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Lidia Capo Riccardo di San Germano DBI 87 2016

ster e notarius, fu presentato a Federico II, che rientrava nel Regno dopo l'incoronazione imperiale e che li assunse al proprio servizio: Giovanni lavorò nella Cancelleria centrale, attestato tra l'aprile del 1221 e il 3 maggio 1240 (Chronica, p. VIII n. 3), Riccardo invece nell'amministrazione finanziaria. Di questa sua attività la documentazione è saltuaria, ma sembra che la sua base normale di lavoro fosse San Germano. Nel 1222 ebbe l'incarico di distribuire la nuova moneta della zecca di Brindisi negli attuali Abruzzo e Molise, e di stabilire il valore delle varie merci insieme a giudici e uomini probi del luogo (pp. 103-106). Nel 1223, 1228 e 1229 rogava documenti a Cassino, che provano la sua presenza nella Terra S. Benedicti nel periodo dell'invasione da parte dell'esercito papale, che descrive con precisione e calore nella sua seconda cronaca. Dai dati biografici si ricavano alcuni elementi utili per la comprensione della sua opera di cronista: la provenienza da un'area del Regno di particolare importanza storica e culturale; l'origine da una famiglia di qualche rilievo sociale, in grado di stimare gli studi e farli compiere ai figli; la formazione tutta precedente l'incontro, in età matura, con Federico II; l'apprezzamento della sua persona e della sua istruzione da parte del sovrano, che del resto utilizzò per la costruzione del suo sistema di governo molti uomini di analoga provenienza sociale e culturale, e che promosse la crescita di questo stesso ceto con la fondazione nel 1224 dello Studium di Napoli (che la prima cronaca ricorda, così come parla poi della sua «rifondazione» nel 1234, dopo che per la discordia con il papa e l'invasione del Regno era andato penitus dissolutum: cfr. Chronica, p. 189). Questo incontro non rivoluzionò la vita di Riccardo,

RICCARDO da S. Germano di Lidia Capo - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2016) RICCARDO da S. Germano. – Nacque a San Germano (Cassino) verso il 1165. Dal 1186 al 1232 è attestato come notaio pubblico nella sua area e per l’abbazia di Montecassino, dove probabilmente si formò. Dal 1214 si dice magister, forse dopo un perfezionamento di studi a Roma (C.A. Garufi, Prefazione, in Chronica, 1937-1938, pp. VI-XI: edizione da cui si cita). Nel 1215 accompagnò l’abate Stefano al IV Concilio Lateranense (Chronica, p. 62); forse nel dicembre del 1220, con il fratello Giovanni, pure magister e notarius, fu presentato a Federico II, che rientrava nel Regno dopo l’incoronazione imperiale e che li assunse al proprio servizio: Giovanni lavorò nella Cancelleria centrale, attestato tra l’aprile del 1221 e il 3 maggio 1240 (Chronica, p. VIII n. 3), Riccardo invece nell’amministrazione finanziaria. Di questa sua attività la documentazione è saltuaria, ma sembra che la sua base normale di lavoro fosse San Germano. Nel 1222 ebbe l’incarico di distribuire la nuova moneta della zecca di Brindisi negli attuali Abruzzo e Molise, e di stabilire il valore delle varie merci insieme a giudici e uomini probi del luogo (pp. 103-106). Nel 1223, 1228 e 1229 rogava documenti a Cassino, che provano la sua presenza nella Terra S. Benedicti nel periodo dell’invasione da parte dell’esercito papale, che descrive con precisione e calore nella sua seconda cronaca. Dai dati biografici si ricavano alcuni elementi utili per la comprensione della sua opera di cronista: la provenienza da un’area del Regno di particolare importanza storica e culturale; l’origine da una famiglia di qualche rilievo sociale, in grado di stimare gli studi e farli compiere ai figli; la formazione tutta precedente l’incontro, in età matura, con Federico II; l’apprezzamento