Retoriche della redenzione*
Rafael Jiménez Cataño
L’espressione «retorica di» ha spesso una sfumatura negativa – retorica della
democrazia, retorica della rivoluzione, retorica della conoscenza scientifica –,
ma è anche una via normale di riferirsi al modo in cui si parla di qualcosa, il che
porta con sé un lessico, una topica, un insieme di metafore lessicalizzate, una
precettiva in positivo e in negativo (cosa «non si può dire»)1. È in questo senso
che io parlerò qui di retorica. Per tracciare poi i contorni del concetto di
redenzione, vorrei presentare una serie di ambiti in cui l’uomo ha sempre visto
un intimo bisogno di redenzione, per segnalare in seguito alcune risposte
rintracciabili nell’arte.
Sentiamo che una realtà ha bisogno di redenzione quando troviamo che non
è come dovrebbe essere, quando ci sembra che «non funzioni»: non si capisce
perché mai le cose stiano così quando nel calarci nella loro natura troviamo
l’esigenza intrinseca d’un diverso modo di essere. Sono quindi realtà che vanno
redente, perché da sole non raggiungono il loro fine naturale.
*
Relazione presentata al convegno Poetica & Cristianesimo, Università della Santa Croce,
Facoltà di Comunicazione Istituzionale, Roma, 28-29 aprile 2003, pubblicata in: Poetica &
Cristianesimo, EDUSC, Roma 2005, pp.87-108. In spagnolo, con il titolo “Retóricas de la
redención”, in: Jiménez Cataño, Rafael, La debilidad del poder creador, Jus, México 2006,
pp.113-146.
1
Molto vicino è l’uso in inglese del termine narrative in espressioni come illness narrative,
«narrativa della malattia»: come si parla della malattia, come ne parlano il malato, il medico, i
parenti, le persone coinvolte, quelle non coinvolte. Nella cornice d’una narrativa della
redenzione si intravede spesso quant’è improbabile che una buona storia non sia un racconto
di redenzione.
2
1. Bisogno di redenzione. — Nikolaj Gogol - Octavio Paz - Nezahualcoyotl.
Ricordiamo il modo in cui il libro della Genesi descrive la condizione umana
dopo la caduta: la nudità, il lavoro che stanca, l’ostilità della terra, il parto
doloroso, il dominio dell’uomo sulla donna, la morte. La nudità può illustrare in
modo eloquente come l’arte riesca ad offrirne un significato nuovo, nel quale
non è per nulla forzato parlare di riscatto. Un personaggio di Gogol esorta il
figlio pittore: «studia, analizza tutto ciò che vedi, sottometti tutto al pennello, ma
in tutto sappi trovare l’idea nascosta, e soprattutto cerca di comprendere l’alto
mistero della creazione. Beato l’eletto che lo possiede. Per lui non c’è soggetto
vile in natura»2. Qui parliamo di nudità, che non offre questa caratteristica
quando l’analizziamo in se stessa, ma sì invece se pensiamo alle difficoltà che
abbiamo per gestirla. Continua il personaggio di Gogol: «Nelle cose
insignificanti l’artista-creatore è grande come in quelle grandi; dipinto da lui un
soggetto spregevole perde ogni spregevolezza, perché vi trapela in maniera
invisibile la bellezza interiore dell’artista, e purificatosi nel purgatorio della sua
anima, quel che è spregevole ne emerge rivestito di un’espressione nobile.
Nell’arte, per l’uomo, è racchiuso un rimando al divino». E noi possiamo
aggiungere: tutto questo, con quanta maggior ragione se il soggetto non è
spregevole!
Lascio da parte tutto l’episodio di Babele e il correlativo di Pentecoste, che
sono un modello di retorica della redenzione,3 per segnalare un altro segno della
caduta, anch’esso presente nella Genesi e in rapporto con il linguaggio. Mi
riferisco alla capacità di nominare che abbiamo perso4, che è la capacità di
2
Gogol, Nikolaj, «Il ritratto», Racconti pietroburghesi, Rizzoli, Milano 1998, p.169.
Cfr. Jiménez Cataño, Rafael, «Babel y la retórica de la redención», in Revista de Retórica y
Teoría de la Comunicación, 5 (2003), pp.147-151.
4
Cfr. Gen. 2, 19-20.
3
3
cogliere la natura delle cose. Adesso la cogliamo in un modo più faticoso, tanto
che non associamo questo processo al «nominare», perché l’espressione d’una
tale conoscenza richiede di solito lunghi discorsi, lontani dall’indole condensata
d’un nome. La sinteticità, certo, la riconosciamo come frutto della sapienza, e il
linguaggio poetico è in misura consistente l’arte di nominare. È il nome come
espressione d’una natura, ma anche come espressione d’una persona: la versione
dinamica del nome è la vocazione. Per Octavio Paz un nuovo nome è per gli
uomini «un segnale, o meglio, un contrassegno che apre il cammino verso una
regione nascosta della loro persona. (...) La vocazione è la chiamata (...) alla
quale non c’è altro rimedio che rispondere, se vogliamo realmente essere. La
chiamata ci obbliga ad uscire da noi stessi. La vocazione è un ponte che ci porta
ad altri mondi che sono il nostro vero mondo»5. Perché abbiamo bisogno di
recarci nel «nostro vero mondo»? Perché non siamo lì? Questo è uno dei modi in
cui percepiamo che dobbiamo essere redenti. Dice il filosofo Stanislaw Grygiel
che chiunque si sia innamorato, anche una sola volta in vita sua, non può non
sentirsi in esilio in questo mondo6.
Questo ci porta ad un’altra delle dimensioni «non risolte» della nostra vita,
l’amore, che tutti percepiamo e desideriamo come destinato a non finire mai, e
tuttavia richiede uno sforzo, ed è a noi tutti patente quanto esso possa diventare
difficile. Ma io vorrei pensare adesso all’amore, non come vincolo che esige da
noi uno sforzo, bensì come in ogni amicizia: si aspira alla perpetuità e, anche nel
caso in cui ci sia stata piena fedeltà, prima o poi si muore. Qui vorrei ricorrere a
una testimonianza dal mondo pagano (e più avanti ne riporterò un’altra). Nel
5
Paz, Octavio, «La espuma de las horas», Al paso, Seix Barral, México 1992, pp.126-127.
«L’uomo nel quale sia stato risvegliato, anche una sola volta, l’amore, dovrà per forza
sentirsi straniero nello spazio della caduta; si dovrà per forza sentire come un esule» (Grygiel,
Stanislaw, La voce nel deserto: post-scriptum all’insegnamento di Giovanni Paolo II, CSEO,
Bologna 1981, p.107).
6
4
Messico precolombiano, una percentuale consistente della poesia nahuatl ha
come soggetto domande sulla propria sopravvivenza dopo la morte, non se ci
sarà o no, perché su questo sono pochi i dubbi, ma sulle modalità di quella vita,
in particolare se avremo amici, se avremo gli stessi amici di qua. È una domanda
cruciale, perché si ritiene che la vita dell’uomo abbia come scopo l’avere amici e
goderli. Se questo è il senso della vita umana, un aldilà senza gli amici resta
incomprensibile.
Ma c’è un caso singolare, un re-poeta morto nel 1472, Nezahualcoyotl, che
in più era monoteista e svolse un’intensa attività diplomatica con i monarchi
vicini per eliminare i sacrifici umani, che almeno riuscì a contenere un po’. Lui
va più lontano degli altri poeti. Nelle sue poesie troviamo i nomi degli amici, ma
troviamo pure una dichiarazione significativa: anche se nell’aldilà li ritrovasse,
questo non sarebbe per lui sufficiente, perché lui vuole essere amico del Datore
della vita. E siccome questo è una pazzia bell’e buona, egli ha più motivi degli
altri per essere triste. Mi sembra emblematico un suo testo che mi fuorviò per un
tempo. Io avevo letto: «Nessuno può essere amico / del Datore della vita. / (...) /
Lui ci tormenta, / lui ci uccide»7. In queste condizioni è certamente difficile
essergli amici. Ma poi lessi un’altra traduzione: «Nessuno può essere amico / del
Datore della vita. / (...) / Questo ci tormenta, / questo ci uccide»8. Il pronome
nella lingua originale ammette entrambe le interpretazioni, ma soltanto la
seconda è in armonia con il resto del suo pensiero9. Trattandosi d’un mondo
7
Martínez, José Luis, Nezahualcóyotl. Vida y obra, FCE, México 1986, p.205 = AAVV,
Poesía náhuatl, Ángel María Garibay (ed.), UNAM, México, vol.II, 1965, p.128.
