Geologia dell’Ambiente
Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 - DCB Roma
Supplemento al n. 1/2021
ISSN 1591-5352
Periodico trimestrale della SIGEA
Società Italiana di Geologia Ambientale
ATTI DEL CONVEGNO
LE VIE DI COMUNICAZIONE
NELL’ANTICHITÀ
ROMA
24-25 MAGGIO 2019
A CURA DI
EUGENIO DI LORETO, GIUSEPPE GISOTTI, GIOACCHINO LENA, CARLO ROSA
Società Italiana di Geologia Ambientale
Associazione di protezione ambientale a carattere
nazionale riconosciuta dal Ministero dell’ambiente,
della tutela del territorio e del mare con
D.M. 24/5/2007 e con successivo D.M. 11/10/2017
PRESIDENTE
Antonello Fiore
CONSIGLIO DIRETTIVO NAZIONALE
Lorenzo Cadrobbi, Franco D’Anastasio (Segretario),
Daria Duranti (Tesoriere), Ilaria Falconi,
Antonello Fiore (Presidente), Sara Frumento,
Fabio Garbin, Enrico Gennari, Giuseppe Gisotti
(Presidente onorario), Gioacchino Lena (✝),
Luciano Masciocco, Michele Orifici (Vicepresidente),
Vincent Ottaviani (Vicepresidente),
Paola Pino d’Astore, Livia Soliani
Geologia dell’Ambiente
Periodico trimestrale della SIGEA
Supplemento al N. 1/2021
Anno XXIX • gennaio-marzo 2021
Iscritto al Registro Nazionale della Stampa n. 06352
Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 229
del 31 maggio 1994
DIRETTORE RESPONSABILE
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VICE DIRETTORE RESPONSABILE
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Mario Bentivenga, Aldino Bondesan, Giovanni Bruno,
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Fazzini, Giuseppe Gisotti, Giancarlo Guado, Gioacchino
Lena (✝), Endro Martini, Luciano Masciocco, Davide
Mastroianni, Mario Parise, Giacomo Prosser, Giuseppe
Spilotro, Vito Uricchio, Luca Valensise
COMITATO DI REDAZIONE
Fatima Alagna, Giorgio Boccalaro, Giorgio Cardinali,
Valeria De Gennaro, Eugenio Di Loreto,
Sara Frumento, Fabio Garbin, Michele Orifici,
Vincent Ottaviani, Laura Pala, Maurizio Scardella
REDAZIONE
Sigea c/o Fidaf - Via Livenza, 6 00198 Roma
tel. 06 5943344
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PROCEDURA PER L’ACCETTAZIONE
DEGLI ARTICOLI
I lavori sottomessi alla rivista dell’Associazione,
dopo che sia stata verificata la loro pertinenza
con i temi di interesse della Rivista, saranno
sottoposti ad un giudizio di uno o più referees
UFFICIO GRAFICO
Pino Zarbo (Fralerighe Book Farm)
www.fralerighe.it
PUBBLICITÀ
Sigea
Sommario
PRESENTAZIONE
Le vie di comunicazione nell’antichità
Gioacchino Lena
RELAZIONI DI APERTURA
Mario Tozzi
Presidente Parco Regionale dell’Appia Antica
9
Francesco Arcangelo Violo
Presidente Consiglio Nazionale dei Geologi
10
Gianluigi Giannella
Ordine dei Geologi del Lazio
11
Rosario Santanastasio
Presidente Archeoclub d’Italia
12
SESSIONE I
LE STRADE: LA SEDE, IL TRACCIATO, LE OPERE
Moderazione: Giorgio Cesari
Il progressivo spopolamento dell’antica città di Tharros.
Indagini archeologiche sull’antico porto
Anna Ardu, Angela Rita Conte
17
Ripristino archeologico e ingegneria naturalistica:
il caso dell’antica Via Flacca
Federico Boccalaro
26
Risultati preliminari sulla possibile individuazione della
Mutatio Gelasium lungo la via romana Catania-Agrigento
(It. Provinciarum Antonini Augusti n. 88)
Giovanni Bruno, Germana Barone, Giorgio De Guidi,
Rosanna Maniscalco, Paolo Mazzoleni
39
I porti, gli approdi e l’antica rete stradale
nella zona iblea dal mare alla terraferma
Giovanni Cassarino, Saverio Scerra
46
La Via Campana-Portuense e le cavità sotterranee
Giancarlo Ciotoli, Stefania Nisio
64
Brevi note di viabilità e ambiente a Ostia Antica
Massimiliano David
70
STAMPA
Industria grafica Sagraf Srl, Capurso (BA)
La quota di iscrizione alla SIGEA per il 2021
è di € 30 e da diritto a ricevere la rivista
“Geologia dell’Ambiente”.
Per ulteriori informazioni consulta il sito web
all’indirizzo www.sigeaweb.it
5
Pubblicazione realizzata con il sostegno del Consiglio Nazioanle dei Geologi
In copertina: Parco dell’Appia Antica. Ph. Bebo_cik.
Il tracciato stradale di loc. Carromonaco nel fondovalle
del Mesima (VV). Prime ipotesi sulla viabilità antica
e medievale tra la via Annia-Popilia e le Serre calabresi:
evidenze archeologiche e modelli predittivi in ambiente GIS
Antonino Facella, Giovanni Boschian,
Ginevra Gaglianese, Maria Teresa Iannelli,
Pietro Carmelo Manti
76
La paleogeografia della pianura costiera a sud di Catania
tra il V-IV sec. a.C., con la via greca Leontinoi-Katane
proveniente da Syracosion e i luoghi descritti da Diodoro
Siculo (XIV 57-62) per le battaglie del 396 a.C.
fra l’esercito dei siracusani e quello dei cartaginesi
Roberto Mirisola
85
Le vie di comunicazione nel suburbio orientale di Ostia
in età romana
Simona Pannuzi
94
SESSIONE II
IL SUPERAMENTO DI DIFFICOLTÀ GEOLOGICHE
E IDROGRAFICHE
Moderazione: Simona Pannuzi e Carlo Rosa
La progettazione della via Laurentina e le modifiche
del territorio attraversato
Anna Buccellato, Fulvio Coletti, Anne De Loof
111
La Via Severiana come difesa costiera e risorsa
infrastrutturale del Lazio romano
Stefano De Togni
118
La Via Appia antica al valico dei Monti Aurunci:
aspetti geologici e geomorfologici
Emiliano Di Luzio
123
Vibo Valentia: spunti per la definizione della viabilità
urbana nelle fasi greca e romana
Giuseppe Ferraro, Maria Teresa Iannelli,
Anna Maria Rotella
133
Viabilità ed episodi alluvionali in età romana: archeologia
della via Emilia a Modena e delle vie oblique in Emilia
Donato Labate, Gianluca Bottazzi
144
L’antica via Ardeatina, l’arteria e le infrastrutture
Leonardo Schifi
153
SESSIONE III
LE FONTI STORICHE E CARTOGRAFICHE
Moderazione: Carlo Rosa
Cartografia storica e geomorfologia nella ricostruzione
della Via Annia: il caso di Altino
Paola Furlanetto, Aldino Bondesan
161
Le porte storiche. Valichi stradali obbligati nell’antichità classica
Lamberto Laureti
170
SESSIONE IV
LE COMUNICAZIONI FLUVIALI E I PORTI FLUVIALI
Moderazione: Maurizio Lanzini
La via alzaia del Tevere dall’età romana al XVI secolo
Anna Buccellato, Alessandra Ghelli, Carlo Rosa
179
Il Tevere: la più antica via della civiltà romana
Giorgio Cesari
189
Il ruolo del fiume nella produzione agricola e nel commercio
delle eccedenze alimentari durante l’antichità.
Il caso dell’Eufrate
Giuseppe Gisotti, Paolo Malagrinò
194
Il porto di Hadria. La ricostruzione del paesaggio
fluviale antico. Ipotesi preliminari
Davide Mastroianni
201
Il Tevere, asse di comunicazione e di sviluppo tra Roma,
il litorale ed i porti
Renato Matteucci, Carlo Rosa, Renato Sebastiani
208
Il porto fluviale di Roma antica presso Monte Secco
e la discarica di anfore (Roma, Quartiere Prati)
Carlo Rosa
213
SESSIONE V
LA RICOSTRUZIONE DEI PAESAGGI ATTRAVERSATI
Moderazione: Maurizio Lanzini
L’organizzazione del territorio attraversato dalla via laurentina
antica tra v e vii miglio: architettura, infrastrutture e paesaggi
tra l’età arcaica e la tarda antichità
Anna Buccellato, Fulvio Coletti
219
Le vie dei Pellegrini in Italia
Roberto Ranciaro
226
SESSIONE POSTER
Moderazione: Giovanni Bruno
La via Nomentana:
luoghi di culto ipogei e acque sotterranee
Pio Bersani, Stefania Nisio
237
La Via Amerina nel Lazio tra passato e futuro
Gianluca Cerri, Antonio Mancini
243
La via Latina tra storia e geologia
Maria Luisa Felici, Giulio Caratelli
250
Analisi preliminare per lo studio del territorio
e delle vie di comunicazione in Magnesia nell’antichità
Stefano Paderni
255
Percorsi antichi nel territorio locrese meridionale (Calabria):
vie longitudinali e trasversali rispetto alla costa tra le vallate
delle fiumare La Verde e Bruzzano
Gianluca Sapio
262
5
Presentazione
F
in dalla Preistoria l’umanità ha sentito il bisogno non solo di muoversi da
una parte all’altra del territorio ma di riuscire a ritrovare lo stesso percorso
in caso di reiterare l’attività che lo aveva condotto a uscire fuori dalla sede
abituale e di indicarla agli altri. Non si trattava di costruire strade ma
di rendere evidenti in qualche modo i sentieri e i percorsi effettuati. Operazioni
perfezionate poi nel corso del Neolitico quando le necessità commerciali spinsero a percorrere vie di comunicazione note e ben individuabili sul terreno fra un
sito e l’altro. Si pensi a questo proposito alla via dell’ossidiana o a quella, in senso
inverso, dell’ambra.
Strade, forse non dissimili dal concetto odierno, furono quelle persiane o egizie.
Persino i greci, dotati di vie di comunicazione fangose e di difficile percorso, furono
in grado di realizzarne alcune di grande impatto come la siciliana Selinuntia odòs,
che, fra Siracusa e Selinunte, attraversava tutta la Sicilia.
Il concetto di strada così come oggi lo concepiamo è sicuramente romano,
ereditato a sua volta dalla civiltà etrusca. Gli ingegneri, nel progettare e realizzare
la miriade di vie di comunicazione che, partendo da Roma, si diramavano in tutto
l’impero, dovettero avere studiato bene le caratteristiche geologiche e geomorfologiche dei terreni da attraversare. Ad esse seppero adattarsi escogitando, volta per
volta, soluzioni diverse nel tracciare il percorso ma anche nel trovare e utilizzare
i materiali necessari.
Da sempre, quindi, le strade rappresentano lo specchio della civiltà del territorio su cui esse insistono e di conseguenza la loro ideazione, progettazione ed
esecuzione non potrà mai prescindere dal contesto geologico, biologico, e quindi
paesaggistico, che le circonda. Ne consegue come l’iter progettuale risulti necessariamente di natura squisitamente multidisciplinare e costretto a svilupparsi
rispettando i canoni di un’ingegneria realmente compatibile. All’origine di una
corretta ideazione di una rete di trasporti non può che esservi un’ approfondita
conoscenza di come sia nata e si sia sviluppata l’idea di strada partendo dalla sua
ideazione fino a giungere alla sua costruzione .
A volte, tuttavia, fu preferita una via fluviale, più comoda e più veloce per
raggiungere siti ubicati lungo il percorso fluviale o immediatamente vicini e facilmente raggiungibili con comode bretelle.
Un discorso a parte merita la comunicazione via mare della quale abbiamo
esempi notevoli fin dalla Preistoria. Il trasporto di uomini, merci (e idee) è stato
preferito per la facilità oggettiva che il trasporto marittimo consentiva. Un esempio per tutte: il relitto di Ulu Burun in Turchia, con duecento lingotti di rame
equivalenti a un carico di quasi sei tonnellate risale al Bronzo medio e trasportava
materiali dalla Mesopotamia e dall’Egitto. Esso è la testimonianza di una facilità
di trasporto e trasmissione di merci e civiltà da un posto all’altro del Mediterraneo.
Il convegno intitolato le “vie di comunicazione nell’antichità” quindi ha riguardato le tecniche costruttive, gli accorgimenti tecnici messi in opera per sfruttare la
geomorfologia e, al contrario, superare gli ostacoli geomorfologici incontrati lungo
il percorso (fiumi, forre, paludi, ecc), lo sfruttamento delle caratteristiche geologiche per l’approvvigionamento dei materiali necessari alla costruzione. Assieme
a queste l’adattamento di precise caratteristiche fluviali per ubicarvi le strutture
portuali e le modalità di raggiungimento dei siti di interesse economico, politico
o militare.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020
6
•
•
•
•
•
•
Le sessioni attraverso le quali ha avuto svolgimento sono state:
Le strade (la sede, il tracciato, le opere d’arte)
Il superamento di difficoltà geologiche e idrografiche
Le fonti storiche e cartografiche
Le comunicazioni fluviali e i porti fluviali
La ricostruzione dei paesaggi attraversati
Una sessione poster su gli argomenti enunciati
Gli interventi che si sono succeduti hanno riguardato spazialmente varie regioni italiane dal Friuli alla Sardegna, dall’Emilia alla Sicilia mentre tutte le sessioni
sono state oggetto di trattazione. Non è mancato nella “sessione poster” uno studio
preliminare dei paesaggi e delle vie di comunicazione in un panorama che spazia
del Lazio alla Calabria, dalla Sicilia alla regione di Magnesia, in Tessaglia.
Gioacchino Lena
Sigea
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020
RELAZIONI
DI APERTURA
APPIA
ANTICA
UN PARCO
UNICO
AL MONDO
La Campagna Romana
a un chilometro dal Colosseo
www.parcoappiaantica.it
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PARCO
REGIONALE
DELL’APPIA
ANTICA
9
Elogio del sampietrino
S
e anche ci fossero stati i Romani, però mezzo milione di anni fa –invece
che solo 2800 –, la Città Eterna non sarebbe neppure stata immaginata
così come è oggi, con tutte le sue pietre vulcaniche, le sue malte pozzolaniche, i suoi rivestimenti imperiali in travertino. Sarebbe stata una città
diversa, forse dorata di rocce arenacee oppure bianca e grigia di calcari compatti.
Non solo perché non ci sarebbero state le competenze tecniche e non certo per
l’incapacità di immaginazione, ma per la mancanza di materia prima: come si
sarebbe potuto innalzare la città caput mundi senza travertini, senza tufi e senza
lave? Dove avrebbero potuto trovare – quegli uomini – i prodotti di vulcani che
ancora non erano nati?
Roma antica era certo candida di marmi delle Apuane e sicuramente il suo
nucleo fondante era quello dei mattoni rossi imperiali, opportunamente arrangiati
negli opus che abbiamo conosciuto dai tempi di scuola. Ma a pensarci bene Roma
è soprattutto la città del tufo, cioè di quelle ceneri ricadute – o fluite ancora bollenti
e plastiche in nubi ardenti – e poi squadrate in blocchetti fino ancora ad oggi. È
la città del travertino, pietra calcarea convogliata in superficie dalle stesse grandi
spaccature che hanno favorito il vulcanismo e poi depostasi a velo soprattutto a
Tivoli, la città del lapis tiburtinus, appunto.
La trama di Roma è, però, intessuta, più di ogni altra cosa, dalla nuova colata
artificiale di lava costituita dal reticolo fittissimo delle strade e dei vicoli della
città, lastricati da quella trama di minuscoli sampietrini che hanno sostituito i
basoli antichi – lavorati con fatica dopo essere stati strappati al vulcano – e che
formano il reticolo strutturale orizzontale dell’intera città. Dalla Regina viarum
(la Via Appia), fino all’ultimo vicolo di Trastevere, Roma è il regno del basolato e
del sampietrino, cioè delle antiche lave che sono un prodotto primario dell’attività
vulcanica del gigantesco Vulcano Laziale.
Sono decine e decine la cave aperte un po’ dovunque a sud di Roma alla ricerca del basalto – come impropriamente viene chiamata la roccia dei basoli e dei
sampietrini –, ma se volete vedere una colata ancora in posto dirigetevi lungo il
Grande Raccordo Anulare nei pressi dell’Appia antica: lì la strada taglia la cosiddetta colata di Capo di Bove, fatta di lave grigie e compatte, fratturatasi a causa
del raffreddamento, ma ancora così calda da cuocere il sottostante livello di rocce
vulcaniche, caratteristicamente arrossato in superficie dalla temperatura elevata
della colata. Non è basalto, però, ma una complessa miscela di rocce che hanno
diversi nomi, spesso una leucitite, cioè una roccia povera in silice e ricca di potassio, con grandi cristalli bianco-latte quasi sferici. Altre volte è una tefrite, una lava
pure povera di silice, ma che non sviluppa cristalli di leucite così evidenti, oppure
una fonolite, ancora una roccia simile, ma che, a colpirla con un martello, suona
caratteristicamente (come dice il nome).
Il basolato romano ha valore religioso oltre che pratico: al Monte Cavo la Via
Sacra è ancora oggi percorribile con i suoi basoli irregolarmente squadrati, così
come pure accade alla Via Appia Antica, in tanti tratti riconoscibile ancora nonostante la crescita spesso indifferente della città moderna e l’insulto dell’asfalto. Le
vie consolari sono state le strade della “selce” romana, le vie delle lave leucititiche,
affioranti a pelle di leopardo lungo tutta la penisola. Lave che i geologi si sono divertiti a caratterizzarle da un punto di vista mineralogico: la leucitite, per esempio,
è più densa dei calcari e dei tufi e presenta molti pochi vuoti al suo interno, come
a dire che è molto compatta e sostiene molto bene i carichi. È dunque ideale a
sostenere il traffico carrabile, come avevano ben compreso i romani antichi; inoltre
resiste molto efficacemente all’usura per attrito radente, come quello degli pneumatici. Che, però, è meglio che la facciano finita di passarci sopra.
Mario Tozzi
Presidente Parco Regionale dell’Appia Antica
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020
10
I
l Consiglio Nazionale dei Geologi condivide il grande interesse che la categoria, unitamente agli archeologi, ingegneri e architetti, ha per questo convegno.
Esso, organizzato da SIGEA attraverso la sua Area Tematica “Geoarcheologia”, mette in risalto come le caratteristiche geologico-tecniche abbiano
sempre avuto una grande importanza nella costruzione e nell’esercizio delle vie di
comunicazione nell’antichità, siano esse dovute alla geologia e geomorfologia dei
siti attraversati, sia all’inserimento di esse nei paesaggi, sia anche nello sfruttamento della forza dell’’acqua dei fiumi e dei porti fluviali. Il programma del Convegno,
molto articolato e complesso, rende evidente questi rapporti attraverso cinque
sessioni e una sessione poster.
D’altra parte consideriamo che le vie di comunicazione hanno avuto un ruolo
fondamentale nella costruzione delle civiltà, hanno reso il mondo più “piccolo”.
Sulle strade si incontravano, e spesso si incontrano, le diversità, le culture dei popoli.
Una rete di comunicazione efficiente si identificava, storicamente, con il governo
e controllo di quel territorio e con un fiorente sistema di scambi commerciali.
Le strade rappresentano, quindi, un bene della civiltà che oggi spesso non viene
manutenuto e preservato come si dovrebbe.
Attualmente la rete stradale italiana, che registra la più alta densità veicolare
in ambito comunitario, espressa in veicoli per km, è interessata da un numero
elevatissimo di frane. Dal “Rapporto di sintesi sul dissesto idrogeologico in Italia”
(Ispra- 2014), si evince che “l’Ispra ha stimato 6.180 punti di criticità per fenomeni
franosi solo lungo la rete stradale principale (autostrade, superstrade, strade statali,
tangenziali e raccordi), di cui 720 lungo la rete autostradale”.
In tale contesto, le attività di manutenzione e prevenzione devono essere pianificate senza soluzione di continuità, con un approccio multidisciplinare delle
competenze, tra cui quelle geologiche che rivestono un ruolo fondamentale.
Dai dati rivelati in un seminario del 2017 tenutosi al Politecnico di Milano dal
Prof. W. Phillip Yen, Presidente della IABEE, nonché ingegnere capo del settore
dinamica strutturale dei ponti presso il Dipartimento dei Trasporti degli USA e
coordinatore scientifico di diversi programmi di ricerca internazionali sui temi
infrastrutturali, si evince che su un patrimonio di circa 600.000 ponti costruiti negli
USA (contro i circa 46.000 in Italia), nel periodo 1980-2012 hanno raggiunto il
collasso 1062 ponti di cui ben il 47% per cause da addebitarsi a fenomeni di dissesto
geo-idrologico (alluvioni, scalzamento fondazioni..).
Da questi dati emerge che, come confermato in Italia in questi ultimi anni, i
crolli dei ponti avvengono per cause diverse ed in misura importante per eventi di
dissesto geo-idrologico.
Il nostro paese, alla luce dei recenti eventi drammatici che hanno interessato la
rete stradale italiana, ha bisogno di un rapido avvio di attività di verifica e monitoraggio, finalizzato alla valutazione della sicurezza, alla classificazione del rischio
ed alla conseguente progettazione di piani di intervento, stabilendo innanzitutto
le priorità.
Tali attività devono partire dalla conoscenza delle opere da manutenere e del
loro ambito territoriale significativo, in cui è possibile rilevare interrelazioni di
carattere dinamico di origine ambientale e geologica.
Operando così, si consentirà di migliorare i livelli di sicurezza delle strade e di
trasformare gran parte dei costi destinati alla gestione delle emergenze in risorse
per la prevenzione e manutenzione.
Francesco Arcangelo Violo
Presidente Consiglio Nazionale dei Geologi
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020
11
B
uongiorno. In veste di Consigliere dell’Ordine dei Geologi del Lazio
porto a tutti i presenti il saluto del Presidente Roberto Troncarelli e di
tutto il Consiglio. Mi preme in primo luogo esprimere il mio personale
apprezzamento e compiacimento per l’organizzazione di questo convegno che l’Ordine regionale ha sostenuto per i temi di grande interesse tecnicoscientifico che riguardano sia la figura professionale del geologo sia, più in generale,
discipline e saperi collaterali che almeno in parte debbono rientrare nel bagaglio
culturale della nostra categoria. Rivolgo pertanto un ringraziamento agli ideatori
e organizzatori dell’evento e alla SIGEA, nonché al Presidente e al Direttore del
Parco regionale dell’Appia Antica per aver dato la disponibilità di questa prestigiosa sede per lo svolgimento di un programma fitto di relazioni, articolato su cinque
diverse sessioni di lavori sviluppate in due giornate.
Le vie di comunicazione stradale coinvolgono il geologo per aspetti diversi che
intervengono in fasi successive: la scelta del tracciato, che investe i settori della geomorfologia, della geologia e dell’idrogeologia al fine di trovare i percorsi ottimali
che si avvalgono dei vantaggi della conformazione topografica e che tendono a
contenere le opere necessarie al superamento degli ostacoli geomorfologici (fiumi,
valli, rilievi, ecc.), ma che diano anche le indispensabili garanzie di sicurezza nei
confronti dei pericoli geologici presenti (frane, alluvioni, cedimenti del terreno,
terremoti, ecc.); l’analisi degli impatti che l’infrastruttura stradale produce nei
confronti dell’ambiente e del paesaggio e, se necessario, la proposta di adeguate azioni di mitigazione; le determinazioni a supporto della progettazione delle
opere di ingegneria (scavi, ponti e viadotti, opere di sostegno, gallerie, ecc.) che
riguardano le sfere delle già citate geomorfologia, geologia ed idrogeologia, ma
anche quelle della sismica, della geotecnica e della geomeccanica; le ricerche per
l’approvvigionamento dei materiali da costruzione.
I collegamenti stradali sono indispensabili per lo sviluppo sostenibile dei territori serviti. La sostenibilità riguarda anche la costruzione delle opere stradali:
essa non si misura solo in funzione del loro corretto inserimento nel contesto
ambientale del territorio di riferimento al momento della loro realizzazione, ma
anche assicurando che le stesse opere nel tempo non producano la perdita della
qualità e della funzionalità delle diverse componenti del territorio medesimo. Ciò
vuol dire che gli interventi debbono essere ben progettati e supportati da adeguati
programmi di manutenzione continui e costanti. La carente dotazione di opere di
drenaggio, la mancata pulizia delle canalette di scolo delle acque, la presenza di crepe nell’asfalto, in condizioni geomorfologiche predisponenti come ad esempio nelle aree di versante, facilitano l’innesco di dissesti che si evolvono progressivamente
da fenomeni di minore entità, come l’erosione accelerata, a eventi di dimensioni
crescenti nel tempo, come gli smottamenti e le frane, che coinvolgono direttamente
la struttura viaria rendendola inutilizzabile. Va evidenziato che questi dissesti non
solo vanno a interessare la sede stradale ma, prima o poi, porzioni sempre più ampie
dei pendii, la cui successiva stabilizzazione richiede risorse economiche ben più
consistenti di quelle del semplice rifacimento stradale ed enormemente più alte del
costo della mancata manutenzione. È forse superfluo sottolineare che il ripristino
stradale che non contempli la stabilizzazione della frana è destinato a durare un
tempo molto breve in quanto il movimento gravitativo rimobilizza l’infrastruttura
e rende del tutto inefficace l’intervento.
Tempo fa il direttore del Servizio bacini montani della Provincia autonoma di
Trento – amministrazione virtuosa nel panorama nazionale -, che si occupa della
progettazione e della realizzazione delle opere idrauliche e forestali provinciali,
sostenne che buona parte dei dissesti di versante erano connessi alla realizzazione
di opere antropiche, ed in particolare di strade, soprattutto per l’inadeguato sistema
di smaltimento delle acque superficiali.
Il Rapporto di sintesi sul Dissesto Idrogeologico in Italia dell’ISPRA (2018)
evidenzia che solo lungo la rete stradale principale (autostrade, strade statali, tanGeologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020
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genziali e raccordi) siano presenti ben 6.180 punti di criticità per fenomeni franosi.
Altri 1.862 punti di criticità per frana sono presenti sui 16.000 km di rete ferroviaria. Nella Regione Lazio, delle 729 frane che hanno provocato danni ingenti,
il 56% ha interessato infrastrutture stradali. Val la pena sottolineare che l’analisi
prende in rassegna il solo reticolo viario principale, che è dotato di un più elevato
livello di progettazione e che comunque dispone di programmi di manutenzione.
Ben diversi e più compromessi si presuppone debbano essere gli scenari causati da
sterri prodotti per la costruzione delle strade provinciali e comunali o delle strade
di campagna.
Come mi ricordava il collega Eugenio Di Loreto, nonostante la situazione di
dissesto idrogeologico che da sempre interessa gran parte del territorio nazionale,
solo a partire dal 1969 una circolare dell’ANAS ha prescritto l’obbligatorietà di uno
studio geognostico e geologico preliminare, a firma di un geologo iscritto all’Albo,
per la redazione dei progetti per la costruzione e sistemazione delle strade. Ma si
parla comunque di strade statali.
I cambiamenti del regime climatico e soprattutto l’aumento progressivo della
vulnerabilità del territorio connesso a una crescente e continua occupazione del
suolo per fini antropici - in molti casi incompatibile con l’assetto geomorfologico
dei luoghi -, espone sempre più frequentemente il nostro Paese a gravose condizioni di rischio idrogeologico. I naturali processi geomorfologici interferiscono con le
strutture e le infrastrutture esistenti, causando la limitazione o la perdita della loro
funzionalità. Ciò considerato, a mio avviso, oltre agli interventi strutturali e non
strutturali per la prevenzione del rischio idrogeologico, sarebbe necessaria anche
l’attivazione di programmi di diverso grado gerarchico finalizzati all’adeguamento
e alla manutenzione della rete stradale esistente e realizzati attraverso la collaborazione di geologi, idraulici e ingegneri, ma anche di specialisti in urbanistica e,
soprattutto, economia. Perché molte volte i costi per il ripristino della funzionalità
delle strade rappresentano solo una piccola parte dei costi economici e sociali che
derivano dal non agire.
Iniziative come questo convegno pertanto, sono utili per incrementare una
cultura orientata alla tutela del territorio, che si affida alle lezioni del passato per
stimolare riflessioni su problematiche attuali. E anche per far crescere nel geologo
– parlo per la categoria che qui rappresento – la consapevolezza dell’importanza
del proprio ruolo.
Gianluigi Giannella
Ordine dei Geologi del Lazio
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020
13
I
l tema delle vie di comunicazioni antiche di fatto ancora oggi è di estrema
attualità, sia per l’aspetto scientifico, ma anche perché spesso viene introdotto con lo scopo di favorire un turismo sostenibile e quindi finalizzato alla
conoscenza dei luoghi storici del nostro passato.
Le antiche vie consolari (Appia Antica con tutte le sue diramazioni, la Salaria
etc...) hanno rappresentato i tracciati geomorfologici preferenziali di collegamento
tra le antiche città, suddivise tra strade lastricate e in terra battuta, quest’ultime
sufficientemente larghe e adatte per i carri, attraverso di esse si potevano effettuare scambi commerciali, fare marciare gli eserciti e spostarsi nel suolo italico
mantenendo il dominio economico e il potere politico su tutto il territorio.
A seguire, ed in epoche diverse, si sono individuate altre vie preferenziali associate ai percorsi di pellegrinaggio. Studi scientifici, come questa pubblicazione,
hanno la caratteristica di coinvolgere più figure professionali (topografo, cartografo, geologo, archeologo e storico) che, ognuno per la propria competenza, riescono
a caratterizzare i tracciati, a leggerne i particolari e a comprenderne le tecniche
costruttive che hanno permesso e favorito anche la conservazione.
Infine, concludo ringraziando la Sigea ed in particolare il prof. Gioacchino
Lena grande appassionato e competente e che, con la sua capacità dialettica ha
da sempre affascinato i tanti appassionati, studenti e studiosi sul tema delle vie di
comunicazione antica.
Rosario Santanastasio
Presidente Archeoclub d’Italia
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020
Ge
Check s.r.l.
Diagnostica & Geofisica
Sede Operativa: Via Stazzone, 45 - 95025 Aci Sant’Antonio (CT)
P.I. 03042530877 - n° Iscr. Trib. CT015 -29218 Sez. Ord. 196305
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GEOFISICA APPLICATA ALL’ARCHEOLOGIA
E AI BENI CULTURALI
Nel caso in oggetto, lo scopo quello di rilevare la presenza di metalli all’interno
della muratura e cioè individuare ferri di armatura e barre
metalliche ossidate, inserite durante interventi precedenti all’interno della struttura della colonna.
