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Il consumo di carne tra tabu alimentari e scelte individuali

2020

Tesi di Laurea Specialistica in Antropologia Culturale ed Etnologia - Università di Bologna, anno accademico 2018-2019 - discussione del 19.03.2020 Il primo capitolo è dedicato ad una disamina degli studi di antropologia relativi all’alimentazione. Segue un approfondimento di alcuni confronti accademici focalizzati sul consumo di carne, che si dimostra oggetto “buono da pensare” per la disciplina, oltre che per le società osservate: l’analisi dei tabu alimentari relativi alle categorie carnee ha fornito l’occasione per il dibattito e lo sviluppo di alcune prospettive interpretative, tra cui, in particolare, lo strutturalismo e il materialismo culturale. Vengono quindi indagate le connessioni tra i limiti della scelta individuale in relazione al consumo di carne ed i valori ad esso associati nei contesti di precarietà alimentare e nei contesti di abbondanza. Il consumo di carne emerge come tratto socialmente distintivo e contribuisce alla configurazione delle categorie di lusso, etica e sostenibilità. L’ultimo capitolo considera le peculiarità dei diversi contesti produttivi di caccia, allevamento e industria zootecnica. Le indagini etnografiche di questi diversi ambiti rilevano pratiche e valori caratteristici, reazioni di resistenza, compromessi e proposte alternative.

ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA Corso di laurea in Antropologia Culturale ed Etnologia IL CONSUMO DI CARNE TRA TABU ALIMENTARI E SCELTE INDIVIDUALI Tesi di laurea in Antropologia culturale Relatore: Prof.ssa Cristiana Natali Correlatore Prof. Davide Domenici Presentata da: Arianna Greco Appello terzo Anno accademico 2018-2019 INDICE Introduzione........................................................................................................... 3 Capitolo 1. Antropologia e cibo ............................................................................ 5 1.1 La costruzione di un campo d’indagine ............................................................................ 5 1.2 Il panorama contemporaneo .............................................................................................. 8 Capitolo 2. Carne animale: buona da pensare ..................................................... 17 2.1 La carne come chiave di lettura ...................................................................................... 18 2.2 Consumo strutturato: regole collettive di classificazione e di esclusione....................... 28 2.3 Scelte soggettive: limiti, dinamiche e valori ................................................................... 49 Capitolo 3. Produzione, distribuzione e consumo............................................... 67 3.1 La caccia ......................................................................................................................... 67 3.2 Allevamento e macellazione ........................................................................................... 83 3.3 Creare nuove regole ...................................................................................................... 105 Bibliografia ........................................................................................................ 117 Sitografia ........................................................................................................... 129 INTRODUZIONE I sistemi alimentari si snodano a più livelli nella società, contribuendo a plasmarne la struttura e a fornire una base materiale per la creazione di valori ideologici di ampio spettro. L’ambito simbolico influenza le scelte individuali e i gusti collettivi, che a loro volta guidano la trasformazione delle pratiche in cui la normativa si concretizza. Tra i vari alimenti, la carne e la sua produzione pongono specifici interrogativi e problemi: il rapporto con il mondo della natura e con quello animale viene espresso nelle pratiche di consumo e produzione, i costi e le preferenze si modellano sulla base della stratificazione sociale e, a loro volta, contribuiscono a rafforzare identità e alterità. L’antropologia dell’alimentazione è in continua crescita e il primo capitolo di questa tesi ripercorre sinteticamente i punti focali su cui si sono concentrati gli studi. L’approfondimento di alcuni confronti accademici relativi ai valori associati al suo consumo, dimostra che la carne è un oggetto “buono da pensare” sia per la disciplina, che per le società protagoniste di queste indagini. Rileggere ed accogliere le suggestioni e le riflessioni dei classici della disciplina consente di arricchire la prospettiva con cui affrontare un ambito che necessita di un approccio aperto e multidisciplinare, che sappia andare al di là delle opposizioni, per restituire la complessità della materia trattata. L’analisi dei tabu alimentari relativi alle categorie carnee ha fornito una proficua occasione per il dibattito e lo sviluppo di alcune prospettive interpretative, tra cui, in particolare, lo strutturalismo e il materialismo culturale. Lo studio delle connessioni tra i limiti della scelta individuale rispetto alla disponibilità effettiva ed i valori associati al consumo di carne ha evidenziato le distanze e le continuità presenti nei contesti di precarietà alimentare e nei contesti di abbondanza. Il consumo di carne emerge come tratto socialmente distintivo e contribuisce alla configurazione delle categorie di lusso, etica e sostenibilità. La carne si dimostra un gustema protagonista del linguaggio alimentare, sia nella sua celebrazione che, in negativo, nella condanna e nel rifiuto. I diversi contesti produttivi di caccia, allevamento e industria zootecnica presentano peculiarità e similitudini, spazi di sovrapposizione e compromesso che sono stati, talvolta, dimenticati nel corso della storia. Si tratta di una memoria che sarebbe utile recuperare per valutare consapevolmente le scelte compiute e quelle da pianificare nel futuro, sia a livello individuale che comunitario. Le indagini etnografiche di questi diversi ambiti rilevano pratiche e valori 3 caratteristici, reazioni di resistenza, compromessi e proposte alternative, in una continua rinegoziazione della normativa e in un inevitabile sincretismo nelle pratiche attuate. 4 CAPITOLO 1. ANTROPOLOGIA E CIBO Lo studio del cibo e delle pratiche alimentari è diventato un argomento molto diffuso in ambito antropologico nel XXI secolo, ma queste tematiche sono state presenti sin dagli albori della disciplina. La forza dell’antropologia risiede nello studio della vita quotidiana, delle situazioni ordinarie e degli aspetti delle interazioni umane che sono solo all’apparenza privi di problematicità, rispecchiando invece complessi universi materiali e simbolici. Quella alimentare è un’imprescindibile necessità biologica, la cui risposta è sempre stata culturalmente formulata, elaborando diversi modi di produzione, conservazione, preparazione e consumo ed associando valori simbolici alle tecniche ed ai prodotti così generati. Il sistema alimentare coinvolge l’intera struttura socioeconomica, pertanto gli antropologi hanno avuto inevitabilmente a che fare con il cibo e con tutto ciò che vi è correlato sin dalle prime ricerche del XIX secolo. Da allora è diventato sempre più evidente che le pratiche alimentari costituiscono un importante ambito di studi, ormai divenuto abbastanza maturo da servire come veicolo per l’esame di diversi problemi teorici e metodologici (Klein, Watson, 2016; Mintz, Du Bois, 2002; Seppilli, 1994). 1.1 La costruzione di un campo d’indagine L’etnografia classica abbonda di descrizioni di approvvigionamento, di produzione e scambi alimentari, di meccanismi dell’ospitalità e dell’uso di cibi e bevande in ambito rituale e simbolico. Il cibo riflette il calore dei legami umani, la forza della parentela; il suo consumo rivela gerarchie, stratificazioni, distanze di genere, differenze di classe, divisioni politiche, discriminazioni razziali ed etniche (Klein, Watson, 2016). Tra le prime rilevanti testimonianze dell’interesse antropologico per il cibo e le pratiche alimentari, dalla fine del XIX secolo sino a metà del XX secolo1, possono essere citate le riflessioni di William Robertson Smith (1889) sull’influenza del cibo nella creazione di legami tra i fedeli, il saggio di Mauss (2002) dedicato allo scambio di doni, lo sviluppo del concetto di area culturale di Boas, lo studio della struttura sociale della cosmologia dei nuer di EvansPritchard (1940), la ricerca delle strutture del linguaggio alimentare di Lévi-Strauss (1999, Per una sintetica panoramica degli studi di antropologia dedicati all’alimentazione di questo periodo v. Goody, 1982, Mintz, Du Bois, 2002, Di Renzo, 2010, Sutton, 2010, Franceschi, Peveri, 2014, Klein, Watson, 2016, Koensler, Meloni, 2019. 1 5 2001, 2004, 2008, 2015). Tra gli altri, viene sottolineato il pioneristico lavoro di Audrey Richards del 1932, Hunger and Work in a Savage Tribe, considerato la prima etnografia rappresentativa dedicata ai temi dell’antropologia e della nutrizione, condotta attraverso una serrata osservazione partecipante e caratterizzata dalla multidisciplinarità che, ancora oggi, è tratto distintivo degli studi sul cibo. Malinowski stesso riconobbe all’allieva Richards il merito di affrontare in maniera approfondita quelli che allora erano considerati temi poco esplorati: le funzioni sociali e culturali dei processi nutritivi (Goody, 1982; Franceschi, Peveri, 2014). Lo studio dell’alimentazione ha dimostrato nel tempo di essere una vena importante per il dibattito sui relativi meriti del materialismo culturale e storico rispetto alla spiegazione simbolica o strutturalista del comportamento umano. Secondo Klein e Watson (2016), tuttavia, l’antropologia dell’alimentazione è in molti aspetti un nuovo campo di studi. La dieta è sempre stata considerata come una dimensione chiave della salute, dell’adattamento e dell’evoluzione dell’uomo; come basilare necessità della vita umana, il cibo è stato a lungo riconosciuto come la pietra fondamentale della cultura e dell’organizzazione sociale. Nonostante ciò, per molto tempo nell’ambito accademico il cibo e le pratiche alimentari sono rimasti confinati ai margini della ricerca, rientrando solo raramente tra gli argomenti principali dei corsi universitari dei dipartimenti di antropologia prima degli anni Novanta. I pionieri in questo campo, come per esempio Mary Douglas (2005), Kwang-chih Chang (1977), R. S. Khare (1986), Sidney W. Mintz (1985), Marvin Harris (1990), Arjun Appadurai (1988) o Jack Goody (1982), si erano resi noti ed avevano costruito le proprie credenziali in altri ambiti prima di dedicare una specifica attenzione allo studio dell’alimentazione (Klein, Watson, 2016). 1.1.1 Verso il cambiamento delle prospettive Nel riflettere su questa relativa marginalità, Di Renzo (2010) spiega che prima della svolta avvenuta intorno agli anni Ottanta il discorso sul cibo rappresentava una tipologia del sapere di serie B, apparteneva ad una dimensione fatua, e chi vi si interessava a livello accademico, non affrontandolo solo incidentalmente, ma facendone il proprio oggetto focale, doveva in qualche modo giustificarsi per questo interesse, rischiando ostracismi, biasimi e disconoscimenti. Di Renzo richiama Sassatelli (2004) nel ricondurre questa situazione al pregiudizio, diffuso all’epoca, secondo cui tutto ciò che apparteneva al quotidiano, alla sfera domestica ed al lavoro femminile fosse da ritenersi scientificamente privo di significato (Di Renzo, 2010; Sutton, 2014). 6 A partire dalla fine degli anni Settanta alcuni eventi hanno contribuito al cambiamento di prospettiva, non solo in ambito accademico, ma anche nella cultura diffusa. Grazie al boom economico è stata chiusa, almeno per la maggior parte della popolazione, l’epoca della precarietà alimentare in Occidente e non è più stato necessario pensare al cibo principalmente nei termini di una necessità da soddisfare; le pratiche alimentari hanno così guadagnato lo status di oggetto su cui riflettere in termini nuovi, meritevole di approfondimento accademico da affrontare con rigore scientifico in vari settori disciplinari (Teti, 2015). Sono emersi in quel periodo anche gli studi che hanno contribuito alla creazione e alla diffusione del concetto di “dieta mediterranea” (Teti, 1999; Montanari, 1999), che hanno generato dibattiti nel mondo accademico ed in quello industriale, “scardinando in pieno benessere alimentare il mito della bistecca e rivalutando quello ipocolesterolico della pastasciutta” (Di Renzo, 2010: 2). Si sono diffusi i paradigmi post-modernisti che hanno mirato a rifondare l’epistemologia del sapere su basi umanistico-interpretative, rinunciando agli obiettivi di razionalismo scientifico propri del formalismo, del marxismo, dello strutturalismo e del materialismo culturale, rimettendo in discussione il ruolo degli autori, la possibilità stessa di redigere testi veritieri e di produrre conoscenza scientifica (Franceschi, Peveri, 2014). La crescita degli studi dell’alimentazione è stata influenzata anche dai processi di globalizzazione e dalla generale influenza delle società occidentali, in cui si è consolidato un crescente cosmopolitismo (Mintz, Du Bois, 2002). Diverse pubblicazioni si sono concentrate su questo tema nel corso degli anni Ottanta. Secondo Klein e Watson (2016), per la definitiva dimostrazione che si tratta di un’efficace chiave di lettura della vita moderna hanno fatto da cardine due importanti monografie: Sweetness and Power. The place of sugar in Modern History, pubblicata da Mintz nel 1985 e Cooking, Cuisine and Class. A Study in Comparative Sociology, pubblicata da Goody nel 1982, considerata anche da Mintz e Du Bois (2002) come un punto di svolta per questo genere di studi. In entrambi i casi gli autori sono andati oltre il dibattito tra simbolismo e materialismo ed hanno esplorato la relazione tra potere, significato e pratiche materiali, mediante ricerca storica ed etnografica, indagando le connessioni transnazionali che modellano le relazioni sociali e le esperienze quotidiane individuali e comunitarie, attraverso i sistemi di produzione, distribuzione e consumo di cibi e bevande, i meccanismi di comunicazione e quelli di formazione del gusto ad essi correlati. Franceschi e Peveri (2014) richiamano anche l’opera di Mary J. Weismantel del 1988, Food, gender and poverty in the Ecuadorian Andes, come altro caso esemplare di superamento della 7 visione dicotomica spaccata tra interpretazione simbolica e approccio materialistico che aveva caratterizzato il dibattito teorico sino a quel momento. L’attenzione è focalizzata sul mondo femminile e sulle relazioni di potere che si instaurano tra le donne e tra donne e uomini per mezzo del cibo, che diventa un testo che l’etnografo può maneggiare e leggere, per comprendere la vita quotidiana, che “si dà in questo testo come una sequenza di segni carichi, che risuonano di significati sociali e stratagemmi ideologici” (Franceschi, Peveri, 2014: 22). 1.2 Il panorama contemporaneo Dagli anni Novanta il cibo e le pratiche alimentari hanno assunto un ruolo di rilievo degli studi antropologici, con una proliferazione di articoli e saggi pubblicati in riviste ed antologie, anche di altri settori disciplinari. Nel tracciare lo stato dell’arte di questo settore di ricerca nel 2002, Mintz e Du Bois notavano che le pubblicazioni più corpose, di tipo monografico, erano ancora rare; tuttavia, erano state collazionate diverse raccolte dedicate alle pratiche alimentari di specifiche regioni. 1.2.1 Traiettorie di ricerca Molte ricerche sono state effettuate focalizzando l’attenzione sui singoli alimenti, sulle piante o gli animali che hanno avuto una storia o un ruolo particolare per una regione o una comunità. È questo il caso del già citato volume di Mintz (1985) dedicato allo zucchero. Uno dei primi esempi di questo genere di analisi è quello dedicato alla patata da parte di Salaman, History and Social Influence of the Potato, pubblicato nel 1949, cui sono seguiti molti altri, sia di impronta più marcatamente storica, che di più ampio respiro, ripercorrendo le tracce dei singoli cibi nel mercato globalizzato ed evidenziando il cambiamento sociale e culturale che traspare dalle trasformazioni delle pratiche alimentari (Mintz, Du Bois, 2002). Seguire i percorsi del cibo significa seguire i percorsi delle persone, le diaspore, le migrazioni, dalle più antiche alle più recenti. Ricostruire la storia della diffusione di una pianta o di un animale offre l’occasione per una riflessione sulla tradizione, la memoria condivisa, i sistemi di classificazione e tassonomia in uso presso una popolazione. L’analisi del consumo della carne, in particolare quella del maiale e dei bovini, ha offerto numerose occasioni di riflessione, a partire dal dibattito tra sostenitori del simbolismo strutturalista e quelli del determinismo tecnico-ambientale, fino alle più recenti indagini in ordine al consumo della carne in particolari contesti, come fiere o 8 occasioni rituali, che offrono l’opportunità di soddisfare necessità di equilibrio sia ambientale che sociale (Koensler, Meloni, 2019). L’occasione di approfondire lo studio di un singolo alimento è stata fornita anche da particolari ricorrenze. Nel 1992, per esempio, il Cinquecentenario dello sbarco di Cristoforo Colombo nel continente americano ha stimolato l’attenzione sugli alimenti che si sono diffusi globalmente a partire dal 1492, movimento identificato come “scambio colombiano” proprio in rapporto al navigatore genovese2 (Fournier, 2002; Montanari, 1993; Teti, 2007). Molte ricerche sono state dedicate all’ingresso dei nuovi alimenti in entrambe le direzioni: dal Nuovo al Vecchio mondo e viceversa. Le trasformazioni gastronomiche dovute all’acquisizione di nuove colture in alcuni casi sono state epocali, fino alla creazione di piatti divenuti tipici delle cucine nazionali: in Italia basta pensare alla pizza o alla polenta, come preparazioni, o al peperoncino calabrese come singolo alimento che contraddistingue il sapore della cucina locale (Teti, 2007). Le assimilazioni e le appropriazioni dei nuovi cibi non sono necessariamente immediate: spesso trascorrono anni o decenni prima che un alimento venga assorbito dalle tradizioni locali, come è successo per esempio per la patata, la cui diffusione in Europa è stata ostacolata dal fatto che i tuberi delle prime generazioni erano di scarsa qualità e che, inizialmente, la patata era stata suggerita come prodotto utile per la panificazione (Montanari, 1993). Il Vecchio mondo però non comprende solamente l’Europa, ma anche il resto del continente euroasiatico e il continente africano, anch’essi coinvolti nello scambio di piante, animali e pratiche alimentari: numerosi sono i cibi e le preparazioni che dall’America hanno raggiunto la Cina e l’Africa e quelli che invece, in direzione opposta, si sono diffusi nel territorio americano, in diversi tempi e modi, a partire dalle cucine meticce create a seguito dell’occupazione dei primi conquistadores (Fournier, 2002), sino alle cucine, come quella creola, nate dalla fusione delle tradizioni locali con quelle portate nel corso dei secoli dagli schiavi provenienti dall’Africa, come ha sottolineato Mintz (2007) in una recente lezione magistrale dedicata alle intersezioni tra alimentazione e diaspore3. 2 Il termine (in inglese, Columbian Exchange) venne coniato dallo storico Alfred W. Crosby (1972) in occasione della pubblicazione dei suoi studi dedicati allo scambio di piante, animali e malattie tra il continente americano ed il resto del mondo a partire dallo sbarco di Cristoforo Colombo nel 1492. 3 In occasione dell’inaugurazione dei nuovi centri di ricerca dell’istituto SOAS University of London, The SOAS Food Studies Centre e The SOAS Centre for Migration and Diaspora Studies, in data 11.10.2007, Sidney W. Mintz ha tenuto una lezione magistrale dal titolo “Food and Diaspora”, la cui registrazione è stata successivamente pubblicata online sul relativo canale YouTube dell’istituto. La lezione di Mintz ha inaugurato il ciclo di lezioni magistrali che il SOAS Food Studies Center ha successivamente proseguito, rendendo disponibili alcune delle registrazioni video online e stringendo una collaborazione per la pubblicazione editoriale con la rivista Gastronomica: The Journal of Critical Food Studies, che dal 2014 ha co-sponsorizzato gli eventi. Un elenco delle lezioni è disponibile all’indirizzo: https://www.soas.ac.uk/foodstudies/forum/lectures/index.php?showprevious=1 (ultima consultazione 15/02/2020). 9 I processi migratori, i cambiamenti sociali, economici e politici, sono inevitabilmente causa di cambiamento dei sistemi alimentari. Talvolta è invece dalla trasformazione del sistema alimentare che si genera il cambiamento sociale. Gli antropologi hanno dedicato attenzione ad entrambi i processi e, in particolare, un fertile campo di indagine è quello relativo ai processi di industrializzazione, che hanno modificato il panorama alimentare, sociale ed economico di vaste aree. Alcune ricerche hanno mostrato che la macellazione industriale negli U.S.A. è una eccezionale tipologia di industrializzazione, il cui prodotto è una carne che incorpora processi di violenza e sfruttamento, generando nuovi costrutti culturali e simbolici, trasformando non solo i corpi degli animali, ma anche quelli dei lavoratori impiegati nei vari livelli della produzione, che con la crescente diffusione dei modelli integrati verticalmente coinvolge in maniera sempre più coercitiva sempre più individui. Vi sono poi da considerare l’impatto sull’ambiente e sull’urbanizzazione, inevitabilmente trasformati dalla presenza delle industrie agro-alimentari. L’analisi di questo particolare tipo di industrializzazione ha reso evidente la necessità di adottare un particolare approccio etnografico, di riconsiderare le cautele metodologiche da mettere in atto, generando interrogativi di natura etica e deontologica (Blanchette, 2018). 1.2.2 Forme di precarietà Altri soggetti di indagine pongono analoghe sfide in ordine ai metodi di ricerca, in particolare quando le scelte alimentari sono pregne di valore politico. È il caso, per esempio, degli studi condotti in aree in cui la fame è ancora all’ordine del giorno e in cui le politiche di assistenza e di promozione allo sviluppo vengono introdotte, anche in ambito alimentare, con diversi gradi di successo o difficoltà (Macbeth e J. MacClancy, 2016; Murcott, Belasco, Jackson, 2013). Ancora più problematico è il caso delle situazioni in cui è la guerra a fare da agente delle trasformazioni alimentari (Mintz, Du Bois, 2002). La precarietà e l’insicurezza alimentare sono spesso declinate insieme ad altri temi, come la diseguaglianza di genere, la gestione del rischio da parte dei lavoratori agricoli, gli effetti della rivoluzione verde, la polarizzazione delle classi rurali, le problematiche connesse alle epidemie infettive o alle condizioni sanitarie delle aree sovraffollate. La fame è protagonista della vita presente e della memoria recente di tanta parte dell’umanità: ha plasmato la storia e il pensiero, ha informato la narrativa e la gastronomia ed anche laddove non è più una minaccia impellente è possibile ripercorrere le tracce della sua presenza nelle pratiche alimentari che hanno avuto origine dalle continue sperimentazioni finalizzate al superamento delle sfide poste dalla scarsità 10 alimentare. Attraverso tali indagini emergono stratificazioni sociali, costruzioni simboliche, strategie di gestione del territorio, ruoli e disparità di classe e di genere (Koensler, Meloni, 2019; Mintz, Du Bois, 2002; Montanari, 1993). L’insicurezza alimentare non si traduce necessariamente in assenza di cibo tout court: viene intesa altresì come mancanza di accesso a cibi considerati salutari. Alcuni tipi di pratiche correlate allo status economico stanno attirando una crescente attenzione, anche in ambito medico (Poulain, 2008): il consumo di cibi a basso valore nutrizionale, ma ad alto tasso calorico, accompagnato da un aumento delle malattie collegate all’alimentazione, quali obesità, diabete, disturbi cardiovascolari, già problematico nei paesi occidentali, si sta diffondendo nel resto del mondo, anche nei paesi più poveri, in una progressiva integrazione e sostituzione delle diete tradizionali. Si tratta generalmente di alimenti di fattura industriale, prodotti massivamente e commercializzati su larga scala, destinati principalmente al consumo quotidiano da parte delle fasce meno abbienti della popolazione, generando l’apparente paradosso della concomitanza di povertà e obesità (Teti, 2015; Cuturi, 2014). 1.2.3 Nuove categorie La diffusione del cibo prodotto industrialmente è stata analizzata anche in relazione alla risposta crescente di stampo opposto ma, in un certo senso, complementare, dei produttori artigianali, concretizzata nella promozione dell’idea di cibo locale, biologico, fatto a mano e in maniera tradizionale, o perlomeno rivendicata come tale, generalmente contraddistinto da un prezzo superiore a quello del corrispettivo di tipo convenzionale, qualora esistente. In un dialogo condotto in occasione dell’Expo del 20154, Augé, Fabietti e Bargna affrontano questa dinamica inquadrando i due poli dell’antitesi, cibo industriale a basso costo e cibo artigianale, come due espressioni dello sviluppo capitalistico in competizione e complementarietà al tempo stesso: la produzione industriale di massa in serie, da un lato, e la produzione riconducibile ai modelli promossi da associazioni come Slow Food, destinata ad un mercato che vuole presentarsi in maniera più diversificata, con un’attenzione maggiore al consumo individuale, all’esperienza sensoriale del gusto. Secondo Augé, il culto della gastronomia si diffonde in parallelo ed in contrasto allo stesso tempo con la produzione In occasione dell’allestimento dell’Expo 2015 a Milano, la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha invitato vari studiosi ed intellettuali ad esprimersi sul tema dell’alimentazione. Gli interventi sono stati registrati e successivamente pubblicati online sul canale YouTube ufficiale della Fondazione. La conversazione tra Fabietti, Bargna e Augé è avvenuta a seguito della Lecture “Alimentazione e globalizzazione. Le vie del cibo tra Mac Donald e Slow Food” tenuta da Augé nella stessa sede. 4 11 industriale di massa, ma con destinatari diversi, dato che la maggior parte delle persone non si possono permettere di adottare il modello più caro, anche se è quello che viene ormai presentato come il più sano (Augé, Bargna, Fabietti, 2015). I due fenomeni complementari corrispondono a due situazioni sociali diverse: l’espressione fast-food si fa metafora per tutto ciò che viene ricompreso nel modello della grande distribuzione, del consumo rapido, frettoloso, dei cibi pronti che fanno parte del quotidiano di chi spende poco tempo, e non solo pochi soldi, per la propria alimentazione; il concetto di slowfood, a sua volta, viene declinato in una maniera che supera i confini del movimento omonimo, per ricomprendere in senso più generale la promozione della consapevolezza delle scelte, la ricerca più raffinata, l’attribuzione di valori aggiunti a certi cibi, in relazione alla loro provenienza o alla loro preparazione. Il recupero della tradizione sconfina talvolta nella rielaborazione di lusso di pietanze che un tempo erano considerate povere, oppure nella resurrezione di alimenti che erano stati da tempo abbandonati, tanto da essere stati dimenticati ed esclusi dalla tradizione stessa, fino a sembrare “più il fantasma della località piuttosto che la sua riattivazione reale” (Augé, Bargna, Fabietti, 2015; cit. di Bargna, minuto 7.32). La tradizione viene pertanto di fatto reinventata, tramite minuziose normative che regolamentano nei dettagli ciò che può appartenere a questo genere di produzione. La costruzione e ricostruzione dell’identità locale, etnica o nazionale passa anche dalla tavola, che a sua volta viene codificata attraverso la realizzazione di contenuti mediatici di vario genere, dalla pubblicazione di manuali e ricettari, alla promozione di programmi televisivi. Parlare e scrivere di cucina etnica o nazionale può contribuire alla sua solidità e coerenza concettuale. A sua volta, l’idea di una tradizione gastronomica fornisce concretezza all’idea di una identità nazionale o etnica (Mintz, Du Bois, 2002). Il concetto di cibo locale, l’associazione degli alimenti ad un dato spazio, la costruzione semantica di un luogo tramite l’alimentazione, sono oggetto di molti recenti studi antropologici (Beriss, 2019; Teti, 1999; Di Renzo 2010; Koensler, Meloni, 2019). Uno dei concetti chiave per questo genere di riflessioni è quello francese di terroir, adottato per indicare l’insieme dei fattori ambientali di una determinata zona che concorrono a determinare un gusto. Originariamente associato alla produzione vinicola, è un concetto oggi applicato alla produzione alimentare in senso più ampio per associare sapori e luoghi, anche in relazione alla classificazione e alla codifica giuridica dei sistemi di certificazione territoriale. La qualificazione dei cibi in ordine al gusto e in ordine ai luoghi d’origine contribuisce alla formulazione di risposte di resistenza alla globalizzazione, allo sviluppo di alternative al 12 sistema economico capitalistico, alla promozione del legame con il territorio e alla riappropriazione di spazi, sia materiali che simbolici. Attraverso il concetto di cibo locale si alimentano identità locali, incorporate non solo nelle produzioni artigianali, ma anche nei consorzi costituiti a difesa e promozione di tali prodotti, nelle sagre e negli eventi organizzati ai fini della celebrazione dell’identità riformulata in tali termini, nei musei dedicati all’esposizione sistematica e alla conservazione di questo patrimonio recuperato o re-inventato. Intorno all’idea di cibo locale sono state rielaborate semanticamente le aree di definizione di altri concetti. Ad esempio, facendone parole chiave della campagna di marketing dell’associazione Slow Food, Carlo Petrini (2005) ha contribuito a ridefinire le idee relative a ciò che è “giusto”, “pulito” e “buono” in ambito alimentare, andando oltre la valutazione puramente gastronomica o igienica, declinando tali termini in ordine alla politica, alla biologia, all’economia (Koensler, Meloni, 2019; Teti, 2015; Lee, Scott, Packer, 2014). Sono state alterate anche le valutazioni economiche relative ad alimenti e preparazioni, fino alla trasformazione dell’idea del bene di lusso: la concettualizzazione degli alimenti come marcatori di classe sociale è derivata proprio dalla antieconomicità e dal consumo selettivo (Di Renzo, 2010; Douglas, Isherwood, 1984). Il marketing di questo genere di prodotti fa leva su dicotomie ed associazioni simboliche più o meno marcate, concorrendo alla costruzione di un nuovo vocabolario dedicato alla descrizione di realtà inedite (Karrebæk, Riley, Cavanaugh, 2018). 1.2.4 La grammatica del cibo Molti studi antropologici sono stati dedicati all’interazione tra cibo e linguaggio (Sutton, 2010; Karrebæk, Riley, Cavanaugh, 2018). La lingua ha un ruolo chiave nella costruzione, valutazione, mediazione e definizione delle pratiche alimentari, che a loro volta forniscono struttura per il linguaggio. I discorsi sul cibo sono costruiti socialmente e molte delle occasioni di formulazione concettuale e di dibattito su tali argomenti sono fornite nel quotidiano dai pasti consumati in compagnia di familiari o amici. In queste circostanze si valuta e si forma il vocabolario personale con cui si parla di cibo e viene spesso effettuata la trasmissione dei valori ad esso associati. I pasti domestici assumono diverse forme, in funzione dell’orario del giorno e dei partecipanti, che a loro volta variano anche a seconda della situazione, dal pasto quotidiano all’occasione straordinaria, come possono essere anniversari o festività (Douglas, 1985a). I pasti domestici sono stati da sempre oggetto di attenzione della ricerca etnografica e continuano ad essere un’importante fonte di interesse anche oggi. In particolare, il pasto consumato in famiglia è 13 l’occasione in cui si creano e si solidificano i rapporti sociali tra i membri del gruppo familiare, in cui si forma la competenza alimentare delle nuove generazioni, in cui emerge la disparità di genere e la distanza tra le classi anagrafiche, oltre che quella tra le classi economiche. La preparazione delle pietanze, prima ancora del loro consumo, è una delle occasioni di condivisione e trasmissione della memoria e delle competenze da una generazione all’altra, nonché uno degli ambiti di formulazione ed espressione delle identità di genere. Lo spazio destinato alla cucina, la tecnologia coinvolta, la produzione editoriale relativa a questa attività sono stati oggetto di riflessione antropologica. Sutton rileva che in ambito accademico l’indifferenza nei confronti della specifica attività di cucinare sia stata ancora maggiore di quella generalmente dimostrata nei confronti dell’alimentazione in generale (Sutton, 2014). Quando il movimento femminista ha messo in discussione la distinzione tra pubblico e privato, mostrando come tale separazione non restituisse la fluidità della vita reale delle persone, la cucina e ciò che accadeva al suo interno è diventato meritevole di attenzione. La cucina è stata esaminata come luogo di oppressione di genere e razza e allo stesso tempo come luogo in cui poter esprimere la propria agency, come spazio per generare commentario sociale e trasmettere storie personali e familiari. 1.2.5 Gusto e memoria Attraverso le pratiche alimentari viene trasmessa la memoria individuale e collettiva, incorporata nei sapori che vengono creati, riproposti, modificati, immaginati, ricordati con nostalgia o elevati a simbolo identitario. Le sfumature del gusto sono protagoniste anche nella costruzione delle qualifiche geografiche del cibo locale, contribuendo alla naturalizzazione di categorie culturalmente definite, mascherandone l’artificialità (Sutton, 2010; Karrebæk, Riley, Cavanaugh, 2018). L’antropologia del gusto e dei sensi si è dedicata all’esame delle distinzioni e dell’incorporazione delle classificazioni e delle gerarchie socialmente costruite, delle intersezioni tra il cibo e la percezione sensoriale, non solo in termini di sapore, ma considerando l’esperienza percettiva in senso integrale, includendo vista, olfatto, tatto e udito (Sutton, 2010 e 2014; Koensler, Meloni, 2019; Douglas, 1999). Sutton (2010) ha formulato il concetto di gustemology in ordine agli studi che analizzano un ampio spettro di questioni sociali in relazione al gusto e agli altri aspetti sensoriali del cibo. Adottando questa prospettiva, emerge con evidenza come il sapore dolce possa diventare chiave interpretativa del mondo sociale ed economico esaminato da Mintz (1985), come l’odore tipico di una cucina etnica possa farsi marcatore identitario incontenibile e pertanto problematico nei contesti di immigrazione, 14 mentre il sapore e la consistenza di un piatto tradizionale possano contribuire alla protezione di un’identità in crisi per la lontananza dal luogo d’origine (Sutton, 2010). Al di fuori dell’ambito familiare, il gusto alimentare viene formato dalla frequentazione di altri spazi di consumo del cibo, come mense scolastiche o aziendali, locali di vario genere di ristorazione, dai bar ai fast-food, dalle osterie ai ristoranti di alta cucina. Oltre ai luoghi confinati, c’è da considerare il vasto e variegato universo dello street-food, che influenza le modalità di fruizione degli spazi condivisi delle città, contribuendo alla creazione delle identità locali in diverse maniere, rimettendo in discussione aspetti di decoro, igiene, normative, turismo (Ray, 2019). A tutti questi luoghi di consumo corrispondono diverse aspettative, pratiche e valutazioni. La formulazione dei giudizi relativi a ciò che è appropriato mangiare, al sapore che si considera corretto, valido, adeguato, varia largamente in funzione della propria formazione in termini gastronomici, a sua volta condizionata da diversi fattori, come identità di genere, classe economica, età anagrafica (Goody, 2012). Alla formazione gastronomica individuale e collettiva contribuiscono sempre più anche programmi televisivi ed altri tipi di produzione d’intrattenimento veicolati in rete dai social media e dalle piattaforme di streaming. Documentari, cooking show, brevi clip di produzione amatoriale o lunghe serie di fattura ricercata abbondano sugli schermi per la fruizione casuale o strutturata da parte di un pubblico sempre più vasto e diversificato. La cucina viene resa spettacolo, il piatto diventa protagonista della ricerca estetica, la competizione tra professionisti o tra amatori aspiranti cuochi viene messa in scena in maniera più o meno preconfezionata (Teti, 2015). La dimensione visuale del cibo si concretizza anche nella produzione editoriale cartacea e, soprattutto, virtuale, nella galassia di food writer, food blogger, food photographer che abbondano in rete dall’avvento del web 2.0, aumentati ulteriormente con la diffusione degli smartphone e delle relative applicazioni (Koensler, Meloni, 2019; Montanari, 2004; Lubesco, Naccarato, 2017). 1.2.6 Identità ed esclusione Alla sovrabbondanza dell’offerta e del consumo virtuale del cibo si accompagnano la diffusione di nuove forme di astensione e rifiuto, la promozione di regimi alimentari incentrati sull’eliminazione di alcune categorie di alimenti e nuove modalità di ascetismo e ortoressia. I divieti alimentari hanno costituito uno dei pilastri della disciplina a partire dal dibattito tra sostenitori dello strutturalismo e del materialismo culturale (Douglas, 2005; Harris, 1990; Simmons, 1991) ed anche oggi lo studio dei tabu alimentari offre diverse prospettive di lettura. 15 Vi sono indagini che correlano le proibizioni ai sistemi simbolici, religiosi o etnici, studi che indagano un particolare alimento vietato in quanto oggetto di sacralizzazione o, al contrario, in quanto considerato impuro, approfondimenti sulle modalità di trasformazione di ciò che è oggetto di tabu in qualcosa di permesso e commestibile (Mintz, Du Bois, 2002). Il cibo sacro e quello vietato sono spesso strettamente connessi al rituale, celebrato anche per mezzo del consumo di alimenti o bevande, i cui aspetti simbolici, in queste circostanze, sono particolarmente accentuati (Teti, 2015). Altre forme di astensione e rifiuto nei confronti di alcune categorie alimentari sono state oggetto di indagine: le scelte di natura più individuale vengono motivate attraverso giustificazioni etiche o nutrizionistiche, fino alle fobie o alle malattie relative ai consumi alimentari, come anoressia o bulimia. Si tratta di adesioni a sistemi simbolici condivisi, diffusi, imposti o subiti, che presentano caratteristiche dogmatiche, anche quando non hanno a che fare con precetti religiosi (Lelwica, 2006). Quando il confronto col cibo ha come esito il rifiuto, la definizione del sé si riformula intorno a ciò che viene escluso o a ciò che resta a far parte della dieta personale, generando nuovi epiteti, nuove denominazioni, nuove categorie di consumatori e preparazioni, su cui si innestano nuove strategie di marketing, che a loro volta concorrono alla solidificazione delle nuove identità; vegetariani, vegani, plant based, low carb, gluten free, ketogenic, paleo, raw, sono alcuni dei vocaboli utilizzati per indicare nuovi regimi alimentari, spesso adottati senza alcuna motivazione di tipo medico, anche quando il profilo della selezione è marcatamente delineato dalle caratteristiche biochimiche degli alimenti (Teti, 2015). L’immagine del corpo, l’estetica, il pregiudizio o la paura guidano queste decisioni, che modellano concretamente i consumi e le attività quotidiane. Le condizioni di salute si riflettono sulle scelte alimentari, che a loro volta concorrono alla trasformazione del corpo. Le relazioni tra alimentazione e salute sono state indagate anche nei termini dei consumi effettuati durante una malattia, un periodo di guarigione (Cohen, Hoarau, Lorcy, 2017) o un momento di particolare condizione fisica, come la gravidanza o l’allattamento (Olivi, 1997; Peveri, 2014b). Vi sono anche studi dedicati all’alimentazione infantile ed ai prodotti destinati al consumo da parte dei bambini (Klein, Watson, 2016), che ormai costituiscono una larga fetta del mercato. Tra le esclusioni in ambito alimentare, una delle più recenti è quella relativa agli organismi geneticamente modificati. In questo caso le ragioni della diffidenza, del rifiuto o della condanna sono riconducibili a diversi ambiti: dalle motivazioni prettamente giuridiche in relazione alle normative da concordare a livello internazionale, alle pressioni politiche ed economiche, fino alle preoccupazioni relative alla gestione dell’ambiente e alla sostenibilità dei processi produttivi (Stone, 2010; Klein, Watson, 2016). 