Jaufré Rudel55, benché i suoi componimenti oggi noti non siano molto
numerosi. Il trovatore, infatti, rinnova la rappresentazione del rapporto cortese, per altro
in una fase ancora alta della produzione occitanica, immaginando di essersi innamorato
senz’aver mai visto la dama, che vive oltremare56. Ne è bastata la fama, tanto
straordinarie sono le sue qualità. È un sentimento perdente in partenza, che offre lo
spunto ad un corpus particolarmente unitario ed accorato57.
I trovatori successivi non dedicano altrettanto spazio al tema58, che però rimane una
possibilità significativa ed apprezzata, talvolta soltanto come dettaglio molto
localizzato, in altri casi come spunto più ampio che condiziona l’intero componimento.
Si riorienta e vivacizza così la dinamica tra gli amanti. Si pensi ad esempio a Conortz,
era sai eu be, in cui Bernart de Ventadorn, tornato da un viaggio protrattosi troppo a
lungo si vergogna di presentarsi alla dama, poiché ne teme i rimproveri; sulle reazioni
dell’amata al ritorno dell’amante è concentrata anche Ges car estius es bels e gens di
Peire Vidal. Il lamento per la prolungata separazione si trova poi in Pois preyatz me,
53
Il caso di De chantar è ancora diverso, perché la parte dolente che si contrappone alla gioia amorosa è
causata dalla decadenza dei costumi, fornendo dunque un esempio di genere misto, tra morale e
sentimento. Di tale consuetudine trobadorica si tratterà nel corso del presente capitolo.
54
Sul tema si sofferma Brunetti 2006.
55
Per una ricognizione ampia e approfondita dei componimenti rudeliani sull’amor de lonh è ancora utile
Spitzer 1944.
56
Tale tradizione proviene in parte dall’interpretazione dei testi e in parte dalla vida, secondo la quale il
nobile Jaufré si fece crociato per poter incontrare l’amata, si ammalò durante il viaggio e morì tra le
braccia dell’adorata contessa, riuscendo per lo meno a vederla, benché un’unica volta.
57
Ben quattro degli otto testi conservati sono dedicati a tale aspetto: Non sap chantar qui so non di, Pro
ai del chan essenhadors, Quan lo rius de la fontana, Lanquan li jorn son lonc en mai.
58
Una significativa eccezione si registra in Erransa di Guilhem Augier Novella, che ripropone proprio
l’idea dell’amore “per sentito dire”.
84
senhor sempre di Bernart de Ventadorn, No m platz chanz de rossignol di Giraut de
Bornelh, Trop ai estat mon Bon Esper no vi di Perdigon, Si cum cel qe sos compaignos
di Elias Cairel, Ara voill un sirventes far di Guilhem de Berguedà, Mout avetz fach lonc
estatge di Casteloza. In questo caso, un elemento di varietà è garantito dalla voce
femminile dell’autrice, che riprende l’amato per la lunga assenza. Infine, Gaucelm
Faidit lascia ben quattro canzoni di lontananza, grazie certamente all’ampiezza del suo
corpus, ma anche in virtù del suo frequente riferimento alle crociate, che diviene il
punto di partenza non solo per numerosi sirventesi, ma anche per rinnovare il canto
amoroso59.
Nel Canzoniere petrarchesco il tema del viaggio occupa un posto preminente. Sono
implicate ben cinque canzoni e numerosi sonetti, disposti in piccoli cicli, dando perciò
l’impressione che il poeta stia in effetti narrando di una sua prolungata assenza. Come
spesso accade in Petrarca, il rapporto tra realtà e letteratura è ambiguo: l’autore gioca
sulle date reali dei suoi viaggi – la visita all’amico Giacomo Colonna a Lombez, il
primo viaggio a Roma negli anni Trenta, l’esplorazione verso l’Europa settentrionale
attraverso la Germania, il giubileo del 1300 di nuovo a Roma, l’alternanza dei soggiorni
avignonesi, valchiusani, italiani. In tal modo egli confonde le acque rispetto alla
cronologia della composizione dei diversi testi, nonché in rapporto alla vicenda
amoroso-spirituale che si delinea nella raccolta. Il significato del riuso non risiede
quindi solo nel recupero di una celebre convenzione trobadorica, la quale è chiaramente
alla base del lamento nella canzone 37, ma anche nella possibilità di sfruttare un utile
strumento compositivo per il Canzoniere come macrostruttura. Gli spostamenti del
poeta, infatti, donano varietà alla successione dei testi e degli stati d’animo, forniscono
spunti rinnovati alla rappresentazione interiore dell’io e soprattutto suggeriscono lo
scorrere del tempo e delle esperienze, a fronte della fissità del sentimento per Laura. Il
tema del viaggio e le sue diverse declinazioni assumono quindi una valenza strutturale
importantissima.
La distribuzione nella raccolta dei testi coinvolti investe quasi tutta la prima sezione, ad
eccezione della zona prossima alla morte di Laura, quando domina il motivo del
presentimento. Nella seconda parte, il tema del viaggio perde la sua ragion d’essere
poiché la lontananza dall’amata diviene ontologica ed esistenziale, e il pianto che ne
deriva si fa costante. Per certi aspetti si può affermare che il planh, che è in effetti un
lamento di separazione, sostituisca l’idea dell’allontanamento spaziale e terreno.
Il primo viaggio si colloca all’altezza dei fragmenta 15-17; segue la canzone 37,
anticipata dal saluto in 36 e seguita dalla rappresentazione del ritorno nel sonetto 39; poi
il ciclo interrotto 114, 116-117, quando però il poeta è solo a Valchiusa e quindi la
distanza di cui si dispiace non è poi così incolmabile. La partenza successiva si colloca
dopo il sonetto 123, quando Petrarca si compiace della tristezza di Laura a fronte del
suo commiato. Segue il gruppo delle cinque canzoni 125-129; la lontananza è esplicitata
solo in 127 e 129, mentre nelle prime è suggerita dallo spazio naturale e dalla
59
Ab cossirier plaing, Mout m’enojet ogan lo coindetz mes, L’onratz, jauzens sers, Can vei reverdir les
jardis.
85
preminenza dell’immaginazione rispetto alla visione; in 128 l’unico indizio è la
tematica italiana60. 130 chiude il ciclo, tornando alla misura breve del sonetto, che lo
aveva aperto. L’io poetico è di nuovo in viaggio in 176-177 e poco dopo in 180, come
suggerisce il riferimento al fiume Po; segue a breve distanza il “ciclo dell’aura” (194,
196-198) che presuppone la lontananza dall’amata, per poter immaginare il vento che
proviene dalla sua persona sino al poeta. La separazione è esplicita in 208-209 (e
arricchita dall’apostrofe al Rodano) e di nuovo implicita in 226-227, poiché il poeta
pensa con desiderio e nostalgia al paese dove si trova Laura. Infine, 242-243.
Le canzoni meritano particolare attenzione. 37, lo si è anticipato, è un esempio classico
del genere: un lamento con conclusione elogiativa in cui la persistenza del dolore non
lascia alcuno spazio di progressione discorsiva. Suona nuovo e tipicamente
petrarchesco, però, il problema qui ben evidenziato del tempo che passa, della vita breve
che sfugge in modo inesorabile: “Sì è debile il filo a cui s’attene / la gravosa mia vita”
(vv 1-2), “Il tempo passa, et l’ore son sì pronte / a fornire il viaggio, / ch’assai spacio
non aggio / pur a pensar com’io corro a la morte” (vv 17-20). Tuttavia, la ragione di
pensieri tanto cupi è tutt’altro che innovativa: da quando ha lasciato la dama, solo la
speranza di rivederla ha tenuto in vita il poeta.
Anche 125 si apre con una violenta manifestazione di dolore, resa ancor più energica
dalle conseguenze che ne derivano allo stile poetico, un tempo dolce ed ora aspro. Le
motivazioni di tale tormento, e dunque il collegamento con il motivo della separazione,
sono chiariti però solo dalle connessioni intertestuali, grazie all’annuncio della partenza
in 123. Le ultime due stanze cambiano registro, in una rappresentazione idilliaca della
natura in cui si situa, nello sviluppo di 126, una triplice apparizione di Laura, passata e
futura. Il viaggio è dunque dimenticato nel segno dell’immaginazione; alla separazione
e ai suoi dolori si torna, però, subito dopo, con le “dogliose rime” di 127, “Poi che la
dispietata mia ventura / m’à dilungato dal maggior mio bene, / noiosa, inexorabile et
superba, / Amor col rimembrar sol mi mantene” (vv 15-18). La lontananza stimola
ancora la fantasia, benché non si assista più ad apparizioni vere e proprie: è piuttosto il
poeta a proiettare con il suo sguardo l’immagine della dama su tutti gli enti naturali che
lo circondano. Le premesse sono già in 127 (“[…] i’ non avesse i begli occhi davanti”, v
60), ma lo sviluppo vero e proprio è in 129: “A ciascun passo nasce un penser novo / de
la mia donna […]” (vv 17-18), “talor m’arresto, et pur nel primo sasso / disegno co la
mente il suo bel viso” (vv 28-29), “et mirar lei, et obliar me stesso” (v 35), “I’ l’ò più
volte (or chi fia che mi ‘l creda?) / ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde / veduto viva,
et nel tronchon d’un faggio” (vv 40-42). Nella separazione (“quanta aria dal bel viso mi
diparte, / che sempre m’è sì presso et sì lontano”, vv 60-61) l’unica consolazione è il
pensiero che forse anche Laura si dispiace della sua assenza: “Che sai tu, lasso? Forse in
quella parte / or di tua lontananza si sospira; / et in questo penser l’alma respira” (vv 6365).
60
Proprio perciò la critica ha spesso proposto di interpretare l’intero viaggio come dovuto ad una visita in
Italia o addirittura al trasferimento di Petrarca nella penisola.
86
Gli elementi fondamentali della rappresentazione appartengono alla tradizione
trobadorica, compresa l’ossessione del pensiero e la visione della dama in assenza,
attraverso “gli occhi del cuore”. Tuttavia, Petrarca porta il concetto ad una maturazione
ben più significativa, da una parte avvalendosi dei precedenti progressi siciliani61,
stilnovistici e danteschi, dall’altra in virtù della più profonda analisi dell’io, tipica del
Canzoniere.
2.3 Fratture nella vicenda amorosa
Nel corpus trobadorico si possono distinguere almeno tre fenomeni che portano
all’interruzione della relazione amorosa: rifiuto della dama, “cambio” della dama,
rinuncia all’amore.
Sono i casi più particolari ed estremi di un amore infelice. È comune che il poeta
lamenti un sentimento non ricambiato, l’assenza di speranza, il desiderio di una
situazione più serena; in alcuni componimenti, però, tali prospettive si arricchiscono di
affermazioni più forti.
Nei numerosi testi in cui il sentimento non è reciproco, la dama per lo più evita di
concedere il suo favore e in varie occasioni guarda comunque al poeta in modo
benevolo, benché non ne condivida i desideri; talvolta invece gli impone con durezza di
smettere di amarla, infastidita dal corteggiamento. Ovviamente uno strappo tanto netto è
impossibile per il drudo, che continua a languire sempre più disperato: ciò avviene ad
esempio ad Aimeric de Peguilhan (Pus ma belha mal’amia), a Raimbaut d’Aurenga
(Braiz, chans, quils, critz) e a Peire Guilhem de Cazals (D’una leu chanso ai cor que
m’entremeta)62.
In altri casi, meno numerosi ma ancor più riconoscibili, è il poeta a comprendere che
l’esperienza sentimentale non avrà mai esito e che essa va interrotta. Laddove la colpa
sia attribuita all’amata, alla sua durezza e alla sua scortesia, sarà sufficiente trovare una
destinataria più degna delle proprie attenzioni; se invece la colpa è nelle logiche
d’amore in sé (in Amore, insomma), non c’è soluzione se non la totale rinuncia ad ogni
pratica o immaginazione sentimentale.
La possibilità di cambiare letteralmente dama è del tutto accettabile in un’ottica cortese
e feudale. Quando i patti non sono rispettati da una delle parti, l’altra ha il pieno diritto
di scioglierli e, se lo ritiene opportuno, di stringerne altri con un diverso signore. L’esito
di tale variante del genere canzone è quindi univoco: dopo aver insultato la dama di un
tempo per la sua inadempienza, il poeta passa all’elogio della novella amata, in termini
assolutamente identici a quelli che aveva utilizzato in precedenza. A volte la prospettiva
è a posteriori, a cambiamento già avvenuto (Peire Vidal, Estat ai gran sazo), ma la
61
A Giacomo da Lentini si deve uno straordinario sviluppo dell’immagine della donna nel cuore e del
continuo pensiero rivolto all’amata. Con lo Stil Novo e soprattutto con Cavalcanti e Dante viene
approfondita la riflessione sui meccanismi dell’innamoramento e sugli effetti del sentimento sull’io e
sulle sue facoltà.
62
I luoghi utili sarebbero molto più numerosi: si propongono qui tre esempi diversi per cronologia e
poetica.
87
sostanza è la medesima: si leggano ad esempio Uc de Saint Circ (Be fai granda follor),
Raimon de Miravall (Chansoneta farai, vencut)63, Guilhem de la Tor (Quant hom regna
vas cellui falsament), il monaco di Montaudon (Aissi cum selh qu’es en mal senhoratge
– ma è solo un’ipotesi), Elias Cairel (Abril ni mai non aten de far vers), Raimon Jordan
(Quan la neus chai e gibron li verjan), Cercamon (Assatz es or’oimai q’eu chant),
Bertran Carbonel (Aisi com sel c’atrob’ en son labor), Marcabru (Lanquan fuelhon li
boscatge), Peirol (Camjat ai mon consirier)64 e Sordello (Si co l malaus que no se sap
gardar). Bisogna ammettere che nella successione dei testi di ciascun trovatore si crea
una certa confusione, soprattutto in assenza di canzonieri in senso stretto, e in
particolare per quegli autori che in più di un’occasione propongono un cambiamento di
questo tipo, come Gaucelm Faidit65. Un’altra possibile variante si delinea quando il
poeta confessa di essere scontento dello scambio e di preferire a conti fatti la precedente
relazione66, come capita a Bernart de Ventadorn. In Estat ai com om esperdutz il poeta
sembra intenzionato ad abbandonare la dama per un’altra, anche se le dichiarazioni
amorose del finale appaiono ancora ambigue a tal proposito; in Can vei la flor, l’erba
vert e la folha l’autore esprime il pentimento per aver perso una dama tanto generosa ed
incolpa Amore67. Risulta simile la condizione di Aimeric de Peguilhan: l’abbandono
della dama in A ley de folh camjador, un ripensamento in Amors, a vos meteussa m
clam de vos68. I due momenti sono invece condensati in un unico testo da Peire Raimon
de Tolosa, in Si com l’enfas, qu’es alevatz petitz. È peculiare, infine, anche il quadro
delineato da Cadenet in S’ieu ar endevenia, in cui il poeta critica la dama e le assicura
che non l’amerà più, ma sentendosi vincolato dalle leggi dell’amor cortese le garantisce
anche che continuerà a servirla.
Una maggiore differenziazione si coglie nelle motivazioni che spingono i diversi poeti
all’abbandono dell’amore, una scelta drastica che pochi autori dichiarano di compiere,
soprattutto con piglio definitivo. Il caso più ovvio è quello di una scelta ideologica, che
si riflette immediatamente nell’opera letteraria: avviene così per Peire Cardenal che,
dichiarando la propria libertà dal giogo amoroso (Ar me puesc ieu lauzar d’Amor e Ben
teinh per fol e per muzart69), offre un quadro coerente alla sua ricca ed energica
produzione di sirventesi. Per lo stesso motivo non stupiscono le affermazioni di
63
Ma un’impostazione simile si legge anche in Chans, quan non es qui l’entenda.
Tale esempio è particolarmente interessante perché la legittimità del cambiamento è assicurata dagli
insegnamenti generali d’argomento cortese con cui il poeta arricchisce la rappresentazione della sua
vicenda personale.
65
Ar es lo montç vermellç e vertç, Si tot noncas res es grazitz, Tant ai sofert longamen grand afan, Gen
fora contra l’afan e Al semblan del rei Thyes.
66
Caso simile, legato però alla rinuncia ad amore e non al cambio della dama, si legge in Az ops d’una
chanso faire di Cadenet.
67
La medesima evoluzione si riscontra in Anc no s poc far maior anta di Bertran de Born, con approccio
più sintetico. Il poeta si congeda dalla dama perché soffre troppo, si dedica dunque alla guerra e alla
poesia che le è più consona, per poi tornare all’elogio della dama nel finale.
68
Si intende con ciò suggerire l’impressione derivata dalla lettura complessiva delle opere dei diversi
trovatori, e quindi le tendenze e i gusti che ne hanno caratterizzato la produzione. Non andrà invece
implicata una diretta connessione fra i due testi, per la quale la tradizione manoscritta non offre prove.
69
A questi due componimenti si può accostare anche S’ieu fos amatz o ames, in cui il poeta immagina
una possibile relazione amorosa, la quale risulta in sostanza una parodia del canto cortese.
64
88
Marcabru, che di fatto rifiuta in generale l’amore cortese sul piano morale e quindi
poetico, con punte di acredine molto esplicita, come in Ans que l terminis verdei70.
Sulla valutazione di simili scelte può influire anche la biografia (letteraria) del trovatore,
come per Folchetto da Marsiglia, destinato a prendere i voti e quindi a dedicarsi a ben
altra letteratura rispetto a quella amorosa71. È difficile non pensare a tale prospettiva
leggendo testi come Si tot me soi a tart aperceubuz e Per Dieu, Amors, ben sabetz
veramen, benché l’argomentazione del rifiuto di amore sia tutta basata sulla morale
cortese, e non su quella cristiana. Greu feira nuills hom faillenssa è ancor più legata ai
canoni sentimentali: in essa, infatti, la ragione del cambiamento sono le sofferenze
senza speranza che il drudo ha patito troppo a lungo. È perfettamente coerente con il
punto di vista cortese anche la scelta di Lanfranco Cigala in Ges non sui forsaç q’eu
chan: la dama è morta e il poeta non amerà mai più, restandole perciò fedele, ma altra
gioia e altro canto restano comunque possibili.
Nell’anonima Pos vezem que l’ivers irais e in Al dessebrar del pays di Peire d’Alvernha
si intuisce che la decisione non sarà definitiva, che il poeta non avrà la forza di una
rinuncia totale72, mentre Gui d’Ussel, che affranto abbandona le sofferenze amorose,
non può non ricordarne anche le gioie senza eguali in Ja non cugei qu’em desplagues
amors. Non suona affatto pentito, invece, Gausbert de Poicibot in Be s cujet venjar
Amors, che si sente ormai libero di dire la verità su Amore, dopo essere stato costretto a
servirlo.
Tre occorrenze, infine, caratterizzano il corpus di Raimbaut de Vaqueiras. Nelle prime
due, rispettivamente in Leu pot hom gauch e pretz aver e Ges, si tot ma don’ et Amors,
l’amore cortese è sostituito da una visione utilitaristica dei rapporti con il gentil sesso;
in No m’agrad’ iverns ni pascors, invece, il poeta si duole di aver perso amore,
consapevole che nessuna gioia sarà pari, in particolare quella militare (cui comunque è
dedicata la seconda metà del sirventese-canzone, con invito alla crociata).
Non sembra da escludere a priori che la lettura del punto di vista provenzale abbia
influenzato Petrarca anche rispetto a tali tematiche, per quanto non ci sia dubbio che
l’esperienza amorosa del Canzoniere sia focalizzata su un’unica figura femminile73 e
che d’altra parte il percorso dell’io poetico sia sempre caratterizzato dall’impossibilità
di sfuggire al giogo d’amore, ad eccezione delle liriche conclusive, con la preghiera alla
Vergine, e senza alcuna certezza di una riuscita definitiva. Ciò non toglie che Petrarca
rifletta sulla possibilità di amare un’altra donna (escludendola) e soprattutto sulla
necessità di dedicarsi ad un diverso tipo d’amore, che cancelli la dipendenza da quello
70
Alla produzione dei due celebri moralizzatori possiamo aggiungere anche due canzoni di Gavaudan (Lo
vers dech far en tal rima e Ieu no suy pars als autres trobadors), in cui il poeta rinuncia all’amore
criticando le donne e le follie che gli uomini compiono per loro.
71
A tali aspetti fa riferimento Picone 1981-83, dedicato però soprattutto al personaggio dantesco del
trovatore.
72
Peire d’Alvernha è in realtà piuttosto rapido nella sua decisione, ma è indotto ad un ripensamento dal
profondo amore per la sua terra, che non vorrebbe abbandonare.
73
È anzi probabile che a tale scopo Petrarca abbia selezionato e modificato componimenti realizzati in
precedenza, in riferimento ad altre figure femminili, ma che per poter entrare nella raccolta dovevano
risultare coerenti con l’unica dedicataria dei fragmenta, appunto Laura. Se ne parlerà ulteriormente in
merito ai madrigali, nel presente capitolo.
89
terreno, dunque secondo una prospettiva morale. Tali aspetti paiono interessanti
nonostante l’effettiva complessità di confrontare gli esiti petrarcheschi con la
produzione occitanica: innanzitutto la trasformazione cui il poeta aretino ha sottoposto
ogni spunto della tradizione è ancor più marcata del consueto, poiché la visione di fondo
espressa nel Canzoniere è a proposito di altri amori e altre donne del tutto divergente da
quella occitanica. Inoltre, ed anzi proprio per tali ragioni, è difficile indicare una precisa
corrispondenza testuale o un paragone diretto, per cui è necessario spostare il discorso
sul piano dei filoni tematici generali della raccolta.
La questione più semplice è quella della possibilità di un nuovo amore. Finché Laura è
viva, la dedizione del poeta non conosce incertezze, secondo un topos già trobadorico e
diffusissimo74. Nemmeno la durezza di lei motiva alcuna tentazione, con atteggiamento
tipico dell’amante anche in ambito italiano75, e rinunciando a qualunque ambivalenza,
persino quella delle “donne-schermo”. Laura divide le attenzioni dell’amante solo con la
Gloria, il desiderio per la quale è nato ben prima e si realizza proprio attraverso il canto
dedicato all’amata (canzone 119)76. Quando infine ella muore, il poeta è inconsolabile:
le dedica numerosi lamenti (in fondo tutta la seconda sezione del Canzoniere è un
lunghissimo planh) e dichiara ad Amore che il suo “dolce giogo” non ha speranza
contro la propria desolazione (canzone 270). Eppure il dio non rinuncia ad un ultimo
tentativo e nel sonetto 271 Petrarca rischia di cadere di nuovo.
Non volendomi Amor perdere anchora,
ebbe un altro lacciuol fra l’erba teso,
et di nova esca un altro foco acceso,
tal ch’a gran pena indi scampato fora.
Et se non fosse experientia molta
de’ primi affanni, i’ sarei preso et arso,
tanto più quanto son men verde legno.
Morte m’à liberato un’altra volta,
et rotto ‘l nodo, e ‘l foco à spento et sparso:
contra la qual non val forza né ‘ngegno (vv 5-14).
Per fortuna la morte interviene ancora una volta, forse ora gradita, ad impedire la
ricaduta.
Il valore del sonetto è strettamente connesso alla struttura unitaria del Canzoniere e al
nucleo fondamentale dell’amore per Laura. 271, infatti, esclude in modo definitivo
qualsiasi dubbio o tentazione che potesse sviare il poeta dal suo amore monogamo,
consolidando la storia dell’io lirico e l’impostazione della raccolta, nonché ponendo le
74
Simili affermazioni sono infatti molto frequenti nel corpus occitanico, a prescindere dalle situazioni
descritte in precedenza, che si riferiscono a singoli componimenti di singoli poeti.
75
Si pensi in particolare all’amore di Dante per Beatrice, che infatti resiste alla negazione del saluto e alla
prova del gabbo, nonché alla morte dell’amata, pur con la breve parentesi della donna pietosa. Per i
Provenzali si è visto quali possibilità di scampo siano accettabili, benché non siano molto diffuse.
76
La medesima dicotomia si nota nelle “catene dorate” del Secretum.
90
basi per la relazione con l’amata in termini memoriali e luttuosi77. La possibilità di un
nuovo amore è dunque interamente rifunzionalizzata in vista delle logiche interne alla
raccolta. Ciò non toglie che il tema in sé abbia alle spalle una lunga e ricca tradizione.
È vero, d’altronde, che la realizzazione petrarchesca è molto concisa e in apparenza
limitata. Tuttavia, la forza comunicativa del sonetto risiede anche nella capacità di
creare un parallelismo interno al Canzoniere e più precisamente con quella zona in cui
ha origine l’intera vicenda. Il possibile nuovo amore, infatti, fornisce l’occasione per
riproporre alcuni elementi topici dell’amor carnis: il laccio nell’erba, l’esca, il fuoco. Le
strofe centrali richiamano alla mente l’avvio dell’esperienza amorosa e i primi
fragmenta, come già l’adiacente canzone 270, dove l’immagine ipotetica di una LauraEuridice, lo si è visto, evoca un nuovo inizio e sovrappone al canto luttuoso i tratti di
una canzone amorosa. Ancor più significativo è il riferimento al sonetto 3, in cui
Petrarca aveva espresso in tutta la sua gravità l’inizio del servizio d’amore: quando
meno se l’aspettava e quando meno era conveniente, mentre tutti pregavano e soffrivano
nel “commune dolor” della morte di Cristo. Di nuovo, in 271 Amore appare assai sleale:
il poeta è distratto da un’altra morte, meno sacra agli occhi della società ma non a quelli
dell’amante78. A proteggerlo, però, interviene la sua esperienza di uomo maturo e già
provato dall’eros, e dunque egli non appare altrettanto “disarmato”, senza “sospetto” né
“riparo”. Infine, il riferimento in incipit alla dipartita di Laura è funzionale all’insistenza
sulla durata – ben ventuno anni – di quell’innamoramento indimenticabile (vv 1-4):
come a sottolineare che nessun’altra infatuazione avrebbe comunque potuto eguagliare
quel sentimento. Tali connessioni chiariscono ulteriormente l’importanza del sonetto e
la sua organicità rispetto alla raccolta.
La riflessione sulla possibile influenza delle convenzioni trobadoriche non esaurisce la
questione delle fonti e dei modelli a monte del fragmentum 271. Anche nella Vita nova
infatti l’amata muore, l’io poetico la piange, ma compare una nuova tentazione
amorosa. Ad essa il poeta cede, anche se per poco: e proprio la parentesi della donna
pietosa, una volta conclusa, lo porterà ad un salubre pentimento e a nuovi propositi.
Tale parentesi coincide con un momentaneo ritorno a forme poetiche che erano state
abbandonate, anteriori addirittura alla svolta “della loda”, e per certi aspetti debitrici del
retaggio cortese.
La donna di 271, però, non equivale davvero alla donna pietosa dantesca: Petrarca non
arriva a provare un altro amore, l’unicità di Laura è salva79. Anche rispetto alle
soluzioni dantesche, il poeta aretino garantisce la propria autonomia.
77
Bettarini 1998, p. 83 insiste proprio su tale valore del sonetto come cancellazione di qualsivoglia
ulteriore possibilità in amore: questo è il vero soggetto del componimento, e non l’occasione (perduta) per
un amore diverso.
78
Il parallelismo che così si crea tra la morte di Cristo e quella di Laura è perfettamente coerente con un
motivo lirico convenzionale, già molto frequente in ambito trobadorico: la mescolanza di spunti sacri ed
elementi profani. Di tali aspetti si tratterà con maggiore ampiezza nel capitolo successivo.
79
La questione di 271 è stata approfondita da Fenzi in Picone 2007, pp. 595-615. Il problema essenziale
concerne la valutazione del nuovo incontro: è un’esperienza (letterariamente) reale come quella dantesca,
benché sia poi troncata sul nascere (come in sostanza pensa Santagata, citato da Fenzi in Picone 2007)
oppure si tratta soltanto dell’esclusione del sentimento dalla vita futura del poeta? Fenzi ritiene che sia
inopportuno associare al Canzoniere una seconda figura femminile, anche se solo per pochissimi versi, e
91
L’unico amore che poteva sostituire quello per Laura doveva volgersi a Dio: la
soddisfazione dell’io non può venire da alcuna altra figura femminile, com’era stato
invece per i trovatori. Eppure, anche in tale scelta divergente rimane l’idea di fondo di
sostituire un amore (eros) con un altro (caritas), non tanto in base all’oggetto, ma in
relazione alla tipologia del sentimento; l’esito dovrebbe essere un superamento e quindi
la conclusione dell’amore per la donna terrena, anche se tale evoluzione arriverà a
compimento solo in extremis.
In realtà, prima di giungere a tale conclusione l’io poetico sperimenta anche un’altra
alternativa: l’evoluzione dell’amore per Laura in senso salvifico e spirituale80. Come si
è anticipato, nemmeno la strada suggerita dalle “canzoni degli occhi” è definitiva e
soddisfacente; il finale nel segno della Vergine dimostra proprio che l’unica vera svolta
possibile era quella dell’amore caritatevole.
A sua volta tale percorso spirituale rappresenta un cammino assai arduo, segnato da
continue ricadute e inversioni di rotta. I momenti di cesura rispetto alla vicenda amorosa
sono numerosi, a partire dal madrigale 5481 e dal sonetto 6282. L’effetto di quest’ultimo
testo è rafforzato dalla vicinanza di 60, che rappresenta una diversa interruzione
dell’attaccamento sentimentale, non però in chiave spirituale, quanto nella prospettiva
del risentimento, che appare in effetti più affine alla dimensione cortese e trobadorica:
“Né poeta ne colga mai, né Giove / la privilegi, et al Sol venga in ira, / tal che si secchi
ogni sua foglia verde” (vv 12-14)83.
La scelta dispositiva di Petrarca appare interessante, perché egli apre la serie dei
momenti penitenziali come in sordina, affidandosi cioè a metri privi di solennità. La
prima forma lunga che esprime la presa di coscienza sui propri errori è la sestina 80, che
costituisce un rovesciamento rispetto al genere, nella sua connotazione erotica e nella
concezione cortese, tipiche del suo inventore. È notevole inoltre che con i primi tre testi
penitenziali Petrarca costruisca una contrapposizione netta, giocata proprio sugli usi
difformi del medesimo metro. 54 segue a breve distanza il madrigale 52, esplicitamente
che sia una forzatura immaginare una seconda morte “fisica” subito dopo quella di Laura. Lo snodo
essenziale potrebbe risiedere nell’interpretazione di “un’altra volta”. Se inteso alla lettera, si riferisce ad
una nuova dipartita, con il valore di “di nuovo”; se invece leggiamo “già in un’altra occasione, in passato
[=un’altra volta] la Morte mi ha liberato da amore” risulta superfluo pensare ad un’altra donna. In
coerenza con ciò che Petrarca afferma in 270, l’unica possibilità di amare era con Laura. Tale conclusione
è in effetti convincente, tuttavia non è necessario cancellare del tutto l’immagine della seconda donna:
anzi, tale presenza, in cui si incarna la prospettiva di un nuovo amore, rafforza per contrasto l’insuccesso
del cambiamento e quindi il permanere del legame con Laura. L’impressione che ci sia un fondo di
concretezza narrativa a sostenere il principio generale (cioè la conclusione di ogni esperienza amorosa)
deriva anche dal confronto con i modelli: il genere trobadorico del “cambio della dama”, esempi di
trovatori che hanno amato altre donne dopo la morte della prima e così via.
80
Tale aspetto sarà ulteriormente approfondito nel corso del presente capitolo e del successivo, in
particolare osservando la duplice influenza dantesco-stilnovistica e topico-cortese.
81
“Vidi assai periglioso il mio viaggio: / et tornai indietro quasi a mezzo ‘l giorno”, vv 9-10.
82
“Miserere del mio non degno affanno; / reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo; / ramenta lor come oggi
fusti in croce”, vv 12-14.
83
Il poeta scaglia la sua maledizione all’amata, presentata però sin dal verso incipitario nella veste di
lauro; da qui deriva l’impostazione metaforica dell’intero testo.
92
connotato in chiave erotica84; i sonetti 60 e 62 sono posti a stretto contatto con il celebre
sonetto delle benedizioni, 61, in cui il poeta dichiara piena adesione e profondo
apprezzamento per tutti gli aspetti del legame amoroso. Più in generale il sonetto è da
subito il metro tipico della descrizione e del racconto sentimentale nel Canzoniere. Il
fragmentum 80, infine, è la prima delle tre sestine palinodiche, che contrastano con
l’uso più tradizionale del genere in chiave sensuale, testimoniato dalle prime tre della
raccolta (22, 30, 66)85. L’intenzione dell’io poetico di cambiare vita è chiarissima nei tre
versi del congedo: “Signor de la mia fine et de la vita, / prima ch’i’ fiacchi il legno tra li
scogli / drizza a buon porto l’affannata vela” (vv 37-39).
Vanno ancora ricordati i sonetti 86 e 89, cui fa seguito 91, rivolto al fratello in
occasione della morte della sua amata e quindi non strettamente legato all’autocoscienza
del poeta; infine 99.
Si arriva così alla prima canzone penitenziale, 10586, vera e propria rinuncia ad Amore,
superamento del limite erotico: essa riserva una nuova sorpresa metrica. È infatti
concepita come una frottola87, dunque un genere basso, con ascendenze popolari;
benché i versi siano lunghi (due soli settenari su quindici versi a stanza) il ritmo si
mantiene vivace per l’uso costante di rime al mezzo. Lo evidenzia anche la brevità delle
proposizioni, che individuano una serie di sentenze e proverbi, a loro volta coerenti con
l’ispirazione “bassa” della forma. L’inserimento del testo nell’insieme della raccolta ne
riorienta il significato in chiave penitenziale, grazie anche alle connessioni intertestuali;
tuttavia di per sé il tono ricorda piuttosto le tradizionali rinunce ad amare.
Gli ultimi momenti di ripensamento nella prima sezione coincidono di nuovo con due
sestine, 142 e 214. La prima in particolare suggerisce due spunti interessanti. In primo
luogo si legga il finale, che insiste ossessivamente sulla volontà di progressione:
“Altr’amor, altre frondi et altro lume, / altro salir al ciel per altri poggi / cerco, ché n’è
ben tempo, et altri rami” (vv 37-39)88. Un altro amore, soprattutto: la tradizione del
cambiamento in amore perde la sua specificità per fondersi completamente nella visione
84
Va aggiunto che dopo l’ulteriore cesura di 105, il ritorno alla poetica amorosa è di nuovo
contrassegnato da un madrigale (106), che si riconferma metro adatto all’espressione dell’eros.
85
Su tali aspetti ci si soffermerà con particolare attenzione nel paragrafo successivo.
86
Per la struttura, i contenuti e i peculiari riferimenti della canzone 105 si veda Bettarini 2005, pp. 486489, dove si trovano anche utili indicazioni bibliografiche.
87
Sul genere della frottola, la sua tipica libertà formale e contenutistica, la mescolanza di parti dialogate,
proverbiali, descrittive e discorsive in terza persona si veda in particolare Russell 1982, pp. 147 segg, che
identifica anche molteplici varietà del genere, gnomica (cioè un susseguirsi di affermazioni sentenziose),
politica, penitenziale (come confessione personale) e descrittiva (la forma più varia). Il componimento di
Petrarca si colloca nel terzo gruppo (p. 148), ma potremmo aggiungere che risente dell’influenza del
primo. L’elemento più rappresentativo, comune e definitorio resta però l’impressione del “non-senso”, del
procedere spesso incoerente e del tutto libero. È vero però che i testi sono quasi tutti facilmente
comprensibili, il che fa pensare che l’effetto di “non-senso” sia in realtà voluto come gioco sull’effettivo
piano della comunicazione, come “controsenso”, che però non elimina il messaggio in sé, ma si limita a
nasconderlo. Gli esiti possono essere molto diversi: il senso può uscirne infatti amplificato o
ridimensionato.
88
Meritano attenzione anche i versi immediatamente precedenti (vv 34-36): “ora la vita breve e ‘l loco e
‘l tempo / mostranmi altro sentier di gire al cielo / et di far frutto, non pur fior’ e frondi.” Vi si legge
infatti un significativo ribaltamento dei versi che nella canzone 29 determinano il passaggio stilnovista
alla fiducia nella funzione d’amore, di cui si è parlato poco sopra: “ché men son dritte al ciel tutt’altre
strade” (v 40).
93
cristiana della crescita interiore. Nella redazione definitiva a tali affermazioni segue
immediatamente il ritorno alla fedeltà per Laura, in particolare nel segno
dell’anniversario, menzionato nel sonetto 145. Non solo qui, d’altronde, il richiamo alla
ricorrenza contribuisce a riaffermare l’incrollabile resistenza dell’amore terreno: già 61
è un sonetto d’anniversario e lo stesso vale per 106, che riporta all’amore per Laura
dopo la rinuncia di 105.
Nella seconda sezione le cesure vere e proprie sono soltanto due, ma in entrambi i casi
si tratta di testi di notevole intensità e dalla collocazione significativa. In primo luogo la
canzone 264: è la vera svolta del Canzoniere, le cui due metà sono distinte, a
prescindere dalla vulgata che le vuole “in vita” e “in morte”, dal cambiamento interiore
dell’io poetico89. I desideri amorosi non sono del tutto dimenticati; anzi, il poeta indica
con onestà la lotta interiore che ancora lo tormenta e lascia parlare direttamente proprio
quei pensieri che lo sconvolgono. Tuttavia la canzone costituisce un’affermazione di
consapevolezza solida ed intensa, e pone le basi per i passaggi successivi. L’ambiguità
stessa che permane nello stato del poeta è significativa delle tematiche cui sarà dedicata
l’intera seconda sezione, in cui il percorso penitenziale resta incerto e tortuoso.
Appaiono speculari la posizione e la funzione di 359: insieme a 360, la canzone chiude
l’esperienza sentimentale vera e propria, lasciando agli ultimi componimenti l’avvio
della svolta finale (361-362) e la preghiera che suggella la svolta stessa (363-366). Nella
conclusione della raccolta – due sonetti a Dio e la celebre canzone alla Vergine –
l’aspetto penitenziale è riformulato nei termini di un rapporto più diretto col divino; le
due canzoni precedenti appartengono ancora, invece, al lento processo di superamento
dell’amore terreno attraverso la propria coscienza. Come già 264, anche 359 vede il
poeta in bilico di fronte alla rinuncia dell’eros e di nuovo spinto innanzi dal
contrapporsi di differenti punti di vista. Qui però è Laura che invita il poeta alla piena
maturazione: i suoi pensieri si sono già dimostrati insufficienti. Da una parte, dunque, la
morte dell’amata consente una nuova trasfigurazione dell’esempio stilnovistico e
dell’amore che spinge verso l’alto, di certo più efficace della precedente nell’influenzare
l’io lirico e le sue prospettive. È vero però che i desideri terreni e la percezione di Laura
quale donna a tutti gli effetti non ne sono risultati modificati, tanto che a sette
componimenti dalla fine Petrarca deve ancora essere invitato al cambiamento e solo la
preghiera può dargli qualche sollievo e speranza90. D’altro canto, vale la pena di
ricordare ancora una volta il riuso della tradizione trobadorica: non solo rispetto alla
rinuncia di amore, ma anche per la rappresentazione della dama inflessibile che impone
di non amare. La funzione morale dell’amata, in verità, è anticipata in tutta la seconda
parte del Canzoniere (289, 290, 305, 341, 351, 359) e per certi aspetti annunciata ancor
prima della morte (105, 264): l’atteggiamento crudele le era servito a contenere lo
sviamento del poeta, anche se a lui solo spetta l’ultimo passo91. Anche in tal senso,
89
Tale scelta determina una significativa differenziazione rispetto alla Vita nova dantesca, in cui la morte
di Beatrice non è motivo, ma stimolo fondamentale per la svolta spirituale dell’innamorato.
90
Ancora nel sonetto 362, comunque, l’attaccamento nei confronti di Laura appare radicatissimo.
91
A tale principio possono essere associati gli esempi concreti di punizione subita dal poeta per un
comportamento erroneo rispetto alla relazione amorosa: sono proprio i momenti in cui il rifiuto
94
ovviamente, è in gioco un’appropriazione personalissima e approfondita, che consente
di intuire le tracce della convenzione cortese (solo) in controluce rispetto alla peculiare
e coesa realizzazione petrarchesca.
Con 36092 la riflessione sul significato dell’amore si avvia davvero alla conclusione: di
nuovo aperta ed insoluta. Qui l’aspetto penitenziale è molto attenuato, con apprezzabile
effetto di variatio prima del coeso gruppo finale. Il poeta, che sembra aver interiorizzato
le raccomandazioni della canzone precedente, lamenta di fronte al tribunale della
Ragione l’ingiustizia di Amore; sulla scena si assommano numerosi elementi
tradizionali e cortesi. Le motivazioni che spingono l’amante sono per lo più quelle
convenzionali dell’amore infelice, dell’amore passibile di essere rifiutato, insomma, e
non legate alla moralità. Amore è senza dubbio il dio arciere già trobadorico ed ancor
prima classico, così come la Ragione ha ben poco di cristiano, con il suo sorriso
ineffabile che lascia in sospeso la decisione conclusiva, come in fondo avviene in tutto
il Canzoniere e parallelamente nel Secretum. Infine, il dialogo sulla natura d’amore, per
i contenuti dottrinali e per l’andamento processuale, sembra alludere alla tradizione
(tarda) delle Corti d’Amore. Di nuovo si intuisce un sapiente e personale recupero.
D’altro canto, oltre al generale raffronto con la visione cortese e trobadorica, è possibile
delineare un utile confronto diretto con la canzone Quant Amors trobet partit di Peirol,
in cui il poeta tenzona con Amore proprio sul tema del giogo cui è stato a lungo
sottomesso, a partire dall’accusa del dio al poeta, riuscito finalmente a liberarsi.
Alla fine del percorso lirico, come si vedrà parlando della canzone 36693, la Vergine
prende il posto di Laura: “vera beatrice”, viene esaltata attraverso le medesime
immagini un tempo dedicate all’amata, che ora è associata a Medusa. È un vero e
proprio ribaltamento delle consuetudini e delle logiche che hanno dominato l’intero
corso della raccolta. A prescindere dall’effettiva interpretazione di tale riferimento e del
pentimento del poeta (definitivo? incerto?) tale passaggio suggerisce un “cambiamento”
forte, da un tipo di amore all’altro, da un tipo di donna ad un altro. E certo la
complessità dell’evoluzione petrarchesca dà a tale svolta finale un significato fortissimo
e nuovo. Tuttavia un antecedente in ambito occitanico appare significativo: già Guiraut
Riquier passa dal canto per l’amata Belh Deport alla celebrazione di Maria, sempre
attraverso il medesimo senhal. Su tale passaggio il trovatore innesta la bipartizione del
suo canzoniere94.
dell’amata è stato utile sul piano morale, benché in principio il poeta non l’abbia capito, ed anzi ne abbia
sofferto e se ne sia lamentato. Si pensi in particolare alla ballata 11 (Laura viene a conoscenza dei desideri
amorosi del poeta e gli sottrae la propria vista) e alla canzone 206 (secondo l’interpretazione per cui il
poeta non si scusa di un tradimento, ma di aver espresso desideri eccessivi e perciò indegni). Su tali
aspetti si tornerà nel corso del presente capitolo.
All’idea del salvifico rifiuto da parte di Laura si associa il tema della castità, che torna in numerosi passi
del Canzoniere e in particolare in un vero e proprio ciclo (sonn. 260-265). Tale principio contrasta con la
tradizione dell’amor cortese, in cui la castità in senso stretto è in sostanza negata dalla natura adulterina
dell’amore cantato in versi. Sulla questione si è soffermato Cherchi 2008, soprattutto alle pp. 108 segg.
92
Per un’analisi della canzone di veda Baldassarri 1989.
93
Nel corso del presente capitolo.
94
Per certi aspetti l’opera di Guiraut Riquier anticipa l’evoluzione del trobadorismo tardo e tolosano, in
cui la dama viene per lo più sostituita dalla Vergine. Un “cambio” di dama generalizzato, dunque, che
passa attraverso il riuso in toto degli strumenti espressivi cortesi, in chiave allegorica.
95
3. Sestina
La peculiarità della sestina e il valore, storico ed espressivo, della sua presenza nel
Canzoniere sono ben noti95. La sestina presenta, infatti, una forma chiusa e ripetitiva96,
le cui caratteristiche richiedono notevole abilità compositiva per essere applicate con
efficacia; in virtù di tali peculiarità, essa ha spesso suscitato l’interesse della critica
rispetto alla sua origine e alle modalità della sua invenzione. Petrarca ha recuperato tale
forma a partire da due soli antecedenti illustri – Arnaut Daniel e Dante97 – e,
riproponendola nove volte nell’arco della sua raccolta, l’ha resa un genere ben definito.
Su tali aspetti è dunque opportuno soffermarsi98.
I presupposti per l’uso della parola-rima risalgono alle sperimentazioni sulla sonorità di
versi e strofe, e sull’uso di ritornelli99, che anticipano la ricorsività invariata delle
clausole nella sestina. La novità che la contraddistingue, per la quale va riconosciuto lo
specifico contributo di Arnaut Daniel, consiste però non tanto nella clausola in sé, che
95
Per l’importanza qualitativa e quantitativa della sestina nel Canzoniere si veda Vanossi 1980. Per il
rapporto con Arnaut Daniel in generale, il primo capitolo.
96
Si tratta di una canzone di sei stanze di sei versi ciascuna, tutti endecasillabi, più un congedo di tre
versi. Il sistema rimico prevede la ripetizione non della parte finale della parola, ma del termine stesso.
Ogni testo presenta dunque sei parole-rima, una per ogni verso di ciascuna stanza, che tornano una volta
in ciascuna strofa (sei volte in totale nel testo). L’ordine della successione è variato secondo un principio
preciso: la seconda strofa prende le rime dalla prima, partendo da quella dell’ultimo verso e poi
alternando l’ordine dall’alto e dal basso (da 1, 2, 3, 4, 5, 6 a 6, 1, 5, 2, 4, 3). La terza stanza fa lo stesso
rispetto alla seconda e così via: ogni strofa presenta perciò una successione diversa delle medesime
clausole. Per le caratteristiche, la storia e l’evoluzione della sestina si veda innanzitutto l’ampia e
approfondita analisi in Frasca 1992, cui si fa ampio riferimento nella presente introduzione al genere.
97
Per un totale di due soli componimenti, rispettivamente Lo ferm voler e Al poco giorno. Il
componimento arnaldiano è stato molto apprezzato dai suoi contemporanei, come dimostrano la sua
posizione di rilievo in gran parte dei codici sopravvissuti, all’inizio o alla fine della sezione danielina, e il
numero stesso dei testimoni; in tale giudizio devono aver pesato la peculiarità formale e forse la
possibilità di interpretare il testo in chiave mariana, almeno in epoca tarda (Pulsoni 1996 e 1998). Restano
anche due contrafacta della sestina, poco efficaci e molto artificiosi, nonostante il tentativo di arricchirli
di riferimenti contingenti (Guilhem de Saint Gregori e Bertran de Born; i due testi sono analizzati in
Frasca 1992, pp. 103 segg). Due esempi di questo tipo non sono però sufficienti a parlare di “genere”,
poiché l’imitazione è estremamente pedissequa e destinata a non avere nessuno sviluppo. Lo stesso vale
per altri due casi posteriori, l’imitazione iper-retorica di Guilhem Peire de Cazals e la parodia di Fabre
d’Uzes. In entrambi i testi, per altro, si nota la tendenza alla normalizzazione metrica che anticipa le
soluzioni dantesche. Il prestigio di Arnaut si mantiene nel tempo (come sottolinea in particolare
Roncaglia 1981, forse più in riferimento al Medioevo tardo e italiano, che all’ultimo rigoglio trobadorico,
che non ha lasciato altri esempi di sestina); tuttavia, a parte Dante, fino a Petrarca tale esempio non viene
colto in modo concreto.
98
Non ci si soffermerà in questa sede sulle interpretazioni simboliche della forma sestina e in particolare
sulle letture di quella arnaldiana, davvero numerose e varie per impostazione. Per una panoramica degli
studi ottocenteschi si veda ad esempio Mari 1899 e per quelli del secolo successivo Battaglia 1964, pp.
33-36. Sulle diverse influenze culturali a monte del genere si legga Gavazzeni 1984. Utili contributi
dedicati in modo specifico alla sestina di Arnaut si possono trovare in Picone 1995, Perugi 1996,
Canettieri 1996 e Beltrami 1996.
99
Il principio all’origine di simili elaborazioni può essere retorico-decorativo o mistico-patetico; tale
fattore ne giustifica la diffusione nella letteratura religiosa, non solo cristiana, in entrambi i casi
(Roncaglia 1981, Frasca 1992, pp. 19 segg).
96
era ormai piuttosto diffusa100, ma anche nella modalità con cui ne varia la posizione.
L’abbandono di una collocazione fissa, infatti, spezza il ritmo rassicurante e ripetitivo
del ritornello. Nella sestina, la variazione è rigidamente regolata secondo la cosiddetta
retrogradatio cruciata101. Il meccanismo a sua volta vanta significativi antecedenti, in
primo luogo mediolatini e liturgici, e poi occitanici: già solo le Leys d’amor ne
indicano cinque possibili configurazioni. Tuttavia in tutti questi esempi la natura
morfologica delle rime non presenta ancora alcuna peculiarità102.
Tale ricognizione suggerisce che la creazione della sestina non deve essere dipesa da
una consapevole e volontaria fondazione di genere, che si deve piuttosto al recupero
italiano103 e in particolare all’imposizione modellizzante di Petrarca104: sempre alla
ricerca di novità formali, Arnaut Daniel volge verso nuove direzioni le regolari forme
della canzone, senza però superare i limiti che la rendono riconoscibile ed utilizzando
strumenti eterogenei, ma già propri della tradizione105.
100
Secondo il calcolo di Frank (in Frasca 1992, p.21), ne restano centossessantasei esempi nella sola
lingua d’oc. Pulsoni (1996 e 1998) ricorda in particolare le coblas dissolutas di Arnaut de Maruelh,
Gaucelm Faidit e Guilhem Ademar.
101
Pulsoni 1998, p. 73 esalta l’importanza della disposizione delle parole-rima “come facce di un dado”.
Per un approfondimento di tale aspetto si vedano Billy 1993, dove sono ricordate le diverse posizioni via
via espresse dalla critica ed ulteriori indicazioni bibliografiche, oltre che una riflessione sul rapporto tra le
varie tipologie di serie rimiche in ambito trobadorico, e Canettieri 1996. Billy e Canettieri propongono
due interpretazioni opposte per l’origine del meccanismo: il primo come evoluzione graduale di forme
preesistenti, il secondo come frutto della passione per il gioco, il dado e l’azzardo.
102
Si vedano ad esempio Contra l’ivern di Marcabru, Lanquan lo temps di Grimoart o Bel m’es oimais di
Guilhem de Saint Ledier. Si vedano per tali aspetti Pulsoni 1998, pp. 73 segg e Picchio Simonelli 1978,
che aggiunge il riferimento a Peire Vidal, S’ieu fos es cort.
103
Già a Dante, infatti, va riconosciuta la consapevolezza della novità e delle possibilità della sestina. Nel
De vulgari eloquentia, infatti, non la accosta alle canzoni in genere, ma in modo più specifico alle
strutture a coblas dissolutas (mentre non identifica un fattore distintivo nella scelta o nella successione
delle rime). Dante in effetti parla ancora di “canzone”, ma in fondo la situazione non è dissimile per
Petrarca e i suoi contemporanei, benché cominci a diffondersi l’uso del termine “sestina”. Nel codice Vat.
Lat. 3195, in una postilla al fragmentum 366, Petrarca assomma canzoni e sestine nel computo finale dei
diversi generi, per un totale di trentotto testi. Lo stesso vale per l’indice apposto al medesimo codice, che
pure non fu mai controllato dall’autore. Il tratto distintivo è piuttosto nella trascrizione verticale del testo,
verso per verso, che evidenzia il meccanismo delle rime e che dunque non è applicata alle canzoni
tradizionali. Tale sistema viene recepito per primo da Boccaccio e poi dai manoscritti di fine Trecento,
non solo petrarcheschi. La svolta però si deve alle raccolte petrarchesche organizzate per generi, tra cui
spicca per antichità il Laurenziano Strozzi 178, in cui le sestine sono considerate a parte (Pulsoni 1996 e
1998).
104
Più che alla definizione del genere, la sestina di Arnaut sembrerebbe appartenere alla sua preistoria
(Billy 1993): manca una consapevole fondazione di genere, tanto che la definizione stessa di “sestina” ha
valore solo a posteriori.
105
Va ricordato, per altro, che tutta la tradizione occitanica si distingue per la particolare attenzione alla
perfezione e all’innovazione formale (Paterson 1975 e Kelly 2011). Su tale aspetto si è soffermato ad
esempio Canettieri 1996, che non solo esalta la ricchezza delle soluzioni metrico-formali offerte dal
corpus trobadorico, ma anche la corrispondenza tra attenzione espressiva e ideale di miglioramento
spirituale connesso all’amore fino. La centralità della forma è infine testimoniata dall’abbondanza dei
riferimenti metapoetici nei componimenti lirici, dei trattati dedicati alla materia e alle modalità del canto,
oltre che dal costante dialogo e confronto tra gli autori, suggeriti anche dallo sviluppo di generi
particolari, come la tenzone o il partimens. Roncaglia 1981 ha inoltre notato che nel caso della sestina
(ma anche dei precedenti esperimenti di Raimbaut d’Aurenga) l’elaborazione formale è tale e tanto
intensa da richiedere la pagina scritta per una completa fruizione, per quanto tradizionalmente la poesia
trobadorica sia pensata per una fruizione orale (e canora).
97
Per quanto concerne la lunghezza della strofa, l’effetto di perfetto equilibrio e di
puntuale circolarità poteva essere ottenuto anche con cinque, nove o undici versi (e
quindi altrettante stanze). Il sei però è l’unico numero pari tra quelli che potevano essere
funzionali, ed è effettivamente la soluzione più bilanciata ed efficace; tuttavia non è
detto che il trovatore fosse consapevole di tali aspetti matematici ed è molto più
economico considerare una motivazione storico-culturale106. Infatti, la lunghezza tipica
della canzone in epoca trobadorica e soprattutto tra fine del XII e inizio del XIII secolo
si basa su sei strofe, a loro volta non di rado composte di sei versi107.
Si può concludere dunque che la novità della sestina arnaldiana derivi
dall’accostamento di due espedienti già noti108: nasce così una struttura poetica del tutto
distinta e nuova, basata su un principio duplice e in parte contraddittorio, tra invarianza
(parole-rima) e dinamismo (disposizione)109. Anche la fusione dei due artifici, tuttavia,
aveva già antecedenti illustri, a partire da Raimbaut d’Aurenga110, con particolare
riferimento ad Ar resplan la flors enversa111. Il grande valore del testo risiede nella
perfetta integrazione tra elaborazione strutturale e sviluppo del contenuto; la
successione delle stanze, infatti, appare più movimentata grazie ad effetti di inversione e
opposizione, che ben si accordano ai giochi di negazione e contraddizione che
informano la progressione del discorso. D’altro canto le soluzioni espressive che
permettono di far cadere la parola-rima nella sede finale sono molto semplici e la
ripetizione terminologica coinvolge spesso interi sintagmi. Mancano ancora una
106
Si veda in primo luogo Billy 1993. Per gli aspetti numerologici e aritmetici è utile Gavazzeni 1984, ma
già Roncaglia 1981 si era posto il problema del rapporto tra perfezione formale e significati nascosti.
107
Canettieri 1996, opponendosi in parte alle opinioni di Billy 1993, che qui si sono seguite, insiste sulla
rarità di tale misura per la stanza trobadorica, soprattutto rispetto alla produzione di Arnaut.
108
Un altro aspetto essenziale all’origine della sestina concerne la capacità di scelta delle parole-rima, che
grazie al loro reciproco e calibrato accostamento e alla possibilità di sfruttarne la polisemia devono
garantire anche una progressione del discorso, per quanto chiuso ed ossessivo. Tale ricorsività delle
immagini, connaturata alla struttura metrica stessa, deriva dal fatto che le clausole devono mantenere
sempre la medesima accezione: con polisemia si intenderà piuttosto la ricerca di sfumature diverse
tramite l’inserimento in contesti differenti o artifici retorici. Per tali aspetti e soprattutto le individuali
concezioni di Arnaut Daniel, Dante e Petrarca si leggano Di Girolamo 1976 e 1981, e Vanossi 1980.
109
Per il rapporto tra circolarità e progressione come connaturato più in generale alla canzone amorosa, si
veda Russell 1982, pp. 41-57, benché vi si faccia specifico riferimento alla Scuola siciliana.
110
La produzione di Raimbaut ha goduto di uno straordinario successo. Numerosi sono i suoi epigoni già
in epoca trobadorica, ma si può pensare anche agli esiti più preziosistici in ambito siciliano e siculotoscano. Con il cambiamento di gusti ed ideali poetici segnato dallo Stil Novo la tradizione rambaldiana
viene abbandonata, mentre viene rivalutato il preziosismo più controllato di Arnaut Daniel.
111
È comunque utile ricordare anche altri componimenti del medesimo trovatore. In primo luogo En aital
rimeta, in cui alla tradizionale struttura metrica delle coblas unissonans è sovrapposto un intreccio di
consonanze e giochi derivativi tra le rime (di per sé irrelate), quasi a dare l’impressione di una strofa
monorima. La struttura di Car vei que clars è molto più semplice: le stanze sono collegate dalla presenza
di tre parole-rima, la prima delle quali è fissa al primo verso, mentre le altre due si trovano al terzo e al
quinto, alternandosi però rispetto alle due posizioni, e creando così un effetto dinamico. È già un
elemento “retrogradato”, tuttavia le parole-rima rimano con altri termini inclusi nelle stanze, che sono di
volta in volta diversi e dunque attenuano l’impressione di ricorsività. Tale ordinamento binario è ripetibile
all’infinito. Infine, Assaz m’es belh e Aissi mou: mentre l’effetto retrogradato quasi scompare, viene
introdotto il principio della crucifixio grazie ai sonori chiasmi che informano l’intero componimento. Per
il resto, esso deriva la sua coesione dalla presenza di un’unica rima unissonante che si ripropone in tutto
l’arco del testo. Il limite di simili esperimenti risiede nella scarsa percepibilità dei loro artifici, evidenti
sulla carta, ma poco chiari all’orecchio, ben più di quanto non avvenga per la sestina.
98
retrogradatio ed una crucifixio vere e proprie; le parole-rima, inoltre, non sono
rigorosamente tali, perché sottoposte ad una costante variazione che sostituisce ad una
piena ricorsività e all’identità lessicale semplici legami di derivazione.
La danielina Lo ferm voler mostra una struttura molto più sobria e lineare, che risponde
alle caratteristiche consuete della produzione arnaldiana, rispetto alla quale la sestina è
addirittura un’eccezione, per la ricchezza dell’elaborazione. In effetti, per quanto lo stile
di Arnaut sia definito ric e clus, l’attenzione agli aspetti formali, la difficoltà del
messaggio e l’apprezzamento per gli espedienti retorici non precludono un fermo
controllo e persino una certa moderazione nell’impegno112. Da questo punto di vista, la
sestina si inserisce pienamente nella visione poetica del trovatore: la misura delle sei
strofe è quella più consueta, le torsioni sintattiche imposte dall’uso di parole-rima sono
le medesime che derivano dalla costante preferenza per rime inusitate, lo strettissimo
rapporto tra densità formale e semantica è tipico del poeta, come d’altro canto la
tendenza ad isolare ritmicamente la rima. Tali elementi individuano proprio quelle
caratteristiche di indivisibilità della stanza e assenza di consonanza ravvicinata che
Dante, nel De vulgari eloquentia, indicherà come definitorie della sestina (mentre
trascura parole-rima o loro peculiare dispositio)113. Tali tendenze appaiono dunque
tipiche dell’intero corpus danielino, di cui Lo ferm voler è culmine e parte integrante; in
ambito italiano, invece, resteranno peculiarità esclusiva della sestina. In quella
arnaldiana, per altro, mancano alcune delle costanti poi imposte da Dante e Petrarca,
come l’isosillabismo dei versi (il primo in Arnaut è più breve) e la scelta di soli
sostantivi come parole-rima (una è un verbo)114.
La valutazione critica della sestina di Arnaut si è spesso scontrata con un grave limite:
l’insistenza sui suoi aspetti “faticosi”, intesi soltanto come manifestazione di
preziosismo e virtuosismo115. Tuttavia, non sembra tale la percezione dei contemporanei
del poeta, né quella dei suoi più tardi lettori medievali: non a caso Dante, nel Purgatorio
e nel De vulgari eloquentia, identifica Arnaut come miglior poeta provenzale e modello
volgare in genere, almeno per quanto concerne la poesia amorosa, sul piano dello stile e
dell’intonazione alta116.
E in effetti con il Daniel giungono alla piena evoluzione le tendenze tipiche della
poetica trobadorica, a partire indubbiamente dalla centralità dell’elaborazione formale.
Tale labor limae, inoltre, ben si presta a comunicare il travaglio spirituale
dell’innamorato sempre insoddisfatto, alla ricerca di una gioia che sfugge, rincorrendo
112
Come sottolinea Frasca 1992, pp. 63 segg, il preziosismo si coglie principalmente nella
“condensazione” e nel “monosillabismo”, oltre che nel gusto per le rime ricercate o caras.
113
Per tale aspetto si vedano anche Picchio Simonelli 1978 e Pulsoni 1998, pp. 65 segg e 77 segg.
114
Tuttavia già in Arnaut prevalgono i sostantivi e soprattutto quelli con accentazione piana. Per gli
aspetti retorici ed espressivi della sestina arnaldiana si veda inoltre Hernandez Esteban 1987.
115
Così in fondo ancora Roncaglia 1981, anche se nella consapevolezza dei limiti della critica moderna.
Canettieri 1993, p. 20 sottolinea in particolare come l’incomprensione della sestina e della sua origine
abbia favorito spiegazioni sempre più complesse sul metro, che si sono via via allontanate dalla realtà
della composizione.
116
Battaglia 1964, pp. 27-33 e Frasca 1992, pp. 68-69. Tale prospettiva aveva già rappresentato,
comunque, il punto di partenza di Roncaglia 1981, in vista della sua riflessione sui modelli e gli
antecedenti che possono aver ispirato la sperimentazione arnaldiana.
99
una dama inafferrabile. I pilastri concettuali dell’amor cortese, dunque, trovano un
veicolo eccezionale nell’ermetismo di Arnaut117, il cui culmine si riscontra proprio ne
Lo ferm voler118. Nella poesia di Arnaut si coglie però anche una certa tendenza
classicistica: la ricerca cioè di rigore, di precisione, di un’espressione esatta e senza
sbavature, in cui il messaggio si esprima con estrema puntualità. Alla medesima
prospettiva rispondono in fondo anche gli accenti più sensuali119, cui spesso (e così è
stato a lungo nella tradizione letteraria italiana) viene attribuita la cifra più tipica del
trovatore. L’elemento passionale infatti è funzionale ad una resa al contempo più varia e
realistica del sentimento: di nuovo la forma deve seguire e assecondare il contenuto,
sempre allo scopo di comunicare gli stati d’animo con la massima pregnanza
possibile120.
Simili caratteristiche ed intenti possono essere riconosciuti anche nell’opera
petrarchesca, in cui l’elaborazione retorica non comporta di necessità un’esasperazione,
né è fine a se stessa. E i luoghi in cui giunge al culmine la capacità del poeta di far
corrispondere la forma espressiva alla condizione interiore dell’io, nel suo tormento e
nella sua contrastata ossessività, sono proprio le sestine. Recuperando (e fissando)
l’innovazione arnaldiana, Petrarca definisce, dunque, uno strumento particolarmente
efficace per l’espressione della condizione interiore, rinnovandolo in base alla propria
peculiare concezione della vicenda amorosa e spirituale121.
117
Battaglia 1964, p. 35 sottolinea anche la più specifica corrispondenza tra ermetismo e topos del
silenzio, dell’impossibilità di rivelare i propri sentimenti o di confidarsi con la dama stessa, un altro
fondamento della fin’amor.
118
Battaglia 1964, pp. 37-42 e 51-56 propone in tal senso due ulteriori esempi di coerenza tra forma e
contenuto tratti dalla produzione arnaldiana: L’aura amara, altro esempio di fissità ed ossessività tanto
formale quanto tematica, e Sols sui, in cui invece si trova un esempio del Daniel più sereno nell’animo e
più limpido – di conseguenza – nello stile.
119
Battaglia 1964, che analizza il componimento danielino alle pp. 43-50.
120
Sulla densità semantica dei componimenti più limati e ricchi a livello stilistico-retorico si era
soffermato anche Roncaglia 1981, proponendo anche il confronto con Raimbaut D’Aurenga, ripreso poi
da Frasca 1992, pp. 63 segg. Sulla questione è tornato anche Canettieri 1996, evidenziando la questione
della corrispondenza tra stato d’animo e stile, con riferimento soprattutto a Bernart de Ventadorn: ne
deriva in particolare il topos della relazione tra stato amoroso ed impegno poetico. In Gaucelm Faidit e
Arnaut Daniel si trova invece la metafora dell’accordatura. Canettieri, infine, ha sottolineato come i due
generi in cui la corrispondenza tra interiorità e verso diviene definitoria della struttura stessa sono proprio
sestina e discorso. In merito al rapporto tra forma e contenuto si leggano anche Hernandez Esteban 1987 e
Picone 1995.
121
In Battaglia 1964, pp. 103 segg si trova un’ampia panoramica delle sestine petrarchesche, allo scopo di
evidenziarne i tratti stilistici più rappresentativi ed elaborati. Per l’appropriazione petrarchesca della
lezione petrosa di Dante, in collaborazione con il trobar clus di matrice danielina, anche al di là delle sole
sestine, si vedano, Neri 1951, von Koppenfels 1967, Santagata 1990, pp. 25-78 e Berra 2007. Per
l’importanza dell’esempio dantesco soprattutto nella sestina 66 e al contempo per l’esaltazione
dell’autonomia petrarchesca, evidenziata proprio dai rilevanti aspetti di convergenza e derivazione, si
veda la Lectura Petrarce di Blasucci 1982.
100
Petrarca guarda dunque in modo autonomo e diretto all’antecedente trobadorico122,
anche se è opportuno ricordare la mediazione dantesca123. Anche nelle quattro petrose,
per altro, appaiono con evidenza l’influenza di Arnaut Daniel, la ricerca di un
linguaggio evocativo ed energico, la coerenza della forma con la rappresentazione
puntuale dello stato interiore. Già in Dante, come accadrà per Petrarca, l’impostazione
testuale deriva dalla volontà di rinnovare il modello: lo si coglie con chiarezza già a
livello metrico, nella presenza di parole-rima anche nei versi finali di Io son venuto o
nella particolare configurazione della cosiddetta canzone-sestina124. L’uso di parolerima non è più soltanto un artificio metrico: esse hanno acquisito una particolare
funzione fonico-concettuale che porta alla piena evoluzione l’artificio provenzale delle
rimas caras. Dante introduce inoltre nuovi vincoli e nuove costanti nella sua sestina: il
primo verso si allunga, il ritmo si fa più “tragico e sostenuto”, le parole-rima sono scelte
per lo più in ambito naturalistico, come accadrà anche in Petrarca. La sintassi è piuttosto
complessa, involuta ed “avvolgente”125: d’altra parte lo richiede il carattere chiuso della
stanza nella sestina.
La vera definizione del genere sestina si deve, comunque, a Petrarca: in tal senso è
sufficiente considerare che non si tratta più di un esperimento isolato, visto che nella
raccolta ne figurano nove, con scelta numerologica difficilmente trascurabile. Il suo
modello diviene ben presto rigido ed univoco, imponendo una sola impostazione
possibile del rapporto tra variazione e invarianza. Lo schema si delinea come
riproducibile e fisso, cosicché ciascun autore successivo potrà contestualizzarlo a
122
Su tali aspetti si è focalizzata in modo polemico la critica del primo Novecento, con l’intento di
esaltare l’indipendenza creativa di Petrarca e della letteratura nostrana rispetto a quella d’oltralpe: si veda
il primo capitolo e in particolare Zingarelli 1935, p. 115 segg. Vanno invece evidenziati i richiami
espliciti che l’autore inserisce nei suoi componimenti al modello danielino come a quello dantesco: in
Giovene donna si trova il primo adynaton di Al poco giorno, mentre Chi è fermato di menar sua vita si
apre con una ripresa dell’incipit di Lo ferm voler. In Là ver l’aurora l’influenza trobadorica
(ventadoriana, in particolare, oltre che danielina) è particolarmente percepibile, con un culmine nel
famoso adynaton che chiude l’ultima strofa e apre il congedo. Sono solo alcuni esempi di un legame
ovviamente molto più esteso. Per l’incontro nell’elaborazione petrarchesca dei due modelli arnaldiano e
petroso è utile l’analisi in Picchio Simonelli 1978; per il modello dantesco in particolare si veda anche Di
Girolamo 1986. Anche il contatto di Dante e del Daniel è stato approfondito con ampiezza; si leggano ad
esempio Santangelo 1921, Pulega 1978, Vatteroni 1991.
123
Tale affermazione si deve in particolare a Contini, citato poi da Picchio Simonelli 1978, p. 12; lo
evidenzia ad esempio l’adozione della soluzione isosillabica per il primo verso, così appunto in Dante, ma
breve (ottonario) in Arnaut. Mi pare però che non sia da escludere in merito il peso delle consuetudini e
norme tipiche della produzione italiana già duecentesca, per cui le uniche misure versuali accettabili nella
canzone sono endecasillabo e settenario. Per altro, ancora un volta, l’autorità in questione è quella
dantesca.
124
Per un commento sulla struttura di Amor tu vedi ben e il suo legame con il meccanismo della sestina, si
veda Gavazzeni 1984 (in particolare pp. 64 segg).
125
Frasca 1992, che dedica ben tre capitoli alle sestine petrarchesche, pp. 173-258, e in particolare pp.
311-312, dove lo studioso fa il punto sulla propria analisi.
101
seconda delle proprie esigenze126. Resta qualche variazione solo nella struttura dei
congedi127.
La rielaborazione petrarchesca comporta anche un’evoluzione stilistica. Cambia la
concezione dei legami fonici tra parole-rima rispetto a quella di Dante128; tale
connessione è sostituita dall’attenzione, tipica del poeta, per gli effetti di suono nel
complesso del componimento, mentre la sede di rima risulta più isolata e dunque più
rilevata129. L’intonazione si trasforma notevolmente, soprattutto a confronto con la fase
“petrosa” dantesca: nell’insieme la difficoltà è attenuata, per ricondurre il genere in seno
al linguaggio più tipico di Petrarca e alla sua armonia, innanzitutto sul piano del lessico
e quindi della scelta delle parole-rima. Appaiono coerenti sia i giochi oppositivi,
riconducibili ai meccanismi dittologici e binari diffusi nei fragmenta, sia la preminenza
di voci tratte dal mondo naturale, che adattano al nuovo quadro poetico una preferenza
già dantesca. L’autonomia del poeta e il numero delle sestine favoriscono un
“ampliamento del poetabile”130 e quindi delle possibilità del genere stesso: Petrarca è
libero di piegare la sestina ai temi e ai problemi del suo io poetico, e quindi al percorso
spirituale delineato nel Canzoniere131. L’osservazione delle parole-rima e della loro
evoluzione nell’arco delle nove sestine dimostra tale tendenza a far propria la forma
metrica132.
Ciò che occorre accertare, però, è la funzione assunta dal genere sestina nel Canzoniere
petrarchesco e dunque la natura di tale recupero, al di là della sperimentazione formale e
dell’ampliamento delle strutture liriche canoniche. È utile in tal senso valutare quali
fossero il messaggio e il ruolo comunicativo affidati a quella forma particolare dai
modelli letti dal poeta.
Osservando nel complesso la produzione di Arnaut Daniel, si nota che la sestina non ha
una valenza tematica o una funzione comunicativa peculiare. I motivi che vi sono
126
Ciò non toglie che anche Petrarca offra un’ulteriore sperimentazione nell’ambito di tale genere con la
sestina doppia, la cui peculiarità è ancor più rilevata grazie all’isolamento nella seconda sezione del
Canzoniere, e in cui sono peculiari anche le scelte di lessico (Frasca 1992, pp. 207-258; ma per
l’interpretazione si rimanda anche a Berra 1991).
127
Pulsoni 1995 e 1998; ma il tema era già stato affrontato in Pulega 1978.
128
Tale valutazione dell’elaborazione dantesca si trova ad esempio in Frasca 1992, pp. 123-157; appaiono
in gran parte diversi i punti di vista di Hernandez Esteban 1987 e Picchio Simonelli 1978.
129
A questo proposito Hernandez Esteban 1987 ha evidenziato la distanza tra Arnaut e Dante da una parte
e Petrarca dall’altra.
130
Tale aspetto è affrontato in Frasca 1992, p. 259 segg, a segnalare come l’evoluzione della sestina
petrarchesca rispetto ai suoi modelli sia prima di tutto tematica.
131
Frasca 1992, pp. 207 segg si riferisce in particolare all’alternanza e talvolta alla compresenza di motivi
amorosi e penitenziali (soprattutto nella nona sestina, data anche la sua collocazione nella sezione “in
morte”, di cui egli fornisce un’analisi più ampia e dettagliata).
132
Hernandez Esteban 1987: la studiosa ha osservato nel dettaglio i cambiamenti lessicali e semantici da
una sestina all’altra. La progressione è graduale: all’inizio la scelta lessicale pertiene alla dimensione
terrena, poi sono prevalenti immagini astronomiche, cosmiche e atmosferiche, pian piano diviene
preminente la condizione umana, rispetto alla quale, però, sono sempre più esaltati aspetti spirituali,
atemporali e universali. In alcune sestine petrarchesche, come in 66, la medesima evoluzione può essere
avvertita di strofa in strofa, coinvolgendo però anche una certa alternanza tra dimensione oggettiva ed
esteriore, e sfera soggettiva e interiore. A questo si lega, di conseguenza, la scelta di rendere centrale di
volta in volta l’io poetico o piuttosto l’oggetto d’amore. Infine, e su un piano più generale, il lessico può
essere inteso in chiave letterale o figurata, come avviene ad esempio nel fragmentum 80.
102
affrontati sono quelli consueti della poesia arnaldiana e più in generale trobadorica;
anzi, le affermazioni sulla propria dedizione all’amata, sull’intensità inusitata del
proprio sentimento, sulla gioia e insieme sul timore (tremore) che provengono dalla
dama, sulle malelingue o ancora sul desiderio di rivederla appaiono perfettamente
convenzionali133. Anche le insistite allusioni sensuali134, che per altro sono passibili di
interpretazioni normalizzanti in chiave cortese135, non appaiono incoerenti rispetto agli
altri testi danielini sopravvissuti, basti pensare al sirventese erotico-metaforico Puois en
Raimons136 o alla più classica canzone Doutz brais e critz137. D’altro canto, benché per
lo più secondo modalità meno sfacciate, il desiderio di abbracciare la dama, magari
senza vestiti, di notte e in una camera privata è stato espresso da non pochi tra i
trovatori. La singolarità del componimento risiede piuttosto nella ricorsività dei
medesimi problemi138: è l’esito tipico della sestina, in contrasto con la progressione
discorsiva della canzone139. È dunque la struttura in sé che rende peculiare Lo ferm
voler, e probabilmente molto più per il lettore tardo (e moderno) che per i
contemporanei dell’autore140.
Considerazioni molto simili valgono per il caso anteriore di Raimbaut d’Aurenga. Le
peculiarità formali di Ar resplan sono per certi aspetti ancor meno evidenti, in seno al
corpus del trovatore, rispetto a quelle di Lo ferm voler. Infatti, benché come si è visto
l’impegno retorico vi sia molto insistito, la canzone può essere paragonata ad una serie
di altri testi in cui la fantasia espressiva dell’autore trova libero sfogo141. Né d’altro
canto la struttura è chiusa quanto quella della sestina, provocando sussulti molto meno
evidenti sul piano del discorso, che dunque appare meno peculiare alla lettura. A livello
133
“Lo ferm voler qu'e1 cor m'intra / no m pot jes becs escoissendre ni ongla” (vv 1-2); “totz temps serai
ab lieis cum carns et ongla» (v 17); “tant fina amors cum cella qu'el cor m'intra / non cuig fos anc en cors,
non eis en arma” (vv 27-28); “qu'ill m'es de joi tors e palaitz e cambra” (v 33); “non ai membre no m
fremisca ni ongla” (v 10); “de lausengier qui pert per mal dir s'arma” (v 3); “tal paor ai no l sia prop de
l'arma” (v 12).
134
“Del cors li fos, non de l'arma, / e cossentis m'a celat dinz sa cambra!” (vv 13-14); “s'a lei plagues,
volgr'esser de sa cambra” (v 22); “san Desirat, cui pretz en cambra intra” (v 39).
135
Lo si è anticipato nel primo capitolo; la lettura mariana deve essere stata diffusa già nel periodo tardo e
spiegherebbe l’apprezzamento per Arnaut in un ambiente rigido e rigoroso come quello del Concistori del
Gai Saber.
136
Si tratta del famoso ed ambiguo componimento dedicato al “corno”, la cui rappresentazione è sempre
in bilico tra il piano musicale e quello erotico: “c'al cornar l'agra mestier becs” (v 6); “quel corns es fers,
laitz e pelutz / e nul jorn no estai essutz, / et es prions; dins ha palutz” (vv 12-14); “cel que sa boch'al corn
condutz” (v 19); “qu' el la cornes en le fonill / entre l'eschina e l penchenill” (vv 40-41).
137
“Lo jorn quez ieu e midonz nos baizem” (v 21); “en la chambra on amdui nos mandem / […] / que l
seu bel cors baisan rizen descobra / e que l remir contra l lum de la lampa” (vv 29-32).
138
Con la parziale eccezione del motivo delle figure parentali, che rappresentano un’interferenza nella
relazione amorosa non consueta nell’insieme della produzione trobadorica.
139
È interessante però notare che la lettura complessiva del corpus trobadorico, data l’elevata presenza di
topoi e problemi convenzionali, suggerisce il medesimo senso di profonda unità, pur nella singolarità di
ciascuna realizzazione.
140
La medesima conclusione si può trarre in parte per Eras, pus vey di Peire Guilhem de Cazals, dove
però la peculiarità strutturale è molto meno percepibile all’orecchio e l’esito sul piano tematico-discorsivo
molto meno vincolante. Anche in tal caso, comunque, il componimento rientra perfettamente negli ambiti
tematici tipici del trovatore, rispetto ai quali l’unica discriminante notevole è quella tra canzoni
d’impostazione felice (come nel caso di Eras, pus vey) e canzoni dolenti.
141
Tale aspetto è stato anticipato nel presente capitolo.
103
tematico, tali testi sperimentali si dimostrano in sostanza convenzionali, ben inseriti
nell’insieme dell’opera rambaldiana e nelle logiche cortesi, con la parziale eccezione di
Assaz m’es belh per la forte componente autoelogiativa. Tuttavia, gli ambiti e i problemi
cui la canzone fa riferimento sono tutt’altro che inconsueti: orizzonte metapoetico,
questioni amorose, scontro con le malelingue, morale cortese. Negli altri testi la visione
convenzionale è ancor più marcata, benché ovviamente le singole immagini non siano
immediatamente sovrapponibili nel passaggio da testo a testo, così come gli stati
d’animo del poeta (di volta in volta più o meno disperato), secondo un’evidente
necessità di variazione.
Alcuni aspetti, però, colpiscono l’attenzione in modo particolare. Tra i motivi più
apprezzati da Raimbaut spiccano il contrasto che i sentimenti amorosi sollevano
nell’animo del poeta, sempre indeciso tra tormento e soddisfazione, e ambientazione
stagionale, di volta in volta primaverile o invernale142. In alcuni testi, ad esempio Ar vei
bru, Car vei que clars143 o En aital rimeta, la rappresentazione naturalistica è affine a
quella emotiva (inverno – desolazione, primavera – gioia), in altri opposta, come in Ar
resplan e Aissi mou. La tensione interiore complica la rappresentazione della realtà
esteriore, in testi giocati per altro sulla contraddittorietà e l’opposizione sul piano
espressivo.
La corrispondenza tra lavorio sentimentale e complicazione formale non può non
colpire il lettore di Petrarca, pensando alla parabola dell’io lirico attraverso i 366
fragmenta e soprattutto in rapporto al significato che le sestine assumono nel
Canzoniere, singolarmente e come gruppo di testi.
Le nove sestine petrarchesche, infatti, compongono un ciclo coeso, il cui percorso
evolutivo, narrativo ed insieme esistenziale riflette nei suoi elementi essenziali la
vicenda proposta dalla raccolta nel suo complesso144. Alla rappresentazione delle
vicende psicologiche e morali dell’io lirico contribuisce in particolare la possibilità di
ripartire i nove testi in tre momenti o fasi: amore terreno (sestine 22, 30 e 66), contrasto
tra eros e caritas, urgenza penitenziale e resistenza delle illusioni amorose (sestine 80,
142 e 214), ritorno alla dimensione erotica (sestine 237, 239 e 332)145. A tale
ripartizione interna si sovrappone quella generale del Canzoniere in sezione “in vita” e
“in morte” di Laura: anche le sestine partecipano della variazione tematico-tonale, per
cui 332, che suggella la chiusura del gruppo con il raddoppiamento della struttura, è di
142
Anche tali aspetti sono convenzionali, ma paiono particolarmente congeniali al trovatore d’Aurenga,
che insiste sul tema in numerosi componimenti. L’attenzione agli elementi stagionali e naturali si
riscontra anche in Arnaut Daniel, e diviene un tratto distintivo (in chiave invernale) delle petrose
dantesche (in particolare della sestina) e delle prime tre sestine petrarchesche.
143
Qui però il topos è sottoposto ad un’ulteriore variazione, poiché il sole, che dovrebbe essere parte
integrante dello scenario ameno, rischia di distrarre il poeta, minacciandone le intenzioni canore e quindi
amorose.
144
Per i concetti di partenza in questa analisi si fa riferimento a Vanossi 1980 (organizzazione del ciclo e
rapporto speculare con l’insieme della raccolta). Lo studioso sottolinea anche l’affinità strutturale di
metro e raccolta: la circolarità, la chiusura, la progressione del discorso pensata come rinnovamento di
elementi fissati e rigorosamente selezionati, con riferimento anche alla struttura calendariale del
Canzoniere.
145
All’evoluzione nella rappresentazione dell’io consegue la progressione nella scelta delle parole-rima:
Vanossi 1980.
104
fatto un planh, un lamento funebre. È evidente che la sestina petrarchesca va ben al di là
dell’ispirazione in sostanza sensuale che le avevano attribuito Arnaut Daniel e in fondo
anche Dante146, e che poi nella tradizione ha finito per identificare la materia più tipica
del genere.
Si può approfondire ulteriormente sulla questione, in primo luogo in merito alla
composizione del ciclo. La collocazione delle sestine rispetto alla successione dei
fragmenta appare tutt’altro che casuale, soprattutto se si tiene conto della redazione
Correggio, come è noto la più curata sul piano delle rispondenze strutturali. Le prime tre
sestine, dall’incontrovertibile sostanza erotica, appartengono alla prima metà147 della
sezione iniziale, prima di 70 e della (parziale) svolta stilnovistica, mentre 80 è già oltre
il crinale. Per altro, sia 66 sia 80 sono proprio a ridosso di tale spartiacque, come a
sottolineare un momento di passaggio. 142 svolgeva invece il ruolo essenziale di
chiudere la prima parte, introducendo quella mutatio animi che nella configurazione
definitiva è spostata in apertura della seconda sezione, ma comunque prima della morte
di Laura, segnalando le motivazioni autonome e spirituali della conversione morale
dell’io. L’aggiunta successiva di 214 riequilibra perfettamente il conteggio tra i primi
due momenti, sensuale e palinodico. L’esperimento della sestina doppia 332 chiude in
modo significativo la serie, ma la posizione estremamente ravvicinata di 237 e 239
anticipa il raddoppiamento148. Per altro, 237 segue idealmente da vicino la sestina
precedente, poiché tra le due Petrarca non ha inserito alcun altro metro lungo149. La
posizione di cinque tra le sestine riserva anche qualche suggestione numerologica. Il
legame matematico delle prime tre è evidente (22x3(0)=66), come la corrispondenza
numerica tra 142 e 214: sono dettagli esteriori, certo, ma non incoerenti con la mentalità
dell’epoca150. Appaiono a maggior ragione interessanti i risultati dell’analisi
contenutistica. La sestina 22, testo giovanile per eccellenza, sia nella finzione del
Canzoniere sia probabilmente nella realtà cronologica della sua composizione,
rappresenta l’omaggio più scoperto all’inventore del genere, nonché all’esempio
dantesco. Il tema di fondo è chiaro ed univoco: l’amor carnis travolgente per Laura, le
146
Per tale aspetto si veda ancora Vanossi 1980, in cui si evidenzia come tale trasformazione letteraria
comporti anche uno scarto e in fondo un’evoluzione rispetto alla dottrina cortese convenzionale.
147
Si ricordi che la sezione “in vita” doveva originariamente terminare con il fragmentum 142, per cui il
gruppo 70-74 segnava esattamente la sua metà.
148
Si noti che il fragmentum 238 non spezza, ma anzi rafforza la connessione, poiché la scena del bacio a
Laura introduce il motivo della gelosia, che appare del tutto coerente con la visione erotica espressa dalle
due sestine. A sua volta 332 intrattiene uno stretto legame tematico con il componimento che la precede,
di nuovo un planh per Laura, focalizzato sui ricordi del passato e delle piacevoli sofferenze amorose, a
confronto con il dolore lacerante della perdita.
149
Per una significativa lettura del ciclo, in relazione al componimento conclusivo, si legga la lectura in
Berra 1991. Petrini 1993, pp. 115-122 ha interpretato diversamente l’organizzazione interna del ciclo,
distinguendo un’introduzione (22), una fase di impietrimento (30, 66, 80), un intermezzo (142), un
momento dello strazio (214, 237, 239) e un epilogo (332).
150
Anche il ciclo nel complesso suggerisce un’osservazione numerica: 9 testi che raggiungono il numero
sacro, la cui struttura si basa sul 6 – numero altrettanto sacro e per di più laurano –, tra i quali l’ultimo è
doppio, suggerendo così una somma finale di 10, cioè il numero mariano su cui si imposta la chiusura
della raccolta (canzone 366).
105
sofferenze e i desideri impossibili che turbano il poeta151. Gli strumenti espressivi sono
invece molteplici: l’adynaton152, altro elemento che riporta alla tradizione trobadorica e
in particolare ad Arnaut Daniel, ma anche alle petrose dantesche, il riferimento al
genere provenzale dell’“alba”153, anch’esso fortemente connotato in chiave erotica, la
rappresentazione della natura e dei ritmi biologici regolari, che si contrappongono allo
stato sconvolto del poeta154. L’aspetto naturalistico, inoltre, assomma fonti differenti:
infatti, la tematica stagionale, affine o contrastante allo stato interiore, è tipica della
produzione occitanica e torna in chiave invernale nelle petrose, ma al contempo Petrarca
risente di influenze classiche (virgiliane), che determinano un’intonazione
profondamente rinnovata155.
Caratteristiche molto simili tornano nella sestina 66, dove l’elemento naturale dipende
dall’esempio dantesco in misura maggiore, per gli inequivocabili tratti invernali156. La
contrastività emotiva appare complicata ed esaltata dal personaggio femminile, mentre
gli elementi adynatici157 si combinano perfettamente con la triplice immagine di natura,
sentimenti del poeta e umanità della dama, nel segno del ghiaccio (e del dolore). Anche
in tale componimento, dunque, il peso della tradizione è notevole.
Risulta forse più autonoma la sestina 30. Il tema è il medesimo di 22 e 66, così come
l’uso caratteristico dell’adynaton158; tuttavia la vicenda amorosa è presentata nel tempo,
sia nei suoi aspetti tormentosi sia nell’impossibilità di rinunciare al legame con l’amata,
per quanto dannoso. Il poeta, infatti, rievoca il suo passato e guarda ad un futuro che
non si prospetta affatto differente159, creando un lieve effetto dinamico che si combina
in modo innovativo con la staticità propria del genere. Nel caso di Petrarca, tale fattore
temporale assume quattro diverse sfumature: coerenza con gli antecedenti trobadorici,
struttura peculiare del Canzoniere, problema morale e prospettiva umanistica. Non è
151
“[…] / non ò mai triegua di sospir’ col sole; / poi quand’io veggio fiammeggiar le stelle / vo
lagrimando, e disiando il giorno” (vv 10-12); “et maledico il dì ch’i’ vidi ‘l sole, / che mi fa in vista un
huom nudrito in selva” (vv 17-18); “lo mio fermo desir vien da le stelle” (v 24).
152
“[…] e mai non fosse l’alba” (v 33); “Ma io sarò sotterra in secca selva / e ‘l giorno andrà pien di
minute stelle / prima ch’a sì dolce alba arrivi il sole (vv 37-39).
153
Già la scelta della parola-rima “alba” è significativa in tal senso. Oltre al già citato verso 33, si ricordi
l’anticipazione “[…] e ‘nanzi l’alba / puommi arichir dal tramontar del sole” (vv 29-30).
154
È lo spunto su cui sono costruite le prime tre stanze: espressivo in particolare l’effetto avversativo
dell’incipit di verso e strofa “et io” (v 7). Sia su tale contrapposizione che sull’utilizzo di una struttura “a
quadri” sia in Petrarca che nella tradizione trobadorica, sia infine sulle immagini naturalistiche si tornerà
nel corso del presente capitolo e poi nel successivo, con riferimento alle immagini convenzionali.
155
L’intera sestina è disseminata di tali immagini; ne è rappresentativa la scelta delle parole-rima: terra e
selva soprattutto, ma anche l’indicazione dei ritmi del giorno in sole, stelle, alba e giorno.
156
Così la prima strofa, e lo suggeriscono chiaramente le parole-rima nebbia, venti, pioggia e ghiaccio.
Nella seconda stanza si ripetono i medesimi concetti, riferiti però parallelamente allo stato interiore del
poeta.
157
“Ch’allor fia un dì madonna senza ‘l ghiaccio / dentro, et di for senza l’usata nebbia, / ch’i’ vedrò
secco il mare, e’ laghi, e i fiumi” (vv 22-24).
158
“Allor saranno i miei pensieri a riva / che foglia verde non si trovi in lauro; / quando avrò queto il core,
asciutti gli occhi, / vedrem ghiacciare il foco, arder la neve” (vv 7-10).
159
“Giovene donna sotto un verde lauro / vidi […]” (vv 1-2); “non ò tanti capelli in queste chiome /
quanti vorrei quel giorno attender anni” (vv 11-12); “o colle brune o colle bianche chiome, / seguirò
l’ombra di quel dolce lauro / […] / fin che l’ultimo dì chiuda quest’occhi” (vv 15-18); “sempre piangendo
andrò per ogni riva” (v 33).
106
raro infatti che i trovatori si lamentino di lunghissime attese e del protrarsi di
un’infruttuosa passione; d’altro canto, il computo del tempo che passa assume talvolta
una valenza più specifica, laddove il poeta descriva un vero e proprio anniversario. Tale
possibilità diventa un’abitudine ben riconoscibile nel Canzoniere, la cui progressione è
scandita notoriamente dal passare del tempo e da date precise (esplicite o ricostruibili).
La sestina 30 propone appunto il primo di tali anniversari e quindi la questione
temporale vi assume una valenza ben specifica160. Infine, in tutta l’opera petrarchesca è
centrale il motivo del tempo che passa, della brevità della vita, delle scelte che si fanno
sempre più urgenti161: un’ansia per certi aspetti già umanistica, anche se nel Canzoniere
veicola soprattutto la consapevolezza del tempo sprecato ad inseguire i beni terreni e
quindi l’urgenza di guardare a Dio.
I medesimi elementi topici e convenzionali che nelle prime tre sestine tratteggiano la
vicenda amorosa tornano con valenza palinodica nelle tre successive. Il poeta infatti
riflette sui propri errori, riproponendone così la rappresentazione, cercando di motivarsi
al cambiamento spirituale. La successione dei tre testi è significativa, poiché man mano
la spinta morale e penitenziale è sempre più intensa162; in tal senso non conta tanto la
preminenza quantitativa del tema penitenziale rispetto a quello amoroso, quanto
piuttosto il modo in cui è presentato l’atteggiamento del poeta. Infatti, benché 80 insista
a lungo sulla gravità dell’errore, sulla rinnovata coscienza dell’io e sul cammino da
intraprendere, la conclusione riconferma le “catene” terrene cui non è ancora del tutto
possibile rinunciare. 142, invece, insiste principalmente sul percorso amoroso del poeta,
dapprima dolente e poi salvifico163; tuttavia, quell’esperienza appare conclusa e
sostituita da una prospettiva spirituale nuova, serena e solida. Negli ultimi versi la
ripetizione quasi ossessiva del concetto di alterità identifica l’esigenza di un’evoluzione,
lascia intravedere qualche speranza di successo (poi disattesa) e crea un significativo
effetto contrastante rispetto alla chiusura tipica della sestina. La struttura, per sua natura
160
“Che s’al contar non erro, oggi à sett’anni / che sospirando vo di riva in riva” (vv 28-29). Su questo
anniversario particolare e sulla sua collocazione sarà opportuno tornare con maggiore approfondimento in
seguito; possiamo però anticipare che diversi tra i trovatori avevano già proposto un’indicazione di simili
anniversari, talvolta proprio quello dei sette anni (Gaucelm Faidit, monaco di Montaudon, Cadenet). Sul
tema dell’anniversario e dello scorrere del tempo in generale si tornerà nuovamente in seguito.
161
“Ma perché vola il tempo et fuggon gli anni, / sì ch’a la morte in un punto s’arriva” (vv 13-14). Nel
caso della sestina, la decisione che si prende a fronte di tale consapevolezza non è certo penitenziale, ma
anzi ispirata alla rinuncia dell’autoconservazione in vista di un’incrollabile fedeltà alla dama e all’amore,
topoi cortesi ed amorosi di lunghissimo corso.
162
Sestina 80: “però sarrebbe da ritrarsi in porto / mentre al governo anchor crede la vela” (vv 5-6);
“chiuso gran tempo in questo cieco legno / errai […]” (vv 13-14); “poi piacque a lui che mi produsse in
vita / chiamarme tanto indietro da li scogli / ch’almen da lunge m’apparisse il porto” (vv16-18); “Signor
de la mia fine e de la vita, / prima ch’i’ fiacchi il legno tra li scogli / drizza a buon porto l’affannata vela”
(vv 37-39).
Sestina 142: “ora la vita breve e ‘l loco e ‘l tempo / mostranmi altro sentier di gire al cielo / et di far
frutto, non pur fior’ e frondi. / Altr’amor, altre frondi et altro lume, / altro salir al ciel per altri poggi /
cerco, ché n’è ben tempo, et altri rami” (vv 34-39).
Sestina 214: “Ma Tu, Signor, ch’ài di pietate il pregio, / porgimi la man dextra in questo bosco: / vinca ‘l
Tuo sol le mie tenebre nove. / Guarda ‘l mio stato, […] / rendimi, s’esser pò, libera et sciolta / l’errante
mia consorte; et fia Tuo ‘l pregio, / s’anchor Teco la trovo in miglior parte” (vv 28-36).
163
In chiave stilnovistica, mettendo cioè a frutto la parziale svolta dei fragmenta 70-74, completamente
ignorata in 80.
107
ricorsiva, nel finale si apre alla possibilità del diverso. 214, infine, mette a frutto la
conclusione di 142, che non a caso – lo ribadiamo – incarnava in origine il momento
fondamentale della svolta, poi associato a 264. Come già in 80, in 214 il discorso si
avvia sulla consapevolezza della colpa, ancor più esacerbata ed autocritica, ed anzi
venata dalla coscienza di non essere in grado di liberarsi delle tendenze amorose con
quell’immediatezza che si era auspicata in precedenza (142). D’altro canto, le stanze
conclusive anticipano la soluzione che sarà poi definitiva (365-366), nel segno della
preghiera e della fiducia in una forza superiore, pietosa e comprensiva.
Tuttavia, un lungo cammino si frappone ancora tra l’io e quella destinazione. 237164 e
239, affini per tematiche come per posizione, tornano infatti alla chiusura, alla
contraddittorietà dei sentimenti, all’ossessione adynatica165 per Laura166. Il senso di una
sofferenza senza scampo si riconferma poi nella sestina doppia: in 332167, però, i pianti
per l’amata scostante, all’origine appunto di 237 e 239 (come di 22, 30 e 66), appaiono
in retrospettiva un paradiso perduto168, a confronto con l’inconsolabile dolore del
lutto169. Il riuso della sestina permette dunque a Petrarca di costruire un ciclo interno e
parallelo al Canzoniere stesso, evidenziandone le tappe fondamentali: amore, tentativo
di cambiare, ricaduta, morte dell’amata. Nel complesso, le nove sestine suggeriscono tre
diverse tattiche nella reinterpretazione del genere. Dapprima, e poi nel riproporsi
dell’amore eros, la prospettiva è affine a quella tradizionale; in seguito domina un
approccio di ribaltamento speculare e critico, a partire dalle medesime immagini (riuso
penitenziale); infine, quegli stessi motivi amorosi e dolenti servono a spostare il
desiderio erotico dal presente al passato, rinnovando ulteriormente l’espressione
164
Albonico 2009 propone per 237 un’interpretazione più articolata, evidenziando sia la relazione con 22
sia quella con 332. La sestina dunque identificherebbe un momento di passaggio, di mediazione, in cui si
fa strada quasi un presentimento della morte, interrotto poi da 239 che compie un passo indietro, in
coerenza per altro con la posizione ancora “alta” dei due componimenti. 237 potrebbe anche intrattenere
qualche relazione con 126, per la medesima idea di pietà, che si chiede a Laura in prospettiva, cioè per i
tempi che seguiranno la morte del poeta.
Per certi aspetti, tali posizioni sono state anticipate dalla breve analisi sulla sestina in Petrini 1993, p. 119.
165
Sestina 237: “Ben fia, prima ch’i’ posi, il mar senz’onde, / et la sua luce avrà ‘l sol da la luna, / e i fior’
d’april morranno in ogni piaggia” (vv 16-18); “e ‘l dì si stesse e ‘l sol sempre ne l’onde” (v 36).
Sestina 239: “Ma pria fia ‘l verno la stagion de’ fiori, / ch’amor fiorisca in quella nobil alma” (vv 10-11);
“et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori” (vv 36-37).
166
Sestina 237: “quant’à ‘l mio cor pensier’ ciascuna sera” (v 6); “Di dì in dì spero omai l’ultima sera /
che scevri in me dal vivo terren l’onde” (vv 7-8); “ché tanti affanni uom mai sotto la luna / non sofferse
quant’io […]” (vv 10-11); “Io non ebbi già mai tranquilla notte, / ma sospirando andai matino e sera” (vv
13-14); “Consumando mi vo di piaggia in piaggia / el dì pensoso, poi piango la notte” (vv 19-20).
Sestina 239: “Quante lagrime, lasso, et quanti versi / ò già sparti al mio tempo, e ‘n quante note / ò
riprovato humiliar quell’alma!” (vv 13-15).
167
Sulla particolare natura di questo componimento, la sua peculiarità anche semantica e la sua funzione
rispetto alla serie delle sestine si veda Berra 1991.
168
“Mia benigna fortuna e ‘l viver lieto, / i chiari giorni et le tranquille notti / e i soavi sospiri e ‘l dolce
stile” (vv 1-3); “Già mi fu col desir sì dolce il pianto, / che condia di dolcezza ogni agro stile” (19-20);
“con dolor rimembrando il tempo lieto” (v 27); “Nesun visse già mai più di me lieto” (v 37)”; “[…] piacer
mi facea i sospiri e ‘l pianto” (v 45).
169
“Odiar vita mi fanno, et bramar morte” (v 6); “Crudele, acerba, inexorabil Morte, / cagion mi dài di
mai non esser lieto, / ma di menar tutta mia vita in pianto, / e i giorni oscuri et le dogliose notti” (vv 710); “Or non parl’io, né penso, altro che pianto” (v 18); “Non à ‘l regno d’Amor sì vario stile, / ch’è tanto
or tristo quanto mai fu lieto” (vv 35-36); “et doppiando ‘l dolor, doppia lo stile” (v 39); “prego che ‘l
pianto mio finisca Morte” (v 75).
108
tormentata dell’io (riuso elegiaco-luttuoso). La serie delle sestine si chiude in realtà in
anticipo rispetto alla raccolta. Il Canzoniere infatti prosegue oltre l’elaborazione della
perdita, verso il momento più forte di riflessione penitenziale, rivolto a Dio e soprattutto
alla Vergine: nessuna sestina compie tale passaggio. Si trattava forse di un genere
troppo compromesso sul piano amoroso, sensuale e terreno, che poteva sì veicolare una
temporanea palinodia, ma non un impulso più forte. Per la preghiera finale, la sestina
lascia il passo alla canzone, come d’altronde la canzone 264 aveva sostituito la sestina
142 nella rappresentazione della mutatio animi, al centro ideale della vicenda
esistenziale dell’io lirico.
3.1 “Adynata”
Il termine adynaton indica la rappresentazione, più o meno sintetica, di una situazione
impossibile: un fenomeno che si scontra con la consuetudine, la logica, le regole del
mondo naturale e sociale. Tali impossibilia sono diffusi in letteratura laddove l’autore
intenda rendere la disperazione, l’assenza di prospettive, un’impasse dolorosa ed
ineluttabile; è evidente perciò che si tratta di un uso retorico destinato a grande successo
e diffusione nella poesia amorosa.
L’efficacia di tali strategie espressive si lega d’altronde, su un piano più ampio ed
articolato, al topos del “mondo alla rovescia”, in base al quale il principio della rottura
delle regole naturali si estende in narrazioni più ricche e complesse170. Tale schema di
pensiero si coglie appieno a confronto con il suo opposto, a sua volta oggetto di una
concettualizzazione convenzionale: l’ideale del mondo ordinato secondo natura, dunque
perfetto e necessario171. Non solo il meccanismo ragionativo è il medesimo, ma lo è
anche l’approccio espressivo, basato per lo più su una progressione elencatoria172.
L’interpretazione letteraria e retorica dell’adynaton è antica e diffusa173, mentre la sua
definizione è tarda e tuttora problematica. Come ha sottolineato Cherchi174, le proposte
in tal senso sono molto varie, rispetto sia ai riferimenti concettuali di partenza, sia alle
caratteristiche sintattiche che si registrano come più tipiche degli impossibilia. In primo
luogo è necessaria una struttura comparativa, in cui un termine di confronto sia
riconosciuto come impossibile, cioè come alterazione di una legge o di una costante
naturale. Tuttavia il principio del contrasto con l’ordine normale è piuttosto una
tendenza che un reale vincolo: le singole realizzazioni, e quindi la concezione cui si
rifanno, appaiono spesso del tutto autonome.
Sarà dunque più semplice ed utile distinguere due filoni principali. Da una parte, può
essere delineata una situazione impossibile in natura, un “mondo alla rovescia”, dal
confronto col quale il secondo termine di paragone acquista maggiore energia; dall’altra
170
Per il topos del mondo alla rovescia si veda anche Huchet 1991, pp. 177-179.
Tale immagine risale al topos già classico dell’età dell’oro.
172
Per tali riflessioni generali si veda ad esempio Spaggiari 1985.
173
La sopravvivenza delle forme espressive adynatiche in diverse fasi storiche e culturali è
particolarmente significativa: Cherchi 1971 ha sottolineato come gli impossibilia godano di costanti
arricchimenti e reinvenzioni che ne hanno salvaguardato l’efficacia comunicativa.
174
Cherchi 1971.
171
109
è descritta un’azione impossibile, nella quale ci si impegna comunque, ma con la
consapevolezza che non sarà possibile portarla a compimento.
Per spiegare l’origine e le caratteristiche dell’uso medievale (trobadorico e
petrarchesco) di tali strumenti retorici, è utile partire dall’analisi dei modelli classici che
ne identificarono i caratteri principali175. La frequente cadenza proverbiale favorisce
l’ipotesi di un’origine popolare; è certo però che tale possibile ascendenza è stata presto
dimenticata nel segno di un’evoluzione colta. Le fonti greche mostrano che le immagini
adynatiche più antiche sono sempre associate alla sfera religiosa, all’espressione di
profonde speranze o forti convinzioni: solo in seguito si passa ad affermazioni
letterarie176. Non a caso sono spesso presenti nei medesimi passi anche giuramenti, che
implicano la garanzia divina; d’altro canto le stesse leggi di natura sono sottoposte alla
vigilanza degli Olimpi. A tale tradizione antica rimandano anche alcuni aspetti del mito
dell’età dell’oro, poiché in quell’era ideale erano possibili fenomeni che in epoca storica
risultano inimmaginabili, contrari alle attuali leggi di natura, come l’amicizia tra animali
che ora sono prede gli uni degli altri. Tali aspetti di peculiare paradossalità si
riscontrano soprattutto in Omero, Esiodo ed Esopo, ma hanno esiti importanti ed
autonomi in vari altri autori177. Tra i primi adynata veri e propri va ricordato quello dei
fiumi che scorrono all’indietro verso la fonte, proposto da Euripide e ripreso in ambito
latino da Ovidio178. Vanno poi ricordate le prime rappresentazioni del “paese di
cuccagna” cui si ispira la descrizione dell’Ade e dei Campi Elisi; d’altra parte vari
filosofi, come Platone, delineano articolate utopie, identificando ideali condizioni di
vita, lontane nello spazio, ma non nel tempo, e dunque non completamente impossibili
da realizzare. Con Aristofane, invece, l’adynaton acquisisce anche una vena di ironia, di
provocatoria comicità: il rovesciamento non coinvolge più soltanto la natura, ma anche
gli orizzonti divino e sociale (ad esempio, il rapporto tra padri e figli). Il riferimento alla
vita della comunità è in realtà sempre sottinteso nelle soluzioni adynatiche, che
implicano il riferimento ad un ordine costituito, poi stravolto.
Al di là delle narrazioni più ampie ed articolate, già il mondo greco conosce succinte
affermazioni sentenziose ispirate in fondo all’idea del mondo alla rovescia: è tipico il
loro uso in associazione a perifrasi e iperboli. Tuttavia la critica ha sottolineato come la
175
Si fa qui riferimento in particolare a Chocchiara 1981, che dedica a tale aspetto ampia attenzione.
Cherchi 1971 sottolinea anche la novità proposta da Ovidio con il suo uso più vario e frequente. Proprio il
suo esempio va considerato all’origine della diffusione dell’adynaton in età imperiale, come avviene
d’altronde anche per altri strumenti retorici sino ad allora poco apprezzati e sempre basati su effetti di
contrasto (ossimori e paradossi).
176
Cocchiara 1981 sottolinea in proposito che si tratta del medesimo meccanismo verificatosi per il mito.
177
Cocchiara 1981, pp. 70 segg cita numerosi esempi: Archiloco (scambio tra animali marini e montani –
considerato possibile in seguito ad un’eclissi), Erodoto (scambio tra i medesimi animali – a segnalare gli
effetti nefasti della tirannide, ferro che galleggia) il quale spesso predilige un’impressione paradossale
anche rispetto ai popoli straordinari di cui racconta, Teognide (la corruzione del presente rassomiglia al
sovvertimento delle leggi naturali), Pindaro, Sofocle ed Euripide, poeti alessandrini (con le significative
assenze di Callimaco e Arato), Apollonio Rodio (i suoi adynata sono argomentazioni per assurdo),
Teocrito (i rapporti tra animali e piante sono del tutto ribaltati), Filippo di Tessalonica (che accosta alle
più ovvie immagini astronomiche e marine l’associazione impossibile tra vivi e morti).
178
Spaggiari 1982 sottolinea anche l’ampliamento e l’arricchimento proposti da Ovidio rispetto al
modello greco, grazie all’accumulo di diverse immagini autonome.
110
configurazione dell’adynaton sia per lo più ben distinguibile da quella di iperboli,
paragoni e perifrasi, perché, anche nelle espressioni più sintetiche, presenta una
complessità molto maggiore. Inoltre, anche nei passi meno estesi, l’adynaton riesce a
evocare una specifica concezione dell’universo – illogica e rovesciata.
Gli autori latini, al di là della sensibilità individuale179, riprendono le tendenze degli
antecedenti greci. In età imperiale le immagini “impossibili” e più in generale
contrastive conoscono una diffusione sempre maggiore, anche grazie all’apprezzamento
nelle scuole di retorica. Quintiliano si lamenta di veri e propri abusi, senza per altro
ottenere significativi risultati180. In età tardoantica, al perdurante esempio dell’eredità
classica, si aggiungono gli usi retorici cristiani, che sviluppano il gusto adynatico delle
Sacre Scritture, compresi l’Antico Testamento, i testi dei profeti, l’Apocalisse e
l’innografia mariana181. La letteratura cristiana, dunque, incrementa ulteriormente il
gusto per l’intonazione paradossale; i miracoli e gli articoli di fede danno nuovo valore
e solida legittimazione ai giochi comunicativi, accettandone e perciò salvandone anche
la tradizione classica.
Tali antecedenti, numerosi e molteplici182, hanno ampio esito in età medievale, quando
l’immagine del “mondo alla rovescia” conosce il suo culmine narrativo e le
rappresentazioni più ricche ed articolate, forse favorite dalla percezione della profonda
sperequazione sociale. Tuttavia, i letterati dell’Età di mezzo non recuperano tutte le
immagini “impossibili” della classicità: alcuni topoi, ad esempio, derivano da usi
adynatici, ma ne vedono attenuata la carica paradossale, in relazione alla più forte
caratterizzazione convenzionale183. Per Cocchiara184 tali fenomeni sono forse da
collegare all’ignoranza di scriventi e fruitori, che avrebbero mal compreso le reali
intenzioni degli autori classici. La Rinascenza carolingia ha successivamente favorito
un’ulteriore fioritura dell’adynaton, anche nell’ambiente della scuola, con la
fondamentale intenzione di fondere l’insegnamento cristiano e l’eredità classica. Tra XI
e XII secolo l’immagine del “mondo alla rovescia” è stata recuperata anche negli
179
Nevio (la locusta partorisce un elefante), Plauto (caccia nel mare e pesca in aria, acqua che sgorga
dalla pietra, morti che tornano in terra), Terenzio (i morti apparenti divengono uno strumento essenziale
nella struttura delle sue opere), Lucrezio (con piglio scientifico, riflette sulle possibili conseguenze di
eventi impossibili), Virgilio (per la prima volta sono accostati elemento mitologico e dimensione storica:
tale duplicità rispecchia sia la natura profetica dell’Eneide, sia l’attenzione al presente in cui il poeta vive,
se non altro con intenti celebrativi), Orazio (adynata frequentissimi e per lo più ispirati all’immaginazione
di cataclismi ed eventi tragici che coinvolgono tutta la terra), Properzio, Ovidio (con una ricchezza tale da
garantirne un’importanza ineguagliata quale serbatoio di immagini e spunti per tutto il Medioevo; per
altro il corpus ovidiano rappresenta al contempo una summa della tradizione anteriore ed un suo
significativo rinnovamento), Seneca (il suo uso è tra quelli più retorici e convenzionali), Giovenale,
Marziale, Silio Italico (Cocchiara 1981, pp. 80 segg).
180
Cherchi 1971.
181
Significativo esempio in tal senso si legge nello stesso Petrarca, nella canzone alla Vergine, costruita
in parte su immagini tratte dalla lirica amorosa e in parte sui paradossi consueti dell’innografia mariana.
Basti la lettura dei vv 27-28 della canzone 366: “Vergine pura, d’ogni parte intera, / del tuo parto gentil
figliuola et madre”. Per simili occorrenze in epoca tardoantica, e soprattutto in Claudiano, si veda di
nuovo Cherchi 1971, p. 225.
182
Spaggiari 1982 sottolinea però soprattutto il ruolo di Virgilio.
183
Un esempio particolarmente rappresentativo è quello del puer senex (Cocchiara 1981, p. 106).
184
Cocchiara 1981, pp. 105-106.
111
ambienti monastici, dove appariva utile per spiegare la scelta di abbandonare il secolo,
il contemptus mundi e in genere le critiche moralistiche sempre più sentite e diffuse185.
A questo quadro possono essere ricondotte le prime esperienze poetiche trobadoriche
che fanno uso dell’adynaton, e in particolare quelle di Marcabru. In generale l’amore
fino e la cultura cortese trovano il loro fondamento in principi di carattere paradossale,
che giustificano l’esaltazione degli elementi meno logici ed immediati alla
comprensione186. Il caso particolare di Marcabru si inserisce pienamente in tale
contesto, ma al contempo si rivela singolare ed autonomo, in perfetto accordo con la sua
consueta lettura morale intransigente della realtà aristocratica: le corti sono infatti
presentate come esempio lampante di etica ribaltata187. D’altro canto, egli non può che
accettare le regole imposte dal mondo socio-culturale cui appartiene ed è quindi in
ultima analisi la sua prospettiva ad apparire rovesciata ed isolata: per la prima volta, l’io
poetico ammette che il suo impegno non può avere esito, è esso stesso “impossibile”,
benché la tematica non sia ancora amorosa188. I seguaci del trovatore (Bernart Marti,
Gavaudan…) non esprimeranno posizioni altrettanto forti e nette: l’adynaton nella loro
produzione è una semplice cifra stilistica. Come tale esso sarà recuperato ed adattato a
nuove prospettive liriche anche dagli avversari di Marcabru e della sua ideologia, cioè
dai fautori dell’amor cortese, come Peire d’Alvernha. Tuttavia, anche questo uso
regolarizzato e convenzionale continua a contraddistinguere per lo più sirventesi dalle
intenzioni moraleggianti; la vera svolta, con la piena appropriazione dell’adynaton da
parte della lirica amorosa, si deve a Raimbaut d’Aurenga189. L’efficacia della sua
innovazione si coglie nella perfetta coerenza tra l’adynaton e i fondamenti stessi
dell’amore. Si pensi infatti al motivo della follia amorosa, topos radicatissimo tra i
trovatori, destinato a lasciare una fiorente eredità in ambito italiano: una follia
“positiva”, come la definisce Cherchi190, perché volta alla ricerca della gioia e alla fuga
dalla malinconia191. Tuttavia per un trovatore e amante cortese, invaghito di una donna
sposata ed irraggiungibile, la sofferenza è una costante imprescindibile. Si delinea così
una prospettiva contraddittoria e impossibile, da cui derivano azioni e comportamenti
altrettanto assurdi, cui si applica con efficacia una vera e propria poetica adynatica192. In
185
Cherchi 1971 cita l’esempio significativo di Alano di Lilla, le cui rappresentazioni morali e cristiane
ricordano alcuni tratti della fin’amor.
186
Un’utile e sintetica analisi degli aspetti paradossali nell’ideologia cortese si trova in Mölk 1996.
187
“No n sai que faire, / tant fort sui entrepres, / q’entorn l’araire / si fant vilan cortes, / e il just pechaire /
de so q’en lor non es / si m’aiut fes, / tals mil en auzetz braire / c’anc res no n fo”, Marcabru, XXXII, vv
19-27.
188
“E s’ieu chuich anar chastian / la lor follia, ieu qier mon dan, / pois s’es pauc prezat si m n’azir; /
semenan vau mos chastiers / de sobre naturaus rochiers, / c’u no n vei granar ni florir”, Marcabru, XLI, vv
25-30.
189
Ciò non toglie che anch’egli scriva sirventesi e componimenti moralistici in cui gli impossibilia
trovano ampio spazio.
190
Cherchi 1971.
191
Potremmo per altro aggiungere che le stesse leggi di Amore appaiono assurde e illogiche a chi non ne
sia fedele.
192
Per Cherchi 1971, la realizzazione più piena di tale principio si riscontra in Ar resplan la flors enversa,
in cui il contesto tipico dell’immaginazione amorosa (cioè quello primaverile) è del tutto rovesciato nel
senso del gelo invernale; un secondo ribaltamento si deve alla prospettiva individuale dell’io poetico, per
il quale tutto in quel mondo gelato e inospitale è contrassegnato dalla gioia.
112
tal modo Raimbaut porta al suo pieno sviluppo il contributo di Bernart de Ventadorn,
che per primo aveva cantato la follia in amore e i suoi effetti.
L’adynaton diviene a questo punto una delle forme di ornatus più caratteristica del
trobar ric, ma la preoccupazione espressiva che lo connota non è incompatibile
nemmeno con lo stile leu: lo stesso Giraut de Bornelh, che rifiuta – a parte qualche
esperimento – il trobar clus, recupera la lezione di Raimbaut d’Aurenga e con il suo
prestigio modellizzante partecipa alla fondazione di una rinnovata tradizione poetica193.
È sempre più convenzionale il motivo della ragione che cerca di contrastare le tendenze
più folli, descritte appunto in molti luoghi attraverso impossibilia ed immagini
adynatiche, a fronte di tendenze irrazionali che non possono mai essere del tutto messe a
tacere.
La forza di tali moduli stilistici si ripropone nel corpus di Peire Vidal, che ancora una
volta non può sfuggire alla follia insita nell’esperienza amorosa, ma che al contempo
rilegge quegli aspetti assurdi secondo un’ottica gioiosa. I suoi adynata sono tanto
numerosi da apparire talvolta veri elenchi dal sapore virtuosistico; il trovatore inoltre ne
rinnova la concezione di fondo, affermando in alcuni casi che essi hanno trovato
realizzazione, a sancire un quadro di piena soddisfazione194.
L’inaequalis pensatio – il pensiero folle, irrazionale – e le inanes operae – azioni inutili
o irrealizzabili – che ne derivano sono poi frequentissime nella poesia di Arnaut
Daniel195 (benché a volte ironiche), tanto da esserne diventate strumento espressivo per
antonomasia. Il gioco paradossale è connaturato alla sua poetica e la quantità di
occorrenze lo testimonia196. Secondo Cherchi197, tale preminenza degli accenti
paradossali, che in effetti si riconoscono sia nella prevalente intonazione sofferta, sia nei
pochi passi gioiosi (in cui gli adynata divengono realizzati e soddisfatti, come in Peire
Vidal), motiva una diffusa impressione di staticità, di perfezione compositiva e pienezza
emotiva fissate una volta per tutte.
È evidente che per Arnaut Daniel l’elaborazione della forma trova precisa
corrispondenza nella concezione poetica198, e le soluzioni espressive veicolano
significati ben precisi. Non si può dire altrettanto per i numerosi epigoni ed imitatori del
trovatore, la cui insistenza sull’ornatus (e quindi sull’adynaton) diviene spesso puro
esercizio di stile o generica rappresentazione della propria follia amorosa.
193
Ma anche l’ideologia poetica di Marcabru non gli è del tutto estranea, come dimostra la canzone 75, in
cui è descritta la decadenza della società in forma di rovesciamento delle norme consuete.
194
Cocchiara 1981, pp. 114 segg pensa che all’origine di tale concezione siano esempi classici, che in
effetti non rappresentano un orizzonte noto solo a Petrarca.
195
Cocchiara 1981, p. 115 pensa in particolare ai tratti di oscurità e difficoltà che la contraddistinguono e
che egli definisce “conquista della parola”.
196
Si possono ricordare con Cocchiara 1981, pp. 115-118 alcuni esempi caratteristici: il cuculo che pare
colomba (canzone IV), la lepre cacciata col bue (X), il vento raccolto (X), l’oro più vile del ferro (XIV).
197
Cherchi 1971.
198
Su questo aspetto ci si è già soffermati in merito alla sestina.
113
Si ricordino in particolare Elias Cairel, Guilhem Maigret, Raimon de Miraval199, Daude
de Pradas200 e Aimeric de Peguilhan201. Nella fase tarda del trobadorismo, si torna poi a
formulazioni semplici e meno personali degli impossibilia, con l’immediata
correlazione tra due elementi, di cui uno in contrasto con le leggi della natura e della
consuetudine. La sintassi offre un indizio immediato di simili usi meno innovativi: gli
adynata infatti non sono più riferiti alla prima persona singolare, come aveva invece
imposto l’inserimento di tali formule in ambito lirico. Soluzioni in sostanza banali e
generiche si riscontrano ad esempio in Guilhem de Cabestanh, Gausbert de Poicibot,
Guilhem Peire de Cazals, Raimon Jordan, il monaco de Montaudon, Perdigon e Guiraut
Riquier.
Finora si è fatto riferimento a formulazioni più o meno estese ed ambiziose. Tuttavia è
più consueto che l’impressione di impossibilità sia comunicata con un singolo vocabolo,
dunque in modo più diretto, ma anche più sintetico e generico. Cherchi202 offre qualche
esempio di tale tendenza, come “faidia”203 o il sintagma “esperansa bretona” per
indicare un’attesa senza esito, o ancora “obra d’aragna”204. Gli ultimi due casi sono
particolarmente interessanti. Il riferimento ai Bretoni che attendono invano il ritorno di
re Artù è utile in primo luogo per la sua diffusione, ma soprattutto per la centralità in
ambito amoroso del tema della speranza, e della speranza vana in particolare, che
interessa anche il Canzoniere, benché in termini differenti205.
E tals cuia far mantenen / qes a speransa bretona (Giraut de Bornelh, LXXVII, vv 29-30)
Si l plai, que ab lieys no m fos / l’esperansa dels Bretos! (Gaucelm Faidit, II, vv 39-40)
E la musa del Breto (Peire Vidal, V, v 18)
Esperar e muzar / me fai coma Breto (Peire Vidal, XX, vv 61-62)
Et esperansa bretona / fai de senhor escuder (Bernart de Ventadorn, XXIII, vv 38-39)
Mas sai dizon, senher, qu’atendemen / fai de Breto, per que s mou grans rancura
(Guilhem de Montanhagol, XIV, vv 42-43)
Que no l fassa semblar de Breto (Guilhem de Berguedà, XXVIII, v 38).
199
L’occorrenza citata da Cherchi 1971, p. 237 è davvero peculiare: “Combat ab quier de cera / bastimens
de peira dura” (Ged. 1112, 3).
200
“De mon malayp conosc, en ver, / c’a fer freg i bati e martelh”, XI; si cita da Cherchi 1971, p. 237
poiché i versi, che costituiscono un congedo apocrifo ed alternativo, non sono accolti nell’edizione
Shepard-Chambers, qui utilizzata.
201
Anche Cocchiara 1981, pp. 116-117, come si è visto in Cherchi 1971, propone una netta
contrapposizione rispetto ai trovatori in cui l’immagine impossibile è solo un decoro, uno spunto artistico
e virtuosistico, che lo studioso definisce “esterno”: per quanto i risultati effettivi oscillino tra luogo
comune ed invenzione apprezzabile, manca un significativo collegamento tra il singolo concetto e il
tessuto poetico più profondo. Lo studioso ricorda, ad esempio, il riferimento ai Guasconi in Juan
d’Albusson, il volo degli asini in Guglielmo di Tudela o la polvere contro vento di Daude de Pradas. La
medesima distinzione nell’approccio dei diversi autori si coglie in relazione alla letteratura anticofrancese: Chrètien de Troyes è stato, ad esempio, un modello essenziale nell’uso profondo ed elaborato
dell’adynaton, recuperando anche il lascito dei classici.
202
Cherchi 1971.
203
Folchetto da Marsiglia, XI. È un ulteriore soluzione retorica per proporre il tema della follia,
dell’illusione, della paradossalità amorosa.
204
Per tale immagine si veda Cherchi 2003. Per i paragoni con i ragni si veda anche Scarpati 2008, p. 119.
205
Per tale aspetto si veda Cherchi 2006, che cita anche il topos della speranza bretone.
114
L’immagine del ragno torna invece esplicitamente in Petrarca:
Poi trovandol di dolce et d’amar pieno, / quant’al mondo si tesse, opra d’aragna / vede
[…] (Canz. 173, vv 5-7)
Fag ai l’obra de l’aranha (Peire Vidal, V, v 17).
Un altro approccio ben documentato è quello iperbolico: l’esagerazione assume qui una
sfumatura peculiare, benché la struttura sintattica preveda sempre i consueti parallelismi
e corrispondenze. L’elemento di impossibilità viene per lo più dal riferimento a grandi
personaggi del passato o della letteratura (biblica, mitologica, classica). Si noti che tale
approccio, che suona più attenuato, è caratteristico soprattutto del trobar leu.
In conclusione, può essere vantaggiosa una categorizzazione delle formulazioni
adynatiche206. In primo luogo non va dimenticato che ciascun autore o anche il singolo
testo possono proporre un atteggiamento diverso, a seconda che sia posto l’accento sulla
critica moraleggiante verso un mondo che pare sconvolto e rovesciato, sull’impossibile
realizzazione della propria soddisfazione amorosa207, sulla gioia raggiunta (adynata
realizzati), sulla vita folle e irrazionale propria dell’amante (inanes operae). Inoltre,
sono varie le tendenze strutturali riconoscibili: formule proverbiali (magari influenzate
dalla tradizione classica)208, sintesi attraverso un semplice vocabolo, paragoni con la
tradizione.
Petrarca riscopre l’efficacia retorica dell’adynaton raccogliendo la suggestione di
tradizioni diverse: da una parte quella classica, già nota ma ora affrontata con piglio
rinnovato209, dall’altra quella italiana – soprattutto dantesca210 –, e quella trobadorica,
con particolare riferimento ad Arnaut Daniel: basti pensare alla celebre immagine della
caccia impossibile, reiterata e rielaborata in ben due luoghi del Canzoniere211. Tuttavia,
la concezione amorosa petrarchesca appare ancor più disperata rispetto a quella dei suoi
modelli, poiché non concepisce situazioni impossibili divenute reali e dunque
206
Si veda Cherchi 1971.
In questi casi è tipica la struttura forse più riconoscibile per gli impossibilia: “prima che…, accadrà
che…”, con cui sono posti in correlazione il desiderio del poeta e le condizioni impossibili naturali o
contestuali che pure ne sono più probabili e realistiche.
208
La formulazione proverbiale è particolarmente tipica del trobar clus: in tali componimenti è
particolarmente diffuso il gusto per la sentenza, per la regola, che definisce il termine da superare nella
propria ricerca di miglioramento e difficoltà. Inoltre il proverbio comporta un fattore di preziosità, poiché
favorisce un processo di mitizzazione e “fissazione”.
209
Cocchiara 1981, pp. 119-120 lo definisce “umanismo retorico” con particolare riferimento ai
fragmenta 57 e 80.
210
Tra gli antecedenti italiani di Petrarca, Cocchiara 1981, p. 119 cita Cielo d’Alcamo (rompere il mare,
seminare il vento, accumulare tutte le ricchezze del mondo), Dante (in particolare, l’immagine dei fiumi
che tornano alla fonte) e Cecco Angiolieri (è più facile far prendere un falchetto ad una gru). È molto
significativa, perché coerente con le linee generali della loro poetica, l’assenza dei Siciliani e degli
stilnovisti. Infatti, Cielo d’Alcamo è autore peculiare nel contesto della Scuola, spesso associato alla
dimensione più giocosa e addirittura popolare, sebbene in chiave consapevole e letterariamente elaborata.
Simile discorso vale anche per Cecco Angiolieri. Per quanto concerne Dante, si tratta della produzione
petrosa e non di quella stilnovista. Meno prevedibile, forse, lo scarso successo dell’adynaton presso i
guittoniani.
211
Dell’immagine, della sua origine e del legame tra Petrarca e Arnaut Daniel in merito si è già trattato
nel corso del primo capitolo.
207
115
soddisfatte212. Petrarca ha poi il merito di aver tramandato tali strumenti espressivi alla
tradizione quattro e cinquecentesca, garantendo perciò la sopravvivenza in età
rinascimentale sia dei modelli classici che di quelli provenzali. Le due prospettive
tematiche più rilevanti sono quelle della crudeltà della dama e della fedeltà dell’amante;
a livello formale si mantiene la dicotomia tra soluzioni sintattiche estese ed elaborate (di
cui Pace non trovo è modello imitatissimo) ed altre sintetiche e dirette213.
La presenza degli adynata nel Canzoniere non è molto estesa a livello quantitativo;
tuttavia, la loro importanza si coglie pienamente analizzando le nove sestine. Infatti, ben
cinque di esse sono caratterizzate da almeno un’immagine impossibile (22, 30, 66, 237,
239) a fronte di due soli sonetti (57, 195) e di una canzone (127) che presentino una
struttura equivalente, secondo la segnalazione di Cherchi, cui si può aggiungere ancora
qualche luogo interessante.
Sol una nocte, et mai non fosse l’alba (Canz. 22, v 33)
E ‘l giorno andrà pien di minute stelle / prima ch’a sì dolce alba arrivi il sole (Canz. 22,
vv 38-39)
Allor saranno i miei pensier’ a riva / che foglia verde non si trovi in lauro; / quando avrò
queto il core, asciutti gli occhi, / vedrem ghiacciare il foco, arder la neve (Canz. 30, vv 710)
Se mai foco per foco non si spense, / né fiume fu già mai secco per pioggia214 (Canz. 48,
vv 1-2)
Lasso, le nevi fien tepide et nigre, / e ‘l mar senz’onda, et per l’alpe ogni pesce, / et
corcherassi il sol là oltre ond’esce / d’un medesimo fonte Eufrate et Tigre (Canz. 57, vv
5-8)
Ch’i’ vedrò secco il mare, e’ laghi, e i fiumi (Canz. 66, v 24)
Prima poria per tempo venir meno / un’imagine salda di diamante (Canz. 108, vv 5-6)
Ad una ad una annoverar le stelle, / e ‘n picciol vetro chiuder tutte l’acque (Canz. 127, vv
85-86)
Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido (Canz. 134, v 9)
Che farian gire i monti et stare i fiumi (Canz. 156, v 8)
Senz’acqua il mare et senza stelle il cielo / fia inanzi ch’io non sempre tema et brami
(Canz. 195, vv 5-6)
D’un bel chiaro polito et vivo ghiaccio / move la fiamma che m’incende et strugge (Canz.
202, vv 1-2)
Beato in sogno et di languir contento, / d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura estiva, /
nuoto per mar che non à fondo o riva, / solco onde, e ‘n rena fondo, et scrivo in vento
(Canz. 212, vv 1-4)
Et non so che nelli occhi, che ‘n un punto / pò far chiara la notte, oscuro il giorno215
(Canz. 215, vv 12-13)
212
In merito Cocchiara 1981, p. 120 parla di “fatalità invalicabile” e pensa soprattutto al fragmentum 237.
Fucilla 1936.
214
In questo caso gli adynata sono negati, riaffermando la validità delle leggi naturali, come vedremo nel
caso della Medea senechiana.
215
L’immagine è topica, ma risente direttamente di Bernart de Ventadorn, III, vv 36-37 (Santagata 1996,
p. 923)
213
116
Ben fia, prima ch’i’ posi, il mar senz’onde, / et la sua luce avrà ‘l sol da la luna, / e i fior’
d’april morranno in ogni piaggia (sest. 237, vv 16-18)
Et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori
(Canz. 239, vv 36-37)
Con refrigerio in mezzo ‘l foco vissi (Canz. 313, v 2).
Se osserviamo in particolare le citazioni tratte dalle sestine, la coerenza tra uso stilistico
e genere metrico appare in effetti stringente: non solo per l’uso significativo che
dell’adynaton aveva fatto Arnaut, cui si deve l’invenzione della sestina stessa, ma anche
per la tradizionale associazione di tali soluzioni retoriche alla sfera del virtuosismo e
della preziosità, per cui il Daniel era particolarmente illustre. Gli impossibilia infatti
sono sempre percepiti come elementi stilistici artificiosi e ricercati. Ciò non toglie che
ogni singola realizzazione ne evidenzi una specifica sfumatura espressiva, soprattutto
sotto l’effetto della capace lima petrarchesca: in alcuni casi l’aspetto retorico – per così
dire “gotico” – è molto attenuato, in altri domina l’impressione di lirismo. È insomma la
medesima duplicità e ambiguità che contraddistingue in generale le sestine del poeta
aretino. Un ultimo fattore di coerenza tra forma metrica e strumento retorico concerne le
scelte tematiche più tipiche della sestina: la fatalità, le situazioni irrisolvibili e non
modificabili, l’affanno per cui non si intravede nessun possibile sollievo216.
Osservando qualche significativa occorrenza occitanica, si noterà che le corrispondenze
non sono di necessità puntuali, ma che la tipologia di emozioni espresse attraverso la
struttura retorica, nonché l’area semantica cui fanno per lo più riferimento i paragoni,
legata soprattutto alla natura, sono profondamente affini217.
Mas ben grans talans afrena / mon cor, que ses aigua pesca218 (Raimbaut d’Aurenga, V,
vv 50-51)
De loing ses fuec m’escomprens (Raimbaut d’Aurenga, IX, v 58)
[…] car de la freida neu / nais lo cristals, dom hom trai foc arden219 (Peire Vidal, XXIV,
vv 22-23)
Trac de neu freida foc clar / et aigua doussa de mar (Peire Vidal, XXVIII, vv 26-27)
Pero de mar tra hom senes duptansa / aigua doussa, per qu’eu ai esperanssa (Peire Vidal,
XII, vv 37-38)
L’aer correi, / quesc om folatura (Bernart Marti, I, vv 28-29)
Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura / e chaz la lebre ab lo bou / e nadi contra suberna220
(Arnaut Daniel, X, vv 43-45)
216
Sull’uso dell’adynaton in Petrarca si veda anche Vanossi 1980.
Agli adynata in senso stretto si possono poi aggiungere le consuete manifestazioni paradossali
dell’intensità dell’amore, espresse soprattutto in chiave metaforica e immaginifica; Cherchi 1971 si
sofferma soprattutto su quella della fame amorosa. Di tali aspetti si tratterà nel capitolo successivo, in
quanto elementi topici della rappresentazione amorosa.
218
A questo luogo si possono comparare in particolare i sonetti 57, 66 e 195 e la sestina 237, per l’idea
dei mari disseccati.
219
Questo, il passo successivo e in parte anche quello precedente sono interessanti a paragone con la
sestina 30 e il sonetto 212.
220
Questo brano arnaldiano è ovviamente fondamentale rispetto alla rappresentazione della caccia
impossibile in Petrarca; tuttavia si noti che anche il precedente passo di Bernart Marti presenta
217
117
Ans er plus vils aurs non es fers / c’Arnautz desam lieis on es ferm manecs (Arnaut
Daniel, XIV, vv 49-50)
Doussa res, s’esser podia / que ja mais alba ni dia / nos fos, grans merces seria221
(Gaucelm Faidit, LXVIII, vv 10-12)
Et es plus fols, mon escien, / que cel qui semn’ en l’arena222 (Bernart de Ventadorn, II, vv
32-33)
Car sa beutatz alugora / bel jorn e clarzis noih negra (Bernart de Ventadorn, III, vv 36-37)
Es en Richartz chass’ab lebres leos223 (Bertran de Born, XXXV, v 15)
Ans aurion un cantelh / de la luna, en l’air an / qu’ieu ja’m n’an eslaisan (Guilhem Peire
de Cazals, IV, vv 33-35).
Già in ambito classico, comunque, è tipico che per formulare l’adynaton ci si rivolga
alla dimensione naturale, geografica ed animale. Osservando alcuni esempi, si
noteranno notevoli affinità soprattutto con i versi petrarcheschi, nei quali il modello
classico è in parte accostato e in parte sovrapposto a quello trobadorico, grazie anche
alla forte omogeneità dell’ispirazione che si è anticipata in merito alla scelta dei
paragoni224. Si legga con particolare attenzione l’incipit del sonetto 212: vi si
assommano l’immagine danielina della caccia impossibile e un’eco catulliana, come
suggeriscono gli ultimi due versi del carmen 70:
Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti, / in vento et rapida scribere oportet aqua
(Catullo, 70, vv 3-4)
Per ragioni simili appare proficuo il paragone tra un passo della sedicesima canzone di
Arnaut, in cui torna l’idea della caccia impossibile, accostata però ad un altro adynaton
di ispirazione classica, e tre luoghi petrarcheschi: da una parte le due occorrenze
dell’inseguimento col bue (212 e 239)225, dall’altra il sonetto 156, che risente appunto
anche di influenze classiche:
un’immagine per certi aspetti affine alla prima metà dell’adynaton danielino. L’ultimo verso di Arnaut
qui citato potrebbe inoltre essere all’origine dell’immagine del nuoto nell’incipit di 212, dove appunto è
proposta anche la caccia (Santagata 1996, p. 911)
221
Il passo risente chiaramente delle convenzioni del genere dell’alba e degli stati d’animo ad esso
connaturati; grazie a questo, i versi di Gaucelm suonano molto affini a quelli petrarcheschi nella sestina
22.
222
Il riferimento è segnalato già in Santagata 1996, p. 911: si rileggano i primi versi del citato sonetto
212. Santagata rimanda inoltre ai versi 48-49 della settima satira di Giovenale: “nos tamen hoc agimus
tenuique in pulvere sulcos / ducimus et litus sterili versamus aratro”.
223
Il passo è già stato citato nel primo capitolo quale ulteriore esempio di “caccia impossibile” in area
trobadorica, significativo dal punto di vista retorico, benché non presenti una connessione diretta con i
luoghi petrarcheschi (si tratta per altro di un sirventese e in particolare di un rimprovero ad una figura
politica).
224
I primi due luoghi classici sono tratti dall’esemplificazione proposta da Cherchi 1971 nel descrivere gli
usi adynatici latini.
225
Sull’evoluzione dell’immagine della caccia impossibile e lo specifico rapporto tra Petrarca e Arnaut
Daniel in merito si veda il capitolo precedente. Per l’uso dell’immagine e degli adynata in Arnaut Daniel
si è già citato Cocchiara 1981, pp. 115-118. Per la presenza dell’immagine animale si veda invece il
capitolo terzo.
118
Tant sai que l cors fatz restar de suberna / e mos bous es pro plus correns que lebres
(Arnaut Daniel, XVI, vv 6-7)
Che farian gire i monti et stare i fiumi226 (Canz. 156, v 8)
Beato in sogno et di languir contento, / d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura estiva, /
nuoto per mar che non à fondo o riva, / solco onde, e ‘n rena fondo, et scrivo in vento
(Canz. 212, vv 1-4)
Et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori
(Canz. 239, vv 36-37).
Anche senza cercare corrispondenze immediate, gli antecedenti classici sono spesso
interessanti per la coerenza a livello di ispirazione generale. Tornano spesso pesci, aria e
monti:
Iubeas una opera me piscari in aere, / venari autem rete iaculo in medio mari (Plauto,
Asinaria, vv 99-100)
Piscium et summa genus haesit ulmo, / nota quae sedes fuerat columbis, / et superiecto
pavidae natarunt / aequore dammae (Orazio, I,2, vv 9-12)
Ante leves ergo pascentur in aethere cervi / et freta destituent nudos in litore pisces / […]
/ quam nostro illius labatur pectore vultus (Virgilio, Bucoliche, I, vv 59-63)
Dum terra caelum media libratur feret / nitidusque certas mundus evolvet vices /
numerusque harenis derit et solem dies, / noctem sequentur astra, dum siccas polus /
versabit Arctos, flumina in pontum cadent, / numquam meus cessabit in poenas furor227
(Seneca, Medea, vv 402-407)
In caput alta suum labentur ab aequore retro / flumina, conversis solque recurret equis: /
terra feret stellas, caelum findetur aratro, / unda dabit flammas, et babit ignis acquas, /
omnia naturae praepostera legibus ibunt (Ovidio, Tristia, I,8, vv 1-5)
Vere prius volucres taceant, aestate cicadae, / Maenalius lepori det sua terga canis
(Ovidio, Ars amatoria, I, vv 271-272)
rara avis in terris nigroque simillima cycno (Giovenale, VI, 165)
Servis regna dabunt, captivis fata triumphum. / Felix ille tamen corvo quoque rarior albo
(Giovenale, VII, vv 202-203)
[…] sed prius Apuli / iungentur caprae lupis, / quam turpi Pholoe peccet adultero (Orazio,
I,33, vv 7-9)228.
226
Per tali effetti straordinari delle qualità laurane Santagata 1996, p. 737 propone un confronto con le
immagini classiche di Orfeo e Anfione nella rappresentazione oraziana e ancora la figura di Medea nella
versione ovidiana. A questo possiamo aggiungere una delle similitudini “impossibili” che Walfrido
Strabone trae dai classici: “fontes stare citos faciat, tum currere montes”. Per tale riuso dei classici in
Strabone si veda Cherchi 1971, p. 226. Un parallelo si trova anche in Arnaut Daniel, XVI, su cui si
tornerà poco oltre.
227
In questo caso l’adynaton è rovesciato, poiché gli eventi impossibili appaiono negati, a descrivere la
normalità che si presume continuerà fino alla fine del tempo umano; tuttavia è interessante che le
immagini siano ancora una volta molto simili ed ispirate alla medesima concezione. Anche il significato
psicologico è rilevante: non si parla di frustrazione amorosa, ma di follia ed ira causate dall’amore e dal
suo tradimento.
228
Gli ultimi tre esempi citati appartengono in modo evidente ad ambiti tematici profondamente diversi
da quelli che ispirano il Canzoniere. Ciò che interessa, però, è ancora una volta il dominio della sfera
naturale nella rappresentazione delle leggi e della normalità (alterata) del mondo.
119
4. “Escondich”
Una prima definizione del genere “escondich” in ambito critico italiano si deve a
Giovanni Galvani229. Lo studioso ha identificato il verbo “escondicere” come forma in
origine mediolatina, in alternativa a “escondire”: entrambe valgono “excusare” cioè
presentare delle scuse. Da qui le forme provenzali “escondir” (verbo) e
“escondich/escondig” (sostantivo). Quest’ultima è stata usata come definizione
canonica di un genere poetico provenzale già classico, come dimostra il componimento
di Bertran de Born Eu m’escondich230, benché sia stato identificato come autonoma
forma di canzone solo molto più tardi231. Tale riscoperta coincide con la fase
discendente della tradizione trobadorica, quando, lo si è visto, molti generi minori e
secondari sono stati rivalutati, come nel caso di plazer ed enueg. Per altro enueg ed
escondich tendono a convergere, visto che entrambi sono elenchi di fenomeni negativi e
fastidiosi, per quanto originati da motivazioni differenti.
Come si è anticipato, lo spunto tematico che caratterizza l’escondich comporta
un’accusa fittizia da cui l’innamorato deve difendersi; ne deriva una serie iperbolica di
giuramenti e di terribili maledizioni autoinflitte, che dovrebbero realizzarsi se la colpa
fosse stata effettivamente commessa. L’intento è ovviamente quello di far comprendere
per contro che ciò non è accaduto. Anche il genere dell’escondich è stato recuperato nel
Canzoniere, incrementandone la varietà tematica e formale; ovviamente esso è stato
adattato alla storia dell’io e alla sua vicenda amorosa. All’origine provenzale del genere
rimanda inoltre la forma metrica, peculiare e riconoscibile, indizio esplicito del contatto
occitanico in atto232.
Al già citato Galvani si deve la prima segnalazione moderna del recupero petrarchesco e
quindi dell’affinità tra la canzone S’i’ ‘l dissi mai e Eu m’escondich di Bertran de
Born233. L’analisi comparativa dello studioso si è però scontrata con la polemica
sull’autonomia e la specificità della lirica petrarchesca, e in particolare con le censure
dello Zingarelli234. Quest’ultimo riteneva che l’escondich non fosse nemmeno un genere
vero e proprio, perché come tale è segnalato solo molto tardi, nelle Leys d’amor, dunque
in una fase in cui – lo si è visto – una classificazione più puntuale diviene essenziale
229
Galvani 1829.
Di tale testo di Bertran de Born, in riferimento alla possibile imitazione petrarchesca, si è già in parte
trattato nel corso del precedente capitolo. In questa sede tratteremo in particolare il recupero del genere e
del concetto che ne è alla base all’interno del Canzoniere, al di là di un’eventuale diretta connessione con
Eu m’escondich.
231
Sulla tradizione del genere, si veda l’efficace sintesi in Santagata 1996, pp. 880: non solo prima ma
anche dopo l’esempio di Bertran i riferimenti utili sono pochissimi. Restano due esemplari legati al
Concistori e a Tolosa: l’anonimo S’eu ho dixo (con struttura anaforica affine a quella petrarchesca e di cui
non è chiara l’origine linguistica) e il catalano Molt es de vetz di Lioreç Mallol (anche qui si nota
l’anafora anche se non dell’incipit). Da tali testi o per lo meno dal loro ambiente è derivata un’esigua
tradizione galega.
232
Per la struttura metrica e il riferimento trobadorico che essa media, si veda il primo capitolo, nonché le
analisi in Fubini 1970 e Pulsoni 1998, p. 47 segg.
233
Nel primo capitolo si è fatto particolare riferimento alle riflessioni di Martin de Riquer 1951-1952 e
Suitner 20052.
234
Zingarelli 1935, in particolare p. 118.
230
120
anche per forme consuete e tradizionali. Inoltre il rapporto tra i due autori gli pareva
limitato al solo tema di partenza e dunque alla struttura più esteriore e generale. La
natura degli “scongiuri”, cioè la sostanza del discorso amoroso, secondo Zingarelli
apparirebbe invece ben diversa, poiché caratteristica del singolo poeta e del suo
contesto. La forza di Petrarca risiederebbe, per lo studioso, nell’aver guardato
all’antichità latina, nell’impressione di armonia classica che il poeta impone al suo
lamento, a fronte della convenzionalità che domina invece nell’opera di Bertran de
Born.
Già Mazzoni235 aveva sostenuto posizioni simili, benché in modo meno veemente. Egli
aveva insistito soprattutto sulle ammissioni dello stesso Galvani rispetto all’autonomia e
alla marcata rielaborazione personale dimostrate da Petrarca nei confronti del modello.
In effetti era stato proprio Galvani a sottolineare per primo la differenza tra il trovatore,
focalizzato su una prospettiva feudale e guerresca236, e il poeta aretino, che su di sé
invoca conseguenze intellettuali e cognitive, le quali rappresentano per lui il peggior
danno possibile.
I problemi essenziali proposti dal testo petrarchesco sono in definitiva due: la natura
dell’ipotetica colpa e il rapporto effettivo con la tradizione trobadorica.
Per quanto concerne l’interpretazione dell’accusa, la critica ha considerato due possibili
letture237: una dichiarazione d’amore per un’altra donna oppure l’espressione di desideri
carnali nei confronti di Laura238. Secondo Mazzoni non può trattarsi di un tradimento
nei confronti di quest’ultima, nemmeno con una donna “schermo”. Lo stesso sdegno
dell’innamorato, colpito nell’onore239, sarebbe una prova del fatto che si parla piuttosto
di un’eccessiva prospettiva sensuale240. Un altro indizio potrebbe essere colto
nell’immagine finale: i due amanti che si involano verso il cielo nel carro di Elia
suggeriscono una prospettiva pura e spirituale, su cui Petrarca avrebbe insistito per
controbattere le indegne insinuazioni di cui era vittima241.
Tale posizione è stata di recente approfondita da Claudia Berra242. Un primo elemento
significativo è la citazione dalla Genesi nel congedo (vv 55-56), dove è richiamato il
lungo sacrificio di Giacobbe, volto al matrimonio con Rachele (abitualmente associata
235
Mazzoni 1930.
Su tale aspetto è tornato Perugi 19901, che inoltre ha insistito sul recupero da parte di Bertran della
tradizione del plazer.
237
Per la bibliografia completa si veda Bettarini 2005, pp. 950-951.
238
È questa la posizione oggi vulgata: essa risale all’interpretazione del Castelvetro ed è divenuta
canonica attraverso l’accettazione nel commento Carducci-Ferrari. È ancora la lettura predominante,
come testimoniano i commenti più recenti: Fenzi, Santagata, Dotti, Vecchi Galli. Posizioni distinte e
autonome, riferite all’allegoria della Sapienza e all’amore per essa, hanno espresso sia Bettarini sia
Stroppa. Per la bibliografia si veda Berra 2013.
239
La forza espressiva del componimento è notevole e deve molto anche all’esempio petroso di Dante.
240
Mazzoni 1930 suggerisce per altro che il Canzoniere presenti altri indizi in tal senso rispetto
all’atteggiamento troppo “fisico” del drudo.
241
La convinzione espressa da Mazzoni 1930 era già stata esposta da Moschetti 1908, e risaliva al
commento cinquecentesco del Fausto.
242
Berra 2013.
236
121
alla vita contemplativa e quindi spirituale), e non con Lia (la vita attiva)243. Ancor più
efficace l’osservazione della serie di testi in cui 206 è inserito. In 205, Petrarca afferma
di aver detto a Laura “Tu sola mi piaci” (v 8). Nella finzione della storia,
un’interpretazione letterale del verso potrebbe aver portato al poeta l’accusa di essersi
rivolto in modo troppo esplicito e perciò inadeguato all’amata244. Possiamo aggiungere
che il divieto non solo di esprimere esplicitamente i sentimenti, ma in particolare di
confidarsi con la dama, descrivendole il proprio stato d’animo o le proprie sofferenze è
un topos diffusissimo in ambito trobadorico. Il divieto assume l’intensità di una vera e
propria legge, considerati i rimproveri cui i poeti talvolta si espongono per averlo
infranto245. “Il poeta parla in realtà solo con se stesso”: nessun limite è stato valicato, se
non nella possibile percezione dei lettori, una volta che i fragmenta sono stati
pubblicati. Da qui le scuse su cui si concentra 206. Tale interpretazione, infine, ha il
valore di evitare ogni possibile contraddizione con le dichiarazioni di fedeltà in 203205.
Un’osservazione intertestuale su scala più ampia permette una breve integrazione. Dopo
la morte di Laura, il poeta lamenta che il rapporto amoroso sia stato interrotto proprio
quando si avviava ad una svolta felice, garantita dai desideri ormai casti dell’innamorato
maturo e dalla conseguente fiducia dell’amata246. È vero che nella seconda parte del
Canzoniere Petrarca tende a rileggere alcuni aspetti e problemi della propria vicenda
secondo una prospettiva rinnovata, estranea alla parte “in vita”, come quando afferma la
gioia perduta delle pene sentimentali. Tuttavia, una struttura (e quindi una narrazione)
coesa quale quella della raccolta favorisce l’impressione di coerenza tra i due momenti:
le scuse di 206 e l’atteggiamento più aperto dell’amata. Laura pensa che il poeta si sia
comportato indegnamente e gli toglie il suo sostegno (205-207); il poeta si scusa (206) e
le scuse risultano efficaci; l’amata comincia a fidarsi, le speranze dell’innamorato si
fanno più concrete, ma improvvisamente lei muore. Il poeta rimpiange non solo l’amata
defunta, ma anche l’occasione perduta (315-317).
Un ultimo dettaglio interessante si riscontra nella ballata 11. Il concetto fondamentale è
topico e trobadorico: la dama non deve sapere quanto il poeta l’ami o soffra per lei, non
c’è spazio per alcuna confidenza. Laura però ha scoperto i sentimenti del suo amante e
gli nega la vista del suo viso247. Benché in forma ben più breve e in tono minore, si nota
243
Genesi 29, 25. Il passo va interpretato come affermazione di un amore puro e disinteressato, non volto
ad una ricompensa materiale. Il riferimento a Giacobbe coinvolge anche la questione del servitium
amoris: su tale aspetto si tornerà in seguito, ma per ciò che concerne in particolare l’interpretazione di
206, si veda Berra 2013.
244
Berra 2013.
245
In quanto immagine topica, se ne tratterà con maggiore ampiezza nel capitolo successivo.
246
I componimenti più espliciti in tal senso sono forse 315, 324 e 334, ma il medesimo concetto si coglie
anche in 316, 317 e 362. Per altro già nella prima sezione Petrarca aveva anticipato tale idea,
immaginando la propria vecchiaia nel sonetto 12 (per la connessione tra 12 e il gruppo 315-317 si veda
anche Santagata 1996, p. 57) e ipotizzando un’evoluzione del sentimento verso forme più posate in 122.
247
La rappresentazione petrarchesca nel fragmentum 11 risente forse anche della Vita nova, laddove egli
lamenta la perdita di ciò che lo mantiene in vita, com’era per Dante il saluto. Tuttavia gli elementi
relazionali appaiono diversi, poiché Beatrice non punisce il fatto di essere amata; in una logica salvifica
ciò costituisce, anzi, una prospettiva positiva, poiché consente di seguire un modello salutare, come
chiarisce la stessa Beatrice nell’Eden, rimproverando Dante per il suo sviamento. Infatti, già nel libello
122
qui una dinamica simile a quella sottesa a 206: l’eccesso del poeta comporta un
allontanamento da parte dell’amata.
Sulla questione di 206 si era soffermato in precedenza Perugi248 che della canzone (o
tecnicamente, il sirventese) ha evidenziato due rilevanti problemi interpretativi, sul
piano metrico249 e su quello storico-letterario. L’impostazione del testo è profondamente
influenzata dal tema principale. L’elemento concettuale di fondo (l’ipotetica e implicita
accusa) è ripetuto con notevole insistenza grazie alla successione delle anafore. La
formula d’apertura “s’i’ ‘l dissi” torna tre volte nella fronte delle prime quattro strofe,
sempre in apertura di verso, la quinta stanza inverte la polarità con un rilevato “ma” cui
fa seguito la formula “s’io nol dissi”, che torna variata in apertura della strofa
successiva (“I’ nol dissi”, eliminando l’elemento ipotetico). L’anafora mette perciò in
rilievo il modulo tipico del genere, che non a caso caratterizzava anche Eu m’escondich.
Per il resto, i due testi divergono profondamente; di conseguenza Perugi ha ipotizzato
che Petrarca abbia letto altri esempi del genere, oggi perduti, forse legati alla tradizione
catalana e poi galega. Petrarca potrebbe essere stato dapprima influenzato dall’ambiente
tolosano e dal risveglio che qui aveva avuto la cultura cortese: i passi indicati nelle Leys
potrebbero essere illuminanti rispetto alle sue letture, considerando che i documenti
allora disponibili potrebbero essere stati più numerosi di quanto non siano oggi. Tali
testimoni potrebbero aver addirittura favorito per Petrarca il desiderio di approfondire le
proprie conoscenze sulla produzione dell’epoca aurea: in primo luogo Arnaut Daniel e i
suoi insegnamenti metrici, secondariamente Bertran de Born. La scoperta del suo
sirventese avrebbe così rivelato a Petrarca l’appartenenza del genere escondich al
mondo cortigiano, ben prima che i poeti del Concistori lo riconducessero, insieme a
tutta l’eredità cortese, all’orizzonte borghese250. Il problema fondamentale di tali
ricostruzioni filologiche consiste nelle insufficienti informazioni sulla datazione; la
medesima questione impedisce per altro di chiarire l’effettivo rapporto tra gli escondich
più tardi e la produzione del Concistori. Non è possibile, perciò, affermare se siano
anteriori gli ultimi esemplari provenzali o l’esperimento petrarchesco, e Perugi
propende in sostanza per una spiegazione poligenetica251.
Lo stato della tradizione impone dunque un limite invalicabile al riconoscimento di
modelli specifici per la canzone 206, benché la scelta di recuperare il genere sia
indubbia. Tuttavia, la questione può essere affrontata secondo un diverso punto di vista:
Dante scontava l’apparente distrazione per altre donne (le donne-schermo) e la sua (falsa) incostanza. Sul
rifiuto dell’amore del vassallo da parte della dama ci siamo già soffermati nel corso del presente capitolo.
248
Perugi 19901.
249
Per cui si rimanda a Fubini 1970, a Perugi 1998 e alla sintesi nel primo capitolo, dove si è anticipata
anche la posizione dello stesso Perugi.
250
I riferimenti che arricchiscono il testo petrarchesco sono comunque molto più numerosi: Dante, Stil
Novo e poeti siculo-toscani, tradizione biblica (Rachele e il carro d’Elia). Bisogna poi considerare le
connessioni interne al Canzoniere, in particolare con 204 ma anche con 366, di cui sono anticipati alcuni
spunti. In questa sede ci interessano soprattutto i richiami alla tradizione trobadorica, che comprendono
anche diffuse immagini topiche su cui ci sarà occasione di tornare nel capitolo successivo.
251
La medesima conclusione era stata sostenuta da Martin de Riquer, che ha studiato in particolare le
opere di Llorenç Mallol e un secondo escondich anonimo. Per tali riferimenti si vedano Suitner 20052 e
Bettarini 2005, pp. 949-950, dove è proposto anche un interessante riferimento al salmo CVIII, le cui
imprecazioni potrebbero aver rappresentato un’ispirazione o almeno una giustificazione per il genere.
123
poiché non è possibile confrontare esempi estesi ed autonomi di escondich, bisognerà
accontentarsi di cogliere riflessi della medesima struttura logica in seno a componimenti
più ampi. Infatti, è piuttosto diffuso tra i trovatori il modulo sintattico “se facessi
questo… mi dovrebbe accadere quello”, con valore di giuramento rispetto al
comportamento corretto dell’amante, opposto cioè a quello descritto nell’ipotesi. La
promessa è evidenziata dalla frequente associazione tra l’applicazione della punizione e
il ruolo di Dio, che appare quindi implicitamente in veste di garante252.
Qualche occorrenza può essere indicativa. Raimbaut d’Aurenga usa tale soluzione in
diversi componimenti, ad esempio in Una chansoneta fera, vv 19-22: “S’ieu quie als,
tostens n’azir! / Dieus en ira m met’ab ela / o m fassa que be m tanh pendre / per la gola
d’una sima”. È molto simile il caso di Ar m’er tal un vers a faire (vv 73-77),
significativo soprattutto per la rappresentazione della dama adirata col poeta per una
colpa che lui non si riconosce, ma per cui le chiede comunque perdono253. Ancor più
esplicite le sciagure evocate da Arnaut Daniel254 in En breu brisara l temps braus, dove
giura fedeltà alla dama a scapito dei propri occhi255. Generica ma non meno espressiva
la morte invocata da Bernart de Ventadorn in caso non fosse vero che egli ama
profondamente la dama: “No n dic laus, mas mortz mi venha / s’eu no l’am de tot mo
sen” (Amors, enquera us preyara, vv 40-41). Daude de Pradas è pronto a rinunciare ad
ogni amore cortese, se dovesse opporre un diniego alla dama256; molto simile l’augurio
dell’autore anonimo di Per fin’amor ses enjan, mentre giura fedeltà all’amata (vv 1316). La struttura è poi molto frequente in Giraut de Bornelh257 e Raimon de Miravall258:
di nuovo si alternano immagini più tenui, quando i poeti si augurano solo sofferenze di
carattere amoroso, a rappresentazioni ben più macabre259.
La differenza fondamentale rispetto all’atto di “escondicere” in senso stretto concerne il
tempo del verbo, per lo più rivolto al presente e al futuro prossimo: non si tratta di una
252
A Dio si rivolge anche Peire Vidal nella seconda strofa di Per ces dei una chanso, chiedendo di non
esserne perdonato se la dama non è davvero la più bella: qui dunque la questione si limita ad una lode
iperbolica. Situazione simile si propone anche in De trobar ai tot saber di Raimon de Miravall.
253
Il poeta dunque non prova realmente a scusarsi, ma si piega alle parole dell’amata, con esito nel
complesso diverso da quello previsto dal genere escondich.
254
Altri luoghi suonano meno brutali: il poeta rinuncerà alle attenzioni della dama se mente in Er vei
vermeills, vertz, blaus, blancs, gruocs (vv 17-18); rinuncia alle altre donne se Amore gli conquista il
favore della dama in Amors e jois e liocs e tems (vv 15-16), dove appunto il poeta si rivolge direttamente
al dio); perderà voce e parola prima di dire qualcosa che offenda la dama in Sols sui qui sai lo sobrafan
que m sortz (vv 41-42).
255
“E traga m ams los huoills crancs / s’a lieis vezer no ls estuich” (vv 42-43).
256
Ben ay’ amors, quar anc me fes chauzir, vv 15-16.
257
M’amiga m men’estra lei (in un contesto in cui la dama continua ad accusare il poeta, il quale
dapprima si dichiara innocente e poi accetta l’accusa in quanto l’amata non può mai sbagliare); Gen
m’aten (dove si parla di impiccagione); Alegrar mi volgr’en chantan; Razon e luec; No m platz chanz de
rossignol; Quar non ai.
258
Qui bona chansso cossira (ma il giuramento è nella tornada e non è quindi legato direttamente alla
tematica amorosa); Era m’agr’ops que m’aizis; Amors me fai chantar et esbaudir; Tals vai mon chan
enqueren.
259
Qualche altro esempio: Guiraut Riquier, Anc non aiguj nulh temps de far chanso; Joifré de Foixà, Be
m’a lonc temps menat a guiza d’aura (che Petrarca conobbe certamente, poiché è il modello della
canzone “a citazioni” per Lasso me; Berenguer de Palou, S’ieu sabi’aver guiardo; Bonifaci de Castellana,
Sitot no m’es fort gaya la sazos.
124
scusa vera e propria, quanto di un modo per anticipare ed evitare l’accusa stessa (e al
contempo di corteggiare con efficacia la dama), in una sorta di promessa. In Petrarca
questa modalità non trova spazio: il rapporto con Laura non arriva ad essere tale da
giustificare promesse per una relazione stabile. Tuttavia egli poteva ricavare dal corpus
trobadorico un’impressione complessiva rispetto all’atteggiamento subordinato e
supplice dell’amante, di cui il genere dell’escondich è esempio particolarmente
evidente. Che prevenga o cerchi di rimediare all’accusa, il drudo appare comunque in
balia della dama, il cui giudizio lo domina senza pietà. Ed è questo in sostanza il
significato del riuso petrarchesco del genere escondich nella canzone 206, in una serie
di testi in cui il poeta insiste sulla propria dedizione (203-205), presenta le difficoltà del
proprio stato (205), si propone di autoinfliggersi le pene più terribili, pur di
riconquistare la fiducia di Laura (206) e infine si dispera per la sua ira (207). S’i’ l’ dissi
mai dà pieno sviluppo all’immagine convenzionale dell’amante-servo, spossessato di se
stesso, addirittura alienato, pronto ad anteporre ogni volontà e bisogno dell’amata ai
propri260. Per tale motivo potrebbe essere significativa la scelta di non esplicitare la
colpa. Certo, il lettore poteva trovare una spiegazione nel testo precedente, chiarendo
così il valore del complemento oggetto in “l’ dissi”261. Tuttavia 206 si focalizza su un
altro aspetto: la remissività del poeta-amante. Lo scarso rilievo qui attribuito alla colpa
in sé – appunto mai esplicitata – e al contrario l’insistenza sull’ingiustizia dell’accusa in
genere evidenziano con maggior energia il carattere sbilanciato della relazione amorosa.
Una breve nota conclusiva. All’escondich di Bertran de Born e alle testimonianze del
genere può essere affiancato un testo di Gausbert de Poicibot, S’ieu anc jorn dis
clamans. Il trovatore, originario del Limosino o del Périgord, è vissuto nella prima metà
del Duecento: benché non si tratti di un esponente delle prime generazioni, la sua
produzione è ben anteriore a quella del Concistori e riconduce ancora alla grande
stagione della tradizione occitanica. La canzone non è rivolta alla dama, ma ad Amore e
la colpa sembra effettivamente commessa, ragion per cui non è forse opportuno parlare
di escondich in senso stretto; tuttavia il discorso è strutturato come proposta di scuse.
Due sono gli elementi più interessanti. In primo luogo, per quanto il poeta non attiri su
di sé una sequela di sfortune, l’atteggiamento è il medesimo che si è descritto per le
promesse trobadoriche e per la preghiera petrarchesca: umiltà e sottomissione.
Secondariamente, la colpa che ha commesso il trovatore concerne la parola, esattamente
260
Su tale tema si tornerà ampiamente analizzando le immagini topiche di origine trobadorica accolte nel
Canzoniere; per l’analisi di 206 rispetto allo stato dell’io poetico si veda Berra 2013.
261
Si accoglie qui l’interpretazione relativa alla natura del desiderio petrarchesco. La presenza di altre
figure femminili è accuratamente negata nel Canzoniere, come si è visto anche in merito a 270 e 271, o
ancora nel caso di testi anteriori alla raccolta e rifunzionalizzati per esservi inseriti: un tradimento a
questo punto, per quanto solo ipotetico, appare quasi un elemento estraneo, incoerente rispetto ad uno dei
nuclei più forti nei fragmenta. L’unico elemento a favore dell’interpretazione vulgata potrebbe essere il
parallelismo con la Vita nova dantesca, dove l’attenzione di Dante per le donne-schermo fa adirare
Beatrice, che gli toglie il saluto, così come Petrarca dice di aver perso il benevolo aiuto di Laura (207).
125
come quella, smentita, di Petrarca nei confronti di Laura262: Gausbert ha criticato Amore
e si è lamentato del suo giogo (spinto per altro non dalla propria insubordinata volontà,
ma dalla sua signora, una “regina Elinor” non meglio precisata)263. A livello stilistico, la
seconda sede in ogni strofa è riservata alla parola-rima “Amors”, che torna dunque
lungo tutto il testo, ad esclusione dell’ultima stanza e della tornada, poiché qui l’autore
passa alla tematica civile. Si notano perciò vari elementi che potrebbero aver offerto a
Petrarca ulteriori suggestioni per la composizione di 206.
5. Descrizione stagionale ed elementi pastorali
La poesia occitanica offre ben poche descrizioni naturalistiche. Lo spazio in cui si
muovono amante e cavaliere appare sfumato e indefinito264, sia che l’attenzione sia
focalizzata sulle armi, i cavalli e gli stendardi che identificano il campo di battaglia, sia
che il poeta immagini i luoghi ameni dell’amore. Per quanto concerne in particolare le
canzoni, l’ambientazione può essere delineata secondo tre prospettive principali: il
verziere, la stagione, la campagna. A prescindere però dal tipo di rappresentazione,
compreso il terzo, più realistico, la situazione è affermata più che descritta, attraverso
alcuni tratti convenzionali ed evocativi. Con “verziere” (e spesso solo attraverso il
termine tecnico) si intende un hortus conclusus, versione romanza del classico locus
amoenus. Si parla spesso di erba, fiori o sole, ma la definizione in sé è sufficiente, anche
perché rimanda ad una tradizione ben affermata. Lo stesso vale per la stagione: benché i
trovatori distinguano talvolta l’estate dalla primavera e (ancor più di rado) l’autunno
dall’inverno, i dettagli naturali pertengono semplicemente alla “bella” o alla “brutta”
stagione. Temperatura, vento o brezza, canto degli uccelli (a volte un uccello in
particolare), colore di rami e foglie: con poche pennellate il quadro è sufficiente per
introdurre la vicenda, secondo una tipologia di incipit celebre e topica. Infine, perché la
campagna sia tale, basta che risulti opposta alla città: uno spazio aperto, di solito
primaverile, contraddistinto per lo più da un corso d’acqua, riconoscibile grazie alla
tipologia degli spostamenti (il poeta è a cavallo) e alle attività dei personaggi
(agricoltura e pastorizia)265.
Per quanto stilizzate, tali indicazioni sono sufficienti ad indentificare una specifica
situazione, e proprio perché altamente tipizzate hanno un ruolo significativo come
262
E più in particolare la presunzione di dire più di quanto sia lecito. Come si è visto la medesima colpa
era già proposta come ipotesi (e negata) nel giuramento di Arnaut Daniel alla dama in Sols sui qui sai lo
sobrafan que m sortz.
263
Lo si nota già dall’incipit: “S’ieu anc jorn dis clamans / encontra vos, Amors, / orguoill ni desonors, /
ara m dei e mos chans / humiliar dos tans / e laissar mas clamors” (vv 1-7).
264
Tali caratteristiche distinguono per altro anche la produzione italiana delle origini, e in particolare le
sue manifestazioni meno votate al realismo della rappresentazione amorosa: prima la Scuola siciliana, poi
(e soprattutto) lo Stil Novo.
265
Tale ambientazione ha una duplice funzione. Poiché chiarisce che la scena non ha luogo né in città né
in un castello, è da subito evidente che la rappresentazione non avrà un’intonazione cortese; inoltre, la
natura aperta e selvatica implica immediatamente un fattore sensuale, fondamentale per la definizione del
genere. Il concetto sarà ripreso ed approfondito nel corso del presente paragrafo. Picone 1979, pp. 83-87
sottolinea inoltre lo sviamento che lo spazio campestre suggerisce, in chiave metaforica, rispetto al
percorso di perfezionamento interiore rappresentato dalla fin’amor.
126
marca di genere. Un avvio stagionale o una contestualizzazione amena pertengono alle
grandi canzoni cortesi266, mentre la scena campestre adatta memorie bucoliche al genere
più basso della pastorella.
Simili elementi si riscontrano anche nel Canzoniere, rifunzionalizzati e trasformati. La
trasfigurazione petrarchesca comporta in primo luogo il riferimento ad altre fonti oltre a
quelle trobadoriche; cambia, inoltre, il rapporto tra le strutture espressive, la loro
collocazione e l’inserimento di dettagli naturalistici; infine, il genere della pastorella267
non può essere mutuato in sé e per sé, perché eccessivamente connotato in chiave
erotica268. Rispetto alle immagini naturali i modelli essenziali per Petrarca sono classici,
sia nella descrizione, che non a caso qui è ben più ampia che nelle opere provenzali, sia
nei riferimenti mitologici che possono esserle associate269. Virgilio e Ovidio sono gli
autori fondamentali in proposito; a Virgilio in particolare rimanda anche la tradizione
delle rappresentazioni bucolico-pastorali, che facilmente si sovrappone all’influenza
delle pastorelle occitaniche: si pensi a componimenti quali la sestina 22, la canzone 50 o
i sonetti 310-311.
Ciò non toglie che il contatto con gli antecedenti trobadorici sia significativo,
localizzandosi sia nella rappresentazione stagionale, soprattutto in apertura del testo, sia
nel contrasto tra stato della natura e sentimenti del poeta270, sia nell’enumerazione degli
elementi paesaggistici, secondo una struttura tipica non solo delle descrizioni
naturalistiche, ma anche del genere provenzale del plazer271. La primavera sboccia, ad
esempio, nel sonetto 310, annoverando vari dettagli nel corso delle quartine:
Zephiro torna, e ‘l bel tempo rimena
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
et primavera candida et vermiglia.
Ridono i prati, e ‘l ciel si rasserena;
Giove s’allegra di mirar sua figlia;
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;
ogni animal d’amar si riconsiglia (vv 1-8).
266
Un esempio rappresentativo si trova in Non puesc sofrir c’a la dolor di Giraut de Bornelh, ma le
occorrenze sono numerosissime. Si possono ricordare in quanto casi peculiari, benché non del tutto
isolati, Al nou doutz termini blanc di Bertran de Born e Bel m’es qan li rana chanta di Marcabru: nel
primo componimento alla rappresentazione naturalistica fa seguito una narrazione militare, nel secondo
una riflessione morale.
267
Tale genere era già stato riscoperto nella tradizione poetica italiana, in particolare da Cavalcanti, per
cui si veda Picone 1979, pp. 87-92.
268
La vicenda tipica comporta un incontro tra il poeta-cavaliere che sta viaggiando e una giovane pastora
al lavoro. A prescindere dai dettagli preferiti da ciascun trovatore, il fuoco della narrazione è sul dialogo,
in cui il personaggio maschile cerca di sedurre la fanciulla, che può reagire positivamente, negativamente
(e spesso ne deriva un vero e proprio abuso) oppure negativamente in un primo momento, per poi
cambiare idea in modo repentino.
269
La ricchezza dei rimandi nelle edizioni commentate (si fa qui particolare riferimento a Santagata 1996
e Bettarini 2005) è piuttosto esplicita in tal senso.
270
Tale aspetto, con specifico riferimento all’uso di formule e concetti convenzionali, sarà ripreso nel
corso del capitolo successivo.
271
O piuttosto dell’enueg, dato lo stato d’animo luttuoso del poeta. Se ne riparlerà a breve.
127
Simile incipit non sfigurerebbe di certo come prima strofa di una canzone d’amore, e lo
stesso potrebbe dirsi del lamento che segue. Il poeta infatti non condivide la rinascita
della terra, ma anzi sospira (Laura è morta) e nel mondo i suoi occhi non vedono che
disperazione. L’opposizione è perfettamente convenzionale e come esaltata dalla
chiusura dovuta alla forma metrica breve. È un aspetto, quello metrico, che andrebbe
forse considerato meglio: evitare la lunghezza della canzone enuclea il tema e lo pone in
evidenza, e insieme interrompe il topos prima che diventi ripetitivo. Lo stesso si
potrebbe pensare per 301, dove l’elenco degli elementi e l’espressione dello stato
d’animo funzionano appieno nella misura dei quattordici versi. La riflessione trova una
maggiore estensione nella successione di testi autonomi, determinando anche uno
spostamento di prospettiva utile ai fini della variatio e della progressione del discorso.
Lo si nota in 303, che riprende il motivo di 301 dopo la pausa più serena di 302 (una
visione di Laura-spirito), questa volta rivolgendosi in apostrofe ad Amore. Il medesimo
significato si può attribuire a 311: il quadro primaverile di 310 resta nella presenza
dell’usignolo, ma ora la natura condivide il pianto del poeta. D’altronde anche la
consonanza di contesto ed emozioni è una possibilità topica presso i trovatori, nel bene
o nel male272.
La medesima struttura comparativa si trova anche in due testi lunghi della prima
sezione, i già citati fragmenta 22 e 50. Il perno della composizione risiede qui nel
contrasto tra la disperazione senza tregua del poeta e i ritmi normali degli altri, uomini e
animali, che possono anche soffrire e faticare di giorno, ma riposano di notte. Lo spunto
dunque non è nuovo, anzi, e ben si accorda, nella sestina, alle altre suggestioni cortesi.
Tuttavia, la resa della vita quotidiana presenta tratti di concretezza e dettagli che hanno
ben poco in comune con le occorrenze occitaniche: l’effetto di novità è percepibile
soprattutto nella canzone 50, dove non a caso abbondano gli echi virgiliani.
Appare invece più affine a 301, 303 e 310, pur nell’intonazione molto più lieve e serena,
il famoso incipit di Chiare, fresche et dolci acque, anticipato per altro dalle ultime due
strofe della precedente canzone 125. Petrarca vi tratteggia infatti una natura amena e
sfumata, un’atmosfera onirica, che ben si accordano all’apparizione disincarnata di
Laura, tanto nel ricordo, quanto nell’immaginazione di un possibile futuro. La prima
stanza per altro si propone come un elenco di enti naturali (acque, ramo, erba e fiori,
aria), mutuando e insieme rinnovando strutture ben attestate.
272
Un altro esempio petrarchesco di incipit stagionale si trova nel sonetto 219 (vv 1-4), dove però il
parallelo – qui per analogia – non è con lo stato del poeta, ma con la bellezza di Aurora, resa non a caso
attraverso una serie di metafore naturalistiche (la neve del volto, l’oro dei capelli), topos di solito
utilizzato per l’elogio della bellezza dell’amata (se ne riparlerà nel capitolo successivo). Tuttavia tale
occorrenza è particolarmente significativa per l’esplicito gallicismo del v 2, che rimanda a puntuali
modelli provenzali (Santagata 1996, p. 932): “Il cantar novo e ‘l pianger delli augelli / in sul dì fanno
retentir le valli, / e ‘l mormorar de’ liquidi cristalli / giù per lucidi, freschi rivi et snelli”. Un effetto simile
si coglie anche nell’avvio del sonetto 223, che evoca il tramonto e il discendere delle tenebre. Qui non si
tratta di un’immagine stagionale, quanto della contrapposizione tra poeta tormentato giorno e notte e
ritmo normale degli esseri viventi; tuttavia Petrarca recupera la lezione trobadorica, come suggerisce il
predicato “imbruna” che rimanda all’occitanico “brunezir”.
Tali aspetti saranno ripresi, secondo prospettive diverse, nel corso del capitolo successivo.
128
Il valore di 126 rispetto al riuso petrarchesco della tradizione è in effetti rilevante; la
natura, infatti, vi perde lo statuto di semplice contesto. Per il poeta sofferente, gli
elementi del paesaggio divengono interlocutori, oggetto di sfogo emotivo, testimoni del
suo stato e dei suoi desideri273. I versi 12-13 lo indicano chiaramente: “date udienzia
insieme / a le dolenti mie parole extreme”. E la morte, che egli avverte prossima, dona
alla sua allocuzione maggior significato. I sonetti 301 e 302 ripropongono una dinamica
equivalente. Nel primo, la valle è piena “de’ lamenti miei” (v 1), il fiume “del mio
pianger cresc[e]” (v 2); dunque essi ascoltano il poeta nel tormento e a loro si rivolge in
forma diretta la sua confidenza. D’altronde quegli stessi luoghi erano stati teatro delle
dolci sofferenze amorose: luoghi che erano piaciuti all’amante (v 7), che li riconosce
uguali al passato (v 9), dove vedeva l’oggetto del suo amore (v 12) e in memoria del
quale egli vi continua a tornare. In 302 si ritrova la medesima apostrofe, il medesimo
elenco, la medesima funzione di un paesaggio un tempo luogo di delizie e ora di lutto.
Per altro già nel sonetto 35 si era delineata la stessa correlazione tra poeta e spazio
naturale, quando ancora le sofferenze erano quelle dell’amante: “sì ch’io mi credo omai
che monti et piagge / et fiumi et selve sappian di che tempre / sia la mia vita, ch’è celata
altrui” (vv 9-11). Sono affini, di nuovo, i due versi finali del sonetto 162: “Non fia in
voi scoglio omai che per costume / d’arder co la mia fiamma non impari”. Non c’è
dubbio che in Petrarca la descrizione naturalistica contribuisca alla definizione dell’io,
ed abbia perciò un ruolo specifico nel Canzoniere.
La stessa canzone 126 però suggerisce un altro aspetto del recupero trobadorico operato
in Petrarca, e precisamente rispetto al genere della pastorella. Un primo contatto, in
realtà, si coglie già nel madrigale 52: “[…] la pastorella alpestra et cruda / posta a
bagnar un leggiadretto velo, / ch’a l’aura il vago et biondo capel chiuda” (vv 4-6). In un
panorama che si immagina selvatico (le acque del verso 3 sono “gelide” e la giovane è
descritta come rustica) il poeta può godere di un’improvvisa visione muliebre, che lo fa
tremare d’amore a dispetto della canicola. Non importa che l’apertura sia classica, nel
segno del mito di Diana ed Atteone274; il modello è certamente la pastorella francoprovenzale275; se non bastasse la definizione della fanciulla come “pastorella”, si notino
anche la presenza convenzionale del corso d’acqua, la brezza che fa pensare alla bella
stagione, il quadro non urbano, la tipologia femminile con cui eccezionalmente viene
273
Sul ruolo della natura “personaggio” più che “paesaggio”, in relazione anche al tema della solitudine e
alla sua evoluzione nel passaggio dalla sezione “in vita” a quella “in morte”, si veda anche Cherchi 2008,
pp. 132 segg. e 142-143.
274
Per il recupero di questo mito si vedano Chines 2010, pp. 38 segg e soprattutto 43-54 (questa analisi è
dedicata in particolare ai luoghi petrarcheschi) e Vanacker 2009, dove questo ed altri miti venatori sono
analizzati nella loro evoluzione a partire dall’antichità. Alle occorrenze petrarchesche (canzone 23,
madrigale 52 e sonetto 190) sono dedicate le pp. 125-140, dove sono indicati ulteriori riferimenti
bibliografici utili. In particolare è interessante notare l’evoluzione dell’immagine nel Canzoniere:
dapprima la trasformazione, di stampo ovidiano, si abbatte sul poeta colpevole, poi la cerva è l’amata,
passaggio che sembra cancellare ogni elemento sensuale, spostando l’attenzione sulla dimensione
spirituale. Il madrigale 52, che riconfermava la componente erotica già propria del voyerismo di 23,
presenta invece una versione semplificata, in cui si staglia l’immagine della bagnante.
275
Così ad esempio Santagata 1996, p. 270, che evidenzia la canonica correlazione tra simili suggestioni e
forma del madrigale. Sulla questione si tornerà nel corso del presente paragrafo.
129
identificata Laura276. Un’apparizione molto simile, che suggerisce anche il medesimo
riferimento classico, si trovava ancor prima nella canzone 23277, nel presentare una fase
cruciale dell’esperienza amorosa e delle sue durissime conseguenze: “[…] e quella fera
bella et cruda / in una fonte ignuda / si stava, quando ‘l sol più forte ardea” (vv 149151). Della figura femminile non si dice altro e la sua vendetta (il poeta si trasforma in
un cervo) fa pensare ben più a una Laura-Diana che a una Laura-pastora. Tuttavia, il
contesto è lo stesso, compresa l’ora, e così l’atteggiamento del poeta. Non per niente è
mezzogiorno, il momento di massimo calore, associato alla sensualità. E proprio la
sensualità, lo si è visto, è il tratto precipuo delle pastorelle, che sono distinte in modo
inequivocabile dalle canzoni cortesi proprio per tale aspetto, oltre che per l’identità della
figura femminile.
Tale fattore, per altro già profondamente sublimato, poteva trovare ancora qualche
spazio accanto alle prime sestine, nell’ottica cioè dell’amore giovanile e delle sue
pulsioni. In 126 la prospettiva è, invece, mutata: nel pieno della raccolta, essa è
espressione di un poeta (e di un amante) più maturo – verrebbe da dire, dopo la svolta
delle “canzoni degli occhi”. Il desiderio non sarà mai cancellato, l’amore resta eros e
Laura una donna terrena, è vero; tuttavia ora la bagnante ha una connotazione ben
diversa. Conta di certo che l’immagine sia filtrata in parte dal ricordo e in parte
dall’immaginazione, che portano a definitivo compimento la sublimazione del corpo; lo
stesso si dica per 127 e 129, dove la visione dell’amata nella natura è del tutto mediata
dall’ossessivo pensiero dell’io lirico278. In questi due testi si definisce ancor meglio
l’importanza della natura nel costruire la relazione amorosa e, di riflesso, l’identità
dell’io poetico: essa non è soltanto uno sfondo, un contenitore279.
276
Il madrigale 52 è forse l’esempio più eloquente di composizione anteriore al Canzoniere riadattata per
essere inserita nella raccolta. Anche tale aspetto sarà approfondito in seguito.
277
Più in generale, la canzone 23 è molto ricca di elementi naturalistici, in relazione alla scelte delle
trasformazioni inflitte al poeta e in coerenza con l’ambientazione di 22. Per certi aspetti, inoltre, sia la
peculiarità delle immagini, sia gli spunti naturalistici in cui sono inserite, permettono di collegare anche
23 e 135. Discorso simile vale anche per 323.
278
Un meccanismo psicologico molto simile viene delineato nel sonetto 176. In 225, la rappresentazione è
più ambigua tra realtà di un incontro concreto e percezione alterata della visione, laddove il poeta
descrive l’amata tra le compagne, ma come fossero in trionfo.
279
L’interpretazione del riuso del genere della pastorella è proposta secondo una prospettiva diversa in
Malzacher 2013, benché l’idea dell’impegno poetico onnicomprensivo di Petrarca vi rimanga
fondamentale. Secondo la studiosa, il componimento che meglio riflette l’attenzione di Petrarca alla
pastorella è il sonetto 89, con la sensibile mediazione del sonetto dantesco Cavalcando l’altrier, che a sua
volta rileggeva il genere e lo inseriva nella Vita nova. Alcuni tratti riconoscibili passano in effetti dalla
proposta dantesca a quella petrarchesca: allontanamento dalla dama, momentanea apertura (spaziale e
sentimentale), incontro per via, stato d’animo, lamentela nei confronti di Amore. Tuttavia, si potrebbe
proporre qualche obiezione contro il paragone, rispetto alla natura dell’incontro. Infatti, si tratta di
Amore: se in Dante tale cambiamento dell’interlocutore non impediva la forte influenza della pastorella,
ad esempio per l’immagine del poeta a cavallo o per il sintagma topico “l’altrier”, in Petrarca tutti questi
elementi vengono a mancare. Si ha dunque l’impressione che per 89 il riferimento a Dante sia molto più
pregnante di quello ai trovatori. Per altro, il medesimo sonetto petrarchesco propone una diversa strategia
per richiamare la tradizione cortese, in quanto esso è costruito sull’idea della libertà temporanea e della
prigionia desiderata, concetto trobadorico e in particolare riconducibile ad Aimeric de Peguilhan (si veda
Santagata 1996, p. 440). La connessione con la pastorella in sé e per sé sembra troppo labile, poiché gli
elementi che potrebbero derivarne richiedono, per essere compresi, la mediazione dantesca: appunto tale
collegamento appare significativo di quello di genere. Malzacher 2013, infine, vede i medesimi richiami
130
Piccolo corollario della rappresentazione di Laura nella natura280 è l’idea, per altro
convenzionale, dell’esca o laccio tesi, per far innamorare il poeta: la trappola viene
nascosta nell’erba. La medesima immagine si trova nel madrigale 106, dove Laura è
trasfigurata in angelo281, e nel sonetto 271, dove l’amata è sostituita da una possibile
nuova fiamma, subito spenta. Nel madrigale 54 lo spazio naturale in cui il poeta prima
cade vittima della dama – qui “pellegrina” – e poi si accorge dell’errore si presenta in
modo molto simile. Le corrispondenze metriche e stilistiche di 54 con 52 e 106
precisano l’intreccio di rimandi tra testi amorosi e penitenziali. Tale impressione è
confermata nel sonetto 190282, dove di nuovo è mezzogiorno, di nuovo la natura è
primaverile (“stagione acerba”, v 4), di nuovo è indicato l’elemento acquatico. Torna
anche la caccia, anche se non più attraverso la divina Diana (come in 23 e 52283); la
situazione di 23 è in parte recuperata (il poeta sta cacciando) e in parte ribaltata (qui è
Laura trasfigurata in cerva). E soprattutto si assiste ad una nuova apparizione boschiva:
“Una candida cerva sopra l’erba / verde m’apparve […]” (vv 1-2).
La conclusione del percorso, che dà completezza al riuso fin qui analizzato, si trova
nella seconda sezione del Canzoniere. La morte di Laura, per quanto non ne cambi lo
statuto ontologico di donna terrena, il cui corpo non può essere dimenticato, consente di
giungere al culmine della sua rappresentazione disincarnata. Ella, infatti, riappare in più
occasioni come spirito284 e tali visioni, improvvise e consolatorie, rappresentano un
alle due fonti provenzale e dantesca anche nel sonetto 69, per la situazione del viaggio e l’idea della fuga
da Amore (presente d’altro canto nello stesso sonetto 89). Sarebbe significativa anche la vicinanza a 68,
dove il poeta dibatte interiormente tra tensione trascendente e amore terreno: il legame intertestuale
richiamerebbe la connessione tra genere della pastorella e riflessione sulle diverse realtà amorose –
sensuale o cortese – in area trobadorica. Su tali aspetti della tradizione cortese si tornerà nel corso del
presente paragrafo; si veda intanto Picone 1979. Le posizioni di Malzacher 2013 saranno ulteriormente
approfondite in seguito.
280
Sulla peculiarità delle apparizioni laurane nella natura si è soffermato anche Cherchi 2008, p. 139,
sottolineando come l’immagine dell’amata mescoli la riminiscenza del genere provenzale della pastorella
alla suggestione dantesca e stilnovistica (Matelda e la donna-angelo). Una differenza essenziale tra gli
antecedenti si riscontra proprio nell’identità della dama: una castellana per i trovatori, una cittadina (in
ottica comunale) per gli stilnovisti. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che anche Laura è associata alla
dimensione urbana, in quanto ella abita ad Avignone, con tutti gli spunti critici che ne derivano.
281
Cosicché l’elemento tradizionale e topico del laccio si fonde allo spunto stilnovistico, cui per altro
corrisponde l’immagine di luce nel finale del componimento.
282
L’elemento penitenziale contraddistingue il finale, come in 54: la caduta nell’acqua, anche altrove nel
Canzoniere (sonetti 67-69), simboleggia infatti il risveglio, la presa di coscienza.
283
Capovilla 1998. Lo studioso evidenzia in merito la connessione con il più tardo genere della caccia,
che per molti aspetti deriva dall’evoluzione del madrigale o per lo meno di alcune sue caratteristiche
essenziali. L’insistenza sui medesimi elementi tematici e rappresentativi costituisce, d’altro canto, anche
una strategia per rilevare il legame tra i quattro componimenti, evidenziato inoltre dal loro numero
ridotto, al di là della disposizione nella serie dei fragmenta.
284
Per la seconda sezione vanno ricordati i fragmenta 279, 281, 282, 283, 284, 285, 286, 302, 334, 336
(ma la visione vi rimane implicita), 341, 342, 343. In 340 la visione è momentaneamente negata da Laura,
con somma disperazione del poeta. Inoltre, due testi (250 e 251) anticipano la visione a prima della morte,
arricchendo la rappresentazione del presagio della dipartita. Come sottolinea Malzacher 2013, p. 215,
rifacendosi in particolare ad uno studio di Büdel del 1975, le visioni in senso stretto sono quelle che
avvengono nel panorama valchiusano, registrate nei sonetti 279-281 e in parte fino a 286. Vanno invece
distinti i luoghi in cui si parli più precisamente di sogni. Tuttavia, la maggior parte dei componimenti in
cui Laura riappare dopo la morte non precisano la natura del contatto col poeta; dunque tale rigida
distinzione è poco significativa ai fini interpretativi, come ha sostenuto Baranski in Picone 2007, pp. 617640 e come ammette la stessa Malzacher, a p. 241. Baranski, p. 618 propone tuttavia una definizione fin
131
efficace corollario di quelle in vita285. Tale aspetto è evidente soprattutto nel breve ciclo
279-281: nei tre sonetti infatti l’apparizione di Laura è contestualizzata con precisione
nella natura valchiusana. Si leggano ad esempio i versi 1-4 di 279: “Se lamentar augelli,
o verdi fronde / mover soavemente a l’aura estiva, / o roco mormorar di lucide onde /
s’ode d’una fiorita et fresca riva”, che ripropongono per altro un incipit stagionale. Lo
stesso vale per la prima terzina di 280: “L’acque parlan d’amore, et l’òra e i rami / et gli
augelletti e i pesci e i fiori et l’erba, / tutti inseme pregando ch’i’ sempre ami”, dove è
convenzionale l’associazione tra spazio ameno e primaverile, e stato amoroso286. Infine,
la descrizione paesaggistica di 281 appare meno ricca, ma più diffusa nell’arco del testo:
Laura è “nimpha” o “diva” al v 9, che esce dal “più chiaro fondo di Sorga” (v 10), siede
sulla “riva” (v 11) per poi camminare sull’“erba fresca” e sui fiori (vv 12-13)287.
A proposito del riuso della pastorella è utile menzionare la recente proposta di Alice
Malzacher288. La studiosa, partendo dalla riflessione di Picone sullo sviluppo del genere
in area italiana e in particolare nell’opera dantesca289, identifica un triplice parallelismo
tra trovatori, Dante e Petrarca. In ambito occitanico, il desiderio erotico verso la pastora
rappresenta un’interruzione delle logiche cortesi, dunque una momentanea liberazione
dai vincoli dettati da una dama assente e rigida nelle sue virtù. L’amore di Dante per
Beatrice ben corrisponde a quello fino per la dama; tuttavia il miglioramento che deriva
dalla tensione emotiva, che nei Provenzali ha ancora una valenza esteriore e sociale,
lascia ora spazio al percorso spirituale verso Dio, mediato dalla figura femminile. Le
donne-schermo richiamano in parte la rappresentazione dell’amore carnale, ma il
cambiamento è radicale, poiché le manifestazioni più concrete del rapporto sentimentale
non trovano più posto nella poesia stilnovistica. Secondo Malzacher, in Petrarca il riuso
della pastorella comporta al contrario l’identificazione tra l’amore totalizzante per Laura
e il desiderio per la pastora: Laura cioè non è una dama lontana e virtuosa, ma sensuale
e presente, terrena e quindi legata all’idea del peccato. Tale attrattiva è irresistibile e il
poeta non può fuggire290.
troppo netta di tali momenti del Canzoniere: quelli di Laura non solo non sarebbero “interventi
miracolosi” come quelli di Beatrice, ma inoltre si identificherebbero con emanazioni che riflettono l’io
poetico stesso. Sulla questione si tornerà in seguito.
285
Tra le visioni post mortem vanno annoverate anche quelle figurative di 323, con cui è evocata la morte
di Laura, appunto in forma di trasfigurazione; spesso l’ambientazione è naturalistica.
286
Tanto più interessante in quanto in 280, a differenza dei due sonetti vicini, si avverte maggiormente
l’identità ormai celeste di Laura e di conseguenza un afflato morale-penitenziale.
287
L’ambientazione valchiusana non è più proposta in modo esplicito nei cinque sonetti che seguono;
tuttavia il protrarsi del tema delle apparizioni laurane lascia pensare che anche il paesaggio di riferimento
rimanga implicitamente il medesimo.
288
Malzacher 2013; tale studio è dedicato in realtà al rapporto tra Canzoniere e Vita nova, che viene
approfondito anche in relazione al recupero del genere trobadorico in esame.
289
Picone 1979, pp. 88 segg.
290
È ciò che accade in particolare nei sonetti 69 e 89, che Malzacher 2013 propone in quanto esempio del
riuso della pastorella, pp. 145 segg. È interessante notare che la medesima interpretazione “terrena” e
“sensuale” di Laura viene riproposta in merito alle sue apparizioni post mortem e quindi al valore morale
della consolazione che ne deriva. La studiosa insiste infatti sulla dicotomia tra una Laura ormai assunta in
cielo e l’attaccamento del poeta per ciò che di terreno ne rimane (il ricordo), distinguendo però
nettamente tra i due aspetti, al fine di mettere in luce la differenza tra Petrarca e Dante nella reazione alla
morte dell’amata (pp. 205 segg).
132
Questa interpretazione della figura di Laura, tuttavia, non tiene conto della complessità
che contraddistingue la sua relazione con l’io poetico. Infatti gli elementi di tensione e
attrazione irresistibile sono sì determinanti nella visione laurana, come anche nel
Secretum, ma la responsabilità non appare tanto dell’amata, quanto dell’io e della sua
debolezza nel rifiutare le “catene dorate”. La figura femminile è di per sé più volte
descritta come “fiore” della virtù e, nella seconda sezione, il suo rifiuto è definito come
l’unico rimedio all’inestinguibile volontà erronea del poeta291. Quanto alla mancanza di
un amore spirituale in vista di un sentimento esclusivamente terreno, che
contrapporrebbe Petrarca sia ai trovatori che a Dante, tale affermazione non tiene conto
delle due possibili sfumature d’amore spirituale che, al contrario, sono delineate nella
raccolta. Da una parte va ricordata la rappresentazione salvifica dell’amore per Laura:
benché non sia mai raggiunto in modo definitivo e solido, tale sentimento è suggerito in
più occasioni da Petrarca292. D’altro canto, anche l’amore verso Dio, benché diverso, è
amore: di nuovo, una realtà che il poeta cerca invano di afferrare, ma che comunque
non smette di desiderare.
L’interiorità dell’io poetico, insomma, appare molto più complessa e stratificata di
quanto non possa sembrare a prima vista, impedendo una schematizzazione così netta,
per quanto gli elementi di sensualità e peccato identificati da Malzacher siano
certamente presenti, come una delle molte componenti dell’esperienza petrarchesca293.
5.1 Il riuso della pastorella (madrigali petrarcheschi)
Il madrigale, strettamente legato all’evoluzione della musica verso le nuove forme
polifoniche294, nasce nel ‘300, rispondendo ai gusti e ai passatempi delle corti; proprio a
291
Anche Petrini 1993, cui più volte Malzacher 2013 fa riferimento, evidenzia da una parte la complessa
natura della Laura petrarchesca, donna terrena, storica e sensuale anche quando è descritta in qualità di
“beatrice”, dall’altra i tentativi del poeta alla ricerca di pace interiore (pp. 99 segg.). La questione è
comunque molto complessa e non a caso vari studiosi vi si sono soffermati; si ricordino ad esempio, tra le
riflessioni più specifiche, Suitner 1994 e Spinetti 1994. Per altro il problema riporta all’interpretazione
degli elementi stilnovistici nel Canzoniere, delle “canzoni sorelle” e dunque alla bibliografia che è stata
loro dedicata, citata in precedenza nel presente capitolo.
292
Malzacher 2013 finisce per rifiutare in toto la presenza stilnovistica nel Canzoniere.
293
La riflessione della studiosa sulla “poetica della presenza”, sull’amore immediato e totalizzante in
Petrarca, rispetto alla visione mediata e oggettivata di Dante, non appare conflittuale con l’ampliamento
della prospettiva che qui proponiamo, ed anzi appare convincente.
294
Come suggerisce Capovilla 1998, il madrigale offre un’interessante prospettiva rispetto alla vita
culturale trecentesca – cortigiana e mondana –, al rinnovamento delle tecniche melodiche e anche ai gusti
individuali del poeta, che fu appassionato di musica. Egli, ad esempio, indugia spesso sulle doti canore
dell’amata esaltando per altro la sua piena realizzazione delle norme di comportamento femminile (il
topico elogio di voce ed eloquio sarà approfondito nel capitolo seguente). In tal senso, l’ambiente
bolognese sembra essere stato particolarmente favorevole per la commistione tra musica, canto e poesia,
come testimonia lo stesso Petrarca nelle Senili (Capovilla 1983). Non a caso è noto che il madrigale 52 è
stato anche musicato da Jacopo da Bologna, e dunque in origine pensato in ambito conviviale, cioè per la
funzione naturale del genere. Non risultano simili informazioni per altri testi, compresi gli altri madrigali;
tuttavia è probabile che il poeta abbia pensato altre sue composizioni per l’accompagnamento musicale –
presumibilmente almeno le ballate, dato anche il loro numero elevato fra le liriche “disperse”. Simili testi
petrarcheschi, come suggerisce Capovilla 2005, potrebbero addirittura essere stati in parte conservati
anonimi.
133
Petrarca se ne devono le prime realizzazioni letterarie colte. Si tratta di un genere
leggero295, galante, d’abitudine occasionale anche dal punto di vista tematico; spesso
esso viene scelto per proporre motivi amorosi ed erotici. Benché di per sé sia un genere
nuovo296, se ne possono individuare significative connessioni con la tradizione
letteraria, soprattutto nelle sue forme più lievi e giocose: ad esempio, la ballata – altro
genere musicale, già da tempo accolto nell’alveo della letteratura colta – e la pastorella
– per l’approccio scherzoso alla materia amorosa, nonché per le frequenti immagini o
ambientazioni campestri297. La leggerezza che ne è tipica favorisce l’adozione
nell’ambito di tali generi di immagini codificate e convenzionali, per cui le variazioni
individuali nascono a partire da soluzioni ben definite e limitate298. Sono tipici dei primi
madrigali, ad esempio, gli elementi enigmistici: essi veicolano di frequente indovinelli,
acrostici, giochi nominali o sui senhal. Tali aspetti sono presenti nel Canzoniere, anche
se non caratterizzano direttamente i madrigali; tuttavia a tali elementi giocosi si possono
accostare le cosiddette “isotopie” del nome di Laura, il primo esempio delle quali è
proposto proprio nel madrigale 52299. D’altronde, come si è visto, nel medesimo
madrigale si concentrano altre immagini tipiche della letteratura galante del tempo,
Per il rapporto tra poesia e musica nel madrigale (ma anche nella caccia), con specifico riferimento all’ars
nova, si veda Russell 1982, pp. 73-84; inoltre Gallico 2005 e 2006, Cerocchi 2010.
295
La natura lieve del genere non impedisce a Petrarca di legare profondamente i suoi quattro madrigali
agli altri componimenti della raccolta, ben più impegnativi, per tema, ispirazione, immagini, stile.
Un’importante analisi di tale unità intertestuale si legge in Capovilla 1998, che insiste sul valore di simili
intrecci anche al di là della consueta ricerca petrarchesca di uniformità. Tale impegno da parte del poeta
può essere anzi inteso come una forma di sperimentalismo, come il tentativo di scoprire e sperimentare
tutte le potenzialità espressive del nuovo genere. Tale attenzione è d’altro canto suggerita anche dalla
posizione rilevata dei quattro componimenti: due vicinissimi, quasi ad evidenziarne la peculiarità formale,
e inseriti in un breve, ma significativo ciclo, in cui per la prima volta si suggerisce la possibilità di
superare l’amore per Laura. Gli altri due sono affiancati a testi d’anniversario, che al contrario affermano
la stabilità e l’ossessiva costanza del sentimento.
296
Solo con Sacchetti diviene abituale arricchire i canzonieri lirici con simili componimenti; sino ad allora
l’innovazione petrarchesca resta isolata e i madrigali sono confinati nelle raccolte musicali, in cui è la
notazione ad avere importanza, mentre alle parole spetta un ruolo di accompagnamento o poco più. In
questo tipo di raccolte i componimenti sono molto spesso anonimi. Per tale aspetto si vedano ad esempio
Capovilla 1983 e 1998. Ciò non significa, per altro, che siano mancati esprimenti anteriori affini, benché
non legati all’orizzonte letterario alto, come testimonia Francesco da Barberino. Infine, bisogna ricordare
che la nostra percezione è orientata anche dalla datazione alta proposta per i madrigali da Wilkins (anni
avignonesi, ’26-’36 e ’45-’46) che potrebbe però essere rivista.
297
Su tali aspetti bucolico-pastorali spesso idilliaci si soffermano in particolare Capovilla 1983 e 1998,
sottolineando che alle fonti principali toscane – quadri cortesi, scene campestri e così via – si associa
molto probabilmente il ricordo della pastorella provenzale e in generale della tradizione cortese, piuttosto
coerente anche sul piano dei destinatari e dei gusti aristocratici. Potrebbe forse essere considerata la
tradizione bassa e popolare, su cui è difficile approfondire oltre. Per le componenti tipiche di tali
ambientazioni nel madrigale 52, vedi Dolla 1976.
298
Si veda Santagata 1999. Già Capovilla 1983 e 1998, comunque, avevano considerato tale aspetto nella
valutazione del madrigale nel rapporto con la vita di corte, con particolare riferimento a quelle venete,
dove il genere ha avuto origine e sviluppo: la centralità della musica (testimoniata dalla tradizione
manoscritta non lirica di gran parte di tali testi) e i vincoli imposti dall’appartenenza di genere
favoriscono l’uniformità tematica e stilistica. A questo si aggiunge l’intento condiviso di esprimere
immagini e concetti che siano familiari all’ambiente di corte, cioè al pubblico d’elezione del genere
stesso. In tale ambiente non sembrano esserci state molte distinzioni tra poesia colta e versificazioni
occasionali per musica.
299
È la prima apparizione della forma “l’aura”, come ha sottolineato Capovilla 1998.
134
come quella della bagnante e quella della pastorella. Ed è appunto attraverso il genere
del madrigale che viene introdotta con maggior evidenza nel Canzoniere la tradizione
bucolica romanza300.
Appare fortemente tipizzata anche la forma. Per quanto breve, il madrigale è spesso
tripartito, a livello logico e ritmico. Alla vivacità del tono si accompagna però molto
spesso un elemento di ellitticità, proprio in virtù della rapidità con cui scorre il
discorso301.
Petrarca tiene ovviamente conto di tali tendenze302, ma non rinuncia ad un’autonoma
trasformazione del genere, in vista dell’inserimento nel discorso unitario e coeso della
raccolta. Il fatto stesso che si possa parlare di un “ciclo dei madrigali”303 rivela lo sforzo
compositivo volto a rendere coerenti i diversi componimenti, sul piano della forma e del
contenuto; i quattro testi – a coppie o nell’insieme – sono legati da significativi
parallelismi che possono essere individuati di volta in volta secondo criteri diversi,
stilistici o tematici304. Si può notare in primo luogo che in 52 e 106 Petrarca ha adattato
la forma del madrigale ai procedimenti binari che gli sono più tipici, secondo una
progressione dualistica che ovviamente si impone anche all’organizzazione della
materia305. Sul piano del contenuto il fattore preponderante appare la rappresentazione
300
Ancora una volta si tratta del madrigale 52: tale fragmentum nasce (ormai è opinione condivisa dai
critici) come componimento galante occasionale, dedicato ad un’avventura amorosa e a lungo svincolato
dalla figura di Laura. È significativo, come nota Santagata 1999, che la visione erotica avvenga lontano
dai luoghi familiari al poeta: l’idea del viaggio, dello spazio aperto e un po’ selvaggio fornisce
l’ambientazione essenziale proprio nelle “pastorelle” occitaniche. Tratti simili possono essere colti anche
nel sonetto 16, legato per altro a 54 per la medesima evidente mescolanza di aspetti sacri e profani
(veicolata nel secondo madrigale soprattutto dai riferimenti letterari), ma anche in Cino da Pistoia e
Cavalcanti: nel primo si parla esplicitamente di pellegrini, nel secondo l’eco provenzale è indubitabile.
Sulla peculiarità della composizione dei madrigali, la loro origine occasionale e il loro inserimento nella
raccolta si legga anche Paolino 2001.
301
Capovilla 1998. Si noti che ad un discorso impostato secondo tali tendenze, si affianca nella maggior
parte dei casi non l’effusione lirica, ma una rappresentazione più concreta, immediata sul piano
espressivo, ricca di spunti realistici e poi sostanziata di significati allegorici (come per altro anche nei
madrigali petrarcheschi). Su tali aspetti si sofferma lo stesso Capovilla 1998. Sulla tripartizione di 54 e
121, a fronte del più evidente andamento binario di 52 e 106 (per altro più tipico nell’insieme della
versificazione petrarchesca), riflette soprattutto Dolla 1979, che offre un’estesa analisi metrico-formale
dei quattro componimenti, allo scopo di esaltarne le affinità, rispetto alla costituzione di un ciclo unitario
in seno alla più ampia raccolta. Già in Dolla 1976 si trova un’attenta osservazione della struttura dei
madrigali, con particolare attenzione alle scelte rimiche. Su tali aspetti è tornata infine la lettura di
Capovilla 1983, approfondendo sulle intenzioni di innovazione e sperimentazione del poeta in tali sedi.
Nei madrigali infatti non si ripetono mai le stesse rime e sono messe alla prova caratteristiche di solito
proprie di generi diversi. Ad esempio, 52 riecheggia la terzina dantesca, 54 quella di Cecco d’Ascoli, con
l’aggiunta di un distico finale tipicamente trecentesco e settentrionale. 106 riprende le terzine del sonetto;
121 una concatenatio molto diffusa al tempo e tipica anche di alcune canzoni e ballate petrarchesche. Gli
spunti settentrionali sono molto significativi, in quanto spesso la produzione poetica di tale zona è
caratterizzata da una maggiore varietà metrica rispetto a quella toscana.
302
I madrigali, in conclusione, hanno anche il valore di svelare un Petrarca più legato al suo tempo e
all’attualità culturale, meno assoluto e isolato, non volto soltanto alle forme espressive più nobili e
stilizzate. Lo sottolinea Capovilla 1983, che pensa anche alla frottola e, in parte, alla ballata.
303
Dolla 1976 e 1979.
304
Sull’unità del ciclo, anche sulla base dell’omogeneità concettuale e soprattutto rispetto alla
rappresentazione dell’amata, insiste in particolare Dolla 1979, i cui risultati sono anticipati in Dolla 1976.
305
Per tale questione e più in generale per una riflessione sulla natura stilistico-espressiva dei quattro
componimenti si vedano in primo luogo Dolla 1976 e in parte 1979.
135
di Laura306, che costituisce un’ulteriore fonte di unità per il ciclo, in sé e in rapporto al
Canzoniere. Pur registrando alcune costanti del genere, come l’epifania in contesti
naturalistici o i dettagli più sensuali (52 e 54), Petrarca impone ai quattro testi una
significativa evoluzione da una concezione passionale dell’amore ad una più casta, la
medesima che si delinea nella raccolta stessa (benché non ci siano madrigali nella
sezione in morte)307. Ulteriori connessioni intertestuali sono state identificate dagli
studiosi, tra i quattro testi e con gli altri generi308. Si pensi alle ballate o al fragmentum
105, in cui Petrarca nobilita a canzone lo schema della frottola, altra forma poetica in
origine del tutto priva di solennità309.
Può essere utile aggiungere un’ultima riflessione sul significato della presenza del
madrigale nel Canzoniere. Nel sistema dei generi siciliano e poi toscano, la funzione del
genere breve è svolta dalla ballata nelle sue forme più sintetiche e dal sonetto. Dante
utilizza anche la stanza di canzone, che dal punto di vista dell’origine, in quanto
porzione di un testo più ampio che assurge poi ad autonomia metrica, ricorda
l’evoluzione della cobla provenzale. In Petrarca invece il metro più breve, oltre che più
innovativo, è appunto il madrigale: esso si mantiene in forme piuttosto ridotte, al
contrario della ballata. Scompare invece la stanza di canzone. È lecito perciò pensare
che sia proprio il madrigale ad assumere il ruolo della cobla: genere basso, ma destinato
ad ampio uso ed apprezzamento, adatto alla circolazione sia in raccolta sia in modo
autonomo, e soprattutto aperto ad una maggiore varietà di temi, non solo rispetto alla
canzone, forma alta per eccellenza, ma anche ai più canonici sonetto e ballata310.
306
Dolla 1976 parla, rispettivamente per i quattro madrigali, di pastorella, pellegrina, angeletta e giovane
donna, evidenziando dunque con efficacia gli elementi di coerenza e quelli di evoluzione rispetto al
personaggio. Per altro, a tale rappresentazione in fieri ben corrisponde il graduale cambiamento dello
stile, che ancora una volta segna continuità e unità nel ciclo, ma evidenzia anche la specificità di ciascun
componimento.
307
Dolla 1979.
308
Basti pensare alla già citata storia redazionale del madrigale 52, significativamente rivisto per essere
adattato alla raccolta, come anche, probabilmente, 54 e 106; entrano per altro in gioco anche aspetti di
tipo cronologico, cioè rispetto all’effettivo momento della composizione, piuttosto che alla fittizia
collocazione nella vicenda spirituale dell’io. Per tali questioni si veda Santagata 1999 pp. 179 segg, che
offre in merito a 54 altre utili indicazioni bibliografiche (con specifico riferimento a Contini 1970 e alla
lettura di De Robertis) e un approfondimento relativo alle connessioni intertestuali nella serie 52-55.
Sull’aspetto dell’intertestualità avevano approfondito già Capovilla 1983 e 1998; lo studioso insiste
piuttosto sul legame che sembra unire i madrigali a 23, 126 e in generale alle rappresentazioni
naturalistiche (nel Canzoniere, ma anche in parte dei Triumphi). D’altronde già Dolla 1979 aveva insistito
su tali rapporti, anzi suggerendo possibili paralleli o per lo meno fattori di coerenza e coesione su scala
molto più ampia. I madrigali si presentano dunque come un ciclo unitario, come una serie di coppie (si è
detto che le combinazioni possibili tra i quattro testi sono molteplici, a riprova del loro legame reciproco)
e come parte integrante della raccolta al medesimo tempo. Un ciclo aperto, dunque. Capovilla 1983
sottolinea in particolare come tali testi – brevi e occasionali – si leghino soprattutto agli spunti semantici
forniti dai testi alti per eccellenza, le canzoni. Per un’analisi dei richiami culturali che arricchiscono il
testo di 54, si vedano Santagata 1999, pp. 179 segg, Capovilla 1983 e in parte Capovilla 1998.
309
Capovilla 1998. È indicativo che tale componimento sia adiacente proprio al terzo madrigale.
310
La componente pastorale si ritrova, in parte, anche nel sonetto 245, soprattutto in incipit, in particolare
richiamando la pastorella di Giraut de Bornelh, che era in parte riferimento già per il madrigale 106. Per
tali rimandi intertestuali e per l’interpretazione della particolare ed allusiva situazione in 245, si veda
Tonelli 1996.
136
5.1.1 Pastorelle trobadoriche
Per quanto le caratteristiche fondamentali del genere pastorella311 siano evidenti, una
sua definizione stringente presenta non poche difficoltà: si possono infatti riscontrare
alcune costanti, che il confronto con la lirica cortese alta rende ancor più evidenti, ma
ciascun componimento altera quegli elementi creando non pochi casi ambigui312. Una
definizione piuttosto soddisfacente, perché adatta alla maggior parte dei testi che siano
stati a vario titolo accostati al genere, è quella di Paden313: in una pastorella non
possono mancare un uomo e una donna – lei di solito è una giovane pastora –, il loro
incontro dev’essere casuale e portare ad un tentativo di seduzione, per lo più da parte
dell’uomo. La progressione del discorso ha carattere narrativo e dialogico, e il punto di
vista preminente è quello maschile314. Un altro fattore molto utile per una ricognizione
311
Anche la scelta del nome, che ovviamente deriva dalla presenza di una “pastora”, appunto di genere
femminile, si deve ad un poeta cortese, Pedr’Amigo de Sevilha, che introduce la sua Quand’eu hun dia –
una delle pochissime pastorelle galego-portoghesi (per le quali si veda ad esempio D’Heur 1981), siamo
nella seconda metà del ‘200 – dichiarando appunto di comporre per la dama una “pastorella”. Anche Jean
de Neuville offre un interessante indizio in merito in L’autrier par un matiner, un testo spiccatamente
metapoetico perché tutto giocato sull’ambiguità tra figura femminile e componimento lirico: qui il poeta
si rivolge alla sua “pastorella”, non alla sua “canso”. Sono occorrenze particolarmente importanti, in
quanto il termine conosce, almeno in area d’oil, anche una seconda, ben diversa accezione: può indicare,
infatti, un ritornello del tutto slegato dal discorso principale. Non è questo il caso né di Pedr’Amigo né di
Neuville, come dimostra anche la struttura della melodia di accompagnamento che si è conservata. Un
caso realmente ambiguo è invece quello di Aun ajornant in cui si definisce il testo “chanson pastorelle”,
dunque una sorta di ibrido, che in effetti la critica per lo più non accetta nel novero delle pastorelle,
ritenendolo una canzone primaverile d’ambientazione pastorale.
Anche in altri documenti, di per sé estranei al genere, se ne riscontra l’indicazione: ad esempio nel fabliau
Deus Bordeors (in cui si elencano vari generi letterari, tra cui anche il sirventese) o nel Thezaur di Peire
de Corbiac (che si vanta appunto di saper comporre pastorelle), due volte nel Tristan (dove le pastorelle
sono sia inserite tra i canti della corte sia come parte dell’insegnamento cortese che Tristano offre ad
Isotta). Il riferimento potrebbe però concernere la sola ambientazione. Fonti ulteriori sono quelle
biografiche, che però possono aggiungere anche nuovi fattori d’incertezza. È questo il caso della vida di
Cercamon, in cui si dice che egli compose “pastoretas a la usanza antiga”. Secondo Gaston Paris,
comunque, le uniche forme accettabili sono “pastoreta” (provenzale e forse più antica) e “pastorela”,
francesizzata e più diffusa, soprattutto dal ‘200.
312
Con qualche scarto a seconda dell’interpretazione dei singoli studiosi, il corpus delle pastorelle
comprende per lo più trentotto componimenti.
313
Citato in Franchi 2006, pp. 13 segg. Lo studio di Franchi è molto ricco ed utile: ad esso si farà ampio
riferimento nella presente trattazione.
314
Oltre ai componimenti, anche le opere di carattere trattatistico (Leys d’amor, Doctrina de compondre
dictats, Razos de trobar) hanno offerto un efficace punto di partenza ai critici moderni: elencano i
personaggi (soprattutto quello femminile, e la tipologia di animali che lo accompagnano, pecore, vacche o
porci – Zink 1972) e le loro tipologie, il linguaggio più adatto, il numero delle stanze e il meccanismo
dialogico (che identificherebbe addirittura una sorta di macrogenere trobadorico, secondo Zumthor –
citato in Franchi 2006, pp. 38-39), lo scopo del discorso, non una lite come nella tenzone, ma un gioco
letterario, un divertimento. La bibliografia sulla questione è ampia (se ne trovano indicazioni utili in
Franchi 2006, ad esempio in merito agli studi di Paris, Jeanroy, Kohler, Biella e Zumthor, presentati alle
pp. 33 segg). Per gli studiosi contemporanei l’aspetto più interessante è sempre stato quello contenutistico
e tematico (in particolare la forma di amore ben diversa da quella cortese), mentre hanno trovato minor
spazio considerazioni metriche e strutturali, eccetto quelle destinate a precisare l’alternanza dialogica
delle voci. La metrica, in effetti, non pare rivestire una precisa funzione definitoria rispetto al genere.
Tuttavia, come in generale per la produzione cortese, anch’essa è oggetto d’attenzione e studiato artificio
da parte degli autori: in ambito provenzale valgono le medesime consuetudini che contraddistinguono la
canzone (fino a quando non si imporrà del tutto il modello oitanico), benché ne vengano mutuate
137
sul genere sono le informazioni paratestuali: spesso, infatti, i testi di questo tipo sono
introdotti da rubriche esplicite, che rivelano la precisa sensibilità tardo-medievale per la
codificazione letteraria315. In alcune occasioni è l’autore stesso ad offrirne lo spunto,
come nel canzoniere di Guiraut Riquier, che ha arricchito la propria raccolta con
indicazioni tassonomiche e cronologiche proprio al fine di creare una silloge unitaria316.
