RICCARDO da S. Germano
di Lidia Capo - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2016)
RICCARDO da S. Germano. – Nacque a San Germano (Cassino) verso il
1165.
Dal 1186 al 1232 è attestato come notaio pubblico nella sua area e per l’abbazia di Montecassino, dove probabilmente si formò. Dal 1214 si dice magister, forse dopo un perfezionamento di studi a Roma (C.A. Garufi, Prefazione,
in Chronica, 1937-1938, pp. VI-XI: edizione da cui si cita).
Nel 1215 accompagnò l’abate Stefano al IV Concilio Lateranense (Chronica,
p. 62); forse nel dicembre del 1220, con il fratello Giovanni, pure magister e notarius, fu presentato a Federico II, che rientrava nel Regno dopo l’incoronazione imperiale e che li assunse al proprio servizio: Giovanni lavorò
nella Cancelleria centrale, attestato tra l’aprile del 1221 e il 3 maggio 1240
(Chronica, p. VIII n. 3), Riccardo invece nell’amministrazione finanziaria. Di
questa sua attività la documentazione è saltuaria, ma sembra che la sua base
normale di lavoro fosse San Germano. Nel 1222 ebbe l’incarico di distribuire
la nuova moneta della zecca di Brindisi negli attuali Abruzzo e Molise, e di
stabilire il valore delle varie merci insieme a giudici e uomini probi del luogo
(pp. 103-106). Nel 1223, 1228 e 1229 rogava documenti a Cassino, che provano la sua presenza nella Terra S. Benedicti nel periodo dell’invasione da parte
dell’esercito papale, che descrive con precisione e calore nella sua seconda
cronaca.
Dai dati biografici si ricavano alcuni elementi utili per la comprensione della
sua opera di cronista: la provenienza da un’area del Regno di particolare importanza storica e culturale; l’origine da una famiglia di qualche rilievo sociale, in grado di stimare gli studi e farli compiere ai figli; la formazione tutta
precedente l’incontro, in età matura, con Federico II; l’apprezzamento della
sua persona e della sua istruzione da parte del sovrano, che del resto utilizzò
per la costruzione del suo sistema di governo molti uomini di analoga provenienza sociale e culturale, e che promosse la crescita di questo stesso ceto
con la fondazione nel 1224 dello Studium di Napoli (che la prima cronaca
ricorda, così come parla poi della sua «rifondazione» nel 1234, dopo che per
la discordia con il papa e l’invasione del Regno era andato penitus dissolutum:
cfr. Chronica, p. 189). Questo incontro non rivoluzionò la vita di Riccardo,
che non fece una carriera importante, non fu mai troppo vicino al sovrano e
svolse la sua attività soprattutto nella propria zona di origine; dovette però
dargli migliori possibilità di informazione, una maggiore familiarità con le
attività di governo, che seguì in modo costante e su cui raccolse una documentazione molto ricca, e un interesse più vivo e competente per i fatti pubblici. Egli fu comunque per molti anni testimone e partecipe di eventi significativi, di cui diede conto nelle due cronache che a suo nome ci sono tramandate (in sostanza due redazioni diverse e successive dello stesso scritto).
La prima, scoperta da Gaudenzi, è conservata in un codice del XIV-XV secolo (Bologna, Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, ms. a. 144), testimone unico anche di un altro testo importante della stessa epoca e zona,
la Chronica di S. Maria di Ferraria, in Terra di Lavoro. Il testo di Riccardo si
interrompe a metà della trascrizione di una lettera di Federico a Onorio III
(primavera del 1226), e non sappiamo con certezza fin dove arrivasse. Questa prima redazione gli fu richiesta dall’abate Stefano (1215-27), ed è improbabile che Riccardo abbia proseguito questo scritto oltre la morte di chi glielo
aveva chiesto (luglio 1227). Il testo inizia con la visita a Montecassino di
Innocenzo III (il personaggio che ha maggiore spicco) nel 1208, cioè più o
meno dove si arresta (1212) l’ultimo tratto della cronachistica cassinese
(gli Annales Casinenses, a cura di G.H. Pertz, in MGH, Scriptores, XIX, Hannoverae 1866, pp. 303-320), e inserisce documenti, come molta storiografia
monastica. Però non vuole essere una storia dell’abbazia, pur inserita nella
vasta rete dei suoi rapporti, bensì, come è detto nel prologo, una relazione
dei fatti che «ubique terrarum et presertim in Regno vario cursu temporum
successere» (Chronica, p. 25): in effetti l’orizzonte abbraccia l’intera Cristianità, soprattutto nei suoi fronti di attrito con il mondo musulmano, in Terrasanta e in Spagna (un tema ben presente anche nella seconda cronaca).
