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La figura corale nelle tragedie alfieriane

In “La figura corale nelle tragedie alfieriane” Enrico Zucchi, contestando la tesi sostenuta anni fa da Alessandro Pellegrini nel suo saggio “Alfieri e la tragedia senza coro”, perviene a dimostrare come in realtà il coro sia ben presente nell’opera teatrale alfieriana, tanto da distinguere una figura corale vera e propria, ad esempio in “Mirra”, in “Abele” e nell’ “Alceste seconda”, e il popolo avente funzione di coro, nelle cosiddette “tragedie di libertà”, dove appunto la folla degli astanti supporta gli eventi drammatici su cui si fonda l’azione dei protagonisti delle tragedie stesse.

La figura corale nelle tragedie alfieriane U saggio scritto diversi anni fa da Alessandro Pellegrini era intitolato Alfieri e la tragedia senza coro.1 Questo studio prende le mosse dalla considerazione opposta, asserendo l’esistenza nella drammaturgia alfieriana di una figura corale che si presenta in due forme: da una parte – in Mirra fra le diciannove pubblicate nell’edizione Didot tra il 1787 e il 1789, in Abele e nell’Alceste seconda fra quelle postume – come vero e proprio coro lirico; dall’altra – nelle cosiddette «tragedie di libertà» – come popolo, incaricato di sostenere l’azione scenica costruita attorno alle figure individuali di tiranni e aspiranti liberatori. Poste queste premesse, si cercherà di dimostrare come il coro aspiri nelle «tragedie di libertà» a ricoprire un ruolo politico e civile – in quanto tutore della libertà senza la quale non esistono cittadini – mentre nelle altre occasioni si faccia latore di sentimenti religiosi tesi a un «sublime» ultraterreno. IL N POPOLO NELLE TRAGEDIE DI LIBERTÀ Quando scrisse la Risposta (1783) a Calzabigi Alfieri aveva già alle spalle un’esperienza drammaturgica notevole; le tragedie portate a termine fino ad allora si avvalevano di un impianto costitutivo consolidato che l’autore proprio a Calzabigi descriveva così: La tragedia di cinque atti, pieni, per quanto il soggetto dà, del solo soggetto; dialogizzata dai soli personaggi attori, e non consultori o spettatori; la tragedia di un solo filo ordita; rapida per quanto si può servendo alle passioni che tutte più o meno vogliono pur dilungarsi; semplice per 1 A. PELLEGRINI, Alfieri e la tragedia senza coro, in ID., Dalla “Sensibilità” al Nichilismo, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 97-116. La figura corale nelle tragedie alfieriane 549 quanto uso d’arte comporti; tetra e feroce, per quanto la natura lo soffra; calda quanto era in me.2 In questo quadro lo spazio per un eventuale coro sembrerebbe mancare: nessuna delle prime tre tragedie, né tantomeno le idee già stese, lo contemplano. Non è possibile la presenza di un coro che debba, come voleva Tasso, «parlare altamente»; 3 sempre nella Risposta Alfieri, respingendo ogni istanza lirica per la costruzione dei propri versi, afferma che «la tragedia […] non canta fra i moderni». Eppure nel maggio del 1777 a Sarzana, in seguito alla lettura dell’episodio narrato da Tito Livio egli abbozza in prosa il testo che segnerà una svolta in questo senso, la Virginia; anche questa, quarta ed ultima delle tragedie stampate a Siena nel 1783, si situa nel contesto della ricerca di un’originale espressione tragica, risultando estremamente innovativa per almeno un paio di aspetti: la centralità del tema politico e la presenza di un personaggio corale, il popolo. La nascita della figura del popolo-coro è strettamente legata alle letture che occupavano Alfieri in quel periodo, in primo luogo il racconto liviano 4 che egli tentò d’impeto di tradurre,5 e in secondo luogo Machiavelli,6 la cui lettura, consigliatagli dall’amico Gori, sarà poi ripresa con entusiasmo tale da indurre Alfieri a stendere «d’un fiato» i due libri della Tirannide nella stessa estate del 1777.7 Se da una parte Livio e Machiavelli gli ispirano l’ammirazione per un vir2 V. ALFIERI, Risposta dell’autore al Calzabigi, in ID., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di M. Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, p. 217. 3 «Ma ’l coro per aventura dee parlar più altamente, perch’egli, come dice Aristotele ne’ Problemi, è quasi un curatore ozioso e separato; e per l’istessa ragione parla più altamente il poeta in sua persona, e quasi ragiona con un’altra lingua, sì come colui che finge d’esser rapito da furor divino sovra se medesimo», T. TASSO, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di L. Poma, Bari, Laterza, 1964, p. 198. 4 TITO LIVIO, Ab urbe condita, III, 44-48. 5 L’incidenza che le traduzioni dal latino assumono nella creazione dello stile alfieriano, e in particolare la traduzione del brano di Livio fatta dal «non troppo sicuro latinista» è analizzata in C. JANNACO, L’esercizio per lo stile, in ID., Studi alfieriani vecchi e nuovi, Firenze, Olschki, 1974, pp. 72-76. 6 Per l’incidenza della lettura di Machiavelli nelle opere di Alfieri si veda A. DI BENEDETTO, Il nostro gran Machiavelli: Alfieri e Machiavelli in ID., Dal tramonto dei Lumi al Romanticismo, Modena, Mucchi, 2000, pp. 119-40 e E. MATTIODA, Machiavelli nei trattati politici, in Alfieri in Toscana, Atti del Convegno internazionale di studi, Firenze 19-20-21 ottobre 2000, a cura di R. Turchi e G. Tellini, Firenze, Olschki, 2002, I, pp. 411-426. 7 V. ALFIERI, Vita, a cura di L. Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p. 205 (IV, 4). 550 Enrico Zucchi tuoso modello di «romanità» di cui anche il popolo è manifestazione, dall’altra la coeva scrittura della Tirannide ha un’incidenza fondamentale sulla rielaborazione degli spunti politici offerti dal soggetto della Virginia.8 Comprova l’importanza di questo intreccio di letture e scritti nella formazione del «popolo» alfieriano il fatto che nell’Idea originaria della Virginia, del maggio ’77, dipendente soltanto dalla lettura di Livio,9 il popolo non è neppure nominato tra gli attori e figura tra i personaggi, senza tuttavia che si accenni a qualsivoglia sua azione, soltanto nella scena seconda del secondo atto.10 Secondo le premesse esposte dall’autore un eventuale personaggio corale non avrebbe potuto esprimersi in versi lirici, ma sarebbe dovuto essere un attore dialogante che non rallentasse l’azione; con l’introduzione del popolo romano nella Virginia si realizzano queste premesse: il coro, come nella riforma calzabigiana,11 diventa personaggio ed attore indispensabile per ogni dramma romano.12 Che l’inserimento di un tale attore nella tragedia alfieriana non sia dovuto alla consuetudine tragica precedente, ma nasca dall’impossibilità di concepire una tragedia romana in cui fosse assente il popolo è provato dal fatto che coloro che prima di lui scrissero tragedie sullo stesso soggetto quasi mai fecero comparire il popolo nei loro drammi. Né la Virginia di Campistron (1683),13 né Emilia Galotti di Lessing (1772),14 la “Virginia tedesca”, prevedono un personaggio corale; nella Virginia di Montiano (1750) 15 compaio- 8 A tale proposito si veda G. CAMERINO, La tragedia esemplare e l’insidia dell’oratoria. Il caso della Virginia, in ID., Alfieri e il linguaggio della tragedia. Verso, stile, tòpoi, Napoli, Liguori, 1999, pp. 187-205. 9 L’Idea della Congiura de’ Pazzi, per la cui stesura il Gori aveva consigliato all’Alfieri la lettura del Machiavelli, è successiva, del giugno 1777. 10 V. ALFIERI, Virginia, a cura di C. Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1955, pp. 101 sgg. 11 A proposito della riforma calzabigiana si veda soprattutto R. DI BENEDETTO, Il Settecento e l’Ottocento, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. VI, Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino, Einaudi, 1986, pp. 365-401. 12 Solo nell’Ottavia, unica tragedia romana a sfondo non politico, ma anche unica ad essere ambientata in età imperiale, il popolo non sarà protagonista. 13 J. GALBERT DE CAMPISTRON, Virginie, in ID., Œuvres, Paris, par la Compagnies des Libraires, 1750, pp. 7-101. 14 G. E. LESSING, Emilia Galotti. Ein Trauerspiel in fünf Aufzügen, herausgegeben von E. M. Bauer, Tubingen, Niemeyer, 2004. 15 A. DE MONTIANO Y LUYANDO, Virginia. Tragedia, in ID., Discurso sobre las tragedias españolas. Virginia. Tragedia, Madrid, En la imprenta del Mercurio, 1750, pp. 123-255. La figura corale nelle tragedie alfieriane 551 no un gruppo di Romane e uno di Romani soltanto per rendere realistiche le scene di concitazione finale; l’Appio Claudio di Gravina (1712) 16 comprende un coro che interviene alla fine di ogni atto con funzione di commento. Nella Virginia di Saverio Pansuti (1725) 17 il popolo è contemplato tra i personaggi, ma qui entra in scena solamente nel quarto atto, quando Marco asserisce che Virginia è sua schiava, e non trova una determinazione definitiva, combattuto tra la predisposizione al pacato confronto giuridico con Appio (IV, 5) e la feroce condanna al tiranno (V, 11). Ciò che più distingue il popolo di questa Virginia da quello della tragedia alfieriana è la questione della verosimiglianza: Pansuti non si preoccupa di presentare un personaggio collettivo plausibile e gli affida lunghe e improbabili arringhe, mentre Alfieri, proseguendo con maggiore scrupolosità la strada indicata da Metastasio,18 riserva al popolo solo brevi e secche battute che spesso non raggiungono la lunghezza di un endecasillabo. Nell’atto I il popolo alfieriano inizialmente compiange la situazione di Icilio, avanzando dubbi sulle parole di Marco («Misero sposo! / Costui, chi sa, chi ’l muova?», I, 3, vv. 208-209), ma davanti all’annuncio dell’imminente cambiamento politico prospettato da Icilio non riesce neppure ad esternare la propria opinione con un «Deh! Il fosse pur, ma …» (I, 3) subito interrotto dalle parole di Marco. Nella scena terza del secondo atto il popolo sostiene con brevi interventi il discorso di Icilio che rivendica il proprio diritto alla difesa della sposa, fino a condividere in un crescendo di partecipazione il motto dell’azione di Icilio e di molti altri eroi del teatro alfieriano «o libertade o morte!» (II, 3), pronto a farsi «mallevador» della donzella. Dopo due atti di assopimento il popolo ritorna sulla scena, prima per piangere la morte di Icilio («Oh infausto giorno!», V, 4) e poi, dopo il gesto di Virginio, finalmente riscosso dal proprio timore, conclude il dramma preannunciando la rivolta che si sta per scatenare: «Appio è tiranno, muoia!» (V, 4). In definitiva la condotta del popolo pare verosimile fino alla 16 V. GRAVINA, Appio Claudio, in ID., Tragedie cinque, Napoli, nella stamperia di Felice Mosca, 1712, pp. 133-233. 17 S. PANSUTI, Virginia, Napoli, presso Domenico Antonio e Niccolò Parrino, 1725. 18 Si veda P. METASTASIO, Estratto dell’arte poetica d’Aristotile, a cura di E. Selmi, Palermo, Novecento, 1998, p. 108. 