16 CAPITOLO 2. CARNE ANIMALE: BUONA DA PENSARE Lo studio dell’alimentazione affronta un oggetto che è come un prisma dalle infinite sfaccettature: a seconda del lato in cui ci si pone per osservarlo, restituisce diverse questioni di ordine etico, politico e socioculturale (Koensler, Meloni, 2019). Quello delle classificazioni degli alimenti è tra i punti di vista più esplorati e dibattuti e, in particolare, la tassonomia degli animali in ordine alla loro commestibilità è stato un campo di indagine molto fertile sin dai primi studi antropologici dedicati all’alimentazione. L’uomo è biologicamente un onnivoro, ma è stato osservato che, pur avendo a disposizione diversi tipi di piante ed animali, effettua una scelta piuttosto rigorosa, finendo con l’escludere gran parte delle specie che sarebbero commestibili e alla sua portata. La selezione varia per ragioni sia materiali che immateriali, in funzione del tempo e delle risorse a disposizione per procurarsi tali alimenti e del valore simbolico attribuito a ciascuno di essi, su cui si innescano le preferenze individuali. Nell’operare questa differenziazione, una delle opposizioni da sempre più caricate simbolicamente è stata quella tra il mondo vegetale e quello animale. Si tratta di un’alternativa che ha merito anche a livello nutrizionale, per via della proporzione delle proteine e della biodisponibilità di micronutrienti come ferro, zinco e vitamina B12, caratteristiche che rendono difficilmente sostituibili gli alimenti di origine animale con prodotti di origine vegetale equivalenti da questo punto di vista (Bressanini, 2016)5. Le conseguenze pratiche di questa differenza nutrizionale si concretizzano nella necessità di calibrare la dieta equilibrando tale apporto, pena il manifestarsi di diverse patologie dovute alla carenza di tali nutrienti (Montanari, 1993). L’opposizione tra carne e piante, tuttavia, è stata declinata principalmente a livello simbolico. Mangiare carne e derivati animali è diverso dal mangiare frutta, ortaggi e cereali, in un modo che va ben oltre la semplice differenza dei valori nutrizionali che la scienza permette oggi di calcolare con precisione. Anche se presente trasversalmente in tutto il mondo, però, anche questa categorizzazione, come accade per tutti i fenomeni legati all’alimentazione, è stata concepita e manifestata in maniera differente in ciascuna epoca e cultura. La scala gerarchica degli alimenti viene costruita e ridefinita nel tempo, così come l’associazione con le categorie di genere e classe e le 5 Bressanini (2016: 9) riporta il contenuto medio di acqua, proteine e grassi della carne dei più comuni animali da consumo, adottando come fonte la banca dati dell’istituto italiano INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione), nel 2015 confluito nel CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria) - Alimenti e Nutrizione; i valori nutrizionali della maggior parte degli alimenti in circolazione sul territorio italiano sono periodicamente aggiornati e resi disponibili all’indirizzo: http://sapermangiare.mobi/tabelle_alimenti.html (ultima consultazione: 15/02/2020). 17 considerazioni in merito a ciò che è più salutare o più gustoso. Nel ripercorrere la storia umana si trovano sia esempi di celebrazione della carne, sia esempi di celebrazione delle verdure, ma l’attenzione e le preferenze verso la prima sembrano i più frequenti e diffusi (Montanari, 1993; Flandrin, Montanari, 2003; Harris, 1990; Simoons, 1991). Gli storici e gli antropologi alle prese con la ricostruzione e l’osservazione delle testimonianze in ordine a queste scelte hanno cercato di fare luce sui motivi di questa disparità e sui modi in cui essa si esprime e modella i sistemi alimentari. 2.1 La carne come chiave di lettura L’osservazione etnografica e le riflessioni innescate dal postmodernismo hanno consentito di approfondire le ricerche e di sollevare alcuni veli rispetto alle conclusioni tratte dalle precedenti analisi in ordine a questa tematica, riaggiustando, per esempio, la prospettiva per quanto riguarda l’effettivo consumo di carne ed alimenti derivati dagli animali nelle epoche passate o rivalutando l’importanza della agency individuale, restituendo peso alle trasformazioni e agli adattamenti individuali rispetto alle regole strutturali che operano sulla collettività. Le strategie di resistenza e controtendenza messe in atto come forme di risposta e rielaborazione soggettiva o minoritaria si affiancano e si mescolano alle forme più convenzionali di distinzione e gusto strutturate dalle ideologie dominanti (Douglas, 1999; Bourdieu, 2011; Montanari, 1993). Contestualmente, è stata evidenziata l’influenza delle dimensioni politiche ed economiche sulle scelte individuali (Bourdieu, 2000, 2011; Goody 1982, 2012; Mintz, 1985). La recente diffusione delle proposte vegetariane e vegane tra i menu occidentali, la macellazione del maiale come rito collettivo ancora oggi praticato nelle campagne italiane, l’ordine delle portate di un pasto consumato in un’occasione di festa, la semantica che sottende la denominazione di alcuni animali e delle loro carni, le riserve nei confronti delle manipolazioni genetiche degli animali o anche solo del foraggio ad essi destinato: in questi ed altri casi, la carne, la sua celebrazione o il suo rifiuto, i valori simbolici e gli aspetti materiali collegati alla sua produzione ed al suo consumo, diventano chiavi di lettura per ragionare di altri sistemi ed interpretare trasformazioni culturali di più ampia portata (Teti, 2015; Koensler, Meloni, 2019; Goody, 2012). Le tracce del consumo della carne ci consentono di formulare ipotesi sulle abitudini dell’uomo dai primordi della sua storia, a partire da oltre due milioni di anni fa: sulle ossa rimaste da quegli antichi pasti leggiamo i segni lasciati dai denti dei diversi ominidi che si sono succeduti fino all’ultimo gradino dell’evoluzione umana, rintracciamo e misuriamo i graffi lasciati dai primi 18 strumenti, spesso derivati essi stessi dalle ossa di altri animali, apprendiamo il grado di padronanza del fuoco, calcoliamo i tragitti e le permanenze dei gruppi, la loro numerosità (Perlès, 2003). I progressi della tecnologia, unitamente alla maturazione di una diversa consapevolezza dei propri pregiudizi culturali, hanno rimesso in discussione certi assunti, suggerendo una maggiore cautela nella valutazione dei dati (Perlès, 2003). Guardare ai risultati delle ricerche scientifiche attraverso la lente dell’antropologia ha consentito di decostruire le origini di alcuni assunti, mostrando i limiti della costruzione culturale dell’autorità scientifica e dei criteri di scientificità (Latour, 1998; Augé, Colleyn, 2019). Se la tecnologia viene in aiuto per approfondire o rivalutare alcuni dati, nel corso degli ultimi decenni alcuni sviluppi delle scienze umane hanno offerto nuovi strumenti concettuali e nuove lenti per la lettura e l’inquadramento di alcune pagine dell’antropologia moderna dedicata ai temi alimentari, diventate ormai classiche, ma ancora ricche di suggestioni. Il dibattito teorico sviluppato intorno ai temi dei divieti alimentari e dei tabu religiosi dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, che ha visto contrapposte principalmente le posizioni dello strutturalismo e del materialismo, ha assunto talvolta dei toni molto accesi, nonostante vi siano presenti aperture e sfumature in ciascuno dei fronti (Koensler, Meloni, 2019; Ballarini, 1999; Teti, 2015). Anche in queste trattazioni, si trova nuovamente la carne in primo piano, in particolare negli scritti rispettivamente di Lévi-Strauss, Mary Douglas e Marvin Harris. Il rifiuto, la condanna o la passione nei confronti di certi animali, la carica simbolica relativa all’uccisione degli altri esseri viventi, in cui gli uomini vedono riflessi se stessi, in negativo ed in positivo, investendo di particolari significati il consumo della carne, in funzione ed in rapporto anche alla dimensione materiale dei sistemi di produzione alimentare: questi ed altri esempi sono considerati alla luce dell’osservazione etnografica, della minuziosa catalogazione delle testimonianze orali e della lettura critica di quelle scritte, al fine di individuare continuità e paradossi, per trovare conferme o sovvertire certezze in ordine a ciò che viene considerato “buono da mangiare” dalle diverse comunità umane. 2.1.1 Geometrie in movimento L’analisi delle pratiche alimentari diventa chiave di lettura per altri aspetti della socialità e della mentalità ad esse sottese: nel ricercare le strutture del pensiero dei popoli osservati attraverso lo studio dei miti tramandati oralmente, Lévi-Strauss (1965, 1976, 1999, 2001, 2004, 2008, 2015) ha individuato una serie di opposizioni semantiche che fungono da poli simbolici che possono essere considerati universali, nella loro astrattezza. 19 Molti dei miti considerati da Lévi-Strauss narrano di battute di caccia, di strategie messe in atto per scongiurare la sfortuna e assicurarsi un buon esito nella ricerca delle prede, di tecniche e consumi più o meno marcatamente rituali degli animali che sono stati catturati ed uccisi. Alle diverse parti degli animali corrisponde un diverso significato, un diverso consumo, una diversa preparazione, una “dottrina culinaria implicita” (Lévi-Strauss, 1999: 428) che mette in correlazione i diversi elementi della struttura sociale e di quella gastronomica. La carne arrostita, le viscere bollite, gli organi estratti ed appesi ai bastoni impugnati in occasione di un rito in cui gli officianti sono chiamati ad incarnare gli animali protagonisti di un mito, le piume e le pelli che diventano ornamenti: lo sfruttamento del mondo animale è trasversale nelle pratiche umane, andando oltre la dimensione strettamente culinaria. Tra le finalità ultime delle precauzioni adottate, delle celebrazioni e delle riserve, c’è la buona riuscita della battuta di caccia, la preoccupazione di assicurarsi il pasto successivo: evitare la scomparsa della selvaggina, rispettando il mondo animale, senza però mostrare eccessiva empatia, pena la perdita del confine tra l’identità umana e l’alterità animale (Lévi-Strauss, 1999). Le opposizioni tra natura e cultura, tra ciò che è pertinente al mondo animale ed a quello umano, le separazioni e la continuità tra gli opposti sono stati temi ricorrenti del lavoro di Lévi-Strauss. Per quanto concerne l’ambito alimentare, una delle più note e sfruttate costruzioni concettuali emerse da questa ricerca è quella del triangolo culinario, più volte ripreso e riadattato da chi ha successivamente affrontato queste tematiche, e che può essere considerato “una delle escursioni che indicano meglio il viaggio di Lévi-Strauss nell'universalità della mente umana” (Barnard, 2002: 176) Nel 1965 sulla rivista L'Arc Lévi-Strauss pubblica Il triangolo culinario, articolo rielaborato nel 1968, nell'ambito del terzo volume delle Mitologiche, Le origini delle buone maniere a tavola, in cui viene integrato nel discorso più ampio dell’analisi dei miti, condotta a partire da Il crudo e il cotto nel 1964: Ne Il crudo e il cotto abbiamo volutamente trascurato queste sfumature. Partendo da esempi sudamericani, si trattava per noi di definire il triangolo culinario secondo il suo aspetto più generico, e di dimostrare come, in qualsiasi cultura, esso potesse servire da cornice formale per esprimere altre opposizioni, di natura cosmologica o sociologica. Dopo averlo così delimitato dall’interno, con l'analisi delle sue proprietà intrinseche, in Dal miele alle ceneri ci siamo proposti di affrontarlo dall'esterno e di analizzarne i contorni. Ponendoci sempre dal punto di vista formale, abbiamo cercato di definire il crudo, il cotto e il putrido, visti non più soltanto in se stessi o sotto l'angolazione di sistemi di opposizioni analoghe alla 20 loro, ma in relazione a funzioni periferiche: il più-che-crudo, cioè il miele, e il più-checotto, cioè il tabacco. Sebbene già allora certe modalità del cotto come l'arrosto e il bollito fossero apparse sul nostro cammino [...] avevamo deliberatamente evitato di discuterle. Questa discussione va affrontata ora, dal momento che i miti esaminati in questo terzo volume non si limitano a opporre tra loro il crudo, il cotto e il putrido, ma mettono in esplicito contrasto l'arrosto e il bollito, che per innumerevoli culture rappresentano le modalità fondamentali del cotto (Lévi-Strauss, 1999: 429) Nell’illustrare l’applicazione e la versatilità dello schema vengono adottati numerosi esempi tratti dai miti raccolti e dalle osservazioni etnografiche condotte presso diversi gruppi di cacciatori-raccoglitori amerindi. La carne della selvaggina di ogni specie è protagonista di queste testimonianze. I principali modi di preparazione e consumo del cibo vengono configurati su tre poli: crudo, cotto e putrido. Il cotto ed il putrido procedono come elaborazione del crudo: il primo è un’elaborazione culturale, mentre il secondo è un’elaborazione naturale. Si tratta di categorie fondamentali, che vengono nella pratica concretizzate in maniera diversa a seconda delle società, dato che la concezione dei processi di preparazione alimentare varia in ordine alle concezioni locali e si avranno pertanto diverse gradazioni di crudo, di cotto e di putrido a seconda dei gusti e delle tradizioni locali: “Considerate in se stesse, queste categorie si riducono a forme vuote che non ci dicono nulla sulla cucina di questa o quella società. Soltanto l'esame etnografico può precisare ciò che ciascuna intende per ‘crudo’, ‘cotto’ o ‘putrido’, e non c'è nessuna ragione perché si tratti sempre della stessa cosa” (Lévi-Strauss, 1999: 428). Il triangolo culinario consente la costituzione di un campo semantico che organizza la comprensione di tre principi fondamentali e si presta alla riformulazione ed all’arricchimento tramite inserzioni di altri concetti chiave. Lo stesso Lévi-Strauss integra la figura con un’ulteriore suddivisione tripartita che comprende l’arrosto, il bollito e l’affumicato, ponendo il primo in relazione al crudo, il secondo in relazione al putrido ed il terzo in relazione al cotto. Questi metodi di preparazione si pongono in un rapporto di contiguità e di opposizione tra loro, a seconda del mezzo di diffusione del calore e degli strumenti utilizzati in sede di cottura: l’arrosto è considerato in diretto contatto col fuoco, l’affumicato viene cotto nell’aria, mentre il bollito nell’acqua, per mezzo di un recipiente ed è sottoposto pertanto a due diversi tipi di mediazione. L’arrosto è considerato il tipo di cottura meno mediato dalla natura ed è pertanto posizionato in prossimità del polo del crudo. L’affumicato ed il bollito sono in opposizione tra loro in ordine ai sistemi di cottura, benché siano entrambi sullo stesso lato di contrapposizione 21 al crudo; l’arrosto e l’affumicato condividono la parte della natura per quanto concerne i mezzi, mentre il bollito è il tipo di cottura in cui l’acquisizione culturale è più manifesta, data la necessità di un recipiente per procedere. Tra arrosto e affumicato la distanza è misurata in ordine all’aria, che fa da conduttore e ambiente di cottura, mentre tra arrosto e bollito la distanza è in ordine all’acqua. Si tratta di uno schema concettuale sintetico ed allo stesso tempo fertile di suggestioni e LéviStrauss è il primo a suggerire che il modello potrà essere arricchito, di volta in volta, con ulteriori elementi, non solo in termini oppositivi, ma anche integrandolo con gli aspetti diacronici, come quelli che riguardano l’ordine, la presentazione ed i gesti dei pasti (LéviStrauss, 1999). Nell’osservare il pranzo natalizio di una famiglia italiana contemporanea, per esempio, Meloni sfrutta il triangolo culinario per evidenziare il significato delle scelte effettuate e delle preferenze riservate a preparazioni come il brasato, il bollito o il lesso, a seconda dei commensali e dell’occasione del consumo, ponendo in continuità la tipologia di cottura in acqua o nel vino, dai tempi prolungati e tradizionalmente associata all’ambito domestico, con il bisogno di intimità familiare che si manifesta nelle occasioni festive (Koensler, Meloni, 2019). La polarità tra natura e cultura è ancora oggi una delle opposizioni più sfruttate nel marketing, così come nella propaganda ideologica di diversi movimenti nati nell’ambito della produzione e del consumo alimentare: si tratta di una cesura semantica tanto instabile, quanto permanente, che viene contrattata e ricontestualizzata a seconda delle circostanze e delle finalità. Il mondo agricolo viene in questo senso investito di “naturalità”, rispetto a quello industriale, in una risemantizzazione che cancella l’artificialità del gesto agricolo e pastorale. La selezione di piante ed animali è stata praticata dall’uomo per poter sfuggire ai vincoli naturali, in una continua tensione con l’ambiente ed i suoi limiti (Montanari, 2004; Teti, 2015). Oggi, le nuove tecnologie applicate nella zootecnia pongono inediti interrogativi di tipo etico e pratico e la polarità tra natura e cultura emerge nelle diffidenze e nelle strategie discorsive in risposta ad essi (Stone, 2010; Watson, Klein, 2016) e nella diffusione di nuove ortoressie alimentari che guardano con diffidenza all’intervento umano su ciò che viene concepito come naturale, autentico e immutato dai tempi della preistoria (Teti, 2015; Montanari, 2004). L’azione del cucinare (Sutton, 2016), il suo significato e l’importanza degli strumenti sfruttati per le diverse preparazioni sono stati a loro volta oggetto di ulteriori analisi e discussione. Dai contenitori protagonisti delle pagine di Lévi-Strauss, oggi è possibile leggere studi relativi ai più recenti elettrodomestici come il frigorifero, analizzato come dispositivo alimentare sociotecnico da Meloni (Koensler, Meloni, 2019) o il Bimby, robot multifunzione che arriva ad assumere caratteristiche totemiche nell’analisi di Ascione (2014) ed è capace di generare nuove 22 comunità nella dimensione virtuale del web, attraverso la frequentazione dei forum di discussione ad esso dedicato, venendo incorporato nelle diverse tradizioni culinarie nazionali in maniera di volta in volta differente (Truninger, 2016). Dalla semplicità del triangolo, minimale figura geometrica, si può arrivare a costruire un prisma multilaterale, in cui i piani si moltiplicano e si attraversano nel creare nuove geometrie: la rete di connessioni tra i poli è mutevole e complessa ed ogni lato può offrire un orizzonte interpretativo differente. 2.1.2 Oltre le opposizioni Per spiegare le abitudini alimentari è necessario concentrarsi su diversi lati del prisma (Koensler, Meloni, 2019), per poter restituire un’immagine il più fedele possibile alla multidimensionalità che appartiene alla realtà. Una delle prospettive che guardano con attenzione attraverso un lato diverso, quasi diametralmente opposto, rispetto a quello dell’immaginario simbolico è quella del materialismo storico-culturale, che ha visto tra i suoi maggiori esponenti Marvin Harris (Barnard, 2002). Harris ha dedicato all’alimentazione umana diverse pubblicazioni (Harris 1976, 1979, 1990; Harris, Ross, 1974). In una delle più note, Buono da Mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, pubblicata nel 1985, viene precisato che la questione della selezione alimentare è molto complessa e stratificata: Non è mia intenzione negare che il cibo esprima messaggi né che abbia significati simbolici. Ma cosa viene prima: i messaggi e significati oppure le preferenze e le avversioni? Ampliando un po’ il campo di una famosa affermazione di Claude LéviStrauss, possiamo dire che alcuni cibi sono ‘buoni da pensare’ mentre altri sono ‘cattivi da pensare’. Ma io sostengo che il fatto che siano buoni o cattivi da pensare dipende dal fatto che sono buoni o cattivi da mangiare. Il cibo deve nutrire lo stomaco collettivo prima di poter alimentare la mentalità collettiva (Harris, 1990: 5). L’esplicito richiamo a Lévi-Strauss è un chiaro indizio delle intenzioni di Harris di formulare una risposta diretta alle istanze avanzate dallo strutturalismo, in un dibattito che si è sviluppato attraverso la pubblicazione di numerosi saggi ed articoli in cui il tema della classificazione dei cibi ed, in particolare, dei tabu relativi ad alcuni di essi, era sfruttato per avvalorare ipotesi teoriche di più ampio spettro, coinvolgendo diversi studiosi e alimentando la crescita 23 dell’attenzione della disciplina verso le tematiche relative all’alimentazione (Koensler, Meloni, 2019). Harris (1984) si era rivolto idealmente a Lévi-Strauss anche in occasione della pubblicazione, nel 1979, di Materialismo culturale. La lotta per una scienza della cultura, in cui illustrava i fondamenti della posizione teorica da lui condivisa e presentata con tale denominazione nel 1968, in L’evoluzione della teoria antropologica. Nel presentare le strategie interpretative alternative a quella da lui difesa, Harris parla dello strutturalismo con toni decisamente aggressivi: Lo strutturalismo francese è la più influente strategia antropologica dell’Europa occidentale contemporanea. Esso è antipositivista, dialettico, idealista e astorico. Il suo genio fondatore, Claude Lévi-Strauss, confessa il proprio disinteresse per le teorie controllabili e ignora causalità, origini, processi storici. Eppure questa è la strategia antropologica che centinaia di provate intelligenze accademiche d’Europa e delle Americhe hanno ritenuta più di tutte degna di una vita intera di studio (Harris, 1984: 172). Harris continua la sua trattazione dei principi dello strutturalismo polemizzando anche sulle strategie interpretative proposte da Lévi-Strauss e relative, in particolare, all’ambito alimentare, considerate troppo semplicistiche, astratte e distanti dalla concretezza delle situazioni reali: La teoria che i cibi siano selezionati soprattutto perché buoni psicologicamente piuttosto che gastronomicamente non è spiritosa. Essa si fa beffe di chi vive nella fame e di chi di fame è morto, trasformando la lotta per la sopravvivenza in un gioco di immagini mentali. L'idea che il cucinare sia anzitutto un linguaggio è nutriente soltanto per il pensiero di chi non ha mai dovuto preoccuparsi di avere da mangiare a sufficienza (Harris, 1984: 172). Harris e Lévi-Strauss avevano già avuto occasione di un confronto diretto rispetto alle proprie posizioni nel 1976, in occasione della pubblicazione sulla rivista L’Homme di uno scambio di vedute6 riferito all’interpretazione di uno dei miti tramandati dai Bella Bella, popolazione della costa occidentale del Canada, uno dei tanti esempi utilizzati da Lévi-Strauss per suffragare la tesi strutturalista. In questa occasione, l’articolo di Harris (1976) si presentava come una risposta all’intervento di Lévi-Strauss alla conferenza di Gildersleeve del 1972. Lévi-Strauss era stato informato dalla redazione della rivista di questa pubblicazione ed ha fornito a sua volta una risposta diretta, pubblicata contestualmente al testo di Harris (cfr. incipit di Lévi-Strauss, 1976). 6 24 Di nuovo, troviamo la carne come elemento chiave su cui verte il confronto accademico. In questo caso si tratta della carne di un mollusco: la sua effettiva disponibilità ambientale, il suo aspetto ed il suo significato allegorico fanno da sfondo alla difesa degli approcci disciplinari a confronto. Il mito racconta di una bambina rapita da una orchessa: per spaventarla e riuscire a scappare, la bambina sfrutta i resti del pranzo della sua rapitrice, mettendosi sulle dita delle mani i sifoni dei molluschi raccolti dalla stessa orchessa in riva al mare. In questo caso, lo scontro tra Harris e Lévi-Strauss verteva sul dubbio relativo all’identificazione del mollusco in questione, che poteva essere una piccola ostrica oppure una ostrica-cavallo di dimensioni molto maggiori e con un’esplicita rassomiglianza ai genitali maschili. Lévi-Strauss considera corretta la prima ipotesi e pone in relazione questa versione della storia con quella raccolta presso un altro popolo limitrofo, di una zona montana e pertanto in un rapporto di opposizione, dato che in questa versione alternativa, più nota ed antecedente rispetto a quella in questione, il bambino protagonista utilizza delle corna di capra di montagna per spaventare il suo rapitore. Sulle pagine di Materialismo culturale nel 1979, Harris riprende il filo dello scambio avvenuto su L’Homme nel 1976 ed accusa Lévi-Strauss di aver inizialmente frainteso quale fosse il tipo di mollusco a cui si riferiva la storia e di aver deliberatamente ignorato, nella replica che a sua volta aveva formulato su L’Homme, le prove linguistiche addotte da Harris per confutare l’identificazione del mollusco. Dal canto suo, nelle pagine de L’Homme Lévi-Strauss sostiene che l’analisi complessiva dei miti dei Bella Bella non consente di maturare una certezza assoluta in ordine a tale identificazione e che in ogni caso il contenuto dei miti è mutevole ed il loro significato va rintracciato nella rete che configurano nel loro insieme e non può essere relegato al singolo specifico elemento: Contrairement à ce que croit Harris, les mythes, aussi éloignés que possible de l'empirisme rampant qui est la maladie sénile du néo-marxisme, n'ont pas un contenu fixé une fois pour toutes, et que détermineraient de façon rigide les propriétés attribuées à un organe particulier d'un genre unique de bivalve. Ils jouent sur une gamme où s'échelonnent diverses illustrations empiriques d'un même organe, ainsi, d'ailleurs, que d'autres organes qui peuvent différer entre eux, et même provenir de familles animales distinctes. Tous les termes de ce paradigme sont utilisables par la pensée mythique, pourvu qu'au prix de transformations qu'il nous incombe de restituer, ils permettent d'exprimer des significations 25 du même type, non chacun pour son compte, mais en s'opposant à d'autres termes qui varient en même temps qu'eux (Lévi-Strauss, 1976 : 28)7. È evidente come ciascuna delle due prospettive abbia i suoi limiti, che non vengono peraltro affatto negati dai rispettivi difensori. La difficoltà sta soprattutto nell’evitare che, nel cercare di mostrare la validità del proprio punto di vista, l’importanza e l’efficacia di quello alternativo venga minimizzata al punto da considerarlo inutile, fino all’esclusione aprioristica di un approccio diverso dal proprio. Coltivare e riconoscere l’utilità di diverse strategie d’indagine, senza cercare di creare forzatamente una scala gerarchica, è indispensabile, specialmente in un campo come quello alimentare, dove gli aspetti materiali e quelli immateriali si influenzano inevitabilmente a vicenda, costruendo una rete inestricabile. A vent’anni di distanza, nel 1998, Goody si è pronunciato sulla divisione di questi approcci interpretativi in questi termini: Questa dicotomia radicale tra approccio materialista da un lato e approccio culturale dall'altro, come non ho mai smesso di ripetere, è datato almeno quanto quello mente-corpo, specialmente quando si ritiene che l'“organizzazione sociale” faccia capo al versante materialista dell'“opposizione” (e cioè in maniera ben diversa da come personalmente ritengo sia organizzata la vita sociale). [...] E in ogni caso non credo che alla fine gli utilitaristi/materialisti o i culturalisti/simbolisti possano escludere certi fattori che pure non rientrano nello schema dei loro assunti di base. Essi, piuttosto, adotteranno strategie diverse per affrontare il problema, strategie che potranno essere giudicate appropriate solo se saranno in grado di contribuire alla spiegazione. Proibizioni e preferenze in materia di cibo sono chiaramente una forma così fondamentale e diffusa di comportamento, che sarebbe incredibile se un solo tipo di spiegazione fosse in grado di coprire tutti i casi. Lasciamo quindi da parte affermazioni “teoriche” di tipo binario, e adottiamo una forma di analisi più specifica che non soltanto si occupi dell’esistenza di “abitudini alimentari” in un sistema sociale, ma che osservi i cambiamenti nel corso del tempo in rapporto a situazioni storiche specifiche (Goody, 2012: 156,157). “Contrariamente a quanto crede Harris, i miti, lontani il più possibile dal dilagante empirismo che è la malattia senile del neo-marxismo, non hanno un contenuto fissato una volta per tutte, che determinerebbe rigidamente le proprietà attribuite a un organo particolare di un tipo unico di bivalve. Giocano su una scala in cui sono sparse varie illustrazioni empiriche dello stesso organo, così, inoltre, come altri organi che possono differire l'uno dall'altro e persino provenire da famiglie animali distinte. Tutti i termini di questo paradigma possono essere usati dal pensiero mitico, a condizione che, a costo delle trasformazioni che è nostro dovere restituire, ci consentano di esprimere significati dello stesso tipo, non ciascuno per suo conto, ma opponendosi ad altri termini che variano allo stesso tempo rispetto ad essi” (traduzione di chi scrive). 7 26 In particolare, rispetto alla classificazione dei cibi le spiegazioni del materialismo culturale e quelle dello strutturalismo si prestano ad inquadrare interrogativi differenti ed a fornire risposte che vanno comprese nella loro complementarietà. Alcuni alimenti sono considerati tali in base a una loro collocazione dentro l'orizzonte dell’edibile. Questa collocazione di ordine contestuale con il tempo viene ritenuta un elemento naturale. [...] Anche se possiamo rintracciare, seguendo i percorsi di ricerca di Harris, delle motivazioni storiche alla interdizione alimentari [...] è nella tassonomia simbolica, nel posizionamento degli animali entro categorie interpretative classificatorie ben precise, che possiamo comprendere il senso di certi tabu (Meloni, Koensler, 2019: 25). La teoria della pratica post-strutturalista propone di concepire le azioni che gli esseri umani compiono per nutrirsi sia come materiali che come simboliche, strutturate socialmente nello spazio e nel tempo, e capaci di sostenere una varietà di istituzioni più o meno formalizzate (Sassatelli, 2004). Applicando il concetto di habitus formulato da Bourdieu (1992, 2000, 2011), la sintesi che risulta è quella di un habitus alimentare, inevitabilmente e simultaneamente strutturato e strutturante, in cui la componente dei limiti e delle spinte materiali si amalgama e si trasforma confluendo nella dimensione simbolica, che a sua volta influenza le strategie e le direzioni della produzione, della diffusione e del consumo. Sia a livello comunitario che individuale, è possibile rintracciare dei percorsi dettati dalle necessità e delle traiettorie influenzate dal desiderio, in una continua trasformazione del panorama valoriale, incessantemente ricontrattato e ridefinito nella moltitudine delle sue sfaccettature dall’evoluzione della tecnologia e da scambi e confronti sempre più frequenti e rapidi, sia di cibi, che di idee. Con il concetto di habitus, Bourdieu consente di andare oltre una nozione statica di struttura, restituendo alla dimensione individuale il peso necessario nella dinamica tra l’oggettivo e il soggettivo (Barnard, 2002). Gusti e preferenze riacquistano, sotto questa prospettiva, ulteriori dimensioni e riemergono le sfumature dello spettro delle scelte, oltre la semplice separazione tra ciò che è permesso e ciò che è vietato, seguendo le scelte individuali che si trasformano nel tempo di vita delle persone, non solo per le modifiche connesse all’età individuale, ma anche perché l’arco di vita dei singoli può attraversare diverse epoche ed accedere a diversi spazi, con il rispettivo carico di nuove disponibilità e gusti (Koensler, Meloni, 2019; Lee, Scott, Packer, 2014). E così come si muovono gli individui, si muove il cibo, che li accompagna e talvolta li precede, diffondendosi 27 e moltiplicandosi in nuovi contesti, influenzando le abitudini di nuove comunità in maniera progressiva e diseguale. 2.2 Consumo strutturato: regole collettive di classificazione e di esclusione Gli animali sono efficaci strumenti di oggettivazione di idee e sentimenti, pertanto le regole riguardo alla commestibilità rappresentano una significativa parte della produzione culturale in un dato contesto sociale (Tambiah, 1995). Uccidere degli esseri viventi per cibarsene pone un problema filosofico che tutte le civiltà hanno tentato di risolvere, strutturando la dieta carnivora con una complessa normativa. Le ragioni e le origini delle regole di classificazione del mondo animale e vegetale sono state oggetto di innumerevoli studi filosofici, storici ed antropologici. Sono state individuate alcune costanti e molteplici differenze ed il dibattito accademico si è spesso acceso con toni polemici nel trattare dei motivi alla base di alcune particolari forme di classificazione. Di fronte alle urgenze poste dalla precarietà alimentare e dalla fragilità dei sistemi ecologici, le politiche alimentari devono muoversi in maniera cosciente e rispettosa delle appartenenze culturali e l’antropologia è stata spesso chiamata a fare luce sugli apparenti paradossi delle regole in vigore rispetto al consumo di carne. 2.2.1 Tabu e divieti religiosi Come regola sociale non scritta, i tabu alimentari esistono in qualche forma probabilmente in ogni società. A differenza della semplice esclusione per motivi di gusto personale o di inaccessibilità ad un cibo per questioni di costi o mancanza di disponibilità, il tabu si definisce come una deliberata esclusione che viene strutturata da un insieme di regole condivise con gli altri membri del gruppo sociale di appartenenza. Si tratta di regole che possono essere imposte solo ad alcuni dei membri del gruppo o che possono riguardare solo determinate circostanze, circoscritte nel tempo e nello spazio. In genere, violare un tabu e consumare un alimento proibito comporta delle conseguenze negative, non solo per l’individuo che spezza la regola, ma anche per l’intero gruppo. Per questo, l’osservanza dei tabu è monitorata attentamente e la consapevolezza di quali siano le regole da rispettare è coltivata e consolidata. Mentre sapere cosa è permesso e cosa è vietato è molto importante, dato che le regole devono essere conosciute e condivise, per poterle rispettare senza ambiguità, meno chiarezza sembra essere necessaria sulle motivazioni e sulle origini dei divieti: non è indispensabile giustificare, 28 almeno a livello emico, il perché una certa usanza sia in vigore. I fattori che si sommano dietro la nascita di una proibizione sono molteplici, spesso lontani nel tempo e difficilmente individuabili, nell’intreccio delle dinamiche che hanno condizionato le strategie alimentari adottate nel corso del tempo. Capire come mai un certo alimento vada evitato o sia riservato solo a particolari individui e non possa essere consumato da altri è un interrogativo che si pongono spesso solo gli osservatori esterni. Anche da questa prospettiva, comunque, non è sempre possibile individuare una spiegazione razionale per le esclusioni ed i divieti che colpiscono alcuni cibi, anziché altri, e che coinvolgono solo alcuni individui e non l’intera comunità. Tra le spiegazioni più frequenti, nelle indagini antropologiche condotte su questo tema, sono state individuate ragioni di tipo utilitaristico, più o meno esplicitamente e coscientemente elaborate, così come spiegazioni di tipo magico-religioso. È stata spiegata la funzionalità dei divieti in qualità di meccanismi finalizzati a risparmiare le risorse del territorio o a mantenere in salute i membri del gruppo. È stato illustrato anche il ruolo dei tabu nel rimarcare ed alimentare le separazioni di identità, tra gruppi e tra individui appartenenti allo stesso gruppo (Harris, 1990; Douglas, 2005; Tambiah, 1995; Goody, 2012; Meyer-Rochow, 2009). In molte società, per esempio, oltre ad avere tabu da rispettare diversi rispetto agli uomini, le donne sono sottoposte a particolari ulteriori restrizioni alimentari anche durante particolari occasioni caratteristiche e riferibili esclusivamente alla loro femminilità, come il periodo mestruale, quello della gravidanza o dell’allattamento. Meyer-Rochow (2009) riporta il caso di alcune tribù della Nuova Guinea in cui i tabu alimentari vengono ripartiti differentemente tra uomini e donne. In particolare, il periodo mestruale fa da cornice temporale e da base giustificativa rispetto alla necessità di riservare ulteriori tabu alimentari al genere femminile: Illnesses are thought to frequently stem from the wrong food intake: stomach ache sufferers must avoid juicy fruits, such as watermelons, pawpaw, cabbage and the introduced pineapple. Women are thought to be permanently in this 'sickly' and 'runny' state, because of recurring menstruations and are not allowed fresh meat, juicy bananas and all fruits of the forest of red colour. If a menstruating woman eats a fresh animal caught in a trap, it is thought that future traps will not fall; if the animal was caught with a dog, it is feared that the dog will lose its ability to find scent. Similarly, bananas and pandanus: if a menstruating woman happens to eat some of these fruits, it is believed that the trees will then cease to bear. A woman herself must leave the communal longhouse and move to a shack some distance away for the duration of her period. If she should cook or step over food, those 29 who eat it, particularly her husband, will become "ill with cough and possibly die" (MeyerRochow, 2009: 3). Meyer-Rochow sottolinea che dichiarare tabu alcuni cibi perché si suppone che facciano ammalare le persone è la base per molte delle esclusioni riservate alle donne nel periodo della gravidanza, nonostante spesso si tratti di cibi particolarmente nutrienti. Non sempre, però, le donne aderiscono passivamente ed uniformemente ai divieti: “Amongst the Lese-women of the Ituri forest of Africa, women cope with these restrictions by either secretly discounting them or by eating prophylactic plants that supposedly prevent the consequences of eating the tabooed foods” (Meyer-Rochow, 2009: 8). Le forme di resistenza messe in atto dalle donne sono molteplici e la complessità di lettura e comprensione di queste pratiche è accresciuta dal fatto che, trattandosi di questioni di genere, l’accesso a questa dimensione e l’osservazione di tali pratiche è ulteriormente difficile. Peveri (2014b) riporta che presso le donne hadiya, in Etiopia, tra i cibi più desiderati nel periodo della gravidanza vi sono carne, latte e formaggio, considerati cibi di pregio, solitamente destinati agli uomini. Tali voglie spesso si traducono in un’ansia alimentare che sfocia nel consumo sfrenato, anche di terra e sterco animale, in un’inversione della frugalità usualmente associata alla femminilità: “La femmina avida rappresenta il temuto sovvertimento di gerarchie e valori e la prossimità al mondo animale senza regole e misure” (Peveri, 2014b: 208). Negli ultimi mesi della gravidanza il comportamento si ribalta e le donne dimostrano di aver riconquistato la padronanza di sé e dei propri desideri alimentari, praticando una rigida astinenza e depurando il proprio corpo tramite l’assunzione della tradizionale bevanda a base di kosso, recentemente condannata e vietata dal governo etiope, nonostante il consumo plurisecolare come pianta officinale per l’eliminazione delle tenie, diffuse in concomitanza con la carne cruda o poco cotta. Nel caso della geofagia e del consumo di kosso praticati dalle donne etiopi (Peveri, 2014b), si leggono intrecciati i livelli della resistenza alle direttive governative e la sfida alle competenze biomediche occidentali, la rielaborazione del rapporto tra le categorie di purezza e salute, la rappresentazione della femminilità e il sovvertimento temporaneo dei valori e delle pratiche ad essa associati, l’etica dell’autocontrollo e la difesa della padronanza e dell’autonomia nella gestione e nella costruzione del proprio corpo: La relazione col cibo diviene parte di un programma pedagogico complessivo dove si fa strada la distinzione tra un corpo biologico e un corpo socializzato attraverso modificazioni, marchi, deformazioni. [...] Le donne hadiya perfezionano se stesse imparando a lottare 30 atleticamente contro il desiderio. Digiunando abdicano al consueto ruolo di preparatrici di cibo. Dopo avere assunto l'erba amara devono giacere, far riposare il peso che portano in grembo, ed essere spalmate di burro sulla testa e nel naso per facilitare le evacuazioni. Non ricevono visite. “La signora ha appena preso la sua dose di kosso” (Peveri, 2014b: 213). La distribuzione diseguale dei tabu non segue solamente le traiettorie delle differenze di genere. Altre volte la differenziazione è marcata rispetto all’età degli individui ed i tabu sono ripartiti in maniera disomogenea a seconda della generazione di appartenenza: alcuni cibi sono preclusi ai bambini o agli anziani, oppure, viceversa, solo a loro viene permesso il consumo di certi alimenti. Spesso accompagnano riti di passaggio o cerimonie iniziatiche che segnano l’ingresso in una ulteriore fase della vita (Meyer-Rochow, 2009). In India, per esempio, la differenziazione segue il sistema delle caste, ma sono previsti ulteriori tabu condivisi da tutti indistintamente in occasione di particolari cerimonie o circostanze temporali (Meyer-Rochow, 2009). Tra le varie interpretazioni riguardo alle origini dei tabu alimentari, è stata esplorata anche la tesi dell’equilibrio del sistema ecologico. I limiti materiali posti dai confini geografici e dalla conformazione del territorio hanno influito sulla costruzione delle categorie simboliche relative al mondo animale ed hanno condizionato l’accesso alle risorse alimentari: i tabu possono pertanto essere inquadrati anche nella ricerca di equilibrio con l’ambiente circostante, una dinamica che non può essere separata dal conflitto sociale presente in ogni comunità. Questa prospettiva interpretativa, come abbiamo visto, è quella fatta propria dal materialismo culturale di Marvin Harris. Il calcolo costi-benefici delle varie derrate alimentari fa da sfondo alle considerazioni proposte nel 1985 in Buono da mangiare: dalla carne bovina a quella suina, da quella ovina a quella equina, dagli insetti agli animali domestici, arrivando fino agli esempi di cannibalismo, Harris illustra le ragioni materiali dei divieti e delle preferenze che investono il consumo di carne di ogni genere e specie. La carne è protagonista della sua trattazione in virtù del fatto che, nutrizionalmente, tutta la carne sarebbe degna di finire nel piatto: come fonti proteiche, carni di diversa provenienza si avvicinano molto tra loro, mentre la differenza tra un alimento di origine vegetale e l’altro può essere molto più varia. Le scelte relative alla dieta carnea presso diverse comunità ed epoche, pertanto, si prestano come ottimo esempio per illustrare le strategie d’indagine e difendere la validità degli assunti del materialismo culturale (Harris, 1990). Mary Douglas si è espressa sul tema dei tabu alimentari in diverse occasioni proponendo una prospettiva di stampo strutturalista, offrendo già nel 1966 con la pubblicazione di Purezza e pericolo un’analisi dei legami e delle sovrapposizioni dei