Per tracciare questo quadro, Riccardo si serve di molti documenti, che di
norma trascrive (a differenza di quanto farà nell’altra redazione, ove i documenti sono solo regestati, peraltro con efficacia), e che riguardano non tanto
l’abbazia (attore abbastanza secondario, ricordata spesso solo per le accoglienze, sempre onorevoli e costose, date ai grandi ospiti di passaggio),
quanto il mondo intero, e sono in buona parte lettere spedite o ricevute dalla
Cancelleria papale, che è per lungo tratto la fonte principale della sua informazione scritta. Questa è dunque di alto livello, presuppone rapporti con la
Curia romana e rende possibile l’ipotesi (Zabbia, 1997, pp. 84-86) che il testo
avesse una finalità secondaria di raccolta di exempla di ars dictaminis, per cui
Cassino aveva una notevole tradizione di studi. A partire dal ritorno in Italia
di Federico (1212), questi diventa la sua principale fonte, e si determina una
sostanziale modifica nelle tipologie documentarie valorizzate (che sono ora
atti pubblici e normativi spesso di grande rilievo, recepiti per lo più – e talvolta letti – a San Germano, e dunque di per sé prova di un rapporto tra il
centro e le periferie del Regno). A questi documenti si affianca l’esposizione
dell’effettiva, concreta e capillare azione di governo dell’imperatore, impegnato nel riordino del Regno. Quando la prima cronaca si interrompe ha
quindi trovato un nuovo protagonista e un nuovo centro: il re e il Regno di
Sicilia.
La stesura della seconda redazione occupò Riccardo dalla fine del terzo decennio del secolo alla morte. Per questo periodo disponiamo di una serie
piuttosto fitta di informazioni sui suoi movimenti. Il 17 ottobre 1239 è al
campo dell’imperatore presso Milano, dove chiede giustizia contro un chierico, entrato a forza in una terra che possedeva con il fratello (Il Registro,
2002, I, n. 110, pp. 90 s.). Nel marzo del 1240 è incaricato di negoziare un
mutuo di 2000 once con i mercatores di Roma e poi rimborsarlo facendosi
consegnare la cifra dal giustiziere di Terra di Lavoro sulla colletta dell’anno
(II, nn. 730 e 756, pp. 640-643, 680 s.). Il compito fu assolto prontamente,
come risulta da una lettera del mese successivo (n. 839, pp. 748-750). È possibile, poiché non conosciamo suoi omonimi, che, nonostante l’età avanzata,
sia lui il Riccardo di San Germano, forse camerario d’Abruzzo, cui Federico,
nel febbraio del 1242, ordinò di provvedere alla famiglia del defunto Gentile
di Pendencia (Acta Imperii inedita, 1880, I, n. 888, p. 676). L’ultimo documento su di lui è un suo carme, in cui descrive un’improvvisa malattia che lo
colpì il 31 luglio 1242 (secondo Garufi, che ne trova conferma nel manoscritto autografo, il Cas. RR. 507, vergato per la seconda parte dell’anno in
scrittura malferma: cfr. pp. L-LIV). Quest’esperienza gli suggerì riflessioni
sulla vita che inviò ai monaci di Cassino, in un testo dal linguaggio fittamente
scritturale (il carme è tradito a sé, nel ms. Cassinese 342, ed è nell’edizione di
Georg Heinrich Pertz, Prefazione, in Chronica, pp. 384-386; C.A. Garufi, Prefazione, cit., pp. L-LIV). Da esso sappiamo che aveva una figlia naturale (carior
mihi quam campi lilia), che legittimò allora sposandone la madre.
