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Il re Davide alla prova della letteratura

La Bibbia presenta un'ampia e variegata galleria di personaggi, ma nessuno come Davide si offre al lettore in modo tanto sfaccettato e intrigante: in lui si fondono tragedia e riscatto, divino e umano, peccato e perdono, regalità e tradimento, teologia e politica. Un uomo dal multiforme ingegno, abitato dai suoi fantasmi come un eroe shakespeariano, amato da Dio e non dai suoi figli. Un personaggio come questo non poteva che inspirare naturalmente la letteratura. C'è da dire che Davide nasce già come personaggio letterario. Il suo essere una creazione letteraria è dato costitutivo. Quello che leggiamo nei libri di Samuele e dei Re è un grande mito teologico-politico. Per dirla con Liverani, è una storia inventata. Non nel senso che è una fake new, ma nel senso che il racconto biblico della monarchia (ma non solo quello) è probabilmente l'esito di una stratificazione di memorie orali legate a personaggi come Saul, Davide o Salomone e una rielaborazione teologica di antiche tradizioni israelitiche. Con la riforma di Giosia del 622 a.e.v Israele prende consapevolezza di sé e ricostruisce la propria storia, una storia che però trova poco riscontro nei dati archeologici, che smentiscono certe ricostruzioni trionfalistiche create ad arte, soprattutto quelle relative al regno di Davide e Salomone. In questa conversazione cercherò di mettere insieme un approccio diacronico con uno sincronico. Per il primo, lasciando da parte l'età patristica e medievale, farò una veloce carrellata a partire dal Cinquecento per arrivare al Novecento. Lo scopo è di far vedere l'evoluzione nel tempo della ricezione e della rilettura del Davide biblico. In estrema sintesi, la parabola è questa: nel Cinquecento diversi scrittori sottolineano l'aspetto politico-religioso di Davide, visto come un emblema della Riforma. Nel Seicento inglese sia i realisti sia in puritani si riferiscono a lui. La voce «Davide» di Pierre Bayle sul Dictionnaire historique et critique (1697) segna una svolta: la figura di Davide viene desacralizzata e viene messa in risalto la sua umanità (in particolare gli ultimi di vita). Nel Novecento Davide scrive la sua autobiografia e le sue memorie. Per il secondo, mi soffermerò su quattro testi, due in poesia e due in prosa.

Regalità e abisso: Davide alla prova della letteratura Luciano Zappella La Bibbia presenta un’ampia e variegata galleria di personaggi, ma nessuno come Davide si offre al lettore in modo tanto sfaccettato e intrigante: in lui si fondono tragedia e riscatto, divino e umano, peccato e perdono, regalità e tradimento, teologia e politica. Un uomo dal multiforme ingegno, abitato dai suoi fantasmi come un eroe shakespeariano, amato da Dio e non dai suoi figli. Un personaggio come questo non poteva che inspirare naturalmente la letteratura. C’è da dire che Davide nasce già come personaggio letterario. Il suo essere una creazione letteraria è dato costitutivo. Quello che leggiamo nei libri di Samuele e dei Re è un grande mito teologico-politico. Per dirla con Liverani, è una storia inventata. Non nel senso che è una fake new, ma nel senso che il racconto biblico della monarchia (ma non solo quello) è probabilmente l’esito di una stratificazione di memorie orali legate a personaggi come Saul, Davide o Salomone e una rielaborazione teologica di antiche tradizioni israelitiche. Con la riforma di Giosia del 622 a.e.v Israele prende consapevolezza di sé e ricostruisce la propria storia, una storia che però trova poco riscontro nei dati archeologici, che smentiscono certe ricostruzioni trionfalistiche create ad arte, soprattutto quelle relative al regno di Davide e Salomone. In questa conversazione cercherò di mettere insieme un approccio diacronico con uno sincronico. Per il primo, lasciando da parte l’età patristica e medievale, farò una veloce carrellata a partire dal Cinquecento per arrivare al Novecento. Lo scopo è di far vedere l’evoluzione nel tempo della ricezione e della rilettura del Davide biblico. In estrema sintesi, la parabola è questa: nel Cinquecento diversi scrittori sottolineano l’aspetto politico-religioso di Davide, visto come un emblema della Riforma. Nel Seicento inglese sia i realisti sia in puritani si riferiscono a lui. La voce «Davide» di Pierre Bayle sul Dictionnaire historique et critique (1697) segna una svolta: la figura di Davide viene desacralizzata e viene messa in risalto la sua umanità (in particolare gli ultimi di vita). Nel Novecento Davide scrive la sua autobiografia e le sue memorie. Per il secondo, mi soffermerò su quattro testi, due in poesia e due in prosa. 1. Cinquecento, un modello politico-religioso. Gli umanisti francesi, tedeschi e italiani, i poeti inglesi del Seicento, alle prese con la tragedia delle guerre religiose e civili, non hanno fatto niente di diverso da quello che ha fatto Giosia: legittimare il presente e le grandi questioni nazionali politiche con un passato idealizzato. Fin dal Rinascimento, alla corte di Francia Davide è un modello politico: Carlo VIII, Francesco I e Enrico II devono conformarsi a un Davide mitico, combattente o trionfante. Nel primo poema francese dedicato al re biblico, la Monomachie de David et de Goliath (1552), Joachim du Bellay (1522-1560 ca.), oltre alla vittoria di Davide su Golia, sottolinea le sconfitte subite da una Francia indebolita e poi rialzata da Enrico II di Valois: il suo coraggio e la sua umiltà riescono a prevalere sull'arroganza degli inglesi e sulla superbia dell’imperatore Carlo V. Golia, che incarna la minaccia straniera, da un lato è collegato al genere eroico della tradizione omerica – il pennacchio svolazzante o lo scudo istoriato (vv. 73-76) –, dall’altro è collegato al gigante Nimrod (Gen 10, 8-10), che secondo una radicata tradizione sarebbe il promotore della costruzione della Torre di Babele (Gen 11,1-9), quindi du Bellay sottolinea la mostruosità e l’arroganza del gigante. Anche il Rinascimento italiano – e soprattutto quello fiorentino – sottolinea il trionfo di