della sua persona e della sua istruzione da parte del sovrano, che del resto utilizzò per la costruzione del suo sistema di governo molti uomini di analoga provenienza sociale e culturale, e che promosse la crescita di questo stesso ceto con la fondazione nel 1224 dello Studium di Napoli (che la prima cronaca ricorda, così come parla poi della sua «rifondazione» nel 1234, dopo che per la discordia con il papa e l’invasione del Regno era andato penitus dissolutum: cfr. Chronica, p. 189). Questo incontro non rivoluzionò la vita di Riccardo, che non fece una carriera importante, non fu mai troppo vicino al sovrano e svolse la sua attività soprattutto nella propria zona di origine; dovette però dargli migliori possibilità di informazione, una maggiore familiarità con le attività di governo, che seguì in modo costante e su cui raccolse una documentazione molto ricca, e un interesse più vivo e competente per i fatti pubblici. Egli fu comunque per molti anni testimone e partecipe di eventi significativi, di cui diede conto nelle due cronache che a suo nome ci sono tramandate (in sostanza due redazioni diverse e successive dello stesso scritto). La prima, scoperta da Gaudenzi, è conservata in un codice del XIV-XV secolo (Bologna, Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, ms. a. 144), testimone unico anche di un altro testo importante della stessa epoca e zona, la Chronica di S. Maria di Ferraria, in Terra di Lavoro. Il testo di Riccardo si interrompe a metà della trascrizione di una lettera di Federico a Onorio III (primavera del 1226), e non sappiamo con certezza fin dove arrivasse. Questa prima redazione gli fu richiesta dall’abate Stefano (1215-27), ed è improbabile che Riccardo abbia proseguito questo scritto oltre la morte di chi glielo aveva chiesto (luglio 1227). Il testo inizia con la visita a Montecassino di Innocenzo III (il personaggio che ha maggiore spicco) nel 1208, cioè più o meno dove si arresta (1212) l’ultimo tratto della cronachistica cassinese (gli Annales Casinenses, a cura di G.H. Pertz, in MGH, Scriptores, XIX, Hannoverae 1866, pp. 303-320), e inserisce documenti, come molta storiografia monastica. Però non vuole essere una storia dell’abbazia, pur inserita nella vasta rete dei suoi rapporti, bensì, come è detto nel prologo, una relazione dei fatti che «ubique terrarum et presertim in Regno vario cursu temporum successere» (Chronica, p. 25): in effetti l’orizzonte abbraccia l’intera Cristianità, soprattutto nei suoi fronti di attrito con il mondo musulmano, in Terrasanta e in Spagna (un tema ben presente anche nella seconda cronaca). Per tracciare questo quadro, Riccardo si serve di molti documenti, che di norma trascrive (a differenza di quanto farà nell’altra redazione, ove i documenti sono solo regestati, peraltro con efficacia), e che riguardano non tanto l’abbazia (attore abbastanza secondario, ricordata spesso solo per le accoglienze, sempre onorevoli e costose, date ai grandi ospiti di passaggio), quanto il mondo intero, e sono in buona parte lettere spedite o ricevute dalla Cancelleria papale, che è per lungo tratto la fonte principale della sua informazione scritta. Questa è dunque di alto livello, presuppone rapporti con la Curia romana e rende possibile l’ipotesi (Zabbia, 1997, pp. 84-86) che il testo avesse una finalità secondaria di raccolta di exempla di ars dictaminis, per cui Cassino aveva una notevole tradizione di studi. A partire dal ritorno in Italia di Federico (1212), questi diventa la sua principale fonte, e si determina una sostanziale modifica nelle tipologie documentarie valorizzate (che sono ora atti pubblici e normativi spesso di grande rilievo, recepiti per lo più – e talvolta letti – a San Germano, e dunque di per sé