sistemi di pensiero relativi ai principi 31 di potere, rischio, integrità e contaminazione, applicati all’ambito alimentare, adottando come esempi i testi del Levitico ed i sistemi tassonomici in vigore presso i Lele del Kasai: Ho scritto di avere incominciato ad occuparmi del simbolismo animale dei Lele con un approccio cosmologico, visto che erano state frustrate le mie indagini dirette sui motivi delle loro astensioni alimentari. Mai essi non direbbero: “Noi evitiamo gli animali anomali perché essi, sfidando le categorie del nostro universo, ci ispirano profondi sentimenti di inquietudine”. Essi si inoltrerebbero invece in interminabili disquisizioni sulla storia naturale di ciascun animale a cui sfuggono. Con l'elenco completo delle anomalie ho potuto chiarire i semplici principi tassonomici usati; ma il pangolino era sempre citato come l'essere più incredibile: la prima volta che me ne parlarono mi sembrò una bestia così fantastica che non potevo credere alla sua esistenza. Quando chiesi loro perché esso dovesse rappresentare il centro del culto della fertilità, fui ancora una volta delusa: era un mistero degli antenati, di tanti, tanti anni prima. Che tipo di prova per il significato di questo culto o di qualsiasi culto si può ragionevolmente cercare? Esso può avere molti livelli e molti diversi tipi di significato, ma quello su cui si fonda la mia analisi è il significato che emerge da un modello le cui parti, come si può incontestabilmente dimostrare, sono regolarmente correlate (Douglas, 2005: 263). Nelle analisi di Douglas il simbolismo animale diventa una chiave di lettura che consente di esplicitare i modelli di pensiero in essere presso una cultura in ordine al calcolo del rischio, al pericolo che può minacciare l’integrità del gruppo. Nell’introdurre una nuova edizione di Purezza e pericolo a 25 anni di distanza, Douglas sottolinea che uno dei suoi principali obiettivi era stato quello di rivendicare “l’esistenza di un comportamento razionale nei primitivi” (Douglas, 2005: 7). In queste parole si sente l’eco di Lévi-Strauss, della sua ricerca della continuità e dell’omogeneità epistemologica del pensiero umano, degli universali strutturali della disposizione cognitiva, delle sfumature dei confini tra il pensiero mitico ed il pensiero scientifico (Lévi-Strauss, 2015a; 2015b). Douglas è tornata più volte nel corso degli anni su tali argomenti. Nel 1975 ha raccolto alcuni dei suoi articoli in una pubblicazione dal titolo Implicit Meanings, in cui ha affrontato rituali e sistemi di pensiero che suggeriscono l’esistenza di forme di conoscenza rimosse dal mondo cosciente, per le quali non viene fornita dagli individui una spiegazione razionale, nonostante venga esplicitamente riconosciuta l’importanza fondamentale di tali apparati. Il motivo di tale rimozione dalla coscienza va cercato nei problemi che sorgerebbero per la coerenza del sistema di pensiero qualora l’informazione diventasse esplicita. Secondo Douglas, la classificazione del 32 mondo animale presso i Lele e la conseguente attribuzione della commestibilità fanno parte di questo genere di conoscenza implicita: “Nessun membro della società è necessariamente consapevole del modello globale più di quanto uno che parla sappia essere esplicito riguardo ai modelli linguistici che adopera” (Douglas, 2005: 263). I saggi proposti nella raccolta risalgono agli anni Cinquanta, alle prime riflessioni sul sistema di classificazione adottato dai Lele che Douglas aveva osservato durante la sua permanenza in occasione delle sue prime indagini etnografiche. Successivamente, sia il pangolino dei Lele che gli animali proibiti dal Levitico ritornano spesso nei suoi scritti. Nel 1996, in Questioni di gusto riprende nuovamente questi esempi, in dialogo con altri autori ed anche con se stessa, nel riesaminare e riproporre altre prospettive di lettura a partire dai casi affrontati. Molte delle riflessioni di Douglas vengono formulate in rapporto a quanto ha scritto LéviStrauss (2019; 2015; 2015b) in relazione, in particolare, ai criteri selettivi dettati dal totemismo, che vedono l’esclusione degli animali totemici dall’insieme di quelli considerati commestibili e limitano le possibilità delle interazioni sociali. L’ordine cosmologico che associa gli animali totemici ai gruppi umani corrispondenti non può essere violato: la continuità che si instaura tra l’animale totemico e l’umanità non deve essere spezzata. “Gli animali sono sussunti nelle categorie sociali umane in virtù di una semplice estensione ad essi dei principi utilizzati per l'ordinamento delle relazioni fra gli uomini. Ora si tratta di compiere un accurato lavoro di rilevamento dell’uso di quelle categorie” (Douglas, 1999: 93). Douglas approfondisce la tematica dell’ordine e del disordine, di continuità e interezza, e vi collega le categorie di puro e impuro, in particolare sfruttando l’esempio della casistica proposta dal Levitico per quanto riguarda le regole alimentari ebraiche ed affermando che ogni analisi di tali divieti deve partire dallo studio del testo: “Dal momento che ogni prescrizione è preceduta dal comandamento di essere santi, ci deve essere una certa contrapposizione tra santità e abominio che possa spiegare la ragione generale di tutte le particolari restrizioni” (Douglas, 2005: 94). Il concetto di santità risulta così essere la chiave di volta di questo meccanismo normativo. La contaminazione deve essere evitata, pertanto è necessario individuare gli elementi che rendono impuri e sapere come regolare il contatto con essi. Douglas individua i “principi del potere e del pericolo” (Douglas, 2005: 94): la benedizione divina è la fonte di ogni cosa positiva e di ogni potere, mentre la perdita di essa è la causa di tutti i pericoli; per evitare di incorrere nella maledizione divina ci si deve attenere scrupolosamente alle indicazioni fornite da Dio stesso. La santità è un attributo divino: la radice etimologica del termine significa anche “separato”, ma Douglas va oltre questo campo semantico e desume dai testi che con il termine “santo” si definisce qualcosa di integro, completo e privo di difetti. La perfezione fisica degli 33 animali offerti in sacrifico trova un corrispondente nella condizione di integrità e purezza dei sacerdoti e di chiunque si avvicini al tempio. Santità richiede che gli individui si conformino alla classe alla quale appartengono, [...] che componenti di classi diverse non vengano mescolate. [...] La santità significa tenere distinte le categorie della creazione; ciò presuppone quindi corretta definizione, discriminazione e ordine. […] Essere santo è essere completo, essere uno; santità è unità, integrità, perfezione dell’individuo e della specie; le regole dietetiche sviluppano semplicemente sulla stessa linea la metafora della santità (Douglas 1975: 99, 100). Attraverso le norme dell’astensione la santità riceveva una espressione fisica in ogni incontro con il regno animale, ad ogni pasto. L’osservanza delle regole dietetiche sarebbe stata in questo modo una parte significativa del grande atto liturgico di riconoscenza e di adorazione che culminava col sacrificio nel Tempio (Douglas 1975: 104). Nel momento in cui stringe un patto di alleanza con gli Israeliti, Dio estende la sua benedizione anche ai loro animali domestici: in genere si tratta di ovini e bovini, ovvero di ruminanti. Nell’identificare quali altri animali vadano considerati puri, e dunque permessi come alimento, si determina la creazione di particolari criteri selettivi, di tipo fisico o fisiologico. La necessità di produrre degli schemi, di costruire un ordine per la realtà in cui si vive, fa parte di ciascuna cultura; la risposta a questo bisogno è ogni volta differente, ma è presente una costante: “Un certo sistema di classificazione deve necessariamente produrre delle anomalie e una certa cultura deve misurarsi con gli eventi che sembrano sfidare i suoi postulati; non può ignorare le anomalie che il suo schema produce, se non vuole correre il rischio di perdere credibilità. (Douglas, 2005: 82). Presso gli Israeliti si formano delle regole imperniate sul concetto di santità, che si esprime attraverso la separazione di ciò che viene giudicato conforme e integro da ciò che non presenta questi attributi: l’atteggiamento nei confronti delle anomalie è di condanna e di esclusione. La tassonomia zoologica nasce in un contesto di pastorizia seminomade e, dato che “gli ungulati ruminanti dallo zoccolo diviso sono il modello del genere di alimentazione che si addice ad un pastore” (Douglas, 2005: 100), questa tipologia sarà alla base della classificazione degli animali terrestri: sono considerati puri quelli che sono conformi a tale descrizione. Gli animali che presentano solo una delle due caratteristiche necessarie per rientrare in questa classe sono considerati ambigui, anomali, ovvero, impuri. Tra gli animali che sono stati caricati di significato simbolico in modo sia positivo che negativo, due in particolare sono stati oggetto di ampia discussione accademica e sono tuttora 34 protagonisti, a livello globale, dei sistemi alimentari: la vacca ed il maiale. Le ragioni dei tabu inerenti carne bovina e carne suina sono state esplorate non solo per ragioni puramente gnoseologiche, ma anche in risposta alle domande poste dal mondo politico nei casi di precarietà alimentare. Il rispetto delle differenze identitarie e la pragmaticità delle strategie di intervento richiedono la collaborazione dell’antropologia per illustrare efficacemente la realtà culturale che sottende questo genere di rifiuti alimentari. 2.2.2 La vacca sacra Tra i più noti e dibattuti tabu alimentari indiani, quello relativo alla vacca sacra è stato uno di quelli cui Harris (1979, 1984, 1990) ha dedicato più attenzione, cercando di illustrare le ragioni materiali che hanno portato all’esclusione della carne bovina, nonostante la grande diffusione e lo sfruttamento di vacche e buoi come animali da lavoro e come fonte alimentare indiretta, tramite la produzione di latte e latticini. Harris analizza l’evoluzione storica del ruolo dei bovini in India, soffermandosi in particolare sul VI secolo a.C., periodo in cui cominciarono a diffondersi nuove religioni che difendevano la sacralità della vita in ogni sua manifestazione; tra queste vi erano anche buddhismo e jainismo, che ottennero molta attenzione da parte degli strati più poveri della società. Contestualmente, cominciavano ad essere evidenti gli effetti di un aumento demografico che andava avanti da tempo e che aveva comportato la conversione di molte aree adibite a pascolo in terreno destinato alla coltivazione. Da un’economia semi-pastorale si passava all’agricoltura intensiva ed il bestiame da pascolo cominciava a scarseggiare (Harris, 1984). I banchetti connessi ai riti sacrificali si fecero sempre più rari e coinvolsero in misura sempre minore gli strati sociali più bassi. I brahmani e le caste più alte formarono un’élite che aveva accesso alle risorse alimentari carnee, mentre i contadini e gli altri cittadini comuni divennero “vegetariani forzati”, poiché avevano bisogno di conservare gli animali per il lavoro nei campi e dovevano far fronte alle confische ed alle tassazioni su di essi. I sacrifici di animali divennero espressione simbolica e concreta al tempo stesso delle disuguaglianze nel sistema delle caste (Harris, 1979, 1990). In tale contesto economico e sociale nacquero religioni che bandivano le distinzioni di casta, che abolivano il sacerdozio ereditario e consideravano la povertà come una precondizione della spiritualità. Sia il buddhismo che il jainismo invocavano una comunione con l’essenza spirituale dell’universo attraverso la contemplazione anziché tramite il sacrificio di animali e condannavano ogni forma di violenza e crudeltà, comprese quelle perpetrate nei confronti degli 35 animali (Harris, 1979). Nella pratica alimentare, questo si traduceva per i jainisti in un regime strettamente vegetariano, mentre i buddhisti tolleravano di consumare solo la carne di animali che non fossero stati uccisi sotto il loro sguardo o appositamente per il loro pasto (Harris, 1990; Simoons, 1991). Buddha non impose mai un divieto tassativo rispetto al consumo di carne, né si espresse con particolare riguardo nei confronti dei bovini, ma la condanna dell’uccisione sacrificale si traduceva in un pesante giudizio contro i macellai e i mangiatori di carne (Harris, 1990). In termini sociali, questo significava inimicarsi le classi più ricche ad andare incontro alle necessità di quelle più povere. Infatti, la rinuncia alla carne bovina non coinvolse tutte le caste contemporaneamente e quelle che vi furono costrette dalla povertà aderirono a queste religioni che promettevano redistribuzioni in una vita ultraterrena o in qualche nuova fase dell’esistenza, abbandonando i “grandi dispensatori” del passato, che riuscivano sempre meno a legittimare la propria sovranità attraverso pubbliche manifestazioni di generosità, quali erano i banchetti collettivi connessi ai riti (Harris, 1979). Dopo essersi diffuso presso le caste inferiori, il buddhismo divenne per breve tempo una religione imperiale. In seguito, ci fu una ripresa del bramanesimo e ci sono indizi che il consumo di carne presso le caste dominanti e quelle sacerdotali fosse ancora abbondante tra il 75 e il 350 d.C. ed anche successivamente, nel periodo Gupta, che va dal 300 d.C. al 750 d.C., ci sono testimonianze del consumo di carne e pesce da parte delle famiglie reali (Harris, 1984). Nel frattempo, però, l’induismo fu profondamente influenzato dalle nuove religioni e cominciò a adottare alcune delle idee che avevano reso il buddhismo tanto popolare e, anche se per un breve lasso di tempo, politicamente vincente (Harris, 1979; Simoons, 1991). Tra gli elementi assimilati c’erano l’abolizione delle macellazioni sacrificali e l’affermazione della sacralità della vita, il principio dell’ahimsa. Secondo Harris, i brahmani si presentarono quindi come protettori e non più come distruttori di bovini; le direttive contenute nei testi sacri relative ai sacrifici di animali vennero di conseguenza reinterpretate: poiché gli dei non mangiano carne, i sacrifici di cui parla il Rg-Veda sono da intendersi in senso puramente metaforico e simbolico, ed il latte può sostituire la carne come cibo rituale. I brahmani recuperarono credito presso la popolazione che si era rivolta al buddhismo, poiché con le nuove direttive era possibile mantenere intatto il sentimento di venerazione del bestiame ed associarlo a quello delle divinità, cosa che il buddhismo non permetteva di fare, poiché secondo gli insegnamenti di Buddha la meditazione è più efficace delle preghiere; in questo modo, però, veniva trascurata la struttura cosmologica indù, che al contrario conservava ancora un certo ascendente. I brahmani puntarono proprio su di esso per riconquistare le masse e la strategia si rivelò efficace: alla fine 36 del secolo VIII d.C. il buddhismo era quasi del tutto scomparso dalla sua terra d’origine, mentre il toro e la vacca entravano a pieno titolo nell’immaginario popolare indiano (Harris, 1990). Le sacre scritture presentano Krishna, dio della misericordia e protettore dell’infanzia, come un vaccaro: durante le feste in cui lo si onora, il suo simulacro di terracotta viene fatto calpestare e distruggere da un vitello, animale prediletto da Krishna. Gli dei stessi vivono incarnati nelle vacche. I teologi indù ritengono che il numero di divinità presenti nel corpo di una vacca ammonti a 330 milioni (Harris, 1990: 41,42). I prodotti di origine vaccina sono impiegati nella liturgia e sono investiti di sacralità: i templi indù sono illuminati con fiammelle prodotte dalla combustione di ghee, burro chiarificato, e le statue sono lavate quotidianamente con latte fresco (Harris, 1990). Ghee, latte, cagliata, urina e sterco sono noti come panchagavya, i “cinque prodotti della vacca” che vengono impiegati in usi secolari ed hanno un ruolo di primo piano per la conquista ed il mantenimento dello stato di purezza rituale cui aspirano gli indù ortodossi (Simoons, 1991). All’interno della dottrina della trasmigrazione delle anime, la vacca ha un’importante posizione: dopo ottantasei trasmigrazioni, dallo stato iniziale di demone si può giungere all’incarnazione in una vacca ed il passaggio successivo può essere in un corpo umano. Chi uccide una vacca ritorna allo stadio più basso e ricomincia da capo il percorso (Harris, 1990). La vacca è stata un simbolo politico oltre che religioso. Nel confronto con le comunità musulmane e con i dominatori inglesi, la sacralità di questo animale ed il divieto alimentare connesso sono stati forti elementi identitari, tanto che il Partito del congresso, maggioritario, costituito in seguito all’indipendenza, assunse come simbolo nazionale la vacca e il vitello. Oggi i bovini sono preservati dalla macellazione da leggi statali oltre che dalle norme religiose indù. Paradossalmente, una privazione nata nelle caste più povere, è diventata nel tempo un elemento caratterizzante delle caste superiori; oggi solo i dalit, possono mangiare la carne di manzo, quando trovano un animale già morto: questa pratica è incoraggiata dagli stessi appartenenti alle caste superiori e costituisce una delle pochissime occasioni di integrare la loro dieta con della carne (Harris, 1990). Secondo Harris, in genere, allevare una vacca o un vitello non è molto dispendioso, neppure per un contadino che possiede solo poca terra: il costo del mantenimento è in parte distribuito sull’intera comunità, perché gli animali possono vagabondare per le strade liberamente e accedere ai pascoli senza restrizioni legate alla proprietà; in cambio svolgono per la comunità il lavoro di “spazzini”, ripulendo le strade dalla sporcizia, mentre al proprietario forniscono beni di prima necessità, come letame e latte, oltre che quell’indispensabile forza lavoro. A proposito di quest’ultima, è stata avanzata l’obiezione che anche altri animali avrebbero potuto 37 rendersi utili per questo scopo, come il cavallo, l’asino o il cammello, che viene effettivamente usato in alcune zone. Harris ribatte che cavalli e asini sono molto più costosi e meno resistenti del bue, mentre il cammello incontra molte difficoltà durante le stagioni umide e piovose dell’India, data la sua costituzione adatta ad un clima completamente diverso (Harris, 1990). L’interpretazione di Harris dell’origine della sacralità della vacca è stata criticata da diversi studiosi (Simoons, 1991)8. John W. Bennett (1967) ha sottolineato che in base a questo approccio gli uomini e le risorse ambientali sono parte di un insieme con rapporti reciproci di tipo meccanicistico, ma ciò non corrisponde a quanto avviene nella realtà: gli uomini, infatti, perseguono obiettivi specifici attraverso modelli comportamentali plasmati dalla religione, la cui importanza non può dunque essere minimizzata come avviene nell’analisi di Harris. A simili conclusioni arrivano anche gli antropologi Stanley A. Freed e Ruth S. Freed (1981), che, in seguito ad uno studio condotto in un villaggio indiano, sono convinti che sentimenti e credenze hanno un forte impatto sulla condotta umana e che, perciò, sia la condizione sacrale della vacca ad interferire sull’uso del bestiame e non il contrario. Di diverso genere sono le critiche di Diener, Nonini e Robkin (1978). Questi studiosi seguono un “nuovo criterio evoluzionistico” e prendono in considerazione le costrizioni economiche e politiche operanti nell’antica India. Nel corso del processo di sacralizzazione dei bovini, si verifica una sedentarizzazione agricola su vasta scala, un’espansione dei commerci e la nascita di Stati urbani. Secondo l’analisi di questi studiosi, furono proprio questi primi Stati indiani ad incoraggiare il divieto di consumare carne bovina: questo faceva parte di un progetto più ampio, che avrebbe dovuto fornire maggiori quantità di carne alle classi urbane politicamente dominanti. La sacralità della vacca, dunque, sarebbe stata imposta ai contadini da una politica statale ed il fatto che abbia assunto una forma religiosa sarebbe indicativo della stretta connessione tra élite urbana, Stato e movimenti religiosi emergenti. La venerazione non si sviluppò come riflesso di un adattamento ecologico favorevole ai contadini, anzi ebbe probabilmente un impatto ambientale negativo. Simoons (1991) individua un aspetto comune alle teorie di Harris e di Diener, Nonini e Robkin (1978): entrambe le ipotesi affermano che all’origine della sacralità della vacca ci siano impulsi estranei alla religione. Simoons sottolinea che gli studiosi di sanscrito non hanno confermato nessuna delle due congetture e questo, a suo parere, attesta che sia altrettanto probabile, se non addirittura più che plausibile, che la venerazione della vacca sia nata all’interno del mondo 8 Le seguenti critiche ed ipotesi interpretative sono riportate da Simoons (1991: 77 e seguenti). 38 religioso, senza significative spinte da parte di fattori economici e ambientali, tenendo presente anche che essa si affermò in un periodo di cambiamenti religiosi. In merito alla condizione dell’India moderna, dove circolano moltissimi bovini in evidente stato di inedia e dove una ampia parte della popolazione soffre la fame, negli anni Sessanta è stata avanzata l’ipotesi che il divieto religioso fosse controproducente, che addirittura fosse la causa di questa situazione di sottosviluppo e povertà. Sono stati eseguiti dei calcoli per quantificare il numero di animali da considerare superflui, per valutare la convenienza di destinarli alla macellazione. Harris afferma che il carattere di inutilità attribuito a questi animali non rispecchia le loro reali condizioni; la stima che di essi è stata fatta non è corretta, perché non tiene conto di fattori importanti che vanno analizzati in relazione all’intero ecosistema (Harris, 1984; 1990). Se è vero che molte vacche sono in condizioni di malnutrizione, non ci si deve scordare che la loro funzione primaria all’interno dell’economia indiana è quella di generare buoi, ovvero forza lavoro del miglior genere disponibile. Quanto ai vitelli considerati inutili, Harris rileva che se non hanno un piccolo da allattare, le femmine della specie Bos Indicus non producono latte, dunque mantenere in vita, seppur in cattive condizioni, un vitello non desiderato è comunque vantaggioso per il proprietario (Harris, 1990). Mantenere il bestiame in stato di inedia è uno dei sistemi che la società indiana ha sviluppato per regolare la quantità di animali indesiderati. Oggi, per rispondere a questo bisogno, si pratica anche il commercio con i musulmani ed i cristiani: la carne bovina viene venduta dichiaratamente come tale o sotto la falsa denominazione di carne di montone (Harris, 1990). Secondo Harris l’impressione che ci siano molti animali superflui è data anche dal fatto che viene consentito loro di girare liberamente per le vie e i mercati. Questa condizione è dovuta al fatto che uno dei ruoli di questi animali è quello di spazzini: si cibano di qualsiasi rifiuto sia per loro commestibile, ripulendo le strade e minimizzando il costo per il loro sostentamento (Harris, 1979). È stato calcolato che ci sono delle differenze quantitative piuttosto evidenti in relazione al sesso degli animali e alla loro presenza in aree geografiche distinte (Harris, 1990). Il controllo demografico dei bovini attuato tramite i sistemi suddetti genera una netta disuguaglianza tra nord e sud: nell’India settentrionale si registra un numero quasi doppio di buoi, quantità sicuramente connessa alla produzione di frumento in grandi aziende agricole, che necessitano di bestiame utilizzabile per l’aratura; nell’India meridionale, in cui è più diffusa la produzione di riso, prevalgono i piccoli proprietari, che non sfruttano animali da tiro e traggono più vantaggio dalle vacche, che sono qui il triplo dei buoi. Dato che non esiste un sistema di scambio interregionale, Harris ipotizza che la variazione dei tassi di mortalità di vitelle e vitelli sia connessa alla loro effettiva utilità. Anche se nessun contadino ammette di aver soppresso un 39 bovino, Harris ha constatato che le attenzioni dedicate agli animali indesiderati sono finalizzate alla loro eliminazione: in pratica viene protratto l’allattamento degli animali considerati più utili, mentre gli altri sono lasciati in stato di inedia e di incuria fino alla morte per denutrizione o malattia (Harris, 1990; 1979). Secondo Harris, il fatto che le femmine della specie possano sembrare inutili potrebbe essere all’origine della disparità di importanza rispetto ai maschi nell’immaginario religioso. Anche se il bue è di fatto trattato con più attenzione, è la vacca ad essere al centro del simbolismo indù relativo all’ahimsa, la sacralità della vita. La carne di entrambi è soggetta a divieto, ma la vacca è esaltata maggiormente nella liturgia e nell’arte rispetto al suo corrispondente maschile. Il fatto che possa sembrare superflua la rende bisognosa di una protezione rituale più forte (Harris, 1979). Dato che in caso di carestia si rivela più resistente alla sete e alla fame rispetto al bue, “dal punto di vista della ripresa e della continuità del ciclo agricolo la vacca è in realtà più importante della bestia da tiro. [...] In tempi difficili, la vacca deve essere quindi trattata altrettanto bene, se non meglio, del bue, e per questo è forse il principale oggetto di venerazione rituale” (Harris, 1979: 163). Un’eco dell’atteggiamento degli indiani nei confronti dei bovini si può trovare analizzando gli usi ed i costumi alimentari nell’area mediterranea del mondo classico, presso gli antichi greci e gli antichi romani, che praticavano l’allevamento di tali animali in funzione pressoché esclusiva del lavoro nei campi (Montanari, 2003a; Grottanelli, 2003). Gli animali erano destinati al traino dei carri e degli aratri ed erano mantenuti in vita fino a tarda età ed il rispetto per il bue in quanto compagno di fatiche dell’uomo si traduceva talvolta anche in leggi che puniscono il bovicidio al pari dell’omicidio (Grottanelli, 2003). Più spesso, l’uccisione ed il consumo della loro carne non erano vietati, ma il loro apporto alla dieta carnea era complessivamente irrisorio, in proporzione a quello fornito dagli altri animali. Anche nel periodo successivo alla caduta dell’Impero Romano, in Europa la macellazione dei bovini ha coinvolto principalmente animali adulti, ma le testimonianze archeologiche mostrano una generale trasformazione di questa pratica, con un aumento del consumo e una progressiva diminuzione dell’età degli animali macellati (Montanari, 2003a). 2.2.3 Il maiale Il maiale è uno degli animali più caricati simbolicamente e più importanti economicamente per l’alimentazione umana in moltissime parti del mondo. Di conseguenza, anche l’antropologia ha avuto a che fare frequentemente con la carne suina, sia nei casi in cui essa era regolarmente 40 consumata, ma anche nelle circostanze che hanno visto la sua esclusione sotto forma di tabu alimentare. Meloni (2019) ritiene che, per questo motivo, il maiale sia stato estremamente “buono da pensare” anche in senso accademico: Se guardiamo infatti alla storia dell’antropologia, molti studiosi hanno incontrato nei loro percorsi di ricerca il maiale come alimento, come dono, come merce di scambio. In questo senso il maiale diventa una “lente di ingrandimento” [...] un oggetto denso sul quale è possibile riflettere in termini antropologici. Non solo il suo consumo, ma anche il suo divieto ci aiuta a comprenderne l'importanza. Nei dibattiti antropologici, infatti, l’interpretazione del consumo e del divieto del maiale ha generato non poche contraddizioni, che sono state di grande importanza per l'evoluzione dei saperi (Koensler, Meloni, 2019: 17,18). Il maiale è un animale proibito sia nella religione ebraica che in quella islamica e le interpretazioni per le relative motivazioni le vedono parzialmente sovrapposte e correlate. Salani (2000) ipotizza che il divieto, codificato dal Levitico e dal Deuteronomio per il popolo ebraico, sia stato inserito nel Corano perché Maometto stesso aveva apprezzato l’effetto di coesione e di rafforzamento identitario che le prescrizioni alimentari producevano presso il popolo ebraico. Nel Corano il divieto di mangiare carne suina è espresso in diverse Sure9 e, ancora oggi, nel mondo islamico la proibizione del consumo di carne suina viene corredata da giustificazioni di natura sia sanitaria che allegorica. Nell’edizione italiana del Corano a cura di Hamza Roberto Piccardo, in una nota al verso 173 della Sura II, si legge: Allah (gloria a Lui l’Altissimo) ci proibisce tutto quello che è un male per noi. In moltissime lingue il maiale è sinonimo di sporcizia fisica e morale. Maiale, maialata, porco, porcheria [...] Quanto di peggio possa esprimere il comportamento umano viene espresso con colore ed efficacia per mezzo di questi termini. Basterebbe questa semplice considerazione per rendere l’idea della ripugnanza che dovrebbero ispirare le carni suine. Purtroppo la grande convenienza economica dell’allevamento fa sì che i non musulmani se ne cibino, con grave pregiudizio per la loro salute fisica e spirituale (Hamza Roberto Piccardo, 2001: 46). 9 Vedasi Corano II, 173; V, 3-5; VI, 145; XVI, 115. 41 Rabbi Mosè Maimonide, medico di corte del sultano Saladino nell’Egitto del XIII secolo, ha scritto ‫( داللة الحائرين‬dalālat al-ḥā’irīn), che è stato tradotto in inglese nel 1876 con il titolo The Guide for the Perplexed10. Secondo Maimonide il motivo principale della proibizione del maiale per ebrei e musulmani è di tipo igienico: le abitudini dei maiali, animali coprofagi, che passano il tempo a grufolare e a rigirarsi in pozzanghere di escrementi, sono talmente sudicie da mettere in pericolo la salute dei popoli che intendessero allevarli. Per la salute collettiva, è necessario dunque impedire fermamente il loro consumo. Maimonide era convinto che ci fossero delle ragioni di carattere igienico alla base di tutti i divieti alimentari biblici, ma per il maiale fornisce una spiegazione più complessa, includendo anche delle motivazioni di tipo estetico. In un passaggio del volume The Guide for the Perplexed si legge: Ammetto che il cibo proibito dalla legge sia immangiabile. Nessuno mette in dubbio il carattere nocivo dei tipi di cibi proibiti, ad eccezione del maiale e del grasso; ma anche in questo caso il dubbio non è giustificato. Infatti il maiale contiene acqua più del necessario (per un alimento destinato all’uomo) e troppe sostanze superflue. La ragione principale per la quale la legge proibisce la carne di maiale va ricercata nella circostanza che le sue abitudini e i suoi cibi cono molto sporchi e disgustosi… (Douglas, 2005: 71). La motivazione relativa alla salute pubblica ricevette una provvisoria giustificazione scientifica nel XIX secolo, quando fu stabilita clinicamente l’origine della trichinosi, una malattia parassitaria il cui contagio avviene attraverso l’ingestione di carni crude o poco cotte, contaminate dalle larve del verme Trichinella spiralis. Per un certo periodo, la spiegazione di carattere sanitario rimase tra le più diffuse e ad essa se ne aggiunsero altre analoghe relativamente al resto della precettistica ebraica. Questo tentativo di razionalizzazione ebbe termine quando gli ebrei riformisti cominciarono a sostenere la possibilità di consumare la carne di maiale, dato che non sussistevano più le condizioni igienico-sanitarie che avevano dato origine al tabu; tale atteggiamento provocò la reazione degli ebrei ortodossi, che “Inorridivano al solo pensiero che il libro della legge di Dio venisse in pratica ridotto ‘al livello di un manualetto di medicina’” (Harris, 1990: 63). In ogni caso, le nozioni acquisite nel XIX secolo non potevano certamente essere conosciute anche dai redattori della Bibbia. Inoltre, la trichinosi si trasmette anche con carni di altro tipo, perciò proibire la carne suina per prevenirla sarebbe 10 Mary Douglas (2005) riporta le citazioni da Mosè Maimonide (Mosheh bar Maymon), Guide for the perplexed, a cura di M. Friedlander, London, 1881; l’opera originale è stata scritta tra il 1170 ed il 1190 da Maimonide in giudeo-arabo ed è stata tradotta nel 1207 in ebraico da un suo contemporaneo, Samuel ben Judah ibn Tibbon, con il titolo Moreh Nebukim. 42 stata una strategia poco efficace11. Harris suggerisce che, se davvero fosse stata individuata nella mancanza di cottura la ragione della sua pericolosità, si sarebbe potuto formulare il divieto in modo differente, permettendo di consumare la carne di maiale a patto che fosse abbastanza cotta: “Non mangerai carne di maiale sinché il rosa non sarà sparito in seguito a cottura” (Harris, 1990: 64). Anche Douglas sostiene che il materialismo medico fornisce spiegazioni non complete e, anzi, spesso inesatte, dato che le nozioni di igiene e di sporco sono differenti presso culture differenti (Douglas, 2005). Anche se le astensioni rituali possono essere in simmetria con l’esigenza di evitare le malattie contagiose, “un conto è sottolineare i benefici secondari degli atti rituali ed un altro è accontentarsi di utilizzare le conseguenze secondarie come spiegazione plausibile” (Douglas, 2005: 69,70). Douglas (2005) ha compiuto una disamina delle diverse interpretazioni fornite nel corso del tempo alle regole alimentari proposte nel testo biblico, individuando due principali tipologie di spiegazioni: la prima modalità interpretativa sostiene l’arbitrarietà delle disposizioni, che hanno l’intento di disciplinare il popolo israelitico, ma non si fondano su motivi razionali; il secondo modello teorico considera gli animali elencati nel testo levitico come allegorie di vizi e di virtù, rispettivamente proibiti o permessi di conseguenza. Nel riflettere sulle condizioni e sulle dinamiche di scambio culturale con i popoli limitrofi, Douglas sottolinea la necessità di chiarire alcune premesse: Non è una spiegazione rappresentare Israele ora come una spugna ora come un repellente, senza dare ragione del perché abbia assorbito questo elemento straniero ed abbia respinto quell’altro. [...] Nessuna cultura si crea dal nulla, naturalmente. Gli Israeliti assorbirono liberamente dai propri vicini, ma non proprio liberamente. Alcuni elementi delle culture straniere erano incompatibili con i modelli fondamentali sui quali essi venivano costruendo il loro universo; altri invece erano compatibili. [...] Quali che possano essere le prove storiche dell’adozione di un certo elemento estraneo da parte del giudaismo, noi constateremo che vi era nel loro schema culturale una compatibilità precostituita tra questa particolare ripugnanza ed i principi generali sui quali era costruito il loro universo (Douglas, 2005: 93,94). In relazione alle popolazioni limitrofe, Harris (1990) fa notare che il divieto di consumare carne di maiale era presente in Egitto e in Mesopotamia. La sua ipotesi è che, in seguito ad un aumento 11 Soler propone come esempio la carne di cammello, consumato con regolarità dalle popolazioni nomadi della stessa zona (Soler 1997: 47). 43 demografico, in Egitto emerse la proibizione di allevare suini perché la loro alimentazione avrebbe comportato una diminuzione delle derrate alimentari che potevano essere destinate anche all’uomo. In tempi di gravi carestie alimentari, nelle classi più povere cresceva l’astio verso gli allevatori di suini, che utilizzavano cereali e ghiande che anche gli uomini avrebbero potuto consumare. In Mesopotamia, invece, la causa scatenante sarebbe stata un mutamento nel grado di salinità dei campi sumeri, che comportò la sostituzione del frumento con l’orzo, più resistente ma meno produttivo; questo cambiamento fu tra i fattori che provocarono la caduta dell’impero sumero nel 2000 a.C., momento che coincise con la scomparsa pressoché totale delle tracce di allevamenti di maiali in quel territorio (Harris, 1990). Harris mette in primo piano le ragioni ambientali anche per spiegare la nascita del divieto presso gli Israeliti, collegando la scomparsa dell’allevamento dei suini al processo di deforestazione causato dall’aumento della popolazione: dal 5000 a.C., la progressiva crescita demografica comportò l’estensione delle terre coltivate, fino alla diminuzione delle foreste dal 70% al 13% del territorio, habitat necessario per un allevamento economicamente conveniente di questi animali. I maiali hanno un apparato digerente molto simile a quello umano: al contrario dei ruminanti, non digeriscono la cellulosa e sono dunque dei concorrenti dell’uomo in campo alimentare. Tra i mammiferi addomesticati dall’uomo i maiali sono tra i più rapidi ed efficienti convertitori di piante in carne. Nel corso della sua vita media un maiale arriva a convertire in carne il 35 per cento dell’energia contenuta in ciò che mangia; rispetto al 13 per cento degli ovini e solo al 6,5 per cento dei bovini (Harris, 1990: 60). Se lo si nutre con frumento, mais, patate, soia e, insomma, qualsiasi tipo di vegetale a basso contenuto di cellulosa, il porco opererà veri e propri miracoli di transustanziazione. Se invece gli si dà da mangiare erba, stoppie, foglie e, insomma, qualsiasi tipo di vegetale ad alto contenuto di cellulosa, il maiale si guarda bene dall’ingrassare. I maiali sono onnivori; solo che non sono ruminanti. Per quanto riguarda l’apparato digerente e in genere il processo nutritivo, i maiali sono più simili all’uomo di qualsiasi altro mammifero ad eccezione delle scimmie (Harris, 1990: 66). Oltre a questo aspetto, Harris denuncia altri due importanti motivi che rendono economicamente svantaggiosa la pratica di allevare i maiali. Il primo è che non sono animali adatti ai climi aridi: il maiale infatti è sprovvisto di ghiandole sudoripare, dunque la sua abitudine di rotolarsi in pozze fangose deriva dalla necessità di abbassare la propria temperatura corporea; oggi si sa che i maiali preferiscono usare a tale scopo acqua pulita piuttosto che 44 escrementi, ma la loro cattiva reputazione nasce proprio dal fatto che in mancanza di altro soddisfano i loro bisogni come possibile. Il secondo motivo è che i maiali, pur essendo i “migliori convertitori di piante in carne”, non fanno praticamente nient’altro: da essi non si ricavano derivati, come latte o lana, né forza lavoro. Finché è in vita, il maiale consuma soltanto, senza dare nulla in cambio (Harris, 1984). Emerge in questa considerazione il parallelismo tracciato da Harris rispetto alla specularità degli atteggiamenti nei confronti dei maiali e dei bovini, che hanno portato rispettivamente alla condanna e alla sacralizzazione degli animali di cui si è vietato il consumo. I bovini in India si trovarono in una situazione analoga a quella dei suini in Medioriente, ma con una importante differenza: i maiali venivano allevati esclusivamente come fonte alimentare diretta, mentre i bovini erano indispensabili fornitori di forza lavoro e potevano offrire anche derivati di vario tipo, dal latte allo sterco, usato come combustibile. In sostanza, i suini erano utili solo da morti, mentre i bovini potevano essere molto utili anche da vivi. Il problema era che, se i maiali potevano essere eliminati totalmente dalla vita degli Israeliti, i bovini non potevano mancare né essere sostituiti in India, ma non potevano essere allevati per la loro carne, pena uno squilibrio del sistema economico vigente (Harris, 1979). Il fatto che allevare maiali potesse essere svantaggioso a lungo termine, non esclude la possibilità che tale attività restasse in vigore in certe zone in cui si potesse praticare a basso costo, come foreste residuali su pendici collinari o aree paludose; questo non inficia, secondo Harris, la teoria dell’origine ambientale del divieto: Se infatti non vi fosse stata la minima possibilità di allevar maiali non vi sarebbe stato il minimo bisogno di impedirlo ricorrendo al tabu. [...] Le religioni trovano molto maggior seguito quando aiutano la gente a prendere delle decisioni che sanzionano delle pratiche già rivelatesi utili, ma non ancora a tal punto da escludere qualsiasi dubbio e tentazione. [...] Dio non deve normalmente star a perdere tempo a vietare ciò che è impossibile o a condannare ciò che è impensabile (Harris, 1990: 70). L’allevamento di maiali era possibile sia per i gruppi di pastori seminomadi, che potevano sfruttare zone più umide o collinari e condurre i branchi per lunghe distanze, sia per i gruppi di agricoltori sedentari, che, pur colpiti sempre più dal disboscamento e dall’inaridimento delle terre, avrebbero potuto dedicare ai maiali delle aree apposite. “La totale interdizione legata a sanzioni di carattere sacro è un risultato prevedibile in circostanze in cui le tendenze immediate 45 sono grandi ma i costi finali elevati, e dove il calcolo costi-benefici da parte dell’individuo può condurre a conclusioni ambivalenti” (Harris, 1984: 200). Alland (1975) ha criticato la spiegazione cultural-materialista argomentando che è poco logico vietare qualcosa di “ecologicamente distruttivo”, in quanto tale regola sarebbe un “tabu di inutilità”, del tutto superfluo nella cultura che lo avrebbe prodotto: La semplicità esige l’ipotesi che l’esperienza prodottasi entro un determinato ambiente induca a scelte adattive consce o inconsce che non richiedono tabu. L’unico presupposto indispensabile è che nella cultura esista una norma dichiarata (o anche non dichiarata) contro l’impiego di una risorsa. Richiedere un tabu su un animale che sia ecologicamente distruttivo è culturalmente superfluo (Alland, 1975)12. Harris ha replicato rivendicando la coerenza della propria teoria, sostenendo che la distinzione tra “tabu di inutilità” e “tabu di utilità” non tiene conto del fatto che ogni proscrizione, in un contesto di sistemi ecologici, è allo stesso tempo una prescrizione di altro, perciò “proibire l’allevamento dei maiali significava incoraggiare la coltura di cereali, la piantagione di alberi e fonti meno costose di proteine animali” (Harris, 1979: 146). Nel valutare la necessità di una scelta alimentare, vanno considerati “i costi-benefici diretti e indiretti delle specie interdette nel sistema globale di produzione” (Harris, 1984: 201). L'espressione di Alland “la semplicità esige” urta contro i principi fondamentali dell'ecologia scientifica. Essa sarebbe ragionevole soltanto se gli ecosistemi fossero statici e se l'adattamento fosse una decisione binaria “sì-no”. Ma l'adattamento è un processo evolutivo in cui avvengono simultaneamente molti mutamenti piccoli e grandi. Così come le persone singole sono ambivalenti e ambigue circa i loro stessi pensieri ed emozioni, intere popolazioni sono ambivalenti e ambigue circa gli aspetti dei processi adattivi a cui partecipano. [...] Non è culturalmente superfluo che la carne suina sia stata vietata da leggi divine più di quanto non sia culturalmente superfluo che ci siano leggi divine che proibiscono l'omicidio o le rapine in banca (Harris, 1984: 201). Harris chiarisce che, se il materialismo culturale permette di trovare la spiegazione migliore dell’origine del divieto relativo al maiale, è necessario chiamare in causa anche l’aspetto simbolico di questa norma per capire come si sia conservata nel tempo. Formulato per 12 Citazione riportata da Harris (1984: 201). 