IL DESIDERIO ECCEDENTE E L’UOMO RADICALE
Alessandro Arienzo
Abstract
Since the nineteenth-sixties the concept of desire has played a
significant role in investigating politics and the nature of political subjects.
Through the readings of Machiavelli, Hobbes and Spinoza, to Nineteenth
century political philosophy, this contribution highlights the main current
development of this debate. The aim is to shed light on how, in contemporary
political philosophy, the concept of desire is discussed to question the
uniqueness of modern political subjectivity and to further political change,
innovation and social transformation.
Keywords
Desire, democracy, recognition, political subject, modernity
SAGGI
14
15
Il desiderio eccedente
Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in un tornante
storico in cui molti hanno visto il superamento o l’oltre-passamento della
modernità, il desiderio è tornato ad essere un tema politico decisivo. Si
celebra quest’anno il cinquantennale del Sessantotto con la radicalità delle
sue lotte antiautoritarie, la critica alla centralità della ragione strumentale, le
istanze di liberazione individuale e collettiva che, pur in forme e lungo
traiettorie ideologiche molto diverse, ricercavano un diverso rapporto col sé
e con l’altro.
La messa in questione dell’Edipo che ha accompagnato queste istanze
di “liberazione” non è stato solo il tentativo di dare forma ad un diverso
rapporto tra la spinta desiderante dei soggetti e le forme sociali che essa
doveva assumere, ma anche un più profondo movimento di interrogazione del
desiderio stesso. Il Sessantotto – inteso ovviamente come l’indicatore di una
serie complessa di fenomeni storici di lungo periodo – esprimeva innanzitutto
un “desiderio dissidente”, nella bellissima espressione di Elvio Fachinelli; un
desiderio per cui «l’essenziale non era l’oggetto del desiderio, ma lo stato del
desiderio»1.
La riflessione femminista, in particolare quella della “differenza”, è
forse quella che per prima – e in maniera dirompente – ha posto il problema
dell’esistenza di un desiderio “femminile” diverso e altro rispetto a quello
maschile. In tal modo, essa ha avviato un più complessivo processo di messa
in questione dell’unicità del desiderio, quindi dell’unicità del soggetto
politico. Se in un primo momento essa ha dovuto contestare la supremazia del
desiderio maschile, pian piano, attraverso una lettura dei vissuti singolari
delle donne, è emersa la necessità di liberare la femminilità dal desiderio del
maschio2. Alle istanze di emancipazione delle donne da un sistema di dominio
patriarcale, tese a portare a compimento la lunga lotta per l’eguaglianza dei
1
Elvio Fachinelli, Il Sessantotto, intervista a “Panorama” del 31 gennaio 1988, ora in Elvio
Fachinelli, Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989), a cura di Dario Borso,
DeriveApprodi, Roma 2016, pp. 36-40, cit. p. 37.
2
È questo un itinerario teorico straordinariamente ricco. Mi limito a segnalare: Carla Lonzi,
Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Editoriale grafica,
Milano 1970; Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991;
Lea Cigarini, La politica del desiderio, Pratiche, Parma 1995. Per i temi di questo contributo
vedi anche: Rosi Braidotti, Trasposizioni. Per un’etica nomade, Sossella, Roma 2008. Cfr.
Wanda Tommasi in Interrogare il desiderio, “Diotima”, n.13, 2015 e Adriana Cavarero, La
passione della differenza, in Silvia Vegetti Finzi (a cura di), Storia delle passioni, Laterza,
Roma-Bari 1995, pp. 279-313.
16
sessi, faceva seguito una più radicale istanza di liberazione dall’orizzonte
simbolico e valoriale maschile. Le implicazioni di questo percorso di pensiero
e di azione politica si sono presto rivelate più ampie di una mera lotta per
l’eguaglianza, perché era tutta una configurazione del soggetto politico che
veniva messa in discussione attraverso una nuova e diversa centralità del
corpo, una diversa presa in carico delle tensioni che esprimono «il desiderio
di un corpo che cerca la sua immagine», un «desiderio interminabile di avere
figura»3. Del resto, nel reagire al desiderio del maschio e alla neutralizzazione
rivoluzionaria della classe, il corpo delle donne faceva da sponda ai tagli, pure
diversi, di soggettività e desideri altri che emergevano nelle lotte
antiautoritarie, anticoloniali e anticapitalistiche di quegli anni4. Una
pluralizzazione di vissuti di desiderio apparentemente irriducibile all’uno
sovrano, al comando della legge del padre, all’umanità a una dimensione del
capitale e della sua ragione strumentale. La critica dell’Edipo era quindi parte
integrante del tentativo di ripensare il soggetto politico nel quadro di relazioni
inedite tra ciò che possiamo chiamare “individuazione psichica” e
“individuazione collettiva”5. Tuttavia, questo desiderio di desiderio, tanto sul
versante della riflessione psicoanalitica, quanto su quello immediatamente
politico e sociale, doveva fare i conti col problema del limite al (del)
desiderio, e con quello della forma sociale e socializzata di questo limite.
Nel mentre il desiderio si pluralizzava, con lo scomporsi del soggetto
politico della classe, emergeva con chiarezza anche il rischio della sua
“cattura capitalistica” e del rispecchiamento nella sua dissidenza
dell’illimitatezza (e a suo modo costantemente rivoluzionaria) del godimento
capitalistico. In fondo, ancora oggi ci muoviamo all’interno di questa
dissidenza, nel suo ambiguo oscillare tra irriducibilità al comando razionale
e cattura “capitalistica” dei desideri. Con essa è necessario ancora oggi fare i
conti per intendere le trasformazioni nelle soggettivazioni politiche odierne6.
3
Adriana Cavarero, La passione della differenza, cit. p. 288 e p. 312.
Cfr. Sandro Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione,
ManifestoLibri, Roma 2014.
5
Faccio espressamente riferimento ai lavori di Gilbert Simondon, vedi: L’ind Ividuazione
psichica e collettiva, a cura di Paolo Virno, DeriveApprodi, Roma 2006 e l’edizione italiana
completa dal titolo L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, a cura
di Giovanni Carrozzini, Mimesis, Milano 2011. Cfr. Étienne Balibar, Vittorio Morfino (a
cura di), Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutamenti, Mimesis, Milano 2014.