N
A (V)
2.732
1.2
Difetto fisico
(medio tasso di ammaloramento)
1.1
1
0.9
Shots
Griglia strisciate
0.10 m
N
0.000
TOMOGRAFIA SONICA SU COLONNA
La tecnica di indagine sonica si basa sulla generazione
di onde elastiche, nell'ambito di frequenze soniche, in uno
o più punti della struttura sottoposta ad analisi, attraverso
sorgenti a percussione o con trasduttori elettrodinamici.
L'elaborazione dei dati, invece, consiste nel calcolo del
tempo e della velocità di attraversamento dell’impulso dato
nella muratura / compagine lapidea.
I dati verranno invertiti tomograficamente secondo
algoritmi di ottimizzazione (Generalized Simulated
Annealing Optimization). L'impiego di un'antenna a 2700
MHz consentirà il raggiungimento dello scopo con una
penetrazione di circa 0.50 metri e una risoluzione
orizzontale pari a 0.01 metri.
Sensori - Distance (m)
GEORADAR HF
SU COLONNE
Geoelettrica
Geosonica
GEORADAR HF AD ALTA FREQUENZA
Il metodo si basa sull’immissione di brevi impulsi
Elettromagnetismo
elettromagnetici ad alta frequenza, ripetuti con continuità ed emessi da
Vibrazioni
un’antenna posta in prossimità della superficie da indagare.
0.8
0.7
1.2
-2.732
0.6
0.5
in
nd
Tre
ni
sio
e le
ion
sez
1.1
0.3
Difetto fisico
(medio tasso di ammaloramento)
0.1
0
0.1
0.2
0.3
Distance (m)
0.4
0.9
0.8
0.7
Giunto
0.6
0.5
in
nd
Tre
0.4
0.70m
MISURE VIBRAZIONALI SU COLONNA
Il metodo consiste nel misurare il rumore ambientale
alla base e in testa della colonna posizionando
n° 2 accelerometri sismici 3D
(tre componenti Z, NS, EW) e acquisendo per 20
minuti. Il segnale acquisito e trattato nel dominio delle
frequenze consentirà di determinare la frequenza
di oscillazione della colonna.
La frequenza misurata è utilizzabile per definire
la rigidezza della colonna stessa e quindi stimare
eventuali miglioramenti elastici nel caso di
consolidamenti, iniezioni, ecc….
e
sion
e le
ion
sez
Shots
Sensori - Distance (m)
0.4
0.2
in
nd
Tre
1
ion
sez
0.3
Difetto fisico
(alto tasso di ammaloramento)
0.2
0.1
0.10 m
S
N
0
E
0.1
0.2
2900
2800
2700
2600
2500
2400
2300
2200
2100
2000
1900
1800
1700
1600
1500
1400
1300
1200
1100
1000
900
Scala cromatica delle velocità Vp (m/s)
GEORADAR IN 3D DI TIPO ARCHEOLOGICO
0.3
Distance (m)
Difetti fisici
TOMOGRAFIA ELETTRICA 3D
e
sion
e le
0.4
W
SESSIONE I
LE STRADE: LA SEDE,
IL TRACCIATO, LE OPERE
SPERI è un’azienda multidisciplinare composta da
Ingegneri, Geologi, Architetti, Designer e Tecnici eccezionali
focalizzati sulla realizzazione di progetti integrati che
combinano estetica ed efficienza e sostenibilità.
Dipartimento Geologia Ambiente e Territorio
Ingegneria
integrata dal 1974
Nella struttura organizzativa SPERI Il Dipartimento GAT presidia i processi di studio e
gestione del territorio e di tutela dell’ambiente che connotano una moderna società
professionale e d’ingegneria. Attraverso il proprio contributo ai processi d’Ingegneria GAT
garantisce la Sostenibilità Ambientale dell’approccio progettuale - con particolare
riguardo all’uso strategico delle risorse del pianeta – e la programmazione delle azioni di
Recupero e Tutela del Territorio.
Gestione del Territorio
Monitoraggi
• Analisi territoriali del rischio (geologico,
geomorfologico, idrogeologico, sismico)
• Redazione di Cartografia Tematica e di
Cartografia di Analisi
• Progettazione e Direzione Lavori
Sistemazione Frane e Dissesti
• Rilievi, Monitoraggi e Modellazioni di Impatto (suolo e
sottosuolo, acque superficiali e sotterranee, acustici e
vibrazionali, qualità dell’aria, vegetazionali e faunistici,
traffico)
• Progettazione e gestione monitoraggi geologici,
geotecnici e idrogeologici (aree in dissesto, opere
geotecniche ante, corso e post opera)
Studi Geologici e Sismotettonici Grandi Opere
Cantieristica
• Pericolosità sismica in area epicentrale
• Fagliazione superficiale e Frane Sismoindotte
• Modellizzazione geologica, idrogeologica e
geotecnica
• Progettazione e Direzione Lavori di Campagne
di Indagine
• Direzione Lavori geologica per Opere in
Sotterraneo e per Opere Speciali Geotecniche
• Sistemi di Gestione Ambientale di Cantiere
Studi e Progettazioni Ambientali
Sistemi Informativi
• Procedure e Studi di Screening, VIA, VAS, VINCA
• Rilievi, Monitoraggi e Modellazioni Ante-Corso-Post
Opera delle componenti ambientali
• Gestione Rifiuti e Terre-Rocce da Scavo, redazione
Piani di Utilizzo e Piani Gestione Materie
• Progettazione e gestione Sistemi Informativi
Territoriali
• Progettazione geotematica territoriale ed
Analisi Multicriteria in ambiente GIS.
• Integrazione BIM – GIS
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17
Il progressivo spopolamento
dell’antica città di Tharros.
Indagini archeologiche
sull’antico porto
Anna Ardu (A.A.)
Archeologa subacquea, Independent
Researcher, Cabras (OR)
E-mail:
[email protected]
Angela Rita Conte (A.R.C.)
Archeologa, Independent Researcher,
Roma
E-mail:
[email protected]
The progressive depopulation of the
ancient city of Tharros. Archaeological
investigations on the ancient harbour
Parole chiave: Archeologia del Paesaggio, Ricognizione, Tharros, Mistras, Foto Aeree
(Aerial photographs), Piccola Età Glaciale Alto Medievale
Key words: Landscape Archaeology, Survey, Tharros, Mistras, Aerial photographs,
LALIA
RIASSUNTO
La localizzazione del porto dell’antica città di Tharros, sorta nel promontorio
che chiude a Nord il Golfo di Oristano,
lungo la costa centro-occidentale della
Sardegna, è stata oggetto di studio da
parte delle autrici e argomento della
loro tesi di laurea. Indagini archeologiche hanno permesso di stabilire che
l’antico porto era situato all’interno di
quella che oggi è la laguna di Mistras.
Ai tempi in cui lo scalo era funzionale,
l’attuale laguna era una baia aperta che,
a causa di eventi meteorologici estremi,
accompagnati a forti fasi di moto ondoso dal mare ha subito fenomeni di
interrimento che hanno reso impraticabile il porto. La frequentazione avviene
probabilmente dall’età protostorica ma
le strutture artificiali, individuate grazie alle ricognizioni subacquee sono da
attribuire alla tradizione ingegneristica
e architettonica levantina utilizzata dai
Fenici nella realizzazione degli impianti portuali. Il lavoro è stato inteso come
una ricerca multidisciplinare, nella quale
sono stati utilizzati gli studi di carattere
geomorfologico, l’approfondimento della documentazione storica, cartografica,
le diagnostiche di vario genere, l’aerofotointerpretazione e lo studio delle immagini remote, le ricognizioni terrestri
e subacquee e lo studio dei materiali.
Grazie a queste indagini è stato possibile avere una visione complessiva delle
attività produttive e commerciali relative
all’unico porto con strutture artificiali di
età fenicio-punica esistente in Sardegna.
Dalla fine dell’età imperiale, Tharros
mostra i segni di una profonda crisi, che
provoca un lento spopolamento dell’area urbana; la causa principale di questo
fenomeno pare proprio essere la perdita
della funzionalità del porto, da questo
periodo nell’entroterra furono occupati
insediamenti vicini alle vie di comuni-
cazione terrestri, in aree fertili, legati allo
sfruttamento delle risorse. Chi scrive si
è impegnata in una ricerca d’archivio,
dove fonti attendibili di cronisti parlano
di eventi catastrofici in tutto il Mediterraneo, caratterizzati da un abbassamento
generale della temperatura dell’emisfero
boreale. I ricercatori definiscono questo
periodo tra il 500 e il 700 d. C. “Piccola
Età Glaciale Alto Medievale”, proprio
allora Tharros viene lentamente abbandonata. L’area è attualmente interessata
sia da fenomeni erosivi sia da alluvionamento, grazie all’aereofotointerpretazione si intuisce che, sepolta sotto i limi, giace una porzione di paesaggio finora mai
indagata, importantissima per ricostruire il popolamento degli insediamenti
costieri. Sono state esaminate le varie
fasi della vita dell’approdo, analizzati
modelli diversi e articolati di contatto e
interrelazione tra le popolazioni locali e
le genti che giungevano attraverso il mare, sono stati rilevati numerosi indicatori
di processi di trasformazione/interazione tra uomo e ambiente, come i mutamenti della linea di riva e l’alterazione
dell’habitat costiero, che saranno sempre
meglio evidenziati in futuro, avvalendosi
di studi multidisciplinari.
INTRODUZIONE
Nell’estremità più meridionale della regione del Sinis, nel territorio di
Cabras, si trova la penisola di Capo
San Marco, una sottile striscia di terra
lambita a occidente dal mar di Sardegna e nell’insenatura a levante riparata
dall’ampio golfo di Oristano.
Nel promontorio il popolamento più
antico è testimoniato dalla presenza di
strutture protostoriche (nuraghi e villaggi), l’unico sito indagato archeologicamente si trova nel versante orientale,
nella piccola altura di Murru Mannu; un
abitato di capanne dove è stato rinve-
nuto un deposito ceramico del Bronzo
Medio finale (Santoni, 1978, p. 81; idem
1985, p. 33).
Nella stessa area, ma fuori giacitura
stratigrafica, è stato rinvenuto un frammento di parete di forma chiusa d’importazione con dipinto un iris stilizzato, ascrivibile al Miceneo IIIA2 (circa
il 1400 - 1325 a.C.) (Bernardini, 1989,
pp. 285-286).
Anche se si tratta di un solo manufatto, non pare azzardato ipotizzare che
il Sinis Meridionale fosse già inserito
dal XV sec. a.C. nelle rotte commerciali
tra Oriente e Occidente, ma per avere
conferme a riguardo sarebbe opportuno
riprendere le indagini e mettere in luce
quello che resta dell’insediamento nuragico (Ardu, 2019 c.s).
Alla fine dell’VIII sec. (730-700
a.C.), durante la piena età del Ferro,
proprio a Murru Mannu, grazie al ritrovamento di un numero consistente
di ceramiche d’importazione, abbiamo
le prime testimonianze di un occupazione stabile da parte dei Fenici (Acquaro, 1991, pp. 547-558). A parere di
chi scrive, non si può parlare fino alla
seconda metà del VII sec. a.C., di un
assetto urbano e di fondazione della
città di Tharros, ma di una convivenza
pacifica tra le popolazioni locali e genti
allogene che rivitalizzarono il tessuto
sociale originando cambiamenti interni, che diventeranno uno stimolo, e
incentiveranno attività imprenditoriali
(Bernardini e Perra, 2012; Tronchetti e
Van Dommelen, 2005).
Il centro di Tharros e il suo entroterra (il Sinis) erano un ottimo luogo
per l’applicazione e la sperimentazione
della strategia insediativa fenicia, che
prevedeva approvvigionamento alimentare e costruzione di approdi funzionali
alle loro attività commerciali (Moscati,
2005, pp. 137-143).
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
18
La città fu un ottimo punto di riferimento per il controllo delle rotte
iberiche e tirreniche, forse il maggior
scalo commerciale in Sardegna sulla
rotta spagnola e africana e importante
interlocutrice nel bacino mediterraneo.
La località prescelta per costruire un
insediamento doveva soddisfare diverse
esigenze, fra cui quella della sicurezza;
talvolta, come nel caso di Tharros, costituiva una situazione piuttosto favorevole la
presenza di “un promontorio che poteva
disporre di approdo da ambedue le parti”, in quanto, a seconda dell’andamento
dei venti, questo assicurava l’ormeggio
nel golfo di Oristano (Mare Morto) in
regime di venti settentrionali ed occidentali, oppure nel Mare Sardo occidentale
quando soffiavano i venti di levante e
meridionali (Zucca, 1993, p.44).
La documentazione archeologica relativa all’insediamento fenicio, al momento si riduce al primo strato del tophet e alle
aree funerarie di Capo San Marco e San
Giovanni di Sinis (Spanu e Zucca, 2010).
Con la conquista cartaginese dell’isola, avvenuta nella seconda metà del VI
sec. a.C., aumentano in maniera esponenziale le tracce archeologiche sul territorio di Tharros che diviene un centro
nevralgico tra il V e il III sec. a.C., assumendo un aspetto monumentale, con
l’impianto di una cinta muraria fortificata e di vari edifici di culto. (Acquaro e
Mezzolani, 1995).
La presenza antropica diventa capillare per via della politica cartaginese che
promuove uno sfruttamento agrario di
tipo intensivo nelle campagne, rendendo la città del golfo oristanese una delle
più importanti della Sardegna.
Dopo la conquista romana della
Sardegna (238 a.C.), Tharros subì numerose trasformazioni: le fortificazioni
furono rinnovate (II secolo a.C.); un
nuovo assetto urbano fu ridefinito con
la costruzione di strade mediante lastre
di basalto; infine, nel II-III secolo d.C.,
furono edificati numerosi edifici pubblici (Tomei, 2008; Ghiotto, 2004).
Tharros inizierà il suo lento declino
e perderà progressivamente la sua importanza durante l’età imperiale romana, sostituita da centri nevralgici come
Karales e Turris Libissonis. Dalla metà del V sec. d. C., con l’inizio dell’età
tardo antica, la città di Tharros mostra
i segni di una profonda crisi che provoca un lento spopolamento dell’area
urbana (Fig. 1). Gradualmente, le entità demiche che popolavano i territori
prossimi al mare si spinsero in aree più
interne e maggiormente protette. In seguito a quest’avvenimento, abbiamo la
rioccupazione di siti di età romana e la
fondazione di nuovi insediamenti rurali
sparsi, spesso raggruppati accanto a edifici di culto. Questa situazione ha favorito la riorganizzazione del territorio, e
l’incremento di attività produttive negli
Figura 1. Vista aerea della città di Tharros (Andrea Marongiu Air Photograpy 2019)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
insediamenti rurali (Ardu, 2017; Spanu,
1988; Stiglitz, 1998).
Gli scrittori greci e latini ricordano
fuggevolmente la città con diverse varianti del suo nome; la prima fonte scritta dove appare il nome di Tharros si trova nelle
Historiae di Sallustio (Historiae II, 1).
Intorno al 150 d.C. il geografo
Claudio Tolomeo (Geographia, 3,3,2),
descrivendo la fascia costiera della Sardegna nel versante occidentale, parla di
“Τάρραι πόλις” e ne indica la longitudine
(30° 20’) e la latitudine (37° 20’).
In periodi storici contrassegnati da
una forte povertà di documenti, anche
un breve elenco di nomi costituisce una
testimonianza importante; è il caso dei
“dispacci” bizantini che fanno riferimento ad alcuni antichi insediamenti
sardi, tra i quali Tharros.
Il geografo Giorgio Ciprio, nella sua
descrizione dell’Orbe romano nel 604
d.C., cita Σίνης, distinta dalla città di
Tharros, probabilmente sede vescovile, ‘Αριστιάνης λιμνήν e Кάστρον τοΰ
Τάρων (Descriptio orbis romani, 684).
La Sardegna fu annessa al regno vandalico verso la metà del V sec. e, in seguito alla conquista da parte delle truppe del
duca Cirillo (Pani Ermini, 1988), divenne una provincia della diocesi bizantina
d’Africa nel 534 d.C.. Per l’isola, inizia
una lunga e importante fase della sua
storia che si concluderà tra il X e l’XI
sec. d.C. (Corrias e Cosentino, 2002).
19
Le prime incursioni da parte degli
Arabi furono intraprese all’inizio dell’VIII sec. (Bazama, 1988) e non determinarono in ogni caso la distruzione dei
centri abitati, ma causarono fasi di abbandono temporaneo; l’episodicità delle scorrerie, a parere di chi scrive, non costituì
un elemento decisivo per l’abbandono definitivo delle aree costiere (Ardu, 2016).
STORIA DEGLI STUDI SUL
PORTO DI THARROS
In Sardegna, i porti fenicio-punici
sono stati oggetto di studi e di ricerche
che hanno presentato alti livelli di difficoltà e di complessità a causa dei sensibili mutamenti subiti a opera di fattori
naturali come le variazioni della linea di
costa e di attività antropiche come escavazioni o discariche.
La prima campagna archeologica
operativa nelle acque prospicienti Tharros ebbe luogo dal 1 al 10 settembre1979;
il lavoro venne svolto in forma congiunta dalla Soprintendenza Archeologica
per le Province di Cagliari e Oristano
e dal Servizio Nazionale per l’Archeologia delle Acque Interne (SNAAI),
sotto la direzione di Luigi Fozzati, con
la supervisione archeologica di Enrico
Acquaro, allora Direttore della missione archeologica a Tharros del Centro di
Studi per la Civiltà fenicia e punica del
C.N.R. e con la consulenza scientifica
di Piero Bartoloni, allora ricercatore del
medesimo centro di studio, che ha diretto in acqua una parte delle operazioni.
Nella relazione finale Luigi Fozzati
scrive: “Di fronte all’antica città, nella località chiamata “Porto Vecchio”, la ricognizione rivelò l’esistenza di strutture sommerse, ovvero una duplice serie di blocchi
di arenaria, manufatti, distanti dalla linea di costa circa 50 m, con un andamento
rettilineo per circa 20 m di lunghezza, che
convergeva leggermente in direzione del
mare aperto” (Fozzati, 1980).
Alcuni anni più tardi, nel 1984, il
Prof. Elisha Linder dell’Università di
Haifa effettuò degli studi nell’ambito
del “Sardinian Coastal Study Project” indirizzato alla ricerca delle testimonianze archeologiche dei primi contatti tra i
Fenici e gli abitanti della Sardegna.
Le ricognizioni e il monitoraggio
con l’ecoscandaglio e le perlustrazioni
dell’area di fronte alle terme di Convento Vecchio convinsero anche Linder
dell’esistenza in situ di strutture murarie sommerse con probabile funzione di
frangiflutti (Linder, 1987).
Ai fini della ricerca è stato importante l’apporto del geologo Alessandro
Fioravanti, che esaminando con la fo-
tointerpretazione la linea di costa antica,
per la prima volta ipotizzò che l’antico
porto si trovasse verso l’area lagunare
che si sviluppa verso nord (Fioravanti,
1985, 89, pl. 2).
Uno studio del 1999 a cura di E.
Acquaro, B. Marcolongo, F. Vangelista
e F. Verga fu effettuato senza l’ausilio di
prospezioni subacquee, ma servendosi
di apporti cartografici e fotografie aeree.
Per tentare di chiarire le presenze di
infrastrutture portuali antiche, la missione del 1997-1999, si avvalse dell’elaborazione di immagini telerilevate, comparate ad altri dati cartografici e utilizzando il
Sistema Informativo Geografico (SIG)
(Marcolongo, Vangelista e Verga, 1999).
In seguito a questi studi preliminari,
negli ultimi anni, Raimondo Zucca ha
presentato una nuova ipotesi (Zucca,
1993, p. 45; 80), incentrata sulla ricerca dell’antico porto all’interno di quella
che è oggi la laguna di Mistras, rafforzata anche dalla presenza di una già nota
struttura a doppio paramento denominata “strada romana”.
Dal 2008 al 2015, sono iniziate nuove
ricerche supportate da ricognizioni, indagini geomorfologiche, saggi di scavo e
recupero e studio di materiali, a cura della
Soprintendenza per i Beni Archeologici
di Cagliari e di Oristano e delle Università di Cagliari e Sassari, che hanno portato
alla scoperta di un contesto archeologico straordinario, e alla conferma che le
strutture portuali si trovavano lungo le
coste orientali dell’istmo; un contesto
ideale per un approdo fenicio-punico.
Infatti, l’arenile che si affaccia nel Golfo di Oristano, denominato “Mare Morto” è formato da un cordone sabbioso che,
verso l’interno, si inframmezza con affioramenti arenacei e formazioni alluvionali.
Esso ha una conformazione e una
struttura determinate da apporti terrigeni del fiume Tirso (Porcu, 1983), che
sfocia al centro dello stesso Golfo, oltreché da depositi marini organogeni e dal
disfacimento della Panchina Tirreniana.
L’area di retrospiaggia è caratterizzata dalla presenza di lagune o paludi
minori (Su Pizzinnu Mortu e Pauli
S’Argiolas), che costituiscono dei piccoli bacini endoreici. Durante il periodo estivo, in seguito all’evaporazione, si
formano crostoni di sale (PUC Comune
di Cabras, 2011, p. 74). Parallelamente
alla spiaggia di Mare Morto, nell’immediato entroterra, si sviluppa la laguna di
Mistras (Fig. 2) delimitata verso il mare
da un cordone litorale. Nella sua parte
interna, è presente una freccia di sabbia depositata dall’azione del mare e dal
vento, che la suddivide in due parti: una
occidentale (Sa Mistra Manna), con rive
rettilinee e fondali fangoso-sabbiosi regolari che raggiungono il metro e mezzo di profondità, ed una orientale (Sa
Mistraredda), con rive più frastagliate e
numerosi affioramenti sabbiosi e fondali
profondi mediamente 0,30-0,40 metri
(Camboni, 1995, p. 21).
La freccia ha una superficie di circa
450 ettari con una forma stretta e allungata e un’origine da mettere in relazione con l’emersione di alcuni cordoni
Figura 2. Fotografia aerea della laguna di Mistras (Autore F. Cubeddu)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
20
sabbiosi che hanno racchiuso tratti di
mare; essa è limitata verso terra dalle
calcareniti del paleo cordone litorale e,
nella sua zona occidentale, da un’estesa
area umida a sommersione temporanea
(Forti e Orrù, 1995, p. 4-5).
A.A.
LE RICERCHE DAL 2008
AL 2011
In questo contributo, che è stato
anche argomento della tesi di laurea e
di specializzazione delle autrici, è stata
analizzata la documentazione storica e
cartografica, si è utilizzata l’aerofotointerpretazione e lo studio delle immagini
remote, sono state interpretate le indagini di carattere geomorfologico, si sono
svolte accurate ricognizioni subacquee e
nei terreni limitrofi ai siti di interesse, e
sono stati disegnati e studiati i materiali
ceramici diagnostici (Cambi, 2009).
Sono stati presi in esame, secondo
una prospettiva diacronica, i fenomeni
che hanno condizionato le scelte insediative dei gruppi umani che hanno
occupato i siti nel periodo storico indagato, correlandoli alle dinamiche di
origine naturale e antropica.
L’intento di questo lavoro è stato
quello di individuare le tracce archeologiche nell’area costiera dove sorgeva
l’antico insediamento di Tharros e il suo
immediato entroterra.
In particolare si è cercato di comprendere il suo ruolo di città portuale e
spazio di incontro privilegiato per differenti gruppi umani.
A.A., A.R.C.
LE EVIDENZE
ARCHEOLOGICHE VISIBILI
SULLE FOTO AEREE
Prima di effettuare le ricognizioni
sul campo, sono state analizzate le foto
aeree conservate presso l’Aerofototeca
Nazionale, parte dell’Istituto Centrale
per il Catalogo e la Documentazione
del Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali e del Turismo.
I risultati più rilevanti ai fini della
ricerca sono stati conseguiti grazie alla
selezione e all’acquisizione di due voli
effettuati sulla Sardegna negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Il
c.d. Volo Base, datato 4 agosto 1955, è
formato da tre tavolette in bianco e nero
di cui non si conosce la scala; esso copre
un’area compresa tra Capo San Marco
e Punta Maimoni (direzione sud-nord).
Il volo E.I.R.A è stato eseguito nel
1968 a una scala compresa tra 1:17500
e 1:20800 ed è composto da quindici tavolette in bianco e nero. La zona interessata dal volo è quella compresa fra Pauli
Banatou e Capo San Marco (direzione
nord-sud).
I dati raccolti dall’analisi dei due voli, analizzati in via preliminare nel 2012
(Conte, 2012), sono stati incrociati con
quelli ricavati dalle foto aeree a colori
consultabili sul sito della Regione Au-
Figura 3. Carta delle evidenze archeologiche con il posizionamento dei siti individuati (elaborazione grafica di A. R. Conte su base della Carta Tecnica Regionale Numerica
Sezioni n. 528060 – 528100 San Salvatore e Capo San Marco, Regione Autonoma della Sardegna)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
21
tonoma della Sardegna, realizzate per il
controllo dell’erosione costiera negli anni 1987, 1995, 1998, 1999, 2001 e 2002,
insieme alle ortofoto del 2006.
Tali informazioni, insieme a quelle
derivanti dalle ricognizioni terrestri, sono state inserite su una nuova carta delle
evidenze archeologiche, realizzata sulla
base della “Carta Tecnica Regionale Numerica, Sezioni n. 528060 – 528100, San
Salvatore e Capo San Marco”, della Regione Autonoma della Sardegna, in scala
1:10000 (Fig. 3). Del Volo Base 1955
è stato preso in esame solo il secondo
fotogramma, il primo è stato escluso a
causa dei graffi che hanno danneggiato
il negativo, mentre il terzo non è stato
preso in considerazione poiché riprende la zona di Punta Maimoni che esula
dalla zona interessata dalle ricerche. La
tavoletta (Fig. 4) risulta in buono stato
di conservazione, a parte qualche piccolo graffio, e permette una buona visione
generale dell’area della laguna di Mistras
e della zona relativa a Capo San Marco.
La laguna di Mistras, tra Capo S. Marco
e S. Giovanni di Sinis a sud-ovest e Torre
Grande a est, si trova nel settore settentrionale dell’ampio Golfo di Oristano e
confina a nord con lo stagno di Cabras.
L’analisi attenta del fotogramma ha rivelato la presenza di almeno 8 anomalie riferibili a possibili resti di strutture
sommerse, di diverso orientamento, che
si presentano di colore chiaro e con tracce di microrilievo (Fig. 5). La prima, è
posizionata a circa 50 metri dalla riva,
lungo la sponda meridionale dell’insenatura settentrionale della laguna di
Mistras. Essa è orientata sud-ovest/
nord-est ed è visibile per una lunghezza
di circa 220 metri (Fig. 5, n. 6; Fig. 3,
n. 6). A nord di essa, e a circa 70 metri
dalla riva, si intercetta la seconda, che è
parallela a quella del Sito 6 e presenta
il medesimo orientamento (sud-ovest/
nord-est), visibile per una lunghezza
superiore ai 200 metri circa (Fig. 5, n.7;
Fig. 3, n.7). Connessa ad essa, alla quale
sembra legarsi a sud-ovest, è presente
una terza anomalia (Fig. 5, n. 8; Fig. 3,
n. 8), con andamento in senso sud-nord.
Parallela alla sponda nord dell’insenatura settentrionale della laguna, posizionata a circa 286 metri dalla riva, è
stata individuata una quarta anomalia,
orientata sud-ovest/nord-est (Fig. 5,
n. 10; Fig. 3, n. 10), visibile per una
lunghezza di circa 700 metri. Ad est
di essa, con la quale è in asse, e a circa 350 metri dalla riva, è presente una
singolarità, (Fig. 5, n. 14; Fig. 3, n. 14)
con orientamento sud-ovest/nord-est,
visibile per una lunghezza di circa 500
Figura 4. Volo Base del 1955 (Aerofototeca Nazionale, fondo Volo Base, volo del 1955)
Figura 5. Particolare della Laguna di Mistras dalla foto aerea del VB 1955 (Aerofototeca Nazionale, fondo Volo
Base, volo del 1955)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
22
metri. A nord-est del Sito 14 e a circa 60
metri dalla riva, si intercettano altre due
irregolarità (Fig. 5, nn. 11, 12; Fig. 3, nn.
11, 12) connesse tra loro.
La prima (Sito 11), segue l’andamento nord-ovest/sud-est, ed è visibile
per circa 450 metri di lunghezza. A sudest si appoggia al Sito 14, mentre a nordovest sembra essere in connessione con
il Sito 12; essa è orientata sud-ovest/
nord-est, è lunga circa 390 metri ed è
distante circa 60 metri dalla riva. Proseguendo in direzione sud-est dal Sito
14, ad una distanza di circa 325 metri
dalla riva nord dell’insenatura meridionale della laguna di Mistras, si denota
la presenza di un’anomalia che segue
l’andamento in senso sud-ovest/nordest (Fig. 5, n. 13; Fig. 3, n. 13), visibile
per una lunghezza di circa 560 metri.
Dei 15 fotogrammi in bianco e nero
del volo E.I.R.A del 1968, ne sono stati
presi in esame solo 3 che riguardano la
zona oggetto di studio. I fotogrammi
sono a una scala compresa tra 1:17500
e 1:20800 e sono in uno stato di conservazione abbastanza buono. Nell’area
della laguna di Mistras, le anomalie che
si intravedevano nella foto del 1955 sono totalmente invisibili, mentre ne compaiono due nuove nella zona occidentale
dello stagno, riferibili a possibili resti di
strutture sommerse (Fig. 3, nn. 9, 15). La
prima (Sito 9, Fig. 6 b; Fig. 3, n. 9), posizionata a circa 150 – 240 metri circa dalla riva, ha orientamento Sud-Nord ed è
visibile per circa 150 metri. La seconda
(Sito 15, Fig. 6 a; Fig. 3, n. 15), visibile ad
est della prima, segue l’andamento SudOvest/Nord-Est ed è in connessione a
nord-est con il Sito 10 (Fig. 3).
L’analisi delle foto aeree a colori
realizzate per il controllo dell’erosione
costiera, consultabili sul sito della Regione Autonoma della Sardegna, non
ha restituito nessuna traccia di anomalia
nell’area oggetto di questo studio (Ardu n. 5), i più grandi dei quali lunghi circa
1 metro e larghi circa 0,6 metri.
e Conte, 2018, pp. 206-210).
