Tesserae iuris, II.1 (2021)
issn 2724-2013
Tesserae iuris
II.1 (2021)
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Tesserae iuris
ISSN 2724-2013
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Il periodico Tesserae iuris seleziona articoli riguardanti in particolare il Diritto Romano (s.s.d. IUS/18 “Diritto
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All’occasione, il periodico può programmare numeri monografici fuori serie, anche al di là della periodicità
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La rivista è divisa in sezioni: una prima destinata ai saggi; una seconda, ‘Periscopio’, raccoglie brevi interventi
scientifici di contenuto vario; una terza, ‘Sul tavolo’, propone brevi segnalazioni di pubblicazioni recenti; gli
scritti per questa sezione non sono corredati di note. Una quarta sezione, ‘A proposito di ’, è destinata a recensioni
‘con titolo’. Infine, la quinta e ultima sezione, ‘Sullo scaffale’, segnala anno per anno le pubblicazioni romanistiche, quelle relative ai diritti dell’antichità e al diritto bizantino e, in genere, quelle che possono interessare gli
studiosi di Diritto romano. Per facilitare la ricerca bibliografica la sezione ha un’impostazione sistematica entro
la quale sono distribuiti i vari titoli.
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La genealogia degli istituti tutelari:
un problema di metodo1
Luca Casarotti
Università di Pavia
1. Il libro d’esordio di M. Herrero Medina riapre un dossier che non ha
mai smesso di interessare la romanistica: quello sulle origini della tutela.
Certamente, il problema deve almeno una parte del suo fascino alla carenza quasi totale della documentazione, dalla quale però derivano anche
le sue aporie. Non sorprende che la storiografia abbia dato risposte tra
loro speculari, ad esempio, all’interrogativo se l’apparizione della tutela
testamentaria sia anteriore o posteriore a quella della tutela legittima: e
ciò pur muovendo dall’assunto, generalmente condiviso, che le Dodici
Tavole contemplassero una norma sulla chiamata alla tutela dell’agnato
prossimo (XII Tab. 5.6). In un senso si è argomentato che il potere del
paterfamilias di dare il tutore ai sui è una manifestazione della più ampia
potestas sulle persone a lui sottoposte, e come tale preesiste alla legge delle Dodici Tavole: è questa la tesi difesa, per non fare che un solo nome
honoris causa, da Michel Humbert.2 Nel senso opposto, si è sostenuto che
la clausola sulla datio tutoris avrebbe potuto trovare posto esclusivamente
nel testamento librale: e poiché il testamento librale si afferma solo nel
IV-III secolo a.C., la tutela legittima (già nota alle Dodici Tavole) precederebbe la testamentaria. È da aggiungere che alcune tesi sui primordi
dell’istituto, pur costituendo lo sviluppo coerente di teorie più generali
sulla familia romana d’epoca arcaica, hanno finito con l’affermarsi anche
al di fuori del contesto ideologico che le ha prodotte. Lo testimonia la
discussione, ancora viva all’inizio del XXI secolo, attorno all’idea che
anticamente il successore subentrasse al paterfamilias anche nella potestas
sugli impuberi: secondo quest’interpretazione, che prende le mosse da
1. A proposito di Miguel Herrero Medina, Origen y evolución de la tutela impuberum.
Proteccion procesal a traves de la actio rationibus distrahendis y la accusatio suspecti tutoris
(Monografías Jurídicas), Madrid, Marcial Pons, 2019, 462 pp.
2. La loi, 183 ss. Guardano al potere del paterfamilias da diverse prospettive (storia del
diritto, antropologia, storia degli studi, insegnamento retorico e prassi declamatoria) i
recenti saggi raccolti in Lamberti, Anatomie: vedine la segnalazione di Lambertini, Tutti
i volti, 156-158.
239
A proposito di
alcuni contributi del Bonfante, le funzioni del tutore dell’età sarebbero
originariamente state svolte dall’erede, e le due figure si sarebbero distinte solo in epoca postdecemvirale.3
È in quest’intricato panorama di opinioni che si muove lo studio di M.
Herrero Medina. L’ampio volume è suddiviso in quattro capitoli, a cui sono
premesse una Nota preliminar (p. 11) e una succinta Introducción (pp. 1315). I primi due capitoli (rispettivamente pp. 17-111 e pp. 113-197) costituiscono una sorta di parte generale della ricerca, e sono dedicati l’uno alla
configurazione originaria della tutela e l’altro all’evoluzione dell’istituto, alle
funzioni e alle responsabilità del tutore. Il terzo (pp. 199-243) e il quarto
(pp. 245-385), di taglio più esegetico, prendono in esame i due rimedi sanzionatori contro il tutore infedele di cui, notoriamente, i giuristi facevano
risalire l’origine alle Dodici Tavole: l’actio rationibus distrahendis e l’accusatio
suspecti tutoris. L’Autore conduce la sua indagine su un campione considerevole di fonti della letteratura tecnica e artistica (l’indice è alle pp. 439-454),
sostenuto dalla padronanza di un’abbondante bibliografia (elencata, con
qualche imprecisione, alle pp. 401-437).
I risultati a cui giunge la ricerca, alcuni senz’altro originali, sono molti e opportunamente riassunti nella Síntesis conclusiva (pp. 387-399). Qui conviene
discutere quelli che meglio consentono di saggiare la tenuta dell’impostazione di metodo a cui lo studio è improntato.
2. Si può cominciare dall’approfondito commento (pp. 52-63) che l’A. dedica nel primo capitolo alla definizione della tutela data da Servio Sulpicio
Rufo. La definizione, notissima, si legge nel passo dell’Ad edictum di Paolo
che i commissari di Giustiniano hanno collocato in apertura del libro XXVI
del Digesto, riprendendolo poi nelle Istituzioni:
D. 26.1.1 pr. (Paul. 38 ad ed.) = I. 1.13.1: Tutela est, ut Servius definit, vis (ius I. 1.13.1)
ac potestas in capite libero ad tuendum eum, qui propter aetatem sua sponte se defendere
nequit, iure civili data ac permissa.
2.1. M. Herrero Medina ha senz’altro ragione a sostenere che la variante
‘ius ac potestas’ delle Istituzioni imperiali non dipenda da una scelta intenzionale di alterare la definizione di Servio. Dal seguito del commento di Paolo
3. Sulla ricezione critica di questa teoria fa ora il punto molto bene Finazzi, Intestato
parente mortuo, passim. Cfr. anche, dello stesso A., La tutela, 298 ss.
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risulta che la lezione tenuta presente dal giurista fosse ‘vis ac potestas’.4 E poiché il brano relativo è riportato identico sia nel Digesto sia nelle Istituzioni, è
sicuro che non ci sia stata volontà di modificare la definizione. Qualunque ne
sia la causa (l’A. crede a un errore nella copia dell’Ad edictum da cui trascrivevano i compilatori delle Istituzioni), la variante interessa la sola tradizione
del testo.
Sotto altro profilo, non persuade l’affermazione (p. 55) che il sintagma ‘vis
ac potestas’ esprima la «doble función teleológica» della tutela, protettiva da
un lato e potestativa dall’altro: ‘vis’ alluderebbe alla faces protettiva, e ‘potestas’ a quella potestativa. L’ipotesi è problematica anzitutto dal punto di vista
semantico. Nulla impedisce di ritenere che il sostantivo ‘potestas’ esprima un
rapporto di potere / soggezione. Ma che ‘vis’ significhi ‘protezione’ è implausibile, ed è un assunto che lo studioso si limita a enunciare, senza dimostrarlo.
Negli altri passi in cui è attestata la stessa iunctura, i due termini formano
un’endiadi dal significato molto generico, che designa l’autorità, il potere,
ma anche l’efficacia di un istituto.5 È dunque probabile che anche nella definizione di Servio il lemma abbia un significato analogo, di potere o posizione
autoritativa, più che rivelare una doppia funzione della tutela.
A margine, vale la pena di osservare che l’interpretazione di M. Herrero
Medina sembra condizionata da una precomprensione storiografica. Egli ha
cioè creduto di scorgere nella coppia vis / potestas la coesistenza dei due tratti,
quello potestativo delle origini e quello assistenziale d’epoca più progredita,
che secondo l’opinione pressoché unanime della dottrina caratterizzano l’e4. Cfr. D. 26.1.1.1 = I. 1.13.2: Tutores autem sunt qui eam vim ac potestatem habent.
5. D. 1.3.17 (Cels. 26 dig.): Scire leges non hoc est verba earum tenere, sed vim ac potestatem;
D. 9.4.1 (Gai. 2 ad ed. prov.): Quarum [scil. nossali] actionum vis et potestas haec est, ut,
si damnati fuerimus, liceat nobis deditione ipsius corporis quod deliquerit evitare litis
aestimationem; C. 6.36.7 (Const.): Si idem codicilli quod testamenta possent, cur diversum his
instrumentis vocabulum mandaretur, quae vis ac potestas una sociasset?; I. 4. 15.4a: Quorum
[scil. gli interdetti ‘quorum bonorum’ e ‘utrubi’] vis et potestas plurimam inter se differentiam
apud veteres habebat); Gai. 1.122: Eorumque nummorum vis et potestas non in numero
erat, sed in pondere); Gai. 4.10: Quaedam praeterea sunt actiones, quae ad legis actionem
exprimuntur, quaedam sua vi ac potestate constant; Gai. 4.33: Itaque simul intellegimus eas
formulas, quibus pecuniam aut rem aliquam nobis dari oportere intendimus, sua vi ac potestate
valere; Gai. 4.144 = I. 4.15.3: eiusque [scil. l’interdetto ‘quorum bonorum’] vis et potestas
haec est, ut … restituatur; Gai. 4.166: Cuius [scil. la ‘stipulatio fructuaria’] vis et potestas haec
est, ut si contra eum de possessione pronuntiatum fuerit, eam summam adversario solvat; Gai.
4.170: Quorum [scil. i secunda interdicta] vis et potestas haec est, ut … sive possideat, restituat
adversario possessionem, sive non possideat, vim illi possidenti non faciat.
