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I Luoghi Magici di
BOLOGNA
… a luci rosse
Volume V
Morena Poltronieri
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Ernesto Fazioli
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Indice
Prefazione
Le lussuriose Sirene di Bologna
E naufragar m’è dolce in questo male!
Il Palazzo dell’Amore
Le posture castigate dell’amore
Le male puttane del Diavolo
Tutto dipende dalla concupiscenza carnale…
Sul coitus interruptus ed altre strategie…
Manuali di bellezza
Sugli incubi e succubi
Quando essere donna significa essere moglie e madre
L’avvelenatrice Pompilia
Al di là del bene e del male!
Il mal francese: Syphilis Sive Morbus Gallicus
Eretici erotici
Il libertino carnevale magico
Sodoma e Gomorra!
Giacomo Casanova a Bologna
La visione trascendente della sessualità
p. 5
p. 7
p. 13
p. 26
p. 28
p. 34
p. 46
p. 56
p. 63
p. 68
p. 78
p. 84
p. 87
p. 91
p. 97
p.108
p.113
p.119
p.124
Bibliografia essenziale
p.132
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Quando essere donna significa essere moglie e madre
Nel passato, l'importanza della natura e la conoscenza della terra
avevano condotto l’uomo a identificare istintivamente come
luoghi sacri, quei siti, in cui la presenza dell’elemento primordiale Acqua permetteva di sviluppare il senso della vita e del divino. Per questo motivo, le sorgenti e le vene d'acqua sotterranee
divennero i luoghi preferiti per i raduni a carattere iniziatico.
La funzione nutrizionale dell'elemento Acqua aveva fatto sorgere quelle divinità femminili protettrici del latte e della nascita
associate alle virtù delle fonti e delle sorgenti.
Il culto antico di glorificazione dell’Acqua fu connesso alla purificazione, non solo del corpo, ma anche dell'anima. Infatti, le antiche civiltà percepivano l'Acqua come un fattore solvente in
grado di disperdere le proprietà negative di qualsiasi sostanza.
Il Concilio di Efeso nel 431 d.C., nel riconoscere la validità della
figura di Maria come Madre di Dio, produsse un’immagine in
cui Ella avocò a sé la figurazione sacra del femminile. Si iniziò
così quella lenta opera di desacralizzazione di tutte le divinità
femminili pagane legate alla funzione materna, che cominciarono a perdere il loro prestigio.
Le fonti, le sorgenti e l’elemento Acqua in generale furono rivisitate in nome della nuova religione che operò una netta distinzione tra il concetto di fertilità e sterilità, creando il presupposto
per cui la donna-madre fosse considerata alla stregua di una santa e la donna-infeconda, una strega.
Dal secolo VIII in poi, l’istituzione ecclesiastica intraprese una
vera e propria crociata contro le fonti galattofore o procuratrici
di latte e contro le relative divinità, simboli di un paganesimo
difficile da estirpare nell’inconscio collettivo.
La Vergine Maria ed il suo stuolo di Sante si sovrappose alle antiche Dee preposte alla fecondità. Ogni sorgente fu assorbita dal
culto cristiano e dedicata alla Vergine, che diventò, nell'immaginario esoterico, l'Acqua Sapienziale, di fronte alla quale occor-
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reva arrestarsi per riflettere, prima di dare inizio ai processi di
trasformazione dell’anima.
Questo assommarsi di valori si sedimentò e concorse a produrre
le grandi repressioni dell'alto Medioevo, dove la regolamentazione delle pratiche di sesso era divenuta un privilegio esclusivo
della Chiesa, per la quale la morigeratezza era un obbligo da
perseguire come ideale di vita cristiana.
Così, si venne a classificare una separazione tra l'immagine della
donna e quella della madre e una divisione ancora più netta fu
tra i due sessi, che incarnarono l'uno il principio del sentimentoistinto (la donna) e l'altro della ragione-cultura (l’uomo).
Agli uomini fu idealmente affidato il compito di sottomettere la
natura femminile per sua inclinazione dedita al peccato ed alla
tentazione. L'unico modo per renderla docile e soggiogata fu
quello di farne una madre, mettendo in enfasi le sue virtù di genitore a detrazione delle sue qualità legate alla voluttà ed al vizio.
La procreazione fu considerata una virtù sociale, tanto che la
donna acquisì valore come strumento per la generazione, divenendo una vera e propria macchina per produrre eredi.
Se ella - per sua natura - non era in grado di rimanere casta e pura, almeno che si rendesse utile a qualcosa!
Per questo motivo essere donna significava diventare madre o
rimanere vergine, come i numerosi esempi di pittura medievale
andavano esaltando come modello da imitare.
E se qualche volta la maternità non era possibile a causa della
sterilità della donna o si verificavano nascite di bambini imperfetti, questo era il segno di grandi peccati commessi dalla fanciulla, che veniva duramente punita dal divino per le sue azioni
riprovevoli.
La corsa alla filiazione prevedeva tempi molto stretti. Alla nascita di un bambino, questi era facilmente affidato alle cure di una
balia, in modo tale da permettere ai genitori di dedicarsi con fervore alla realizzazione di un altro figlio.
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Non sempre le gravidanze erano a buon termine, e allora si diceva che la donna aveva sconciato, ovvero aveva abortito. Questo
termine lascia trapelare un atteggiamento repressivo nei confronti di questo avvenimento. Il termine, infatti, deriva dalla ‘concia
delle pelli’, ma è anche sinonimo di ‘castrare porci o vitelli’.
Nell'attuale vocabolario la parola conciare intende il lavoro di
sgrezzatura delle pietre, per ottenere conci (pietre squadrate da
costruzione). Ciò rimanda all'uso invalso nel Medioevo di proteggere la donna dall'aborto, attraverso talismani spesso costituiti da pietre di forma circolare e cave, in modo da contenere
un'altra piccola pietra di dimensioni inferiori.
Questa parola rimanda alla
mente Raimondo de' Liuzzi,
detto Mondino, colui che
per primo nel Gennaio 1315
a Bologna tenne una lezione
pubblica utilizzando un cadavere umano, operazione
quanto mai insolita e innovativa in considerazione del
fatto che il contatto con il
sangue umano era ritenuto
cosa disprezzabile. Con
Mondino de’ Liuzzi si ebbe
un importante contributo in
campo medico, che colmò il
vuoto di tanti secoli bui di
medicina influenzata dalla
religione, sostanzialmente
Anatomia astrologica,
privi di ricerche originali.
Mondino de' Liuzzi
Nella sua opera, che segnò
la nascita dello studio anatomico, intitolata all'Anathomia, si sentiva la forte influenza del
mondo arabo nei molti nomi di parti del corpo - ancora designati
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con l'antico etimo orientale - e l’influenza degli studi di Galeno,
da cui ben presto la medicina si distaccò.
Bologna riscattò per prima l'anathomia porci dei medici salernitani, che tanto aveva influenzato il mondo della medicina fino a
quel momento.
Dal sezionamento del corpo dei suini si passò al corpo umano,
provocando vari divieti papali, tra cui quello del 1299 di Bonifacio VIII. Questa interdizione proibì espressamente la bollitura di
cadaveri al fine di ricavarne scheletri a suo didattico. L’intento
era quello di evitare il commercio e l'abuso di corpi santi, in relazione al problema delle reliquie e dello spaccio di ossa di guerrieri defunti in Terrasanta.
I corpi sottoposti alla pratica furono di donne, in quanto si riteneva che non avesse un'anima, e la dissezione fu effettuata in periodo quaresimale. Poi, furono solo gli uomini ad essere sezionati e, per molto tempo, alcuni organi femminili ebbero una designazione desunta dal vocabolario arabo connesso con parti del
corpo di scrofe.
Il momento del parto era ritenuto altamente pericoloso, tanto da
produrre nella fanciulla in attesa l'esigenza di redigere un testamento all'approssimarsi della data. Fino a quel momento era tutelata dalle strutture, che le avevano garantito un'assistenza materiale tale da proteggerla dagli eventuali inconvenienti.
Nel momento del parto, invece, la donna era nella mani di Dio,
con tanto di confessione e benedizione. Era questo un momento
tutto al femminile, in cui il potenziale dell'antica tradizione magica confluiva nelle mani della levatrice. Spesso, seguendo i
consigli della donna medico salernitana Trotula, il parto era facilitato da una magica calamita, stretta nelle mani della partoriente, oppure da polvere di avorio o ancora da una collana di corallo
appesa al collo, immagine che si ritrova spesso anche nell'iconografia mariana. Se ciò non bastava l'elenco proseguiva con bevande ed intrugli a base di sostanze estratte da escrementi di
sparviero o dalla pancia di una rondine.
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I diari di molti neo-padri medievali hanno lasciato testimonianza
del rito e dei pericoli del parto, che spesso potevano avere epiloghi drammatici, come nel caso del muratore bolognese Gaspare
Nadi (1418-1504), che descrisse drammaticamente gli ultimi istanti di vita della moglie, mentre stava partorendo.
Rechordo de la chatalina mia chome adì 16 de luglio 1462 pasò de questa pressente vita a ore 22 fo in venire dio li perduni
non posendo apartorire maestro zoane de navara medego lo
chavò fuora del chorpo fo uno puto maschio fo in piassere dio
che fose chosì fato quelo champò forse una hora e po' morì yo
li fie' quelo che meffò imposibole per champarla perché yo
l'amava quanto fose imposibole perchè non credo che né sia
né fose mae una migiore de lie dio li faza passe a l'anema fo
sepelida adì 17 dito a san pruogolo chon quelo onore che me
fo imposibole priego dio li dia paradisso per la soa piatà e
missrechuodia e chosì el faza anchora ve priego voi che legiti
de desside una avemaria per l'anema soa avemaria cracia pena.
Se tutto andava bene, occorreva alla puerpera un lungo periodo
di inattività, che veniva concluso con una forma di purificazione,
che la riabilitava a frequentare la chiesa: un nuovo battesimo
sanciva la fine dell'impurità della donna.
In questo stesso periodo, si stabilì un sistema normativo giuridico, che prevedeva specifiche pene per ogni peccato carnale
commesso.
A questi dati, si deve aggiungere l'eco sempre più vivo della
predicazione di san Paolo, che approvava la tradizione ebraica di
netta subordinazione della donna all'uomo. L'essere femminile
era stato creato per l'uomo, con caratteristiche negative, tra cui la
tentazione che fece cadere Adamo in peccato, concetto ribadito
anche da sant'Ambrogio.
Con l'istituzione del celibato per il clero, papa Gregorio VI accentuò lo spirito pericoloso delle femmine e san Tommaso af-
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fermò che la donna era un essere occasionale e incompleto, una
specie di uomo mancato.
Il diritto canonico ammetteva solo il regime matrimoniale dotale, che rendeva la donna incapace e senza nessun diritto al potere. Il suo compito era quello di essere madre e sposa, con un'autorità sui figli pari a quella padre, alla cui morte ne diventava la
tutrice legale. Il matrimonio era pubblico ed il divorzio era difficile da ottenere.
Il suo stato di fragilità fisica la rendeva inadeguata al governo di
un feudo e, quando questi si tramandarono per eredità, in mancanza di prole maschile, la trasmissione andò alla femmina, anche se poi la conduzione e l'usufrutto dei beni spettava al marito.
Fino al 543 d.C., inoltre, si ritenevano i legami di consanguineità
connessi con la genitura paterna. Infatti, era opinione comune
che lo sperma fosse originato dallo stesso agente che produceva
il sangue, esso era prodotto nelle vene e da qui l'appartenenza
allo stesso sangue, anche se i figli erano stati partoriti da diverse
madri. I fratellastri in linea paterna potevano godere degli stessi
privilegi (ad esempio le eredità), mentre quelli in linea materna
ne erano esclusi. Anche la donna, secondo Galeno ed Ippocrate,
produceva un liquido seminale, ma derivante da umori freddi e
umidi, di qualità inferiore a quello del padre, per cui questo liquido non aveva carattere di primarietà nella formazione della
persona, contribuiva solo ad alimentare il feto.
Solo nel VI secolo, con Giustiniano, furono dichiarati consanguinei gli individui nati dallo stesso ceppo genitoriale, ma in ogni caso, i figli appartenevano alla casata del padre.
Anche da un punto di vista educativo il ruolo materno era inferiore a quello paterno. La madre era ritenuta incapace di comprendere le vere esigenze dei figli, in quanto troppo sentimentale
ed istintiva, per cui soggetta a cedimenti. Il padre, invece, più
razionale, era in grado di gestire meglio l'educazione, in quanto
simbolo di forza e potere, quindi più incline ad insegnare le virtù
e la morale.