I blocchi, in arenaria eolica, sono alA.R.C.
lineati di testa e di taglio, e si presentano
LE PROSPEZIONI
accostati gli uni agli altri in modo accuSUBACQUEE E LO STUDIO rato e disposti regolarmente; la struttuDEI MATERIALI
ra ha forma pressoché trapezoidale e si
L’indagine subacquea si è estesa estende in lunghezza per circa 10 metri.
successivamente all’interno della lagu- Si può ipotizzare che si trattasse di una
na, nell’area di Sa Mistra Manna, do- banchina di alaggio per il ricovero e la
ve è localizzata una struttura già nota manutenzione di piccole imbarcazioni,
(Spano, 1851, 179-180 nota 4). Con destinate anticamente alla navigazione
uno sviluppo di quasi 200 metri e un in bassi fondali (Ardu, 2013, p. 3; Ardu
orientamento sud-ovest/nord-est, l’ope- e Conte, 2018, p. 213).
ra è composta da un doppio paramento
Presso la banchina trapezoidale sono
di blocchi a forma di parallelepipedo in stati rinvenuti diversi frammenti fittili
arenaria, ben squadrati e regolarmente che documentano la forte valenza comallineati, in tangenza sul lato lungo e in merciale di quest’area. I materiali archealcuni casi posti di taglio (Fig. 7 a-b) ologici sono in prevalenza anforacei, ma
(Del Vais et al., 2008, p. 409). «I blocchi sono presenti, anche se in scarsa quantità,
squadrati misurano da 0,90 a 1, 20 metri vasi di piccole dimensioni e ceramica da
in lunghezza e da 0, 40 a 0,60 metri in mensa. La ceramica è difficilmente claslarghezza» (idem, p. 410).
sificabile, in quanto si presenta in forma
Questa struttura è confrontabile con frammentata e in genere “fluitata”, cioè
una simile che si trova a Mozia (Fig. 8 fortemente levigata in seguito all’aziob), dove sono presenti i resti sommersi ne dell’energia ambientale delle acque in
di un’antica strada in blocchi calcarei che, cui giaceva. I materiali selezionati sono
prima della scoperta delle strutture di Mi- di grande interesse: infatti, i reperti più
stras, era considerata un unicum “archeolo- antichi risalgono alla frequentazione
gico”. Questa collegava la Porta Nord del dello scalo in età punica, mentre i più
circuito murario con la riva prospicente recenti appartengono all’età romana im(Fig. 8 a-b), oltrepassando la porzione set- periale avanzata (Ardu e Conte, 2018).
tentrionale dello Stagnone di Marsala nei
La tecnica di giustapporre grandi
pressi di Birgi, dove la necropoli lambisce blocchi di arenaria di taglio senza cela strada (Benessi et al., 2008).
mento ha radici molto antiche e si spieUn’altra struttura di un certo inte- ga con la necessità di limitare i danni
resse, è stata individuata dalla scriven- creati alle strutture portuali dall’ostrute nella primavera del 2010, durante le zione delle darsene tramite accumulo
ricognizioni subacquee relative alla tesi di sedimenti fangosi; questo fu infatti,
di laurea “Nuove ipotesi sul sistema por- fin da tempi assai remoti, uno dei protuale di Tharros”. A circa 20 metri dalla blemi maggiori al quale l’esperienza dei
riva, lungo la sponda orientale dell’inse- costruttori tentò di porre rimedio atnatura settentrionale della laguna di Mi- traverso un accorto posizionamento di
stras (Sa Mistraredda), è stata rinvenuta banchine e di barriere frangiflutti edifiuna serie di blocchi rettangolari allineati cate tramite l’impiego di blocchi lapidei
e ben squadrati (Fig. 9 a e b; Fig. 3, Sito posti a taglio (Blackman, 1982).
Figura 6 a-b. Volo E.I.R.A. del 1968 (Aerofototeca Nazionale, fondo E.I.R.A., volo del 1968)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
23
Figura 7 a-b. Mistras (Sa Mistra Manna) struttura sommersa a doppio paramento (foto A. Ardu)
L’impiego di questa tecnica è stata
riscontrata nei porti fenici dell’ età del
ferro di Tabbat-el Hamman in Siria e
Athlit in Palestina (Frost, 1972).
Come sembrano suggerire i dati archeologici, si può istituire un parallelo
tra i citati esempi di tecniche edilizie
portuali fenicie, ascrivibili cronologicamente ad un periodo compreso tra la tarda età del Ferro e l’alto Arcaismo, e quelli
della tarda età del Bronzo come Dor.
L’antichissima città che faceva parte
della pentapoli filistea (Raban, 1985),
anche essa a circa 30 km. a sud di Haifa,
è menzionata per la prima volta nel XIII
sec. a.C. e successivamente anche nel
racconto di Wenamon (intorno al 1100
a.C.); il suo porto era compreso tra due
lagune poco profonde, una a nord e l’altra a sud che hanno reso testimonianza
di 3000 anni di storia.
In entrambi i casi, si è potuta riscontrare la presenza di banchine edificate
mediante l’impiego di elementi lapidei di forma rettangolare, delimitati da
un’area lastricata in arenaria.
Fra i giorni 21 e 30 settembre 2009,
chi scrive ha partecipato a un saggio di
scavo di 2 x 2 m, con la direzione scientifica di P. Bernardini, E. Garau, P. G.
Spanu e R. Zucca, effettuato nell’area
intermedia fra la linea di costa orientale odierna del bacino occidentale della
laguna, raggiungendo una profondità
massima di circa 80 cm. I risultati sono
di una certa rilevanza, poiché consentono per la prima volta di analizzare una
stratigrafia, per quanto estremamente
limitata nello spazio e nell’estensione,
dell’interrimento di Mistras. La sequenza stratigrafica evidenza un’alternanza
di strati sabbiosi per lo più sterili con
altri stati ricchi di materiali ceramici.
I materiali archeologici, in prevalenza
anforacei, si datano fra il 600 e il 400
a.C., con una discreta concentrazione
tra il 550 e il 450 a.C. e con una forte
prevalenza di anfore fenicie e cartaginesi. Nello strato di base raggiunto dallo
scavo, i materiali ceramici sono associati
a resti malacologici, tra i quali va notata
in particolare la presenza di due specie
appartenenti alla famiglia dei gasteropodi: la monodonta turbinata (conosciuta volgarmente col nome di lumaca di
mare) e la patella cerulea che possono
sopravvivere esclusivamente in zone
litoranee tra gli scogli: è evidente che
ci troviamo di fronte ad un ambiente
marino piuttosto che lagunare. L’esame
dei dati stratigrafici e del contenuto malacologico ha dunque evidenziato situazioni morfologiche incompatibili con la
situazione attuale (Ardu, 2013, p.2).
Questo saggio, cui dovrebbero seguirne altri e numerosi, consente di
ancorare l’interrimento di una linea di
costa fossile, seguita per circa 800 metri, al tardo periodo fenicio e al primo
periodo punico.
La laguna di Mistras doveva essere
una baia riparata dai venti e aperta verso
il Golfo di Oristano; il periodo cui riferire questo scenario dovrebbe abbracciare ben 2.500 anni, tra la media età del
Bronzo e la fase tardo-antica.
Le sponde di Mistras probabilmente
sono state il teatro di scambi tra le genti
nuragiche e i prospectors orientali; gli insediamenti costieri dovevano essere legati
al controllo degli approdi e all’organizzazione e alla logistica di questi traffici.
Il quadro archeologico finora rilevato, con le serie di blocchi squadrati e con
Figura 8 a-b. Confronto tra la strada di Mozia (TP) e la struttura sommersa di Mistras (Foto Benassi et. alii e A. Ardu)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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Figura 9 a-b. Sa Mistraredda, banchina sommersa (Foto A. Ardu)
il materiale ceramico anforaceo riferibile
a contesti di età fenicio-punica e romana, attesta chiaramente la “destinazione
portuale” di un contesto geografico oggi
del tutto inadatto a questo scopo.
A.A.
L’ABBANDONO DEL
PORTO DI THARROS
Gli studi archeologici e geologici
intergrati, ci portano a ipotizzare che il
porto sia caduto in disuso in età tardoantica, interrito da potenti limi; non
sarebbe da scartare un’ipotesi partita
dallo studio delle testimonianze lasciate dai cronisti dell’epoca, a cui è seguita
una serie di studi scientifici, che l’antico
porto sia caduto in disuso a causa di fenomeni meteorologici catastrofici, che
in una zona geomorfologicamente così
instabile, devono aver influito sulla fine
dell’utilizzo del porto e sul conseguente
definitivo declino della città di Tharros
(Ardu, 2013, p. 7).
Sono stati ricostruiti dei periodi più
freddi e più piovosi dell’attuale, denominati piccole età glaciali, durante i quali
si sono verificate catastrofiche modificazioni: le aree costiere hanno subito
consistenti mutamenti con rapide progradazioni della linea di costa, con il
conseguente colmamento di preesistenti aree umide e la formazione di nuove
lagune costiere (Marriner, Morhange,
Skrimshire, 2010)
Sono stati studiati importanti cambiamenti climatici intercorsi; questo periodo,caratterizzato da un abbassamento
generale della temperatura nell’emisfero
boreale è definito dai ricercatori Piccola
Età Glaciale Alto Medievale (in inglese
si utilizza l’eufonico acronimo LALIA)
un periodo freddo, durato dal 536 al
660 d.C. Di particolare rilievo furono
gli eventi meteorologici estremi che avvennero nel 535-536 (Keys, 2000).
I cronisti narrano di eventi catastrofici; si racconta che ci furono dei giorni
di buio, che la peste imperversava in tut-
to il mondo, che caddero degli imperi
e che le inondazioni portarono il caos.
Procopio riferisce: «Nel corso di questo
anno un terribile segno ha avuto luogo. Il
sole ha dato via la sua luce senza luminosità» e anche Giovanni Lydus rivela: «Il
sole è diventato debole, per quasi tutto l’anno. In questo modo i frutti sono stati uccisi
in un momento fuori stagione», mentre
Michele il Siriano precisa «Il sole divenne scuro e la sua oscurità durò diciotto mesi.
Ogni giorno brillava per circa quattro ore e
ancora questa luce era flebile ombra. I frutti
non maturarono e il vino era aspro».
Vi è anche la testimonianza impressionante di Cassiodoro: «Il sole sembra
aver perso la sua luce abituale, e appare di
un colore bluastro. Ci meravigliamo di non
vedere le ombre dei nostri corpi a mezzogiorno, di sentire la forza del calore del sole
trasformata in debolezza, sono i fenomeni
che accompagnano normalmente un’eclisse
lunga un anno intero, abbiamo un’estate
senza caldo e i raccolti gelati dal vento del
nord».
Alcuni studi hanno suggerito che
questi cambiamenti siano stati causati
da un fenomeno noto come ‘inverno
vulcanico’; un evento naturale causato
da una massiccia eruzione; un’esplosione che proiettò nell’atmosfera miliardi
di tonnellate di polveri e ceneri, tali da
oscurare il sole per diciotto mesi e procurare a livello planetario sconvolgimenti
climatici che durarono per sessant’anni,
cui seguirono pestilenze e alluvioni.
Nel caso di forti eruzioni protrattesi
per alcuni decenni, possono essersi determinate delle riduzioni generali della
temperatura e un conseguente sviluppo dei ghiacciai (Smiraglia e Bernardi,
1999). Notizie storiche riferiscono di
un periodo di dissesto idrogeologico,
con probabile durata di un secolo, dopo
la metà del VI sec. d.C.; questo periodo
comprende anche l’episodio del ‘diluvio’
che è citato da Paolo Diacono, certamente collegato a un deterioramento
ambientale con forte piovosità, ma an-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
che a una situazione di generale degrado del territorio. Nella sua interessante
testimonianza, lo storico racconta che
nell’anno 590 d.C., sui territori della
Venezia, della Liguria e di altre regioni d’Italia, si scatenò un diluvio «di cui
pare non essercene stato un altro dai
tempi di Noè; allora il Tevere arrivò a
scorrere dentro Roma, oltrepassando le
mura e allagando moltissimi rioni della
città. Nell’anno successivo si registra al
contrario una terribile siccità con assoluta mancanza di pioggia da gennaio a
settembre».
Una buona risposta è stata offerta
dagli studi di paleoclimatologia, che
comprende lo studio di alcune caratteristiche fisiche dell’ambiente antico
che si conservano all’interno di alcuni
“registratori” naturali: anelli di accrescimento degli alberi, sedimenti lacustri,
calotte glaciali.
Queste ultime, in particolare, conservano stratificati i residui dell’atmosfera (micro particelle) che ogni anno
vi si depositano; grazie ai carotaggi, gli
scienziati possono risalire alle caratteristiche climatiche di uno specifico periodo storico, registrandone le anomalie.
Le calotte della Groenlandia hanno
dato risposte interessanti: pare che, proprio nel 536 d.C., nell’emisfero nord ebbe
luogo una fortissima eruzione vulcanica
che sparse nella stratosfera un grande numero di particelle, che rimasero sospese
nell’aria; questo fornirebbe una spiegazione plausibile alle testimonianze tramandate dai cronisti bizantini.
Una seconda eruzione avvenuta
qualche anno dopo, nel 541, stavolta a
latitudini tropicali e più devastante, insieme a una terza di minore intensità,
nel 547, furono la causa di estati fredde
e inverni rigidi (Büntgen et al., 2016).
La sensibilità verso problematiche poste dalle variazioni climatiche e
ambientali nell’orizzonte antico rende
l’indagine archeologica più attenta al
rilevamento di dati utili ad una ricerca
25
orientata in tale senso, propedeutico per
una originale ricostruzione della storia
del clima, dell’ambiente e dell’uomo.
I cambiamenti climatici sono uno
dei principali argomenti attuali e definire quanto sia importante l’impatto umano è di estrema importanza. Indagare
come gli ambienti potrebbero cambiare
in risposta ai cambiamenti climatici del
passato è una delle chiavi per ipotizzare
scenari a breve/medio termine.
Per quanto riguarda la laguna di Mistras, attualmente disponiamo di alcuni
indicatori geoarchelogici che attestano
la formazione di cordoni dunali interni;
la successiva formazione lagunare appare connessa all’apporto di sabbia dal fiume Tirso e dai fenomeni meteo marini
estremi causati dai venti predominanti e
le correnti interne del golfo.
Al momento si tratta di dati preliminari che necessitano di ulteriori indagini
sia con il prosieguo di saggi di scavo lungo le linee di riva fossili sia, soprattutto,
con dettagliati studi paleoambientali,
che permettano di datare le strutture
portuali ai diversi livelli cronologici relativi alla frequentazione del sito.
A.A.
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Ripristino archeologico e
ingegneria naturalistica: il
caso dell’antica Via Flacca
Federico Boccalaro
Socio esperto SIGEA (Società Italiana
di GEologia Ambientale), AIPIN
(Associazione Italiana per l’Ingegneria
Naturalistica) e Archeoclub d’Italia –
E-mail:
[email protected]
Archaeological restoration and soil
bioengineering: the case of the ancient
Via Flacca
Parole chiave: Ingegneria Naturalistica, bene archeologico, paesaggio, ambiente
naturale, geosito, erosione
Key words: Soil Bioengineering, archaeological heritag, landscape, natural
environment, geosite, erosion
PREMESSA
A partire dal secolo XVIII gli storici
regionali di Gaeta citano e descrivono,
generalmente a proposito di studi sulle
strade romane di questo settore, i resti di
quella che dominava il mare fra la città
suddetta e Sperlonga.
in vista è quella costruita sulla costa
tra Sperlonga (Grotta di Tiberio) ed il
lido di S. Agostino. Questo evento ha
due conseguenze importanti: una immediata, che riguarda le tipologie delle
rovine da considerare (muri di sostegno,
gallerie, ecc.); l’altra, più generale, che
Figura 1. percorso sulla costa tra Sperlonga (grotta di Tiberio) ed il lido di S. Agostino (da F. Boccalaro, 2015)
La sola parte che resta veramente
in vista è quella costruita sulla costa tra
Sperlonga (grotta di Tiberio) ed il lido
di S. Agostino (Fig. 1). Questa riscoperta ha due conseguenze importanti.
Una è immediata: si tratta della tipologia delle rovine da studiare (muri di
sostegno, gallerie, ecc.); l’altra riguarda
gli aspetti generali di questa strada, che,
come vedremo, era solo localmente una
vera strada di “montagna”. Bisogna ricordare che fino al 1958 non esisteva, al
di fuori precisamente dei ruderi di questa via, ridotta dopo tanto tempo allo
stato di sentiero, un’altra strada terrestre
diretta per andare da Sperlonga a Gaeta
(Figg. 2–3).
Prima di procedere all’analisi delle
rovine conservate conviene osservare
un fatto apparentemente paradossale:
la sola parte che oggi resta veramente
fa riflettere come questa strada, come
vedremo, era solo localmente una vera
strada di “montagna”.
All’antica strada, tracciata pare nel
187 a.C. dal censore Lucio Valerio Flacco, si è sovrapposta alla fine degli anni
’50 del secolo una moderna rotabile con
Figura 2. Via che conduceva a Sperlonga e Gaeta (da
Pratilli, 1745)
Figura 3. Stato della viabilità litorale tra Sperlonga e Formia nel sud del Lazio (da Lafon Xavier, “La voie littorale
Sperlonga-Gaeta-Formia”, 1979)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
27
Figura 4. Scorcio dell’antica e nuova Via Flacca (da F. Boccalaro, 2014)
uno strascico di inevitabili polemiche
da parte di quanti invocavano l’assoluta tutela di uno degli ultimi tratti di
costa tirrenica privi di strada carrabile.
La strada fu alla fine fatta e innescò il
consueto fenomeno dell’abusivismo diffuso nonostante su tutta l’area vigessero
vincoli paesaggistici e fermi propositi di
protezione. La nuova Via Flacca permise però di scoprire e valorizzare il sito
archeologico dell’antro di Tiberio con
l’apertura di un interessante museo, pochi chilometri a sud di Sperlonga.
Della strada romana oggi non si sono
perse tutte le tracce. Nei punti più dirupati della costa, con falesie che scendono
a picco sul mare, e dove la moderna rotabile transita in galleria, si scorgono ancora i muri di sostegno e la massicciata
dell’antico, inviolato monumento della
tecnica stradale romana (Figg. 4-5).
ASPETTI ARCHEOLOGICI
GEOMETRIA
L’esame di questi ruderi implica una
serie di constatazioni concernenti ciò
che si potrebbe chiamare la sua capacità
di transito, legata a tre parametri, che
Figura 5. Scorcio dell’antica e nuova Via Flacca (da F. Boccalaro, 2014)
consistono nella larghezza della carreggiata, nell’entità delle pendenze, e nella
qualità del suo rivestimento.
Oggigiorno questa larghezza sembra molto ridotta perché si presenta
ora per lo più come un sentiero. Ma
una serie di misurazioni prese là dove
si può essere sicuri che la carreggiata sia
conservata nella sua integrità (presenza
di antichi muri di sostegno, tracce dei
bordi, là dove le rocce sono state soltanto
intagliate dallo scavo) indicano che essa
non è stata mai inferiore ai 4 metri, e ciò
anche nei passaggi più difficili, salvo per
il tunnel, dove all’entrata si misura solo
3,8 metri. Questa via litoranea si situa
dunque nella buona media delle strade
romane.
Le pendenze non sembrano essere
più forti della media di quelle delle altre
strade romane: da 7% a 10%, in particolare di quelle della regione.
L’insieme di questi dati mostra che
questa strada era idonea non solamente per il passaggio delle bestie da soma,
delle lettighe o dei pedoni, ma anche a
quello dei carri, anche se in quest’ultimo
caso occorre immaginare, a causa del tipo di orme di carreggiata, la possibilità
Figura 6. Tratto di carreggiata dell’antica Via Flacca (da F. Boccalaro, 2015)
di veicoli più stretti di quelli che si conoscono abitualmente (Figg. 6-7).
FUNZIONALITÀ
Questa strada può dunque essere assimilata per il suo tracciato ad un raddoppio dell’Appia tra Fondi e Formia,
là dove la Regina Viarum taglia dritto,
nell’affrontare successivamente la vallata di due torrenti, ma lasciando per
contro il litorale.
Si può motivare la sua costruzione
considerando, su un piano teorico, l’aspetto militare e secondariamente quello economico.
I testi classici ci informano che la
regione di Fondi era una zona viticola
importante (Catone, “De Agricoltura”,
160 a.C.). Se tuttavia si può localizzare il
Caecubum nel nord-ovest della piana, la
zona di produzione del Fundianum, propriamente detta, poteva bene estendersi
fino alle colline situate a sud-est (che
oggigiorno sono sempre una regione di
vigne e di alberi da frutto), dove passava
la strada Fondi – Sperlonga.
Si può quindi dire che la costruzione
di questa strada sia del tutto stata possibile per motivi di ordine sia economico
Figura 7. Tratto di carreggiata dell’antica Via Flacca (da F. Boccalaro, 2015)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
28
Figura 8. Muri di terrazzamento in opera poligonale (da F. Boccalaro, 2008)
che militare in una data relativamente
anteriore al II° secolo. Esiste un passo
di Tito Livio che riferisce di lavori stradali eseguiti dal censore Lucius Valerius Flaccus nel 184. “Et separatim Flaccus
molem ad Neptunias Aquas, ut iter populo
esset, et viam per Formianum montem ...
(fecit)”.
Figura 9. Muro ciclopico in opera poligonale su cui poggia spesso la via litoranea (da
F. Boccalaro, 2008)
La strada fu costruita, secondo l’abituale tecnica costruttiva romana, a mezza costa, ivi compreso su certe spiagge;
ad eccezione dei litorali di Sperlonga e
di Bazzano, dove in effetti tutte le tracce sono sparite; l’altitudine media è di
una quarantina di metri, che oscilla fra
i 15 metri (fra due delle ville costiere) e
60 metri (alla estremità della spiaggia
di S. Agostino). Si trattò di realizzare
un duplice lavoro, in una zona di calcari, dove le rocce precipitano sovente a
picco sul mare: il taglio della roccia per
la sede della strada e la costruzione di
muri di sostegno. Al di là del suo aspetto
spettacolare, più volte sottolineato, con-
viene notare due fatti. In primo luogo,
naturalmente la difficoltà dell’impresa,
ciò che sembra indicare, almeno a prima vista, che questi lavori rispondevano
ad una necessità importante. Bisogna
ricordare che fino al 1958 non esisteva, al di fuori precisamente dei ruderi
di questa via, ridotta dopo tanto tempo
allo stato di sentiero, alcun’altra strada
terrestre diretta per andare da Sperlonga
a Gaeta. D’altra parte, un esame attento
delle strutture murarie conservate, mostra che esistono ben due tipi di muri di
sostegno per questa strada.
Il sistema più frequente, per esempio
fra la Torre Capovento e la spiaggia di
S. Agostino, si caratterizza per un paramento di grossi blocchi assai irregolari
(in media misuranti in diagonale da m
0,40 a 1,30), montati a secco, con linee
di posa orizzontali mal definite, ma con
pochissime schegge di pietra nei giunti.
Molto curiosamente le dimensioni dei
blocchi vanno aumentando dal basso
verso l’alto, probabilmente per il meglio
adattarsi delle fondazioni alla morfolo-
Figura 10. La via Flacca in galleria in località Trepani
(da F. Boccalaro, 2008)
Figura 11. La via Flacca in galleria in località Capovento (da F. Boccalaro, 2008)
TECNICHE
COSTRUTTIVE
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
gia accidentata dei luoghi attraversati.
L’altezza di questi muri è molto varia
(da 1,5 m a più di 15 m), poiché la loro fondazione si trova su asperità della
stessa roccia, per definizione assai irregolari. La struttura interna è nettamente visibile nei tratti dove il paramento
è crollato, permettendo dai punti stessi
una visione del muro in sezione. Si nota
spesso un riempimento di piccole pietre
mescolate a terra. Riguardo al paramento questi muri appartengono al “tipo
poligonale di seconda specie”, secondo
la classificazione adottata da G. Lugli
in “La tecnica edilizia romana” (Roma,
1957) (Figg. 8-9).
Fra le altre opere d’arte resesi necessarie per la realizzazione di questa
strada, conviene ricordare una galleria
senza dubbio in origine naturale (le
caverne abbondavano nella regione, da
cui il nome stesso di Sperlonga), ma
adattata nell’antichità per dar luogo alla
strada di superare la punta di Trapani
(Figg. 10-11).
ASPETTI NATURALISTICI
L’ambiente naturale del Monumento di Sperlonga è essenzialmente di tipo mediterraneo ed è influenzato dalle
peculiari caratteristiche della zona, quali mitezza del clima, forte insolazione,
azione delle onde marine.
Tra le specie vegetali che ricoprono
il territorio, distinguiamo quelle di tipo
arbustivo quali eriche, lentischi, mirti,
ginestre, filliree, cisti ed una rigogliosissima popolazione di rosmarini (Figg.
12-13-14-15). Tra gli alberi, da sottolineare, esemplari di carrubo, quercia da
sughero e ginepro fenicio. Più numerosa la popolazione di pini di Aleppo
che popolano anche impervi anfratti a
strapiombo sul mare. Discorso a parte
merita la rara palma nana di cui abbiamo un buon numero di esemplari sulle
falesie costiere.
29
Figura 12. Palma nana a Capovento (da F. Boccalaro, 2008)
Figura 13. Macchia mediterranea a Punta Cetarola (da F. Boccalaro, 2008)
Figura 14. Fiordaliso di scogliera (Centaurea cineraria) (da E. Banfi, 2000)
Figura 15. Barba di Giove (Anthyllis barba-jovis) (da F. Boccalaro, 2008)
Tra gli animali, l’avifauna offre spunti di notevole interesse, considerato che
le coste rocciose offrono un valido punto di appoggio alle specie migratorie ed
un tranquillo rifugio alle specie stanziali.
Tra le prime abbiamo l’upupa, il martin pescatore, la poiana; tra le seconde,
il falco pellegrino, il gheppio, gabbiani
e cormorani. Tra gli animali di terra da
ricordare esemplari di lepri selvatiche e
rettili di vario genere.
Discorso a parte merita l‘Area Marina Protetta annessa al Monumento
Naturale che abbraccia tutta la fascia costiera rocciosa del comune di Sperlonga,
a sud del promontorio della Grotta di
Tiberio.
Sott’acqua, proliferano numerose e
variopinte specie ittiche quali cernie,
orate, spigole, ricciole, tracine, saraghi,
occhiate, salpe, triglie, mormore, muggini, donzelle, perchie, scorfani, sciarrani,
Figura 16. Sciarrano (Serranus scriba) (da A. Madonna, 2002)
tordi, polpi, murene, gamberi, granchi e
ricci di mare (Figg.16-17).
LA
VEGETAZIONE DELLE RUPI
MARITTIME
Una delle più comuni associazioni
rupestri, che troviamo largamente diffusa sui nostri litorali là dove giungono
abitualmente gli spruzzi d’acqua salsedinosa e anche le onde impetuose durante
le tempeste, è il Critmeto (Crithmo-Sta-
Figura 17. Itinerari subacquei nella Riviera di Ulisse (da A.Madonna, 2008)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
30
ticetum). È costituito dall’immancabile
Critmo o Critamo, noto più comunemente come Finocchio di mare (Crithmum maritimum), ombrellifera dalle
foglie succulente, di sapore salato, con
ombrelle di fiori bianco-verdastri, e da
alcune Statici rupestri (Statice cancellata, lungo il litorale adriatico, Statice
reticulata e altre specie lungo il litorale
tirrenico).
Man mano che si sottrae all’immediata vicinanza dei flutti, questa vegetazione si arricchisce di specie molto
ornamentali: della Cineraria maritti-
LA MACCHIA
I caratteri più tipici della Macchia
mediterranea sono: anzitutto il predominio in essa di arbusti (e sovente di
alberi allo stato di arbusto) “sclerofilli”,
come il Mirto, il Lentisco, il Corbezzolo, il Tino, il Leccio, l’Alloro; un’altezza
media della vegetazione di 2-3 metri
circa; la ricchezza di liane, che contribuiscono a creare un intreccio inestricabile, una tale densità e compattezza della
vegetazione che ben pochi sono gli spazi
in cui possa svilupparsi altra vegetazione
erbacea.
la forma degradata, cioè la cosiddetta
Macchia “secondaria”.
Gli interventi antropici per la creazione di spazi agro-pastorali determinano o una riduzione della complessità
strutturale delle formazioni a sclerofille
mediterranee o la loro scomparsa; l’abbandono delle colture o del pascolamento vede l’instaurarsi di una evoluzione della vegetazione che, in assenza
di incendi, porta a formazioni sempre
più complesse nel tempo, sino alla ricostituzione della macchia o del bosco a
leccio (Figg. 20-21).
Figura 18. Cineraria (Senecio cineraria) (da F. Boccalaro, 2008)
Figura 19. Violaciocca rossa (Matthiola incana) (da F. Boccalaro, 2008)
Figura 20. Euforbia arborea (da F. Boccalaro, 2008)
Figura 21. Ginepro fenicio (da F. Boccalaro, 2008)
ma (Senecio cineraria), dai grandi cespi
cotonosi-biancastri così spesso coltivati come bordure nei nostri giardini;
della Mattiola Lanuginosa (Matthiola
incana), e della Violaciocca di mare
(Matthiola sinuata); del Loto falso Citiso (Lotus cytisoides), ecc. (Figg. 18-19).
Sulle rupi a picco sul mare fiorisce
splendida con fiori di un color rosa vivo il candido Fiordaliso delle scogliere
(Centaurea cineraria), insieme alla Barba di Giove (Anthyllis barba-jovis) e alla
Mattiola lanuginosa.
Soggetta a molteplici forme di degradazione, può variare in densità, in
altezza, in composizione, ma tende allora a trasformarsi in altre formazioni
di struttura meno complessa.
L’attuale Macchia mediterranea può
essere originaria, primitiva, o come si
suol dire “primaria”, come per esempio
ai limiti continentali dell’area di sviluppo del Leccio; oppure la Macchia può
derivare da foreste scomparse di Leccio o di altri alberi sempreverdi, di cui
costituisce null’altro che il sottobosco,
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
ASPETTI GEOLOGICI
GEOSITO (Fig. 22)
Un’antica linea di costa viene riconosciuta dagli indizi di erosione e sedimentazione operate dal mare. Lungo
le coste rocciose, come è quella che si
ripercorre da Terracina a Gaeta, il moto ondoso scava col tempo un “solco di
battigia” che finisce col favorire il crollo
della parete rocciosa sovrastante; il ripetersi continuo del meccanismo porta
alla formazione di un’alta “falesia”.
31
Figura 22. Schema geologico-strutturale (da “Guide Geologiche Regionali. Lazio”, SGI, 1993)
Legenda: colore azzurro Calcari di mare poco profondo (Giurassico - Cretacico inferiore); punto di sosta 10. Torre
Capovento
Figura 23. Linea di costa tirreniana a Torre Capovento (Sperlonga) (da “Guide Geologiche Regionali – Lazio”,
SGI, 1993).
