Il Capitale culturale
Studies on the Value of Cultural Heritage
rivista annuale
Vol. 1, 2010
ISSN 2039-2362 (online)
ISBN 978-88-6056-261-6
© 2010 eum edizioni università di macerata
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Tipograia San Giuseppe, Macerata
Finito di stampare nel mese di dicembre 2010
«Il capitale culturale», I (2010), pp. 143-148
ISSN 2039-2362 (online); ISBN 978-88-6056-261-6
http://www.unimc.it/riviste/cap-cult
© 2010 eum
Storia (storie?) dell’arte (delle
arti?) e valorizzazione
Pietro Petraroia*
Abstract
La nozione di valorizzazione sembra oggi generare profondo sospetto in chi riconosce
le proprie radici ideali nella percezione di un valore delle opere d’arte indipendente da
fenomeni extra-artistici che possano determinarne la comprensione e la fruizione. In Italia, in
particolare, ha pesato fortemente l’inevitabile confronto con l’idealismo: le radici della storia
dell’arte italiana sono in Adolfo Venturi e Pietro Toesca. Ma la nozione di valorizzazione ha
un fondamento costituzionale e igura nel Codice dei Beni culturali e del Paesaggio: quale
può essere allora l’apporto della storia dell’arte allo sviluppo delle funzioni e delle attività di
valorizzazione? Da molti storici dell’arte la valorizzazione è stata concepita come una sorta
di male minore, in grado di promuovere il patrimonio, i cui valori di qualità resterebbero
però appannaggio di pochi. Nelle politiche culturali di oggi, invece, ci sono due dimensioni
ineliminabili: il riconoscimento di valori culturali sovra-soggettivi e l’impegno a rendere
largamente disponibile l’esperienza culturale come aspetto del welfare.
* Pietro Petraroia, Direttore generale del Consorzio Villa Reale e Parco di Monza, Viale
Mirabellino 2, 20052 Monza, e-mail:
[email protected].
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pietro petraroia
The notion of enhancement seems presently to breed a deep suspect in those who ind
their ideal roots in the perception of the art value as independent of all the extra-artistic
phenomena available for its understanding and use. In Italy, in particular, the Idealism
strongly inluenced: Italian art history origins are represented by Adolfo Venturi and
Pietro Toesca. Anyway the notion of enhancement has a constitutional rationale and is
included in the Cultural Heritage and Environment Law: what may be in this framework
the contribution of art history to the development of enhancement functions and activities?
Many art historians conceived the enhancement as a sort of lesser evil, useful just to promote
cultural heritage while its quality remains perceivable by few experts. Today cultural policies
are made instead of two necessary aspects: the acceptance of super-subjective cultural values
and the commitment to make cultural experience fully available as an element of welfare.
L’accostamento fra storia dell’arte e valorizzazione è incendiario, perché
impone di prendere le distanze da ogni schema preconcetto, di quelli di moda
negli ultimi cinquant’anni. Brandi e Argan già alla ine degli anni Sessanta erano
entrambi convinti che l’arte non è riconducibile a comunicazione di messaggi
o contenuti dati, mentre a noi sembra impossibile che la valorizzazione del
patrimonio artistico non passi attraverso la comunicazione, la socializzazione
delle conoscenze. Ma Argan nondimeno punta ad una deinizione del valore
dell’opera d’arte (e lo stesso sarebbe parlare di paesaggio) come “nodo” in un
sistema di relazioni sia artistiche che extra-artistiche, un nodo che diventa, se
non segno deterministicamente inteso, almeno “sintomo” di un modo di essere,
di produrre, di gerarchizzare le relazioni ed i poteri in un contesto sociale e geoculturale dato.
Non c’è dubbio che l’approccio metodologico arganiano (che qui ho
volgarizzato in modo davvero troppo sbrigativo) risenta da un lato − e in
simultanea − di forti suggestioni idealiste e marxiste, ma di certo persegue con
originalità e grande acutezza una propria via alla ricerca del senso dell’arte
nel rapporto con la realtà concreta della produzione artistica, allontanandosi
dall’interesse per una deinizione “a-priori” dell’arte in quanto tale. In questo,
però, non si sottrae al rischio di una sintesi ancor più generalizzante, quella
che risulta dalla utilizzazione dell’arte come via più di altre immediata (per la
presenza stessa delle “cose d’arte” nel mondo attorno a noi) nell’accesso al senso
complessivo di una civiltà o di uno scenario culturale. Di qui a sostenere che
nell’architettura e nella città sia individuabile l’ambito privilegiato della critica
− per la comprensione “militante”, per dir così, del fenomeno artistico come
della società nel suo insieme − il passo è davvero breve e, nella effettiva realtà
biograica, non può stupire che, al culmine del suo sviluppo di intellettuale e
docente, Argan sia stato sindaco e parlamentare.