46 rispondere ad una necessità ecologica, il divieto di allevare e mangiare maiale mantiene la sua validità ancora oggi, quando le comunità ebraiche e musulmane sono diffuse nel mondo e inserite in ecosistemi completamente diversi da quello in cui sono nate. Secondo Harris, la strategia cultural-materialista non perde comunque la sua validità neppure nel contesto odierno: il fatto che le regole non siano state modificate, può essere giustificato ricorrendo, anche, al calcolo dei costi e dei benefici; con ciò non si vuole negare che le norme alimentari siano trasmesse come “Contrassegni distintivi fra minoranze etniche e nazionali e come simboli di identità di gruppo, indipendentemente da qualsiasi scelta ecologica consapevole pro contro la loro esistenza” (Harris, 1979: 152), ma si rivendica che difficilmente sarebbero state mantenute in vigore se avessero provocato un forte aumento dei costi di sussistenza, poiché “Nessun impulso puramente religioso può contrastare per un lungo periodo di tempo la fondamentale resistenza opposta dall’ecologia e dall’economia” (Harris, 1979: 152). Si tratta piuttosto di una compresenza di fattori che interagiscono tra loro: “Per cinquemila anni i popoli neolitici del Medio Oriente hanno pensato che i maiali fossero buoni da mangiare. Perché hanno cambiato idea? La risposta non può sicuramente trascurare la trasformazione che subì l’intero ecosistema, e con esso il sistema culturale e naturale di produzione e il ruolo del maiale in tale sistema” (Harris, 1984: 201, 202). Se Harris è convinto che l’aspetto preponderante da tenere in considerazione sia quello materiale, Douglas (2005) difende l’importanza della struttura religiosa e simbolica in cui il maiale è inserito e classificato come animale “immondo”. Tra i numerosi animali oggetto di interdizione dalla legge ebraica, quello del maiale è il caso al quale Douglas presta particolare attenzione anche in altre successive occasioni (Douglas, 1985b, 1985c), in cui ha modo di approfondire la sua teoria sulle norme alimentari del Levitico, anche in base alle critiche che le sono state rivolte da Bulmer (1967) e da S.J. Tambiah (1995). Douglas (2005) introduce il discorso sulla purezza con un’analisi del concetto di sporco, rilevando che in tutte le culture si percepisce come tale, e dunque come impuro o sbagliato, qualcosa che è “fuori posto”. Fatta questa premessa, all’origine dell’interdizione risulta essere il fatto che il maiale si trovi in posizione anomala rispetto alla tassonomia degli ungulati ruminanti: si trova fuori posto rispetto alla classe a cui dovrebbe appartenere, quella degli animali dallo zoccolo bipartito e sfida i criteri di classificazione perché non è un ruminante, come si suppone debbano essere tutti gli animali che hanno zoccoli di quel tipo. Douglas sottolinea che il motivo fornito dal Levitico per condannare il maiale non ha nulla a che fare con le sue abitudini di cibarsi di immondizia. Avanza quindi l’ipotesi che gli Israeliti non conoscessero il comportamento dei maiali poiché non ne possedevano e suggerisce che non 47 allevassero suini perché essi potevano fornire loro esclusivamente carne, mentre ovini e bovini procuravano sia carne che altri prodotti: “Poiché il maiale non produce latte, pelle né lana, non c'è altra ragione per tenerlo se non per la carne” (Douglas, 2005: 101). In questo passaggio si nota una certa assonanza con le teorie di Harris: il fatto che l’allevamento dei maiali non fosse praticato dagli Israeliti viene motivato con ragioni economiche anche da Douglas, che però non giustifica nello stesso modo anche l’origine del divieto in sé. Douglas ha l’occasione di ritornare sulla condanna del maiale espressa nel Levitico in pubblicazioni successive (1985b, 1985c) aggiungendo altri elementi alla spiegazione ed arrivando alla conclusione che il maiale “Sopporta il peso di un odio dovuto a una molteplice contaminazione: in primo luogo, contamina perché sfida la classificazione degli ungulati; in secondo luogo, contamina perché mangia le carogne; terzo, contamina perché è allevato come alimento (e presumibilmente come carne di prima qualità) dai non Israeliti” (Douglas, 1985b: 190). Al primo motivo di interdizione si sommano in questo caso le sue abitudini alimentari, che lo rendono impuro come tutto ciò che entra in contatto con sangue e morte, e il fatto che è una componente importante dell’economia alimentare dei popoli limitrofi, da cui gli Israeliti devono distinguersi. Ogni fattore di esclusione riporta al concetto di confine e di separazione dall’alterità, che è al centro della cultura ebraica che ha prodotto queste regole. Nel commentare questa teoria, Harris (1984) critica il fatto che essa non fornisce la vera spiegazione del perché il maiale fosse proibito, ma si limita a costruire una serie di tautologie: “L’approccio strutturalista ai tabu animali non può sfuggire alla morsa stringente di una tautologia: il maiale è anomalo perché è anomalo in un sistema tassonomico e ideologico in cui è anomalo. [...] Quello che vogliamo sapere è perché il sistema tassonomico sia stato costruito in modo tale da rendere il maiale anomalo” (Harris, 1984: 198). Secondo Harris la seconda motivazione di condanna individuata da Douglas viene confutata dal fatto che altri animali che mangiano carogne, come il cane o la capra, non sono considerati altrettanto immondi del maiale. Il terzo principio, invece, è invalidato dal fatto che i popoli stranieri o nemici allevano anch’essi ovini e bovini, che non sono stati affatto interdetti per questo; a ciò si aggiunge che alcuni di questi popoli vietavano la carne suina tanto quanto gli Israeliti. Quest’ultimo punto è fondamentale nella sua obiezione: non è possibile trovare una spiegazione esauriente “soltanto con i valori e le credenze peculiari degli Israeliti” (Harris, 1979: 150) ad un elemento che troviamo anche in altri popoli mediorientali. 48 La confusione, circa il problema dei tabu verso particolari animali, sembra derivare da un interesse quasi esclusivo per la peculiarità della storia di particolari culture astratte dai loro contesti regionali e dai processi evolutivi generali (Harris, 1979: 150). È vero che il maiale si trovava in una condizione emica anomala per gli antichi Israeliti (nonché per molti altri popoli antichi e moderni del Vicino e Medio Oriente). Ma la fonte di questa condizione anomala non è il codice binario di un arcano calcolo mentale, bensì il pragmatico e terreno rapporto tra costi e benefici nell’allevamento del maiale in condizioni infrastrutturali marginali o inadatte (Harris, 1984: 198-199). Quello che fatica ad emergere da queste analisi è la concretizzazione delle regole religiose nella pratica quotidiana dei fedeli. Secondo Bahloul (2016) è importante tenere in considerazione la differenza tra la religione ebraica e la cultura ebraica, storicamente connotata: Applying the Saussurian linguistic approach to Jewish food is helpful in this endeavour, by enabling us to distinguish the langue of Jewish food from its parole. Because the Judaic system of religious laws, inscribed in the Bible and in rabbinical legislation, has regulated diet among Jews for centuries before the modern period and secularization, I will consider it as the register of langue with its complex set of food prescriptions and prohibitions. The domain of parole is constituted by the observances and culinary traditions, even if they are partial, of these religious prescriptions by Jews throughout history and in the diverse contingent experiences of Jewishness in specific historical settings (Bahloul, 2016: 94). 2.3 Scelte soggettive: limiti, dinamiche e valori Le scelte individuali si distanziano in varia misura dalle direttive generali del sistema alimentare, generando una pluralità di pratiche, le cui differenze possono essere ricondotte all’appartenenza di classe e di genere, all’età anagrafica e ad altre caratteristiche che possono influenzare le persone nella configurazione delle proprie scelte alimentari. I percorsi prendono strade che si distanziano, si intersecano e si sovrappongono, nel formare il reticolato che costituisce la mappa più generale caratteristica di una società. I singoli individui aggiungono ulteriori preferenze ed esclusioni, in funzione del proprio personalissimo percorso di vita e dei gusti che vengono maturati lungo la strada. I consumi sono socialmente distintivi, i gusti sono indicatori identitari, che uniscono e diversificano i gruppi sociali (Douglas, 1999; Bourdieu, 2011). Nella costruzione del gusto individuale e nella definizione dello stile, i soggetti si 49 muovono all’interno del panorama culturale, assorbendone i modelli fino alla naturalizzazione delle categorie strutturali. Nel configurare e negoziare il proprio stile individuale, le persone si confrontano con i limiti e le possibilità offerte dal sistema, contribuendo a loro volta alle dinamiche di trasformazione culturale (Koensler, Meloni, 2019). 2.3.1 Disponibilità effettiva: confini della scelta alimentare, tra fame e abbondanza Le testimonianze archeologiche dimostrano che la diversificazione dell’alimentazione umana risale al periodo paleolitico, quando la tecnologia padroneggiata consentì all’uomo maggiori strategie di approvvigionamento e trasformazione del cibo. I resti alimentari risalenti al periodo neolitico rivelano che l’alimentazione preistorica non rispecchia esclusivamente esigenze nutrizionali, ma anche un’ideologia e dei rapporti di potere. La scelta degli alimenti, il sistema messo a punto per procurarseli, le modalità di preparazione adottate in quell’epoca indicano che l’alimentazione è diventata progressivamente un elemento essenziale dell’organizzazione e dell’identità sociale (Perlès, 2003). Già in epoca preistorica alcuni animali assumevano particolari significati e veniva identificata una distanza simbolica tra gli alimenti di origine vegetale e quelli di origine animale, ovvero tra quelli che andavano cercati e quelli che andavano cacciati ed uccisi: “L'acquisizione di risorse carnee pone - di per sé - maggiori problemi rispetto alla raccolta di vegetali, non fosse altro per la mobilità delle prede” (Perlès, 2003: 13). L’analisi dei resti ossei degli animali mangiati dai nostri progenitori, rinvenuti in prossimità dei resti umani e dei focolari, ha consentito di tracciare i percorsi della diffusione degli uomini e del popolamento della terra. Nei millenni successivi, le persone hanno continuato a scegliere di cosa cibarsi, in modo più o meno inconsapevole e strutturato da vari fattori. Tra i criteri di scelta, uno dei più evidenti e rilevanti è quello relativo al tempo che si decide di destinare all'approvvigionamento. Harris (1990) richiama la teoria del foraggiamento ottimale 13 per illustrare i criteri di selezione adottati in ordine al tempo impiegato per l’approvvigionamento, sottolineando che si tratta di una spiegazione applicabile all’uomo, oltre che agli animali: La teoria del foraggiamento ottimale (Optimal Foraging Theory, indicata anche con l’acronimo OFT) è stata elaborata nell’ambito degli studi di ecologia comportamentale per formulare un modello predittivo rispetto ai comportamenti degli animali in funzione della ricerca di cibo; il modello considera e valuta quali siano i diversi fattori coinvolti nella dinamica di ricerca, ipotizzando che essa tenda a massimizzare la resa calorica rispetto alle energie ed al tempo impiegato. 13 50 La teoria del foraggiamento ottimale sostiene che i nostri cacciatori o raccoglitori inseguiranno o raccoglieranno solo quelle specie che massimizzano il tasso del ricavato calorico in proporzione al tempo impiegato per procurarsi tale alimento. Così ci sarà sempre almeno una specie che verrà effettivamente presa quando essi la incontreranno sul proprio cammino; ovvero la specie che offre il più alto tasso di ricavato calorico in relazione a ciascuna ora del “tempo di trattamento”: il tempo impiegato per inseguirla, ucciderla o raccoglierla, trasportarla, prepararla e cucinarla dopo averla incontrata (Harris, 1990: 165)14. Questo quadro schematico, che risponde solo parzialmente alle domande relative alla selezione praticata, è uno dei lati del prisma che l’antropologia cultural-materialista predilige come base per affrontare lo studio delle abitudini alimentari. L’aspetto temporale è un criterio di selezione che viene adottato sia presso i gruppi di cacciatoriraccoglitori contemporanei, quando si decide come pianificare e quanto tempo destinare ad una battuta di caccia e quali siano gli animali da prediligere come preda, così come presso le ricche società moderne, quando ci si reca al supermercato per fare la spesa, o quando si scorre il menù di un ristorante, cercando le pietanze che incontrano il proprio gusto e che sembrano più appropriate per l’occasione, con un occhio di riguardo al prezzo associato alle varie offerte, dato che il tempo, in questo contesto, è quantificato monetariamente. Così come un cacciatore non investirà del tempo alla ricerca di animali troppo piccoli o troppo difficili da scovare (Perlès, 2003; Harris, 1990), nel fare la spesa al supermercato i clienti si orientano sempre più spesso e diffusamente verso le offerte di cibo preconfezionato e precotto, che ha conquistato negli ultimi decenni la tavola della società occidentale, dove il tempo destinato alla preparazione del pasto quotidiano ha visto una forte decrescita (Montanari, 1993) e l’offerta alimentare è largamente affidata all’industria di settore, con i condizionamenti che ne conseguono anche in ordine alla diffusione dei messaggi valoriali relativi ai cibi a disposizione. Il risparmio di tempo si traduce nel risparmio di fatica e denaro, specie nelle pubblicità finanziate dalle aziende multinazionali che regolano tale industria e nella mentalità collettiva così alimentata. La possibilità di velocizzare ulteriormente gli acquisti tramite ordini online sui rispettivi siti internet delle catene di distribuzione o, negli ultimi anni, per mezzo delle applicazioni disponibili sugli smartphone, è solo una delle più recenti strategie adottate per ottimizzare il tempo a propria disposizione. Il fatto che le scelte individuali vengano in questo modo registrate e monitorate in maniera sempre più capillare passa in secondo piano, 14 Traduzione migliorata da chi scrive. 51 nei messaggi pubblicitari delle aziende che promuovono questa possibilità, almeno fino a quando non viene presentato anch’esso come un vantaggio, dato che consente di adattare e personalizzare la proposta commerciale ad hoc per il fedele cliente, tanto agevolato e facilitato nella sua scelta, quanto più vincolato e inconsapevole dei confini del suo orizzonte d’azione. Il web e l’e-commerce sono campi a cui l’antropologia sta dedicando crescente interesse e la comprensione di quanto fenomeni come le filter bubble15 e le echo chamber16 limitino effettivamente le scelte individuali in ambito alimentare è uno degli obiettivi di questo genere di ricerche (Haider, Sundin, 2019; Wilson, Peterson, 2002; Nardi, 2015; Kliman-Silver, Hannak, Lazer, Wilson, Mislove, 2015; Marino, 2018, 2019; Fonseca, 2009). Riappropriarsi del proprio tempo per destinarlo ad una più soppesata scelta alimentare è il messaggio promosso da movimenti come Slow Food, che già nella propria denominazione esplicita l’importanza della dimensione temporale in rapporto all’alimentazione. Il tempo da destinare alla propria alimentazione viene rivalutato in queste narrative in relazione a più di un aspetto. Nell’ambito del consumo si incoraggia la convivialità prolungata, la condivisione dei pasti in contesti che consentano il soffermarsi sul cibo, il commento e la valorizzazione delle scelte compiute. Inoltre, la rielaborazione della dimensione temporale include il momento dedicato all’acquisto, alla scelta ed alle dinamiche dello scambio commerciale: vengono promosse occasioni di incontro diretto con i produttori, allestendo mercati e fiere, in cui gli acquisti consentono di sentirsi parte di una comunità (Beriss, 2019). La rete sociale che si crea in questo modo rafforza, da un lato, il senso identitario dei consumatori e, dall’altro, irrobustisce la struttura della filiera produttiva, che si garantisce una clientela di fiducia (Beriss, 2019; Koensler, Meloni, 2019). Essere membri di Slow Food e di associazioni analoghe significa adottare un approccio diverso all’investimento di tempo ed energie nella scelta alimentare (Lee, Scott, Packer, 2014; Beriss, 2019; Koensler, Meloni, 2019). Questo atteggiamento ha delle conseguenze e delle premesse anche sul piano economico. Investire del tempo significa, spesso anche se non necessariamente, destinare una maggiore quota del proprio reddito alla spesa alimentare. I prodotti certificati come biologici o in relazione alla provenienza spesso hanno un costo maggiore dei corrispettivi prodotti convenzionali, sia a causa dei maggiori costi di 15 Con il termine filter bubble viene indicato lo stato di isolamento intellettuale indotto dai risultati personalizzati offerti dai motori di ricerca online, che sfruttano algoritmi che registrano alcuni fattori, come la cronologia di ricerca precedente o la localizzazione geografica, per determinare le risposte più appropriate o desiderate dall'utente stesso. Queste impostazioni, filtrando informazioni in contrasto con il punto di vista degli utenti, hanno come possibile effetto collaterale l’isolamento in una bolla culturale (Pariser, 2011). 16 Il termine echo-chamber indica, in ambito mediatico, il fenomeno in base al quale le idee vengono amplificate o rafforzate dal fatto di comunicare in un sistema chiuso, in cui i soggetti vengono esposti prevalentemente a informazioni che rafforzano le loro prospettive, mentre le alternative sono censurate o contestate. 52 produzione, ma anche in conseguenza all’inquadramento merceologico stesso, con una strategia di marketing che ne promuove l’esclusività (Augé, Bargna, Fabietti, 2015). In Italia, nelle statistiche relative ai consumi sono considerati come prodotti di lusso e tale distinzione serve da perno per la valutazione delle scelte alimentari della popolazione nazionale. La percentuale del reddito destinata all’alimentazione è una delle variabili adottate in campo economico per valutare lo stato di benessere di una società. Ad una maggiore capacità di acquisto, si suppone che la spesa destinata ai consumi alimentari, considerati come beni di prima necessità, decresca proporzionalmente. In quest’ottica, le classi sociali più povere spendono una maggiore percentuale del proprio reddito in alimentazione rispetto alle classi più ricche. Questa semplificazione, però, rischia di nascondere le sfumature delle scelte alimentari, specie nelle società più ricche, in cui la sfera del lusso coinvolge anche l’alimentazione ed alcuni alimenti non possono essere qualificati come beni di prima necessità. Viene pertanto effettuata una distinzione tra la spesa di sussistenza e gli acquisti di lusso. Nell’analizzare i dati statistici forniti da diversi istituti di ricerca degli anni 2017 e 2018 in rapporto alla spesa alimentare effettuata sul territorio italiano, il Centro Studi Confagricoltura17 rileva questa contraddizione: nonostante la percentuale media del reddito destinato alla spesa alimentare sia rimasta pressoché costante negli ultimi anni, la spesa di sussistenza e la spesa destinata agli acquisti considerati di lusso, tra i quali vengono inclusi cibi biologici, DOP e DOC, sono distribuite in modo tale da indicare un’elevata differenziazione di classe. I dati rilevati indicano un miglioramento medio della condizione economica delle famiglie italiane, ma tale incremento è sostenuto prevalentemente dal crescere delle disparità sociali: le condizioni economiche più favorevoli si concentrano soprattutto su una parte del tessuto sociale. In queste analisi la carne non viene considerata un bene di lusso, ma per lungo tempo, nella storia italiana e, in generale, nella storia mondiale, non è stato così. Il consumo di carne era uno dei segni tangibili della differenza di classe. La carne era appannaggio, quasi esclusivo, dei ceti più ricchi e la fame che accompagnava quotidianamente quelli più poveri era una “fame di carne”, prima e più di qualsiasi altra cosa (Montanari, 1993, 2004; Teti, 2015). Diversi studi di carattere storico e antropologico sono stati dedicati alle trasformazioni della dieta sul territorio europeo, coadiuvati dall’ampia tradizione scritta di alcune delle società che lo hanno popolato nel corso dei secoli. Fatte le debite proporzioni, una delle costanti che Le analisi sono disponibili sul sito ufficiale della associazione: per il 2017 all’indirizzo www.confagricoltura.it/ita/comunicazioni_centro-studi/rapporti-economici/spesa-alimentare-delle-famiglie-inaumento-nel-2017-2-ma-soprattutto-grazie-ai-consumi-di-lusso.php?pagina=3 e per il 2018 all’indirizzo www.confagricoltura.it/ita/comunicazioni_centro-studi/rapporti-economici/spesa-alimentare-delle-famiglie-nel2018.php (ultima consultazione 15/02/2020). 17 53 emergono è che la povertà delle diete contadine non era solamente o semplicemente una povertà calorica, ma una povertà di diversità. La ricchezza è individuabile nella varietà, prima ancora che nell’abbondanza, e il consumo di carne è tra le prime demarcazioni di questa differenziazione. La possibilità di avere anche solo una minima quantità di carne era il sogno di molti, nelle campagne italiane fino ai primi anni del Novecento e la maggior parte delle calorie proveniva da alimenti vegetali o da latticini. La fame era nel panorama costante e l’abbondanza che è giunta recentemente, a partire dagli anni del boom economico, ha fatto rapidamente dimenticare le difficoltà ed i limiti a cui le generazioni precedenti erano forzatamente abituate (Teti, 2015)18. Secondo Teti (2015), i pregiudizi di molti osservatori hanno contribuito alla formazione di un’idea della cucina povera come principalmente improntata al sostentamento, riducendola ai suoi aspetti nutrizionali. Questo “gastrocentrismo” (Teti, 2015: 50) ha portato a qualificare come produzione culturale la cucina e le pratiche alimentari delle élite, ignorando la portata identitaria, l’inventiva e la differenziazione presente nelle preparazioni delle classi popolari. L’affermarsi di una cucina professionale è generalmente legato alla presenza di una tradizione scritta che ha permesso lo stratificarsi di fonti, quali trattati o ricettari. La differenziazione di classe, l’antagonismo e la concorrenza presenti tra gli esponenti dei ceti più ricchi, in particolare, in contesti come quello della corte francese, sono state alla base delle spinte per la creatività gastronomica che sono state testimoniate in tali fonti (Goody, 1982; Montanari, 1993). Ma, sottolinea Teti, la dimensione orale della tradizione popolare non va sottovalutata: Come la cultura non è necessariamente legata alla scrittura, così la gastronomia non è legata ai libri di ricette. La cucina del passato, specie presso i ceti più poveri e disagiati, più che una langue è una parole. È cioè, utilizzando le categorie di Saussure, linguaggio vivente fatto di atti, variazioni, prassi radicate nell’uso, che contribuivano a definire nei diversi contesti il valore e il significato del mangiare e che, nonostante le limitazioni pratiche, appare ricca di fantasia, di creatività, mobile e disponibile ad accogliere le novità, come 18 Alcuni episodi di cronaca manifestano in maniera particolarmente significativa il ruolo simbolico della carne nelle diete dei ceti sociali più disagiati: nella primavera del 2016, Simone Salvini, celebre cuoco vegano imitato anche dal comico Maurizio Crozza, nel pianificare una cena destinata alla mensa dei poveri allestita dal refettorio Antoniano di Bologna, ha ricevuto diverse critiche e proteste da parte dei commensali, che non hanno apprezzato la mancanza della carne dal menu. Nel video di satira di Crozza di alcuni giorni dopo (“La7 Intrattenimento - Chef Germidi Soia ci riprova”, https://youtu.be/RnGXzVPBWkc; ultima consultazione 15/02/2020) è presente un filmato in cui Salvini riporta l’equivoco, sostenendo di essere stato frainteso dall’intervistatrice e difendendo la propria scelta. Nonostante la buona fede, pur volendo supporre il rispetto dell’equilibrio nutrizionale dei piatti proposti, sottovalutare l’aspetto simbolico della carne in un contesto del genere è stato un errore che ha portato lo chef Salvini sulle pagine dei giornali dei giorni seguenti (Giusberti, 2016). 54 dimostra la storia alimentare delle popolazioni italiane e in particolare meridionali in epoca moderna e contemporanea (Teti, 2015: 50,51). Nelle situazioni di precarietà alimentare, le imitazioni e le sostituzioni dettate dalla necessità si consolidano in nuove ricette e l’inventiva diventa la risorsa delle minoranze e la carica innovativa proveniente dal basso si riversa anche nelle produzioni gastronomiche destinate alle élite. Ripiegare sugli scarti e sulle derrate escluse dai privilegiati significa dover trovare nuovi modi di rendere appetitoso qualcosa che, spesso, non si presta facilmente alla manipolazione gastronomica (Montanari, 1993, 2004). Appena diventa possibile, quando l’economia lo consente, questi ingredienti spariscono dalla circolazione, per poi magari rientrare dopo qualche tempo sotto forma di manicaretti prelibati e degni dei migliori ristoranti, con la qualifica di “cibo di una volta”, classico della gastronomia local e tradizionale (Teti, 2015; Beriss, 2019). Lo street-food a base di interiora e frattaglie, per esempio, ha seguito questo percorso e da cibo povero e poco costoso, destinato alle pance poco raffinate, è stato rielaborato e proposto ai turisti contemporanei, con prezzi lievitati di conseguenza, non solo sulle strade del suo territorio d’origine, ma viaggiando insieme alle manifestazioni dedicate allo street-food che recentemente si sono moltiplicate in giro per il mondo, con annesse classifiche e valutazioni internazionali analoghe a quelle riservate per i servizi di ristorazione tradizionali. Di Giorgi (2017) ha condotto una ricerca etnografica in relazione allo street-food palermitano in cui sono protagonisti stigghiola, meusa e frittola: si tratta di parti di scarto della macellazione di diversi animali, che venivano fritte o bollite, insaporite generalmente con sale e limone e servite in cartocci o fette di pane a prezzi irrisori da venditori strategicamente posizionati vicino ai mercati popolari come quello di Ballarò a Palermo, luoghi di costruzione identitaria per i palermitani (Lubberhuizen, 2017). L’apertura dei commerci con il continente americano a partire dal XV secolo è stata una delle svolte decisive della storia mondiale. Sia nel Vecchio che nel Nuovo Mondo, la produzione ed il consumo alimentare sono stati trasformati dalle nuove opportunità offerte dalle nuove specie vegetali ed animali (Montanari, 1993; Flandrin, Montanari, 2003; Fournier, 2002; Crosby, 1972). La diaspora che ha coinvolto per secoli la popolazione africana vittima della schiavitù ha avuto effetti di vasta portata sia sui territori d’origine, sia nei nuovi contesti di arrivo, in termini culturali ed economici (Mintz, 2007). All’introduzione di nuovi alimenti si accompagna l’abbandono di altri, si modificano le scale gerarchiche che inquadrano l’importanza ed il ruolo dei cibi nella dieta quotidiana. Nel corso del tempo nuovi ingredienti trovano posto nelle ricette tradizionali, addirittura, talvolta, fino a 55 scalzare i precedenti e ad imporsi come nuova tradizione. È il caso del mais e della polenta nell’Italia settentrionale: tra i tanti cibi nuovi che dalle Americhe hanno cominciato a diffondersi nel resto del mondo, il mais ha trovato la strada dell’Italia. Non è stata un’acquisizione immediata: ci sono voluti alcuni decenni prima che la produzione cerealicola si convertisse alla nuova pianta, che garantiva una maggiore produttività (Montanari, 1993). Le patate furono un’altra delle novità provenienti dal Nuovo Mondo. Anche in questo caso, l’integrazione con i sistemi alimentari europei non fu rapida, anche per via della qualità delle prime cultivar importate. Nell’arco di pochi secoli, però, anch’esse divennero una componente importante, quando non fondamentale, delle diete europee (Montanari, 1993; Salaman, 1949). La diffusione di queste nuove colture, che consentivano un’alimentazione più ricca a livello calorico a costi equivalenti o inferiori rispetto alle piante precedentemente in uso, non fu esente da difficoltà e inconvenienti. Il valore nutrizionale del mais è tale per cui se la dieta si basa principalmente, o addirittura integralmente, su questa pianta, senza sottoporla a particolari processi di preparazione, si manifesta la carenza di niacina, chiamata anche vitamina PP, ossia preventing pellagra, proprio in virtù della sua funzionalità in rapporto a questa particolare malattia. In Messico, zona d’origine del mais, la farina viene trattata con acqua di calce, una modalità di preparazione che rende biodisponibile la niacina al momento del consumo finale. Nel viaggio tra i due continenti, però, tali saperi e pratiche non vennero importati insieme alla pianta, che venne utilizzata principalmente in sostituzione di altri cereali dalla minore resa, come miglio e sorgo, per la preparazione di polente e pani seguendo le tradizionali procedure. A causa della carenza vitaminica delle diete che si basavano quasi esclusivamente sul nuovo cereale, si diffuse la pellagra, così denominata a partire dalla locuzione “pelle agra”, adottata nelle zone lombarde per indicare la malattia che si manifestava principalmente con dermatite, demenza e diarrea. Per lungo tempo si pensò che la malattia fosse collegata ad una forma di intossicazione o di contaminazione delle piante con una tossina, ma Montanari (1993) riporta la testimonianza di una forma diversa di consapevolezza, maturata tra i contadini più poveri, che collegavano tale condizione non tanto al consumo di polenta, quanto alla mancanza di altro: la carne. Nel desiderio di carne dei contadini affamati non si legge solo l’invidia per i pasti abbondanti o per la migliore qualità delle derrate alimentari destinate ai più ricchi. Si può percepire anche una consapevolezza di altro tipo, una competenza di più ampio spettro. Molta carne è un sogno, una fantasia, accettata come tale, inarrivabile ed irrealizzabile. Ma almeno un po’ di carne, poca, pochissima, il minimo indispensabile dovrebbe far parte dei pasti di chiunque. L’idea di diritto alla carne si muove in simbiosi con quella di diritto all’esistenza in generale. Nella carne vengono incorporati valori di salute, benessere, forza e ricchezza. 56 La rivoluzione verde della seconda metà del XX secolo ha consentito un’ulteriore svolta epocale nella produzione ceralicola a livello globale. Una vasta porzione di tale produzione è stata destinata al consumo animale, contribuendo alla crescita ed allo sviluppo dell’industria zootecnica. Diversi studi antropologici hanno rilevato le differenze esistenti tra i modi di configurare la produzione di carne animale, individuando le peculiarità dell’industria improntata sul modello capitalistico, rispetto alle altre forme di allevamento industriale (Blanchette, 2018; Harris, 1990). Indiscutibilmente, la disponibilità di carne è aumentata enormemente rispetto al passato, ma i costi di questa produzione sono stati ripartiti in maniera diseguale, considerato che le conseguenze ambientali e sociali di questa attività sono emerse solo a distanza di tempo. 2.3.2 La formazione del gusto e della grammatica alimentare Così come le tendenze collettive, anche le scelte individuali in campo alimentare sono ancorate alle dimensioni materiali del sistema. Questo non significa che esse siano l’esito di mera causalità, ma è importante riconoscere che le preferenze soggettive si generano anche per via di ragioni esterne all’individuo. Pur essendo frutto di una costruzione culturale, la costruzione del gusto tende alla naturalizzazione e l’assorbimento delle categorie sociali penetra nel subconscio (Bourdieu, 2000, 2011). La consapevolezza e la responsabilità di ciascuno rispetto alla propria dieta sono limitate. Questo è un punto su cui si è focalizzata l’attenzione in campo medico, ma anche nei discorsi relativi all’ecologia e alla sostenibilità ambientale di certe strategie produttive ed economiche: la responsabilizzazione degli individui, l’attribuzione al singolo di una capacità di agency maggiore di quella che effettivamente è in grado di implementare, sottendono molte politiche e molti discorsi relativi alla salute personale ed al comportamento rispetto all’ambiente, deresponsabilizzando altri attori sociali, come le istituzioni collettive, governative o private, che si muovono con finalità proprie, non necessariamente nella stessa direzione dei singoli, plasmando la realtà sociale spesso in modo più pervasivo e capillare di quanto venga esplicitamente riconosciuto (Koensler, Meloni, 2019). La competenza richiesta in ambito alimentare ai singoli individui varia nell’arco della vita delle persone, in relazione al ruolo che ricoprono e a ciò che ci si aspetta da loro in termini sociali. Non si pretende da un bambino ciò che ci si aspetta da un adulto, dato che si presume che le informazioni vengano acquisite nel corso del tempo, così come non ci si aspetta la stessa varietà gastronomica in una cucina domestica e in quella di uno chef. La formazione in ambito alimentare non è esente anche da differenze di genere: in molte società, la responsabilità di 57 gestire la spesa e la preparazione dei pasti familiari è ancora largamente un compito delle donne, principali depositarie della memoria relativa ai saperi culinari propri di quella trasmissione orale cui fa riferimento Teti (2015) nel parlare di cucina popolare. La trasmissione di queste competenze alle generazioni successive parte dall’ambito domestico, ma non è certo limitata ad esso: non si mangia solo in famiglia, ma anche nei refettori scolastici, nelle mense delle aziende e delle fabbriche, nei locali dedicati alla ristorazione e anche fuori da essi, per strada. Ad ogni luogo corrisponde una diversa etichetta, un diverso tipo di atteggiamento e di aspettativa, e nell’attraversare questi spazi dell’alimentazione gli individui formano la propria educazione alimentare, scoprendo nuovi sapori e nuove ricette, accrescendo il proprio bagaglio concettuale relativo a ciò che è “buono da mangiare” e ai modi per ricrearlo autonomamente. Recentemente si sono aggiunti i luoghi virtuali di consumo alimentare costituiti dai programmi televisivi e dai video che circolano sul web: un tempo limitato alla letteratura e all’arte figurativa, ora il consumo indiretto del cibo ha raggiunto nuove vette per quanto riguarda la diffusione dei “discorsi” sul cibo. In questi programmi, però, all’aspetto estetico si accompagna spesso quello formativo: molti si configurano come nuove forme di ricettari, consentendo di allargare le competenze degli spettatori e riempiendo, almeno parzialmente, un vuoto crescente nella società moderna. L’ambito familiare, infatti, è stato trasformato dalla progressiva partecipazione delle donne al mondo del lavoro e dalle trasformazioni sociali relative alla disgregazione delle famiglie allargate. Le trasformazioni demografiche, a partire soprattutto dagli anni Sessanta, si sono tradotte nella graduale perdita delle occasioni di mettere in atto la trasmissione del patrimonio di memoria culinaria nell’ambito familiare. La trasformazione del mondo produttivo che ha coinvolto il mondo occidentale ha inoltre influenzato enormemente le abitudini alimentari: il cibo di fattura industriale è stato accompagnato, promosso e difeso da un marketing che ha fatto leva su nuove idee e valori da associare all’alimentazione. La velocità, la sicurezza, la comodità ed il risparmio sono stati al centro dei messaggi associati alle prime forme di prodotti alimentari pronti all’uso, come scatolame o piatti da riscaldare al microonde. In ambito alimentare, nel parlare di costruzione culturale del gusto si fa spesso genericamente riferimento alle preferenze a livello concettuale: il gusto rispetto a ciò che si considera appropriato, ciò che è conforme alle proprie idee. In questa prospettiva, rischia di passare in secondo piano l’aspetto meramente sensoriale del gusto: la preferenza per ciò che ha un sapore che si considera migliore. Il gusto è culturalmente costruito anche a livello biologico: alla natura delle papille gustative si accompagna e si sovrappone una cultura di abitudini e imprinting emotivi, costruita a partire dai sapori con cui abbiamo familiarizzato nell’infanzia e costellata 58 di comfort food e madeleine proustiane. L’antropologia del gusto inteso in quanto sapore è un campo relativamente nuovo e inesplorato, estremamente ancorato all’aspetto etnografico della ricerca, considerato quanto la descrizione e la comprensione delle sfumature di sapore sia vincolata all’esperienza diretta (Sutton, 2010). La fitta rete di intersezioni tra il livello puramente molecolare e quello culturale è indagata con attenzione nell’ambito delle dipendenze e dei disturbi dell’alimentazione, ma anche in quello della produzione industriale dei sapori. Come ben sanno le aziende alimentari che cercano di ricreare in laboratorio gli aromi caratteristici degli alimenti che vogliono evocare, il sapore è parte fondamentale dell’esperienza alimentare ed è una delle maggiori discriminanti al momento dell’acquisto, fidelizzando i consumatori anche a livello subliminale. Nel caso della carne, la ricerca dell’aroma e delle sfumature proprie degli hamburger ha portato alla formulazione di combinazioni di diversi agenti ed ingredienti al fine di restituire l’esperienza completa del consumo di carne anche in assenza della carne vera e propria, nei prodotti sostituivi destinati ai vegani, in cui la dimensione sensoriale non è limitata alle sfumature dei sapori: si cerca di ricreare la consistenza e anche l’aspetto visivo della carne, il colore e persino il sangue che trasuderebbe da una cottura media dell’hamburger, con coloranti ed addensanti modulati con precisione a tale scopo. Pur essendo uno dei criteri di base per le scelte dei consumatori, il sapore non basta, però, a giustificare la scelta. Per questo è importante non dimenticare che si tratta solo di uno dei fattori, che interviene soprattutto nei contesti di effettiva disponibilità di alternative a costi equivalenti. Montanari (1993) rileva che le testimonianze dei gusti e delle preferenze alimentari dei ceti popolari delle epoche passate non sono mai state registrate direttamente, ma sono sempre state raccontate da altri, quali medici, scrittori e trattatisti di varie inclinazioni scientifiche, in genere appartenenti ad una diversa classe sociale, produttori di testi destinati ad uso e consumo esclusivo delle classi sociali dominanti. Sono testi che necessitano pertanto una lettura critica per far emergere le ambiguità ed i pregiudizi sottesi alle descrizioni ed alle valutazioni delle abitudini presentate. Nell’affrontare i testi del Settecento europeo, per esempio, Montanari sottolinea differenze e continuità rispetto a quelli dei secoli precedenti. Di qui la intrinseca ambiguità di tante descrizioni del “gusto” popolare, che, limitandosi a constatare e a codificare i comportamenti visibili, rischiano di ignorare (o volutamente ignorano) la possibile esistenza di aspirazioni diverse. E non è sempre facile individuare il punto oltre il quale le attenzioni sociali e le preoccupazioni filantropiche cedono il campo agli interessi di classe e a un’ideologia alimentare non troppo lontana da quella che nei secoli precedenti aveva finito per individuare il cibo cattivo e indigesto del “villano” come 59 un attributo necessario e inevitabile della sua “qualità” sociale. […] La modificazione del quadro ideologico ha reso ormai superata la nozione quattro-cinquecentesca secondo cui la cattiva alimentazione è un dato originario e inevitabile della condizione contadina; ma le conseguenze (sul piano culturale) della ritrovata “libertà” di scelta sono a dir poco paradossali. Come scrive il Dictionnaire de Trévoux: “I contadini sono di solito piuttosto stupidi, perché si nutrono soltanto di alimenti grossolani” (Montanari, 1993: 185-186). Nella valutazione di quali siano i sapori caratteristici di una certa cucina, è bene fare attenzione a non confondere ciò che è più di diffuso con ciò che è più apprezzato. Specularmente, molte delle rinunce ed esclusioni consentite dall’abbondanza frutto della modernità non sono improntate su aspetti sensoriali: il disgusto di fronte ad un piatto di insetti, per esempio, non nasce dal confronto con una precedente esperienza in cui non ne sono stati apprezzati consistenza o aroma. La sparizione di