Davide su Golia, non tanto nella letteratura, ma nella scultura: basti citare il David di Donatello, quelle del Verrocchio (1465) e del Pollaiuolo (1470 circa), e il capolavoro di Michelangelo (ne parlerà Giovanna Brambilla). Introdotto nella letteratura, Davide diventa una figura sia allegorica sia politica. Un potente esempio di ciò è la Suittes de la Seconde Semaine (1544-1590) di du Bartas (1591): si tratta del combattimento tra le forze terrene e le forze celesti, in cui Golia è paragonato a una figura diabolica con una grande apertura alare: «son crin noir, âpre, long, crasseusement se dresse…» - «il suo nero, ruvido, lungo, sudicio crine di cavallo si alza...» (I trofei, vv. 59-66), mescola immagini medievali del diavolo e della Bestia dell’Apocalisse. Il gigantesco nemico degli Ebrei è il simbolo del paganesimo contro la Fede. Il motivo del duello tra Davide e Golia diventa poi una naturale illustrazione delle guerre di religione, e in particolare della lotta impari degli ugonotti contro i cattolici: all'inizio de Les Princes, secondo libro di Tragiques (1616), Agrippa d'Aubigné (1552-1630) si ispira all'episodio biblico, in un contesto che non lascia dubbi sulla vittoria auspicata dal poeta protestante: «Prestami, o verità, la tua pastoral fionda / Che io possa infilarvi la pietra più rotonda / Che io possa scegliere, e che questa pietra rotonda / Del Vice-Goliath sia posta in fronte» («Prête-moi, vérité, ta pastorale fronde / Que j'enfonce dedans la pierre la plus ronde / Que je pourrai choisir, et que ce caillou rond / Du ViceGoliath s'enchâsse dans le front.») 2. Tra Seicento e Settecento, la desacralizzazione Sappiamo che le aspirazioni religiose di Davide sono strettamente collegate alle sue preoccupazioni politiche. E il Seicento inglese trae la sua ispirazione proprio dalla sua rivalità con Saul e la persecuzione di Assalonne. Davide costituisce il mito centrale sia per i monarchici sia per i puritani. Rifacendosi al rifiuto di Davide di sottomettersi a Saul e alla tragica morte di Assalonne dopo la sua ribellione contro Davide, la chiesa anglicana giustifica lo scisma di Enrico VIII con Roma. Già nel XVI secolo, Thomas More (1478-1535) giustifica la persecuzione dei ribelli alla luce dell'azione di Davide contro i Filistei e contro gli scismatici di cui Assalonne è l'emblema ne The Confutation of Tyndale's Answer (La Confutazione della risposta di Tyndale) (1532-1533). Nel 1588, in The Love of King David and fair Bethsabe: With the Tragedy of Absalon (L'amore di re Davide e della bella Betsabea: con la tragedia di Absalon) (pubblicato post. nel 1599), il drammaturgo George Peele (1556-1596) restituisce al figlio ribelle una certa legittimità morale. Lungi dal condannarlo, Peele fa di Assalonne un personaggio di grande rigore: rifiutando di approfittare dell'harem paterno, ne condanna la sua morale licenziosa. Inoltre, alla sua morte, Assalonne non è condannato alle fiamme mascherate dell'Inferno, ma trova un posto in Paradiso. Tuttavia, questo esempio è piuttosto isolato nella letteratura inglese. L’Inghilterra, qualunque sia la confessione religiosa, ritrova nel mito biblico la materia stessa della sua Storia. Il poeta Andrew Marvell (1621-1678) legittima la politica di Cromwell attribuendogli tutte le qualità del re Davide. John Dryden (1631-1700), in Absalom and Achitophel (1681), paragona Carlo II Stuart a Davide. Il suo poema diventa una trasposizione allegorica della ribellione di Assalonne contro il padre durante la Restaurazione. L'opera evoca in particolare gli intrighi del conte di Shaftesbury, il cui scopo era quello di scalzare il duca di York (poi Giacomo II, Assalonne nel poema) dalla successione al trono e di sostituirlo con il figlio illegittimo, James Scott, primo duca di Monmouth. Se l'Inghilterra umanizza Davide, la Francia lo spiritualizza: lo presenta sotto la duplice immagine di fondatore di una dinastia e di antenato di Cristo. Tuttavia, se il mito è praticamente assente dalla letteratura francese, per Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) è una questione chiaramente teologico-politica. Davide illustra innanzitutto la teoria del «diritto divino». Secondo Bossuet, come l’apostolo Paolo, il potere viene da Dio ed è la Provvidenza che permette l'istituzione di ogni autorità. Nel Discorso sulla storia universale (Discours sur l'histoire universelle, 1681), Bossuet, una sorta di moderno profeta Nathan, mostra la giusta via al giovane "re Davide", che diventa sotto la sua penna, un «ammirevole pastore, vincitore sul fiero Golia e su tutti i nemici del popolo di Dio», tanto quanto un meraviglioso salmista la cui magnificenza non sarà mai eguagliata. In un'opera successiva, Premier Avertissement aux protestants sur les lettres du ministre Jurieu contre l'histoire des variations (168990), Bossuet è ancora più esplicito sulla sua visione del re Davide: dopo la revoca dell'Editto di Nantes, il ministro calvinista contestava l'origine divina della sovranità e il riferimento a Davide contro Saul gli permetteva di legittimare la rivolta contro i governanti illegittimi. Bossuet risponde che Davide non agisce mai come un "privato", ma sempre per "spirito di Dio". È solo in questo senso che la sua azione diventa legittima. A segnare una svolta decisiva nella lettura ideologica del mito è senza dubbio l'articolo «Davide» del Dictionnaire historique et critique (1697) di Pierre Bayle (1647-1706). Per la prima volta, l'immagine positiva e idealizzata del re viene ridimensionata. In questo controverso articolo - Jurieu lo denuncia nel concistoro come empio - l'autore sottolinea le varie colpe commesse da David. Egli distingue tra ciò che la Scrittura insegna come verità della fede e ciò che la ragione è libera di apprezzare. «Davide, Re dei Giudei – scrive – è stato uno dei più grandi uomini del mondo, anche se non lo si considerasse un Re profeta, come era secondo il cuore di Dio». La severità delle sue parole ci sembra oggi molto moderata. 