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In questo contesto, la donna divenne lo strumento attraverso il
quale trasmettere il possesso, quasi un bene immobile. Per questo motivo, i ripudi erano frequenti e la Chiesa li autorizzava regolarmente, trovando sempre una scusa per l'annullamento del
matrimonio. Questo legame era proibito tra congiunti fino al settimo grado e la parentela consisteva sia nei rapporti di famiglia,
che in quelli spirituali, nonché di padrino e madrina. Anche la
sterilità della donna poteva concorrere al ripudio, oltre che motivazioni di carattere politico.
L’avvelenatrice Pompilia
Un bell’esempio di mescolanza tra vergine, vedova e sposa fu
quello di Pompilia Zambeccari nel 1565.
«Pompilia se non ubbidirai al marito, io ti scannerò colle mie
mani» con queste parole il padre redarguì la tredicenne figlia
quando ella fu promessa sposa al più anziano conte Emilio Malvezzi. Pompilia proveniva da un’educazione monacale, per cui
avvezza ad obbedire senza proferire parole. E così fu. Il matrimonio con il «collerico e fiero» nonché geloso e lussurioso conte fu celebrato con il benestare delle due nobili famiglie bolognesi!
Guardata a vista dalla servitù, la bambina (perché di bambina si
trattava) si sentì crescere dentro di sé un potente odio contro il
marito, che pensò di colmare con venefici pensieri omicidi.
L’ingenuità della sua mente trapela dall’intermediario scelto per
compiere quest’atto così estremo: Giulio Cesare Dal Pozzo, ovvero il medico di casa Malvezzi! A lui si rivolse per trovare un
veleno da somministrare all’odiato marito dietro lauto pagamento di denari e con il voto di donare un calice d’oro alla Vergine.
Naturalmente il medico non ci pensò neanche un attimo e corse
immediatamente ad avvisare il suo padrone che seppe così
dell’intento assassino ordito dalla giovane moglie.
Il furioso marito, nel cercare ulteriori prove contro la moglie,
trovò nel suo studiolo, dentro una scatola, documenti sospetti:
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due corone azzurre, una rosetta d’oro, poche perle, due guanti
corti di seta cremisina, una borsa di velluto, ed altre bagaglie.
Vi erano polveri, l’una bianca, l’altra berettina con certe macchie verdi che mostrava esservi cantarella mischiata, v’erano
ampolle con liquore dentro, e pasta che tirava al giallo. […]
una ricetta di veleno […] due erano ricette per farsi amare: vi
sono segni, rabeschi e parole strane di niun significato.
Gli ultimi elementi lasciano pensare ad un interessamento di
Pompilia verso la magia, ma non furono mai usati contro alcuna
persona.
Svelato l’arcano, fu informato segretamente anche il padre di
Pompilia, che non ebbe altro da fare se non rinchiudere la nobile
fanciulla nel convento delle Monache del Corpo di Cristo a Bologna, onde evitare uno scandalo alle prestigiose famiglie.
Qui ella trascorse due anni, mentre alcuni fonti citano
l’impiccagione del medico-spia!
Perdonata dal marito, Pompilia fu reintegrata in famiglia (anche
se costretta ad andare ad abitare dalla madre Donna Candiana
fino alla di lei morte), anche in considerazione del fatto che il
matrimonio disastrato aveva comunque prodotto dei figli.
E fu per questi figli che Pompilia tornò a casa Malvezzi, mentre
il marito era in giro per il mondo a cercare… la morte.
La storia però non finisce qui! Forse il più bello deve ancora venire. Qualche anno più avanti, nel 1579, durante il Carnevale, la
vedova Pompilia ricevette nella sua abitazione la visita di un
uomo mascherato, che si intrattenne nella sua camera per parecchie ore. Le visite continuarono fino a quando il figlio della
donna, Gerolamo Malvezzi, non si accorse della passione che
travolgeva la madre per questo misterioso uomo. Arrivò a cacciarla di casa ed ella fu costretta a condividere un appartamento
con una sua donzella, tale Prudenza dei Bonaldi.
Qui finalmente gli incontri tra Pompilia e l’uomo mascherato
poterono avvenire con maggior frequenza e tranquillità.
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Naturalmente Pompilia aveva scelto bene il suo nuovo amante,
che altri non era se non il nobilissimo nipote di papa Gregorio
XIII, Girolamo Buoncompagni!
Dopo un anno di incontri fugaci la relazione non prendeva quota
e il Buoncompagni non aveva intenzione di chiedere alla giovane e ancor bella vedova di diventare sua moglie.
Questa volta, l’ormai esperta Pompilia si dedicò con cura a pianificare il suo futuro insieme al bene amato, fingendo una gravidanza che avrebbe costretto l’uomo a capitolare.
Il parto però non portò Girolamo verso il talamo nuziale, cosicché Pompilia fu costretta a ‘rimanere di nuovo incinta’… mossa
sbagliata, visto che dopo aver preso in prestito l’ennesimo neonato l’inganno fu scoperto e tutti i piani della giovane donna si
frantumarono dentro le mura di un altro convento, dove fu costretta ad andare, rinchiusa in una sorta di isolamento di clausura.
Naturalmente Girolamo si fece di nebbia, i finti - figli della coppia furono restituiti ai loro genitori naturali e Pompilia
trovata colpevole e di giustizia punibile e perciò dovere essere
condannata alla pena di un perpetuo carcere in due camere da
assegnarsi nel Monastero delle Monache dette le Bianche nella città di Reggio […] e comandiamo inoltre che i supposti figliuoli Giovanni e Pietro alias Pierino ai superstiti parenti siano restituiti
mentre i suoi complici furono pubblicamente frustati, rendendo
esplicito alla città intera il suo grave peccato.
Nel suo testamento si premurò di lasciare ai due bimbi rapiti
un’eredità che li avrebbe salvati dall’indigenza.
Certo una donna che commise gravi errori ma come per sua confessione ella altro non era se non una fanciulla che voleva uscire
dal peccato sposando ufficialmente l’unico uomo della sua vita
che avesse mai amato veramente!
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Al di là del bene e del male!
Come abbiamo visto, la storia della Chiesa non è priva di contatti con la sfera erotica, non solo da un punto di vista punitivo, ma
anche di vera e propria pratica più o meno segreta.
A questo proposito, emerge prepotentemente l'immagine dei
Borgia, che hanno lasciato un'indelebile impronta di peccato nelle vicende ecclesiastiche.
Tornando indietro, a ritroso nel tempo fino al IX-X secolo, si
scopre un lungo elenco di Papi poco più che ventenni, la cui vita
fu intrecciata ad avvenimenti poco convenienti per la carica rivestita. In quel periodo assassinii, frequentazioni di prostitute,
furti e mutilazioni varie furono all'ordine del giorno nella curia
pontificia.
Di Benedetto V (papa dal 964-965) si dice che scappò a Costantinopoli per dissipare il tesoro del Vaticano, dopo aver sedotto
una fanciulla. Alcune fonti riportano una morte violenta, provocata con molte probabilità dal coltello di un marito tradito. Altrove si legge che la sua morte occorse in prigionia ad Amburgo
in odore di santità, dove fu deportato.
Giovanni X (papa dal 914-928) nacque a Imola, e dopo avere
rivestito la carica di vescovo a Bologna e Ravenna fu eletto papa. Secondo Liutprando da Cremona, intrattenne una tresca amorosa con la potente Teodora, con la quale ebbe due figlie,
prima della sua elezione, di cui una assurse alle cronache: Morozia.
Alcuni autori leggono nella vicenda legata a Teodora ed alla figlia Morozia, la leggenda della papessa Giovanna eletta al soglio
pontificio e morta con l'abito pontificale, nel momento in cui avrebbe partorito il proprio figlio, sulla via che dal Colosseo conduce alla chiesa di san Clemente. La tradizione popolare afferma
che, da quel momento in poi, fu istituita una sedia papale forata
nel sedile, allo scopo di indagare sugli attributi sessuali del Papa,
onde evitare nuovi scandali.
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Morozia divenne l'amante di papa Sergio III (904-911), all'età di
15 anni e dalla relazione nacque un figlio, il futuro papa Giovanni XI.
La gestione degli affari papali fu fortemente influenzata dalla
madre Teodora, che dopo la morte di Sergio III e di altri due papi a lei sottomessi, riuscì a fare eleggere come pontefice il proprio amante, Giovanni X appunto.
All'epoca poco più che ventenne e con un figlio impegnativo da
crescere, Morozia fu fatta convenientemente maritare al conte
Alberico, che fu ucciso quando egli tentò di acquisire un maggiore potere.
Morozia fu allora costretta dal Papa – amante della madre Teodora – a prendersi cura del cadavere del marito. Quando, però,
Teodora morì, la figlia non esitò a vendicarsi del torto subito.
Tra l’altro, il Papa aveva suscitato la sua gelosia, prendendo accordi con una fazione politica legata al fratellastro Ugo di Provenza, mal visto dalla donna. Così, nella trama della potente signora, cadde il Papa. Egli fu imprigionato e successivamente ucciso in carcere.
Morozia ebbe il potere di suggestionare l'elezione di altri due
Papi – Leone VI e Stefano VII – nell'attesa che il figlio raggiungesse un'età accettabile per essere incoronato a sua volta.
Questo accadimento avvenne nel 931, quando divenne pontefice
Giovanni XI, figlio di Morozia e di Sergio III.
Con Giovanni XI, la donna ebbe un potere più vasto, che le
permise la dispensa per sposare Ugo di Provenza, suo fratellastro – non dopo avere provveduto ad eliminarne la legittima
consorte – e governare indisturbata su tutta la Chiesa.
La sua influenza sul figlio-papa durò fino al sopraggiungere di
un altro suo figlio, il secondogenito Alberico II il giovane, che
depose Papa e madre al seguito, relegandoli in prigionia presso il
Mausoleo di Adriano, il futuro Castel Sant'Angelo a Roma.
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Giovanni XI morì nel 935, Alberico nel 954/5, mentre la loro
madre gli sopravvisse e, nel 955, vide salire al soglio pontificio
un suo pronipote diciottenne, Ottaviano, con il nome di Giovanni XII.
Probabilmente, egli ereditò dalla bisnonna la dissolutezza che
l'aveva contraddistinta, se è vero – come affermano alcune fonti
– che diede un nuovo significato alla parola ‘peccato’, intrattenendo rapporti amorosi incestuosi con la madre, le sorelle, l'amante di suo padre e sua nipote. Inoltre, sembra mantenesse nel
palazzo Laterano un harem di fanciulle a sua disposizione. La
sua virilità era prorompente, tanto da porre un monito di attenzione sulle virtuose ragazze che lo frequentavano.
Sembra che le offerte dei pellegrini a Roma fossero da lui investite in gioco d'azzardo e cavalli, che nutriva a mandorle, fichi e
vino!
Tra intrallazzi amorosi e problemi politici, Giovanni XII fu costretto a fuggire a Tivoli (Roma) e immediatamente sostituito da
Leone VIII, che egli destituì, approfittando di un'assenza imperiale.
La tradizione riporta i delitti commessi al suo rientro a carico di
coloro che avevano favorito il suo esilio e appoggiato la fazione
avversa. Riacquistò la sua posizione anche se per un breve periodo, a causa della sua morte nel 964, a soli 24 anni, anch'egli
ucciso da un marito tradito che lo aveva colto in flagrante.
Tra le tante pratiche poco ortodosse a carico del Papa, il vescovo
di Cremona riportò la celebrazione della messa senza comunione, l'ordinazione di diaconi nelle stalle, il mercimonio delle cariche ecclesiastiche, l'abuso sessuale nei confronti di un lungo elenco di signore, la castrazione di un cardinale (poi morto) e l'avere tolto la vista al suo consigliere spirituale. A queste, l'imperatore Ottone aggiunse l'accusa di omicidio, spergiuro ed evocazioni pagane e demoniache.
Alle accuse, il Papa aveva risposto con la scomunica per tutti coloro che avessero osato intromettersi nei suoi affari.
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Il cardinale Bellarmino affermò che con lui era morto il peggiore
fra tutti i Papi!
All'epoca, per alleviare le pene dell'astinenza ai seminaristi ed ai
giovani preti veniva insegnato che l’eiaculazione – se occorsa
per mezzo di semplici carezze – non costituiva peccato mortale.