Legenda: 1. detrito di falda cementato; 2. breccia di falesia tirreniana; 3. solco di battente attuale; 4. fori di litodomi;
5. cavità carsica rielaborata dall’erosione marina attuale; 6. dolomie giurassiche (substrato)
Figura 24. Antica linea di costa tirreniana nei pressi di Torre Capovento (da F.
Boccalaro, 2008)
Nel valutare un’antica linea di costa
si deve tener conto dell’eventuale presenza di sedimenti marini costieri, ma
indizi decisivi sono la posizione dei
solchi di battigia e delle fasce di fori di
litofagi, bivalvi che operano con un’azione chimica “perforante” nella zona
medio litorale. Solchi di battigia e fasce
di fori di litodomi corrispondono ad una
sosta più o meno prolungata del livello
marino.
L’affioramento che interessa è a 2-3
m sul livello del mare (Fig. 23). Si rinvengono delle puddinghe i cui ciottoli
sono forati da litodomi, mentre la matrice è costituita da arenarie grossolane
arrossate. Si possono ritrovare anche dei
frammenti di bivalvi (Glycymeris). Lo
spessore del deposito è di circa un paio di
metri. Completano l’affioramento delle
brecce di pendio, con clasti eterogenei
a spigoli vivi, e il substrato carbonatico
di calcari e dolomie, di cui è possibile
notare la stratificazione.
I terreni affioranti appartengono alla
cosiddetta successione laziale-abruzzese (Accordi, 1964). I rilievi sono caratterizzati , per la maggior parte, da calcari e
dolomie in facies di piattaforma carbonatica, che vanno dal Triassico superiore
(220 Ma) al Paleocene (66 Ma), con uno
spessore di circa 4.000 metri.
Il Quaternario è caratterizzato da
formazioni di vari ambienti, fra cui importanti sono i sedimenti marini del
Tirreniano (0,25-0,10 Ma) lungo la
costa tra Terracina e Gaeta (Fig. 23).
Sulla parete della piccola falesia si
ritrovano fori di litodomi fino a circa
7 metri sul livello del mare. Si possono
attribuire gli affioramenti di puddinghe
e i fori di litodomi ad una antica linea di
riva, correlabile con il Tirreniano (0,120,16 Ma) (Figg. 24-25).
Figura 25. Gusci di Lithophaga lithophaga prelevati da alcune statue dal Parco Archeologico Sommerso di Baia; fori prodotti dal Dattero di mare
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
32
Figura 26. Dinamica della falesia (da Quaderni Habitat - MFSN, 2004)
presenta diffusi fenomeni di distacco di
frammenti rocciosi ad opera delle azioni
meteoriche e carsiche, e piccoli scoscendimenti di accumuli di detrito e di suolo
nei tratti più ripidi.
La dinamica della falesia può produrre in molti casi situazioni d’instabilità e
di pericolo. È necessario comprendere
pertanto quali siano i parametri in gioco
e le reali possibilità di crolli, e che interventi sia possibile effettuare (Fig. 26).
Nella realtà si possono presentare
casi assai complessi e molto diversi tra
loro, che non riguardano solamente la
falesia ma anche il versante-falesia o il
versante (Figg. 27-28-29-30-31-32).
Queste situazioni richiedono, quindi, indagini geologiche specialistiche
particolarmente sui seguenti punti:
• struttura dell’ammasso roccioso alle
spalle della falesia, anche per profondità di centinaia di metri o chilometri;
• tettonica quaternaria;
• studio stratigrafico dettagliato, per
comprendere la geometria della
stratificazione e i cambiamenti litologici; in particolare la sovrapposizione di corpi rocciosi a diversa
deformabilità e a diversa erodibilità;
la giacitura della superficie di separazione tra i due corpi;
• analisi dell’alterazione della roccia e
della permeabilità;
• valutazione dello stato di copertura
vegetale e della infiltrazione dell’acqua nel sottosuolo;
• ricerche morfologiche per riconoscere rotture superficiali del terreno
che testimoniano movimenti rotazionali del substrato o movimenti
gravitativi profondi innescati dal
taglio della falesia.
Per quanto riguarda i dissesti gravitativi, lungo le catene montuose Carbonatiche dei Monti Lepini, Ausoni e
Aurunci, e nel promontorio del Circeo,
è stata rilevata una notevole densità di
dissesti costituiti in massima parte da
frane di crollo, che hanno interessato
strade, ferrovie e centri abitati. La scarsa copertura vegetale nella zona favorisce i fenomeni di erosione superficiale.
Inoltre le stesse aree, nel periodo estivo,
sono spesso percorse da incendi che,
depauperando ulteriormente la coltre
vegetale, ampliano le aree a rischio di
rotolamento dei massi che si distaccano
dalle scarpate.
Le aree tra Sperlonga e Gaeta sono
a pericolo di frana elevato, interessate da
frane caratterizzate da media intensità,
con bassi volumi e/o velocità moderata
(da <1,5 m/giorno a 1,5 m/mese): scorrimenti traslazionali in terreni complessi,
scorrimenti rotazionali in terreni caratterizzati da alternanze di terreni a differente comportamento, colate. Tali aree
possono essere caratterizzate dalla presenza di scarpate di altezza significativa.
In particolare, la costa rocciosa calcarea attraversata dall’antica Via Flacca
Figura 27. Tetto roccioso (da F. Boccalaro, 2008)
Figura 28. Smottamento superficiale (da F. Boccalaro, 2008)
DISSESTO
IDROGEOLOGICO
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
33
Figura 29. Sfornellamento della volta della galleria a punta Trapani (da F. Boccalaro, 2008)
Figura 31. Smottamenti lungo la via Flacca (da F. Boccalaro, 2008)
ASPETTI TURISTICI
Fino ad alcuni anni fa l’intero tracciato si poteva percorrere a piedi abbastanza agevolmente; oggi, non più
mantenuto e non segnalato, necessita
esperienza e un po’ di fatica supplementare.
Alcuni tratti sono esposti e richiedono una certa prudenza. Questa
escursione è quindi indicata a coloro
che apprezzano questo genere di reperti archeologici, tenuto anche conto che
sarà gioco forza percorrere alcuni tratti
di asfalto lungo la trafficata strada moderna.
A consolazione va detto che, oltre
all’antica strada e agli incantevoli anfratti costieri, l’itinerario suggerisce la
visita del museo di Tiberio, del centro
storico di Sperlonga e, se il tempo lo
consente, anche un meritato bagno.
Il tracciato dell’Antica Via Flacca è
ancora ben visibile, specie via mare, in
tutto il tratto di costa che si snoda dal
promontorio della Villa di Tiberio fino
Figura 30. Parete rocciosa a rischio crolli (da F. Boccalaro, 2008)
Figura 32. Falesie in erosione (da F. Boccalaro, 2008)
a Punta Cetarola. L’ingresso si trova sul
ciglio della Via Flacca (SS 213) accanto all’ingresso della galleria detta “Trepani” viaggiando in direzione Napoli
(Figg. 33-34).
L’ambiente, particolarmente incontaminato, presenta elementi tipici della
macchia mediterranea tra cui spicca il
Pino d’Aleppo, aggrappato alle rocce a
picco sul mare. Sul percorso, che non è
stato ancora posto in sicurezza, si incontra una grotta naturale oltre la quale è
assolutamente sconsigliato proseguire
anche ai più esperti. In ogni caso, prima
di effettuare escursioni, è obbligatorio
contattare (nei giorni feriali) la Sede del
Parco al numero 0771.743070 oppure
contattare verbalmente i guardaparco
presenti in loco.
Figura 33. Area protetta promontorio Villa di Tiberio e Costa Torre Capovento – Punta Cetarola (da Parco
Riviera di Ulisse, 2005)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
34
•
Figura 34. Itinerario turistico lungo la via Flacca (da Airone, 2005)
«Ad ogni uscita di galleria – aveva
annotato negli anni ‘50, subito dopo la
costruzione della strada, il critico d’arte
Cesare Brandi – una nuova spiaggetta, con caratteristiche sue, e i monti di
roccia a picco, con i colori che ora sono
quelli della costa amalfitana, ora quelli
della costa calabra».
INTERVENTI DI
INGEGNERIA
NATURALISTICA A
DIFESA DELLE OPERE
VIARIE ANTICHE SU RUPI
COSTIERE
L’antica Via Flacca sarà oggetto di un
ripristino attento della sua stabilità e viabilità a fini escursionistici ma, visto l’alto
valore naturalistico del paesaggio che attraversa (tipico ambiente rupestre costiero
mediterraneo tutelato dal Parco Regionale “Riviera di Ulisse”), necessita di interventi di stabilizzazione e consolidamento
a basso impatto ambientale, per un corretto inserimento nell’habitat circostante.
L’Ingegneria Naturalistica è la branca
di Ingegneria Ambientale che più si presta ad effettuare interventi di recupero da
dissesto idrogeologico di siti archeologici
inseriti in un pregiato habitat costiero.
L’Ingegneria Naturalistica (I.N., ted.
Ingenieurbiologie, ingl. Soil Bioengineering) è una disciplina tecnica che utilizza
le piante vive negli interventi antierosivi
e di consolidamento, in genere in abbinamento con altri materiali (legno, terra,
roccia, geotessili, reti zincate, ecc.), per la
ricostruzione di ecosistemi tendenti al
naturale ed all’aumento della biodiversità. I campi di intervento vanno da quelli
tradizionali di consolidamento dei versanti e delle frane al recupero delle aree
degradate (cave, discariche, cantieri), alla
mitigazione degli impatti legati alla realizzazione di opere di ingegneria (barriere antirumore e visive, filtri alla diffusione
di polveri, ecosistemi-filtro a valle di scarichi idrici), all’inserimento ambientale
delle infrastrutture di trasporto lineari
(scarpate stradali e ferroviarie), alla rinaturazione dei corsi d’acqua, ecc.
Le finalità degli interventi di I.N.
sono principalmente:
• tecnico-funzionali, ad esempio antierosive e di consolidamento di una
scarpata o di una sponda;
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
naturalistiche, in quanto lo scopo
non è la semplice copertura a verde
ma la ricostituzione o l’innesco di
comunità vegetali appartenenti alla
serie dinamica autoctona;
• estetiche e paesaggistiche di inserimento nel paesaggio naturale;
• economiche, in quanto tipologie
alternative e competitive alle opere tradizionali (ad esempio muri di
sottoscarpa in cemento sostituiti da
palificate vive).
Gli interventi di I.N. si contraddistinguono da quelli tradizionali per:
• l’esame delle caratteristiche microclimatiche, geomorfologiche e pedologiche delle aree di intervento;
• l’analisi floristica e vegetazionale,
con particolare riferimento alla ricostruzione della serie dinamica e
all’individuazione delle specie d’impiego in funzione delle loro caratteristiche biotecniche;
• l’uso di materiali non tradizionali
quali i geotessuti sintetici in abbinamento a piante o parti di esse;
• l’accurata selezione delle specie vegetali da impiegare (miscele di sementi, specie arboree ed arbustive,
talee, rizomi, trapianti di zolle);
• l’abbinamento della funzione di
consolidamento con quella del reinserimento ambientale;
• il miglioramento nel tempo delle suddette funzioni per lo sviluppo delle
parti aeree e sotterranee delle piante.
Le opere stabilizzanti consolidano il
terreno in profondità nei pendii minacciati da frane, che presentano strati di
scivolamento vicini alla scarpata.
L’efficacia di tali interventi è dovuta
agli apparati radicali delle piante grazie
alla loro capacità di legare e consolidare in profondità il terreno, nonché di
resistere alle sollecitazioni meccaniche
esterne e di drenare il suolo.
L’effetto immediato dipende dalla
messa a dimora e dalla densità delle opere a verde. Con la formazione di radici,
l’efficacia cresce sensibilmente ed aumenta costantemente al crescere dell’età, a seconda dello sviluppo dei singoli
interventi. Gli interventi stabilizzanti
possono essere puntiformi o distribuiti linearmente, per cui devono essere
completati per mezzo di interventi di
rivestimento (inerbimenti) che esplicano la loro efficacia sull’intera superficie
del terreno.
Le opere combinate, in ausilio a quelle stabilizzanti, sono costituite da interventi di difesa dall’erosione, di sostegno
di pendii instabili e di consolidamento
di fossi ed alvei torrentizi e fluviali.
35
Possono essere eseguiti in combinazione con elementi vivi producendo gli
effetti desiderati subito dopo l’ultimazione dei lavori. Mediante la radicazione
e lo sviluppo delle piante e delle porzioni
di piante vive impiegate, col passare del
tempo aumenta con continuità il grado
di efficienza delle opere.
Normalmente gli interventi combinati vengono eseguiti in ordine di tempo
prima degli interventi stabilizzanti, di
copertura e complementari, che invece
sono costruiti esclusivamente con materiali vivi.
Passeremo in rassegna alcune tipologie
di interventi applicabili all’ambiente attraversato dall’antica Via Flacca (Tab. 1).
RETE
METALLICA E GEOSTUOIE O
BIOSTUOIE
/
BIOFELTRI
RIVESTIMENTO
VEGETATIVO A
TASCHE
Usualmente, per pendii in terra o roccia alterata, la rete metallica è abbinata e
sovrapposta a uno dei rivestimenti vegetativi descritti nel relativo paragrafo.
La rete metallica a doppia torsione
avrà una maglia esagonale tipo 6x8 in
accordo alle UNI-EN 10223-3, tessuta con trafilato di ferro, conforme alle
UNI-EN 10223-3 per le caratteristiche meccaniche e per le tolleranze sui
diametri, a forte zincatura, quantitativo
minimo di zinco pari a 260 g/mq, conforme a quanto previsto dalle UNI-EN
10223-3 e alla Circolare del Consiglio
dei Lavori Pubblici (Figg. 35-36).
Rivestimento di scarpate in roccia di
natura friabile o compatta con inclinazione compresa tra 40° e 55°, costituito
da un supporto in rete metallica a doppia torsione, rivestita internamente da
un geotessuto o geostuoia sintetica, debitamente tesa ed ancorata al substrato
a mezzo di chiodi in tondino di acciaio,
il tutto nelle quantità tali da garantire
la stabilità e l’aderenza della rete. Nel
caso di rocce particolarmente friabili
verranno operate delle legature in fune
d’acciaio anche tra i chiodi lungo la superficie a miglioramento dell’aderenza
della rete al substrato. Le tasche, aperte
Tabella 1. Uso combinato di piante vive e materiali naturali o artificiali (da G. Sauli, 2004)
Solo piante
vive
Solo materiali
artificiali
Piante vive + materiali
Piante vive
con funzione
tecnica
primaria
Piante vive con funzione
tecnica primaria + materiali
biodegradabili (legno,
biostuoie) dominanti
Piante vive con funzione
tecnica secondaria + materiali
non biodegradabili dominanti:
naturali (pietra, terra) e
artificiali (plastica)
Es:
Gradonata viva
Es:
Palificata viva
Es:
Es:
Gabbionate rinverdite, scogliere Cribb wall verdi, mantellate
rinverdite, terre rinforzate
cemento inerbite
rinverdite, geosintetici rinverditi
Solo azioni morfologiche
Per rinaturalizzazione +
aumento biodiversità
Piante vive prive di funzione
tecnica, ma per realizzazione
unità ecosistemiche +
materiali artificiali dominanti
Es:
Muro c.a., rete
zincata
Solo materiali
Materiali naturali per favorire la Materiali naturali per
colonizzazione spontanea delle la realizzazione unità
dune
morfologiche
Materiali naturali o artificiali
per il mantenimento
biodiversità faunistica
Es:
Incannucciamento
Es:
Tubi per anfibi, sovrappassi per
ungulati, rampe risalita per i
pesci
Figura 35. Rete metallica, stuoia e talee di salice (ISPRA, 2012)
Es:
Canalette legno e pietra, briglie
legname e pietrame, dighe in
terra per conservazione habitat
di pregio
Figura 36. Feltro preseminato e rete metallica a Sgurgola (FR), lungo la linea FS
Roma-Napoli (da F. Boccalaro, 2006)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
36
Figura 37. Rete metallica, terra, cotico erboso e stuoia (ISPRA, 2012)
Figura 38. Rivestimento vegetativo a tasche (da Ferraiolo, 2003)
verso l’alto, vengono riempite di terra mensionale sintetica fissata in basso su
scarpata rocciosa a pendenza massima
vegetale (Figg. 37-38).
45°, distanziato e ammorsato alla rocRIVESTIMENTO VEGETATIVO A
cia mediante barre metalliche a formare
MATERASSO
degli strati di inerte terroso di 20-40 cm
Materasso realizzato con una rete di spessore. Il riempimento avviene dal
metallica zincata (e plastificata), rive- basso verso l’alto, la roccia funge da base
stita internamente con una stuoia tridi- di supporto e la rete metallica con la ge-
ostuoia funge da coperchio. La rete viene chiusa lateralmente e superiormente.
La superficie viene seminata o idroseminata e vengono messe a dimora talee e arbusti radicati (Fig. 39).
MESSA
A DIMORA DI TALEE
I materiali impiegati constano di talee di due o più anni di età (lunghezza
minima di 50-80 cm e diametro 2-5
cm), astoni (rami L = 100-300 cm, dritti e poco ramificati di Salici) e verghe e
ramaglie vive (rami sottili L = 1-5 m e
diametro 1-3 cm di Tamerici).
Per la posa in opera di talee nel suolo,
mentre un operaio esegue con un piede
di porco o con un ferro appuntito dei
fori nel terreno, estraendolo di nuovo
lentamente, un secondo operaio infila la
talea nel foro e comprime la terra tutt’
intorno. Le talee non vengono danneggiate se vengono assestate con una mazza (Figg. 40-41).
Figura 39. Rivestimento vegetativo a materasso (da G. Ferraiolo)
Figura 40. Talee di salici e arbusti, cotico erboso da idrosemina (da Florineth)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Figura 41. Particolare talea di Salice, prima fase di sviluppo fogliare (da F. Boccalaro, 1994)
37
STECCATO
VIVO
Lo steccato vivo utilizza i seguenti
materiali:
• paleria di larice o di castagno: lunghezza = 1,5 m, diametro = 15÷20 cm;
• “sciaveri” (mezzi tronchi): lunghezza > 2 m, diametro = 10 cm;
• talee di salice: lunghezza > 80 cm;
• filo di ferro zincato: diametro = 3 mm.
Queste palizzate, della lunghezza di
2÷3 m, vanno disposte in modo irregolare
lungo il versante così da esercitare in maniera più efficace la loro funzione di consolidamento del terreno (Figg. 42-43).
GRATA
VIVA
La grata viva a camera a parete semplice in legname durevole, con talee di
salice o tamerice e piantine radicate, ha
struttura portante costituita da un reticolato (altezza massima di 15÷20 m) in
tronchi scortecciati di larice o castagno
(lunghezza 2÷4 m, diametro 20÷40 cm),
a maglie con lato di 1,0÷2,0 m, uniti tra
loro con chiodi o graffe di acciaio zincato e legature con filo di ferro zincato.
Gli elementi verticali sono quelli
portanti l’intera struttura e possono essere più radi e di maggiori dimensioni,
La palificata in legname con talee
può essere ad una o a due pareti. La
palificata a due pareti richiede uno scavo maggiore, ma può resistere a spinte
più elevate ed avere un’altezza superiore
(max 5 m) (Figg. 46-47).
Figura 46. Palificata viva con talee (da ISPRA, 2012)
Figura 47. Palificata viva a parete doppia in Val Venosta (BZ) (da F. Boccalaro, 1994)
Figura 42. Palizzata con talee e/o piantine (ISPRA, 2012)
Figura 43. Steccato vivo in Val Venosta (da F. Boccalaro,
1994)
MURATURA IN PIETRAME A SECCO
mentre gli elementi orizzontali posso- RINVERDITA
Le murature in pietrame a secco
no essere di dimensioni minori e la loro
densità sarà maggiore al crescere dell’in- dovranno essere eseguite con pietre ridotte con il martello alla forma più che
clinazione del pendio (Figg. 44-45).
sia possibile regolare ed a spigoli vivi
con speciale riguardo ai piani d’assetto,
restando assolutamente escluse quelle
di forma rotonda od aventi superfici
tondeggianti e comunque fortemente
irregolari.
Nell’interno della muratura si farà
uso delle scaglie soltanto per appianare
i corsi e riempire gli interstizi tra pietra e
pietra. Resta pertanto vietato l’impiego
Figura 45. Grata viva a Cadibona (SV) (da F. Boc- di scaglie nelle strutture di paramento
calaro, 1994)
(Figg. 48-49).
PALIFICATA
Figura 44. Grata viva (da F. Boccalaro, 1995)
VIVA A PARETE DOPPIA
La palificata di sostegno in legname
a parete doppia, riempita di terreno e
rinverdita con talee di salice o tamerice
e piantine radicate di specie autoctone, è
composta da correnti e traversi di legno
scortecciato idoneo e durabile di latifoglia o conifera (diametro minimo di
10÷25 cm, lunghezza di 1÷3 m), fissati
tra loro con chiodi, staffe e caviglie di
acciaio zincato, opportunamente sagomati negli incastri, ancorata al piano di
base con picchetti e filo di ferro (diam =
3 mm) in acciaio zincato.
Figura 48. Muratura in pietrame a secco rinverdita (da
Florineth)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
38
Figura 49. Muratura in pietrame a secco rinverdita in
Val Venosta (da F. Boccalaro, 2005)
CHIODATURA
NEL TERRENO
La chiodatura nei terreni o “soil nailing” comprende elementi di rinforzo
profondi quali chiodi ad attrito in barre
d’acciaio o di altri idonei materiali (vetroresina, fibre di carbonio o similari),
ed elementi di contenimento superficiali quali geostuoie bi-tridimensionali
o biostuoie (paglia e cocco, fibre miste, trucioli di legno) ed eventuale rete
metallica a doppia torsione (zincata ed
eventualmente plastificata).
La tecnica della chiodatura nei terreni o “soil nailing” si applica al consolidamento per instabilità locale di scarpate
di rilevati, versanti di trincea e naturali
o fronti di scavo in terreni sciolti o rocce
alterate (Figg. 50-51-52-53).
Figura 51. Chiodatura del terreno prima dei lavori (da GEOBRUGG)
Figura 52. Chiodatura del terreno durante i lavori (da GEOBRUGG)
Figura 50. Azione del soil nailing nel terreno (da
GEOBRUGG)
CONCLUSIONI
Il caso del recupero dell’antica Via
Flacca riassume in modo esemplare
la profonda correlazione tra numerosi aspetti afferenti a diverse discipline
tecnico-scientifiche:
• archeologia antica (la strada romana) e rinascimentale (la torre costiera);
• geologia applicata (dissesto idrogeologico);
• agraria (studio del suolo);
• botanica (rinaturalizzazione);
• ingegneria ambientale (interventi di
messa in sicurezza e di rivegetazione);
• turismo (valorizzazione escursionistica).
Figura 53. Chiodatura del terreno dopo i lavori (da GEOBRUGG)
BIBLIOGRAFIA
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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Boccalaro F. (2006), Difesa del Territorio
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39
Risultati preliminari sulla
possibile individuazione
della Mutatio Gelasium
lungo la via romana
Catania-Agrigento
(It. Provinciarum Antonini
Augusti n. 88)
Preliminary report on the possible
identification of Mutatio Gelasium along
the Roman road Catania-Agrigento
(It. Provinciarum Antonini Augusti n. 88)
Parole chiave: Mutatio Gelasium, Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88, Via
romana Catania-Agrigento
Key words: Mutatio Gelasium, Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88, Roman
road Catania-Agrigento
ABSTRACT
As is well known, the possible paths
of Roman road tracks often have as their
confirmation the land and sea routes reported on the Itinerarium Provinciarum
Antonini Augusti (Parthey and Pinder,
1848) and those reported of the Tabula
Peutingeriana (Miller, 1964).
A recent monograph on the archaeological area of the city of Morgantina
(Bruno, 2017), addresses the theme of the
extra-urban viability of the city which, according to the reconstructions, likely has
been located near the route of the Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti
n. 88 Catania-Agrigento, at least until
the beginning of the fourth century d.C.
In the monograph the author, based on
topographic data and historical sources,
reconstructs the road layout and the possible locations of mansiones and/or mutationes along it. In particular, accrediting
a possible key to reading of the It. Ant.
Aug. n. 88 advanced by another researcher
(Bonacini, 2010), he hypothesizes the existence of a Mutatio Gelasium and places it
inside the Chora di Morgantina.
In order to ascertain the existence and
exact location of the Mutatio Gelasium,
along the aforementioned road layout,
surveys and sampling of earthenware for
mineralogical-petrographic analyses in
the laboratory were performed.
The first phase the survey consisted
of a geomorphological study, aimed at
defining the plano-altimetric characteristics of the Roman road section between
the Mansiones Capitonianis and the Mutatio Gelasium and of the litotypes out-
cropping along the same path. In the
second phase, the reliefs were concentrated in the area around the Masseria
Belmontino Sottano, in the homonymous district, and consisted of an aerofotogrammetric survey conducted with
drone and in the sampling of terracotta
samples on which petrographic analyses
were conducted on thin section, through
a polarized light transmitted microscope,
and X-ray diffractometry.
The results obtained, although preliminary, are very encouraging and indicate the presence, in the area around the
farm, of numerous traces of perimeter
and/or foundation walls of buildings
made up of several square-shaped compartments placed side by side.
The analyses carried out on the finds
of earthenware indicate that all the samples analysed show petrographic characteristics common to those of Greco-Roman terracotta in central-eastern Sicily
(Barone et al., 2005; Barone et al., 2012;
Barone et al., 2014). The X-ray diffractometric analyses have shown the presence of quartz, hematite and k-feldspar
also of new Ca-silicatic phases (anorthite, diopside and sporadic gehlenite)
which indicate cooking temperatures
close to 850° C.
Considering the preliminary nature
of these analyses, it can however be affirmed that the mineralogical-petrographic characteristics and the cooking
temperatures of the analysed samples
are similar to those of terracotta, of sure
local production, used in Morgantina
to realize various types of bricks, water
Giovanni Bruno
DICATECh - Politecnico di Bari, Socio
SIGEA
E-mail:
[email protected]
Germana Barone
DSBGA - Università degli Studi di
Catania
E-mail:
[email protected]
Giorgio De Guidi
DSBGA - Università degli Studi di Catania
E-mail:
[email protected]
Rosanna Maniscalco
DSBGA - Università degli Studi di Catania
E-mail:
[email protected]
Paolo Mazzoleni
DSBGA - Università degli Studi di Catania
E-mail:
[email protected]
Danilo Messina
DSBGA - Università degli Studi di Catania
E-mail:
[email protected]
Alessandra G. Pellegrino
DSBGA - Università degli Studi di Catania
E-mail:
[email protected]
pipes and domestic or votive handworks
(Atzori et al., 1995; Bruno, 2017).
The hypothesis of the existence of a
Mutatio Gelasium and its location inside
the Chora di Morgantina, along the Roman road that from Catania to Agrigento, passing through the Capitonianis and
Philosophianis Mansiones, mentioned in
the It. Ant. Aug. n. 88, seems to be strongly supported by the material evidence
found in the site investigated and by the
results of laboratory analyses conducted
on the terracottas taken there. However, a
definitive confirmation could come from
archaeological excavation essays.
RIASSUNTO
Com’è noto, le possibili ricostruzioni
dei tracciati stradali di epoca romana hanno spesso come riscontro gli itinerari terrestri e marittimi riportati sull’Itinerarium
Provinciarum Antonini Augusti (Parthey
and Pinder, 1848) e quelli riportati della
Tabula Peutingeriana (Miller, 1964).
Una recente monografia riguardante
l’area archeologica della città di Morgantina (Bruno, 2017), affronta il tema
della viabilità extraurbana della città
che, secondo le ricostruzioni, sembra
sorgesse in prossimità del tracciato stradale dell’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88 Catania-Agrigento,
almeno fino all’inizio del IV sec. d.C..
Nella monografia l’autore, basandosi
su dati topografici e sulle fonti storiche, ricostruisce il tracciato stradale e
le possibili ubicazioni delle mansiones
e/o mutationes lungo esso. In particolare, accreditando una possibile chiave di
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
40
lettura dell’It. Ant. Aug. n. 88 avanzata
da un’altra ricercatrice (Bonacini, 2010),
egli ipotizza l’esistenza di una Mutatio
Gelasium e la colloca all’interno della
Chora di Morgantina.
Al fine di accertare l’esistenza e l’esatta
ubicazione della Mutatio Gelasium, lungo
il predetto tracciato stradale, si è avviato un
progetto di ricerca che ha comportato indagini e rilievi in situ nonché il prelievo di
campioni di terrecotte, ritrovati nell’area
investigata, per l’esecuzione di analisi mineralogico-petrografiche in laboratorio.
La prima fase delle indagini è consistita in un rilievo geomorfologico,
finalizzato alla definizione delle carat-
Figura 1. Itinerari del cursus publicus romano, Messina-Marsala (via Valeria), Siracusa-Marsala (via Selenuntina)
e Siracusa-Termini Imerese (via Pompeia per il tratto Siracusa-Catania): a) Stralcio dei segmenti VI,5 e VII,1-3
della Tabula Peutingeriana (da: Miller, 1964); b) Itinerari riportati su una mappa attuale (da: La Verde, 2016)
Figura 2. Ricostruzione, secondo l’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88, della strada CataniaAgrigento con ubicazione della Mansio Capitonianis e della Mutatio Gelasium (da: Bruno, 2017)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
teristiche plano-altimetriche del tratto
di strada romana compreso tra la Mansiones Capitonianis e la Mutatio Gelasium
e dei litotipi affioranti lungo lo stesso.
Nella seconda fase, i rilievi sono stati
concentrati nell’area intorno alla Masseria Belmontino Sottano, nell’omonima contrada, e sono consistiti in un
rilievo aerofotogrammetrico condotto
con drone e nel prelievo di campioni di
terrecotte sui quali sono state condotte
analisi petrografiche in sezione sottile,
tramite microscopio a luce tramessa
polarizzata, e diffrattometria a raggi X.
I risultati ottenuti, per quanto preliminari, sono molto incoraggianti e indicano
la presenza, nell’area intorno alla masseria,
di numerose tracce di muri perimetrali e/o
di fondazione di edifici costituiti da diversi
vani affiancati di forma squadrata.
Le analisi condotte sui reperti di
terrecotte indicano che tutti i campioni
analizzati presentano caratteri petrografici comuni a quelli delle terrecotte greco-romane della Sicilia centro-orientale
(Barone et al., 2005; Barone et al., 2012;
Barone et al., 2014). Le analisi diffrattometriche a raggi X, hanno evidenziato
la presenza oltre che di quarzo, ematite e
k-feldspato anche di fasi Ca-silicatiche
di neoformazione (anortite, diopside e
sporadica gehlenite) che indicano temperature di cottura prossime agli 850°C.