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A proposito di
voluzione storica dell’istituto. Anche volendo prescindere dal chiedersi se la
rappresentazione moderna corrisponda al modo in cui i romani concepivano
la tutela, di certo essa non emerge dalle parole di Servio. Stando al tenore
della definizione (ad tuendum eum, qui propter aetatem sua sponte se defendere nequit), la finalità a cui tende la tutela è una sola: tueri, cioè proteggere.
L’endiadi ‘vis ac potestas’ non si riferisce perciò alla funzione della tutela, ma
al potere preordinato al suo svolgimento.
2.2. Eccessiva appare anche la connotazione che l’A. attribuisce al sintagma
‘in capite libero’. La sua lettura muove da una premessa incontestabile, ossia
che la semantica di ‘caput’ non coincide con quella di ‘persona’, sebbene entrambi i termini possano designare per metonimia l’individuo. A suo avviso,
però, il significato di ‘caput’ nell’espressione ‘in capite libero’ non si esaurisce in quello di ‘individuo’, ma indica che l’istituzione tutelare era concepita
come un meccanismo di riattivazione della personalità giuridica del pupillo
(p. 57). Al netto di una formulazione poco felice (non è del tutto chiaro che
cosa lo studioso intenda per «reactivación de la personalidad jurídica»), che
la tutela avesse tra l’altro lo scopo di supplire all’imperfetta capacità d’agire del pupillo è certo; che ciò si possa ricavare dall’uso del termine ‘caput’ è
dubbio. Un passo come D. 4.5.3.1 (Paul. 11 ad ed.), in cui si legge che servile
caput nullum ius habet ideoque nec minui potest, mostra che con ‘caput’ ci si
può riferire a un individuo – lo schiavo – per cui la questione della personalità giuridica non si pone nemmeno. Rispetto alla (moderna) personalità
giuridica ‘caput’ è dunque un termine neutro, potendo riferirsi sia ai liberi sia
ai servi: è il contesto a precisarne l’accezione. E nella definitio di Servio l’unico attributo riferito a ‘caput’ è ‘liberum’. Né si deve necessariamente pensare,
come fa l’A. (p. 56), che l’uso di ‘caput’ sia il riflesso di una concezione giuridica arcaica: in proposito si può dire soltanto che essa rimonta all’epoca di
Servio. Se le parole del giurista tardorepubblicano echeggino una definizione
più risalente è una congettura che la nostra documentazione non consente
di provare.
2.3. Quanto all’ultimo tratto del passo (ad tuendum eum, qui propter aetatem sua sponte se defendere nequit, iure civili data ac permissa), la tesi dell’Autore (pp. 57-63) è che la versione accolta nel Digesto e nelle Istituzioni non
corrisponda interamente al pensiero di Servio. Nella stesura attuale, il testo
si riferisce solo alla tutela dell’età: ma il giurista doveva aver elaborato una
definizione che valeva sia per la tutela degli impuberi sia per quella muliebre,
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ancora praticata al suo tempo. Una volta abrogata quest’ultima, la definizione sarebbe stata alterata, perché non apparisse anacronistica. La redazione
pervenutaci rispecchierebbe dunque la concezione della tutela d’epoca giustinianea, mentre il tenore originale è immaginato dall’A. in questi termini:
tutela est […] vis ac potestas in capite libero, ad tuendum eum <eamve>, qui
propter aetatem <vel sexum> sua sponte se defendere nequit, iure civili data ac
permissa.
È anzitutto da notare che la tesi di M. Herrero Medina presenta una contraddizione – per così dire – interna. Più del merito, interessa qui il vizio
logico che parrebbe inficiarne la plausibilità. Lo studioso sostiene infatti che
all’epoca di Servio la tutela degli impuberi fosse divenuta già da tempo (cioè
dall’emanazione della lex Atilia, di fine III sec. a.C.) un munus publicum che
aveva per scopo la protezione del pupillo: la tutela muliebre non aveva invece
conosciuto quest’evoluzione, ed era rimasta una potestà del tutore, che in
quanto potenziale successore aveva interesse alla conservazione del patrimonio della donna. L’A. sembra quindi prospettare due argomenti che si escludono reciprocamente. Se la definizione di Servio si fosse riferita tanto agli
impuberi quanto alle donne, allora essa avrebbe finito per attribuire (anche)
alla tutela muliebre quella finalità protettiva che egli invece le nega. Simmetricamente, se la tutela muliebre non avesse avuto una finalità protettiva, la
definizione di Servio non avrebbe potuto estendersi alle donne, come invece
pensa l’Autore.
Il problema più grave della ricostituzione del testo proposta dal romanista
spagnolo è però di metodo. Noi conosciamo il passo di Paolo, e il pensiero
di Servio che esso riferisce, solo per via indiretta, cioè attraverso il Digesto e
le Istituzioni imperiali. La citazione serviana è quindi doppiamente mediata,
da Paolo e dalla Compilazione. Testimonianze esterne al Corpus Iuris non ci
sono note. L’unus testis impedisce perciò di accertare le ipotetiche modifiche
subite dall’originale. Al sospetto che il passo di Paolo sia stato alterato da un
tacito intervento dei Compilatori si può obiettare che il dovere del tutore di
defendere il pupillo risulta da altri passi del Digesto, e che questi riguardano sempre e solo la tutela dell’età, mai quella muliebre.6 Chiaramente, nella
prospettiva dell’A. si potrebbe replicare che i passi paralleli sono di giuristi
6. Cfr. per es. D. 26.7.1.2 (Ulp. 35 ad ed.): Sufficit tutoribus ad plenam defensionem, sive
ipsi iudicium suscipiant sive pupillus ipsis auctoribus; D. 26.7.30 (Marcell. 21 dig.): Tutoris
praecipuum est officium, ne indefensum pupillum relinquat.
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A proposito di
di II-III sec. d.C., e dunque non provano per l’epoca di Servio, e che i riferimenti alla tutela muliebre, eventualmente presenti negli originali, potrebbero essere stati espunti per coerenza dai Compilatori. Ma l’indecidibilità della
questione qui portata exempli causa fa capire, una volta di più, qual è il limite
delle analisi impostate in questo modo. Quando non è dimostrata da un elemento terzo, la diagnosi d’interpolazione non può essere falsificata. Ciò vale,
a fortiori, se il sospetto riguarda la soppressione di una parte del testo: nella
fonte non si trova ciò che non si vuole trovare, e il silenzio viene interpretato
come una conferma dell’ipotesi di ricerca che si vuole sostenere.
3. Conclusa l’esegesi della definitio serviana, l’Autore si volge a ricostruire la
disciplina decemvirale della tutela. Nella Legge delle Dodici Tavole - questo
il quesito affrontato nella seconda parte del primo capitolo (pp. 69-102) come si coordinava l’ordine di chiamata alla successione a quello di chiamata
alla tutela? Per rispondere, M. Herrero Medina prende anzitutto posizione
sul problema, dibattutissimo, della ricostituzione dei versetti concernenti la
devoluzione dell’eredità, prima testamentaria (XII Tab. 5.3) e poi ab intestato (XII Tab. 5.4-5).
3.1. Com’è noto, XII Tab. 5.3 ci è giunto in due versioni.7
Una prima, ‘sintetica’, è attestata da Gai. 2.224 = D. 50.16.120 (Pomp. 5 ad
Q. Muc.): Uti legassit suae rei, ita ius esto.8 Una seconda versione, ‘analitica’, è
attestata in due varianti. Cic. inv. 2.148 = rhet. Her. 1.23: Paterfamilias uti
super familia pecuniaque sua legassit, ita ius esto; D. 50.16.53 pr. (Paul. 59 ad
ed.)9 = Tit. Ulp. 11.14: Uti legassit super pecuniae tutelaeve suae (Tit. Ulp.
7. Elenco delle fonti e bibliografia in Mantovani, Declamare, 601 nn. 14-15; adde
Bretone, I fondamenti, 26. Vd. anche l’edizione di Humbert, La loi, 183 ss. (con
approfondita discussione delle restituzioni del versetto proposte dagli editori moderni).
Quest’ultimo contributo non è tenuto presente da M. Herrero Medina.
8. Cfr. I. 2.22 pr. (con il corrispondente PT. 2.22); Nov. 22 pr.
9. In vero, il passo (testo infra, n. 22) non menziona le Dodici Tavole, ma riconduce gli
ipsissima verba ai ‘veteres’: il riferimento potrebbe essere inteso come una prosopopea della
legge decemvirale o come un’allusione agli antichi interpretes. Nel primo senso Mantovani,
Quando i giuristi, 272-273: «spesso il documento degli usi linguistici dei veteres (intesi come
antichi Romani) sono le XII Tavole. […] Così, per spiegare che le congiunzioni possono
essere a volte disgiuntive a volte copulative, Paolo esemplifica la lingua dei veteres con due
versetti decemvirali ben noti [5.3,7]» Nel secondo senso Humbert, La loi, 186, secondo
il quale Paolo, nel riferire il sintagma ‘super pecuniae tutelaeve suae’, «ne prétend pas l’avoir
trouvé dans la lex. Il l’a emprunté aux veteres». La posizione di questo A. dipende dalla tesi
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11.14: super pecunia tutelave suae rei), ita ius esto.10 La versione ‘uti familia
pecuniaque legassit’ oppure quella ‘uti legassit suae rei’ (non la variante che
si riferisce anche alla tutela) è parafrasata da decl. min. 264.1: interest tamen
supremae hominis voluntati legem favere, ut quod de bonis suis constituit, in
supremis dominus fecerit iure.11
M. Herrero Medina reputa «que la redacción original encajaría con la
versión recogida en la obra de Gayo y Pomponio, mientras que la versión
retórica habría incorporado algunos elementos adicionales con una cierta
finalidad explicativa» (p. 75).12 Accanto a una serie di considerazioni linguistiche, come quella per cui il soggetto esplicito ‘paterfamilias’ e il binomio ‘familia pecuniaque’ appaiono sovrabbondanti rispetto all’andamento
ellittico della sintassi delle Dodici Tavole, decisiva è per lui l’autorità di Q.
Mucio Scevola, al cui commento è consacrata l’opera di Pomponio: potrebbe
darsi, sostiene il romanista (pp. 72-73), che Pomponio abbia trovato direttadi fondo che egli sostiene, ossia che la redazione autentica di XII Tab. 5.3 fosse ‘uti legassit
suae rei, ita ius esto’.