Nella sua visione lo stesso funzionario di tutela non può (nel senso etico
dell’espressione) assolvere alle proprie funzioni in posizione di totale “terzietà”,
perché deve, almeno, opporsi ad ogni tentativo di mescolare l’arte (e la città?)
storia, tutela e valorizzazione dell’arte
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con qualsiasi forma di tornaconto economico, in quanto ciò equivarrebbe a
privatizzare il godimento di un bene (l’opera d’arte riconosciuta come tale) che
è intrinsecamente pubblico, come, appunto, lo è la vita della città.
Non sembrerebbe dunque possibile, ponendosi rigorosamente da un punto
di vista brandiano o arganiano (per parlare speciicamente dei due protagonisti
del cruciale momento politico-istituzionale nel quale videro la luce le leggi di
tutela del 1939, particolarmente a me cari per il mio percorso di formazione di
storico dell’arte), immaginare un modo di fare storia dell’arte compatibile con
la produzione di valore non-artistico attraverso la gestione delle opere d’arte:
un valore, cioè, che sia anche economico e perciò non assoluto, non separato
dalla vita, eppure intrinsecamente (antropologicamente) parte dell’esperienza
dell’arte.
In effetti la nozione stessa di valorizzazione sembra generare oggi profondo
sospetto e fastidio in chi riconosca tutte le proprie radici ideali nella percezione di
un valore “ab-solutus” delle opere d’arte, indipendente da fenomeni extra-artistici
che possano determinarne la comprensione e la fruizione in quanto tali.
Un simile atteggiamento di sospetto rischia poi di essere addirittura
inevitabile per chi, alla sequela di Argan, veda nell’indagine sull’arte il metodo
privilegiato per una “critica” militante ad ogni potere che determini, con le
leve dell’economia, il modo d’essere di quell’insieme di valori extra-artistici −
dunque economici, sociali ed antropologici − che connotino l’assetto politico
di una data comunità civile in un determinato contesto geo-storico: valori di
cui le opere d’arte rinserrano il “sintomo”, che il critico-storico dell’arte sa e
deve disvelare. Tanto più, che, come persino un buon crociano avrebbe potuto
ricordarci, la critica è sempre fenomeno di attualità, che concerne il soggetto
nell’oggi del suo determinarsi; e a nulla può valere l’osservazione, fallace, che
la storia riguardi il passato: il passato è in fondo inattingibile per noi, ma il
giudizio su di esso è atto del presente e per il presente. Brecht insegna.
Potrei propormi di trarre a questo punto una prima conclusione: se nel
Codice dei Beni culturali e del Paesaggio (2004-2008) non riconosciamo altro
che un’evoluzione più articolata della normativa del 1939 e poi del 1999, la
presenza in esso della nozione di valorizzazione genera un’insanabile aporia
e ci si dovrebbe comportare come se di essa non vi fosse in realtà alcuna
menzione.
Ma visto che non possiamo ignorare la legge − considerando che la nozione
di valorizzazione ha un solido, seppure ambiguo, fondamento costituzionale −
può allora essere possibile un apporto della storia dell’arte, come disciplina e
come prassi, che sostenga e qualiichi lo sviluppo delle funzioni e delle attività
di valorizzazione? E ancora: è troppo arduo rileggere la costituzione scritta,
per riconoscervi in iligrana un ruolo civile del fare storia dell’arte, che non sia
mera sequenza di giudizi tecnico-discrezionali a supporto della tutela ovvero,
all’opposto, mero esercizio della libertà di critica politica al potere di ogni
tempo?
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pietro petraroia
Penso che sia salutare lasciare aperti i due quesiti (anche se un po’
rudimentali), nella loro possibilità di continuare a provocare la rilessione
e l’innovazione gestionale del patrimonio culturale, afinché non capiti di
cadere in un approccio ideologico e insieme burocratico alle strategie della
valorizzazione: ne risulterebbe vincitrice a mani basse la posizione di chi per
valorizzazione intende cartolarizzazione, cioè monetizzazione. E in questo − ha
davvero ragione Argan − sarebbe la sconitta secca della “pòlis”, dell’idea stessa
di un bene comune, di pubblico interesse.
Nel luire di questa rilessione, che certo non aspira a porsi come conclusiva,
ravviso comunque qualche pista di lavoro sull’argomento.