552 Enrico Zucchi scena finale, nella quale passa troppo repentinamente dalla paura per i segnali funesti della morte di Icilio all’azione tirannicida sul cui sfondo si chiude il dramma. Tuttavia questa pecca è attribuibile, più che ad una inverosimiglianza poetica, alla traduzione troppo meccanica nella tragedia dei rigidi ideali politici alfieriani,19 come si evince proprio dalla contemporanea Tirannide: Il popolo di Roma si sollevò contro ai tiranni, congiurò felicemente contr’essi, e la tirannide al tutto distrusse, allorchè finalmente si mosse, dopo tante altre battiture, colpito dal compassionevole atroce spettacolo di Lucrezia contaminata dal tiranno e di propria mano svenata. […] Perché il popolo, e il più degli uomini, non son mai commossi, né per metà pure, dalle più convincenti ragioni, quanto lo sono da una giusta e compiuta vendetta, allorchè ad essa si aggiunge un qualche spettacolo terribile e sanguinoso, che ai loro occhi apprestatosi, i loro cuori fortemente riscuota.20 Il popolo titubante e insicuro che si staglia sulla scena della Virginia, infiammato dalle parole di Icilio nel secondo atto e poi subito riportato alla calma dai discorsi di Appio, è senza dubbio dipendente dalla descrizione del popolo fatta nella Tirannide e lo scioglimento della vicenda è perfettamente coerente alle conclusioni del trattato. Se a ragione Binni definisce l’Alfieri «poeta degli individui» 21 tanto più sarà da apprezzare la costruzione così ponderata della figura collettiva del popolo; le accuse spesso formulate a questo personaggio, cioè quella di essere «davvero goffo nei suoi commenti incerti e stonati»,22 o quella di una «sconcertante passività» 23 paiono troppo severe. È vero che il popolo in scena resta spesso muto, quasi fosse un coro stabile che osserva lo svolgersi dell’azione, ma era difficile pensare ad un coinvolgimento maggiore, almeno a questa altezza cronologica. Alfieri, individualista e tutore della libertà individuale, costituzionalista e non democratico, 19 Cfr. W. BINNI, Il finale della Tirannide e le tragedie di libertà, in ID., Saggi alfieriani, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp. 33-50. L’applicazione puntuale degli assunti della Tirannide nella Virginia è inoltre, come già ricordato, analizzata in G. CAMERINO, La tragedia esemplare cit. 20 V. ALFIERI, Della Tirannide, in ID., Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p. 94. 21 W. BINNI, Il finale della Tirannide cit. p. 39. 22 Ibid. 23 G. CAMERINO, La tragedia esemplare cit., p. 190. La figura corale nelle tragedie alfieriane 553 aristocratico per nascita e per atteggiamento, era convinto che solamente il gesto eroico di un singolo, il tirannicidio, avrebbe potuto risvegliare la coscienza di un popolo intorpidito da secoli di schiavitù. La partecipazione collettiva è sempre condizionata dall’esempio di una nobile guida, sia essa un eroe di libertà o uno scrittore, come teorizzato nel Del principe e delle lettere. Alfieri non ha una soluzione politica alternativa da proporre, l’azione a cui pensa è ‘distruttiva’ piuttosto che costruttiva, punta in primo luogo alla soppressione del tiranno; compito dei posteri sarà poi di dare vita ad un nuovo sistema politico, compito magari di quel popolo italiano futuro a cui è dedicato il Bruto secondo. Per Alfieri, il quale confidava nella teoria polibiana dell’anaciclosi, non contava la costruzione di una forma politica inevitabilmente deperibile, ma il gesto eroico, libertario, individuale che i vari protagonisti del suo teatro compiono alla ricerca di uno dei due termini dell’indissolubile binomio «libertade o morte», coincidenti nella Virginia. Il coro di Metastasio è verosimile; quello di Calzabigi è protagonista, ma molto meno verosimile. Il tentativo di Alfieri è quello di costruire un coro non lirico che sia verosimile e protagonista, ma la difficile impresa non è ancora portata a termine con successo in questa tragedia giovanile; i difetti della tragedia sono diversi e sono stati analizzati da molti,24 Alfieri compreso, eppure questa prima presenza del popolo romano, per quanto ancora scialba, testimonia il progresso dell’autore nell’adattamento dei soggetti al proprio progetto poetico, nell’adeguamento di trame e personaggi alla rappresentazione dei temi cari alla sua ideologia; il difetto maggiore sta nel fatto che troppo manifesta si mostri l’impalcatura teorica sottesa allo svolgimento del dramma. Nelle due successive tragedie di libertà – Congiura de’ Pazzi, ideata nel giugno ’77 e Timoleone, dell’agosto ’79 – il popolo non compare, ma tale assenza non è dovuta all’insoddisfazione dell’autore nei confronti del personaggio appena creato. Per quanto riguarda la Congiura, infatti, una ragione preliminare si ricava dall’analisi 24 Per delle recenti analisi della Virginia si vedano S. BUCCINI, Lettura della Virginia, «Rassegna della letteratura italiana», 2003, n. 2, pp. 480-88, e M. TATTI, Roma antica soggetto tragico: l’eroismo di Virginia, in Alfieri a Roma. Atti del Convegno Nazionale, Roma, 27-28 novembre 2003, a cura di B. Alfonzetti e N. Bellucci, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 435-451. 554 Enrico Zucchi delle fonti a cui l’autore attinge: il popolo non è mai coinvolto nel racconto di Machiavelli,25 al contrario di quanto accadeva in Livio. Tuttavia il motivo principale si trova nell’intrinseca predisposizione dei soggetti stessi; la Congiura si fonda su presupposti antitetici rispetto alla Virginia, non solo per l’ambientazione – fiorentina e moderna nella prima, romana e antica nella seconda – ma anche per la «tragediabilità» del soggetto: se quello della Virginia rappresentava per Alfieri il non plus ultra,26 la congiura «acchiude quasi sempre in sé un difetto, che le impedisce di essere teatrale» 27 ossia il fatto che i congiurati non possiedano alcun vincolo che li leghi al tiranno. Inoltre la conclusione delle due tragedie è speculare e se in Virginia la morte della protagonista accende il moto popolare anti-tirannico, nella Congiura invece i cospiratori sono fermati prima che la loro rivolta raggiunga il fine prefisso. Considerando la Congiura in relazione alla Tirannide si ottiene un altro dato significativo: secondo il trattato a Roma ognuno nasceva cittadino e libero, eccetto gli schiavi, i quali credevano di dover sempre necessariamente servire; allo stesso modo i popoli moderni, avendo a lungo subito la schiavitù, non sentono il bisogno di essere liberi 28 e nella Congiura viene messa in luce proprio l’inettitudine di un tale popolo, pronto ad onorare chiunque prevarrà sulla fazione opposta.29 Nessun popolo moderno può dunque essere funzionale al progetto poetico alfieriano e ciò in virtù dell’inutilità di introdurre nella tragedia un personaggio collettivo immobile non per una impacciata resa scenica, ma per costitutiva indole. Almeno fino alla Rivoluzione Francese, Alfieri prova per il popolo, inteso come massa di cittadini e contadini che posseggono beni propri,30 un sentimento di compassione: il popolo che si adatta alla tirannide è di gran lunga 25 N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, VIII, i-ix. «Più nobile, più utile, più grandioso, più terribile e lagrimevol fatto, né più additabile a tragedia in ogni età, in ogni contrada, in ogni opinione, non saprei trovare», V. ALFIERI, Parere cit. p. 94. 27 Ivi, p. 101. 28 V. ALFIERI, Della tirannide cit. p. 96. 29 A Bianca che domanda chi sia il traditore, Raimondo risponde cinicamente: «Il traditor …fia …il vinto» (V, 5, v. 231). 30 Cfr. W. BINNI, Il finale della Tirannide cit. p. 228. 26 La figura corale nelle tragedie alfieriane 555 meno colpevole di quegli individui che, pur accorgendosi di vivere servi, si affannano a servire e adulare il tiranno anziché combattere per la propria libertà.31 Anche per quanto riguarda il Timoleone, la spiegazione dell’assenza del popolo si trova nel soggetto scelto. Alfieri, dopo aver esplorato le due possibili soluzioni del colpo di stato, scrive una tragedia di libertà dall’esito intermedio tra la vittoria politica e la perdita degli affetti famigliari, come sarà poi anche nel Bruto Primo. L’intento agonistico, espresso nella Congiura attraverso il tentativo di rendere tragico un soggetto «non tragediabile», qui si palesa nella ricerca di ricavare dal «poco» plutarchiano il «moltissimo» di un’opera basata sulla «semplicità d’azione» e la «purità di questa nobil passione di libertà».32 Il Timoleone nasce quasi per dimostrare che una tragedia può reggersi su quattro soli protagonisti senza fare ricorso a confidenti, personaggi minori o espedienti scenici come lettere o bandi, anche attraverso un uso parco dei monologhi. È chiaro che un personaggio collettivo non poteva apparire in quello che l’autore ritenne un piccolo capolavoro di ‘essenzialità scenica’. Inoltre questa tragedia, per quanto compaia tra quelle «di libertà» e sia utile corollario all’applicazione delle idee politiche con la sconfessione della tirannide in favore dei molti incarnata da Timoleone, si colloca in una dimensione eminentemente famigliare. Il popolo ricompare soltanto nella quarta tragedia «di libertà»: l’Agide,33 altro dramma d’ispirazione plutarchiana, ideato nell’agosto del 1784 e steso fino al quarto atto nel dicembre dello stesso anno, interrotto e verseggiato soltanto nel maggio dell’86. Nell’Agide l’autore tenta di indicare una soluzione politica alternativa al tirannicidio, ossia la resa spontanea del potere al popolo da parte del tiranno. Questa proposta, sebbene più volte caldeggiata, era considerata, al contrario del tirannicidio, utopistica. In tutti i te31 V. ALFIERI, Della tirannide cit., pp. 97-98. V. ALFIERI, Parere cit., p. 102, «Questa terza tragedia di libertà, bench’ella debba cedere alla Virginia per la pompa e la grandiosità, e alla Congiura de’ Pazzi per la rabbia che mi pare sovranamente agitare quei congiurati, mi pare nondimeno ch’ella le superi di gran lunga per la semplicità dell’azione, per la purità di questa nobil passione di libertà, che ne riesce la sola motrice, e per l’avervi insomma l’autore saputo forse cavare dal poco il moltissimo». 33 Per una introduzione alle principali problematiche dell’Agide si veda M. STERPOS, Alfieri fra tragedia commedia e politica, Modena, Mucchi, 2006, pp. 101-139. 32 556 Enrico Zucchi sti in cui tale disegno è abbozzato, l’Agide, il Panegirico di Plinio a Traiano (1785) e la lettera a Luigi XVI (1789) 34 siffatto progetto politico fallisce: Agide è condannato a morte e la sua riforma non viene attuata; Traiano si commuove per la lettera inviatagli da Plinio, ma non accetta il consiglio del sottoposto; la lettera al re di Francia non verrà mai spedita. Il rallentamento dell’iter compositivo era probabilmente dovuto ai dubbi sulla fondatezza di questa soluzione, accresciuti dalla contemporanea stesura del Panegirico, il cui fallimento pratico era stabilito sin dall’inizio. Lo stesso Alfieri, nel Parere, rivelerà diverse perplessità sulla ricezione della verosimiglianza dell’Agide e la definirà «tragedia di un sublime più ideale che verisimile, e quindi pochissimo atta ad appassionare i moderni spettatori».35 L’anomalia dell’opera è quindi di natura politica – questa è la «tragedia di libertà» più distante dai poli della riflessione politica di Alfieri, racchiusa tra gli estremi della prima redazione (1777) e della correzione e stampa (1788) della Tirannide – ma anche strutturale – incidono molto gli spunti patetico-elegiaci, imputabili alla coeva esercitazione lirica.36 Così, il giovane e generoso Agide che lotta per imporre le leggi di Licurgo in nome dell’uguaglianza di tutti i cittadini 37 è destinato dal principio ad un sacrificio di sapore cristologico piuttosto che ad un’azione eroica come quella dei protagonisti delle altre tragedie di libertà. Quando Agesistrata aizza il popolo per proteggere il figlio è proprio Agide che chiede al popolo di deporre le armi e di accettare il giudizio degli efori (II, 3).38 Il popolo, giunto al grido «Per Agide, noi tutti / presti a mo34 V. ALFIERI, Epistolario, a cura di L. Caretti, vol. II, Asti, Casa d’Alfieri, 1981, pp. 5-6. 