10. Nel testo do conto delle diverse versioni di XII Tab. 5.3 seguendo la terminologia
di Mantovani, Declamare, 600: ‘versione sintetica’ vs ‘versione analitica’. Herrero
Medina, 72-73, ripropone invece la tradizionale distinzione tra una ‘versione retorica’ e una
‘giuridica’ (ossia quella riferita da Pomponio e Gaio), nonostante essa sia smentita proprio da
decl. min. 264.1, che pur essendo una fonte declamatoria può parafrasare (e forse in effetti
parafrasa) la versione ‘giuridica’.
11. Humbert, La loi, 185, ritiene che decl. min. 264.1 parafrasi la versione ‘uti legassit
suae rei, ita ius esto’, e distribuisce così i cola del versetto: [interest tamen supremae hominis
voluntati legem favere], ut (= uti), quod de bonis suis (= suae rei), constituit (= legassit), in
supremis dominus fecerit iure (= ita ius esto). Anche se per ipotesi non fosse questa la versione
considerata dal declamatore, la ricostruzione dell’insigne studioso sarebbe comunque
inesatta in un particolare. La proposizione comparativa ‘uti legassit’ di XII Tab. 5.3 è
parafrasata dalla relativa ‘quod … constituit’, mentre la principale ‘ita ius esto’ è resa con la
completiva ‘ut … fecerit iure’, retta dal precedente ‘favere’. L’ut della parafrasi, che introduce
‘fecerit’, non corrisponde perciò all’uti decemvirale, che introduce ‘legassit’: l’equivalente
funzionale (anche se ovviamente non sintattico) di ‘uti’ è ‘quod’. Mantovani, Declamare,
602, osserva inoltre che il complemento di tempo ‘in supremis’ va riferito propriamente a
‘constituere’: «Constituit in supremis traspone legassit, verbo tecnico (nella forma sigmatica
del futuro tipica della morfologia decemvirale) che si riferiva specificamente alle disposizioni
mortis causa».
12. Prescindendo dal merito di questa conclusione, mi limito a un appunto, anche se ovvio:
di “redazione originale” si può parlare solo nel senso, puramente relativo, di redazione più
antica attingibile: cioè nel senso in cui – ad altro proposito – Benveniste, Il vocabolario,
31, impiega l’espressione ‘signification première’.
245
A proposito di
mente in Quinto Mucio la citazione del versetto. Poiché la citazione di D.
50.16.120 (Pomp. 5 ad Q. Muc.) è identica a quella di Gai. 2.224, e poiché
anche Gaio è autore di un commentario ad Q. Mucium (cfr. Gai. 1.188), il
giurista repubblicano potrebbe essere la fonte comune di Pomponio e Gaio.13
Ad avviso dell’A., l’oggetto delle disposizioni mortis causa (cioè del ‘legare’)
di XII Tab. 5.3 non era il patrimonio familiare, bensì un complesso di beni
di cui il paterfamilias aveva l’esclusiva gestione. Il sostantivo ‘res’ denoterebbe
cioè «los bienes patrimoniales de carácter privativo del pater familias», «en
contraposición al patrimonio familiar» (p. 74): di conseguenza, la locuzione
‘legare suae rei’14 designerebbe «una facultad que recaía sobre elementos que
no estaban directamente asociados con el patrimonio familiar» (p. 79).
Quest’interpretazione è francamente insostenibile. Non si vede come ‘res’
possa alludere a qualcosa di diverso dal patrimonio nella sua interezza. Se
così non fosse, bisognerebbe coerentemente concludere che siano in errore
Cic. inv. 2.148 e rhet. Her. 1.23, che al posto di ‘res’ hanno ‘familia pecuniaque’. Che l’espressione estesa ‘familia pecuniaque’ designi l’intero patrimonio
è dimostrato, a tacer d’altro, dal fatto che lo stesso binomio è ripetuto dalle
stesse fonti nel riferire le norme di XII Tab. 5.4-5, che riguardano indubitabilmente tutto l’asse ereditario.
3.2. Se lo studioso ipotizza che il tenore originario di XII Tab. 5.3 coincida
con una delle versioni tradite, di XII Tab. 5.4-5 propone invece una restituzione ‘artificiale’, cioè non attestata in nessuna delle fonti disponibili. Anche
questo versetto è noto in due redazioni. Una è tradita ancora da Cic. inv.
2.148 = rhet. Her. 1.23: Si paterfamilias intestato moritur, familia pecuniaque
eius agnatum gentiliumque esto. L’altra si trova in Coll. 16.4.1-2 (Ulp. l. s.
reg.): Si intestato moritur, cui suus heres nec escit, agnatus proximus familiam
habeto. [2] … si agnatus nec escit, gentiles familiam habento.15
M. Herrero Medina opta per questa restituzione. XII Tab. 5.4-5: Si intestato
moritur, adgnatus proximus familiam habeto. [5] Si agnatus nec escit, gentiles
13. Gaio, che è autore anche di un commento alle Dodici Tavole, potrebbe aver consultato,
oltre all’opera muciana, una redazione integrale della legge: Humbert, La loi, 184.
14. Nella quale il sintagma ‘suae rei’ può avere valore di genitivo di relazione o di genitivo
partitivo (da escludere che si tratti di un dativo): opta fondatamente per la prima soluzione,
perché «l’acte de legare porte sur tout le patrimoine», Humbert, La loi, 184 (con
bibliografia).
15. Cfr. Tit. Ulp. 26.1. Per altre fonti che riportano parti della disposizione vd. Humbert,
La loi, 195 ss.
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familiam habento. A suo avviso, dunque, la disposizione di XII Tab. 5.4 non
menzionava i sui heredes. Egli non sembra però essersi chiesto quali norme
dovessero venire dalla disposizione che ipotizza. Le soluzioni possibili sono
due. La prima è che non si sentisse il bisogno di menzionare i sui, perché la
preferenza di costoro agli agnati era una realtà sociale che non necessitava di
essere riaffermata da una norma positiva.16 La seconda è che il problema della
presenza di un testamento si sarebbe posto solo in mancanza di sui: la presenza di sui heredes avrebbe cioè impedito al paterfamilias di fare testamento. I
sui, questa la conclusione necessaria, non avrebbero potuto essere diseredati: il
che è stato ipotizzato da una parte pur molto autorevole della storiografia, ma
parrebbe doversi escludere.17 La prima soluzione implica che il fatto sociale
integri la norma a cui preesiste; la seconda postula l’autosufficienza e l’esaustività della norma di diritto positivo. Ma la scelta in favore dell’una o dell’altra
opzione determina anche la ricostruzione del regime decemvirale di chiamata
alla tutela. Se si ritiene che nel sistema delle Dodici Tavole il paterfamilias non
potesse fare testamento in presenza di sui, si deve pensare di conseguenza che
in quel sistema la tutela testamentaria non aveva ragione di esistere: alla tutela
dei sui heredes impuberi o di sesso femminile sarebbe stato chiamato giocoforza l’agnato prossimo, essendo del tutto preclusa al pater la facoltà di testare.
4. Dunque, a quando vanno fatte risalire le origini della tutela testamentaria
e di quella legittima? Il problema (che non si pone per la tutela dativa, istituita dalla lex Atilia) è affrontato nel secondo capitolo della monografia. Le
Dodici Tavole sicuramente regolavano la delazione legittima, come risulta ad
esempio da Gai. 1.155 e da D. 26.4.5 pr. (Ulp. 35 ad ed.). È però un’inversione logica quella che conduce l’A. (p. 117) a includere D. 26.7.55.1 (Tryph.
14 disp.), passo su cui si tornerà (infra, § 5), tra i testi da cui si può indurre che
16. Non a caso, questa spiegazione gode dell’autorità di Ehrlich, I fondamenti, 41, che da
essa induce, portandola a esempio storico, la priorità del diritto sociale (primario) sul diritto
dei giuristi e sul diritto statale (entrambi secondari). Su ciò, e in generale sul diverso posto
nella formazione dello ius assegnato alle Dodici Tavole nella storiografia del XX secolo,
secondo due linee di tendenza che vanno rispettivamente dal fondatore della sociologia
giuridica (e prima ancora romanista) Ehrlich a Wieacker e Schiavone e da Kaser a Talamanca,
vd. Mantovani, Legum multitudo, 760 ss.
17. Discussione in Humbert, La loi, 198-199, 207. È difficile pensare che al paterfamilias, a
cui era consentito uccidere le persone sottoposte al suo potere, fosse impedito di diseredarle.
Ricalcando l’exemplum di D. 28.2.11 (Paul. 2 ad Sab.): Nec obstat, quod licet eos exheredare,
quod et occidere licebat.
247
A proposito di
le Dodici Tavole conoscevano e disciplinavano la tutela legittima. Il punto
merita un breve excursus.
4.1. Il ragionamento di M. Herrero Medina è questo: poiché il passo afferma che il fondamento dell’actio rationibus distrahendis è la legge delle Dodici
Tavole, e poiché legittimati passivi all’actio rationibus distrahendis erano in
origine i soli tutori legittimi, allora la legge delle Dodici Tavole disciplinava
la tutela legittima. Ma la premessa minore del sillogismo necessita a sua volta
di essere dimostrata, e non può essere assunta come a priori del ragionamento. La dimostrazione corrente in dottrina poggia su un argomento testuale
piuttosto labile, ossia il modo in cui s’esprime D. 27.3.1.19 (Ulp. 36 ad ed.):
rationibus distrahendis actione non solum hi tenentur tutores, qui legitimi fuerunt, sed omnes, qui iure tutores sunt et gerunt tutelam. È vero che il passo
isola i legittimi dalla generalità dei tutori: ma non ci sono dati di contesto
dai quali si può inferire senz’altro che la causa di questa menzione in disparte
sia la loro originaria legittimazione passiva.18 La forza di questa spiegazione,
non impossibile ma nemmeno cogente, è l’autorevolezza della tradizione che
l’ha imposta più che la persuasività dell’argomento. Essa viene accettata o
rifiutata in virtù di considerazioni più generali, che rivelano contrapposte
visioni dello sviluppo storico della tutela. Al proposito, è istruttivo leggere in
parallelo i due recentissimi commentari alle Dodici Tavole, pubblicati pressoché in contemporanea nel 2018: quello collettaneo a cura di M. F. Cursi,
e l’imponente edizione di M. Humbert.19 Giovanni Finazzi, che nell’opera
collettanea è autore del notevole contributo sulla tutela ab intestato, segue
la spiegazione tradizionale, essenzialmente sulla base del presupposto che
«le due forme di tutela [cioè la legittima e la testamentaria], in un primo
momento regolate in modo diverso, si avvicinarono […] a seguito dell’opera
18. Non è del tutto chiaro perché la prima proposizione relativa (qui legitimi fuerunt) abbia
il verbo al perfetto. Posto che dal cambio di tempo verbale non si può inferire nulla circa
l’originaria legittimazione passiva, ‘fuerunt’ si spiega forse (ma anche questa lettura non è
esente da obiezioni) tenendo conto che i tutori legittimi sono tali perché la legge (cioè un
fatto che si colloca nel passato) li ha chiamati alla tutela. Per un parallelo cfr. D. 26.4.5 pr.