La pastorella è contraddistinta da dettagli tematici e strutturali ricorrenti e riconoscibili,
che di per sé, tuttavia, si colgono spesso anche altrove nella produzione cortese: è
piuttosto la loro combinazione a risultare significativa317. La differenza è ad esempio
molto evidente a livello espressivo se si osserva l’aspetto psicologico: la soggettività,
dovuta alla centralità dell’io che parla in prima persona, è comune all’impostazione
delle canzoni, ma nelle pastorelle si inserisce in un discorso “oggettivo”, perché
drammatico e narrativo318.
Uno dei momenti più rappresentativi del genere è la strofa incipitaria, che introduce
ambientazione e personaggi. Non possono mancare indicazioni relative al tempo (di
solito si tratta di indizi generici, utili però ad avviare la narrazione) e alla stagione (la
primavera, cioè il periodo adatto ad un’esperienza gioiosa e vivificante); sono escluse
soprattutto le forme più semplici. In Francia si notano lunghe stanze di versi brevi, uniti da rime molto
fitte, esaltate anche dalla melodia vivace. Non si notano peculiarità strutturali significative; l’unico fattore
di reale personalizzazione risiede nella lunghezza, poiché restano sia pastorelle bistrofi (le coblas singole
sono probabilmente lacunose) sia testi molto lunghi, che arrivano sino a dodici stanze. Né è necessario
che esse siano in numero pari. La lunghezza è al contrario più regolare in lingua d’oc, per la prevalenza di
componimenti di cinque strofe, che garantiscono sufficiente articolazione in una misura comunque
efficace per una fruizione orale. Molto variegata, infine, è anche la fenomenologia delle tornadas, che
possono mancare o arrivare sino a quattro in un solo testo. Come sempre in ambito occitanico e francese,
il testo poetico è pensato per essere cantato e accompagnato da musica, anche se le testimonianze di
notazioni per le pastorelle sono pochissime e lasciano perciò nel dubbio sui ritmi più tipici di simili
occasioni comunicative. Si può tuttavia sottolineare un principio valido in genere per le opere narrative:
l’accompagnamento non dovrà essere troppo monotono, ripetitivo o cadenzato, in quanto contraddirebbe
lo sviluppo naturale del discorso. Per tali aspetti si vedano Zink 1972 e Franchi 2006 (che nel capitolo
terzo analizza tutti gli aspetti formali caratteristici del genere, i quali per altro non si rivelano definitori).
Sono stati poi approfonditi il punto di vista maschile, che risalta soprattutto nell’incipit e nell’explicit, e il
rapporto con la pastora, sbilanciato a livello sociale; ancora, l’ambientazione campestre e la frequente
espressione di nostalgia e rimpianto per un amore passato (di solito di stampo cortese). Tuttavia, le
costanti sono ancor più numerose, benché non sempre presenti in tutti i testi accolti sotto la definizione di
pastorella: ad esempio la ritrosia, spesso temporanea, della fanciulla, l’offerta di doni, la definizione
esplicita del ruolo sociale e “professionale” del personaggio femminile, la narrazione in prima persona.
315
Sempre a livello paratestuale, Franchi 2006, pp. 14 segg ricorda tre annotazioni simili su altrettanti
codici francesi, la cui peculiarità consiste nell’associazione di più definizioni di genere, come se si
trattasse di componimenti dalla natura mista o ambigua.
316
L’interesse dell’opera di questo trovatore rispetto al genere della pastorella si deve anche alla
creazione di un vero e proprio ciclo: i diversi testi sono distribuiti nel tempo e mostrano una pastora
sempre meno giovane, che però continua a rispondere in modo arguto al poeta. Un simile approccio si
coglie anche nella produzione di Gavaudan, di cui però sono rimaste solo due pastorelle (considerando
però che il suo corpus complessivo comprende allo stato attuale dieci testi), e in quella di Gui d’Ussel. Di
questo trovatore restano due pastorelle implicitamente connesse ed un terzo componimento ispirato al
genere, ma pensato come sua variazione, in quanto il dialogo si risolve in uno scambio educativo tra poeta
e pastore su temi cortesi. Sui cicli di pastorelle in Guiraut Riquier, Gavaudan e Cerverì de Girona, si veda
Franchi 2006, pp. 239-260.
317
Perciò in Franchi 2006, p. 117 si parla di “rifunzionalizzazione” degli strumenti poetici.
318
Su tale aspetto insiste, ad esempio, Jeanroy proprio nel tentativo di definire e differenziare il genere
(Franchi 2006, pp. 35-37 e 103-104).
138
soltanto circostanze notturne319. La voce maschile introduce subito il proprio punto di
vista, che domina la narrazione pur lasciando ampio spazio alle battute del dialogo320.
Infine è determinante l’identificazione dello spazio, naturale321 ed isolato (come
richiede la tematica erotica), spesso caratterizzato da un corso d’acqua. Il paesaggio ha
un ruolo essenziale nell’individuare le peculiarità della situazione, anche nei suoi aspetti
erotico-amorosi, tradizionalmente associati ai luoghi aperti, selvaggi, nascosti322. La
differenza del contesto, insomma, contribuisce a costruire un diverso tipo di relazione
amorosa e si accorda ad un nuovo canone femminile. In tal modo, il discorso può
prendere avvio, per altro garantendo al racconto una certa verosimiglianza323, che
qualifica ulteriormente l’io-narratore come testimone affidabile. È evidente dunque la
distanza rispetto al genere lirico, in cui la referenzialità della rappresentazione è molto
inferiore. Inoltre, la descrizione è spesso arricchita dal canto della fanciulla, da
annotazioni sullo stato d’animo del cavaliere all’inizio della vicenda (di solito,
nostalgico) o sul suo viaggio.
Proprio l’incontro con la pastora avvia la narrazione vera e propria; la circostanza è
spesso segnalata dall’uso del verbo “trobar” (al passato narrativo “trobei”), che non a
319
È interessante notare che per lo più viene prediletto il mattino, che condivide con la stagione
primaverile l’implicito significato di “tempo rinnovato”.
320
La parte dialogica ha una connotazione dinamica. Vi si concentra la narrazione vera e propria, con lo
sviluppo della tematica erotica; l’efficacia delle battute, benché spesso tanto lunghe da sembrare brevi
monologhi (per lo più corrispondono all’intera unità metrica), è potenziata in ambito occitanico, creando
uno scambio retorico in piena regola. Anche il passaggio dall’avvio in prima persona alla conversazione è
codificato, come dimostra l’uniformità dei testi: la pastora pronuncia tra sé e sé una frase
(un’esclamazione, una lamentela) che offre al cavaliere il destro per presentarsi ed avviare lo scambio.
321
Benché tale caso sia particolarmente rappresentativo e frequente, non è necessario che si tratti di
campagna. Basta che il cavaliere sia lontano dallo spazio abituale del canto cortese – lungo una via,
presso un bosco – come richiede l’elemento erotico. Unica eccezione si riscontra in Marcabru (A la
fontana del vergier) dove il contesto, ancora cortese, del verziere si adatta al peculiare incontro, che
infatti vede protagonista una dama e non una pastora. Non a caso, tale canzone fornisce forse l’esempio
più lampante delle difficoltà incontrate dagli studiosi nello stabilire l’effettivo corpus del genere (per
questo aspetto, Zink 1972). Si veda ad esempio l’analisi del componimento che offre Limentani 1977.
322
Campi e boschi, infatti, rimandano ad una realtà non civilizzata e avventurosa. A tal proposito, Zink
1972 ricorda le serrane galego-portoghesi (simili a pastorelle, ma molto più improntate all’elemento
selvatico e quindi alla carnalità) e il tema tipicamente medievale di uomini e donne selvatici, che vivono
allo stato pre-culturale adatto agli animali. Tali connessioni rivelano a monte dello sviluppo letterario le
potenti suggestioni del folclore.
323
Ovviamente il concetto di verosimiglianza non va confuso con quello di realismo: l’ambiente rimane
infatti estremamente evanescente, una nuova forma di locus amoenus, che delle tradizionali
ambientazioni poetiche conserva sia la caratterizzazione sfumata sia l’idea di separazione dalla comunità
umana. Il contesto è dunque riconoscibile, ma trasfigurato e tipizzato. Tuttavia Franchi 2006 sottolinea
come alcuni testi mascherino sotto l’apparenza erotico-campestre un discorso socio-politico: in tal caso, il
valore concreto dei dettagli rappresentativi assume una potenza ben maggiore. Joan Esteve, ad esempio,
non si preoccupa nemmeno di nascondere tale interesse: attribuisce alla sua pastora la decisione di
dedicarsi a Dio; di fronte a tale limite invalicabile, si avvia un dialogo politico attuale al posto del
consueto corteggiamento. In altri componimenti, invece, ne è esaltata l’efficacia retorica, come nelle
pastorelle di Guiraut Riquier, pensate per raccontare una vicenda nella sua evoluzione (fino a individuare,
lo si è visto, veri e propri cicli di testi) e dunque caratterizzate da dettagli cronologici (data e ora) e
geografici molto più ricchi rispetto all’usuale.
139
caso è il predicato tipico del canto poetico: all’azione si associa immediatamente ed
esplicitamente un corollario narrativo324.
Conclusa la descrizione del contesto e in parallelo della figura femminile, si procede
alla caratterizzazione sociale e psicologica dei due personaggi: è determinante in tal
senso il dialogo, che talvolta propone un’efficace mimesi linguistica e in generale
fornisce indizi rivelatori attraverso l’utilizzo degli appellativi con cui pastora e cavaliere
si chiamano a vicenda325. Nella rappresentazione occitanica il personaggio maschile è di
frequente326 presentato come verseggiatore: ne derivano interessanti occasioni per
riflessioni e valutazioni metapoetiche327. Il discorso acquista così ulteriore
verosimiglianza, acuita dal fatto che il riconoscimento del poeta (e spesso anche le
indicazioni sulla natura e sull’abbondanza della sua produzione) viene affidato alla voce
femminile.
D’altronde, insistere sull’identità dell’autore o comunque sul suo impegno poetico
significa evidenziare il rovesciamento in atto dei generi più alti, che appunto costituisce
uno dei significati della pastorella. Secondariamente, la presenza tangibile di un autore
“esterno” e soprattutto la voce del personaggio femminile ridimensionano il peso dell’io
che parla in prima persona: anche se il punto di vista resta parziale, la situazione non è
incentrata interamente sulla figura maschile, il che costituisce un ulteriore fattore di
differenziazione rispetto all’espressione lirica. Per tali ragioni, la pastorella è spesso
definita un genere oggettivo. La comprensione del genere (ma anche della figura
femminile) dipende dunque dall’ideale raffronto con la poesia cortese328. Ciò
324
Il verbo si trova in incipit in quindici testi su trentotto; in altri sei è presente, anche se viene posto in
minor evidenza. Per il resto, si registrano soltanto i predicati “vezer”, “auzir”, “encontrar”. In cinque casi,
infine, la presentazione dell’insieme è liberamente rielaborata, introducendo le percezioni del cavaliere
secondo modalità autonome.
325
Per una tipologia di tali strumenti espressivi si veda Franchi 2006, pp. 205-218.
326
In ventidue testi su trentotto i riferimenti sono chiarissimi, quando non addirittura espliciti, e spesso
rafforzati da altri indizi sparsi nel corso del componimento.
327
Nel ciclo delle pastorelle di Guiraut Riquier l’agnizione del poeta diviene programmatica, come
dimostra l’inserimento del suo nome senza alcun mascheramento, e crea un legame macrostrutturale con
le canzoni, dunque con il nucleo principale della raccolta, contribuendo perciò alla sua stessa costruzione.
Un aspetto più frequente è l’inserimento del senhal usato per l’amata nelle parallele canzoni cortesi:
l’identità della dama è salvaguardata, mentre viene rivelata quella del trovatore. Per una analisi di tali
occorrenze si veda Franchi 2006, pp. 181-186.
328
Per tale riflessione si veda, oltre a Franchi 2006, pp. 187 segg, Picone 1979, pp. 75-87. Lo studioso,
analizzando i casi antichi ed esemplari di Marcabru e Giraut de Bornelh, ha evidenziato la
complementarietà del modello poetico e femminile campestre rispetto a quello cortese, che rispondono a
diverse esigenze del medesimo universo assiologico e psicologico (maschile). Inoltre, il finale delle
pastorelle non è quasi mai eversivo: la soddisfazione di un desiderio fisico consente infatti di rientrare
pacificamente nelle logiche cortesi, che dunque non sono mai davvero abbandonate, benché d’abitudine
nel corso del dialogo il cavaliere si lamenti del proprio stato e dell’amata indifferente e ingannatrice.
Bisogna però tenere in conto la difficoltà dei lettori moderni nell’adeguare il proprio punto di vista a
quello dei destinatari originari, limite che inficia anche l’attuale comprensione dei meccanismi all’origine
del genere e della sua evoluzione (Franchi 2006).
Rispetto alla struttura dialogica vanno tenuti inconto alcuni elementi ulteriori. È interessante ad esempio il
confronto con il genere della tenzone, oppure la presenza nella vicenda pastorale di un secondo
personaggio maschile, un pastore, che per lo più non intrattiene legami personali con la pastora (ma
talvolta ne è il promesso sposo). La struttura dialogica ne viene arricchita, fino alla creazione di vere e
proprie tenzoni pastorali (ad esempio sul tema delle malelingue) che di nuovo determinano una
sovrapposizione e un confronto tra generi. Inoltre, la presenza di un ulteriore personaggio incrementa il
140
comprende le descrizioni fisiche (che possono essere simili o contraddittorie rispetto a
quelle della dama), gli atteggiamenti, i dettagli esteriori (ad esempio, l’abbigliamento) e
il rapporto tra personaggio e contesto naturalistico. Al di là dunque delle
sovrapposizioni simboliche su cui si è interrogata la critica329, è ancora una volta
l’implicito confronto tra generi – e caratteri femminili – ad essere importante330.
Un problema fondamentale per l’identificazione del genere è quello della sua storia ed
evoluzione, di cui si conosce ben poco331. Le ipotesi degli studiosi riguardano tre aspetti
fondamentali: diverso uso delle fonti da parte di ciascun trovatore, differente rapporto
dei Provenzali con la produzione oitanica e il ruolo di Marcabru, che con la sua
interpretazione delle convenzioni rappresenta un vero spartiacque.
Il punto di partenza essenziale è la datazione. Gli esempi più antichi in nostro possesso
si devono a Marcabru e dunque risalgono a prima della metà del XII secolo (1140
circa); i suoi quattro epigoni si attestano a cavallo tra XII e XIII secolo e ne restano
cinque testi (Giraut de Bornelh, Gavaudan, Cadenet, Gui d’Ussel). La produzione più
tarda si dipana nel corso del Duecento, mentre il secolo successivo ha fornito
pochissimi esempi del genere e solo nei primi decenni. Considerato che per la
produzione in lingua d’oil resta un solo esempio anteriore al ‘200, a livello di tradizione
manoscritta è il corpus occitanico ad offrire le indicazioni più antiche oggi disponibili;
tuttavia tale primato è solo relativo, come dimostra il successo tardo e non molto diffuso
del genere in area provenzale, in contrasto con la situazione francese. Bisognerà perciò
ipotizzare che l’elaborazione oitanica sia anteriore, ma vessata da ingenti perdite.
L’origine del genere rimane comunque un nodo di difficile soluzione. Un fattore
inequivocabile è l’impressione che nella pastorella ci sia un elemento popolareggiante,
che si nota soprattutto nelle battute ironiche che la pastora, socialmente inferiore,
carattere oggettivo del discorso, tanto che è stata proposta una distinzione tra pastorelle “classiche e
autodiegetiche” e pastorelle “intradiegetiche”. Tale aspetto è evidenziato anche da Zink 1972 nel
distinguere le caratteristiche narrative di pastorelle francesi e provenzali: il contesto agreste e
l’identificazione del personaggio femminile contraddistinguono, è vero, il genere, ma le caratteristiche
attenuate della seduzione e dell’elemento erotico in area occitanica rimandano proprio al gusto e ai
meccanismi della tenzone verbale, per quanto l’autore (e perciò il punto di vista) sia uno solo. Per la
costruzione del dialogo si veda Franchi 2006, pp. 225-229 e 232-234.
329
Per una trattazione più ampia di tale aspetto si veda Franchi 2006, pp. 117 segg e in particolare pp. 187
segg; in particolare si sono alternate letture in chiave cristiana, letture sociologiche (la pastora
incarnerebbe l’opinione pubblica) e poetiche (la pastora sarebbe figura della poesia stessa, una sorta di
musa). A volte anche dettagli minuziosi rivestono notevole importanza, come le azioni che la giovane sta
compiendo quando sopraggiunge il cavaliere o doni che quest’ultimo le promette. In particolare i capi
d’abbigliamento, quali guanti e cinture, possono avere un significato sociale, suggerendo lusso o anche
matrimonio.
330
In un componimento di Daude de Pradas, Amors m’envida e m somo, tale complementarietà e
correlazione tra le diverse tipologie (ideologie) amorose è perfettamente tematizzata: il poeta infatti
dichiara che la vera e completa esperienza d’amore deve comprendere due momenti, distinti e necessari,
quello cortese e quello erotico.
331
Indizi inequivocabili si trovano nelle vidas, laddove si parla di “usanza antiga” (Cercamon), di
“canzone” per testi chiaramente assimilabili alla pastorella (Gui d’Ussel) o similmente di “chantar”
(Giraut de Bornelh). Per un’analisi più approfondita della questione e un tentativo di ricostruzione che
tenga conto di tutti i fattori, si veda Franchi 2006, pp. 22-32.
141
rivolge all’uomo (il poeta, il cavaliere332) e più in generale nelle occasioni, affatto rare,
in cui è il suo desiderio ad avere la meglio. Da qui sono derivate le difficoltà nel
collocare il genere nell’insieme della produzione trobadorica, in particolare in merito
alle manifestazioni più arcaiche, cioè quelle che, in linea teorica, dovrebbero aver
attinto direttamente alla tradizione popolare333. Si pensi nello specifico a L’autrier jost
una sebissa di Marcabru334: è sufficiente evidenziarne l’elemento rielaborativo, quasi
rifondativo, rispetto alle pastorelle, o è necessario escludere qualunque parentela con il
genere? Una risposta soddisfacente, per quanto tutt’altro che certa, si ottiene leggendo le
pastorelle in lingua d’oil, la cui impostazione è molto più semplice335 rispetto a quella
tipica in lingua d’oc, tanto da fornire una prova ulteriore sulla datazione più antica dello
sviluppo del genere in Francia336 e su un possibile legame con eventuali antecedenti
orali337. Anche la trattatistica coeva offre qualche testimonianza nella medesima
direzione: le Razos de trobar, ad esempio, suggeriscono che il genere della pastorella
sia particolarmente adatto ad uno sviluppo in francese. Il passaggio alla realtà occitanica
(e dunque non solo le prove di Marcabru) rappresenterebbe perciò una vera e propria
rifunzionalizzazione, a beneficio di un pubblico aristocratico, che riesce ad identificarsi
con l’espressione poetica solo grazie alla preminenza del punto divista maschile e
nobile. La più antica produzione oitanica invece rifletterebbe ancora una concezione
borghese o comunque antiaristocratica, pronta a parteggiare per la figura femminile.
332
Tale aspetto non è solo implicito nell’identificazione autore – io poetico, ma viene spesso indicato
attraverso l’immagine del cavallo su cui il personaggio maschile sta viaggiando attraverso la campagna.
333
È ovvia la natura parziale delle testimonianze che si sono conservate sino ad oggi, come suggerisce
Zink 1972: la dimensione scritta si associa per sua stessa natura alla realtà colta e aristocratica.
334
Per un’analisi degli elementi moraleggianti contenuti nel componimento e il loro legame con il genere
della pastorella secondo la concezione marcabruniana, si veda Biella 1965.
335
L’analisi di tali caratteristiche si trova in Zink 1972: in definitiva le pastorelle francesi propongono
differenziazioni e caratterizzazioni molto nette e marcate, prive di sfumature. Domina l’inganno cui è
esposta la pastora, presentato con abbondanza di dettagli realistici e spesso violenti; sia il personaggio
maschile (cinico e lubrico) sia quello femminile (interessato agli esiti monetari dell’incontro) sono
presentati come rozzi. Proprio la forte polarizzazione, il distacco tra i due personaggi e il gioco degli
inganni (questa volta a scapito del poeta) sono gli elementi della pastorella marcabruniana che hanno
permesso di individuarne la maggiore antichità e un più profondo legame rispetto alla tradizione francese.
Tuttavia in Marcabru è già scomparso qualunque indizio di rozzezza e la figura della pastora volge già ad
una radicale evoluzione, come dimostrano la sua scaltrezza e la sua eloquenza. Le pastorelle occitaniche
evolvono da tale punto di partenza: nell’esaltazione della raffinatezza, negli atteggiamenti e nelle battute
di dialogo, in cui la seduzione è per lo più tenue e rispettosa, o può addirittura mancare.
336
In effetti rimane traccia antichissima di una pastorella francese. Si tratta in realtà di un breve inserto
all’interno di un poema più ampio, la cui protagonista è una pastora, appunto. L’elemento essenziale della
sua caratterizzazione è la fede, la disposizione al martirio; tuttavia è vero che prima dello sviluppo
agiografico si delinea una vicenda di (tentata) seduzione che anticipa da vicino il nuovo genere poetico.
Tali peculiarità del testo e la sua collocazione cronologica hanno motivato l’impressione che questa sia
non solo la più antica pastorella nota, ma la più antica in assoluto. Per tali ipotesi e considerazioni, si veda
Zink 1972.
337
Lo stesso vale per i brevi ritornelli che in alcuni casi sono ancora presenti nelle pastorelle oitaniche.
Tale elemento sembra avvallare in particolare l’ipotesi di Paris (presentata da Zink 1972 e poi citata in
Franchi 2006, pp. 49-50), secondo il quale all’origine dei testi oitanici di questo tipo sono le canzoni di
maggio, le feste pastorali e i balli collettivi all’aperto. Ovviamente nel passaggio alla formulazione colta
della pastorella, gli elementi di demoniaco o quelli eccessivamente ferini scompaiono, rendendo evidente
la distinzione tra elaborazione poetica e folclore.
142
Non mancano ipotesi alternative338, ma meno convincenti, come quella che vuole
all’origine della rielaborazione di Marcabru la tradizione mediolatina339: ai trovatori si
dovrebbe soltanto l’aggiunta del punto di vista maschile e dell’elemento satirico e
sociale. La cronologia reciproca, però, non convince: appare più convincente l’idea che
siano gli autori francesi ad aver influenzato quelli mediolatini, che potrebbero
comunque aver sviluppato in modo autonomo una poesia amorosa agreste, poi arricchita
dal contatto con le opere romanze340. Ancora, Faral ha proposto una convergenza tra la
visione aristocratica occitanica o comunque cortese e l’esempio bucolico classico, cioè
virgiliano (mentre esclude radicalmente l’elemento popolare). Tale posizione riflette la
consapevolezza che gli aspetti più elevati ed elaborati del genere paiono connessi alla
realtà provenzale, piuttosto che a quella francese, benché le pastorelle nella seconda
lingua siano non solo più antiche ma anche più numerose. Si spiega così la proposta di
Paris, secondo il quale il genere potrebbe essere nato nelle regioni di confine tra Francia
e Midi, come Limosino e Poitou, cui sono legati sia trovatori che trovieri341.
In realtà due elementi devono essere valutati con maggiore attenzione: da una parte la
raffinatezza e il carattere elevato che contraddistinguono la poesia trobadorica, da cui
deriva l’impressione che ci siano stati modelli anteriori improntati alla leggerezza e al
libertinismo; dall’altra la preminenza, nel meccanismo tipico del genere, della
componente narrativa rispetto a quella propriamente pastorale342. L’insistenza su tale
ambientazione deriverebbe perciò soltanto dall’apprezzamento estetico per le situazioni
naturalistiche e la primavera. In conclusione, il filo conduttore delle diverse teorie
concerne il giudizio riservato alla figura femminile: se si insiste sul suo carattere
positivo, si arriva ad ipotesi d’origine popolare, se invece si considerano critiche e
parodie, si pensa ad una creazione aristocratica. D’altronde, la riflessione sull’origine
del genere rappresenta anche la premessa delle numerose proposte e analisi relative al
significato delle pastorelle: chi è il vero protagonista della dinamica, a chi si rivolge la
benevolenza del poeta, quale prospettiva assiologica vuole suggerire l’incontro
338
Tali informazioni sono tutte tratte da Franchi 2006, pp. 39-51, dove si possono trovare anche utili
indicazioni bibliografiche.
339
A tal proposito, escludendo la possibilità di giungere ad una ricostruzione certa, Zink 1972 propone
un’efficace sintesi degli ambigui rapporti tra cultura latina e volgare intorno all’XI secolo, tra ricerca
d’autonomia e originalità da una parte, e perdurante autorevolezza dall’altra.
340
Franchi 2006, pp. 47-49 cita in proposito le posizioni di Pillet. Per la riflessione sul ruolo degli
antecedenti mediolatini, si vedano anche Zink 1972 e Biella 1965. La studiosa, in particolare, ha raccolto
alcuni testi che possono aver influenzato i trovatori (e Marcabru in particolare), come l’Invitatio amice
del X secolo, in cui è già presente la struttura dialogica, o il coevo Clericus et nonna, in cui non solo i
personaggi dialogano, ma presentano il medesimo atteggiamento seducente e ritroso poi tipico di alcune
pastorelle occitaniche. Gli esempi più rilevanti sono comunque tutti posteriori al Mille: essi cominciano a
introdurre un più spiccato realismo e alcuni spunti rilevanti, come la disparità sociale e l’offerta di doni.
Tuttavia è ancora la figura femminile ad essere superiore rispetto a quella maschile; il tono, infine, è
spesso più biblico-moraleggiante che narrativo. Si possono ad esempio ricordare Poema d’Ivrea, De
somnio e Declinante frigore.
341
È davvero troppo difficile, invece, accettare l’ipotesi che le due tradizioni nascano contestualmente in
modo indipendente: gli indizi di una connessione e la condivisione di elementi compositivi sono troppo
evidenti.
342
Non a caso Franchi 2006 sottolinea il rapporto tra pastorella, chansons dramatiques e chansons de mal
mariée. Tali riflessioni risalgono anche a Delbouville citato sempre in Franchi 2006, p. 47.
143
pastorale343? In tale quadro esegetico ha perciò particolare valore l’idea di Zink344, che
accoglie entrambi gli aspetti, aristocratico e popolare, poiché riconduce il nucleo
essenziale del genere pastorella proprio alla contrapposizione innanzitutto tra due
orizzonti sociali345 e secondariamente tra due tipologie di donne (e quindi di esperienza
amorosa), che, lo si è già visto, ha un valore essenziale. Infatti, pastora e dama si
oppongono sia a livello psicologico che sociale: l’una rimanda alla dimensione
selvaggia e ferina, mentre l’altra esprime i valori e le regole della cortesia. Mentre la
relazione con la seconda comporta di fatto una repressione, l’imposizione della misura
sui propri istinti, la seconda esalta la sessualità: tale duplicità spiega perché
abitualmente gli autori di pastorelle siano anche noti maestri dell’arte trobadorica
classica346. In tale prospettiva, non ha più senso interrogarsi su quale sia il rapporto tra
343
Il problema essenziale, lo chiariscono con efficacia sia Zink 1972 che Franchi 2006, consiste nella
difficoltà di attribuire il giusto valore all’ironia rivolta al cavaliere (particolarmente evidente nella
pastorella di Marcabru, trovatore notoriamente censorio nei confronti dei suoi pari, per cultura e posizione
sociale). Infatti, anche quando la pastora beneficia di una rappresentazione arguta che ne mette in risalto
le qualità, a scapito della figura maschile, è arduo ipotizzare che la prospettiva popolare sia davvero
proposta come preminente rispetto a quella aristocratica, cui in ogni caso appartengono autore, strumenti
letterari e pubblico. È vero, come sottolinea Zink, che tutti i trovatori che hanno scritto pastorelle (a parte
Gui d’Ussel) hanno un’origine sociale non nobile né agiata, ma il loro contesto d’appartenenza
professionale resta quello cortigiano. Si può ipotizzare che il pubblico delle corti accettasse una forma di
autoironia in virtù del divertimento offerto dal quadro pastorale, a sua volta spesso ridicolizzato. In effetti,
la pastora è presentata, nella grande maggioranza dei casi, in termini negativi o comunque “rustici”:
sensuale e disponibile, addirittura felice di tradire l’amico pastore, gli unici dubbi che la turbano sono
pratici, non morali. E tuttavia a sua volta il cavaliere appare spesso ingrato nel finale, non mancano i casi
in cui è violento nei confronti della fanciulla che lo rifiuta: difetti dunque gravi proprio sul piano morale.
In definitiva, se la pastorella è pensata in termini di critica sociale, è necessario ipotizzare che la satira sia
rivolta a entrambe le classi rappresentate.
Un’altra possibilità vagliata da Zink concerne il distacco dalla morale cristiana e dunque un implicito
attacco alla Chiesa. Simili considerazioni, però, accostano la pastorella alla lirica cortese in genere,
nonché (fatte salve le ovvie differenze) alla produzione dei clerici vagantes. Tutte le manifestazioni
letterarie d’amore, in sostanza, contraddicono l’insegnamento ecclesiastico, secondo il quale – nel
Medioevo – l’unione carnale è comunque peccaminosa, persino nell’ambito del matrimonio (Duby 2002).
In merito al punto di vista cristiano, infine, è interessante ricordare l’ultima evoluzione del genere, ormai
sul finire del ‘200, quando anticipa la centralità della figura mariana determinata dalla poetica del
Concistori del Gai Saber. Infatti, anche la fanciulla delle pastorelle tende ad una spiritualizzazione, che si
concretizza nel sistematico rifiuto delle profferte del cavaliere. Tale aspetto appare ancor più sviluppato in
area iberica, dove la lezione del trobadorismo tardo è recepita con particolare entusiasmo e in tempi
piuttosto estesi: qui il genere della pastorella è in sostanza attestato solo in tali forme tardive. Per una
ricognizione compiuta dell’evoluzione dalle pastorelle alla letteratura pastorale, debitrice del modello
classico, e per l’influsso delle pastorelle su componimenti di ispirazione più ampia, si veda Zink 1972.
344
Zink 1972, recuperato in Franchi 2006, p. 51. L’idea di Köhler non è comunque molto distante
(Franchi 2006, p. 51). La sua valutazione della pastorella parte dalla concezione sociologica che ha
proposto più in generale per la poesia trobadorica, espressione delle insoddisfazioni e delle spinte sociopolitiche della piccola-nobiltà, priva di proprietà terriere e legata direttamente alla corte. L’incontro con la
pastora offrirebbe ai cavalieri una facile ed immediata consolazione rispetto alle attese e alle frustrazioni
imposte dal rapporto con la dama-signora. Per tali riflessioni socio-culturali sull’origine e sul significato
della letteratura cortese si veda anche Köhler 1991.
345
Ne risulta che, nel momento in cui viene introdotta la peculiare situazione narrativa pastorale, i due
personaggi e le loro vicende sono delineate con coerenza logica, secondo i diversi esiti che possono
esserne immaginati. Si veda in particolare Zink 1972.
346
Ricollegandosi alla concezione “sociale” dell’amore cortese, in base alla quale la dama è figura del
signore (per approfondire tale aspetto, Köhler 1991), Zink 1972 ha sottolineato come la rappresentazione
vassallatica e sbilanciata dell’amore cortese elimini gli aspetti di sensualità più spontanea. In generale, la
concezione cortese comporta una razionalizzazione della passione, sottomessa a leggi e ad un ideale di
144
pastorella e letteratura aristocratica: anche questo genere risponde infatti ad un’esigenza
dei medesimi scriventi e dello stesso pubblico.
6. “Plazer” ed “enueg”
È capitato in precedenza di far riferimento al genere del plazer347, vale a dire
l’accostamento di immagini piacevoli, che descrivono, per lo più con progressione
elencatoria, i gusti e i desideri del poeta. Ad esso si affianca per contrasto l’enueg, in cui
l’autore esprime il proprio disappunto, descrivendo ciò che lo infastidisce o disturba.
Entrambi i moduli sono molto apprezzati dalla poesia antica348 ed esempi ben
riconoscibili si colgono anche nella letteratura italiana delle origini349; tuttavia nella
maggior parte dei testi l’elenco non è protratto per tutto l’arco del componimento,
evitando così la noia di un’eccessiva ripetizione. In molti casi, perciò, tali soluzioni si
individuano all’interno di strutture più ricche ed articolate.
Le occorrenze trobadoriche, non numerosissime ma ben riconoscibili, variano in modo
notevole l’una rispetto all’altra, grazie anche al punto di vista soggettivo (ciò che piace,
ciò che non piace), che favorisce la differenziazione tematica.
Sono celebri in primo luogo i plazer di argomento guerresco di Bertran de Born: si
ricordi ad esempio Be m plai lo gais temps de pascor, dove l’apprezzamento
convenzionale per la primavera ha ben poco a che fare con il rinascere dell’amore.
Simili preferenze sono espresse da Balcasset in Gerra mi play quan la vei comensar e
da Bernart de Venzac in Belh m’es quan vei pels vergiers e pels pratz: tutti e tre gli
incipit mostrano subito predicati pregnanti dal punto di vista lessicale rispetto al genere.
Diversi spunti contenutistici possono essere riuniti nel medesimo discorso, come per
Percivalle Doria: Felon cor ai et enic associa infatti questioni civili e politiche,
riferimenti storici e giuramenti amorosi, su cui in particolare si soffermano le ultime due
stanze. La medesima proporzione tra problemi guerreschi ed amorosi si legge in Ar
agues eu mil marcs de fin argen di Pistoleta. L’equilibrio tematico è esattamente
misura. Si noti comunque che, come suggerisce sempre Zink, la rappresentazione delle due figure
femminili, benché diversa, non è del tutto contraddittoria: gli elementi di contatto sono numerosi. Inoltre
è essenziale il rapporto con lo spazio: basta lo spostamento nell’orizzonte naturale per poter mettere da
parte i vincoli e le norme imposte sia dalla Chiesa sia dalla cortesia.
347
Al plazer è strettamente imparentata la figura retorica della priamel, che consiste in un elenco
composto da almeno tre cola, tra i quali l’io esprime una preferenza. Un esempio classico in ambito
trobadorico si legge in Kalenda maia di Raimbaut de Vaqueiras. Si definisce priamel abbreviata un
elenco del medesimo tipo in cui però siano nominati soltanto due elementi. Per tale analisi si legga
Scarpati 2008, pp. 59-65.
348
Perugi 19901 ricorda come il genere dell’enueg si sia definito abbastanza precocemente e come alcuni
esempi ne fossero diffusi in Italia già all’inizio del Duecento; il plazer ha invece una diffusione molto
meno ampia. Anche Lanza 1978 ne sottolinea – oltre al carattere squisitamente provenzale – la scarsa
diffusione; ne esalta però la flessibilità rispetto a contesti espressivi diversi, didascalici e comicorealistici, rispetto all’uso amoroso (molto limitato in Italia prima dello Stil Novo).
349
La struttura del plazer è con evidenza alla base delle quartine del sonetto cavalcantiano Biltà di donna
e di saccente core e al medesimo modello è per lo più ricondotta anche l’idea di fondo del dantesco
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io. La medesima situazione sembra per certi aspetti ispirare l’avvio del
fragmentum 225, dove Laura si trova in una barchetta insieme alle compagne. Tuttavia la prospettiva di
fondo è ben diversa e si risolve in un’iperbolica celebrazione dell’amata.
145
opposto in Quan reverdejon li conderc: Amanieu de la Broqueira avvia con una classica
immagine primaverile una canzone d’amore infelice altrettanto convenzionale, per
interromperla però alla strofa quinta, inserendo un breve plazer d’argomento militare e
cortese350. Cadenet, invece, associa gusti militari e principi cortesi nel plazer di Aitals
com ieu seria, che nella seconda parte lascia spazio ad una vera e propria trattazione
educativa. È affine il caso del sirventese anonimo Vai, Hugonet, ses bistensa, dove il
plazer – d’argomento militare – è limitato alla quarta strofa; il resto della canzone non è
però dedicato alla dama, ma a concretissime questioni di potere e denaro. Ad aspetti
morali e cortesi è ispirata No m fai chantar amors ni drudaria di Peire Guilhem de
Luserna, dove la struttura del plazer torna più volte in brevi affermazioni nel corso
dell’intero testo. Il monaco di Montaudon, infine, accosta liberamente fattori amorosi,
dettagli cortesi e semplice gusto per la vita in Mout me platz deportz e guayeza.
Anche a livello sintattico e stilistico le soluzioni non devono necessariamente attenersi
ad un modello prefissato. Lo si coglie con chiarezza in Ben sai e conosc veramen di
Raimbaut de Vaqueiras, in cui non si registra mai il canonico “mi piace” seguito da
un’enumerazione ordinata, ma si coglie più in generale un ideale di vita e una varietà di
preferenze. Un plazer interamente dedicato alla sfera sentimentale si può leggere in
Dompna, puois de mi no us cal di Bertran de Born: il poeta, infelice a causa della dama,
cerca di consolarsi immaginando una donna inesistente, dotata di tutte le qualità
migliori. È lo spunto per un lungo elenco di topoi cortesi, la cui struttura propone una
variazione dei motivi tradizionali della canzone.
Sarebbe opportuno aggiungere alla ricognizione del genere anche gli innumerevoli passi
in cui i trovatori annoverano le molteplici qualità della loro dama: la bellezza, le parti
del corpo, le doti spirituali. Non è necessario che sia esplicitata l’idea del “piacere”,
perché l’elogio e la scelta stessa della donna da amare dipendono dalla soggettività del
poeta.
Osservando invece Ar ven la coindeta sazos di Bertran de Born, ma anche i già citati
componimenti di Pistoleta e Peire Guilhem de Luserna si nota che l’espressione positiva
dell’apprezzamento è giustapposta a quella negativa del disprezzo. In effetti, le liriche
dedicate al solo modulo dell’enueg sono molto più rare: il genere appare quasi una
specializzazione del solo monaco di Montaudon, che ne realizza diversi351.
Il modulo elencatorio, su cui si impostano sia plazer che enueg, è notoriamente consono
allo stile petrarchesco. Si pensi ai sonetti interamente dedicati all’elogio di Laura:
l’enumerazione delle virtù, che certamente risponde ai canoni della tradizione, e in
particolare di quella cortese, giunge ad uno sviluppo straordinario per ricchezza di
immagini, rielaborazione dei topoi (di per sé molto diffusi), varietà delle fonti,
articolazione sintattica. Così avviene nel sonetto 213: un unico periodo dedicato alle
“gratie ch’a pochi il ciel largo destina” (v 1), di cui l’amata beneficia con particolare
generosità. Un esempio affine si trova poco dopo nelle quartine di 215, quasi ad
350
Il poeta vi elenca infatti il suo gusto per le armi ben fatte, le belle azioni militari, ma anche le tipiche
virtù cortesi.
351
Amicx Robert, fe que dey vos, Be m’enueia, per Saynt Marsal, Be m’enueia, per Sant Salvaire e Be
m’enueia, so auzes dire?
146
incorniciare la rinuncia ad amore di 214 – ben presto abbandonata –; poco oltre, il
sonetto 220 muta l’impostazione sovrapponendo all’enumerazione il modulo altrettanto
convenzionale dell’“ubi sunt”352, che poi sarà ripreso nella sezione “in morte” in
riferimento alla perdita di Laura e del suo bel corpo. Per ora, comunque, il significato è
puramente elogiativo.
Il riuso più personale e interessante dei due generi, però, concerne la rappresentazione
naturalistica e la relazione dell’io con l’amata. In entrambi i casi, infatti, la
reinterpretazione della struttura sintattica supera la retorica e partecipa all’espressione
dei significati più forti della lirica petrarchesca.
Si è già visto quanto la descrizione del paesaggio possa essere legata all’intimità del
poeta, per il dialogo che si crea tra le due parti e la funzione di testimonianza che viene
attribuita agli enti naturali. Essi sono introdotti in forma di elenco nella prima stanza di
126353: fino agli ultimi due versi (“date udienzia insieme / a le dolenti mie parole
extreme”, vv 12-13) l’impressione dominante è quella positiva del locus amoenus ed è
solo lo stato d’animo del poeta a riflettere una percezione negativa (retrospettiva) sullo
spazio.
Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a le di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse (vv 1-11).
Una connessione molto simile tra sensazioni del poeta, natura e presenza dell’amata in
quella stessa natura si coglie anche nel sonetto 162. Anche qui l’ambiente è testimone
delle sofferenze del poeta e dunque ne partecipa; tuttavia l’intonazione complessiva è
più lieve, anche perché mancano i riferimenti alla morte:
Lieti fiori et felici, et ben nate herbe
che madonna pensando premer sole;
piaggia ch’ascolti sue dolci parole,
et del bel piede alcun vestigio serbe;
schietti arboscelli et verdi frondi acerbe,
amorosette et pallide viole;
352
Tali strutture retoriche saranno analizzate anche in riferimento al genere del devinalh, nel corso del
presente capitolo.
353
Per l’aspetto strettamente naturalistico di tale rappresentazione, nonché per il topico rapporto
contrastivo tra dimensione interiore e spazio esteriore, si veda il paragrafo precedente.
147
ombrose selve, ove percote il sole
che vi fa co’ suoi raggi alte et superbe;
o soave contrada, o puro fiume,
che bagni il suo bel viso et gli occhi chiari
et prendi qualità dal vivo lume;
quanto v’invidio gli atti honesti e cari! (vv 1-12)354.
Si è già detto che 301 e 303 sono affini a 126 per la concezione della natura; diverso è
però il motivo del dolore manifestato dall’io, non ricambiato nella canzone, luttuoso nei
sonetti. Ancora una volta, la svolta funebre della vicenda sentimentale impone un
cambiamento anche al riuso dei generi, e il plazer sugli enti naturali355 accentua la
venatura di tristezza. Lo spazio naturale un tempo era ameno, ma ormai può esserlo solo
nel ricordo:
Valle che de’ lamenti miei se’ piena,
fiume che spesso del mio pianger cresci,
fere selvestre, vaghi augelli et pesci,
che l’una et l’altra verde riva affrena,
aria de’ miei sospir’ calda et serena,
dolce sentier che sì amaro riesci,
colle che mi piacesti, or mi rincresci,
ov’anchor per usanza Amor mi mena (vv 1-8).
Il medesimo punto di vista torna in 303, in particolare nella seconda stanza:
Fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi,
valli chiuse, alti colli et piagge apriche,
porto de l’amorose mie fatiche,
de le fortune mie tante, et sì gravi (vv 5-8).
Il plazer viene ulteriormente trasformato nel sonetto 312. Le immagini elencate
sarebbero di per sé apprezzabili – come d’altronde gli enti naturali di poco sopra – ma il
poeta non può più godere di nulla da quando Laura è morta356. La perdita insomma
giustifica la negazione stessa del genere357.
Né per sereno ciel ir vaghe stelle,
né per tranquillo mar legni spalmati,
né per campagne cavalieri armati,
né per bei boschi allegre fere et snelle;
354
È evidente che il sonetto rappresenta anche un’ulteriore occasione per elogiare la dama.
Il recupero del genere e la sua trasformazione sono stati riconosciuti in particolare da De Robertis,
citato in Santagata 1996, p. 1180.
356
Il poeta infatti definisce la sua vita “noia” (v 12), con termine tecnico dell’enueg, come nota Santagata
1996 a p. 1209, dove il sonetto 312 è definito appunto “plazer rovesciato”, secondo l’idea già di Wilkins.
357
La negazione è ancor più evidente se si pensa quanto la resa petrarchesca – in negativo – sia per
contrasto affine a quella tradizionale – in positivo – di Cavalcanti nel già citato sonetto Biltà di donna e di
saccente core; anche gli elementi citati sono in parte gli stessi.
355
148
né d’aspettato ben fresche novelle
né dir d’amore in stili alti et ornati
né tra chiare fontane et verdi prati
dolce cantare honeste donne et belle (vv 1-8).
Un’altra possibilità per la reinterpretazione del plazer è nell’elenco delle benedizioni,
modulo di per sé già topico, di origine biblica, che Petrarca complica ed arricchisce
sovrapponendovi suggestioni molteplici358. Nel sonetto 61 tale approccio raggiunge la
sua estensione più ampia:
Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, et l’anno,
et la stagione, e ‘l tempo, et l’ora, e ‘l punto,
e’l bel paese, e ‘l loco ov’io fui giunto
da’ duo begli occhi che lagato m’ànno;
et benedetto il primo dolce affanno
ch’i’ ebbi ad esser con Amor congiunto,
et l’arco, et le saette ond’i’ fui punto,
et le piaghe che ‘nfin al cor mi vanno.
Benedette le voci tante ch’io
chiamando il nome de mia donna ò sparte
e i sospiri, et le lagrime, e ‘l desio;
et benedette sian tutte le carte
ov’io fama l’acquisto, e ‘l pensier mio,
ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’à parte (vv 1-14).
Oltre all’ossessiva ripetizione, anche l’immediata vicinanza a 60 da una parte e 62
dall’altra incrementa l’efficacia dell’elenco. In entrambi i casi, lo si è visto, il poeta
lamenta gli effetti dell’amore e il suo carattere erroneo. In 62, che insieme a 61 celebra
l’anniversario dell’innamoramento, il poeta si limita a implorare l’aiuto divino, in 60
invece conclude il discorso con una vera e propria maledizione, la cui opposizione al
tono di 61 non potrebbe essere più netta: “Né poeta ne colga mai, né Giove / la privilegi,
et al Sol venga in ira, / tal che si secchi ogni sua foglia verde” (vv 12-14)359.
Appaiono dunque meno energiche per estensione e posizione le benedizioni che
chiudono i sonetti 284 e 290: “Sospira et dice: O benedette l’ore / del dì che questa via
con li occhi apristi!” (vv 13-14)360 e “Benedetta colei ch’a miglior riva / volse il mio
corso, et l’empia voglia ardente / lusingando affrenò perch’io non pera” (vv 12-14).
Tuttavia, la portata semantica di quest’ultimo finale è notevole: la natura della
benedizione è profondamente mutata dopo la morte di Laura, nel segno del suo
358
Santagata 1996, pp. 313-314.
Abbiamo già citato questi versi nel presente capitolo; li riproponiamo per evidenziare il contrasto
maledizione/benedizione.
360
Si ripropone qui, come in 61, la benedizione topica del momento dell’innamoramento, che spesso per
convenzione il poeta lamenta o addirittura condanna quale momento di grave sfortuna, arrivando a
desiderare che quell’incontro non fosse mai avvenuto. Per tale immagine topica si veda il capitolo
successivo.
359
149
intervento salvifico. Entrambi gli aspetti, la benedizione e la rivalutazione dell’amore,
trovano un parallelo e insieme una rifunzionalizzazione nel passaggio dalla prima alla
seconda sezione.
In un solo testo petrarchesco viene proposto un vero e proprio recupero dell’enueg361.
Anche nel sonetto 174 l’enumerazione è esaltata dall’anafora in incipit di verso, per cui
l’aggettivo “fera” scandisce il susseguirsi di tutto ciò che ha causato il dolore del poeta e
ne merita perciò il biasimo:
Fera stella (se ‘l cielo à forza in noi
quant’alcun crede) fu sotto ch’io nacqui,
et fera cuna, dove nato giacqui,
et fera terra, ove’ pie’ mossi poi;
et fera donna, che con gli occhi suoi,
et con l’arco a cui sol per segno piacqui,
fe’ la piaga onde, Amor, teco non tacqui,
che con quell’arme risaldar la poi (vv 1-8).
L’idea della maledizione, infine, e in particolare riferita al momento della propria
nascita, si trovava già nella sestina 22: “et maledico il dì ch’i’ vidi ‘l sole, / che mi fa in
vista un huom nudrito in selva” (vv 17-18).
7. “Planh”
Con il termine planh si definiscono componimenti dedicati alla morte di una persona
stimata, di cui dunque si lamenta la perdita362. Il significato letterale del vocabolo
provenzale è in effetti “lamento”: il genere va perciò distinto, almeno in linea teorica,
dalla consolatio, in cui si affronta la dipartita con tono consolatorio. L’antecedente
mediolatino del planh è il planctus363, che infatti si focalizza sugli aspetti negativi
361
Ma si è visto che per certi aspetti lo stesso escondich va associato all’enueg in quanto elenco di
prospettive spiacevoli, benché invocate e non biasimate.
362
Dal punto di vista della categorizzazione, il planh è d’abitudine considerato un “sottogenere” del
sirventese, poiché ne condivide alcuni tratti essenziali, come il riferimento ad un avvenimento specifico,
la situazione concreta, il richiamo spesso polemico alla società. Tuttavia non mancano alcuni elementi
tipici della canzone, tra cui spicca per importanza l’insistenza sul dolore (che corrisponde alla sofferenza
amorosa) contrapposto alla gioia (altra possibilità tipica per il poeta amante, sia essa affermata o negata),
fino alla definizione stessa del travaglio come assenza di gioia. A tali tendenze tematiche ben si
accordano, come vedremo, le consuetudini formali. In generale si nota come la produzione funebre si
inserisca pienamente nella mentalità dell’epoca e dunque entro parametri cortesi. Non sarà a questo punto
un caso che solo la poesia occitanica abbia lasciato esempi di pianto luttuoso abbastanza numerosi da
identificare un genere vero e proprio, mentre i luoghi legati all’ambito epico sono rarissimi. Per tali
aspetti si veda Schulze-Busacker 1979 passim.
363
Per una breve ricognizione degli antecedenti mediolatini e dell’evoluzione del genere si vedano Thiry
1978, soprattutto pp. 25-27, Schulze-Busaker 1979, che fa riferimento anche alla storia degli studi e
soprattutto alle posizioni di Springer e Jeanroy, e Bertolucci Pizzorusso 2001. Sul paragone tra planh
trobadorici e planctus latini è impostata inoltre la disamina dei lamenti funebri dedicati ai principi in area
occitanica in Aston 1971, dove si fa anche riferimento alla mescolanza di elementi tipici del genere in
componimenti diversi o piuttosto ad elementi espressivi consueti in altre forme, ma riproposti all’interno
dei planh. Lo studioso evidenzia in modo significativo come il genere possa essere considerato
150
dell’avvenimento, piuttosto che alleviare le pene di chi resta. Nelle opere trobadoriche
c’è talvolta spazio per una visione più serena, laddove si insista sul destino paradisiaco
del defunto, con la possibilità di ampliare l’immagine in senso morale, come si nota con
particolare evidenza nei componimenti tardi. Tuttavia il punto di vista dominante è
quello di chi testimonia la perdita e perciò prevale la percezione del suo dolore364.
La classificazione del genere è ancora una volta tarda365, ma già gli autori classici si
dimostrano consapevoli delle specificità delle proprie opere, che spesso chiamano
chant-plor, componimenti cioè il cui stile e la cui intonazione sono accordati alla
materia366. Lo stesso Petrarca dà conto di tale peculiarità al verso 80 della canzone 268,
dove si rivolge alla propria opera, come vuole la consuetudine del congedo, in questi
termini: “canzon mia no, ma pianto”367. Dal punto di vista formale, però, si tratta pur
sempre di un “canto”: i trovatori, infatti, non introducono alcuna novità metrica o
tecnica, continuando nel solco della canzone e identificando il planh solo come genere
tematico. Tale aspetto strutturale differenzia la produzione occitanica dal resto di quella
romanza, aperta a scelte formali più specifiche, ed appare significativo rispetto a
Petrarca: anche nel Canzoniere il planh sfrutta le strutture metriche più tipiche della
poesia d’amore e recupera in particolare l’idea della solenne canzone d’addio368.
I planh trobadorici si distinguono in due aree concettuali: lamenti dedicati alla dama e
pianti per la morte del signore369. Una situazione intermedia si delinea a fronte della
un’originale applicazione di una tradizione più ampia e articolata, da cui si origina un aspetto strutturale
essenziale: la tendenza alla tipizzazione.
Per i planh in ambito galego-portoghese si vedano infine Filguerda Valverde 1945 e Mattoso 1997.
364
Tali limitazioni tematiche valgono in particolare per la produzione occitanica. In altri ambiti romanzi e
talvolta anche mediolatini c’è più spazio per la varietà, l’evoluzione, l’approfondimento morale e
teologico, persino per la sovrapposizione di spunti concettuali eterogenei, ideologici e politici. Un aspetto
fondamentale per comprendere tale cambiamento nel genere è l’influenza della coeva letteratura
allegorico-didattica: la rappresentazione della morte di un individuo acquisisce una valenza esemplare e
attraverso la narrazione della sua vita e soprattutto della sua morte l’autore intende portare un
insegnamento utile ai lettori. Per tali questioni si veda Thiry 1978, pp. 37 segg.
365
Si fa qui riferimento alle Leys d’amor, in cui il genere è descritto con la maggior ampiezza possibile,
tenendo conto del tema fondamentale che lo identifica, dei motivi più frequenti, della struttura e dello
stile più tipici (di cui si trova un’efficace sintesi, benché non guardando direttamente ai testi, in SchulzeBusacker 1979). Per l’analisi di tale trattazione tarda si può consultare inoltre Thiry 1978 pp. 27 segg,
dove si trovano i riferimenti anche ad altri – ancor più tardi e sempre isolati – tentativi di definizione.
366
Thiry 1978, pp. 29 segg descrive altri accorgimenti che dimostrano la consapevolezza e l’attenzione
degli autori: la sapiente elaborazione degli elementi convenzionali, non solo al fine di creare un testo
originale, ma anche per costruire un messaggio ben preciso, le cui finalità sono definite in modo puntuale
(educative, esemplari, morali). Questo elemento però caratterizza ben poco la tradizione occitanica
rispetto a quella romanza, poiché nel Midi il genere del planh non si sviluppa oltre le sue motivazioni di
partenza.
367
La definizione di genere è interessantissima e rivela ulteriormente la connessione con la parallela
tradizione occitanica.
368
Sono soprattutto i trovieri a sperimentare soluzioni espressive specifiche del genere, per cui si veda
Thiry 1978, p. 27 e passim.
369
Ad essi è dedicata in particolare l’analisi in Aston 1971. Se ne ricordano alcuni esempi caratteristici:
Giraut de Bornelh S’anc jorn agui joi ni solatz, Bertran de Born Seingner, per vos mi voill de joi estraire
e A totz dic qe ja mais non voil, Aimeric de Belenoi Ai las, per que viu lonjamen ni dura, Cercamon Lo
plaing comenz iradamen, Folchetto da Marsiglia Si com sel qu’es tan greujatz, Bartolomé Zorzi Sil monz
fondes a maravilha gran, Guilhem de Berguedà Consiros cant e planc e plor, Aimeric de Peguilhan En
aquelh temps que l reys mori, N’Amfos, Ja no cujey que m pogues oblidar e S’ieu anc chantiei alegres ni
jauzens, Gaucelm Faidit Fortz chausa es que tot lo major dan, Guilhem de Saint Leidier Lo plus iratz
151
perdita della signora, cui il poeta riconosce con reverenza una superiorità socio-politica
oltre che individuale, ma che celebra attraverso le medesime lodi riservate alla dama.
Per il resto, la progressione del discorso è sempre molto riconoscibile, per la definizione
di alcuni motivi topici e per l’utilizzo di immagini altamente convenzionali370, allo
scopo di dimostrare la gravità dell’evento luttuoso371. A monte è ovviamente la scelta di
un personaggio positivo, la cui dipartita rappresenti una perdita deprecabile per il poeta
che la piange, ma anche per la società tutta; spesso però l’umanità iniqua non si accorge
nemmeno della deprivazione subita372. Tra gli elementi immancabili figurano dunque
l’elogio del defunto373, che rispecchia in pieno i panegirici di figure politiche eccellenti,
o dell’amata, che corrisponde alla lode amorosa, nonché la prostrazione di chi parla. Il
dolore infatti è presentato in chiave soggettiva: il poeta partecipa in prima persona della
tragedia e ne avverte su di sé gli effetti con la medesima violenza fisica che caratterizza
la descrizione dei patimenti sentimentali. L’espressione iperbolica della sofferenza
comporta scelte retoriche ricorrenti, come l’invocazione, la preghiera, la
personificazione; i principali interlocutori sono il defunto stesso, Dio e la Morte.
Rivolgendosi al primo, l’io esprime soprattutto rammarico e talvolta una speranza
rispetto al suo destino, ma è con gli altri destinatari che l’intonazione raggiunge la
massima intensità. In entrambi i casi, infatti, l’autore può scegliere tra due prospettive:
chiedere aiuto (per lo più allo scopo di morire, seguendo la persona alla cui assenza non
si può far fronte) oppure esprimere la propria ira. Nel caso della Morte, non è difficile
immaginare l’amarezza del risentimento; quando invece l’io rivolge il proprio rancore
remaing d’autres chatius, Guiraut de Calanson Belh senher Dieus, quo pot esser sufritz, Matieu de
Caersì, Tant suy marritz que no m puesc alegrar, Guilhem Augier Novella Quascus plor’e planh son
dampnatge.
370
In merito alla convenzionalità e all’omogeneità dei testi si legga in primo luogo Schulze-Busacker
1979, che sottolinea come tale uniformità sia significativa anche rispetto all’ampio arco cronologico in
questione, dal 1137 al 1343, secondo le date interne desumibili dai componimenti stessi. Anche Thiry
1978 sottolinea più volte nella sua analisi del genere la molteplicità di soluzioni cui gli elementi di per sé
convenzionali possono portare. Tuttavia pare che tali affermazioni si adattino più ad altre e posteriori
esperienze romanze, rispetto al corpus occitanico, i cui lamenti sono in effetti molto affini, anche perché,
a differenza di ciò che avviene già con i trovieri, nei planh pochissimo spazio è dedicato alla descrizione
della morte o a fatti storici cui il personaggio in questione abbia preso parte. Infine Aston 1971 ha
sottolineato come gli elementi topici più caratteristici del genere lo accomunino al suo antecedente
mediolatino.
371
Secondo Schulze-Busacker 1979 gli elementi davvero definitori, perché sempre presenti, sono solo
l’annuncio della morte (secondo le forme della constatazione, della personificazione e della
rappresentazione indiretta, tramite l’insistenza sul dolore) e la sofferenza che ne deriva. A sua volta
l’espressione del dolore può assumere connotazioni diverse, a seconda di quanto lirica o piuttosto
moraleggiante sia l’effusione, o ancora di quali elementi di contorno (altrettanto topici e riconoscibili)
possono essere aggiunti. Tra di essi anche l’elogio, che invece Thiry 1978 ritiene quasi essenziale.
372
Tale spunto moraleggiante contraddistingue soprattutto i planh degli epigoni di Marcabru, come
Cercamon, che dunque associano alla poesia una funzione educativa e censoria. Secondo SchulzeBusacker 1979 alcune manifestazioni peculiari del genere, come quella di Sordello, nascondono un
intento satirico rispetto a tale prospettiva.
373
Accogliamo in questo caso l’opinione di Thiry 1978, sulla base degli elementi che sono parsi più
frequenti nella lettura dei testi.
152
verso il Signore, gli esiti quasi blasfemi possono risultare sorprendenti374. Infine, allo
scopo di intensificare il pathos, i trovatori spesso insistono sulle conseguenze morali di
una perdita tanto dannosa: è frequente, ad esempio, che sia affermata la morte di tutte le
qualità cortesi, insieme a quella di chi le proteggeva (il signore) o le incarnava
(l’amata).
Sordello prende in parte le distanze dalla convenzione del genere con il suo compianto
per Blacatz, Planher vuelh en Blacatz en aquest leugier so375. Qui infatti l’elogio è
mediato da un’immagine peculiare, a sua volta topica, ma d’abitudine legata alle
relazioni amorose e alla subordinazione dell’innamorato alla dama. Il poeta infatti invita
alcuni personaggi, nominati in modo esplicito, a spartirsi il cuore del valoroso Blacatz,
al fine di ottenerne le qualità, di cui evidentemente sono manchevoli. Il componimento
di Sordello rivela in sostanza una sovrapposizione di generi: al planh vero e proprio, la
cui intonazione dolente domina soprattutto in incipit, è affiancata una critica mirata,
tipica di numerosi sirventesi occitanici, che determina un’espressione più vigorosa nella
parte centrale. Lo spunto del cuore mangiato è esplicitamente recuperato da Bertran
d’Alamannon in Mout m’es greu d’En Sordel, car l’es faillitz sos senz, che si dichiara
deluso dal collega, lo rimprovera per aver sprecato un simile cuore con infimi
personaggi e propone dunque una spartizione tra i più valorosi. Resta così il gioco sulla
convenzione di genere, ma si perde l’elemento polemico-politico. Lo stesso vale per Pus
partit an lo cor En Sordel e N Bertrans di Peire Bremon Ricas Novas, che nella terza
occorrenza della medesima peculiare soluzione cita esplicitamente i due antecedenti, già
in incipit. Lo spunto diviene occasione per un’iperbolica estensione della spartizione
entro tutti i popoli e i luoghi occidentali e in parte transmarini: proprio l’enumerazione
delle coordinate geografiche sembra costituire il vero scopo del poeta.
Il riuso del genere in collaborazione con elementi civili, che abbiamo visto nel caso di
Sordello, si coglie anche in altri peculiari testi trobadorici, come in Aissi com hom
plainh son fill o son paire, in cui Peire Cardenal rappresenta i peccatori come morti in
chiave morale e spirituale. L’allontanamento dalla tradizione del planctus è ancor più
netto, poiché la morte in senso stretto è addirittura eliminata. Lo stesso avviene in tre
componimenti d’argomento amoroso, dove l’immagine della morte e il conseguente
lamento sono volti ad esprimere l’insoddisfazione del drudo376. In Gran esfortz fai qui
chanta ni s deporta Salh d’Escola piange l’amata come morta, per renderne in modo
innovativo e metaforico la crudeltà, mentre in Se l mals d’amors m’auzi ni m’es nozens
Blacasset si dispera per due donne splendide come fossero morte, quando invece hanno
374
Tale peculiare trattamento della materia sacra ben si accorda con la convenzionale mescolanza di
divino e terreno che contraddistingue la rappresentazione amorosa; se ne parlerà con maggiore ampiezza
nel corso del capitolo successivo.
375
La duplice identità del defunto, signore feudale e poeta, è particolarmente interessante per il lettore di
Petrarca, che piange la morte di due poeti nel Canzoniere, Cino da Pistoia e Sennuccio del Bene.
376
Su tali testi si sono soffermate sia Bertolucci Pizzorusso 2001, nella sua riflessione sulla diffusione del
lamento in morte in generi diversi dal planh canonico, sia Brunetti 2006, ragionando sulle forme di
lontananza nella poesia trobadorica.
153
soltanto preso il velo377. Di nuovo Sordello trasforma l’abituale lamentazione per la
dama scomparsa in oggetto di disputa teorica, quando nel partimens Uns amics et
un’amia si domanda quale sia il comportamento corretto per l’innamorato rimasto solo,
consolazione e ritorno all’amore oppure lutto senza speranza378. Questione molto simile
viene proposta da Gui d’Ussel in N’Elias, de vos voill auzir, anche se forse in un’ottica
semplificata379. Un effetto derisorio e parodico si coglie invece nel planh di Guilhem de
Montanhagol, dedicato ad un amico poeta, dall’incipit Marritz cum homs mal sabens ab
frachura.
7.1 “Planh” trobadorici in morte dell’amata
In ambito trobadorico la morte dell’amata rappresenta in realtà una questione un po’ più
delicata. Da una parte, infatti, sono rimasti pochissimi testi dedicati all’avvenimento,
anche se, come ha evidenziato Marco Santagata, si possono ipotizzare perdite
consistenti. Ben pochi autori piangono la scomparsa della dama, nessuno la ricorda
oltre, per quanto la promessa di amarla in eterno rappresenti un topos diffuso, e non solo
nei testi funebri380.
I planh classici dedicati alla dama sono soltanto sei: De tot en tot es er de mi partitz di
Aimeric de Peguilhan, Crezens, fis, verays et entiers di Gavaudan, De totz chaitius di
Pons de Capduelh, Eu non chant ges per talan de chantar di Lanfranco Cigala, S’ieu ai
perdut di Bonifaci Calvo e Ar pren camgat per tostemps de xantar di Raimbaut de
Vaqueiras. Tale gruppo di testi381 può essere integrato attingendo alla produzione di due
trovatori d’area iberica, Pero Garcia Burgalés, attivo dopo la metà del Duecento alla
corte di Alfonso X, e Pedro di Barcelos, vissuto a cavallo tra XIII e XIV secolo382. In
entrambi i casi l’importanza del tema funebre è evidente, o addirittura schiacciante nel
piccolo canzoniere di don Pedro, che su quattro canzoni sopravvissute, lascia ben tre
liriche in cui inveisce contro Dio per aver causato la morte dell’amata383. La medesima
377
Bertolucci Pizzorusso 2001 sottolinea però come entrare in convento significhi in definitiva “morire
per il mondo” e comunque sparire, sottraendosi alle consuetudini della vita cortese ed anzi infrangendone
la logica, anche a scapito del poeta.
378
Tale aspetto è particolarmente interessante rispetto alle conseguenze della morte dell’amata
sull’atteggiamento e sulla poesia dell’innamorato, su cui sarà opportuno tornare con maggiore attenzione,
soprattutto in riferimento alla soluzione petrarchesca.
379
Il partimens infatti oppone morte dell’amata e rifiuto da parte sua come possibili cause del dolore più
grande, e dunque non propone una vera e propria riflessione sul comportamento giusto per un amante in
lutto.
380
Santagata 1999, pp. 67 segg.
381
Tale corpus è stato identificato sia da Santagata 1999, p. 67, sia da Brunetti 2006.
382
I due tardi trovatori sono ricordati da Bertolucci Pizzorusso 2001 (il secondo come Don Pedro de
Portugal) quali esempi di trasformazione del genere.
383
Que muyto bem me fez Nostro Senhor, Nom quer’a Deus por mha morte rogar, Tal sazom foy em que
eu ja perdi.
154
tendenza alla blasfemia si coglie nei quattro planh del Burgalés384, benché si tratti di
testi più vari ed articolati385.
Aggiungiamo infine un ultimo esempio, che pare dimenticato. Anch’esso è
convenzionale, ma rinnovato dall’inconsueto punto di vista: in Ab lo cor trist environat
d’esmai è infatti un’anonima trobairitz a piangere il drudo perduto.
L’esiguità del genere appare ancor più sorprendente se pensiamo alla centralità della
figura femminile nella produzione occitanica, sia rispetto alla quantità di canzoni
amorose sul totale delle opere provenzali, sia a confronto con le iperboliche
dichiarazioni di devozione, fedeltà e desiderio che le contraddistinguono. Anche sul
piano poetico l’espressione del cordoglio e il perpetuarsi del sentimento al di là della
morte sarebbero stati del tutto giustificati, come in effetti avviene per Petrarca. Il
concetto stesso di poesia cortese si regge sulla presenza di un oggetto d’amore, adorato
ma irraggiungibile, con tutte le ben note dinamiche che ne derivano386. La sua brusca
scomparsa non può che turbare il trovatore, ponendolo nell’incertezza anche sul proprio
ruolo. Secondo Bertolucci Pizzorusso387 la difficoltà di gestire un simile cambiamento
può costituire una prima motivazione per la rarità del tema stesso. D’altro canto, poiché
la dama è un personaggio lirico e non storico, ciascun trovatore può scegliere
liberamente se e come affrontare il problema, trovandosi invece in una condizione ben
diversa nel caso della morte del signore, che costituisce un dato reale.
Il valore sconvolgente della morte dell’amata è invece spesso registrato nelle vidas, che
a tal proposito aggiungono dettagli assenti nelle canzoni, benché verosimili, al fine di
descrivere le diverse fasi biografiche del loro soggetto o anche di motivare l’abbandono
della vita e della produzione cortesi. Il caso più esemplare è quello di Folchetto da
Marsiglia. Egli abbandonò i piaceri della corte in seguito alla conversione spirituale, che
è in parte testimoniata dalle sue composizioni liriche, e che lo portò al vescovado e alla
lotta contro gli eretici. Tuttavia nella vida si afferma che lo spunto per tale decisione fu
la morte dell’amata, che avrebbe tolto ogni gusto e senso all’esperienza mondana388. Al
contrario, il poeta può cercare di dissimulare l’importanza dell’evento luttuoso, per
evidenziare piuttosto il ruolo della coscienza e della volontà nel proprio cambiamento
esistenziale. Ciò accade in particolare nel canzoniere di Guiraut Riquier: il poeta non si
384
Come si vedrà, anche un quinto testo fa riferimento alla morte dell’amata, ma in un’ottica del tutto
nuova: il poeta ringrazia il Signore che gli ha consentito di innamorarsi di nuovo.
385
Ja eu non ei oimais por que temer, che mancava nella rassegna di Bertolucci Pizzorusso 2011, Ai!,
Deus, que grave coita de sofrer, Nunca Deus quis nulha cousa gran ben e Se eu a Deus algun mal
mereci.
386
Su tale aspetto si è soffermata Brunetti 2006, mentre Santagata 1999 sembra attribuire minor peso a
tale svolta nella logica amorosa.
387
Bertolucci Pizzorusso 2001.
388
Su tale aspetto si soffermano sia Bertolucci Pizzorusso 2001 sia Brunetti 2006, e soprattutto Antonelli
1994, che analizza anche in generale la svolta dalla giovinezza spensierata alla serietà matura: proprio
questo potrebbe giustificare la rappresentazione della morte dell’amata. Un simile cambiamento, benché
senza coinvolgere alcun planh, si può leggere nel corpus del primo trovatore, Guglielmo IX, che accosta
componimenti giocosi o addirittura sguaiati a testi di carattere penitenziale. Infine, la stessa struttura
tripartita del De amore di Andrea Cappellano può essere interpretata in tal senso.
155
sofferma sulla perdita dell’amata (1283), ma esalta la propria rinnovata dedizione a Dio
e soprattutto alla Vergine, la quale prende il posto della dama nonché il suo senhal389.
Sul piano tematico, i planh dedicati alla dama presentano alcune differenziazioni
significative rispetto a quelli d’ispirazione civile. Si tratta in entrambi i casi di un genere
molto stilizzato, contraddistinto da una topica codificata in modo puntuale; gli elementi
amorosi riguardano l’insistenza sul ricordo, il desiderio di essere morti insieme o al
posto dell’amata, la certezza che l’amore durerà per sempre, a prescindere dalla forzata
separazione. Per comunicare il pathos della propria disperazione, i trovatori
ripropongono più volte nell’arco del componimento il nome femminile (per lo più
ancora mascherato dal senhal).
Il fattore nominale, in particolare, ha avuto un impatto evidente sulla lirica italiana delle
origini, anche prima dell’uso estensivo che ne ha fatto Petrarca. Lo si coglie nei pochi
poeti che hanno riutilizzato il genere del planh, poco attestato prima di Dante390, a
partire dalla Vita nova stessa: qui il nome proprio di Beatrice compare solo dopo la sua
morte e alle occorrenze esplicite si aggiungono numerose allusioni391.
7.2 Il “planh” nel Canzoniere
Nel Canzoniere, in quanto raccolta di liriche in primo luogo dedicata all’amore per
Laura, la morte dell’amata e il lamento che ne consegue hanno un valore fondamentale.
In tal senso, si può dire che Petrarca porti a compimento le premesse dei trovatori: un
amore iperbolico non può che essere stravolto dalla scomparsa del suo oggetto.
Mettendo a frutto anche l’esempio di Dante392, l’Aretino non si sottrae alla sfida di
ripensare la propria poesia ed anzi sfrutta l’avvenimento funebre per imprimere alla
raccolta una svolta essenziale. Già tale funzione dell’avvenimento e del genere funebre,
nonché l’idea di una poesia che va oltre la perdita dell’amata, segnano una forte
innovazione nel recupero della tradizione, laddove il canto in morte costituiva un
momento isolato e di fatto una manifestazione poetica occasionale393. L’utilizzo di
389
È noto che Petrarca impone il medesimo ordine cronologico e assiologico tra conversione (o meglio,
esigenza della conversione) e morte di Laura. Si è già fatto riferimento alle affinità che intercorrono tra
Guiraut Riquier e il Canzoniere, in questo e nel capitolo precedente. Per le peculiarità della raccolta del
trovatore iberico si veda anche il capitolo sesto. Di tali aspetti si è occupato, inoltre, Santagata 1999, pp.
65-67. Il caso di Guiraut è stato considerato anche da Antonelli 1994, in una più ampia disamina sulle
bipartizioni nei canzonieri predanteschi, autoriali o meno.
390
In particolare Cino da Pistoia, citato ad esempio in Bettarini 1998, pp. 43 segg e in Malzacher 2013,
pp. 31 e 159, dove si trovano ulteriori indicazioni bibliografiche. La studiosa sottolinea in particolare
come prima della Vita nova ci fossero stati sia esempi di pianto per l’amata morta, anche in Italia, sia
esperimenti sulla bipartizione di un canzoniere sistematico, come per Guittone, ma mai una
sovrapposizione dei due elementi, come appunto in Dante. L’originalità del poeta era stata già esaltata da
Santagata 1999, pp. 70 segg, anche in riferimento agli aspetti tematici, nell’ottica di una semplificazione,
e da Antonelli 1994, che fa riferimento anche al caso di Guittone, evidenziando come il criterio fosse
soltanto cronologico, benché pensato per esaltare l’evoluzione semantica della poesia.
391
Santagata 1999, p. 83.
392
Per la novità della poesia in morte di Beatrice si legga anche Singleton 1968, pp. 137.
393
Lo ha sottolineato, in riferimento ai trovatori, Aston 1971. Petrarca raccoglie però anche tale
connotazione più convenzionale nei vari planh del Canzoniere dedicati a personaggi diversi dall’amata. In
realtà anche Dante piange la morte di due personaggi oltre a Beatrice, il padre e l’amica di lei; in entrambi
156
diversi e illustri modelli consente di apprezzare a maggior ragione l’originalità di
Petrarca, a partire dal modo in cui essi interagiscono. La precisa bipartizione
dantesca394, con i suoi antecedenti, opera certamente a monte del Canzoniere; tuttavia la
raccolta petrarchesca non è mai stata pensata come divisa in due parti equivalenti sul
piano quantitativo, come accade invece per Dante395. Inoltre la struttura dell’opera
petrarchesca nasce da una duplice giustificazione tematica. La distinzione delle due
sezioni, infatti, è sì confermata dall’istanza amorosa e luttuosa già propria della Vita
nova, identificando con ciò l’importanza dell’evento funebre, ma nasce in realtà dal
cambiamento morale, già presente, come si è detto, in Guiraut Riquier396. Tale aspetto
era rilevante anche nella prima metà del Canzoniere – lo si è visto ad esempio per le
sestine –, ma è la canzone 264, il testo che apre la seconda parte, a proporre la mutatio
animi, perciò rappresentando il primo traguardo del poeta. Grazie alla collaborazione fra
spunti diversi, lo sviluppo dell’io intorno alla cesura risulta più complesso.
Anche in merito ai singoli motivi, nella composizione dei suoi planh Petrarca dimostra
di ricordare con dovizia i suoi antecedenti, in particolare transalpini. Vi si ritrovano
infatti quasi tutti gli elementi topici che caratterizzavano i lamenti trobadorici e di cui la
produzione italiana si era appropriata, con due eccezioni evidenti e significative. In
primo luogo, mancano le dure requisitorie contro Dio, che spesso si riscontrano nei
lamenti occitanici. Da una parte, Petrarca potrebbe aver risentito dell’influenza
dantesca; dall’altra egli rispetta la coerenza del suo io lirico, che vive la spinta spirituale
in modo incompleto e tormentato, ma non dimentica mai del tutto doveri ed aspirazioni
cristiani. È vero però che rimane uno spazio di ambiguità nella concezione del sacro e
nel rapporto tra dimensione celeste e realtà terrena: ciò suggerisce la perdurante
importanza dei modelli provenzali e potenzia l’autoritratto petrarchesco, poiché lo
distingue dalla visione dantesca. Si pensi ad esempio alla coppia di sonetti 344-345. Nel
i casi però si tratta di prefigurazioni del più grave lutto, che non costituiscono, perciò, due casi autonomi.
Se ne tratterà ulteriormente a breve.
394
La canzone Donna pietosa è esattamente a metà della Vita nova, e così la lunga visione premonitrice
della morte di Beatrice che di fatto sostituisce la narrazione della morte vera e propria, che Dante
preferisce sottacere. Ne consegue inoltre che la canzone elegiaca che piange l’avvenuta morte dell’amata,
Gli occhi dolenti, apre la seconda metà del libello (la terza novena), sottolineando come alla partizione
numerica corrisponda quella contenutistica.
Su tali aspetti si è soffermata Malzacher 2013, pp. 162 e 171, in particolare evidenziando una
corrispondenza posizionale tra Donna pietosa e il petrarchesco sonetto 184, cioè il primo componimento
in cui il poeta realizza che anche Laura dovrà prima o poi morire e che si colloca in effetti subito dopo la
metà dei 366 fragmenta.
395
Singleton 1968, pp. 13-38 ha messo in evidenza la centralità della morte di Beatrice rispetto alla
struttura stessa della Vita nova: il “libello” infatti è tutto narrato a posteriori (possiamo anzi anticipare ad
esso la distinzione tra personaggio e poeta descritta da Contini per la Commedia), è un “libro della
memoria”. Dunque l’amante sa fin dall’inizio che Beatrice morirà e che ciò porterà conseguenze
fondamentali. Non si può dire lo stesso in Petrarca: al di là del sonetto proemiale, certamente pensato “a
posteriori”, e in parte della canzone 23, che riesamina l’inizio dell’esperienza amorosa, la prospettiva
dell’io poetico suona in sostanza “presente” rispetto ai sentimenti espressi. Con ciò ancora una volta non
si intende dare fiducia alla fittizia datazione che Petrarca associa ai propri componimenti, quanto
evidenziare la condizione emotiva che il poeta attribuisce di volta in volta al suo io, senza sovrapporsi del
tutto ad esso.
396
Per questo sembra opportuno precisare la “bipartizione tematica” di cui parla Malzacher 2013, p. 162
riferendosi alla sola questione laurana.
157
primo Petrarca dichiara che la beatitudine di Laura non gli procura alcuna consolazione
(“né gran prosperità il mio stato adverso / pò consolar di quel bel spirto sciolto”, vv 1011); la necessità stessa di implorare perdono nel componimento successivo dimostra
l’eccesso delle sue parole (cioè “quel che, se fusse ver, torto sarebbe”, v 4)397. Il poeta
insomma non rinuncia a suggerire la responsabilità del cielo rispetto al proprio dolore,
anche se in modo innovativo, appropriandosi di un motivo del tutto convenzionale398:
[…] / che sol ne mostrò ‘l ciel, poi sel ritolse / per adornarne i suoi stellanti chiostri (son.
309, vv 3-4)
[Gli occhi dicevano] il ciel n’aspetta: a voi parrà per tempo; / ma chi ne strinse qui,
dissolve il nodo, / e’l vostro per farv’ira vuol che ‘nvecchi (son. 330, vv 12-14)
Dolce mio caro et precioso pegno / che Natura mi tolse, e ‘l Ciel mi guarda (son. 340, vv
1-2).
L’io poetico ragiona ancora in termini terreni e di certo non è pronto ad elevare il suo
sguardo oltre la dimensione mondana399. Il suo desiderio per Laura non viene meno,
benché sia ora radicato nel ricordo, e il bisogno di rivederla, che trova spazio soprattutto
nel filone delle visioni, urge al di là della prospettiva salvifico-escatologica400. Tale
attaccamento è espresso in modo evidente nel componimento di annuncio della morte, il
sonetto 267: “Per voi conven ch’io arda, e ‘n voi respire, / ch’i’ pur fui vostro; et se di
voi son privo, / via men d’ogni sventura altra mi dole” (vv 9-11)401.
Sia i modelli occitanici sia quello dantesco rappresentano dunque uno spunto, un punto
di partenza nella reinterpretazione del genere. L’ampiezza stessa del Canzoniere
contribuisce alla libertà del riuso petrarchesco. Benché il poeta proponga alcuni esempi
di solenne canto in morte (268402, 331, 332), di fatto è l’intera seconda parte del
Canzoniere a costituire un lunghissimo planh, una sfaccettata e approfondita
espressione del proprio cordoglio, ad eccezione dei primi tre componimenti, degli ultimi
sette ormai volti al superamento dell’esperienza amorosa e di alcune parentesi
penitenziali. Le possibilità per elaborare la tematica luttuosa si accrescono quindi in
397
Il sonetto 346, che narra l’arrivo di Laura splendente in Paradiso, oltre a connettersi perfettamente ai
due testi che precedono, suona quasi, nella successione lineare della raccolta, una riparazione rispetto alle
parole avventate di 344.
398
Si pensi ai fragmenta 300, 309, 330, 332, 337, 340, 348, in cui il tema è presentato secondo diverse
sfumature. In 360 invece la colpa è attribuita ad Amore, che ha fatto innamorare il poeta e poi gli ha
sottratto ciò che desiderava.
399
È molto interessante la riflessione conclusiva di Fenzi in Picone 2007, p. 611, che sottolinea la
necessità per l’io poetico di trovare un compromesso tra i due aspetti della relazione amorosa quale si
configura dopo la morte di Laura, tra consapevolezza della sua beatitudine e desiderio persistente.
400
Così invece Dante: Santagata 1999, pp. 70 segg., Baranski in Picone 2007, pp. 617-640 e poi
Malzacher 2013, pp. 159-254, che basa su tale opposizione la propria interpretazione del rapporto
Canzoniere-Vita nova.
401
Il tema viene perciò introdotto da un metro “umile”, come sottolinea Bettarini 1998, pp. 46-48. Si
delinea un interessante effetto introduttivo, come a preparare il terreno alla vera e propria esclamazione
dolente, rappresentata anche in senso retorico dalla patetica interrogativa che apre 268, Che debb’io far?
Che mi consigli, Amore? Il medesimo meccanismo si riscontra tra 27 e 28 (il sonetto introduce il tema
della crociata, la canzone lo sviluppa) e tra 365 e 366 (preghiere a Dio e alla Vergine): se ne riparlerà a
breve.
402
Per l’analisi di 268 si ricorda innanzitutto la ricostruzione filologica in Bettarini 1998, pp. 45-85.
158
modo notevole: i diversi dettagli convenzionali sono dilazionati, variati ed accostati ad
elementi eterogenei403. Si osservi qualche luogo esemplare:
Tempo è ben di morire, / et ò tardato più ch’i’ non vorrei. / Madonna è morta, et à seco il
mio core; / […] / interromper conven quest’anni rei (canz. 268, vv. 2-6)
Poscia ch’ogni mia gioia / per lo suo dipartire in pianto è volta, / ogni dolcezza de mia
vita è tolta (canz. 268, vv 9-11)
Ahi orbo mondo ingrato, / gran cagion ài di dever pianger meco, / ché quel bel ch’era in
te, perduto ài seco (canz. 268, vv 20-22)
[…] ch’è salita / a tanta pace, et m’à lassato in guerra (canz. 268, vv 60-61)
Non basta ben ch’Amor, Fortuna et Morte / mi fanno guerra intorno e ‘n su le porte (son.
274, vv 2-3)
Occhi miei, oscurato è ‘l nostro sole (son. 275, v 1)
Giusto duol certo a lamentar mi mena (son. 276, v 5)
Le mie notti fa triste, e i giorni oscuri, / quella che n’à portato i pensier’ miei, / né di sé
m’à lasciato altro che ‘l nome (son. 291, vv 12-14)
Quant’ [invidia] a la dispietata et dura Morte, / ch’avendo spento in lei la vita mia, / stassi
ne’ suoi begli occhi, et me non chiama! (son. 300, vv 12-14)
Sol memoria m’avanza, / et pasco ‘l gran desir sol di quest’una: / onde l’alma vien men
frale et digiuna (canz. 331, vv 10-12)
[…] volti subitamente in doglia e ‘n pianto, / odiar vita mi fanno, et bramar morte” (sest.
332, vv 5-6)
Morte m’à morto, et sola pò far Morte / ch’i’ torni a riveder quel viso lieto / che piacer mi
facea i sospiri e ‘l pianto (sest. 332, vv 43-45).
In varie occasioni la spinta penitenziale si mescola al permanere dei legami terreni,
cosicché le due tematiche si rinnovano a vicenda. Così avviene ad esempio nel sonetto
273, che per esortare l’anima al cambiamento ne descrive i tormenti, luttuosi e terreni ad
un tempo: “Anima sconsolata, che pur vai / giugnendo legne al foco ove tu ardi?” (vv 34), “Deh non rinovellar quel che n’ancide” (v 9), “ché mal per noi quella beltà si vide, /
se viva et morta ne devea tor pace” (vv 13-14).
Un altro strumento efficace per l’appropriazione del genere è l’accostamento alla
consolatio, come si è detto tipologia espressiva affine ma ben distinta, che deriva a
Petrarca non tanto dalle fonti occitaniche quanto da quelle mediolatine. Al pianto infatti
si alternano momenti di sollievo nel contatto con lo spirito di Laura, che appare più
volte al poeta con intento rasserenante e persino morale404.
Tipicamente petrarchesca infine è la scansione del tempo: come nella sezione “in vita”
la vicenda amorosa era misurata dal passare degli anni, anche “in morte” il poeta
403
Tra i componimenti dedicati al lutto nel modo più classico ricordiamo 274-276, 288, 291, 294-296,
299, 300, 312-314, 320, 321, 326, 327, 338 (espressione del dolore ecumenico), 344, 352, 353.
404
Di tali apparizioni laurane si è parlato nel corso del presentecapitolo.
159
introduce due anniversari405, il terzo e il decimo, nonché l’indicazione puntuale della
data terribile.
O che bel morir era, oggi è terzo anno! (son. 278, v 14)406
Sai che ‘n mille trecento quarantotto, / il dì sesto d’aprile, in l’ora prima, / dal corpo uscìo
quell’anima beata (son. 336, vv 12-14)407
Tennemi Amor anni ventuno ardendo, / lieto nel foco, et nel duol pien di speme; / poi che
madonna e ‘l mio cor seco inseme / saliro al ciel, dieci altri anni piangendo408 (son. 364,
vv 1-4).
L’elemento funebre si inserisce negli equilibri complessivi della raccolta anche su un
piano più generale. Infatti, il lamento per la scomparsa di Laura trova corrispondenza
nella parte “in vita” grazie a prefigurazioni, presentimenti e anticipazioni di varia
natura.
In primo luogo, una serie di sonetti a ridosso della cesura mediana insiste sull’intuizione
da parte del poeta che qualcosa di grave sta per accadere; essi sono a loro volta
anticipati dalla graduale comprensione della necessità naturale che Laura, umana e
mortale, muoia. Entrambi tali aspetti – il presagio e la consapevolezza – erano già
presenti nella Vita nova409. Tuttavia Petrarca amplifica e sistematizza l’espediente, che
acquisisce una precisa valenza strutturale e narrativa: come già attraverso le indicazioni
cronologiche e gli anniversari, il poeta costruisce il senso della progressione, del tempo
che scorre, della vicenda che si evolve (o che al contrario non si evolve a sufficienza).
Ogni tassello contribuisce alla rappresentazione dell’io e delle sue dinamiche.
405
L’indicazione del primo anniversario è presente però anche nella Vita nova, dove comunque la
scansione temporale aveva un rilievo notevolissimo, benché secondo strategie diverse (capitolo XXIII
secondo la numerazione di Gorni). Per gli anniversari nel Canzoniere si veda il capitolo successivo.
406
Come segnala Santagata 1996, p. 1126 rifacendosi al Leopardi, il verso richiama da vicino quello in
cui è indicato per la prima volta un anniversario dell’innamoramento, il settimo, al v 28 della sestina 30.
Possiamo notare che sia il numero 7 che il 3 hanno una valenza simbolica: 7 in chiave romanza, ma anche
biblica (il servizio d’amore, il servizio di Giacobbe), 3 in chiave trinitaria. Per una lettura recente del
sonetto si veda ad esempio Malzacher 2013, pp. 239-246, dove si trova qualche utile indicazione
bibliografica ulteriore.
407
A questo sonetto corrisponde il 211, nella cui seconda terzina è precisata l’indicazione della data
dell’innamoramento: “Mille trecento ventisette, a punto / su l’ora prima, il dì sesto d’aprile, / nel laberinto
intrai, né veggio ond’esca”. Sul giorno dell’innamoramento, nonché della morte di Laura e il problema
del calendario liturgico si veda il classico studio di Martinelli 1972.
408
Il decimo anniversario in morte è anche l’ultimo della raccolta, ormai a ridosso della chiusura mariana
e dunque parte della zona penitenziale con cui termina il Canzoniere. Il riferimento cronologico è in
effetti parte di una più ampia retrospettiva sugli anni dell’innamoramento, i ventuno in vita e i dieci in
morte, dando quindi all’occorrenza un significato peculiare. Il brano dimostra anche come la percezione
del poeta innamorato resti coerente sino alla fine: ancora l’ardore e le sofferenze amorose gli paiono
piacevoli e positivi.
409
Oltre alla morte di un’amica e del padre di Beatrice, vanno senza dubbio ricordati la prima visione di
Amore, che piangente stringe tra le braccia un’ignara Beatrice, e il sogno-visione di Dante malato, che
precede di pochissimo la morte dell’amata e che in effetti è il frutto del doloroso pensiero che anch’ella è
umana. Oltre alle analisi nelle introduzioni ai singoli capitoli in Rossi 1999, si vedano anche Carrai 2008
e Malzacher 2013, pp. 160 segg.
160
Ella è sì schiva, ch’abitar non degna / più ne la vita faticosa et vile (son. 184, vv 7-8)
[…] Quanto questa in terra appare, / fia ‘l viver bello; et poi ‘l vedrem turbare, / perir
vertuti, e ‘l mio regno con elle (son. 218, vv 6-8)
Tanto et più fien le cose oscure et sole, / se Morte li occhi suoi chiude et asconde (son.
218, vv 13-14)
Sì ch’io non veggia il gran publico danno, / e ‘l mondo remaner senza ‘l suo sole (son.
246, vv 9-10)
Et venga tosto, perché Morte fura / prima i migliori, et lascia star i rei: / questa, aspettata
al regno delli dei, / cosa bella mortal passa et non dura (son. 248, vv 5-8)
Qual paura ò, quando mi torna a mente / quel giorno ch’i’ lasciai grave et pensosa /
madonna […] (son. 249, vv 1-3)
Or tristi auguri, et sogni et penser’ negri / mi dànno assalto, et piaccia a Dio che ‘nvano
(son. 249, vv 13-14)
Ché spesso nel suo volto veder parme / vera pietà con grave dolor mista (son. 250, vv 56)
Non ti soven di quella ultima sera (son. 250, v 9)
Non sperar di vedermi in terra mai (son. 250, v 14)
È dunque ver che ‘nnanzi tempo spenta / sia l’alma luce che suol far contenta / mia vita in
pene et in speranze bone? (son. 251, vv 2-4)
Se per salir a l’eterno soggiorno / uscita è pur del bel’albergo fora, / prego non tardi il mio
ultimo giorno (son. 251, vv 12-14)
O dolci sguardi, o parolette accorte, / or fia mai il dì ch’i’ vi riveggia e oda? (son. 253, vv
1-2)
[…] O dura dipartita, / perché lontan m’ài fatto da’ miei danni? / La mia favola breve è
già compita, / et fornito il mio tempo a mezzo gli anni (son. 254, vv 11-14)
[…] ciel, che lei aspetta et brama (son. 261, v 8).
Nei versi citati410 si notano già alcuni elementi tipici del pianto funebre e quindi ben
noti al lettore dei trovatori: la lode dell’amata che esalta il rimpianto per la sua
scomparsa, l’idea di un amore che va oltre la vita terrena, il desiderio del poeta di
morire prima di lei o almeno insieme a lei, la responsabilità del Cielo, che desidera
adornarsi dello splendore muliebre. Petrarca dunque ripropone tratti essenziali della
consuetudine espressiva trobadorica in un contesto del tutto innovativo.
La consapevolezza della natura mortale di Laura è sottesa, inoltre, ai componimenti in
cui il poeta ne presenti la malattia o la vecchiaia, sia essa già prossima o solo ipotizzata.
La rappresentazione dell’amata in età matura costituisce a sua volta un topos, benché la
sensibilità petrarchesca lo riproponga in termini differenti rispetto ai Provenzali411;
l’aspetto più peculiare, però, si coglie nell’incontro tra motivo dell’età e dello scorrere
del tempo e componente funebre. Quest’ultima, ancora una volta, appare slegata dal
410
E spesso il complesso dei componimenti cui si è fatto riferimento accentua tali aspetti, ad esempio
sottolineando il timore del poeta, esprimendone il destino di dolore e morte, ampliando l’elogio delle
bellezze in serie elencatorie.
411
Nel corpus trobadorico tale ritratto poco lusinghiero dell’amata non ha tanto a che fare con la durata
della vicenda amorosa, come nel Canzoniere, quanto con la polemica o la derisione. Su tali aspetti si
tornerà in modo più dettagliato nel capitolo seguente.
161
contesto in cui era d’abitudine collocata in ambito occitanico, determinando una forma
ancora diversa di riuso delle convenzioni.
Ch’i’ veggia per vertù degli ultimi anni, / donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento, / e i
cape’ d’oro fin farsi d’argento, / et lassar le ghirlande e i verdi panni, / e ‘l viso scolorir
[…] (son. 12, vv 3-7)
Questa anima gentil che si diparte, / anzi tempo chiamata a l’altra vita (son. 31, vv 1-2)
[…] mia speme già condutta al verde / […] / quanto cangiata, oimè, da quel di pria! (son.
33, vv 9-12)
[…] et se non fosse or tale, / piagha per allentar d’arco non sana (son. 90, vv 13-14)
Or quei belli occhi […] / tal nebbia copre, sì gravosa et bruna, / che ‘l sol de la mia vita à
quasi spento (son. 231, vv 6-8)412
Qual ventura mi fu, quando da l’uno / de’ duo i più belli occhi che mai furo, / mirandol di
dolor turbato e scuro, / mosse vertù che fe’ ‘l mio infermo et bruno! (son. 233, vv 1-4)413.
A segnalare la corrispondenza tra le due sezioni della raccolta, Petrarca inserisce dopo
la morte di Laura alcuni ripensamenti sui presagi che ne aveva avuto, ma che non aveva
saputo interpretare. Egli si pente perciò di non aver fatto tesoro di quelle rivelazioni, che
gli avrebbero permesso di premunirsi contro le atroci sofferenze che ora patisce.
Mente mia, che presaga de’ tuoi damni, / al tempo lieto già pensosa et trista, / sì
‘ntentamente ne l’amata vista / requie cercavi de’ futuri affanni (son. 314, vv 1-4)
L’ultimo, lasso, de’ miei giorni allegri, / […] / giunto era, et facto ‘l cor tepida neve /
forse presago de’ dì tristi et negri (son. 328, vv 1-4)
O fido sguardo, or che volei tu dirme / partend’io per non esser mai contento? (son. 329,
vv 3-4)
Ch’i’ credeva […] / perder parte, non tutto al dipartirme (son. 329, vv 6-7)
Ché già ‘l contrario era ordinato in cielo, / spegner l’almo mio lume ond’io vivea (son.
329, vv 9-10)
Quel vago, dolce, caro, honesto sguardo / dir parea: To’ di me quel che tu poi, / ché mai
più qui non mi vedrai da poi / ch’avrai quinci il pe’ mosso, a mover tardo (son. 330, vv 14)
Come non vedestù nelli occhi suoi / quel che ved’ora, ond’io mi struggo et ardo? (son.
330, vv 7-8)
Ne la fronte a madonna avrei ben lecto: / Al fin se’ giunto d’ogni tua dolcezza / et al
principio del tuo amaro molto (canz. 331, vv 52-54).
412
Nei versi successivi il poeta si chiede come la Natura e Dio stesso possano permettere che ciò che è
tanto bello sia rovinato in modo tanto indegno: di nuovo un’anticipazione delle accuse che il poeta
rimasto in vita rivolge a chi gli ha sottratto l’amata.
413
Corollario della malattia di Laura in 231 è qui il contagio ai danni del poeta: la rappresentazione è
giocata sul topico meccanismo dell’innamoramento, con gli sguardi omicidi (qui letteralmente) della
dama che passano dagli occhi al cuore. Ai componimenti dedicati alle infermità di Laura che qui si sono
citati corrisponde un ultimo luogo interessante, dove però è il poeta ad essere malato. Il sonetto 120 è in
realtà un testo di corrispondenza ad un altro rimatore, scritto allo scopo di smentire le voci sulla propria
morte, altro aspetto che riconduce in modo coerente, anche se meno immediato, alle dichiarazioni sulla
caducità di Laura.
162
Quella dell’amata non è la sola morte pianta nel Canzoniere, come per altro già nel
libello dantesco. Nella Vita nova però le due dipartite che anticipavano quella di
Beatrice servivano in sostanza per annunciarla, poiché si trattava di personaggi
strettamente legati a lei (l’amica e il padre); a tale scopo primario si aggiungeva l’idea
del dolore patito dalla donna amata cui il poeta partecipava in prima persona.
Diversamente, nel Canzoniere i planh 91, 92, 269, 271414, 287 e 322 hanno poco o nulla
a che fare con Laura, e molto invece con l’io lirico e con la struttura della raccolta.
Innanzitutto si noterà che ancora una volta i componimenti sono distribuiti in entrambe
le sezioni, benché la seconda, per ragioni di tonalità complessiva oltre che di cronologia
della narrazione415, ne catalizzi la maggior parte. La disposizione ne rivela anche la
funzione nel progresso della raccolta. 91 piange la donna amata dal fratello416 e invita a
cogliere l’occasione per la conversione, quel cambiamento che Petrarca aveva già
invocato più volte per sé (54, 60, 62, 80…) senza mai concretizzarlo; la medesima
associazione concettuale, ma rovesciata, si ritrova idealmente nella successione 264
(pentimento)-268(morte dell’amata). Con 92, in memoria di Cino da Pistoia, si torna
alla dimensione amorosa e l’anafora dell’esortazione al pianto comunica con efficacia
l’idea tipica del planh trobadorico per cui il dolore dovrebbe essere ecumenico, poiché
tutto il mondo sconta la grave perdita: “Piangete, donne, et con voi pianga Amore;
piangete, amanti, per ciascun paese” (vv 1-2), “Piangan le rime anchor, piangano i
versi” (v 9), “Pianga Pistoia, e i citadin perversi” (v 12). Per altro, è topica anche
l’incomprensione del valore del defunto e la conseguente associazione tra lamento per la
morte e critica al tempo presente. Nell’insieme il sonetto sovrappone diversi aspetti
significativi: la morte del poeta, l’elemento amoroso, la cecità degli uomini.
La preminenza del cordoglio per Laura fa sì che nella seconda parte ogni nuova morte
sia in qualche modo ricondotta alla sua: così nel planh per Giovanni Colonna, cui in
realtà è dedicato ben poco spazio, e in quello all’amico e rimatore Sennuccio del Bene.
La componente metapoetica vi viene arricchita per il riferimento ad altri poeti d’amore
scomparsi, cui Petrarca invia il proprio saluto, culminando però col pensiero all’amata.
Esso domina poi nel sonetto 271, anche perché la seconda sfortunata figura femminile è
introdotta soltanto per creare un contrasto rispetto allo stato dell’io e al vero oggetto del
suo amore. L’unico personaggio cui il poeta rivolga per intero la sua attenzione e le sue
lacrime è l’amico Giacomo Colonna, anche se storicamente in notevole ritardo. Eppure
nemmeno per Giacomo Petrarca impiega la forma solenne della canzone: il canto
illustre in morte è riservato a Laura.
414
Il sonetto 271 non è tanto un lamento, quanto un’attestazione della morte di una seconda potenziale
donna amata, la cui dipartita salva il poeta da un rinnovato giogo amoroso. È quindi un testo peculiare,
soprattutto nella prospettiva del Canzoniere, su cui per altro ci siamo già soffermati nel corso del presente
capitolo.
415
Si intende con questo la cronologia fittizia che Petrarca delinea all’interno del Canzoniere, nell’atto di
ordinare gli episodi e, fisicamente, le liriche che compone, in relazione dunque alla loro funzione
comunicativa e non all’effettiva datazione storica.
416
Tale ipotesi è di fatto accettata senza remore dalla critica, benché il testo non offra alcun appiglio
esplicito: Santagata 1996, p. 445. Il sonetto è per certi aspetti più una consolatio che un planctus, in
quanto il dolore per l’avvenimento tocca il poeta solo in modo indiretto ed anzi gli offre il destro per un
discorso morale ed educativo.
163
La serie dei testi luttuosi non laurani propone alcune riflessioni. I sei brevi lamenti si
inseriscono nella raccolta in perfetta armonia, poiché da una parte sono legati alla figura
femminile – sia per l’intonazione generale della seconda sezione, sia per la
frammistione interna con il tema amoroso, di cui si è parlato –, e dall’altra appartengono
al più corposo gruppo di liriche dedicate a corrispondenti e interlocutori diversi. Certo,
il tema principale (anche per quantità) è quello sentimentale, ma non è solo in tal senso
che si definisce l’io poetico417.
In questi versi si conferma il più completo e attento recupero del genere occitanico del
planh, che i trovatori non hanno mai stato concepito come forma espressiva puramente
amorosa: Petrarca dunque se ne appropria in tutte le declinazioni che i Provenzali
avevano codificato. Il suo riuso appare perciò efficace sia nell’attenzione a tutti gli
elementi caratteristici della tradizione (significati, immagini, contesti d’uso), sia nello
sviluppo di quegli stessi strumenti verso prospettive nuove. Da una parte, il poeta porta
alla sua piena evoluzione la poesia in morte dell’amata, dall’altra amplia le possibilità
del genere luttuoso prima ancora che quella morte sia avvenuta.
7.3 Poeta e poesia dopo la morte dell’amata
Il problema fondamentale del poeta-amante dopo la dipartita della sua dama è trovare
un nuovo riferimento418. Il suo stato è confuso: a quali attività o prospettive è possibile
(emotivamente) e lecito (per rispetto all’amata) rivolgersi? Dovrebbe morire, o magari
entrare in convento, o soltanto cambiare il tema della propria poesia?419
Mentre le vidas tendono ad esaltare l’effetto spirituale della perdita, per spiegare
l’abbandono della vita cortese da parte del loro protagonista, i testi poetici dimostrano
che la rinuncia è meno ovvia e lineare di quanto non sembri420. Ad esempio, Lanfranco
Cigala dichiara che la gioia è giusta anche nel lutto a patto che derivi da piaceri non
417
È un aspetto fondamentale per la comprensione del Canzoniere, su cui sarà necessario tornare con
maggior ampiezza.
418
Su tale aspetto di incertezza si è soffermata in particolare Bertolucci Pizzorusso 2001, in merito ai
trovatori.
419
È interessante notare che il medesimo problema dovrebbe porsi anche rispetto alla morte del signore,
benché in termini meno intensi. In effetti, la rinnovata attribuzione del potere politico deve aver richiesto
ogni volta un nuovo orientamento da parte del poeta, la capacità di adeguarsi e accattivarsi le simpatie
delle nuove figure dominanti. Ciò vale a maggior ragione nei numerosi casi in cui il signore sia
identificato come protettore e garante delle virtù e della cortesia stessa: la sua mancanza comporta una
rapida decadenza del consesso sociale e uno stato ancor più amaro per il trovatore, soprattutto se si tratta
di un autore dedito ad opere moraleggianti. Tuttavia la questione è più pressante nel caso della dama,
almeno nella finzione poetica: secondo le dichiarazioni iperboliche tipiche della produzione sentimentale,
dall’amata dipende la vita stessa del poeta, e spesso anche il suo intelletto, la sua capacità espressiva.
L’incertezza dunque non è solo pratica, ma esistenziale.
420
Non solo la morte dell’amata porta a riflettere sui destini della poesia e sulla connessione che essa
deve mantenere con la vicenda amorosa. Ad esempio, nella sua ventiduesima canzone, Raimbaut
d’Aurenga si chiede se il sentimento e il canto che ispira devono coincidere o meno con l’aspetto fisico
(erotico) dell’amore stesso e quali siano dunque i limiti del sentimento. In questo caso, perciò, il problema
è già quello della presenza tangibile dell’amata, non però in terra, ma più precisamente nella camera da
letto. Un altro luogo interessante si trova in Si be m partetz, mala dompna, de vos di Gui d’Ussel che
dichiara ancora vivo il desiderio di cantare oltre la fine dell’amore. Di nuovo, il venir meno dell’amata
non è letterale, ma relativo al solo poeta; tuttavia l’affermazione appare significativa sul piano generale.
164
amorosi: entro certi limiti, dunque, egli si sente legittimato al canto e alle attività
mondane. Va ben oltre Pero Garcia Burgalés, che dopo il primo lutto, per cui aveva
accusato Dio di ingiustizia e crudeltà, ritrova l’amore (e ne ringrazia il Signore),
attuando una particolarissima versione del “cambio della dama”, concesso, come si è
detto, agli amanti cortesi a fronte di serie motivazioni421.
Le informazioni certe finiscono qui, poiché in mancanza di sillogi d’autore o per lo
meno di datazioni certe non è possibile affermare se i diversi poeti che cantano la morte
dell’amata siano tornati all’attività letteraria e in quali forme dopo la grave perdita.
Resta indubbia invece l’assenza di poesia sull’amore oltre la morte: il lamento per
l’avvenimento in sé sembra un limite invalicabile422 e l’unica eventuale possibilità di
proseguire il canto lirico è trovarne un nuovo oggetto.
La novità proposta da Dante e sviluppata da Petrarca appare perciò capitale. D’altro
canto, se il punto partenza dei due poeti è simile, il risultato è profondamente diverso.
La Vita nova delinea infatti un percorso coerente ed univoco: l’amata muore, è assunta
in cielo423, il poeta si dispera, poi conosce un temporaneo sviamento tra consolazione e
possibilità di un nuovo amore, ed infine grazie ad una visione torna a Beatrice e al
cammino retto verso il cielo. La morte dell’amata porta dunque a compimento la
funzione salvifica dell’amore ed imprime una nuova svolta alla poesia. La lirica
dantesca, infatti, aveva già conosciuto una prima evoluzione essenziale grazie alla
negazione del saluto – dallo Stil Novo cavalcantiano allo “stile della loda” –; ora, dopo
aver subito una fase di stallo che corrisponde ad un’interruzione del percorso morale –
afasia dopo la morte di Beatrice, tentazione cortese per la donna pietosa –, essa compie
un altro passo avanti significativo. La “loda” già segnava lo spostamento dell’amore sul
piano della spiritualità, della gratuità, di una poesia (e di un amore) che trova in sé le
proprie ragioni; nel finale del libello sarà annunciata la necessità di un salto ulteriore,
che solo una nuova opera (a posteriori diremmo la Commedia) potrà compiere. La morte
dell’amata Beatrice ha dunque una funzione inequivocabile sul piano morale (cristiano)
e letterario424.
421
Si delinea perciò in tale canzoniere la medesima situazione ipotizzata da Petrarca in 271, ma
immediatamente scartata. È interessante notare che anche Dante vive la tentazione di un nuovo amore: la
possibilità di riscontrare in più occasioni la medesima tendenza permette di ipotizzare che sia in gioco
non solo una naturale propensione umana, ma anche una consuetudine letteraria accettata.
422
Sulla natura incerta e irrisolta dell’evoluzione morale e poetica nelle sillogi trobadoriche si veda
l’efficace sintesi in Antonelli 1994.
423
È particolarmente interessante l’ipotesi di Gorni (nell’introduzione all’edizione Rossi 1999) sulla
morte di Beatrice, che spiegherebbe anche il dichiarato silenzio del poeta sull’argomento: Beatrice
potrebbe essere stata assunta in corpore il che motiverebbe una fusione tra l’amor carnis e l’amor
caritatis, giustificando e sublimando in via definitiva il primo tramite il secondo. Ne derivano
conseguenze fondamentali rispetto alla funzione conoscitiva dell’amore (di Beatrice), che per Dante è
strumento di comprensione ed elevazione verso Dio, come dimostra per altro l’ultimo sonetto della Vita
nova, Oltre la spera che più larga gira. Non potrebbe essere più netta la contrapposizione con Cavalcanti,
che per altro si delinea in tutto l’arco del prosimetro (il commento di Rossi 1999 lo mette bene in luce).
424
Sull’evoluzione esistenziale e poetica determinata dall’evento funebre si leggano, oltre al commento e
alle introduzioni in Rossi 1999: Antonelli 1994, Colombo 1994, Antonelli 2004, Carrai 2006, Malzacher
2013, soprattutto pp. 171 segg. La studiosa, come si è anticipato, si è ampiamente concentrata sulle
divergenze che intercorrono tra la visione dantesca e quella petrarchesca, in tutto l’arco delle due raccolte
e quindi delle vicende rappresentate.
165
Petrarca, invece, pone il problema in termini assai più ambigui. Egli infatti concepisce
l’amata in chiave duplice: la donna reale e terrena, il cui corpo bellissimo si disfa
tragicamente sotto terra e per la quale il desiderio non potrà mai spegnersi, e lo spirito
beato accolto in cielo425. Le due immagini di Laura si alternano in tutto l’arco della
seconda sezione, determinando i diversi atteggiamenti emotivi del poeta: disperazione,
nostalgico desiderio, speranza, stanchezza per la vita nel secolo, bisogno di spiritualità,
consolazione nel contatto con Laura stessa. Proprio il motivo delle visioni suggerisce
quell’elemento di duplicità e alternanza: in quei momenti, infatti, Laura è presente e
nello stesso tempo assente. La morte è una forma di separazione, di lontananza cui non
c’è rimedio; l’assunzione in cielo, inoltre, ridefinisce in senso morale l’ontologica
superiorità della figura femminile sull’io poetico, retaggio cortese ben percepibile nel
Canzoniere. D’altra parte, la presenza costante dell’amore e dell’amata accanto (dentro)
il poeta si riconfermano: come prima della morte l’allontanamento non poteva impedire
che il viso di Laura comparisse davanti agli occhi dell’innamorato (127, 129…), così
nel distacco definitivo c’è comunque spazio per l’incontro, benché in forma diversa.
Prima la natura accoglieva le deformazioni percettive del poeta, ora la visione permette
di dare corpo a tale presenza assidua, divenuta indispensabile alla sopravvivenza dell’io
lirico426. Il sonetto 280 è emblematico rispetto all’ambiguità della connessione con lo
spirito di Laura. Esso fa parte del ciclo sulle apparizioni valchiusane, che ricordano le
visioni pastorali della prima sezione e portano consolazione al poeta, dunque secondo
una prospettiva terrena; 280 però si distingue per l’invito di Laura a volgersi al cielo,
che sarà ripetuto con maggior forza e con collocazione più significativa nella canzone
359. La voce stessa dell’amata compie un movimento duplice: scende a terra, ma invita
al cielo427. D’altro canto lo stesso poeta compie un passo verso l’amata nel sonetto 302,
poiché il suo “penser” lo eleva verso di lei: è vero che la percezione soggettiva
dell’incontro rimanda facilmente alla dimensione dell’immaginazione, tuttavia Laura
prende direttamente la parola per promettere la beatitudine: “Per man mi prese et disse:
425
Della scissione di Laura offre un’efficace rappresentazione Malzacher 2013, soprattutto alle pp. 237
segg. La studiosa però insiste in maniera molto netta sull’elemento terreno, come per altro in tutto il corso
della sua riflessione sulle presenze della Vita nova nel Canzoniere, evidenziando la componente sensuale
e peccaminosa come assolutamente preponderante, tanto da risultare quasi univoca. Come già si è detto,
sono al contrario la complementarietà e la problematicità dell’io e del suo rapporto con Laura a costituire
il tratto più caratteristico e interessante dell’opera. Su tali aspetti ci siamo già in parte soffermati trattando
degli elementi pastorali nel corso del presente capitolo.
426
Abbiamo già anticipato il tema delle visioni. Malzacher 2013 passim, ma soprattutto nel primo e
nell’ultimo capitolo, insiste proprio sulla “poetica della presenza” che distinguerebbe Petrarca da Dante,
che dipinge una Beatrice spostata su un piano metafisico e dunque assiologicamente distante. Tale
onnipresenza di Amore e dell’amata è assolutamente evidente nel Canzoniere, poiché essi costituiscono la
prima “catena dorata” da cui in nessun modo il poeta può liberarsi; tale dominio perpetuo non deve essere
confuso, tuttavia, con una parità nel rapporto con l’amata, come Malzacher sembra talvolta sostenere ad
esempio nell’interpretazione del finale di 268 (Laura chiede al poeta di vivere per eternarne la memoria,
pp. 180 segg.) o della presenza di Laura in veste di visione (pp. 215 segg.) Non bisogna infine tralasciare
il peso che la morte di Laura determina sull’io, nel senso di una vera e propria lontananza che non sarà
più colmata: su tale aspetto si è soffermato ad esempio Fenzi in Picone 2007, p. 601.
427
Un altro esempio pregnante è quello già citato dei sonetti 344-346, in cui è chiara la centralità del
punto di vista del poeta, rispetto alla rappresentazione di Laura. Il suo stato celeste è assicurato, ed è il
poeta a percepire tale condizione prima come una consolazione insufficiente e poi come gloria da
celebrare.
166
In questa spera / sarai anchor meco, se ‘l desir non erra” (vv 5-6) e ancora “te solo
aspetto, et quel che tanto amasti / e là giuso è rimaso, il mio bel velo” (vv 10-11)428.
Una situazione simile si ripropone nel fragmentum 362, che significativamente si
colloca dopo la critica ad Amore in 360 e a ridosso delle preghiere conclusive, ma in cui
alla visione di Dio si affianca ancora il desiderio per Laura: “pregando humilemente che
consenta / ch’i’ stia a veder et l’uno et l’altro volto” (vv 10-11).
La duplicità delle tensioni va ricondotta nella sua sostanza al consueto dimidiamento
dell’io, tra legami terreni ed aspirazioni celesti, rappresentato in modi differenti in tutto
l’arco della raccolta e parallelamente nel Secretum429. Tra le due prospettive si nota
anche un possibile compromesso nella maturità raggiunta dal poeta poco prima che
l’amata morisse: il suo desiderio era sì terreno, ma aveva perso ogni carattere indegno e
Laura cominciava a fidarsi430. Ancora una volta insomma, al centro della questione è
l’io, dalla cui percezione è filtrata ogni realtà esterna, Laura e la sua morte comprese.
428
Riguardo alla natura delle visioni laurane, alla loro funzione e alla posizione dell’io rispetto ad esse, si
oppongono due diverse letture critiche. La prima si deve a Santagata (con particolare riferimento a
Santagata 1992), il quale attribuisce a Laura un ruolo salvifico, di guida spirituale, anche se ovviamente
non secondo i parametri danteschi; ne deriva per il personaggio femminile una posizione molto più attiva
e vivida rispetto all’io di quanto non si legga nella sezione “in vita”. Non basta perciò definirla una figura
della memoria, del tutto mediata dall’io poetico, la cui valenza positiva si riduce soltanto allo stato
celeste. Tale apporto più vivo e presente da parte di Laura è stato per altro sottolineato anche da Cherchi
2008, p. 107. Baranski, in Picone 2007, pp. 617-640, ritiene invece che manchi qualsivoglia connotazione
trascendentale nell’immagine ultraterrena di Laura. La vera mediazione tra i due risiede nel pensiero,
nell’immaginazione dell’io: le apparizioni sono del tutto legate alla sua percezione e si riducono perciò a
prodotti della sua psiche. La vera Laura non torna al poeta: in parte è sotto terra, in parte in Paradiso. E la
definitiva separazione dei due innamorati sembrerebbe comprovata dal sonetto in morte di Sennuccio del
Bene, cui viene chiesto di mediare tra amata e amante, portandole il saluto. Le posizioni dei due studiosi
sono in sostanza incompatibili, come sostiene nella sua conclusione lo stesso Baranski.
Ciò non toglie che si possa proporre una terza lettura, di carattere sintetico. Da una parte, tutto il
Canzoniere propone la visione soggettiva dell’io ed è quindi inevitabile che anche la percezione di Laura
morta passi attraverso i suoi occhi e il suo stato d’animo. Ciò non impedisce che il poeta ne avverta (e
dunque di riflesso il lettore) una diversa presenza: più lontana per certi aspetti, più attiva per altri (in
relazione anche all’amore maturo e coscienzioso e alla comprensione di quanto il rifiuto sia stato
benefico). È vero che tutte le visioni sono più o meno esplicitamente legate al pensiero del poeta, ma è
altrettanto forte l’invito verso il cielo (180, 302, 359). Il modello positivo di Laura passa in effetti
attraverso l’accettazione e la comprensione da parte dell’io, e non può avere esito fino a quando egli non
ne sia convinto in prima persona: a quel punto può rivolgersi in preghiera direttamente al cielo, senza la
mediazione di alcuna visione. In tal senso mi sembra quindi che l’elemento individuale e psicologico da
una parte, e quello benefico di Laura dall’altra non si contrappongano, ma anzi siano strettamente
connessi.
429
Sull’incapacità del poeta di fissarsi sui buoni propositi, di mettere a frutto la consapevolezza che pure
non gli manca, sulle aspirazioni spirituali e sul senso di vergogna si sofferma anche Cherchi 2008, passim
e soprattutto pp. 40-42. Lo studioso ritiene in particolare che il nodo che trattiene l’io da una svolta netta
consista nell’inadeguatezza dei mezzi con cui cerca di raggiungerla. Egli cerca infatti di dominare le
passioni con la ragione, senza accorgersi che la virtù deve nascere dalla fede, che sola gli consentirà di
abbracciare con pienezza l’amore di carità e il sommo bene. D’altro canto, l’alternanza dei sentimenti,
l’errore e le ricadute pongono l’amante in stretta relazione con l’uomo, il cristiano comune e dunque
accentuano l’aspetto esemplare della raccolta.
Lo studioso, inoltre, definisce il conflitto interiore dell’io come “psicomachia”: l’ambiguità nei
sentimenti, nelle tendenze mai chiare o nette dipende dal carattere di “verità” (letteraria) della vicenda
amorosa (p. 22).
430
Sull’evoluzione dei rapporti tra Laura e l’io poetico in vita si veda ad esempio Cherchi 2008,
soprattutto pp. 123 segg.
167
È necessario, infine, approfondire il destino della produzione lirica dopo la morte
dell’oggetto d’amore. Nel complesso, è evidente che Petrarca non abbandona la poesia
laurana se non con l’affermazione di un afflato alternativo, l’altro amore – caritas – a
lungo anelato. La giustificazione della scelta di continuare a cantare l’amata, che si
contrappone a tutta la tradizione lirica fatta eccezione per Dante, si coglie nel finale di
268:
Et sua fama, che spira
in molte parti anchor per la tua lingua,
prega che non extingua,
anzi la voce al suo nome rischiari,
se gli occhi suoi ti fur dolci né cari (vv 73-77).
L’idea topica della poesia che deve innalzare il pregio della dama, celebrarlo e
diffonderne la notizia è diffusissima già tra i trovatori, trova ampio spazio nel
Canzoniere ed è in linea generale una motivazione essenziale del canto amoroso stesso,
insieme alla necessità di dare sfogo al proprio animo431. Anche laddove non sia
esplicitato, il principio è riconoscibile nelle lodi iperboliche a beneficio dell’amata. La
morte, dunque, secondo Petrarca non invalida la funzione della poesia, le cui logiche
sono alterate, ma non cancellate432. Sarà infine la stessa Laura, che in 268 per bocca di
Amore chiedeva di essere ricordata433, a contraddire tale affermazione, lasciando al
poeta solo il tempo per un’ultima recriminazione contro Amore e per la preghiera,
aspetti che segnano per lui una significativa (anche se forse non definitiva) evoluzione:
Quanto era meglio alzar da terra l’ali,
et le cose mortali
et queste dolci tue fallaci ciance
librar con giusta lance (359, vv 39-42).
Il dolore e la mancanza dell’amata giustificano inoltre in due casi distinti
un’interruzione del canto, che il poeta immagina senza ritorno, ma che ben presto viene
superata. Sono cesure funzionali alla struttura, che coincidono cioè con il punto finale di
redazioni precedenti a quella definitiva; in essa tali epiloghi temporanei hanno
comunque l’efficace ruolo di comunicare le incertezze e i turbamenti dell’io.
431
Tale intervento d’Amore e il richiamo alla poesia amorosa, benché in un contesto del tutto nuovo,
determinano un’interessante mescolanza tematica, che per certi aspetti anticipa la sovrapposizione di
genere di cui abbiamo parlato per 270 nel corso del presente capitolo. Per quanto riguarda il ruolo di
Amore e dell’amata nella scelta di dedicarsi alla poesia, se ne tratterà con maggiore ampiezza nel capitolo
successivo, sia in riferimento al legame canto-stagione sia in termini più strettamente metapoetici.
432
Malzacher 2013, pp. 180 segg interpreta il passo citato come segnale dell’accentuarsi dell’elemento
terreno: Laura vuole rimanere in terra e accetta un rapporto più bilanciato col poeta, che è ora lei a
pregare. Certo Laura qui appare in primo luogo donna terrena, ma se ne dice anche che ella “è viva”, v
70, affermazione che può avere senso solo in chiave spirituale.
433
Su questo elemento si è soffermata Bettarini 1987.
168
Or sia qui fine al mio amoroso canto:
secca è la vena de l’usato ingegno,
et la cetera mia rivolta in pianto (292, vv 12-14)
Di rime armato, ond’oggi mi disarmo (304, vv 12).
Ma si nota che la seconda affermazione è già molto meno energica della prima, e in
effetti il ritorno alla comunicazione in versi è privo di sussulti: il poeta ricomincia
semplicemente a piangere e cantare Laura. In 293 il ritorno alla poesia era invece
sottolineato e giustificato da motivi del tutto personali, letterari e terreni: “S’io avesse
pensato che sì care / fossin le voci de’ sospir’ miei in rima, / fatte l’avrei, dal sospirar
mio prima, / in numero più spesse, in stil più rare” (293, vv 1-4). Le ragioni sia
dell’interruzione sia del nuovo inizio della poesia risultano in generale coerenti con la
rappresentazione complessiva dell’io e quindi col Canzoniere. Tuttavia tali momenti di
discontinuità nella progressione lirica nascono da un’immagine convenzionale, ben
testimoniata in ambito occitanico: non di rado i trovatori dichiarano di essere troppo
tristi o di non avere più motivo di comporre, ovviamente per tornare subito dopo ai loro
versi, anche perché si tratta d’abitudine di pretesti con cui avviare un nuovo
componimento434.
La poesia vince dunque sulla morte. In realtà, dopo gli inviti di Laura ad un vero
rinnovamento interiore in 359, che sulla base del macrotesto sembrano fare finalmente
breccia nella prospettiva dell’io, l’espressione lirica appare vittoriosa anche sulla
spiritualità morale e penitenziale. Infatti, la prima diviene strumento della seconda,
mediando la preghiera alla Vergine435. Con tale conclusione Petrarca supera l’impasse
finale del Secretum, dove la catena più resistente pareva essere proprio quella delle
opere non ancora compiute. In 366 egli consacra alla madre di Dio i propri versi:
“Vergine, i’ sacro et purgo / al tuo nome et pensieri e ‘ngegno et stile, / la lingua e ‘l
cor, le lagrime e i sospiri”436 (366, vv 126-128). Eppure, con quell’unica canzone si
conclude anche la produzione mariana. A differenza dei trovatori che, una volta
scoperta l’ispirazione religiosa, ne avevano fatto una prolifica fonte di espressione
lirica, per Petrarca il genere lirico sembra fecondo solo in relazione ad un amore
specifico, non quello di carità, ma quello laurano437.
434
La connessione tra morte ed espressione poetica, per cui la prima è dominata dalla seconda, si coglie
con particolare evidenza nella sestina doppia 332 e in particolare nella selezione delle parole-rima. Per
tali aspetti si legga Berra 1991.
435
Cherchi 2008, p. 169, definisce la canzone alla Vergine manifestazione di un canto nuovo, poiché è
venuta meno Laura, che aveva ispirato quello “vecchio”.
436
Su tale aspetto si è soffermato anche Gorni 1987, che associa a tale consacrazione il fine ultimo cui
tende la raccolta e dunque una svolta morale forte e definitiva.
437
La questione della centralità dell’amore è rilevante anche per comprendere la novità del Canzoniere
petrarchesco in seno alla lirica trecentesca; per tale aspetto si veda Santagata 1996, pp. LI segg.
169
8. Preghiere alla Vergine e a Dio
La componente penitenziale che caratterizza tutto l’arco del Canzoniere trova il proprio
culmine nel finale, anche a livello poetico438. Tale climax è preparata dalla serie dei
fragmenta 359-365, che dapprima chiudono la questione amorosa (ultima apparizione di
Laura, invito alla conversione, dialogo con Amore) e poi approfondiscono la riflessione
coscienziale439. Fino a questo momento il rapporto con l’amata ha conosciuto uno
sviluppo essenziale al progresso intimo dell’io: esso era maturato prima che lei morisse,
poi si era avviato grazie agli inviti di Laura stessa verso una prospettiva rinnovata,
quando ancora persisteva un desiderio di carattere terreno, come dimostra il già citato
sonetto 280.
365 introduce la forma della preghiera in apostrofe diretta, rivolgendosi a Dio; tale
struttura d’altro canto aveva già trovato spazio nella raccolta, in particolare nel sonetto
d’anniversario 62. Anche qui la posizione pone in rilievo la scelta dell’autore, poiché la
serie 60-62 contrappone due atteggiamenti diversi (totale devozione a Laura e
pentimento); l’eco del Pater Noster che apre 62 controbilancia le benedizioni del tutto
profane di 61. 365, comunque, ha una più semplice funzione preparatoria rispetto
all’espressione solenne della canzone 366, secondo la medesima strategia dispositiva
che si osserva per 27-28 (canzone politica sulla crociata) e 267-268 (planh per Laura).
366 non è solo l’apice della prospettiva penitenziale: in modo coerente, anche la forma
canzone e l’espressione lirica giungono ad un’elaborazione davvero articolata440. A
livello metrico, oltre alla connessione con la tradizione trobadorica441, vanno
sottolineati la lunghezza e il numero delle strofe, l’intricato sistema rimico, l’uso
insistito dell’anafora442.
438
La preghiera conclusiva può essere intesa come la vera e propria mutatio animi, rispetto a quella
imperfetta di 264 e della cesura centrale. Nella parte conclusiva, l’io esprime tutto il suo pentimento, che
già più volte era stato accennato nel corso della raccolta; tuttavia a questa contritio cordis si deve
accompagnare la confessio oris, l’ammissione della colpa, come sottolinea Cherchi 2008, pp. 20 segg.
Come suggerisce il sonetto 1, con la sua visione retrospettiva sull’errore, l’intero Canzoniere è in sostanza
una confessione e una presa di coscienza su di sé. Da tale “scandalo”, come lo definisce Cherchi, deriva
anche il valore esemplare della raccolta. Il duplice aspetto di confessione e preghiera si ritrova certamente
nella canzone conclusiva, dove l’orazione permette di recuperare una componente rituale che dà
ufficialità (esemplarità) allo stato del poeta.
439
Per la funzione di stacco netto svolta dalla canzone alla Vergine si veda Cherchi 2008, passim e
soprattutto l’ultimo capitolo, pp. 153 segg.
440
Tuttavia anche in tal senso la zona liminale del Canzoniere prepara l’esito conclusivo: già 359 presenta
strofe lunghe e a prevalenza di endecasillabi, benché siano solo 6, e 360 è costruita già con le 10 strofe
della tradizione mariana, ancor più lunghe (15 versi contro i 13 di 366), probabilmente in accordo con la
progressione argomentativa del discorso. A tale impegno formale corrisponde, nella prima sezione, quello
dedicato alla canzone 23: le stanze sono 8, ma di 20 versi ciascuna.
441
Si veda in particolare il capitolo primo e il riferimento a Lanfranco Cigala. Utili in tal senso anche le
pp. 1417-1418 in Santagata 1996.
442
La ripetizione del termine “Vergine” in incipit di verso due volte per ciascuna stanza, in prima e nona
posizione, richiama l’artificio delle coblas retronchadas e implicitamente quello delle coblas capdenals,
in cui però d’abitudine era il termine “Donna” ad essere ripetuto. Tale appellativo, tuttavia, può essere
riferito proprio alla Vergine, “domina” del Cielo, come avviene ad esempio in Peire de Corbiac. Per tali
riflessioni e in generale per l’analisi strutturale della canzone si veda Santagata 1996, pp. 1418-1419. Su
tali artifici si è soffermato anche Gorni 1987, evidenziando come sia limitante associare la cura retorica
petrarchesca ad una semplice progressione da “litania”.
170
Come dimostrano già i riscontri metrici, all’origine della canzone mariana si colgono
suggestioni occitaniche. Nel corpus provenzale si riconosce senza difficoltà un gruppo
piuttosto nutrito e molto coeso di preghiere ed elogi rivolti sia a Dio che alla Madonna,
pensati come ammissione dei propri peccati e come richiesta d’aiuto. Tale produzione è
già tipica dell’epoca trobadorica classica e non va perciò limitata alla fase tarda. Per
quanto gli autori del pieno Duecento ne siano attratti in modo particolare, i
componimenti spirituali pertengono ancora alla vera tradizione cortese e non devono
essere confusi con il successivo programmatico spostamento di attenzione dalla dama
alla Vergine nel contesto borghese e post-inquisitoriale del Concistori tolosano443.
Le canzoni religiose entrano così a far parte dei canzonieri. L’accostamento o la
contrapposizione dei testi religiosi con generi e spunti divergenti corrisponde solo di
rado ad una progressione del punto di vista del poeta, com’è invece per Petrarca, anche
per la mancanza di un’organizzazione autoriale certa444. Talvolta però, magari in
riferimento alla biografia, si intuisce una corrispondenza tra il canto religioso e una
svolta dalla portata più ampia445. Si pensi a Folchetto da Marsiglia, a lungo cantore
d’amore, ma destinato alla fede e alla carriera ecclesiastica: le prolungate ed elaborate
preghiere al Signore in Vers Dieus, el vostre nom e de sancta Maria446 e Senher Dieus,
que fezist Adam acquisiscono così un peso peculiare. Simile discorso si può avanzare
per Guglielmo IX, la cui esigua ma illustre produzione è per lo più focalizzata
sull’amore, l’erotismo, lo scherzo e il doppio senso. Tuttavia, se ne conserva anche
un’invocazione a Dio – Pos de chantar m’es pres talenz – in cui il conte saluta i piaceri
e le attività terreni, per altro con un certo rammarico, raccomandandosi al Cielo prima
della morte, che egli avverte ormai prossima447.
443
Ciò non toglie che Petrarca possa aver conosciuto e valutato in quanto propri riferimenti anche tali
testi; tuttavia la disponibilità delle più autorevoli fonti classiche è senza dubbio significativa.
444
Esempio eloquente è offerto dalla (non troppo abbondante) produzione di Falquet de Romans. Essa
comprende diversi sirventesi, qualche canzone amorosa, due preghiere/confessioni rivolte a Dio (una in
forma di ampio poemetto) ed un “saluto” all’amata. Per altri esempi di componimenti dedicati al Signore
e al pentimento si vedano Cadenet IX e XXIV (con consigli a Blacatz). Quello della non autorialità dei
canzonieri trobadorici è un problema molto significativo, cui non a caso si è già fatto riferimento. Per una
trattazione specifica di tale aspetto, si vedano il sesto capitolo e i riferimenti bibliografici in esso
contenuti.
445
Si fa qui riferimento alle manifestazioni intime e personali del sentimento religioso, che paiono più
coerenti con l’espressione lirica petrarchesca. Ad un orizzonte comunicativo diverso appartengono invece
i numerosi componimenti trobadorici dedicati alla religione in senso dottrinario e didattico (come Pax in
nomine Domini di Marcabru), polemico-moralistico (gran parte dell’opera dello stesso Marcabru o di
Peire Cardenal) o più spesso dedicati alle più varie questioni morali, arricchite però dalla consapevolezza
che è necessario essere fedeli al Signore (ad esempio, Abans qe il blanc puoi sion vert attribuita a Peire
d’Alvernha).
446
Benché la preghiera sia rivolta a Dio, è interessante che subito sia ricordata la Vergine: potrebbe non
essere solo il portato della dottrina, ma anche l’influenza di convenzioni diffuse, che associano la grazia e
la benedizione alla figura femminile, nel ruolo di vera e propria mediatrice.
447
Per tale svolta e al problema della crescita morale e spirituale nella tradizione trobadorica, che associa
assiologicamente la giovinezza e la gioia cortese, si veda in particolare Antonelli 1994. Tali passi si sono
già citati in precedenza, rispetto alla bipartizione dei canzonieri amorosi e al ruolo della morte dell’amata.
171
Resta isolato l’esempio di Guiraut Riquier, che, lo si è anticipato448, associa alla morte
dell’amata una vera e propria conversione, la quale segna un cambiamento permanente
nello stile del trovatore. Egli ha lasciato diverse opere mariane, come Ajssi quon es
sobronrada o Humils, forfaitz, repres e penedens; piuttosto curiosa appare però Gauch
ai, quar esper d’amor poiché si avvia come una classica canzone d’amore per poi
spostarsi in modo piuttosto improvviso sul tema religioso, lasciando qualche incertezza
su come intendere la struttura. Infatti, potrebbe essere nettamente bipartita oppure
unitaria, a seconda che le immagini amorose siano intese in chiave letterale o
metaforica. L’ambiguità tra la dedica alla Vergine a quella all’amata dimostra una
caratteristica essenziale delle canzoni religiose trobadoriche. Le qualità attribuite alla
Madonna possono infatti essere ricondotte per lo più a due precise aree concettuali: i
topoi paradossali tipici della letteratura liturgica e le immagini convenzionali della lirica
amorosa449. Da una parte, ella è astro, luce450 e legata al sole-Dio, stella del mare che
guida durante i viaggi, fontana di misericordia e grazia, colei che sempre accorre se
invocata, mediatrice con le sue preghiere rispetto al Signore, madre e figlia della
medesima entità, vergine inviolata prima e dopo il parto. Dall’altra, la Vergine è
descritta secondo i canoni della dama cortese, umile e nemica d’orgoglio (tranne che nei
confronti del poeta), fiore di bellezza e pregio, migliore fra le migliori, piena in
massimo grado di ogni virtù. Si leggano in tal senso opere quali Domna, dels angels
regina di Peire de Corbiac, Verges, en bon’hora attribuita a Perdigon, Domna bona, bel’
e plazens di Folquet de Lunel, Domna, flor di Aimeric de Belenoi, Oi, Maire, filla de
Dieu, En chantar d’aquest segle fals e Gloriosa sainta Maria di Lanfranco Cigala, Totz
lo sabers del segle es foudatz e Vera Vergena, Maria di Peire Cardenal.
La dedica e l’apostrofe alla Vergine possono essere appaiate a quelle rivolte a Dio,
come in Lo pair’e ‘l filh e l sant espirital451 di Bernart de Venzac e in Dieus verays, a
vos mi ren di Arnaut Catalan. E d’altro canto i versi per il Signore possono essere
affiancati in modo molto simile a quelli per la dama, come fa Daude de Pradas in Qui
finamen sap cossirar. L’incontro tra dimensione amorosa e prospettiva spirituale nel
medesimo testo è particolarmente interessante per il lettore del Canzoniere, anche se in
ambito trobadorico i due aspetti sono soltanto giustapposti452 e ben di rado analizzati in
quanto problema complessivo della coscienza. Non mancano però eccezioni in tal
senso, come rivela Gent es, mentr’om n’a lezer di Peire D’Alvernha, in cui pur
448
Per il canzoniere di Guiraut Riquier, già in parte affrontato nel capitolo precedente, si veda il capitolo
sesto.
449
Per la floridità retorica della poesia mariana e per gli aspetti di reiterazione quasi ossessiva che la
contraddistinguono si veda Gorni 1987.
450
Nella tradizione italiana, soprattutto stilnovistica e poi spesso anche in Petrarca, l’elemento della luce è
tipico proprio dell’amata; tuttavia tale dettaglio appare rarissimo nei testi trobadorici.
451
L’elemento trinitario che si distingue in tale incipit non è infrequente nella produzione occitanica; è
possibile leggere su questo argomento Zorzi 1954.
452
Più che alla complessa vita interiore di un Petrarca, bisognerà pensare al principio compositivo delle
canzoni-sirventesi, cioè di genere misto, o al motivo topico della mescolanza di sacro e profano. Entrambi
tali aspetti sono significativi rispetto al riuso petrarchesco, oltre che per la poetica trobadorica, e saranno
approfonditi in questo e nel prossimo capitolo, rispettivamente dal punto di vista del genere e delle
immagini convenzionali.
172
continuando ad elogiare la dama, dichiarandole che nessun’altra creatura terrena
avrebbe potuto prenderne il posto, il poeta riconosce l’importanza di compiere un passo
ulteriore verso il Cielo453. L’amore terreno è per sua natura inferiore a quello di
carità454, ma se è “fino” può comunque migliorare e innalzare nella giusta direzione455.
Come già la Vergine, così Dio non è solo invocato ma anche lodato e celebrato, benché
spesso con soluzioni più libere e personali rispetto alle convenzionali preghiere alla
Madonna: Lauzatz sia Hemanuel di Peire d’Alvernha, Pensius de cor e marritz di
Lanfranco Cigala, Quan mi perpens ni m’albire di Aimeric de Peguilhan, Ben volgra, si
far si pogués, Un sirventes novel vueill comensar e Dels quatre caps que a la cros di
Peire Cardenal, il quale offre i toni più vivaci e una notevole varietà tematica456.
Torniamo ora a Petrarca e alla canzone 366457. Anche una lettura superficiale rivela la
presenza di numerosissimi spunti convenzionali, in primo luogo liturgici, come ad
esempio:
Vergine bella, che, di sol vestita, / coronata di stelle, al sommo Sole / piacesti sì che ‘n te
Sua luce ascose (vv 1-3)
Vergine pura, d’ogni parte intera, / del tuo parto gentil figliuola et madre (vv 27-28)
Di questo tempestoso mare stella, / d’ogni fedel nocchier fidata guida (vv 67-68)
Vergine sacra et alma (v 87).
453
Si leggano in particolare le tre strofe finali, e ad esempio i vv 50-55: “Amors, be m degra doler / si
degus autr’enginhaire, / mas lo dreituriers iutiayre, / de vos me pogues mover, / que per vos er’enriquitz /
essaussatz et enantitz”.
454
Una riflessione affine sul rapporto tra servizio d’amore e servizio a Dio si riscontra in L’onratz,
jauzens sers di Gaucelm Faidit.
455
In tale accezione dell’amore cortese, più frequente di quanto non si pensi, si coglie un’interessante
parentela tra la visione dei trovatori e quella stilnovistica e dantesca in particolare, che potrebbe rivelarsi
utile anche rispetto alla riscrittura petrarchesca. Sugli effetti positivi dell’amor cortese, si veda anche il
capitolo terzo; per il rapporto tra Petrarca e Dante, in riferimento alla funzione dell’amore, soprattutto il
capitolo quarto, anche se la questione è stata più volte ripresa, data la sua importanza.
456
Andrebbero poi aggiunti i riferimenti a Dio in chiave parodica o blasfema. Abbiamo già citato i planh
di Pero Garcia Brugalés, ma anche nelle sue liriche amorose l’insoddisfazione e il tormento sono sempre
ricondotti alla responsabilità divina, con un atteggiamento d’accusa privo di qualsivoglia rispetto, anche
se è di fronte alla dipartita dell’amata che il poeta raggiunge il culmine dell’insolenza, dichiarando di non
credere nella Crocifissione e di voler vedere Dio morto. Caso ancor più interessante, anche per
l’appartenenza al clero dell’autore, sono alcuni sirventesi del monaco di Montaudon, in cui si immagina
un colloquio in Paradiso (L’autrier fuy en Paradis, Autra vetz fui in parlamen, L’autre jorn m’en pugiey
el cel e Quan tuit aquist clam foron fat). Il poeta sfrutta la struttura della tenzone (e come tali i testi sono
tramandati) per esporre direttamente a Dio i motivi della propria insoddisfazione ed alcune richieste.
Ancora nella tradizione italiana si ricordano scene dal contesto simile, volte a rappresentare
iperbolicamente l’amore, ma a scapito della serietà dell’orizzonte religioso, ad esempio in Giacomo da
Lentini I’ m’aggio posto in core a Dio servire e Guido Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore
(ultima stanza).
Per la mescolanza di elementi sacri e profani, che si è già citata in precedenza, si veda in particolare il
terzo capitolo.
457
Per un’analisi complessiva della canzone si veda Gorni 1987; un aspetto particolarmente interessante
concerne la funzione di dedica, ancor più che di lode e certamente non di predicazione, del
componimento conclusivo.
173
Ancor più interessante è la riproposizione di elementi caratteristici della
rappresentazione di Laura:
Amor mi spinge a dir di te parole (v 4)
Vergine, s’a mercede / miseria extrema de l’humane cose / già mai ti volse […] (vv 9-11)
Vergine, que’ belli occhi (v 22)
Vergine santa, d’ogni gratia piena, / che per vera et altissima humiltate / salisti al ciel
onde miei preghi ascolti458 (vv 40-42)
Vergine sola al mondo senza exempio, / che ‘l ciel di tue bellezze innamorasti, / cui né
prima fu simil né seconda (vv 53-55)
Con le ginocchia de la mente inchine, / prego che sia mia scorta (vv 63-64).
La logica è la medesima che si è riscontrata alla base delle canzoni mariane dei
trovatori, e anche i topoi qui elencati hanno amplissima diffusione nella letteratura
cortese e amorosa, in particolare l’idea che l’amata non abbia pari459. Il vero significato
del riuso petrarchesco è piuttosto nella funzione che il componimento assume
all’interno della raccolta. E tuttavia non basta l’idea che 366 segni la svolta, il
cambiamento del poeta, poiché la preghiera poteva già avere il medesimo significato
nelle opere occitaniche. La novità risiede piuttosto nel percorso amoroso e spirituale che
la canzone alla Vergine conclude ed esalta, senza riuscire a cancellare del tutto
l’ambiguità nello stato del poeta.
Secondo un primo punto di vista, la canzone rappresenta una palinodia dell’amore per
Laura, come suggerisce proprio il recupero delle immagini consuete. Alcuni passi
rivelano in modo più esplicito la critica al proprio passato: la Vergine è “vera beatrice”
(v 52) in contrasto con la fallace beatitudine degli affetti terreni, pianti preghiere e
lusinghe sono passati “indarno” (v 80), sprecando il tempo del poeta, quelli di Laura
erano solo “mortal bellezza, atti e parole” (v 85), e lo prova il fatto che lei sia ormai solo
“terra” (v 92). Il culmine del ripensamento si trova però al verso 111: “Medusa et l’error
mio m’àn fatto un sasso”.
Eppure il medesimo verso suggerisce una diversa possibile prospettiva, che mette in
evidenza la responsabilità del poeta: sono la sua cedevolezza ad amore, la sua incapacità
di controllo e di volontà combattiva ad averlo tenuto lontano dal Cielo460. Tale
interpretazione risulta forse più coerente con la rappresentazione di Laura nella seconda
parte del Canzoniere, e in fondo anche con tutti i tratti riconducibili alla visione
stilnovistica e soprattutto con un’affermazione della stessa canzone 366: “et per saperlo,
458
Ovviamente la rappresentazione della Vergine comporta un approccio iperbolico alle immagini
utilizzate per Laura, la quale però similmente si trova in cielo e già prima della morte era oggetto delle
preghiere del poeta, che si è trovato anche in ginocchio davanti al suo volere, esattamente come si
presenterà (mentalmente) di fronte alla Madonna. Si tratta ancora una volta di elementi convenzionali, per
i quali si rimanda al solito al capitolo terzo.
459
Per i topoi in generale e questo in particolare, si legga il capitolo successivo.
460
È questa ad esempio la posizione di Petrini 1993, pp. 5-25, che attribuisce la responsabilità allo
“sguardo sensuale” del poeta su Laura che solo così ha su di lui l’effetto della mitologica Medusa.
Un’interpretazione simile si trova inoltre in Cherchi 2008, p. 172: Medusa è sì Laura, ma nella percezione
del poeta, non intesa come figura reale ed autonoma.
174
pur quel che n’avenne / fora avenuto, ch’ogni altra sua voglia / era a me morte, et a lei
fama rea” (vv 95-97). Non si dimentichi che il rifiuto di Laura era inteso alla salvezza di
entrambi e non ad una sadica coercizione sull’innamorato461.
In entrambi i casi ciò che conta è capire quanto stabile possa essere la decisione del
poeta. 366 chiude la raccolta e dunque di necessità assume un valore forte rispetto
all’esito dell’io, di vera conversione oltre la quale la poesia amorosa, che aveva resistito
alla mutatio animi e alla perdita del proprio oggetto, si esaurisce462. Petrarca, infine,
“cambia la dama” come facevano i trovatori, e nel farlo cambia anche amore, dall’eros
alla caritas463. D’altro canto, il Canzoniere è pensato anche secondo un’ottica circolare,
come suggeriscono la natura peculiare del sonetto 1 (introduzione a posteriori, che
assume più la prospettiva di 366, che quella di 2 o 3), la progressione calendariale dei
366 componimenti464, nonché la valenza esemplare insita nell’opera, che oltre a parlare
dell’io lirico individuale, descrive le tensioni tipiche dell’Uomo in genere. La stessa
canzone alla Vergine lascia pensare che la svolta non sia del tutto salda465, sia per
l’intonazione amorosa che ancora riecheggia, per quanto potenzialmente palinodica, sia
per l’impressione che Petrarca prima di chiedere grazia, chieda la forza di compiere
l’ultimo distacco. Egli, infatti, cerca ancora una soluzione alle proprie sofferenze, al
proprio turbamento, e la solidità interiore necessaria per cambiare mentalità: “Vergine
d’alti sensi, / tu vedi il tutto, et quel che non potea / far altri, è nulla a la tua gran vertute:
/ por fine al mio dolore466” (vv 100-103), “Vergine, tu di sante / lagrime et pie adempi ‘l
461
Si è fatto riferimento più volte, nel corso di questo capitolo, a tale presa di coscienza da parte dell’io
lirico.
462
Di questo avviso è in sostanza Cherchi 2008, che legge nella canzone alla Vergine una svolta forte e
definitiva, segnata dal passaggio non solo dall’amore terreno a quello celeste, ma dalla ragione alla fede,
che sola permette di superare vincoli, desideri, speranze mondane e acquisire compiutamente una visione
nuova. Per tali aspetti si vedano in particolare le pp. 40-42, 47-48, 67-68, 79-80, e il capitolo finale pp.
153 segg. Lo studioso pone in realtà il problema del salto tra 360, dove la valutazione sull’amore resta
sospesa, e 366 (o più in generale il blocco penitenziale che anticipa la chiusura). Cherchi in particolare
cita le diverse opinioni di Dotti e Santagata, convinti rispettivamente che gli ultimi testi siano una sorta di
aggiunta retorica, o piuttosto che si tratti di una risposta al sonetto di apertura, che dunque riesce a
bilanciare la struttura complessiva, senza però armonizzare i due volti dell’io lirico. Cherchi ritiene
comunque che le due “anime” del Canzoniere, da una parte, abbiano entrambe valore, costituendo due
aspetti compresenti ed inalienabili, e dall’altra che esse non siano inconciliabili (pp. 153-157). La
risoluzione deriverebbe dal superamento del conflitto attraverso la fede, che permette al contempo di
uscire da sé verso una dimensione più ampia ed esemplare.
Di fatto anche in Gorni 1987 si legge una simile convinzione sul valore forte e stabile della conversione
finale.
463
A tal proposito è utile richiamare ancora una volta l’esempio di Guiraut Riquier, che per primo aveva
proposto un vero e proprio cambio di dama, dall’amata alla Vergine, per la quale egli non utilizza soltanto
il medesimo tipo di elogi, ma anche il senhal di Belh Deport. Tale occorrenza è interessante soprattutto
perché anche in quel caso il cambiamento interiore era accompagnato dalla morte dell’amata, a differenza
di ciò che avviene nei “cambi di dama” consueti, in cui semplicemente il poeta si allontana da chi lo ha a
lungo maltrattato.
464
Per tali riflessioni sulla macrostruttura si rinvia in particolare a Roche 1974 e Biancardi 1995.
465
Nello stesso sonetto 1, d’altronde, Petrarca dice di essere solo “in parte altr’uom da quel” che era (v 4).
466
Per il valore di questo dolore terreno legato all’amore carnale rispetto all’elevazione spirituale e al
Sommo Bene si veda l’ipotesi di Cherchi 2008, pp. 81 segg. Secondo lo studioso tale dolore fallace,
perché privo di esito e destinato ad oscurare la preminenza dell’amore di carità, si contrappone ad un
dolore utile, cioè quello della penitenza. La conversione per sua stessa natura passa attraverso rinuncia e
175
meo cor lasso, / ch’almen l’ultimo pianto sia devoto” (vv 113-115). Gli “altri/altro” che
non hanno potuto vincere le catene sono Laura, che non è “vera beatrice”, ma anche il
poeta stesso. E in effetti 366 non è un’esaltazione pervasa di gratitudine, ma ancora
soltanto una preghiera, una richiesta.
9. Canzoni di crociata
Per il sonetto 27 e la canzone 28 il legame con gli antecedenti trobadorici in merito al
genere è davvero evidente. Entrambi i testi fanno riferimento alla crociata: quella
promessa da Filippo IV di Valois nel 1332, bandita da Giovanni XXII nel 1333 e mai
andata in porto467. Il primo componimento propone una sorta di introduzione al
problema e al quadro contestuale, presentando l’imperatore (“il successor di Karlo” che
“prese à già l’arme per fiacchar le corna / a Babilonia”, vv 1-4), il pontefice (“‘l vicario
di Cristo”, v 5)468 e un destinatario occasionale e innominato, da riconoscere
presumibilmente in Orso dell’Anguillara.
Il riuso vero e proprio si delinea però con il metro lungo, un classico invito alla crociata,
mediato dall’apostrofe a un misterioso interlocutore469, cui è dedicata a titolo quasi
proemiale la prima stanza. Elevando l’intonazione complessiva attraverso numerose
immagini e figure classiche470, Petrarca delinea un quadro di concordia e collaborazione
contro i nemici comuni, la cui sconfitta richiede l’unione dei popoli occidentali.
L’impressione di pace e serena determinazione è strettamente legata alla costruzione del
più ampio discorso politico che si svolge nell’arco della raccolta, o meglio della sua
prima sezione471, attraverso le tre canzoni 28, 53, 128472. La compattezza del ciclo, resa
a prima vista meno evidente dalla lontananza tra i testi, è sorprendente, per disposizione,
sofferenza, altrimenti non ha valore. Come si contrappongono due tipologie di amore si oppongono anche
due diverse concezioni del tormento.
467
Per il contesto e i rimandi storico-politici del sonetto e della canzone si rinvia alle introduzioni e al
commento in Santagata 1996, pp. 136-155.
468
Una possibile interpretazione della quartina dedicata al papa concerne il ritorno della Santa Sede a
Roma: oltre all’importanza di sciogliere il passo a fini della datazione del componimento, tale riferimento
è utile anche per il collegamento che si determina con la canzone 53, dedicata appunto a Roma, al suo
passato e alle sue prospettive.
469
La tesi tradizionale propone l’identificazione dell’ignoto personaggio con l’amico Giacomo Colonna;
Santagata ha invece sostenuto l’ipotesi relativa a Giovanni Colonna, frate domenicano e dedito a studi
affini a quelli di Petrarca: per tale ipotesi si legga Santagata 1988, pp. 14 segg e la sintesi in Santagata
1996, pp. 142-155; per questo personaggio (e in generale per il problema dei destinatari legati alla
famiglia Colonna) si veda anche il settimo capitolo.
470
Osservando le scelte stilistiche del poeta, appare fondata la breve riflessione di Cardini 1993 in
conclusione del suo saggio sull’ideologia sottesa alle crociate (pp. 210-211), che coglie nella canzone
petrarchesca un esempio eloquente di quel “problema turco” che lo studioso ritiene si sia sostituito
all’ideale originario di crociata. I Turchi non rappresentavano solo un pericolo militare (che non a caso
favorì gli ultimi tentativi di raccogliere gli stati occidentali in una guerra comune), ma soprattutto la
controparte di un ambiguo rapporto culturale. Da una parte era evidente che commerciare e quindi
relazionarsi civilmente con tale popolazione non era impossibile; dall’altra ai Turchi era associata la
tradizione anticlassica, antiplatonica e averroista che in età preumanistica cominciava ad essere
interpretata come causa della corruzione dell’eredità latina e greca.
471
In questo caso è significativo il riferimento alla forma Correggio: le tre canzoni vi figuravano già tutte
e coprivano l’intera estensione della prima metà, conclusa originariamente dalla sestina 142.
472
Fonte fondamentale per il ciclo delle tre canzoni è Baldassari 2006, pp. 153-242.
176
elaborazione metrica, scelta delle rime473. L’unità della serie permette ai tre
componimenti di sviluppare una progressione coerente, da una prospettiva
integralmente positiva ad una visione negativa e sconsolata474. La crociata, infatti, ha un
preciso valore ideologico, che giustifica il recupero del genere anche a fronte di progetti
storici lungi dall’essere concretamente realizzati: è probabile che Petrarca ne fosse
consapevole e comunque i fatti lo avrebbero dimostrato ben prima della chiusura della
raccolta, anche solo secondo la prima redazione. Non è tanto importante l’esito concreto
della spedizione; il poeta celebra l’unità dell’Europa, la fine delle lotte intestine, la
concordia dei popoli. Nella concezione medievale, infatti, la crociata incarna il desiderio
di pace475. 128 costituisce l’esatto contraltare di tale prospettiva: fallita la speranza di
unità, restano appunto le guerre fratricide e le armate di mercenari, per la disperazione e
la riprovazione del poeta476. La canzone di crociata offriva dunque una proficua
occasione di riflessione, che già costituisce in parte una valida ragione per il riuso
petrarchesco. E il genere si prestava bene in tal senso non solo per il tema di fondo, ma
anche per le forme in cui era stato elaborato dai trovatori.
L’attenzione per il problema della crociata in ambito lirico, e occitanico in
particolare477, è precoce478 e determina una produzione poetica ben presto codificata
473
Tali aspetti vengono affrontati in Baldassari 2006, rispettivamente alle pp. 129-130, 130-140, 140-151.
Lo studioso tiene inoltre conto dei criteri di selezione dei componimenti, presumibilmente composti
prima di sviluppare l’idea di una raccolta coesa e poi rielaborati in vista dell’inserimento in essa. Lo
scopo di Petrarca sembra quello di creare una stretta coesione formale tra i testi, evitando però le
ripetizioni; un altro criterio fondamentale è la necessità di cancellare i riferimenti storici e personali, per
cui vengono prescelti i testi dal respiro più universale e dunque adatti alla raccolta lirica. Possiamo forse
aggiungere un confronto con i testi brevi, cui altrove nel Canzoniere è affidata la tematica politica: essi
appaiono al contrario fortemente implicati nella realtà concreta dei fatti e del tempo, a partire dal sonetto
27, che forse ha anche la funzione di catalizzare quegli elementi contestuali che avrebbero stonato nel
componimento più alto. Delle questioni polemiche si tratterà in modo specifico oltre nel presente
capitolo.
474
Su tali aspetti si concentra il capitolo quinto in Baldassari 2006, pp. 153 segg e in particolare pp. 161162; va sottolineata soprattutto l’idea che 28 e 128 non si contrappongono, ma appaiono complementari.
475
Tali aspirazioni vengono sottolineate anche da Guida 1992, p. 24 segg in merito alla produzione
d’oltralpe e soprattutto occitanica. Agli ideali di pace, che presentano spesso un’intonazione cavalleresca,
si oppone la visione borghese, ben più concreta e pragmatica, secondo la quale simili imprese non
servivano ad altro che a sperperare denaro e a mettere in pericolo vite umane. Esse inoltre causavano
crescenti dissidi con i numerosi ed agguerriti fedeli dell’Islam e risultavano perciò a maggior ragione
controproducenti. Per l’ideale della crociata e la sua funzione “paneuropea”, si veda anche Cardini 1993,
pp. 181-211, dove si analizza in generale l’ideologia alla base delle spedizioni crociate: l’ideale e il suo
sovvertimento, con tutte le disillusioni che ne conseguono.
476
Il principio è avvalorato dal confronto con altri passi petrarcheschi oltre a quelli del Canzoniere in cui
siano riproposti i temi di crociata e guerre intestine, raccolti in Baldassari 2006, pp. 171 segg.
477
Per un’esaustiva raccolta antologica dei testi occitanici e francesi dedicati al tema della crociata, si
consulti Guida 1992, pp. 43 segg (pp. 185 segg. per la parte provenzale).
478
Siberry 1985, p. 1 sottolinea come l’arco cronologico di riferimento per le riflessioni (e le critiche)
sulla crociata comincia già con il 1095 e dunque con la prima spedizione. Ne seguiranno altre sette verso
Oriente, per contare soltanto quelle maggiori, cui si affiancano le crociate contro gli eretici e quelle spinte
da puri interessi politici in seno al papato, basti pensare ai contrasti tra il soglio pontificio e Federico II. È
significativo rispetto a quanto detto su Petrarca che i trovatori (e come loro i cronisti e gli altri poeti lirici
coevi) sostengano solamente la vera crociata, quella diretta in Terrasanta, cui guarda anche la canzone 28.
Al contrario, ogni altra guerra per cui sia stata utilizzata la medesima definizione è percepita come il
frutto di una strumentalizzazione, dell’avidità ben poco spirituale della Chiesa, e come tale è combattuta.
Ciò comprende sia la crociata contro gli Albigesi (benché sia sempre meno attendibile l’opinione per cui i
177
grazie a strumenti espressivi ed immagini convenzionali. Tra i topoi479 più diffusi si
riscontra l’insistenza sul sacrificio di Cristo e la necessità di servire il Signore480, in
primo luogo per esprimere la propria gratitudine per la redenzione e la grazia ricevuta.
Spesso il poeta dichiara di essere consapevole delle difficoltà che i soldati dovranno
affrontare e non mancano i casi in cui onestamente il trovatore stesso esprima timore per
la propria incolumità, come Gaucelm Faidit in Del gran golfe (il quale però è partito e
teme piuttosto il viaggio di ritorno per mare), Raimbaut de Vaqueiras (Ben sai e
conosc), Sordello (Lai al comte), Folchetto da Marsiglia (Huemais no y conosc). La
componente narrativa favorisce l’inserimento di dettagli geografici, ma anche di
informazioni storico-sociali concrete, che accrescono la ricchezza della
rappresentazione481. D’altronde, gli stessi trovatori (o almeno così sostengono numerose
vidas) sono stati spesso coinvolti in modo diretto nella crociata482: l’esperienza in prima
persona contribuisce di certo a rendere più vivida l’espressione483. Il vero sviluppo del
trovatori fossero catari e dunque si schierassero contro il pontefice per motivi legati alla fede), sia le
prevaricazioni dei francesi sulla Provenza, sia le lotte per il potere in Italia. Insomma, il rifiuto per tali
“crociate” è strettamente connesso alla censura contro le logiche e le politiche papali, e certo in tal senso
l’appartenenza geografico-culturale e politica dei singoli poeti può aver avuto un certo peso: gli autori in
questione provenivano da zone tradizionalmente poco favorevoli alla gestione (e agli abusi) della Chiesa.
Si vedano in particolare le pp. 4-11, 162 e 176 in Siberry 1985.
479
La presente rassegna può essere integrata con quelle in Siberry 1988 e Baldassari 2006, pp. 162-190.
480
Ricordiamo ad esempio Qui saubes dar tant bon conseil denan di Elias Cairel, Consiros, com partitz
d’amor di Aimeric de Belenoi, Bels amics cars, ven s’en vas vos estiu di Peire Vidal, Ara parra quel
seran enveyos di Aimeric de Peguilhan, A l’honor Dieu torn en mon chan di Giraut de Bornelh (dove si
parla in particolare di servizio a Dio), Seinhos, aujas, c’aves saber e sen di Guilhem d’Autpol, Tant suy
marritz que no m puesc alegrar di Matieu de Caersì. Diverso il caso di Tot enaissi con fortuna de ven e
Jhesus Cristz, nostre salvaire di Peire Cardenal, in cui non si tratta esplicitamente di crociate, ma (in
modo eloquente) di “salvare Dio”. Il concetto è anche in Dels quatre caps que a la cros, in contesto in
parte diverso.
481
Proprio per tale motivo spesso gli storici si sono interrogati sull’attendibilità di tali rappresentazioni,
potenzialmente molto utili alla ricostruzione della società e degli avvenimenti del tempo. Va inoltre
considerato l’ambiguo rapporto con le figure di potere che contraddistingue questa parte della produzione
trobadorica: da una parte i promotori e i finanziatori della crociata dovevano essere nobili signori e ricchi
mecenati, ed è dunque a loro che si rivolgono in primo luogo i sostenitori della crociata: sono loro che
devono essere convinti. D’altro canto, l’atteggiamento dei singoli poeti andrà anche ricondotto
all’influenza e alle risposte del pubblico più ampio, che in generale va riconosciuto quale interlocutore
della lirica cortese. Per tale riflessione si veda Siberry 1988, che sottolinea inoltre la promettente
coincidenza tra tali rappresentazioni e quelle delle coeve opere mediolatine, legate alla letteratura di
crociata (come le prediche di S. Bernardo), ma anche goliardica e di intrattenimento (Carmina burana).
Agli spunti storici si mescolano però anche suggestioni eroiche e letterarie (soprattutto legate al ciclo
carolingio), nonché miracolose, considerato anche il valore spirituale e religioso associato alle missioni in
Terrasanta. I prodigi in particolare erano oggetto di grande attenzione, poiché venivano interpretati come
indizi del favore divino. Per tali aspetti si veda Guida 1992, pp. 19-20.
482
Non è un caso che le loro opere liriche siano state apprezzate anche come fonti storiografiche. Tale
funzione, comunque, concerne soprattutto la storia delle idee: da una parte le canzoni di crociata (e in
generale la letteratura trobadorica) sono pensate per una lettura in pubblico e dunque rappresentano
strumenti di diffusione delle opinioni e in fondo anche di argomentazione, dall’altra in quanto frutto del
proprio tempo, tali opere si fanno portatrici di opinioni correnti. In entrambi i casi non si tratta soltanto di
un’espressione individuale, come riscontra Guida 1992, pp. 33 segg, seguendo la posizione di Throop (ivi
citato).
483
Si pensi ad esempio alla frequenza e al tono personale con cui il tema è affrontato nelle opere di
Gaucelm Faidit, che non solo invita alla partenza, ma descrive in prima persona le proprie difficoltà, i
desideri e le incertezze. D’altro canto, anche il canto di crociata può essere percepito in sé come forma di
178
tema, però, deriva dagli spunti morali, teologici e polemici che vengono sovrapposti al
nucleo di partenza, in un’elaborazione tanto coesa che è possibile distinguere i diversi
fattori più a livello teorico che nell’effettiva lettura del testo. Innanzitutto la descrizione
dei miscredenti484, per lo più succinta ma incisiva, che ne mette in evidenza la fede
erronea senza possibilità d’appello485. Dal punto di vista morale sono invece evidenziati
quei fattori che permettono di argomentare la necessità della partenza, come la
promessa di mali terribili a chi si fosse sottratto, ma anche di grandi soddisfazioni e
premi a chi fosse partito486. Dio infatti è pronto al giudizio, conosce i peccati di
ciascuno487, ma è anche padre generoso488. L’aspetto più insistito, comunque, resta
quello della critica a chi si sottrae alla chiamata, ponendo l’accento non solo sulla
nequizia dei singoli, ma soprattutto sull’immoralità di chi dovrebbe guidare le schiere
cristiane: il papa, il clero, i “baroni”. La corruzione delle guide spirituali e la meschinità
del potere temporale sono in realtà argomento di moltissima produzione occitanica,
nelle forme più varie di invettiva o insegnamento dottrinale489; nelle canzoni di crociata,
però, la questione è più specifica e ci riporta a Petrarca. La colpa del pontefice, dei
cardinali e dei feudatari, infatti, è quella di anteporre i propri interessi, di per sé già
peccaminosi, al bene comune, continuando a dilaniare l’Occidente con lotte tra cristiani
invece di occuparsi dei veri nemici490.
Anche nella letteratura trobadorica si riscontra dunque la medesima associazione, e con
la medesima intensità espressiva, tra ideale di pacificazione e occasione della crociata
che si è vista in merito al Canzoniere. Tale connessione permette di approfondire
ulteriormente la natura degli inviti alla partenza. Infatti, benché talvolta venga affermata
partecipazione alla spedizione: Giraut de Bornelh vuole cantare per Dio (A l’honor Dieu torn en mon
chan), Bertran de Born per far forza ai crociati (Ara sai eu de pretz quals l’a plus gran).
484
Non si nota in generale una distinzione ragionata fra Turchi, Saraceni, Musulmani o Pagani: il
problema è sempre il medesimo. In alcuni casi la progressione del discorso permette di intuire che non si
parla della Terrasanta, ma della Reconquista spagnola, ad esempio in Oimais no i conosc razo di
Folchetto da Marsiglia e Felon cor ai et enic di Percivalle Doria. Come sottolinea Guida 1992, pp. 20
segg la visione degli occidentali è estremamente superficiale e parziale, in sostanza manichea;
l’atteggiamento intollerante caratterizza soprattutto i francesi meridionali, più vicini all’area iberica e più
legati alla tradizione di Carlo Magno e di Roncisvalle.
485
Si legga ad esempio Un sirventes vuelh far en aquest son d’En Gui di Uc de Saint Circ.
486
Per tale aspetto si veda Guida 1992, pp. 11 segg. Lo studioso ha sottolineato l’intensità delle
aspirazioni morali che venivano associate alla partenza e soprattutto alla città di Gerusalemme, anche per
la tendenza a sovrapporre l’immagine della città terrena a quella celeste. Trovatori e trovieri sono
concordi nell’identificare nel pellegrinaggio in armi la via più breve ed efficace per essere ammessi al
Cielo. Il voto e la partenza erano associati alla purificazione, al superamento dei vizi e degli istinti più
bassi e quindi all’estinzione del senso di colpa.
487
Ara sai eu de pretz quals l’a plus gran, Bertran de Born.
488
In particolare A l’honor Dieu torn en mon chan, ma anche in altri sirventesi dello stesso Giraut de
Bornelh. D’altro canto la questione della moralità cristiana può essere presentata anche in termini più
ampi, come in Ai! Quan gen vens et ab quan pauc d’afan di Folchetto da Marsiglia.
489
Basti pensare alla gran parte dei versi di Marcabru o Peire Cardenal. Se ne tratterà nel paragrafo
successivo.
490
È particolarmente esemplare per la sua focalizzazione sul tema delle lotte intestine la canzone di
crociata di Lafranco Cigala Estier mon grat mi fan dir vilanatge. Per la medesima ragione, lo si è visto, le
false crociate contro eretici, poteri politici, Impero bizantino meritano solo biasimo, perché invece di
curarle, aggravano le contraddizioni interne. Secondo Guida 1992, pp. 30 segg, tale sfiducia motiva una
graduale perdita di speranza e partecipazione all’idea stessa di crociata. Si veda anche Cardini 1993, pp.
181-211 (soprattutto p. 183) e 259-289 (soprattutto pp. 271-287).
179
una certa disillusione rispetto alle sconfitte subite491, ciò non impedisce il rinnovarsi
degli entusiasmi e il permanere della convinzione che la missione cristiana sia meritoria
e necessaria. L’insuccesso è anzi inteso come il sintomo di gravi peccati da espiare, che
Dio ha voluto punire492. Ciò dimostra la forza dell’ideale crociato e il profondo bisogno
di credere alle promesse legate alla partenza. Tuttavia, con il tempo si diffonde anche
una visione più realistica, per cui già Pons de Capduelh, vissuto a cavallo tra XII e XIII
secolo, ritiene che debba partire solo chi sia davvero motivato e disponga delle
necessarie qualità fisiche; agli altri si raccomandano contributi economici493. Dunque si
potrebbe ipotizzare, almeno per la seconda generazione di canzoni dedicate alla
crociata, che anche i trovatori intendano il tema più come uno spunto di riflessione
socio-politico-morale che come effettivo strumento fattuale, con una sensibilità che
potrebbe poi aver favorito il riuso petrarchesco.
La canzone di crociata si dimostra inoltre un genere piuttosto elastico, presso i
trovatori494. Anche in componimenti di ispirazione unitaria, per cui la definizione di
sirventese appare univoca, si inserisce facilmente l’eco della parallela produzione
amorosa e della vita cortese dell’autore: Gaucelm Faidit, al momento della partenza, si
preoccupa della fedeltà della sua amata (Tant sui ferm e dis vas amor), Marcabru adotta
la prospettiva della fanciulla abbandonata dall’amato crociato (A la fontana del
vergier)495, Raimon Gaucelm de Béziers scusa chi decida di non partecipare perché
legato alla famiglia (Qui vol aver complida). Il motivo della separazione degli amanti è
tanto importante da determinare un filone specifico, quasi un sottogenere della canzone
di crociata, ben distinto da quello dell’invito, e soprattutto dalle sue manifestazioni più
occasionali, legate cioè ad uno specifico contesto. Il punto di vista resta per lo più
maschile, ma consente effusioni soggettive e in parte autobiografiche sullo stato
d’animo di chi parte (o vorrebbe restare)496: si determina una peculiare sovrapposizione
strutturale e concettuale tra canzone di crociata e canzone d’amore, in particolare se
imperniata sull’idea della lontananza497.
491
Così Gaucelm Faidit in Fortz chausa. Sul tema della disillusione si veda Cardini 1993, pp. 259-289.
Vere e proprie riflessioni sulla possibile erroneità della spedizione su un piano teologico sono
rarissime; si ricordino ad esempio Non pot esser sofert atendut di Guilhem Ademar e En chant vuoill di
Falquet de Romans. Guida 1992, pp. 30 segg ha sottolineato come proprio la decadenza delle gerarchie
ecclesiastiche e le colpe del pontefice siano state spesso interpretate in tale direzione.
493
Guida 1992, pp. 29 segg, evidenzia come la produzione più tarda sulle crociate mostri una graduale
evoluzione dell’opinione corrente: diminuisce l’afflato eroico, le canzoni si arricchiscono di tematiche
molteplici e diversificate, aumentano sia un atteggiamento prudente sia le perplessità.
494
Per la varietà con cui viene declinato il genere e il rapporto tra oggettività e soggettività è utile la
lettura di Dijksta 1994; già Siberry 1988 aveva approfondito il problema del sentimento amoroso rispetto
alle esigenze militari della crociata (pp. 21-25).
495
Mescolando così canzone di crociata e canzone di donna, inserendo tra l’altro anche alcuni elementi
propri della pastorella.
496
Proprio il legame con la famiglia e la preminenza dei sentimenti positivi e amorosi su quelli militari
sembrano accentuarsi con il tempo, contribuendo a quell’evoluzione del tema di crociata verso forme
meno univoche ed immediate sottolineata da Guida 1992, pp. 30 segg.
497
La collaborazione tra le due diverse aree poetiche si coglie anche nei componimenti di genere “misto”,
in cui cioè la parte di sirventese e quella di canzone sono semplicemente giustapposte, e distinte in modo
netto. A seconda dei casi, l’uno o l’altro spunto può risultare predominante sull’altro. Si leggano ad
esempio Puois nostre temps comens’a brunezir di Cercamon, che in modo significativo tratta la questione
492
180
La sovrapposizione tra dimensione amorosa e impegno della crociata trova il suo
culmine – negativo, sul piano morale – quando l’attaccamento sentimentale o il
controllo che la dama esercita sul drudo impediscono la missione. I due esempi più
eloquenti si trovano in Bertran de Born (ed è tanto più interessante che si tratti del
famosissimo cantore d’armi!) e in Raimbaut de Vaqueiras. In Ara sai eu de pretz quals
l’a plus gran, Bertran canta l’elogio di Corrado, condottiero destinato al successo in
Terrasanta, cui in parte si rivolge direttamente in apostrofe; egli però non sembra
prendere parte alla spedizione. Dapprima egli aveva rinunciato vedendo i potenti tanto
restii a partire (“mas laisei m’en quar se tarzaven tan / li comt’e ill duc, lli rei e li
princi”, vv 10-11), ma il vero problema è l’amore: “Pois vi midonz bell’e bloia / per que
s’anet mos cors aflebeian, / q’eu fora lai, ben a pasat un an” (vv 12-15). Nel triplice
congedo il concetto viene ribadito in modo inequivocabile: la canzone è inviata al
signore, con la promessa di recarsi presto in suo aiuto, a patto però che tale separazione
non offenda la dama: “Mas ben es vers qu’a tal domna m coman / se l passatge no ill
platz, non crei que i an” (vv 49-50). I medesimi concetti e in parte i medesimi versi si
trovano anche nella quarta strofa di Fuilhetas, vos mi preiatz qe ieu chan, benché per il
resto il sirventese, dedicato ad aspre critiche contro un avversario, sia molto diverso498.
Una differenza minima, ma molto significativa tra le due lezioni si nota al verso 15 del
primo componimento: qui infatti viene precisato che “è passato più di un anno”. Se
davvero tra i due testi si instaurasse, anche solo nella finzione letteraria, tale relazione
cronologica499, Bertran ci fornirebbe non solo l’immagine di una grave indolenza
causata dall’amore, ma anche il suo perdurare, gravissimo, nel tempo.
delle crociate più in chiave morale e penitenziale che militare, oppure Chantars mi torna ad afan di
Folchetto da Marsiglia, benché qui l’elemento amoroso sia considerato più che in chiave davvero
sentimentale e cortese, secondo un’ottica morale, o ancora Fuilhetas, vos mi preiatz qe ieu chan di
Bertran de Born. In Si soutils senz di Giraut de Bornelh lo scarto tra le due parti è attenuato da una stanza
di passaggio, che esprime il timore per l’ira della dama, causata dalla prolungata assenza del drudo. Per il
resto, al tema vero e proprio della crociata resta soltanto l’ultima stanza. Sia in Si soutils senz, sia in En un
chantar, Giraut propone in realtà una tripartizione grazie all’ampio incipit metapoetico. In quest’ultima
canzone lo stacco tra parte amorosa (infelice) e la richiesta di protezione a Dio in vista della partenza è
nettissimo.
Ancor più frequente è il caso della tornada del sirventese (soprattutto di crociata) dedicata alla dama,
come suggerisce anche l’idea implicita del saluto, della separazione. Un esempio eloquente si riscontra in
Baros Jezus, qu’en crotz fo mes di Peire Vidal: il corpo del sirventese è dedicato alla crociata secondo le
convenzioni più tipiche, segue una stanza moraleggiante e piccata sui costumi femminili, mentre la
conclusione riporta ai toni consueti delle dichiarazioni d’amore (salvo inserire una seconda dedica al
signore). Baldassari 2006, pp. 195 segg ha sottolineato l’importanza di tale consuetudine rispetto alla
scelta di Petrarca di concludere la canzone 28 riferendosi alla dama. Tuttavia, non va dimenticato che tali
soluzioni corrispondono in ambito trobadorico alle abitudini invalse nelle canzoni d’amore, benché in
direzione inversa: dopo aver dedicato l’intero testo alla dama, il poeta saluta il suo signore o un amico o il
giullare, cui nella maggior parte dei casi invia il proprio testo, che dunque non risulta pensato in primo
luogo per l’amata stessa. Un esempio di canzone interamente amorosa con congedo dedicato alla crociata
è offerto da Gaucelm Faidit in Mas la bella de cui mi mezeis tenh. Sulle varie configurazioni possibili
delle tornadas trobadoriche si è soffermato Vallet 2010.
Sul genere misto nell’insieme si tornerà a breve.
498
Si fa qui riferimento all’edizione Paden 1986, pp. 410-421, che offre anche preziose informazioni
filologiche sui testi.
499
Benché non resti una silloge autoriale di Bertran, è notevole che Paden 1986 disponga i due testi
proprio nella successione Fuilhetas (XL) e Ara sai eu (XLI).
181
La medesima incertezza, nonché il medesimo andamento eterodiretto della volontà, si
riscontrano in Ara pot hom conoisser e proar di Raimbaut de Vaqueiras, dove la
contrapposizione tra dovere cristiano e vincolo amoroso è resa ancor più forte dalla
struttura, poiché l’intera canzone è dedicata al solo tema della crociata, contraddetto
improvvisamente dai versi finali. Nell’ultima stanza, infatti, Raimbaut si rivolge alla
dama (qui il senhal è significativo del carattere militare dei versi precedenti) e lascia a
lei ogni decisione:
Bels Cavalliers, per cui fatz sos e motz,
non sai si m lais per vos o m leu la crotz,
ni sai cum an ni sai comen remaigna,
que tant mi fai vostre bels cors plazer
q’ieu muor s’ie us vei e, qand no us puosc vezer,
cuich morir sols ab tot autra compaigna (vv 73-78).
Oltre a questi versi che, come vedremo, paiono strettamente connessi all’elaborazione
petrarchesca500, è utile ricordare anche due testi di Giraut de Bornelh. Nel primo, Si
soutils senz, il poeta riconosce il diritto della dama a non volerlo lasciare partire, anche
se ciò non lo trattiene dal seguire il re nella sua impresa. Gli sembra infatti sufficiente
accettare di buon animo l’eventuale vendetta dell’amata: “E s’il es correillanz, / car
s’auzet eschazer, / del venir, son plazer / fassa del ben veniar!” (vv 65-68). En un
chantar rovescia completamente tale prospettiva: la dama è indegna, il poeta è ben
contento di lasciarla, si fida di Amore e dei suoi doni, che gli sono promessi sin dalla
nascita. Perciò egli è certo che tornato dalla crociata sarà onorato, non tanto come
cavaliere, ma in primo luogo come amante: “cug esser pro fis c’al tornar / si’amics
onratz e iauzitz” (vv 71-72).
Un altro luogo interessante si legge in Peirol, Coras que m fezes doler, in cui
l’immagine della crociata, cui si rinuncerebbe senza indugio pur di rivedere l’amata, è
intesa non tanto come dovere militare, quanto come occasione di meritare il paradiso.
Per altro il contesto è profondamente diverso, in quanto il componimento non è una
canzone di crociata, quanto una classica chanso d’amore, in cui la partenza per la
Terrasanta è evocata a titolo di iperbole nella dichiarazione di lealtà e desiderio:
S’era part la crotz dels ris,
don anc hom non tornet sai,
non crezatz que m pogues lai
retener nuills paradis.
Tant ai assis mon voler
en ma douss’amia (vv 41-46).
500
Per tale ragione erano già citati, benché limitatamente ai due congedi, in Baldassari 2006, nota 12, p.
196, che rimanda anche a Guida 1992, pp. 188 segg. e 202 segg.
182
È significativo che anche in Petrarca, nel ventottesimo fragmentum, un congedo
amoroso si contrapponga ad una trattazione dedicata integralmente al sostegno della
crociata: il legame con Laura impedisce al poeta di prendere parte all’impresa che pure
aveva tanto elogiato, ed anzi descritto come dovere dell’uomo coscienzioso sul piano
religioso e politico.
Tu vedrai Italia et l’onorata riva,
canzon, ch’agli occhi miei cela et contende
non mar, non poggio o fiume,
ma solo Amor che del suo altero lume
più m’invaghisce dove più m’incende:
né Natura può star contra ‘l costume (vv 106-111).
La stanza è stata a più riprese oggetto della critica proprio per la peculiarità della sua
collocazione501; la più recente interpretazione di Gabriele Baldassari pare
particolarmente convincente:
Il significato di questo distacco [dall’impresa sino a quel punto celebrata] non risiede però
a mio avviso nel carattere di Petrarca, secondo la visione desanctisiana seguita da
Figurelli, ma nel disegno del Canzoniere come storia del “giovenile errore” del poeta. La
dichiarazione finale di O aspectata in ciel vale cioè a connotare negativamente, per
contrasto con il destinatario e la cristianità unita nella crociata, la dedizione ad amore
dell’io lirico. Questa interpretazione del congedo è incoraggiata soprattutto dagli “effetti
di montaggio” perseguiti da Petrarca, cioè dalle relazioni della canzone con i
componimenti limitrofi del liber502, ma anche da alcuni elementi nel testo stesso di O
aspectata in ciel503.
Leggendo in questa prospettiva la canzone 28 e il suo peculiare congedo, si colgono
meglio anche il riuso del genere e il suo valore nella raccolta. Il fragmentum, infatti,
contribuisce in modo determinante a costruire la storia e l’identità dell’io, sia rispetto al
tema politico sia attraverso il brusco spostamento sul piano amoroso. Da una parte
anche i componimenti di ispirazione civile vanno intesi come parte integrante del
Canzoniere: essi rispondono ad un’esigenza di variatio, che però è ben lungi
dall’esaurirne la funzione e l’importanza504. Dall’altra, l’io vede la pulsione amorosa
501
Carducci riteneva che Petrarca si rivolgesse qui in confidenza all’amico Giacomo Colonna, l’unico che
poteva comprendere la natura intima della confessione, che altrimenti sarebbe parsa “impertinente”;
Figurelli ritiene che Petrarca non possa essersi limitato ad una pedante imitazione dei trovatori e che
dunque debba essere implicata la sua “natura”, in una prospettiva di ingenuo sfogo; per Santagata si tratta
piuttosto di “modestia” rispetto al destinatario della canzone, rappresentato come personaggio oltremodo
nobile e degno. Si cita qui da Baldassari 2006, pp. 196-197; si veda anche Santagata 1996, p. 154, dove è
riportato anche il modello occitanico di Bertran de Born.
502
I rapporti intertestuali delle tre canzoni politiche e in particolare di 28 in seno al Canzoniere sono
analizzati in Baldassari 2006, pp. 232 segg.
503
Baldassari 2006, p. 197.
504
Su tale argomento si tornerà a breve; il principio è ampiamente affrontato da Baldassari 2006, pp. 195
segg: “Una lirica di argomento politico non è solo il documento di un’ideologia, ovvero di una visione del
183
appropriarsi della sua esistenza per intero, dominando ogni altra passione, ogni dovere,
ogni necessità: 28 cioè esprime con grande efficacia l’idea di un amore alienante, che
impone all’innamorato una totale subordinazione505, cancellando persino l’urgenza degli
imperativi morali. Certamente si tratta di un topos, che già caratterizzava le vicende
amorose dei trovatori. Tuttavia esso acquisisce una valenza ben più complessa e una
profondità molto maggiore in relazione ad una coscienza travagliata come quella
espressa dal Canzoniere. D’altronde basta osservare i passi citati per accorgersi di una
differenza radicale: mentre nei tre testi trobadorici ciò che trattiene il poeta è la volontà
della dama, nel caso di Petrarca Laura non è nemmeno citata. Il limite viene dall’io
stesso, dagli effetti che l’amore ha su di lui, dall’incapacità di gestire le pulsioni e di
volgersi a passioni più alte: ancora una volta sono l’io e il suo errore ad essere al centro
della questione, creando una dinamica del tutto nuova. Se si pensa poi al valore
tradizionalmente associato al pellegrinaggio in armi dal punto di vista spirituale si
comprende ancor meglio la perfetta coerenza di 28 e della sua conclusione. Il voto
comporta una purificazione ed è il primo passo per avvicinarsi a Dio attraverso
l’impresa. Tuttavia perché quella promessa abbia reale significato salvifico essa deve
essere accompagnata da una profonda contrizione: la conversione precede la partenza e
il pentimento deve accompagnare la penitenza, cioè il viaggio506. Ebbene, tale
mutamento interiore è ancora lontano, addirittura impensabile fino a 264: anche i
componimenti penitenziali della sezione “in vita”, quindi precedenti alla mutatio animi
mediana sono comunque tutti posteriori a 28. Il cambiamento, d’altronde, è davvero
definito solo con le preghiere conclusive.
Un’ultima conferma viene dalla collocazione del componimento. Non solo 28 è
prossima a tre tra le massime espressioni della sottomissione amorosa (23, 29, 30), ma
anche alla prima affermazione cronologica forte della raccolta, intesa ovviamente in
senso letterario e non biografico. La sestina 30, infatti, contiene la prima indicazione
d’anniversario, il settimo507; suggerisce dunque una precisa datazione interna al 1334,
considerando che l’incontro con Laura avviene nel 1327508. Come abbiamo anticipato,
anche per 27 e 28, grazie alla puntuale connessione storica, si può ipotizzare una precisa
datazione alla fine del ‘33 o all’inizio del ‘34509. La compresenza di spinte morali e
irrazionali, destinate a vedere la vittoria delle seconde sulle prime, non è perciò generica
o limitata alla successione orizzontale dei testi nella raccolta, ma avvalorata da una
precisa coincidenza esistenziale.
reale politico, ma anche la definizione di un rapporto tra l’io lirico, responsabile dell’enunciazione, e il
reale tout court” (p. 195).
505
Tale aspetto sarà oggetto di particolare attenzione nel corso del capitolo successivo.
506
Per tali premesse rispetto alla visione occitanica e francese si veda Guida 1992, pp. 14 segg.
507
Abbiamo già accennato al valore simbolico di tale ricorrenza e alla sua presenza in diversi
componimenti occitanici. Sulla questione si tornerà ancora nel quarto capitolo.
508
La coincidenza tra trentesimo componimento, trentesimo anno e settimo anniversario è stata
evidenziata una prima volta da Durling, citato poi in Sturm-Maddox 1985, e poi riproposta in Baldassari
2006. Si vedano inoltre Santagata 1996, pp. 167-174 e Roche 1974, in particolare p. 157. Sulla sestina e
la sua funzione nella progressione del Canzoniere e rispetto alla componente trobadorica nella raccolta si
tornerà nel quarto capitolo.
509
Santagata 1996, p. 142.
184
9.1 L’incontro di temi diversi e il genere misto. Testi occasionali e di
corrispondenza
Si è fatto cenno in precedenza al cosiddetto “genere misto”, definito talvolta nelle
riflessioni metapoetiche o nella tradizione manoscritta canso-sirventes e simili. Si tratta
di componimenti in cui tema amoroso e aspetti civili si incontrano, senza però
mescolarsi, ed anzi delineando due sezioni nettamente distinte510. Le zone dedicate alla
dama sono ispirate all’amor cortese e ai problemi che lo caratterizzano, dunque
appaiono per lo più convenzionali e omogenee; i temi politici, morali o militari che
interessano i versi restanti sono invece molto vari511.
I componimenti di questo tipo risultano emblematici della varietà del corpus
trobadorico, frutto dei molteplici interessi degli autori: per alcuni tra essi, come Giraut
de Bornelh, Gaucelm Faidit o Guiraut Riquier, un approccio poliedrico è tipico, ma
anche poeti celebri soltanto per un aspetto della loro produzione possono rivelare una
capacità compositiva più articolata, come Marcabru e Bertran de Born. Parte della
ricchezza dell’esperienza poetica occitanica dipende anche dal gusto per l’occasionalità,
dall’attenzione al singolo fatto o a specifici personaggi512. D’altro canto, i testi che si
limitano a tali elementi sono destinati a vita ed esemplarità minori, a rivestire insomma
un ruolo limitato.
Il panorama trobadorico nel suo insieme sembra noto a Petrarca, che certo ne tenne
conto per l’alternanza delle differenti tematiche nel Canzoniere. Solo i tre sonetti contro
Avignone costituiscono un ciclo continuo, il quale comunque è preceduto e seguito da
componimenti dedicati alla dimensione sentimentale513. D’altronde la sovrapposizione
510
In qualche caso la distinzione tematica però non è del tutto univoca e schematica, rendendo la
transizione tra aspetto amoroso ed elemento civile più sfumata: si veda ad esempio Leu chansoneta m’er
a far di Guilhem de Montanhagol.
511
Se ne propongono qui alcuni esempi di ispirazione diversa: Be m’era bels chantars di Giraut de
Bornelh, No m’agrad’ iverns ni pascors di Raimbaut de Vaquieras, Molt m’es dissendre car col di
Bertran de Born, Bel m’es quan la roza floris di Peire d’Alvernha, S’a dreg fos chantars grazitz di
Raimon de Miravall, Bels amics cars, ven s’en vas vos estius di Peire Vidal, Estat ai dos ans di Elias
Cairel, Bel m’es cant son li frug madur di Marcabru, L’autrier m’anav’ab cor pensiu di Paulet de
Marselha, Ogan, ab freg que fazia di Joan Esteve (in questo e nel caso precedente la parte amorosa è
peculiare perché in forma di pastorella, così da rinnovare anche quel genere), Chant e deport, joi,
dompnei e solatz di Gaucelm Faidit, Una chanso sirventes e Aucel no truob chantan di Falquet de
Romans. Il penultimo testo offre anche un’interessante definizione del genere, che tiene conto della sua
duplice natura.
512
Tale produzione prende corpo soprattutto attraverso specifici generi, in particolare tenzone, partimens
e forme dialogiche in generale, e soprattutto coblas, passibili di scambi tra i poeti che creino veri e propri
“botta e risposta” critici, polemici o anche umoristici. Esempi interessanti sono offerti da Uc de Saint
Circ, Sordello, Peire Cardenal e Bertran d’Alamannon, tra gli autori che più hanno dato spazio a
composizioni brevi, pensate per un dialogo a distanza (e che per ciò si distingue sia dalla tenzone che dal
partimens). Per l’uso e la storia della cobla si veda comunque l’inizio del presente capitolo e le relative
indicazioni bibliografiche.
513
Si può notare tuttavia che in varie zone della raccolta Petrarca adotta precise strategie per mediare il
passaggio da un tema dominante all’altro. Si legga ad esempio il sonetto 24, in cui la riflessione
metapoetica richiama per certi aspetti 23, mentre la deviazione dall’orizzonte laurano e l’uso della
seconda persona anticipano i due testi di corrispondenza 25 e 26, nonché la tematica civile di 27 e 28.
Nella canzone, d’altronde, il congedo amoroso riporta gradualmente a Laura e dunque a 29. Nel sonetto
93, che segue due planh in cui è presente l’aspetto amoroso, ma non in chiave laurana, il passaggio è
185
tra aree concettuali diverse non si riscontra solo nella successione dei componimenti,
ma anche all’interno del singolo testo, a partire dalla canzone 28, che, lo si è visto, è un
caso molto significativo di passaggio brusco dalla visione politica ai vincoli amorosi
che le si contrappongono, fino ai sonetti 114 e 117, in cui la brevità della struttura
evidenzia la rapidità dello spostamento. In tutto l’arco della raccolta sono poi collocati
non pochi testi occasionali514, rivolti a personaggi a vario titolo legati all’autore515, che
sembrano distogliere l’attenzione non solo dalla relazione sentimentale, ma anche
dall’io nella sua assoluta centralità516.
All’io e alla sua rappresentazione, però, vanno ricondotti tutti gli spunti presenti nel
Canzoniere517. Proprio il fatto che sia l’io – e non Laura – l’oggetto dell’analisi
petrarchesca richiede che essa non si limiti all’amore, ma esplori tutte le declinazioni
che pertengono al soggetto. Come già per il riuso dei diversi generi poetici, al lettore
viene offerto un quadro ricco ed articolato, frutto della ricerca di totalità518; in tal senso
Petrarca poté sicuramente guardare ai trovatori. Tuttavia l’impegno poetico petrarchesco
non ha solo valore letterario, ma anche esistenziale: tale prospettiva concerne sia l’io
individuale, inteso in chiave psicologica ed emotiva, sia la componente esemplare
altrettanto rilevante nell’economia del Canzoniere.
10. Polemica e questioni politiche
La presenza di tematiche politiche nel Canzoniere non si limita alle tre canzoni 28, 53,
128, benché esse ne rappresentino la manifestazione più alta, anche in relazione alla
funzione che i testi lunghi svolgono in quanto “pilastri” della raccolta.
favorito di nuovo dallo spunto metapoetico. 108 si rivolge ad un amico, ma propone il ricordo di un
incontro con l’amata, mentre in 114 la rappresentazione di Valchiusa è perfettamente coerente con quella
dei testi amorosi in generale e in particolare 116-117. Anche 143 e 144 sono componimenti occasionali,
slegati dalla vicenda principale, ma connessi ad essa grazie alla tematica amorosa, e lo stesso vale per
179, dove si fa anche chiaro riferimento a Laura. In 266, infine, le cause della lontananza prolungata da
Avignone, che motiva l’invio del componimento al patrono Giovanni Colonna, sono legate all’amore per
Laura.
514
D’altro canto, come si è visto, Aston 1971 sottolinea come il planh possa essere per certi aspetti
considerato un genere occasionale. Inoltre, alla base di non pochi testi amorosi della prima sezione è uno
spunto narrativo o una situazione particolare, che però si risolve, grazie al dominio della percezione
soggettiva, in considerazioni più ampie e “fuori dal tempo”. Per tali considerazioni si legga Ambrosini
2004.
515
Non tutti infatti sono “amici” in senso stretto. Si vedano in particolare: 7-10, 24-26, 38, 40, 58, 91, 98,
103-104, 108, 114, 120, 139, 143-144, 179, in parte 232, 245, 266. Per quanto concerne la disposizione
dei testi, essi si concentrano soprattutto nella prima sezione, ma non manca una ricerca di equilibrio nella
seconda, per lo meno attraverso i componimenti di lamento in morte non riferiti a Laura, di cui si è
trattato nel presente capitolo parlando del planh.
516
Per la relazione tra testi amorosi e tematiche divergenti rispetto all’io si veda anche Santagata 1996,
pp. XXXVIII-XXXIX.
517
Baranski, in Picone 2007, p. 622, sottolinea in riferimento al sonetto 287 come il punto di vista dell’io
sia talmente unitario e centralizzato da consentire l’inserimento di componimenti di corrispondenza e
occasionali in genere, anche nell’ambito di coese serie laurane (nello specifico, quella delle visioni).
518
Su tale ricerca di onnicomrensività, che si è anticipata, sul solo piano metapoetico, nell’introduzione al
presente capitolo, si tornerà con maggiore ampiezza nel quarto capitolo.
186
Sono celeberrimi i tre sonetti sulla corruzione avignonese, 136-138, che costituiscono
un breve ma intenso ciclo polemico, strettamente connesso al genere medievale del
vituperium519. Lo scopo dei tre fragmenta è condannare la corruzione del papa e del suo
entourage, ma anche riproporre ancora una volta la questione della sede romana,
secondo un’ottica diversa, non più possibilista ma critica520. Il biasimo rivolto alla
novella Babilonia521, Avignone, appare perfettamente coerente con le riflessioni di 53 –
dedicata all’ingiusta decadenza di Roma e all’urgenza del ritorno del pontefice alla sua
sede legittima – e di 128 – focalizzata sulle divisioni italiane e sulla crisi della
penisola522. Utili connessioni si colgono anche rispetto a 27 e 28: ad esempio l’idea che
il soglio pontificio sarà purificato da un “novo soldan” (137, v 6) sembra suggerire un
rovesciamento della crociata523. Nel sonetto 27, inoltre, Babilonia era già citata quale
capitale degli infedeli che il nuovo imperatore (Filippo IV) avrebbe abbattuto; il testo
presenta inoltre un quadro ideale di legami onesti, di istituzioni sane, sacre e rispettate,
che dunque si contrappongono al disfacimento avignonese524. In 27 appare
particolarmente rappresentativa l’immagine del matrimonio, tra il destinatario taciuto e
l’“agna” che ne permette l’identificazione525. E non sarà un caso se il vizio su cui si
insiste maggiormente nel ciclo anti-avignonese è quello della lussuria.
Nella forma Correggio, la cui prima parte si concludeva poco oltre con la sestina 142, i
tre sonetti offrivano un ultimo spazio di espressione politica. Anche nella redazione
Vaticana il tema non amoroso torna a ridosso della svolta centrale, grazie
all’inserimento del sonetto 259, l’unico testo in cui si riscontrino elementi polemici che
non appartenesse alla forma più antica. Il poeta infatti è costretto a tornare ancora una
volta nell’odiata città pontificia: “Ma mia fortuna, a me sempre nemica, / mi risospigne
al loco ov’io mi sdegno / veder nel fango il bel tesoro mio” (vv 9-11). Il riferimento ad
519
I modelli principali per gli attacchi polemici e il loro sviluppo argomentativo sono latini, con
particolare riferimento alla tradizione della retorica dimostrativa, volta al plauso o al biasimo. La
tradizione manoscritta ben testimonia la diffusione e l’apprezzamento per le opere dedicate a tali aspetti
(si veda la riflessione sull’insegnamento condotta nel quinto capitolo) e sicuramente i trovatori, ancor
prima di Petrarca, hanno beneficiato di tali materiali. L’impegno occitanico ben si accorda con un
principio morale valido in tutto l’arco del Medioevo: chi accusa o biasima giustamente, oppure elogi chi
lo meriti, è degno di lode a sua volta. Bisogna dunque distinguere con attenzione fra accuse giuste e
sordide delazioni, come quelle spesso lamentate anche nei versi d’amore, sotto forma di lamento contro le
“malelingue” (se ne riparlerà con maggiore ampiezza nel prossimo capitolo). Per tali aspetti e per una
dettagliata terminologia che nella lirica provenzale contraddistingue i concetti esposti si veda ThiolierMejean 1978; per la tradizione del vituperium con particolare riferimento all’Italia, anche Suitner 1977 e
20051, Pasquini 1980 e 1981, Picone 2002. A Suitner 1985 si deve in particolare l’analisi del genere
mediolatino e poi provenzale del vituperium, che si associa anche ad altri generi o strumenti retorici ben
noti all’epoca e in parte già trobadorici, come enueg e plazer, personificazione e “lamento”. In effetti la
stessa Avignone-Babilonia dei tre sonetti 136-138 è presentata in veste di donna disgraziata.
520
Su tale aspetto si è soffermato in particolare Picone 2002.
521
L’associazione con Babilonia a scopo di scherno ed insulto è convenzionale, legata alla tradizione
ereticale e spirituale (francescana), benché non in modo esclusivo; essa comporta spesso l’uso di topoi
ben precisi, quali il richiamo alla donazione di Costantino, l’immagine del Tartaro, del mondo alla
rovescia o della civitas diaboli.
522
Su tale coerenza d’insieme si è soffermato Baldassari 2006, pp. 239-242.
523
L’ipotesi è di Santagata 1996, pp. 676-677 (citata anche in Baldassari 2006, pp. 240-241).
524
Baldassari 2006, p. 241.
525
Santagata 1996, pp. 136-137.
187
Avignone ha qui una funzione duplice: innanzitutto la contrapposizione con l’amena
Valchiusa526, descritta nelle quartine, secondariamente la costruzione dell’ambiente in
cui si trova Laura527, che risulta coerente con quello dell’incontro e quindi della prima
apparizione dell’amata528. I sonetti 136-138 non sono i primi in cui compaia l’accusa ad
Avignone; sono infatti preceduti da 114 e 117529. Il primo si apre così: “De l’empia
Babilonia, ond’è fuggita / ogni vergogna, ond’ogni bene è fori, / albergo di dolor, madre
d’errori, / son fuggito io per allungar la vita” (vv 1-4). Segue la delizia di Valchiusa. La
medesima contrapposizione si ripropone ai vv 1-4 di 117: “Se ‘l sasso, ond’è più chiusa
questa valle, / di che ‘l suo proprio nome si deriva, / tenesse volto per natura schiva / a
Roma il viso et a Babel le spalle”. Si ha perciò l’impressione che 259 sia costruito anche
per corrispondere a queste due anticipazioni della polemica avignonese: i tre testi creano
una sorta di cornice che comprende il ciclo anti-avignonese e la canzone all’Italia
128530.
Nel complesso la tematica politica trova nel Canzoniere una disposizione che ne esalta
la progressione logica. I due cicli – canzoni e sonetti – si intrecciano infatti in perfetto
equilibrio. 27 introduce gli elementi occasionali e contestuali funzionali alla
comprensione di 28, ma che sono termine di paragone anche per la rappresentazione di
Avignone-Babilonia; inoltre comporta un’apertura in tono minore che equivale alle
chiusure sia in Correggio (138) sia negli esiti successivi (259). 28 propone una visione
positiva, che comincia a declinare in 53, dove però si respira ancora il senso della
speranza per la vera sede pontificia. Ad essa si contrappongono le brevi
rappresentazioni di 114 e 117, il disastro italiano di 128 e l’intensa polemica di 136138. 259 chiude, confermando la definitiva focalizzazione sulle manifestazioni più
dirette dell’io, amorose e penitenziali.
Tra gli antecedenti cui Petrarca può aver attinto per l’elaborazione degli spunti politici e
polemici va citata in primo luogo la tradizione satirica latina e lo sviluppo delle forme
letterarie moraleggianti e dottrinarie mediolatine. In ambito romanzo, invece, la
produzione civile in versi ebbe notevole fortuna grazie all’impegno dei trovatori, che
divennero modello essenziale per la produzione duecentesca italiana, e in particolare per
526
Anche il contrasto città/campagna, corruzione/libertà appartiene alle convenzioni del vituperium
quando associato alla città.
527
Come sottolinea Santagata 1996 nella sua introduzione a p. 1037, questo e il precedente sono sonetti
“della quotidianità”, questo concluso dalla stretta di mano, quello imperniato su uno scambio di parole.
528
Santagata 1996, p. 1037. Non è un caso che tale annotazione si collochi poco prima della cesura
mediana e quindi della morte di lei, quasi a suggellare il lungo corso della relazione (in vita) tra i due
amanti.
529
Già Picone 2002 aveva considerato la prospettiva più ampia rispetto alla presenza del tema politico
nella raccolta, includendo per certi aspetti anche il sonetto 7; lo studioso si concentra in particolare sul
problema della libertà espressiva e sulla maturazione dell’interiorità associate a Valchiusa, secondo
un’opposizione interno/esterno, prigionia/libertà già convenzionale e in particolare dantesca.
530
Mancano qui riscontri numerici puntuali; se però escludiamo 259, aggiunto come si diceva a ridosso
della cesura in una redazione più tarda, si nota che 114+117 / 128 / 136-138 sono disposti con grande
equilibrio, a distanze reciproche uniformi, anche se non identiche. E anche la prossimità di 114 e 117 dà
all’occhio l’impressione di un ciclo, benché 115 e 116 abbiano argomento eterogeneo (ma in 116 si
ripropone l’ambientazione valchiusana).
188
i siculo-toscani531. Le esperienze occitaniche sono per altro piuttosto precoci: le prime
risalgono già al XII secolo, benché solo nel successivo si delineino vere e proprie
scuole, e realizzazioni più numerose532.
Dal punto di vista tematico, è opportuno distinguere due filoni principali533, tra
componimenti che si rivolgono alla società nel suo complesso e testi dedicati a singoli
individui534. La prima tipologia è la più interessante, poiché comprende anche le
requisitorie sul papato535, la cristianità, l’impero. La politica si mescola alla morale e
alla satira536, e i poeti si ergono a maestri dei potenti, come dell’umanità tutta. Le opere
più antiche, come il corpus marcabruniano, si concentrano soprattutto sui problemi della
corte; la svolta fondamentale si deve a Peire Cardenal537, che inaugura una prospettiva
critica d’ampio raggio, riferita a tutti gli strati sociali (eccetto il popolo) distinti nei tre
ordini di base, cavalleresco, ecclesiastico e mercantile. Le colpe consistono nella
divergenza dai compiti e dai doveri della propria classe, che interferisce con l’ordine
naturale delle cose. Osservando il punto di vista dei diversi autori, nella successione
delle tre generazioni trobadoriche, si coglie con chiarezza una prospettiva sempre più
fosca: cresce il pessimismo, fino a rappresentazioni apocalittiche, per altro prive per lo
più di oggettività storica ed intensamente emotive. Ad un presente desolato si
contrappone l’immagine luminosa del passato, vera e propria età dell’oro, idealizzata ed
appiattita nell’ottica delle speranze perdute.
L’utilizzo dell’immagine classicissima dell’età dell’oro suggerisce una tendenza più
generale per la poesia trobadorica civile, come già per quella amorosa: il diffuso ricorso
ad elementi topici e convenzionali538. Tali forme stereotipate, che favoriscono l’effetto
531
Anche i modelli italiani hanno avuto notevole importanza rispetto all’elaborazione petrarchesca: per
tali aspetti si vedano Pasquini 1980 e 1981, nonché Picone 2002.
532
L’elenco degli autori, anche solo quelli più importanti, dimostra la ricchezza di tale produzione:
Marcabru, Peire Vidal, Giraut de Bornelh, Peire d’Alvernha, Peire Cardenal, Gaucelm Faidit, Guilhem
Figueira, Gavaudan, Bertran Carbonel, Pons de Capduelh, Falquet de Romans, Guilhem de Montanhagol,
Bertran d’Alamannon, Guiraut Riquer, Lanfranco Cigala, Cerverì de Girona, Guilhem de Berguedà.
533
Non si considerano in questa sede i componimenti militari, che appartengono sì al macrogenere del
sirventese, ma non pertengono direttamente alla questione politica o alle forme di satira che le sono
spesso affini. Va ricordato comunque che anche i componimenti guerreschi, benché spesso dedicati
all’esaltazione delle forze militari, possono presentare interessanti riferimenti storici e valutazioni su
avvenimenti contemporanei, che riguardano soprattutto la lotta tra Midi e Francia.
534
Questo tipo di componimenti mostra d’abitudine un’evoluzione molto inferiore rispetto a quella della
polemica più articolata, perché la rappresentazione è quasi sempre inserita entro i parametri della società
cortigiana. L’applicazione specifica del modello, invece, è molto varia: l’oggetto della polemica può
concernere cavalieri, poeti, mariti, donne, nobili e signori e così via. Alla critica si accompagnano
d’abitudine consigli e suggerimenti, a seconda dei casi ispirati a problemi concreti oppure esistenziali.
535
Per approfondire sulla produzione anticlericale si legga Vatteroni 1999, dedicato complessivamente
alla questione.
536
Il rapporto tra questi diversi aspetti è affrontato in particolare in Vatteroni 1999, pp. 51-82.
537
Il contributo di tale trovatore è essenziale, tanto che egli è considerato un vero e proprio spartiacque
rispetto all’evoluzione della poesia morale e satirica. La novità più interessante consiste nella capacità di
articolare ciascun componimento secondo prospettive molteplici, morale, personale, politica. Il singolo
avvenimento fornisce lo spunto per una riflessione più ampia, cosicché non manca né il senso della
concretezza e della specificità storica, né l’approfondimento sul piano astratto. Per una piena
comprensione del personaggio si veda Vatteroni 1999, pp. 15-50.
538
Thiolier-Mejean 1978 ha evidenziato, in riferimento alla poesia satirica, l’importanza delle regole
retoriche tradizionali, rese autorevolissime dall’imposizione del latino come grammatica. La perfezione
189
modellizzante della produzione occitanica, si riscontrano sia come singoli elementi in
contesti più ampi, dunque mescolati con numerosi spunti diversi, sia come tratti unici ed
insistiti in composizioni omogenee e monotematiche. Gli strumenti espressivi
coincidono spesso con quelli caratteristici della poesia amorosa, spesso a loro volta
tipizzati539; è sempre molto marcata la componente cristiana.
I componimenti di ispirazione religiosa e anticlericale sono i più originali, meno
soggetti a ripetitività e banalizzazioni540. Infatti, i motivi per l’attacco polemico variano
notevolmente in ciascun autore o anche nel singolo testo, e si sovrappongono generi e
suggestioni diverse, anticlericale, politica, morale e così via. Il coinvolgimento dei temi
della fede, inoltre, favorisce uno spostamento dall’avvenimento specifico e localizzato,
ad aspirazioni e preoccupazioni universali, che determinano un respiro del tutto
rinnovato. La satira rivolta alle istituzioni ecclesiastiche è particolarmente diffusa e
sentita541, soprattutto nei confronti dell’autorità centralizzata e teocratica di Roma542,
avvertita in molti casi come un’incombente minaccia (il che non può stupire nei luoghi
della crociata albigese543). La censura di monaci e religiosi è di solito la meno
virulenta544, mentre sono diffusi gli attacchi verso le regole troppo permissive, la
dedizione ai piaceri terreni e carnali, la mancanza di scrupoli e la falsità dilagante. La
della forma è spesso preminente rispetto all’elaborazione del contenuto e dell’argomentazione. Spesso
perciò l’identità dell’autore si riconosce soltanto nella capacità di adattare gli strumenti più antichi e di
gestire i vincoli metrici.
539
Tali forme di riuso e risemantizzazione sono state affrontate da Thiolier-Mejean 1978, che distingue
elementi positivi, elementi negativi e tratti religiosi, derivati dalla predicazione, dalla sfera del pentimento
o della fede in genere.
540
Sulle opere di carattere anticlericale si è concentrato soprattutto Vatteroni 1999 (si vedano in
particolare le pp. 9-13 per la definizione della questione): benché talvolta il singolo testo comporti una
certa ambiguità rispetto al genere morale in senso più ampio, lo studioso ha cercato di fissare i tratti di un
sottogenere anticlericale specifico, che si rivela piuttosto unitario e definito. Un simile livello di
distinzione da una parte beneficia della possibilità di fare riferimento all’esempio di Peire Cardenal,
dall’altra è proprio la tematica ecclesiastica che appare nella maggior parte dei casi ben distinguibile.
541
Come ha sottolineato Thiolier-Mejean 1978, i contenuti e le modalità requisitorie dei componimenti
morali e satirici, infatti, offrono interessanti indicazioni sulla formazione tipica degli autori provenzali,
per altro in buona parte legati essi stessi alla sfera ecclesiastica (per tale aspetto si veda anche BrunelLobrichon 2000). Ne deriva in effetti una conferma della ricognizione sulla scuola e sugli studi medievali
(per cui si veda il quinto capitolo); ne risultano esaltati cioè il contributo degli enti ecclesiastici e
monastici, l’importanza della retorica (anche rispetto alla predicazione) e quindi dei modelli classici, la
diffusione delle competenze giuridiche, l’influenza del contesto militare.
542
Per quanto concerne i temi anticuriali e gli attacchi all’autorità pontificia, Pasquini 1981 ha evidenziato
la tradizionale distinzione critica di tre filoni: polemica dotta, sostanziata sul piano giuridico, storico e
teologico, spesso in coerenza con i moti ereticali; letteratura (soprattutto narrativa) realistica; satira colta
(gruppo a cui appartiene anche quella petrarchesca). Si tratta ovviamente di una semplificazione, poiché
tali aspetti sono spesso sovrapposti e intrecciati, come nel caso di Dante. Può essere perciò più utile una
“macrodistinzione” tra resa letteraria (spesso topica) e religiosa (l’intenzione è ben più fattuale e incisiva,
e infatti ci si rivolge ad un pubblico più ampio). Dal canto suo, l’approccio letterario contribuisce a creare
un mito: ne sono espressione sia Dante che Petrarca in ambito italiano, benché l’atteggiamento dei due
poeti sia stato ben diverso a livello biografico.
543
Vatteroni 1999, pp. 93 segg e soprattutto pp. 101-113, ha sottolineato anche il legame che intercorre tra
temi anticlericali e persecuzione dei catari, nel quadro complessivo delle questioni di fede ed
organizzazione della Chiesa che hanno travagliato il XIII secolo, con particolare attenzione allo sviluppo
dell’Ordine francescano.
544
Il che non impedisce la frequenza degli strali di Peire Cardenal, di solito molto esplicito nelle sue
accuse.
190
letteratura volgare – e soprattutto quella duecentesca, ispirata dal forte moto di
indipendenza spirituale che pervade tutta la società – recupera moti e problemi già
affrontati dalla produzione mediolatina545, espressione dunque dei chierici. D’altro
canto la produzione romanza dimostra notevole autonomia, nella prospettiva di una
attualizzazione e rielaborazione della tradizione (Peire Cardenal si distingue anche in
questo per il suo contributo essenziale)546; i laici, inoltre, rivelano una stupefacente
vivacità e libertà d’espressione, probabilmente grazie alla protezione garantita da
mecenati e aristocratici. L’approccio di fondo è in sostanza nuovo: non siamo più
nell’orizzonte della scuola e delle considerazioni più blande, la poesia satirica – anche
anticlericale – può fare propria la tradizione del vituperium, compresi i suoi toni più
gravi ed espliciti. L’unico ambito in cui sembra sia stato esercitato un freno è quello
dell’Inquisizione, la cui presenza nel Midi lasciava evidentemente poco spazio alla
parola poetica547.
Dunque le strutture della Chiesa rappresentano una parte (colpevole) di quella società
(riprovevole) che già in generale era oggetto di lamentele in versi. Tuttavia, in ambito
occitanico la riflessione sulla vita religiosa non si limita a tali aspetti e non di rado
riguarda anche i temi della fede: all’interno di discorsi più articolati o perfino di veri e
propri sermoni, già i primi trovatori affrontano questioni relative al giudizio universale,
alla punizione dei malvagi e all’aiuto riservato ai giusti, o ancora ai miracoli e alla
misericordia di Dio e della Vergine. Si è anticipata la riflessione sui componimenti
dedicati alle preghiere o alla celebrazione religiosa, che possono comprendere anche
545
Thiolier-Mejean 1978 ha analizzato le fonti, osservando che i contributi preminenti vengono da
modelli classici, spesso fruiti tramite la mediazione di opere mediolatine o in traduzione volgare (anche in
lingua d’oc), da insegnamenti di stampo cristiano (prediche, exempla…) o ancora dalla precedente poesia
religiosa, che spesso però è ricondotta a contesti espressivi del tutto alterati, cioè di stampo satirico. Tali
modelli operano sia sul piano tematico, sia su quello formale, poiché ne derivano strumenti utili
soprattutto alla costruzione argomentativa del discorso.
546
Vatteroni 1999, pp. 11-13 sottolinea la natura specifica e riconoscibile dell’approccio romanzo rispetto
a quello latino, benché grosso modo coevo. La scelta stessa della lingua, anche a fronte dell’uso di
immagini e concetti convenzionali, rappresenta un’innovazione, passibile per altro di letture provocatorie
e sovversive. Una delle ragioni essenziali per cui la produzione anticlericale in latino è tanto diffusa nel
Medioevo è proprio perché si avvale di una lingua ormai ignota alle masse. Infatti, nel momento in cui la
critica viene dall’interno (considerato che gli scriventi in latino sono per lo più chierici o comunque figure
legate all’orizzonte ecclesiastico) e difficilmente può raggiungere l’ampio pubblico dei laici, essa non
costituisce una reale minaccia di ribellione. Non a caso gli argomenti che potevano essere trattati nelle
prediche in volgare (che ormai cominciavano a diffondersi) erano vagliati e imposti dall’alto, mentre
continuavano ad essere vietate le traduzioni della Bibbia. Come sottolinea Pasquini 1981, anche le opere
laiche più virulente appaiono comunque meno energiche di quelle redatte da mistici e religiosi. Inoltre
ancora durante tutto il ‘300 spesso si arriva a comprendere quale sia l’obiettivo polemico dei laici solo
grazie alla cronologia del testo, tanto poco esplicito ne è il messaggio. La discontinuità linguistica
proposta dai trovatori, dunque, ha anche un valore eversivo. Non c’è dubbio che almeno parte del corpus
trobadorico di carattere moraleggiante abbia avuto circolazione anche in ambienti popolari, almeno per
ciò che concerne le opere di Peire Cardenal e Guilhem Figueira: lo testimoniano le trascrizioni dei
processi dell’Inquisizione. Sembra in effetti che il possesso dei loro versi fosse un indizio ulteriore di
eresia, anche se non risulta che alcun trovatore sia stato perseguitato in prima persona o in relazione alla
sua professione.
547
Tuttavia Vatteroni 1999, pp. 101-113 nota anche che per tale aspetto non esisteva alcuna tradizione
anteriore cui ispirarsi, anche rispetto all’intonazione da prediligere, fattore che può aver costituito un
limite determinante per l’elaborazione poetica.
191
spunti o interi brani tratti dalla liturgia ufficiale548. Bisogna, infine, evidenziare come i
contenuti di fede comportino in diversi casi un più o meno implicito attacco nei
confronti delle consuetudini e dei valori dell’amor cortese, che certo non si accorda
pienamente con i dettami della religione549.