molti tagli di carne dal commercio convenzionale ha origine anche nella differenza prettamente anatomica che le diverse parti degli animali hanno: le ricette che ne fanno uso richiedono spesso tempi di preparazione o cottura più lunghi e la peculiarità dei sapori delle frattaglie o delle interiora non si sposa più con il palato moderno, ormai avvezzo quasi esclusivamente ai sapori delle parti più “nobili” degli animali, diventate accessibili ai portafogli della maggior parte delle persone. Il sapore ferroso del fegato fa da metro di paragone offerto ai turisti a Palermo, indecisi di fronte al venditore di pani ca meusa: non è detto che l’abbiano nel loro bagaglio esperienziale, ma è bene avvertire e preparare il palato all’esperienza imminente di un sapore senz’altro diverso da quello del tipico panino con hamburger a cui probabilmente sono abituati (Di Giorgi, 2017). Le viscere, gli organi, il sangue, sono scomparsi dai ricettari contemporanei, nonostante fossero ben presenti in quelli del passato. Alle origini di questa progressiva esclusione ci sono anche aspetti logistici, dettati da precauzioni di natura sanitaria finalizzate al contenimento della proliferazione batterica su tessuti organici particolarmente soggetti a questo pericolo. Nella maggior parte dei casi, però, le motivazioni di queste estromissioni sono state di natura culturale e si sono mosse lungo un doppio binario: è stata persa la memoria in ordine alla preparazione di queste carni e, contestualmente, è stata persa la memoria in ordine ai sapori che le contraddistinguono. Sono rimaste comunque tracce di questa gastronomia nelle ricette regionali (Montanari, 2004). La cultura continua a cambiare, nei suoi aspetti materiali e immateriali, talvolta recuperando il passato grazie alle nuove opportunità offerte dalla tecnologia e a nuove filosofie emergenti: recentemente, si assiste ad una valorizzazione di questo consumo nel nome non solo del recupero della tradizione, ma anche della celebrazione 60 degli animali nella loro interezza e del rifiuto dello spreco. Le competenze necessarie per gestire queste carni “diverse”, diventate ingredienti inediti per molti, possono essere acquisite e condivise anche di fronte al monitor di un computer o di uno smartphone, seguendo i consigli registrati da massaie e chef di tutto il mondo, e la lunghezza dei tempi di cottura viene semplificata logisticamente, oltre che rivalutata nutrizionalmente, nella promozione commerciale di nuovi strumenti destinati alle cucine domestiche, come le slow cooker o il Bimby, disponibili a prezzi sempre più accessibili o, quantomeno, conformi ad aspettative come quelle relative alle liste dei regali di nozze (Ascione, 2014). La carne ha mantenuto nel passato una particolare posizione nella grammatica alimentare della tradizione europea, in cui si configurava come cibo di lusso (Flandrin, Montanari, 2003). Tuttavia, non tutta la carne si equivale. Sia gli animali che i rispettivi tagli di carne sono posizionati gerarchicamente nelle preferenze collettive delle diverse tradizioni gastronomiche, prima ancora che in quelle individuali. Alcune ricette a base di carne sono destinate, ancora oggi, a particolari circostanze, come per esempio l’agnello consumato a Pasqua, o il bollito piemontese del Natale descritto da Meloni (Koensler, Meloni, 2019: 54). Generalmente, come accade per altri prodotti di lusso, la carne più costosa è anche quella considerata più pregiata: il sapore viene valutato in relazione al costo, a prescindere dalle effettive caratteristiche organolettiche, dalle preferenze personali o dal valore nutrizionale. L’osservazione dei sistemi alimentari rileva l’adozione e la condivisione di una grammatica del cibo, intesa come un insieme di convenzioni analoghe a quelle che danno stabilità ai linguaggi verbali, una struttura all'interno della quale ogni elemento definisce il suo significato. Tra i primi ad esplorare questa analogia, Lévi-Strauss ritiene che il linguaggio alimentare esprima la struttura stessa di una società, che viene tradotta dai suoi membri in maniera inconscia tramite le scelte effettuate ed i valori costruiti intorno al cibo: Come la lingua, mi sembra che la cucina di una società sia analizzabile in elementi costitutivi che si potrebbero chiamare in questo caso “gustemi”, i quali sono organizzati secondo talune strutture di opposizione e di correlazione. […] Dopo avere definito queste strutture differenziali, non c'è niente di assurdo nel chiedersi se essi appartengono in modo tipico al settore considerato, o se si ritrovano (d’altra parte spesso trasformate) in altri settori della stessa società, o di società differenti. E, se le scopriamo comuni a più settori, avremo il diritto di concludere di aver colto un valore significativo degli atteggiamenti inconsci della società, o delle società, di cui si tratta. […] Non si tratta mai di comprendere globalmente la società (impresa, in ogni caso, irrealizzabile stricto sensu) ma di distinguere 61 in essa livelli che siano confrontabili e diventino in tal modo significativi (Lévi-Strauss, 2002:103-105). Ai lessemi linguistici corrispondono i gustemi come unità significative di base, ovvero gli animali e le piante disponibili in un dato contesto, che costituiscono il vocabolario di questo linguaggio alimentare. La combinazione dei vari ingredienti, le modalità di cottura e preparazione configurano la morfologia di questo linguaggio, che viene organizzato in una sintassi modulata dai pasti, che si susseguono nella giornata così come nel calendario annuale, e dalla sequenza interna a ciascuno di essi, in cui i piatti vengono presentati secondo criteri di successione, di accostamento e di relazione reciproca. Come nella frase verbale, uno o più protagonisti stanno al centro dell'azione: il piatto di carne e/o di cereali, diversamente definito a seconda delle culture e delle classi sociali, oltre che della disponibilità. Proviamo a fare qualche esempio, riferendoci al mondo contadino. Le polente, come il pane, solitamente accompagnano carne e verdure nel piatto: se carne e verdure mancano, il menù è zoppo e indica che qualcosa non funziona. […] Anche la pasta, nell’uso medievale, accompagna le vivande di carne: la sua trasformazione in piatto unico, nell’Italia moderna, è l'inizio di una brillante carriera da solista ma anche il segno di una difficile situazione alimentare (a Napoli, nel Seicento, il successo della pasta coincise con la crisi dell’approvvigionamento carneo del mercato cittadino). Analoghe considerazioni valgono per la composizione di zuppe e minestre, che tuttavia non accompagnano, bensì includono carni e verdure: la loro vocazione di piatto unico è pertanto più scontata, fatta salva ogni specifica differenza. (Montanari, 2004: 139,140). Nell’analisi dei ricettari del passato emergono le diverse combinazioni e destinazioni dei diversi tipi di carne all’epoca disponibile. Una lettura attenta di queste testimonianze rileva la grammatica alimentare praticata ed è, anche oggi, uno dei campi di indagine esplorati dall’antropologia (Floyd, Forster, 2016; Montanari, 1993). Prendere in considerazione questo genere di produzione materiale consente di restituire una dimensione diacronica alle scelte alimentari del presente: la dimensione storica aiuta a far emergere le origini degli apparenti paradossi odierni, delle preferenze e delle esclusioni in ordine a ciò che si produce e si consuma a tavola. Come per l’analisi delle lingue contemporanee, rintracciare nel passato le abitudini ed i percorsi del linguaggio alimentare consente di capire come e perché nuovi gustemi sono entrati a far parte del vocabolario gastronomico condiviso, o, al contrario, ne siano stati eliminati; quali 62 siano risultati sinonimi, al punto di consentire la sostituzione nelle ricette, e quali invece si pongano in antitesi tra loro come contrari: il petto di pollo e di tacchino, per esempio, sono facilmente alternabili tra loro nelle cotture ed anche al palato, ma si distanziano dai rispettivi quarti posteriori, che necessitano cotture diverse e che offrono un sapore ed una consistenza nettamente distinguibili da quella delle parti più magre degli animali. È possibile rilevare quali forme classiche siano state dimenticate a fronte dell’introduzione di nuovi elementi che le hanno sostituite al punto da farle scomparire dal registro corrente: il tacchino americano, per esempio, ha preso il posto del pavone sulle tavole dei ricchi europei, e tale avvicendamento è stato facilitato dalla sua capacità di rilevare anche la funzione scenografica cara alle aristocrazie medievali (Montanari, 2004). Tuttavia, affrontare i neologismi ed inquadrarli nella pratica comune fino ad accettarli come parte del vocabolario collettivo non è sempre un processo immediato, né privo di tensioni e resistenze: l’ingresso dei prodotti che simulano la carne, destinati a vegetariani e vegani, è in questo senso paragonabile all’assimilazione di un nuovo gergo, una nuova lingua da masticare, letteralmente e figurativamente, con cui prendere confidenza, per valutare se e come farla propria. Si tratta di una risposta alla necessità di simulare e mantenere, nella propria lingua alimentare, le strutture imposte dall’area semantica della carne: il fatto stesso che si siano resi necessari dei sostituti, testimonia l’importanza della carne, gustema troppo significativo per poter essere abbandonato senza mettere in crisi l’intera grammatica alimentare. La sua sostituzione con un elemento analogo, diverso ma non troppo, per forme e modalità di cottura, consente il mantenimento delle abitudini e salvaguarda la continuità comunicativa nei contesti da cui non ci si può sottrarre, permettendo a vegetariani e vegani di sedere alla stessa tavola di chi consuma carne con più facilità, specialmente sul piano della preparazione dei pasti condivisi (Sutton, 2017). Come nota Douglas (1985d) a proposito delle famiglie inglesi degli anni Settanta, La casalinga che prepara un pranzo e la sua famiglia che si siederà a tavola per dare un giudizio gastronomico sono anch'essi consapevoli della necessità di modelli del passato che li guidino su quello che devono servire o ricevere. In effetti alcune parti del pasto possono riflettere nuove economie o audaci esperimenti da parte della massaia, ma di solito il pasto dev’essere riconosciuto come un pasto di un certo tipo ben noto. Le variazioni avvengono all’interno di una matrice conosciuta: entro quella cornice ci possono essere dei piccoli cambiamenti, ma tutto cospira per sottintendere che almeno la cornice è stabile (Douglas, 1985d: 201). 63 Si può constatare che ci sono linguaggi più permeabili all’introduzione delle novità e che, in ciascuna lingua, ci sono diversi registri destinati alle diverse circostanze della commensalità: ciò che è appropriato mangiare in una certa circostanza non lo sarà in un’altra, così come l’etichetta assunta in un pasto domestico non sarà la stessa adottata fuori casa, in occasioni come quelle di un pranzo aziendale o di un pic-nic (Douglas, 1985d; Koensler, Meloni, 2019). Non meno importante, soprattutto nell’ambito delle società multiculturali, è la compresenza e la padronanza di diversi linguaggi alimentari, che vanno a formare una pluralità espressiva declinata dai soggetti in maniera sempre più eclettica, dando luogo a commistioni inedite nelle singole ricette, da cui emergono nuovi alimenti che si susseguono nel singolo pasto, che a sua volta si inquadra in nuove sequenze giornaliere e settimanali, sfidando la grammatica classica della tradizione in modo più o meno consapevole e sfrontato. Le diversità non sembrano dunque destinate a scomparire, ma semmai ad accentuarsi nel contesto generale della globalizzazione, che ha caricato di nuovi significati l'attenzione alla scoperta-riscoperta-invenzione delle identità alimentari. In ogni caso, le considerazioni che abbiamo fatto portano a ritenere che la cucina “globale” e quella “locale” possono coesistere (anzi: l’una in qualche modo ha prodotto l'altra) dando origine a un inedito modello di consumo che alcuni sociologi hanno proposto di chiamare “glo-cale”. Perché le identità, oltre a essere mutevoli nel tempo, sono multiple: il fatto che io sia cittadino del mondo non mi impedisce di essere cittadino europeo, e cittadino italiano, e cittadino della mia città, e cittadino della mia famiglia, e via moltiplicando. Ciascuna di queste identità ha una sua particolare forma di espressione alimentare, che, nonostante le apparenze, non si contrappone alle altre ma convive con esse: non vi è alcuna contraddizione fra mangiare da McDonald's e, al pasto successivo, cercare le tagliatelle di casa o la ricetta particolare della trattoria di paese. In quei due momenti, con quei due gesti solo all’apparenza contraddittori, così diversi per contenuto e per significato, esprimiamo due delle diverse identità che ci definiscono (Montanari, 2004: 124-125). Se il cibo è trattato come un codice, il messaggio si troverà nello schema di rapporti sociali che vengono espressi, riguarderà i diversi gradi di gerarchia, inclusione ed esclusione, confini e transazioni attraverso i confini (Douglas, 1985c). La comprensione dei percorsi storici di costruzione e trasformazione dei gusti alimentari aiuta a restituire dimensione collettiva alle scelte individuali, ad inquadrare più correttamente le coordinate in cui si posizionano i soggetti nella mappa tracciata dalla condivisione dei valori e dal controllo sociale esercitato su ciascuno 64 (Douglas, 1985e). Allo stesso tempo, nel rilevare la schematicità e le forme condivise del linguaggio alimentare, si evidenzia la necessità della normativa per l’efficacia del linguaggio stesso: la comprensione si basa sulla condivisione, che non è possibile senza che siano tracciati dei punti fermi nel divenire sociale. La rigidità del sistema, il grado di controllo esercitato dai gruppi sui rispettivi membri, il vincolo posto dalle regole, più o meno imperative e restrittive, possono essere a loro volta osservati e valutati, per capire quanta coercizione venga esercitata sui soggetti e quanto sia radicale e sovversiva una scelta che vada controcorrente rispetto alla consuetudine. Per sistematizzare i vari modi in cui il sistema influisce sulla formazione delle singole coscienze, Douglas propone un modello a due dimensioni, ponendo da un lato la misura in cui la vita sociale degli individui dipende dalla loro appartenenza ai gruppi predefiniti e dall’altro lato il vincolo della griglia di regole che stabiliscono e prescrivono i rapporti sociali. In questo modello teorico gli individui non sono considerati recipienti passivi, ma attivi partecipanti, capaci di interagire con il sistema e di contribuire alla sua trasformazione o alla sua conservazione, scegliendo di “accettare o respingere le pressioni sociali e la cosmologia prevalente” (Douglas, 1985e: 370). Il concetto di habitus elaborato da Bourdieu consente di evidenziare ed esplorare la dimensione dell’intenzionalità delle scelte individuali in linea o in controtendenza rispetto alle strutture collettive: “Gli agenti sociali obbediscono alla regola solo finché il loro interesse a rispettarla prevale sul loro interesse a infrangerla. Questo rude principio materialista ci ricorda che, prima di pretendere di descrivere le regole in base alle quali agiscono gli agenti, dovremmo chiederci che cosa rende quelle regole efficienti” (Bourdieu, 1992: 85). Dato questo assunto, i comportamenti individuali si muovono sempre a partire da una razionalità, che però non appartiene interamente alla coscienza. La pratica di cui parla Bourdieu è un prodotto socialmente costruito: va evitato l’oggettivismo dell’azione, intesa come reazione meccanica senza agente, tanto quanto il soggettivismo, “che descrive l’azione come compimento deliberato di una intenzione cosciente, come libero progetto di una coscienza che stabilisce i propri fini e persegue il massimo vantaggio mediante un calcolo razionale” (Bourdieu, 1992: 90). L’habitus è socialmente costituito da disposizioni strutturate e strutturanti, acquisito con la pratica e costantemente orientato verso funzioni pratiche. Gli agenti sociali organizzano i propri comportamenti in modo razionale, ma non sempre esplicitano coscientemente questa pianificazione: il calcolo viene interiorizzato, la razionalità incorporata, tramite un processo di condizionamento e apprendimento continuo. Allo stesso tempo, gli agenti sociali determinano attivamente le categorie di percezione e valutazione che sono alla base della struttura valoriale 65 in cui si muovono. Il gusto è pertanto derivato da fattori culturali, dalle traiettorie e dai capitali acquisiti, che vengono incorporati e naturalizzati al punto da dimenticarne l’origine: “L’oblio della storia che la storia stessa produce incorporando le strutture oggettive che essa produce in queste quasi-nature che sono gli habitus” (Bourdieu, 2000: 213). L’analisi antropologica consente di evidenziare le connessioni ed i percorsi di formazione e diffusione delle idee e delle pratiche culturali e, in ambito alimentare, questa capacità si traduce nell’esplicitazione di quei meccanismi di incorporazione che portano alla formulazione dei giudizi in ordine a ciò che è considerato appropriato da mangiare: Proprio a partire dalla diversità culturale possiamo comprendere quanto il gusto sia una categoria costruita che funziona come habitus, ossia in grado di definire i comportamenti di un individuo in modo che egli li recepisca come naturali. Il cibo si presta molto bene a questo gioco della distinzione, manifestando al tempo stesso una forte componente di inclusione/esclusione e un alto grado di irriflessività (Koensler, Meloni, 2019: 74). 66 CAPITOLO 3. PRODUZIONE, DISTRIBUZIONE E CONSUMO Nell’insieme dell’universo edibile la carne si presta come punto focale per diversi aspetti della concettualizzazione e della pratica alimentare (Sutton, 2017). A diversi sistemi di produzione e a diverse pratiche di consumo corrispondono diversi modi di pensare alla carne, universi simbolici e valoriali in ordine all’ambiente, all’economia e all’etica nei confronti degli animali che sono all’origine di tale consumo. A loro volta, diversi sistemi ideologici influenzano gli aspetti materiali della società, promuovendo diverse politiche economiche e diverse strategie di trasformazione dell’ambiente, incoraggiando consumi di un certo tipo e penalizzandone altri. Il passaggio da economie di piccola scala a economie globali, i progressi tecnologici che hanno consentito un intervento sempre più massivo sugli ecosistemi, le nuove libertà e i nuovi vincoli sociali che hanno accompagnato queste trasformazioni: in tutte queste dinamiche, la “fame di carne” è tra le spinte più forti a guidare il cambiamento. Mangiare di più non basta: se l’obiettivo è mangiare meglio, la quota carnea della dieta è stata il metro di paragone fino ai tempi recenti (Harris, 1990; Montanari, 1993). Parlare di carne significa anche, per molti aspetti, parlare di animali: ragionare sulla distanza e sulla separazione tra ciò che è natura e ciò che è cultura comporta anche problematizzare il comportamento che si vuole mettere in atto nei confronti degli animali, cacciati o allevati a fini alimentari. Su queste dinamiche l’analisi antropologica e l’indagine etnografica continuano a fornire riflessioni e resoconti, consentendo di affacciarsi a nuovi lati del prisma del mondo alimentare, in continua mutazione. 3.1 La caccia L’attività venatoria ha accompagnato l’evoluzione umana a partire dai primi ominidi: a livello biologico, molti adattamenti fisici hanno consentito di ottimizzare le capacità di pianificare una battuta di caccia, di rincorrere gli animali braccati, di seguirne le orme e di consumarne i resti una volta abbattuti. Sul piano anatomico, la possibilità di accedere alle proteine ed ai grassi della carne, specie una volta padroneggiato l’uso del fuoco, ha permesso un balzo evolutivo rilevante (Zink, Lieberman, 2016). Nel corso del tempo, l’analisi dei resti paleontologici ha condotto alla formulazione di diverse ipotesi riguardo ai modi in cui i nostri antenati si procuravano effettivamente la carne (Perlès, 2003). L’interpretazione dei ritrovamenti non è univoca ed ha scatenato un dibattito sulla reale attività che tali indizi lasciano supporre: si tratta 67 veramente del frutto di azioni di caccia o gli animali consumati erano in realtà caduti vittima di altri animali ed i nostri antenati avevano semplicemente recuperato i resti abbandonati da altri predatori? In quale epoca gli uomini hanno concretamente cominciato ad organizzare battute di caccia in gruppo? Quanto sono attendibili i paragoni, in merito alla dieta ed alle strategie attuate, con le contemporanee società acquisitive, che ancora oggi basano la loro alimentazione principalmente sulle pratiche di caccia, pesca e raccolta, in simbiosi e in equilibrio, relativamente precario, con l’ambiente in cui si muovono? Si tratta di domande cui è difficile dare una risposta definitiva: in apertura del volume dedicato alla storia dell’alimentazione curato da Massimo Montanari e Jean-Louis Flandrin (2003), Catherine Perlès ricorda che il sapere scientifico è storicamente e culturalmente connotato e la formulazione di ipotesi e teorie deve tenere conto dei limiti e dei progressi che, nel corso del tempo, possono confermare o confutare gli assunti elaborati in precedenza. Ritengo che le interpretazioni siano pur sempre contaminate da errori metodologici e fortemente condizionate dall'ideologia dominante proprio come avveniva con le precedenti teorie. In effetti il problema, come si è visto, è influenzato dall’atteggiamento culturale odierno che vieta di considerare i nostri più arcaici predecessori come miserabili “sciacalli”, incapaci di abbattere da soli le prede di cui si nutrivano (Perlès, 2003:15). La presenza contestuale dei resti di molte specie di animali di piccola e piccolissima taglia, come i molluschi, a basso valore energetico, è indice di precarietà alimentare, ed è bene non confondere il concetto di diversità con quello di abbondanza. Esaminare i resti archeologici con nuove tecnologie ha consentito di rivalutare il rapporto calorico degli alimenti di origine vegetale, maggiore di quanto si ritenesse in passato. La mobilità dei gruppi che non disponevano di un ambiente ricco di grosse prede è la premessa per la ricerca di altre modalità di approvvigionamento: tanto più si doveva cercare, tanto più furono benvenute le strategie che consentirono di fermarsi, quali coltivazione e allevamento. Per quanto stimolanti, le analisi chimiche delle ossa sono ancora lungi dal fornire un'immagine coerente e completa delle scelte nutrizionali dell’età preistorica. E se si desidera tentare di risalire sino alle origini della storia dell'alimentazione bisogna avvalersi dei reperti e dei sistemi tradizionali dell'archeologia. L'archeologia… con tutti i limiti e le lacune che questa scienza comporta! Limiti e lacune particolarmente rilevanti nel caso dell’alimentazione poiché i vegetali, come tutte le sostanze organiche, di solito si decompongono nel suolo. È quasi certo che 68 esclusi alcuni ambienti molto particolari quali le latitudini estreme - l'alimentazione vegetariana abbia sempre fornito l’apporto calorico essenziale. Infatti l'uomo, come la maggior parte degli altri primati, è onnivoro e l'importanza primaria attribuita simbolicamente alla carne non corrisponde necessariamente al ruolo nutritivo effettivamente ricoperto da tale alimento. [...] Di conseguenza il modo di procurarsi la carne, qualora possa essere ricostruito in base ai resti animali rinvenuti nei siti archeologici, apre nuove prospettive sull’organizzazione socio-economica dei gruppi preistorici (Perlès, 2003:13). Fatta questa premessa, è bene sottolineare che i valori e la simbologia associati all’attività venatoria sono stati sempre molto rilevanti: anche se non è centrale dal punto di vista dietetico, la caccia resta centrale dal punto di vista antropologico, ossia nelle modalità in cui viene pensata l’umanità. In genere cacciare significa collaborare, correre dei rischi, conoscere dettagli e pericoli del mondo naturale e, in particolare, di quello animale, rapportarsi coscientemente con l’idea di appropriarsi di una vita altrui, mettendo al contempo in gioco la propria; nella caccia si definiscono ruoli, alleanze e gerarchie con gli altri componenti del gruppo e con i gruppi degli altri, intesi sia come comunità limitrofe, ma anche come alterità di più ampio spettro, quella degli animali e del mondo naturale. La ricerca etnografica ha raccolto nel tempo moltissime testimonianze diverse di pratiche di caccia: dagli albori delle prime ricerche sul campo, l’osservazione e la trascrizione dei racconti dell’attività venatoria hanno fatto parte della disciplina. Questo ha consentito di maturare la consapevolezza che i gruppi di cacciatori, pescatori e raccoglitori contemporanei non sono affatto fermi nel tempo e nella storia: al di là delle interazioni sempre più inevitabili con il mondo esterno più tecnologicamente avanzato, la loro coesistenza con i gruppi limitrofi di agricoltori e pastori è molto più significativa di quanto non fosse ritenuto una volta. Pur tenendo presente la specificità di ciascuna delle società acquisitive, si possono individuare alcuni tratti ricorrenti, come ad esempio la densità simbolica della spartizione19 degli animali uccisi, da cui emerge la rete della struttura sociale e da cui traspare l’immaginario cosmologico specifico della comunità. 19 Marvin Harris sottolinea la rilevanza della carne e della spartizione presso diversi gruppi di cacciatoriraccoglitori: “In linea generale, tutte le società di banda e di villaggio studiate dagli antropologi conferiscono un valore particolare alla carne che, non a caso, viene utilizzata anche per consolidare i legami sociali tra compagni di accampamento e popolazioni affini. Molto più spesso di quanto non avvenga per le piante alimentari, i prodotti animali sono condivisi da produttori e consumatori. […] i cacciatori Yanomano, per esempio, sono convinti che se non condividono la preda perderanno la loro abilità di cacciatori” (Harris, 1990: 17-18). 69 3.1.1 Spartizione della carne tra cacciatori In Pigmei, europei e altri selvaggi Stefano Allovio (2010) delinea un ritratto di alcuni gruppi di cacciatori-raccoglitori tra i più noti e, al tempo stesso, più stereotipati: anche se per lungo tempo sono scomparsi dai testi accademici, i Pigmei sono rimasti nell’immaginario occidentale, che ha consolidato nei loro confronti un’idea pregiudiziale, che li ritrae come campioni di esotismo. Il peso della generalizzazione è evidente già nella denominazione: Con il termine ‘Pigmei’ si intendono - in modo improprio ma ormai ampiamente diffuso molti gruppi etnici dell'Africa equatoriale che presentano fra loro differenze linguistiche, culturali e fisiche a volte rilevanti. Benché non ci sia uniformità, ciò che li accomuna dovrebbe essere la bassa statura, lo stile di vita incentrato sul semi-nomadismo e sulla caccia-raccolta in foresta, quest'ultima, idealizzata (dove è presente) o rimpianta (dove sta scomparendo). A ben vedere, molti di coloro che negli ultimi decenni hanno condotto ricerche etnografiche fra gruppi pigmei ritengono che il termine ‘Pigmeo’ abbia un referente univoco più nell'immaginario occidentale che nelle foreste africane (Allovio, 2010: 24). Ci sono inoltre altri gruppi caratterizzati dalla bassa statura identificati come Pigmei in Malesia, nelle Filippine, in Nuova Guinea e nelle isole Andamane. È evidente che la categoria “Pigmei” sia un’invenzione, una costruzione dell’Occidente intorno a determinati criteri, peraltro non particolarmente solidi: sono considerati pigmei gli appartenenti a diverse popolazioni, lontane nel territorio e con tradizioni culturali ormai differenti, accomunati da una caratteristica genetica relativa ad una disfunzione degli ormoni della crescita. In realtà le popolazioni pigmee non vivono in una stretta endogamia e si sono mescolate con le popolazioni limitrofe: dunque, anche il criterio genetico non si può considerare esaustivo. Da un punto di vista culturale, benché ci siano state notevoli trasformazioni nella loro condotta, vengono riconosciuti sostanzialmente come Pigmei i gruppi acquisitivi, che, nonostante non pratichino più da tempo esclusivamente caccia, pesca o raccolta come metodi di approvvigionamento, continuano a vincolare la propria identità all’immaginario che scaturisce da queste attività. Generalmente vivono in bande e non sono stanziali, ma intrattengono rapporti continuativi con le popolazioni di coltivatori che abitano in villaggi limitrofi ai territori sfruttati per la caccia e la raccolta. La ricerca più recente ci mostra dei Pigmei che utilizzano strumenti dotati di GPS per marcare i territori della foresta, che sfruttano gli archetipi occidentali per rivendicare attenzione 70 umanitaria, che aggiungono alle proprie tradizioni altri sistemi di approvvigionamento senza rinunciare alla propria identità culturale, ancorata alla caccia e alle sue regole. Allovio (2010) fa riferimento alla classificazione in tre macro gruppi riportata da Serge Bahuchet (1990) in relazione ai Pigmei del continente africano, tra cui possono essere individuati una decina di sottogruppi differenti dal punto di vista etnolinguistico: i Bambuti della regione nord-orientale della Repubblica Democratica del Congo; i Babinga o Bayaka, insediati in alcune aree di Camerun, Gabon, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo; i Batwa e Bacwa, che si trovano in Rwanda, Burundi e nelle regioni occidentali e sud-orientali della Repubblica Democratica del Congo. Per chiarire l’importanza identitaria dell’attività venatoria per i Pigmei, Allovio prende ad esempio l’analisi dell’iniziazione mbuti: presso i Pigmei Mbuti dell’Ituri orientale è usanza far coincidere i riti di iniziazione dei ragazzi con quelli dei Babira, coltivatori limitrofi. In queste occasioni, vengono stretti dei legami tra le due comunità e alla fine dei riti di circoncisione i ragazzi si considerano fratelli di sangue e le famiglie sono coinvolte in un’alleanza dai molteplici risvolti. Per i Pigmei Mbuti, però, il vero passaggio alla vita adulta non è segnato da questo rituale, ma dalla prima occasione in cui un ragazzo caccia “vera carne”, ovvero un animale che possa essere spartito con il gruppo. Non sempre le battute di caccia hanno successo e spesso le proteine animali provengono da animali di piccola taglia, bruchi o insetti: la “vera carne” non è questa; non sono le dimensioni in sé a fare la differenza, ma il fatto che si possa suddividere e condividere il tutto: è la spartizione a rendere la preda vera carne. “La ‘vera carne’ è una preda divisibile e l’atto che rende possibile tale divisione (la cattura) è un atto che conferisce lo status di vero uomo” (Allovio, 2010: 49). In Food sharing among the Pigmies of Central Africa Serge Bahuchet (1990) illustra i sistemi di spartizione in uso presso alcuni gruppi pigmei, focalizzandosi in particolare sugli Aka della Repubblica Centrafricana. Bahuchet individua tre fasi della spartizione della preda: in un primo momento, il konza, ovvero il cacciatore che possiede l’arma con cui è stato ucciso l’animale, procede all’assegnazione delle parti agli altri cacciatori che hanno condiviso la battuta, seguendo una serie di regole che associano le varie parti dei diversi animali al ruolo ricoperto durante la caccia; in seguito, ciascuno dei cacciatori suddividerà la propria parte e la spartirà presso il proprio gruppo familiare, assegnando le porzioni in base al grado di parentela secondo un’altra serie di regole; infine, le donne si occuperanno della cottura della carne e spartiranno le pietanze cucinate, distribuendo piatti all’interno dell’intero accampamento. Quest’ultima fase della spartizione non segue regole strutturate quanto le precedenti: “Distribution within the camp is actually voluntary. The cook (woman) judges whether or not there is enough food to 71 distribute outside her own household (Bahuchet, 1990: 36)20”. Nonostante questo carattere di non obbligatorietà, in genere un’unità familiare riceve un maggior numero di piatti di quanti ne prepari e ne distribuisca, con una proporzione che varia da quattro a dieci volte tanto (Bahuchet, 1990: 36). Le regole che segnano i primi due livelli di spartizione sono molteplici: il numero di parti in cui viene suddiviso l’animale varia in relazione alla specie di appartenenza; l’assegnazione ai cacciatori dipende dal tipo di armi con cui è stata condotta la battuta di caccia e dall’effettiva proprietà delle armi stesse, considerato che possono essere prese in prestito. La suddivisione presso il gruppo familiare segue linee parentali individuate principalmente in base ai due criteri di patrilinearità e di principio di maggiore età: “Il cacciatore deve distribuire la carne a lui dovuta in quattro raggruppamenti parentali: moeto (‘moglie’), tae (‘padre’), ngoe (‘madre’) e koko (‘nonni’)” (Allovio, 2010: 53). Bahuchet (1990) riporta i principali interlocutori di questa fase dello scambio e dalla rete che emerge è evidente che la direzione della diffusione è finalizzata a garantire anche ai membri più anziani della famiglia porzioni consistenti. La terza fase della spartizione riguarda la carne ormai cotta e cucinata. In questo caso, le regole sono meno rigide e la distribuzione dipende dalla quantità di cibo disponibile e da variabili connesse alla costituzione fluida della banda, ovvero “da chi realmente vive nel campo in un dato momento” (Allovio, 2010: 53). La macellazione della preda presso gli Aka acquista una valenza sociale ed antropologica molto rilevante, perché è connessa ad una rappresentazione sofisticata delle relazioni sociali e rimanda ad un'idea di umanità dove il concetto di proprietà e consumo presentano aspetti inediti. L’importanza della caccia non è connessa tanto all’attività venatoria in sé, all’abilità dei singoli cacciatori o alla retorica di genere che ruota intorno a tale pratica, quanto alla possibilità della spartizione, che trasforma ontologicamente la preda in “vera carne” e i cacciatori in “veri uomini”. I giovani cacciatori che diventano konza per la prima volta sono responsabili della gestione della spartizione; la preda è tale solo all’interno della logica che riflette una accurata rappresentazione dei complessi legami interni della comunità. La messa in pratica di questo sapere sancisce l’ingresso nell’età adulta e l’appartenenza identitaria. Il fatto che il konza non sia l’uccisore della preda, ma il possessore dell’arma usata per ucciderla, garantisce a chi non può più partecipare concretamente alla caccia il mantenimento di un ruolo comunque attivo nel complesso del sistema: prestando le proprie armi si può diventare konza anche senza prendere parte direttamente alla battuta (Bahuchet, 1990). Lo 20 In questa e nelle successive citazioni da Bahuchet le parole sono sottolineate nell’originale. 72 stesso principio permette ai gruppi limitrofi di coltivatori che concedono in prestito le proprie armi, in particolare le reti, di ottenere parte della selvaggina cacciata dagli Aka. Un nodo cruciale della spartizione presso gli Aka21 è costituito dal fatto che il konza non può mangiare la carne dell’animale che ha ucciso: ha diritto ad una parte di essa, la distribuisce presso la sua famiglia e la sua famiglia la consuma e la spartisce con gli altri dell’accampamento, ma il piatto del konza resta vuoto. “The ‘acquirer’ of the animal does not eat any of the meat, for if he did so, he would incur supernatural punishment” (Bahuchet, 1990: 33). Il tabu alimentare del konza rappresenta il “grado zero della divisione e distribuzione successiva” (Allovio, 2010: 49). Il concetto di “vera carne” è reso significativo dalla spartizione, che per essere tale deve essere totale: la carne deve essere spartita tutta. Il cacciatore che diviene konza assume il ruolo di garante della spartizione: il suo essere titolare dell’arma che ha ucciso la preda lo rende titolare del principio di etica e responsabilità individuale nei confronti del gruppo e delle reti di scambio con l'esterno che la spartizione riguarda. Il suo piatto vuoto rappresenta questo: più che un tabu legato al sovrannaturale, più che un vuoto legato alla impossibilità di riempire, pena un castigo trascendente, si tratta di un vuoto dovuto alla cessione, al dono, alla reciprocità che si instaura a partire da esso e che collega gli individui gli uni agli altri, sul piano sociale, economico e, ovviamente, culturale. “This food prohibition would appear to be a means of guaranteeing reciprocity in meat distribution, the distribution itself being guaranteed by the hunter’s sense of ‘responsibility’” (Bahuchet, 1990: 40). Il piatto vuoto del cacciatore fortunato non resterà vuoto a lungo: alla prossima caccia ci sarà un altro konza, e grazie al vuoto del suo piatto, saranno pieni quelli dei cacciatori meno abili o meno fortunati. Il piatto vuoto del konza è “buono da pensare”, dice Allovio richiamando LéviStrauss: rappresenta il meccanismo di relazioni instaurate e instaurantesi tra il konza ed il resto del gruppo, sintetizza l’identità collettiva del gruppo, somma di relazioni sociali e di regole che tiene uniti i componenti. “La ‘vera carne’ e la sua divisibilità non coincidono con una questione di banale macellazione, ma rimandano all’idea di società e alle condizioni morali (nonché materiali) della sua esistenza” (Allovio, 2010: 49-50). La spartizione soddisfa due funzioni complementari, di tipo materiale e strutturale: “a supplying function and a social function” (Bahuchet, 1990: 46). Per quanto riguarda la prima funzione, la circolazione dei piatti tra i diversi gruppi familiari, per quanto lasciata alla discrezione dei singoli, garantisce un rifornimento sufficiente anche alle famiglie meno “fortunate”. Nelle sue 21 Bahuchet (1990: 45) specifica che il divieto è valido solo presso gli Aka. 73 tre fasi, la spartizione è un sistema che permette di bilanciare la forte incertezza dovuta alle condizioni dell’ambiente circostante: benché la foresta sia ricca di flora e fauna, la caccia e la raccolta non sono pratiche di successo tale da poter contare effettivamente solo sulle capacità e sugli strumenti del singolo individuo. Condividere il cibo procurato con gli altri minimizza i rischi di restare senza nulla in occasioni meno fortunate: “The obligation to share without return is a way of distributing losses and failures among a greater number of people. […] A way of reducing risks is pooling by means of creating social ties based on mutual obligation” (Bahuchet, 1990: 40). La condivisione del cibo e, dunque, dei rischi è strettamente connessa ai legami sociali, che la generano e ne sono a loro volta generati. A questo proposito, Sahlins (1980) è molto chiaro: “Uno specifico rapporto sociale può condizionare un dato movimento di beni, ma anche una specifica transazione indica un particolare rapporto sociale. Se gli amici fanno doni, i doni fanno amici” (Sahlins, 1980: 190). Tramite la circolazione del cibo spartito, si instaura reciprocità; Bahuchet spiega che nelle prime due fasi della spartizione si tratta di una reciprocità generalizzata, in diretto riferimento alla definizione di Sahlins, che la presenta come “estremo solidale”. ‘Reciprocità generalizzata’ si riferisce a transazioni che sono presuntivamente altruistiche, transazioni modellate sull’assistenza fornita e, se possibile e necessario, ricambiata. [...] Nel caso estremo, a esempio la volontaria spartizione del cibo tra parenti stretti [...] l’aspettativa di una diretta contropartita materiale è sconveniente. Nella migliore delle ipotesi è implicita. Il lato materiale della transazione è rimosso da quello sociale: il computo dei debiti insoluti non può essere esplicito e caratteristicamente è omesso. Il che non significa che donare in questa forma, perfino ai propri “cari”, non generi un obbligo contrario. Ma la contropartita non è stipulata temporalmente, quantitativamente o qualitativamente: l’aspettativa di reciprocità è indefinita (Sahlins, 1980: 197-198). Nel commentare la reciprocità generalizzata della spartizione pigmea, Allovio (2010: 143) nota come presso i Pigmei, così come presso altre società acquisitive, non vi sia uso di sacrificare parte del cibo ottenuto alla foresta. Secondo Allovio, anche nel rapporto tra la foresta e l’uomo, inteso come lo intendono i Pigmei, possiamo intravedere la stessa forma di reciprocità generalizzata; nell’illustrare tale concetto, Sahlins fa riferimento al rapporto tra genitori e figli e, secondo Allovio, tra i Pigmei e la natura c’è appunto questo genere di relazione: la foresta non è un antenato a cui va restituito qualcosa, a cui va reso onore tramite offerte sacrificali, ma 74 un genitore da cui si prende incondizionatamente. Il concetto di “ambiente dispensatore”, irriducibilmente vivo e inglobante, è rintracciabile anche in altre società acquisitive (Allovio, 2010; Bird-David, 1990). Bahuchet nota che l’unico momento di centralizzazione della spartizione presso gli Aka si verifica nella terza fase, che vede ciascuna donna protagonista della preparazione del cibo e della successiva redistribuzione, che, in un certo senso, controbilancia in apertura questo accentramento, coinvolgendo chiunque si trovi nell’accampamento, a prescindere dall’appartenenza identitaria. By the mere physical presence in a camp, a visitor can receive food. If, moreover, he takes part in individual or collective food-getting activities, he also provides food for the camp. This reciprocity adds a time dimension to the gifts of food. To join a consumer group, that is, to obtain food as a gift, it is sufficient to be present for a very short term, but if one stays longer it is also necessary for him to participate in production activities (Bahuchet, 1990: 41). La reciprocità della spartizione pigmea è dunque estesa ai visitatori, mentre è invece negata a chi, pur facendo parte delle famiglie dell’accampamento, si è allontanato temporaneamente dal gruppo. Non si tratta semplicemente di una questione materialmente connessa con la conservazione del cibo: i Pigmei adottano sistemi di cottura adatti alla conservazione e al trasporto del cibo, come per esempio l’affumicatura (Allovio, 2010: 54). Si tratta invece di una scelta collegata con la struttura stessa delle società acquisitive, che sono basate su un equilibrio giocato anche sul grado di fluidità dei confini del gruppo (Bahuchet, 1990: 48). Secondo Bahuchet per comprendere meglio la circolazione del cibo presso i Pigmei è necessario tenere conto dell’intero sistema di circolazione dei beni e delle unioni matrimoniali, e sarebbe fuorviante considerare tale aspetto in modo isolato. “Food sharing is a factor, a function in the wider system of exchange and cooperation that perpetuates the society” (Bahuchet, 1990: 48). Presso gli Aka, le tecniche di produzione si basano in parte su strumenti di provenienza esterna alla comunità: la riproduzione della società richiede dunque la formazione di alleanze e scambi con l’esterno e la salvaguardia, allo stesso tempo, dell’equilibrio interno, mantenuto grazie alla cooperazione tra gli individui e la fluidità dell’organizzazione delle bande, unite al fattore fondamentale della dispersione sul territorio in modo proporzionato alla disponibilità delle risorse naturali. La spartizione della carne è uno degli elementi centrali delle relazioni di produzione, essendo una delle conseguenze della cooperazione ed allo stesso tempo una delle 75 sue premesse: l’associazione tra gli individui resta più stabile, la loro coesione è rafforzata proprio dalla spartizione (Bahuchet, 1990: 50). “La connessione tra flusso materiale e rapporti sociali è reciproca. [...] Il flusso materiale sanziona o avvia rapporti sociali” (Sahlins, 1980: 190). E così come li costruisce positivamente, può anche sancirne l'interruzione o il capovolgimento: Poppi (2014) ricollega al sistema di spartizione della carne il conflitto tra Vagla e Gonja, nel Ghana settentrionale, primo di una sequenza di conflitti etnici che si sono susseguiti dal 1980 al 1994, in ordine principalmente a dispute relative all’attribuzione di proprietà della terra. I Vagla sono una popolazione di lingua gur-grushi insediata nell’area settentrionale del Ghana, nel territorio limitrofo alle foreste che oggi costituiscono il Parco Nazionale di Mole, una zona che è riconosciuta dalla Costituzione del Ghana come “area soggetta all’autorità tradizionale” (Poppi, 2014: 182). I Gonja arrivarono in quelle terre all’inizio del XVII secolo: “erano, al tempo, le desjecta membra / bande di guerrieri a cavallo con poco da perdere e molto da guadagnare visto che stavano seduti sui carri armati dell’epoca” (Poppi, 2014: 182). I due gruppi furono impegnati in scambi matrimoniali sin dall’inizio della loro relazione storica e le figure d’autorità presenti in ciascun villaggio fanno capo sia alla struttura politica di stampo vagla che a quella di stampo gonja, con una separazione delle responsabilità e dei campi d’azione: lo status delle autorità e le rispettive posizioni gerarchiche si esprimono nei diritti che ciascuno vanta nei confronti degli abitanti del villaggio, in particolare rispetto alla divisione delle derrate alimentari. In un villaggio vagla ci sono almeno tre figure di autorità: lo Heuhnhin, può essere descritto come “l’equivalente fra i Vagla del Custode della Terra della letteratura antropologica” (Poppi, 2014: 183), cui spettano le attività cerimoniali finalizzate al mantenimento di un buon rapporto con l’ambiente naturale; il Vaglakori, che funge da capo politico del villaggio e si occupa di questioni legali minori con l’ausilio del consiglio degli anziani; un Capo gonja che assume il titolo di -wura preceduto dal nome del villaggio sul quale questi esercita il suo dominio; quest’ultimo interviene meno direttamente negli affari del villaggio rispetto alla sua controparte vagla, ma, quando lo fa, la sua autorità ha un peso maggiore. Poppi sottolinea che, nonostante le restrizioni e le campagne repressive poste in atto dal governo centrale per bloccare il bracconaggio all’interno del Parco Nazionale di Mole, il consumo di selvaggina negli anni Ottanta costitutiva ancora un’importante fonte di proteine e di guadagno per i cacciatori. Il contesto materiale è fondamentale per comprendere efficacemente le dinamiche sociali in essere: la precarietà alimentare che caratterizza la quotidianità è fortemente connessa con la dimensione ecologica, che pone dei limiti difficilmente superabili. 