Tenuto conto del carattere preliminare di queste analisi, si può, tuttavia,
affermare che l’insieme dei caratteri
mineralogico-petrografici e delle temperature di cottura dei campioni analizzati sono simili a quelli delle terrecotte,
di sicura produzione locale, utilizzate a
Morgantina per realizzare varie tipologie di laterizi, condotte idriche e manufatti di tipo domestico o votivo (Atzori
et al., 1995; Bruno, 2017).
L’ipotesi dell’esistenza di una Mutatio Gelasium e la sua ubicazione all’interno della Chora di Morgantina, lungo la
strada romana che da Catania conduceva ad Agrigento, passando per le Mansiones Capitonianis e Philosophianis, citate nell’It. Ant. Aug. n. 88, sembra essere
fortemente supportata dalle evidenze
materiali riscontrate nel sito investigato
e dai risultati delle analisi laboratorio
condotte sulle terrecotte ivi prelevate.
Tuttavia, per una conferma definitiva è
necessario un grado di approfondimento maggiore delle ricerche, corroborate
anche da altre tipologie di investigazione (saggi di scavo archeologico).
INTRODUZIONE
In Sicilia, la presenza di un’estesa
rete viaria (cursus publicus) che collegava
41
le più importanti città, ubicate lungo le
coste, è ampiamente documentata sin
dall’antichità (Uggeri, 2007; Brienza,
2018). In tal senso si ricordano le citazioni storiche riguardanti la via Pompeia, che collegava Messina a Siracusa
passando per Catania (Cicerone, Verrine. II, 3.); la via Selenuntina, che collegava Siracusa a Marsala (Lilibeo) riportata
sia sull’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti (Parthey and Pinder, 1848)
che sulla Tabula Peutingeriana (Miller,
1964) e, più importante fra tutte la via
Valeria, costruita dal Console Marco
Valerio Levino nel 210 a.C. dopo la II
guerra punica (Strabone, Gheographikà.
VI, 3), che collegava Tindari (Tyndaris)
a Marsala (Fig. 1).
Meno nota, soprattutto nello sviluppo
dei tracciati e nell’ubicazione delle tappe
intermedie (Mansiones, Mutationes, Stationes), è la rete stradale che attraversando le aree interne dell’isola doveva spesso
superare non poche difficoltà di carattere
geomorfologico dovute alla presenza di
rilievi montuosi, affioramenti di rocce
argillose prone al franamento e/o attraversamento di corsi d’acqua a regime
torrentizio e, quindi, con portate di piena
estremamente variabili. Nel complesso,
le strade della Sicilia romana erano il risultato del riadattamento di precedenti
tracciati (Uggeri, 2007) e, in generale,
non presentavano né grandi opere d’arte
(ponti) né quell’andamento spiccatamente rettilineo, tipico delle grandi arterie
concepite ex novo in aree di pianura, quale
quello della via Appia o Emilia.
Tra le vie interne all’isola, certamente presenti già durante il periodo greco
arcaico e utilizzate con continuità sin
dopo il periodo romano repubblicano,
alcune dovevano passare per la città di
Morgantina che sarà stato un importante crocevia nella rete stradale dell’isola,
durante i periodi greco ellenistico e della
Roma repubblicana, sia lungo le direttrici N-S che E-W.
Di seguito si elencano alcune delle
più importanti strade della Sicilia, riportate nelle fonti storiche e bibliografiche:
• la via Agrigento-Palermo con andamento N-S, denominata via Aurelia
dal nome Aurelio Cotta riportato su
un miliario rinvenuto nel paese di
Corleone (probabilmente si tratta
di Gaio Aurelio Cotta, console nel
252 e 248 a.C.), fu la prima strada
costruita dai romani nell’isola per
agevolare le operazioni militari durante la I guerra punica;
• la via Gela (Geloi)-Agira (Agyrium)
che con andamento N-S passava da
Morgantina, come riportato da Dio-
doro Siculo (Bibliotheca Historica.
XIV, 95) che era nativo di Agyrium;
• la via Ragusa (Hybla)-Divieto che con
andamento N-S passava per Morgantina e Centuripe (Centuripae);
• la via Catania-Termini Imerese
(Thermae Himerae) con andamento
E-W e che, come rappresentato nei
segmenti VI,5 e VII,1-3 della Tabula Peutingeriana (Miller, 1964),
passava per Enna;
• la via Catania-Agrigento con andamento E-W che, secondo l’interpretazione dell’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88 fornita
da Cuntz (1929) relativamente al
tratto Capitonianis - Philosophianis,
le possibili ipotesi di tracciato (Paladino, 2007; Bonacini, 2010; Casano
Del Puglia, 2012) e le recenti ricostruzioni (Bruno, 2017), passava per
la Mutatio Gelasium (Fig. 2).
Evidenze toponomastiche, relative
alle tappe presenti lungo la strada Catania-Agrigento (Fig. 3), si sono conservate
nella cartografia dell’isola anche in epoca
più recente quando questi vecchi tracciati
erano già stati riassorbiti dalla rete delle
“trazzere”, termine quest’ultimo che ad
oggi non sembra essere anteriore al 1557
quando compare in un contratto d’affitto
nei pressi di Trapani (Santagati, 2013).
modificazioni dopo l’abbandono della
città nel I sec. d.C. grazie alla sua ubicazione interna all’isola e alla spiccata
vocazione agricola che l’hanno tenuto
lontano dai processi di urbanizzazione
e industrializzazione.
Secondo la recente ricostruzione di
Bruno (2017), basata su una cartografia
del 1890 (Cordov, 1890), e le ricerche
ancora in corso, la Chora di Morgantina
ospitava la Mutatio Gelasium (Contrada
Belmontino Sottano) e i due tratti di
strada, citati nell’It. Prov. Ant. Aug. n. 88,
che la collegavano verso SW alla Mansio
Philosophianis (Contrada Sophiana nel
Comune di Mazzarino) e verso SE alla
Mansio Capitonianis (Località Frumentara nel Comune di Mineo) (Fig. 4).
Volendo ripercorrere il tracciato stradale in esame, utilizzando la toponomastica odierna, si parte dalla Mansio Capitonianis, ubicata in località Frumentara
in sinistra idrografica del F. dei Monaci
(poco a Nord della confluenza fra il F.
Caltagirone o dei Margi e il Torrente Catalfaro), e dopo un tratto di circa 0.8 km in
direzione SW, coincidente con la SS. 417,
al bivio per Ramacca si prende l’attuale
SP. 25i fino a raggiungere la suddetta città
che rappresenta la quota più elevata del
tracciato. Da Ramacca il tracciato, che
prosegue in discesa per 8.1 km, coincide
Figura 3. Mappa della Sicilia con ubicazione e toponomastica delle tappe lungo la strada Catania-Agrigento
riportate dagli It. Prov. Ant. Aug. nn. 88 (in blu) e 94 (in rosso) (da: Ortelius A.,1624 - modificata)
A fronte di una flebile memoria nella toponomastica, tuttavia, nel tempo si
sono persi gli esatti tracciati stradali e le
relative tappe ivi presenti. Ne consegue
l’odierna difficoltà nel ricostruirli anche
in seguito ai, sia pur limitati, mutamenti
naturali e antropici subiti dal territorio.
Il territorio di pertinenza (Chora)
della città greco-romana di Morgantina, sembra non aver subito significative
con l’attuale SP. 103 fino a C.da Margherito Sotto (Aidone) da dove, superato
l’incrocio con la SP. 182, si prende a destra
una strada di campagna, probabilmente
una vecchia “trazzera”, che risale di quota
in direzione NW per circa 3.1 km fino
all’incrocio con la SP. 73.
Da questo incrocio si prosegue sulla
SP. 73, per 1.4 km, fino ad un incrocio
dal quale, abbandonata la strada pro-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
42
Figura 4. Ubicazione della Mutatio Gelasium (C.da Belmontino Sottano), lungo il tratto di strada Mansio
Philosophianis-Mansio Capitonianis, all’interno della Chora di Morgantina con indicazione della destinazione
agricola dei terreni: a) bosco e pascolo; b) uliveti; c) frutteti ed orti; d) vigneti; e) seminativo; f ) eschatià (da: Bruno,
2017 - modificata)
vinciale si prosegue in direzione NW
su una strada di campagna e dopo circa
1.2 km si giunge alla Mutatio Gelasium,
in C.da Belmontino Sottano (Aidone),
che attualmente ricade sul margine meridionale di massimo invaso del Lago
artificiale Ogliastro-Don Sturzo. Dalla
Mutatio Gelasium, il tracciato prosegue
in salita su una strada di campagna e in
direzione Ovest e, superato il Fosso di
Feudonuovo, probabilmente con l’unico
ponte che doveva essere presente lungo
di esso, dopo 7.7 km si innesta sulla SS.
288; quindi, costeggiando la parte bassa
dell’altopiano sul quale vi sono i resti archeologici di Morgantina prosegue per
la Mansio Philosophianis.
CARATTERI
GEOMORFOLOGICI E
TECNICI DEL TRACCIATO
STRADALE DALLA
MANSIO CAPITONIANA
ALLA MUTATIO GELASIUM
Lungo il margine nord-occidentale
del Plateau Ibleo (Sicilia SE), l’Avanfossa Catania-Gela separa la porzione
affiorante dell’Avampaese Ibleo dalle
strutture tettoniche del fronte più avanzato della catena Maghrebide siciliana,
noto come “Gela Nappe o Falda di Gela”
(Bianchi et al., 1989; Butler et al., 1992).
Il tratto di strada in esame, che dalla
Mansio Capitonianis conduce alla Mutatio Gelasium, si sviluppa interamente
sui litotipi affioranti della Falda di Gela
(Fig. 5).
Nel dettaglio, partendo dalla Mansio
Capitonianis, i primi 15.4 km del percorso si snodano sulle unità alloctone
della Falda di Gela, costituite da argille
marnose del Miocene medio-superiore
e, localmente, da evaporiti (Calcare di
Base e gessi) e calcari marnosi (Trubi)
del Pliocene inferiore, deformate da
strutture a pieghe e faglie inverse. La
deformazione duttile e fragile (pieghe,
pieghe rovesciate, thrust e back thrusts)
postdata la deposizione dei Trubi del
Pliocene inferiore (Grasso et al. 1990;
Lickorish et al., 1999) ed ha una vergenza prevalente verso SE. Negli ultimi 5.4
km del percorso e fino alla Mutatio Gelasium, la strada si sviluppa sul substra-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
to cretaceo-miocenico costituito, quasi
esclusivamente, dalle argille brune del
Flysch Numidico e da limitati affioramenti di Argille Varicolori.
La morfologia del territorio su cui
insiste l’antico tracciato stradale è caratterizzata da aree pianeggianti e da
rilievi, dalla sommità arrotondata, le cui
altezze rientrano nella fascia altimetrica compresa tra i 50 e i 560 m s.l.m..
In generale, la strada taglia in direzione SE-NW un territorio caratterizzato da strutture tettoniche compressive
(Fig. 5). Le geometrie dei principali assi
di pieghe e delle strutture a thrust del
fronte di catena, orientati ENE-WSW,
hanno condizionato il modellamento
del paesaggio morfologico e lo sviluppo
dei principali bacini fluviali che insistono nell’area di studio (Fiumi Caltagirone e Pietrarossa) i cui reticoli idrografici
sono allungati in direzione parallela alle
strutture tettoniche.
Dal punto di vista plano-altimetrico
(Fig. 5), si tratta di un tracciato stradale
mediamente rettilineo caratterizzato da
limitate variazioni di direzione con quote
che dagli 81 m s.l.m. della Mansio Capitonianis arrivano fino ad un valore max.
di 297 m s.l.m. per poi ridiscendere, con
altalenanti perdite e guadagni di quota, fino ai 205 m s.l.m. della Mutatio Gelasium.
La strada, in quanto cursus publicus
e/o cursus clabularis, secondo quanto
prescritto dalla Legge delle XII Tavole
(Tito Livio Ab Urbe Condita. III) doveva
avere una larghezza media, variabile in
relazione alle condizioni locali, di circa
2.45 m nei rettilinei e 4.90 m nelle curve. Le pendenze medie, calcolate lungo
il tracciato ipotizzato, sono del 3.5% (in
salita) e del 2.6% (in discesa), mentre i
valori massimi sono del 9.9% (in salita)
e 9.5% (in discesa) e si riscontrano nei
primi 5.8 km a partire dalla Mansio Capitonianis, dove la strada deve superare il
dislivello di circa 300 m della collina “La
Montagna”, un’antica struttura tettonica
orientata ESE-WNW, costituita prevalentemente da livelli più competenti delle formazioni evaporitiche e dei Trubi.
INDAGINI IN SITO E IN
LABORATORIO SULLE
EVIDENZE MATERIALI
RISCONTRATE NELL’AREA
Al fine di verificare sul campo l’ipotesi di ubicazione della Mutatio Gelasium,
sono state condotte delle indagini in situ
durante le quali è stato eseguito un rilievo
aerofotogrammetrico con Aeromobile a
Pilotaggio Remoto e il campionamento
di reperti di terrecotte per l’esecuzione di
analisi mineralogico-petrografiche.
43
Figura 5. Carta geologica con indicazione del tracciato stradale, compreso fra la Mansiones Capitonianis e la Mutatio Gelasium, e relativo profilo altimetrico realizzato con
Google Earth Pro (da: Lentini e Carbone, 2014 - modificata)
bile individuare porzioni di murature in
blocchi, che non si ergono dal piano campagna, probabili resti archeologici degli
edifici della Mutatio Gelasium (Fig. 6).
Nello specifico, le evidenze riscontrate sembrano essere costituite dalla
parte basale di muri perimetrali e/o di
fondazione di edifici costituiti da diversi
vani affiancati, di forma prevalentemente rettangolare (Fig. 7).
IL RILIEVO AEREO CON
AEROMOBILE A PILOTAGGIO
REMOTO APR
Il rilievo aerofotogrammetrico, per
l’analisi dei resti archeologici di quella
che si suppone essere la Mutatio Gelasium, è stato strutturato mediante lo
sviluppo integrato del rilievo topografico di “target” o GCPs (Ground Control
Points), posti sul terreno secondo una
disposizione predeterminata dagli operatori. La definizione dei parametri di
volo dell’APR (Aeromobile a Pilotaggio
Remoto) e l’elaborazione della nuvola di
punti rilevata durante la fase di volo, secondo strisciate tra esse parallele, sono
stati definiti ed elaborati per mezzo di
software dedicati (Pix4d capture, Pix4d
mapper). Il drone utilizzato per il rilievo è un DJI Phantom 4, attrezzato con
una fotocamera, stabilizzata meccanicamente su 3 assi, la cui risoluzione è
di 12 MegaPixel (4000x3000), con una
lunghezza focale di 20 mm e angolo di
presa (FOV) di 94°. Il ricevitore GNSS,
utilizzato per il rilievo dei punti di appoggio (GCPs), è un Topcon HiperV a
LE
Figura 6. Fotorestituzione del rilievo aerofotogrammetrico con sovrapposizione della planimetria catastale (in
bianco) e delle probabili evidenze archeologiche (in rosso)
doppia frequenza (L1 + L2). Il numero
di fotogrammi scattati dall’aeromobile
è 212, l’altezza di volo 27.6 m, la risoluzione sulla superficie di campagna è di
1.01 cm/pix, la superficie dell’area rilevata è di 0.0187 km².
L’elaborazione dei dati rilevati ha
consentito di orientare l’intero blocco
fotogrammetrico e creare il modello digitale del terreno dal quale, grazie all’alta
risoluzione dell’immagine, è stato possi-
INDAGINI MINERALOGICHE E
PETROGRAFICHE
I reperti in terracotta sono stati
campionati nell’area circostante la diruta masseria “Belmontino Sottano” e
su un appezzamento di terreno agricolo che si estende per circa 2.5 ettari
a SSE di quest’ultima. Sui campioni,
costituiti da frammenti di suppellettili
di vario tipo (Fig. 8a) e da materiali da
costruzione: pavimenti, tegole, mattoni
(Fig. 8b), sono state effettuate le analisi
petrografiche in sezione sottile tramite
microscopio a luce tramessa polarizzata.
Lo schema descrittivo utilizzato è
quello proposto da Whitbread (1995).
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
44
Figura 7. a) Cantonale di muro perimetrale costituito da un paramento di pietre squadrate; b) Porzione di muro
perimetrale del tipo “a sacco”
Figura 8. Campioni di terracotta analizzati: a) Suppellettili; b) Materiali da costruzione
Figura 9. Microfoto a nicols incrociati di un frammento
di terracotta (ingrandimento 10x)
Tutti i campioni presentano simili caratteri petrografici (Fig. 9), con pasta di
fondo scarsamente micacea, omogenea
e con bassa-media attività ottica. I vuoti
sono prevalentemente irregolari di dimensioni fino a 0.5 mm; più rare sono
le vescicole.
Gli inclusi hanno una distribuzione granulometrica unimodale e sono
costituiti da prevalente quarzo, scarsi
feldspati e molto rari frammenti di roc-
ce vulcaniche basiche. Le osservazioni
effettuate, se confrontate con i dati di
numerosi centri di produzione della
Sicilia centro orientale (Barone et al.,
2005; Barone et al., 2012; Barone et al.,
2014), non presentano peculiarità tali
da consentire l’univoca individuazione
delle aree di produzione dei manufatti
studiati. Tuttavia, i caratteri petrografici
di queste terrecotte sono simili a quelli
dei materiali, di sicura produzione locale, utilizzati a Morgantina per realizzare varie tipologie di laterizi, condotte
idriche e vasellame di tipo domestico o
votivo (Atzori et al., 1995; Bruno, 2017).
Le analisi diffrattometriche a raggi
X condotte sulle polveri di tutti i campioni, tramite diffrattometro Siemens
D5000, hanno evidenziato la presenza
oltre che di quarzo, ematite e k-feldspato anche di fasi Ca-silicatiche di neoformazione (anortite, diopside e sporadica
gehlenite) che indicano temperature
di cottura dei manufatti prossime agli
850°C (Fig. 10).
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
CONCLUSIONI
In una recente monografia sulla città greco-romana di Morgantina sono
state avanzate le ipotesi che il tracciato
stradale, riportato nell’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88, che
con quattro tappe intermedie collegava
le antiche città di Catania e Agrigento,
passasse per la Chora di Morgantina e
che proprio nella sua periferia fosse ubicata la seconda delle tappe del tracciato,
la Mutatio Gelasium.
Al fine di trovare delle evidenze in
grado di avvalorare tali ipotesi, è stato
avviato un progetto di ricerca, ancora
in corso di svolgimento, che consiste
in ricostruzioni geoarcheologiche del
tracciato stradale, rilievi topografici mediante Aeromobile a Pilotaggio Remoto, prelievo di campioni di frammenti
di terrecotte, affioranti sul piano campagna, ed esecuzione di analisi mineralogico-petrografiche.
La ricostruzione del tracciato stradale compreso fra la Mansio Capitonianis
e la Mutatio Gelasium ha restituito una
distanza fra le due tappe di 20.8 km, confrontabile con i XIIII mpm (20.83 km)
tramandati da una lectio difficilior dell’It.
Prov. Ant. Aug. n. 88 (1-2 Capitonianibus
Gela siue fiuo p XIIII Sofianis mp XXI),
successivamente corretta e tralasciata. Le
caratteristiche litologiche dei terreni attraversati e quelle plano-altimetriche del
tracciato, che presenta quote comprese
fra 81 e 297 m s.l.m. e pendenze medie
del 3.5% (in salita), del 2.6% (in discesa)
e valori massimi del 9.9% (in salita) e
9.5% (in discesa), sono congruenti con
una strada di pianura-collina del tipo su
fondo naturale, con tracciato prevalentemente rettilineo e senza ponti, fatta
eccezione per quello che, forse, consentiva di guadare il Fosso di Feudonuovo
in C.da Belmontino Sottano.
Il rilevo aerofotogrammetrico ha
consentito di individuare, nell’area in cui
si ipotizza sorgesse la Mutatio Gelasium,
porzioni di murature in blocchi affioranti al livello del piano campagna. Nello
specifico, le evidenze riscontrate sembrano essere costituite dalla parte basale
di muri perimetrali e/o di fondazione di
edifici costituiti da diversi vani affiancati,
di forma prevalentemente rettangolare.
Nell’area in cui affiorano le murature e,
soprattutto, nel territorio adiacente, sono stati rinvenuti numerosi frammenti
di terracotta dei quali sono stati prelevati alcuni campioni per l’esecuzione
di analisi mineralogico-petrografiche. I
caratteri petrografici di queste terrecotte sono simili a quelli dei manufatti di
varia tipologia (laterizi, condotte idriche
45
Figura 10. Diffrattogramma a raggi X di polveri sottili dei campioni di terrecotte prelevati nell’area.
di età romana. Atti del Convegno “L’antica
Archaeological Sciences, vol. 39, pp. 11-22.
e vasellame di tipo domestico o votivo)
Petiliana nell’Itinerarium Antonini” Società
Barone
G.,
Mazzoleni
P.,
Aquilia
A.,
rinvenuti a Morgantina e che, secondo
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Barbera
G.
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The
Hellenistic
and
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vernizzi G., Lentini F., Longaretti Lickorish W.H., Grasso M., Butler
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Sicilia
orientale:
Profilo
geologise pur non corrispondesse alla Mutatio
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co
NebrodiIblei.
Memorie
della
Società
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der, Roma.
(CE.SI.T.A.), Ed. ALMA, Catania.
città di Catania e Agrigento.
RINGRAZIAMENTI
Si ringrazia la Soprintendenza BB.
CC. e AA. di Enna per aver concesso
l’esecuzione delle analisi chimico-petrografiche sulle terrecotte campionate in
situ e la relativa pubblicazione dei risultati. “Contributo realizzato con fondi
per la Ricerca di Ateneo-Piano per la
Ricerca 2016/2018”.
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
46
I porti, gli approdi
e l’antica rete stradale
nella zona iblea dal mare
alla terraferma
Giovanni Cassarino (G.C.)
Dirigente U.O. Archeologia della
Soprintendenza BB.CC.AA. di Ragusa
E-mail:
[email protected]
Saverio Scerra (S.S.)
Funzionario dir. archeologo della
Soprintendenza BB.CC.AA. di Ragusa
E-mail:
[email protected]
Harbours, landing places and ancient
road’networks in the Hyblaean area
from the sea to the mainland
Parole chiave: Area Iblea, approdi, antiche vie di comunicazione
Key words: hyblaean area, wharf places, ancient network of roads
RIASSUNTO
La Sicilia, ed in particolare i Monti
Iblei, rappresentano un importante nodo viario nella storia del Mediterraneo
essendo luogo centrale dei traffici fra il
ricco oriente e l’occidente, fra l’Africa e
l’Europa.
Gli incerti tragitti preistorici saranno
stati certamente condizionati dai traffici transmarini con l’area egea e sicuramente legati a direttrici costiere o a corsi
d’acqua da risalire; con l’arrivo dei Greci,
invece, Siracusa e Gela diventano i due
poli da collegare per terra e per mare.
Alla via costiera (Elorina) e a quella che
taglia le montagne del massiccio Ibleo
(Selinuntina) si affiancano piccoli ripari
costieri ancora oggi testimoniati da resti di bitte lungo la frastagliata costa. Le
insenature offrivano facili ripari durante
le tempeste ed erano i punti di partenza
per vie che risalendo i corsi d’acqua, a
quei tempi navigabili, permettevano le
comunicazioni trasversali sulla terrafer-
ma raggiungendo quelle aree che daranno origine ai grossi centri urbani di
Ragusa, Modica e Scicli e a diversi siti
scomparsi. È proprio questa rete primordiale che ancora oggi percorriamo che si
è trasformata nelle moderne carreggiate.
Le recenti scoperte archeologiche
forniscono un chiaro quadro fra queste
primordiali arterie e quelle che dopo la
riforma enfiteutica dei Conti Cabrera
alla fine del XIV secolo divennero le regie trazzere delimitate dai tradizionali
muri a secco iblei.
LE PECULIARITÀ
GEOLOGICHE E LA
PALEOVIABILITÀ
DELL’AREA
Nulla sappiamo, e non è certo rimasta traccia evidente, delle vie del
commercio preistorico, ma una cosa è
certa: quando crebbero, sia le necessità
alimentari, che l’industria della selce (e
poi dei metalli), si pose il problema di vie
Figura 1. Esempi di carraie Iblee. A: lungo la S.P.13 nei pressi di Ragusa; B: area del Plemmirio di Siracusa; C: muli
da trasporto (da Navarra G. 2016); D: carretti che trasportano la pietra asfaltica al caricatoio di Mazzarelli
(cartolina illustrata dei primi del novecento)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
di collegamento sicure e rapide per raggiungere i luoghi di scambio e il mare.
Il carro con slitte (stràule), a due o
a quattro ruote negli ultimi 5000 anni
è stato il protagonista dei trasporti via
terra: in tempi recenti ne ereditano le
funzionalità i tipici carretti siciliani che,
sino a cinquant’anni fa, si incontravano
nelle campagne siciliane. Ma i trasporti di mercanzie avvenivano anche per
mezzo di lunghe carovane di animali
da soma, guidate dal bordonaro, che
percorrevano sterrati, piste armentizie,
strade definite da cippi e miliari che, a
poco a poco si sono trasformate nella
rete stradale recente che quei percorsi
ancora oggi ricalca reiterandone, a volte,
le asperità (Fig. 1).
In fatto di viabilità antica gli Iblei,
nella Sicilia sud-orientale, hanno una
storia ancora tutta da raccontare. Caratterizzati da territori aspri, all’apparenza
altopianeggianti (una superficie di oltre
3000 Kmq con una quota superiore ai
500 mt s.l.m.), questi monti sono percorsi da valli fluviali parallele tra loro per
noti eventi tettonici e condizionano, ancor oggi, sia dal punto di vista archeologico, che geomorfologico, che idrografico gli sviluppi della rete stradale (Fig. 2).
Gli Iblei sono un massiccio carbonatico studiato, di recente, anche grazie alle ricerche di greggio e gas naturali di cui
è ricco il sottosuolo ragusano (Fig. 3).
Gli affioramenti mostrano una successione di varie alternanze di rocce
carbonatiche depositatesi dal Cretaceo
superiore all’attuale (in profondità si è
raggiunto il Trias attraversando sia rocce
carbonatiche, sia vulcaniche). Non mancano, in affioramento, gli episodi legati
alla crisi di salinità messiniana con gessi
e la relativa copertura di Trubi ai margini del plateau ibleo, ma anche episodi
vulcanici, sia cretaceo-eocenici nell’area
di Porto Palo di Capo Passero, che dal
Miocene sino al Plio-Pleistocene infe-
47
Figura 2. La provincia Iblea
Figura 3. A: La perforazione nel 1954 del pozzo Ragusa 1; B: Schema strutturale dei Monti Iblei (da Catalano & D’Argenio, 1982); C: Carta geologica degli iblei (Grasso
1997)
Figura 4. A: Altopiano calcareo nei pressi di Ragusa; B: Le vulcaniti pliopleistoceniche iblee a Buccheri e sullo
sfondo l’Etna
riore, nella parte centrale e settentrionale, precursori del vulcanismo della vicina
Etna (Fig. 4).
Le quote vanno dallo zero del mare Ionio (ad est) e del Canale di Sicilia
(a sud-sud ovest) ai 987 mt s.l.m. del
Monte Lauro, un vulcano (non l’unico) spento posto quasi al centro del
massiccio. Un tempo queste montagne
erano ricche di vegetazione, ma la forte deforestazione, iniziata dal periodo
greco, denudò l’altopiano ed i versanti;
la conseguenza fu un enorme trasporto
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
48
Figura 5. Schema stratigrafico strutturale dei M. Iblei (da Lentini F., Carbone S., Cugno G., Grasso M., Di Geronimo I., Scamarda G., Bommarito S., Iozzia S., La Rosa
N. & Sciuto F., 1984)
solido di brecce di versante e materiali
alluvionali che intasarono le foci.
La tettonica è stata sempre molto
attiva nell’area e se pensiamo che a 980
mt s.l.m., presso Buccheri, ritroviamo
affioramenti Tirreniani a Strombus coronatus (circa 100.000 anni fa), si può
intuire il notevole tasso di sollevamento.
Figura 6. Affioramenti cretacei e oligocenici di selce in provincia di Ragusa. A: liste di selce cretacea (Form. Amerillo)
presso Casasia; B: noduli di selce lungo il Fiume Amerillo; C: affioramento d selce oligocenica del Mb. Leonardo
della Form. Ragusa presso Monterosso Almo; D: L’intervallo stratigrafico di riferimento tratto da Grasso 1999
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
L’areale è fortemente sismico e sembra
superfluo ricordare che nel 1693 è stato registrato e descritto (Visini et alii,
2009) il più grosso evento sismico della
storia italiana, se non del Mediterraneo.
Un terremoto stimato di magnitudo
7,4 che rase al suolo una cinquantina di
abitati provocando circa 60.000 vittime
e che fece registrare sull’intera costa ionica dell’Isola uno tsunami con run-up
stimato di 8 metri. Questi movimenti tettonici e il costante innalzamento
delle quote orografiche rispetto al mare,
produssero un tasso di sollevamento tra
i più alti della Sicilia esponendo all’erosione gli affioramenti profondi, ma anche creando un reticolo fluviale con forti
pendenze e con allineamenti nord-est/
sud-ovest e nord-sud a seconda del periodo tettonico di riferimento (Fig. 5).
Attualmente il Riparo di Fontana
Nuova (Marina di Ragusa) sembra essere il sito antropizzato più antico degli
Iblei ragusani. Si tratta di un rifugio stagionale, risalente al Paleolitico superiore,
frequentato nelle stagione della caccia.
Qui, dal Barone Grimaldi, fu rinvenuta una ricca messe di strumentazione in
selce, oggi al Museo “P. Orsi” di Siracusa
(Bernabo’ Brea,1958; Tusa, 1992).
Ed è proprio la selce, di cui sono
ricchi gli Iblei, la merce di scambio più
ambita nella preistoria: nella parte più
antica degli affioramenti iblei (oltre al
vulcanismo di Porto Palo) si evidenzia,
49
Figura 7. Miniere di selce di Monte Tabuto. A: pianta (Orsi 1898) dell’unica attualmente visibile lungo la S.P. 9
(ingresso e interno in B e C)
nella zona occidentale e settentrionale
dell’altopiano, la porzione sommitale
del Cretaceo-eocene carbonatico e il
successivo oligocene, con abbondanti
affioramenti di selce. Si tratta della parte superiore della Formazione Amerillo
e di quella inferiore della Formazione
Ragusa (Membro Leonardo), che emergono fra Monterosso Almo e Licodia
Eubea (Fig. 6).