11. Alba
Con il semplice termine di “alba” si indica un genere trobadorico molto specifico e
riconoscibile, benché non ne restino numerose esempi, forse anche a causa della
considerevole ripetitività della sua formulazione. Si tratta di testi per lo più brevi, in cui
il verso corto e la lunghezza limitata delle strofe suggeriscono, insieme alla frequente
presenza di un ritornello, un andamento ritmato e vivace. Il nodo di fondo è sempre il
medesimo: gli amanti, dovendo superare i limiti imposti dal marito geloso o dai
guardiani della fanciulla, si accontentano di incontri clandestini nella camera di lei
durante la notte. L’alba, dunque, rappresenta la conclusione del convegno amoroso e
come tale è avversata dalla voce maschile, che si rivolge alla dama preoccupata o ad una
guardia (“gaita”), posta a controllare l’accesso alla camera. Il secondo punto di vista,
mediato dalle parole del poeta stesso, esprime il timore per il possibile sopraggiungere
degli antagonisti, una volta che il sole sia sorto.
Il genere, perciò, sottende alcuni elementi fondamentali dell’amor cortese (la sua natura
adulterina e le dinamiche sociali e psicologiche che ne derivano) e, se necessario,
recupera dalla canzone i consueti dettagli elogiativi sulla dama. Al contempo, si distacca
dalla visione più consueta dell’amore casto e puro, limitato nella maggior parte dei casi
al bacio o alla stretta di mano, per portare a compimento gli spunti erotici più marcati.
Essi comunque non mancano del tutto nelle consuete canzoni occitaniche: nell’“alba”,
quindi, si sviluppano alcune possibilità secondarie del canto amoroso stesso. A sua volta
la riformulazione esplicita dell’“alba” e degli altri generi bassi diviene modello per
arricchire successivi componimenti dall’apparenza più tradizionale, inserendovi spunti
più o meno eterogenei: basti pensare all’intonazione erotica in molta poesia di Raimbaut
d’Aurenga, alla diffusa immagine della “chambra” in cui i trovatori vorrebbero entrare
per vedere la dama che si cambia o per dormire con lei550, fino al culmine costituito da
Lo ferm voler di Arnaut Daniel. Al genere nella sua ampiezza, insomma, corrisponde
anche un più delimitato motivo sensuale, inserito senza difficoltà nella forma classica
della canzone.
Dal punto di vista del rapporto con la cultura cortese, l’“alba” appare simile alla
pastorella, proprio in quanto forma poetica amorosa che integra e completa l’orizzonte
del canto illustre, proponendo una prospettiva più materiale e quindi meno alta.
548
Nel corso del presente capitolo, con particolare riferimento alle canzoni mariane.
È necessario comunque ricordare come una parte notevole della produzione satirica e polemica abbia
un valore puramente occasionale, perché ispirata ad episodi e situazioni molto limitati. È verosimile tra
l’altro che tali componimenti di carattere più circoscritto siano stati più facilmente perduti, dato il loro
interesse specifico, rendendo oggi difficile una puntuale valutazione della tradizione.
550
Gavaudan lascia in merito un testo emblematico – L’autre dia, per un mati – in cui identifica la “gioia
di camera” come simbolo stesso dell’erotismo e in fondo dell’amore.
549
192
Esempi convenzionali del genere si leggono in Reis glorios, verais lums e clardatz di
Giraut de Bornelh, Gaita be, gaiteta del chastel di Raimbaut de Vaqueiras, Anc no m
parti de solatz ni de chant di Gaucelm Faidit. Tra le soluzioni più peculiari si può
invece ricordare Ad un fin aman fon datz di Guiraut Riquier, il quale rovescia la
struttura consueta e invece di piangere l’alba, lamenta la lentezza con cui scorre il
giorno, poiché desidera la sera e il momento dell’incontro551. Ancora diverso è
l’approccio dell’anonima Eras diray ço que us dey dir: il riferimento al Signore era già
presente nella preghiera d’apertura di Reis glorios e quindi potrebbe suggerire un
contatto con Giraut de Bornelh, ma il resto della struttura appare innovativo. Ai topoi
caratteristici del genere, infatti, l’autore aggiunge un punto di vista cavalleresco molto
pronunciato, esaltato dal dialogo non con la dama, ma con innominati interlocutori
maschili, cui il poeta offre una lezione di morale cortese, complicando così
l’impostazione complessiva dell’opera. Un vero e proprio rovesciamento, infine, si
legge in Axi con cel c’anan erra la via, in cui Cerverì de Girona aspetta con ansia
l’arrivo del giorno. L’odio per la notte e la descrizione degli inferi lasciano pensare che
il significato del testo risieda in un’interpretazione metaforico-simbolica di carattere
cristiano.
Petrarca non manca di recuperare anche il genere dell’“alba”, secondo strategie
differenziate a seconda dei testi.
In tre luoghi il riuso appare piuttosto fedele: le sestine 22 e 237, e il sonetto 255. Le tre
occorrenze assumono una configurazione perfettamente coerente con il contesto in cui
sono inserite. In 22, dove il termine “alba” è anche parola-rima552, l’immagine è
davvero classica: “Con lei foss’io da che si parte il sole, / et non ci vedess’altri che le
stelle, / sol una nocte, et mai non fosse l’alba” (vv 31-33). La situazione, qui solo
ipotizzata a causa dell’amore infelice di cui il poeta è vittima, è la medesima che
caratterizza le opere trobadoriche: l’incontro notturno, privo di testimoni, che giustifica
l’odio per l’alba, poiché essa ne determina la conclusione. L’adynaton del v 33 non
deriva dalle consuetudini espressive del genere, quanto dalla frequente e già arnaldiana
associazione tra frustrazione, impossibilia e sestina553. Esso per altro ben si accorda alla
connotazione del desiderio espresso in 22, il quale già in partenza è irrealizzabile, come
si è detto, a causa del rapporto disfunzionale tra io lirico e Laura. La premessa stessa da
cui nasce il genere dell’“alba” in ambito occitanico rafforza tale contesto petrarchesco:
anch’essa infatti nega la soddisfazione del poeta, poiché il sole è destinato a sorgere,
con la disperazione degli amanti, il cui pianto è in sostanza inutile. In 237 si ripropone
una circostanza molto simile: un incontro notturno, vagheggiato dal poeta, ma
impossibile a causa della disposizione d’animo dell’amata (“et questa ch’anzi vespro a
551
Secondo la definizione di Martin de Riquer, tale rovesciamento appartiene all’ambito della “serenata”
(Riquer 1975, p. 1613).
552
Il termine e il concetto di “alba” tornano di per sé in numerosi altri componimenti: 22, 105, 127, 190,
219 (ma l’idea è implicita), 223, 239, 255, 291, 343.
553
Dell’origine dell’adynaton e del suo uso petrarchesco, trobadorico e classico si è parlato in questo
stesso capitolo.
193
me fa sera / con essa et con Amor in quella piaggia / sola venisse a starsi ivi una notte; /
e ‘l dì si stesse e ‘l sol sempre ne l’onde”, vv 33-36). Petrarca dunque riferisce
l’episodio della “notte eterna” e la sua intonazione erotica alla prima persona solo in
metri tradizionalmente connotati da un’aura sensuale, in cui si coglie l’esempio di
Arnaut Daniel e della sua Lo ferm voler, dove era appunto già introdotta l’idea della
camera e del convegno, desiderato ma non ancora realizzato. Proprio in 22, per altro, i
richiami alla sestina arnaldiana sono particolarmente visibili. Inoltre, il recupero del
genere è sempre declinato come speranza irrealizzabile e quindi come negazione del
principio di partenza nell’uso provenzale, secondo cui l’incontro era stato consumato.
Per i trovatori in effetti era possibile descrivere un concreto convegno amoroso, benché
solo notturno, mentre a Petrarca è lecito soltanto desiderare e negare554.
L’incipit del sonetto 255 conferma tale associazione tra metro e tema, poiché l’idea del
convegno segreto e notturno non vi è negata, ma non è nemmeno associata all’io
poetico. Si parla infatti degli amanti comuni, felici (cioè ricambiati), il cui stato d’animo
è ben diverso da quello del poeta: “La sera desiare, odiar l’aurora / soglion questi
tranquilli et lieti amanti” (vv 1-2). I medesimi versi suggeriscono per altro anche l’idea
della “serenata” che si è vista in Guiraut Riquier. L’io si propone invece secondo
un’ottica contrastiva, che annulla di fatto il presupposto stesso del genere “alba”: “a me
doppia la sera et doglia et pianti, / la matina è per me più felice hora” (vv 3-4)555. La
citazione nella sua struttura più consueta si accompagna così al suo rovesciamento. Una
situazione simile, in cui l’io soffre la notte ancor più del giorno, si riscontra nella sestina
22, nelle sole prime tre stanze, e nella canzone 50, tutta impostata sull’opposizione tra il
riposo serale di chi si affatica nel lavoro diurno e il poeta, che al calar del sole non trova
requie556: “Ma, lasso, ogni dolor che ‘l dì m’adduce / cresce qualor s’invia / per partirsi
da noi l’eterna luce” (vv 12-14), “ch’i’ pur non ebbi anchor, non dirò lieta, / ma riposata
un’hora, / né per volger di ciel né di pianeta” (vv 26-28), “Ahi crudo Amor, ma tu allor
più mi ‘nforme / a seguir d’una fera che mi strugge, / la voce e i passi et l’orme” (vv 3941), “fine non pongo al mio obstinato affanno” (v 52), “i miei sospiri a me perché non
tolti / quando che sia? Perché no ‘l grave giogo? / Perché dì et notte gli occhi miei son
molli?557” (vv 60-62).
554
È interessante notare la convergenza tra tale impostazione e l’interpretazione che abbiamo accolto per
206, in relazione (e negazione) a manifeste espressioni erotiche. Si veda l’argomentazione nello specifico
paragrafo contenuto nel presente capitolo.
555
L’odio per la notte e le sue pene si associa ad un’altra immagine, convenzionale e molto diffusa già
presso i trovatori, cioè quella dell’insonnia, che descrive con efficacia lo stato stravolto dell’amante, tanto
che spesso è associata all’idea dell’inappetenza e in generale alla dimensione dei tormenti amorosi. Anche
tale immagine è dunque topica e come tale sarà approfondita nel corso del prossimo capitolo.
556
L’opposizione tra normalità e condizione del poeta si è già affrontata, in riferimento alla
rappresentazione naturalistica e stagionale, nel corso del presente capitolo e sarà ripresa nel prossimo in
riferimento agli usi espressivi più convenzionali.
557
L’associazione di notte e giorno indica evidentemente la totalità del tempo e quindi esprime in termini
iperbolici lo stato del poeta, in questo caso la sofferenza. L’associazione “notte e giorno” o anche
“mattino e sera” costituisce in effetti un sintagma convenzionale per tale tipo di espressione emotiva, che
non solo si registra in numerosi luoghi del Canzoniere, ma spesso anche nei trovatori, secondo formule
assolutamente sovrapponibili a quelle della tradizione italiana. Tale formula convenzionale sarà
puntualmente analizzata nel prossimo capitolo; tuttavia data la sua diffusione e il suo utilizzo in relazione
194
L’idea che la notte causi dolore non comporta comunque una rappresentazione grata e
positiva del giorno: era così già in 50, come dimostra se non altro il v 62, e in sostanza
anche in 255, dove la “felicità” è tale solo a paragone del tormento notturno. I medesimi
concetti ritornano nel sonetto 223, in cui le quartine e la prima terzina si dilungano
sull’“angosciosa et dura notte” del poeta; giunge poi l’aurora che porta la luce al
mondo, ma non all’amante, per il quale l’unico vero sole è Laura558.
In tutti i passi citati, e soprattutto in 22 e 50, si coglie con chiarezza il concetto per cui la
disposizione d’animo del poeta rispetto al tempo e il suo perenne dolore lo
contrappongono agli altri esseri viventi e in particolare alle dinamiche della società.
Tale rappresentazione dei propri ritmi vitali, incoerenti rispetto a quelli più comuni,
adatta un topos di origine già trobadorica, molto efficace nel rendere lo stravolgimento
causato da Amore: si inserisce perciò alla perfezione nel quadro di alienazione e
alterazione dell’io che già più volte si è anticipato559.
12. “Devinalh”
Il termine occitanico devinalh significa “indovinello”. Il gusto per l’enigmistica, che
certo accomuna il Medioevo latino e romanzo560, trova infatti espressione anche in
ambito trobadorico grazie all’identificazione di un genere specifico. Perché un testo
possa essere definito devinalh deve presentare alcune caratteristiche di forma e
contenuto, non è sufficiente cioè che si classifichi come componimento di difficile
comprensione, ispirato alla poetica del trobar clus561. Dal punto di vista dello stile, la
complessità del testo è per lo più giocata su opposizioni, su contrasti logici che possono
essere declinati in forma di affermazioni e negazioni alternate. Ne deriva per il lettore
un senso di incertezza, di interrogazione, cui – almeno in origine – non faceva seguito
una spiegazione, spingendo quindi gli stessi destinatari a fornirne una. Dal punto di
vista tematico, si nota che la referenzialità del discorso rispetto al reale non è cancellata
in toto, ma profondamente alterata eliminando alcuni riferimenti di base essenziali, la
cui mancanza determina la natura sorprendente dell’opera. Tuttavia, la struttura chiusa e
priva di esplicitazioni tipica dell’indovinello determina spesso l’impressione che si tratti
di non-sense, a meno che non intervenga un chiarimento conclusivo da parte dell’autore.
a contesti espressivi molteplici (in particolare la dimensione naturalistica e il principio
dell’attesa/sopportazione) sarà richiamato più volte.
558
È netta invece la preferenza per il giorno in 353, dove però la rappresentazione ha valore puramente
metaforico per rendere il corso della vita: il giorno perduto e rimpianto rappresenta la giovinezza, cioè il
tempo in cui Laura era viva. L’intonazione e la resa dell’immagine appaiono perfettamente coerenti con il
quadro luttuoso della seconda sezione, benché si sia ormai prossimi alla svolta conclusiva.
559
Tali aspetti saranno ripresi ed approfonditi nel corso del capitolo successivo.
560
Il modello è nella tradizione biblica ed esegetica, in cui il gioco degli opposti ha un preciso valore
teologico, filosofico ed educativo. Tuttavia, se ne possono riconoscere echi ancora più antichi in ambito
classico: ad esempio, numerosi studiosi ritengono che nella celebre opposizione catulliana “odi et amo” si
possa leggere un interrogativo. Per tali aspetti si veda in particolare Carrai 1995.
561
Si pensi ad esempio alla complicata struttura di S’il cors es pres, la lengua non es preza di Raimbaut
d’Aurenga o a molta poesia di Marcabru, come l’ambigua Pus la fuelha revirola.
195
Al di là di queste tendenze generali, le singole realizzazioni trobadoriche appaiono
molto autonome562. L’esempio più antico appartiene a Guglielmo IX e l’incipit Farai un
vers de dreit nien è piuttosto esplicito rispetto alla sensazione di spaesamento che il
testo intende determinare nel lettore, cui non è fornita alcuna chiave di lettura563.
Appare radicalmente opposta la strategia di Raimbaut d’Aurenga, che in Escoutatz non
si limita a dare un’indicazione conclusiva, ma alterna nel testo immagini contrastanti e
glosse esplicative, che dunque trasformano sino a negarla la struttura di partenza564.
Al modello del primo trovatore tornano sia Giraut de Bornelh sia Raimbaut de
Vaqueiras, per quanto secondo modalità diverse. In Un sonet fatz malvatz e bo, Giraut
predilige un classico andamento per opposizioni, in cui però si coglie una notevole
semplificazione sia per la riduzione dei rimandi interni e quindi della chiusura
complessiva, sia grazie alla spiegazione finale (amorosa) fornita dall’autore565. Invece
Raimbaut recupera l’idea di una parcellizzazione del testo, suddiviso secondo diversi
interrogativi, come già in Guglielmo; tuttavia la conclusione di Las frevols venson lo
plus fort propone una sintesi capace di richiamare l’intero sviluppo del discorso, anche
se senza spiegarne il significato. In un altro testo, Savis e fol, humils et orgoillos, lo
stesso Raimbaut tenta l’esperimento opposto, abbandonando il principio centripeto, per
partire da un’affermazione generale che viene poi estesa ed arricchita in tutto l’arco del
discorso. Va ricordato, infine, l’anonimo Suy e non suy, la cui peculiarità risiede nella
tematica religiosa: il gioco dei contrasti ha un preciso valore ideologico e dottrinario,
poiché esprime l’opposizione tra realtà terrena e sfera celeste566.
L’identificazione del devinalh nasce dunque dalla compresenza di diversi elementi
retorici e da una peculiare concezione del messaggio poetico, soprattutto nel rapporto
con il destinatario. Di per sé, però, i singoli strumenti stilistici non sono vincolati allo
specifico genere: in particolare, in molta poesia trobadorica si trovano sia le serie
oppositive, sia la progressione elencatoria con cui si accumulano le immagini da
contrapporre, sia le correlazioni interne, che creano una struttura al contempo chiusa e
coesa, sia infine il gioco sui diversi nuclei tematici. Anche Can lo baschatges es floritz
di Bernart de Ventadorn o Gen m’aten di Giraut de Bornelh sono pensati come
successione di immagini contraddittorie, il cui uso è per altro coerente con uno dei topoi
più diffusi e rappresentativi dello stato amoroso, appunto la contraddittorietà d’amore;
Mas, com m’ave, Dieus m’aiut dello stesso Giraut de Bornelh sfrutta piuttosto la
562
Per un’ampia riflessione sull’evoluzione delle forme enigmistiche presso i trovatori si veda Pasero
1968, cui si fa qui riferimento.
563
La natura arcaica del testo si coglie nella sua articolazione per nuclei separati, come se ogni stanza
ponesse un enigma diverso, che toglie unità e senso di progressione al discorso.
564
Per tale ragione vari critici hanno pensato che si trattasse di una parodia, più che di un tentativo di
rinnovare il genere; Pasero 1968 ha però sottolineato come i riferimenti a Guglielmo IX siano troppo
pochi per poter pensare ad un’imitazione parodica.
565
Pasero 1968 interpreta tale semplificazione come una vera e propria banalizzazione; questo potrebbe
dimostrare che il genere avesse già perso la sua spinta creativa.
566
Tale contrapposizione risulta di per sé interessante a monte dell’esperienza petrarchesca, escludendo
però l’applicazione dell’indovinello. Le strutture per contrasti, infatti, appaiono sempre legate nel
Canzoniere alla tematica amorosa, cui pertengono in perfetta coerenza, data la convenzionale definizione
dell’amore come contraddittorio.
196
successione di interrogative retoriche, per rendere l’incertezza su quale sia la reale
natura di Amore. Il devinalh, dunque, esalta nella convergenza fra forma e contenuto la
consueta attenzione dei Provenzali per l’elaborazione espressiva, da cui derivano in
fondo anche le sperimentazioni sulla metrica, sulle rime e così via.
Il genere inoltre incarna l’aspetto più giocoso della lirica567, nonché l’intenzione di
costruire attraverso la versificazione una collaborazione o per lo meno una
comunicazione con il destinatario (ascoltatore/lettore). L’originalità strutturale del
devinalh e al contempo la possibilità di ricondurne i singoli elementi al più ampio
serbatoio retorico della tradizione hanno favorito il recupero dei modelli oltre la fine
dell’esperienza occitanica. Tuttavia, ben presto si perde il senso del legame tra impegno
formale e gioco sul messaggio, lasciando spazio nella maggior parte dei casi a veri e
propri esercizi di stile568. Tra fine Trecento e inizio Quattrocento la cultura tipica delle
corti apprezza il virtuosismo esteriore, a scapito però dei contenuti. Il genere perciò non
scompare, ma il suo equilibrio risulta alterato.
Alcuni fragmenta si inseriscono pienamente nel filone del devinalh, raccogliendo a
monte l’esempio trobadorico, probabilmente senza escludere il contributo dei più
recenti esperimenti italiani. Il riuso del genere occitanico non comporta l’assunzione di
un modello specifico o di una fonte diretta569, come già era stato nel caso
dell’escondich; sono piuttosto il principio generale della struttura e lo scopo
dell’impegno retorico a suggerire il richiamo alla tradizione. La realizzazione
petrarchesca, d’altronde, non va considerata come un puro sfoggio di abilità stilistica:
dagli antecedenti trobadorici deriva anche l’idea che il messaggio sia parte integrante
della costruzione, in coerenza per altro con alcune affermazioni dello stesso Petrarca in
merito al valore e alla legittimità della cura retorica570.
La struttura del devinalh trova la sua manifestazione più caratteristica nel sonetto 134,
Pace non trovo, et non ò da far guerra, che procede in tutto l’arco dei quattordici versi
accumulando opposizioni topiche rispetto allo stato amoroso, con particolare attenzione
ai concetti di prigionia e di morte per amore. Il numero dei contrasti è molto elevato:
uno per verso nelle quartine, ad eccezione del secondo che ne presenta due per esigenze
di variatio, mentre le terzine abbondano soprattutto di ossimori. Il finale esplicita la
ragione dello stato incerto del poeta, in veste di accusa, offrendo così una spiegazione
all’intero discorso: “in questo stato son, donna, per voi” (v 14). Il sonetto si inserisce
567
Basti pensare ad alcuni esiti comici della lirica trobadorica, ben riconoscibili ad esempio in Raimbaut
d’Aurenga, in testi come Assatz sai d’amor ben parlar e Lonc temps ai estat cubertz (ma possiamo
ricordare anche le opinioni di Canettieri 1996 sull’origine della sestina, di cui si è parlato all’inizio del
presente capitolo).
568
Per la decadenza del genere si vedano sia Pasero 1968 sia Carrai 1995, dove viene analizzata con
ampiezza la tradizione italiana anteriore a Petrarca.
569
Vanno perciò escluse citazioni esplicite o puntuali da un singolo testo. Si può comunque notare una
certa affinità con l’elaborazione di Giraut de Bornelh, per la struttura coesa ed unitaria nel corso
dell’intero componimento, ma anche per la scelta di fornire una spiegazione esplicita alla fine del testo.
Poli 1993 ha inoltre sottolineato qualche localizzata corrispondenza lessicale tra il sonetto 134 (il vero e
proprio devinalh del Canzoniere) e Bernart de Ventadorn.
570
Carrai 1995 ricorda in proposito l’opinione espressa dal poeta nelle Invective contra medicum, secondo
cui la difficoltà è utile in quanto favorisce il piacere nella fruizione letteraria, la memorizzazione e in
conseguenza l’apprendimento.
197
perfettamente nella successione dei fragmenta e nello sviluppo tematico del Canzoniere:
esso partecipa della vicenda dell’io – pur senza aggiungere alcuna idea innovativa – e
dunque non si limita all’eccentricità esteriore. Petrarca sfrutta le possibilità del genere
per accentuare la consueta rappresentazione dolente e confusa dell’io, dimostrando
inoltre l’affinità stilistica tra le contrapposizioni enigmistiche da una parte e le dittologie
o i parallelismi, tipici del suo usus scribendi, dall’altra.
La prolungata attenzione dell’autore per il genere si rivela anche in altri testi
riconducibili al gusto per il gioco retorico e per le possibilità stilistiche più ricercate. In
primo luogo vanno ricordati 132 e 133, legati al devinalh in un vero e proprio ciclo, e
non solo per la prossimità nella raccolta571. 132 si apre con una successione di
interrogative, in sostanza retoriche, intese a descrivere ancora una volta la
contraddittorietà dello stato amoroso; più che una spiegazione, segue una
puntualizzazione ai vv 10-11 che definisce il senso complessivo del testo (“Fra sì
contrari venti in frale barca / mi trovo in alto mar senza governo”). 133 comporta invece
una variazione strutturale più evidente: la tragicità dello stato amoroso passa qui
attraverso una serie di metafore (il poeta come un bersaglio di fronte all’arciere, il suo
venir meno come neve o cera, la colpa dell’amata e soprattutto dei suoi occhi). A questo
punto la soluzione risiede in un parziale scioglimento delle immagini, che spiega
l’effettiva relazione di causa-effetto all’origine della disperazione dell’io.
In tutti e tre i componimenti si nota che l’artificio è funzionale ad esprimere il
medesimo concetto: l’io e il suo dolore. Dal punto di vista tematico, inoltre, 132-134 si
legano perfettamente ai testi circostanti, 131, che già presenta l’amore in chiave
disforica, e 135, che per delineare il tormento sfrutta una serie di immagini fantastiche.
Si passa così da versi molto elaborati sul piano esteriore, ma convenzionali per
contenuto, ad una canzone più classica e piana, in cui però ciascuna stanza propone uno
spunto tematico sorprendente.
Ampie strutture oppositive si trovano poco oltre in 145 e 178, sonetti di nuovo dedicati
alla rappresentazione della condizione amorosa: il suo tormento, la sua contraddittorietà,
ma anche la sua inestinguibile fissità. Quest’ultimo aspetto motiva la serie di immagini
che si susseguono nell’unico, lungo periodo di 145: non importa in quale situazione si
trovi il poeta, egli afferma “sarò qual fui, vivrò com’io son visso, / continuando il mio
sospir trilustre” (vv 13-14). Il verso conclusivo mostra come la funzionalità del riuso
non consista nella generica riproposizione dell’io e della sua esperienza, ma nella
peculiare occasione dell’anniversario. Essa rende necessario sottolineare non solo la
condizione dell’amante, ma anche la sua costanza nel tempo.
Da questo punto di vista il concetto di 178 è affine, anche se slegato da avvenimenti
specifici; tuttavia il sonetto propone una nuova declinazione dell’elenco di
contraddizioni. Infatti, mentre nelle quartine vengono enumerate diverse immagini
571
“Trittico del dreit nien” li definisce Santagata 1996, p. 648, secondo l’intuizione di Amaturo. Tuttavia
lo studioso sottolinea anche come nei primi due l’elemento oppositivo sia assolutamente preminente su
quello enigmistico, e infatti a p. 655 egli precisa come solo 134 rispetti in modo compiuto le convenzioni
del genere. Carrai 1995 evidenzia soprattutto la mancanza di un interrogativo da spiegare, di una
soluzione da cercare; inoltre illustra le connessioni concettuali e lessicali reciproche fra i tre testi.
198
sintetiche, secondo l’impostazione di 132 e 134, le terzine propongono una più ampia
contrapposizione tra una possibile svolta penitenziale e la morte per amore, che in
definitiva si rivela ancora una volta inevitabile:
Un amico penser le mostra il vado,
non d’acqua che per gli occhi si resolva,
da gir tosto ove spera esser contenta;
poi, quasi maggior forza indi la svolva,
conven ch’altra via segua, et mal suo grado
a la sua lunga, et mia, morte consenta (vv 9-14).
L’effetto retorico dei contrasti, dunque, si inserisce con naturalezza ed efficacia nel
quadro della più profonda lacerazione e contraddizione petrarchesca, quella tra amore e
fede.
Le interrogative che aprono 132 si ritrovano invece in 220572 e 299. I due sonetti,
collocati rispettivamente poco prima e subito dopo la morte di Laura, creano
un’interessante simmetria proprio in relazione al personaggio femminile. 220 è un
componimento di elogio, in cui l’enumerazione delle qualità (soprattutto fisiche)
dell’amata è rinnovata dall’artificio retorico, che mette a frutto la tradizione del
devinalh, anche se in modo molto blando. I quesiti infatti sono riferiti all’origine delle
doti femminili e benché non ci sia una soluzione conclusiva, di fatto le domande stesse
comprendono la propria risposta, nel riferimento all’atto creatore di Amore, degli angeli
e del sole. Ancora una volta l’elaborazione stilistica serve ad evidenziare un concetto
importante della raccolta, per quanto non innovativo, determinando dunque un’efficace
collaborazione tra forma e senso. Il medesimo principio si riscontra, potenziato, in 299,
che di nuovo elenca ciò che di desiderabile era nell’amata, esprimendo però la nostalgia
e il rimpianto della perdita. Anche in questo caso non è rilevante la mancanza di una
risposta finale, sostituita dall’esclamativa che ripete in sintesi la disperazione del poeta,
poiché l’implicita ma ovvia soluzione è che Laura è morta, il suo corpo è sotto terra, il
suo spirito in cielo. A potenziare la struttura è l’utilizzo del modulo biblico e classico
dell’ubi sunt573: in coerenza con l’evoluzione della vicenda, il poeta non si chiede più da
dove vengano le bellezze, ma dove siano finite.
L’idea dell’interrogativo che resta insoluto sino all’ultimo verso torna per certi aspetti in
224, benché anche qui le immagini che via via si accumulano siano in realtà del tutto
topiche e non lascino dunque alcun dubbio sul riproporsi della consueta centralità dello
stato amoroso infelice. Il discorso procede soprattutto per addizione, ma non manca
qualche spunto contrastivo (il più notevole al v 12, “s’arder da lunge et agghiacciar da
presso”); a livello sintattico, il sonetto è impostato su un unico periodo e su una serie di
572
220 riecheggia anche nei due sonetti che seguono. Infatti, 221 si apre con un’ampia interrogativa
retorica sulle forze che lo costringono ad amare, mentre le domande di 222 sono inserite nel dialogo tra
poeta e compagne di Laura. Nella prima quartina e nella prima terzina, l’io chiede alle giovani dove si
trovi l’amata: per tale motivo, il sonetto si inserisce in una precisa tradizione di cui si trovano esempi
anche in Cino da Pistoia e Dante (Santagata 1996, p. 939).
573
Tale uso convenzionale è già stato anticipato nel corso del presente capitolo.
199
ipotetiche coordinate, introdotte anaforicamente da “se”. In conclusione, un chiarimento
nella principale: “vostro, donna, ‘l peccato, et mio fia ‘l danno” (v 14), che ricorda da
vicino il finale di 134.
La prima composizione enigmistica nel Canzoniere si trova però già al numero cinque,
sonetto inserito nella serie dei testi introduttivi che, dopo il proemio in senso stretto,
precisano i riferimenti entro cui si sviluppa la vicenda amorosa574. 5 è dedicato in
particolare al nome dell’amata, che, lo si è visto, è destinato a diventare costante oggetto
di attenzione ed elaborazione nel Canzoniere575; tuttavia il poeta, memore della lezione
trobadorica e cortese, non lo presenta in modo esplicito, ma attraverso un acrostico
doppio, la cui interpretazione è resa particolarmente difficile dall’assenza di segni
diacritici in corrispondenza delle lettere da utilizzare.
Quando io movo i sospiri a chiamar voi,
e ‘l nome che nel cor mi scrisse Amore,
LAUdando s’incomincia udir di fore
il suon de’ primi dolci accenti suoi.
Vostro stato Real, che ‘ncontro poi,
raddoppia a l’alta impresa il mio valore;
ma: TAci, grida il fin, che farle honore
è d’altri homeri soma che da’ tuoi.
Così LAUdare et REverire insegna
la voce stessa, pur ch’altri vi chiami,
o d’ogni reverenza et d’onor degna:
se non che forse Apollo si disdegna
ch’a parlar de’ suoi sempre verdi rami
lingua mortal presumptuosa vegna576.
L’efficacia del sonetto risiede in primo luogo nella corrispondenza tra gioco formale e
tema principale, appunto il nome, in cui è contenuta la lode dell’amata. D’altronde, 5 si
inserisce nella raccolta senza alcuno scarto anche su un piano più generale, rispetto cioè
all’insieme degli elogi e all’insistenza su elementi topici, che qui compaiono per la
prima volta, ma che avranno ampio corso nella raccolta577.
Nel complesso, i testi qui citati offrono uno squarcio sul Petrarca più arcaico dal punto
di vista retorico, per certi aspetti più “gotico”, o comunque più attento al gioco delle
574
Per tali aspetti strutturali e per le consuetudini retoriche su cui si basa, si veda l’introduzione di
Santagata 1996 al sonetto 2, pp. 13-14.
575
Se n’è trattato in merito all’immagine dell’aura nel primo capitolo e si tornerà sul problema
dell’invocazione e dell’uso del senhal nel capitolo successivo.
576
Si segue qui la versione in Santagata 1996, p. 26 anche per ciò che concerne le lettere implicate nello
scioglimento del nome. Santagata 1996, pp. 26-27 presenta con chiarezza tutti i problemi interpretativi
connessi al gioco nominale.
577
A conclusione di questa serie di testi molto elaborati dal punto di vista della forma si potrebbe
aggiungere il sonetto 312, già citato come esempio di plazer rovesciato, per l’elenco delle negazioni che
lasciano in dubbio il lettore sulla natura dello stato luttuoso del poeta sino al v 11. La collocazione di tale
componimento è significativa poiché prossima alla chiusura, anche se non quanto 5 lo era all’apertura.
200
forme578. Tuttavia lo stile non è mai disgiunto dalla sostanza del messaggio, ed anzi
appare strettamente funzionale all’espressione di concetti portanti nell’insieme del
Canzoniere, rivelando con ciò anche l’utilità del riuso del genere trobadorico. Si
possono notare alcune tendenze marcate, come la preferenza di tali strutture nei
componimenti di lode o di disperazione, dove sia la progressione elencatoria, sia una
tendenza all’accentuazione iperbolica trovano ampio spazio. Si tratta per lo più di testi
“in vita” di Laura, senza che però il poeta rinunci a creare una certa simmetria con la
seconda sezione. Infine, sono tutti sonetti: per quanto curato e prezioso, l’andamento del
discorso appare spesso un po’ ripetitivo e il concetto di fondo molto specifico e ristretto.
La misura breve era dunque la più adatta a mettere in risalto l’efficacia
dell’esperimento, senza renderlo stanco, salvaguardando così la solennità tipica della
canzone ed inoltre fornendo una sorta di variatio al metro più frequente nella raccolta.
13. Canzoni a quadri
Una tipologia stilistica ben riconoscibile nel Canzoniere è quella delle canzoni a quadri.
Con tale definizione, che coinvolge in particolare 22, 23, 50, 135 e 323, si intende
sottolineare la natura per certi aspetti autonoma di ciascuna stanza, imperniata intorno
ad un’immagine o ad una situazione specifica, benché il nucleo tematico di fondo sia
unitario.
22 e 50 condividono la medesima idea di fondo: il poeta si contrappone a tutti gli altri
esseri viventi, poiché oltre a soffrire durante il giorno, non ha riposo nemmeno di notte.
Nel caso della sestina la contrapposizione è piuttosto sintetica e le sono dedicate
soltanto le prime tre stanze: condizione regolare degli “animali” (I), tormento costante
del poeta (II e III). La struttura a quadri si sviluppa con pienezza solo in 50, dove viene
esaltata dalla sua reiterazione in tutte e cinque le stanze, dalla varietà dei bozzetti
realistici creati dal poeta, che contrappone il proprio stato a quello di paesani e
lavoratori579, dalla costruzione di ciascuna strofa. Infatti, l’opposizione io/altri viene
riaffermata in tutte le unità metriche, in cui all’iniziale descrizione della normale routine
umana segue per tramite dell’avversativo “ma” lo stato dell’io. A questo secondo
elemento viene dedicato sempre più spazio: dai tre versi su 14 dell’incipit ai 12 della
fine. Il tema di fondo, la sofferenza dell’io, è ovviamente convenzionale e consueto,
soprattutto per il Canzoniere; tuttavia, le immagini realistiche e lo stile della descrizione
naturalistica che fa da sfondo appaiono modernissimi nel recupero dei modelli classici,
a partire dall’incipit virgiliano580.
In 23 la successione delle stanze delinea una progressione narrativa: il poeta tratteggia
la vicenda del proprio amore, sin dall’iniziale ribellione al giogo del dio, attraverso una
578
Come ha sottolineato Carrai 1995, tale scelta stilistica determina talvolta gravi problemi di datazione,
poiché l’aspetto del testo suggerirebbe una collocazione alta, che non necessariamente corrisponde
all’effettiva storia del componimento, alterato dal labor limae dell’autore e dalla sua collocazione nella
raccolta.
579
La vecchietta, lo zappatore, il pastore, i marinai, i buoi.
580
Per i rimandi intertestuali si veda il commento in Santagata 1996, pp. 257-263.
201
serie di trasformazioni fisiche che ne alterano l’aspetto, rappresentando così gli effetti
stravolgenti dell’esperienza sentimentale. Ogni strofa presenta un momento diverso
nella storia dell’io e quindi una nuova trasmutazione581: perciò, pur nell’unità logica
dell’intero componimento, ogni sua porzione ha anche uno statuto autonomo. Anche la
canzone 135 è focalizzata sulla condizione tormentosa dell’io poetico, come i tre testi
precedenti. Le sei stanze propongono sei diverse similitudini582 per comunicare il dolore
amoroso; sono tutte immagini fantastiche583, già presenti nella tradizione romanza (in
particolare le prime tre), ma pensate soprattutto in relazione alle fonti classiche584.
Dall’io lirico all’amata si sposta infine 323585, che però pertiene ancora all’orizzonte
della sofferenza, in quanto non solo si colloca nella sezione “in morte”, ma propone una
serie di raffigurazioni allegoriche della dipartita di Laura586. È dunque lei, in questo
caso, ad essere trasfigurata.
Si è accennato a come lo sviluppo dei singoli spunti risenta spesso dell’esempio
classico. Tuttavia è opportuno ricordare anche l’effetto modellizzante della tradizione
romanza, sia per alcune delle immagini recuperate da Petrarca, sia a monte della
struttura a quadri in genere. A questo proposito è possibile infatti riconoscere alcuni
significativi antecedenti occitanici, in cui è stata elaborata l’idea di presentare diverse
similitudini, più o meno articolate e tutte riconducibili al medesimo concetto di fondo,
allo scopo di approfondire la condizione dell’io. In due componimenti il principio è
stato portato alla sua massima evoluzione: Atressi com l’orifanz di Rigaut de
Berbezilh587 e Qan lo freitz e l glatz e la neus di Giraut de Bornelh588.
Il riuso petrarchesco si dimostra al contempo efficace, per l’occasione che la struttura
offre di approfondire ulteriormente la figura e la storia dell’io, e innovativo, a partire
dalla mescolanza di suggestioni diverse.
581
Si parte dalla seconda stanza, poiché la prima ha funzione proemiale: alloro, cigno, pietra, di nuovo
uomo, ma privato della parola (e dell’autonomia), fonte, uomo per una breve parentesi e poi pura voce
(eco), infine cervo.
582
L’idea della similitudine a paragone dello stato amoroso è in realtà piuttosto diffusa nel Canzoniere, al
di là della struttura a quadri. Si vedano ad esempio 19, dove si parla degli animali notturni; 26, dove si
assommano la nave che rischia il naufragio e il condannato che evita la morte; 33, con la vecchina che poi
si ritrova in 50; 44, che presenta Cesare e Davide; 48, dove varie immagini sono distribuite nella prima
quartina e nella prima terzina; 51, in cui spicca la figura di Dafne, affiancata però da altre immagini
peculiari; 102, per i riferimenti a Cesare e Annibale; 311 e 353, dove ricorre anche se in modo differente
l’idea dell’uccellino. Per l’elaborazione delle similitudini nella raccolta in generale si veda Berra 1992.
583
Fenice, calamita, catoblepa, fonte fredda di giorno e calda di notte, fonte che accende il fuoco spento e
spegne quello acceso, fonte che uccide ridendo (ed infine, nel congedo,Valchiusa).
584
Per tale duplice aspetto si vedano Berra 1992, pp. 51-52, e il commento in Santagata 1996, p. 662.
585
Per l’analisi della canzone e i rapporti peculiari tra io e amata nell’arco del componimento, si veda
Frare 1991.
586
Fiera, nave, lauro, fonte, fenice, donna. È interessante notare la parziale sovrapposizione delle
immagini qui riferite a Laura e di quelle ricondotte al poeta in 135.
587
Il trovatore, d’altro canto, apprezza l’uso della similitudine in riferimento all’ambito animale in molti
dei suoi componimenti, come ad esempio Atressi con lo leos e Atressi con Persavaus. Tali usi
convenzionali saranno approfonditi, sulla base di esempi concreti, nel corso del capitolo successivo.
588
Per il rapporto particolarmente stretto tra i due componimenti e il fragmentum 135 si veda Berra 1992,
pp. 51-52, in cui si trovano indicazioni anche sulle altre fonti petrarchesche, soprattutto italiane.
202
CAPITOLO TERZO
Topoi trobadorici nei “Rerum vulgarium fragmenta”
Per lo studio del rapporto tra Petrarca e i trovatori, l’osservazione delle strutture di
genere e dei metri lunghi, pilastri del Canzoniere, si è dimostrata proficua. L’analisi
testuale deve ora continuare in riferimento a passi più localizzati. L’obiettivo rimane
evidenziare l’importanza del riuso trobadorico petrarchesco e al contempo l’autonomia
del poeta aretino nel trasformare ed adattare la tradizione alla propria opera. A tale
scopo, non si intende prestare attenzione a coincidenze o citazioni evidenti, ma isolate:
esse sono senza dubbio importanti nel confermare l’interesse del poeta per i modelli
transalpini, però non consentono di identificare e approfondire l’atteggiamento del poeta
rispetto alla rifunzionalizzazione dei modelli.
Al contrario, appaiono promettenti i topoi e gli usi ricorsivi1. Sono abbastanza numerosi
e coerenti tra loro, cosicché si delinea un sistema coerente di immagini; d’altro canto
risultano adatti alla rielaborazione personale e tanto variegati sul piano semantico da
essere applicati a contesti espressivi diversi. Tali caratteristiche sono dunque ideali per
tracciare il confronto tra esperienze poetiche diverse, nell’ottica del recupero e insieme
della trasfigurazione.
Poiché si tratta di elementi convenzionali, diffusi cioè ben al di là della sola produzione
trobadorica, è necessario chiedersi se e fino a che punto l’incontro di Petrarca con i
trovatori sia stato diretto, e quanto invece abbia pesato la mediazione dei poeti italiani
che più avevano preso spunto dalla lezione occitanica, in particolare i Siciliani. È un
dato accertato che la Scuola siciliana nasca dal recupero dell’esempio provenzale: nel
corpus siciliano si ritrovano inevitabilmente concetti cortesi topici, che incontreremo
anche parlando di Petrarca, come il servizio, la sottomissione, la bellezza
impareggiabile, la volontà eterodiretta dell’amante, le sue sofferenze, le speranze, le
preghiere e così via2. Un’impressione di comunanza tra l’Aretino e la Scuola siciliana è
dunque ovvia; tuttavia vanno tenuti in conto alcuni fattori rilevanti che suggeriscono
una preminenza dei trovatori rispetto ai Siciliani nell’interesse petrarchesco e dunque un
suo studio diretto dei modelli transalpini, senza alcuna mediazione. La presenza
occitanica nel Canzoniere è evidente e così l’ha voluta l’autore3; tra le immagini
convenzionali di ispirazione provenzale ci sono anche numerosi spunti che risultano
assenti o molto poco significativi nelle opere siciliane (almeno quelle che conosciamo4);
rispetto alla tradizione italiana, Petrarca sembra aver prestato attenzione soprattutto allo
1
Le fonti di riferimento più autorevoli per gli usi topici nella poesia romanza medievale restano Curtius
1995, Menichetti 1965 e Vuolo 1962.
2
Per il confronto tra Siciliani e Provenzali, mi permetto di rimandare al mio contributo in Ravera 2013,
soprattutto per la bibliografia che vi è raccolta.
3
Su tale aspetto si è insistito in particolare nell’introduzione e nel primo capitolo.
4
Si intende mettere in evidenza tale aspetto, quando significativo, di volta in volta nel corso dell’analisi
testuale.
203
Stil Novo e a Dante (stilnovista, petroso e comico)5, trascurando i suoi antecedenti6;
infine il poeta aretino aveva a disposizione, sia in Provenza che in Italia, strumenti
efficaci per accostarsi direttamente alla tradizione provenzale, non più attuale, ma
ancora molto autorevole. Infine, è vero che nel Triumphus Amoris il corteo di poeti non
è precluso ai prestilnovisti7, tuttavia nella breve quanto programmatica serie di
auctoritates nella canzone 70 Petrarca passa dallo pseudo-Arnaut allo Stil Novo e alle
petrose, senza soffermarsi sulla lirica italiana precedente.
La rappresentazione della vicenda amorosa nella poesia trobadorica è molto più vivace,
variegata, complessa rispetto a quella siciliana, per sentimenti, sfumature e situazioni. Il
caso delle strutture di genere, su cui ci siamo a lungo soffermati8, è davvero esemplare,
sia per la ricchezza del corpus occitanico, sia per la maggiore uniformità di quello
siciliano, in cui le uniche varianti rispetto alla canzone d’amore sono in sostanza quella
di lontananza e quella di donna9. Gli antecedenti trobadorici dovevano pertanto apparire
molto più interessanti per Petrarca, anche come serbatoio di immagini da riutilizzare (e
trasformare), in vista della stratificata composizione del Canzoniere. L’autorevolezza
della tradizione d’oltralpe, infine, contribuisce in modo significativo
all’autoaffermazione e autolegittimazione poetica che l’autore costruisce attraverso il
Canzoniere10. Guardando ai Provenzali, infatti, Petrarca risale all’origine della lirica
volgare e si confronta con essa, in una prospettiva che non poteva reggere appieno nel
caso dei Siciliani11.
I passi da considerare sono molto numerosi. In primo luogo, si intende selezionare le
immagini più caratteristiche e significative, sia rispetto al rapporto Petrarca-trovatori,
sia in seno alla vicenda dell’io poetico, mettendo da parte i concetti più generali, diffusi
e impersonali. Inoltre, sarà indispensabile procedere secondo una schematizzazione per
certi aspetti artificiale: i singoli spunti risulteranno perciò avulsi dal contesto di
partenza, in cui ciascuna immagine si trova per lo più affiancata o sovrapposta ad
elementi anche molto diversi. Saranno affrontate sei aree semantiche principali: la
natura disforica e alienante dell’amore, con i suoi effetti devianti rispetto al
comportamento naturale e salutare; la rappresentazione dell’amata, strettamente
connessa alla condizione dell’io e al suo sviluppo; alcuni aspetti positivi della vicenda
amorosa; la mescolanza del sacro e del profano; le indicazioni spazio-temporali che
5
Su tale aspetto ci siamo già soffermati nel corso dei precedenti capitoli, cui si rimanda anche per le
indicazioni bibliografiche.
6
Per la presenza di elementi guittoniani nel Canzoniere, comunque tutt’altro che assenti, si vedano
Pierantozzi 1948 e Santagata 1985.
7
Per la proporzione nelle diverse presenze e nelle rispettive descrizioni si veda Caputo 1987, pp. 129
segg.
8
Si veda il capitolo precedente.
9
Per altro impensabile nel contesto del Canzoniere, in cui domina l’interiorità di un solo io poetico: lo si
è già evidenziato nel corso del precedente capitolo.
10
Su tale aspetto ci si soffermerà nel capitolo successivo.
11
Anche il fondamentale riferimento a Dante e allo Stil Novo corrisponde alla medesima logica: si
trattava di antecedenti illustri, nonché molto recenti, il confronto con i quali non poteva essere evitato:
esso andava dunque finalizzato all’affermazione della propria innovativa proposta poetica.
204
danno corpo all’espressione lirica; alcuni fattori metapoetici coinvolti nella
rappresentazione dell’io. Saranno dunque proposte, in riferimento a ciascun tema, le
occorrenze petrarchesche e a seguire quelle trobadoriche più significative, senza
ambizione di esaustività.
1. Un amore disforico ed alienante
La vicenda amorosa che si delinea nel Canzoniere è in prevalenza tragica e sofferente,
dapprima a causa del desiderio insoddisfatto, della durezza di Laura, delle speranze
frustrate, del pentimento, poi in relazione alla morte dell’amata. Le tematiche affrontate
nella prima sezione – e rievocate a titolo memoriale nella seconda – trovano puntuale
riscontro in numerosi componimenti occitanici, benché i trovatori abbiano lasciato più
spazio all’espressione di momenti gioiosi rispetto a quanto si legge nei fragmenta. Dopo
la dipartita di Laura, il dolore assume una sfumatura ovviamente diversa, ma poiché si
tratta in ogni caso di un amore senza prospettive, Petrarca riutilizza in parte i medesimi
spunti, in chiave rinnovata.
Gli aspetti negativi dell’amore possono essere ricondotti a due prospettive
fondamentali: da una parte, le sofferenze, che hanno il valore di definire l’intonazione
generale del discorso, e a cui possiamo associare le speranze disattese; dall’altra, la
natura totalizzante e deviante dell’amore. In un percorso problematico come quello
delineato nel Canzoniere, tra ansie, rimpianti, tentativi di cambiamento e frustrazioni,
l’elemento disforico e snaturante del sentimento ha un’importanza capitale e il
contributo dell’esempio trobadorico sembra essenziale proprio in tale direzione. L’io
poetico ammette, spesso con un atteggiamento di piena e addirittura pacifica
accettazione, di aver maturato priorità del tutto disfunzionali, di essere alienato da se
stesso, dalle proprie necessità e dalle regole del consorzio civile. L’amore impedisce
qualunque equilibrio salutare.
1.1 L’espressione topica della sofferenza
La rappresentazione del dolore presenta già alle origini della tradizione italiana una
forte connotazione topica, cui certamente ha contribuito l’esempio trobadorico,
passando poi per le trasformazioni anche linguistiche imposte dalla produzione siciliana
e toscana. Per le immagini che suggeriscono la sofferenza, dunque (ma come vedremo
anche per gli elementi di base nel ritratto della figura femminile o per l’espressione
della gioia e della speranza), l’aspetto convenzionale è fortissimo, al punto che sarebbe
arduo suggerire contatti testuali precisi. Si delinea piuttosto un linguaggio di partenza
comune e condiviso, che identifica in fondo il genere stesso della lirica, considerata
anche l’importanza concettuale nella resa dell’amore e l’abbondanza quantitativa di tali
spunti.
Benché tutte queste immagini abbiano un’unica origine nella connotazione negativa
dell’amore, le realizzazioni sono assai diversificate. Oltre al “dolore”, alla “pena”, alla
“sofferenza”, ai “martiri”, al “tormento”, allo “sbigottimento”, agli “affanni” e allo
205
“strazio”, sia Petrarca sia i suoi predecessori hanno cercato modalità più efficaci per
rendere la loro insoddisfazione. Lo strumento più adeguato è senza dubbio la metafora,
che permette di rendere in termini fisici, e dunque più immediati e percepibili, la
condizione interiore, per sua natura astratta e poco afferrabile. Si alternano e mescolano
perciò il timore o la certezza di morire12, il senso di un peso insopportabile13, la
lacerazione di una ferita che non guarisce14, l’accusa alle armi15 della dama e di Amore,
descritto tipicamente come arciere16, la denuncia di un aiuto che non giunge mai o di
una difesa del tutto assente17, la sensazione di essere sconfitti, di consumarsi e venir
meno18, di essere costretti, sforzati19, imprigionati20 e legati21. All’io poetico non resta
12
Il tema della morte è molto sentito nel Canzoniere, non solo in riferimento agli avvenimenti luttuosi che
vi sono registrati, a partire dalla dipartita di Laura. Tale motivo mescola urgenze e problemi diversi: non
solo la convenzionale disperazione dell’amante, pur ampiamente testimoniata, ma anche il senso, per certi
aspetti cristiano e per altri umanistico, della brevità della vita, della fuggevolezza del tempo, della vanità
del mondo.
13
Il concetto è presente anche in ambito trobadorico, benché tali occorrenze siano molto generiche e poco
sviluppate: più che altro si riconosce l’uso del termine “greu” ed affini, non a caso di solito tradotto
semplicemente con “dolore”.
14
Questo tipo di immagine è piuttosto frequente e riconoscibile nei componimenti trobadorici, ma viene
trattato in forme molto semplici e poco approfondite. Petrarca arricchisce le possibilità comunicative del
topos, variando il lessico (ad esempio, ricordiamo la forma “pungere”, già siciliana, ma qui potenziata) o
insistendo sull’idea del colpo, spesso attribuito agli occhi dell’amata, ma secondo una fenomenologia
abbastanza varia.
15
Sia nei trovatori sia nel Canzoniere si fa riferimento alle armi di cui dispone l’io poetico, ma mentre per
i primi, in quanto cavalieri, c’è spesso uno spazio di speranza o anche di riscatto, per Petrarca l’unica
possibilità sono armi di difesa o le “armi della poesia”. È comunque molto più frequente che egli si
dichiari disarmato.
16
Tale rappresentazione topica si nota soprattutto nei Provenzali e poi con interessante estensione proprio
nel Canzoniere, mentre ne avevano fatto scarso uso i poeti siciliani.
17
I luoghi più interessanti in proposito, anche perché accomunano in modo significativo trovatori e
Petrarca, sono quelli in cui l’io poetico si definisce privo di alcun mezzo per difendersi e dunque
impossibilitato ad ottenere qualsivoglia risultato. La formula più riconoscibile è quella del “non mi val” e
simili.
18
In diverse occasioni (ad esempio nei ff. 94, 198, 246, 256) Petrarca fa anche riferimento alla concezione
fisiologica tipica di Cavalcanti e dello Stil Novo, rappresentando i propri spiriti atterriti o in fuga.
19
In questi casi, nella visione petrarchesca, la responsabilità è attribuita per lo più ad Amore, soprattutto
laddove si introduca l’idea della forza, a differenza di quanto affermano i Provenzali, che accusano molto
spesso madonna, ma in affinità con la concezione siciliana, che esclude forme troppo energiche di
biasimo all’amata. Tuttavia Petrarca bilancia tale propensione rappresentando comunque in modo
esplicito le colpe e la crudeltà dell’amata in contesti diversi: ella ad esempio non usa la forza o la violenza
“fisiche”, perché le basta il movimento di un sopracciglio (sonn. 289 e 299).
20
Comprendiamo in tale area semantica le immagini concernenti catene, reti, nodi, trappole ed anche usi
lessicali più semplici e immediati, come per i predicati “tenere” e “legare”. In tutti questi casi gli
antecedenti trobadorici appaiono significativi; mancano invece corrispondenze per un’altra immagine
espressiva ed affine, quella del giogo, piuttosto diffusa al contrario nella raccolta petrarchesca.
21
A tali immagini di costrizione si legano ulteriori sviluppi metaforici, presenti in parte già nella
produzione occitanica, ma in altri casi tipici piuttosto del Canzoniere: qui ad esempio viene dato
straordinario impulso alle metafore venatorie o all’idea dell’esca, che si riconnette sia alla dimensione
della caccia e della pesca, che nei trovatori sono recuperate piuttosto come elementi contestuali e realistici
della vita del poeta, sia a quella del fuoco, con il significato di miccia (si tornerà su questi aspetti in
seguito). Al campo semantico della prigionia si associa inoltre il topos del corpo come nodo, legame o
carcere, che comporta significativi risvolti spirituali e morali cristiani, importanti soprattutto nel contesto
poetico petrarchesco.
206
che abbandonarsi a pianti, sospiri e lamenti22, nella consapevolezza che la libertà è
perduta e la fuga impossibile.
Due fattori sono essenziali nel protrarsi della situazione del poeta: il desiderio e la
speranza. Entrambi i concetti sono riproposti in numerosissimi brani, sia nei fragmenta
che nelle cansos occitaniche: il che appare ovvio, visto che l’atteggiamento del poeta e
la sua incapacità di rinunciare a ciò che lo tormenta derivano proprio dal rinnovarsi
delle attrattive e delle illusioni, che appaiono di volta in volta legate all’ambiguo
comportamento dell’amata (soprattutto in ambito provenzale) o alla cecità passionale
dell’innamorato.
La matrice topica di tali immagini è percepibile con chiarezza anche all’interno del
Canzoniere23: ad essa contribuisce per altro il numero elevatissimo di occorrenze.
Tuttavia Petrarca attua diverse strategie di personalizzazione, da una parte legate alla
specifica costruzione e al dettato di ciascun passo, cui contribuisce anche la
sovrapposizione e l’accostamento di fonti diverse (con particolare riferimento a quelle
classiche), dall’altra in relazione alla peculiare configurazione complessiva della
raccolta. Una rilevante variazione nell’accezione delle immagini convenzionali deriva
infatti, lo si è anticipato, dallo spostamento dall’amore in vita o in morte di Laura,
nonché dalla riflessione morale e penitenziale sulla condizione dell’io e del suo amore
terreno. La capacità petrarchesca di variazione ed arricchimento della tradizione appare
con grande evidenza in merito all’espressione di desiderio e speranza. Mentre nei
componimenti trobadorici i due concetti ricorrono per lo più in modo generico, quasi
come un dato di fatto, nel Canzoniere le sfumature con cui essi sono presentati sono
molteplici, anche solo per la varietà lessicale degli attributi che sono loro riferiti.
Per quanto concerne invece l’idea della conquista, frequentissima in ambito trobadorico, benché di solito
presentata in modo sintetico attraverso i predicati “prendere” e “conquistare”, nel Canzoniere è piuttosto
rara e poco sviluppata, mentre trova ancora ampio spazio nelle opere siciliane.
22
Altre manifestazioni esteriori del dolore interiore, poco o affatto presenti nel corpus trobadorico, sono il
pallore e il tremore, mentre in Provenza è più apprezzata l’immagine dell’inappetenza.
23
Nella ricca messe dei passi petrarcheschi relativi alla sofferenza amorosa vanno incluse anche
immagini che non hanno riscontro diretto o preciso negli antecedenti trobadorici, legate piuttosto alla
tradizione italiana. Si ricordi in primo luogo l’ardore amoroso, che, nei suoi aspetti metaforici o anche
nelle altre possibili forme retoriche (similitudine e paragone innanzitutto) non sembra aver colpito
l’immaginario occitanico, mentre trova amplissimo riscontro nelle opere dei Siciliani, da dove derivano
gli spunti della cera che si scioglie o della salamandra che vive nel fuoco. Un’eccezione fondamentale alle
consuetudini trobadoriche si riscontra però in Arnaut Daniel, coincidenza che difficilmente potrà
sembrare casuale, data l’importanza storica del poeta, soprattutto rispetto all’immaginario dantesco e
petrarchesco. Altri elementi tipicamente petrarcheschi riguardano il senso di fatica o di stanchezza, il
veleno che scorre nel corpo del poeta giustificandone il tormento, l’impietrire o l’agghiacciare, derivati
soprattutto dall’esempio stilnovistico e dantesco, mentre sono in sostanza assenti nella tradizione
trobadorica. È vero però che all’idea del ghiaccio, come già in quella del fuoco, contribuiscono le
tradizionali rappresentazioni climatiche e stagionali, che già nel corpus occitanico erano associate o
contrapposte alla condizione dell’amante. Tali elementi vengono recepiti con efficacia da Petrarca, anche
in quanto aspetti della disforia e dello snaturamento in amore, poiché la reazione dell’amante al tempo si
contrappone a quella normale e comune. In seguito si tornerà sulla questione con maggior ampiezza.
207
1.1.1
La metafora della guerra
Benché sia in alcune occasioni recuperata anche dai poeti siciliani, l’immagine della
guerra, come metafora dello stato disforico dell’amante, trova la sua origine e il suo più
ampio sviluppo in ambito trobadorico, anche per la corrispondenza tra motivo amoroso
e rappresentazione realistica nella lirica civile. Petrarca mutua l’energico concetto della
battaglia in amore, per quanto le occorrenze non siano numerosissime24 (1); ad essa
associa l’uso della famiglia lessicale dell’assalto25, a sua volta ben testimoniata nel
corpus trobadorico, che invece era assente in quello federiciano26 (2).
Petrarca
1.
[…] veggendo quella spada scinta / che fece al segnor mio sì lunga guerra27 (son. 26, vv
7-8)
Ma perch’io temo che sarrebbe un varco / di pianto in pianto, et d’una in altra guerra (son
36, vv 5-6)
Poi mi rivolgo a la mia usata guerra (canz. 72, v 22)
Io son de l’aspectar omai sì vinto, / et de la lunga guerra de’ sospiri (son. 96, vv 1-2)
O riposto mio bene, et quel che segue, / or pace or guerra or triegue (canz. 105, vv 73-74)
Ristretto in guisa d’uom ch’aspetta guerra (son. 110, v 2)
Di ch’era nel principio de mia guerra / Amor armato […] (canz. 33-34)
Pace non trovo, et non ò da far guerra (son. 134, v 1)
Né però trovo anchor guerra finita (bal. 149, v 13)
Avrem mai tregua? Od avrem guerra eterna? (son. 150, v 2)
Guerra è ‘l mio stato, d’ira et di duol piena (son. 164, v 7)
Sì lunga guerra i begli occhi mi fanno (son. 197, v 2)
Di que’ belli occhi ond’io ò guerra et pace (son. 220, v 13)
In tal paura e ‘n sì perpetua guerra / vivo ch’i’ non son più quel che già fui (son. 252, vv
12-13)
Quando novellamente io venni in terra / a soffrir l’aspra guerra (canz. 264, vv 110-111)
Non di lei, ch’è salita / a tanta pace, et m’à lassato in guerra (canz. 268, vv 60-61)
Et le cose presenti et le passate / mi dànno guerra, et le future anchora (son. 272, vv 3-4)
24
Segnaliamo in questa sede le occorrenze di guerra e derivati; in qualche caso anche nel Canzoniere
(“Ché ‘l die m’infiamma et pugne”, canz. 73, v 10; “L’aspectata vertù che ‘n voi fioriva / quando Amor
cominciò darvi bataglia”, son. 104, vv 1-2; “Sempre conven che combattendo viva”, son. 124, v 8) si
attestano immagini di battaglia dalla resa più varia e meno specifica a livello lessicale, consuete in ambito
trobadorico.
25
All’immagine dell’assalto può essere associata quella dell’assedio, ben documentata, anche in chiave
metaforica, nei versi trobadorici; in Petrarca ne resta una sola occorrenza, per altro implicita, nella prima
quartina del sonetto 274: “Datemi pace, o duri miei pensieri: / non basta ben ch’Amor, Fortuna et Morte /
mi fanno guerra intorno e ‘n su le porte, / senza trovarmi dentro altri guerreri?”.
26
Non riportiamo in questo caso l’uso già dantesco dell’“assalto dei dubbi”, a sua volta convenzionale,
ma legato ad una diversa metafora.
27
L’amante che per lungo tempo si è sottratto alla signoria d’Amore per poi esserne conquistato non è in
questo caso l’io poetico, ma il meccanismo complessivo resta quello convenzionale che si sta
descrivendo.
208
Non basta ben ch’Amor, Fortuna et Morte / mi fanno guerra intorno e ‘n su le porte, /
senza trovarmi dentro altri guerreri? (son. 274, vv 2-4)
Dunque perché mi date questa guerra (son. 275, v 9)
Et breve guerra per eterna pace (son. 290, v 4)
Et mi contendi l’aria del bel volto, / dove pace trovai d’ogni mia guerra! (son. 300, vv 34)
I’ so’ colei che ti die’ tanta guerra (son. 302, v 7)
Tempo era omai da trovar pace o triegua / di tanta guerra […] (son. 316, vv 1-2)
Dunque per amendar la lunga guerra / per cui dal mondo a te sola mi volsi (son. 347, vv
12-13)
E’ mi tolse di pace et pose in guerra (canz. 360, v 30)
[…] s’io vissi in guerra et in tempesta (son. 365, v 9)
Soccorri a la mia guerra (canz. 366, v 12).
2.
Però, turbata nel primiero assalto, / non ebbe tanto né vigor né spazio / che potesse al
bisogno prender l’arme (son. 2, vv 9-11)
Ma la penna et la mano et l’intellecto / rimaser vinti nel primier assalto (son. 20, vv 1314)
I’ dico che dal dì che ‘l primo assalto / mi diede Amor, molt’anni eran passati (canz. 23,
vv 21-22)
Io temo sì de’ begli occhi l’assalto / ne’ quali Amore et la mia morte alberga (son. 39, vv
1-2)
Ma chi pensò veder mai tutti insieme / per assalirmi il core, or quindi or quinci, / questi
dolci nemici, ch’i’ tant’amo? (son. 85, vv 9-11)
Lasso, quante fiate Amor m’assale (son. 109, v 1)
Dolci rime leggiadre / che nel primiero assalto / d’Amor usai, quand’io non ebbi altr’arme
(canz. 125, vv 27-29)
Questo un soccorso trovo tra gli assalti / d’Amore, ove conven ch’armato viva / la vita
che trapassa a sì gran salti (son. 148, vv 9-11)
Più volte già dal bel sembiante humano / ò preso ardir co le mie fide scorte / d’assalir
con parole honeste28 accorte / la mia nemica in atto humile et piano29 (son. 170, vv 1-4)
Et quinci et quindi il cor punge et assale (son. 241, v 8)
Or tristi auguri, et sogni et penser’ negri / mi dànno assalto, et piaccia a Dio che ‘nvano
(son. 249, vv 12-14)
I’ vo pensando, et nel penser m’assale / una pietà sì forte di me stesso (canz. 264, vv 1-2)
Amor m’assale, ond’io mi discoloro (son. 291, v 3)
Vidi fra mille donne una già tale, / ch’amorosa paura il cor m’assalse (son. 335, vv 1-2).
28
L’idea che l’amante possa assalire l’oggetto del suo amore, benché con strumenti del tutto incorporei e
metaforici, è coerente con la visione cavalleresca ed energica che i trovatori propongono di sé: si veda ad
esempio Arnaut Daniel, II, vv 37-38, “Si ben m vau per tot a des daill, / mos pessamens lai vos assaill”.
29
Questa occorrenza appare piuttosto interessante: in primo luogo per la coerenza della metafora militare
(assalto – nemica), secondariamente per l’atteggiamento attribuito all’io poetico. Da una parte infatti egli
si trova nella posizione di agire nei confronti dell’amata, o almeno di provarci, il che ricorda, lo si è detto,
l’approccio di molti trovatori; dall’altra però l’energia dell’atto viene attenuata, com’era ad esempio per i
Siciliani, dall’invito che sembra venire da Laura stessa (il “sembiante” addolcito), dalla natura dell’assalto
stesso (solo con parole) e la condizione costante del poeta (umiltà ed accortezza).
209
Trovatori
1.
Amors, e que m farai ? / Si guerrai ja ab de te? (Bernart de Ventadorn, XXXVI, vv 28-29)
Anc no m plac Amors per escut, / a cors batut, / d’un privat e d’autr’escondut (Giraut de
Bornelh, XXIX, vv 96-98)
Vers es qe longa sazo / ai estat en grans esmais / cargatz d’ira e d’esglais, / en gerra et en
tensso (Uc de Saint Circ, XI, vv 10-13)
Gerras ni plaich no m son bo / contr’amor e nuill endreig (Raimbaut de Vaqueiras, XIII,
vv 1-2)
Gerra m plai, si tot gerra m fan / amors e ma donna tot l’an30 (Bertran de Born, XLVII, vv
9-10)
Perdre non dei lo gent servir / q’ai fait a cella qi m guerreia (Rambertino Buvalelli, IV, vv
9-10)
Pero, com que m guerei / Amors, soi tals com dei (Aimeric de Belenoi, XIV, vv 19-20)
Per qu’ieu non puosc sa guerra sols atendre (Arnaut de Maruelh, XV, v 3)
D’uns mal essenhatz / parliers senes fe / ai gran guerr’ab me (Raimon Jordan, X, vv 5153)
En amors a manhtas leys, / e de manhtas partz aduj / tortz e guerras e plaideys (Raimon
de Miravall, XXVII, vv 9-11)
E sa guerra es mi tan sobranseira, / que, si m fai mal, no n aus penre venjansa (Peire
Vidal, XIII, vv 15-16)
Cel qui s’irais ni guerreia ab Amor / jes que savis non fai al mieu semblan, / car de guerra
vei tart pro e tost dan, / e guerra fai tornar mal en pejor (Aimeric de Peguilhan, XV, vv 14)
Q’Amors m’auci e m guerreya / que sobre me si desreya (Gaucelm Faidit, XV, vv 35-36)
Doncs poi aisso qe m guerreia / conosc que m’er a blandir (Peire Raimon de Tolosa, IV,
vv 23-24)
Vostra guerra nom tolia (Bartolomé Zorzi, IV, v 89)
C’aissi con lo sieu mi gart / da l greu turmen que m guerreja / tant, qu’en sui pro vetz
blancs gruecs (Bonifaci Calvo, II, vv 25-27).
2.
Mas lai in Amors s’atura / er greu forsa defenduda, / si so coratge no muda / si c’alors
meta sa cura (Bernart de Ventadorn, VIII, vv 13-16)
Que l cors e tut trei / plus temen no ill movan desrei (Giraut de Bornelh, XLV, vv 59-60)
C’al major briu calarai ma rancura (Folchetto da Marsiglia, VIII, v 44)
E m fai amar lieys que m ten pres e m fui / et en fugens m’encaussa e m camina
(Raimbaut de Vaqueiras, VI, vv 7-8)
Ja non serai assaillitz / qu’en auta rocha es bastitz (Peire d’Alvernha, XIV, vv 17-18).
30
Il passo è particolarmente interessante in relazione al complesso dell’opera di Bertran de Born, noto
cantore d’armi e soprattutto autore di diversi plazer dedicati proprio al gusto della battaglia. La
dichiarazione al verso 9 risulta quindi ambigua rispetto a quale guerra gli piaccia, considerato che la
prima strofa ha carattere militare: il primo verso introduce la guerra (reale) che subiscono i baroni
malvagi.
210
1.1.2
L’esagerazione nell’espressione amorosa: iperboli
Nell’espressione della sofferenza o anche del coinvolgimento nella relazione amorosa è
ricorrente l’insistenza di carattere iperbolico31. La forma più caratteristica di tali
esagerazioni, sia nel corpus trobadorico sia nell’opera petrarchesca, che dunque
identifica un contatto particolarmente significativo tra le due esperienze poetiche,
prevede la semplice affermazione di una quantità spropositata, di solito identificata dai
numeri mille e cento32. Tipico è anche il concetto di infinità, che appunto potenzia
l’aspetto iperbolico. Un’altra possibilità, che si trova soprattutto in Petrarca e in merito
alle immagini dei sospiri e del pianto, dunque alla rappresentazione esteriore e fisica del
dolore, concerne la durata, la frequenza e la generica abbondanza di quelle stesse
manifestazioni. La continuità del dolore, in particolare, è spesso veicolata da sintagmi
quali “notte e giorno”, “mattino e sera”, “in estate e inverno”33, “al sole e all’ombra”,
che insistono sui ritmi cronologici e stagionali normali, cui si contrappone la costanza
dell’amore, a prescindere dal contesto esteriore.
Riportiamo innanzitutto i passi in cui l’iperbole esalta la sofferenza amorosa:
Petrarca
Non ò mai triegua di sospir’ col sole; / poi quand’io veggio fiammeggiar le stelle / vo
lagrimando, et disiando il giorno (sest. 22, vv 10-12)
Benché ‘l mio duro scempio / sia scripto altrove, sì che mille penne34 / ne son già stanche,
et quasi in ogni valle / rimbombi il suon de’ miei gravi sospiri35 (canz. 23, vv 10-13)
Ché perch’io non sapea dove né quando / me ‘l ritrovasse, solo lagrimando / là ‘ve tolto
mi fu, dì et nocte andava (canz. 23, vv 54-56)
Mi vedete straziare a mille morti (son. 44, v 12)
I miei sospiri a me perché non tolti / quando che sia? Perché no ‘l grave giogo? / Perché
dì et notte gli occhi miei son molli? (canz. 50, vv 60-62)
Per lagrime ch’i’ spargo a mille a mille (bal. 55, v 7)
31
Per certi aspetti appartengono al medesimo gusto i paragoni di maggioranza o in forma di
sopravanzamento, che si leggono piuttosto di frequente in ambito trobadorico; si legga su tale argomento
Scarpati 2008, pp. 59-65.
32
La convenzionalità di tali motivi è dimostrata anche dalla loro presenza nel corpus siciliano, con
quattro occorrenze di “mille” e tre di “cento”.
33
Sia l’idea della totalità del tempo, come topos specifico, che l’aspetto stagionale, già in parte affrontato
nel capitolo precedente, saranno ulteriormente approfonditi nel corso del presente capitolo.
34
Un altro topos, volto a comunicare intensità, questa volta in riferimento all’amata stessa e alle sue
qualità, è quello antichissimo dell’ineffabilità delle sue doti (e talvolta dei sentimenti che suscitano) o
dell’insufficienza della poesia, che ci rimanda ad un altro campo semantico convenzionale molto diffuso,
quello della modestia. Un esempio di iperbole in negativo, cioè proprio nel delineare un’affermazione di
insufficienza poetica, si trova nella canzone 127, vv 87-89, laddove Petrarca evidenzia l’illusione di poter
portare a compimento una missione letteraria tanto alta nel breve spazio di un componimento (o anche di
una raccolta lirica).
35
Come si è anticipato, l’iperbole riferita all’attività poetica può essere comunque intesa all’esaltazione
della profondità e della sofferenza dell’amore, come in questo caso: il sentimento spinge ad un iperbolico
impegno nella composizione lirica. Ci sono anche casi in cui l’aspetto metapoetico vale semplicemente
per se stesso, come nella canzone 119, v 7.
211
Che tra del mio [petto] sì dolorosi venti36 (sest. 66, v 30)
Ché perch’io viva de mille un no scampa (son. 88, v 12)
Il sempre sospirar nulla releva (canz. 105, v 4)
E ‘nfiniti sospir’ del mio sen tolse! (canz. 105, v 56)
Questo prov’io fra l’onde / d’amaro pianto […] (canz. 135, vv 20-21)
Et perché ‘l mio martir non giunga a riva, / mille volte il dì moro et mille nasco, / tanto da
la salute mia son lunge (son. 164, vv 12-14)
Non, perché mille volte il dì m’ancida, / fia ch’io non l’ami, et ch’i’non speri in lei (son.
172, vv 12-13)
Tutto ‘l dì piango; et poi la notte, quando / prendon riposo i miseri mortali, / trovomi in
pianto, et raddoppiarsi37 i mali: / così spendo ‘l mio tempo lagrimando (son. 216, vv 1-4)
Se sospirare et lagrimar mai sempre (son. 224, v 10)
Onde e’ suol trar di lagrime tal fiume (son. 230, v 5)
Sì profondo era et sì di larga vena / il pianger mio et sì lunge la riva (son. 230, vv 9-10)
Ma lagrimosa pioggia et fieri venti / d’infiniti sospiri or l’ànno spinta (son. 235, vv 9-10)
Non à tanti animali il mar fra l’onde, / né lassù sopra ‘l cerchio de la luna / vide mai tante
stelle alcuna notte, / né tanti augelli albergan per li boschi, / né tant’erbe ebbe mai campo
né piaggia, / quant’à ‘l mio cor pensier’ ciascuna sera (sest. 237, vv 1-6)
Or vorria trar de li occhi nostri un lago (son. 242, v 4)
O li condanni a sempiterno pianto (son. 252, v 8)
Quando è ‘l dì chiaro, et quando è notte oscura, / piango ad ognor […] (son. 265, vv 6-7)
Dovunque io son, dì et notte si sospira (son. 266, v 8)
Che posso io più, se no aver l’alma trista, / humidi gli occhi sempre, e ‘l viso chino? (son.
269, vv 10-11)
Mi dice con pietate – a che pur versi / degli occhi tristi un doloroso fiume? (son. 279, vv
10-11)
I’ ò pien di sospir’ quest’aere tutto (son 288, v 1)
Presso di sé non lassan [gli occhi] loco asciutto (son. 288, v 8)
Quanto al misero mondo, et quanto manca / agli occhi miei che mai non fien asciutti!
(son. 299, vv 13-14)
Ma di menar tutta mia vita in pianto / e i giorni oscuri et le dogliose notti (sest. 332, vv 910)
Or non parl’io, né penso, altro che pianto (sest. 332, v 18)
Piansi et cantai: non so più mutar verso; / ma dì et notte il duol ne l’alma accolto / per la
lingua et per li occhi sfogo et verso (son. 344, vv 12-14)
[…] Le triste onde / del pianto, di che mai tu non se’ sazio, / coll’aura de’ sospir’, per
tanto spatio / passano al cielo, et turban la mia pace (canz. 359, vv 14-17)
Ma io che debbo altro che pianger sempre (canz. 359, v 34)
Vergine, tale è terra, et posto à in doglia / lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne / et
de’ mille miei mali un non sapea (canz. 366, vv 92-94).
36
In questo caso, come in quello delle onde di pianto, è la metafora a contenere in sé l’aspetto iperbolico
dell’espressione dolente.
37
In questo caso l’occorrenza è citata per il protrarsi del pianto e delle sofferenze notte e giorno; tuttavia
anticipiamo che l’idea del raddoppiamento presenta un’interessante valenza convenzionale. Se ne
riparlerà in modo più specifico a breve.
212
Trovatori
E sol qu’ilh agues lo mile / de la dolor fer’ e mortal (Folchetto da Marsiglia, XIX, vv 4849)
Per c’am mil tans / viure ab lieis trebaillatz (Sordello, XI, vv 25-26)
Perdre non dei lo gent servir / q’ai fait a cella qi m guerreia / de cent sospirs, si Deus me
veia (Rambertino Buvalelli, IV, vv 9-11)
C’aisel que vol e non pot per un cen / trai peior mal qe cel qe pot no fai (Aimeric de
Belenoi, VII, vv 17-18)
Tem que serai escarnitz, / que mil vetz i sui falhitz (Peire d’Alvernha, XIV, vv 23-24)
M’a mes de cent sospirs captal (Aimeric de Peguilhan, XLIII, v 2)
Per q’eu teing plus a mal aissament / a la falsa non feira az autras cent (Guilhem de la
Tor, XIII, vv 10-11)
Mas mil sospirs li ren quec iorn per ces (Peire Raimon de Tolosa, XIV, v 14)
Tan platz q’us dels sieus plazers / tolria mil desplazers (Arnaut Catalan, IV, vv 39-40).
Distinguiamo dai luoghi dedicati al dolore l’espressione iperbolica legata in modo più
generale alla rappresentazione dello stato amoroso:
Petrarca
Per fare una leggiadra sua vendetta, / et punire in un dì ben mille offese (son. 2, vv 1-2)
Mille fiate, o dolce mia guerrera, / per aver co’ begli occhi vostri pace / v’aggio proferto
il cor; ma voi non piace (son. 21, vv 1-3)
Per far forse pietà venir negli occhi / di tal che nascerà dopo mill’anni, / se tanto viver pò
ben colto lauro (sest. 30, vv 34-36)
Tornar non vide il viso, che laudato / sarà, s’io vivo, in più di mille carte (son. 43, vv 1011)
Tal ch’i’ depinsi poi per mille valli / l’ombra ov’io fui, ché né calor né pioggia / né suon
curava di spezzata nebbia (sest. 66, vv 34-36)
La qual ogni altra salma / di noiosi pensier’ disgombra allora, / sì che di mille un sol vi si
ritrova (canz. 71, vv 79-81)
Per mirar Policleto a prova fiso / con gli altri ch’ebber fama di quell’arte / mill’anni, non
vedrian la minor parte / de la beltà che m’ave il cor conquiso (son. 77, vv 1-4)
Pigmalion, quanto lodar ti dei / de l’imagine tua, se mille volte / n’avesti quel ch’i’ sol
una vorrei38 (son. 78, vv 12-14)
Poi mi condusse in più di mille scogli (sest. 80, v 10)
Lasso, quante fiate Amor m’assale, / che fra la notte e ‘l dì son più di mille (son. 109, vv
1-2)
38
In questa e nell’occorrenza precedente, strettamente legate per l’appartenenza ai due testi sul ritratto di
Laura, disposti a formare una coppia inscindibile, l’affermazione iperbolica non è riferita al poeta, ma a
Pigmalione, che l’io paragona a se stesso rispetto alla sostituzione di un’immagine fittizia, ma
consolatoria, a quella reale dell’amata. Tuttavia, grazie alla generale struttura comparativa e soprattutto
per la superiorità che viene in sostanza riconosciuta a Laura e alla sua rappresentazione pittorica,
implicitamente l’iperbole si riversa anche sull’espressione dell’amore del poeta.
213
Provan com’io son pur quel ch’i’ mi soglio, / né per mille rivolte anchor son mosso (son.
118, vv 13-14)
Dico che, perch’io miri / mille cose diverse attento et fiso, / sol una donna veggio, e ‘l suo
bel viso (canz. 127, vv 12-14)
Mille piagge in un giorno et mille rivi / mostrato m’à per la famosa Ardenna / Amor,
ch’a’ suoi le piante e i cori impenna (son. 177, vv 1-3)
Lacci Amor mille, et nesun tende invano (son. 200, v 5)
Quest’arder mio, di che vi cal sì poco, / e i vostri honori, in mie rime diffusi, / ne porian
infiammar fors’anchor mille (son. 203, vv 9-11)
Ch’i’ ò cercate già vie più di mille / per provar senza lor se mortal cosa / mi potesse tener
in vita un giorno (canz. 207, vv 27-29)
Ché, s’altro amante à più destra fortuna, / mille piacer’ non vaglion un tormento (son.
231, vv 3-4)
Mille fiate ò chieste a Dio quell’ale / co le quai del mortale / carcer nostro intelletto al ciel
si leva (canz. 264, vv 6-8)
Poi mille volte indarno a l’opra volse / ingegno, tempo, penne, carte e ‘nchiostri (son.
309, vv 7-8)
Vidi fra mille donne una già tale, / ch’amorosa paura il cor m’assalse (son. 335, vv 1-2)
Ogni giorno mi par più di mill’anni / ch’i’ segua la mia fida et cara duce (son. 357, vv 12)
Mille lacciuoli in ogni parte tesi (canz. 360, v 51)
Et a costui di mille / donne electe, excellenti, n’elessi una (canz. 360, vv 97-98)
Et per dir a l’extremo il gran servigio, / da mille acti inhonesti l’ò ritratto (canz. 360, vv
121-122).
Trovatori
Si m pren midonz e m’entrava / per ja mais a mila ns / tot als seus comans (Raimbaut
d’Aurenga, XIV, vv 25-27)
C’aicel jorn me sembla nadaus / c’ab sos bels olhs espiritaus / m’esgarda, mas so fai tan
len / c’us sols dias me dura cen (Bernart de Ventadorn, XV, vv 46-49)
Pos non qier dreig de faillimen / ai cent vetz perdut et perdrai (Giraut de Bornelh, XLI, vv
61-62)
Qer l’am mil tans qu’ieu non solia (Uc de Saint Circ, XIV, v 16)
E vos faitz mi pieitz per un cen / car fatz vostre comandamen (Elias Cairel, XII, vv 23-24)
Vos puosc far mil vers sagramens / q’ie us serai plus obediens (Raimon de Miravall, XX,
vv 46-47)
En un jorn pert mais que no n cobr’en cen (Gaucelm Faidit, IV, v 31)
Ni qu’ie’us camge per nul autr’amador, / si m pregavon d’autras donas un cen (Clara
d’Anduza, I, vv 19-20)
Ma bella dompna, no me laissaz morir, / qe mil aitant vos am qìeu no sai dir (Folquet de
Romans, II, vv 28-29)
Mas d’aquels mals me son vengut mil be39 (Bertran Carbonel, XI, v 11)
39
Quest’ultima occorrenza è indicativa di un uso piuttosto diffuso in area trobadorica: le formule
iperboliche, infatti, vengono non di rado applicate anche all’espressione della gioia. Mancano invece casi
214
S’era mest cinq cens, / gensor e plus bella / l’apello las gens (Guilhem Peire de Cazals,
VII, vv 51-53)
[…] que d’ans mil a / no naquet homs la pogues dir, non guil (Folquet de Lunel, VI, vv 67).
1.1.3
L’esagerazione nell’espressione amorosa: raddoppiamento (del dolore o del
piacere)
Un’altra soluzione peculiare rispetto all’accentuazione degli stati d’animo amorosi
comprende il concetto di “raddoppiamento”, variante più specifica dell’idea – topica –
del continuo accrescersi (per quantità e qualità) dei sentimenti stessi. La scelta lessicale
è piuttosto esplicita e accomuna in modo singolare Petrarca e i trovatori; la differenza
essenziale concerne il numero delle occorrenze (molto meno numerose in Petrarca, che
però imposta sull’idea del raddoppiamento l’intera sestina 332) e la varietà di ciò che si
accresce (in Petrarca solo dolore, più volte legato alla durata della notte – sonn. 216 e
255 –, e in un caso isolato il piacere)40.
Petrarca
Giunto m’à Amor fra belle et crude braccia, / che m’ancidono a torto; et s’io mi doglio, /
doppia ‘l martir; onde pur, com’io soglio, / il meglio è ch’io mi mora amando, et taccia
(son. 171, vv 1-4)
Tutto ‘l dì piango; et poi la notte, quando / prendon riposo i miseri mortali, / trovomi in
pianto, et raddoppiarsi i mali (son. 216, vv 1-3)
A me doppia la sera et doglia et pianti (son. 255, v 3)
L’alma, nudrita sempre in doglia e ‘n pene / […] / contra ‘l doppio piacer sì ‘nferma fue41
(son. 258, vv 9-11)
Et doppiando ‘l dolor, doppia lo stile / che trae del cor sì lacrimose rime (sest. 332, vv 3940).
Trovatori
Car, on plus l’esgar, plus me vens / s’amors, e m dobla mos talens (Bernart de Ventadorn,
V, vv 19-20)
Ades doblara lh folia (Bernart de Ventadorn, XXX, v 20)
Li dobla poders e razos (Giraut de Bornelh, XX, v 42)
E doblon me l’esglai e il lonc sospire (Uc de Saint Circ, IV, v 21)
E ja totz jornz dobla ma dziranza (Bertran d’Alamanon, XIX, v 14)
paralleli in Petrarca, dove d’altronde la rappresentazione di uno stato sereno e soddisfatto è ben più
limitata.
40
L’immagine trobadorica non lascia invece quasi alcuna impronta in Sicilia.
41
In questo caso a raddoppiare è il piacere, a fronte però di una reazione impreparata dell’innamorato e
quindi di un esito comunque negativo. In un solo passo la connotazione del raddoppiamento è solo
positiva, come accade invece più spesso tra i trovatori: “doppia dolcezza in un volto delibo” (son. 193, v
8).
215
Aquest’amor no pot hom tan servir / que mil aitans no il doble ls gazardos (Cercamon,
VI, vv 7-8)
Et enaissi doblatz me mon martire (Folchetto da Marsiglia, V, v 4)
Mas ben podetz doblar vostra folia (Elias Cairel, I, v 22)
E il dobla hom son perilos turmen (Aimeric de Belenoi, V, v 3)
Mas a totz jors dobla ma voluntatz / de ben amar et esmer’ e meillura (Arnaut de
Maruelh, XXI, vv 29-31)
E que dobles mon dampnatge (Raimon de Miravall, I, v 38)
Sueffre plus leu tota via / l’afan doblat quascun dia (Aimeric de Peguilhan, II, vv 23-24)
Mais la dezir e dobla ma dolor (Peire Raimon de Tolosa, XIV, v 36)
Eras ai de mal dos tans (Guiraut Riquier, XXIII, v 11)
Pueis dobla m l’esmai (Guilhem Augier Novella, VII, v 22).
1.1.4
L’esagerazione nell’espressione amorosa: il dolore dell’amante è superiore
ad ogni altro
Una topica espressione iperbolica della sofferenza amorosa e dunque dell’amore stesso
deriva inoltre dall’affermazione che nessun dolore possa essere pari a quello del poeta. I
luoghi coinvolti non sono molti, né in Petrarca né in area provenzale, ma non per questo
appare meno significativa la loro corrispondenza.
Petrarca
Servo d’Amor, che queste rime leggi, / ben non ha ‘l mondo, che ‘l mio mal pareggi42
(canz. 207, vv 97-98)
Chè tanti affanni uom mai sotto la luna / non sofferse quant’io […] (sest. 237, vv 10-11)
Non à ‘l regno d’Amor sì vario stile, / ch’è tanto or tristo quanto mai fu lieto. / Nesun
visse già mai più di me lieto, / nesun vive più tristo et giorni et notti (sest. 332, vv 35-38)
[L’anima] arse tutta: et martiro / simil già mai né sol vide né stella (canz. 135, vv 6970)43.
Trovatori
Anc nuls amans per sidons no sufri / tan gran dolor ni tan gran malanansa (Folchetto da
Marsiglia, XVI, vv 29-30)
Quar nulhs hom pieitz de me non tray (Arnaut de Maruelh, XXIV, v 43)
A m si cargat de l’amoros afan / que l melhor cen no n sufririon tan (Aimeric de
Peguilhan, XXVII, vv 6-7)
Et anc nuills hom pres / ni repres / non cuich pieitz de mi trisses / e platz me q’ieu l traia
(Arnaut Catalan, II, vv 29-32)
42
Per questi versi in particolare è stata notata la familiarità con Peirol (Mainta gens mi malrazona) e
Bernart de Ventadorn (Non es meravelha).
43
Ai luoghi qui citati può essere per certi aspetti accostato il dialogo di Petrarca con il triste uccellino del
sonetto 353, la cui desolazione appare al poeta in fondo meno grave della propria, inconsolabile e priva di
soluzione: “I’ non so se le parti sarian pari, / ché quella che tu piangi è forse in vita, / di ch’a me Morte e
‘l ciel son tanto avari” (vv 9-11).
216
Si fara qu’anc non fo vius / hom, tant fos aclis ni sers (Bonifaci Calvo, II, vv v 14-15)
Anc nuls amans per sidons no sufri / tan gran dolor ni tan gran malanansa (Peirol, XXI,
vv 29-30).
1.2 La condizione straordinaria dell’amante: vivere e morire
Come lo stesso Amore spiega nella seconda terzina del sonetto 15 (“Ma rispondemi
Amor: Non ti rimembra / che questo è privilegio degli amanti, / sciolti da tutte qualitati
humane?”), l’amante vive una condizione fuori dall’ordinario.
Nella maggior parte dei casi, tale infrazione alle regole della natura si risolve in uno
stato di eccezionale prostrazione e in un senso di esclusione rispetto alla vita comune.
Tre immagini esprimono con particolare chiarezza tale prospettiva: la morte reiterata, il
ritmo sonno-veglia turbato e la malattia inguaribile.
È in effetti un topos diffusissimo quello per cui l’amante vive e muore in continuazione
o, in alternativa, vive e muore allo stesso tempo44: tale concetto comunica la sensazione
di un dolore oltremodo straziante che per di più non si risolve. In questo suo protrarsi e
rinnovarsi esso crea uno stato talmente tormentoso da essere paragonato alla morte,
senza che sopraggiunga davvero tale cesura, auspicabile talvolta proprio come unica via
di fuga dal martirio45.
Petrarca
Mezzo tutto quel dì tra vivo et morto (canz. 23, v 89)
Mi vedete straziare a mille morti (son. 44, v 12)
Sì come i miei seguaci discoloro, / e ‘n un momento gli fo morti et vivi (son. 93, vv 3-4)
Chi mi fa morto et vivo (canz. 105, v 89)
O viva morte, o dilectoso male (son. 132, v 7)
Et non m’ancide Amore, et non mi sferra, / né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio. / […]
/ et bramo di perir, et cheggio aita (son. 134, vv 7-10)
Egualmente mi spiace morte et vita (son. 134, v 13)
Et perché ‘l mio martir non giunga a riva, / mille volte il dì moro et mille nasco, / tanto da
la salute mia son lunge (son. 164, vv 12-14)
Non sa come Amor sana, et come ancide (son. 159, v 12)
Non, perché mille volte il dì m’ancida, / fia ch’io non l’ami, et ch’i’ non speri in lei (son.
172, vv 12-13)
Non ò medolla in osso, o sangue in fibra, / ch’i’ non senta tremar, pur ch’i’ m’apresse /
dove è chi morte et vita inseme, spesse / volte, in frale bilancia appende et libra (son. 198,
vv 5-8)
Lasso, che pur da l’un a l’altro sole, / et da l’una ombra a l’altra, ò già ‘l più corso / di
questa morte, che si chiama vita (son. 216, vv 9-11)
Ove è la vita, ove la morte mia? (son. 222, v 3)
44
Una variante interessante si nota nel sonetto 277 del Canzoniere, v 4: “che ‘l desir vive, et la speranza è
morta”, dove la compresenza di vita e morte si gioca su un piano diverso, benché ancora una volta topico,
dell’esperienza amorosa.
45
Sulla natura topica di tale immagine si è soffermato anche Santagata 1996, p. 757.
217
Rendi agli occhi, agli orecchi il proprio obgetto, / senza qual imperfetto / è lor oprare, e ‘l
mio vivere è morte (canz. 270, vv 41-43)
Et voto et freddo ‘l nido in ch’ella giacque, / nel qual io vivo, et morto giacer volli (son.
320, vv 7-8).
Tali occorrenze si inseriscono con efficacia in un quadro coerente. Infatti, in generale il
momento della morte per l’amante è presentato come incombente: la Morte “ha già
alzato il braccio” contro il poeta (sonetto 202) ed è al suo fianco (canzone 264). La
presenza dell’elemento funebre nella vita di chi ama è dunque costante e lo stato
intermedio tra vita e morte non è che il culmine di tale equilibrio. La definizione del
topos è provenzale e la sua espressione nelle liriche cortesi appare interessante rispetto
all’elaborazione petrarchesca; tuttavia, va ricordato che l’immagine era già stata
recuperata nella poesia siciliana, dove se ne leggono cinque occorrenze (in quattro
testi)46.
Trovatori
No posc viure ni morir (Bernart de Ventadorn, XXXVIII, v 28)
Que per lieis val mos cors e viu e mor (Uc de Saint Circ, IV, v 36)
Tan atendrai entre viur’ e morir (Rigaut de Berbezilh, VII, v 33)
E no n pot hom trop viure ni morir (Cercamon, VI, v 52)
Que m’auci desiran / e non pot far morir tant fin aman47 (Folchetto da Marsiglia, XX, vv
7-8)
Es ma mortz e ma via (Sordello, XVI, v 48)
Viure no puesc ni aus murir (Aimeric de Belenoi, II, v 12)
So qu’ab vos a a viur’ ez a murir (Aimeric de Peguilhan, XXXIX, v 40)
Don muer et viv’ et viv’ et muer (Gaucelm Faidit, XLIX, v 16)
Que garrir / no m vol ni laissar morir (Guilhem de la Tor, VI, vv 11-12)
Q’en vos es ma morç e ma via (Folquet de Romans, XIV, v 32)
[…] Per que ieu muer viven (Bertran Carbonel, IV, v 7)
Me fay ira, viu mort anar (Gavaudan, III, v 32)
Tant q’ieu no suy mortz ni vius (Guiraut Riquier, IV, v 14).
1.2.1
La condizione straordinaria dell’amante: la dama può ferire e guarire
L’immagine della malattia e della guarigione, strettamente legata alla rappresentazione
dell’amata, che al contempo causa il malessere ed unica può curarlo, amplia la
medesima prospettiva di straordinarietà della condizione amorosa48. All’origine del
topos è la leggenda della lancia di Peleo, tramandata dall’interpretazione ovidiana e
46
Per il topos si veda Menichetti 1965, p. 283, per i passi siciliani Ravera 2013, pp. 219-220.
La contrapposizione dei due aspetti in riferimento all’amante rimane implicita, ma il contesto chiarisce
che egli sta parlando di sé; lo conferma per altro l’immagine convenzionale secondo cui il poeta si
presenta come amante fino, fedele e perfetto, che dunque merita la considerazione della dama o per lo
meno il suo soccorso.
48
Per una breve storia del topos e alcune indicazioni bibliografiche si legga Santagata 1996, p. 397.
47
218
piuttosto nota agli autori medievali: oltre che nei trovatori, la si ritrova in diversi autori
italiani, tra cui esponenti della Scuola siciliana, nonché nella Commedia.
Petrarca
Di quanto per Amor già mai soffersi, / et aggio a soffrir ancho, / fin che mi sani ‘l cor
colei che ‘l morse (canz. 29, vv 15-17)
I begli occhi ond’i’ fui percosso in guisa / ch’e’ medesmi porian saldar la piaga, / et non
già vertù d’erbe, o d’arte maga, / o di pietra dal mar nostro divisa49 (son. 75, vv 1-4)
Chi m’à ‘l fianco ferito, et chi ‘l risalda, / per cui nel cor via più che ‘n carta scrivo (canz.
105, vv 87-88)
Cagion sola et riposo de’ miei affanni50 (canz. 127, v 42)
Arde, et more, et riprende i nervi suoi, / et vive poi con la fenice51 a prova52 (canz. 135,
vv 14-15)
Non sa come Amor sana, et come ancide, / chi non sa come dolce ella sospira (son. 159,
vv 12-13)
Una man sola mi risana et punge (son. 164, v 11)
Fe’ la piaga onde, Amor, teco non tacqui, / che con quell’arme rinsaldar la poi (son. 174,
vv 7-8)
Esser pò in prima ogni impossibil cosa, / ch’altri che Morte, od ella, sani ‘l colpo /
ch’Amore co’ suoi belli occhi al cor m’impresse (son. 195, vv 12-14)
Et [la capacità di] torre l’alme a’ corpi, et darle altrui (son. 213, v 11)
Amor con tal dolcezza m’unge et punge (son. 221, v 12)
Onde e’ suol trar di lagrime tal fiume, / per accorciar del mio viver la tela / […] / Sì
profondo era et sì di larga vena / il pianger mio et sì lunge la riva / […] / Non lauro o
palma, ma tranquilla oliva / Pietà mi manda, e ‘l tempo rasserena, / e ‘l pianto asciuga, et
vuol anchor ch’i’ viva53 (son. 230, vv 5-14)
Fuor di man di colui che punge et molce (son. 363, v 9).
49
Simile riferimento all’inutilità dei medicinali sulle ferite causate dall’amore si trova nella sestina 214
(vv 19-22: “Ma, lasso, or veggio che la carne sciolta / fia di quel nodo ond’è ‘l suo maggior pregio / prima
che le medicine, antiche o nove, / saldin le piaghe ch’i’ presi in quel bosco), dove però non è riproposta
esplicitamente la funzione straordinaria di Laura o di Amore in tal senso.
50
L’immagine qui è un po’ variata, e certamente più blanda nella sua valenza ossimorica, tuttavia il
principio di fondo appare sempre il medesimo.
51
Sull’immagine della fenice in metafore e paragoni, petrarcheschi e provenzali, si tornerà nel corso del
presente capitolo.
52
È la similitudine con la fenice a introdurre il concetto di rinascita, qui riferito in realtà non tanto al
poeta in sé quanto al suo eterno desiderio per Laura. Tuttavia, la similitudine stessa e le modalità
espressive metaforiche con cui è descritta la rinascita del desiderio nei versi citati e in generale nella
sirma della stanza presentano la situazione come se si trattasse di una persona in carne ed ossa.
L’immagine della fenice si trova anche in altri quattro componimenti; in 185, 321 e 323 è associata a
Laura e non ne è rilevato lo straordinario potere di rinascita, quanto l’unicità, nella prospettiva di elogiare
iperbolicamente l’amata. La lettura di 210 è invece più complessa: la critica è stata a lungo divisa
sull’interpretazione, da cui dipende l’attribuzione dell’immagine stessa a Laura o all’io poetico. Appare
particolarmente interessante la proposta di Santagata 1996, p. 904, secondo cui la fenice sarebbe
contrapposta all’amante, che a differenza del mitico animale vede avvicinarsi la morte e non sente alcuna
speranza di rinascere. In tal caso, cioè, avremmo una radicale negazione del topos amoroso.
53
L’intero sonetto è in effetti giocato sull’opposizione morte/vita: la prima causata abitualmente dalla
durezza di madonna (soprattutto dopo la svolta in negativo di 206-207), la seconda finalmente concessa in
dono all’amante.
219
Trovatori
Sol nai de la milena part / qe mi nafret en un esagart / ab aitan m’agra gen garit / d’aqel
mal colp qe m’a ferit (Raimbaut d’Aurenga, XXIII, vv 51-54)
Car ab un doutz baizar m’aucis / si ab autre no m’es guirens; / c’atretal mes per
semblansa / com de Pelaus la lansa / que del seu colp no podi’ om garir / si autra vetzno
s’en fezes ferir54 (Bernart de Ventadorn, I, vv 43-48)
Per son joi pot malaus sanar / e per sa ira sas morir (Guglielmo IX, VIII, vv 2-26)
Qe m nafret gen al cor, ses colpo de lanssa, / ab un esgart de sos hueills amoros, / […] / e
s’ab los huoills mi fetz cortesa plaia, / ill m’en saup ben cortesamen garir / per q’ieu lo i
denoisser e grazir (Gaucelm Faidit, XI, vv 9-18)
Aisso m fai lo dolz mals corte / d’amor, q’es d’aital escarida, / que can nafra d’una
partida, / sana puois, et a m nafrat tan, / que garit m’a del mal d’antan (Gui d’Ussel, VI,
vv 36-40)
Ar ai ben d’amor apres / cum sap de son dart ferir; / mas cum pueys sap gent guerir /
enqueras no sai ieu ges (Peire Raimon de Tolosa, II, vv 1-4).
1.2.2
La condizione straordinaria dell’amante: ciclo stagionale e ritmo
giorno/notte
Un topos diffusissimo nel corpus trobadorico è quello della descrizione naturale e
soprattutto stagionale, di solito collocata in incipit55. In diverse canzoni tale
introduzione serve solo ad evocare il contesto in cui si muove l’io poetico, soprattutto se
si tratta di rappresentazioni primaverili associate implicitamente all’attività amorosa e
canora56. Nella maggior parte dei casi, comunque, viene esplicitato per lo meno il
principio secondo cui la primavera è la stagione in cui i sentimenti sbocciano, si è più
propensi ad amare e, di conseguenza, a comporre versi57. Tuttavia, in varie occasioni il
poeta nega tale assunto ed afferma di non aver alcuna voglia di cantare nonostante verdi
54
Come si è anticipato, il topos della lancia di Peleo ha una straordinaria diffusione nella lirica medievale,
rispetto alla quale ha avuto un effetto modellizzante molto evidente.
55
È notevole che tale approccio sia quasi scomparso dai testi sopravvissuti della Scuola siciliana, dove
anche solo l’evocazione paesaggistica e stagionale è ridotta al minimo.
56
Su tali rappresentazioni ci siamo già soffermati nel corso del capitolo precedente. Rispetto al confronto
con i trovatori, si legga anche la descrizione primaverile dell’alba nel sonetto 219, vv 1-4, in cui però gli
elementi fondamentali non riguardano tanto la stagione, che dunque ha la funzione di arricchire il quadro
complessivo, quanto il momento del giorno, con il ritorno del sole, e il panorama valchiusano. Va
evidenziato in particolare, come in parte già si è visto nel capitolo precedente, l’uso del gallicismo
“retentir”: per alcuni riscontri puntuali con opere provenzali si veda Santagata 1996, p. 932.
Un altro luogo interessante si trova nel sonetto 291, in cui di nuovo al posto della primavera viene
descritta l’alba quale momento dell’amore, per altro in termini che ricordano in parte l’amenità della
primavera stessa: “Quand’io veggio dal ciel scender l’Aurora / co la fronte di rose et co’ crin’ d’oro, /
Amor m’assale, ond’io mi discoloro” (vv 1-3).
L’associazione tra contesto e pensiero amoroso, infine, può delinearsi anche senza coinvolgere una
stagione precisa, ma soltanto una rappresentazione naturalistica amena, di fatto corrispondente agli
elementi topici della primavera.
57
In un caso (sestina 239) anche Petrarca ripropone tale meccanismo tradizionale; nella sestina doppia,
invece, l’accrescersi del dolore viene associato al prolungarsi del canto, secondo un’altra possibilità ben
nota già ai trovatori. Tale immagine deriva forse dal topos, trobadorico e poi petrarchesco, del canto come
sfogo dal dolore.
220
foglie e cinguettii di uccellini, o al contrario di non voler rinunciare alla poesia
nonostante il gelo. Simili risoluzioni metapoetiche sembrano il portato di un’altra e più
significativa contrapposizione: quella tra stagione ed emozioni (gioiose in inverno,
dolenti in primavera) e quindi tra comportamento comune e atteggiamento eterogeneo
dell’amante. Questo aspetto del comportamento amoroso è a sua volta convenzionale e
costituisce una variante rispetto alla più piana associazione topica tra tempo atmosferico
o cronologico e sentimento.
Entrambe le prospettive (accordo o contrapposizione tra l’io e la stagione) conoscono
una notevole diffusione nei componimenti occitanici e lasciano tracce interessanti anche
nei fragmenta, a partire dall’identificazione del momento dell’innamoramento. Certo,
esso è posto in primavera in relazione alla Pasqua, creando la complessa e simbolica
sovrapposizione tra sacro e profano, ripetutasi poi nel momento della morte di Laura, su
cui tanto la critica si è esercitata. Resta però la coincidenza tra l’aprile pasquale e la
tradizione dell’amore primaverile, che dunque viene sussunta all’interno del nuovo
sistema simbolico-concettuale58.
D’altro canto, Petrarca sviluppa l’idea della sua diversità e in fondo anormalità
dell’innamorato, reinterpretando in particolare il suo rapporto con il ciclo notte-giorno,
che risulta al contrario un motivo meno interessante per i Provenzali59. L’insistenza sui
ritmi stagionali da una parte e quelli diurni dall’altra comporta la convergenza tra due
diverse immagini convenzionali: la condizione innaturale dell’amante, nonché la
costanza del suo amore e delle sue conseguenze, in ogni tempo, in ogni stagione, ad
ogni età. Quest’ultimo aspetto è inoltre particolarmente marcato in formule ben
riconoscibili, quali “notte e giorno” “estate e inverno” e così via60; il tema della
costanza in amore, infine, si accompagna spesso all’uso dell’iperbole61.
In questa rappresentazione entra in gioco un ulteriore elemento topico: l’innamorato
infatti è convenzionalmente vittima dell’insonnia62. Di nuovo l’io poetico, petrarchesco
e provenzale, è escluso dai ritmi normali per la natura, per gli animali, per la gente
comune.
Allo scopo di distinguere meglio le diverse tipologie di immagini qui proposte ne
distingueremo quattro gruppi: 1. rappresentazione affine di stagione e stato d’animo, 2.
contrapposizione tra condizione dell’io lirico e stagione (e quindi anche rispetto agli
altri esseri viventi), 3. contrasto tra stato individuale e collettivo (espresso in modo
esplicito), 4. insonnia (come caso particolare dell’irregolarità nel ritmo sonno-veglia).
58
Oltre al sonetto 67, in cui il mese di aprile ha un valore volutamente nascosto, citano esplicitamente il
mese dell’innamoramento il sonetto 211 e la canzone 325.
59
Abbiamo anticipato tali aspetti in riferimento alle immagini stagionali e al genere dell’alba, nel corso
del secondo capitolo.
60
Tale aspetto è stato anticipato nel precedente paragrafo e sarà ulteriormente ampliato nel corso del
presente capitolo.
61
Lo si è anticipato in questo stesso capitolo.
62
In un caso, al contrario, il poeta rifiuta il sonno in quanto forma di morte che permetterebbe un
indesiderato oblio dell’amore, inteso come motivo di vita per il poeta: “Il sonno è veramente, qual uom
dice, / parente de la morte, e ‘l cor sottragge / a quel dolce penser che ‘n vita il tene” (son. 226, vv 9-11).
221
Petrarca
1.
E ‘l rosignuol63 che dolcemente all’ombra / tutte le notti si lamenta et piagne, / d’amorosi
penseri il cor ne ‘ngombra (son. 10, vv 10-12)
Là ver’ l’aurora, che sì dolce l’aura / al tempo novo suol movere i fiori, / et li augelletti
incominciar lor versi, / sì dolcemente i pensier’ dentro a l’alma / mover mi sento a chi li à
tutti in forza, / che ritornar convenmi a le mie note (sest. 239, vv 1-6)
L’acque parlan d’amore, et l’ora e i rami / et gli augelletti et i pesci e i fiori et l’erba, /
tutti inseme pregando ch’i’ sempre ami (son. 280, vv 9-11)
Amor che meco al buon tempo ti stavi / fra queste rive, a’ pensier’ nostri amiche (son.
303, vv 1-2)
Et doppiando ‘l dolor, doppia lo stile / che trae del cor sì lacrimose rime (sest. 332, vv 3940).
2.
Seguirò l’ombra di quel dolce lauro / per lo più ardente sole et per la neve / fin che
l’ultimo dì chiuda quest’occhi (sest. 30, vv 16-18)
Piacemi almen d’aver cangiato stile / dagli occhi a’ pie’, se del lor esser molli / gli altri
asciugasse un più cortese aprile64 (son. 67, vv 12-14)
In ramo fronde, over viole in terra, / mirando a la stagion che ‘l freddo perde, / et le stelle
miglior’ acquistan forza, / negli occhi ò pur le violette e ‘l verde / di ch’era nel principio
de mia guerra / Amor armato, sì ch’anchor mi sforza (canz. 127, vv 29-34)
Qualor tenera neve per li colli / dal sol percossa veggio di lontano, / come ‘l sol neve, mi
governa Amore (canz. 127, vv 43-45)
Non vidi mai dopo nocturna pioggia / gir per l’aere sereno stelle erranti, / et fiammeggiar
fra la rugiada e ‘l gielo, / ch’i’ non avesse i begli occhi davanti65 (canz. 127, vv 57-60)
Ché quando nasce et mor fior, herba et foglia, / quando è ‘l dì chiaro, et quando è notte
oscura, / piango ad ognor […] (son. 265, vv 5-7)
Zephiro torna, e ‘l bel tempo rimena66 / […] / Ma per me, lasso, tornano i più gravi /
63
L’immagine dell’usignolo, spesso connotata in chiave affettiva, è particolarmente apprezzata da
Petrarca forse per gli echi ovidiani e in generale classici che rievoca. È però significativo notare che
anche per i trovatori questo animale si distingue in diverse occasioni dall’insieme indefinito degli
uccellini, creando così un’associazione convenzionale con la realtà amorosa. Su tale immagine si tornerà
con maggiore ampiezza nel corso del presente capitolo.
64
Certamente qui Petrarca fa riferimento non al mese in sé, ma alla data e quindi all’avvenimento del suo
innamoramento per Laura. Tuttavia l’esito è ancora una volta una rivisitazione personale di un topos
largamente attestato.
65
La canzone ripropone a più riprese una peculiare associazione tra la condizione del poeta e quella della
stagione, che qui appare in un momento intermedio tra inverno e primavera. Petrarca infatti rinnova la
tradizionale configurazione trobadorica, che ritroviamo più classica nel sonetto 310, attribuendo il nesso
alla percezione individuale dell’io, che, dominato dall’amore, riconduce tutto ciò che vede nella natura
all’amata, la cui presenza si moltiplica così in tutto il paesaggio.
66
In realtà l’intero sonetto è giocato sulla contrapposizione tra stagione e stato d’animo. La novità
petrarchesca risiede in primo luogo nella motivazione del suo dolore: non più un amore infelice, ma la
morte dell’amata. A ciò si aggiunge il diffuso recupero di elementi tematici classici, soprattutto virgiliani,
al di là del topos trobadorico.
222
sospiri, che del cor profondo tragge / quella ch’al ciel se ne portò le chiavi67 (son. 310, vv
1-11)
Ma la stagione et l’ora men gradita, / col rimembrar de’ dolci anni et de li amari, / a parlar
teco con pietà m’invita (son. 353, vv 12-14).
3.
A qualunque animale alberga in terra, / se non se alquanti ch’ànno in odio il sole, / tempo
da travagliare è quanto è ‘l giorno; / ma poi che ‘l ciel accende le sue stelle, / qual torna a
casa et qual s’anida in selva / per aver posa almeno infin a l’alba. / Et io, da che comincia
la bella alba / a scuoter l’ombra intorno de la terra / svegliando gli animali in ogni selva, /
non ò mai triegua di sospir’ col sole; / poi quand’io veggio fiammeggiar le stelle / vo
lagrimando, et disiando il giorno (sest. 22, vv 1-12)
Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina / verso occidente, et che ‘l dì nostro vola / a gente
che di là forse l’aspetta, / [...] / talora [la vecchiarella] è consolata / d’alcun breve riposo,
ov’ella oblia / la noia e ‘l mal de la passata via. / Ma, lasso, ogni dolor che ‘l dì m’adduce
/ cresce qualor s’invia / per partirsi da noi l’eterna luce. (canz. 50, vv 1-14)
Come ‘l sol volge le ‘nfiammate rote / per dar luogo a la notte, onde discende / dagli
altissimi monti maggior l’ombra, / […] / [lo zappador] ogni graveza del suo petto
sgombra / […] / Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora, / ch’i’ pur non ebbi anchor, non dirò
lieta, / ma riposata un’hora, / né per volger di ciel né di pianeta. (canz. 50, vv 15-28)
Quando vede ‘l pastor calare i raggi / del gran pianeta al nido ov’egli alberga, / e ‘nbrunir
le contrade d’oriente, / […] / ivi senza pensier’ s’adagia et dorme. / Ahi crudo Amor, ma
tu allor più mi ‘nforme / a seguir d’una fera che mi strugge / la voce e i passi e l’orme
(canz. 50, vv 29-41)
Ma io, perché [il sole] s’attuffi in mezzo l’onde, / […] / et gli uomini et le donne / e ‘l
mondo et gli animali / aquetino lor mali, / fine non pongo al mio obstinato affanno (canz.
50, vv 46-52)
Veggio la sera i buoi tornare sciolti / da le campagne et da’ solcati colli: / i miei sospiri a
me perché non tolti / quando che sia? Perché no ‘l grave giogo? (canz. 50, vv 58-61)
Or che ‘l ciel et la terra e ‘l vento tace / et le fere e gli augelli il sonno affrena, / Notte il
carro stellato in giro mena / et nel suo letto il mar senz’onda giace, / vegghio, penso, ardo,
piango; et chi mi sface / sempre m’è inanzi per mia dolce pena (son. 164, vv 1-6)
Tutto ‘l dì piango; et poi la notte, quando / prendon riposo i miseri mortali, / trovomi in
pianto, et raddoppiarsi i mali: / così spendo ‘l mio tempo lacrimando (son. 216, vv 1-4)
Vien poi l’aurora, et l’aura fosca inalba, / me no: ma ‘l sol che ‘l cor m’arde et trastulla, /
quel pò solo adolcir la doglia mia (son. 223, vv 12-14)
La notte affanno, e ‘l ciel seren m’è fosco68 (son. 226, v 7)
La sera desiare, odiar l’aurora / soglion questi tranquilli et lieti amanti; / a me doppia la
sera et doglia et pianti, / la matina è per me più felice hora (son. 255, vv 1-4).
4.
Lagrima anchor non mi bagnava il petto / né rompea il sonno […] (canz. 23, vv 27-28)
67
Anche l’immagine delle chiavi del cuore, quella per aprire e quella per chiudere, è convenzionale (si
veda Santagata 1996, p. 323); curiosamente sembra mancare nel panorama occitanico.
68
Questo verso suggerisce implicitamente che la percezione del tempo cronologico e atmosferico del
poeta non è quella regolare o consueta. L’occorrenza anticipa perciò il discorso sulle priorità e i gusti
innaturali tipici di chi ama, su cui torneremo a breve.
223
Lagrime triste, et voi tutte le notti / m’accompagnate, ov’io vorrei star solo, / poi fuggite
dinanzi a la mia pace; / et voi sì pronti a darmi angoscia et duolo, / sospiri, allor traete
lenti et rotti (son. 49, vv 9-13)
Il sonno è ‘n bando, et del riposo è nulla; / ma sospiri et lamenti infin a l’alba, / et lagrime
che l’alma a li occhi invia (son. 223, vv 9-11)
O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne, / fonte se’ or di
lagrime nocturne, / che ‘l dì celate per vergogna porto (son. 234, vv 1-4)
Io non ebbi già mai tranquilla notte, / ma sospirando andai matino et sera (sest. 237, vv
13-14)
El dì pensoso, poi piango la notte; / […] / sospir’ del petto, et de li occhi escono onde / da
bagnar l’erbe, et da crollare i boschi (sest. 237, vv 20-24)
Meravigliomi ben s’alcuna volta, / mentre le parla et piange et poi l’abbraccia, / non
rompe il sonno suo, s’ella l’ascolta69 (son. 256, vv 12-14)
Le mie notti fa triste, e i giorni oscuri, / quella che n’à portato i penser’ miei (son. 291, vv
12-13)
S’esser non pò, qualchuna d’este notti / chiuda omai queste due fonti di pianto70 (sest.
332, vv 53-54)
Né da te spero mai men fere notti (sest. 332, v 57).
Trovatori
1.
Per joi qu’ai d’els e del tems / chant, mas Amors mi asauta / qui ls motz ab lo son acorda
(Arnaut Daniel, VIII, vv 7-9)
Can la verz folha s’espan / e par flors blanch’ el ramel, / per lo doutz chan del auzel / se
vai mos cors alegran (Bernart de Ventadorn, XXXVIII, vv1-4)
Era, quan vei reverdezitz / los vergiers e cobra l’estatz, / me tira l cors plu ves solatz / que
quan se desaguisa l’ans, / e l iois e l chans / dels auzels e l deportz e l critz / es m’uns
envitz / de chantar, per qu’ieu m’esbaudei (Giraut de Bornelh, LXIX, vv 1-8)
Farai chansoneta nueva / ans que vent ni gel ni plueva (Guglielmo IX, XI, vv 1-2)
Ab lo pascor m’es bel q’eu chant, / en estiu, a l’entran de mai (Cercamon, V, vv 1-2)
Er, quan renovella e gensa / estius ab fuelh’ et ab flor, / pus mi fai precx, ni l’agensa /
qu’ieu chant e m lais de dolor (Sordello, I, vv 1-6)
Mout mi platz lo doutz temp d’abril, / […] / d’un joi novel qe m’es al cor intratz, / qe m
ven d’Amor a cui mi soi donatz: / per qu’ieu farai gais motz ab son plazen, / c’atendut ai
la razon longamen (Elias Cairel, III, vv 1-9)
Pos le gais temps de pascor / renovella e ve / vestitz de fueilh e de flor / chantarai dese
(Aimeric de Belenoi, XVI, vv 1-4)
Toz m’era de chantar geqiz, / tro q’uei vei q’es l’ivernz passatz / […] / per qe m sui un
pauc alegraz (Rambertino Buvalelli, V, vv 1-6)
Belhs m’es lo dous temps amoros, / lanquan lo mons reverdezis (Arnaut de Maruelh,
XVI, vv 1-2).
69
Nel passo è implicita l’idea che lo spirito del poeta non trovi riposo durante la notte, ma si rechi
dall’amata in preda ai costanti impulsi amorosi.
70
Nella morte, però; il sonno non basta.
224
2.
Braitz, chans, quils, critz / aug dels auzels pels plaissaditz. / Oc ! Ma no los enten ni
deinh; / c’un’ira m cenh / lo cor, on dols m’a pres razitz (Raimbaut d’Aurenga, VIII, vv
1-5)
Ar resplan la flors enversa / pels trencans rancx e pels tertres, / cals flors ? Neus, gals e
conglapis71 (Raimbaut d’Aurenga, XXXIX, vv 1-3)
Belh m’es l’estius e l temps floritz, / quan l’auzelh chanton sotz la flor; / mas ieu tenc
l’iver per gensor, / quar mais de joi m’i es cobitz (Jaufré Rudel, V, vv 1-4)
Puoi nostre temps comens’a brunezir72 / e li verjan son de la fuelha blos, / […] / per joy
d’amor nos devem esbaudir (Cercamon, VI, vv 1-6)
E quant ieu cugey que l’auzelh / li fesson joy e la verders / […] / tost li fon sos afar
camjatz. / Dels huelhs ploret josta la fon (Marcabru, I, vv 10-15)
Al temps d’estiu, qan s’alegron l’ausel, / […] / mas eu no n ai d’amor si ben lo m voill, /
ni pos ni dei aver nuill alegrage (Rambertino Buvalelli, XI, vv 1-7)
Lo clar temps vei brunezir / e ls auzelletz esperdutz / […] / e ieu, que de cor cossir / per la
gensor res qu’anc fos, / tan joios / sui, qu’ades m’es vis / que fuelh’ e flor s’espandis
(Raimon Jordan, IV, vv 1-9)
Deiosta ls breus iorns e ls loncs sers, / quan la blanc’autra brunezis, / vuelh que branc e
cruelh mos sabers / d’un nou ioy que m fruich’e m floris73 (Peire d’Alvernha, XII, vv 1-4)
Car sonetz d’auzel no m pais, / ni fresca flors de vergan / lo consir del cor no m trais
(Raimon de Miravall, XIX, vv 10-12)
Cantar vuoill amorosamen, / si tut no vei fuogllia ni for, / ci freç no fai ni gel paor
(Folquet de Romans, IV, vv 1-3)
Pus l’aura freida venta e corr, / […] / qu’auzelhs non chanta em plaissat, / ni l boscs non
retin doussamen; / mas ieu ai tan lo cor jauzen, / qu’aissi l prenc ont ylh l’an laissat
(Daude de Pradas, XV, vv 2-8).
3.
Doncs mi fucilla e m floris e m fruch’Amors / el cor tan gen que la nueit me retsida /
quant autra gens dorm e pauz’e sojorna (Arnaut Daniel, V, vv 5-7)
Le gens tems de pascor / ab la frescha verdor / nos adui folh’ e flor / de diversa color, /
per que tuih amador / son gai e chantador / mas eu, que planh e plor, / cui jois non a
sabor (Bernart de Ventadorn, XXVIII, vv 1-9)
Mais enics sui de l’alba, / e l destrics que l jorn nos fai (Raimbaut de Vaqueiras, XXV, vv
10-11).
4.
Lo dormir pert, car eu lo m tolh (Bernart de Ventadorn, XLI, v 19)
De man mol lieg man dur iaser (Giraut de Bornelh, XXII, v 29)
71
Qui la percezione alterata del poeta si deve, per una volta, ad una condizione felice, che gli permette di
vedere l’inverno come se si trattasse della primavera.
72
È interessante notare che questa voce occitanica torna in Petrarca nel sonetto 223 (due volte citato nel
presente paragrafo) nell’evocare le tenebre che scendono al tramonto: “Quando ‘l sol bagna in mar
l’aurato carro, / et l’aere nostro et la mia mente imbruna” (vv 1-2). Per tali aspetti naturalistici si rimanda
ancora una volta al precedente capitolo, con particolare riferimento alle strutture incipitarie stagionali.
73
Come si nota, la contrapposizione con i ritmi regolari della natura in alcune opere trobadoriche si
propone anche in chiave positiva.
225
Qu’anc no fiu tan fort endurmitz / que no m reisides de paor (Jaufré Rudel, V, vv 17-18)
Don mos cors non dorm ni non ri (Guglielmo IX, IX, v 9)
Ni dorm ni veil, ni aug ni vei. / S’anc per amor anei veillian (Cercamon, III, vv 12-13)
Amors, per cui plaing e sospir e veill (Raimbaut de Vaqueiras, X, v 2)
E quant ieu cuich dormir trassaill (Rambertino Buvalelli, III, v 16)
La nueg el lieg vir e torney (Arnaut de Maruelh, XXIV, v 41)
Hieu velh la neug, quan deuria durmir (Raimon Jordan, XIII, v 28)
Qe jes la nuoich non puosc el lieig dormir (Gaucelm Faidit, XVII, v 39)
Qu’ieu en pert solatz e durmir (Folquet de Romans, XV, v 19).
1.3 Un’infinita dedizione
Oltre alla sofferenza, un elemento fondamentale nella caratterizzazione dei rapporti
amorosi nella lirica delle origini è la dedizione dell’io poetico alla dama. È senza dubbio
l’esito dell’ideologia amorosa cortese, che pone l’amata al di sopra del poeta –
socialmente, moralmente, ontologicamente – e a lui attribuisce il ruolo di vassallo.
Benché tale tradizione si trasformi gradualmente nel passaggio in Italia e poi in
Toscana, con il fondamentale contributo delle poetiche stilnovista e dantesca, alcuni
aspetti di fondo di quella visione permangono. Laura, esattamente come le dame
provenzali, è oggetto di una fedeltà totalizzante, che sconfina nell’adorazione. Il
frequente elogio che le viene rivolto deriva dunque non solo dalle sue qualità, ma anche
dal punto di vista dell’innamorato, che è sempre rivolto dal basso verso l’alto. Ciò non
toglie che i topoi prescelti da Petrarca per esprimere la propria devozione siano
attentamente selezionati e rinnovati. Nella produzione occitanica l’influenza della
metafora feudale è molto profonda e ne derivano alcuni motivi ben riconoscibili e molto
frequenti, come l’insistenza sugli ordini impartiti dall’amata o più di rado da Amore, o
l’esplicita ammissione di sottomissione ed obbedienza, o infine la quasi ossessiva
asserzione della propria lealtà, del proprio amore fino e non ingannevole. Tutti questi
aspetti non compaiono in modo esplicito nel Canzoniere. Non è necessario: la dedizione
del poeta viene chiaramente, benché implicitamente, suggerita nella più generale
rappresentazione del rapporto amoroso. Per delinearlo, Petrarca seleziona alcune
immagini molto forti (il servizio, il potere subito dall’innamorato, la signoria di cui egli
non può liberarsi, la paziente sopportazione, l’inchino), convenzionali e senza dubbio
già trobadoriche; le occorrenze non sono poi molto numerose, ma partecipano con
efficacia dell’intonazione generale nella storia dell’io lirico.
1.3.1
Il servizio d’amore
L’innamorato occitanico è servo e addirittura schiavo della sua dama: è un topos
radicatissimo e assai ricorrente, poiché deriva direttamente dall’ideologia feudale su cui
poggia l’amore cortese. La presenza dell’immagine si dirada nel passaggio dalla
Provenza all’Italia, via via che gli aspetti socio-politici insiti nell’amore fino perdono
226
significato; resta comunque il tradizionale disequilibrio fra le due parti della relazione
amorosa, che può essere declinato secondo prospettive e poetiche diverse.
Ciononostante, nel Canzoniere petrarchesco viene recuperato anche in modo esplicito il
concetto di servizio, efficace nel comunicare la disforia dell’amore alienante. I passi in
questione non sono molti, ma di certo molto interessanti; essi propongono ancora una
volta una varietà di sfumature e rielaborazioni. Al di là di tale molteplicità, comunque, è
chiaro che per il poeta l’atto di servire comporta sempre una rinuncia a se stesso,
un’alienazione delle proprie ragioni a favore dell’altro74.
Petrarca
Per Rachel ò servito, et non per Lia75 (canz. 206, v 55)
Servo d’Amor76, che queste rime leggi, / ben non à ‘l mondo, che ‘l mio mal pareggi
(canz. 207, vv 97-98)
Ò servito a signor crudel et scarso (son. 320, v 12)
Così ‘l mio tempo infin qui trapassato / è in fiamma e ‘n pene: et quante utili honeste / vie
sprezzai, quante feste, / per servir questo lusinghier crudele! (canz. 360, vv 16-20)
Di bon seme mal frutto / mieto; et tal merito à chi ‘ngrato serve77 (canz. 360, vv 113-114)
74
L’idea del servizio ricorre anche, in due occasioni, con accezione strettamente morale. Nel primo caso
anche il contesto non è amoroso, ma politico e polemico: nel primo dei sonetti avignonesi, 136, la città
corrotta e dunque la Curia che vi ha sede è definita “de vin serva, di lecti et di vivande” (v 7), ad indicare
la schiavitù spirituale del peccato, la dipendenza che si crea rispetto a ciò che devia dalla moralità. Il
secondo luogo interessante si trova al verso 2 del sonetto 308, dedicato (in chiave funebre) a Laura, che
viene identificata come motivo per l’abbandono della corruzione urbana, ma anche per la scelta di
permanere in Provenza, invece che in Italia: “Quella per cui con Sorga ò cangiato Arno, / con franca
povertà serve ricchezze”. Qui la servitù, benché comporti una ricaduta morale, soprattutto se il servizio
avveniva alle dipendenze di un’istituzione corrotta, implica la complessa questione della libertà morale e
fattuale dell’uomo di spirito e intelletto, nonché il problema della clientelarità, che anche dal punto di
vista biografico risulta centrale nel caso di Petrarca.
75
L’idea del servizio viene qui mutuata, a livello esplicito, dalla fonte biblica: il primo servo d’amore è
Giacobbe, che accetta una lunga sottomissione, poi reiterata, per ottenere soddisfazione del suo amore per
Rachele. Per altro in questo brano l’accezione petrarchesca ha valore soprattutto metaforico, a partire dai
significati simbolici tradizionalmente associati alle due figure femminili: l’io poetico ha dunque atteso e
penato con scopi nobili, legati all’interiorità del sentimento, e non pratici (cioè erotici). Per il significato
dell’immagine nella canzone 206 e il riuso dell’escondich si vedano il capitolo precedente e i riferimenti
bibliografici ivi presentati, in particolare Berra 2013.
Ciò non toglie, comunque, che Petrarca qui possa alludere anche alla tradizione cortese e ad un topos
tanto noto e diffuso che difficilmente poteva essere ignorato: non sarebbe certo l’unico caso nella raccolta
in cui diverse fonti vengono sovrapposte.
76
In questo caso l’io poetico non si riferisce direttamente a se stesso, ma in apostrofe ai suoi compagni di
sventura, di fatto includendosi nella definizione. È significativo che tale occorrenza si trovi proprio in
207, a stretto contatto quindi con l’immagine del servizio inclusa in 206: altrove in effetti gli innamorati,
e dunque coloro che sono sottoposti alla signoria di Amore, sono definiti piuttosto suoi “fedeli” (ff. 58,
82, 93, 143, 177, 207, 264, 332), rispecchiando in tal modo un altro topos di lunghissimo corso nella
poesia trobadorica, cioè l’affermazione accorata di sincerità ed onestà da parte del poeta, di solito alla
dama, ma spesso anche ad Amore stesso. Sulla “fede amorosa” si tornerà nel corso del presente capitolo.
77
In questo e nel passo successivo è Amore a definirsi “servo” del poeta, rovesciando completamente il
significato dell’immagine convenzionale. Tale effetto è strettamente connesso al significato della canzone
e alla scena processuale che vi viene rappresentata: dapprima è l’innamorato a dichiararsi servitore
sfruttato e maltrattato, poi Amore risponde alle accuse, insistendo sui vantaggi che la condizione amorosa
avrebbe garantito all’io lirico stesso. Tale specularità di ruoli e punti di vista mette in maggiore evidenza
227
Et per dir a l’extremo il gran servigio, / da mille acti inhonesti l’ò ritratto (canz. 360, vv
126-127).
Trovatori
Qu’al sieu servir / sui del pe tro c’al coma (Arnaut Daniel, IX, vv 33-34)
Dona, vostre domini ser (Raimbaut d’Aurenga, XXII, v 57)
Totz tems volrai sa onor e sos bes / e lh serai om et amics et servire (Bernart de
Ventadorn, XII, vv 22-23)
E car sui vostre servire / dic vos ben seguramen (Giraut de Bornelh, II, vv 19-20)
Servit aurai longamen / humils, francs, sers e leials / Amor, don ai pres grans mals (Uc de
Saint Circ, VI, vv 1-3)
Per que mos cors plus de vos no s cambia, / bella domna, de servir e d’onrar (Rigaut de
Berbezilh, VIII, vv 6-7)
Si l plagues qe qu li servis / e sivals d’aitant m’enriquis (Cercamon, II, vv 9-10)
Fals fui per amor servir (Marcabru, VII, v 15)
E quar sabetz c’al gizardon m’aten / ai perdut vos e l servir eissamen (Folchetto da
Marsiglia, V, vv 13-14)
Per q’ieu m’esfors de viur’ e de reinhar / ab joi, per leys plus coratjozamens / servir q’ieu
am […] (Sordello, II, vv 3-5)
E cel que plus la serv plus i pert (Elias Cairel, V, v 11)
[…] e qui la serf es mortz (Raimbaut de Vaqueiras, VIII, v 43)
Dons e servirs e garnirs e larguesa / noiris amors com fai l’aiga lo peis (Bertran de Born,
IV, vv 8-9)
Tostemps er jois per mi coutz e servitz (Arnaut de Maruelh, XXI, v 8)
Qu’ieu lh servirai hueimais, cossi que m an, / e serai li leials e ses enjan (Raimon Jordan,
VIII, vv 26-27)
Peire d’Alvernhe l’er cofes / tant de servir e d’orazos (Peire d’Alvernha, IX, vv 50-51)
E n vol hom nomenatius / esser de dar e de servir / e d’ardimen e de garnir (Raimon de
Miravall, IV, vv 14-16)
[…] et on plus l’ai servida / de mon poder, eu la trob plus ambriva (Peire Vidal, VII, 2728)
Per qu’eu tuz temps li serai servidors / e farai tut zo qu’a plaiser li sia (Perdigon, XIII, vv
12-13)
Ad aiso no m tenri’a dan / a lieis servir de bon talan (Guilhem Ademar, II, vv 16-17)
Car servirs tot ben autrai: / per q’eu mon leial cor ai / et aurai / totz-tems en amor servir
(Guilhem de la Tor, XI, vv 6-9)
Qar se de servir vos mesclaz / ni us donaz allegrage (Folquet de Romans, VII, vv 7-8)
Am desamatz per leis en grat servir (Arnaut Catalan, III, v 7)
Amors, per aital semblansa / soi tengutz de vos servir / que m’avetz trach de cossir
(Bertran Carbonel, VII, vv 1-3)
Ben dei ponhar d’esser adreich servire (Bartolomé Zorzi, XVII, v 22).
il problema essenziale del testo: l’amore terreno può essere positivo o ha solamente un’accezione ed esiti
negativi?
228
1.3.2
La supremazia di Amore e dell’amata sul poeta
L’attestazione più chiara del potere di cui dispongono Amore e madonna nei confronti
del poeta è l’ammissione della signoria che esercitano. Tale immagine e il lessico che la
veicola, sono strettamente legati all’origine feudale dell’amore cortese, ma si mantiene
anche in ambito italiano. La differenza sostanziale tra l’uso trobadorico e quello
petrarchesco concerne la distribuzione delle colpe: nel primo, è preminente il ruolo della
dama, nel secondo si nota una maggiore equità tra Laura e Amore78. Nella poesia
occitanica la rappresentazione dell’amata come signora è all’origine degli appellativi –
frequentissimi in apostrofe – di “domna” e “midons”, derivati dalla forma latina
“domina”, appunto “signora, padrona”. Tale uso passa alla tradizione italiana e al
linguaggio petrarchesco79; tuttavia già per i trovatori si tratta di una formula rigidamente
stilizzata più che di una metafora attiva e ciò vale a maggior ragione per il recupero
nella penisola80. Questi luoghi testimoniano quanto sia pervasiva la percezione della
superiorità della figura femminile rispetto all’io lirico.
Petrarca
Sì mi governa81 il velo82 (bal. 11, v 12)
E dicea meco: Se costei mi spetra, / nulla vita mi fia noiosa o trista; / a farmi lagrimar,
signor mio, riedi (canz. 23, vv 84-86)
Questi poser silentio al signor mio, / che per me vi pregava, ond’ei si tacque (son. 46, vv
9-10)
Lasso, che mal accorto fui da prima / nel giorno ch’a ferir mi venne Amore, / ch’a passo a
passo è poi fatto signore / de la mia vita, et posto in su la cima (son. 65, vv 1-4)
Non gravi al mio signor perch’io il ripreghi / di dir libero un dì tra l’erba e i fiori (canz.
70, vv 8-9)
Così vedess’io fiso / come Amor dolcemente gli governa (canz. 73, vv 70-71)
Questi son que’ begli occhi che l’imprese / del mio signor victoriose fanno / in ogni parte,
et più sovra ‘l mio fianco (son. 75, vv 9-11)
L’aura soave a cui governo et vela / commisi entrando a l’amorosa vita (sest. 80, vv 7-8)
78
Alla signoria di Amore e madonna, va accostata anche quella del desiderio, citata da Petrarca in due
occorrenze: “Et poi che ‘l fren per forza a sé raccoglie, / i’ mi rimango in signoria di lui” (son. 6, vv 910); “Quando ‘l voler che con duo sproni ardenti, / et con duro fren, mi mena et regge” (son. 147, vv 1-2).
Nel sonetto 211 si parla invece di “signoria dei sensi”: “regnano i sensi, et la ragion è morta” (v 7). In un
caso invece Petrarca recupera il topos luttuoso della signoria della Morte personificata: “ché in dee non
credev’io regnasse Morte” (son. 311, v 8). In un solo caso si dice che la ragione regna, cioè nella canzone
360, dove appare in veste di giudice (“Quel’antiquo mio dolce empio signore / fatto citar dinanzi a la
reina / che la parte divina / tien di nostra natura e ‘n cima sede”, vv 1-4); alla conclusione del
componimento, però, la ragione non rifiuta l’amore terreno e ciò ricorda per certi aspetti i numerosi brani
in cui il poeta ne dichiara la morte. Sulla questione si tornerà comunque in modo più dettagliato.
79
Ad esempio: “Ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro” (son. 3, v 4).
80
Per tale ragione non consideriamo tali occorrenze in questa sede, con l’eccezione di alcuni luoghi in cui
l’etimologia latina è particolarmente percepibile, tanto da suggerire di parafrasare il testo in modo
esplicito con la forma “signora”.
81
Proponiamo le occorrenze di “governare” e “governo” solo quando sottintendano, in chiave metaforica,
l’area semantica della politica e del regno. Escludiamo quindi la sfera nautica.
82
E cioè Laura.
229
Amor regge suo imperio senza spada (canz. 105, v 11)
[…] In questi pensier’, lasso, / nocte et dì tiemmi il signor nostro Amore (son. 112, vv 1314)
Amor ne l’alma, ov’ella signoreggia, / raccese ‘l foco, et spense la paura (son. 113, vv 1213)
In mezzo di duo amanti honesta altera / vidi una donna, et quel signor co lei / che fra gli
uomini regna et fra li dei (son. 113, vv 1-3)
Or vedi, Amor, che giovenetta donna / tuo regno sprezza, et del mio mal non cura (mad.
121, vv 1-3)
Qual [fiore], con un vago errore / girando, parea dir: Qui regna Amore (canz. 126, vv 5152)
Come ‘l sol neve, mi governa Amore (canz. 127, v 45)
Amor, che nel penser mio vive et regna / e ‘l suo seggio maggior nel mio cor tene (son.
140, vv 1-2)
Piangea madonna, e ‘l mio signor ch’i’ fossi / volse a vederla, et suoi lamenti udire (son.
155, vv 5-6)
Così dunque fa’ tu: ch’i’ veggio exclusa / ogni altra aita, e ‘l fuggir val niente / dinanzi a
l’ali che ‘l signor nostro usa (son. 179, vv 12-14)
Amor, et vo’ ben dirti, / disconvensi a signor l’esser sì parco (canz. 207,vv 61-62)
Amor par ch’a l’orecchie mi favelle, / dicendo: Quanto questa in terra appare, / fia ‘l
viver bello; et poi ‘l vedrem turbare, / perir vertuti, e ‘l mio regno con elle (son. 218, vv
5-8)
Onde, a chi nel mio cor siede monarcha, / sono importuno assai più ch’i’ non soglio83
(son. 235, vv 3-4)
Ora né ‘l mio signor né le sue note / né ‘l pianger mio né i preghi pon far Laura / trarre o
di vita o di martir quest’alma (sest. 239, vv 22-24)
L’alto signor dinanzi a cui non vale / nasconder né fuggir, né far difesa (son. 241, vv 1-2)
Or al tuo richiamar venir non degno, / ché segnoria non ài fuor del tuo regno (canz. 270,
vv 29-30)
Gli animi ch’al tuo regno il cielo inchina / leghi ora in uno et ora in altro modo (canz.
270, vv 91-92)
Indi mi signoreggia, indi mi sforza (son. 278, vv 6)
Ò servito signor crudele et scarso (son. 320, v 12)
Or ài fatto l’extremo di tua possa, / o crudel Morte; or ài ‘l regno d’Amore / impoverito
[…] (son. 326, vv 1-3)
Non à ‘l regno d’Amor sì vario stile (sest. 332, v 35)
Vedeva a la sua ombra honestamente / il mio signor sedersi et la mia dea (son. 337, vv 78)
Sì ch’elli è vinto nel suo regno Amore (son. 340, v 11)
Del cibo inde ‘l signor mio sempre abonda (son. 342, v 1)
Dammi, signor, che ‘l mio dir giunga al segno84 (son. 354, v 5)
Quel’antiquo mio dolce empio signore (canz. 360, v 1)
Per inganni et per forza è fatto donno / sovra miei spirti […] (canz. 360, vv 65-66).
83
Qui il poeta si riferisce all’amata.
È interessante che al verso precedente si parlasse del regno celeste. Di queste forme di sincretismo si
discuterà nel corso del presente capitolo.
84
230
Trovatori
De midonz fatz dompn’e seignor (Raimbaut d’Aurenga, XXVII, v 25)
E s’eu am so que no m deu eschazer, / forse d’amor m’i fai far vassalatge (Bernart de
Ventadorn, XLII, vv 13-14)
Mas d’aqesta serai comanz, / tan voil sa seignojria85 (Giraut de Bornelh, XLII, vv 60-61)
Tan aves de conoissensa / per que us fan seingnor / amors, jovenz ab onor / e us portan
hobediensa (Rigaut de Berbezilh, VI, vv 19-22)
E pus ilh a de pretz la senhoria, / e de beutat part totas las plazeus, / non dey passar en re
sos mandamens (Bertran d’Alamanon, IV, vv 5-7)
A veritat seignoreia (Marcabru, XXXVII, v 28)
S’ieu muor, q’en patz ai sofert chascun dia, / puois anc fui natz, la vostra seignoria (Elias
Cairel, XII, vv 21-22)
Belhs Cavaliers, tant es car / lo vostr onratz senhoratges (Raimbaut de Vaqueiras, XVI,
vv 41-42)
Midonz, qui sobra m seignoreia / tant que per pauc no m fai follir (Rambertino Buvalelli,
IV, vv 19-20)
Rics e ioios en vostra seignoria (Aimeric de Belenoi, IX, v 18)
Ar ai senhor ab cui no m val merces (Monje de Montaudon, I, v 8)
Per qu’ieu tenc car lo vostre senhoratge (Raimon Jordan, XI, v 8)
C’aital es sos seynorius ! (Raimon de Miravall, IV, v 5)
Mas mi platz tan vostre rics senhorius, / que quant aug dir de vos bonas lauzors, / aissi
m’es gaugz e deleitz e sabors (Peire Vidal, IV, vv 8-10)
Tro m pres en son seignoratge (Gaucelm Faidit, XVI, v 13)
Qu’autra ricor / no i an ni senhoratge; / que pois domna s’avé / d’amar, prejar deu be /
cavalier, s’en lui ve / poez’ e vassalatge (Castelloza, II, vv 49-54)
Membre us, dompna, qan mi detz seignoriu (Guilhem Ademar, I, v 15)
Tant ai mon core l sieu bel seignoratge (Cadenet, XVIII, v 11)
Per q’ieu el sieu seignoratge / remaing tot vencudamen (Peire Raimon de Tolosa, IV, vv
52-53)
Eu non quier / partir de sa senhoria (Bartolomé Zorzi, IV, vv 83-84)
Ab franc vol et ab cor humil / soi totz sotz sa seingnoria, / ni ai cor qu’eu me n desapil, /
si m dures mil anz ma via (Lanfranco Cigala, I, vv 51-54)
Ni m stau aclin vers autre seingnoratge (Guilhem de Cabestanh, VII, v 28).
1.3.3
L’amante non ha potere su se stesso
Un’altra espressione profondamente convenzionale è quella che veicola l’attribuzione
del potere nella coppia. Il ruolo dominante è sempre della dama – soprattutto nei
componimenti occitanici – o di Amore, mentre al poeta non resta che ammettere di non
aver controllo su se stesso. Egli si trova del tutto spossessato della propria volontà. Per
quanto il significato sia in sostanza il medesimo, le occorrenze petrarchesche, meno
numerose, dimostrano maggiore creatività, variando molto il lessico, la situazione, le
85
È significativo che Giraut usi anche il senhal di “Mon Seinher”, ad esempio nella canzone 18, per
indicare la dama.
231
scelte a livello di metafore86. Al contrario, il panorama trobadorico appare molto più
uniforme. I Siciliani recuperano molto da vicino l’esempio provenzale, selezionando
ulteriormente la scelta dei predicati, ridotti a tre sole forme, già presenti in ambito
occitanico, ma inserite in un quadro lessicale un po’ più ampio87. La molteplicità delle
soluzioni petrarchesche si conferma un’innovazione del Canzoniere.
Petrarca
Lo qual in forza altrui presso a l’extremo / riman legato con maggior catena (son. 8, vv
13-14)
Ché tèn di me quel d’entro, et io la scorza (canz. 23, v 20)
Sì bella com’è questa che mi spoglia / d’arbitrio […] (canz. 29, vv 4-5)
Amor, tu che’ pensier’ nostri dispense (son. 48, v 5)
Là ‘ve dì et notte stammi / adosso, col poder ch’à in voi raccolto (canz. 71, vv 55-56)
Non me n’avidi, lasso, se non quando / fui in lor forza […] (son. 76, vv 4-5)
Fuggendo la pregione ove Amor m’ebbe / molt’anni a far di me quel ch’a lui parve (son.
89, vv 1-2)
Poi di man mi ti tolse altro lavoro; / ma già ti raggiuns’io mentre fuggivi (son. 93, vv 7-8)
Ora a posta d’altrui conven che vada / l’anima che peccò sol una volta (son. 96, vv 13-14)
Che ‘l mio adversario con mirabil arte / vago fra i rami ovunque vuol m’adduce (son.
107, vv 13-14)
Come puoi tanto in me, s’io nol consento? (son. 132, v 8)
Mi trovo in alto mar senza governo88 (son. 132, v 11)
Fanno poi gli occhi suoi mio penser vano / perch’ogni mia fortuna, ogni mia sorte, / mio
ben, mio male, et mia vita, et mia morte, / quei che solo il pò far, l’à posto in mano (son.
170, vv 5-8)
Ov’è colei che mia vita ebbe in mano? (son. 299, v 12)
Ogni giorno mi par più di mill’anni / ch’i’ segua la mia fida et cara duce89 (son. 357, vv
1-2)
Fuor di man di colui che punge et molce (son. 363, v 9)
Trovatori
Non ai poder ni cor que m vir’aillors (Arnaut Daniel, V, v 12)
86
All’idea del potere altrui cui l’io poetico è sottomesso si può associare un’altra immagine topica,
assente nella produzione occitanica, ma ben attestata in quella italiana, cioè quella delle chiavi del cuore,
per cui si vedano i ff. 11, 17, 29, 63, 37, 63, 72, 91, 105, 143, 155, 275, 310. Possiamo ricordare infine
anche l’immagine delle chiavi della ragione, che rimandano sempre all’idea del controllo su di sé e sulla
propria volontà (ff. 76 e 105).
87
“Comandare”, “avere in balia”, “avere in podestà/potere”. Per il topos si veda Menichetti 1965, p. 67,
per l’uso siciliano Ravera 2013, p. 210.
88
Cioè senza il controllo del poeta stesso.
89
Più in generale, è ben attestata nel Canzoniere l’immagine di Laura o talvolta di Amore come guida del
poeta. Tale possibilità non è del tutto sconosciuta ai trovatori, ma certamente non altrettanto diffusa. Si
vedano in particolare i ff. 73, 129, 135, 139, 163, 211, 306 (Amore) e 119, 142, 160, 270, 277, 316, 357,
358, 366 (la figura femminile, prima Laura e poi la Vergine).
232
Ses cor viu, car ab me no l’ai, / qu’il l’a en baillia!90 (Giraut de Bornelh, X, vv 23-24)
E l’us segneir es Amors, q’en baillia / ten mon fin cor e mon fis pessamen (Uc de Saint
Circ, II, vv 5-6)
C’aissi m’a tot amors en sa baillia (Rigaut de Berbezilh, VIII, v 33)
Car en vostra mantenenssa / me mis, Amors, franchament (Folchetto da Marsiglia, XII,
vv 10-11)
Per q’en vostra merce sui datz / a totz vostres manz obezir (Sordello, V, vv 19-20)
Tant que dompna m tengues / del tot en son poder (Raimbaut de Vaqueiras, XIV, vv 3-4)
S’ieu fos aissi segner ni poderos / de mi meteis, qe no m tengues amors / ni m’agues si
del tot en son poder (Bertran de Born, XXXV, vv 1-3)
De mi que sui totz el vostre poder (Arnaut de Maruelh, VII, v 25)
Sui remanzutz, domn’, en vostre poder (Raimon Jordan, I, v 5)
Ans plus temens c’us tos / soi lai on es poders (Raimon de Miravall, XIV, vv 45-46)
Quant un hom es en autrui poder, / no pot totz sos talans complir, / ans l’aven soven a
giquir / per l’autrui grat los eu voler. / Donc pos en poder me sui mes / d’Amor, segrai los
mals e ls bes (Peire Vidal, XXXIX, vv 1-6)
Qu’il m’a conques e m ten en sa bailia (Perdigon, XIII, v 5)
Lonjamen m’a trebalhat e malmes / sens nulh repaus Amors en son poder (Aimeric de
Peguilhan, XXXIII, vv 1-2)
Car ieu mezeis m’anei metre cochos / en tal poder don era m vau plaignen (Gaucelm
Faidit, XIII, vv 4-5)
E ma vida el sieu poder (Guilhem de la Tor, XII, v 9)
Mas q’al seu coman / sui e serai derenan (Peire Raimon de Tolosa, VIII, vv 27-28)
[…] mi ten en cura / et en poder, e dey la obezir (Bertran Carbonel, VI, vv 38-39)
Qu’il m’ac mes en sa bailia (Bartolomé Zorzi, IV, v 81).
1.3.4
Appartenere all’amata
L’esito ultimo di tale generalizzata sottomissione è l’ammissione di appartenere ad
un’altra persona, per lo più l’amata. Mentre nelle opere provenzali il concetto è molto
diffuso, in Petrarca i luoghi in cui esso sia esplicitato sono solo tre. D’altronde è l’intera
raccolta, nell’insistenza sulla pervasività e sulla costanza dell’amore, al di là delle
singole immagini che le esprimono, a comunicare a più riprese questo stesso concetto.
Petrarca
Non son mio, no. S’io moro, il danno è vostro (canz. 23, v 100)
Per voi conven ch’io arda, e ‘n voi respire, / ch’i’ pur fui vostro; et se di voi son privo, /
via men d’ogni sventura altra mi dole (son. 267, vv 9-11)
Poi che suo fui non ebbi hora tranquilla, / né spero aver […] (canz. 360, vv 61-62).
90
In questo caso specifico ad essere in potere dell’amata è il cuore del poeta che tra l’altro, secondo la
convenzione, anche fisicamente non si trova presso il poeta, ma con l’amata. Per il topos della
separazione cuore/corpo e per il legame tra il cuore del poeta e l’amata, si veda oltre in questo capitolo.
233
Trovatori
Preiatz liei don m’amors no s tol / qu’en aia merce cum del son (Arnaut Daniel, VI, vv
31-32)
Domna vostre sui e serai (Bernart de Ventadorn, XXXIII, v 29)
Mas tan sui sieus, si per sieu mi tengues, / puois fezes en cum del sieu a sa guia (Uc de
Saint Circ, VII, vv 23-24)
Que vostre sui e per vostre m respon (Rigaut de Berbezilh, VIII, v 26)
C’aissi soi sieus con esser dei (Cercamon, III, v 30)
Sieus seria, si m volia, sens bauzia e ses error (Marcabru, XXIV, v 15)
E m tenc per sieu en tot bon covinen91 (Elias Cairel, XIV, v 9)
Car vostre sui e per vostre m’autrei (Arnaut de Maruelh, XII, v 25)
Vostre sui hieu aissi ses tot enguan (Raimon Jordan, VI, v 23)
Car il m’a tot, c’autra no m dejna ges (Raimon de Miravall, V, v 16)
Per qu’eu sui seus e serai tan quan viva (Peire Vidal, VII, v 35)
Mas quar sui del tot sieus, / mielha que d’autrui ni mieus, / m’es plus grau quar m’auci
(Aimeric de Peguilhan, XLIX, vv 5-7)
Suy sieus, ses tot enjan (Gaucelm Faidit, XXXIV, v 49)
Quar sieus suy per vendr’e per dar (Guilhem Ademar, IV, v 55)
Bona dompna, mas vostr’om so / qu’autre no us me pot guerentir (Folquet de Romans,
XV, vv 9-10)
A vos mi do, ab voler tota via (Bertran Carbonel, III, v 18)
Que m tengues per sieu, assatz / for mos dezirs complitz (Guiraut Riquier, XIII, vv 1415).
1.3.5
Rendersi all’amata
Per precisare l’idea di dedizione, si tenga conto anche di un altro topos, diffusissimo in
area occitanica, che nel Canzoniere è attestato solo in due, significative, occorrenze: la
resa di sé e delle proprie “armi”, dovuta alle sofferenze amorose. Un concetto molto
simile è veicolato dall’idea di “donarsi” all’amata: una sola occorrenza esplicita in
Petrarca, numerose invece in ambito occitanico.
Petrarca
Mille fiate, o dolce mia guerrera, / per aver co’ begli occhi vostri pace / v’aggio proferto
il cor; ma voi non piace / mirar sì basso colla mente altera (son. 21, vv 1-4)
S’i’ ‘l dissi, il dir s’innaspri, che s’udia / sì dolce allor che vinto mi rendei (canz. 206, vv
30-31)
Or, lasso, alzo la mano, et l’arme rendo / a l’empia et violenta mia fortuna (canz. 331, vv
7-8).
91
In questo caso, però, il poeta si riferisce ad Amore e non alla dama.
234
Trovatori
Ans franchamen / li m ren (Arnaut Daniel, VII, vv 63-64)
Pero totz fis mas juntas a li m rendi (Arnaut Daniel, XII, v 38)
Ors ni leos non etz vos ges / que m aucizatz s’a vos me ren (Bernart de Ventadorn, XXXI,
vv 55-56)
Covenra c’al sue sejn rejn (Giraut de Bornelh, XXIV, v 23)
Qu’ans mi rent a lieys e m liure (Guglielmo IX, XI, v 7)
A cui mi suy de leyal cor rendutz (Bertran d’Alamanon, IV, v 3)
A vos mi ren, pros dona cui ador (Folchetto da Marsiglia, XVII, v 46)
A cuy m’autrey e m ren e m do (Sordello, IV, v 4)
Dauna, io mi rent a bos (Raimbaut de Vaqueiras, XVI, v 25)
M’ant si conquis c’ad autra no m puosc rendre (Arnaut de Maruelh, XV, v 24)
A lieis mi do, liges, ses tot reguart (Raimon Jordan, XIII, v 20)
Per zo m son eu del tot a leis rendutz (Raimon de Miravall, V, v 29)
Bona domna, si us platz, a vos mi ren (Peire Vidal, X, v 65)
A lei m’autrei e m rent e m do (Gaucelm Faidit, V, v 51)
Qu’en vostre mercé m metrai (Azalais de Porcairagues, I, v 38)
Per q’ieu li m ren (Folquet de Romans, V, v 10)
Per so car fis ab fin cor finame / li m sui rendutz, si tot ben no m’acoil (Peire Raimon de
Tolosa, V, vv 4-5)
E quar me suy a lieys donatz (Guiraut Riquier, IV, v 28)
A vos mi ren, qu’a mi dons mi rendatz (Daude de Pradas, XVI, v 39).
1.3.6
Colori d’Amore
Amore lascia un segno visibile sul volto di chi entra a far parte della sua schiera: colori
ben riconoscibili. Sia nel Canzoniere92 sia nei Provenzali le occorrenze non sono
numerose, ma il confronto con gli antecedenti trobadorici chiarisce la matrice
convenzionale del concetto. Si tratta di un’interessante variazione di un altro topos,
ancor più radicato: tradizionalmente, il colore degli amanti (nonché quello della morte,
secondo un’associazione a sua volta convenzionale) è il bianco, ad indicare il pallore.
Petrarca
Et io ne prego Amore, et quella sorda / che mi lassò de’ suoi color’ depinto (son. 36, vv
12-13)
Volgendo gli occhi al mio novo colore / che fa di morte rimembrar la gente (bal. 63, vv 12)
Vedete ben quanti color’ depigne / Amor sovente in mezzo del mio volto (canz. 71, vv
52-53)
Quando sarai del mio colore accorto (son. 76, v 12)
92
Ad esse vanno aggiunti gli altri riferimenti al colore che arricchiscono la rappresentazione di Laura o
della situazione amorosa (ff. 9, 36, 46, 71, 102, 125, 127). Ancora diverso, infine, l’uso in 125, dove il
poeta si riferisce ai “colori retorici”.
235
Sì come i miei seguaci discoloro (son. 93, 3)
Quinci in duo volti un color morto appare (son. 94, v 9)
Amor m’assale, ond’io mi discoloro (son. 291, v 3)
Talor mi trema ‘l cor d’un dolce gelo / udendo lei per ch’io mi discoloro (son. 362, vv 56).
Trovatori
E l vis s’en dezacolora (Bernart de Ventadorn, III, v 58)
C’amors s’embria / lai on conois son par, / blancha e floria / e presta de granar (Marcabru,
XXXII, vv 64-67)
Colors d’autras beutatz (Arnaut de Maruelh, XI, v 41)
Camjant mais de mil colors (Bonifaci Calvo, I, v 12).
1.3.7
Gesti che esprimono la subordinazione e la devozione
Un chiaro segno della sottomissione dell’innamorato nei confronti della sua amata è la
disponibilità a prostrarsi ai suoi piedi. I trovatori propongono un’immagine singolare,
anche per la sua ricorrenza in componimenti e contesti diversi: l’io poetico, spesso a
suggello di profferte di fedeltà e dedizione, si inginocchia di fronte alla dama e giunge
le mani in atto di preghiera. La scena ha in effetti un sapore religioso (potremmo dire,
un po’ blasfemo)93, cui si sovrappongono reminiscenze feudali: il vassallo d’amore si
prostra ai piedi della sua signora, a seconda dei casi implorando perdono, aiuto o un
accordo amoroso.
L’analisi del Canzoniere rivela la presenza di un’immagine corrispondente e al
medesimo tempo diversa. Anche l’io lirico petrarchesco si dichiara pronto a manifestare
fisicamente la propria subordinazione a Laura, ma invece di “inginocchiarsi” egli dice
“inchinarsi”94. La scelta lessicale sembra in parte dovuta al rispetto per la sfera
religiosa: infatti, solo in due dei luoghi in cui l’atto di devozione è rivolto a Dio o alla
Vergine (canzoni 28 e 366) Petrarca recupera il dettaglio delle ginocchia. In un terzo
caso, all’interno della seconda similitudine con cui si apre il sonetto 226, il poeta
attribuisce alla gratitudine verso Dio un inchino che giunge sino a terra. Quest’ultima
indicazione, d’altronde, si ripropone anche in riferimento a Laura; più in generale nella
raccolta non mancano numerose altre sovrapposizioni di elementi sacri e profani, che in
parte si riscontrano proprio nei luoghi in cui ricorre l’immagine dell’inchino (sonetto
228)95.
Possiamo inoltre ipotizzare che nel cambiamento lessicale sia coinvolto il riferimento ad
un diverso contesto storico-sociale: non più l’ambiente feudale, le cui metafore
93
Della mescolanza e sovrapposizione di elementi sacri e profani si tratterà con maggior
approfondimento nel corso del presente capitolo.
94
Tale forma è presente nel Canzoniere anche in luoghi diversi, in cui assume il più generico senso di
abbassarsi, chinarsi, ad esempio in riferimento allo sguardo.
95
Anche l’analisi di tale aspetto compositivo consente un’interessante confronto tra Petrarca e trovatori e
sarà materia del presente capitolo.
236
pertengono all’opera petrarchesca in modo limitato e molto stilizzato, ma quello
cortigiano pre-umanistico.
Dal punto di vista della vicenda amorosa, comunque, il concetto non cambia nel
passaggio dalla Provenza all’Italia, e rivela un ulteriore spazio di riuso autonomo delle
modalità espressive convenzionali.
Petrarca
Non la tocchar; ma reverente ai piedi / le di’ ch’io sarò là tosto ch’io possa (canz. 37, vv
118-119)
Ratto inchinai la fronte vergognosa96 (canz. 119, v 65)
Fuggo ove ‘l gran desio mi sprona e ‘nchina (son. 151, v 4)
L’andar celeste, e ‘l vago spirto ardente, / ch’ogni dur rompe et ogni altezza inchina97
(son. 213, vv 7-8)
Tal la mi trovo al petto, ove ch’i’ sia, / felice incarco; et con preghiere honeste / l’adoro e
‘nchino come cosa santa (son. 228, vv 12-14)
Gli animi ch’al tuo regno il cielo inchina / leghi ora in uno et ora in altro modo (canz.
270, vv 91-92)
Menami al suo Signor: allor m’inchino, / pregando humilemente che consenta / ch’i’ stia
a veder et l’uno et l’altro volto (son. 362, vv 9-11).
Trovatori
Li dei totz temps estar als pes (Raimbaut d’Aurenga, VI, v 42)
A genolhs e umilians (Bernart de Ventadorn, XXVI, v 34)
Estiers no m sai vas sas armas deffendre / mas ab merce, que tan li suis aclis98 / qui non es
jois ni autre paradis (Rigaut de Berbezilh, V, vv 5-7)
Ja de sos pes no m partira (Cercamon, II, v 22)
Mas iongz, aclis, per far tot son coman (Folchetto da Marsiglia, XX, v 24)
De sol aitan mi tengr’ieu per paguatz: / que l vengues, mas jontas, denan, / e l mostres, de
ginolhs ploran, / cum suy sieus endomenjatz (Alegret, I, vv 25-28)
Q’eu degra estar totz temps de genoillos / a vostre pes, tro que fos franchamen
(Rambertino Buvalelli, VII, vv 45-46)
Qu’al sieu pays / estau aclis / mos mas ionhs ambedos (Aimeric de Belenoi, IV, vv 31-33)
[…] ves cuy ieu sui aclis (Arnaut de Maruelh, XVI, v 24)
Qu’ie lh serai homs et aclis (Raimon Jordan, VII, v 49)
Vengues ves lieis de ginolhos / e li disses un mot amoros (Peire d’Alvernha, IX, vv 2728)
96
In questo caso è sufficiente parafrasare il termine “inchinarsi” con un generico “abbassai”; tuttavia è
interessante come il contesto della canzone, in cui il poeta dialoga e si confronta con la Gloria, suggerisca
un’accezione particolarmente rispettosa ed ossequiosa dell’immagine.
97
Anche in questo brano alla lettera “inchinare” significa “piegare”: si tratta però dell’effetto dell’amata e
della sua natura fuori dall’ordinario che determina anche la subordinazione del poeta.
98
Questa formula torna spessissimo nelle canzoni trobadoriche, oscillando tra l’immagine più articolata
dell’inginocchiarsi e l’idea astratta della sottomissione.
237
C’adobatz li sui del rendre, / mas juntas e de genolhos (Raimon de Miravall, XXVIII, vv
35-36)
Si, per merces, merce ill quier mercejan, / e de genoils, mas jonhtas et aclis (Gaucelm
Faidit, VI, vv 29-30)
Anz ditz chascus, qan vol prejar, / mans jointas e de genolos (Gui d’Ussel, XV, vv 35-36)
Car ieu no il sui denan, / mans joingz, aclis, per far tot son coman (Folquet de Romans,
XVI, vv 23-24)
Gran talent ai cum pogues / de ginols ves lieys venir, / de tan luenh cum hom cauzir / la
poiria que l vengues, / mas iuntas, far homenes (Peire Raimon de Tolosa, II, vv 17-21)
Soplei vas vos, cui ieu am et açor (Peire Bremon Ricas Novas, XII, v 19)
Que’s rend’a vos mas joynhz, de ginolhs (Guilhem Peire de Cazals, I, v 30)
Lai joing mas mans e lai estau aclis (Peirol, XXII, v 10).
1.3.8
Una paziente attesa
Tema frequentissimo nei componimenti occitanici è quello della sopportazione e
dell’attesa: anche dal punto di vista lessicale99, i due aspetti sono strettamente legati,
addirittura sovrapposti. Si tratta di un motivo rilevante, poiché contribuisce a veicolare
alcuni principi essenziali dell’amore cortese. Attraverso l’attesa ed una strenua
resistenza al dolore, il paziente vassallo d’amore garantisce che il processo di
miglioramento interiore, fine ultimo dell’amore fine, sia efficace. D’altro canto, l’unico
possibile stato d’animo che consenta all’io poetico di affrontare a lungo un rapporto
amoroso per sua natura privo di sbocchi ed illegittimo è proprio la sopportazione.
Talvolta, infine, il poeta si dichiara convinto di poter ottenere grandi soddisfazioni
dall’amata dimostrandosi capace di sopportare100. Nel Canzoniere, l’idea di attesa o
quella di sopportazione, ben riconoscibili anche se non molto frequenti, presentano
declinazioni molteplici. Una prima variante rispetto al topos provenzale deriva dalla
morte di Laura, che determina uno spostamento della prospettiva dell’attesa da una
soddisfazione contingente a un ricongiungimento ultramondano. Un secondo passaggio
è quello alla vita morale e cristiana, per tramite della stessa Laura, che nella sua
beatificazione celeste costituisce un esempio formativo.
Tali aspetti, infine, sono perfettamente coerenti con un fattore cardine nella moralità
cortese e come tali già tipici della lirica trobadorica: la moderazione o misura, termine
che nei Provenzali ritorna con altissima frequenza101.
99
Come si vedrà leggendo i testi, entrambi questi aspetti sono espressi attraverso il predicato “sofferir”;
anche nell’uso italiano rimane tale sfumatura, al di là del significato già presente e poi moderno di
“dolersi”; altra forma frequente, che identifica in modo più specifico l’idea dell’attesa, è “aten”, cui si
aggiungono numerose varianti grafiche e diversi derivati.
100
Tale principio viene recuperato ed anzi ampliato (anche a livello di scelte lessicali) in ambito siciliano,
anche perché si adatta all’atteggiamento tipico dell’amante (per tale questione si veda Ravera 2013).
101
Anche in Petrarca ricorre il termine “misura”, ma mentre nei trovatori l’obiettivo principale è
ricordare, anche nella passione amorosa, l’importanza di non perdere di vista il modello di un corretto
comportamento, nel Canzoniere è tendenzialmente uno strumento per comunicare proprio l’infrazione
della norma, l’eccesso e quindi l’errore del desiderio o degli atteggiamenti ad esso ispirati. Si vedano in
particolare la canzone 71 (“misurata allegrezza / non avria ‘l cor […],”, vv 64-65), il sonetto 90 (“e ‘l
238
Petrarca
Non ò tanti capelli in queste chiome / quanti vorrei quel giorno attender anni102 (sest. 30,
vv 11-12)
Mie venture al venir son tarde et pigre, / la speme incerta, e ‘l desir monta et cresce, /
onde e ‘l lassare et l’aspectar m’incresce (son. 57, vv 1-3)
Io son de l’aspectar omai sì vinto, / et de la lunga guerra de’ sospiri (son. 96, vv 1-2)
Quella ch’amare et sofferir ne ‘nsegna / e vol che ‘l gran desio, l’accesa spene, / ragion,
vergogna et reverenza affrene (son. 140, vv 5-7)
Alma, non ti lagnar, ma soffra et taci, / et tempra il dolce amaro, che n’à offeso, / col
dolce honor che d’amar quella ài preso (son. 205, vv 5-7)
Così di ben amar porto tormento103 (canz. 207, v 79)
Indi et mansuetudine et durezza / et atti feri, et humili et cortesi, / porto egualmente, né
me gravan pesi (son. 229, vv 5-7)
Perché mai veder lei / di qua non spero, et l’aspettar m’è noia (canz. 268, vv 7-8)
E ‘l rimembrare et l’aspettar m’accora, / or quinci or quindi104 […] (son. 272, vv 5-6)
Ciò che s’indugia è proprio per mio damno (son. 278, v 12)
Ch’alfine vinta fu quell’infinita / mia patientia, e ‘n odio ebbi la vita (canz. 360, vv 1415)
Responde: - Egli è ben fermo il tuo destino; et per tardar anchor vent’anni o trenta, / parrà
a te troppo, et non fia però molto. (son. 362, vv 12-14)105.
vago lume oltra misura ardea”, v 3), il sonetto 154 (“tanta negli occhi bei for di misura / par ch’Amore et
dolcezza et gratia piova”, vv 7-8).
102
In realtà tutta la sestina 30 è dedicata al senso di attesa, di un amore senza scampo che si prolunga nel
tempo a prescidere dai cambiamenti soggettivi nel poeta o da quelli oggettivi nel contesto che lo circonda.
Sono tutti aspetti coerenti con l’indicazione conclusiva relativa al settimo anniversario, che rimanda, data
la scelta del numero simbolico, al servizio di Giacobbe per il padre di Lia e Rachele. Qui il rimando
biblico rimane implicito; appare però essenziale anche la matrice trobadorica (su questo aspetto si tornerà
con ampiezza nel capitolo successivo). Nella conclusione di 206, di cui si è trattato in precedenza, è
esplicitato il rimando biblico, mentre la durata del servizio non è indicata.
I versi 11-12 della sestina sono a loro volta particolarmente significativi, poiché il poeta dichiara in modo
esplicito la scelta di un’attesa e di una sopportazione paradossale ed iperbolica, volutamente senza fine.
103
Il concetto di amare bene, cioè secondo le regole e insieme secondo la morale, è tipico dell’amore
cortese, e diffusissimo nelle opere trobadoriche, dove i poeti insistono con notevolissima frequenza sulle
loro qualità di amanti (fedeltà, lealtà, devozione). Il loro amore si definisce perciò “fino”, con chiara
valenza tecnica. Ovviamente tale amore perfetto comporta anche un atteggiamento paziente e dunque in
questo brano Petrarca fonde due topoi di grande rilievo.
104
Le occorrenze successive alla morte di Laura, a parte quelle della ballata 324 e delle canzoni 270 e
360, che hanno un’impostazione retrospettiva, sono tutte imperniate sul concetto di “attesa di rivedere
l’amata”. La canzone 270 ha per altro un’impostazione molto peculiare, per cui si veda il capitolo
precedente.
105
A queste occorrenze si può aggiungere per la sua ispirazione di fondo, nonostante le scelte lessicali
meno esplicite, la seconda terzina di Aspro core, che non a caso è ispirata, per ammissione dello stesso
Petrarca, alla lettura di Arnaut Daniel: “Non è sì duro cor che, lagrimando, / pregando, amando, talor non
si smova, / né sì freddo voler, che non si scalde”. Alla base del brano è l’idea, a sua volta convenzionale,
secondo cui resistendo si ottengono straordinari risultati: questo topos però era stato recuperato già dai
Siciliani, in quanto particolarmente coerente con il loro approccio più passivo e sottomesso rispetto a
quello dei trovatori (Ravera 2013).
239
Trovatori
Bernart, totz om deu aver dan, / s’a la cocha no sap sofrir (Bernart de Ventadorn, XIV, vv
25-26)
E qe m feigna coindes e gais / e sufra; qe ls plus cars avers / dona bos suffrirs e temers
(Giraut de Bornelh, XXIII, 16-18)
Que sol es savis qui aten (Jaufré Rudel, V, v 13)
A bon coratge bon poder, / qui s ben sufrens (Guglielmo IX, VII, vv 23-24)
Ni mai no m’ platz q’ieu atenda / acort ni dura merce / ni plazer ni joi in be / que sofren
amors mi renda (Uc de Saint Circ, XII, vv 6-9)
E per aisso voill sofrir la dolors (Rigaut de Berbezilh, IX, v 25)
Be ill lauzi fassa m pro musar, / q’eu n’aurai so que m n’es promes (Marcabru, XV, vv
35-36)
Quar meils sai sufertar em patz (Folchetto da Marsiglia, XV, v 8)
E no m recrei tan ni quan, / ans suffr’ e m vauc aturan, / qar cel consec qi aten (Peire de la
Valeria, I, vv 10-12)
Que farai? Soffr’en patz! (Elias Cairel, VIII, v 20)
Que celans e temens / et homils e sofrens / vos sui, ses cor leugier (Raimbaut de
Vaqueiras, XIV, vv 71-73)
Don mi valgra mais sufrenssa (Monje de Montaudon, VII, v 3)
Mas non es vers, que que us anetz guaban, / qu’anc us dels mieus fos trahitz per
atendre106 (Raimon Jordan, IX, vv 16-17)
Mas per la bona atendenssa / esper c’alcus iois m’en veigna (Peire d’Alvernha, I, vv 1112)
E d’ela m platz que m fassa guizardo, / et a vos lais lo lonc atendemen / senes jauzir,
qu’eu volh lo jauzimen (Peire Vidal, XLVI, vv 20-22)
Q’ab mi dons mi fai remaner / amic e leyal e sufren / et a tot so c’a leis deu abelir
(Perdigon, VI, vv 11-13)
Puois no m’en gau ab precs ni ab lauzor / qu’eu en diga, sufren ni ab servir (Aimeric de
Peguilhan, XVIII, vv 19-20)
Mas de tot sui leials sofrire (Gaucelm Faidit, LII, v 39)
S’es mieils c’aissi sofra et endur / o part son voler me perjur ? (Gui d’Ussel, XXIV, vv 89)
Qe farai donc ? Atendrai / e veirai / s’amor me volra garir / del mal dont sovent sospir
(Guilhem de la Tor, XI, vv 17-20)
Per gen sufrir ai conques / de midons tot quan mi plai (Folquet de Romans, III, vv 19-20)
Qu’ans farai tan de mezura / qu’ieu sufrirai to tem patz (Cadenet, XI, vv 14-15)
Q’ieu plus aten, / porgues aver, ben fora plus ioyos (Peire Raimon de Tolosa, XVI, vv 67)
Mais am lo talan e l dezir / sofrir, e l greu mal (Bertran Carbonel, I, vv 51-52)
Quar quecs deu sofrir en patz (Bartolomé Zorzi, VII, v 16)
106
A parlare è Amore, che per tutto l’arco della canzone tenzona con il poeta innamorato. Tale struttura
non costituisce un’invenzione isolata del Jordan, il che appare per altro significativo rispetto alla
prospettiva petrarchesca nella canzone 360 (che si è analizzata con attenzione nel capitolo precedente);
essa comunque appare il frutto della più generale consuetudine dell’apostrofe ad Amore, anche altrove
presente nel Canzoniere e nei trovatori, anche se qui è meno attestata rispetto a quella a madonna.
240
Ni precx humils ses tot endenh, / celars, sufrirs, quecx si empenh (Guiraut Riquier, V, vv
26-27)
1.4 Priorità innaturali
Il risultato della subordinazione ad Amore e a madonna è una condizione innaturale.
L’io poetico si trova in balia dei suoi signori, non più capace di attribuire la giusta
importanza a se stesso e alla propria salvezza. L’innamorato cioè sposta al di fuori di se
stesso le proprie ragioni, si perde, rinuncia a qualunque autonomia di giudizio e
demanda la propria identità alla figura femminile o talvolta ad Amore. Ecco dunque
cosa si intende quando si afferma che la sottomissione amorosa si traduce in uno stato di
vera e propria alienazione.
Molteplici elementi contribuiscono alla rappresentazione di tale quadro; tuttavia è
possibile proporne una tassonomia di massima.
1.4.1
Amare la dama più di se stessi
Piegato alla volontà altrui e privo di controllo su se stesso, l’innamorato attribuisce alla
dama un’importanza iperbolica, che comporta di necessità una svalutazione di se stesso.
I suoi interessi passano dunque in secondo piano: è topica ad esempio l’affermazione
secondo cui l’io poetico soffre, ma si preoccupa più dello stato dell’amata che del
proprio. Simili soluzioni evidenziano in modo significativo la connessione tra Petrarca e
i trovatori: in entrambi i casi le occorrenze non sono numerose, ma risultano
profondamente significative.
Petrarca
Ch’i’ piango l’altrui noia, et no ‘l mio danno107; / et cieca al suo morir l’alma consente
(son. 141, vv 13-14)
Così di ben amar porto tormento, / et del peccato altrui cheggio perdono (canz. 207, vv
79-80)
Più l’altrui fallo che ‘l mi’ mal mi dole (son. 216, v 12)
S’aver altrui più caro che se stesso (son. 224, v 9)
Per cui sempre altrui più che me stesso ami (son. 255, v 11)
Chè non fu d’allegrezza a’ suoi dì mai, / di libertà, di vita alma sì vaga, / che non
cangiasse ‘l suo natural modo, / togliendo anzi per lei sempre trar guai (son. 296, vv 912).
107
L’insistenza sul danno è molto rilevante: al di là dei luoghi in cui il poeta si preoccupa per l’amata,
l’intero sistema semantico-lessicale di colpa/danno/pena è oggetto di notevole insistenza sia in Petrarca
sia nei trovatori, che, riguardo a tale motivo, sembrano influenzare il poeta aretino ben più di quanto non
avvenga per i Siciliani.
241
Trovatori
Per me us o dic qu’anc non poc desamar / celha que m tol del tot joi e deport, / anz
m’afortis ades on peger m’es (Arnaut Daniel, VI, vv 26-28)
Ben so trafans / q’eu eis m’engan (Raimbaut d’Aurenga, XVI, vv 25-26)
Tort n’a mas eu lo lh perdo, / e mos cors li reperdona, / car tan la sai bel’ e bona / que tuih
li mal m’en son bo (Bernart de Ventadorn, IX, vv 21-24)
En son plazer sia, / qu’eu sui en sa merce. / s’ilh platz que m’aucia, / qu’eu no m’en clam
de re (Bernart de Ventadorn, XXV, vv 56-60)
Qu’ieu am mas que re / neus me / no m’am tan (Giraut de Bornelh, XVI, vv 8-10)
Pert mi e vos: gardatz si m dei marrir (Folchetto da Marsiglia, I, v 40)
Car mos talans / non es d’als volontos / mas c’a mos ans / reing a sas voluntatz (Sordello,
XI, vv 37-40)
Aiso m destrui! / Mas lo joi de leis, quar l’am, me desdui (Amanieu de la Broqueira, II,
vv 35-36)
Q’en lei non voill metre garda / mas sa valor e son sen (Peire de la Valeria, II, vv 14-15)
Anz iur per leis cui tenc al cor plus car / on plus fort l’am la cug petit amar (Aimeric de
Belenoi, VII, vv 7-8)
Eu am mais trop ab vos, / bella domna e pros, / totz temps far mon damnatge, / c’ab autra
conqueses (Arnaut de Maruelh, XXII, vv 5-8)
Per qu’eu no volh ricor / de terra ni d’aver / tan com far son plazer (Peire Vidal, XXXIV,
vv 18-20)
E s’ieu pert lieis cui me coman, / perdut ai me e joi e chan (Perdigon, III, vv 31-32)
Qu’a me sui fals, tanta m vos finamen (Aimeric de Peguilhan, XXXIX, v 38)
Qu’a far en tot sos comans / son faitz, e per lieys servir108 (Gaucelm Faidit, II, vv 15-16)
Qe l cor e l cors e l saber e l veiaire / e l’ardimen e l sen e la vertut / ai mes en lieis, que
no m n’ai retengut (Peire Raimon de Tolosa, VIII, vv 43-45)
Que sai les que valia ll mieu / maltag […] (Bonifaci Calvo, IV, vv 21-22)
Qar si trop mais non l’amasses qe vos, / non creiria qe fosses amoros (Lanfranco Cigala,
IX, vv 15-16)
Q’ab tal plazer sai dezirar s’amor / qe jauzentz sui d’aisso q’autres s’irais (Peire Bremon
Ricas Novas, II, vv 23-24)
[…] que ferir / sap tan gen qu’om no n vol guerir (Folquet de Lunel, I, vv 39-40)
Sylh, qu’ieu pus am, que no m fa nulg secors (Guiraut Riquier, XII, v 4)
E conoissetz qu’autra ni me / no am tan, per la fe qu’eu dei (Guilhem Augier Novella, VI,
vv 48-49)
Mayntas vetz oblit mey, / qu’ieu lau vos e mercey (Guilhem de Cabestanh, V, vv 14-15)
Com plus m’enliama / greumen, / e m’art e m’aflama, / n’ai melhor talen (Peirol, VII, vv
41-44).
108
Questo tipo di affermazione è particolarmente interessante e significativa, poiché evidenzia il radicale
spossessamento dell’amante, la cui finalità esistenziale si risolve nell’amata, determinando la forma più
piena di alienazione.
242
1.4.2
Accettare o desiderare la morte
La disponibilità del poeta al dolore che l’esperienza amorosa gli procura può essere
presentata secondo modalità diverse. Un primo elemento molto diffuso, anche nel
Canzoniere, è il desiderio di morire: è un topos già provenzale. Le formule utilizzate in
Provenza sono pressoché fisse (morire desiderando / morire di desiderio / desiderare di
morire) a fronte delle molte realizzate nei fragmenta. Nella raccolta, d’altro canto,
interviene come di consueto anche l’evoluzione della vicenda e della psicologia dell’io a
determinare tale varietà: prima si tratta di morire per evitare le sofferenze amorose, poi
per raggiungere l’amata, o per lo meno superare il dolore della sua perdita, mentre nei
componimenti penitenziali la morte è associata al pericolo della punizione o alla
speranza di salvezza.
Petrarca
Mentr’io portava i be’ pensier’ celati, / ch’ànno la mente desiando morta (bal. 11, vv 5-6)
Chiamando Morte, et lei sola per nome (canz. 23, v 140)
Et poi morrò, s’io non credo al desio (son. 47, v 14)
Se col cieco desir che ‘l cor distrugge (son. 56, v 1)
Quante volte m’udiste chiamar morte! (canz. 71, v 39)
Ch’è bel morir, mentre la vita è dextra (son. 86, v 1)
Vattene, trista, ché non va per tempo / chi dopo lassa i suoi dì più sereni (son. 86, vv 1314)
Pien di quella ineffabile dolcezza / che del bel viso trassen gli occhi miei / nel dì che
volentier chiusi gli avrei / per non mirar già mai minor bellezza (son. 116, vv 1-4)
Et bramo di perir, et cheggio aita (son. 134, v 10)
Simil fortuna stampa / mia vita, che morir poria ridendo (canz. 135, vv 80-81)
Tu ài li strali et l’arco: / fa’ di tua man, non pur bramand’io mora, / ch’un bel morir tutta
la vita honora (canz. 207, vv 63-65)
Ché ben muor chi morendo esce di doglia (canz. 207, v 91)
Sappia ‘l mondo che dolce è la mia morte (son. 217, v 14)
Di dì in dì spero omai l’ultima sera / che scevri in me dal vivo terren l’onde / et mi lasci
dormire in qualche piaggia (sest. 237, vv 7-8)
Ch’è già di pianger et di viver lasso (son. 243, v 11)
Se per salir a l’eterno soggiorno / uscita è pur del bel’albergo fora, / prego non tardi il mio
ultimo giorno (son. 251, vv 12-14)
[…] morte, ogni altro bene non spero (son. 267, v 6)
Tempo è ben di morire, / et ò tardato più ch’i’ non vorrei (canz. 268, vv 2-3)
Deh perché me del mio mortal non scorza / l’ultimo dì, ch’è primo a l’altra vita? (son.
278, vv 7-8)
[…] onde morte piacque oltra nostro uso (son. 296, v 8)
[…] e di tal piaga / morir contenta, et vivere in tal nodo (son. 296, vv 13-14)
Quant’a la dispietata et dura Morte, / ch’avendo spento in lei la vita mia, / stassi ne’ suoi
belli occhi, et me non chiama! (son. 300, vv 12-14)
243
Noia m’è ‘l viver sì gravosa et lunga / ch’i’ chiamo il fine, per lo gran desire / di riveder
cui non veder fu ‘l meglio (son. 312, vv 12-14)
Così disciolto dal mortal mio velo / ch’a forza mi tien qui, foss’io con loro / fuor de’
sospir’ fra l’anime beate! (son. 313, vv 12-14)
Nel qual io vivo, et morto giacer volli (son. 320, v 8)
Queste sei visioni al signor mio / àn fatto un dolce di morir desio (canz. 323, vv 74-75)
L’altra [la Morte] mi tèn qua giù contra mia voglia (ba. 324, v 7)
I’ cheggio a Morte incontra Morte aita (son. 327, v 7)
Il dolce acerbo, e ‘l bel piacer molesto / mi si fa d’ora in hora, onde ‘l camino / sì breve
non fornir spero et pavento (canz. 331, vv 19-21)
Odiar vita mi fanno, et bramar morte (sest. 332, v 6)
Ditele ch’i’ son già di viver lasso, / del navigar per queste horribili onde (son. 333, vv 56)
Ma tropp’era alta al mio peso terreste, / et poco poi n’uscì in tutto di vista: / di che
pensando anchor m’agghiaccio et torpo (son. 335, vv 9-11)
Et dolce incominciò farsi la morte109 (son. 352, v 14)
Ma ‘l dolce viso dolce pò far Morte (son. 358, v 2)
Dunque vien’, Morte: il tuo venir m’è caro. / Et non tardar, ch’egli è ben tempo omai; / et
se non fusse, e’ fu ‘l tempo in quel punto / che madonna passò di questa vita (son. 358, vv
8-11)
Et al Signor ch’i’ adoro et ch’i’ ringratio, / […] / torno stanco di viver, nonché satio (son.
363, vv 12-14).
Trovatori
E volria trop mai murir (Bernart Martì, IX, v 13)
Car me mor e volh trapassar (Bernart de Ventadorn, XL, v 76)
Per qu’ieu conosc e sai q’es vers / qe viures val meinz que morirs ? (Giraut de Bonelh,
IX, vv 25-26)
Per que m’agr’ops, s’ieu pogues, / c’al cor e als huoills, qe m fan / aver de ma mort talan
(Uc de Saint Circ, I, vv 11-13)
La dousa mort don eu voill estr’aucis (Rigaut de Berbezilh, V, v 39)
C’adoncs viu sas quan m’aucio ill cossire (Folchetto da Marsiglia, II, v 5)
Quar per quascu mor, languen, de dezire (Sordello, VII, v 4)
Voluntatz l’es que deziran m’aucia, / e plaz me molt, pus aitan l’abelhis (Alegret, I, vv 56)
Vezer volgra N’ Ezelgarda, / qar hai de morir talan (Peire de la Valeria, II, vv 1-2)
E la mortz es ma maier esperansa (Aimeric de Belenoi, VI, v 24)
Dompna, s’ieu muer per vostr’amor be m plai (Raimon Jordan, III, v 41)
Per qu’aitals martz m’es vida naturals (Aimeric de Peguilhan, XXXVIII, v 21)
E, pois li platz, mout m’es bons à sofrir, / car autramen non porri’ eu morir / tant
bonamen, ni ab tant doutz martire (Gaucelm Faidit, XVII, vv 22-24)
Car non sui lai on estai sos cors gens, / doutz e plazens, / que m’auci desiran (Folquet de
Romans, XVI, vv 5-7)
109
Per il contatto con Laura, che è appunto defunta. L’immagine era già dantesca, nella Vita nova.
244
Pero tals m’a ses tot aisso conques / quem plagra meus si ‘lam volia aucire (Bartolomé
Zorzi, XVII, vv 51-52)
Prec que pessetz, o que tost m’auciatz (Cerverì de Girona, LX, v 38)
E, si tut muoir, dei aver gioi coral, / car nuls viures mon dos morir non val (Peire Bremon
Ricas Novas, III, vv 19-20)
Ben garitz seria / s’ab tan doussa pena / midonz m’aucizia (Peirol, V, vv 30-32).
1.4.3
Meglio morire che vivere nel dolore o senza l’amata
Una parziale variante si coglie nell’espressione della preferenza, che riconosce cioè
nella morte una possibilità migliore rispetto ad altre condizioni alternative, con la tipica
struttura “meglio… piuttosto che…”110. La preferenza per la morte è sottesa al desiderio
e al rimpianto di non essere morti prima dell’amata: è un aspetto particolarmente
interessante nel caso del Canzoniere, in virtù della bipartizione in vita e in morte di
Laura. Il poeta avrebbe scelto di morire insieme o al posto dell’amata piuttosto che
vivere il lutto.
M’è più caro ‘l morir che ‘l viver senza (canz. 71, v 30)
Il meglio è ch’io mi mora amando, et taccia (son. 171, v 4)
I’ beato direi, / tre volte et quattro et sei, / chi, devendo languir, si morì pria (canz. 206,
vv 52-54)
[…] O vivo Giove, / manda, prego, il mio in prima che ‘l suo fine (son. 246, vv 7-8)
Madonna è morta, et à seco il mio core; / et volendol seguire, / interromper conven
quest’anni rei (canz. 268, vv 4-6)
Ma piango et grido: Ahi nobil pellegrina, / qual sententia divina, / me legò inanzi, et te
prima disciolse (canz. 270, vv 96-98)
O che bel morir era, oggi è terzo anno! (son. 278, v 14)
Né vorrei rivederla in questo inferno, / anzi voglio morire et viver solo (son. 345, vv 1011).
Trovatori
Ben es mortz qui d’amor no sen / al cor cal que dousa sabor. / […] / Ja Domnedeus no m
azir tan / qu’eu ja pois viva jorn ni mes / pois que d’enoi serai mespres / ni d’amor non
aurai talan (Bernart de Ventadorn, XXXI, vv 9-16)
[…] don voill mais qe m’aucia / Amor cai loing, qe lai si non l’avia! (Giraut de Bornelh,
LII, vv 39-40)
Mas pero pieitz de mort es / qui vai languen desiran / e aten e non sap qan / li volra valer
merces (Uc de Saint Circ, I, vv 51-54)
A m faitz e m fai peiz de mort per un cen (Bertran d’Alamanon, XX, v 25)
Qu’assatz val mais morir, al mieu semblan, / que totz temps viur’ ab pena ez ab afan
(Folchetto da Marsiglia, XVI, vv 34-35)
Q’eu am mais morir ab dolor, / qe de vos mi veng’aligriers (Sordello, X, vv 11-12)
110
La formula, tipica come si vedrà dei trovatori, passa anche in ambito siciliano, anche se i passi non
sono numerosi. Se ne trova un’indicazione in Ravera 2013, pp. 225-226.
245
Quar mais mi platz honratz morirs / que vilhs entremescaltz iauzirs (Aimeric de Belenoi,
II, vv 37-38)
Mais vuelh qu’amors m’aucia / que grans gailhardia / qui ser recrezens (Arnaut de
Maruelh, XIII, vv 25-27)
Anz vuel murir qu’eu ancar non l’atenda (Perdigon, I, v 9)
Mas vueill murir c’az autra m lais (Guilhem Ademar, V, v 30)
Ausisetz me ! Que mielh es per un dos / morir qu’estar per tostemps doloyros (Bertran
Carbonel, VIII, vv 15-16).
1.4.4
Suicidio
Anche il dubbio o la tentazione di mettere fine alle proprie sofferenze togliendosi la vita
costituisce un topos, già ben testimoniato in ambito trobadorico e poi ripreso dalla
Scuola siciliana111. Anche in Petrarca si riconoscono alcune occorrenze di questo
motivo.
Petrarca
[Il cuore] poria smarrire il suo natural corso: / che grave colpa fia d’ambeduo noi, / et
tanto più de voi, quanto più v’ama (son. 21, vv 12-14)
Subita vista, ché del cor mi rade / ogni delira impresa, et ogni sdegno / fa ‘l veder lei
soave112 (canz. 29, v 12-14)
Da me son fatti i miei pensier’ diversi: / tal già, qual io mi stancho, / l’amata spada in se
stessa contorse (canz. 29, vv 36-38)
S’io credesse per morte essere scarco / del pensiero amoroso che m’atterra, / colle mie
mani avrei già posto in terra / queste membra noiose, et quello incarco (son. 36, vv 1-4)
Ma se maggior paura / non m’affrenasse, via corta et spedita / trarrebbe a fin questa aspra
pena et dura (canz. 71, vv 42-44)
Io son già stanco di pensar sì come / i miei pensier’ in voi stanchi non sono, / et come vita
anchor non abbandono / per fuggir de sospir’ sì gravi some (son. 74, vv 1-4)
[…] ma l’engordo / voler ch’è cieco et sordo / sì mi trasporta, che ‘l bel viso santo / et gli
occhi vaghi fien cagion ch’io pera113 (canz. 135, vv 41-45)
Se non ch’i’ ò di me stesso pietate, / i’ sarei già di questi pensier’ fora (son. 272, vv 7-8)
Tal che, s’altri mi serra / lungo tempo il camin da seguitarla, / quel ch’Amor meco parla /
sol mi riten ch’io non recida il nodo (canz. 268, vv 62-65)
Et lei che se n’è gita / seguir non posso, ch’ella nol consente (bal. 324, vv 8-9)
Mai questa mortal vita a me non piacque / (sassel’ Amor con cui spesso ne parlo) / se non
per lei che fu ‘l suo lume, e ‘l mio: / poi che ‘n terra morendo, al ciel rinacque / quello
111
Per le diverse modalità con cui l’immagine si presenta in Provenza e in Sicilia, per la scarsa varietà
stilistica e per il numero ridotto dei passi coinvolti, Ravera 2013, pp. 223-225.
112
L’interpretazione di tali versi in realtà non è del tutto univoca, come ricorda Santagata 1996, pp. 160161; tuttavia l’idea del suicidio è introdotta in modo esplicito dall’affermazione di volersene astenere, che
si legge ai versi 36-38. L’interpretazione qui accolta è stata discussa e sostenuta da Spongano 1983.
113
In questo caso non si tratta di suicidio nella sua forma più letterale e diretta; il desiderio conduce l’io
poetico alla sua fine attraendolo laddove soffre di più (presso l’amata). Tale immagine recupera e
rielabora l’idea convenzionale del desiderio di ciò che fa male, su cui sarà opportuno tornare a breve.
246
spirito ond’io vissi, a seguitarlo / (licito fusse) è ‘l mi’ sommo desio (canz. 331, vv 2530).
Trovatori
Fol nesci, ben as pauc de sen, / qu’ela nonca t’amaria / per nom que per drudaria, / c’ans
no t laisses levar al ven (Bernart de Ventadorn, XVII, vv 13-16)
Eu m’arsera, car sui tan malananz, / […] / e resorsera ab sospirs et ab plors114 (Rigaut de
Berbezilh, II, vv 39-41)
[…] e sufret que m’ausia / d’un dous dezir ple de desmezuransa (Aimeric de Belenoi, IX,
vv 12-13)
C’a mi mezeus mi cuja far aucir (Aimeric de Peguilhan, XVIII, v 9)
A pauc, en ploran / no m’auci, car no il sui denan (Gaucelm Faidit, XLIII, vv 38-39).
1.4.5
Accettazione e ricerca della sofferenza
Se l’io poetico desidera o per lo meno accetta di buon grado la propria morte, a maggior
ragione accoglie la sofferenza. In diverse occasioni, sia nel corpus trobadorico sia nel
Canzoniere, il dolore è descritto come fattore positivo o preferibile ad altre situazioni.
L’innamorato, consapevole, sceglie il proprio male, invece che cercare di liberarsene.
Tale concetto assume per Petrarca una valenza più articolata e complessa di quella che
presenta nelle opere occitaniche, poiché coinvolge una fondamentale questione morale
cristiana: il male amoroso non è tale solo in senso terreno, ma anche rispetto alla vita
eterna e alla salute dell’anima. La scelta dell’errore, e la colpa che ciò rappresenta,
sfumano dunque, soprattutto nei componimenti della seconda sezione, nell’ammissione
penitenziale del peccato115.
Raccogliamo qui i passi che suggeriscono il ruolo attivo dell’innamorato nel procurarsi
o anche solo nell’apprezzare le proprie sofferenze.
Petrarca
Et altri, col desio folle che spera / gioir forse nel foco, perché splende, / provan l’alta
vertù, quella che ‘ncende: / lasso, e ‘l mio loco è ‘n questa ultima schera (son. 19, vv 5-8)
114
In questo caso l’immagine del suicidio è mediata dall’ipotetico paragone con la fenice. L’esito consiste
nell’attenuare l’immagine del suicidio stesso, poiché di fatto il poeta intende riservarsi anche una
possibilità di tornare in vita. In ogni caso, attraverso immagini e soluzioni diverse, è consueto che
l’innamorato, soprattutto provenzale, attenui la portata delle sue aspirazioni masochistiche.
115
In tale direzione volgono i riferimenti al male da disprezzare e al bene da cercare, come testimonia ad
esempio il distico conclusivo del sonetto 255: “et chi m’acqueta è ben ragion ch’i’ brami, / et tema et odi
chi m’adduce affanno” (vv. 13-14). Poiché il sonetto è molto vicino alla mutatio animi imperfetta che
divide a metà l’opera, acquisisce una sfumatura penitenziale o comunque meditabonda e spirituale; ben
diversa la collocazione di 39, che si propone ancora nel pieno della visione cortese, prima ancora del
primo rifiuto verso amore (madrigale 54): “Da ora inanzi faticoso od alto / loco non fia, dove ‘l voler non
s’erga / per no scontrar chi miei sensi disperga / lassando come suol me freddo smalto “ (vv 5-8). Qui la
concezione è esclusivamente amorosa.
247
Però con gli occhi lagrimosi e ‘nfermi / mio destino a vederla mi conduce; / et so ben
ch’i’ vo dietro a quel che m’arde (son. 19, vv 12-14)
Allor saranno i miei pensieri a riva / […] / non ò tanti capelli in queste chiome / quanti
vorrei quel giorno attender anni116 (sest. 30, vv 7-12)
Del mio cor, donna, l’una et l’altra chiave / avete in mano; et di ciò son contento, / presto
di navigare a ciascun vento, / ch’ogni cosa da voi m’è dolce honore (bal. 63, vv 11-14)
Meco si sta chi dì et notte m’affanna, / poi che del suo piacer mi fe’ gir grave / la dolce
vista e ‘l bel guardo soave (canz. 70, vv 38-40)
Per gli occhi ch’al mio mal sì spesso giro (son. 79, v 8)
L’amar m’è dolce, et util il mio danno / e ‘l viver grave […] (son. 118, vv 5-6)
A ciascun passo nasce un penser novo / de la mia donna, che sovente in gioco / gira ‘l
tormento ch’i’ porto per lei (canz. 129, vv 17-19)
Pasco ‘l cor di sospir’, ch’altro non chiede117, / e di lagrime vivo a pianger nato118: / né di
ciò duolmi […] (son. 130, vv 5-7)
Ma io incauto, dolente, / corro sempre al mio male, et so ben quanto / n’ò sofferto, et
n’aspetto […] (canz. 135, vv 39-41)
Così sempre io corro al fatal mio sole / degli occhi onde mi vèn tanta dolcezza / che ‘l
fren de la ragion Amor non prezza119 (son. 141, vv 5-7)
Et perché ‘l mio martir non giunga a riva, / mille volte il dì moro et mille nasco, / tanto da
la salute mia son lunge (son. 164, vv 12-14)
Ad or ad ora a me stesso m’involo / pur lei cercando che fuggir devria (son. 169, vv 3-4)
Acceso dentro sì ch’ardendo godo (son. 175, v 7)
Onde ‘l vago desir perde la traccia / e ‘l suo sommo piacer par che li spiaccia, / d’error sì
novo la mia mente è piena (son. 178, vv 5-8)
L’esca fu ‘l seme ch’egli sparge et miete, / dolce et acerbo, ch’i’ pavento et bramo (son.
181, vv 5-6)
Senz’acqua il mare et senza stelle il cielo / fia inanzi ch’io non sempre tema et brami / la
sua bell’ombra, et ch’i’ non odi et ami / l’alta piaga amorosa, che mal celo (son. 195, vv
5-8)
L’anima, poi ch’altrove non à posa, / corre pur a l’angeliche faville; / et io, che son di
cera, al foco torno (canz. 207, vv 30-32)
116
Abbiamo già letto questo passo in merito al tema dell’attesa e della sopportazione, qui esplicito anche
nel lessico. Tuttavia, al desiderio di prolungare lo stato di desiderio che il poeta sta vivendo si associa
implicitamente la preferenza per il protrarsi delle sofferenze: il tono complessivo della sestina, infatti, non
lascia dubbi su quanto negativa sia la condizione emotiva dell’io.
117
L’immagine metaforica della “fame d’amore” costituisce a sua volta un topos, di cui si tratterà in
modo specifico in seguito, in questo stesso capitolo. Qui urge piuttosto mettere in evidenza la
disponibilità del poeta al dolore.
118
Tale rappresentazione del proprio scopo esistenziale è piuttosto indicativa dello stato alienato in cui
versa l’io poetico; è un tipo di rappresentazione ben attestato in Provenza, dove si coglie in diversi casi
nella forma “nato per servire”.
119
Il passo costituisce il secondo termine di paragone nell’ampia similitudine che occupa le quartine; il
primo è rappresentato dalla farfalla, che si dirige inconsapevole al fuoco e vi brucia. L’immagine è
fortemente topica: recuperata già dai Siciliani, l’elaborazione originaria (almeno in ambito volgare) è però
provenzale, con particolare riferimento a Folchetto da Marsiglia. Pertrarca l’aveva già utilizzata nel
sonetto 19, senza però esplicitare la specifica natura dell’insetto: si legga dunque Santagata 1996, alle pp.
80 e 689-670.
248
[…] che devea torcer li occhi / dal troppo lume, / et di sirene al suono / chiuder gli
orecchi; et anchor non me ‘n pento, / che di dolce veleno il cor trabocchi (canz. 207, vv
81-84)
Ben non à ‘l mondo, che ‘l mio mal pareggi (canz. 207, v 98)
Beato in sogno et di languir contento120 (son. 212, v 1)
Cieco et stanco ad ogni altro ch’al mio danno / il qual dì et notte palpitando cerco, / sol
Amor et madonna, et Morte, chiamo (son. 212, vv 9-11)
Lagrimar sempre è ‘l mio sommo diletto, / il rider doglia, il cibo assentio et tosco, / la
notte affanno, e ‘l ciel seren m’è fosco (son. 226, vv 5-7)
Cantai, or piango, et non men di dolcezza / del pianger prendo che del canto presi (son.
229, vv 1-2)
I’ mi vivea di mia sorte contento, / senza lagrime et senza invidia alcuna, / ché, s’altro
amante à più destra fortuna, / mille piacer’ non vaglion un tormento. / Or quei belli occhi
ond’io ma non mi pento / de le mie pene, et men non ne voglio una (son. 231, vv 1-6)
Qual ventura mi fu, quando da l’uno / de’ duo i più belli occhi che mai furo, / […] /
mosse vertù che fe’ ‘l mio infermo et bruno! / […] / fummi il Ciel et Amor men che mai
duro, / se tutte altre mie gratie inseme aduno (son. 233, vv 1-8)
I miei corti riposi e i lunghi affanni / son giunti al fine. O dura dipartita, / perché lontan
m’ài fatto da’ miei danni? (son. 254, vv 10-12)
Quella che sol per farmi morire nacque, / perch’a me troppo, et a se stessa, piacque (canz.
264, vv 107-108)
Et veggio ‘l meglio, et al peggior m’appiglio121 (canz. 264, v 136)
Anima sconsolata, che pur vai / giugnendo legne al foco ove tu ardi? (son. 273, vv 3-4)
Deh non rinovellar quel che n’ancide, / non seguir più penser vago, fallace, / ma saldo et
certo, ch’a buon fin ne guide (son. 273, vv 9-11)
I’ mi soglio accusare, et or mi scuso, anzi me pregio et tengo assai più caro, / de l’onesta
pregion, del dolce amaro / colpo, ch’i’ portai già molt’anni chiuso (son. 296, vv 1-4)
Ché non fu d’allegrezza a’ suoi dì mai / di libertà di vita alma sì vaga, / che non cangiasse
‘l suo natural modo, / togliendo anzi per lei sempre trar guai / che cantar per qualunque, e
di tal piaga / morir contenta, et vivere in tal nodo (son. 296, vv 9-14)
Et mi rammente la mia dura sorte: / ch’altri che me non ò di ch’i’ mi lagne (son. 311, vv
7-8)
Tremando, ardendo, assai felice fui (son. 337, v 11)
A me diede occhi, et io pur ne’ miei mali / li tenni, onde vergogna et dolor prendo (son.
355, vv 7-8)
Poi seguo come misero et contento, / di dì in dì, d’ora in hora, Amor m’à roso (son. 356,
vv 7-8)
[…] et quante utili honeste / vie sprezzai, quante feste (canz. 360, vv 17-18).
120
A questo stato di irrazionale accettazione della sofferenza segue la celebre ed adynatica caccia
impossibile di eredità arnaldiana (v 2). Su tali aspetti ci siamo soffermati nel corso del capitolo precedente
in merito all’uso dell’adynaton.
121
Peire d’Alvernha offre una corrispondenza quasi immediata: “tan tem que l mielhs lays e prenda l
sordeys” (XII, v 27).
249
Trovatori
Dreitz es lagrim / et arda e rim / qui ‘ncontra amor janguoilla (Arnaut Daniel, II, vv 2527)
[…] c’a martirs / leu deu venir anz q’el viva (Raimbaut d’Aurenga, IX, vv 46-47)
Qar mos cors miels no s’aferma / en lai on fatz gen conqist / q’en sai on ai mon dan vist
(Raimbaut d’Aurenga, IV, vv 46-48)
Pero be sai c’uzatges es d’amor / c’om c’ama be non a gaire de sen (Bernart de
Ventadorn, XIII, vv 26-27)
Per trussar ni per divendres / non m destric que non engraixe (Giraut de Bornelh, XXIV,
vv 41-42)
Pero l mals m fora doussor (Folchetto da Marsiglia, IV, v 18)
Qu’almens muer per la pus genta, / per qu’ieu prenc lo mal pe l be (Sordello, I, vv 15-16)
Mas jes matraitz no m’enoia (Elias Cairel, VI, v 44)
Qu’atressi m nafr’amors fort / cum vos de sa lansa, / estiers que gaug e deport / n’avetz et
ieu pezansa (Raimbaut de Vaqueiras, XVII, vv 5-8)
Que l’afans mi sembla doussor (Rambertino Buvalelli, III, v 38)
Mon dan mi fai sa valors abelir / e mon destric […] (Aimeric de Belenoi, V, vv 33-34)
Atressi vau enqueren mon dampnatge; / qu’ieu er’estortz d’afan e de folhia / e vuelh
tornar lay on amors m’aucia (Monje de Montaudon, III, vv 25-27)
Pero plazens e dolz e ses martire / mi sembla l mals, per lo ben qu’ieu n’aten (Arnaut de
Maruelh, X, vv 22-23)
Quon piegs me fai la pen’ e la dolors, / adoncs afflam e n sui plus cobeitos / de
vostr’amor e n’ai mais de talen (Raimon Jordan, VI, vv 26-28)
Mas de mi, las !, qu’enaisi l’er / e re non ai mas quan lo fays: / aiso meteys m’es lo grans
iays (Peire d’Alvernha, IX, vv 23-24)
Tan soi jausenz de vos que nuills afans / no m tol jauzir, que l vostres bel semblans /
m’esjausis tan que l jorn que vos remir (Raimon de Miravall, XI, vv 21-23)
No posc esse joios, / tro que m’en torn coitos / en la doussa preizo (Peire Vidal, XXXIV,
vv 12-14)
Que plus mi fai lo mals lo ben plazer (Perdigon, II, v 5)
Mas a mi platz on plus me fai doler, / que lo mieus mals es de fin amador (Aimeric de
Peguilhan, XXXIII, vv 28-29)
Ja mais, nuill temps, no m pot ren far Amors / qe m sia greu, ni malastraitz ni afans
(Gaucelm Faidit, IX, vv 1-2)
E greu trebalhs e perilhos, / quan m’en ve, ges no m sembl’afans (Guilhem Ademar, XII,
vv 24-25)
Qe, si m faz mal, qe ja m n’azire; / tant gent lo m faitz, ses far adiramen, / ab bel semblan
et ab acoillimen (Gui d’Ussel, I, vv 30-32)
Per o qar / mi son douz li mal que m fai / per vos amors e ill esglai (Guilhem de la Tor,
XI, vv 35-37)
E jois val mil dos tanz / qu’es conquis ab affan / que l’autre joi non fan (Cadenet, III, vv
38-40)
Qu’en mi fora tals sofrensa / per sos bes / qu’ieu sofrira totas res (Bartolomé Zorzi, IV,
vv 42-44)
Car lo maltraigz m’es tan douza sabors (Lanfranco Cigala, XIII, v 3)
250
Tant m’es plazens le mals d’amor (Guiraut Riquier, I, v 1)
Donc dirai / que mout mi plai / sufrir aquel turmen, / don eu tan ric joi aten (Peirol, VII,
vv 33-36).
1.4.6
Odio contro natura: dispiacere per se stesso e per il proprio bene
Come apprezza e cerca ciò che andrebbe rifiutato e fuggito, così l’io poetico si trova
spesso nella condizione di odiare ciò che dovrebbe custodire come un bene
preziosissimo. Nel Canzoniere il motivo si declina soprattutto in due forme: l’odio per
la libertà, che deriva direttamente da fonti trobadoriche, e l’odio per se stesso122. In
entrambi i casi, la prospettiva petrarchesca si sposta facilmente dal piano amoroso a
quello penitenziale. La libertà è quella dal giogo di Amore, ma anche quella dai beni
terreni, e l’incapacità di occuparsi di sé si traduce nella frammentarietà accusata da
Agostino nel Secretum, cui proprio la raccolta delle nugae dovrebbe opporsi, almeno a
livello testuale.
Un’unica occorrenza precisa resta invece nel corpus occitanico: essa appare però tanto
significativa a livello semantico da meritare d’essere oggetto di riflessione, anche
perché l’immagine dell’odio rimanda comunque più in generale allo stato di alterazione
che abbiamo sin qui descritto.
Petrarca
[…] et or con gran fatica / […] / in libertà ritorno sospirando (son. 76, vv 6-8)
Fuggendo la pregione ove Amor m’ebbe / molt’anni a far di me quel ch’a lui parve, /
donne mie, lungo fora a ricontarve / quanto la nova libertà m’increbbe (son. 89, vv 1-4)
Et a me pose un dolce giogo al collo, / tal che mia libertà tardi restauro123 (son. 197, vv 34)
Che perder libertate ivi era in pregio (sest. 214, v 12)
Quel’uno è rotto; e ‘n libertà non godo / ma piango et grido […] (canz. 270, vv 95-96)
Quella che fu mia donna al ciel è gita, / lasciando trista et libera mia vita (canz. 270, vv
107-108)
Fuor di man di colui che punge et molce, / che già fece di me sì lungo stratio, / mi trovo
in libertate, amara et dolce (son. 363, vv 9-11).
V’aggio proferto il cor; ma voi non piace / mirar sì basso colla mente altera. / Et se di lui
fors’altra donna spera, / vive in speranza debile et fallace: / mio, perché sdegno ciò ch’a
voi dispiace, / esser non può già mai così com’era124 (son. 21, vv 3-8)
122
Elenchiamo brevemente altri passi petrarcheschi in cui ricorra l’idea dell’odio, secondo altre accezioni:
ff. 86, 96, 195, 206, 255, 360.
123
In questo caso la situazione è ambigua, poiché da una parte il poeta si rende conto della lentezza che
gli si impone rispetto al tentativo di restaurare la propria libertà; dall’altra il giogo è definito dolce,
secondo il convenzionale uso ossimorico, su cui torneremo con maggior ampiezza nel corso del presente
capitolo.
124
Nel sonetto 21 il concetto dell’odio per se stessi (qui alla lettera per il proprio cuore) è arricchito e
motivato da quello dell’assunzione totale e acritica del punto di vista dell’amata, che incrementa la
condizione alienata dell’io poetico.
251
[…] ché ‘nsin allor io giacqui / a me noioso et grave (canz. 72, vv 26-27)
Ma d’odiar me medesmo giunto a riva, / et del continuo lagrimar so’ stancho (son. 82, vv
3-4)
Né del vulgo mi cal, né di Fortuna, / né di me molto, né di cosa vile (son. 114, vv 9-10)
Forse, a te stesso vile, altrui se’ caro (canz. 129, v 24)
Et ò in odio me stesso, et amo altrui. / Pascomi di dolor, piangendo rido; / egualmente mi
spiace morte et vita (son. 134, vv 11-13)
Ciò che s’indugia è proprio per mio damno, / per far me stesso a me più grave salma (son.
278, vv 12-13)
Odiar vita mi fanno, et bramar morte (sest. 332, v 6)
Me sconsolato et a me grave pondo (son. 338, v 4)
Ch’alfine vinta fu quell’infinita / mia patientia, e ‘n odio ebbi la vita (canz. 360, vv 1415).
Trovatori
E usa m tant que mi n’azire (Raimbaut de Vaqueiras, XIII, v 44).
1.4.7
Gratitudine per la sofferenza
Gli aspetti disforici dell’esperienza amorosa contemplano anche la gratitudine (nei
confronti dell’amata o di Amore) per la sofferenza provata. In diversi casi, l’effetto
ossimorico è dato dal ringraziamento che segue al lamento sulle proprie condizioni.
Tale sfumatura è quella più tipica del Canzoniere petrarchesco, non solo nel singolo
testo, ma anche grazie alle connessioni intertestuali125. Nei trovatori, invece, il tema
della gratitudine trova spazio anche in contesti gioiosi o per lo meno non del tutto
negativi. Anche in tali occasioni, tuttavia, resta l’impressione della subordinazione cui
l’io poetico soggiace, che, lo si è visto, costituisce un elemento portante nella
rappresentazione dei rapporti amorosi.
Petrarca
Et dico: Anima, assai ringratiar dei / che fosti a tanto honor degnata allora (son. 13, vv 78)
Ringratio lui che’ giusti preghi humani / benignamente, sua mercede, ascolta (son. 25, vv
7-8)
Felice l’alma che per voi sospira, / lumi del ciel, / per li quali io ringratio / la vita che per
altro non m’è a grado! (canz. 71, vv 67-69)
Poi mi rivolgo a la mia usata guerra, / ringratiando Natura e ‘l dì ch’io nacqui126 (canz.
72, vv 22-23)
125
Non consideriamo in questa sede l’occorrenza del sonetto 4, che ha solo valore perifrastico e
iperbolico per indicare la straordinarietà di Laura attraverso la gioia del paese che ne ha ospitato la
nascita, né quella del sonetto 26, in cui il termine “ringraziare” compare solo nella similitudine.
126
Non va dimenticato che altrove Petrarca maledice il giorno della propria nascita: per questi aspetti si
veda il capitolo precedente.
252
Se ‘n altro modo cerca d’esser sacio, / vostro sdegno erra, et non fia quel che crede: / di
che Amor et me stesso assai ringracio (son. 82, vv 12-14)
Là dove più mi dolse, altri si dole, / et dolendo adolcisse il mio dolore: / ond’io ringratio
Amore / che più nol sento, et è non men che suole (canz. 105, vv 57-60)
Lei ne ringratio, e ‘l suo alto consiglio, / che col bel viso et co’ soavi sdegni / fecemi
ardendo pensar mia salute (son. 289, vv 9-11)
In atto et in parole la ringratio / humilemente127 […] (canz. 359, vv 12-13).
Trovatori
Leis mercei / d’eisa sa tortura (Bernart Martì, I, vv 37-38)
Amars, onrars e carteners, / humiliars et obezirs, / loncs merceiars e loncs grazirs (Giraut
de Bornelh, IX, vv 1-3)
Per qe m dei ben esforssar / ab lauzar e ab bendir / de vostre ric pretz grazir (Uc de Saint
Circ, XV, vv 11-13)
D’aitan en dei midonz grazir / c’al cor m’estai maitin e ser (Rigaut de Berbezilh, IV, vv
49-50)
Per que lh grazisc los mals qu’ieu tray / pels plazers qu’aten que n’auray (Sordello, VIII,
vv 7-8)
Que grazir dei, quan sospir ni m doill (Elias Cairel, XV, v 29)
Et er li gratz aras mil tans (Arnaut de Maruelh, XIX, v 17)
Don suy grazens / ad aquelh don m’es datz (Peire d’Alvernha, XVI, vv 69-70)
Si d’Amor, que tot’ira vens, / no m vengues alcus gauzimens, / per qe il dei tot mon joi
grazir (Raimon de Miravall, XX, vv 6-8)
Per qu’ieu los dei grazir e merceyar (Aimeric de Peguilhan, VIII, v 52)
Tuogll m’en, e met’ ab leis mos decs, / cui grazisc, car mi det e m crec (Gaucelm Faidit,
XXI, vv 32-33)
Am fort e sai celar / e grazir mals e bes (Gui d’Ussel, VI, vv 22-23)
Qu’eu ren pretz ni deja grazir (Bonifaci Calvo, I, v 40)
E dei lur grasir, / car mi fan murir (Peire Bremon Ricas Novas, III, vv 16-17)
Moutas merces e motz gratz vo’n refier (Guilhem Peire de Cazals, V, v 59).
1.4.8
“Guiderdone” e ricompense
L’obiettivo dell’innamorato cortese e dunque del suo amore fino è il miglioramento
interiore, almeno su un piano generale ed ideale. Tuttavia egli ha anche uno scopo più
contingente, che nella concretezza della relazione amorosa e dei testi poetici appare
anche molto più spesso: il cosiddetto guiderdone. Nei componimenti trobadorici, tale
ricompensa oscilla tra due estremi: una soddisfazione erotica più o meno esplicita
oppure concessioni limitatissime (uno sguardo, il permesso di amare, la possibilità di
127
Qui il poeta ha certamente motivo per ringraziare Laura, che scende come spirito per guidarlo nel
processo di conversione; tuttavia l’atteggiamento tra i due è sbilanciato come sempre nella raccolta.