3. Ottocento Se nella prima metà dell’Ottocento l’attenzione è puntata soprattutto su Saul (Alfieri e Lamartine), nella seconda metà dell’Ottocento e inizio Novecento prevale il tema del senex amans, Davide ormai vecchio riscaldato dalla giovane Abišag (1Re 1,2-8). Se ne possono vedere due esempi in Charles Baudelaire e Rainer Maria Rilke. L’autore biblico non si fa nessuno scrupolo a presentare il vecchio re Davide che si serve di una bellissima ragazza come una sorta di scaldino umano. Basterebbe molto meno a scandalizzare i benpensanti! E in effetti sappiamo che certe pagine bibliche sono state pudicamente censurate. Non diversamente andarono le cose nel giugno del 1857 quando, a pochi giorni dalla sua pubblicazione, la raccolta Fleurs du mal di Charles Baudelaire (1821-1867) fu oggetto di una denuncia per oltraggio alla religione e alla morale pubblica. [È curioso che al processo, tenutosi in agosto, la requisitoria fu tenuta dallo stesso giudice, Ernest Pinard, che solo pochi mesi prima aveva rappresentato la pubblica accusa contro Madame Bovary, l’altro capolavoro della letteratura francese dell’Ottocento]. Quando si pensa al rapporto Bibbia – Baudelaire vengono subito in mente le tre poesie (Il rinnegamento di Pietro, Abele e Caino, Le litanie di Satana) comprese nella sezione «Rivolta», su cui durante il processo si sono accaniti i censori, che stoltamente leggevano in questi testi un violento attacco contro i fondamenti del cattolicesimo. Mi soffermo su un altro testo, Reversibilità, una poesia del 1853, che Baudelaire scrisse per Apollonie Sabatier (1822-1889), animatrice di un noto salotto parigino, di cui facevano parte, tra gli altri, Theophile Gautier e Gustave Flaubert. Il poeta se ne invaghì, ma di un amore idealizzato e spirituale, vedendo in lei l’incarnazione della perfezione angelica, in opposizione alla “diabolica” Jeanne Duval. Ecco il testo di Reversibilité: [Il titolo fu ripreso dal filosofo Joseph de Maistre, che definiva la comunione dei santi come un tesoro di grazie "reversibili"] Angelo pieno di letizia, conosci l’angoscia, la vergogna, i rimorsi, i singhiozzi, il tedio, e i vaghi terrori di queste orrende notti che stropicciano il cuore come carta sgualcita? Angelo pieno di letizia, conosci l’angoscia? Angelo pieno di bontà, conosci l’odio, i pugni serrati dentro l’ombra e le lacrime di fiele quando la Vendetta batte il suo infernale richiamo e delle nostre facoltà si fa capitano? Angelo pieno di bontà, conosci l’odio? Angelo pieno di salute, conosci le Febbri che, lungo i grandi muri dell’ospizio livido, come esiliati, se ne vanno con passo tardo e labbra tremanti a cercare il sole raro? Angelo pieno di salute, conosci le Febbri? Angelo pieno di bellezza, conosci le rughe, e la paura di invecchiare e questo ripugnante tormento di dire il secreto orrore della devozione dentro occhi in cui a lungo bevvero i nostri occhi avidi? Angelo pieno di bellezza, conosci le rughe? Angelo pieno di felicità, di gioia e di luci, Davide morente avrebbe chiesto la salute agli effluvi del tuo corpo incantato; ma da te, angelo, non imploro che le tue preghiere, Angelo pieno di felicità, di gioia e di luci! Caratterizzato da una costruzione bilanciatissima, a livello sia metrico (cinque strofe di cinque versi ciascuna) sia sintattico (quattro domande senza risposta, seguite da una invocazione), e da un ritmo ripetitivo tipico della preghiera litanica («Angelo pieno di…»), il testo è tutto giocato sulla contrapposizione tra le qualità della donna-«angelo» («letizia», «bontà», «salute», «bellezza», «felicità») e i dolorosi tormenti del poeta («angoscia», «odio», «Febbri», «rughe»), in un rapporto sproporzionato di 1 a 4, che riproduce l’antitesi di fondo tra lo spleen e l’ideale, che è anche il titolo della sezione in cui compare la poesia al numero 44. Solo nella quinta strofa il riferimento all’ipotesto di 1Re 1,1-4 si fa esplicito: la pagina biblica, oggettivamente scabrosa, viene rovesciata in una dimensione di sublimata spiritualità. All’epoca Baudelaire aveva 32 anni anti-Davide («Davide morente avrebbe chiesto la salute»), all’epoca solo trentaduenne, ma già esistenzialmente vecchio, non ha bisogno di essere scaldato; da Apollonie-Abisag egli cerca altre emanazioni, che non sono semplicemente quelle di un corpo caldo, ma di un corpo che, incantato, incanta («aux émanations de ton corps enchanté»), cioè che mette in canto (quindi in poesia) la rinuncia al desiderio fisico e la sua sublimazione. L’angelo delle prime quattro strofe, a cui il poeta si rivolge con il formale «voi» («connaissez-vous»), assume nella quinta strofa le fattezze di una donna (Apollonie) piena «di felicità, di gioia e di luci». A questa donna di mondo, che animava un salotto letterario e aveva diversi amanti, il poeta non chiede l’illusione della salute, ma soltanto le sue «preghiere». Sollecitando l’intercessione di una potenza esterna, l’«angelo» può beneficare il poeta delle qualità di cui lei (o lui?, il vecchio problema del sesso degli angeli!) è l’incarnazione: può scongiurare il suo spleen (ecco la Reversibilità del titolo). I giovani di oggi sono i vecchi di domani. I vecchi di oggi sono i giovani di ieri. È una regola a cui non si sfugge. Il conflitto tra Davide e Saul è fondamentalmente uno scontro tra il giovane rampante e il vecchio declinante. E per l’inesorabile legge del contrappasso, Davide è costretto prima a respingere l’assalto al trono (e al relativo harem) di un giovane pretendente che è anche suo figlio (Assalonne), poi a farsi scaldare da una giovane donna che gli trasmette gli ultimi calori di un passato ormai svanito. È su queste due situazioni che Rainer Maria Rilke (1875-1926), una delle voci più significative della poesia tedesca del Novecento, ci ha lasciato una suggestiva testimonianza. La raccolta Neuen Gedichte (Nuove poesie), pubblicata nel 1907 e nel 1908, viene pensata da Rilke come una galleria di quadri e di statue che il lettore è chiamato a percorrere. In questa ideale galleria d’arte spiccano, subito dopo la “sala” dell’Antichità e prima di quella del Medioevo, i tre quadri biblici veterotestamentari (Abisag, Davide canta davanti a