La seconda cronaca inizia con il 1189. Le informazioni su questo più antico
periodo presuppongono notizie scritte, che non risalgono in genere a fonti
a noi note: non è da escludere che Riccardo stesso ‒ che nel 1189 era sui
venticinque anni e già notaio ‒ avesse fin da allora preso appunti sui fatti del
Regno, in un’epoca tormentata che giudica molto severamente. Nel prologo,
del resto, l’autore si assume per intero la responsabilità dell’iniziativa di scrivere e rivendica la sua autonoma scelta della materia: «ego Ryccardus de
Sancto Germano notans notanda Notarius», dove ‘notaio’ non rimanda a un
discorso di autenticità, ma alla capacità di notare e annotare le cose degne di
essere ricordate (Chronica, p. 3).
Il secondo prologo riprende molti concetti essenziali dal primo. Uguali sono
l’ambito delle notizie, l’impegno a seguire la verità e a farsi testimone del
presente, la finalità di lasciare ai posteri non solo una memoria, ma una lezione: una lezione che era però lì di mutabilità delle cose del mondo, e che è
invece ora di saggezza e fermezza umane, e anche di speranza (il prologo fu
forse scritto dopo la pace di San Germano): «ut ex hiis discat futura posteritas varios esse temporum cursus, memineritque prudenter bellum in pace
timere, et pacem iterum sperare, post bellum» (ibid.). Ma in questa seconda
redazione appare una nuova profondità del tempo, necessaria a intendere la
lezione della storia: Riccardo, prima di passare all’annotazione contemporanea, si assegna infatti una funzione di interprete, dando al suo testo un inizio
che mette in chiaro l’oggetto essenziale della sua riflessione, che è il Regno,
e sceglie per questo la morte di Guglielmo II, il modello ideale di re che
proprio l’età federiciana amò presentare ‒ o forgiare ‒, riconnettendo alla
sua figura il presente (Zabbia, 1997, pp. 81-83).
Riccardo esalta il modello, ma traccia un quadro della realtà molto dissonante: consiglieri regi in rivalità tra loro e disposti a ipotecare il futuro del
Regno per odio reciproco, eccesso di poteri dei comites, troppo superbi per
sottomettersi a un re, egoismi e prepotenza di quanti posseggono una qualche forza – compreso l’abate di Montecassino –, che si combattono l’un l’altro per assicurarsi tutto ciò che possono a spese di una popolazione depredata e violentata, sottoposta ad assedi e ruberie. In pagine molto tese, in cui
Riccardo esprime con durezza il proprio giudizio su ciascuno, la lezione del
passato è chiara: Enrico VI non è un santo e i suoi tedeschi sono tra tutti i
peggiori, ma la colpa prima della situazione terribile di quegli anni non è loro,
ma di chi ha considerato il Regno come un bene privato e di chi ha permesso
che queste spinte centrifughe si creassero e si rafforzassero (Chronica, pp. 425, in partic. pp. 5 s., sui potentissimi consiglieri del re, e pp. 8 s., sulle responsabilità dei conti).
La soluzione a questi problemi (dopo un intervento di Innocenzo III nel
1208, con alcune disposizioni che sono l’unico documento trascritto assente
nella prima cronaca) verrà portata appunto da Federico, che, al suo rientro,
curerà con visione lucida e mano ferma proprio i mali individuati da Riccardo, esercitando un controllo generale su ogni livello della vita pubblica,
per l’interesse comune e il vantaggio concreto di ogni suddito (in questo
senso vanno anche le leggi trascelte dalle Costituzioni di Melfi: Chronica, pp.
177-180). E assicura il rispetto e l’inviolabilità del Regno, come mostra
l’azione tempestiva ed efficace contro l’esercito papale. Federico, così presentato e interpretato, appare come il modello reale, non ideale, di re, quello
per cui uno scrittore non potente, non cortigiano, non attratto dal colore e
dalle individualità (niente c’è su Federico come persona), e del tutto autonomo nella sua vocazione storiografica, può scrivere con convinzione una
relazione storica che suscita nel lettore un’impressione assai simile a quella
data dal registro imperiale, in cui il sovrano è sempre in scena, attivo in ogni
campo della vita pubblica, in rapporto con ogni parte del Regno, centro e
cuore di una realtà politica che è un sistema ordinato e razionale, di cui Riccardo con orgoglio si afferma filius.