Le cronache bolognesi riportano anche il caso di don Nicolò che
fu arrestato con l’imputazione di celebrare messe demoniache
usando fanciulle incaute. Gli atti del processo sono perduti, ma
la ricostruzione dei resoconti bolognesi ci aiuta a capire
l’atmosfera di questo processo. Nel 1452 l’inquisitore Pietro da
Maiorca lo definì relapso, si deduce quindi che questo fu il suo
secondo processo, anche se non conosciamo le imputazioni del
primo misfatto.
Il 27 Giugno 1452 tutto era pronto per il suo rogo. Durante la
processione che doveva condurre il prete al patibolo, all’altezza
di San Tommaso del Mercato nei pressi chiesa di San Michele, il
convoglio fu assalito e don Nicolò liberato. Fu portato segretamente nella chiesa di Santa Maria del Tempio, retta dalla famiglia Malvezzi. Ciò fa pensare al coinvolgimento ad alcune di
queste pratiche anche di Achille Malvezzi, che fu probabilmente
l’ideatore della liberazione.
Come capro espiatorio fu catturato un assalitore (rigorosamente
non nobile) che, torturato, testimoniò i nomi dei suoi complici,
ormai fuggiti da Bologna.
Così, il povero ragazzo fu impiccato il giorno seguente lasciando
insoluti i crimini del prete e i misteri demoniaci che lo legavano
ad una delle famiglie più in vista della città.
Nel 1465, fu la volta di fra’ Lorenzo dei Servi che fu ferito in un
bordello e morì prima di raggiungere il convento.
Tre anni dopo, fra’ Gregorio da Vercelli fu impiccato in piazza
per stupri e delitti nei confronti di meretrici.
Nel 1645, un prete chiamato Possanza sedusse e contagiò due
suore. Fu condannato al tormento della veglia e ne morì.
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Tra gli Ordini religiosi più attivi sessualmente vi furono i Francescani ed i Carmelitani, per quanto riguarda la sessualità eterosessuale. Le pratiche erano esplicate sia all'interno dei conventi
– che godevano di luoghi segreti e nascosti, pur proibiti dal
Concilio di Parigi del 1212 – con donne estranee o monache, sia
all'esterno, durente la loro opera di evangelizzazione. Sembra
che la fama di questi personaggi fosse davvero elevata, tanto che
molte fanciulle pare abbiano sperato d'incontrare uno di questi
prelati, per essere redente.
Come se ciò non bastasse, sono documentate pratiche di omosessualità sia maschile e femminile all'interno dei conventi, sin
dagli albori della formazione dei vari Ordini.
Per quanto riguarda l'omosessualità femminile, spesso l'entrata
in convento di alcune donne è stata interpretata come la necessità di vivere liberamente la propria diversità, all’interno di un
contesto femminile.
Al maschile, questo fenomeno fu legato soprattutto all'Ordine
dei Gesuiti, che sembra avessero il vizio di ricompensare i propri
allievi, con pratiche particolarissime.
La cronaca di Benedetto Varchi narra che il vescovo di Faenza
(Ra), monsignor Cheri, morì nel corso di un dibattimento sessuale con Pierluigi Farnese, figlio illegittimo di Paolo III.
È curioso rilevare che nel 1713 l’Inquisizione condannò il senatore Francesco Davia, per essersi travestito da frate ed essersi
presentato sotto mentite spoglie alla moglie in quanto aveva voluto confessarla per sapere se gli era fedele.
Il mal francese: Syphilis Sive Morbus Gallicus
La scoperta dell'America, all'alba del XVI secolo, portò con sé il
dono della sifilide che divenne il nuovo male, colpevole di punire coloro che abusavano del sesso.
Non furono immuni a questo malanno neppure gli ecclesiastici,
infatti, la tradizione tramanda alcuni nomi che contrassero la
malattia, tra cui quelli di papa Giulio II, Leone X e Sisto IV. A
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carico di quest'ultimo Papa, furono formulate anche accuse di
sodomia e bisessualità, tanto che molti cardinali avrebbe avuto
tale titolo solo in virtù dei servizi prestati.
Sisto IV, dal cui nome si ispirò la Cappella Sistina, ideò la concessione di una licenza ai bordelli, che fruttava almeno trentamila ducati l’anno in tasse.
Fu Leone X a codificare i peccati di cui gli ecclesiastici potevano macchiarsi e le ammende che dovevano pagare per riscattarsi.
La pratica erotica fu legalizzata con il libro-codice Camera Taxe
che, con i suoi 35 articoli permetteva di ottenere il perdono di
tutti i crimini, anche i più efferati, dietro pagamento di
un’ammenda da versare all'erario pontificio.
Appare interessare citare qualche articolo della Camera-Taxe
per comprendere la base di questo concetto:
Art. 1) Un ecclesiastico che commette un peccato carnale con
le proprie sorelle, figlie, cugine, nipoti o con altra donna, sarà
assolto dietro pagamento di 67 libre, 12 soldi.
Art. 2) Se l'ecclesiastico, oltre al peccato di fornicazione chiedesse d'essere assolto dal peccato contro natura o di bestialità,
dovrà pagare 219 libbre, 15 soldi. Ma se avesse commesso
peccato contro natura con bambini o bestie e non con una
donna, pagherà solamente 131 libbre, 15 soldi.
Art. 3) Il sacerdote che deflorasse una vergine, pagherà 2 libbre, 8 soldi.
Art. 5) Ai preti è permesso di vivere in concubinaggio con i
propri parenti dietro pagamento di 76 libre.
Art. 9) Se un prete uccide un laico può avere l'assoluzione
versando un montante di 15 libre, 4 soldi, 3 denari.
Art. 10) Se l'assassino ha ucciso due o più persone nello stesso
giorno, pagherà 15 libre come se ne avesse ucciso uno solo.
Art. 11) Il marito che infliggesse maltrattamenti a sua moglie,
pagherà alle casse della cancelleria 3 libbre, 4 soldi; se fosse
uccisa, pagherà 17 libbre, 15 soldi, e se le avesse dato morte
per sposarsi con un'altra, pagherà, inoltre, 32 libbre, 9 soldi.
Coloro che avessero aiutato il marito a perpetrare il crimine
saranno assolti mediante il pagamento di 2 libbre a testa.
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Art. 12) Chi affogasse suo figlio, pagherà 17 libbre, 15 soldi
(o sia 2 libbre in più che per uccidere uno sconosciuto), e se a
uccidere fossero il padre e la madre di comune accordo, pagheranno 27 libbre, 1 soldo per l'assoluzione.
Art. 14) Per l'omicidio di un fratello, d'una sorella, del padre o
della madre, si dovrà pagare 17 libre.
Art. 17) Il vescovo o abate che commettesse omicidio per imboscata, incidente o per necessità, pagherà, per raggiungere
l'assoluzione, 179 libbre, 14 soldi.
Art. 18) Colui che in anticipo volesse comperare l'assoluzione
di ogni omicidio incidentale che potesse perpetrare in futuro,
pagherà 168 libbre, 15 soldi.
Art. 25) Il frate che per migliore convenienza o gusto volesse
passare la vita in un eremo con una donna, consegnerà al tesoro pontificio 45 libbre, 19 soldi.
Art. 29) Il figlio bastardo di un prete che vuole succedere al
posto del padre nelle sue funzioni religiose, pagherà 27 libre.
Art. 31) 1 laici contraffatti o deformi che vogliano ricevere
ordini sacri e possedere benefici, pagheranno alla cancelleria
apostolica 58 libbre, 2 soldi.
Art. 32) Uguale somma pagherà il guercio dell'occhio destro,
mentre il guercio dell'occhio sinistro pagherà al Papa 10 libbre, 7 soldi. Gli strabici pagheranno 45 libbre, 3 soldi.
Art. 33) Gli eunuchi che volessero entrare negli ordini, pagheranno la quantità di 310 libbre, 15 soldi.
A onore del vero, dobbiamo ricordare che esiste una controversia intorno all’autenticità di questo elenco. In effetti all’epoca
esistevano dei tariffari della curia romana, facilmente visionabili, ma della Camera-Taxe mancano le fonti. Tutto sarebbe frutto
dell’ingegno dello storico spagnolo Pepe Rodriguez, nato nel
1953. Egli ha svolto interessanti ricerche relativamente alla storia delle religioni, dal taglio antropologico. Non è da trascurare
la teoria che presenta nel suo volume Dio è nato donna, in cui
pone in evidenza il passaggio dal culto della Dea Madre terrena
a quello del Dio celeste come conseguenza dell’evoluzione dal
sistema economico derivato dalla caccia a quello fondato sull'agricoltura e sull'allevamento.
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La Camera-Taxe viene citata nel suo libro Mentiras Fundamentales de la Iglesia Católica (‘Verità e menzogne della Chiesa
cattolica’). In realtà non è riportato in nessuna delle edizioni degli atti pontifici e lo stesso Rodriguez non è riuscito a documentarne le fonti. Egli sostiene che l’originale sarebbe nascosto in
Vaticano, senza riuscire a dare precise informazioni, e ha accettato che questo manoscritto fosse qualificato come ‘dubbioso’. E
nel dubbio restiamo pure noi…
Torniamo al ‘mal francese’, che fu classificato come una punizione divina e la sua introduzione in Italia e a Bologna diede
l'avvio ad un programma per le prostitute che prevedeva
l’obbligo di una visita igienica sistematica, senza la quale si poteva incappare nella sospensione dell'esercizio dell’attività fino
al ben più grave rogo.
Il nome della malattia sembra derivare dal titolo di un componimento in esametri di Girolamo Fracastoro (1476-1478 ca. –
1553) Syphilis Sive Morbus Gallicus stampato a Verona nel
1530.
Fu chiamato il morbo gallico o mal francese in quanto si riteneva fosse stato introdotto dalla truppe francesi.
La medicina usata per questo male demoniaco fu il miracoloso
legno di guaiaco importato dalle Antille fin dal 1508. Contro una
punizione divina, il legno apparve un dono sacro, che naturalmente non poté godere di una larga diffusione, considerato il suo
altissimo costo.
L’infuso caldo veniva somministrato per un lungo periodo di
tempo, anche venti o trenta giorni, coadiuvato da estenuanti cure
diuretiche, lassative e dietetiche. L’azione del farmaco fu ritenuta potenziata dal calore, per cui la stanza dell’ammalato era sigillata e grossi bracieri con fuoco erano posti al suo interno oltre
che scaldini per il letto, già predisposto con pesanti coperte.
Si alternava la cura all’acqua di guaiaco con purghe, controllo
del calore e prelievi di sangue. E poi si ricominciava nuovamen-
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te… spesso fino alla morte del paziente… la cui causa non era
certamente solo la malattia!
In seguito venne in aiuto l’importazione della salsapariglia,
anch’essa molto costosa.
Si provò così ad abbinare le due cure, sotto l’egida e
l’autorizzazione delle congregazioni che reggevano gli ospedali.
Nel 1574, osservando i scarsi risultati dei medicamenti, occorse
il primo divieto di somministrazione del legno ed ogni cura fu
sospesa nel 1584 all'Ospedale della Vita di Bologna.
La sifilide fu ritenuta un male incurabile, per il quale il ricovero
era proibito!
I magici crocicchi divennero spesso i luoghi in cui i malati venivano abbandonati a se stessi ed alla misericordia di Dio.
A Bologna spiccano le lezioni di Luca Ghini relative a questo
male, perdute dopo la sua morte e ritrovate solo trenta anni dopo
in un manoscritto di Filippo Schopf.
Le ricerche del dotto bolognese erano all’avanguardia e riflettono la cultura medica della Bologna cinquecentesca, dove la medicina e l’alchimia creavano ancora un connubio importante.
Gli studi di Ghini riconoscevano un’infezione causata da una sostanza tossica che si ampliava nel corpo in tre fasi: fegato, cervello e cuore. Questi tre stadi rappresentavano anche la curabilità del male: nel primo stadio la cura era di difficile guarigione,
nel secondo difficilissima e nel terzo era ritenuta incurabile.
Fu un’innovazione la pulizia degli organi infetti con aceto di
rame; oltre al guaiaco ed alla salsapariglia fu introdotta la radice
di china. Suffumigi, unzioni mercuriali e impiego curativo
dell'ossido rosso di mercurio furono medicamenti che ottennero
una certa efficacia.
L’uso dei metalli nella prassi medica era fortemente influenzato
dall’alchimia e dall’astrologia, rifacendosi ai vecchi saggi
dell’Ateneo bolognese, tra cui Leonardo Fioravanti vissuto nel
XVI secolo.