Saul, L’Assemblea di Giosuè) e i tre neotestamentari (La partenza del figliuol prodigo, Il giardino degli ulivi, Pietà). Nella seconda parte dei Neuen Gedichte compare un ciclo di cinque poesie ispirate ai Libri di Samuele (Lamento per Gionata, Consolazione di Elia, Saul fra i profeti, L’apparizione di Samuele a Saul, La ribellione di Assalonne) e altre dedicate a singole figure (Un profeta, Geremia, Ester, Adamo, Eva). Ci limitiamo a leggere la poesia Abisag. I. Giaceva. I servi avevano legato le sue braccia infantili sul corpo del vegliardo; giaceva su di lui lunghe, dolci ore, un po’ paurosa della sua vecchiaia. E a tratti, se strideva una civetta, nella sua barba ella celava il viso; e intorno a lei tutto ciò ch’era notte, desiderio e paura, si addensava. Tremavano simili a lei le stelle, s’aggirava un profumo per la camera, lo sbattere della tenda dava un segno e taciuto il suo sguardo lo seguiva. Ma si teneva stretta al vecchio oscuro e, non raggiunta dalla notte delle notti, giaceva su quel corpo regale che gelava, vergine e leggera come un’anima. II. Per tutto il giorno vuoto il re pensava alle opere compiute, alle gioie non godute, e alla sua cagna di tutte più cara. Ma a sera sopra il suo corpo Abisag s’inarcava. La sua vita confusa come costa insidiosa era deserta sotto i seni di lei, astri tranquilli. E a volte, esperto delle donne, tra le proprie sopracciglia riconobbe la bocca immota senza baci; e seppe: da lei la verga verde del sentire non discendeva fino a lui nel fondo. Rabbrividì. In ascolto come un cane, nell’ultimo suo sangue si cercava. Il testo è diviso in due parti che evocano, liricamente, il punto di vista di Abisag e quello di Davide. Nella prima, le braccia infantili di Abisag intorno al corpo decrepito del re non sono strette per il desiderio di lui, ma perché costrette dai servi (v. 1). La paura suscitata dal potere regale, sia pur avvizzito, assume espressionisticamente i connotati del lugubre verso della civetta (v. 5), delle stelle che tremano (v. 9), dello sbattere di una tenda (v. 11), tutti elementi che spingono la fanciulla a nascondere il suo volto nella barba di lui, in un addensarsi di «desiderio e paura» (Bangen und Verlangen) (v. 6). Impossibilitata a ribellarsi alla sua condizione di coperta umana, Abisag si tiene (co)stretta «al vecchio oscuro» (dunkeln Alten) (v. 13), ma mantenendosi «vergine e leggera come un’anima» (jungfräulich und wie eine Seele leicht) (v. 16), in uno drammatico contrasto con il «corpo regale che gelava» (seinem fürstlichen Erkalten) (v. 15). Nella seconda parte, spicca – suprema ironia! – l’immobilità e il silenzio di Davide. La percezione del suo fallimento, erotico e politico insieme, lo lascia muto e inane. Di giorno può neutralizzare la malinconia pensando al suo cane preferito. Ma di sera (Aber am Abend) le cose cambiano: la sua esistenza, un tempo consapevole e piena, è ora «confusa» e «deserta», mentre i seni di lei, come una costellazione (Sternbild), non gli offrono nessuna rotta da seguire. Sono silenziosi e immobili anch’essi. E il re, che è «esperto delle donne» e ben conosce i sentieri del loro desiderio, capisce dalla sua «bocca immota senza baci» (unbewegten küsselosen Mund) che «la verga verde del sentire», cioè il giovane vigore sessuale di Abisag non potrà essere risvegliato dalla sua carne ormai spenta e gelida. Ecco allora il brivido (Ihn fröstelte). Finale. Definitivo. E come in un tragico cerchio che si chiude, Davide non è più in grado di scaldare il proprio cuore neppure al pensiero del proprio cane. 4. Novecento a. Faulkner Pochi scrittori moderni importanti hanno utilizzato così tante allusioni bibliche, storie e leggende nelle loro opere come Faulkner. Secondo una statistica, le citazioni dirette e indirette della Bibbia sono 379, 183 dall'Antico Testamento e 196 dal Nuovo Testamento. La maggior parte delle sue allusioni alla Bibbia sono incentrate sulle parole e sulla biografia di Gesù Cristo e sulle immagini religiose, come si vede in romanzi come. Tuttavia, nei suoi romanzi (L’urlo e il furore, Luce d’agosto, Assalonne Assalonne! e Go down Moses) più che citazioni bibliche in senso stretto, ci sono immagini, echi, storie e temi biblici. Narra la storia di Thomas Sutpen, figlio d’un povero contadino. Il piccolo Sutpen, insultato da un nero, portiere d’un ricco possidente, giura di raggiungere un alto rango sociale. Se ne va a Haiti, sposa la ricchissima erede d’una famiglia francese, e ne ha un figlio, Charles Bon, ma quando scopre che la moglie ha sangue misto, ripudia lei e il figlio, torna in America e si stabilisce a Jefferson, dove riesce a costruirsi una grande casa e ad acquistare una sterminata piantagione. Sposa in seconde nozze Ellen Coldfield, piccola borghese ma bianca autentica, che gli dà un figlio, Henry e una figlia, Judith. All’università di Mississippi Henry incontra Charles Bon e, non sapendo che è suo fratellastro, lo porta con sé a casa. Judith se ne innamora. Ma, quando il padre, senza darne ragione, proibisce il matrimonio, Henry abbandona i suoi, fugge con Charles, partecipa con lui alla guerra civile e, avendo poi scoperto il segreto dell’amico, l’uccide. Reduce anche lui dalla guerra, Sutpen, vecchio e stanco, seduce la figlia d’un suo servo e viene ucciso dal padre. La maggior parte della storia è narrata dal giovane Quentin Compson all’amico Shrevlin McCannon, ad Harvard, un giorno di settembre del 1910, più di cinquant’anni dopo i fatti. È il racconto della triade costituita da Thomas Sutpen, suo figlio Henry e il suo fratellastro Charles Bon, un triangolo che richiama le figure di Davide, Assalonne e Ammon in 2Sam 13. Come Assalonne uccide il fratellastro Ammon per la violenza commessa su Tamar, sorella di Assalonne, così Henry uccide Charles per prevenire il suo matrimonio incestuoso e misto con Judith, la sorella di Henry. Nell'uccidere Charles, Henry è più una vittima che un assassino, e il suo gesto è motivato dall'amore piuttosto che dalla rabbia o dalla vendetta. Tuttavia, la casa di Sutpen, come quella di David, è condannata a farei conti con