6
Sulla cattura capitalistica del desiderio, vedi: Frédéric Lordon, Capitalismo, desiderio e
servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo, Roma, DeriveApprodi, 2015;
Federico Chicchi, Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo,
4
17
C’è quindi una storia “politica” dei desideri, che viene messa in
tensione proprio a partire dagli anni Sessanta e ci permette di interpretare non
solo il rapporto tra il pensiero politico moderno e una più ampia riflessione
sul soggetto, ma anche il senso del “post” con cui spesso descriviamo il nostro
presente. Ancora oggi, nell’epoca del tracollo dei grandi soggetti storici, al
cuore di una riflessione su ciò che ci è in comune vi è la questione del
desiderio e del suo rapporto con la politica; quindi, lo spazio dell’uomo
del/nel desiderio. In effetti, alla luce delle osservazioni di Fachinelli si
potrebbe forse sostenere che il presente ci consegna il venir meno di un certo
rapporto tra il soggetto pensante e il soggetto desiderante; da Cartesio a Freud,
è il soggetto di ragione che ha “incarnato” il desiderio e ha risposto al
problema posto dalla necessità del governo del desiderio attraverso la forma
logica del limite e della cesura. Le radici di questa posizione sono
antichissime, ma certamente è tra Rinascimento ed età moderna che si impone
la contrapposizione tra “un desiderio di ogni cosa” che è proprio di tutti gli
uomini, come modalità di relazione tra desiderio e potenza politica, e la loro
incapacità/impossibilità nello acquistare ciò che si desidera. Se il soggetto di
desiderio assume forma politica nella prima modernità a partire dallo scarto
tra la potenza desiderante e l’in/potenza nello acquistare, oggi diviene
necessaria una riflessione sul soggetto politico, sulle singolarità/moltitudini
che sappia ripensare questa frattura tra desiderio e potenza. In primo luogo,
perché le forme della riproduzione e della produzione capitalistica sembrano
fondarsi oggi proprio sulle complesse dinamiche dei desideri, sulla loro
pluralità e spinta oggettivante e acquisitiva. In secondo luogo, perché intorno
e dentro la questione del desiderio si gioca, forse, una delle partite decisive
per dare forma a soggettivazioni nuove, che possano desiderare altro e
altrimenti. In questo sforzo di ridefinizione del soggetto politico si sono però
contrapposte due traiettorie filosofico-politiche opposte. Da un lato, un
percorso che guarda alla psicoanalisi (da Freud a Lacan) e pensa il desiderio
come mancanza, e almeno nella tradizione lacaniana, come quella “mancanza
ad essere” che orienta i soggetti nella vita e nella costruzione di senso a partire
proprio da un vuoto7. Dall’altro lato, un orientamento alternativo che,
attraverso la rilettura di Machiavelli, Spinoza e Nietzsche, pensa il desiderio
Mondadori, Milano 2012; Raoul Vaneigem, Noi che desideriamo senza fine, Bollati
Boringhieri, Torino 1999.
7
Le più immediate tematizzazioni politiche di questo percorso filosofico, che gettano una
radice nella psicoanalisi di Lacan, sono Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza, RomaBari 2008 e i molti scritti di Slavoj Žižek tra i quali si veda almeno Il soggetto scabroso.
Trattato di ontologia politica, Raffaello Cortina, Milano 1999.
18
come produzione (sociale) e spinta alla creazione del mondo8. Nel primo
caso, i soggetti si formerebbero a partire dall’esperienza del limite e nel
rapporto con “la legge” e col “lavoro”; nel secondo caso, i soggetti sono
invece orientati all’autogoverno e alla messa in forma di quella “potenza”
immanente un desiderio che eccede sempre le forme sociali che esso di volta
in volta assume. In entrambi i percorsi s’instaurano relazioni differenti, con
esiti politici diversi, tra desiderio, azione, conflitto e soggettività politica.
La messa in questione del soggetto moderno, tuttavia, deve essere
innanzitutto un percorso di confronto con l’immagine del moderno nella quale
ci siamo formati9. Attraverso autori come Machiavelli, Hobbes, Spinoza e
Hegel (sicuramente nella sua ripresa kojèviana) vediamo infatti dispiegarsi la
trama novecentesca della riflessione sul desiderio nel suo rapporto con la
politica. Ma in questi stessi autori troviamo le aporie, le vie di fuga, gli scarti
teorici che ci permettono di evadere da un’immagine monolitica,
ontologizzata, del desiderio per recuperare quella dimensione dinamica,
polemica e storica, che permette di ripensare oggi il soggetto politico come
soggetto di cambiamento e trasformazione. In questo itinerario Machiavelli è
forse il primo e più utile punto di partenza.
Machiavelli, il desiderio incessante
La cesura primo moderna pone in questione l’uomo come soggetto
desiderante e il suo posto nel mondo. Non è quindi un caso che il tema del
desiderio sia uno dei temi filosofici attraverso i quali Machiavelli cerca di
offrire una risposta al problema dell’uomo e del suo rapporto con la politica.
Già nei Ghiribizzi l’uomo machiavelliano si presenta infatti come lacerato tra
le spinte dei propri desideri e i tempi dell’azione. Nella Lettera del 13-21
settembre del 1506 il segretario scriveva a Giovan Battista Soderini:
Io credo che, come la Natura ha facto ad l’huomo diverso volto, così li habbi facto
diverso ingegno et diversa fantasia. Da questo nascie che ciascuno secondo lo
ingegno et fantasia sua si governa. Et perché da l’altro canto e tempi sono varii et li
ordini delle cose sono diversi, ad colui succedono ad votum e suoi desiderii, et quello
8
Troviamo queste linee interpretative, pur variamente declinate, in una parte importante della
filosofia politica “francese” contemporanea: Louis Althusser, Gilles Deleuze e Félix
Guattari, Étienne Balibar, Michel Foucault.
9
Cfr. Camille Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Einaudi, Torino 2002.
19
è felice che riscontra el modo del procedere suo con el tempo, et quello, per opposito,
è infelice che si diversifica con le sue actioni da el tempo et da l’ordine delle cose10.
Ancora nei Discorsi egli scriverà che:
Sendo […] gli appetiti umani insaziabili, perché, avendo, dalla natura, di potere e
volere desiderare ogni cosa, e, dalla fortuna, di potere conseguitarne poche; ne risulta
una mala contentezza nelle menti umane, ed uno fastidio delle cose che si
posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i
futuri, ancora che a fare questo non fussono mossi da alcuna ragionevole cagione11.
Sono molteplici i luoghi delle opere machiavelliane in cui viene
ribadita la natura insaziabile del desiderio umano, e in cui il segretario
descrive la prostrazione (mala-contentezza) che questa mancanza determina;
innanzitutto nella forma del disequilibrio tra i tempi e i vissuti. Machiavelli
ci presenta in maniera straordinaria una condizione di malessere per cui la
presenza è vissuta come un nulla rispetto a ciò che è stato o che potrebbe
essere. Questa condizione di frattura fra l’uomo e il mondo, che precipita nel
presente dell’azione, ha una duplice radice perché l’agire è sempre
condizionato da limiti esterni al soggetto (la Fortuna, la qualità dei tempi),
così come dai suoi limiti interni (la rigidità dei temperamenti individuali, la
natura propria degli umori che danno corpo alla comunità politica, le
ambizioni). In Machiavelli i termini di appetito e desiderio possono apparire
interscambiabili, ed invece il desiderio mostra una sua relativa autonomia se
si considera che nella sua lettura gli uomini confliggono per “necessità”, ma
anche per “ambizione”12. La sua riflessione intorno agli appetiti e ai desideri
In Niccolò Machiavelli, Lettere, in Tutte le opere secondo l’edizione di Mario Martelli
(1971), Bompiani, Milano 2018, p. 2700. Sul tema machiavelliano del riscontro coi tempi,
mi limito a segnalare il recente volume di Francesco Marchesi, Riscontro Pratica politica e
congiuntura storica in Niccolò Machiavelli, Quodlibet, Macerata 2017.