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Tra tutti i metalli, il più puro era l’oro, simbolo del Sole e delle
virtù taumaturgiche di questo astro. Poteva essere ingerito in
minuscole lamine o portato a contatto con la pelle, come nel caso degli orecchini d'oro, portati anche dagli uomini nella tradizione emiliana del XIX secolo con l’incantato scopo di proteggere la vita e di allontanare ogni male!
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Eretici erotici
Esiste una mitologia cosmogonica che racconta l’associazione
che esisteva tra Dio e il Diavolo.
In molte culture, addirittura, l’origine dell’uomo è dovuta a queste due forze che insieme hanno realizzato questa Opera. Tuttavia non esiste connessione tra la parola diavolo e la parola male.
L’inglese devil, come il tedesco Teufel e lo spagnolo diablo, derivano dal greco, diabolos, che significa ‘calunniatore, spergiuro, avversario’.
Nel III e nel II secolo a.C. la tradizione greca del Vecchio Testamento collegò il termine ‘maligno’ all’ebraico satan, ovvero
‘avversario, ostacolo, oppositore’, anche se secondo alcune fonti
potrebbe essere collegato alla radice sat- indicante il ‘membro
virile atto alla riproduzione’.
La teoria satanista nacque dall’accettazione del dualismo, cioè la
presenza di entità benefiche e malefiche contrapposte.
Il dualismo divenne la base anche delle sette gnostiche che concepivano la terra come l'inferno e quindi non originata da un Dio
buono. In realtà, il Dio supremo abitava tra i cieli distanti e non
aveva nulla a che vedere su ciò che accadeva sulla terra.
Un movimento, che si potrebbe definire libertino, era legato ai
messaliniani, una setta monastica diffusa nel IV-V secolo. Simeone di Mesopotamia, nel V secolo riuscì a moderare i loro
eccessi, ma il loro pensiero influenzò vari movimenti ereticali
del Medioevo occidentale, come la setta del Libero Spirito.
Quest’ultima, fu un’estensione della predicazione gioachimita, e
si diffuse in Francia, Paesi Bassi, Germania, Boemia, Italia. Essi
erano convinti di essere pervasi dallo Spirito Santo e perciò liberi dal peccato. Per questo, potevano esercitare ogni atto peccaminoso e avere rapporti sessuali con qualsiasi persona, senza timore di alcun giudizio. Probabilmente, al Libero Spirito, si ispirarono, in Italia, gli Apostolici guidati da fra’ Dolcino e gli adepti dello Spirito di Libertà.
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I messaliani dell'Armenia raggiunsero i Balcani verso l'XI secolo. I pauliciani, diffusi nell'Asia Minore e in Armenia, furono
deportati nei Balcani nel 872; i bogumili che, intorno al 950 erano stabiliti in Bulgaria, si spostarono verso occidente. Gran parte
delle loro dottrine deriverebbero dai pauliciani e dai messaliani.
I bogumili influenzarono le ideologie catare, di cui appare
l’influenza in Italia e a Bologna dall’XI secolo. Essi, seguendo
le informazioni di Eutimio Zigabeno, credevano che Satanaele
fosse il primogenito di Dio, e Cristo il secondogenito. In realtà,
per i bogumili, questa credenza derivava da una fonte iranica,
perché anche nella tradizione zervanita, Ahrimane (Satana) era
considerato il primogenito e Cristo suo fratello minore. I bogumili, dopo la conquista bizantina della Bulgaria, attuata da Basilio II nel 1018, si diffusero tra la nobiltà e i monaci ortodossi.
Essi si divisero in Chiesa Dragovitza e in una Comunità di Bulgari. Nel XII secolo iniziò la loro persecuzione, che li costrinse a
fuggire verso l’Occidente. Essi non ritenevano importante il battesimo, l’eucarestia, il matrimonio e la confessione.
I catari ribadivano i concetti prima espressi, ovvero la paternità
del mondo ad un Dio inferiore e malvagio, quello del Vecchio
Testamento. Essi si facevano chiamare ‘perfetti’ per queste convinzioni e quindi non alimentavano la procreazione. Molti di loro praticavano per questo l’astinenza dal sesso, erano vegetariani, contrari al possesso di beni materiali.
Si narra che relegassero la sessualità al mondo infero, come affermerebbe un loro testo misterioso. Verso la fine del XII secolo, giunse in Italia il Secretum, un vangelo apocrifo di Giovanni
Evangelista d’ispirazione manichea, che raccoglieva i misteri
che Gesù aveva rivelato a Giovanni nel corso dell’ultima cena.
Si accennava alla creazione dell'uomo avvenuta per mezzo del
Diavolo. Ad un angelo fu ordinato di entrare in quel corpo amorfo di argilla. Ad un secondo angelo fu comandato di entrare in
un altro corpo di forma femminile. Ecco il primo uomo e la prima donna, angeli incarnati in un corpo satanico. Con la copula
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diabolica i due esseri avrebbero ricongiunto ciò che in origine
era già unito!
Nel XII secolo, papa Innocenzo III indisse una crociata
contro le città catare
della Francia meridionale, accusandole
di eresia, anche per
via del loro comportamenti che mettevano in risalto la
corruzione
della
Chiesa di Roma.
Fra le accuse vi era
quella che adorassero il Diavolo in forma di capro o gatto,
in riunioni definite
Sinagoghe di SataCatari al rogo
na. Sotto tortura, alcuni eretici confessarono i crimini più atroci, come quello di sgozzare bambini, bere pozioni fatte col loro sangue e cantare inni al Diavolo. Per
giungere alle riunioni, volavano a cavallo di manici di scopa o
bastoni unti d'olio, mentre il loro posto a casa era preso dai diavoli. Tutte accuse che rientrano nell’immaginario collettivo stregonesco.
Secondo una credenza, nella lingua in uso in Provenza, un elfo
donna era detto albi, elbe o ylbi, mentre Albi era il nome del più
importante centro cataro della regione sui Pirenei ove essi avevano sede. Nella tradizione simbolica catara aveva un ruolo fondamentale la figura del drago, che molti inquisitori videro come
emblema del Maligno. In realtà, nell’antichità, i draghi erano
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collegati alla sapienza e all’alchimia. Secondo i greci, si trattava
di esseri in grado di donare la luce, mentre i gaelici li consideravano simbolo di sovranità e i cinesi apportatori di sorte favorevole. Fu soltanto con l’avvento della tradizione giudeo-cristiana
che il drago divenne un essere sinistro, pari al serpente tentatore.
In effetti, anche in inglese, troviamo questa corrispondenza, per
cui dragon deriva dal latino draco e dal greco drakon, ovvero
‘serpente’. Il vocabolo, però, è affine a edrakon - una forma al
passato del verbo derkeshta, ovvero ‘vederci chiaro’ - e risulta
equivalente a nahash, il termine biblico con cui gli ebrei appellavano il ‘serpente’. Questa parola semitica era in riferimento a
un alto grado di comprensione e significava ‘decifrare’ o
‘scoprire’.
Dracena Draco
In questo senso, come possiamo ben notare, il gran seduttore divenne egli stesso portatore della luce sapienziale.
Inoltre, l’albero del drago (dracena draco) produce una resina
conosciuta come ‘sangue di drago’ e veniva usata come colorante cerimoniale in Oriente. Non solo, durante il Medioevo veniva
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utilizzato per scrivere sigilli magici e talismani. Nella medicina
popolare favoriva la guarigione delle ferite e fermava il sanguinamento, mentre internamente era utile contro i dolori alla cassa
toracica, i traumi interni e le irregolarità mestruali.
Questa pianta fu assimilata all’estratto del giglio, i cui pistilli
rossi producono un colorante simile a quello del sangue di drago. Questo particolare colore aveva una forte connotazione simbolica derivante dagli antichi culti della Dea Madre, ove rappresentava il sangue mestruale, detto ‘fuoco stellare’ e chiamato pure ‘nettare della suprema eccellenza’. L’utilizzo dei pistilli del
giglio, per le colorazioni, avevano una forte valenza rituale che
richiamava la discendenza femminile attraverso Lilia, Lilith, Luluwa, Lilutu e Lillet: tutte divinità connesse alla simbologia del
giglio. Ma occorre ricordare che queste stesse divinità, che furono assimilate pure a Miriam, Betsabea e Maria Maddalena, descrivono una discendenza femminile della dinastia messianica
del Graal e il rapporto col cosiddetto ‘sangue reale’ o ‘sangraal’
di cui gli Albi-gens sarebbero stati una via di trasmissione iniziatica. Questa stirpe messianica del Graal ebbe diversi emblemi,
tra cui le Dame del Lago, che collegate al dominio delle Acque,
riportavano al culto della Grande Madre.
La Rosi-crucis, ovvero la ‘Coppa delle Acque’ o ‘Coppa della
Rugiada’, uno dei simboli del Santo Graal, era in relazione col
sangue messianico raccolto nel sacro calice del grembo materno.
Nella tradizione del Graal, le donne erano in collegamento spirituale ad una ritualistica mensile che, precedentemente, era svolta
nei templi dedicati alla Dea Madre. Questo rituale concerneva in
un bagno nel sangue mestruale e nell’acqua. Queste pratiche furono pesantemente redarguite dalla Chiesa, che vi leggeva una
sorta di satanismo vampiresco. In realtà per queste abluzioni,
l’acqua veniva semplicemente colorata con l’estratto dei pistilli
rossi del giglio, non dimentichiamolo, simbolo di purezza.
Nel 1184, nacquero numerose invettive anche contro i valdesi.
La loro Chiesa ebbe inizio da un movimento nato nella seconda
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metà del XII secolo, a Lione (Francia), ad opera di un mercante
di nome Valdo o Valdesio, Valdès. Egli abbandonò ogni ricchezza materiale dedicandosi alla predicazione itinerante dell'Evangelo ed alla assoluta povertà. La Chiesa di Roma, dapprima
approvò questo Ordine, ma poi, vedendo un contrasto nella sua
pratica, lo scomunicò nel 1184 al Concilio di Verona.
Valdo e alcuni dei suoi seguaci, detti Poveri di Lione ed in seguito valdesi, rifiutarono la sottomissione e il riconoscimento
dell'autorità episcopale, corrotta e troppo interessata al potere
temporale. Anche dopo tale scomunica, questa ideologia si diffuse a macchia d’olio, pur se nella clandestinità, perché i valdesi
furono colpiti dall'anatema del Papa. Furono accusati di adorare
il Diavolo e di partecipare ad orge notturne, durante le quali un
cane spruzzava acqua benedetta sui presenti con la coda. Furono
accusati anche di cannibalismo, e tanto fu sinistra la fama che
acquistarono, che in Francia, il termine popolare per indicare la
stregoneria era vaulderie, e le streghe erano chiamate vaudoises.
Il fatto che potessero predicare anche le donne valdesi (e catare)
costituì un ulteriore motivo di rigetto di tale dottrina.
A tale fine, nel 1088 il canonista della scuola di Bologna Ugo da
Pisa aveva commentato un passo di un autore precedente con le
seguenti frasi
Dico che la donna non può ricevere l’ordine. Che cosa lo impedisce? La costituzione della Chiesa e il sesso, cioè la costituzione della Chiesa fatta a motivo di sesso. Se perciò accadesse che una donna fosse ordinata, essa non riceverebbe
l’ordine; pertanto le è proibito esercitare gli uffici degli ordini.
Questa formula fu alla base di tutti gli autori successivi, compreso il Decreto di Graziano (1140 ca.) elaborato nella scuola bolognese.
Le situazioni deviate in termine di eresia, proseguirono e, nel
1289, papa Onorio IV ordinò la persecuzione di un gruppo di eretici tedeschi, i quali predicavano che uomini e donne dovesse-
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ro astenersi dall'indossare abiti, oltre che non praticare il lavoro
manuale, al fine di riottenere lo stato di innocente perfezione di
Adamo ed Eva nell'Eden.
Un Ordine religioso tacciato di comportamento voluttuoso, nel
XIII secolo, fu quello dei Gaudenti (quelli della lapide già parzialmente descritta nel secondo capitolo), criticato anche dallo
stesso Dante, che sistemò i confratelli all’Inferno.