Procedendo verso meridione, si moltiplicano gli affioramenti di selci oligoceniche e, nelle unità litostratigrafiche,
ormai smantellate, non è difficile imbattersi in vene di selci multicolore lungo
Figura 8. Siti preistorici iblei e siciliani in cui è presente industria estrattiva e di lavorazione della selce (da Nicoletti 1990 e Bernabo Brea 1958 modificati) la stella nel
particolare degli Iblei rappresenta il distretto minerario di Monte Tabuto, Sallia Raci e Racello
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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i terrazzi alluvionali. In tutta la successione geologica dei litotipi più recenti
dell’Oligocene, sia nel settore occidentale, che orientale, non si rinvengono più
selci se non sporadicamente in alcune
coltri alluvionali. Al pari, lungo le valli
che si dipartono centripete dall’area del
Monte Lauro, per la natura vulcanica
dei luoghi, si rinvengono grossi ciottoli
basaltici da cui, in antico, si ricavavano
macine e asce largamente esportate.
Sin dalle epoche più antiche della
preistoria abbiamo una grande diffusione della selce grezza o lavorata e l’uomo ibleo farà dell’estrazione di questo
minerale una voce fondamentale della
sua economia con la conseguente creazione di veri e propri distretti minerari
la cui attività, studiata, per la prima volta, nell’Ottocento dai Baroni vizzinesi
Corrado e Ippolito Cafici, quasi unica
in Italia, è attestata dal neolitico all’età
del Rame e fino a tutto il Bronzo Antico (facies di Castelluccio) (Bernabo’
Brea,1958; Tusa, 1992).
La presenza di un distretto minerario fra Monte Tabuto e le Contrade
Sallia, Raci e Racello di ben sette miniere scoperte da Paolo Orsi nel 1897
di cui oggi si vedono solo due accessi
lungo la S.P. 9 (Fig. 7) e i vicini abitati
con stazione officina dove avvenivano le
lavorazioni determina un periodo di floridi commerci di quel minerale, grezzo
e lavorato.
Dalle ricche pianure costiere e da
quella ipparina, lungo direttrici parafluviali, cereali e altre derrate alimentari vengono scambiati con il materiale
grezzo o in parte lavorato proveniente
dalle aree di maggior presenza di selce.
Un utile baratto da cui sarà, di certo, derivato un potenziamento della viabilità
di interconnessione tra aree costiere e
distretti selciferi.
Tra queste stazioni officina, non solo quella notissima di Monte Tabuto,
in prossimità del fiume Ippari, ma lungo il Fiume Dirillo, nell’area di Piano
Arceri, in prossimità dell’attuale Acate,
si raccoglie, ancor oggi dal materasso
alluvionale, selce che doveva essere oggetto di accurate lavorazioni anche per
il fatto che, qui, sembra presentare una
buon numero di varianti per quanto
a sfumature di colore: si va, infatti, da
quelle di colore nero e marrone, a quelle
rosse e gialle (diaspri), alle agate, forse le
stesse decantate da filosofo greco Teofrasto, nel III sec. a.C., come uniche nel
Mediterraneo.
Centri di lavorazione e commercio
della selce dovevano trovarsi, sulla costa,
a settentrione di Camarina e a nord della
moderna Scoglitti (Zafaglione, Berdia)
e a Punta Braccetto-Branco Grande,
dove l’Orsi individuò una grande stazione officina (Fig. 8).
Anche lungo il Fiume Irminio ed i
suoi affluenti, la raccolta di placers doveva essere veramente intensa a giudicare
dalle stazioni officina sinora censite.
Vale appena la pena di ricordare che
il fiume Irminio, come documentato per
altri fiumi siciliani (Bruno, 2017), sino
all’epoca storica era navigabile almeno
sin sotto Ragusa Ibla; oggi lo vediamo intasato da sedimenti ed alluvioni
perché con il forte disboscamento (in
particolare di aree medio-fluviali come
quelle del Bennit e Silva Suri) iniziato
dai Greci e conclusosi nel Medioevo, le
brecce di versante ed i terreni da monte
sono stati dilavati andando a intasarne la
foce dove era un grande porto attestato
dalle fonti antiche. Dalle coste iblee l’isola di Malta dista meno di 100 Km e da
qui dovette dipartirsi una via transmarina della selce che forse, a partire dall’età
del rame, giunge anche in Grecia e nel
vicino oriente.
Tra le stazioni officina alla foce
dell’Irminio era certo importantissima
quella di Gravina-Maulli, dove la selce era estratta, lavorata ed esportata via
mare e dove, per altro, attraverso una
forma di paleoviabilità para-fluviale,
forse, confluiva la selce dall’alto corso
dell’Irminio ed in particolare quella proveniente dall’areale Giarratana-Monte
Casale-Ragusa. Qui erano grandi stazioni officina tra cui spiccano quella che
doveva trovarsi nell’area attorno al noto
ipogeo di Calaforno (Guzzardi, 1980)
(Fig. 9), o quella nei pressi delle grotte
San Filippo e del Gigante, poco a nord
di Ragusa.
Altre stazioni officina erano sicuramente più ad est, nel modicano e lungo
il torrente di Cava Ispica.
Se le “strade” della preistoria erano
poco più che sentieri, esse diventano
strade e itinerari in età greca, prima e
romana, poi (Orsi, 1907; Pace, 1958;
Paladino, 2007; Uggeri, 2006; Santagati,
2006; Bruno, 2017).
Nella cuspide sud-orientale della Sicilia, l’arteria più importante era quella
attraverso cui i Greci di Siracusa erano
penetrati nel massiccio degli Iblei per
commerciare e/o scontrarsi con i Siculi.
La via cosiddetta Selinuntina, attraverso
Akrai, Kasmenai ed Akrillai, dalle fonti
dell’Irminio, raggiungeva la foce del Ippari per poi, lungo la costa raggiungere
Gela e Akragas (Fig. 10).
Attraverso antichi percorsi parafluviali lungo l’Irminio, un diverticolo
della via Selinuntina, probabilmente
sarà giunto a Hybla Heraia e da qui, alla
foce dell’Irminio dove incrociava la via
Elorina che si sviluppava a sud lungo la
costa. Quest’ultima era stata aperta dai
Siracusani per raggiungere Eloro, la città che segnava il limite dell’espansione
di Siracusa verso sud: evitando, poi, la
zona del Pachynum, giungeva nella zona
oggi nota col nome di Porto Ulisse per
svolgersi, verso ovest, lungo la costa, raggiungendo la foce dell’Irminio, Camarina, la foce del Dirillo raccordandosi,
quindi, alla via Selinuntina che arrivava
a Gela e Akragas.
La rete stradale inaugurata dai Greci, ampiamente utilizzata dai Romani
e nel Medioevo è ancora oggi in uso e
Figura 9. Pianta ipogeo di Calaforno (da Guzzardi 1980)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
51
Figura 10. Itinerari iblei antichi. A: la via elorina; B: la via selinuntina (da Baglieri et alii 2002); C: estratto della Tabula Peutingeriana per il tratto Calvisiana-Hybla_Agris
(nel cerchietto il sito di Hyble l’odierna Ragusa); D: proposta di viabilità antica georeferenziata dal sito www.pelagios.org
costituisce in alcuni casi l’unica direttrice che unisce una località all’altra come,
lungo la costa, dove si attende ancora,
dagli anni Cinquanta, la sua trasformazione in rete autostradale.
G.C.
LA VIABILITÀ LUNGO
LA COSTA E VERSO
L’ENTROTERRA E GLI
ANTICHI APPRODI IN
TERRA IBLEA
Lo studio della costa e nel caso specifico di quella iblea, non può prescindere
da una serie di considerazioni sul rapporto uomo - mare - terra rimasto sostanzialmente immutato dalla preistoria fino
all’invenzione della macchina a vapore.
Fintanto ci si è mossi sul mare solo con
la forza del vento e dei remi, l’uomo ne
ha sfruttato le potenzialità naturali, d’approdo, di difesa e d’approvvigionamento,
sempre allo stesso modo: questa costa
che Polibio definisce “aspra e importuosa” (Polibio, Historiae, I, XXXVII), non
ha mai smesso di essere considerata, dalle
popolazioni iblee, una delle poche vie per
proiettarsi verso il mondo e per superare
una marginalità geografica e territoriale
resa ancora più aspra da vie terrestri da
sempre poco affidabili.
Le fonti antiche e gli antichi viaggiatori descrivono le terre comprese fra
il Dirillo e l’Irminio come una sorta di
paradiso, ricco di acque e dal clima mite, favorevole ad ogni tipo di colture e
all’allevamento da cui, le popolazioni
locali, traevano e traggono vita e sostentamento. A questo Eden le popolazioni
dell’antichità hanno sempre guardato e
le coste, da cui si dipartivano le rotte verso tutto il mondo conosciuto, sono state
battute, in tutte le epoche, da ogni tipo
di naviglio amico e non, e da esse sono
partiti per ogni dove, fino al secolo scorso, canapa, granaglie, vino e pietra pece
grezza e lavorata e beni di ogni sorta.
Agli estremi opposti di questo territorio, tra la foce del Dirillo e le aree
umide di Punta Castellazzo della Marza, stanno due tra i più importanti scali
dell’antichità: quello di Camarina –
Scoglitti e quello di Pozzallo.
Il sistema di approdi, ripari e ridotti,
spesso, troppo generosamente definiti
porti, in terra iblea, faceva riferimento
alla antica litoranea tra Agrigento e Siracusa segnata nell’Itinerarium per maritima loca che descrive, oltre a questa, altre
otto strade della Sicilia romana (Fig. 11).
Questa direttrice giungeva in terra
iblea alla foce del fiume Dirillo, dove, in
antico, era, di certo un approdo. Quindi, da un lato, proseguiva verso l’interno,
sulla riva sinistra del fiume, per andare a
ricongiungersi con l’antica via Selinuntina che da Siracusa, attraverso gli Iblei,
menava alla volta di Agrigento; dall’altro, lungo la costa, raggiungeva, attraverso la macchia mediterranea e i “macconi”
sabbiosi (l’apparato dunale) della plaga
Mesopotamium (contrada Alcerito), la
foce dell’Ippari (Uggeri, 1970; Uggeri,
2004; Uggeri, 2017b).
Qui, in età greca, era il porto canale
dell’antica Camarina di cui, Paolo Orsi, ai
primi del secolo scorso, durante i lavori di
bonifica dell’alveo del fiume Ippari, individuò moli e banchine (Pelagatti, 1966).
La vocazione mercantile della costa
camarinese, nell’ultimo trentennio, è
stata sottolineata non solo dalla scoperta
di porzioni del porto dell’antica colonia
greca, ma anche da una straordinaria
messe di ritrovamenti subacquei di varia cronologia (Di Stefano e Pelagatti,
1998; Di Stefano, 1998). Qui il mare,
tanto generoso è stato per gli archeologi,
quanto «color del vino» per gli antichi
naviganti che spesso vi fecero naufragio.
Un ufficiale e idrografo inglese, William Henry Smith che, tra il 1814 e il
1816, eseguiva un rilevo delle coste sicilia-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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Figura 11. La via costiera e gli approdi lungo l’ Itinerarium per maritima loca (da: Uggeri 1970)
ne, a proposito della baia di Cammarana,
ne sottolinea la pericolosità e ci informa
che la chiesetta dedicata alla Vergine, già
Tempio di Atena dell’antica colonia greca,
era colma di ex voto e di cime di vascelli, dedicati da chi si era salvato, nel tentativo di
approdare alla baia (Smith, 1824) E Paolo
Orsi, quasi un secolo dopo, tratteggiando
il panorama di queste plaghe, all’altezza
di Branco Grande (Punta Braccetto), descrive la spiaggia «… seminata di carcasse
di navi naufragate» (Orsi, 1910).
Sulle rovine dell’antica Camarina,
come testimoniato dal ritrovamento di
alcune monete di Manfredi, Federico il
Semplice e alcuni piatti della stessa epoca (Pelagatti, 1962), dovette stanziarsi, a
partire dal XII – XIII secolo, un modesto borgo medievale ricordato da Edrisi
(Amari-Schiapparelli, 1883) che faceva
capo alla chiesetta di cui alla testimonianza di Smith e menzionata da T. Fazello perché, ogni quindici Agosto, vi si
celebrava il culto della Vergine con grandi onori e pellegrinaggi (Fazello, 1574).
Sul margine occidentale del promontorio dell’antica Camarina era una torre,
purtroppo franata in mare nel 1915: la più
antica notizia che la riguarda risale al 1392
quando re Martino I concede a Bernardo
Cabrera «turrim Cammaranae cum foresta et territorio eius » (Sipione, 1966).
La sua ricostruzione ipotetica è possibile grazie ad un antico acquerello (Spannocchi, 1596; Camiliano, 1877) e non si
esclude si trattasse di una torre, medievale
nell’aspetto, di pianta quadrata, molto al-
ta, a quattro livelli costituiti, a partire dal
piano terra, da tre ambienti monocellulari
collegati da una scala a chiocciola, ricavata
in un angolo della spessa muratura e da un
attico terrazzato, con parapetto e feritoie.
Essa era posta a baluardo del Santuario
Mariano alle sue spalle, della pesca e dei
traffici commerciali che si svolgevano
lungo il tratto di costa immediatamente
sottostante dove convergevano, fino ai primi del secolo scorso, per essere esportati,
i prodotti agricoli (il vino soprattutto) e
dell’allevamento provenienti dall’intera Valle dell’Ippari (Mazzarella–Zanca,
1985; Monello, 1996; AA.VV., 2008).
Qui venne sfruttato in un primo tempo
l’antico porto canale della colonia greca e
forse, a causa del suo graduale insabbiamento, l’approdo si spostò a poco a poco
verso la moderna Scoglitti.
Come era naturale l’intensa attività
di questo scalo non sfuggì alle orde bar-
Figura 12. Carraie antiche lungo la S.P.13
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
baresche e piratesche che, sin dal XIV
secolo, affiggevano le coste del Mediterraneo e della Sicilia: alla metà circa del
XVI sec. la torre di Cammarana venne
attaccata da Uccialì (Uluç Alì) con scarsi risultati (Mazzarella-Zanca, 1985) e
il 21 Settembre del 1591 si registra un
incursione sulla spiaggia di Cammarana
lì dove, evidentemente, era una grande
vivacità commerciale grazie a uno scalo
assai attivo con alle spalle un ricchissimo
comprensorio (Bonaffini, 1991).
L’antica strada costiera nota all’Itinerarium, fuori dalle mura di Camarina,
si diramava in due direttrici: la prima, a
Rifriscolaro, si dirigeva verso la zona di
Passolato, dove erano delle antiche cave di
pietra, per poi risalire verso contrada Castiglione e l’altopiano ragusano, lungo un
percorso non distante dalle moderne arterie stradali, come dimostrerebbero alcune
carraie rinvenute lungo la S.P.13 (Fig. 12).
53
Figura 13. Gli approdi delle Caucane
La seconda, attraversato l’antico
Oanis, si volgeva verso l’interno, in direzione dell’areale dove sorge la moderna Santa Croce Camerina nella quale
sono importanti testimonianze di età
tardo-imperiale, bizantina e medievale
(Uggeri, 1970; Uggeri, 2004). Si allontanava, dunque, dalla costa e dal sistema
di approdi che gli antichi chiamavano
Caucanae Portus, definito da una serie
di baie che andavano dall’attuale Punta
Braccetto, alla foce del torrente Biddiemi, presso la moderna Casuzze (Scerra, 2015; Scerra, 2017; Uggeri, 2017)
(Fig. 13). Profondamente alterato dalla
modernità e da devastanti fenomeni
erosivi, questo tratto di costa, nell’antichità, comprendeva una serie di scali e
ridotti, tra i quali anche l’antico Kaúkana limén (Tolomeo, Geographia, III, 4-7)
che parrebbe coincidere con un refugium
Cymbe noto all’Itinerarium, cui si è soliti
ascrivere i ruderi di contrada Anticaglie,
ad est della moderna Punta Secca (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004).
In questi antichi approdi giungevano, via Malta, le rotte annonarie dall’Oriente e dalla Tripolitania (De Romanis,
2004): dai loro bassi fondali si vuole siano salpati, nel 533 d.C., alla volta di
Malta e del Nord – Africa i dromoni
bizantini schierati da Belisario, contro
i Vandali (Procopio, De Bello Vandalico,
I, 14), nonché, nell’XI secolo, sempre
alla volta di Malta, i drakkar della flotta
normanna di Ruggero per rintuzzare
gli ultimi focolai di resistenza musulmana (Amari-Schiapparelli, 1883). Ma
è l’antico scalo di Ras Caran-Rosacambra-Capo Scalambri (Punta Secca), nel
tratto in cui la costa iblea è meno distante dall’arcipelago maltese, tra due
insenature protette dallo scirocco e dal
maestrale, che parrebbe coincidere col
Kaúkana limén, a poche decine di metri
più ad ovest dai ruderi delle Anticaglie
(Pelagatti e Di Stefano, 1999; Pelagatti, 2005; Di Stefano, 2006; Di Stefano,
2014a; Di Stefano, 2014b).
Se la rada di ponente di quest’antico ancoraggio è ancora oggi facilmente
identificabile, presso l’odierna Punta
Secca, sia per la stessa conformazione
della costa, sia, soprattutto, per una serie di bitte d’ormeggio ai piedi di una
torre d’avvistamento della fine del XVI
secolo, rileggendo gli studiosi e i viaggiatori che, dal Fazello (Fazello, 1574),
sino alla fine del XIX secolo, giunsero,
a vario titolo, lungo questa costiera, è
possibile, oggi, tentare di ricostruire l’aspetto della baia di levante e l’immagine
dell’antico scalo.
Camillo Camilliani ricorda Rasarami o capo Scarami come una cala da
cui i vascelli partivano per Malta e lo
descrive come una punta sabbiosa, di
poco superiore all’acqua, che si prolun-
gava sul mare per sessanta canne fino a
un ampio scoglio (oggi comunemente
denominato “l’isola”) sì da creare due
baie che garantivano al naviglio riparo
da tutte le tempeste (Camiliano, 1877).
Filippo Geraci, nel suo portolano
del XVII secolo, conferma che dentro la
punta, detta secca, nella parte di levante
della costa denominata, ai suoi tempi,
“Antiguglia” era un ridosso protetto sia
dai venti di ponente che di maestrale
(Pedone, 1987).
Andrea Massa, nel 1709, a Capo
Scarami, vede la torre di guardia e, di
fronte ad essa, nota lo scoglio vicinissimo alla riva notato da Camilliani.
Da qui verso levante descrive le timpe
di Longobardo che si estendevano per
tre miglia con una punta (dove ricorda
‹‹…le atterrate vestigia di disfatto castello…››) e una cala omonime di cui la
punta stessa era argine e spalla, capace
di 25 galee. Quelle erano quindi seguite
da una seconda punta e una seconda cala
chiamate con lo stesso nome delle prime e quindi altre timpe di Longobardo
con la Cala e la punta Anghegef (oggi il
piccolo borgo marinaro di Casuzze) con
fonti di acqua dolce (Massa, 1709).
Nel 1790 Richard Colt Hoare, attratto dalle “Anticaglie” di Caucana e
del suo porto sulla spiaggia (‹‹…now
called Seno Longobardo.››), in una baia
vicina ‹‹…close to the Anticaglie…››, su
una nave mercantile, partiva alla volta di
Malta descrivendo la rotta che da Punta Secca menava all’isola dei Cavalieri
(Colt Hoare,1817).
William Henry Smyth, nel 1816, con
chiaro riferimento al ruolo svolto nella
portualità antica dai suoli alluvionali a
ridosso della costa, riteneva di recente
formazione la spiaggia tra Longobardo
e Capo Scalambra e che, lì, doveva esserci un bacino molto capace grazie alla
presenza di aree umide a ridosso della
costa (Smyth, 1989).
Così anche George Dennis, console
britannico in Sicilia e cultore di archeologia, tra gli anni Cinquanta e i primi
anni Sessanta del XIX secolo, in visita a
Punta Secca, asserisce che a est del promontorio del faro, nella baia di “Porto
Secco”, sia da identificare l’antico porto
di Caucana e suppone un mutamento
delle linee di costa e che una baia spaziosa esistesse tra Capo Scalambri e Punta
Longobardo (Dennis, 1864).
Julius Schubring non ha dubbi nel
collocare a Capo Scalambri-Punta Secca il porto di Caucana, ritenendo che il
mare, a ponente del faro (a 1,75 s.l.m.), si
addentrasse a formare una grande rada
delimitata dalla rocca del faro, a scirocco,
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
54
e da una bassa scogliera a pelo d’acqua,
a ponente (Schubring, 2000).
Eduard Freeman a Caucana con il
celebre Arthur Evans, suo genero, vede
in alcune baie a est di Scalambri, il sito
dell’omonimo porto (Freeman, 1891).
Paolo Orsi, ai primi del secolo scorso
annota nei suoi taccuini che, nello specchio di mare in cui si affacciano i resti
dei quartieri di Anticaglie, i pescatori,
in estate, ormeggiavano le loro imbarcazioni, approfittando dell’alta marea
(Pelagatti, 2006).
Ad est dell’ottocentesco faro di Punta
Secca, ancora tra XVI e XVIII secolo,
il mare doveva addentrarsi molto più di
quanto non faccia oggi (Dennis) creando
una rada piuttosto ampia, da dove, facilmente, ci si imbarcava per Malta (Colt
Hoare): quella rada era delimitata ad est
dalla c.d. Punta di Longobardo oggi affiorante a pelo d’acqua, ad ovest da una
lunga e bassa lingua di sabbia, un istmo,
che prolungava in mare il promontorio
(Camilliani) su cui si erge il moderno
faro. Quella lingua di terra, lunga 123m
circa (le sessanta canne di Camillo Camilliani), raggiungeva lo scoglio affiorante oggi chiamato “l’isola”: questo
stretto istmo, forse tra il XVIII e la fine
del XIX secolo, come a Portopalo di Capo Passero, fu letteralmente smantellato
dalle ancora violente correnti. Da allora
la costa ad est del faro è in avanzata erosione ed è notevolmente alterata rispetto
alle antiche descrizioni (Fig. 14).
Protetta dai venti occidentali e di
maestro, nella tarda antichità o forse,
anche un po’ prima, su di essa si affacciò
l’abitato di Caucana-Anticaglie, non a
caso, aggregatosi lì dove giungeva anche l’antica direttrice che dall’interno
menava sulla costa, volgendosi ad est
lungo le baie dell’antico scalo. Si tratta
dell’attuale Via delle Vignazze, transita
alle spalle degli edifici 15 e 23 di Anticaglia II e nel suo volgere verso capo
Scalambri, passa nei pressi dell’edificio
22, un edificio pubblico, con aula absidata e stretti ambienti quadrangolari e
allungati, non comunicanti tra loro che
si aprono su un grande cortile centrale
(Pelagatti e Di Stefano, 1999; Di Stefano 2014a), forse correlato alle attività
dell’antico porto-rifugio (un mercato o
horrea ?).
Funzionale e necessario alla navigazione da e verso Malta, dallo scalo, forse
stagionale, di Caucana-Ras Caran-Capo
Scalambri dovettero transitare merci e
uomini fino al medioevo e, tra il XVI e
il XVII secolo, in loro difesa e degli approdi minacciati dalla corsa ottomana, si
costruirono tre torri di guardia (di Capo
Scalambri, di Pietro o di Mezzo e di Vigliena) che costituirono una straordinaria
linea di fortificazioni costiere sopravvissuta, in quest’area, più fitta che da ogni altra parte della costa ragusana (Mazzarella
e Zanca, 1985; AA.VV., 2008).
Raggiunta l’area del santacrocese
l’antica via segnata nell’Itinerarium, si
dirigeva verso il torrente Biddiemi, ne
percorreva la riva sinistra e guadatolo, a
nord di Mazzarellj (Marina di Ragusa),
ridiscendendo, nei pressi della contrada
Castellana Vecchia, si raccordava con un
percorso non distante dall’attuale S.P. 89
e proseguiva verso il fiume Irminio che
si guadava al Passo di Palma (Uggeri,
1970; Uggeri, 2004).
Il porto canale alla foce di quel fiume
era noto agli antichi: a partire dal VI sec.
a.C. i Greci si stanziarono sulla sponda
sinistra di esso in contrada Maestro (Di
Stefano, 1987) e, in età araba, il porto era
Figura 14. Ricostruzione dell’approdo di Capo Scalambri
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
segnalato col nome Mahal (oggi Maulli). Risalendo il corso del fiume, forse
in buona parte navigabile, si giungeva a
Hybla ed ai fertili altipiani dell’interno
e, in età Normanna, Edrisi descrive l’attività internazionale dello scalo « dove
le navi entrano per lasciare e prendere
carichi » (Amari e Schiapparelli, 1883).
Il porto, successivamente, dovette
gradualmente insabbiarsi, a causa anche
del disboscamento del medio corso del
fiume cui sopra si faceva cenno (Solarino, 1885/1905): cadde in disuso e le
attività ad esso connesse furono demandate ai ridotti in prossimità della vicina
Mazzarellj, mentre rimaneva come punto sicuro di approvvigionamento idrico
per le navi che incrociavano quel tratto
di costa (Pedone, 1987).
Oggi, a ridosso della costa, delle antiche strutture portuali, non resta più nulla,
mentre rimane traccia della presenza degli
55
Figura 15. Pozzetti alla foce dell’Irminio
antichi abitati a loro servizio: tre pozzetti
circolari posti a 1m circa l’uno dall’altro,
del diametro di 40cm e profondi in media
30/40cm, sono stati rinvenuti su un tratto
di scogliera a destra della foce: il rinveni-
mento, presso di uno di essi, di una pietra
circolare col bordo inferiore sagomato a
guisa di coperchio a chiusura ermetica,
potrebbe far pensare a contenitori per la
conservazione di derrate (Fig. 15).
Figura 16. Le antiche fabbriche presso la spiaggia degli Americani
Sempre a destra della foce, lungo la
battigia, nella spiaggia comunemente
definita “degli Americani”, sono i resti
di almeno due antichi edifici (Fig. 16)
che per struttura e tecnica edilizia adoperata, potrebbero essere attribuiti ad un
abitato di età tardo-imperiale e bizantina e, forse, medievale in parte coevo
a quello di Caucana–Anticaglie (Pace,
1927; Bracchitta, 2012). Poco si conosce
della vita del borgo marinaro di Mazzarellj dopo la fine dell’attività del porto
alla foce dell’Irminio, e la sua storia di
importante scalo con ricco entroterra
agricolo si lega a quella della Torre di
Mazzarellj (Mazzarella e Zanca, 1985;
AA.VV., 2008).
Costruita tra il XVI e il XVII secolo, delle sue antiche strutture, oggi, resta
visibile solo la grande terrazza a scarpata
per le artiglierie che la riconduce, nell’aspetto generale, alla torre di Pozzallo.
Nota altresì alle cronache per storie di
concussione e di diserzione, era difesa
da un discreto numero di uomini e di
pezzi d’artiglieria e, ancora nel 1804, era
presidiata da quattro caporali e munita
di tre cannoni di ferro su cassa a ruote,
due mascoli per gli spari d’avviso, quattro schioppi e quattro spingarde con
cavalletti e « giochi d’arme ». Nel 1813
i suoi armamenti torre si ridussero a un
cannone di bronzo, quattro tromboni e
due cannoni di ferro, ancora oggi posti
sulla terrazza a scarpata.
Il primo dei due cannoni di ferro, lungo 2,35m, posto oggi su due plinti, arrugginito per la lunga esposizione agli agenti atmosferici, privo della gioia, sembra
cronologicamente il più antico dei due
pezzi superstiti: si data forse alla fine del
XVI sec. e sembrerebbe corrispondere a
quel cannone che, da notizie d’archivio,
s’apprende venisse appellato col nomignolo di «panza vecchia». Il secondo,
lungo 2,50m ca., collocato in verticale
all’interno di una nicchia all’estremità
orientale della balconata, è anch’esso privo della gioia e reca la culatta immersa
nel cemento: potrebbe essere datato tra la
metà del XVIII e gli inizi del XIX secolo.
Superato il fiume Irminio, attraverso le alture rocciose, di Piano Grande e
Timpe Rosse, la strada antica raggiungeva, nei pressi della costa, Donnalucata.
Il toponimo deriva dall’arabo «‘Ayn ʹal
ʹAwqât» (fonte delle ore) perché l’acqua, da una fonte sull’arenile in contrada Micenci, pare sgorgasse cinque volte
al dì, nell’ora delle preghiere (Amari e
Schiapparelli, 1883).
La necessità di interdire l’accesso alla
fonte ai barbareschi che in prossimità
di essa avevano agio d’approdare e fare
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
56
Figura 17. Fortezza denominata il “Palazzo”
l’acquata, fa sì che, nei suoi pressi, fosse
costruita una torre citata da Camilliani
che si suole identificare con un edificio
a 76m s.l.m. in Contrada Dammuso che,
però non pare corrispondere all’edificio
descritto «a un tiro di scopetta» dalla
fonte (Camiliano, 1877). Si tratta piuttosto di una struttura che si sviluppa in
larghezza con un prospetto di 17,90m
(Mazzarella e Zanca, 1985; AA.VV.,
2008) molto simile ad un’altra costruzione, inedita, “il Palazzo”, nella contrada omonima (Fig. 17).
Esso, che George Dennis, nel XIX
secolo, definì fortezza (Dennis, 1864),
sulla riva destra dell’Irminio, ne domina
da nord-ovest l’ultimo tratto, fino alla
foce e al Passo di Palma. Incombe da
buona altezza, a circa 2 Km chilometri di
distanza, sul tratto di costa denominato
Punta di Guardia Vecchia, (oggi spiaggia degli Americani), dove insistono i
ruderi degli antichi edifici tardoantichi
sopra ricordati.
L’edificio di contrada Palazzo, in
effetti, potrebbe coincidere con un fortilizio quattrocentesco, la fortezza del
Pantano della Castellana, che controllava la costa e, in sua prossimità, l’antica
via paralitoranea annotata nell’Itinera-
Figura 18. Posto di guardia in contrada Timpe Rosse
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
ium, che corrisponderebbe, più o meno,
al tracciato della S.P. 89.
Sulla sponda opposta del fiume Irminio, il Palazzo “avvistava” un punto di
guardia con ambienti ipogeici, escavato su uno sperone roccioso in località
Timpe Rosse (Fig. 18), da cui, verso est,
si intraguardava la “torre” in contrada
Dammuso (Mazzarella e Zanca, 1985;
AA.VV., 2008) e la torre campanaria del
Santuario della Madonna delle Milizie
(XI-XVIII secolo) da cui era possibile
controllare, sia un ampio tratto della
costa, sia i tracciati viarii verso Ragusa
e Modica lungo le opposte sponde del
fiume Irminio.