prova di un rapporto tra il centro e le periferie del Regno). A questi documenti si affianca l’esposizione dell’effettiva, concreta e capillare azione di governo dell’imperatore, impegnato nel riordino del Regno. Quando la prima cronaca si interrompe ha quindi trovato un nuovo protagonista e un nuovo centro: il re e il Regno di Sicilia. La stesura della seconda redazione occupò Riccardo dalla fine del terzo decennio del secolo alla morte. Per questo periodo disponiamo di una serie piuttosto fitta di informazioni sui suoi movimenti. Il 17 ottobre 1239 è al campo dell’imperatore presso Milano, dove chiede giustizia contro un chierico, entrato a forza in una terra che possedeva con il fratello (Il Registro, 2002, I, n. 110, pp. 90 s.). Nel marzo del 1240 è incaricato di negoziare un mutuo di 2000 once con i mercatores di Roma e poi rimborsarlo facendosi consegnare la cifra dal giustiziere di Terra di Lavoro sulla colletta dell’anno (II, nn. 730 e 756, pp. 640-643, 680 s.). Il compito fu assolto prontamente, come risulta da una lettera del mese successivo (n. 839, pp. 748-750). È possibile, poiché non conosciamo suoi omonimi, che, nonostante l’età avanzata, sia lui il Riccardo di San Germano, forse camerario d’Abruzzo, cui Federico, nel febbraio del 1242, ordinò di provvedere alla famiglia del defunto Gentile di Pendencia (Acta Imperii inedita, 1880, I, n. 888, p. 676). L’ultimo documento su di lui è un suo carme, in cui descrive un’improvvisa malattia che lo colpì il 31 luglio 1242 (secondo Garufi, che ne trova conferma nel manoscritto autografo, il Cas. RR. 507, vergato per la seconda parte dell’anno in scrittura malferma: cfr. pp. L-LIV). Quest’esperienza gli suggerì riflessioni sulla vita che inviò ai monaci di Cassino, in un testo dal linguaggio fittamente scritturale (il carme è tradito a sé, nel ms. Cassinese 342, ed è nell’edizione di Georg Heinrich Pertz, Prefazione, in Chronica, pp. 384-386; C.A. Garufi, Prefazione, cit., pp. L-LIV). Da esso sappiamo che aveva una figlia naturale (carior mihi quam campi lilia), che legittimò allora sposandone la madre. La seconda cronaca inizia con il 1189. Le informazioni su questo più antico periodo presuppongono notizie scritte, che non risalgono in genere a fonti a noi note: non è da escludere che Riccardo stesso ‒ che nel 1189 era sui venticinque anni e già notaio ‒ avesse fin da allora preso appunti sui fatti del Regno, in un’epoca tormentata che giudica molto severamente. Nel prologo, del resto, l’autore si assume per intero la responsabilità dell’iniziativa di scrivere e rivendica la sua autonoma scelta della materia: «ego Ryccardus de Sancto Germano notans notanda Notarius», dove ‘notaio’ non rimanda a un discorso di autenticità, ma alla capacità di notare e annotare le cose degne di essere ricordate (Chronica, p. 3). Il secondo prologo riprende molti concetti essenziali dal primo. Uguali sono l’ambito delle notizie, l’impegno a seguire la verità e a farsi testimone del presente, la finalità di lasciare ai posteri non solo una memoria, ma una lezione: una lezione che era però lì di mutabilità delle cose del mondo, e che è invece ora di saggezza e fermezza umane, e anche di speranza (il prologo fu forse scritto dopo la pace di San Germano): «ut ex hiis discat futura posteritas varios esse temporum cursus, memineritque prudenter bellum in pace timere, et pacem iterum sperare, post bellum» (ibid.). Ma in questa seconda redazione appare una nuova profondità del tempo, necessaria a intendere la lezione della storia: Riccardo, prima di passare all’annotazione contemporanea, si assegna infatti una funzione di interprete, dando al suo testo un inizio che mette in chiaro l’oggetto essenziale della sua riflessione, che è il Regno, e sceglie