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Itinerarium 29 (2021) 79, 63-72
L’ESERCIZIO SINODALE
DELLA COMMUNIO DEL POPOLO DI DIO
Piero Di PeRRi santo*
Recentemente, grazie all’impulso di papa Francesco, il tema della “sinodalità”
è tornato ad essere argomento di dibattito teologico. L’ultima modifica all’ordo del
Sinodo dei Vescovi1 promuove una partecipazione più diretta del popolo di Dio alla vita
della Chiesa, indicando l’ambito più immediato del confronto non la gerarchia bensì
la comunità cristiana locale con il suo sensus fidei. Questa particolare “rivoluzione”
che fissa il punto di partenza nel “basso”,2 arriva però ad essere non semplicemente un
accorgimento di natura “tecnica”, ma la necessaria risultante di un cammino di approfondimento ecclesiologico che affonda le sue radici nel Concilio Vaticano II.
1. La communio del popolo di Dio
Espressione della comune appartenenza a un popolo, la sinodalità è una dimensione essenziale della vita ecclesiale. Il suo esercizio non si colloca primariamente a livello di strutture (consigli, sinodi, organismi di consultazione…), anche
se non le esclude; è invece profondamente legata all’intima proprietà della chiesa
che, per sua natura, è caratterizzata da una “vita sinodale” per il fatto stesso di essere
fondata in quella NRLQǀQLDdi Padre, Figlio e Spirito Santo che è la Trinità.3
*
Docente Aggiunto di Teologia Dogmatica e Vice Direttore dell’Istituto Teologico “San Tommaso”, Messina.
1
sinoDo Dei VescoVi, Nota circa la XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 21
maggio 2021, in “L’Osservatore Romano” 161/113 (2021) 2. «Se prima il Sinodo si apriva e si chiudeva
in un tempo determinato – tre o quattro settimane – e impegnava i vescovi membri dell’assemblea, ora
si considerano maturi i tempi per una più larga partecipazione del popolo di Dio a un processo decisionale che riguarda tutta la Chiesa e tutti nella Chiesa. […] Si passerà così attraverso una fase diocesana
e una continentale – che daranno vita a due differenti Instrumentum laboris±¿QRDTXHOODFRQFOXVLYDD
livello di Chiesa universale»: Ibidem, 1.
2
«Se qualcuno pensa di fare un sinodo sulla Chiesa italiana, si deve incominciare dal basso verso
l’alto, e dall’alto verso il basso con il documento di Firenze»: FRancesco, Discorso alla Conferenza
Episcopale Italiana, 20 maggio 2019, 1; lo stesso messaggio è stato ribadito dal Papa anche durante
l’apertura dei lavori dell’ultima Assemblea Generale della CEI, il 24 maggio 2021.
3
Cfr. H. leGRanD, La sinodalità al Vaticano II e dopo il Vaticano II, in Associazione Teologica Italiana,
Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, Milano 2007, 90-92; G. anGelini, Sinodalità e forme della
coscienza credente, in Associazione Teologica Italiana, Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, 3.
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Piero DI PERRI SANTO
La sinodalità ecclesiale è, in primis, esercizio di comunione. Nella chiesa, che
vive nella forma di una comunità radunata dalla Trinità, il personale radicamento in
Cristo di ogni fedele è incoraggiamento all’edificazione reciproca e spinta profetica
per la maturazione del corpo ecclesiale. Nella dinamica della comunione, la chiesa
opera la reciprocità e la complementarità dei doni di ognuno: ciò che ogni singolo
fedele ha ricevuto come carisma dello Spirito Santo, coopera per il bene di tutti e
contribuisce alla crescita della comunità cristiana nella sua missione per il mondo,
nella linea offerta da Paolo in 1Cor 12.
Individuare il punto di partenza per parlare della sinodalità è importante. Partendo dall’aspetto “strutturale” della sinodalità, infatti, si rischia di concentrare l’attenzione su di una dimensione solo occasionale o strumentale del vissuto cristiano,
legata ad alcuni momenti e organismi specifici (quelli che, in senso stretto, sono i
“sinodi”). Operando sulle dimensioni, invece, traspare il vero volto della chiesa che,
popolo dei redenti in Cristo, vive intimamente la comunione della fede.