Questi edifici, posti, come si diceva,
lungo l’antico percorso viario sub e paracostiero, facevano parte di un più ampio
sistema integrato di avvistamento e difesa della costa, a protezione della viabilità
e del ricco entroterra agricolo: costituitosi forse tra il quattrocento e il seicento
con un sistema di forti posti ad una certa
altezza s.l.m., si correlava, a sua volta, con
altri punti di guardia e avvistamento alle
loro spalle segnalando, all’interno, eventuali pericoli imminenti comunicati dai
fani di guardia sulla costa.
L’antico itinerario, ad est di Donnalucata, seguendo la linea di costa, raggiungeva la foce del fiume di Modica
(Motykanos) dove si suole collocare l’antica statio marittima di Heraeum (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004) che, tuttavia, in
questa sede, si propone di identificare
presso la foce del fiume Irminio. Qui,
come si è visto, le testimonianze archeologiche rilevate giustificherebbero meglio la presenza di una statio: lo stesso,
di contro, non si può affermare per l’area
intorno alla foce del fiume di Modica
dove, non si rinviene traccia di antichità
alcuna e permane, soltanto nelle fonti,
la memoria di un antico caricatore medievale (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004).
Si aggiunga poi che, dal punto di vista
strettamente onomastico, il toponimo
Hereum meglio si spiegherebbe con
una sua diretta derivazione dall’epiclesi
Heraia con cui si soleva distinguere la
Hybla ragusana, naturalmente affacciata sul medio corso dell’Irminio, lungo il
quale, al tempo di Edrisi, risalivano alla
sua volta, dalla foce, genti e mercanzie
(Amari e Schiapparelli, 1883).
Atteso inoltre che l’attuale direttrice
paralitoranea, per grandi linee, sembra
coincidere con la viabilità antica, se accogliamo, in via del tutto ipotetica, l’ubicazione di alcuni abitati tardoantichi e
altomedievali sulla costa, ci accorgiamo
che le distanze tra l’uno e l’altro così come
indicate nell’Itinerarium non coincidono
57
Figura 19. Tabella di comparazione fra le distanze indicate nell’Itinerarium per maritima loca e le distanze reali
affatto con quelle reali. Tuttavia, ammettendo l’ipotesi di collocare l’Heraeum in
località Gravina-Maulli (Spiaggia “degli
Americani”) presso Marina di Ragusa,
dove è verificata la presenza dei ruderi
tardoantichi più volte citati, la distanza
tra Mesopotamio ed Hereo calcolata in
circa 35,8 km sembrerebbe coincidere
grossomodo con quella riportata nell’Itinerarium (Fig. 19).
Raggiunte le cale di Sampieri- Pisciotto, prima e di Punta Regilione, poi,
che offrono ampie possibilità di riparo
dai venti orientali la prima, occidentali,
la seconda, l’Itinerarium, senza discostarsi troppo dalla costa, tirava dritto
verso Pozzallo.
L’attività di questo scalo era forse già
intensa fra la tarda età bizantina e quella
araba, allorquando, controllava i traffici
per Malta e il nord Africa insieme al
porto di Rasacambra.
Edrisi lo chiama «Marsâ ʹad Darâmin»
(Porto dei Dromoni), a ricordo, forse, di
quelle antiche frequentazioni (Amari e
Figura 20. Carraie alla foce del torrente Busaidone
Schiapparelli, 1883). In effetti il toponimo arabo è probabile alluda al fatto che
nell’area, dove nel XIV secolo sorse la
residenza dei Cabrera, a partire almeno
dal VII/VIII sec. d.C., giungevano, forse, dall’entroterra ibleo (da Tabuna, presso Ragusa e da Castelluccio-Steppenosa
a nord-ovest di Scicli), ingenti quantità
di materiali bituminosi da cui ricavare la
pece, fondamentale, sia per calafatare le
imbarcazioni (il quartiere più antico di
Pozzallo, ancor oggi, è chiamato in dialetto « u scaru» dal greco eskarion – bacino
di alaggio), sia per alimentare il “fuoco
greco”, il rudimentale lanciafiamme di
cui erano dotati i dromoni bizantini sin
dal VII secolo d.C.
A partire, poi, dal XIV secolo, il caricatore è posto sotto la giurisdizione dei
Cabrera che ivi costruiscono un palazzo in stile tardo-gotico trasformato, nel
XVI secolo, in forte e munito di piattaforma per le artiglierie (Mazzarella
Zanca, 1985; Nobile, 1997; AA.VV.,
2008) a controllo dei traffici di grana-
glie e di ogni altro bene producesse la
Contea di Modica (Militello, 2001).
Nei secoli a seguire, la crescita esponenziale del Porto di Pozzallo, con quelli
di Scoglitti e Mazzarellj (Marina di Ragusa), condizionò la vita di altri scali circonvicini, più piccoli, controllati dal suo
portolano che furono relegati al ruolo di
piccoli approdi d’appoggio, nelle rotte
di piccolo e medio cabotaggio, lungo le
coste iblee: qui fino alla fine degli anni
Quaranta del secolo scorso continuarono, ininterrottamente, a convergere gli
interessi di tutto il Mediterraneo. Oltre
ai locali, soprattutto Pozzallesi e Sciclitani, padroni di barca Maltesi, Trapanesi (a Mazzarellj uno scalo è chiamato
appunto «Trapanese»), operarono nel
commercio con Malta e con altri centri
del Mediterraneo verso cui esportavano carrube, canapa, vino, riso, latticini,
cereali e bestiame e da cui importavano
legname, ferro, mobili, botti e ceramiche (Militello, 2001; Dormiente, 1991;
Dormiente, 2009).
Più ad est, lungo l’Itinerarium, un
antico abitato costiero doveva essere
nell’area di S. Maria del Focallo, dove,
alla destra della foce del torrente Busaidone, sulla falesia argillosa, ancora oggi,
si leggono le tracce di antiche carraie,
forse funzionali a un caricatore dove si
imbarcavano tegole la cui produzione è
attestata nella zona dal ricordo di antiche fornaci (Dormiente, 2009) e dai
toponimi (Fig. 20).
Pochi chilometri ancora più ad oriente è il Porto d’Ulisse o di Odyssa/Edyssa
che Giovanni Uggeri fa coincidere con
la statio detta di Apolline, in prossimità
della quale l’Itinerarium piegava verso
nord-est, alla volta di Helorum, evitando
il Pachynum (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004).
Questo tratto di costa, in realtà, afferisce ad un sistema di ampie baie che
oltre il Capo Pachino, passando per la
Punta delle Formiche, hanno offerto facile riparo al naviglio a vela di ogni epoca
che incrociava, seguendo rotte commerciali assai antiche, la pericolosa e importuosa costa meridionale della Sicilia.
Conosciuto altresì per la presenza di un Tempio di Apollo Lybistinus
(Macrobio, Saturnalia. 117, 24), fonti di
età ellenistica e romana vi individuano
toponimi legati al passaggio del Laertide in Sicilia: valgano per tutti la menzione ciceroniana di un Portus Odyssae
(Cicerone, Verrine, V, 34, 87), quella
Pliniana di un Ulixis Portus (Plinio Naturalis Historia, III, 8 [14], 89) e quella
di Licofrone che, nella sua Alessandra,
successivamente commentata da Tzetses, conferma l’esistenza, presso il capo
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
58
Pachino, di un promontorio di Ulisse
che avrebbe qui innalzato un tempio ad
Ecate e un cenotafio di Ecuba (Lycophr., Alessandra 1030 e sg.; Tzetzes In
Lycophr., Alessandra 1030). Tolomeo,
infine, riferisce di un’area portuale tra
il Pachynos e la foce del fiume Motycanos (Tolomeo, Geographia., III 4,3). In
questo tratto di mare è forse da rintracciare quel Marsa Al B.Walis – Marsa Abuli (NI) S citato da Edrisi e letto
dall’Amari in Porto d’Ulisse (Amari e
Schiapparelli, 1883), riletto in Marsa
Abuli (NI) S dall’Uggeri che interpreta
il secondo termine come corruzione di
Apollinis e nei pressi di Punta Castellazzo pone pertanto, il Portus Apollinis
da cui deriverebbe il nome di Apolline
dell’Itinerarium (Uggeri, 1970).
Sebbene ogni tentativo di identificazione dei luoghi citati dalle fonti ci appare essere assai arduo certo è che nella
vasta baia ad est della breve penisola di
Punta Castellazzo, protetta dei venti di
ponente e di libeccio, è con molta probabilità da rinvenire quello scalo ricordato dal Columba (Columba, 1906) e dal
Camilliani (Camiliano, 1877) e segnato
nella prima carta di delimitazione del
territorio comunale di Ispica del 1820
(Calvo, 1982). Quest’area, ancora oggi
reca il nome di Porto Ulisse, ma appare
difficile la sua idntificazione con il Portus
Odyssae di Cicerone così come, allo stato
della ricerca, appare molto difficile attribuirne i resti antichi alla statio di Apolline (Fig. 11) anche per la distanza dalla
statio di Hereo che va ben oltre le venti
miglia segnate nell’Itinerarium (Fig. 19)
L’abitato che si affacciava su
quell’ampia insenatura portuale, noto al
Fazello, al Massa, al Camiliano (Fazello,
1574; Massa, 1709; Camiliano, 1877),
e di cui oggi si sono trovate cospicue
tracce, doveva digradare dal culmine del
vasto promontorio calcarenitico alle sue
spalle, dove ancor oggi si erge una postazione radar della Guardia di Finanza,
fino al mare. Era limitato, ad ovest e ad
est, dai pantani che, almeno nel caso del
Pantano Longarini, forse, furono utilizzati come bacini interni a servizio delle
antiche strutture portuali.
All’imboccatura del Pantano Longarini, alla fine degli anni Sessanta fu
rinvenuto, scavato e, successivamente, recuperato, quel che restava di una
maestosa imbarcazione del VII secolo
d.C., forse una sorta di chiatta per la
navigazione in aree paludose, già parzialmente distrutta nel corso di alcuni
lavori di bonifica di quel bacino palustre,
attualmente conservata presso i magazzini della Soprintendenza di Siracusa
Figura 21. Punta Castellazzo: aree sottoposte ad indagine archeologica
e ancor oggi oggetto di approfonditi e
accurati studi (Trockmorton e Kapitän,
1968; Trockmorton e Trockmorton,
1973; Kampbell, 2007).
Per quanto poi all’abitato antico
(Fig. 21), già qualche anno orsono, si
ricordavano ruderi sulle pendici del promontorio e intense tracce archeologiche
a monte e a valle della S.P. 67, S. Maria
del Focallo – Pozzallo.
Nel corso di una serie scavi archeologici preventivi, mai editi, effettuati
dalla Soprintendenza di Siracusa nel
1985, in un appezzamento di terreno
subito a nord della ex regia trazzera e in
prossimità dell’istmo che collega la penisoletta del Castellazzo alla terraferma,
si rinvennero i resti di un’abitazione di
età bizantina e una fossa di lavorazione
da ricollegare a attività finalizzate alla
lavorazione del pescato.
Di quanto sopra, tuttavia, tutt’oggi
non si rinviene traccia, mentre nel cor-
so di una breve campagna di scavi, nel
1988, sulla penisoletta del Castellazzo,
furono identificate una ventina di sepolture a fossa di epoca tardoantica, di
forma, sia rettangolare, che circolare (Di
Stefano, 1993-1994), da riferire di sicuro al vicino abitato di cui costituivano
evidentemente il limite sud-occidentale,
come indicherebbe un’altra tomba, fortuitamente rinvenuta nel 2011, parzialmente violata da scavatori di frodo, nella
falesia che orla la spiaggia ad ovest della
penisola (Fig. 21).
In prossimità dell’istmo, sempre nel
corso delle indagini del 1988, vennero
in luce resti di focolari erosi dal mare
evidentemente molto simili a quelli rinvenuti tre anni prima, nel 1985, un po’
più a monte.
L’area, sottoposta a vincoli di natura archeologica e paesaggistica sin dal
1985, fra il 2004 e il 2011 è stata oggetto di un’ulteriore serie di restrizioni
Figura 22. Punta Castellazzo: resti di edifici antichi nella falesia in erosione
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
59
Figura 23. Punta Castellazzo: edificio tardoantico lungo il limite occidentale dell’abitato
vincolistiche ivi apposte per fermare il
dilagante abusivismo edilizio che, spesso, fuori controllo e in barba ad ogni
restrizione, non ha tenuto affatto conto
della presenza di resti archeologici nel
sottosuolo determinandone l’inevitabile
scomparsa.
Tracce di antiche muraglie sono visibili in sezione lungo la falesia immediatamente a est della penisoletta e stanno
inesorabilmente scivolando verso il mare a causa della erosione marina e della
pressione, al di sopra di essi, di moderne
strutture private che ne compromettono
seriamente la staticità (Fig. 22).
Tuttavia la disponibilità di alcuni
privati cittadini, proprietari di appezzamenti di terreno a ridosso della costa ad
ovest e ad est della breve penisola, ha
permesso di riportare alla luce resti di
strutture dell’antico abitato, sopravvissuti a un’intensa attività agricola che in
passato, come si dirà di seguito, con arature profonde che hanno anche intaccato i sedimi di base, hanno determinato,
in alcuni casi, la distruzione quasi totale
delle strutture antiche e il conseguente
spargimento sui soprassuoli di un numero straordinario di reperti in frammenti la cui quantità, di sovente, non ha
come immediato riscontro la presenza
di strutture nel sottosuolo.
In particolare in un’area libera da superfetazioni moderne e compresa sempre tra la S.P. 67 e la ex regia trazzera
che costeggia il mare ad ovest dell’istmo,
sono state svolte delle indagini di superficie con l’apporto della tecnologia
georadar che hanno identificato alcu-
ne anomalie che, al riscontro poi dello
scavo archeologico sistematico, si sono rivelate essere i resti di un edificio
orientato in senso approssimativamente
nord-sud di cui esistono frammenti di
spiccato murario a livello quasi di fondazione (4,30m in senso est-ovest e 12m
in senso nord-sud, con uno spessore di
60cm ca.) (Fig. 23) e due cavità poco
profonde, di forma sub-circolare e del
diametro variabile tra i 2,70 e i 3,00 m
di cui non si coglie l’esatta destinazione d’uso (focolari, fosse di lavorazione,
scassi moderni ?).
I saggi effettuati nella stessa area
hanno del resto appurato quanto sopra
asserito e cioè la totale assenza di altre
strutture murarie forse a causa di una
Figura 24. Punta Castellazzo: segni di profonde
arature
vera e propria devastazione causata dalle
attività agricole pregresse (Fig. 24) con
conseguente spargimento di frammenti
di suppellettile antica (frustuli di sigillate africane di tipo D, di tegole e di anfore) che consentono di datare l’abitato
nel pieno VII sec. d.C.
In un altro caso, in un appezzamento
di terreno libero da strutture moderne,
collocato ad est dell’istmo, all’incrocio
tra la S.P. 67 e la regia trazzera in direzione dell’istmo (Fig. 20, Area 2), due
sondaggi conoscitivi hanno rivelato la
presenza di creste di muri e cospicue
tracce di crolli di antiche abitazioni ancora in strato perché non intaccati dai
lavori agricoli data anche la profondità
della loro giacenza. Detti resti tra l’altro sono più all’interno rispetto a quelli
visibili in sezione lungo la falesia ad est
della Punta Castellazzo e permettono di
ipotizzare, in quest’area, una presenza
un po’ più fitta di strutture forse perché l’abitato, da questo lato, cominciava
a caratterizzarsi per una sua maggiore
densità in quanto afferiva direttamente
alla rada più importante dell’antico porto (Scerra, 2012).
S.S.
LA VIABILITÀ RECENTE
I Romani, fuori dai grandi centri urbani, in Sicilia, non costruirono strade
lastricate. Piuttosto si servirono di strade a fondo naturale, della larghezza di
3,5m, che si allargavano di 1m circa in
curva o in tornante, per favorire la rotazione dei carichi (Bruno, 2017). Dove il
materiale di cui era fatto il fondo stra-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
60
dale era dilavabile, lo si sistemava con
grossi ciottoli fluviali dando così forma
ad una “ciancata” (Fig. 24).
Per tutta l’età romana le principali direttrici collegavano le mansiones, distanti
l’una dall’altra 12-18 miglia, tra le quali
erano le mutationes, dove uomini e cavalcature potevano trovare ogni forma di ristoro e spesso nell’ambito di più ampi vici,
sul cui modello, in età araba, nacquero i
“fondaci” e da cui, a poco a poco, si svilupparono veri e propri abitati. La moderna
Ispica, ad esempio, il cui nome potrebbe
derivare dal greco eis ten peghen (verso la
fonte), era collocata lungo uno di questi
percorsi: ampie tracce di carraie sono attestate a sud del moderno abitato e il toponimo Spaccaforno, con cui fu conosciuta
fino al 1935, potrebbe essere derivato da
un Hyspicaefundus, con cui, forse già in età
romana, si indicava un vicus, successivamente trasformatosi in fondaco.
La viabilità minore, in terra iblea
(Fig. 25), rimase sostanzialmente immutata sin dalle epoche più remote e fu
quella delle migrazioni armentizie che
costeggiavano i fiumi e li attraversavano
in prossimità di guadi noti (come il passo di Bidis, sul Dirillo), atteso che nessuna costruzione di ponti è attestata, in
antico, nell’area iblea.
Si deve al Viceré Marco Antonio Colonna, nel 1584, l’istituzione del servizio
postale, che si svolgeva a cavallo nei tre
Valli (Demone, di Noto e di Mazara). Per
percorrere il Val di Mazara il corriere impiegava 18 giorni seguendo due possibili
itinerari: Palermo per Alcamo dove si optava per Trapani e Mazzara o passando
per Corleone per arrivare a Castelvatrano. Le giornate salivano a 24 per il Val
Demone con terreni molto accidentati e
20 per arrivare negli Iblei, a Noto, perché
si seguiva un itinerario interno che passava per Castrogiovanni, l’odierna Enna.
Naturalmente in inverno i tempi si dilatavano per scarsa qualità della viabilità
(Sciorto S. 2013). I tempi di percorrenza,
ovviamente si dilatavano d’inverno, allorquando, la pioggia e il fango rallentavano
la marcia dei cavalli (Fig. 26).
Nel 1788 la Consulta del Maestro
Segreto, Marchese Francesco Buglio,
traccia finalmente una rete stradale più
moderna: le Regie Trazzere. La “trazzera” è una via pubblica percorsa da
armenti, di diretta derivazione dalla
“tractoria” romana, più comunemente
detta tratturo (Fig. 27). Ripercorrendo in parte proprio le direttrici di età
greco-romana, le trazzere formarono un
sistema viario, controllato dal Demanio
Regio, di ben 1400 km, alla base della
moderna rete stradale siciliana che per-
Figura 25. Viabilità storica (da Cassini G.M. 1790) in cui si confermano anche in tempi recenti gli itinerari
antonino ed elorino con la variante interna passante per l’odierna Ragusa
Figura 26. Viabilità originaria storicizzata sui percorsi attuali nell’area fra Camarina, Castiglione e Hybla (elaborazione su Google maps)
correva l’Isola, in lungo ed in largo, con
carreggiate larghe fino a 37,68m e che,
nel 1836, fu aggiornato con la costruzione di una serie di ponti.
A metà del XIX secolo della nostra era, la scoperta dell’uso alternativo
della pietra asfaltica e la conseguente
produzione di asfalti, bitumi e derivati,
proprio a Ragusa, in contrada Tabuna,
toglie, finalmente, dalle strade la polvere
in estate ed i fossi ed il fango in inverno,
migliorandone la percorribilità.
G.C.
CONCLUSIONI
Certamente dunque, i corsi del Dirillo e dell’Irminio, hanno costituito,
sin dai primordi, le direttrici principali
lungo le quali si dipana la rete stradale
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
degli Iblei Ragusani. L’Ippari, il Fiume
di Santa Croce, il Biddiemi, la fiumara di
Modica (Motykanos), il Busaidone, con i
primi hanno, a loro volta, contribuito e
contribuiscono ad agevolare le comunicazioni tra la costa e l’entroterra. Il sistema di valli, convalli e “cave” che lega gli
uni agli altri corsi d’acqua crea una viabilità apparentemente secondaria, ma che
non è affatto trascurabile: con percorsi a
mezza costa o di fondo valle, determina
una fitta maglia di vie di comunicazione
certamente di interscambio fino all’alto
e basso medioevo, non sempre ripercorsa
dalle regie trazzere, ma di contro, oggi,
ripresa, spesso, dalla moderna viabilità
provinciale e comunale.
Ovviamente lungo questi sistemi viari
si sono mossi uomini e merci: nella prei-
61
Figura 27. Viabilità ottocentesca e rete trazzerale. A: La viabilità ed i limiti della Contea di Modica cartografate da Delisde (1779); B: Stralcio da una Carta degli itinerari
della Sicilia disegnata dal Reale Officio Topografico di Napoli (1823); C: Sistema viario borbonico da Perez (1861); D: Rete trazzerale al 1929; E: Pianta topografica con
viabilità carrozzabile in progetto o già realizzate nella Provincia di Siracusa al 1836 (da Archivio di Stato Ragusa)
storia e nell’età del bronzo Antico (facies
di Castelluccio) in particolare, erano messi
in stretta relazione tra loro siti d’altura,
specializzati nelle attività di estrazione
e lavorazione della selce (quelli dell’area
di Monterosso-Giarratana e di Monte
Tabuto), con quelli degli altipiani, più a
meridione, (ad esempio quello di contrada Scifazzo-Cimillà a sud di Ragusa),
più vocati all’allevamento, alla pastorizia, alla macellazione e lavorazione delle carni, alla produzione casearia e alle
attività agricole. Ovviamente il sistema
viario era funzionale più che ai sistemi
di scambio tra una comunità e l’altra
(circostanza che allo stato della ricerca
non è appurabile) al grande network della
selce: dai siti costieri di età castellucciana
(Zafaglione, Branco Grande, GravinaMaulli etc.), la selce raggiungeva remote sedi trasmarine anche in area Egea
e microasiatica, rendendo giustizia alle
popolazioni di quell’epoca, troppo spesso considerate di terra, più che avvezze
alla navigazione e all’interscambio come
quelle della successiva età del bronzo
Medio (facies di Thapsos) che con le prime
potrebbero porsi, invece, in rapporto di
assoluta continuità come dimostrerebbe
il rinvenimento dell’insediamento costiero thapsiano presso contrada Bruca
(Cava d’Aliga).
I primi approcci dei Greci con gli
Iblei ragusani furono di tipo conoscitivo in un primo momento e, insediativo,
in un momento successivo. Mercanti ellenofoni già dall’VIII-VII secolo a.C.,
percorrendo le antiche direttrici parafluviali dalle fonti e/o dalla foci, dovettero approcciare i Siculi di Motyka di
Hybla e della Cava d’Ispica con finalità
commerciali, forse legate all’arte autoctona della metallurgia, come dimostrerebbero i ricchi corredi della necropoli
indigena di Via Polara a Modica con
materiali greci (coppe di tipo Thapsos
e Aetos 666) e le kotylai protocorinzie
dalla Forza di Ispica. Lungo la costa tra
Eloro e Pachino e da qui verso l’Irminio
e la foce del Dirillo, ai bordi della direttrice più tarda tràdita dallo Itinerarium
per maritima loca, si fermarono piccole
comunità di Greci che intercettavano
la rotta mercantile che dall’Africa, attraverso l’odierna Tunisia, giungeva in
Sicilia. Da alcune di queste comunità
precoloniali sorsero più tardi, Selinunte,
Agrigento, Gela e Camarina.
L’economia della Sicilia romana, come è noto, segnò gradualmente la fine di
alcune poleis siceliote più piccole, quali
Camarina, ma, negli Iblei ragusani, favorì, di contro, il rapporto tra la costa e
l’entroterra in ragione, soprattutto tra il
II e il III sec. d.C., di due fattori legati
ai rifornimenti granari di Roma: da un
lato lo sfruttamento intensivo dei campi (produzione cerealicola, olivicola e
vitivinicola da parte di élites locali che
ebbero una posizione non da poco nei
rifornimenti annonari); dall’altro, soprattutto in età Severiana, il ruolo svolto
dai porti e dagli ancoraggi lungo la costa
meridionale della Sicilia, e di quelli lungo la costa iblea in particolare, di testa di
ponte tra Roma e l’Africa nei commerci
di grano, olio e vino.
Nel IV secolo d.C. a Mesopotamium,
a Caucana, all’Heraeum, a Porto Ulisse,
pervengono le rotte annonarie provenienti dall’Egitto alla volta di Roma
che viene raggiunta anche attraverso la
più antica rete viaria dell’entroterra che,
dall’età bizantina alla tarda antichità,
metterà in collegamento ampie massae,
villae, fattorie e vici alla cui centralità
corrisponde la decadenza dei grandi
centri urbani.
In questa precisa fase storica crea
qualche perplessità, come abbiamo visto, l’identificazione di alcuni siti paracostieri sulla base dell’Itinerarium per
maritima loca proposta da Giovanni
Uggeri. Pochi i dati a nostra disposizione per l’individuazione, in contrada
Alcerito, della plaga Mesopotamium che
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
62
forse, già tra il I e il II secolo d.C., ricadeva nei fondi di un Albius: questo nome appare qui su dei laterizi con bollo
Albii scoperti altresì, più a nord, nella
Villa di Cozzo Cicirello, sulla sponda
sinistra del Dirillo. Il recente rinvenimento di una fornace per laterizi e di,
una tegola con lo stesso bollo nello scavo di un impianto termale in contrada
Cifali, in agro di Chiaramonte Gulfi, in
prossimità delle fonti dell’Ippari, lungo
la direttrice che collegava la costa camarinese, con l’area pedemontana e la
via Selinuntina, induce a pensare che i
fondi di Albio avessero una vastissima
estensione tra il Dirillo e l’Ippari e che
l’appellativo Mesopotamium sia da attribuire a un latifondo, piuttosto che a una
singola statio (Fig. 11).
Lo stesso dicasi per la statio di Hereo
[sive Cymbe]. Acclarato dallo stesso Uggeri che, ad occidente dell’Hereo, Cymbe
potrebbe indicare i ruderi che afferiscono
ad uno degli scali del porto di Caucana, la
duplice toponimia riferita dall’Itinerarium
potrebbe essere indicativa dell’estensione
in larghezza di un ennesimo latifondo che
verosimilmente andava dall’area a ridosso
del Caucanae Portus alla foce dell’Irminio
dove abbiamo ritenuto più verisimile
collocare lo scalo marittimo di Heraeum
anche sulla base di un ricalcolo delle distanze da Mesopotamium.
Altrettanto improbabile, come abbiamo visto, l’identificazione della
statio di Apolline nei resti dell’abitato
tardoantico di porto Ulisse sebbene esso, dalla tarda età imperiale fino al medioevo, grazie alla sua ampia insenatura
portuale, potrebbe avere avuto un ruolo
non indifferente nelle rotte commerciali
lungo la costa meridionale della Sicilia.
Allo stato delle ricerche, purtroppo
alquanto lacunose, non è possibile stabilire l’estensione di quell’antico abitato,
sia che fosse un centro urbano, sia che
fosse un chorion come Caucana. È molto
probabile, tuttavia, che esso si concentrasse attorno alla grande rada di Porto
Ulisse, protetta dai forti venti occidentali e sulle pendici del basso promontorio che verso di essa digrada.
A Caucana rimanda anche l’unico
edificio qui scavato e, stando ai reperti
ceramici rinvenutivi, pare che le fasi di
massimo sviluppo dell’abitato possano
fissarsi nel VII sec. d.C.
Non è possibile attualmente stabilire
una cronologia per le ultime fasi di vita
dell’abitato di Porto Ulisse che, nel medioevo, come attestato da Edrisi (Amari
e Schiapparelli, 1883) e dal rinvenimento di frustuli ceramici (Grassia, 2004),
sembrerebbe avere avuto una certa con-
tinuità di vita e una sua funzionalità
nelle rotte commerciali per e da Malta
e più in generale tra occidente e oriente.
Sulla base delle distanze segnate
nell’Itinerarium, la statio di Apolline, o
forse il latifondo omonimo, potrebbero identificarsi nell’area della moderna
Pozzallo (o del Focallo), a venti miglia
circa dall’Hereo, come segnato nell’Itinerarium: qui è più probabile che la via
costiera piegasse verso l’interno alla volta
di Ispica e dell’imboccatura della Cava
per volgersi poi verso le plaghe Elorine,
sulle rive del Tellaro dove è nota l’omonima villa romana di contrada Caddeddi.
Non è da escludere, tuttavia, un percorso
di età romana che includesse la cuspide
sud-orientale dell’Isola attraversando le
paludi paralitoranee con imbarcazionichiatta, come testimonierebbe il relitto
di Pantano Longarini di cui si è detto.
Tra il XVI e il XVII commerci trasmarini sempre più a largo raggio e l’imperversare dei barbareschi imposero la
difesa della costa iblea e dei feraci territori dell’entroterra con un sistema di
torri dotate di milizie e artiglierie.
La fine di quei commerci, negli anni
immediatamente successivi il Secondo
Conflitto Mondiale, è certamente una
delle concause per cui l’antichissima
maglia di arterie stradali, grandi e piccole degli Iblei ragusani che, in ultimo, aveva reso assai agevole e veloce lo
spostamento delle truppe alleate verso
l’entroterra, dopo il 10 luglio 1943, non
subisse ulteriori trasformazioni e ammodernamenti per giungere a noi in
tutto il suo obsolescente fascino.
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
64
La Via Campana-Portuense
e le cavità sotterranee
The Via Campana Portuense and the
underground cavities
Giancarlo Ciotoli
CNR – IGAG
Stefania Nisio
ISPRA – Dipartimento per il Servizio
Geologico d’Italia
Email di riferimento:
[email protected]
Parole chiave: Via Campana, Via Portuense, Cimitero di San Felice, Cavità sotterranee,
Roma
Key words: Campana street, Portuense street, St. Felix cemetery, underground
cavities, Rome
RIASSUNTO
La Via Campana - Portuense ha
costituito un ruolo di collegamento
fondamentale, sin dall’età protostorica,
tra l’area romana e la costa tirrenica. Il
tracciato della antica via Campana si
snodava nella porzione sud-occidentale
della città di Roma e attraversava la
zona delle saline, il Campus Salinarum
Romanarum, parallela al corso del fiume
Tevere.
La sua realizzazione risale alla metà
del IV sec. a.C., quando la zona delle
grandi saline etrusche passò sotto il controllo di Roma.