per questo la morte di Guglielmo II, il modello ideale di re che proprio l’età federiciana amò presentare ‒ o forgiare ‒, riconnettendo alla sua figura il presente (Zabbia, 1997, pp. 81-83). Riccardo esalta il modello, ma traccia un quadro della realtà molto dissonante: consiglieri regi in rivalità tra loro e disposti a ipotecare il futuro del Regno per odio reciproco, eccesso di poteri dei comites, troppo superbi per sottomettersi a un re, egoismi e prepotenza di quanti posseggono una qualche forza – compreso l’abate di Montecassino –, che si combattono l’un l’altro per assicurarsi tutto ciò che possono a spese di una popolazione depredata e violentata, sottoposta ad assedi e ruberie. In pagine molto tese, in cui Riccardo esprime con durezza il proprio giudizio su ciascuno, la lezione del passato è chiara: Enrico VI non è un santo e i suoi tedeschi sono tra tutti i peggiori, ma la colpa prima della situazione terribile di quegli anni non è loro, ma di chi ha considerato il Regno come un bene privato e di chi ha permesso che queste spinte centrifughe si creassero e si rafforzassero (Chronica, pp. 425, in partic. pp. 5 s., sui potentissimi consiglieri del re, e pp. 8 s., sulle responsabilità dei conti). La soluzione a questi problemi (dopo un intervento di Innocenzo III nel 1208, con alcune disposizioni che sono l’unico documento trascritto assente nella prima cronaca) verrà portata appunto da Federico, che, al suo rientro, curerà con visione lucida e mano ferma proprio i mali individuati da Riccardo, esercitando un controllo generale su ogni livello della vita pubblica, per l’interesse comune e il vantaggio concreto di ogni suddito (in questo senso vanno anche le leggi trascelte dalle Costituzioni di Melfi: Chronica, pp. 177-180). E assicura il rispetto e l’inviolabilità del Regno, come mostra l’azione tempestiva ed efficace contro l’esercito papale. Federico, così presentato e interpretato, appare come il modello reale, non ideale, di re, quello per cui uno scrittore non potente, non cortigiano, non attratto dal colore e dalle individualità (niente c’è su Federico come persona), e del tutto autonomo nella sua vocazione storiografica, può scrivere con convinzione una relazione storica che suscita nel lettore un’impressione assai simile a quella data dal registro imperiale, in cui il sovrano è sempre in scena, attivo in ogni campo della vita pubblica, in rapporto con ogni parte del Regno, centro e cuore di una realtà politica che è un sistema ordinato e razionale, di cui Riccardo con orgoglio si afferma filius. È probabile che un’ulteriore spinta a riscrivere la cronaca con un più preciso orientamento sia venuta a Riccardo dalla riflessione, imposta dai fatti, sulla più vasta storia di cui il Regno è parte, soprattutto perché il suo re è anche imperatore. Dell’importanza della funzione di questi, capo laico di una cristianità sentita come un corpo vivo, il cronista è convinto; e pure in questo Federico gli appare efficace: impegnato nella crociata, in dialogo con tutti i principi dell’Occidente, in rapporto privilegiato con il papa. La rispondenza di Federico al suo ruolo è riconosciuta da Onorio III, che con lui opera per conservare l’armonia al vertice del mondo cristiano, nonostante difficoltà concrete e una certa tendenza di Federico, che Riccardo disapprova, ad affermare la propria voluntas pure rispetto al papa (Chronica, p. 136). Non è però così con Gregorio IX: il resoconto della prima crisi (1227-30), che è poi il tempo in cui Riccardo deve aver cominciato a lavorare alla seconda cronaca, è organizzato per temi (cosa dichiarata, p. 158), e quindi è frutto di una riflessione complessiva. L’autore evita di assumere posizioni di principio e si sforza di capire anche le