35 ID., Parere cit. p. 126. ID., Vita cit., pp. 257-258 (IV, 14): «Mi si riaprì in quel viaggio, più abbondante che mai si fosse la vena delle rime, e chi potea in me più di me mi facea comporre sino a tre e più sonetti quasi ogni giorno». 37 Si noti quanto poco “alfieriana” fosse l’idea di uguaglianza collettiva. Cfr. W. BINNI, Il finale della Tirannide cit., pp. 45 sgg. 38 In Virginia non certo Icilio, bensì Numitoria aveva tentato di sedare il sommovimento popolare. Le parole di Agide, riformulate in parte sulla richiesta di Virgilio a Ulisse in Inferno XXVI, vv. 79-84, sono queste: «E, se a voi cale / punto il mio onor; se presso a voi mai nulla / io meritai; se nulla in me, se nulla / nella memoria almen dell’opre mie / sperate poi, pregovi, esorto, impongo / di depor l’armi e meco sottoporvi / quai che sien essi, agli efori […]» (II, 2, vv. 226-231). 36 La figura corale nelle tragedie alfieriane 557 rir veniamo», pronto a difendere a spada tratta, novello Pietro, il proprio salvatore («Tu soggiacer? No, mai non fia. Noi tutti / farem prestarti da quei vili orecchio») è da lui stesso allontanato: «Spartani, ad alta / voce ve ’l grido: io rimaner qui voglio, / solo ed inerme, ed innocente» (II, 4). La reminiscenza evangelica si ripresenta anche nell’atto quarto in cui si svolge il processo; Leonida infatti, pur condannando il collega, ammette «Ah! che pur troppo io ’l sento! / Né so dir come; anche al mio core un raggio / vero divino al suo parlar traluce, / e mel conquide quasi …» (III, 3). Agide assume un atteggiamento rassegnato e fiero («del mio destin già certo / […] già le sentenza mia so senza udirla»); le sue risposte pacate e provocatorie, ricordano, almeno nella seguente sequenza, ben altro esempio: ANFARE E a disfar Sparta Agesilào ti mosse? AGIDE A rifar Sparta, io da me sol mi mossi, perché Spartan son io. ANFARE Di’; riconosci per vero re Leonida? AGIDE Conosco un spartano Leonida, che cadde in Termopile morto, con trecento Spartani, a pro di Sparta. ANFARE In cotal guisa rispondi tu? La maestà sì poco del senato e degli efori rispetti? AGIDE La maestà di Sparta osservo, e adoro, nel risponder così. ANFARE Colpevol dunque tu ti confessi? 558 Enrico Zucchi AGIDE E me colpevol tieni tu, che mi accusi? (IV, 3, vv. 227-241) La battuta di Anfare è modulata sul motto della guardia: «Sic respondes pontifici?» (Io, 18, 22). Il popolo, prima di invocare senza troppa convinzione il perdono per Agide («Efori, ah!, grazia or vi chieggiam noi tutti: / purch’ei lo stato omai non turbi …», IV, 5), sembra ricredersi alle parole del protagonista («Grande è l’animo di Agide, ingannati / forse noi fummo», IV, 3; «Ei qual reo non favella: è forza averne / meraviglia e pietade», IV, 4) così come si ricredette il centurione («Vere hic homo iustus erat!», Lc, 23, 47). Da questo punto in poi il popolo non comparirà più e nell’ultimo atto, ambientato nel carcere di Sparta, la vicenda rientra nell’ambito privato del congedo di Agide dalla moglie e del duplice suicidio promosso dalla madre. Rispetto alla Virginia la figura corale risulta nettamente meno efficace, ma la ragione è più politica che poetica: se nella tragedia romana, costruita sulla retorica anti-tirannica e conclusa dalla rivolta dei cittadini, il popolo è senz’altro un personaggio indispensabile, in quest’ultimo dramma la sua introduzione è dovuta al rispetto della trama plutarchiana, in cui Agide propone di restaurare l’uguaglianza per tutti i cittadini: è di conseguenza inevitabile che questi cittadini debbano comparire sulla scena. Nonostante anche l’Agide alfieriano ostenti questa proposta, conformemente alla fonte, questi non sembra credere nel proprio progetto. La libertà per cui Agide lotta è una libertà collettiva nel segno dell’equiparazione dei diritti e dei beni, eppure egli è un personaggio che cerca la solitudine, rifiuta l’aiuto dei concittadini, si preoccupa di assicurare la salvezza della moglie e della propria famiglia piuttosto che di cercare nel popolo un sostenitore per la propria lotta – è significativo che offra questo ruolo al collega Leonida. Agide, a cui sono negate le calde arringhe forensi di un tribuno della plebe, non vuole combattere insieme al popolo, ma affrontare in solitudine il proprio martirio. Queste contraddizioni rendono Agide un esperimento poco riuscito e il popolo che in esso figura un personaggio pressoché inutile allo svolgimento. La ripresa dei trattati nella seconda metà degli anni ’80 in preparazione della lussuosa stampa di Kehl, rende di nuovo attuale la La figura corale nelle tragedie alfieriane 559 riflessione politica, ripresa con più matura capacità di analisi rispetto al ’77, anche alla luce delle due rivoluzioni, una nata e lodata, quella americana, e una sul punto di nascere e all’inizio sostenuta, quella francese.39 Anche in conseguenza di ciò Alfieri decise di violare per la terza ed ultima volta il proprio proposito di non scrivere più tragedie, spinto dalla solita logica di natura competitiva: Appena era finito il poema mi accadde che in una delle tante e sempre a me graditissime lettere della mia donna, essa come a caso mi accennava di aver assistito in teatro ad una recita del Bruto di Voltaire, e che codesta tragedia le era sommamente piaciuta. Io, che l’aveva veduta recitare forse dieci anni prima, e che non me ne ricordava punto, riempiutomi instantaneamente di una rabida e disdegnosa emulazione sì il cuor che la mente, dissi fra me: «Che Bruti, che Bruti di un Voltaire? io ne farò dei Bruti, e li farò tutt’a due»: il tempo dimostrerà poi, se tali soggetti di tragedia si addicessero meglio a me, o ad un francese nato plebeo, e sottoscrittosi nelle sue firme per lo spazio di settanta e più anni: Voltaire gentiluomo ordinario del re.40 I due Bruti, «nati ad un parto»,41 rappresentano la nascita e la morte di Roma e in esse il popolo, come scrive l’autore in conclusione alla stesura dell’opera, è un personaggio chiave: In queste due mie ultime tragedie ho posto come personaggio operante il popolo, e ne ho escluse le donne. Ciò parrà, ed è, forse, poco adattato al moderno pensare; ma se mai ritornerà in Italia un popolo che abbia orecchi e lingua, mi sarà forse allora sommamente grado d’averlo fatto personaggio parlante ed operante, in un tempo dove egli era affatto muto e sepolto.42 Questa novità risulta ancora maggiore se si pensa che né Conti, né Voltaire avevano rinunciato agli intrighi amorosi per i loro Bruti, e che il francese non ammetteva neppure il popolo tra i per39 A proposito della revisione dei trattati politici si veda G. SANTATO, Lo stile e l’idea. Elaborazione dei trattati alfieriani, Milano, Franco Angeli, 1994. 40 V. ALFIERI, Vita cit., p. 254 (IV, 16). Il rapporto tra i Bruti di Voltaire, quelli di Conti e quelli di Alfieri è affrontato da G. SANTATO, Alfieri e Voltaire: dall’imitazione alla contestazione, Firenze, Olschki, 1988 e da P. LUCIANI, Riscritture di Brutus, in ID., Le passioni e gli affetti, Pisa, Pacini, 1999, pp. 157-170. 41 V. ALFIERI, Parere cit., p. 134. 42 ID., Le tragedie, a cura di P. Cazzani, Milano, Mondadori, 1957, p. 1359. 560 Enrico Zucchi sonaggi. Tale dichiarazione testimonia la maturazione definitiva del percorso politico alfieriano, cominciato, sempre nel segno della virtuosità romana, con la Virginia. Se nella sua prima «tragedia di libertà» la sollevazione popolare poteva velare un invito all’azione pratica, queste due tragedie si pongono, sia dal punto di vista politico che da quello poetico, su un piano piuttosto ‘profetico’ che pratico, come denota la seguente riflessione del Parere: Tuttavia a una recita quali sogliono farsi finora in Italia, la voce d’uno sguaiato, che uscirebbe di mezzo a uno stuolo di figuracce rappresentanti il popolo, potrebbe facilmente destare le risate; e questo anch’io lo sapea; ma purché il risibile non stia nelle parole che dir dovrà il popolo, quanto all’aspetto e alla forma di questo popolo attore, mi fo a credere che mutando poi un giorno la forma e il pensare degli spettatori, muterà poi anche l’arte e il decoro degli attori. Quel dì, che in alcuna città d’Italia vi potrà essere un popolo vero ascoltante in platea, vi sarà infallibilmente anche un popolo niente risibile favellante sul palco.43 Nella coscienza di precorrere i tempi l’autore si consola per un eventuale insuccesso e teatrale e politico con la ferma convinzione che il «popolo italiano futuro» a cui è dedicato il Bruto secondo saprà apprezzare le sue tragedie per entrambi questi aspetti.44 Nel Bruto primo l’azione riparte proprio dalla situazione finale della Virginia: allora con la morte finale della protagonista il popolo si era scosso dalla propria apatia, mentre ora, capovolgendo la consuetudine delle morti in scena, il cadavere di Lucrezia è mostrato all’inizio del dramma, fomentando la rabbia dei romani. Il popolo entra in scena fin da subito (I, 2) e rimane presto ammaliato dalle parole di Bruto, il quale, dopo averlo reso conscio della propria forza collettiva («Oh, di qual giusto alto furor tu infiammi / i nostri petti! E che temiam, se tutti / vogliam lo stesso!»), lo persuade a proferire il sacro giuramento: «Ah! Tutti / liberi, sì, sarem noi tutti, o morti». Un nuovo elemento risalta, arricchendo il pensiero politico alfieriano: il popolo si conforma all’idea legalitaria 43 ID., Parere cit., p. 137. Contrariamente alle aspettative dell’autore le rappresentazioni dei suoi drammi ebbero grandi interpreti – a partire dall’attore alfieriano per eccellenza, Antonio Morrocchesi, fino alla Mirra di Adelaide Ristori – e discreto successo. Cfr. S. FERRONE, Fortuna di Alfieri nell’Ottocento, «Annali Alfieriani», II, 1985, pp. 186-198 e R. ALONGE, Mirra l’incestuosa. Ovidio Alfieri Ristori Ronconi, Roma, Carocci, 2005. 