le conseguenze del peccato del padre. "Chi dovrebbe pagare se non i suoi figli, i suoi figli, perché non è stato fatto così ai vecchi tempi?» In entrambe le famiglie il fallimento dell'amore finisce con il fratricidio e la guerra civile. b. Carlo Coccioli: il nomade della parola L’intera esistenza di Carlo Coccioli (1920-2003) è trascorsa all’insegna di un nomadismo che è testimonianza di un’insoddisfazione interiore e di un incessante desiderio di ricerca. Un nomadismo che è, al contempo, esistenziale, spirituale e linguistico-letterario. Nato a Livorno nel 1920, partecipa alla Resistenza nelle formazioni di Giustizia e Libertà. Tra il 1949 e il 1954 vive a Parigi. Poi si stabilisce poi a Città del Messico, dove rimane fino alla morte (2003). Coccioli fa parte della stirpe di toscanacci, che sono mangiapreti ma con l’ansia di Dio (pensate a Benigni). Da qui il suo nomadismo spirituale (lui stesso parla di «vagabondaggi teologici») che si manifesta assai precocemente e che da una iniziale e ovvia adesione al cattolicesimo, lo avvicina prima all’islam, poi all’ebraismo (Davide, 1976), poi ancora all’induismo (La casa di Tacubaya, 1982) e infine al buddismo (Piccolo Karma, 1987) che rappresenta l’approdo finale (sempre ammesso che tale definizione sia appropriata per un nomade). Non meno importante del nomadismo religioso è il nomadismo linguistico, che fa di Coccioli uno dei pochi, se non il solo, scrittore italiano in grado di scrivere i suoi romanzi direttamente in francese e in spagnolo, oltre che nella lingua materna. Nonostante questo, Coccioli è rimasto «autore assente» (Pier Vittorio Tondelli), «scrittore alieno» (Carlo Bo), e questo si spiega anche con il clima culturale postbellico, caratterizzato dall’egemonia neorealista e dal monopolio di quelli che Montale (ne Il piccolo testamento) definisce il «chierico rosso o nero», vale a dire la chiesa comunista e quella democristiana, con un Coccioli che risulta troppo credente per gli uni e troppo dissacrante per gli altri. Secondo la sua testimonianza diretta, Coccioli ha concepito l’idea del romanzo Davide, «l’apice della mia vocazione di scrittore», a Firenze nel corso della drammatica alluvione del 1966, lo ha scritto a Città del Messico negli anni successivi e lo ha terminato nell’agosto del 1975 sempre a Firenze. Un lavoro decennale, trascorso in compagnia, oltre che del testo biblico, di autori del calibro di Gershom G. Scholem, Alexandre Safran, André Neher, Abraham Heschel, Martin Buber, vale a dire il meglio dell’esegesi ebraica novecentesca. Il risultato è un testo di 350 pagine, pubblicato nel 1976 dall’editore Rusconi (poi ristampato nel 1989 negli Oscar Mondadori, nel 2009 da Sironi e nel 2012 da Piccolo Karma Edizioni, Milano). Il romanzo è scritto in prima persona e si presenta come un’autobiografia di Davide. Il lettore si trova di fronte a un lungo monologo, vicino al flusso di coscienza. Un monologo, che, tuttavia, è anche un’unica, ininterrotta preghiera a Dio. È un monologo dialogante. Penso non sia fuori luogo parlare di un dialogo amoroso, sul modello dell’Agostino delle Confessioni: qui, come in Agostino, il narratario è il Tu divino. Quindi il Davide di Coccioli è impegnato in un continuo dialogo con Adonai. Ma le parole del suo racconto sono anche un commento narrativo e narratologico al racconto biblico, quasi delle note a piè di pagina, che però si mescolano, costituendone una parte integrante, con il testo coccioliano. In questo modo, il testo biblico e la sua rinarrazione finiscono per sovrapporsi, generando un efficacissimo effetto eco. Coccioli lavora con una conoscenza della Bibbia che non è soltanto lettura ma reinterpretazione. La rievocazione (auto-)biografica comincia a ritroso (analessi o flashback) con Davide, ormai settantenne, scaldato da Abisag la Sunamita, un Davide che «non ha commercio fisico con colei che ufficialmente viene chiamata la sua governante; nessuno però saprebbe dire se è perché io non possa o perché io non voglia» (p. 15); e con Betsabea che trama per difendere gli interessi di suo figlio Salomone («troppo saggio») contro Adonia («troppo bello»), figlio di Aggit. Giunto al termine della sua vita, Davide, a mo’ di bilancio esistenziale, si rende conto che di tutti gli amori della sua vita («non c’è davvero nulla che, con veemenza, io non abbia amato») ne resta solo uno: «non ho mai amato nulla e nessun o quanto Te, neppure Gionata dall’anima attaccata alla mia, Saul le cui crisi placavo con musica e canto, Betsabea carne di giglio, neppure il mio Assalonne appeso all’albero come un bove dal macellaio, perché “dall’alto Egli stende la mano” per prendermi: per amore» (p. 344). Da qui prende il via un tumultuoso racconto, caratterizzato dall’alternanza di sequenze narrative, che riprendono il racconto biblico di 1-2 Samuele, con sequenze riflessive. Nella nota dell’Autore posta al termine del romanzo, Coccioli dice di aver fatto ricorso all’immaginazione solo «quando i testi tacevano» e di aver utilizzato «la Bibbia nell’originale ebraico» (p. 348). In effetti, leggendo il romanzo, non si può che rimanere colpiti dalla profonda conoscenza del testo biblico che Coccioli dimostra di possedere, conoscenza che si traduce nella numerosa e tutt’altro che gratuita serie di riprese intertestuali. Osserva acutamente Giulio Mozzi, che «uno dei compiti che uno scrittore può assegnare a sé stesso è quello di aggiungere libri alla Bibbia. La narrazione è, infatti, prima di tutto ripetizione, ripresa, continuazione» (p. 8). È ciò che fa Coccioli nel suo romanzo. Forse il limite, a ben guardare, è di voler dire troppo, finendo per riempire dei vuoti (le cosiddette ellissi narrative) che sono essenziali per il coinvolgimento interpretativo del lettore. È noto infatti che una delle caratteristiche del narratore biblico è il suo riserbo, dovuto al fatto che il suo «sapere» si sposa con il «sapere» divino che ne costituisce l’origine. Leggendo le pagine di Coccioli, a volte capita di rimpiangere l’essenzialità del narratore biblico. Davide o dell’amore: si potrebbe sintetizzare