È probabile che un’ulteriore spinta a riscrivere la cronaca con un più preciso
orientamento sia venuta a Riccardo dalla riflessione, imposta dai fatti, sulla
più vasta storia di cui il Regno è parte, soprattutto perché il suo re è anche
imperatore.
Dell’importanza della funzione di questi, capo laico di una cristianità sentita
come un corpo vivo, il cronista è convinto; e pure in questo Federico gli
appare efficace: impegnato nella crociata, in dialogo con tutti i principi
dell’Occidente, in rapporto privilegiato con il papa. La rispondenza di Federico al suo ruolo è riconosciuta da Onorio III, che con lui opera per conservare l’armonia al vertice del mondo cristiano, nonostante difficoltà concrete
e una certa tendenza di Federico, che Riccardo disapprova, ad affermare la
propria voluntas pure rispetto al papa (Chronica, p. 136). Non è però così con
Gregorio IX: il resoconto della prima crisi (1227-30), che è poi il tempo in
cui Riccardo deve aver cominciato a lavorare alla seconda cronaca, è organizzato per temi (cosa dichiarata, p. 158), e quindi è frutto di una riflessione
complessiva.
L’autore evita di assumere posizioni di principio e si sforza di capire anche
le ragioni del papa, cui sono offerte ampie giustificazioni, perfino per l’attacco al Regno (ma non è dubbio a chi vada la sua fedeltà). Tanto più quindi
ha valore il giudizio che alla fine esprime sulle sue scelte, del tutto negative
per gli interessi della Terrasanta e dell’intero mondo cristiano, che Federico
ha cercato di sostenere, pur messo in condizioni di fare molto meno di
quanto avrebbe voluto. Ma negative anche per il Regno, che Gregorio aveva
cercato di sottomettere e in cui aveva fomentato tutte le spinte alla divisione
che Federico aveva combattuto: partiti e fuoriusciti, guerre tra città avversarie, privilegi e autogoverni delle città (vedi i casi di Gaeta e Benevento, anno
1229). Queste spinte rappresentano, nelle pagine successive, lo stato endemico dell’Italia dei Comuni, l’ultimo fronte di problemi che Federico nel testo affronta (quasi assente è la Germania), e di fatto suggeriscono quale sarà
il terreno di saldatura tra il papa e i Comuni stessi. Quindi la riflessione sul
presente, così equilibrata e ragionevole, che Riccardo ha compiuto per il suo
secondo testo, contiene un germe di preoccupazione per il futuro, nonostante la convinzione con cui è visto Federico, la disponibilità mostrata verso
Gregorio e la speranza di una reale comprensione tra loro.
La preoccupazione si dimostrerà anche troppo giustificata: nell’ultima parte
della cronaca i fatti sono lasciati a una notazione sempre più contemporanea,
asciutta e slegata, che fissa il ricordo delle lotte infinite di Federico con le
città dell’Italia imperiale e delle continue collette imposte al Regno per sostenerle, mentre il ruolo del papa in appoggio ai Comuni risulta solo dai fatti,
da quell’inspiegata seconda scomunica, che esplode senza alcun problema
diretto con l’imperatore, mentre questi era immerso nelle guerre con loro.
Riccardo non esprime giudizi, né su Gregorio né sulla politica italiana di Federico. Mostra però di aver capito che egli vuole subdere imperio i Comuni
(Chronica, p. 192: versi per Vicenza), e che per questo toglie loro l’autonomia
e pone come podestà nelle città che gli si sottomettono baroni regnicoli fidati
(p. 197); ma che le città ‒ anche quelle che sono, per propri motivi, al suo
fianco ‒ non hanno nessuna intenzione di far parte di un impero che somigli
realmente al Regno. La logica delle città lasciate a sé stesse è quella dell’interesse locale, della distinzione rispetto a tutti: il termine che più ricorre per
loro è «odium»; odio contro altre città (già tra Napoli e Aversa nel 1210, poi
tra Roma e Viterbo, e tante volte tra i comuni del Nord), odio tra classi sociali
(ancora Roma: Chronica, p. 194), odio contro i poteri superiori (l’impero al
Nord e a volte a Roma; il papa sempre, quasi fisiologicamente, a Roma ‒
comune atipico, ma non poi tanto, che Riccardo conosce bene e non disprezza). E il papa di fatto appare condividere questa logica settaria, che riduce l’Impero ‒ e la Chiesa stessa ‒ a una pars, che fautori e avversari seguono o contrastano solo per evitare di doversi contemperare all’interno di
una qualsiasi realtà politica più vasta.