44 La figura corale nelle tragedie alfieriane 561 del console attestando la rinnovata ottica costituzionalista che, seppure sempre presente in Alfieri, proprio in coincidenza con l’avvio dei tumulti della rivoluzione francese trova una più decisa formulazione 45 («Le leggi, sì; le sole leggi, ad una / voce noi tutti anco il giuriamo. E peggio / ne avvenga a noi, che a Collatin, se siamo / spergiuri mai»). Il popolo ritorna nella successiva scena pubblica (II, 4-6) in cui Bruto ascolta nel foro le richieste di Mamilio. Sempre conforme a questa mutata visione è la scena di lode reciproca tra il popolo e i senatori rappresentati da Valerio (II, 5). Alfieri affianca al persistente fervore dei trattati giovanili («No; fra un popolo oppresso e un re tiranno, / ragion non havvi, altra che l’armi», II, 6) una più ponderata soluzione strategica, votata alla concordia ordinum ciceroniana, fatta di costituzionalismo e di collaborazione reciproca tra le diverse classe sociali. Bruto redarguisce il popolo, imponendogli di non interrompere il discorso di Mamilio (II, 6) non per far valere la propria individualità, alla maniera di Agide, ma per richiamare all’ordine e al legalismo. Se Agide è personaggio a tutti gli effetti individuale, Bruto è l’opposto: egli sempre si identifica nella collettività di Roma; chiunque vuole parlare a Bruto deve parlare anche al popolo. Nel terzo atto, in cui si consuma il tradimento, e nel quarto, in cui Bruto, scoperta la congiura, ripudia i figli, il popolo è assente. Nel quinto invece, quando la scena torna nel foro, è di nuovo presente e pronto a condannare i congiurati: «Quai che pur sien, son traditor, spergiuri; / pietà non mertan, perano» (V, 1), salvo poi rimanere attonito davanti alla rivelazione dei nomi di Tito e Tiberio. Tuttavia, mentre in Collatino prevale la pietà per i due, il popolo, pur non avendo la freddezza di Bruto, non pare mai disposto a concedere il perdono: alle parole di Tito che tenta di salvare il fratello si commuove; a quelle di Collatino che svelano l’inganno ordito da Mamilio non è però convinto di dover liberare i due congiurati («E fia vero? Salvar dobbiam noi dunque / questi duo soli …» V, 2) tanto che, definitivamente riscosso dalle parole di Bruto, loda la bontà della condanna: «Oh fera vista! … Rimirar non gli osa, / misero! il padre … Eppur, lor morte è giusta». Si capisce ora chiaramente quale ruolo politico assegni Alfieri al po45 Cfr. M. BONI, Alfieri e la rivoluzione francese, con altri scritti alfieriani, Bologna, ED.I.M., 1974. 562 Enrico Zucchi polo: esso è garante della giustizia, ha il compito civile di vegliare sullo sviluppo della vita politica dello stato e di farsi custode dei diritti imposti dalle leggi e della loro ottemperanza. L’originalità di tale personaggio è evidente se lo si confronta con il popolo tumultuante del Pansuti o il popolo praticamente muto del Giunio Bruto di Antonio Conti.46 Il Bruto secondo segna invece un ritorno alla Virginia; questa tragedia, secondo ciò che dice Alfieri nel Parere, supera tutte le precedenti per sublimità di soggetto, ma tale sublimità, come nel caso della Virginia, non viene sfruttata a dovere nella teatralizzazione dell’episodio per il troppo debole tratteggiamento del contrasto di affetti.47 Nel Bruto secondo molto più che nella Virginia il popolo è inattivo e inutile all’azione: compare soltanto nel quinto atto, dopo l’avvenuta morte di Cesare, e partecipa con poche e irrilevanti battute. La ragione, ancora una volta insita nel soggetto, è illustrata da Alfieri nel Parere: Il Popolo in questa tragedia fa una parte assai meno splendida che nell’altra. Ma credo che così esser dovesse. I Romani, all’uscire del giogo dei Tarquini, erano oppressi, sdegnati, e non ancora corrotti: all’entrare sotto il giogo di Cesare erano licenziosi e non liberi, guasti, in ogni vizio perduti e, il più gran numero, dal tiranno comprati. Non potea dunque un tal popolo in una tragedia di libertà aver parte, se non nel fine; quando, commosso prima dallo spettacolo di Cesare morto, da buon servitore che egli era, imprenderebbe a vendicare il padrone. Ma allora dalla meravigliosa fermezza, dalla divina impetuosa eloquenza di Bruto egli viene arrestato, persuaso, convinto, e infiammato a ricordarsi, almeno per breve ora, ch’egli può ridivenire il popolo romano.48 Il popolo è mira delle offese dei congiurati, in particolare da quelle di Cassio («popolo mal compro»; «popol vile», II, 2; «È un 46 Il popolo in questa tragedia ha soltanto due battute: la prima nella scena terza del primo atto per approvare il lungo discorso di Bruto («Viva la libertà, lungi i Tarquinj, / e viva eterno il Consolato in Roma»), la seconda nella scena seconda del quinto atto quando si limita a ripetere l’ultimo motto del discorso di Collatino: «All’esilio». Tale presenza non è difettiva nel Giunio Bruto rispetto alle restanti tragedie contiane; il popolo, al contrario, non è tra i personaggi delle altre tre tragedie romane (Marco Bruto, Cesare e Druso) in cui invece abbondano cori di congiurati, sacerdoti, cavalieri, duci e senatori. 47 V. ALFIERI, Parere cit., pp. 139 sgg. 48 Ivi, p. 142. La figura corale nelle tragedie alfieriane 563 popol questo? / Questo, che libertade altra non prezza, / né conosce, che il farsi al bene inciampo, / e ad ogni male scudo?», I, 1), eppure non è ancora del tutto corrotto dal momento che ha impedito a Cesare di farsi re – Bruto parlando al dittatore lo definisce «in ver non più romano; / ma né quanto il volevi era pur stolto» (I, 1). Cicerone arriva persino a sostenere che ad essere corrotti siano i singoli e che il popolo, nella sua costitutiva collettività, possa essere recuperato ai tradizionali valori della romanità: Il popol nostro, benché non più romano, è popol sempre: e sia ogni uom per sé, quanto più il puote, corrotto e vile, i più si cangian, tosto che si adunano i molti: io direi quasi, che in comun puossi a lor prestar nel foro alma tutt’altra, appien diversa in tutto, da quella c’ha fra i lari suoi ciascuno. (II, 2, vv. 60-67) Il popolo non è in ogni caso il solo ad essere responsabile della degenerazione politica e morale; laddove infatti manchi quell’unione di ceti invocata nel Bruto primo, la corruzione dello stato è inevitabile. Così anche i senatori sono allo stesso modo colpevoli secondo Bruto: Fallace base a libertà novella il popol guasto sarebbe adunque. Ma, il senato è forse più sano? annoverar si pon gli schietti; odian Cesare in core i rei pur anco, non perch’ei toglie libertade a tutti ma perché a lor, tiranno unico, ei toglie d’esser tiranni. A lui succeder vonno. (II, 3, vv. 204-11) Nel finale il popolo che all’inizio della scena ultima aveva giurato morte a Bruto («Ah traditor! Tu pur morrai») ascoltando le spiegazioni dell’eroe liberatore è immediatamente pronto a sostenerlo senza indugi («Qual dir fia questo? Un dio lo inspira»; «Oh virtù prisca! oh vero Bruto!») fino alla risoluta decisione finale («A morte / con Bruto a morte, o a libertà si vada»). Tale mutamento 564 Enrico Zucchi di prospettiva, ancor più inverosimile che nella Virginia – in quel caso il popolo passava dall’apatia all’azione dopo aver visto Virginia morta; qui, dopo la morte di Cesare, passa addirittura dal desiderio di vendicare il tiranno al sostegno incondizionato al tirannicida – 49 rende anche infondati i discorsi che i congiurati facevano in precedenza. Del resto ciò che ad Alfieri interessava in questa tragedia era dipingere la figura di un tiranno magnanimo, grande e desideroso di gloria, sul modello plutarchiano. Nelle ultime due tragedie egli cerca di chiarire e riassumere compiutamente il proprio pensiero politico ed un tiranno differente dai precedenti è funzionale a completare il quadro. Neppure Cesare, il grande condottiero che non è ancora diventato un perfetto tiranno,50 restituisce spontaneamente il proprio potere, comportandosi come tutti i suoi più feroci antecedenti, da Appio ai Tarquini. Il Bruto Secondo serve quindi a confermare che la soluzione del tirannicidio resta l’unica percorribile e l’eventuale sommovimento popolare sarà tanto più efficace quanto più il popolo saprà farsi rigido tutore delle leggi. Questo, in definitiva, è proprio il compito affidato al popolo italiano futuro nella dedica dell’ultima tragedia. IL CORO RELIGIOSO NELLE TRAGEDIE ALFIERIANE Nella Risposta a Calzabigi Alfieri aveva dichiarato che «la tragedia […] non canta tra i moderni», eppure alcuni brani lirici sono 49 Un preciso antecedente di questa soluzione risale alla tragedia Merope (1785): qui il popolo è inizialmente pronto a vendicare l’uccisione del re Polifonte avvenuta per mano di Egisto, ma una volta che questi spiega le ragioni della propria vendetta il comportamento del popolo muta radicalmente; la tragedia si conclude con il giuramento di fedeltà eterna fatta dal popolo al nuovo sovrano Egisto (V, 3). Nel presente lavoro si è scelto di privilegiare il Bruto Secondo, certo più funzionale al discorso portato avanti e politicamente più pregnante rispetto alla Merope, – in questa tragedia in definitiva si compie sì un regicidio, ma per motivi privati, non politici. A proposito di Merope si veda il seguente studio, che pur si distacca dalla posizione delineata da chi scrive: D. ALEXANDRE, Le peuple dans le tragédies d’Alfieri, «Italies», 6/2, 2002, pp. 503-522. 50 A discolpare Cesare dall’accusa rivolta a lui da Cassio («Innata in petto / la iniqua brama di regnar sempr’ebbe / Cesare …»; II, 3, vv. 221-223) è lo stesso Bruto: soltanto la necessità di gloria, i perfidi consigli di Antonio e «l’occasion felice» lo hanno spinto sino a quel punto. Bruto tuttavia aggiunge: «Entro il suo cuor può ancora / desio d’onor, più che desio di regno / […] ei brama / la gloria ancor; non è dunqu’egli in core / perfetto ancor tiranno» (II, 3, vv. 231-232; 241-243). La figura corale nelle tragedie alfieriane 565 presenti all’interno delle sue tragedie: nel Saul e nella Mirra tra quelle stampate in vita, nell’Abele e nell’Alceste seconda tra quelle postume. Su questi passi è a lungo durato il giudizio crociano,51 accolto tra gli altri da Fabrizi che li considerò «una aggiunta posticcia e concessione al gusto biblico-ossianesco il primo, arcadico il secondo», utili comunque ad evidenziare «l’intento di modificare il rigido schema elaborato fin dal Filippo, nel quale nessuna pausa lirica era ammessa a interrompere la tensione derivante dall’urto dei personaggi».52 A questo parere negativo si oppone lo studio di Camerino di cui ci avvarremo come punto di partenza. «In realtà un’attenta ricognizione delle parti liriche nella tragedia Saul e di quelle corali nella tragedia Mirra – scrive Camerino – mostrerebbe come la consumatissima vigilanza stilistica del tragediografo, spinta fino ai particolari metrici e prosodici resti sempre vivissima e, se mai, i momenti lirici s’inscrivono in una fase di crescita e maturazione ben controllata e consapevole del linguaggio tragico».53 L’elemento che qualifica questi nuovi inserti è proprio la musica, disprezzata da Alfieri quando si configurava come ricerca melodrammatica dell’effetto patetico, ma recuperata nella sua accezione sublime.54 A proposito di Abele Di Benedetto scrive giustamente che la tramelogedia non si limita a proporre una riforma del melodramma, ma intende estinguerlo in favore della tragedia.55 Il fondamento di questa tentata ‘soppressione’ sta proprio nel cambiamento di prospettiva circa la musica: Alfieri non può ammettere l’inserimento di brani musicali nei drammi a meno che questi non si configurino come interventi sublimi atti a trasformare il melodramma in tragedia. Nella sua analisi Camerino sottolinea anche la passione dell’au51 Per il rapporto tra lirica e drammaturgia alfieriana si veda B. CROCE, La letteratura italiana del Settecento. Note critiche, Bari, Laterza, 1949, pp. 392-393; a tale proposito è utile anche ID., Poeti e scrittori d’Italia, a cura di F. Del Secolo e G. Castellano, II, Bari, Laterza, 1927, pp. 11-24. 