Ciò non esclude, comunque, che una riflessione sulla dimensione sinodale
conduca ad una ricomprensione della struttura sinodale della chiesa. Le due cose
sono fortemente legate così come la natura misterica della chiesa è connessa a quella
visibile. Dalla consapevolezza di vivere radicati in una comunità che è mistero di
comunione scaturisce «il bisogno di riunirsi, di consultarsi, di discutere e, quindi, di
decidere insieme».4
Che lo svolgersi storico della chiesa si basi su azioni “sinodali” – i Concili,
ad esempio, sono la massima espressione di esse – è evidente. Non è però altrettanto
chiaro (soprattutto nel comune sentire e nella prassi ordinaria) a chi appartenga la
soggettività della sinodalità ecclesiale; chi, ovvero, è chiamato a partecipare al cammino comune che la chiesa percorre. Ed è questo il motivo per cui una riflessione
seria sulla communio ecclesiae deve condurre ad una valutazione delle modalità con
cui essa si esprime.
Da questo punto di vista, apparentemente il Concilio non sembra essere stato
d’aiuto, poiché esso pare essersi soffermato poco sulla sinodalità;5 a uno sguardo più
attento, tuttavia, si nota che una coscienza orientata in tal senso proviene anche semplicemente dagli inviti all’ascolto reciproco, alla crescita dei carismi dei battezzati, alla
maturazione della comprensione del mistero di Cristo che si compie attraverso vie e
soggetti diversi, in relazione tra loro. Senza trascurare che, ed è questa la variante fondamentale, il Concilio ha sollecitato a pensare la chiesa come una realtà nella quale fosse
centrale la comunione, tanto degli uomini con Dio quanto degli uomini tra di loro.6
Connesso al tema della sinodalità, si pone poi l’altro grande argomento
dell’ecclesiologia conciliare, ovvero la collegialità episcopale.7 Anche questo va
4
s. Dianich, Sinodalità, in Dizionario di Ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010, 1523.
Cfr. Apostolicam Actuositatem, 26, in Enchiridion Vaticanum [EV], 1, n. 1011-1013; Christus
Dominus, 27, in EV 1, n. 646; Ad Gentes, 30, in EV 1, n. 1200.
6
Lumen Gentium [LG], 1, in EV 1, n. 284.
7
Cfr. LG 22-23, in EV 1, n. 336-341; H. LeGRanD, La sinodalità al Vaticano II e dopo il Vaticano
II, 67-70.
5
L’esercizio sinodale della communio del popolo di Dio
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ugualmente compreso in quella “sinfonia” di voci che articolano la vita della chiesa
e che consentono di vivere la comunione nella prospettiva dalla tradizione cristiana
antica, ove il cammino della comunità chiamava in causa attivamente tutti i fedeli.
Accennata già nell’assemblea di Gerusalemme degli Atti (At 15,22-35) – nella quale
le decisioni degli apostoli sono confermate dal giudizio di tutta la chiesa8 – la testimonianza di un “pensare sinodale” è presente nella comunità primitiva e tale rimane
fino allo sviluppo di una supremazia papale che si eleva sull’intero corpo ecclesiale e
che raggiungerà il culmine della sua affermazione nel Vaticano I. La nuova coscienza ecclesiologica del post-Vaticano II ha però mutato queste coordinate, orientando
la ricomprensione di una sinodalità che si declina nella vita della chiesa e che, trascendendola, diventa dialogo con il mondo e le culture esterne.
Proprio a questo tipo di sinodalità si appella la Dichiarazione di Lima del Consiglio Ecumenico delle Chiese, la quale – ponendosi come riferimento la prassi della chiesa antica e orientando lo sguardo verso una comunione ancora più ampia – auspica che
«il ministero ordinato dovrebbe essere esercitato secondo un modo personale, collegiale e comunitario. Il riconoscimento di queste tre dimensioni è soggiacente a una
raccomandazione fatta dalla prima conferenza mondiale di Fede e Costituzione a
Losanna nel 1927: “Nella costituzione della chiesa primitiva, si ritrova sia la carica
episcopale, sia i consigli dei presbiteri, sia la comunità dei fedeli. Ciascuno di questi
tre sistemi di organizzazione ecclesiastica (episcopalismo, presbiterianesimo, congregazionalismo) è stata accettata nel passato durante i secoli, ed è ancora praticata oggi
da importanti frazioni della cristianità”».9
Non è scontato allora ricordare che «la chiesa è costituita da “tutti coloro che
guardano con fede a Gesù” e sinodalità significa che ogni passo della sua missione
chiede in qualche maniera la partecipazione di tutti».10 Se questa manca, allora le
fratture inevitabilmente riappaiono, la loro conciliazione rimane lontana e la comunione non si manifesta ancora come il distintivo della chiesa di Cristo.