11
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Libro II, proemio, in
Tutte le opere, p. 460.
12
Considerazioni analoghe, che sostituiscono il lemma appetito con desiderio in D, I-37:
«Perché, qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per
ambizione; [...] La cagione è, perché la natura ha creato gli uomini in modo, che possono
desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore
il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si
possiede, e la poca sodisfazione d’esso. Da questo nasce il variare della fortuna loro: perché,
desiderando gli uomini, parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si
10
20
degli uomini è quindi strettamente connessa al problema politico del governo
dei conflitti, delle contenzioni, degli esiti di contentezza/malacontentezza
della politica13. Il fondo epicureo e lucreziano di Machiavelli è di estrema
importanza, perché attraverso i complessi tematici che egli mutua da quelle
tradizioni il segretario apre al problema dell’ “auto-costituzione dei soggetti”,
alle pratiche di sé che attraversano il vivere politico e il governo dello stato e
che devono poter sostenere lo sforzo di realizzazione di un pieno vivere
libero14. Come ha mostrato Gianfranco Borrelli l’opera del segretario non
prefigura tanto un’antropologia, ma una «ontologia del presente collegata alla
centralità del vivere politico»15.
In quanto esseri singolari, gli uomini desiderano incessantemente.
Tuttavia, essi desiderano anche nel loro essere parti di soggetti collettivi: i
Grandi, il Popolo, la Plebe, i Mezzani. In questo incrocio tra virtù individuale
e collettiva si situa il problema del rapporto tra il desiderio e le sue
determinazioni. Determinazioni che assumono forme particolari, collettive e
aggregate, nel contesto storico. In tal senso, il desiderio individuale è sempre
anche in rapporto peculiare e storico al desiderio/ai desideri delle moltitudini.
In un suo significativo contributo proprio al rapporto tra desiderio, politica e
libertà in Machiavelli, Sebastian Torres sottolinea come Machiavelli
«approcci la questione del desiderio come fenomeno collettivo, e non a partire
da un’antropologia o da una psicologia … qui si tratta di comprendere il
desiderio come potenza (vir) o impotenza, nella misura in cui designano una
relazione e non una proprietà»16. Torres mette quindi in maggiore risalto la
dimensione trans-individuale, polemologica e storica del desiderio
machiavelliano, che non avrebbe – quindi – alcun fondo antropologico, né
viene alle inimicizie ed alla guerra; dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la
esaltazione di quell’altra», Ivi. p. 401.
13
Cfr. Gianfranco Borrelli, Machiavelli, ragion di Stato, polizia cristiana, Cronopio, Napoli
2017, pp. 19-90. Ma segnalo, per il rilievo sui temi del desiderio, anche: Il lato oscuro del
Leviatano. Hobbes contra Machiavelli, Cronopio, Napoli 2009.
14
Cfr. almeno Anthony Parel, The Machiavellian Cosmos, Yale University Press, Yale 1992.
Su Machiavelli e Lucrezio, oltre agli studi di Sergio Bertelli, vedi: Alison Brown, Machiavelli
e Lucrezio. Fortuna e libertà nella Firenze del Rinascimento, Carocci, Milano 2013 e Paul
A. Rahe, In the Shadow of Lucretius: the Epicurean Foundations of Machiavelli’s Political
Thought, “History of Political Thought”, XXVIII, 1, 2007, pp. 30-55.
15
In un bel saggio di prossima pubblicazione col titolo Politiche del desiderio: da
Machiavelli a Foucault nella rivista I Castelli di Yale on line, cui il mio contributo deve
molto e col quale direttamente dialoga.
16
Sebastian Torres, La trama politica del desiderio: Machiavelli, “Consecutio Rerum”, n.6,
2014.
21
permetterebbe di fondare eticamente la politica. Il secondo di questi due punti
mi pare indubitabile, dall’incessante desiderare degli uomini – almeno
nell’opera del segretario – non è possibile trarre alcun principio capace di
orientare universalmente l’azione dell’uomo.
Tuttavia, la riflessione machiavelliana sul desiderio è comunque
ancorata a una configurazione naturale che condiziona tanto la storicità degli
accadimenti e dei conflitti, quando le possibilità di azione dell’uomo. Questo
aspetto pone un problema teorico di rilievo: se il desiderio del popolo è
innanzitutto un desiderio in negativo (non voler esser dominati), come può
questo desiderio assumere il verso positivo della libertà17? Certamente, non
esiste in Machiavelli un desiderio di libertà inteso come elemento sostanziale,
proprio del popolo, che spinge i molti a orientare la propria vita alla virtù.
L’istanza di libertà emerge solamente da un’esigenza prima di sicurezza,
poiché il non esser dominati è in primo luogo garanzia di sé e delle proprie
cose:
Ma quanto all’altro popolare desiderio, di riavere la sua libertà, non potendo il
principe sodisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno
desiderare d’essere liberi; e troverrà che una piccola parte di loro desidera di essere
libera per comandare; tutti gli altri, che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere
sicuri18.
La libertà si rende quindi possibile solo a partire dalla
contrapposizione tra gli umori, nelle dinamiche del conflitto tra chi vuole
dominare e chi non vuole esser dominato. Il popolo desidera innanzitutto il
non esser dominato; e proprio per la caratteristica difettiva di questo desiderio
(una sorta di desiderio senza oggetto che resta attivo in permanenza perché il
godimento della libertà non implica, in fondo, il suo consumo) esso può
meglio esercitare la guardia della libertà. È quindi solo lo scorrimento dei
desideri che, confliggendo, assumono qualità differenti, a rendere possibile il
vivere libero nelle forme di buone leggi e buoni ordini19.
Su questo tema, cfr. Claude Lefort, Le Travail de l'œuvre Machiavel, Gallimard, Paris
1986.
18
Niccolò Machiavelli, Discorsi, I, 16, in Tutte le opere, pp. 361-362.
19
Un’interpretazione radicale è John P. McCormick, Machiavellian democracy, Cambridge
University Press, Cambridge 2011.