52 A. FABRIZI, Alfieri e l’estetica musicale, «Chigiana», XXXIII, 1976, p. 179. 53 G. CAMERINO, Alfieri, la musica, e il linguaggio della tragedia, in ID., La tragedia esemplare cit., pp. 261-292; il brano citato è a p. 263. 54 Sulla stessa strada si era mosso prima di Alfieri Saverio Mattei, musicando i Salmi. Cfr. C. LERI, Il sublime dell’ebrea poesia. Bibbia e letteratura nel Settecento Italiano, Bologna, Mulino, 2008, pp. 119-155. 55 A. DI BENEDETTO, L’Abele, tramelogedia sola, in ID., Vittorio Alfieri. Le passioni e il limite, Napoli, Liguori, 1994, pp. 93-104. 566 Enrico Zucchi tore per l’arpa, nata proprio in concomitanza con la prima lettura disordinata della Bibbia e con la stesura del Saul (1782): I canti di David nel Saul vanno allora interpretati non come una deviazione dal linguaggio della tragedia e come l’indulgere a una sia pur variata e antimelodica tendenza musicale fine a se stessa, ma come un preciso tentativo di recuperare al linguaggio delle passioni tragiche anche la lingua di una visione sublime e terribile del rapporto uomo-Dio.56 I brani lirici segnalano il passaggio da un piano fisico, nel quale si situa il resto della tragedia, ad uno superiore, ‘metafisico’: concretano il contatto tra uomo e Dio. L’avvicinamento dell’autore al sentimento religioso, riconducibile con qualche semplificazione ai primi anni Ottanta, è documentato: non solo le letture della Bibbia, la prima disordinata nel 1782, la seconda sistematica nel 1799, ma anche il forte contrasto col materialista Voltaire dell’Antireligionerìa,57 l’intenzione di dedicare il Saul a Pio VI, i numerosi libri religiosi posseduti dall’Alfieri al momento della fuga da Parigi,58 il riavvicinamento alla Chiesa Cattolica testimoniato dal sonetto Alto, devoto, mistico, ingegnoso del 1795, il conforto religioso invocato in punto di morte, confermano questa svolta.59 Se la religione nella Tirannide è descritta come una sicura alleata del tiranno, ciò si deve alle istituzioni ecclesiastiche – «sei anella della sacra catena» – 60 che la 56 G. CAMERINO, La tragedia esemplare cit., p. 275. A proposito dell’Antireligionerìa e in generale del rapporto tra Alfieri e Voltaire si veda G. SANTATO, Alfieri e Voltaire: dall’imitazione alla contestazione, Firenze, Olschki, 1988, in particolare pp. 129-164. Lo stesso Santato è ritornato recentemente sul tema in ID., Un itinerario intellettuale tra Illuminismo e Rivoluzione: Alfieri e Voltaire, in Letteratura italiana e cultura europea tra illuminismo e romanticismo, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Padova-Venezia, 11-13 maggio 2000, a cura di G. Santato, Genève, Droz, 2003, pp. 291-324. 58 Si rimanda a C. DEL VENTO, «Io dunque ridomando alla plebe francese i miei libri, carte ed effetti qualunque». Alfieri «émigré» a Firenze, in Alfieri in Toscana cit., II, pp. 558-578. Oltre ad alcuni volumi d’autore come l’opera di Sant’Agostino e il Mondo Creato tassiano e a diverse edizioni della Bibbia, vediamo presenti opere come le Lettere di Santi fiorentini, le Epistole di Santa Caterina, le Prediche di Giordano da Pisa, Lo specchio di penitenza del Passavanti, uno Specchio di Croce del Cavalca, le Imagini dei Sancti, i Ritratti della Compagnia di Gesù del Galleotti ecc. 59 Si veda, per una breve documentazione, l’ancora utile articolo di G. NATALI, Alfieri e la religione avita, «Italica», XXX, 1953, pp. 22 sgg. 60 V. ALFIERI, Della tirannide cit., p. 121. Sul rapporto di Alfieri con la Chiesa cattolica, M. T. SILVESTRINI, «Sei anella della sacra catena». Politica e religione nel Piemonte settecentesco, in Alfieri e il suo tempo, Atti del Convegno internazionale, Torino-Asti, 29 57 La figura corale nelle tragedie alfieriane 567 rappresentano in modo iniquo; nel Del principe e delle lettere infatti l’autore loda i profeti riconoscendo loro la capacità di far nascere nel popolo la passione per la libertà.61 Anche la questione religiosa è vista da Alfieri nei termini “manichei” che, più o meno scoperti, dominano gran parte del suo teatro: da una parte l’esecrabile istituzione, serva e a sua volta tiranna; dall’altra i singoli santi, martiri e profeti, simboli di redenzione e campioni di libertà. Spingendosi oltre l’ipotesi avanzata da Camerino, si noterà che nel Saul la parte lirica, affidata ad un singolo personaggio, Davide, è modellata su una grande varietà metrica e strutturale, quasi che l’autore, pur nella ferma volontà di non scadere in una melodrammatica cantabilità, fosse ancora alla ricerca di un canone preciso a cui adeguare queste nuove creazioni liriche, mentre nella Mirra 62 la prova è più sicura: sebbene non esista uno schema rigido che avrebbe avvicinato la poesia a modelli melodici troppo inverosimili per Alfieri, la varietà metrica si riduce e l’effetto patetico risulta amplificato dai brevi e rotti interventi di diversi personaggi che segmentano la struttura lirica – e di conseguenza ne compromettono pregiudizialmente, secondo le intenzioni dell’autore, la fluidità complessiva. Il coro appare nella scena terza del quarto atto, ed è diviso in tre semicori composti di donzelle, fanciulle e vecchi, venuti a celebrare il matrimonio di Mirra e Pereo attraverso la tradizionale invocazione di Imenèo: CORO «O tu, che noi mortali egri conforte, fratel d’Amor, dolce Imenèo, bel Nume; novembre-1 dicembre 2001, a cura di M. Cerruti, M. Corsi, B. Danna, Firenze, Olschki, 2003, pp. 113-130. 61 V. ALFIERI, Del principe e delle lettere, in ID., Scritti politici e morali cit., pp. 220224. Per un commento a questo capitolo del trattato si veda G. PAGLIERO, Santi, martiri e «capi-setta»: la religione ai tempi del principato, in Alfieri e il suo tempo cit., pp. 389 sgg. 62 Numerosi saggi si sono occupati di Mirra e delle sue parti liriche; si segnalano in particolare W. BINNI, Lettura della Mirra, «La rassegna della letteratura italiana», LXI, 1957, pp. 12-30; M. GUGLIELMINETTI, Lo spazio mitico della Mirra in ID., Saul e Mirra, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 1993, pp. 31-84 e per l’analisi dei cori pp. 65-68; G. SANTATO, «Oltre i confini del natural dolore …». Retorica tragica ed esperienza-limite nella Mirra, ora in ID., Tra mito e palinodia. Itinerari alfieriani, Modena, Mucchi, 1999, pp. 13-53; A. DI BENEDETTO, L’«orrendo a un tempo e innocente amore» di Mirra, ora in ID., Il dandy e il sublime, Firenze, Olschki, 2003, pp. 39-53 e l’interessante intervento in chiave psicoanalitica di P. AZZOLINI, La negazione simbolica nella Mirra alfieriana, «Lettere Italiane», XXXII, 1980, fasc. 3, pp. 289-313. 568 Enrico Zucchi deh! fausto scendi; – e del tuo puro lume fra i lieti sposi accendi fiamma, cui nulla estingua, altro che morte. – FANCIULLI Benigno a noi, lieto Imenèo, deh! vola del tuo german su i vanni; DONZELLE e co’ suoi stessi inganni a lui tu l’arco, – e la farètra invola: VECCHI ma scendi scarco di sue lunghe querele e tristi affanni: – CORO De’ nodi tuoi, bello Imenèo giocondo, stringi la degna coppia unica al mondo». (IV, 3, vv. 125-137) Nell’intervento corale prevalgono gli endecasillabi (9 versi) seguiti da tre settenari e un quinario. Tra gli endecasillabi gli accenti portanti sono quelli di 4a, 8a e 10a che recuperano l’andamento solenne della preghiera di Davide, eccezion fatta per i vv. 125, 129 e 137, in cui l’ictus di 8a è anticipato in 7a sede, in modo da creare con il precedente accento di 6a, introdotto soltanto in questi versi, uno stridente effetto di ‘contraccento’.63 Lo schema rimico (ABBc7ADe7e7Df 5EGG) è costruito per evitare qualsiasi tipo di ripetitività; gli endecasillabi rimano solamente tra loro, fuorché il terzultimo che rima con i due settenari precedenti, mentre due versi rimangono irrelati – un settenario e il quinario. La mancanza di continuità di rime – la rima baciata tra «vanni» e «inganni» viene divi63 La costruzione alfieriana è perfettamente ponderata: la prima battuta (vv. 1-5) e l’intera apparizione del coro (vv. 1-13) si aprono e si chiudono con endecasillabi caratterizzati da questo “contraccento”, o accento ribattuto, sempre rafforzato da una sinalefe (mortàliègri; estìngua-àltro; còppia-ùnica). Questo stilema riprende da una parte il modello petrarchesco – per cui si veda M. PRALORAN, Figure ritmiche nell’endecasillabo, in La metrica dei Fragmenta, a cura di M. Praloran, Roma-Padova, Antenore, 2003, pp. 125-189, in particolare pp. 154-159 – dall’altra quello dello sciolto pariniano, sul quale cfr. P. G. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 20024, pp. 184-185. Per la nozione di “contraccento” ci si riferisce a A. MENICHETTI, Metrica italiana, Padova, Antenore, 1993, pp. 403-406. La figura corale nelle tragedie alfieriane 569 sa tra due diversi semicori – e di versi è una caratteristica costante dei cori alfieriani, ma l’armonia è comunque garantita dal canto, o meglio dalla musica di sottofondo che, come l’autore raccomandava in margine alle tragedie,64 avrebbe dovuto accompagnare le parti corali qualora esse fossero state semplicemente recitate. È interessante il gioco di rime che incornicia il primo intervento del coro, «conforte»:«morte», una coppia che ben si addice all’eroina alfieriana, ma non stonerebbe anche se fosse riferita all’Ermengarda manzoniana. Appropriata è la distribuzione delle battute nei semicori: nella loro preghiera le donzelle si lasciano sedurre dalle immagini mitiche dell’iconografia di Eros, mentre ai vecchi si addice guardare agli aspetti meno spensierati delle nozze, chiedendo protezione dagli «affanni» che esse possono comportare. Il coro viene però interrotto dalle parole della nutrice, preoccupata nel vedere lo struggimento della figlioccia la quale, tra i tipici punti di sospensione alfieriani, si precipita a zittirla. Il coro prosegue con un’invocazione a Venere: CORO «O d’Imenèo e d’Amor madre sublime, o tra le Dive Diva, alla cui possa nulla possa è viva; Venere, deh! fausta agli sposi arridi dalle olimpiche cime, se sacri mai ti fur di Cipro i lidi. FANCIULLI Tutta è tuo don questa beltà sovrana, onde Mirra è vestita, e non altera; DONZELLE lasciarci in terra la tua immagin vera piacciati, deh! col farla allegra e sana, VECCHI e madre in breve di sì nobil prole, che il padre, e gli avi, e i regni lor, console. 64 L’indicazione premessa dall’autore al coro della Mirra è la seguente: «Ove il coro non cantasse, precederà ad ogni stanza una breve sinfonia adattata alle parole, che stanno per recitarsi poi». V. ALFIERI, Tragedie, Mirra, a cura di M. Capucci, Asti, Casa d’Alfieri, 1974, p. 78. 