76 Nel Ghana nordoccidentale […] i sistemi di produzione e consumo si trovano costantemente sull'orlo del collasso. In questo contesto ecologico è la fame (specialmente il desiderio ardente di carne) che detta i ritmi e le forme delle pratiche rituali, della religiosità, dei conflitti etnici, delle questioni fondiarie. Il problema relativo alla proprietà della terra può essere agilmente tradotto in termini alimentari: a chi va ciò che il terreno produce e che dunque può essere mangiato (Peveri, 2014a: 168). Secondo Poppi è possibile rintracciare l'elemento scatenante del conflitto tra Vagla e Gonja nel rifiuto di seguire la tradizionale regola di assegnazione del tributo alimentare al capo, un episodio risalente all'epoca della fondazione della comunità e collegato strettamente alle dinamiche relative alla proprietà fondiaria. La carne è, anche in questo contesto, protagonista della dimensione simbolica dell’ambito alimentare: “Il termine generico per cibo, in lingua vagla, è ol, che significa propriamente ‘carne’ - la noiosa dieta quotidiana di carboidrati ed ignami considerata poco più che un rimedio alla fame” (Poppi, 2014: 186)22. Parlare di carne significa parlare di selvaggina; l’attività venatoria è a sua volta protagonista della costruzione identitaria dei Vagla23 e la spartizione degli animali cacciati ruota intorno ai concetti di proprietà, dominio e controllo del territorio: Fra i Vagla la signoria della selvaggina costituisce non solo la prerogativa degli antenati e degli Spiriti della Foresta […] che ne sono i padroni da propiziare con ripetuti sacrifici ed atti. “Rubare” la selvaggina senza morire ipso facto per mano degli spiriti, che ne sono proprietari, costituisce l’esperienza stessa della signoria e del controllo del territorio da parte dei cacciatori. Ma, anche, essere signore di animali equivale ad essere signore di uomini: solo un grande Digbun potrà aspirare ad avere più mogli e dunque una discendenza numerosa. In questo quadro, avocare a sé l’appropriazione della selvaggina equivale a porre una forte ipoteca sul proprio status nei confronti sia dell’ambiente nelle sue espressioni sociali ed ecologiche, come anche nei confronti degli agenti soprannaturali (Poppi, 2014: 186-187). 22 Anche Marvin Harris (1990) riporta diversi esempi linguistici in cui il desiderio di carne è espresso con parole diverse rispetto a quelle usate per indicare la semplice fame: “Presso i Canela dell’Amazzonia, ii mo plam significa ‘Ho fame’; mentre ‘Ho fame di carne’ si dice iiyate. I Semai, indigeni della foresta della Malaysia, non considerano soddisfacente un pasto senza riso o altri amidacei; ma un uomo che non abbia mangiato carne da qualche tempo dirà: ‘Sono giorni che non mangio’” (Harris, 1990: 17). 23 Per una più dettagliata analisi dell’attività di caccia e della sua importanza nella costruzione identitaria dei Vagla si veda Poppi, 2011. 77 Nel sistema di spartizione formalizzato dai Gonja, gli animali trovati morti nella foresta appartengono al Vaglakori, fatta eccezione per le zanne di elefante che vengono divise tra chi le ha trovate ed il Capo gonja. La zampa posteriore delle prede di caccia che poggia sul terreno, spetta al Capo gonja, mentre la zampa anteriore va al Vaglakori. La zanna, l’orecchio e la zampa posteriore di ogni elefante ucciso, quelli del lato dell’animale che poggia a terra, devono essere consegnati anch’essi al Capo gonja. Questa normativa è contestata dai Vagla e su questa interpretazione si fonda “l’intera partita della natura della signoria dei Gonja sui Vagla” (Poppi, 2014: 186). Secondo i Vagla, infatti, la zampa posteriore che poggia sul terreno sarebbe di proprietà del cacciatore e l’altra zampa posteriore, quella rivolta verso l’alto, sarebbe da corrispondere al Capo gonja in qualità di porzione spettante agli “stranieri di riguardo, e dunque agli ospiti” (Poppi, 2014: 191), come sottolineato da E.K., uno degli informatori vagla di Poppi: Su questo punto l'amico vagla era particolarmente interessato a che io scrivessi gli appunti di ricerca “correttamente e senza errori”. E.K. insisteva sul punto che la zampa posteriore fosse un sùnzi (‘un dono’) e non un gbog (‘una legge’), una cosa che uno deve fare per forza: un tributo, ovvero. Se i Gonja adesso andavano dicendo che la zampa che sta sul terreno spettava a loro perché loro sono i padroni della terra, i Gonja mentivano. E poi concludeva con ironia - cosa ne sanno i Gonja da quale parte un bufalo cade? (Poppi, 2014: 191). L’evocazione simbolica del “poggiare sul terreno” si connette al concetto di dominio del territorio: “calcare sul terreno” equivale metaforicamente a prenderne possesso, pertanto pretendere di ricevere la parte dell’animale che poggia sul terreno significa avocarsi un’autorità ed una signoria nei confronti degli altri soggetti coinvolti nella spartizione. Consegnare la zampa che poggia a terra rappresenta l’accettazione del fatto che la terra appartiene al destinatario di quel gesto. Questo il dilemma, in sostanza: la porzione della selvaggina che spetta per tradizione al Capo è un dono (che implica pertanto una reciprocità) - come lo intendono i Vagla - oppure è un Tributo al Signore della Terra - come lo intendono i Gonja (che implica pertanto un semplice noblesse oblige: “grazie e arrivederci”)? Questi gli estremi fra i quali si giostrano cosce di antilopi, quarti posteriori di bufalo e l’occasionale, succulenta, inesauribile carcassa di elefante. (Poppi, 2014: 181-182). 78 La disparità gerarchica che si configura a partire dalla spartizione della selvaggina si riflette nelle pretese che ciascuno dei due gruppi rivendica ed è disposto a concedere all’altro. Le dispute sono state scatenate ed esacerbate dalla necessità di regolamentare ufficialmente la proprietà fondiaria. Negli anni Settanta ed Ottanta il Governo Centrale ha promulgato una serie di normative che hanno rotto l’equilibrio precario costruito tra Vagla e Gonja, esplicitando le contraddizioni e le tensioni che, fino ad allora, erano rimaste “ostaggio di una più ragionevole e flessibile negoziazione dialogata” (Poppi, 2014: 188). Accettare di perpetrare le norme consolidate o ribellarsi ad esse in nome di un’autonomia rivendicata, in questo caso, in forza di un’interpretazione alternativa delle regole di spartizione della carne: in queste dinamiche ha avuto origine lo scontro politico, inasprito fino al conflitto violento. Si tratta di dinamiche frequenti nel contesto dei paesi che si trovano a coniugare il passato coloniale con le nuove impellenze dettate dall’economia globale. Allovio (2010) narra del progetto che ha coinvolto, a partire dal 2004, la compagnia CIB, (Congolaise Industrielle des Bois), concessionaria per il taglio del legname di oltre un milione di ettari di foresta nel nord della Repubblica del Congo, in collaborazione con la Tropical Forest Trust al fine di ottenere la certificazione FSC (Forest Stewardship Council), a garanzia della gestione forestale e della tracciabilità dei prodotti derivati. Per rispondere agli standard di sostenibilità sociale, sono stati coinvolti i gruppi pigmei mbendjele, “ai quali viene riconosciuto il diritto di ‘marcare’ i siti della foresta che reputano importanti e degni di salvaguardia (luoghi di raccolta, di caccia, siti ritenuti culturalmente significativi, aree funerarie e quant’altro)” (Allovio, 2010: 32). Agli Mbendjele è stato consegnato un apparecchio con sistema GPS (global positioning system), simile a quello delle automobili, elaborato da un gruppo informatico britannico con la consulenza antropologica di Jerome Lewis, un antropologo britannico che aveva condotto la propria attività di ricerca presso differenti gruppi pigmei, tra cui, appunto, gli Mbendjele (Allovio, 2010). Allovio suggerisce che, da un punto di vista antropologico, verso la contaminazione tecnologica dei Pigmei si può avere un duplice atteggiamento: ci si può interrogare sulla presenza di un GPS tra le mani di un Pigmeo e ci si può interrogare sullo scopo che il Pigmeo vuole raggiungere tramite l’uso di quel GPS. Entrambe le prospettive sono legittime, ma è bene considerarle separatamente, perché se la prima consente di estendere il discorso ai temi della surmodernità, delle connessioni e delle congiunture globali, in cui la foresta si riduce ad un punto del network delle strategie socio-economiche internazionali, la seconda visuale amplifica la foresta fino a farla riapparire essa stessa rete di significati, assegnati dai Pigmei ben prima di 79 poterli certificare tecnologicamente tramite GPS e consente di prendere in esame la modalità concrete con cui un popolo esercita la propria esistenza e forma il proprio pensiero. Per valutare l’urgenza e l’inevitabilità di affrontare entrambe le prospettive, è da tenere in considerazione anche la riflessione di Poppi in ordine alla complessità culturale che soggiace alla questione fondiaria, specie nel contesto africano in cui il passato coloniale ha prodotto contraddizioni e tensioni che, oggi, sono di difficile soluzione e con cui, nondimeno, ci si deve confrontare. Uno dei paradossi della conoscenza che abbiamo del continente africano è che, nel momento in cui si assiste a quella (s)vendita in blocco delle sue superfici da parte di Paesi emergenti in deficit di aree coltivabili per la produzione agricola ad uso energetico ed alimentare, secondo quel fenomeno noto come land grabbing, molti governi africani sono ancora alle prese con la riforma fondiaria, cruciale - o così si pensa - per garantire al continente l'indipendenza alimentare. La formula è nota (nel bene ma non ancora - o forse non sufficientemente - nelle sue conseguenze nefaste): la capitalizzazione dell’agricoltura ai fini di aumentarne la produttività per sfamare le grandi masse inurbate implica la sua privatizzazione. […] La privatizzazione a sua volta implica la proprietà privata legalmente riconosciuta e sancita: ergo occorre capire di chi, precisamente, sia la proprietà privata della terra (Poppi, 2014: 179-180). Dal piatto vuoto di vera carne del cacciatore aka, alla zampa posteriore della preda del cacciatore vagla, seguendo i percorsi della carne si arriva alle tavole occidentali, riempite grazie ad un sistema alimentare sempre più globalizzato, in continua ricerca di territori in cui trovare risorse per sfamare anche chi ignora completamente “da che parte un bufalo cade” e, forse, non saprebbe nemmeno riconoscerlo, ormai, un bufalo. 3.1.2 Società di caccia nell’Italia contemporanea L’attività di caccia viene praticata ancora anche in contesti in cui non è più necessaria per l’approvvigionamento alimentare. In questi casi, anche il rapporto con la selvaggina cambia ed il valore attribuito alla carne è di tipo marcatamente simbolico, risultato di diversi processi che, tuttavia, non sono slegati da aspetti materiali. Meloni (2019) prende ad esempio la caccia al cinghiale praticata nella Toscana meridionale, a Iesa, nell’area boschiva compresa tra le province di Siena e Grosseto. Nel 2011 risultavano al 80 censimento 246 abitanti di 18 nazionalità differenti e Meloni nota che anche tra gli italiani presenti, pochi erano in proporzione gli autoctoni, che si facevano spesso “portavoce di una ‘vera’ identità locale” (Koensler, Meloni, 2019: 36), declinata anche attraverso la pratica della caccia, che fa parte della memoria locale ed è strettamente connessa alle dinamiche del rapporto con il territorio. La caccia a Iesa, come in molti altri luoghi in Italia, vive un costante rapporto di nostalgia per un passato perduto e un presente nel quale le squadre devono ricorrere alla presenza di cacciatori forestieri per poter continuare a portare avanti l'attività venatoria, visto che nessuno dei residenti provenienti da altre nazioni è interessato a svolgerla o possiede i requisiti per poterla praticare - il porto d'armi e la licenza di caccia (Koensler, Meloni, 2019: 36). Meloni riferisce che a Iesa la maggior parte degli autoctoni è legata alla caccia in maniera profonda: la caccia struttura i racconti delle persone, scandisce le fasi della vita, consente la realizzazione della socialità, altrimenti difficile da mettere in pratica, e struttura la redistribuzione e l’idea di società. Nel corso dell’anno i cacciatori dedicano una cura particolare al territorio, occupandosi della pulizia dei boschi, della manutenzione dei sentieri e delle strade sterrate, tessendo una fitta relazione con la natura che li circonda, apprendendone ritmi e peculiarità, facendosi garanti del rapporto tra uomo e ambiente anche per conto e a favore del resto della comunità: “Le persone costruiscono dei rapporti di dipendenza con il territorio, circoscrivendolo attraverso le pratiche di domesticazione che consentono poi la messa in pratica dell’attività venatoria” (Koensler, Meloni, 2019: 37). Gli animali selvatici stessi vengono monitorati e accuditi, anche al fine di garantire l’abbondanza di prede durante la stagione di caccia: li si nutre fino ad avere la loro fiducia, portandoli ad avere meno timore degli umani. Al momento della caccia, la comparsa dell’animale è interpretata quasi come un atto di riconoscenza: l’animale dona la sua vita, quasi fosse consapevole del debito contratto con il cacciatore (Koensler, Meloni, 2019: 39). Ogni cacciatore ricorda le circostanze che hanno segnato il primo cinghiale ucciso e “anche se con il tempo i ricordi possono affievolirsi, i cinghiali non diventano mai un numero attraverso il quale elencarli” (Koensler, Meloni, 2019: 38). La memoria delle vittime resta immortalata nei trofei e viene mantenuta nei racconti condivisi con gli altri cacciatori, con i famigliari e gli amici. La memoria dei gesti e dei luoghi viene tramandata e incorporata di generazione in generazione: l’attività venatoria consente ai membri della comunità di sentirsi parte di una 81 continuità genealogica e viene considerata elemento distintivo tra i cacciatori autoctoni e quelli che provengono dall’esterno. Negli ultimi decenni, l’introduzione di una nuova razza di cinghiali provenienti dall’Est europeo, più grandi e più fertili, ha comportato un aumento del numero di animali sul territorio, mettendo a rischio l’equilibrio con il resto della flora e della fauna locale. Questa pressione demografica giustifica, dal punto di vista ecologico, il mantenimento dell’attività venatoria, regolamentata secondo la normativa nazionale vigente. Durante la stagione di caccia vengono uccisi molti più cinghiali rispetto al passato: l’abbondanza della selvaggina ha richiamato l’attenzione di molti cacciatori che vengono appositamente durante la stagione da zone esterne a Iesa e che pretendono, a fronte dell’investimento di tempo e risorse per il viaggio, di uccidere un cinghiale in occasione di ogni battuta di caccia. La partecipazione degli stranieri è necessaria per poter organizzare delle squadre, ma nelle testimonianze dei locali traspare la nostalgia per il passato, in cui la partecipazione degli abitanti di Iesa e dintorni era maggiore, specie per quanto riguarda i più giovani, oggi più restii a dedicarsi a tale attività. Nelle narrazioni dei più anziani a proposito degli anni Settanta e Ottanta, la caccia è rievocata come momento di aggregazione di una comunità in cui la dimensione alimentare è segnata dalla fame ed il rapporto tra uomo e ambiente è precario e delicato. Nel periodo in cui la caccia era illegale la spartizione della carne di cinghiale tra i cacciatori veniva effettuata direttamente nel bosco: la carne veniva interamente divisa tra i presenti, riservandone una parte anche per i cani che avevano assistito i cacciatori. Come accadeva per il maiale, loro equivalente domestico, anche dei cinghiali non si buttava via niente, o quasi: fatta eccezione per le unghie, tutto trovava una sua destinazione, comprese le setole che venivano utilizzate dai calzolai. Uno degli informatori di Meloni ricorda che, in passato, “il coscio” 24 del cinghiale spettava al cacciatore che lo aveva ucciso, ma questa usanza venne abbandonata perché generava discussioni e liti in ordine a chi avesse effettivamente sparato il colpo letale con il fucile (Koensler, Meloni, 2019: 40). Nelle testimonianze dei cacciatori autoctoni traspare la differenza nei modi di macellare e distribuire la carne, modificati dalla nuova condizione di abbondanza. Oggi, al termine della 24 L’attribuzione di maggior pregio al quarto posteriore delle bestie uccise, che abbiamo visto ricorrere qui e nel caso della spartizione vagla riportata da Poppi, trova anche una ragione prettamente materiale nel fatto che nei quadrupedi, per ragioni anatomiche, la muscolatura corrispondente a quella porzione del corpo è la più sviluppata ed utilizzata e pertanto la carne ha un sapore più intenso (Bressanini, 2016), oltre ad essere più abbondante in proporzione alle ossa presenti. Troviamo una considerazione analoga nelle parole di Montanari (2003: 219) a proposito dei maiali allevati nelle zone boschive dell’Europa altomedievale: in questo caso è la spalla ad essere preferita, perché i metodi di allevamento rendono la coscia troppo snella per poter essere apprezzata quanto la sua controparte anteriore. 82 caccia la quantità di carne ottenuta va ben oltre le esigenze delle famiglie dei cacciatori e pertanto viene redistribuita alla comunità, preparandola, consumandola o rivendendola sotto forma di sughi o altri derivati in occasione di sagre di paese, che rappresentano momenti di socialità collettiva e di grandi dispendi alimentari. “Venute meno le necessità biologiche, la caccia rende manifeste due posizioni. La prima riguarda il controllo del territorio e il raggiungimento di un equilibrio ambientale. La seconda è invece relativa ad aspetti simbolici e rituali, che includono la socialità e la competizione” (Koensler, Meloni, 2019: 42). La carne dei cinghiali a Iesa non è più necessaria a livello nutrizionale, ma resta un importante strumento per la costruzione identitaria, per la creazione di momenti di socialità e condivisione, per alimentare i meccanismi di reciprocità e di equilibrio tra uomo e natura e tra singoli e comunità. 3.2 Allevamento e macellazione Diverse migliaia di anni fa, in vari luoghi del mondo, gli uomini hanno cominciato a modificare l’ambiente naturale in maniera sempre più articolata e continuativa. Anche presso le società acquisitive vengono messe in atto diverse pratiche di trasformazione del territorio: il rapporto con la natura è di equilibrio e non di passività; la crescita di certe piante e la diffusione di certi animali viene incoraggiata o limitata a seconda della necessità, tramite diversi accorgimenti che richiedono specifiche competenze, come la protezione di certe porzioni di terreno per favorire l’habitat ottimale per particolari piante o animali, o l’accensione di incendi controllati per regolare la densità delle foreste e consentire la variazione delle specie. L'uso della natura (ma la nozione stessa di ‘natura’, come ci ha insegnato Lévi-Strauss) è un fatto eminentemente culturale, e il contrasto fra i due poli, quando affiora, è frutto più di una scelta ideologica che di una opposizione reale. Del resto, il confine fra uso dell'incolto e coltivazione, fra economia ‘selvatica’ ed economia ‘domestica’ è assai meno rigido di quanto potremmo pensare. È un confine mobile, che va e viene, avanza e arretra. La conquista di nuovo spazio agrario e il progredire delle coltivazioni non avvengono senza ripensamenti o abbandoni. L’addomesticamento del paesaggio, delle piante, degli animali non esclude realtà intermedie, sfumate, ambivalenti (Montanari, 1993: 46). 83 Quando, per ragioni più o meno volontarie, l’equilibrio con la natura è stato infranto, si è potenziato il sistema di selezione di piante ed animali25, cercando con attenzione sempre maggiore quei tratti che, generazione dopo generazione, ne aumentavano la resa produttiva e, nel caso di alcune particolari specie animali, ne miglioravano le prestazioni anche in ordine ad altre necessità e funzioni: oltre che come riserva alimentare, gli animali sono stati utilizzati come mezzo di trasporto, strumento di sorveglianza e forza lavoro; sono diventati compagni dell’uomo, sono stati coinvolti e integrati nei suoi modi di intrattenimento e, come puntualizza Lévi-Strauss, sono stati considerati importanti marcatori di status sociale: Gli animali domestici sono stati un lusso, un segno di ricchezza, uno status symbol - come si può ancora osservare in India e in Africa - molto prima di essere considerati una fonte di nutrimento o di materie prime. Nel vicino Oriente la domesticazione della pecora risale a circa undicimila anni fa e solo cinquemila anni più tardi si cominciò a usare la lana (LéviStrauss, 2015b: 26). L’agricoltura e l’allevamento hanno segnato una svolta dal punto di vista sociale ed ecologico: consentendo l’accesso e lo sfruttamento di territori altrimenti inabitabili, queste pratiche hanno accompagnato e improntato la diffusione della popolazione umana in costante aumento. Il rapporto di causalità tra gli eventi, però, non è trasparente: la pressione demografica, la sedentarizzazione e la diversificazione della struttura sociale si pongono in rapporto sia di effetto che di causa rispetto al sistema economico basato su agricoltura e pastorizia (LéviStrauss, 2015b; Montanari, 1993). Recenti ricerche condotte presso diverse società acquisitive hanno dimostrato che, per chi conosce il territorio, è possibile in genere dedicare all’approvvigionamento una parte relativamente limitata del proprio tempo, minore rispetto allo sforzo complessivamente necessario per impostare l’alimentazione sulle attività di agricoltura e allevamento. È stato calcolato che, tra i cacciatori-raccoglitori, un uomo era in grado di provvedere alle necessità di quattro o cinque persone, una produttività superiore a quella di molti contadini europei alla vigilia della seconda guerra mondiale. La cosa è tanto più vera se si considera che il tempo dedicato alla ricerca degli alimenti in media è di due o tre ore al giorno per una produzione alimentare molto ben equilibrata che supera le duemila calorie a persona (includendo nella media i vecchi e i bambini) (Lévi-Strauss, 2015b: 22). Per una recente rassegna sulle ricerche antropologiche dedicate al rapporto tra l’uomo e le specie vegetali e animali nell’ambito dei sistemi agricoli, si veda Seshia Galvin, 2018. 25 84 L’equilibrio demografico è attentamente ricercato e mantenuto presso le società acquisitive, che maturano una profonda consapevolezza dei limiti e delle potenzialità dell’ambiente in cui si muovono: la padronanza delle risorse naturali richiede un lungo apprendistato e non è certo per mancanza di informazioni o competenze che i cacciatori-raccoglitori che sono rimasti tali hanno evitato di modificare la propria economia26. Naturalmente, come puntualizza Lévi-Strauss, “Niente autorizza a pensare che queste condizioni di vita riflettano quelle dell’intera umanità alla vigilia del Neolitico” (Lévi-Strauss, 2015b: 23); inoltre, non tutti gli ambienti naturali posseggono le caratteristiche necessarie: quando l’equilibrio non è più stato possibile, il bagaglio culturale maturato nella gestione del territorio è stato sfruttato in una diversa direzione e, nel tempo, ha dato forma a nuovi modi di intendere e trasformare la natura, in sintonia con nuovi modi di intendere e trasformare, a sua volta, la società. The agrarian composes, and is composed by, complex spatial and temporal assemblages as well as social and cultural relations, which are fundamentally human and nonhuman and which also draw together much more (capital and finance; science and technology; infrastructure and regulation; gendered, racial, ethnic, class, and other identities; affect and moral sensibility, and so on). The agrarian is formative because [...] through the networks and relations from which it emerges, and in turn brings together, it thoroughly makes and remakes who we are (Seshia Galvin, 2018: 234). 26 Anche oggi è possibile osservare tentativi di negoziazione identitaria nelle forme di compromesso e compresenza di pratiche agricole e di caccia e raccolta: Georges Guille-Escuret (1998) ha analizzato la situazione della zona di frontiera tra il Congo e la Repubblica Centrafricana, in particolare i territori a sud del fiume Lobaye, in cui alcuni gruppi di Pigmei Aka praticano l’agricoltura piuttosto regolarmente, pur mantenendo uno stile di vita principalmente votato alla caccia e alla raccolta. Guille-Escuret spiega che la scelta di intensificare le coltivazioni, già avviate in epoca coloniale, dagli anni Venti agli anni Quaranta, è stata presa all’inizio degli anni Settanta da alcuni gruppi di cacciatori-raccoglitori relativamente lontani nel territorio: due gruppi Aka legati da un rapporto di vicinanza e scambio ai coltivatori Ngbaka e più a ovest, un altro gruppo Aka, connesso a sua volta con i coltivatori Ngando. La pratica si diffuse rapidamente ad altri gruppi, tanto che al momento dell’indagine di GuilleEscuret, nel 1985, la maggioranza dei Pigmei aveva incorporato nel proprio stile di vita l’agricoltura. L’agricoltura pigmea si configura non come indizio di deculturazione o di acculturazione rispetto ai gruppi dei coltivatori limitrofi, ma come una forma di resistenza: gli Aka coltivano per poter continuare ad essere cacciatoriraccoglitori, un’identità difesa e costruita in rapporto all’alterità rappresentata dai coltivatori Ngbaka e Ngando, risultato anche dei trascorsi politici di sfruttamento e conflitto tra i gruppi. “I Pigmei avrebbero adottatole pratiche agricole non tanto per ‘avvicinarsi culturalmente’ agli abitanti dei villaggi, ma per allontanarsi da loro, ovvero, per sfuggire alla dipendenza sempre maggiore dai prodotti agricoli provenienti dai villaggi” (Allovio, 2010: 62,63). 85 3.2.1 Tra selva, campagna e città: equilibri precari Nel ripercorrere la storia dell’alimentazione in Europa, Montanari (1993) evidenzia come la compresenza del mondo selvatico e di quello agricolo sia stata una costante delle società europee fino agli ultimi secoli: solo con la rivoluzione alimentare del XIX secolo, strettamente connessa al processo di industrializzazione, il regime alimentare europeo ha assunto una forte caratterizzazione urbana, sia in ordine all’alto tasso di urbanizzazione della società, sia perché i modelli urbani di alimentazione costituiscono ormai la norma e possono essere imitati da chiunque: in questi contesti, l’accessibilità è uno dei maggiori tratti discriminanti rispetto al passato. L’abbondanza complessiva non è distribuita equamente: la stratificazione sociale limita e indirizza le risorse verso chi detiene i mezzi per proteggere il proprio privilegio. La progressiva privatizzazione e cancellazione delle zone boschive in Europa si riflette nelle abitudini alimentari e nelle interpretazioni ideologiche che si susseguono nel corso dei secoli; Montanari (1993, 2002, 2003, 2003b) ricostruisce i percorsi culturali dell’approccio alla selva e a ciò che essa può offrire, attingendo alle fonti scritte provenienti da diversi contesti intellettuali: dal mondo ecclesiastico a quello giuridico, dalla trattatistica medica a quella gastronomica, dai carteggi privati alle opere letterarie di vario genere, come biografie, racconti di viaggio, romanzi o novelle destinate a diversi tipi di pubblico, comprese quelle tramandate oralmente e solo successivamente trascritte. La lettura consapevole e attenta di queste fonti consente di ricostruire le abitudini alimentari dei diversi ceti sociali e quello che emerge è un sistema in costante trasformazione, con negoziazioni, confronti e scambi tra poveri e ricchi, tra nobili e clero, tra città e contado (Flandrin, Montanari, 2003). La carne resta protagonista delle idee rispetto alla dieta, ma il suo ruolo è soprattutto culturale: sul piano nutrizionale la sua importanza varia largamente a seconda del periodo storico e, soprattutto, di chi si siede a tavola. Si tratta di differenze che si riflettono anche nei modi di preparazione e quindi nei gusti, anche dal punto di vista prettamente organolettico sui cui richiama l’attenzione Sutton (2010), che caratterizzano diversi contesti sociali (Flandrin, Montanari, 2003). Dopo la caduta dell’Impero Romano, fino al IX secolo la produzione alimentare è generalmente slegata dal commercio, che riguarda quasi esclusivamente beni di lusso, come le spezie. Il sistema di approvvigionamento è improntato sull’autoconsumo, in una logica di reciprocità e redistribuzione all’interno di una rete di soggetti che condividono le risorse disponibili: Quando parliamo di “autoconsumo” dobbiamo sempre pensare a sistemi socialmente ed economicamente integrati, all’interno di unità più o meno grandi che possono essere 86 individuate, a seconda dei casi, nel villaggio contadino con le sue pertinenze, o nell’azienda signorile con le terre e gli uomini che ne dipendono (anche qui, peraltro, l’unità di produzione alimentare difficilmente può essere compresa nella singola azienda fondiaria, identificandosi piuttosto con la rete di aziende che fanno capo al medesimo proprietario e che, nell’insieme, vanno a integrare le specifiche vocazioni produttive di ciascuna). Comunque è il territorio rurale (nella sua complessa articolazione di spazi coltivati e incolti) a dare il “tono” a quest’epoca, a prendere il sopravvento sulle realtà urbane che avevano, invece, dominato la scena in età romana (Montanari, 2003a: 217). Montanari sottolinea la peculiarità della quantità di carne presente nella dieta di questo periodo; l’apporto significativo di prodotti animali è un dato insolito, anomalo rispetto alla complessiva linea di sviluppo della storia dell’alimentazione europea: “I contadini europei dell’alto Medioevo fruirono di una dieta sicuramente più equilibrata di quanto non sia dato di riscontrare per altre epoche, anteriori e posteriori, dominate da una massiccia prevalenza dell’apporto cerealicolo a scapito dei consumi animali” (Montanari, 2003a: 218). Ovviamente, all’interno di questo quadro generale, la specificità ambientale e culturale delle varie regioni comportava la variazione delle diete: ad esempio, la prevalenza dell’allevamento suino e quella dell’allevamento ovino seguivano la conformazione del territorio, più o meno adatto ad ospitare gli animali dell’uno e dell’altro tipo. Questa discrepanza si rifletteva nella prevalenza gastronomica rispettivamente della carne o dei prodotti caseari, dato che l’allevamento di pecore e capre le vedeva impiegate prevalentemente “come bestie vive, produttrici di latte oltre che di lana” (Montanari, 2003a: 218), mentre, come spesso sottolineato da Marvin Harris (1990), il maiale è uno straordinario produttore di carne che però, ha poco altro da offrire. L’utilità del maiale, di fatto, dipende in gran parte anche dal sistema di allevamento: diversamente dai bovini, la forza lavoro di un branco di maiali non viene impiegata per tirare un aratro, ma può dimostrarsi altrettanto valida per mantenere il terreno fertile e per contribuire alla pulizia e alla manutenzione dei boschi e delle zone coltivate27. 27 Roy Rappaport (1980) descrive le pratiche agricole presso gli Tsembaga della Nuova Guinea in cui i maiali domestici vengono fatti circolare liberamente proprio allo scopo di tenere ordinate e pulite da radici ed escrementi umani le zone abitate e quelle destinate agli orti. Ogni cinque anni si tiene il kaiko, una festa rituale che, secondo Rappaport, ha anche una forte motivazione ecologica: consente infatti di regolare la popolazione suina evitando lo stabilirsi di un rapporto parassitario con l’uomo (v. anche Koensler, Meloni, 2019). La tecnologia contemporanea consente di sfruttare il maiale per nuove finalità: l’artista e designer Christien Meindertsma (2008) ha rintracciato gli usi cui sono state destinate le varie parti di un singolo maiale, identificato come Pig 05049, pubblicando, in collaborazione con la designer Julie Joliat, la raccolta delle foto degli oggetti ottenuti a partire dall’intero corpo processato. Il volume è stato acquisito dal MoMA di New York nel 2010 (Galloway, 2010). Meindertsma ha presentato il progetto anche in occasione del convegno TEDGlobal 2010: la registrazione e la trascrizione sono disponibili all’indirizzo https://www.ted.com/talks/christien_meindertsma_how_pig_parts_make_the_world_turn?utm_campaign=tedspr 87 Contrariamente alle regioni mediorientali in cui si rintraccia l’origine del tabu sulla carne suina trascritto nel Levitico, nel caso delle zone boschive europee di questo periodo allevare maiali è un’attività dai costi molto contenuti, dato che venivano lasciati prevalentemente liberi, insieme ai cinghiali, di “scorrazzare nel bosco con non poche occasioni di scambi e incroci reciproci” (Montanari, 2003a: 219) e le foreste, all’epoca, erano lasciate aperte allo sfruttamento comune. Gli effetti di questa condivisione degli spazi selvatici con i cinghiali si notano nelle caratteristiche fisiche dei maiali dell’epoca: l’archeozoologia ha dimostrato che erano tre o quattro volte più piccoli rispetto alle medie attuali e l’iconografia medievali li ritrae con connotati molto più simili a quelli dei cinghiali che a quelli dei maiali addomesticati di oggi. La consuetudine dell’animale al vagabondaggio nei boschi ne manteneva il corpo snello e magro: perciò, alla fine del pascolo, ad autunno avanzato, lo si teneva un po’ nel podere per ingrassarlo; ma generalmente, prima che venisse ucciso per metterne le carni sotto sale, il maiale riusciva a passarla liscia per più di un inverno. […] Anche i criteri di valutazione economica e gustativa erano condizionati dal genere di vita delle bestie: alle parti posteriori del maiale (oggi ingrossate dalla sedentarietà, nel Medioevo più agili e snelle) non si dava allora, come oggi, una decisa preferenza sulle parti anteriori, ugualmente se non maggiormente apprezzate. Nei contratti agrari del tempo, i contadini sono talvolta tenuti a consegnare una spalla di maiale ai signori di cui sono affittuari (Montanari: 2003: 219). Ritroviamo la spartizione strutturata della carne, sistema che già abbiamo visto come denso di significati simbolici strettamente interlacciati a quelli prettamente nutrizionali, rispetto alla redistribuzione delle risorse alimentari e all’espressione dei rapporti di forza e socialità di una comunità (Allovio, 2010; Poppi, 2011, 2014; Guille-Escuret, 1998). Nel caso degli allevatori di maiali dell’Europa altomedievale il sistema è regolamentato da una normativa non più affidata solamente all’oralità, ma anche, in maniera sempre più stringente, alla scrittura ed alla burocrazia, che ufficializzano dei rapporti di stratificazione sociale e sudditanza che nel contesto europeo si fanno, nel tempo, sempre più rigidi (Montanari, 2003b). La differenza tra la dieta dei contadini, dei nobili e del clero è notevole, sia a livello pragmatico che a livello ideologico: la trattatistica dell’epoca descrive e prescrive abitudini diverse e valori contrapposti (Montanari, 2003b). Il comportamento alimentare era uno dei modi principali con ead&utm_medium=referral&utm_source=tedcomshare (ultima consultazione 15/02/2020). Dalle munizioni, alla vernice, dalle medicine alle sigarette: ogni grammo di Pig 05049 viene adoperato in campi che non hanno apparentemente nulla a che vedere con l’alimentazione, dimostrando quanto sia ancora vero che del maiale non si butta via niente e quanto la produzione alimentare nel contesto industriale sia stata integrata nella rete diversificata della produzione in generale. 