così il romanzo di Coccioli. Nel ripensare alla propria esistenza ormai prossima alla fine, il re giunge infatti a questa conclusione: «Ogni carne è simile all’erba, la sua magnificenza come il fiore del campo, che si appassisce subito, già non c’è. Ho amato i fiori e le stelle; l’acqua che scorre, la geometria del deserto; la poesia e gli eventi della giornata; la musica, il silenzio. Ho amato l’avvilita maestà di Saul, ho amato Gionata (…) Ho amato la bellezza che ho trasformato in canti (…) Ora non amo che Te, che non si riesce ad amare se non nella misura in cui si cerca di ghermirTi (ma non Ti si ghermisce mai). Non-tempo non-spazio, e ora dico: nonnessuno. Ho sentito però sostenere che a queste tre astrazioni Tu hai tolto il “non” per avere una sede d’incontro: un appuntamento con l’uomo» (p. 21). Come tanti altri personaggi biblici, Davide è alle prese con il misterioso agire di Dio nella storia. Non sono certo Saul e Davide a fare la storia. Al contrario, sono attraversati da essa, perché Dio agisce nella storia prendendo in contropiede le aspettative umane (cfr. 1Sam 16,7). Solo Dio possiede il segreto dei personaggi sui quali è caduta la sua scelta («compresi che ero stato l’oggetto di una scelta di cui ignoravo i criteri»: p. 53). Davide sa che è stato scelto da Dio al posto di Saul (glielo dice Samuele), ma non sa perché Dio abbia rigettato Saul. Soprattutto però, da buon israelita, non capisce per quale motivo Dio vuole che il suo popolo abbia un re, come tutte le altre nazioni. Noi lo sappiamo: Dio lo vuole per far capire al popolo che è stato scelto non per il fatto che è migliore degli altri popoli e che l’elezione non si traduce automaticamentre in una rendita di posizione che garantisce il successo, bensì comporta il gravoso impegno di essere all’altezza della chiamata. In Davide, uomo di fede e uomo di azione, il mistero di Dio va di pari passo con il mistero dell’io. Perciò Coccioli afferma: «sono convinto che in Davide figlio d’Isai, vissuto tremila anni fa in Terra Promessa, non manca nessuna delle frontiere dell’uomo universale ed eterno, e pertanto moderno, del nostro contemporaneo» (Nota dell’Autore, p. 349). È questa in fondo la sfida raccolta da Coccioli. Perché la sua scelta di raccontare Davide mediante la rievocazione autobiografica comporta l’accentuazione dei tratti riflessivi del personaggio, impegnato in una continua interrogazione di sé stesso, un uomo in cui «le domande conturbanti sono più numerose delle risposte capaci di soddisfarle» (p. 120). Ne esce una figura tormentata e scissa, divisa tra sangue e canto, tra guerra e preghiera, tra razionalità e istinto. Di sé egli può dire: «Non vi è mai stato un solo Davide: sempre ce ne sono stati due. […] Ci attribuivano due nomi: Davide intelligenza, Davide istinto. Il primo sfiorava l’angelo, il secondo aderiva quasi all’animale» (p. 35-36). E la moglie Abigail, quella che «mi ha costantemente recato il dono del suo giudizio», afferma che «di Davide ce ne sono due, sebbene essi non siano obbligatoriamente fratelli nemici. C’è il Davide impulso, c’è il Davide ragionamento. C’è il Davide colpo di folgore, c’è il Davide calcolo» (p. 173). Addirittura, Davide arriva a percepirsi come uno e trino: «sono propenso a credere che ai due Davide che mi formavano (mi formano?) se ne aggiungesse talora un terzo: il più segreto, il meno definibile. Alludo al Davide che percepisce le cose nascoste. Piuttosto che Davide, gli occhi dell’anima di Davide» (p. 256). Il drammatico scontro tra Saul e Davide non è tra due uomini, ma tra due misteri: Saul non sa perché Dio lo abbia respinto, Davide non sa perché lo abbia scelto. La linea di separazione tra i due non ha a che fare tanto con la loro personalità, con la loro indole e neppure con le loro capacità, quanto piuttosto con la scelta divina. E Davide coglie ciò con estrema lucidità: «compresi che elezione significa separazione. Separazione uguale a solitudine» (p. 54); «ebbi l’impressione che eravamo soli al mondo (…). Tragica coppia, Saul e Davide già marcavano la storia di Israele, pertanto quella del mondo, e ora so, corrotto a mia volta dalla prossimità della morte e assai rinsavito da essa, ora so che obbedivamo alle leggi paradossali della natura secondo cui tutto è due nelle apparenze, due come Grazia e Potenza, due come maschio e femmina, ma non sono appunto se non terribili apparenze: perché tutto è uno» (p. 57). In definitiva, il Davide di Coccioli si presenta come l’umano attraversato da Dio («Dove pare non ci sia nulla, ci sei Tu: hai la passione del nulla»: p. 178), la cui presenza spesso fa rima con solitudine («Io, il re di Israele, solo con l’anima mia, solo con Te»: p. 224) e non assicura successi umanamente riconoscibili, perché in fondo, come era già capitato a Mosè, anche Davide dovrà fare i conti con «dei Giordani che non varcherà» (p. 77). c. Jopseph Heller Universalmente noto per il romanzo Comma 22 (Catch-22) del 1961, venduto in milioni di copie e diventato un classico di quel filone inesauribile che è la letteratura di guerra, Joseph Heller (19231999) è autore anche di una dissacrante autobiografia del re di Israele intitolata God Knows (Lo sa Dio) uscito nel 1984. Il paradosso narrativo messo in atto da Heller consiste nel far assumere a Davide (narratore interno) lo statuto di narratore extradiegetico e onnisciente: egli sa ciò che succederà, ha una visione completa, è in grado di spaziare nel testo biblico come se l’avesse scritto lui. In questo modo, pur essendo vissuto tremila anni fa, il Davide di Heller diventa un nostro contemporaneo, come in certi quadri in cui i personaggi biblici sfoggiano abiti del Cinque o del Seicento. Da tale discrasia temporale scaturisce un umoristico effetto di straniamento, per effetto del quale, come in una sorta di prolessi a posteriori, Davide è in grado di vedere nel futuro e di anticipare, spesso criticandola, la «storia degli effetti» che nel corso dei secoli lo ha riguardato. Basti qualche esempio. A proposito dei pettegolezzi sul suo rapporto con Gionata afferma: «sono re Davide io, non