Senza dubbio, il rischio di passare da una sinodalità rettamente intesa ad una
forma di partecipazione ecclesiale che è democratizzazione delle strutture e della
vita della chiesa è sottile. Ratzinger lo aveva espresso chiaramente, indicando come
occorra mantenere il riferimento essenziale e insostituibile alla parola di Dio ed al
mistero sacramentale della chiesa, evitando così un’ecclesiologia ispirata a modelli
istituzionali che non hanno nulla di dissimile rispetto alle società umane11; e papa
Francesco lo ha recentemente ribadito allo stesso modo, indicando come essa non
consenta alla chiesa di diventare, in alcun modo, un “parlamento”.12
8
Cfr. s. Dianich, Sinodalità, 1523.
consiGlio ecumenico Delle chiese, Battesimo, eucaristia, ministero. Documento di Lima, II, 26,
in “Il Regno Documenti” 27 (1982) 485.
10
S. Dianich, Sinodalità, 1528.
11
Cfr. j. RatzinGeR – H. maieR, Democrazia nella chiesa, Queriniana, Brescia 2005, 10-54.
12
FRancesco, Discorso alla Curia romana, 21 dicembre 2020, in “L’Osservatore Romano” 140/294
(2020) 4.
9
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Piero DI PERRI SANTO
Ma affermare la comune partecipazione di tutti i fedeli non significa sconvolgere le distinzioni ministeriali. La sinodalità non coinvolge, infatti, i ruoli e le condizioni ecclesiali, perché essa non pretende alcuna uguaglianza funzionale. Ammetterla,
invece, significa comprendere la ricchezza della profezia della chiesa ed accogliere la
varietà dei doni che lo Spirito suscita nelle diverse forme e condizioni di vita. D’altra
parte, è vero che il sistema democratico di governo non è applicabile alla chiesa13 (rischierebbe altrimenti di connotarla al pari di altri sistemi autocratici e istituzionali) ma
è altrettanto vero che la chiesa è ben più che democrazia: essa è comunione. E come
mistero di comunione va vissuta, in una sinodalità che comprende l’interazione delle
vocazioni, e allo stesso tempo la partecipazione di ogni cristiano alla vita della chiesa.
Un discorso di questo genere non intacca neanche il problema dell’autorità
nella chiesa. Infatti, non è valida nessun’autorità senza la comunità, né viceversa; e
tuttavia, l’autorità è sempre al servizio e in funzione della comunità.14 Essa rappresenta una parte importante della vita della chiesa e teologicamente realizza l’espressione di un’azione in persona Christi capitis;15 ma questo non può assolutamente
giustificare l’esclusione della presenza e del contributo di un corpo ecclesiale il quale, applicando un retto principio di sinodalità, ne supporta e ne aiuta l’esercizio.16
Va sempre ricordato, in fondo, che il luogo di espressione dello Spirito non è
esclusivo né degli uni né degli altri fedeli, ma appartiene a tutti insieme. È infatti l’universitas fidelium a partecipare all’ufficio profetico di Cristo, ed è attraverso la fede
dei credenti che la trasmissione della divina rivelazione progredisce nella chiesa.17
L’espressione profetica di una chiesa, così, si compie attraverso un confronto e un
discernimento comunitario che prevedono il coinvolgimento della comunità cristiana nella sua totalità. Assieme a questo, è innegabile che le competenze e gli ambiti
particolari nei quali la chiesa si trova ad operare appartengono ai diversi soggetti in
maniera differenziata secondo la propria vocazione.
Le diverse prospettive, espresse nella logica della comunione e della crescita
ecclesiale, cooperano a manifestare la vitalità di una chiesa che s’interroga reciprocamente riguardo al suo collocarsi nel mondo. In questo cammino comune – gli uni
con gli altri – si manifesta la communio ecclesiae che è sempre più espressione della
sua cattolicità, strada profetica attraverso la quale i singoli passi degli uomini percorrono lo stesso sentiero, che è quello che conduce alla pienezza del regno di Dio.