ragioni del papa, cui sono offerte ampie giustificazioni, perfino per l’attacco al Regno (ma non è dubbio a chi vada la sua fedeltà). Tanto più quindi ha valore il giudizio che alla fine esprime sulle sue scelte, del tutto negative per gli interessi della Terrasanta e dell’intero mondo cristiano, che Federico ha cercato di sostenere, pur messo in condizioni di fare molto meno di quanto avrebbe voluto. Ma negative anche per il Regno, che Gregorio aveva cercato di sottomettere e in cui aveva fomentato tutte le spinte alla divisione che Federico aveva combattuto: partiti e fuoriusciti, guerre tra città avversarie, privilegi e autogoverni delle città (vedi i casi di Gaeta e Benevento, anno 1229). Queste spinte rappresentano, nelle pagine successive, lo stato endemico dell’Italia dei Comuni, l’ultimo fronte di problemi che Federico nel testo affronta (quasi assente è la Germania), e di fatto suggeriscono quale sarà il terreno di saldatura tra il papa e i Comuni stessi. Quindi la riflessione sul presente, così equilibrata e ragionevole, che Riccardo ha compiuto per il suo secondo testo, contiene un germe di preoccupazione per il futuro, nonostante la convinzione con cui è visto Federico, la disponibilità mostrata verso Gregorio e la speranza di una reale comprensione tra loro. La preoccupazione si dimostrerà anche troppo giustificata: nell’ultima parte della cronaca i fatti sono lasciati a una notazione sempre più contemporanea, asciutta e slegata, che fissa il ricordo delle lotte infinite di Federico con le città dell’Italia imperiale e delle continue collette imposte al Regno per sostenerle, mentre il ruolo del papa in appoggio ai Comuni risulta solo dai fatti, da quell’inspiegata seconda scomunica, che esplode senza alcun problema diretto con l’imperatore, mentre questi era immerso nelle guerre con loro. Riccardo non esprime giudizi, né su Gregorio né sulla politica italiana di Federico. Mostra però di aver capito che egli vuole subdere imperio i Comuni (Chronica, p. 192: versi per Vicenza), e che per questo toglie loro l’autonomia e pone come podestà nelle città che gli si sottomettono baroni regnicoli fidati (p. 197); ma che le città ‒ anche quelle che sono, per propri motivi, al suo fianco ‒ non hanno nessuna intenzione di far parte di un impero che somigli realmente al Regno. La logica delle città lasciate a sé stesse è quella dell’interesse locale, della distinzione rispetto a tutti: il termine che più ricorre per loro è «odium»; odio contro altre città (già tra Napoli e Aversa nel 1210, poi tra Roma e Viterbo, e tante volte tra i comuni del Nord), odio tra classi sociali (ancora Roma: Chronica, p. 194), odio contro i poteri superiori (l’impero al Nord e a volte a Roma; il papa sempre, quasi fisiologicamente, a Roma ‒ comune atipico, ma non poi tanto, che Riccardo conosce bene e non disprezza). E il papa di fatto appare condividere questa logica settaria, che riduce l’Impero ‒ e la Chiesa stessa ‒ a una pars, che fautori e avversari seguono o contrastano solo per evitare di doversi contemperare all’interno di una qualsiasi realtà politica più vasta. Dunque Riccardo condivide, in teoria, la posizione di Federico, che si sforza di piegare i Comuni in un vero sistema pubblico, ma la serie delle sue note mostra chiaramente l’inefficacia della sua azione, alle prese con un quadro vischioso, in cui anche lui ha solo un labile e mutevole partito. E con altrettanta evidenza mette in luce il costo pesantissimo di questa politica per il Regno, prostrato economicamente e messo a rischio nella sua unità morale, che era il frutto forse più importante, ai suoi occhi, di tutto il lavoro di Federico. L’esame spassionato dei fatti mostra che il problema italiano non ha soluzioni possibili, se non