Oscar Wilde» (p. 36). E della sua elegia per la morte di Saul e Gionata (2Sam 1,1727), dice che, «benché composta in poco tempo, è superiore a quella di Milton per Edward King o di Shelley per la morte di John Keats, che è puro dreck-dreck [escremento] ripugnante, sentimentale» (p. 113). A Betsabea che, per rivendicare il titolo di regina, gli dice di essere la moglie di un re, egli risponde: «La moglie di un re e nient’altro. Dove credi di essere, in Inghilterra?» (p. 101). È in grado di esprimere un giudizio molto negativo sulla statua che di lui scolpirà Michelangelo: «mi ha messo lì non circonciso! Chi cazzo credeva che fossi? Tutto sommato, la statua michelangiolesca di Mosè che sta a Roma assomiglia a me nel fiore dei miei anni più di quanto quella di Firenze mi assomigli in qualsiasi fase della mia vita» (p. 55). L’insediamento nella Terra Promessa non è stato poi un grande affare, visto che «il miele c’era, ma il latte ci toccò portarlo noi con le nostre capre. Al popolo di California, Dio dà una splendida costa, un’industria cinematografica e Beverly Hills. A noi dà della sabbia. A Cannes dà un sontuoso festival del cinema. Noi invece abbiamo l’OLP. Ai popoli che non sanno nemmeno caricare un orologio da polso, dà oceani sotterranei di petrolio. A noi dà l’ernia, le emorroidi e l’antisemitismo» (p. 52). Ma il suo bersaglio preferito rimane Shakespeare, visto come un rivale: «ai miei tempi, un bardo della sua stoffa avrebbe impastato farina per le frittelle nella strada dei fornai di Gerusalemme. Oh, se il mio avversario avesse scritto un libro, anziché quello stufato di caotici drammi in cinque atti, con stupidi intrecci ingombri di corpi caldi e pieni di furia e di strepito e che non significano nulla! A lui uno di questi giorni daranno il Premio Nobel per la letteratura. E io non avrò neanche un libro della Bibbia che porti il mio nome, a meno che non riscriva tutto di mia mano, e chi ce l’ha il tempo?» (p. 168). Tale racconto fuori sincrono della propria vicenda biografica, a cui viene conferita una dimensione universale e trasversale, fa sì che nella rilettura di Heller il Davide biblico si trasformi “umoristicamente” in un intellettuale ebreo newyorkese, un po’ nevrotico, tendenzialmente cinico, ma sempre alle prese con i grandi interrogativi dell’esistenza, Dio su tutti. Il lettore si trova infatti al cospetto di un Davide egocentrico («non mi piace vantarmi – so bene che un po’ mi vanto quando dico che non voglio vantarmi – ma penso sinceramente che la più bella storia della Bibbia sia la mia. Qual è la concorrenza? Giobbe? Lasciamo perdere. Genesi? La cosmologia è roba da bambini»: p. 11). Sboccato (a proposito di Salomone dice: «se avessimo conosciuto allora la parola stronzo, era così che lo avremmo chiamato»: p. 104). Rude («cosa poteva fare un giovane re arrapato com’ero io quando un radioso bocconcino come Betsabea mise in mostra tutto ciò che aveva perché io lo contemplassi quella sera dal tetto della mia regale dimora?»: p. 217). Rancoroso («ho avuto tre padri in vita mia – Isai, Saul e Dio. E tutti e tre mi hanno deluso»: p. 89). Irriverente (tratta spesso Dio come un mentecatto qualunque). Brontolone (si lamenta che Sansone sia stato fatto giudice e che lui invece non abbia neppure un libro biblico con il suo nome, mentre Samuele ne ha ben due, sebbene nel primo muoia e nel secondo non sia neppure nominato: p. 168). Pieno di sé («dove sarebbe finito Shakespeare senza di me? A plasmar mattoni o a far girare una ruota da vasaio. Chi fu che troppo amò non troppo saggiamente? Io e Betsabea o Otello e quella italiana?»: pp. 228-9). Sarcastico («voi credete di aver avuto problemi con i suoceri? Pensate a me che avevo un suocero deciso ad ammazzarmi!»: p. 13). Ciò che è peculiare della riscrittura biblica di Heller è l’opzione stilistica da lui adottata. Chi abbia un minimo di famigliarità con la narrativa americana degli ultimi cento anni non può non riconoscere in Dio lo sa un’atmosfera famigliare che rimanda a Marc Twain, Groucho Marx, Woody Allen, Philip Roth, Mordecai Richler, Jonathan Safran Foer. Sebbene a volte la battuta assuma tratti piuttosto grevi e compiaciuti (questo è in fondo il più evidente difetto del romanzo), l’umorismo del Davide helleriano diventa la modalità espressiva di un uomo che, per quanto stanco di vivere, non si stanca di raccontarsi. Lo fa per rivivere la propria esistenza e togliersi un po’ di sassolini (per non dire dei macigni) dalle scarpe. Oltre al racconto che altri hanno fatto di lui, le rivendicazioni di Davide riguardano la propria famiglia allargata e, soprattutto, Dio. Del resto, secondo Freud, «l’umorismo è il più eminente meccanismo di difesa». Il racconto di Davide si apre e si chiude con un primo piano su Abisag: «rivoglio il mio Dio; e mi mandano una ragazza» (p. 395). Ha bisogno di lei per scaldarsi, mentre – è la sua amara considerazione – «Betsabea si scalda benissimo con le sue ardenti ambizioni per sé e per suo figlio» (p. 236). Betsabea è un’arrivista, assetata di sesso1 e di potere a beneficio del figlio Sal (come chiama Salomone). «Betsabea non è una che dà. È una che prende» (p. 61). Oltretutto, le manca «la disciplina mentale necessaria per dare un minimo di coerenza alle bugie che racconta» (p. 62). Desidera a tutti i costi diventare regina o almeno la regina madre. Inoltre, dice a Davide: «voglio essere nella Bibbia un giorno. Non c’è neanche il nome di tua madre nella Bibbia» (p. 330). Eppure, sebbene a stretto contatto con la bellissima Abisag, Davide è ancora fortemente attratto da lei: «altre donne spengono col nutrirli gli appetiti, Betsabea quanto più soddisfaceva, tanto più affamava» (p. 280). Lei invece «perse tutta la sua lussuria quando abbracciò la maternità e scoprì la sua vera vocazione, lo scopo della sua vita: essere una regina madre» (p. 301). Vuole essere indipendente, tessere, scrivere, dipingere, tanto che – dice Davide – «le procurai uno studio e, se avesse insistito a voler scrivere, le avrei anche fatto avere, prima o poi, quel word processor che cercava subdolamente