Di questo Ordine si riferisce anche Achille Volta che fece del
Priorato di Casaralta di Bologna, nel XVI secolo, un luogo di
ameni piaceri, con moltissime iscrizioni augurali, spesso giocando sull'appellativo dei Gaudenti, come ad esempio nella frase:
Ho consacrato questo tempio al Genio, i Giardini alle Grazie,
le fonti alle ninfe, i boschetti ai Fauni e la bellezza di tutto il
luogo a Sebeto (fiume divinizzato della Campania) e alle Sirene: voglio che siate i ben venuti e i ben andati.
Anche a Ronzano, altro loro possedimento, una tradizione tramanda immagini insolite nella sala delle riunioni dell'Ordine
che, si dice, avessero luogo nel buio più profondo della notte.
Tra due finestre era dipinta una pietra cubica nera, sulla quale
trovava spazio il famoso enigma legato all'Ordine dei Gaudenti,
che invece a Casaralta era inciso su di una lapide, unitamente ad
una minore con una trascrizione compiuta da Achille Volta. A
Ronzano, la frase era contornata da arabeschi ed immagini misteriose. Le interpretazioni si sono susseguite nel corso dei secoli, dando luogo a collegamenti quanto mai vari e fantasiosi. Tra
questi ci fu un riferimento al lassismo ed alla decadenza che ebbe l'Ordine, per cui, di volta in volta diventò: la follia lussuriosa
di cui si macchiarono gli aderenti; l'opera svolta dalla Milizia e
la distruzione motivata dalla loro posizione al limite del paganesimo.
Però non possiamo dimenticare la figura di Achille Volta coinvolta in una rissa con un maestro dell’eros… Pietro Aretino.
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Achille della Volta Bolognese,
la man ti bacio delle man reine
per quelle pugnalate pellegrine
che all’Aretino desti per l’arnese.
Inoltre, come non ricordare, la terribile persecuzione effettuata
contro i Templari, che a Bologna ebbero diverse sedi, tra cui
quella in Strada Maggiore. Nel 1307, questo Ordine fu accusato
di adorare il Diavolo in forma di gatto o di feticcio e di indossare
cinture che avevano toccato la testa dell'idolo; di negare Cristo,
la Vergine e i Santi; di calpestare, sputare e orinare sui crocifissi; di praticare l'omosessualità; di praticare cerimonie di iniziazione che richiedevano atti omosessuali. Si sosteneva che durante le cerimonie di iniziazione, l’iniziando dovesse baciare la sua
guida, e scambiare altrettanti baci sull'ombelico, sull'ano, alla
base della spina dorsale e sul fallo.
Per alcuni, questi ultimi rituali sono stati considerati semplicemente collegati ai punti energetici del corpo, come l’osso sacro,
al fine di attivare la forza generatrice assopita nel corpo. Questa
potenza sarebbe in grado di operare la resurrezione dopo la morte.
In definitiva queste cerimonie risultano molto simili a quelle delle streghe radunate al sabba, costrette a baciare il Diavolo, spesso sotto forma di caprone sotto la sua coda.
Lo studioso Alberto Arecchi afferma che
Basandoci sulle descrizioni dei sabba, abbiamo già supposto
che la realtà che vi si nasconde è quella del Carnevale, nel
corso del quale gli uomini si travestono da donna, spesso da
vecchia, girando per le campagne con fracasso terribile, e onorano il loro dio cornuto, il becco, con riti tuttora esistenti (soffiaculo, baciaculo, fuoco alle chiappe).
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Festa dei folli medievale
I folli di Carnevale usavano girare per le strade con i loro folles,
soffietti peteggianti, con i quali moltiplicavano le anime, imitando i suoni dei diavoli dell'Inferno.
Poco prima di finire, il carnevale doveva lasciare il suo testamento per voce di un porco o di un asino, che - dalle fonti - lasciava tutte le sue parti del corpo ai partecipanti. Di queste la
cennamella andava ai soffiatori, che avevano il compito di costituire la riserva di anime del mondo, che - come in tutte le tradizioni religiose del passato - sono in numero limitato.
Ecco un esempio di testamento del porco del bolognese del 1600
esposta dall’agronomo bolognese Vincenzo Tanara:
Prima lascio il mio si, da una caterva di golosi con varia cuocitura nel loro ventre seppellito.
Lascio a Priapo il mio grugno, col quale possa cavare i tartufi
dal suo horto.
Lascio a’ librari e cartari i miei maggiori denti, da poter con
comodità piegare e pulire le carte.
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Lascio a’ dilettissimi Hebrei, dai quali mai ha avuto offesa alcuna, le setole della mia schiena, da poter con quelle rappezzar le scarpe e far l’arte del calzolaio.
Lascio a’ fanciulli la mia vescica da giocar.
Lascio alle donne il mio latte, a loro proficuo e sano.
Lascio la mia pelle a’ mondatori e mugnai, per far recipienti
da acconciar i grani.
Lascio la metà delle mie cotiche a’ scultori, per far colla di
stucco, e l’altra metà a quelli che fabbricano il sapone.
Lascio il mio sebo a’ candelottari, per mescolarlo a metà col
bovino e caprino e far ottime candele, con le quali li virtuosi
possono alla quiete della notte studiare.
Lascio la metà della mia songia a’ carrozzieri, bifolchi e carrettieri, e l’altra metà a’ garzolari per conciare la canapa.
Lascio le mie ossa ai giocatori, per far dadi da giocare.
Lascio a’ rustici, miei nutritori, il fiele per poter senza spesa
cavar le spine dal loro corpo, quando scalzi e nudi nel lavorar
la terra gli fossero entrati nella pelle, e per poter senza spesa,
in luogo di lavativo, l’indurato corpo irritare.
Lascio agli alchimisti la mia coda, acciò conoscano che il
guadagno che son per fare con quell’arte è simile a quello che
io faccio col dimenar tutto il giorno la detta coda.
Lascio agli hortolani le mie unghie, da ingrassar terreno per
piantar carote.
In tutti gli altri liei, lardi, prosciutti, spalle, ventresche, barbaglie, salami, mortadelle, salcizzutti, salcizze e altre mie preparationi, intuisco cuglio che sia mio herede universale il carissimo economo villeggiante.
L'anima-soffio incarna un corpo umano fino alla fine del suo
percorso, poi, se ne esce alla morte - secondo François Rabelais
- attraverso il «sedere». La tradizione cristiana ha impetrato lo
stesso uso, dignificandolo e legandolo a san Biagio (omofonia in
tedesco tra Blasius e blasen, ‘soffiare’) che è il protettore della
gola e dei soffi vitali.
Un altro animale - oltre l'asino ed il maiale – che occupava una
posizione di rilievo nelle celebrazioni carnevalesche era l'orso.
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Secondo la tradizione, l'orso uscirebbe dalla tana il giorno di san
Biagio, il 2 Febbraio alla Candelora, con la pancia piena delle
anime dei morti, con le quali sarebbe venuto in contatto nel corso del suo letargo nella grotta. Al risveglio, doveva espellerle
dalla pancia facendole rinascere. Anche questa tradizione riporta
l'immagine del vento creatore, del soffio vitale collegato alla flatulenza, evocato da canzoni oscene.
Così in questa girandola di ipotesi simboliche, il bacio sull’ano e
la sodomia addotta ai Templari risulta essere una visione trascendente attraverso la quale il soffio vitale emesso dalla bocca
si riconnette con quello mortifero del sedere, in una congiunzione che sembra riprodurre l’immagine dell’Ouroboros. I soffi si
permeano e si uniscono in un ciclo che assomiglia all’eterno
movimento dell’esistenza cosmica.
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Il libertino carnevale magico
Abbiamo appena accennato alle rituali dei Templari e delle streghe in connessione con il carnevale, il periodo dell'anno in cui si
celebra maggiormente il sesso ed i suoi attributi!
Esso è un prodotto tipico del mondo medievale, anche se non è
difficile trovare dei contenuti connessi con le ritualità più antiche. Soprattutto ricorre il parallelo con le festività celebrate a
cavallo tra la fine e l'inizio dell'anno, come elemento propiziatorio della stagione agricola, per esaltare il risveglio delle forze
della natura, attraverso un simbolico richiamo alla fertilità della
terra attuato per mezzo di attività orgiastiche. In questi arcaici
rituali, prevaleva una sinistra inversione della norma, ovvero tutto doveva essere ribaltato rispetto ai valori sociali imperanti.
Questo ribaltamento esprimeva la necessità di propiziarsi magicamente l'annata agricola, in un periodo dell'anno, in cui le forze
oscurate del sole riprendono vigore e potenza germinativa. Dalla
tenebrosa notte invernale si volgeva lo sguardo verso il risorgere
della luce e della vita.
Questo atteggiamento si riscontra in varie ritualità precristiane.
Tra queste i Saturnali, festività romane in onore di Saturno.
Durante i Saturnali si verificava un ribaltamento di valori, gli
schiavi erano temporaneamente liberati, veniva eletto un re del
gioco e si scambiavano doni rituali, quali candele e piccole immagini o bambole di terracotta… tra banchetti, giochi d'azzardo
e danze sfrenate, spesso confluenti in rituali orgiastici.
La Chiesa ha cercato di esiliare questi retaggi pagani, al di fuori
del periodo natalizio, anche se ancora alcuni momenti di queste
celebrazioni sono riscontrabili nelle tradizioni dedicate ai Santi
Innocenti, alla notte di Capodanno ed alle feste dell'Asino e dei
Folli, che venivano celebrate all'interno delle chiese.
La Festa dei Santi Innocenti - celebrata il 28 Dicembre - prevedeva l'elezione il 6 Dicembre di un vescovello - episcopellus - e
dei relativi cappellani tra i seminaristi. Questo pseudo - vescovo
doveva comportarsi e vestirsi come un autentico ecclesiastico,
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mentre i preti e gli altri chierici si comportavano in maniera bizzarra, con scherzi e parodie oscene durante le funzioni, cui assistevano mascherati. Tra il secolo XII e XIII, la sacralità delle
prime celebrazioni si avvicinò maggiormente a temi irriverenti:
cuoio al posto di incenso, altari come grandi tavole di gioco a
dadi, canti osceni al posto dei salmi. Così, gradualmente la Chiesa prese una posizione contraria a queste liturgie, lasciando queste Feste dei Folli, alle celebrazioni laiche.
Spesso, la libertà di costumi sessuali fu associata alla sfrenatezza
nel consumo dei cibi e bevande - il celebre assioma lussuria e
gola - per cui i culti dei momenti di passaggio stagionale avevano ritualità comuni: abusi alimentari e sessuali, accompagnati
dall'abolizione di tutti i divieti. La gola era ritenuta in grado di
ammaestrare il piacere fisico, tentazione dei sensi e prologo della lussuria. Non a caso il primo peccato di gola fu quello di Adamo… da qui il monito di «non intingere la mano nella scodella di una donna e non mangiare con lei».
Forse per questo, in occasione di uno sfarzoso carnevale bolognese seicentesco che ebbe luogo nel palazzo del marchese Tanari in via Galliera 18, vi erano due distinti menù: uno per gli
uomini ed uno per le donne. Grande concessione! In altre occasioni le donne erano invitate solo alla danza che seguiva la cena.
Giancarlo Roversi in un suo articolo ci ricorda…
il menù per soli uomini che ebbe come entrée cinque piatti
imperiali contenenti rispettivamente pasticcini alla genovese;
pagnotte "gentilmente" ripiene; una bisca, cioè una vivanda
composta di carne e verdure varie; galli d'India (tacchini) ripieni, tostati e contornati di tartelette di latte in pasta sfoglia;
polpettoni di petto di fagiani fatti a forma di api (emblema araldico dei Barberini), ornati con lattuga e impreziositi da polpettine a foggia di pera preparate con petto di starne, pistacchi
e cedro candito. Fecero seguito un bacile colmo di insalata putrida un piatto di "gelatina di monache", definita "trasparente e
gustosa", un gallo d'India al pimento che fu portato in tavola
ricoperto con le proprie penne come se fosse vivo.
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Il primo servizio freddo, o di "credenza", comprendeva inoltre
un pasticcio "in bella norma"; una lingua di bue salmistrata
decorata con fettine di limone; un ricco assortimento di paste
sfogliate fatte a forma di gigli; saporosa uva fresca servita in
tazze con fiori; cremoso mangiar bianco gettato negli stampi.