Dunque Riccardo condivide, in teoria, la posizione di Federico, che si sforza
di piegare i Comuni in un vero sistema pubblico, ma la serie delle sue note
mostra chiaramente l’inefficacia della sua azione, alle prese con un quadro
vischioso, in cui anche lui ha solo un labile e mutevole partito. E con altrettanta evidenza mette in luce il costo pesantissimo di questa politica per il
Regno, prostrato economicamente e messo a rischio nella sua unità morale,
che era il frutto forse più importante, ai suoi occhi, di tutto il lavoro di Federico.
L’esame spassionato dei fatti mostra che il problema italiano non ha soluzioni possibili, se non una pace generale ‒ che sembra un’altra volta raggiungibile, quando l’opera si chiude, nel 1243, proprio sulla sua tessitura ‒, che
pure è solo il male minore. Il bonum pacis forse non è la sigla dell’intera visione
storica di Riccardo (Capitani, 1996), però certo è l’approdo cui spera ormai
di arrivare la sua relazione; ma il suo silenzio sui motivi e i ruoli reali delle
parti (su Gregorio IX sa di sicuro molto di più), come il ridotto spazio che
dà alla polemica di Federico contro «l’ingiusta scomunica», di cui intende la
portata pubblicistica, ma non trascrive alcun testo, evitando di darle ulteriore
risonanza (Chronica, p. 199), sono con buone probabilità il segno del suo lucido sconforto, ma anche il piccolo contributo di un uomo intelligente, che
privatamente annota notanda, per uscire da una crisi per tutti distruttiva.
Riccardo scrive per lo più in forma semplice e sintetica, ma ha un latino
corretto e può ornare la prosa con cadenze e clausole, citazioni di classici e
riecheggiamenti biblici (questi in particolare per rafforzare l’espressione di
un giudizio molto sentito). Compone anche carmi ritmici, che inserisce nel
testo (vedi i due planctus per la morte di Guglielmo II e per la caduta di Damietta, in Chronica, pp. 7 s., 95-97), e più brevi inserti, spesso a margine del
manoscritto autografo, a commento di certe notizie.
La Cronaca si arresta al 1243 ed è plausibile che l’autore sia morto poco dopo:
se è lui il Riccardo notaio ricordato nel Necrologio Cassinese, morì il 7 maggio,
probabilmente del 1244.
Fonti e Bibl.: Edizioni: Riccardo di San Germano, Chronica (Posteriora), a cura
di G.H. Pertz, MGH, Scriptores, XIX, Hannoverae 1866, pp. 321-386; Ignoti
monachi Cisterciensis s. Mariae de Ferraria Chronica et Ryccardi de Sancto Germano
Chronica priora, a cura di A. Gaudenzi, Napoli 1888 (in appendice, la seconda
cronaca, dall’ed. Pertz); entrambe, in Ryccardi de Sancto Germano notarii Chronica, a cura di C.A. Garufi, in RIS2, VII, 2, Bologna 1937-1938; ed. critica del
secondo prologo in E. D’Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo, Napoli 2003, pp. 163-172; traduzioni italiane: Cronisti dell’eta normanno-sveva, 2: Alessandro di Telese, Falcone di Benevento, Riccardo di S. Germano, a
cura di E. Spinnato, Palermo 1996; Riccardo da S. Germano, Cronaca, a cura
di G. Sperduti, Cassino 1999. Documenti: Acta Imperii inedita saeculi 13. et 14.,
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P.F. Palumbo, Medio Evo Meridionale. Fonti e letteratura storica dalle invasioni alla
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nella storiografia meridionale del Duecento, in Quaderni Medievali, XXX (1990), pp.
63-108 (in partic. pp. 78-82); S. Tramontana, Il senso della storia e del quotidiano
nelle parole e nelle immagini dei cronisti normanni e svevi, in Il senso della storia nella
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e ricordo rapsodico, in “Esculum” e Federico II. Atti del Convegno di studio, Ascoli
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