17
22
Hobbes, Spinoza e il desiderio “sovrano”
Pur partendo da un assunto simile a quello machiavelliano - l’uomo è
segnato da un «desiderio perpetuo e ininterrotto di acquisire un potere dopo
l’altro che cessa solo con la morte»20 – Hobbes ci permette di cogliere un esito
politico differente nei rapporti tra desiderio e politica. Alla spinta desiderante
– che è l’espressione di vita in quanto moto ininterrotto – si affianca la
molteplicità dei desideri attraverso cui gli uomini tendono all’appagamento e
alla felicità:
La felicità è un continuo progredire del desiderio da un oggetto ad un altro, non
essendo il conseguimento del primo che la via verso quello che vien dopo. La causa
di ciò è che l’oggetto del desiderio di un uomo non è quello di gioire una volta sola
e per un istante di tempo, ma quello di assicurarsi per sempre la via per il proprio
desiderio futuro21.
La spinta desiderante è sempre, quindi, tensione acquisitiva il cui esito
– per il conflitto a morte che essa scatena – sarà la chiusura sovrana della
politica. I fondamenti della nuova antropologia hobbesiana (in questo caso sì
che l’antropologia – intesa come parte di una scienza che si fonda su una fisica
dei corpi – ha la pretesa di fondare la politica) descrivono i principi che
orientano il moto naturale degli uomini. In quanto ragione calcolante pratica,
il sapere politico deve collocare questo moto entro un quadro definito di poteri
e di vincoli. A questa condizione lo Stato può affermarsi come un’eternità
artificiale di vita, un automa meccanico che raccoglie e porta a sintesi il
movimento delle sue singolarissime parti. La chiusura sovrana non deve,
quindi, operare nel verso del blocco totale del moto: pena la conversione della
politica in “tanato-politica”. Piuttosto, attraverso il gioco delle interdizioni
essa deve garantire che l’uomo possa rimanere il più possibile libero, ossia
“soddisfatto”: intendendo con questo termine quella condizione di
consapevole capacità di produrre poteri senza soluzioni di continuità, di
interminabile esercizio dell’attività desiderante22.
Hobbes istruisce quindi un nesso diretto tra una teoria delle passioni e
una teoria dell’oggettivazione di poteri naturali: se l’oggetto del desiderio di
un uomo non è quello di gioire una volta sola e per un istante di tempo ma
quello di assicurarsi per sempre la via per il proprio desiderio futuro, il
20
Thomas. Hobbes, Il Leviatano, I, XI, La Nuova Italia, Firenze 1991, p. 94.
Ivi, p. 93.
22
Su questi nessi, rimando ancora una volta a Gianfranco Borrelli, Hobbes contra
Machiavelli, cit.
21
23
Leviatano dovrà garantire nel tempo questi scorrimenti. Al pari di
Machiavelli anche in Hobbes l’uomo deve quindi vivere facendo
costantemente l’esperienza del limite. Tuttavia, se nel fiorentino questo limite
è almeno in parte superabile attraverso la politica e per mezzo delle dinamiche
positive dell’ambizione, in Hobbes questo limite rappresenta la misura stessa
della libertà, intesa come quella possibilità continua di oggettivazione che
nella legge del sovrano trova il suo unico freno. Una libertà, quindi, negativa
perché esprime la naturale potenza acquisitiva e oggettivante degli uomini
che operano avendo l’altro e il sovrano come limiti al proprio moto. Questa è
la ragione per cui nel Leviatano Hobbes aveva potuto paragonare, sul punto
della libertà del soggetto, il modello repubblicano all’autocrazia del Turco:
infatti, anche la libertà dei repubblicani costituisce una libertà dello Stato che
si oppone alla volontà e all’azione del singolo cittadino. Se rapportata a quella
del segretario fiorentino, la tesi hobbesiana ci porta ad un esito
apparentemente paradossale. Non è in Machiavelli che troviamo un desiderio
di libertà, un tale desiderio appare solo nell’inglese. Esso tuttavia assume una
valenza peculiare: il desiderio è una spinta (un moto) di oggettivazione che il
soggetto compie verso gli oggetti delle sue passioni e la libertà è lo spazio di
scorrimento, senza impedimenti, di questa oggettivazione. La politica assume
come punto di partenza questo desiderio e lo traduce in movimento attraverso
il gioco dei vincoli collettivi (perché sovrani) all’azione dei singoli.
A partire da Platone, e pur con modalità e implicazioni diverse in
Machiavelli e Hobbes, il desiderio è quindi descritto come una spinta
incessante e naturale verso un oggetto. Di qui si dipartono, tuttavia, due
diverse linee di analisi, laddove si ponga l’attenzione sulla spinta desiderante
(il “conato”) nella sua autonomia dall’oggetto, oppure sull’incompiutezza,
sulla mancanza che caratterizza (che muove) questa spinta. In particolare,
attraverso un confronto con la psicoanalisi, la filosofia del Novecento ha in
via prevalente commentato questo secondo itinerario, talvolta articolandolo
in una vera e propria antropologia filosofica dalla quale derivare un’etica del
limite e della finitezza da porre a fondamento della politica. In questa lettura,
è il modello platonico del kûbernau a svolgere la funzione di composizione
di quei limiti interni – razionali – al desiderio (alle passioni del desiderio) che
deve trovare un “riscontro” nei limiti esterni poste dalle ragioni e dagli
interessi del mondo. Il desiderio è quindi inteso come la spinta verso ciò che
mancanza, e la forma del governo di questo desiderio è dettata dalla “legge”
e dalla sua ragione. Tuttavia, se interroghiamo con attenzione la riflessione
del Machiavelli, essa non mostra alcuna connotazione metafisica o ontologica
del desiderio, né troviamo la definizione di un’antropologia individualistica.
24
In Hobbes, per contro, l’orizzonte metafisico si dissolve in un’antropologia
(e in una politica) razionalistica fondata su una scienza del movimento dei
corpi sostanzialmente deduttiva e nominalistica.
Tanto Machiavelli quanto Hobbes sono stati collocati in un unico
quadro filosofico-politico che compone progressivamente una modernità in
cui l’obiettivo della ragione è quello di fondare la politica sulla base di sua
specifica razionalità. Ci sono però genealogie alternative del moderno,
percorsi differenti in cui il luogo del desiderio e la sua relazione con la ragione
giungono a pensare altrimenti la politica. Si pensi al rilievo che ha assunto
una linea interpretativa “materialistica” che in autori come Althusser o
Deleuze segna un percorso che da Machiavelli non passa per Hobbes, ma
incrocia Spinoza, Nietzsche, Hegel e Marx23. In questi percorsi Spinoza è
forse l’autore centrale, sebbene interpretato a partire dal III libro dell’Etica
dedicato alla costruzione di una teoria degli affetti24. La teoria spinoziana è
nota: è nella natura di tutte le cose, e quindi anche dell’uomo, e per quanto è
in loro stesse, di perseverare nel proprio essere (prop. 6). Spinoza ribadisce
tale tesi mettendo in una strettissima relazione i concetti di sforzo, essenza e
attualità perché la spinta (conatus) attraverso la quale ogni cosa cerca
(conatur) di perseverare nel suo essere non è altro che la sua essenza attuale
(actualem essentiam) (prop. 7)25. Nello scolio alla proposizione 9, nella quale
Spinoza stabilisce che anche la mente si sforza di perseverare nel suo essere,
egli chiarisce che questo sforzo è chiamato volontà quando è nella mente, e
appetito (appetitus) quando stringe insieme mente e corpo26. In tal modo, egli
definisce una specifica relazione tra i concetti di volontà, di appetito e di
desiderio (cupidità). In effetti, “l’essenza stessa dell’uomo” non è altro che
sforzo e appetito (appetitus), uno sforzo che nominiamo volontà quando ci
riferiamo alla sola mente, o che nominiamo desiderio (cupiditas) quando
l’appetito sia unito alla coscienza di sé.