8
León-Portilla, Miguel, Los antiguos mexicanos a través de sus crónicas y cantares, Fondo
de Cultura Económica, México 1988, p.119. La prima traduzione è di Ángel María Garibay;
la seconda, di Miguel León-Portilla. Il riferimento del testo è: Ms. Cantares Mexicanos,
Biblioteca Nacional de México, fol. 13 v.
9
Cfr. Jiménez Cataño, Rafael, «Los deseos disparatados de Nezahualcóyotl», Istmo,
221(1995), pp.36-38.
5
pagano, non ci sono elementi per ritenere esistente una risposta, e anche la
speranza è molto remota. Queste poesie sono perciò strazianti. Fra le più
incoraggianti – per una certa parvenza di speranza – trovo questo grido alla
divinità: «Dove abiti, mio Dio, / Datore della vita? / Io ti cerco. / A volte io,
poeta, / per te sono triste, / anche se non cerco altro che rallegrarti»10. Questa mi
sembra una buona illustrazione di ciò che significa sentirsi bisognosi di
redenzione, e ci ricorda l’immenso tema dei desideri innati irrealizzabili. Innati,
congeniti, non semplicemente come il desiderio di volare, di spostarsi più
velocemente, di mangiare una particolare pietanza.
2. L’autocreazione umana. — Kenzaburo Oe - Selma Lagerlöf.
L’altro esempio pagano che voglio riportare in questo contesto è Kenzaburo
Oe, premio Nobel per la letteratura 1994. Nel suo romanzo Il grido silenzioso11,
un uomo passa per molti travagli – la moglie ubriaca, il suo migliore amico che
si uccide in circostanze molto vergognose, un rapporto difficile con suo
fratello... –, che in allusioni brevi ma chiare vengono associati al comportamento
che lui e la moglie hanno mostrato nei confronti del loro figlio nato deforme e
lasciato in un istituto. In molte storie di Kenzaburo Oe c’è la figura del padre
d’un menomato, e lui stesso si trova in questa situazione. Nel romanzo sono
abbondanti gli errori gravi commessi dai personaggi (suicidio, omicidio,
adulterio, incesto...) ed è notevole la frequenza con cui essi osservano che così
non si può vivere, affermano che «è sbagliato»12, che è un comportamento
ingiustificabile13, o mettono le loro sventure in rapporto con quegli errori. La
10
Aquiauhtzin de Ayapanco, in León-Portilla, Miguel, cit., p.130. Cfr. Jiménez Cataño,
Rafael, «La concepción náhuatl del hombre», Istmo, 204(1993), pp.69-75.
11
Garzanti, Milano 1999. Il titolo originale (Man’en Gannen no Huttoboru, 1967) allude ad
una partita di calcio. La versione italiana coincide con quella inglese (The Silent Cry).
12
Cfr. ibid., pp.208 e 237.
13
Cfr. ibid., p.123.
6
coppia protagonista è tacitamente convinta che i loro problemi come coppia
provengano dal rifiuto del figlio.
Non è il caso dell’autore. Appena nato il loro figlio, a lui e a sua moglie fu
offerta la possibilità di lasciarlo morire ed essi la rifiutarono. Gli diedero per
nome Hikari, che significa luce. Egli è autistico e soffre d’altre menomazioni.
Quando aveva undici anni si scoprì che era molto dotato per la musica e diventò
compositore. Adesso ha quaranta anni e ha venduto moltissimi dischi, tanti da
aver vinto già nel 1992 un disco d’oro14.
Ma torniamo a Il grido silenzioso, dove si parla spesso d’una «nuova vita»15,
e tuttavia gli insuccessi arrivano uno dietro l’altro. Io vorrei sottolineare due
particolari. Il titolo italiano riprende un argomento centrale del romanzo: quel
grido sarebbe il gesto di uccidersi, con il quale il suicida comunica al mondo una
verità terribile. È l’idea che ci siano verità che, se pronunciate, portino
inesorabilmente alla pazzia o al suicidio. Come può il mondo contenere queste
verità? La moglie del protagonista riflette sulla legge violenta e l’immoralità
legale: nel pieno rispetto della legge essi hanno potuto guardare il loro figlio
come un animale e abbandonarlo16. L’altro particolare è la consapevolezza d’un
processo vitale, una freccia del tempo che può essere costruzione o distruzione.
Si allude all’impossibilità del ritorno, ma anche a quella di risanare la vita con le
nuove decisioni, il che sarà possibile soltanto dopo aver compreso veramente
l’inesorabilità del non ritorno. «Forse allora – dice la moglie al protagonista –
saremo più gentili l’uno con l’altro»17.
14
Dopo il premio Nobel, Oe scrisse un libro sulla storia della sua famiglia (A Healing Family)
e una trilogia in cui affronta esplicitamente temi come la fede e la salvezza.
15
Cfr. ibid., pp.41, 112, 123, 136.
16
Cfr. ibid., p.176.
17
Ibid. p.112.
7
Dopo vicende molto dolorose, essi decidono di riprendere con sé il bambino
e lì finisce il romanzo. La storia resta aperta, ma lascia l’impressione che sia
stata raggiunta la possibilità reale d’una vita nuova. I personaggi prendono di
petto la verità delle proprie vite e ciò non ha significato percorrere la strada del
suicidio o della pazzia.
La costruzione della propria vita ci colloca di fronte ad una considerazione.
La propria vita è la propria persona. Io non sono realmente diverso dalla mia
vita. La mia identità anzi è più pienamente espressa con la denominazione «mia
vita», «mia biografia», perché il termine «io» offre un rischio maggiore di
presentarmi soltanto ciò che sono in questo momento. E se io («la mia vita»)
sono questa realtà under construction, sempre in allestimento, ci torna utile
l’immagine dell’incompiuto michelangiolesco, che ha la caratteristica di essere
sempre aperto a nuovi completamenti, ma senza ammettere sottrazioni18. Io sarei
potuto essere diversamente – perché avrei potuto agire diversamente – ma ormai
non più19. Ciononostante è sempre possibile un riorientamento radicale. E qui è
decisivo un intervento dall’alto che tuttavia non sia esterno.
18
Devo al Prof. Bruno Forte la segnalazione di questa figura. Cfr. Ossola, Carlo, «Speranza
dell’incompiuto», Il Sole 24 Ore, 16.3.03, p.27. Un caso egregio del paradigma
dell’incompiuto lo troviamo nel sebastianismo portoghese: la storia che voleva vivente Don
Sebastiano, re del Portogallo, il Cavaliere della Croce, che risultava caduto in Africa e
successivamente sarebbe riaparso a Venezia. Tenuto prigioniero lì e poi a Castel dell’Ovo a
Napoli, sarebbe stato giustiziato in Spagna, anche se le circostanze finali facevano pensare a
una sostituzione della persona. Qui si troverebbe un’immagine dell’indole dinamica di ogni
uomo. (Cfr. Forte, Bruno, Il Prigionero di Venezia, manoscritto. Ringrazio il Prof. Forte per
la segnalazione e per avermi consentito l’uso del suo manoscritto.) Come dato curioso, vorrei
menzionare Minority Report, di Spielberg (2002), dove i personaggi fanno correzioni alla
società agendo sul futuro: si è voluto far sentire alcune battute della sinfonia in si minore di
Schubert, l’Incompiuta per l’appunto.
19
Lo schema narrativo della «seconda opportunità» è ricorrente sia in letteratura che in
cinema, con risultati di tutte le qualità. A Christmas Carol, di Charles Dickens, 1843; It’s a
Beautiful Life, di Franz Capra, 1946; The Groundhog Day, di Harold Ramis, 1993; Solaris, di
Tarkovskij, 1972, e, più recentemente, il Solaris di Stephen Soderbergh, 2002.