253
cantare l’amata e così via), la cui accettazione da parte del poeta dimostra la sua devota
sottomissione128. Nel Canzoniere la prospettiva erotica è in sostanza esclusa129.
L’elemento di maggior rilievo è la privazione della ricompensa: la frequenza delle
lamentele e l’insistenza sul dolore lasciano intuire quanto limitata sia la soddisfazione
dell’amante. Nel caso di Petrarca, poi, la morte di Laura elimina qualunque possibilità
di portare a compimento i sentimenti amorosi e non può che costituire una totale
disfatta, a parte le apparizioni dello spirito e fino allo spostamento delle aspirazioni sul
piano morale.
Le occorrenze petrarchesche non sono molte, ma l’uso del termine tecnico “guiderdone”
ha certamente un valore significativo. Per il resto, l’io poetico parla di desideri e
speranze: tale spostamento sul piano interiore appare coerente con la più generale
rinuncia agli elementi feudali130.
Petrarca
Poi che ‘l camin m’è chiuso di Mercede, / per desperata via son dilungato / dagli occhi
ov’era, i’ non so per qual fato, / riposto il guidardon d’ogni mia fede (son. 130, vv 1-4)
Et perduto il guadagno de’ miei damni (son. 298, v 8)
Amor, quando fioria / mia spene, e ‘l guidardon di tanta fede, / tolta m’è quella
ond’attendea mercede (bal. 324, vv 1-3).
Trovatori
Qu’e us servirai com bo senhor, / cossi que del guazardo m’an (Bernart de Ventadorn,
XXXI, vv 51-52)
Si ia d’Amor / poghes aver lauzor / ni ghizardo ni grat (Giraut de Bornelh, III, vv 1-3)
C’ara es una sazos / que mal rend hom guizerdos (Uc de Saint Circ, VIII, vv 15-16)
Amarait donch en perdos? (Folchetto da Marsiglia, XXIII, v 15)
Puoi no m tenc per pajat d’amor (Sordello, XX, v 1)
Los guizardos e las merces l’en ren (Elias Cairel, XIV, v 8)
Vol qu om la sierv’e ren non guizardona (Raimbaut de Vaqueiras, V, v 24)
Que m do un bays en guazardo (Arnaut de Maruelh, XIX, v 16)
Et atendrai del guizardo qual er (Raimon Jordan, VIII, v 33)
Tro que li n vengna guizardos (Peire d’Alvernha, IX, v 52)
E servir ses gazardo / crei que captals en sofranha (Peire Vidal, V, vv 27-28)
128
Vanno invece escluse le ricompense monetarie, come si legge nel De amore di Cappellano, ma anche
nei trovatori stessi, ad esempio nella canzone 10 di Bernart de Ventadorn.
129
Dopo la morte di Laura il poeta afferma con decisione che i suoi desideri sono sempre stati casti e che
per tale ragione l’amata cominciava a fidarsi di lui. I passi in questione sono davvero significativi rispetto
al messaggio complessivo della raccolta: si vedano i ff. 224, 230, 315, 316, 317, 334, 347, 362. Anche i
trovatori, per altro, in diverse occasioni dichiarano che i loro desideri sono puri e nobili, in coerenza con
l’amore fino che li ispira; manca però quella componente morale e spirituale, nonché di scavo
introspettivo che, anche laddove resti implicita, dona al Canzoniere una complessità notevolmente
maggiore.
130
Si veda, a titolo di esempio, il sonetto 168, vv 1-4: “Amor mi manda quel dolce pensero / che
secretario anticho è fra noi due, / et mi conforta, et dice che non fue / mai come or presto a quel ch’io
bramo et spero”.
254
Tem faillir pois, tant li platz lo perdos / e n creis amors e gratz e gazardos (Perdigon, VI,
vv 23-24)
Consec hom ben guizardo qui l’aten (Gaucelm Faidit, IV, v 34)
Qu’elh’es tant ensenhad’e pros / que del tot m’er guazardonans (Guilhem Ademar, XII,
vv 17-18)
Ne null respeig, vas cela cui dezir, / que dels malstraigz null gazardo mi renda (Cadenet,
XVIII, vv 6-7)
Ni anc fis amans no l fo / ses cobrar bon gazardo (Folquet de Lunel, V, vv 26-27).
1.5 Elementi contraddittori nella vicenda amorosa
Per rappresentare la natura incostante e problematica del proprio amore, l’io poetico –
trobadorico prima e petrarchesco poi, come d’altronde anche in altri ambiti della
produzione italiana delle origini – si affida spesso a due soluzioni espressive: l’ossimoro
e la contraddittorietà131. Sia l’espediente retorico che i temi coinvolti appaiono
assolutamente convenzionali; alla base si coglie il medesimo principio, cioè
l’accostamento di elementi divergenti o anche opposti. Anche tale incoerenza
contrassegna la vita amorosa come innaturale132.
1.5.1
Ossimori
Petrarca
Dentro pur foco, et for candida neve133 (sest. 30, v 31)
Et la fera dolcezza ch’è nel core (canz. 37, v 62)
E i dolci sdegni alteramente humili (canz. 37, v 101)
Et benedetto il primo dolce affanno (son. 61, v 5)
Principio del mio dolce stato rio (canz. 71, v 22)
Che dolcemente mi consuma et strugge (canz. 72, v 39)
Dissi: Oimè, il giogo et le catene e i ceppi / eran più dolci che l’andare sciolto (son. 89,
vv 9-11)
Che ‘n un punto m’agghiaccia et mi riscalda (canz. 105, v 90)
L’amar m’è dolce, et util il mio danno (son. 118, v 5)
Sento nel mezzo de le fiamme un gielo (son. 122, v 4)
Cangiar questo mio viver dolce amaro (canz. 129, v 21)
Che sempre m’è sì presso et sì lontano (canz. 129, v 61)
131
Si fa qui riferimento in primo luogo al meccanismo espressivo: non necessariamente le singole
immagini si ritrovano tutte sia nei trovatori che in Petrarca, come rivelerà il confronto tra i diversi passi.
132
Tali aspetti di assurdità e paradossalità in amore si possono riconoscere anche nell’uso di adynata, di
cui si è parlato nel corso del capitolo precedente. A questo si aggiungono gli effetti soprannaturali che
possono essere associati alla presenza dell’amata; ad esempio ai versi 12-14 del sonetto 215: “et non so
che nelli occhi, che ‘n un punto / pò far chiara la notte, oscuro il giorno, / e ‘l mel amaro, et adolcir
l’assentio”.
133
L’associazione o contrapposizione tra freddo e caldo, ardore e ghiaccio e così via, è piuttosto diffusa
nel Canzoniere; qui riportiamo solo i luoghi in cui le due sensazioni siano ossimoricamente compresenti,
e non alternative presentate in modo ossimorico nel testo.
255
Né di ciò duolmi, perché in tale stato / è dolce il pianto più ch’altri non crede (son. 130,
vv 7-8)
Se ria, onde sì dolce ogni tormento? (son. 132, v 4)
O viva morte, o dilectoso male (son. 132, v 7)
Pascomi di dolor, piangendo rido (son. 134, v 12)
E ‘l dolce amaro lamentar ch’i’ udiva (son. 157, v 6)
O faticosa vita, o dolce errore (son. 161, v 7)
Sempre m’è inanzi per mia dolce pena (son. 164, v 6)
Et veggiola passar sì dolce et ria (son. 169, v 5)
Ond’Amor di sua man m’avinse in modo / che l’amar mi fe’ dolce, e ‘l pianger gioco
(son. 175, vv 3-4)
L’esca fu ‘l seme ch’egli sparge et miete, / dolce et acerbo, ch’i’ pavento et bramo (son.
181, vv 5-6)
Arder dì et notte: et quanto è ‘l dolce male / né ‘n penser cape, nonché ‘n versi o ‘n rima
(son. 182, vv 10-11)
Fia inanzi ch’io non sempre tema et brami / la sua bell’ombra, et ch’i’ non odi et ami /
l’alta piaga amorosa, che mal celo (son. 195, vv 6-8)
Le prime piaghe, sì dolci profonde (son. 196, v 4)
Et a me pose un dolce giogo al collo (son. 197, v 3)
Dolci ire, dolci sdegni et dolci paci, / dolce mal, dolce affanno et dolce peso (son. 205, vv
1-2)
Alma, non ti lagnar, ma soffra et taci, / et tempra il dolce amaro, che n’à offeso (son. 205,
vv 5-6)
[…] et anchor non me ‘n pento, / che di dolce veleno il cor trabocchi (canz. 207, vv 8384)
Et me stesso reprendo / di tai lamenti, sì dolce è mia sorte, / pianto, sospiri et morte (canz.
207, vv 94-96)
[…] et èmmi ognora adosso / quel caro peso ch’Amor m’à commesso (son. 209, vv 3-4)
Ch’i’ pur vo sempre, et non son anchor mosso / dal bel giogo più volte indarno scosso
(son. 209, vv 7-8)
Sappia ‘l mondo che dolce è la mia morte (son. 217, v 14)
[…] s’i’ moro, il danno. / Danno non già, ma pro: sì dolci stanno / nel mio cor le faville e
‘l chiaro lampo (son. 221, vv 4-6)
Amor con tal dolcezza m’unge et punge (son. 221, v 12)
Un languir dolce, un desiar cortese (son. 224, v 2)
Lagrimar sempre è ‘l mio sommo diletto, / il rider doglia, il cibo assentio et tosco, /la
notte affanno, e ‘l ciel seren m’è fosco (son. 226, vv 5-7)
E ‘l piover giù dalli occhi un dolce umore (son. 228, v 6)
Sì dolce del mio amaro è la radice (son. 229, v 14)
De la mia donna al mio dextr’occhio venne / il mal che mi diletta, et non mi dole (son.
233, vv 9-10)
I’ ò pregato Amor, e ‘l ne riprego, / che mi scusi appo voi, dolce mia pena, / amaro mio
dilecto, se con piena / fede dal dritto mio sentier mi piego (son. 240, vv 1-4)
Celando li occhi a me sì dolci et rei (son. 256, v 4)
Quanti m’ài fatto dì dogliosi et lieti / in questa breve mia vita mortale! (son. 263, vv 3-4)
Da l’altra parte un pensier dolce et agro (canz. 264, v 55)
Né de l’ardente spirto / de la sua vista dolcemente acerba (canz. 270, vv 63-64)
256
Et quelle voglie giovenili accese / temprò con una vista dolce et fella (son. 289, vv 7-8)
Anzi me pregio et tengo assai più caro, / de l’onesta pregion, del dolce amaro / colpo,
ch’i’ portai già molt’anni chiuso (son. 296, vv 2-4)
Et spento ‘l foco ove agghiacciando io arsi, / et finito il riposo pien d’affanni, / rotta la fe’
degli amorosi inganni / […] / et perduto il guadagno de’ miei damni (son. 298, v 3-8)
O per me sempre dolce giorno et crudo (son. 298, v 13)
Passato è ‘l tempo omai, lasso, che tanto / con refrigerio in mezzo ‘l foco vissi (son. 313,
vv 1-2)
[…] et poche hore serene, / ch’amare et dolci ne la mente servo (son. 319, vv 3-4)
Queste sei visioni al signor mio / àn fatto un dolce di morir desio (canz. 323, vv 74-75)
Il dolce acerbo, e ‘l bel piacer molesto / mi si fa d’ora in hora, onde ‘l camino / sì breve
non fornir spero et pavento (canz. 331, vv 19-21)
Bello et dolce morire era allor quando, / morend’io, non moria mia vita inseme134 (canz.
331, vv 43-44)
Già mi fu col desir sì dolce il pianto (sest. 332, v 19)
Anchor io il nido di penseri electi / posi in quell’alma pianta; e ‘n foco e ‘n gelo /
tremando, ardendo, assai felice fui ( son. 337, vv 9-11)
Dolci durezze, et placide ripulse, / piene di casto amore et di pietate; / leggiadri sdegni
[…] (son. 351, vv 1-3)
Poi seguo come misero et contento, / di dì in dì, d’ora in hora, Amor m’à roso (son. 356,
vv 7-8)
Quel’antiquo mio dolce empio signore (canz. 360, v 1)
Ch’amaro viver m’à volto in dolce uso (canz. 360, v 45)
Non è chi faccia et paventosi et baldi / i miei penser’, né chi li agghiacci et scaldi, / né chi
li empia di speme, et di duol colmi (son. 363, vv 5-8)
Mi trovo in libertate, amara et dolce (son. 363, v 11)
Vergine pura, d’ogni parte intera, / del tuo parto gentil figliuola et madre135 (canz. 366, vv
27-28).
Trovatori
Ges no m’es clars / ni m’esquiva / est jois, don faz lez sospirs (Raimbaut d’Aurenga, IX,
vv 15-17)
Colps de joi me fer, que m’ausi (Jaufré Rudel, I, v 13)
Ar aujatz gran follor / qu’arditz sui per paor (Folchetto da Marsiglia, I, vv 21-22)
Qar totz m es douz l’afanz per soffertar (Sordello, X, v 11)
Ans m’es l’afans dousors (Aimeric de Belenoi, XIV, v 4)
Mas lo mals m’es de tan doussa sabor (Arnaut de Maruelh, IV, v 8)
134
Qui la “vita” del poeta è la sua amata, ma è comunque interessante l’effetto topico della morte e della
vita che si accompagnano. E in effetti anche nell’esistenza paradossale del poeta quell’alternanza di vita e
morte, di salute e malattia si delinea solo in relazione all’amata; perciò la sua scomparsa scardina l’intero
meccanismo, come il poeta in effetti lamenta nella canzone 331. Ora la morte è solo morte, perché chi
permetteva la rinascita è venuta meno.
Alla tradizione trobadorica risale anche il paragone con il malato, che viene analizzato in Scarpati 2008,
pp. 148-152.
135
Gli accostamenti paradossali tipici della liturgia mariana si inseriscono dunque in perfetta coerenza
nella rappresentazione convenzionale dello stato amoroso.
257
Ves cela qui suau me trai (Peire Vidal, XLVIII, v 10)
Ab un esgart qe m feiron doussamen (Aimeric de Peguilhan, VII, v 34)
M’a si ferit e nafrat doussamens (Gaucelm Faidit, VI, v 6)
Q’anc hom non feç tan bella mort (Folquet de Romans, XIV, v 68)
Don una douza dolors (Bonifaci Calvo, I, v 13)
Mout mi desmentis doussamen (Peire Bremon Ricas Novas, I, v 31)
Lo dous cossire / que m don’ Amors soven (Guilhem de Cabestanh, V, vv 1-2)
S’ab tan doussa pena / midonz m’aucizia (Peirol, V, vv 31-32).
1.5.2
Contraddittorietà dello stato amoroso
Petrarca
Ché non pur sotto bende / alberga Amor, per cui si ride et piagne (canz. 28, vv 113-114)
Perché co llui cadrà quella speranza / che ne fe’ vaneggiar sì lungamente, / e ‘l riso e ‘l
pianto, et la paura et l’ira136 (son. 32, vv 9-11)
Amor, avegna mi sia tardi accorto, / vòl che tra duo contrari mi distempre (bal. 55, vv 1314)
Lasso, nol so; ma sì conosco io bene / che per far più dogliosa la mia vita / Amor
m’addusse in sì gioiosa spene (son. 56, vv 9-11)
Et s’i’ ò alcun dolce, è dopo tanti amari, / che per disdegno il gusto si dilegua: / altro mai
di lor gratie non m’incontra (son. 57, vv 12-14)
Però, lasso, convensi / che l’extremo del riso assaglia il pianto (canz. 71, v 88)
Et come Amor l’envita, / or ride, or piange, or teme, or s’assecura (canz. 129, vv 7-8)
Se bona, onde l’effecto aspro mortale? / Se ria, onde sì dolce ogni tormento? (son. 132,
vv 3-4)
Fra sì contrari venti in frale barca / mi trovo in alto mar senza governo, / […] / ch’i’
medesmo non so quel ch’io mi voglio, / e tremo a mezza state, ardendo il verno (son. 132,
vv 10-14)
Pace non trovo, et non ò da far guerra; / e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio; / et
volo sopra ‘l cielo, et giaccio in terra; / et nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbraccio (son.
134, vv 1-4)
Et bramo di perir, et cheggio aita; / […] / Pascomi di dolor, piangendo rido; / egalmente
mi spiace morte et vita (son. 134, vv 10-13)
In riso e ‘n pianto, fra paura et spene / mi rota sì ch’ogni mio stato inforsa (son. 152, vv
3-4)
Vegghio, penso, ardo, piango; et chi mi sface / sempre m’è inanzi per mia dolce pena: /
guerra è ‘l mio stato, d’ira et di duol piena, / et sol di lei pensando ò qualche pace (son.
164, vv 5-8)
Dal cor l’anima stanca si scompagna / per gir nel paradiso suo terreno. / Poi trovandol di
dolce et d’amar pieno (son. 173, vv 3-5)
136
Tale accostamento è piuttosto significativo rispetto ai modelli trobadorici, poiché in provenzale un
solo termine (“ira”) indica entrambi gli stati d’animo, rendendo più ricca ed ambigua la rappresentazione
emotiva.
258
Per questi extremi duo contrari et misti, / con voglie gelate, or con accese / stassi così fra
misera et felice; / ma pochi lieti, et molti penser’ tristi (son. 173, vv 9-12)
Amor mi sprona in un tempo et affrena, / assecura et spaventa, arde et agghiaccia, /
gradisce et sdegna, a sé mi chiama et scaccia, / or mi tene in speranza et or in pena, / or
alto or basso il meo cor lasso mena (son. 178, vv 1-5)
Benché n’abbia ombre più triste che liete (son. 181, v 4)
Et qual sia più fa dubbio a l’intellecto, / la speranza o ‘l temor, la fiamma o ‘l gielo (son.
182, vv 3-4)
Et di ciò insieme mi nutrico et ardo (canz. 207, v 39)
Tal io, con quello stral dal lato manco, / che mi consuma, et parte mi diletta, / di duol mi
struggo, et di fuggir mi stanco (son. 209, vv 12-14)
Di que’ belli occhi ond’io ò guerra et pace, / che mi cuociono il cor in ghiaccio e ‘n foco?
(son. 220, vv 13-14)
Et benché ‘l primo colpo aspro et mortale / fossi da sé, per avanzar sua impresa / una
saetta di pietate à presa, / et quinci et quindi il cor punge et assale (son. 241, vv 5-8)
Né so se guerra o pace a Dio mi cheggio (son. 244, v 5)
Dicea, ridendo et sospirando inseme (son. 245, v 10)
In dubbio di mio stato, or piango or canto, / et temo et spero; et in sospiri e ‘n rime /
sfogo il mio incarco: Amor tutte sue lime / usa sopra ‘l mio core, afflicto tanto (son. 252,
vv 1-4)
Sì ‘l cor tema et speranza mi puntella (son. 254, v 4).
Trovatori
Dont sovens l’uoills mi muoilla / d’ira e de plor / e de doussor, / car per joi ai que m
duoilla (Arnaut Daniel, II, vv 42-45)
Pero si’n sofr’ieu gran pena / qu’ins en mon cor sal e trenca, / […] / Mas non ai per
qu’ieu n’aya gaug? / Quar us volers m’en abriva / e m ditz qu’en altre joy non ponh
(Raimbaut d’Aurenga, V, vv 15-21)
Que m fass’un iorn iauzir / e pueis tot l’an languir (Giraut de Bornelh, IV, vv 8-9)
Mas per un ben que m’en eschai / n’ai dos mals, quar tan m’es de lonh (Jaufré Rudel, IV,
vv 31-32)
E maintas greus dolors / mescladas ab doussors (Uc de Saint Circ, IX, vv 3-4)
Marritz mi ten e joios, / sovenchan, soven m’irais, / soven magris et engrais (Rigaut de
Berbezilh, I, vv 37-39)
Entre joi remaing et ira (Cercamon, II, v 29)
Doas cuidas a i, compagner, / qe m donon joi e destorbier (Marcabru, XVIII, vv 1-2)
Qu’er m’en conort et era n sui doptos, / pero l paors tem c’o apodererera, / mas un conort
ai d’Amor a sazos (Folchetto da Marsiglia, XIII, vv 26-28)
E m’es amar qar eu non sui amatz; / e m’es dolsors sos henz cors e sa faz, / e m’es amar
q’il no m fai nul secors; / e m’es dolsors qe tan plazens non regna, / e m’es amar qar en
s’amor no m degna (Sordello, XXXVIII, vv 4-8)
Car mos enans mi par destrics / e totz mos majer gaugz dolors (Raimbaut de Vaqueiras,
XXII, vv 3-4)
E l ben e l mal mescladamen / q’eu n’ai, e l joi e l pessamen (Rambertino Buvalelli, I, vv
4-5)
259
Mas eu soi volpils et arditz / e fols e savis can s’ave, / cortes ab sels cui Iois mante / e
vilans ab los ceschauzitz (Aimeric de Belenoi, XII, vv 33-36)
Et am la tan c’ades on plus mi duelh / me fai lo jois de bon esper jauzir, / per que l’afans
non pot esser engres (Arnaut de Maruelh, IV, vv 5-7)
Qu’ieu vey e crey e sai qu’es vers / qu’amors engraissa e magrezis, / l’un ab trichar
l’autr’ab plazers (Peire d’Alvernha, XII, vv 15-17)
Qu’el cor m’art com us calius / e son plus glassatz que rius (Raimon de Miravall, IV, vv
37-38)
D’Amor, segrai los mals e ls bes / e ls tortz e ls dreitz e ls dans e ls pros (Peire Vidal,
XXXIX, vv 5-6)
Entr’amor e pessamen / e bon cug e greu consir / e fin joi e lonc desir (Perdigon, V, vv 13)
En greu pantais m’a tengut longamen / qu’anc no m laisset ni no m retenc Amors
(Aimeric de Peguilhan, XXVII, vv 1-2)
Dompna, greu puosc vius remaner, / car no us vei gaire ni vos me, / […] / pero, molt
soven, m’alezer / en un bel plazer qe m reve, / c’ab los huoills del cor vos remire
(Gaucelm Faidit, LII, vv 11-17)
Dunt m’es vengutz aqest jois, no sai, / q’amors nuill ben no m’atrai (Guilhem de la Tor,
IX, vv 4-5)
Per so m don gaug e dol […] (Arnaut Catalan, III, v 15)
C’aissi entre dos volers / m’estauc ab ris et ab plors (Bonifaci Calvo, I, vv 20-21)
No m sai d’amor, si m’es mala o bona / o m val o m notz o m mante o m’azira (Guiraut
Riquier, VII, vv 1-2).
1.6 Un amore totalizzante
L’amore è un’esperienza totalizzante. I trovatori avevano insistito sull’impossibilità di
smettere di amare e sulle vie con cui Amore cambia in modo radicale la percezione e
l’atteggiamento dell’io. L’esperienza amorosa, in effetti, assume oltre ai caratteri di
disforia e tormento, anche una connotazione ossessiva e pervasiva. Per altro i Provenzali
passarono liberamente dalla lirica amorosa a quella civile, esattamente come nel
Canzoniere sono compresi componimenti politici ed occasionali. Tuttavia al momento
di affrontare le tematiche amorose, l’idea che il sentimento e la dedizione alla dama
siano dominanti sull’esistenza dell’io poetico nel suo complesso è molto diffusa. Il
medesimo concetto si ritrova in Petrarca: non sempre il numero delle occorrenze è
molto elevato, ma esse contribuiscono in maniera significativa a definire il tono
dell’insieme.
1.6.1
Un unico amore: unicità del desiderio, permanenza del sentimento
La pervasività della condizione amorosa è in primo luogo evidente laddove il poeta,
secondo diverse prospettive, suggerisce l’impossibilità di smettere di amare o di amare
qualcuno o qualcos’altro oltre a madonna. Anche le gioie e i dolori che derivano dal
rapporto con lei sono assolutizzati, insostituibili, non paragonabili.
260
Petrarca
Poi che in me conosceste il gran desio / ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra
(bal. 11, vv 3-4)
Io, perché d’altra vista non m’appago (canz. 23, v 152)
Né per nova figura il primo allora / seppi lassar, ché pur la sua dolce ombra / ogni men
bel piacer del cor mi sgombra (canz. 23, vv 167-169)
Ogni loco m’atrista ov’io non veggio / quei begli occhi soavi (canz. 37, vv 33-34)
Et ciò che vidi dopo lor mi spiacque (canz. 37, v 40)
Perché quel che mi trasse ad amar prima, / altrui colpa mi toglia, / del mio fermo voler già
non mi svoglia (bal. 59, vv 1-3)
Che d’ogni altra sua voglia / sol rimembrando anchor l’anima spoglia (bal. 59, vv 9-10)
Come sparisce et fugge / ogni altro lume dove ‘l vostro splende, / così de lo mio core, /
quando tanta dolcezza in lui discende, / ogni altra cosa, ogni penser va fore, / et solo ivi
con voi rimanse Amore (canz. 72, vv 40-45)
Tutti gli altri diletti / di questa vita ò per minori assai (canz. 73, vv 64-65)
Poi temo, ché mi veggio in fraile legno, / et più che non vorrei piena la vela / del vento
che mi pinse in questi scogli137 (sest. 80, vv 28-30)
Perch’ànno a schifo ogni opera mortale: / lasso, così da prima gli avezzai! / Né mi lece
ascoltar chi non ragiona / de la mia morte […] (son. 97, vv 7-10)
Et l’imagine lor son sì cosparte / che volver non mi posso, ov’io non veggia / o quella o
simil indi accesa luce (son. 107, vv 9-11)
Or mi ritrovo pien di sì diversi / piaceri, in quel saluto ripensando, / che duol non sento,
né sentì’ ma’ poi (son. 111, vv 12-14)
Nel dì che volentier chiusi gli avrei [gli occhi] / per non mirar già mai minor bellezza
(son. 116, vv 3-4)
[…] et ò sì avezza / la mente a contemplar sola costei, / ch’altro non vede, et ciò che non
è lei / già per antica usanza odia et disprezza (son. 116, vv 5-8)
Dico che, perch’io miri / mille cose diverse attento et fiso, / sol una donna veggio, e ‘l suo
bel viso (canz. 127, vv 12-14)
I’ vidi in terra angelici costumi / et celesti bellezze al mondo sole, / tal che di rimembrar
mi giova et dole, / ché quant’io miro par sogni, ombre et fumi (son. 156, vv 1-4)
Da’ begli occhi un piacer sì caldo piove / ch’i’ non curo altro ben né bramo altr’esca (son.
165, vv 7-8)
Ma lo spirto ch’iv’entro si nasconde / non cura né di tua né d’altrui forza; / lo qual
senz’alternar poggia con orza / dritto per l’aure al suo desir seconde (son. 180, vv 3-6)
Sì come eterna vita è veder Dio, / né più così si brama, né bramar più lice, / così me,
donna, il voi veder, felice / fa in questo breve et fraile viver mio138 (son. 191, vv 1-4)
Dolce del mio penser hora beatrice, / che vince ogni altra speme (son. 191, vv 7-8)
137
La sestina 80 rappresenta metaforicamente il tentativo di sottrarsi al pericolo spirituale di un amore
terreno, ma anche la difficoltà nel distacco dalle abitudini e dalle modalità di vita e pensiero ormai
divenute consuete e radicate. Nel sonetto 349, ormai prossimo alla svolta finale, l’io poetico afferma di
aver cambiato vita: “tutto ‘l viver usato ò messo in bando” (v 6).
138
In questo caso l’univocità del desiderio è riferita a Dio, quindi all’interno della similitudine; il
paragone permette però di riferire parallelamente il medesimo concetto anche alla relazione tra il poeta e
l’amata.
261
Pasco la mente di un sì nobil cibo, / ch’ambrosia et nectar non invidio a Giove, / ché sol
mirando, oblio ne l’alma piove / d’ogni altro dolce, et Lethe al fondo bibo (son. 193, vv
1-4)
Né però smorso i dolce inescati hami, / né sbranco i verdi et invescati rami / de l’arbor
che né sol cura né gielo. / Senz’acqua il mare et senza stelle il cielo / fia inanzi ch’io non
sempre tema et brami / la sua bell’ombra, et ch’i’ non odi et ami / l’alta piaga amorosa,
che mal celo (son. 195, vv 2-8)
Né posso dal bel nodo omai dar crollo (son. 197, v 7)
Ch’i’ non veggio ‘l bel viso, et non conosco / altro sol, né questi occhi ànn’altro obiecto
(son. 226, vv 3-4)
Manda, prego, il mio in prima che ‘l suo fine: / sì ch’io non veggia il gran publico danno,
/ e ‘l mondo remaner senza ‘l suo sole, / né li occhi miei, che luce altra non ànno (son.
246, vv 8-11)
Né l’orecchie, ch’udir altro non sanno (son. 246, v 13)
Che presso a quei d’Amor leggiadri nidi / il mio cor lasso ogni altra vista sprezza (son.
260, vv 3-4)
Per voi conven ch’io arda, e ‘n voi respire, / ch’i’ pur fui vostro; et se di voi son privo, /
via men d’ogni sventura altra mi dole (son. 267, vv 9-11)
Poscia ch’ogni mia gioia / per lo suo dipartire in pianto è volta, / ogni dolcezza de mia
vita è tolta (canz. 268, vv 9-11)
Ma io, lasso, che senza / lei né vita mortal né me stesso amo (canz. 268, vv 29-30)
Rendi agli occhi, agli orecchi il proprio obgetto, / senza qual imperfetto / è lor oprare, e ‘l
mio vivere è morte (canz. 270, vv 41-43)
Ché ‘l mio volere altrove non s’invesca (canz. 270, v 58)
Gli animi ch’al tuo regno il cielo inchina / leghi ora in uno et ora in altro modo; / ma me
sol ad un nodo / legar potei, ché ‘l ciel di più non volse (canz. 270, vv 91-94)
Dunque per amendar la lunga guerra / per cui dal mondo a te sola mi volsi, / prega ch’i’
venga tosto a star con voi (son. 347, vv 12-14)
Questi m’à fatto men amare Dio / ch’i’ non deveva, et men curar me stesso: / per una
donna ò messo / egualmente in non cale ogni pensero (canz. 360, vv 31-34).
Trovatori
Qu’esser cug em paradis / can de midons, c’aizi m lia / que vas autra no m appel, / auzi
parlar ses folia, / sol c’om de leis me favel (Raimbaut d’Aurenga, XXIX, vv 45-49)
Autr’amor no volh nien (Bernart de Ventadorn, XXX, v 56)
Q’anc ren tant non puoc amar (Giraut de Bornelh, XXXIII, v 51)
Per qu’ieu m’en fora pars; / mais a l’issent d’uns ortz / me mostret una sortz / qu’ieu fos a
lieis comanz (Giraut de Bornelh, XLVII, vv 66-69)
Que s’amor m’a si doussament vencut / que ieu non posc ni n’aus aver talan / que ja de
lieis que m’auci desiran (Uc de Saint Circ, VII, vv 17-19)
Mas qar sabez q’eu no us posc desamar (Bertran d’Alamanon, XXI, v 23)
Pero d’amor – que l ver vos en dirai - / no m lais del tot ni no m’en puosc mover
(Folchetto da Marsiglia, III, vv 15-16)
Partir no m puesc ni no sai estar quetz (Raimbaut de Vaqueiras, VI, v 9)
Que per ma fe / e’ l’amava mais que re (Raimbaut de Vaqueiras, XXIII, vv 7-8)
262
E us am mais qe tot qant es (Monje de Montaudon, VI, v 15)
Ni ges no m’en sai partir (Monje de Montaudon, VII, v 5)
Ges no pues cesser oblidos, / qu’el mon ren tant no m’abelis (Arnaut de Maruelh, XVI,
vv 15-16)
Mais am de vos lo solatz e l vezer / e l ben e l mal que m’en pot eschazer / qu’ades jauzir
del plus ric joc qu’eu sai (Raimon Jordan, I, vv 13-15)
Tot jausir d’autr’amor esquiu (Raimon de Miravall, XI, v 17)
Qu’anc non camjei mon talen, / ni non am flor ni ramel, / mas per leis ai chan d’auzel
(Peire Vidal, XVII, vv 46-48)
Perdre la puesc, qu’ilh non perdra ja mi (Perdigon, III, v 33)
Aissi m mis ieu pauc e pauc en la via, / que cujava amar ab mayestria / si qu’en pogues
partir quan me volgues, / on sui intraz tan qu’issir non puesc ges (Aimeric de Peguilhan,
XII, vv 5-8)
Ja per verjan ni per fuelh ni per flor / mon fin cor mais non viraray de re / de vos, cui tenc
per don’ e vuelh amar (Gaucelm Faidit, I, vv 10-12)
Tot’autra amor tenh a nien, / e sapchatz ben que mais jois no’m sosté (Casteloza, I, vv 3334)
Car eu l’am mai que nulha ren que sia (Comtessa de Dia, II, v 3)
Qe, ja tant qant eu viurai, / mon cor de vos no m partirai (Guilhem de la Tor, XI, vv 5657)
E car non puosc nuilla ren tant amar, / ella, si l platz, non deu ma mort voler (Folquet de
Romans, XVI, vv 9-10)
Que non es aurs ni argenz, / tors ni castels ni palais / qu’eu ames tan com un bais
(Cadenet, V, vv 14-16)
Farai sos manz a mo poder, / car res mai / tan no m plai (Peire Raimon de Tolosa, I, vv
37-39)
Que, si tot say, que m vol aucir, / no m vuelh ni m’aus ni m puesc partir (Guiraut Riquier,
I, vv 2-3)
Pero non part ma voluntatz, / si tot n’estauc desesperatz (Peirol, I, vv 13-14).
1.6.2
Il poeta non può amare nessun’altra donna
In modo più esplicito e specifico l’io poetico dichiara talvolta di non potersi innamorare
di nessun’altra139. I brani più interessanti sono quelli in cui compaiono due precisazioni
alternative: i beni (ricchezze e domini che sottintendono una dominazione politica), cui
il poeta rinuncerebbe in favore dell’amore tanto desiderato, o le sofferenze che l’io
lirico è disposto a sopportare pur di mantenere la connessione con l’amata, rifiutando in
tal caso le gioie possibili con un’altra – ipotetica – donna140.
139
Per esprimere tale concetto sono frequenti le formule comparative del tipo “preferisco restare con
lei/avere da lei…che…”, che possono essere associate al meccanismo della priamel abbreviata, di cui si è
parlato nel capitolo precedente.
140
Sul topos si sofferma Santagata 1996, p. 785.
263
Petrarca
Ricorro al tempo ch’i’ vi vidi prima, / tal che null’altra fia mai che mi piaccia (son. 20, vv
3-4)
Et se di lui [il cuore] fors’altra donna spera, / vive in speranza debile et fallace (son. 21,
vv 5-6)
[…] e ‘l pensier mio, / ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’à parte (son. 61, vv 13-14)
Et tutte le altre bellezze indietro vanno (canz. 73, v 66)
I begli occhi […] / m’ànno la via sì d’altro amor precisa, / ch’un sol dolce penser l’anima
appaga (son. 75, vv 1-6)
Quando giugne per gli occhi al cor profondo / l’imagin donna, ogni altra indi si parte
(son. 94, vv 1-2)
Amor in altra parte non mi sprona, / né i pie’ sanno altra via, né le man’ come / lodar si
possa in carte altra persona (son. 97, vv 12-14)
Et così meco stassi, / ch’altra non veggio mai, né veder bramo, / né nome d’altra ne’
sospir’ miei chiamo (canz. 127, vv 97-99)
Pur mi consola, che languir per lei / meglio è che gioir d’altra; et tu me ‘l giuri / per
l’orato tuo strale, et io tel credo (son. 174, vv 12-14)
Quel sol, che solo agli occhi mei resplende (son. 175, v 9)
Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo (son. 188, v 1)
Sì crede ogni uom, se non sola colei / che sovr’ogni altra, et ch’i’ sola, vorrei (son. 203,
vv 2-4)
A cui io dissi: Tu sola mi piaci (son. 205, v 8)
I’ nol dissi già mai, né dir poria / per oro o per cittadi o per castella141 (canz. 206, vv 4647)
Send’io tornato a solver il digiuno / di veder lei che sola al mondo curo (son. 233, vv 5-6)
Ma me sol ad un nodo / legar potei, ché ‘l ciel di più non volse (canz. 270, vv 93-94)
Togliendo anzi per lei sempre trar guai / che cantar per qualunque, e di tal piaga / morir
contenta, et vivere in tal nodo (son. 296, vv 12-14)
Né altro sarà mai ch’al cor m’aggiunga, / sì seco il seppe quella seppellire / che sola agli
occhi miei fu lume et speglio (son. 312, vv 9-11)
Questo fu il fel, questi li sdegni et l’ire, / più dolci assai che di null’altra il tutto (canz.
360, vv 106-107).
Trovatori
Tant sai son pretz fin e certa / per qu’ieu no m posc virar aillors (Arnaut Daniel, VII, vv
23-24)
Q’eu am des Luc tro ad Aug / la genssor, e m’en pelaug / tot hom c’autra per fadesc /
engal’ab lieis en paresc (Raimbaut d’Aurenga, XXI, vv 25-28)
E deuria s’en plus cochar, / c’al no deman ni voill d’ailors (Giraut de Bornelh, XVIII, vv
43-44)
141
L’interpretazione del passo non è però certa, poiché non è certa quella dell’intero componimento. La
lettura secondo cui ciò che il poeta ha detto colpevolmente è una dichiarazione d’amore per un’altra
donna è stata a lungo preferita dalla critica. Per i problemi interpretativi sull’escondich petrarchesco si
veda il capitolo precedente.
264
Per qu’ieu autra non azori (Guglielmo IX, XI, v 20)
Ja no s cuit qez eu m’atraia / vas autra […] (Uc de Saint Circ, V, vv 23-24)
Mais am per vos morir / que d’autr’aver nuill joi, tan vos desir (Rigaut de Berbezilh, III,
vv 21-22)
Q’en autra non ai mon esper (Cercamon, II, v 26)
Non ai poder que ves autra m’atenda (Folchetto da Marsiglia, XVI, v 9)
Qu’autra no m plai que m retenha (Sordello, I, v 27)
Tant que l cor me dis que d’autra non estia (Elias Cairel, XVI, v 27)
C ad autra no m complaing, / ni puosc mais dompn’amar (Raimbaut de Vaqueiras, XIV,
vv 118-119)
S’ieu non am mais de vos lo cossirier / que de nuill autr’aver mon desirier (Bertran de
Born, V, vv 11-12)
Non sai autra del cel en ios / que m mandes ab leys remaner / veiatz s’ie us am ses
falhensa / que ia pogues m’entendensa / vas si traire e de vos mover (Aimeric de Belenoi,
III, vv 24-28)
La honors m’en valria mais / que d’autre luec us ricx jays (Monje de Montaudon, VII, vv
24-25)
E s’ieu ja l cor vir per amar alhors, / no m valha Dieus ni Merces ni Amors (Arnaut de
Maruelh, VII, vv 20-21)
D’aitan n’ai un bon confort, / que ves autra no m destuelh (Raimon Jordan, IV, vv 37-38)
Lai sui plevitz e iuratz / q’ieu non am ves autre latz (Peire d’Alvernha, XIV, vv 25-26)
Pot d’autras domnas auzir / cum n’i a manhtas en azir / quar ieu no m biays (Raimon de
Miravall, XXXIV, vv 13-15)
Que jois ni deportz ni solatz / d’autra no m don’ esbaudimen (Peire Vidal, XXXI, vv 1617)
E vuelh trop mais perdre e far mon dan / ab vos, dona, qu’ab autra conquerer (Aimeric de
Peguilhan, L, vv 19-20)
Mas sol d’una que m destrenh, / pus que ieu autra non denh ! (Gaucelm Faidit, XV, vv
15-16)
Dieu prec qu’ab mos bratz vos cenha, / qu’autre no m pot enriquir (Castelloza, III, vv 3940)
Ans am mais em perdo chantar / de lieys qu’autr’amor conquistar (Guilhem Ademar, XII,
vv 6-7)
Ni mais autra tant no m plai (Gui d’Ussel, IV, v 23)
Et am mais l’esper / de vos e l voler / bella douz’amia / qe d’un autr’aver / baizar ni jazer
(Guilhem de la Tor, V, vv 68-72)
Qued autra senhoria / non vuoill ni deman (Cadenet, XIX, vv 22-23)
E qui d’autra mot me sona / perda Dieus, que non l’acuoill (Peire Raimon de Tolosa, X,
vv 39-40)
Non, que mais am per vertat / aver en lieis mon esper / que d’autra totz mon plazer
(Bertran Carbonel, VII, vv 45-46)
Et am mays de lieys l’esper / que d’autr’aver guiardo (Peire Bremon Ricas Novas, VII, vv
11-12)
Que anc peuys d’autra no m sovenc (Gavaudan, I, v 9)
E tan sai qu’en autr’amistat, / […] / no pot hom veyre tan astruc (Guilhem Peire de
Cazals, IX, vv 10-12)
265
Qu’eu n’am mais sofrir en patz / penas e dans e dolors, / que d’autra jauzens amatz /
grans bes faitz e grans socors (Re d’Aragona, I, vv 30-33)
Que ses la vostra entendensa / no volgr’aver Proensa / ab tota Lombardia: / quan m’auretz
dat so don m’avetz dig d’oc, / serai plus rics que l senher de Marroc! (Guilhem Augier
Novella, V, vv 41-45).
1.6.3
Focalizzazione univoca del pensiero
Un aspetto essenziale di un amore totalizzante è la ricorrenza del pensiero, risultato
della costanza e dell’unicità del desiderio, che elimina qualunque fonte alternativa di
attrazione.
Petrarca
Et un penser che solo angoscia dàlle, / tal ch’ad ogni altro fa voltar le spalle (canz. 23, vv
17-18)
Sol con questi pensier’, con altre chiome, / sempre piangendo andrò per ogni riva (sest.
30, vv 32-33)
S’io credesse per morte essere scarco / del pensiero amoroso che m’atterra, / colle mie
mani avrei già posto in terra / queste membra noiose, et quello incarco (son. 36, vv 1-4)
Amor, tu che’ pensier’ nostri dispense (son. 48, v 5)
I’ rivolsi i pensier’ tutti ad un segno, / che parlan sempre de’ lor tristi danni (son. 60, vv
7-8)
[…] e ‘l pensier mio, / ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’à parte (son. 61, vv 13-14)
La qual ogni altra salma / di noiosi pensier’ disgombra allora, / sì che di mille un sol vi si
ritrova (canz. 71, vv 79-81)
Empiendo d’un pensier alto et soave / quel core ond’ànno i begli occhi la chiave (canz.
72, vv 29-30)
Io son già stanco di pensar sì come / i miei pensier’ in voi stanchi non sono (son. 74, vv
1-2)
Ch’un sol dolce penser l’anima appaga (son. 75, v 6)
Amor, con cui pensier mai non amezzo (son. 79, v 5)
Fuggir vorrei: ma gli amorosi rai, / che dì et notte ne la mente stanno (son. 107, vv 5-6)
Prima poria per tempo venir meno / un’imagine salda di diamante / che l’atto dolce non
mi stia davante / del qual ò la memoria e ‘l cor sì pieno (son. 108, vv 5-8)
Le [faville] trovo nel pensier, tanto tranquille / che di null’altro mi rimembra o cale (son.
109, vv 7-8)
[…] In questi pensier’, lasso, / nocte et dì tiemmi il signor nostro Amore (son. 112, vv 1314)
A ciascun passo nasce un penser novo / de la mia donna, che sovente in gioco / gira ‘l
tormento ch’i’ porto per lei (canz. 127, vv 17-19)
Ma mentre tener fiso / posso al primo pensier la mente vaga (canz. 129, vv 33-34)
Pien d’un vago penser che me desvia / da tutti gli altri, et fammi al mondo ir solo (son.
169, vv 1-2)
Solfo et esca son tutto, e ‘l cor un foco / da quei soavi spirti, i quai sempre odo, / acceso
dentro sì ch’ardendo godo, / et di ciò vivo, et d’altro mi cal poco (son. 175, vv 5-8)
266
Ne l’alma che pensar d’altro non vole (son. 246, v 12)
Et se talor da’ belli occhi soavi, / ove mia vita e ‘l mio pensero alberga (son. 253, vv 910)
Le mie notti fa triste, e i giorni oscuri, / quella che n’à portato i penser’ miei (son. 291, vv
12-13)
Morta colei che mi facea parlare / et che si stava de’ pensier’ miei in cima (son. 293, vv
5-6)
Mente mia, che […] / sì ‘ntentamente ne l’amata vista / requie cercavi de’ futuri affanni
(son. 314, vv 1-4)
I miei cari penseri e ‘l cor, lasciai! (son. 314, v 14)
Et vo, sol in pensar, cangiando il pelo, / qual ella è oggi, e ‘n qual parte dimora (son. 319,
vv 12-13)
Sol di lei ragionando viva et morta (son. 333, v 9)
Anchor io il nido di penseri electi / posi in quell’alma pianta […] (son. 337, vv 9-10)
Ond’io voglie et pensier’ tutti al ciel ergo / perch’i’ l’odo pregar pur ch’i’ m’affretti (son.
346, vv 13-14)
Per una donna ò messo / egualmente in non cale ogni pensero (canz. 360, vv 33-34).
Trovatori
Cant ieu m pes, , qui m fer ni m pela / no n pot far en als entendre (Raimbaut d’Aurenga,
XVI, vv 36-37)
Quar ben paretz que pessetz d’al / pos del mieu pensamen no us cal (Raimbaut
d’Aurenga, XXV, vv 48-49)
Be fai granda follor / qui met en fals senhor / tot son cor ni s’amor / ni tot son pessamen
(Uc de Saint Circ, XIII, vv 1-4)
Ni d’als mos cors no consira (Cercamon, II, v 28)
C’anc, puois la vi, non puoc d’alre pensar (Folchetto da Marsiglia, XX, v 11)
Lei, on a tot son pensar (Sordello, XV, v 17)
Adoncx n’oblit totz mos autres pensars / e pens d’Amor, c’aisel pes m’es plus cars (Elias
Cairel, XIV, vv 5-6)
Mas ieu no soi consiros / mas de vos a grat servir (Raimbaut de Vaqueiras, XXX, vv 3334)
E fora m meills fos aillors mos penssiers / don ieu agues calacom jauzimen (Rambertino
Buvalelli, IX, vv 17-18)
Qu’anc pueys qu’Amor la m mes el cor / no la trays nul pessars a l’or (Aimeric de
Belenoi, II, vv 35-36)
En aisso s pliu e s fia / que mais no s cambia / de vos mos pensatz (Arnaut de Maruelh,
XIII, vv 21-23)
Cui ieu am tan que d’als no puesc pessar (Raimon Jordan, III, v 19)
Q’ieu non cossir de ren al / mas de servir a plazer / lieis de cui teing Miraval (Raimon de
Miravall, VI, vv 61-63)
Ja pois no pens de nulh autre jornal (Peire Vidal, XXIV, v 28)
En amor son fermat tuich miei cossir / si q’en ren als non ai poder q els traia (Gaucelm
Faidit, XI, vv 37-38)
Lo cors, e l cor, e l pensamen / ai en leis que d’als no m sove (Gui d’Ussel, V, vv 41-42)
267
C’anc, puois la vi, non puoc d’alre pensar (Folquet de Romans, XVI, v 11)
De fin’ amor son tuit mei pessamen / e mei desir e mei meillor jornal (Peire Raimon de
Tolosa, V, vv 1-2)
Qu’a penas ai en alre pessamen (Guiraut Riquier, XX, v 3)
Anz m’es totz autres joys oblitz / vas l’amor don paucs bes ajust (Guilhem de Cabestanh,
III, vv 13-14)
E qan cossiriers m’ave / de nuill autr’afaire / s’amors me vent ost desfaire / ve us lo pro
que m te (Peirol, IX, vv 29-32).
1.6.4
Il desiderio continua a crescere
Un aspetto significativo nell’ossessività dell’amore è la costanza del desiderio. Il
permanere della passione è espresso nell’affermazione, tutt’altro che isolata sia nelle
opere trobadoriche sia (e soprattutto) nel Canzoniere, secondo cui il desiderio
“cresce”142. Non solo cioè la situazione del poeta non prevede soluzione, ma tende ad
aggravarsi, a farsi sempre più radicata.
Petrarca
Quanto ciascuna è men bella di lei / tanto cresce ‘l desio che m’innamora (son. 13, vv 34)
La fera voglia che per mio mal crebbe (canz. 23, v 3)
Lasso, se ragionando si rinfresca / quel’ardente desio (canz. 37, vv 49-50)
Ch’i’ son già pur crescendo in questa voglia / ben presso al decim’anno, / né
poss’indovinar chi me ne scioglia (canz. 50, vv 54-56)
La speme incerta, e ‘l desir monta et cresce (son. 57, v 2)
Trovo chi bella donna ivi depinge / per far sempre mai verdi i miei desiri (son. 158, vv 34)
Anzi per la pietà cresce ‘l desio (son. 241, v 14)
Preme ‘l cor di desio, di speme il pasce / […] / et s’io lo uccido più forte rinasce. / Questo
d’allor ch’i’ m’addormiva in fasce / venuto è di dì in dì crescendo meco / e temo ch’un
sepolcro ambeduo chiuda143 (canz. 264, vv 58-65)
Di ciò m’è stato consiglier sol esso, / sempr’aguzzando il giovenil desio (canz. 360, vv
35-36).
142
Consideriamo a questo proposito, nel gruppo dei passi trobadorici, anche casi in cui per indicare la
crescita del desiderio si usi l’idea di raddoppiamento. Come si è visto nel corso del presente capitolo,
l’idea del raddoppiamento, legata alla sofferenza o anche ad altri aspetti della vicenda amorosa,
costituisce anche ed anzi soprattutto un topos autonomo e ben riconoscibile.
143
Nel brano qui proposto si parla in realtà non del desiderio amoroso, nato dall’incontro con Laura, ma
di quello per la gloria, sviluppatosi sin dall’infanzia del poeta; tuttavia nel complesso la canzone
accomuna come un unico problema esistenziale le due catene che impediscono all’io poetico l’ascesa
spirituale al vero bene.
268
Trovatori
N’ai eu ia fatz ves non-caler, / que anz del ser / m’era si doblatz mon talanz (Giraut de
Bornelh, XXV, vv 24-26)
E l desir creis et mos ardimens mor (Uc de Saint Circ, IV, v 20)
Pero l desir m’es ades plus cozens (Folchetto da Marsiglia, XX, v 21)
Qan plus creis, dompna, l desiriers / don languisc qar no m faitz amor (Sordello, IX, vv 12)
Amors adreit creis t’en l’auzir ? (Rambertino Buvalelli, IV, v 28)
Mas era m son tan li dezir cregut / que re no sai cum sion sostengut (Raimon Jordan, XIII,
vv 16-17)
Qe mos desirs si dobles en baisans (Raimon de Miravall, XI, v 13)
Doncs sui eu mortz, s’enaissi m renovela / aquest dezirs que m tol soven l’alena (Peire
Vidal, VII, vv 23-24)
Adoncs creis plus l’amors qe m lassa e m te (Aimeric de Peguilhan, XLI, v 16)
Vas mi, e dobla mos chans / e l joys e l’enveya grans (Gaucelm Faidit, II, vv 29-30)
Ades mi dobla l dezirier (Guilhem Ademar, III, v 14)
Tant c’ades plus la desir, / on plus sovent la remir (Guilhem de la Tor, VIII, vv 49-50)
Pros donns, mais per un cen / qu’al primier comensamen (Cadenet, XI, vv 54-55)
E doblera mon talan (Peire Raimon de Tolosa, IX, v 50)
Qu’ieu vuelh midons e dezir la voler / e, quant la vey, mais la dezir vezer (Guiraut
Riquier, IV, vv 23-24)
Dobla l’amors e nays e creys ades (Peirol, XXI, v 18).
1.6.5
Oblio e confusione
Tragica conseguenza di un pensiero unico e di un desiderio senza scampo è la tendenza
ad escludere ogni altro oggetto di interesse, e in parte i passi citati in precedenza lo
dimostrano. Un esito particolarmente nefasto e dalle dense implicazioni etiche si
verifica però quando l’io lirico dimentica o perde se stesso, la realtà che lo circonda, ciò
che potrebbe essergli salutare. Sono esempi chiari di quella alienazione e alterazione
rispetto ad un normale e salubre equilibrio interiore cui si è fatto più volte riferimento.
A tali luoghi possiamo infine accostare quelli in cui l’innamorato si dimostra confuso o
disorientato rispetto alla propria condizione reale: si tratta di un’ulteriore espressione di
quanto l’amore sia destabilizzante144. Sia la metafora dell’oblio, sia la perdita dei punti
di riferimento concreti accomunano passi petrarcheschi e trobadorici.
Petrarca
Vommene in guisa d’orbo, senza luce, / che non sa ove si vada et pur si parte (son. 18, vv
7-8)
E mi face obliar me stesso a forza (canz. 23, v 19)
144
Sono particolarmente interessanti i luoghi in cui l’amante ammette di aver perso l’esatta cognizione
del luogo e del tempo in cui si trova.
269
Da me son fatti i miei pensier’ diversi (canz. 29, v 36)
Et die’ le chiavi a quella mia nemica / ch’anchor me di me stesso tene in bando (son. 76,
vv 3-4)
Qui dove mezzo son, Sennuccio mio / (così ci foss’io intero, et voi contento) (son. 113,
vv 1-2)
Così carco d’oblio / il divin portamento / e ‘l volto e le parole e ‘l dolce riso / m’aveano,
et sì diviso / da l’imagine vera (canz. 126, vv 56-60)
[…] et nel primo sasso / disegno co la mente il suo bel viso. / Poi ch’a me torno, trovo il
petto molle / de la pietate […] (canz. 129, vv 28-31)
Ma mentre tener fiso / posso al primo pensier la mente vaga, / et mirar lei, et obliar me
stesso (canz. 129, vv 33-36)
Ad or ad ora a me stesso m’involo / pur lei cercando che fuggir devria145 (son. 169, vv 34)
Quando mi vene inanzi il tempo e ‘l loco / ov’i’ perdei me stesso, e ‘l caro nodo (son.
175, vv 1-2)
Onde ‘l vago desir perde la traccia / e ‘l suo sommo piacer par che li spiaccia, / d’error sì
novo la mia mente è piena (son. 178, vv 6-8)
Passa la nave mia colma d’oblio (son. 189, v 1)
Rapto per man d’Amor, né so ben dove (son. 193, v 7)
I’ nol posso ridir, ché nol comprendo: / da ta’ due luci è l’intellecto offeso, / et di tanta
dolcezza oppresso et stanco (son. 198, vv 12-14)
Che me stesso perdei / (né più perder devrei) (canz. 206, vv 43-44)
I dolci colli ov’io lasciai me stesso (son. 209, v 1)
Et vacillando cerco il mio thesoro / come animal che spesso adombre e ‘ncespe: / ch’or
me ‘l par ritrovar, et or m’accorgo / ch’i’ ne son lunge, or mi sollievo or caggio, / ch’or
quel ch’i’ bramo, or quel ch’è vero scorgo (son. 227, vv 7-11)
Né pur il mio secreto e ‘l mio riposo / fuggo, ma più me stesso e ‘l mio pensero (son. 234,
vv 9-10)
Or tu ch’ài posto te stesso in oblio (son. 242, v 9)
Ch’i’ son intrato in simil frenesia, / et con duro penser teco vaneggio; / né so se guerra o
pace a Dio mi cheggio (son. 244, vv 3-5)
In tal paura e ‘n sì perpetua guerra / vivo ch’i’ non son più quel che già fui, / qual chi per
via dubbiosa teme et erra (son. 252, vv 12-14)
Quante fiate, al mio dolce ricetto / fuggendo altrui et, s’esser pò, me stesso (son. 281, vv
1-2)
Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente, / et le braccia et le mani e i piedi e ‘l viso, / che
m’avevan sì da me stesso diviso, / e fatto singular da l’altra gente146 (son. 292, vv 1-4)
Quand’io mi volgo indietro a mirar gli anni / ch’ànno fuggendo i miei penseri sparsi147
(son. 298, vv 1-2)
145
Nei due versi precedenti il poeta sottolinea come il pensiero amoroso non causi solo questa
separazione interiore, ma anche una divergenza molto marcata rispetto alla gente comune, e quindi, in
ultima analisi, un prolungato stato di solitudine. Della condizione innaturale e peculiare dell’io rispetto
alla natura e alla gente comune si è già parlato nel corso del presente capitolo.
146
Benché tale aspetto si sia affrontato in merito ad immagini più specifiche (il ritmo veglia/sonno,
l’alternanza giorno/notte, le stagioni etc), è chiaro che un’ammissione così esplicita ha un valore
fortissimo rispetto alla rappresentazione psicologica ed esistenziale dell’io lirico.
270
Cominciai a mirar con tal desio / che me stesso e ‘l mio mal misi in oblio. / I’ era in terra,
e ‘l cor in paradiso, / dolcemente obliando ogni altra cura (canz. 325, vv 44-47)
Così dentro et di for mi vo cangiando, / et sono in non molt’anni sì dimesso, / ch’a pena
riconosco omai me stesso (son. 349, vv 3-5)
Questi m’à fatto men amare Dio / ch’i’ non deveva, et men curar me stesso (canz. 360, vv
31-32).
Trovatori
No sap lo cors trep o is duoilla (Arnaut Daniel, XI, v 36)
D’Amor que y met tal creyssensa / que d’als non ai sovinensa (Raimbaut d’Aurenga, V,
vv 10-11)
Ai las, com mor de cossirar (Bernart de Ventadorn, XXXIX, v 9)
Quecs jorn mi sembla plus d’un an / car non la vei, e no m rete (Uc de Saint Circ, III, vv
38-39)
E quan m’en vauc, vejaire m’es / que tot perda il sen e il saber (Cercamon, I, vv 17-18)
Tant i es mos cors pausatz / que l mensonja m sembla vers (Folchetto da Marsiglia, X, vv
21-22)
De guiza m sui oblidatz148 (Folchetto da Marsiglia, XXI, v 4)
Per q’es per mi qe us airatz, / qe m tol pessamen e consir? (Sordello, V, vv 39-40)
Que oblidatz me lais del tot chaser (Elias Cairel, XII, v 34)
Que gran temensa me n pren, e l damnatge / me fai tal mal que m fai anar aratge (Elias
Cairel, XVI, vv 11-12)
C’us sols jorns mi sembla trenta (Bertran de Born, XXXII, v 10)
Mas tant sui pensius e marritz, / qe no sai que m dic ni qe m faz (Rambertino Buvalelli,
V, vv 11-12)
Que m’a fait si autras res oblidar (Aimeric de Belenoi, VI, v 27)
Mas tan m’es dous entre cen mals us bes / que no m memra d’afan qu’eu anc n’agues
(Monje de Montaudon, III, vv 28-29)
Tot autre joi desconois et oblida (Arnaut de Maruelh, VIII, vv 9-10)
Tan m’es lo dezirs corals / q’us ans me sembla jornals (Raimon de Miravall, X, vv 49-50)
Qu’eu m’en oblit per leis qu’eu vei aital (Peire Vidal, XVIII, v 12)
Atressi m’es tal dolors demezida / que m don’Amors que sol no m sai ni m sen (Perdigon,
IV, vv 5-6)
Tot cant m’acort en un mes o en dos / de cal guisa us pogues genseitz prejar, / m’oblit qan
vei vostras bellas faissos (Gaucelm Faidit, XVII, vv 34-35)
E sapchatz qu’esdeve soven, / quan cug dir razon d’autr’afar, / qu’el mieg m’oblit si del
parlar, / no sai on m’o lays ni m’o prenc (Guilehm Ademar, IV, vv 21-24)
En tanta guisa m men’ Amors / c’a penas sai si dei chanta (Gui d’Ussel, III, vv 1-2)
E quel mal qu’ieu n’ai agut / oblit e meta en soan (Bartolomé Zorzi, III, vv 40-41)
147
L’essere “sparso” e dunque frammentario è un concetto fondamentale rispetto alla costruzione del
Canzoniere, oltre che al messaggio del Secretum: proprio la dispersione interiore, cui fa riferimento anche
il brano sopra citato dal sonetto 292, motiva il tentativo di raccogliere la propria anima nell’unità almeno
poetica, primo passo nella ricerca di maturazione e conversione. Tale definizione spirituale di fragmenta è
già stata citata in precedenza: d’altro canto la sua importanza è particolarmente centrale.
148
È utile citare questo passo per la coincidenza con l’immagine petrarchesca; si tenga però conto che
esso è tratto da un planh per la morte del signore, e non da un testo amoroso.
271
Q’ieu non conosc lo mal dal be q’ieu n’ai (Lanfranco Cigala, XIII, v 2)
Mi e quant es mi fezes oblidar (Guilhem de Cabestanh, VI, v 7).
1.6.6
Amore e la dama sono sempre vicini al poeta
Elemento tipico dell’ossessione amorosa, che ne rappresenta al contempo un sintomo ed
una causa, è la costante presenza di Amore o dell’amata accanto al poeta. Non importa
che la situazione non sia reale e che il sentimento non sia nemmeno ricambiato: l’io
lirico è dominato a tal punto dalla passione che ogni sua percezione è influenzata e
alterata dallo stato interiore.
Rappresentazioni convenzionali comprendono la personificazione di Amore da una
parte e dall’altra il riflettersi del pensiero dell’io sugli oggetti che lo circondano: come si
è visto, la mente dell’innamorato è sempre focalizzata sull’oggetto d’amore, cosicché la
figura dell’amata finisce per stagliarsi in ogni luogo.
Petrarca
Così davanti ai colpi de la morte / fuggo: ma non sì ratto che ‘l desio / meco non venga
come venir sòle (son. 18, vv 9-11)
Amor piangeva, et io con lui talvolta, / dal qual miei passi non fur mai lontani (son. 25,
vv 1-2)
Mi piacquen sì ch’i’ l’ò dinanzi agli occhi, / ed avrò sempre, ov’io sia, in poggio o ‘n riva
(sest. 30, vv 5-6)
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge / cercar non so, ch’Amor non venga sempre /
ragionando con meco et io co llui (son. 35, vv 12-14)
Et benedetto il primo dolce affanno / ch’i’ ebbi ad esser con Amor congiunto (son. 61, vv
5-6)
Tal ch’i’ depinsi poi per mille valli / l’ombra ov’io fui, ché né calor né pioggia / né suon
curava di spezzata nebbia (sest. 66, vv 34-36)
Et potrete pensar qual dentro fammi, / là ‘ve dì et notte stammi / adosso, col poder ch’à in
voi raccolto (canz. 71, vv 54-56)
Et per lungo costume, / dentro là dove sol con Amor seggio, / quasi visibilmente il cor
traluce (canz. 72, vv 4-6)
Già prima ebbe per voi l’entrata Amore, / là onde anchor come in suo albergo viene (son.
84, vv 5-6)
Ma ‘l bel viso leggiadro che depinto / porto nel petto, et veggio ove ch’io miri (son. 96,
vv 5-6)
Et l’imagine lor son sì cosparte / che volver non mi posso, ov’io non veggia / o quella o
simil indi accesa luce (son. 107, vv 9-11)
Ma se ‘n cor valoroso Amor non dorme (son. 108, v 12)
Qui mi sto solo; et come Amor m’invita, / or rime et versi, or colgo herbette et fiori, /
seco parlando, et a tempi migliori / sempre pensando: et questo sol m’aiuta (son. 114, vv
5-8)
In una valle chiusa d’ogni ‘ntorno, / ch’è refrigerio de’ sospir’ miei lassi, / giunsi sol cum
Amor, pensoso et tardo (son. 116, vv 9-11)
272
Et l’imagine trovo di quel giorno / che ‘l pensier mio figura, ovunque io sguardo (son.
116, vv 13-14)
Colui che del mio mal meco ragiona / mi lascia in dubbio, sì confuso ditta149 (canz. 127,
vv 5-6)
Perch’agli occhi miei lassi / sempre è presente, ond’io tutto mi struggo (canz. 127, vv 9495)
Talor m’arresto, et pur nel primo sasso / disegno co la mente il suo bel viso150 (canz. 129,
vv 28-29)
Sento Amor sì da presso / che del suo proprio error l’alma s’appaga151 (canz. 129, vv 3637)
Quant’aria dal bel viso mi diparte, / che sempre m’è sì presso et sì lontano (canz. 129, vv
60-61)
[…] né chi lo scorga / v’è se no Amor, che mai nol lascia un passo, / et l’imagine d’una
che lo strugge, / ché per sé fugge tutt’altre persone (canz. 135, vv 94-97)
Trovo la bella donna allor presente / ovunque mi fu mai dolce o tranquilla (son. 143, vv
5-6)
Ove ch’i’ posi gli occhi lassi o giri / per quietar la vaghezza che li spinge, / trovo chi la
bella donna ivi depinge / per far sempre mai verdi i miei desiri (son. 158, vv 1-4)
[…] et chi mi sface / sempre m’è inanzi per mia dolce pena (son. 164, vv 5-6)
Lei che ‘l ciel non poria lontana farme, / ch’i’ l’ò negli occhi, et veder seco parme / donne
et donzelle, et sono abeti et faggi (son. 176, vv 5-8)
Tu sai in me il tutto Amor […] (canz. 206, v 50)
Et agli occhi depigne / quella che sol per farmi morir nacque152 (canz. 264, vv 106-107)
Or in forma di nimpha o d’altra diva / che del più chiaro fondo di Sorga esca, / et pongasi
a sedere in su la riva; / or l’ò veduto su per l’erba fresca / calcare i fior’ com’una donna
viva, / mostrando in vista che di me le ‘ncresca (son. 281, vv 9-14)
Amor che meco al buon tempo ti stavi / fra queste rive, a’ pensier’ nostri amiche, / et per
saldar le ragion’ nostre antiche / meco et col fiume ragionando andavi (son. 303, vv 1-4)
[…] et sol tu che m’affligi, / Amor, vien’ meco, et mostrimi ond’io vada (son. 306, vv 1011)
Tornami a mente, anzi v’è dentro, quella / ch’indi per Lethe esser non pò sbandita (son.
336, vv 1-2)
Né costui né quell’altra mia nemica / ch’i’ fuggia, mi lasciavan sol un punto (canz. 360,
vv 54-55).
149
Per antonomasia, chi parla col poeta dei suoi sentimenti e soprattutto gli detta, è Amore. L’idea della
poesia come ispirata direttamente da Amore si è già anticipata nel capitolo precedente, trattando della
sestina e della ricerca di perfezione formale. La rappresentazione di Amore come “dittatore”, comunque,
trova il suo modello fondamentale in Dante (Purgatorio, XXIV) e torna nel Canzoniere, ff. 127 e 143.
Sull’idea che direttamente da Amore vengano i contenuti della lirica sarà opportuno tornare in riferimento
agli aspetti metapoetici, considerando anche gli antecedenti trobadorici.
150
Il senso di una spasmodica ricerca tra gli enti naturali era già nella canzone 39 di Raimbaut d’Aurenga
(vv 33-36), ma senza esplicitare il concetto della presenza femminile nella natura.
151
Pensare all’amata lontana, come se fosse vicina, è una consolazione per il poeta sofferente; una
situazione simile era stata proposta da Bernart de Ventadorn, XXV, che trova sollievo nell’immaginare il
luogo dove si trova la dama.
152
Il soggetto è qui Amore, rappresentato come pittore: è un elemento soprattutto lentiniano, poi divenuto
topico, ma qui riferito agli occhi e quindi all’idea di una visione costante ed ossessiva, e non al cuore,
come vorrebbe la consuetudine.
273
Trovatori
E vos, dopna, pensan, remir (Sordello, V, v 38)
Que on que eu m’estei / lai on la vi la vei (Aimeric de Belenoi, XIV, vv 9-10)
E us clam merce, sai pensan, e repaus, / on qu’ieu m’estey, mon cor en vostr’amor
(Arnaut de Maruelh, IV, vv 26-27).
1.6.7
Il legame tra il cuore del poeta e l’amata
La strettissima connessione tra l’io poetico e, a seconda dei casi, Amore o madonna
trova la sua più compiuta espressione in riferimento alla condizione del cuore. Sono tre
in particolare i fenomeni che possono intervenire: l’immagine della dama o altri
elementi che la riguardino possono essere fissati nel cuore153, esso può essere rubato154
oppure può allontanarsi dal corpo dell’amante, nella maggior parte delle occasioni per
restare con l’oggetto d’amore. È certamente vero che il principio dell’immagine
dell’amata nel cuore155 viene precisata e definita da Giacomo da Lentini, e come tale
recuperata dalla tradizione poetica toscana; tuttavia, le radici del topos si possono
cogliere già nella rappresentazione trobadorica, che dunque merita attenzione.
Petrarca
Quando io movo i sospiri a chiamar voi, / e ‘l nome che nel cor mi scrisse Amore (son. 5,
vv 1-2)
Un dubbio: come posson queste membra / da lo spirito lor viver lontane? / Ma rispondemi
Amor: Non ti rimembra / che questo è privilegio degli amanti, / sciolti da tutte qualitati
humane? (son. 15, vv 10-14)
Largata alfin con l’amorose chiavi / l’anima esce del cor per seguir voi; / et con molto
pensiero indi si svelle (son. 17, vv 12-14)
Or s’io lo scaccio, et e’ non trova in voi / ne l’exilio infelice alcun soccorso, / né sa star
sol, né gire ov’altri il chiama (son. 21, vv 9-11)
Questa che col mirar gli animi fura, / m’aperse il petto, e ‘l cor prese con mano, / dicendo
a me: Di ciò non far parola (canz. 23, vv 72-74)
Quel’ardente desio / che nacque il giorno ch’io / lassai di me la miglior parte a dietro
(canz. 37, vv 51-52)
153
La tipica variante petrarchesca del topos, come vedremo, è giocata sull’identificazione Laura/lauro, per
cui ad essere impiantata nel cuore non è soltanto, classicamente, l’immagine della dama, ma le sue stesse
radici. In tal modo si amplifica il senso di connessione tra gli amanti, ma soprattutto la dipendenza di lui
rispetto a lei. Per il topos, la sua origine e la sua evoluzione si vedano Mancini 1988 e Damiani 2000.
154
A sua volta l’io poetico petrarchesco può agire da ladro, rubando sguardi che non gli sarebbero
destinati (ff. 73 e 207, oltre a 199, secondo una possibile lettura della seconda terzina). Sul topos del cuore
rubato si sofferma brevemente Vanacker 2009, pp. 132-136, sottolineando la differenza tra questo e il
motivo del cuore mangiato (per cui si veda Di Maio 1996): il primo indica la natura passiva e coercitiva
dell’amore imposto al poeta, il secondo la fusione tra i due amanti. In realtà l’idea del cuore mangiato è
tradizionalmente associata all’acquisizione delle qualità altrui, come nota in riferimento all’avvio della
Vita nova Rossi 1999, p. 17 e come si intuisce leggendo alcuni planh civili di cui si è parlato nel capitolo
precedente.
155
Per alcune annotazioni di riferimento sul topos, si veda Santagata 1996, p. 579.
274
Amor, tu che’ pensier’ nostri dispense, / al qual un’alma in duo corpi s’appoggia (son. 48,
vv 5-6)
Misero me, che volli / quando primier sì fiso / gli tenni nel bel viso / per iscolpirlo
imaginando in parte / onde mai né per forza né per arte / mosso sarà […] (canz. 50, vv 6368)
Uscir già mai, over per altri ingegni, / del petto ove dal primo lauro innesta / Amor più
rami […] (son. 64, vv 5-7)
Questi son que’ begli occhi che mi stanno / sempre nel cor colle faville accese, / per ch’io
di loro parlando non mi stanco (son. 75, vv 12-14)
Quando giugne per gli occhi al cor profondo / l’imagin donna, ogni altra indi si parte
(son. 94, vv 1-2)
Et del primo miracolo il secondo / nasce talor, che la scacciata parte / da se stessa
fuggendo in parte / che fa vendetta e ‘l suo exilio giocondo (son. 94, vv 5-8)
Ma ‘l bel viso leggiadro che depinto / porto nel petto, et veggio ove ch’io miri (son. 96,
vv 5-6)
E ‘l volto, et le parole che mi stanno / altamente confitte in mezzo ‘l core, / fanno le luci
mie di pianger vaghe (son. 100, vv 12-14)
Amor et Gelosia m’ànno ‘l cor tolto (canz. 105, v 69)
La donna che ‘l mio cor nel viso porta, / là dove sol fra bei pensier’ d’amore / sedea,
m’apparve […] (son. 111, vv 1-3)
Pensosa mi rispose, et così fiso / tenne il suo dolce sguardo, ch’al cor mandò con le
parole il viso156 (canz. 119, vv 88-90)
Ch’aver dentro a lui [cuore] parme / un che madonna sempre / depinge et de lei parla: / a
voler poi ritrarla / per me non basto, et par ch’io me ne stempre (canz. 125, vv 33-37)
Ma pur quanto l’istoria trovo scripta / in mezzo ‘l cor (che sì spesso rincorro) / con la sua
propria man de’ miei martiri (canz. 127, vv 7-9)
Ivi è ‘l mio cor, et quella che ‘l m’invola; / qui veder poi l’imagine mia sola (canz. 129,
vv 71-72)
Et sol ad una imagine m’attegno, / che fe’ non Zeusi, o Prasitele, o Fidia, / ma miglior
mastro, et di più alto ingegno (son. 130, vv 9-11)
Furando ‘l cor, che fu già cosa dura (canz. 135, v 25)
Il cor che mal suo grado a torno mando, / è con voi sempre in quella valle aprica157 (son.
139, vv 5-6)
E ‘l suo seggio maggior nel mio cor tene (son. 140, v 2)
[…] et così bella riede / nel cor, come colei che tien la chiave (son. 143, vv 10-11)
Quel dolce pianto mi depinse Amore / anzi scolpìo, et que’ detti soavi / mi scrisse entro
un diamante in mezzo ‘l core (son. 155, vv 9-11)
Quel sempre acerbo et honorato giorno / mandò sì al cor l’imagine sua viva / che ‘ngegno
o stil non fia mai che ‘l descriva (son. 157, vv 1-3)
Sento far del mio cor dolce rapina, / et sì dentro cangiar penseri et voglie (son. 167, vv 56)
Del cor l’alma stanca si scompagna / per gir nel paradiso suo terreno. / Poi trovandol di
dolce et d’amar pieno, / quant’al mondo si tesse, opra d’aragna158 / vede […] (son. 173,
vv 3-7)
156
157
Qui il poeta si riferisce alla Gloria, ma il topos è riproposto senza alterazioni sensibili.
In questo caso l’interpretazione del topos è morale e spirituale, non amorosa.
275
Il cor già volto ov’abita il suo lume (son. 177, v 14)
Ma lo spirto ch’iv’entro si nasconde / non cura né di tua né d’altrui forza; / lo qual
senz’alternar poggia con orza / dritto per l’aure al suo desir seconde (son. 180, vv 3-6)
La dolce vista del beato loco, / ove ‘l mio cor co la sua donna alberga (son. 188, vv 1314)
Talor ch’odo dir cose, e ‘n cor describo / perché da sospirar sempre ritrove (son. 193, vv
5-6)
Per ritrovar ove ‘l cor lasso appoggi, / fuggo dal mi’ natio dolce aere tosco (son. 194, vv
5-6)
I dolci colli ov’io lasciai me stesso (son. 209, v 1)
Tal la mi trovo al petto, ove ch’i’ sia, / felice incarco […] (son. 228, vv 12-13)
Torna tu [cuore] là [da Laura], ch’io d’esser sol m’appago (son. 242, v 5)
Et parli al cor pur come e’ fusse or teco, / miser, et pien di pensier’ vani e sciocchi! /
Ch’al dipartir dal tuo sommo desio / tu te n’andasti, e’ si rimase seco, / et si nascose
dentro a’ suoi belli occhi (son. 242, vv 10-14)
Il mio cor che per lei lasciar mi volle / (et fe’ gran senno, et più se mai non riede) (son.
243, vv 5-6)
Fa con sue viste leggiadrette et nove / l’anime da’ lor corpi pellegrine (son. 246, vv 3-4)
Quel giorno ch’i’ lasciai grave et pensosa / madonna, e ‘l mio cor seco! […] (son. 249, vv
2-3)
Come già fece allor che’ primi rami / verdeggiar, che nel cor radice m’ànno, / per cui
sempre altrui più che me stesso ami (son. 255, vv 9-11)
L’alma, cui Morte dal suo albergo caccia, / da me si parte, et di tal nodo sciolta, / vassene
pur a lei che la minaccia (son. 256, vv 9-11)
Ben ti ricordi, et ricordar te ‘n dei, / de l’imagine sua quand’ella corse / al cor, là dove
forse / non potea fiamma intrar per altrui face (canz. 264, vv 41-44)
Un lauro verde, una gentil colomna, / quindeci l’una, et l’altro diciotto anni / portato ò in
seno, et già mai non mi scinsi (son. 266, vv 12-14)
Madonna è morta, et à seco il mio core (canz. 268, v 4)
Il mio amato tesoro in terra trova, / che m’è nascosto, ond’io son sì mendico, / e ‘l cor
saggio pudico, / ove suol albergar la vita mia (canz. 270, vv 5-8)
Ove nacque colei ch’avendo in mano / meo cor in sul fiorire e ‘n sul far frutto (son. 288,
vv 3-4)
Soleasi nel mio cor star bella et viva, / com’alta donna in loco humile et basso (son. 294,
vv 1-2)
Né altro sarà mai ch’al cor m’aggiunga, / sì seco il seppe quella seppellire (son. 312, vv
9-10)
Passato è ‘l viso sì leggiadro et santo, / ma passando i dolci occhi al cor m’à fissi: / al cor
già mio, che seguendo partissi / lei ch’avolto l’avea nel suo bel manto (son. 313, vv 5-8)
Quando a lor come a’ duo amici più fidi / partendo in guardia la più nobil salma, / i miei
cari penseri e ‘l cor, lasciai! (son. 314, vv 12-14)
Vidi un’altra [pianta] ch’Amor obiecto scelse, / subiecto in me Calliope et Euterpe; / che
‘l cor m’avinse, et proprio albergo felse (son. 318, vv 5-8)
158
Tale immagine in particolare è già trobadorica. Per alcuni riferimenti utili si veda anche Santagata
1996, p. 782.
276
Ché ‘n te mi fu ‘l cor tolto, et or sel tene / tal ch’è già terra, et non giunge osso a nervo
(son. 319, vv 7-8)
Che sotto le sue ali il mio cor tenne (son. 321, v 3)
Ma pur ognor presente / nel mezzo del meo cor madonna siede, / et qual è la mia vita, ella
sel vede (bal. 324, vv 10-12)
Nelli occhi ov’habitar solea ‘l mio core / fin che mia dura sorte invidia n’ebbe, / che di sì
ricco albergo li pose in bando (canz. 331, vv 37-39)
Poi che madonna e ‘l mio cor seco inseme / saliro al ciel […] (son. 364, vv 3-4).
Trovatori
A, domna l plus confes / ome qez anc ames / acorres, si que pres / de vos sia mos cors !
(Raimbaut d’Aurenga, XXXIII, vv 27-30)
E port el cor on que m’estei / sa beutat e sa fachura (Bernart de Ventadorn, XXIV, vv 3940)
Tout m’a mo cor e tout m’a me / e se mezeis e tot lo mon (Bernart de Ventadorn, XLIII,
vv 13-14)
Et en dorment sotz cobertors / es lai ab lieis mos esperitz159 (Jaufré Rudel, II, vv 35-36)
M’arma e mos cors vos roman en tenensa (Rigaut de Berbezilh, VI, v 47)
Mos talans e sa semblansa / so e no so d’un entalh, / pueis del talent nays semblans160
(Marcabru, XIV, vv 13-15)
Qu’inz el cor port, domna, vostra faisson / que m chastia qu’eu non vir ma rason
(Folchetto da Marsiglia, XI, vv 9-10)
Gen mi saup mon fin cor emblar (Sordello, IV, v 9)
Blancas dens, hueils amoros, / e vejaire fresc e clar / ins e mon cor eu remir (Amanieu de
la Broqueira, II, vv 20-22)
Car sa beutatz mi destreing tant e m lia / que tant loignatz no sui qu’ab lieis no sia / mos
cors […] (Elias Cairel, XII, vv 29-31)
Ni s part de leis mos fis cors ni ma fes (Rambertino Buvalelli, XI, v 18)
E mes si e mon coratge / tan fermamen rizen iogan / c’alre no ill quier ni no ill deman
(Aimeric de Belenoi, VIII, vv 23-25)
Amors, que mi a pres, / m’en fai plus enveios, / que m te vostras faissos / dedinz e mon
coratge (Arnaut de Maruelh, XXII, vv 24-27)
Mas en aisso m’asegur / per un messatgier qu’ieu n’ai, / mon cor que soven la vai
(Raimon Jordan, IV, 30-32)
Que lai, don mi mou l’esglays, / non tenha mon cor deziron, / on plus lo dezirs me cofon
(Raimon de Miravall, XXVII, vv 22-24)
159
La precisazione che tale visitazione avviene durante il sonno attenua la potenza dell’immagine
riconducendola alla più semplice e realistica dimensione del sogno; tuttavia si tratta di un esempio
importante nel confronto con Petrarca, che a sua volta raggiunge l’amata in ispirito, non necessariamente
durante il sonno (ad esempio, nel sonetto 362), dopo la morte di lei.
160
In questo caso il poeta non precisa dove si trovi l’immagine: lo possiamo intuire grazie alla concezione
comune nel Medioevo rispetto all’origine d’amore (vista ed immoderata cogitatio dell’immagine derivata
al cuore dalla visione). Il passo è perciò particolarmente interessante perché si riconnette a tematiche poi
ampiamente sviluppate in area italiana, in particolare nell’ambito della Scuola siciliana e poi dello Stil
Novo. In Petrarca non sono esplicitate, forse anche perché si trattava ormai di dati assodati, non più
oggetto di discussione o percepiti come attuali. Tuttavia il contesto di partenza è il medesimo.
277
Ben sui astrucs, sol que mos cors lai sia (Peire Vidal, XI, v 15)
La m fai desabellir / e de mon cor loignar (Aimeric de Peguilhan, XLVI, vv 24-25)
Si vol que m lays de lieys, tuelha m lo sen / e l cor e ls huelhs, e pueys partirai m’en
(Gaucelm Faidit, LIV, vv 13-14)
Leis c’a l mieu cor el so (Gui d’Ussel, IV, v 11)
Lo cor avez, dompna, q’eu lo vos lais / per tal coven q’eu no l voill cobrar mais (Folquet
de Romans, II, vv 4-5)
Car ges de cor no ai, / car cill, on bos prez s’atura, / lo m’emblet e no l qer mai / cobrar ni
talan no ai (Peire Guilhem de Luserna, I, vv 6-9)
Pueis, quan me vire, / ieu truep mon cor lai (Guilhem Augier Novella, VII, v 25-26).
1.6.8
Amore mantiene in vita. La metafora alimentare
Un ultimo motivo va considerato in merito alla natura totalizzante dell’amore. In
diverse occasioni, numerose soprattutto in Petrarca, il poeta ammette di essere debitore
alla dama o all’amore, colto nei suoi vari aspetti, per la sua stessa vita. Nel Canzoniere,
l’esito metaforico è davvero interessante, anche rispetto alla questione dell’alienazione:
letteralmente, il poeta “vive di…” (lacrime, dolore, sguardi, visione e così via)161. Il
poeta introduce così il campo semantico del nutrimento e dell’appetito, che talvolta
viene trattato anche in modo più esplicito con l’uso della voce “fame”162. Benché nel
dettaglio le soluzioni trobadoriche appaiano differenti, si nota la presenza nel corpus
occitanico della medesima metafora, nell’ambito della quale viene esaltata soprattutto
l’idea del “sapore d’amore”, talvolta sfruttata anche per esprimere le aspettative (di
solito deluse) di gratificazione. Distinguiamo per comodità i due concetti: viviere di …
(1) e nutrirsi/aver fame di … (2).
Petrarca
1.
Però che dopo l’empia dipartita / che dal dolce mio bene / feci, sol una spene / è stato
infin qui cagion ch’io viva (canz. 37, vv 5-8)
Io sentia dentr’al cor già venir meno / gli spirti che da voi ricevon vita (son. 47, vv 1-2)
Pietà vi mosse; onde, benignamente / salutando, teneste in vita il core. / La fraile vita
ch’ancor meco alberga, / fu de’ begli occhi vostri aperto dono, / et de la voce angelica
soave. / […] / così destaro in me l’anima grave (bal. 63, vv 3-10)
Di tai quattro faville, et non già sole, / nasce ‘l gran foco, di ch’io vivo et ardo (son. 165,
vv 12-13)
161
Comprendiamo però anche alcuni passi in cui l’amata è definita “vita” del poeta.
La metafora alimentare costituisce un topos di lungo corso, come attestano Curtius 1995, pp. 154-156
e Berra 1992, p. 39 nota 20. È interessante notare come essa, pur essendo ben attestata nei trovatori, non
lasci quasi traccia in ambito siciliano: in un solo caso è attestata l’affermazione per cui l’amata toglie
fame e sete (Guido delle Colonne, Ancor che ll’aigua per lo foco lasse, vv. 53-54). Di nuovo Guido delle
Colonne utilizza la metafora tutta provenzale del sapore, in due occorrenze, per evidenziare come egli si
cibi, sia pervaso da Amore (La mia gran pena e lo gravoso affanno, vv 25-26, e la mia vit’è sì fort’e dura
e fera, v 40). Per tali aspetti della poesia siciliana si veda Ravera 2013, p. 230.
162
278
Acceso dentro sì ch’ardendo godo, / et di ciò vivo, et d’altro mi cal poco (son. 175, vv 78)
Et se non fusse il suo fuggir sì ratto, / più non demanderei: che s’alcun vive / sol d’odore,
et tal fama fede acquista, / alcun d’acqua o di foco, e ‘l gusto o ‘l tatto / acquetan cose
d’ogni dolzor prive, / i’ perché non de la vostra alma vista?163 (son. 191, vv 9-14)
S’i’ ‘l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella / del cui amor vivo, et senza ‘l qual morrei
(canz. 206, vv 1-2)
Li occhi soavi ond’io soglio aver vita (canz. 207, v 14)
Però, s’i’ mi procaccio / quinci et quindi alimenti al viver curto, / se vòl dir che sia furto, /
sì ricca donna deve esser contenta, / s’altri vive del suo, ch’ella nol senta (canz. 207, vv
48-52)
Ove è la vita, ove la morte mia? (son. 222, v 3)
Il sonno è veramente, qual uom dice, / parente de la morte, e ‘l cor sottragge / a quel
dolce penser che ‘n vita il tene (son. 226, vv 9-11)
Così in dubbio lasciai la vita mia (son. 249, v 12)
A me pur giova di sperare anchora / la dolce vista del bel viso adorno, / che me mantene,
e ‘l secol nostro honora (son. 251, vv 9-11)
Et se talor da’ belli occhi soavi, / ove mia vita e ‘l mio pensero alberga (son. 253, vv 910)
Vivo sol di speranza, rimembrando / che poco humor già per continua prova / consumar
vidi marmi et pietre salde (son. 265, vv 9-11)
Questa è del viver mio l’una colomna, / l’altra è ‘l suo chiaro nome, / che sona nel mio
cor sì dolcemente (canz. 268, vv 48-50)
È l’aura mia vital da me partita (son. 278, v 4)
Volse in amaro sue sante dolceze, / ond’io già vissi, or me ne struggo et scarno (son. 308,
vv 3-4)
Ov’è il bel viso onde quel lume venne / che vivo et lieto ardendo mi mantenne? (son. 321,
vv 6-7)
Spegner l’almo mio lume ond’io vivea (son. 329, v 10)
Solea da la fontana di mia vita / allontanarme, et cercar terre et mari (canz. 331, vv 1-2)
Vissi di speme, or vivo pur di pianto (sest. 332, v 41)
O usato di mia vita sostegno? (son. 340, v 4)
Da’ più belli occhi, et dal più chiaro viso / che mai splendesse, et da’ più bei capelli, /
[…] / dal più dolce parlare et dolce riso, / de le man’, de le braccia […] / da’ più bei piedi
snelli, / de la persona fatta in paradiso, / prendean vita i miei spirti […] (son. 348, vv 1-9).
2.
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core (son. 1, vv
1-2)
Ch’i’ mi pasco di lagrime, et tu ‘l sai (son. 93, v 14)
Pasco ‘l cor di sospir’, ch’altro non chiede (son. 130, v 5)
Pascomi di dolor, piangendo rido (son. 134, v 12)
Così sol d’una chiara fonte viva / move ‘l dolce et l’amaro ond’io mi pasco (son. 164, vv
9-10)
Gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi (son. 190, v 13)
163
Per i rimandi bibliografici su tali convinzioni leggendarie si veda Santagata 1996, p. 839.
279
Pasco la mente d’un sì nobil cibo, / ch’ambrosia et nectar non invidio a Giove (son. 193,
vv 1-2)
Se le man’ di Pietà Invidia m’à chiuse, / fame amorosa, e ‘l non poter, mi scuse (canz.
207, vv 25-26)
Et di ciò inseme mi nutrico et ardo (canz. 207, v 39)
Queto i frali et famelici miei spirti (canz. 207, v 60)
Pascendosi di duol, d’ira et d’affanno (son. 224, v 11)
Send’io tornato a solver il digiuno / di veder lei che sola al mondo curo (son. 233, vv 5-6)
Ei perché ingordo, et io perché sì bella? (son. 240, v 14)
L’alma, nudrita sempre in doglia e ‘n spene / […] / contra ‘l doppio piacer sì ‘nferma fue,
/ ch’al gusto sol del disusato bene (son. 258, vv 9-12)
Preme ‘l cor di desio, di speme il pasce (canz. 264, v 58)
Il mio amato tesoro in terra trova, / che m’è nascosto, ond’io son sì mendico (canz. 270,
vv 5-6)
Di tua memoria et di dolor si pasce (son. 305, v 11)
Quella per ch’io ò di morir tal fame (canz. 325, v 110)
Li occhi belli, or in ciel chiari et felici / del lume onde salute et piove, / lasciando i miei
qui miseri et mendici (son. 328, vv 9-11)
Di memoria et di speme il cor pascendo (canz. 331, v 6)
Così, mancando a la mia vita stanca / quel caro nutrimento in che di morso / die’ chi ‘l
mondo fa nudo e ‘l mio cor mesto (canz. 331, vv 16-18)
Onde qua giuso un ben pietoso core / talor si pasce delli altrui tormenti (son. 340, v 10)
Del cibo onde ‘l signor mio sempre abonda, / lagrime et doglia, il cor lasso nudrisco (son.
342, vv 1-2)
[…] non questo tiranno / che del mio duol si pasce, et del mio danno (canz. 360, v 60)
Et al Signor ch’i’ adoro et ch’i’ ringratio, / […] / torno stanco di viver, nonché satio (son.
363, vv 12-14).
Trovatori
1.
Car solamen / vezen / m’estai aizida: / ve us que m ten a vida! (Arnaut Daniel, VII, vv 3033)
Lai on estai midonz, don ai gran fam (Arnaut Daniel, XII, v 12)
Q’en als no sojorn ni engrais (Cercamon, IX, v 41)
D’aquel joi viu, plus rics que l reis de Persa164 (Elias Cairel, V, v 42)
Si cum li peis an en l’aiga lor vida / l’ai eu en joi e totz temps la i aurai165 (Arnaut de
Maruelh, VIII, vv 1-2).
2.
Lo cors m’abranda / e ill huoill n’ant la vianda (Arnaut Daniel, VII, vv 28-29)
E pero res no m’afama / tant com s’amors, ni no m pais (Giraut de Bornelh, XXXIX, vv
31-32)
164
Questo tipo di paragoni, di carattere chiaramente iperbolico, sono molto diffusi in ambito trobadorico e
lasciano ancora qualche traccia nei più prossimi epigoni siciliani.
165
La medesima tipologia di paragoni si trova più volte anche nel Canzoniere.
280
Quar senes lyeis non puesc viure / tant ai pres de s’amor gran fam (Guglielmo IX, XI, vv
11-12)
Qe d’amor fui natz e noiritz166 (Marcabru, VI, v 12)
Car sos bel ris ab sa gaia semblanssa / mi pars mos huoills, tant m’agrada l vezers
(Folchetto da Marsiglia, XVII, vv 23-24)
Ben sabetz ab qual vianda, / bela domna, puesc guerir (Raimon de Miravall, XXXIV, vv
46-47)
E d’amar doussa sabor (Peire Vidal, XXVIII, v 15)
Que mil aitan m’en an mais de sabor / li ben qu’Amors mi fai aras sentir (Perdigon, II, vv
3-4)
Senes manjar, dompna, m poiriatz paiser / ab gen parlar, qe l cortes digz mi pai (Aimeric
de Peguilhan, XLVII, vv 33-34)
Q’om non sap las granz sabors / dels bes ni de las dolors / la greu penedensa / qui non
sap, a ma parvensa (Guilhem de la Tor, VIII, vv 35-38)
Per que no m platz s’amistatz derenan, / ni m pot far ben que ja m’agues sabor (Cadenet,
XXVI, vv 11-12)
Dìals no m soven ni no m fo saboros (Peire Raimon de Tolosa, XVI, v 17)
May selh, que m vol, m’aura tost restaurat / aquel destric, tant l’a bos pretz sabor (Guiraut
Riquier, XII, vv 14-15)
Que fis cors a per fin’amor / finamen ab fina sabor (Daude de Pradas, XIII, vv 3-4)
Qu’amors m’a dat saber, qu’aissi m noyris, / que s’om trobat non agues, trobaria
(Guilhem de Montanhagol, VIII, vv 19-20).
1.7 Trascurare i propri doveri
Si è parlato della condizione innaturale e dell’alienazione dell’amante secondo
prospettive diverse, tuttavia riferite al solo piano individuale. Le scelte erronee dell’io
poetico si ripercuotono in primo luogo su di lui, e in effetti non mancano i casi in cui
egli ammetta di soffrire a causa propria: i trovatori d’abitudine ammettono di aver in
qualche modo “fallito” nei confronti dell’amata, in Petrarca è spesso centrale l’aspetto
morale e penitenziale; più in generale l’amante cortese si accorge talvolta di aver
esagerato.
Il problema si fa più complesso quando la disforia amorosa provoca conseguenze sul
piano pubblico, quando cioè il poeta non riesce a compiere il proprio dovere a causa dei
legami sentimentali. I luoghi in questione non sono molti, ma di certo molto
significativi. Essi costituiscono d’altronde confessioni serie, benché non sempre si
avverta un’intonazione pentita e consapevole da parte dell’autore. Mentre in generale le
conseguenze dell’amore determinano comportamenti solo implicitamente contrari al
vivere comune, qui si esplicita il carattere anti-sociale e dunque scorretto della vita
amorosa. In Petrarca tale rappresentazione di sé si accosta all’autocoscienza dell’errore
in chiave morale, rendendo il ritratto complessivo dell’amante ancor più complesso.
L’uomo del Canzoniere sbaglia e riflette su di sé a tutti i livelli: spirituale, sociale,
sentimentale, poetico.
166
In realtà in questo caso a parlare è l’interlocutore con cui Marcabru sta tenzonando.
281
Gli ambiti in cui il poeta ammette le proprie manchevolezze sociali sono in sostanza
due, e coincidono perfettamente nel corpus occitanico e nella raccolta petrarchesca:
l’impossibilità di partire per la crociata167 e il mancato servizio al proprio
signore/patrono, in particolare nella forma di una prolungata assenza di cui ci si scusa,
senza però promettere una data precisa per il ritorno168.
Petrarca
Tu vedrai Italia et l’onorata riva, / canzon, ch’agli occhi miei cela et contende / non mar,
non poggio o fiume, / ma solo Amor che del suo altero lume / più m’invaghisce dove più
m’incende: / né Natura può star contra ‘l costume. (canz. 28, vv 106-111)
Dunque s’a veder voi tardo mi volsi / per non ravvicinarmi a chi mi strugge, / fallir forse
non fu di scusa indegno169 (son. 39, vv 9-11)
Signor mio caro, ogni pensier mi tira / devoto a veder voi, cui sempre veggio: / la mia
fortuna (or che mi pò far peggio?) / mi tene a freno, et mi travolve et gira170 (son. 266, vv
1-4).
Trovatori
Chansso, drogomans / seras mon seignor Coino, / e no m’ochaiso / car ieu no l’ai vist
enans (Elias Cairel, II, vv 45-48)
Bels Cavalliers, per cui fatz sos e motz, / non sai si m lais per vos o m leu la crotz, / ni sai
cum an ni sai comen remaigna, / que tant mi fai vostre bels cors plazer / q’ieu muor
s’ie’us vei e, qand no us puosc vezer, / cuich morir sols ab tot autra compaigna (Raimbaut
de Vaqueiras, XIX, vv 73-78)
Per saludar torn entre ls lemozis / cellas qui ant pretz cabau / Mos Bels Seigner e mos
Bels Cembelis / qieiron oimais qui las lau (Bertran de Born, IX, vv 9-12)
167
Tale aspetto è già stato presentato e commentato nel capitolo precedente, in merito alle canzoni di
crociata: qui riproponiamo solamente i passi interessati, in riferimento alla loro valenza convenzionale.
168
Non va escluso che il medesimo atteggiamento umile e simili scuse vengano rivolte all’amata, in
perfetta coerenza con la generale subordinazione del drudo. Ciò vale per una delle possibili
interpretazioni del petrarchesco sonetto 39 (vedi nota seguente), ma anche per i trovatori, ad esempio
Bernart de Ventadorn, XVI.
169
Come il testo citato di seguito, il sonetto 39 è interamente dedicato alle scuse per il proprio ritardo.
Forse anche per la coincidenza tematica con 266, per il quale non sussistono dubbi interpretativi, il
destinatario di 39 è oggi ritenuto per lo più Giovanni Colonna. Tuttavia la lettura più antica, in parte
sostenuta da Santagata 1996, p. 216, vuole che l’interlocutore sia in realtà Laura stessa. Presentiamo
dunque il passo a scopo di riflessione e non in virtù di un’interpretazione definitiva. Dei problemi
attributivi nei sonetti colonnesi del Canzoniere si tratterà con maggiore ampiezza nel settimo capitolo.
170
In realtà l’intero componimento è dedicato alle scuse al cardinale Colonna, per il prolungato ritardo nel
ritorno del poeta e cliente in Provenza. Nel sonetto Petrarca insiste sulla propria devozione nei confronti
del patrono e indica l’affetto che gli porta, presentandolo come uno dei propri (amati) vincoli terreni,
nonché sostegni. Tuttavia, storicamente, il componimento non è spontaneo, ma sollecitato dall’invio di un
invito/reclamo per tramite di Sennuccio del Bene, cui qui Petrarca risponde per le rime. Inoltre, nel testo
si intuisce l’assoluta preminenza dell’amore, la cui forza è vittoriosa sul poeta rispetto ad ogni altra
possibile attrattiva. Il sonetto appare per certi versi connesso a 269, planh per lo stesso cardinale Colonna,
subito successivo al ben più imponente dittico in morte di Laura (267-268), e soprattutto in gran parte
dedicato proprio a lei, nel parallelismo tra le due contemporanee disgrazie.
282
Pueis vi midons, bell’e bloia, / per qe mos cors mi vai afreollan / lai for’ab vos, s’ieu en
saupes aitan (Bertran de Born, XL, vv 26-28)
Pois vi midonz bell’e bloia / per que s’anet mos cors aflebeian, / q’eu fora lai, ben a pasat
un an171 (Bertran de Born, XLI, vv 12-14)
Per paor n’ai tant estat / d’una douza amor coral / que m’aucizes, non per al172 (Aimeric
de Belenoi, X, vv 12-14)
Dompna, s’ieu muer per vostr’amor be m plai, / mas ja no cug vezer mon senhor guai
(Raimon Jordan, III, vv 41-42)
E car lai no m’a vegut, / Mos Audiart m’a tengut, / qe m tira plus q’adimanz / ab diz et ab
faiz prezanz (Raimon de Miravall, XXXV, vv 65-68)
Que, si tot no m par, / mon senhor suy mentire, / qu’ieu prec e reblan / de cor e de talan: /
qu’estat n’ai mais d’un an, / ai fait gran folia / qu’ab luy aug venir / joy e pretz, tota via
(Gaucelm Faidit, XXXIV, vv 70-77)
E l Coms sap ben q’om non pot ren saber / de fin’amor qui amador guerreja, / ni drutz
non deu ad amic dan tener: / per qu’ieu non pens q’el m’auses retener (Gaucelm Faidit,
XXXV, vv 42-45)
E quar estauc, que ades no m’empenh / ves Suria, Dieus sap perque m’ave / que ma
domna, e l rey engles, mi te; / l’us per amor, e l’autre, per pauc faire / del gran secors que
m’avia en coven; / ges no m remanh, mas ben iray, plus len / quar d’anar ai bon cor, don
ges no m vaire, / qu’en nom de Dieu ai levat entresenh !173 (Gaucelm Faidit, LIV, vv 3340)
Chanssons, vai t’en dreich per Monmelian / en Montferrat, e di m’al pro Marques, / q’en
breu veirai lui e l comte de Bles, / […] / e digas li m leialmen, ses doptanssa, / qe Mos
Conortz mi reten sai tan gen, / per q’ieu estau, qe no ls vei plus soven174 (Gaucelm Faidit,
LXIII, vv 36-42)
Per lieys m’en perdrai l rey Ferrans / e las cortz e ls dos e ls baros (Guilhem Ademar, XII,
vv 43-44)
S’era part la crotz dels ris, / don anc hom non tornet sai, / non crezatz que m pogues lai /
retener nuills paradis (Peirol, XXIV, vv 41-44).
1.8 Divenire selvaggi
Un’altra forma di deviazione rispetto al consorzio civile, che mette in evidenza la
condizione del poeta, insieme tragica e fuori dall’ordinario, consiste nel divenire
“selvatico”. Benché non si tratti di un’immagine molto frequente nella produzione
occitanica (lo è maggiormente in quella siciliana), costituisce comunque un’espressione
efficace delle conseguenze di un amore disforico e senza prospettive. Viene poi ripresa
171
Non solo la situazione è identica, ma anche i primi due versi di ciascun passo sono quasi perfettamente
sovrapponibili; la variazione più significativa si coglie nella precisazione cronologica presentata nel
secondo brano. Per tali aspetti filologico-testuali si veda il capitolo secondo, in riferimento alla canzone di
crociata.
172
Il legame tra il momento amoroso e i doveri civili non è esplicitato, ma chiarito dal passaggio tra la
prima strofa (civile e dedicata al signore) e la seconda, qui citata.
173
Tali affermazioni del poeta sono tanto più interessanti in quanto suonano in parte realistiche, visto che
egli effettivamente fu crociato e lasciò numerose testimonianze liriche in tal senso.
174
Simile affermazione di scuse, ma rivolta alla dama, si trova in un'altra canzone di Gaucelm Faidit
(LXV).
283
da Petrarca con una certa insistenza, sempre in relazione al tema del contrasto con la
normalità.
Petrarca
Et maledico ‘l dì ch’i’ vidi ‘l sole, / che mi fa in vista un huom nudrito in selva (sest. 22,
vv 17-18)
Guarda ‘l mio stato, a le vaghezze nove / che ‘nterrompendo di mia vita il corso / m’àn
fatto habitador d’ombroso bosco (sest. 214, vv 31-33)
A la mia donna puoi ben dire in quante / lagrime io vivo; et son fatt’una fera (son. 287, vv
12-13)
Ond’io son fatto un animal silvestro (son. 306, v 5).
Trovatori
Don m’avetz cor salvatge (Arnaut de Maruelh, XXII, v 17)
Aissi farai lo conort del salvatge (Raimon Jordan, XI, v 32)
Vos deu esser enojos e salvatges (Raimon de Miravall, III, v 24)
C’aissi m’a faich vas las autras salvatge (Gaucelm Faidit, IX, v 25)
Car salvatgies, / plens d’enveia, / ai estat (Gaucelm Faidit, X, vv 9-11)
Que l’amador / vos tenon per salvatge (Castelloza, II, vv 13-14)
Per que vos m’etz tan fers175 ni tan salvatges (Comtessa de Dia, II, v 34)
Ben l’er al cor greu e fer e salvatge (Guilhem de Berguedà, XXV, v 35).
1.9 Follia e morte della ragione
I topoi che esprimono la condizione dell’amante ne rivelano già di per sé la condizione
psicologica priva di equilibrio. Ricorrono anche esplicite dichiarazioni, o meglio
ammissioni, relative all’effetto di disturbo che l’amore determina nella mente del poeta.
Il principio è il medesimo per i trovatori e per Petrarca. Ciononostante, la loro
realizzazione è opposta, il che è tanto più significativo in quanto i Provenzali appaiono
in sostanza concordi tra loro e il Canzoniere risulta in merito molto uniforme. Infatti,
per i primi l’amante è folle, per il secondo è privo di ragione176. In effetti, quello della
follia è un elemento consueto nelle logiche dell’amore cortese, come suggerisce la ben
nota ambiguità nell’interpretazione dell’esperienza amorosa (terrena) tra fin’amor e
fol’amor177. Per Petrarca, invece, sembra più rilevante sottolineare la rinuncia a un bene,
quello della ragione, che lui stesso descrive come capitale all’inizio della canzone 360:
“Quel’antiquo mio dolce empio signore / fatto citar dinanzi a la reina / che la parte
175
La definizione di “fera” ricorre più volte anche nel Canzoniere in riferimento a Laura.
Tuttavia non manca qualche isolata eccezione a tale tendenza generale, come nel caso di Gui d’Ussel,
I, v 36: “Qe l sens no i a poder contra l talan”.
177
Si veda a titolo introduttivo sul tema Picone 1998.
176
284
divina / tien di nostra natura e ‘n cima sede”178 (vv 1-4). Nel corso dell’intera raccolta la
ragione appare sconfitta dal desiderio e dalla passione179.
Tuttavia anche nel Canzoniere ricorre l’aggettivo folle: riferito al desiderio (in
alternanza con “traviato”, “sfrenato”, “sviato”180 ed altre forme di simile significato), al
pensiero d’amore, al pianto, con uno spostamento cioè dalla persona dell’innamorato
alle sue manifestazioni181.
Petrarca
Sì traviato è ‘l folle mi’ desio (son. 6, v 1)
Et la ragione è morta (canz. 73, v 25)
Gli occhi invaghiro allor sì de’ lor guai, / che ‘l fren de la ragione ivi non vale (son. 97,
vv 5-6)
La voglia et la ragion combattuto ànno / sette et sette anni; et vincerà il migliore, /
s’anime son qua giù del ben presaghe (son. 101, vv 12-14)
Quella ch’amare et sofferir ne ‘nsegna / e vòl che ‘l gran desio, l’accesa spene, / ragion,
vergogna et reverenza affrene (son. 140, vv 5-7)
Degli occhi onde mi vèn tanta dolcezza / che ‘l fren de la ragion Amor non prezza (son.
141, vv 6-7)
Fuggir disposi gl’invescati rami / tosto ch’incominciai di veder lume182 (sest. 142, vv 2930)
Morta fra l’onde è la ragion et l’arte (son. 189, v 13)
Per far lume al penser torbido et fosco (son. 194, v 7)
Regnano i sensi, et la ragion è morta (son. 211, v 7)
Ché ‘l duol pur cresce, et la ragion vèn meno (son. 236, v 3)
I’ nol posso negar, donna, et nol nego, / che la ragion, ch’ogni bona alma affrena, / non
sia dal voler vinta; ond’ei mi mena / talor in parte ov’io per forza il sego (son. 240, vv 58)
Et questo ad alta voce ancho richiama / la ragione sviata dietro ai sensi (canz. 264, vv
102-103)
L’arme tue furon gli occhi, onde l’accese / saette uscivan d’invisibil foco, / et ragion
temean poco (canz. 270, vv 76-78)
O caduche speranze, o penser’ folli! (son. 320, v 5).
178
Bisogna però notare che in precedenza Petrarca aveva usato una definizione molto simile per Amore:
“ch’a passo passo è poi fatto signore / de la mia vita, et posto in su la cima” (son. 65, vv 3-4)
179
Ancora nella canzone 360 la Ragione, personificata in veste di giudice, non si pronuncia in modo
definitivo sulle responsabilità di Amore (vv 155-157). Per il ruolo della canzone 360 nel delineare il
rapporto tra Amore e poeta, nel segno del legame e insieme della fuga, si veda il capitolo precedente.
180
Quest’ultima forma, che torna come vedremo anche in riferimento alla ragione, ha una sfumatura
morale molto coerente ed apprezzabile nel percorso penitenziale del Canzoniere.
181
Ricorre in due casi la forma “insano”, sinonimica, ma attenuata rispetto a “folle”: “per doglia insano”
(son. 43, v 7), “’l primo [pianto] non d’insania voto” (canz. 366, v 112).
182
Quasi tutti i commentatori sono concordi nell’interpretare questo “lume” come luce della ragione, che
pian piano l’innamorato sta riacquistando. Ovviamente tale interpretazione del topos dipende dalla natura
penitenziale e dalla funzione originaria della sestina nella redazione Correggio.
285
Trovatori
L’aer correi183, / quesc om folatura (Bernart Martì, I, vv 28-29)
Cor ai fol (Raimbaut d’Aurenga, XVIII, v 58)
Amors, e que us vejaire? / Trobatz mais fol mas can me ? (Bernart de Ventadorn, IV, vv
1-2)
Auiatz ! E fon anc mais dicha / tan grans foli’en chantan ? (Giraut de Bornelh, VII, vv 45)
Companho, farai un vers…covinen, / et aura i mai de foudatz no y a de sen, / et er totz
mesclatz d’amor et de joy e de joven (Guglielmo IX, I, vv 1-3)
Per q’es fol qui en amor cre / son sen, / ni ren fai qe il coman (Uc de Saint Circ, III, vv
10-11)
[…] pos ai perdut mon sen (Bertran d’Alamanon, XX, v 9)
Et ieu fols fui la vegada (Cercamon, IV, v 26)
Va, ben es fols qui s’i fia (Marcabru, XXV, v 26)
Mas eu avia plivenssa, / tant quant amei follamen, / en aisso c’om vai dizen (Folchetto da
Marsiglia, XII, vv 28-30)
Mas grans follors m’atrais, fals’amors vana (Elias Cairel, XIII, v 5)
En totz afars sui savis e gignos / mas midonz am tant q’ie n sui enfollitz (Raimbaut de
Vaqueiras, XI, vv 9-10)
Tornat m’agr’en la folor (Aimeric de Belenoi, VIII, v 2)
E conosc be que folh sen e leugier / ai, s’ab aitan no m’en tenc per manen (Monje de
Montaudon, II, vv 23-24)
Qu’i assai / un fol ardimen (Raimon Jordan, VII, vv 8-9)
Ni ia tant no m sabriatz dir, / que mai en la follia torn (Peire d’Alvernha, III, vv 10-11)
Luenh es de joi e pres es de folhor (Perdigon, VII, v 16)
Qu’estat n’ai mais d’un an, / at ai fait gran folia (Gaucelm Faidit, XXXIV, vv 74-75)
E pus razos m’es falhida (Cadenet, XI, v 8)
Sai q’ieu fauc follatge, / c’ad autrui don alegratge / et a mi pen’e tormen (Peire Raimon
de Tolosa, IV, vv 7-9)
Per que mos cors qu’a servit ses engan / a tal dona c’anc nom mostret amor, / c’al cap del
cors noi trobes ses pro dan, ( senblera’n fols, si segues la follor (Bartolomé Zorzi, XV, vv
19-22)
Domna, de vos chant e d’amor, / de qe m tenon fol li pluzor (Lanfranco Cigala, I, vv 6162).
1.10 I rapporti tra l’amante e il mondo esterno
Un altro aspetto problematico nel rapporto tra il poeta e il mondo, la società e
soprattutto l’amata concerne l’espressione dei sentimenti. Essa oscilla pericolosamente
fra due estremi: l’eccesso e la preclusione. Da una parte, il poeta vorrebbe tenere segreto
il proprio stato d’animo, che invece tende ad apparire nei gesti e nel volto; dall’altra
vorrebbe poterlo comunicare alla dama, che spesso invece rifiuta ogni occasione di
183
L’idea dell’aria frustata ricorda per certi aspetti l’aria preda di Arnaut Daniel e Petrarca nelle immagini
della caccia impossibile, di cui si è trattato con ampiezza nel primo capitolo.
286
intimità e dialogo. L’io lirico auspica quindi che per lo meno l’amata riesca ad
interpretare ciò che traspare involontariamente, per trarne almeno un vantaggio:
invariabilmente, si ha l’impressione che egli non abbia successo.
1.10.1 L’amore traspare nell’aspetto esteriore184: il pettegolezzo e il volgo
Com’è noto, secondo la visione cortese l’amore fino, per sua natura adulterino, deve
restare segreto: la questione dell’intimità è tanto sentita da aver generato altri due motivi
portanti dell’ideologia amorosa cortese, la lotta contro le malelingue e l’uso del senhal,
a protezione dell’identità femminile185. La capacità di mantenere il segreto e le frequenti
promesse in tal senso sono due aspetti tipici nell’autorappresentazione dell’io lirico, che
cerca di corteggiare e tranquillizzare l’amata. Nel Canzoniere il tema del pettegolezzo,
legato ad una concezione sociale (e feudale) dell’amore, non è ripreso alla lettera;
tuttavia si riconoscono alcuni spunti in cui, dietro la matrice classica, si può intuire
anche l’influenza della tradizione romanza. Nell’imbarazzo dell’io poetico di fronte alla
gente, nel voler evitare che il “vulgo” rida della propria condizione (è il topos della
fabula vulgi: il poeta diviene oggetto del chiacchiericcio popolare) si legge una forma
più evoluta, colta e sottile di un principio molto simile a quello applicato dai
trovatori186. La premessa, in entrambi i casi, concerne il trasparire all’esterno di ciò che
arde e si agita all’interno, nel cuore. Tale motivo è espresso di frequente in modo chiaro
nel Canzoniere; nei trovatori, al contrario, le occorrenze esplicite sono poche e per lo
più riferite al desiderio che l’amata voglia interpretare ciò che vede sul viso e negli atti
del suo vassallo, divenendo pietosa. Tuttavia, anche sottinteso, è un fattore rilevante
nelle dinamiche e nelle esperienze che il drudo si trova ad affrontare.
Petrarca
Ma ben veggio or sì come al popol tutto / favola fui gran tempo, onde sovente / di me
medesmo meco mi vergogno (son. 1, vv 9-11)
Di ch’io son facto a molta gente exempio (canz. 23, v 9)
Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, / perché negli
atti d’alegrezza spenti / di fuor si legge com’io dentro avampi (son. 35, vv 5-8)
Certo cristallo o vetro / non mostrò mai di fore / nascosto altro colore, / che l’alma
sconsolata assai non mostri / più chiari i pensier’ nostri, / et la fera dolcezza ch’è nel core
(canz. 37, vv 57-62)
Solo la vista mia del cor non tace (son. 49, v 14)
184
L’affermazione stessa per cui il viso del poeta rivela il suo stato d’animo è ben riconoscibile in ambito
trobadorico ed importantissima in Petrarca, benché dal punto di vista espressivo tali occorrenze delineino
una connessione meno immediata e stringente.
185
Sul nome dell’amata e il gioco di rivelazione/mistificazione in cui è coinvolto si tornerà nel corso del
presente capitolo.
186
Si noti per contrasto che il poeta non ha nessun problema a comunicare, a “farsi udire” (son. 217, v 2)
laddove l’espressione dei sentimenti sia letterariamente elaborata, cioè attraverso la sua poesia. Anche
leggendo i trovatori si ha spesso l’impressione che la finzione lirica imponga di immaginare che il testo
sia destinato ed effettivamente recapitato soltanto all’amata.
287
Dentro là dove sol con Amor seggio, / quasi visibilmente il cor traluce (canz. 72, vv 5-6)
Per quel ch’i’ sento ov’occhio altrui non giunge (canz. 73, v 9)
E ‘l cor negli occhi et ne la fronte ò scritto (son. 76, v 11)
Così mancando vo di giorno in giorno, / sì chiusamente, ch’i’ sol me n’accorgo / et quella
che guardando il cor mi strugge187 (son. 79, vv 9-11)
Così potess’io ben chiudere in versi / i miei pensier’, come nel cor gli chiudo, / ch’animo
al mondo non fu mai sì crudo / ch’i’ non facessi per pietà dolersi (son. 95, vv 1-4)
Miri ciò che ‘l cor chiude / Amor et que’ begli occhi (canz. 125, vv 20-21)
Et come Amor l’envita, / or ride, or piange, or teme, or s’assecura; / e ‘l volto che lei
segue ov’ella il mena / si turba et rasserena, / et in un esser picciol tempo dura; / onde a la
vista huom di tal vita experto / diria: Questo arde, et di suo stato è incerto188 (canz. 129,
vv 7-13)
Talor armato ne la fronte vène: / ivi si loca, et ivi pon sua insegna (son. 140, vv 3-4)
Trova chi le paure et gli ardimenti / del cor profondo ne la fronte legge, / et vede Amor
che sue imprese corregge / folgorar ne’ turbati occhi pungenti (son. 147, vv 5-8)
Et mostravan di fore / la mia angosciosa et desperata vita (bal. 149, vv 7-8)
Nel fondo del mio cor gli occhi tuoi porgi, / a te palese, a tutt’altri coverto (son. 163, vv
3-4)
Lasso, ch’i’ ardo, et altri non me ‘l crede; / sì crede ogni uom, se non sola colei / che
sovr’ogni altra, et ch’i’ sola, vorrei: / ella non par che ‘l creda, et sì sel vede (son. 203, vv
1-4)
Ma spesso ne la fronte il cor si legge189 (son. 222, v 12)
Se ne la fronte ogni penser depinto (son. 224, v 5)
E ‘l vulgo a me nemico et odioso / (chi ‘l pensò mai?) per mio refugio chero: / tal paura ò
di ritrovarmi solo190 (son. 234, vv 12-14)
Quella ch’al mondo sì famosa et chiara / fe’ la sua gran virtute, e ‘l furor mio (son. 295,
vv 13-14)
Ov’è l’ombra gentil del viso humano / ch’ombra et riposo dava a l’alma stanca, / et là ‘ve
i miei pensier’ scritti eran tutti? (son. 299, vv 9-11)
Già tralucea a’ begli occhi il mio core, / et l’alta fede non più lor molesta (son. 317, vv 56)
Tu che dentro mi vedi, e ‘l mio mal senti (son. 340, v 12)
Or nel volto di Lui che tutto vede / vedi ‘l mio amore, et quella pura fede191 (son. 347, vv
6-7)
Ch’ella, che vede tutti miei penseri, / m’impetre gratia, ch’i’ possa esser seco (son. 348,
vv 13-14).
187
Qui, come poi in 95, il poeta ribadisce piuttosto la propria abilità nel tenere nascosti e segreti i suoi
stati d’animo. Anche in questo l’amore appare contraddittorio.
188
Perfetta definizione della condizione contraddittoria tipica, come si è visto, per gli amanti.
189
Il concetto appare qui espresso come in una massima o in una regola generale; nello specifico, è
riferito a Laura.
190
Non si ribalta in realtà il principio di partenza (il rifiuto per la gente), ma soltanto l’esito: poiché l’odio
per se stesso, profonda manifestazione delle alterazioni interiori causate dall’amore, è ancor più radicato
nell’animo del poeta di quello per la gente.
191
Il topos mantiene ancora la sua connotazione amorosa in relazione all’oggetto della visione (qui la fede
del poeta è ancora rivolta all’amata), ma il principio che lo consente ha una matrice cristiana esplicita.
288
Trovatori
Que tals joys m’a pres e m’azeis / dont ja non creirai fals prezic: / anz voill c’om mi tail
la lenga / s’ieu ja de leis crei lauzenga (Raimbaut d’Aurenga, XXXVIII, vv 35-38)
Si no fos gens vilana / e lauzenger savai, / eu agr’amor certana (Bernart de Ventadorn,
XXXVII, vv 41-43)
Dels lausengiers me tenc molt per garaz / […] / car m’an faidit del pais on estaz !192
(Giraut de Bornelh, LII, vv 33-35)
Estz lauzengiers, lengua-trencas, / cuy Dieus cofonda et azir, / meton proeza en balans
(Marcabru, XXXIV, vv 15-17)
Q a lauzengiers sai q’abellira, / donna, q’estiers non lur garira (Raimbaut de Vaqueiras,
XV, vv 49-50)
Fals enveios fementit lausengier, / pois ab midonz m’avetz mes destorbier / be us lausera
qe m laissasetz estar (Bertran de Born, VI, vv 49-51)
Car enveios e lausengier, / per cui mainz bes d’amor dechai, / m’en fan paor, per qe m
suffer (Rambertino Buvalelli, II, vv 17-19)
No sai cum li m fassa saber / mon cor, que quant hieu m’o cossir / ades tem qu’autre s’o
abir, / e guart sai e lay per vezer / si negus albira mon cor (Aimeric de Belenoi, II, vv 4145)
Contra ls lauzengiers enveyos, / mal parlans, per qui jois delis (Arnaut de Maruelh, XVI,
vv 36-37)
Neis quan cossir de vos tem lauzengiers: / qui non parla, de que er messongiers ?
(Raimon Jordan, XII, vv 16-17)
E no mi tenran dan digz durs / d’omes iros / ni lauzengiers lengutz (Peire d’Alvernha,
XVI, vv 24-26)
Son belh cors, cortes e gay, / m’an fayt lauzengier / estranh, que m son guerrier (Raimon
de Miravall, XXIX, vv 11-13)
Per qu’al sue ric senhoriu / lauzengiers no pot far cors (Peire Vidal, XVI, vv 15-16)
Plassa l mos bes, puois sieus sui domengiers, / a mon dan met gelos e lausengiers
(Perdigon, IX, vv 21-22)
En greu esmai et en greu pessamen / an mes mon cor et en granda error / li lauzengier e l
fals devinador (Clara d’Anduza, I, vv 1-3)
C’a dompna taing ben esquivar / lo bruit dels fals devinadors (Gui d’Ussel, III, vv 25-26)
Eras diran lausenger envejos / qu’eu dic fencha, a ley de desleyal (Cerverì de Girona, LX,
vv 15-16)
Mas ar m’ave, mal grat mieu, far parer lo pensamen q’el cor no m pot caber (Daude de
Pradas, XII, vv 2-3).
192
L’immagine consueta appare qui del tutto rovesciata, il che ricorda per certi aspetti il sonetto 234, in
cui il volgo diviene strumento di protezione per Petrarca. Lì però si trattava di fuggire se stessi e il proprio
dolore, in Giraut invece la dama e i suoi sguardi micidiali. Anche tale immagine ovviamente è topica e
soprattutto offre un ulteriore riscontro in Petrarca nel sonetto 39, dove la necessità di restare lontano da
casa (su cui ci siamo soffermati poco sopra) deriva proprio dal pericolo cui è esposto lo sguardo dell’io
poetico.
289
1.10.2 Il desiderio di confidarsi con l’amata
Una ragione di tormento molto sentita dai trovatori è l’impossibilità di confidare
sentimenti, desideri e sofferenze all’amata. In numerosi componimenti l’io poetico lotta
con se stesso per resistere alla tentazione di rivolgersi alla dama per chiederle
comprensione, incerto se trasgredire o meno il preciso divieto che ella ha emesso. In
diverse occasioni l’innamorato dichiara tristemente di aver perduto tutti i vantaggi di cui
godeva nel momento in cui la dama ha appreso della sua condizione: l’amore dunque
non deve solo rimanere ignoto al mondo, ma celato alla sua stessa destinataria.
Anche Laura, da viva, si comporta in modo ostile verso i sentimenti del poeta193: il testo
più rappresentativo è forse la ballata 11, in cui l’io lirico lamenta la perdita dello
sguardo, seguita alla scoperta dei suoi desideri, sino ad allora rimasti nascosti. È
interessante notare la differenza che Petrarca pare volutamente frapporre tra la propria
vicenda amorosa e quella dantesca, proprio rifacendosi piuttosto alle fonti trobadoriche:
mentre nella Vita nova Dante perde il saluto a seguito della strategia delle donneschermo, nel Canzoniere non viene coinvolta alcuna figura femminile secondaria194 ed è
l’amore in sé a costituire l’oggetto del rifiuto da parte di Laura, richiamando perciò
l’esempio provenzale195. Rispetto agli antecedenti occitanici, però, Petrarca introduce
l’aspetto morale: il problema è l’ambiguità di quell’amore terreno, come dimostra
l’insistenza del poeta ormai maturo sull’onestà (anche retrospettiva) della propria
speranza, la scoperta degli intenti di Laura, e la disponibilità di quest’ultima dopo la
morte, cioè quando ogni incertezza era ormai impossibile196.
Petrarca
Lassare il velo o per sole o per ombra, / donna, non vi vid’io / poi che in me conosceste il
gran desio / ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra (bal. 11, vv 1-4)
Pur mi darà tanta baldanza Amore / ch’i’ vi discovrirò de’ mei martiri / qua’ sono stati gli
anni e i giorni et l’ore (son. 12, vv 9-11)
Poi la rividi in altro habito sola, / tal ch’i’ non la conobbi, oh senso humano, / anzi le dissi
‘l ver pien di paura; / ed ella ne l’usata sua figura / tosto tornando, fecemi, oimé lasso, /
d’un quasi vivo et sbigottito sasso (canz. 23, vv 75-80)
Et se la lingua di seguirlo è vaga, / la scorta pò, non ella, esser derisa (son. 75, vv 7-8)
193
Nella seconda sezione e dopo la scomparsa dell’amata, l’io poetico comprenderà le vere e benevole
intenzioni dell’amata.
194
Si è già insistito più volte sull’assenza di donne alternative a Laura nel Canzoniere, soprattutto in
relazione all’accusa da cui il poeta si difende nella canzone-escondich 206. Il rapporto con la Vita nova
sarà approfondito nel capitolo successivo.
195
Per i temi del rifiuto o della rinuncia ad Amore e gli aspetti che sembrano essere ripresi e trasfigurati
da Petrarca si veda anche il capitolo precedente.
196
Abbiamo anticipato tale aspetto parlando del guiderdone; se ne tratterà ulteriormente in merito
all’invecchiamento degli amanti.
290
Quella ch’amare et sofferir ne ‘nsegna / e vòl che ‘l gran desio, l’accesa spene, / ragion,
vergogna, et reverenza affrene, / di nostro ardir fra se stessa si sdegna197 (son. 140, vv 58)
Ma ‘l soverchio piacer, che s’atraversa / a la mia lingua, qual dentro ella siede, / di
mostrarla in palese ardir non ave (son. 143, vv 12-14)
Ite dolci penser’, parlando fore / di quello ove ‘l bel guardo non s’estende (son. 153, vv 56)
Allor raccolgo l’alma, et poi ch’aggio / di scovrirle il mio mal preso consiglio, / tanto gli
ò a dir, che ‘ncominciar non oso (son. 169, vv 12-14)
Con che honesti sospiri l’avrei detto / le mie lunghe fatiche, ch’or dal cielo / vede, son
certo, et duolsene anchor meco! (son. 316, vv 12-14)
Pur, vivendo, veniasi ove deposto / in quelle caste orecchie avrei parlando / de’ miei dolci
pensier’ l’antiqua soma (son. 317, vv 9-11)
L’aura mia sacra al mio stanco riposo / spira sì spesso, ch’i’ prendo ardimento / di dirle il
mal ch’i’ ò sentito et sento, / che, vivendo ella, non sarei stat’oso (son. 356, vv 1-4).
Trovatori
A mans chantan leis que m’ecolp’a tort, / qu’ieu n’ai lezer qu’estiers non parl’ab tres
(Arnaut Daniel, VI, vv 6-7)
Sitot m’o tenetz a foles / per tan no m poiria layssar / que ieu mon talan non disses
(Raimbaut d’Aurenga, XXIV, vv 8-10)
E qar no pot qec dia / dir a s’amiga son talan (Giraut de Bornelh, XLII, vv 78-79)
De tal domna sui cubeitos, / a cui non aus dir mon talen (Jaufré Rudel, VI, vv 15-16)
Ni ieu mezeis, tan tem faillir, / non l’aus m’amor fort l’asemblar (Guglielmo IX, VIII, vv
45-46)
Ges no m’ausi conssirar / que vos prec, ni vos aus dir / cum m’en faitz languen morir (Uc
de Saint Circ, XV, vv 41-43)
Q’eu non l’aus dir com m’auci ab turmenz (Bertran d’Alamanon, XIX, v 6)
Quans suy ab lieys si m’esbahis / qu’ieu no ill sai dire mon talan (Cercamon, I, vv 15-16)
Mas per paor non fezes d’un mal dos / no vos ausi lo mieu maltrag devire (Folchetto da
Marsiglia, V, vv 24-25)
Vos, a cui non aus retraire / mos mals, per q’eu muor temenz (Sordello, V, vv 4-5)
Sivals que li fos fortz d’aitan / que li disses, ben apensatz, / si cum yeu l’am finamen ses
bauzia (Alegret, I, vv 19-21)
Vai l denan merceian. / Non aus. Per que? Car val tan (Elias Cairel, VIII, vv 32-33)
Qu’estiers non us aus descubrir / so qu’ieu ai e mon coratge (Raimbaut de Vaqueiras,
XXX, vv 4-5)
Voler l’aus eu, et aver cor volon, / mas no il aus dir mon cor, anz lo il rescon (Bertran de
Born, XXIII, vv 7-8)
Tal que a midonz sapcha dir / tot mon talan e mon desir (Rambertino Buvalelli, I, vv 2-3)
Que non l’aus far parven / com l’am forsadamen (Aimeric de Belenoi, XIV, vv 32-33)
Mas quar non aus mostrar mon cossirier / de tal guiza qu’a lieys no saubes mal (Monje de
Montaudon, II, vv 27-28)
197
In questo caso non si rimprovera al poeta neppure di aver parlato, ma solo di aver mostrato
esteriormente i propri sentimenti (l’immagine è quella di Amore e delle sue insegne sulla fronte).
291
Ges no l’aus mostrar ma dolor (Arnaut de Maruelh, V, v 8)
Que neis mos precs non l’auzi far entendre (Raimon Jordan, II, v 13)
Mas no l sai dir lauzenguas ni prezicx (Peire d’Alvernha, XII, v 33)
C’a la bella de bon aire / non aus mostrar ni retraire / mon cor qu’ill tenc recondut
(Raimon de Miravall, XXXVII, vv 15-17)
E l deziriers que m’aura tost aucis: / et a n gran tort, mas eu non lo lh aus dire (Peire
Vidal, XLI, vv 29-30)
Pus descobrir non l’aus ma fin’amansa (Aimeric de Peguilhan, XXIX, v 18)
E m’es fals e cossireos, / mas ieu non lo y auzei dir / e lai on plus la remir (Gaucelm
Faidit, II, vv 25-26)
Las! Ieu non aus mon messatge enviar / ni tant d’ardit non ai q’ieu l’an vezer (Folquet de
Romans, XVI, vv 17-18)
Que, quan sa dompn’a valor / e beutat e cortezia, / no l’auza son talan dir (Cadenet, II, vv
5-7)
Morrai per mo nescies, / quar no l’aus mostrar ni dir / la dolor que m fai sufrir (Peire
Raimon de Tolosa, II, v 9-11)
Per so m don gaug e dol, qar no il aus dir / lo ben qe il vueilh, per q’ieu ab ioi m’açir
(Arnaut Catalan, III, vv 15-16)
E non l’aus mostrar mon talan (Daude de Pradas, II, v 5).
1.11
Metafore e similitudini
Per rappresentare la condizione dell’innamorato, sia nel corpus trobadorico sia nel
Canzoniere abbondano metafore e similitudini, per le quali, in alcuni casi, si può
riconoscere una matrice comune. La resa petrarchesca appare però molto più elaborata e
soprattutto approfondita. Lo si nota con particolare chiarezza a proposito della metafora
della pesca198 e di quella della caccia. In entrambi i casi, le occorrenze trobadoriche
sono pochissime199: nella maggior parte dei casi caccia e pesca sono affrontate in
termini realistici e letterali. Petrarca, invece, sviluppa con ampiezza e varietà di
soluzioni entrambe le immagini, in particolare quella venatoria: si passa da forme brevi
a rappresentazioni più complesse. L’aspetto penitenziale gioca senza dubbio un ruolo
centrale nel trasformare ed arricchire le immagini più convenzionali; anche in generale,
però, si nota un’ispirazione esistenziale e analitica che non ha paragoni nella lirica
occitanica.
198
Il poeta è preso all’amo e vittima dell’esca. Tuttavia nel Canzoniere l’esca può anche essere quella del
fuoco: non sempre il contesto chiarisce in modo netto quale dei due campi semantici sia preminente. A
sua volta, l’esca può essere associata alla dimensione venatoria o alle trappole in cui l’io poetico rischia di
cadere a causa di Amore.
199
Un’unica occorrenza della metafora ittica si trova in Elias Cairel, VI, vv 35-37.
Cinque autori propongono invece la metafora della caccia: Raimbaut d’Aurenga, XXXVIII, vv 31-32;
Bernart de Ventadorn, XVI, vv 1-8; Elias Cairel, VI, vv 53-54 (nella tornada e con riferimento politico,
non amoroso); Peire Vidal, XXXIII, vv 41-44; Bertran de Born, XIII (ma si tratta di un sirventese
politico-militare).
292
1.11.1 Metafora equestre
Rispetto all’area semantica equestre l’uso petrarchesco appare affine, nelle sue linee
essenziali, a quello trobadorico, benché nel Canzoniere l’immagine sia ispirata, a livello
concettuale, alla tradizione classica e in particolare al mito platonico dell’auriga.
Tuttavia, il topos del freno e degli sproni, in particolare se legati al tema della ragione, è
ben radicato nella lirica amorosa, tanto che si ritrova anche nella produzione siciliana200:
ciò rende proficuo comparare l’approccio petrarchesco a quello occitanico. In entrambi
gli ambiti, il concetto fondamentale è semplice: il poeta è dominato da Amore e dalla
dama come se fosse guidato dalle briglie. Tale immagine propone in termini
efficacissimi la condizione subordinata dell’amante e il suo essere forzato, sottomesso e
guidato, a prescindere o spesso contro la propria volontà201.
Petrarca
Né mi vale spronarlo, o dargli volta, / ch’Amor per sua natura il fa restio. / Et poi che ‘l
fren per forza a sé raccoglie, / i’ mi rimango in signoria di lui (son. 6, vv 7-10)
Ma quell’ingiuria già lunge mi sprona / da l’inventrice de le prime olive (son. 24, vv 7-8)
Largai ‘l desio, ch’i’ teng’or molto a freno, / et misil per la via quasi smarrita (son. 47, vv
5-6)
Vergogna ebbi di me, ch’al cor gentile / basta ben tanto, et altro spron non volli (son. 67,
vv 10-11)
Et la ragione è morta, / che tenea ‘l freno, et contrastar nol pote (son. 73, vv 25-26)
Ora veggendo come ‘l duol m’affrena (son. 87, v 12)
Gli occhi invaghiro allor sì de’ lor guai, / che ‘l fren de la ragione ivi non vale (son. 97,
vv 5-6)
In quella parte dove Amor mi sprona / conven ch’io volga le dogliose rime (canz. 127, vv
1-2)
E vòl che ‘l gran desio, l’accesa spene, / ragion, vergogna et reverenza affrene (son. 140,
vv 6-7)
Così sempre io corro al fatal mio sole / degli occhi onde mi vèn tanta dolcezza / che ‘l
fren de la ragion Amor non prezza (son. 141, vv 5-7)
Quando ‘l voler che con duo sproni ardenti, / et con duro fren, mi mena et regge (son.
147, vv 1-2)
O bel viso ove Amor inseme pose / gli sproni e ‘l fren ond’el mi punge et vole (son. 161,
vv 9-10)
Ben veggio io di lontano il dolce lume / ove per aspre vie mi sproni et giri, / ma non ò
come tu da volar piume (son, 163, vv 9-11)
[…] onde seco et con Amor si lagna, / ch’à sì caldi gli spron’, sì duro ‘l freno (son. 173,
vv 7-8)
Amor mi sprona in un tempo et affrena (son. 187, v 1)
Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge (son. 211, v 1)
200
201
Ravera 2013, pp. 211-212.
Non proporremo qui tutti i luoghi coinvolti, che sono molto numerosi, soprattutto nel Canzoniere.
293
Solea frenare il mio caldo desire, / per non turbare il bel viso sereno: / non posso più; di
man m’ài tolto il freno, / et l’alma desperando à preso ardire (son. 236, vv 5-8)
I’ nol posso negar, donna, et nol nego, / che la ragion, ch’ogni bona alma affrena, / non
sia dal voler vinta […] (son. 240, vv 5-7)
Mentre che ‘l corpo è vivo, / ài tu ‘l freno in bailia de’ penser’ tuoi (canz. 264, vv 32-33)
Mi ritien con un freno / contra chui nullo ingegno o forza valme (canz. 264, vv 79-80)
La mia fortuna (or che mi pò far peggio?) / mi tene a freno, et mi travolve et gira (son.
266, vv 3-4).
Trovatori
Mas si m tenetz ferme el fre / c’autra no m platz que m m’estre (Raimbaut d’Aurenga,
XXVI, vv 55-56)
Qu’ilh ades no m tenh’ en so fre (Bernart de Ventadorn, XVII, v 4)
C’una dolors / que m sobreve, / me vira l fre (Giraut de Bornelh, I, vv 14-16)
E mon cavals i cor tan len, / greu er c’uimais i ateigna (Jaufré Rudel, VI, vv 12-13)
Si non pot aver caval, … compra palafrei202 (Guglielmo IX, II, v 18)
De sol la paor ai fach fre203 (Marcabru, VIII, v 36)
C’aisi m te / Amors prese l fre (Folchetto da Marsiglia, XIX, vv 6-7)
Que sos amanz vol muera honradaman / d’armas, si n muor, que cil que ten en fre
(Sordello, XVIII, vv 41-42)
Hie m prenc ades ab ambas mas lo fre (Perdigon, VII, v 7)
Aisso m tira si lo fre (Gaucelm Faidit, XXXVIII, v 37)
Que ja m viretz lo fre, / amics, no n façatz re (Casteloza, II, vv 33-34)
Que gras cavals, quan s’eslaisa, / tira be l fre e l’acaisa, / per que bos vasals crebanta
(Guilhem Ademar, V, vv 14-16)
Car fin’ amors tot al cobe lo fre (Bertran Carbonel, XI, v 19)
Q’el destreing l’un e laiss’a l’autre l fre (Lanfranco Cigala, VII, v 13)
E suy pojatz en la cella, / vostr’amistat me tira l fre (Guilhem de Berguedà, XXVIII, vv
14-15).
1.11.2 Metafora nautica
Tra gli usi metaforici topici, quello legato alla sfera nautica è forse il più caratteristico
della lirica petrarchesca. Il poeta porta l’immagine ad uno straordinario sviluppo, come
si nota con chiarezza confrontando le occorrenze tratte dal Canzoniere con quelle
proprie del corpus trobadorico204. Nell’uso petrarchesco si possono distinguere tre
202
Sia in questa che nella prima canzone di Guglielmo IX la metafora equestre assume una forma ben
diversa da quella consueta, poiché essa risulta estesa a mascherare completamente la figura di uno degli
amanti (le dame nella prima, un possibile amante nella seconda).
203
Qui il freno ha valore morale, in perfetta coerenza con le tematiche più tipiche e frequenti nel corpus
marcabruniano; tuttavia l’autore si riferisce specificamente alla dimensione amorosa che intende
censurare.
204
In area occitanica è più frequente, come mostreranno i luoghi citati, la comparazione che la metafora;
per tale uso si legga anche Scarpati 2008, pp. 154-159. La medesima tendenza si coglie in ambito
siciliano, dove però resta un'unica occorrenza, in forma appunto di paragone, che coinvolge anche
l’immagine del porto.
294
diverse sfumature principali, di cui si darà conto nell’organizzazione dei passi citati: 1.
un uso generico, 2. un’accezione esistenziale, per lo più morale e penitenziale, infine 3.
un’interpretazione puramente amorosa205.
Petrarca
1.
Et non s’aspira al glorioso regno / certo in più salda nave (canz. 29, vv 41-42)
Allor riprende ardir Saturno et Marte, / crudeli stelle; / et Orione armato / spezza a’ tristi
nocchier’ governi et sarte (son. 41, vv 9-11)
Del lito occidental si move un fiato, / che fa securo il navigar senza arte (son. 42, vv 9-10)
Lo qual [spirito] senz’alternar poggia con orza206 (son. 180, v 5)
[…] or fa cavalli or navi / Fortuna, ch’al mio mal sempre è sì presta (son. 253, vv 13-14)
Indi per alto mar vidi una nave, / con le sarte di seta, et d’òr la vela, / tutta d’avorio et
d’ebeno contesta; / e ‘l mar tranquillo, et l’aura era soave, / e ‘l ciel qual è se nulla nube il
vela, / ella carca di ricca merce honesta: / poi repente tempesta / oriental turbò sì l’aere et
l’onde, / che la nave percosse ad uno scoglio (canz. 323, vv 13-21).
2.
Chi è fermato di menar sua vita / su per l’onde fallaci et per li scogli / scevro da morte
con un picciol legno, / non pò molto lontan esser dal fine207 (sest. 80, vv 1-4)208
[…] O cruda mia ventura, / che ‘n carne essendo, veggio trarmi a riva / ad una viva dolce
calamita! (canz. 135, vv 28-30)
Dolce m’è sol senz’arme esser stato ivi, / dove armato fier Marte, et non acenna, / quasi
senza governo et senza antenna / legno in mar, pien di penser’ gravi et schivi (son. 177,
vv 5-8)
Passa la nave mia colma d’oblio / per aspro mare, a mezza notte il verno, / enfra Scilla et
Caribdi; et al governo / siede ‘l signore, anzi ‘l nimico mio209 (son. 189, vv 1-4)
Regg’anchor questa stanca navicella / col governo di sua pietà natia (canz. 206, vv 39-40)
Né mai saggio nocchier guardò da scoglio / nave di merci preciose carca, / quant’io
sempre la debile mia barcha / da le percosse del suo duro orgoglio (son. 235, vv 5-8)
Che giova dunque perché tutta spalme / la mia barchetta, poi che ‘nfra li scogli / è ritenuta
anchor da ta’ duo nodi? (canz. 264, vv 81-83)
205
Alle immagini nautiche, soprattutto nel loro significato esistenziale, si associa spesso quella della
tempesta, che rappresenta, in chiave metaforica, le difficoltà e le fatiche del vivere terreno. Le occorrenze
nel Canzoniere sono tutt’altro che trascurabili, anche in contesti autonomi rispetto alle altre metafore
marine (si vedano in particolare i ff. 41, 66, 73, 113, 189, 206, 235, 272, 277, 292, 303, 317, 323, 365,
366).
206
In questo caso l’uso di elementi nautici, per altro negati, in riferimento allo spirito è dovuto
all’immagine realistica del poeta fisicamente in viaggio, sul Po e quindi navigando.
207
Il passo qui riportato costituisce solo l’avvio della sestina: come in parte si può leggere, ben quattro
delle parole rima (scogli, legno, porto e vela) sono tratte dal campo semantico nautico e dunque l’intero
componimento è basato su tale uso metaforico.
208
Per certi aspetti, comunque, la rappresentazione nautica della sestina 80 comprende anche l’idea di
navigazione amorosa, che porta ad esiti pericolosi, o addirittura disastrosi.
209
In realtà l’intero sonetto utilizza una serie di metafore nautiche per rappresentare i vari aspetti del
tormento amoroso e delle sue manifestazioni fisiche. Come già nel caso della sestina 80, gli aspetti
esistenziali si sommano a quelli tipici della vicenda amorosa.
295
[…] perch’ad uno scoglio / avem rotto la nave (canz. 268, vv 15-16)
[…] et poi da l’altra parte / veggio al mio navigar turbati i venti (son. 272, vv 10-11)
Onde si sbigottisce et si sconforta / mia vita in tutto, et notte et giorno piange, / stanca
senza governo in mar che frange, / e ‘n dubbia via senza fidata scorta (son. 277, vv 5-8)
Rimaso senza ‘l lume ch’amai tanto, / in gran fortuna e ‘n disarmato legno (son. 292, vv
10-11)
Ditele ch’i’ son già di viver lasso, / del navigar per queste horribili onde; / ma ricogliendo
le sue sparte fronde, / dietro le vo pur così passo passo (son. 333, vv 5-8)
Vergine chiara et stabile in eterno, / di questo tempestoso mare stella, / d’ogni fedel
nocchier fidata guida, / pon’ mente in che terribile procella / i’ mi ritrovo sol, senza
governo (canz. 366, vv 66-70).
3.
Et non s’aspira al glorioso regno / certo in più salda nave (canz. 29, vv 41-42)
[…] et di ciò son contento, / presto di navigare a ciascun vento (bal. 63)
Come a forza di venti / stanco nocchier di notte alza la testa / a’ duo lumi ch’à sempre il
nostro polo, / così ne la tempesta / ch’i’ sostengo d’Amor, gli occhi lucenti / sono il mio
sostegno e ‘l mio conforto solo210 (canz. 73, vv 46-51)
L’aura soave a cui governo et vela / commisi entrando a l’amorosa vita / et sperando
venire a miglior porto (sest. 80, vv 7-9)
Fra sì contrari venti in frale barca / mi trovo in alto mar senza governo, / sì lieve di saver,
d’error sì carca (son. 132, vv 9-12)
A ciascun remo un penser pronto et rio / che la tempesta e ‘l fin par ch’abbi a scherno; / la
vela rompe un vento humido eterno / di sospir’, di speranze et di desio. / Pioggia di
lagrimar, nebbia di sdegni / bagna et rallenta le già stanche sarte, / che son d’error con
ignorantia attorto (son. 189, vv 5-11)
Et so che del mio mal ti pesa et dole, / anzi del nostro, perch’ad uno scoglio / avem rotto
la nave (canz. 268, vv 14-16).
Trovatori
Me ditz q’ela m fo vel’e rems (Giraut de Bornelh, XIX, v 30)
Qu’aissi con de nau perida / don res non pot escapar / mas per esfors de nadar (Rigaut de
Berbezilh, I, vv 23-25)
E puys guida l ferm’estela luzens / ias naus que van perillan per la mar (Sordello, II, vv
17-18)
E failla m vens qan serai sobre mar211 (Bertran de Born, VI, v 39)
210
La rappresentazione di Laura, o più precisamente dei suoi occhi, come stella polare o comunque
riferimento (eventualmente negato) essenziale nella vita (non solo amorosa) si ritrova più volte nell’arco
della raccolta (ff. 63, 73, 160, 189, 272), prima di passare ad una simile identificazione volta però alla
Vergine (canzone 366). In effetti, la celebrazione di Maria come stella maris, protettrice dei marinai, che
torna appunto in 366, è topica. Inoltre, Laura è più volte indicata come “guida” del poeta, in alternativa ad
Amore. Forse tali suggestioni hanno contribuito all’elaborazione dell’immagine qui citata nella versione
di 73.
211
Qui l’immagine non ha valore metaforico, ma realistico, come d’altronde succede non di rado nelle
rappresentazioni semi-biografiche dei trovatori, ad esempio laddove si parli di crociata. Tuttavia in questo
296
Qe cum la naus que meno lo tempiers, / que sobre l mar sofre pena e tormen, / ni a
conseill si non Dieu q’es guidaire (Rambertino Buvalelli, IX, vv 27-29)
Vos menes me cum fais l que l sieu trais / on hieu peri, si cum la naus en l’onda (Raimon
Jordan, IX, vv 13-14)
Atressi co l perilhans / que sus en l’aiga balansa, / que non a conort de vida, / tan sofre
greu escarida, / que paors li tol membransa (Peire Vidal, II, vv 1-5)
Aissi cum naus cui vens men’ a mal port (Perdigon, VII, v 11)
Cum cel qe is ve el mieich del mar perir / e non i pot remaner ni issir (Gaucelm Faidit,
XLVI, vv 29-30)
Atressi cum la ballena, / quand li marinier son sus / e cid’estar ferms chascus, / ela ls fai
totz perillar (Guilhem Ademar, XI, vv 24-27)
Plus que la naus qu’es en la mar prionda / non ha poder de far son dreg viatge / entro que
l venz socor de fresc auratge / e la condui a port de salvamen (Cadenet, XVIII, vv 1-4)
Co l naus, cant pert los albres e ls timos, / que vay travers ves terr’ ab lo fort ven, / e
motas vetz Dieus l’adutz salvamen / dedins bo portz […] (Bertran Carbonel, IV, vv 3235)
E pren me n cum al marinier, / quan s’es empenhs en auta mar, / per esperansa de trobar /
lo temps que mais dezira e quier / e quan es en mar prionda, / mals temps e braus la nau
sobronda / tant qu’al perilh non pot gandir, / ni pot remaner ni fugir (Folquet de Lunel, I,
vv 9-16).
1.11.3 L’immagine del porto
L’immagine del porto, sicuro e rasserenante termine dell’esperienza individuale, è ben
testimoniata nel Canzoniere; è meno frequente, invece, nei componimenti trobadorici,
dove però se ne intuisce già una concezione topica. Come si è suggerito a più riprese, la
prospettiva è diversa: mentre per i Provenzali il bisogno di giungere ad un esito
salvifico ha una valenza puramente amorosa ed al limite genericamente esistenziale, per
Petrarca l’idea del porto assume un forte significato spirituale, in relazione alla tematica
penitenziale. Un’altra differenza essenziale consiste nell’approccio retorico e stilistico
all’immagine: nel Canzoniere essa si configura come una metafora, la cui
interpretazione esistenziale risulta ancor più spiccata, mentre i trovatori prediligono la
similitudine212, che però veicola la medesima impressione di pace o di pace perduta. Ciò
permette, pur nella differenza della concezione, di riconoscere una significativa
comunanza.
Petrarca
Morte pò chiuder sola a’ miei penseri / l’amoroso camin che gli conduce / al dolce porto
de la lor salute (bal. 14, vv 5-8)
caso l’immagine ha una strettissima connessione con la dimensione amorosa, poiché parte del giuramento
su cui si basa la struttura dell’escondich.
212
Alla lezione provenzale sembrano attenersi, senza scarti significativi, le tre occorrenze che si
riscontrano nella poesia siciliana.
297
Et sperando venire a miglior porto, / poi mi condusse in più di mille scogli (sest. 80, vv 910)
Signor de la mia fine et de la vita, / prima ch’i’ fiacchi il legno tra gli scogli / drizza a
buon porto l’affannata vela213 (sest. 80, vv 37-39)
Tal che, s’i’ arrivo al disiato porto, / spero per lei gran tempo / viver, quand’altri mi terrà
per morto (canz. 119, vv 13-15)
Non poria mai in più riposato porto / né in più tranquilla fossa / fuggir la carne travagliata
et l’ossa (canz. 126, vv 24-26)
Tal ch’incomincio a desperar del porto (son, 189, v 14)
O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne (son. 234, vv 1-2)
Vo ripensando ov’io lassai ‘l viaggio / da la man destra ch’a buon porto aggiunge (canz.
264, vv 120-121)
Veggio fortuna in porto, et stanco omai / il mio nocchier, et rotte àrbore et sarte (son. 272,
vv 12-13)
Fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi, / valli chiuse, alti colli et piagge
apriche, / porto de l’amorose mie fatiche (son. 303, vv 5-7)
Tranquillo porto avea mostrato Amore / a la mia lunga et torbida tempesta (son. 317, vv
1-2)
Pregate non mi sia più sorda Morte, / porto de le miserie et fin del pianto (sest. 332, vv
69-70)
Sì che, s’io vissi in guerra et in tempesta, / mora in pace et in porto […] (son. 365, vv 910).
Trovatori
Si non o fas, tem que t port / tos fols volers a tal port / Que viuras apres la mort (Giraut de
Bornelh, LXXVI, vv 29-31)
Si no m secor, quar non truep a l’yssida / riba i port, gua ni pont, ni guerida (Sordello, II,
vv 23-24)
E vos, domna, ves cui estau aclis, / traietz m’a bon port, si cum etz de bon aire
(Rambertino Buvalelli, IX, vv 31-32)
Mas eras ai a bon port de salut (Guilhem Ademar, VII, v 33)
E trag del peril ont era / a dreg port (Folquet de Romans, I, vv 13-14)
Dona, flors de deport, / drecha via de port (Guiraut Riquier, XXIV, vv 51-52)
La mars nos combat e l vens; / mostra nos via certana: / car si ns vols a bon port traire /
non tem nau ni governaire (Peire de Corbiac, I, vv 43-46)
Qu’en greu perill m’a laissat loing del port (Peirol, XXII, v 39).
1.11.4 Paragoni con gli animali
Un altro strumento utile all’espressione dello stato amoroso è il paragone (più di rado la
sovrapposizione metaforica) tratto dal regno animale. Tra i trovatori si delineano
preferenze diverse: ad esempio, Rigaut de Berbezilh è noto per essere particolarmente
213
Queste due sono le occorrenze più interessanti, nella presente sede, rispetto all’uso della parola-rima
“porto”; tuttavia anche nelle altre strofe il concetto veicolato dal termine resta in sostanza il medesimo.
298
versato nell’uso di immagini tratte dai bestiari. Testi pertrarcheschi come la canzone
135 dimostrano che il poeta aretino conobbe tali modelli. Nella maggior parte dei casi le
rappresentazioni occitaniche sono piuttosto semplici e sobrie, legate alla stagionalità del
canto degli uccelli e così via. Petrarca, invece, sembra apprezzare le immagini esotiche
e leggendarie214, che chiamano in causa anche fonti classiche e colte. Tuttavia, si
possono cogliere corrispondenze significative nella scelta delle immagini215, ad esempio
quelle del cigno (Peire Vidal), della tigre (Rigaut de Berbezilh), della farfalla (Folchetto
da Marsiglia), del leone (Uc de Saint Circ), del leopardo (Giraut de Bornelh), della
salamandra (Peire Raimon de Tolosa).
Particolarmente celebre e rilevante è il recupero da parte di Petrarca dell’immagine del
bue come strumento di caccia, esplicita citazione da Arnaut Daniel, evidenziata
dall’esito adynatico216:
Beato in sogno et di languir contento, / d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura estiva, /
nuoto per mar che non à fondo o riva, / solco onde, e ‘n rena fondo, et scrivo in vento
(Canz. 212, vv 1-4)
Et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. / In rete accolgo l’aura, e ‘n ghiaccio i fiori
(Canz. 239, vv 36-37)
Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura / e chaz la lebre ab lo bou / e nadi contra suberna217
(Arnaut Daniel, X, vv 43-45).
Una comparazione particolarmente interessante tra corpus provenzale e Canzoniere
concerne l’usignolo218. Anche altre tipologie di uccelli indicate in modo specifico
ricorrono sia in Petrarca che nei trovatori, ma, a parte il caso della colomba, comunque
limitato a poche occorrenze, si tratta di specie diverse tra l’uno e gli altri219. La coerenza
tra l’approccio trobadorico e quello petrarchesco si coglie anche nelle scene di dialogo:
sia nel Canzoniere sia in alcuni testi del corpus occitanico, l’io poetico dialoga con un
uccellino, la cui specie può essere o meno menzionata. La funzione del dialogo è però
214
Simili soluzioni non mancano del tutto nemmeno in ambito trobadorico; ad esempio la
rappresentazione del catoblepa nella canzone 135 ricorda da una parte l’immagine del basilisco, per i suoi
effetti mortiferi, e dall’altra quella della pantera odorosa (Rigaut de Berbezilh), meravigliosa quanto
letale. Entrambe le similitudini provenzali sono passate alla poesia siciliana; Petrarca sembra averne
assimilato la sostanza, cogliendo però l’immagine in senso stretto da una tradizione diversa.
Per le similitudini della canzone 135 e il rapporto con la tradizione occitanica si veda Berra 1992, p. 51.
215
È significativa e interessante l’assenza nel corpus provenzale dell’immagine del cervo, cara invece a
Petrarca.
216
Per l’adynaton in Petrarca e nei trovatori si legga il capitolo precedente; per l’immagine della caccia
impossibile, si veda anche lo studio sulle fonti nel capitolo primo.
217
Questo brano anraldiano è ovviamente fondamentale rispetto alla rappresentazione della caccia
impossibile in Petrarca. L’ultimo verso di Arnaut qui citato potrebbe inoltre essere all’origine
dell’immagine del nuoto nell’incipit di 212, dove appunto è proposta anche la caccia (Santagata 1996, p.
911).
218
Per la presenza dell’usignolo in Petrarca, che si è già anticipata nel corso del presente capitolo, si veda
Santagata 1988, pp. 95 segg, dove si fa riferimento anche alle altre opere del poeta aretino.
219
Agli uccelli presta particolare attenzione l’analisi delle comparazioni trobadoriche in Scarpati 2008,
pp. 95-107, che più in generale lascia ampio spazio all’ambito animale (pp. 94 segg). Tale interesse,
spiccato in area provenzale, lascia tracce più limitate in Sicilia, dove è significativo che l’immagine
dell’usignolo sia proposta in un solo caso.
299
significativamente diversa: mentre per Petrarca il mondo animale costituisce una pietra
di paragone per esprimere la propria condizione interiore, i trovatori lasciano molto più
spazio alla componente narrativa. L’uccellino diviene perciò il messaggero, che
permette la comunicazione tra il drudo e la sua amata, e dunque partecipa alla vicenda
d’amore220.
Petrarca
E ‘l rosignuol che dolcemente all’ombra / tutte le notti si lamenta et piagne, / d’amorosi
penseri il cor ne ‘ngombra221 (son. 10, vv 10-12)
Zephiro torna, e ‘l bel tempo rimena / e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia, / et garrir
Progne et pianger Philomena (son. 310, vv 1-3)
Quel rosignuol, che sì soave piagne / forse suoi figli o sua cara consorte (son. 311, vv 12).
Trovatori
E l rossinhols brayl’e crida / e son florit li vergier (Bernart Martì, VII, v 3)
E l rossinhols s’estendilha / qe’m nafra d’amor tendilh222 (Raimbaut d’Aurenga, II, vv 2324)
Com vos podetz de chant sofrir / can aissi auzetz esbaudir / lo rossinholet noih e jorn ?223
(Bernart de Ventadorn, II, vv 2-4)
M’es le matins bels can sona / le rossinholet el plais (Giraut de Bornelh, XXXIX, vv 3-4)
Quan lo rossinhols el foillos / dona d’amor e n quier e n pren (Jaufré Rudel, VI, vv 1-2)
E l rossinholet s’afana / desotz la ramilla (Marcabru, XXI, vv 3-4)
Lo rossinhols chanta tan dousamen / que negus chans d’auzel al sieu no s pren (Elias
Cairel, XIV, vv 1-2)
E il rossignolet c’auch braire / e l nous temps vertz e grazitz (Bertran de Born, XX, vv 56)
E tota la nueg serena / chanta l rossinhols e l jais; / quecx auzel en son lenguatge (Arnaut
de Maruelh, XVII, vv 3-5)
E l rossinhol aug chantar el dezert (Raimon Jordan, XIII, v 2)
La lazet’ e l rossinhol / am mais que mulh autr’auzel (Peire Vidal, I, vv 1-2)
S’alegra e s’esbaudeja / lo rossignols, et dompneja / ab sa par pels plaissaditz (Gaucelm
Faidit, XII, vv 3-4)
Ni rossinhols non i crida / que lai en mai me reissida (Azalais de Porcairagues, I, vv 7-8)
220
Esempio particolarmente interessante si trova in Guilhem de Berguedà, XXV.
Nel sonetto 10 il contesto non è amoroso o laurano, ma occasionale e di corrispondenza. Tuttavia
l’immagine dell’usignolo è delineata esattamente nei toni e secondo i dettagli che si notano nei
componimenti amorosi, evidenziando la natura topica dell’immagine.
222
La rappresentazione dell’usignolo appare particolarmente interessante poiché piange, come nel
fragmentum 311; anche in 353 l’animale piange, ma è appunto solo un generico uccellino.
223
Il brano è particolarmente rappresentativo degli usi tipici dell’immagine, con particolare riferimento al
corpus ventadoriano, in cui l’usignolo torna con notevole frequenza. Qui infatti si associano le due
possibili interpretazioni principali: uccellino come simbolo della primavera e paragone tra
comportamento animale e umano. Tale secondo aspetto, in questo caso, è proposto chiamando in causa un
secondo elemento convenzionale, l’associazione stagione-amore-gioia-canto/poesia di cui si è già trattato.
221
300
El temps que l rossgnols s’esgau / e fais os vers sotz lo vert fuoill (Daude de Pradas, X,
vv 1-2).
Un’altra immagine molto rilevante nella raccolta petrarchesca è quella della fenice224,
scelta a seconda dei luoghi per suggerire l’idea di continuità e sopravvivenza, oppure la
straordinarietà di Laura.
Petrarca
Là onde il dì vèn fore, / vola un augel che sol senza consorte / di volontaria morte /
rinasce, et tutto a viver si rinnova225 (canz. 135, vv 5-8)
Questa fenice de l’aurata piuma / al suo bel collo, candido, gentile, / forma senz’arte un sì
caro monile, / ch’ogni cor addolcisce, e ‘l mio consuma (son. 185, vv 1-4)
Fama ne l’odorato et ricco grembo / d’arabi monti lei ripone et cela (son. 185, vv 12-13)
Non da l’hispano Hibero a l’indo Ydaspe / ricercando del mar ogni pendice, / né dal lito
vermiglio a l’onde caspe, / né ‘n ciel né ‘n terra, è più d’una fenice (son. 210, vv 1-4)
È questo ‘l nido in che la mia fenice / mise l’aurate et le purpuree penne, / che sotto le sue
ali il mio cor tenne, / et parole et sospiri ancho ne elice? (son. 321, vv 1-4)
Una strania fenice, ambedue l’ale / di porpora vestita, e ‘l capo d’oro, / vedendo per la
selva altera et sola, / veder forma celeste et immortale / prima pensai, fin ch’a lo svelto
alloro / giunse, et al fonte che la terra invola: / ogni cosa al fin vola, / ché, mirando le
frondi a terra sparse, / e ‘l troncon rotto, et quel vivo humor secco, / volse in se stessa il
becco, / quasi sdegnando, e ‘n punto disparse (canz. 323, vv 49-59).
Trovatori
Plus qe ja fenis fenics / non er q’ieu non si’ amics (Raimbaut d’Aurenga, IV, vv 64-65)
E s’ieu pogues contrafar / fenis, don non es mai us (Rigaut de Berbezilh, II, vv 37-38)226
E volh esser en vos Fenics / qu’autra jamais non amarai (Peire Vidal, XLV, vv 92-93)227.
2. Il ruolo della figura femminile
Le dinamiche cortesi coinvolgono tradizionalmente tre protagonisti: l’io poetico, la
dama, Amore228. Nella lirica trobadorica lo stato infelice di chi ama è ricondotto per lo
224
Per l’uso petrarchesco dell’immagine, soprattutto in riferimento a Laura, si veda la Lectura Petrarce di
Ferroni 2011, in cui si trovano numerosi e significativi rimandi bibliografici. Lo studioso presta
particolare attenzione agli antecedenti classici. Per le fonti e dunque sulla creatività della soluzione
petrarchesca, nella fusione dei due filoni tradizionali (rappresentazione del poeta e ritratto dell’amata,
molto più raro e non consueto fra i trovatori) si veda Zambon 1983.
225
Per l’uso degli elementi esotici e sovrannaturali nella canzone si veda il commento in Santagata 1996,
pp. 662 segg. e i rimandi bibliografici.
226
Tali luoghi sono stati affrontati in Scarpati 2008, pp. 121-122 con particolare riferimento alla tecnica
comparativa.
227
Tutti e tre i luoghi sono vagliati in Zambon 1983 come possibili antecedenti della fenice petrarchesca,
quando riferita all’io poetico, all’interno di una più ricca messe di modelli cui l’Aretino potrebbe aver
attinto.
301
più alle colpe dell’amata, crudele, insensibile, distratta, priva di pietà. Certo, anche
Amore è ritratto non di rado in termini accusatori; ma la fin’amor ha in sé una
connotazione positiva, ontologicamente contrassegnata da joi, che nella maggior parte
dei casi impedisce una svalutazione complessiva e radicale. Per quanto concerne l’io
lirico, infine, di tanto in tanto egli ammette di non essersi comportato in modo
irreprensibile, giustificando perciò le ire di madonna. Tuttavia la sua caratterizzazione
principale resta quella della vittima, che subisce più o meno passivamente.
Nel Canzoniere la questione si complica e si fa più profonda. In primo luogo alla
crudeltà di Laura si affianca quella di Amore: abbiamo già anticipato che tale
redistribuzione delle responsabilità sembra dipendere più dalla rielaborazione italiana, e
soprattutto siciliana229, che dalla visione occitanica. Nella raccolta petrarchesca la
situazione appare quindi più equilibrata. Dopo la morte dell’amata, il suo atteggiamento
viene riconsiderato: l’io poetico e con lui il lettore comprende lo scopo benefico della
durezza che ella aveva dimostrato in vita. La crudeltà è rovesciata in salvazione. La
fondamentale componente penitenziale della raccolta determina infine una significativa
e prolungata, benché non lineare, riflessione sulle colpe dell’io stesso. L’incapacità di
moderare i desideri, di rendere la passione misurata e proporzionata, di comprendere di
cosa abbia davvero bisogno lo spirito determina la sconfitta dell’innamorato. La natura
disforica del sentimento e l’alienazione che deriva dalla dedizione ossessiva all’oggetto
del desiderio non sono più solo il frutto di una condizione infelice o di un amore non
corrisposto; insomma, non sono più solo elementi descrittivi e rappresentativi della
vicenda amorosa. Con Petrarca la problematicità dell’amore assume una valenza
spirituale e morale del tutto nuova.
Il riuso dei topoi trobadorici acquisisce dunque una specifica valenza in tale
reinterpretazione dell’eros. Ciò vale sia per gli elementi disforici sin qui analizzati, sia
per la resa della figura femminile, in cui ricorrono numerosi aspetti convenzionali.
2.1 La perfezione incarnata
La rappresentazione fisica e morale di Laura prende le mosse da elementi ben noti, per
quanto rinnovata sia dalla concezione petrarchesca dell’amore sia dalla costruzione di
una vicenda unitaria e incomparabilmente complessa rispetto a quelle trobadoriche (la
maturità, il cambiamento dei desideri, la morte, le apparizioni, la conversione finale).
Anche solo a partire dalle caratteristiche estetiche attribuite a Laura si comprende come
il poeta abbia saputo recuperare e rinnovare le convenzioni: i capelli biondi, l’incarnato
pallido, i denti bianchi sono tutti tratti tipici della tradizione cortese. Eppure, la donna
del Canzoniere assume anche una fisicità propria e speciale: le isotopie dell’aura e
dell’auro rendono inconfondibili le chiome, così come l’insistenza su numerose e
228
Baldassarri 2004 ha evidenziato come tale centralità metta in ombra il ruolo della Fortuna, che però è
più significativo di quanto non sembri a prima vista.
229
Nella produzione della Scuola le accuse dirette nei confronti della dama sono pochissime e per lo più
mediate dal riferimento a specifiche caratteristiche fisiche o ad eventi, o ancora attenuate con soluzioni
molteplici (Ravera 2013).
302
diverse parti del corpo (mani, braccia, piede, grembo, spalle e così via) consentono di
dare alla figura femminile maggiore corporeità, pur restando entro i termini di una
divinizzazione.
Laura infatti, come le sue antenate occitaniche, è perfetta: lo sono la sua bellezza, il suo
sguardo, il suo sorriso230 e la sua luce231; lo sono la voce, il canto e le parole che
pronuncia; il portamento, l’incedere, nonché ogni aspetto del suo comportamento.
Tale straordinarietà non si limita all’aspetto: si potrebbe dire che l’esteriorità non è che
una manifestazione visibile della grandezza interiore. In entrambi gli ambiti, alla
genericità delle affermazioni trobadoriche, che si limitano ad enunciare le doti che
esaltano (bellezza, pregio, valore), si oppone la vivida rappresentazione petrarchesca,
cui contribuiscono anche altre fonti ed altri topoi oltre a quelli cortesi (ad esempio
quello della giovane vecchia232).
Per quanto concerne invece le lamentele del poeta, nel corpus trobadorico gli aspetti più
sentiti sono il tradimento e l’inganno, che si contrappongono alla fedele dedizione
dell’innamorato e quindi identificano la scorrettezza e la crudeltà di madonna. Nel
Canzoniere tali motivi sono estremamente ridimensionati, e soprattutto ricondotti ad
Amore; lo stesso vale per le promesse infrante, su cui invece insistevano i Provenzali.
Da una parte bisogna notare che per infrangere un patto o commettere un tradimento
deve esserci stata una relazione o un contatto: tale antefatto è spesso sottinteso nei
componimenti occitanici, benché la vicenda amorosa resti sfumata e incerta, mentre
risulta assente nei fragmenta. Dall’altra, Petrarca sembra preferire una rappresentazione
più generale della durezza di Laura, più volte definita “fera” ed anzi rappresentata
nell’atto di ridere del pianto del poeta o di piangere per la sua gioia233. Sono tutti
dettagli convenzionali e molto diffusi, come anche il tema della pietà mancata. Si tratta
in effetti di un topos frequentissimo tra i trovatori e molto ben attestato nel Canzoniere:
il vero difetto dell’amata è l’incapacità di concedere “mercede”. Secondo la concezione
occitanica, l’immagine chiama in causa l’ideologia cortese e feudale: l’idea di mercede
rispetto a quella di pietà, a volte chiaramente distinta anche sul piano lessicale, appare
compromessa con il desiderio del “guiderdone”. Anche in Petrarca sono attestate le
medesime voci, ma lo spostamento sul piano emotivo-psicologico appare evidente.
230
Sguardo e sorriso sono già per i trovatori veri e propri emblemi sia della bellezza che dell’effetto che
essa ha sul poeta. Tali elementi ricorrono perciò con notevole frequenza, come sarà anche per Petrarca,
non solo nelle descrizioni più ampie, ma anche in brani autonomi.
231
Sguardo e luce sono senza dubbio elementi tratti dall’insegnamento stilnovista; tuttavia non mancano
anticipazioni in tal senso anche nei trovatori, che ancora una volta costituiscono una fonte di partenza
anche per la letteratura italiana e le sue sperimentazioni ulteriori.
232
Tale topos è però già riconoscibile in alcuni componimenti occitanici, come la canzone 3 di Rigaut de
Berzilh. Al topos possiamo inoltre accostare il confronto fra Laura e una donna anziana (son. 262), che
mette in evidenza la maggiore saggezza e levatura spirituale dell’amata. Confronti fra le diverse età si
trovavano, ad esempio, già in Bertran de Born, allo scopo di esaltare qualità tipicamente cortesi, che
secondo l’ideologia dell’amore fino sono di necessità associate a joven, qualità questa che ha più a che
fare con il comportamento, che con l’età anagrafica.
233
Si legga il sonetto 172.
303
2.1.1
Le parole dell’amata
Un elemento della descrizione muliebre su cui i trovatori tornano di frequente è quello
della parola. I “detti” sono importanti al pari dei “fatti” nel determinare o meno
l’ammirazione nei confronti della donna, sia da un punto di vista sociale (il
comportamento deve essere coerente con l’ambiente cortigiano in tutti i suoi aspetti), sia
a livello amoroso (le parole comunicano spesso un senso di dolcezza, anche solo in
modo implicito, e hanno dunque i medesimi effetti della visione)234.
Tale tematica torna in Petrarca, che più volte elogia non solo le parole235, ma anche la
voce e il canto di Laura236. Sono tutti elementi di seduzione, ma come tali hanno spesso
effetti devastanti sul fragile ed ossequioso innamorato.
Petrarca
E ‘l suo parlare e ‘l bel viso, et le chiome (sest. 30, v 4)
Et l’accorte parole, / rade nel mondo o sole (canz. 37, vv 86-87)
Non era l’andar suo cosa mortale, / ma d’angelica forma, et le parole / sonavan altro che
pur voce humana (son. 90, vv 9-11)
In silentio parole accorte et sagge (canz. 105, v 61)
I’ mi riscossi; et ella oltra, parlando, / passò, che la parola i’ non soffersi, / né ‘l dolce
sfavillar degli occhi suoi (son. 111, vv 9-11)
Qui cantò dolcemente, et qui s’assise; / […] / qui disse una parola, et qui sorrise (son.
112, vv 9-12)
Così carco d’oblio / il divin portamento / e ‘l volto e le parole e ‘l dolce riso (canz. 126,
vv 56-58)
Et l’angelico canto et le parole (son. 133, vv 12)
Et udi’ sospirando udir parole / che farian gire i monti et stare i fiumi (son. 156, v 7-8)
Oltra la vista, agli orecchi orna e ‘nfinge / sue voci vive et suoi sancti sospiri (son. 158,
vv 7-8)
234
All’interesse per tali elementi potrebbe contribuire anche la generale attenzione alla retorica e
all’eloquenza che contraddistingue già l’ambiente occitanico e soprattutto i professionisti della parola.
Tali aspetti non valgono solo a livello contestuale o metapoetico, ma si riflettono anche sulle logiche
amorose. Bernart de Ventadorn, ad esempio, afferma che le parole nobili (“gen parlar”) costituiscono uno
strumento essenziale nel corteggiamento e nella conquista amorosa che egli si propone nei confronti
dell’amata (canzone 13, vv 44-45).
235
Nei trovatori, dove pure la dimensione comunicativa tra “io” e “tu” è introdotta di frequente a livello
di invocazioni ed apostrofi, soprattutto in riferimento all’amata, è raro che il poeta le ceda la parola in
modo davvero diretto, esclusi i generi dialogici per definizione, come la pastorella (per cui si veda il
capitolo precedente). Tale soluzione trova invece spazio non trascurabile nel Canzoniere, nella seconda
sezione e in parte già nella prima, nella fase del “presentimento” della morte di Laura, che parla al poeta
attraverso sogni e apparizioni. Per tale aspetto si veda Tonelli 1994.
236
Sono rarissime le menzioni in tal senso in ambito occitanico (ad esempio si legga la canzone 46 di
Giraut de Bornelh), e più che altro riferite alla speranza che la dama voglia cantare il testo che il poeta le
ha inviato. In qualche caso il poeta-cavaliere evoca il canto della pastorella che incontra per caso. Per
questo motivo non citiamo in questa sede tutte le occorrenze del canto riferite a Laura nel Canzoniere; ne
ricorrono comunque alcuni esempi in relazione alla voce e alle parole nei versi riportati di seguito. Sul
canto di Laura si può leggere l’analisi in Culcasi 1911.
304
Non sa come Amor sana, et come ancide, / chi non sa come dolce ella sospira, / et come
dolce parla, et dolce ride (son. 159, vv 12-14)
Miriam costei quand’ella parla o ride / che sol se stessa, et nulla altra, somiglia (son. 160,
vv 3-4)
Piaggia ch’ascolti sue dolci parole (son. 162, v 3)
Et co l’andar et col soave sguardo / s’accordan le dolcissime parole (son. 165, vv 9-10)
Così caddi a la rete, et qui m’àn colto / gli atti vaghi et l’angeliche parole (son. 181, vv
12-13)
Se ‘l dolce sguardo di costei m’ancide / et le soavi parolette accorte (son. 183, vv 1-2)
Talor ch’odo dir cose, e ‘n cor describo / perché da sospirar sempre ritrove, / […] / ché
quella voce infin al ciel gradita / suona in parole sì leggiadre et care, / che pensar nol
porìa chi non l’à udita (son. 193, vv 5-11)
La bella bocca angelica, di perle / piena et di rose et di dolci parole (son. 200, vv 10-11)
Occhi miei vaghi, et tu, fra li altri sensi, / che scorgi al cor l’alte parole sante (son. 204,
vv 3-4)
Dolce parlare, et dolcemente inteso (son. 205, v 3)
Vertute, Honor, Bellezza, atto gentile, / dolci parole ai be’ rami m’àn giunto (son. 211, vv
9-10)
E ‘l cantar che ne l’anima si sente, / […] / col dir pien d’intellecti dolci et alti (son. 213,
vv 6-12)
Onde le perle, in ch’ei frange et affrena / dolci parole, honeste et pellegrine? (son. 220, vv
5-6)
Né l’orecchie, ch’udir altro non sanno, / senza l’oneste sue dolci parole (son. 246, vv 1314)
Deposta avea l’usata leggiadria, le perle et le ghirlande e i panni allegri, / e ‘l riso e ‘l
canto e ‘l parlar dolce humano (son. 249, vv 9-11)
O dolci sguardi, o parolette accorte, / or fia mai il dì ch’i’ vi riveggia et oda (son. 253, vv
1-2)
Far potess’io vedetta di colei / che guardando et parlando mi distrugge (son. 256, vv 1-2)
Et parte d’un cor saggio sospirando / d’alta eloquentia sì soavi fiumi (son. 258, vv 3-4)
Ivi ‘l parlar che nullo stile aguaglia, / e ‘l bel tacere, et quei cari costumi (son. 261, vv 910)
Vostra vaghezza acqueta / un mover d’occhi, un ragionar, un canto (canz. 264, vv 52-53)
Oimè il parlar ch’ogni aspro ingegno et fero / facei humile, ed ogni huom vil gagliardo!
(son. 267, vv 3-4)
Et facciamisi udir, sì come sòle, / col suon de le parole / ne le quali io imparai che cosa è
amore (canz. 270, vv 51-53)
Le parole che ‘ntese / avrian fatto gentil d’alma villa237 (canz. 270, vv 82-83)
Le soavi parole e i dolci sguardi / ch’ad un ad un descritti et depinti ài (son. 273, vv 5-6)
Orecchie mie, l’angeliche parole / sonano in parte ove è chi meglio intende (son. 275, vv
5-6)
Post’ài silentio a’ più soavi accenti / che mai s’udiro, et me pien di lamenti (son. 283, vv
5-6)
237
In questo passo entra in gioco la funzione educativa dell’amore, tema tipicamente stilnovistico e
dantesco, per cui però si possono intuire radici ancora anteriori. Di tali aspetti si parlerà ulteriormente nel
corso del presente capitolo.
305
Col dolce mormorar pietoso et basso (son. 286, v 11)
L’atto soave, e ‘l parlar saggio humile (son. 297, v 9)
L’accorta, honesta, humil, dolce favella? (son. 299, v 6)
Ch’al son de’ detti sì pietosi et casti / poco mancò ch’io non rimasi in cielo (son. 302, vv
13-14)
Agli atti, a le parole, al viso, ai panni (son. 314, v 5)
Et ella avrebbe a me forse resposto / qualche santa parola sospirando (son. 317, vv 12-13)
Et acquetar i venti et le tempeste / con voci anchor non preste, / di lingua che dal latte si
scompagne (canz. 325, vv 96-98)
E ‘l parlar di dolcezza et di salute (canz. 325, v 96)
E ‘n don le cheggio sua dolce favella (son. 336, v 8)
Beata s’è, che pò bear altrui / co la sua vista, over co le parole (son. 341, vv 9-10)
M’asciuga li occhi, et col suo dir m’apporta / dolcezza ch’uom mortal non sentì mai (son.
342, vv 10-11)
Dal più dolce parlare et dolce riso (son. 348, v 4)
Gentil parlar, in cui chiaro refulse / con somma cortesia somma honestate (son. 351, vv 56)
Et formavi i sospiri et le parole (son. 352, v 3)
E i buon’ consigli, e ‘l conversar honesto, / tutto fu in lei, di che noi Morte à privi (son.
354, vv 10-11)
[…] et s’adira / con parole che i sassi romper ponno (canz. 359, vv 69-70)
Et sì dolce ydioma / le diedi, et un cantar tanto soave (canz. 360, vv 101-102)
E ‘n mezzo ‘l cor mi sona una parola / di lei ch’è or del suo bel nodo sciolta (son. 361, vv
11-12)
Mortal bellezza, atti et parole m’ànno / tutta ingombrata l’alma (canz. 366, vv 85-86)238.
Trovatori
E sona me gent e suau (Bernart de Ventadorn, XXI, v 36)
Plus esser ver / als bels ditz et als bels semblanz / que m’a ia brau et orgoillos (Giraut de
Bornelh, XXV, vv 43-45)
A!, com son siei dit amoros (Jaufré Rudel, VI, v 22)
S’ieu volia ben lauzar / […] / e l vostre avinen parlar (Uc de Saint Circ, XV, vv 31-34)
E sobre totas deu prezar / de dig ver, segon mon albir, / d’ensegnamene de parlar
(Cercamon, IV, vv 22-24)
Qu’ab dousa sabor azesca / sos digz de felho azesc (Marcabru, XIV, vv 11-12)
Ostatz de vos la beutat e l gen rire / e l douz parlar que m’afollis mon sen (Folchetto da
Marsiglia, II, vv 22-23)
Qu’ab ben dir et ab gen parlar / te tota la gen et apaya (Sordello, VIII, vv 14-15)
E que mielhs sap bels plazers dir e faire (Elias Cairel, IV, v 46)
E mieills acuoill e mieills parl’ e dompneia (Raimbaut de Vaqueiras, XII, v 22)
Midonz na Elis deman / son adreich parlar gaban, / qe m don a midonz aiuda (Bertran de
Born, VII, vv 27-29)
238
Alle occorrenze qui riportate vanno aggiunte quelle in cui effettivamente Laura parla in prima persona,
rivolgendosi in modo diretto all’io poetico, e ancora quelle in cui è lui stesso a immaginare quello che
l’amata (o meglio parti del suo corpo, il cui aspetto si rivela particolarmente eloquente) potrebbe dire.
306
Mos Restaurs a pretz e saber / e cortesia e gen parlar (Rambertino Buvalelli, III, vv 2122)
Diz pro domn’e fai manta re / que par orguoils als afeblitz (Aimeric de Belenoi, XII, vv
19-20)
Qu’enaissi sap d’avinen far e dir / ab purs plazers tot so qu’ill ditz ni fai (Arnaut de
Maruelh, VIII, vv 11-12)
E l gens parlars e l bel huelh amoros (Raimon Jordan, VI, v 35)
Bel semblan n’ai en parvenssa / que gen m’acuoill e m razona (Peire d’Alvernha, I, vv
17-18)
Qu’ilh sap tan gen laissar e far e der (Raimon de Miravall, XVIII, v 24)
Sei dig an sabor de mel, / don sembla Sant Gabriel (Peire Vidal, XVI, vv 19-20)
Mas ges hieu lieys no n creiria / per dig, si plus no n fazia (Aimeric de Peguilhan, II, vv
7-8)
Qe de gaug e d’amor / so il vostre dich, e il faich son de lauzor (Gaucelm Faidit, VII, vv
83-84)
Mi faitz orguolh en dichz et en parvença (Comtessa de Dia, II, v 13)
C’ab bels semblans et ab digz plazentiers / mi mes al cor lo fuoc d’amor arden (Guilhem
Ademar, X, vv 11-12)
Tant son plazens e bellas sas faissos, / e l’adreitz cors, e l gens parlars chausitz (Gui
d’Ussel, VII, vv 10-11)
Et estai li tant gien parlars / c’a nuls tempo no vos dira re / mas onors e plasers e be
(Folquet de Romans, IV, vv 14-16)
Son pretz, s’onor gart Dieus e ls digz cortes (Peire Raimon de Tolosa, XIV, v 42)
Et ab fals ditz et ab fals pessamen (Bertran Carbonel, II, v 42)
Al nobleiar / del dous esguar, / a l’onrada captenensa, / al gent parlar (Guilhem Peire de
Cazals, VIII, vv 69-72)
E quar de tal domna so / qu’anc no fes ni dis mas pro (Folquet de Lunel, V, vv 8-9)
Belhs acuilhirs, dig plazentier (Daude de Pradas, XI, v 51).
2.1.2
L’amata è straordinaria e superiore ad ogni altra
La dama cortese e la sua erede petrarchesca sono perfette. Il paragone le vede sempre
vittoriose, che si tratti del confronto con un’altra donna o che siano in gioco tesori
inestimabili o infine che si parli della natura stessa e della sua creazione. In ambito
trobadorico sono soprattutto i primi due aspetti ad essere sviluppati: nessuna donna può
eguagliare l’amata, è meglio soffrire per lei che gioire con un’altra239, meglio avere
anche solo un suo sguardo piuttosto che domini e possessi materiali anche
preziosissimi240. Simili immagini sono presenti anche nel Canzoniere, ma con incidenza
molto inferiore, mentre spazio molto più rilevante viene riservato al tema della
239
In parte tali immagini sono state anticipate trattando dell’unicità dell’amore e del suo oggetto: il poeta
non può amare nessun’altra, a nessun costo. Il medesimo topos, tuttavia, ha anche il compito di
evidenziare quanto la dama sia migliore e dunque degna d’amore e dedizione rispetto alle altre.
240
Nel Canzoniere tale topos viene proposto solo nella canzone 206, con una variante significativa:
diviene cioè il termine di giuramento per convicere l’amata che l’amante non ha detto nulla di offensivo
nei suoi confronti. Il passo è tanto più interessante in quanto non solo modifica l’immagine
convenzionale, ma la integra in una struttura di genere, l’escondich, altrettanto tradizionale (e occitanica).
307
creazione: né Dio né la Natura potranno andare oltre questo loro capolavoro. Il concetto
è già occitanico, ma in Provenza risulta meno diffuso. Nel corpus trobadorico, d’altro
canto, sono apprezzate soprattutto formule sintetiche e ripetitive, con cui il poeta
dichiara, senza bisogno di descrizione o argomentazione, che l’amata è “la più bella” o
“la migliore”, con qualche variante lessicale (“mellhier”, “genser/gensor”,
“belhazor”)241.
Petrarca
Così costei, ch’è tra le donne un sole (son. 9, v 10)
Quando fra l’altre donne ad ora ad ora / Amor viene nel bel viso di costei, / quanto
ciascuna è men bella di lei / tanto cresce ‘l desio che m’innamora (son. 13, vv 1-4)
Perch’al viso d’Amor portava insegna, / mosse una pellegrina il mio cor vano, / ch’ogni
altra mi parea d’onor men degna (mad. 54, vv 1-3)
Tutti gli altri diletti / di questa vita ò per minori assai, / et tutte altre bellezze indietro
vanno (canz. 73, vv 64-66)
Ogni angelica vista, ogni atto humile / che già mai in donna ov’amor fosse apparve, / fora
uno sdegno a lato a quel ch’i’ dico (son. 123, vv 9-11)
Ove le belle membra / pose colei che sola a me par donna (canz. 126, vv 2-3)
Veder pensaro il viso di colei / ch’avanza tutte l’altre meraviglie (canz. 127, vv 74-75)
Miriam costei quand’ella parla o ride / che sol se stessa, et nulla altra, simiglia (son. 160,
vv 3-4)
Pur mi consola, che languir per lei / meglio è che gioir d’altra; et tu me ‘l giuri / per
l’orato tuo strale, et io tel credo (son. 174, vv 12-14)
Ma questa pura et candida colomba, / a cui non so s’al mondo mai par visse (son. 187, vv
5-6)
Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo, / tu prima amasti, or sola al bel soggiorno /
verdeggia, et senza par poi che l’addorno / suo male et nostro vide in prima Adamo (son.
188, vv 1-4)
Tra quantunque leggiadre donne et belle / giunga costei ch’al mondo non à pare, / col suo
bel viso suol dell’altre fare / quel che fa ‘l dì de le minori stelle (son. 218, vv 1-4)
Ché, s’altro amante à più destra fortuna, / mille piacer’ non vaglion un tormento242 (son.
231, vv 3-4)
Sendo di donne un bel numero eletto / per adornar il dì festo et altero, / sùbito scorse il
buon giudicio intero / fra tanti et sì bei volti il più perfetto (son. 238, vv 5-8)
Candida rosa nata in dure spine, / quando fia chi sua pari al mondo trove, / gloria di
nostra etate? […] (son. 246, vv 5-7)
Parrà forse ad alcun che ‘n lodar quella / ch’i’ adoro in terra, errante sia ‘l mio stile, /
faccendo lei sovr’ogni altra gentile, / santa, saggia, leggiadra, honesta et bella243 (son.
247, vv 1-4)
241
A titolo di esempio, riportiamo un passo di Bernart de Ventadorn (“Messatgers, vai e cor / e di m a la
gensor / la pena e la dolor”, XLIV, vv 73-75), uno di Peire Vidal (“Ara m te per seu / la genser sotz Deu /
e del melhor sen”, XVII, vv 26-28) ed uno di Cercamon (“Tot la gensor que anc hom vis, / encontra lieys
non pretz un guan”, I, vv 19-20).
242
Qui l’immagine topica è molto variata, ma se ne riconosce chiaramente la componente convenzionale.
308
Nocque ad alcuna già l’esser sì bella; / questa più d’altra è bella et più pudica (son. 254,
vv 5-6)
Non si pareggia lei qual più s’aprezza, (in qual ch’etade, in quai che strani lidi; / non chi
recò con sua vaga bellezza / in Grecia affanni, in Troia ultimi stridi; / no la bella romana
che col ferro / apre il suo casto et disdegnoso petto; / non Polixena, Ysiphile et Argia244
(son. 260, vv 5-11)
Vera donna, et a cui di nulla cale, / se non d’onor, che sovr’ogni altra mieti (son. 263, vv
5-6)
Più che mai bella et più leggiadra donna / tornami inanzi […] (canz. 268, vv 45-46)
Togliendo anzi per lei sempre trar guai / che cantar per qualunque, e di tal piaga / morir
contenta, et vivere in tal nodo (son. 296, vv 12-14)
La lode mai non d’altra, et proprie sue, / che ‘n lei fur come stelle in cielo sparte, / pur
ardisco ombreggiare, or una, or due (son. 308, vv 9-11)
Or ài spogliata nostra vita et scossa / d’ogni ornamento et del sovran suo honore: / ma la
fama e ‘l valor che mai non more, / non è in tua forza; abbiti ignude l’ossa (son. 326, vv
5-8)
Vidi fra mille donne una già tale, / ch’amorosa paura il cor m’assalse (son. 335, vv 1-2)
Quel, che d’odore et di color vincea / l’odorifero et lucido oriente, / frutti fiori herbe et
frondi (onde ‘l ponente / d’ogni rara excellentia il pregio avea), / dolce mio lauro […]245
(son. 337, vv 1-5)
Questo nostro caduco et fragil bene, / ch’è vento et ombra, et à nome beltate, / non fu già
mai se non in questa etate / tutto in un corpo, et ciò fu per mie pene (son. 350, vv 1-4)
Et a costui di mille / donne electe, excellenti, n’elessi una, / qual non si vedrà mai sotto la
luna, / benché Lucretia ritornasse a Roma (canz. 360, vv 97-100)
Ma ne’ suoi giorni al mondo fu sì sola, / ch’a tutte, s’i’ non erro, fama à tolta (son. 361,
vv 13-14)
Vergine saggia, et del bel numero una / de le beate vergini prudenti, / anzi la prima, et con
più chiara lampa246 (canz. 366, vv 14-16).
Poi che Dio et Natura et Amor volse / locar compitamente ogni vertute / in quei be’ lumi,
ond’io gioioso vivo (canz. 73, vv 36-38)
Le stelle, il ciel et gli elementi a prova / tutte lor arti et ogni extrema cura / poser nel vivo
lume, in cui Natura / si specchia, e ‘l sol ch’altrove par non trova (son. 154, vv 1-4)
243
Il sonetto prosegue con un riconoscibile topos di modestia, incentrato sull’insufficienza della (propria)
poesia e sull’ineffabilità della bellezza muliebre. Anche l’ipotesi della prima quartina, qui citata, è
convenzionale, poiché richiama, anche se non alla lettera, un’immagine piuttosto diffusa nella tradizione
trobadorica. A più riprese infatti i Provenzali avvertono la necessità di difendere la propria lode
dell’amata, affermando che ciò che dicono non è un’esagerazione, ma la verità, comprovata anche da una
breve visione.
244
Il riferimento a donne straordinarie e bellissime della storia, del mito o della letteratura è consueto
nelle opere trobadoriche, dove però si ripetono in sostanza sempre le medesime fonti. Petrarca dunque
appare accomunato ai modelli occitanici più che altro dal principio di fondo, oltre che dall’immagine
convenzionale di Elena, qui presentata nel passo più ampio della serie; per il resto, il poeta arricchisce la
propria rappresentazione con ritratti molto più variegati rispetto a quelli occitanici. In particolare si
notano le figure femminili della tradizione romana e soprattutto Lucrezia, citata anche altrove nel
Canzoniere.
245
La metafora dell’alloro rinnova in modo emblematico l’immagine topica.
246
La canzone 366 offre un interessante esempio di riuso del topos nel passaggio dalla materia amorosa a
quella spirituale e penitenziale.
309
L’atto d’ogni gentil pietate adorno (son. 157, v 5)
Allor inseme, in men d’un palmo, appare / visibilmente quanto in questa vita / arte,
ingegno et Natura e ‘l Ciel pò fare (son. 193, vv 12-14)
Man ov’ogni arte et tutti loro studi / poser Natura e ‘l Ciel per farsi honore (son. 199, vv
3-4)
O Natura, pietosa et fera madre, / onde tal possa et sì contrarie voglie / di far cose et
disfar tanto leggiadre (son. 231, vv 9-11)
Ma chi né prima simil né seconda / ebbe al suo tempo, al lecto in ch’io languisco / vien
tal ch’a pena a rimirar l’ardisco (son. 342, vv 5-7)
Chi vuol veder quantunque pò Natura / e ‘l Ciel tra noi, venga a mirar costei, / ch’è sola
un sol, non pur a li occhi mei, / ma al mondo cieco, che vertù non cura (son. 248, vv 1-4)
Questa excellentia è gloria, s’i’ non erro, / grande a Natura, a me sommo diletto (son.
260, vv 12-13)
Responde [Amore]: - Quanto ‘l Ciel et io possiamo, / e i buon’ consigli, e ‘l conversar
honesto, / tutto fu in lei, di che noi Morte à privi (son. 354, vv 9-11)
Come Dio et Natura avrebben messo / in un cor giovenil tanta vertute, / se l’eterna salute
/ non fusse destinata al tuo ben fare, / o de l’anime rare (canz. 359, vv 27-31)247.
Trovatori
Jois e solatz d’autra m par fals e bortz, / c’una de pretz ab lieis no i spot egar, / que l sieus
solatz es dels autres soberiers (Arnaut Daniel, XV, vv 29-31)
El mon non es mas un ares / per qu’eu joya pogues avere d’aquela no n aurai ges / ni
d’autra non posc ges voler (Bernart de Ventadorn, X, vv 43-46)
E pois trobar / no il poiria semblan ni par (Giraut de Bornelh, XXI, vv 97-98)
Qu’anc no cug qu’en nasque semble / en semblan del gran linh d’Adam (Guglielmo IX,
XI, vv 17-18)
E val d’aitals una gran plena comba (Uc de Saint Circ, XXV, v 4)
Si com l’estela jornaus / que non a paria, / es vostre rics pretz ses par (Rigaut de
Berbezilh, III, vv 34-36)
Tanz es de bel traill Gardacors / q’eu non volria agues mos cors / tan Acre ni Roais ni
Surs (Bertran d’Alamanon, II, vv 37-39)
Mas aitals es c’obs no i ha mais ni menz, / c’on nom pot meils fazonar per semblanza
(Bertran d’Alamanon, XIX, vv 20-21)
Anz desampar, per midonz cui ador, / tal que m’a fait gran ben e gran honor, / mas ben
deu hom camjar ben per meillor (Folchetto da Marsiglia, XVII, vv 43-45)
Tan l’am, qar val part la plasenz que son, / qu’endreg d’amor tenc chascun’en nien, / e
quar non sai autr’el mon tan presan / de qu’ie n preses plaser jazen baisan (Sordello, III,
vv 19-22)
De la beutat qu’es en lei solamen / aurion pro d’autras pros donas cen (Elias Cairel, XIV,
vv 22-23)
C’amors e vos m’avetz tal ren promes / que val cen dos c’autra dompna m fezes
(Raimbaut de Vaquieras, XI, vv 29-30)
247
Ai passi qui citati si possono accostare anche i luoghi in cui Laura sia definita gloria del suo tempo o,
dopo la sua morte, gloria del cielo. Riprenderemo quest’ultimo elemento trattando della mescolanza tra
elementi sacri e profani nel corso del presente capitolo.
310
[…] e si del semblan / non trob dompn’a mon talan / qe m vailla vos q’ai perduda, / ja
mais non vuoill aver druda248 (Bertran de Born, VII, vv 7-10)
Contra l vostre cors qu’es complitz / de toz bes mas sol de merce249 (Aimeric de Belenoi,
XII, vv 9-10)
Sobre totas beutatz belh (Monje de Montaudon, VII, v 54)
Mas tant es ders sobre tot’autra domna / vostre rics pretz, que de las melhors es /
capduelhs e caps […] (Arnaut de Maruelh, IV, vv 18-20)
Qu’a tota gen aug dire ad esfors / que l vostre pretz vai lo melhor sobran / e lauzengiers
no us en pot tener dan (Raimon Jordan, VI, vv 14-16)
Q’enquer non a pretz agut / dompna c’anc nasques de maire / qe contra l sieu valgues
gaire (Raimon de Miravall, XXXVII, vv 24-25)
Qu’eu no sai dopn’ el mond al meu albir / que tan se fass’ al conosenz grasir (Perdigon,
XIII, vv 15-16)
Que l sieus cars pretz es lo mielher dels bos, / pueys la beutatz es eguals la valensa
(Aimeric de Peguilhan, XX, vv 33-34)
Conortatz soi, qua ram tan bela ren, / qu’en tot lo mon, non cre, trobaria par (Gaucelm
Faidit, VIII, vv 10-11)
Qu’ieu n’ai chausit un pro e gen / per cui Pretz melhur’ e gença (Comtessa de Dia, I, vv
25-26)
Q’ieu sui de tal enquistaire / c’ai d’entre cen bell’elesta / q’es, per esta mia testa, / de
totas cen la bellaire (Guilhem Ademar, VI, vv 25-28)
Dompna, ben sai certanamen / q’el mon non posc mais dompn’eslire / don qalsqe bes no
si’ a dire, / o q’om pensan no formes plus valen (Gui d’Ussel, I, vv 19-22)
Qu’ieu la triei, segon lo mieu semblan, / per la melhor de las autras reials (Cadenet, I, vv
22-23)
Et a cen tans e mais / q’eu no s dic de valor (Peire Raimon de Tolosa, I, vv 23-24)
Car a mos huelhs ami la plus plazen / dona del mon e la plus avinen, / la plus bel’ e la
plus cuend’ e l plus pros (Bertran Carbonel, III, vv 5-7).
Gensor de leis no poc faire Beltatz, / per qu’eu m’en ai gran pen’ e gran trebalha (Bernart
de Ventadorn, XXXV, vv 23-24)
Que natura, que tant gen la saup faire, / qan la formet plus bella e meillor / totz los bos
aips del mon en lieis assis (Rambertino Buvalelli, IX, vv 37-39)
Pros domna conoissens, / en cui es pretz e sens / e beutatz fin’ e pura, / que natura i mes
(Arnaut de Maruelh, XXII, vv 41-44)
Que, cum resplan roz’en rozier / gensetz d’autra flor de vergier, / sobra sobre totz ioys sos
iays / del maior gaug qu’anc nasc ni nays (Peire d’Alvernha, XVII, vv 57-60)
248
Qui la possibilità che un’altra donna sia pari alla prima non è del tutto esclusa, benché appaia molto
improbabile; la strofa successiva afferma d’altro canto che la ricerca è stata infruttuosa. Ciò che conta,
comunque, è che la dama qui elogiata rappresenta l’emblema stesso della femminilità, che identifica
l’ideale cui tutte devono adeguarsi. Segue la giocosa rappresentazione di una donna immaginaria che
derivi ciascuna sua qualità da una donna reale, eccellente in quel dettaglio, ma non abbastanza nel
complesso.
249
Questo tipo di rappresentazione dell’amata, che in fondo appare piuttosto accusatorio, è topico e molto
diffuso, non solo presso i trovatori, ma anche in ambito italiano.
311
C’anc Natura no mes en lieis, s ocre, / ni plus ni meins, mas aco qe i cove (Aimeric de
Peguilhan, XLI, vv 31-32)
Cum i saup totz bes formar / ab sotil saber Natura (Guilhem Ademar, IX, vv 58-59)
C’anc natura non obret tan / c’altra n fasses del sieu semblan (Gui d’Ussel, V, vv 27-28)
Quar anc gensor creatura / no crey, que forms natura (Guiraut Riquier, IV, vv 26-27).
2.2 Desiderio di non aver mai visto l’amata
A fronte delle difficoltà e delle sofferenze che derivano dallo stato amoroso e in
particolare dall’atteggiamento dell’amata, l’io poetico arriva a desiderare di non averla
mai conosciuta. Si noti che tali affermazioni si distinguono radicalmente dall’effettiva
decisione di smettere d’amare o di cambiare l’oggetto del proprio desiderio250. Infatti,
pur lamentandosi della propria condizione fino a metterne in discussione la motivazione
originaria, l’io lirico non fa nulla per liberarsene ed anzi perservera nelle proprie
abitudini.
I luoghi trobadorici per lo più associano il momento del primo incontro ad una sciagura
senza soluzione; nel Canzoniere le occorrenze sono poche e forse più generiche, poiché
non si parla precisamente del contatto fatale, ma semplicemente di “visione”251.
Petrarca
Per quanto non vorreste o poscia od ante / esser giunti al camin che sì mal tiensi, / per non
trovarvi i duo bei lumi accensi, / né l’orme impresse de l’amate piante?252 (son. 204, vv 58)
Già sai tu ben quanta dolcezza porse / agli occhi tuoi la vista di colei / la qual ancho
vorrei / ch’a nascer fosse253 per più nostra pace254 (canz. 264, vv 37-40)
Cerchiamo ‘l ciel, se qui nulla ne piace: / ché mal per noi quella beltà si vide, / se viva et
morta ne devea tor pace255 (son. 273, vv 12-14)
Noia m’è ‘l viver sì gravosa et lunga / ch’i’ chiamo il fine, per lo gran desire / di riveder
cui non veder fu ‘l meglio (son. 312, vv 12-14)256.
250
Di tali circostanze, affatto rare in ambito provenzale e per certi aspetti echeggiate nel Canzoniere,
benché secondo una prospettiva del tutto nuova, si è parlato nel corso del precedente capitolo.
251
Sul tema dell’incontro si tornerà nel corso del presente capitolo.
252
È interessante che nel componimento successivo sia espresso esattamente il concetto opposto, cioè il
rimpianto di chi non ha potuto incontrare l’amata.
253
Da notare che questo tipo di affermazioni si scontra con altre di carattere celebrativo in cui il poeta
esalta l’importanza di aver visto e conosciuto Laura, compiangendo coloro che per motivi cronologici non
ne hanno avuto la possibilità: si vedano i ff. 205, 248, 309.
254
Per questo luogo Santagata 1996, pp. 1057-1058 cita il modello di Aimeric de Peguilhan.
255
Per questo passo, Santagata 1996, p. 1114, ricorda, oltre agli antecedenti italiani, Peire Vidal e
Folchetto da Marsiglia.
256
Ai brani qui citati possiamo associare i luoghi in cui l’io poetico dichiara che la dama è stata destinata
soltanto a causarne le sofferenze, come nel sonetto 350: “Questo nostro caduco et fragil bene, / ch’è vento
et ombra, et à nome beltate, / non fu già mai se non in questa etate / tutto in un corpo, et ciò fu per mie
pene” (vv 1-4), o nella canzone 264: “quella che sol per farmi morir nacque” (v 107).
312
Trovatori
Qu’al prim q’eu vi ma domna ez ylh me / m’agra be ops qu’adoncs no vis ieu re (Aimeric
de Peguilhan, XXIX, vv 6-7)
Mala us viron miei huoill, / si chausimens no us guia (Guilhem Ademar, I, vv 6-7)
E for a m meills fos aillors mos penssiers (Guilhem Ademar, X, v 17).
2.3 La donna nemica e guerriera
Topica definizione dell’amata è quella di “nemica”257, spesso anzi secondo la formula
cristallizzata di “dolce nemica”, che ha origine proprio in Provenza. Non può stupire
che l’io poetico la presenti in questi termini: la crudeltà giustifica l’inimicizia, mentre
l’amore incrollabile del poeta spiega la dolcezza. L’effetto ossimorico è a sua volta
perfettamente coerente con i tratti consueti della rappresentazione amorosa,
contraddittoria e disforica.
Petrarca
Mille fiate, o dolce mia guerrera (son. 21, v 1)
De la dolce et acerba mia nemica / è bisogno ch’io dica (canz. 23, vv 69-70)
Mostrimi almen ch’io dica / Amor in guisa che, se mai percote / gli orecchi de la dolce
mia nemica, / non mia, ma di pietà la faccia amica (canz. 73, vv 27-30)
Et die’ le chiavi a quella mia nemica / ch’anchor me di me stesso tene in bando (son. 76,
vv 3-4)
Ma chi pensò veder mai tutti insieme / per assalirmi il core, or quindi or quinci, / questi
dolci nemici, ch’i’ tant’amo?258 (son. 85, vv 9-11)
Quel che mi fanno i miei nemici anchora / non è per morte, ma per più mia pena259 (son.
87, vv 13-14)
Era ben forte la nemica mia, / et lei vid’io ferita in mezzo ‘l core (son. 88, vv 13-14)
Lasso, non a Maria, non nocque a Pietro / la fede, ch’a me sol tanto è nemica260 (son. 95,
vv 12-13)
Or vedi, Amor, che giovenetta donna / tuo regno sprezza, et del mio mal non cura, / et tra
duo ta’ nemici è sì secura (mad. 121, vv 1-3)
[…] et vo’ che m’oda / la dolce mia nemica anzi ch’io moia (canz. 125, vv 44-45)
Questa bella d’Amor nemica, et mia (son. 169, v 8)
Ò preso ardir co le mie fide scorte / d’assalir con parole honeste accorte / la mia nemica
in atto humile et piano (son. 170, vv 2-4)
Geri, quando talor meco s’adira / la mia dolce nemica, ch’è sì altera (son. 179, vv 1-2)
257
Oltre all’ininimicizia dell’amata e talvolta di Amore, si ricordi che il tema torna in riferimento ad
aspetti vari della vicenda amorosa (ad esempio occhi e cuore, altra immagine convenzionale trobadorica,
che si trova in Uc de Saint Circ o Lanfranco Cigala, o la sorte) e in chiave cristiana, soprattutto per
identificare il demonio, definito nemico o avversario.
258
Tra i nemici, qui molteplici ma tutti legati all’effetto d’amore, è considerata anche Laura.
259
In questo caso non si parla direttamente di Laura, ma dei suoi occhi e del colpo che ne deriva.
260
Anche qui si nota uno spostamento da Laura alla “fede”, cioè alla fedele devozione che il poeta prova
nei suoi confronti.
313
O la nemica mia pietà n’avesse (son. 195, v 11)
Ma io nol credo, né ‘l conosco in vista / di quella dolce mia nemica et donna (son. 202, vv
12-13)
Et la nemica mia / più feroce ver’ me sempre et più bella (canz. 206, vv 8-9)
I’ pur ascolto, et non odo novella261 / de la dolce et amata mia nemica (son. 254, vv 1-2)
Miri fiso nelli occhi a quella mia / nemica, che mia donna il mondo chiama (son. 261, vv
3-4)
Già incominciava a prender securtade / la mia cara nemica a poco a poco (son. 315, vv 56)
Né costui né quell’altra mia nemica / ch’i’ fuggia, mi lasciavan sol un punto (canz. 360,
vv 54-55).
Trovatori
E per ma guereira cui am (Giraut de Bornelh, XVII, v 9)
Douc’enemia, en vos amar / soi tan ferm lassatz ses cor var (Sordello, VI, vv 41-42)
Que m’es mala e salvatja guerreira (Peire Vidal, XIII, v 10).
2.4 Metafore e paragoni per rappresentare l’amata: la natura, il fiore, lo specchio
Tre particolari soluzioni si ripetono più volte tanto nel corpus trobadorico quanto nel
Canzoniere al fine di rappresentare la natura meravigliosa dell’amata, in forma di
metafora o di similitudine: gli elementi naturali, il fiore e lo specchio.
2.4.1
Metafore e paragoni naturalistici
La bellezza della dama è talvolta evocata attraverso l’associazione con elementi
naturali: sono topici in particolare la rosa per le labbra, le perle per i denti, la neve per la
carnagione262, che nel caso di Laura si assommano all’oro dei capelli. È più raro invece
l’ebano. È interessante notare che tale approccio alla lode fisica dell’amata trova un
riscontro molto limitato in ambito siciliano (due sole occorrenze limitate alla rosa come
termine di paragone per l’incarnato); è più comune invece che la dama sia apostrofata
come “rosa” (nove occorrenze), eliminando però ogni preciso riferimento alla sua figura
fisica e comunque focalizzandosi su un solo dettaglio estetico263.
261
Anche l’idea dell’assenza di comunicazione da parte dell’amata, per esprimere l’attesa frustrata e
l’isolamento dell’amante, è piuttosto frequente nel corpus trobadorico, ad esempio in vari componimenti
di Giraut de Bornelh.
262
Per il frequente paragone con la neve si veda Scarpati 2008, pp. 82 segg.
263
Di nuovo alla rosa pensano i Siciliani quando paragonano il rapporto tra l’amata e le altre donne a
quello tra le diverse specie di fiori. Anche questa è un’immagine topica e già diffusa in ambito
provenzale, ma risponde ad una concezione in parte diversa rispetto a quella sottesa al topos qui
analizzato.
314
Petrarca
Giovene donna sotto un verde lauro / vidi più biancha et più fredda che neve / non
percossa dal sol molti et molt’anni (sest. 30, vv 1-3)
L’oro et le perle e i fior’ vermigli e i bianchi, / che ‘l verno devria far languidi et secchi
(son. 46, vv 1-2)
Se mai candide rose con vermiglie / in vasel d’oro vider gli occhi miei / allor allor da
vergine man colte, / veder pensaro il viso di colei / ch’avanza tutte l’altre meraviglie
(canz. 127, vv 71-75)
Et le rose vermiglie in fra la neve / mover da l’òra, et discovrir l’avorio / che fa di marmo
chi da presso ‘l guarda (son. 131, vv 9-11)
O fiamma, o rose sparse in dolce falda / di viva neve, in ch’io mi specchio et tergo (son.
146, vv 5-6)
La testa òr fino, et calda neve il volto, / hebeno i cigli, et gli occhi eran due stelle, / onde
Amor l’arco non tendeva in fallo; / perle et rose vermiglie, ove l’accolto / dolor formava
ardenti voci et belle; / fiamme i sospir’, le lagrime cristallo (son. 157, vv 9-14)
Amor fra l’erbe una leggiadra rete / d’oro et di perle tese sott’un ramo / dell’albor sempre
verde ch’i’ tant’amo (son. 181, vv 1-3)
Vedi quant’arte dora e ‘mperla e ‘nostra / l’abito electo, et mai non visto altrove (son.
192,vv 5-6)
Di cinque perle oriental colore, / […] / diti schietti soavi, a tempo ignudi (son. 199, vv 57)
Li occhi sereni et le stellanti ciglia, / la bella bocca angelica, di perle / piena et di rose et
di dolci parole (son. 200, vv 9-11)
Quella ch’à neve il volto, oro i capelli, / nel cui amor non fur mai inganni né falli264 (son.
219, vv 5-6)
Onde tolse Amor l’oro, et di qual vena, / per far due treccie bionde? E ‘n quali spine /
colse le rose, e ‘n qual piaggia le brine / tenere et fresche, et die’ lor polso et lena? / Onde
le perle, in ch’ei frange et affrena / dolci parole, honeste et pellegrine? (son. 220, vv 1-6)
Quand’io veggio dal ciel scender l’Aurora / co la fronte di rose et co’ crin d’oro (son.
291, vv 1-2)
Sì texta, ch’oro et neve parea inseme (canz. 323, v 66)
Parea chiusa in òr fin candida perla265 (canz. 325, v 80).
Trovatori
Doussa e fresqua e colorida / cum flors de may en rozier (Bernart Martì, VII, vv 38-39)
C’anc de rosier no nasquet flors / plus fresca, ni de nuills brondeus (Giraut de Bornelh,
XII, vv 16-17)
264
Qui il poeta descrive, in termini molto simili a quelli impiegati per Laura, l’Aurora (nella forma
personificata della tradizione mitologica). Lo stesso vale per il passo citato dal sonetto 291, dove però
l’associazione tra le due figure femminili viene esplicitato.
265
Nella medesima canzone Petrarca ritrae Laura metaforicamente in termini architettonici e scegliendo
le sue immagini tra le pietre preziose, secondo un’ulteriore tradizione retorica molto ben attestata,
soprattutto fra Siciliani e Siculo-toscani.
315
Denz plus blancas c’us cristals; / neus blanca non es aitals / cum sos cors rics de joven
(Uc de Saint Circ, VI, vv 38-40)
Guai’e blanca coma ermis, / plus fresca qe rosa nilis; (Cercamon, II, vv 37-38)
Qui ve cum la neus e l calors, / so es la blanchesa e l colors (Folchetto da Marsiglia, IV,
vv 27-28)
Quar la rosa sembla lei de cui chan, / aultresi es la neus de l sieu senblan (Sordello, III, vv
5-6)
Pel saur ab color de robina, / blanca pel col cum flors d’espina (Bertran de Born, XIII, vv
25-26)
Qu’es blanca aissi cum nieus (Aimeric de Peguilhan, XLIX, v 29)
Et a be plus fresca color / ce rosa ni flors d’angilen (Folquet de Romans, IV, vv 11-12)
Vermelha cum flors de rozier / a sa color, ses gienh, e var (Folquet de Lunel, I, vv 33-34).
2.4.2
Fiore
Oltre ai paragoni naturalistici, in cui può essere scelta anche l’immagine di fiori266, essa
è proposta in termini metaforici e topici per indicare la perfezione. La dama trobadorica
e così Laura si identificano col “fiore”, cioè il meglio del genere femminile, della
bellezza in particolare, più di rado del pregio o della saggezza267.
Petrarca
Benché di sì bel fior sia indegna l’erba268 (son. 45, v 14)
Poggi et onde passando, et l’onorate / cose cercando, e ‘l più bel fior ne colse (canz. 73,
vv 35-36)
Novo penser di ricontar mi nacque / in quante parti il fior de l’altre belle (canz. 127, vv
88-89)
Qual miracolo è quel, quando tra l’erba / quasi un fior siede, over quand’ella preme / col
suo candido seno un verde cespo! (son. 160, vv 9-11)
Quel fiore anticho di vertuti et d’arme / come sembiante stella ebbe con questo / novo fior
d’onestate et di bellezze! (son. 186, vv 9-11)
Era un tenero fior nato in quel bosco (sest. 214, v 7)
In nobil sangue vita humile et queta / et in alto intellecto un puro core, / frutto senile in
sul giovenil fiore / e ‘n aspetto pensoso anima lieta (son. 215, vv 1-4)
Candida rosa nata in dure spine (son. 246, v 5)
266
Per i paragoni trobadorici con i fiori e in particolare quello frequentissimo con la rosa, si veda Scarpati
2008, pp 68 segg.
267
Accogliamo qui alcuni paragoni con l’immagine del fiore che modificano anche sensibilmente
l’impostazione convenzionale del confronto, per descrivere come Petrarca si appropri liberamente della
topica associazione fiore-amata. Non elencheremo invece i luoghi dove il fiore sia quello dell’età, altro
topos di carattere metaforico utile alla rappresentazione dell’età giovanile.
268
In questo caso l’immagine è lievemente diversa rispetto a quella topica vera e propria, poiché il sonetto
coinvolge il mito di Narciso e la sua effettiva trasformazione in fiore, che si ipotizza per una Laura
eccessivamente dedita al proprio aspetto. Tuttavia la scelta del fiore, tanto splendido da essere
incomparabile al prato in cui dovrebbe trovarsi, non può che evocare anche la formula convenzionale vera
e propria.
316
I’ la riveggio starsi humilemente / tra belle donne, a guisa d’una rosa / tra minor’ fior’, né
lieta né dogliosa269 (son. 249, vv 5-7)
Punta poi nel tallon d’un picciol angue, / come fior colto langue (canz. 323, vv 69-70)
Or ài fatto l’extremo di tua possa, / o crudel Morte; or ài ‘l regno d’Amore / impoverito;
or di bellezza il fiore / e ‘l lume ài spento, et chiuso in poca fossa (son. 326, vv 1-4)
Pianger l’aer et la terra e ‘l mar devrebbe / l’uman legnaggio, che senz’ella è quasi / senza
fior’ prato, o senza gemma anello (son. 338, vv 9-11)
Fior di vertù, fontana di beltate (son. 351, v 7).