una pace generale ‒ che sembra un’altra volta raggiungibile, quando l’opera si chiude, nel 1243, proprio sulla sua tessitura ‒, che pure è solo il male minore. Il bonum pacis forse non è la sigla dell’intera visione storica di Riccardo (Capitani, 1996), però certo è l’approdo cui spera ormai di arrivare la sua relazione; ma il suo silenzio sui motivi e i ruoli reali delle parti (su Gregorio IX sa di sicuro molto di più), come il ridotto spazio che dà alla polemica di Federico contro «l’ingiusta scomunica», di cui intende la portata pubblicistica, ma non trascrive alcun testo, evitando di darle ulteriore risonanza (Chronica, p. 199), sono con buone probabilità il segno del suo lucido sconforto, ma anche il piccolo contributo di un uomo intelligente, che privatamente annota notanda, per uscire da una crisi per tutti distruttiva. Riccardo scrive per lo più in forma semplice e sintetica, ma ha un latino corretto e può ornare la prosa con cadenze e clausole, citazioni di classici e riecheggiamenti biblici (questi in particolare per rafforzare l’espressione di un giudizio molto sentito). Compone anche carmi ritmici, che inserisce nel testo (vedi i due planctus per la morte di Guglielmo II e per la caduta di Damietta, in Chronica, pp. 7 s., 95-97), e più brevi inserti, spesso a margine del manoscritto autografo, a commento di certe notizie. La Cronaca si arresta al 1243 ed è plausibile che l’autore sia morto poco dopo: se è lui il Riccardo notaio ricordato nel Necrologio Cassinese, morì il 7 maggio, probabilmente del 1244. Fonti e Bibl.: Edizioni: Riccardo di San Germano, Chronica (Posteriora), a cura di G.H. Pertz, MGH, Scriptores, XIX, Hannoverae 1866, pp. 321-386; Ignoti monachi Cisterciensis s. Mariae de Ferraria Chronica et Ryccardi de Sancto Germano Chronica priora, a cura di A. Gaudenzi, Napoli 1888 (in appendice, la seconda cronaca, dall’ed. Pertz); entrambe, in Ryccardi de Sancto Germano notarii Chronica, a cura di C.A. Garufi, in RIS2, VII, 2, Bologna 1937-1938; ed. critica del secondo prologo in E. D’Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo, Napoli 2003, pp. 163-172; traduzioni italiane: Cronisti dell’eta normanno-sveva, 2: Alessandro di Telese, Falcone di Benevento, Riccardo di S. Germano, a cura di E. Spinnato, Palermo 1996; Riccardo da S. Germano, Cronaca, a cura di G. Sperduti, Cassino 1999. Documenti: Acta Imperii inedita saeculi 13. et 14., I, a cura di E. Winckelmann, Innsbruck 1880; Il Registro della Cancelleria di Federico II del 1239-1240, a cura di C. Carbonetti Vendittelli, I-II, Roma 2002. P.F. Palumbo, Medio Evo Meridionale. Fonti e letteratura storica dalle invasioni alla fine del periodo aragonese, Roma 1978, pp. 184 s.; E. Pispisa, L’immagine della città nella storiografia meridionale del Duecento, in Quaderni Medievali, XXX (1990), pp. 63-108 (in partic. pp. 78-82); S. Tramontana, Il senso della storia e del quotidiano nelle parole e nelle immagini dei cronisti normanni e svevi, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana, Pistoia 1995, pp. 189-203 (in partic. pp. 201-203); O. Capitani, Federico II nella storiografia dei contemporanei, in Federico II e Bologna, Bologna 1996, pp. 7-26 (in partic. p. 8); M.C. De Matteis, Memoria storica risentita e ricordo rapsodico, in “Esculum” e Federico II. Atti del Convegno di studio, Ascoli Piceno, ... 1995, Spoleto 1996, pp. 123-140 (in partic. pp. 132-135); E. Pispisa, Storiografia contemporanea nel Regno, in Friedrich II., a cura di A. Esch - N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 35-49 (in partic. pp. 42-47); M. Zabbia, Notaicronisti nel Mezzogiorno svevo-angioino, Salerno 1997, pp. 58-87; A. Sommerlechner, «Stupor mundi»? 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