Il primo servizio caldo o "di cucina", si aprì con un fumante e
profumato piatto di piccioncini di primo pelo lessati, ripieni di
pistacchi e serviti su fette di pane abbrustolito e con contorno
di midollo e di "Cascio" di Parma, cioè il celebre grana parmigiano. Vennero poi portati in tavola: braciole di vitella battute, servite con salsa reale e lavori di pasta sfoglia; fegatelli
di capretto avvolti in rete di maiale e cotti allo spiedo con contorno di salvia fritta e melangoli spaccati; un capretto in fricassea ammannito agli ospiti con salsa imperiale; capponi lessati coperti di sedani e accompagnati da salciccia di Modena,
formaggio, mortadella grattugiato e salsa bianca.
Ecco invece la successione dei piatti del secondo servizio di
cucina. Come esordio fu servito un pasticcio brodoso con vitella battuta, uccelletti, bocconcini di mammella di vitella, tartufi, cardi, pinoli e prugne di Marsiglia. Fece seguito un piatto
di testine di capretto pelate e disossate, dorate e fritte, contornate di frittelline di sambuco. Per ultimo fu presentato un polpettone di vitello fatto a forma di stella, decorato con pinoli e
pistacchi e circondato di polpettine. Il terzo servizio di cucina
prese l'avvio con un piatto di quaglie allo spiedo servite in
casse di pasta sfoglia, circondate di rosmarino fritto. Fu poi la
volta di un bel gallo d'India lardato cotto arrosto e servito con
salsa di capperi, limoncelli e melegrane. I commensali assaggiarono quindi una rognonata di vitello lardata, cotta allo
schidione (spiedo) e accompagnata da crostini e salsa di cedro
e da una porzione di capretto arrostito con contorno di tordi,
salsa di melegrane, saporite crostate di mela e rose di zucchero. […] allo scoccare della mezzanotte, che segnava l'inizio
della quaresima, i convitati sedevano ancora a tavola, fu servita una sostanziosa portata "di magro" affinché nessuno potesse
commettere il grave peccato di violare l'astinenza nel giorno
delle Ceneri. Tale portata comprendeva: un'insalata di bietole
rosse, cicoria, carote, pastinache, servita con fette di tarantello, salmone, alici, uva passita e pinoli e accompagnata da fette
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di limone con zucchero e aceto rosato; cestini di giunco ripieni di mangiar bianco con mandorle, zucchero e acqua rosata
presentati con fiori sopra tazze; zuppa di prugne di Marsiglia
zuccherate; bottarga in fette con olio e melangoli servita tiepida; zuppa di ostriche alla tedesca, tartufi con limone recati sopra fette di pane abbruscato; ostriche fritte adagiate su fettine
di limone con contorno di caviale; un'insalata trifolata a base
di tartufo, ostriche, cavolfiori, code di gamberi, pinoli, pistacchi, prugne di Marsiglia, succo di melangole; ostriche in guscio accompagnate da melangole in bacili.
Il gran finale del memorabile banchetto fu tutta un'apoteosi di
frutta, di ortaggi e dolci. Sfilarono sulla tavola: crostate di
canditi, pere garavelle, pere cipolle, pere "signore", mele rose,
cardi, sedani, uva nera, olive grosse, marroni arrostiti, mele
sciroppate cotognate, semi d'anice confettati, funghi di pasta
di marzapane.
Se questo peccatuccio di gola doveva addestrare la lussuria…
non riusciamo ad immaginare ciò che avvenne tra le lenzuola dei
commensali quella notte!
Era sottintesa, a questo periodo carnascialesco, anche l'iniziazione sessuale del giovane maschio, consacrazione che prevedeva
eccessi di volgarità ed oscenità. Coperti dalle maschere, i maschi
avevano la possibilità di mettersi alla prova nell'arte di Ovidio,
prima di affrontare l'esperienza del matrimonio. Il mascheramento concedeva la liceità di ubriacarsi, corteggiare e lo scherno
degli uomini traditi dalle proprie mogli, come pure dei mariti
troppo sottomessi. Presiedevano, inoltre, alle rappresentazioni
oscene di insuccessi matrimoniali tra coppie, che avevano provocato scandalo o chiacchiere in paese. Non erano inusuali, processi simulati a donne che si ritenevano non soddisfatte delle
prestazioni erotiche dei consorti. Queste udienze si concludevano con l'affermazione che per soddisfare una donna non era sufficiente il marito, ma la signora si doveva accompagnare volentieri a uno o più amanti.
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Tra gli scherzi del carnevale tipicamente medievali, spiccarono i
rumori osceni, le flatulenze. Questi venti avevano il potere di
evocare il soffio vitale o mortifero, tanto che un poeta francese,
nel suo poetico viaggio all'inferno, si protesse il sedere con un
sacchetto, al fine di evitare la fuoriuscita dell'anima!
Quest'aria di giocosità contagiò anche Dante, nell'Inferno, al
canto XXI della Divina Commedia, dove descrive diavoli in posa… inequivocabile, tentativo forse di riprodurre il carnascialesco corteo infernale, che si teneva a Firenze nel XIV secolo.
Parlando di rumori osceni ed altre amenità, viene in mente che a
Bologna vi erano due antiche vie perdute… via Stronzomuffo
nei pressi della Canonica di San Pietro e via Merdarola, dietro
alla Zecca.
Certo non furono nomi carnascialeschi, ma ricordi di miasmi
dovuti alla pulizia delle stalle cittadine!
Verso la fine del Medioevo, il carnevale fu soprattutto un avvenimento privato, legato ad una ristretta cerchia di aristocratici,
che concentrarono tutte le attività spettacolari in questo periodo
(come le rappresentazioni teatrali), mentre le feste di piazza venivano tenute sotto controllo dalle autorità, al fine di evitare eccessi e sregolatezze.
A seguire, un periodo di demonizzazione, in cui risuonarono le
parole di Girolamo Savonarola e i tentativi di repressione della
Chiesa in relazione alla Riforma protestante.
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Sodoma e Gomorra!
In Grecia, l'omosessualità fu spesso una pratica idealizzata, che
prevedeva regole precise alle quali sottostare, che distinguevano
tra ciò che era accettato e ciò che - al contrario - non lo era. Come si ebbero pratiche al maschile, fiorirono anche comunità
femminili, nelle quali i rapporti avevano la stessa qualità iniziatica. Il circolo di Saffo a Lesbo fu quello più famoso, da cui anche i termini ‘saffico’ e ‘lesbismo’.
Questa tendenza sessuale è riscontrabile anche nel mondo romano, perdendo però la connotazione di pratica sublime, che aveva
contraddistinto la grecità classica. Come abbiamo visto, con il
sopraggiungere di una morale religiosa si giunse alle molte proibizioni, tra cui quelle del III secolo d.C. che toccò la prostituzione maschile. Giustiniano, nel 533, promulgò un editto che vietava l'omosessualità, assimilata all'adulterio, quindi passibile della
confisca dei beni della vittima e della pena capitale. La sodomia,
all'epoca, non era considerata solo pratica omosessuale, in quanto con questo termine si soleva designare qualsiasi rapporto non
finalizzato alla procreazione. Questa pratica fu intesa come un
rapporto in cui il seme maschile non aveva lo scopo di fecondare
la donna. Le nozioni tecniche di fisiologia dell'epoca affermavano che anche la donna poteva emettere un seme, che compartecipava alla procreazione. Fu un raro caso in cui si parlò di un argomento tabù, l’amore al femminile.
Una testimonianza di amore saffico giunge dal territorio bavarese, contenuta in un manoscritto del 1100, in cui si esplicita la
passione tra due religiose.
A Bologna, invece, giunse la dichiaratamente lesbica regina
Cristina di Svezia (1626-1689). Era il 28 Novembre 1656. In
città incontrò Giovanni Domenico Cassini (1625-1712), che le
donò un disegno su seta della meridiana di San Petronio, e fu
ospite del gonfaloniere Giovanni Nicolò Tanari.
Cristina fu anche un’abile alchimista, ispirata forse dai manifesti
rosacrociani, che ipotizzò il suo futuro regno come
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l’adempimento del pensiero profetico di Paracelso (1493-1541)
e di Sendivogius (1566-1636). Ovvero l’epoca aurea in cui sarebbe tornato Elia, uno dei tanti personaggio biblici cui fu ascritta un’ascendenza diretta con l’Arte Regia.
La biblioteca regale
conteneva molti testi
di alchimia, firmati
dai più illustri autori
di tale materia, nonché parti del Picatrix, un antico testo
magico. Di pugno
regale, rimane inoltre un disegno alchemico corredato di
illustrazioni di apparecchi di distillazione.
Vi è anche una tradizione legata alla
Porta Magica di
Roma, che sarebbe
stata costruita in onore ad una trasmuCristina di Svezia
tazione
alchemica
avvenuta negli appartamenti della regina Cristina.
La sua partecipazione alle pratiche alchemiche fu molto attiva,
soprattutto verso la fine della sua esistenza, ed introdusse alla
prassi anche Sibilla, una sua giovane amica.
Amava definirsi la regina filosofo rappresentata come re solare.
Gli omosessuali maschi furono perseguitati, soprattutto se intrattenevano relazioni con uomini sposati, lasciando trapelare un'intolleranza sempre più forte verso questo argomento.
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Dal 1179, col terzo Concilio Lateranense, la pena prevista per
gli omosessuali fu la scomunica, aprendo il campo ad una repressione più generalizzata ed aspra di queste pratiche sessuali,
che furono accomunate all'eresia. Bologna fu la città che ebbe i
primi statuti a trattare il problema nel 1257. Si incitava gli aderenti alla «Societas sancte Marie» di denunciare i sodomiti. La
pena prevista era l’esilio per loro ed il rogo per chi li ospitava!
La combustione si estese anche ai sodomiti nello statuto di Bologna del 1389.
Sotto una pioggia di fuoco stanno i sodomiti di Dante, nel canto
XV e XVI dell'Inferno nella Divina Commedia, fra di loro, Brunetto Latini, il giurista bolognese Francesco D'Accursio, il vescovo de' Mozzi ed altri personaggi legati al mondo politico
dell'epoca. Si cercò di negare che la sodomia di Brunetto Latini
fosse tale, ma solamente indice di una forma di deviazione letteraria o spirituale, legata al fatto che il poeta avesse usato la lingua francese, per scrivere una delle sue opere, quindi un falso
storico.
Il culmine di questa repressione si delineò, come abbiamo già
visto, nei processi contro gli appartenenti all'Ordine dei Templari, all'inizio del XIV secolo.
Pochi anni dopo, è il cronista Benvenuto da Imola, che informa
di una grande proliferazione di sodomiti a Bologna, difficile da
combattere per via della condiscendenza della cittadinanza.
Le osterie, le pasticcerie e le botteghe dei barbieri sembravano
essere altri luoghi prediletti per queste riunioni, situazione che
viene confermata anche dalla città di Firenze, potentemente bersagliata dalle veementi prediche di san Bernardino da Siena e da
Girolamo Savonarola. Era il periodo ove le predicazioni di Savonarola (1452-1498) si fecero più veementi, di un ardore incondizionato e privo di ogni diplomazia. L'omosessualità fu una
mania dei Piagnoni e di Savonarola, che aveva un occhio di riguardo per tali reati. Al fine di combatterla, aveva anche organizzato gruppi di ragazzi, che dovevano vegliare per porre fine a
questa tolleranza. L'odio suscitato nei suoi confronti fu grande,
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tanto che la tradizione tramanda il fatto che ad accendere il rogo
su cui fu immolato fra' Girolamo, fu proprio un sodomita.
Normalmente il rapporto sessuale era connotato dalla presenza
di un uomo adulto attivo, che seduceva un giovinetto - il cui ruolo era quasi sempre passivo - il quale poteva anche essere indotto a cedere dalla famiglia stessa che, attraverso questi contatti
aveva comunque la possibilità di racimolare un po' di denaro.
Spesso, però, questo comportamento era il preludio ad un'iniziazione sessuale, che - poi - era canalizzata all'interno di una vita
erotica eterosessuale. In alcuni casi, il rapporto prevedeva un vero e proprio apprendistato anche professionale ed il mantenimento del fanciullo da parte dell'uomo maturo.
A Venezia è riportato un atto inquisitoriale del 1348 in cui furono coinvolti Pietro da Ferrara e Giacomello da Bologna. Due
poveri cristi che condividevano la stessa dimora, per questo additati come omosessuali. Sotto tortura Pietro confessò di avere
avuto un’eiaculazione senza però avere consumato l’atto osceno
della sodomia. Giacomello, invece, pur sotto tortura non confessò nulla… questo fatto ci lascia un po’ perplessi conoscendo le
‘dolcezze’ di questa pratica inquisitoria. Resta il fatto che a seguito delle sue ammissioni Pietro fu bruciato vivo!