Trovatori
Lai m’aparec la bella flors de lis (Giraut de Bornelh, XIII, v 6)
Flors de beltatz e flors d’onors, / flors de joven e de valors, / flors de sen e de corteszia, /
flors de presz e ses vilania, / flors de totz bes senes totz mals (Uc de Saint Circ, XLIV, vv
3-7)
D’onor e de beutat flors (Rigaut de Berbezilh, I, v 36)
Quan pes quo am de totz bos ayps la flor (Sordello, VII, v 9)
Car sai qu’es de beutat la flors (Elias Cairel, XV, v 12)
E l sieus cars pretz q’es flors dels plus prezatz270 (Raimbaut de Vaqueiras, XXXIII, v 28)
Eu sai la flor plus bella d’autra flor (Rambertino Buvalelli, VI, v 1)
Domna, flor / d’amor271 (Aimeric de Belenoi, XI, vv 1-2)
Flors de joi e d’amor (Arnaut de Maruelh, VI, v 26)
Lo sieus dous esguars clars, / corals, dels gensors flors (Aimeric de Peguilhan, XLV, vv
9-10)
Tan aut me crei Amors en ferm talan / per una bela flor e l sieu clar vis ! (Gaucelm Faidit,
VI, vv 1-2)
Caps de pretz, flors de beutat (Guilhem de la Tor, X, v 51)
Ai, dousa flors ben olenz, / plus clara que flors de lis (Cadenet, V, vv 1-2)
No volgra camiar leis, qu’es flor / de iovent e de ioi sabor (Peire Raimon de Tolosa, VII,
vv 22-23)
De tot be portas la flor (Bertran Carbonel, VII, v 54)
Anav’ enqueren la flor / don podi’ esser garitz (Bartolomé Zorzi, X, vv 3-4)
Flors de roza ses spina (Lanfranco Cigala, IX, v 6)
Mirals e flors de dompnas e d’Amor (Peire Bremon Ricas Novas, XII, v 2)
Quar flors es de totas beutatz (Guiraut Riquier, XXVI, v 39)
Car flors vos es de vera conoissenza, / flors de beutat, flors de vera merce / flors a cui l
mons […] (Peire Guilhem de Luserna, V, vv 13-15)
E cum vos es de totas rays e flors (Guilhem de Cabestanh, V, v 44).
269
Il passo risente direttamente dell’esempio di Peire Vidal.
Nel medesimo testo l’immagine del fiore ricorreva già in precedenza (v 10) per descrivere il valore
dell’amore rispetto a tutti gli altri beni: “mas amors es flors e frugz de totz bes”.
271
Come accade d’abitudine, la rappresentazione mariana, cui la canzone è dedicata, è profondamente
affine a quella amorosa.
270
317
2.4.3
L’amata e lo specchio: perfezione e vanità
Nel Canzoniere l’immagine dello specchio vanta non poche occorrenze, che
propongono però accezioni e significati differenti. Innazitutto bisogna distinguere tra lo
specchio inteso nella sua concretezza materiale e l’uso metaforico. Nel primo caso,
l’amata è presentata nella sua vanità, assorbita dalla contemplazione di se stessa,
incurante del mondo che la circonda. Ciò comporta due conseguenze: l’inimicizia tra
l’innamorato e lo specchio, l’implicita affermazione che la dama è bellissima, tanto da
giustificare il suo narcisismo. Tale aspetto celebrativo è invece preponderante nelle
occorrenze figurate. Esse sono caratterizzate da sfumature diverse, tutte riconducibili ad
aree semantiche convenzionali in ambito lirico ed amoroso: lo “specchio di perfezione”
o “di meraviglie” o ancora “della natura”. Nell’amata e nelle sue qualità, cioè, si
specchia l’intera creazione, concepita in ottica ovviamente positiva, visto che
l’immagine è pensata come elogio; il poeta a sua volta si vede riflesso in quel tutto,
accentuando il senso di connessione (e subordinazione) tra i due personaggi272. Anche
gli occhi sono talvolta definiti specchi, a sottolinearne soprattutto la luce: tale uso però
appare strettamente legato alla tradizione italiana273. Le due possibilità precedenti sono
invece attestate già in area provenzale: 1. la dama vi appariva già vittima della vanità,
seduta per ore davanti allo specchio274, e 2. poi perfetta, culmine e summa del creato.
Petrarca
1.
Il mio adversario in cui veder solete / gli occhi vostri ch’Amore e ‘l ciel honora, / colle
non sue bellezze v’innamora / più che ‘n guisa mortal soavi et liete. / […] / Non devea
specchio farvi per mio danno, / a voi stessa piacendo, aspra et superba275 (son. 45, vv 111)
Ma più ne colpo i micidiali specchi276, / che ‘n vagheggiar voi stessa avete stanchi277 (son.
46, vv 7-8)
2.
Novella d’esta vita che m’addoglia / furon radice, et quella in cui l’etade / nostra si mira,
la qual piombo o legno / vedendo è chi non pave (canz. 29, vv 25-29)
O fiamma, o rose sparse in dolce falda / di viva neve, in ch’io mi specchio et tergo (son.
146, vv 5-6)
272
Bibliografia sul motivo topico si trova in Santagata 1996, p. 1210.
Per tale ragione non ne teniamo conto in questa sede.
274
Per tale aspetto facciamo soprattutto riferimento a Bernart de Ventadorn.
275
Altri due passi in cui compare lo specchio nella sua accezione realistica (sonn. 168 e 361) sono riferiti
al poeta e alla sua presa di coscienza del tempo che passa e dell’età che avanza.
276
Deve trattarsi degli occhi, che uccidono con lo sguardo che fa innamorare; tuttavia è sottintesa anche
l’idea dello specchio, visto che Laura è di nuovo colta nell’atto di ammirare se stessa, come nel brano
precedente. I due usi convenzionali si sovrappongono ed intrecciano.
277
Va notato come Petrarca riproponga l’immagine di Laura-Narciso in un’unità testuale unitaria, a
formare un ciclo coeso.
273
318
Le stelle, il cielo et gli elementi a prova / tutte lor arti et ogni extrema cura / poser nel
vivo lume, in cui Natura / si specchia, e ‘l sol ch’altrove par non trova (son. 154, vv 1-4)
Così lo spirto d’or in or vèn meno / a quelle belle care membra honeste / che specchio
eran di vera leggiadria (son. 184, vv 9-11)
Né altro sarà mai ch’al cor m’aggiunga, / sì seco il seppe quella seppellire / che sola agli
occhi miei fu lume et speglio (son. 312, vv 9-11)
Taciti sfavillando oltra lor modo, / dicean: - O lumi amici che gran tempo / con tal
dolcezza feste di noi specchi278 (son. 330, vv 9-10)279.
Trovatori
1.
Domna, maldit sion miraill! (Raimbaut d’Aurenga, XXIII, v 119)
Be deuri’aucire / qui anc fetz mirador, / can ben m’o cossire, / no n ai guerrer peyor. / Ja l
jorn qu’ela s mire / ni pens de sa valor, / no serai jauzire / de leis nide s’amor (Bernart de
Ventadorn, XXV, vv 41-48)
Que, quan ve el mirador, / la gran beutat que l’enansa, / remebran son pretz aussor, / tem
que non denh penr’esmansa (Sordello, XII, vv 22-25)
Mas qan si ve dinz son miraill / color de robin ab cristal (Raimbaut de Vaqueiras, VII, vv
45-46)
De Joy Novelh me tenc be per paguat, / no l’enguana de re lo miradors (Daude de Pradas,
III, vv 45-46).
2.
Miralhs, pus me mirei en te (Bernart de Ventadorn, XLIII, v 21)
En leis sembla qe i a mirail (Giraut de Bornelh, XIX, v 20)
Sapchatz, miraill, c’aisi es mos amars / en liei, que totz m’es faillitz mos agaitz (Elias
Cairel, XIV, vv 43-44)
[…] Ni ‘n tan clar mirador / no is taing que ja s’esagart hom ni s remire (Rambertino
Buvalelli, VI, vv 44-45)
Car mos cors es miraillz de sa faiso (Aimeric de Belenoi, V, v 15)
E miraill de beutat (Arnaut de Maruelh, VI, v 27)
Quo l bazalesc qu’ab joy s’anet aucir, / quant el miralh se remiret e s vi, / tot atressi etz
vos miralhs de mi, / que m’aucietz quan vos vei ni us remir (Aimeric de Peguilhan, L, vv
29-32)
Quar vos etz flors e miralhs de valor (Gaucelm Faidit, I, v 22)
La belha qu’es flors e miralhs e lutz (Peire Raimon de Tolosa, XVI, v 13)
Qu ill es mirails e flors / de totas las meillors (Peire Bremon Ricas Novas, XI, vv 25-26)
278
Da notare che al v 7 il poeta già scriveva: “come non vedestù nelli occhi suoi”, anticipando ed
ampliando l’associazione occhi-specchi.
279
A questo gruppo di passi possiamo aggiungere ancora due occorrenze, diametralmente opposte. Da
una parte, nella canzone 23 il comportamento duro di Laura è descritto come utile e formativo anche
attraverso la metafora dello specchiarsi in Dio: “Et se contra suo stile ella sostene / d’esser molto pregata,
in Lui si specchia, / et fal perché ‘l peccar più si pavente” (vv. 127-129). Dall’altra, nel sonetto 136 lo
specchio, presentato in chiave reale e materiale, diviene strumento e simbolo della corrotta lussuria alla
corte papale: “vanno trescando, et Belzebub in mezzo / co’ mantici et col foco et co li specchi” (vv 1011).
319
Sal d’aitan qu’om non pot issir / de brau amar, qu’e liei s remir (Folquet de Lunel, I, vv
23-24).
2.5 Il nome dell’amata
Il tema del nome dell’amata è centrale, anche se in modo e per ragioni diverse, sia
nell’ideologia cortese che nel Canzoniere280. Per i trovatori, come si è anticipato, la
scelta di rivelare o meno l’identità dell’amata è gravida di significati, l’impegno nella
scelta del senhal è essenziale (anche perché esso costituisce un ulteriore elemento
distintivo di ciascun autore), la resistenza alla curiosità altrui è spesso ardua. Possiamo
dunque schematizzare così il motivo del nome amato nei componimenti occitanici: uso
del senhal, rifiuto di rivelare il nome, allusione al nome. Al contrario ciò che sempre
deve essere rivelato in modo esplicito è l’identità del destinatario: nelle tornade
elogiative dedicate a mecenati femminili, lodati in termini sostanzialmente amorosi, si
crea una certa ambivalenza rispetto al nome sottaciuto dell’amata.
Riprendendo probabilmente anche la tradizione del senhal, Petrarca crea continui giochi
sul nome e sull’identità di Laura, attraverso le celebri isotopie di lauro, aura e auro.
Inoltre, non mancano riferimenti più diretti, retoricamente mascherati come nel sonetto
5 oppure espliciti, fino all’uso semplice e univoco del nome “Laura”281.
Si tenga dunque in conto in generale il riuso petrarchesco del senhal trobadorico nelle
isotopie. Qui proponiamo piuttosto i riferimenti più diretti al nome, le cui occorrenze
sono molto meno numerose (e in ambito occitanico anche molto più univoche)282.
Petrarca
Quando io movo i sospiri a chiamar voi, / e ‘l nome che nel cor mi scrisse Amore283 (son.
5, vv 1-2)
Chiamando Morte, et lei sola per nome (canz. 23, v 140)
Benedette le voci tante ch’io / chiamando il nome de mia donna ò sparte (son. 61, vv 910)
Non è mancata omai la lingua e ‘l suono / dì et notte chiamando il vostro nome (son. 74,
vv 7-8)
Et voglio anzi un sepolcro bello et biancho, / che ‘l vostro nome a mio danno si scriva / in
alcun marmo […] (son. 82, vv 5-7)
280
Per il gioco fonico-semantico sul nome di Laura (lauro-l’aura) si veda il capitolo primo.
Il gioco sul nome dell’amata coinvolge importanti questioni cronologiche e redazionali: le isotopie,
infatti, sono assenti nella primissima parte del Canzoniere (fino alla sestina 80), con l’eccezione del
madrigale 52, per cui si ipotizza una composizione autonoma e galante, in cui la menzione dell’aura non
avrebbe avuto alcun significato sottinteso, poi rifunzionalizzato dall’inserimento nella raccolta.
282
Va notato che l’ultima occorrenza di questo tipo vede lo spostamento da Laura alla Vergine, con la
sostituzione del punto di riferimento, dalla dimensione sensuale a quella spirituale, cui ormai si è fatto più
volte riferimento: “Vergine, i’ sacro et purgo / al tuo nome et penseri et ‘ngegno et stile” (vv 126-128).
283
Come si è anticipato nel corso del precedente capitolo, trattando delle strutture retoriche più marcate, il
sonetto 5 continua con un doppio acrostico che rivela il nome dell’amata secondo due dizioni diverse,
LAURET(T)A e LAUREA.
281
320
Né mi lece ascoltar chi non ragiona / de la mia morte; / et solo del suo nome / vo
empiendo l’aere, che sì dolce sona (son. 97, vv 9-10)
Però mi dice il cor ch’io in carte scriva / cosa, onde ‘l vostro nome in pregio saglia (son.
104, vv 5-6)
Et così meco stassi, / ch’altra non veggio mai, né veder bramo, / né ‘l nome d’altra ne’
sospir’ miei chiamo (canz. 127, vv 96-98)
Del vostro nome, se mie rime intese / fossin sì lunge, avrei pien Tile et Battro, / la Tana e
‘l Nilo, Atlante, Olimpo et Calpe (son. 146, vv 9-11)
Stella difforme et fato sol qui reo / commise a tal che ‘l suo bel nome adora, / ma forse
scema sue lode parlando (son. 187, vv 12-14)
Laurea mia con suoi santi atti schifi (son. 225, v 10)
Temprar potess’io in sì soavi note / i miei sospiri ch’addolcissen Laura284 (sest. 239, vv 78)
Né ‘l pianger mio né i preghi pòn far Laura / trarre o di vita o di martir quest’alma (sest.
239, vv 23-24)
Questa è del viver mio l’una colomna, / l’altra è ‘l suo chiaro nome, / che sona nel mio
cor sì dolcemente (canz. 268, vv 48-50)
Anzi la voce al suo nome rischiari, / se gli occhi suoi ti fur dolci né cari (canz. 268, vv 7677)
Et dico sospirando: Ivi è Laura ora (son. 291, v 4)
Né di sé m’à lasciato altro che ‘l nome (son. 291, v 14)
Forse averrà che ‘l bel nome gentile / consecrerò con questa stanca penna (son. 297, vv
13-14)
Consecrata fra i nobili intellecti / fia del tuo nome qui memoria eterna (son. 327, vv 1314)
Or avess’io un sì pietoso stile / che Laura mia potesse torre a Morte (sest. 332, vv 49-50).
Trovatori
Eu non aus dir qui m’aflama (Arnaut Daniel, VII, v 27)
Pero non l’aus nomnar / per paor d’encuzar / qe l dreices lo coissi (Giraut de Bornelh,
XLVIII, vv 62-64)
Vezer volgra N’ Ezelgarda285 (Peire de la Valeria, II, v 1)
Ab cui eu m’apel Tristan / e tot per aital semblan / a m pres per entendedor (Bertran de
Born, XXIX, vv 60-62)
284
Nella sestina 239 Petrarca sceglie tra le parole-rima la forma “aura”, che risulta così in particolare
evidenza. Va sottolineato che a livello paleografico mancando d’abitudine i segni d’interpunzione come
l’apostrofo, le voci l’aura e laura sono esattamente omografe; in questo verso però il contesto permette
un’interpretazione a favore del nome dell’amata. Noteremo anche che esso compare in modo così
esplicito già nella prima sezione e dunque prima della morte di Laura, anche se si tratta solo di due
occorrenze e nel medesimo testo, e comunque oltre la metà della raccolta: in questo Petrarca rifiuta
l’esempio della Vita nova, in cui il nome di Beatrice viene citato in modo chiaro e diretto solo dopo la
dipartita dell’amata.
285
Per alcuni trovatori, come si vede, indicare esplicitamente il nome della dama non costituisce un
problema. Non è del tutto chiaro, però, quanto il personaggio specifico dovesse essere riconoscibile per
un lettore o ascoltatore dell’epoca, soprattutto in un’area diversa da quella d’origine, in mancanza di
indicazioni che andassero al di là del solo nome proprio. Come è ovvio data la diversa funzione
comunicativa, dediche e tornade sono molto più dettagliate in proposito.
321
De lieis lauzar no serai trop parliers, / qu’entendrion de cui sui cavalliers / s’ieu dizia lo
quart de sa valensa (Raimon Jordan, XII, vv 55-57)
La bela Na Guilhalmona, / ni es falsa ni felona (Peire Vidal, VI, vv 26-27)
Q’en deu esser plus gaia ma chanssos / sol car li platz que sos bels noms i fos (Gaucelm
Faidit, XI, vv 8-9)
Na Maria, pretz e fina valors (Na Bieirs de Romans, I, v 1)
Bels Noms, ges no m recré / de vos amar jassé (Castelloza, II, vv 59-60)
Que de midonz Na Maria / parles re que fos benestan (Gui d’Ussel, V, vv 62-63)
Bella Lionors, guirenssa / trob’ ab vos pretz ses faillenssa (Arnaut Catalan, II, vv 41-42)
Qu’escriut m’a mos Noms Verais (Bartolomé Zorzi, IV, v 8)
Le noms ditz qui l sap declarar, / qu’es clar’e munda de follia (Guilhem de Montanhagol,
VII, vv 39-40).
3. Aspetti positivi dell’amore
La vicenda amorosa non può essere soltanto negativa. Momenti di gioia, la sensazione
che la speranza possa giungere a reale compimento, l’impressione che la dama si
preoccupi per chi la adora sono tutti aspetti necessari sia a giustificare l’attaccamento
amoroso, sia a far sì che la vicenda stessa si prolunghi, confermando l’io lirico nel suo
desiderio passionale, sia infine a garantire una certa varietà di toni e situazioni a livello
poetico.
Nel corpus occitanico la distinzione tra momenti di disperazione e fasi di estasi è
piuttosto rigida, anche se essi possono susseguirsi all’interno del medesimo
componimento. Ad esempio, in una circostanza di perfetta soddisfazione può intervenire
un improvviso cambiamento, magari giustificato da una colpa dello stesso poeta;
oppure, a fronte di una profonda prostrazione, egli può riscoprire un’incrollabile fiducia.
In assenza di raccolte preordinate, manca l’impressione di un’evoluzione lineare tra uno
stato d’animo o un atteggiamento e l’altro. Resta chiaro comunque che l’esperienza
amorosa è fatta di alti e bassi, in una costante contraddittorietà.
Tali elementi si ripropongono senza dubbio nel Canzoniere petrarchesco, dove forse la
proporzione tra momenti felici e drammatici è più sbilanciata a favore del secondo
aspetto, che in ogni caso appare preminente anche per i trovatori. La vera differenza,
però, risiede nella costruzione unitaria della raccolta, in cui le diverse prospettive si
susseguono secondo una linea di certo non univoca né sempre coerente, ma continua. Si
pensi ad esempio alla coesa serie 205-207 in cui il sonetto rappresenta il culmine di una
fase serena, che porta il poeta ad affermazioni esplicite sui suoi sentimenti; l’escondich
costituisce un momento di passaggio in cui scusandosi l’innamorato cerca di ripristinare
l’idillio incrinato, mentre la canzone attesta in modo esplicito la fine della gioia e
l’inizio di nuovi tormenti. Anche l’interpretazione dei cosiddetti “aspetti stilnovistici”
del Canzoniere è interessante a questo proposito286. Infatti, l’attribuzione di un valore
salvifico all’amore e all’amata comporta una concezione positiva delle fatiche e delle
286
Si è anticipato il riferimento a tale aspetto del Canzoniere e alla zona che più ne è caratterizzata nel
precedente capitolo (e in parte anche nel primo).
322
sofferenze, che possono con ciò essere accolte e non solo lamentate. Ad esempio, le
“canzoni sorelle” tentano di procedere in tale direzione, anche se non riescono ad
escludere del tutto la componente disforica e contraddittoria dell’amore. Anche la morte
di Laura, paradossalmente, non porta solo una nuova forma di dolore, ma anche una
rinnovata possibilità di contatto e conforto (visioni), nonché di salvezza (la
consapevolezza delle ragioni del diniego, le parole che invitano al cielo). In definitiva,
quella contraddittorietà tra gioia/sofferenza sempre tipica dell’amore e ben riconoscibile
nel complesso dei canzonieri cortesi assume nuovi significati e funzioni nella struttura
innovativa della raccolta petrarchesca.
Cercheremo ora di approfondire alcuni elementi convenzionali nell’espressione
dell’estasi amorosa (dolcezza, effetti della visione), alcuni dettagli positivi nel rapporto
con l’amata (pegni), infine e soprattutto gli esiti vantaggiosi che possono derivare all’io
poetico sul piano spirituale.
3.1 La dolcezza
Il campo semantico della dolcezza è forse il più frequente nella rappresentazione delle
gioie amorose. È l’effetto che emana da madonna, capace di lenire le sofferenze pur
costanti e non a caso spesso inserito in coppie ossimoriche, come nel caso, già visto in
riferimento alla rappresentazione dell’amata, della “dolce nemica”. Possiamo
distinguere tra brani in cui il poeta dichiara di essere conquistato dalla dolcezza ed altri
in cui la sua percezione resta implicita; qui l’espressione del concetto è affidata
semplicemente all’aggettivazione287.
Petrarca
Et s’i’ ò alcun dolce, è dopo tanti amari, / che per disdegno il gusto si dilegua: / altro mai
di lor gratie non m’incontra288 (son. 57, vv 12-14)
Dico ch’ad ora ad ora, / vostra mercede, i’ sento in mezzo l’alma / una dolcezza inusitata
et nova (canz. 71, vv 76-78)
Così de lo mio core, / quando tanta dolcezza in lui discende, / ogni altra cosa, ogni penser
va fore, / et solo ivi con voi rimanse Amore. / Quanta dolcezza unquancho / fu in cor
d’aventurosi amanti, accolta / tutta in un loco, a quel ch’i’ sento è nulla (canz. 72, vv 4148)
Ma non in guisa che lo cor si stempre / di soverchia dolcezza, com’io temo, / per quel
ch’i’ sento ov’occhio altrui non giugne (canz. 73, vv 7-9)
Onde più volte sospirando indietro / dissi: Oimè, il giogo et le catene e i ceppi / eran più
dolci che l’andare sciolto (son. 89, vv 9-11)
287
Le occorrenze di questo secondo tipo sono numerosissime e molto sintetiche e dunque in questa sede è
preferibile tralasciarle, prestando maggiore attenzione ai luoghi in cui sia chiaramente coinvolta la
dimensione emotiva dell’io poetico.
288
Anche il lamento per la gioia insufficiente è topico e come tale lo riportiamo. L’immagine proposta dal
sonetto 57, comunque, ricorda per contrasto un altro topos molto diffuso in ambito trobadorico: la gioia si
gusta di più quando giunge dopo numerose sofferenze.
323
L’aura soave che dal chiaro viso / move col suon de le parole accorte / per far dolce
sereno ovunque spira (son. 109, vv 9-11)
Pien di quella ineffabile dolcezza / che nel viso trassen gli occhi miei (son. 116, vv 1-2)
Et son di là sì dolcemente accolti (son. 117, v 9)
L’amar m’è dolce, et util il mio danno (son. 118, v 5)
Per più dolcezza trar degli occhi suoi (canz. 119, v 34)
Così sempre io corro al fatal mio sole / degli occhi onde mi vèn tanta dolcezza (son. 141,
vv 5-6)
Trovo la bella donna allor presente / ovunque mi fu mai dolce o tranquilla (son. 143, vv
5-6)
Ma freddo foco et paventosa speme / de l’alma che traluce come un vetro / talor sua dolce
vista rasserena (son. 147, vv 12-14)
Per quel ch’io sento al cor gir fra le vene / dolce veneno, Amor, mia vita è corsa (son.
152, vv 7-8)
Tanta negli occhi bei for di misura / par ch’Amore et dolcezza et gratia piova. / L’aere
percosso da’ lor dolci rai / s’infiamma d’onestate […] (son. 154, vv 7-10)
Qual dolcezza è ne la stagione acerba / vederla ir sola coi pensier’ suoi inseme (son. 160,
vv 12-13)
Così sol d’una chiara fonte viva / move ‘l dolce et l’amaro ond’io mi pasco (son. 164, vv
9-10)
Ma ‘l suon che di dolcezza i sensi lega (son. 167, v 9)
Amor mi manda quel dolce pensero / che secretario anticho è fra noi due (son. 168, vv 12)
Forma senz’arte un sì caro monile, / ch’ogni cor addolcisce, e ‘l mio consuma (son. 185,
vv 3-4)
Dolce del mio penser hora beatrice (son. 191, v 7)
Vedi ben quanta in lei dolcezza piove (son. 192, v 3)
Nel qual provo dolcezze tante et tali (son. 194, v 9)
Da ta’ duo luci è l’intellecto offeso, / et di tanta dolcezza oppresso et stanco (son. 198, vv
13-14)
Dolci ire, dolci sdegni et dolci paci, / dolce mal, dolce affanno et dolce peso, / dolce
parlare, et dolcemente inteso, / or di dolce òra, or pien di dolci faci289 (son. 205, vv 1-4)
Ch’i’ non vo’ dir di lei: ma chi la scorge, / tutto ‘l cor di dolcezza et d’amor gli empie, /
tanto n’à seco, et tant’altrui ne porge; / et per far mie dolcezze amare et empie, / o
s’infinge o non cura, o non s’accorge, / del fiorir queste inanzi tempo tempie (son. 210,
vv 9-14)
Et non so che nelli occhi, che ‘n un punto / pò far chiara la notte, oscuro il giorno, / e ‘l
mèl amaro, et adolcir l’assentio (son. 215, vv 12-14)
Amor con tal dolcezza m’unge et punge (son. 221, v 12)
Quel pò solo adolcir la doglia mia (son. 223, v 14)
Cantai, or piango, et non men di dolcezza / del pianger prendo che del canto presi (son.
229, vv 1-2)
Sì dolce è del mio amaro la radice (son. 229, v 14)
289
In questo passo l’elemento più interessante, al di là del prolungato ossimoro, è proprio la ripetizione
del termine “dolce” o di suoi derivati, che mette bene in luce la natura ossessiva del sentimento e la
pervasività dei suoi effetti. Il termine torna per altro ancora tre volte oltre la prima quartina.
324
Sì dolcemente i pensier’ dentro a l’alma / mover mi sento a chi li à tutti in forza (sest.
239, vv 4-5)
Et se talor da’ belli occhi soavi, / ove mia vita e ‘l mio pensero alberga, / forse mi vèn
qualche dolcezza honesta (son. 253, vv 9-11)
L’alma tra l’una et l’altra gloria mia / qual celeste non so novo dilecto / et qual strania
dolcezza si sentia (son. 257, vv 12-14)
Vive faville scian de’ duo bei lumi / ver’ me sì dolcemente folgorando (son. 258, vv 1-2)
Già sai tu ben quanta dolcezza porse / agli occhi tuoi la vista di colei (canz. 264, vv 3738)
L’altra è ‘l suo chiaro nome, / che sona nel mio cor sì dolcemente (canz. 268, vv 49-50)
Tornami avanti, s’alcun dolce mai / ebbe ‘l cor tristo […] (son. 272, vv 9-10)
Secondo lei conven mi regga et pieghi, / per la dolcezza che del suo dire prendo, /
ch’avria vertù di far piangere un sasso (son. 286, vv 12-14)
Quel rosignuol, che sì soave piagne / forse suoi figli o sua cara consorte, / di dolcezza
empie il cielo et le campagne (son. 311, vv 1-3)
Qual dolcezza fu quella, o misera alma! (son. 314, v 9)
Spirto già invicto a le terrene lutte, / ch’or su dal ciel tanta dolcezza stille (322, vv 5-6)
Ivi m’assisi; et quando / più dolcezza prendea di tal concento / et di tal vista, aprir vidi
uno speco (canz. 323, vv 43-45)
Con quella man che tanto desiai, / m’asciuga li occhi, et col suo dir m’apporta / dolcezza
ch’uom mortal non sentì mai (son. 342, vv 9-11)
Ripensando a quel ch’oggi il ciel honora, / soave sguardo, al chinar l’aura testa, / al volto,
a quella angelica modesta / voce che m’adolciva, et or m’accora (son. 343, vv 1-4).
Trovatori
Que na devisa Messoigna, / que tant soaument caloigna, / mens poiria falsar un fil
(Arnaut Daniel, IV, vv 30-32)
La dousa votz ai auzida / del rosinholet sauvatge290 / et es m’ins el cor salhida / si que tot
lo cosirer / e ls mal trahiz qu’amors me dona, / m’adousa e m’asazona291 (Bernart de
Ventadorn, XXIII, vv 1-6)
Ab atraich d’amor doussana (Jaufré Rudel, III, v 12)
Aitant doussament m’apaia / quanz q’iqu aia / de turmens / sos francs cars humils parvens
(Uc de Saint Circ, V, vv 19-22)
Que, quant en re m’azir, / del doutz pensar pert l’ir’ab l’esjauzir (Rigaut de Berbezilh, III,
vv 32-33)
Tot jorn perpren e m creis e m nais / uns rams de joi plens de dousor (Cercamon, IX, vv
37-38)
Mi ven mesclamens la sabor / si qu’e la boca m nais dossors (Folchetto da Marsiglia, IX,
vv 34-35)
Qe dolsors m’es qar ma dols’amia (Sordello, XXXVIII, v 3)
290
L’effetto consolatorio della natura è ben attestato anche in Petrarca, in associazione con il tema della
testimonianza naturale e con quello della ricerca di solitudine.
291
Il brano propone entrambe le accezioni tipiche dell’immagine, qui riferita non direttamente alla dama,
come è più tipico, ma comunque a circostanze amorose: da una parte la semplice aggettivazione – che
anche nei trovatori come in Petrarca è la soluzione più frequente – dall’altra nella rappresentazione dello
stato intimo dell’io lirico.
325
Et estai si dedinz tant doussamen / que mais no i pot intrar autre penssiers (Rambertino
Buvalelli, VII, vv 3-4)
E pero tan gran dousor / ai al cor d’una honor (Aimeric de Belenoi, VIII, vv 10-11)
Et a m tant de doussor / lo vostr’enseignamens (Arnaut de Maruelh, VI, vv 20-21)
Tant m’es dous e fis sos vezers, / pel ioy que m n’es al cor assis (Peire d’Alvernha, XII,
vv 36-37)
Del solas qu’era m pejura, / que m demostret dous e plazen (Raimon de Miravall, II, vv
11-12)
Amors mi te jauzet e deleitos, / Amors mi ten en son dous recaliu (Peire Vidal, XXIX, vv
9-10)
A fin’Amor grazisc lo douz dezir / que m fai estar en tant fina doussor (Perdigon, II, vv
10-11)
Tant doussamen mi ven nafrar e poigner / q’ieu non o sen, ni no sai ab qe m poing
(Aimeric de Peguilhan, XLVII, vv 25-26)
D’una doussor d’amor qe m venc ferir (Gaucelm Faidit, XVII, v 14)
C’al departir me dones un dolz bais / tan dolzemen lo cor del cors me trais (Folquet de
Romans, II, vv 2-3)
Que tant vas lieis s’umelia / mos cors d’umelian dousor / qe m teing per pagatz de dolor
(Lanfranco Cigala, I, vv 55-57)
Nuills hom no s’auci tan gen / ni tan dousamen / ni fai son dan ni folleia / cum cel qu’en
amor s’enten (Peirol, III, vv 1-4).
3.2 Pegni d’amore
Il segno palese e materiale dell’esistenza di una relazione amorosa con la dama, o per lo
meno dell’accettazione da parte sua del corteggiamento del poeta, è il pegno. La sua
importanza è perciò evidente e non a caso esso costituisce un topos ben attestato nelle
opere trobadoriche292. Qualche traccia dell’immagine convenzionale si ripropone anche
nel Canzoniere, dove però l’unico pegno che conta per il poeta è l’amata stessa, mentre i
simboli tipici della metafora feudale (anello, cintura e così via) non compaiono più.
Petrarca
Quanto il sol gira, Amor più caro pegno, / donna, di voi non ave (canz. 29, vv 57-58)
Caro, dolce, alto et faticoso pregio293 (sest 214, v 13)
Dolce mio caro et precioso pegno / che Natura mi tolse, e ‘l Ciel mi guarda (son. 340, vv
1-2)294.
292
Tuttavia nella maggior parte dei casi più che di un oggetto specifico (di solito topico e feudale, come la
cintura o l’anello), il poeta parla di un generico “dono” da parte dell’amata. In generale l’idea del pegno è
implicitamente associata a quella del patto amoroso, che il pegno suggella e garantisce: anche questo è un
motivo piuttosto diffuso in area provenzale, nonostante l’amore del poeta sia nella maggior parte dei casi
non ricambiato o comunque non ricambiato appieno.
293
Questa occorrenza non è precisa quanto le altre rispetto alle immagini in questione; tuttavia il termine
pregio qui comprende il significato di “oggetto prezioso” e quello di “premio” (si veda Santagata 1996, p.
919), entrambi coerenti con l’idea del pegno.
326
Trovatori
Que ges lanza ni cairel / non tem, ni brans asseris, / can bai ni mir son anel (Raimbaut
d’Aurenga, XXIX, vv 57-59)
Anz que trop s’agazaill / ni don ganz ni fermaill295 (Giraut de Bornelh, XLVI, vv 72-73)
E qe m donet un don tan gran, / sa drudari’e son anel (Guglielmo IX, IX, vv 21-22)
Bella dompna, aitant arditz e plus / fui qan vos quis la joia del cabeill (Raimbaut de
Vaqueiras, X, vv 25-26)
Per que fora dreitz e razos / qe m n’avengues calq’ onratz dos (Rambertino Buvalelli, III,
vv 39-40)
Que l do que m detz, domn’ ab digz amoros, / me creis el cor, per qu’eu sui d’engan blos
(Arnaut de Maruelh, XXI, vv 20-21)
Et apres, mangas e cordos (Raimon de Miravall, XXXII, vv 12)
Quant ieu remir mon anel (Peire Vidal, I, v 26)
Si fos per amor donatz / us cordos, qu’a dreg solatz / n’issi’ acortz e covitz (Aimeric de
Peguilhan, XXXIV, vv 34-36)
Qan preses mon anellet d’or (Folquet de Romans, XIV, v 57)
E no us cuidetz q’ieu m’oblit lo cordon / qe m det l’altrier de sa gonella groga (Guilhem
de Berguedà, II, vv 8-9)
Ja no m man letra ni sagelh, / ni no m don cordo ni anelh (Daude de Pradas, XI, vv 4748).
3.3 Effetti positivi della visione
L’incontro con l’amata e la sua visione hanno in prevalenza esiti sconvolgenti sul poeta,
che si sente svenire, è incapace di parlare e insomma è impedito di tutte le proprie
facoltà. Tuttavia non mancano anche effetti positivi296, che possono accompagnarsi a
quelli dolorosi e talvolta essere addirittura preminenti. In entrambi i casi comunque si
riconfermano l’influenza e il dominio che la dama vanta sul poeta, nonché la natura
straordinaria e a volte paradossale della sua condizione.
Petrarca
Vero è che ‘l dolce mansueto riso / pur acqueta gli ardenti miei desideri, / et mi sottragge
al foco de’ martiri, / mentr’io son a mirarvi intento et fiso (son. 17, vv 5-8)
294
Il termine pegno torna anche nel sonetto 39, v 14, dove però il poeta si riferisce a se stesso e alla sua
fede: a seconda di come si interpreti il destinatario, Giovanni Colonna o Laura, la fede sarà quella del
cliente verso il patrono o quella amorosa.
295
Il poeta qui non si riferisce tanto a se stesso e alla sua dama, quanto ai meccanismi dell’amore fino in
generale, che propone in qualità di esperto e maestro. È interessante inoltre la scelta degli oggetti, poiché
sia guanto che fermaglio hanno acquisito una precisa valenza simbolica di carattere feudale.
296
Non a caso il desiderio di tornare a vedere l’amata è un topos ben attestato, sia nelle opere provenzali
che nei versi petrarcheschi.
327
Et se pur s’arma talor a dolersi / l’anima a cui vien mancho / consiglio, ove ‘l martir
l’adduce in forse, / rappella lei da la sfrenata voglia / sùbita vista, ché del cor mi rade /
ogni delira impresa, et ogni sdegno / fa ‘l veder lei soave (canz. 29, vv 8-14)
Che quando io mi ritrovo dal bel viso / cotanto esser diviso, / col desio non possendo
mover l’ali, / poco m’avanza del conforto usato (canz. 37, vv 28-31)
Di sospir’ molti mi sgombrava il petto, / che ciò ch’altri à più caro, a me fa vile: / però
che ‘n vista ella si mostra humile / promettendomi pace ne l’aspetto (son. 78, vv 5-8)
Or mi ritrovo pien di sì diversi / piaceri, in quel saluto ripensando, / che duol non sento,
né sentì’ mai poi (son. 111, vv 12-14)
Pien di quella ineffabile dolcezza / che del bel viso trassen gli occhi miei / […] / lassai
quel ch’i’ più bramo […] (son. 116, vv 1-5)
Conobbi allor sì come in paradiso / vede l’un altro, in tal guisa s’aperse / quel pietoso
penser ch’altri non scerse: / ma vidil’io, ch’altrove non m’affiso (son. 123, vv 5-8)
Ma freddo foco et paventosa speme / de l’alma che traluce come un vetro / talor sua dolce
vista rasserena (son. 147, vv 12-14)
Sì come eterna vita è veder Dio, / né più si brama, né bramar più lice, / così me, donna, il
voi veder, felice / fa in questo breve et fraile viver mio (son. 191, vv 1-4)
Solea lontana in sonno consolarme / con quella dolce angelica sua vista / madonna; or mi
spaventa et mi contrista (son. 250, vv 1-3)
A me pur giova di sperare anchora / la dolce vista del bel viso adorno, / che me mantene,
e ‘l secol nostro honora (son. 251, vv 9-11)
Già sai tu ben quanta dolcezza porse / agli occhi tuoi la vista di colei (canz. 264, vv 3738)
Quanto gradisco che’ miei tristi giorni / a rallegrar de tua vista consenti! (son. 282, vv 56)
Sì ‘ntentamente ne l’amata vista / requie cercavi de’ futuri affanni (son. 314, vv 3-4)
L’aura et l’odore e ‘l refrigerio et l’ombra / del dolce lauro et sua vista fiorita, / lume et
riposo di mia stanca vita (son. 327, vv 1-3)
Beata s’è, che pò beare altrui / co la sua vista, over co le parole (son. 341, vv 9-10)
Con quella man che tanto desiai, / m’asciuga li occhi, et col suo dir m’apporta / dolcezza
ch’uom mortal non sentì mai (son. 342, vv 9-11).
Trovatori
C’anc nuilla sazo non fo, / s’ieu vis sa gaia fasso, / que anc trebailla ni dan / sentis ni mal
ni affan (Uc de Saint Circ, V, vv 15-18)
Mot me platz quant eu la remir: / tot lo cor mi fai esbaudir (Rigaut de Berbezilh, IV, vv
24-25)
Dompna, tot eissamenz / com eu sui doloros / quan eu me loing de vos, / sui eu
sobrejauzens / qan me retorn’amors / lai on eu vos revei (Sordello, XXXVII, vv 1-6)
Que la nuoich fai parer dia / la gola, e qi n vezia / plus en jos, / totz lo mons en
genssaria297 (Bertran de Born, VIII, vv 45-48)
Que qui la ve totz temps sera joios (Rambertino Buvalelli, VI, v 30)
297
Il topos appare qui rinnovato sia dall’applicazione esplicitamente erotica, sia dall’incontro con
immagini adynatiche.
328
Quan son bel vis clar / e son gen cors remire, / dreit e benestan; / et ai joya tan gran / can
mi fai bel semblan / d’amor, que par que m ria (Gaucelm Faidit, XXXIV, vv 57-62)
Mas, can sai c’a vos deing venir / e sai qe vos veiran miei oill, / tant de joi’ e mon cor
acoill / e tan son joios miei cossir (Guilhem de la Tor, XII, vv 41-44)
Quan vostra fresca color / avinen ses maestria / ni l vostre gen cors remir, / sui tan jauzens
qu’al partir / m’en creis ir’ e feunia (Cadenet, II, vv 49-53).
3.4 Migliorare attraverso l’amore
L’effetto positivo dell’amore – ovviamente l’amore nobile e puro – si delinea a livello
spirituale: educato dall’esempio di madonna e ispirato dai sentimenti amorosi l’amante
vive un processo di innalzamento interiore. Tale miglioramento costituisce in effetti il
fine ultimo dell’amore cortese e ne giustifica sia i tormenti sia le trasgressioni sociali.
Come è noto, sarà lo Stil Novo a reinterpretare tali prospettive, in Provenza ancora
legate ai meccanismi e ai valori mondani e cortigiani, nell’ottica di una vera e propria
evoluzione interiore e spirituale, in linea con il generale spostamento della poetica
amorosa dall’esteriorità all’interiorità. Il culmine di tale processo si deve a Dante e alla
Vita nova, in cui la questione si fa morale e religiosa: il ruolo dell’amata, la sua morte e
i contatti che ella rinnova dall’aldilà sono dunque concertati in chiave strettamente
cristiana.
Tale progresso nei contenuti della lirica rappresentava una tradizione celebre e recente,
che non poteva non lasciare il segno nel Canzoniere, dove in effetti sono state
riconosciute “fasi” o “svolte” stilnovistiche, con particolare riferimento alla serie delle
canzoni 70-73. Tuttavia il rapporto con i modelli stilnovistici e soprattutto con Dante e
il suo prosimetro è tutt’altro che lineare: la rivalutazione dell’amore e della sua valenza
spirituale non è né completa, né pacifica, né definitiva298. In tal senso si sono rivelate
essenziali l’attenta lettura delle “canzoni degli occhi” – soprattutto di 73 – e lo studio
parallelo del Secretum299; d’altronde potremmo sottolineare anche l’importanza in tal
senso di tutti i momenti di alternanza o ambivalenza che segnano la vicenda amorosa,
ben oltre quella che tradizionalmente è definita “cesura stilnovista” e in fondo anche
dopo la morte di Laura, tra rimpianti, consolazione e nuovi bisogni. Si pensi
semplicemente alla canzone 207, che dichiara terminato un tempo in cui l’aiuto e il
sostegno dell’amata non era venuto meno, riaprendo una stagione di sofferenze, in cui il
poeta ricade in logiche che sembravano ormai superate.
Petrarca dunque non accetta i risultati dei suoi antecedenti in modo passivo, ma li
inserisce nella travagliata e complessa vicenda del Canzoniere, adattandoli alla sua
problematicità e mancanza di risoluzione definitiva. A questo si aggiunga che le
occorrenze interessanti in proposito sono anche anteriori alle “canzoni sorelle” e in un
298
Tali aspetti sono già stati anticipati nel corso del capitolo precedente; si fa particolare riferimento alle
letture in Praloran 2007 e Berra 2010.
299
Nel Secretum infatti Agostino condanna l’amore terreno in tutte le sue forme, negando che esistano
sentimenti tali da comportare una reale crescita interiore: il processo verso l’amore di carità è tutt’altro.
Per l’importanza di tale analisi in parallelo e gli aspetti di cronologia delle opere petrarchesche si veda in
particolare Berra 2010.
329
caso incontrano un celebre luogo d’ispirazione occitanica, la canzone 29300. Si aggiunga
infine un ultimo fattore: in alcuni casi e ancora nella canzone 72, che rappresenta il
culmine della svolta “dolce” e “stilnovistica” prima della ricaduta in 73, l’autore associa
alla capacità educativa e morale dell’amore l’utile effetto di distinguere dal volgo301,
secondo una prospettiva molto terrena e sociale, del tutto coerente con la tradizione
cortese. Per questo appare legittimo ed interessante riflettere anche sui modelli più
lontani, la cui concezione di un amore utile e formativo era sì trattata in modo più
superficiale, ma comunque tanto certa e radicata da costituire un vero e proprio topos.
Né con ciò si intende suggerire che il cantore di Laura non abbia tenuto in debito conto
la lezione stilnovistica, come risulta al contrario dagli spogli lessicali e stilistici, o che
non abbia anche in questo caso imposto la propria personale interpretazione. Due
elementi in particolare appaiono profondamente innovativi: l’esplicita presa di
coscienza del valore positivo del diniego subito mentre l’amata era in vita e le
apparizioni di Laura defunta, volte sì alla consolazione, ma anche all’esortazione. La
costruzione petrarchesca appare così stratificata e molteplice: una forte componente
penitenziale cristiana, che caratterizza in generale il Canzoniere e che trova un veicolo
efficace nell’esempio postumo di Laura; la natura positiva di Laura, che ha saputo
gestire e guidare anche oltre la propria dipartita i desideri illegittimi dell’io poetico;
l’importanza del diniego, che non cancella la tensione ed anzi di fatto la mantiene. Ai
tre aspetti sembrano corrispondere tre prospettive diverse, contrastanti e forse anche
contraddittorie dell’amore, che pure convivono nella raccolta: amore terreno, suscitato
da desiderio carnale, che dunque va abbandonato; amore puro che rimane casto e
fornisce un esempio educativo; amore alto che distingue e nobilita socialmente. Si può
dunque ipotizzare una triplice visione, sintetizzata nell’innovazione petrarchesca:
cristiana, post-stilnovistica, erede della tradizione cortese.
Petrarca
Da lei ti vèn l’amoroso pensero, / che mentre ‘l segui al sommo ben t’invia, / pocho
prezando quel ch’ogni huom desia (son. 13, vv 9-11)
Et se contra suo stile ella sostene / d’esser molto pregata, in Lui si specchia, / et fal perché
‘l peccar più si pavente: / ché non ben si ripente / de l’un mal chi de l’altro s’apparecchia
(canz. 23, vv 126-131)
Né quella prego che però mi scioglia, / ché men son dritte al ciel tutt’altre strade, / et non
s’aspira al glorioso regno / certo in più salda nave (canz. 29, vv 39-42)
Che l’essermi contesa / quella benigna angelica salute / che ‘l mio cor a vertute / destar
solea con una voglia accesa (canz. 37, vv 91-94)
300
Anche la canzone 29, come le “canzoni degli occhi” e il Secretum, chiama in causa dibattute questioni
cronologiche. Come si è già suggerito, se effettivamente la sua data potesse essere abbassata agli anni ’50,
per lo meno a livello di revisione, la coincidenza tematica di questo passo con il gruppo 71-73
risulterebbe avvalorata.
301
Il disprezzo per il volgo è un altro topos ampiamente diffuso e ben attestato in Petrarca, che si riscontra
già in alcuni testi trobadorici, in primo luogo come motivazione a sostegno di uno stile difficile e
ricercato. Si legga ad esempio la canzone 31 di Raimbaut d’Aurenga, vv 1-7.
330
Gentil mia donna, i’ veggio / nel mover de’ vostr’occhi un dolce lume / che mi mostra la
via ch’al ciel conduce (canz. 72, vv 1-3)
Questa è la vista ch’a ben far m’induce, / et che mi scorge al glorioso fine; / questa sola
dal vulgo m’allontana (canz. 72, vv 7-9)
Poi ch’io li vidi in prima, / senza lor a ben far non mossi un’orma: / così gli ò di me posti
in su la cima, / che ‘l mio valor per sé falso s’estima302 (canz. 73, vv 57-60)
Et son fermo d’amare il tempo et l’ora / ch’ogni vil cura mi levar d’intorno; / et più colei,
lo cui bel viso adorno / di ben far co’ suoi exempli m’innamora (son. 85, vv 5-8)
L’opra è sì altera, sì leggiadra et nova / che mortal guardo in lei non s’assecura303 (son.
154, vv 5-6)
L’aere percosso da’ lor dolci rai / s’infiamma d’onestate, et tal diventa, / che ‘l dir nostro
e ‘l penser vince d’assai. / Basso desir non è ch’ivi si senta, / ma d’onor, di vertute: or
quando mai / fu per somma beltà vil voglia spenta? (son. 154, vv 9-14)
Ch’altro lume non è ch’infiammi et guide / chi d’amar altamente si consiglia304 (son. 160,
vv 7-8)
Nel qual honesto amor chiaro revela / sua dolce forza et suo santo costume (son. 230, vv
3-4)
Ma tu, ben nata che dal ciel mi chiami, / per la memoria di tua morte acerba / preghi ch’i’
sprezzi ‘l mondo e i suoi dolci hami (son. 280, vv 12-14)
[…] et nel parlar mi mostra / quel che ‘n questo viaggio fugga o segua, / contando i casi
de la vita nostra, / pregando ch’a levar l’alma non tarde (son. 285, vv 10-13)
Ir dritto, alto, m’insegna; et io, che ‘ntendo / le sue caste lusinghe e i giusti preghi / col
dolce mormorar pietoso et basso, / secondo lei conven mi regga et pieghi (son. 286, vv 912)
Or comincio a svegliarmi, et veggio ch’ella / per lo migliore al mio desir contese, / et
quelle voglie giovenili accese / temprò con una vista dolce et fella (son. 289, vv 5-8)
Come va ‘l mondo! Or mi diletta et piace / quel che più mi dispiacque; or veggio et sento
/ che per aver salute ebbi tormento, / et breve guerra per eterna pace (son. 290, vv 1-4)
La falsa opinion dal cor s’è tolta, / che mi fece alcun tempo acerba et dura / tua dolce
vista: ormai tutta secura / volgi a me gli occhi, e i miei sospiri ascolta (son. 305, vv 5-8)
Quel sol che mi mostrava il camin destro / di gire al ciel con gloriosi passi, / tornando al
sommo Sole, in pochi sassi / chiuse ‘l mio lume e ‘l suo carcer terrestro (son. 306, vv 1-4)
Lei non trov’io: ma suoi santi vestigi / tutti rivolti a la superna strada / veggio, lunge da’
laghi averni et stigi (son. 306, vv 12-14)
Fedel mio caro, assai di te mi dole, / ma pur per nostro ben dura ti fui (son. 341, vv 1213)
Leggiadri sdegni, che le mie infiammate / voglie tempraro (or me n’accorgo), e ‘nsulse
(son. 351, vv 3-4)
302
È interessante notare che qui il principio dell’amore che guida al bene e dell’amata come modello
positivo si mescola con uno dei punti forti dell’alienazione amorosa: la sfiducia in sé e la rinuncia al
proprio giudizio autonomo.
303
Il concetto di per sé appare strettamente imparentato allo Stil Novo.
304
Il passo adombra una concezione molto tradizionale del rapporto e della tipologia amorosa, benché
rifusa in un contesto del tutto rinnovato.
331
Fior di vertù, fontana di beltate, / ch’ogni basso penser del cor m’avulse; / divino sguardo
da far l’uomo felice, / or fiero in affrenar la mente ardita / a quel che giustamente si
disdice (son. 351, vv 7-11)
Quella mi scorge ond’ogni ben imparo (son. 358, v 4)
Et ella: “A che pur piangi et ti distempre? / Quanto era meglio alzar da terra l’ali, / et le
cose mortali / et queste dolci tue fallaci ciance / librar con giusta lance, / et seguir me, s’è
ver che tanto m’ami” (canz. 359, vv 38-44)
Che penser basso o grave / non poté mai durar dinanzi a lei (canz. 360, vv 103-104)
Da mille acti inhonesti l’ò ritratto, / ché mai per alcun pacto / a lui piacer non poteo cosa
vile (canz. 360, vv 122-124)
Et per saperlo, pur quel che n’avenne / fora avvenuto, ch’ogni altra sua voglia / era a me
morte, et a lei fama rea (canz. 360, vv 95-97).
Trovatori
Ges non ai mon cor voiant / d’amor quan m’en vauc prezan / per Na Dezirada (Bernart
Martì, III, vv 33-35)
Tot jorn meillur et esmeri / car la gensor serv e coli (Arnaut Daniel, X, vv 8-9)
Dompna, ieu vos dei grazir / so qu’ieu sai ben far e dir (Raimbaut d’Aurenga, XXX, vv
64-65)
Ben a mauvais cor e mendic / qui ama e no s melhura, / qu’eu sui d’aitan melhuratz /
c’ome de me no vei plus ric (Bernart de Ventadorn, XXIV, vv 17-20)
A mi meillura mos talenz (Giraut de Bornelh, XV, v 11)
Bel paradis, tuit li dotze reingnat / aurion pro del vostr’enseignamen (Rigaut de
Berbezilh, IX, vv 45-46)
Ja non creirai, qi qe m’o jur, / que vis non esca de rasim, / et hom per amor no meillur305
(Marcabru, XIII, vv 25-27)
Qu’aitan be pot far fin aman / amors del petit cum del gran (Sordello, VIII, vv 19-20)
Quar per vos vei pretz levar / ez enriquir / cascus en brui (Amnieu de la Broqueira, II, vv
24-26)
E cel qui sa joia agarda / non ha ges fol pensamen (Peire de la Valeria, II, vv 16-17)
C’amors fa ls mellors meillurar / e ls plus malvatz pot far valer (Raimbaut de Vaqueiras,
VII, vv 13-14)
Pueis avetz bona captenensa / per que tot melhura e gensa (Aimeric de Belenoi, III, vv
12-13)
E m son per vos, dompna, tan meilluratz (Monje de Montaudon, V, v 21)
Qu’Amor me ditz, quant ieu m’en vuelh estraire, / que mainhtas vetz puej’ om de bas
afaire / e conquier mais que dregz no cossentria306 (Arnaut de Maruelh, II, vv 26-28)
Dona per cui lo mons melhur’ e gensa (Raimon Jordan, XII, v 10)
Ben es fis, de gran valenssa / mos cors, s’aqest m’abarona / per cui totz pretz creis e
genssa (Peire d’Alvernha, I, vv 41-43)
305
La medesima concezione positiva dell’amore, che in realtà non è incoerente con la visione censoria di
Marcabru, il cui oggetto sono piuttosto coloro che fingono di dedicarsi all’amore puro, macchiandone il
nome stesso, si riscontra potenziata nella canzone 40. Qui l’autore più che esaltare le facoltà positive di
amore ne evidenzia per contrasto le capacità distruttive nei confronti di chi non ne è davvero degno.
306
L’esempio di Arnaut de Maruelh mostra con chiarezza le ripercussioni sociali del miglioramento
dovuto all’amore cortese.
332
Qu’en luec bos pretz no s’abria / leu, si non ve per amia (Raimon de Miravall, XXIV, vv
13-14)
Ancaras trob mais de ben en Amor, / qe l vil fai car e l nesci gen parlan, / e l’escars larc, e
leial lo truan, / e l fol savi, e l pec conoissedor; / e l’orgoillos domesga et homelia
(Aimeric de Peguilhan, XV, vv 17-21)
En amar be meillur outra poder (Gaucelm Faidit, III, v 12)
Ab aisso m’a joi e deport rendut / e mon saber esders e meillurat (Guilhem Ademar, VII,
vv 17-18)
Mas tant sabetz los bens triar / dels mals, e ls sens de las follors (Gui d’Ussel, III, vv 4546)
Ans d’amar leis m’asegur / e m’atur / e m meillur (Guilhem de la Tor, VI, vv 77-79)
E pus de ben amar meilhur, / segon razo, / trop en dey far mielhs motz e so (Peire Raimon
de Tolosa, XI, vv 5-7)
Aissi m’a dat fin’amor conoissensa / com natura la don’ a esparvier (Bertran Carbonel,
VI, vv 1-2)
Tant afinat fin aman / c’afinar plus non poiria307 (Bartolomé Zorzi, VI, vv 66-67)
Q’usquecx jau joy e’s melhuyr e s’enansa (Guilhem Peire de Cazals, I, v 5)
Mout me tenc ben per pagatz / del saber, que m’es vengutz / per ben amar non amatz
(Guiraut Riquier, XVI, vv 1-3).
4. Mescolanza di sacro e profano
Componente significativa e per certi aspetti problematica del Canzoniere è anche la
sovrapposizione tra la dimensione sacra e quella profana. Comprendiamo in tale
definizione tutti i luoghi in cui la rappresentazione dello stato amoroso o dell’amata
chiamino in causa elementi pertinenti la sfera della divinità, in chiave metaforica o di
paragone, o anche soltanto in scelte lessicali (appunto il termine “sacro”, oppure il
predicato “adorare”) la cui scelta appare tutt’altro che casuale.
In primo luogo, va sottolineata la corrispondenza fra simili accostamenti e la natura
stessa della raccolta petrarchesca, che nasce dalla tensione interiore tra desideri terreni e
spinte penitenziali. La dicotomia tra i due aspetti è dunque centrale; tuttavia non si
dimentichi che nei passi in esame il fattore sacrale ha valore soltanto nella definizione
del piano amoroso e non significato in sé, con qualche parziale eccezione poco prima
della chiusura della raccolta.
La coerenza dell’immagine con l’insieme della rappresentazione è ancor più
significativa. Da un parte, rifunzionalizzare l’espressione del sacro a vantaggio di ciò
che è mortale e terreno appare una nuova forma di alienazione, di divaricazione dal
dovere e dal senso comune, dal sentire normale. Dall’altra, la rappresentazione di Laura
come divinità è coerente con la superiorità e straordinarietà che le viene di consueto
attribuita, in termini per altro topici. Infine, il ruolo che ella assume dopo la morte, di
guida ed esempio, e quindi il tentativo di reinterpretare l’amore in termini salvifici
ripropongono in chiave diversa (meno eterodossa) la medesima associazione,
307
L’immagine dell’oro che raffina, utilizzata come paragone o come metafora, non solo è topica, ma
anche molto diffusa e celebre, a partire dalla tradizione occitanica sino a quella italiana.
333
soprattutto se si pensa che a fronte degli inviti di Laura al cielo il poeta continua a
celebrarne corpo e memoria. Fino alla canzone 360, quindi, la raccolta mantiene un filo
conduttore riconoscibile dal punto di vista dell’ambiguità e dell’indecisione, che si
ripropone in fondo anche nei sonetti penitenziali, come nella bipartizione tematica di
362 o nel dolore ancora non sopito di 363. Ecco perché diversi studiosi hanno affermato
che la conclusione e la canzone alla Vergine costituiscono un salto piuttosto brusco ad
una visione più univoca e decisa, benché non sia necessario interpretare l’immagine di
Medusa con quella di Laura in sé e per sé e per quanto siano ancora ribaditi i suoi sforzi
per evitare il peccato rifiutando il poeta308.
D’altro canto, le immagini che uniscono sacro e profano hanno un’impostazione
convenzionale. Ed è difficile non pensare innanzitutto a Dante, alla Beatrice figura
Christi della Vita nova, guida al cielo, dove potrebbe essere addirittura assunta in
corpore309, e oggetto del pellegrinaggio e della predicazione del poeta. Ma come si è
visto l’associazione Beatrice-Cristo è finalizzata ad attribuire all’amata un effettivo
ruolo salvifico a vantaggio del poeta: per quanto anche Laura si adoperi per il suo
fedele, nulla nel Canzoniere autorizza una lettura altrettanto netta e lineare della vicenda
amorosa. Perciò, ancora una volta, giova ricordare che il topos della mescolanza di
sacro e profano appartiene già alla lirica amorosa trobadorica, benché in forme molto
meno elaborate e dalla blasfemia a volte quasi esplicita.
4.1 Preghiere
La preghiera rivolta alla donna amata è assolutamente topica, tanto che il significato
originario, religioso, dell’atto di invocare e di chiedere umilmente aiuto non è quasi più
percepito. D’altra parte, nel complesso degli elementi che rimandano alla sfera del sacro
anche l’atto di pregare recupera in parte la sua valenza basilare, soprattutto se accostato
ad un atteggiamento devoto e supplice quale quello dell’amato. Quest’ultimo aspetto è
ben testimoniato in ambito sia trobadorico che petrarchesco, lo si è già notato a
proposito delle immagini che esprimono subordinazione e sudditanza.
Petrarca
Et se contra suo stile ella sostene / d’esser molto pregata, in Lui si specchia (canz. 23, vv
127-128)
Ch’ancor poi ripregando, i nervi et l’ossa / mi volse in dura selce […] (canz. 23, vv 136137)
Et io ne prego Amore, et quella sorda / che mi lassò de’ suoi color’ depinto, / et di
chiamarmi a sé non le ricorda (son. 36, vv 12-14)
308
Per tali aspetti nell’interpretazione di 366 e le diverse ipotesi di Santagata e Cherchi si veda il capitolo
precedente.
309
Tale possibilità è presentata nell’introduzione di Gorni all’edizione del prosimetro a cura di Rossi
1999, ma un simile accenno si coglie già in Singleton 1968, pp. 13-38. Tali elementi sono stati già in
parte affrontati nel capitolo precedente.
334
Questi poser silentio al signor mio, / che per me vi pregava, ond’ei si tacque (son. 46, vv
9-10)
Da ora inanzi ogni difesa è tarda, / altra che di provar s’assai o poco / questi preghi
mortali Amore sguarda. / Non prego già, né puote aver più loco, che mesuratamente il
mio cor arda (son. 65, vv 9-13)
Che se non è chi con pietà m’ascolte, / perché sparger al ciel sì spessi preghi? (canz. 70,
vv 3-4)
Non gravi al mio signor perch’io il ripreghi (canz. 70, v 8)
L’amar m’è dolce, et util il mio danno, / e ‘l viver grave; et prego ch’egli avanzi / l’empia
Fortuna, et temo non chiuda anzi / Morte i begli occhi che parlar mi fanno (son. 118, vv
5-8)
Ite, caldi sospiri, al freddo core, / rompete il ghiaccio che Pietà contende, / et se prego
mortale al ciel s’intende, / morte o mercé sia fine al mio dolore (son, 153, vv 1-4)
Troppo felice amante mi mostrasti / a quelle che’ miei preghi humili et casti / gradì alcun
tempo, or par ch’odi et refute (son. 172, vv 6-8)
Tal la mi trovo al petto, ove ch’i’ sia, / felice incarco; et con preghiere honeste / l’adoro e
‘nchino come cosa santa (son. 228, vv 12-14)
Né ‘l pianger mio né i preghi pòn far Laura / trarre o di vita o di martir quest’alma (sest.
239, vv 23-24)
[…] O vivo Giove, / manda, prego, il mio in prima che ‘l suo fine (son. 246, vv 7-8)
Se per salir a l’eterno soggiorno / uscita è pur del bel’albergo fora, / prego non tardi il mio
ultimo giorno (son. 251, vv 12-14)
Ma infin a qui niente mi releva / prego o sospiro o lagrimar ch’io faccia (canz. 264, vv 910)
Non è sì duro cor che, lagrimando, / pregando, amando, talor non si smova, / né sì freddo
voler, che non si scalde (son. 265, vv 12-14)
Pregando ch’a levar l’alma non tarde: / et sol quant’ella parla, ò pace o tregua (son. 285,
vv 13-14)
Pregate non mi sia più sorda Morte (sest. 332, v 69)
Prego che ‘l pianto mio finisca Morte (sest. 332, v 75)
Prega ch’i’ venga tosto a star con voi (son. 347, v 14)
Vergine, s’a mercede / miseria extrema de l’humane cose / già mai ti volse, al mio prego
t’inchina (canz. 366, vv 9-11)
Vergine santa, d’ogni gratia piena / che per vera et altissima humiltate / salisti al ciel onde
miei preghi ascolti (canz. 366, vv 40-42)
Vergine, quante lagrime ò già sparte, / quante lusinghe et quanti preghi indarno310 (canz.
366, vv 79-80).
Trovatori
Si saubes tan Dieu predicar / ben sai c’ap se m’alberguera / c’ades, cant ieu cug orar, /
deu pregar Dieu, creisetz311 (Raimbaut d’Aurenga, XXVI, vv 17-20)
310
Qui il poeta si riferisce alle preghiere amorose, contrapposte a quelle cristiane sinora rivolte
direttamente alla Vergine.
311
L’interesse del passo deriva soprattutto dalla sua collocazione nella canzone: infatti, benché a prima
vista possa sembrare un’ortodossa dichiarazione spirituale, in realtà il testo è dedicato alle richieste e alle
335
E prec la del seu amador / que l be que m fara, no m venda / ni m fassa far lonj’a tenda
(Bernart de Ventadorn, XIX, vv 27-29)
E si l plagues mos enqerers / ni mos preiars ni mos servirs (Giraut de Bornelh, IX, vv 1718)
[…] Las! Tan la vau pregan / qan / ni ja ren de leis me n jauza (Jaufré Rudel, VII, vv 3436)
E quant la prec del romaner / non vol mas paraulas auzir (Rigaut de Berbezilh, IV, vv 1314)
Per merce vos voill pregar (Sordello, V, v 23)
Si m’a bon cor ara lh prec e l’incaut / que m do sa joy e m prometa salutz312 (Raimbaut de
Vaqueiras, V, vv 33-34)
E prec Aor que ia cor no m mezes / qu’ieu vos pregues, domna, car tem que us pes; / e
s’aissi us prec, domna, forsadamen, / no m’en sia ia pieitz si mieills no m n’es (Monje de
Montaudon, I, vv 41-44)
C’ab doutz precs cars, humilmen, / merceian cum fis amaire (Arnaut de Maruelh, XXV,
vv 13-14)
E, mas tant es vostre cors orgulhos / que mos preiars no us es bos (Raimon Jordan, X, vv
37-38)
E pus servirs ni preyars pro no m te, / fols serai hieu si mais sospir ni plor (Perdigon, VII,
vv 21-22)
Prec qe m valgues / vostre cors cortes / amoros / e joios (Guilhem de la Tor, V, vv 15-18).
4.2 Fede amorosa
L’espressione della devozione in senso più fideistico presenta però alcune significative
divergenze tra un’esperienza poetica e l’altra. I trovatori si dichiarano per lo più “fis”,
termine che assomma sfumature molteplici legate sì alla fedeltà, ma anche alla finezza
dell’amore puro, appunto la fin’amor. Petrarca, invece, mette da parte quest’ultimo
aspetto e il suo retaggio cortese, che pure lasciava qualche traccia nel “sentimento alto”
di cui si è parlato in precedenza. In effetti egli non si dichiara “fedele”, ma compie un
passo ulteriore nella frammistione dei piani semantici parlando esplicitamente di “fede”.
Un’altra differenza essenziale si coglie riguardo ai destinatari: per i trovatori soprattutto
l’amata, in Petrarca spesso anche Amore. E nel Canzoniere si aggiungono, a complicare
la situazione e in fondo a ribadire proprio quella tendenza alla mescolanza che stiamo
analizzando, le preghiere rivolte a Dio e alla Vergine. Tali aspetti erano certamente
presenti anche nel corpus occitanico313, ma l’assenza di macrostrutture coese limita
l’effetto di tale variazione tematica, esaltando piuttosto l’identità autonoma di ciascun
componimento.
preghiere che il drudo rivolge all’amata. Quel tipo di preghiera è dunque il modello e la richiesta appare
in sostanza terrena.
312
La natura della richiesta è particolarmente interessante rispetto alla questione degli esiti positivi
dell’amore fino, nel confronto con i successivi esiti stilnovistici.
313
Si è affrontato tale aspetto nel corso del capitolo precedente.
336
Petrarca
Però, s’un cor pien d’amorosa fede / può contentarve senza farne stracio, / piacciavi omai
di questo aver mercede (son. 82, vv 9-11)
Lasso, non a Maria, non nocque a Pietro / la fede, ch’a me sol tanto è nemica; / et so
ch’altri che voi nessun m’intende (son. 95, vv 12-14)
Dagli occhi ov’era, i’ non so per qual fato, / riposto il guidardon d’ogni mia fede (son.
130, vv 3-4)
Infinita bellezza et poca fede, / non vedete voi ‘l cor nelli occhi mei? (son. 203, vv 5-6)
S’una fede amorosa, un cor non finto (son. 224, v 1)
I’ ò pregato Amor, e ‘l ne riprego, / che mi scusi appo voi, dolce mia pena, / amaro mio
dilecto, se con piena / fede dal diritto mio sentier mi piego (son. 240, vv 1-4)
Ché mortal cosa amar con tanta fede / quanta a Dio sol per debito convensi (canz. 264, vv
99-100)
Rotta la fe’ degli amorosi inganni (son. 298, v 5)
Già traluceva a’ begli occhi il mio core, / et l’alta fede non più lor molesta (son. 317, vv
5-6)
Amor, quando fioria / mia spene, e ‘l guidardon di tanta fede, / tolta m’è quella
ond’attendea mercede (bal. 324, vv 1-3)
A madonna et al mondo è la mia fede (son. 334, v 4)
Vedi ‘l mio amore, et quella pura fede / per ch’io tante versai lagrime e ‘nchiostro (son.
347, vv 7-8)
Che se poca mortal terra caduca / amar con sì mirabil fede soglio, / che devrò fare di te,
cosa gentile? (canz. 366, vv 121-123).
Trovatori
L’ai fe don no m puesc estaire, / tan li suy fizel amaire / ses falhir, so us iure us pliu
(Bernart Martì, VII, vv 19-21)
Gran mal m’a faih ma bona fes (Bernart de Ventadorn, X, v 36)
E serai vos tan fis (Giraut de Bornelh, III, v 26)
E deuria m, domna, l fis cors valer, / car conoissetz que ja no m recreirai (Folchetto da
Marsiglia, III, vv 23-24)
Tos temps serai ves amor / fis e ferm ab cor veray (Sordello, XII, vv 1-2)
Pero be m pes que mi aia valgut / ma bona fes, car amei leialmen (Elias Cairel, XIII, vv
9-10)
Que d’enjan a far se vira / mos cors, e sui fis amaire (Raimon de Miravall, I, vv 15-16)
Fis amics sui ben amans (Peire Vidal, II, v 41)
Ni us amarai de bon cor e de fe / tro que veirai si ja m valria be (Casteloza, I, vv 10-11)
Quez eu li fos fins e verais (Guilhem Ademar, III, v 19)
A vos, Amors, vuelh mostrar en chantan / quo m pres midons, ni per que, ni ab quais, / ni
on me mes, sos homs fis e leials (Cadenet, I, vv 8-10)
Cuy suy fis amayre (Peire Raimon de Tolosa, IX, vv 4)
Saubes com ieu li soi fis (Arnaut Catalan, I, v 6).
337
4.3 Situazioni o immagini sacre applicate alla vicenda del poeta
Vari elementi diversi dimostrano nell’atteggiamento dell’io poetico una tendenza alla
sovrapposizione tra la sfera sacra e quella profana. Accomunano ad esempio la
rappresentazione occitanica e quella petrarchesca i paragoni più generali tra il
sentimento religioso e la vicenda amorosa: è convenzionale in questo caso la concezione
di fondo, mentre le singole realizzazioni sono dettate dal contesto ed è soprattutto
l’interpretazione petrarchesca ad apparire originale. Ancora più tipica della lirica
trobadorica è la tendenza a coinvolgere Dio nelle circostanze sentimentali in cui si trova
l’io poetico: egli invoca aiuto, rivolge accuse, chiede che l’amata sia protetta e così via.
In qualche caso il medesimo punto di vista torna anche nel Canzoniere, dove però la
sovrapposizione di umano e divino si fa ancor più articolata. Due aspetti sono
particolarmente notevoli: l’amore che si trasforma in vera e propria adorazione e il ruolo
di Laura come mediatrice verso il Cielo. Infatti, se da una parte attribuire all’amore una
funzione educativa permette di rivalutarlo, almeno in parte e temporaneamente,
dall’altra inevitabilmente la sfera del sacro è ricondotta a quella profana dal contatto con
un sentimento che resta terreno. Lo si coglie soprattutto nei passi in cui l’io lirico
sembra rivolgersi a Dio e al Cielo solo perché là si trova madonna, senza la quale
dunque le tendenze spirituali sarebbero (ancora) più deboli.
Petrarca
[…] onde i miei guai / nel commune dolor s’incominciaro314 (son. 3, vv 7-8)
Così, lasso, talor vo cerchand’io, / donna, quanto è possibile, in altrui / la disiata vostra
forma vera315 (son. 16, vv 12-14)
Or ch’al dritto camin l’à Dio rivolta316, / […] / et se tornando a l’amorosa vita, / per favi
al bel desio volger le spalle, / trovaste per la via fossati o poggi, / fu per mostrar quanto è
spinoso calle (son. 25, vv 5-12)
I’ temo di cangiar pria volto et chiome, / che con vera pietà mi mostri gli occhi / l’idolo
mio, scolpito in vivo lauro (sest. 30, vv 25-27)
Lasso, non a Maria, non nocque a Pietro / la fede, ch’a me sol tanto è nemica (son. 95, vv
12-13)
Et se prego mortale al ciel s’intende, / morte o mercé sia fine al mio dolore (son. 153, vv
3-4)
Stella difforme et fato sol qui reo / commise a tal che ‘l suo bel nome adora, / ma forse
scema sue lode parlando (son. 187, vv 12-14)
314
L’accostamento dell’elemento profano a quello sacro è reso ancor più evidente dall’organizzazione del
discorso nel sonetto: dapprima i due temi sono alternati (la prima quartina è esattamente divisa a metà),
ma nelle terzine domina ormai l’aspetto amoroso, e in fondo la lamentela che urge al poeta concerne il
fatto che l’amata non ricambi. L’amore insomma ha la meglio sulla fede e risulta l’istanza preminente.
315
Come è noto, il celeberrimo sonetto della “Veronica” è per gran parte dedicato alla descrizione del
pellegrinaggio verso Roma allo scopo di vedere la vera icona di Cristo, cui nel finale è paragonato
l’atteggiamento del tutto profano del poeta innamorato.
316
Il retto percorso sarebbe qui quello amoroso, concesso ed anzi favorito da Dio.
338
Sì come eterna vita è veder Dio, / né più si brama, né bramar più lice, / così me, donna, il
voi veder, felice / fa in questo breve et fraile viver mio (son. 191, vv 1-4)
Pasco la mente d’un sì nobil cibo, / ch’ambrosia et nectar non invidio a Giove317 (son.
193, vv 1-2)
S’i’ ‘l dissi, io spiaccia a quella ch’i’ torrei / sol, chiuso in fosca cella, / dal dì che la
mamella / lasciai, finché si svella / da me l’alma, adorar: forse e ‘l farei (canz. 206, vv 3236)
Tal la mi ritrovo al petto, ove ch’i’ sia, / felice incarco; et con preghiere honeste / l’adoro
e ‘nchino come cosa santa (son. 228, vv 12-14)
[…] O vivo Giove, / manda, prego, il mio in prima che ‘l suo fine318 (son. 246, vv 7-8)
Parrà forse ad alcun che ‘n lodar quella / ch’i’ adoro in terra, errante sia ‘l mio stile (son.
247, vv 1-2)
Ché mortal cosa amar con tanta fede / quanta a Dio sol per debito convensi (canz. 264, vv
99-100)
L’acque parlan d’amore, et l’òra e i rami / […] / tutti inseme pregando ch’i’ sempre ami. /
Ma tu, ben nata che dal ciel mi chiami, / […] / preghi ch’i’ sprezzi ‘l mondo e i suoi dolci
hami319 (son. 280, vv 9-14)
Et m’ài lasciato qui misero et solo, / talché pien di duol sempre al loco torno / che per te
consecrato honoro et còlo (son. 321, vv 9-11)
Deh qual pietà, qual angel fu sì presto / a portar sopra ‘l cielo il mio cordoglio?320 (son.
341, vv 1-2)
Ch’assai ‘l mio stato rio quetar devrebbe / quella beata, e ‘l cor racconsolarsi / vedendo
tanto lei domesticarsi / con Colui che vivendo in cor sempre debbe321 (son. 345, vv 5-8)
Ond’io voglie et pensier’ tutti al ciel ergo / perch’i’ l’odo pregar pur ch’i’ m’affretti (son.
246, vv 13-14)
Or nel volto di Lui che tutto vede / vedi ‘l mio amore, et quella pura fede / per ch’io tante
versai lagrime e ‘nchiostro (son. 350, vv 6-8)
Sì forte ti dispiace / che di questa miseria sia partita, / et giunta a miglior vita; / che piacer
ti devria, se tu m’amasti / quanto in sembianti et ne’ tuoi dir’ mostrasti (canz. 359, vv 1822).
317
Il sincretismo petrarchesco, nell’uso di elementi classici e mitologici, accentua l’effetto di
sovrapposizione delle diverse aree semantiche.
318
La richiesta di aiuto a Dio per desideri e problemi prettamente amorosi e dunque terreni è aggravata da
una parte da un desiderio di morte evidentemente autolesionista, anche se non suicida, e dall’altra dalle
ragioni che spingono a rifiutare la vita. L’affezione verso il mondo, infatti, dovrebbe essere cancellata dal
desiderio di ascesa spirituale e dal pensiero della dimensione celeste, non in virtù delle sofferenze
amorose.
319
Si noti che la prima metà del sonetto è interamente dedicata alla memoria di Laura e al permanere del
legame amoroso nel contesto ameno di Valchiusa.
320
Gli angeli compaiono qui al servizio di lutti terreni (la morte dell’amata) ed inviati non a Dio, ma ad
una signoria alternativa, cioè l’amata stessa.
321
Nel sonetto 345 l’io poetico risponde a se stesso e si autocorregge, dopo che nel sonetto 344 aveva
dichiarato di non sentire alcuna cosolazione rispetto alla perdita di Laura per il fatto di sapere che ella è
stata assunta alla beatitudine dei giusti: “Né gran prosperità il mio stato adverso / pò consolar di quel bel
spirto sciolto” (vv 10-11). Tale duplice prospettiva è stata anticipata nel capitolo precedente.
339
Trovatori
Aqist d’aver amassaire, / malparlier, lengatrenchan, / qi m cujavon d’amor traire, / ma si
Dieus vol far mon coman, / ja us non er al Lavador322 (Bernart Martì, IX, vv 22-26)
Ges per janguoill no m vir aillor, / bona dompna, ves cui ador (Arnaut Daniel, II, vv 1920)
Anz vos desir / plus que Dieus cill de Doma (Arnaut Daniel, IX, vv 84-85)
Pro m’a dat sol lieys no pert; / Dieus m’a pagat a ma guiza (Raimbaut d’Aurenga, III, vv
22-24)
Et s’aissi pert s’amistat, / be m tenh per dezeretat / d’amor e ja Deus no m do / mais faire
vers ni chanso323 (Bernart de Ventadorn, VI, vv 21-24)
Mas si Deus m’air, / s’ieu veramen / ben no cre324 (Giraut de Bornelh, XXXV, vv 40-42)
Senher Dieus, quez es del mon capdels e reis, / qui anc premiers gardet con, com non
esteis ?325 (Guglielmo IX, III, vv 7-8)
Cui Dieus vol ben si l’aiuda, / c’a mi volc ben longamen, / qe m det un ric joi gauzen / de
vos, c’ora ai perduda (Uc de Saint Circ, X, vv 11-14)
Car Dieu e cilh a cui me sui donatz / m’an trait de ioi e mis en pensamen326 (Bertran
d’Alamanon, XX, vv 3-4)
Era n lau Dieu e Saint Joan, / c’ab tal amor vau amoran (Cercamon, III, vv 16-17)
Sol Dieus mi gart de revolim, / q’en aital amor m’aventur / on non a engan ni refrim
(Marcabru, XIII, vv 18-19)
Peire Guilhem, tot son afan / mes Dieus en leis far per mon dan (Sordello, XIV, vv 7-8)
E qar mei oill l’an chausida / a Deu prec que mi don vida / per servir son bel cors gen
(Peire de la Valeria, II, vv 20-22)
E prec Dieu que m’aujatz e m siatz umana (Elias Cairel, XV, v 5)
Ben es vers c’a orsa m menet, / e fis que fols quar lei ai cout (Raimbaut de Vaqueiras,
XXXII, vv 15-16)
Faich ai longa carantena, / mas oimais / sui al digous de la Cena (Bertran de Born, VIII,
vv 10-12)
Si m don de vos bon’estrena / Dieus, tortz ed e desmesura (Rambertino Buvalelli, VIII,
vv 49-50)
Sill que m don Dieus tener nuda (Aimeric de Belenoi, XVII, v 16)
Mas Dieus me don tal mal don ieu enratge / que lo y dia tot per plan auranatge327 (Monje
de Montaudon, III, vv 14-15).
322
La richiesta di un intervento divino a difesa del poeta e dell’onore della dama contro le malelingue è
assolutamente topica. Qui la convergenza tra componente amorosa ed intervento divino è complicata dal
riferimento a problemi morali, in particolare l’accumulo delle ricchezze; nei versi successivi viene
esplicitamente citato Marcabru, proprio in qualità di retto censore dei costumi immorali.
323
L’immagine è qui arricchita dal doppio coinvolgimento divino: non solo nella sfera amorosa, ma a
livello poetico.
324
La struttura ricorda per certi aspetti le formule tipiche e stereotipate del genere escondich di cui si è
trattato nel capitolo precedente. Il coinvolgimento di Dio in questo tipo di giuramenti e promesse è molto
frequente in ambito trobadorico.
325
La contraddizione tra invocazione a Dio e tematica profana è qui accentuata dal carattere chiaramente
erotico del problema.
326
La prima e la seconda strofa sono interamente dedicate alla responsabilità di Dio rispetto all’infelicità
amorosa del poeta: la rappresentazione è particolarmente interessante perché il Signore, accomunato al v
3 alla dama, sostituisce in toto la figura pagana di Amore.
340
E francha res, merce d’aquest peccaire (Arnaut de Maruelh, XX, v 29)
Que s’era cochatz de mort / non querr’ a Dieu tan fort / que lai ssus em paradis /
m’aculhis, / quon que m des lezer / d’una nueg ab lieis jazer (Raimon Jordan, IV, vv 4954)
Si no m fos per que s n’azir / mes mi fora en canonja (Peire d’Alvernha, II, vv 47-48)
Mon Audiart sal Dieus e sa companha328 (Raimon de Miravall, XIII, v 49)
Que, si m’ajut Deus ni fes, / al cor m’estan sei dous ris (Peire Vidal, IX, vv 27-28)
E a m leial e fizel / e just plus que Deus Abel329 (Peire Vidal, XVI, vv 29-30)
Lei qu’aor / prec, si ll platz, / que no s deslatz (Perdigon, V, vv 16-18)
Qe Dieus mi fes per far son mandamen (Gaucelm Faidit, VIII, v 14)
A Dieu coman Belesgar / e plus la ciutat d’Aurenja (Azalais de Porcairagues, I, vv 41-42)
Dieu prec que gran joi l’atraia (Comtessa de Dia, I, v 12)
[…] salve Dieus sa testa! (Guilhem Ademar, VI, v 19)
Mas ja Dieus no m don ben d’amor, / s’ieu non am plus bell’e meillor (Gui d’Ussel, VII,
vv 48-49)
Ben cuch esser en paradis (Folquet de Romans, XIV, v 82)
A Dieu me coma, / qe m vau trebaillan (Peire Raimon de Tolosa, VIII, vv 33-34)
Vos clam merce per dieu e per pietatz (Bartolomé Zorzi, XVII, v 69)
Mas Dieus non vol desesperat, / per c’ades atent e desir (Peire Bremon Ricas Novas, IX,
vv 39-40)
Crey que m det Dieus aquest parelh (Gavaudan, II, v 42)
S’ieu per crezensa / estes vas Dieu tan fis, / vius ses falhensa / intrer’ em paradis
(Guilhem de Cabestanh, V, vv 35-38)
[…] e ja a Dieu non playa / que ja vas me fas’aital falhimen / qu’autra m deman e que de
lieys m’estraya (Peirol, XIX, vv 18-20)
D’elhs no m cal, sol que Dieus me gar / midons e m do so qu’en volria (Guilhem de
Montanhagol, VII, vv 22-23).
4.4 Rappresentazione dell’amata attraverso il sacro
Nel corpus trobadorico l’attribuzione di responsabilità a Dio rispetto alla vicenda
terrena dell’amore è piuttosto frequente. Da tale tendenza appare in parte esclusa la
rappresentazione della figura femminile: per esaltarla sembra sia sufficiente averne
dimostrato la superiorità sulle altre donne, senza coinvolgere aspetti sovrumani.
327
La produzione del monaco di Montaudon si distingue particolarmente per la paradossale insistenza su
elementi blasfemi o comunque irrispettosi verso l’immagine tradizionale della religione. Ne restano varie
canzoni ambientate in Paradiso, dove l’io poetico si intrattiene familiarmente con il Signore su argomenti
molteplici.
328
Questo tipo di richiesta è molto diffuso in ambito trobadorico, sia in riferimento alla dama che in
merito al mecenate/destinatario del testo, nella tornada. La forma più tipica, comunque, è quella propria
del planh, dove la richiesta di protezione è strettamente legata alla dipartita di una persona cara (la dama o
il signore), alla cui anima si vorrebbe garantire un esito felice.
329
L’intera canzone 16 appare ispirata da elementi sacri riletti in termini profani: non solo la fedeltà del
poeta è paragonata a quella di Abele, ma il suo amore a quello di Giacobbe per Rachele (immagine già
significativa per Petrarca, come si è visto nel capitolo precedente e si approfondirà nel successivo),
mentre le qualità dell’amata sono associate a quelle di san Gabriele.
341
Non è così, invece, nel Canzoniere, dove il ritratto di Laura sconfina più volte
nell’orizzonte del sacro. In primo luogo ciò si nota bene nella celebrazione della sua
luminosa bellezza: l’amata è paragonata a ninfe e dee, con sincretismo paganeggiante
riservato anche al Signore e alla Vergine; le viene più volte attribuito l’aggettivo
“santo”, e non solo dopo la morte quando per lo meno le deve essere riconosciuto lo
statuto di beata; ella inoltre è una viva testimonianza dell’esistenza e delle
caratteristiche del Cielo per coloro che abitano in terra, e viceversa spiega perché il
divino possa amare il mondo mortale330; infine, più volte si suggerisce che ella sia frutto
diretto ed altissimo della creazione divina331. Tali elementi elogiativi sono proposti
dapprima in vita e poi in morte dell’amata, per esprimere il profondo rimpianto
dell’amante. E proprio la morte di Laura amplia e rafforza la possibilità di associarne la
figura al cielo: la sua dipartita ha una funzione esemplare come quella di Cristo e
provoca (o dovrebbe provocare) nella natura simili effetti straordinari e devastanti332.
Petrarca
Et se contra suo stile ella sostene / d’esser molto pregata, in Lui si specchia, / et fal perché
‘l peccar più si pavente (canz. 23, vv 127-129)
Poi ch’a mirar sua bellezza infinita / l’anime degne intorno a lei fier sparte (son. 31, 7-8)
Et s’io potesse far ch’agli occhi santi / porgesse alcun diletto (canz. 70, vv 15-16)
Ver’ me volgendo quelle luci sante (son. 108, v 3)
Conobbi allor sì come in paradiso / vede l’un l’altro, in tal guisa s’aperse / quel pietoso
penser ch’altri non scerse (son. 123, vv 5-7)
Voler ch’è cieco et sordo / sì mi trasporta, che ‘l bel viso santo / et gli occhi vaghi fien
cagion ch’io pèra (canz. 135, vv 42-44)
Le stelle, il cielo et gli elementi a prova / tutte lor arti et ogni extrema cura / poser nel
vivo lume, in cui Natura / si specchia, e ‘l sol ch’altrove par non trova (son. 154, vv 1-4)
L’atto d’ogni gentil pietate adorno, / e ‘l dolce amato lamentar ch’i’ udiva, / facean
dubbiar, se mortal donna o diva / fosse che ‘l ciel rasserenava intorno (son. 157, vv 5-8)
Qual nimpha in fonti, in selve mai qual dea, / chiome d’oro sì fino a l’aura sciolse? (son.
159, vv 5-6)
Vedi lume che ‘l cielo in terra mostra (son. 192, v 4)
Raccolto à ‘n questa donna il suo pianeta, / anzi ‘l re de le stelle […] (son. 215, vv 5-6)
Come Natura al ciel la luna e ‘l sole, / a l’aere i venti, a la terra l’herbe et fronde, / a
l’uomo et l’intellecto et le parole, / et al mar ritollesse i pesci et l’onde: / tanto et più fien
le cose oscure et sole, / se Morte li occhi suoi chiude et asconde (son. 218, vv 9-14)
330
È interessante notare che il medesimo merito viene riproposto in riferimento alla Vergine nella
canzone 366, secondo uno spostamento da una figura femminile all’altra emblematico della mutatio animi
conclusiva.
331
I trovatori insistono spesso sull’impossibilità che Dio crei un’altra donna simile. È quasi paradossale
l’effetto dell’immagine rovesciata, quando iperbolicamente anche i difetti della dama, di cui il poeta si
lamenta, sono ricondotti alla creazione divina (Cercamon, V, v 39). In un caso infine (Arnaut de Maruelh,
canzone 18) la creazione della dama e delle sue iperboliche qualità viene associata ad Amore, cui di solito
è riservato soltanto il merito di aver scelto proprio quell’oggetto del desiderio per il poeta, come anche nel
caso della canzone 360 di Petrarca, nelle parole dello stesso Amore.
332
Si tratta di un elemento ben noto della tradizione cristologica, che Petrarca riprende esplicitamente nei
primi due versi del sonetto 3.
342
Laurea mia con suoi santi atti schifi (son. 225, v 10)
Nel qual honesto amor chiaro revela / sua dolce forza et suo santo costume (son. 230, vv
3-4)
Ma Tu come ‘l consenti, o sommo Padre, / che del Tuo caro dono altri ne spoglie (son.
231, vv 13-14)
Et fa qui de’ celesti spirti fede (son. 243, v 3)
E ‘l mondo remaner senza ‘l suo sole (son. 246, v 10)
Faccendo lei sovr’ogni altra gentile, / santa, saggia, leggiadra, honesta et bella (son. 247,
vv 3-4)
Ma come è che sì gran romor non sone / per alti messi, et per lei stessa il senta? (son. 251,
vv 5-6)
Or fia già mai che quel bel viso santo / renda a quest’occhi le lor luci spente (son. 252, vv
5-6)
Né d’esser tocco da’ suoi sancti piedi (canz. 268, v 26)
Oimè, terra è fatto ‘l suo bel viso, / che sole far del cielo / et del ben di lassù fede fra noi
(canz. 268, vv 34-36)
Or in forma di nimpha o d’altra diva / che del più chiaro fondo di Sorga esca (son. 281,
vv 9-10)
Membrando il suo bel viso et l’opre sante (son. 287, v 14)
Che solean fare in terra un paradiso (son. 292, v 7)
Or son fatto io per l’ultimo suo passo / non pur mortal, a morto, et ella è diva (son. 294,
vv 3-4)
Che mai rebellion l’anima santa / non sentì poi ch’a star seco fur giunte (son. 297, vv 3-4)
Quanta invidia a quell’anime che ‘n sorte / ànno or sua santa et dolce compagnia (son.
300, vv 9-10)
Lei non trov’io: ma suoi santi vestigi / tutti rivolti a la superna strada / veggio, lunge da’
laghi averni et stigi (son. 306, vv 12-14)
Volse in amaro sue sante dolceze (son. 308, v 3)
Ché ‘n dee non credev’io regnasse Morte (son. 311, v 8)
Passato è ‘l viso sì leggiadro et santo (son. 313, v 5)
Qualche santa parola sospirando (son. 317, v 13)
Vedove l’erbe et torbide son l’acque, / et vòto et freddo ‘l nido in ch’ella giacque (son.
320, vv 6-7)
Come poss’io, se non mi ‘nsegni, Amore, / con parole mortali aguagliar l’opre / divine
[…] (canz. 325, vv 5-7)
Cosa nova a vederla, / già santissima et dolce anchor acerba (canz. 325, vv 78-79)
Vedea a la sua ombra honestamente / il mio signor sedersi et la mia dea (son. 337, vv 7-8)
Lasciato ài, Morte, senza sole il mondo / oscuro et freddo, Amor cieco et inerme (son.
338, vv 1-2)
Pianger l’aer et la terra e ‘l mar devrebbe / l’uman legnaggio, che senz’ella è quasi / senza
fior’ prato, o senza gemma anello (son. 338, vv 9-11)
Li angeli electi et l’anime beate / cittadine del cielo, il primo giorno che madonna passò,
le fur intorno / piene di meraviglia et di pietate (son. 346, vv 1-4)
Ella, contenta aver cangiato albergo, / si paragona pur coi più perfecti (son. 346, vv 9-10)
De la persona fatta in paradiso (son. 348, v 8)
Donna che lieta col Principio nostro / ti stai, come tua vita alma rechiede (son. 350, vv 12)
343
Sol per piacer a le sue luci sante (son. 350, v 14)
Già ti vid’io, d’onesto foco ardente, / mover i pie’ fra l’erbe et le viole, / non come donna,
ma com’angel sòle (son. 352, vv 5-7)
Nel tuo partir, partì del mondo Amore, / et Cortesia, e ‘l sol cadde del cielo, / et dolce
incominciò a farsi la morte (son. 352, vv 12-14)
Né minacce temer debbo di morte, / che ‘l Re sofferse con più grave pena, / per farme a
seguitar costante et forte; / et or novellamente in ogni vena / intrò di lei che m’era data in
sorte, / et non turbò la sua fronte serena (son. 357, vv 9-14)
Non pò far Morte il dolce viso amaro, / ma ‘l dolce viso dolce pò far Morte. / Che bisogn’
a morir ben altre scorte? / Quella mi scorge ond’ogni ben imparo; / et Quei che del Suo
sangue non fu avaro, / che col pe’ ruppe le tartaree porte, / col Suo morir par che mi
riconforte (son. 358, vv 1-7)
Volo con l’ali de’ pensieri al cielo / sì spesse volte che quasi un di loro / esser mi par
ch’àn ivi il suo thesoro333 (son. 362, vv 1-3)
Menami al suo Signor: allor m’inchino, / pregando humilemente che consenta / ch’i’ stia
a veder et l’uno et l’altro volto334 (son. 362, vv 9-11)
Vergine santa, d’ogni gratia piena (canz. 366, v 40)
Or tu, donna del ciel, tu nostra Dea335 (canz. 366, v 98).
Trovatori
Non poc plus / neis Jhesus / far de tals, car totz absems / als bos aips don es plus auta /
cella c’om per pros recorda (Arnaut Daniel, VIII, vv 36-40)
Dieus retenc lo cel el tro / a sos ops ses compaigno, / ez es paraula certana, / c’a mi donz
laisset en patz / c’a seignoriu vas totz latz (Raimbaut d’Aurenga, XXX, vv 50-54)
Ai, bon’amors encobida, / cors be faihz, delgatz e plas, / frescha chara colorida, / cui
Deus formet ab sas mas (Bernart de Ventadorn, XXX, vv 50-53)
Quar anc genser crestiana / no fo, ni Dieus no la vol (Jaufré Rudel, III, vv 17-18)
E pois Dieus l’a mes en aital carera / q’en sa valor avem tuich esperansa (Uc de Saint
Circ, XVIII, vv 8-9)
Domna, Dieus vos salv e us gar / c’om ren no i pot meillurar / en vostra finas lauzors
(Rigaut de Berbezilh, I, vv 46-48)
Qu’ieu no cre jes que merces aus faillir / lai on Dieus volc totz autres bes aizir (Folchetto
da Marsiglia, I, vv 9-10)
333
La ragione del pensiero rivolto al cielo è Laura, non Dio, esattamente come il tesoro, qui
iperbolicamente presentato non solo come oggetto di venerazione da parte del poeta, ma di tutto il
Paradiso.
334
L’oggetto della richiesta, che il poeta non si vergogna di rivolgere a Dio, mescola apertamente desideri
e bisogni di natura contraddittoria (stare nel regno di Dio, riguadagnare la compagnia dell’amata). È vero
che il volto di Laura potrebbe essere qui solo simbolo della beatitudine e di coloro che ne godono, e
quindi per traslato del desiderio di pace nell’aldilà; tuttavia l’aspirazione a morire e il bisogno di
rincontrare l’amata sono temi troppo diffusi nella seconda sezione del Canzoniere per non avvertirne
l’influenza anche in questo luogo. È inoltre interessante la definizione attribuita a Dio: non “nostro”
Signore, ma “suo”. Forse il poeta sottolinea così di non essere ancora parte del coro dei beati, ma non si
può trascurare che nella terzina successiva egli di fatto si rappresenti come destinato alla salvezza, anche
se non nell’immediato.
335
Il poeta qui passa, utilizzando un’immagine già ben presente nel Canzoniere, dall’amata alla Vergine,
come già nel caso del passo precedente; l’approccio sincretico si è già visto nella rappresentazione di Dio
come Giove.
344
La plus corteza e la plus guaya / e la plus plazen que Dieus aya (Sordello, VIII, vv 5-6)
Con mais vos fa Dieus e valors valer (Raimbaut de Vaqueiras, XXXIII, v 13)
Si Dieus volgues sa gran beutatz devire, / granren pogra d’autras dompnas honrar (Arnaut
de Maruelh, XV, vv 15-16)
Tant vos det Dieus d’astre e de poder, / bona dona, que hom no us va vezer (Raimon
Jordan, I, vv 41-42)
Tant es bona, fin’e vera, / franc’e de gentil natura / que Dieus, quan lieys fe, no fera /
mais tam belha creatura, / no non fa d’aital figura, / no tan no s’i alezera (Raimon de
Miravall, I, vv 25-30)
Qu’aissi us fetz Deus de faisso / que natura i pert razo (Peire Vidal, II, vv 59-60)
Et en sos faitz es d’aitals guizerdos / qu’el honra Dieu et tot bon pretz mante / per qu’el lo
creis e l’enanssa e l soste (Perdigon, II, vv 53-55)
La melher q’anc dieus feçes (Aimeric de Peguilhan, XVI, v 11)
Vostr’ es lo laus – e mi, en paradis, / podetz metre de joi e d’alegransa (Gaucelm Faidit,
VI, vv 38-39)
[…] e si m laissatz morir / feretz pechat, e serai n’en tormen (Casteloza, I, vv 46-47)
Dieus don qu’il vuoilla humilitat aver / si cum en lieis es proeza e jovens (Folquet de
Romans, XVI, vv 28-29)
Pero si m valgues amors / tan que m’entendensa / midons abelhis, / plus ric ioy que
Paradis / agr’, a ma parvensa (Peire Raimon de Tolosa, IX, vv 23-27)
C’om nom poiri’ escrire / sos gais digs ab bel semblan / qe i a volgut assire / Dieus a men
[…] (Arnaut Catalan, VII, vv 12-15)
Mas on Dieus mays a donat / de bon sen e de valor (Bertran Carbonel, VII, vv 17-18)
Que si plagues amar a Dieu / dompna del mon, avinen plai / auri’ en leis, que chausid ai
(Bonifaci Calvo, IV, vv 31-32)
Jhesus vos fass’al sieu servir / el clar paradis resplandir / entre las verjes coronar
(Gavaudan, III, vv 57-58)
Que tug aquilh son siei coral amic / que la vezon tan gen: Dieus l’acomplic! (Folquet de
Lunel, III, vv 47-48)
Dompna, cel vers Dieus qui formet / vostre gen cors franc, plazentier (Daude de Pradas,
II, vv 11-12)
Quelh eys Dieus, senes fallida, / la fetz de sa eyssa beutat (Guilhem de Cabestanh, I, vv 56)
Que sa beutatz desus del cel partis, / que tan sembla obra de paradis / qu’a penas par
terrenals sa conhdia (Guilhem de Montanhagol, VIII, vv 28-30).
5. Elementi spaziali e cronologici nella vicenda d’amore
Sia i trovatori che Petrarca offrono al lettore alcuni dettagli utili a ricostruire il contesto
della storia d’amore, sia sul piano spaziale che su quello cronologico. In primo luogo,
tali precisazioni danno profondità e ricchezza alla storia su un piano puramente
narrativo, che nel Canzoniere in particolare ha la funzione di disporre e costruire il
percorso esistenziale dell’io. Secondariamente, le indicazioni spazio-temporali
acquisiscono una valenza simbolica centrale, ad esempio quando il poeta ammette
quanti anni ha dedicato al servizio amoroso, o che la vecchiaia ormai si avvicina o che
la propria percezione del tempo è distorta. Anche tali aspetti, dunque, sono parte
345
integrante dell’autoritratto alienato e disfunzionale che abbiamo fin qui tratteggiato.
Essi propongono un’ulteriore ed importante occasione di recupero e riuso della
tradizione da parte di Petrarca, attraverso una sua profonda trasformazione in chiave
personale.
5.1 I luoghi in cui si sviluppa la storia d’amore
Due sono i luoghi cui torna con maggiore frequenza il pensiero dell’amante, sull’onda
del ricordo o dietro la spinta del desiderio: quello dove vive l’amata336 e quello in cui è
avvenuto il primo incontro. Grazie alla complessa configurazione della sua raccolta
lirica, Petrarca attribuisce ad entrambi i luoghi un significato particolare: basti pensare a
tutta la dinamica dei suoi spostamenti (allontanamenti o avvicinamenti) rispetto ad
Avignone, a Valchiusa, alla Provenza in genere e all’Italia, o anche all’associazione tra
un luogo preciso e una data altrettanto specifica ed ancor più simbolica, il 6 di aprile. A
loro volta, però, anche i trovatori avevano descritto un’efficace dinamica tra il luogo del
desiderio e la necessità di allontanarsene oppure l’intenzione di rimanervi, secondo
soluzioni certamente meno elaborate e più superficiali, ma nella loro componente
convenzionale del tutto coerenti alle scelte che avrebbe compiuto Petrarca.
Petrarca
Et or di picciol borgo un sol n’à dato, / tal che natura e ‘l luogo si ringratia / onde sì bella
donna al mondo nacque (son. 4, vv 12-14)
A pie’ de’ colli ove la bella vesta / prese de le terrene membra pria / la donna che colui
ch’a te ne ‘nvia / spesso dal somno lagrimando desta (son. 8, vv 1-4)
I’ benedico il loco e ‘l tempo et l’ora / che sì alto miraron gli occhi miei (son. 13, vv 5-6)
Canzon, s’al dolce loco / la donna nostra vedi337 (canz. 37, vv 113-114)
Io amai sempre, et amo forte anchora, / et son per amar più di giorno in giorno, / quel
dolce loco, ove piangendo torno / spesse fiate, quando Amor m’accora (son. 85, vv 1-4)
E ‘l fiero passo ove m’agiunse Amore (son. 100, v 9)
Aventuroso più d’altro terreno, / ov’Amor vidi già fermar le piante / ver’ me volgendo
quelle luci sante / che fanno intorno a sé l’aere sereno (son. 108, vv 1-4)
Persequendomi Amor al luogo usato (son. 110, v 1)
Tosto che giunto a l’amorosa reggia338 / vidi onde nacque l’aura dolce et pura (son. 113,
vv 9-10)
I miei sospiri più benigno calle / avrian per gire ove lor spene è viva: / or vanno sparsi, et
pur ciascuno arriva / là dov’io il mando, che sol un non falle. / Et son di là sì dolcemente
336
A questo si aggiunge, soprattutto nel Canzoniere, il luogo in cui l’amata è nata (in un caso, nel sonetto
295, interpretato in senso morale e cristiano, cioè come Dio che ha creato l’anima e a cui l’anima torna
dopo la morte come alla sua vera dimora). In un caso (sonetto 194) il poeta cita anche il proprio luogo di
nascita, in termini generici, cioè come Italia cui si rinuncia in favore della Provenza solo in virtù
dell’amata. Infine, due volte viene citato il momento di nascita dell’amata, nelle canzoni 29 e 325.
337
Poco sopra tale luogo era stato definito albergo di “honestate et cortesia”.
338
La critica è in sostanza concorde che si tratti del luogo dove dimora, o meglio dimorava l’amata al
momento dell’innamoramento. Non è rilevante in questa sede che si interpreti più precisamente “dimora”
o “ingresso della regione”: per tali aspetti si veda piuttosto Santagata 1996, p. 530.
346
accolti, / com’io m’accorgo, che nessun mai torna: / con tal diletto in quelle parti stanno
(son. 117, vv 5-11)
Torna a la mente il loco / e ‘l primo dì ch’i’ vidi a l’aura sparsi / i capei d’oro, ond’io sì
subito arsi (canz. 127, vv 81-83)
Quando mi vene inanzi il tempo e ‘l loco / ov’io perdei me stesso, e ‘l caro nodo (son.
175, vv 1-2)
Pur quel nodo mi mostra e ‘l loco e ‘l tempo (son. 175, v 14)
Ma ‘l bel paese e ‘l dilectoso fiume / con serena accoglienza rassecura / il cor già vòlto
ov’abita il suo lume (son. 177, vv 12-14)
L’altro coverto d’amorose piume / torna volando al suo dolce soggiorno (son. 180, vv 1314)
Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo, / tu prima amasti, or sola al bel soggiorno /
verdeggia […] / Stiamo a mirarla: i’ ti pur prego et chiamo, / […] / L’ombra che cade da
quel’humil colle, / […] / crescendo mentr’io parlo, agli occhi tolle / la dolce vista del
beato loco, / ove ‘l mio cor co la sua donna alberga (son. 188, vv 1-14)
I dolci ov’io lasciai me stesso (son. 209, v 1)
Solo al mondo paese almo, felice, / verdi rive fiorite, ombrose piagge, / voi possedete, et
io piango, il mio bene (son. 226, vv 12-14)
Sovra dure onde [la Durenza], al lume de la luna / canzon nata di notte in mezzo i boschi,
/ ricca piaggia vedrai deman da sera (sest. 237, vv 37-39)
Mira quel colle, o stanco mio cor vago: / ivi lasciammo ier lei, […] / Torna tu là, ch’io
d’esser sol m’appago (son. 242, vv 1-5)
Ma mia fortuna, a me sempre nemica, / mi risospigne al loco ov’io mi sdegno / veder nel
fango il bel tesoro mio (son. 259, vv 9-11)
I’ ò pien di sospir’ quest’aere tutto, / d’aspri colli mirando il dolce piano / ove nacque
colei ch’avendo in mano / meo cor in sul fiorire e ‘n sul far frutto (son. 288, vv 1-4)
Ove giace il tuo albergo, et dove nacque / il nostro amor, vo’ che abbandoni et lasce339
(son. 305, vv 12-13)
Sento l’aura mia anticha, e i dolci colli / veggio apparire, onde ‘l bel lume nacque (son.
320, vv 1-2)
È questo ‘l nido in che la mia fenice / mise l’aurate et le purpuree penne (son. 321, vv 12).
Trovatori
Ni non presi destoutas / al prim qu’intriei el chastel dinz lo decs, / lai on estai midonz
[…] (Arnaut Daniel, XII, vv 10-12)
Qe d’autra part non aug ni veich / mas vas la terra e vas l’endreich / on mas vos vei, mai
n’ai de dol (Raimbaut d’Aurenga, XXIII, vv 71-73)
Per que es molt gran merce / qui m mentau neis lo castel / on jai […] (Raimbaut
d’Aurenga, XXIX, vv 50-53)
Mas fals lauzenger engres / m’an lugnat de so pais (Bernart de Ventadorn, XX, vv 10-11)
Luenh es lo castelh e la tors / on elha jai e sos maritz (Jaufré Rudel, II, vv 17-18)
Lai, el regneon mi donz estai (Cercamon, V, v 44)
339
Il contesto è valchiusano e al contempo luttuoso: l’“albergo” di Laura ora non può che essere nel
sepolcro.
347
Selha que m degra messatge / enviar de ss’encontrada (Marcabru, XXVIII, vv 22-23)
Hon qu’ieu estey, lai sopley et azor / on ylh estai, que plai als fis cortes (Sordello, VII, vv
25-26)
Gaita be, gaiteta del chastel340 (Raimbaut de Vaqueiras, XXV, v 1)
E pren comjat del repaire / on tant gen fui acuillitz / on nais jois, sens e valors (Bertran de
Born, XX, vv 16-18)
A Dieu coman la terra on il lestai, / e l douz pays on nasquet eissamen (Rambertino
Buvalelli, VII, vv 25-26)
Per aital geng me fez mos sens partir / del sieu pais que no vis son cors gen (Aimeric de
Belenoi, V, vv 9-10)
Ves lo pais, pros dompna issernida, / repaus mos huoills on vostre cors estai (Arnaut de
Maruelh, VIII, vv 25-26)
Car m’en avenc per sa terra passar (Raimon Jordan, II, v 8)
Al dessebrat del pas / on m’avi’amors conquis (Peire d’Alvernha, II, vv 1-2)
Anz, car eu vas leis no pas, / li trametrai, lai on es, / chanson faita de merces (Raimon de
Miravall, XVII, vv 4-6)
Mos cors s’alegr’e s’esjau / per lo gentil temps suau / e pel castel de Fanjau / que m
ressembla Paradis (Peire Vidal, IX, vv 1-4)
Q’en pays estraing / sui, e non vei messatge (Gaucelm Faidit, XIV, vv 5-6)
Que ves son pays me vire (Folquet de Romans, I, v 29)
Lai, al renc de Barsalona, / estai l’amors qu’amar suoill (Peire Raimon de Tolosa, X, vv
37-38)
Lai on es proeza certana, vas Salve t’en vai, e no t trics (Daude de Pradas, I, vv 41-42).
5.2 Indicazioni geografiche precise
Si nota facilmente che l’indicazione dei luoghi dell’amore, soprattutto in Petrarca,
manca di precisione. Anche la rappresentazione di Valchiusa non vale tanto in sé,
quanto per ciò che rappresenta: appunto il luogo dell’amore. A questo possono poi
aggiungersi elementi ulteriori: il carattere evocativo della natura amena, la
contrapposizione con la città corrotta, per il poeta aretino, il legame con i luoghi della
vita politica e militare, per i trovatori. Tuttavia, al centro è la persona amata e lo spazio
ha valore di conseguenza.
D’altro canto non mancano, né nel Canzoniere né nelle opere occitaniche, indicazioni
geografiche più specifiche e realistiche, che danno conto di viaggi e spostamenti. Il
significato di tali informazioni è notevole se pensiamo all’importanza del motivo della
lontananza e della separazione nella lirica amorosa341. Attraverso dettagli anche limitati
sul viaggio, l’io poetico ci appare davvero lontano dalla sua amata e la sua sofferenza
340
La rappresentazione del luogo in cui gli amanti si incontrano, e dunque dove presumibilmente vive
l’amata, resta implicita, espressa attraverso la convenzione del genere alba: in questo caso infatti gli
amanti si incontrano per una notte affidandosi alla fedeltà e alla vista di una guardia che vigili sulla loro
alcova.
341
Tale aspetto è stato anticipato in qualità di vero e proprio genere nel capitolo precedente.
348
ancor più straziante; è utile considerare simili indicazioni referenziali come consapevole
tecnica comunicativa.
La questione non è però così semplice. Non possiamo infatti tralasciare le questioni
storiche, politiche e sociali che potrebbero essere sottintese alle suggestioni spaziali
provenzali, considerato anche il panorama di faziosità tra regioni e corti diverse. Né si
può limitare l’interpretazione dei luoghi petrarcheschi all’aspetto biografico: è ben noto
che, come la cronologia dei testi è falsificata al fine di creare una successione efficace
dal punto di vista esistenziale ed esemplare, lo stesso vale per i luoghi e gli spostamenti.
Il viaggio per altro non è mai solo del corpo, ma lo è anche dello spirito, in chiave sia
amorosa (la vicenda dell’io che ama Laura) che morale (la tensione di un io cristiano,
ma anche coinvolto dalla dimensione terrena).
Sono premesse inevitabili; per il momento comunque ciò che ci interessa è il recupero
di una strategia rappresentativa funzionale alla vicenda amorosa, applicata ad un
contesto nuovo e sempre più stratificato a livello semantico342.
5.2.1
Viaggi
Petrarca
Del mar Tirreno a la sinistra riva (son. 67, v 1)
L’aspetto sacro de la terra vostra343 (son. 68, v 1)
Et che ‘l notai là sopra l’acque salse, / tra la riva toscana et l’Elba et Giglio (son. 69, vv 78)
Per mezz’i boschi inhospiti et selvaggi, / onde vanno a gran rischio uomini et arme344
(son. 176, vv 1-2)
Po, ben puo’ tu portartene la scorza / di me con tue possenti et rapide onde (son. 180, vv
1-2)
Rapido fiume che d’alpestra vena / rodendo intorno, onde ‘l tuo nome prendi (son. 208,
vv 1-2).
Trovatori
A Mon-Joi, e non disses / que m cuges engasconir, / mas er mo fren vir / de ssaj Quablais
(Giraut de Bornelh, XXXII, vv 52-56)
En Alvergnhe, part Lemozi, / m’en anei totz sols a tapi (Guglielmo IX, V, vv 11-12)
En Alvergne et en Fores / et en Veslai, / lai on no sabon qi s’es / ni ls trag q’el trai345 (Uc
de Saint Circ, XXIV, vv 27-30)
Miels-de-domna, s’ieu sui sai vas Palensa (Rigaut de Berbezilh, VI, 46)
Per q’ieu ai talan que fassa / saber lai en terra grega (Elias Cairel, VI, 5-6)
342
Annotiamo solo di sfuggita che la rappresentazione spaziale nel Canzoniere è arricchita da numerosi
riferimenti astronomici, che sono invece rarissimi nel corpus trobadorico.
343
Il poeta si riferisce implicitamente a Roma.
344
Il poeta fa qui riferimento all’attraversamento del bosco delle Ardenne.
345
La canzone è un tipico esempio di insulti o critiche organizzati secondo un elenco di aree geografiche,
come vuole un topos piuttosto riconoscibile in ambito occitanico.
349
Jujar, to proenzalesco, / s’eu aja guazo de mi, / non prezo un genoì. / No t’entend plui
d’un Toesco / o Sardo o Barbarì346 (Raimbaut de Vaqueiras, III, vv 71-75)
Per vos serai estrains de mon pays / e m mudarai part Angau (Bertran de Born, IX, vv 1920)
Ben m’agra vist l’Avergnaz plus soven / a Monbrisio, et tuit mei benvolen, / mas tengut
m’an Petaus et Engolmes (Monje de Montaudon, I, vv 73-75)
Anc non aniey tans camis / ves Francs ni ves Sarrazis (Peire d’Alvernha, II, vv 17-18)
Per totz temps lais Alberges / e remanh en Carcasses (Peire Vidal, IX, vv 22-23)
Que s’amassetz aissi cum vos vanatz, / no us foratz tant de Tolosa loignatz (Aimerc de
Peguilhan, XIX, vv 47-48)
Vas Montferrat ten ta via / a mon Tesaur, ses faillia (Gaucelm Faidit, LXIV, vv 55-56)
Narbona, on qu’ieu si’anans, / lai volf e vir’e vai mos chans (Guilhem Ademar, IX, vv
57-58)
Lanqan vinc en Lombardia, / una bella domna pros / me dis, per sa cortezia (Arnaut
Catalan, V, vv 1-3)
Per de Luserna s gar (Peire Guilhem de Luserna, III, v 20)
Arondeta, del rei no m posc partir / q’a Tholoza no l m convenga seguir (Guilhem de
Berguedà, XXV, vv 25-26)
En Vianes anera plus soven, / mas per midonz remain sai Alvergnatz (Peirol, XIII, vv 4647).
5.2.2
Paragoni e iperboli
Indicazioni geografiche precise e apparentemente realistiche possono anche essere usate
a scopo retorico, con effetto per lo più iperbolico, per indicare cioè la totalità del mondo
oppure per evocare luoghi esotici in cui sia accettabile che le regole della natura siano
scardinate o ancora per creare paragoni con la situazione amorosa o per gusto di
onomastica dotta. Di reale dunque resta solo il nome geografico in sé, non la funzione
descrittiva con cui è proposto o gli avvenimenti che vi si associano.
Petrarca
Forse sì come ‘l Nil d’alto caggendo / col gran suono i vicin’ d’introno assorda347 (son.
48, vv 9-10)
Ma io, perché [il sole] s’attuffi in mezzo l’onde, / et lasci Hispagna dietro a le sue spalle, /
et Granata et Marrocho et le Colonne (canz. 50, vv 46-48)
Qual Scithia m’assicura, o qual Numidia, / s’anchor non satia del mio exilio indegno /
così nascosto mi ritrova Invidia? (son. 130, vv 12-14)
346
La famosa tenzone bilingue di Raimbaut de Vaqueiras è un documento linguistico-letterario
importantissimo. Qui ci interessa più che altro l’implicita testimonianza relativa a spostamenti ed incontri
reali, che il testo lirico registra, e che si sovrappongono ad usi diversi delle coordinate geografiche.
Infatti, gli esempi di tedeschi, sardi (di necessità ben distinti dai genovesi) e barbari rappresentano per
iperbolica antonomasia realtà distanti, ignote, persino esotiche. D’altra parte costituiscono anche realtà
geo-linguistiche reali, che il poeta deve entro certi limiti aver conosciuto.
347
La scelta del Nilo ha evidentemente un valore topico, poiché torna più volte in Petrarca e si riscontra
anche nei trovatori, ad esempio in Arnaut Daniel.
350
Là onde il dì vèn fore (canz. 135, v 5)
Una petra è sì ardita / là per l’indico mar […] (canz. 135, vv 16-17)
Un’altra fonte à Epiro (canz. 135, v 61)
Fuor tutti i nostri lidi / ne l’isole famose di Fortuna (canz. 135, vv 76-77)
I’ da man manca, e’ tenne il camin dritto; / i’ tratto a forza, et e’ d’Amore scorto; / egli in
Ierusalem, et io in Egipto348 (son. 139, vv 9-11)
Del vostro nome, se mie rime intese / fossin sì lunge, avrei pien Tile et Battro, / la Tana e
‘l Nilo, Atlante, Olimpo et Calpe. / Poi che portar nol posso in tutte et quattro / parti del
mondo, udrallo il bel paese / ch’Appennin parte, e ‘l mar circonda et l’Alpe (son. 146, vv
9-14)
Non Tesin, Po, Varo, Arno, Adige et Tebro, / Eufrate, Tigre, Nilo, Hermo, Indo et Gange,
/ Tana, Histro, Alpheo, Garona, e ‘l mar che frange, / Rodano, Hibero, Ren, Sena, Albia,
Era, Hebro (son. 148, vv 1-4)
Non da l’hispano Hibero a l’indo Ydaspe, / ricercando del mar ogni pendice, / né dal lito
vermiglio a l’onde caspe, / ne ‘n ciel né ‘n terra, è più d’una fenice (son. 210, vv 1-4)
Perduto ò quel che ritrovar non spero / dal borrea a l’austro, o dal mar indo al mauro (son.
269, vv 3-4).
Trovatori
Bertran, non cre de sai lo Nil / mais tant de fin joi m’apoigna / tro lai on lo soleils
ploigna, / tro lai on lo soleills plovil (Arnaut Daniel, IV, vv 49-52)
M’i fos enpres ab talan / sai entre l Monteill e Gorda (Raimbaut d’Aurenga, XXXIV, vv
43-44)
De llai don s’abriva l Nils / tr osai on sols es colganz (Giraut de Bornelh, XXXVIII, vv
52-53)
Enanz qe faillimen fezes, / don er parlat tro en Peitau349 (Cercamon, V, vv 41-42)
Q qan no vei sas faichos / si be m soi en mon pais, / cuig esser loing en Espagna
(Folchetto da Marsiglia, XXIII, vv 19-21)
C’una basseta m’a conques / tals que de Paris tro al Groing / gensser non es ni mieills no
ill vai / a nuilla de fin pretz verai (Gausbert Amiel, I, vv 24-27)
Q’eu no vuoill aver Torena / ni Roais, / ses lieis qe ja no m retena (Bertran de Born, VIII,
vv 12-14)
Si per amic / mi tengues la plus gaya / fag m’agra ric / mielhs que qui m dones Blaya
(Aimeric de Belenoi, IV, vv 71-74)
La genser dona qu’ieu anc vis, / ni que sia el mon, so crey, / luenh ni pres en negun pays
(Arnaut de Maruelh, XXIV, vv 22-24)
Amer’ieu plus que Roays (Peire d’Alvernha, II, v 27)
E mais dezir vostr’amansa / que Lombardia ni Fransa (Peire Vidal, VI, vv 7-8)
Zo que mais val que Alixandra / e meill de nul’autra ricor (Peire Raimon de Tolosa, VII,
31-32).
348
Il passo ha valore esclusivamente morale e così il componimento da cui è tratto, che pure rappresenta
una pausa non solo logica ma anche spaziale rispetto alla vicenda d’amore.
349
In questo caso il riferimento iperbolico ha valore negativo, di critica alla dama traditrice, la cui fama
infelice si diffonde per tutto il Midi.
351
5.3 Indicazioni cronologiche nella vicenda amorosa (anniversari)
Uno degli aspetti più noti del Canzoniere petrarchesco concerne la sua scansione
temporale. La costruzione della raccolta e al contempo quella della vicenda amorosa si
basano infatti su una serie di anniversari350 che segnalano lo scorrere del tempo e
l’evoluzione (o per certi aspetti la stasi) della storia, rispetto prima all’amore e poi alla
morte dell’amata351. Ad evidenziare tale elaborazione cronologica e al contempo ad
esaltarne gli indubbi significati simbolici, Petrarca esplicita le date dell’innamoramento
e della dipartita di Laura, che segnano come pietre miliari l’esistenza dell’io lirico. La
loro coincidenza reciproca e con il giorno di Pasqua determina una stratificazione di
significati cui la critica si è a lungo dedicata e che ci limitiamo a ricordare a titolo
generale.
Petrarca disponeva per quella che di fatto è una notevolissima innovazione di alcuni
modelli parziali. Il più vicino in termini di tempo e forse di ispirazione è Dante: nella
Vita nova, infatti, pur senza esplicitare le date, il poeta calcola lo scorrere del tempo tra
gli avvenimenti principali e cita un anniversario cardine, cioè il primo dalla morte di
Beatrice. Non mancano però anche significativi antecedenti provenzali: da una parte la
raccolta autoriale di Guiraut Riquier352, scandita dalla datazione dei componimenti, a
livello dunque paratestuale, e dall’altra il motivo non frequentissimo ma abbastanza
diffuso degli anni del servizio amoroso. Diversi poeti, infatti, insistono sulla gravità
delle loro sofferenze indicandone con precisione la durata. Tutto ciò consente di
ipotizzare che la numerazione degli anni d’amore abbia una matrice convenzionale e
come tale sia passata dalla tradizione cortese al nostro autore. Inoltre, è possibile intuire
una sorta di sintesi all’origine dell’invenzione petrarchesca: il motivo convenzionale
acquista maggiore precisione sia nella numerazione degli anni sia nella citazione delle
date, e soprattutto viene riproposto in modo reiterato, trasportando però quella
continuità dal piano paratestuale a quello testuale.
A tali indicazioni va infine aggiunta quella relativa al momento dell’innamoramento in
sé, proposta non tanto in termini precisi, ma come rappresentazione del momento che ha
cambiato la vita del poeta353.
350
Su possibili antecedenti di tale uso, sia in ambito romanzo che latino, si è soffermato Carrai 2004,
mettendo in evidenza l’importanza della tradizione neolatina e dei trovatori in particolare, oltre che
dell’esempio dantesco, ma anche l’originalità della soluzione petrarchesca in cui l’anniversario diviene
principio strutturale. Proprio seguendo tale punto di vista, anche Cappello 1998, pp. 219-221, si è
soffermato sul meccanismo degli anniversari.
351
Il motivo del tempo che passa e dunque il senso di una vicenda che si protrae a lungo giustificano la
frequenza di un altro motivo tipico della lirica amorosa, e comune in particolare a Petrarca e ai trovatori:
il ricordo. Più volte, infatti, l’io lirico si sofferma a pensare alla propria storia, a ciò che ha perso o
ottenuto, a un particolare momento dell’amore vissuto. Il tema, coerente per altro anche con il topos della
separazione e della lontananza, comporta a sua volta un ulteriore arricchimento della rappresentazione, ad
esempio con l’immagine della nostalgia o con l’espressione delle conseguenze del ricordo stesso,
dolcezza, conforto, mancamento e così via.
352
Su tale argomento ci soffermeremo nel sesto capitolo.
353
Le prime due strofe della canzone 23 insistono ampiamente, ma implicitamente, su questo momento
fondamentale.
352
Petrarca
I’ benedico il loco e ‘l tempo et l’ora / che si alto miraron gli occhi miei354 (son. 13, vv 56)
Ricorro al tempo ch’i’ vi vidi prima (son. 20, v 2)
Ma l’ora e ‘l giorno ch’io le luci apersi / nel bel nero et nel biancho (canz. 29, vv 22-23)
Che s’al contar non erro, oggi à sett’anni / che sospirando vo di riva in riva (sest. 30, vv
28-29)
Ch’i’ son già pur crescendo in questa voglia / ben presso al decim’anno (canz. 50, vv 5455)
Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, et l’anno (son. 61, v 1)
Or volgi, Signor mio, l’undecimo anno / ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo (son. 62,
vv 9-10)
Gli altri asciugasse un più cortese aprile (son. 67, v 14)
S’al principio risponde il fine e ‘l mezzo del quartodecimo anno ch’io sospiro (son. 79, vv
1-2)
Et son fermo d’amare il tempo et l’ora / ch’ogni vil cura mi levar d’intorno (son. 85, vv 56)
La voglia et la ragion combattuto ànno / sette et sette anni; et vincerà il migliore (son.
101, vv 12-13)
Fuggir vorrei: ma gli amorosi rai, / che dì et notte ne la mente stanno, / risplendon sì,
ch’al quintodecimo anno / m’abbaglian più che ‘l primo giorno assai (son. 107, vv 5-8)
Pien di quella ineffabile dolcezza / che del bel viso trassen gli occhi miei / nel dì che
volentier chiusi gli avrei / per non mirar già mai minor bellezza (son. 116, vv 1-4)
Rimansi a dietro il sestodecimo anno / de’ miei sospiri, et io trapasso inanzi (son. 118, vv
1-2)
Dicesette anni à già rivolto il cielo (son. 122, v 1)
Torna a la mente il loco / e ‘l primo dì ch’i’ vidi a l’aura sparsi / i capei d’oro, ond’io sì
subito arsi (canz. 127, vv 81-83)
Nel dì ch’io presi l’amoroso incarco (son. 144, v 6)
Sarò qual fui, vivò com’io son visso, / continuando il mio sospir trilustre355 (son. 145, vv
12-14)
Quel sempre acerbo et honorato giorno / mandò sì al cor l’imagine sua viva (son. 157, vv
1-2)
Quando mi vene inanzi il tempo e ‘l loco / ov’io perdei me stesso, e ‘l caro nodo (son.
175, vv 1-2)
Pur quel nodo mi mostra e ‘l loco e ‘l tempo (son. 175, v 14)
Fammi risovenir quand’Amor diemme / le prime piaghe, sì dolci profonde (son. 196, vv
3-4)
Mille trecento ventisette, a punto / su l’ora prima, il dì sesto d’aprile, / nel laberinto
entrai, né veggio ond’esca (son. 211, vv 12-14)
Così venti anni, grave et lungo affanno (son. 212, v 12)
354
Questo tipo di struttura elencatoria, soprattutto nella forma del tricolon, sia in polisindeto che in
asindeto, è abbastanza frequente ed ha precisi riscontri nello stile trobadorico, soprattutto arnaldiano.
355
Il sonetto 145 pone la nota questione dell’inversione cronologica rispetto a 118 e 122, che
corrispondono a sedici e diciassette anni. Il problema è presumibilmente legato all’ampliamento della
forma Correggio e dunque ad una svista nella ricomposizione della serie via via che i testi aumentavano.
353
Et son già ardendo nel vigesimo anno (son. 221, v 8)
Homini et dei solea vincer per forza / Amor, come si legge in prose e ‘n versi: / et io ‘l
provai in sul primo aprir de’ fiori356 (sest. 239, vv 19-21)
Un lauro verde, una gentil colomna, / quindeci l’una, et l’altro diciotto anni / portato ò in
seno, et già mai non mi scinsi357 (son. 266, vv 12-14)
L’ardente nodo ov’io fui preso d’ora in hora, / contando, anni ventuno interi preso, /
Morte disciolse, né già mai tal peso / provai, né credo ch’uom di dolor mora (son. 271, vv
1-4)
O che bel morir era, oggi è terzo anno! (son. 278, v 14)
Sospira et dice: - O benedette l’ore / del dì che questa via con li occhi apristi! – (son. 284,
vv 13-14)
Al tempo che di lei prima m’accorsi: / onde subito corsi, / ch’era de l’anno et di mi’ etate
aprile (canz. 325, vv 11-13)
Sì nel mio primo occorso honesta et bella / veggiola in sé raccolta, et sì romita (son. 336,
vv 5-6)
Sai che ‘n mille trecento quarantotto, / il dì sesto d’aprile, in l’ora prima, / del corpo uscìo
quell’anima beata (son. 336, vv 12-14)
Tennemi Amor anni ventuno ardendo, / lieto nel foco, et nel duol pien di speme; / poi che
madonna e ‘l mio cor seco inseme / saliro al ciel, dieci altri anni piangendo (son. 364, vv
1-4).
Trovatori
Ab mon vers qu’ai fait pres d’an nou358 (Raimbaut d’Aurenga, X, v 47)
Quand nos vim / sempr’es al cim (Raimbaut d’Aurenga, XVIII, vv 73-74)
Depus anc la vi m’a conques (Bernart de Ventadorn, V, v 22)
Pois fom amdui efan, / l’am ades e la blan (Bernart de Ventadorn, XXVIII, vv 25-26)
Sivals lo jorn que eu podia / son bel cors gai plazen vezer, / no m podia mals dan tener
(Uc de Saint Circ, III, vv 7-9)
Miels-de-domna, que fugit ai dos anz (Rigaut de Berbezilh, II, v 50)
C’ab bel semblan m’a tengut en fadia / mai de dez ans, a lei de mal deutor (Folchetto da
Marsiglia, VII, vv 6-8)
E mon seigner m’ac pres de lieis assis / son brun feltr’emperiau (Bertran de Born, IX, vv
27-28)
Mas de mi n’a dos ans passat al men / qu’ie us son privatz qu’anc de re no us enques
(Monje de Montaudon, I, vv 65-66)
356
L’immagine di Amore vittorioso, cui nessuno, né uomo né dio può resistere, è assolutamente topica e
si trova già in ambito trobadorico. Si legga ad esempio la canzone 4 di Bernart de Ventadorn.
357
Di nuovo il conteggio è contraddittorio, poiché i diciotto anni ricorrono dopo i venti riportati in 212 e
221. L’altra indicazione cronologica si riferisce al rapporto clientelare (ma anche personale) con il
cardinale Giovanni Colonna, destinatario del componimento. Mentre la dedica anche di interi testi a
patroni ed altre figure politiche è consueta in ambito trobadorico, non lo è l’utilizzo di riferimenti
cronologici. Semmai i Provenzali insistono sulle proprie intenzioni future, la cui identificazione
temporale resta generica ed imprecisa.
358
Non si tratta in questo caso di un’indicazione di durata, ma comunque ne deriva un interessante
riferimento cronologico rispetto all’evoluzione della relazione amorosa.
354
Qe, per Dieus359, set360 anz a be / qe us am de cor e us desir (Monje de Montaudon, VI, vv
19-20)
Qu’en domney ses totz enguans / es greus termes de tres ans (Raimon de Miravall, X, vv
53-54)
Passat son cinc mes et dui an (Raimon de Miravall, XV, v 49)
N’ai ieu joguat cinc ans entiers (Raimon de Miravall, XXIV, v 44)
Q’en un sol jorn m’an tolgut / tot qant avi’en dos ans / conques ab mainz durs affans
(Raimon de Miravall361, XXXV, vv 7-9)
Al prim qu’ieu Midons vi (Aimeric de Peguilhan, XLIX, v 20)
Al prim q’ie us vi, m’agr’ops, dompna, que fos (Gaucelm Faidit, XVII, v 9)
Q’en breu aura environ de set ans / qe m fetz amar tant fort, senes mesura (Gaucelm
Faidit, XLVI, vv 3-4)
Et de mi a passat un an (Gui d’Ussel, v 17)
Per lo dous ris e l’amoros semblan / que m fetz midons al prim esgardamen (Cadenet, I,
vv 4-5)
On m’a tengut, senes tot chauzimen / non sol un an, ans crezatz certamen / seran complit
set ans al prim erbatge (Cadenet, I, vv 12-14)
Don ay gran dol, aissi com alegrier, ( don’, aic per vos can vos vi de primier (Bertran
Carbonel, II, vv 9-10)
Dos ans ai atendut e mais / lo don que m covenc e m promes (Peire Bremon Ricas Novas,
V, vv 19-20)
Car ben son pasat dui an / c’ieu non vi, mas en pensan (Peire Bremon Ricas Novas, X, vv
58-59)
Ben a dos anz passatz, / e jes no m’en recre (Peire Bremon Ricas Novas, XI, vv 17-18)
Tot autressi ai sercat trenta mes (Peire Bremon Ricas Novas, XII, v 13)
E l dezirs a m fag languir / XX ans, quar creire m fazia (Guiraut Riquier, XXII, vv 17-18)
Qu’ieu avia malanans / estat d’ans XX fis amaire, / e pueys a m tengut V ans / guerit ses
ioy del maltraire (Guiraut Riquier, XXIII, vv 6-9)
Si m destrenhetz mon fin cor en un loc / ben a tres ans, qu’anc d’un voler no s moc
(Guilhem Augier Novella, V, vv 35-36).
5.4 L’età degli amanti
Tratto ricorrente della rappresentazione lirica è l’età che avanza. L’immagine può essere
declinata secondo due diverse prospettive: la prima, piuttosto frequente sia nei trovatori
che in Petrarca, insiste sul rapporto tra vicenda amorosa e invecchiamento. L’una è
359
Questo tipo di interiezione è piuttosto diffuso in ambito trobadorico; benché non costituisca
un’immagine specifica e peculiare, evidenzia comunque la tendenza a mescolare elementi del sacro e
dimensione del profano, che l’identità dell’autore (monaco e poeta d’amore, spesso con chiare venature
erotiche) accentua a sua volta. Della compresenza di eros e dimensione divina si è già trattato, per le
immagini più peculiari ed elaborate, nel corso del presente capitolo.
360
Come vedremo nel corso del quarto capitolo, il valore simbolico del numero 7 e soprattutto del relativo
anniversario è molto significativo.
361
I quattro testi di anniversario che si colgono nella produzione di Raimon de Miravall sono
particolarmente significativi rispetto ad un preciso gusto poetico che troverà le sue più piene e
consapevoli conseguenze nel Canzoniere. Per quanto concerne la successione dei testi, se ne ricava ben
poco: manca un intervento autoriale documentato e non è affatto certo che la dama di cui si parla nei
diversi testi sia sempre la medesima.
355
causa dell’altro, che spesso risulta accelerato dalle sofferenze. D’altra parte, il senso
degli anni che passano contribuisce anche alla costruzione della storia, esattamente
come il ricorrere degli anniversari e la precisazione della durata dell’amore: la vicenda
acquisisce cioè maggiore profondità cronologica. Tuttavia tale approccio è tipico
principalmente di Petrarca che, considerando Laura una donna nella sua concretezza, la
rappresenta come tale e soprattutto considera in tutti i suoi aspetti il percorso
esistenziale del Canzoniere362. Anche la relazione età-desiderio è caratteristica della
concezione petrarchesca: evidenziare la permanenza del secondo a dispetto della prima
è sintomo del malessere interiore e del dramma morale dell’io lirico363.
Petrarca
Se la mia vita da l’aspro tormento / si può tanto schermire, et dagli affanni, / ch’i’ veggia
per vertù degli ultimi anni, / donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento364 (son. 12, vv 1-4)
O colle brune o colle bianche chiome, / seguirò l’ombra di quel dolce lauro (sest. 30, vv
15-16)
I’ temo di cangiar pria volto et chiome, / che con vera pietà mi mostri gli occhi / l’idolo
mio […] (sest. 30, vv 25-27)
Sol con questi penser’, con altre chiome, / sempre piangendo andrò per ogni riva (sest.
30, vv 32-33)
Quel foco ch’i’ pensai che fosse spento / dal freddo tempo et da l’età men fresca, /
fiamma et martir ne l’anima rinfresca (bal. 55, vv 1-3)
Se bianche non son prima ambe le tempie / ch’a poco a poco par che ‘l tempo mischi
(son. 83, vv 1-2)
In questa passa ‘l tempo, et ne lo specchio / mi veggio andar ver’ la stagion contraria / a
sua impromessa, et a la mia speranza. / Or sia che pò: già sol io non invecchio; / già per
etate il mio desir non varia (son. 168, vv 9-14)
Di dì in dì vo cangiando il viso e ‘l pelo (son. 195, v 1)
362
Il meccanismo degli anniversari e la rappresentazione di una Laura ormai matura sono già stati
affrontati nel capitolo precedente, in riferimento al genere del planh.
363
Va ricordato anche il topos dell’imbarazzante amore senile, che si trova ad esempio nel sonetto 271
(Santagata 1996, p. 1109) e che invece non ha risonanza nei trovatori.
364
Il sonetto prosegue nella quartina successiva descrivendo la vecchiaia di una Laura ormai sfiorita. Tale
ritratto è inusitato, soprattutto se pensiamo all’idealizzazione sempre più disincarnata operata dalla poesia
italiana dai Siciliani agli stilnovisti; qualche anticipazione si può trovare presso i trovatori, più aperti a
soluzioni realistiche, in particolare in componimenti di accusa o di scherno nei confronti del personaggio
femminile. Sono comunque casi molto isolati e tutt’altro che canonici rispetto ai dettami della fin’amor.
Si pensi ad esempio alla canzone 28 di Bernart de Ventadorn, dove il poeta dichiara sì il suo amore
profondo, dedito e di lunghissima data, ma di fatto minaccia anche la sua dama ricordandole che nella
vecchiaia sarà lei a pregare lui di manifestarle ancora il consueto desiderio.
Il sonetto 12 anticipa per certi aspetti il tema delle “oneste voglie” che si è anticipato in questo stesso
capitolo a proposito del guiderdone e poi della confidenza tra gli amanti. Qui, infatti, a titolo di ipotesi per
il futuro, è già presentata l’idea dell’amata ormai fiduciosa nei confronti dell’amante, e dunque disposta
ad ascoltarne le confidenze: la vecchiaia elimina ogni sospetto, perché tende a smorzare l’impeto erotico.
Nel sonetto 12, perciò, il poeta non sembra ancora attribuirsi, come invece farà esplicitamente dopo la
cesura mediana e la morte di Laura, intenzioni limpide e caste, tali sia nel presente (luttuoso) sia nel
passato (amoroso e infelice).
356
Non so s’i’ me ne sdegni / che ‘n questa età mi fai divenir ladro / del bel lume leggiadro, /
[…] / Così avess’io i primi anni / preso lo stil ch’or prender mi bisogna, / ché ‘n giovenil
fallir è men vergogna365 (canz. 207, vv 7-13)
O s’infinge o non cura, o non s’accorge / del fiorir queste inanzi tempo tempie (son. 210,
vv 13-14)
Che se col tempo fossi ito avanzando / (come già in altri) infino a la vecchiezza (son. 304,
vv 10-11)
Tutta la mia fiorita et verde etate / passava, e ‘ntepidir sentia già ‘l foco / ch’arse il mio
core, et era giunto al loco / ove scende la vita ch’al fin cade (son. 315, vv 1-4)
Poco avev’a ‘ndugiar, ché gli anni e ‘l pelo / cangiavano i costumi: / onde sospetto / non
fora il ragionar del mio mal seco (son. 316, vv 9-11)
Fra gli anni de la età matura honesta (son. 317, v 3)
Et vo, solo in pensar, cangiando il pelo (son. 319, v 12)
E ‘l vostro per farv’ira vuol che ‘nvecchi (son. 330, v 14)
Or l’andrò dietro, omai, con altro pelo (canz. 331, v 60)
Ché vo cangiando il pelo, / né cangiar posso l’ostinata voglia (canz. 360, vv 41-42)
Dicemi spesso il mio fidato speglio, / l’animo stanco, et la cangiata scorza (son. 361, vv
1-2).
Trovatori
Lassa, que s fara jamais? / Tan greu cug revena, / tant ha blava vena, / c’uns veillums
langora (Bernart Martì, I, vv 33-36)
Qu’en liei amar volgra murir senecs (Arnaut Daniel, XIV, v 24)
Quar li dic so don soi madurs366 (Raimbaut d’Aurenga, X, v 40)
A, tantas vetz / m’a trag nesis parlars / joi d’entels mans, per qu’esdevenc liars ! (Giraut
de Bornelh, VII, vv 10-12)
E per la carn renovelar / que no puesca enveillezir (Guglielmo IX, VIII, vv 35-36)
Mas vos n’auretz oimais lezer, / q’em breu temps perdretz la color! (Elias Cairel, vv 4344)
Ben es tornad’en debais / la beutat qu’ill avia, / e no l’en te pro borrais / ni tefinhos que
sia, / et es ben razos hueimais, / que l jovens te sa via (Raimbaut de Vaqueiras, XXIII, vv
31-36)
Q’eu l vos celera iasse, / si no m temses veillezir (Monje de Montaudon, VI, vv 10-11)
Qu’ans serai totz gris / qu’ilh m’entenda (Raimon Jordan, VII, vv 54-55)
S’om deu laissar per razon / sidonz, pos es veillezida367 (Raimon de Miravall, XLIV, vv
4-5)
Qu’en breu serem ja velh et ilh et eu (Peire Vidal, XXIV, v 6)
365
Anche il motivo dell’imbarazzo per l’uomo maturo che si trova in una situazione emotiva adatta all’età
giovanile è convenzionale e diffuso, anche se non tipico dei trovatori.
366
Nella canzone 35, lo stesso Raimbaut suggerisce una soluzione del problema: la poesia, che in genere
è presentata come strumento di sfogo (tema su cui si tornerà a breve), garantisce una possibilità di
ringiovanire.
367
Non si parla però di una dama in particolare, ma di una linea di comportamento generale, su cui due
interlocutori si affrontano in forma di tenzone. Concetto molto simile si trova nelle canzoni 6 e 42 di Peire
Vidal, che esprime un generale rifiuto per le donne che abbiano superato una certa età.
357
On sui ebaiz e torbaz; / qu’ela m prega e m diz çastian / que m lais de donei e de çan, /
que trop sui vellz ad obs d’aman (Aimeric de Peguilhan, XLIV, vv 4-7)
E fara m canudir a flocs, / si no m socor abans d’un an (Guilhem Ademar, II, vv 8-9)
Et en breu temps vos perdrez la beltat (Gui d’Ussel, II, v 24).
5.5 Alterne sorti della vicenda d’amore
La vicenda d’amore si distende nel tempo e perciò è soggetta a cambiamenti anche
radicali. Ciò non si nota soltanto nel Canzoniere, percorso unitario e al contempo vario
e contraddittorio, ma anche nei componimenti occitanici. In varie occasioni, infatti, l’io
poetico lamenta una gioia passata ora trasformatasi in sofferenza o al contrario gioisce
di un imprevedibile miglioramento. L’organizzazione dell’esperienza amorosa in più
momenti in parte contraddittori appare perciò convenzionale. Tuttavia nella raccolta
petrarchesca la svolta costituita dalla morte di Laura giustifica la gran parte di tali passi,
la cui natura topica appare così inserita e giustificata da un preciso contesto esistenziale.
Petrarca
Seco parlando, et a tempi migliori / sempre pensando: et questo sol m’aita (son. 114, vv
7-8)
Amor, Fortuna et la mia mente, schiva / di quel che vede e nel passato volta (son. 124, vv
1-2)
Né spero i dolci dì tornino indietro, / ma pur di male in peggio que ch’avanza (son. 124,
vv 9-10)
Ben mi crea passar mio tempo omai / come passato avea quest’anni a dietro, / senz’altro
studio et senza novi ingegni: / or poi che da madonna i’ non impetro / l’usata aita, a che
condutto m’ài (canz. 207, vv 1-5)
I’ mi vivea di mia sorte contento, / senza lagrime et senza invidia alcuna, / […] / Or quei
belli occhi ond’io mai non mi pento / de le mie pene, et men non ne voglio una, / tal
nebbia copre, sì gravosa et bruna (son. 231, vv 1-7)
O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne, / fonte se’ or di
lagrime nocturne (son. 234, vv 1-3)
Ivi lasciammo ier lei, ch’alcun tempo ebbe / qualche cura di noi, et le ne ‘ncrebbe (son.
242, vv 2-3)
Tornami avanti, s’alcun dolce mai / ebbe ‘l cor tristo; et poi da l’altra parte / veggio al
mio navigar turbati i venti (son. 272, vv 9-11)
Amor che meco al buon tempo ti stavi / fra queste rive, a’ pensier’ nostri amiche (son.
303, vv 1-2)
I dì miei fur sì chiari, or son sì foschi (son. 303, v 12)
Da sì lieti pensieri a pianger volta (son. 305, v 4)
Volse in amaro sue sante dolceze368 (son. 308, v 3)
Passato è ‘l tempo omai, lasso, che tanto / con refrigerio in mezzo ‘l foco vissi (son. 313,
vv 1-2)
368
Non solo il concetto, ma la specifica immagine ha valore topico e si trova già nei componimenti
trobadorici.
358
Mente mia, che presaga de’ tuoi damni, / al tempo lieto già pensosa et trista (son. 314, vv
1-2)
Presso era ‘l tempo dove Amor si scontra / con Castitate, et agli amanti è dato / sedersi
inseme, et dir che lor incontra (son. 315, vv 9-11)
Che tenne gli occhi mei mentr’al ciel piacque / bramosi et lieti, or li tèn tristi et molli
(son. 320, vv 3-4)
L’ultimo, lasso, de’ miei giorni allegri / che pochi ò visto in questo viver breve (son. 328,
vv 1-2)
Mia benigna fortuna e ‘l viver lieto, / i chiari giorni et le tranquille notti / e i soavi sospiri
e ‘l dolce stile / che solea resonare in versi e ‘n rime, / vòlti subitamente in doglia e ‘n
pianto (sest. 332, vv 1-5)
Pieno era il mondo de’ suoi honor’ perfecti, / allor che Dio per adornarne il cielo / la si
ritolse: et cosa era da lui (son. 337, vv 12-14)
Fu forse un tempo dolce cosa amore, / non perch’i’ sappia il quando: or è sì amara (son.
344, vv 1-2).
Trovatori
Quar anc fui proatz d’Amor, / c’al comensar me fon pia / mas ora m torn’en bauzia / tot
quan ditz, / per que m tenc per avelitz (Bernart Martì, IV, vv 10-14)
Si m cocha l bes q’eu n’aic! Q’el luec tornes!369 (Raimbaut d’Aurenga, XXXIII, v 26)
Del melhs del mon sui jauzire, / e s’eu anc fui bos sofrire, / ara m’en tenh per garit
(Bernart de Ventadorn, XXVII, vv 12-15)
Qar del be / qe m’a volgut / reconosc qe s vira (Giraut de Bornelh, XI, vv 15-17)
Ai Dieus, tant plazens mi fo / lo jois e tant mi saup bo, / e tant aic avinen vida ! / Mas
aora m’es faillida, / q’ieu me sent d’aut bas cazut / e l cor de tut ric joi nut (Uc de Saint
Circ, X, vv 15-20)
E pois d’amor me sui partitz / cum hom issillatz e faiditz, / tot’ autra vida m sembla mortz
/ e totz autre jois desconortz (Raimbaut de Vaqueiras, XXII, vv 9-12)
Mout eron doutz miei cossir / e ses tot marrimen, / quan la bell’ ab lo cors gen, / […] / e
car ill no m rete, / ni l’aus clamar merce, / tuich solatz mi son estraing, / pos de lieis jois
mi sofraing (Arnaut de Maruelh, XXV, vv 1-10)
Ailas ! Tan amoros semblan / mi mostret al primier deman; / mas aras ilh m’o va camjan
(Raimon de Miravall, XV, vv 13-15)
Estat ai gran sazo / marritz e consiros, / mas ar sui delechos / plus qu’auzel ni peisso
(Peire Vidal, XXXIV, vv 1-4)
Qu’en la boca m fes al prim doussezir / so que m’a fag pueys al cor amarzir (Aimeric de
Peguilhan, XX, vv 7-8)
Si be m camjet per lui nesciamen (Gui d’Ussel, II, v 13)
Qu’en plor a tornada ma gigua (Daude de Pradas, VII, v 30)
D’estranha maneira / sol esser amors / salvatg’ e guerreira / e mala totz jors. / Ar m’es
lauzengeira / sus totz amadors (Peirol, XXV, vv 13-18).
369
L’esclamazione è particolarmente rappresentativa dello stato d’animo del poeta, ma l’intera canzone è
in realtà dedicata alla contrapposizione tra i “tormenti felici” del passato e la totale devastazione del
presente.
359
5.6 Continuità dell’amore (notte e giorno)
Tanto nel corpus trobadorico quanto nel Canzoniere ricorre con elevata frequenza il
sintagma “notte e giorno”370. Esso viene utilizzato per sottolineare il continuo riproporsi
di un determinato aspetto della vicenda amorosa, solitamente negativo: il poeta
sottolinea così, con un ulteriore strumento convenzionale, la tragicità e l’anormalità
della propria condizione. Tale immagine è dunque convergente con la rappresentazione
stagionale in cui lo scorrere dell’anno consente al poeta di insistere sulla propria
resistenza e perseveranza371. La formula “notte e giorno”, però, risulta particolarmente
evidente nella sua cristallizzazione, risultando una consuetudine particolarmente
significativa, sia per l’espressione dell’amore nel tempo, sia per il confronto tra Petrarca
e i trovatori372.
Petrarca
[…] solo lagrimando / là ‘ve tolto mi fu, dì et nocte andava (canz. 23, vv 55-56)
Che sospirando vo di riva in riva / la notte e ‘l giorno, al caldo ed a la neve (sest. 30, vv
29-30)
Cercan dì et nocte pur chi glien’appaghi (canz. 37, v 64)
Però che dì et notte indi m’invita (son. 47, v 7)
Perché dì et notte gli occhi miei son molli? (canz. 50, v 62)
Meco si sta chi dì et notte m’affanna (canz. 70, v 38)
Et potrete pensar qual dentro fammi, / là ‘ve dì et notte stammi (canz. 71, vv 54-55)
Torto mi face il velo / et la man che sì spesso traversa / fra ‘l mio sommo dilecto / et gli
occhi, onde dì et notte si rinversa (canz. 72, vv 55-58)
Dì et notte chiamando il vostro nome (son. 74, v 8)
Altri dì et notte la sua morte brama (canz. 105, v 30)
Fuggir vorrei: ma gli amorosi rai, / che dì et notte ne la mente stanno (son. 107, vv 5-6)
Lasso, quante fiate Amor m’assale, / che fra la notte e ‘l dì son più di mille (son. 109, vv
1-2)
[…] In questi pensier’, lasso, / nocte et dì tiemmi il signor nostro Amore (son. 112, vv 1314)
Al celato amoroso mio pensero, / che dì et nocte ne la mente porto (canz. 127, vv 100101)
Di queste pene è mia propia la prima, / arder dì et notte […] (son. 182, vv 9-10)
Notte et dì meco disioso scendi (son. 208, v 3)
Cieco et stanco ad ogni altro ch’al mio danno / il qual dì et notte palpitando cerco (son.
212, vv 9-10)
370
È attestata anche la formula equivalente “mattino e sera”, soprattutto nei trovatori.
Abbiamo infatti già citato tale formula sia in riferimento ai topoi naturalistico-stagionali, sia in
riferimento alla sopportazione e all’attesa, nel presente capitolo.
372
Va notato però che tale formula ricorre con frequenza significativa nella produzione siciliana (otto
occorrenze). La differenza sostanziale concerne il minor sviluppo, nell’insieme, di tutti gli aspetti che
delineano la disforia dell’amante, in particolare il senso di costante oppressione amorosa. Mancano anche
le significative connessioni con le immagini naturali, che si leggono soprattutto in Petrarca.
371
360
Non sofferse quant’io: sannolsi i boschi, / che sol vo cercando giorno et notte (sest. 237,
vv 11-12)
Quando è ‘l dì chiaro, et quando è notte oscura, / piango ad ognor […] (son. 265, vv 6-7)
Dovunque io son, dì et notte si sospira (son. 266, v 8)
Lo qual dì et notte più che lauro o mirto / tenea in me verde l’amorosa voglia (canz. 270,
vv 65-66)
Onde si sbigottisce et si sconforta / mia vita in tutto, et notte et giorno piange (son. 277,
vv 5-6)
Le mie notti fa triste, e i giorni oscuri373 (son. 291, v 12)
Ma dì et notte il duol ne l’alma accolto (son. 344, v 13).
Trovatori
Domna, can mi colc la sera, / la nueyt (e tot iorn) cossir (Raimbaut d’Aurenga, III, vv 3334)
Noih e jorn me fai sospirar / si m lassa del cor la razitz (Bernart de Ventadorn, XL, vv 78)
Ni l mal qe n trac maitis e sers (Giraut de Bornelh, IX, v 20)
Tres enemics e dos mals segnors ai, / c’usqecs poigna nuoig e jorn cum m’aucia (Uc de
Saint Circ, II, vv 1-2)
Sest trais del meils la briola / plen’ al mati et al ser (Marcabru, XXXVIII, vv 29-30)
Que maitin e ser / mi fai doussamen doler (Folchetto da Marsiglia, X, vv 39-40)
Ab fin’amor qe m destreing noch e dia (Sordello, XXXVIII, v 2)
Cossi nueg e dia / s’amors m’aucizia (Aimeric de Belenoi, IV, vv 6-7)
L’ensenhamens e l pretz e la valors / de vos, domna, cui soplei nueit e dia, / m’an si mon
cor duit de belha paria (Arnaut de Maruelh, XII, vv 1-3)
Qu’en la vostras merceys / s’aten la nueyt e l dia (Raimon de Miravall, XXIX, vv 56-57)
Una chanso ai fata mortamen / si qu’eu no sai dire com ni consi, / qu’anc noit ni jorn, de
ser ni de mati, / non tenc mon cor ni nulh mon pensamen (Peire Vidal, XII, vv 1-4)
Eu q’Amors em d’aital guis’enpres / qu’ora ni jorn, nueg ni mati ni ser, / no s part de me
ni eu de bon Esper (Perdigon, I, vv 37-39)
S’Amors, ce regna / e me, giors e sers e matis (Gaucelm Faidit, XVIII, vv 20-21)
Tant va ives lai sers e matis (Guilhem Ademar, III, v 12)
Q’ainch puois no fui ses joi noit ne dia (Folquet de Romans, V, v 11)
Que noit ni iorn no s pot de vos partir (Peire Raimon de Tolosa, V, v 32)
Tan fan d’enuei nueche dia / fals lausengier enuios (Arnaut Catalan, V, v 33)
Sim trebalh la nuoich el dia (Bartolomé Zorzi, VI, v 59)
Qu’ieu veni’a lieys e de nueitz e de dias / totas las veguadas que’m mandava’ a se
(Guilhem Peire de Cazals, X, vv 11-12)
Que nuech ni jorn la fin’amor no m gic / qu’ieu port a lieis, que d’amar m’afortic
(Folquet de Lunel, III, vv 7-8)
Ni res no y falh, ans resplan nuech e dia (Guiraut Riquier, XXVII, v 34)
Per vos, bella dous’amia, / trac nueg e jorn greu martire (Guilhem Augier Novella, V, vv
1-2)
373
Questa occorrenza appare mediana tra l’immagine di “notte e giorno” come totalità del tempo e quella
della costanza del dolore, diurno e notturno, che differenzia il poeta dai ritmi normali delle altre creature.
361
La nuoich mi trebaill e l dia / no m laiss’ en patz (Peirol, XVI, vv 25-26).
6. L’amore e la poesia
La produzione trobadorica è ricchissima di passi metapoetici, in cui l’io lirico/autore si
riferisce alla propria attività letteraria secondo prospettive molteplici. Una prima
annotazione diffusissima è quella che collega più o meno in modo diretto ed esplicito il
canto poetico all’amore, alla gioia, alla stagione; tali elementi possono essere tutti
presenti o meno. Si tratta di un’associazione piuttosto meccanica, che come tale non
lascia tracce significative nel Canzoniere.
L’approccio occitanico appare invece più simile a quello petrarchesco quando si tratti di
commentare le caratteristiche tecniche del proprio canto, fondendo l’autoanalisi e la
critica all’espressione lirica stessa. Tali annotazioni nel panorama provenzale assumono
due valenze spesso sovrapposte: da una parte il poeta commenta lo specifico testo che
va componendo e ne offre una descrizione e talvolta una chiave di lettura, legata allo
specifico contenuto e ad un determinato stato d’animo; dall’altra propone più in
generale le proprie intenzioni e i propri gusti poetici. La lirica cioè costituisce anche uno
spazio adeguato alla teorizzazione e al dibattito, come dimostra la famosa querelle sugli
stili, leu e clus374. Il caso del Canzoniere appare ben diverso. Non mancano i commenti
sullo stile (si pensi ad esempio alla prima metà della canzone 125), ma sono legati alla
vicenda amorosa, pertengono soltanto al punto di vista interno all’espressione lirica.
Infatti, lo stile che viene descritto – in più occasioni aspro – trova le sue ragioni proprio
nell’emotività dell’io poetico – di solito disperato.
Un’altra corrispondenza si coglie nella decisione, poi sempre negata, di abbandonare il
canto, cui segue una motivazione per il ritorno alle rime. Di solito il meccanismo ha
un’origine sentimentale: il poeta soffre troppo per continuare a cantare, mentre le
ragioni per ricominciare a comporre possono essere legate alla vicenda amorosa (il
bisogno di comunicare, ad esempio) oppure all’insistenza di mecenati e pubblico (come
nel caso di Petrarca)375.
Agli inserti metapoetici possiamo associare gli elementi di carattere intertestuale, in
primo luogo il riferimento ad altri autori. Per i trovatori citare gli altri cantori significa
nella maggior parte dei componimenti una sfida o un’occasione di insulto e derisione,
ma non mancano i ritratti di amici e, per Blacatz, il compianto funebre. Questi due
ultimi aspetti non solo si ritrovano nel Canzoniere, ma vi sono addirittura potenziati
grazie allo spazio riservato ai testi occasionali e di corrispondenza.
Riferimenti interessanti, infine, sono dedicati alle fonti, trattate come auctoritates cui
affidarsi, ai proverbi, che comportano un altro tipo di saggezza ed autorevolezza, e a
374
Per tale aspetto si veda l’ampia e articolata trattazione in Paterson 1975.
Il tema è molto marcato, ad esempio, nel corpus ventadoriano, dove tentazione e indecisione sono
riproposte in numerosi componimenti diversi. Le due occorrenze petrarchesche sono state analizzate nel
capitolo precedente, in riferimento alle sorti della poesia amorosa dopo la morte dell’amata.
375
362
personaggi celebri della letteratura376. Mentre i Provenzali prediligono l’orizzonte
romanzo e soprattutto il filone bretone, Petrarca dimostra la propria prospettiva
preumanistica lasciando spazio alla tradizione classica.
In questa sede è però più utile osservare i luoghi in cui gli elementi metapoetici siano
direttamente coinvolti nella rappresentazione amorosa: la lode377 dell’amata e le sue
problematicità, la comunicazione con la dama, il ruolo dell’amata stessa e di Amore
nello sviluppo della lirica, il rapporto tra necessità interiori ed espressione esteriore378.
6.1 Ineffabilità e insufficienza poetica
Poiché l’amata è perfetta, straordinaria, ultraterrena non è certo agevole lodarla. Il poeta
si prova nell’impresa con tutte le proprie forze, ma talvolta deve ammettere l’eccesso
delle qualità muliebri o la propria insufficienza379. In tale motivo assolutamente topico
(non solo romanzo, non solo trobadorico) sembrano fondersi due istanze a loro volta
convenzionali: l’iperbole nell’elogio dell’amata e la modestia di chi scrive.
Petrarca
Ma: taci, grida il fin, ché farle honor / è d’altri homeri soma che da’ tuoi (son. 5, vv 7-8)
Ma trovo peso non da le mie braccia, / né ovra da polir colla mia lima (son. 20, vv 5-6)
Né mai in sì dolci o in sì soavi tempre / risonar seppi gli amorosi guai, / che ‘l cor
s’umiliasse aspro et feroce (canz. 23, vv 64-66)
So io ben ch’a voler chiuder in versi / suo laudi, fora stancho / chi più degna la mano a
scriver porse: / qual cella è di memoria in cui s’accoglia / quanta vede vertù, quanta
beltade, / chi gli occhi mira d’ogni valor segno, / dolce del mio cor chiave? (canz. 29, vv
50-56)
Poiché la vita è breve, / et l’ingegno paventa a l’alta impresa, / né di lei né di lui molto mi
fido; / ma spero che sia intesa / là dov’io bramo, et là dove essere deve (canz. 71, vv 1-5)
Non perch’io non m’aveggia quanto mia laude è ‘ngiuriosa a voi: / ma contrastar non
posso al gran desio, / lo quale è ‘n me da poi / ch’i’ vidi quel che penser non pareggia, /
non che l’avaglia altrui parlar o mio (canz. 71, vv 16-21)
Né già mai lingua humana / contar poria quel che le due divine / luci sentir mi fanno
(canz. 72, vv 10-12)
376
Tale senso di dialogo con la tradizione, con i grandi modelli del passato si coglie anche in uno
specifico topos letterario, definitosi proprio in seno all’opera petrarchesca, secondo cui il poeta parla con i
libri (per tale osservazione si veda Chines 2010, pp. 13-29).
377
Non elencheremo in questa sede tutti i luoghi pertinenti, ma è utile notare che la lode è tematizzata
anche in modo autonomo. L’importanza del motivo e l’urgenza dell’atto elogiativo da parte dell’io
poetico sono testimoniate dalla notevole frequenza con cui il termine ricorre sia nel corpus trobadorico sia
nel Canzoniere.
378
Per una panoramica dei luoghi e degli aspetti metapoetici più significativi nel Canzoniere si veda
Funke 2003.
379
In un caso Petrarca nega tale principio attribuendo tutta la responsabilità ad Amore, da cui, come
vedremo, derivano le capacità intellettive ed espressive degli amanti: “et onde vien l’enchiostro, onde le
carte / ch’i’ vo empiendo di voi: se ‘n ciò fallassi, / colpa d’Amor, non già defecto d’arte” (son. 74, vv 1214).
363
I’ non poria già mai / imaginar, nonché narrar, gli effecti / che nel mio cor gli occhi soavi
fanno (canz. 73, vv 61-63)
Et se la lingua di seguirlo è vaga, / la scorta pò, non ella esser derisa (son. 75, vv 7-8)
Così potess’io ben chiudere in versi / i miei pensier’, come nel cor gli chiudo (son. 95, vv
1-2)
Se ‘l penser che mi strugge, / com’è pungente et saldo, / così vestisse d’un color
conforme (canz. 125, vv 1-3)
A voler poi ritrarla / per me non basto, et par ch’io me ne stempre (canz. 125, vv 36-37)
Come fanciul ch’a pena / volge la lingua et snoda, / che dir non sa, ma ‘l più tacer gli è
noia, / così ‘l desir mi mena / a dire, et vo’ che m’oda / la dolce mia nemica anzi ch’io
moia (canz. 125, vv 40-45)
Ben sai, canzon, che quant’io parlo è nulla / al celato amoroso mio pensero (canz. 127, vv
99-100)
Poi che portar nol posso in tutte et quattro / parti del mondo, udrallo il bel paese /
ch’Appenin parte, e ‘l mar circonda et l’Alpe (son. 146, vv 12-14)
Che ‘l dir nostro e ‘l penser vince d’assai (son. 154, vv 9-11)
Che ‘ngegno o stil non fia mai che ‘l descriva (son. 157, v 3)
[…] et quanto è dolce ‘l male / né ‘n penser cape, nonché ‘n versi o ‘n rima (son. 182, vv
10-11)
Se Virgilio et Homero avessin visto / quel sole il vegg’io con gli occhi miei, / tutte lor
forze in dar fama a costei / avrian posto, et l’un stil coll’altro misto (son. 186, vv 1-4)
Ennio di quel cantò ruvido carme, / di quest’altro io: et oh pur non molesto / gli sia il mio
ingegno, e ‘l mio lodar non sprezze! (son. 186, vv 12-14)
I’ nol posso ridir, ché nol comprendo: / da ta’ duo luci è l’intellecto offeso, / et di tanta
dolcezza oppresso et stanco (son. 198, vv 12-14)
Ch’agiunger nol pò stil né ‘ngegno humano (son. 200, v 8)
Ch’è da stanchar ogni divin poeta (son. 215, v 8)
Ch’i’ nol so ripensar, nonché ridire (son. 221, v 13)
Lingua mortale al suo stato divino / giunger non pote: Amor la spinge et tira (son. 247, vv
12-13)
Allor dirà che mie rime son mute, / l’ingegno offeso dal soverchio lume (son. 248, vv 1213)
Ivi ‘l parlar che nullo stile aguaglia (son. 261, v 9)
Qual ingegno a parole / poria aguagliare il mio doglioso stato? (canz. 268, vv 18-19)
Et se come ella parla, et come luce / ridir potessi, accenderei d’amore (son. 283, vv 1213)
Se quell’aura soave de’ sospiri / […] / ritrar potessi […] (286, vv 1-5)
Ma l’ingegno et le rime erano scarse / in quella etate ai pensier’ novi’ e ‘nfermi (son. 304,
vv 7-8)
Mai non poria volar penna d’ingegno, / nonché stil grave o lingua, ove Natura / volò,
tessendo il mio dolce ritegno (son. 307, vv 9-11)
Da poi più volte ò riprovato indarno / al secol che verrà l’alte bellezze / pinger cantando,
a ciò che l’ame et preze (son. 308, vv 5-7)
Vuol ch’i’ dipinga a chi nol vide, et mostri, / Amor, che ‘n prima la mia lingua sciolse, /
poi mille volte indarno a l’opra volse / ingegno, tempo, penne, carte e ‘nchiostri (son.
309, vv 5-8)
364
Tacer non posso, et temo non adopre / contrario effecto la mia lingua al core, / che vorria
far honore / a la sua donna, che dal ciel n’ascolta (canz. 325, vv 1-4)
Come poss’io, se non m’insegni, Amore, / con parole mortali aguagliar l’opre / divine, et
quel che copre / alta humiltate, in se stessa raccolta? (canz. 325, vv 5-8)
I miei gravi sospir’ non vanno in rime, / e ‘l mio duro martir vince ogni stile (sest. 332, vv
11-12)
Alto sogetto a le mie basse rime (sest. 332, v 24)
Perché non furo a l’intellecto eguali, / la mia debile vista non sofferse (son. 339, vv 7-8)
Dammi, signor, che ‘l mio dir giunga al segno / de le sue lode, ove per sé non sale (son.
354, vv 5-6).
Trovatori
E non suy de reu guabaire / qu’assatz n’es plus qu’ieu non diu (Bernart Martì, VII, vv 4142)
Ja mos chantars no m’er onors / encontral gran joi c’ai conques, / c’ades m’agr’ops si tot
s’es bos / mos chans fos melher que non es (Bernart de Ventadorn, XXII, vv 1-4)
Anc mai nom poc hom faisonar (Guglielmo IX, VIII, v 13)
Al sieu lauzar non sui eu pro sabenz (Bertran d’Alamanon, XIX, v 19)
Es plus bella q’ieu no sai dir (Cercamon, IV, v 16)
Parer non pot per dic ni per senblan / lo bens ce vos voigll […] (Folchetto da Marsiglia,
XXII, vv 12-13)
Volgr’ieu retraire las faissos, / mas gran paor ai de faillir (Elias Cairel, III, vv 21-22)
Certo que en so lengaio / sa gran beutà dir non so (Raimbaut de Vaqueiras, XVI, vv 1314)
E s’ieu no n dic de ben tan cum deuria, / per so m’en lais q’hom dire no l sabria
(Rambertino Buvalelli, VI, vv 17-18)
C’a l vostre laus dire m sofranh lezers (Arnaut de Maruelh, XII, v 12)
[…] c’a penas nulhs lauzars / pot sos ricx pretz ni sas faisos / nomnar ni cointar en
chansos (Raimon de Miravall, IX, vv 52-54)
Del ric pretz nominatiu / creis tan sa fina valors / que no pot sofrir lauzors / la gran forsa
del ver briu (Peire Vidal, XVI, vv 31-34)
Car una on creis e nais / bes plus c’om non pot dir (Aimeric de Peguilhan, XLVI, vv 2223)
Re no sai dir cum esteya, / que de dol muer e d’enveya (Gaucelm Faidit, XV, vv 33-34)
Dompn’Alazaitz, tant vos fasetz lauzar / a tot lo mon c’a mi non cal parlar (Gui d’Ussel,
VII, vv 45-46)
Trop vos am mais qu’ieu no sai dir (Folquet de Romans, XV, v 18)
Bel’e plazens e benestans / mil tans plus que dire no say (Peire Raimon de Tolosa, XI, vv
12-13)
E s’ieu tan gen non o sai dir / co al sieu cabal / pretz tanh, sapchaper veritat / que mos
sabers no sec ma volontat (Bertran Carbonel, I, vv 7-10)
On jois e pretz estai / mais q’ieu non dic ni sai (Peire Bremon Ricas Novas, XI, vv 38-39)
Quar Gavaudan no pot fenir / lo planch ni l dol que l fa martir, / jamais res no l pot
conortar (Gavaudan, III, vv 60-62)
365
[…] qu’en re tan mais no s’asubtila / mos cars sabers, qu’ieu no n ai tan subtil / que
pogues dir luna part de las mil / lauzors qu’om pot de lieis dir […] (Folquet de Lunel, VI,
vv 3-6).
6.2 Afasia
Un secondo motivo che associa amore e capacità di esprimersi è quello del mutismo
temporaneo e improvviso di cui è vittima il poeta quando si trova di fronte alla dama. Si
tratta di un topos molto diffuso nei versi trobadorici, ripreso poi in ambito siciliano (si
pensi al celebre passo in Meravigliosamente di Giacomo da Lentini) ed arrivato sino a
Petrarca. È certo una delle immagini più convenzionali, che tuttavia nel Canzoniere
viene affrontata con una certa originalità, ad esempio nell’apostrofe diretta alla lingua, o
comunque efficacia, come nell’idea metaforica del nodo. Per altro si tratta di uno spunto
perfettamente coerente con la rappresentazione di un amore snaturante e disforico: non
si può infatti immaginare niente di più sconvolgente per un poeta che il fatto di rimanere
“senza parole”, di non poter più controllare, non solo la propria volontà, ma anche la
propria eloquenza. Quell’eloquenza che per contrasto, lo si è detto, l’amata domina
tanto bene.
Petrarca
Perch’io t’abbia guardato di menzogna / a mio podere et honorato assai, / ingrata lingua,
già però non m’ài / renduto honor, ma facto ira et vergogna380 (son. 49, 1-4)
Solamente quel nodo / ch’Amor cerconda a la mia lingua quando / l’umana vista il troppo
lume avanza, / fosse disciolto, i’ prenderei baldanza / di dir parole in quel punto sì soave
(canz. 73, vv 79-83)
Ruppesi intanto di vergogna il nodo / ch’a la mia lingua era distretto intorno / su nel
primiero scorno381 (canz. 119, vv 76-78)
Ma ‘l soverchio piacer, che s’atraversa / a la mia lingua, qual dentro ella siede, / di
mostrarla in palese ardir non ave (son. 143, vv 12-14)
Più volte già dal bel sembiante humano / ò preso ardir co le mie fide scorte / d’assalir con
parole honeste accorte / la mia nemica in atto humile et piano. / Fanno poi gli occhi mio
penser vano / […] / Ond’io non poté’ mai formar parola / ch’altro che da me stesso fosse
intesa: / così m’à fatto Amor tremante et fioco (son. 170, vv 1-9).
Trovatori
Arnautz ama e no di nems, / c’Amors l’afrena la guata / que fols no la ill comorda382
(Arnaut Daniel, VIII, vv 55-57)
380
Come si vedrà nel gruppo dei luoghi trobadorici, anche Giraut de Bornelh si lancia in un’apostrofe alla
propria lingua.
381
Qui però il problema non è tanto l’amore, quanto la vergogna e la reverenza, anche perché la donna
che l’io poetico si trova di fronte è la Gloria.
382
In questo caso però il ruolo di amore e l’impedimento che ne deriva al poeta appaiono quasi condizioni
positive, poiché impediscono esagerazioni indebite ed anzi controproducenti.
366
Al meu nesci chaptenemen / et a la gran vilania / per quel lh lenga m’entrelia / can eu
denan leis me prezen (Bernart de Ventadorn, XVII, vv 37-40)
Car soi trop vergoignos e fis / Non l’as re quis ? / Ieu ? Per Dieu, non!383 (Giraut de
Bornelh, V, vv 13-15)
Vos vos calaretz, / Na Parlieira-Boch’un dia, / fe que dei mon paire! (Giraut de Bornelh,
XLIX, vv 61-63)
E fail me l sens tant q’ieu non sai que dire (Uc de Saint Circ, IV, v 22)
Qe l cor la bocha menassa / car so q’ieu plus desir nega (Elias Cairel, VI, vv 45-46)
Si’ hom pessatz ab tan de marrimens / que no ill puosca sivals sos covinens / dir e mostrar
[…] (Rambertino Buvalelli, VI, vv 41-44)
E s’ieu en re mensprenc el dir, / sobretemers me fai falhir, / que fai humilhs los plus
espertz (Arnaut de Maruelh, V, vv 12-14)
Qu’aissi m’ave quan vei vostras faissos: / la lengua m falh e l cor ai temeros (Raimon
Jordan, XI, vv 5-6)
Pueys ab cor fait, quant ai mon cosselh pres, / venc denant lieys que l cug dir mon voler; /
e quand la vey, no sau s’es per amor / o per temer o per sa gran ricor, / torn ses parlar
mutz, e non per orguelh (Aimeric de Peguilhan, XXXIII, vv 35-39)
Las! Que farai, que ren non l’aus retraire, / anz, qan la vei, estau a lei de mut (Peire
Raimon de Tolosa, VIII, vv 29-30).
6.3 L’origine del canto è nell’amore
Il canto d’amore non nasce semplicemente dai desideri e dai sentimenti del poeta:
Amore e madonna hanno in tal senso un’enorme responsabilità. In primo luogo, alla
loro ispirazione si deve la capacità stessa del poeta. Secondariamente, in diverse
occasioni Amore appare come mandante e garante384 del canto385, mentre la dama,
soprattutto in Provenza, può decidere liberamente di impedirlo o di favorirne un nuovo
inizio. Si ripropongono così, in chiave metapoetica, alcuni elementi tipici e
convenzionali della vicenda amorosa nel suo complesso: la subordinazione
dell’innamorato, il potere di amata ed Amore su di lui, l’alienazione di ciò che più
definisce l’identità stessa dell’io, cioè la sua poesia386. Va notato brevemente che i
Siciliani non apprezzano in proposito l’esempio dei loro antecedenti: infatti, l’immagine
383
Questo tipo di interiezione vocativa è frequentissima nei trovatori e con il suo tono da imprecazione
suona peculiare, almeno all’orecchio del lettore moderno, portato a leggervi un’esagerazione un po’
blasfema.
384
Intendiamo qui evidenziare il ruolo attivo e diretto d’Amore; si tenga però in conto che per i trovatori è
consueta l’associazione tra stagione-gioia/amore-attività poetica, che in modo diverso riconduce proprio
al sentimento l’origine della composizione poetica. Tale aspetto è stato trattato in relazione alle topiche
immagini naturali nel corso del presente capitolo.
385
Ad “amore” come sentimento possiamo invece associare, nella medesima funzione, il cuore: “Però mi
dice il cor ch’io in carte scriva” (son. 104, v 5). Per quanto concerne i trovatori, tali immagini
corrispondono ad una realtà biografica e sociale ben precisa, in quanto il canto poetico nasceva in effetti
dalla commissione, o per lo meno dal generale apprezzamento (e quindi dal contributo economico) del
signore e della sua corte. Tale aspetto è registrato in più di un’occasione all’interno dei testi poetici, con
una certa insistenza, ad esempio, nell’opera di Bertran de Born.
386
In ambito trobadorico è inoltre molto frequente il motivo dell’apprezzamento o dell’apprezzamento
mancato da parte della dama nei confronti del canto. Ritroviamo tale spunto solo in tre componimenti
petrarcheschi, 70, 239, 332, in cui le possibilità del poeta appaiono molto fosche, o per lo meno dubbie.
367
viene ripresa solo in due occasioni, una volta in riferimento all’amata ed una guardando
ad Amore.
Petrarca
Onde s’alcun bel frutto / nasce di me, da voi vien prima il seme (canz. 71, vv 102-103)
Poi che per mio destino / a dir mi sforza quell’accesa voglia / che m’à sforzato a sospirar
mai sempre, / Amor, ch’a ciò m’invoglia, / sia la mia scorta, e ‘nsignimi ‘l camino, / et
col desio le mie rime contempre (canz. 73, vv 1-6)
Più volte Amor m’avea già detto: Scrivi, / scrivi quel che vedesti in lettre d’oro, / sì come
i miei seguaci discoloro, / e ‘n un momento gli fo morti et vivi (son. 93, vv 1-4)
Qui mi sto solo; et come Amor m’invita, / or rime or versi, or colgo herbette et fiori (son.
114, vv 5-6)
Però ch’Amor mi sforza / et di saver mi spoglia, / parlo in rime aspre, et di dolcezza
ignude (canz. 125, vv 14-16)
Collui che del mio mal meco ragiona / mi lascia in dubbio, sì confuso ditta387 (canz. 127,
vv 5-6)
Quand’io v’odo parlar s’ dolcemente / com’Amor proprio a’ suoi seguaci instilla (son.
143, vv 1-2)
Indi mi mostra quel ch’a molti cela, / ch’a parte a parte entro a’ begli occhi leggo /
quant’io parlo d’Amore, et quant’io scrivo (son. 151, vv 12-14)
Lingua mortale al suo stato divino / giunger non pote: Amor la spinge et tira, / non per
election, ma per destino (son. 247, vv 12-14)
Et sua fama, che spira / in molte parti anchor per la tua lingua, / prega che non extingua388
(canz. 268, vv 73-75)
Morta colei che mi facea parlare / et che si stava de’ pensier’ miei in cima (son. 293, vv
5-6)
I’ pensava assai destro esser su l’ale, / non per lor forza, ma di chi le spiega, / per gir
cantando a quel bel nodo eguale (son. 307, vv 1-3)
Vuol ch’i’ dipinga a chi nol vide, et mostri, / Amor, che ‘n prima la mia lingua sciolse
(son. 309, vv 5-6)
Come poss’io, se non m’insegni, Amore (canz. 325, v 5)
Chiaro segno Amor pose a le mie rime / dentro a’ belli occhi, et or l’à posto in pianto
(sest. 332, vv 25-26)
Solo per me, che ‘l suo intellecto alzai / ov’alzato per sé non fora mai389 (canz. 360, vv
89-90)
Amor mi spinge a dir di te parole (canz. 366, v 4).
387
L’immagine di Amore dittatore è però influenzata da Dante (Purgatorio XXIV).
Qui la richiesta è di Laura, ma mediata dalle parole di Amore.
389
Nella stanza successiva Amore precisa che proprio a lui si deve la fama poetica dell’innamorato, il
quale in precedenza aveva prodotto solo “parolette” poco apprezzate e in effetti prive di importanza,
addirittura menzognere.
388
368
Trovatori
M’enseign’Amors qu’ieu fassa adonc / chan que non er segons ni tertz (Arnaut Daniel,
XI, vv 6-7)
Farai, c’Amors m’o comanda, / breu chansson de razon loigna (Arnaut Daniel, XVI, vv 34)
Que mais d’amor don m’estaca / no chantari’ab nulhs augurs / tro plais vengues entre nos
ams (Raimbaut d’Aurenga, X, vv 16-18)
Gent estera que chantes, / s’a mon Conort abelis, / mas eu no cre que m grazis / re que lh
disses ni lh mandes (Bernart de Ventadorn, XX, vv 1-4)
Q’estiers no m feira frugz ni flors / ni l genz pascors / ioi ni solatz / mas vailla m
chausimens, si l platz390 (Giraut de Bornelh, XVII, vv 7-10)
Una chanzon dimeia ai talan / q’ieu la fassa ab gai sonet cortes, / e ges d’aitant no mi fo’
entremes, / mas forza m’en amors e m’o enanza (Bertran d’Alamanon, XIX, vv 1-4)
[…] quar ylh m’a donat l’art e l genh (Folchetto da Marsiglia, XVI, v 6)
Bel m’es ab motz leugiers a far / chanson plazen et ab guay so, / que l melher que hom
pot triar, / […] / no vol ni l plai chantar de maestria (Sordello, IV, vv 1-5)
Abril ni mai non aten de far vers / que Finamors me n dona l geing e l’art (Elias Cairel, V,
vv 1-2)
Voill far ab gai sonet leuger / coinda chanzon, pos a lei plai / de cui eu chan […]
(Rambertino Buvalelli, II, vv 3-5)
Que eu ai sotil sen ferm / per lieis, don non ai fermansa (Aimeric de Belenoi, XVII, vv 910)
Ans am ieu lo chant e l ris391 (Monje de Montaudon, XIII, v 22)
Que son en vos, bona domna valenz, / me donon gienh de chantar e sciensa (Arnaut de
Maruelh, I, vv 4-5)
Que totz jorns muer, pus no m’en vol mover (Arnaut de Maruelh, XVI, v 20)
E sapchatz, s’ieu tant non l’ames, / ia non saupra far vers ni sos, / ni non o feira s’ilh no
fos (Peire d’Alvernha392, IX, vv 47-49)
A vostr’ops ai retengut / toz faiz de druz benestanz, / e Miraval e mos chanz (Raimon de
Miravall, XXXV, vv 57-59)
E s’eu sai ren dir ni faire, / ilh n’aja l grat, que sciensa / m’a donat e conoissensa, / per
qu’eu sui gais e chantaire (Peire Vidal, XIX, vv 22-25)
A lieys o deuria grazir / si ja fas bos motz ni guai so (Folquet de Romans, XV, vv 3-4)
Car vos me datz joi e alegramen, / e mi donatz genh e saber e sen (Bertran Carbonel, III,
vv 21-22)
Que mandatz – e preguatz / suy de chant, per que l fatz (Guilhem Peire de Cazals, IV, vv
9-10)
No m notz ni m’aiuda estatz / ni res for Deus et amors (Re d’Aragona, I, vv 8-9).
390
Il poeta cioè nega un altro topos ben noto, cioè il legame stagione-canto-amore, per sottolineare il
dominio che l’amata detiene su di lui e sulla sua poesia.
391
La commissione viene in questo caso da Dio stesso, in una delle manifestazioni più efficaci ed
esplicite della mescolanza di sacro e profano: il poeta si trova improvvisamente davanti al Signore, che gli
raccomanda di dedicarsi alla poesia piuttosto che alla clausura monacale.
392
Tuttavia nella sua undicesima canzone, il trovatore dichiara che le medesime capacità canore derivano
da Dio e dai suoi doni. Simile spostamento si riconosce nel Canzoniere: nella canzone 366 Petrarca
consacra alla Vergine i propri versi, spezzando di fatto il legame poesia-amore-Laura.
369
6.4 Poesia come sfogo
Un ultimo topos che accomuna trovatori e Petrarca concerne la funzione della poesia
come sfogo, come liberazione dell’animo dal peso delle sofferenze. L’aspetto più
interessante è forse nella profonda connessione che si istituisce tra i due aspetti
dell’esistenza dell’amante/poeta.
Petrarca
Perché cantando il duol si disacerba (canz. 23, v 4)
Et perché un poco nel parlar mi sfogo (canz. 50, v 57)
Et col desio le mie rime contempre: / ma non in guisa che lo cor si stempre / di soverchia
dolcezza, com’io temo (canz. 73, vv 6-8)
Chi verrà mai che squadre / questo mio cor di smalto / ch’almen com’io solea possa
sfogarme? (canz. 125, vv 30-32)
Ma pur quanto l’istoria trovo scripta / in mezzo ‘l cor (ché sì spesso rincorro) / co la sua
propria man de’ miei martiri, / dirò, perché i sospiri / parlando àn triegua, et al dolor
soccorro (canz. 127, vv 9-11)
In dubbio di mio stato, or piango or canto, / et temo et spero; et in sospiri e ‘n rime /
sfogo il mio incarco […] (son. 252, vv 1-3)
Cerco parlando d’allentar mia pena (son. 276, v 4)
Et certo ogni mio studio in quel tempo era / pur di sfogare il doloroso core / in qualche
modo, non d’acquistar fama (son. 293, vv 9-11)
Piansi et cantai: non so più mutar verso; / ma dì et notte il duol ne l’alma accolto / per la
lingua et per li occhi sfogo et verso393 (son. 344, vv 12-14).
Trovatori
E car no posc aver joi ni solatz, / chan per conort cen vetz que sui iratz (Bernart de
Ventadorn, XXII, vv 31-32)
Un novel chan / que m’ira conortan / de l’ir e de l’afan (Giraut de Bonelh, XXXIV, vv 89)
Mas per so chan, c’oblides la dolor (Folchetto da Marsiglia, XI, v 3)
Per melhs sofrir lo maltrait e l’afan / que m don’Amors, don eu no m posc defendre, /
farai chanso tal qu’er leus per aprendre (Peire Vidal, XLI, vv 1-3)
Tro que m’esfortz de far una chanso / que m rissida d’aquelh turmen on so (Perdigon, IV,
vv 8-9)
Ara cove / qe m conort en chantan / del mal c’Amors mi fai sofrir e traire, / c’aissi m’ave,
cum ieu plus soven chan, / q’ieu soi plus gais e de meillor solatz / e n’alegre mon cor, qan
sui iratz (Gaucelm Faidit, XXV, vv 1-6)
Anz voill un nou vers comenzar / per conortar / mi meteis, car amor / mi destreing fort e
m dona grant dolor; / mas eu ades chant e m deport e m ioc (Peire Raimon de Tolosa, VII,
vv 6-10)
393
L’associazione tra canto e pianto è già trobadorica. Si veda ad esempio Bernart Marti, I, vv 17-18:
“delh amor terrena / soven chant e plora”.
370
[…] ni m voil pero tener / de far chanson, qe ben ieu ia garria / del mal d’amor, q’eu tem
fort que m’aucia (Lanfranco Cigala, III, vv 4-6).
7. Altri topoi
La classificazione dei luoghi convenzionali ha fin qui compreso soltanto le immagini
che, ricondotte ad un ipotetico sistema, illustrassero la direzione generale e il significato
del contatto tra Petrarca e i trovatori394. Tuttavia i motivi topici che accomunano il poeta
aretino alla tradizione romanza sono ancor più vari e numerosi; molti di essi, per altro,
dimostrano una profonda coerenza con la peculiare concezione della vicenda amorosa
che si è man mano descritta. Ciò vale ad esempio per il tema dell’esilio, legato da una
parte alla (convenzionale) situazione di lontananza e dall’altra alla centralità dell’amata
nella vita del poeta, che riconosce in lei la propria “patria”, cioè la propria appartenenza.
L’immagine dell’invidia è in origine connessa soprattutto alle malelingue, ma può
essere presentata anche in riferimento all’io lirico e al suo rapporto con l’oggetto del
desiderio, il quale inoltre è definito in diverse occasioni come “tesoro”.
Anche il confronto con Amore passa attraverso alcuni elementi tipicizzati. In primo
luogo l’idea che l’innamorato non conoscesse la forza del dio e dunque sottovalutasse la
necessità di difendersene; ancora, l’assenza di mezzi per gestire o ridurre la sofferenza
emotiva oppure la definizione di quello stesso dolore come primo vero tormento che il
poeta abbia mai sperimentato.
Appaiono topiche anche alcune peculiari reazioni dell’amante alla propria situazione,
come un eccesso di lamenti che disturbano lui stesso, il canto mescolato o alternato al
pianto, il tentativo di mascherare con una gioia forzata lo stato d’animo reale, la ricerca
di solitudine395.
L’incontro tra il poeta e Amore può inoltre essere mediato dal campo semantico
giuridico, per cui sono evocate le leggi d’amore, vere e proprie arringhe dell’amante
contro il suo ingiusto signore o l’impressione che sia in gioco un giudizio, magari da
parte della dama. Nel Canzoniere tali aspetti sono introdotti nella loro forma più
compiuta e complessa, nel lungo scontro verbale cui è dedicata la canzone 360396.
A loro volta i riferimenti contestuali, soprattutto cronologici, favoriscono alcune
evidenti soluzioni convenzionali, come la rappresentazione degli influssi astrali sulla
nascita o l’innamoramento, il richiamo ad Adamo per suggerire l’intero corso della
storia umana oppure, su un piano più soggettivo, la percezione alterata dell’io poetico
rispetto a spazio e tempo397.
394
Non abbiamo qui riproposto la questione dell’aura, già ampiamente affrontata dalla critica e presentata
nel corso del primo capitolo.
395
La resa petrarchesca di tale motivo, tuttavia, non ha eguali in ambito trobadorico, per frequenza,
intensità e approfondimento sullo stato interiore.
396
Tale atteggiamento riflessivo e argomentativo sulle questioni amorose è per certi aspetti imparentato
con la pratica cortese tarda delle Corti d’Amore, in cui dame e cavalieri esperti si riunivano per discutere
della natura dell’amore e dei comportamenti connessi ad esso. Per tale argomento si veda anche il
capitolo sesto.
397
Di tale immagine si è in parte dato conto presentando le occorrenze relative alla confusione propria
dello stato amoroso.
371
Infine, è opportuno ricordare gli aspetti più tipici nella struttura stessa della
composizione in versi, in particolare la sua conclusione: tornada o congedo che sia, di
frequente essa contiene un’apostrofe alla canzone stessa e l’invio ad un destinatario,
spesso la dama, anche se per i trovatori non si tratta necessariamente di quella celebrata
nel testo stesso, ma della signora.
8. Conclusioni
Sono dunque numerosi i punti di contatto tra la poesia trobadorica e quella petrarchesca,
in particolare per quanto concerne l’utilizzo di immagini convenzionali.
Tre conclusioni, in particolare, appaiono significative. L’uso dei topoi è spesso legato a
snodi essenziali della vicenda amorosa; essi individuano cioè motivi fondamentali nella
definizione stessa di una esperienza sentimentale (e quindi poetica) ben precisa,
contrassegnata soprattutto da contraddittorietà, paradossalità, sofferenza o almeno
incertezza, subordinazione e disequilibrio.
Il contatto tra Petrarca e i Provenzali appare quindi particolarmente significativo in
merito agli aspetti di disforia e disfunzionalità del sentimento. Ma mentre per i trovatori
tali aspetti possono essere considerati il corollario dell’ideologia cortese, a sua volta
sbilanciata e paradossale, nel Canzoniere essi assumono una valenza più profonda, in
relazione alle conseguenze morali, spirituali e cristiane che l’eccesso di un amore
terreno ed erroneo comporta.
Proprio in virtù dei nuovi significati che il poeta aretino attribuisce alla propria
composizione lirica, ed anzi in vista di una nuova poesia lirica, le immagini della
tradizione sono sottoposte a costanti reinterpretazioni. L’esito dunque dell’analisi
comparativa è proprio quello di identificare il contatto e al contempo mettere in luce la
differenza.
372
CAPITOLO QUARTO
Il significato della presenza trobadorica nel Canzoniere petrarchesco
I topoi di origine provenzale o che per lo meno rivelano l’eredità occitanica nell’opera
petrarchesca appaiono dunque numerosi, diversificati e diffusi. La presenza trobadorica
nel Canzoniere si dimostra perciò significativa a livello quantitativo e soprattutto
qualitativo: essa infatti risulta connessa ad alcuni momenti ed aspetti essenziali nella
vicenda amorosa proposta nella raccolta. Con ciò non si intende, ovviamente, che
Petrarca abbia trovato nell’esempio occitanico un modello cui adeguarsi in modo
immediato ed acritico. Piuttosto, i materiali della tradizione cortese gli offrivano un
punto di partenza, la cui funzione nei fragmenta è duplice: nella storia, rispetto alla
condizione dell’io poetico, nella composizione, per far evolvere quello stesso io lirico.
L’innamoramento si avvia infatti secondo una connotazione cortese, la cui componente
passionale è non di rado evidenziata, ma nella quale è ancor più centrale la generale
disfunzionalità, appunto quella natura disforica di cui si è parlato in relazione ai topoi
trobadorici. L’insegnamento degli antecedenti d’oltralpe appare quindi fondamentale in
questa fase e trova la sua massima evidenza nella serie dei testi 22-301, dove non a caso
si affiancano le prime due sestine, il bilancio dell’innamoramento stesso nella canzone
232, il recupero dell’invito alla crociata, con dichiarazione degli effetti nefasti d’amore,
in 27 e 28, la peculiare struttura e la complessa tematica della canzone 29. Tuttavia,
ancora una volta non è possibile parlare di recupero dei modelli senza sottolineare al
contempo il carattere personale dell’uso petrarchesco, che sempre si configura come
trasformazione e interpretazione creativa, anche laddove intenda riallacciarsi in modo
esplicito alla tradizione. Al lettore del Canzoniere non possono sfuggire la profondità
dello scandaglio psicologico e la complessità dell’io petrarchesco, al di là dell’origine
dei materiali di base; la stessa datazione dei testi (23 e 29 in particolare), ben più tarda
di quanto non suggerisca la loro posizione, rivela la maturità del pensiero e della tecnica
rielaborativa dell’autore. D’altro canto, la finzione di testi solo in apparenza giovanili è
pensata proprio in accordo con la ricostruzione di un’inesperienza amorosa letta e
meditata, in realtà, a posteriori.
Su tale avvio si innestano i tentativi e le esperienze successive: i momenti di pentimento
e ritrattazione, a partire dal madrigale 54, prima vera cesura della raccolta, le ricadute, il
parziale spostamento verso una visione stilnovistica dell’amore, alla ricerca di una
sintesi (impossibile) tra dimensione mondana e caritas. Sarebbe però erroneo pensare
che la componente occitanica si arresti entro i primi 70 componimenti, prima cioè della
cosiddetta svolta delle “canzoni sorelle”3, esattamente come gli elementi stilnovisti non
si limitano a seguire quella stessa svolta: il rapporto di Petrarca con la tradizione segue
un’impostazione molto meno rigida e si diffonde nell’arco dell’intera raccolta. Tale
1
Su tale aspetto si tornerà in seguito con maggiore ampiezza.
Gli studi sulla composizione, la collocazione e il significato della “canzone delle trasformazioni” sono
numerosi; si vedano in primo luogo i commenti in Santagata 1996 e Bettarini 2005, ed inoltre Martinelli
1977, pp. 19-102, e Santagata 1990, pp. 327 segg.
3
La si è già citata più volte; per i rimandi bibliografici si rinvia al secondo capitolo.
2
373
osservazione conduce a tre ordini di considerazioni. In primo luogo l’autore tratta le sue
fonti in modo libero, imponendo loro anche in tal senso le proprie esigenze e la propria
personalità; la mescolanza di spunti diversi risponde in fondo al medesimo criterio.
Secondariamente, la non linearità nella successione dei momenti poetici e
nell’ispirazione corrisponde in modo efficace alla ricorsività e circolarità a livello
esistenziale, che caratterizzano la storia dell’io, sia in senso individuale che esemplare.
Infine, come già si è visto nei due capitoli precedenti, il riuso dei modelli trobadorici
assume forme e significati nuovi al di là del semplice paradigma dell’“amore giovanile
ed erotico”.
I materiali cortesi rappresentano infatti un utile strumento per veicolare la persistenza di
un amore alienante e tragico nella storia dell’io, oltre la presa di coscienza, la parziale
mutatio animi, la morte dell’amata, i suoi inviti a seguirla in cielo. L’accostamento tra
tale concezione dell’amore e visioni diverse, che da alternative diventano ora
complementari, rende l’idea stessa di passione (terrena, mondana e quindi per certi
aspetti sempre sensuale) molto più stratificata di quanto non sia mai stata in precedenza.
Si accentua perciò anche la trasfigurazione della tradizione e la percezione della
specificità nella lirica petrarchesca.
A tale proposito è rilevante ricordare la presenza e la distribuzione dei diversi generi
nell’arco di tutto il Canzoniere, nonché il loro riuso secondo significati difformi rispetto
a quelli originari, fino ai sonetti penitenziali, in cui pure permane la dedizione verso
Laura, alla canzone 366, che a sua volta presenta elementi di ambiguità e
problematicità, e di nuovo al sonetto 1, che circolarmente chiude e riapre la raccolta.
1. La ricerca della totalità
Una lettura continua del Canzoniere, l’osservazione dei molteplici materiali ch’esso
recupera ed unisce, la presenza dei modelli – in particolare trobadorici – comunicano
una forte impressione di vastità e varietà4. Proprio la riflessione complessiva sulla
raccolta porta alla convinzione che uno degli obiettivi principali del suo autore potesse
essere la creazione di una summa, di una totalità lirica. Sulla base di tale principio,
l’itinerario interiore dell’io si apre alla prospettiva il più ampia possibile, agli echi e alle
influenze più diverse, raccogliendoli e consustanziandosene. Simile approccio appare da
una parte perfettamente coerente con l’intento di attribuire a quell’io individuale anche
una funzione esemplare. Né dall’altra risulta contraddittorio rispetto a ciò che
conosciamo della personalità di Petrarca, al suo impegno per il rinnovamento culturale,
innanzitutto nel senso di un recupero della grande tradizione classica, ma anche al suo
essere uomo del proprio tempo, cioè quello della lirica cortese, del suo sviluppo italiano
e toscano, nonché l’epoca delle “summae” e delle enciclopedie. D’altro canto, gli studi
lessicali e stilistici hanno dimostrato quanto notevole sia all’atto pratico il contributo
della produzione lirica italiana nella poesia petrarchesca, a prescindere dalle ben note
4
Tali aspetti di onnicomprensività si sono anticipati nel secondo capitolo, in riferimento agli elementi
metapoetici ed esistenziali.
374
affermazioni dell’autore, soprattutto in merito a Dante: non dovrebbero restare dubbi
sull’effettiva conoscenza e sull’interesse di Petrarca per le esperienze che di poco lo
avevano preceduto.
Naturalmente, ricerca della totalità non significa centone né plagio: il poeta aretino si
propone piuttosto come l’erede della tradizione, colui che si è identificato con la lezione
dei magistri poetici per poi superarla e dar vita, attraverso la propria interpretazione, a
qualcosa di nuovo, che apre una nuova fase, nuove possibilità e prospettive.
1.1 La totalità poetica
L’intenzione di autolegittimarsi quale erede e insieme rinnovatore dei grandi autori
volgari non è certo sottaciuta nel Canzoniere. Ciò è chiaro già nella sua prima
redazione, dove la canzone 70 spiccava per la posizione centrale, a metà della prima
sezione, aprendo un eccentrico gruppo di quattro canzoni, poste in primo piano
dall’inedita serie di forme lunghe e dall’identità metrica di 71-73. Lasso me si
presentava poi peculiare anche a livello strutturale, nel recupero dell’arcaica
progressione “a citazioni”, di fatto essa stessa citazione della grande stagione
trobadorica, ed utilissima al messaggio metapoetico del suo autore. Essa contiene infatti
un elenco di maestri5, che si propone esso stesso ricco e vario, come i modelli della
raccolta nel suo complesso: struttura metrica trobadorica con ascendenze oitaniche e
mediolatine6, pseudo-Arnaut Daniel – l’emblema dello stile chiuso e retoricamente
sovraccarico –, Cavalcanti – stilnovismo dolente e filosofia dell’amore –, Dante petroso
– versione italiana del trobar clus e car –, Cino da Pistoia – stilnovismo dolce ed ormai
tardo –; infine il fragmentum 23. La decisione di concludere con un proprio
componimento equivale ad un’autoproclamazione e la scelta della canzone delle
trasformazioni non necessita forse di essere ulteriormente motivata e commentata. Si
tratta infatti di un testo lunghissimo, difficile e denso, che aveva richiesto una
prolungata elaborazione e che a sua volta aveva la funzione di un bilancio rispetto
all’esperienza amorosa giovanile; esso inoltre recuperava già, per certi aspetti, spunti
molteplici dalla produzione anteriore, inserendoli però in un complesso espressivo
davvero nuovo. È un componimento ampio e discorsivo, che non riflette, è vero, sulla
natura dell’amore, ma, mostrandone con grande efficacia la fenomenologia e i diversi
aspetti, soprattutto dolenti, insegna implicitamente cosa siano le passioni terrene. La
canzone 23 è poi ricca di topoi ed immagini convenzionali, che la accomunano anche al
passato cortese, ed è inserita per altro in una fase della raccolta in cui la concezione
amorosa è ancora giovanile e fisica, riallacciandosi perciò alla gran parte della
produzione occitanica. Dominano la disforia, la sofferenza, l’innaturalità, che in modi
molto diversi possono richiamare le proposte liriche dei trovatori e quelle di Cavalcanti.
La struttura a quadri che caratterizza 23 aveva a sua volta illustri antecedenti romanzi,
5
Per la riflessione sulle citazioni della canzone 70, si veda in particolare Santagata 1990, pp. 327 segg,
cui si è fatto riferimento anche nel corso del primo capitolo.
6
Sulla complessa origine della struttura “a citazioni” ci siamo già soffermati nel corso del primo capitolo.
375
così come l’associazione amante-animali o il gusto per le rappresentazioni fantastiche7.
Non mancano puntuali rimandi danteschi, a partire dall’impietramento, o stilnovistici,
come l’insistenza convenzionale sullo sguardo; qualche piccolo cenno è riservato anche
alla dimensione più tenue dell’esperienza amorosa, come nella scelta lessicale
dell’incipit o nell’immagine fugace di una Laura temporaneamente pietosa.
Anche le altre citazioni appaiono scelte secondo un criterio ben preciso. Alla più
autorevole produzione lirica romanza (rappresentata, secondo la probabile percezione
petrarchesca, da uno degli autori più celebri) si associano le due esperienze più
innovative e recenti dell’ancor giovane tradizione italiana. I quattro componimenti
creano inoltre peculiari corrispondenze interne: il trovatore “chiuso” per eccellenza è
richiamato dal suo emulo e rinnovatore fiorentino, mentre dello Stil Novo sono
presentati entrambi i volti, quello dolente e quello lieve. Si determina così anche una
compresenza di stili d’ispirazione diversa, che accentua l’impressione di varietà e
ricchezza. A suggello e culmine di tali molteplici indirizzi si trova appunto 23.
Nella canzone 70 il poeta rivela dunque la propria posizione rispetto alla storia
letteraria. Essa però non si limita ad un singolo testo, ma appare alla base delle scelte
poetiche complessive nella raccolta. Il Canzoniere risulta infatti costruito a partire da
generi, maniere e strumenti diversi, riuniti sotto l’egida di un unico io lirico, di un
linguaggio uniforme e di un’univoca volontà autoriale.
Nella ricerca di onnicomprensività la metrica costituisce un esempio molto chiaro. Non
solo Petrarca recupera le forme ormai classiche della lirica italiana, definite in modo
autorevole da Dante nel De vulgari eloquentia, ma si propone come esempio ed autorità
nella selezione delle soluzioni da accogliere come lecite. Da una parte egli recupera la
sestina, che l’autore della Commedia aveva utilizzato solo a scopo di sperimentazione, e
la codifica come genere vero e proprio; dall’altra anticipa l’affermazione letteraria della
frottola e soprattutto del madrigale, rispetto al quale è significativa la scelta di non
limitarsi ad un unico esemplare8. Al contempo, il poeta aretino si sente libero di tornare
agli esempi arcaici e pre-danteschi dei trovatori per quanto concerne la canzone, o di
sperimentare serie rimiche diverse nel caso del sonetto. Tale sperimentalismo metrico
appare perciò ispirato al doppio principio del superamento di chi lo aveva preceduto e
dell’onnicomprensività.
Sui generi ci siamo già soffermati con dovizia: basterà sottolineare nuovamente la loro
varietà, che si coglie appieno ripensando all’autonomia e molteplicità comunicativa dei
loro modelli nella natia Provenza, le modalità attive del riuso e quindi l’adattamento cui
i canoni di genere sono sottoposti per entrare a far parte della raccolta stessa, la loro
distribuzione in tutto il Canzoniere, in particolare anche dopo la morte di Laura, che
impone una rifunzionalizzazione ancor più evidente.
Anche gli stili che caratterizzano via via la raccolta sono diversificati: nomineremo in
primo luogo gli esiti di stampo stilnovistico, per le ovvie implicazioni sul piano
7
Per tali aspetti si vedano i capitoli secondo e terzo, rispettivamente per la struttura e per le immagini
convenzionali.
8
Allo stesso Petrarca si deve la definitiva selezione delle rime concesse in quanto “esatte”, contribuendo
ad estinguere l’abitudine alla cosiddetta rima siciliana.
376
dell’eredità poetica recente e del suo stravolgimento, e poi ovviamente le manifestazioni
tragiche e luttuose (trobadoriche, cavalcantiane), quelle euforiche (per certi aspetti già
provenzali e di certo non preminenti nel Canzoniere), quelle retoriche e artificiose
(ancora una volta occitaniche, ma anche siculo-toscane).
Non dimentichiamo, inoltre, che ai numerosi modelli volgari si affiancano
costantemente quelli classici e mediolatini.
Il problema del rapporto con la tradizione, che comprende quello della posizione del
Canzoniere in essa, trova un ultimo corollario nelle numerose dichiarazioni
metapoetiche che caratterizzano i fragmenta. Tale pratica è senza dubbio
convenzionale: ne abbiamo già trattato in merito ai trovatori, ma è evidentemente un
fattore già classico e poi diffusissimo, si pensi anche solo alla Vita nova e alla
Commedia. L’aspetto più interessante è forse quello dell’autodefinizione che l’autore
offre ai suoi interlocutori: il poeta si presenta come tale, prendendo su di sé meriti, limiti
(topici) e responsabilità. Ancora una volta, i trovatori avevano offerto un esempio
magistrale in tal senso, raffigurandosi al contempo come nobili, vassalli, amanti,
cavalieri e appunto uomini di lettere. Non sono affatto rari i testi in cui esplicitamente il
trovatore riesca a citare, in modo più o meno coerente con la vicenda sentimentale, il
proprio nome a titolo di firma, data anche la posizione d’abitudine prossima alla
conclusione. Lo avrebbero fatto poi i Siciliani (Giacomo da Lentini e Giacomino
Pugliese, per lo meno) e ancora Dante. Forse il poeta laureato non ne aveva bisogno: la
centralità dell’io, anche in senso autoriale, non lascia alcuna incertezza.
1.2 La totalità amorosa
Il contatto con esperienze letterarie diverse e il recupero di generi molteplici dalla
tradizione occitanica favoriscono nel Canzoniere la costruzione di una vicenda d’amore
non solo complessa, ma anche complessiva. Nella raccolta, infatti, si dipana un racconto
che raccoglie tutte le situazioni più tipiche di una storia d’amore d’ascendenza cortese:
speranze intense e fuggevoli, energici rifiuti da parte dell’amata, attimi di felicità e fasi
di disperazione, separazioni, viaggi, ritorni e nuovi incontri, sino alla morte del
personaggio femminile, che consente, nella reinterpretazione petrarchesca, una diversa
forma di contatto attraverso le visioni. Anche il contributo dantesco, legato alla
produzione stilnovistica e soprattutto alla Vita nova, è significativo: il prosimetro
dantesco fornisce un modello immediato, autorevole e recente ad eventi centrali come
l’improvvisa perdita di ogni disponibilità da parte dell’amata9, la sua stessa morte10,
9
Si è già anticipata nel capitolo secondo la svolta della ballata 11, in cui Laura rifiuta di mostrare il viso
al poeta, dopo essere venuta a conoscenza dei suoi sentimenti. Situazioni simili si trovano nelle canzoni
occitaniche e anticipano la negazione del saluto, con tutte le sue conseguenze, da parte di Beatrice alla
fine dell’episodio delle donne-schermo.
10
Come abbiamo visto parlando del genere del planh anche in ambito provenzale, benché accada di raro,
può essere registrata la morte dell’amata. Ciò che manca è una letteratura dedicata alla dama una volta
che ella sia morta, cioè una lirica di carattere memoriale. Anche per il confronto tra Petrarca e Dante
rispetto al tema luttuoso si rimanda al secondo capitolo.
377
l’apparizione di una nuova donna11 o l’incontro in spiritu, benché avessero già
antecedenti provenzali.
Petrarca dunque recupera tali spunti e li potenzia: l’intera seconda sezione del
Canzoniere testimonia l’efficacia espressiva della tematica luttuosa, sfruttando in modo
del tutto nuovo la svolta funebre sperimentata da Dante. A tutto ciò si affianca la
componente penitenziale, che costituisce una specifica innovazione petrarchesca.
Disseminati nel corso dell’intera vicenda, i momenti di pentimento e ripensamento non
solo rendono più profondo e complesso l’io lirico, ma anche più completa la sua storia.
Nessun aspetto dell’amore sembra insomma trascurato, a partire proprio dalla
bipartizione di fondo tra eros e caritas, nelle loro molteplici sfumature e attraverso
diversi tentativi di mediazione, rispetto ai quali sia gli antecedenti trobadorici, sia e
soprattutto l’esempio stilnovistico appaiono fondamentali12.
Alla varietà tematica corrisponde per certi aspetti quella metrica, non solo perché alcuni
generi sono tradizionalmente legati a specifiche tipologie di contenuto13, ma anche
perché rispetto alla forma preminente del sonetto le altre strutture possono segnalare
momenti peculiari della vicenda. Le cesure penitenziali, ad esempio, sono associate
nelle loro occorrenze più marcate al madrigale (54, la prima interruzione dell’amore),
alla sestina (in ben tre casi su nove, 80, 142 e 214) e soprattutto alla canzone (105, per
altro con l’introduzione della frottola, 264 e 366, ma anche, in modo diverso, 359 e
360). Si è anticipato, d’altronde, come le canzoni, il metro nobile per eccellenza,
possano essere considerate i pilastri del Canzoniere, di cui evidenziano appunto gli
snodi essenziali, anche a livello puramente amoroso, ad esempio, canzone di lontananza
(37), escondich e interruzione dell’amore sereno (206), planh (268).
1.3 La totalità esistenziale
La novità del Canzoniere è stata più volte associata alla trasformazione nel concetto
stesso di poesia lirica e dunque allo scavo introspettivo dedicato ad un io sfaccettato e
molteplice, di cui sono colti numerosi aspetti diversi. Anche in merito alle sfumature
dell’io protagonista si ripropone così l’idea di totalità e complessità. In effetti, egli non
si propone solo in qualità di amante – con tutte le diverse prospettive cui si è fatto
riferimento – o di letterato, ma anche come una figura dotata di coscienza morale e di
consapevolezza politico-sociale, ed infine come personaggio che partecipa di relazioni
molteplici14. Petrarca cioè dà vita ad un io dotato di un’esistenza completa, per quanto
senza dubbio gli aspetti amoroso e penitenziale, e quindi il rapporto con Laura, siano
preminenti. È evidente infatti che l’alternativa fondamentale alle problematiche
sentimentali è costituita dai dubbi morali e dalle tensioni spirituali, che anzi creano
11
Nel caso di Petrarca, come si è visto nel capitolo secondo, si tratta di una parentesi brevissima, ben
diversa dalla questione della donna pietosa nella Vita nova.
12
Per tali aspetti si vedano anche i capitoli secondo e terzo.
13
È ben noto l’esempio della sestina, generalmente associata a contenuti sensuali o comunque ad un
amore di carattere mondano; tanto più significativo, quindi, risulta l’uso palinodico di Petrarca nelle tre
sestine penitenziali. Per il genere e l’interpretazione petrarchesca si veda il capitolo secondo.
14
Per i testi occasionali e di corrispondenza si veda il capitolo secondo.
378
quella dicotomia interiore che giustifica il percorso stesso del Canzoniere, lo differenzia
da qualunque esperienza lirica anteriore15 e lo connette ad altri ambiti della produzione
petrarchesca, in particolare al Secretum e all’epistolario.
Tuttavia, per quanto minoritari a livello quantitativo, anche i componimenti politici,
occasionali e di corrispondenza contribuiscono a definire l’identità dell’io, le sue
convinzioni e le sue priorità, anche in negativo, laddove, come nella canzone 28, sia
ribadita la preminenza dell’amore16. Aspetto questo che si ripropone anche in merito
alle relazioni interpersonali, ad esempio quando il pianto per la morte di un amico
(Sennuccio) o del patrono (il cardinale Colonna) è posto in secondo piano dalla
nostalgia per Laura. È un esito inevitabile, se pensiamo alla costanza della sua presenza,
che nemmeno la morte riesce ad attenuare. Per altro, proprio la durata della relazione
amorosa comporta un’evoluzione nella figura femminile, la cui mutevolezza procede di
pari passo con le alterne vicende dell’amore, motivandole e giustificandole. Le due
tappe fondamentali di tale mutamento si leggono rispettivamente nei fragmenta 268 e
366. Alla morte di Laura, l’atteggiamento nei confronti dell’amante e la valutazione
della vicenda amorosa cambiano radicalmente, segnando una prima svolta essenziale17.
Nella canzone alla Vergine, invece, la storia dell’amore per Laura conosce
un’interruzione piuttosto brusca, nonostante la tematica cristiana dei sonetti 364 e 365,
poiché la centralità dell’amata era evidente ancora in 362. L’ultimo fragmentum
propone invece la sostituzione della donna, rimasta tale nonostante la beatificazione,
con la Madre di Dio, che consente di dare a questa mutatio animi conclusiva un
carattere almeno in parte definitivo.
Laura dunque partecipa dal primo all’ultimo momento al percorso interiore dell’io e ne
costituisce un motore essenziale. Di nessun altro personaggio si può dire lo stesso;
d’altro canto la distribuzione dei testi di corrispondenza in tutto l’arco della raccolta
comunica ugualmente, benché il destinatario continui a mutare18, l’impressione che il
poeta mantenga viva una connessione con la realtà al di là dell’amore. Tale realtà
determina un’influenza ancora maggiore sull’io poetico, sia come contesto in cui egli
opera, sia come interlocutore ultimo del suo discorso lirico. Il Canzoniere, infatti,
presenta l’io poetico nel confronto con il “volgo”, sfuggito e vituperato19, ma poi
sorprendentemente apprezzato come via di fuga dalle proprie ossessioni, dimostrando
così un’ulteriore forma di evoluzione nel corso della raccolta. D’altro canto anche la
natura rappresenta un termine di confronto quasi costante, in tutte le fasi della vicenda,
15
E in fondo posteriore, se pensiamo a quanto superficiale e convenzionale sia destinata a diventare la
tematica penitenziale negli epigoni del petrarchismo, benché già nel loro modello la rappresentazione
fosse filtrata e puramente letteraria.
16
Lo si è visto nel capitolo secondo e ribadito nel terzo, in relazione alle immagini topiche.
17
Per la rivalutazione dell’atteggiamento di Laura in vita e per le assicurazioni sull’onestà dei desideri del
poeta, a posteriori, si veda il secondo capitolo (ma con riprese nel terzo).
18
Va per altro ricordato che alcuni destinatari, come Orso dell’Anguillara o Sennuccio del Bene, tornano
più volte nel Canzoniere, anche in luoghi distanti.
19
Se n’è parlato, a confronto con i trovatori e il problema delle “malelingue”, nel capitolo terzo.
379
testimone anzi di quella storia, confidente dell’amante sofferente, rifugio nella sua
ricerca di solitudine, ultima memoria dell’amata ormai scomparsa20.
A monte, a legittimare l’intera scrittura poetica, è l’incontro con il “voi” dei
lettori/ascoltatori. Benché il testo lirico, per sua stessa natura, non accolga apostrofi o
appelli diretti nella finzione di un messaggio spontaneo, rivolto in fondo a se stessi o
all’oggetto del desiderio21, il Canzoniere si apre con il celebre “voi” del sonetto
proemiale e riconduce a quel dialogo, a quel confronto tutto l’itinerario emotivo
dell’innamorato22.
Tali elementi dialettici, nel rapporto con Laura, ma anche al di là di esso, rafforzano
l’impressione che l’io lirico viva davvero, abbia un’esistenza sfaccettata e articolata, che
si esprime e comunica con i versi. In realtà i fragmenta nascono, proprio all’opposto, da
una costante e curatissima elaborazione letteraria, che pone ogni dettaglio sotto l’egida
della lima poetica. Ancora una volta la cronologia della composizione, le alterazioni e le
finzioni petrarchesche rivelano con assoluta chiarezza la natura letteraria e “costruita”
dell’opera. La quale però è pensata proprio come microcosmo perfetto e
minuziosamente calibrato intorno a quell’io di cui la complessa e complessiva vita
interiore si rivela in tutte le sue sfumature.