570 Enrico Zucchi CORO Alma Dea, per l’azzurre aure del cielo, coi be’nitidi cigni al carro aurato, raggiante scendi; abbi i duo figli a lato; e del bel roseo velo gli sposi all’ara tua prostràti ammanta; e in due corpi una sola alma traspianta». (IV, 3, vv. 140-157) La struttura si fa più articolata: si succedono tre stanze di sei versi, due recitate dal coro nel suo complesso e una, quella centrale, divisa tra i semicori e composta di soli endecasillabi. Sebbene questo intervento sia più ‘fluido’ del precedente, neppure in questo caso Alfieri cede ad una costruzione completamente ripetitiva e in definitiva melodrammatica, modificando di continuo nei dettagli i vari interventi corali – la terza stanza si differenzia dalla seconda soltanto per la sostituzione di un settenario all’endecasillabo di quarta posizione – per dare origine ad una forma che proprio per questa discontinuità si differenzia dalla canzone petrarchesca: il tono e in buona parte il lessico trovano in Petrarca un modello evidente, mentre proprio la mancanza di uniformità strutturale delle varie parti costituisce l’originalità della prova alfieriana e soprattutto la garanzia di continuità tra parti liriche e dialoghi tragici. Resiste la caratterizzazione dei due semicori – le fanciulle chiedono alla dea allegria e salute per la sposa, i vecchi una prole per sostenerla quando sarà avanti negli anni – al pari della struttura circolare per cui i versi con i quali si apre e si chiude l’intervento corale sono caratterizzati dall’accento ribattuto di 6a e di 7a in sinalefe. Dopo una seconda interruzione il coro riprende con una nuova preghiera: CORO «La pura Fé, l’eterna alma Concordia, abbian lor templo degli sposi in petto; e indarno sempre la infernale Aletto, con le orribil suore, assalto muova di sue negre tede al forte intatto core dell’alta sposa, che ogni laude eccede: e, invan rabbiosa se stessa roda la feral Discordia …». La figura corale nelle tragedie alfieriane 571 MIRRA Che dite voi? già nel mio cor, già tutte le Furie ho in me tremende. Eccole; intorno col vipereo flagello e l’atre faci stan le rabide Erinni: ecco quai merta questo imenèo le faci … (IV, 3, vv. 167-175) Ritorna qui uno schema misto di endecasillabi, settenari e quinari (ABBc7Dc7De5A), in cui gli endecasillabi rimano soltanto tra loro, incorniciati dalla rima «Concordia»:«Discordia», mentre irrelato rimane, come nel primo intervento, il quinario. Alfieri, nello sceneggiare un soggetto mai adattato al teatro in precedenza – è ancora il suo spirito competitivo a sollecitarlo – vuole nascondere fino all’ultimo il motivo del tormento di Mirra; 65 si instaura così un efficace contrasto tra gli inni propiziatori del coro, inconsapevole della situazione emotiva della protagonista, e il cupo stato interiore di Mirra. Il coro augura che l’amore per Pereo sia «fiamma, cui nulla estingua, altro che morte», ma ben altra è la fiamma per cui arde Mirra e che solo la morte potrà estinguere; invoca la discesa di Imenèo sulla «degna coppia unica al mondo», mentre l’amore incestuoso di Mirra, la quale desidererebbe fare coppia col padre, non è per niente onorevole; infine prega affinché il «forte intatto core / dell’alta sposa» non sia toccato dalla fiamma demoniaca, mentre la protagonista è già preda delle «atre faci». Questi ambigui augùri pungolano con tale insistenza il tormentato segreto di Mirra da abbattere la barriera di silenzio con la quale l’eroina aveva tentato di difendersi da se stessa. La creazione di questi piccoli equivoci fa procedere la rappresentazione caricandola di pathos senza svelare la ragione dell’angoscia di Mirra, incomprensibile fino alla scena risolutiva a chi non conosceva il racconto delle Metamorfosi.66 65 Per Arnaldo Ferriguto la liricità delle tragedie alfieriane «non va cercata negli squarci lirici ma nell’insieme di una sua tragedia»; egli situa la liricità della tragedia «nel silenzio di quattro atti […] che scoppia nel tumulto della rivelazione finale»; A. FERRIGUTO, Sull’Alfieri (liricità nella tragedia alfieriana), in ID., Abbozzi e frammenti, Verona, Fiorini, 1972, pp. 99-113. 66 Un aneddoto interessante a tal proposito, riguardante Cristina di Morozzo Bianzè, moglie di Cesare D’Azeglio, è raccontato da A. FABRIZI, Commentare Mirra, in Il commento e i suoi dintorni, a cura di B. M. Da Rif, Milano, Guerini, 2002, p. 234. 572 Enrico Zucchi La novità più significativa rispetto al tentativo del Saul sta nel fatto che in Mirra Alfieri trova un personaggio esclusivo – il coro appunto – a cui affidare il canto. Dal momento che le parti liriche sono spazi di preghiera, di invocazione, di contatto con il soprannaturale, un personaggio collettivo sarà più adatto a recitarle, poiché il divario tra uomo e divinità potrà essere colmato solamente attraverso un crescendo in qualità e quantità. Ciò era plausibile anche dal punto di vista, tanto caro all’autore, della ‘legge della verosimiglianza’, poiché qualsiasi celebrazione liturgica prescriveva la riunione della collettività per beneficiare della presenza divina – e nell’epistolario si trovano testimonianze del notevole fascino che esercitavano su Alfieri le cerimonie cattoliche.67 Mentre Davide, prescelto dalla fede eccezionale, può sostenere da solo il peso del dialogo con Dio, gli uomini comuni per farlo devono ricorrere alla riunione in coro. Dalla lettura dei tragici greci Alfieri ottenne riscontri in merito alla funzione innodica dei cori – infatti nell’Alceste seconda, alla fine di ogni atto, i cori recitano una preghiera in versi lirici – ma neppure alla tradizione italiana è estraneo il collegamento tra il coro e il sublime religioso: nell’idea tassiana il coro era infatti il luogo in cui il poeta si esprimeva in preda ad un furore divino.68 La consonanza maggiore tuttavia si rileva con l’opera di Racine, il quale, per le stesse ragioni, introduce il coro soltanto nelle due tragedie di argomento biblico, Ester e Atalia. L’originalità della soluzione alfieriana sta però nell’attribuire alla musica il compito di legittimare il vincolo tra il coro e l’espressione religiosa: essa deve soccorrere la parola che, per quanto tornita, non può reggere da sola lo slancio verso il divino. Tra le tragedie postume, l’opera in cui il coro compare con più frequenza è la «tramelogedia sola» Abele.69 Alfieri, reduce dalla lettura della Bibbia, nel 1782 idea un genere completamente nuovo; consapevole della propria inattualità, come dimostra la dedica del Bruto secondo, vuole cercare di costruire un prodotto moderno, vi67 Si veda la lettera a Mario Bianchi in occasione della celebrazione dell’Assunta, V. ALFIERI, Epistolario cit., vol. I, p. 296 (15 agosto 1785): «Oggi lor signori festeggiano: e qui abbiamo avuto jersera l’illuminazione in Duomo, che è durata assai più di quando la videro, e sempre mi piace molto; e ho assistito alla messa cantata stamane, e le funzioni della chiesa mi piacciono sempre molto». 68 Cfr. T. TASSO, Discorsi dell’arte poetica cit., p. 198. 69 V. ALFIERI, Abele in ID., Tragedie postume, a cura di R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1978. La figura corale nelle tragedie alfieriane 573 cino eppure non arrendevolmente piegato alla moda del tempo e l’Abele è il frutto di questa ricerca. Lo scopo alfieriano era quello di portare il pubblico, attraverso l’apprezzamento di questo ibrido, alla comprensione delle sue tragedie più impegnative, ma il risultato non lo convinse; 70 l’elaborazione si estese per un periodo inusitato, protraendosi fino al 1798, con la messa in discussione di molti dettagli, a partire dal titolo dell’opera e dalla definizione del genere. Nel manoscritto originale si legge Caino / Tragedia / Musicale,71 intitolazione che richiama quella dell’Alceste calzabigiana, «Tragedia per musica», se non che l’intento di Calzabigi era quello di far sì che musica e parola si compenetrassero, mentre Alfieri poneva rigidissimi confini tra i due aspetti, arrivando a dividere rigidamente i personaggi cantanti (soprannaturali) da quelli parlanti, non senza aver intimato nella prefazione «che nessuno ponga in dubbio il primato della parte tragica sulla parte musicale».72 Pur volendo allettare il pubblico con l’ausilio della musica, l’autore non rinuncia alla teoria che era stata alla base degli intermezzi lirici di Saul e di Mirra: infatti ribadisce che soltanto nell’alveo del «mirabile religioso» 73 è possibile impiegare la poesia lirica in una tragedia, per cui i personaggi cantanti, siano essi divinità o personificazioni di vizi e virtù, devono incarnare quel ‘soprannaturale’ di cui prima si parlava. Se è pur vero che con Abele i cori non sono più gli unici detentori delle parti liriche, la ragione di questo ‘passo indietro’ 74 si dovrà attribuire in grandissima parte alla stravaganza del genere. Si riporta di seguito la comparsa del coro di demoni: CORO A consiglio, a consiglio adunatevi, o possenti feroci guerrieri; 70 Alfieri interruppe il progetto di affiancare altre cinque tramelogedie all’Abele. Rimangono l’idea e la stesura dell’Ugolino e l’idea della Scotta. Sull’Abele si veda A. DI BENEDETTO, L’Abele, tramelogedia sola cit., e il più datato C. CALCATERRA, L’«Abele» di Vittorio Alfieri, in ID., Poesia e canto. Studi sulla poesia melica italiana e sulla favola per musica, Bologna, Zanichelli, 1951, pp. 265-289; infine G. CAMERINO, La tragedia esemplare cit., pp. 284-290. 71 Cfr. V. ALFIERI, Abele cit., p. 6. 72 Ivi, p. 21. 73 Ibid. 74 Non si può parlare propriamente di un ‘passo indietro’ poiché l’Abele nasce a stretto contatto col Saul, quando la definitiva soluzione di Mirra, recuperata nelle successive due Alcesti, non era stata ancora formulata. 574 Enrico Zucchi dal letargo, su su, risvegliatevi, Angeli neri. Venite, udite la fera voce del vostro Re tonante, che rimbombante tutti vi appella in questa immensa foce. […] CORO Venite, udite la fera voce del vostro Re tonante, che rimbombante tutti vi appella in questa immensa foce. […] CORO A consiglio, a consiglio adunatevi, o possenti feroci guerrieri. (I, 2, vv. 83-90; 101-104; 108-110) In questo caso, diversamente da quanto accade in Mirra, il coro si conforma alla prassi operistica e melodrammatica: la prima battuta, recitata da tutto il coro, viene infatti divisa e ripetuta come intermezzo tra i canti dei diversi semicori – che qui per brevità non riportiamo – proprio come succedeva nell’Alceste di Calzabigi. Si amplia notevolmente la varietà metrica del coro: al decasillabo sdrucciolo seguono un decasillabo piano e un altro sdrucciolo, quindi un quinario, un secondo decasillabo piano, un settenario, un nuovo quinario ed un endecasillabo di chiusura; è questa polimetria, assente dalle forme vicine alla canzonetta dei cori di Metastasio e Calzabigi, formati prevalentemente di settenari ed ottonari a rima baciata, a garantire una certa originalità ai cori dell’Abele.75 Il coro di «angeli invisibili» che compare nel terzo atto, ben più fiacco del suo contraltare, mostra invece quanto l’approccio al Cristianesimo di Alfieri non fosse propriamente ortodosso: Dio stesso 75 Diversa è d’altro canto la successiva apparizione del coro di demoni, costruita su una compatta sequenza di quinari piani alternati a quinari tronchi: «Ben dice il nostro / gran Belzebù, / o forza vera, / o fraude intera, / d’ogni alto mostro / vittoria fu. / Ben dice il nostro / gran Belzebù» (I, 3, vv. 318-325). La figura corale nelle tragedie alfieriane 575 infatti, non potendo sottrarre l’uomo alla volontà del Destino, non riesce ad esaudire la preghiera di Adamo modulata, come la preghiera di Davide, su versi lirici: 76 LA VOCE D’IDDIO (precedono lampi e tuoni) Sorgi, Adamo. Non sono a me i tuoi prieghi discari, no; ma irrevocabil legge vuol che al Destin ti pieghi, che i casi vostri imperïoso regge. CORO D’ANGELI INVISIBILI Adamo, un uom tu sei: cede al destino ogni creata cosa; e tu pur ceder dei. Meglio in Dio, che in tutt’altro il cor si posa. (III, 5, vv. 260-267) La struttura della sequenza in cui un settenario piano e due tronchi si intervallano agli endecasillabi non è particolarmente significativa, tanto che il dato più singolare da rilevare è la ricomparsa di alcuni dei sintagmi di questo coro nel Coro di morti nello studio di Federico Ruysch (1824) che apre l’omonima operetta leopardiana.77 Alfieri, combattuto tra il desiderio di rendere il proprio teatro attraente per il pubblico e la volontà di non attentare alla propria coerenza tragica sottostando troppo alle frivolezze musicali del melodramma, non riuscì a costruire un’opera veramente convincente. L’Alceste Seconda,78 tragedia dal particolare iter compositivo,79 76 Adamo è personaggio parlante e recita sempre endecasillabi sciolti; solo in questo caso improvvisa dei versi lirici proprio perché la preghiera, il contatto con il divino, lo richiede. 