8
Questo intervento fa sí che ci voglia poco perché la freccia del compimento
personale sia una freccia del trascendente. Un passaggio de Il viaggio
meraviglioso di Nils Holgersson, di Selma Lagerlöf, ci presenta gli animali in un
raduno annuale sul monte Kulla, nel sud della Svezia, dove le gru eseguono una
danza volteggiante alla cui vista tutti gli animali si sentono attratti verso l’alto,
come in uno slancio verso l’irraggiungibile, «il desiderio di levarsi sopra le
nuvole, a cercare ciò che sta al di là, abbandonando i corpi che incatenano al
suolo»20. Si sottolinea che «questa nostalgia dell’inaccessibile, di ciò che è
nascosto al di là della vita, gli animali l’avvertono solo quando assistono alla
danza delle gru»21, una volta all’anno. E, non si dice ma si intuisce: l’uomo non
sente questa nostalgia una volta all’anno. Egli la sente sempre, anzi ne è
costituito.
Nostalgia, portare sé stessi a compimento, distanza alla meta che sembra non
accorciarsi mai... sono tutti argomenti di redenzione.
20
Lagerlöf, Selma, Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson, Mondadori, Milano 2003 (4ª
ristampa; 1ª ed.: 1982; orig.: 1906-1907), p.47. Questa è una versione abbreviata. Il passo
completo l’ho preso da Wunderbare Reise des kleinen Nils Holgersson mit den Wildgänsen,
Nymphenburger Verlagshandlung, München 1999 (31ª ed.; 1ª: 1948), pp.61-62.
21
Ibid. Una descrizione più particolareggiata di questa danza, che conferma le evocazioni
attribuitele dalla Lagerlöf, la fornisce Karen Blixen in Out of Africa: “Sui campi appena arati
e seminati vengono le gru pennacchiute a rubare il granturco. Son ladre, ma ladre di buon
augurio, annunciano l’arrivo della pioggia. E per di più fanno anche una danza in tuo onore.
Quando son tante, tutte insieme, è bello vederle aprire le ali e volteggiare, laggiù, in alto in
alto. Una danza così nobile ed elegante da parere persino un po’ affettata: perché mai vanno
su e giù come se una forza magnetica le tenesse legate alla terra, se possono volare? C’è
qualcosa di sacro, in quel ballo, qualcosa di rituale; si direbbe tentino di riunire il cielo alla
terra come gli angeli alati che vanno su e giù per la scala di Giacobbe. Quel delicato colore
grigio pallido, quel piccolo zucchetto di velluto nero e quella corona a ventaglio, le fan
sembrare uscite da un affresco pieno di vivacità e di gaiezza. Quando, finita la danza,
spiccano il volo per tornarsene via, si lasciano dietro un ultimo senso di sacro lanciando, con
uno sbatter d’ali o con un grido, un suono nitido e squillante: paiono campane che abbiano
messo le ali e stiano volando in cielo. Continui a sentirle ancora per un pezzo, anche quando
sono così in alto che non le scorgi più: uno scampanio dalle nubi” (La mia Africa, Garzanti,
Milano 1963, pp.222-223; orig.: 1938).
9
3. L’intervento dall’alto. — «La Sirenetta».
Così come ho trovato particolarmente emblematica la differenza fra le due
traduzioni della poesia precolombiana sul Datore della vita, così ho pure trovato
significativa, come racconto dell’aspirazione alle mete più alte, la differenza fra
La Sirenetta di Andersen (1836), che è la versione che possiamo considerare
«canonica», e la versione di Disney in cartoni animati (1989)22. Devo premettere
che quest’ultima mi è sembrata una bellissima storia. È il confronto con l’altra
versione a farmela sentire troppo modesta. Nel film, il mondo degli uomini è,
per quello marino, un mondo superiore ammirato, anche se ritenuto barbaro o
cattivo da alcuni. La sirenetta dovrà, sì, subire una trasformazione fisica per
avvicinare il principe, ma tutto sommato si tratta di un salto fra categorie umane
diverse, al modo, certo, delle fiabe, che simboleggia in questa distanza
fisiologica una realtà non lontana da quella in cui è imperniato il dramma di
Romeo e Giulietta. Questa Sirenetta è la storia d’un innamoramento che deve
superare duri ostacoli e finisce in matrimonio.
L’argomento centrale della Sirenetta di Andersen è invece l’immortalità
dell’anima. La vita degli abitanti del mondo marino ha una durata di circa
trecento anni, ma essi non hanno un’anima immortale. La sirenetta si innamora
del principe, ma il desiderio di avere il suo amore è indissolubilmente unito23 al
desiderio di ottenere l’immortalità affinché quell’amore non finisca mai e per
godere di quell’altro mondo, superiore all’umano, di cui gli uomini godono dopo
la morte. Le sorelle della protagonista sono un’immagine di chi non guarda in
22
È un argomento molto caro al romanticismo, ma dobbiamo lasciare da parte altre versioni
come la novella Undine (1811) di Friedrich de la Motte-Fouqué, e la tradizione slava, nella
cui scia si colloca l’opera di Anton Dvorak Rusalka (1901). E altrettanto bisogna dire delle
sirene nel mondo greco, per le quali rimando all’intervento di Alessandro D’Avenia a questo
stesso convegno.
23
Cfr. Andersen, Hans Christian, La Sirenetta, in Fiabe e storie, Donzelli, Roma 2001, pp.66,
67, 70.
10
alto o guarda senza capire: «la prima volta che ciascuna delle sorelle era salita a
galla, era stata sempre incantata dalle cose nuove e belle che vedeva, ma ora che
da fanciulle adulte avevano il permesso di salire lassù quando volevano tutto era
diventato quasi indifferente, soffrivano di nostalgia e dopo un mese dicevano
che giù da loro era il luogo più bello, e che si stava così bene a casa»24. La
sirenetta, invece, dalla prima volta che uscì in superficie (il giorno in cui
compiva 15 anni) «voleva sempre più bene agli uomini, sempre più desiderava
di poter salire fra loro; il loro mondo le sembrava molto più grande del suo»25.
Quando la sirenetta domanda come conquistare un’anima eterna, la nonna le
spiega: «solo se un essere umano ti avesse così cara da essere per lui più del
padre e della madre; se con tutti i suoi pensieri e tutto il suo amore fosse legato a
te e facesse porre dal prete la sua mano destra sulla tua con la promessa di
esserti fedele per tutta l’eternità, allora la sua anima scenderebbe sul tuo corpo e
anche tu avresti parte nella felicità umana. Ti darebbe un’anima e conserverebbe
la propria»26. Così si potrebbe, ma questo è impossibile.
L’impedimento decisivo, la coda di pesce, lo risolve il ricorso ad una strega.
Nel caso del film l’iniziativa è della strega, che poi prende un forte
protagonismo, fino al luogo comune del sostituirsi alla sposa. Nell’originale è la
sirenetta a cercarla. Nel film, dicevamo, non c’è allusione all’immortalità,
l’offerta dei messaggeri della strega è quella di avere il principe per essere
«insieme per sempre», e nel contratto offerto dalla strega si legge «for all
eternity». Ciò che è per tutta l’eternità è il pagamento per la sostituzione della
coda di pesce con le gambe da donna, consistente nella voce della sirenetta, la
più bella voce fra tutte le sirene. Se il principe non la avrà baciata entro il terzo
24
Ibid., p.59.
Ibid., p.63.
26
Ibid., p.65.
25
11
tramonto, lei tornerà ad essere sirena. Nell’originale, non è un bacio ma la totale
donazione con matrimonio formale27, e se il principe dovesse sposare un’altra,
all’alba dopo il matrimonio la sirenetta dovrebbe morire.