88 cui veniva espressa la differenza di rango. Le differenze si articolano in una opposizione di identità e alterità che si alimentano vicendevolmente: il grasso e il magro, la carne e i vegetali, l’immediatezza consentita dalla ricchezza e la parsimonia dettata dalla precarietà, tradotta in metodi di conservazione che hanno generato una diversità gastronomica talmente capillare da farci ritrovare, per esempio, salumi dalle caratteristiche peculiari in ogni regione d’Italia, se non in ogni città (Montanari, 2002b). Per nobili e signori altomedievali, la cui vita era segnata dalle esperienze militari e la cui educazione era improntata ai valori della guerra, “la caccia esprimeva pienamente quella cultura della forza e della violenza che trovava nell'esercizio delle armi la sua più alta consacrazione” (Montanari, 2003b: 226); sulle loro tavole primeggiava la selvaggina, in forma di arrosti e carni rosolate direttamente sul fuoco, su spiedi o graticole. Nel descrivere queste abitudini, Montanari richiama le riflessioni di Lévi-Strauss a proposito delle opposizioni schematizzate nel triangolo culinario: Al di là dei gusti e delle specifiche predilezioni, in ciò è da vedere anche l’espressione di ben precisi valori culturali: secondo una tradizione ben nota e antropologicamente diffusa, l'uso del fuoco senza la mediazione dell'acqua e dei recipienti domestici implica una maggiore vicinanza al “crudo” e alla natura selvatica, all'immagine, dunque, profondamente “animale” che la nobiltà guerriera dell'alto Medioevo ha e ama dare di sé. Soprattutto gli arrosti esprimono il legame strettissimo tra la nozione di consumo carneo e quella di forza fisica, un legame che, peraltro, pervade la cultura medievale in ogni suo aspetto: la scienza dietetica del tempo, informata alla tradizione antica ma significativamente “aggiustata” nella valorizzazione nutrizionale sociale del consumo di carne, non ha dubbi nel ritenere quest’ultimo il più adatto a nutrire la fisicità dell'uomo, i suoi muscoli, la sua - appunto - carne. […] Carne come strumento di forza, dunque; e poiché nella mentalità guerriera una seconda inevitabile equazione era quella tra forza e potere (perché il comando si legittimava e giustificava anzitutto come prestanza fisica e valore militare), quasi per proprietà transitiva ne conseguiva una terza identità tra carne e potere (Montanari, 2003b: 227). Se la carne è sinonimo di forza e di potere, la sua esclusione e il suo rifiuto sono interpretati come una dimostrazione di umiltà o di penitenza: in ambito ecclesiastico, “la rinuncia alla carne - segno di violenza e di morte, simbolo della fisicità e della sessualità - fu un punto fermo della spiritualità monastica fin dai primordi dell’esperienza cristiana” (Montanari, 2003b: 231). La normativa prevista per le tavole del clero segue dei principi distintivi propri, allineati ai valori 89 di sacrificio, morigeratezza, semplicità e rigetto della civiltà, in un periodo storico che vede l’affermazione del monachesimo istituzionalizzato sulle orme delle pulsioni eremitiche dell’epoca precedente. Dal piano teorico a quello pratico, però, non mancano le ipocrisie e le forme di resistenza, dissimulate più o meno apertamente: il rifiuto della carne giustifica il consumo di alternative altrettanto pregiate, come alcuni tipi di pesci, e dalla necessità di individuare cibi sostituivi nacquero “finissime strategie dietetiche e gastronomiche, da cui prese vita nella polemistica dei secoli successivi l’immagine stereotipa (ma non immotivata) del monaco ghiottone” (Montanari, 2003b: 231). La carne stessa ricompare di frequente sulle mense conventuali, con giustificazioni di carattere salutistico o in aperta infrazione della disciplina monastica; traspare in queste occasioni la formazione e la provenienza dei membri di queste congregazioni: Di monaci carnivori - possibilmente puniti - sono piene le fonti agiografiche, né si tratta di casi riconducibili semplicemente a “private” deviazioni dalla regola: è il codice alimentare aristocratico che si fatica a rinnegare del tutto; è la profonda consonanza culturale e mentale con il mondo e con lo stile di vita dei potenti (Montanari, 2003b: 231). Troviamo espressa la condivisione del linguaggio alimentare comune ai diversi ceti sociali: la carne è un gustema rilevante sia nella sua presenza che nella sua assenza, intorno al quale si articolano i discorsi alimentari di più ampio spettro. Se in ambito ecclesiastico la rinuncia alla carne è un modo per dimostrare umiltà e sacrificio, la dieta signorile interpreta, a sua volta, il divieto di consumare carne come una punizione e una forma di umiliazione: In età carolingia vediamo punite le malefatte o le vigliaccherie dei potenti con l'obbligo di astenersi dalla carne per brevi o lunghi periodi, o, nei casi più gravi, per l'intera vita. Obbligo a cui, significativamente, si affianca a quello di deporre le armi - di abdicare, cioè, né più né meno, al proprio stato sociale (Montanari, 2003b: 227). L’assenza della carne a tavola, come abbiamo visto, può configurarsi come effetto di un divieto, imposto o auto-inflitto, rispetto ad una disponibilità comunque presente; la rinuncia è possibile all’interno di un contesto di abbondanza e il gustema “carne” è condiviso in modo molto simile da nobili e clero, anche se in termini opposti: “Quando, nel Medioevo, le regole monastiche impongono o suggeriscono l’astinenza dalla carne […] l’apparente distacco dai valori comuni 90 in realtà li richiama, utilizzando il medesimo lessico col medesimo significato, pur se preceduto da un segno di negazione, funzionale alla dimensione penitenziale della cultura monastica” (Montanari, 2004: 138). Si tratta di una modalità di pensare e consumare la carne diversa da quella praticata dai ceti più poveri, costituiti all’epoca principalmente dai contadini, che attingono a diverse risorse e impostano la propria alimentazione secondo altri criteri, dettati dalla necessità e dalla precarietà. A cavallo tra VIII e IX secolo, i ceti più benestanti avevano generalmente a disposizione carne fresca, proveniente da selvaggina appena cacciata o da animali da poco macellati, mentre i contadini predisponevano scorte e salvaguardavano le riserve, pena il rischio di ritrovarsi, rapidamente, alla mercé della fame: Il consumo di carne era socialmente differenziato. Solo pochi potevano permettersi di mangiare carni fresche: sempre nuova selvaggina arrivava ogni giorno alla mensa di Carlo Magno (ce lo assicura il suo biografo Eginardo) e qualcosa di simile doveva accadere nelle principali dimore signorili. I contadini, preoccupati soprattutto di garantirsi delle scorte, contavano piuttosto sulla carne conservata: maiali e pecore anzitutto (questi erano gli unici animali allevati in considerevole quantità) ma anche, nelle regioni del Nord, bestiame grosso: buoi, cavalli, bufali. E selvaggina: anche le carni di cervo o di cinghiale si seccavano al fumo o si mettevano sotto sale […]. Solo, di quando in quando, il pollame domestico - galline, oche, anatre - apportava carne fresca alla tavola contadina; ed era giorno di festa (Montanari, 1993: 43-44). Nei secoli seguenti, la trasformazione del territorio, dovuta all’aumento demografico, all’espandersi delle città, alle pratiche di deforestazione e alla privatizzazione delle zone boschive rimanenti, riflette e induce contestualmente modifiche sostanziali del sistema di approvvigionamento: come nota Montanari a proposito di Bologna (Montanari, 2002b), caso esemplare dal punto di vista gastronomico per la rinomata fama come “Grassa”, oltre che come “Dotta”, il rapporto che va configurandosi tra l’urbe e il contado è reciproco, ma non paritario. La campagna è al servizio della città, la nutre e la sostiene economicamente, fornendo le materie prime che alimentano lo scambio commerciale, mentre la città garantisce l’organizzazione amministrativa e politica, permettendo la fluidità degli scambi con il resto del territorio. Sul territorio italiano questa ridefinizione è particolarmente precoce, data l’importanza storica che i centri cittadini hanno rivestito a partire dal XII secolo, specialmente nelle regioni centrali e settentrionali. Nella normativa giuridica formulata a proposito della gestione delle derrate 91 alimentari emerge un rapporto di dipendenza reciproca e, al tempo stesso, di disparità oggetto di conflitto e rinegoziazione. La “politica annonaria”, ossia l’insieme delle norme tese a garantire la sicurezza dei consumatori cittadini, era la principale preoccupazione delle pubbliche autorità, strategicamente dislocata su tutto il percorso del processo produttivo: tutela del paesaggio e della proprietà, controllo del lavoro contadino e patti agrari, regolamentazione delle forme di trasporto e di commercializzazione dei prodotti, talora perfino dei livelli individuali di consumo. Attente (ancorché elementari) politiche daziarie tendevano a favorire l’importazione, a limitare - o, nei casi di emergenza, proibire - l’esportazione dei prodotti di prima necessità, e in tale dinamica effettivamente era decisivo il rapporto della città con il proprio territorio, con le risorse che la sua campagna era in grado di fornire. Rapporto delicato, non di rado conflittuale, poiché i proprietari di terre, in gran parte cittadini, faticavano a spremere dai loro affittuari e mezzadri quanto avrebbero voluto, come testimonia la stessa frequenza di norme legislative a tutela degli interessi padronali e degli obblighi contrattuali, contenute negli statuti urbani (Montanari, 2002: 181-182). Nel ricostruire la storia dell’alimentazione europea di questi secoli è importante tenere in considerazione anche il confronto con le identità limitrofe che hanno contribuito al consolidamento o alla rinegoziazione dei valori diffusi e condivisi sul territorio europeo. Tra i principali interlocutori di una Europa che si dichiara marcatamente cristiana, troviamo innanzitutto le altre fedi più diffuse: il dialogo e la contrapposizione ad Ebraismo e Islam passano anche dalla tavola, oggetto di scambi e diffidenze reciproche, tanto da mettere in discussione persino la possibilità effettiva di sedersi insieme attorno ad essa (Rosenberger, 2003; Montanari, 2003c)28. Una delle più spiccate differenze è rintracciabile nella carne di 28 Il problema di condividere la tavola con commensali che seguono diverse normative alimentari è ancora attuale. Su questi aspetti ci si interroga sia dal punto di vista legislativo, per valutare l’opportunità di adeguare mense pubbliche di ospedali o scuole, sia in occasioni particolari più estemporanee. Un recente caso di cronaca ha evidenziato quanto l’argomento sia ancora in grado di sollevare polemiche politiche, specialmente in caso di equivoco o strumentalizzazione. In occasione della festa patronale del 4/10/2019, a Bologna, il comitato addetto alla preparazione dei festeggiamenti ha proposto di organizzare un pranzo a base di tortellini, parte dei quali sarebbero stati preparati “in diretta” per mostrare ai bambini l’arte necessaria per la chiusura dell’impasto, notoriamente difficile per via delle piccole dimensioni dei tortellini. Per quanto riguarda il ripieno, accanto al consueto misto di carni suine è stata proposta l’idea di usare carne di pollo per chi non poteva mangiare maiale, in nome dello spirito di accoglienza che doveva caratterizzare l’evento. La sola ipotesi di proporre un’alternativa rispetto alla ricetta considerata tradizionale, e pertanto intoccabile, ha scatenato la polemica, alimentata dalle reazioni scandalizzate di politici e opinionisti che hanno definito come uno scandalo l’idea di modificare la ricetta a favore dei commensali di fede islamica, dimostrandosi più interessati alla portata demagogica di un argomento del genere che all’effettiva storia della tradizione e, anche all’effettiva ricostruzione dei fatti in questione. Non solo il tortellino ha un passato molto diversificato, in cui il pollo ha avuto un ruolo di primo piano, ma il desiderio di accomodare le esigenze di chi non può mangiare maiale era nato pensando agli anziani ed ai bambini, che 92 maiale, che si dimostra, anche in questa occasione, un animale “buono da pensare”. L’identità europea è fortemente segnata dall’allevamento suino, tanto da misurare la dimensione delle zone boschive “non in termini astratti di superficie, ma in base al numero di maiali che le ghiande, le faggiole e gli altri frutti consentivano di farvi crescere e ingrassare: silva ad saginandum porcos. […] Una nozione produttiva, dunque, analoga a quella che si proponeva per i campi (misurati in grano), le vigne (misurate in vino), i prati (misurati in fieno)” (Montanari, 1993: 20). Sulla carne di maiale verte la più evidente distanza tra le tavole cristiane, ebraiche e musulmane. Essa viene declinata, però, in maniera differente: il tabu posto dal Levitico è uno fra i tanti imposti ad una comunità con cui il cristianesimo ha maturato una certa familiarità; quella delle comunità ebraiche in Europa è una storia di compresenza, di separazione e di continuità, di pregiudizi e dialettiche costruite nel corso dei secoli; in genere, in queste dinamiche le minoranze ebraiche non pongono particolari minacce di sopraffazione. Anche il dialogo con il mondo arabo non è certamente inedito, ma a partire dal VII secolo la diffusione dell’Islam e la conquista territoriale modificano i termini di questo confronto: sul piano alimentare, nel caso dell’Islam il divieto posto nei confronti del maiale, tra i pochi animali oggetto di tabu, si accompagna alla proibizione delle bevande alcoliche. Di fronte a questa alterità, si consolida un’identità europea cristiana, definita dalla triade pane-vino-carne, risultato della combinazione dei valori ereditati dall’impero romano associati al grano e alla vite, di origine meridionale, con quelli associati alla carne, importati dalle popolazioni barbariche provenienti dalle zone centrali e settentrionali (Montanari, 1993, 2003c). La carne, specialmente quella di maiale, risulta tra gli elementi decisivi nella definizione dei modelli alimentari europei e, più in generale, dell’identità dell’Europa come comunità culturale, che va costruendosi nel corso della storia, al di sopra delle specificità nazionali che pure, naturalmente, non cessano di manifestarsi (Montanari, 2003c). Proprio gli incontri e gli scambi tra culture diverse, proprio l’osmosi e l’arricchimento reciproco consentirono all'Europa medievale di crescere e di costruire una propria originale identità complessiva. Di ciò i contemporanei furono perfettamente consapevoli, come dimostra la leggenda che vuole all'origine della Scuola di medicina salernitana - uno dei luoghi decisivi per la diffusione della cultura dietetica e gastronomica medievale - avrebbero avuto così a disposizione una pietanza meno pesante per la digestione. Nel commentare la vicenda, Marco Aime (2019) ricorda un episodio che aveva riportato come metafora emblematica a chiusura del suo Eccessi di culture (2004), in cui i tortellini diventavano inediti compagni del cous cous nel piatto di un bambino di origine marocchina di una scuola materna di Torino, perfetta immagine del sincretismo a tavola, in nome del compromesso e dell’innovazione. 93 l’incontro di quattro medici di diversa nazionalità e cultura: uno latino, uno greco, uno arabo e uno ebreo (Montanari, 2003c: 248-249). 3.2.2 L’allevamento industriale: distanze e compromessi Fra XVIII e XIX secolo, grazie al rinnovamento tecnologico e all’impianto di nuove colture, come quelle provenienti dal continente americano, la crescita produttiva dell'agricoltura europea riuscì a sostenere la domanda alimentare di una popolazione che aumentava progressivamente e rapidamente. A questo proposito, Montanari (1993) sottolinea l’importanza di distinguere tra la capacità di superare le carestie con un minore tasso di mortalità e l’effettivo arricchimento delle diete, specialmente per quanto riguarda i ceti popolari: “la progressiva ‘semplificazione’ della dieta popolare, orientata in modo sempre più massiccio e univoco sul consumo di pochi generi alimentari, comportò un suo reale impoverimento rispetto al passato” (Montanari, 1993: 181). I nuovi sistemi agrari e i progressi della scienza zootecnica hanno consentito di produrre una maggiore quantità di carne, ma, per lungo tempo, non furono in molti a poterne approfittare: Le statistiche ci dicono che dopo il 1750 la diminuzione del potere d'acquisto di larghi ceti di consumatori fece bruscamente declinare il consumo di carne anche nei centri urbani. Un dato per tutti: a Napoli nel 1770 furono macellati 21.800 bovini per una popolazione di circa 400.000 abitanti; duecento anni prima, per circa 200.000 abitanti se ne macellavano 30.000 (Montanari, 1993: 181). La carne è rimasta un prodotto di lusso anche quando è notevolmente aumentata la produttività dei sistemi adottati per l’allevamento. Se questo è ancora vero per gran parte del mondo, in Europa e negli Stati Uniti si è verificata una svolta definitiva nel XX secolo, quando le tecniche produttive e, soprattutto, i mezzi di trasporto e conservazione sono stati radicalmente trasformati dall’industria e dal sistema economico improntato sul modello capitalista (Pedrocco, 2003; Blanchette, 2018; Montanari, 1993; Koensler, Meloni, 2019). Gli scambi commerciali su scala globale non si traducono in una omogeneizzazione dei consumi e delle produzioni: la specificità delle tradizioni locali si intreccia con la disparità di potere politico ed economico delle varie zone del mondo. 94 Un importante aspetto della delocalizzazione alimentare nel XIX e XX secolo è stata la trasformazione dei sistemi alimentari nelle aree non industrializzate, che sono state implicate nel soddisfacimento di alcuni dei bisogni alimentari delle comunità euroamericane. Per esempio, in molte parti dell’America latina si è enormemente dilatata la produzione di carne bovina in funzione del mercato degli hamburger e degli alti consumi di carne dei paesi ricchi. Nel contempo, il consumo di carne della popolazione locale è calato. In Guatemala […] la produzione di carne bovina è raddoppiata dal 1960 al 1972, mentre il consumo interno pro capite scendeva del 20%. La complessa trama di relazioni che si istituiscono attorno alla delocalizzazione mondiale della produzione e della distribuzione del cibo mette in pericolo soprattutto le popolazioni produttrici, quando esse dipendono per la loro sussistenza dalla vendita di uno o pochi prodotti (colture, animali) destinati al commercio (Montanari, 1993: 196). Nel nuovo contesto di abbondanza si sono delineate nuove preferenze: Marvin Harris (1990) ha evidenziato la connessione tra il prevalente consumo della carne bovina negli Stati Uniti, in proporzione agli altri tipi di carne, e i cambiamenti intervenuti nel corso del XX secolo in ordine ai sistemi di produzione e alle modalità di vendita e di consumo. La predilezione americana per la carne bovina viene ricondotta, nell’analisi di Harris, a una serie combinata di innovazioni. Da un lato, i costi di produzione diminuirono progressivamente: i pascoli ricoprirono un’importanza sempre minore ai fini del foraggiamento, dato che, con razze sempre più selezionate, la velocità di crescita degli animali aumentò, riducendo i tempi necessari per arrivare al peso ottimale per la macellazione; con l’introduzione di mangimi appositamente composti di farine proteiche, addizionati di vitamine, ormoni e antibiotici, i tempi si ridussero ulteriormente; anche l’introduzione di luci artificiali permise di regolare il tempo di veglia e di riposo in modo da condizionare il comportamento degli animali per indurli a mangiare più frequentemente. Inoltre, si intensificarono alcuni processi di cambiamento sul piano sociale, con diverse conseguenze rispetto alle abitudini alimentari. Dapprima si ebbe lo sviluppo delle villette suburbane e relativo uso dello spazio esterno per cucinare e intrattenersi. […] La migrazione verso il suburbio fu prontamente seguita da altri mutamenti sociali che contribuirono alla conversione del manzo dell’America: ingresso delle donne nell’esercito del lavoro; famiglie formate da genitori entrambi lavoratori; marea montante del femminismo e relative crescenti insofferenze delle donne verso pentole e posateria varia, acquai e fornelli. Questi cambiamenti afferirono a vere e proprie orge di consumo di carne di manzo fuori casa, e costituirono anche il trampolino di 95 lancio del massimo contributo americano alla culinaria mondiale: il fast-food dell’hamburger (Harris, 1990: 118). James Staples (2017) riflette sul notevole aumento, nell’arco degli ultimi dieci anni, del consumo di pollame in Bethany, una comunità cristiana di malati di lebbra nella zona meridionale dell’India; la carne di pollo è ora tra le più consumate, superando quella di manzo e di capra, tradizionalmente più diffuse; le ragioni di questo cambiamento possono essere individuate sia in rapporto alla diminuzione dei costi, sia in relazione all’influenza esercitata dall’esposizione a realtà cosmopolite. Inoltre, Staples sottolinea che le idee relative al consumo di pollame rispetto a quello di carne bovina, proprie del contesto indiano e di Bethany in particolare, rendono la carne di pollo meno problematica dal punto di vista etico e più versatile dal punto di vista della commensalità. Beef, usually at around Rs. 100-150 per kg against Rs. 60 (in the summer) to Rs. 120 per kg for chicken, could be made to stretch further than chicken, either by curing it or by preparing it with vegetables. However, for those who had previously eaten beef because it was cheap, there was now a choice. And, as I suggested above, some felt that chicken also offered a level of respectability that beef did not. Everyone who ate meat could eat it, and chicken - served with rich pulao rice and gongora chutney - had become the default option at wedding feasts and other life cycle celebrations. In this respect, chicken’s growing popularity, while framed by Indian cultural practices, mirrored the bird’s trajectory in the USA and within industrialising food systems elsewhere […]. Finally, cross-cutting the vectors of morality, politics, environmental concerns and economics, there were more general cultural influences impinging on Bethany people’s eating choices. As a community that relied on begging in faraway cities like Bombay, its members have been exposed to a more cosmopolitan range of dietary options than neighbouring villages. In addition, since liberal economic forms began in 1991, global fast food chains such as McDonald’s, KFC and Wimpy have become ubiquitous in major cities. They avoid beef and are marketed at middle-class consumers, but the types of food they served also figured in the aspirations of the younger generation I worked with […]. The non-vegetarian dishes served in such eateries were signifiers of fashion, youth and modernity (Staples, 2017: 245-246). Generalmente, la disponibilità di carne a costi sempre più ridotti è stata consentita da una serie di fattori concomitanti, che hanno portato alla trasformazione dei processi di produzione e distribuzione alimentare: tra questi, una rilevanza particolare è stata rivestita dalle nuove 96 tecnologie che hanno consentito il cambiamento dei sistemi di conservazione e trasporto, permettendo di delocalizzare l’allevamento e di sfruttare zone lontane dai centri urbani per costruire impianti di larga scala di allevamento e macellazione. Le tecniche di surgelazione e refrigerazione sono intervenute non solo nella dimensione dello spazio, ma anche in quella del tempo: oltre alla delocalizzazione, infatti, hanno consentito di portare all’estremo la destagionalizzazione dei consumi, un aspetto che non è mai mancato nell’alimentazione umana (Montanari, 1993), ma che l’industrializzazione della produzione e l’innovazione tecnologica hanno indubbiamente favorito enormemente. Da sempre le tecniche di cottura e trasformazione degli alimenti hanno cercato di andare incontro alla necessità di trasportare e conservare il cibo, per esempio tramite affumicatura, fermentazione, salatura o altri processi che ne hanno rallentato il deperimento naturale, ostacolandone la naturale traiettoria sull’asse del putrido e reindirizzandola in quella del cotto, come ben illustrato nel triangolo di Lévi-Strauss (1965). Anche la conservazione per mezzo del freddo è stata utilizzata, ma in genere si è trattato di un processo troppo costoso per essere messo in atto su larga scala: ghiacciaie e “conserve” (Pedrocco, 2003: 620), spazi interrati destinati a questo apposito scopo, erano i luoghi adibiti alla raccolta del ghiaccio, che si effettuava d’inverno e rendeva possibile la conservazione durante le stagioni calde dei generi alimentari più pregiati, come la carne o il pesce. A partire dalla fine del XIX secolo, con il rapido progresso dei mezzi di trasporto e dei sistemi di produzione energetica, la refrigerazione diventa praticabile a costi sempre minori: i primi vagoni ferroviari frigoriferi, dotati di scomparti in cui riporre il ghiaccio in modo da raffreddare l’aria che veniva fatta circolare tra la carne appesa al tetto, vennero usati nel 1882 su percorso tra Chicago e New York (Harris, 1990: 115). Fino a metà del XIX secolo, gli animali da macello continuarono ad essere condotti vivi dai luoghi di allevamento ai centri di consumo: lunghe camminate li stancavano, compromettendo la qualità e il peso delle loro carni. Dopo il 1850 si cominciarono a trasportare carcasse ben conservate, pronte per la vendita, e i luoghi di produzione si ritrovarono improvvisamente vicini ai mercati: il mattatoio di Londra poteva dirsi trasferito ad Aberdeen, distante dalla capitale più di 800 km (Montanari, 1993: 193). Le tecniche di refrigerazione non influirono solo sulla distribuzione di vasta scala, ma anche sulle abitudini delle famiglie: nel corso del XX secolo, l’introduzione del frigorifero nelle cucine domestiche ha trasformato i costumi alimentari delle ultime generazioni, consentendo 97 autonomia e libertà completamente inedite. Il frigorifero, così come il microonde e ad altri elettrodomestici, secondo Meloni può essere considerato come un “dispositivo alimentare”, ossia come uno strumento che determina relazioni di potere e processi di soggettivazione. Meloni approfondisce l’ingresso di questo elettrodomestico nell’ambito del boom economico in Italia, nel secondo dopoguerra: il frigorifero viene pubblicizzato come un “amico di famiglia” (Koensler, Meloni, 2019: 63) ed entra a far parte integrante delle cucine italiane, che, grazie ad esso, vengono riempite di nuovi alimenti e sapori. L’introduzione dei piatti pronti e dei surgelati e la possibilità di conservare a lungo gli avanzi svincolano le donne dalla tradizionale preparazione dei pasti, rimodellano le relazioni di ospitalità e scambio di doni alimentari e comportano un’omologazione del gusto, conseguenza della standardizzazione della produzione. Alle libertà si accompagnano nuovi limiti di tipo logistico: La sua capienza stabilisce la misura di quanto una famiglia può comprare e conservare, e dunque influisce sulla scelta di cosa comprare. In base agli scomparti il frigorifero ci indica quante bottiglie di latte fresco possiamo riporre, quanto spazio dedicato alle uova, quanto sono capienti i cassetti delle verdure. In un certo senso è il frigorifero a stabilire cosa possiamo mangiare (Koensler, Meloni, 2019: 65). Negli ultimi trent’anni, la ricerca etnografica ha documentato l’incessante aumento della velocità della macellazione industriale, un ritmo che viene incorporato nel fisico e nella psiche sia dei lavoratori impiegati in questo settore, rimodellati dai danni fisici dovuti ai movimenti ripetitivi, sia degli abitanti delle comunità che subiscono gli effetti dell’inquinamento generato da questo sistema. Specialmente a livello locale, la qualità dell’aria e delle falde acquifere viene compromessa notevolmente dalla presenza di questo genere di impianti zootecnici, soprattutto per via degli effetti chimici dovuti alla sproporzionata quantità di sostanze rilasciate nell’ambiente, spesso con modalità insufficientemente regolamentate. Alex Blanchette (2018) ha proposto una rassegna degli studi di antropologia dedicati all’allevamento industriale di tipo capitalistico, evidenziando la peculiarità di questo genere di sistema e, al contempo, dell’analisi necessaria per la sua comprensione. Capitalist meat production […] constitutes an unusual - and unusually problematic - form of industrialism. Most studies have been compelled to approach industrial meat as an exceptional kind of mass-produced commodity - one that requires methods, ethics, modes of analysis, and political commitments distinct from those we have inherited from the study 98 of labor processes in more typical sites of industry such as automobile or computer manufacture (Blanchette, 2018: 187). La specificità dell’industria zootecnica si materializza anche nella moltitudine di carcasse di animali macellati e consumati. Blanchette avvia la sua disamina con un esempio denso di significato: “the image of a poultrified earth” (Blanchette, 2018: 186), prodotta in occasione della ricerca condotta dal Working Group on the Anthropocene per identificare i segnali dell’ingresso in una nuova epoca geologica. Da questo punto di vista, per dichiarare la transizione da un’epoca all’altra è necessario identificare dei parametri riconoscibili sulla maggior parte del pianeta, che rimangano identificabili anche per il futuro. Tra i segnali presi in considerazione, è stato incluso lo scheletro caratteristico del pollame di epoca successiva alla Seconda Guerra Mondiale: le ossa di questi animali sono di dimensioni maggiori rispetto a quelli delle precedenti epoche, perché l’industria zootecnica, tramite selezione genetica e tecniche di allevamento, ne ha modellato l’anatomia in modo da velocizzarne la crescita e aumentarne le dimensioni. Geologists have found that chicken skeletons - which, at least relative to those of pigs and cows, are less frequently rendered into fertilizers and bone meals for pet food in slaughterhouses - are accumulating in the fossil record under landfills and streets across much of the planet. […] The domestic chicken was transformed from an egg-laying farm animal kept in small sheds for rural subsistence needs - one rarely served on urban dinner plates - into the planet’s most populous species of bird. […] It is perhaps insufficient even to say that “the industrial chicken” as a generic model is being mass-fossilized. Rather, it is likely that the earth now contains many billions of poultry skeletons whose shape and density disproportionately reflect the proprietary genetics, feed rations, and capitalist strategies of specific agribusiness corporations (Blanchette, 2018: 186). Blanchette considera questa immagine come esemplificativa dei modi in cui il sistema industriale contribuisce a rimodellare l’esistenza degli individui e la cultura collettiva in nome dell’efficienza e della riduzione dei costi: “The project of industrialism was not just about making inanimate things […] but also one of making people and places” (Blanchette, 2018: 187). Gli effetti di questa tipologia di industria vanno ben oltre l’ambito economico e spesso sono resi inaccessibili e invisibili al pubblico, in modi più o meno appositamente preventivati e strutturati dalle imprese. Noëlie Vialles (1994) ha preso in considerazione, ad esempio, la rimozione dei centri di macellazione dalle città nel corso del XIX e XX secolo in Francia. La 99 distanza spaziale si è tradotta in una distanza emotiva: la carne e gli animali sono stati separati concettualmente e tale distacco ha contribuito all’accettazione del consumo di carne in termini meno problematici, fino ad arrivare ai livelli di massa dell’epoca contemporanea. Paulette Singley (2017) evidenzia come la struttura architettonica degli impianti stessi influisca sia sulla produzione che sulla percezione che si matura rispetto alle azioni compiute al loro interno29. Esaminando l’evoluzione architettonica di queste strutture nel corso del tempo e considerando le specificità delle soluzioni adottate in diversi contesti, Singley ne esplicita le diverse funzionalità e le conseguenze indirette su altri aspetti dell’esistenza umana e animale. The removal of slaughter from public view and placement under state surveillance eventually facilitated its eventual devolution, particularly in the United States, into unsupervised violence hidden from any substantive regulatory observation. In contrast to the Paris abattoirs, which artisanal butchers operated, the Chicago Union Stockyards’ industrial automation allowed for mechanized slaughter that minimized human participation and maximized rational efficiency (Singley, 2017: 190). Alla separazione si è accompagnata la segretezza e la carenza della normativa e la superficialità dei controlli rispetto alla sua implementazione hanno consentito la diffusione di pratiche sempre più coercitive e violente all’interno degli impianti di macellazione industriale: “Not only do animals suffer from mistreatment behind closed doors but so do workers” (Singley, 2017: 190). Le proteste da parte degli attivisti per i diritti degli animali hanno progressivamente raccolto maggiore attenzione pubblica, specialmente da quando è aumentata la circolazione di filmati, registrati di nascosto, che ritraevano le condizioni del bestiame prima e durante la macellazione. La sensibilità nei confronti di questi trattamenti è cresciuta costantemente, confluendo nella base ideologica della scelta vegetariana (Leitzman, 2002); anche per chi consuma carne, però, il tema è diventato sempre più rilevante, fino a condizionare la scelta al momento dell’acquisto. La diffusione di registrazioni amatoriali è stata resa sempre più facile e immediata dalle nuove tecnologie, sia per la possibilità di effettuare filmati di buona definizione per mezzo di dispositivi a costi sempre più contenuti, sia per la fruizione da parte del pubblico, veicolata sul web su siti e forum dedicati e tramite piattaforme digitali come YouTube. In risposta alle numerose registrazioni clandestine, il North American Meat Institute ha organizzato la visita di All’architettura degli spazi di macellazione e vendita della carne è stata dedicata anche l’edizione speciale n. 13 del 2019 della rivista online Anthropology of Food, “Viande et architecture. L’espace de travail de la viande, de la mise à mort à la vente, à l’époque moderne et contemporaine”, a cura di Anne-Hélène Delavigne e Valérie Boudier, disponibile online all’indirizzo https://doi.org/10.4000/aof.9805. 29 100 alcuni impianti e la produzione di brevi documentari, pubblicati sul canale YouTube Meat News Network30, dedicato alla promozione di informazioni ufficiali relative ai sistemi di macellazione adottati dall’istituto. I filmati, riuniti sotto il nome di The Glass Walls Project, sono stati realizzati con la collaborazione di Temple Grandin, consultata sia in qualità di esperta nel campo della logistica di queste strutture e nel campo del comportamento animale, sia in qualità di celebre attivista per i diritti degli animali. Le registrazioni seguono gli ultimi momenti di vita degli animali, dalla consegna ai centri di macellazione, all’uccisione vera e propria, seguita dalle operazioni di taglio e divisione della carne da parte degli operai impiegati nei centri meccanizzati; da ultimo si mostra il confezionamento delle parti così ottenute, che vengono quindi indirizzate ai centri per la distribuzione e la vendita. Grandin commenta i vari passaggi del processo, illustrando le ragioni dell’impiego di particolari attrezzature o accorgimenti logistici, che consentono di guidare gli animali durante il percorso verso la zona in cui si effettua l’abbattimento, riducendone il più possibile la sofferenza e lo stress. Grandin ha pubblicato numerose opere sul tema della gestione degli impianti zootecnici, sia in relazione al periodo dell’allevamento, sia riguardo al momento specifico della macellazione, collaborando alla progettazione di attrezzature e impianti che consentono la riduzione della paura e del dolore degli animali; le sue ricerche hanno contribuito alla riformulazione dei principi etici previsti dalla normativa vigente negli Stati Uniti in ordine al trattamento riservato agli animali allevati (Singley, 2017). Si è pronunciata inoltre sulla compatibilità della macellazione rituale31, così come configurata dalle regole ebraiche e dalle regole islamiche, rispetto alla normativa vigente negli Stati Uniti (Grandin, 2006). Nei documentari del Glass Walls Project, Grandin puntualizza che la possibilità di accedere ai centri di produzione zootecnica è fortemente limitata dalle normative nazionali in nome della sicurezza sanitaria. Data la possibilità di trasmettere e diffondere malattie in entrambe le direzioni, dal mondo umano a quello animale e viceversa, quella sanitaria è stata da sempre una preoccupazione che ha contribuito a determinare i modi e gli spazi destinati alle attività di gestione dei corpi degli animali, sia durante la loro vita che, specialmente, in occasione della loro morte. Tra le competenze necessarie per la macellazione, la capacità di gestire le viscere e il sangue degli animali uccisi è una delle più rilevanti; l’eliminazione del sangue dall’animale 30 Sito ufficiale del North American Meat Institute: https://www.meatinstitute.org/; canale YouTube ufficiale: https://www.youtube.com/user/meatnewsnetwork/featured (ultima consultazione 15/02/2020). 31 La macellazione rituale è stata di frequente oggetto di discussione e protesta da parte dei movimenti per i diritti degli animali (Bahloul, 2016) e, anche al di là degli aspetti bioetici, è stata storicamente un argomento di interesse per le politiche che regolavano la vendita della carne (Rosenberger, 2003; Motis Dolader, 2003; Flandrin, Montanari, 2003). 101 ucciso è una delle priorità comuni, per esempio, alle normative ebraiche e islamiche nell’ambito della macellazione rituale: la pericolosità sul piano biologico trova un suo corrispondente nella pericolosità, come agente contaminante, anche sul piano simbolico (Douglas, 1985b; Koensler, Meloni, 2019). Nel caso della comunità ebraica, in particolare, le greggi di un popolo di pastori rappresentano una “integrità corporea” (Douglas, 1985b: 188) che deve essere in qualche modo rispettata e ciò non sarebbe possibile se l’uccisione del bestiame fosse solo uno spargimento di sangue, senza alcun controllo dal punto di vista religioso. Secondo la normativa ebraica, alcuni animali sono esclusi dall’ambito della commestibilità, proprio perché sono essi stessi mangiatori di carne, assassini o divoratori di carogne: il loro regime alimentare li rende impuri e proibiti senza eccezioni. Gli erbivori sono gli unici animali adatti alla tavola, ma la loro morte è sottoposta ad una rigorosa regolamentazione, perché l’uomo non deve scendere al livello degli altri carnivori. Il sangue rappresenta la vita stessa: per poter mangiare un animale, anche se rientra tra le specie ammesse al consumo, si deve procedere alla sua uccisione seguendo un sistema che assicuri l’eliminazione del sangue ed è vietato mangiare animali morti in altro modo, per esempio sbranati da altre bestie o uccisi con diversi metodi. La caccia non è proibita, ma anch’essa deve sottostare a norme che seguono i principi del rispetto della vita e della gratitudine nei confronti di Dio, che ha consentito all’uomo di cibarsi degli animali. Douglas osserva che, in mancanza del tempio in cui poter effettuare i sacrifici, è stato ritualizzato l’atto stesso dell’uccisione: “Il prosciugamento del sangue dalla carne è un atto rituale che raffigura il sacrificio cruento all’altare: la carne viene così trasformata da una creatura vivente in un genere alimentare” (Douglas, 1985b: 187-188). Le normative previste per l’uccisione del bestiame dalla comunità ebraica e da quella islamica sono accomunate dalla forte carica simbolica e anche dalle pratiche effettivamente messe in atto (Salani, 2000). In entrambi i contesti religiosi, la macellazione è considerata un atto violento, che va contro l’armonia del mondo creato da Dio: anche se l’uomo è autorizzato a disporre degli animali come fonte alimentare, questo non può sminuire l’importanza data alla vita e alla morte di una creatura. La dinamica del gesto è fortemente ritualizzata: si deve effettuare un taglio alla gola dell’animale per mezzo di un coltello affilatissimo e privo di intaccature; il movimento non deve interrompersi e la mano del macellaio non deve staccarsi dal coltello prima di aver terminato l’operazione. Il taglio deve essere effettuato nella parte anteriore della gola e deve incidere perfettamente la trachea e le vene giugulari, in modo che la morte sia rapida e indolore. L’uccisione è accompagnata dalla declamazione di formule rituali, 102 ovvero benedizioni e invocazioni del nome di Dio. La macellazione non può essere effettuata da chiunque: sia l’Ebraismo che l’Islam hanno delegato questo compito a figure specializzate32. In passato, la rigida osservanza di queste procedure ha reso le macellerie ebraiche note anche al di fuori della loro clientela di riferimento: Motis Dolader (2003) propone alcuni esempi, risalenti a XIV e XV secolo, a testimonianza dei compromessi e dei limiti posti dal fatto di essere una minoranza religiosa. Le macellerie ebraiche erano soggette a speciali normative e restrizioni da parte delle autorità governative: “Sembra che le macellerie ebraiche vendessero carne di qualità superiore, preparata nelle condizioni igieniche migliori. In genere, erano meglio approvvigionate e praticavano prezzi più bassi delle macellerie cristiane” (Motis Dolader, 2003: 292). L’osservanza delle norme della macellazione rituale pone anche oggi alcuni problemi di ordine legislativo ed etico. È necessario conciliare le istanze di libertà di fede, riconosciute alle comunità ebraiche e musulmane presenti in paesi in cui la macellazione degli animali avviene secondo altri metodi, con le normative nazionali e locali, che prendono le mosse sia da principi igienici che da una sensibilità bioetica in costante ridefinizione rispetto alla sofferenza degli animali uccisi33. In Italia, ad esempio, nel 2003 il Comitato Nazionale per la Bioetica ha pubblicato i risultati di un gruppo di lavoro costituito appositamente per riflettere sulle modalità del compromesso, sul piano alimentare, reso necessario dalla compresenza di diverse identità religiose sul territorio italiano34. Gli interrogativi posti in questa sede vanno dalla distribuzione degli alimenti nelle mense pubbliche o ospedaliere, alla necessità di evitare sofferenze superflue agli animali, alla 32 In ambito ebraico, la shechitah (macellazione) è affidata ai shochatim (singolare schochet) che possono praticarla solo dopo aver superato esami speciali ed aver ottenuto la licenza dai rabbini. La loro funzione è individuare gli animali adatti alla alimentazione, procedere con la shechitah, e quindi proseguire con la bediquat, il controllo degli intestini per verificare che gli animali siano privi di difetti e malattie, che renderebbero la carne impura (Salani, 2000: 141). Nel mondo islamico il rito della tadhkīya (macellazione) può essere effettuato da qualunque musulmano che possa formulare l’invocazione di Allah con piena consapevolezza. Al momento dell’uccisione, il capo dell’animale deve essere rivolto in direzione della Mecca. Ad effettuare il taglio può essere anche un appartenente alle altre religioni del Libro, ovvero un ebreo o un cristiano, ma la tadhkīya non è valida se vengono formulate espressioni di diversa fede. 33 Nel 2016 la Commissione Europea ha pubblicato l’Eurobarometro sul tema del benessere animale, risultato dagli studi statistici condotti nel 2015, rilevando le tendenze in corso rispetto alle precedenti ricerche. Il testo è consultabile all’indirizzo: https://ec.europa.eu/commfrontoffice/publicopinion/index.cfm/Survey/getSurveyDetail/yearFrom/1974/yearTo/2 016/search/animal/surveyKy/2096 (ultima consultazione 15/02/2020). 