(Ulp. 35 ad ed.): legitimos tutores nemo dat, sed lex duodecim tabularum fecit tutores. Qui lo
slittamento nella consecutio temporum è simile a quello di D. 27.3.1.19, ma più facilmente
spiegabile.
19. Un esercizio di lettura in parallelo dei due lavori è compiuto su un altro campione (XII
Tab. 6.2-3) da Sirks, rec. a Humbert, 255-261, che estende il confronto anche all’edizione
delle Dodici Tavole nei Roman Statutes.
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Tesserae iuris, II.1 (2021)
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sistematrice della giurisprudenza».20 Esattamente speculare la posizione di
Humbert, ad avviso del quale «l’utilité de cette action [rationibus distrahendis] reste la même, que l’acte coupable émane d’un tuteur légitime ou du
tuteur testamentaire».21
4.2. Possiamo ora tornare al problema da cui abbiamo preso le mosse. Dato
per certo che la tutela legittima fosse contemplata dalle Dodici Tavole, come
stavano le cose per la tutela testamentaria? M. Herrero Medina ritiene che
essa sia apparsa in un’epoca posteriore alla legge del 451-450 a.C. La tutoris
datio, questa l’argomentazione di fondo (pp. 126-127), era una disposizione
eventuale del testamento librale. Ma il testamento librale era certamente sconosciuto ai decemviri, e una tutoris datio nelle forme del testamento arcaico
sarebbe stata improbabile. La tutela testamentaria sarebbe quindi il frutto di
una posteriore interpretatio di XII Tab. 5.3: dovrebbero perciò ritenersi inattendibili i testi che ne fanno risalire l’origine alle Dodici Tavole, vale a dire
Tit. Ulp. 11.14, D. 26.2.20.1 (Paul. 38 ad ed.) e D. 26.2.1 pr. (Gai. 12 ad ed.
prov.). La critica a cui l’A. sottopone questi testi merita qualche osservazione.
4.3. Sul passo dei Tituli ex corpore Ulpiani ci si può fermare brevemente:
Tit. Ulp. 11.14: testamento quoque nominatim tutores dati confirmantur eadem lege duodecim tabularum his verbis: “uti legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto”: qui
“tutores dativi” appellantur.
Come abbiamo visto (§ 3.1), M. Herrero Medina ritiene che il passo riferisca una versione spuria di XII Tab. 5.3, nella quale sono incorporati «elementos de la redacción original, partes de la versión retórica y ciertas referencias
a la interpretación jurisprudencial posterior» (p. 75). Qui è da aggiungere
che, sempre ad avviso dell’A. (p. 75 e 125), il termine ‘tutela’ nel sintagma
‘super pecunia tutelave suae rei’ si deve intendere come un riferimento non
all’istituto della tutela, ma alla custodia dei beni paterni a cui sarebbe stato
chiamato il destinatario delle disposizioni mortis causa. Secondo questa tesi,
piuttosto diffusa in dottrina, Tit. Ulp. 11.14 alluderebbe quindi alla formula
della c.d. mancipatio familiae (cfr. Gai. 2.204).
Tuttavia, non è sicuro che ‘suae rei’ sia un complemento di specificazione
da collegare a ‘tutela’. Anzitutto, parrebbe controintuitivo che il giurista riferisca una disposizione attributiva dello ius tutoris dandi, nella quale però
20. Finazzi, La tutela, 309 n. 107.
21. Humbert, La loi, 605.
249
A proposito di
il termine ‘tutela’ ha un senso diverso da quello tecnico.22 In secondo luogo,
nel passo di Paolo che rimanda allo stesso versetto decemvirale, la giuntura
‘pecunia tutelave sua’ è attestata come un sintagma autonomo, in cui ‘tutela’
ha il significato consueto.23
4.4. Considerazioni altrettanto brevi possono bastare anche per il brano di
Paolo:
D. 26.2.20.1 (Paul. 38 ad ed.): Testamento quemlibet possumus tutorem dare, sive is praetor sive consul sit, quia lex duodecim tabularum id confirmat.
M. Herrero Medina ritiene che il passo testimoni un «evidente anacronismo
histórico»: le Dodici Tavole non avrebbero mai potuto riferirsi al pretore, ciò
che a suo parere rende sicura l’interpolazione (p. 126). Ma il fraintendimento
è palese. Il senso più ovvio del testo è che dalle Dodici Tavole discende il potere del pater di nominare chiunque come tutore testamentario. Potendo essere
chiunque, aggiunge quindi Paolo, il tutore nominato per testamento può essere anche un console o un pretore: la proposizione causale ‘quia lex duodecim
tabularum id confirmat’ motiva (non l’incidentale ‘sive is praetor sive consul sit’,
ma) la principale ‘testamento quemlibet possumus tutorem dare’: le parole ‘sive is
praetor sive consul sit’ non danno alcun problema, perché sono del giurista, non
della legge. Ciò detto, non si può negare che il passo, nella sua estrema concisione, ponga più d’una difficoltà, che però non è necessario affrontare qui.
4.5. sul passo di Gaio è invece necessario soffermarsi più a lungo:
D. 26.2.1 pr. (Gai. 12 ad ed. prov.): Lege duodecim tabularum permissum est parentibus
22. Non occorre precisare che il problema è diverso da quello della corrispondenza tra la
disposizione riferita e l’originale XII Tab. 5.3.
23. D. 50.16.53 pr. (Paul. 59 ad ed.): Saepe ita comparatum est, ut coniuncta pro disiunctis
accipiantur et disiuncta pro coniunctis, interdum soluta pro separatis. nam cum dicitur apud
veteres ‘adgnatorum gentiliumque’, pro separatione accipitur. at cum dicitur ‘super pecuniae
tutelaeve suae’, tutor separatim sine pecunia dari non potest. Ovviamente, alla storiografia non
è sfuggito che Tit. Ulp. 11.14 ha super + ablativo (super pecunia tutelave), mentre D. 50.16.53
pr. ha super + genitivo o – forse meno verosimilmente – dativo (super pecuniae tutelaeve
suae). Non mi pare che quest’ultimo costrutto, apparentemente anomalo, sia ancora stato
spiegato senza presupporre l’interpolazione giustinianea. Quanto alla giuntura ‘super pecunia
tutelave suae rei’, Humbert, La loi, 186, ipotizza che si tratti di una contaminazione, dovuta
all’errore di un copista che le aveva presenti entrambe, tra due diverse tradizioni di XII Tab.
5.3: ‘uti legassit super pecunia tutelave’ (a suo avviso la lezione autentica del liber singularis
regularum) e ‘uti legassit suae rei’ (da cui, a suo parere, il glossema). « Deux versions du
précepte décemviral […] se sont trouvées fondues en un amalgame impossible : uti legassit
super pecunia tutelave suae rei, au mépris de la syntaxe et du sens».
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liberis suis sive feminini sive masculini sexus, si modo in potestate sint, tutores testamento
dare.
Secondo M. Herrero Medina, la stesura attuale del passo sarebbe dovuta
alla volontà dei compilatori bassoimperiali di «confeccionar un ordenamiento jurídico coherente y ordenado» (p. 126). Gaio non può aver scritto
che la nomina del tutore testamentario era consentita dalle Dodici Tavole,
perché nelle Istituzioni manca qualunque riferimento analogo. Nel manuale,
infatti, il giurista introduce la trattazione della tutela testamentaria senza fare
riferimenti normativi specifici.24 All’opposto, l’affermazione a proposito del
fondamento decemvirale della tutela legittima è esplicita.25
Questo ragionamento porta allo scoperto una serie di pregiudizi. Per prima
cosa, va precisato che quella dei commissari di Giustiniano è stata un’opera
di delegificazione, al contrario di ciò che sembra pensare lo studioso: salvo
vistose eccezioni, dal Digesto sono stati sistematicamente esclusi i passi delle
opere dei giuristi che citavano o commentavano in dettaglio le leggi di diritto
privato.26 Il trattamento riservato proprio a un’opera gaiana, il commento
ad Legem duodecim tabularum, dimostra che sia stato fatto lo stesso con le
Dodici Tavole: nessuno dei ventotto frammenti escerpiti conserva menzione
espressa della legge, né la impiega come argumentum ex auctoritate.27 Basterebbe questo rilievo a far ritenere poco probabile che il riferimento alla legge
decemvirale in Gai. 12 ad ed. prov. D. 26.2.1 pr. sia insiticio.
24. Gai. 1.144: Permissum est itaque parentibus liberis, quos in potestate sua habent, testamento
tutores dare.
25. Gai. 1.155: Quibus testamento quidem tutor datus non sit, iis ex lege XII tabularum agnati
sunt tutores, qui vocantur legitimi.
26. È la conclusione alla quale perviene lo studio di Mantovani, Legum multitudo, 707767.
27. Humbert, Gaius, 107. Secondo il calcolo sticometrico eseguito dall’A. (ivi, 99 ss.),
il commento di Gaio alle Dodici Tavole è tra le opere della giurisprudenza sulle quali
i Compilatori hanno svolto la selezione più drastica, al pari dei commentari alle leggi
matrimoniali augustee divenuti nel frattempo parzialmente inattuali. Ciò non ha impedito ai
commissari guidati da Triboniano di conservare il commento a parti dei versetti decemvirali.