La prima consiste nel lavorare alla rinuncia “operosa”, per dir così, ad un’idea
apodittica di storia dell’arte. Un approccio apodittico è stato reso possibile e, in
certo modo, legittimato dalla inevitabilità di un confronto (adesione o scontro)
con l’idealismo post-hegeliano, nelle sue molteplici insorgenze, che tanto ha
segnato il Novecento italiano. Importanti apporti ilosoici, dall’esistenzialismo
allo strutturalismo, hanno arricchito direttamente o indirettamente il fare critica
d’arte e soprattutto critica letteraria, ma gli storici dell’arte italiana, in fondo,
riconoscono le loro radici più profonde in Adolfo Venturi e soprattutto in Pietro
Toesca: si tratta di riferimenti alla cui autorevolezza ancor oggi non sapremmo
sottrarci e che precedono largamente tanto l’idealismo quanto la critica sociale
e l’esistenzialismo marxista dei decenni attorno al secondo conlitto bellico.
Sempliicando ancora (troppo), la deinizione di quel che concretamente
accomuna queste personalità di padri fondatori della storia dell’arte nel secolo
XX, al di là delle rimarchevoli differenze, sembra essere in primo luogo il loro
assunto di metodo: giudicare sull’esperienza diretta delle opere d’arte e concepire
le tecnologie di riproduzione già disponibili (disegno, incisione, fotograia, ecc.)
come mero supporto rammemorativo e non artiicio sostitutivo dell’esperienza
diretta del patrimonio culturale; di qui l’importanza dell’istituzione delle scuole
di specializzazione in storia dell’arte per la preparazione ai compiti di tutela del
patrimonio culturale nella sua isicità, con un ricordo della tradizione archeologica
neoclassica. È, questa, la rielaborazione di un’eredità ottocentesca, arricchita
però anche dalla grande rilevanza data alla dimensione territoriale dei fenomeni
d’arte, frutto maturo, a sua volta, della metodologia tardo settecentesca dell’abate
Luigi Lanzi. Sembrerebbe dunque che per fare oggi e nel prossimo futuro storia
dell’arte (anzi, almeno dagli anni ’30 del Novecento dovremmo dire: delle arti)
in un modo che possa interagire produttivamente con le funzioni e le attività di
valorizzazione occorra ripartire da una fase anteriore a Brandi e Argan.
Forse si dovrebbe ravvisare il “nuovo” del Codice dei Beni culturali e del
Paesaggio non tanto nella deinizione di valorizzazione data all’art. 6 (ancora,
a mio avviso, segnata da scarsa esperienza concreta), quanto nell’indicazione
(art. 112, comma 4) che proprio la valorizzazione postula un’attenzione tipica e
caratterizzante alle relazioni territoriali; occorrerebbe accorgersi che l’intervento
pubblico e quello privato nelle azioni di valorizzazione costituiscono distinte
storia, tutela e valorizzazione dell’arte
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modalità dell’operare, ma non ineriscono l’essenza della funzione, che, infatti,
potrebbe esplicarsi attraverso sinergie tra enti pubblici e soggetti privati,
perseguendo comunque una inalità generale di pubblico interesse, sulla base di
una regolazione condivisa dei rispettivi ruoli.
Molto spesso si è ricordato (per esempio seguendo il pensiero di Oreste
Ferrari) che una maestro indiscusso della storia dell’arte italiana come Roberto
Longhi ha sottolineato l’importanza dei “valori di relazione” nel giudizio
critico, che è come dire dei valori non autoreferenziali dell’opera d’arte. Ma
questa suggestiva espressione rischia di rimanere in sospeso e nulla ci autorizza
a farne iperstoricamente fondamento nella deinizione di un ruolo della storia
dell’arte per la valorizzazione. Anzi, se pensiamo, ad esempio, alle posizioni di
Bruno Toscano, la valorizzazione sembrerebbe quasi ridursi al ruolo di male
minore, nel senso che almeno ad essa si riconosce il ruolo di “promuovere”
il patrimonio culturale attraverso l’impulso ad una più estesa sua fruizione e,
dunque, indirettamente, alla sua conservazione: obiettivo che invece sarebbe
stato meglio perseguire sulla base di un condiviso, largo riconoscimento di una
vera “qualità”, di fatto mancante a livello sociale, salvo che in alcune élites.
Se questa è la conclusione del ragionamento, senza dubbio va “in calando”
e si accetta soltanto in mancanza di meglio: la vera storia dell’arte, capace di
riconoscere e far apprezzare la vera qualità, resterebbe patrimonio di pochi
eletti, come ai tempi di Berenson. Per tutti gli altri, però, oggi ci sarebbe almeno
la valorizzazione.