13
s. Dianich, Sinodalità, 1529.
K. lehmann, Sulla legittimazione dogmatica di una democratizzazione nella chiesa, in “Concilium” 7 (1971) 475-499.
15
Cfr. LG 21, in EV 1, n 334.
16
Solo per fare un esempio di questa interazione e di come la sinodalità potrebbe contribuire all’azione di governo della chiesa, Legrand si chiede se «il coinvolgimento dei consigli presbiterali o pastoUDOLSHU¿QRGHLVLQRGLQRQVDUHEEHSDUWLFRODUPHQWHDXVSLFDELOHSHUVWDELOLUHVHQRQODterna, almeno la
OLVWDGHLFDQGLGDWLDOO¶HSLVFRSDWR"&RPHJLXVWL¿FDUHLOIDWWRFKHXQDFKLHVDQRQDEELDPDLniente da dire
sulla scelta del suo vescovo, mentre il diritto scritto prevedeva la sua elezione da parte della sua chiesa
¿QRDOª+leGRanD, La sinodalità al Vaticano II e dopo il Vaticano II, 100.
17
Cfr. LG 12, in EV 1, nn. 316-317; DV 8, in EV 1, n. 883.
14
L’esercizio sinodale della communio del popolo di Dio
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2. Prospettive di collegialità e sinodalità
I rapporti che intercorrono all’interno del popolo di Dio, perché possano essere rettamente espressione di communio, vanno vissuti inevitabilmente in dinamiche
collegiali e sinodali.18 Il sentimento della comunione o il “camminare insieme” che
afferiscono ai due atteggiamenti, infatti, sono in fondo la concretizzazione della vocazione di una comunità che, sospinta dallo Spirito Santo, realizza il dinamismo di
trasmissione della fede compiendo il suo cammino per il mondo. Riflettere sulla loro
forma implica inevitabilmente porre nella giusta collocazione l’interpretazione del
soggetto-chiesa con le sue caratteristiche – in primo luogo la comunione – e quindi
esaminare con onestà la pertinenza delle forme che esso assume e la validità delle
proprie logiche collegiali e sinodali. In caso contrario, ogni progresso compiuto in
ordine alla sola maggior comprensione delle strutture partecipative rischia di non
raggiungere nessun risultato, o peggio ancora di incoraggiare i già paventati rischi di
pretese democratiche che mal si coniugano con la forma comunionale della chiesa.
Occorre, così, custodire sempre il cardine sul popolo di Dio, per far sì che
un’adeguata comprensione della chiesa e della sua fede possa suscitare un corretto
esercizio delle funzioni di servizio ad essa e, in ultima analisi, l’espressione delle
prospettive di collegialità e sinodalità non come “possibilità” ma come il naturale
concretizzarsi della dimensione ecclesiale di comunione.
2.1. La collegialità sinodale
La collegialità è senza dubbio l’argomento più impegnativo che ha connotato
il dibattito sulla chiesa al Vaticano II.19 È noto come l’assise conciliare prendesse
avvio, già nei primissimi schemi, dall’incompiutezza della trattazione ecclesiologica
del Vaticano I che, limitandosi per necessità a trattare del primato petrino, non era
riuscita a sviluppare un’adeguata dottrina sull’episcopato. Ecco perché la costituzione Lumen Gentium, oltre ad esporre brillantemente la chiesa nel suo mistero, sembra
colmare questa lacuna, soprattutto attraverso i molteplici contributi e interventi poi
confluiti nel capitolo III del documento. Senza dubbio, ciò si realizza non senza
difficoltà (la Nota explicativa praevia di Lumen Gentium, con le sue precisazioni,
costituisce una testimonianza rilevante di queste problematiche); tuttavia i risultati
18
Questo paragrafo è sviluppato ampiamente nel nostro lavoro Ripensare la dimensione profetica
della chiesa a partire dal Concilio Vaticano II, Brescia 2018.
19
/DELEOLRJUD¿DLQPHULWRqGDYYHURDPSLD3XzHVVHUHXWLOHIDUULIHULPHQWRD8betti, La dottrina
sull’episcopato del Concilio Vaticano II, Antonianum, Roma 1984; Y. conGaR (ed.), La collégialité
épiscopale, histoire et théologie, Ed. du Cerf, Paris 1952; R. la DelFa (ed.), Primato e collegialità:
“Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese”, Città Nuova, Roma 2008; D. Vitali, Verso la Sinodalità, Sequela oggi, Magnano 2014, 13-34; F. coccoPalmeRio, La collegialità episcopale, in “Revue
Catholique Internationale Communio” 44 (1973) 125-132; H.W.M. RikhoF, Il Vaticano II e la collegialità episcopale, in “Concilium” 4 (1990) 22-37.