Ma ecco che vengono accordate le nozze con la principessa del reame
vicino, e le sorelle della sirenetta ottengono dalla strega un’ultima soluzione per
far sì che lei non muoia e torni ad essere sirena e viva i suoi trecento anni. Lei
deve uccidere il principe, ma decide di non farlo, pur sapendo che morirà e che
l’attende «una notte eterna senza pensieri e sogni»28. Quando il sole spunta
sull’orizzonte lei sente come comincia a dissolversi, ma viene operata una
trasformazione inaspettata: le si presentano delle ninfe («spiriti dell’aria»), lei si
trova ad essere una di loro e viene a sapere che quello è il premio del suo ultimo
gesto. Lei potrà fare buone opere lungo trecento anni, alla fine dei quali otterrà
un’anima immortale e potrà godere del mondo celeste tanto agognato. È un
finale felice? Non voglio squalificare il finale felice del film (le prevedibili
nozze), ma penso che il mistero dell’uomo venga dipinto con maggiore
profondità da Andersen. Si finisce nel mistero, nella speranza, nella redenzione,
una redenzione in certo senso ormai operata e come intervento dall’alto: «la sua
esistenza eterna dipende da un potere sconosciuto»29, si dice. Solo alla fine viene
menzionato il nome di Dio, quando la Sirenetta «sollevò le sue braccia luminose
verso il sole di Dio»30, e quando, nell’elevarsi insieme, si dice «fra trecento anni
ci libreremo così entrando nel regno di Dio»31, che prima era chiamato «mondo
27
Si ripete diverse volte la descrizione particolareggiata, solenne, di ciò che significa l’amore.
Cfr. pp.65, 66, 67.
28
Ibid., p.72.
29
Ibid., p.73.
30
Ibid.
31
Ibid., 74.
12
celeste»32, concepito per analogia con quello umano. Come pennellata finale la
sirenetta – ora ninfa –, prima di librarsi nell’aria fra le nuove compagne,
invisibile bacia la principessa e sorride al principe. La trasformazione operata è
veramente profonda, in linea con il desiderio ma oltrepassandolo.
In questa storia sono entrati molti dei luoghi che avevamo segnalato come
caratteristici del bisogno di redenzione: vita e morte, amore e sua eternità,
autocompletamento della persona, vale a dire carattere non circostanziale delle
decisioni ma loro valore costitutivo della persona33. Quest’ultimo mi sembra un
criterio decisivo per capire la profondità d’una storia umana: quanto il suo essere
– la sua identità – sia frutto del suo agire. Non parlo di Bildungsroman, quel
genere di romanzo in cui si presenzia alla costruzione ed educazione di certi
personaggi – di solito protagonisti –, nell’ampio arco che va dalla loro
fanciullezza o almeno dalla loro adolescenza all’età adulta. So che viene spesso
segnalato come paradigmatico il romanzo di Dickens Great Expectations. Esso
non solo ci presenta tutta una vita con le sue trasformazioni, cadute,
risurrezioni34, ma addirittura ci fornisce due possibili finali, come a sottolineare
la perenne apertura che ha ogni vita umana verso il futuro35. Dicevo che
prendere atto dell’autocostruzione della persona non significa necessariamente
32
Per es. p.65.
Questo è forse il messaggio esplicito più forte del secondo volume di Harry Potter.
34
«La trama gira en torno a las grandes esperanzas concebidas al final de su niñez y la
desolación al verlas desvanecerse años más tarde. Se trata de un Bildungsroman, es decir, la
historia de una educación sentimental. El desvanecimiento de sus ilusiones se revela como un
verdadero conocimiento de sí mismo y del mundo: el triste y noble encuentro con la realidad»
(Pitol, Sergio, Pasión por la trama, Era, México 1998, p.162). Anche Il viaggio meraviglioso
di Nils Holgersson risponde alle caratteristiche del Bildungsroman. Inoltre, Francesco Saba
Sardi, che introduce l’edizione che abbiamo citato, vi ravvisa «lo schema, tipico della
Lagerlöf, di un itinerario che va dalla colpa, al pentimento, alla redenzione» (Lagerlöf, Selma,
cit., p.XI).
35
Ringrazio la Prof.ssa Isabel García Martínez per il suo chiarimento sulla natura del
Bildungsroman.
33
13
fare Bildungsroman: anche una scena fugace mi può presentare un tratto umano
come elemento dinamico d’una biografia o come frutto del caso o d’un agente
esterno, come pura natura e non come libertà.
4. L’uscita intravista. - L’uscita intrapresa. — «Amores perros».
Una storia che chiaramente non è Bildungsroman e tuttavia poggia
sull’autocostruzione della persona è il film Amores perros, di Alejandro
González Iñárritu, 2001. Il titolo si potrebbe tradurre come «amori tosti», amori
difficili, travagliati, ma il semema cane introduce tutto un simbolismo che viene
sfruttato in maniera costante dal regista. La storia è in realtà l’intreccio di tre
storie, tutte e tre di amori tosti, che confluiscono in un incidente stradale che
costituisce come il perno del film. Octavio s’innamora di Susana, sua cognata, e
le propone di vivere con lui; Daniel lascia la moglie per Valeria, sua amante, top
model; un barbone, che in passato aveva conosciuto l’agiatezza ed era professore
universitario, aveva abbandonato la famiglia per diventare guerrigliero e adesso,
da barbone, cerca il modo di ricuperare il rapporto con sua figlia. Il banalissimo
topico della somiglianza fra cane e padrone dà nel suddetto simbolismo un
contrappunto di grande ricchezza. Octavio ha un rottweiler che in un giro
illegale di combattimenti di cani gli frutta fior di quattrini, anche se questa storia
si svolge negli ambienti di borgata popolare di Città del Messico. Daniel e
Valeria, al contrario, abitano un altro Messico, una vita comoda, invidiabile per i
più, sebbene con gli stessi travagli del cuore di chiunque altro36. Un cagnolino
peloso, immagine della vita borghese, incarna questo realismo dell’uguaglianza
dei cuori quando resta intrappolato sotto il pavimento di legno e subisce
l’aggressione dei ratti: la schifezza che si direbbe degna degli strati più bassi,
36
«Pero no sólo se habla de personajes embrutecidos de diversos modos, sino del anhelo de
amor –amores perros– que late en los corazones de todos ellos» (Aresté, José María, «Amores
perros», in AAVV, Cine Fórum 2002, Cie Dossat 2000, Madrid 2002, p.32).
14
coperta dalla linda apparenza d’un parquet lucidato. Nella presentazione del
barbone la figura è di accumulazione: egli abita tra cani randagi e vive da ciò
che riesce a raccattare fra l’immondezza e da omicidi che gli vengono
commissionati.
Mi ha colpito la costanza con cui le note critiche dicono che uno degli
argomenti del film è la redenzione37. Dove? Ebbene, queste tre storie palesano
un bisogno di redenzione. C’è chi accusa persino il regista di «moralismo
implacabile»38. Una conclusione immediata è, infatti, che non c’è peccato senza
punizione. Octavio non riesce a vivere con sua cognata nemmeno quando suo
fratello perde la vita mentre tenta di rapinare in modo pasticcione una banca.
Valeria viene coinvolta nell’incidente proprio il giorno in cui Daniel ha
abbandonato moglie e figli per vivere con lei, e con l’amputazione d’una gamba
finisce la sua carriera di top model. Il barbone è evidentemente un fallito, ha
perso tutti e neanche come guerrigliero aveva ottenuto alcunché. Ma è proprio
nella sua storia dove la strada della redenzione si intravede con maggior
37
«A powerful and profound story of love, loss, retribution and redemption», Most Beautiful
Man, 4.6.03, <http://www.mostbeautifulman.com/movies/amoresperros.shtml>; Taylor, Judd,
«Well-Structured Pulp Stories About Dogs, Women and Redemption», 15.2.2002, Fidelio’s
Film & Literature Central Services, 4.6.03,
<http://www.geocities.com/fidelio1st/film/amoresperros.html>; «As El Chivo’s ascent from
angel of death to gallant savior shows, reconciliation and redemption still seem possible» (San
Filippo, Maria, «Amores Perros», March 2001, Senses of Cinema, 4.6.03,
<http://www.sensesofcinema.com/contents/01/13/amores.html>. Pure parlano di redenzione
le seguenti note critiche: Christian Answers Network, 4.6.03,
<http://christiananswers.net/spotlight/movies/2001/amoresperros.html>; Movies.com, 4.6.03,
<http://movies.go.com/movies/A/amoresperros_2001/>; Rotten Tomatoes. Movie Reviews &
Previews, 4.6.03, <http://www.rottentomatoes.com/m/AmoresPerros-1106049/>.
38
«The film’s excessive violence is also matched by its relentless moralism, every character,
in one way or another, is punished—here one is possibly reminded of Kieslowski’s
Decalogue» (Marcantonio, Carla, «A City Without Heroes», OtroCampo. Críticas, 4.6.03,
<http://www.otrocampo.com/criticas/amoresperros2.html>.