2. Il confronto con Dante e con la Vita nova
Il confronto tra il Canzoniere petrarchesco e il suo più prossimo antecedente, la Vita
nova, appare pressoché inevitabile23. Con la parziale eccezione di Guiraut Riquier24 e di
Guittone d’Arezzo, mancano altri esempi di raccolte liriche non solo unitarie ed
organizzate dall’autore, ma soprattutto pensate come una progressione continua e
coerente. Nel caso del trovatore spagnolo, l’impostazione era ancora molto semplice ed
esteriore, sia per la centralità dell’elemento paratestuale, sia per la separazione piuttosto
netta tra fase amorosa e momento cristiano a cavallo della morte dell’amata, che dunque
già acquisiva una peculiare funzione di spartiacque. Ancor più marcata risulta la
bipartizione del canzoniere guittoniano, in cui si susseguono di fatto due io diversi,
ispirati ad obiettivi e concezioni letterarie radicalmente opposti.
Il prosimetro dantesco, invece, propone un percorso narrativo e riflessivo coeso, che si
presenta al contempo amoroso, interiore e poetico. L’io lirico affronta un itinerario
20
Tale funzione della natura è stata analizzata nel secondo capitolo.
Come già si è accennato, anche per i trovatori l’implicita funzione primaria della composizione poetica
è nell’opportunità di sfogarsi (per l’immagine topica si veda il capitolo terzo) e dialogare con l’amata, che
nella finzione letteraria è la destinataria principale della lirica stessa.
22
Sull’alternanza di diversi interlocutori nella raccolta, si veda anche Sapegno 2003.
23
Al confronto tra Dante (lirico) e Petrarca si è fatto più volte riferimento nel corso del secondo capitolo.
Un ampio confronto tra i due autori, con particolare riferimento alla morte dell’amata e al suo esito,
spirituale e poetico, si trova in Malzacher 2013. Si focalizza invece sulla differente concezione dell’amore
il breve contributo in Picone 1998. Alla diversità della rappresentazione autobiografica in questi ed altri
classici italiani è dedicato invece Guglielminetti 1977, in particolare pp. 42-72 per la Vita nova e pp. 101158 per il caso petrarchesco, anche al di là del Canzoniere.
24
Si è fatto più volte riferimento a questo trovatore, nel primo e nel secondo capitolo. Per la peculiarità
della sua raccolta si veda l’analisi nell’ultimo capitolo.
21
380
evolutivo come amante (dall’esteriorità del saluto all’interiorizzazione nel segno della
lode, e ancora dalla memoria di Beatrice defunta alla sua visione in cielo, dopo la fase di
sviamento), come uomo (in tal senso è fondamentale l’associazione tra Beatrice/amore
da una parte e la conoscenza/fede dall’altra), come poeta.
Sono dunque a grandi linee i medesimi ambiti – amoroso, esistenziale, letterario – su
cui si concentra l’autoanalisi petrarchesca; tuttavia, soprattutto per quanto concerne i
primi due aspetti la soluzione dei due poeti è profondamente diversa. Nella Vita nova la
progressione non è solo coesa, ma limpida e lineare, e in tale chiarezza si inserisce
senza incertezze anche la regressione dovuta alla donna pietosa. Non c’è dubbio che l’io
si muova per errori, cambiamenti, prese di coscienza, ma non dimostra reali incertezze e
nella sua unica caduta si coglie la preparazione della svolta finale. Nel medesimo
processo si inserisce anche la morte di Beatrice, che consente uno spostamento delle
aspirazioni e una trasformazione nella concezione dell’amore essenziali rispetto all’esito
finale, benché ovviamente anche Dante viva un periodo di dolore e spaesamento, cui
corrisponde una tipologia poetica precisa, di carattere elegiaco25. È forse anche in virtù
di tali elementi che sorge tanto spontaneo il collegamento tra il libello e le opere
successive, Convivio e Commedia in particolare, benché non si possa attribuire
all’autore una simile preordinazione già al momento di comporre il sonetto Oltre la
spera e l’ultimo capitolo della Vita nova. Nella quale d’altronde già si percepisce quel
senso di ascensione decisa e dritta alla meta che caratterizzerà, per ragioni anche
narrative e strutturali, il viaggio oltremondano26.
Non si cerchi nulla di simile nel Canzoniere, che non a caso si propone come raccolta di
frammenti. L’io poetico petrarchesco continua a deviare dalla strada maestra, a tornare
sui propri passi; le sue dichiarazioni morali sono per lo più venate dalla richiesta di
aiuto, dalla preghiera di ottenere la salvezza o anche solo la forza per risollevarsi, e
persino la celebre canzone della mutatio animi, 264, si propone come un dibattito tra la
coscienza spirituale e i pensieri mondani, che nella chiusa appaiono ancora tutt’altro che
spenti. Non manca qualche pietra miliare in tale lenta ed involuta crescita interiore,
come la prima cesura nel madrigale 54 o la sestina 14227, che doveva non a caso
chiudere la prima sezione nella redazione Correggio; ciononostante non si tratta di
momenti risolutivi, e, come si è visto, persino il finale nel segno della Vergine ha
lasciato dubbiosi lettori e critica, se non altro per l’ambiguità nell’interpretazione
dell’immagine di Medusa e per l’effetto di circolarità determinato dal proemio. Nella
sua fragilità e irresolutezza, l’io del Canzoniere suona molto più umano: l’esempio che
egli può offrire è perciò molto diverso rispetto a quello, altrettanto voluto dall’autore,
25
Su questa componente della Vita nova si veda Carrai 2006.
Tale linearità è evidenziata ad esempio in Singleton 1968, pp. 77-108.
27
Con i suoi toni di speranza e l’efficace anafora conclusiva, la sestina appare per certi aspetti più solida e
decisa anche rispetto alla canzone 264, il cui verso finale (“e veggio ‘l meglio, et al peggior m’appiglio”)
anche per l’uso dell’indicativo presente, lascia intuire il perdurare di un atteggiamento tutt’altro che
penitenziale. Appare per altro molto interessante che la cesura mediana abbia assunto un tono tanto
diverso nella successione delle redazioni, anche se forse la perdurante incertezza di 264 è ancor più
coerente con l’immediato ritorno al discorso amoroso (sonetto 265) e mette in maggiore evidenza la
svolta forte del finale.
26
381
che può derivare dalla Vita nova. Lo stesso vale in effetti per i due personaggi
femminili. Beatrice, figura eterea figlia dello Stil Novo, viene ben presto interiorizzata
nell’ottica dello stile della loda e di un amore autosufficiente; poi riappare beata e forse
assunta in corpore28, certamente figura Christi29 e oggetto di pellegrinaggio, garanzia
con il suo amore di una “intelligenza nuova” e superiore, ormai sul finire del
prosimetro, che si chiude proprio per l’insufficienza della poesia che voglia cantare le
lodi dell’amata divinizzata.
Laura, invece, è in primo luogo una donna, nella sua fisicità e sensualità, che restano
oggetto di desiderio, benché nella forma del rimpianto, anche dopo la morte, pur nella
consapevolezza che quel “bel velo” sia sotto terra e destinato a divenire polvere30. Le
apparizioni spirituali post mortem, che pure in più occasioni acquisiscono una valenza
educativa nei confronti del poeta (si vedano ad esempio i sonetti 280 e 282, o la canzone
259), sono per lo più finalizzate alla sua consolazione, che attenuando il dolore della
perdita non elevano, comunque, l’io poetico dal suo stato terreno. La stessa dipartita di
Laura non assume connotati diversi rispetto ad un naturale evento luttuoso, tipico della
condizione mortale degli umani; nella medesima chiave viene presentata anche la
reazione dell’innamorato, così come voleva la tradizione già trobadorica (planh) o
mediolatina (planctus). Le “catene dorate” che avvincono Francesco alle sue passioni
mondane permangono, quindi, oltre la perdita del loro oggetto fisico; né d’altra parte
Petrarca ha voluto limitare i tentativi morali del suo io lirico a fenomeni puramente
biografici o ad influenze esteriori. Così, la mutatio animi imperfetta della metà avviene
prima della morte di Laura e parimenti quella conclusiva segue alcuni testi che
ribadiscono il legame con la donna, oltre all’aspirazione verso il divino (361 e 362),
benché le canzoni 359 e 360 affermassero rispettivamente l’invito al cielo e una decisa
critica ad Amore.
Rispetto alla Beatrice figura Christi della Vita nova, l’associazione di Laura alla
dimensione religiosa appare molto più vicina a quella mescolanza di sacro e profano che
già caratterizzava numerosi testi trobadorici31. I sonetti 1632 e 362 sono due testi
emblematici in tal senso, anche per la loro collocazione agli antipodi della raccolta. Da
una parte un poeta ancora giovane, nel pieno della fase erotica della sua passione
amorosa, cerca ovunque le tracce dell’amata, così come i pellegrini sulla strada per
Roma sperano di vedere Cristo riflesso nella Vera Icona33; dall’altra l’io poetico,
28
Si è già fatto riferimento alla suggestiva ipotesi di Gorni, per cui si veda l’Introduzione in Rossi 1999.
Singleton 1968, pp 154 segg, ha evidenziato come tale associazione non possa essere considerata
un’allegoria né una metafora, per il carattere miracoloso insito in Beatrice stessa. Tale aspetto è
determinante nel superare la contraddizione tra la visione cortese e quella religiosa, che non può accettare
il dominio univoco e totalizzante dell’amata sull’io poetico. In Dante si determina invece una sintesi:
l’amata è sì tramite verso la dimensione divina, ma non scompare per lasciarle spazio, i due ambiti non si
escludono a vicenda.
30
Sulla complessità della prospettiva petrarchesca rispetto all’amata dopo la morte ci siamo già
soffermati nel secondo capitolo.
31
Se n’è trattato, in termini diversi, nel corso del secondo e soprattutto del terzo capitolo.
32
Sull’interpretazione tradizionale di Movesi il vecchierel e su diverse proposte di lettura ha approfondito
Fenzi 1996, con particolare riferimento all’ipotesi di Barberi Squarotti ivi citata.
33
Tale episodio appare d’altro canto un perfetto parallelo con quello dei pellegrini sul finire del libello
dantesco, che però assume un’intonazione profondamente diversa rispetto al luogo petrarchesco, in
29
382
prossimo alla preghiera e alla penitenza conclusiva, chiede a Dio di restare in Paradiso,
prolungando la sua temporanea visione del Signore e al tempo stesso dell’amata34. La
contrapposizione tra le due forme d’amore, che sono poste a confronto in termini
paradossali proprio all’inizio della vicenda sentimentale nel sonetto 3, non può essere
del tutto risolta: pur nella sovrapposizione, i due aspetti si avvertono sempre in modo
distinto, anche quando Laura, beata, siede nell’Empireo con Dio. Paiono significative in
tal senso le tappe intermedie che hanno portato il poeta ad una maggiore
spiritualizzazione del suo rapporto con l’amata, che, vale la pena ripeterlo, resta donna
fino alla fine, legata ad un ricordo terreno che non sbiadisce. Anche quando nella
seconda sezione il poeta accetta il rifiuto di Laura come salvifico o insiste
sull’evoluzione dei propri desideri, che nel corso del tempo avevano perso ogni tratto
sospetto, tale coscienza appare il frutto di una lenta maturazione e della vecchiaia del
poeta, e restano con ciò in un’ottica fortemente umana. Tali momenti di rinnovamento,
in effetti, non riescono a segnare una vera svolta, ma piuttosto un cambiamento nel
segno della continuità col passato. L’io rimane lo stesso io.
Come non è possibile attribuire all’io petrarchesco una netta e lineare evoluzione verso
la dimensione spirituale, sarebbe erroneo anche affermare che egli rimanga
esclusivamente legato al piano temporale35. La sua interiorità articolata e complessa e le
numerose sfumature analizzate dall’introspezione del Canzoniere costituiscono proprio
la novità della lirica petrarchesca rispetto alle esperienze poetiche precedenti, compresa
quella dantesca.
La concezione della propria opera e il rapporto con la tradizione anteriore segna
un’ulteriore differenza tra Canzoniere e Vita nova. Sia Petrarca sia Dante propongono la
raccolta come summa della loro poesia, e dunque momento di autoriflessione e
confronto con i modelli del passato. Sulla ricerca di ricchezza e totalità nel caso dei
fragmenta si è già detto, mentre è celebre la tendenza di Dante alla meditazione su di sé
e i propri strumenti espressivi, nonché a sussumere le esperienze pregresse nelle nuove
fasi compositive, non solo nel prosimetro giovanile, ma anche nel Convivio, nella
Commedia e, in modo diverso, nel De vulgari eloquentia.
Nella Vita nova il percorso letterario appare lineare, come graduale crescita e
trasformazione, in coerenza con l’evoluzione dell’io poetico36. La raccolta si apre con
una composita fase giovanile, in cui si susseguono (e non mescolano37) la componente
guittoniana degli inizi, dedita alla ricchezza retorica, l’influenza del “padre” Guinizzelli
e soprattutto del primo amico Cavalcanti. Torna anche l’esempio trobadorico, a livello
relazione al contesto in cui è collocato, alla generale rappresentazione di Beatrice e all’atteggiamento del
suo amante.
34
Mentre il viaggio spirituale richiama la conclusione della Vita nova, per quanto Dante parli di sospiro,
la visione divina, con quella non troppo implicita promessa di salvezza (362, vv 12-14) ricorda il finale
della Commedia, invertendo l’ordine rispetto alla preghiera alla Vergine, che pure non può sfuggire al
confronto con quella del canto XXXIII.
35
Si è già parlato nel capitolo secondo della posizione di Malzacher 2013 in merito al confronto tra
Petrarca e Dante, soprattutto rispetto alla morte di Laura e Beatrice.
36
Tali aspetti sono trattati con grande chiarezza e sintetica efficacia nell’Introduzione e nelle note in
Rossi 1999.
37
Come invece avviene nel Canzoniere.
383
di immagini e situazioni cortesi, con particolare riferimento al motivo delle donneschermo e al riuso del genere della pastorella, che pure passava per il recupero
cavalcantiano. La vera svolta a livello espressivo si colloca prima della morte di
Beatrice, a differenza di quella morale, in perfetta corrispondenza con il cambiamento
della concezione amorosa. Si tratta del ben noto passaggio allo stile della loda,
all’amore in sé e per sé38, inaugurati dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore.
Non è certo un caso che nella Commedia Dante citi proprio questa canzone quale
emblema del proprio contributo all’evoluzione della lirica, proprio come Petrarca
richiama la canzone 23 in Lasso me, a segnare il proprio successo nel rinnovamento
della tradizione lirica.
Con la sua lode disinteressata e il suo amore che non dipende più da alcun fattore
esterno, né la visione né il saluto né alcuna forma di soddisfazione materiale, Dante crea
una netta cesura rispetto all’ideologia cortese. La fase luttuosa della poesia elegiaca39 e
la parentesi regressiva che in onore della donna pietosa riporta modalità comunicative
affini a quelle dell’avvio non costituiscono una vera inversione di tendenza, ma solo una
temporanea sperimentazione divergente, in accordo con la momentanea deviazione
psicologica e morale. Infine, Dante ritrova la sua Beatrice/beatrice e con essa le nuove
prospettive della propria poesia, cui anzi si chiede un’ulteriore evoluzione, per ora non
ben definita.
Ancora una volta, manca nel Canzoniere un percorso univoco e coeso simile a quello
dantesco. C’è spazio, è vero, per la crescita dell’io: ad esempio la presa di coscienza
sulle ragioni di Laura nel suo essere scostante o l’attenuarsi dell’aspetto sensuale non
potrebbero aver luogo all’inizio della raccolta e in generale prima della morte
dell’amata. Tuttavia una successione di fasi poetiche precisamente distinguibili è solo
accennata, e solo nella prima parte della redazione Correggio, pensata come nucleo
molto più unitario, nonché breve, rispetto a quella definitiva. Vi si distinguono in effetti
il ben noto recupero della poetica stilnovistica (70-73) e, prima, una zona strettamente
legata all’influenza trobadorica (22-30). Petrarca sostituisce così all’amore più
marcatamente erotico di stampo cortese un amore sempre terreno, ma salvifico ed
accettabile sul piano morale, di carattere stilnovistico. Eppure, lo si è visto, la situazione
non è affatto così lineare, nemmeno nella prima versione del Canzoniere. In primo
luogo l’esempio stilnovista si inserisce nella raccolta petrarchesca solo in modo
parziale, incompiuto e problematico, come risulta evidente dalla molteplicità tematica
ed emotiva di 71 e 73, in contrasto con la maggiore e serena univocità di 72.
Secondariamente materiali di entrambe le tipologie (stilnovistica e trobadorica) si
riscontrano prima e dopo tali apparenti spartiacque, basti pensare alla rappresentazione
positiva dell’amore per Laura nella parte finale di 29, non a caso canzone esplicitamente
38
Sulla novità dello stile e sugli elementi psicologici e spirituali che ad essa si accompagnano si sofferma
Singleton 1968, nel capitolo terzo.
39
Come ha sottolineato Singleton 1968, pp. 77-108, la poesia in morte ha comunque il valore di
cancellare la presenza fisica (e cortese) del dio Amore, che invece si mantiene nel Canzoniere dopo la
morte di Laura, evidenziando la mancanza di linearità nel percorso dell’io, su cui si tornerà a breve. Di
nuovo dunque, dopo la svolta “della loda”, si assiste ad un superamento rispetto al quale non potrà più
esserci alcun passo indietro.
384
trobadorica per tematiche e struttura. L’abbandono della chiusa unità della redazione
Correggio non farà che accentuare tali caratteristiche, con l’inserimento di nuove
sestine, solo in parte palinodiche, di nuovi momenti di cedimento e desiderio, di nuovi
esempi di generi arcaici, ben al di là della zona incipitaria. In fondo, le affermazioni
morali e penitenziali che insistono sulla necessità di rivolgersi a Dio revocano in dubbio
la funzione di amore quale tramite, così come Dante l’aveva proposta nel suo
prosimetro.
Anche la definizione di quali aspetti dello stilnovismo siano riproposti nel Canzoniere
appare a sua volta problematica. Non c’è dubbio che vi lascino traccia i motivi più
esteriori e convenzionali: l’insistenza sullo sguardo, sulla luminosità dell’amata, ma è
significativo che il saluto abbia un effetto sì dolce, ma non salvifico. Anche per la
rappresentazione dei vantaggi che derivano dall’amore, Petrarca assume una posizione
intermedia tra quella tipica dello Stil Novo e quella cortese dei trovatori, secondo una
prospettiva personale legata anche al problema morale40. Laura, lo si è detto, è ben più
donna che angelo, per quanto certamente sia una creatura straordinaria e senza pari:
anche tali elementi però appaiono una rielaborazione e un’evoluzione personale di una
tradizione convenzionale che ha le radici al di là delle esperienze italiane, in ambito
occitanico. Appare particolarmente interessante la questione della loda, da intendere in
quanto concezione e stile tipicamente danteschi, poiché l’elogio nelle sue forme più
ovvie e letterali costituisce un topos essenziale della lirica amorosa già trobadorica, che
si riconferma fondamentale anche nel Canzoniere, rispetto sia alle qualità fisiche sia a
quelle interiori dell’amata. Per quanto Petrarca rinunci agli scopi sociali, feudali,
sensuali e in generale esteriori che avevano contraddistinto, secondo molteplici
variazioni, la condizione dell’amante cortese, con difficoltà potremmo definire il suo
amore interiorizzato ed autosufficiente. La disperazione e lo sconforto che segnano
l’intera raccolta hanno ben poco a che fare con la serenità risolta di Tanto gentile e tanto
onesta pare. Ancora una volta, Petrarca torna alla dimensione cortese, recupera ciò che
sente affine della produzione italiana, anche prestilnovista, e crea un linguaggio che lo
contraddistingue in modo univoco e nuovo. Tale innovazione della lirica, dei suoi
obiettivi e delle sue forme, nell’espressione e nei contenuti, passa attraverso una
regressione, cioè attraverso il recupero di ciò che poteva apparire arcaico e superato a
confronto con la sperimentazione dantesca. Gli strumenti del passato, attraverso la
trasfigurazione petrarchesca, appaiono invece forieri di una nuova vita, di rinnovate
possibilità: Petrarca sembra fare un passo indietro, ma così trova un’occasione di
superamento rispetto a chi lo aveva preceduto. Sul piano della Commedia il confronto
con Dante poneva forse difficoltà scoraggianti, non così su quello della lirica.
In modo diverso, dunque, sia Dante sia Petrarca hanno avvertito la necessità di
confrontarsi con il passato, con la storia della letteratura. Nella Vita nova la posizione
che l’autore assegna a se stesso resta per lo più implicita, nei riferimenti non di rado
polemici a Cavalcanti (il modello più prossimo) e nella graduale
40
Di tali aspetti si è trattato nel corso del capitolo terzo, in riferimento alle specifiche immagini. Non si
dimentichi inoltre il fondamentale parallelo con il Secretum.
385
progressione/evoluzione che il libello stesso riproduce. Il rinnovamento insito nello Stil
Novo sarà dichiarato solo più avanti, nel Purgatorio, dove Bonagiunta da Lucca, non
cita la maniera del padre o quella del primo amico, ma proprio Donne ch’avete e
implicitamente lo stile della loda. Petrarca non aspetta tanto: già nella canzone 70,
prima di introdurre quella parziale svolta che lo avrebbe posto a diretto confronto con il
movimento poetico cui Dante aveva preso parte, in posizione rilevata nella raccolta cita
se stesso quale erede e insieme nuovo orizzonte della tradizione lirica. E che il testo
citato fosse precoce in quella stessa raccolta e posto in apertura della zona trobadorica
non sembra un dato trascurabile. Da subito il Canzoniere si propone completo e maturo.
La ricerca della totalità poetica che lo contraddistingue, e che manca nell’ordinata e
lineare Vita nova, appare a maggior ragione coerente.
3. Una serie trobadorica nel Canzoniere
La serie dei fragmenta 22-30 identifica un momento trobadorico molto evidente nella
raccolta. Petrarca pone a cornice due coppie di testi lunghi, disposti a chiasmo, 22-23
(sestina-canzone) e 29-30 (canzone-sestina), tutti caratterizzati da interessanti
peculiarità formali ed emblematici sul piano del contenuto rispetto alla condizione
dell’io poetico. In tutti e quattro i testi, egli appare soggiogato da un amore terreno e
passionale, privo di controllo su di sé e vessato da costanti tormenti da cui non può
liberarsi. Le due sestine mettono soprattutto in evidenza l’innaturalità del suo stato, in
contrasto con la natura e con gli altri esseri viventi, sfruttando la convenzionale
associazione della forma metrica, delle tematiche sensuali e disforiche, degli adynata.
La canzone 23 propone attraverso la serie delle trasformazioni il dolente avvio della
vicenda amorosa, chiarendone implicitamente il significato, mentre la canzone 29
ribadisce la sofferenza del poeta, che lo porta quasi alla piena irrazionalità. D’altro
canto la seconda metà del componimento propone una rivalutazione dello stato
amoroso41, in quell’ottica di guadagno e miglioramento che, lo si è visto, nel
Canzoniere suona spesso a cavallo tra l’esempio trobadorico e quello
dantesco/stilnovistico42.
Dal punto di vista delle tematiche e delle immagini, soprattutto quelle convenzionali, il
legame con la tradizione occitanica è evidente; a ciò si aggiunge una connessione
altrettanto chiara sul piano strutturale. 22 e 30 sono le prime due sestine della raccolta e
pongono le basi per la codificazione del genere; la struttura di 29 è dichiaratamente
arcaica, legata per di più all’esempio clus e car di Arnaut Daniel43; 23, che appare
invece modernissima nella sua impostazione discorsiva, mutua comunque la forma delle
canzoni a quadri e gioca con la consuetudine delle similitudini animali, oltre che con gli
effetti sovrannaturali e fantastici. Il legame che definisce ciascuna coppia di testi, la
corrispondenza fra di essi e la generale ispirazione trobadorica appaiono ancora più
significativi osservando un ulteriore dettaglio. La sestina, infatti, nasce come genere
41
Per tale peculiare struttura discorsiva si veda il secondo capitolo.
Si veda in particolare il capitolo terzo.
43
Per l’analisi metrica della canzone si veda il capitolo primo.
42
386
chiuso, ricco e complesso a livello retorico, denso sul piano del significato. 22 e 30 non
fanno davvero eccezione a tale tendenza, ma a confronto con 23 e 29 appaiono
componimenti ben più lineari ed accessibili. Parte del loro carattere disteso dipende
dall’abbondanza di immagini naturalistiche che, nel caso di 22, paiono anticipare
l’ariosità della canzone 50, dove torna anche l’andamento oppositivo tipico della prima
sestina. Al contrario, le due canzoni risultano ostiche e complesse, 23 soprattutto nella
progressione del discorso, 29 come trionfo di involuzione sintattica e densità
nell’imagery, vera erede delle sperimentazioni espressive del Daniel.
Proprio la difficoltà di 23 potrebbe giustificare la scelta di inaugurare il gruppo dei testi
nobili e lunghi non con una canzone, genere solenne per eccellenza, ma con una sestina,
che presentando la condizione dell’amante funge quasi da introduzione alla lunga,
intensa progressione discorsiva delle trasformazioni. D’altro canto, le sestine erano
considerate canzoni, benché ne costituissero un sottogenere peculiare; infine, potrebbe
aver contato anche la volontà di impostare l’andamento chiastico e la necessità, su cui
torneremo, di porre la sestina 30 proprio in quella posizione.
La collocazione dei quattro componimenti li mette in evidenza rispetto al corpus dei
versi lunghi non solo perché essi lo avviano, ma anche per la peculiare successione che
creano. Infatti, se si considerano le sestine insieme alle canzoni, i due gruppi 22-23 e
28-30 anticipano in perfetta linearità le due celebri serie 70-73 e 125-129, che sono
dunque meno isolate di quanto non sembri. Ciascun nucleo identifica un momento
tematico significativo, a cavallo della metà della prima sezione: 22-23 l’inizio
dell’innamoramento, 28-30 il permanere dei suoi effetti alienanti (e il sottrarsi del poeta
ai suoi doveri civili nella canzone di crociata ne è una componente significativa), 70-73
la natura (parzialmente) positiva dell’amore, 125-129 l’onnipresenza dell’amore,
attraverso la distorta immaginazione del poeta. L’aspetto metapoetico, trobadorico nei
primi due casi, stilnovista nel terzo, accomuna in particolare 22-23/28-30 a 70-73.
L’elemento trobadorico contraddistingue infatti anche la canzone 28, benché solo in
merito al contenuto, e quindi per estensione anche 27, che in sostanza è un’introduzione
contestualizzante alla riflessione del testo lungo. Si tratta, lo si è visto44, di due
componimenti di crociata: nella canzone sia l’invito sia il problema amoroso affrontato
nel finale si ricollegano direttamente a precisi esempi occitanici. I restanti tre
componimenti, i sonetti 24-26, che spezzano in due metà il momento trobadorico,
presentano una connotazione particolare, in quanto dedicati principalmente all’aspetto
metapoetico; 25 e 26 sono inoltre pensati in chiave corresponsiva. Appaiono perciò una
sorta di inciso, di parentesi, che da una parte media il passaggio dall’ambito amoroso
(23) a quello politico (27-28)45, dall’altra non crea contraddizioni nella zona
trobadorica, in quanto sia la componente occasionale sia quella metaletteraria le sono
affini. Per altro, già 23 presentava alcuni spunti sull’attività canora del poeta, anche
attraverso la trasfigurazione in cigno46. Infine, a completare la decade si può aggiungere
44
Si veda il capitolo secondo e la questione del genere.
Il ritorno all’aspetto amoroso si deve alla peculiare conformazione del congedo di 28, sulla cui
importanza ci siamo già soffermati.
46
Per tali aspetti si veda anche la lectura in Santagata 1981, pp. 66-67.
45
387
il sonetto 21, che introduce senza scarti rilevanti la tematica amorosa infelice e il motivo
topico della durezza di madonna, poi approfonditi in 22 e 23. La ricchezza della serie
nel suo complesso è a sua volta molto significativa e interessante in quanto riproduce in
scala ridotta quelle caratteristiche di varietà poetica che identificano il Canzoniere nel
suo complesso e soprattutto il riuso delle forme trobadoriche. Tale rapporto con i
modelli provenzali, pur anticipato dalla presenza di topoi e situazioni convenzionali nei
primi venti componimenti della raccolta, si esplicita con grande evidenza proprio a
partire da 22 e culmina nella sestina 30.
La struttura e soprattutto la collocazione della serie acquisisce significato ancora
maggiore se la si osserva a partire dalla sua conclusione. La sestina 30, infatti, è il primo
componimento di anniversario, il settimo: “che s’al contar non erro, oggi à sett’anni /
che sospirando vo di riva in riva / la notte e ‘l giorno, al caldo ed a la neve” (vv 28-30).
La scelta di partire proprio da questo numero non è affatto casuale: i sette anni del
servizio appartengono in primo luogo alla tradizione biblica e alla vicenda di
Giacobbe47, secondariamente alla tradizione trobadorica. Tale riferimento non concerne
solo la sistemazione ideologica dell’idea di servizio all’interno dell’ottica cortese, con
tutte le conseguenze relative alla perdita di sé e alla sottomissione all’amata o ad
Amore, ma anche il topos relativo alla precisazione della durata della schiavitù
amorosa48. Tre trovatori indicano proprio i sette anni come esempio di servizio
particolarmente prolungato e sofferto: il monaco di Montaudon (Cel qui qier cosseil e l
cre, vv 19-20), Gaucelm Faidit49 (Mout a poignat Amor en mi delir, v 3) e Cadenet (Ab
leial cor et ab humil talan, vv 13-14). La coerenza con il motivo dell’ossessione
amorosa disforica rende particolarmente adeguata l’associazione tra prima ricorrenza e
genere metrico.
Il settimo anniversario dell’amore per Laura, iniziato con l’incontro del 6 aprile 1327,
cade precisamente nel 1334, l’anno in cui Petrarca, nato nel 1304, compiva trent’anni50.
Ecco perché la collocazione di quell’annotazione non solo in una sestina, ma proprio in
quella posizione appariva obbligata. A sua volta, anche la posizione di 23 appare
calcolata con precisione, poiché la canzone descrive l’avvio dell’esperienza amorosa
(1327), i cui avvenimenti corrispondono ai ventitré anni dell’autore. Un’ulteriore
corrispondenza numerica concerne il genere sestina (22, che apre la serie, e 30, che la
47
Su tale fonte biblica ci siamo già soffermati nel capitolo secondo, in riferimento all’interpretazione
dell’escondich, e nel terzo, in merito al topos del servizio amoroso, che viene riproposto proprio anche in
206. Per il duplice servizio e la questione di Lia e Rachele si veda Berra 2013; per il valore simbolico del
numero sette, Dotti 1987, p. 629. Si leggano anche Durling 1971, p. 17 e Calcaterra 1942, pp. 231-234.
Anticipiamo però come il numero 7 rappresenti la totalità, in quanto somma dei numeri 3 (la trinità, le
virtù teologali) e 4 (le virtù cardinali, ma anche gli elementi e quindi il mondo). È interessante notare
come il quattordicesimo anniversario dell’amore per Laura riprenda il medesimo numero: “La voglia et la
ragion combattuto ànno / sette et sette anni; et vincerà il migliore, / s’anime son qua giù del ben presaghe”
(son. 101, vv 12-14).
48
Si veda il capitolo terzo.
49
Tale riferimento è precisato anche nel commento in Bettarini 2005.
50
Tale corrispondenza è già stata anticipata nel secondo capitolo, trattando della peculiare collocazione
della canzone 28 e del suo significativo congedo. Per l’associazione sestina-età del poeta si vedano la
breve annotazione in Santagata 1996, pp. 167-174, Roche 1974, in particolare p. 157, Sturm-Maddox
1985, in cui è citato lo studio di Durling, ripreso in Baldassari 2006.
388
chiude e presenta il riferimento cronologico): esso infatti è tutto giocato intorno al
numero sei, che corrisponde alla data dell’innamoramento (e della morte). Un ulteriore
indizio numerologico rispetto al valore di svolta che potrebbe essere associato alla
decade trobadorica si coglie in relazione al sonetto 21. Le età dell’uomo, infatti, sono
tradizionalmente organizzate in settennati, numero che tra l’altro coincide con quello del
primo anniversario celebrato da Petrarca; dai sette ai vent’anni si era considerati ancora
adolescenti, dunque in una condizione di immaturità. L’innamoramento si colloca
invece in una fase sì giovanile, ma ormai più prossima alla maturità, e dunque le
conseguenze che da esso derivano – come non pensare al congedo di 28 o alla “delira
impresa” di 29 – ricadono nella piena responsabilità dell’amante. La zona trobadorica
perciò risulta centrale non solo in senso poetico, storico-letterario e culturale, ma anche
in chiave esistenziale. Ciò incrementa l’impressione di coerenza con la successiva
“svolta” stilnovistica, che a sua volta non ha solo una valenza metapoetica, ma concerne
anche la prospettiva amorosa. In entrambi i casi, lo si è anticipato, la forte
caratterizzazione poetica dei testi non costituisce né un cambiamento improvviso a
livello di contenuti né una cesura netta, visto che le tematiche in questione e le
immagini convenzionali si riscontrano già in precedenza nonché successivamente.
Se ampliamo l’osservazione alle zone anteriori del Canzoniere, noteremo un’ulteriore
parcellizzazione della raccolta in due momenti riconoscibili. Innanzitutto i primi dieci
fragmenta costituiscono l’initium narrationis, poiché comprendono il proemio e
presentano i termini generali della vicenda, i suoi protagonisti, per concludere con
quattro testi di corrispondenza i cui destinatari assumono l’aspetto di interlocutori
privilegiati per la raccolta stessa51. I successivi dieci componimenti ampliano le
coordinate complessive dello stato interiore dell’io, che saranno riassunte e precisate
nella zona trobadorica con il bilancio narrativo di 23 e l’insistenza sulle sofferenze in
22, 29 e 30, fino dunque al primo anniversario. Cominciano tra l’altro ad assommarsi i
primi metri difformi rispetto alla preminenza del sonetto, già prima della sestina grazie
alle due ballate 11 (che per altro già propone un momento di passaggio nella condizione
amorosa) e 14. Altri testi d’impostazione occitanica (la sestina disforica 66, la canzone
di lontananza 37, il plazer e le benedizioni di 61) prolungano le premesse dell’intensa
serie 22-30. Già prima del tentativo stilnovista l’io poetico avverte la necessità di un
cambiamento spirituale (si leggano ad esempio 54, 60, 62), per cui le affermazioni di 72
non paiono sufficienti. La vera svolta – per fermarci alla redazione Correggio e alla fase
più coesa del Canzoniere – si avrà con la sestina 142, preannunciata dalla palinodia
della sestina 80.
La coerenza dei momenti trobadorico e stilnovista suggerisce un’elaborazione parallela.
La creazione della prima raccolta matura e del suo proemio viene ormai collocata in
modo pacifico ai primi anni ‘50, contestualmente alla creazione delle Familiari come
corpus unitario ed ordinato e alla stesura o forse alla rielaborazione del Secretum. Ai
medesimi anni viene grossomodo ricondotta la composizione o revisione di 70 e delle
tre “canzoni sorelle”, vale a dire la sistemazione dell’elemento stilnovista. Allo stesso
51
Per tali aspetti strutturali si veda Santagata 1996, pp. 13 segg e rimandi.
389
periodo e allo stesso spirito potrebbe risalire anche l’identificazione di una zona
trobadorica. Essa non esaurisce la presenza occitanica nella raccolta, ma con la sua unità
determina un’impressione di maggiore coesione rispetto ai riferimenti occitanici nel
complesso e veicola su di essi un preciso significato, ancor più evidente a confronto con
il messaggio delle “canzoni degli occhi”.
390
PARTE SECONDA
Vita culturale e letture trobadoriche nel Trecento
A fronte della notevole e significativa presenza trobadorica nel Canzoniere, è legittimo
domandarsi quale tipo di materiali Petrarca avesse a disposizione, dove e in quale fase
della sua vita possa averli letti, quali stimoli abbia ricevuto dalla vita culturale del suo
tempo1.
I momenti più favorevoli al suo incontro con la produzione provenzale appaiono in
sostanza due. In primo luogo, il poeta stesso suggerisce l’importanza del soggiorno
padovano negli anni della maturità, quando annota la lettura della canzone danielina
Amors e jois quale spunto per il sonetto Aspro core: siamo nel 1350, a Padova2. È un
fattore determinante per l’ipotesi di Santagata3, avvalorata in effetti dalla centralità
dell’area veneta nella creazione e nella conservazione dei testimoni manoscritti
occitanici.
D’altro canto, la suggestione della giovinezza trascorsa in Provenza è troppo forte per
essere ignorata. Petrarca visse a lungo e a più riprese nel Midi: ser Petracco trasferì la
famiglia a Carpentras nel 1312 ed, escludendo gli anni dello studio universitario e i
viaggi in Italia, Petrarca rimase legato a questi luoghi – Avignone e Valchiusa – sino al
definitivo spostamento nella penisola avvenuto nel 1353. Si trattò inoltre di un momento
essenziale nella formazione della personalità petrarchesca. Sono infatti gli anni dello
studio, delle letture, in cui si manifestano e consolidano le passioni intellettuali. A
Carpentras Convenevole da Prato impartì al giovane Francesco l’educazione
elementare; ad Avignone il futuro poeta acquisì familiarità con l’ambiente pontificio e
cardinalizio, sino a diventare cliente dei Colonna; nella città della curia visse anche i
giorni spensierati dopo la morte del padre, dedicati ai piaceri mondani, di cui anche la
letteratura poté facilmente essere parte. Avignone fu il luogo dell’incontro con Laura,
Valchiusa quello della fantasia amorosa e dell’otium favorevole agli studi. Infine qui si
situa anche la Babilonia terrena che, dopo aver mostrato cosa fosse davvero la vita
politica con la sua corruzione, suscitò lo sdegno e la condanna morale del poeta.
Sarebbe dunque difficile, e poco economico, non tenere in conto il contesto provenzale
quando si rifletta sulla cultura trobadorica di Petrarca. L’assenza di documenti o
indicazioni oggettive impedisce una certezza definitiva; tuttavia l’osservazione di
diversi elementi contestuali alla presenza di Petrarca in area occitanica, che si intende
presentare e approfondire nei prossimi capitoli, consente di formulare un’ipotesi
stimolante. Il giovane Petrarca potrebbe aver beneficiato di un primo contatto con il
1
Più in generale le letture volgari di Petrarca costiuiscono ancora per certi aspetti un campo di indagine
promettente e tutt’altro che esaurito, come hanno sostenuto autorevolmente Billanovich 1961, pp. 336
segg e Frasso 1974, benché senza dubbio gli studi sul lessico comico, stilnovistico e prestilnovistico nel
Canzoniere abbiano fornito un importante contributo in tal senso (per le numerose indicazioni
bibliografiche si veda il secondo capitolo).
2
Tali aspetti sono stati anticipati nel corso del primo capitolo; per la postilla si rimanda comunque a
Santagata 1996, p. 1069.
3
Si veda Santagata 1990, con particolare riferimento al paragrafo 8 del capitolo quarto (pp. 190 segg.),
dove la riflessione è dedicata specificatamente alla cronologia delle letture danieline in netto contrasto
con Perugi 1985. Tali aspetti sono stati trattati con ampiezza nel corso del primo capitolo.
391
corpus trobadorico negli anni della formazione e nei luoghi da cui quella tradizione era
derivata, dove, come vedremo, si erano conservati con abbondanza le testimonianze,
nonché un interesse attivo verso quell’eredità lirica, benché in forme molto mutate
rispetto a quelle originarie. La scoperta dei celebri, ma a lungo dimenticati antecedenti
potrebbe essere stata contestuale all’approfondimento sulla lirica italiana (oltre che sui
classici), contribuendo perciò a consolidare non solo le curiosità, ma anche i progetti
intellettuali del poeta in fieri. Ciò non implica che tali precoci letture abbiano esaurito il
confronto con le opere dei trovatori: gli anni padovani devono aver offerto ad un
Petrarca ormai maturo e dunque ricettivo un rinnovato e magari ampliato incontro con i
Provenzali. I luogo era ideale, ma lo era soprattutto la fase intellettuale che il poeta
stava vivendo, per creatività e volontà progettuale. Sono gli anni delle raccolte,
Familiares e Canzoniere, della sistemazione, della ricerca di unità. In questo periodo
vedono la luce o sono messi a punto i testi che marcano gli snodi della raccolta nella sua
prima redazione vera e propria, e la più coesa. Nel medesimo arco di tempo Petrarca
recupera l’orizzonte stilnovistico e il difficile esempio dantesco, creando il nucleo forte
delle “canzoni sorelle”, che danno appunto una collocazione specifica a
quell’antecedente tanto prestigioso e problematico. Le stesse esigenze compositive
potrebbero aver spinto, al contempo, al recupero dei trovatori e alla piena sistemazione
del loro esempio all’interno della raccolta lirica.
Non è necessario dunque immaginare che Petrarca abbia appreso la lezione occitanica in
un’unica fase; le letture giovanili sembrano proficue rispetto alle prime composizioni e
all’interiorizzazione o personalizzazione dei modelli, come avviene nella codificazione
del genere sestina, cui andrà attribuita una datazione “alta”. Una seconda occasione di
riflessione sulla medesima tradizione (non necessariamente gli stessi testi) appare
finalizzata ad un riuso coerente dei modelli stessi, capace di veicolare un preciso
significato.
Gli aspetti storici e contestuali utili ad illuminare, almeno in linea generale, il quadro
culturale in cui si è formato il giovane poeta sono molteplici. Innanzitutto è opportuno
considerare la vivace realtà avignonese, che offriva scambi e confronti stimolanti:
nell’ambiente curiale e cardinalizio da un lato, nelle biblioteche e nelle scuole dall’altro.
Tali strumenti educativi non contraddistinguono in particolare il caso petrarchesco né la
regione provenzale, ma anzi nel Basso Medioevo accomunavano tutti gli studenti che
non si fermassero ad una preparazione di base. Non per questo, però, esse sono meno
rilevanti sul piano intellettuale e formativo.
Vi è poi la complessa questione dell’eredità trobadorica. Posto che non restano
documenti espliciti o possessi librari che risalgano all’Aretino4, è necessario affidarsi
alla ricostruzione della tradizione manoscritta, per comprendere quali materiali e testi
antichi fossero noti ed accessibili alla sua epoca. Inoltre nella prima metà del secolo, la
poesia cortese non è ancora concepita soltanto in chiave antiquaria, ma viene ancora
4
Nel loro studio su Razo e dreyt Asperti-Pulsoni 1989 sottolineano come in generale la perdita
gravissima di testimoni e codici utili, perfino di interi rami della tradizione manoscritta legata ai trovatori,
renda difficilissimo se non impossibile risalire alle specifiche letture degli intellettuali italiani.
392
esercitata. Anche tale prospettiva deve essere vagliata, poiché le manifestazioni del
trobadorismo tardo sono parte integrante del contesto culturale occitanico trecentesco. È
vero che gli ultimi trovatori non sono all’altezza dei classici e che la distanza tra le
generazioni doveva essere particolarmente chiara alla sensibilità culturale di Petrarca.
Tale produzione, però, era più accessibile ed in modo più immediato: potrebbe dunque
aver offerto una mediazione rispetto allo studio delle opere dell’età “dell’oro”5.
Infine, è possibile investigare alcune esperienze personali ed i rapporti d’amicizia del
poeta, che gli consentirono ulteriori contatti culturali; Petrarca fu ben presto considerato
un modello e celebrato per la sua superiorità, ma questo non ha determinato il suo
isolamento o una totale autonomia.
Bisogna d’altro canto premettere i limiti che gravano su una simile ricostruzione. I
documenti sopravvissuti ed analizzati dai critici dimostrano ancora una volta la
preminenza del latino nella cultura ufficiale: non risulta che la lingua provenzale fosse
insegnata6, ma la lettura delle opere trobadoriche e l’apprendimento delle relative
tecniche compositive erano legati a realtà ben definite, cioè a quegli ambienti in cui si
tentava un tardo risveglio dell’eredità cortese. Né è agevole calcolare quali e quanti
canzonieri occitanici fossero presenti in un dato luogo, in un dato momento7. A livello
scolastico e nei fondi delle biblioteche non si trovano dunque, per lo meno non citati in
modo intellegibile, canzonieri trobadorici. Più in generale, sono pochi gli strumenti per
approfondire sugli interessi volgari degli intellettuali del pieno XIV secolo: tutt’al più vi
si accenna, poiché l’attenzione è focalizzata sugli aspetti di novità e dunque sui segnali
sempre più eclatanti della svolta umanistica8. La stessa biblioteca di Petrarca ci è nota
soprattutto per quanto concerne la parte latina9, mentre per decifrare i suoi interessi in
ambito volgare è stato necessario scandagliare le sue opere e il suo usus scribendi.
Poiché però la questione appare rilevante, si intende proporre la ricognizione
complessiva delle occasioni cui potesse accedere un letterato in via di formazione nella
Provenza del Trecento, rinunciando a definire informazioni puntuali sul singolo caso.
Permane, certo, la consapevolezza che il problema sia ancora aperto, che le ipotesi
valide
siano
diverse,
che
la
soluzione
non
sia
definitiva.
5
Si veda per questo anche Lo Parco 1915; un’ipotesi simile è stata proposta nelle sue conclusioni anche
in Perugi 1985.
6
Si vedrà che comunque è stata formulata qualche ipotesi in questo senso, ma sempre in riferimento a
lezioni private e forse occasionali.
7
Non si potrà che basarsi sulle informazioni disponibili e quindi sui materiali effettivamente
sopravvissuti sino ad oggi, nonché sulle ipotesi che ne hanno derivato i filologi.
8
Tale precedenza si rispecchia nelle opere degli studiosi, che si sono dedicati con abbondanza alla
riscoperta degli studi latini e classici degli intellettuali trecenteschi, e di conseguenza su questo tipo di
patrimoni librari.
9
Si legga in particolare Billanovich 1961, pp. 336 segg. Lo studioso cita anche l’esempio affine di altri
letterati preumanisti, come i padovani Lovato Lovati e Albertino Mussato, contemporanei di Dante e del
padre di Petrarca, di cui si conosce piuttosto bene la biblioteca latina, importantissima per il loro ruolo
intellettuale di anticipatori. Al contrario la loro produzione volgare e così le opere romanze che lessero
sono quasi del tutto ignote o perdute.
393
CAPITOLO QUINTO
Aspetti della vita culturale trecentesca
1. Il contesto culturale avignonese
Nel 1316 il neoeletto pontefice Giovanni XXII comprese che per una gestione più
semplice della propria curia era necessaria una sede stabile, dopo i ripetuti trasferimenti
dovuti all’incertezza di Clemente V. La scelta ricadde su Avignone, che non poteva
vantare alcun prestigio storico o spirituale, ma godeva di un’ottima posizione
geografica: fuori dalla diretta giurisdizione del re di Francia, lontano dalle fazioni
romane, centrale e dunque favorevole a viaggi e spostamenti, anche grazie alla
vicinanza del Rodano1. L’intera regione presentava per altro numerosi vantaggi, grazie
ai suoi centri urbani particolarmente vivaci e alle caratteristiche della campagna, adatta
alla colonizzazione.
La città beneficiò enormemente dell’arrivo dei papi2. All’inizio del Trecento era un
piccolo centro privo di reali attrattive ed anzi ricordato soprattutto per le sue mancanze:
le case basse, scure, poco areate, le vie strette e sporche, l’urbanistica poco funzionale3.
Grazie al suo improvviso prestigio, la crescita anche materiale fu impressionante; la
continua affluenza di “cortesani4”, così chiamati perché spinti in Provenza dalla
presenza della curia pontificia, comportò uno stato di sovraffollamento, testimoniato dal
censimento voluto da Gregorio XI5. In partenza Avignone contava tra i cinque e i
seimila abitanti6, entro gli anni Cinquanta del Trecento trentacinquemila persone vi
risiedevano stabilmente, ma la situazione era fluida perché l’immigrazione, i soggiorni
brevi e le partenze erano costanti: basta pensare agli studenti, ai mendicanti, a chi
cercava una qualunque forma di beneficio da parte della Chiesa7. Il fascino della curia
non si estinse mai8, sino al rientro a Roma: anche dopo le grandi epidemie del ‘48 e del
‘61 la popolazione, decimata dalla peste, risalì rapidamente alle cifre degli anni
precedenti. È facile immaginare i disordini e la difficoltà nell’organizzare una tale
popolazione; il problema principale – mai realmente risolto – concerneva le abitazioni9:
i prezzi erano esorbitanti, le prime famiglie cardinalizie che avevano seguito il pontefice
occuparono gli alloggi disponibili, senza alcun riguardo per una distribuzione paritaria
tra coloro che avrebbero lavorato per e presso il papa. A queste necessità si cercò di far
1
Su questo aspetto si veda l’approfondita analisi in Guillemain 1962, pp 77-88. In queste pagine si può
inoltre trovare un’utile ricostruzione del contesto politico e feudale della regione.
2
Informazioni dettagliate si trovano innanzitutto in Quaglioni 1994.
3
Mollat 1964, p. 464.
4
Guillemain 1962, pp. 653-672.
5
Sul censimento e la situazione demografica dell’Avignone papale, si veda Quaglioni 1994, p. 278 ed
anche Mollat 1964.
6
Sono i cosiddetti cittadini: Guillemain 1962, pp. 628-642.
7
Su questo tema si concentra Guillemain 1962, pp. 514-532.
8
Per approfondire sulla questione, si può consultare anche Guillemain 1962, pp. 497-560, dove in
particolare viene trattata la trasformazione fisico-materiale della città (pp. 497-508), oltre a quella sociale
(pp. 508-514).
9
Per tale questione in riferimento alla biografia del giovane Petrarca si veda Suitner 20053.
395
fronte con un progressivo ampliamento fuori dalle mura, sino alla costruzione di una
vera e propria seconda città. Tra i nuovi abitanti erano numerosissimi gli italiani, che
rappresentavano più del 20% della popolazione totale; essi provenivano soprattutto da
Firenze e dal centro-nord, e si occupavano in gran parte di attività finanziarie10. I
tedeschi giunsero in numero sufficiente per fondare una confraternita11 ed era ben
radicata anche la presenza di famiglie ebraiche12; è difficile misurare l’esatta
configurazione delle clientele in ambito ecclesiastico, per il loro carattere fortemente
mobile. È certo, comunque, che i cardinali si concessero un tenore di vita principesco,
contando evidentemente su rendite adeguate; d’altro canto il personale ecclesiastico non
veniva mantenuto direttamente dalla singola “corte”, ma grazie alla concessione di
benefici da parte del pontefice (ottenuti attraverso la mediazione dei cardinali stessi)13.
Si prestava costante attenzione a tutto ciò che poteva favorire il prestigio della famiglia,
dunque ampio spazio era riservato ai poeti, che ne componevano gli elogi: da qui un
mecenatismo decisamente attivo, benché selettivo. La vita economica era
particolarmente fiorente; le attività bancarie e di commercio divennero sempre più
vivaci, grazie all’immigrazione concentrata principalmente nel settore dei servizi. Non a
caso, finché la curia papale restò in Provenza e persino negli anni successivi, città e
regione non dovettero temere alcuna crisi. Avignone si evolvette in breve tempo in una
vera e propria metropoli dalla notevole varietà demografica: “una popolazione
cosmopolita trasformò la città”, che divenne una “capitale amministrativa e,
conseguentemente, […] un centro economico e finanziario”14. E della metropoli
Avignone conobbe i vantaggi e gli svantaggi. Aumentarono i crimini, le violenze e
soprattutto la corruzione, alimentata dal potere e dalla disponibilità di denaro. Si
raccolsero in città avventurieri, usurai, prostitute, giovani fuggiti dalla famiglia: fu
necessario organizzare, in effetti, un buon sistema di polizia15. Al contempo però si
svilupparono le arti e il mecenatismo: la città crebbe anche per l’eccellenza intellettuale,
non solo come luogo d’attrazione politica e religiosa. La richiesta di prodotti culturali e
di strumenti di formazione fu particolarmente alta, e l’offerta sempre più intraprendente.
L’attività intellettuale beneficiò dell’incontro tra influenze, tradizioni ed esperienze
diverse; vennero allettati o invitati esplicitamente artisti, studenti e studiosi, ecclesiastici
10
Un’ampia ricostruzione in tal senso si può trovare in Guillemain 1962, pp. 591-614; alle pp. 549-554 è
presentata un’analisi più generale delle origini degli immigrati. A proposito delle loro professioni, in cui
si denota una distinzione fra intellettuali, artisti ed esperti in questioni tecniche e manuali, si vedano
anche le pp. 561-590.
11
Mollat 1964, p. 465.
12
Guillemain 1962, pp. 642-652.
13
Sulla ricchezza e lo status delle famiglie cardinalizie, si veda Quaglioni 1994, p. 262, dove è possibile
trovare ulteriori indicazioni bibliografiche; è approfondita anche la ricostruzione in Mollat 1964. Sulle
clientele cardinalizie può essere inoltre consultato Guillemain 1962, pp. 251-276, con particolare
attenzione alla presenza di intellettuali (pp. 263-264) e alla formazione di vere e proprie corti (pp. 272
segg.).
14
Quaglioni 1994, pp. 239 e 264.
15
Mollat 1964 e Quaglioni 1994.
396
e letterati di provenienza e formazione diversa16. Parte e conseguenza di questo
panorama multiforme è il plurilinguismo: presso la curia era particolarmente evidente
l’intreccio di latino – lingua ufficiale delle attività amministrative –, italiano17, francese
e provenzale – la lingua locale. È facile immaginare la vitalità e la vivacità di questo
ambiente anche a livello quotidiano.
Il considerevole e costante afflusso di denaro rappresentò un fattore essenziale di tale
evoluzione, ma fu determinante anche la stabilità della residenza pontificia: la spesa si
concentrò in un solo luogo e maturò l’impegno nel mecenatismo18. L’influenza di alcuni
papi (ad esempio Clemente VI e Gregorio XI) e cardinali (soprattutto italiani)
particolarmente appassionati d’arte fu tanto forte da creare una vera e propria “moda” e
dunque un’abitudine condivisa. La costruzione del Palazzo dei papi – e l’impressionante
impegno architettonico e decorativo che la caratterizzò – costituì un cambiamento
essenziale per l’immagine della città, ma non bisogna con ciò dimenticare le numerose
fondazioni di palazzi, di chiese e di altri edifici religiosi ad opera dei pontefici stessi e di
numerosi cardinali. Vennero inoltre convocati i pittori più in vista, a partire dal celebre
Simone Martini. Si diffuse il gusto per le collezioni, la ricerca degli oggetti più bizzarri,
ma anche la raccolta di piante e animali, che arricchivano soprattutto i giardini19. In
fondo la biblioteca pontificia è innanzitutto un’altra, straordinaria, collezione: i ricchi e i
potenti condivisero sempre più spesso il gusto per la bibliofilia, con evidente interesse
preumanistico. La circolazione libraria fu davvero notevole: sin da giovane Petrarca
poté avvantaggiarsene, grazie anche alla generosità, alle possibilità economiche e alle
curiosità del padre20. Beneficiò di questo clima anche la musica, perché papi e cardinali
tenevano molto alla rappresentatività delle loro cappelle; più in generale si ampliò e
rinnovò tutto l’entourage ecclesiastico21. La corte avignonese vantava un lusso senza
pari, feste interminabili (che senza dubbio si esposero alle critiche moraleggianti,
comprese quelle di Petrarca) e doni fin troppo generosi22.
Il periodo avignonese è all’origine di un ulteriore accentramento di potere, spirituale e
temporale, nelle mani del pontefice. Crebbe perciò la curia, che doveva gestire un ruolo
16
Non a caso su questo tema Jullien de Pommerol-Mofrin 1991 conclude: “Tout ce monde de savants,
lettrés et artistes composait un terrain qui allait se révéler particulièrement favorable à l’épanouissement
de ce qu’on a pu appeler le premier humanisme” (p. 77).
17
D’Ancona 1884 insiste su questo aspetto in riferimento all’apprendimento linguistico di Petrarca, che
era rimasto troppo poco con la famiglia e soprattutto nella terra d’origine. Anche Zingarelli 1935
sottolinea l’importanza della lingua italiana ad Avignone, nonché il fatto che gli italiani (e italofoni)
nell’Avignone pontificia erano per lo più persone di notevole cultura: artisti, giurisperiti, ecclesiastici. Lo
studioso ritiene inoltre che il pubblico ideale di Petrarca deve essere stato italiano, in senso anche
“nazionale”, oltre che linguistico.
18
In Renouard 1954, che costituisce un buon riferimento in generale sugli anni del papato avignonese, si
calcola che il totale delle entrate destinato agli investimenti artistici ammonti al 4% (p. 112).
19
Sul tema e per un elenco dettagliato degli oggetti collezionati, si veda Renouard 1954, p. 113.
20
Alcuni episodi della biografia petrarchesca dimostrano la precocità di tali interessi: ad esempio il
“rogo” cui Petracco sottopose i volumi del figlio, che si distraeva dagli studi di diritto, per salvare,
comunque, un vecchio Virgilio e una “Rhetorica” di Cicerone di fronte alle lacrime del figlio. Lo stesso
Petrarca lo racconta nella Senile XVI, 1. Per la biografia di Petrarca si legga Wilkins e per l’episodio
particolare anche Billanovich 1985, p. 62.
21
Solo i cappellani che officiano nella cappella pontificia sono una trentina (Mollat 1964, p. 467).
22
Mollat 1964, pp. 503-515.
397
politico sempre più ampio: ne derivò in primo luogo la necessità di una struttura
burocratica più articolata e funzionale, che richiedeva personale capace. Il rinnovamento
degli organismi pontifici determinò a sua volta la trasformazione delle attività culturali e
scolastiche: come si vedrà, le richieste professionali orientarono l’offerta universitaria e
le modalità dello studio. Il calcolo effettivo del numero di occupati presso il pontefice è
piuttosto difficile, per la forte oscillazione nel tempo, la variazione nelle cariche
concesse, l’iniziale ambiguità tra dono e stipendio. Si parla comunque di più di
cinquecento persone: praticamente solo uomini, in gran parte ecclesiastici, cui era
riservato il servizio personale, mentre laici formavano la scorta e si occupavano di
questioni materiali23. Non è sempre lineare, inoltre, la distinzione tra funzionari veri e
propri, e “familiari”, che si occupavano della persona del papa o lavoravano nel suo
entourage più ristretto, ma la cui definizione tese col tempo ad estendersi24. Essi
costituivano la curia in senso stretto, che ammontava comunque a circa
duecentocinquanta persone. Le attività da considerare erano le più varie:
l’organizzazione delle elemosine, la preghiera e la musica, i tribunali25. Ovviamente
della corte papale facevano parte in prima istanza i cardinali: fermo restando il potere
per così dire regio del papa, essi condividevano le decisioni e dunque avevano ampio
spazio per promuovere i propri interessi personali e nazionali. Ad Avignone si
riproposero ben presto le alleanze e le faziosità che avevano minato la vita romana26.
La centralità economica e politica, dunque, nonché l’impulso culturale che mediò fra le
diverse aree dell’Europa cristiana, guadagnarono ad Avignone una straordinaria
importanza: e tale ruolo si mantenne persino oltre il ritorno dei papi a Roma.
Nel Midi, comunque, l’ambiente di cultura per eccellenza restava l’università27: i
letterati erano per la maggior parte studenti di grado superiore e laureati, mentre gli altri
23
Una sola donna è registrata presso la curia avignonese, con compiti di lavanderia. Per questi dati, si
veda in particolare Quaglioni 1994, pp. 264 segg.
24
A parte vanno considerati i familiari in senso biologico, che attorniano il papa e ne attendono benefici:
fratelli, nipoti, cugini, oltre a alleati di varia natura. In questo caso sono registrate anche figure femminili:
sorelle, cognate e nipoti sono solitamente annoverate come “dame della famiglia del papa” (Mollat 1964,
p. 467).
25
Date le dimensioni e le molteplici funzioni della curia è facile immaginare quanto ampio ed eterogeneo
fosse l’insieme degli stipendiati presso il Palazzo dei papi, dalle cucine agli insegnanti di teologia agli
stallieri. Mollat 1964 ne ha offerto una ricostruzione particolarmente ricca. Sulla questione dei familiari
(pp. 149-180) e degli stipendiati dalla curia in genere si veda anche Guillemain 1962.
26
Sul ruolo effettivo dei cardinali al fianco del pontefice, si veda Guillemain 1962, pp. 225-250.
27
Secondo la ricostruzione di Quaglioni 1994, d’altro canto, la cultura tardo-medievale nel suo insieme
non può essere realmente compresa senza tenere conto della realtà universitaria, al di là, dunque, anche
della Scolastica. Spesso gli studiosi hanno segnalato per il Trecento la fine della fase più creativa ed
innovativa rispetto all’educazione e all’attività intellettuale in genere, che lascerebbe spazio soltanto ad
una professionalizzazione della cultura e degli intellettuali. Tuttavia Quaglioni sottolinea come
l’organizzazione istituzionale si sviluppi necessariamente insieme alla sfera della dottrina. È vero che il
dibattito teologico langue, fattore che influenza la preparazione dei prelati (senza per questo
necessariamente negare ogni interesse per la teologia, come invece propone Guillemain 1962). Cresce, al
contrario, in modo impressionante l’attività giuridica, anche nei suoi aspetti teorici: lo studio, il dibattito,
la riflessione, che influenzano anche gli sviluppi della filosofia. L’università trecentesca si avvia dunque
in questa peculiare direzione, rispondendo alle necessità effettive e pratiche della società e della Chiesa;
proprio questo spiega in parte il crescente interesse e contributo delle istituzioni ecclesiastiche alla vita
degli studia. Gli organismi ecclesiastici e soprattutto la curia avignonese non si basano tanto sulla
speculazione, quanto sugli strumenti più adatti ad un’efficace gestione, anche amministrativa. Per utili
398
ambienti di formazione o di semplice scambio culturale appaiono marginali. In effetti
Avignone era l’unico centro dal respiro cosmopolita: altrove la vita culturale risulta
chiusa e localizzata. Tale vitalità dell’orizzonte educativo è tanto più sorprendente in
quanto un sistema scolastico ben strutturato aveva tardato ad affermarsi nel meridione
ben più che nel nord della Francia28. I primi studia della regione, dedicati alle artes, alla
teologia e alla filosofia, risalivano all’inizio del ‘20029: le ricostruzioni storiche hanno
dimostrato che spinte sociali in tal senso si erano già delineate nel secolo precedente,
ma senza che si mettessero in moto altri fattori essenziali. Alla fine del XIII secolo, la
fondazione di un’università richiedeva il sostegno delle autorità politiche; nel Trecento
il loro interesse si dimostrò sempre più marcato, e il contributo all’università cominciò
ad essere riconosciuto come forma di prestigio per gli organismi cittadini, per il sovrano
e i poteri temporali, per la Chiesa30. E in effetti proprio il papato si impegnò per lo
sviluppo dei centri meridionali, in primo luogo a Tolosa ed Avignone, ma anche
Cahors, Grenoble, Orange31. Anche in Italia continuarono ad essere fondati nuovi
studia: prosperano quelli di Pisa, Firenze, Siena, Pavia e Perugia32. La conferma
pontificia divenne un elemento frequente e poi imprescindibile, sia che contribuisse alla
nascita di una nuova istituzione, sia che ne sancisse una già esistente. Ne derivò anche
una maggiore uniformità, mentre le iniziali fondazioni spontanee, nate da scuole locali e
preesistenti, erano state caratterizzate da una libera varietà33. L’interesse dei potenti era
d’altronde motivato dalle loro necessità pratiche, cui si è già accennato a proposito della
indicazioni bibliografiche su questo tema si veda Quaglioni 1994, p. 367. In merito ai due tipi di diritto,
civile e canonico, è stata proposta una specializzazione geografica delle attività intellettuali e
professionali, per cui si veda Gouron 1978; per il caso particolare di Tolosa, il rapporto tra sovrano e
università e l’influenza del primo sulla seconda, è interessante Dossat 1970, pp. 79-84. Per un quadro
generale sulle università e della vita culturale del tempo si vedano Ruegg 1992 e Verger 1999.
28
Per quel che concerne la storia delle scuole nel Midi, le informazioni sono scarse; in ogni caso i
documenti non offrono alcuna sorpresa: in epoca carolingia sono ben attestate le scuole monastiche e
canonicali secondo l’organizzazione consueta, le testimonianze successive provano la graduale crescita di
professionisti attivi, che permette di immaginare l’aumento dei luoghi di studio, anche privati. Ci sono poi
indicazioni specifiche di occasioni d’apprendimento in ambito secolare: soprattutto per medicina e
grammatica. Si veda ad esempio Smith 1958, con particolare riferimento al caso di Tolosa.
29
La facoltà di più antica fondazione nel Midi è quella di medicina a Montpellier, cui segue quella di
diritto nella medesima città.
30
Il ruolo delle autorità pubbliche comincia ad essere evidente già dal primo quarto del Duecento, con un
netto scarto rispetto alle fondazioni spontanee del XII secolo. Le prime istituzioni a comprendere i
vantaggi (e il prestigio) che derivano da un’organizzazione universitaria sono quelle borghesi e comunali,
in primo luogo italiane; esse sono motivate anche dalla competizione tra città. Dunque è probabile che
l’intervento dei sovrani si sia ispirato proprio a questo esempio. Per approfondire si legga Smith 1958, p.
33.
31
Per lo studio di alcune università della Linguadoca sorte in questo periodo o poco prima, si possono
leggere i saggi di Caille, Llobet e Edwards in AAVV 1970.
32
Più in generale tutta l’Europa centrale è coinvolta in questa fase di arricchimento e rinnovamento.
33
Sono i casi di Bologna, Parigi, Montpellier e Oxford. Si vedano Verger 1982, pp. 75-81 e Verger 1997,
pp. 70 segg. Qui si distingue in particolare fra tre tipologie di fondazioni: spontanea, per migrazione da
uno studium già avviato (come Cambridge da Oxford e Padova da Bologna) e per intervento di
un’istituzione politica o ecclesiastica. Nei primi due casi, l’attività si avvia nella pratica senza
riconoscimenti ufficiali, anzi in alcuni casi con piglio volutamente provocatorio, per poi ottenere licenze e
concessioni. Le università “di fondazione” sono tipiche soprattutto del Trecento e del Quattrocento (ad
esempio, Tolosa); è una pratica in realtà già duecentesca (come nel caso ben noto di Napoli), ma fino al
secolo successivo ebbero maggiore successo le realtà spontanee.
399
Chiesa, ed influenzò gli indirizzi dell’attività intellettuale: la burocrazia e
l’amministrazione in costante sviluppo non potevano che essere affidate ad esperti di
diritto. La preminenza della giurisprudenza sulla teologia34, tipica del Trecento e
soprattutto delle aree meridionali35, deriva anche da queste spinte, che per altro non si
limitarono alla curia avignonese, ma interessarono la Chiesa tutta. Anche i compiti
pastorali e spirituali erano affrontati innanzitutto nell’ottica di una buona gestione,
organizzativa oltre che morale e politica: era ormai venuta meno l’urgenza delle eresie
duecentesche36. Certo è stato essenziale che si stabilissero in area provenzale esperti di
diritto, di origine soprattutto italiana e bolognese, che si avviassero collegi abbastanza
solidi da giustificare la successiva formazione di corsi continuativi ed infine la
concessione di benefici37.
Gli studia laici appaiono i più dinamici, anche per i loro vivaci rapporti con le altre
istituzioni cittadine; l’attività di quelli legati agli ordini mendicanti fu molto più chiusa,
escludendo i laici e spesso limitandosi addirittura ai membri degli ordini stessi. Ne era
particolarmente rigido anche il cursus studiorum, che organizzava le discipline – e
quindi gli istituti da frequentare - secondo una gerarchia prestabilita38. Tuttavia non
mancarono casi di contatti o anche di fusione con le libere università sviluppatesi nel
frattempo; inoltre, pur nel loro isolamento, le istituzioni mendicanti risultano esperienze
molto più vitali rispetto alle scuole capitolari e vescovili di un tempo. Infatti, la
mediazione culturale verso altri ambiti di formazione non era del tutto esclusa ed
avveniva principalmente attraverso l’apertura delle biblioteche e l’attività di
predicazione.
34
Sul “fallimento della teologia universitaria” si è concentrato ad esempio Verger 1982, pp. 158-171. Da
una parte prevale la moltiplicazione delle scuole riconosciute, dopo la forte centralizzazione duecentesca;
dall’altra coloro che compiono sino in fondo gli studi teologici sono pochissimi, per la difficoltà della
disciplina e per l’importanza attribuita al diritto. Non è però solo un problema quantitativo: anche la
qualità dell’insegnamento sembra decadere e soprattutto incapace di rinnovamento. È vero che non
mancano nuove teorizzazioni e riflessioni addirittura rivoluzionarie (Occam), ma il metodo resta ancorato
alla vecchia Scolastica.
35
La prima vera facoltà di teologia nell’Europa meridionale nasce tardissimo, curiosamente quando la
preminenza del diritto è già da tempo in piena consonanza con la mentalità religiosa che si è descritta e le
necessità concrete della società (1360). Si veda Verger 1997, p. 73. Fino a questo momento, al sud la
teologia si era studiata in semplici scuole; al contrario al nord è sempre stata la tradizione teologica a
dominare, secondo il modello parigino, il quale si rivela tanto forte da imporre alle altre università un
vero e proprio adeguamento (mentre il diritto vi è poco sviluppato).
36
Può essere utile per questi aspetti Verger 1982, pp. 172 segg. Verger, in particolare, associa gli evidenti
problemi pratici della Chiesa alla concezione della fede che si diffonde nel Medioevo tardo: da una parte
computazionale (come si nota nel caso del calcolo delle indulgenze o nella richiesta di messe ed
elemosine), dall’altra timorosa dell’insufficienza delle proprie manifestazioni e dunque attenta “alle
regole” (p. 173). Il prete è un ministro, che deve conoscere una tecnica ed un rituale.
37
La migrazione di maestri già esperti e magari conosciuti verso nuove città dove fondare proprie scuole
e studia si fa sempre più frequente all’inizio del ‘200, anche se soprattutto in Italia (a Vicenza ed Arezzo,
ad esempio). Vedi Smith 1958, p. 33.
38
La questione è affrontata con sintesi efficace in Verger 1997. Gli studia mendicanti hanno
un’organizzazione del tutto autonoma e specifica, benché siano equiparati in toto a quelli comuni. Non
sono innovativi, invece, i programmi, dalla grammatica alla teologia. D’altronde il rigore con cui è gestita
l’educazione ottiene risultati significativi: non a caso la fondazione di collegi nel ‘300, pensati per
preparare all’università vera e propria, emula il sistema dei conventi (sarà un vero e proprio successo,
minato però dai costi proibitivi e dalla rapida diffusione di epidemie). Per il problema degli studi
all’origine degli ordini domenicano e francescano si veda Verger 1982, pp. 125-134.
400
La ricostruzione della temperie culturale avignonese passa anche attraverso la
riflessione sui gusti dei singoli papi e quindi sull’influenza che essi hanno determinato
su tutta la curia39. Tutti i papi avignonesi completarono il loro corso di studi in ambito
universitario40, per lo più dedicandosi al diritto – funzionale alla gestione del potere –
eccetto Benedetto XII e Clemente VI, che si specializzarono in teologia41. Il loro
intervento in ambito artistico fu costante, soprattutto per ciò che concerneva le arti
figurative e le attività letterarie, con ovvi intenti ideologici e apologetici. Documenti
numerosi e precisi testimoniano di un prolungato interesse, dell’ampliamento del
patrimonio librario, della partecipazione (e dell’influenza) alle varie correnti di pensiero
del tempo: tali tendenze si comunicarono, lo si è visto, ai cardinali.
Nella figura di Giovanni XXII (1245ca-1334), ad esempio, si coglie il pieno riflesso di
quella tendenza tipicamente medievale definita nel ‘500 “enciclopedismo” e che
originariamente identifica un’attenzione allo scibile umano il più ampia possibile e
riunita in un solo nucleo educativo, il libro anche fisicamente inteso. Sotto il pontificato
di Giovanni la curiosità per questo approccio aperto, potenzialmente onnicomprensivo
si mantenne particolarmente viva, come dimostra la stesura di nuove summe42; è un
fenomeno peculiare, poiché simili trattati sono diffusissimi nel ‘200, ma molto meno
numerosi nel ‘300. È dunque una fase di vigore, non tanto quantitativo, quanto
qualitativo che si delinea circa tra il 1315 e il 1340, e trova il suo esito materiale in
volumi preziosi e costosi, dal forte valore simbolico. A completare il ritratto di questo
pontefice, si consideri la descrizione che ne offre Petrarca nei suoi Rerum
memorandarum libri in qualità d’uomo preciso e zelante negli studi.
Un contributo forse ancora più diretto alla vita culturale si deve a Clemente VI (12911352), anche se orientato in modo ben più marcato sulle questioni teologiche. Il giovane
Pierre Roger, infatti, si era laureato in teologia e partecipò con grande energia alle
controversie del suo tempo. A partire dagli anni Trenta il suo impegno come autore si
concentrò esclusivamente sui sermoni, che pur abbandonando le polemiche e le
dissertazioni dottrinali o dogmatiche, rappresentavano lo strumento principale per
l’affermazione dei nodi teologici che la corte avignonese doveva affrontare. Per altro il
punto di vista del cardinale (e poi del pontefice) fu sempre più influenzato, e in modo
sempre più manifesto, dalle preoccupazioni politiche.
A proposito di Clemente VI, gli studiosi si avvantaggiano anche della fortunata
conoscenza della sua biblioteca privata, caso davvero raro per il Medioevo. I volumi che
gli sono appartenuti sono infatti confluiti nella più ampia collezione pontificia ed oggi
se ne osserva la dispersa presenza tra Francia, Italia e Vaticano. Al momento della sua
39
Per ulteriori indicazioni in proposito, si veda anche Guillemain 1962, pp. 116-148.
Con l’eccezione, lo si vedrà, di Gregorio XI, che pure fu studente di teologia e diritto a livello
superiore.
41
Anche per questi aspetti può essere utile la consultazione di Quaglioni 1994, con particolare riferimento
alle pp. 281-286 su Clemente VI e la sua “doppia” preparazione culturale.
42
Si pensi ad esempio alle opere di Paolone da Venezia, che soggiornò a lungo ad Avignone e scrisse
numerose opere a posteriori definite enciclopediche. Egli dichiara apertamente di essersi ispirato non solo
alla sua concezione dell'universo e della storia, ma anche ai gusti del suo pubblico; inoltre è interessante
notare che vari codici tra quelli che ci trasmettono le sue opere hanno un aspetto ufficiale, lussuoso, sono
dunque oggetti destinati al mondo aristocratico e politico.
40
401
morte tale patrimonio comprendeva circa cento tomi, ma in questo numero si
considerano solo quelli che con certezza gli appartennero personalmente; è stato inoltre
possibile tracciare la progressiva costituzione della raccolta.
Le informazioni più scarne sono quelle relative agli anni giovanili, che videro Roger
studente a Parigi, dove probabilmente seguiva il normale corso degli studi, senza cioè
legami con gli ordini mendicanti. Si interessò alla medicina, alle scienze naturali, alla
matematica e all’astronomia; particolarmente vivace fu la sua curiosità per Aristotele,
che affrontò attraverso il commento di Averroè, come dimostrano le sue postille
autografe. Raccolse in un codice, con scopi puramente personali di approfondimento, le
proprie annotazioni ai testi filosofici e di scienze naturali, creando dei veri e propri
commentari. Le sue riflessioni su Aristotele invece vennero fatte copiare su un
manoscritto autonomo, forse con l’intenzione di usarlo per l’insegnamento, ma
probabilmente anche in vista della pubblicazione. Si nota dunque un’evoluzione dalle
prime note sintetiche, ai riassunti, alle considerazioni più ampie e originali. Lo stesso
spostamento verso la maturità intellettuale e il ruolo di insegnante si coglie in merito
alla lettura delle opere religiose, tra le quali spiccano per quantità Tommaso d’Aquino,
sant’Agostino e Bonaventura da Bagnoreggio.
Mentre studiava al contempo presso la facoltà di arti e quella di teologia, si accostò
anche al diritto, ma non è chiaro se si sia trattato di un semplice interesse o di vera e
propria frequenza universitaria. Sviluppò nel frattempo la propria attività di predicatore,
rivolgendo i suoi scritti soprattutto agli altri prelati; si riscontrano annotazioni su opere
altrui, florilegi, glossari, dizionari preparati per motivi di studio. Anche nella maturità
continuò a prediligere Aristotele e Seneca, ma lesse anche molti contemporanei.
Conosciamo molto meglio il periodo del suo cardinalato a Rouen, dal 1330. Continuò
l’attività di predicatore, che favorì la costituzione di un nuovo nucleo nella sua
biblioteca; tuttavia non vennero meno gli interessi eterogenei degli anni universitari,
passioni che a loro volta favorirono nuovi ampliamenti nel patrimonio librario,
particolarmente nel campo dell’esegesi.
Durante gli anni del pontificato aumentarono notevolmente le acquisizioni librarie, ma
diminuirono le dettagliate indicazioni cronologiche un tempo fornite dagli ex libris e da
altri documenti. Tali dettagli si fanno più rari quando il possesso di libri diviene ovvio e
quotidiano, lasciando alle “marche di possesso” solo una funzione araldica o di dedica
da parte di chi fa un dono. Per questo periodo inoltre è difficoltoso distinguere tra gli
acquisiti personali e quelli della biblioteca pontificia in generale; una parte
considerevole di questi testi privati doveva essere conservata nello studio personale del
pontefice, a segnalarne proprio lo statuto peculiare. I suoi gusti non paiono comunque
mutati nella sostanza; essi sono però influenzati dalle cure del ruolo ufficiale, da cui
deriva la ricerca di numerosi e molteplici trattati, come quelli sul calendario. L’esegesi
si mantenne la priorità, mentre venne riservato uno spazio minore alla teologia
speculativa; il pontefice continuò inoltre la preparazione e la raccolta (in vista della
pubblicazione) dei suoi sermoni, che confermano l’attività di predicatore. È invece una
novità la compilazione di testi legati alla devozione e alla spiritualità (libri d’ore,
agiografie, breviari).
402
Infine alcuni codici mostrano chiaramente di essere stati commissionati dal pontefice;
sono soprattutto opere di patristica, in parte integrali, in parte antologie di estratti. Tra i
classici spiccano un volume di Seneca, posseduto sin dalla giovinezza, e il compendio
di Cicerone, richiesto a Petrarca.
Gli interessi di Clemente VI appaiono nell’insieme molto diversificati, ma si disegna
anche una certa continuità e un ampliamento abbastanza progressivo da risultare
coerente anche in relazione agli sviluppi biografici. Per altro, il modo in cui Roger
usava ed annotava i testi si mantenne invariato sino alla vecchiaia, determinando un
ulteriore fattore di omogeneità. Rispetto alle annotazioni è però possibile cogliere una
differenziazione funzionale. A differenza delle opere scritte dallo stesso Clemente VI, i
cui codici, rimasti in possesso dell’autore, non paiono utilizzati, i testi universitari
presentano appunti pensati per approfondire e capire, su un piano di studio individuale e
non di argomentazione pubblica; al contrario i testi utili alla predicazione sono
punteggiati di note ampie ed articolate. In entrambi i casi, comunque, si ha
l’impressione che lettura e scrittura si compenetrino, siano parte integrante nello studio
e nell’uso del testo.
L’aspetto fisico dei volumi, inoltre, spesso rivela la loro origine e la loro funzione: ci
sono libri chiaramente commissionati, preparati in perfetto ordine e secondo lo standard
universitario parigino; altri nascono con margini ampi per permettere un fitto
commento; alcuni sono piccolissimi, da viaggio; altri infine enormi, pensati per
appoggiarli sul pulpito. Anche da questo punto di vista, l’attività di studio del papa
riflette gli usi e le tendenze del suo tempo.
A testimonianza del suo costante lavoro sui testi ci restano anche alcuni suoi quaderni,
riempiti di note varie, un po’ disorganiche e certamente pensate solo in chiave
personale, come dimostra anche lo specchio di scrittura irregolare e la notevole libertà
nell’impaginazione. Questi documenti sono sopravvissuti attraverso vicende alterne, in
parte smembrati, in parte accorpati senza logica; spesso non si è compreso il loro valore,
non solo storico, ma anche intellettuale.
I libri autografi del pontefice sono infine individuati da tratti devozionali, versi liturgici
abitualmente apposti sul margine alto del foglio e per lo più dedicati alla Vergine, quasi
una richiesta di protezione all’avvio della scrittura e una firma al tempo stesso. Non
mancano casi, però, in cui il verso sia apposto ad un passo particolarmente significativo,
per cui funge da segnale e insieme da commento.
Sulla formazione del futuro Gregorio XI, al secolo Pierre Roger de Beaufort, si conosce
molto meno. Nacque intorno al 1330, esponente della piccola nobiltà provenzale e ben
presto fu spinto agli studi religiosi e poi teologici, che egli completò con
approfondimenti di diritto canonico. Già prelato, chiese licenza dai suoi impegni
ecclesiastici per seguire lezioni di diritto civile, un impegno che proseguì anche quando
fu nominato cardinale. Non è chiaro, però, quale università abbia frequentato; i suoi
lasciti ad Angers motivano l’opinione degli studiosi settecenteschi, secondo cui egli
avrebbe studiato in quello studium. Mancano però prove più stringenti; restano invece
indizi documentati dei suoi rapporti con un maestro di Orleans, un personaggio legato
alla famiglia Roger, dalla quale egli ricevette notevole appoggio nella carriera. Sarebbe
403
significativo, infine, valutare se il futuro pontefice abbia studiato anche in Italia,
possibilmente a Perugia, per approfondire ulteriormente la dibattuta questione delle
influenze culturali italiane sul papato avignonese. Tutte le biografie antiche concordano
nell’affermare che Clemente VI, in veste di zio, lo abbia mandato a Perugia, non si sa se
per seguire solo corsi di diritto canonico o anche romano. Tuttavia queste fonti
dipendono da un’origine unica e non molto affidabile, a causa dell’incertezza che grava
sui documenti di partenza. Altre possibili informazioni vengono da racconti fortemente
encomiastici, da cui non è semplice trarre indicazioni davvero attendibili. È però certo
che Gregorio XI non giunse mai ad ottenere la licenza finale.
Va poi considerata la regolare educazione impartita agli uomini di prestigio in epoca
avignonese, il cui esempio più eloquente si coglie nelle fila dei cardinali43.
Gli strumenti per approfondire tali percorsi di formazione sono molteplici. A parte i
documenti ufficiali, legati agli specifici luoghi in cui era offerto l’insegnamento, vanno
tenuti in considerazione testamenti ed inventari – che permettano di individuare il
patrimonio librario effettivamente disponibile –, gli epistolari privati, e soprattutto le
lettere che mostrano la connessione con la curia ed i compiti ufficiali (suppliche,
concessioni di benefici etc). È inoltre molto utile il vaglio delle opere scritte dai singoli
personaggi o anche dai loro sottoposti e dipendenti, che possono rivelare le prospettive
e gli interessi dei loro superiori; infine, le cronache del tempo forniscono talvolta
informazioni rilevanti.
Sulla base di queste fonti, Pierre Jugie ha affrontato lo studio sulla preparazione di
novantaquattro dei centotrentaquattro cardinali ordinati durante il periodo avignonese;
vi sono compresi perciò anche alcuni già nominati entro gli anni ‘40, dunque nella fase
in cui Petrarca compie la propria educazione, oltre ad essere maggiormente legato alla
città pontificia e ai rapporti clientelari che la caratterizzano.
Quasi tutti i nuovi porporati erano originari dell’area occitanica, con particolare
riferimento al Limosino e alla zona di Quercy. Per nove di essi la nostra conoscenza del
percorso formativo è compiuta: se ne escludono gli apprendistati più ovvi e meno
interessanti, perché affrontati in base ai rigidi dettami degli ordini monastici o regolari
d’appartenenza.
Grazie a famiglie evidentemente facoltose, molti dei futuri cardinali studiarono
privatamente; Elie-Talleyrand de Perigord e Androin de la Roche invece frequentarono
le scuole collegiali. Sono meno numerosi del previsto coloro che ebbero accesso ad una
preparazione universitaria: Gui de Boulogne, il cui precettore era definito “maestro nelle
artes”, ebbe la possibilità di frequentare la facoltà di arti (benché solo quelle del
trivium) probabilmente a Parigi; di Étienne II Aubert si sa che poté studiare “lettere”,
grazie ad una dispensa dal risiedere nei propri benefici44.
43
Possono essere considerate quali fonti essenziali per questo aspetto Jugie 2008 e Guillemain 2003. Per
integrare lo studio della realtà avignonese con quello del coevo orizzonte romano si può consultare
Rehberg 1999.
44
Questo tipo di concessioni è in realtà molto frequente: in linea teorica, infatti, i prelati dovrebbero
interrompere lo studio all’ottenimento di un beneficio per risiedervi, caso che non è quasi mai attestato.
404
Dei centodieci cardinali considerati invece da Guillemain, circa la metà ha avuto
contatti documentati con l’ambiente universitario. L’ambito prediletto era il diritto
(civile, canonico o entrambi), a seguire la teologia, mentre era molto meno frequente la
medicina; è evidente che queste scelte tengono in conto gli interessi della famiglia ed
hanno in genere risvolti concreti, poiché i rapporti personali che si creano negli anni di
studio avevano spesso una valenza politica ed un esito duraturo45. In molti casi la
preparazione scolastica appare meno rilevante della concreta esperienza acquisita negli
ambiti amministrativo, giuridico e diplomatico, che dava i suoi frutti anche al culmine
della carriera ecclesiastica46.
La Francia era l’area preferita per la specializzazione, e soprattutto il meridione
(Montpellier, Tolosa), ma non solo (Orleans e Parigi); tuttavia anche i prestigiosi studia
di Bologna e Perugia erano ben rappresentati. Qualcuno rimase ad Avignone per
studiare diritto, ma erano di gran lunga preferiti gli altri famosi centri di eccellenza
vantati dal Midi, che inoltre presentavano minori difficoltà pratiche nella ricerca di un
alloggio. Andrà notato che la straordinaria autorità dell’insegnamento teologico parigino
comporta un’affluenza non proporzionata al numero poco rilevante di porporati
settentrionali; tuttavia, dopo la fondazione della facoltà di teologia, la meta in assoluto
più apprezzata diviene Tolosa.
I frutti dell’educazione ricevuta non vanno a vantaggio soltanto della carriera
ecclesiastica: alcuni futuri cardinali sfruttarono la licenza docendi diventando a loro
volta professori.
2. Biblioteche
La cultura, nel Medioevo, si identifica in primo luogo con lo sviluppo della memoria,
come dimostra la tendenziale assenza di note per i professori e di appunti per gli allievi
a sostegno delle lezioni universitarie. Tuttavia è anche una cultura “del libro”47, oggetto
che acquisisce una profonda valenza simbolica, anche in chiave sociale. La formazione
parte, infatti, dalla lettura di testi autorevoli, e come tali necessariamente educativi.
Indubbiamente l’accesso a tali strumenti è raro, tutt’altro che semplice, innanzitutto per
ragioni economiche: per questo le biblioteche private, persino le più notevoli, sono
quasi sempre abbastanza esigue.
A maggior ragione è significativa, dunque, la frequentazione di biblioteche pubbliche48.
45
Tra questi rapporti, d’altronde, non vanno dimenticati quelli col pontefice stesso o col sovrano, che
possono orientare in modo determinante il percorso di ciascun prelato.
46
Al contributo di Guillemain può essere accostata la riflessione di Quaglioni 1994, che insiste
sull’importanza degli studi giuridici e delle corrispondenti facoltà per la cultura trecentesca e il ruolo
svolto dalla Chiesa, cui si è già fatto riferimento nel presente capitolo.
47
Verger 1997.
48
Ovviamente il termine non va inteso in senso moderno, quanto in contrapposizione con l’idea di un
patrimonio puramente individuale. Anche le biblioteche familiari, se la famiglia mantiene una clientela,
come nel caso dei cardinali, hanno in fondo una funzione ed una risonanza ben più ampie, poiché
consentono un accesso diversificato.
405
Il caso di Petrarca49 è senza dubbio fuori dall’ordinario, per la preziosa possibilità di
accesso ai più ampi patrimoni librari del tempo, come studente universitario prima, poi
come appartenente agli ordini minori, intimo di vari tra i pontefici avignonesi e cliente
dei Colonna, deve aver avuto50.
Le collezioni librarie di cui resta notizia presentano una notevole omogeneità, nel segno
di un’erudizione universalizzata e comune. Variano certamente i commenti alle opere
maggiori, a seconda di ciò che il proprietario aveva preferito o potuto procurarsi;
diversità ancora maggiore si riscontra a proposito delle opere più recenti, laddove ci
siano, anche in base ai gusti del singolo. Il fondamento dei diversi patrimoni è
comunque sempre riconoscibile: auctoritates, manuali, opere religiose o utili alla
professione. Domina il latino e la presenza di eventuali volumi in volgare è d’abitudine
riportata nei cataloghi senza distinzioni, in voci collettive ed imprecise. Tale uniformità,
che si conferma a livello diastratico (entro gli ambienti in cui la lettura è diffusa) e
diatopico (nell’occidente cristiano), si mantiene in sostanza nel ‘400, con ovvio
aumento dei titoli classici grazie alle ricerche e agli studi di un umanesimo sempre più
progredito51. Tuttavia proprio la noncurante imprecisione che spesso penalizza i volumi
volgari consente di ipotizzare qualche apertura per le opere provenzali nelle biblioteche
private e meno ufficiali.
Pur nell’omogeneità nei contenuti, sono molteplici le istituzioni e i contesti in cui può
essere stata realizzata una raccolta libraria: si intende perciò offrirne una panoramica il
più possibile esaustiva. A questo scopo saranno citati in questa sede alcuni casi
peculiari, non immediatamente fruibili da parte di Petrarca, come quello della biblioteca
regia francese. A quelle principesche, invece, possono essere associati i patrimoni
cardinalizi e nobiliari in genere, interessanti perciò anche nella ricostruzione del
contesto culturale in cui visse il poeta aretino.
2.1 La biblioteca pontificia52
La biblioteca pontificia53 conobbe vicende alterne nel corso del Medioevo. Nel ‘200 il
patrimonio librario era conservato in Laterano, dopo un momento di grave crisi tra X e
XI secolo, in cui si erano registrate ingenti perdite. Partendo da Roma in un momento di
49
È vero ch’egli arriverà a raccogliere una straordinaria biblioteca privata e che ci sono noti alcuni suoi
possessi librari già in età precoce, ma certamente si è trattato di un processo lento e graduale, culminato
negli anni della maturità.
50
E sono d’altronde lo strumento che ha permesso lo sviluppo dei suoi interessi di bibliofilo e le sue
scoperte filologiche.
51
In Verger 1997 sono citati alcuni studi, dedicati a specifici ambiti socio-culturali, che confermano tali
considerazioni generali: le biblioteche dei parlamentari (studiate da Françoise Autrand, p. 108), dei
canonici più colti (p. 110), degli intellettuali siciliani (studiate da Bresc, p. 111), dei medici dell’Italia
settentrionale (p. 112), degli uomini di Chiesa e dei giuristi (pp. 123-150).
52
Alcune indicazioni bibliografiche fondamentali sulla biblioteca pontificia: Jullien de PommerolMonfrin 1989 e 1991, Fleck 2006, Manfredi 2006 e Quaglioni 1994, pp. 376-380.
53
Per una ricognizione generale sul tema della biblioteca pontificia, con ulteriori rinvii bibliografici, si
può vedere Jullien de Pommerol-Monfrin 1991 (soprattutto la prefazione).
406
difficoltà e pericolo, Bonifacio VIII cercò di garantire l’integrità di quei possessi,
facendoli spostare ad Anagni. A lui si deve anche il primo inventario conservato, che
risale al 1295 e comprende quattrocentoquarantatré testi. Un ulteriore trasferimento si
deve a Benedetto XI, che dapprima ordinò il passaggio a Perugia e poi quello via mare
in Francia: quest’ultimo viaggio fu però interrotto e i libri vennero temporaneamente
conservati ad Assisi, dove se ne mantenne a lungo la sede ufficiale. Di questo
patrimonio disperso resta il catalogo voluto da Benedetto XII durante il restauro degli
ambienti in cui i libri erano conservati (ma già Giovanni XXII aveva dimostrato
interesse per la questione nel 1327). Tra il 1336 e il 1337 Giovanni d’Amelia registrò
seicentoquarantacinque volumi, che nel 1345 risultavano già perduti54. Non è chiaro
quale parte di questa biblioteca sia effettivamente arrivata ad Avignone, formando così
il nucleo della nuova collezione pontificia conservata nel Palazzo dei papi; gran parte
della raccolta, comunque, fu qui creata ex novo grazie ad acquisti, copie, donazioni,
lasciti testamentari, spoliazioni, cioè requisizioni dei beni, e dunque anche dei libri,
appartenuti ad alti prelati, dopo la loro morte (sappiamo però che parte dei testi
“spoliati” potevano tornare ai legittimi proprietari o ai loro eredi in particolari
circostanze).
L’istituzione formale di una nuova biblioteca pontificia con una collocazione definitiva
è il frutto dell’intervento di Giovanni XXII, dopo il 131655. Si tratta di un evento di
notevolissimo significato, considerando che la biblioteca costituiva uno dei simboli
fisicamente più appariscenti del potere e del prestigio del pontefice; le collezioni, gli
acquisti, la ricerca dei testi avevano anche un preciso significato ideologico. Istituire
una vasta biblioteca significava legittimare la nuova sede avignonese, indicandone il
carattere stabile ed ufficiale; non sarà quindi un caso che i successivi spostamenti del
soglio pontificio abbiano comportato interventi simili. Durante l’(anti)papato di
Benedetto XIII, una parte dei testi fu separata dal nucleo centrale del patrimonio perché
seguisse il pontefice nella sua nuova sede a Peniscola, vicino a Valencia (1409). In
questo caso l’affermazione politica insita nell’appropriazione e nello spostamento della
biblioteca è ancor più evidente: Benedetto, papa illegittimo, doveva legittimare il
proprio ruolo contro i numerosi avversari. Le ricostruzioni suggeriscono che siano stati
coinvolti i testi conservati nello studio del papa, che già abitualmente erano separati
dalle altre collezioni e soprattutto dagli ambienti più pubblici del palazzo, ai quali erano
ammessi ospiti dal rango sociale variegato. Cominciò a questo punto la lenta
dispersione di uno dei patrimoni librari più vasti ed importanti dell’intero Medioevo, in
un processo graduale che durò di fatto sino al ‘500.
D’altro canto, una raccolta di codici è un’affermazione di prestigio anche per il semplice
valore materiale. E certamente anche l’aspetto culturale è rilevante, sia in senso proprio,
54
Questo dato, che corrisponde al numero riportato dal catalogo redatto a Perugia nel 1311, si trova in
Quaglioni 1994, utile per una ricognizione più generale, benché sintetica, della storia della biblioteca.
Jullien de Pommerol-Monfrin 1991 riferisce per il catalogo di Benedetto XII la cifra di
quattrocentotrentatré articoli, dove appunto non si parla di volumi, ma di “articoli” dell’elenco, il che
potrebbe spiegare la discordanza.
55
Una breve, ma efficace sintesi di tale processo si trova anche in Guillemain 1962, pp. 127-129.
407
in quanto l’oggetto libro è strumento per il miglioramento intellettuale, sia in senso
sociale, laddove la commissione o l’acquisto di volumi divenga simbolo di
mecenatismo e gusto per l’arte. Non a caso – lo si è visto – le collezioni librarie
divennero una moda e anche i cardinali spesso furono proprietari d’interessanti
biblioteche, organizzate secondo i medesimi principi di quella pontificia, benché su
scala ridotta56.
Allo stato attuale sono stati riconosciuti circa cinquecento volumi che hanno fatto parte
della collezione pontificia; possediamo inoltre ventisette inventari d’impostazione
differenziata, dei quali solo dieci vengono considerati di primaria importanza.
Abbondano infine i documenti d’archivio, relativi soprattutto alle pratiche di acquisto o
di acquisizione dei testi.
Tra gli inventari che si sono conservati, due sono particolarmente interessanti per la
ricostruzione della biblioteca nella sua fase più alta: la Recensio Urbaniana preparata
durante il papato di Urbano V, e la Recensio gregoriana, che si deve a Gregorio XI. La
quasi totalità degli altri si riferisce al pontificato di Benedetto XIII e ai problemi
connessi alla dispersione dei tomi.
Il primo dei due inventari risale al 1369; se ne occupò Philippe de Cabassoles57,
cardinale di Gerusalemme e amico personale del Petrarca, uomo molto colto e
proprietario a sua volta di una notevole biblioteca; è probabile che sia stato aiutato dal
bibliotecario Raymond Dachon. Si tratta di un inventario patrimoniale completo, che
doveva idealmente favorire il trasferimento dei volumi a Roma in occasione del ritorno
del papato alla sua sede storica (poi rimandato). Nell’identificazione dei singoli testi, il
metodo deriva proprio da questa esigenza, nonché dalla difficoltà di tenere sotto
controllo l’elevato numero di volumi, spesso per altro copie plurime della medesima
opera. Per essere certi dell’esemplare di cui si sta parlando, vengono indicate le
caratteristiche della legatura, la prima parola del secondo foglio e l’ultima del
penultimo. L’elenco è organizzato in base alle stanze in cui i tomi erano collocati (otto,
più due in cui si trovavano documenti eterogenei) e poi per argomento o autore,
nell’ambito di ciascuna; il totale è di circa duemila volumi58. Tuttavia si nota una
progressiva riduzione dei dettagli riferiti, forse motivata dalla mancanza di tempo;
proprio tale incompletezza potrebbe aver rappresentato un’ulteriore motivazione per
avviare una nuova catalogazione sotto il pontificato di Gregorio XI.
Gli ambienti coinvolti nell’organizzazione dei libri sono vari, ma quello definito in
modo più chiaro è la camera prope capellam cardinalis, uno spazio probabilmente non
dedicato allo studio, ma solo all’accumulazione e alla conservazione dei testi; esso ha
però un valore notevole per la vicinanza agli appartamenti privati del pontefice59. I
volumi citati per tale ambiente sono tutti latini e per lo più legati all’attività
56
Si veda su questo argomento Renouard 1954, p. 114. I patrimoni più significativi in ambito cardinalizio
risultano attestati intorno ai centocinquanta-duecento manoscritti.
57
Per una sintesi biografica su questo personaggio e sui suoi rapporti con Petrarca si veda il capitolo
settimo.
58
Il dato è tratto da Jullien de Pommerol-Monfrin 1991, p. 6.
59
Per una descrizione degli ambienti privati del pontefice e del loro ampliamento si veda Jullien de
Pommerol-Monfrin 1991, pp. 4 e 6-7.
408
ecclesiastica. Sono segnalati quattro dottori della Chiesa latina, numerosi teologi
recenti, qualche filosofo (in una sezione ben distinta); Seneca è l’unico classico
associato alle opere importanti perché interpretato in chiave cristiana, come era
frequente all’epoca e come consentivano in particolare alcune opere e commenti
riscoperti proprio nel ‘300. A livello quantitativo gli autori più presenti sono
sant’Ambrogio e Tommaso d’Aquino; le opere religiose non strettamente curiali e
canoniche sono escluse. I testi biblici sono rispettosamente conservati a parte60;
similmente, sono separati dal nucleo principale della raccolta alcuni classici - Cicerone,
Macrobio, Svetonio, Plinio, Livio – ma la motivazione è ben diversa, quasi non fossero
vere auctoritates. Si coglie molto bene una progressiva apertura verso nuovi ambiti di
pensiero, ad esempio nelle sezioni riservate agli autori ebrei o arabi, o a temi attuali,
com’era ancora quello delle crociate61. Sin dai primi pontificati avignonesi, i documenti
su cui sono registrate le richieste di ricerca o d’acquisto da parte dei papi testimoniano
una crescente attenzione anche per i classici, benché a fronte di cifre non troppo
elevate62. Tuttavia quella pontificia è in primo luogo una biblioteca funzionale, destinata
a favorire le attività amministrative, politiche e liturgiche della curia, ed essa si
mantiene tale sin quasi alla fine del secolo. I collaboratori del papa necessitano di opere
di diritto, di testi teologici e patristici, mentre non chiedono manuali di retorica o
raccolte letterarie, tanto meno moderne63. A questo si aggiungono le finalità di studio64:
è una possibilità di cui godono tutti i visitatori del pontefice (diplomatici e intellettuali)
e gli universitari della città. A loro erano probabilmente utili i testi esegetici e le
informazioni sulle eresie; questo spiega in parte anche il patrimonio storiografico65.
Gli inventari contengono anche una descrizione fisica di molti tomi: risultano numerosi
i prodotti di lusso. Viene condotta una politica estetica molto attenta che concepisce il
valore monetario e la cura esteriore come parte integrante nell’attribuzione di
importanza ad un codice. La considerazione dell’aspetto esteriore spesso può essere
rivelatrice del ruolo che veniva in origine attribuito al libro. Alcuni di questi volumi
60
In generale i libri destinati al servizio divino sono sempre separati dai libri per lo studio o comunque
legati alla biblioteca vera e propria, anche nei monasteri e nelle cattedrali. Vedi Billanovich 1961, p. 335.
Tale concezione si riflette anche nella percezione dei laici, come nei casi di Petrarca e Boccaccio, i quali,
ad esempio nelle loro disposizioni testamentarie, non solo dimostrano di considerare distintamente i testi
religiosi (e d’uso quotidiano, come il breviario) dalle opere letterarie, ma quest’ultime fra loro, dividendo
opere latine, greche e volgari.
61
Per questo aspetto è utile anche la sintesi in Renouard 1954.
62
Jullien de Pommerol-Monfrin 1991 riserva alcune utili pagine alla questione dei classici nella
biblioteca pontificia (pp. 76-87), sottolineando tra l’altro l’influenza diretta di Petrarca, ben oltre la sua
partenza definitiva dalla città, nonché dopo la sua morte. Con Urbano V aumentano i documenti rari e
Gregorio XI può a buon diritto essere considerato partecipe della prima evoluzione umanistica.
È particolarmente approfondita l’analisi della collezione di Benedetto XIII, cui lo studio è dedicato:
interessa soprattutto notare che le grammatiche latine sono quelle tipiche del tempo: Prisciano e Marziano
Capella, con l’aggiunta di Servio, meno diffuso (e infatti ne erano presenti due manoscritti, contro i sette
di Prisciano). Manca invece Donato.
63
Jullien de Pommerol-Monfrin 1991, p. 62: “ne recherchaient ni manuels de rhétorique, ni recueils de
littérature antique et moderne”. È stato in effetti calcolato che nel 1375 i volumi di teologia
rappresentavano l’87% del totale, quelli di diritto solo il 7% e quelli legati alle artes in generale il 6%.
64
Lo stesso Petrarca avrà avuto accesso alla biblioteca e molto probabilmente il permesso di prenderne in
prestito i volumi.
65
Per approfondire su questo aspetto si può consultare soprattutto Jullien de Pommerol-Monfrin 1991.
409
furono doni prestigiosi, implicito suggello di relazioni politiche o tacita richiesta di
sostegno e favori; le miniature potevano nascondere specifiche affermazioni
ideologiche, soprattutto in un periodo come quello della “cattività avignonese” che
suscitò polemiche e critiche (argomento che appare per altro rigidamente escluso dagli
orizzonti di lettura dei pontefici). Tale osservazione materiale conferma alcune
annotazioni che si erano anticipate: la munificità di papi e cardinali, e il valore
simbolico del libro, oggetto “di prestigio”.
L’inventario voluto da Gregorio XI nel 137566 è invece un vero catalogo ordinato in
sezioni, che comprende milletrecentotto voci, e si basa sull’organizzazione degli
armadi, forse direttamente sulle tabelle affisse a ciascuno di essi. Vanno poi aggiunte
due liste di libri conservati all’esterno, cioè quelli di proprietà personale del pontefice in
carica. Anche qui ci si riferisce principalmente ad un solo ambiente, la libreria magna,
cioè la camera già citata. L’intento della catalogazione non è più pratico e solo
amministrativo, com’era per l’inventario precedente; interviene infatti un principio di
tipo biblioteconomico. Spesso i volumi beneficiano di descrizioni lunghe e dettagliate,
perché lo scopo è favorire un facile reperimento dei testi, per quanto l’organizzazione
fisica sia ancora quella di un archivio, più che di una biblioteca vissuta nel quotidiano67.
Si passa dunque da un criterio esteriore ad un paradigma contenutistico, con il risultato
di rendere per noi perfettamente complementari e molto utili i due inventari. Non è un
caso che l’estensore del primo fosse un colto notaio, mentre quello del secondo un
esperto di classici, Pierre Ameilh de Brenac68; ma anche la formazione e gli interessi
intellettuali di Gregorio XI avranno avuto il loro peso rispetto alla rinnovata concezione
della biblioteca69. L’efficacia del secondo documento sarebbe forse impensabile senza
la possibilità di fare affidamento sul primo; d’altro canto è probabile che nel frattempo,
proprio basandosi sull’inventario del ‘69, la biblioteca fosse stata riordinata.
Resta la distinzione di base tra opere religiose e profane, con i testi biblici separati da
tutti gli altri. La tipologia dei volumi rimane in sostanza quella evidenziata nel ‘69, ma
aumenta il posseduto per ciascun autore, classici compresi, tanto che Seneca perde il
suo primato assoluto.
In tale ridefinizione delle proporzioni si può leggere l’influsso dei primi umanisti, e in
primis dell’esempio petrarchesco: le auctoritates latine sono ormai del tutto accolte
come modelli di pensiero e di stile70.
Attraverso tali fonti, dunque, è possibile avere un’immagine piuttosto chiara
dell’organizzazione della biblioteca, voluta già dal primo papa Roger, Clemente VI (con
l’aiuto del bibliotecario Jean Cot, a noi noto grazie anche alla testimonianza di
66
L’originale è in realtà quasi integralmente perduto: ne resta però un’ottima copia del 1394. Vedi Jullien
de Pommerol-Monfrin 1991, p. 9.
67
A questo proposito, il catalogo di Gregorio XI presenta un’appendice interessante. È un’aggiunta
posteriore non datata, in cui si aggiorna l’elenco dei volumi posseduti, senza più seguire l’ordinamento
per “armadi”, segno che probabilmente si era passati ad una disposizione più accessibile dei testi, su
scaffali o leggii. Vedi Jullien de Pommerol-Monfrin 1991, p. 11.
68
Originario del limosino, era amico del bibliotecario Dachon.
69
Jullien de Pommerol-Monfrin 1991, p. 9: “son expérience d’étudiant ne fut sans doute pas étrangère à
la reforme qu’il entendait, toutes affaires cessantes, introduire dans la bibliothèque”.
70
Riferimento utile e sintetico è ad esempio in Renouard 1954.
410
Petrarca), oltre che ad Urbano V e Gregorio XI; essa è definita ordinacio vetus, in
contrasto con quella nova, come viene chiamata quella commessa da Benedetto XIII. Il
catalogo di quest’ultima risale al 1407 e testimonia la presenza di
millecinquecentottantadue volumi conservati nella “torre del papa” o “torre del
tesoro”71. Gli inventari mostrano la presenza di “libri di poeti”, indicati in una sezione
specifica: sono compresi numerosi autori latini, tra cui spiccano i classici Virgilio e
Sallustio, i tardi Cassiodoro e Boezio, nonché trattati dedicati alla poesia (in particolare
la Poetria nova con relativa glossa)72.
In una valutazione generale, il contenuto della biblioteca pontificia è notevolissimo per
quantità, meno per qualità: è vero che si nota un graduale ampliamento degli autori e
degli argomenti, ma per lo più i titoli ricorrono senza significative variazioni. È una
tendenza tipica degli ambienti ecclesiastici, che si conferma osservando le notizie
disponibili sui patrimoni cardinalizi e vescovili. Con ciò non si intende sottovalutare
l’attenzione dei papi per le novità culturali, né la loro curiosità di veri intellettuali,
dimostrate invece dal puntuale controllo di tutti i volumi acquistati, nonché dalle
commissioni stabilite in prima persona73.
2.2 Biblioteche universitarie74
Al momento della loro fondazione, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, le
università mancavano di organizzazione e di strumenti per l’insegnamento; tale
problema si pose con particolare evidenza fino a quando esse affermarono la propria
indipendenza, anche economica, dalla Chiesa. Erano dunque gli studenti ad avere il
compito di procurarsi, da soli, i testi per lo studio, compresi i manuali; ogni studium
consentiva loro un certo periodo di tempo (si parla, nell’insieme, di anni) per recuperare
tutti i materiali necessari. D’altronde le cifre erano proibitive: non a caso restano
numerose prove del fatto che i libri fossero impegnati per far fronte alle spese
quotidiane, a partire da quelle per l’alloggio. Molti studenti si risolvevano a copiare i
testi di proprio pugno. L’importanza economica dell’oggetto libro è testimoniata anche
dal fatto che gli allievi portassero sempre a casa i loro testi una volta terminato il corso
degli studi; nel caso in cui morissero durante gli anni universitari, i genitori
pretendevano non di rado che almeno i libri fossero restituiti alla famiglia.
Anche per queste ragioni già dal ‘200, ma soprattutto dal ‘300, in molte città
universitarie vennero fondati collegi che, grazie a donazioni di benefattori o al
71
Il contenuto della biblioteca pontificia in questa fase è pubblicato e commentato in Maier 1965;
notevole la presenza di volumi di giurisprudenza, filosofia naturale e morale, logica e matematica,
epistole, storiografia (con spazio per le cronache medievali), medicina.
72
Maier 1965, pp. 177-179. In Jullien de Pommerol-Monfrin 1991 si trova un’ampia e dettagliata
ricostruzione della biblioteca, della sua organizzazione e del suo trasferimento, con attenzione anche alle
curiosità intellettuali di papa Benedetto XIII e al suo gusto per gli autori contemporanei.
73
Jullien de Pommerol-Monfrin 1991 sviluppa questo aspetto soprattutto in riferimento a Benedetto XIII,
pp. 56 segg.
74
Riferimento essenziale sul tema è Jullien de Pommerol 1989.
411
contributo degli ordini mendicanti, offrivano borse di studio; i documenti relativi a tali
istituzioni restano in quantità significative e sono quindi utili per la ricostruzione della
circolazione libraria, anche più degli inventari veri e propri.
I collegi ospitarono spesso una biblioteca, formata grazie ai lasciti testamentari dei
benefattori, salvati dalla dispersione attraverso clausole precise; a queste collezioni,
dapprima piuttosto povere, poi sempre più ampie, gli studenti potevano di solito
accedere liberamente75.
Tuttavia tali soluzioni non rappresentarono il caso più frequente; inoltre solo dal ‘400 in
poi si può parlare di vere biblioteche interne ai singoli studia76. Dunque, sino a tutto il
‘300 il meccanismo principale per l’approvvigionamento dei testi è ancora quello delle
pece e della copiatura individuale a mano: sono gli studenti ad acquistare
autonomamente i loro volumi. Ciò non toglie che ci siano esempi precoci ed illustri di
biblioteche universitarie: la Sorbona77 e la Navarre a Parigi, sotto la protezione del
sovrano, e la Foix a Tolosa, di fondazione ecclesiastica.
Non è semplice conoscere l’esatto contenuto di queste prime raccolte librarie; gli
inventari conservati sono pochi e quasi nessuno è anteriore al ‘400. In ogni caso questi
documenti mostrano una notevole eterogeneità, rispetto all’approfondimento sulle
singole discipline e all’organizzazione di ciascuna biblioteca. In linea di massima è
evidente una dicotomia tra i centri di studio settentrionali e quelli meridionali: nei primi
abbondano le opere teologiche, nei secondi quelle giuridiche, in perfetta ed ovvia
consonanza con la tipologia delle facoltà più apprezzate e frequentate. Una caratteristica
ricorrente è comunque la tendenziale e generalizzata incompletezza delle collezioni, sia
giuridiche sia d’argomento biblico.
La lingua prevalente è il latino, ma c’è qualche traccia di opere volgari, evidentemente
entrate a far parte di queste biblioteche grazie a donazioni.
2.3 Biblioteche di enti religiosi78
La storia delle biblioteche ecclesiastiche è segnata in modo determinante
dall’evoluzione culturale duecentesca. Le istituzioni scolastiche religiose, monastiche in
primo luogo, ma anche capitolari, vennero duramente colpite dai cambiamenti socioculturali che contraddistinsero questo secolo: la Chiesa perse il monopolio
dell’educazione, che comprendeva la produzione e la conservazione librarie. È dunque
lecito domandarsi in che modo i centri monastici e vescovili si siano adattati al nuovo
contesto, mentre fiorivano le scuole laiche e le botteghe artigiane di copisti, i
programmi educativi evolvevano lasciando uno spazio sempre maggiore alle arti liberali
75
Spesso i collegi e gli studia degli ordini mendicanti hanno collezioni più aggiornate e moderne, a
differenza degli antichi centri monastici e capitolari, il cui valore è soprattutto legato alla conservazione
(Verger 1997, pp. 103 segg.).
76
Per la nascita delle prime vere biblioteche universitarie, si veda Verger 1997, pp. 105-106.
77
Uno studio interessante, anche se riferito ad anni posteriori rispetto a quelli in questione, si trova in
Vielliard 1978; è un dato notevole che anche in pieno Rinascimento alla Sorbona mancassero le opere
degli umanisti, sia italiani che francesi.
78
Su questo tema si vedano Garand 1989 e Koeppeli 1966.
412
e al diritto, e infine la formazione religiosa veniva affidata, almeno al suo livello più
alto, alle università degli ordini mendicanti.
Come hanno rilevato le ricerche della Garand sull’area francese, con risultati che paiono
rappresentativi per tutto l’occidente europeo, le biblioteche benedettine conobbero un
parziale ripensamento della propria collezione: lo denota ad esempio l’aumento
significativo dei testi dedicati alle arti liberali, nella prima metà del XIII secolo.
Dunque, ne beneficiarono soprattutto grammatica, retorica, logica, musica e astronomia,
ma anche il diritto (canonico) e la medicina divennero oggetto di lettura, con particolare
attenzione agli autori classici; spiccano inoltre le traduzioni da Aristotele e i commenti
cristiani dedicati alle sue opere. Tale evoluzione lasciò segni particolarmente evidenti in
quei monasteri che ancora vantavano un impegno diretto nell’educazione, e che anzi
talvolta erano legati a corsi universitari. Uno sviluppo sensibile si coglie anche nel
campo della teologia, con un notevole arricchimento sul piano dei commenti
mediolatini ai testi sacri, o più in generale delle opere d’argomento spirituale; gli
orizzonti classico e medievale si accostavano ormai pacificamente nello studio della
storia. Non mancava qualche volume in volgare (francese), di stampo per lo più
didattico; tuttavia spesso erano comprese anche opere meno prevedibili, come il Roman
de la Rose.
L’attualità di tali acquisizioni è evidenziata in prima istanza dalla rinnovata
sistemazione fisica dei volumi, basata sulla materia e sull’ambito d’uso, dunque in
relazione alle effettive necessità formative. Certo, l’accesso a queste biblioteche era di
norma riservato a coloro che vivevano nel monastero, ma per i testi non rari e d’utilizzo
non troppo consueto c’era la possibilità del prestito, in qualche caso anche all’esterno.
Negli ambienti vescovili le scelte tematiche appaiono molto simili, con attenzione
addirittura maggiore al diritto e agli autori profani: non solo nel caso dei manuali di
grammatica, ma anche di romanzi, chansons de geste e raccolte di versi. In alcuni casi la
scelta è ovvia, perché motivata dalle necessità degli insegnanti – come anche nel caso
dei monasteri dove sopravvivevano scuole. È vero tuttavia che di molti autori volgari,
anche celebri come il Boccaccio, vennero accolti solo gli scritti latini. Non mancavano
le opere classiche, cui si affiancarono ben presto i trattati dei primi umanisti.
Per contro, pare che minor importanza sia stata attribuita ai testi di studio e ai manuali,
con l’eccezione di quelle biblioteche capitolari che avevano mantenuto un rapporto
diretto con la scuola, talvolta anche con l’università; nei centri più piccoli e isolati
l’unico settore tradizionale ad essere rinnovato ed ampliato fu quello liturgico. La scelta
dei volumi da acquisire dipendeva anche dal luogo e dalla funzione che caratterizzavano
il capitolo cattedrale: ad esempio, una forte presenza di canonici italiani poteva
comportare una maggior attenzione al diritto romano79. Il rinnovamento del patrimonio
librario negli ambienti capitolari riveste un notevole interesse, perché essi consentivano
l’accesso di esterni – per lo meno religiosi – cui era dedicata una parte specifica della
sala di lettura.
79
Qualche esempio può essere illuminante: il collegio di Tours, dove erano presenti molti canonici
letterati, tra cui anche docenti di Parigi; la cattedrale di Puy, con la sua collezione liturgica inferiore per
quantità e qualità a quella di diritto e artes.
413
Le biblioteche legate agli istituti ecclesiastici affiancavano, insomma, testi sacri e
religiosi (tra i quali, oltre ai materiali liturgici e in generale a quelli connessi all’attività
ecclesiastica, andranno annoverati lettere pontificie, documenti concernenti
l’Inquisizione e la censura), e opere classiche80. Tuttavia tale settore divenne davvero
significativo solamente in età moderna, quando cioè anche le istituzioni religiose furono
influenzate da una prospettiva umanistica.
2.4 Biblioteche private
Benché non siano numerosi, sono particolarmente interessanti i documenti legati alle
biblioteche private tra ‘200 e ‘300, a maggior ragione laddove si tratti di realtà borghesi,
non implicate dunque nella gestione del potere o in questioni politiche e diplomatiche.
La “biblioteca di un notaro aretino81” ce ne offre un esempio significativo: la sua
ricostruzione parte dal testamento redatto appunto dal notaio Simone figlio di
Benvenuto di Bonaventura della Teca, nel 1338. Ne beneficiarono varie istituzioni
religiose di Arezzo, secondo una scelta presumibilmente motivata dalla decisione di
farsi seppellire nella chiesa di S. Domenico. In particolare, Simone divise la sua
biblioteca tra Francescani e Domenicani.
I testi inclusi nell’elenco non sono affatto rari, anzi il caso aretino risulta davvero
rappresentativo delle letture e dell’educazione dell’epoca, anche se questo notaio vantò
indubbiamente un livello culturale alto, soprattutto sul piano letterario e filosofico. Tale
aspetto è in parte giustificato dalla probabile duplice professione di Simone, notaio e
maestro: di lui non sappiamo molto, ma potrebbe aver insegnato anche presso lo
studium aretino.
I classici in suo possesso non erano pochi (Boezio, Tito Livio, Macrobio, Sallustio,
Terenzio, Cicerone, Agostino, Cassiodoro, Apollonio, Seneca, Aristotele); egli
disponeva però di una sola grammatica, il Catholicon, mentre mancavano altri testi
tipici dell’ambiente scolastico.
Purtroppo tali informazioni, importanti sul piano storico e per la ricostruzione del
contesto culturale, non offrono contributi rispetto alle letture volgari. Tuttavia se ne può
trarre un’altra utile considerazione a proposito degli scambi librari tra mondo laico ed
ecclesiastico, favoriti dalla frequenza dei lasciti testamentari di privati a enti
ecclesiastici, dovuti a motivi devozionali e penitenziali. Si rivela così un’ulteriore forma
di circolazione dei testi classici, anche prima che l’età umanistica vera e propria li
favorisse su scala più ampia. Possiamo pensare che eventuali possessi volgari siano
similmente passati anche alle biblioteche religiose e attraverso di esse siano stati letti da
utenti più vari e numerosi? Per lo meno è possibile ipotizzare che anche quegli ambienti
ne abbiano favorito la conservazione, se non la circolazione.
Patricia Stirnemann82 si è occupata di simili problemi a proposito della Francia
settentrionale, sottolineando in modo specifico l’importanza della svolta intellettuale
80
Per un elenco dettagliato si veda Koeppeli 1966.
Pasqui 1989.
82
Stirnemann 1989.
81
414
che si delinea tra XII e XIII secolo, quando viene fondata l’università di Parigi, nello
stesso periodo in cui la classe nobiliare è interessata da un’importante evoluzione
sociale.
Partendo dal presupposto che ben pochi avevano disponibilità economiche tali da
permettere il possesso di libri, le biblioteche private borghesi assunsero in linea di
massima tre configurazioni. Innanzitutto si riscontrano piccole raccolte, entro i dieci
volumi, per lo più legate alla professione del proprietario: in primis maestri83 ed
ecclesiastici. Vanno poi considerate collezioni un po’ più ampie, difficili da rintracciare
a causa delle dispersioni seguite ai lasciti testamentari, di cui spesso beneficiarono enti
pubblici o eredi molteplici. L’interesse di queste biblioteche, nella maggior parte dei
casi appartenute ad ecclesiastici, risiede nello spazio che viene concesso alle curiosità
individuali, ma anche nella loro capacità di riflettere la realtà culturale del tempo e la
sua evoluzione. Per i patrimoni davvero vasti, infine, bisogna pensare alle corti
principesche o addirittura reali, che esprimono necessità diversificate, didattiche,
amministrative, morali, cortesi, d’intrattenimento; quest’ultimo aspetto si lega
all’attività di mecenati eventualmente svolta dai proprietari a vantaggio di poeti e
letterati. Tali biblioteche si sono conservate più a lungo, perché superarono nella gran
parte dei casi il passaggio in eredità senza essere smembrate, in quanto patrimonio
associato alla gestione del potere (ed anzi suo simbolo).
Osservando i libri, e perciò gli interessi degli aristocratici inseriti nei ranghi della
Chiesa, si nota già nel XII secolo una certa ricchezza: a prescindere dagli immancabili
testi religiosi, abbondavano i classici, i trattati di diritto, le opere teologiche, i volumi
d’argomento tecnico e scientifico, i testi storiografici. La percezione che siano in gioco
precise scelte intellettuali deriva soprattutto dalla presenza di autori talvolta poco
conosciuti dai contemporanei.
È più difficile conoscere, invece, il contenuto esatto delle sempre più numerose
biblioteche principesche, per la maggiore rarità degli inventari e di altri documenti. È
chiaro comunque che erano diffuse le opere di storia, i classici, ma anche gli autori
latini coevi. Man mano che la preparazione media dei laici migliorava, a partire dal XII
secolo, si diffusero le opere letterarie d’intrattenimento e più in generale i volumi
volgari, come testimoniano le traduzioni in volgare di trattati religiosi. La consunzione
materiale di questi volumi ne dimostra per altro l’uso assai assiduo; l’attenzione ai
volumi profani è segnalata, inoltre, dal lusso che li caratterizza, fino ad arrivare a veri e
propri oggetti d’arte.
Nel medesimo periodo, nelle biblioteche reali si coglie un’evoluzione non solo
quantitativa, ma qualitativa, nella maggiore partecipazione alla vita culturale da parte
delle donne. Com’era prevedibile, è significativa la presenza di testi religiosi, anche
83
In merito ai patrimoni privati, i documenti legati ai lasciti testamentari rivelano che i maestri già
all'inizio del '200 possiedono biblioteche eccellenti se paragonate alla diffusione dei libri all'epoca; il
contenuto dipendeva necessariamente dalla professione e perciò abbondano i testi tecnici e i manuali.
Simili criteri informano spesso parte delle raccolte librarie delle case nobiliari, dove la formazione dei
giovani avveniva spesso in forma domestica e privata.
415
liturgici, e scolastici, che dovevano consentire la preparazione dei giovani allevati a
corte; la letteratura profana oscillava a seconda delle inclinazioni del singolo sovrano e
quindi del suo seguito. Ad esempio, Luigi IX detto il Santo è noto per non essere stato
un mecenate di poeti (siamo alla metà circa del Duecento), mentre Maria di Brabante,
seconda moglie del suo successore, rivoluzionò radicalmente la situazione; anche
Filippo IV è celebre per aver apprezzato la letteratura cortese, anche se soprattutto
quella orientale.
2.5 La biblioteca dei Colonna
Conoscere la biblioteca della famiglia Colonna in Avignone e in generale la diffusione
dei testi nell’ambito della sua clientela sarebbe essenziale al fine di ricostruire la
formazione del giovane Petrarca, ben presto legato come amico (1325 ca) e dipendente
(1330) a questa dinastia cardinalizia.
Nell’Archivio Vaticano è conservato un documento utile in proposito, un codice
pergamenaceo che in sessantanove carte elenca i possessi del cardinale Pietro Colonna
(1260ca-1326), comprese le entrate dei suoi benefici per gli anni 1313-1317; a tale
testimonianza si può aggiungere quella del suo testamento84. Parte del patrimonio era
composto da libri, di cui resta un elenco considerevolissimo innanzitutto per quantità,
poiché ammonta a centosessanta codici. L’inventario rivela per altro una forte
omogeneità di contenuto rispetto al patrimonio papale; sono elencati infatti testi sacri,
d’argomento religioso (tra cui diciassette Bibbie) e di patristica; testi giuridici; opere
sulla storia antica ed ecclesiastica; un testo di medicina. Sono solo tre le opere
propriamente letterarie qui citate: le lettere di Seneca, una raccolta di versi latini e un
non precisato volume “volto alla distrazione”. Il limite di tale ricostruzione risiede
nell’impossibilità di definire i gusti più personali del cardinale, perché circa metà dei
suoi volumi derivava direttamente dalla biblioteca del cardinale Pietro Peregrosso,
acquistata in blocco alla sua morte (1295).
Tra gli elementi più notevoli andranno considerati l’abbondanza di autori
contemporanei e la generale scarsità di versi, anche di argomento sacro.
3. La realtà scolastica85
L’interesse per l’istituzione scolastica in questa sede si giustifica in primo luogo con
l’intenzione di non tralasciare nessun aspetto della vita culturale quale la conobbe
Petrarca, e dunque nessuna delle esperienze formative che ne caratterizzarono la
giovinezza.
84
Per queste informazioni si vedano in particolare Kuhn-Steinhausen 1951 e il DBI, alla voce Colonna,
Pietro.
85
I riferimenti bibliografici utili in merito sono numerosi: Manacorda 1980, Scaglione 1976, Camargo
1983, Huntsman, 1983, Murphy 1974 e 1989, Taleo 1960, Black 1991, 19961 e 19962, Billanovich-Monti
1979, Milani 2007, Bagni 1984, Grendeler 1991, Verger 1996, 1997 e 1982, Fletcher 1994, Percival
1975, Viscardi 19704, Curtius 1995.
416
D’altro canto gli studi di grammatica e di poetica dedicati al latino divennero tra metà
Duecento e inizio Trecento il modello per preparare opere che favoriscano
l’acquisizione delle competenze tecniche e linguistiche relative al provenzale e alla
letteratura cortese. Infatti, benché nulla faccia pensare a “scuole” che rispondessero a
simili esigenze, sicuramente circolarono materiali pensati per l’apprendimento in ambito
poetico e volgare.
Le informazioni disponibili sul sistema scolastico medievale non sono molto numerose:
solo a proposito dell’istruzione universitaria è agevole una piena ricostruzione, e non
sempre per quanto concerne programmi e metodi, mentre per quella inferiore, almeno
sino al Duecento, restano quasi soltanto documenti notarili, in cui talvolta sono
nominati magistri e grammatici. Qualche indicazione più estesa può essere raccolta per
il XIII secolo, ad esempio a proposito dell’estensione dell’insegnamento elementare
all’“abbaco”, cioè all’aritmetica in senso pratico. Con il Trecento le fonti divengono più
abbondanti, ma sono solo parzialmente utili allo studio dei secoli precedenti: sono utili
piuttosto a chiarire la graduale trasformazione del sistema scolastico verso
l’organizzazione umanistico-rinascimentale. Basta, comunque, per rilevare che sino alla
svolta tre-quattrocentesca, il principio dominante è la fiducia nelle qualità del singolo
insegnante86.
Come si configura, dunque, l’orizzonte scolastico sul finire del Medioevo87?
La base della cultura medievale si identifica innanzitutto col latino, la lingua scritta e
grammaticale per eccellenza, resa prestigiosa dall’eredità classica e letteraria, ma anche
sacralizzata dall’uso cristiano e dai Padri della Chiesa88. Tale concezione è in parte
favorita dal suo statuto non democratico: la massa ne ha perso qualunque competenza, è
la lingua dei dotti, dei litterati e dunque associata alla scrittura e allo studio. Le
testimonianze di volgare scritto sono tali da permettere l’ipotesi che i maestri elementari
insegnassero anche una base grammaticale per la “lingua naturale”, almeno nelle
primissime classi. Tuttavia, è molto improbabile che siano esistite scuole dedicate solo
al volgare; piuttosto si sarà trattato dello strumento con cui il maestro comunicava con
gli studenti più giovani, al cui livello non pochi si fermavano89. Per il resto, la scuola
era in latino; anche chi ottenesse solo una formazione molto superficiale, insufficiente
per parlare di “cultura”, ne aveva un’infarinatura; il livello di preparazione poteva
essere molto differenziato, a seconda di quanto fossero durati gli studi e dell’abilità del
maestro.
86
Verger 1982, p. 41: i centri davvero notevoli, anche per l’insegnamento superiore, sono pochissimi e
soprattutto hanno vita breve, poiché la loro efficacia dipende integralmente dalla presenza di un illustre
insegnante, che poteva trasferirsi o abbandonare la professione.
87
Un riferimento utile per la sua ampiezza, nella considerazione degli influssi orientali e
dell’organizzazione del sapere, è AAVV 1975, in particolare i saggi di McKeon e Gregory. Per
l’evoluzione della scuola nell’Alto Medioevo si vedano Vergier 1982 e 1997.
88
Alcuni autori di manuali scolastici sostengono che l’insegnamento del latino è lo scopo primario della
scuola (Viscardi, 19704).
89
Si veda ad esempio Verger 1997, soprattutto le pp. 20-21.
417
Un ulteriore elemento che definisce in modo essenziale90 il percorso degli studi sono le
arti liberali91, nella loro ripartizione in trivium (grammatica, retorica, dialettica) e
quadrivium (aritmetica, geometria, musica e astronomia92), di origine classica93. Il
valore di tale ripartizione si coglie pienamente nel rapporto tra educazione elementare e
livello universitario. La prima, in particolare nelle sue forme più efficaci ed
approfondite, rappresenta la base su cui si innesta il secondo e ne è la “copia
semplificata”94: la formazione superiore, infatti, riparte dalle sette artes, cui è dedicata
una facoltà specifica, preliminare a qualunque specializzazione (teologia, diritto,
medicina)95. Durante gli studi di base, resta ben poco spazio per altre discipline. In rari
casi – e soprattutto in ambiente ecclesiastico – potevano essere impartiti rudimenti di
diritto, fondamentale per l’impegno professionale. Al contrario sono sempre escluse le
lingue, il cui apprendimento, se necessario, era lasciato alla pratica e quindi ai viaggi.
90
Il riferimento alle artes è molto frequente e diffuso. Si legga ad esempio il partimens Guilhem, prims
iest en trobar a ma guiza di Guilhem Augier Novella, in cui le sette arti liberali sono identificate come
summa dello scibile umano.
91
La centralità delle arti liberali rispetto al metodo didattico risale all’antica Grecia, secondo la tradizione
tale rinnovamento del sistema formativo si deve a Ippia di Elide. Mentre Platone fallisce nel suo intento
di focalizzare l’educazione sulla filosofia, il tentativo di Isocrate è stato efficace: egli propone una
mediazione, per cui la cultura generale (originaria definizione delle “arti liberali”) doveva rappresentare
un punto di partenza per arrivare alla filosofia. In merito all’epoca romana è particolarmente
rappresentativo il punto di vista di Seneca, che identifica le artes in relazione a ciò che è degno di un
uomo libero e dunque non tende al guadagno materiale. Intanto, sul finire dell’età antica, alla filosofia
non è più attribuita alcuna specifica funzione formativa e alle artes resta il ruolo di unica struttura
dell’apprendimento. Per l’elaborazione e la sistemazione del sistema delle sette arti liberali vanno
ricordati Marziano Capella e sant'Isidoro. Ad Isidoro di Siviglia si devono poi le Etimologie, eredi
anch’esse delle grammatiche classiche, almeno sul piano strutturale. Boezio, di cui è essenziale il
contributo all’aritmetica, riprende i precedenti agostiniani e procede ulteriormente nella definizione delle
arti liberali: a lui si devono la distinzione di trivio e quadrivio, l'organizzazione di base delle diverse
discipline e la definizione del ruolo della grammatica.
92
L’interesse per queste discipline, in gran parte dimenticate nei primi secoli dell’Alto Medioevo, si era
già ravvivato in epoca carolingia.
93
Secondo Verger 1997 l’organizzazione antica degli studi viene come “traviata” dalla concezione
medievale, ad esempio nella preferenza per la logica più che per la dialettica in senso proprio, o negli
accenni di filosofia. Domina in generale Aristotele, modello anche a livello metodologico, per
l’argomentazione e la classificazione dei fenomeni.
Curtius 1995 ha evidenziato due diverse teorie, in parte comunque concordi, diffuse nel Medioevo in
riferimento alle arti liberali. Da una parte, la posizione patristica, che deriva dalla tradizione ebraica e
alessandrina; permane certamente l’influsso della filosofia greca, che per il tramite della riflessione
religiosa giunge sino alle scuole teologiche di Alessandria ed infine ai Padri della Chiesa, che pure non
sempre sono concordi tra loro. Tale eredità orientale giunge sino a Cassiodoro, il cui ruolo nella
sistemazione delle artes e del sistema scolastico in senso cristiano è stato essenziale. Una seconda teoria è
definita “profana” e riconduce le sette arti alla religione pagana oppure agli influssi della cultura egizia o
ancora alla natura e ai sette pilastri della saggezza.
94
Verger 1997, p. 68.
95
Una buona preparazione elementare, magari con l’aggiunta di un apprendistato efficace, era spesso già
sufficiente per l’avvio professionale (Verger 1997); il percorso compiuto sino alla licenza superiore era
nella maggior parte dei casi solo un modello ideale, che addirittura gran parte dei maestri elementari non
aveva portato a compimento. Si è già parlato, inoltre, della preferenza per la teologia tipica dei paesi
nordici e della prevalenza del diritto in area meridionale.
418
Non è molto diffusa nemmeno la storia, concepita più come complemento di altre aree
di studio che come dimensione autonoma96.
In quanto discipline preliminari ad ogni altro apprendimento, grammatica e, in parte,
retorica sono assolutamente centrali: tale importanza spiega perché si discuta tanto delle
modalità con cui debbano essere apprese. A ciò si aggiunge la loro finalità principale
come strumenti per la comprensione dei testi sacri e la predicazione; esse costituiscono
anche il saldo riferimento con cui orientarsi nei testi letterari senza lasciarsi sviare dal
puro (e peccaminoso) gusto per la forma. La grammatica, se la si interpreta nei termini
legittimi, può essere considerata utile anche in riferimento alla vita della comunità: offre
una professione rispettata e insegna la virtù, determinando una ricchezza sia esteriore
che interiore97.
Nonostante il problema della funzione e dell’interpretazione delle letture classiche, la
presenza degli auctores si mantiene costante per tutto il Medioevo; di fatto la visione
cristiana non impedisce un apprezzamento anche estetico. Benché la polemica contro la
tradizione pagana non venga meno, il continuo riferimento alle auctoritates (e alla loro
lingua) è salvaguardato dal conservatorismo della scuola; dunque nella pratica lo studio
della grammatica non serve solo alla comprensione dei testi religiosi.
La scelta ed eventualmente la preparazione dei manuali98 è fondamentale, in primis per
la grammatica99. Anche in tal senso, la tradizione classica offre modelli indiscutibili,
nonché i materiali veri e propri: in parte si usano i manuali antichi, in parte vengono
composti nuovi trattati ispirati al loro esempio, inoltre i testi letterari su cui esercitarsi
sono quelli della grande tradizione100. Tuttavia sono i manuali d’epoca medievale ad
aver avuto la diffusione più notevole, continuando ad essere utilizzati in età umanistica,
quando in linea teorica erano stati ampiamente superati (e disprezzati), senza che ne
derivasse però la preparazione di materiali altrettanto convincenti.
Lo strumento didattico essenziale è il dialogo, anche in forma di vera e propria disputa;
l’approccio orale si riflette nella stesura dei trattati, per lo più impostati come scambio
96
Non appartengono all’orizzonte scolastico le discipline che richiedano sperimentazione o osservazione
della natura; le arti tecniche si apprendono a bottega e con l’apprendistato.
97
Tale concezione cristiana del cursus studiorum resta valida sino a tutto il ‘600.
98
Restano tracce di tali testi in tutti gli ambienti in cui avveniva l’insegnamento, in particolare nelle case
dei maestri e nelle abitazioni di famiglie benestanti i cui figli erano educati privatamente. I testi utili allo
studio hanno una sede specifica anche nei monasteri e nelle cattedrali. Le biblioteche monastiche e
religiose hanno spesso conservato, anche in ambito scolastico, testi antichissimi, probabilmente più per
tendenze conservative, che per la loro effettiva utilità pratica. Per quanto riguarda la pedagogia, gli
estensori di manuali corrispondono a quelli delle norme per trattare i ragazzi. Il rapporto
insegnante/alunno deve essere stato molto rigido, soprattutto nelle scuole episcopali, per ammorbidirsi
gradualmente in quelle laiche.
99
Il termine grammatica deriva dal greco
“lettera”; per Platone e Aristotele tale disciplina
concerne solo la lettura; è in età ellenistica che si aggiunge il commento ai poeti ed è Quintiliano che
definisce questi due momenti, la scienza di parlare correttamente e la letteratura. E infatti litteratura, da
littera, comincia ad essere utilizzato in alternativa a grammatica. Conseguenza di tale allargamento è una
perdita di distinzione rispetto alla retorica.
100
La struttura stessa delle biblioteche medievali, così come ci è restituita dagli inventari, mostra lo
strettissimo legame tra apprendimento della grammatica e approccio agli auctores: si succedono dunque
manuali di grammatica e retorica, opere storiografiche e poetiche. La grammatica e la retorica si
apprendono leggendo le auctoritates e servono innanzitutto per comprendere appieno quelle stesse opere.
419
di battute o serie di interrogazioni. Tutto ciò rivela la funzione essenziale della
dialettica.
Le tre discipline del trivio, perciò, si sostengono e compendiano reciprocamente, il che
evidenzia a maggior ragione la loro importanza come ossatura dell’educazione
occidentale: la grammatica è arricchita da una prospettiva retorica, per l’argomentazione
e l’attenzione allo stile, mentre il procedimento logico e dimostrativo beneficia della
dialettica101. Anche la filosofia contribuisce in modo rilevante allo studio grammaticale,
nell’analisi delle funzioni logiche e semantiche (sintassi)102.
Nella realtà quotidiana della scuola, per lo meno elementare, il ricorso all’esempio
rimane il principio di partenza. Le esigenze pedagogiche impongono di attenersi al testo
preso in esame (classico103 o appositamente composto): a questo livello la retorica
influisce più della dialettica. In tal modo, anche lo studente alle prime armi concepisce
un triplice obiettivo: comprensione dei meccanismi linguistici; buone competenze
nell’espressione scritta e orale, oltre che nella lettura; un primo contatto con la
letteratura.
L’evoluzione dei manuali di grammatica latina è abbastanza chiara: se ne possono
individuare diversi periodi, a seconda di come cambia il rapporto con la tradizione
classica. Essa domina in modo evidentissimo in età tardo-antica e poi nel periodo
carolingio. Le compilazioni di riferimento sono (e saranno a lungo) quelle di Donato e
Prisciano104; ma sono fondamentali anche gli sforzi di sant’Agostino e Marziano
Capella, Boezio e Cassiodoro per la cristianizzazione dell’eredità latina; Cassiodoro in
particolare prepara il primo manuale specifico per la scuola cristiana. In un secondo
momento si diffondono le prime compilazioni medievali che non si limitano alla
sistemazione del patrimonio antico, ma lo rinnovano ed ampliano: in particolare hanno
ampia diffusione alcuni ponderosi trattati in versi d’origine inglese e francese. Intanto, i
materiali della tradizione continuano ad essere conservati ed usati, ma spesso in una
versione reinterpretata, cioè attraverso una profonda attualizzazione105. Una nuova fase
di rinnovamento si deve alle teorie umanistiche e rinascimentali, nel ‘400 avanzato. In
tutto il XIV secolo la produzione grammaticale sembra affievolirsi, probabilmente
perché i materiali già disponibili appaiono adeguati. D’altro canto, lo si è anticipato,
101
Si spiegano, così, alcune caratteristiche della Scolastica (per la cui evoluzione si legga Verger 1982,
pp. 135-148 e p. 158 segg) non a caso una delle manifestazioni più riconoscibili dell’esperienza
universitaria medievale; la preminenza dell’atteggiamento logico, in particolare, spinge sempre più ad
accantonare le auctoritates classiche nell’apprendimento della lingua, inventando per gli esercizi esempi
appositi.
102
Si notano in proposito significative innovazioni metodologiche, poiché non si parte dai dati
morfologici, e i modi espressivi (significandi) sono definiti in base a principi astratti. Il medesimo
approccio si riscontra d’altronde nello studio dell'ordo verborum di frase e periodo: lo scopo ultimo è
conoscere il linguaggio in sé e attraverso di esso la struttura stessa del mondo.
103
In tal caso si può sottolineare una delle occasioni più tipiche di percezione storica, poiché l’opera viene
presentata anche come prodotto del suo tempo.
104
Di Donato sono diffuse due versioni, l’ars minor – dieci pagine in forma di domande e risposte – e
l’ars maior. L’Institutio grammatica di Prisciano, composta a Bisanzio nel VI secolo, è una trattazione
più completa perché offre già una base di letteratura.
105
Ciò vale anche per gli studi universitari.
420
anche in età rinascimentale sono le opere teoriche a rinnovarsi, e non i manuali per lo
studio elementare.
I testi di gran lunga più comuni, per la grammatica, sono dunque Prisciano e Donato106
(gli altri trattati tardo-antichi sono molto meno autorevoli); il secondo è assolutamente
preminente in Italia, dove si predilige un atteggiamento conservativo, anche quando nei
paesi nordici si erano già diffuse nuove compilazioni originali, benché ispirate ai
classici. Tuttavia nelle scuole si preferiscono adattamenti e attualizzazioni del manuale
latino, tra cui spicca per diffusione e resistenza il cosiddetto Ianua107. Tale
semplificazione, comunque ricca e ben articolata sul piano del contenuto108, ha ispirato
varie compilazioni d’ampio respiro, come le Derivationes e il Catholicon.
A prescindere dal testo di riferimento, il maestro seleziona i testi e li affronta secondo il
proprio metodo. Le tracce di un approccio personale (e di una variante linguistica
locale) restano spesso sui margini dei testimoni manoscritti. Tali informazioni rivelano
anche un’evoluzione graduale degli interessi, più rapida nelle zone settentrionali che in
quelle meridionali, verso questioni e dettagli grammaticali sempre più limitati e
minuziosi109.
La forma secondo cui sono presentati i contenuti grammaticali varia sensibilmente nelle
diverse aree geografiche. Mentre in Francia e in Inghilterra110 i trattati sono per lo più in
versi, in Italia si predilige ancora la forma catechetica, il che giustifica ulteriormente la
prolungata preminenza delle opere antiche. Non sono preclusi momenti di scambio: i
106
Questi testi autorevoli restano nei programmi ufficiali nelle facoltà di arti, quindi al livello più alto
dell’insegnamento grammaticale. Se però si guarda all’esempio di Parigi, si nota un ammorbidirsi delle
imposizioni nel corso del ‘300, che suggeriscono criteri meno rigidi per l’attribuzione della licenza finale,
almeno rispetto alle competenze in latino. Vedi Kibre 1978, p. 218. Un’altra possibile ragione per questa
tardiva preferenza verso manuali medievali, cui si è già accennato, potrebbe essere la contrapposizione tra
autori pagani e cristiani. Il Doctrinale di Alessandro di Villadieu, un francescano, è ad esempio molto
apprezzato, come anche il Graecismus di Eberardo di Bethune: in entrambe le opere gli esempi sono tratti
da testi cristiani.
107
Se ne conoscono due versioni: una rappresenta il manuale vero e proprio, l’altra comprende una
sezione più estesa dedicata all’analisi delle parti del discorso. La redazione estesa è tipica soprattutto del
XIII secolo, quando gli studi grammaticali conoscono una fase di intensa vitalità e diffusione. Nel
Trecento si torna in molti casi alla versione breve, laddove si fa più precisa la distinzione tra corsi di
livello diverso e i maestri dalla preparazione più limitata lasciano sempre più spazio al volgare. La
rielaborazione dell’Ars minor donatiana nasce già nell’Alto Medioevo, probabilmente a causa
dell’insoddisfazione per strumenti d’apprendimento pensati per chi parlasse la lingua da studiare. Vari
argomenti andavano integrati: paradigmi, coniugazioni e declinazioni, che non a caso erano presenti
nell’opera di Prisciano, destinata anche all’est dell’Impero e quindi a parlanti greci. Quest’ultimo trattato
è anche un modello metodologico fondamentale dall’XI secolo in poi, per le partitiones che analizzano
versi poetici (nello specifico il primo di ciascun libro dell’Eneide) segmentandoli in minime partizioni.
Questo approccio si sovrappone così a quello proposto da Donato, organizzato intorno alle otto parti del
discorso. Un superamento della prospettiva donatiana si ha anche in relazione al già citato passaggio da
uno sguardo ampio e generale, che l’Ars minor ben rappresentava, allo scambio di domande e spiegazioni
sempre più minuziose. Anche a questo proposito, benché la terminologia sia sempre quella di Donato, i
contenuti si devono spesso a Prisciano.
108
Tale giudizio vale però solo per la versione utilizzata sino al ‘300; quella quattrocentesca diviene
brevissima e molto superficiale.
109
Si diffonde anche un approccio in apparenza più concreto, perché più aderente al testo nella sua realtà
storica: è l’approccio dei modistae, così definiti per il loro studio dei modi significandi, diffuso soprattutto
nella Francia settentrionale a partire dall’XI-XII secolo e favorito dallo studio di Aristotele.
110
L’antecedente forse più illustre di questa attività compilatoria è probabilmente il Venerabile Beda.
421
principali trattati in versi circolano anche in Italia, mentre in Francia sono attestati
manuali dall’impostazione classica, anche se di solito redatti già in volgare – una
tendenza, questa, sempre più diffusa111. Il bisogno di simili traduzioni testimonia la
padronanza del latino sempre inferiore da parte dei giovani. Soprattutto nelle aree
meridionali, infine, è apprezzata una soluzione manualistica composita che raccoglie
con intento di esaustività trattati su argomenti diversi.
È essenziale, inoltre, la produzione di glossari: quelli classici, non più accessibili,
vengono sostituiti da nuove compilazioni, redatte spogliando testi biblici e medievali,
con esiti censurati dagli umanisti. In ambito lessicografico112 il ricorso al volgare è ben
presto costante: dopo la stagione dei grandi dizionari monolingui (come il famoso
Papia), con il Trecento il bilinguismo è generalizzato. Nella lingua materna possono
essere riportate non solo sintetiche traduzioni, ma anche interi versi, di solito anonimi,
in funzione esplicativa.
Lo studio elementare della grammatica, in ambito sia pubblico sia privato, si articola in
tre livelli, concepiti in relazione all’uso del manuale (prima, durante e dopo la sua
lettura) e alle diverse competenze degli insegnanti. Solo alla fine gli studenti giungono a
studiare i testi e quindi la lingua degli autori. La memoria è costantemente esercitata, in
quanto utile all’apprendimento linguistico; intanto, gli alunni iniziano a leggere, prima
con la tabula o carta per imparare l’alfabeto, poi con il salterio per esercitarsi nella
lettura vera e propria. Il nome indicherebbe una raccolta di salmi, ma è probabile che si
intenda semplicemente una raccolta di letture religiose, che dunque educavano anche in
senso morale. È probabile che nella lettura si distinguessero due fasi: la pura
comprensione della lettera (testo) e il vero apprendimento linguistico e stilistico
attraverso l’osservazione del testo, che richiedeva la piena comprensione del senso
(senno); poteva essere utilizzata anche una traduzione interlineare.
Solo a questo punto si avvia il corso di latino vero e proprio, che si articola in minor,
mediocris e maior a seconda delle regole insegnate. La morfologia ha meno importanza
della sintassi, la quale comprende lo studio della composizione della frase e del
discorso, oltre ad alcuni rudimenti di ornatus, anticipando la retorica. In questa fase
vengono di certo letti gli autori classici: molti umanisti (e in parte lo stesso Petrarca)
hanno biasimato l’eccessivo spazio concesso a figure minori e tarde, ma la grande
tradizione degli auctores non è mai venuta meno113. Le fonti distinguono tra maiores
(autori classici) e minores (autori medievali114), ma non esiste un concetto
corrispondente a quello moderno di “classicità”: se un’auctoritas è riconosciuta come
tale, non sono necessarie ulteriori distinzioni. Si privilegia la poesia (Virgilio, Ovidio,
111
In effetti la chiusura dei singoli ordini monastici rappresenta un vincolo e un limite molto più
percepibile rispetto alla nazionalità.
112
L’attenzione al vocabolario, come quella per la struttura della frase, va al di là dell’apprendimento
linguistico, verso la nuova attitudine alla traduzione delle opere latine in volgare. Per sostenere questa
pratica, che sembra essersi sviluppata in primo luogo in ambito bolognese, sono preparati strumenti
specifici.
113
Il momento di maggiore crisi si delinea nel XII secolo, in relazione al trionfo della dialettica e al rifiuto
delle metodologie tradizionali da parte degli studenti.
114
Medievali, ma ritenuti classici sono ad esempio i Disticha Catonis, mentre sono preparati apposta per
gli studenti testi diffusissimi quali l’Aesopus e il Teodulus.
422
Stazio, Lucano), ma tra i prosatori sono apprezzati Cicerone, Boezio, Sallustio e dal
‘300 Valerio Massimo115. Le opere più tipiche e diffuse sono definite “curriculari”;
hanno sempre un contenuto esemplare anche in senso morale. Si sono conservate ampie
antologie cui il docente poteva attingere, che mostrano la preferenza per i contenuti
mitologici, geografici, retorici, ma non mancano testi che permettessero utili
considerazioni stilistiche. Solo gradualmente, progredendo verso le classi superiori, le
spiegazioni e i commenti morali (ma anche retorici) acquisiscono maggior profondità.
Si legge e commenta in latino, poi si passa alla parafrasi e alla spiegazione
grammaticale; in questa fase più avanzata il volgare è escluso, anche perché manca di
uno statuto grammaticale forte (e di strumenti pedagogici) che permettano di parlarne
con un approfondimento paragonabile a quello ora dedicato alla lingua classica. Ciò non
toglie che dopo il corso di grammatica si tornasse all’uso della lingua materna: molte
glosse sono in volgare, soprattutto dalla seconda metà del ‘300, ma già dal pieno ‘200
per gli autori minori, come Boezio, mentre le postille alle opere delle grandi
auctoritates (ad esempio Cicerone) rimangono quasi sempre latine.
La produzione manualistica dedicata alle artes dictandi si sviluppa con abbondanza tra
XII e XIII secolo, in relazione da una parte alle facoltà di diritto, fino a quando esse
acquisiscono sufficiente autonomia intellettuale, dall’altra all’ambiente comunale, per
quanto embrioni di tali discipline si fossero delineati già in ambiente ecclesiastico116.
Nell’XI secolo117 si diffondono i primi testi didascalici118, che restituiscono nuova vita
allo studio dell’ornatus e all’amore per lo stile. É essenziale in tal senso poter disporre
di modelli per la compilazione di lettere e documenti119; la definizione stessa di ars
dictamini suggerisce però una concezione più vasta. Infatti, sin dall’epoca antica non si
dettano solo epistole e documenti ufficiali, ma anche scritti letterari dall’elaborazione
particolarmente ricercata; ben presto dictare significa piuttosto “scrivere, comporre” e
poi “comporre in versi”.
I primi trattati didattici medievali d’argomento retorico sono stati redatti tra la fine del
XII e la fine del XIII secolo. Il limite di tali documenti è rappresentato dalla noncuranza
per il momento orale, che è invece un fattore essenziale nella pratica della retorica; è
significativo che gli autori siano per lo più maestri di grammatica. In effetti, anche per
l’analisi dei tropi e in generale le considerazioni sull’ornatus, i principi propriamente
115
Per le testimonianze sugli autori letti abitualmente si vedano in particolare le pp. 59-62 di Curtius
1995.
116
Per una sintetica storia delle sopravvivenze retoriche nell’Alto Medioevo, tra decadenza dell’élite
romana e contributo del clero anglosassone e irlandese, si veda Boglar 1982. Tuttavia, lo studioso ritiene
che le applicazioni scolastiche, poetiche ed epistolografiche della retorica tra Duecento e Trecento
segnino quasi un eclissarsi della disciplina in sé, fenomeno che giustificherebbe in parte la definizione di
“secoli bui e barbari” da parte degli umanisti in riferimento a tutto il Medioevo.
117
Da una parte in questo periodo si irrigidisce l’associazione tra retorica e composizione epistolografica;
dall’altra restano le tracce della concezione antica, spirituale della retorica come modello di vita,
improntata all’insegnamento di Cicerone, Quintiliano e Agostino.
118
Alcuni esempi celebri: Ekkehart IV in Germania, Marbodo di Rennes in Francia (Curtius 1995, p. 87).
119
Raccolte di modelli esistono sin dall’epoca merovingia e carolingia, al servizio di corti e cancellerie;
l’esempio della raccolta epistolare di respiro letterario è però classico, come nei casi di Cicerone, Seneca,
Plinio e più tardi Cassiodoro. Per questi aspetti si veda in particolare Curtius 1995, pp. 87-88.
423
retorici si mescolano e confondono con quelli grammaticali. D’altro canto era già
classica la concezione estesa della grammatica come “arte dell’espressione corretta” e
quindi base della letteratura: si giustifica l’identificazione della disciplina quale punto di
riferimento per tutta la formazione successiva, storica, poetica e retorica, nonché
rispetto alla lettura di testi biblici e religiosi120.
Nei manuali di retorica si coglie però l’intenzione di fornire strumenti più specialistici
rispetto alle basi grammaticali. Non ci si limita più a riflettere sulle forme del discorso e
sui loro collegamenti nella frase e nel periodo: bisogna guardare all’effettiva
composizione del testo. L’apprendimento si completa attraverso i commentari, che
servono ad approfondire la lettura di opere grammaticali o di testi letterari. Gli aspetti
della retorica cui si presta maggior attenzione sono quelli logici, lasciando da parte i
paradigmi storici d’eredità classica; di fatto, la disciplina è soprattutto impegnata a
favore di attività pratiche, come la predicazione, la mnemotecnica, l’epistolografia.
Ai tentativi di approfondimento fa spesso seguito una visione settoriale: si parla ad
esempio di grammatica precettiva, grammatica speculativa, studio del ritmo, ars
dictaminis. In questo contesto si sviluppa l’ars poetriae121 o retorica letterariamente
intesa, un fenomeno piuttosto concentrato sul piano della cronologia e degli autori
coinvolti122, per altro a lungo poco considerati, ma attualmente ritenuti importanti per
l’influenza sulla coeva letteratura latina e volgare. La definizione di questa ars è
questione complessa: gli intellettuali del Medioevo distinguono puntualmente retorica e
poetica, riconoscendo che solo parte dell’esperienza del versificatore può essere
ricondotta alla seconda disciplina del trivio. La poesia ha una sua complessità specifica
e strumenti propri; inoltre deve essere considerata in relazione al dibattuto problema del
rapporto tra forma e contenuto. Tuttavia non va trascurata la costante connessione di
poesia e artes in genere, considerate prevalentemente in chiave tecnica e pragmatica, in
quanto fonti e modelli per la scelta degli argomenti e degli strumenti espressivi. In
definitiva, le arti danno fondamento all’espressione letteraria, che a sua volta le
120
Lo statuto in sostanza ambiguo della disciplina si spiega meglio in relazione alla tripartizione che le è
imposta entro il XII secolo tra ambito dimostrativo (che dunque coinvolge anche l’ambito della legge e
dell’avvocatura), pratiche scolastiche (in relazione con l’orizzonte logico e dialettico) e prospettive
filosofiche. La prospettiva argomentativa e dimostrativa non concerne comunque solo le pratiche
tribunalizie: diviene ad esempio uno strumento imprescindibile di alcuni generi letterari, come
l’agiografia, in cui però non conta tanto la tradizione tecnica dei retori classici quanto le abilità persuasive
proprie dell’oralità. Col tempo anche in tale ambito si avverte l’influenza degli insegnamenti scolastici,
piegati però necessariamente alle mutevoli esigenze del pubblico. Nelle sue applicazioni logicodialettiche, la retorica serve le intenzioni critiche e analitiche dei riscopritori di Aristotele; dall’eredità
dell’oratoria sono tratti infatti i mezzi per formulare con efficacia i paradossi e le sentenze proprie
dell’analisi scolastica. Infine, sul piano filosofico, ci si scontra con la definizione e l’uso di favole e miti
nel processo conoscitivo, questione che crea dubbi e suscita approfondite riflessioni dai tempi di Agostino
e Macrobio; domina in proposito una prospettiva neoplatonica. Per questi aspetti si veda in particolare
Hunt 1982 e in parte Bolgar 1982. Quest’ultimo in realtà propone una tripartizione non del tutto
coincidente, poiché sottolinea la distinzione tra arte della persuasione, arte poetica e della scrittura, arte
del parlare in pubblico in merito a questioni pubbliche (per la quale era essenziale il riferimento a
Cicerone).
121
Per lo sviluppo di tali artes tra XII e XIII secolo si legga Scarpati 2008, pp. 29-36.
122
Matteo di Vendome Ars versificatoria, Gervasio di Melkley Ars versificaria, Geoffroi de Vinsauf
Poetria nuova e Documentum, John of Garland De arte prosayca, metrica et rithmica, Eberhardil il
Tedesco Laborintus.
424
legittima. Gli strumenti espressivi nella loro valenza “tecnica” influenzano le
discettazioni di teoria letteraria, la riflessione sul linguaggio adatto ai diversi campi
culturali, le forme della comunicazione (con particolare riferimento all’inventio degli
argomenti). La questione non è certo semplificata dai nodi religiosi e morali che
permangono nella valutazione della forma, persino in età umanistica: fino a che punto è
lecito prestarle attenzione? In che termini può non essere considerata solo una
“piacevolezza pagana”? Qual è il giusto rapporto tra invenzione e verità
nell’elaborazione letteraria? L’ornatus è in effetti a lungo definito (spesso
polemicamente) un “velo” metrico, ritmico e retorico rispetto al contenuto di verità che
la poesia può offrire; la sua utilità è dubbia soprattutto se confrontata alla semplicità
della parola divina (lo stesso Petrarca sembra condannare in più luoghi il letterato
“puro” - De suis ipsius et multorum ignorantia, Fam. 16 e 14, Posteritati). Per essere
accettata, la bellezza non deve essere colta in sé, ma deve essere funzionale alla
circolazione e alla comprensione del messaggio123.
Le fonti per gli studi retorici sono soprattutto latine – dominano il De inventione
ciceroniano e dall’XI secolo la Rhetorica ad Herennium, ritenuta anch’essa di Cicerone;
dal IX secolo è abbastanza diffuso anche Quintiliano, le cui Institutiones circolano
incomplete, come per altro il De oratore e l’Orator ciceroniani124. Altre opere godono
di una circolazione significativa, benché non amplissima, come le Controversiae e le
Suasoriae di Seneca il Vecchio. Il Brutus di Cicerone, il Dialogus di Tacito e le opere
minori di Quintiliano sono riscoperti solo nel Trecento, anche se i monasteri ne
conservano copie del XII secolo. Sono interessanti soprattutto i manuali che offrano
strumenti tecnici puntuali, mentre vengono a lungo trascurate le opere di carattere più
intellettuale o filosofico, come di fatto quelle aristoteliche125. Vari tra questi trattati,
comunque, e soprattutto quelli meno noti, sono sfruttati prevalentemente come serbatoi
di exempla e spunti narrativi, piuttosto che in senso tecnico. È interessante infine che la
123
Rispetto al complesso rapporto tra le diverse arti, può essere interessante cercare di capire la posizione
del Petrarca, benché i passi interessati dalla questione siano ben pochi, a favore di una generica
sovrapposizione tra poetica e artes o addirittura con gli studi profani in genere. Da una parte andrà
considerata una nota filologica apposta ad Aristotele, in cui si insiste che egli non si era riferito
all'”eloquenza oratoria” ma a quella “poetica”; tuttavia la distinzione qui non viene approfondita, poiché
lo scopo argomentativo si riduce alla difesa delle lettere in generale. Dall'altra, l'affermazione per cui la
poesia sarebbe la principale fra le arti liberali con riferimento alle parole di Ovidio. Il criterio valutativo
non può (più) essere l'utilità, che è propria delle arti meccaniche, ma sarà la preziosità.
Se la centralità della forma – suggerita nello stesso Petrarca dall'uso di “eloquenza” come sinonimo di
poesia – può portare ancora qualche disagio a livello morale, resta la convinzione che sia proprio questo
lo strumento che consente la comunicazione, l'esternare l'interiorità, di cui pure si occupano teologia e
filosofia. Ecco dunque che l'oratoria ha di per sé una funzione morale (l'interpretazione petrarchesca
sembra in proposito legata alla visione ciceroniana e poi agostiniana, piuttosto che a quella aristotelica).
Ne consegue però nuovamente che l'elaborazione formale debba essere aderente al messaggio e
finalizzata ad esso, non eccessiva. Non a caso Petrarca legge nelle sue fonti classiche che la virtù
maggiore del retore è la moderazione.
124
Sarà Poggio Bracciolini a riscoprire le Institutiones nella forma completa tra 1420 e 1430, mentre i
trattati ciceroniani sono ritrovati dopo il 1421. Non è del tutto chiaro quali porzioni se ne conoscessero in
precedenza e quanto distinte l’una dall’altra.
125
In particolare è questo il destino della Retorica, che circola in versione latina, ma è considerata
prevalentemente in chiave etica.
425
maggior parte dei loro testimoni si concentri in Francia, ad indicare un interesse molto
localizzato.
Il successo della retorica si deve soprattutto all’attenzione che avevano continuato a
riservarle gli autori e i teorici tardo-antichi, nonché all’uso che aveva caratterizzato la
predicazione patristica. In effetti quelle fonti e quegli usi veicolano il definitivo
recupero medievale dei principi retorici anche in senso pragmatico, sul piano giuridico
con l’ars dictandi126 e su quello religioso con l’ars predicandi, cosicché diviene
possibile accostare alla visione astratta delle scuole l’uso concreto nella vita cittadina.
L’organizzazione del sapere superiore nelle sette artes liberali127 ha la funzione di
ordinare e organizzare l’apprendimento in strutture solide e chiare, creando un sistema
efficace anche rispetto alle diverse interrelazioni128. A livello universitario129, tale
struttura è un paradigma unificante, poiché è un punto di riferimento per tutti gli
studenti, soprattutto nelle facoltà dell’Europa settentrionale130. Lo studio della
grammatica presenta una differenza essenziale rispetto all’approccio elementare: non
importano più gli aspetti compositivi ed espressivi, ma la speculazione. Il programma di
studio era lungo e articolato in modo puntuale131; era prevista una distinzione tra due
titoli o diplomi, il “baccellierato” e la “maestranza”, che era imprescindibile per
accedere ai corsi superiori132. Il contenuto delle lezioni tiene necessariamente conto dei
diversi livelli di preparazione, in cui ancora una volta vengono ripartiti gli allievi: ad
esempio le opere di Aristotele sono lette solamente nell’ambito delle classi più
avanzate. Alcune delle maggiori università presentano tuttavia una struttura più
semplice: non comprendono le facoltà di arti, che sono date per scontate, e si
specializzano esclusivamente in diritto o in medicina133. Le materie affrontate sono
126
Quest’ars si definisce in connessione con l’ambiente cancelleresco, e dunque con le attività notarili e
in genere con la vita socio-politica.
127
Tra XII e XIII secolo sono in realtà diffuse anche categorizzazioni alternative: la bipartizione
aristotelica, poi fatta propria da Cassiodoro, tra filosofia speculativa e pratica (cui Aristotele aggiungeva
come terzo orizzonte la poetica); la tripartizione stoica (ma ritenuta platonica) tramandata da
sant'Agostino, tra fisica, morale e logica; la tassonomia araba ispirata alle opere di Aristotele; la
distinzione agostiniana tra res e signa (che di fatto è sovrapponibile a quella tra trivio e quadrivio)
impostata sulle categorie classiche di saggezza ed eloquenza; la divisione morale di magia e filosofia;
l'ovvia separazione di conoscenza terrena o umana e quella divina.
128
Benché nella pratica solo gli ordini mendicanti riescano ad offrire un ciclo di studi preuniversitario
davvero efficiente e completo (Verger 1997).
129
Kibre 1978 ne riporta qualche testimonianza. Negli statuti di Parigi ed Oxford sono indicati i
programmi di studio per la grammatica; per la retorica, cui non si fa cenno nei documenti ufficiali, restano
alcune descrizioni dei corsi ad opera di studenti.
130
Si prenda ad esempio il caso parigino, illustrato, con particolare riferimento al ‘300 e al ‘400, in Kibre
1978, pp. 216-217. A p. 218 si trova anche un’interessante spiegazione della sovrapposizione, tipica di
Parigi e dei centri che emulano la sua organizzazione, tra branche della filosofia (razionale, naturale e
morale) e arti in senso stretto (quelle del trivio dovrebbero essere comprese nella filosofia razionale, in
quella naturale sono raccolte quelle del quadrivio).
131
Per programmi, metodi e titoli, si veda l’efficace sintesi in Verger 1982, pp. 94-105.
132
L’associazione tra arti e medicina, in particolare, è fondamentale ed antichissima. In ambito classico, e
soprattutto greco, si afferma il principio secondo cui la preparazione del medico, prima che tecnica, deve
essere logica e razionale, per guidarne cioè il giudizio. Per la diffusione classica di tali principi, vedi
Kibre 1978.
133
A proposito dell’organizzazione di questi corsi, si veda Kibre 1978, pp. 223-227.
426
ridotte allo stretto indispensabile; per il resto, il programma di studio per raggiungere il
medesimo titolo deve essere affine, a prescindere dalla collocazione geografica o dal
tipo di fondazione. Le materie profane (diritto e medicina) rifiutano uno statuto di pura
propedeuticità o inferiorità rispetto alla teologia e rappresentano ben presto traguardi
autonomi e riconosciuti per un apprezzabile cursus studiorum. Per altro sono proprio gli
ambienti legati alle discipline laiche ad aver determinato il maggior dinamismo negli
ambienti universitari, con le sole eccezioni di Parigi e Oxford.
In conclusione, nel Trecento, epoca di passaggio tra Medioevo e Rinascimento,
l’insegnamento di grammatica, retorica e logica mantiene un’ampia diffusione: “Furono
insegnate durante il Trecento in Italia – ciò che significa sopra tutto Italia settentrionale
e centrale – nelle scuole inferiori da maestri ancora rozzi, ma appassionati; e, per l’alto
grado a cui ormai era salita la civiltà italiana, incredibilmente numerosi”. Ad esempio,
“si successero nella piccola Treviso una settantina di questi maestri”134.
Intanto, nell’ambito dell’insegnamento universitario e della retorica in particolare si
avvia la riforma della cultura (e dell’educazione) che contribuisce alla nascita
dell’umanesimo. E in primo luogo bisogna riferirsi a Padova, al suo antico Studium e a
personaggi come i filosofi Rolando da Piazzola135, Pietro d’Abano136 e Marsilio da
Padova137 o come i giuristi Lovato Lovati138 e Albertino Mussato (che fu anche
134
Billanovich 1978, pp. 377; la pagina successiva presenta alcuni casi particolari di questa tendenza.
Non ne restano notizie molto precise. È noto che fu eminente giurista padovano, che partecipò
attivamente alla vita politica della sua città, schierandosi con la fazione guelfa sia al tempo di Enrico VII
sia a quello di Ludovico il Bavaro. Non è chiaro nemmeno quando sia morto: sicuramente dopo il 1324 e
prima del 1333.
136
Nasce ad Abano intorno al 1250; prima di arrivare ad insegnare a Padova viaggia a lungo, in
particolare a Costantinopoli e probabilmente a Parigi. Questi contatti culturali gli permettono di
approfondire la sua visione filosofica, che rinnova la tradizione nel segno dell’incontro tra la cultura greca
e quella araba. Non a caso in questo ambito la realtà padovana è particolarmente progredita, soprattutto
per quel che concerne lo studio e l’interpretazione di Aristotele. È probabile che le sue posizioni moderne
non siano state del tutto comprese, in particolare per l’assoluta preminenza nella sua speculazione della
filosofia naturale, a scapito della teologia: la condanna definitiva come eretico arrivò nel 1315 e pare che
il corpo fosse bruciato dopo la morte (sicuramente avvenuta entro il 1318).
137
Originario di Padova (vi nasce tra il 1275 e il 1280) vi studia medicina, secondo la tradizione definita
da Pietro d’Abano; si perfeziona però come teologo a Parigi, dove entra in contatto con gli ambienti
spirituali dell’ordine francescano. Proprio per questo motivo ripara in Germania, dove entra a servizio di
Ludovico il Bavaro, per accompagnarlo poi in Italia ed assisterlo durante l’incoronazione. Le sue
riflessioni filosofiche sono dedicate in particolare alla politica, con l’intenzione di rinnovare la
concezione aristotelica, con posizioni che non potevano non influire anche sulla percezione della Chiesa,
in contrasto con l’affermazione del potere politico (e della ricchezza) del pontefice. Muore a Monaco di
Baviera nel 1343 circa.
138
Nasce a Padova entro il 1240, figlio di Rolando di Giovanni detto Lovato. La famiglia, di tradizione
notarile, godeva di notevole prestigio in città e di utili relazioni politiche. Nel 1257 Lovato è già indicato
come notaio insieme al padre; viene poi ammesso nel Consiglio dei giudici, attività che svolse almeno
sino al 1307. Non rinunciò nemmeno alla carriera politica, diventando podestà di Bassano nel 1282, poi
arbitro fra i comuni della zona e infine podestà di Vicenza nel 1292. Nel frattempo era stato investito
cavaliere. Tuttavia l’importanza del Lovati è legata innanzitutto alle sue ricerche di bibliofilo, alla sua
passione e al suo studio dei classici: in tal senso egli ha avuto un ruolo determinante nell’avvio della
cultura umanistica. Egli fu in particolare copista ed editore di opere classiche riscoperte o rinnovate a
livello filologico: particolarmente eclatante è il caso di Livio (si vedano in generale gli studi di
Billanovich). Resta anche parte della sua produzione letteraria, in gran parte perduta, ma evidentemente
molto varia: comprende sicuramente epistole metriche, carmina, opere politiche ed esercizi di retorica.
Muore nel 1309.
135
427
incoronato poeta e storico nel 1315)139. L’intreccio di relazioni intellettuali che seppero
costruire è fondamentale, in particolare con gli studiosi di Vicenza e Verona, ma anche
con l’ambiente bolognese. A Bologna infatti insegnò Giovanni del Virgilio140, che si era
formato, in parte, a Padova e che è considerato il primo maestro di grammatica e
retorica del nuovo corso.
La medesima mediazione, ma in senso inverso, si deve a Pietro da Moglio141,
bolognese, allievo di Giovanni, poi maestro in una sua scuola privata ed infine
insegnante all’università, padovana prima e poi di nuovo bolognese. Anche a Pietro va
attribuito un essenziale rinnovamento negli studi, soprattutto retorici, grazie ai suoi
commenti ai classici142, oltre alla costante passione di bibliofilo143.
139
Il Mussato è particolarmente illustre tra i responsabili dell’innovazione scolastica e la svolta
preumanistica, oltre ad essere considerato uno degli storiografi più eminenti del suo tempo. Nasce a
Padova nel 1261; comincia ben presto a partecipare alla vita politica della sua città, che lo porterà a
sostenere con energia la fazione imperiale (sarà presente all’incoronazione di Enrico VII come
rappresentante ufficiale della sua città) e a subire i rivolgimenti degli anni successivi (non a caso muore
povero e in esilio a Chioggia nel 1329, dopo che l’anno prima Cangrande aveva preso il potere a Padova).
Le sue opere latine dimostrano l’importanza essenziale dei modelli classici: come storiografo abbandona
la linea delle cronache e guarda all’esempio di Livio, come poeta è innanzitutto tragediografo.
140
Giovanni nasce a Bologna da famiglia padovana (o forse emiliana) prima del 1300; il soprannome
deriva probabilmente dalla sua particolare devozione nei confronti del poeta latino. Comincia ad
insegnare nel ’21 a Bologna, dove si è formato: alcuni documenti ufficiali del comune segnalano l’inizio
delle sue lezioni dedicate ad alcune auctoritates classiche. Per questo tale avvenimento è considerato
l’avvio dell’insegnamento umanistico nelle università italiane. L’insegnamento a Bologna si interrompe
per qualche anno tra ’23 e ’26, forse per un ritardo nei pagamenti o per un’ingiustizia subita a causa delle
autorità giudiziarie; nel periodo trascorso a Cesena, Giovanni prepara un’egloga che sarà poi inviata al
Mussato. Nel ’27 torna a Bologna, ma non resta notizia del ritorno all’insegnamento: perciò si ipotizza
che la morte di Giovanni sia avvenuta di lì a poco. Giovanni è celebre, oltre che per il suo contributo al
rinnovamento dell’educazione, per varie opere latine, conservate nel codice laurenziano XXIX, 8, e per
vari testi legati all’insegnamento. Ancor più rilevanti sono però i suoi rapporti con due personalità centrali
dell’epoca: Dante e Boccaccio. Con Dante, Giovanni intrattenne una corrispondenza letteraria tra ’19 e
’21; Boccaccio invece fu copista d’eccezione delle opere di Giovanni, proprio sul citato Laurenziano.
141
Nasce all’inizio del ‘300 (probabilmente entro il 1313) e nel 1331 è notaio, secondo la tradizione di
famiglia. Deve aver studiato a Bologna, probabilmente secondo il modello di Giovanni del Virgilio, del
cui metodo è chiaramente debitore. Tuttavia non si sa molto né dei suoi studi né del suo avvio
all’insegnamento, fino al 1347 quando ottiene il permesso di aprire una propria scuola insieme al fratello;
per la sua docenza è certamente pagato dal comune a partire dai primi anni ’50. Come maestro Pietro
ottiene una certa fama, soprattutto grazie agli eccelsi risultati di alcuni suoi allievi e alla loro affettuosa
memoria, come nel caso di Coluccio Salutati, che mantenne rapporti con il maestro sino alla sua morte.
Dopo il periodo bolognese si trasferisce a Padova per sei anni a partire dal 1362; qui sicuramente lesse le
opere di Petrarca e poté incontrarlo e stringere un rapporto più intimo col celebre poeta (alcuni studiosi
vorrebbero anticipare il contatto tra i due al periodo bolognese, identificando in Pietro il destinatario della
Metrica ad Omero, ma la ricostruzione di Billanovich sembra ormai escluderlo definitivamente). Dal
1364, comunque, la loro corrispondenza è decisamente nutrita e in parte di allarga ai migliori allievi del
Moglio, Francesco da Fiano e Giovanni di Matteo Fei.
L’ultimo documento universitario in cui Pietro sia nominato risale al 1380 e agli stessi anni risale l’ultima
sua epistola sopravvissuta; muore, compianto soprattutto dal Salutati, nel 1383. Il suo impegno più
significativo è quello filologico, di accanito bibliofilo e profondo estimatore dei classici. In particolare va
ricordato il lavoro su Terenzio, ma anche su Seneca, il commento a Boezio, lo studio di Cicerone, Stazio
e Valerio Massimo. Per quanto concerne la retorica, oltre allo studio della Rhetorica ad Herennium, non
va dimenticato il commento alla Poetria nova di Goffredo di Vinsauf.
142
Per un elenco delle opere note di Pietro da Moglio, si veda Billanovich 1978, p. 368. Per il suo lavoro
su Terenzio e i rapporti con Petrarca si legga Arzàlluz 2006.
143
A lui si deve il ritrovamento di un antico Terenzio in S. Domenico a Bologna (Billanovich 1978, p.
369).
428
Con questo contesto veronese-padovano Petrarca intrattiene un rapporto precoce e
fruttuoso, che favorisce il suo ruolo imprescindibile nell’evoluzione dell’Umanesimo:
da una parte egli raccoglie le innovazioni sviluppatesi nell’insegnamento, dall’altra i
docenti ne diffondono la lezione presso i loro allievi144.
144
Pietro da Moglio lesse ai suoi studenti, ad esempio, alcune pagine del Bucolicum carmen e forse
sollecitò l’Aretino a scrivere ad Omero (Billanovich 1978, pp. 373-374).
429
CAPITOLO SESTO
Circolazione di testi e cultura trobadorica nel Trecento
1. Diffusione, sopravvivenza e tipologia dei canzonieri trobadorici
Bisogna rinunciare, almeno per il momento, ad identificare che tipo di manoscritti abbia
letto Petrarca (e a maggior ragione ad individuare codici specifici). Gli studi filologici
permettono però di approfondire sul patrimonio codicologico sopravvissuto, dunque
disponibile anche all’epoca del poeta, nonché di ricostruire i fenomeni e gli spostamenti
che hanno interessato la tradizione entro il Trecento. Le letture petrarchesche devono
essere state vincolate da tali meccanismi di diffusione e conservazione, in cui sono
coinvolti i canzonieri, ma anche le raccolte di frammenti, di biografie, di singoli autori o
editori.
La produzione trobadorica si sviluppa precocemente (già alla fine dell’XI secolo)
delineando una prospettiva laica inusuale anche a confronto con la contemporanea
letteratura volgare, i cui primi esperimenti sono legati alla sfera clericale, come denota
l’ambiente della preparazione e della conservazione dei codici1. Tuttavia la tradizione
manoscritta delle opere occitaniche non rispecchia tale primato e si attesta anzi tardi,
solo a partire dalla metà del ‘200.
I testimoni fondamentali della produzione provenzale sono quaranta; ad essi possono
essere aggiunti alcuni testimoni indiretti, con i quali si arriva a novantacinque fonti, ed è
questo il numero abitualmente indicato dagli inventari (può poi essere aggiunto qualche
altro ritrovamento successivo). Possono inoltre essere considerate alcune raccolte di
opere catalane o francesi che contengono frammenti provenzali; altri brevi lacerti,
infine, si sono conservati in alcuni codici di natura eterogenea. Il quadro completo di
questa tradizione risulta, dunque, piuttosto articolato.
Secondo l’analisi di Avalle, su novantacinque testimoni, cinquantadue sono italiani
(area lombarda e veneta in testa), diciannove occitanici, quattordici francesi e dieci
catalani. Da una parte è probabile che molto si sia perduto, e soprattutto in Provenza, a
causa delle guerre, delle distruzioni, del sospetto con cui la cultura profana venne
considerata dall’Inquisizione e dalla Chiesa in genere a partire dall’inizio del Duecento.
In Italia e in Catalogna la conservazione è stata certamente favorita dalla forte
affermazione locale di una produzione originale, ma in lingua provenzale; in Francia
invece era stata più rapida l’appropriazione delle forme cortesi ad opera dei trovier, in
lingua d’oil e dunque secondo una prospettiva locale. D’altro canto la datazione tarda
dei codici e la loro diffusione prevalente in un’area linguistica eterogenea rispetto a
quella originaria spingono ad ipotizzare che la prima circolazione delle opere nell’area
1
Avalle 1961 ha sottolineato il ruolo dei monasteri (soprattutto benedettini) in tal senso; lo studio dei
codici sopravvissuti rivela la solidità della tradizione romanza sin dalle sue origini, sia perché distinta da
quella delle opere latine, sia perché capace di coinvolgere aree molto distanti da quelle in cui le opere
erano state composte. La provenienza variegata dei codici dimostra infatti un'estesa diffusione dei testi
volgari, e dunque la solidarietà culturale e gli scambi tra zone molto diverse.
431
d’origine sia stata orale; il passaggio alla scrittura si legherebbe al bisogno (tardo) di
sistemarle in un corpus e di renderle così più fruibili per chi ne conoscesse poco la
lingua. Una lunga circolazione orale comporta molteplici (incontrollate) occasioni per il
passaggio alla raccolta scritta, che determinano una tradizione composita; essa appare
ancor più complessa per l’elevata possibilità di contaminazioni e per l’eventuale
esistenza di più redazioni d’autore. Poiché i componimenti in questione sono pensati per
l’esecuzione davanti al pubblico, l’ipotesi di una diffusione orale è molto verosimile;
ciononostante si tratta di testi troppo articolati perché la composizione non si sia avvalsa
della scrittura o per lo meno della dettatura; inoltre è probabile che anche le
performances dei giullari fossero facilitate da fogli sparsi o rotuli. È dunque presumibile
che per decenni intere raccolte di versi siano state diffuse in questa forma, anch’essa
provvisoria, ma non quanto quella puramente orale. Tale duplice diffusione segna non
solo l’area occitanica, ma anche le zone limitrofe, soprattutto l’Italia, per l’abbondanza
di scambi e contatti: qui, dunque, la cultura cortese deve essere stata ben nota prima
delle compilazioni antologiche. Per contro, quando esse cominciano a rappresentare la
soluzione più tipica, la fruizione delle opere pare assumere nuove modalità, più erudite:
proprio questo potrebbe essere, almeno in parte, il senso dei materiali biografici, al di là
del loro valore di mediazione tra due diverse realtà culturali, provenzale e italiana. In
tale contesto permaneva comunque una concezione viva ed attuale dell’ideologia
trobadorica, ma una circolazione orale non poteva conservare la sua funzione originaria.
La gravità delle perdite subite dal patrimonio codicologico anteriore al Duecento si
coglie appieno considerando quanto poco si conosca anche degli altri generi cortesi,
destinati con maggiore evidenza alla lettura, il cui successo nel XII secolo non è stato
sufficiente a preservarne le testimonianze in modo più consistente. Un altro fattore da
tenere in conto è la necessità di documenti antichi accessibili e in buone condizioni
perché fosse possibile realizzare esemplari di qualità pari a quella di alcuni manoscritti
giunti sino a noi; sopravvivono, inoltre, tracce indicative di raccolte curate dagli autori,
quindi antiche e pensate come sillogi scritte. Una causa della scarsa protezione e quindi
conservazione dei volumi più antichi potrebbe derivare proprio dalla creazione di nuovi
strumenti, percepiti come più attuali, tra ‘200 e ‘300.
Un’ipotesi articolata, che cioè valorizzi cause e fenomeni molteplici, spiega in modo più
efficace lo stato effettivo della tradizione; per altro le varianti significative (non dovute
cioè a semplici errori di copisti) ben si adattano ad essere spiegate di volta in volta in
relazione alla diffusione orale, agli interventi autoriali o al normale deterioramento della
tradizione nel processo di copiatura. Anche Viscardi2 ha proposto un’interessante
riflessione rispetto alla collocazione cronologica delle sillogi sopravvissute e al loro
significato storico-letterario. Lo studioso concorda sul fatto che ampie raccolte
trobadoriche, variamente legate a quelle a noi note, circolassero già prima del Duecento;
egli rifiuta perciò il principio per cui l’impegno alla sistematizzazione seguirebbe in toto
la fine della fase creativa più vivace, lasciando dunque spazio ad un approccio
puramente conservativo. Vari elementi, invece, permettono di evidenziare una
2
Viscardi 19702.
432
connessione precoce tra poesia e critica (le dichiarazioni polemiche, le affermazioni di
poetica, sullo stile e sul rapporto con il pubblico, le teorizzazioni programmatiche
affidate ai generi dialogici – soprattutto alle tenzoni); tali elementi si accordano
pienamente con il rapido riconoscimento della produzione trobadorica come esperienza
tecnica ed artistica autorevole. La consapevole organizzazione delle sillogi riflette
questa mentalità, la quale a sua volta appare coerente con alcune tendenze tipiche della
cultura medievale: Viscardi infatti ha ricordato l’importanza per la tradizione
accademica medievale del confronto in ambito letterario, cioè la convergenza tra
produzione e valutazione. Non si tratta certo di un approccio solamente volgare: già le
sillogi mediolatine di prosa e poesia sono pensate anche per offrire un’occasione di
riflessione, e proprio simili intenzioni spiegano lo spazio concesso ad opere
contemporanee, benché non autorevoli quanto quelle antiche. Questo tipo di raccolte
conosce notevole sviluppo in età carolingia, ma il loro modello sembra risalire a tempi
ancora anteriori (Viscardi propone l’esempio dell’Anthologia latina di epoca vandalica).
Tale riflessione invita a ripensare la natura dei primi canzonieri trobadorici, tra
approccio antiquario e strumento di analisi rispetto a un consapevole e rispettato “fatto
d’arte”3.
Ne deriva per altro che l’attenzione di cui beneficia la letteratura occitanica sia
comparabile a quella riservata alla letteratura colta per eccellenza, quella latina. Se però
il retaggio di quest’ultima impone i metodi e le prospettive della scuola, le esperienze
volgari godono invece di una circolazione più libera e persino più ampia in termini di
lettori, compilatori di raccolte, aree di ricezione.
Tornando alla tradizione testuale e alle molteplici lezioni che la caratterizzano, Avalle4
ritiene che siano esistiti veri e propri collettori di varianti, editiones variorum, che
possono aver dato vita ad apografi e quindi a linee della tradizione di volta in volta
differenti: è questo, probabilmente, il caso del codice . Nessuna di queste sillogi
composite si è conservata, bisogna perciò accontentarsi di ricostruzioni su base logica e
storica. La creazione di tali volumi dipende dalle tendenze dei singoli scriptoria, e se ne
può facilmente immaginare la funzione pratica: i giullari potevano sfruttarli per
cambiare la loro esecuzione a seconda del pubblico cui si rivolgevano, intervenendo ad
esempio sulla metrica o sulla tornada. Proprio la centralità della strofa finale rispetto
alla variabilità nell’uso del testo comporta però un limite per tale ipotesi: la presenza di
varianti dovrebbe essere concentrata nelle sole parti in cui è davvero utile, lasciando
univoco il testo rimanente. Ovviamente a questi problemi si intrecciano quelli legati
all’autorialità: il cambiamento potrebbe o meno essere previsto dall’autore, ed è facile
immaginare veri e propri adattamenti, rielaborazioni, interpolazioni estranei
all’intenzione originaria.
3
Si vedrà quanto sia importante la distinzione tra diverse prospettive in epoca trecentesca, quando cioè
mutano gli equilibri tra ciò che è composto ex novo e il peso della tradizione.
4
Avalle 1961; non tutti gli studiosi, però, sono concordi con la sua interpretazione.
433
Lo sviluppo della tradizione manoscritta trobadorica può essere immaginato secondo
alcune fasi fondamentali (fatte salve le opinioni non sempre concordi degli studiosi5).
Innanzitutto la composizione avviene per iscritto, poi i testi sono copiati su rotuli slegati
(o Liëderblatter), pensati solo per l’utilizzo da parte dei giullari, non per la lettura né per
la conservazione. In alcuni casi vengono preparate anche raccolte dedicate a singoli
autori (Liederbücher), compilate da loro stessi o da loro estimatori (i casi a noi noti con
una certa sicurezza, ma con la possibile eccezione di Peire Vidal, vanno datati almeno
alla metà del ‘200). Si procede intanto, forse sin dalla fine del XII secolo, alla
realizzazione di Gelegenheitssammlungen, cioè canzonieri creati semplicemente come
raccolte di singoli rotuli, con ordine forse già per autore, ma più probabilmente casuale,
cioè basato sul progressivo reperimento dei singoli documenti. Non se ne conosce
nessuna, ma alcune antologie, caratterizzate da sezioni in cui la successione dei
componimenti non è giustificata da alcun criterio evidente, fornirebbero la prova della
loro esistenza6. Seguono sillogi ordinate per lo più per autore7, che devono essere
apparse circa all’inizio del ‘2008; il criterio strutturale che le contraddistingue si afferma
rapidamente, ma al contempo gli esiti concreti sono complicati dal desiderio di
aggiungere nuovi testi di autori già inseriti quando ormai la composizione della raccolta
è già avviata. Queste sillogi sono in fondo “raccolte di canzonieri individuali”9 che
nascono dall’aspirazione ad una conservazione estensiva, senza applicare criteri di
selezione, anzi preservando tutti i testi reperibili di tutti gli autori noti, a prescindere dal
loro effettivo valore. Tali canzonieri assumono due configurazioni prevalenti: da una
parte, volumi ispirati ad un’occasione, dall’altra sillogi più ampie, costituite
raccogliendone varie del tipo più semplice e breve. Tra i codici a noi noti restano,
secondo l’analisi di Avalle, sia esempi del primo tipo (H, L, O, P, f e parte di R10) sia
del secondo (tutti gli altri). Parte di R segue un ordinamento cronologico; A, B, D, I, K
e parte di L un ordine cronologico-estetico; M, T, U, a, c un ordine estetico; infine C, G,
J, N, Q, S, W, parte di E ed una piccola porzione di R si affidano ad un ordinamento
definito “religioso”, dunque ispirato ad un gusto tardo (fine del XIII secolo). La seconda
parte di E è in ordine alfabetico, mentre V e X sono troppo frammentari perché vi si
5
Ad esempio, Borghi Cedrini 2006 sostiene questa ipotesi, ma con la riserva per cui non potrebbe essere
applicata a tutta la linea della tradizione manoscritta, soprattutto considerando quanto più ampia essa
debba essere stata almeno ai rami (e quindi in tempi) alti.
6
Proprio in una di queste antologie è stata ritrovata una dedica di Folquet de Lunel ad un suo mecenate,
che ha suscitato numerose ipotesi sull’effettivo ruolo dei singoli autori nella creazione di queste o simili
raccolte.
7
Eventualmente oltre al diffuso criterio tassonomico che distingue i generi in base al loro prestigio.
8
Seguiamo qui la riflessione di Avalle 1961 e 1985; Meneghetti 1999 propone di spostare in avanti
questa fase rielaborativa, sulla base dell’assenza di documenti anteriori e della datazione presunta del
Liber Alberici, ricostruibile grazie alla sua copia Da. La bipartizione di quest’ultima – una sezione
ordinata per autori ed una frammentaria, priva di un ordine evidente – potrebbe indicare una fase di
passaggio da soluzioni più antiche a sillogi pensate appunto per autore. Tale ridefinizione cronologica,
comunque, non impedisce alla studiosa di rivedere i rapporti tra antologie e Liederbücher (intesi qui solo
come “libri d’autore” e non in senso più ampio), affermando che probabilmente sono questi ultimi ad
essere stati ispirati dal criterio strutturale tipico delle sillogi più complesse e moderne.
9
Meneghetti, 1999.
10
Alcune caratteristiche essenziali dei codici principali saranno trattate nel corso del presente capitolo;
per un orientamento generale e sintetico si veda la scheda riassuntiva in appendice.
434
riconosca una distinzione chiara. Tuttavia secondo Maria Luisa Meneghetti, proprio in
V si può cogliere una fase anteriore alla risistemazione dei componimenti in antologie
ordinate per autore: le parti rimaste bianche testimonierebbero proprio il tentativo del
copista di passare ad un nuovo criterio (individuale ed autoriale) a partire da sillogi più
antiche. La tendenziale omogeneità geografica e cronologica di cui si è parlato a
proposito dei canzonieri sopravvissuti non impedisce una notevole varietà strutturale,
come denota per altro la necessità di applicare le categorie generali con elasticità o
considerando soltanto singole parti di ciascun canzoniere. Sempre al fine di distinguere
diverse tipologie antologiche, è utile la categorizzazione di Maria Luisa Meneghetti: da
una parte le “raccolte-rassegna” (o “raccolte-panorama”) d’ispirazione più ampia e
generica, che riflettono un approccio “onnivoro” da collezionisti e che possono basarsi
su diversi criteri tassonomici, dall’altra le “raccolte-manifesto”, la cui preparazione è
legata ad una singola scuola poetica. Gli esempi di questo secondo tipo sono rarissimi
per il Medioevo, tardi e soprattutto latini.
Non tutti i critici si sono dimostrati davvero convinti dalle proposte di Avalle, come nel
caso di Cingolani, cui la successione “verticale” che si è descritta per la composizione
di raccolte pare troppo rigida. Egli ha insistito perciò sulla necessità di integrarla con
passaggi “orizzontali”: una raccolta d’ispirazione già evoluta può essere arricchita con
materiali eterogenei, ad esempio attingendo ad un singolo rotulo. Questo per altro
giustificherebbe relazioni significative tra codici molto lontani nello stemma, in virtù
dell’ampia circolazione di queste fonti non fisse. Anche per la questione delle partizioni
interne è sollevata qualche obiezione, rispetto all’importanza di considerare la presenza
(e le modalità della presenza) di testi non lirici, oppure gli intenti che traspaiono dai
modi dell’antologizzazione11.
Gli studi filologici hanno dimostrato che la contaminazione tra le diverse linee
genetiche è diffusissima già nelle loro fasi più antiche. A parte il caso peculiare di Peire
Vidal, per il quale pare che due diversi Liederbücher siano confluiti nell’archetipo12, in
generale già le Sammlungen risultano sovrapposte (è successo ad esempio per H e G).
Ai piani intermedi dello stemma si distinguono tre rami, i quali hanno capostipiti già
compositi13. La prima famiglia ha origine da (che alcuni studiosi chiamano X1), che,
lo abbiamo visto, potrebbe essere addirittura un’editio variorum, per definizione frutto
della confluenza di più tradizioni. Tale gruppo di codici ha un’importanza davvero
notevole, perché la sua esistenza “è uno dei pochi punti fermi della tradizione
manoscritta trobadorica”14. Avalle identifica, nel percorso verso la composizione di
questo ramo, cinque diverse componenti, benché non tutte abbiano necessariamente
dato frutto in ciascuno dei codici che appartengono alla famiglia. Si ipotizza
11
Cingolani 1988 ha evidenziato questi punti da una parte come integrazione, più che come alternativa, al
metodo ricostruttivo di Avalle, e dall’altra riferendosi principalmente alla tradizione dei materiali
biografici.
12
Ci sarà modo di tornare sulla questione.
13
La ricostruzione di Avalle 1961 tiene in conto quella anteriore del Gröber e in parte le corrisponde,
anche se con definizioni non sempre coincidenti; ad esempio il ramo y di Avalle coincide in gran parte
(ma non del tutto) con quello detto m dallo studioso tedesco.
14
Avalle 1961, p. 109.
435
innanzitutto un archetipo, h2, e un suo intermediario (che ha vari paralleli negli altri
rami della tradizione). Va poi considerato r2, codice probabilmente affine a C che deve
aver portato testi diversi o varianti per quelli già raccolti: si nota ad esempio la
sopravvivenza di alcune di tali lezioni alternative ancora in D. Con si indica una
silloge affine a Da, cioè una sezione del tutto autonoma del codice D e derivata dalla
famosa raccolta preparata da Uc de Saint Circ per Alberico da Romano e detta appunto
Liber Alberici: le è tanto affine da poter essere identificato proprio con quell’illustre
antigrafo15. Un antecedente di si definisce e rappresenta il legame per cui L fa parte
di questa prima famiglia; andrebbero considerati inoltre alcuni altri contributi, tra cui
spicca per interesse un codice affine a Q. In generale, comunque, antecedenti e
discendenti16 di dimostrano la centralità dell’area veneta: sono provenzali solo i
trecenteschi E e J17. È probabile che una filiazione di sia stata portata in Francia,
mentre, sempre secondo Avalle, è meno facile che in tutti e due i casi si sia trattato di
copisti provenzali in Italia. Anche per i manoscritti esemplati in area veneta va
ipotizzato il lavoro di differenti scriptoria, luoghi di copiatura, ma anche di
progettazione culturale; alcuni codici sono piuttosto tardi, altri presentano mani,
postille, aggiunte tipiche non di professionisti, ma di studiosi ed appassionati.
L’abbondanza dei codici veneti (sono numerosi anche quelli più tardi e dunque meno
rilevanti) evidenzia ulteriormente l’importanza generale dell’Italia settentrionale rispetto
alla diffusione e alla conservazione della cultura trobadorica, nonché la vivacità con cui
si aderì a tale eredità in quest’area. Si è visto che, anche se a distanza di secoli, la
grande ripresa degli studi di provenzalistica avvenne soprattutto grazie a Pietro Bembo,
originario proprio dell’area veneta e non a caso interessato anche a trovatori locali, che
per lo più avevano suscitato minore attenzione.
Appartengono ad una costellazione distinta18 C, M, G, Q19, R20, T21, f, come in parte a, c
15
Il codice D è dunque composito. La prima sezione, che ha un’impostazione in tutto tradizionale, è stata
datata al 1254, risultando perciò la testimonianza più antica in nostro possesso; la sezione Da è di certo
più tarda, ma l’antigrafo celeberrimo di cui si è detto è datato al 1245, dunque si tratta comunque di un
esemplare di particolare rilievo. Con Db si indica una sezione dedicata ai soli sirventesi di Peire Cardenal,
mentre Dc identifica un florilegio il cui estensore si firma Ferrarino da Ferrara; la datazione di
quest’ultima parte si colloca all’inizio del Trecento. Il manoscritto non si è mai allontanato dall’area
veneta cui appartiene e lì è stato consultato ed ampiamente postillato, tra gli altri, da Bembo.
16
Secondo Avalle 1961 (e in sostanza concorda anche Folena 1990) appartengono al primo ramo A, parte
di a, B, O2, parte di T, D e Da, I, K, N2, N, L (in parte), H, b, J ed E.
17
Anche e, la copia settecentesca del libro di Miquel de la Tor, presenta qualche problema di
collocazione.
18
Anche in questo caso, Folena 1990 concorda con la ricostruzione di Avalle 1961.
19
Il codice Q presenta una peculiarità nell’impaginazione, poiché il copista ha distinto i singoli versi. È
un tratto tipico della terza tradizione, secondo l’analisi di Folena 1990.
20
R è noto anche come codice d’Urfè.
21
Secondo Folena 1990 T potrebbe rappresentare un punto di contatto fra prima e seconda tradizione, in
quanto legato alle modalità compositive e alle caratteristiche testuali di y, ma al contempo italiano e
imparentato con esponenti di . D’altro canto, lo stesso Folena evidenzia l’esito italiano di questa linea
della tradizione quando parla di G, in coerenza con la ricostruzione di Zufferey e senza bisogno di
ipotizzare connessioni stringenti rispetto alla prima tradizione.
Come ha sottolineato lo stesso Folena 1990, T presenta una peculiare struttura composita, che comprende
un’opera in lingua d’oil, una raccolta di versi realizzata da un copista quattrocentesco e poi i testi raccolti
da una mano trecentesca. Un altro fattore di interesse è rappresentato dalla presenza della canzone Amors
436
e le citazioni poetiche contenute nel Breviari d’amor di Ermengau22. All’origine è y,
non tanto un codice quanto uno scriptorium, quindi una specifica concezione di silloge
e un insieme costante di fonti, in ambiente provenzale – tra Béziers e Narbona. I codici
sopravvissuti derivano da quattro interposti: (che corrisponde a nel primo ramo),
(omologo per posizione a ), – che sembra autonomo rispetto all’archetipo – e x2, che
dev’essere un discendente di . Esso crea così una connessione tra i primi due rami23 ed
inoltre deve essere stato italiano. Per altro queste quattro fonti hanno conosciuto scambi
e intrecci numerosissimi e confusi: R e in parte C presentano una struttura utile per tale
ricostruzione, poiché hanno tenuto distinti i loro modelli, che invece in altri codici sono
sovrapposti liberamente, derivandone sezioni diverse. I codici che appartengono alla
seconda famiglia sono per lo più trecenteschi; il Breviari d’amor offre una precisa data
ante quem (1288). Bisogna inoltre ipotizzare vari interposti perduti che abbiano segnato
un graduale spostamento della tradizione dall’area occitanica (cui appartengono C ed R)
all’Italia (da cui provengono G, Q, T, M). Al di là delle caratteristiche testuali, è la
trasmissione della notazione che talvolta accompagna i testi poetici ad indicare
chiaramente il legame tra queste sillogi: R la mutua da y e così anche G, ma con tramiti
differenti, mentre i canzonieri francesi (ma dal contenuto in parte occitanico) W e X
devono aver guardato ad , che poi è confluito proprio in y.
Un terzo gruppo di fondamentale importanza, ancora una volta riconducibile ad un
collettore di varianti, conta quattro codici italiani (P, S, U, c), i cui rapporti reciproci
sono piuttosto lineari. I manoscritti sono strettamente legati a coppie: P e S, che
condividono un antecedente comune, U e c. Le loro fonti paiono affini a quelle di e y.
S (inizio del ‘30024) e P (1310) sono i più antichi, mentre c è quattrocentesco. È
probabile che il loro capostipite sia italiano, e che le tracce di origine francese e
provenzale che caratterizzano P ed S siano il frutto di contatti con la tradizione delle
chansons de geste ed altre simili, avvenuto in Italia, piuttosto che di spostamenti
all’estero. La peculiarità dei modelli del terzo ramo consiste nella loro apparente
estraneità all’archetipo ricostruito all’origine delle altre due famiglie.25 Le loro varianti
sono inoltre problematiche da un punto di vista filologico: saranno autoriali o
successive? E in che ambiente si sono determinate? In questo caso è lo studio di c ad
e jois di Arnaut Daniel, che Petrarca ha letto certamente, poiché lo dichiara nella famosa postilla latina al
sonetto Aspro core. La canzone è testimoniata da un solo altro codice, a, e per questo si è pensato che T
sia padovano: qui potrebbe averlo letto lo stesso Aretino (nella medesima postilla egli dice di trovarsi a
Padova) o comunque su un suo affine, magari esemplato (per la parte provenzale e trecentesca) nel
medesimo contesto.
22
Secondo Folena 1990 è proprio questo personaggio ad avere un ruolo centrale nella diffusione dei testi
trobadorici alla fine del Duecento, con una posizione molto simile a quella attribuita a Uc de Saint Circ
per il Veneto.
23
Una prima connessione si coglie nella configurazione della famiglia detta , dove il contatto con y viene
dalle fonti rispettivamente affini a C e Q.
24
Secondo Folena 1990 la datazione può essere anticipata alla fine del secolo precedente. Il codice è
contraddistinto da numerose postille in latino; l’uso della lingua alta ed ufficiale per commentare testi
poetici in volgare potrebbe essere segno dell’interesse e della considerazione con cui quei componimenti
erano valutati.
25
Si è già accennato alla possibilità che fonti di questo tipo abbiano lasciato tracce anche in codici che
appartengono agli altri due filoni, e soprattutto a quello di y.
437
offrire qualche risposta: parte di tale silloge discende infatti dalla fonte di G e Q
(secondo gruppo), affine in particolare a e x2. I modelli del terzo gruppo che non
risalgono all’archetipo, dunque, potrebbero comunque provenire dall’ambiente di y. Nei
codici si notano interessanti segni di affinità reciproca e soprattutto tracce provenzali
coerenti con l’area di Bèziers e Narbona; in conclusione un affine di G potrebbe esser
stato fonte di C ed f. Altre caratteristiche di P ed S fanno pensare ad un contatto con un
discendente di 26.
Benché Avalle ammetta che le possibili configurazioni della tradizione di ciascun
codice a noi noto siano pressoché infinite, è possibile delineare uno stemma di massima,
o per lo meno un “canone”. In esso si nota soprattutto l’isolamento di H, che per tutta la
seconda parte è autonomo rispetto all’archetipo; tuttavia esso presenta elementi di
contatto con . I problemi essenziali nella gestione di una tradizione tanto ampia sono la
contaminazione antica e diffusa, nonché l’impossibilità di approfondire sulla
conformazione dell’archetipo, a causa dei complessi rapporti in gioco ai piani inferiori
dello stemma. Per altro, alcuni manoscritti testimoniano l’esistenza di altre tradizioni
indipendenti: V, O, Sg, la raccolta di Bernart Amoros, probabilmente il codice
appartenuto al conte di Sault. C’è però qualche contatto con , ed .
Il quadro così delineato permette di percepire indizi di tradizioni molto più antiche
rispetto ai testimoni che si sono conservati, il che ci riporta all’idea che il patrimonio di
origine occitanica, presumibilmente ricchissimo, sia stato radicalmente intaccato dalle
perdite.
I dati presentati sinora possono essere integrati dall’analisi riassuntiva di Pulsoni27 (la
cui ricostruzione appare coerente con il quadro linguistico proposto da Zufferey, di cui
si tratterà in seguito). Pulsoni, infatti, ha evidenziato come il 91% dei testimoni in
nostro possesso sia stato realizzato tra ‘200 e ‘300, con netta inferiorità del pieno XIII
secolo. La ripartizione geografica offre interessanti riscontri sul piano cronologico: i
codici duecenteschi sono per lo più italiani, seguono Francia e Midi; la preminenza
italiana si accresce ulteriormente per gli anni a cavallo fra i due secoli, quando
l’importanza della Francia è messa in ombra dalla vivace attività scrittoria dei catalani.
Nel pieno ‘300 cala la percentuale di manoscritti italiani, a favore di quelli provenzali.
Tali informazioni concordano con ciò che si conosce in merito alla sopravvivenza delle
attività poetico-culturali di stampo trobadorico dopo l’età d’oro dei grandi classici.
Dapprima, in relazione alla crociata albigese, alla decadenza politica della regione
occitanica e quindi alle condizioni precarie della nobiltà e delle corti locali, i trovatori si
spostano in Italia. Qui ed in particolare nella Marca Trevigiana la ricezione entusiastica
delle loro opere spiega facilmente la preparazione di numerose sillogi e la sistemazione
dei materiali biografici. Sul finire del Duecento è però l’area catalana a divenire erede
26
La questione dei rapporti tra i tre rami della tradizione è indubbiamente complessa; si rimanda dunque
ad Avalle 1961, che sommando la critica esterna e quella interna poté arricchire la ricostruzione anteriore
del Gröber, il quale si era arrestato dopo aver riconosciuto i tre principali gruppi di codici. Per la
ricostruzione stemmatica si veda in particolare p. 124.
27
Pulsoni 2004.
438
attivissima della cultura cortese, come dimostra anche la produzione di manuali
grammaticali. Nel primo quarto del ‘300, l’esperienza del Concistori del Gai Saber a
Tolosa si inserisce in una fase di rinnovato interesse per le origini culturali locali in area
provenzale.
È interessante notare, sempre grazie all’analisi di Pulsoni, che i codici occitanici sono
per lo più collocabili in una sede precisa, mentre questa possibilità è quasi sempre
esclusa nei casi catalani e italiani. In quest’ultimo ambito, a parte il codice napoletano
M, il cui copista era comunque di origine settentrionale, tutti i manoscritti vengono dal
nord, con assoluta preminenza del Veneto, cui seguono Lombardia e Toscana.
L’ordinamento più diffuso nell’insieme è quello per autore, ma i codici veneti si
distinguono per la preminenza attribuita all’organizzazione per generi. Data la presenza
di Uc de Saint Circ alla corte dei da Romano, si può pensare che tale principio
corrisponda ad una prospettiva più antica e tradizionale28. La musica è quasi sempre
trascurata e le note sono riportate solo in G: tale approccio è prevedibile in Italia, dove il
legame poesia-musica si spezza precocemente, già con la Scuola siciliana. È però
curioso che lo stesso fenomeno si verifichi in area occitanica, dove solo R presenta la
notazione, in contrasto con le preferenze oitaniche: in Francia l’attenzione per le
indicazioni musicali è fortissima, come dimostrano circa due codici su tre.
Su un piano diverso si pone la riflessione di Zufferey29, focalizzata sui quaranta
canzonieri trobadorici in senso stretto30: essi possono essere divisi in alcuni gruppi, in
base all’organizzazione del loro contenuto e alle caratteristiche linguistiche, la cui
analisi ha contribuito in modo essenziale a rivelare l’origine geografica dei codici e i
loro rapporti reciproci.
Innanzitutto va ricordata la tradizione alverniate, che si prolunga in una linea veneta;
questa famiglia viene così definita perché i manoscritti che le appartengono si aprono
con il corpus delle opere di Peire d’Alvernha (A, D, I, K). Tuttavia il gruppo è integrato
da altri due codici (B, a) che sono imparentati ai precedenti, benché si aprano con i
componimenti di Giraut de Bornelh. Tali manoscritti rimandano al Midi o all’Italia
settentrionale; possono essere ulteriormente classificati come Ia, Ib e II, in base alla
collocazione cronologica.
28
Si può notare che questa ipotesi non contrasta con quella di Avalle, secondo il quale proprio
l’organizzazione per autori era un segno di evoluzione nella creazione dei canzonieri. È vero però che il
criterio per cui si distinguono e dunque evidenziano le diversità di genere è tipico anche delle altre sillogi,
non trobadoriche, prodotte in Italia.
29
Zufferey 1987.
30
Nella sua analisi Pulsoni 2004 sceglie di considerarne cinquanta, ma concorda nel tralasciare tutte le
forme di tradizione indiretta. A differenza di Zufferey, egli considera come volumi autonomi i canzonieri
un tempo unici, ma oggi fisicamente distinti perché smembrati nel corso del tempo. Infine, lo studioso
tiene conto di concezioni o progetti diversi che possono essere colti alla base delle singole sezioni di
codici apparentemente unitari, ma che nella sostanza sono compositi. Non prende invece in esame i
descripti, anche se il loro antigrafo è perduto, qualora esso sia puntualmente ricostruibile; i codici perduti
sono analizzati solo laddove se ne conosca bene il contenuto.
439
B, A e A1 sono strettamente connessi, a partire dalle mani che li hanno esemplati, tutte
provenzali31: le note lasciate per i miniatori rivelano una scarsa conoscenza dell’italiano
e nelle vidas sono stati corretti alcuni italianismi, che le contraddistinguono invece in
altri testimoni. Ovviamente nulla vieta che i tre manoscritti siano stati preparati in Italia,
anche se da copisti di origine occitanica. Si tratta più in generale di realizzazioni molto
vicine tra loro, anche se non identiche. L’area cui rimanda la patina linguistica
comprende l’Alvergna, il Verlay, il Vivarais e il Gévaudan, anche se si avverte una
particolare influenza dell’alta Alvergna, significativamente la zona da cui proviene
Bernart Amoros, creatore della raccolta conservata in a. Non a caso, in tutte e tre le
sillogi gli autori locali sono molto rappresentati; alcuni indizi fanno percepire una
notevole familiarità – come il richiamo a personaggi importanti per la regione, uno fra
tutti il Delfino d’Alvernha, poeta e mecenate che ebbe rapporti con alcuni celebri autori
originari di tale area.
B è il più antico, ma è probabile che sia stato il suo copista a sovvertire l’ordine dei
componimenti in ogni sezione (l’organizzazione è per genere e per autore); il suo scopo
dev’essere stato adattare la raccolta al contesto del pubblico. Il copista di A è invece
responsabile del cambiamento nella successione dei generi (le tenzoni vi sono anteposte
ai sirventesi), mentre non è chiaro se la divergenza che intercorre tra A e B a proposito
dell’ordine dei testi di ciascun autore si debba all’uno o all’altro. Un’ulteriore
distinzione tra i due concerne la maggiore ampiezza di B, rispetto alla quale secondo
Zufferey è più economico ipotizzare una riduzione da parte di A, piuttosto che l’uso di
una seconda fonte da parte di B.
Un legame ancor più stringente si coglie a proposito di A e A1, come dimostrano
l’ordine dei componimenti e l’analisi testuale, benché nemmeno queste due raccolte
siano perfettamente sovrapponibili32.
La formazione di una specifica tradizione alverniate può essere stata favorita dalle
attività culturali promosse dalla corte di Puy-en-Velay, dove le ambizioni poetiche e i
valori cavallereschi furono a lungo apprezzati. Qui si trovò anche Uc de Saint Circ, che
può aver costituito un tramite con il Veneto; tuttavia il suo passaggio avrà rappresentato
solo un momento illustre nel corso di scambi consueti tra Provenza e Italia, mantenuti
vivi dai frequenti spostamenti degli autori nelle due direzioni. Tali considerazioni
rendono davvero plausibile l’ipotesi secondo cui alcuni importantissimi canzonieri
italiani deriverebbero dal ramo alverniate, tra i quali l’antenato del famoso e perduto
Liber Alberici e dunque di D. Quest’ultimo presenta lo stesso ordinamento arcaico
(basato sul genere) che troviamo in B, ma B è probabilmente più recente di D o per lo
meno della sua fonte, perché contiene anche materiale biografico, come A, A1, I e K. A
è stato esemplato tra fine ‘200 e inizio ‘300; l’antigrafo sembra veneziano, come
suggeriscono la precisione e la ricchezza che caratterizzano il corpus biografico e
poetico di Bartolomé Zorzi (in effetti nel ‘400 il codice apparteneva al doge Marco
31
Folena 1990 non concorda con questa attribuzione, poiché ritiene che la mano di A sia veneta, e non
solo la fattura del codice.
32
Jeanroy, nella sua bibliografia dei canzonieri trobadorici (Jeanroy 1916) afferma invece che si tratta di
una copia di A, né concorda con l’identificazione della mano, che stima italiana.
440
Barbarigio, che può averlo avuto dal padre). Segue il frammento A1, dell’inizio del
‘300, caratterizzato da un’impronta italiana più marcata; il suo stato attuale è frutto di
uno smembramento avvenuto alla fine del ‘400. I e K33 sono due codici gemelli, le loro
divergenze sono limitatissime: K ha due testi in più, uno dei quali lo apparenta alla
raccolta di Bernart Amoros, mentre gli manca la sezione dedicata a Blacasset. Questo
dato è significativo per la ricostruzione della sua storia, poiché avvicina K ad A e lo
separa da B e I, che potrebbero aver guardato ad una fonte secondaria rispetto a quella
comune, con effetto contaminante. La posizione della serie di coblas dedicate alla
crociata aragonese, che in I chiudono la sezione delle canzoni, riconduce invece K a C,
che però appartiene ad un gruppo distinto; infine, I presenta una tenzone aggiuntiva.
I “gemelli” sono sicuramente veneti e realizzati a cavallo tra XIII e XIV secolo. Dalla
stessa area provengono due frammenti detti K1 e K11, peculiare per la successione di più
mani e l’uso di una fonte complementare, ma sempre legata alla tradizione alverniate.
Appartiene ad essa anche la raccolta di Bernart Amoros (a), il cui studio pone numerosi
problemi filologici e linguistici, soprattutto a causa delle incomprensioni del Tarascon,
il copista34. Egli infatti, ha stravolto persino la composizione d’insieme del canzoniere,
cosicché ne è stata tramandata una versione manchevole rispetto all’originale perduto,
come ha dimostrato la ricostruzione degli studiosi. In ogni caso, l’originale deve aver
conosciuto l’incontro tra due influenze linguistiche; l’impronta della fonte potrebbe
essersi realmente conservata, se Bernart è davvero stato fedelissimo come dichiara;
d’altronde egli deve aver influenzato a sua volta il dettato con la parlata dell’alta
Alvergna, evidente ad esempio nell’introduzione.
A questo gruppo di codici va ancora aggiunto O. Spesso gli studiosi ne evidenziano la
tripartizione, ma Zufferey consiglia piuttosto di distinguerne due sezioni. La seconda è
profondamente affine ad a: vi sono infatti raccolti gli stessi testi e anche la disposizione
dei componimenti per ciascun autore è la medesima. Non è però chiaro se vi sia stata
una fonte comune o se per quella parte O dipenda direttamente da a. Questo legame tra
a e O offre uno strumento per precisare la complessa collocazione linguistica del primo,
che risulterebbe connesso a B, A e A1, anche se probabilmente è debitore di un modello
un po’ più meridionale, tra Linguadoca e Provenza. Quest’origine si sarà
presumibilmente riflessa anche sul perduto codice appartenuto al conte di Sault35, che
dovrebbe derivare dal medesimo modello utilizzato da Bernart.
Una seconda linea distinguibile nella tradizione manoscritta trobadorica è quella
linguadociana, che poi scende in area lombarda. I codici che la compongono si
riconoscono innanzitutto per l’apertura dedicata a Folchetto da Marsiglia o più di rado a
Marcabru, secondo scelte il cui criterio è forse cronologico, ma eventualmente anche
geografico o estetico. L’origine di questi manoscritti è in alcuni casi occidentale e in
altri meridionale. Da una parte, dunque, vanno considerati C e R, il primo narbonese ma
con influenze catalane, il secondo d’inizio ‘300 e tolosano, ma con elementi guasconi.
L’origine di R è confermata da alcune pagine rimaste inizialmente bianche, che sono
33
K deve parte della sua fama alle postille che vi ha lasciato Bembo, che ne fu proprietario.
Si veda il paragrafo dedicato in particolare alla raccolta di Amoros.