Il testo di Spinoza pone una serie enorme di difficoltà interpretative,
23
Cfr. Louis Althusser, Sul materialismo aleatorio, Unicopli, Milano 2000; Gilles Deleuze,
Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002; Antonio Negri, Il potere costituente: saggio
sulle alternative del moderno, Carnago, SugarCo 1992,
24
Sul rapporto tra desiderio e politica in Spinoza, cfr. Stefano Visentin, Il movimento della
democrazia: antropologia e politica in Spinoza, in Giuseppe Duso (a cura di), Oltre la
democrazia. Un itinerario attraverso i classici, Carocci, Milano 2004, pp. 143-156; Antonio
Negri, Spinoza. L’anomalia selvaggia, DeriveApprodi, Roma 2006, e i saggi di Étienne
Balibar raccolti in Spinoza. Il Transindividuale, Mimesis, Milano 2002.
25
Baruch Spinoza, Etica, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 103.
26
Ivi, p. 104.
25
anche solo legate alla necessità di chiarire il senso di termini come conato e
appetito. Tuttavia, la ripresa novecentesca di Spinoza nel contesto di una
riflessione sul desiderio e sulla politica opera la scelta – consapevole – di
tradurre la cupiditas spinoziana con il concetto di desiderio, da un canto
“sostanzializzandolo”, ma anche aprendolo ad altri orizzonti problematici che
ne “dinamizzano” la sostanza. In particolare, tale allargamento ha permesso
di affrontare differentemente la questione del soggetto, e in maniera più
specifica del soggetto politico, perché se la sostanza dell’umano è
innanzitutto “potenza ad essere” diviene possibile pensare il proprio
dell’uomo non attraverso la categoria di mancanza (il desiderio come la
tensione per ciò che manca), ma come potentia agendi, ossia come
autoproduzione di vita. La questione del limite si converte in quella del
governo della forma collettiva – comune – che assume la spinta naturale a
perseverare nel proprio essere attraverso il gioco delle affezioni reciproche.
In altri termini, il desiderio (conatus) è l’orizzonte di possibilità del realizzarsi
della “democrazia”, intesa non solo (e forse non tanto) come forma di
governo, ma come quel tutto assoluto che è in qualsiasi forma di governo:
espressione, quindi, del movimento proprio di qualsiasi collettività che ha in
sé una orizzontalità relazionale fatta dal gioco comune di affetti e
immaginazione27. Sebbene in Spinoza il conatus abbia una specifica natura
ontologica, espressione particolare della potentia Dei, in quanto attivo esso è
sempre forma relazionale, e lo spazio della politica è quello di rendere
possibile un convenire delle potenze singolari che nel gioco degli affetti, delle
affezioni, dell’immaginazione imitativa può rendere possibile il comune
potenziamento della vita oltre che la ricerca di una vita felice. L’immagine
deleuziana del desiderio come potenza e pienezza getta quindi le sue radici in
una specifica rilettura della potentia spinoziana, assunta come modello
ontologico di un essere che si esprime in pienezza e sovrabbondanza.
Dal desiderio con l’altro al desiderio dell’altro: da Kojève a Lacan
La ripresa di Spinoza e della sua etica del desiderio è stata per diversi
aspetti resa possibile dalla rilettura dello Hegel della Fenomenologia dello
27
Cfr. Stefano Visentin, La libertà necessaria. Teoria e pratica della democrazia in Spinoza,
ETS, Pisa 2001.
26
Spirito fatta da Alexandre Kojève nei suoi corsi parigini dal 1936 al 1939 28.
Infatti, sarà proprio il seminario del filosofo russo che porrà il desiderio quale
categoria centrale della contemporanea riflessione filosofico politica sul
soggetto29. Il “Soggetto” è infatti re-interpretato come soggetto di desiderio e
attore di un processo di pieno compimento storico. Nel solco di Hegel, Kojève
ritiene che la filosofia possa cogliere il farsi razionale della storia grazie al
metodo dialettico, ritmo essenziale del darsi dell’autocomprensione
dell’uomo. Nel suo corso egli si sofferma in maniera determinata sui momenti
della Coscienza e dell’Autocoscienza, a partire dalla rielaborazione di
concetti che segneranno la riflessione filosofico-politica dei decenni
successivi: desiderio e riconoscimento, lavoro, morte. Del resto, l’uomo è
essenzialmente autocoscienza; e la filosofia prende avvio da un’apertura al
mondo che nel filosofo russo riprende ed elabora, ma in chiave nuova, il
“cominciamento” hegeliano, per come esso è implicato nella Fenomenologia
dello Spirito. Il punto di avvio della lettura kojeviana è che l’uomo è capace
di darsi un senso solo attraverso un processo di comprensione dell’origine
dell’Io reso possibile dal linguaggio. Tuttavia, è solo da un desiderio che
l’uomo viene “richiamato a sé” nella sua condizione storica30. Infatti, se in un
primo momento la conoscenza è mera coscienza dell’oggetto, affinché
l’uomo possa diventare effettivamente presente a se stesso è necessario che
una spinta – un desiderio appunto – lo apra al mondo nel mondo. Le pagine
dedicate al desiderio sono forse quelle che più di altre hanno lasciato il segno
nei successivi tentativi della filosofia (e della psicanalisi) di cogliere la natura
dell’uomo; l’essenza dell’umano. Del resto, è lo stesso filosofo russo che
coglie la novità della sua lettura mettendo in evidenza come la teoria del
Alexandre Kojève, Introduzione alla Lettura di Hegel. Lezioni sulla “Fenomenologia dello
Spirito” tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études raccolte e pubblicate
da Raymond Queneau, a cura di Gian Franco Frigo, Adelphi, Milano 1966.