34 Il testo integrale del documento è disponibile all’indirizzo http://bioetica.governo.it/it/documenti/pareri-erisposte/alimentazione-umana-e-benessere-animale/ (ultima consultazione per questo ed i seguenti link 15/02/2020); all’indirizzo http://bioetica.governo.it/it/documenti/pareri-e-risposte/ si trovano anche altri pareri approvati dal Comitato Nazionale per la Bioetica, che nel 2005 si è espresso anche sullo sfruttamento degli animali nei contesti di Pet Therapy (http://bioetica.governo.it/it/documenti/pareri-e-risposte/problemi-bioetici-relativiallimpiego-di-animali-in-attivita-correlate-alla-salute-e-al-benessere-umani/) e più recentemente, nel 2012, sul tema generale della produzione di carne e di altri prodotti di origine animale per il consumo alimentare (http://bioetica.governo.it/it/documenti/pareri-e-risposte/alimentazione-umana-e-benessere-animale/). 103 preoccupazione di salvaguardare la salute pubblica imponendo l’applicazione delle leggi sanitarie nazionali, pur nel rispetto della libertà religiosa. Temple Grandin (2006) ha avuto modo di osservare e valutare diversi sistemi di macellazione rituale, sia ebraici che musulmani, praticati negli Stati Uniti negli impianti di macellazione bovina. Considerando da un punto di vista tecnico gli strumenti e le modalità adottate nei casi esaminati, Grandin ha rilevato che è possibile conciliare il rispetto delle regole kosher e ḥalāl con quello dei principi di riduzione e contenimento della sofferenza degli animali, a patto di impiegare personale ben preparato a monitorare la situazione per cogliere i segnali di stress degli animali, con un’attenzione particolare alle attrezzature utilizzate per lo spostamento, il contenimento e l’effettiva uccisione degli animali. Nel momento in cui si effettua il taglio alla gola dell’animale si concentrano le maggiori problematicità, dato il divieto di anestetizzare gli animali prima di effettuare l’incisione. There are two main welfare issues when slaughter without stunning is performed. They are the animal’s reaction to the restraint method and the animal’s reaction to the throat cut. When a stressful restraint method is used, it is impossible to observe the animal’s reaction to the throat cut. Struggling caused by stressful restraint masks reactions to the throat cut (Grandin, 2006: 7). Grandin ha rilevato l’importanza degli strumenti adoperati e della formazione degli addetti alla macellazione, che devono essere in grado di riconoscere i segnali di sofferenza manifestati dagli animali per poter modificare, all’occorrenza, i metodi e le attrezzature, nei limiti consentiti dalla propria fede. The long knife used in kosher slaughter is essential. Observations of ḥalāl slaughter of cattle with short knives indicated that digging the end of the knife blade into the throat caused intense struggling. For kosher slaughter there are strict religious specifications on the length of the knife. For ḥalāl slaughter there are no knife length specifications. The knife must be long enough so that the end of the knife remains outside the neck. It is also essential that the wound is held open during the cut. If the wound closes over the knife during the cut, the animal will struggle. Struggling is definitely an indicator of pain (Grandin, 2006: 14). A conclusione della sua analisi, Grandin puntualizza: “People manage the things they measure” (Grandin, 2006:33). È una constatazione che ripete spesso anche nelle presentazioni degli impianti registrate nell’ambito del Glass Walls Project: la valutazione è possibile solo 104 attraverso la misurazione di parametri predeterminati, la consapevolezza nasce dalla competenza ed è indispensabile per poter decidere di conservare o modificare il sistema messo in atto. 3.3 Creare nuove regole Nel volume a cura di Flandrin e Montanari (2003) dedicato alla storia dell’alimentazione, focalizzato principalmente sul contesto europeo, alla carne viene dedicato ampio spazio nella maggior parte dei capitoli: la produzione e il consumo di carne hanno profondamente modellato le società europee nella loro storia di condivisioni e scambi culturali, sia all’interno del territorio europeo che con le popolazioni vicine, in un continuo confronto tra identità e alterità che ha consentito l’arricchimento reciproco, sia dal punto di vista simbolico che, in maniera spesso diseguale, da quello materiale. Tutto ciò ha contribuito a costruire il sistema alimentare globalizzato odierno, sempre meno influenzato dalle singole economie statali e maggiormente condizionato dalle decisioni di aziende private multinazionali, che hanno progressivamente rafforzato il loro ruolo come attori politici, anche in funzione del crescente predominio della finanza nell’economia (Koensler, Meloni, 2019). In questo contesto, definire nuove convenzioni e controllare l’applicazione della normativa sono compiti affidati sempre più spesso ad istituzioni governative o a consorzi privati che garantiscono e certificano la conformità alle regole formulate. Nella maggior parte dei casi, i consumatori finali ignorano quali siano le condizioni da rispettare per poter considerare commestibile un alimento o le ragioni sottese all’appartenenza ad una categoria merceologica piuttosto che un’altra. Nel caso della produzione della carne, per lungo tempo non si è fatta alcuna distinzione tra le diverse modalità di allevamento, che solo di recente sono diventate oggetto di discussione tra i consumatori, che hanno cominciato a chiedere maggiore trasparenza specialmente a seguito di allarmi sanitari come quello dell’epidemia della cosiddetta mucca pazza35. In questa circostanza, “alla paura di contrarre una malattia mortale si somma l’orrore che il cannibalismo ispira da sempre e che ora si estende anche ai bovini” (Lévi-Strauss, 2015b: 35 L'encefalopatia spongiforme bovina (BSE, ossia Bovine Spongiform Encephalopathy) è una malattia neurologica cronica, degenerativa e irreversibile che colpisce i bovini; fa parte delle encefalopatie spongiformi trasmissibili (TSE) che colpiscono diverse specie animali, compreso l'uomo. L'agente infettivo è una proteina modificata detta prione che colpisce i centri nervosi dell'animale. Il morbo è stato reso noto all'opinione pubblica come morbo della mucca pazza (in inglese MCD, mad cow disease). Diagnosticata per la prima volta nel 1986, fece registrare oltre duecento morti ufficiali per la sua variante che attacca l'uomo. Nell'ottobre del 2005, il comitato veterinario dell'Unione europea pose fine al bando che, da marzo 2001, vietava la commercializzazione nell'Unione Europea della carne non disossata (come la bistecca alla fiorentina). Nel 2012 l'UE ha poi ripristinato la possibilità di nutrire il bestiame da allevamento con farine animali (Zunino, 2012). 105 125). In occasioni di questo tipo la sensibilità collettiva viene scossa dal tradimento della fiducia che i consumatori ripongono nel sistema: la tracciabilità, la trasparenza, la correttezza sono valori che, nel caso della carne, si sovrappongono sia a quelli della sicurezza igienico-sanitaria, che a quelli della protezione dal rischio di mangiare una carne “impura” dal punto di vista simbolico. Restano infatti in vigore diversi tabu anche nel sistema alimentare occidentale, come quello posto sugli animali domestici o sugli insetti (Harris, 1990; Goody, 2012; Staples, Klein, 2017). La categorizzazione, naturalmente, non è affatto uniforme: tra i vari esempi, uno dei casi più ambivalenti è quello della carne di cavallo, animale che si trova al confine dell’ambito della commestibilità e che genera ancora reazioni contrastanti, dando luogo a veri e propri scandali commerciali (Staples, Klein, 2017). Le idee ed i valori associati agli animali che sono entrati a far parte dell’ambito domestico sono diversi da quelli riservati alla fauna selvatica. Il tabu nei confronti dei bovini in India è un esempio di quanto la presenza sistematica e costante nella vita quotidiana, la collaborazione e la condivisione delle fatiche sui campi, i molteplici usi, non solo alimentari, dei prodotti materiali derivati dal corpo degli animali, siano connessi alle idee formulate in merito a questi animali, fino all’attribuzione di sacralità e all’esclusione dall’ambito della commestibilità. La presenza di diverse fedi e diverse identità culturali nel contesto indiano ha comportato la ricerca di compromessi in ambito alimentare e continua ad influire sui modi in cui la carne, specialmente quella bovina, viene concepita ed utilizzata in India. Secondo James Staples (2017) il consumo di carne, a sua volta, contribuisce alla formazione e alla distinzione identitaria in India, anche rispetto a categorie che vanno oltre la sfera religiosa, come l’età, il genere e lo status. Prendendo in esame le politiche adottate e le campagne nazionali promosse in difesa o contro la macellazione dei bovini, Staples evidenzia la connessione tra il sistema economico in trasformazione e le preoccupazioni di ordine sanitario ed ecologico espresse nei discorsi relativi al consumo di carne. La specificità culturale indiana sottende queste dinamiche, mostrando fluidità e capacità di adattamento, senza perdere i propri tratti distintivi. I concetti relativi alla purezza, alla contaminazione e al rispetto per la vita continuano a modellare l’approccio al consumo di carne, ma Staples sottolinea l’importanza delle relazioni costruite direttamente con gli animali nell’ambito dell’allevamento di piccola scala: la decisione di mangiare carne dipende anche dalla prossimità e dalla confidenza maturata nei confronti dell’animale da cui quella carne proviene. Al contrario di altri animali domestici, come il cane o il gatto nella cultura occidentale (Harris, 1990), sugli animali di cui parla Staples non verte un tabu irreversibile: verranno comunque macellati e consumati, ma non dai loro allevatori. 106 In the same way that […] there are vegetarian communities that rear livestock for the meat market but would never consume it, those I worked with drew a clear dividing line between the animals they reared and those acceptable to eat, which should come from outside the household. ‘They are like brothers and sisters to us,’ or ‘they are our children!’, people regularly claimed of their livestock, invoking kinship as the logic that prevented them from eating them (Staples, 2017, 241-242) La relazione costruita con gli animali in questo contesto si avvicina a quelle formate nell’ambito della parentela. “Kinship [...] as stretching beyond human inter-relations, […] provides, as demonstrated by my informants, an alternative frame through which to understand how they relate to the animals they do and do not eat in ways that take beyond the straitjacket of purity and pollution” (Staples, 2017, 247-248). Tra le tendenze più recenti si nota una maggiore attenzione alla provenienza della carne dagli animali (Staples, Klein, 2017). La separazione, la cancellazione degli animali e del loro destino (Vialles, 1994), si sta riducendo in favore di un consumo più attento e selettivo. Chi ha la possibilità di pagare di più è interessato alle condizioni di allevamento degli animali ed effettua le sue scelte di conseguenza. Il marketing risponde ed alimenta questa richiesta da parte del pubblico, pubblicizzando i prodotti mettendo in evidenza il trattamento riservato agli animali: si distinguono le uova delle galline allevate a terra, quelle allevate all’aperto e quelle che hanno ricevuto solo mangimi biologici. Allo stesso modo, sulle confezioni di carne bovina e suina viene dichiarato il tipo di foraggio, specificando la presenza di organismi geneticamente modificati, e il trattamento sanitario riservato agli animali, precisando il periodo di tempo in cui non sono stati sottoposti a trattamenti ormonali. Alla richiesta di trasparenza viene fornita una risposta solo apparentemente chiara, la cui ambiguità va individuata nei pregiudizi che continua ad alimentare. Uno degli strumenti posti a garanzia ed informazione dei consumatori è il sistema di etichettatura degli alimenti confezionati. La normativa è ormai discussa a livello internazionale, per quanto venga lasciata ai singoli paesi un’ulteriore discrezionalità su alcuni aspetti dell’etichettatura o per la creazione di ulteriori definizioni e sottoinsiemi. Si tratta di regole precise e capillari, in costante rielaborazione ai vertici degli organismi di legislazione in materia, in un’ottica di equilibrio tra trasparenza e utilità, nei limiti consentiti anche dalla effettiva possibilità di riportare sulle confezioni le informazioni ritenute appropriate, senza trascurare il lato economico dei costi che comporta l’implementazione ed il controllo di tali normative. La quantità e la tipologia degli ingredienti sono state via via accompagnate da 107 ulteriori informazioni, relative per esempio alla provenienza o alle modalità di produzione. Le etichette alimentari sono testi che restano in gran parte incomprensibili per il pubblico: la lettura efficace di queste etichette prevede competenze e conoscenze che la maggior parte delle persone non possiede. A prescindere dall’effettiva comprensione del linguaggio espresso nell’etichettatura, talvolta basta la sola presenza di alcune particolari informazioni a fare da garanzia dell’idoneità degli alimenti nel circuito commerciale. Restano in vigore distinzioni di antica data, a cui vengono attribuite nuove funzionalità: sia la certificazione islamica ḥalāl, sia quella ebraica kosher, per esempio, vengono utilizzate come discriminante anche dai consumatori che non appartengono alle comunità di fedeli praticanti. Il sistema di garanzia supera i confini della fede e si presta come simbolo di valori trasversali, in rapporto all’eticità della produzione degli alimenti di derivazione animale 36, ma anche di rigore e trasparenza in ordine alle condizioni igienico-sanitarie che prevedono l’esclusione di alcuni alimenti allergizzanti, come i crostacei, proibiti dalla Torah. Dal punto di vista nutrizionale, è cresciuta nel tempo la precisione nelle informazioni relative ad alcune macrocategorie, come i carboidrati e i grassi, presenti in un dato alimento, permettendo al pubblico l’accesso ad informazioni che un tempo erano riservate solamente agli addetti ai lavori: la quantità di zuccheri semplici rispetto all’insieme dei carboidrati, la differente tipologia di grassi, saturi o insaturi, la misurazione del sale o di altri minerali, sono indicazioni presenti ormai nella maggior parte delle etichette del cibo confezionato industrialmente. Le informazioni presenti sulle etichette non sono sempre facilmente decifrabili anche per via del fatto che molti ingredienti sono indicati con codici o nomi scientifici. Questo ha consentito di mantenere almeno un insetto nei piatti e nelle bevande di milioni di persone ignare di consumare uno degli alimenti su cui, nelle società occidentali, grava ancora un forte tabu. Uno dei più diffusi coloranti alimentari, che nelle etichette viene indicato con il codice E120, è infatti ottenuto tramite la lavorazione della cocciniglia, un insetto allevato appositamente a tale scopo. Dati i costi relativamente alti di questo tipo di produzione, e la diffusione sempre crescente della sensibilità vegana, recentemente tale colorante è stato sostituito diffusamente dagli equivalenti di natura sintetica, ottenuti artificialmente in laboratorio, che consentono di ottenere 36 Come ha rilevato Grandin (2006) dal punto di vista bioetico il trattamento riservato agli animali nei sistemi di macellazione ebraici può essere paragonato a quello dei sistemi industriali conformi alle indicazioni ufficiali in tale materia, solo a patto che il personale sia relativamente competente e attento ed abbia modo di adottare alcune specifiche pratiche di contenimento degli animali al momento dell’uccisione. Le proteste degli attivisti per i diritti degli animali riguardano i casi in cui questa condizione non è rispettata e, data l’esenzione dalla normativa riservata in nome della libertà religiosa, in molte occasioni, come registrato anche da Grandin, le modalità di macellazione non sono conformi a tali principi (Bahloul, 2016). 108 la stessa tonalità di rosso carminio. L’etichettatura degli alimenti che necessitano di questa colorazione aggiuntiva si presta come esempio per una delle tensioni contrapposte del marketing e della sensibilità alimentare: il movimento cruelty free, con la sua spinta al rispetto degli animali, si muove in questo caso in contrapposizione con il desiderio di limitare gli ingredienti di tipo artificiale e di produrre gli alimenti affidandosi unicamente alle risorse naturali, evitando il più possibile di ricorrere ad aromi e coloranti di sintesi. Ritroviamo l’opposizione tra natura e cultura, questa volta declinata in favore della prima categoria. La cultura diventa qualcosa di artificiale, scientifico, laboratoriale. La natura è il polo a cui appartiene il nostro corpo, il cibo con cui lo nutriamo, gli animali e le piante con cui dobbiamo costruire un rapporto di armonia e coesistenza pacifica. Ad alimentare questo genere di contrapposizione, dai risultati talvolta paradossali, vi sono molte strategie di marketing dei prodotti che si rivolgono al pubblico vegetariano e vegano, così come quelle che fanno leva sulle rielaborazioni del passato e della tradizione, che dipingono una mitica “età dell’oro” dell’alimentazione contadina in cui l’equilibrio con la natura sarebbe stato una concreta realtà, che l’industrializzazione del sistema alimentare ha distrutto, ma che, suggeriscono, si può in qualche modo recuperare e ripristinare (Teti, 2015). Molte delle nuove categorie adottate in questi testi sono improntate sulla antica opposizione tra natura e cultura; rispetto al passato, però, si può individuare un apparente capovolgimento quasi speculare delle gerarchie. Mentre un tempo erano incoraggiati ed ammirati il controllo e la manipolazione della natura, ora si aspira ad una coesistenza armonica, all’insegna della produzione sostenibile e del rispetto per gli animali. Nella gastronomia questo ribaltamento si è tradotto nella proposta di ricette più semplici, di gusti e sapori inalterati da spezie e preparazioni complicate (Montanari, 1993). Nell’opposizione tra natura e cultura, tra ciò che è spontaneo, autentico e semplice, rispetto a ciò che è costruito, artefatto e complesso, si dispiega un paradosso. Il cibo che si consuma non ha, di fatto, nulla di spontaneo: l’agricoltura e l’allevamento sono sempre state delle forzature rispetto ai cicli naturali, consentite dall’impiego di tecnologie che sono diventate sempre più sofisticate nel corso dei secoli. La selezione delle specie vegetali e animali non ha avuto bisogno di aspettare l’introduzione delle tecniche di ingegneria genetica per guidare l’evoluzione in modo forzato e repentino, rispetto ai processi naturali. Le analisi storiche consentono di ricostruire i valori della cucina europea del periodo medievale e rinascimentale dei ceti più benestanti: si tratta di una cucina che ama l’artifizio, l’accostamento di sapori estremi, la ricerca del gusto esotico. I piatti sono abbondanti, costruiti per stupire i commensali, le portate dei banchetti organizzati dalla nobiltà vengono fatte sfilare 109 nei borghi per essere ammirate con gli occhi, prima ancora che con la bocca. La carne è protagonista di questi menù sontuosi, i cuochi ricostruiscono le fattezze degli animali cucinati aggiungendo dettagli che li facciano sembrare ancora vivi (Flandrin, Montanari, 2003; Montanari, 1993, 2004). L’estetica del consumo della carne si è evoluta nella direzione opposta: la macelleria contemporanea separa gli animali dalla carne. I tagli di carne che si trovano al supermercato e che finiscono nei piatti contemporanei non hanno nulla a che fare, visivamente, con gli animali da cui provengono: concettualmente, gli animali e i tagli di carne sono parte di due mondi diversi, da tenere separati. In alcune lingue, questa separazione è stata espressa anche in passato dalla diversa terminologia riservata agli animali da vivi e alla loro carne successivamente alla macellazione (Goody, 2012). La delocalizzazione della produzione della carne ha avuto diversi effetti sul piano sociale e culturale. La distanza materiale posta tra gli impianti zootecnici e i centri abitati si è tradotta in una distanza simbolica, confluita nello spazio semantico, sempre attuale, delle separazioni tra la città e la campagna, il civile e il selvatico, la cultura e la natura, il mondo umano e quello animale: il bestiame e la sua gestione, dalla nascita alla macellazione, sono stati eliminati dall’esperienza quotidiana di chi ne consuma la carne. L’interesse economico ha fatto da principale spinta promotrice per la crescita e le innovazioni nel campo dell’industria zootecnica: di recente, gli aspetti etici della produzione di carne stanno riemergendo come campo di interesse comune a consumatori e produttori, che si trovano di fronte alla necessità di tradurre, sul piano della normativa, le diverse istanze in ordine alla produzione della carne. Si tratta di regolamenti che riflettono la sensibilità e il contesto culturale: a partire dal 2020 è entrata in vigore negli U.S.A. una nuova normativa sulle tabelle nutrizionali che riflette le indicazioni delle più recenti ricerche in campo dietetico e i cambiamenti delle abitudini di consumo rispetto alla precedente formulazione, risalente ai primi anni Novanta. Sulle etichette devono ora essere indicati i valori nutrizionali relativi alle singole porzioni, ricalcolate in base ai consumi medi statisticamente rilevati dagli studi più recenti. Una maggiore enfasi è posta inoltre sul quantitativo di zuccheri aggiunti e sulla differenziazione dei vari tipi di grassi37. 37 La presentazione della normativa sul sito ufficiale della U.S. Food and Drug Administration è disponibile a questo indirizzo: https://www.fda.gov/food/nutrition-education-resources-materials/new-and-improved-nutritionfacts-label (ultima consultazione 15/02/2020). A seguito della pubblicazione, gli operatori del settore si sono prontamente attivati per fornirne una sintetica presentazione agli esportatori italiani sia nella prospettiva della sicurezza alimentare (Corrao, 2019) sia rispetto alle esigenze più strettamente commerciali (https://www.exportusa.us/nuove-tabelle-nutrizionali-statiuniti.php; ultima consultazione 15/02/2020). 110 Anche in Europa38 a partire dal 2020 sono entrate in vigore nuove normative, che hanno tenuto in considerazione diversi studi commissionati negli ultimi anni (Baltussen et al., 2013): la tracciabilità della carne è stata uno degli argomenti approfonditi, con particolare attenzione alla proporzione tra costi e benefici dell’introduzione di una regolamentazione più stringente ed esplicita sull’origine dei prodotti. Le norme sulla tracciabilità della carne bovina sono state modificate all’inizio del XXI secolo a seguito della crisi sanitaria della BSE e l’implementazione di tali direttive ha fornito un esempio su cui basare le valutazioni in ordine all’applicazione di regole analoghe in rapporto alla carne di altri animali. In queste analisi traspare la necessità di capire quanto l’habitus dei consumatori influenzi le scelte d’acquisto in una maniera che va oltre la razionalità; una delle caratteristiche che emergono in relazione all’esplicitazione dell’origine geografica della carne in vendita è quella del consumer ethnocentrism (Shimp, Sharma, 1987; Sharma, 2015), identificato come la tendenza a comprare prodotti provenienti dal proprio paese: “In functional terms, consumer ethnocentrism gives the individual a sense of identity, feelings of belongingness, and [...] an understanding of what purchase behavior is acceptable or unacceptable to the ingroup” (Shimp, Sharma, 1987: 280). Al momento dell’acquisto, però, ci sono molte altre variabili che i consumatori tengono presenti, in modo più o meno subliminale, e il prezzo, in particolare, sembra avere ancora un maggiore peso rispetto all’indicazione dell’origine. Nel formulare le normative si tiene in considerazione anche la difficoltà, da parte delle aziende di dimensioni ridotte, di adattarsi alle nuove leggi, che comporterebbero maggiori spese e controlli burocratici e, di conseguenza, un prezzo finale maggiore di quello corrente. La precisione di questi dettagli dovrebbe consentire ai consumatori di fare scelte più consapevoli, guidandoli nella scelta degli acquisti e, dal punto di vista nutrizionale, la responsabilità della salute e della condizione fisica risulta attribuita, in questo modo, sempre più sui singoli individui. Per consentire uno scambio informativo efficace, però, il linguaggio deve essere condiviso e quello delle etichette alimentari è un lessico che resta frequentemente oggetto di fraintendimento o incomprensione ed ha contribuito alla costruzione di nuove forme di ortoressia e di ossessioni alimentari, spesso basate sull’equivoco e sull’ignoranza degli effettivi processi biologici e anatomici relativi al consumo alimentare (Koensler, Meloni, 2019). In data 31.01.2020, la Commissione Europea ha pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea C32/1 la Comunicazione sull’applicazione delle disposizioni dell’articolo 26, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 1169/2011; il Ministero dello Sviluppo Economico italiano ha messo a disposizione commento e riferimenti sul proprio sito ufficiale all’indirizzo: https://www.mise.gov.it/index.php/it/impresa/competitivita-e-nuoveimprese/industria-alimentare/etichettatura-alimentare (ultima consultazione 15/02/2020). 38 111 Nel marketing, lo sfruttamento del consumer ethnocentrism si esplicita soprattutto nella dialettica tra local e global. Si tratta di concetti e distinzioni presenti anche in passato nelle valutazioni simboliche dei cibi, ma con accezione invertita in termini di pregio: mentre un tempo si cercava l’esotico, ora il valore aggiunto è dato dalla produzione “a kilometro zero”. Ciò che è locale, però, guadagna la sua denominazione anche allo scopo di potersi distinguere lontano dalle zone natie: il collegamento con un territorio viene rivendicato, difeso e regolamentato anche perché il cibo così connotato possa girare nei mercati, allontanarsi e portare con sé l’identità formulata tramite quelle diciture (Montanari, 1993, 2004; Beriss, 2019). La produzione artigianale veicolata da mercati più informali si distingue anche per l’assenza o la relativa semplicità delle etichette applicate. In questi casi la fiducia è costruita prevalentemente nel rapporto diretto con il produttore, che talvolta è possibile incontrare al di là del banco di vendita: si tratta di una partecipazione attiva che richiede tempo e impegno da entrambe le parti, che, nel rinunciare alla mediazione della grande distribuzione organizzata (spesso indicata sinteticamente con l’acronimo GDO), rinunciano anche alla comodità di delegare aspetti della selezione e del controllo di cui si fa carico tale struttura. Conoscere e farsi conoscere, creare nuovi punti di riferimento, effettuare valutazioni in ordine alla competenza e alla effettiva capacità di acquisto: sia dal lato dei produttori che da quello dei consumatori è necessario, in questo contesto, costruire dei nuovi spazi di dialogo e confronto. La creazione di consorzi e collettivi facilita la formazione di queste reti di scambio e consente di replicare, su scala minore, quelle dinamiche di mediazione e facilitazione proprie della GDO. Le competenze in materia di marketing e gestione economica sono diventate parte integrante del bagaglio professionale dei piccoli produttori e, specialmente negli ultimi decenni, si è aggiunto lo spazio virtuale del web, che necessita di ulteriori specifiche competenze (Nardi, 2015; Dunn, 2017; Suscovich, Messina, 2018). Alla dimensione scritta e facilmente individuabile delle etichette del cibo confezionato e a quella orale ed effimera della presentazione diretta nei mercati, si aggiunge una dimensione ibrida nel contesto virtuale del web: le informazioni sono leggibili e rintracciabili nei siti ufficiali dei consorzi e dei piccoli produttori, ma vengono veicolate anche da video registrati e resi disponibili alla fruizione diretta degli spettatori di tutto il mondo, coltivando un pubblico di potenziali clienti con un linguaggio inedito fino a pochi decenni fa; a mettersi di fronte ad una videocamera sono ormai allevatori e coltivatori di diversi paesi, illustrando le proprie tecniche e le proprie strutture, in nome della trasparenza e della condivisione, oltre che, naturalmente, dell’auto-promozione. Pubblicare successi e soddisfazioni, ma anche fallimenti e strategie di recupero, consente di alimentare la consapevolezza non solo dei consumatori, ma anche degli altri piccoli produttori e imprenditori 112 in cerca di alternative o consigli, creando una rete di sostegno e di alleanze che dal virtuale si traduce in comunità concrete su cui fare affidamento per la spartizione, oltre che del cibo prodotto, delle soluzioni ai problemi incontrati durante il percorso. La possibilità di sfruttare le piattaforme come YouTube per farsi promozione viene adottata ormai da piccoli produttori in tutto il mondo, complice anche la dinamica di questo genere di piattaforme di proporre e consigliare filmati analoghi a quelli già visualizzati dagli utenti; in questo caso, anziché restringere il campo dell’esperienza, l’effetto della filter bubble consente agli utenti di raggiungere facilmente diversi canali che, altrimenti, non avrebbero altrettanta visibilità, permettendo di affacciarsi a realtà diverse, con prospettive e istanze specifiche. Per quanto riguarda la produzione di pollame, per esempio, dagli U.S.A. John Suscovich nel canale YouTube ufficiale della propria agenzia di marketing39, con oltre 500 filmati all’attivo, propone la sua esperienza nell’allevamento a pascolo del pollame e di altri animali, oltre ad offrire diverse informazioni utili in materia di marketing per i colleghi e gli aspiranti tali, in una prospettiva di confronto e condivisione. In India40 viene registrata con entusiasmo l’inaugurazione di un nuovo impianto di allevamento di galline ovaiole in gabbia che permetterà una produzione altamente automatizzata, impiegando attrezzature progettate da un’azienda tedesca che rifornisce molti altri paesi nel mondo. In Australia41, viene intervistata una giovane allevatrice che sta gestendo, insieme alla famiglia, la situazione di compresenza del proprio allevamento con una città in rapida espansione, che potrà assorbire un’offerta maggiore da parte della produzione locale solo se questa, a sua volta, saprà adattarsi alle mutate condizioni di mercato. In Kenya42, tre giovani imprenditori promuovono la propria attività enfatizzandone la versatilità e l’efficienza, specificando che sono in grado di raggiungere anche la vicina Uganda per aiutare ad avviare nuove attività simili alla loro; nel rispondere alle mail ricevute a seguito di un precedente video pubblicato, uno di loro accenna al dibattito relativo ai diritti degli animali difendendo la propria scelta di metodo, ovvero l’allevamento di galline da uova nelle gabbie, 39 Farm Marketing Solutions, https://www.youtube.com/user/farmmarketing (ultima consultazione 15/02/2020); Suscovich ha messo inoltre a disposizione, sul sito ufficiale della propria agenzia, diverse risorse sul tema dell’allevamento e del marketing per condividere la propria esperienza di allevatore e agricoltore, maturata anche in collaborazione con la American Pastured Poultry Producers Association. Nei suoi filmati e nei suoi articoli, oltre agli aspetti tecnici relativi all’attività di allevamento e vendita dei prodotti, affronta anche il paragone con la produzione convenzionale e la grande distribuzione, riconoscendo i limiti e le difficoltà di mettere in atto una scelta differente sia dal punto di vista della produzione, sia da quello del consumatore, in un’ottica di flessibilità e compromesso. 40 “Poultry Farming, Open House Battery Cage System, Egg Production in India”, https://youtu.be/Ey6Iq6Cvxio (ultima consultazione 15/02/2020). 41 “Rachel Wilson: an Australian free-range egg farmer”, https://youtu.be/MLvNaljgwdE (ultima consultazione 15/02/2020). 42 “Poultry Farming in Africa”, https://youtu.be/U0joWYSuKy4 (ultima consultazione 15/02/2020); il commento è a partire dal minuto 6. 113 sostenendo che in questo momento storico la loro priorità è quella di assicurare cibo alla popolazione in crescita di una nazione ancora giovane, che deve consolidare la propria economia, rispetto a quelle europee, in cui risiedono gli autori delle osservazioni che sta commentando, che hanno oltre due secoli di storia alle spalle. In questi ed altri esempi analoghi è evidente come la trasparenza e la condivisione delle informazioni, compresi i propri precedenti errori, siano valori molto rilevanti per le nuove generazioni di imprenditori. A fianco della sostenibilità ambientale, che nessuno mette apertamente in discussione, viene difesa una sostenibilità economica che si declina, di volta in volta, in modo diverso. Alexander Koensler ha analizzato le difficoltà incontrate da un gruppo di piccoli produttori italiani, in Umbria, Toscana e Lazio, di fronte alla necessità di creare nuove regole al fine di certificare in maniera univoca i prodotti messi in circolazione (Koensler, Meloni, 2019). Il bisogno nasceva dalla impossibilità di far fronte ai regolamenti imposti dai sistemi di certificazione della produzione biologica; talvolta non era possibile rispettare neppure i parametri della normativa igienico-sanitaria, così come configurati a livello nazionale ed internazionale43. Koensler ha descritto il processo decennale che ha portato allo sviluppo del sistema dalla garanzia partecipata, a partire dalla semplice autocertificazione, introducendo man mano ulteriori livelli di complessità e condivisione, fino alla costruzione di un sistema che non “certifica”, ma piuttosto “garantisce” un certo approccio, un certo modo di produzione (Koensler, Meloni, 2019: 172). La ricerca etnografica ha evidenziato che sempre più spesso “modelli orizzontali e condivisi sostituiscono altre forme, più standardizzate, di garanzia della sicurezza igienico-sanitaria e della qualità delle produzioni agricole” (Koensler, Meloni, 2019: 154). 43 A questo proposito, anche i venditori ambulanti intervistati da Vincenzo Di Giorgi (2017) nella sua indagine sullo street-food palermitano testimoniano la difficoltà di adeguarsi alle normative; in particolare, in una delle interviste effettuate al sig. Bartolo si affronta l’argomento dal punto di vista della provenienza della carne utilizzata per la preparazione del pani ca meusa: “Vincenzo: O ancora, ci sono magari turisti che sono più interessati a problematiche igieniche. Ci sono queste normative del 2004 sulla analisi dei rischi. Ecco, tu in questa situazione, mi stavi magari introducendo a un discorso che poteva essere proficuo per la mia e… per la mia ricerca. Hai qualcosa da dire proprio su... su rapporto tra tradizione e apertura e innovazione al mondo? Bartolo: Questo campo sicuramente l'innovazione è cambiata, si è diversificata di rispetto agli anni passati. Ciò che significa? Praticamente prima si usava, era più facile, più caratteristico usare il campa… il classico campanaro. Il campanaro praticamente è la trachea con i due polmoni attaccati e il pezzo di milza. Vincenzo: [Annuisce] Bartolo: Questo è la base principale da dove nasce proprio il pane con la milza. Prima era più caratteristico praticamente arrivare questo campanaro, polmone e milza dal posto privato perché si macellava il vitello che si conosceva in maniera privatamente e allora era nostrano, buono, ottimo. Adesso le caratteristiche di igiene, HACCP, sono un po' cambiate quindi deve essere tutto più controllato, ci sono delle normative da dover rispettare molto più pesanti, infatti adesso bisogna stare attenti alla provenienza, documento sempre di accompagnamento, provenienza, conoscere proprio la qualità e soprattutto la provenienza del vitello. Dove proprio ti specifica età e tutto, procedura, andamento, vita del vitello. Vincenzo: Allevamento, macellazione, tutte cose” (Di Giorgi, 2017: 147). 114 La valorizzazione e la difesa della produzione su scala ridotta si pone spesso come reazione alla produzione industriale di massa. Come sottolinea Blanchette, nel caso della carne si tratta di dinamiche sovrapposte e integrate, che alimentano e, contestualmente, si alimentano di valori in rapporto dialettico tra loro, producendo scenari talvolta inediti: Much of the literature not only pushes back against the idea of a perfect terminus to industrialism, but also illustrates how subaltern values of animal love, agrarian skill, and cooperative kinship are fomenting from within, and even tensely fueling, highly capitalized operations - potentially leading to yet unseen rural politics (Blanchette, 2018: 191). Le ricerche etnografiche e le analisi antropologiche dedicate a questo ambito consentono di riconoscere la varietà dei contesti e dei sistemi di produzione di carne, anche all’interno degli allevamenti industriali: “Relative definitions of industrial meat are important for a few reasons. First, they suggest that industrial capitalism is not a completed epoch but an ongoing process: Meat is still being industrialized. [...] Second, the use of relative definitions recognizes that there are many major industrial models in meat production” (Blanchette, 2018: 188-189). Le contrapposizioni, i paradossi e le istanze che si concretizzano nella carne degli animali macellati continuano ad essere oggetto di interesse per l’antropologia. Nel 2017 un’edizione speciale della rivista Ethnos è stata dedicata ai temi che ruotano intorno alla carne, al suo consumo e alla sua produzione; nell’introduzione, James Staples e Jakob A. Klein evidenziano le peculiarità che caratterizzano la carne come cibo, a partire dalla specificità che deriva dall’interazione tra uomini e animali necessariamente implicata in questo genere di produzione alimentare, da cui si diramano diverse conseguenze: The ways in which people attempt to resolve the contradictions and ambiguities of contemporary food production in general and meat production in particular are highly variable. Understanding these practices and the reconfiguration of boundaries between human and non-human animals to which they may give rise will require theoretical and methodological tools that help us reveal how they emerge from particular networks of actors, both human and non-human, at scales ranging from the microscopic to the global. But they will also require a continued attention to ‘culture’ - both as more-or-less stable assemblages of more-or-less enduring material practices and techniques, beliefs, values and classificatory logics, and as an abstracted, objectified site of negotiation, reflection, debate, critique, invention, commodification and identity formation. Human understandings of non-human animals emerge from particular engagements between people and animals, not 115 least in the context of raising animals, slaughtering them, sacrificing them, buying, cooking and eating them. From this perspective, animals, alive and dead, shape our understandings of them as much as our ‘cultures’ do; and these understandings will be highly contingent upon the broader technological and political-economic conditions that constrain these human-animal encounters. Yet, […] people also make abstractions from these encounters in ways that are both shaped by and may come to shape wider, collective representations and practices involving non-human animals and their uses as food. And, in turn, these abstractions may come to shape the ways in which humans engage with animals and act upon the conditions in which the latter become food (Staples, Klein, 2017: 207-208). Il mondo alimentare è come un prisma in cui ad ogni lato corrisponde un differente punto di vista, che non potrà mai, da solo, abbracciare la realtà intera nella sua complessità: dal piano astratto a quello concreto, dalla normativa negoziata collettivamente alle scelte individuali, è importante riconoscere i limiti e al contempo individuare le potenzialità di ciascuna prospettiva. Per quanto riguarda la carne, la sua importanza a livello nutrizionale si è tradotta in una rilevanza sul piano ideologico, contribuendo alla definizione dei sistemi produttivi che le comunità umane hanno costruito nel corso della storia, in una costante ricerca di equilibrio e controllo dell’ambiente a loro disposizione. Le modalità di finanziamento e distribuzione, gli strumenti materiali necessari alla gestione degli animali coinvolti, così come quelli simbolici veicolati nelle strategie di marketing, oltre che nella commensalità quotidiana e condivisa, compongono lo spazio d’intersezione delle diverse forme di produzione e di consumo della carne. L’antropologia continua a seguire le dinamiche che portano alla sua celebrazione o al suo rifiuto, qualificandola come cibo denso di significati, tuttora tra i protagonisti dei linguaggi alimentari. La collaborazione interdisciplinare e la riflessione costante sui metodi di ricerca caratterizzano le indagini contemporanee nell’ambito dell’alimentazione, consentendo di far emergere connessioni e continuità tra culture lontane nel tempo e nello spazio e di restituire spessore alle forme di resistenza, innovazione e compromesso che, di volta in volta, differenziano in modo specifico le risposte fornite localmente agli interrogativi che la “fame di carne” continua a porre. 116 BIBLIOGRAFIA Aime M., 2004, Eccessi di culture, Torino, Giulio Einaudi Aime M., 2014, Etnografia del quotidiano, Milano, Elèuthera Aime M., 2019, “A proposito dei tortellini di pollo e della carne halal. 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