77 Una serie di chiare coincidenze tra questo testo e il coro leopardiano in questione ci porterebbe ad ipotizzare uno stretto collegamento tra il Coro di morti e questo coro dell’Abele. Tuttavia questo argomento merita una trattazione specifica e dettagliata che andrà di necessità rimandata ad altro contesto. 78 V. ALFIERI, Tragedie postume: Alceste prima - Alceste seconda, a cura di C. Domenici e R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1985. 79 Alfieri, affascinato dall’Alceste euripidea che stava traducendo, volle riscriverla accrescendo il patetico ed eliminando l’aspetto comico, divertendosi poi a spacciarla per la traduzione di un manoscritto greco da lui trovato. Cfr. V. ALFIERI, Vita cit., pp. 308 sgg. (IV, 26). 576 Enrico Zucchi è segnata da un’intensa dipendenza dal testo euripideo, da cui riprende anche la divisione del coro in strofe, antistrofe ed epodi. È tuttavia significativo che il percorso del coro alfieriano si concluda con un coro alla greca diviso, alla maniera della Sofonisba trissiniana, tra il colloquio diretto coi personaggi e il commento alla fine di ciascun atto. Alfieri, probabilmente deluso dalla recente evoluzione della politica europea, accantona progressivamente la figura del popolo per avvicinarsi ad una forma corale disimpegnata, lirica e religiosa. I cori dell’Alceste Seconda, conformi nella funzione innodica, risultano diversi nella struttura; grazie alla licenza permessagli dal testo greco che egli finge di tradurre, Alfieri trova soluzioni alternative rispetto alle tragedie precedenti riuscendo, finalmente sciolto dalle catene della verosimiglianza, ad appagare senza remore il proprio gusto simmetrico. Nel primo coro la strofe e l’antistrofe condividono la stessa struttura metrica, mentre l’epodo si risolve in un’ottava anomala comprendente endecasillabi e settenari. Nel secondo le strofe e le antistrofe hanno una costruzione ugualmente speculare: STROFE I Qual grazia mai funesta piovea dal Ciel su la magion d’Admeto, poich’ora al doppio mesta, dopo il sanato sposo, l’egregia figlia del gran Pelio resta? Ed ei fa intanto a ogni uom di sé divieto, e in atto doloroso stassi immobile; e muto stassi, trafitto il cor da stral segreto: e par, più che il morire, a lui penoso il riviver temuto. ANTISTROFE I D’atra orribil procella l’impeto mugghia, e spaventevol onda ambo i fianchi flagella di alato nobil pino Il cui futuro immenso corso abbella speme di altero varco a intatta sponda. Il pietoso Destino La figura corale nelle tragedie alfieriane 577 no ’l vuol de’ flutti preda: ma che pro, se di onor quanto il circonda, vele, antenne, timone, ardir divino, tutto ei rapir si veda? (II, 6, vv. 319-340) La corrispondenza nella composizione di strofe e antistrofe (aBacABcdBCd) e la ricercatezza retorica – l’anafora in enjambement di «stassi» raffigura efficacemente l’immobilità di Admeto davanti alla perdita della moglie – non compromettono il proposito dell’autore di eludere qualsiasi forma cantabile all’interno della tragedia, rispettato grazie all’alternarsi di rime mai consecutive e di versi di differente lunghezza e accento. Il terzo coro è diviso in due semicori, il coro d’Admeto e il coro d’Alceste, impegnati entrambi a recitare una sequenza di strofe, antistrofe ed epodo. Le strofe e le antistrofe dei due semicori rispettano la solita simmetria, ma si differenziano nell’uso dei metri: senari e quinari descrivono la concitazione delle compagne di Alceste che sorreggono la donna morente, endecasillabi e settenari sono il veicolo per le più distaccate e universali considerazioni maschili. I due epodi si espongono ad una ben più ampia escursione metrica – agli endecasillabi si affiancano ottonari, settenari, quinari e quadrisillabi – sciogliendo qualsiasi vincolo di simmetria. Riportiamo di seguito il secondo epodo: Pregar, pregar, pregar: ch’altro ponno i Mortali al pianger nati, cui sovrastanno adamantini Fati? Giove, Giove, Reggitor dell’universo, deh, per te non sia sommerso, nell’angoscioso mar chi non muove il piè né il ciglio, se non qual figlio ch’altro non sa che il padre venerar. (III, 2, vv. 337-347) Come in Abele l’unico mezzo per entrare in contatto con la divinità è la preghiera, che viene però in questo caso esaudita, al contrario di ciò che accadeva nella tramelogedia, dove l’intervento di Dio era impedito da «irrevocabil legge»; non la preghiera quin- 578 Enrico Zucchi di, ma il destino è l’elemento che distingue i due episodi. Se nelle tragedie libertarie della gioventù possiamo scorgere in Alfieri il precursore di un romanticismo titanico, l’autore delle opere della maturazione assomiglia più al pioniere di un romanticismo pensoso; nella poetica leopardiana, che ne è in questo senso erede, troviamo la complementarietà di questi due poli, ancora distinti nelle tragedie alfieriane. L’uomo senza scorta in balìa del destino dell’epodo alfieriano pare molto vicino a quello di Leopardi, condannato ad un’infelicità ingiustificata, e a quello di Manzoni che, destinato a soffrire ingiustamente, si affida ad una Provvidenza la cui azione rimane imperscrutabile; anche l’insofferenza per l’adeguamento a strutture metriche fisse anticipa il processo di innovazione a cui saranno presto sottoposte le forme del sonetto (Foscolo) e della canzone (Leopardi, Manzoni). Il percorso alfieriano, apertosi con un coro ‘romano’, politico e protagonista, che recita in endecasillabi sciolti, si conclude con un coro greco polimetrico il cui canto è teso verso la divinità. A chi scrive pare che questa parabola possa icasticamente rappresentare l’intera storia del teatro alfieriano.80 DOVE FINISCE ALFIERI, DOVE INIZIA MANZONI Manzoni nutrì in un primo tempo nei confronti di Alfieri un apprezzamento che si preoccuperà successivamente a più riprese di sminuire; 81 è probabile che collaborasse in misura non ininfluente a 80 Tale proposta vorrebbe essere scevra di ogni schematismo: il teatro alfieriano non può essere troncato in due parti da una netta cesura, poiché la riflessione politica sopravvive fino ai due Bruti, relativamente tardi; tuttavia, come si è tentato di dimostrare nella prima parte di questo lavoro, la ripresa dei temi politici in età matura è dovuta all’esigenza di risistemare – e in parte di smussare – le riottose teorie giovanili; già con il Saul il cambio di priorità della drammaturgia alfieriana pare evidente e pressoché incontrovertibile. 81 L’epistolario manzoniano documenta questo percorso; da una difesa dell’astigiano nella lettera a Giovan Battista Pagani (18 aprile 1806): «Tu mi parli di Alfieri (la cui vita è una prova del suo pazzo orgoglioso furore per l’indipendenza, secondo il tuo modo di pensare; e secondo il mio un modello di pura incontaminata vera virtù di un uomo che sente la sua dignità, e che non fa un passo di cui debba arrossire)», si passa al rifiuto di partecipare al finanziamento del monumento in onore del drammaturgo, il quale «aveva avuta la disgrazia per colpa in parte del tempo in cui visse, di mostrarsi in diversi scritti nemico aperto della religione cattolica» (8 febbraio 1856), in A. MANZONI, Lettere, a cura di C. Arieti, Milano, Mondadori, 1970, III, p. 86. Oltre alle questioni religiose il Manzoni rim- La figura corale nelle tragedie alfieriane 579 questo deprezzamento di Alfieri il contatto con diversi intellettuali legati all’ambiente del Conciliatore.82 Tuttavia Manzoni, nel dare corpo ad un proprio personaggio corale, iniziò proprio da dove Alfieri aveva concluso, ossia dall’apertura verso un coro di matrice greca, allontanandosi dalla rievocazione della virtù romana per seguire la strada tedesca, segnata dallo Schlegel e dal Lessing, verso una rivalutazione dei tragici greci e delle loro soluzioni drammaturgiche.83 La definitiva presa di distanze del giovane Manzoni da Alfieri si verificò probabilmente in seguito alla lettura dell’opera postuma alfieriana, dalla cui traduzione dell’Eneide il milanese rimase molto deluso,84 ma fu proprio prendendo le mosse dalle tragedie postume alfieriane – e in particolare dal coro greco che in queste compariva – che Manzoni iniziò a costruire il proprio teatro, in aperta opposizione a quello dell’astigiano; il coro greco manzoniano perde proverava ad Alfieri il suo Misogallo; per il milanese il patriottismo si poteva fondare soltanto sulla solidarietà nazionale e sull’abbandono dei particolarismi interni, non sull’odio antifrancese, cfr. A. MANZONI, Lettre a Monsieur Chauvet, in Scritti linguistici e letterari, a cura di C. Riccardi e B. Travi, Milano, Mondadori, 1991 (Tutte le opere, vol. III), p. 162. Per una generale ricapitolazione del rapporto intercorso tra Alfieri e Manzoni si vedano il datato C. CURTO, Alfierianismo del Manzoni, «Convivium», 3-4, 1949, pp. 539 sgg., e i più recenti C. ANNONI, Alfieri e Manzoni in ID., Lo spettacolo dell’uomo interiore, Milano, Vita e Pensiero, 1997, pp. 129-137 e G. LANGELLA, «Non ti far mai servo». Il giovane Manzoni e l’eredità di Alfieri, «Rivista di letteratura italiana», XIX, 2001, pp. 105-121. 82 Soprattutto a Pellico si devono gli attestati di merito riservati all’Alfieri; cfr. S. PELLICO, Vera Idea della tragedia di Vittorio Alfieri, «Il Conciliatore», n. 2, 6 settembre 1818, ed. a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1948, I, p. 37. Diversi altri articolisti della rivista condividono invece il limitativo giudizio dato da Schlegel nei confronti dell’astigiano, come si capisce bene dalla stroncatura di E. VISCONTI, Parallelo dell’Alceste d’Alfieri con quello di Euripide, ivi, n. 56, 14 marzo 1819, II, pp. 317-324. Scrive giustamente Di Benedetto che «rispettose e ammirative sono in prevalenza le menzioni di Alfieri nel Conciliatore», A. DI BENEDETTO, Apprezzare Alfieri rendendo giustizia ai suoi rivali in Idee e figure del “Conciliatore”, Gargnano del Garda, 25-27 settembre 2003, a cura di G. Barbarisi e A. Cadioli, Milano, Cisalpino-Monduzzi, 2004, p. 347; tuttavia l’articolo di Ermes Visconti sull’Alceste servì a «proclamare senza mezzi termini come la tragedia alfieriana fosse irrimediabilmente fuori dai canoni del nuovo teatro romantico», D. DELCORNO BRANCA, Pellico tra Alfieri e Chenier in Tra storia e simbolo. Studi dedicati a Ezio Raimondi, Firenze, Olschki, 1994, p. 209. 