29
Cfr. Marco Filoni, Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève,
Bollati Boringhieri, Torino 2008. Sull’influenza di Kojève vedi Dominique Auffret,
Alexandre Kojève. La philosophie, l’Etat, la fin de l’Histoire, Grasset, Paris 1990;
Gwendoline Jarczyk e Pierre-Jean Labarrière, De Kojève à Hegel, Albin, Paris 1996. Vedi
anche Judith Butler, Soggetti di desiderio, Laterza, Roma-Bari 2009.
30
«L’uomo “assorbito” dall’oggetto non può essere “richiamato a sé” se non da un Desiderio:
per esempio dal desiderio di mangiare. È il Desiderio (cosciente) di un essere a costituire
quest’essere come io e a rivelarlo come tale, spingendolo a dire: “Io”. È il Desiderio a
trasformare l’Essere […] Solo nel e mediante, o meglio ancora, come “suo” Desiderio,
l’uomo si costituisce e si rivela – a sé e agli altri – come un Io, come l’Io essenzialmente
diverso dal non-Io, e radicalmente opposto al non-Io. L’Io (umano) è l’Io di un – o del Desiderio», Alexandre Kojève, Introduzione alla Fenomenologia dello Spirito, pp.17-18.
28
27
“desiderio di desiderio” non solo non esista in Hegel, ma questi non l’abbia
probabilmente mai neppure intravista. In effetti, il termine begierde appare
nella Fenomenologia dello Spirito - «L’autocoscienza […] è innanzitutto
desiderio (Begierde)»31, e in termini più determinati nell’Estetica e
nell’Enciclopedia delle Scienze Filosofiche32 “oscillando” tra le accezioni di
desiderio e di “appetizione”. Kojève scioglie a modo suo questa oscillazione
presentando il desiderio in primo luogo come appetizione (desiderio verso un
oggetto naturale mosso dall’istanza primaria della conservazione della vita)
per poi spostarlo verso un oggetto non naturale. Anzi, un tipo particolare di
oggetto che si mostra esso stesso come Desiderio, come desiderio “di un
Altro” (il desiderio antropogeno). L’attività dell’Io cosciente passa dalla
pluralità dei desideri animali, il gregge, ad un desiderio che è proprio della
natura sociale dell’uomo: «La società umana è solo in quanto insieme di
Desideri che reciprocamente si desiderano come desideri»33. Ancora, «la
storia umana è la storia dei Desideri desiderati»34. Il desiderio apre in effetti
al mondo, all’azione negatrice (ed in quanto negatività negatrice
essenzialmente trasformativa) del mondo.
Sono passaggi che segneranno il percorso filosofico e psicoanalitico
di uno dei suoi uditori, Jacques Lacan: «l’io del Desiderio è un vuoto che
riceve un contenuto positivo reale solo dall’azione negatrice che soddisfa il
Desiderio»35. Se in prima istanza il desiderio è desiderio di una cosa, in
seconda battuta questo desiderio si indirizza su un Altro ed esso diviene
“Desiderio del Desiderio dell’altro”, quindi istanza di riconoscimento. Farsi
riconoscere, tuttavia, comporta il volersi sostituire al volere desiderato dal
desiderio dell’altro. In altri termini, desiderare che «il volere che io sono o
che io rappresento sia il volere desiderato da quest’altro: voglio che egli
riconosca il mio valore come suo; voglio che mi riconosca come valore
31
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 1995, p.
265.
32
«Il desiderio (Begierde) è la forma nella quale appare l’autocoscienza, al primo grado del
proprio sviluppo. Qui, nella seconda parte della dottrina dello spirito soggettivo, il desiderio
(Begierde) non ha ancora alcun’altra determinazione che quella dell’impulso (Triebes), nella
misura in cui esso, senza essere determinato dal pensiero, è rivolto ad un oggetto esterno, nel
quale cerca soddisfazione», in Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enciclopedia delle Scienze
Filosofiche in compendio, Filosofia dello spirito, Utet, Torino 2005, § 426, Aggiunta, pp.
268-269. Anche in Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, t.I, a cura di Nikolao Merker,
Torino, Einaudi 1997.
33
Alexandre Kojève, Introduzione alla Fenomenologia di Hegel, p.20.
34
Ibidem.
35
Ivi, p. 18.
28
autonomo»36. Il desiderio di riconoscimento impone, quindi, che l’uomo si
apra alla possibilità di una lotta a morte in vista del riconoscimento. Per poter
essere pienamente uomo, questi deve rischiare la propria vita animale in
funzione del desiderio; la vita “umana” si mostra mediante questo rischio. La
molteplicità umana è quindi l’esito del contrasto tra due comportamenti
diversi (frutto di atti essenzialmente liberi che producono diseguaglianza)
attraverso i quali un uomo cede (dopo il conflitto) al desiderio dell’altro.
Kojève ritraduce, in sostanza, la dialettica hegeliana tra Signore e servo,
rappresentando i due termini come entità riconosciuta (il signore, che non
cede alla paura della morte) ed entità riconoscente (che annulla il proprio
desiderio antropogeno per garantirsi la permanenza in vita). La dialettica
signore-servo è una dialettica tra soggetti impegnati in una lotta “di puro
prestigio”, necessaria affinché la certezza soggettiva dell’Io si traduca in una
realtà oggettiva, quindi in autocoscienza reale: il riconoscimento deve
pertanto realizzarsi in una sintesi storica, in una “soppressione dialettica” di
entrambi i termini che non cede alla morte effettiva di uno di essi (perché
questa è una negazione senza autonomia, è negazione astratta). Forte del
riconoscimento guadagnatosi attraverso la lotta, e avendo asservito a sé il
servo, il Signore vedrà in esso, e nelle cose, strumenti per soddisfare il proprio
Desiderio. Nel diverso rapporto del signore e del servo con la cosa Kojève
individua quell’inversione nel loro rapportarsi che apre alla sintesi dialettica:
il signore resta vincolato nella dipendenza della cosa, il servo permane
nell’autonomia della cosa che egli trasforma mediante il lavoro: «Il signore
ha imboccato un percorso fallimentare – la verità della coscienza autonoma è
la coscienza servile»37. Il godimento della cosa nel Signore non lascia traccia
e svanisce. Al contrario, «il lavoro è un desiderio inibito, uno svanire
trattenuto; esso forma-ed-educa»38. Il servo è costretto a inibire i propri
desideri, a trascendersi lavorando. Del resto, il lavoro, benché forzato,
«affranca il Servo dall’angoscia che lo lega alla natura»39 e istituisce un
rapporto tra l’uomo e il mondo in cui la negazione negatrice si rivela
immediatamente produttrice e fa sì che l’ “Essere-per-sé” si ponga su un piano
36
Ivi, p. 21.
Ivi, p. 34.
38
Ivi, p. 38. Kojève commenta i noti passi della Fenomenologia in cui il rapporto tra il
Signore e la cosa nella forma del godimento (“un dileguare”) di contrappone al lavoro del
Servo: «Il lavoro, invece, è desiderio tenuto a freno, è un dileguare trattenuto, e ciò significa:
il lavoro forma, coltiva», Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito,
Bompiani, Milano p. 289.