A Bologna nel 1412 fu punito Nicola Campioli per sodomia
commessa in San Petronio, nella Cappella Bolognini.
Un altro caso emblematico occorse nel 1593, quando sul capo di
Ottavio Bargellini e Allegro Todeschi pendette la condanna a
morte (impiccagione e poi rogo) emanata dal Tribunale del Torrone. L’accusa grave di sodomia gravava sul loro capo. Successivamente, poi, ci fu una rettifica che prevedette la decapitazione
per Bargellini, pena più adatta per la nobile famiglia cui apparteneva, e la conversione forzata al cristianesimo per l’ebreo Allegro. Il processo proseguì a lungo coinvolgendo anche un personaggio dell’Ordine dei Servi di Maria.
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Uno dei tanti processi in questione occorse nel 1727.
Nell’Aprile di quell’anno furono arrestati per pratiche contro natura vari personaggi bolognesi tra cui il giovane studente Leopoldo Taruffi, studente a Bologna.
Accusato di sodomia, il ragazzo confessò di avere avuto una relazione redditizia con un misterioso signore, che non viene citato
negli atti processuali. Inoltre, fece diversi altri nomi di uomini in
seguito regolarmente arrestati.
Leopoldo fu sottoposto all’ispezione anale, prova inconfutabile
del suo delitto. L’esito fu positivo e si riconobbe ufficialmente la
sua sodomia.
Il confronto tra le testimonianze di Taruffi e quelle degli altri
colpevoli tirati in causa dallo studente, Matteo Ricci e Carlo Cavedagna, presentò delle discrepanze. E neppure il confronto diretto tra le parti produsse alcuna chiarificazione. Per questo motivo, il passo successivo della prassi giuridica del tempo era procedere con la tortura, ovvero i tratti di corda.
E Leopoldo Taruffi fu regolarmente torturato.
Nel corso del tormento egli riconfermò tutto quanto aveva precedentemente reso, per poi cedere la voce alla sua difesa.
Difesa poco efficace sembra, se il giovane studente fu condannato al carcere, insieme agli altri due suoi compagni, scontando in
totale sette anni e liberato per grazia ricevuta dal cardinale legato.
Non sapremo mai il nome, però, dell’innominato signore che
viene citato nella prima parte del processo e poi scompare nelle
nebbie della legge… Forse un ricco nobile bolognese? O ancora
un uomo di Chiesa.
Tutto fu messo a tacere e la colpa fu aggiudicata!
Nella nostra storia non mancarono quelli che oggi sarebbero definiti transessuali. Giovan Battista dalla Porta ricorda questo fenomeno in Sicilia e a Napoli, mentre più recentemente si ricorda
che l’8 Gennaio 1912 moriva a Bologna la romana Virginia
Mauro col nome d’arte Zefte Akaira. Si esibiva nelle fiere come
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“ginandro”, ovvero l’ermafrodita vivente. Dietro piccolo compenso mostrava le sue particolarità agli adulti, mentre ai giovani
mostrava solo la faccia. Si definiva ‘di razza umana. Non uomo,
non donna, ma ginandro’. E quando l’ufficiale di stato civile dovette compilare la scheda del decesso, disse «Virginia Mauro,
d’anni 53, ginandro».
Tra le giustificazioni, che chiarivano queste inclinazioni, non
mancò chi prese a prestito Marsilio Ficino e l'astrologia, che liberava fatalisticamente le scelte dell'uomo implicato nella vicenda. Il pianeta Venere
in stretta relazione astrologica con Saturno in un
segno zodiacale maschile
poteva inclinare a rapporti
tra uomini, anche da un
punto di vista sessuale.
Anche Michelangelo utilizzò velatamente questo
codice, quando fece redigere il suo oroscopo dal
biografo, mettendo in enfasi la sua congiunzione
tra i pianeti Mercurio e
Venere, fattore determinante per questo tipo di
attitudine, come aveva
spiegato nel II secolo d.C.
Tolomeo nel suo Tetrabiblos.
Ermafrodito
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Giacomo Casanova a Bologna
Giacomo Casanova nacque a Venezia nel 1725 e morì a Dux (in
Boemia) nel 1798, lasciando in eredità alla storia la sua fama di
avventuriero e libertino, che ha fatto sognare le donne di tutto il
mondo.
In realtà, come afferma Walter Catalano:
egli fu fine letterato (anticipatore anche della moderna fantascienza con il suo romanzo Icosameron del 1788), arguto polemista, ecclesiastico e violinista mancato, matematico, giocatore d'azzardo disinvolto, agente segreto e bibliotecario, inquisito e inquisitore.
Egli fu dunque un uomo poliedrico dalle mille sfaccettature in
cui non poteva mancare un certo interesse per le scienze occulte,
la massoneria e le confraternite esoteriche.
Forse già dal 1746, Casanova si avvicinò alle arti magiche e cabalistiche, quando era a Venezia in veste di violinista, dopo i
viaggi a Napoli e a Corfù.
In quell'epoca, conobbe il senatore Matteo Bragadin, che lo introdusse in un circolo ristretto di uomini potenti, divenendone il
protettore.
Giacomo fornì prova della sua abilità con i numeri, tecnica da
lui appresa - come egli stesso affermò - da un eremita. Questa
tecnica, che per il senatore rappresentava la saggezza della Clavicola di re Salomone, fu messa in relazione alla cabala. Casanova sminuì sempre questa sua conoscenza e la descrisse come
una semplice truffa bonaria nei confronti degli appartenenti al
circolo, onde evitare che cadessero nella mani di ben altra sorta
di cialtroneria, ma soprattutto per non perderne il potente appoggio.
La sua fama, però, non si arrestò a questi dati e altre coincidenze
fanno pensare che non si trattasse di semplici giochi d'astuzia.
Egli guarì, a Parigi, nel 1752, la duchessa di Chartres, con l'aiuto
dei suoi oracoli cabalistici; ad Amsterdam nel 1760, azzardò
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previsioni legate alla Borsa, che si avverarono; ancora a Parigi,
nel 1763, restituì la voce perduta a madame du Rumain, con rituali a base di bagni di Sole e di Luna.
L'anno in cui si attesta la sua magicità fu il 1748, quando si trovava a Mantova. Qui, conobbe un certo Capitani, che si dichiarò
possessore del coltello magico di San Pietro, utensile in grado di
scoprire un grande tesoro celato a Cesena. A Capitani mancava
solo il mago in grado di sapere dove cercare e Casanova si presentò a lui come tale.
Attraverso vari espedienti, Casanova riuscì a convincere l'uomo
della sua magia e a fargli firmare un contratto, dal quale l'avventuriero ricavò subito un buon anticipo.
La vicenda si intreccia a racconti fantasiosi di Casanova, per descrivere la presenza del tesoro nell'abitazione da lui indicata come custode del segreto, nella fattoria di un ricco contadino,
Giorgio Francia. Non manca neppure la presenza di un avvenente fanciulla, Genoveffa, figlia del contadino, che il Casanova richiese come fidata collaboratrice nell'ambito del gran rito magico che stava per compiere.
Il rituale doveva svolgersi in gran segretezza, per evitare l'intervento dell'Inquisizione, che - a detta del contadino - aveva già
messo gli occhi sul tesoro, anni addietro.
Walter Catalano descrive così i preparativi per questo avvenimento:
...ciascun partecipante avrebbe cenato a turno con lui, in ordine di età: Genoveffa - che dovrà nel frattempo cucire con utensili nuovi comprati senza tirare sul prezzo la veste di tela
bianca per il grande scongiuro avrebbe dormito sempre
nell'anticamera vicino al letto di Casanova dove ci sarebbe
stata una vasca da bagno in cui questi avrebbe lavato, mezz'ora prima di mettersi a tavola, il convitato di turno, il quale avrebbe dovuto essere a digiuno. È tutta una scusa per approfittarsi della ragazza quando sarà arrivato il suo turno di essere
lavata: nel giro di un paio di notti Genoveffa passerà direttamente dall'anticamera al letto di Casanova, che tuttavia, per
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non tradirsi, la serberà vergine per la notte della "grande operazione magica".
Casanova fece preparare tutti gli ingredienti, che - nonostante il
suo continuo beffeggiare - denotavano una profonda conoscenza
dei testi magici dell'epoca, come la Filosofia Occulta di Agrippa, e si apprestò a celebrare il rito. Appena entrato nel cerchio
magico da lui costruito, si scatenò una tempesta impressionante
che spaventò Casanova, tanto da farlo ritornare sui propri passi,
abbandonare il progetto e lasciare in lacrime la bella Genoveffa.
Giustificò la sua partenza improvvisa e il mancato ritrovamento,
per via di un patto, che avrebbe contratto nella notte con i sette
spiriti guardiani del tesoro, ma lasciò precise indicazioni sul
punto esatto in cui il contadino doveva cercare per ritrovare il
tesoro.
Nel 1750, Casanova entrò a far parte di una Loggia massonica
dove aveva presumibilmente ricevuto insegnamenti meno superficiali in campo esoterico di quelli da lui sempre pubblicamente
ammessi.
Giuseppe Bolognini, conosciuto da Casanova a Torino, invitò il
famoso personaggio a Milano e lo introdusse nel proprio ambiente familiare. Qui Casanova fu attratto dalla consorte di Giuseppe Bolognini, più nota con il nomignolo di Spagnoletta, con
la quale ebbe uno scambio epistolare.
Per conoscerla meglio, Casanova accettò l'invito di Bolognini,
anche se poi, accaddero situazioni inaspettate.
Attraverso l'intervento di fattucchiere e preti, Casanova conobbe
altre donne, con le quale ebbe storie appassionate.
A Venezia, nel 1755, Giacomo Casanova fu inquisito a causa del
suo stile di vita, con l'accusa di praticare arti magiche, gioco
d'azzardo, truffa e di essere legato alla Massoneria e ai Rosa+Croce, per via di alcuni testi magici che una spia dell'lnquisizione aveva trovato presso il suo domicilio. Tra questi testi condannati, non fa meraviglia di trovare i libri più importanti sulla
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magia, come La clavicola di Salomone, il Sefèr ha-Zohar, Picatrix e un Libro planetario.
Fu prigioniero ai Piombi di Venezia, ma egli riuscì ad evadere,
scappando verso la Francia. Qui entrò in relazione con la marchesa Adelaide Marie-Thérèse d'Urfé (1705-1775), il cui cenacolo era ricco di suggestioni magiche e alchemiche.
La frequentazione fu molto ricca di scambi culturali esoterici,
tenendo presente che la marchesa aveva un laboratorio alchemico, nel quale ella affermava di essere riuscita a realizzare la favolosa Pietra Filosofale.
Il libertino aveva intrecciato rapporti anche con i maggiori personaggi della storia ermetica europea, tra cui nel 1769 i coniugi
Cagliostro di ritorno da un pellegrinaggio a Santiago di Compostela in Galizia, la magica città meta di ogni cultore dell’Arte
Regia. Inoltre, conobbe anche il mitico conte di Saint-Germain.
A questo punto della sua vita si inserisce una donna bolognese,
Marianna Corticelli, conosciuta e amata a Bologna nel 1761.
Egli era giunto a Bologna per la prima volta nel 1744, per inseguire Teresa, attrice teatrale di cui si era invaghito. Una passione
fiammante che durò pochi mesi, anche se il destino fece incontrare di nuovo i due amanti nel 1760, in occasione di una recita a
Firenze dell’attrice. E fu la donna a segnalare a Casanova la bellezza conturbante della nostra Marianna, ballerina in cerca di notorietà.
Bologna fu per il noto libertino un luogo in cui era possibile
«procurare ogni genere di piacere con poca spesa» e la tredicenne Marianna fu uno di questi piaceri… proibiti, ma non a buon
mercato. Infatti, il corteggiamento alla giovane fanciulla costò
regali lussuosi e la promessa di un sostegno nel mondo dello
spettacolo (come sempre la storia ripete se stessa).
Marianna cedette già a Firenze, in una gelida stanza d’osteria.
Poi Casanova seguì l’amata a Bologna, dove si fermò in via
Murri presso la locanda ‘Il Pellegrino’.
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La sistemazione fu solo apparente, in quanto il veneziano si stabilì nell’umile abitazione dei Corticelli.
La cospicua differenza d’età e l’insolita situazione fecero degenerare presto la passione. Così l’avventura naufragò solo pochi
giorni.