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Piero DI PERRI SANTO
possono ritenersi soddisfacenti poiché, oltre a fornire alla dottrina dell’episcopato un
solido fondamento teologico, recuperano tutta l’importanza del collegio dei vescovi
e della sua autorità nella chiesa.
La dottrina della collegialità riceve, nel numero 22 della costituzione, la sua
definizione in termini tali da farne ben più che un’indicazione “tecnica”:
«Il romano pontefice successore di Pietro e i vescovi successori degli apostoli sono
congiunti fra di loro. […] L’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli
apostoli nel magistero e nel governo, anzi, che perpetua senza interruzioni il corpo
apostolico, è pure, insieme col romano pontefice suo capo, e mai senza questo capo,
soggetto di piena e suprema potestà su tutta la chiesa: potestà che non può però essere
esercitata se non col consenso del romano pontefice».20
Leggendo attentamente tra le righe del paragrafo, si può chiaramente notare
che il concetto di collegialità non è utilizzato per descrivere unicamente l’esercizio
congiunto dell’autorità gerarchica della chiesa o il suo servizio al munus petrinum,
come se esso fosse un dato caratterizzante i rapporti stabiliti tra i singoli vescovi o tra
il collegio degli apostoli e il successore di Pietro. Una tale comprensione rimarrebbe
parziale e potrebbe arenarsi su di un piano di mera solidarietà funzionale. Invece, molto più significativamente (e a definire ancora meglio il senso pieno della collegialità
episcopale) l’eloquenza e l’autorità del collegio degli apostoli vengono attinti dal fatto
che esso esprime propriamente la catholica della chiesa. Infatti qualsiasi vescovo – nonostante venga “personalmente” incorporato al collegio per mezzo della consacrazione
sacramentale e la comunione gerarchica col papa21 – in seno al collegio non rappresenta principalmente se stesso ma la porzione particolare di popolo di Dio a lui affidata:
«Questo collegio, in quanto composto di molti, sta ad esprimere la varietà e l’universalità del popolo di Dio; in quanto raccolto sotto un solo capo, sta ad esprimere l’unità
del gregge di Cristo. In esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, godono di un potere che è loro proprio, per il bene dei loro fedeli,
anzi per il bene di tutta la chiesa, di cui lo Spirito Santo consolida continuamente la
sua struttura organica e la concordia».22
Con questo analogato, la Lumen Gentium rintraccia nella collegialità la via
preferenziale per superare le contraddizioni e mettere in relazione le chiese locali
con la chiesa universale: infatti, «i singoli vescovi rappresentano la propria chiesa,
mentre tutti, insieme col papa, rappresentano la chiesa intera nel vincolo della pace,
dell’amore e dell’unità».23
20
LG 22, in EV 1, nn. 336-337.
«Membrum Corporis episcopalis aliquis constituitur vi sacramentalis consecrationis et hierarchica communione cum Collegii Capite atque membris»: LG 22, in EV 1, n. 336.
22
LG 22, in EV 1, n. 337.