È il caso di D. 50.16.233 (Gai. 1 ad L. XII Tab.): ‘Si calvitur’: et moretur et frustretur. inde et
calumniatores appellati sunt, quia per fraudem et frustrationem alios vexarent litibus: inde et
cavillatio dicta est. L’interesse dei Compilatori, questo è il punto che va sottolineato, non è
però né antiquario né erudito. La spiegazione dei verba legis è conservata nella misura in cui
fornisce un’informazione che ha valore per il presente: così il commento al lemma ‘calvitur’
di XII Tab. 1.2 serve a chiarire, per il tramite della (par)etimologia, il significato attuale di
‘calumnia’ e ‘cavillatio’; su ciò vd. ancora Humbert, Gaius, 103.
251
A proposito di
Ma a smentire l’idea che i compilatori abbiano voluto abusivamente dare
alla tutela testamentaria un fondamento nelle Dodici Tavole è un argomento
più puntuale. Nel Digesto è infatti accolto il passo del commento di Pomponio ad Quintum Mucium che riferisce la versione ‘sintetica’ di XII Tab. 5.3
(supra, § 3). Citata la disposizione, il giurista chiosa: verbis legis duodecim tabularum his … latissima potestas tributa videtur et heredis instituendi et legata
et libertates dandi, tutelas quoque constituendi. Secondo Pomponio, dunque,
la norma attribuiva al paterfamilias lo ius tutoris dandi, pur senza menzionarlo espressamente. Ma nel Digesto è accolta anche l’altra tradizione, attestata
da D. 50.16.53 pr. (Paul. 59 ad ed.), secondo la quale il riferimento alla tutela
nel versetto decemvirale era esplicito.28 I compilatori hanno perciò preso atto
di entrambe le versioni, senza scegliere tra le due.
Tornando a Gaio, sappiamo che egli aveva presente XII Tab. 5.3 nella stessa redazione riferita da Pomponio (cfr. Gai. 2.224). Alludendo alle Dodici
Tavole, può darsi perciò che il giurista pensasse anche alla stessa spiegazione
dell’origine della tutela testamentaria che si legge in D. 50.16.120: ovviamente, non possiamo sapere se nella stesura di D. 26.2.1 sia stata soppressa
un’esposizione più distesa. È evidente però che M. Herrero Medina legga
il parallelo tra le Istituzioni e il commento all’editto provinciale solo in un
senso: infatti, egli spiega il brano del Digesto alla luce di quello delle Istituzioni. E risolve a monte, cioè postulando l’intervento dei compilatori, il problema inverso: perché nel passo del commento all’editto provinciale si trova
un’informazione assente nelle Istituzioni? Ma ciò rivela, ancora una volta, la
precomprensione implicita in questa lettura, ossia che l’informazione fornita
dal Gaio del Digesto (e si potrebbe dire: dal Digesto in generale) è qualitativamente inferiore a quella che proviene dal Gaio del Veronese.
È per altro da notare che sul rigore di Gaio come storico del diritto lo studioso dà un giudizio contraddittorio e, bisogna dirlo onestamente, inaccettabile. La sua tesi sembrerebbe questa: Gaio non è attendibile quando ricostruisce la storia di istituti al suo tempo parzialmente desueti, ma lo è quando
riferisce quella di istituti ancora attuali. Così, secondo l’A., nell’illustrare la
disciplina della tutela mulierum il giurista «recoja explicaciones poco rigurosas desde el punto de vista histórico» (p. 124 nt. 46).29 Per contro, il testo di
28. Sempre se i ‘veteres’ di cui Paolo riferisce i verba siano una personificazione della legge
decemvirale: supra, n. 8.
29. In particolare, lo studioso (p. 124) sostiene che Gaio non conoscesse «los verdaderos
motivos» per i quali era consentita l’in iure cessio della tutela muliebre, ma non di quella degli
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Gai. 12 ad ed. prov. D. 26.2.1 pr. rivelerebbe i segni dell’intervento compilatorio perché, «conociendo su rigor histórico, resulta inconcebible que Gayo
conociese el origen decenviral de la tutela testamentaria, pero, sin embargo,
omitiese esa referencia en su obra principal» (p. 125).
Per inciso, l’idea che le Institutiones siano l’opera principale di Gaio è una
proiezione moderna sul passato: il fatto che lo siano per noi dipende ovviamente solo dalle vicende della tradizione, cioè dalla circostanza accidentale
che le Istituzioni sono l’unica opera della giurisprudenza classica a esserci
pervenuta quasi integra. Che lo fossero anche per Gaio non è detto. E soprattutto non si può dire, dato che non sappiamo nulla dell’atteggiamento
dell’autore verso le sue opere. Di sicuro, ma questo non è di per sé un segno
di maggiore o minore importanza, il giurista ne ha redatte di molto più voluminose.30
4.6. Concludendo, l’origine della tutela testamentaria si trova descritta nelle fonti in questo modo: secondo una tradizione che probabilmente rimonta almeno fino a Quinto Mucio, e a cui si rifanno tanto Gaio e
Pomponio quanto Cicerone e la Rhetorica ad Herennium, il versetto di XII
impuberi. Ritiene perciò erronea la spiegazione di Gai. 1.168, ossia che la tutela dell’età non
videtur onerosa, cum tempore pubertatis finiatur. Questa conclusione ripropone il problema di
metodo già messo in luce dall’esegesi di D. 26.1.1 pr. (Paul. 38 ad ed.): vd. supra § 2. Il modo
di leggere i due testi può apparire diverso. L’A. ravvisa la soppressione del riferimento alla
tutela muliebre nel passo di Paolo, mentre ritiene genuino ma storicamente inaccurato quello
di Gaio. In realtà le due tattiche, l’una più vicina dell’altra all’interpolazionismo, hanno di
mira lo stesso fine, che è quello di accomodare i dati testuali alla propria ipotesi di ricerca.
E l’ipotesi è che la tutela, sia muliebre sia dell’età, aveva anticamente carattere potestativo.
Avendo entrambe carattere potestativo, di tutte e due si doveva in origine poter fare in iure
cessio (cioè trasferirne l’esercizio a un terzo che non aveva la qualifica di tutore). Quando
Gaio afferma che la tutela degli impuberi non poteva essere ceduta, suppone Herrero
Medina, si deve perciò riferire a un momento storico in cui la tutela degli impuberi si era
già trasformata in istituto a carattere assistenziale. Con argomentazione perfettamente
circolare, il romanista può così concludere che il vero motivo per cui si poteva fare in iure
cessio della tutela muliebre, ma non di quella degli impuberi, era che la prima aveva ancora
al tempo di Gaio carattere potestativo, mentre la seconda era ormai divenuta assistenziale.
Dando invece fiducia al testo, si può supporre che il giurista, definendo ‘onerosa’ la tutela
muliebre a motivo che non sarebbe terminata con il raggiungimento della pubertà, pensasse
all’auctoritatis interpositio, a cui il tutore avrebbe potuto essere chiamato in ogni momento e
fino alla morte della donna, se del caso anche costretto dal pretore.
30. Sulla distorsione prospettica che induce i moderni a isolare in modo quasi inconscio
le Istituzioni dal resto della produzione gaiana insiste giustamente Babusiaux, Die
Institutiones, 51 e passim.
253
A proposito di
Tab. 5.3, pur essendo la norma che attribuiva al paterfamilias lo ius tutoris
dandi, non menzionava esplicitamente la tutela. Secondo la diversa tradizione a cui si rifanno alcuni giuristi d’età severiana, la menzione era invece
esplicita. Quando indicavano espressamente il fondamento legislativo della tutela testamentaria, però, i prudentes si riferivano concordemente alle
Dodici Tavole. Se ci sia un divario cronologico tra la legge decemvirale e
l’apparizione della tutela testamentaria, come pensa M. Herrero Medina,
è un problema che i testi non risolvono: una soluzione, se la si vuole dare,
non può essere che congetturale.
5. L’obiettiva penuria di fonti rende difficile rispondere a molti quesiti
sull’actio rationibus distrahendis, studiata nel terzo capitolo della ricerca. Le
incertezze più gravi si addensano su un passo, D. 26.7.55.1 (Tryph. 14 disp.),
a cui l’A. dedica giustamente molta attenzione. Ma più di un dubbio solleva
anche il significato stesso del nome dell’actio: ci torneremo dopo aver esaminato la disputatio di Trifonino.
5.1. Al testo si è già fatto cenno (§ 4.1); ora conviene leggerlo per intero.
D. 26.7.55.1 (Tryph. 14 disp.): sed si ipsi tutores rem pupilli furati sunt, videamus, an
ea actione, quae proponitur ex lege duodecim tabularum adversus tutorem in duplum,
singuli in solidum teneantur et, quamvis unus duplum praestiterit, nihilo minus etiam
alii teneantur: nam in aliis furibus eiusdem rei pluribus non est propterea ceteris poenae
deprecatio, quod ab uno iam exacta est. sed tutores propter admissam administrationem
non tam invito domino contrectare eam videntur quam perfide agere: nemo denique dicet
unum tutorem et duplum hac actione praestare et quasi specie condictionis aut ipsam rem
aut eius aestimationem.31
L’azione a cui il giurista allude con la perifrasi ‘quae proponitur ex lege duo31. Per una versione in italiano, Schipani, Iustiniani Augusti Digesta, ad h.l., propone: «Se
però quegli stessi tutori rubarono una cosa del pupillo, vediamo se ciascuno sia tenuto per
l’intero con l’azione che nella Legge delle Dodici Tavole si propone contro il tutore per il
doppio, e se, sebbene uno abbia pagato il doppio, anche gli altri siano nondimeno tenuti:
infatti, quando si tratta di una pluralità di altri ladri di una stessa cosa, non si risparmia ad
essi la pena per la ragione che questa ormai è stata riscossa da uno di loro. Ma i tutori, per il
fatto che sono immessi nell’amministrazione, non si considerano tanto sottrarre quella cosa
contro la volontà del proprietario, quanto operare in violazione dell’affidamento. Nessuno,
infine, dirà che il tutore unico sia paga il doppio in seguito a quest’azione <in base alla Legge
delle Dodici Tavole>, sia restituisce la cosa stessa o ne corrisponde il valore come se <fosse
nei suoi confronti esperibile anche un’azione> della specie dell’azione <di ripetizione> per
intimazione».