Confesso che questa conclusione mi lascia del tutto insoddisfatto; non per
il suo corrosivo decadentismo (ciò che è godimento di pochi, che siano poco
potenti, è destinato a perdersi per sempre e per tutti), ma perché sembra non
riuscire a tenere insieme due dimensioni che avverto entrambe importanti
ed ineliminabili nelle politiche culturali di oggi: il riconoscimento di valori
culturali sovra-soggettivi, da esplicitare con l’azione del critico e dello storico, e
l’impegno a rendere largamente disponibile l’esperienza culturale come aspetto
irrinunciabile del welfare.
Questa è la vera aporia da sconiggere, riconoscendola solo apparente:
immaginare che la qualità (ad esempio la qualità dell’arte e del patrimonio
culturale in genere) possa essere disponibile solo per pochi privilegiati,
accorgendosi che se ciò accade è perché non si assume pienamente il dovere
di comprendere che la qualità non si riduce all’eccellenza, ma si realizza nella
diffusione dell’eccellenza percepita, proprio come il valore è tale soltanto se è
valore percepito.
Per la storia dell’arte il compito di concorrere alla valorizzazione, intesa come
diffusione dell’eccellenza percepita, non è facile. Anzi, credo sia impossibile se
non si prende coscienza che la storia dell’arte è ormai divenuta un complesso
insieme di iliere conoscitive ed interpretative dell’esperienza culturale: una via
che mi sembra essere oggi senza ritorno, capace di assumere la complessità
antropologica con l’umiltà di rendere possibili e produttivamente coesistenti
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pietro petraroia
approcci di studio distinti, non sempre davvero compatibili o complementari.
Eppure proprio nella irriducibile diversità di essi − come per certi aspetti
avviene nella isica − si fonda non soltanto la reciproca legittimazione rispetto
alla complessità del “reale” (del patrimonio culturale) ma anche la possibilità
di apprestare percorsi ermeneutici e di comunicazione disponibili per accessi
molteplici, dunque afini ad esigenze conoscitive e di esperienza culturale
diversiicate: così si raggiunge forse il maggior numero senza rinunciare alla
ricerca della qualità (delle qualità?). Così, forse, può essere approcciato il
superamento di un élitarismo senza sbocchi, quale oggi trapela spesso nelle
posizioni di difidenza verso i cammini della valorizzazione.
In altre parole, è possibile che l’aspirazione ad una individuazione come
“assoluto” del fenomeno artistico, ovvero, all’opposto, la riduzione di esso al
ruolo di pre-testo per la critica del potere iniscano entrambi con l’esaltare il ruolo
elitario del soggetto conoscente. Se invece si prende sul serio quel forte senso del
patrimonio culturale come “bene di interesse pubblico” che è ben espresso dalla
nostra Costituzione (in armonia con una certa idea di responsabilità sociale
che fa pensare alla Costituzione di Weimar) e che peraltro è stato così caro a
Brandi e ad Argan (come a tanti altri responsabili della tutela “storica”) diviene
più semplice ammettere che possano esservi tanti modi di fare storia dell’arte
e che questa pluralità di metodi costituisca la principale “riserva culturale”
per garantire pluralismo e confronto nel rapportarsi al patrimonio culturale,
nel rispetto, evidentemente, da parte di ciascuno dell’esigenza di preservare il
patrimonio disponibile a tutti gli altri.
Ma un tale pluralismo non è da ridursi a mero “liberalismo metodologico”;
è molto di più, se consideriamo che in realtà permette di curare (vorrei dire:
manutenere nel tempo) il riconoscimento dei legami tra ogni manufatto (opera
d’arte?) ed i contesti geo-storici di riferimento, se ed in quanto li si voglia
considerare, se ed in quanto progressivamente si possa conoscerli nel lavoro
educativo e di ricerca.
La valorizzazione dovrebbe allora consistere sempre più nell’apprestamento
delle condizioni fattuali, operative, che rendano possibile ad un numero sempre
più largo di persone di concorrere a “fabbricare” propri atti di riconoscimento di
valore attraverso molteplici percorsi rammemorativi e, in genere, di conoscenza
e cura della memoria personale e di gruppo.
In questa “factory” del lavoro con e per il patrimonio culturale, il cui
orizzonte spaziale è il territorio delle comunità e della loro storia (storie?),
iniranno inevitabilmente per incontrarsi percorsi creativi e percorsi di tutela,
proprio come negli articoli fondamentali della nostra Costituzione coesistono
l’articolo 4 e l’articolo 9. Né questo dovrà scandalizzarci, come se si trattasse
di contaminazioni pericolose: ché, anzi, dal continuo lavorio nel presente sulla
memoria del passato può dipendere non soltanto il futuro del patrimonio
culturale ereditato dal passato, ma anche la capacità di costruire nuovi orizzonti
culturali, nuovo patrimonio per il nostro futuro, nuova arte.