23
«Singuli Episcopi suam Ecclesiam, omnes autem simul cum Papa totam Ecclesiam repraesentant in vinculo pacis, amoris et unitatis»: LG 23, in EV 1, n. 338. È giusto annotare, a questo punto,
ODTXHVWLRQHSHUQXOODSDFL¿FDGHOODVLWXD]LRQHGHLYHVFRYLQRQUHVLGHQ]LDOLLQVHQRDOFROOHJLRVHOD
21
L’esercizio sinodale della communio del popolo di Dio
69
Appare significativo che, nonostante la forma collegiale contribuisca a rafforzare l’idea di un “corpo” ben compatto e concorde che presiede alla guida della chiesa, la presentazione della collegialità offerta nella costituzione non si concentri tanto
su un possibile progresso del munus gubernandi della gerarchia, quanto piuttosto si
proietti al bonum fidelium di ogni comunità particolare, che proprio nella collegialità
può estendersi fino a diventare bene di tutta la chiesa. Il “potere” dei vescovi — dice
infatti il testo — se esercitato entro i limiti della comunione episcopale e dell’autorità del papa, acquista una considerevole utilità «per il bene dei loro fedeli, anzi per
il bene di tutta la chiesa».24
Specificando tale intenzione, la costituzione ribadisce implicitamente che la
funzione collegiale va interpretata in primis come forma di servizio al popolo di Dio,
e che un esercizio così collegiale dell’ufficio episcopale può certamente porgere un
contributo utile all’edificazione della comunità cristiana, a quell’RLNRGRPƝdi matrice paolina che realizza una delle principali funzioni della profezia cristiana.25 Non
solo. Ne consegue anche che la giusta attuazione della collegialità episcopale — attraverso quelle forme che la teologia e il diritto suggeriscono — permette di manifestare una chiesa universale che esprime realmente la vitalità profetica delle chiese
particolari, contribuendo convenientemente e collegialmente nella crescita della fede
dei christifideles che le compongono. Avviene, così, che la communio hierarchica
è causata naturalmente dalla felice composizione della communio ecclesiarum, e
si attua in tal modo quella communio fidelium in grado di manifestare in pienezza
l’universalità della chiesa.
2.2. La sinodalità ecclesiale
Tutto ciò impone di introdurre, senza nessuna forzatura, il secondo termine di
confronto: la sinodalità. Non può esserci vera collegialità se essa non si realizza a
partire da un esercizio corretto della sinodalità. Se ogni vescovo, infatti, nel collegio
rappresenta la sua chiesa e non primariamente se stesso, esso è chiamato a farlo in
maniera sinodale, servendosi appunto di quegli strumenti che lo aiutano nel conoscere opportunamente la porzione di popolo di Dio a lui affidata.
La sinodalità, come la collegialità, non va ritenuta una forma semplicemente
affettiva di comunione ecclesiale. Essa attiene all’intimità della comunità cristiana,
alla profondità del suo credere: il “cammino comune” (syn-hodos) che la sinodali-
struttura collegiale si comprende in funzione della comunità cristiana (e non principalmente del papato)
e l’ecclesia universalis SXzWURYDUHXQDVLJQL¿FDWLYLWjQRWHYROHa partire dal vissuto delle chiese locali,
l’incorporazione nel collegio apostolico di vescovi che praticamente non sono a servizio di una comuQLWjORFDOHGRYUHEEHDOPHQRUDSSUHVHQWDUHO¶RFFDVLRQHSHUXQDULÀHVVLRQHWHRORJLFDDGHJXDWD&IUDWDO
proposito H. leGRanD, La sinodalità al Vaticano II e dopo il Vaticano II, 83-84.
24
©,QERQXP¿GHOLXPVXRUXPLPPRWRWLXV(FFOHVLDHª/*LQ(9Q
25
Cfr. O. michelȠȚțȠįȠȝȑȦLQ*.LWWHO±*)ULHGULFK HGG Grande lessico del Nuovo Testamento, Vol. VIII, Paideia. Brescia 1972, 391-393.
70
Piero DI PERRI SANTO
tà intende esprimere, infatti, ripercorre quel cammino di fede tracciato dal popolo
di Dio in-viato, quel pellegrinaggio che compie la chiesa nel suo credere, amare e
sperare.26 Quando il popolo di Dio con la sua fede è posto al centro, la funzione di
ascolto del sensus fidei che da esso proviene è per ogni pastore una necessità, utile
poi a discernere collegialmente e fornire gli strumenti più adatti per la crescita nella
fede. È per questo che le due forme di esercizio magisteriale, collegiale e sinodale,
vanno declinate insieme.