39
Alexandre Kojève, Introduzione alla Fenomenologia dello Spirito, cit.,p. 40.
37
29
diverso di quello offerto in prima istanza dalla coscienza: quello
dell’autocoscienza: «L’uomo che lavora riconosce nel Mondo effettivamente
trasformato dal suo lavoro la propria opera; vi riconosce se stesso, vi vede la
propria realtà umana; vi scopre e vi rivela agli altri la realtà oggettiva della
sua umanità»40. L’uomo chiuso nella coscienza di sé, che non ha provato
l’angoscia della morte prodotta da una lotta di puro prestigio per il
riconoscimento, non può comprendere che il Mondo naturale “gli è ostile”.
Quest’uomo vuole “riformare” il Mondo, e – conclude Kojève – agirà da
conformista e non da “rivoluzionario”. Solo la soppressione dialettica del
Mondo attraverso l’attività lavorativa, forzata, del servo opera come
trasformazione (rivoluzionaria perché sintentica) – del Mondo nel suo
insieme e del Signore come suo strumento.
Il desiderio come desiderio dell’altro è la grande intuizione kojèviana
che Jacques Lacan farà propria nel percorso di revisione e aggiornamento
della psicoanalisi freudiana. Ci sono diversi Lacan che riflettono intorno al
desiderio, ma per quanto ci concerne su questo tema è decisivo quanto egli
tematizza nel Seminario VII dedicato all’etica della psicoanalisi41. In Lacan
la parte razionale dell’uomo lo mette in una relazione consapevole col mondo
costituisce una “formazione immaginaria”, frutto di una serie di
identificazioni con quelle figure che hanno segnato la nostra vita. L’Io, il
nucleo razionale dell’uomo, è ciò che Lacan indica col termine Moi mentre
col termine francese Je egli indica propriamente il soggetto dell’inconscio.
Tra queste due posizioni dell’uomo c’è una scissione che Lacan definisce con
l’espressione “soggetto barrato ($)”. Nel solco della tradizione freudiana il
desiderio è la sostanza del momento inconscio dell’uomo, e costituisce la cifra
peculiarissima e assolutamente singolare di ognuno. Il desiderio, tuttavia, è
anche altro secondo Lacan, perché esso è sempre anche in rapporto con il
nostro corpo e con una condizione di mancanza originaria che dalla
percezione corporea giunge a comporre simbolicamente la vita psichica. In
effetti, il corpo struttura le dinamiche del bisogno a partire da una mancanza
originaria segnata fisiologicamente e psichicamente già nel momento
dell’uscita (di rottura e distanza) dal ventre materno. Bisogno e desiderio sono
dunque anche espressione di questa mancanza che è, ad un tempo, corporea e
40
Ivi, p. 41.
Come introduzioni vedi: Antonio Di Ciaccia, Massimo Recalcati, Jacques Lacan,
Mondadori, Milano 2000; Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e
soggettivazione, Cortina, Milano 2012. Per una più complessa rilettura rinvio a Bruno
Moroncini, Rosanna Petrillo, L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica
di Jacques Lacan, Cronopio, Napoli 2007.
41
30
psichica. Ed è proprio il continuo tentativo dell’inconscio di ricomporre
l’unità perduta a tradurre il bisogno in desiderio che compone ciò che Lacan
chiama “domanda” e che si manifesta come la ricerca continua, da parte
dell’inconscio (attraverso una struttura però “linguistica” delle sue
espressioni) di significanti che possano colmare questa mancanza. Almeno
fino alla svolta del Seminario VII in Lacan il desiderio è in maniera prevalente
interpretato in funzione del suo carattere immaginario, e nel suo essere
vincolato narcisisticamente all’oggetto del desiderio dell’Altro. Nel nuovo
percorso di ricerca del francese, la dimensione simbolica del desiderio
precipita in un primo momento invece intorno ai processi di identificazione
“con le insegne ideali del Padre”: passaggio politicamente importante perché
pensa il desiderio non più in via prevalente in “opposizione” a, ma con la
mediazione della, Legge42. In tal modo, e proprio grazie alla mediazione
hegelo-kojeviana, il desiderio viene inscritto in un piano di soddisfazione
simbolica strettamente legata alle forme plurali del riconoscimento tra
soggetti. In un’ulteriore fase di rielaborazione, la dimensione metonimica del
riconoscimento – espressione della mancanza-a-essere – diventa però
decisiva ed apre a una dimensione più profonda dell’uomo attribuendo al
desiderio una dimensione quasi “trascendente”, esso non è più qualcosa che
appartiene al soggetto, ma è qualcosa da cui questo dipende. Il desiderio
costituisce il soggetto “assoggettandolo” a una catena significante irriducibile
e assolutamente indipendente, rendendo in tal modo impossibile “la
soddisfazione simbolica del desiderio come domanda di riconoscimento”43.
Del desiderio e della sua metafisica politica
La riflessione lacaniana sul desiderio è divenuta centrale nella
riflessione filosofico politica contemporanea, forse a dispetto delle stesse
intenzioni dello psicoanalista44, proprio perché s’inscrive in un incrocio di
42
Antonio Di Ciarcia, Massimo Recalcati, Jacques Lacan, cit., p. 166.
Ivi, p. 180.
44
Nell’osservare che gli analisti non assumo mai, in quanto tali, posizioni politiche esplicite,
Bruno Moroncini in un bel volume dal titolo Lacan Politico, Cronopio, Napoli 2014 osserva
sarcasticamente, non senza buone ragioni, che: «Restano i filosofi politici che in quanto
custodi della verità della politica non esitano a pescare fra i concetti lacaniani quelli che
appaiono, estratti a forza dal contesto in cui erano stati elaborati, i più facili da usare per
ridare fiato a ipotesi di trasformazione sociale complessiva e a nuove forme dell’egemonia»,
cit. pp. 15-16. Senza ombra di dubbio, è ciò accade col concetto di desiderio.
43
31
temi che dalla clinica – dei singoli e “della società” – giunge a definire
un’etica della psicoanalisi. La politicità del desiderio lacaniano è allora nel
suo porre in maniera radicale il problema del soggetto. Nel suo porre i
problemi della scissione costitutiva del soggetto – una scissione irriducibile
alla politica – e delle modalità di comporre il sé a partire dall’interdizione al
godimento e nella continua costituzione simbolica dell’oggetto piccolo (a).