35
Si veda il paragrafo specificamente dedicato a questa raccolta perduta.
34
441
state riempite con testi legati al Concistori du Gai Saber. A questi due vanno associati
quattro testimoni italiani: M4, G, Q, il frammento e. Un secondo gruppo è costituito da
b, E (originario di Montpellier36), J (proveniente da Nîmes)37, cui rimanda il frammento
p tramite la mediazione di f. A questi codici vanno accostati gli italiani L38 e N,
mantovano e di proprietà dei Gonzaga già dal ‘300.
R è il canzoniere più ampio a noi noto, anche perché non è un canzoniere soltanto lirico.
Questa disomogeneità si percepisce chiaramente nell’organizzazione generale, poiché le
sezioni liriche sono di tanto in tanto interrotte da testi eterogenei e da gruppi di tenzoni,
che dunque non godono di uno spazio autonomo e circoscritto. La composizione della
raccolta è comunque unitaria, come garantiscono le caratteristiche linguistiche; dunque
è probabile che l’ordinamento poco convenzionale sia almeno in parte voluto. Piuttosto,
è marcata l’impressione che siano state interpolate fonti diverse. C è molto legato a R e
tuttavia permangono alcuni fattori distintivi, oltre alle differenze geografiche: mancano
alcune lettere e tenzoni (che però potevano trovarsi su alcuni fogli caduti), ed è più ricco
il corpus di Guiraut Riquier. Il confronto su questo punto è rivelatore: il copista di R,
infatti, interrompe bruscamente questa sezione, dichiarando che nel suo modello il
finale della canzone non c’è. Considerando che Riquier era di origine narbonese come
C, l’ipotesi più economica è quella secondo cui il modello lacunoso proverrebbe da
Tolosa, come R, dove sarà mancato un sostituto immediatamente attingibile; C potrebbe
invece aver completato la fonte comune con un secondo modello, più ampio.
C presenta una struttura rigorosa: canzoni e sirventesi sono separati, ciascun gruppo è
organizzato per autore e i diversi poeti si susseguono in base alla quantità di testi
pervenuti (decrescente); seguono qualche anonimo e i generi dialogici. Il codice
comprende due tavole dei contenuti, una secondo l’ordine effettivo della raccolta ed una
in ordine alfabetico. Il copista appare molto attento all’autorialità dei testi; deve aver
collazionato le sue tavole per segnalare eventuali discrepanze nelle attribuzioni, per le
quali per lo più concorda con R.
Con b si indica un manoscritto della Biblioteca Vaticana, che comprende cinquantadue
carte vergate dal filologo Barbieri, la fonte principale per la ricostruzione della perduta
raccolta preparata da Miquel de la Tor con le opere di Peire Cardenal39. Quarantaquattro
fogli sono copia di quella silloge, mentre i precedenti otto presentano una lista di
citazioni provenzali con traduzione in italiano che corrispondono alle prime
centoquattordici pagine dell’opera in cui Barbieri ha messo a frutto le sue conoscenze
trobadoriche. A questo nucleo nel codice vaticano sono poi aggiunte altre sezioni
autoriali, secondo la struttura tipica dei canzonieri trobadorici; l’ordine che se ne può
ricostruire è molto peculiare, per l’alternanza tra autori importanti ed autori minori, e
rimanda a Q, M e N – anche se solo per il tipo di metodo e non per l’effettiva
36
Favati 1961 si limita a parlare di Linguadoca in generale, come nel caso di R.
Che sembrerebbe imparentato abbastanza da vicino proprio con E. Si veda Folena 1990.
38
Jeanroy, nella sua analisi bibliografia, suggerisce che possa essere copia di un codice provenzale,
benché certamente L sia di fattura italiana.
39
Il discorso sul “libre” sarà ripreso ed ampiamente approfondito nel corso del presente capitolo.
37
442
successione dei testi. Il criterio era probabilmente solo pratico, cioè si cercava di far
iniziare il fascicolo con un nome importante e poi di riempirlo per non sprecare spazio.
Anche il codice E è vicino a b, per la sua origine geografica e linguistica, nonché per la
natura delle sue fonti. Benché non tutti gli studiosi siano concordi (ad esempio
Bertoni40), si può ipotizzare che sia stato realizzato in Linguadoca nel ‘300, per poi
passare in Italia (nel ‘400 faceva parte della biblioteca degli Estensi). Si avverte in
particolare l’influenza della zona di Béziers, aspetto coerente con la considerevole
presenza all’interno della raccolta di trovatori della medesima area. Il codice è
organizzato in quattro parti: dapprima canzoni e sirventesi, i cui autori sono disposti
dapprima per importanza e poi in ordine alfabetico; seguono biografie, tenzoni e danzas
anonime. E discende da due diversi rami della tradizione, e y.
M è stato esemplato a Napoli tra la fine del ‘200 e l’inizio del ‘300, come dimostrano le
decorazioni floreali e la filigrana, ma la mano è settentrionale41. Sembra dunque che la
corte angioina a Napoli abbia attirato appassionati di poesia trobadorica, forse anche
sotto l’influenza delle esperienze siciliane e siculo-toscane, che guardano con insistenza
ai modelli transalpini. Con questo non si può ipotizzare alcuna continuità istituzionale
rispetto al regno di Federico II, il quale soggiornò pochissimo a Napoli (che all’epoca
era un centro secondario) e non si dedicò mai alla protezione di trovatori trasferitisi in
Italia. Per altro, anche se fosse possibile individuare interessi occitanici tra gli
aristocratici meridionali in età sveva, la crisi della classe nobiliare tra XIII e XIV secolo,
causata anche dalla repressione angioina, basterebbe ad attenuare radicalmente i fattori
di continuità rispetto alla vita culturale del pieno Trecento. A loro volta gli angioini
paiono limitare le connessioni con la tradizione siciliana, a favore dei rapporti con
l’Italia centrale e la Toscana42.
Per la collocazione storico-geografica di M è utile considerare soprattutto due gruppi di
testi, i sirventesi da una parte, e le tenzoni dall’altra, i cui autori in gran parte
corrispondono. I primi sono di argomento per lo più politico; i poeti sono provenzali e il
periodo di riferimento coincide con i decenni centrali del Duecento, cui riconducono
alcuni riferimenti espliciti a Federico II o a Carlo I d’Angiò. Le ventisette tenzoni
rimandano alla medesima area, ma alternano testi molto antichi e noti a versi tardi ed
altrimenti sconosciuti, che risalgono quasi senza eccezioni alla metà del ‘200. La parte
dedicata alle canzoni presenta caratteristiche opposte: gli autori sono ben attestati ed
antichi (si parte dalla fine del XII secolo), quelli più recenti e meno importanti sono
davvero pochi, uno solo è connesso al periodo angioino. Tuttavia anche tra i classici
sono preferiti quelli che erano stati legati all’area provenzale in senso stretto.
Tale marcata localizzazione può apparire stridente in un codice la cui preparazione
materiale è avvenuta presso la corte di Napoli, ma le ipotesi per spiegare tale fenomeno
40
Bertoni 1937.
Attualmente il codice appartiene alla Bibliothèque nationale di Parigi, dopo essere stato a lungo
conservato alla Biblioteca Vaticana. Momenti illustri della sua storia sono stati il possesso da parte del
Cariteo alla fine del '400 e poi del Colocci.
42
Gli studiosi, comunque, non sono concordi sulla questione della produzione provenzale nell'Italia
meridionale; Jeanroy 1934 pare favorevole, mentre un esempio di argomentazione a sfavore si trova in
Ruggeri 1953.
41
443
sono piuttosto semplici: un copista o una fonte provenzali giunti in Italia, magari
proprio al seguito del nuovo sovrano angioino. Qualche problema concerne invece la
committenza, poiché numerosi tra i componimenti politici sono chiaramente
antifrancesi, arrivando sino all’esplicita esaltazione di Federico II o di Manfredi. La
Chiesa è guardata con sospetto o con aperta polemica, nel rifiuto soprattutto della
crociata; il ritratto di Carlo è d’abitudine più blando, ma senza dubbio non positivo. Non
mancano esiti davvero vigorosi, non tanto in veste di attacchi personali, ma nella forma
della riflessione etica, partendo magari dalla corruzione della Chiesa o dalla critica agli
ordini mendicanti. Simili prospettive non possono che sorprendere in una Napoli
francese e filopapale, e in un’epoca in cui era ben viva la damnatio memoriae degli
svevi. D’altro canto, il punto di vista proposto da M non è neppure quello del sostegno
oltranzistico per i precedenti conti di Provenza o per i signori locali, spesso a loro volta
oggetto di critiche vivaci, il che fa pensare ad una produzione libera ed indipendente;
proprio l’intensità dei toni e dell’ironia appare il filo conduttore nella creazione
dell’antologia. Vi si uniscono inoltre i testi più antichi e feudali a quelli più tardi e
cittadini: tale varietà contestuale comporta una certa apertura verso nuovi problemi.
Domina inoltre un modello espressivo unitario, la produzione civile e moraleggiante di
Peire Cardenal, che si ripropone quale punto di riferimento essenziale anche in f e C.
Quest’ultimo codice presenta una significativa sezione di sirventesi fortemente orientata
a livello politico, a tutto vantaggio della figura di Manfredi. È vero che in C la
componente religiosa è molto forte, tanto che si è pensato che il committente fosse un
ecclesiastico, ma è indubbia anche la centralità degli attacchi antifrancesi e antiangioini
in particolare, nonché delle critiche virulente verso il clero corrotto. I testi contenuti in
tale silloge appaiono soprattutto occidentali (Linguadoca e tolosano, anche se molti
autori non sono nativi di queste zone), benché debbano aver goduto di una certa
diffusione anche in Italia, e sono citati da vari autori più tardi.
Tornando ad M, il punto di vista dominante va attribuito alla nobiltà provenzale,
avversa al potere centrale dei conti, legata alla tradizione terriera e feudale, ben lontana
dalla realtà comunale. Lo prova anche l’assenza di testi che dichiarino una qualunque
opposizione a tale classe sociale, mentre un atteggiamento critico di questo tipo è
attestato nelle rime di vari altri canzonieri. È coerente infine anche la datazione di gran
parte dei testi alla metà del ‘200.
Resta da considerare la piccola sezione dedicata ai cinque discordi anonimi43, che in M
costituiscono quasi un’appendice ai sirventesi. Solo altri due codici presentano uno
spazio autonomo per questo metro, S e N; tale elemento di coerenza, nonché alcuni tratti
testuali (in particolare le correzioni introdotte, sembra, in una revisione immediatamente
successiva alla preparazione del manoscritto) fanno pensare che M debba essere
accostato al ramo della tradizione, legato soprattutto al Veneto. È una possibilità
particolarmente interessante, anche per l’occasionale presenza in M di testi d’origine
43
Il criterio alla base della sezione è forse più genericamente l'importanza dell'accompagnamento
musicale, poiché si nota l'errore nella definizione dell'estampida Kalenda maia come discordo. In effetti i
due generi sono affini tra loro e con i lai per l'uso di versi brevi e per l'andamento ritmato, tanto che già
gli antichi compilatori di raccolte e trattati hanno gravi problemi di classificazione.
444
italiana. Inoltre nei codici che appartengono a questa famiglia è tipica la divisione di
canzoni e sirventesi; si notano anche collegamenti nelle decorazioni miniate, non tanto
nella tecnica (francese), quanto nei soggetti cavallereschi, che sarebbero per altro
giustificati dalla connessione dei componimenti alla sfera sociale aristocratica.
Per spiegare i molteplici rapporti di parentela intrattenuti da M, si potrebbe pensare ad
una mediazione veneta rispetto a fonti alverniati e poi limosine; la preparazione della
silloge e il suo progetto politico, evidenziato da Asperti44, potrebbero dunque essere già
provenzali. Il graduale passaggio di copia in copia può aver poi diffuso tale struttura in
Veneto e a Napoli. D’altro canto, la straordinaria vitalità dei centri veneti potrebbe
giustificare anche una preparazione italiana. In entrambi i casi, è plausibile che
l’influsso veneto giunga in ambito napoletano, come per altro la presenza a corte di un
estensore settentrionale (italiano) e l’attenzione per il genere non strofico.
Tale ipotesi, che combina una preparazione napoletana di materiali non napoletani,
permetterebbe di spiegare in modo soddisfacente le tematiche apparentemente
incoerenti al contesto angioino; lo scopo del copista sarebbe stato quello di sfruttare
appieno un modello già disponibile; per altro non è da escludere che il contenuto
politico fosse già percepito come non attuale, e quindi non foriero di preoccupazione.
È più difficile valutare la situazione di J. Esso è affine ad E per grafia, ha però
sicuramente integrato una fonte che pare provenzale con un modello italiano per i testi
dei trovatori originari della penisola; la lunghezza ridotta fa inoltre pensare che sia
gravemente mutilo. È difficoltoso anche stabilire a quale gruppo appartenga: potrebbe
inserirsi in quello provenzale-lombardo, ma l’incipit è peculiare, perché dedicato a Peire
Cardenal (e la numerazione garantisce che si tratta di una scelta precisa e non del frutto
di una lacuna). A livello linguistico, anche questo codice si situa tra Linguadoca e
Nîmes. La preminenza attribuita a Peire Cardenal collima con l’appartenenza a questa
zona geografica, poiché è proprio qui che Miquel de la Tor sembra aver raccolto le
opere del poeta per il suo “libre”.
L’impostazione generale cambia radicalmente nel breve frammento p, dedicato a
Gaucelm Faidit, pensato come successione prima di tutti i materiali biografici (vidas e
razos) e poi di tutti i testi in versi. Il suo modello deve essere italiano, come dimostra la
base linguistica, ma il copista di p le ha sovrapposto una patina occitanica affine a
quella di J. Il frammento subisce insomma influenze molteplici ed è dunque probabile
che il suo modello sia appartenuto a quella che Avalle45 ha definito “terza tradizione”.
A questo punto è necessario individuare un terzo gruppo di testimoni, legato alla
regione provenzale in senso stretto e che comprendono soltanto una raccolta di trentatré
coblas di Bertran Carbonel e il codice f. Quest’ultimo, noto anche come “canzoniere
Giraud”46, risale alla prima metà del ‘300, quando la Provenza era già una contea
44
Asperti 1995.
Avalle 1961.
46
Giraud è il nome del filologo che ne fu possessore e che poi lo donò alla biblioteca imperiale nel 1859.
Il codice ha alle spalle una storia intensa: la mano che ha scritto sui fogli di guardia potrebbe dimostrare
che esso sia appartenuto nel '500 a Jean de Nostredame, di cui si è parlato in qualità di biografo dei
trovatori nel corso del primo capitolo. La medesima mano si ritrova su alcuni fogli sciolti (oggi conservati
alla biblioteca di Carpentras) dove dichiara di aver posseduto proprio il Giraud. Tutte le testimonianze
45
445
angioina; ha quattro estese lacune, ma è ricostruibile nella sua interezza grazie
all’elenco di capoversi che un lettore cinquecentesco ha registrato sui fogli di guardia
(ma senza ripetere i testi doppi). Comprende centoottantacinque componimenti oltre a
numerose coblas esparsas ed è organizzato in due parti, ben distinte sul piano testuale e
cronologico. La prima è eterogenea, molti testi sono in testimonianza unica e piuttosto
tardi (il periodo è compreso tra 1270 e 1310), mescolati a qualche nome più autorevole
e anteriore (metà del ‘200). Il fattore unificante è la Provenza (in particolare l’area di
Tarascon, nella Rhône), che in molti casi è la terra d’origine dell’autore o per lo meno
luogo in cui si è sviluppata la sua produzione: si tratta dunque di una sezione a forte
connotazione regionale. La seconda parte è speculare, perché contiene soprattutto testi
di trovatori classici, risalenti al XII o al XIII secolo, ma anche alcuni componimenti più
tardi (sempre in testimonianza unica e provenzali), che danno quindi unità all’insieme.
Da questa distinzione cronologica deriva anche una differenziazione tematica fra le due
parti, poiché i testi degli autori tardi solo di rado sono amorosi (abbondano motivi
moralistici, precettistici, satirici, giocosi), secondo le tendenze tipiche dell’ultimo
trobadorismo, mentre la sfera cortese e sentimentale domina nei classici. I poeti minori
inseriti nella seconda metà sono scelti con coerenza per adattarsi a questa linea tematica.
Ne consegue infine una divaricazione di genere e in parte metrica: le opere amorose
sono canzoni, le altre molto più varie47. Si può dunque intuire che siano questi i criteri
che hanno guidato la preparazione della raccolta48, anche se sono poco evidenti ad un
primo sguardo, perché mascherati dal disordine nella successione dei testi, i cui autori
spesso sono riproposti in punti diversi. La seconda sezione può essere ulteriormente
divisa in tre momenti, scanditi dai componimenti di Folchetto da Marsiglia. Le quattro
partizioni complessive potrebbero essere ciascuna il portato di un ramo diverso della
tradizione; purtroppo l’analisi linguistica non aiuta né a confermare né a smentire tale
ipotesi, perché le caratteristiche (soprattutto a livello grafico) sono irregolari e fluttuanti
in tutta la silloge. È comunque possibile precisare che l’area di appartenenza è quella di
Arles, che d’altronde insieme a Tarascon individua la zona d’origine di vari unica
presenti nella raccolta; vi si rivela così la presenza di un piccolo, ma significativo centro
poetico ancora attivo nel ‘300. Il copista si lascia influenzare notevolmente dalle
tendenze linguistiche locali, soprattutto per i testi privi di una lunga tradizione scritta.
Il legame territoriale è insomma fortissimo, ed anzi la prima parte del codice, che ne è
più caratterizzata, si dimostra anche per questo molto interessante. Le va riconosciuto
un peculiare valore storico: infatti gli autori che tramanda sono di poco anteriori a quelli
mostrano una permanenza di questi documenti nell'area d'origine. Per altro le note di Carpentras e l'opera
biografica del Nostredame rimandano ad un altro codice, il famoso e perduto manoscritto del conte di
Sault. Le tracce del Giraud si perdono dal '500 alla Rivoluzione francese, quando riappare in possesso dei
marchesi Simione, i cui discendenti ne fecero dono appunto a Giraud. Oggi è conservato alla Bibliothèque
nationale a Parigi.
47
Non ha valore critico l'anticipazione – di per sé rara e dunque peculiare – dei generi minori, rispetto alle
canzoni. Infatti, la prima parte è scritta su fascicoli autonomi, che probabilmente erano in fondo e poi
sono stati anticipati, anche se questo spostamento deve essere stato piuttosto precoce, visto che la
numerazione quattrocentesca delle pagine non ne è stata alterata.
48
Fanno eccezione due sirventesi, inseriti nella seconda parte: due componimenti peculiari e molto
difficili da decifrare, nel contenuto e nelle soluzioni metriche adottate.
446
attivi nell’ambito del Concistori49 e rappresentano una fase di passaggio tra la fine
dell’epoca d’oro e il periodo tolosano. Sono ancora professionisti e non appassionati
dilettanti; l’accostamento ai classici potrebbe essere in fondo il riconoscimento di queste
capacità. Il canzoniere f appare perciò un documento eccezionale rispetto all’evoluzione
della cultura trobadorica e dei gusti letterari trecenteschi: esso illustra il venir meno di
ogni prospettiva feudale o cavalleresca, e lo evidenziano bene i sirventesi e i testi
moraleggianti, dove ad esempio scompare la questione del rapporto fra clero e nobiltà.
La prima sezione rappresenta piuttosto una raccolta borghese ed urbana (come
suggerisce anche la veste materiale del codice), in cui il punto di vista religioso è
preminente rispetto a quello politico, e non manca una certa occasionalità. Se si pensa al
contesto storico, il legame con la casa d’Angiò è labile, limitato alla congruenza
spaziale e temporale, oltre che al ruolo degli angioini nel cambiamento del quadro
culturale occitanico in genere. Fanno in parte eccezione alcuni componimenti
esplicitamente occasionali, talvolta introdotti da una dedica, ma sono elementi
insufficienti per pensare a un patronato vero e proprio da parte degli Angiò, o anche
solo ad una frequentazione molto assidua di singoli poeti. L’interesse di Carlo non
sembra particolarmente vivo finché resta in Provenza, dove le sue relazioni documentate
sono essenzialmente politiche; il suo ruolo di mecenate si rinsalda solo dopo l’impresa
italiana, nella stabilità della corte napoletana, e qui in effetti convergono numerosi
intellettuali e aristocratici. La tradizione provenzale sembra mantenersi autonoma nella
sua regione d’origine, ma al contempo è sradicata dalla società e dall’ideologia in cui
era nata. Per questo vi si riconosce l’influenza di nuove esigenze: i valori e le forme
classiche sono oggetto di una netta trasformazione, sono diversi i problemi e le ansie
spirituali cui si dà ascolto. Un altro aspetto di questo contesto è il senso di chiusura, di
isolamento, premessa per l’esaurimento di una temperie culturale ormai stanca; l’unico
possibile orizzonte di scambio è al momento con l’area catalana, che appare ben più
vivace e propositiva. E in effetti la prossimità del declino lascia qualche segno visibile
in f, come nell’assenza di autori recentissimi o contemporanei all’estensore
dell’antologia, cioè i poeti che lavorarono per l’ultimo conte provenzale e per Carlo
d’Angiò. È una frattura simile a quella che interessa la metà del Duecento quando
diminuiscono i poeti propriamente provenzali, non a caso dimenticati anche da
Francesco da Barberino, che viaggiando per la Provenza nel primo ‘300 raccolse notizie
dei trovatori locali. Il cambiamento in atto è travolgente, anche se graduale, e gli
angioini ne sono stati un fattore catalizzante, anche se probabilmente non scatenante.
Rimangono in ogni caso importanti elementi di continuità nella forma, innanzitutto
nella metrica, uno degli aspetti più evidenti dell’eredità dei grandi trovatori50. Anche i
topoi beneficiano di notevole stabilità, salvaguardati proprio dalla loro natura
convenzionale, che ne permette l’uso immediato a prescindere dallo specifico contesto
socio-culturale.
49
La medesima collocazione cronologica e dunque un simile valore storico vanno riconosciuti ai catalani
testimoniati dal canzoniere Ripoll, anche se per una diversa realtà geografica e culturale.
50
Tale eredità formale sopravvive almeno sino alla fine del ‘300: basti pensare alle canzoni dalla struttura
metrica provenzale nel Canzoniere petrarchesco.
447
Il codice f, quindi, è in tutti i sensi un testimone prezioso del suo tempo e del modo in
cui i testi trobadorici continuano ad essere composti, letti, diffusi e conservati.
A livello storico e filologico, è significativo che in f si colgano somiglianze con R sul
piano sia linguistico che testuale. È presumibile che nel secondo alcuni autori siano stati
affrontati guardando ad una fonte provenzale (ad esempio Bertran Carbonel – Marsiglia
– e Guilhem de l’Olivier – Arles) ed è interessante che siano autori di interesse
soprattutto locale.
Come si è visto, la tradizione provenzale conosce prolungamenti non solo in Italia, ma
anche in Catalogna e in Francia. Una mano catalana si coglie chiaramente in V (metà
del ‘200) e Z (metà del ‘300), ma anche in un frammento (di fine ‘300 o anche più
tardo) conservato oggi a Madrid. In area francese i testimoni importanti non sono molto
numerosi: Y è un codice integralmente trobadorico, W e X sono manoscritti di natura
eterogenea in cui sono inseriti anche testi occitanici.
Zufferey, infine, ha integrato le informazioni linguistiche con un ulteriore studio
“stemmatico”, che si affianca a quello di Avalle. Le famiglie di testimoni restano
comunque tre: secondo la terminologia di Zufferey, , e . La prima è certamente la
più conservativa; il codice J ne rappresenta al meglio le tendenze, mentre A, che pure le
appartiene, in parte se ne discosta. La seconda individua un’area più occidentale, ma
conosce una connessione con il primo ramo grazie alla mediazione del manoscritto M,
che d’altra parte è imparentato anche con D. La terza famiglia, infine, è in origine
provenzale, ma i suoi discendenti sono sempre più spostati verso la Linguadoca; è
rappresentata in sostanza da T e D, che però risulta contaminato dal contatto con e con
M51.
La ricognizione dei testimoni sopravvissuti aiuta a definire quali materiali fossero
effettivamente disponibili alla lettura tra Due e Trecento, in Italia e in Provenza, pur nei
limiti imposti dalle ampie perdite subite dal patrimonio librario. Qualche ulteriore
indagine può essere utile per comprendere quali interessi e quali competenze
permanessero fra gli uomini colti del ‘300. E la questione si complica in primo luogo a
proposito dell’Italia, dove è forse più difficile pensare che la tradizione trobadorica, che
pure vi si era ampiamente diffusa, fosse a lungo percepita come viva.
L’opera di Dante, ad esempio, rappresenta un terreno di studio fertile, in virtù degli
incontri con vari trovatori nel corso del viaggio ultraterreno52 e a maggior ragione grazie
51
Uno spazio privilegiato per una ricerca come quella condotta da Zufferey è il corpus di Peire Cardenal,
poiché Miquel de la Tor lo sistemò in un vero e proprio “libro”, con un ordinamento riconoscibile. Nel
trattamento della sezione dedicata a questo poeta, T si rivela il più conservativo, in coerenza con la
famiglia cui appartiene; tuttavia questo manoscritto è stato esemplato in Italia nel '400 e i suoi caratteri
linguistici impongono di ipotizzare almeno due passaggi, in Provenza e nella Linguadoca occidentale.
Anche J introduce pochi cambiamenti, sia sul piano linguistico che su quello della successione dei testi.
Invece i copisti di A ed M sono influenzati da marcati usi autonomi e, poiché cercano di rendere il testo
omogeneo, finiscono per modificarlo al fine di integrare le proprie abitudini locali. R e C appaiono
piuttosto vicini al “libre” come è stato ricostruito, almeno sul piano linguistico, poiché provengono in
sostanza dalla medesima area. I presenta le innovazioni maggiori; D si basa sulla consultazione di due
fonti diverse, una affine a T ed una vicina ad A.
52
Si vedano in particolare Pulsoni 2003 e Resconi 2008.
448
alla breve composizione in lingua d’oc attribuita al lussurioso Arnaut Daniel nel canto
XXVI del Purgatorio. Qualche traccia di decadenza nelle competenze linguistiche è
rintracciabile già nell’uso di Dante o comunque del suo tempo; man mano che le
cantiche sono copiate e commentate il peggioramento nella comprensione di quei versi è
sensibile (e non ne è escluso nemmeno Boccaccio), in particolare perché si avverte
sempre più la patina francese. Anche le notizie sui personaggi riportate dai
commentatori divengono via via più fantasiose e basate soltanto sulle narrazioni
biografiche conservate dalla tradizione manoscritta. L’unica eccezione davvero
meritevole si coglie nel commento alla Commedia realizzato da Pietro Alighieri; si è
pensato che egli fosse stato favorito dall’amicizia col Petrarca, che certamente
conosceva la lingua per motivi biografici, oltre ad aver probabilmente letto le vidas.
Un’altra possibilità di ricerca concerne aree specifiche, in cui sia possibile riconoscere
la diffusione e l’influenza della cultura cortese; Asperti53, in particolare, si è concentrato
sulla realtà angioina.
Quando la Provenza perde la sua autonomia alla fine del governo di Raimondo
Berengario V, il potere passa a Carlo I d’Angiò, che pur essendo francese54 conferma
l’apprezzamento e la disponibilità del suo predecessore nei confronti dei trovatori; molti
di loro diventeranno anzi suoi collaboratori politici, seguendolo nella sua discesa in
Italia e ricoprendo vari incarichi diplomatici55. La sua figura è stata a lungo trascurata
dagli studi d’italianistica e di provenzalistica, in parte per la sua origine francese ed
inoltre per il diffuso giudizio storico negativo sui suoi rapporti col papato e i poteri
locali. Tuttavia proprio l’importanza di Carlo rispetto ai rivolgimenti politici di fine
‘200 rende imprescindibile la valutazione del suo ruolo nella coeva vita intellettuale.
Che influenza ha avuto questa fase storico-culturale sulla trasmissione dei codici
trobadorici? Osservare i testi, i loro accostamenti, l’organizzazione interna delle sillogi
significa comprendere i gusti e le concezioni letterarie di un’epoca, e un’epoca di
particolare importanza per i cambiamenti culturali che la contraddistinguono. In alcuni
casi la responsabilità di tali scelte dovrà essere attribuita al singolo estensore, in
relazione ai suoi scopi e agli interessi personali. In molti altri sarà stato determinante il
contesto in cui ha preso forma l’antologia, che spesso lascia la sua impronta anche
durante le fasi successive di risistemazione o di copiatura, dunque nel costituirsi della
tradizione. In generale, la situazione in cui si trova l’estensore della raccolta ne
determina il contenuto. Meyer56 fu convinto sostenitore della selezione dei testi
all’origine delle raccolte, dunque come premessa per la conservazione vera e propria; ed
anche Avalle ha sottolineato come spesso alla base di una silloge d’ampio respiro si
colga un preciso progetto comunicativo57. Basti pensare alle compilazioni destinate alla
scuola o legate a specifici ambienti culturali. Altri studiosi hanno evidenziato, invece, il
53
Asperti 1995.
Egli è noto infatti per la sua attività di mecenate a favore di poeti di lingua d'oil.
55
Si pensi in particolare alla biografia di Sordello.
56
Meyer 1871, p. 5, citato inoltre in Asperti 1995, p. 15.
57
Avalle 1985.
54
449
desiderio di molti copisti di salvare semplicemente quanti più testi possibile, come si
nota nella tendenza ad aggiungere nuovi componimenti in tutti gli spazi rimasti
disponibili durante precedenti fasi di compilazione; un’acquisizione meno generosa sarà
però stata più tipica nel caso dei generi minori, ed è ovvio quanto sia determinante
l’effettiva disponibilità o assenza di fonti. La considerazione della raccolta nel suo
insieme, con la sua storia e il suo contesto storico-geografico ha dunque un enorme
valore: le singole rime sono coinvolte nella storia del volume cui appartengono e al
contempo è l’antologia completa ad avere reale circolazione, influenzando così le
esperienze culturali successive.
Solo M ed f sono nati in ambiente angioino e a Napoli in particolare; altri (F, P) ne
hanno comunque subito un’influenza importante, in particolare per la struttura
articolata, frutto della mescolanza di fonti diverse e dell’accostamento di nuclei
autonomi, talvolta d’ispirazione molto diversa. F, il chigiano conservato alla Biblioteca
Vaticana, organizza il suo contenuto in tre sezioni: una raccolta autoriale dedicata a
Sordello, un florilegio ed una parte composita, che comprende due tenzoni e quattro
coblas (cui una mano posteriore ha aggiunto una canzone). Il canzoniere dunque si apre
con un riconoscimento senza precedenti ad un singolo trovatore, personaggio per altro
legato alla Provenza e alla sua aristocrazia. Come accade anche in H, Sordello
rappresenta il perno per l’aggregazione di altri testi, i quali rendono la prima sezione più
varia, anche sul piano dei modelli cui l’estensore deve aver avuto accesso. La loro
ricerca è stata puntuale e consapevole, al fine di raccogliere componimenti rari e molto
tardi, che però rispettassero precise concezioni, a livello cronologico, geografico ed
ideologico: infatti, vengono evitati i sirventesi politici e le rime dal tono dimesso,
fornendo, soprattutto dell’autore principale, un’esemplare immagine cortese. Tali
caratteristiche, e soprattutto la natura inconsueta dei testi, si riscontrano anche nella
parte finale e la rendono riconoscibile pur nella sua disomogeneità. In generale, si nota
l’attenzione ai poeti del pieno ‘200 e alla realtà provenzale (per altro, anche
nell’appendice permane l’effetto centripeto di Sordello). Un polo alternativo
riconoscibile è quello estense; anche per questo la tradizione di partenza sembra essere
veneta ed è interessante il legame (probabilmente a distanza non troppo ravvicinata) con
Dc, cioè il florilegio di Ferrarino da Ferrara. Rispetto a questa silloge, F appare
innovativo, in virtù del suo interesse per Sordello e la Provenza, ma anche per
l’apprezzamento delle forme poetiche responsive, che diviene un principio strutturale.
L’origine di F resta poco chiara. La datazione dei testi impedisce di risalire a prima
degli anni ‘50 del Duecento, dunque siamo in piena età angioina; tuttavia la
compresenza di Provenza e area estense, dove in effetti si rifugiarono molti trovatori
d’oltralpe, fa pensare all’Italia. Non è difficile immaginare che qui fosse disponibile un
florilegio anteriore (risalente anche solo agli anni ‘40) e d’impostazione tradizionale,
che costituisca la fonte della sezione centrale di F e il tramite con Ferrarino58.
L’innovazione di F consiste nel non aver rinunciato all’interezza dei testi, e questa
58
L’ipotesi di Asperti 1995 sulla datazione del florilegio di Dc – senza scendere cioè sino al primo
decennio del Trecento, come invece ritengono molti studiosi – favorisce la spiegazione del suo contatto
con F.
450
preferenza per l’antologia rispetto alla raccolta di frammenti potrebbe testimoniare una
passione ancora viva per la poesia trobadorica, e soprattutto per gli aspetti cortesi e
cavallereschi tipici della Provenza ai tempi di Sordello.
È molto probabile che anche P, oggi alla Laurenziana di Firenze, sia d’origine centroitaliana; lo unisce a F un simile uso delle fonti e la scelta dei testi. L’impostazione del
codice è tutt’altro che lineare; il corpus principale è costituito da un gruppo di canzoni
provenzali (di cui almeno un fascicolo è caduto), una serie di coblas e alcuni testi
grammaticali. Una seconda mano ha copiato le vidas e le razos, in una sezione rimasta
acefala, e una terza è responsabile dell’inserimento di un testo misogino dalla forte
patina anglo-normanna. Una quarta mano è francese e la si riconosce in un’opera
moralistica; c’è poi un glossario chiaramente fiorentino. Anche se il copista principale è
umbro, è probabile che il codice sia stato preparato in Toscana, come suggerisce l’asse
di diffusione della tradizione trobadorica che si delinea tra questa regione e il Veneto.
Non si pensi tanto allo spostamento di interi canzonieri, quanto alla circolazione di
singoli testi o piccole raccolte; l’occasione dei contatti può essere identificata in unioni
matrimoniali o incontri diplomatici.
P in particolare deve aver avuto una fonte settentrionale e infatti sembra imparentato
con S; sono forse intervenute mediazioni toscane o precisamente fiorentine, ma non si
evidenziano contatti puntuali con alcuno dei codici veneti a noi noti.
Un’altra peculiarità contraddistingue l’apertura della silloge: i quattro testi attribuiti a
Blacasset (uno in realtà è opera di un poeta minore e tardo) fanno pensare ad una scelta
ideologica in senso cortese e cavalleresco, che deve essere consapevole, poiché il primo
componimento è stato appositamente tratto da una fonte diversa rispetto a quella dei
successivi. L’impressione di una scelta ponderata si conferma per i testi civili e
guerreschi che seguono, in testimonianza unica e tarda (ben più di quanto non
indicherebbe l’attribuzione erronea talvolta proposta dall’estensore). La sezione delle
coblas presenta a sua volta parecchi problemi; è molto variegata (testimonianze uniche,
parti di canzoni, tenzoni etc) e non sempre è possibile rintracciare l’origine dei singoli
materiali, che sono in gran parte adespoti. Permangono una certa affinità con la sezione
principale e un legame con l’ambiente estense; questo elemento non solo connette P ad
altre sillogi (H in particolare), ma inoltre riconduce questa sua sezione alle ultime,
creando una sorta di coerenza interna. D’altronde, come in F, all’influenza estense si
affianca un evidente richiamo alla realtà provenzale, soprattutto sul finire del gruppo
delle coblas, dove i testi cominciano ad allungarsi, appare qualche attribuzione e
abbondano i testi politici. Cominciano a diffondersi i riferimenti a Carlo d’Angiò, anche
solo nelle rubriche; essi rappresentano un fattore unificante rispetto ad alcuni versi di
chiara tradizione italiana, perché il loro accostamento alle coblas spiccatamente
provenzali sembra ricostruire il percorso di Carlo verso l’Italia, in un quadro
estremamente attuale. Spicca infine la serie delle coblas del marsigliese Bertran
Carbonel, che sono conservate in soli quattro codici, P R f (raccolte fortemente
regionali) e q (manoscritto molto tardo). Questi sono i fattori strutturali preponderanti,
ma nella raccolta non mancano spinte centrifughe, come nei testi francesi o dalla patina
linguistica settentrionale, oppure in passi per cui la scelta appaia casuale o addirittura in
451
brani non trobadorici. Ecco perché la raccolta non si può definire organica; d’altronde
per riconoscere tale caratteristica sarebbe bastata l’alternanza di testi filoangioini, guelfi
e ghibellini (d’ispirazione toscana o catalana). Si nota comunque una certa continuità ed
è proprio la figura di Carlo I a favorirla. L’unità dell’insieme si rispecchia nel suo ruolo
politico, nel suo arrivo in Italia e nelle reazioni che ha suscitato; il contesto resta
aristocratico e quindi coerente con la prospettiva cortese e il recupero dell’illustre lingua
occitanica.
Per quanto il codice sia organizzato in più momenti, essi sono però indivisibili grazie ai
costanti rimandi interni. Si è ipotizzato che lo scopo fosse didattico, principalmente per
la presenza delle opere grammaticali; ma i testi sono troppo recenti ed attuali, affatto
illustri, per rispondere appieno a tale intento. Piuttosto testimoniano un interesse ancor
vivo ed attivo per la cultura trobadorica, nonché il valore della lingua che ne è veicolo;
non si può escludere che il recupero sia stato favorito dal prestigio del sovrano, che a
quelle opere era legato per motivi politici. Il disordine stesso della struttura non è solo il
segno di un’epoca tarda, ma anche l’impronta dell’attualità. E l’attualità dell’epoca
angioina è instabile, di transizione, aspetti che giustamente si riflettono nei prodotti
culturali: è un criterio unitario per manifestazioni intellettuali ed artistiche anche molto
diversificate. Tali considerazioni sono dunque valide per tutti i canzonieri coinvolti in
questo orizzonte, come ha sottolineato Asperti: “L’irregolarità materiale, la mancanza di
stabilità della tradizione manoscritta e dei canzonieri che la riflettono non sono
liquidabili come portato naturale dell’intrinseca fragilità dell’epoca tardiva. Tali
caratteristiche evidenziano […] un ulteriore tratto tipizzante di ordine più ampio, che
contraddistingue ed associa, secondo diverse modalità, quelle che ho definito ‹‹presenze
angioine››”59. Queste manifestazioni non cancellano la tradizione trobadorica “classica”,
ma “la attualizzano, riportandola in linea con gli interessi del momento; così che da un
lato riscontriamo, appunto, la revisione coerente di un modello formale – metricolinguistico – consolidato, ma ormai anche quasi svuotato di elementi vitali, dall’altro il
recupero di temi e modelli di antica impronta cavalleresca all’interno di una poesia,
anche non più composta da ‹‹cavaliere››, dedicata agli avvenimenti di attualità”60. Ne
risulta anche un marcato cambiamento di canone, nella scelta di nuovi punti di
riferimento (si pensi a Sordello) e nell’apertura ad autori minori61.
Rispetto alla tradizione viene però attuata una selezione: sono privilegiati gli argomenti
civili, coerenti anche con il contesto urbano e comunale, mentre la radicata attenzione al
piano locale è in parte segno della decadenza. Da questo punto di vista P è
rappresentativo di un tempo in cui convivono le tracce del declino e tentativi ancora
vividi e creativi.
Anche altri codici suggeriscono la presenza di trovatori alla corte napoletana e la
diffusione di queste esperienze culturali, pur con una tradizione non estesa, perché già
posteriore alle fasi di intensa trascrizione dei classici. È questo il caso del manoscritto
59
Asperti 1995, pp. 215-216.
Ibidem.
61
È però interessante notare, sempre con Asperti 1995, che “non si impone un canone nuovo, ma
piuttosto si adatta il vecchio” (p. 216).
60
452
H, duecentesco e di origine provenzale (attualmente si trova alla Biblioteca Vaticana) e
piuttosto anomalo nella struttura. In primo luogo, nel canzoniere si distinguono due
parti; la prima presenta alcuni testi interpolati che costituiscono un gruppo distinto,
perché derivato da una fonte secondaria. La seconda parte ha in generale il carattere di
un’aggiunta rispetto al nucleo di partenza, come suggerisce la successione casuale dei
testi. Tuttavia la raccolta nel suo insieme è pensata con notevole attenzione, mettendo in
luce legami significativi tra le opere: ad esempio l’estensore affronta i componimenti
anonimi o d’attribuzione problematica cercando di intuire almeno a quale ambiente
appartengano, in senso geografico o culturale, e quindi accostandoli alla produzione di
autori maggiori, come Sordello o Blacatz. Questo approccio è particolarmente evidente
nel caso dell’interpolazione alla prima parte, laddove proprio il riferimento a Sordello
costituisce il criterio essenziale nella scelta dei testi; poiché è solo questo il principio
unificante, non stupisce che la successione sia poco organica, senza una rigorosa
distinzione per autore. Le medesime caratteristiche si ritrovano nella seconda parte,
dove per altro continua la ricerca di connessioni logiche fra i componimenti.
L’abbondanza di scambi di coblas, cioè dialoghi in forma abbreviata, si spiega con
l’intenzione di sostituire la tradizionale sezione finale di tenzoni.
I testi sono per lo più abbastanza antichi (di rado si supera il primo quarto del ‘200); i
più tardi sono quelli della sezione interpolata, collocabili alla fine degli anni ‘30.
Considerata la datazione di H, è probabile che sia stato il copista del suo modello ad
aggiungerla, forse negli anni ‘40-’50 del Duecento, quando cioè quei testi erano ancora
attuali. Tali indicazioni cronologiche e le caratteristiche testuali della prima sezione
rimandano al Veneto e al ramo della tradizione. Per altro, gran parte dei testi più
recenti riconduce all’Italia, con l’ovvia eccezione della sezione interpolata, dedicata a
Sordello, il quale però deve essere stato apprezzato nella regione da cui proveniva, e del
consistente gruppo di coblas che costituisce la conclusione della raccolta. Queste opere,
spesso in tradizione unica, sono infatti dichiaratamente provenzali e di poco anteriori
alle opere interpolate; per questo è interessante ipotizzare che le due aggiunte siano
coeve e basate sul medesimo progetto, nonché eventualmente legate alla medesima
fonte.
Anche nel codice E della Bibliothèque nationale di Parigi c’è una zona distinta, anche
fisicamente visto che occupa la posizione liminale, che può essere utile per una
ricostruzione della cultura provenzale (ed angioina). Le ultime tre carte sono
materialmente diverse dal resto del codice: la legatura segnala un’aggiunta e la
pergamena è di qualità migliore, benché la mano sia la medesima. Su queste pagine
sono riportati due gruppi di testi. In primo luogo una serie di dansas o baladas62, cui
62
Questo genere minore nasce piuttosto tardi, dopo la metà del '200, benché sporadici esempi si trovino
già prima e ben presto sia codificato anche in relazione all'uso della musica. Dapprima se ne diffondono
forme irregolari, ma poi se ne definisce una tipologia stabile per tutto il '300. Il codice E ne è un
testimone di primaria importanza, perché precocissimo e molto ricco. Non solo: il manoscritto appartiene
all'area da cui il genere pare diffondersi e a cui rimandano altre simili antologie (soprattutto catalane).
Purtroppo E non reca traccia (a differenza di W) di musica o coreografie, che invece sono caratteristiche
costanti di questo tipo di testi. Non si può escludere qualche influenza francese, comunque, che sarà
fondamentale per la diffusione dei generi musicali, soprattutto in Italia.
453
viene aggiunto l’adattamento provenzale di una canzone francese63; tutti i testi sono
adespoti e non era previsto alcuno spazio per le rubriche; segue una coppia di canzoni
che si ritrovano nel medesimo ordine e con la medesima attribuzione in C. Non ci sono
dubbi sul fatto che questa sia un’aggiunta posteriore: lo indica con certezza il fatto che
nel resto della silloge sia seguito con rigore l’ordine alfabetico e per autore. I testi
dell’appendice costituiscono un gruppo coeso in virtù della loro uniformità stilistica;
non si può perciò affermare che la loro posizione subordinata si debba all’inferiorità di
genere (cui invece risale la scelta di presentare le dansas anonime). L’aggiunta deve
essere stata di poco successiva alla preparazione del nucleo principale, considerato che è
stata realizzata dal medesimo copista ed è caratterizzata dalle medesime decorazioni che
ornano la prima parte; la questione andrà dunque ricondotta all’uso di fonti diverse. I
testi finali sono contraddistinti dalla medesima origine storica e geografica, risalgono
cioè alla corte di Carlo I d’Angiò e agli anni ‘50-’60 del Duecento; sono in particolare
frequentissimi i riferimenti espliciti o comunque chiari al signore e alla sua sposa. Tale
origine risalta a maggior ragione in quanto i testi della sezione principale sono tutti
anteriori o originari di altre zone. Le pagine finali di E sono dunque strettamente legate
all’impostazione di base di f.
Il caso di W è ancora differente, poiché il codice è caratterizzato da aggiunte
chiaramente autonome rispetto al nucleo originario, benché molto vicine a livello
cronologico; la raccolta di partenza è organizzata per autore, ma il copista ha lasciato
degli spazi bianchi per dividere le singole sezioni. Su queste pagine sono stati riportati
da mani diverse tra fine ‘200 e inizio ‘300 alcuni componimenti francesi o provenzali, e
in alcuni casi spartiti musicali. Proprio questa attenzione alla notazione, segnale di un
intervento qualitativamente notevole, insieme alla quantità di tali aggiunte
(quarantaquattro testi) rendono speciale la configurazione del manoscritto rispetto alle
forme tradizionali. W rivela inoltre una certa comunanza con M, poiché il gruppo di
testi da cui nasce la raccolta è il medesimo; tra di essi si notano alcuni mottetti
(condivisi anche da T) databili a metà del XIII secolo (ma M ne presenta anche di più
recenti): essi sono significativi in quanto rivelano una considerevole attenzione verso i
gusti più moderni e innovativi. Tali interessi riguardano soprattutto la musica, come
denota la presenza dei testi strumentali, non sempre accostati ai versi, e l’abbondanza di
componimenti a ballo.
W suggerisce però ulteriori riflessioni, perché nell’alternanza di opere francesi e
provenzali dimostra un reale bilinguismo: i componimenti in lingua d’oc sono i più tardi
e non subiscono alcuna influenza dalla lingua d’oil. Per altro, buona parte di queste
Sul genere della balada si veda Bec 1992, pp. 105-117.
63
Questo accostamento è particolarmente significativo, in quanto denota un superamento della
tradizionale discriminazione fra il genere maggiore e quelli inferiori, a vantaggio della percezione di una
coerenza tra forme connesse alla musica. Per altro è evidente l'influenza della regione settentrionale, da
cui proviene il grande apprezzamento per il ritornello, il cui uso finisce per modificare la struttura tipica
della canzone. Non a caso proprio nella Provenza di Raimondo Berengario V e di Carlo I sono state
recuperate strutture metriche non locali, ma tipiche dei trovieri. Altri tratti riconoscibili ne sono
l'assonanza al posto della rima o le immagini e i temi più realistici. La corte angioina in Provenza pare
distinguersi per le notevoli capacità di ricezione e trasformazione delle forme letterarie straniere.
454
aggiunte trobadoriche appartiene al genere delle dansas che, lo si è visto, presenta una
forte connessione con Carlo d’Angiò (qui a volte già indicato come re, denunciando una
cronologia decisamente bassa) e con la Provenza in senso stretto. Non sarà allora un
caso che tra le aggiunte si trovi anche una canzone di Blacasset, che rimanda al
medesimo ambiente, anche se in anni anteriori. Si ripropone l’apprezzamento per il
genere discordo, questa volta condiviso da Francia e Midi. Per quanto concerne i testi
occitanici, i richiami alla figura di Carlo e le caratteristiche paleografiche riconducono
alla sfera provenzale e angioina, anche se per W è in gioco solo un contatto culturale (la
fattura materiale è settentrionale). I dati sin qui raccolti permettono di ipotizzare
l’intervento di un copista cui fosse familiare la realtà meridionale (provenzale?
napoletana?) o forse uno spostamento del codice stesso verso sud.
2. Il ruolo di Veneto e Monferrato nella diffusione italiana della cultura cortese64
Al fine di comprendere la diffusione della tradizione occitanica e la sua rilettura tarda
non si può prescindere dal passaggio in Italia, che è all’origine, lo si è anticipato, della
sistemazione di moltissimi fra i canzonieri noti.
I primi contatti italiani con l’orizzonte trobadorico si delineano già dalla fine del XII
secolo e sono ancora attivi all’inizio del XIV. L’ambiente più fecondo per tale scambio
culturale è quello delle corti feudali e signorili dell’Italia settentrionale; ciò non toglie
che l’eco dell’illustre tradizione giunga anche in ambiente comunale, sempre nel nord
della penisola. L’identificazione con le prospettive cortesi diviene una vera e propria
moda per la classe aristocratica, e un ulteriore fattore unificante in un ambiente sociale
che spesso presenta tratti condivisi a livello internazionale. Gli spostamenti frequenti
dei trovatori e i contatti con corti diverse sono tipici e proficui sin dalle origini o quasi,
anche se dapprima si limitano per lo più alla regione occitanica. Laddove si offra
l’occasione per un viaggio più ampio, la preferenza per l’Italia è favorita da anteriori e
positive connessioni a livello politico, dinastico e matrimoniale, oltre che geografico e
linguistico65. Tale connessione diverrà determinante e davvero prevalente nel primo
Duecento. Due momenti storici facilitano particolarmente la migrazione verso sud e
dunque la circolazione delle opere provenzali in Italia, costituendo un fattore
determinante per lo sviluppo di nuove esperienze culturali locali: da una parte le
crociate, che determinano sempre veri e propri spostamenti di massa, dall’altra la
repressione albigese, che spinge numerosi autori alla fuga oltre le Alpi. Il contesto
socio-culturale e le condizioni professionali che accolgono i trovatori sono chiaramente
vantaggiosi: la vita intellettuale appare già caratterizzata da influenze galloromanze,
64
Alcune fonti molto utili per l’argomento sono Viscardi 19702, Cavaliere 1973, Casini 1985, Folena
1991 e gli interventi di Guida e Antonelli in Lachin 2008; una sintesi interessante si trova anche in
Bologna 1993.
65
Viscardi 19702 ha sottolineato l’importanza storica di questi contatti rispetto non solo alla cultura
cortese, ma medievale in genere, con particolare riferimento alla costituzione delle prime sillogi
trobadoriche, su cui già ci si è soffermati.
455
benché sia inevitabile pensare ad una preminenza della sfera ecclesiastica. I modelli
volgari hanno avuto a questo punto un successo pervasivo, attraverso l’acquisizione di
un nuovo sistema ideologico, linguistico ed espressivo, dapprima come imitazione
puntuale, poi come rielaborazione più libera. Alla piena appropriazione della tradizione
si accompagna ben presto l’impegno nella sistemazione dei materiali poetici, secondo
un’ottica critica, erudita e filologica.
La prima meta dei trovatori che espatriano è il Piemonte, ma ben presto il Veneto si
dimostra la regione più vitale, grazie anche alle caratteristiche peculiari secondo cui qui
si afferma la tradizione transalpina66. Sono in primo luogo coinvolte le famiglie nobili
della Marca Trevigiana, con assoluto spicco degli Ezzelini, degli Estensi e dei
Caminesi; a Vicenza sembrano interessati anche gli ambienti universitari. È poi
peculiare la frequente contaminazione tra eredità provenzale e influssi francesi, poiché
la letteratura locale recepisce entrambe quelle esperienze. Il contributo francese domina
nell’epica ed è anteriore a quello provenzale, che però resta insuperato nella lirica;
inoltre i modelli francesi giungono ad un prestigio davvero significativo solo nel
Trecento, quando cioè la produzione di stampo occitanico viene gradualmente meno.
Un’ulteriore distinzione si deve al contesto sociale in cui le due influenze si sviluppano
con maggiore energia: il trobadorismo per sua natura guarda alle corti (perciò ad
esempio si diffonde in Veneto, ma non nella Repubblica veneziana), mentre gli
esperimenti di stampo francese si diffondono più facilmente nei comuni e convergono
con la passione per la storiografia, con esiti particolari. La realtà cortigiana favorisce
anche una professionalizzazione dei poeti, mantenuti dal signore-mecenate; le
esperienze trobadoriche in altre aree d’Italia e in un orizzonte borghese non determinano
risvolti di questo tipo.
L’area veneta è per altro una zona “laterale”, che più facilmente conserva gli aspetti
culturali tradizionali; Folena67 vi identifica una sorta di “custodia” di una lingua sempre
meno viva, ben presto resa secondaria dalla dominazione francese in area occitanica, e
poi qui recuperata solo temporaneamente in manifestazioni culturali tarde quali quelle
del Concistori del Gai Saber e delle Leys d’amor. La percezione del ruolo della Marca
Trevigiana è acuita dall’approccio critico degli appassionati veneti, che oscillano tra la
prospettiva filologica e la curiosità biografico-narrativa.
La medesima zona appare centrale in merito all’irradiamento della tradizione
manoscritta trobadorica. Gli scriptoria della Marca sono estremamente vitali; la quantità
e l’importanza dei codici sono manifeste. Grazie all’ambiente veneto la cultura
occitanica è raccolta in strumenti che sapranno garantirne la conservazione anche in una
fase storica in cui la tradizione si disperde e frammenta. Nascono così le grandi
antologie, la cui struttura ragionata in diverse sezioni testimonia la volontà di
tramandare il sistema culturale cortese nella sua complessità; spesso il criterio è in
primo luogo cronologico, ma ad esso può sovrapporsi una visione critica, letteraria o
morale-spirituale. Parte integrante di tale processo di sistemazione sono le narrazioni
66
Per la considerevole migrazione dei trovatori in Italia e soprattutto in Veneto a causa della crociata
albigese si vedano gli interventi di Roquebert e Gouiran in Lachin 2008.
67
Folena 1991.
456
biografiche (vidas e razos), ma si notano anche costanti esteriori, come le decorazioni
miniate, che aiutano a definire l’appartenenza, anche geografica, e la tipologia libraria. I
tre rami principali della tradizione risalgono tutti al Veneto.
La tradizione manoscritta sviluppatasi in Italia è ricca e tuttavia tarda, non solo rispetto
al patrimonio provenzale – perduto, ma facilmente ipotizzabile – ma anche a confronto
con l’attività dei copisti catalani che diffondono le prime antologie già alla fine del XII
secolo. In tal senso è essenziale quel contatto tra la realtà italiana e quella provenzale
che si è detto anteriore sia all’emigrazione dei trovatori sia alla stesura delle più antiche
raccolte sopravvissute; inoltre alcuni componimenti confermano con i loro richiami più
o meno espliciti che l’interesse italiano per la cultura provenzale risale al medesimo
periodo di quello catalano. In un’opera databile agli anni ‘70 del XII secolo (o
addirittura prima, secondo Ugolini68) è nominato un “lombartz” (che sarà da intendere
genericamente come “italiano del nord”) in un elenco caricaturale di trovatori redatto da
Peire d’Alvernha. Questo “grazioso” personaggio, come lo definisce il trovatore, è
ignoto, se non come autore di versi di incitamento ai suoi conterranei vigliacchi. Il
primo testo noto di un trovatore italiano, rivelato in quanto tale da licenze ed errori
grammaticali, è un altro sirventese, un po’ irregolare nella forma, ma molto energico nel
ritmo; esso è dedicato alla guerra condotta dalla Lega lombarda contro Enrico VI, con
una descrizione della geografia della Marca Trevigiana davvero precisa. La dedica si
rivolge ad un feudatario antimperiale e rimanda ad un ambiente in cui il mecenatismo
verso i poeti era abituale; il componimento è infine inviato ad un ignoto veronese,
scelta che fa pensare alla medesima provenienza anche per l’autore. Per questo testo le
rubriche riportano in effetti il nome di Peire de la Cavarana (o Caravana), attributo di
cui è attestata l’esistenza come cognome (forse derivato dal nome comune arabo
“caravana”) e probabilmente connesso proprio ad una frazione di Verona, detta Ca’
Varana.
Al medesimo periodo risalgono le prime precoci presenze trobadoriche nel Monferrato,
dove spiccano Raimbaut de Vaqueiras (che qui muore nei primissimi anni del XIII
secolo) e Peire Vidal (di cui ci restano componimenti dedicati a signori italiani che
detenevano il potere negli ultimi anni del XII).
L’attività dei primi trovatori italiani in Veneto può essere connessa al mecenatismo
estense, che favorì l’arrivo dei primi profughi dalla Provenza. All’inizio del ‘200 questa
corte, che in origine si trovava sui colli Euganei, cominciava a fiorire, anche grazie agli
interessi culturali di Azzo VI, famoso per le sue mire espansionistiche verso Verona,
Ferrara e Ancona, sostenitore di Federico II e morto nel 1212. Sappiamo che egli ospitò
vari trovatori, tra i quali l’illustre Aimeric de Peguilhan, attivo fino al 1228 circa, figura
di particolare interesse non solo per la sua prolificità, ma anche perché tramite tra due
generazioni: la prima ad essere giunta in Italia (Vaqueiras) e l’ultima che vi compone
opere originali (Sordello). Nei suoi planhs dedicati alla morte di Azzo nomina vari altri
poeti presenti a corte, tra cui Falquet de Romans. Le figlie di Azzo, inoltre, hanno
rappresentato un importante stimolo alla letteratura cortese; soprattutto Beatrice – poi
68
Ugolini 1949.
457
entrata in convento – fu destinataria di un’intensa produzione galante, in cui si notano
caratteristiche espressive tipicamente occitaniche, come il mascheramento militare dei
temi amorosi, secondo la definizione del “torneo di dame”, o i partimens con giudizio
conclusivo. Nelle dediche, Beatrice è spesso associata a Guglielmo Malaspina, come se
tra i due ci fosse una connessione; si è pensato perciò alla promessa di un matrimonio
diplomatico, impedito però dalla prematura morte di lui. La questione non è oziosa,
perché un legame di tal genere contribuirebbe già ad illustrare l’influenza poeticoculturale degli estensi in area mantovana. La morte di Azzo, comunque, non causa
alcuna perdita di interesse verso la vita poetica e culturale, che anzi si riconferma nella
nuova corte estense a Ferrara (a partire dagli anni ‘40), dove operano ad esempio
Guilhem Raimon e Ferrarino da Ferrara, di cui restano le tenzoni. Nella sfera estense si
muove anche Rambertino Buvalelli, podestà bolognese, dunque legato alla vita
comunale e proprio in un centro che ben poco ebbe a che fare con la tradizione
trobadorica; questo spiega l’attenzione del Buvalelli per la Marca Trevigiana e la sua
conoscenza di Elias Cairel, famoso trovatore, citato anche come messaggero dei
componimenti del podestà. Se, come sembra, egli potesse essere identificato con il
Cairel seguace di Arnaut Daniel, avremmo un’indicazione certa di connessioni e contatti
tra area veneta e realtà monferrina, poiché è presso questa corte che il secondo Elias è
attestato con certezza.
Durante il governo di Azzo VII, l’attività letteraria ruota intorno a sua moglie Giovanna,
elogiata anch’ella da Aimeric de Peguilhan, come dall’italiano Peire Guilhem de
Luserna, che lascia un’interessante definizione dei suoi colleghi come “provenzali”,
secondo un’indicazione più poetica che geografica o biografica. A Giovanna dedicò dei
versi anche Uc de Saint Circ, che dunque potrebbe aver vissuto alla corte estense prima
di stabilirsi presso i da Romano.
La poesia amorosa e le immagini femminili appaiono sempre più rarefatte; si accentua
cioè una visione spirituale, che mette da parte i contenuti più realistici e sensuali e che
rivela l’influenza di un’ispirazione religiosa. Tale prospettiva è tipica della produzione
tarda soprattutto nella natia Provenza, dove la dama sarà infine sostituita dalla Vergine.
La morte di Giovanna (1233) segna una svolta negativa: gli scarsi riferimenti ad Azzo
VII e la mancanza di menzioni ai suoi figli lasciano intuire che le esperienze letterarie
cortesi sono sempre meno vitali. Non sarà forse casuale che il florilegio di Ferrarino da
Ferrara, l’unico autore che pare ancora attivo in area estense in quest’ultima fase, si
collochi proprio in tale contesto di decadenza. La coincidenza suggerisce cioè che
l’attività di raccolta e di sistemazione abbia soppiantato quasi integralmente la
composizione. D’altronde egli dovrà abbandonare l’area estense e la città, rivolgendosi
ad una corte di stampo più tradizionale, quella dei da Camino, ambiente forse più
coerente ad una tradizione come quella trobadorica. Dal medesimo ambiente prende le
mosse anche Sordello, originario di Goito presso Mantova, per compiere un percorso
inverso a quello dei suoi contemporanei, tornando cioè in Provenza (probabilmente già
nel ‘29, ma viaggiando anche in Spagna e Portogallo). Le vidas suggeriscono la
singolarità della sua esperienza quando insistono sull’autonomia del trovatore,
esponente della povera nobiltà di campagna, desideroso (e capace) di costruire da solo
458
la propria fortuna, secondo un ideale di fatto borghese, per una volta inteso in senso
positivo. È probabile che egli abbia girato diverse corti e città, anche come giullare; non
è chiaro se abbia cominciato a scrivere a Mantova o solo dopo aver iniziato a
frequentare la corte estense. Qui, comunque, è ricordato dispregiativamente dal
Peguilhan, che lo annovera tra i giovani trovatori in una sorta di scontro generazionale
in ambito poetico. La prima produzione di Sordello, di cui per altro non si conosce
molto, è in effetti rivelatrice dell’approccio innovativo degli autori più giovani, che
apprezzano soprattutto le forme dialogiche, rinnovandole in veste oltremodo polemica e
comica, fino a quelle che Folena definisce “scene da taverna”. La dimensione cortese
diviene secondaria, anche se è difficile pensare che le tematiche amorose fossero del
tutto abbandonate (piuttosto ne saranno andate perdute le testimonianze)69. Le uniche
vicende sentimentali che gli sono attribuite hanno in realtà carattere narrativo e
biografico, più che lirico: si tratta della famosa questione di Cunizza da Romano e del
suo rapimento70, ma anche di un matrimonio segreto con una giovane nobile, che lo
avrebbe costretto alla fuga in Provenza, da cui sarebbe tornato al seguito di Carlo
d’Angiò.
Anche Treviso71 è un centro culturale molto vitale, non solo rispetto alla letteratura
provenzale, ma anche per le esperienze di stampo francese e toscano. Resta notizia della
vivace attività degli scriptoria, delle feste cortesi, dei tornei di dame e delle Corti
d’Amore (note anche come Castelli o Palazzi d’Amore), cioè situazioni cortesi da cui
deriva una produzione poetica specifica. Per l’occasione viene ricostruito un vero e
proprio castello, di cui si ricorda soprattutto lo sfarzo; qui si radunano le dame e ai
cavalieri spetta l’impresa di espugnarlo. L’intera situazione viene poi trasfigurata sul
piano poetico come una metafora amorosa.
Treviso rappresenta anche il centro principale dell’attività di Uc de Saint Circ, di cui
restano numerose informazioni, probabilmente perché la sua vida è autobiografica.
Giovane precoce e interessato alla poesia, nonché alle imprese degli uomini illustri,
viaggia moltissimo nel Midi, in Spagna e poi in Italia, fermandosi dapprima in area
lombarda. Qui la sua prospettiva cambia radicalmente: è legato alle corti, ma in ambito
soprattutto urbano e quindi a contatto con la dimensione borghese. Dapprima continua
l’attività di trovatore e giullare, muovendosi tra varie corti e mantenendo viva la linea
classica del trobadorismo cortese e cavalleresco, per poi stabilirsi a Treviso. Collabora
con gli Ezzelini e si sposa: pare che a questo punto abbia abbandonato la composizione
di versi galanti. La sua produzione più tarda si concentra sulle vicende politiche
contemporanee: nello scontro tra Ezzelino ed Alberico da Romano, egli resta fedele al
69
Per altro la produzione dello stesso Sordello dimostra che la tradizione amorosa cortese è ancora ben
presente.
70
La vicenda è davvero molto nota, per lo scandalo che suscitò, almeno secondo le fonti biografiche.
Cunizza aveva sposato per motivi politici il signore di Verona; quando il violentissimo fratello Ezzelino
riuscì ad ottenere con le armi il controllo della città, quel matrimonio si rivelò inutile. Egli avrebbe perciò
preteso di riavere la sorella (probabilmente per destinarla ad un'unione più proficua); secondo le vidas
Sordello, incaricato di rapire la giovane, se ne sarebbe innamorato, complicando sul piano personale una
vicenda dai risvolti pubblici.
71
Per la realtà culturale trevigiana si veda oltre il paragrafo dedicato a vidas e razos.
459
secondo e a posizioni filoguelfe (come dimostra la sua invocazione a favore di Faenza,
quasi completamente piegata da Federico II). Non si sa più nulla di lui dopo il ‘53,
quando un documento ufficiale lo dichiara eretico ed usuraio, attività che potrebbe
effettivamente aver svolto sotto la protezione di Alberico, venuta però meno con la
disgrazia della famiglia. Uc è noto soprattutto per il suo impegno nella sistemazione
della tradizione trobadorica e dei materiali biografici; entro il ‘54 porta a termine
l’antologia per Alberico, nota appunto come Liber Alberici, che raccoglieva più di
duecentocinquanta testi di un centinaio di autori. Per quanto concerne vidas e razos, egli
fu in parte editore di documenti che aveva portato dalla Provenza (lo dimostra anche la
patina linguistica evidente in alcuni casi), in parte autore in prima persona di nuovi
racconti. La forza del suo intervento è resa palese dall’effetto modellizzante che ne
deriva: alcune vidas sono troppo tarde per essere sue e tuttavia vi è replicata sempre la
medesima impostazione.
Infine Uc potrebbe essere autore anche di un’opera grammaticale, il Donat proensal,
attribuito in realtà a un altrimenti ignoto Uc Faidit; faidit però significa “straniero” e
dunque potrebbe trattarsi soltanto di un soprannome. Uno dei destinatari dell’opera
inoltre è il podestà di Treviso e dunque in contatto con i da Romano; l’opera presenta
varie caratteristiche che potrebbero far pensare ad una composizione in Veneto, anche
se non da parte di un veneto. Si tratterebbe di un’indicazione di primaria importanza per
completare il quadro di un’intensa e variegata attività, benché sempre connessa alla
tradizione trobadorica.
A fronte della straordinaria centralità della regione, resta traccia di un solo trovatore di
origine anagrafica veneta, Bartolomé Zorzi, di cui non restano documenti d’archivio, ma
due vidas e l’apprezzamento del Bembo. È noto che egli fu nobile e come tale ebbe un
incarico di castellanato dal doge, per proteggere alcuni territori dominati dalla
Serenissima. Fu però anche mercante e proprio durante un viaggio commerciale venne
fatto prigioniero dai genovesi; è appunto nel periodo della prigionia che si avvia la sua
esperienza poetica, in una fase in cui molti degli autori italiani erano ormai morti.
Genova tuttavia manteneva un interesse ancora vivo per la tradizione occitanica, grazie
anche all’attività di Bonifaci Calvo, di cui non resta alcuna biografia, ma che di certo
viaggiò molto tra Francia, Midi e Galizia. Il dialogo tra questi due autori segna una
nuova fase di dibattito politico in versi, vivace, ma senza polemiche volgari, con
sfoggio dunque di virtù civili, cortesia e misura. Si tratta certamente di una produzione
occasionale, ma comunque capace di far propri i grandi ideali dell’età trobadorica
classica e di offrire un contributo morale più ampio. Tipiche della fase tarda, oltre che
rappresentative del periodo che Zorzi passò in prigione, sono le sue rime penitenziali,
che ripropongono i medesimi valori morali in chiave però religiosa e spirituale.
Più o meno coeva è anche l’abile attività poetica del giudice genovese Lanfranco
Cigala, di cui restano notizie legate agli ultimi anni Trenta (ma per quanto riguarda
l’attività politica e diplomatica si arriva sino agli anni ‘50).
La Toscana, dove comunque la produzione trobadorica sarebbe divenuta modello anche
diretto per i cosiddetti siculo-toscani e non solo tramite la mediazione della Scuola
siciliana, non sembra però ospitare importanti autori in lingua d’oc. Per Firenze va
460
ricordato però il marsigliese Raimon de Tors, che si trova in Italia certamente prima
della discesa di Carlo I.
Intanto in Veneto la cultura cortese conosce ormai la sua piena decadenza; ultimo
baluardo ne sono i Caminesi, e in particolare Gherardo, i quali avevano esteso il loro
potere grazie alla caduta dei da Romano e lo mantengono sino agli anni Ottanta. D’altro
canto proprio il legame della poesia trobadorica con i da Romano di certo non ne
favorisce l’apprezzamento nella seconda metà del secolo, considerato il disprezzo con
cui gli Ezzelini sono ricordati.
La grande fioritura del trobadorismo in Italia va dunque collocata prevalentemente tra
1215 e 1260, anche se non ne manca qualche manifestazione più tarda, come nei casi di
Dante da Maiano e Paolo Lanfranchi da Pistoia.
3. I florilegi72
La tradizione manoscritta trobadorica rivela la predilezione dei copisti tardi per due
strategie di acquisizione testuale: l’ampliamento dei componimenti attraverso
l’interpolazione di stanze spurie oppure la loro riduzione, fino alla scelta di una cobla
singola. Il primo caso si risolve in un’imitazione dalla qualità fortemente variabile, che
però può arrivare alla totale identificazione causando gravi difficoltà nell’indagine
filologica. Il secondo tipo di intervento può invece derivare da una forte coscienza
critica73, laddove con piena e consapevole capacità artistica si colga la parte migliore del
lavoro poetico altrui. Può trattarsi di passi particolarmente densi a livello formale o
molto rappresentativi delle concezioni intellettuali e letterarie dell’autore; tuttavia è
evidente che l’imposizione di una scelta non autoriale ha una valenza in parte
tendenziosa, a maggior ragione laddove tale intervento sia caratterizzato dalla piena
coscienza dell’operazione intellettuale in gioco. Al contrario, sono manifesti i casi in cui
questa riduzione sia da identificare con una degradazione, soprattutto se i brani
estrapolati non sono accompagnati da alcuna forma di contestualizzazione e di
attribuzione. Vari studiosi (come Grober e Bertoni) hanno suggerito che le antologie
costruite con frammenti di questo tipo – dette “florilegi” - avessero una funzione
educativa. Oggi, in realtà, sembra più determinante l’influenza del gusto: bisogna
considerare da una parte l’ampia diffusione di tali testi parcellizzati in epoca tarda, fra
‘200 e ‘300, dall’altra le soluzioni ben diverse cui ha portato, più o meno nel medesimo
periodo storico, l’intenzione didattica rispetto alla tradizione occitanica. Si pensi ai
manuali veri e propri o ai trattati teorici, arricchiti da elenchi esemplificativi. Prendendo
invece in esame il criterio delle preferenze in fatto di poesia, si noteranno alcune
tendenze tipiche solamente di florilegi e raccolte di coblas74: assenza degli autori più
antichi e delle donne, mancanza anche integrale degli italiani, che sono invece presenti
nei canzonieri d’ispirazione più ampia, i quali partono presumibilmente dalle stesse
72
Alcuni utili riferimenti si trovano in Meneghetti 1989 e 1991, e Noto 2006.
Meneghetti 1989 parla di “orgoglio critico” e cita in particolare l'esempio di Ferrarino da Ferrara e il
suo florilegio del codice D.
74
Per il genere della cobla si veda ad esempio Poe 2000.
73
461
fonti o comunque da modelli molto simili. Ne deriva per i florilegi l’immagine di un
prontuario di facile accesso, non tanto a scopo poetico, quanto galante ed occasionale. A
livello storico-culturale, mettere in primo piano l’influenza del gusto ha delle
conseguenze notevoli: ciò significa infatti che la concezione degli estensori di florilegi
rispetto ai testi non è necessariamente antiquaria, ma spesso viva ed attuale, per quanto
il pubblico di riferimento sia ben diverso da quello cui si rivolgevano in origine i
trovatori.
Sono noti, allo stato attuale, almeno due florilegi la cui composizione è sicuramente
autonoma: quello di Ferrarino da Ferrara (di cui restano due testimonianze, ma quella
conservata nel codice D è una versione abbreviata) e quello riportato dal manoscritto F.
Tuttavia le due raccolte sono imparentate, come dimostra la scelta spesso affine non
solo degli autori, ma anche dei testi e dei passi da riproporre; l’ipotesi più promettente è
che i due copisti abbiano avuto accesso, in modo autonomo, alla medesima fonte, cioè
una terza ed anteriore antologia di frammenti (o a sillogi derivate da essa).
L’importanza di queste peculiari raccolte è suggerita anche dalle serie di coblas cui
sono dedicate specifiche sezioni in numerosi canzonieri: esse, come si vedrà, sono
connesse da vicino ai florilegi in senso stretto. Nel manoscritto J, ad esempio, il gruppo
delle coblas consente di risalire appunto ad un florilegio, caratterizzato per altro da varie
coincidenze con D ed F. Tuttavia, la fonte è quasi certamente diversa ed anzi essa
accomuna questa porzione di J alle simili sezioni di G, Q, P, e T; si individua così una
seconda antologia “antica”. La scelta dei testi e il loro ordinamento (decrescente, in base
all’ampiezza della porzione di testo antologizzata) escludono una parentela diretta con
D ed F, mentre garantiscono rapporti abbastanza stretti tra gli altri codici, soprattutto G
e Q, quasi sovrapponibili. È inoltre possibile ipotizzare che J e P siano i testimoni più
tardi.
Queste comuni ascendenze testuali non cancellano alcune differenze essenziali tra le
raccolte. Innanzitutto il florilegio può inserirsi all’interno di un canzoniere di più ampio
respiro a seconda dei casi come un blocco autonomo e slegato oppure come parte
integrante di un progetto più ampio. A questo punto entrano in gioco aspetti ulteriori da
valutare: preferenze di stile, di ideologia, di temi e così via, che isolano le diverse
realizzazioni.
Un fattore essenziale è inoltre quello della provenienza dei manoscritti. Solamente J
presenta un legame forte con il Midi, poiché qui viene esemplato, ma anche in questo
caso prevale la connessione con l’Italia (da cui provengono invece tutti gli altri codici
citati), poiché almeno l’ultima parte è copiata da un antigrafo italiano, trasferito
evidentemente in area occitanica. In base ai documenti disponibili, dunque, l’idea di
raccogliere frammenti di testi appare italiana, aspetto che a sua volta permette di
riflettere sull’identità di destinatari ed “editori”. Ad esempio, si può pensare ad una
correlazione tra queste antologie e la diffusione di testi poetici brevi, come i sonetti, che
dimostra un particolare apprezzamento per la forma sintetica75. Le prime sillogi di
coblas note risalgono alla seconda metà del ‘200; sono dunque posteriori ai primi
75
Va considerata, ad esempio, l’ampia raccolta di Guittone.
462
florilegi, ma coeve alla loro tarda e più vivace diffusione. La polivalenza del sonetto,
inoltre, mostra che la coerenza non è solo nella misura, ma anche nella funzione
comunicativa dei testi, i cui temi rivelano prospettive diversificate, dall’ambito morale a
quello comico, dalle forme trobadoriche classiche alle questioni più attuali.
L’identificazione delle serie di frammenti con un genere autonomo è inoltre favorita
dalle caratteristiche tassonomiche dei canzonieri peninsulari (compresi quelli dedicati
alla letteratura italiana delle origini), in cui ogni genere o gruppo di testi è precisamente
individuato e distinto, coblas comprese.
A monte dei florilegi e delle antologie a noi noti, dunque, traspare una tradizione
specifica, anteriore alla fine del ‘200, parallela a quella dei generi alti, ma distinta da
essa, anche perché le forme brevi, per quando molto diffuse e piuttosto antiche, sono
sempre considerate inferiori nella scala dei generi76. È facile immaginare che i testi
parcellizzati abbiano avuto un ruolo centrale nell’attività orale dei giullari, favorendo
l’apprendimento mnemonico ed offrendo una ricchezza utile a divertire gli ascoltatori.
Può essere interessante osservare qualche caso particolare. Il florilegio di Ferrarino da
Ferrara è tramandato innanzitutto dall’ultima parte del codice D, detta Dc, la quale si
distingue con chiarezza per la mano diversa e più tarda rispetto a quelle delle sezioni
precedenti (Italia settentrionale, tra 1330 e 1340, con alcuni errori immediatamente
corretti). I testi che compongono l’antologia sono duecentoventisei, di cui undici
completi, nonché alcuni composti sin dall’origine come coblas singole o in coppia. La
qualità della raccolta è davvero notevole, basti pensare che un solo componimento è
privo di intestazione e che soltanto in due casi l’attribuzione è sbagliata: tale risultato è
significativo non solo a confronto con l’altro ampio florilegio a noi noto (F), ma anche
rispetto alle sezioni specifiche in vari canzonieri più ampi e articolati. Non si può
escludere che, come ritiene ad esempio Viscardi77, l’antologia sia stata pensata o almeno
utilizzata per l’insegnamento, impressione favorita dall’appellativo di “maestro Ferrari”,
che viene attribuito all’estensore, oltre che dalla precisione dell’insieme78. D’altra parte,
alcuni studiosi hanno pensato che in alcuni centri italiani ci siano stati corsi regolari –
anche se privati – di lingua provenzale, e questo impegno spiegherebbe anche la
diffusione delle coeve opere grammaticali.
Le fonti principali di Dc sembrano due: il Liber Alberici (che è anche la fonte di Da, cioè
la prima parte del medesimo manoscritto) e un antecedente che accomuna Dc a tutto D,
oltre che al cosiddetto libro di Miquel de la Tor. Questo secondo modello potrebbe
essere servito, almeno in parte, anche alla preparazione del codice italiano K, a sua volta
imparentato da vicino con I. Tali legami non impongono tuttavia che i tre testimoni Dc, I
e K siano sempre concordi: il legame viene meno in relazione a ben ventiquattro testi,
quattro dei quali tramandati da Dc in testimonianza unica. Il quadro di queste
connessioni intrecciate è inoltre arricchito dal fatto che Dc è riconducibile anche ad una
sezione di H, veneta e trecentesca; essa non pare derivare da nessuna delle tre grandi
76
Sul tema si vedano Paden 2000, Picone 2000, Bec 1992, pp. 87-104.
Viscardi 19702.
78
Ciò non toglie che non sembra questo lo scopo, o almeno non la funzione principale ed originaria, del
florilegio come tipologia di genere.
77
463
linee in cui si articola, nell’insieme, la tradizione manoscritta trobadorica79. Si è
anticipato che una probabile fonte accomuna Dc e J; un ulteriore modello accosta Dc al
codice del monaco Bernart Amoros, il quale va probabilmente assegnato alle linee dette
e . Infine è stata ipotizzata una fonte che contenesse una raccolta di opere del solo
Sordello.
Non è detto ovviamente che questo complesso lavoro di ricerca testuale si debba proprio
a Ferrarino; è anzi probabile che egli copiasse un’antologia più antica già pensata come
florilegio. La composizione originaria, comunque, deve essere avvenuta in momenti
diversi, visto che la scelta delle citazioni appare ispirata a due paradigmi differenti: una
prima tendenza comporta la scelta dei versi più significativi per ogni componimento, la
seconda, posteriore, prevede semplicemente la trascrizione dell’incipit e poi il taglio del
testo una volta che la porzione riportata appariva sufficiente. La parte ispirata a questo
secondo principio non deve necessariamente essere stata preparata in un’unica
occasione, ma potrebbe derivare dal graduale recupero di testi da singole raccolte
autoriali; potrebbe poi essere stata aggiunta alla prima sezione, la quale, invece,
costituisce un florilegio dalla concezione più matura, nonché un nucleo unitario. Alcune
aggiunte conclusive potrebbero, infine, essere dello stesso Ferrarino, il quale in questo
caso sarebbe responsabile della decisione di rendere ancora più brevi i passi riportati.
4. “Vidas” e “razos”80
Un altro aspetto della diffusione della poesia trobadorica rilevante per la sua fruizione
tarda sono le vidas e le razos, rispettivamente biografie di autori e spiegazioni
(biografiche) della “ragione” a monte di componimenti letterari. Tali narrazioni hanno
avuto, lo si vedrà, una funzione essenziale rispetto alla ricezione della cultura cortese, in
primo luogo perché hanno favorito il passaggio verso realtà culturali eterogenee. D’altro
canto, tale mediazione ha comportato una riappropriazione dell’eredità occitanica e la
definizione per essa di nuovi valori e significati, che a loro volta hanno condizionato le
interpretazioni successive (trecentesche).
Sono accertati solo due autori a proposito dei materiali biografici tramandati per i
trovatori, a dispetto della loro notevole quantità. Da una parte Uc de Saint Circ firma
esplicitamente tre testi (la vida di Bernart de Ventadorn e le razos di Savaric de
Mauleon); tuttavia gli sono attribuiti quasi tutti gli altri, in alcuni casi con certezza, in
altri con buona approssimazione. La sua riorganizzazione del corpus biografico risale
alla prima metà del ‘200. Uc arriva in Italia nel 1220 circa, come suggeriscono anche i
dati linguistici ricostruibili sulla base dei testimoni; non è possibile, d’altra parte,
ipotizzare una datazione molto posteriore, poiché l’attività di Uc a corte diffonde quasi
subito l’uso degli stessi materiali biografici. L’intervento autoriale del trovatore
79
Si tratta, come si è visto nel paragrafo dedicato alla circolazione dei codici trobadorici, dei rami indicati
da Avalle come , y e “terza tradizione”.
80
Su questo argomento si vedano in particolare Panvini 1952, Favati 1953 e 1961, Liborio 1982,
Meneghetti 1984, Cingolani 1988 e l’intervento di Meneghetti in Lachin 2008.
464
concerne la sistemazione scritta di tali narrazioni, le quali devono aver conosciuto in
precedenza una circolazione orale. La composizione originaria di alcuni testi è infatti
databile a prima del 1219, come rivelano i riferimenti a personaggi storici noti; in alcuni
casi la collocazione cronologica è addirittura anteriore al XIII secolo. Osservando
inoltre il rapporto tra vidas e razos, si nota che il loro inserimento in raccolte scritte ed
organiche è grossomodo coevo; tuttavia nelle prime si coglie un’influenza delle
seconde, rispetto sia ai contenuti della narrazione, quando manchino informazioni
storiche sulla vita del singolo poeta, sia alla correzione di alcuni errori. Si può
presumere, quindi, che la circolazione orale delle razos sia precedente a quella delle
vidas.
È invece tardo il contributo di Miquel de la Tor che, nel preparare la raccolta delle
opere di Peire Cardenal, dopo gli anni ‘70 del ‘200, vi inserisce un approfondimento
biografico, dedicato appunto a quell’autore. L’impegno di Miquel appare insomma
eccezionale, sia per la peculiarità di un “libro” dedicato ad un singolo autore, sia per
l’inconsueta occasione compositiva del testo biografico.
A parte questo esempio isolato, il contesto in cui si è formato il corpus biografico
appare unitario ed omogeneo; esso è legato all’area veneto-trevigiana, e soprattutto
all’ambiente dei da Romano. L’area della Marca Trevigiana, dominata dai ben noti
fratelli Ezzelino ed Alberico, mantiene a lungo un’organizzazione feudale: l’aristocrazia
continua a preferire residenze in campagna piuttosto che in città, la borghesia gode di
sviluppo ed importanza limitati, gli ambiti letterario-culturale e notarile o professionale
in genere si mantengono a lungo distinti, permane una masnada, cioè un esercito
personale di uomini senza terra, che apprezzano la vita di corte. Tali condizioni sono
tutt’altro che moderne e creano un ambiente ideale per la ricezione della poesia e delle
antiche consuetudini trobadoriche. Il loro recupero passa anche attraverso l’uso delle
vidas e delle razos, le quali presentano l’autore e il componimento; esse introducono
all’esecuzione e permettono una più piena comprensione. I testi biografici hanno
dunque in primo luogo una funzione educativa a vantaggio del pubblico, sia rispetto alle
singole manifestazioni di poesia, sia nell’incontro con l’ideologia cortese nell’insieme.
Tale funzione introduttiva dev’essersi dimostrata utile anche per i giullari e i loro
ascoltatori: è perciò ancor più efficace l’ipotesi di una circolazione pregressa ed orale
dei materiali biografici già in Provenza. Tuttavia in area occitanica l’unica sistemazione
che è lecito immaginare consiste nella trascrizione di ciò che si ascolta. Ora invece,
benché l’effettiva fruizione continui ad essere prevalentemente orale, vengono preparate
raccolte organiche e sistematiche, tanto unitarie nella struttura da non comunicare alcun
senso di evoluzione. Le caratteristiche più evidenti sono la serialità delle narrazioni e
l’interdipendenza di ciascuna rispetto ad un altro testo letterario: in esso i racconti
biografici trovano la loro stessa giustificazione. Le razos in particolare rivelano una
profonda interdipendenza: i rimandi reciproci sono frequenti e talvolta coinvolgono
anche testi assenti nel singolo canzoniere o addirittura non conservati, noti dunque solo
attraverso la citazione indiretta in altre narrazioni biografiche. Tali legami dimostrano
che le razos hanno costituito un corpus precocemente unitario. Alcuni testimoni
autorevoli per posizione stemmatica indicano inoltre l’esistenza di una serie ordinata,
465
secondo la quale si sarebbe definita in partenza la tradizione. Tale fattore ha spinto ad
ipotizzare che in origine le razos non fossero anteposte ai singoli componimenti, ma
costituissero gruppi unitari alternati a sezioni liriche altrettanto circoscritte, senza la
necessità vincolante di puntuali rimandi tra prosa e verso. La struttura più antica si è
conservata solo in un manoscritto; tuttavia possono esserne indizi alcune caratteristiche
peculiari di altri codici, come riferimenti a incipit di liriche non contenute nella silloge,
oppure l’indicazione di “canzoni” al plurale, quando alla razo ne segue una sola.
Talvolta rimangono i segni di una rielaborazione in più fasi: in alcune razos il copista
dichiara di seguire una fonte biografica anteriore o di proporne un riassunto. Alcune
narrazioni sembrano derivare dalla fusione di diversi antecedenti, in parte anche
connettendo rami distinti della tradizione; altrove si nota l’utilizzo della medesima fonte
per narrazioni dall’esito divergente. Gravi scorrettezze, confusioni marcate,
incongruenze peculiari sembrano risalire proprio a queste forme di rielaborazione:
risultano, infatti, troppo intrecciate alle fasi alte della tradizione per poter essere
attribuite a semplici errori e varianti di copista, che pure in seguito non sono mancati. Il
lavoro sui testi è stato probabilmente finalizzato a creare un’omogeneità tra le sezioni di
vidas e razos, in origine autonome, al fine di determinare collezioni coerenti; tale
tendenza si è accentuata man mano che la tradizione si ampliava, dunque in
corrispondenza con le parti più basse dello stemma.
I materiali biografici contribuiscono, dunque, in modo determinante al recupero dei
principi cortesi, ma al contempo ne mostrano una nuova interpretazione. Essa non
deriva soltanto dalla trasposizione in un’epoca e in una società differenti; si cerca infatti
di creare per il nuovo pubblico un sistema di riferimento uniforme e aproblematico,
mettendo da parte i punti di vista molteplici che avevano caratterizzato il periodo
classico del trobadorismo. In tale visione rinnovata si possono cogliere alcune costanti:
la preferenza per le tragedie eroiche (sempre più esagerate) e i giochi galanti; la
complicazione nel rapporto tra sentimento e attività poetica, per cui il canto perde
efficacia rispetto allo stato infelice del poeta; l’importanza della condizione sociale,
anche in merito alla conquista dell’amore e al servizio, per cui i limiti di uno status
inferiore possono essere superati solo attraverso la garanzia del potente e buon
feudatario. Resta invece l’idea che l’unica ricompensa desiderata ed ottenuta consista
nel canto e nel servizio in sé. Alcuni valori fondanti della cultura trobadorica vengono
stravolti: ad esempio, la centralità della misura, la cui assenza può determinare tragiche
conseguenze, diviene motivo per una completa accettazione dello status quo. Si acuisce
la distanza tra esperienza reale dell’amore e dimensione letteraria: è comune la finzione
dello stato amoroso, che consente di dedicarsi all’attività poetica e così di mantenersi
economicamente. La cultura cortese sopravvive insomma come costume letterario e
galante. Osservando i due versanti della produzione di Uc de Saint Circ è possibile
avere una piena percezione della distanza tra le concezioni antica e tarda. Egli infatti
aderisce inizialmente alla maniera tradizionale; trasferitosi in Italia si dedica con
successo alle biografie, con intenti educativi e narrativi espliciti, che ben spiegano le
divergenze dei suoi componimenti più tardi rispetto alle forme classiche.
466
Sul piano tematico, vidas e razos mostrano innanzitutto che i poeti non incuriosiscono
tanto in quanto personaggi storici e che il fine non è l’attendibilità dei dati proposti;
domina piuttosto una generale tendenza all’idealizzazione e all’invenzione romanzata.
A questo proposito, dunque, si coglie un’ulteriore alterazione del rapporto tra realtà e
letteratura. La questione dell’attendibilità è per altro un nodo critico essenziale e su
questo punto gli studiosi non sono sempre concordi. In generale si insiste sulla libertà
con cui vengono redatte le affermazioni biografiche, che sembrano prendere amplissimo
spunto dai testi poetici, piuttosto che dai fatti storici. In altri casi, tale inattendibilità è
attribuita alla distanza cronologica tra avvenimento e narrazione, e non a malafede o al
gusto dell’invenzione – gusto che per altro appare coerente con la concezione medievale
dell’autorialità e della legittimità di rielaborare il testo. Perciò, per lo meno i racconti
più antichi andrebbero considerati abbastanza affidabili. Panvini81 in particolare ha
difeso con ottimismo la validità documentaria di quelle narrazioni, ritenendo che i
resoconti biografici non derivino dai testi poetici, ma da fonti scritte o dalla tradizione
dei racconti che rallegravano le corti. I dati palesemente leggendari non sarebbero il
frutto della sovrapposizione tra letteratura e realtà, ma di quell’aura romanzesca che
nell’ambiente cortigiano spesso trasfigurava l’immagine degli autori e delle loro
imprese amorose. L’uso parallelo di fonti storiche solide sarebbe garantito dalla
citazione veritiera di alcuni fatti e personaggi.
Accolta l’ipotesi che vidas e razos servissero a rifunzionalizzare la poesia trobadorica, è
stato possibile riconoscere alcuni modelli lontani che potrebbero averle condizionate. Si
è pensato, ad esempio, agli aitia di Callimaco o alle adab arabe, che avevano proprio lo
scopo di introdurre testi poetici. Fonti ancor più vicine ed accessibili sono i lais bretoni,
in cui si delinea in modo simile un passaggio triplice tra fatto concreto, rielaborazione
lirica e racconto (benché in versi); vanno poi considerate le agiografie, che hanno
notevolissima diffusione nella letteratura medievale e che possono essere accostate alle
vidas per la loro struttura narrativa breve. In quest’ultimo caso manca però la funzione
esplicativa rispetto al testo liturgico di partenza.
Gli accessus ad auctores, infine, offrono un confronto particolarmente efficace: sono
testi concisi, funzionali all’introduzione e al chiarimento di opere considerate maggiori,
quali un’auctoritas o, più spesso, un commento ad essa. Talvolta tali strumenti sono
legati anche a testi letterari e in questi casi l’invenzione appare molto più libera. Dalla
fine del XII secolo cominciano a circolare raccolte di accessus autonome, in cui i testi
introduttivi sono slegati dalle opere cui si riferiscono; anche tali raccolte rivelano uno
schema fisso e ripetitivo. Sul piano dei contenuti le somiglianze sono altrettanto
notevoli; gli accessus si concentrano infatti sul racconto in sé e non sulla sua forma, per
spiegare un significato nascosto e rivelare la ragione (cioè la razo) del discorso
principale. Non mancano nemmeno materiali squisitamente biografici, paragonabili
dunque alle vidas, e parimenti caratterizzati da vivaci invenzioni fantastiche o da
informazioni prive di consistenza storica, tratte dalle opere stesse. Si riscontra dunque il
medesimo rapporto tra vita e letteratura che appare alla base delle narrazioni
81
Panvini 1952.
467
trobadoriche. Gli accessus dedicati alle opere ovidiane offrono un esempio magistrale di
tale connessione, per i loro elementi amorosi e moralistici, nonché per l’uso duecentesco
di apporre simili introduzioni anche ad opere volgari, qualora fossero ispirate ai classici.
Come si è visto la storia dei materiali biografici trova il suo culmine nella sistemazione
scritta ed organica in Italia e la tradizione manoscritta82 lo conferma.
I codici più ricchi ed importanti sono I e K; tuttavia l’assenza di alcuni errori genetici,
fondativi dello stemma, potrebbe dimostrare che la versione di B è più antica, benché
questo codice sia stato spesso trascurato. Un altro indicatore dei rapporti fra i testimoni
concerne le vidas di Marcabru, Sordello e Bartolomé Zorzi, che sono assenti in B,
presenti in A, ridotte allo stato di razos in I e K.
Favati ha dunque proposto questa ricostruzione: B conserva la versione più antica e
vicina alla raccolta originale, A testimonia un’aggiunta successiva (è noto che non tutte
le biografie sono state sistemate o scritte nello stesso momento da Uc de Saint Circ), I e
K recuperano quell’aggiunta e la propongono rielaborata, mentre in altre zone dello
stemma essa potrebbe essere caduta.
La situazione di F è diversa, poiché esso appartiene al medesimo ramo di I e K, ma al
contempo è vicino ad una versione più antica persino del loro perduto antecedente (Xv),
la quale trova in F un testimone fedele, privo di rimaneggiamenti e ampliamenti. N2
presenta una posizione intermedia: in parte è imparentato con F, in parte condivide le
aggiunte di I e K. In tutto l’arco della tradizione, comunque, vanno ipotizzati diversi
momenti rielaborativi, come quelli che caratterizzano E; è in questo modo che si sono
delineate le redazioni divergenti giunte sino a noi.
I codici che tramandano vidas e razos sono riconducibili a tre famiglie: la prima
comprende A, B, O, a; la seconda I, K, N2; la terza H, P, R, E. Gli estensori di queste
sillogi hanno probabilmente consultato più fonti, a seconda del pubblico cui
intendevano rivolgersi; domina comunque la tradizione veneta e l’impronta del ramo .
N2 rappresenta il caso più peculiare anche a livello testuale, perché per le vidas si
associa a I e K, ma per le razos è imparentato anche con H e P. Per questa analisi Avalle
si è basato innanzitutto sulla sua ricostruzione stemmatica ed inoltre sulla concezione di
una tradizione articolata in più fasi83. Tuttavia alcuni studiosi (come Cingolani84)
ritengono che sia più proficuo partire da una visione geografica, cioè dagli spostamenti
e dalla posizione attuale di testi e raccolte sopravvissuti. Il metodo si applica
particolarmente bene alle narrazioni biografiche, che ancora una volta sono organizzate
su tre direttrici: racconti trascritti in Italia, ma poi tornati nel Midi ormai pacificato alla
fine del Duecento, area veronese (molto produttiva ed avvantaggiata dalla presenza di
provenzali), uno o più scriptoria veneti vicini alla fonte primaria, cioè ad Uc de Saint
82
A proposito della tradizione manoscritta dei materiali biografici, non solo è necessario considerare che i
rapporti fra i codici non sono puntualmente sovrapponibili a quelli che riguardano il corpus poetico (con
particolare riferimento alla ricostruzione stemmatica di Avalle 1961). Inoltre Favati ha sottolineato come
anche tra la trasmissione delle vidas e quella delle razos ci siano divergenze molto significative. Per tale
questione si rimanda in particolare a Favati 1961.
83
Avalle 1961. Della generale proposta ricostruttiva dello studioso si è già parlato nel corso del primo
paragrafo.
84
Cingolani 1988.
468
Circ. La tripartizione giustifica l’impressione che ci fossero più fonti attive: infatti,
sempre secondo Cingolani, alcuni codici, e soprattutto R ed M, rivelano stili diversi. Da
un parte è coinvolta anche l’area italiana, dall’altra si determina così una certa
evoluzione nel genere. In tale ricostruzione trovano spazio sia creazioni arcaiche,
anteriori al contributo di Uc, sia narrazioni sempre più estese, che anticipano il gusto per
la novellistica vera e propria. È facile dunque immaginare che tale percorso individui
anche un’evoluzione cronologica, oltre che testuale. Alle diverse forme compositive si
associano poi concezioni organizzative altrettanto divergenti, dalla soluzione più
sintetica, con la sola razo prima del testo, ad altre più articolate, grazie all’inserimento
della vida. Queste integrazioni possono essere anteposte al singolo testo o all’insieme
dei componimenti di uno specifico autore, segnalando un intento biografico ancor più
deciso, oppure tali racconti possono costituire una sezione distinta. Le diverse
configurazioni rappresentano un ulteriore fattore di familiarità o estraneità fra codici,
come l’organizzazione della pagina, che può addirittura rivelare divergenti modelli
storici e culturali (ad esempio latini o ecclesiastici).
5. Canzonieri dedicati a singoli autori e raccolte d’autore
Le sillogi liriche in cui, pur in mancanza di autografi e idiografi, sia possibile intuire un
ordinamento autoriale sono definite “libri d’autore”, e possono eventualmente
rappresentare solo una fase nel percorso evolutivo di una raccolta, o essere parte di una
collezione per il resto perduta. Bisogna prestare attenzione alla distinzione tra libri
d’autore in senso stretto, cioè pensati e organizzati dal poeta stesso, e raccolte d’autore
come antologie dedicate ad uno specifico poeta, senza che ne sia coinvolto
l’intervento85.
In entrambi i casi, il concetto di “raccolta d’autore” non può che rivestire notevole
interesse per chi studi il Canzoniere petrarchesco, la cui sapiente struttura può aver
beneficiato di antecedenti occitanici, oltre che italiani86. A tale aspetto va poi affiancata
ancora una volta l’utilità di vagliare una significativa modalità di diffusione del
patrimonio culturale trobadorico, che avrà influenzato la percezione dei lettori.
Le raccolte d’autore medievali che ci sono state tramandate sono pochissime e ancor più
rari sono i canzonieri che si definiscano esplicitamente tali. La tradizione lirica cui
abbiamo accesso è per lo più il frutto di selezioni e accostamenti voluti da committenti,
copisti e studiosi, o resi necessari dall’effettiva disponibilità materiale dei testi in un
determinato momento.
85
Sulla questione si leggano innanzitutto Avalle 1960, 1961 e 1985, Viscardi 19701, Brugnolo 1987,
Bertolucci-Pizzorusso 19891, 19892 e 1991, Roncaglia 1991, Vatteroni 1998, Meneghetti 1999, Bourgain
2006 e Meliga 2006.
86
Per completare il discorso a proposito dei canzonieri d’autore italiani, si vedano Avalle 1985,
Brugnolo 1987, Bertolucci 1989 e Meneghetti 1999. Sulla storia della forma canzoniere e in particolare
sulla sua definizione terminologica, si veda anche l’utile sintesi in Gorni 1993, pp. 113-135.
469
Dunque la percezione moderna dei testi antichi è alterata da tali risistemazioni, che
inoltre limitano la nostra comprensione del percorso autonomo compiuto da
componimenti isolati o piccoli gruppi di rime, prima di successivi interventi
organizzativi. In alcuni casi è lecito domandarsi, in particolare, se a monte delle
collezioni superstiti possa esserci un contributo autoriale; anche gli esempi classici e
mediolatini testimoniano il costante bisogno da parte dell’autore di andare oltre
l’occasionalità e la singolarità del testo, verso una configurazione continuativa. Il
criterio più promettente per questo tipo di analisi consiste nell’identificare scelte
strutturali ingegnose e creative, dal punto di vista della quantità e della qualità. Si tratta
insomma del principio della lectio difficilior, abituale nelle riflessioni filologiche a
proposito di forma, ritmo, usi linguistici etc. Indubbiamente il quadro è reso più
complesso e fluido dalle modalità di pubblicazione tipiche del Medioevo: il testo rimane
presso l’autore anche dopo essere stato diffuso ed è quindi esposto parallelamente ad
una doppia rielaborazione, autoriale e di copista, per cui si può delineare una tradizione
anteriore e alternativa rispetto alla versione ultima dell’opera voluta dall’autore. Sono
tipiche d’altronde le incomprensioni legate agli interventi di editori e amanuensi: è un
pericolo reale soprattutto quando la raccolta è lunga e complessa. Infine è determinante
la frequente tendenza medievale all’anonimato: rispetto all’esistenza di raccolte
trobadoriche autoriali, è significativo che proprio i Provenzali abbiano per primi
rifiutato tale costante87.
Per una ricerca sulle raccolte d’autore, due condizioni sono preliminari ed essenziali: la
sopravvivenza di un numero sufficiente di testi di uno stesso autore e la loro ridotta
dispersione. Un indizio utile per lo studioso consiste nell’omogeneità delle opere e nella
possibilità di scorgere una logica nella loro successione. In secondo luogo, i riferimenti
essenziali nella valutazione di un “canzoniere” in senso stretto sono gli aspetti di
intertestualità, perché elaborati al fine di produrre sovrasenso. Alcune tendenze sono
particolarmente frequenti e percepibili: coppie di componimenti, legame tra explicit e
incipit accostati, sino alle più varie connessioni tematiche e formali. Talvolta si
riconoscono elementi che uniscono l’intera raccolta, mentre in altri casi ne è coinvolta
solo una frazione, più o meno ampia; i fattori in questione possono essere esteriori
(distributivi e quantitativi) o interni (ad esempio se si delinea uno sviluppo narrativo).
Certamente i dati di carattere cronologico sono molto rilevanti, soprattutto perché in
diversi casi sono esplicitati o comunque accessibili; infine anche i dettagli puramente
materiali possono aiutare nell’analisi.
Giungere ad un’ipotesi definitiva è tutt’altro che semplice, soprattutto nella pratica
effettiva dei manoscritti sopravvissuti, in cui il canzoniere voluto dall’autore o curato da
un editore consapevole non può che essere cercato all’interno di antologie più
87
Su questo punto riflette ad esempio Roncaglia 1991, che però sottolinea anche il permanere di una
concezione collettiva della letteratura anche in ambito occitanico, come dimostra proprio la prevalenza di
antologie e la diffusione dei florilegi.
470
stratificate88. In alcuni codici la successione ordinata dei testi non si è conservata per
intero oppure è inframmezzata da opere di altri poeti, mentre è proprio la contiguità a
suggerire con evidenza la raccolta d’autore. Un fattore di frazionamento frequente, ad
esempio, è la separazione dei generi in sezioni distinte, che spesso caratterizza le sillogi
trobadoriche; inoltre, i diversi testimoni possono non essere concordi per aver subito
alterazioni e vicende diverse. Né tali difficoltà né il numero ridotto di esemplari
effettivamente individuabili impediscono però di ritenere, ad esempio secondo
l’opinione di Furio Brugnolo o di Valeria Bertolucci, che in origine l’impegno autoriale
nella costruzione di una struttura ben definita fosse un’abitudine piuttosto diffusa. In
ambito provenzale, ad esempio, è certa una sistemazione puntuale da parte di Guiraut
Riquier, e sono sempre più accettate simili ipotesi per Peire Vidal89 e Cerverì de Girona,
anche se non per la loro intera produzione. Una ricostruzione meno battuta concerne
invece Pons de la Guardia, mentre per Peire Cardenal è certo che sia stata pensata una
silloge ordinata, ma dall’appassionato Miquel de la Tor. Il caso di Gaucelm Faidit resta
infine alquanto incerto tra organizzazione autoriale e intervento di un editore/copista.
Per lo più questi primi esperimenti documentati in ambito volgare datano a oltre la metà
del Duecento, con l’eccezione di Peire Vidal, la cui esperienza poetica si colloca a
cavallo tra XII e XIII secolo. D’altro canto, non si può escludere che tale pratica sia
anche molto più antica, come ha affermato Avalle90, sottolineando il valore esemplare
delle parallele sperimentazioni messe in atto dai Minnesanger.
5.1 Guiraut Riquier
Un esempio ben noto di canzoniere autoriale sopravvissuto è quello di Guiraut Riquier,
trovatore tardo, attivo ancora alla fine del ‘20091. In effetti, la sua raccolta presenta una
struttura organica ed evidentemente unitaria, senza pari in ambito occitanico, tanto che
essa costituisce il termine di paragone fondamentale per ulteriori ricerche e ipotesi,
anche in riferimento ad altri autori.
Il “libro” di Guiraut è stato conservato, per la sola parte lirica, da due codici pienamente
concordi (C ed R), entrambi caratterizzati da corpose rubriche che sottolineano la
88
Come in parte si è già visto, è questa la pratica più diffusa in ambito medievale, per suggestione dei
canzonieri mediolatini e poi trobadorici, influenza questa particolarmente sentita in Italia. L’ordinamento
interno più tipico è quello per generi, che riconosce il predominio alla canzone; i copisti italiani tendono
poi a sovrapporre criteri di gusto e critica, nonché parametri di carattere storiografico, come si nota già
alla fine del ‘200 nel Vaticano Latino 3793. Queste prospettive vanno in parte accostate, almeno secondo
Brugnolo 1987, alla grande innovazione dei primi veri canzonieri, la Vita nova e i Rerum vulgarium
fragmenta, che a lungo rimarranno esempi isolati, quasi una “novità eccessiva”, che però chiude una fase
evolutiva (mentre ci vorrà più tempo perché contribuiscano ad avviarne una nuova).
89
Con questo non si vuole suggerire che tutti gli studiosi ne siano persuasi. Meneghetti 1999, ad esempio,
ha sottolineato a proposito di Peire Vidal come l’ipotesi di una raccolta d’autore si fondi su prove
piuttosto esigue ed esclusivamente testuali.
90
Avalle 1960.
91
Si è già fatto riferimento alla cura di questo autore per il proprio canzoniere nel primo e a più riprese
nel secondo capitolo. Sulla produzione di Guiraut Riquier si vedano Anglade 1905, Bertolucci Pizzorusso
2001, pp. 331-332, Bossy 2001. Per la ricostruzione filologica della raccolta si considerino in particolare
Bertolucci-Pizzorusso 19891, 19892 e 1991, e Meneghetti 1999.
471
continuità dei testi; soprattutto essi offrono informazioni che sembrano risalire al poeta
in persona, poiché non possono essere ricavate dai versi stessi. La successione delle
rime è evidenziata dalla precisissima indicazione delle date di composizione, che si
distribuiscono in un arco di tempo piuttosto ampio, dal ‘54 al ‘92. Il manoscritto C
riporta anche un’epigrafe con cui il copista dichiara di aver lavorato sull’originale; la
forma di questa nota lascia supporre che l’abbia scritta proprio l’estensore di C e che
non si tratti semplicemente di un’indicazione anteriore, trovata sull’antigrafo, perché
entrata a far parte a sua volta della tradizione. L’epigrafe inoltre propone una sorta di
titolo e un’indicazione di massima dei generi coinvolti nella struttura d’insieme della
raccolta, dati che dunque potrebbero venire dall’originale di Riquier. A tale avvio
corrisponde in conclusione una preghiera alla Vergine e a Cristo, che ha anche la
funzione di dedica: i due accorgimenti hanno l’effetto di evidenziare dal punto di vista
strutturale incipit ed explicit. Purtroppo le certezze si fermano a questo, poiché non è
semplice valutare quanti cambiamenti possano aver introdotto i copisti nei brevi passi in
prosa. I codici, inoltre, divergono su un’ulteriore componente del canzoniere originale,
perché R dà grande importanza alla notazione, mentre C la trascura completamente. Le
modalità meccaniche della negligenza dimostrata da questo secondo copista possono
essere di notevole aiuto: infatti, nelle rubriche permangono rimandi sospesi, che si
spiegano solo ipotizzando che l’antigrafo contenesse la notazione e che C l’abbia
omessa. La conformazione dei due codici permette di intuire modelli affini, anche se
non coincidenti. Entrambi presentano per altro pochissime precisazioni discorsive nelle
sezioni dedicate ad altri autori (in R mancano addirittura quelle attributive), cosicché il
paratesto individua quella porzione specifica dell’antologia che identifica il “libre”,
distinguendola dal resto della silloge. Per quanto concerne R, dove la successione dei
testi non sempre è perfettamente ordinata e spesso interrotta, l’unità strutturale è
comunque compiuta, grazie non solo alle rubriche, ma anche alle iniziali miniate
riservate ai testi di Riquier (oltre che alla primissima lettera dell’intera silloge).
Dal punto di vista testuale, i testimoni sono in sostanza concordi nelle porzioni in prosa,
a parte il fatto che R è molto più affrettato, ricco di abbreviazioni, privo della
numerazione e spesso dell’indicazione del mese nella data di composizione (quasi
sempre presente in C).
La valutazione di altri eventuali principi strutturali oltre a quello cronologico non è
ovvia, a parte l’evidente distinzione macroscopica in base al genere. La canzone è
identificata come tradizionalmente più prestigiosa e, nel caso specifico di Guiraut, le
tenzoni sono condannate a rimanere escluse dal nucleo forte della raccolta, tanto che la
loro funzione nello sviluppo del continuum poetico è tutt’altro che chiara.
Nella sezione delle canzoni si colgono elementi di connessione anche sul piano tematico
ed espressivo, che da una parte isolano alcuni sottogruppi di testi e dall’altra li
riuniscono in una successione coerente. Innanzitutto sono raccolti i testi dedicati
all’amore terreno, in parte consacrato alla dama, in parte rinnovato nella serie delle
pastorelle; segue – in corrispondenza con l’età matura – lo spostamento ad un amore
celeste. È una seconda stagione emotiva e poetica legata alla prima dall’uso delle
medesime immagini e soprattutto dello stesso senhal, che ora indica la Vergine. La
472
struttura complessiva è dunque bipartita, con l’ulteriore distinzione tra sezione in vita e
in morte della dama amata. Lo studio dei singoli componimenti, inoltre, ha rivelato che
la cronologia identificata dalle rubriche si riflette anche all’interno dei singoli testi;
questi richiami divengono sempre più evidenti man mano che ci si avvicina ad un
gruppo di componimenti in cui la vicenda amorosa è seguita quasi giorno per giorno.
Un ulteriore fattore di unità concerne la numerologia: la passione per le cifre è ben
testimoniata nell’intera produzione del poeta. Lo sviluppo cronologico e spirituale
comporta un’attribuzione di senso univoca per ciascun componimento, la cui posizione
è vincolante; tuttavia non manca un’impressione di dinamismo, anche in virtù dei
diversi cicli e delle diverse fasi narrative.
Come ha spiegato Valeria Bertolucci, il complesso impegno dedicato da Riquier alla sua
silloge sembra volto ad un obiettivo più ambizioso della pura piacevolezza nella lettura;
l’evoluzione del discorso acquisisce un valore didattico, come se ci si rivolgesse ad un
aspirante poeta con un insegnamento retorico e letterario. La consapevolezza del
trovatore è del tutto matura, tanto che sarà impossibile trovare una simile ricchezza di
strumenti compositivi negli anteriori tentativi di creare una raccolta organica. Un primo
limite, invece, va colto nella natura molto semplice ed esteriore dei legami tra i testi, per
cui la raccolta appare sì unitaria, ma a partire da materiale eterogeneo. D’altronde,
Maria Luisa Meneghetti ha evidenziato come all’origine di questa raccolta non risulti
alcuna selezione testuale che permetta di delineare un discorso unitario, aspetto che
invece sarà presto essenziale nella definizione stessa di “canzoniere”.
L’elaborazione della struttura è presumibilmente tarda, posteriore alla gran parte della
produzione di Riquier e quindi riconducibile agli anni ‘90: l’autore infatti dimostra una
visione già complessiva, come richiede soprattutto l’equilibrio numerico e
numerologico cui si è accennato. Valeria Bertolucci ha inoltre fornito un quadro
contestuale molto interessante per comprendere appieno il contributo di Guiraut. Di
origine iberica, egli fu legato soprattutto alla corte di Alfonso X, il quale fu grande
estimatore di poesia cortese e a sua volta rimatore; proprio nei medesimi anni è stata
preparata una silloge di suoi componimenti, contrassegnata da unità, coerenza e
simmetria. Il tema dominante è mariano, come nella seconda metà della raccolta
riquieriana e in coerenza con le tendenze della poesia provenzale tarda; la scelta è
consapevole, poiché il re fu anche rimatore profano. Il canzoniere di Alfonso appare
molto rigido nella struttura, anche nei frequenti dettagli numerologici: i testi sono cento
ed organizzati in decine marcate dalla differenza di genere, secondo una scansione
evidenziata dalla presenza, ogni dieci, di un testo di genere eterogeneo rispetto a quelli
circostanti. L’appendice, le successive estensioni della raccolta e le illustrazioni
recuperano e ribadiscono tale ordinamento. La natura ponderata del progetto si coglie
nella revisione testuale, volta via via ad aggiornare i riferimenti interni ai singoli
componimenti quando ne varia il numero complessivo; la numerazione è puntuale come
la presenza di rubriche; i due testi d’apertura e chiusura sono invece esterni alla
numerazione. Anche la notazione è sempre indicata con precisione.
In effetti, la differenza essenziale tra la proposta di Riquier e quella del sovrano
concerne il genere di riferimento: il primo guarda esclusivamente ad una prospettiva
473
lirica, mentre il secondo, lasciando ampio spazio alla componente miracolistica, si ispira
soprattutto a movenze narrative. A loro volta le narrazioni di stampo mariano e
miracolistico offrono esempi contestuali di raccolte organizzate con precisione, come
nel caso, sempre iberico, di Gautier de Coinci in cui si riscontrano simili criteri
cronologici, segnali d’apertura e chiusura, nessi intertestuali anche stilistici.
5.2 Peire Vidal92
La questione di un’ipotetica silloge autoriale preparata da Peire Vidal è irrisolta; la sua
ricostruzione è ritenuta possibile da filologi autorevolissimi come Avalle, mentre vari
altri studiosi ritengono che i dati a disposizione siano insufficienti. Lo stesso Avalle ha
ammesso che la tradizione dei testi vidaliani è molto aperta e tarda; tuttavia il critico
ritiene accessibile la definizione di un codice più antico e perduto, partendo dagli errori
e dall’ordinamento dei testi nei canzonieri oggi disponibili.
Le sillogi sopravvissute individuano due famiglie distinte, da una parte C ed R,
dall’altra I, K, Da e H, che a volte sono concordi anche con N e Q. Il coinvolgimento di
Da offre un riferimento cronologico nel segno del Liber Alberici da cui deriva, il quale è
sicuramente anteriore al 1260, anno della morte del suo destinatario Alberico da
Romano. Alcuni gruppi di componimenti rimangono stabili in tutti i codici,
testimoniando probabilmente l’esistenza di un antecedente comune smembrato in
fascicoli: ciò spiegherebbe perché l’associazione fra i testi all’interno di ciascun gruppo
permane, mentre la successione dei gruppi stessi varia. Si individua così un nucleo fisso
di diciannove canzoni, cui poi si sono aggiunte altre liriche già nell’ipotetico capostipite
cui risale la famiglia I, K, Da, H, N, Q93.
Altri codici (A, E, S) hanno qualche punto di contatto con tale ramo, ma non mancano
elementi di connessione anche con quello alternativo (C-R), il quale in particolare deve
aver avuto per i testi di Vidal un capostipite comune con E, definito . Tuttavia E è
legato anche al gruppo , poiché entrambi sono associati dall’appartenenza nello
stemma generale al ramo . R è forse il più fedele al codice antico ipotizzato, come
potrebbe indicare l’ordinamento di tre apocrifi vidaliani, ma C – seguito da A – è il più
affidabile. Questi due codici sono inoltre molto vicini tra loro: differiscono infatti per un
solo testo, che A sembra aver recuperato dal ramo , forse a seguito della caduta di una
pagina. Qualche altro scarto si comprende facilmente sulla base dei normali meccanismi
di copiatura.
Della silloge vidaliana si riconoscono dunque diciannove testi grazie al confronto tra C
e il gruppo +E; i componimenti dovevano originariamente susseguirsi in ordine
cronologico, evidentissimo ad esempio per undici dei testi di A. Sono solo tre le rime
che nei codici si sottraggono radicalmente a questo principio, fatto che potrebbe essere
motivato dall’uso di una fonte secondaria forse già a livello archetipico. Ne deriva
92
Riferimento essenziale è Avalle 1960.
Si noti che, sempre secondo la ricostruzione di Avalle 1960, N e Q sono separati da
passaggio, .
93
474
da un ulteriore
dunque una serie ampliata sino a sedici canzoni, cui si aggiunge una coppia (17 e 18)
indivisibile per tema94.
La prima ipotesi da formulare concerne a questo punto l’estensore della raccolta di
partenza, che per Avalle è lo stesso Peire Vidal. Lo suggeriscono la precisione dei
parametri compositivi, la scelta dell’ordine cronologico e non metrico o formale, che
sarebbero stati più familiari ad un copista, ed infine la tipologia degli errori
riconducibili all’archetipo x, che lasciano supporre che il suo estensore abbia letto un
antigrafo dalla grafia non calligrafica, ma individualizzata. Già in x devono essere
entrati i testi vidaliani che non risentono della struttura ponderata attribuita ad O; ma
anche in sono stati inseriti testi nuovi, che infatti non lasciano traccia in e , e che
giungono in alcuni codici (A, B, D, E, H, e, T, J, N) al di fuori della “raccolta d’autore”,
grazie al fatto che essi appartengono ad nello stemma generale. D’altro canto la
probabile conformazione di collettore di varianti di complica ulteriormente i rapporti
tra i codici: ad esempio anche R ed E ne discendono in parte. Va infine considerato che
l’intera tradizione è contaminata.
A proposito del contenuto, la scelta dei testi è eclettica, con una certa preminenza delle
canzoni d’argomento provenzale in senso stretto. Ecco perché è probabile che l’autore
abbia raccolto i suoi testi nel passaggio attraverso la Provenza durante il suo viaggio
dalla Spagna all’Italia, come suggerisce qualche riferimento storico nei testi, utile anche
ai fini della datazione, da collocare probabilmente tra 1201 e 1202.
La tradizione lascia intuire anche l’esistenza di altre due raccolte, la seconda delle quali
in particolare sembra composta da otto canzoni e potrebbe essere ancora più antica;
l’intervento autoriale è qui suggerito dall’ordine inconsueto dei testi, perché
volutamente inverso rispetto a quello cronologico. Avalle ha dunque pensato che si
trattasse di un gruppo di componimenti preparato per i giullari. I codici che permettono
tali riflessioni rimandano al ramo y dello stemma: poiché in parte coincidono con quelli
che discendono dall’archetipo x, la peculiarità di questa famiglia consiste nella capacità
di raccogliere tradizioni differenti.
5.3 Cerveri de Girona
A proposito dell’impegno compositivo di Cerveri de Girona, anch’egli trovatore tardo e
spagnolo, restano ben pochi indizi. Infatti, è stata tramandata95 una sua affermazione
rispetto all’intenzione di “dire pubblicamente” a corte, cioè di pubblicare, ventidue sue
opere, di cui è precisato anche il genere. Di questo autore si sono però salvati
numerosissimi testi, rendendo davvero difficile ricostruire quali fossero quelli destinati
a tale raccolta; non sono sopravvissute neppure indicazioni ulteriori rispetto alla
cronologia o all’ordinamento. Tuttavia altri fattori paiono promettenti. Infatti, la
tradizione è molto compatta in questo caso, poiché si concentra quasi esclusivamente
nel canzoniere Sg; la destinataria e dunque la donna amata è una sola; sono
94
La rappresentazione dello stemma si trova in Avalle 1960, non a caso ad introduzione dell’edizione
critica di Peire Vidal.
95
Bertolucci 19891.
475
sopravvissute anche alcune rubriche d’origine probabilmente autoriale e comunque
molto omogenee. Il genere lirico offre un altro elemento di coesione: la successione dei
testi, anche se in parte ricostruita, determina in modo affidabile un graduale passaggio
dalla sfera amorosa a quella spirituale, in perfetto accordo con le tendenze culturali
dell’epoca in cui visse l’autore.
5.4 Gaucelm Faidit
La produzione di Gaucelm Faidit offre un’interessante opportunità di riflettere sulla
struttura dei Liederbücher: i testimoni che la tramandano e soprattutto i componimenti
sopravvissuti sono particolarmente numerosi. Purtroppo però mancano indicazioni
sufficienti per accertare se la raccolta si debba all’autore o ad un copista.
Viscardi96 ha individuato dodici brevi gruppi di testi il cui ordine interno si mantiene
stabile in canzonieri dall’origine storico-geografica anche molto diversa. Cercando
invece serie di liriche più estese, ha riscontrato nove opere che tornano in successione
costante in dieci canzonieri, nonché alcune coppie sempre indivise.
È dunque possibile ipotizzare che le serie brevi si debbano al riproporsi di fogli sciolti
sempre con le medesime associazioni, mentre il gruppo più ampio potrebbe risalire
all’esistenza di un Liederbüch97.
Secondo Vatteroni, questi indizi sono sufficienti ad affermare una parentela o comunque
una forte coerenza tra testimoni che appartengono ai due rami principali della
tradizione, e y98; i codici di y, però, sembrano isolati gli uni dagli altri rispetto al
trattamento della sezione di Faidit, come se vi avessero avuto accesso autonomamente.
Il comportamento dei codici che costituiscono il terzo ramo della tradizione, individuato
da Avalle99, è ancora differente, poiché essi concordano con solo per la serie lunga, è
perciò è possibile che lascino intravedere una fase più antica della raccolta.
Il confronto di tali rapporti con lo stemma dedotto dai dati testuali non è conclusivo,
poiché solo parte delle connessioni individuate con i due diversi metodi sono
sovrapponibili.
5.5 Peire Cardenal: il “libre” di Miquel de la Tor
Le opere di Peire Cardenal sono state raccolte in una silloge100 autonoma
dall’appassionato copista Miquel de la Tor a Nîmes, intorno al 1275101. Il “libre” deve
96
Viscardi 19701, che è poi il riferimento essenziale sulla questione insieme a Vatteroni 1998.
Viscardi 19701 in realtà ha proposto di ipotizzare più fasi evolutive intermedie, ma Vatteroni 1998 ha
evidenziato il limite di tale proposta: esse non possono essere puntualmente isolate, anche a causa della
sovrapposizione delle serie più ampie costituitesi in seguito.
98
Tale ipotesi non trova concorde Meneghetti 1999, che ritiene la coerenza delle serie di testi
insufficiente nei testimoni del ramo y.
99
Avalle 1961.
100
Su questa silloge possono essere consultati Debenedetti 1924, Zufferey 1987, Careri 1991 e 1996,
Vatteroni 1998.
101
Vatteroni 1998 precisa che il momento della compilazione potrebbe essere un poco anteriore alla
morte del Cardenal (avvenuta appunto nel ’75) o subito posteriore, non oltre il 1280.
97
476
aver dapprima conosciuto una circolazione autonoma, per poi essere stato integrato in
canzonieri più ampi; in T e D, ad esempio, forma una sezione autonoma, anche a livello
materiale, visto che nel primo caso la mano è diversa e nel secondo è differente anche la
datazione, più tarda. Negli altri testimoni le opere di Cardenal possono costituire
semplicemente il gruppo iniziale (I, K, M) o finale (A) nella sezione dei sirventesi,
mentre in J aprono l’intero canzoniere. Infine in R e in C la distinzione si perde del
tutto. La coerenza della struttura interna, comunque, si è in gran parte salvata, anche se
è divenuta più flessibile in R, C e M, ed è molto alterata in D e T. L’osservazione
dell’ordinamento e lo studio linguistico condotto da Zufferey102, permettono di
sostenere che in alcuni casi sono state sommate più fonti, talvolta solo per integrare
qualche testo, ma in qualche caso in modo sistematico, come avviene in D.
Indubbiamente ci sono vari passaggi intermedi tra la raccolta originaria e la
compilazione dei codici sopravvissuti103. L’analisi della tradizione condotta da
Vatteroni104 ha rivelato ulteriori elementi. Le difformità di D, T ed anche M potrebbero
essere ricondotte all’uso di fonti alternative al “libre” già costituito, nella forma di fogli
sparsi, che rappresenterebbero una fase molto antica della tradizione; T in particolare è
il testimone più attendibile a livello testuale, molto meno invece sul piano strutturale. C,
R, I, K105, J, che sono tra loro molto affini, sembrerebbero partire dal Liederbüch
preparato da Miquel, che però finisce per essere smembrato, il che spiegherebbe le
oscillazioni nell’ordinamento.
Secondo la ricostruzione testuale di Gröber, in gran parte accolta anche da Zufferey106,
il nucleo fondamentale della raccolta consisterebbe in cinquantacinque componimenti,
nove dei quali determinano una prima serie su cui concordano quasi tutti i codici; si
presume che questo sia il gruppo d’apertura della raccolta. Si procede poi con altri
nuclei isolabili, il cui ordinamento interno presenta una buona coerenza anche nei
testimoni non riconducibili (almeno in partenza) alla medesima tradizione. La
configurazione dei piccoli gruppi potrebbe dipendere dalle modalità con cui si sono
conservati e diffusi i fogli sparsi cui deve avere attinto per il suo “libre” lo stesso
Miquel107.
102
Vedi sopra il paragrafo sulla circolazione dei manoscritti.
Per gli antecedenti di T, ad esempio, possono essere contati almeno due passaggi, segnalati da
collocazioni geografiche diverse – provenzale e limosina – prima dell’arrivo dell’antigrafo in Italia, dove
T appunto è stato esemplato.
104
Vatteroni 1998.
105
Questo caso è in realtà ancora diverso, perché il copista comincia la sezione dedicata a Cardenal con
una vida e due sermoni. Non si tratta però di liriche e, secondo Zufferey 1987, proprio la discrepanza
rispetto ai sirventesi, che avrebbero dovuto aprire la sezione, potrebbe aver motivato l’interruzione della
loro trascrizione. Non secondo Vatteroni 1998, il quale riconduce l’aggiunta al ritrovamento di una fonte
ulteriore, forse proprio quei fogli sparsi che rappresentano una fase più antica della tradizione. Che si
tratti di un’aggiunta è comunque certo a livello materiale, come denotano le caratteristiche della
pergamena.
106
Zufferey 1987; per la posizione di Gröber si veda invece Avalle 1961.
107
A livello testuale, Gröber (citato da Avalle 1961) ha cercato di rintracciare l’area della tradizione cui
vanno attribuiti i materiali utilizzati da Miquel de la Tor per la sua raccolta. Questo l’esito: K1+m
(=Tb+M+As).
103
477
Sappiamo dell’esistenza di una raccolta preparata dal “maestro Miquel de la Tor” grazie
a due fonti attendibili. Nel ‘500 il filologo modenese Barbieri ne possiedeva una copia,
che gli servì per la sua raccolta trobadorica incompiuta, intitolata “Origini della poesia
rimata”108, oltre che per le sue collazioni, che sono raccolte nel codice b, oggi alla
Biblioteca Vaticana (Barb. Lat. 4087). Tale testimone è il frutto del confronto tra le
lezioni testimoniate in Z e in M: il suo ritrovamento ha rappresentato una scoperta
fondamentale perché il manoscritto contiene una copia dei testi che il Barbieri ha tratto
proprio dalla raccolta di Cardenal (Z) e dunque offre uno strumento utilissimo per
distinguere questa dalle altre fonti provenzali109 accessibili al filologo110. Tale sezione
consiste di quarantaquattro fogli (definiti b2), preceduti da otto carte (b1)111 su cui sono
riportate citazioni provenzali con traduzione italiana, che corrispondono puntualmente
all’antologia creata dal Barbieri, secondo l’edizione ancora diffusa nel ‘700. L’antigrafo
di questa trascrizione non coincide con le fonti da cui dipende il manoscritto
dell’antologia, di cui si conoscono una minuta (ricchissima di citazioni provenzali) ed
una bella copia.
Già nel ‘400 comunque un testamento spagnolo recava notizia di un manoscritto
associato al nome di Miquel. È molto difficile immaginare che si trattasse del medesimo
codice poi in possesso del Barbieri; non si può invece escludere che la versione
conservata in area iberica fosse l’originale. Anche nell’800 sono giunte dalla Spagna
indicazioni preziose, benché siano state poco sfruttate, che attestavano la riscoperta di
un peculiare codice trobadorico; in realtà la dichiarazione era parzialmente fallace,
poiché il proprietario parlava di un poeta di Montpellier, di cui il codice sarebbe stato
raccolta esclusiva. Bisognerà ipotizzare che egli si sia confuso rispetto alle affermazioni
di Miquel, estensore della silloge (non autore dei suoi testi), che dichiara di essere
originario, appunto, di Montpellier.
La raccolta risulta in parte ricostruibile accostando agli appunti del Barbieri le
testimonianze di altri studiosi, tra cui in particolare Alessandro Tassoni, che usò
l’originale del “libre” o una sua copia diretta per analizzare parte delle citazioni
occitaniche di Petrarca. Va poi ricordato il canonico Gioacchino Plà, che nella sua
antologia settecentesca mescolò varie fonti diverse, tra cui b2 (in una versione in cui era
ancora presente la parte attualmente strappata, benché il codice fosse già parzialmente
mutilo nel ‘600). Il Plà lasciò anche alcune note relative ad un’antica edizione
108
L’opera è rimasta inedita sino al 1790, anno dell’edizione Tiraboschi. Se ne é già trattato, dal punto di
vista della rinascita degli studi provenzali, nel corso del primo capitolo.
109
Si tenga in conto che Barbieri utilizzò quattro fonti, che chiamava “libro di Michele”, “libro in asc
(cioè rilegato con assicelle)” che era copia di M, “libro slegato” e “libro siciliano”. Per qualche
informazione sul destino della biblioteca del filologo, si veda Careri 1991, pp. 330 segg. Debenedetti
1924, che già aveva affrontato la questione del “libre” in riferimento al lavoro del Barbieri (e in più in
generale al suo impegno come provenzalista insieme al Castelvetro, di cui si è parlato nel capitolo primo),
affermò che le indicazioni dello studioso rivelano anche il suo studio di D (citato apertamente), C e K.
Tali codici non paiono però fonti dirette per il Rimario.
110
Il lavoro filologico sui provenzali del Barbieri non si è limitato al Cardenal e alla raccolta. Sappiamo
che egli preparò un piccolo codice coi soli testi di Arnaut Daniel, che studiò il Donatz proençal e che la
parte incompleta del suo Rimario doveva essere dedicata alle strutture metriche trobadoriche.
111
Dunque, b1 e b2 sono distinti solo sul piano filologico, non su quello materiale.
478
corrispondente a b1 e b2, che nell’insieme vengono definite b4. Egli parlava di un codice
di sua proprietà: dev’essere una copia della raccolta del Barbieri, che si intuisce tarda e
di mano poco esperta. Il Plà, inoltre, deve aver avuto in suo possesso materiali
riconducibili ad una duplice tradizione, quella dei codici M e Z (il “libre” appunto), cioè
proprio i manoscritti confrontati dal modenese. La testimonianza di questi canzonieri si
riflette in un terzo manoscritto, definito Mh2112, dove le due tradizioni non si fondono,
ma originano due sezioni distinte, rispettivamente g3 e b3113: quest’ultima diviene
dunque un ulteriore strumento per la ricostruzione della silloge di Miquel. Grazie al
confronto con le citazioni del Barbieri, infatti, è dimostrato che l’ordinamento di Mh2
per i quarantacinque testi derivati da b3 è quello antico; questa sezione del codice
madrileno, inoltre, riempie perfettamente le lacune lasciate dal filologo modenese nelle
sue citazioni. Laddove il Plà parlava di due codici distinti, è economico immaginare che
egli si riferisca alle due parti autonome proprio di Mh2, che può essere così identificato
con la silloge che lo studioso dichiarò in suo possesso.
Il Barbieri ha lasciato, inoltre, alcune annotazioni su una copia, oggi a Venezia, del De
vulgari eloquentia edito dal Trissino, con le quali correggeva gli incipit trobadorici
citati da Dante.
I documenti a noi noti e le loro relazioni possono così essere sintetizzati, secondo la
ricostruzione di Maria Careri114:
LibMich = Z
Barbieri
Origine
ramo spagnolo, noto tra ‘400 e ‘800
b2 + M
note al DVE
Minuta b1
Bella copia
Edizione del Tiraboschi
(annotata dal Plà)
b3
g3
M
Mh2
Antologia del Plà (e)
5.6 Bertran de Born115
Anche per questo celebre trovatore resta traccia di una raccolta autonoma, di certo non
autoriale, ma pensata da un amatore, la quale ebbe circolazione solamente in Italia. Il
copista sceglie numerosi componimenti del poeta, misti per genere, e poi in gran parte li
112
Il codice è conservato a Madrid e reso riconoscibile da due indicazioni sul dorso, “trobes en lemosin” e
“cod de poesias provenzales”. Comprende sessantaquattro testi lirici, alcuni dei quali doppi, e tre vidas; è
organizzato in due parti: una è imperniata intorno a Peire Vidal, l’altra è più varia. La presenza delle rime
doppie è rilevante, perché ha permesso un lavoro critico (e a volte una vera e propria contaminazione)
all’estensore di e.
113
Dovrebbe corrispondere alle carte 7-15 della raccolta di Miquel, in base alla sua ricostruzione.
114
Careri 1991.
115
Per questo studio si veda Bertolucci-Pizzorusso 1991.
479
commenta in prosa. Ne sono testimoni F, I e K; nei “gemelli” la disposizione è peculiare
perché il commento si trova alternativamente prima e dopo i testi, probabilmente per
rispettare il generale criterio di impaginazione, mentre in F la parte in prosa è sempre
anticipata, sostituendo la razo. La scelta del copista di I e K è evidenziata
dall’inchiostro, nero per i versi (cui sono accomunate anche le razos, per le quali la
tradizione non presenta nessuna anomalia rispetto al restante patrimonio trobadorico) e
rosso per la prosa: l’obiettivo è mantenere l’alternanza. È un vincolo determinante per
l’estensore, e piuttosto faticoso, poiché lo costringe continuamente a inserire rimandi
per chiarire quale prosa si riferisca a quale componimento (né mancano errori e
cancellature).
La produzione di Bertran de Born offriva la possibilità di evidenziare un’uniformità al
contempo tematica e di genere, nel segno del sirventese. Si tratta di una tendenza e non
di una regola; tuttavia la reale oscillazione tra i generi viene ignorata con una precisa
scelta strutturale: le canzoni, infatti, non sono presentate come tali, per dare
l’impressione che non ci sia alcuna discrepanza nell’insieme. Un altro criterio risulta
evidente se si considerano insieme a Bertran, l’autore principale, gli altri poeti che gli
sono accostati: anche in tal senso si cerca di insistere sull’unità di forma e contenuto. Ne
consegue ad esempio l’associazione tra l’opera poetica e l’estrazione sociale nobile,
secondo una focalizzazione che ben si accorda con le vicende e i problemi socio-politici
del Veneto del tempo; sulla base dei testimoni che sono sopravvissuti, si può presumere
che la raccolta sia stata preparata proprio in quest’area.
La forma prosimetrica che caratterizza la silloge ha un valore storico particolare. È vero
che in questo caso assume una configurazione gerarchizzata, per la preminenza delle
parti scritte dall’autore rispetto a quelle preparate dal suo estimatore; tuttavia proprio
tale soluzione ha favorito la creazione dei primi veri “libri” lirici organizzati in una
macrostruttura116.
6. La vicenda peculiare di due sillogi: Bernart Amoros e il conte di Sault
È utile trattare autonomamente due raccolte peculiari, non tanto per il contenuto (sono
entrambe classiche sillogi trobadoriche), quanto per la loro storia. Da una parte, il
canzoniere compilato da Bernart Amoros è un raro esempio di raccolta ragionata, anche
se questa volta non dedicata ad un singolo autore, quanto alla tradizione nell’insieme.
Dall’altra, il codice in origine appartenuto al conte di Sault è stato poi in possesso di un
personaggio illustre ed importante per l’evoluzione della provenzalistica, il
Nostredame117. I due manoscritti sono perduti, ma ricostruibili; entrambi sono legati alla
Provenza e probabilmente vi rimasero per un certo periodo, aspetto determinante
rispetto alle possibili letture petrarchesche.
116
117
Ovviamente l’esempio per eccellenza è la Vita nova di Dante.
Il “biografo dei trovatori” è stato ampiamente citato nel corso del primo capitolo.
480
6.1 Il canzoniere di Bernart Amoros
Bernart Amoros era un monaco alverniate, vissuto a cavallo tra ‘200 e ‘300, noto per
aver preparato una silloge trobadorica, definita a118, in cui si autonominò esplicitamente
quale estensore. Egli dichiarò di aver viaggiato molto in Provenza, di aver conosciuto
numerosi trovatori e di aver letto con attenzione le loro opere; affermò infine di aver
mantenuto il medesimo puntiglio durante la copiatura dei testi. Indubbiamente la sua
appartenenza linguistica all’area occitanica è molto significativa; l’antologia che ci ha
tramandato dimostra inoltre che egli possedeva un buon livello culturale.
Il suo canzoniere non è stato organizzato in base ai generi, ad eccezione delle tenzoni,
che costituiscono un gruppo a parte a conclusione del libro; è ipotizzabile che tale
struttura fosse già propria del modello da cui sono tratti i testi. Nella prima metà circa si
trovano numerosi componimenti in testimonianza unica; la sezione delle tenzoni è
invece strettamente imparentata con il codice trobadorico O, come rivelano puntuali
coincidenze testuali. Tale rapporto motiva qualche dubbio a causa della notevole
distanza geografica tra le due sillogi, in quanto O è italiano e trecentesco, mentre
Bernart scrive forse già negli anni ‘70 del Duecento. È difficile sostenere che il codice
di Amoros sia arrivato in Italia così presto, ma solo accettando questo passaggio si può
pensare che O sia copia parziale del codice del monaco.
Non è chiaro, per altro, in quale ramo della tradizione vada collocata la silloge, in cui è
molto probabile che si intreccino più influenze; si può però ipotizzare che una delle
fonti di Bernart fosse imparentata con il codice del conte di Sault, che quasi certamente
conteneva alcuni testi119 ora tramandati solo dalla silloge di Amoros. Va evidenziata
inoltre la connessione di a con altri canzonieri a proposito delle sezioni dedicate ad
alcuni autori: I e K per Bonifaci Calvo e Lanfranco Cigala, A per Daude de Pradas. Si
parla però sempre soltanto di affinità, e non di identità o derivazione diretta.
L’originale della raccolta composta da Bernart Amoros si è conservato sino alla fine del
‘500: apparteneva a Lione Strozzi e lo utilizzò Piero del Nero per collazionare e
correggere la copia dello stesso codice a che Jacques de Tarascon aveva approntato per
lui. Oggi ci resta solamente quella copia, smembrata – non si sa in quali circostanze – in
due parti, il frammento detto “Campori”, perché appartenuto all’omonimo marchese e
oggi conservato alla Biblioteca estense a Modena, e il frammento della Biblioteca
riccardiana (ms 2814) a Firenze.
Nella copia del Tarascon mancano numerosi componimenti, che però del Nero poté
leggere nell’originale. Egli infatti ne collazionò trentotto annotando le varianti su due
altri codici, Fa e Ca. Tuttavia un indice di capoversi ritrovato alla Biblioteca di Firenze
mostra che i componimenti mancanti sono in realtà più numerosi e pari a centodieci. È
stato così possibile ricostruire, nonostante alcune discrepanze testuali, un’ulteriore fase
di lettura svolta da del Nero sull’originale (senza a quanto pare collazionare i testi per
iscritto), a confronto con i codici detti Gaddi e Adriani. Proprio le loro tavole
118
119
Per la bibliografia sulla raccolta, si vedano Bertoni 19111 e 19112.
Della ricostruzione del codice si tratterà nel corso del paragrafo successivo.
481
consentono la piena ricostruzione della raccolta perché del Nero le ha copiate in fondo
al complemento Campori. Inoltre, alcuni testi erano probabilmente illeggibili, perché
sbiaditi, altri erano doppi. In generale, è probabile che Tarascon abbia in alcuni casi
trascurato le richieste o le indicazioni di del Nero nel preparare la sua copia. A livello
testuale comunque la sua qualità è buona, rivelando un copista preciso, ma poco colto e
preparato; l’origine dei suoi errori è dunque abbastanza semplice da comprendere, tanto
da favorire persino la valutazione di qualche guasto già presente nell’antigrafo usato dal
Tarascon.
6.2 Il canzoniere del conte di Sault
Più volte è capitato di citare il manoscritto noto semplicemente come “del conte di
Sault” perché a lui appartenuto; questo codice è sì perduto120, ma ricostruibile sulla base
di alcune citazioni, studiate in particolare da Camille Chabaneau e Joseph Anglade121. I
documenti fondamentali per tale impresa filologica si devono al Nostredame122 (15221577) noto per la sua fantasiosa e letteraria raccolta di biografie trobadoriche123, che lo
vede ben più novellatore che erudito. Tuttavia è importante che egli ricordi la lettura del
codice scomparso, sia nel proemio alle sue “Vite”, sia in un’epistola d’argomento
eterogeneo, sia in alcune pagine manoscritte conservate oggi presso la biblioteca di
120
Alcuni studiosi, tra cui Meyer, hanno cercato di identificarlo con alcuni manoscritti sopravvissuti, ma
senza successo: B ed M sono troppo piccoli, K e A erano in Italia nel '500, quando Nostredame leggeva il
codice del conte in Provenza, mentre I, che sarebbe coerente sia per la quantità di testi che tramanda sia
per la sua storia, appare non sovrapponibile a livello testuale.
121
Per la ricostruzione del codice si vedano Chabaneau-Anglade 1911 e Anglade 1970.
122
Tra le sue opere andranno ricordate, oltre alla nota antologia biografica, un’agiografia dedicata a S.
Hermentaire, alcuni componimenti in versi, il glossario provenzale di cui si dirà a proposito dei fogli
conservati a Carpentras (e in copia ad Aix-en-Provence), nonché una cronaca della Provenza redatta in
duplice lingua. Tale interesse storiografico si riflette anche nelle “Vite”, in cui lo scopo di far conoscere
l’antica letteratura è rilevante, ma non principale; l’intento cronografico è motivato dall’orgoglio di
provenzale, oltre che dal desiderio di far piacere ai potenti locali (non mancano tentativi di far derivare le
famiglie nobili del suo tempo dai trovatori più illustri). Nostredame ha scritto prevalentemente in età
matura: benché la cronologia delle diverse opere non sia chiara (soprattutto in merito alle differenti
versioni della raccolta biografica), è certo che esse sono tutte vicinissime e tarde.
123
Le invenzioni dell’autore riguardano soprattutto i trovatori per cui non aveva scoperto fonti
biografiche abbastanza ricche ed interessanti. La soluzione più frequente prevedeva la rielaborazione in
forma narrativa di suggestioni presenti nell’opera poetica; laddove essa offrisse spunti troppo limitati,
Nostredame procedette riunendo più testi eterogenei sotto il nome di un unico autore, cosicché ne
risultasse un insieme sufficientemente elaborato e intrigante. Un peculiare spazio di invenzione gli era
inoltre concesso dalle fonti in altre lingue (soprattutto italiano), traducendo le quali trovava facilmente
spazio per inserire dettagli fittizi. Inoltre egli contestualizzò nel passato fatti e personaggi (poeti, in
particolare) della Provenza del suo tempo. Non andrà dimenticata l’invenzione di numerose “corti
d’amore”, ispirata ad alcune manifestazioni di questo tipo effettivamente trobadoriche, ma con la licenza
di elencarne partecipanti e avvenimenti fittizi. Il contenuto spesso fumoso è mascherato con sapienza,
grazie ad uno stile convenzionale, spesso addirittura formulare. Per quel che concerne la scelta degli
autori e dei testi da citare, l’intento dell’estensore non è sempre chiaro, né aiutano le fluttuazioni che
l’opera ha conosciuto nel corso delle sue diverse redazioni. È evidente comunque che il Nostredame si è
posto costantemente il problema dell’importanza dei poeti da presentare, sulla base della qualità e della
quantità dei materiali disponibili per ciascuno di essi.
482
Carpentras. Del medesimo codice resta infine la testimonianza posteriore ed autonoma
di Reimond de Soliers124, che però nulla aggiunge alle precedenti.
Il problema principale rispetto alla testimonianza del Nostredame è la sua reticenza sulle
fonti che ha utilizzato: la principale dovrebbe essere una silloge trobadorica di cui si è
salvata una copia presso la Biblioteca Riccardiana (con segnatura 2814); egli ha poi
utilizzato la silloge di Bernart Amoros, probabilmente nella veste originaria, e forse il
codice f. È però evidente che egli ha fatto riferimento anche al codice del conte125 ed
anzi Bartsch126 ha sottolineato come proprio la figura storica del nobile proprietario
possa essere stata d’ispirazione per due autori fittizi citati nelle “Vite”. A queste
informazioni, il Nostredame aggiunse un’ulteriore indicazione: sarebbe esistito un
secondo manoscritto appartenuto al conte, che potrebbe essere stato tanto simile ad a o
ad f, fonte sicuramente importante e al tempo di proprietà del biografo, da renderne
superflua la citazione127. Molto probabilmente il Nostredame ha utilizzato vari altri
codici, di cui alcuni perduti: affini di g, O, I-K-d ed S. La sua mano si riconosce nelle
postille di T, in cui però non ci sono testi biografici, ma solo poetici.
Questi rapporti intricati a livello di tradizione non comprendono però alcuna
derivazione diretta: Chabaneau ha evidenziato, ad esempio, come il codice di Sault non
possa essere identificato con l’antigrafo del Riccardiano, cioè la fonte primaria per la
raccolta biografica. Sulla base dei fogli di Carpentras (una versione manoscritta delle
“Vite” più una lista di testi128 che il Nostredame aveva approntato come materiali
124
Soliers, ricordato per una cronaca della Provenza, trasse una lista di testi e autori dalle “Vite” del
Nostredame; un primo problema è rappresentato dalla difficoltà di capire quale versione dell’opera
leggesse. Secondariamente, questa lista non combacia esattamente con l’antologia: presenta varie lacune e
per contro aggiunge una quindicina di nomi che vi erano assenti. Alcuni indizi lasciano pensare che
Soliers si riferisse ad una redazione anteriore a quella definitiva – infatti parla al futuro della
pubblicazione – il che spiegherebbe la discrepanza nel numero di nomi citati: mentre il Nostredame
doveva per il momento limitarsi a quei poeti di cui aveva sufficienti notizie per le sue biografie, Soliers,
autore di una banale lista, poteva estendere i propri riferimenti.
125
Questo manoscritto deve aver costituito in particolare la fonte primaria della prima redazione
dell’antologia, conservata nei fogli di Carpentras in cui si legge anche il glossario. Gli altri riferimenti per
quella versione paiono gli antichi commenti alle citazioni occitaniche in Dante e Petrarca. Proprio la
preminenza del manoscritto di Sault nell’ambito di una redazione alta consente l’ipotesi che Nostredame
abbia avviato il suo lavoro di biografo con la traduzione delle vidas contenute in quel codice.
126
Per le sue posizioni si vedano le ricostruzioni in Chabaneau-Anglade 1911 e Anglade 1970.
127
Il discorso sulle fonti del Nostredame è in realtà ancor più complesso, poiché egli dichiarò la propria
dipendenza dai testi di tre religiosi. Innanzitutto il Monge de Montuajar, cioè il trovatore noto come
monaco di Montaudon, di cui Nostredame imita puntualmente (anche se con qualche inesattezza) un
sirventese denigratorio dei poeti suoi contemporanei. Meno importante è il richiamo a Saint Cesari,
monaco del medesimo monastero, identificato con Uc de Saint Circ. Entrambi sono fittiziamente riferiti
dall’autore all’ambiente provenzale. Infine, il Monge des Isles d’Or, cioè lo stesso Soliers, definito
addirittura fonte principale. Dobbiamo dunque pensare che il rapporto tra i due rispetto alla condivisa
passione per il trobadorismo sia reciproco? Secondo Anglade 1970 si può cogliere una spiegazione nella
figura di Denys Faucher, che potrebbe essere l’antecedente storico di questo personaggio, sorta di
copertura letteraria della fonte reale. Faucher fu autore di opere storiografiche, ma con approccio molto
simile a quello del Nostredame: nelle sue opere si trovano talvolta le medesime falsificazioni. Il contatto è
molto stretto, sino alla vera interpolazione. Infine, Nostredame citò altri personaggi che dovrebbero dare
autorevolezza al suo racconto: figure probabilmente inventate, di cui non resta alcun dato documentario.
128
Questa lista è detta provenire proprio dal manoscritto perduto, benché siano indubbie varie
integrazioni; Nostredame ne lascia anche una seconda, inserita nella versione di Aix dei medesimi fogli, e
483
preparatori) e del glossario129 che egli aveva pensato per lavorare alla medesima opera
biografica, lo studioso ha ricostruito innanzitutto quali componimenti e in che ordine
(secondo un’organizzazione per autore) fossero compresi nella silloge di Sault,
nonostante il fatto che i richiami non siano sempre chiari, anche per l’estrema sintesi cui
sono talvolta ridotte le citazioni130. Si noti che per la sua ipotesi, Chabaneau si basa solo
sui riferimenti espliciti del manoscritto (che poi saranno assenti nella versione stampata
delle “Vite”), mentre non accoglie quelli probabili, ma non accertati, che è possibile
estrapolare dai versi inseriti all’interno della narrazione biografica vera e propria.
A livello testuale e organizzativo, il codice del conte appare strettamente imparentato
con la raccolta di Bernart Amoros; un aspetto di somiglianza particolarmente
significativo si nota nella sezione delle tenzoni. Non mancano però rilevanti segni di
distinzione, come l’assenza di alcuni testi o di intere sezioni d’autore, e la divergenza di
alcune attribuzioni; devono essere state piuttosto diverse anche le vidas. È dunque
presumibile che a e il codice di Sault abbiano un antenato comune, discendendone però
non troppo da vicino, su binari abbastanza divaricati. Proprio tale somiglianza, inoltre,
potrebbe spiegare le affermazioni del Nostredame in merito all’esistenza di un secondo
manoscritto appartenente al conte, di cui al momento non si sa nulla. In effetti potrebbe
trattarsi di un discendente, magari in parte divergente, della silloge di Bernart Amoros,
che pure – lo si è visto – il Nostredame conosceva. Un’altra ipotesi degna di attenzione
è che egli nominasse come secondo volume semplicemente un secondo tomo, una
seconda parte, della medesima raccolta, in origine unitaria131.
A livello materiale, il codice del conte è descritto come ampio, pergamenaceo, decorato
con inchiostri oro e azzurro, e con i simboli del proprietario. Gli autori che
comprendeva sono più di ottanta, per lo più d’origine illustre, con una certa attenzione
anche ai personaggi femminili. La lingua è esclusivamente d’oc. La struttura interna non
deve aver comportato nulla d’originale, ma le tipiche caratteristiche delle grandi sillogi
trobadoriche.
6.3 Canzoniere N
Sarà forse utile qualche informazione su un altro codice che potrebbe aver attraversato
la biografia petrarchesca, il canzoniere mantovano N. Oltre all’origine anche la
appunto nota come “tavola di Aix”. Essa ha un notevole valore, poiché testimonia di una fase redazionale
anteriore a quella cui si riferiscono i fogli di Carpentras.
129
Nel manoscritto di Carpentras ne restano due diverse redazioni. La prima si riduce a soli tre fogli, che
spesso comprendono un semplice elenco, sprovvisto addirittura delle traduzioni; la seconda è quella più
rilevante, perché più ricca e soprattutto perché contrassegnata dagli espliciti riferimenti al codice di Sault.
130
La lista è contrassegnata da vari simboli, non sempre semplici da sciogliere; in particolare non è chiaro
il criterio per cui a volte essi mancano del tutto.
131
Anglade 1970 legge i documenti in piena coerenza con quanto aveva fatto Chabaneau, allontanandosi
dalla sua ipotesi solo per proporre di identificare il secondo codice con la raccolta di Bernat Amoros.
Bartsch, invece, non concorda affatto con questa ricostruzione: i due codici citati sarebbero del tutto
distinti, l’uno fonte centrale per Nostredame, l’altro solo aggiuntiva; il primo sarebbe inoltre l’antigrafo di
a.
484
circolazione è stata in prevalenza veneta (anche se non in modo esclusivo) almeno sino
al ‘500.
La silloge comprende tutti i trovatori di certo noti a Petrarca132, ad eccezione di
Guilhem de Cabestanh. È particolarmente importante la sezione dedicata a Bernart de
Ventadorn (in effetti molto significativo anche nell’orizzonte petrarchesco) per
l’abbondanza di aggiunte e postille a margine: due mani italiane, una trecentesca e una
quattrocentesca hanno arricchito in questo modo tutto il codice. Un’altra peculiarità del
codice si trova alla carta 52v (o 53v a seconda delle numerazioni) dove è inserito un atto
imperiale di cessione della cittadinanza: l’autorità era quella di Carlo IV, il beneficiario
Giacomino Painelli con tutta la sua discendenza; a chiedere questo intervento era
proprio Andrea Painelli da Mantova, corrispondente del Petrarca133. Tale connessione
non prova nulla, nello specifico, ma invita a porsi ancor più domande su questo
personaggio, come suggerisce già Frasso134: sarà stato anche rimatore volgare? Ci
saranno stati incontri e discussioni di carattere letterario con Petrarca?
7. Il contesto della produzione tarda135
Il declino della poesia trobadorica è certamente connesso alla contemporanea decadenza
della regione provenzale, che perse la sua indipendenza non solo amministrativa, ma
anche linguistica e culturale. Non si intende tuttavia affermare che tra ‘300 e ‘400 il
livello della vita intellettuale nel Midi fosse sensibilmente inferiore alla media della
cristianità occidentale, dunque senza considerare i centri di particolare eccellenza, quali
Parigi, Oxford e Bologna. Rispetto alle materie di studio, agli strumenti disponibili e
alla preparazione dei maestri il quadro d’insieme era piuttosto omogeneo, grazie anche a
frequenti scambi e spostamenti. Nell’Europa meridionale erano in ritardo e meno diffusi
gli studi più teorici e astratti, dedicati alle arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica)
e caratterizzati da metodi specifici. Al nord veniva di gran lunga preferita una
prospettiva speculativa, mentre al sud dominavano discipline che offrissero un esito
concreto e professionale, come il diritto e la medicina136.
Tali aspetti di uniformità non cancellano le effettive difficoltà che l’intellighenzia
provenzale doveva affrontare. Innanzitutto, la nobiltà meridionale versava in uno stato
di grave crisi137 e non è certo un dato da sottovalutare, dato che è questa la realtà sociale
e culturale in cui si era sviluppata la tradizione trobadorica, in riferimento a gusti ed
aspirazioni ben riconoscibili138. Già nel tardo ‘200 i mecenati erano pochi e concentrati
nelle corti più piccole, illuminate, ma politicamente marginali; esse divennero sempre
132
Così Frasso 1974, probabilmente in riferimento al Triumphus Amoris.
Per questo personaggio si veda il paragrafo dedicato agli “amici e corrispondenti”.
134
Frasso 1974; tale questione è già stata affrontata con maggiore dettaglio nel primo capitolo.
135
Sul tema in generale si vedano Jeanroy 1949 e Meyer 1871.
136
Anche se in riferimento ad un discorso diverso, questi aspetti sono stati già introdotti nel capitolo
precedente, nel paragrafo dedicato all’educazione scolastica e universitaria.
137
“La guerre avait ruiné la plupart des grands seigneurs du Midi” Anglade 1927, p. 156. Ma anche il
fasto e le spese eccessive hanno avuto la loro parte (p. 200).
138
Mi riferisco alle interpretazioni sociali che sono state proposte da vari studiosi rispetto alla nascita
della cultura cortese e trobadorica; si vedano in particolare Köhler 1991 e Duby 2002.
133
485
più isolate e le loro manifestazioni culturali via via più flebili, sino a scomparire. I centri
di Rodez139, Foix, Comminges, Astarac, Ile-Jourdain, Narbona individuano l’area
geografica in cui si è sviluppata l’ultima fase del trobadorismo, tra Ruergue,
Linguadoca, Guascogna e ovviamente Tolosa, nel sud-ovest della Francia. Al di là
dell’area occitanica, vanno inoltre considerate la corte castigliana di Alfonso X, quelle
aragonesi di Giacomo I e Pietro III, quella italiana degli Estensi, e più in generale l’area
trevigiana in Italia e la Catalogna. La poesia trobadorica si mantenne perciò in vita, per
quanto in una fase di indubbio declino, in tutte le zone in cui la sua diffusione e il suo
splendore avevano avuto gli esiti più significativi.
La resistenza dei piccoli centri dimostra che i cambiamenti culturali non si devono
tanto, o almeno non subito, ad una netta evoluzione nelle preferenze del pubblico:
laddove si manteneva attivo un ambiente affine a quello originario, la tradizione cortese
rimaneva attuale, e per un certo periodo non le mancò una certa vivacità. Le sorti dei
singoli generi rivelano la medesima dipendenza dal contesto sociale: la canzone
amorosa, che era nata in modo più diretto dal sistema feudale, conobbe la crisi
maggiore, mentre i sirventesi civili e polemici, legati agli avvenimenti storici, ma più
facili da adattare alle diverse situazioni, furono apprezzati per gran parte del ‘200.
L’importanza essenziale dell’orizzonte cortigiano (in presenza e poi in assenza)
ridimensiona il ruolo della crociata140, delle violenze in genere e delle lotte politicoreligiose141: tali fenomeni certamente accelerarono e favorirono le trasformazioni sociali
e quindi culturali, che però erano in atto già in precedenza.
D’altronde è ragionevole dubitare che la vita culturale di un’intera regione, per altro
particolarmente illustre, fosse vincolata ad un singolo e limitato sistema di garanzie e di
pubblico. Da qui l’interesse per la riflessione di Meyer in merito alle responsabilità
francesi: la dominazione settentrionale potrebbe essere stata più determinante di quanto
si pensi142. Non sono in causa tanto la violenza bellica o l’imposizione di un idioma
estraneo come lingua dominante, visto che l’aristocrazia meridionale usò quella natia
ancora per lungo tempo, quanto l’affermazione di una nuova e diversa tradizione
letteraria, quella oitanica; essa si rivolgeva per altro ad un pubblico e ad una cerchia di
intellettuali molto limitati. I tentativi di recuperare la tradizione trobadorica come realtà
viva e attuale (si pensi a Tolosa e al Concistori del Gai Saber) rappresentavano in tal
senso anche la speranza di riguadagnare autonomia. Eppure, proprio il carattere ormai
borghese che contraddistingueva tali esperienze dimostra che il cambiamento, per
quanto graduale, era irreversibile.
139
Anglade 1927 (p. 196 segg.) ha evidenziato la particolare importanza di questa area nell’età della
decadenza sino al primo ‘300. Vi si tenne anche uno dei primi (o forse il primo) concorso poetico,
preludio all’organizzazione del Concistori: lo vinse Guiraut Riquier con una rappresentazione allegorica,
che anticipa la sostituzione definitiva della materia sacra a quella profana in epoca tarda.
140
Sulle devastazioni dovute alla crociata contro gli albigesi, in stretta connessione con le reazioni dei
trovatori, si veda Anglade 1927, pp. 153 segg.
141
Sull’Inquisizione e in particolare la posizione di alcuni trovatori si veda Anglade 1927, pp. 157 segg.
142
Anglade 1927 osserva parallelamente le scarse simpatie che i trovatori rimasti in area occitanica
dimostrano ai nuovi regnanti (p. 160).
486
Il tardo Duecento e il primo Trecento rappresentarono insomma una fase di passaggio di
fondamentale importanza per la cultura trobadorica. Gli elementi di dispersione e
confusione furono numerosi: in tal senso il clima di violenza deve aver avuto notevole
importanza. Ben si comprende quanto disastrosa sia stata la perdita di documenti e testi,
a danno anche della produzione trobadorica classica: Meyer ipotizzò che già sul finire
del ‘200 non si conoscesse molto più di ciò che leggiamo oggi, e si è visto come le
posizioni di Avalle e Pulsoni siano in sostanza concordi143. Né è rimasto molto della
produzione di quegli anni: le scarse raccolte sopravvissute sono in gran parte
sovrapponibili, forse perché dipendenti dalla medesima fonte, e gran parte dei testi è
nota in testimonianza unica, a riprova della loro scarsa diffusione.
Intanto la figura del poeta cambiava radicalmente: non si trattava più di professionisti
che vivono del loro talento, ma di dilettanti appassionati, che si mantenevano con varie
attività e che spesso disponevano di una preparazione culturale mediocre. La bassa
qualità della composizione ne era in parte conseguenza144; a questo si aggiungeva uno
sguardo spesso limitato, chiuso nell’orizzonte locale, come dimostrano le sillogi
preparate nel ‘300, nemmeno troppo avanzato.
Appare peculiare anche l’appartenenza sociale dei nuovi trovatori: con l’eccezione del
Concistori originario, almeno nei primi anni dopo la sua fondazione, il recupero della
tradizione trobadorica vide protagonisti moltissimi rappresentanti della realtà
ecclesiastica, in primo luogo monastica; in tal senso sono molto rappresentative le
esperienze catalane, come indica anche la composizione del codice Sg, avvenuta in
ambito monastico.
Alle condizioni contestuali può infine essere ricondotta un’ulteriore caratteristica della
produzione tarda: il pessimismo. I poeti si concentrarono soprattutto sulla decadenza
della società, sui problemi politici e militari dell’aristocrazia, sulle condizioni della
Chiesa. Non di rado la critica si fece aperta polemica o addirittura istigazione alla
rivolta.
7.1 La tradizione della produzione tarda
A testimonianza della produzione tarda restano in particolare quattro manoscritti, due
dei quali riuniti sotto l’indicazione di Registre de Cornet e legati all’area tolosana. Non
se ne conosce la storia fino al ‘700 e il loro stato non è affatto buono. Il terzo codice è
noto come Sg, originario di Barcellona e mutilo, ma la prima parte indica chiaramente
che si tratta di un oggetto di lusso; la mano è trecentesca e catalana. Sono tutte raccolte
fortemente localizzate a livello regionale, anche se i riferimenti proposti da Sg sono più
ampi, visto che comprende anche una sezione antologica classica. Il quarto manoscritto
è quello di Ripoll, anch’esso conservato a Barcellona: qui la sezione trobadorica è molto
143
Se n’è parlato all’inizio del presente capitolo.
A questo aspetto può in parte essere associata la valutazione dei diversi strati sociali presso cui si era
conservata memoria della tradizione letteraria: una varietà molto maggiore rispetto a quella delle origini.
144
487
limitata e in gran parte d’argomento grammaticale più che poetico (il resto della
raccolta, poi, riguarda opere latine)145.
8. Il “Breviari d’amor146
Lo stato di decadenza che si è descritto viene avvertito già alla fine del ‘200: i primi
tentativi di invertire tale tendenza sono infatti ben precedenti alla fondazione del
Concistori. Al biennio 1288-89, ad esempio, risale il proposito di ridefinizione e
rinnovamento dell’esperienza trobadorica elaborato da Matfre Ermengau (morto dopo il
1320). Egli si impegnò nella compilazione del Breviari d’amor, in cui spiegava i
fondamenti della tradizione occitanica a beneficio di aspiranti poeti ancora inesperti,
affinché quella stessa tradizione potesse rinascere.
L’opera è organizzata in due parti; la struttura stessa riflette l’atmosfera tipica del Midi
sotto la dominazione francese e l’influsso dell’Inquisizione, anticipando, inoltre, alcune
caratteristiche essenziali dell’approccio tolosano. La prima sezione si apre, infatti, con
un’ampia spiegazione della creazione del mondo su basi teologico-scientifiche. La
seconda si focalizza sulla tradizione poetica e sulla spiegazione delle sue caratteristiche;
in realtà la trattazione assume la forma di un processo alla poesia trobadorica e rivela
che l’autore ha semplicemente declinato in termini letterari la consueta predicazione
morale coeva. Il suo scopo era guidare il lettore verso una conversione in chiave prima
generale (come cristiano) e poi particolare (come poeta): sono gli stessi due aspetti
secondo cui è affrontata la critica alla decadenza del presente (società e cultura).
In questo cosiddetto “trattato pericoloso”, Ermengau si confrontava con vari detrattori
della poesia antica, avvalendosi di numerose citazioni dal corpus occitanico. Gli
attacchi più virulenti erano destinati alle donne e ai giullari, mentre i trovatori erano
distinti sul piano sociale, benché colpevoli di aver favorito con le loro parole il rischio
di peccare. L’autore distingueva se stesso e la sua opera da tutte queste categorie grazie
alla sua volontà di critica universale, che lo salvava dal condividere le colpe altrui. È
chiaro che il peccato dei poeti concerneva la parola. La soluzione consisteva dunque nel
ritorno alla parola pura, edenica; ma come sradicare la tradizione poetica da quei
contenuti colpevoli che le erano così propri? A fronte di tali interrogativi morali,
Ermengau sviluppò una vera e propria palinodia: quella società e quella poesia tanto
deprecate potevano essere recuperate nella prospettiva di un cambiamento, di una vera
rinascita, anche morale. Solo in tal senso potevano essere elogiate. Il percorso evolutivo
si spiegava in riferimento all’amore, cioè il principio unificante della raccolta e del
mondo. Da una parte, la poesia trobadorica cantava un amore sbagliato, che nell’ottica
del servizio feudale stravolgeva la volontà di Dio (e del suo amore-carità): l’amore
terreno fra uomo e donna doveva essere finalizzato alla procreazione. La spinta carnale
tipica di tanta letteratura occitanica, perciò, non poteva in alcun modo essere salvata.
Inoltre, l’amore era il principio unificante e vivificante dell’uomo e quindi lamentarsene
145
146
Il riferimento essenziale per tali aspetti resta Jeanroy 1949.
Si veda in particolare Galent-Fasseur 2000.
488
come fanno i poeti-vassalli non poteva che essere un errore; anzi, proprio i loro pianti
continui erano una probabile causa dell’esaurimento della loro cultura.
Ermengau non poteva però rinunciare a salvare la tradizione cortese, almeno nei suoi
aspetti più innocui: prova di tale profondo desiderio è l’abbondanza delle citazioni, da
cui nasceva una raccolta vera e propria, al di là della funzione argomentativa per cui
erano introdotte. Tuttavia, perché la poesia provenzale rinascesse realmente, anche se
per breve tempo, erano necessarie una riorganizzazione e una rilettura complessiva della
tradizione, che si sarebbero delineate solo con il Concistori a Tolosa.
9. Le grammatiche del provenzale147
Il ritardo con cui si sviluppano le grammatiche volgari si spiega facilmente in relazione
all’assoluta preminenza e autorevolezza del latino, che accentra gli studi linguistici in
quanto “grammatica” per definizione. E la concezione del volgare come lingua naturale
e spontanea resta profondamente radicata anche quando si afferma un canone letterario
romanzo ampiamente riconosciuto.
Il volgare occitanico è il primo ad aver beneficiato di una grammaticalizzazione, un
impegno che si sviluppa già della fine del XII secolo. Tale precocità è particolarmente
notevole se si pensa che per una codificazione delle altre lingue romanze bisogna
attendere almeno sino al ‘400. Indubbiamente il caso provenzale conosce il vantaggio
rilevantissimo di una letteratura e quindi di una lingua non solo istituzionalizzate ed
autorevoli, ma anche caratterizzate da una diffusione internazionale, che richiede un
apprendimento scolastico non troppo diverso da quello del latino (qualcosa di simile
avviene poco più tardi per il francese antico) e dunque strumenti adeguati. Per questo
motivo, sembra utile e rilevante occuparsi della produzione manualistica occitanica, la
cui funzione – lo si vedrà – è strettamente legata alla composizione poetica,
rappresentando un elemento di mediazione rispetto all’eredità trobadorica148. Le
grammatiche hanno inoltre influenzato altri strumenti utili alla lettura quotidiana della
poesia cortese, non solo intesa come studio, quali i glossari: la loro diffusione o per lo
meno il loro influsso indiretto potrebbero essere più pervasivi di quanto si immagini.
A metà ‘200 i manuali del provenzale hanno già una diffusione piuttosto ampia ed
inoltre dimostrano una autonoma consapevolezza nel rapporto con i modelli latini. Al
primato cronologico va aggiunta la peculiarità di un approccio enciclopedico, che
assomma cioè competenze grammaticali, retoriche, metriche, prosodiche e musicali. La
varietà delle considerazioni proposte si giustifica in relazione allo scopo di tali
compilazioni, che intendono insegnare una concreta pratica poetica. Ciò non toglie che
il modello di partenza provenga dal Donatus latino, il quale appare talmente autorevole
147
Si rimanda ai due paragrafi successivi per la trattazione di alcune opere dallo statuto storico e autoriale
peculiare, le importantissime Leys d’amor e i trattati grammaticali di Raimon de Cornet, che completano
la panoramica degli studi grammaticali relativi al trobadorismo tardo.
Alcuni rimandi bibliografici essenziali sono Marshall 1969, 19721, 19722, 19723 e 19724, Percival 1975,
Swiggers 1989 e 1997, Lione 2000.
148
Tale legame tra grammatica e poetica che giustifica per certi aspetti un’associazione tra latino e
volgare è stato anticipato nel capitolo precedente, in merito ai manuali scolastici.
489
da non essere messo in discussione nemmeno in materia di grammatica volgare149. I
primi trattati romanzi hanno caratteristiche espositive comuni: domina la morfologia
rispetto alla sintassi, non è particolarmente sviluppata la sezione di fonetica, che può
perfino essere assente, particolare attenzione è invece rivolta alle categorie semantiche.
Non sempre è presente un corpus di esempi, ma è essenziale l’analisi di un testo che
fornisca un paradigma di riferimento. La funzione di tali opere è strettamente
pragmatica, devono infatti fissare una lingua secondo la forma indicata da documenti
autorevoli, che sono sostanzialmente rintracciati in ambito letterario; richiami diversi
sono rari nella riflessione sul provenzale, anche se non impossibili, tratti ad esempio
dall’orizzonte giuridico. È frequente, benché non necessario, che l’autore sia
madrelingua; per i destinatari vale piuttosto il contrario. Proprio sulla base del pubblico,
oltre che dello scopo, ai quali pensa ciascun autore, è possibile proporre una tassonomia
dei trattati conservati: ad esempio Raimon Vidal si inserisce linearmente nella
tradizione occitanica, poiché si rivolge a poeti e letterati, con l’obiettivo non troppo
mascherato di mettere in luce la propria erudizione. Per Uc Faidit (che secondo alcuni
studiosi andrebbe identificato con Uc de Saint Circ) è fondamentale dimostrare che per
il provenzale sono adatti i medesimi parametri e paradigmi linguistici in uso per il
latino: dunque il ricorso ai modelli scolastici è costante, mancano gli spunti poetici e
retorici, a tutto vantaggio dei semplici principi grammaticali (ad eccezione del rimario,
unica sezione della sua opera in cui si faccia riferimento ai grandi trovatori). La sua
intenzione è dunque marcatamente linguistica, e non poetica. Le Leys d’amor, dato
l’intento di rifondare l’antica tradizione poetica, mantengono un legame fortissimo con
la produzione letteraria; dunque anche il recupero delle fonti grammaticali autorevoli è
condizionato da tale obiettivo. Un altro fattore distintivo può risiedere nel valore
normativo del testo. Raimon Vidal, ad esempio, propone regole dallo statuto
particolarmente marcato, a partire dalla selezione di una precisa varietà linguistica (ed
anzi questo è l’unico aspetto linguistico in senso stretto su cui l’autore si sofferma); Uc
preferisce invece descrivere e testimoniare i diversi usi concessi dall’autorità degli
autori. Nelle Leys non c’è una norma esplicitamente imposta, ma le modalità
dell’esposizione la implicano in modo sottinteso, sia sul piano poetico che su quello
linguistico.
I trattati grammaticali hanno un’indubbia importanza per la ricostruzione del contesto
trobadorico tardo, nonché per i tentativi di recupero della cultura cortese nella prima
metà del Trecento ed oltre. Tuttavia bisogna ammettere che nessuna di queste opere è
all’origine di una tradizione specifica ed autonoma, ad eccezione delle Leys d’amor, che
per altro godevano di un forte carattere istituzionale grazie al legame con il Concistori
del Gai Saber a Tolosa. L’analisi grammaticale, dunque, sembra segnare una fase di
riscoperta e rinnovato apprezzamento, ma al contempo una cesura e una svolta. Questo
non vale soltanto per la regione occitanica, ma anche per le aree iberica e italiana, dove
la cultura provenzale aveva avuto un’influenza fondamentale.
149
Per l’autorevolezza di tale testo e per la manualistica scolastica in generale, si veda il capitolo
precedente.
490
Molto noto e spesso citato è Raimon Vidal, autore delle Razos de Trobar. Egli si firma
esplicitamente nella sua opera e con lo stesso nome è indicato sia nelle Leys d’amor sia
nelle Regles de trobar; inoltre è autore di alcune canzoni trobadoriche. Egli era
originario di Besalù, vicino a Gerona: tale identità catalana si riflette in alcune tipiche
imperfezioni nel sistema rimico dei suoi versi, nonché nel frequente riferimento a
signori politici e a corti d’area iberica. I richiami a precisi fatti storici (a parte quelli più
antichi o fortemente narrativi) permettono di ipotizzare una datazione: l’attività poetica
di Vidal si colloca per lo più nel secondo decennio del ‘200, con la possibilità di risalire
anche a qualche anno prima. Nell’opera grammaticale i poeti più tardi fra quelli citati
sono Folchetto da Marsiglia e Peirol, dunque attivi alla fine del XII secolo. Un fatto
interessante concerne Raimon de Miraval, mai citato nelle Razos ed invece modello
frequente nelle canzoni, dove per contrasto sono molto attenuati i richiami agli autori
più famosi. Per questo si può ipotizzare che l’opera grammaticale sia anteriore al corpus
poetico di Vidal e precedente alla frequentazione della corte dove l’autore avrebbe
conosciuto lo stesso Miraval ed altri personaggi in vista dell’epoca, come Uc de
Mataplana.
L’appartenenza geografica deve aver accomunato l’autore al suo pubblico, come
suggeriscono gli interessi linguistici cui le Razos cercano di rispondere. Tuttavia, il
contesto della composizione rimane oscuro; nel rapporto con i destinatari si parte dal
presupposto che siano del tutto ignoranti a livello grammaticale, ma al contempo capaci
di giudicare la poesia. D’altronde, alla capacità di comprendere può far seguito quella di
comporre ed è questo lo scopo che Vidal si prefigge; egli si rivolge indiscriminatamente
a provenzali e stranieri, ma presta particolare attenzione ai catalani, visto che molte
indicazioni dovevano essere inutili per francesi, italiani e castigliani. Vidal non sembra
nemmeno legato ad una corte particolare o ad un sovrano, benché sia in sostanza ovvio
che il pubblico interessato alla sua opera sia soltanto aristocratico. L’autore è inoltre
animato da un intenso desiderio di insegnare ed educare; solo in queste vesti si impegna
per far parte della società (nobiliare).
Tale premessa didattica, in base alla quale l’autore può ergersi a giudice dei poeti e delle
opere di maggior valore, è in gran parte disattesa. Manca infatti una reale visione critica
né si coglie un’effettiva capacità di sottolineare per ciascun trovatore gli aspetti
esemplari, che dunque a buon diritto potevano essere considerati modellizzanti. Anche
sul piano linguistico le mancanze sono molte: ad esempio prosodia, metrica e musica
sono completamente trascurate. L’esposizione è priva di sistematicità e ben presto
prosegue stancamente, dopo una partenza segnata dall’entusiasmo. L’opera si limita in
gran parte a un’analisi morfologica di nomi, pronomi e verbi; tuttavia è probabile che
l’autore avesse un obiettivo ben diverso da quello delle grammatiche vere e proprie,
quali sarebbero state il Donatz proensal e le Leys d’amor. Infatti sceglie un metodo
differente, basando il proprio approccio didattico piuttosto sul riconoscimento degli
errori che un poeta potrebbe commettere e che deve invece evitare; il primo principio è
quello di seguire i modelli più adatti al contesto. Ne derivano perfino accenti polemici
verso i contemporanei ritenuti meno capaci. Quest’ultimo aspetto determina un carattere
peculiare delle Razos, che si rivolgono così anche al pubblico della poesia, non solo ai
491
suoi potenziali autori, secondo la convinzione per cui il gusto non esercitato ha portato
troppo spesso al successo chi non lo avrebbe meritato. Il valore storico del trattato
risiede anche nella consapevolezza della crisi in cui sta cadendo la poesia trobadorica,
sempre più convenzionale e ripetitiva. Per contro, c’è ampio spazio per l’elogio della
tradizione e della lingua in cui la cultura cortese si è originariamente espressa: la poesia
ha un valore universale, il provenzale è una lingua squisitamente letteraria ed appresa,
scritta (e dunque i singoli dialetti non hanno importanza), autorevole e classica. Lo
standard è delineato in modo definitivo, sia sul piano geografico che su quello letterario,
benché al contempo l’eredità provenzale sia ancora percepita come viva: l’autore si
colloca perciò in una complessa fase di passaggio dall’età classica a quella tarda. Nel
considerare quel patrimonio, Vidal dimostra spesso il suo punto di vista di straniero,
nella posizione cioè di chi per forza di cose commetterà qualche errore (e ne sono
presenti nelle stesse Razos), ma che può vantare un’utile prospettiva esterna e
distaccata. D’altra parte, anche in relazione a questi principi si avverte la mancanza di
uno spartiacque coerente e costante nel valutare l’errore rispetto a semplici varianti.
Alla fine del ‘200 lo sconosciuto Terramagnino da Pisa compone la Doctrina d’acort,
versificando le Razos de trobar. La datazione è pressoché certa in virtù dei vari
riferimenti storico-letterari sparsi nel testo, che confermano per altro la grande
ammirazione per Guittone d’Arezzo e il generale legame con la Sardegna: per questo si
è ipotizzato che l’autore facesse parte delle forze pisane sull’isola. Sono invece ignote le
circostanze della composizione o gli intenti comunicativi di Terramagnino: è probabile
che egli volesse semplicemente modernizzare un’opera che riteneva utile, adattandola
alla moda dei trattati in versi, ormai dominante. Coerentemente, molte citazioni sono
sostituite, forse per rispondere ad un cambiamento di gusto; tuttavia gli autori
selezionati restano antichi, con riferimento alla fine del XII secolo e all’inizio del XIII.
Un indizio potrebbe venire dalla ridottissima circolazione dell’opera, forse imputabile
all’intenzione di soddisfare una ristretta cerchia di dilettanti appassionati.
Le citazioni, i rinvii al Donatus e le spiegazioni grammaticali aggiunte dal versificatore
ne dimostrano la preparazione piuttosto superficiale. La sua conoscenza del provenzale
non è più viva ed attuale, ma appresa attraverso la lettura degli auctores antichi;
l’approccio somiglia a quello di un antiquario o un erudito (ferma restando l’ignoranza
dell’autore). Proprio tale concezione del volgare come “grammatica” e dunque oggetto
di apprendimento favorisce in Terramagnino un atteggiamento conservatore; tuttavia ciò
non basta perché egli eviti di introdurre nel testo nuovi errori ed irregolarità, anche a
scapito di forme corrette nella versione originale. La sua preparazione insufficiente si
riflette nella composizione stessa dell’opera, spesso caratterizzata da scelte espressive
deboli; lo rivelano in primo luogo il sistema rimico e la limitata consapevolezza in
merito al sistema fonetico provenzale. Gli studiosi ritengono perciò che l’autore abbia
avuto a disposizione solo le Razos stesse e un canzoniere da cui trarre le nuove
citazioni; è del tutto escluso che abbia avuto esperienza diretta delle performances orali.
Per altro egli non affronta alcuna riflessione sul pubblico, sul parlato, sulle diverse aree
linguistiche e dialettali della regione occitanica, temi presenti invece nell’originale. In
492
effetti, al di là di alcune aggiunte esplicative, focalizzate soprattutto sui diversi
paradigmi di prosa e verso, Terramagnino tende in sostanza a tagliare, cancellando
materiali non più utili e i giudizi di Vidal, troppo personali e parziali. Il versificatore
infine offre al lettore qualche raccomandazione, che però dimostra ancora una volta la
sua superficialità: rifiuta le strutture troppo complesse, propone l’uso di una sola
persona verbale nel medesimo testo, insiste sulle forme più semplici per sintassi e
accentazione del verso.
Per la realtà iberica, e in particolare aragonese, è centrale la figura di Joan de Castelnou,
che vi ha promosso una rinnovata mediazione rispetto alla tradizione trobadorica, già
diffusa da secoli soprattutto in Catalogna. Il destinatario della sua opera è in effetti un
nobile catalano, Dalmau de Rocaberti, la cui committenza dimostra l’interesse degli
intellettuali catalani per l’apprendimento del provenzale, nonché la notorietà raggiunta
dalle Leys, modello ormai imprescindibile in questo periodo. Di Castelnou si conoscono
undici componimenti, in parte amorosi, in parte sirventesi, dedicati principalmente
all’invito alla crociata; il suo corpus aderisce in modo rigoroso alla lezione del
Concistori. Ne restano inoltre due opere grammaticali. Una – Compendi de la
coneixença dels vicis en els dictats del Gai Saber – intende approfondire la dottrina
veicolata dalle opere del Concistori tolosano; l’altra ha la struttura di un glossario e si
propone di arricchire e correggere il trattato grammaticale di Raimon de Cornet, il
Doctrinal de trobar. In generale l’interesse non è rivolto alle questioni grammaticali,
pur non del tutto assenti, quanto allo stile e alle figure retoriche. Dunque l’ispirazione è
in primo luogo poetica e l’intento è quello di prevenire errori e imprecisioni in cui i
trovatori del tempo potevano incorrere facilmente. Il limite principale di questo breve
manuale risiede nella mancanza di sistematicità e organicità, difetti certamente non
imputabili ai modelli di partenza. È probabile che il Compendi sia anteriore alla
versione definitiva delle Leys, guardando perciò ad una redazione incompleta. Il
Glossari dev’essere invece posteriore: è databile con buona approssimazione al 1341 ed
è certo che si ispiri al Doctrinal di Cornet già compiuto. Anche in questo caso, però, il
modello delle Leys è determinante, ed anzi Castelnou ne offre il primo riferimento
ufficiale. D’altra parte l’autore contrappone all’opera di Cornet una critica molto aspra:
egli è dichiarato poeta impreciso e superficiale, e implicitamente considerato
grammatico ignorante150. Per le sue correzioni, infine, Castelnou sfrutta con efficacia,
sia per la grammatica che per le questioni poetiche, i modelli latini, oltre appunto alle
Leys.
L’opera grammaticale di Uc Faidit è oggi nota con il titolo provenzale di Donatz
proensals, ma a lungo questa è stata una semplice alternativa alle forma latina (Donatus
provincialis) e a quella volgare (Donato prodensal). L’attribuzione suscita opinioni
discordi: per alcuni è indubitabile (Marshall151), per altri celerebbe il ben più famoso Uc
150
Alcuni studiosi hanno addirittura pensato che la seconda fatica grammaticale del Cornet potesse essere
un tentativo di autocorreggersi e insieme di rispondere alle accuse del Castelnou.
151
Marshall 1969.
493
de Saint Circ152. I destinatari sono Giacomo di Mora e Corraduccio di Sterleto, due
nobili italiani legati alla curia di Federico II. Il primo ricoprì varie cariche pubbliche a
Spoleto e partecipò all’attentato contro l’imperatore; non a caso fu anche collaboratore
del papa. Il secondo, invece, fu legato soprattutto a Manfredi e può forse essere
riconosciuto in una citazione di Guittone d’Arezzo. La connessione fra questi due
personaggi è nota solo fino al 1246, che è quindi un attendibile terminus ante quem per
l’opera loro destinata; il periodo più probabile per la stesura del trattato va dal ‘43 al
‘45, ma non si possono escludere i vent’anni precedenti. D’altro canto il finale
dell’opera, in latino, sembra alludere alla disgrazia in cui Giacomo era caduto dopo il
suo tradimento e all’esilio cui era stato condannato (1246): è quindi probabile che il
trattato sia stato commissionato non molto prima e che l’autore abbia potuto finirlo solo
quando la protezione del destinatario si rivelava inutile. Per altro è più difficile pensare
che Giacomo si sia interessato alla poesia cortese dopo la caduta politica.
Il luogo della composizione rispecchia l’origine dei destinatari; anche i codici cui Uc
sembra aver attinto sono tutti italiani. L’opera è inoltre piuttosto nota in Italia fino
all’inizio del ‘300 (per essere poi dimenticata e infine riscoperta nel corso del ‘500),
mentre non è mai citata nei manuali di grammatica redatti in Provenza o in area iberica.
Tuttavia la scarsa fortuna in area occitanica potrebbe essere solo apparente, poiché – lo
si vedrà – Molinier tiene conto del Faidit quando compone le Leys, anche se senza
dichiararlo esplicitamente. Nella penisola italiana viene tradotta ed utilizzata come
punto di riferimento per altri testi linguistici, ad esempio glossari del provenzale. E non
sarà un caso che nell’opera si riflettano puntualmente interessi locali: toponimi,
problemi di pronuncia, calchi della lingua d’origine in provenzale. L’attenzione al
pubblico impedisce di pensare che la scelta linguistica sia immotivata: la composizione
di questa grammatica direttamente in lingua occitanica (e non in latino) deriva
presumibilmente dalla sua buona e diffusa conoscenza, per lo meno da parte dei
destinatari. Esiste poi una traduzione in latino, che deve essere stata approntata da un
madrelingua provenzale, come denota l’insistenza sulle questioni di pronuncia. Lo
scopo di questa traduzione, che appartiene ad un contesto vicinissimo a quello
dell’originale, è favorire la circolazione e la comprensione del trattato, la cui versione in
provenzale dev’essere risultata difficile da comprendere nel giro di pochi anni, almeno
sulla base delle incomprensioni di cui sono vittima i versi provenzali del Purgatorio
dantesco153. Potrebbe essere stato addirittura l’autore ad aver chiesto una rielaborazione.
L’impostazione non è originale, ma ispirata ai manuali latini e in particolare al
celeberrimo Donatus, cui fa chiaro riferimento anche il titolo Donatz. Rispetto
all’impianto di partenza (classificazione e lessico), Faidit aggiunge alcune liste di verbi
e rime, ed affianca al modello principale definizioni tratte per lo più da Prisciano.
Rispetto alle altre grammatiche del provenzale, il Donatz si dimostra piuttosto
approfondito sul piano linguistico, e completo in particolare per l’interesse verso la
metrica. Faidit parte dunque dal materiale che ha trovato nelle scuole e che poi gestisce
152
Si legga Swiggers 1989.
Si è già accennato a questo aspetto in merito alle vidas e alle razos, in questo stesso capitolo. Si
rimanda nuovamente a Pulsoni 20032 e Resconi 2008.
153
494
liberamente, a volte seguendo i suoi modelli molto da vicino, in altri casi in piena
autonomia. Le definizioni sono proposte in modo semplice e sintetico, senza ricadute
ideologiche o riflessioni approfondite, che pure caratterizzano gran parte degli studi
grammaticali dell’epoca. Il principio fondante è pragmatico ed educativo, e
l’approfondimento si riduce ulteriormente man mano che si procede. A livello di
contenuto non manca qualche forzatura, a causa della necessità di applicare ad una
lingua romanza le categorie del latino: anche in questo senso, l’opera mostra
un’evoluzione verso il finale, in quanto le omissioni sono sempre più accettate.
L’attenuarsi dello schema compositivo di partenza comporta anche una perdita di ordine
e sistematicità. L’oggetto del trattato è semplicemente il provenzale; non si precisa,
cioè, se si parli di lingua scritta o dell’orale, anche se l’importante sezione dedicata
all’uso delle rime suggerisce che l’autore abbia pensato soprattutto all’orizzonte
letterario. Egli si prefigge di fornire uno strumento per comporre poesia o almeno per
leggerla con piena competenza, partendo dalle proprie conoscenze personali, senza cioè
aspirare ad offrire una norma vera e propria. Infatti hanno ampio spazio forme molto
rare né si impone una scelta tra le diverse alternative morfologiche e fonetiche: le
indicazioni dell’autore restano insomma linee guida non troppo vincolanti. Non è
chiaro, inoltre, quale influenza abbia avuto sulla percezione dell’autore l’uso vivo della
lingua; alcuni fattori, comunque, lasciano intuire una sua origine guascona o forse
linguadociana. Un aspetto di normalizzazione si coglie invece nella tendenza ad evitare
le forme troppo locali, favorendo l’uso letterario più diffuso e una definizione della
lingua come genericamente occitanica.
Più in particolare, non sono del tutto evidenti i principi seguiti nel lavoro sul lessico;
senza dubbio l’autore dispone di conoscenze molto estese in questo campo, che gli
permettono di aggiungere anche voci usate soltanto dai trovatori italiani.
In generale l’approccio di Faidit è estensivo: parte dalla propria regione, ma aspira a
considerare l’intero Midi ed infine tutta l’area in cui è utilizzata la lingua occitanica. La
sua grammatica non è quindi un manuale dogmatico, ma delinea un’immagine ricca e
piuttosto fedele dell’uso variegato dei trovatori, con la pecca di non offrire uno
strumento pienamente ordinato e puntuale. Si nota anche l’assenza di qualsivoglia
indicazione su ciò che è corretto o scorretto: così nulla deve essere necessariamente
escluso.
L’opera presenta alcune significative mancanze, come la sintassi, e notevoli omissioni;
probabilmente tali scelte si spiegano in relazione alla padronanza comune delle
categorie latine di partenza o ai tratti in parte simili delle lingue proprie di autore e
destinatari. Certamente anche le specifiche richieste, i gusti o le competenze già proprie
dei lettori sono stati determinanti.
Sono invece ben note le vicende compositive delle Regles de trobar, composte da Joifré
de Foixa154 in Sicilia, durante il regno di Jacme II, alla fine del ‘200. L’autore, di
154
L’opera di questo poeta è particolarmente interessante in quanto egli è fonte diretta di Petrarca per la
struttura della canzone “a citazioni” applicata in Lasso me, il fragmentum 70. Se n’è ampiamente trattato
nel corso del primo e in parte del quarto capitolo.
495
origine nobiliare e catalana, è un frate francescano e poi monaco benedettino, ma si
impegna anche in una vivace vita mondana e diplomatica. Mantiene stretti contatti con i
re aragonesi e riveste cariche importanti presso diversi monasteri, intrattenendo rapporti
frequenti col pontefice, fino a divenire abate a Palermo. È indubbiamente un uomo
erudito, come dimostra la sua produzione poetica, per il resto di scarso rilievo. L’opera
grammaticale gli viene commissionata direttamente dal sovrano, a testimonianza del
rinnovato interesse per la cultura trobadorica: proprio per favorirne la diffusione, Joifré
si rivolge anche a chi non conosce il latino e non può comprendere un linguaggio troppo
tecnico, come quello scelto, ad esempio, da Vidal. In effetti, il modello di Foixa sono le
Razos de trobar, benché tale connessione resti implicita; per altro è una dipendenza non
vincolante, che anzi assume i caratteri di una libera rielaborazione. È essenziale che
l’insegnamento sia accessibile, perciò le informazioni sono basilari, l’espressione molto
semplice; le spiegazioni sono però vivide, perché derivano dalla conoscenza e dall’uso
diretti della lingua e della poesia. Tali competenze garantiscono per altro l’assenza di
confusione tra provenzale e catalano, la lingua madre dell’autore. I concetti, anche i più
basilari, vengono sempre spiegati con accuratezza; le categorie, di origine latina, sono
tradotte e chiarite, cosicché morfologia, sintassi, ritmica e prosodica non rappresentino
una sfida. Pur partendo dalla medesima struttura, gli esiti di Regles e Razos sono molto
diversi: con le prime, Foixa crea uno strumento d’insegnamento davvero efficace, anche
se un po’ pesante alla lettura. Non propone invece alcun approccio critico: da una parte
il suo scopo è solo familiarizzare alle pratiche poetiche, dall’altra gli autori affrontati
sono ormai troppo antichi, percepiti come veri classici, perché siano oggetto di un
giudizio non reverenziale. Tale rapporto di lontananza non implica però una prospettiva
antiquaria; il contesto della composizione e le caratteristiche dell’opera lasciano
intendere, infatti, il desiderio dei destinatari di scrivere in prima persona, inserendosi
quindi in una tradizione viva. D’altro canto, l’autore non si riferisce solo alla tradizione
scritta, ma anche all’uso orale, segnalandone differenze e contrasti. Le Regles de trobar
hanno una notevole importanza storica, perché anticipano le prospettive e gli intenti
delle Leys d’amor, per quanto con consapevolezza inferiore, qualche imprecisione
(soprattutto nei dettagli) e un’eccessiva tendenza al dogmatismo.
L’opera di Foixa risulta insomma rappresentativa della propria epoca. Rivela infatti la
riscoperta e il gusto vivo di una lingua, che però appartiene al passato e per cui sono
necessari costanti chiarimenti, secondo un approccio che non è più attuale, ma non
ancora di pura conservazione. Non si è persa coscienza dell’oralità, ma musica e
rappresentazione dal vivo non suscitano più alcuna curiosità. Permane la preminenza già
altomedievale delle classificazioni latine, senza però la familiarità che sarà umanistica: è
sempre necessario accompagnarle con spiegazioni, approfondimenti ed esempi.
L’anonima Doctrina de conpondre dictats presenta uno statuto ben più ambiguo. Non è
pensata come trattato autonomo: l’autore, infatti, dichiara di aver cominciato a scrivere
per completare un altro manuale che non viene nominato. L’importanza delle Razos
vidaliane e la collocazione ravvicinata delle due grammatiche nell’unico codice che
496
tramandi la Doctrina155 hanno determinato la persistente ipotesi che il modello di
riferimento fossero proprio le Razos e che l’autore potesse addirittura essere il
medesimo, Raimon Vidal. Tuttavia, la Doctrina mostra un impianto molto diverso da
quello dell’opera maggiore. È molto più sistematica ed impersonale; cambia la persona
del destinatario – dal voi al tu; il tono è ben diverso e lo stesso vale per la datazione
(seconda metà del ‘200). Per queste ragioni appare più efficace l’idea che la Doctrina
sia in realtà complemento delle Regles, che in effetti terminano all’improvviso, come se
mancasse una conclusione. Dal punto di vista tematico i due trattati sono del tutto
coerenti, poiché lo studio sui generi proposto dall’anonimo arricchisce efficacemente le
spiegazioni offerte da Joifré; non ci sono mai sovrapposizioni di contenuto e la tipologia
di destinatario è la medesima. Vari spunti offerti dalla Doctrina sembrano rivolgersi
all’area catalana, un altro elemento di coerenza rispetto alle Regles e al loro autore.
Sono affini anche il punto di vista e lo stile, sia nell’esposizione esplicativa, sia negli
esempi.
Il valore della Doctrina è notevolissimo, per la proposta di un sistema di generi: è un
contributo decisivo alla definizione di una tradizione forte e, di conseguenza, per la
concreta pratica poetica che voglia farne parte. L’autore crea in effetti uno strumento
parallelo ai manuali latini, pur nella limitante mancanza di prospettiva storicocronologica, che schiaccia sul presente la caratterizzazione dei generi. La causa è la
preparazione non troppo puntuale dell’autore; lo conferma la maggiore precisione nella
trattazione dei generi minori, che avevano acquisito grande importanza nel corso del
‘200 e dunque rispondevano ad un gusto più attuale. D’altronde, proprio l’ossessione
per le tassonomie e le denominazioni precise è tipica del trobadorismo tardo: infatti
risulta coerente non solo con le esperienze del Concistori del Gai Saber (metà ‘300), ma
già degli ultimi grandi poeti, come Cerveri de Girona e Guiraut Riquier (fine del ‘200).
Per contro, l’organizzazione del discorso è rigorosa e funzionale: l’autore non è colto,
ma scrupoloso.
Due ultime grammatiche del provenzale completano il panorama della trattatistica: sono
i testi tramandati dal Ripoll 129, frutto del medesimo autore anonimo e catalano (la
conclusione del secondo cita il primo ed offre un’apologia di entrambi). Anche questo
estensore risulta ben poco preparato, conosce i classici solo attraverso la mediazione
delle antologie e dei manuali più recenti, le sue liste di vocaboli e il rimario sono
incompleti. Lo scopo è arricchire le Regles, che sono presenti nella medesima silloge;
tale relazione permette una datazione di massima, tra la fine del ‘200 e l’inizio del ‘300.
Non solo i due trattati, ma il manoscritto stesso rivestono un interesse molto localizzato,
in quanto la preparazione della raccolta risponde alle curiosità specifiche dei monaci di
Ripoll. Il pubblico è chiaramente composto da dilettanti appassionati, privi di
preparazione, che vogliono mettersi alla prova con la pratica poetica. Bastano
155
In apparenza, nel manoscritto le due opere sono contigue. In realtà in origine i trattati erano separati da
una pagina bianca, che è stata riempita con un componimento in versi, trascritto però come se si trattasse
di prosa. La connessione grafica e materiale tra i testi, che a lungo ha ingannato gli studiosi, è dunque
solo fittizia.
497
informazioni semplici, basilari, senza approfondimento, soprattutto rispetto alla
questione dei generi. Alle scarse conoscenze dell’autore andranno imputati i numerosi
passi oscuri, incompleti, privi di qualsivoglia tecnicismo; la sezione meno efficace è
quella dedicata al sistema rimico. Le fonti sono poche ed affrontate in modo
superficiale; la loro scelta dipende inoltre da una prospettiva chiusa e decentrata. Tali
aspetti, come d’altro canto la collocazione cronologica, mostrano profonda coerenza con
l’approccio antiquario tipico dei due trattati nell’affrontare la materia trobadorica.
Tuttavia per gli studiosi questi testi hanno una funzione fondamentale, poiché spiegano
quanto e come la cultura cortese sia sopravvissuta nei centri più piccoli, in una fase di
decadenza che ben si riflette nella pedanteria superficiale delle grammatiche stesse. Le
classificazioni e gli studi di questa fase tarda possono apparire aridi, ma hanno il merito
di salvare una tradizione importante, benché morente, con i (pochi) strumenti a
disposizione.
I trattati grammaticali dedicati al provenzale tra metà ‘200 e inizio del ‘300 vantano un
valore eccezionale rispetto alla storia della cultura cortese e trobadorica, e al suo studio.
La continuità dell’interesse per le questioni grammaticali consente infatti di
comprendere il significato attribuito a quella tradizione letteraria durante una fase di
passaggio: dalla grande stagione poetica (la stagione “d’oro” o classica), il cui punto di
riferimento essenziale si colloca nel Midi di Francia, all’età tarda. È noto che nel pieno
‘300 si è cercato di recuperare un passato ormai perduto, a Tolosa, grazie al Concistori
del Gai Saber, e in aree decentrate, come la Catalogna; qui la tradizione occitanica è
raccolta con grande entusiasmo, ma non più dominata. Il tono è sempre meno
professionale, da amatori che scrivono per gusto poco più che personale; e tale aspetto
ben si accorda con la frequente mancanza di sistematicità. Al contempo, gli appassionati
estensori hanno lasciato testimonianza di molti dettagli testuali e linguistici, e numerose
citazioni, che rivestono una notevole utilità per gli studi filologici. La manualistica
partecipa della graduale evoluzione negativa che investe il mondo occitanico ed anzi
tende a decadere essa stessa: si affievoliscono sempre più le competenze dei destinatari
e dunque si rendono necessari interventi esplicativi più insistiti da parte degli autori, che
accrescono le informazioni oggi utili. Si intuisce una divaricazione tra i pochi che
ancora possono apprezzare realmente l’eredità trobadorica e i molti, che ne godono
soltanto una conoscenza superficiale, in veste sempre più antiquaria. Il Concistori del
Gai Saber e le Leys d’amor segneranno un’inversione di tendenza ed un significativo
cambiamento di prospettiva, nel tentativo di riportare l’esempio dei trovatori agli antichi
fasti e alla pratica corrente.
498
10. Il “Concistori du Gai Saber”156 e le “Leys d’amor157
10.1 Il “Concistori du Gai Saber”
Nel 1323 sette esperti della tradizione trobadorica si riuniscono a Tolosa per “dedicarsi
alla scienza”, per raggiungere cioè quel “buon sapere” necessario a comporre con
efficacia versi in lingua romanza, e dunque per educare altri aspiranti poeti e gli
sciocchi amanti; insomma per vivere felici. L’estrazione sociale dei sette appassionati è
per lo più borghese158 (mercanti, notai, banchieri), uno solo è nobile; sono inoltre tutti
laici, anche se col tempo la partecipazione degli ecclesiastici alla futura “accademia”
diverrà determinante. È una significativa trasformazione sociale per un patrimonio
culturale nato presso le corti, che si accompagna ad una svolta morale e spesso
religiosa: cambiano radicalmente i soggetti e i temi tipici della poesia. I nomi dei
fondatori, non provenzali, rivelano un altro cambiamento storico-sociale rilevante,
poiché riflettono le sorti del Midi dopo la crociata albigese: l’aristocrazia locale è
decaduta, gli ultimi mecenati e gli ultimi poeti sono scomparsi insieme, in una fase di
grave decadenza culturale e politica, mentre la regione meridionale perde la sua
autonomia.
Nasce così il Concistori del Gai Saber, dal desiderio di far rivivere la poesia cortese,
insieme attualizzandola e dunque imponendole nuove regole. Il bisogno di rigidi
principi e di puntuale correttezza si coglie chiaramente nei pochi testi noti del nobile
Bernard de Panassac, l’unico tra i membri originari del gruppo di cui resti qualche
informazione biografica, per quanto vaga e probabilmente leggendaria. Ne sono
sopravvissute due canzoni, una dedicata alla Vergine ed una amorosa più tradizionale,
che presenta notevole ardimento formale. Le scelte tematiche ed espressive rendono i
due componimenti davvero rappresentativi della loro epoca: da una parte lo
spostamento dell’oggetto d’amore dalla dama alla madre di Dio (e dunque dall’amor
carnis all’amor caritatis), come raccomanda la prospettiva morale dei nuovi poeti;
dall’altra l’attenzione al formalismo più artificioso, tipica dell’età tarda.
Non è semplice ricostruire gli antecedenti diretti di tale esperienza tolosana e dunque le
sue origini. Infatti per quanto cerchi di rivitalizzare una tradizione sempre più
dimenticata, il Concistori non può che avere una prospettiva “a posteriori”; al contrario
gli ultimi grandi trovatori (Guiraut de Riquier, Cerveri de Girona...) si erano inseriti
direttamente nella scia dell’antico trobadorismo, benché già si delineasse uno
spostamento verso tematiche morali e religiose. Il Concistori favorisce una certa
continuità proprio perché cerca di garantire, attraverso il compromesso e i necessari
cambiamenti, un legame con l’epoca d’oro delle corti e dei trovatori. In tal senso
156
Anticipiamo alcuni riferimenti bibliografici essenziali: Jeanroy 1914 e 1934, Anglade 1927, pp. 200
segg, Noulet-Chabaneau 1973, Passerat 2000. Per il confronto tra produzione del Concistori e
l’antecedente di Guiraut Riquier, si veda in particolare Anglade 1905.
157
Si vedano Salvat 1964, Anglade 1920 e 1971.
158
Sull’impoverimento della nobiltà e sul prestigio sempre maggiore della borghesia, si veda anche
Anglade 1927, p. 200.
499
l’esperienza tolosana ha il valore di una duplice trasmissione di sapere: formale e
grammaticale, spirituale e morale.
Ma sino a questo momento, in che modo era sopravvissuta e come era considerata
l’eredità occitanica tra la fine del ‘200 e la prima metà del ‘300? In parte si è già
risposto a questo interrogativo, descrivendo il contesto tardo e la produzione
grammaticale, ma la questione può essere ulteriormente approfondita.
Alcune corti dimostrano ancora un significativo interesse per la cultura provenzale
“classica”, come nel caso di Rodez, che per altro mantiene relazioni abbastanza assidue
con la Rouergue e l’Albigeois, e quindi con Tolosa; anche in Linguadoca l’attività
poetica non viene del tutto meno. Il tramite è rappresentato da autori, come Guilhem
d’Alaman o Raimon de Cornet padre, che mantengono le abitudini del passato: si
affidano al sostegno di mecenati e vivono in modo itinerante. Almeno per l’area
tolosana, è necessario inoltre supporre che ci siano stati incontri e manifestazioni
poetiche collettive prima che si sviluppasse un’accademia vera e propria, anche senza
regolarità né tanto meno con pretese di ufficialità. Sono proprio queste ultime le novità
introdotte dal Concistori. La ricerca di istituzionalizzazione si manifesta pressoché
subito, come suggerisce l’immediata organizzazione di un “torneo” per il 1324: con una
lettera aperta, tutti i trovatori ancora attivi sono invitati a presentare le loro opere
(vincerà Arnaut Vidal, che non a caso aveva scritto in onore della Vergine). Il gruppo
può ora ufficialmente definirsi una compagnia letteraria; intanto la regolarizzazione
dell’impegno culturale si spinge oltre. Il Concistori diviene ben presto una sorta di
“università trobadorica”, un’accademia in cui si lavora secondo regole precise: essa
concede i titoli di dottore e baccelliere, ma solo a chi prometta di seguire sempre le Lois
e le Fluers du Gai Saber, e soprattutto affronti un esame a sua volta sempre più
codificato.
Il parallelo con l’università è particolarmente efficace, non solo per le somiglianze a
livello organizzativo, ma proprio in relazione al contesto storico-culturale. A Tolosa la
fondazione dello Studium non era recente: risaliva infatti al 1229, grazie al duplice
contributo di papato e corona. Tuttavia l’acquisizione di maggiore autonomia all’inizio
del ‘300 ne aveva rinnovato le prospettive, richiedendo nuovi statuti e regole più
stringenti. Il rapporto con i rinnovati esperimenti provenzali resta comunque “a
distanza”: è in effetti interessante che nell’ambiente del Concistori manchino
completamente esponenti del mondo accademico.
L’impianto educativo e il bisogno di criteri forti cui uniformarsi nella pratica letteraria
sfociano rapidamente nella compilazione di un manuale di riferimento, le Leys d’amor,
composte originariamente da Guilhem Molinier e Berthomieu Marc; poco dopo, però,
Molinier risulta l’unico incaricato della redazione e del perfezionamento linguistico, e
come tale viene nominato cancelliere. Come si vedrà, il trattato conosce diverse
redazioni e numerosi rimaneggiamenti, forse dovuti alle richieste e all’intervento dei
committenti; nel 1356, comunque, le “leggi” sono pronte e diffuse. I primi destinatari
sono laici e tolosani: si notano alcuni esponenti del mondo universitario, a ribadire una
forma di connessione tra le due istituzioni, benché nella totale autonomia reciproca. Il
“gai saber” riceve così un riconoscimento pubblico ed ufficiale, la sua “scienza” viene
500
accreditata come tale; l’intenzione educativa beneficia di uno statuto forte, essenziale
per le sue future manifestazioni pratiche.
Tra i primi destinatari del trattato è inoltre indicato il Grande Inquisitore. La nuova
organizzazione poetica aveva bisogno della sua approvazione e protezione, in un
contesto in cui tutte le manifestazioni sociali e culturali avevano risentito gravemente
della repressione religiosa. Non ci sono prove esplicite che i trovatori siano stati
inquisiti o perseguitati in modo specifico, anche se è chiaro che la decadenza della
dimensione cortese è legata anche a questo contesto di violente trasformazioni. In ogni
caso l’uso rinnovato del volgare e la rinascita di una poesia amorosa e profana potevano
facilmente sollevare sospetti. Ancora nel pieno Trecento, dopo una fase di aperture e
compromessi, la prudenza è del tutto giustificata; si insiste perciò sul fatto che anche la
liturgia è in fondo poesia, sia nelle Leys, sia nei componimenti di Raimon de Cornet,
l’autore più importante nell’ambiente del Concistori.
Lo spirito di fondo di questa rinascita letteraria è dunque ortodosso, in coerenza, lo si è
anticipato, con l’approccio degli ultimi grandi trovatori (si può citare ancora Folquet de
Lunel). Il passaggio dall’amata terrena alla Vergine non è stato improvviso: già sul
finire del ‘200 l’amore viene trattato in termini mistici e la figura femminile si fa troppo
perfetta per essere umana, il sacro e il profano sono sempre più difficili da
distinguere159. Il principio per cui l’amore e la poesia che lo esprime innalzano ed
educano si ridefinisce facilmente in senso morale e cristiano: sono tutte tendenze già
tipiche delle prime grammatiche del provenzale e di raccolte come il Breviari d’amor.
In fondo, tale concezione dell’amore puro non è nuova: ad esempio già Guilhem de
Montanhagol affermava che dall’amore – la vera fin’amor – deriva la castità. Più in
generale non va dimenticato che, al di là delle manifestazioni erotiche pur ben presenti
nelle opere trobadoriche classiche, lo scopo della fin’amor, non a caso amore fino, puro,
che quindi purifica e raffina, è proprio il miglioramento interiore160. D’altronde la
Chiesa controllava le manifestazioni culturali ben prima del Trecento, e soprattutto in
quella fase di fine Duecento in cui i gusti degli intellettuali e gli interessi delle autorità
sembrano gradualmente convergere. L’onnipresenza delle strutture ecclesiastiche e le
imposizioni che ne derivano non possono certo stupire; già da tempo per altro si era
imposto un altro fattore determinante per l’evoluzione della cultura, la spiritualità degli
ordini mendicanti, soprattutto di quello francescano. Certo, l’esperienza del Concistori
va ricondotta alla sopravvivenza della tradizione occitanica, ma è innanzitutto erede di
un più ampio contesto e di una concezione della vita intellettuale ben definita e già
affermata.
159
Anglade 1927 sottolinea efficacemente alcuni fattori di questo passaggio, a partire dalla fondazione nel
Midi di alcuni culti mariani ad opera dell’Inquisizione (come la Confraternita del rosario) e dunque grazie
principalmente ai domenicani. In effetti si tratta di un aspetto della fede cristiana dalla grazia particolare,
che dunque facilmente poteva conquistare le coscienze. Il passaggio dalla dama alla Vergine appare al
contempo il frutto della debolezza della cultura provenzale: incapace di creare forme espressive nuove,
dedicate in modo specifico a questa spiritualità, si adattano quelle tradizionali, profane (pp. 194-195).
160
Sono i concetti fondamentali dell’amor cortese, di cui è fonte autorevolissima il De amore di Andrea
Cappellano. Le sintesi in merito sono molto numerose, si legga ad esempio Mölk 1996; gli aspetti del
miglioramento si sono comunque già affrontati nel corso del terzo e in parte del quarto capitolo.
501
I componimenti nati dall’ambiente del Concistori sono noti grazie ad alcune sillogi, in
cui è costante la preminenza di Raimon de Cornet; il canzoniere più importante è quello
preparato da Guillaume de Galhac, “mainteneur” del gruppo alla metà del ‘400.
Per il secolo e mezzo circa che va dalla fondazione dell’accademia alla compilazione
della raccolta, restano sessantadue componimenti, quantità certo molto inferiore rispetto
all’effettiva produzione, ma comunque indicativa della qualità – mediocre – dell’attività
poetica del periodo.
Alcuni testi sono comunque gradevoli grazie alla vivacità del ritmo, che li identifica
ancora in relazione all’esecuzione musicale, come nel caso delle danze. Abbonda la
produzione dedicata alla Vergine, come ai temi religiosi e spirituali: la cultura cortese
viene profondamente reinterpretata ed appare determinante la dipendenza dalla
tradizione delle litanie, a livello tematico e formale (sino alla traduzione vera e
propria)161. Il ricorso all’allegoria o un’intonazione occasionale o ancora qualche
accenno biografico possono rendere più vivace e ricca la composizione; per altro i
riferimenti all’attualità rivelano una matrice ormai completamente borghese. I concetti e
gli argomenti sono d’abitudine molto semplici, quasi ingenui, ma l’atteggiamento degli
autori non manca di decisione ed energia.
Per queste manifestazioni trobadoriche tarde si può parlare di un sostanziale insuccesso,
benché i poeti del Concistori si mantengano attivi piuttosto a lungo. Può esserne
imputata l’imposizione della componente religiosa: spesso i nuovi caratteri espressivi e
interpretativi non si adattano con efficacia alla tradizione occitanica, mentre la riduzione
del poetabile è causa del senso di monotonia. Ci si può chiedere se tali trasformazioni
fossero effettivamente necessarie, se l’Inquisizione nel Midi fosse davvero così
soffocante e limitante. Non sarebbe bastato purgare e attenuare le tematiche
tradizionali162? La questione è in sostanza aperta, perché i fattori in gioco rispetto alla
decadenza della cultura provenzale sono molteplici e non tutti gli studiosi sono concordi
sull’effettivo ruolo della Chiesa163.
Un altro fattore da considerare è la prospettiva aristocratica dei poeti, che li spinge a
rifiutare strumenti espressivi che avrebbero potuto rinnovarne la produzione, come il
contatto con generi popolari o l’apertura verso un pubblico più ampio164. Infine, sono
determinanti la ricerca di regole precise, nonché la loro rigida applicazione, che rende
161
Secondo Anglade 1927 (p. 159) la presenza non solo dell’Inquisizione, ma di numerose nuove
fondazioni monastiche e mendicanti influenzano profondamente la visione culturale occitanica,
mutandone l’“anima”, il fondamento.
162
Le tematiche tipiche della cultura cortese e la sua stessa assiologia sono necessariamente incoerenti
con i dettami della Chiesa, a partire dalla condizione di adulterio in cui di necessità si trovano gli amanti.
A questo si aggiunge un’impressione di “paganesimo” nella rappresentazione di rapporti e valori morali
(Anglade 1927, p. 159). In ogni caso questi aspetti sono già stati anticipati.
163
Tuttavia Anglade 1927 riporta qualche documento significativo. Innanzitutto, a un eretico interrogato
viene domandato se abbia mai letto le poesie di Guilhem Figueira, che scontano l’inimicizia della Chiesa
per il loro autore (p. 158). Inoltre, alcuni trovatori tardi (Guiraut Riquier e Folquet de Lunel) lasciano
intendere come le gerarchie ecclesiastiche concepissero la poesia come un peccato (p. 158).
164
Per queste rinunce, si veda anche Anglade 1927, p. 206.
502
l’ispirazione poetica tassonomica, più che spontanea165. Tali principi hanno avuto, senza
dubbio, il valore di una garanzia, poiché contribuivano a salvaguardare i contenuti
morali e quindi rassicuravano in merito alla ricezione sociale della lirica. Ben presto
però hanno acquisito un significato molto più esteso, determinando l’espressione
poetica a tutti i livelli, ed anzi influenzandola ben al di là del solo Concistori.
Altro interrogativo non del tutto risolto concerne l’effettivo rapporto con le fonti, cioè i
modelli trobadorici classici. Sembra indubbio che in quest’area e in questo periodo
fosse possibile procurarsi delle antologie: ad esempio i codici C e R sono di poco
anteriori alle esperienze del Concistori e originari della medesima zona. Inoltre in varie
corti provenzali sono ancora attivi poeti i cui versi dimostrano che l’insegnamento
antico è ancora vivo – Narbona, Guascogna, Catalogna, Aragona, Foix e Rouergue. A
dispetto di questa concreta disponibilità, gli autori tolosani rivelano di conoscere ben
poco quelle auctoritates che spesso citano, più che altro in quanto nomi illustri. Lo
stesso vale per la definizione dei generi (i “fiori”). Essi sono concepiti in chiave
gerarchica: resta la concezione della canzone “amorosa” come orizzonte più pregevole;
l’eredità dei sirventesi è raccolta da testi di lode o satira, fortemente occasionali; gli
spunti più leggeri sono sviluppati in forma di danze, mentre con planh e pastorella
(minoritari per altro a livello quantitativo) si indicano realizzazioni eterogenee rispetto
alle caratteristiche originarie.
Anche a livello di cultura classica la situazione è ben poco vitale, benché certamente
anche gli autori tardi conoscano il latino.