A tal riguardo, papa Francesco ha ricordato proprio ai vescovi che «il
cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla chiesa del terzo
Millennio»;27 e nell’affermare ciò, egli indica come elemento fondamentale per un
vero processo di sinodalità ecclesiale l’“ascolto” interessato e reciproco: ascolto
del popolo, del collegio, del vescovo di Roma e tutti insieme dello Spirito Santo
che è l’unica e autentica guida della chiesa. Per questo motivo, «il cammino sinodale inizia ascoltando il popolo, che “pure partecipa alla funzione profetica di Cristo”, secondo un principio caro alla chiesa del primo Millennio: quod omnes tangit
ab omnibus tractari debet»; prosegue ascoltando i pastori, che «agiscono come
autentici custodi, interpreti e testimoni della fede di tutta la chiesa»; e «culmina
nell’ascolto del vescovo di Roma, chiamato a pronunciarsi come “pastore e dottore
di tutti i cristiani” non a partire dalle sue personali convinzioni, ma come supremo
testimone della fides totius Ecclesiae».28 Se l’origine è collocata nella fede della
chiesa, non meno importanza viene assegnata al ministero dei pastori — che agiscono interpretando e testimoniando la medesima fede della chiesa — e la stessa
missione petrina è qualificata nella prospettiva della somma testimonianza della
fides totius ecclesiae. È chiaro, quindi, che tutto il processo sinodale ruota intorno
alla fede ecclesiale e non può prescindere da essa. Lo stesso metodo – l’ascolto –
presuppone una fonte dalla quale si origina un messaggio, che anche in questo caso
resta stabile nel popolo e nello Spirito Santo, o ancora meglio nel popolo di Dio in
ascolto della rivelazione.
A partire da tali annotazioni, appare quantomeno evidente che la sinodalità, come
modalità di intendere la chiesa, presenta oggi l’esigenza di ricevere ulteriori e urgenti sviluppi, soprattutto in termini attuativi. Colmando le lacune (inevitabili) dell’assise
1DWXUDOPHQWHODVLQRGDOLWjQRQVLJLXVWL¿FDVROWDQWRDSDUWLUHGDXQ¶HVLJHQ]DGHOSRSRORGL'LR
prima ancora che dal basso, essa trova fondamento nella comunione ecclesiale che è riverbero della
NRLQǀQLDtrinitaria (cfr. LG 2-4, in EV 1, nn. 285-287) e può essere spiegata teologicamente anche in
prospettiva sacramentale, avendo come orizzonte la sinassi eucaristica. Può essere utile confrontare
per questi temi: associazione teoloGica italiana, Chiesa e sinodalità, con i contribuiti di G. Ruggieri:
155-159 e C. Militello: 338-342; commissione mista inteRnazionale PeR il DialoGo teoloGico tRa la
chiesa cattolica Romana e la chiesa oRtoDossa, Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della
natura sacramentale della Chiesa, 8-14 ottobre 2007, soprattutto i nn. 5-11, in “Il Regno Documenti”
21 (2007) 708-714; per una lettura critica di questi approcci, cfr. G. canobbio, Sulla Sinodalità, in Teologia 41 (2016) 265-267.
27
FRancesco, Discorso, 17 ottobre 2015, in “L’Osservatore Romano” 155/238 (2015) 4.
28
Cfr. Ibidem.
26
L’esercizio sinodale della communio del popolo di Dio
71
conciliare,29 i cinquant’anni del post-Concilio sembrano aver accelerato notevolmente
la riflessione su di una chiesa sinodale: così l’accresciuta sensibilità sulla partecipazione attiva dei battezzati nella vita della chiesa (connessa allo sviluppo della teologia del
laicato), l’approfondimento operato sulla chiesa come mistero di comunione, insieme
con i progressi compiuti, anche in ambito sociale, sui diritti-doveri partecipativi nelle responsabilità di una comunità (con gli inevitabili riflessi a livello ecclesiale), impongono
oggi un ripensamento della sinodalità come forma essendi della chiesa, e quindi – solo a
partire da questa – della forma vivendi di una comunità strutturata sinodalmente.30
3. Strutture che esprimono comunione
Tutto ciò è necessario affinché si possa realmente “pensare” la chiesa come
una realtà molteplice, arricchita di vari carismi e strutturata nei ministeri, ma comunque un soggetto dinamico che esiste nella forma itinerante del nuovo popolo di Dio
e che vive profeticamente la sua fede. Diversamente, se le forme di partecipazione
continuano a rimanere un contributo possibile (ma non necessario) all’esercizio della
missione gerarchica, si corre il grave rischio di non manifestare realmente e in pienezza la natura comunionale della chiesa, ovvero di non dare alla profezia ecclesiale
gli spazi adeguati per esprimersi.31
Relativamente a queste ultime forme di partecipazione, il lavoro di studio e
approfondimento è ancora ampio ed esigente. In primo luogo, poiché si tratta di
valutare e riformare le strutture già esistenti affinché corrispondano in modo pertinente alle esigenze di collegialità e sinodalità della chiesa. Potrebbe avvenire così,
per esempio, per il Sinodo dei Vescovi, che – anche in funzione delle modifiche
recentemente introdotte – potrebbe costituire realmente un luogo nel quale l’ascolto
della profezia ecclesiale si rende realmente concreto. Non a caso, è sempre papa
Francesco ad affermare che «il Sinodo dei Vescovi, rappresentando l’episcopato cattolico, diventa espressione della collegialità episcopale all’interno di una chiesa tutta
sinodale».32 Due parole, collegialità episcopale e chiesa sinodale, che insieme indicano bene la natura della chiesa.