254
Tesserae iuris, II.1 (2021)
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decim tabularum adversus tutorem in duplum’ è da identificare nell’actio rationibus distrahendis: l’argomento decisivo è fornito da D. 27.3.1.20 (Ulp.
36 ad ed.) e da D. 27.3.2 (Paul. 8 ad Sab.), dove si afferma espressamente che
l’actio rationibus distrahendis è in duplum. Perciò dal passo si ricava anzitutto
che l’azione aveva fondamento nelle Dodici Tavole.
Meno agevole, invece, è capire quale rapporto il testo istituisca tra la fattispecie punita con quest’azione e il furto. Lo studioso spagnolo è dell’opinione che il passo non riguardi affatto questo delitto. Vale la pena riportare per
esteso il suo pensiero (p. 205):
Nos inclinamos a pensar que el jurista emplea una terminología poco rigurosa a la hora
de referirse a los tutores como ladrones que «rem pupilli furati», pues posiblemente
con estas palabras no pretendía señalar que los tutores perseguidos con la actio rationibus distrahendis hubieran cometido propiamente un delito de hurto, sino que esta
acción se ejercitaba para sancionar comportamientos que consistían en sustracciones
fraudulentas o pequeños hurtos en el patrimonio pupilar.
La tesi è ribadita più avanti (p. 230-231), quando l’A. conclude che Trifonino, dopo aver dato ai tutori la qualifica atecnica di ladri, ha precisato subito
il suo linguaggio, scrivendo che i tutori non dovessero essere ritenuti ladri,
ma persone infedeli.
Già a prima vista, il ragionamento avrebbe in sé la sua confutazione. Il romanista non spiega in che senso i « pequeños hurtos» non siano furti: significherebbe dire che il furtum aveva una soglia di rilevanza. Ma al netto
di quella che forse è soltanto una leggerezza nella scrittura, il problema più
grave dell’interpretazione proposta da M. Herrero Medina è che fa carico a
Trifonino di un uso poco rigoroso della lingua giuridica, dando ancora una
volta scarso credito alla fonte antica. Per mostrare che l’addebito d’imprecisione è infondato, va messa meglio a fuoco la questione risolta dal giurista,
con il che si può forse fare anche qualche progresso nell’interpretazione del
difficile testo.
Quando i tutori abbiano rubato una cosa del pupillo, bisogna vedere se
nell’actio rationibus distrahendis ciascun tutore sia tenuto per l’intero, e se
ognuno rimanga inoltre obbligato per la poena dupli nonostante il pagamento del contutore. In favore del cumulo Trifonino avanza un argomento per
analogia: quando più persone concorrono nel furto della stessa cosa, il pagamento di uno non libera gli altri. A quest’argomento seguono però due obiezioni, coerentemente introdotte nel testo da un ‘sed’ con valore avversativo.
In primo luogo, le fattispecie sono diverse: nell’actio furti si agisce perché il
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A proposito di
ladro ha sottratto la cosa contro la volontà del proprietario; nell’actio rationibus distrahendis si agisce perché il tutore si è comportato ‘perfide’, cioè ha
infranto il legame fiduciario con il pupillo: in quest’ultimo caso non rileva
che l’ammanco si sia verificato contro la volontà del proprietario; rileva che
si sia reso possibile proprio a causa del fatto che al tutore è stata affidata la
gestione del patrimonio pupillare (propter admissam administrationem). In
secondo luogo, nessuno direbbe che il tutore condannato nell’actio rationibus distrahendis debba pagare la poena, e in più dare la cosa o l’equivalente,
come in una sorta di condictio.32 La differenza, evidentemente, è di nuovo
con il furto, da cui sorgono l’actio furti penale e la condictio ex furtiva causa
reipersecutoria, che in linea di principio si cumulano.
Il senso del passo non si può cogliere se si perde di vista che la disputatio riguarda il regime della solidarietà nell’actio rationibus distrahendis, non la qualificazione giuridica della condotta dei tutori. Il problema della qualificazione
del fatto è già risolto in partenza; i tutori hanno commesso furto: tutores rem
pupilli furati sunt.33 La questione se i tutori possano o meno essere convenuti
per furto non è in discussione. Errata è perciò l’interpretazione alternativa che
l’A. – pur scegliendo di non seguirla – ritiene possibile (p. 230), ossia che il
passo prospetti un caso di ius controversum: secondo questa lettura, Trifonino
32. Non direi che l’ultimo scorcio del testo riguardi la responsabilità del tutore unico, come
sembrerebbe suggerire la traduzione di Schipani, Iustiniani Augusti Digesta, riportata alla
nota precedente. Nello stesso senso Humbert, La loi, 596: « Et si le tuteur était unique,
personne ne penserait qu’il devrait non seulement payer la peine du double par cette action
(des XII T.), mais qu’il devrait en plus restituer la chose elle-même ou en payer la valeur par
une sorte de condictio». L’argomento portato da Trifonino nella parte finale del passo, che
nemo denique dicet unum tutorem et duplum hac actione praestare et quasi specie condictionis
aut ipsam rem aut eius aestimationem, risponde sempre alla questione se il regime dell’actio
rationibus distrahendis sia o meno quello della solidarietà cumulativa. Renderei perciò ‘unum
tutorem’ (non con ‘il tutore unico’, ma) con ‘un solo tutore’; ‘unum’ assume qui lo stesso
valore che ha nella precedente concessiva ‘quamvis unus duplum praestiterit’.
33. Su ciò non mi sento dunque di condividere l’esegesi per altri versi esemplare di Voci,
Actio, 657, la cui posizione non è troppo dissimile da quella di Herrero Medina:
«Sebbene Trifonino chiami apertamente ladri i tutori, tuttavia, quando viene alla precisa
qualificazione giuridica della specie, cambia linguaggio: non il fatto conta, ma la qualifica
data dal diritto; perciò i tutori, per l’amministrazione che hanno del patrimonio del pupillo,
non possono essere detti ladri, ma cattivi gestori (il prevalere della qualifica sul fatto risulta
dal verbo adoperato: videntur)». Anche il verbo ‘furari’ indica una qualificazione giuridica:
il punto però è che questa qualificazione è irrilevante nella soluzione del problema affrontato
da Trifonino.
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negherebbe che la condotta sottrattiva del tutore possa integrare il delitto di
furto, opponendosi all’opinione contraria di Ulpiano e di Paolo.34
È appena il caso di notare che quest’interpretazione ha il suo referente
ideologico nella teoria sullo sviluppo storico della tutela da istituto potestativo a istituto protettivo. Il tutore non avrebbe potuto in origine commettere furto a danno del pupillo, si sostiene, poiché era considerato alla
stregua di un proprietario dei suoi beni. Come afferma anche M. Herrero
Medina (pp. 55 e 206), si dovrebbe intendere così l’espressione ‘tutor domini loco habetur’ che si legge in alcuni testi. Il significato della locuzione
però non è questo; lo chiarisce nel modo più esplicito D. 41.4.7.3 (Iul. 44
dig.): si tutor rem pupilli subripuerit et vendiderit, usucapio non contingit,
priusquam res in potestatem pupilli redeat: nam tutor in re pupilli tunc domini loco habetur, cum tutelam administrat, non cum pupillum spoliat. Si potrebbe obiettare che l’opinione di Giuliano testimoni una fase matura della
riflessione sui limiti della gestione tutelare, e che le cose non siano sempre
state a quel modo. Ma resta il fatto che la locuzione in sé non costituisce un
appiglio lessicale per questa teoria.
Proviamo quindi a ricapitolare il senso complessivo del passo di Trifonino.
Posto che il furto dei tutori può essere perseguito sia con l’actio furti sia con
l’actio rationibus distrahendis, i due rimedi penali (che per altro si cumulano,
secondo quanto risulta dai già citati D. 27.3.1.22 e D. 27.3.2.1) non sono tuttavia equivalenti. Il regime dell’actio furti è quello della solidarietà cumulativa passiva: ciascun contutore è tenuto per l’intero, e l’adempimento di uno
non libera gli altri. Il regime dell’actio rationibus distrahendis è quello della
solidarietà elettiva. Il passo, almeno nella sua recezione compilatoria, non lo
afferma apertamente, ma lo lascia intendere: l’unico argomento in favore della solidarietà cumulativa, vale a dire che tale è il regime dell’actio furti, viene
infatti rigettato. Il medesimo fatto, questo il fulcro del ragionamento, può essere riguardato in due modi diversi: come sottrazione di un bene del pupillo
contro la sua volontà, punita dall’actio furti, e come rottura della fides in base
alla quale il tutore amministra il suo patrimonio, punita dall’actio rationibus
distrahendis. Poiché infrange questo vincolo fiduciario, il furto commesso dai
contutori può formare oggetto dell’actio rationibus distrahendis. Se sceglie di
34. Rispettivamente D. 27.3.1.22 (Ulp. 36 ad ed.), in cui è citato l’orientamento conforme
di Papiniano, e D. 27.3.2.1 (Paul. 8 ad Sab.). cfr. anche D. 47.2.33 (Ulp. 41 ad Sab.).
Esattamente Voci, Actio, 658: «Già Sabino ammetteva il furto del tutore, ed è improbabile
che Trifonino lo negasse».
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A proposito di
convenire i contutori in quest’ultimo iudicium, l’attore (che di regola è l’ex
pupillo) deve però sapere che non può contare sulla solidarietà cumulativa
passiva che il regime dell’actio furti invece gli garantirebbe.
5.2. A corollario dell’analisi condotta su D. 26.7.55.1, si può ora svolgere qualche considerazione a proposito del nome della nostra azione, sul cui
significato la storiografia si è lungamente interrogata. M. Herrero Medina
(p. 203) propone queste due spiegazioni, per parte sua lasciando aperto il
problema. ‘Rationes distrahere’ potrebbe voler dire «quitar (distrahere) los
libros de cuentas (rationes) al tutor para separar sus cuentas de aquellas correspondientes al patrimonio pupilar con el fin de evaluar si efectivamente se
había producido alguna malversación durante el tiempo que duró la tutela».
È però anche possibile che la denominazione «hiciera alusión a la obligación
que tenían los tutores de presentar las cuentas de su administración al pupilo
cuando finalizaban sus funciones en el cargo».