di farsi regalare» (p. 303). Mical, la prima moglie, è superba e piena di sé, incapace di accettare un betlemita come marito, sempre pronta a criticare le altre mogli di Davide, una bisbetica indomabile, desiderosa di avere un figlio a tuti i costi2. Abigail, la terza, è invece elegante e regale, piena di fascino e di acutezza, compagna fedele, madre di un solo figlio per di più menomato. Ma Betsabea è un’altra cosa: «stava cercando di trasformarsi in una bianca anglosassone protestante! Tra Micol e Betsabea, avevo sposato l’intera gamma. Mi mancava solo una schwartze, ma Achinoam e Maaca erano abbastanza scure per poter passare per tali» (p. 298). Davide individua nell’adulterio con Betsabea il turning point della sua esistenza3. Dopo quell’episodio, deve fare i conti con traumi mai superati: la morte del primo figlio avuto da Betsabea4; la morte di Assalonne, il vero erede – non Adonia né Salomone – designato a succedergli sul trono; e, su tutti, 1 «Betsabea, delle mie tre vere mogli, era quella che esplodeva a letto come una Cananea» (p. 60). «Micol, la mia sposa, non solo era la figlia di un re, ma un’autentica principessa ebraico-americana! Ecco cosa avevo sposato! Ero il primo dell’Antico Testamento cui ne fosse stata appioppata una» (p. 163). 3 «Feci ammazzare Uria per evitare uno scandalo o perché avevo già deciso che volevo sua moglie? Dio lo sa. Il cuore infatti non è solo ingannevole in tutte le cose, è anche inguaribilmente malvagio. Persino il mio. Il pericolo dell’essere re è che dopo un po’ cominci a credere di esserlo davvero» (p. 207). 4 «Dio e io avevamo rapporti abbastanza buoni prima che uccidesse il bambino: da allora ho tenuto le distanze» (p. 23). 2 il silenzio di Dio. Dopo la morte del figlio, infatti, «ero pronto a maledire Dio e a morire. Ma Egli non volle affrontarmi. Non ebbi da Lui alcuna giustificazione, di cui avevo tanto bisogno, della morte di mio figlio. Ottenni invece la risposta che meno mi aspettavo. Il silenzio. È la sola risposta che ho avuto da Lui a partire da quel momento» (p. 324). Assalonne invece, uno che «amava la politica come un’anatra ama l’acqua» (p. 349), in una sorta di crudele contrappasso si comporta con Davide come Davide si era comportato con Saul. Accecato dall’orgoglio e dalla soddisfazione di avere un figlio del genere, Davide non si rende conto del tranello che Assalonne gli sta tendendo. Tempo dopo, Adonia tenta di riprodurre la stessa strategia messa in atto da Assalonne. Né meglio va con la scelta di Salomone: «non ho scelto un figlio invece dell’altro, l’inutile frugale [Salomone] invece dell’inutile superficiale libertino [Adonia] con le maniere di un maestro di ballo e la moralità di una puttana. Se devo essere sincero, non preferivo nessuno dei due. Se devo esse sincero, lo feci per ripicca e lo feci per amore» (p. 388). E così la successione di Salomone viene privata di ogni abbellimento idealizzato, di ogni disegno provvidenziale, riducendosi a una questione di dinamiche familiari. Ma è con Dio che Davide ha un conto aperto. Già il titolo del romanzo è volutamente ambiguo: il «Dio sa» sembra alludere sia al disegno provvidenziale di Dio, alla sua onniscienza, sia al fatto che Dio sa il motivo per cui Davide ha interrotto i rapporti con Lui: prima della vicenda con Betsabea, infatti, «pur non avendo mai “passeggiato” con Dio, Gli ho parlato spessissimo e avevo con lui un eccellente rapporto sino alla prima volta in L’ho offeso; poi Lui ha offeso me, e più avanti ci siamo offesi a vicenda» (p. 15). Da questo momento tra Davide e Dio (uno che «ha la comoda abitudine di riversare sugli altri tutta la colpa dei Suoi errori»: p. 54) si innesca una serie di rivendicazioni e di ripicche, in cui i due protagonisti non si risparmiano colpi bassi. Le parole di Davide non lasciano adito a dubbi: «Dio mi deve le Sue scuse, ma Lui non Si smuove e quindi non mi smuovo nemmeno io. Dio sa che ho i miei difetti, e potrei anche essere uno dei primi a riconoscerli, ma sino a oggi è mia profonda convinzione che come persona sono molto migliore di Lui» (p. 15). E ancora: «Dovrà fare Dio la prima mossa se vuole porre fine a questa tensione che c’è tra noi. Ho i miei princìpi; ho anch’io la memoria lunga» (p. 64). Prima che diventasse re, Dio ascoltava sempre Davide e gli rispondeva. L’ultima volta che gli parla è in occasione della battaglia di Refaim (2Sam 5,17-25). Anzi, da un po’ di tempo Dio non risponde più né a Saul né a Samuele. Quello tra Davide e Dio è uno scontro tra silenzi risentiti. Davide arriva a dire che Dio «non solo ci induce in tentazione ma anche a commettere molti sbagli», salvo aggiungere, a mo’ di chiosa finale: «Dio sa che cosa intendo dire. Mi sento tanto più vicino a Dio quanto più profonda è la mia angoscia. E allora so che mi Si sta di nuovo avvicinando e desidero gridarGli ora ciò che ho desiderato dirGli prima, rivolgendomi al mio Dio onnipotente con le parole di Acab a Elia nella vigna di Nabot: “Mi hai tu trovato, o mio nemico?”» (p. 379). I prossimi Davide La maggior parte degli autori del XX secolo attribuiscono al re Davide una coscienza, ma una coscienza umana, una coscienza profana. Nella sua autobiografia, David diventa il soggetto dei più profondi interrogativi psicologici. Complesso e ambiguo, David non è quasi più religioso. La figura di moderna ha perso la sua pietà. Ma questa umanizzazione del re non è un'occasione per dissacrarlo o ridicolizzarlo. Anche se umano, Davide non smette di interrogarci sulla potenza di Dio e sulla creazione. Note tratte da: C. ANFRAY, s.v. «David», in: S. PARIZET (dir.), La Bible dans les littératures du monde, Éditions du Cerf, Paris, pp. 651-661. L. ZAPPELLA, La vecchiaia del re. Davide Abisag e Baudelaire, Bibbia ieri e oggi 6 (2018), 34-36. L. ZAPPELLA, Giovani e vecchi. Davide, Saul e Abisag nella rilettura di R. M. Rilke, Bibbia ieri e oggi 7 (2018), 32-36. L. ZAPPELLA, I Giordani non varcati: l’autobiografia di Davide, Bibbia ieri e oggi 8 (2018), 33-38. L. ZAPPELLA, Un Davide yankee: Lo sa Dio di Joseph Heller, Bibbia ieri e oggi 9 (2018), 30-34.