15
chiarezza39. «Strada» è un termine molto opportuno, perché ogni volta che
dall’interno d’una delle storie si arriva all’incidente, vediamo l’incrocio da una
strada diversa. Dopo la terza storia si vede per la prima volta la quarta strada,
che non appartiene a nessuna delle storie: è la strada d’uscita.
L’aspetto religioso della redenzione non viene quasi sfiorato. Ci sono
allusioni alla religiosità popolare, come il segno della croce che si fa Octavio
ogni volta che passa davanti ad un’immagine della Madonna a casa sua, anche
quando si sta preparando per compiere atti gravissimi. Ci sono espressioni di
sapienza popolare, come «se vuoi far ridere a Dio raccontagli i tuoi piani», e «se
Dio vuole che io veda sfuocato, vedrò sfuocato». E c’è pure la scena del funerale
del fratello di Octavio (il marito di Susana). In tutto questo io non trovo altro che
ricostruzione d’un ambiente, d’una realtà sociale, nulla che possa essere
considerato un messaggio specifico sul ruolo del trascendente nella
redenzione.40
Il barbone, presente per caso (come tutti) all’incidente, porta via con sé il
rottweiler di Octavio e si prende cura di lui. Ma il cane uccide gli altri cani.
Rientrato a casa, il barbone li trova morenti. «Non mi fare questo», dice a una
cagnolina, proprio come Daniel aveva detto a Valeria quando lei ebbe una crisi
39
«A revolutionary-turned-assassin witnesses the accident and finds that it leads him to an
unexpected and life-altering moral epiphany» («A powerful and profound story of love, loss,
retribution and redemption», Most Beautiful Man, 4.6.03,
<http://www.mostbeautifulman.com/movies/amoresperros.shtml>).
40
Questo non è in alcun modo una valutazione, ma colgo l’occasione per segnalarne alcune
ricevute. Il sito Christian Answers Network ne dà la seguente: «Moral Rating: Very
Offensive. Primary Audience: Adults». Sia in questo sito che in Movies.com si fornisce la
classifica della MPAA (Motion Picture Association of America, <http://www.mpaa.org>) che
è «R» (Restricted: Under 17 requires accompanying by parent or adult guardian) per motivi
di «violence/gore, language and sexuality». Infine, la recensione di José María Aresté (Cine
Fórum 2002, cit.), segnala come pubblico adeguato giovani-adulti, e indica i parametri «V+,
X, D+» (sequenze violente, sequenze di contenuto sessuale esplicito, dialoghi o linguaggio
osceno).
16
che la portò vicina alla morte. Un amaro pianto per i cani morti rivela una prima
incrinatura nella sua coscienza «blindata». Poi sgrida il cane assassino e sta per
ucciderlo ma non ne ha le forze. Questo fa sì che non esegua neppure un
omicidio che gli era stato appena commissionato. Con brutale moralismo mette
faccia a faccia il committente e la mancata vittima, fa la doccia, si rade la barba,
cambia look quindi perché sta per cambiare vita. Lascia alla figlia una
confessione struggente nella segreteria telefonica e intraprende un viaggio a
piedi per una pianura che sembra un deserto, simbolo del cammino della
conversione. Chi abbia la pazienza di guardarsi tutti i titoli finali, leggerà come
primo dei ringraziamenti: «Con amore, umiltà e rispetto al Creatore di tutte le
cose. Abba, Pater!»41
L’autocostruzione della persona, la sua inafferrabilità, l’incompiuto42, hanno
una struttura nella realtà che nel ambito mentale-linguistico corrisponde al
simbolo, alla metonimia. Propongo di chiamarle «metonimie reali»43, così come
esiste ormai l’espressione «simbolo reale»44. Il rapporto che c’è fra una poesia e
il testo dove la leggiamo è analogo a quello che c’è fra la persona e il suo corpo.
41
Così, in aramaico-latino, come più volte appare nella vulgata (cfr. Mc 14,36, Rom 8,15, Gal
4,6).
42
Nella vita spirituale questo ha ricevuto diverse formulazioni, tutte in qualche modo sulla
base di S. Paolo (Fil 3,13). Così S. Gregorio di Nissa afferma: «Non mancherà mai lo spazio a
chi corre verso il Signore. Chi ascende non si ferma mai, va da inizio in inizio, secondo inizi
che non finiscono mai» (Omelie sul Cantico dei Cantici, 8: PG 44, 941 C); e in uno stile più
sintetico e di carattere dialogico, S. Josemaría Escrivá: «La tua vita interiore dev’essere
proprio questo: cominciare... e ricominciare» (Camino, n.292).
43
La linguistica recente ha sottolineato sempre più il valore cognitivo della metonimia. È
emblematico il titolo d’un lavoro rilevante degli ultimi anni sull’argomento: AAVV,
Metonymy in Language and Thought, K.-U. Panther - G. Radden (ed.), John Benjamins,
Amsterdam 1999.
44
Ho pure l’appoggio della denominazione «presenza reale» che da nome al libro di George
Steiner: Real Presences: Is There Anything «in» What We Say?, The University of Chicago
Press, Chicago 1989.
17
Possiamo chiamare oggetto il primo membro del binomio, e veicolo il secondo45.
Il corpo è già la persona, ma la persona non si esaurisce nel suo corpo. Quando
l’arte si imbatte in questi argomenti (e quando non è così?) diventa più che mai
immagine dell’uomo e di tutto ciò che ha a che fare con lo spirito. Ora, c’è
sempre la possibilità di fermarsi alla parte afferrabile di queste realtà,
lasciandone sfuggire il cuore. Nella teoria dell’argomentazione è classificato un
tipo di fallacia con il nome di «pio desiderio» o «wishful thinking», che consiste
nel prendere come realtà ciò che è soltanto un’aspirazione. Ma esiste pure la
possibilità di sbagliare nel prendere qualcosa per «wishful thinking». Nel campo
che ci occupa questo pericolo incombe sempre, ed è molto manifesta la
contemporanea forza e precarietà dell’espressione artistica. La comprensione
arriva liscia quando si possiedono le risorse giuste, e altrimenti il malinteso è
dietro l’angolo. Per leggere la metonimia reale serve ciò che altrove ho chiamato
«buona volontà»46, eunoia, nozione che in Aristotele si applica a chi comunica47,
come mezzo che lo rende persuasivo, ed è legata all’amicizia, con tutto ciò che
essa comporta di comunione. Io la propongo per una funzione ricettiva: per
capire è necessario voler capire e ciò esige la condivisione d’un orizzonte.
Nelle metonimie menzionate il rapporto fra veicolo e oggetto oscilla fra gli
schemi parte/tutto, strumento/agente, dove però il legame fra gli estremi gode di
45
Nella linguistica moderna questi estremi vengono chiamati per l’appunto «vehicle»,
«domain», «idealized cognitive model», «schema», «scenario», o «script», il primo, e
«target», il secondo (cfr. Metonymy in Language and Thought, cit., p.9), il che del resto
coincide con la terminologia utilizzata per la metafora (per esempio Lakoff, che comunque di
solito chiama il primo «source domain»).
46
Cfr. «A Topica between Logos and Ethos — The Evaluation of Understanding as a Means
of Argumentation», comunicazione presentata al convegno Argumentation in Dialogic
Interaction, organizzato da «International Association for the Study of Argumentation»,
«International Association for the Study of Controversies», «International Association for
Dialogue Analysis» e l’Università della Svizzera Italiana (Lugano, 30 giugno 3 luglio 2002);
«Babel y la retórica de la redención», cit.
47
Rhet., II, 1, 1378a8.
18
una solidità profonda nella realtà. La parte sarà una parte integrale, e lo
strumento sarà in qualche modo anche parte dell’agente. È un rapporto che nei
testi dei linguisti spesso viene classificato come concreto/astratto, sebbene io
trovo questa terminologia un po’ limitante per l’argomento che ci occupa48. Sì, è
normale dire che un affetto si concretizza in una carezza, ma con ciò l’affetto
non viene considerato astratto49. La carezza è il luogo dove vive l’affetto, è il
suo veicolo, è ciò in cui l’affetto incarna, e lo stesso possiamo dire dei binomi
sopra accennati testo/poesia e corpo/persona e di molti altri. La possibilità di
fermarci nel primo membro del binomio deriva dalla reale distinzione fra i
membri, ma ciò significa un errore di lettura o una scelta che implica una nonpienezza nel vivere quella realtà. La rilevanza di quella non-pienezza dipenderà
dalla densità ontologica del binomio, e in alcuni casi – per esempio quando si
abbraccia un corpo e non una persona – può significare un grande deficit di
umanità.