Entrando nel merito del problema, va detto anzitutto che esiste indubbiamente uno iato tra la denominazione dell’azione e le condotte che le poche
fonti disponibili indicano come punibili per suo tramite. Quando l’indicazione è specifica, si parla di ‘pecuniam pupillarem intercipere’, come in D.
27.3.1.22 (Ulp. 36 ad ed.); oppure di ‘rem ex bonis pupilli abstulere’, come
in D. 27.3.2 pr. (Paul. 8 ad Sab.). Quando l’indicazione è generica, si usano espressioni come ‘perfide agere’, in D. 26.7.55.1 (Tryph. 14 disp.); oppure
fraudare velle’, in PS. 2.30. Contestualizzando queste ultime, però, si è sempre
riportati allo sfondo di un tutore che sottragga beni del pupillo.35
La condotta punita si direbbe dunque irrelata alla denominazione ‘actio rationibus distrahendis’. Il nome è di quelli che esprimono lo scopo dell’azione
con il gerundivo declinato al dativo, come ‘actio communi dividundo’ e ‘actio
familiae erciscundae’. Ma qual è il senso del sintagma ‘rationes distrahere’? Una
spia, che aiuti ad andare oltre l’apparente significato letterale (ossia ‘separare i
conti’), viene dai Basilici, ove la rubrica del titolo D. 27.3 ‘De tutelae et rationibus distrahendis et utili curationis causa actione’ è resa con ‘Peri tes katepitropon kai curatoron agoghes kai tu paratitestai autus tus loghismus’. I traduttori
greci intendono dunque l’espressione ‘rationes distrahere’ come ‘presentare i
35. Rispetto al passo di Trifonino, si è già visto che l’espressione ‘perfide agere’ allude a una
condotta molto precisa, cioè il furto dei tutori. Sempre ammesso che ci si riferisca all’actio
rationibus distrahendis, anche in P.S. 2.30 (Dolo tutoris curatorisve detecto in duplum eius
pecuniae condemnatione conveniuntur, qua minorem fraudare voluerunt) il verbo fraudare
sembra comunque venire nel senso di ‘spogliare’ (il pupillo del suo denaro).
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conti’. L’actio rationibus distrahendis non era però una vera e propria azione
di rendiconto, a differenza dell’actio tutelae, nel senso che – come s’è visto –
non sanzionava la cattiva gestione in sé, ma gli ammanchi nel patrimonio del
pupillo dovuti a condotte dolose del tutore. Tuttavia, per constatare le sottrazioni, e dunque giungere eventualmente alla condanna, occorreva esaminare
i conti: e per farlo bisognava costringere il tutore a presentarli. Sembrerebbe
questo lo scopo dell’azione, espresso da una denominazione latina poco perspicua agli occhi del lettore moderno.36
Va da sé che la presentazione dei conti sarebbe avvenuta a tutela finita poiché, come dice bene M. Herrero Medina (p. 234), fino al termine della gestione il tutore avrebbe potuto in ogni momento restituire le res che avesse in
precedenza sottratto. Giusta è dunque l’obiezione che l’A. muove alla parte
della critica interpolazionista secondo cui l’actio rationibus distrahendis d’epoca classica sarebbe stata esperibile a tutela ancora in corso, e sarebbe di
conseguenza alterato il tenore di D. 27.3.1.24 (Ulp. 36 ad ed.): Haec actio
tunc competit, cum et tutelae actio est, hoc est finita demum tutela.
6. Per concludere la rassegna di questioni metodologiche svolta in queste pagine, ci si può soffermare ancora brevemente su due aspetti del quarto capitolo della monografia, dedicato all’accusatio suspecti tutoris. Il primo aspetto
riguarda la legittimazione passiva all’azione; il secondo gli effetti del provvedimento che ordinava la rimozione del tutore sospetto.37 Per chiarezza, va
detto sin d’ora che qui ci si limiterà a segnalare i problemi messi in luce dalla
posizione di M. Herrero Medina. Le possibili soluzioni richiedono di dare
conto in dettaglio di un supplemento d’indagine.
6.1. L’accusatio suspecti tutoris era un rimedio volto ad allontanare dall’amministrazione del patrimonio pupillare il tutore che rischiasse con i suoi
comportamenti di pregiudicarne l’integrità. Essendo questo il fine, l’accusatio presupponeva che una gestione fosse in corso. Ma era possibile allontanare il tutore infedele anche in via preventiva, cioè prima che questi assumesse
l’administratio?
Il romanista spagnolo (pp. 318-321) ritiene che i giuristi non fossero concordi al riguardo. Giuliano sarebbe stato sostenitore di un orientamento ri36. In questo senso già Voci, Actio, 652 s. con n. 14, che richiama il VIR II, 281.
37. Per una discussione di altri aspetti di quest’istituto mi sia consentito rimandare a
Casarotti, rec. a Spina, 687-696.
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A proposito di
formista, in base al quale il suspectus poteva senz’altro essere preventivamente
allontanato. Lo attesterebbe un passo delle Istituzioni di Giustiniano che riporta il suo pensiero, avallato anche da costituzioni imperiali:
I. 1.26.5: Suspectus est autem, qui non ex fide tutelam gerit, licet solvendo est, ut et Iulianus
quoque scripsit. sed et ante, quam incipiat gerere tutelam tutor, posse eum quasi suspectum
removeri idem Iulianus scripsit et secundum eum constitutum est.
All’opinione tradizionale, che negava la possibilità di accusare il tutore non
gerente, si sarebbe invece rifatto ancora Ulpiano, disposto a derogare al principio solo in rare ipotesi, circondate oltretutto da rigorose cautele procedurali. Lo attesterebbero, questa volta, due passi del primo libro De omnibus
tribunalibus:
D. 26.10.4.4: Qui nihil gesserunt, non possunt suspecti postulari, verum ob ignaviam vel
neglegentiam vel dolum, si dolo fecerunt, possunt removeri.
D. 26.10.7.3: Si quis tutor datus non compareat, solet edictis evocari, novissimeque si copiam sui non fecerit, ut suspectus removeri ob hoc ipsum, quod copiam sui non fecit. quod et
perraro et diligenti habita inquisitione faciendum est.
Ponendo fine alla controversia, la cancelleria di Severo Alessandro avrebbe poi accolto l’opinione di Giuliano, favorevole ad ammettere la postulatio
contro il tutore non gerente.
C. 5.43.3, Alex (a. 229): Praeses provinciae tutores filiorum tuorum strictioribus remediis
adhibitis omnimodo administrationis officium compellet agnoscere. quod si in eadem contumacia perseveraverint, suspectos postulare, ut alii in locum eorum petantur, non prohiberis.
I passi appena richiamati non sembrano in vero testimoniare alcuna dissensio tra Giuliano e Ulpiano. In D. 26.10.4.4, Ulpiano scrive che i tutori
non gerenti possono essere rimossi, purché l’omessa gestione sia almeno
colposa: qui nihil gesserunt […] ob ignaviam vel neglegentiam vel dolum, si
dolo fecerunt, possunt removeri. Per contro, l’affermazione delle Istituzioni è generica: et ante quam incipiat gerere tutelam tutor posse eum quasi
suspectum removeri idem Iulianus scripsit. Non possiamo sapere a quali
condizioni Giuliano ammetteva la remotio del tutore non gerente. Il passo
di Ulpiano, e in ciò sta la differenza tra i due testi, mette l’accento su un
aspetto dell’agere di cui il brano delle Istituzioni tace, ossia che contro il
tutore non gerente non poteva essere intentata la suspecti postulatio. Il ‘posse
… removeri’ di I. 1.26.5 ha il suo perfetto corrispondente nel ‘possunt removeri’ di D. 26.10.4.4. Affermando che Giuliano ammetteva la rimozione
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del non gerente sospetto, e che Ulpiano al contrario la negava, l’A. sembra
invece mettere in relazione il ‘posse … removeri’ dell’uno con il ‘non possunt
… postulari’ dell’altro.
Il caso affrontato nel secondo escerto di Ulpiano riportato poco sopra, D.
26.10.7.3, è almeno in parte diverso: qui la remotio non dipende tanto dall’omessa gestione, che infatti il passo non menziona, quanto dalla contumacia
del tutore, che non risponde alla convocazione del magistrato (ob hoc ipsum,
quod copiam sui non fecit).38
Intanto, la conclusione da tenere ferma è che, data la vaghezza di I. 1.26.5,
non si può sapere se Giuliano e Ulpiano dissentissero sui limiti entro i quali
era ammissibile la remotio del tutore non gerente: entrambi certamente l’ammettevano. I problemi sono piuttosto altri. Innanzitutto, come si concilia
la tensione tra D. 26.10.4.4, da cui risulta che la postulatio suspecti contro il
tutore non gerente è preclusa, e C. 5.43.3, che invece ammette la madre alla
postulatio nel caso in cui i tutori dei suoi figli non geriscano? E in secondo
luogo, dato che D. 26.10.4.4 distingue tra ‘postulari’ e ‘removeri’, come si può
giungere alla remotio in assenza di postulatio? Sono questioni su cui mi propongo di tornare in un intervento più approfondito. Qui preme però sottolineare l’implicazione di metodo: appellarsi allo ius controversum per risolvere
le difficoltà delle fonti rischia di essere una scorciatoia non dissimile dall’interpolazionismo; i mezzi sono ovviamente diversi, ma non lo sono gli scopi.
6.2. È dibattuta, in dottrina, la questione se il decreto di rimozione del
tutore sospetto avesse per effetto l’interdizione dalla gestione oppure – più
radicalmente – la cessazione dall’ufficio tutelare. La soluzione del quesito è
ostica, dal momento che sembra esserci una contraddizione tra quanto afferma Ulpiano in un passaggio dell’Ad Sabinum e quanto scrive Gaio in un
brano delle Istituzioni. Queste le fonti:
D. 26.1.14.4 (Ulp. 14 ad Sab.): Si suspectus quis fuerit remotus, desinit esse tutor.
Gai. 1.182: Senatus censuit, ut si tutor pupilli pupillaeve suspectus a tutela remotus sit, sive
ex iusta causa fuerit excusatus, in locum eius alius tutor detur. quo facto prior tutor amittit
tutelam.