L’etica della psicoanalisi deve fare in altri termini i conti con la parola della
legge e con l’angoscia. Se inteso letteralmente, il lemma desiderio (de-sidera)
rinvia tanto alla mancanza (come assenza “difettiva”) di un oggetto – le stelle
– quanto ad una rinuncia o a un’impossibilità. De-sidera è infatti “l’aver
cessato di contemplare gli astri a scopi augurali” perché le nubi li hanno
occultati, oppure perché abbiamo ritratto lo sguardo. L’assenza degli astri
implica il venir meno dell’orientamento all’azione ed è questa assenza che
attiva il desiderio, come ricerca di senso e con-senso. Da Machiavelli alle
riletture novecentesche di Spinoza e di Hegel il desiderio si relaziona allora
in due modi essenziali con la politica. La prima ritrova in ciò che manca al
soggetto la ragione di una spinta che – variamente interpretata come
possessiva, libidica – associa la politica alla forma istituzionale che si deve
offrire al limite del desiderio. La seconda intende il desiderio come
produzione, e quindi la libertà come capacità illimitata di produrre e
irriducibile fluire del desiderio. In questa seconda linea interpretativa la
politica è, piuttosto, determinata dalla forma che questo desiderio deve
assumere, e dagli sforzi di sottrarre propositiva questa tensione al rischio della
cattura “capitalistica”. È in quest’ottica che Gilles Deleuze e Félix Guttari
legano i rapporti di produzione e i rapporti di riproduzione all’interno di una
stessa “coppia di forze produttive”. Spinoza viene quindi utilizzato contro
Freud per sottrarre Marx alla supremazia della legge/censura:
I rapporti di produzione e i rapporti di riproduzione fanno parte della stessa coppia
delle forze produttive e delle strutture anti-produttive. Si tratta di far passare il
desiderio dalla parte dell’infrastruttura, dalla parte della produzione, mentre si farà
passare la famiglia, l’io e la persona dalla parte dell’anti-produzione. È l’unico modo
per evitare che il sessuale resti definitivamente tagliato fuori dall’economico45.
45
Gilles Deleuze, Felix Guattari, Deleuze e Guattari si spiegano in Macchine desideranti.
Capitalismo e schizofrenia, Ombre Corte, Verona 2012, pp. 19.36, cit. p. 21. Si vedano in
questo testo gli importanti riferimenti alla riflessione lacaniana sull’oggetto piccolo (a)
interpretato come “un punto di fuga”, «un sottrarsi proprio al carattere dispotico delle catene
significanti», p. 29. Nello stesso volume si veda la bella introduzione alla raccolta di Ubaldo
Fadini. Riferimento necessario è il loro L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi,
32
Inscrivere l’inconscio in uno spazio produttivo permette quindi di far
risaltare che l’inconscio è “un meccanismo” che – attraverso il desiderio “lavora” i flussi: il desiderio è produttivo nel suo dare forma “ai flussi”, ossia
ai processi di scorrimento della vita.
Il desiderio, quindi, come spinta verso un qualcosa che manca, un
vuoto che permette l’apertura di senso al mondo attraverso l’esperienza del
limite. Oppure il desiderio come produzione del mondo, per mezzo
dell’esperienza del lavoro, della generazione macchinina. Sia che si osservi il
desiderio dal punto di vista dell’oggetto (mancante o prodotto), sia che lo si
osservi invece dal suo aprire l’uomo al mondo, mi pare che nel desiderio sia
sempre implicato uno sforzo ne segna le dinamiche. In effetti, se il conato è
il conservare la propria potenza ad essere, il desiderio diviene qualcosa cui –
lacanianamente – non è possibile cedere46. In tal senso, esso resta certamente
refrattario all’identificazione conformista – di qui l’angoscia come quella
condizione di frattura radicale tra il desiderio e il reale. Allo stesso tempo,
l’esperienza del limite – che è sempre anche esperienza di un conflitto e di
una differenza – è l’occasione per l’affermarsi di un desiderio proprio, che
però siamo in grado di riconoscere solo attraverso un percorso di
autoproduzione etica. Questa duplicità, il desiderio come “mancanza” e limite
(come desiderio dell’Altro), e il desiderio come potentia agendi, un conato di
vita cui dobbiamo dare una forma, si rivela la tensione propria di un
permanente, “metastabile” e interminabile processo di individuazione
psichica e collettiva. In tal senso, interrogare Machiavelli, Hobbes, Spinoza –
mettendoli in un rapporto diretto con le loro riprese novecentesche – permette
di cogliere la necessità di non “ontologizzare” il desiderio, illudendoci che
esista un qualche soggetto originario e originale a partire dal quale “tornare”
ad un soggetto libero. Il desiderio è invece mimetico e polemico, punto di
congiunzione tra ciò che è proprio del singolo, e l’occasione in cui esso
assume una forma e entra in una relazione col “desiderio dell’Altro”. È
proprio in questa circolarità, magistralmente espressa dalla lettura kojèviana
di Hegel, che emerge la ragione della centralità che ha assunto il desiderio
nella filosofia politica contemporanea. Essa richiama a quel nesso essenziale
tra politica e etica che è implicato nello sforzo di comporre, nelle parole di
Michel Foucault, un’ontologia critica di noi stessi, un’estetica dell’esistenza.
Torino 1975, ma vedi anche Gilles Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre
Corte, Verona 2007.
46
Cfr. Massimo Recalcati, Elogio dell’inconscio. Dodici argomenti in difesa della
psicoanalisi, Mondadori, Milano 2007.
33
E con la necessità espressa da Carla Lonzi di lasciare emergere “quel soggetto
imprevisto” che ci permette di stabilire un rapporto diverso tra razionalità,
inconscio e desiderio, ma da un vissuto come “opera”. Come scrive
Gianfranco Borrelli, ciò per cui dobbiamo impegnarci oggi è di produrre
«inedite eterotopie progettate appunto dai desideri per rendere possibile il
vivere libero dei piaceri e dei corpi»47.
In una fase storica in cui il tramonto del complesso edipico sembra
lasciarci nella quotidiana esperienza dell’angoscia, l’esperienza dello
smarrimento è l’occasione entro cui si aprono spazi di libertà, tentativi di
ricercare e produrre nuove traiettorie di “desiderio”, valorizzandone la spinta
a produrre e immaginare “forme di vita” altre48. È in questi sforzi che il
desiderio richiama costantemente la politica alla necessità dell’innovazione.
Del resto, come ci ricorda Elvio Fachinelli: «Qui la sola politica che abbia un
minimo di senso liberatorio – una politica necessaria anche se può apparire
impossibile – è una politica radicale, nel senso marxiano del ‘prendere l’uomo
alla radice’»49.
47
Gianfranco Borrelli, Politiche del desiderio: da Machiavelli a Foucault, cit.
Cfr. Sigmund, Il tramonto del complesso edipico (1924), in Opere, vol.10, Bollati
Boringhieri, Torino 1989, pp. 27-33.
49
Elvio Fachinelli, Elvio Cacato, relazione al convegno “Esperienze non autoritarie nella
scuola”, ora in Al cuore delle cose, cit., p. 46.
48