Per quanto riguarda l’espressione, nominare una realtà attraverso il veicolo
può essere il riflesso dell’errore di lettura o della scelta vitale, ma può essere
pure una scelta espressiva, una strategia cioè puramente stilistica. Nel primo
caso, si ha in mente soltanto il veicolo; nel secondo, la realtà veicolata. Ma qui si
48
«The cognitive principle CONCRETE OVER ABSTRACT accounts for why we speak of a book
written in a careful hand for “carefully writen” or having one’s hands in something for
“controlling something.” Body parts make particularly “good” objects, and we routinely
access various abstract human domains by reference to our body. Special subcases of the
CONCRETE OVER ABSTRACT principle may be described as BODILY OVER EMOTIONAL (heart for
‘kindness’), BODILY OVER ACTIONAL (hold your tongue for ‘stop speaking’), BODILY OVER
MENTAL (brain for ‘intellect’) and BODILY OVER PERCEPTUAL (good ear for ‘good hearing’)»
(Günther Radden - Zoltán Kövecses, «Towards a Theory of Metonymy», Metonymy in
Language and Thought, cit., pp.45-46).
49
Questo sarà comunque uno dei possibili modi di formulare l’accusa di irrealtà d’un affetto
che non prende corpo innessuna manifestazione: che esso è, appunto, astratto. Ma anche
l’affetto manifestato resta sempre diverso dalla materialità delle manifestazioni e tuttavia non
ha una natura astratta.
19
impone una considerazione. A seconda del rapporto fra i due elementi della
metonimia, veicolo e oggetto, l’oggetto può risultare nobilitato o abbassato dalla
denominazione. Nei binomi in cui c’è metonimia reale l’abbassamento sarà la
cosa più frequente, ed io vedo al meno tre motivi che portano a percorrere
questa strada: per una volontà denigratoria50, per l’interesse di deviare
l’attenzione51 o per l’intenzione di ridimensionare una realtà ritenuta eccelsa,
ricordando il sostrato materiale dal quale è inseparabile52. Sappia quindi l’artista
che può mancare l’orizzonte da condividere, che può mancare la buona volontà,
che deve sapere che la ricezione è comunque sempre ardua53.
50
La pala d’altare della cattedrale di Città del Messico, capolavoro del barocco settecentesco,
è stata descritta da Joaquín Fernández de Lizardi, autore del primo romanzo pubblicato nelle
colonie spagnole (El Periquillo Sarniento, 1816), «un ammasso di legname dorato all’antica e
quanto mai indecente» (citato da Francisco Belgodere nella presentazione di México
Virreinal. Arias para voz y piano de Manuel de Zumaya y Vicente Ortiz de Zárate, Raúl
Banderas Aceves [ed.], Universidad de Guadalajara – Centro Universidario de Arte,
Arquitectura y Diseño, Guadalajara 2002, p.14).
51
È una delle risorse della modestia. È celebre la risposta di Bach a un complimento per la
sua bravura come organista: «Non c’è niente di grande. Basta fare le giuste note nel tempo
giusto, e lo strumento suona da solo» (Geiringer, Karl, I Bach, Storia di una dinastia musicale
(orig.: The Bach Family), Rusconi, Milano 1981, p.205).
52
È una procedura frequente in autori spirituali. Josemaría Escrivá parla di «... signori gravi,
seduti intorno a un tavolo, seri, con aria di cerimonia, mentre riempiono di grassi il tubo
digerente...» (Cammino, n.679); «Per vedere felice la persona amata, un cuore nobile non
tentenna davanti al sacrificio. (...) E Dio lo merita meno di un pezzo di carne, di un pugno di
fango?» (Via Crucis, V,3). Queste riduzioni ricevono una particolare forza espressiva dal fatto
di venire da una persona che, proprio per l’altissima stima di questi sostrati materiali, basata
su una profonda intuizione del mistero dell’Incarnazione, parlò del bisogno di un
«materialismo cristiano» (Colloqui, n.115), perché «questo Dio invisibile lo troviamo nelle
cose più visibili e materiali» (ibid., 114). Si deve comunque osservare che in questi esempi
non si verifica soltanto l’abbassamento puro e semplice di nominare il veicolo, ma c’è
un’amplificazione aggiuntiva: la grettezza del «riempire», e la riduzione degli alimenti ai
«grassi»; poi, non solo «corpo» (che sarebbe la metonimia pura, anche se stilisticamente
renderebbe scialba l’espressione), e nemmeno «carne» (metonimia antichissima), ma «un
pezzo di carne» (e anche «pugno di fango» comprende più livelli di codificazione).
53
«While rationally demanded, however, this inner response to the value presented is by no
means assured» (Mitchell, Elizabeth, Artist and Image: Artistic Creativity and Personal
Formation in the Thought of Edith Stein, Edusc, Rome 2004, p.40).
20
5. Afferrare l’inafferrabile. — Alfred Schnittke.
Un’ultima illustrazione la farò nell’ambito più estremo di convivenza di
forza e precarietà che corrisponde con quanto George Steiner dice a proposito
dell’unità fra forma e contenuto nell’arte, la quale raggiunge la massima identità
nella poesia e nella musica54. Un compositore che mi sembra paradigmatico in
questo senso è Alfred Schnittke, morto nel 1998. Russo di origine tedesca, di
padre ebreo ma non credente, e madre cattolica ma non praticante, entrambi
comunisti ma non tesserati, Schnittke ebbe a patire molto con il regime
sovietico, che bandì alcune delle sue opere e non gli consentiva di recarsi
all’estero per assistere alle sue prémieres o a ricevere riconoscimenti, che pure
non sono stati scarsi. Solo l’arrivo della perestroika portò per lui un po’ di
libertà. Indipendentemente da tutto questo, egli ebbe sempre una grande
sensibilità nei confronti della religione55, e nel 1983, all’età di 48 anni, si fece
battezzare cattolico (la cresima invece la ricevette nella Chiesa Ortodossa56).
Molte sue opere avevano un contenuto sacro nascosto. La sua Seconda
sinfonia è una «messa invisibile». La Quarta sinfonia segue lo schema del
rosario (gioia - dolore - gloria) e in più poggia su quattro sistemi armonici –
ebreo, ortodosso, cattolico e luterano –, con la sfida che non ci sia una sola nota
che non abbia una giustificazione in uno di essi, e a ciò si aggiunge il coro
finale, che durante il periodo sovietico era solo vocalizzo e soltanto dopo egli
54
«Nella musica la forma è contenuto, forma contenuta» (Steiner, George, Vere presenze,
Garzanti, Milano 1992, p.205. Ho alterato un po’ la traduzione, che a mio parere non è
corretta in questo punto).
55
«Everybody knew Schnittke’s strong interest in the subject of God and religion, the subject,
which has always been highly important for Russian intelligentsia and always forbidden in
Soviet time. This theme was raised again and again as a form of protest against communist
ideology, for the freedom of the conscience and for the choice to believe or not» (Smirnov,
Dmitri, «Schnittke’s Choral Music of 70-80s», September 2001, Dmitri, N. Smirnov & Elena
Firsova, Home page, 7.6.2003 <http://www.smirnov.fsworld.co.uk/Schnittke1.html>.
56
Cfr. Petrushanskaja, Elena, «Chi è lei, dottor Schnittke?», Nuova Europa, 305(2002), p.65.
21
fece sapere che era un’Avemaria. Nel Concerto per pianoforte ed orchestra
d’archi, senza perdere l’atmosfera di musica da concerto, si sente una salmodia
bizantina, e il compositore bielorusso Dmitri Smirnov mi dice che un russo non
può non sentire le parole «Gospodi pomilui», «Signore pietà»57.
L’elenco potrebbe continuare, perché anche il Quintetto per pianoforte è un
requiem, e così via dicendo. E più avanti, dopo il crollo del regime sovietico,
egli ebbe maggiore libertà per esprimersi in questo campo e scrisse diverse
opere apertamente sacre, fra cui vorrei sottolineare il Concerto per coro misto58.