38. L’osservazione di Albanese, Le persone, 499 n. 361, che «il caso a cui pensava Giuliano
[in I. 1.26.5] era, probabilmente, quello accennato da Ulpiano in D. 26.10.7.3» è corretta,
ma merita una puntualizzazione: il tutore poteva rendersi irreperibile e non comparire
davanti al magistrato non solo prima di assumere l’administratio, ma anche quando l’avesse
assunta e successivamente abbandonata. cfr. D. 26.7.5.2 (Ulp. 35 ad ed.).
261
A proposito di
Rispetto all’affermazione recisa di Ulpiano, Gaio disegna uno scenario più
complesso: sorprende soprattutto la precisazione finale, da cui parrebbe che
il suspectus perdesse la qualifica di tutore in un momento successivo alla remotio. La testimonianza delle Istituzioni è stata letta in questo senso: se il tutore
‘amittit tutelam’ (cioè perde l’incarico) quo facto (cioè solo una volta che sia
stato nominato il suo sostituto), allora il decreto di rimozione non determina
di per sé la cessazione dall’ufficio, ma proibisce soltanto la gestione.
M. Herrero Medina, che ha il merito di riservare ampio spazio alla discussione del problema (pp. 251-263), giunge però a una conclusione diversa.
Recuperando una tesi di S. Solazzi,39 l’Autore ritiene che proprio la pericope
‘quo facto prior tutor amittit tutelam’ sia in realtà un glossema finito a testo,
per di più in posizione errata. L’appunto con cui si chiude il passo sarebbe
estraneo al pensiero di Gaio, e a dimostrazione di ciò lo studioso invoca il
parallelo dei Tituli ex corpore Ulpiani, dove un appunto analogo manca:
Tit. Ulp. 11.23: hoc amplius senatus censuit, ut si tutor pupilli pupillaeve suspectus a tutela
submotus fuerit vel etiam iusta de causa excusatus, in locum eius tutor alius detur.
Gaio, come l’autore del liber singularis regularum attribuito a Ulpiano, si
sarebbe limitato a dire che in forza di un senatoconsulto l’autorità competente doveva provvedere a dare al pupillo un tutore in sostituzione di quello
rimosso. Il senatoconsulto avrebbe cioè invertito l’ordine legale di chiamata
alla tutela, disponendo che al tutore testamentario rimosso o scusato non
subentrasse quello legittimo (come di regola, quando mancasse o venisse a
mancare il testamentario), bensì un tutore dativo. Il glossema avrebbe dovuto precedere la frase ‘in locum eius alius tutor detur’, commentando perciò
la protasi ‘si tutor pupilli pupillaeve suspectus a tutela remotus sit, sive ex iusta
causa fuerit excusatus (quo facto prior tutor amittit tutelam)’. Anche prima
dell’emanazione di questo senatoconsulto, è la conclusione del romanista, il
decreto di remotio produceva la cessazione dall’ufficio.
A proposito di questa tesi si possono fare due osservazioni. La prima è ancora di metodo: il glossema in Gai. 1.182 non può essere indotto dall’assenza
del tratto corrispondente in Tit. Ulp. 11.23. La derivazione diretta del liber
singularis regularum dalle Institutiones è infatti discussa.40 Inoltre, quale che
39. Il momento finale, 149-153.
40. Per lo status quaestionis, vd. Johnston, Gaius, 303-318: l’A. (ivi, 308) ritiene che
proprio il parallelo tra Gai. 1.182 e Tit. Ulp. 11.23, nonostante le innegabili somiglianze tra i
due passi, non possa dimostrare la dipendenza dell’opera (pseudo)ulpianea dalle Istituzioni,
262
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sia il rapporto tra le due opere, il confronto non sarebbe comunque risolutivo,
perché le regulae (pseudo)ulpianee sono programmaticamente più sintetiche
delle Istituzioni; sicché un’informazione presente in Gaio potrebbe anche
essere stata omessa nel luogo parallelo del liber singularis. Per poter sostenere
con coerenza la tesi del glossema, occorrerebbe per altro prendere posizione
su questioni testuali che l’Autore invece non affronta. Ad esempio, andrebbe
per lo meno chiarito se si reputa glossematico anche lo stilema, simile a quello sospetto di Gai. 1.182, che s’incontra in un passo di poco precedente.41
La seconda osservazione è di merito, e riguarda un problema che M. Herrero Medina elude del tutto. Sappiamo da Servio che la tutela era una potestas
di ius civile: perché il decreto di rimozione comportasse la perdita della qualifica di tutore, bisogna quindi ipotizzare che il potere di emanarlo avesse fondamento in una fonte di ius civile. Lo studioso nega che sia il senatoconsulto
di Gai. 1.182, ma non fa nessuna ipotesi su quale questa fonte potesse essere:
in uno studio orientato alla ricostruzione genealogica degli istituti tutelari, la
mancanza non è di poco conto.
Così, il problema degli effetti del decreto di rimozione resta aperto. Anche
su questo si dovrà tornare.
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264
Tesserae iuris, II.1 (2021)
issn 2724-2013
Indice
Editoriale
5
Saggi
Il Foro di Augusto come espressione della restituzione della cultura giuridica
privatistica e mezzo per il ristabilimento della dottrina del diritto naturale
Martin Avenarius
Escuelas de juristas y argumentación dialéctica
Margarita Fuenteseca
(No) Problem for a Translator Bas. 3.1.44 / Nov. 123.28:
Did or didn’t bishops have to pay sportulae?
Thomas Ernst van Bochove
7
Periscopio
Ancora sugli agri abbandonati, sterili, deserti: alcune considerazioni
Paola Bianchi
Il titolo 9.2 del Digesto ex machina. Un modello per la risoluzione
automatizzata delle controversie?
Iole Fargnoli
Se il leone concede qualcosa. Brevi note in tema di societas leonina
Veronica Forlani
Il modello romano sulla rilevanza della follia nel rapporto di coniugio
Luca Ingallina
Peira 26.12: A fragment of Theophilus’ Index of the Digest?
Marios Th. Tantalos
Sul tavolo
La ‘dicatio ad patriam’ dei beni culturali
Paolo Garbarino
Carl Schmitt, tra pensiero politico e diritto (romano)
Paolo Garbarino
Qui erat Callistratus?
Renzo Lambertini
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9
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211
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Tesserae iuris, II.1 (2021)
issn 2724-2013
Il mare indomito e le regulae iuris
Renzo Lambertini
Il settore artigianale tessile in un frammento di Ulpiano
Renzo Lambertini
Emptio venditio hereditatis, una figura giuridica bifronte
Renzo Lambertini
La monumentale legge del Tetrarca
Renzo Lambertini
La fulgida stagione della papirologia
Renzo Lambertini
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223
226
228
231
A proposito di
La genealogia degli istituti tutelari: un problema di metodo
Luca Casarotti
237
239
Sullo scaffale
2020
Fonti giuridiche
265
269
(Edizioni di fonti; Riproduzioni, studi critici, traduzioni, commenti;
Opere palingenetiche; Fonti medievali)
Sussidi
269
(Enciclopedie; Dizionari storici, atlanti, guide, cronologie, ecc.;
Repertori bibliografici; Sussidi informatici; Lessici)
Raccolte di scritti
269
(Atti di congressi, convegni, ecc.; Studi in onore; Pubblicazioni varie)
Opere di interesse generale
272
(Profili generali del diritto romano; Studi sulle fonti giuridiche;
Studi sulle fonti non giuridiche; Metodologia romanistica;
Storia della romanistica; Teoria generale e comparazione giuridica;
Florilegi, raccolte di casi; Tradizione giuridica europea)
Diritto privato
283
(Persone e famiglia; Diritti reali; Obbligazioni; Successioni e donazioni; Processo)
Diritti dell’antico Oriente mediterraneo
290
(Fonti e studi sulle fonti; Diritto privato; Diritto pubblico e penale;
Storia, cultura e tradizioni; Raccolte di scritti e atti di convegni)
Diritto bizantino
291
(Fonti e studi sulle fonti; Diritto privato; Diritto pubblico e penale;
Storia, cultura e tradizione dell’Impero d’Oriente; Raccolte di scritti e atti di convegni)
Diritto penale e processo
Storia della costituzione romana
299
300
(Stato città; Repubblica; Principato; Dominato; Opere varie e generali)
Amministrazione e fisco
305
336
Tesserae iuris, II.1 (2021)
issn 2724-2013
Storia della civiltà antica
306
(Religione; Società e costume; Economia; Storia militare;
Ideologie, politica, storiografia, ecc.; Studi vari e di carattere generale;
Papirologia; Epigrafia e paleografia)
2021
Fonti giuridiche
319
(Edizioni di fonti; Riproduzioni, studi critici, traduzioni, commenti;
Opere palingenetiche; Fonti medievali)
Sussidi
319
(Enciclopedie; Dizionari storici, atlanti, guide, cronologie, ecc.;
Repertori bibliografici; Sussidi informatici; Lessici)
Raccolte di scritti
319
(Atti di congressi, convegni, ecc.; Studi in onore; Pubblicazioni varie)
Opere di interesse generale
320
(Profili generali del diritto romano; Studi sulle fonti giuridiche;
Studi sulle fonti non giuridiche; Metodologia romanistica;
Storia della romanistica; Teoria generale e comparazione giuridica;
Florilegi, raccolte di casi; Tradizione giuridica europea)
Diritto privato
322
(Persone e famiglia; Diritti reali; Obbligazioni; Successioni e donazioni; Processo)
Diritti dell’antico Oriente mediterraneo
323
(Fonti e studi sulle fonti; Diritto privato; Diritto pubblico e penale;
Storia, cultura e tradizioni; Raccolte di scritti e atti di convegni)
Diritto bizantino
323
(Fonti e studi sulle fonti; Diritto privato; Diritto pubblico e penale;
Storia, cultura e tradizione dell’Impero d'Oriente; Raccolte di scritti e atti di convegni)
Diritto penale e processo
Storia della costituzione romana
324
324
(Stato città; Repubblica; Principato; Dominato; Opere varie e generali)
Amministrazione e fisco
Storia della civiltà antica
325
326
(Religione; Società e costume; Economia; Storia militare;
Ideologie, politica, storiografia, ecc.; Studi vari e di carattere generale;
Papirologia; Epigrafia e paleografia)
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