L’ultimo soggiorno di Giacomo Casanova a Bologna è registrato
nel 1772, quando ormai in età avanzata alloggiò in via Galliera
al numero 13 dedito a suoi studi ed alle sue ricerche.
In città pubblicò, in quell’anno, lo strano opuscolo Lana caprina. Epistola di un licantropo, in cui dimostrò la sua competenza
nella arti mediche, contraddicendo coloro che affermavano che
la condotta della donna fosse influenzata dai sommovimenti
dell'utero.
Locandina film Casanova, 1927
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La visione trascendente della sessualità
Se il cielo copre la terra e la terra sopporta il cielo, l'essere umano fu immaginato come il centro dell'universo.
Il cielo fu considerato un principio attivo, esprimente l'essenza,
ciò che è atto puro, in una parola l'Uomo. La terra fu principio
passivo, femminile, espressione di potenza pura. Così la Donna
fu l'immagine atta ad esprimere le potenzialità dell'uomo, la sostanza primateriale indifferenziata che riceve il principio del moto e della forma dal maschio attivo immobile: madre e amante.
Ella divenne la forza trascendente, attraverso la quale si ottiene
il superamento della condizione umana. E la Donna rappresentò
la forza e la potenza del principio maschile. Come matrice della
forma e dell'universo, ella acquisì la virtù dalla quale possono
manifestarsi la forza e la potenza maschile. Quindi, incarnò il
principio del destino iniziatico.
L'uomo e la donna sono incarnati in un corpo terreno, ritenuto
elemento essenziale per sostenere la via della trascendenza, in
grado di cogliere lo splendore del creato e della natura. Per questo, il corpo fu considerato il contenitore della forza che si manifesta nel Tempo e nello Spazio. Per questo, la nudità non fu ritenuta peccaminosa, ma espressione del «glorioso corpo di gloria»
da preservare da ogni influenza negativa.
Anzi, come afferma Giulio Lensi Orlandi:
il segreto del sesso quale principio trascendente nel mondo del
sacro, del cosmico, dello spirituale, nelle forme indifferenziate
cercò l'essenza della mascolinità e della femminilità di cui la
sessuazione dei viventi non fu che un riflesso, una pallida manifestazione.
Per questo motivo, il letto fu rappresentato come il sacro luogo
in cui le forze opposte si incontrano per integrarsi l'uno con l'altra e generare la perfezione.
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Allo stato primordiale i due principi erano considerati un'unica
entità, per questo motivo s'immaginò che l'unione dei poli fosse
in grado di riequilibrare il cosmo, in quanto tutte le cose partecipano contemporaneamente, per loro natura, dell'uno e dell'altro
aspetto. Quando questi due elementi si equilibrano si rappresenta
l'androgino, la sintesi degli opposti. Tema caro al simbolismo
alchemico.
Il simbolismo sessuale fu molto usato nell'allegoria alchemica,
volendo intendere con ciò la congiunzione tra i principi vitali
contenuti allo stato archetipale dell'essere che, risvegliati dalle
Immagine alchemica
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pratiche magico - meditative, risalivano la corrente energetica
umana per raggiungere la consapevolezza e il giusto discernimento.
Da questi concetti nacquero tutte le pratiche magico - meditative
conosciute sotto il nome di magia sexualis.
Nel 1931 fu editata la prima edizione di un libro sulla magia sessuale, che ebbe lo scopo di riprendere tutti gli antichi rituali legati a questa disciplina e divulgarli. La base di questa arte magica fonda le sue radici nel creare un contatto sottile tra l’operatore
e la sua energia sottile, in modo tale da poter influenzare la materia stessa.
Il concetto che l’eros metta l’uomo nella possibilità di trascendere il mero stato materiale e giungere a mete come la veggenza, la
profezia, lo stato dionisiaco, appare un antico tema, già trattato
anche dallo stesso Platone.
In questo caso, la dimensione della sessualità viene approfondita
e utilizzata per varcare una porta arcana verso il contatto sovranormale.
Questa magia opera verso la trascendenza e soprattutto alla fusione tra uomo e donna, in maniera da rendere operativo l’apice
del piacere. Ciò può avvenire attraverso la visualizzazioni di
immagini, con la recita di versetti rituali ed evocazioni.
Seguendo questi dettami, la sessualità acquisisce le caratteristiche della preghiera. Queste ritualità erano praticate sin dal Medioevo, anche se nelle culture più arcaiche vi appare già traccia
storica. Naturalmente, non erano indirizzate a chiunque, ma solamente a coloro i quali seguissero una via iniziatica ed evolutiva.
Appare poi importante fare una riflessione a riguardo. Molto
spesso, queste pratiche furono usate, non tanto per il raggiungimento di finalità superiori, ma esclusivamente per realizzare atti
osceni, oppure, per tradurre in realtà, sogni materialisti e ottenere il massimo delle possibilità.
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A Bologna si ricorda il plateale caso dell’imbroglione mago Pasquale, che attraverso la sua magia sessuale era ritenuto in grado
di ridonare la fertilità perduta ad ogni fanciulla.
Operava nel suo laboratorio in via Nosadella e qui fu accolta la
bella di turno, incapace di generare un erede al marito.
Il rituale prevedeva l’allontanamento degli accompagnatori dal
laboratorio e il ritiro del mago e della donna in una stanzetta riparata da una tenda. Non si sa come, non si sa perché ma la famiglia udì le grida della ragazza, che si stava dimenando nel pertugio magico. Rientrati tutti di soprassalto, scostata la tenda, si
resero ben conto che il rituale magico che stava procedendo…
non era molto diverso da quello che il marito poteva compiere
con la moglie nel proprio letto nuziale!
Denunciato Pasquale, il verdetto fu molto drastico: taglio
dell’organo magico col quale il mago irretiva le fanciulle!
Graziato dal solito giungere di un personaggio importante in città, il resoconto portò alla conclusione della faccenda con il solo
taglio della lingua!
A questo proposito, vale la pena anche di ricordare la storia di
due alchimisti molto famosi, vissuti all’interno dell’epopea magico - alchemica di Rodolfo II, densa di contatti con la nostra
città: John Dee ed Edward Kelley. I due ricercatori lavorarono
attivamente insieme, soprattutto nell'ambito di evocazioni spiritiche. A questo proposito, il 21 Novembre 1582, John Dee ricevette dall’angelo Uriel, presentatosi con le forme di fanciullo,
una pietra rotonda e convessa, trasparente, simile a cristallo nero. Questa pietra fu chiamata The Shew Stone, o Sky Stone, ovvero ‘Pietra delle visioni’ o ‘pietra celeste’ e aveva la caratteristica di rivelare realtà invisibili ed emettere suoni di voci (al British Museum di Londra possiamo ancora vedere gli strumenti di
John Dee: un cristallo di rocca e questo specchio magico di ossidiana nera del quale si serviva lo studioso per comunicare con
gli angeli).
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Kelley fungeva da medium e lavorava su un tavolo che era disposto a seconda degli influssi planetari connessi agli spiriti;
questo era appoggiato su sigilli di cera e portava inciso un diagramma. Dee attivava la pietra delle visioni mentre prendeva
appunti sulle apparizioni degli spiriti che comunicavano attraverso la presenza di Kelley. Al termine di ogni seduta, Dee rinchiudeva il suo strumento magico all'interno di un astuccio, rinforzato da una struttura in oro massiccio e avvolto in un velo
bianco per proteggerlo dalle influenze malefiche. Attraverso
questo specchio gli angeli comunicavano la disposizione dell'universo.
Lo scopo di queste ricerche era indubbiamente legato a finalità
superiori ma il truffaldino Kelley, usando la fiducia dell'anziano
Dee, lo intimò a condividere la sposa, in quanto ciò era stato ordinato da uno spirito apparsogli in una sfera di cristallo, che gli
avrebbe promesso, con questo atto di magia sexualis, di poter
intensificare e approfondire la medianità, che già tanto usavano.
Lo studioso dopo alcuni momenti di perplessità il 3 Maggio
1587 diede il proprio assenso scritto affinché vi potesse essere
questa condivisione.
Naturalmente, di esempi di questo tipo, la storia è piena, mentre
il procedimento autentico, legato a questo tipo di arte magica,
prevedeva il raggiungimento di ben altri obiettivi.
Intanto, questo si basava su ciò che si potrebbe definire inversione di polarità, ovvero la donna veniva considerata attiva, in
quanto il suo naturale potere sottile e magnetico di attrazione,
rendeva l’uomo passivo nella sua virilità fisica, che normalmente subisce quel genere di potere.
Seguendo queste direttive, attraverso la magia sexualis, era possibile ottenere qualsiasi cosa. Le direttive seguivano quelle della
magia classica tramandate da Cornelio Agrippa, anche se i procedimenti per legare ad una statua o ad un’immagine sacra, una
carica viva, erano già conosciuti nell’antico Egitto, attraverso la
carica dei talismani.
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In Tibet, invece, si procedeva alla creazione di fantasmi, sempre
agendo su immagini o simboli mentali.
Seguendo queste teorie, si passava anche alla costruzione di
specchi magici, dove avveniva una sorta di trasposizione magnetica tra lo stesso operatore e la sua immagine riflessa. In effetti,
secondo le tradizioni magiche, l’operazione con lo specchio ha
lo scopo di realizzare una sorta di trascesi e aprire una via verso
una visione non fisica delle cose. Si tratta della Luce della natura, o Lux Naturae, termine usato dalle antiche tradizioni occidentali attraverso cui avvengono la visione o l’evocazione, tematiche connesse con l’uso della cabala, in senso pratico.
Come il sesso del maschio attira quello della femmina, si può
affermare che è possibile attirare la forza o la forma desiderata,
creando ciò che rappresenta il negativo o l’opposto.
La congiunzione sessuale appare presente anche in moltissime
rappresentazioni simboliche, legate ad opere artistiche ed architettoniche. Per esempio, nelle statue slanciate verso l’alto, negli
obelischi, nelle colonne, appare in pieno il concetto fallico - maschile attraverso il quale l’uomo tentava di accattivarsi la benevolenza del cielo, simulando così, il senso attivo e fertilizzante,
che genera la vita e che è alla base della stessa idea.
Altrettanto appare per la simbologia al femminile, dalla caverna
alla grotta, intesa come spazio ricettivo, fino a giungere alle decorazioni floreali e naturali intorno alle colonne, quasi ad avvolgerle del caldo valore sensuale passivo della donna, procreatrice
e, a sua volta, fertilizzata.
Nella magia sexualis si mirava a raggiungere un affinamento dei
sensi e delle facoltà psichiche, alla determinazione del sesso del
bambino, ma anche a migliorarne le dote psichiche e fisiche, a
evocare visioni spirituali e sensibili.
In questa maniera, la copula diveniva una sorta di atto magico,
in sintonia colle forze superiori, atto a ricreare un equilibrio perfetto. Per questo, molti alchimisti, dal Medioevo in poi, ravvisarono in questa congiunzione l’aspetto sublime della ricerca attuata per raggiungere l’Oro filosofico, detto anche Phillius phi-
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losophorum, ovvero il prodotto massimo della congiunzione alchemica.
Ovviamente, è facile comprendere come fosse labile questa linea
di confine tra la ricerca
spirituale e quella legata invece al piacere,
che spesso culminava
con orge e invocazioni
oscure oppure, come
accadde a Bologna nel
1541, con rapporti in
luoghi
sacri.
In
quell’anno, infatti, un
uomo e una donna furono incatenati insieme
e scomunicati per aver
consumato un amplesso nella chiesa di San
Conjunctio alchemica
Pietro all’interno di un
confessionale.
Non a caso, questo tema fu pesantemente redarguito
dall’Inquisizione, che negava il potere di queste pratiche, assimilandole a fonti sataniche.
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E per finire…
Sócc’mel! (inter., lett. «Succhiamelo!»).
È il più celebre shibboleth linguistico bolognese, inequivocabile
biglietto da visita della nostra parlata. La frequenza dell’uso ha
molto offuscato il suo valore diretto di sconcio invito
all’irrumazione del pene, tanto che ormai si presta a una vasta
gamma di impieghi emotivi (stupore, ammirazione, rabbia, rifiuto, disprezzo, ecc.) senza più alcuna implicazione oscena; e persino entrava, e ancora entra, nella parlata popolare femminile,
nonostante l’assurdo grammaticale: riferito all’organo sessuale
femminile dovrebbe infatti mutarsi in Sócc’mla!
(Alberto Menarini, Vocabolario intimo del dialetto bolognese)
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