Ma comunque non vorrei parlare della musica sacra, esplicita o nascosta che
essa sia. Tutta la sua musica, dice Alexander Ivashkin, cellista e biografo di
Schnittke, «ha a che vedere con il dubbio, l’autoanalisi, la tentazione, il
pentimento e il conflitto fra il bene e il male»59. Nella musica di Schnittke si
57
Su quest’opera, di cui mi sento particolarmente innamorato, ho trovato pochissimo scritto.
Io sentivo ogni tanto quel coro bizantino e l’ho fatto notare a diverse persone che tuttavia non
mi confermavano l’impressione. Ho quindi scritto a Dmitri Smirnov, con l’indicazione precisa
dei passi dove credevo di sentire quello, e mi rispose che era «quite obvious», che non si
poteva non sentire addirittura le parole «Gospodi pomilui», «Signore pietà». – «Schnittke’s
Concerto for Piano and Strings journeys through the conflict within the inner soul. The
disparate elements that invade the work constantly move from the stabilizing elements of
melodic passages to the destabilizing aggression of dissonance. At the height of these
opposing factions comes a meditative and almost surreal cadenza. The sound of bells that
follows takes us to that safety of a belief in a superior being who can end suffering and bring
peace to the human soul» (Denton, David, «Alfred Schnittke: Concerto for Piano and
Strings», 28.2.2001, G. Schirmer Inc., 16.4.2003,
<http://www.schirmer.com/composers/schnittke_cto_pf_str.html>; è un testo contenuto nel
libretto del CD Delos 3259). – Sul Concerto Grosso n.2 si legge in un altro libretto: «The
sphere of virtuosic concertizing is becoming the field of conflict, fight of the personal and
beyond the personal, transient and eternal, creative and destructive» (Ivashkin, Alexander, CD
Gramzapis 10-00068).
58
«Schnittke, the son of a Jewish father and a Roman Catholic by adult choice, sets the text in
ways which avoid specifically religious musical associations in favour of a general sense of
personal spirituality that is open to the world without being chained to it» («Londra. Schnittke
weekend at the Barbican», Elsom, H. E., in The Classical Music Network, 7.6.2003,
<http://www.concertonet.com/scripts/review.php?ID_review=972>).
59
Ivashkin, Alexander, Alfred Schnittke, Phaidon, London 1996., p.152. «His music,
therefore, makes appeals to dark spaces, to mysteries, to enduring things, certainties» (Searle,
22
riflette la concezione dell’onnipotenza divina che si dispiega non tanto
nell’eliminare il male quanto nell’ottenere il bene anche dal male. «Ho bisogno
di partire dal presupposto che il mondo dello spirito è ordinato, strutturato
secondo la sua vera natura, che tutto ciò che causa disarmonia nel mondo, tutto
ciò che è mostruoso, inspiegabile e terrificante – e questo è qualcosa che non
poteva capire Ivan Karamazov – è anche parte di questo ordine. E la formula per
l’armonia del mondo è molto probabilmente legata non tanto all’annientamento
del male quanto al fatto che, sommerso nel dipinto armonioso del tutto, anche il
male ha una sua funzione. Per un’interazione complementare, gli elementi
negativi si neutralizzano l’un l’altro e come risultato nasce qualcosa di
armonioso e bello»60.
Già Aristotele era convinto che «la verità e la giustizia sono per natura più
forti dei loro contrari»61, ma qui c’è di più: c’è la rivelazione cristiana, c’è la
redenzione. Negli anni di ricerca, Schnittke era stato attratto dall’antroposofia,
dalla cabala, da I-Ching e da altri pensieri esoterici, e proprio la delusione
dinanzi alle risposte ricevute lo spinse ad abbracciare seriamente il
cristianesimo. La base del rifiuto di quelle dottrine fu la loro pretesa di annullare
il mistero62: il mistero dell’esoterico non è un mistero sul serio, è una specie di
razionalizzazione del mistero. Nella musica di Schnittke, invece, il mistero è
presente come tale, come una realtà che va vissuta. Alexander Ivashkin parla
d’una profondità di velluto a proposito dello stile maturo di Schnittke, il che
Adrian,»Voices in the Dark», Friday January 12, 2001, The Guardian, 7.6.2003,
<http://www.guardian.co.uk/friday_review/story/0,3605,420888,00.html>).
60
Ivashkin, o.c., pp.155-156.
61
Rhet., I, 1, 1355a20.
62
«Schnittke always felt that all the plastic symbols of anthroposophy (such as eurythmics)
were quite false, even dangerous, and somehow not Christian» (Ivashkin, A., o.c., pp.156157).
23
significa «densità del segno», «simbolica profondità dell’enunciato»63. Non
mancano nella sua musica strutture razionalmente ponderate, elementi che
devono essere letti, ma egli ritiene che tutto questo viene sempre colto in
qualche modo. «Tutta la tecnica esatta, tutto ciò che rimane “nascosto” nella
musica – sigle, simboli, proporzioni, cenni e allusioni – viene comunque
percepito. Un’opera priva di tale parte “subacquea” non può lasciare alcuna
impressione durevole»64. Nella musica di Schnittke la densità del segno è
davvero notevole, in particolare per l’immagine che offre della condizione
umana. La presenza di simboli, cenni, citazioni e via dicendo65, suscita
l’obiezione della comprensibilità – «e se non conosco l’opera citata?» –, ma
nella conoscenza di qualsiasi persona è riconoscibile lo stesso fenomeno. È
possibile ignorare dati, forse anche importanti, d’un nostro conoscente, e ciò non
ci porta a concludere che non lo conosciamo. Per via del carattere
essenzialmente personale di questi rapporti, anche lo stesso dato su una persona
non è rigorosamente «lo stesso» per due conoscenti. Una madre sa in qualche
modo cosa significa per i propri figli la loro nonna, ma questo non diventa mai
la stessa conoscenza. Ci saranno angoli della sua madre conosciuti soltanto dai
nipoti, e alcuni di essi saranno scoperti dalla figlia grazie a loro. In una persona
c’è da approfondire tutt’una vita, e qui si scorge la stessa vita «subacquea» che
63
Cfr. Ivashkin, A., «Alfred Schnittke: la musica e l’armonia del mondo», in AA.VV,
Schnittke, Enzo Restagno (ed.), EDT, Torino 1993., p.118. Questa figura viene al filosofo
georgiano Merab Mamardasvili (cfr. ibid., p.84).
64
Parole di Schnittke citate da Ivashkin, ibid., p.125. Cfr. pp.119s.
65
Nell’ambito letterario è ciò che è stato chiamato «letteratura difficile». Shuichi Kato la
caratterizza tramite tre aspetti: a) difficoltà relative al linguaggio (come deviazioni dallo stile
e dalla sintassi tradizionali); b) bisogno di conoscere – e riconoscere – i classici; c) volontà di
totalizzazione. Cfr. Kato, Shuichi, «Por qué la literatura japonesa no es difícil», Vuelta,
N.188, luglio 1992, pp.35-37.
24
Schnittke riconosce nella musica66. Ed è questa un’altra formulazione della
struttura metonimica della persona.
6. La biografia sempre aperta. — Ancora Schnittke.
Ivashkin aggiunge che «Schnittke è uno dei pochi compositori del XX
secolo che sia riuscito a fondere in una lega tanto organica (e condizionata
dall’essenza stessa della musica) il musicale e l’extramusicale, la tecnica e la
simbologia, che abbia saputo difendere la propria musica dalla tentazione del
puro
strutturalismo,
sottomettendola
invece
all’idea
della
simbologia
cristiana»67. I suoi finali sono significativi in questo senso, giacché fanno quasi
sempre allusione al mistero, alla speranza, al libero arbitrio. Per esempio, il
movimento finale del Concerto per cello N.2 riprende una passacaglia che
Schnittke aveva già usato in un film su Rasputin, Agonija, di Elem Klimov,
1974. È l’inquietante agonia d’una nazione, che sarebbe stata poi seguita da
«una notte della storia del nostro paese, lunga più di settanta anni», dice lui, ma
l’atmosfera cupa del film doveva contenere un senso di speranza. La
passacaglia, «che nasce da una melodia caleidoscopica al modo d’un inno in un
interminabile recitativo del cello, a volte esplora un tema definibile, a volte si
66
«Proprio tale strato “subacqueo” e sottinteso è il maggior elemento lessicale della musica di
Schnittke» (Ivashkin, ibid., p.113). «La funzione tematica spetta non soltanto allo strato
espositivo del materiale musicale, udibile e “sopracqueo”, ma anche alla carica non
espositiva, sottintesa e “subacquea”, di associazioni, analogie e corrispondenze indirette»
(parole di Schnittke citate da Ivashkin, ibid.).