Il valore fondamentale di questa fase del trobadorismo concerne dunque l’aspetto
storico, da una parte per l’impegno stesso nel recupero degli antichi, dall’altra per
l’evoluzione imposta alla lingua, alle forme poetiche, ai generi. La nuova poesia è in
effetti orientata all’esaltazione della forma. Dilaga l’amore per l’oscurità, la
ricercatezza, il gioco di simboli ed allegorie, raggiungendo eccessi che dimostrano la
perizia tecnica, ma risultano al contempo freddi. È un effetto un po’ contraddittorio
rispetto allo scopo esplicito di esprimere e comunicare “gioia”, la quale costituisce un
diffuso leitmotif nei titoli, nei nomi, nelle definizioni. Tale insistenza deriva da celebri
autorità medievali (come lo pseudo-Catone) secondo cui la scienza e l’arte si associano
per natura alla gioia e alla soddisfazione. Anche per questo, tra i temi più amati figurano
il quadro bucolico, il canto, il mese di maggio. Ovviamente, considerata l’assoluta
preminenza dei valori morali e religiosi, nonché l’associazione di partenza con la
scienza, la gioia dev’essere razionale, ponderata e controllata. Dominano come sempre
le regole, che rendono misurato ogni sentimento. A livello formale si nota uno
scadimento nell’uso dell’ornatus e degli artifici retorici, per qualità e quantità.
Non si dovrà comunque pensare che la guida del Concistori sia completamente
limitante. Si può ad esempio anticipare la libertà di autori come Cornet nella scelta dei
temi. Il panorama culturale nella Francia meridionale del ‘300 non si limita
all’Accademia: nella stessa Tolosa e soprattutto nel Limosino ci sono ancora
165
Anglade 1927, p. 202.
503
intellettuali liberi, magari in buoni rapporti col Concistori e quindi aperti alle sue
indicazioni in fatto di lingua e grammatica, ma per il resto autonomi.
10.2 Le “Leys d’amor”
Le Leys d’amor sono la più alta espressione del Concistori. Si tratta di un manuale di
poetica trobadorica cui autore e committenti attribuiscono la funzione di salvaguardare
la lingua166, la cultura e la poesia occitanica; è ovvio il riferimento ai grandi autori
dell’età “classica”, anche se spesso alle dichiarazioni non fa seguito la sostanza. Il
punto di vista offerto dal trattato è peculiare: è inevitabile la divaricazione cronologica
rispetto all’eredità cui si vuole attingere, ma al contempo ci si identifica pienamente con
la tradizione cortese, tanto che c’è ampio spazio per la sua attualizzazione. Lo si nota
chiaramente nell’analisi linguistica: gli spunti etimologici, semantici e formali devono
ricostruire il patrimonio provenzale, ma anche rileggerlo in senso scientifico (in nome
della gaia scienzia) e la passione del tardo Medioevo per la tassonomia si sposa
perfettamente con tali intenzioni. Le Leys non sono né l’unico né il più precoce tentativo
di sistematizzare la cultura trobadorica, e tuttavia hanno un’importanza peculiare. In
primo luogo, derivano uno statuto di ufficialità e prestigio dal Concistori, che aveva
ottenuto riconoscimenti ed attenzione da parte di altre istituzioni e dagli intellettuali del
Midi. Secondariamente, il manuale circola ben al di là della sola Provenza e dunque
influisce sulla percezione trecentesca della tradizione trobadorica anche in area iberica
(Catalogna, Castiglia e Portogallo) – dove gode di un’amplissima ricezione -, in Francia
e in Italia. Il caso della Catalogna è forse il più significativo. Qui l’uso della lingua
provenzale in poesia era resistito per tutto il ‘200; quando, infine, all’inizio del ‘300
prevale la lingua materna, i modelli trobadorici mantengono comunque un ruolo
essenziale e tale tendenza viene rafforzata dal contatto con le esperienze tolosane. In
realtà le Leys circolano soprattutto rimaneggiate: se ne conosce una traduzione in prosa
catalana e una trasposizione in versi dal titolo Flors del Gai Saber, che contiene i
medesimi insegnamenti e le medesime citazioni della versione in prosa, ma intende
favorire la memorizzazione. In effetti, i poeti catalani saranno gli unici epigoni del
Concistori, soprattutto dopo il suo esaurimento: non solo con la produzione poetica, ma
anche con quella retorico-grammaticale, di cui si è parlato. Non importa che le opere
poetiche presentate e le citazioni puntuali non siano le stesse: la comunanza si coglie nei
principi di base, nella codificazione, nella terminologia. È poi indicativa la costituzione
di una parallela accademia barcellonese: anche qui viene organizzato un concorso
annuale, tanto prestigioso da ricevere il sostegno e la protezione del sovrano, e capace di
fornire un titolo ufficiale.
Al contrario l’influenza delle Leys viene percepita molto poco in area francese: i trattati
di retorica per la lingua d’oil lo dimostrano chiaramente. È poi davvero curioso che
166
Proprio questo aspetto può essere considerato il più significativo, anche in riferimento al periodo
storico: la lingua si modifica sempre di più in varianti dialettali e dunque il riferimento alle modalità
classiche e letterarie assume un significato peculiare (Anglade 1927, pp. 202-203).
504
questa distanza si avverta anche da parte di autori di origine tolosana, ma legati
professionalmente a Parigi e alla sua università.
Opera importantissima, dunque, le Leys d’amor devono il loro titolo, definitivo almeno
dal 1341, ai sette fondatori del Concistori, o almeno questo è ciò che sostiene l’autore,
Guilhem Molinier. A lungo però ne circolano altre possibili definizioni, quali Leys del
Gai Saber e Flors del Gai Saber. In certi casi esse divengono una sorta di sottotitolo: i
flors in particolare possono riferirsi all’immagine topica dei “fiori di retorica”, materia
che certo trova ampio spazio nel trattato.
Delle Leys restano quattro redazioni. Per la prima è stato ipotizzato un periodo piuttosto
ampio (1328-1337), fin troppo per chi, come Jeanroy167, ritiene che la composizione
dell’opera debba seguire da vicino la fondazione dell’accademia e non possa perciò
essere di molto successiva al 1330. L’uso manualistico cui le Leys sono destinate può
illuminare la questione: da una parte l’autore deve aver compiuto sufficienti studi
preparatori, dall’altra una composizione abbastanza rapida è verosimile, per l’urgenza di
fornire utili linee guida a chi partecipasse ad esami e competizioni nell’ambiente
dell’accademia. Si tratta comunque di ipotesi, anche perché la prima versione del testo è
perduta; la sua effettiva esistenza non è nemmeno certa, benché la renda probabile
l’impressione che altri grammatici (Castelnou in particolare) si siano ispirati ad essa in
tempi troppo precoci per le redazioni a noi note. La seconda, in cinque parti168, è stata
completata entro il 1341, come suggeriscono alcuni riferimenti interni e le citazioni, che
qui appaiono già con il titolo completo; si ricordi, però, che per la sua composizione è
stato ipotizzato anche un periodo un po’ più ampio (1337-1343). La terza è quella
abbreviata, in tre parti; è finita, forse attraverso più fasi, entro il 1356. Alcuni richiami
interni sono particolarmente rivelatori: nella redazione in tre parti si notano la figura di
Giovanni XXII (morto nel 1334), mentre in quella in cinque parti sono nominati Filippo
IV (che fu a Tolosa nel ‘36) e Gastone II (morto nel 1343)169. Altre indicazioni
cronologiche utili riguardano Molinier e Marc, il suo coautore. Il primo fu nominato
cancelliere, ricevendo l’ordine di terminare l’opera (cioè probabilmente di correggerla),
nel 1355, mentre Marc fu certamente a Tolosa come lettore e poi come professore solo a
partire dal ‘35.
Infine, possono essere considerate come ulteriori redazioni del medesimo testo anche la
fortunata traduzione in catalano e la versificazione del testo, cui si è accennato. La
prima è perduta, ma deve essere stata una versione breve, una sorta di compendio
preparatorio e temporaneo, che comprendeva, sembra, solo una parte degli argomenti.
167
In Jeanroy 1914, l’edizione critica delle Leys d’amor.
A pagina 106, Jeanroy parla di una versione in sei parti da cui avrebbe preso spunto, abbreviandola, la
versificazione catalana. Non è chiaro a cosa si riferisca o se sia un'erronea sovrapposizione rispetto alla
versione lunga in cinque parti. Infine, la sesta parte potrebbe coincidere con il dizionario in appendice.
169
Jeanroy indica anche la presenza nella redazione in cinque libri di un riferimento alla guerra tra
Francia e Galles che si svolse tra 1355 e 1356. Tuttavia questo dato appare in contraddizione con la sua
affermazione per cui quella redazione sarebbe compiuta entro il '41 (né questa aporia viene segnalata o
spiegata). Si potrebbe pensare semplicemente ad un refuso nel testo dello studioso. Egli per altro in
qualche luogo della sua analisi cita talvolta una redazione in sei libri, su cui però mancano indicazioni più
precise.
168
505
Nelle due redazioni che si possono considerare complete, benché di lunghezza
differente, la prima sezione costituisce una sorta di momento autonomo ed ha contenuto
multiforme. Una prima parte è storica, focalizzata sulla nascita del Concistori stesso;
segue una riflessione sulla poesia religiosa, per poi proseguire con due trattatelli
rispettivamente di etica e di retorica, che introducono tutti i concetti fondamentali per
l’attività dell’accademia.
Le fonti sono numerose, anche se non è chiaro quanto bene le conoscesse l’autore o
quanto si sia accontentato di rielaborazioni ed excerpta. I modelli principali risultano
Aristotele e Cicerone, ma dev’essere stata fondamentale la mediazione di Brunetto
Latini e soprattutto del Tresor, almeno per gli argomenti retorici. Attraverso quest’opera
(di cui circolava anche al sud la versione in lingua d’oil, anche se forse esistevano
traduzioni in quella d’oc), Molinier accede ad ulteriori fonti indirette, ad esempio
Salomone e lo pseudo-Seneca, grandi maestri cui l’autore dice di essere grato,
ammettendo la propria “scienza” insufficiente. Per i contenuti retorici e filosofici altri
modelli diretti sono Isidoro di Siviglia e l’Ars loquendi et tacendi di Albertano da
Brescia (già comunque utilizzato dal Latini, che anzi disponeva di altre due sue opere, il
Liber consolationis e il De amore Dei); egli a sua volta guarda con notevole
abbondanza ai classici e Molinier recepisce così tali fonti, per quanto tagli quasi
integralmente gli esempi. Non mancano ampi spazi di rielaborazione, con
considerazioni autonome e aggiunta di nuove citazioni: come ovvio l’attenzione si
rivolge innanzitutto ai trovatori, modelli fondamentali anche per le questioni retoriche.
Attraverso gli esempi tratti dalla produzione moraleggiante del Duecento, l’autore
introduce anche abbondanti spunti polemici; per i contenuti teologici è essenziale il
riferimento allo pseudo-Tommaso del Compendium theologiae veritatis, che Molinier in
parte traduce alla lettera ed in parte rielabora. Lo affianca infatti ad altre autorità, tra cui
spiccano i testi patristici e i grandi della Chiesa (Agostino, Bernardo, Gregorio,
Tommaso, Paolo, Ambrogio), l’Antico Testamento, ma anche opere più recenti (Pietro
Alfonso, S. Martino da Braga confuso però con Seneca) o classiche (Cicerone,
Cassiodoro, Esopo, Panfilo). Sono pochi i greci (Gorgia, Socrate, Pitagora, Aristotele e
in misura minima Platone) e le opere mediche (Ippocrate, Galieno e Avicenna). Il
principio di fondo è squisitamente medievale: la forza dell’autorità e l’energia
dell’argomentazione hanno grandissimo peso, mentre viene attribuito scarso valore
all’originalità della trattazione. Ciò non toglie che spesso le fonti siano introdotte in
modo impreciso, inesatto, confuso, senza nemmeno il tentativo di nominarle: l’intento è
in sostanza l’accumulazione di quante più citazioni possibile. Tra i vari documenti sono
privilegiati i contributi più polemici e forti a livello morale: ad esempio ricorrono il
biasimo verso il clero corrotto e la preoccupazione per lo stato dei diseredati.
Per la trattazione grammaticale vengono nominate esplicitamente solo tre fonti:
Prisciano, Isidoro di Siviglia e Donato, cui vanno aggiunti alcuni minori non dichiarati.
Si può ad esempio intuire il ruolo di Pietro Elia quale mediatore rispetto a Prisciano, di
Alexandre de Villadieu (Doctrinale), di Everardo di Betunia (Grécisme), di due famosi
glossari (il Catholicon e il Elementarium Doctrinae Rudimentum di Papia). Sono tutti
testi molto noti e diffusi, soprattutto in ambiente universitario; la struttura del discorso
506
si ispira dunque a quella dei manuali latini, in primo luogo classici e poi contemporanei.
Gli aspetti linguistici analizzati riguardano fonetica, accentazione, metrica (struttura del
verso, pause, sistema rimico, tipologia delle strofe), morfologia (nome, verbo, pronome,
aggettivo, genere, casi, articolo, avverbio, preposizioni), etimologia e sintassi.
La redazione lunga delle Leys è interrotta; il quinto libro si sarebbe concentrato
sull’amore in senso sia poetico che morale. Non ne resta che l’avvio, che propone una
lezione di stile e metrica, in base alla consapevolezza del valore che pertiene l’ordo
verborum e la relazione tra le parti della frase. Segue un dizionario delle rime usate dai
trovatori.
Le spiegazioni grammaticali sono piuttosto efficaci: Molinier è capace di sfruttare
appieno le sue fonti, tenendo al contempo presenti le differenze che intercorrono tra il
latino dei modelli e il provenzale. Inoltre, mette a frutto la propria conoscenza di alcuni
trovatori (soprattutto tardi, ma non solo). Riesce a riconoscere e censurare gli usi
erronei, nonché a distinguere i singoli dialetti (classificati su base diocesana). In tal
senso il suo riferimento è l’uso tipico di Tolosa, dove lo studio aveva salvaguardato una
lingua ancora piuttosto vicina a quella classica dei trovatori.
La preminenza dei modelli latini per il genere del trattato non implica che l’autore non
conoscesse o non tenesse in conto le anteriori grammatiche del provenzale, anzi proprio
la funzione regolatrice attribuita alle Leys rendeva necessaria una sistemazione di tutti i
materiali disponibili. Essi comprendono anche opere di pura poetica, cioè prive di
spiegazioni o riflessioni grammaticali, di cui sono rimaste tracce molto limitate, che
tuttavia Molinier sembra aver letto. Tra le grammatiche, gli sono familiari Raimon
Vidal e Uc Faidit. Molinier dimostra un rigore maggiore di Vidal, poiché non consente
di scegliere tra diverse alternative, imponendo per lo più soluzioni univoche, come
richiede d’altronde il normativismo dell’accademia. Il suo atteggiamento concorda con
quello di Faidit, la cui impostazione è però troppo semplice perché sia considerata la
fonte principale delle Leys, ben più elaborate.
Il confronto più significativo è quello con il Doctrinal de trobar di Raimon de
Cornet170, per la vicinanza cronologica, per l’appartenenza di entrambi all’ambiente
tolosano, per l’intenzione comune di favorire l’apprendimento di aspiranti poeti e
laureandi.
Può essere utile alla comprensione della vita culturale tolosana, tanto importante per chi
studi la fase tarda del trobadorismo, contestualizzare le attività intellettuali. A parte la
storia della città, è particolarmente interessante l’evoluzione dello studium univesitario,
centro d’eccellenza e luogo d’attrazione che permise lo sviluppo dell’intera regione171.
170 Per questo trovatore, il più importante dell’età tarda, si veda il paragrafo successivo.
171
Fonti essenziali sono Smith 1958 e in generale AAVV 1970.
507
10.2.1 La città
La fondazione di Tolosa è romana, sono registrati scontri con i barbari nell’età
tardoantica. Ma per questo periodo le informazioni non sono numerose. All’inizio
dell’epoca feudale la città diviene il punto di riferimento di una dinastia vassallatica che
da una parte assume il dominio di quasi tutta la Linguadoca (con titoli diversi, compreso
quello di marchesi di Provenza), ma dall’altra conosce frequenti spartizioni territoriali
fra eredi maschi, secondo una politica dinastica poco efficace. Dal punto di vista
culturale, questa corte172 è una delle più fastose ed accoglienti per i trovatori, già
nell’età “d’oro”, e nota per la prodigalità dei suoi signori. Ne fecero parte ad esempio
Marcabru e, nel suo periodo di maggior splendore, Bernart de Venadorn, Peire Rogier,
Peire Raimon, Folquet de Marseille, Peire Vidal173. Poco dopo vi si trovano anche
Raimon de Miraval ed una trobairitz nota come “dama lombarda”174. Nel medesimo
periodo la città rappresenta un centro religioso di notevole importanza, e infatti vi si
tengono numerosi concili. D’altro canto in generale nel Midi, e in particolare nel
tolosano, il clero non risulta particolarmente attivo a livello culturale e proprio nella fase
in cui altrove la vita intellettuale dipende maggiormente dalla Chiesa: dalla regione non
proviene nessuno studioso o artista memorabile, e i cataloghi disponibili mostrano una
singolare povertà di manoscritti anche per le abbazie più ricche.
Sono molto più dinamici i laici. Si sviluppano lo studio del diritto e della medicina, ma
anche la poesia in volgare: la Linguadoca partecipa delle origini della cultura cortese. I
conti di Tolosa non sono mecenati di primissimo piano, ma diversi trovatori sono a
vario titolo legati alla loro corte, e in particolare ad Alfonso Giordano e Raimondo V.
Tuttavia non sembrano connessioni durature o di particolare importanza, perché non si
sono salvati componimenti d’elogio o dedicati a questi signori in modo esplicito. Nel
frattempo crescono notevolmente le arti figurative e l’architettura, caratterizzate da
manifestazioni singolari e piuttosto riconoscibili, anche se soprattutto delle costruzioni
medievali è rimasto poco.
Dal punto di vista economico, Tolosa è una città solida e indipendente, anche se del
tutto secondaria a livello commerciale; vanta inoltre un costante afflusso di pellegrini.
Il declino si avvia con la questione catara: la crociata e l’Inquisizione si abbattono sulla
città con particolare violenza; in effetti risulta che Tolosa sia stata un centro attivo e
vivace anche sul piano del pensiero religioso, non sempre però considerato ortodosso.
Ai problemi spirituali e agli interventi pontifici, vanno aggiunte le lotte per il potere
politico, che vedranno vittoriosa la monarchia francese: l’epoca delle violenze e degli
scontri può dirsi conclusa solo con il 1229, quando Raimondo accetta la sconfitta nel
trattato di Parigi. La Linguadoca mantiene comunque la propria indipendenza sino al
1271, quando, alla morte del conte Alfonso, Filippo III riesce ad annettere la regione.
Le informazioni disponibili in merito al sistema scolastico locale non sono molte.
Certamente in epoca romana Tolosa poté vantare buone scuole, come testimonia
172
Sulla storia e sul ruolo culturale di questa corte di veda Anglade 1927, pp. 11 segg.
È al potere Raimondo V (1148-1194): vedi Anglade 1927, p. 14 (dove si cita anche Meyer).
174
Su questo personaggio si veda Anglade 1927, pp. 121-123.
173
508
Ausonio, ma in età medievale sembra che la loro organizzazione fosse gravemente
decaduta. Tuttavia nel periodo carolingio e nel contesto monastico l’attività educativa
deve aver mantenuto una qualche floridità. Lo sviluppo bassomedievale dell’educazione
e delle professioni appare in linea con quello tipico del Midi e dell’Europa occidentale
in genere175.
10.2.2 L’università
L’università di Tolosa ha una notevole importanza storica. Da una parte la sua nascita è
legata allo specifico contesto del Midi e alle sue problematiche. Dall’altra, essa diviene
un centro dalle numerose attrattive (vanta infatti un costante afflusso di studenti
aragonesi), partecipa sia alla storia locale, sia a quella pontificia in generale, compresa
l’epoca dello Scisma e della Guerra dei Cent’anni. Infine coinvolge l’interesse e
l’intervento della monarchia francese.
Le radici dell’istituzione universitaria a Tolosa sono nel trattato di Parigi, in cui è
inserita una clausola che impone un investimento abbastanza cospicuo per il
mantenimento di insegnanti: la preminenza della teologia lascia intuire l’intenzione di
combattere l’eresia attraverso l’istruzione, benché ci sia spazio anche per il diritto176 e le
arti liberali. È Giovanni di Garland, uno dei primi e più prestigiosi docenti dello studium
a dar conto di tale motivazione: in una lettera circolare del 1229, non firmata, studenti
ed insegnanti sono letteralmente associati a veri crociati, che si sostituiscono agli armati
dopo vent’anni di guerra, con l’intento puntuale di operare pacificamente. E le strutture
universitarie si rivelano efficaci, modificando con la loro stessa organizzazione e il loro
spirito la società feudale e borghese177.
Già negli anni precedenti, tuttavia, si colgono chiari indizi della futura fondazione ed è
già determinante l’intervento ecclesiastico: la fede rimarrà sempre il punto di
riferimento essenziale. Un contributo particolare si deve a Romano Bonaventura, della
cui origine e dei cui studi non si sa quasi nulla, ma che certamente è nominato cardinale
nel 1216; già esperto di problemi d’eresia, è inviato in Francia nel ‘25 e cerca di
calmare le dispute tra lo studium parigino e il cancelliere, questione in cui sarà implicato
ancora nel ‘29. Negli anni successivi è ancora coinvolto nella concessione di fondi per
lo studio della teologia e il sostegno agli studenti poveri (col tramite del vescovo) ad
Avignone. Insomma la questione educativa gli è familiare: per questo si pensa che
proprio il legato pontificio possa essere intervenuto in prima persona nel caso di Tolosa.
Uomo di fiducia di Bonaventura, ma apprezzato a quanto pare anche dal conte, è poi
l’abate cistercense Guerin, dal quale sembra derivi l’effettiva organizzazione
dell’università, la quale dunque risulta a maggior ragione inserita nelle fila della Chiesa.
Sono scelti alcuni professori di teologia di Parigi, estranei perciò alla pericolosa
175
Per la presenza a Tolosa di una scuola episcopale di un certo valore, anche rispetto alla questione
dell’insegnamento teologico, si veda il saggio di Vicaire in AAVV 1970.
176
L’insegnamento tolosano portò anzi significative innovazioni nell’approccio alla materia. Vedi Gilles
1970.
177
Delaruelle in AAVV 1970, p. 24.
509
temperie spirituale meridionale e al contempo facili da attrarre a causa degli scontri che
ancora sconvolgevano il celebre studio settentrionale. Non va poi dimenticata la
costante vigilanza del vescovo, necessariamente ortodosso.
Mancano indicazioni affidabili sulle reazioni degli abitanti alla creazione dello studium,
che di fatto costituisce un’imponente forma di ingerenza dall’esterno, innanzitutto
politica. Le testimonianze disponibili, il cui tono è marcatamente ottimista, sono un po’
più tarde (di nuovo, Giovanni di Garland) e comunque interne all’ambiente
universitario, che nel suo insieme (studenti e docenti) era “un corpo estraneo”178 rispetto
alla cittadinanza. A questo proposito è interessante anticipare che in tempi relativamente
brevi l’università diviene davvero occitanica, come dimostrano l’aggiunta dei corsi di
diritto civile, oltre che canonico, e la disponibilità di un insegnamento (anche se non di
una facoltà) di medicina, nell’ambito delle artes179.
Per quanto concerne l’avvio dei corsi veri e propri, è noto il ruolo di due docenti, uno in
particolare piuttosto celebre, il già citato Giovanni di Garland. Inglese, dopo i primi
studi nella terra d’origine, si trasferisce a Parigi, dedicandosi soprattutto
all’insegnamento del latino nel “Chiostro di Garlande” fino ai disordini del ‘29. È
soprattutto il meridione, e Tolosa in particolare, ad influenzare le sue opere, come il
poema sulla crociata albigese; esse offrono ben poche informazioni sul suo impegno
quotidiano presso il nuovo studium, ma è chiaro che egli integra l’insegnamento
grammaticale con contenuti morali, teologici e agiografici. È suo collega il domenicano
italiano Rolando di Cremona, che aveva insegnato filosofia a Bologna: arrivato a Tolosa
nel 1230 si impegna immediatamente nella lotta all’eresia180.
Segue a tale inizio entusiastico una fase di grave crisi. Da una parte continuano con
violenza le persecuzioni contro gli eretici, dall’altra il conte versa in gravi difficoltà
economiche a fronte delle enormi imposizioni del trattato di Parigi. Da Roma, Gregorio
IX cerca di contribuire alla sopravvivenza dello studium concedendogli le libertà di cui
godeva quello parigino e garantendogli la protezione delle istituzioni (comprese quelle
laiche)181. Tuttavia la situazione è complessa e convulsa, sia rispetto al funzionamento
dell’Inquisizione e al suo rapporto con le altre autorità ecclesiastiche, sia sul piano
politico, per i tentativi del conte Raimondo di trovare nuovi alleati182.
Solo negli anni Quaranta l’università di Tolosa comincia a svilupparsi realmente: non se
ne conosce con precisione il corpo docente, ma ci sono attestazioni certe della crescita
degli spazi dedicati al soggiorno degli studenti e ai primi collegi183, il che fa pensare ad
un aumento nel numero degli allievi iscritti.
178
Dossat in AAVV 1970, pp. 60-61
Dossat in AAVV, 1970, p. 62.
180
A proposito di questi docenti, il loro lavoro a Tolosa e le loro posizioni rispetto all’insegnamento, si
vedano i saggi di Vicaire e Dossat in AAVV 1970.
181
Sui contributi dei pontefici nel XIII secolo si possono consultare le pp. 70-77 di Dossat 1970.
182
Vedi Smith 1958, pp. 61 segg.
183
Per approfondire su questo argomento si può leggere il saggio di Faury in AAVV 1970. I collegi sono
in parte la risposta alle condizioni di vita durissime in cui versano gli studenti più poveri (Dossat 1970, p.
86).
179
510
Segue un’ulteriore fase di difficoltà, dovuta alla lenta riorganizzazione di Tolosa e
dell’intera regione a seguito dell’annessione operata da Filippo III di Francia: le dispute
si fanno sempre più numerose, sia tra gli aristocratici che tra gli ecclesiastici. Insomma,
sino al pieno Trecento la crescita dello studium è lentissima e quasi priva di eventi
significativi, in particolare dopo la morte di Raimondo: probabilmente è anche per
questo che mancano informazioni e documenti rilevanti184. Con il XIV secolo si delinea
invece una svolta. La validità del corso di diritto canonico viene riconosciuta
ufficialmente da Bonifacio VIII (che vi destina alcune concessioni) e dall’ordine
cluniacense (che lo raccomanda ai suoi membri). Sono proprio questi i corsi che
ottengono il maggiore successo e l’affluenza più costante185. Intanto la curia pontificia
si sposta ad Avignone: i vescovi di Tolosa e Béziers diventano cardinali ed avranno
contribuito a sollecitare l’interesse dei papi verso l’università, che infatti riceve nuovi
benefici. È particolarmente evidente l’attenzione di Giovanni XXII, nativo di Cahors
(dove, non a caso, sorgerà ben presto un altro studio). Cresce il prestigio di università e
città, si ampliano le strutture architettoniche, aumentano le cariche direttamente
concesse dai pontefici al loro entourage nel contesto tolosano. Quest’ultimo fattore ha
una notevole importanza per l’attrazione di nuovi studenti, le cui speranze di carriera
sono sollecitate dalla creazione di nuove posizioni di potere. Nel frattempo, cominciano
a giungere le prime concessioni reali186 a favore dell’università, che tra 1309 e 1329 è
nel pieno della sua floridità (non si può dire lo stesso per la regione, che subisce
numerose calamità, dall’inondazione del 1310 alle successive epidemie e carestie). Nei
decenni successivi, lo studium conosce la costante ingerenza dei due poteri nella
gestione e nella protezione delle attività quotidiane come degli eventuali disordini. Una
questione di particolare interesse concerne la facoltà di teologia. Tale settore degli studi
è ufficialmente assente a Tolosa, forse per l’insufficienza di maestri qualificati che se ne
occupassero: restano però i documenti della disputa col papato (che interviene
ricordando che la licenza di laurea in quell’ambito non è abitualmente concessa a
Tolosa) e con Parigi, evidentemente interessata a mantenere i propri privilegi di studium
teologiae. Il problema sarà risolto solo una trentina d’anni dopo, nel 1360, con la
creazione di una facoltà di teologia vera e propria, ratificata da Innocenzo VI; tuttavia è
certo che sino a quel momento l’università di Tolosa non smette di organizzare scuole
dedicate a quella materia e che sin dai tempi di Rolando da Cremona insegnamenti di
teologia sono impartiti con regolarità. Alla sua partenza, tale impegno è affidato sempre
a domenicani, generalmente estranei al Midi187, confermando perciò l’attenzione
all’ortodossia. D’altronde, anche se in modo ufficioso, il carattere abituale di tale
insegnamento è di fatto già stato riconosciuto dai papi, tramite concessione di benefici,
a partire da Clemente VI. I suoi successori, e soprattutto Urbano V e Gregorio XI, sono
184
Vedi Smith 1958, p. 72.
Dossat in AAVV 1970, pp. 65-68.
186
Per il rapporto con l’autorità regia, si veda Dossat in AAVV 1970, pp. 79-84 (le pagine seguenti
approfondiscono il rapporto con i poteri locali). È particolarmente interessante la connessione tra
amministrazione e studio del diritto, cui si è già accennato per il Midi in generale; proprio la richiesta di
giureconsulti può motivare il grande successo dei corsi di diritto, civile oltre che canonico.
187
Dossat in AAVV 1970, p. 63, e per la questione della facoltà di teologia in generale, pp. 68-69.
185
511
stati a loro volta forti sostenitori della neonata facoltà, garantendole in particolare la
costruzione di numerosi collegi188.
11. Raimon de Cornet189
Raimon de Cornet nasce probabilmente alla fine del ‘200, originario di Saint-Antonin
de Rouergue, ed è ancora vivo a metà del ‘300; è attivo come poeta probabilmente tra il
‘20 e il ‘49. Per il resto la questione cronologica non è chiara ed è oggetto di dibattito
fra gli studiosi (Perugi in particolare rifiuta la ricostruzione di Chabaneau). È certo che,
avviatosi alla carriera ecclesiastica, passa dal clero secolare all’ordine minoritico,
all’interno del quale resta per brevissimo tempo; torna poi al clero secolare ed infine
diviene monaco, entrando probabilmente nell’ordine cistercense. È possibile che egli
abbia avvertito il pericolo di avvicinarsi eccessivamente agli spirituali, in primo luogo
Pietro di Giovanni Olivi190.
Tra i suoi contemporanei Cornet è piuttosto noto e stimato; nel corso del tempo si lega a
diverse corti (soprattutto in area spagnola) dove ancora riesce a trovare mecenati
generosi. A queste relazioni si devono i testi elogiativi dedicati ad esponenti
dell’aristocrazia.
Al di là di questi contatti altolocati, per l’esperienza poetica del Cornet è centrale il
rapporto con il Concistori du Gai Saber, mediato dalle amicizie strette durante gli anni
di studio presso l’università di Tolosa e fondamentale per comprendere meglio il ruolo
del tardo trovatore nel contesto del Midi.
La competenza di Cornet in merito alla tradizione trobadorica sembra, tuttavia, migliore
di quella di compagni e colleghi: egli si appella spessissimo ai modelli classici, anche se
sono citati esplicitamente solo Peire Cardenal, At de Mons191 e un Aimeric
(probabilmente de Peguilhan); tuttavia anche Gaucelm Faidit, Raimon Jordan e
Raimbaut de Vaqueiras sono certamente fonti importanti. Tali legami con la grande
poesia del passato si rivelano chiaramente nella creazione di veri e propri contrafacta,
soprattutto sirventesi che il poeta stesso definisce tali. Perciò, egli è stato definito
l’ultimo vero trovatore, erede della grande tradizione cortese conclusasi con Guiraut
Riquier, ma anche tramite verso la nuova concezione della poesia, legata appunto al
Concistori e alle Leys192. Cornet dimostra poi una particolare venerazione per gli autori
più oscuri e le realizzazioni formali più complesse. Nella sua poesia in effetti è costante
l’attenzione alla forma, al ritmo, ai giochi di rime, con effetti di grande artificiosità,
ricercatezza e difficoltà: questa passione per il trobar clus coincide con il riaccendersi di
188
Questo aspetto è trattato con particolare ampiezza in Smith 1958.
Per il trovatore, il più importante della sua generazione, si vedano Jeanroy 1949, Noulet-Chabaneau
1973, Perugi 1985, Passerat 2000 e 2003.
190
Per lo più le informazioni di cui disponiamo sull’autore derivano dalla sua produzione poetica, dove
per altro anche i richiami alla storia contemporanea sono tutt’altro che numerosi e chiari. Per la questione
dell’ordine minoritico e della fazione spirituale, si veda Huchet 1991, pp. 180-181.
191
In realtà At de Mons è uno degli ultimi poeti di Tolosa, prima del Concistori stesso e dunque
rappresenta già un momento di decadenza o per lo meno la fase immediatamente precedente (Anglade
1927, pp. 187 segg.).
192
Huchet 1991, p. 174.
189
512
una vera e propria moda. D’altro canto, mentre l’ornatus è ricchissimo e denso, la
metrica e la struttura sintattica sono molto semplici e spesso poco significative. Il
virtuosismo è dunque concentrato principalmente nel lessico e nelle rime, abitualmente
preziose e difficili, nonché piegate a regole inflessibili. Un fattore ulteriore di ricchezza
e complessità si deve ai giochi numerici e calcolatori, che da una parte rispondono al
gusto dei trovatori tardi (contraddistinguono ampiamente, come si è visto,
l’organizzazione delle raccolte d’autore d’area iberica alla fine del Duecento) e
dall’altra servono quasi ad esaltare le capacità e la preparazione del loro autore193.
I suoi versi sono tramandati da tre codici, siglati A, B, Sg (noto anche come codice
Noulet, dal nome dello studioso che se n’è occupato)194. Lo scopo del copista di A era
probabilmente una raccolta dedicata al solo Cornet: ne recupera trentasei testi e li
organizza sistematicamente per genere (parte di questa sezione iniziale è perduta perché
le prime pagine del codice sono cadute). Tuttavia questi testi non erano sufficienti a
riempire le carte disponibili: è la ragione più plausibile per l’inserimento di altri autori
in una silloge di questo tipo. L’estensore deve però aver trovato in un secondo tempo
altri componimenti dell’autore principale e dunque li ha aggiunti, ma intercalandoli via
via a quelli di Pey de Ladies. La struttura di B è perfettamente affine a questa terza
sezione, poiché presenta solo opere di Cornet e di Ladies.
In conclusione i testi noti per il Cornet sono quarantaquattro, attribuitigli come unico
autore, cui si aggiungono quattro sue tenzoni con vari poeti, dieci tenzoni con il Laides
(del quale restano otto liriche)195.
La produzione di Cornet è ricca e disomogenea, caratteristiche che testimoniano
l’intenzione di affrontare i generi più disparati; se ne possono ricostruire momenti
diversi, che comunque presentano spesso una significativa coerenza interna e reciproca,
come per la produzione didattica e morale, le tenzoni e i partimens, e perfino nei testi
ispirati alle esperienze di beghinaggio. Le opere didattiche e morali paiono risalire agli
anni della maturità, cioè alla fase più tranquilla della sua vita, mentre quelle amorose (le
canzoni) vanno probabilmente attribuite al periodo giovanile, in parte forse anteriore ai
voti. Nel corso della sua vita, comunque, Cornet si è sempre mantenuto attivo in ambito
mondano, come dimostrano i componimenti (in parte occasionali) e la quantità di
mecenati che lo hanno protetto.
Tale molteplicità suggerisce che Cornet non abbia accettato i limiti imposti
dall’accademia tolosana; ad esempio ha accostato alle dediche alla Vergine temi più
tradizionali – l’amore per le dame e le cortesie, i piaceri della vita e della tavola cantati
nei plazer. Non manca un’interpretazione dell’amore tutt’altro che platonica ed anzi
193
Per la dedizione dell’autore all’elaborazione stilistica ed alcuni esempi di tale impegno, si veda Huchet
1991, pp. 184 segg. Al medesimo studioso si deve un’interessante definizione dello stile rispetto
all’espressione del singolo rispetto alla tradizione: “Le style est tension à l’égard d’une loi et renoncement
à une transgression totale […]. Le style se présente comme une formation de compromis exprimant la
singularité d’un sujet et, en creux, le code dont il s’écarte […]. Le style fait donc lien entre le sujet et le
code” (p. 178).
194
Ne mancano edizioni recenti; valgono ancora come riferimento essenziale i lavori di Chabaneau,
Noulet e Jeanroy.
195
Tale calcolo deriva dalle ricerche di Chabaneau; non concorda perfettamente Huchet 1991, che parla di
cinquantacinque testi.
513
erotica e ardente, proprio ciò che il Concistori cercava di cancellare. Si torna poi ad una
visione classicamente trobadorica dell’amore aristocratico, fedele alla singola dama, ma
al contempo adulterino; la convenzionalità caratterizza anche l’attacco misogino,
benché su un piano ben diverso, per quanto rinnovato dal gioco parodico imposto al
genere della pastorella, che funge da struttura del discorso. Per l’amata viene scelto il
senhal di “rosa”, che diviene così la firma dell’autore, il quale inserisce spesso il
termine nei suoi componimenti, anche con valore letterale. Non sono esclusi temi attuali
e politici o critiche al mondo ecclesiastico, che dimostrano l’attenzione di Cornet al
quadro storico coevo: così ad esempio nell’invocazione alla crociata. Anche in questo
caso, il poeta rinnova l’espressione tradizionale, mescolando punti di vista diversi,
cosicché la prospettiva più bassa e volgare sia sempre accostata a quella più ascetica e
pura. Come variano generi e temi, cambiano notevolmente anche i toni, dall’entusiasta,
al fiducioso, al deluso, al polemico. Alla produzione spirituale di contenuto teologico si
alterna quella satirica e irrisoria, anche ai danni della Chiesa; la linea anticlericale della
poesia di Cornet ha d’altronde un valore storico particolare, oltre che una notevole
frequenza. Testimonia infatti il permanere di un filone che era stato importante per il
trobadorismo classico, nonché uno spazio critico che gli anni dell’Inquisizione non
avevano potuto cancellare. Per questa ragione è illuminante che in varie occasioni il
tardo Raimon sia confuso con Peire Cardenal, suo modello fondamentale e vero
capostipite della poesia polemica occitanica.
Qualche esempio di tale produzione può rivelarsi interessante. Cornet nomina versa un
poema piuttosto ampio e articolato dedicato alla critica sociale e volto a suscitare la
conversione. Secondo il modello convenzionale degli “stati del mondo”, vengono
passate in rassegna tutte le classi sociali, ispirandosi al tema, altrettanto topico, del
mondo folle e rovesciato. L’attacco alla curia avignonese è qui particolarmente violento,
ma non sono da meno le requisitorie contro le alte sfere vescovili e gli ecclesiastici a
diretto contatto con i fedeli. Con piena coerenza, Cornet non rinuncia alla condanna dei
conventuali dell’ordine minoritico, benché a questo attacco sia riservato anche uno
specifico sirventese. Paiono salvarsi soltanto gli spirituali, che sullo stato della Chiesa
condividevano per altro la cupa opinione del poeta. Il breve passo della versa loro
dedicato è però molto oscuro; per questo sono forse più significativi i tre componimenti
definiti Joy spirituel, che reinterpretano in chiave francescana i principi tradizionali
dell’amor cortese196.
La scelta tematica e formale è dunque molto varia ed inoltre impreziosita da una
notevole capacità creativa nel delineare singole immagini ed accostamenti peculiari.
Non si può dire lo stesso per la scelta dei soggetti, per lo più poco originali, ed anzi
spesso battutissimi.
196
Le caratteristiche espressive di tali componimenti rivelano chiaramente l’approccio del Cornet alla
materia storica e contestuale. Non si dovrà infatti pensare ad un impegno concreto e fattivo, ma ad
un’elaborazione retorica che attualizza la tradizione e gli usi più convenzionali. Un “jeu verbal”, lo
definisce Huchet 1991 (p. 176), che serve a mostrare “l’habilité rhétorique” dell’autore.
514
Cornet è infine ricordato per una delle più significative grammatiche della lingua
provenzale, il Doctrinal de trobar, che è al contempo un vero manuale di poetica. Il
trattato risale al 1324, in coincidenza con il primo concorso indetto dal Concistori ed è
forse pensato come manuale istruttivo per gli aspiranti candidati, tuttavia la conclusione
rivela un respiro più ampio, grazie alla dedica a Pedro, figlio di Alfonso IV d’Aragona.
L’opera è piuttosto breve, in versi ed organizzata in quattro sezioni; l’ultima in
particolare è incentrata sui classici della tradizione trobadorica. La parte focalizzata
sulle spiegazioni grammaticali è succinta e superficiale, manca soprattutto di
sistematicità nell’esposizione, benché la struttura di fondo sia tratta dal Donatus, che
come si è visto costituiva un imprescindibile punto di riferimento. Le altre sezioni sono
dedicate all’accentazione, alle strutture metriche, alle rime, alle figure retoriche e ai
generi lirici. Lo scopo dell’opera, redatta integralmente in lingua provenzale, è
concentrarsi sulla versificazione occitanica e sulla grammatica che ne è caratteristica, e
proprio per questo le auctoritates sono riconosciute nei trovatori dell’età d’oro. Il
trattato ha un valore principalmente storico, anche per la possibilità di confrontarlo con
le coeve Leys d’amor: temi, problemi, attenzione alle questioni e ai contenuti morali,
lacune, errori sono in sostanza i medesimi. In effetti sono stati ipotizzati stretti rapporti
di derivazione o per lo meno di ispirazione reciproca tra i due testi, benché i diversi
studiosi intendano la relazione in senso diverso: Jeanroy pensa che Cornet non sia il
modello, ma il beneficiario, Passerat propone l’opinione opposta197. Potrebbe però
essere più proficuo porre l’accento non tanto su possibili rapporti diretti, quanto sulla
comunanza dell’ambiente di appartenenza, nonostante le differenze strutturali; si può
addirittura ipotizzare che nel contesto tolosano si siano svolti veri e propri dibattiti e
discussioni. È evidente d’altronde che a Tolosa e presso il Concistori, da cui deriva la
commissione ufficiale per le Leys, è profondo l’interesse per i contributi di carattere
grammaticale. Inoltre Cornet aveva già scritto un’opera di questo tipo (intitolata Letra)
in età giovanile e conferma anche successivamente il suo interesse per l’orizzonte
grammaticale componendo una seconda opera in versi198, che egli chiama Reglas per
trovar, citando dunque implicitamente Raimon Vidal. Lo scopo di questo trattato, che
rimase incompiuto, è sempre offrire aiuto ai giovani che vogliono scrivere, ma non
riescono ad evitare censurabili errori e mancanze: non potranno che guardare alle
modalità espressive e all’insegnamento degli antichi trovatori. In questa occasione
l’autore afferma nuovamente la propria adesione al Concistori e il suo debito
intellettuale verso l’ambiente tolosano, dove aveva trovato una buona educazione e la
corona poetica.
197
198
Jeanroy 1949, Passerat 2000 e 2003.
In realtà la datazione posteriore rispetto al Doctrinal non è certa, ma frutto dell’ipotesi di Jeanroy.
515
CAPITOLO SETTIMO
Esperienze culturali e rapporti intellettuali del giovane Petrarca
Le scoperte sulle conoscenze latine di Petrarca sono state molto ampliate nel tempo,
grazie in particolare alla ricostruzione della sua biblioteca; al contrario resta pressoché
inalterata la difficoltà (e addirittura l’impossibilità) di chiarire i suoi interessi in ambito
volgare. Rispetto alle letture provenzali la situazione è forse ancor più vaga che per
quelle italiane: già quando nel ‘500 gli studi di provenzalistica vivono una vera e
propria rinascita e ci si interroga sul significato delle citazioni petrarchesche1, i
documenti relativi a tale aspetto dell’educazione del poeta appaiono perduti. È un
segnale evidente che la fase occitanica della storia poetica in nell’epoca della
“rivoluzione” culturale umanistica e rinascimentale non rappresentava più una priorità2.
Dopo aver affrontato il generale contesto intellettuale, scolastico e trobadorico in cui
Petrarca è vissuto e in mancanza di documenti specifici sulle sue curiosità romanze, è
comunque possibile arricchire il suo ritratto in riferimento alle relazioni personali e ai
contatti individuali, soprattutto quelli che riguardano il periodo della formazione. Gli
incontri con gli uomini di cultura della sua epoca sono stati indubbiamente utile veicolo
di scambio e confronto a livello letterario. Tuttavia, anche in tal senso sono preminenti i
fattori di rinnovamento e quindi l’attenzione alla classicità: sia nelle fonti di cui
disponiamo, sia nell’atteggiamento e negli entusiasmi degli intellettuali.
1
È fondamentale in tal senso il ruolo di Bembo. Tali aspetti sono stati approfonditi nel corso del primo
capitolo.
2
Studiando gli interessi petrarcheschi di Federico Borromeo, alla luce dei rinnovati studi filologici nella
Milano di fine Cinquecento, Motta 2004 ha illustrato quale importanza avesse al tempo la conoscenza
dell’eredità trobadorica in riferimento agli studi su Petrarca. Grazie alla mediazione di Fulvio Orsini, che
ne era stato maestro, Borromeo dispone della raccolta e del dizionario provenzali preparati da Giovanni
Maria Barbieri (per il quale si veda il capitolo precedente). L’interesse del cardinale è testimoniato anche
da alcune sue riflessioni sui generi letterari, in cui da una parte cita quale fonte di Petrarca un innominato
poeta portoghese tradotto in “limosino” (tuttavia poi si parla di “lingua d’oca” e di lingua dei “poeti
provenzali” in genere – p. 238). Dall’altra, Borromeo propone un’imprecisata connessione tra Petrarca e
la tradizione trobadorica; tale convinzione gli viene dalla testimonianza dello stesso Fulvio Orsini, il
quale si era vantato di possedere un canzoniere trobadorico un tempo di proprietà dell’Aretino. Del codice
si descrivono le notevoli dimensioni e la grafia antica; esso viene poi accostato ad altri simili documenti
di cui circolava notizia (un manoscritto di Avignone ed uno appartenuto ad Aldo Manuzio). Ciò che si
ricava soprattutto, però, è la scarsa consapevolezza che un uomo di straordinaria cultura, quale appunto il
cardinale, poteva vantare in merito alla letteratura occitanica alla fine del XVI secolo: Borromeo dichiara
che di quegli autori “non c’è molta cognitione” e addirittura ritiene necessario correggere l’informazione
a lungo corrente per cui la poesia provenzale sarebbe stata il prodotto della curia pontificia in Provenza,
mentre invece si trattava di un’esperienza ben più antica (p. 238; alle pp. 238-239 si trovano numerose
indicazioni sui manoscritti citati). Ovviamente il riferimento più interessante è quello al codice
trobadorico appartenuto, forse, a Petrarca: Orsini lo aveva catalogato segnalandone il contenuto (poesie di
centoventi autori) e le note a margine, attribuite appunto a Petrarca e Bembo. Il canzoniere è oggi
identificato nel codice K, ora a Parigi, che in effetti appartenne al Bembo ma, come sostiene Motta,
“senza fondamento era ipotizzato che le notazioni del precedente possessore risalissero al Petrarca” (p.
239).
Anche Bertoni 1937 aveva accennato alla possibilità che si fosse conservata una silloge un tempo
posseduta da Petrarca; anche in questo caso però è evidente l’incertezza nel riportare una semplice
opinione corrente.
517
1. La formazione elementare e universitaria
Come si è visto, nel Basso Medioevo la formazione (di base e superiore) è
istituzionalizzata: la sua organizzazione condivisa e per così dire standardizzata la rende
più accessibile allo studioso moderno rispetto agli interessi individuali.
1.1 L’educazione elementare e Convenevole da Prato
Petrarca apprese i rudimenti delle artes privatamente, a Carpentras3. Perciò non è
possibile far riferimento ad una struttura educativa ufficiale e documentata; per
comprendere quali strumenti egli abbia avuto a disposizione, bisogna da una parte tener
conto del sistema scolastico tipico del suo tempo4 e dall’altra valutare la figura del
maestro, dalle cui capacità dipendeva in larga parte il successo degli allievi5.
La figura di Convenevole da Prato è poco nota6: egli viene ricordato più che altro come
maestro elementare di Petrarca e se ne conosce principalmente ciò che testimoniò il suo
illustre allievo. Nacque a Prato fra il 1270 e il 12757, figlio di Acconcio di Ricovero;
all’inizio degli anni Novanta prese gli ordini minori, in un documento del 1305 è
ricordato in qualità di notaio. L’attività notarile era consueta sia nella famiglia paterna
che in quella materna; entrambe appartenevano all’ambito ghibellino ed erano quindi
ben poco apprezzate a Prato, dove dominava la fazione guelfa. Nel 1306 Convenevole
raggiunse i parenti a Pisa, dove si erano rifugiati a causa di scontri politici; qui si trovò
anche Petrarca tra l’11 e il ‘12 ed è quindi possibile che già in questo periodo sia
cominciato il suo magisterio. Se ne perdono le tracce fin quando è testimoniata la sua
presenza ad Avignone, nel ‘17; tuttavia la sua attività di precettore del giovane
Francesco va collocata negli anni immediatamente precedenti, tra ‘12 e ‘16. In
Provenza, Convenevole esercitò solo in minima parte l’attività di notaio, per dedicarsi
con assoluta preminenza all’insegnamento di grammatica e retorica. Non risulta che
3
Petracco fece stabilire qui la famiglia in primo luogo a causa dell’estrema difficoltà nel trovare un
alloggio ad Avignone; tuttavia le strutture amministrative e giuridiche di Carpentras, che era stata
temporaneamente sede di Clemente V e Giovanni XXII, la rendevano ancor più adatta a molti degli esuli,
soprattutto italiani. In Suitner 20053 vengono delineati tali fattori contestuali e approfondito il ricordo di
Petrarca: lo stesso poeta affronta l’argomento nella Senile X, 2.
4
Se n’è trattato ampiamente nel quinto capitolo.
5
Per altro si è visto come tale principio valga anche in scuole dall’impostazione più articolata e
dall’utenza più ampia.
6
Per il personaggio di Convenevole da Prato si veda anche D’Ancona 1884. A livello di deduzione, lo
studioso sottolinea come l’assenza di indicazioni in merito suggerisca che Convenevole non aveva avuto
una preparazione giuridica; ipotizza poi che la sua formazione superiore abbia avuto luogo a Bologna
piuttosto che a Firenze.
Per ulteriori e più recenti approfondimenti sulla figura e la biografia di Convenevole da Prato si vedano
Giani 1913, Piattoli 1933, Frugoni-Piattoli-Petrucci 1969, Billanovich-Polizzi 1997.
7
Tuttavia in proposito le opinioni sono discordanti, dovute alle difficoltà interpretative poste dalla Senile
petrarchesca a Luca da Penna che rappresenta appunto la fonte principale a nostra disposizione sul
pratese. Se i rapporti di Convenevole con Niccolò da Prato andassero effettivamente ricondotti all’attività
scolastica, anche ammettendo che il primo fosse giovanissimo quando insegnava al secondo,
bisognerebbe anticiparne la data di nascita a prima della metà del secolo (BDI, p. 564).
518
abbia saputo conquistarsi particolari vantaggi presso la curia; di fatto gli fu essenziale
l’amicizia di Petracco prima e di Petrarca poi, che gli offrì aiuti nelle forme più
disparate, compresi prestiti di denaro e di libri8.
Nel 1336 Convenevole, anziano e privo di allievi, tornò in Toscana, dove però morì al
più tardi all’inizio del ‘38. Petrarca lo ricordò ancora una volta in un’ultima lettera con
grandissimo affetto, sottolineando le onorificenze che finalmente il maestro poté
ottenere, anche se postume. Dei suoi studi elementari il poeta parla principalmente in tre
sedi: la Senile X, 2 a Guido Sette, la Posteritati e la Familiare XXIV, 1 a Philippe de
Cabassoles.
La testimonianza molteplice di Petrarca tramanda l’immagine di Convenevole come
intellettuale appassionato, ma improduttivo9, poco dedito alla scrittura e
all’approfondimento. Certo a lui si deve un esempio formativo rispetto all’amore per i
classici e al senso del colloquio diretto con gli auctores10.
Nel periodo universitario Petrarca si inserisce in una realtà sociale e culturale molto più
ampia e variegata, dunque potenzialmente più proficua per l’arricchimento degli
interessi e della consapevolezza intellettuali. Anche a questo proposito, sono piuttosto
chiari gli elementi organizzativi, comuni e istituzionalizzati, mentre a livello individuale
è spesso necessario accontentarsi delle ipotesi degli studiosi.
1.2 Montpellier
Il periodo che Petrarca trascorse a Montpellier tra il 1316 e il 132011, avviandosi allo
studio del diritto, è noto principalmente grazie a ciò che il poeta stesso ne ha raccontato
in tre epistole. Nella Familiare XX, 4 fa riferimento ai sette anni dedicati alla
giurisprudenza: fu il padre ad imporgli l’impegno universitario a partire dall’età di
quattordici anni, prima a Montpellier e poi a Bologna12. È probabile che ser Petracco – e
così il padre di Guido Sette, l’amico con cui Francesco condivise le sue esperienze di
studente – lo avesse accompagnato; né è escluso che egli avesse scelto personalmente
gli insegnanti del figlio. Nella Posteritati Petrarca precisa quanti anni ha passato presso
8
È famoso l’episodio del De gloria, che ufficialmente Petrarca prestò al vecchio maestro per motivi di
studio, ma che poi venne impegnato. Convenevole non poté accettare per orgoglio che l’allievo lo
riscattasse a sue spese, ma non ebbe i fondi per farlo a sua volta, e così causò la perdita del prezioso
volume. (DBI, p. 565).
9
Petrarca insiste soprattutto sulla tendenza del maestro ad iniziare di continuo nuovi progetti senza poi
svilupparli. In effetti di Convenevole non resta nulla, se non un poema, definito Regia carmina, che di
fatto ha un andamento centonistico, per altro anonimo e di dubbia attribuzione. Oltre alle edizioni
commentate dell’opera, se ne può leggere un’analisi in Frugoni 1980.
10
D’Ancona inoltre evidenzia il ruolo che Convenevole deve aver avuto nell’apprendimento linguistico di
Petrarca, al di là della lingua parlata in casa (da cui per altro Francesco fu a lungo lontano e avendo
comunque perso molto presto i genitori) e dell’elevata presenza di italofoni nell’ambito della curia
avignonese. Non è impossibile d’altronde che proprio il maestro gli avesse mostrato per primo alcune
liriche in volgare italiano, sollecitando così la curiosità dell’allievo.
11
A proposito di questa esperienza universitaria di Petrarca si vedano Lo Parco 1915 e Martin 1961.
12
Spesso i critici hanno interpretato la definizione di “pubertà” che Petrarca usa nella lettera riferendosi ai
quindici anni, ma in età classica questa fase della vita inizia d’abitudine proprio ai quattordici.
519
lo studium francese, mentre nella Senile X, 2 offre una breve descrizione del contesto
dell’università, spiegando quanto fosse fiorente la città, pur nel difficile equilibrio fra i
due poteri dominanti (il re di Maiorca e il re di Francia, destinato a prendere il
sopravvento13): ne vengono ricordate anche la tranquillità, la ricchezza, la presenza di
maestri e studenti di grande valore, in contrasto con la decadenza del presente14.
A parte le informazioni sull’organizzazione generale, è noto che l’attività di studente di
Petrarca non fu molto proficua, mentre egli cominciava ad appassionarsi ai classici.
Infatti, si colloca in questi anni il famoso episodio dei libri bruciati dal padre15.
Un elemento difficile da valutare è quanto Petrarca abbia potuto apprendere al di là del
puro diritto. È importante, anche se non determinante, il fatto che l’università offrisse
anche una facoltà di arti, per completare la formazione di base: non solo trivio e
quadrivio, ma in parte anche le artes dictandi e concionandi. Per quanto concerne le
opere volgari, anche ammettendo l’assenza di una scuola di retorica, come sostiene il Lo
Parco16, ed accettando in toto le affermazioni dello stesso Petrarca, che in occasione
della sua orazione al re di Francia (1361) dichiarò di non conoscere il francese17, il
contesto di Montpellier era davvero favorevolissimo alla lettura di testi provenzali18. Era
essenziale in proposito la vicinanza con Tolosa, dove a breve si sarebbe avviata
l’esperienza del Concistori del Gai Saber, e di Narbona, uno dei centri della produzione
trobadorica classica; la stessa Montpellier, comunque, aveva partecipato in primo piano
alla stagione d’oro della poesia cortese. È facile immaginare che circolassero ancora
testimoni della tradizione occitanica, considerando che su tali materiali, anche antiquari,
deve essersi basato, se non altro, il recupero tolosano. Abbondavano inoltre gli studenti
d’area provenzale e linguadociana, grazie ai quali il giovane Petrarca potrebbe aver
approfondito la propria conoscenza linguistica e letteraria; nulla vieta di pensare che
siano stati proprio i compagni a fornirgli testi o raccolte da leggere, senza che sia
necessario ipotizzare che egli ne abbia possedute in prima persona. Tuttavia è forse
troppo presto per immaginare occasioni mondane in cui Petrarca abbia declamato carmi
non suoi (italiani e provenzali): tale è invece l’opinione del Lo Parco, che parte
dall’esempio delle esperienze sociali del poeta successive e più mature, di cui resta
testimonianza per il periodo bolognese.
13
Il regno di Maiorca era nato non molto tempo prima, verso la metà del ‘200, per offrire un’occasione di
governo al secondogenito del re d’Aragona; divenne ben presto oggetto d’interessi da parte degli altri
potenti europei, che godevano di possibilità politiche ed economiche ben più ampie e stabili. Tali frizioni
non sembrano aver comportato gravi conseguenze alla città e all’università di Montpellier, entrambe
protette dalla vivace situazione economica. Tuttavia il quadro politico si aggravò alla metà del Trecento,
quando il piccolo regno venne ripartito tra Francia ed Aragona. Iniziò infatti una fase di grave decadenza
per la città: tale condizione continuò a peggiorare a causa dei successivi attriti tra Francia e Navarra, che
determinarono sorti altalenanti per l’intera regione.
14
Il tema è molto diffuso nelle epistole e anche nelle rime di corrispondenza, in particolare del Petrarca
maturo; la Senile in questione risale al 1368.
15
L’episodio è stato anticipato nel quinto capitolo.
16
Lo Parco 1915.
17
La dichiarazione, presumibilmente menzognera, era motivata dalla necessità di giustificare la decisione
di parlare in latino, scelta che a sua volta non aveva origine da semplici impedimenti nella conoscenza
linguistica, ma da una precisa volontà culturale.
18
Lo suggerisce in effetti anche lo stesso Lo Parco 1915.
520
1.2.1
L’università di Montpellier
Non sarà superfluo, a questo punto, contestualizzare il soggiorno di Petrarca presso lo
studium provenzale, in riferimento alla sua antica storia19.
L’antica università venne fondata a cavallo tra XII e XIII secolo, ufficialmente solo
come insieme delle Écoles de Montpellier, allora in piena autonomia rispetto all’autorità
pontificia. Solo nel 1289 Niccolò IV ratificò la fondazione dello studium, con lo scopo
di organizzare e classificare le attività educative della città, riferendosi specificatamente
alle facoltà di arti, medicina e diritto. L’istituzione rimase incompleta, dunque, per
l’assenza della teologia20.
La scuola di diritto21 vantava una lunga tradizione: quando il “Placentino”, nel 1165
circa, vi portò il suo metodo bolognese, i corsi erano già attivi da qualche tempo. La sua
docenza segnò quasi un cinquantennio di grande floridezza e riconosciuta eccellenza,
cui seguì una fase di piatta mediocrità. Solo dopo la metà del ‘200, quando la città era
ormai possesso aragonese, il re Jayme I cercò di invertire la tendenza, con la nomina di
nuovi luminari. L’intervento regio, che si era svolto senza consultare il vescovo,
provocò la reazione del pontefice, che si impegnò a favore del benessere cittadino: in
particolare, il vescovo venne investito dell’autorità di nomina per i professori e dunque
fu invitato ad esercitarla con solerzia22. Sul finire del XIII secolo, la scuola – poi facoltà
– di diritto si avviò ad una nuova fase di splendore e all’inizio del Trecento l’interesse
della vicina curia avignonese sarebbe stato ancora maggiore.
I corsi erano numerosi, dedicati al diritto sia romano che canonico. L’organizzazione era
tipicamente italiana e non francese (parigina); gli studenti erano organizzati in base
all’area di provenienza, provenzale, borgognona e catalana.
Nel frattempo erano nate le scuole di medicina23 e di arti. La prima, in realtà, affondava
le sue radici in studi anteriori, le cui prime testimonianze risalgono al 113724; alla fine
del secolo la pratica della professione, e dunque la formazione necessaria, venne
liberalizzata, forse per far fronte all’aumento della popolazione. Con tale atto, Guilhem
II sancì nel 1180 il pieno avvio della scuola e pose le premesse per la sua crescita.
Tuttavia la sua organizzazione e i suoi statuti dipendevano ancora dalla Chiesa e dal
19
Utile riferimento bibliografico è Bories 1970.
Tuttavia non erano assenti scuole di teologia, benché non dessero diritto ad una licenza di laurea:
Bories 1970, p. 94. D’altronde, anche se se ne conosce ben poco, bisogna supporne l’esistenza in base alla
necessità di preparare i novizi; inoltre alla metà del Duecento è nota una scuola gestita dai Predicatori. A
Montpellier si trovava poi il famoso Alano di Lilla, di formazione parigina, che certamente scrisse qui
parte delle sue opere e potrebbe anche aver insegnato (Delaruelle 19703).
21
Per le modalità tipiche dello studio del diritto e la loro evoluzione nel corso del Duecento, si veda
Gilles 1970.
22
È questa una differenza fondamentale rispetto all’organizzazione di Tolosa, che invece per molti aspetti
si è tentati di paragonare a quella di Montpellier, se non altro per la vicinanza cronologica e l’intervento
parimenti costante del pontefice (su questo confronto, Delaruelle 19702). A Tolosa, infatti, dominava da
una parte il recupero dell’esempio parigino e dall’altra l’influenza del capitolo, che invece a Montpellier
aveva dovuto cedere il passo ad un “cancelliere” interno all’università, cioè scelto tra i professori.
23
È questa la disciplina dominante, anche rispetto al diritto: la contrapposizione con Tolosa non potrebbe
essere più netta. Per le modalità del suo esercizio e del suo insegnamento, in stretta relazione più con la
teologia che con la scienza in senso proprio, si veda Delaruelle 19703, pp. 232-240.
24
Bories 1970, p. 98.
20
521
legato pontificio Conrad, che si trovava nel Midi come difensore dell’ortodossia: la
pratica dell’insegnamento rimase libera, e dunque basata su piccoli gruppi di allievi
raccolti intorno ad un docente, ma fu definito in modo puntuale il cursus studiorum. Le
singole scuole furono regolate e riunite solo nel 1240: fu l’ultimo cambiamento
significativo per la formazione medica a Montpellier, per la quale sarebbe poi bastata la
solerte vigilanza dei papi e dei loro legati25.
Alla base dei corsi specializzanti fu sempre l’insegnamento della grammatica e della
logica: dunque erano queste le discipline scolastiche di più antica definizione. Tuttavia a
lungo si è trattato soltanto di semplici scuole elementari la cui organizzazione di base
era a grandi linee comune a tutto l’occidente cristiano. In assenza di documenti puntuali,
si può ipotizzare che la presenza di tali scuole fosse molto diffusa anche a Montpellier.
Qui l’organizzazione centrale e dunque una maggiore specializzazione nel settore delle
artes vennero raggiunte solo nel 1242 grazie al vescovo Jean de Motlaur, che in
sostanza imitò lo statuto della scuola di medicina.
1.3 Bologna
Tra il 1320 e il 1326 Petrarca si spostò a Bologna per continuare gli studi di diritto26: la
città era un centro economicamente fiorente, come testimoniano l’ampliamento del
tessuto urbano e il suo arricchimento architettonico, ed ancora molto prestigioso nel
campo del diritto, meta di studenti soprattutto dalla Francia e dalla Provenza27. Petrarca,
nelle epistole già citate, lascia intravedere le piacevolezze cui potevano abbandonarsi gli
studenti, ma più in generale vari autori dell’epoca prendono spunto dal vivace contesto
bolognese, come Giovanni del Virgilio per il suo Diaffonus.
I tentativi di ricostruire questa fase della giovinezza di Petrarca non sono molti e devono
purtroppo limitarsi agli aspetti strettamente biografici, in particolare ai vari spostamenti
tra l’Italia e la Francia. Già nel ‘21 Francesco, il fratello Gherardo e l’amico Guido
Sette, che avevano condiviso il trasferimento presso questo secondo studium, si
dovettero allontanare insieme al loro precettore, a causa di tumulti studenteschi che
determinarono addirittura alcune condanne a morte28. I tre ripresero le lezioni nel ‘22,
ma tra il ‘24 e il ‘25 tornarono nuovamente in Provenza. Nel 1326 la morte di Petracco
costrinse i suoi figli al definitivo rientro in patria.
Wilkins ha il merito di aver ampliato il discorso sul periodo formativo di Petrarca, con
una ricognizione delle sue letture classiche: ad esempio, l’acquisto nel 1325 del De
civitate Dei di sant’Agostino, documentato dallo stesso Petrarca all’interno del codice.
25
Per lo sviluppo della scuola di medicina, si veda anche Delaruelle 19703.
Su tale argomento, riferimenti bibliografici generali si trovano in Zaccagnini 1934 e Foresti 1977, pp.
18-26.
27
Per tali informazioni si veda in particolare Zaccagnini 1934.
28
I tumulti in realtà si intrecciavano a scontri e incertezze politiche. Dapprima il gruppo deve aver
progettato di restare in Italia, con la prospettiva di tornare presto a Bologna; si fermarono probabilmente –
come suggeriscono sia Wilkins sia Foresti – a Rimini, Imola, forse Pesaro. Passarono poi a Venezia e,
nella fondata convinzione che la situazione non si sarebbe risolta rapidamente, da lì tornarono oltralpe.
26
522
Zaccagnini e Lo Parco29, d’altronde, hanno ritenuto che Petrarca non ascoltasse solo
lezioni di diritto, ma seguisse i corsi di famosi “illustratori di classici”30, quali Bartolino
di Benincasa da Canulo e Giovanni del Virgilio31.
Wilkins inoltre esalta le capacità del poeta come studente di diritto, mentre gli altri
critici insistono tendenzialmente sull’insuccesso di questa come della precedente
esperienza universitaria. Lo studioso propone infatti di distinguere dalla pratica legale,
che il giovane poeta dichiara di non poter tollerare, l’apprezzamento e quindi l’impegno
di Petrarca rispetto agli elementi teorici, da cui egli sembra incuriosito per la nobiltà
della disciplina, lasciando perciò sperare in risultati brillanti.
Wilkins continua riferendosi alla già citata Senile X, 2, in cui Petrarca descrive i
divertimenti e per così dire gli eccessi della vita da studenti: lo scopo dello studioso è
approfondire gli incontri dell’autore in questi anni. Alcuni furono in effetti alla base di
amicizie davvero durature, come nel caso di Tommaso Caloiro e soprattutto di Giacomo
Colonna.
Più in generale va considerato il contatto con la produzione letteraria volgare, che
rappresenta al contempo la tradizione, ma anche una realtà viva ed attuale nelle
abitudini sociali e mondane dei giovani. È molto probabile che lo stesso Petrarca abbia
cominciato a comporre in questi anni, anche se nessuna rima così antica risulta
sopravvissuta; d’altronde è limitante affermare che egli “venne per la prima volta in
contatto con uomini e giovani che scrivevano poesia non già nel latino delle scuole,
bensì nella loro lingua viva”32. Infatti, anche nella Provenza in cui Francesco si era
formato perdurava l’uso della lingua natia: rimangono chiaramente le tracce degli ultimi
epigoni del trobadorismo, animati dal medesimo spirito da cui sarebbe nato pochi anni
dopo il Concistori du Gai Saber.
1.3.1
L’università di Bologna
Lo studium bolognese è a buon diritto uno dei più famosi33. Benché la sua fondazione,
una delle più antiche, presenti ancora contorni piuttosto sfumati, se ne possono
delineare alcuni fattori essenziali: la riscoperta della tradizione romana attraverso il
Corpus iuris civilis, il tentativo di rinnovarne ed approfondirne l’interpretazione,
l’evoluzione dell’insegnamento, ispirata proprio dall’opera di Giustiniano. L’università
nacque dalla riforma delle scuole nel corso del XII secolo (e addirittura dalla fine
dell’XI), in una fase che coincise con il massimo sviluppo del comune, favorito
dall’indebolimento dell’impero, in lotta con il papato. Proprio l’organizzazione politica
potrebbe aver fornito il modello per l’avvio delle prime societates di studenti e
29
Zaccagnini 1934, Lo Parco 1915.
Zaccagnini 1934, p. 241
31
Di Giovanni del Virgilio si è già parlato nel quinto capitolo. Per Bartolino da Canulo vedi Zaccagnini
1924.
32
Zaccagnini 1934, p. 14.
33
Riferimenti utili per questo tema si trovano in particolare in Verger 1982, AAVV 1990, Dolcini 2007 e
Mazzanti 2007.
30
523
insegnanti34. Mentre a Parigi vedeva la luce una corporazione di docenti, a Bologna il
passaggio al XIII secolo comportò una vera svolta, in cui sarebbe risultato centrale il
ruolo degli studenti. Gli insegnanti, infatti, erano protetti dalle istituzioni del comune, in
quanto locali35; gli allievi, invece, non vi appartenevano e dunque sentirono la necessità
di sostenersi a vicenda, in una fase in cui le garanzie concesse dall’imperatore
perdevano la loro efficacia. La forza degli studenti risiedeva nello stato civile laico della
maggioranza dei docenti, che dunque erano mantenuti dai pagamenti dei loro stessi
allievi. Va per altro notato che la loro maturità – l’età media era più alta che a Parigi – e
la sicurezza socio-economica – gran parte degli alunni era d’origine aristocratica –
favorirono un’efficace gestione dello studium. I diritti degli studenti vennero
riconosciuti da Onorio III nel 1219, che cercò di garantire anche l’autonomia dei
professori rispetto al comune. La situazione si stabilizzò tra 1228 e 1229: le istituzioni
comunali riconobbero gli studenti stranieri, che quindi non ebbero più bisogno di
garanzie autonome. La presenza di numerose altre università in Italia, inoltre, limitò
l’urgenza della secessione.
2. Amici e corrispondenti del Petrarca
La vivacità delle relazioni personali intrattenute da Petrarca sin dagli anni avignonesi (e
– lo si è visto - già all’università, per lo meno a Bologna) è evidente in tutte le
ricostruzioni biografiche. È ben nota la familiarità del poeta con gli uomini più in vista
del suo tempo, con i protagonisti della vita politica, militare e soprattutto culturale. La
ricchezza di tali contatti motiva per altro l’interesse dell’epistolario e dunque l’impegno
compositivo del poeta nella sua preparazione; certamente la mole delle due raccolte,
Familiari e Senili, è essa stessa valida prova di una prassi comunicativa costante.
La collaborazione tra bibliofili è altrettanto documentata: la circolazione dei classici
riscoperti di recente si basava innanzitutto sullo scambio tra appassionati, nel desiderio
di condividere e partecipare. Rispetto agli studi latini, le amicizie di Petrarca sono state
scandagliate in modo approfondito, come sempre grazie alla maggiore disponibilità di
documenti in merito al rinnovamento umanistico.
La vivacità di tale contesto culturale in evoluzione, inoltre, si coglie in modo evidente
pensando a quanti uomini d’arme, personaggi politici o professionisti della mercatura
siano attivi a livello intellettuale: il loro desiderio di ampliare ed aggiornare le proprie
letture favorisce ulteriormente il clima di dialogo e confronto.
Si sono anticipati i limiti che gravano su un’analisi dedicata alla tradizione volgare, e in
particolare occitanica: il disinteresse nelle testimonianze dell’epoca, l’assenza di indizi
34
Come sottolinea Verger 1982, è difficile trovare informazioni più precise sulle modalità di formazione
di queste prime associazioni. La mancanza di documenti potrebbe essere motivata da un’intrinseca
contraddizione tra il diritto stesso (romano, e dunque imperiale) e le organizzazioni private, che da quel
diritto, in linea teorica, non erano contemplate. Per altro spesso i giuristi sono in effetti sostenitori
dell’imperatore (Verger 1982, p. 71).
35
Alla fine del XII secolo il comune impone agli insegnanti di giurare di non trasferirsi fuori dalla città,
per evitare il pericolo di secessione tanto frequente a Parigi. Il tentativo non fu sempre sufficiente, come
nel caso della fondazione di Padova. Verger 1982, pp. 73-74.
524
concreti, la centralità del latino pre-umanistico. Tuttavia sembra tutt’altro che
impossibile che nel corso dei medesimi incontri e delle discussioni letterarie possano
aver trovato spazio anche curiosità meno rivoluzionarie, ma altrettanto colte e utili a chi
si dedicasse alla poesia. Una volta accertato che l’eredità romanza (trobadorica)
continuò a lasciare il segno nella produzione trecentesca, come nel caso del Canzoniere,
non si potrà immaginare un metodo più efficace per la circolazione e la conservazione
dei testi rispetto allo scambio tra letterati.
Ancora una volta, perciò, si cercherà di offrire il quadro più ricco e articolato possibile,
a sostegno di tale ipotesi.
Già negli anni ‘40, dopo l’incoronazione poetica a Roma, Petrarca divenne il centro di
una fitta rete di scambi epistolari e di rime: erano già numerosi gli ammiratori (e gli
adulatori) che aspiravano ad entrare in contatto con l’autore ormai famoso36 (non sarà
un caso che egli prendesse di rado l’iniziativa e si limitasse per lo più a rispondere).
Non mancano le fonti in merito a tali rapporti: i volumi delle epistole preparati dal
poeta, il “codice degli abbozzi” (Vat. Lat. 3196), con i nomi che Petrarca ha tramandato,
alcune rime di risposta raccolte tra le Estravaganti, infine la tradizione veneta, che trova
origine, pare, proprio da uno o più di quegli amici di penna. Nel caso di Petrarca, le
rime di corrispondenza risalgono in grandissima parte agli anni giovanili; alcune sono
posteriori alla morte di Laura, ma ben poche sono frutto della piena maturità. L’insieme
è oltremodo vario, dato anche il carattere occasionale che ne contraddistingue la
composizione: si contano tenzoni, testi riflessivi dedicati a questioni attuali, veri e
propri pezzi “d’intrattenimento”. Di conseguenza i temi affrontati sono numerosi: non è
esclusa l’ispirazione amorosa, ma prevalgono i soggetti non lirici, che difficilmente
avrebbero trovato spazio nel Canzoniere. Tra i soggetti più interessanti, perché anche
altrove caratteristici della produzione petrarchesca, si ricordano l’otium letterario, il
valore dell’amicizia, la desolazione per la crisi del presente: testi insomma di
meditazione morale e politica, contrassegnati da un andamento lento e latineggiante. La
natura eterogenea di tale produzione è confermata anche dai modelli e dalle fonti scelti
da Petrarca, in particolare per i richiami mitologici.
Ci si potrebbe chiedere quale sia la differenza tra gli amici con cui Petrarca corrisponde,
in parte destinatari anche di fragmenta inseriti nel Canzoniere, e i semplici
corrispondenti. Non si tratta tanto della tipologia della composizione o dei temi
affrontati nei diversi casi, quanto del valore che il poeta scorge nel loro animo, anche
sul piano morale. Uno spunto interessante viene ad esempio dal Triumphus Amoris,
dove Sennuccio (Sennuccio del Bene) e Franceschino (Franceschino degli Albizzi) sono
apprezzati per la loro “umanità”, termine già classico per indicare le qualità spirituali e
morali più importanti.
Non sempre è agevole, tuttavia, definire l’identità e la personalità di molti fra i sodali
del poeta, a parte, appunto, il loro ruolo di amici del celebre autore. Né si tratta di un
problema recente, come si comprende dalle parole di Cochin, già nel 1892: “N’existe
36
Fonti principali a proposito di tali rapporti d’amicizia e corrispondenza sono Proto 1907 e Cremonini
2007.
525
pour nous que comme amis de Pétrarque, âmes exquises mais cachées dans de vies
modestes, et qui seraient restées ignorées à jamais, si elle n’aveient été tirées de leur
obscurité par l’éclat d’une souveraine amitié. Tels Socrate, Lelius, Nelli”, aggiungendo
che sono proprio questi gli amici più intimi, più “tendres”37. La questione si complica in
relazione ai loro gusti intellettuali e alle loro scelte librarie: “Desidereremmo trovare i
volumi […] sia in latino, sia, e soprattutto, in volgare o provenzale o francese […]
Mentre, infatti, notiamo riempirsi i palchetti dedicati alle sezioni classiche – latina e
perfino, ora, greca – delle biblioteche di ser Francesco e dei suoi sodali, con rammarico
vediamo rimanere deserti quelli riservati alle opere in volgare: e fitte tenebre avvolgono
le letture volgari della più forte cerchia intellettuale del Trecento”38. Al di là degli
obiettivi del presente studio, tale impedimento è tanto più grave se si pensa che sono in
gioco figure centrali per l’evoluzione culturale preumanistica, intellettuali ed
appassionati che compongono quella cerchia sempre più varia ed attiva per la quale
Petrarca rappresenta un punto di riferimento essenziale.
Si intende a questo punto proporre una panoramica delle relazioni intrattenute da
Petrarca, con particolare attenzione agli anni della giovinezza e della prima maturità39. I
criteri di scelta riguardano l’attività poetica; perciò saranno considerati i rimatori che
hanno composto versi in corrispondenza con l’Aretino, a prescindere dal fatto che i testi
petrarcheschi siano stati inclusi nel Canzoniere o meno, e senza vincoli cronologici,
anche per la difficoltà (e spesso l’impossibilità) di avere certezze in merito. D’altro
canto è sembrato opportuno considerare i destinatari delle Familiari, che possono
rappresentare un punto di riferimento piuttosto oggettivo, benché i limiti cronologici,
anche in questo caso tutt’altro che univoci, siano ben più estesi del periodo ascrivibile
alla formazione40.
2.1 Philippe de Cabassoles
L’amicizia di lunga data con il provenzale Philippe de Cabassoles41 è particolarmente
interessante: i due sodali ebbero infatti una forte affinità sul piano intellettuale, oltre ad
appartenere entrambi all’ambiente avignonese e papale.
Philippe rappresenta in modo esemplare i vertici politici ed ecclesiastici cui un uomo
colto e capace poteva giungere nel Trecento. Nato nel 1305, nel ‘34 era già vescovo di
Cavaillon, dove svolgeva anche compiti amministrativi e di governo, grazie ai suoi studi
di diritto civile, condotti ad Orléans. A partire dal 1343 divenne membro del Consiglio
di reggenza del regno di Napoli, per poi dedicarsi a vari compiti diplomatici affidatigli
37
Cochin 1892, p. 5.
Frasso 1974, pp. 196-197.
39
Le informazioni biografiche sono tratte in primo luogo dal Dizionario Biografico degli Italiani (DBI) e
da Dotti 2009. Altri riferimenti bibliografici utili saranno indicati di volta in volta.
40
Per altro in questo modo saranno vagliati anche i primi anni ’50 e dunque il periodo in cui Santagata
ritiene che Petrarca abbia affrontato per lo meno le principali letture trobadoriche.
41
Su questo personaggio si vedano ad esempio Monti 1997 e Wilkins 1978, cui si può aggiungere Villar
1997.
38
526
dal pontefice. Negli anni Sessanta fu nominato patriarca di Gerusalemme, vicario
generale di Avignone e cardinale (1368).
La sua carriera ecclesiastica e politica fu favorita dallo zio paterno, che ebbe un ruolo di
spicco nella mediazione tra gli angioini a Napoli e il pontefice. A questo zio fu legato lo
stesso Petrarca, tanto che si è ipotizzato che egli avesse favorito l’incontro dell’Aretino
con Roberto d’Angiò e quindi la sua laurea poetica, benché il poeta non accenni mai a
tale intervento.
Philippe e Petrarca si incontrano ad Avignone. Una Familiare del ‘38 parla proprio
della recente amicizia; in una Senile del ‘71/’72 Petrarca racconta che l’amico gli aveva
chiesto un carme dedicato alla Maddalena, composto nel ‘37 circa durante una visita a
Marsiglia, dove si diceva ch’ella avesse affrontato la sua penitenza. Proprio nel ‘37,
probabilmente, il loro legame ebbe occasione di consolidarsi: Petrarca, tornato in
Provenza, visitò il Cabassoles e gli offrì una consolatoria per la morte del fratello. I due
si rincontrarono a Napoli all’inizio degli anni ‘40 ed entrambi intrattennero rapporti
cordiali con re Roberto. Il loro sodalizio era ormai un’amicizia come dimostra il rapido
passaggio al “tu” nella corrispondenza. Nel ‘46, Philippe tornò in Provenza; tuttavia i
due furono tenuti separati dai rispettivi, numerosi impegni e viaggi. Eppure il loro
rapporto non sembra affievolirsi, anzi questa si profila come una delle amicizie più
intime e durature dell’Aretino.
Petrarca scrisse al Cabassoles ventiquattro epistole nel corso della vita e gli inviò tre
delle proprie opere, dietro richiesta in parte documentata; del corrispondente non resta
invece alcuna missiva, benché sia chiaro (e in sette casi esplicito) che lo scambio di
lettere era reciproco; per altro i materiali superstiti testimoniano una logica unitaria.
Le opere petrarchesche che interessarono il Cabassoles suggeriscono che il dialogo fra i
due sia stato in gran parte ispirato al comune ideale di otium letterario. Il legame
d’amicizia si rinsaldò intorno all’amore condiviso per Valchiusa, che era parte della
diocesi e del feudo di Philippe; entrambi avvertirono il rimpianto per la serenità e lo
studio in quel luogo, e non a caso il Cabassoles fu il dedicatario del De vita solitaria.
Petrarca gli concedette inoltre di prendere in prestito i libri dalla casa provenzale, anche
quando egli ne era lontano: il vescovo, però, non osò mai accettare tale invito.
La corrispondenza testimonia anche un altro argomento di condivisione in merito ai
valori morali: infatti proprio al Cabassoles Petrarca inviò la requisitoria contro
Benedetto XII, ormai morente, redatta nel ‘42. Egli fu inoltre destinatario o lettore
anche di altre tra le Sine nomine. L’interesse comune per la politica e le sorti del papato
si rivelarono di nuovo al momento dell’elezione di Urbano V, favorevole al ritorno della
curia in Italia. Tale progetto fu particolarmente apprezzato dai due; Petrarca scrisse al
pontefice dopo aver chiesto consiglio al Cabassoles, il quale cercò a lungo di far
incontrare il celebre poeta e il papa.
Un ulteriore e peculiare progetto li vide forse collaboratori, a vantaggio della
promozione culturale e religiosa del vescovado di Cavaillon, attraverso la costituzione
di una biblioteca. L’impresa portò ad una considerevole donazione libraria da parte di
Philippe nel 1347 a beneficio in primo luogo dei canonici. Alcuni testi erano pensati
specificatamente per la formazione del clero e dei cittadini “onesti”, nella
527
consapevolezza della profonda ignoranza in cui versavano per primi i sacerdoti. Il
documento che descrive tale lascito comprende precise indicazioni sulla conformazione
anche fisica della biblioteca, sulla necessità di vincolare l’uso e il prestito dei volumi
fondamentali all’educazione o sull’esigenza di legarli ai leggii, secondo l’abitudine
consueta per gli ordini mendicanti. La donazione comprendeva anche beni materiali e
prevedeva l’istituzione di una nuova cappella. L’interesse di tale intervento risiede nelle
ampie possibilità di accesso alla raccolta di testi, sospeso soltanto nelle ore canoniche;
solo il vescovo godeva di privilegi, mentre erano equiparati canonici, predicatori,
ecclesiastici esterni e laici, benché il controllo da parte del clero fosse marcato. Si
trattava di una grande novità, dunque, che anticipava il progetto di una biblioteca
pubblica pensato da Petrarca negli anni della maturità a vantaggio di Venezia. E benché
fossero in gioco anche intenti di valorizzazione della propria sede vescovile e della
propria famiglia, l’intento di fondo del Cabassoles appare in primo luogo culturale.
Purtroppo il progetto fu in parte sconfessato dalle disposizioni testamentarie dello stesso
Philippe, che nel ‘73 fu sepolto nella certosa di Bonpas, cui venivano destinati alcuni
volumi sino ad allora conservati a Cavaillon, dove per altro scomparvero anche testi
donati da Giovanni XXII e da Petrarca. Altri codici della biblioteca erano destinati a
parenti, soprattutto nipoti di cui si volevano favorire gli studi. Tuttavia due documenti
del ‘69 (un inventario ed una riaffermazione della donazione) dimostrano il perdurante,
anche se contraddittorio, tentativo di preservare l’unità della raccolta.
Il Cabassoles continuò comunque a gestire la biblioteca come un dominio privato; ciò
non toglie che l’ideale di partenza fosse modernissimo e significativo sia della persona
del vescovo, sia della consonanza dei suoi interessi rispetto a quelli di Petrarca.
2.2 Dionigi da Borgo Sansepolcro
L’amicizia con Dionigi da Borgo Sansepolcro42 ebbe grande rilevanza per Petrarca,
anche sul piano intellettuale e spirituale, nel segno della scoperta di sant’Agostino. I due
si incontrarono nel ‘33; poco dopo Dionigi donò all’amico le Confessiones. Fu lui,
inoltre, il destinatario dell’epistola del Monte Ventoso, che allegoricamente rappresenta
l’ascesa spirituale e la svolta morale: la connessione fra i due sodali si dimostra ancor
più solida.
Dionigi nacque intorno al 1300 a Sansepolcro, vicino ad Arezzo; la famiglia è ignota,
ma forse riconoscibile nei de’ Roberti. Entrò giovanissimo nell’ordine degli agostiniani
e proprio questo favorì i suoi studi, poiché il suo vivace ingegno venne ben presto
apprezzato e stimolato.
Del suo percorso formativo si conosce soltanto la fase culminante: grazie al suo ruolo di
frate, completò la propria formazione a Parigi presso la facoltà di teologia, dove l’ordine
inviava solamente i membri più capaci. Vi si trovò certamente tra ‘17 e ‘18, quando
42
Su Dionigi possono essere consultati utilmente Dotti 2000, Velli 2001, Bartoli Langeli 2001, Maierù
2001 (e nel complesso il volume di atti da cui sono tratti gli ultimi tre contributi).
528
lesse Pietro Lombardo, e completò gli studi teologici nel ‘24; lo studium rappresentò
anche il suo primo orizzonte professionale, poiché egli vi insegnò almeno sino al 1328.
Per il resto, e per la sua educazione elementare in particolare, bisognerà riferirsi alle
regole e alle consuetudini dell’ordine43, che prevedevano, prima di giungere alla
specializzazione teologica necessaria all’apostolato, una buona base di grammatica,
logica e filosofia. Tuttavia tale esito era riservato agli allievi più promettenti; un altro
fattore di chiusura era costituito dagli ambienti in cui si svolgevano i corsi, legati
all’ordine stesso. Lo denota soprattutto l’organizzazione dell’università e la scelta di
docenti interni, a meno che non vi fosse un bisogno stringente di integrarne le presenze.
Nel 1329 Dionigi si spostò ad Avignone, dove insegnò presso lo studium del suo ordine;
intanto strinse importanti relazioni con i Colonna e gli Orsini, e svolse le prime missioni
diplomatiche, anche a favore dell’ordine. Infine, dal ‘37 al ‘42, anno della morte, fu a
Napoli, dove, al di là degli impegni diplomatici, continuò probabilmente la carriera di
professore, sempre in relazione alla realtà agostiniana. Anche qui, come a Parigi e
presso la curia pontificia, beneficiò di un contesto culturale di notevole rilievo; proprio
in questi anni compose le sue opere più rilevanti. Nel 1340, infine, venne nominato
vescovo di Monopoli, ma della sua breve attività pastorale resta ben poco.
È naturale pensare che l’amicizia tra Petrarca e Dionigi sia stata rafforzata dalla
condivisione di interessi culturali, tra i quali spicca l’amore per i classici. Tale
apprezzamento è stato favorito nel caso di Dionigi dal contesto parigino44; sappiamo
inoltre che egli compose alcuni commenti, oggi perduti, a Virgilio, Ovidio e Seneca,
resta invece quello a Valerio Massimo45. È curiosa per contro la sua scarsa attenzione
alla IV decade liviana, novità recentissima ed essenziale, cui era rivolto l’entusiasmo di
numerosi intellettuali. La motivazione di tale predilezione verso l’opera storiografica
più tarda e meno autorevole può essere colta nell’intenzione morale e religiosa del suo
impegno di commentatore, che lasciava da parte le questioni puramente storiche. Si
spiegherebbe così anche l’impressione che delle numerose fonti, citate nel prologo alla
sua opera, Dionigi abbia letto solo estratti e florilegi, senza affrontare una ricerca più
approfondita. Non si intende con questo negargli il titolo di uomo colto ed erudito,
anche in considerazione di quanto fosse naturale durante il Medioevo accontentarsi, per
le letture antiche, di rielaborazioni recenti: è anzi proprio a Petrarca che si deve un
cambiamento significativo in tal senso e la costante ricerca dell’opera originaria.
Nemmeno la poesia fu terreno fertile per le riflessioni di Dionigi: per lo più egli pare
considerarla utile serbatoio di dati documentari o exempla, e solo in riferimento ai testi
43
Si noti che il cursus studiorum degli ordini mendicanti era di solito molto simile, poiché derivava da
quello impostato dai domenicani, gli unici che si erano proposti sin dalle origini la specifica dedizione
agli studi. Anche i testi di riferimento erano in sostanza i medesimi, almeno per i corsi di logica e
filosofia, con netta prevalenza di Aristotele, Porfirio e Pietro Ispano.
44
A Parigi, inoltre, si interessò all’astrologia giudiziaria, guadagnandosi la fama di vero veggente. (DBI,
p. 194).
45
Non dovrà stupire eccessivamente che di questo autore Dionigi conoscesse solo i nove testi “canonici”
e non il decimo, benché proprio Petrarca si fosse impegnato a ricostruirlo, poiché tale era la condizione di
gran parte degli intellettuali coevi.
529
canonici del percorso scolastico. Mancano del tutto annotazioni sulla lingua o sullo
stile.
2.3 Tommaso Caloiro46
Tommaso Caloiro47 nacque a Messina nel 1302, da una famiglia che nel ‘300 risultava
ancora ignota, ma che ebbe qualche prestigio a livello locale nel secolo successivo.
Cominciò gli studi di diritto nella città natale e li concluse a Bologna, dove studiò a
partire dal 1319. Nel ‘21 a seguito dei disordini e delle condanne a morte che ne
seguirono, il Caloiro si spostò, come molti compagni, all’università di Siena, godendo
di un soggiorno utile per l’apprendimento della lingua toscana: essa diede fondamento
alla sua attività di poeta. Tornò a Bologna nel 1322 e qui incontrò il Petrarca. Tale
contatto potrebbe essere stato proficuo per l’Aretino sul piano poetico, poiché è molto
probabile che a questo punto il Caloiro avesse già iniziato a comporre: tale esempio
potrebbe aver favorito l’interesse dell’amico.
Tra il ‘24 e il ‘25, terminati gli studi, Caloiro rientrò in patria, dove continuarono sia la
formazione che gli esperimenti letterari, senza però che egli riuscisse ad ottenere alcuna
visibilità. Si dedicò quindi principalmente all’attività forense e iniziò nel frattempo gli
studi di filosofia. Gli ultimi anni della sua vita, conclusasi nel 1341, non sono noti e la
sua partecipazione alle vicende politiche è oggetto di sole congetture. Ce ne resta un
solo sonetto databile al 1330 e conservato grazie alla risposta in versi del Petrarca: è
evidente che, a prescindere dalle influenze reciproche negli anni degli studi, a questo
punto la maniera dominante nell’ispirazione del messinese era petrarchesca. Petrarca
scrisse all’amico varie lettere, gli dedicò due consolatorie inviate ai fratelli Giacomo e
Pellegrino e infine lo ricordò un’ultima volta con affetto nella Familiare IX, 2.
2.4 Sennuccio del Bene
Sennuccio48 nacque a Firenze tra il 1270 e il 1275, figlio di Benuccio di Senno del
Bene; la famiglia apparteneva alla fazione guelfa bianca. Egli fu dunque costretto
all’esilio dalla vittoria dei neri; non sono note le vicende dei primi anni dopo la fuga, ma
è certo che nel 1311 si trovava a Milano, in concomitanza cioè con il passaggio di
Enrico VII. Si arruolò nel suo esercito e partecipò all’assedio di Firenze: per questo fu
ufficialmente condannato all’esilio e alla confisca dei beni. È possibile, come suggerisce
la dedica di un suo componimento, che abbia soggiornato in Lunigiana presso i
Malaspina; nel ‘16, in ogni caso, era già al servizio della curia avignonese, quando
Giovanni XXII venne eletto al soglio di Pietro. Conobbe Petrarca nell’ambiente dei
Colonna. I due furono ben presto uniti amichevolmente dalla comune passione per la
46
È noto e citato anche come Caloira e Caloria.
Per questo personaggio si veda anche Fenzi 2007 e in generale la bibliografia proposta dal DBI, con
particolare interesse per Lo Parco 1933.
48
Sulla figura di Sennuccio del Bene si leggano in particolare Tuccini 2003, Piccini 2004 (introduzione
biografica e critica al personaggio, edizione critica e commentata delle rime), Livraghi 2013.
47
530
poesia toscana e per la letteratura classica; è probabile che le conversazioni che spesso
devono averli impegnati nella domus abbiano talvolta appassionato anche il cardinale.
In tale contesto, Sennuccio abbandonò definitivamente gli interessi politici, adattandosi
alla nuova identità di intellettuale “cortigiano”.
Tale cambiamento e le relazioni strette in Provenza gli ottennero il permesso di rientrare
in Firenze nel ‘26, a condizioni lievi, ma umilianti; non è chiaro se e quando esse furono
soddisfatte, si sa soltanto che il del Bene rientrò a Firenze nel ‘39 con l’incarico di
rettore dell’ospedale S. Bartolomeo di Mugnone (che poi passerà a suo figlio) e vi
rimase fino alla morte, avvenuta nel 1349. Petrarca lascia notizia di due suoi viaggi a
Napoli e ad Avignone, dove i due amici si rividero e scambiarono versi; all’incontro
potrebbe aver partecipato anche Franceschino degli Albizzi, un altro poeta esiliato da
Firenze.
Le parole che l’Aretino riserva all’amico nell’epistolario, nei suoi versi (soprattutto nei
Triumphi) e nella nota obituaria del Virgilio ambrosiano dimostrano l’affetto sincero, la
stima per la tempra morale e l’apprezzamento per l’uomo di cultura. Di Sennuccio
restano solo quattordici componimenti, per lo più sonetti, che dimostrano la piena e
capace adesione all’indirizzo stilnovistico.
2.5 Ludwig van Kempen (o Ludovico “Santo” di Beringen)49
Intimo amico di Petrarca sin dal 1330, da lui chiamato Socrate per la gravità dei
costumi e la cortesia, Ludovico nacque nel Kempen nel 1304. Beringen in particolare è
una piccola città nell’arcidiocesi di Campine, vicino a Lione, dunque in quella che
all’epoca era definita “Germania inferiore”, cioè i paesi Bassi. L’attributo di Santo (o
Sanctus) è forse traducibile in fiammingo, come se si trattasse di un cognome, nella
forma Heyliger50.
Dal 1330 al 1361 (anno della sua morte), Ludovico visse presso la curia pontificia di
Avignone e più precisamente nella domus dei Colonna, di cui fu chierico, cantore e
cliente. Si dedicò anche alla prosa latina: della sua produzione restano due esempi, una
narrazione storica ed un trattato didattico d’argomento musicale51; infine, come ha
dimostrato Billanovich, fu anche bibliofilo e partecipò ai primordi dell’umanesimo
insieme all’amico Petrarca.
Una testimonianza dei rapporti tra Ludovico e il poeta (che, secondo Cochin, sarebbero
stati ancor più intimi che con Lelio) viene probabilmente dall’Egloga X, in cui i due
personaggi sono in effetti maschere dell’autore stesso e del musico. Il personaggio
autobiografico di Silvano52 si diffonde in meditazioni e confidenze personali, che in
49
Utili fonti su questo personaggio sono Cochin 1918-19 e Billanovich 1996; per uno studio più recente
sulla figura del musico e sui rapporti tra Europa settentrionale e meridionale si veda anche Papy 2005.
50
Cochin 1918-19.
51
Su questo trattato si diffonde in particolare Cochin 1918-19: il titolo Sentencia in musica sonora
subiecti ne indica anche lo specifico argomento, che secondo il medesimo studioso doveva essere oggetto
anche di un secondo approfondito saggio, oggi perduto.
52
Sui mascheramenti bucolici delle egloge e in particolare sui personaggi di Stupeus e Silvanus, si veda
Chines 2010, pp. 55 segg.
531
parte possono essere ricondotte al dolore per la morte dell’amata e in parte si
concentrano su questioni letterarie: la carriera poetica e il legame con l’erudizione
classicistica53. Non è da escludere, infine, che Socrate abbia offerto a Petrarca utili
consigli in materia musicale in vista dell’intonazione delle sue rime54.
2.6 Raimondo Subirani
Petrarca ricorda il Subirani, oltre che in qualità di giurista, come bibliofilo appassionato
soprattutto di Livio. Secondo la ricostruzione di Billanovich55, che ne intuì l’origine
guascona (da cui il nome Raymond de Soubiran), egli studiò a Tolosa, dove in effetti
rimase ad insegnare. Fu cappellano papale, ma in qualità di politico e diplomatico fu
legato soprattutto all’Inghilterra. Morì nel 1330: è questo l’unico riferimento utile per
datare le lettere inviategli da Petrarca e dunque il loro rapporto d’amicizia.
2.7 Paganino da Bizzozzero
Paganino nacque a Bizzozzero all’inizio del Trecento, in una famiglia nobile dell’area
di Varese. Fu consultor di Luchino Visconti ed ebbe un ruolo importante nella fase di
espansione della sua signoria, anche in qualità di podestà di Parma, carica che ricoprì
dal 1346 al 1349, quando morì durante la grande pestilenza.
2.8 Guido Gonzaga
Guido Gonzaga era figlio di Luigi I, colui che aveva portato la famiglia alla vera
grandezza. Nacque alla fine del Duecento, ma non se ne sa nulla sino al 1328, quando
partecipò col padre alla conquista della signoria mantovana. La questione
dell’amministrazione mantovana in tale fase è piuttosto complessa, in primo luogo per
la sua configurazione mutevole, a seconda che i governanti siano nominati dai consigli
comunali, in veste di capitani del popolo, o dall’imperatore, come vicari.
Secondariamente, Guido dovette lottare non poco per guadagnarsi del peso politico,
schiacciato dal padre, poi dai fratelli e dalle loro truppe, infine dai figli, benché i
documenti tendano infine a riconoscergli una certa centralità. Intanto i Gonzaga si
trovarono implicati nelle vicende politico-militari dell’Italia settentrionale, a fianco dei
Visconti, ma cercando di mantenere buoni rapporti con gli Estensi; una fase
fondamentale fu determinata dalla rottura con gli Scaligeri. Anche l’alleanza con i
Visconti (e soprattutto con Luchino) conobbe in realtà momenti alterni fino allo scontro
in campo aperto, mentre le lotte interne alla famiglia per la gestione del potere
diventavano sempre più evidenti e violente. L’impegno di Guido trovò il suo culmine
53
Su questo tema Petrarca si dilunga per ben quattrocento versi.
Cochin in particolare ha sostenuto, avvalendosi di una postilla petrarchesca, la tesi secondo cui
l’Aretino avrebbe sottoposto al vaglio musicale tutti i fragmenta prima di includerli nel Canzoniere. Vedi
Cochin 1918-19, p. 10.
55
Billanovich 1981, pp. 50-52.
54
532
nella nomina a capitano generale di Mantova, carica che ricoprì dal 1360 alla morte,
avvenuta nel 1369.
È ricordato come grande amante delle lettere ed ammiratore di Petrarca, che ne fu
ospitato a Mantova in più occasioni e che gli fece dono del Roman de la Rose,
accompagnandolo con la Metrica 3, 30. Proprio questa attenzione alla vita culturale
differenzia Guido dai fratelli e gli attribuisce un’immagine di signore meno focalizzata
solo sulla forza militare56.
2.9 Marco Portonario da Genova
Di questo personaggio si sa solo ciò che ne dice Petrarca nel suo epistolario: fu studente
di diritto e si dedicò all’attività politica al servizio della sua città, anche se avrebbe
desiderato dedicarsi alla vita monastica.
2.10 Giovanni dell’Incisa
Parente oltre che amico intimo del Petrarca, Giovanni fu maestro di teologia e priore del
convento di S. Marco a Firenze. È facile immaginare che sia stato accomunato a
Petrarca dall’interesse per la lettura, come potrebbe dimostrare la richiesta di aiuto da
parte del poeta per la ricerca di alcuni volumi nelle biblioteche toscane57.
2.11 Giovanni d’Arezzo
Le conoscenze disponibili a proposito della vita di Giovanni ruotano intorno a due
fattori principali: l’attività diplomatica e l’amicizia con Petrarca. Di qualche anno più
giovane del poeta, Giovanni divenne cancelliere e ambasciatore dei Gonzaga di
Mantova, al servizio in particolare di Guido e dei figli. Da loro viene inviato ad
Avignone, dove conobbe Petrarca probabilmente già nel periodo in cui era studente a
Bologna, durante una delle sue visite a casa. Negli anni successivi la sua attività
diplomatica continuò presso il papa, l’imperatore, i Visconti. D’altro canto Giovanni
dimostrò di non considerare l’impegno politico come il più degno: egli, ad esempio, fu
tra gli amici che rimproverarono il Petrarca della sua scelta di stabilirsi a Milano,
proprio secondo l’argomentazione per cui filosofia e letteratura non devono essere
accantonate a vantaggio della vita pubblica. L’ultima lettera di Petrarca all’amico,
databile al 1358, vede quest’ultimo finalmente ritirato in campagna, secondo i suoi
desideri; la data della sua morte è ignota, ma certamente poco posteriore.
56
Inizia così una lunga e prospera tradizione di mecenatismo e impegno intellettuale per la signoria dei
Gonzaga, nota nei due secoli successivi soprattutto per gli incrementi librari. In particolare in Frasso 1974
sono evidenziati i rapporti con gli Estensi, che possono aver favorito l’interesse per la poesia trobadorica
e la circolazione di antiche sillogi (con particolare riferimento ai codici M e N); tuttavia si tratta già della
fase di “riscoperta” degli studi provenzali nel tardo Rinascimento.
57
Tale richiesta è testimoniata nella Familiare III, 18.
533
2.12 Angelo (Lello) di Pietro Stefano Tosetti
Di origine romana, in gioventù il Tosetti58 fu molto legato ai Colonna, prestando
servizio per Giacomo a Lombez e poi per il cardinale Giovanni ad Avignone. Alla sua
morte tornò a Roma, dove si sposò, ebbe dei figli e morì nel ‘63 a causa della
pestilenza. I Colonna furono anche il tramite per l’incontro con Petrarca (1330), di cui
divenne amico intimo e di lungo corso, guadagnandosi il soprannome di Lelius. La sua
attività principale si svolse in ambito militare e politico, e il suo successo non sarà
estraneo alla prosecuzione dei rapporti con i Colonna, ad Avignone e a Roma. Qui nei
primi anni Cinquanta si legò in particolare a Stefanello, figlio di Stefano Colonna il
Giovane, e proprio a causa di tumulti e rivolgimenti che videro sconfitto il Colonna,
anche il Tosetti fu costretto a rientrare presso la curia pontificia. Nel 1354, anche grazie
alla mediazione epistolare del Petrarca, ebbe l’opportunità di incontrare l’imperatore
Carlo IV di Boemia; per altro Lelio fece parte della delegazione pontificia a Pisa e poi a
Roma, dove nel corso dell’incoronazione imperiale pronunciò un’apprezzata orazione
augurale, per poi reggere la Bibbia su cui il sovrano giurava. I rapporti con l’imperatore
si mantennero vivi nel tempo, come dimostrano due epistole inviategli dal Tosetti. Lelio
è inoltre ricordato per i suoi interessi letterari, e i versi sia italiani che latini. Gli studi
sul Trecento italiano lo ritraggono insomma come una figura di rilievo in campi diversi
e soprattutto capace di entrare in relazione con personaggi di primissimo piano, al di là
del solo Petrarca.
2.13 Barbato da Sulmona
Barbato59 nacque a Sulmona tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento; non se ne
conoscono gli studi, ma, avviato alla professione del nonno, divenne certamente notaio
entro il 1325. Ben presto entrò a servizio presso la corte angioina di Napoli, dove ricoprì
vari incarichi, dapprima soprattutto diplomatici, e ricevette i primi benefici. La critica
ritiene che la sua brillante carriera si debba, oltre che alle qualità personali, alla
preparazione culturale, approfondita proprio grazie all’ambiente della corte e alla
biblioteca regia. Le sue doti intellettuali furono messe a frutto nel passaggio dagli uffici
finanziari a quelli cancellereschi: in particolare gli venne affidato l’incarico di segretario
regio negli ultimi anni di regno di Roberto e durante il travagliato governo di Giovanna.
Conobbe Petrarca durante il viaggio di quest’ultimo a Napoli nel 1341; ne divenne
intimo amico (soprattutto dopo il secondo ed ultimo incontro), come testimonia la
dedica delle Metriche, e ne sostenne e diffuse ampiamente la fama. Nel frattempo si
approfondirono le sue relazioni con gli uomini di cultura della Napoli angioina, tra cui
Giovanni Barrili, un altro corrispondente di Petrarca. Barbato non lasciò alcuna
produzione letteraria, a parte due modesti epigrammi latini di dubbia attribuzione,
pensati e forse inviati a Cola di Rienzo, e il commento ad un’epistola di Petrarca
58
59
Su questo personaggio e i suoi rapporti con Petrarca si veda anche Hornstein 1948.
Su Barbato da Sulmona e le sue opere si vedano Papponetti 2004 e Papponetti-Monti 2004.
534
all’Acciaiuoli, intitolata Institutio regia nelle Familiari. Morì a Sulmona nel 1364, dopo
alcuni anni di vita tranquilla e ritirata.
2.14 Giovanni d’Andrea
Bolognese (o giunto a Bologna molto giovane), Giovanni dev’essere nato intorno al
1271. I genitori, la cui origine è ignota, giunsero in città da un piccolo centro degli
Appennini e il padre Andrea aprì una scuola di grammatica, per prendere poi gli ordini
sacri. Giovanni, invece, cominciò ben presto ad occuparsi di diritto, dedicandosi anche
alla teologia ed infine al diritto canonico. Insegnò allo studium dal 1302, ma i contatti
con l’ambiente universitario dovevano essersi già avviati in precedenza; nel 1306, in un
momento di conflitti e scontri, si allontanò da Bologna a causa dell’interdetto del legato
pontificio Orsini, ma vi tornò nel 1309, dopo un periodo di insegnamento a Padova. I
disordini del ‘16 lo videro protagonista della riscrittura dello statuto dell’università al
fianco degli studenti, che si erano rivoltati: in tale contesto Giovanni godette una
preminenza sempre più palese. Il suo ruolo fu tuttavia meno rilevante nella
riconciliazione che seguì agli scontri del ‘22, forse a causa del suo coinvolgimento
personale nella questione. Intanto conobbe Petrarca, studente a Bologna, e partecipò alla
vita pubblica su scala più ampia, a sostegno di Giovanni XXII; il papa ne favorì quindi
il prestigio sempre maggiore in città, anche al di là dello studio. Collaborò in particolare
con il nipote del pontefice, Bertrand du Poujet, che dal 1327 al 1334 fu di fatto signore
della città; minor accordo caratterizza, invece, il suo rapporto con Taddeo Pepoli, che
prese il posto del Poujet dopo un breve ritorno al governo comunale. Giovanni morì di
peste nel 1348, dopo qualche anno di vita ritirata. Lasciò numerose opere d’argomento
giuridico, soprattutto commentari e trattati; Petrarca non lo ricorda come letterato di
particolare rilievo, ma pare che egli abbia favorito utili discussioni letterarie, oltre che
giuridiche, tra i suoi alunni60.
2.15 Andrea da Mantova61 (Andrea Painelli da Goito)
Di Andrea Painelli, personaggio a lungo trascurato dagli studi critici, si conosce molto
poco, né aiutano le epistole (due Familiari e una Metrica) che gli inviò Petrarca: il loro
tono è ben poco personale e lo stesso vale per il tema, legato al biasimo di comuni
conoscenti.
Sappiamo che nel ‘51 Andrea poteva già fregiarsi del titolo di magister e deve aver
goduto di notevole prestigio, poiché gli viene riconosciuto esplicitamente, ad esempio,
dai frati di S. Genesio nel territorio di Goito e nell’ambiente dei Gonzaga. Nel ‘54 fu
descritto come una persona affidabile e fedele, di cui perciò si richiedeva la presenza, da
Carlo IV in un’epistola ai signori di Mantova, intesa per altro a raccomandare l’intera
famiglia Painelli. Proprio in un resoconto dell’incontro diplomatico tra imperatore e
60
61
Così per lo meno ritiene Cochin 1922, p. 104.
Su questo personaggio si veda in particolare Frasso 1974.
535
Gonzaga, Andrea viene presentato come valente poeta latino: restano in particolare
alcuni suoi epitaffi. Ne viene inoltre illustrato il ruolo politico, in qualità di protonotaro
dell’imperatore, oltre che di consigliere presso la corte mantovana: egli continuò in
effetti a far parte della cancelleria imperiale per alcuni mesi, durante tutto il soggiorno
italiano del sovrano. Tornò quindi al servizio dei Gonzaga, per cui svolse numerosi
compiti diplomatici nell’ambito delle lotte nell’Italia settentrionale, con atteggiamento
in sostanza filovisconteo; negli anni Sessanta però si rinnovarono anche i suoi rapporti
con l’imperatore, cui si devono il viaggio di Andrea presso la corte boema e il suo ruolo
al seguito del sovrano durante il secondo soggiorno nella penisola. Rimase coinvolto
(forse ingiustamente) in uno scandalo che rischiava di minare i rapporti fra Gonzaga e
Visconti: per questo venne giustiziato fra ‘83 e ‘84.
2.16 Guido Sette62
Nato a Luni nel 1304, Guido fu intimamente legato a Petrarca sin dalla prima
giovinezza: i due si conobbero, infatti, in Provenza, dove la famiglia Sette si era
trasferita dalla Lunigiana più o meno nello stesso periodo in cui anche ser Petracco
giunse con la propria nella città pontificia. I due ragazzi dunque furono a lungo
compagni di studio, a Carpentras, a Montpellier e a Bologna: le notizie disponibili sul
futuro vescovo dipendono proprio da Petrarca e dai suoi riferimenti alla comune
formazione nell’epistolario. In qualità di futuro ecclesiastico, è probabile che Guido
seguisse soprattutto corsi di diritto canonico, ma non si può escludere che si sia
interessato anche all’orizzonte civile e che si sia laureato in utroque iure; pare
comunque certo che egli, a differenza dell’amico, abbia completato gli studi sino alla
licenza. Sette compare in alcuni documenti del 1336 come vicario del vescovo di
Genova Acciaiuoli63: negli anni precedenti deve aver compiuto i vari gradi della carriera
ecclesiastica, probabilmente tra Bologna e Genova. Fino al ‘47, data entro la quale fu
nominato prelato della cattedrale di Genova, i suoi spostamenti e i suoi impegni non
sono chiari; per questo periodo resta soltanto un’intima Familiare del ‘42 e l’ipotesi di
Zaccagnini che abbia trascorso del tempo ad Avignone. Qui, in effetti, potrebbe aver
soggiornato a lungo a prescindere dal suo ruolo di arcidiacono a Genova, perché nel ‘53
Petrarca gli scrisse interrogandosi sulla sua decisione di restare in quel luogo, il più
abominevole del mondo. Divenne arcivescovo di Genova nel ‘5864; nel ‘61 fondò il
monastero benedettino di Cervara, dove morì nel ‘6765.
62
Su questo personaggio si veda in particolare Zaccagnini 1934. Lo studioso indica come proprie fonti le
epistole dello stesso Petrarca e alcuni documenti contenuti nell’Archivio di Stato di Bologna.
63
Non è noto con esattezza quando abbia ricevuto tale incarico; in ogni caso non prima del ’34, poiché
sino a quell’anno il vicario a Genova è Pietro Fiassani (o Fiessani) di Penne. Guido Sette mantenne la
carica fino al ’37, anche se i documenti relativi ad alcune condanne pronunciate quando era già stato
nominato il suo successore lasciano pensare che abbia continuato ad esercitarla per qualche tempo oltre la
fine dell’incarico ufficiale.
64
Secondo Zaccagnini 1934, potrebbe avere questo incarico già dal ’51.
65
Zaccagnini ritiene che Guido abbia abbandonato la sua carica già nel ‘67, morendo solo l’anno
successivo.
536
2.17 Giovanni Coci
Esponente dell’ordine agostiniano degli Eremitani, Giovanni Coci fu maestro di
teologia, e così gli si rivolge Petrarca nell’unica Familiare che gli abbia indirizzato; fu
inoltre curatore della biblioteca pontificia ad Avignone. Ricoprì la carica di vescovo
nelle tre diocesi suffraganee di Vence, Grasse e Saint-Paul-Trois-Châteaux dal 1347.
Morì nel 1361.
2.18 Giovanni Aghinolfi
Originario di Arezzo e nato alla fine nel Duecento, conobbe Petrarca ad Avignone: i
due, accomunati dagli interessi letterari, divennero amici. Fu diplomatico di un certo
successo a Mantova presso i Gonzaga, ma abbandonò la carriera pubblica negli ultimi
anni della vita per ritirarsi in patria.
2.19 Bruno Casini
Bruno Casini nacque a Firenze tra il ‘18 e il ‘19. Non se ne conosce la formazione, ma
già piuttosto giovane divenne maestro di retorica e proprietario di una scuola pubblica;
si inserì così nella linea culturale indicata da Brunetto Latini. Tuttavia egli è noto per
aver interpretato la materia tradizionale in modo innovativo, non solo per le concezioni
secondo cui era proposta, ma anche per il metodo di insegnamento, che ad esempio
prestava grande attenzione all’actio, rispetto alla voce e al corpo. Fu in contatto con tutti
gli esponenti più illustri della vita culturale fiorentina, in particolare con alcuni amici e
conoscenti di Petrarca, tra cui Giovanni dell’Incisa, Sennuccio del Bene, Zanobi da
Strada. Giovanni e Zanobi, in particolare, favorirono l’inizio del suo scambio epistolare
con l’Aretino: grazie a loro poté scrivere a Petrarca quando nel ‘48 il poeta si fermò a
Parma senza poi spingersi sino a Firenze, durante il viaggio interrotto alla volta di
Roma. Nell’epistola, perduta, era contenuto un componimento latino, che lamentava il
mancato incontro con il celebre autore e un riferimento all’Africa. Restano però la
Familiare di risposta e l’epistola metrica che la accompagnava: Petrarca vi elogia il
testo a lui dedicato e l’ingegno del suo autore (le cui composizioni sono apprezzate
anche in una seconda Familiare). Casini è inoltre autore di un trattato sulla teoria del
discorso dal titolo De figuris generibusque loquendi. Morì di peste molto giovane, nel
1348.
2.20 Lapo da Castiglionchio (Giacomo da Firenze)
Aristocratico, nacque a Firenze all’inizio del Trecento. Benché la sua carriera si sia
svolta principalmente in veste di canonista e insegnante allo Studio fiorentino, Lapo si
dedicò ampiamente anche agli studi letterari e all’attività politica, che gestì con grande
veemenza, sino a subire l’esilio. Si trasferì allora a Padova, dove ebbe l’opportunità di
insegnare, e poi a Roma, dove proseguì il suo impegno pubblico; morì però di lì a poco,
537
nel 1381. Fu un bibliofilo davvero appassionato: non a caso fece dono a Petrarca, dopo
averlo conosciuto a Firenze nel ‘50, di una copia incompleta dell’opera di Quintiliano e
di quattro orazioni ciceroniane.
2.21 Giberto Baiardi
Non si conosce quasi nulla di questo personaggio. Fu un buon maestro di grammatica a
Parma, sua città natale, dove si occupò dell’educazione di Giovanni, il figlio di Petrarca:
il poeta gli scrive appunto in tale veste.
2.22 Orso dell’Anguillara
Nacque a Roma all’inizio del ‘300, ma non se ne hanno notizie sino ai primi anni Venti,
quando il papa gli concedette nell’arco di breve tempo tre canonicati. Tuttavia nel 1331
cominciò col fratello una politica aggressiva nei confronti dei territori della Chiesa a
vantaggio dei propri, attaccando in primo luogo Sutri. Alla sconfitta – e al matrimonio
con una figlia di Stefano Colonna – seguì la rottura e lo scontro armato col fratello; tali
contrasti si inseriscono nel contesto più generale dei disordini causati dall’inimicizia e
dalle lotte di potere tra patrizi romani. È proprio in tale periodo conflittuale, nel 1336,
che Petrarca fu ospite di Orso: ne divenne amico piuttosto intimo e ne lasciò un ritratto
fortemente elogiativo. L’Anguillara in effetti viene ricordato come uomo colto e amante
della poesia; potrebbe dimostrarlo anche la sua presenza all’incoronazione poetica di
Petrarca nel ‘41. Seguirono anni di serenità, nel segno del governo di Roma e della
pacificazione tra i diversi rami della famiglia, grazie anche alla mediazione di Cola di
Rienzo. Orso morì entro il 1366.
2.23 Lancillotto Anguissola
Nobile d’origine piacentina, Lancillotto Anguissola è noto innanzitutto come cavaliere,
titolo che acquisì ufficialmente nel ‘39, a seguito della battaglia di Parabiago, in cui
aveva combattuto a favore dei Visconti. In realtà le sue prime imprese non si erano
svolte a sostegno dei milanesi, in particolare nel 1336, quando Azzo Visconti assediò
Piacenza e l’Anguissola cercò di conquistarla per proprio conto. D’altro canto gli
impegni militari e politici lo occuparono via via sempre meno: Lancillotto scelse infatti
di dedicarsi principalmente alla poesia. Se ne conoscono soltanto sonetti e canzoni
d’ispirazione amorosa, che in più occasioni inviò agli amici (e in primo luogo a
Petrarca). Trascorse gli ultimi anni a Padova presso i Carraresi, dove si era trasferito nel
1350; qui morì tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta.
2.24 Luca Cristiani
Luca Cristiani nacque intorno al 1300 a Ferentino, presso Frosinone, come rivela la
bolla pontificia che gli concedeva un canonicato in Francia; Petrarca però lo ricorda
538
piacentino, forse perché a Piacenza ricoprì a lungo la carica di prevosto. L’Aretino lo
conobbe a Bologna, dove studiarono insieme diritto, e la loro frequentazione proseguì
negli anni avignonesi, poiché anche il Cristiani fu familiare del cardinale Colonna. La
loro amicizia dev’essere stata piuttosto intima, come dimostra il soprannome – Olimpio
- con cui Petrarca lo chiamò sempre. Da una preoccupata Familiare inviata a Socrate e
dalla protesta ufficiale che Petrarca rivolse ad alcuni rappresentanti di Firenze, è noto
che il Cristiani fu vittima dei briganti mentre attraversava gli Appennini vicino alla città
toscana: l’amico con cui viaggiava fu ucciso, mentre Luca riuscì a salvarsi e a fuggire.
La citata concessione del beneficio francese (1353) è l’ultima informazione disponibile
sul Cristiani, della cui morte non si conosce alcun dettaglio.
2.25 Bartolomeo Carusi
Il Carusi è meglio noto come “Bartolomeo di Urbino”, anche perché l’attribuzione del
cognome si deve a biografi tardi; non se ne conosce la data di nascita o l’origine precisa.
Entrò nell’ordine degli Eremitani di sant’Agostino e, dopo aver studiato a Parigi,
divenne lettore a Bologna, dove rimase dal ‘21 al ‘43: qui dunque poté incontrare
Petrarca, oltre a Giovanni d’Andrea, amico anche dell’Aretino. È ricordato in
particolare per due opere erudite, composte con l’avvallo del suo maestro bolognese
Dionisio di Modena, il Milleloquium veritatis Augustini, dedicato a Clemente VI, che
gli valse la nomina a vescovo di Urbino, e il Milleloquium D. Ambrosii, commissionato
proprio dal pontefice. Per concludere la prima, e più importante, Bartolomeo chiese al
Petrarca di scrivere alcuni versi; egli li accompagnò con una lettera in cui esalta
l’intelletto dell’amico, il quale aveva impegnato grandi facoltà per un lavoro umile,
anche se utilissimo ai lettori. Anche altre sue fatiche letterarie (ad esempio il De Romani
Pontificis Christi Vicarii auctoritate) ebbero vasta eco all’epoca, soprattutto perché si
inserivano nella vessata questione della legittimità del papa: Bartolomeo rimase fedele
al suo ordine, che si schierò contro Ludovico il Bavaro. Morì nel 1350.
2.26 Giovanni da Bunio
Questo personaggio è ignoto. Se ne conosce solo ciò che ne dice Petrarca nell’unica
epistola che gli abbia inviato: i due furono compagni di studi a Bologna.
2.27 Niccolosio Bartolomei
Niccolosio Bartolomei nacque a Venezia nel 1311, da famiglia lucchese di mercanti da
poco trasferitasi nella Repubblica. Dopo aver compiuto buoni studi umanistici, si dedicò
come il padre alla mercatura, con notevole profitto. Ancora nel 1331 era sicuramente a
Venezia, dove insieme agli altri lucchesi prestò giuramento a Giovanni di Boemia, che
si era impadronito della loro città d’origine; intanto aveva avviato con i fratelli la
costruzione della Certosa di Farneta, secondo l’imposizione del padre, ma anche con
notevole sollecitudine personale. Lo ricordano poi alcuni prestiti sostanziosi e dal
539
particolare valore politico (non solo al governo di Lucca, ma anche a Edoardo III di
Inghilterra), nonché gli onori che gli furono resi in patria al suo ritorno (1369). Vi
ricoprì infatti varie cariche pubbliche ed ebbe contatti con personaggi illustri in tutta
Italia. Morì nel 1388 e venne sepolto a Farneta; il suo testamento lascia beni consistenti
proprio alla Certosa, compresa una notevole collezione libraria. La biblioteca dimostra
l’interesse che il Bartolomei aveva maturato per la vita culturale e soprattutto per i
classici, ben oltre gli anni degli studi; tale perdurante passione può spiegare i buoni
rapporti con vari intellettuali di spicco, tra cui Petrarca, Boccaccio e Coluccio Salutati,
testimoniati dalla sua ricca corrispondenza.
2.28 Filippo di Vitry
Teorico e compositore musicale66, traduttore delle Metamorfosi di Ovidio, ecclesiastico,
ma anche uomo politico e diplomatico, Filippo nacque a Vitry nel 1291. Fu legato a
Giovanni XXII, Carlo IV e Filippo VI; nel ‘51 divenne vescovo a Meaux dove morì nel
‘61. L’amicizia col Petrarca è testimoniata dalla dolente partecipazione di quest’ultimo
a tale perdita, registrata nel Virgilio Ambrosiano con la consueta nota obituaria.
2.29 Guglielmo da Pastrengo
Guglielmo da Pastrengo è famoso per i suoi studi di diritto e letteratura, ma soprattutto
per il contributo alla cultura pre-umanistica in ambito veronese. Nacque nel 1290 circa a
Verona; l’appellativo si deve all’origine della famiglia paterna, che godeva di diritti
feudali, oltre che di benefici economici, nella zona di Pastrengo. Studiò diritto a
Bologna per diventare notaio e soprattutto giudice, rientrando di certo a Verona entro il
‘21. Qui, durante il governo di Cangrande Della Scala, ricoprì varie cariche pubbliche e
svolse il ruolo di ambasciatore; la sua carriera si mantenne prestigiosa anche dopo la
morte del suo protettore. Negli ultimi anni ‘30 venne inviato due volte in ambasciata ad
Avignone, dove si recò con Azzo da Correggio: qui conobbe Petrarca, al cui prestigio
presso la curia si affidò per il buon esito della missione a favore degli Scaligeri. In realtà
in breve tempo la fortuna di Alberto e Mastino II della Scala declinò definitivamente di
fronte alle armi dei fiorentini; tuttavia i documenti dimostrano il ruolo efficace che
Guglielmo svolse a favore della sua città. La sua importanza continuò ad essere
riconosciuta anche dopo nuovi disordini pubblici, che causarono l’avvicendarsi al potere
di diversi esponenti della famiglia della Scala, in una serie di scontri violenti e di
condanne a morte. Tali rivolgimenti pesarono, ad esempio, su Giovanni, il figlio di
Petrarca, che forse proprio a causa delle amicizie paterne, venne accusato di legami con
i congiurati che avevano temporaneamente usurpato il potere. Proprio Guglielmo
potrebbe essere intervenuto perché l’esilio e la sottrazione del canonicato, concessogli a
66
A lui si deve, a quanto pare, il nome stesso di Ars nova, alla quale per altro diede un impulso essenziale
in Francia. Per l’ars si veda Cerocchi 2010.
540
Verona nel ‘52, gli fossero revocati (tuttavia il giovane morì poco prima che i
provvedimenti a suo carico fossero cancellati).
A partire dagli anni Quaranta, comunque, Guglielmo si dedicò sempre più al suo
impegno di giurista, in particolare al servizio delle istituzioni religiose. Morì a Verona,
nel 1363; va ricordato anche come autore del De originibus e del De viris illustribus,
che lo impegnò almeno dal ‘37 e fino agli anni Cinquanta, consacrandone l’immagine di
erudito umanista. Della sua corrispondenza con Petrarca restano pochi frammenti, che
permettono però di intuire uno scambio epistolare costante e un legame intimo. Le
tematiche e lo stile delle lettere sopravvissute dimostrano la comune passione per la
lettura e soprattutto per i classici, l’ideale dell’otium letterario, l’interesse per la ricerca
e l’impegno di bibliofili, soprattutto in un contesto tanto promettente quale quello di
Verona. Tale amicizia intensa e prolungata spiega bene perché proprio a Guglielmo
Petrarca abbia affidato la cura “paterna” del suo Giovanni, mentre per gli aspetti
scolastici il poeta si era rivolto a Rinaldo Cavalchini. La connessione tra i due sodali è
infine suggerita dalla stesura di due opere parallele – e dal medesimo titolo – lavoro per
cui è indubbio che Guglielmo abbia sentito l’influenza dell’Aretino, il quale a sua volta
potrebbe essersi avvalso del contributo dell’amico, come dimostra ad esempio la
richiesta di un volume che gli era indispensabile (Familiare IX, 15)67.
2.30 Johannes von Neumarkt
Jan ze St eda, poi più noto con il titolo episcopale, nacque nel 1310. Legato a Carlo IV
e suo cancelliere imperiale, ottenne diversi vescovadi; morì nel 1380. Fu un buon
umanista ed ebbe soprattutto il merito di far conoscere le opere dell’amico Petrarca in
patria. In effetti, la Familiare X, 6 dedicata a Johannes tratta proprio della cultura
umanistica e ha il valore storico di aprire per il suo autore una prospettiva europea.
2.31 Niccolò Acciaiuoli
Niccolò Acciaiuoli nacque nel 1310 in Val di Pesa; il padre è ricordato per essere un
figlio illegittimo. Niccolò viene descritto dal Villani come un uomo di bell’aspetto,
eloquentissimo, anche se “senza lettere”68. Ciò non toglie che egli abbia ricevuto
un’educazione elementare non trascurabile: fu infatti allievo di Giovanni Mazzuoli da
Strada, padre di Zanobi e maestro anche del giovane Boccaccio. Egli divenne dapprima
mercante e come tale arrivò a Napoli, come ricorda proprio il certaldese; tuttavia,
desideroso di migliorare la propria condizione, entrò al servizio di una cognata di re
Roberto, della quale fu successivamente amante e rappresentante in Grecia. Questo
favorì la sua acquisizione di terre e ben presto anche di cariche pubbliche al servizio del
sovrano. Dopo la morte del re, passò al servizio di Luigi di Taranto, di cui favorì il
matrimonio con la regina Giovanna (e si pensa che possa essere implicato nell’omicidio
67
Sulle affinità intellettuali di Petrarca e di Guglielmo, con particolare riferimento ai classici e al caso di
Pomponio Mela, si veda Fiorilla 2008.
68
DBI, p. 87.
541
del suo primo marito). Di fatto fu anche al servizio della regina, favorendone i rapporti
con la curia pontificia nel periodo in cui ella dovette rifugiarsi in Provenza, e poi il
ritorno in Italia; tuttavia fu anche fautore della lotta del consorte per il pieno controllo
del potere ai danni della regina ed infine protagonista delle violenze che la portarono
alla definitiva caduta. Quando Luigi ebbe pieni poteri, l’Acciaiuoli, già ricchissimo e
noto per la sua magnificenza, gestì di fatto la direzione del regno. Il suo ruolo fu
fondamentale anche per la vittoria sugli ungheresi che avevano invaso l’Italia e per la
riacquisizione della Sicilia, anche se non integrale. Proprio l’impossibilità di
riconquistare Catania e la grave sconfitta di Acireale, della quale Niccolò non aveva
alcuna responsabilità, fornirono un pretesto ai suoi avversari per farlo allontanare dalla
corte: egli fu dunque inviato presso il pontefice per ottenerne l’aiuto a favore degli
Angiò. Tornò infine a Napoli, dove la sua presenza fu determinante per il
consolidamento del predominio angioino in Sicilia e per l’alleanza con l’esercito
ungherese. Morì poco dopo, nel 1364, quando di nuovo infuriavano le maldicenze dei
suoi avversari, questa volta ai danni del suo prestigio presso il papa. Non fu uomo di
cultura in prima persona, nonostante le opere che finanziò e curò soprattutto in ambito
architettonico (in particolare la certosa di Val d’Ema), ma ebbe – anche in virtù dei suoi
contatti e del suo ruolo politico – molti legami con gli intellettuali del tempo, in
particolare Petrarca, Zanobi da Strada e Boccaccio. Quest’ultimo ne attendeva il
sostegno economico e una posizione privilegiata presso la corte di Napoli; egli rimase
però insoddisfatto e probabilmente per questo lasciò dell’Acciaiuoli un terribile ritratto
nel libello inviato al Nelli.
2.32 Zanobi da Strada
Zanobi69 nacque a Strada, vicino Firenze, nel 1312, figlio di Giovanni Mazzuoli, un
maestro di scuola di cui seguì le orme. Divenne ben presto grande ammiratore del
Petrarca che poté incontrare a Firenze nel 1350. Poco dopo si trasferì a Napoli, chiamato
da Niccolò Acciaiuoli che nel frattempo vi aveva acquisito una posizione di grande
prestigio; ricevuta la corona poetica per i suoi versi latini, si trasferì ad Avignone, dove
nel ‘59 divenne segretario apostolico. Morì nel 1361.
2.33 Francesco Nelli
Francesco Nelli70, ammiratore fiorentino di Petrarca, poté conoscere il poeta nel 1350.
Ne divenne assiduo corrispondente e strinse con lui un’amicizia che, benché tarda, fu
tuttavia intima e particolarmente affettuosa. Al Nelli sono dedicate le Senili, con il
nome, poi sempre usato dall’Aretino, di Simonide. Sono poco note le vicende della sua
vita, se non grazie al ricco epistolario intrattenuto col Petrarca stesso, di cui restano le
testimonianze di entrambi i mittenti. Esponente di una famiglia fiorentina antica e
69
Sull’impegno culturale di Zanobi da Strada si vedano ad esempio Baglio 2000 e Brambilla 2000.
A proposito di questo personaggio è ancora utile il contributo in Cochin 1892; sull’epistolario con
Petrarca si veda anche Chiecchi 2003.
70
542
prestigiosa, Nelli appare però in difficoltà sul piano economico: divenne notaio e poi
priore della chiesa dei Santi Apostoli, in una posizione professionale forse non troppo
soddisfacente, ma di certo impegnativa. Petrarca infatti lo ricorda “occupatissimo” e
dunque sfortunatamente privato dell’otium letterario. La formazione è per lo più ignota,
ma si può immaginare che sia stata in sostanza quella tipica dell’epoca; proprio le lettere
dimostrano che Francesco fu un allievo fedele alla tradizione dell’ars dictamini.
Tuttavia egli fu anche un appassionato di classici, già prima dell’incontro con il suo
modello, che per altro ne avrebbe favorito il notevole sviluppo stilistico e un
significativo incremento nell’erudizione, evidenti sempre nelle epistole. Nelli fu forse
attivo anche come poeta, o almeno così lo ricorda Petrarca – che sceglie il soprannome
di Simonide proprio perché egli fu “prete e poeta” – e lui stesso parla della sua musa;
tale definizione non impedisce comunque ch’egli si sia esercitato soprattutto nella prosa.
Fu inoltre appassionato bibliofilo, sollecitato ancora una volta dal celebre amico, per il
quale cercò spesso volumi di classici o si fece intermediario (ad esempio, presso Lapo
da Castiglionchio). Nel 1357 è probabilmente ad Avignone, che descrive con i
medesimi toni moraleggianti del sodale e dove insegnò al suo Giovanni; nel ‘61 si
trasferì a Napoli, dove aveva ottenuto un incarico pubblico grazie all’Acciaiuoli. Furono
gli anni più attivi della sua vita e forse fin troppo faticosi, come si evince dalle
descrizioni e dal tono delle sue epistole. Morì due anni dopo, di peste.
2.34 Bartolomeo Carbone dei Papazzurri
Bartolomeo Carbone nacque a Roma. Divenuto domenicano, visse per un certo periodo
ad Avignone dove conobbe Petrarca: tale amicizia appare piuttosto intima, visto che
Bartolomeo venne ospitato qualche anno dopo nella casa di Venezia. Nel corso di un
quindicennio a partire dalla fine degli anni Quaranta, divenne vescovo di Teano, Chieti
e Patrasso; morì nel ‘65.
2.35 Giovanni Barrili
Nobile napoletano, il Barrili fu uno dei più alti funzionari di Roberto d’Angiò ed ebbe
una brillante ed intensa carriera politica tra il 1330 e il 1350 circa, che coinvolse tutti i
centri di potere del regno. Svolse in particolare delicati compiti diplomatici. Ebbe ad
esempio un ruolo centrale nell’ambasciata a Luigi d’Ungheria il cui scopo era evitare
che Napoli fosse abbandonata ai saccheggi; meno efficace fu invece il suo intervento in
Provenza, dove la sua nomina a siniscalco non fu accettata dai poteri locali, con il
rischio dunque di arrivare alla guerra civile. Tuttavia il suo prestigio, che pure si
mantenne abbastanza vivo sotto il regno di Giovanna, era destinato a spegnersi poco
dopo la morte di re Roberto, di fronte al potere sempre più ampio dell’Acciaiuoli. Morì
nel ‘55, probabilmente a Napoli. Conobbe Petrarca a Napoli nel ‘41, quando avrebbe
dovuto accompagnarlo all’incoronazione (cadde però in un’imboscata ad Anagni) e il
loro sodalizio, testimoniato dall’abbondante corrispondenza, si rinsaldò nel ‘43, in
occasione di un secondo incontro. L’Aretino lo rappresenta allegoricamente come figura
543
della lealtà e della saggezza nella seconda egloga del Bucolicum carmen. Non fu un
erudito né un letterato o un poeta, ma certamente partecipò alla vivace vita culturale
patrocinata dal sovrano angioino e godette di una buona preparazione di base.
2.36 Rinaldo Cavalchini
Nato presso Verona tra 1288 e 1290, Rinaldo Cavalchini è noto soprattutto per
l’imponente scuola che fondò per insegnare filosofia, letteratura e grammatica, con
criteri modernissimi che sembrano anticipare quelli definiti da Guarino Guarini. Lo
studio, ancora organizzato intorno alle arti di trivio e quadrivio, prevedeva però
un’estensione delle discipline e l’attenzione al benessere del corpo; le passeggiate fuori
dalla città offrivano inoltre nuovi spunti per l’insegnamento della storia locale, con un
approccio in effetti innovativo. Il Cavalchini ne derivò notevole prestigio, come
testimonia ad esempio l’incarico di preparare l’iscrizione per il monumento funebre di
Cangrande I e probabilmente anche quello di Mastino II.
Ricevette un’ottima educazione, tipica dell’ambiente veronese del primo Trecento,
debitrice dell’influenza dantesca e per molti aspetti preumanistica; l’avrebbe poi messa
a frutto con il suo impegno nell’approfondire gli studi letterari. Entro il ‘32 non solo la
scuola era ben avviata, ma Rinaldo aveva anche preso gli ordini, benché non sia
possibile fornire una datazione più precisa. Già dal ‘39 fu in ottimi rapporti con
Petrarca, grazie alla mediazione di Guglielmo da Pastrengo; lo conobbe di persona a
Verona nel ‘45, quando gli venne affidato Giovanni perché gli impartisse l’educazione
elementare (anche se non in modo continuativo, questo impegno proseguì fino alla metà
degli anni ‘50). Non restano tracce di una loro corrispondenza anteriore, ma il tono della
Metrica che Petrarca gli dedicò nel ‘43 lascia forse intendere uno scambio epistolare
abbastanza consueto; da quel momento comunque è possibile ricostruire contatti
piuttosto regolari. Nelle missive di Petrarca al comune amico Guglielmo da Pastrengo si
coglie il ritratto del Cavalchini come uomo non solo colto, ma davvero appassionato
allo studio e soprattutto alla ricerca filologica: lo dimostrano a maggior ragione le
richieste di prestiti librari. D’altro canto, ne vengono ricordati il rigore e la serietà
morali anche nell’occuparsi dei suoi allievi, e la forte e coerente fede religiosa. Morì a
Verona nel ‘62; della sua produzione rimangono alcune composizioni latine.
2.37 Matteo Longhi
Originario di Bergamo e nobile per nascita, studiò giurisprudenza a Padova o Bologna;
sembra fosse divenuto diacono già nel 1310. Conobbe Petrarca prima del ‘47, quando la
loro amicizia si consolidò grazie al soggiorno a Valchiusa; all’amico procurò un codice
con l’Achilleide di Stazio, ancor’oggi conservato.
544
2.38 Ponzio Sansone
Prevosto di Cavaillon, la diocesi di Philippe de Cabassoles, Ponzio Sansone è
personaggio quasi ignoto. Petrarca però lo ricorda a Philippe come amico di vecchia
data, uomo notevole per tempra morale e buon conoscitore delle lettere.
2.39 Checco di Meletto Rossi
Originario di Forlì, Checco Rossi è noto come cancelliere dell’Ordelaffi, il capitano del
popolo della sua città, insieme al quale dovette fuggire dopo la riconquista del territorio
da parte delle truppe pontificie. Spostatosi a Bologna, ebbe rapporti con i Malatesta di
Rimini; fu amico di Petrarca e Boccaccio, anche in qualità di poeta e letterato.
2.40 Pandolfo Malatesta
Nato nel 1325, primogenito di Malatesta “Antico” Malatesta, fin da giovanissimo
Pandolfo fu attivo come condottiero al servizio delle signorie settentrionali più potenti.
Il vicariato imperiale concesso da Ludovico il Bavaro gli guadagnò il dominio di Pesaro
nel ‘43; il suo ruolo fu consolidato nel ‘55 dalla concessione di vicariati apostolici a
Pesaro, Rimini, Fano e Fossombrone; tuttavia il potere rimase principalmente nelle
mani dello zio Galeotto e dunque Pandolfo continuò la sua carriera militare. Sono anni
segnati anche dal pellegrinaggio in Terrasanta e da rapporti diplomatici altalenanti, in
cui non mancarono scontri anche a svantaggio del Malatesta. Solo nel 1372 succedette
allo zio paterno come guida della famiglia, per morire però l’anno successivo.
L’impegno politico e la continua partecipazione agli avvenimenti militari della penisola
hanno reso la figura di Pandolfo particolarmente affascinante; egli fu, però, anche
grande appassionato di poesia e letteratura in genere, nonché mecenate. Insieme al
fratello contribuì enormemente a rinsaldare il potere della famiglia proprio attraverso
l’attività culturale, riscattando cioè una dinastia che sino a questo momento non aveva
brillato quanto a vita intellettuale. Ben presto tale impegno si ispirò ad ideali umanistici,
che spiegano anche la sua profonda ammirazione per Petrarca, che riuscì a conoscere
nel ‘56, quando il Malatesta divenne comandante presso i Visconti. Tale rapporto in
origine sbilanciato nei confronti del maestro lasciò spazio ad un’amicizia che
nell’intonazione del sonetto 104 dedicato a Pandolfo dall’Aretino appare piuttosto
intima. Ne è prova in fondo anche l’invio di una copia del Canzoniere secondo quella
redazione che si dice appunto “Malatesta”. Sia l’orazione funebre anonima che gli fu
dedicata sia alcune sue richieste in forma epistolare rivelano infine che Pandolfo fu
appassionato bibliofilo.
2.41 Pietro dei Pittavi (Pierre Bersoire)
Pietro dei Pittavi nacque vicino a Poitiers alla fine del Duecento. Scelse la vita
monacale, prima come francescano, poi come benedettino; tuttavia visse a lungo presso
545
la curia avignonese, dove conobbe Petrarca già nel ‘38, divenendone non solo amico,
ma anche estimatore. All’inizio degli anni ‘50 fu a Parigi per motivi di studio, ma venne
accusato di eresia e imprigionato, anche se per breve tempo. Verso la fine della vita,
grazie ad importanti protezioni, entrò nel priorato di sant’Eligio a Parigi, dove morì nel
‘62. A lui si devono varie opere latine d’argomento morale e una traduzione in francese
di Tito Livio; fu inoltre l’unico ad avere l’occasione di leggere alcuni passi dell’Africa
con il consenso dell’autore (a parte gli episodi legati alla laurea poetica).
2.42 Enrico Pulice
Conosciamo molto poco su tale personaggio e sulla sua famiglia. Enrico fu figlio di
Giovanni da Custoza e fratello di Conforto, l’autore di una cronaca vicentina; fu notaio
per professione e poeta latino. In ambito culturale, inoltre, sembra aver avuto un ruolo
significativo rispetto all’umanesimo vicentino.
2.43 Albertino da Cannobio
Se ne conosce molto poco. Originario del novarese, Albertino fu medico e uomo di
buona cultura. La Familiare inviatagli da Petrarca potrebbe essere una risposta ad
un’epistola latina in esametri.
2.44 Azzo da Correggio
Petrarca pare stimare la famiglia Correggio, ed Azzo in particolare, tra i suoi amici più
degni, il che non ha mancato di stupire la critica, abituata sin da Carducci ad
un’opinione estremamente negativa sul correggese71. Masnovo72 cita in proposito un
dimenticato studio di Franco Ridella sul “Petrarca parmense”, in cui si evidenzia la
consonanza di gusti e passioni che potrebbe giustificare il legame tra i due, a
prescindere dalle azioni politiche di Azzo. Tuttavia il Masnovo non si accontenta di tale
prospettiva, ed insiste nel dimostrare che le azioni di Azzo sono semplicemente vittime
del travisamento e dell’incomprensione da parte di storici e critici moderni. È necessario
piuttosto valutare le sue scelte politiche alla luce dell’effettivo contesto storico, dunque
in considerazione del passaggio dal comune alla signoria, in una fase di lotte e contrasti
particolarmente violenti. Azzo appare insomma una figura tipica del Trecento, ma al
contempo egli risulta proiettato verso la nuova stagione umanistica. Il Masnovo si è
soffermato anche su tale aspetto, sottolineando l’amore di Azzo per i classici e l’epoca
romana, da cui sarebbero forse derivati il desiderio di gloria, di viaggiare e scoprire,
nonché una certa passione per il lusso. D’altro canto nei quattro anni del suo governo a
Parma egli riunì artisti, intellettuali e letterati, con un atteggiamento di mecenatismo
encomiabile; ricevette un’ottima educazione nelle scienze e nelle lettere, e Petrarca ne
71
Masnovo 1934, pp. 181-182.
Masnovo 1934. Sul soggiorno parmense di Petrarca si vedano anche Rizzi 1934 e Dotti 2006 (ma
l’intera raccolta da cui è tratto il contributo di Masnovo è legata alla memoria parmense del poeta).
72
546
ricorda le qualità di intelligenza, perspicacia e memoria73. Le sue leggi, infine, furono in
sostanza liberali e più in generale ispirate ad una moderna intenzione di
sistematizzazione.
2.45 Bernardo Anguissola
Nobile piacentino, Bernardo Anguissola fu molto legato ai Visconti, anche per
tradizione familiare; proprio tale legame è all’origine del suo incarico come podestà di
Como, voluto in particolare dall’arcivescovo Giovanni. I rapporti con Petrarca sono
testimoniati da due Familiari del libro diciassettesimo e dalla nota obituaria redatta nel
Virgilio ambrosiano alla morte dell’Anguissola, avvenuta nel 1359.
2.46 Domenico de Apibus
Domenico è noto piuttosto come Croto o Crotto, il nome che assunse nella gestione
della scuola di logica e retorica del padre a Bergamo, sua città d’origine. Nacque intorno
al 1300, ebbe una buona preparazione culturale, come dimostra anche il conseguimento
del titolo universitario di magister; si dedicò sempre all’insegnamento, fino all’anno
della morte, nel 1361.
2.47 Moggio Moggi
Il Moggi è un altro degli insegnanti di grammatica e retorica cui Petrarca chiese aiuto
per l’educazione del figlio. Nato nel 1325 circa e originario di Parma, vi fondò una
scuola, di cui beneficiarono i figli di Azzo da Correggio, cui fu sempre molto legato. Lo
seguì infatti nel suo esilio a Verona, dove collaborò nella scuola del Cavalchini, e a
Milano, dove entrò definitivamente a servizio del Correggio. Morì certamente dopo il
1388.
2.48 Benintendi Ravignani
Il Ravignani nacque a Chioggia intorno al ‘18; dapprima fu notaio, ma fece carriera nel
governo della Serenissima come diplomatico. Conobbe Petrarca a Venezia nel ‘54 in
occasione di un’ambasceria e lo rivide per lo stesso motivo a Milano nel ‘55. Con lui
Petrarca discusse del progetto di lasciare i suoi libri a Venezia e, in qualità di amico, si
impegnò a diffonderne il Bucolicum carmen, compresi gli ampliamenti successivi alla
prima redazione. È autore di versi ed epistole in latino, nonché di una cronaca
veneziana. Morì nel 1365.
73
Bigi 1865.
547
2.49 Neri Morando
Originario di Forlì, Neri Morando fu segretario della repubblica di Venezia. Qui
conobbe Petrarca nel ‘54 e i contatti tra i due si mantennero frequenti in relazione alla
questione imperiale e ai rapporti con Carlo IV. Morando si impegnò anche alla
diffusione delle aggiunte al Bucolicum carmen.
2.50 Iacopo da Imola
Nel “codice degli abbozzi” resta un sonetto che Petrarca inviò ad un ignoto “Iacopo da
Imola”, in risposta ad un componimento non conservatosi: di questo personaggio non si
conosce altro.
2.51 Pietro Dietisalvi
Resta un suo sonetto corresponsivo nel “codice degli abbozzi”, insieme alla risposta di
Petrarca (la cui datazione è certamente giovanile). Del Dietisalvi si conosce ben poco
oltre a questo: fu senese e nacque tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento.
2.52 Antonio Beccari
Il Beccari è più noto come Antonio da Ferrara, dove nacque nel 1315; l’origine umile (il
cognome viene probabilmente dall’attività tradizionale della famiglia, cioè quella di
beccai) viene più volte menzionata nelle sue rime, insieme ai sacrifici sopportati dal
padre perché i due figli avessero una buona educazione umanistica. È ricordato, oltre
che come rimatore, per la vita movimentata, segnata da continui spostamenti (dovuti
talvolta a bandi e condanne) e dalla passione per il gioco. Visse in vari centri italiani, al
servizio di numerosi signori diversi; non si conoscono gli ultimi anni della sua vita né la
data esatta della morte, avvenuta comunque entro il ‘74. Della sua produzione poetica è
apprezzata soprattutto la vena comica e giocosa, oltre alla sua interessante consuetudine
allo scambio di rime74; tuttavia non è un caso che i suoi testi più interessanti siano quelli
che compongono la corrispondenza con Petrarca, ben conservata. L’Aretino, inoltre,
cita il Beccari in una Senile, dove tempera il proprio giudizio positivo sul suo ingegno,
che aveva fin troppo esaltato nei sonetti. Le liriche petrarchesche in questione, per altro
escluse dal Canzoniere e legate alla tradizione estravagante, sono databili agli anni
Quaranta.
2.53 Roberto dei conti Guidi da Battifolle
Figlio primogenito di Simone II, Roberto nasce tra 1315 e 1320. Riceve un’educazione
militare, tradizionale per la famiglia, che godeva dell’autorità comitale su territori che si
74
Sulla sua opera si legga ad esempio Sarteschi 2008.
548
estendevano nella zona appenninica tra Toscana e Romagna; tuttavia sembra che abbia
avuto la possibilità di approfondire anche una preparazione umanistica, che suscitò
particolarmente la sua passione. Sono ben note le sue imprese politiche e militari,
dapprima a fianco del padre, e soprattutto in relazione alla tradizionale fedeltà dei conti
Guidi a Firenze e alla questione imperiale.
Indubbiamente giova alla sua memoria il contatto con Petrarca: il poeta scrive al conte
da Venezia tra ‘63 e ‘64 una Senile in cui ricorda i suoi studi. Da quell’epistola nasce
una corrispondenza abbastanza nutrita che comprende un sonetto del conte e la risposta
(rimasta estravagante) dell’Aretino. Tale scambio doveva essere noto nell’ambiente
fiorentino, poiché Coluccio Saluti scrive al conte per dolersi con lui della morte del
poeta; Roberto muore comunque meno di un anno dopo, nel 1375.
2.54 Andrea Stramazzo da Perugia
Non si conosce quasi nulla di questo personaggio, tanto che Santagata lo definisce un
“fantasma senza identità”75; ne resta in sostanza il sonetto inviato a Petrarca, cui
l’Aretino rispose con il fragmentum 24. L’unica associazione convincente76, per quanto
si tratti comunque di un’ipotesi incerta, è quella con un Muzio Stramazzo di Perugia,
che avrebbe inviato quattro sonetti a Petrarca, ricevendone altrettante risposte77.
Per quanto concerne la sua unica prova poetica attribuibile con certezza, vanno
evidenziati i forti tratti linguistici regionali e l’impianto dichiaratamente petrarchesco.
2.55 Geri Gianfigliazzi
Nemmeno di Geri Gianfigliazzi restano molte informazioni: egli è principalmente noto
proprio per i suoi scambi di rime con Petrarca. In realtà l’unica notizia certa concerne il
sonetto 179, risposta per le rime appunto a Geri, che aveva inviato la “proposta” in
Messer Francesco, chi d’amor sospira. Tuttavia si è ipotizzato che il medesimo
componimento abbia ispirato il fragmentum 60 e che Geri sia destinatario anche del
13178.
Fu fiorentino e guelfo: all’arrivo di Enrico VII è indicato in un elenco di ribelli (1313),
senza che faccia seguito, comunque, una reale condanna. È interessante che nel
medesimo documento siano citati alcuni altri Gianfigliazzi, tra cui Niccolò, noto come
titolare dell’omonimo banco, e due cugini. Non ne è però indicata alcuna parentela, né
75
Santagata 1996, p. 124. Lo studioso passa in rassegna le numerose proposte di identificazione e
attribuzione avanzate dalla critica per il perugino, in riferimento ad alcune fuggevoli apparizioni
nell’epistolario (Familiare XXIV, 12; Senile XVI, 7; Metrica 1, 9) o alla complessa interpretazione del
sonetto 166.
76
Andrea Stramazzo è stato inoltre confuso con l’altrettanto ignoto Muzio da Perugia, supposto autore di
un sirventese sulla decadenza italiana datato ai primissimi anni del ‘400; il suo autore è un altro
“fantasma”, che potrebbe essere nato negli anni ’70 del Trecento ed essere divenuto frate.
77
In Santagata 1996, pp. 124-125, si trovano le indicazioni bibliografiche delle edizioni di tale serie.
78
Per tale questione si veda Santagata 1996, in particolare p. 791, che rimanda anche allo studio condotto
da Rosanna Bettarini su 131.
549
Geri risulta mai coinvolto nelle difficili questioni economiche e giudiziarie ben note
invece nel caso di Niccolò, accusato di usura per i tassi di prestito che imponeva.
3. Il rapporto con la famiglia Colonna79
Quando nel 1326 Petrarca tornò definitivamente ad Avignone dopo l’ultimo periodo
trascorso a Bologna, le ricchezze lasciategli dal padre permisero a lui e al fratello
Gherardo di vivere in spensieratezza per qualche tempo. La conoscenza di Giacomo
Colonna era recente80 e l’amicizia con Francesco non poteva essere ancora molto
approfondita; non lo erano – sembra - nemmeno i rapporti con il resto della famiglia
cardinalizia, anche se certamente erano ben avviati (forse già dal ‘2581). L’incontro con
il cardinale Giovanni può forse essere datato al 132782; d’altronde già quando Petracco
era in vita, Francesco deve aver avviato le prime relazioni clientelari, benché a quanto
pare soprattutto con Orsini e Longhi.
Entro il 1330 la situazione appare molto mutata: si delineava ormai l’imperativa
esigenza di cercare una professione e Petrarca scelse l’ambito ecclesiastico, ma rifiutò
sempre gli incarichi che coinvolgessero attività pastorali.83 Intanto il sodalizio con
Giacomo si era consolidato, come dimostra la presenza di Petrarca nel seguito che lo
accompagnò a Lombez84 in Guascogna, sua nuova sede vescovile85: anche grazie al suo
contributo, in autunno il poeta divenne cappellano di famiglia sotto la protezione del
cardinale Giovanni Colonna, fratello di Giacomo. Fino al ‘37 tale legame sarebbe
rimasto stretto e costante, mantenendosi comunque stabile per i successivi dieci anni,
79
Riguardo a questo tema sono disponibili alcuni riferimenti particolarmente utili: Morici 1899, Foresti
1934, 19771 e 19772, Chiorboli 1935, Billanovich 1981, Santagata 1988 e 1996.
80
L’incontro deve essere avvenuto a Bologna, dove Giacomo e Francesco seguono i corsi di Giovanni
d’Andrea, poi corrispondente del Petrarca.
81
Lo suggeriscono alcune annotazioni relative all’acquisto di libri (Billanovich, 1981) e una Senile
(Cochin 1922).
82
Secondo Cochin 1922 lo suggerirebbe l’egloga VIII, databile al 1347, in cui si parla di un rapporto
durato “vent’anni”.
83
Non è nemmeno certo che arrivi agli ordini minori in senso proprio. Si veda per questo Wilkins 2003,
p. 16.
84
Lombez è una piccola città francese, che secondo Cochin 1922 contava anche meno di duemila abitanti.
La diocesi, una delle più piccole, venne fondata nel 1317, in un periodo in cui Giovanni XXII aumentò
notevolmente il numero dei vescovi, scegliendone le sedi secondo ragioni non sempre chiare. In origine la
zona apparteneva ad un’antica abbazia benedettina, che nell’VIII secolo era passata sotto la giurisdizione
del capitolo di Tolosa, come dimostra l’origine degli abati sino al ‘300; l’abbazia aveva a questo punto
assunto la regola dell’ordine agostiniano. L’abate, come poi il vescovo, era sotto la giurisdizione dei conti
di Comminges (alla cui famiglia fu per altro riservato l’onore di fornire il primo vescovo). Giacomo
Colonna, il secondo a ricoprire questa carica, era a sua volta legato all’aristocrazia feudale locale, per
parte di madre. Il suo insediamento può essere immaginato come una sorta di “festa feudale” e la sua
corte avrà avuto caratteristiche simili.
85
È anche l’occasione per due nuovi sodalizi davvero duraturi, con Lello di Pietro Stefano dei Tosetti
(Lelius) e Ludwig van Kempen (Socrates), e forse per una sosta a Tolosa, che sarebbe assai interessante
per i possibili contatti culturali e letterari. Il soggiorno a Lombez è ricordato da Petrarca come
particolarmente piacevole, non tanto per il luogo – che anzi descrive in termini piuttosto negativi – quanto
per la compagnia e la conversazione (Giacomo è molto apprezzato perché particolarmente facondo). Su
tali aspetti e sulle attività quotidiane del gruppo si sofferma Cochin 1922, che alle pp. 113 segg.
suggerisce quali attività culturali e letterarie devono essere state frequenti: lo richiederebbe il gusto di
Giacomo per la letteratura, ricostruito sulla base della costante attenzione per la fama dell’amico Petrarca.
550
benché in modo altalenante, fino alla morte del cardinale, avvenuta a causa della
pestilenza del ‘48. In riferimento a tale occasione (ma forse in ritardo di quasi un
anno86) Petrarca scrisse una consolatoria al padre di Giovanni, Stefano il Vecchio, che
in quell’anno tragico aveva perso numerosi familiari.
Il contatto con la famiglia Colonna, potentissima e colta, si rivelò essenziale per il
giovane Petrarca, che dopo la morte del padre non avrebbe certamente avuto i fondi
necessari per alimentare la passione per i libri, tanto meno gli interessi filologici e
retorici. Tuttavia, il rapporto con il cardinale non fu certo idilliaco; ben presto Petrarca
avvertì frustrazione e desiderio di una maggiore libertà, che si colgono ad esempio nel
prolungarsi dei viaggi87 o nella lentezza di risposte e missive (comprese quelle in versi).
Ciò non toglie che la presenza dei Colonna sia importantissima nei Rerum vulgarium
fragmenta: da una parte è il riflesso di un’influenza fondamentale a livello biografico,
dall’altra è spesso un tramite efficace per le tematiche socio-politiche, minoritarie per
quantità, ma sempre significative. Come ha sottolineato Santagata88, i Colonna sono
parte della storia del Canzoniere, per quanto la raccolta in senso stretto sia nata molto
dopo che quella connessione si era affievolita. Non a caso al compianto di Laura fa
seguito immediatamente quello per Giovanni, poco dopo l’inizio della seconda sezione
(rispettivamente 267-268 e 269).
Sembra dunque utile ripercorrere le tracce di quella presenza, attraverso l’analisi89 di
alcuni componimenti rappresentativi90.
Il primo sonetto del Canzoniere in cui compare un personaggio estraneo alla vicenda
amorosa è il settimo, in cui Petrarca esorta un amico a non abbandonare la sua impresa
letteraria; la struttura è interlocutoria e coinvolge direttamente il destinatario, ma non
impone di immaginare una corrispondenza reale. Le ipotesi relative all’identità di tale
amico sono numerose: tra gli altri, sono stati citati Boccaccio, Orso dell’Anguillara,
Giacomo Colonna, il messinese Tommaso Caloiro. Medardo Morici91 ha criticato in
particolare quest’ultimo suggerimento, ipotesi del Lo Parco92, poiché le prove a favore
gli sembravano insufficienti: esse si riducono alla coincidenza cronologica tra la
corrispondenza epistolare e il sonetto (la cui data è solo presunta), all’amicizia intima e
all’attività poetica del Caloiro. Essa d’altro canto non è sufficiente per immaginarlo
86
Wilkins 2003, p. 97.
Lo testimoniano ad esempio due sonetti di corrispondenza, il 39, trasfigurato poi dall’inserimento nel
Canzoniere, di cui avremo modo di riparlare, e il 266.
88
Santagata 1988, pp. 7-8.
89
Al di là dei rimandi specifici citati di volta in volta, il riferimento essenziale restano le note di
commento al Canzoniere in Santagata 1996.
90
Al novero dei testi “colonnesi” vanno aggiunti, oltre a quelli presenti in questa analisi, 103, 266 e 269,
che non presentano significative incertezze. Il primo è un sonetto dedicato a Stefano il Giovane a seguito
di una sua vittoria sugli Orsini e dovrebbe essere stato redatto nel 1333, alla fine del viaggio nell’Europa
centro-settentrionale. Il secondo sonetto contiene le scuse di Petrarca per il ritardo nel tornare in
Provenza, in riferimento all’effetto mortifero del desiderio amoroso, e si rivolge al cardinale Giovanni. La
risposta da parte sua è contenuta in un sonetto composto da Sennuccio del Bene (Petrarca stesso lo
trascrisse sul “codice degli abbozzi”). Infine, 269 è il planh in morte del cardinale, che si inserisce però
nel più generale compianto per la dipartita di Laura.
91
Morici 1899.
92
Citato in Morici 1899; per il contributo di Lo Parco sulla figura di Tommaso Caloiro si veda anche Lo
Parco 1933.
87
551
impegnato in una vera “impresa”, com’è definita nel componimento; Morici pensò
piuttosto a Giovanni Colonna di S. Vito, signore di Genzano e fratello di Stefano il
Vecchio93, poiché interpretava l’impresa in chiave spirituale e non letteraria. La prima
parte del fragmentum in effetti potrebbe suggerire questa lettura, perché affronta
problematiche morali e critica la società del tempo. Giovanni infatti aveva scelto di
vivere in povertà e umiltà; tuttavia, divenuto anziano e malato, potrebbe aver
cominciato a lamentarsene col Petrarca, il quale potrebbe aver cercato di rinsaldarne il
proposito. La prova principale è limitata comunque alla parallela produzione
epistolografica di Petrarca. Santagata, a sua volta, ha proposto il riferimento ad un
diverso Giovanni Colonna, un frate del ramo di Gallicano94, compagno di studi del
poeta, anch’egli appassionato di filologia e di Livio in particolare, autore di un’opera
storiografica, il De viris illustribus. Proprio ad essa potrebbe essersi riferito Petrarca,
invitando l’amico a non demordere. Se si trattasse del frate, sarebbe per altro possibile
inferire una datazione stringente: Giovanni iniziò la sua opera ad Avignone e la terminò
a Roma nel ‘32, il sonetto potrebbe dunque risalire al ‘31-’32. Tale riferimento letterario
appare in perfetto accordo con la rappresentazione petrarchesca e la sua forte carica
morale, nonché con l’evidente presenza del modello ciceroniano95, soprattutto nella
definizione sapienziale dell’Elicona; il De viris illustribus del Colonna, infatti, è
un’opera ampia, complessa ed elevata per contenuto. Alcuni spunti tematici sono
comuni al sonetto e all’opera di Giovanni, come il disprezzo per la curia avignonese,
che entrambi ben conoscevano, e la contrapposizione otium/negotium. Anche in questo
caso vale il criterio dell’intertestualità: i medesimi problemi sono affrontati in 114 e in
alcune epistole petrarchesche rivolte al medesimo destinatario. La prima quartina,
infine, mostra un legame tanto netto con la canzone 28 da lasciar pensare ad un unico
discorso parcellizzato. L’ipotesi di Santagata, inoltre, permette di collocare con
coerenza il settimo sonetto tra il sesto e l’ottavo: infatti anche i destinatari dei successivi
tre testi sono esponenti della famiglia Colonna, mentre il collegamento con il precedente
si coglie nel contenuto96. Tale legame tra i testi contigui, infine, attenua la peculiarità
dell’aver anteposto il frate al cardinale, cioè il personaggio più autorevole, e a Giacomo,
l’amico intimo.
Anche il destinatario del sonetto decimo ha suscitato diverse ipotesi: Stefano Colonna97,
93
In realtà Phelps – citato in Santagata 1988, pp. 36-37 – ha chiarito l’indebita sovrapposizione tra i due
omonimi Giovanni Colonna: il presunto signore di Genzano e il frate del ramo dei Gallicano, realmente
esistito e in ottimi rapporti con Petrarca.
94
Su tale personaggio poco noto si veda anche il recente contributo in Modonutti 2012.
95
Le Tusculanae disputationes in particolare. Cfr Santagata 1988, p. 47.
96
Nel sonetto 6 Petrarca descrive il proprio traviamento, la follia amorosa; come sottolinea Santagata, un
problema molto simile, ma su scala ben più ampia, perché riferito alla società contemporanea, fa da
sfondo al settimo. Avignone costituisce così un fattore unificante anche come ambiente: la città
rappresenta l’ambito della corruzione personale e generale. Il polo opposto è costituito invece da Roma,
che si contrappone alla “Babilonia” provenzale.
97
Tale ipotesi si deve soprattutto alla famosa lettura di Carducci: Petrarca, a Lombez insieme a Giacomo,
inviterebbe Stefano il Vecchio a raggiungerli. Il coinvolgimento del patriarca dei Colonna spiegherebbe i
richiami storici, per i difficili rapporti che egli aveva intrattenuto con Bonifacio VIII e Ludovico il
Bavaro. Cfr Santagata 1988, pp. 85-86, e il DBI.
552
il cardinale o l’amico Giacomo? Secondo Foresti98 deve trattarsi di quest’ultimo, perché
solo il rapporto più intimo col vescovo giustificherebbe appieno il tono amichevole e
l’uso del “tu”. Santagata recupera tale proposta, precisando che il luogo campestre
rappresentato nel sonetto dev’essere Valchiusa (il che permetterebbe anche di abbassare
la datazione99). L’opposizione tra locus amoenus e centro urbano, identificato come
luogo di aggregazione istituzionale, è un topos diffuso nelle opere petrarchesche, e in
particolare nella Metrica100 a Giacomo Colonna in cui racconta del primo anno trascorso
nella valle provenzale101. Il dettaglio più riconoscibile è quello del colle: sarà da
identificare con la rupe valchiusana di cui altrove parla il poeta e su cui era possibile
inerpicarsi per vedere Avignone. Secondo Cochin, invece, il soggiorno agreste è quello
di Lombez102.
È rilevante, comunque, che i due sonetti 7 e 10 siano dichiaratamente colonnesi, a
prescindere da quale ne sia lo specifico destinatario; tra di essi Petrarca colloca due
componimenti di corrispondenza meno espliciti, anche se ne è chiara l’impostazione
clientelare, poiché si tratta di biglietti d’accompagnamento per alcuni doni. La questione
dei destinatari ha una soluzione ancor meno accessibile. Le colombe del sonetto 8
potrebbero ricollegarsi all’amore per la caccia che Giovanni Colonna dichiara nel
tentativo di non far partire Petrarca dalla Provenza: tuttavia Santagata103 ammette che è
solo un “esile filo”. È forse più interessante il parallelo che lo studioso propone con il
secondo libro delle Familiari, le cui lettere sono in gran parte dedicate ad esponenti
della famiglia. Data l’affinità cronologica e progettuale delle due raccolte, quella
epistolare e quella lirica, è facile pensare che si ripeta in entrambe la medesima serie di
interlocutori: dopo frate Giovanni e il vescovo Giacomo, mancherebbero il cardinale
Giovanni e Agapito (cui sarebbero dunque inviati i tartufi). Il vescovo di Luni è per
altro già presente nel Canzoniere: è di certo il destinatario del sonetto 58, che a sua volta
accompagna un dono (siamo tra il ‘37 e il ‘38).
98
Foresti 1934.
La questione della datazione è al solito piuttosto travagliata e coinvolge il lessico scelto da Petrarca per
rappresentare la scena bucolica, soprattutto a proposito dell’usignolo. Bisogna infatti considerare la
relazione con simili usi nel Canzoniere (in testi che risalgono ai primi anni ’50) e nelle epistole (un po’
anteriori). Per l’intera analisi, si veda Santagata 1988, pp. 95 segg.
100
Metriche I, 6 (1338). Il collegamento con l’epistola potrebbe anche spiegare l’uso del “noi”, che non
conosce altri esempi nel Canzoniere e perciò ha fatto pensare ad un caso particolare, come quello del
gruppo di amici raccolto a Lombez. Tuttavia Santagata 1988, pp. 103 segg, ha dimostrato come già nella
lettera Petrarca parli al plurale, perché si associa, quasi come amici, i libri che gli fanno compagnia nel
contesto di Valchiusa. Nel sonetto potrebbe riproporsi la medesima situazione psicologica. La relazione
con l’epistola, infine, spiega anche la funzione del sonetto come invito, tale da imporgli una valenza quasi
di biglietto d’accompagnamento, la stessa che pertiene – esplicitamente – ai sonetti 8 e 9 del Canzoniere.
101
Si può inoltre ipotizzare che la descrizione della città sia arricchita da simboli, che il lettore medievale
avrebbe sciolto con maggiore facilità rispetto a quello moderno. Santagata 1988, pp. 100 segg ha però
evidenziato come la rappresentazione sia idealizzata e sincretica, ad esempio nell’immagine del teatro ben
più classica che medievale, e che dunque potrebbe semmai indicare Roma. All’antica capitale, piuttosto
che ad Avignone, fa pensare anche il concetto di “palazzo”, che appare associato ad un potere legittimo e
dunque incoerente con la tipica percezione petrarchesca della nuova sede pontificia. Infine la loggia
richiama il palazzo del Laterano, dove proprio affacciandosi alla loggia il papa era solito dare la
benedizione, e che da poco era stata affrescata da Giotto.
102
Cochin 1922, pp. 116-121.
103
Santagata 1988, pp. 109-111.
99
553
La canzone 28 è dedicata invece alla crociata bandita da Filippo II di Valois nel 1333
per volontà di Giovanni XXII104, e in base ai riferimenti interni sembra composta tra la
fine di quell’anno e l’inizio del successivo. L’ipotesi tradizionale, che risale a Carducci
ed è stata sostenuta soprattutto da Billanovich, vuole che il destinatario della canzone
sia Giacomo Colonna. Concordava il Cochin, soprattutto per la descrizione del
destinatario come capace oratore105. Santagata ha proposto un’attribuzione alternativa,
riferendosi di nuovo a frate Giovanni Colonna, che in effetti nel ‘33 potrebbe essere
stato a Roma, invece che ad Avignone come si è sempre ritenuto106. Il riferimento ad un
secondo viaggio in nave ai versi 7-10 si spiegherebbe così perfettamente, poiché pochi
anni prima il Colonna aveva affrontato un pellegrinaggio in Terra Santa. Inoltre
l’immagine del “cieco mondo” si giustifica meglio in relazione ad un ecclesiastico che
abbia rinunciato al secolo, come appunto Giovanni, frate domenicano. Anche in questo
caso, infine, si notano significative connessioni tra le immagini della canzone e quelle
della corrispondenza con lo stesso Giovanni107. Tale ipotesi ha però anche una pecca,
poiché i rapporti tra Petrarca e il frate si intensificarono solo dagli anni ‘40; tuttavia qui
è la loro condivisione intellettuale ad essere essenziale. Né il riferimento allo stato
amoroso del poeta impedisce l’identificazione del destinatario con un religioso: in
primo luogo quell’esperienza doveva essere già pubblicamente nota, inoltre anche in
altri testi di cui il frate è il probabile destinatario (7 e 114) si fa riferimento al medesimo
tema. Anzi si delinea in tal modo un legame importante tra componimenti eterogenei, e
tra di essi e il nucleo centrale della raccolta; infine l’aspetto sentimentale è coerente con
l’affermazione, più volte ripetuta, secondo cui il frate aveva sì superato, ma in
precedenza conosciuto, le passioni terrene.
Sono legati alla famiglia Colonna anche i sonetti 39 e 40, che insieme al 38 a Orso
dell’Anguillara creano una coesa serie di testi corresponsivi. Il 39 presenta senza dubbio
una situazione di lontananza, che anzi si prolunga tanto da imporre una giustificazione.
Tale aspetto motiva la convinzione di molti studiosi che il destinatario sia di nuovo il
cardinale Giovanni, cui si chiede venia per la lunga assenza, dovuta alla necessità di
fuggire dagli sguardi mortali di Laura.
104
Il sonetto 27 si rifà alla medesima occasione: non a caso i due componimenti furono inviati insieme a
Orso dell’Anguillara. Tuttavia il sonetto è anteriore, scritto tra il ’31 e il ’32 (sicuramente entro marzo,
dati i richiami storici).
105
Cochin 1922, pp. 122-123.
106
Su questo punto però la certezza è da escludere: bisogna accontentarsi della possibilità che Giovanni
non fosse già più ad Avignone, come per altro sembrano suggerire le fasi editoriali della sua opera
storiografica. Per tali argomentazioni si veda Santagata 1988, pp. 23 segg.
107
Santagata 1988, pp. 14 segg, afferma comunque che l’unica altra ipotesi accettabile concerne l’amico
Giacomo, legato a Orso (il destinatario materiale del testo) che ne aveva sposato la sorella. Il vescovo
però non collima con il ritratto dell’intellettuale ai versi 76-83. Giacomo infatti aveva compiuto studi
classici, ma senza arrivare mai ad una competenza del latino davvero salda; si era concentrato sul diritto e
aveva affrontato qualche prova in lingua volgare, senza che questo basti per definirlo esperto della cultura
moderna, né risulta che abbia nutrito interessi storici. Tutte queste competenze caratterizzano invece frate
Giovanni, che aveva studiato e scritto anche di storia contemporanea. Giacomo inoltre non ha lasciato
nessuna opera, pur essendo spesso ricordato come un buon oratore, né ha mai dimostrato particolare
interesse per la crociata, mentre Giovanni come predicatore e missionario era stato mandato proprio in
Oriente pochi anni prima.
554
Secondo Foresti108, e Santagata109 pare in sostanza concorde, l’occasione sarebbe il
viaggio a Roma del 1337; tale datazione pare coerente con quella (probabile) dei due
testi precedenti. Tuttavia proprio Foresti dubitava che il destinatario fosse il cardinale,
poiché del viaggio (e del ritardo) si parla al passato; inoltre Petrarca, al momento di
scrivere, dovrebbe trovarsi ad Avignone (la “fuga” del v 4 avverrebbe dalla città
pontificia a Valchiusa) e dunque non avrebbe bisogno di inviare nulla al suo patrono,
potendosi finalmente presentare di persona. Allo studioso non sembra accettabile
nemmeno il riferimento a Laura (proposto da Carducci e non del tutto escluso da
Santagata110): infatti sarebbe bizzarro sia il riferimento all’amata in terza persona sia la
giustificazione per una separazione che permane, visto che la fuga dai suoi sguardi
continua oltre il viaggio.
L’interpretazione del sonetto 40 appare ancor più intricata: il poeta si rivolge ad un
amico romano per chiedergli in prestito un volume, necessario ad una sua – imprecisata
- opera storiografica. L’ipotesi tradizionale risale di nuovo al Foresti111 ed è stata poi
recuperata da Billanovich112: il destinatario sarebbe Giacomo Colonna, che nel 1331
aveva ereditato l’enciclopedia storica preparata da Landolfo Colonna, canonico di
Chartres; all’interno di quella raccolta era presente anche Livio113, di cui Petrarca aveva
bisogno per portare a termine il De viris illustribus. Il v 4 rimanda all’opera di cui il
Petrarca si stava occupando e dunque il “padre” del v 11 deve essere Livio (non
sant’Agostino, com’era stato proposto in precedenza). Il testo di Livio era contenuto
anche in un altro codice di Landolfo, lo stesso che Petrarca avrebbe acquistato nel 1351;
il poeta dichiara però in una postilla di averlo consultato già in precedenza. All’interno
di quel manoscritto è inoltre conservata una lettera d’accompagnamento, firmata dal
cardinale Colonna, in cui si concede al poeta piena libertà d’utilizzo: essa sarebbe,
secondo Foresti, una risposta in prosa al sonetto. Santagata114 ha espresso piena
concordia per ciò che concerne l’individuazione del libro; tuttavia ha proposto di nuovo
come destinatario del componimento frate Giovanni Colonna, nipote di Landolfo, che
aveva condiviso con lui il gusto degli studi e che era certamente in grande familiarità
col Petrarca. Si è riaperta così anche la questione del “padre” citato nel sonetto: già per
Foresti e Billanovich, infatti, poteva essere riferito non tanto all’auctor, quanto allo
stesso Landolfo, il proprietario del codice. Billanovich in particolare citava la variante
“tuo padre”, tramandata da fonti alternative: tale soluzione, forse autoriale ma poi
scartata, avrebbe molto più senso se rivolta a Giovanni che a Giacomo, per una
questione di assiduità di rapporti con Landolfo.
108
Foresti 19772.
Santagata 1996, pp. 216-219.
110
Santagata 1996, p. 216.
111
Foresti 19772.
112
Billanovich 1947, 1959, 1981 e 1996, cui si possono aggiungere Billanovich 1979, citato in Santagata
1996, p. 221, e Arzàlluz 2009.
113
Santagata 1988, p. 24: è l’attuale codice Parigino latino 5690. Sulla questione del manoscritto di Livio
e sul lavoro filologico di Petrarca si vedano, oltre agli studi di Billanovich, anche Crevatin 2011 e Ciccuto
2011. Per il codice postillato cui si fa riferimento si veda anche Ciccuto-Crevatin-Fenzi 2012.
114
Santagata 1988, pp. 57 segg, e 1996, pp. 220-221, dove sono ricordati anche gli altri riferimenti
bibliografici.
109
555
Anche l’identificazione dell’opera petrarchesca in gioco non è scontata; infatti, benché
l’avesse iniziata dopo il De viris illustribus, al momento di scrivere il sonetto (tra ‘38 e
‘39) Petrarca si dedicava con fervore all’Africa. Nulla vieta che egli stia parlando del
poema: così si spiegherebbero meglio il “novella” del v 2 e la metafora tessile, più tipica
della poesia che della prosa115.
Secondo l’analisi di Santagata il sonetto 40 è, inoltre, legato alla canzone 28, per i
rispettivi v 6 e vv 76-77: tale connessione rafforza l’idea che i due testi siano rivolti al
medesimo destinatario. Infine, alcuni dettagli biografici offrono ulteriori prove a favore
del frate. Egli ricevette in eredità da Landolfo il codice di Lattanzio; partecipò inoltre al
restauro degli Ab Urbe condita e infatti sul manoscritto sono presenti note di suo pugno,
mentre manca la grafia di Giacomo. Se il libro non fosse del frate, davvero egli avrebbe
osato correggere il già famoso Petrarca? Bisogna però ammettere che il riferimento al
vescovo rende gli spostamenti del codice molto più logici: Giacomo potrebbe averlo
portato dall’Italia ad Avignone, dove di certo Petrarca lo acquistò nel ‘51.
Gravi incertezze gravano sulla datazione e sull’identificazione del destinatario anche nel
caso del sonetto 99; le due ipotesi più battute riguardano il fratello Gherardo al tempo
della monacazione e, di nuovo, frate Giovanni Colonna. Foresti116 ritenne migliore per
questa seconda soluzione, poiché riteneva che il tono con cui Petrarca si rivolge al
fratello fosse d’abitudine diverso, in particolare dopo la sua scelta spirituale: profonda
familiarità – mentre qui si usa il “voi” – e ammirazione. A proposito della collocazione
cronologica, Foresti era convinto che il sonetto risalisse al 1336 circa, sulla base di
paralleli con alcune epistole e del desiderio di partire per l’Italia: non solo Petrarca ne
parla altrove proprio al frate, ma sarebbe realmente partito per quel viaggio nel ‘37.
Il sonetto 322, a Giacomo Colonna, è la tardiva risposta per le rime alle congratulazioni
in versi per la laurea poetica (1341)117. Il sonetto del vescovo, composto in quello stesso
anno a Lombez, è stato copiato nel 1366 da Petrarca nel “codice degli abbozzi” insieme
alla propria risposta118, anche se forse questa versione è stata ritoccata dal poeta.
Giacomo morì poco dopo aver scritto all’amico, che dunque non ebbe il tempo di
rispondergli119; lo avrebbe fatto molto tempo dopo, ma non è chiaro quando. Secondo
Foresti120 la composizione è anteriore al rientro in Provenza dall’Italia, dunque al 1345:
non è necessario che siano passati molti anni perché il poeta si scusi del ritardo, poiché
la percezione del tempo è psicologica, dettata dal senso di colpa. Santagata121 non
115
La definizione implicita di opera storica al verso 4 si adatta ad entrambe le opere petrarchesche
(Santagata 1988, p. 57 segg). Nel caso del De viris illustribus, l’identificazione si deve alla lettura del
proemio; in quello dell’Africa i due “veri” sono quello storico e quello allegorico.
116
Foresti 1977.
117
Su questo componimento si veda anche Cochin 1922, pp. 127-131.
118
È interessante notare che subito prima si trova il sonetto che Sennuccio del Bene aveva scritto a nome
di Giovanni Colonna in risposta al petrarchesco 266. Foresti (Foresti 1934) si ferma a valutare lo stile del
vescovo, definendolo “primitivo”, sia per una certa ingenuità, sia per la ricercatezza delle soluzioni
espressive, a partire dalle serie rimiche.
119
Resta però un altro segno del suo dolore: una lunga consolatoria al cardinale Giovanni, datata al 1342,
in cui è ricordato proprio il sonetto del vescovo.
120
Foresti 1934.
121
Santagata 1988, pp. 61-62 e 1996, pp. 1238-1239, dove sono citati anche Foresti e Chiorboli.
556
concorda con tale datazione e predilige l’ipotesi del Chiorboli122 sugli anni tra ‘51 e ‘65.
Anche l’interpretazione dei versi 8-9 è tormentata: vi si parla di una “morte” che
avrebbe allontanato il poeta dalle rime123, e questo giustificherebbe il ritardo nella
risposta. Foresti sostiene che si debba pensare alla morte del Colonna e non a quella di
Laura, perché ad essa non era seguito il silenzio, ma un’intera sezione del Canzoniere.
Tale lettura dipende però dall’interpretazione di Leopardi, che per Santagata è valida
solo in riferimento alla lezione testimoniata dal “codice degli abbozzi”. La forma
definitiva del testo va invece sciolta, secondo lo studioso, non in riferimento all’attività
poetica in toto, ma ad uno specifico stile; quindi la morte in questione dovrebbe essere
proprio quella di Laura, che aveva comportato un’evoluzione nelle “rime sparse”.
La presenza dei Colonna nel Canzoniere è dunque tutt’altro che trascurabile: non tanto
per la quantità dei testi coinvolti, quanto per la loro distribuzione in tutto l’arco della
raccolta e quindi della vicenda dell’“io”, nonché per il numero dei personaggi coinvolti.
Può stupire la scarsa presenza di Giacomo, poiché la sua amicizia con il poeta fu intima
e duratura; tuttavia bisogna ricordare che il vescovo di Lombez morì giovane e prima
che Petrarca avesse dato forma compiuta alle sue opere maggiori. Non a caso il suo
ruolo è poco incisivo anche nelle altre grandi raccolte. Al contrario, è piuttosto radicata
la presenza del Cardinale: la motivazione non sarà tanto legata a questioni intellettuali,
quanto all’effettiva e prolungata influenza che egli ebbe sul poeta a livello biografico.
3.1 Informazioni biografiche sugli esponenti della famiglia Colonna legati a Petrarca
3.1.1
Giacomo
Figlio di Stefano il Vecchio, del ramo di Palestrina, e di Guacerande de l’Isle-Jourdain,
Giacomo Colonna nacque in Francia, dove la famiglia si trovava per sfuggire alla
vendetta di Bonifacio VIII, tra il 1300 e il 1301. Venne avviato alla carriera
ecclesiastica ancora giovanissimo, come tre dei sei fratelli: nel ‘16 fu nominato
canonico (e accumulò ben presto benefici e prebende), nel ‘28 divenne vescovo di
Lombez, in Guascogna, terra d’origine della madre124. Tale nomina rappresentò un atto
di gratitudine da parte del pontefice, poiché Giacomo aveva avuto il coraggio di
affiggere sulla porta di san Marcello a Roma la bolla di scomunica contro l’imperatore
Ludovico il Bavaro. L’anno precedente aveva terminato con regolarità gli studi giuridici
a Bologna, lo studium dove aveva incontrato Petrarca125; del suo impegno universitario
resta una notifica ufficiale, perché nel ‘22 Giovanni XXII gli aveva concesso il diritto di
non risiedere nella sua canonica di Noyons, proprio per seguire le lezioni. Dunque nel
122
Chiorboli 1935.
“Stile” avrà infatti questo valore generico, piuttosto che riferirsi ad una tecnica espressiva peculiare.
124
Andrà notato che per questa carica il Colonna ebbe bisogno di una duplice licenza, poiché non aveva
l’età necessaria e non era ancora stato ordinato sacerdote.
125
La natura profondamente affettuosa dei loro rapporti è ad esempio ricordata in Foresti 1934; lo
studioso ha sottolineato in particolare come ancora nel 1374 Petrarca ripensasse all’amico in toni di
estremo apprezzamento ed intensa nostalgia.
123
557
1330 il Colonna si trasferì da Roma a Lombez passando da Avignone per visitare il
pontefice e il fratello cardinale: qui ritrovò certamente il compagno di studi, che lo
accompagnò nel viaggio verso la nuova sede vescovile. Il loro ultimo incontro avvenne
a Roma: Giacomo vi era stato inviato dal papa nel ‘33 per sanare le violenze esplose tra
le fazioni avverse di Orsini e Colonna, e vi si trattenne per sette anni. Petrarca, che
avrebbe voluto accompagnarlo, ma non aveva potuto a causa del ritardo nel rientro dalle
Fiandre, lo raggiunse nel ‘37.
Nel 1341 Giacomo fece ritorno alla sua diocesi, di nuovo passando per Avignone; morì
però in quello stesso anno, pur facendo in tempo a sapere della prossima laurea poetica
del Petrarca e a scrivergli il sonetto di felicitazioni. L’Aretino, come si è visto, gli
rispose solo molti anni dopo; intanto, nel ‘42, scrisse due consolatorie per la morte
dell’amico, al cardinale Giovanni Colonna e a Lelio. Grazie ad un’epistola del poeta a
Philippe de Cabassoles (1370), inoltre, è noto che il vescovo era appena stato nominato
patriarca di Aquileia: tale incarico gli aveva suscitato la sensazione di essere stato
beneficiato eccessivamente.
Secondo la ricostruzione di Foresti, l’amicizia tra Petrarca e il Colonna fu dettata da una
forte consonanza di gusti, con particolare riferimento alle lettere, compreso il diletto per
la poesia volgare126. L’impegno di Giacomo a livello culturale è stato asserito anche dal
Cochin, il quale ha evidenziato il valore della curia che si raccolse a Lombez, non solo
in senso spirituale: lo studioso la riteneva un caso emblematico della Francia
trecentesca127.
3.1.2
Giovanni (cardinale)
Fratello di Giacomo e figlio di Stefano il Vecchio, Giovanni Colonna fu probabilmente
il secondogenito. Le vicende politiche in cui fu coinvolto nel 1290 lasciano infatti
pensare che in quell’anno non fosse già più giovanissimo: si trovava insieme al padre,
rettore della Romagna, probabilmente per completare la sua formazione, ed entrambi
vennero fatti prigionieri a Ravenna dai da Polenta. Per averne ulteriori notizie bisogna
attendere il 1327, quando è citato come notarius pape, titolo che indica una compiuta
formazione giuridica128; a questo punto, venne nominato cardinale. Nel corso della sua
carriera ventennale ottenne numerosissimi benefici in varie diocesi occidentali; inoltre
godette di una posizione politica di notevole peso, come dimostrano il suo ruolo
diplomatico in sede di conclave (durante le elezioni di Benedetto XII e Clemente VI), e
soprattutto la sua funzione di mediatore tra Avignone e Roma, svolta sino al 1348. Tale
ruolo lo portò ad essere coinvolto direttamente nella vicenda di Cola di Rienzo.
Le fonti tramandano un’immagine piuttosto dettagliata della domus del Colonna ad
Avignone, tanto ricca e prestigiosa da rappresentare una potente attrazione per i giovani
chierici; i numerosi clienti del cardinale provenivano per lo più da Roma e dalle altre
126
Foresti 1934, p. 139.
Cochin 1922.
128
È possibile che egli sia stato anche giudice supremo a Roma, ruolo che non contrasta con il quadro
sinora ricostruito, ma per cui non ci sono prove certe (DBI, p. 333).
127
558
zone italiane di influenza della famiglia, Palestrina in primo luogo. Non mancano però i
fiamminghi – tra cui il musicista Ludovico Santo di Beringen, il futuro Socrate, intimo
amico del Petrarca – e i toscani – andrà ricordato Sennuccio del Bene, sodale e
corrispondente in versi dell’Aretino.
Il ritratto del cardinale che Petrarca ci ha lasciato nella Posteritati evidenzia quanto sia
stato essenziale per il poeta il rapporto con la famiglia. Il Colonna è ricordato più come
un padre che come un padrone; la formazione e il prestigio del poeta beneficiarono
enormemente delle possibilità che derivavano dall’ambiente cardinalizio e
dall’apprezzamento del patrono. Restano infatti chiari indizi dell’intimità e della fiducia
reciproca, come dei consigli che i due si offrirono a vicenda e soprattutto delle ampie
concessioni di cui Petrarca poté godere, in particolare nella libertà d’azione e
movimento. I ricordi più affettuosi del poeta non vanno dunque tacciati di disonestà;
tuttavia non possono nemmeno cancellare aspetti di acredine altrettanto evidenti. Si
legga ad esempio la bucolica Divortium: vi si delinea la definitiva separazione dal
cardinale, dopo circa diciassette anni di servizio, benché esso fosse divenuto via via
meno assiduo; i toni sono quelli violenti del risentimento e addirittura della condanna
verso la ricchezza e il potere. È vero d’altronde che il distacco non fu causato tanto da
difficoltà relazionali, quanto dalla nostalgia per la patria, dal bisogno di cambiamento e
movimento, dalla ricerca di libertà intellettuale. La partenza per l’Italia fu inoltre
motivata nell’immediato dalla situazione politica romana durante l’attività di Cola di
Rienzo.
L’epistolario del Petrarca, nel suo complesso, tramanda un’immagine positiva del
cardinale, sia sul piano morale (umiltà pur nella straordinaria potenza) sia su quello
intellettuale; egli appare aperto alle novità e attento osservatore, anche se non si
specificano mai interessi letterari o studi approfonditi.
Giovanni Colonna morì nel ‘48, un anno dopo la partenza del poeta, durante la
pestilenza. Gli sopravvisse solo il padre, cui Petrarca scrisse una consolatoria, meno
appassionata e intensa per affetto ed elogi rispetto a quella per l’amico Giacomo, come
a distinguere tra il sodale e il patrono.
3.1.3
Giovanni (frate)
Giovanni appartenne al ramo di Gallicano della famiglia Colonna, figlio di Bartolomeo
di Giovanni; non è certa la data della sua nascita, da collocare comunque nell’ultimo
decennio del Duecento. È noto però che studiò in Francia: dal 1315 a Chartres, a Troyes
e ad Amiens, e dal ‘20 a Parigi, data entro la quale egli deve essere entrato nell’Ordine
domenicano. Nel ‘24 fu nominato predicatore generale dell’ordine, ma ricoprì anche la
carica di cappellano del vescovo Giuseppe Conti fino al ‘32. Risalgono a questo periodo
i suoi viaggi in Oriente e il pellegrinaggio in Terrasanta - cui fa riferimento Petrarca,
nelle rime e nell’epistolario – nonché la prima opera storiografica, il De viris illustribus.
Dopo un lungo periodo di studi trascorso principalmente ad Avignone, nel ‘38 ottenne
un nuovo incarico a Roma e infine nel ‘39 divenne lettore nel priorato di Tivoli, dove
559
visse fino alla morte (avvenuta probabilmente tra ‘43 e ‘44). Ormai malato, si dedicò
agli studi e alle sue ultime opere, in particolare al Mare historiarum.
La corrispondenza tra Petrarca e Giovanni – sulla cui identificazione ormai ci sono ben
pochi dubbi – fu intensa (ne restano otto Familiari) e vivace dal punto di vista
intellettuale. Il Colonna fu appassionato studioso di filosofia, uomo colto, con cui
Petrarca poteva discutere di classici; gli consigliò infatti la lettura di Seneca e Cicerone,
e non a caso proprio a lui dedicò la sua commedia giovanile Philologia. Le opere
letterarie ne dimostrano la forte predilezione per la storia (e per la biografia), che ben si
accorda alla natura delle composizioni latine cui Petrarca attendeva negli anni ‘40. La
preparazione del Colonna appare per altro notevole e molteplice: classica, medievale,
cristiana e pagana.
3.1.4
Landolfo
La figura di Landolfo è rilevante non tanto per i suoi contatti diretti col Petrarca, che
non paiono molto assidui, quanto per la sua figura di intellettuale e bibliofilo che
influenzerà anche l’Aretino, soprattutto in relazione alla questione filologica liviana.
Landolfo Colonna, figlio di un omonimo esponente del ramo di Gallicano, nacque
intorno al 1250; studiò diritto a Bologna, sino a divenire magister. Vari documenti
attestano la sua carriera ecclesiastica e i numerosi benefici che riuscì ad ottenere,
occupandosi anche degli aspetti amministrativi e finanziari delle sue prebende. Restano
inoltre dettagliate notizie dei suoi interessi culturali, grazie ai registri della biblioteca
capitolare di Chartres dove fu canonico: è evidente la predilezione per i classici. Le sue
opere sopravvissute risalgono tutte al periodo trascorso a Chartres, prima della rottura
definitiva con il capitolo alla metà degli anni ‘20; sono trattati d’argomento religioso e
liturgico, ma anche politico (in riferimento alle questioni imperiali) e storico, che
rivelano un abbondante uso di fonti latine, nonché un approccio fortemente scolastico e
tradizionale. Sono ancor più famosi e interessanti i volumi di cui fu proprietario, tra tutti
il codice di Lattanzio e il Livio che poi sarà di Petrarca (oggi conservato a Parigi):
manoscritti che tramandavano documenti fondamentali a livello filologico, anche se non
sembra che il loro proprietario ne fosse pienamente consapevole. Vari tra questi testi
furono per altro acquistati proprio dall’Aretino alla morte del Colonna (1331): il codice
che riuniva il Livio già rielaborato criticamente da Petrarca, Floro e l’opera storica di
Ditti Cretese, ma anche due miscellanee d’argomento sacro.
3.1.5
Stefano il Vecchio
Erede del potente ramo di Palestrina, Stefano Colonna nacque intorno al 1265:
permettono di stabilirlo le date del matrimonio (1286) e dei primi incarichi pubblici
(1288). Egli fu protagonista delle lotte della famiglia contro Bonifacio VIII, che
comportarono la sua scomunica e la perdita dei possedimenti di famiglia; dapprima
Stefano resistette, ma di fronte alla caduta di Palestrina fu costretto a sottomettersi a
Rieti. Seguì un esilio lungo cinque anni: i suoi spostamenti non sono chiari, ma è certo
560
che egli visse prevalentemente in Francia. Rientrò in Italia alla fine del 1303, dopo la
morte di Bonifacio VIII; riprese ben presto l’attività pubblica, recuperando, anche
grazie ad un accordo con i Caetani, parte del denaro perduto e i propri possedimenti. Il
pieno reintegro si deve a Clemente V, che nel 1306 annullò tutte le condanne e gli
espropri imposti dal suo predecessore. Tuttavia, il Colonna dovette affrontare un
periodo di aspri contrasti con i Caetani e una prolungata politica diplomatica e militare
volta al recupero di tutti i beni che gli erano stati sottratti e che non aveva ancora potuto
riconquistare, in una lotta che coinvolse anche gli Orsini. I Colonna poterono a questo
punto beneficiare dell’appoggio pontificio, nonostante una parentesi filoimperiale, cui
seguì per altro lo spostamento di Stefano sul fronte angioino, che gli causò nuovi scontri
a Roma con Ludovico il Bavaro, il quale un tempo lo aveva favorito. Le cariche
ecclesiastiche ottenute dai figli Giovanni e Giacomo testimoniano la definitiva scelta
antimperiale.
Ancora negli anni Trenta Stefano partecipò attivamente (e bellicosamente) alla vita
politica, impegno che culminò nell’interessamento a Cola di Rienzo, dapprima cercando
la collaborazione e soprattutto posizioni di potere, poi scontrandosi apertamente con la
Repubblica.
Morì probabilmente nel 1349; Petrarca lo ricorda, secondo i moduli classici, come
uomo straordinario e maestoso, nel corpo e nell’anima. Altre fonti coeve confermano
tale ritratto, al di là dunque del desiderio di far piacere ai propri mecenati: l’Anonimo
romano, ad esempio, lo elogia profondamente nei passi in cui tratta le vicende legate a
Cola. D’altronde proprio il suo coinvolgimento in settant’anni di storia romana e
internazionale, nonché la capacità di riconquistare il potere e il prestigio dopo la fase
tragica vissuta alla fine del Duecento sono prove della sua tempra e delle sue abilità
politico-militari.
3.1.6
Stefano il Giovane
Stefano Colonna (detto anche Stefanuccio) era il figlio maggiore di Stefano il Vecchio,
nato intorno al 1300. Il suo primo incarico noto risale al 1332 e lo vede immediatamente
implicato nella sfera angioina; fu inoltre coinvolto nelle lotte contro gli Orsini, anche se
non è chiaro quale fosse il suo ruolo effettivo nel clima di violenza che caratterizzò
quegli anni. Le versioni offerte da Villani e da Petrarca sono infatti contraddittorie129.
Anche i viaggi ad Avignone degli ultimi anni Trenta e dei primi Quaranta dimostrano il
suo ruolo e il suo prestigio nelle coeve vicende romane, compresa la questione del
rientro del pontefice nella sua sede originaria e l’indizione del giubileo. È inoltre
direttamente coinvolto nella presa del potere da parte di Cola di Rienzo, sulla cui nuova
costituzione giurò al pari degli altri aristocratici dell’Urbe. Tuttavia come il padre finì
con l’abbandonare tale partito e perse la vita durante gli scontri del ‘47, insieme al figlio
Giovanni e a vari altri membri della famiglia.
129
Petrarca, forse giustificato dal contesto epistolare e dalla comunicazione diretta con l’interessato, ne
tesse le lodi, mentre il Villani ne tramanda un’immagine molto meno lusinghiera; tale ritratto per altro
corrisponde in maniera significativa alla narrazione della sua morte offerta dall’Anonimo romano.
561
3.1.7
Agapito
Agapito Colonna era il più giovane dei figli maschi di Stefano il Vecchio; conobbe
Petrarca a Bologna, dove intraprese gli studi di diritto tra ‘22 e ‘26 circa, come
testimonia la concessione pontificia (la stessa destinata anche al fratello Giacomo) di
non risiedere nei propri benefici per motivi di studio. Si era infatti già avviato alla
carriera ecclesiastica, diventando canonico nel ‘16, accumulando poi numerose
prebende sino al canonicato in S. Giovanni in Laterano nel ‘32. Divenne vescovo di
Luni nel ‘44, grazie al rifiuto di Clemente VI di riconoscere il candidato scelto dal
capitolo, poiché fedele a Ludovico il Bavaro; morì però quello stesso anno.
È molto probabile che le due Familiari rivolte da Petrarca ad un non precisato “Agapito
Colonna”130 siano state indirizzate proprio al vescovo (prima però che assumesse tale
carica, o ne sarebbe esplicitato il titolo); l’Aretino parla certamente di lui, comunque,
nella Senile XV, 1 in cui invita Stefano Colonna, preposito a Saint-Omer, a riprendere i
libri che Agapito gli aveva prestato e che erano ancora in suo possesso. Si tratta però
soltanto di opere di diritto civile e canonico (Petrarca scherza sul fatto che non avrebbe
tanto insistito per la restituzione se si fosse trattato di classici). In ogni caso, il rapporto
tra poeta e futuro vescovo appare abbastanza personale e florido, anche dal punto di
vista intellettuale.
130
Secondo alcuni studiosi l’assenza di precisazioni impedisce di pensare a questo Agapito “seniore”,
perché già prelato di una certa importanza, anche se non ancora vescovo. (BDI, p. 255)
562
CONCLUSIONE
L’osservazione del Canzoniere ha confermato l’importanza della presenza trobadorica
nel Petrarca lirico. Il riuso della tradizione occitanica si è dimostrato significativo sia sul
piano della quantità sia su quello della qualità: dai modelli provenzali Petrarca recupera
numerose immagini convenzionali e molteplici strutture di genere che contribuiscono
alla creazione dell’io poetico e della sua vicenda amorosa e spirituale. Proprio questa
capacità di appropriarsi delle fonti, di trasformarne l’insegnamento per fini e in contesti
del tutto rinnovati rappresenta l’aspetto di maggior interesse. La definizione della
propria identità poetica e la legittimazione di una nuova proposta espressiva passano
anche attraverso il recupero e la sistemazione delle esperienze culturali precedenti. In tal
modo la componente trobadorica entra in contatto con la dimensione classica, con
quella prestilnovista, quella stilnovista e quella petrosa: da tutti questi modelli Petrarca
deriva un esempio formativo ed un’occasione di superamento. Il poeta definisce così la
propria autonoma posizione rispetto ai maestri, Dante innanzitutto, esaltando il proprio
contributo alla storia letteraria.
La produzione provenzale fornisce in particolare un campionario vasto e vario di
situazioni amorose, che, una volta recuperate e rielaborate, consentono di identificare
nel Canzoniere una summa dell’esperienza sentimentale (e dunque anche delle forme
poetiche ad essa connesse): sofferenza, alienazione, schiavitù, gioia, miglioramento
interiore, lontananza e separazione, perdita dell’amata. Ampie strutture discorsive e
concetti localizzati partecipano al lungo intricato percorso dell’io nella selva dell’amore
erotico, fino alla vittoria di quello caritatevole, per quanto incerta e forse incompleta.
Anche per tale svolta Petrarca ha saputo cogliere aspetti utili della poesia dei suoi
predecessori transalpini, a maggior ragione trasformandola ed imprimendole una nuova
direzione, in quel complesso e stratificato ritratto morale che si legge nei Rerum
vulgarium fragmenta.
La componente che più beneficia dell’esempio trobadorico resta però quella disforica: la
rappresentazione di un amore per lo più infelice, dolente e tragico, che distrugge
l’amante sul piano interiore e su quello sociale, che stravolge le sue priorità e rende
innaturale il suo comportamento. Nel Canzoniere questa faccia della condizione
amorosa è fondamentale, in coerenza per altro con il nucleo profondo del Secretum; per
delineare l’immagine di quella “catena dorata” l’autore ha saputo fare tesoro dei suoi
modelli cortesi.
Per approfondire il discorso sul contatto tra Petrarca e i trovatori si è cercato di
ricostruire almeno in parte la vita culturale nell’ambiente avignonese, le relazioni
intellettuali del giovane poeta e le modalità di sopravvivenza della letteratura occitanica
nella prima metà del Trecento. Per quanto non rimangano indizi puntuali delle forme e
della cronologia delle letture provenzali compiute dal poeta, la situazione del Midi
appare interessante. Gli studi storico-sociali restituiscono l’immagine di una realtà vitale
e ricca sul piano intellettuale e scolastico, in cui fervono lo scambio culturale e la
curiosità. Le strutture istituzionali non offrono prove della presenza di documenti
trobadorici, ma si intuiscono possibili occasioni di circolazione per le opere cortesi.
563
D’altro canto, la loro sopravvivenza e i tentativi di renderne attuale l’eredità al di là
della semplice conservazione archivistica garantiscono la presenza di materiale
adeguato allo studio e al recupero testuale, quali si leggono nell’opera petrarchesca. Gli
anni giovanili, perciò, si confermano un momento potenzialmente rilevante nella
formazione poetica di Petrarca, anche in merito all’incontro, che si è visto
fondamentale, con la tradizione trobadorica e i suoi topoi.
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Il tema consolatorio nell’epistolario tra Francesco Nelli e Petrarca in Studi
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I veli del poeta: un percorso tra Petrarca e Tasso, Roma, Carocci
Di selva in selva ratto mi trasformo: identità e metamorfosi della parola
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Simonelli, Firenze, Cadmo, pp. 35-56
Per forza convenia che tu morissi in Guido Cavalcanti eroico e le
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La doppia morte di Guido Cavalcanti. Il dualismo poetico tra
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Introduzione e note in Il mare amoroso, Roma, Università, Istituto di
filologia moderna
627
INDICE
INTRODUZIONE
p. 3
CAPITOLO PRIMO
Il rapporto tra Petrarca e i trovatori: stato della questione
9
1. Gli studi provenzali in Italia fra Cinque e Ottocento
9
1.1 Alcuni esempi illustri di lavoro sui testi: Colocci, Bembo e Giulio 16
Camillo
2. Il rapporto tra Petrarca e i trovatori nel Novecento
18
3. Arnaut Daniel
23
3.1 “Lasso me”
31
3.2 “Razo e dreyt” / “Drez et rayson”
36
3.3 “Aspro core”
44
3.4 “Verdi panni”
46
4. Aspetti metrici: “Verdi panni” e “S’i’ ‘l dissi mai”
48
5. Singoli trovatori, singoli testi, singole immagini
53
5.1 Bernart de Ventadorn
54
5.2 Bertran de Born
55
5.3 Lanfranco Cigala
56
5.4 Guiraut Riquier
59
5.5 “Quan lo dous tems”
60
5.6 “Quando fra l’altre donne”
61
5.7 “Aura-mot” e “aura-situation” dai Provenzali a Petrarca: il lavoro della 61
critica
629
PARTE PRIMA
Il rapporto tra Petrarca e i trovatori: analisi testuale
73
CAPITOLO SECONDO
Riuso dei generi poetici nel Canzoniere
73
1. Identificazione e classificazione dei generi trobadorici
75
2. Canzoni d’amore
78
2.1 La disperazione dell’amante: i fragmenta 207, 270 e 29
80
2.2 Lontananza
84
2.3 Fratture nella vicenda amorosa
87
3. Sestina
96
3.1 “Adynata”
109
4. “Escondich”
120
5. Descrizione stagionale ed elementi pastorali
126
5.1 Il riuso della pastorella (madrigali petrarcheschi)
5.1.1 Pastorelle trobadoriche
133
137
6. “Plazer” ed “enueg”
145
7. “Planh”
150
7.1 “Planh” trobadorici in morte dell’amata
154
7.2 Il “planh” nel Canzoniere
156
7.3 Poeta e poesia dopo la morte dell’amata
164
8. Preghiere alla Vergine e a Dio
170
9. Canzoni di crociata
176
9.1 L’incontro di temi diversi e il genere misto. Testi occasionali e di 185
corrispondenza
630
10. Polemica e questioni politiche
186
11. Alba
192
12. “Devinalh”
195
13. Canzoni a quadri
201
CAPITOLO TERZO
Topoi trobadorici nei “Rerum vulgarium fragmenta”
1. Un amore disforico ed alienante
1.1 L’espressione topica della sofferenza
203
205
205
1.1.1 La metafora della guerra
208
1.1.2 L’esagerazione nell’espressione amorosa: iperboli
211
1.1.3 L’esagerazione nell’espressione amorosa: raddoppiamento (del 215
dolore o del piacere)
1.1.4 L’esagerazione nell’espressione amorosa: il dolore dell’amante è 216
superiore ad ogni altro
1.2 La condizione straordinaria dell’amante: vivere e morire
1.2.1 La condizione straordinaria dell’amante: la dama può ferire e guarire
217
218
1.2.2 La condizione straordinaria dell’amante: ciclo stagionale e ritmo 220
giorno/notte
1.3 Un’infinita dedizione
226
1.3.1 Il servizio d’amore
226
1.3.2 La supremazia di Amore e dell’amata sul poeta
229
1.3.3 L’amante non ha potere su se stesso
231
1.3.4 Appartenere all’amata
233
1.3.5 Rendersi all’amata
234
1.3.6 Colori d’Amore
235
1.3.7 Gesti che esprimono la subordinazione e la devozione
236
1.3.8 Una paziente attesa
238
1.4 Priorità innaturali
1.4.1 Amare la dama più di se stessi
241
241
631
1.4.2 Accettare o desiderare la morte
243
1.4.3 Meglio morire che vivere nel dolore o senza l’amata
245
1.4.4 Suicidio
246
1.4.5 Accettazione e ricerca della sofferenza
247
1.4.6 Odio contro natura: dispiacere per se stesso e per il proprio bene
251
1.4.7 Gratitudine per la sofferenza
252
1.4.8 “Guiderdone” e ricompense
253
1.5 Elementi contraddittori nella vicenda amorosa
1.5.1 Ossimori
255
1.5.2 Contraddittorietà dello stato amoroso
258
1.6 Un amore totalizzante
260
1.6.1 Un unico amore: unicità del desiderio, permanenza del sentimento
260
1.6.2 Il poeta non può amare nessun’altra donna
263
1.6.3 Focalizzazione univoca del pensiero
266
1.6.4 Il desiderio continua a crescere
268
1.6.5 Oblio e confusione
269
1.6.6 Amore e la dama sono sempre vicini al poeta
272
1.6.7 Il legame tra il cuore del poeta e l’amata
274
1.6.8 Amore mantiene in vita. La metafora alimentare
278
1.7 Trascurare i propri doveri
281
1.8 Divenire selvaggi
283
1.9 Follia e morte della ragione
284
1.10 I rapporti tra l’amante e il mondo esterno
286
1.10.1
632
255
L’amore traspare nell’aspetto esteriore: il pettegolezzo e il volgo
287
1.10.2
Il desiderio di confidarsi con l’amata
1.11 Metafore e similitudini
290
292
1.11.1
Metafora equestre
293
1.11.2
Metafora nautica
294
1.11.3
L’immagine del porto
297
1.11.4
Paragoni con gli animali
298
2. Il ruolo della figura femminile
301
2.1 La perfezione incarnata
302
2.1.1 Le parole dell’amata
304
2.1.2 L’amata è straordinaria e superiore ad ogni altra
307
2.2 Desiderio di non aver mai visto l’amata
312
2.3 La donna nemica e guerriera
313
2.4 Metafore e paragoni per rappresentare l’amata: la natura, il fiore, lo 314
specchio
2.4.1 Metafore e paragoni naturalistici
314
2.4.2 Fiore
316
2.4.3 L’amata e lo specchio: perfezione e vanità
318
2.5 Il nome dell’amata
320
3. Aspetti positivi dell’amore
322
3.1 La dolcezza
323
3.2 Pegni d’amore
326
3.3 Effetti positivi della visione
327
3.4 Migliorare attraverso l’amore
328
4. Mescolanza di sacro e profano
333
4.1 Preghiere
334
633
4.2 Fede amorosa
336
4.3 Situazioni o immagini sacre applicate alla vicenda del poeta
338
4.4 Rappresentazione dell’amata attraverso il sacro
341
5. Elementi spaziali e cronologici nella vicenda d’amore
345
5.1 I luoghi in cui si sviluppa la storia d’amore
346
5.2 Indicazioni geografiche precise
348
5.2.1 Viaggi
349
5.2.2 Paragoni e iperboli
350
5.3 Indicazioni cronologiche nella vicenda amorosa (anniversari)
352
5.4 L’età degli amanti
355
5.5 Alterne sorti della vicenda d’amore
358
5.6 Continuità dell’amore (notte e giorno)
360
6. L’amore e la poesia
362
6.1 Ineffabilità e insufficienza poetica
363
6.2 Afasia
366
6.3 L’origine del canto è nell’amore
367
6.4 Poesia come sfogo
370
7. Altri topoi
371
8. Conclusioni
372
CAPITOLO QUARTO
Il significato della presenza trobadorica nel Canzoniere petrarchesco
1. La ricerca della totalità
634
373
374
1.1 La totalità poetica
375
1.2 La totalità amorosa
377
1.3 La totalità esistenziale
378
2. Il confronto con Dante e con la Vita nova
380
3. Una serie trobadorica nel Canzoniere
386
PARTE SECONDA
Vita culturale e letture trobadoriche nel Trecento
391
CAPITOLO QUINTO
Aspetti della vita culturale trecentesca
395
1. Il contesto culturale avignonese
395
2. Biblioteche
405
2.1 La biblioteca pontificia
406
2.2 Biblioteche universitarie
411
2.3 Biblioteche di enti religiosi
412
2.4 Biblioteche private
414
2.5 La biblioteca dei Colonna
416
3. La realtà scolastica
CAPITOLO SESTO
Circolazione di testi e cultura trobadorica nel Trecento
1. Diffusione, sopravvivenza e tipologia dei canzonieri trobadorici
416
431
431
2. Il ruolo di Veneto e Monferrato nella diffusione italiana della cultura 455
cortese
3. I florilegi
461
4. “Vidas” e “razos”
464
5. Canzonieri dedicati a singoli autori e raccolte d’autore
469
5.1 Guiraut Riquier
471
5.2 Peire Vidal
474
5.3 Cerveri de Girona
475
5.4 Gaucelm Faidit
476
5.5 Peire Cardenal: il “libre” di Miquel de la Tor
476
635
5.6 Bertran de Born
6. La vicenda peculiare di due sillogi: Bernart Amoros e il conte di Sault
480
6.1 Il canzoniere di Bernart Amoros
481
6.2 Il canzoniere del conte di Sault
482
6.3 Canzoniere N
484
7. Il contesto della produzione tarda
485
7.1 La tradizione della produzione tarda
487
8. Il “Breviari d’amor”
488
9. Le grammatiche del provenzale
489
10. Il “Concistori du Gai Saber” e le “Leys d’amor”
499
10.1 Il “Concistori du Gai Saber”
499
10.2 Le “Leys d’amor”
504
10.2.1
La città
508
10.2.2
L’università
509
11. Raimon de Cornet
CAPITOLO SETTIMO
Esperienze culturali e rapporti intellettuali del giovane Petrarca
1. La formazione elementare e universitaria
512
517
518
1.1 L’educazione elementare e Convenevole da Prato
518
1.2 Montpellier
519
1.2.1 L’università di Montpellier
1.3 Bologna
1.3.1 L’università di Bologna
2. Amici e corrispondenti del Petrarca
2.1 Philippe de Cabassoles
636
479
521
522
523
524
526
2.2 Dionigi da Borgo Sansepolcro
528
2.3 Tommaso Caloiro
530
2.4 Sennuccio del Bene
530
2.5 Ludwig van Kempen (o Ludovico “Santo” di Beringen)
531
2.6 Raimondo Subirani
532
2.7 Paganino da Bizzozzero
532
2.8 Guido Gonzaga
532
2.9 Marco Portonario da Genova
533
2.10 Giovanni dell’Incisa
533
2.11Giovanni d’Arezzo
533
2.12 Angelo (Lello) di Pietro Stefano Tosetti
534
2.13Barbato da Sulmona
534
2.14 Giovanni d’Andrea
535
2.15Andrea da Mantova (Andrea Painelli da Goito)
535
2.16 Guido Sette
536
2.17 Giovanni Coci
537
2.18 Giovanni Aghinolfi
537
2.19 Bruno Casini
537
2.20 Lapo da Castiglionchio (Giacomo da Firenze)
537
2.21Giberto Baiardi
538
2.22 Orso dell’Anguillara
538
2.23 Lancillotto Anguissola
538
2.24 Luca Cristiani
538
2.25 Bartolomeo Carusi
539
637
638
2.26 Giovanni da Bunio
539
2.27 Niccolosio Bartolomei
539
2.28 Filippo di Vitry
540
2.29 Guglielmo da Pastrengo
540
2.30 Johannes von Neumarkt
541
2.31 Niccolò Acciaiuoli
541
2.32 Zanobi da Strada
542
2.33 Francesco Nelli
542
2.34 Bartolomeo Carbone dei Papazzurri
543
2.35 Giovanni Barrili
543
2.36 Rinaldo Cavalchini
544
2.37 Matteo Longhi
544
2.38 Ponzio Sansone
545
2.39 Checco di Meletto Rossi
545
2.40 Pandolfo Malatesta
545
2.41 Pietro dei Pittavi (Pierre Bersoire)
545
2.42 Enrico Pulice
546
2.43 Albertino da Cannobio
546
2.44 Azzo da Correggio
546
2.45 Bernardo Anguissola
547
2.46 Domenico de Apibus
547
2.47 Moggio Moggi
547
2.48 Benintendi Ravignani
547
2.49 Neri Morando
548
2.50 Iacopo da Imola
548
2.51 Pietro Dietisalvi
548
2.52 Antonio Beccari
548
2.53 Roberto dei conti Guidi da Battifolle
548
2.54 Andrea Stramazzo da Perugia
549
2.55 Geri Gianfigliazzi
549
3. Il rapporto con la famiglia Colonna
550
3.1 Informazioni biografiche sugli esponenti della famiglia Colonna legati a 557
Petrarca
3.1.1 Giacomo
557
3.1.2 Giovanni (cardinale)
558
3.1.3 Giovanni (frate)
559
3.1.4 Landolfo
560
3.1.5 Stefano il Vecchio
560
3.1.6 Stefano il Giovane
561
3.1.7 Agapito
562
CONCLUSIONE
563
BIBLIOGRAFIA
565
1. Opere petrarchesche
565
2. Opere trobadoriche
565
2.1 Singoli autori
565
2.2 Antologie e repertori
572
2.3 Opere retoriche
573
3. Studi su Petrarca
574
4. Petrarca e i trovatori
593
5. Studi sui trovatori
599
639
640
6. Studi sul contesto storico
612
7. Altri studi
623