83 Per la rivalutazione del modello greco nell’Ottocento si veda M. PUPPO, L’ellenismo dei romantici in ID., Poetica e cultura del Romanticismo, Roma, Canesi, 1962. 84 Cfr. L. BADINI CONFALONIERI, Alfieri nella Parigi di inizio Ottocento: intorno alle testimonianze manzoniane, in Alfieri beyond Italy, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Madison, Wisconsin, 27-28 Settembre 2002, a cura di S. Buccini, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, pp. 95-115; per il riferimento alle parole con cui Manzoni depreca la traduzione alfieriana: Carteggio Alessandro Manzoni - Claude Fauriel, a cura di I. Botta, Milano, Edizione Nazionale delle opere di Alessandro Manzoni, 2000, pp. 27-31. 580 Enrico Zucchi infatti la connotazione sublime e religiosa che era peculiare di quello dell’astigiano.85 Così riflette Manzoni nei Materiali estetici, con il supporto del Corso di letteratura drammatica di Schlegel, conosciuto nella traduzione di Gherardini del 1817: La vera essenza dei Cori Greci non è stata conosciuta che da qualche critico dei nostri tempi che mostrando false e superficiali le ragioni che i critici anteriori ne avevano date, ne dimostrarono le reali ed importanti. Io tradurrò qui alcuni squarci su questo soggetto dal Corso di letteratura Drammatica del Sig. Schlegel, e scelgo questo scrittore perchè (dei letti da me) è il primo che abbia data del Coro questa idea, e perchè mi sembra ch’essa vi sia assai bene espressa. Il Coro è da riguardarsi, dic’egli, come la personificazione dei pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo dei sentimenti del poeta che parla in nome della intera comunità. E poco sotto: Vollero i Greci che in ogni opera il Coro (qual fosse la parte sua propria ch’egli altronde vi facesse) fosse principalmente il rappresentante del genio nazionale, e appresso il difensore della causa della umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale: egli temperava le impressioni troppo violenti o dolorose d’una imitazione talvolta troppo vicina al vero, e presentando allo spettatore reale il riflesso [delle sue proprie emozioni,] gliele rimandava addolcite dal diletto d’una espressione lirica e armoniosa, e lo conduceva così nel tempo più tranquillo della contemplazione.86 Il coro nelle tragedie greche è quindi il mediatore tra l’azione rappresentata e il pubblico che assiste al dramma, incaricato di «temperare» le passioni emerse nella rappresentazione e di restituirle addolcite dalla lirica per garantire agli spettatori un momento di pausa, di straniamento, di riflessione: questo è uno dei compiti che Manzoni affiderà al suo coro, proponendo un modello alternativo alla tragèdie classique di Racine,87 di Metastasio e in parte di Alfieri, in cui si pretendeva l’immedesimazione nel protagonista. Soltanto nell’Alceste Seconda Alfieri si svincola dal pedissequo rigore con 85 Raimondi trattando del rapporto tra Alfieri e Manzoni, scrive in modo molto appropriato che «anche la negazione del rapporto, la cancellazione della paternità è un sistema di relazioni». E. RAIMONDI, Le pietre del sogno, Bologna, il Mulino, 1985, p. 104. 86 A. MANZONI, Materiali estetici in ID., Scritti linguistici e letterari cit., p. 10. Circa l’importanza dei Materiali estetici nella riflessione poetica manzoniana vedi L. BOTTONI, Sistemi letterari e drammaturgia nei Materiali estetici, in ID., Drammaturgia romantica, il sistema letterario manzoniano, Pisa, Pacini, 1984, pp. 113-135. 87 Sulla tragèdie classique francese si veda J. TRUCHET, La tragèdie classique en France, Vendòme, Presses des Univeritaires de France, 1975. La figura corale nelle tragedie alfieriane 581 cui aveva rispettato le regole della verosimiglianza, introducendo un coro stabile non sempre indispensabile allo svolgersi dell’azione e i cui versi lirici, comunque giustificati dalla imprescindibile condizione orante, ospitano una riflessione più astratta. Tuttavia nelle sue tragedie è impensabile la sospensione del dramma in cui le passioni dovevano fluire impetuose e i personaggi inseguire senza sosta uno o entrambi gli obiettivi della loro lotta: libertà e/o morte; le pause nascono da una cattiva gestione del soggetto a disposizione e vengono criticate nel Parere. Manzoni, al contrario, vuole centellinare le passioni per evitare qualsiasi immedesimazione e far sì che nulla del messaggio morale contenuto nell’opera vada dispersa nel trasporto per la vicenda rappresentata. Per questo motivo Alfieri rispetta con grande attenzione la verosimiglianza, in modo da far dimenticare allo spettatore che ciò a cui assiste non è che finzione scenica, mentre Manzoni, interrompe di proposito il procedere dell’azione inserendo quei cori che, svelando l’inganno teatrale, permettono allo spettatore di cogliere il senso più intimo che la rappresentazione veicola. La verosimiglianza non verrà in questo modo tradita dal momento che: La presenza dello spettatore non deve entrare nella composizione dell’opera. Lo spettatore non è già una parte dell’azione, è una mente estrinseca ad essa che la contempla: lo spettatore non è governato coi modi stessi che l’azione né l’azione coi modi dello spettatore: l’azione ha un tempo il quale deve parer verisimile allo spettatore considerandolo nell’azione stessa, non paragonandolo alle sue proprie modificazioni. Egli è, ripeto fuori dell’azione.88 Il coro, estraneo all’azione, si rivolge allo spettatore, a sua volta «estrinseco», fornendogli uno strumento per la corretta esegesi della tragedia. Come scrive Manzoni nella famosa lettera al Giudici,89 altro è la tragedia, la quale deve soddisfare quel desiderio di nobiltà e di perfezione che il pubblico cerca, altro è il coro, incaricato di ricordare allo spettatore che al di fuori della finzione teatrale il «grande» e il «meschino» si mescolano, il «ragionevole» e il «pazzo» si compenetrano. Se nella tragedia è appagato il gusto esteti88 89 195. A. MANZONI, Materiali estetici cit., p. 37. ID., Lettera a Gaetano Giudici, 7 febbraio 1820, in ID., Lettere cit., I, pp. 192- 582 Enrico Zucchi co, nel coro lo spettatore soddisfa il «desiderio di conoscere quello che è realmente, e di vedere più che si può in noi e nel nostro destino su questa terra»; molto simile a queste considerazioni pare la dichiarazione d’intenti di Alfieri nell’introduzione alla Vita: «Allo studio dunque dell’uomo in genere è principalmente diretto lo scopo di questa opera».90 I cori del Carmagnola e dell’Adelchi sono anche le sedi più adatte per l’autore a prendere in prima persona la parola appagando sia l’esigenza poetica che quella morale: Hanno finalmente [i cori] un altro vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dov’egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi proprj sentimenti: difetto dei più notati degli scrittori drammatici.91 Ancora una volta l’antecedente italiano di queste riflessioni è il Tasso, per cui l’innalzamento del tono del coro era dovuto anche al fatto che in esso il poeta parla «in sua persona».92 Manzoni crea uno spazio per la propria voce senza abusare delle battute dei personaggi; Alfieri, il quale ai protagonisti delle proprie tragedie prestava parole, pensieri e sentimenti non ne ha bisogno. Il confronto di queste premesse teoriche ci restituisce già l’enorme differenza tra le due posizioni che si riflette puntualmente nella realizzazione dei cori. La mancanza di continuità, la grande varietà di metri e di accenti scelta da Alfieri per non rischiare di creare melodie cantilenanti si oppongono ai fluidi cori manzoniani, di cui quello del Carmagnola, in stanze di cantabili decasillabi, è l’esempio più lampante.93 L’apice della divergenza tra i due autori nella resa del coro 90 V. ALFIERI, Vita cit., p. 7. A. MANZONI, Il Conte di Carmagnola, a cura di G. Lonardi, Venezia, Marsilio, 1989, p. 78. 92 «Dirò per ultimo che l’uso di questa maniera di Cori riserverebbe al Poeta un cantuccio donde mostrarsi e parlare in persona propria (…). Di questo genere sono i Cori dell’Aminta: hanno però il difetto di essere opposti di fronte allo scopo principale; ognuno vede che spirano massime il primo l’immoralità più grossolana». A. MANZONI, Materiali estetici cit., p. 12. 93 Gli studi di analisi dei cori manzoniani, anche recentissimi, sono diversi. A noi basterà, a titolo esemplificativo, segnalare i contributi specifici di A. GIORDANO nell’Introduzione a A. MANZONI, Adelchi, Milano, Rizzoli, 1976, pp. 5-23, per i cori in particolare pp. 15-20, e di G. LONARDI, in A. MANZONI, Il Conte di Carmagnola cit. Per un inquadramen91 La figura corale nelle tragedie alfieriane 583 viene tuttavia raggiunto probabilmente in un altro punto: il coro manzoniano, a differenza di quello alfieriano,94 è scritto per la lettura piuttosto che per la recitazione: Senza indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla recita, io propongo soltanto che sieno destinati alla lettura: e prego il lettore di esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che qui se ne presenta; perché il progetto mi sembra poter esser atto a dare all’arte più importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato d’influenza morale.95 Mentre il teatro di Alfieri costruisce la propria efficacia su una rappresentazione che faccia risaltare da una parte l’aspirazione libertaria, dall’altra il tormento interiore, per Manzoni il testo – compresa una sua eventuale rappresentazione – è un pretesto per lasciare al lettore qualche insegnamento non estemporaneo che permetta orazianamente di miscere utile dulci. La distanza maggiore del teatro manzoniano da quello alfieriano non si situa nella scelta delle tematiche – sempre di ambito civile e politico, o legate all’analisi dell’interiorità dei personaggi – e neppure, come potrebbe parere, nella preferenza per un coro greco, bensì nella reinterpretazione manzoniana del ruolo rivestito dalla rappresentazione nella scrittura drammaturgica, la cui delegittimazione colloca il Carmagnola e l’Adelchi, a differenza delle tragedie alfieriane, in un genere che con difficoltà può essere considerato propriamente teatrale. ENRICO ZUCCHI to complessivo del teatro manzoniano si vedano U. MARIANI, Le tragedie e la crisi della visione provvidenziale, in ID., Il solito Manzoni e il Manzoni vero, Pesaro, Metauro, 2006, pp. 55-76 e G. TELLINI, Lo scacco della drammaturgia. «Non resta che far torto, o patirlo», in ID., Manzoni, Roma, Salerno, 2007, pp. 113-133. Si vedano inoltre A. ACCAME BOBBIO, La formazione del linguaggio lirico manzoniano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1963 e G. LONARDI, L’esperienza stilistica del Manzoni tragico, Firenze, Olschki, 1965. 94 Per quanto riguarda il rapporto che intercorre nelle tragedie di Alfieri tra scrittura e rappresentazione si veda l’utile volume di A. BARSOTTI, Alfieri e la scena, Roma, Bulzoni, 2001, in particolare pp. 15-70. 95 A. MANZONI, Prefazione a ID., Il Conte di Carmagnola cit., p. 78.