67
Ibid. E tutto questo, molto legato alla vita, per esempio alla sua sensibilità sulla fedeltà
matrimoniale. «Lui e sua moglie sono stati sempre innamorati», dice Ivashkin (Alfred
Schnittke, p.103). Il quotidiano è in lui molto presente. Fra l’altro, fu sempre aggiornatissimo
sui gruppi russi di rock, e cercò sempre di affievolire la divisione fra musica seria e musica di
intrattenimento (ibid., p.116). Nelle sue opere si trovano inserzioni di tango, di musica pop e
di altri generi popolari. E anche le strutture hanno un denso valore simbolico. Una sua
predilezione per la forma concerto è dovuta alla posizione del singolo nella società. Nel suo
oratorio Faust c’è un monologo a due voci; idea bizzarra, ma comprensibile se si capisce che
si tratta del demonio.
25
limita a brevi risposte spontanee. Poco prima del finale subentra un
effervescente climax, seguito da un riapacificato e di nuovo oscuro suono
orchestrale che trasforma il momento in un riverbero inaudible ed eterno»68. E
nella coda, un tema che aveva caratterizzato tutta l’opera «viene gradualmente
sommerso, il solista preme come pedale il do basso, che era rimasto udibile
durante il movimento. Al tempo stesso, il cellista si libra in alto fra mi maggiore
e fa maggiore, come un’anima tremolante in preghiera, in bilico fra due
mondi»69.
Il movimento più importante nelle opere di Schnittke è spesso il penultimo,
che si costruisce in quelli precedenti ed è seguito da una coda che commenta,
ricorda, gioisce, quasi sempre in un’atmosfera calma, mai con una chiusura
contundente ma piuttosto con un’apertura a «vastità che lo sguardo non può
contenere»70. In questo modo «spesso tutto scompare nei puntini di
sospensione»71, e l’opera musicale e la sua comprensione sono «un processo in
perenne evoluzione, aperto come la vita stessa»72. La sintonia fra questi finali e
l’incompiuto è molto chiara, come pure lo è l’elemento esterno che deve
intervenire, il che può soltanto essere un dono. Nelle opere di Schnittke esso è
un dono non solo al loro interno73 ma pure nella loro creazione. Dice Ivashkin
che questi finali, in qualche modo contenenti la «morale» dell’opera, possono
far pensare che siano stati concepiti in precedenza, e abbiano condotto la
costruzione di tutto il resto. Ma Schnittke nega esplicitamente: «Ogni volta la
68
Note di Schnittke su questo concerto nel libretto del CD BIS-CD-567.
Weizman, Ronald, ibid.
70
Ivashkin, «Alfred Schnittke: la musica...», p.158. Ivashkin chiama questa struttura «cerchio
aperto» o «voluta spiraliforme» (ibid.).
71
Parole di Schnittke citate da Ivashkin, «Alfred Schnittke: la musica...», p.139.
72
Ibid., p.83 (queste sono parole di Ivashkin).
73
Un chiaro «intervento soprannaturale» si fa sentire nel Concerto Grosso n.1: il motivo con
cui inizia il primo movimento torna come momento culminante alla fine del penultimo.
69
26
coda, ciò che generalmente chiude l’opera, appare d’improvviso, come un regalo
inatteso, ma appare sempre alla fine del lavoro. Io stesso sono costretto a
percorrere l’intero cammino, a viverlo soprattutto. È possibile immaginare come
sarà l’opera “all’incirca”, ma non è possibile comporla esattamente in
precedenza, non ne verrebbe fuori nulla»74.
Questi finali mi ricordano fortemente un paragone offerto dal teologo belga
André Léonard fra l’unione coniugale e la celebrazione dell’Eucaristia. Egli
segnala che in entrambi i casi c’è una fase iniziale di incontro, ascolto, dialogo,
gioco, seguito da un momento culminante di comunione e, in fine, «un periodo
di riposo, limitato alla presenza vicendevole e alla gratitudine comune per il
piacere e la gioia dati e ricevuti», oppure «il momento dell’azione di grazie, del
riposo vicendevole di Gesù in noi e di noi in Gesù, in cui ringraziamo per la sua
presenza, cercando di rendergli amore per amore»75. Ecco due dinamiche umane
quanto mai rappresentative che non finiscono con fuochi di artificio. Il genere
musicale messa non ha mai una conclusione forte, perché finisce con l’Agnus
Dei, che non coincide con la fine della celebrazione eucaristica. E se pensiamo
ad una cerimonia particolarmente solenne (in alcuni luoghi basterebbe pensare
alla domenica), possiamo forse scorgere un finale chiaro nella processione che si
allontana, nell’organo che riempie il tempio, nei fedeli che escono a poco a
poco? Non è piuttosto un graduale rientro delle acque nell’alveo che avevano
abbandonato? (Proprio al modo d’una piena, dove l’alveo non si prosciuga.) E lo
stesso si dica degli incontri umani, dell’incontro amoroso per antonomasia, ma
pure ogni volta che le vite di amici e parenti confluiscono. «Né le miserie reali
sono solite finire con un sipario che cala e un rulo di tamburi», osserva C.S.
74
75
Citato da Ivashkin, ibid., p.159.
Léonard, André, Gesù e il tuo corpo, Edizioni Paoline, Milano 1991, p.32.
27
Lewis.76 Tutto ciò non esautora minimamente i finali chiari, delicati o
contundenti che essi siano. Essi rispecchiano in altro modo le armonie dello
spirito. Schnittke scelse la strada di un rispecchiamento più isomorfico di questo
tratto della vita umana, un tratto cruciale per scoprire quanto una bellezza aperta
si addice alle armonie dello spirito.
Per finire in questo spirito, propongo in chiusura alcune battute di Schnittke
tratte da un’intervista:
— Cosa pensa dell’eternità?
— Non posso dirlo. Come tutti ne ho la sensazione ma non so
definirla. Cercare di misurarla ci porta già fuori strada: l’eternità è
insieme statica e dinamica.
— La musica ci può dare la sensazione di sfiorarla, di uscire dai limiti
dell’umano?
— Con il secondo dei Tre pezzi per violoncello di Webern, anche se è
di breve durata, abbiamo la sensazione di essere stati in quello spazio
per migliaia di anni.
— Quindi la musica può dare l’illusione dell’eternità. È un’idea molto
antica, già presente nei miti classici. Ne è un esempio il viaggio di
Orfeo, che arriva a superare i limiti stessi della vita vincendo la
morte.
— Sono stati molti i tentativi di fermare il tempo e di uscirne e ogni
volta abbiamo avuto dei risultati illustri ma non definitivi, come una
fermata lungo la strada. Non bisogna smettere di cercare, ma con la
76
An Experiment in Criticism, Cambridge University Press, Cambridge 1996 (1a ed.: 1961),
p.78.
28
consapevolezza che questa illusione ci dà la possibilità di capire che
quel concetto esiste.
— Lei è religioso?
— Spero di esserlo, ma non sono certo di niente fino in fondo. Vorrei
avere più fede.
— Ha fede nell’aldilà?
— Spero che sia così, ma non posso saperlo con sicurezza.
— Le chiedo perché Lei ha scritto dei Requiem a volte dichiarati e a
volte nascosti, il più commovente dei quali è il Quintetto con il
pianoforte scritto alla memoria di Sua madre. Anche Brahms scrisse
alla memoria di sua madre il Deutsche Requiem sperando nella
sopravvivenza.
— Anch’io ho la stessa speranza, ma nessuno può esserne certo.77
77
«Conversazione tra Enzo Restagno e Alfred Schnittke», in AAVV, Schnittke, pp.76-77.