Ma affinché l’articolazione della collegialità e della sinodalità della chiesa
non si esaurisca a livello di organismi gerarchici, è ancora più importante che esse
29
Il termine “sinodalità” non ricorre nei testi conciliari, mentre il corrispettivo “sinodo” non riceve
XQDFKLDUDGH¿QL]LRQHHYLHQHSUHVVRFKpXWLOL]]DWRFRPHVLQRQLPRGL³&RQFLOLR´FIU;ochoa, Index
verborum cum documentis Concilii Vaticani Secundi, Institutum Iuridicum Claretianum, Roma 1967,
484-485. A proposito della mancanza di un dibattito sulla sinodalità al Vaticano II e nel post-Concilio,
cfr. H. leGRanD, La sinodalità al Vaticano II e dopo il Vaticano II, 67-108.
30
Circa la rilevanza dei processi culturali e sociali nella comprensione della sinodalità della chiesa,
cfr. G. canobbio, Sulla Sinodalità, in “Teologia” 41 (2016) 249-267.
31
Cfr. H. leGRanD, Collégialité des évêques et communion des églises dans la réception de Vatican
II, in « Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques» 75 (1991) 555-560.
32
FRancesco, Discorso, 17 ottobre 2015, 5.
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Piero DI PERRI SANTO
siano declinate opportunamente nel vissuto ecclesiale, a partire dai contesti più vicini delle chiese locali. È dalla base, infatti, che occorre avviare l’ascolto: quanto
più esso sarà presente nel rapporto tra un pastore, i suoi collaboratori e la porzione
di popolo di Dio a lui affidata, tanto più sarà possibile, nella comunione del collegio con il successore di Pietro, un’attività di discernimento che traduce realmente i
bisogni della chiesa universale. È lo stesso esercizio della funzione episcopale ad
imporre questa relazione: infatti, «vi è una sorta di circolarità tra quanto il vescovo è
chiamato a decidere con responsabilità personale per il bene della chiesa affidata alla
sua cura e l’apporto che i fedeli gli possono offrire attraverso gli organi consultivi»;
ancor più precisamente, «la chiesa particolare, infatti, non dice riferimento soltanto
al triplice ministero episcopale, ma anche alla triplice funzione profetica, sacerdotale
e regale dell’intero popolo di Dio».33 La funzione pastorale del vescovo interagisce
così strettamente con l’esercizio del triplice munus del popolo, che se viene meno la
relazione di ascolto reciproco essa manca di una condizione fondamentale.
Nell’utilizzo sapiente ed equilibrato della “collegialità intermedia” e della “sinodalità intermedia” – nei contesti continentali, nazionali, regionali, provinciali – si
può cogliere, quindi, un’opportunità per discernere il sensus fidei populi Dei e pervenire a un giudizio più sereno ed equilibrato sulla sua genuinità. Certo, la “collegialità
intermedia” non va mai considerata collegialità in senso stretto e assoluto, poiché
reca con sé il limite rappresentato dai soggetti coinvolti o dalla parzialità che rende il
vissuto di fede di una determinata comunità talvolta condizionato dai contesti locali
e culturali; e parimenti la “sinodalità intermedia” di una chiesa particolare non può
costituire immediatamente il patrimonio di fede di un popolo per il semplice fatto
di raccogliere insieme le credenze di tutte e singole le comunità interpellate. Tuttavia, se già tale coscienza trovasse adeguata applicazione nella vita e nella forma di
una comunità locale, si potrebbe ancora più facilmente pervenire a rintracciare nelle
strutture della chiesa universale i luoghi più significativi per il discernimento e il
sostegno della profezia ecclesiale.
33
GioVanni Paolo II, Pastores gregis, 16 ottobre 2003, 44, in EV 22, n. 836.