In prossimità della foce del Tevere,
nel VIII sec. a.C., sorgevano le saline
alimentate dallo stagno salmastro di
Maccarese. Questa zona fu per lungo
tempo contesa per le risorse di sale tra
romani ed etruschi e passò sotto il dominio di Roma dopo la conquista di Veio
nel 396 a.C.
Il tracciato urbano della Via Campana viene riportato nella Forma Urbis
di Lanciani, tuttavia, permangono, ancora molti dubbi sul punto d’inizio della
strada, che doveva coincidere con il Foro Boario, nonché sull’esatto andamento
nel tratto extraurbano. La strada ,durante l’età imperiale, fu divisa in due rami:
il nome di Via Portuense rimase all’asse
viario più interno. Con il tempo l’area
divenne un luogo importante per la coltivazione in sotterraneo di piroclastiti e
ghiaie; oggi permangono molti ipogei
ancora nascosti sotto il tessuto urbano.
ABSTRACT
The Via Campana - Portuense
has been the main route of connection between the Roman area and the
Tyrrhenian coast since the protohistoric
age. The ancient Via Campana passed
through the south-western portion of
the city of Rome and crossed the salt zone of the Campus Salinarum Romanarum, parallel to the course of the Tiber
river. Its construction dates back to the
mid-4th century BC, when the area of
the large Etruscan saltworks was under
the control of Rome. In the 8th century
B.C. near the outlet of the Tiber river
the salt pans fed by the brackish pond
of Maccarese occurs. For long time, this
area with salt resources was contended
between Romans and Etruscans and came under the dominion of Rome after
the conquest of Veio in 396 BC .
The urban layout of the Via Campana is reported in Lanciani’s Forma Urbis, however, there are still many doubts
about the starting point of the road,
which was to coincide with the Foro
Boario, as well as the exact course in the
extra-urban section. The road was divided into two branches, the name of Via
Portuense remained on the innermost
road axis. The area became an important site for the underground extraction
of pyroclastic stones and gravels. Today
many hypogea are still hidden under the
urban fabric.
La parte iniziale del percorso delle
due strade probabilmente coincideva,
seguendo un tracciato entro l’urbe lungo la riva destra del Tevere; tra il I e il
II miglio, in corrispondenza della zona
di Pozzo Pantaleo (Fig. 2), le strade si
dividevano: la via Portuense seguiva un
tracciato più interno, attraverso le colline, la via Campana, invece, proseguiva
lungo la valle del Tevere (Fig. 3).
In prossimità di tale bivio è documentata (Eufrosinio de la Volpaia,
1548) la presenza di una piccola cappella la cui identificazione lascia molti
dubbi, ma alcuni pensano possa essere
ricondotta alla piccola chiesa di S. Pantaleo fuori Porta Portese, oggi del tutto
scomparsa (Figg. 1 e 3).
All’altezza dell’XI miglio, presso
Ponte Galeria, le due strade si ricongiungevano per proseguire sino alla città
di Porto (Nibby; 1849, 1927; Mazzolari
1806).
LA VIA CAMPANA E
Parte dei basolati antichi delle strade
IL BIVIO VERSO LA
sono stati rinvenuti presso Pozzo PantaPORTUENSE
leo (Fig. 4), via Carcani, nell’area della
La Via Campana –Portuense ha co- ex Vigna Costa, nei pressi della nuova
stituito un’importante via di comunica- stazione Trastevere.
zione durante il periodo etrusco e quello
romano. Essa, dapprima, costeggiando il
fiume Tevere, collegava Roma alle saline
di Maccarese in seguito collegò l’Urbe
con l’antica città di Porto (Fiumicino).
La Via, in particolare, partendo dal
centro di Roma portava ad alcuni importanti luoghi di culto tra cui il santuario
di Fons Fortuna, posto in prossimità del
I miglio, il Pozzo Pantaleo in prossimità
del II miglio, il tempio degli Arvali in
prossimità del V- VI miglio (Pellegrini;
1865; Scaglia, 1911; Scheid, 1976).
La via Campana mantenne il suo
percorso, presso la riva destra del Tevere,
per secoli, sino alla prima età imperiale, quando fu realizzato dall’imperatore
Claudio il nuovo porto alla foce del fiume Tevere.
Fu costruito in quegli anni un nuovo
asse viario, la via Portuensis, che garanti- Figura 1. Stralcio della carta di Eufrosino de la Volpaia
va un più rapido e agevole collegamento 1548, è visibile il bivio presso l’area di pozzo Pantaleo
via terra con il nuovo porto (Fig. 1).
Campano e la cappella oggi scomparsa di san Pantaleo
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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Figura 2. La Via Portuense gli orti di Cesare e il bivio presso Pozzo Pantaleo campano
Figura 3. Antica cartografia che mette in evidenza il bivio della presso il secondo miglio, le aree paludose le aree
di cava
Figura 4. Il bivio di pozzo Pantaleo e l’area archeologica come si presenta in epoca moderna
LE CAVE DI TUFO
Lungo il percorso della Via Campana - Portuense erano diffuse sin dall’epoca romana le attività di estrazione di
materiale da costruzione, per la coltivazione del tufo lionato (nella variante
tufo di Monteverde), che interessavano
una vasta area intorno all’asse viario,
dalle propaggini più meridionali delle
colline di Monteverde sino alla Magliana. Il tufo di Monteverde, per le sue
qualità meccaniche e per la facilità di
lavorazione, fu ampiamente utilizzato
come materiale da costruzione nel corso
dei secoli e fu coltivato prevalentemente
in sotterraneo. In misura minore, sono
attestate anche cave di ghiaia che veniva estratta in sotterraneo in prossimità
delle colline della riva destra del Tevere
(Via delle Vigne).
Nelle cave sotterranee si svilupparono in seguito vaste aree di necropoli,
che segneranno per secoli la destinazione funeraria del territorio portuense
(Fig.5).
Fu riportato alla luce, in particolare,
un grande complesso necropolare, ricavato in un’area precedentemente destinata ad attività di cava a giorno, risalente
alla metà del II secolo a.C. Inoltre tra il
2001 e il 2010, in occasione di alcune
indagini in via Portuense, al civico 319,
gli scavi per la posa di cavi a fibre ottiche
hanno permesso di documentare i resti
di una grande cava a cielo aperto.
Nei pressi di Via Belluzzo e di Via
di Vigna Pia sono stati rinvenuti edifici funerari che documentano l’uso
diffuso, a partire dalla metà I d.C., di
ricavare necropoli in tali aree estrattive.
L’estrazione del tufo in queste cave continuò probabilmente nel corso di tutta
l’età repubblicana, mentre l’abbandono
potrebbe essere avvenuto a partire dal
I secolo d.C. quando fu realizzato tale
complesso funerario, di cui si attestano
anche un sepolcro collettivo a colombario e una tomba familiare.
I segni di attività di cava in sotterraneo sono molti e documentati anche
presso via Ricci Curbastro e presso
Largo Ruspoli, dove in seguito ai lavori per la costruzione di un parcheggio
interrato è emersa una vasta area di gallerie. La presenza di cavità sotterranee
in questa zona è confermata anche dal
toponimo dell’attuale via dei Grottoni
dove le gallerie sono percorribili per un
certo tratto.
L’attività estrattiva in sotterraneo
sembra proseguire lungo la via Via
Campana - Portuense, anche se in maniera discontinua, durante l’età post
antica, per poi riprendere in maniera
assidua durante l’età moderna. A questa
fase più recente è riferibile l’uso delle
gallerie di cava come luoghi di ricovero
e probabilmente di rifugio durante la
seconda guerra mondiale.
Presso l’ospedale Forlanini è stato
individuato un ampio sistema di cave sotterranee ancora attive tra la fine
dell’800 e gli inizi del ‘900. Le gallerie
di cava si estendono per un’area di circa
100 mq e si attestano in parte sotto il
livello di falda, dando origine a un lago
sotterraneo (Bersani et al. 2018).
Gran parte del tufo utilizzato per la
costruzione degli edifici dell’ospedale,
venne estratto proprio da queste cave,
sicuramente già conosciute e sfruttate
sin dall’antichità.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
66
Figura 5. Resti archeologici presso la Via Portuense. Area archeologica Viale di Vigna Pia civico 33
Infine, più avanti in direzione Fiumicino lungo l’asse viario della Via Campana, presso Via Giannetto Valli, Via
delle Vigne e in località Pian due Torri,
è stata documentata la presenza di cave
di ghiaia. I segni di questa attività estrattiva sono visibili anche dalle foto aeree
di inizio ‘900 che documentano questo
settore del suburbio sud-occidentale
prima della grande urbanizzazione.
Le cavità sotterranee abbandonate e dimenticate creano oggi problemi
di stabilità al tessuto urbano (Bisconti
et al. 2018; Nisio et al. 2017); nel 2001
manifesto un crollo di un’itera Palazzina
in Via di Vigna Jacobini, dove persero
la vita decine di persone. Le cause del
crollo non furono mai documentate e
non vi sono certezze circa la presenza o
meno di cavità sotterranee.
Figura 6. Via di Vigna Jacobini, targa in memoria dei caduti durante il crollo di una palazzina
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
IL CIMITERO DI SAN
FELICE AL III MIGLIO
Lungo la Portuense era presente ed
era importante meta di pellegrinaggio
in epoca medioevale il cimitero cristiano
di San Felice (Bosio 1632; Guidi 1922;
Kirsch, 1924; 1933; Marchi 1844-1847;
Martinelli , 1653; Marucchi , 1933; Moroni, 1861; Testini 1966; Ciotoli e Nisio,
2019).
Il complesso, dedicato all’antipapa
San Felice II (Anastasio 1754; Amore,
1975) , costituito da una chiesa e da catacombe veniva descritto in prossimità
del III miglio della via.
La catacomba e la chiesa da cui si
accedeva, secondo alcune fonti, furono
restaurate in tre distinte epoche storiche
sino al 858 da Papa Niccolò; il cimitero
ricordato nei Mirabilia Urbis fu meta di
pellegrinaggio sino al 1100 circa (Albertini, 1510).
Nel periodo medievale esso permase
come destinazione per il diffuso pellegrinaggio che partiva dalla Basilica di
san Paolo fuori le Mura, passando da
Santa Passera, procedeva verso il cimitero di San Felice praticava per recarsi
alle spoglie del popolare Santo, tuttavia,
in seguito, dopo il 1500 circa, l’ingresso e
l’ubicazione della catacomba si persero.
Nel corso dei secoli, molti Autori,
lo hanno cercato invano (Baronio 1583,
Bosio 1632; Bianchini, 1747; Boldet-
67
Figura 7. Ubicazioni possibili del terzo miglio sulla Via Portuense
ti 1720; Armellini, 1893) e le ricerche
continuano ancora oggi (Verrando
1988, Ciotoli e Nisio 2019).
L’impossibilità di trovare tale cimitero scomparso risiede nel fatto che
l’antico percorso della Via Portuense era
differente dall’attuale e che non è noto
con certezza il punto di inizio della Via
all’interno dell’Urbe.
Ciò che è certo è che il cimitero di
Felice era posto su un’altura dalla quale
si poteva scorgere, in distanza, la zona
immediatamente a nord della basilica
di S. Paolo.
Il luogo era raggiungibile, dalla via
Campana-Portuense, in salita, mediante
uno stradello che si snodava dalla riva del
fiume. La chiesa di San felice, probabilmente coincideva con un edificio preesistente fatto realizzare da Papa Giulio I e
non vi sono riferimenti che fanno ritenere l’edificio stesso una basilica ipogea.
Al fine di individuare il luogo esatto
in cui ricadeva il III miglio si può effettuare il calcolo dalla porta da cui aveva
origine la Via Portuense nelle Mura
Serviane (Ciotoli e Nisio 2019, Fig. 7).
È probabile che nelle ricerche il punto di inizio della Via Portuense sia errato
(Porta Trigemina) e che si sia cercato
nella parte più interna della città. Tuttavia considerando il percorso della Portuense dalla Porta Flumentana, e non da
Porta Trigemina, posta sulla riva sinistra
dell’Isola Tiberina, presso il tempio di
Portuno, il secondo miglio della strada
coincide con l’area di Pantaleo Campano, ed il sesto con l’area del cimitero di
Generosa ad Sestum Philippi.
Il Terzo miglio secondo tale ipotesi
potrebbe coincidere con l’area, posta sul
rilievo al di sopra della Via Magliana,
di Via Pallavicini-Via Mancini-Via
Prospero Colonna-Via Giannetto Valli
(Ciotoli e Nisio 2018). Secondo ulteriori ipotesi l’area potrebbe essere quella
Figura 8. Catacombe di Generosa al sesto miglio della via Portuense: accesso e immagini dall’interno
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
68
Figura 9. Dipinto cinquecentesco conservato presso i Musei Vaticani a Roma; la Via Portuense costeggia il fiume
Tevere, è presente lungo essa uno stagno
prossima a Via dei Grottoni o a Via delle
Vigne (Verrando, 1988).
È possibile tuttavia che il cimitero
in questione così come la chiesa dalla
quale si accedeva siano stati sottoposti
nel tempo a fenomeni franosi e di sprofondamento e che parte di esso sia stato
perduto con i lavori e l’urbanizzazione
compiuta a partire dagli anni cinquanta
con la costruzione anche della ferrovia
e della stazione di Trastevere.
Lungo la stessa via , inoltre, presso
un podere chiamato ad Sestum Philippi,
sorgono le Catacombe di Generosa (VI
miglio, Fig. 8). Queste furono realizzate
in un’area di cava preesistente, su di un
unico livello. Il cimitero di Generosa è
stato riscoperto di recente da De Rossi,
anch’esso scomparso per secoli.
A tali catacombe si accede da uno
stradello che sale ripidamente dalla via
Magliana, con alcuni tornanti, su di una
collina, parimenti a quello che doveva
condurre al cimitero di Felice.
VIA CAMPANAPORTUENSE AREA DI
PALUDI E DI INONDAZIONI
Nella storia evolutiva del territorio
portuense il fiume Tevere ha sempre rivestito un duplice importante ruolo: da
un lato ha rappresentato un’indispensabile risorsa naturale e una fondamentale
via per i traffici e i contatti commerciali,
dall’altro, con la sua azione di modellamento (erosione e sedimentazione),
ha contribuito in modo determinante a
modificare il territorio (Ceselli, 1848).
Gli abitanti del territorio portuense
probabilmente furono costretti ad adottare
strategie e soluzioni diversificate per creare un equilibrio con il fiume. In quest’ottica probabilmente la scelta di creare un
tracciato secondario della via Portuense,
probabilmente, è stata anche dettata dalla
necessità di cercare un percorso alternativo
alle inondazioni del Tevere (Fig. 9).
Quest’area del suburbio portuense,
inoltre, era attraversata, oltre che dal Te-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
vere, anche da alcuni fossi, che nel corso
dei secoli hanno variato il loro percorso:
il fosso di Papa Leone e il fosso di Pozzo
Pantaleo.
Questi affluenti minori sono oggi
quasi del tutto scomparsi, poiché interrati per via dell’intensa urbanizzazione che
ha cambiato totalmente l’aspetto del paesaggio a partire dalla seconda metà del
Novecento. Tuttavia la toponomastica e
la cartografia storica ci aiutano a ricostruirne, almeno in parte, il percorso: entrambi i canali scorrevano in senso Nord-Sud,
seguendo un andamento perpendicolare
al Tevere, nel quale andavano a sfociare,
uno all’altezza dell’attuale quartiere Eur,
l’altro poco a più a Nord della chiesa di S.
Passera. Un altro piccolo canale, il Fosso
la Passera, attraversava con andamento
NO-S-E il versante meridionale dei colli
di Santa Passera.
Lo studio della cartografia storica
di quest’area (Tomassetti 1899; Tomassetti et al. 1977; Valenti, 1750; Valentini
e Zucchetti, 1953; Frutaz, 1962, 1972)
mostra chiaramente il tracciato e l’ampiezza del Tevere ed è testimonianza
delle molteplici alluvioni che sconvolsero Roma nel corso del 1500. Infatti
nel tratto prossimo alla chiesa di Santa
Passera, il fiume sembra dividersi intorno ad una piccola isola che testimonia
come questo settore della piana fosse
spesso invaso costantemente dalle acque del fiume.
Altra testimonianza delle inondazioni e della presenza di terreni paludosi
emerge dal toponimo con cui ricorre lo
scomparso cimitero di San Felice.
Quest’ultimo veniva denominato
anche cimitero ad insalatas o ad insalsadas o ad insalsados probabilmente per
la presenza di acque salmastre o paludi.
Viceversa è possibile che lungo l’antico
percorso della via Campana vi siano state aree paludose di stoccaggio del sale o
vere e proprie saline, o di aree di sosta del
sale proveniente dai campi di Fiumicino
(Ciotoli e Nisio 2018).
CONCLUSIONI
L’antico percorso della Via Portuense, via di origine etrusca, era differente
dall’attuale, l’analisi, della cartografia
storica fa ritenere che esso coincidesse
con la Magliana Vecchia.
In età imperiale il percorso si divise
nei pressi del Pozzo Pantaleo dove fu
realizzato un bivio e un percorso secondario: il vecchio asse asse mantenne la denominazione di Via Campana
(successivamente cambiata in Via della
Magliana) costeggiando il Tevere, l’asse
nuovo si sviluppò in salita sulle colline
69
gianicolensi e prese la denominazione di
Via Portuense.
I due tronconi si ricongiungevano,
più avanti proseguendo verso la Città di Fiumicino; tale soluzione evitò il
percorso nei pressi del Tevere, territorio
probabilmente sottoposto periodicamente alle inondazioni del fiume.
L’area della Portuense è sempre stata
un’area di estrazione di piroclastiti, per
la presenza di ampie colline tabulati con
scarpate verticali da cui si creavano imbocchi per la coltivazione in sotterraneo.
Gli impianti di cava furono presto
sfruttati come aree di necropoli e sepolture.
In particolare in questo territorio
era presente al terzo miglio della via un
cimitero oggi scomparso: il cimitero di
San Felice.
Quest’ultimo è stato oggetto d studi
in quanto la sua scomparsa rimane dubbia e lascia ipotizzare che tutto o parte di
esso si trovi ancora sotto il tessuto urbano. Il cimitero era in posizione dominate
su di una collina ad esso si accedeva attraverso uno stradello in salita così come, al sesto miglio, era ubicato un altro
cimitero quello di Generosa, scomparso
anch’esso per secoli e riscoperto poco più
di 100 anni fa (De Rossi, 1864).
La via Portuense pertanto nasconde
ancora altre cavità ipogee, possibili aree
a rischio del territorio, che sono messe in
evidenza anche dalla carta di densità di sinkholes (Nisio, 2019; Ciotoli et al. 2015b).
Questo settore della città, infatti, è
notoriamente interessato da fenomeni
di sprofondamento improvviso del suolo (Nisio, 2019) che hanno provocato
danni alle infrastrutture con chiusura di
strade o crolli di palazzi (Ciotoli et al.
2015 a, b, 2016).
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
70
Brevi note di viabilità e
ambiente a Ostia Antica
Massimiliano David
Università di Bologna
E-mail:
[email protected]
Sapienza Università di Roma
E-mail:
[email protected]
Some notes about roads and environment
in Ancient Ostia
Parole chiave: Ostia antica, urbanistica, Tevere, ambiente, archeologia
Key words: ancient Ostia, urban planning, river Tiber, environment, archaeology
RIASSUNTO
Le nuove indagini del Progetto
Ostia Marina permettono di riesaminare la questione della viabilità suburbana
ostiense con nuovi elementi.
La formazione dei nuovi suburbi derivata dalla costruzione della nuova
cerchia muraria tardorepubblicana - si
delinea nel corso della seconda metà del
I secolo a.C. e assume un’articolazione
complessa già in età augustea. L’applicazione di un grande piano di ricostruzione della città attuato negli anni di
Adriano non coinvolge solo lo spazio
intramurano, ma anche i suburbi.
Nell’area fuori porta Marina di grande interesse sono le modalità progettuali
del cosiddetto decumanus nell’approccio
al mare.
SISTEMI VIARI
EXTRAURBANI NEL
MONDO ROMANO
Come è noto la costituzione di una
rete di città in Italia dipende in gran parte dai processi di colonizzazione di epoca arcaica e classica e dai conseguenti,
connessi meccanismi di trasformazione
delle società italiche. In particolare, a
partire dal IV secolo a.C., si sperimenta-
no nuove forme di occupazione e sfruttamento del territorio che trovano pieno
compimento grazie al coordinamento e
all’egemonia di una sola città. Originale
è il carattere sinecistico dell’insediamento di Roma, posizionato in quella
delicatissima zona di cerniera tra le due
Etrurie tirreniche. La città generò un
sistema di strade che avrebbe assicurato il futuro controllo del territorio, ben
leggibile fuori dalle porte delle mura
Serviane (Fig. 1).
L’impresa di incamerare nel mondo
romano la pianura padana si rese pienamente possibile dopo la seconda guerra
Figura 1. Mappa di Roma con indicazione delle ramificazioni stradali fuori dalle porte delle mura Serviane (elab. M. David)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
71
Figura 2. Mappa dell’Italia settentrionale in epoca repubblicana con indicazione delle principali vie consolari: via Emilia, via Postumia, via Popilia-Annia (elab. M. David)
punica (Fig. 2). In realtà, l’atto fondativo
della grandiosa operazione di urbanizzazione risaliva al 218 a.C., cioè poco
prima della guerra annibalica, con la
strategica fondazione di due grandi città
al centro della pianura padana (Piacenza e Cremona). Forse proprio in queste
città e in questa regione si riscontrano
i più complessi e riusciti casi di inserimento nell’ambiente e di attuazione dei
sistemi di irradiazione delle strade dalle
porte urbiche.
Piacenza assicurava il controllo sulla
sponda destra del Po; fu poi raggiunta da
Figura 3. Foto aerea zenitale di Piacenza con indicazione del circuito delle mura e delle vie extraurbane (elab.
M. David)
due vie consolari primarie, in un punto
nodale del tracciato della via Postumia e
all’estremità occidentale della via Aemilia. Dalla città così efficentemente interrelata si irradiavano le strade verso ogni
settore del territorio (Fig. 3). Cremona
garantiva il controllo della sponda sinistra del Po; venne poi attraversata dalla
via Postumia e dunque integrata nel sistema viabilistico della regione.
Nel caso di Bologna, attraversata
da una via consolare, all’estremità del
tratto urbano dell’Aemilia mediante i
cosiddetti carrobbi (cioè quadrivia) si
sprigionarono cinque vie dirette nell’ager Bononiensis (Fig. 4).
Anche nel caso di Mediolanum, un
centro urbano a nord del Po non raggiunto da alcuna via consolare, si irradiarono le strade dalle porte formando
bivi o quadrivi. Nel settore sud-orientale
della città partono da due pusterle (una
della prima cerchia e una della seconda)
coppie di vie a corto raggio probabilmente pensate solo a favore delle esigenze del suburbio (la pusterla del Bottonuto e la pusterla di S. Stefano) (cfr.
David, 1986) (Fig. 5).
IL CASO DI OSTIA
Il caso della prima colonia di Roma
è quello di un insediamento per così dire estremo: unica tra le città del Lazio
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
72
Figura 5. Mappa del centro urbano di Mediolanum con
indicazione delle ramificazioni stradali fuori dalle mura urbane (A: pusterla del Bottonuto; B: pusterla di S.
Stefano)(elab. M. David)
Figura 4. Foto aerea zenitale di Bologna con indicazione delle vie exraurbane. Sono indicate con due circoletti le
posizioni del gruppo episcopale urbano e della principale area cimiteriale cristiana (elab. M. David)
Figura 6. Mappa del Lazio antico (elab. M. David)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
settentrionale (Laurentum, Lavinium e
Ardea erano tutte dislocate nell’entroterra (Fig. 6), Ostia è posta al di là delle
zone umide che fiancheggiavano la foce
del Tevere e in prossimità del mare, in
un paesaggio dinamico ad alta velocità
di trasformazione.
Gli elementi disponibili sui caratteri
delle prime fasi insediative ostiensi appaiono ancora troppo frammentari e limitati per definire i caratteri dell’abitato.
Ciò vale, evidentemente, anche per l’e-
73
Figura 7. Mappa del primo nucleo insediativo di Ostia con indicazione delle vie pomeriali e della viabilità extraurbana (elab. M. David – S. De Togni)
ventuale viabilità anteriore al centro detto convenzionalmente castrum (Fig. 7).
La riconosciuta struttura del primo
nucleo rettangolare della colonia si reggeva su un elementare impianto regolare
ortogonale legato a Roma attraverso la
via Ostiense che, come un vero e proprio
cordone ombelicale, fiancheggiava il Tevere nelle sue divagazioni mantenendosi
sempre sulla riva sinistra (Figg. 8-9).
La flessione del Tevere e la vistosa
erosione del tracciato dell’Ostiense, conseguenza probabile di una grave esondazione verificatasi alla fine del I secolo d.C.,
obbligò al ricorso ad una bretella trapezoidale che influì profondamente nella
conformazione della viabilità nel lembo
di terra tra la città e l’area umida (Fig. 10).
Il centro disponeva di vie pomeriali
sia all’interno del circuito murario sia
all’esterno, ma si relazionava con l’ambiente circostante anche grazie ad una
via – nota con il nome di Laurentina
– con lo stagno ostiense in uso come
bacino portuale interno (Vittori et al.,
2015; Salomon et al., 2018). L’abitato si
connetteva anche con le banchine portuali sulla riva del Tevere attraverso il
cosiddetto “cardine massimo” (Fig. 7).
Per mezzo di una biforcazione fuori
dalla porta occidentale del cosiddetto
castrum, la colonia si connetteva con le
due ragioni primarie dell’insediamento:
il controllo della foce del grande fiume
e l’affaccio diretto sul mare. Si trattava
di percorsi stradali a corto raggio di fondamentale importanza che assicuravano
lo sfruttamento delle risorse e delle potenzialità ambientali.
Verso la metà del I secolo a.C. la
metamorfosi del quadro ambientale e la
città in costante espansione impongono
un nuovo perimetro murario (Fig. 9).
Nell’anno del consolato di Cicerone
(63 a.C.) l’opera, pensata a protezione
dei suburbi cresciuti intorno alle vie extraurbane, fu iniziata e cinque anni dopo, nel 58 a.C., fu portata a compimento,
così come Fausto Zevi ha dimostrato
ricostruendo il testo dell’iscrizione celebrativa posta sulla porta Romana della
città (Zevi, 1998).
Figura 8. Mappa del primo nucleo insediativo di Ostia con indicazione delle zone di espansione extraurbana prima
della costruzione della seconda cerchia di mura (elab. M. David – S. De Togni)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
74
Figura 9. Mappa di Ostia dopo la costruzione della seconda cerchia di mura e indicazione della principale viabilità
(elab. M. David – S. De Togni)
Figura 10. Mappa del settore orientale di Ostia con indicazione del corso modificato del Tevere e della conseguente
flessione della via Ostiense (elab. S. De Togni)
Figura 11. Mappa dell’area di Ostia fuori porta Marina con le prime direttrici della viabilità extraurbana (elab.
M. David – S. De Togni)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
All’esigenza dello sfruttamento in
senso agricolo del lembo di terra posto
tra lo stagno e il mare risponde il disegno di una microcenturiazione (Fig. 9),
che arrivava a toccare il fianco meridionale dell’insediamento dove passava la
via Ostiense. Il reticolo segnò anche
l’esaurimento della via detta Laurentina
che connetteva la città al bacino interno.
L’ultimo ventennio di ricerche si è
dimostrato decisivo per una migliore
comprensione del contesto ambientale
di Ostia giungendo a meglio definire le
dinamiche di trasformazione del paesaggio romano e post-romano.
Le indagini svolte dai ricercatori del
Progetto Ostia Marina nel suburbio
marittimo non toccano solo le questioni
relative alle grandi opere di epoca adrianea, ma permettono di approfondire
aspetti inediti relativi alle forme di connessione della città con il mare in epoca
tardorepubblicana e nella primissima
età imperiale (cfr. Barbera et al., 2019).
È stato possibile osservare e visualizzare per mezzo del GIS - elaborato da
Stefano De Togni nell’ambito della sua
tesi di dottorato in archeologia presso
l’Università di Digione - che fuori da
porta Marina la via diretta alla spiaggia
si allargava a ventaglio (Fig. 11). A ovest
si spingeva oltre la battigia con un molo
legato ad una diga foranea, a est conduceva alla spiaggia. La particolare conformazione di questa infrastruttura era
studiata evidentemente per le esigenze
dei pescatori che operavano a breve distanza dalla costa con barche di piccolo
cabotaggio ormeggiate al minuscolo
molo o tirate in secco sulla spiaggia. Il
rinvenimento in scavo di attrezzi per la
pesca con la lenza e con piccole reti riflette questa fase d’uso dell’area anche
se la pesca continuò ad essere praticata
a lungo sotto costa (David et al., 2013).
Nel corso del I secolo d.C. l’area continua ad essere interessata dalla regressione
marina e il quartiere trova nuovi spazi di
espansione. Così, più o meno all’altezza
della loggia di Cartilio Poplicola, si irradia un’ulteriore via verso il mare (Fig. 12).
Il settore meridionale delle mura
tardorepubblicane è ancora scarsamente
indagato. Sulla base dei dati disponibili è
ipotizzabile la presenza di pusterle dalle
quali si dipartivano biforcazioni stradali a
corto raggio chiaramente funzionali per le
esigenze funerarie (in modo forse non dissimile dal caso di Mediolanum) (Fig. 13).
Una tale conformazione e assetto
infrastrutturale saranno presto superati quando in età flavia, in seguito a un
ulteriore allontanamento del mare, verrà
tracciata una prima via costiera, che in
75
età severiana assumerà la solidità e la stabilità di una vera e propria via consolare
anche se singolarmente solo tangente
rispetto alla città marittima (cfr. il contributo di S. De Togni in questo stesso
convegno) (Fig. 14).
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Figura 14. Mappa dell’area ostiense con indicazione in rosso del tracciato della via Flavia/Severiana (elab. M.
David – S. De Togni)
dell’arte, 19-20, pp. 61-112.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
76
Il tracciato stradale di loc.
Carromonaco nel fondovalle
del Mesima (VV). Prime
ipotesi sulla viabilità antica
e medievale tra la via AnniaPopilia e le Serre calabresi:
evidenze archeologiche
e modelli predittivi in
ambiente GIS
The ancient road at Carromonaco in
the Mesima valley (VV). Preliminary
hypotheses on ancient and medieval
roads between the via Annia-Popilia
and the Calabrian Serre: archaeological
evidence and GIS predictive models
Parole chiave: viabilità antica e medievale, Calabria, Serre Calabresi, Via Annia-Popilia
Key words: ancient and medieval roads, Calabria, Calabrian Serre, Via Annia-Popilia
RIASSUNTO
Il rinvenimento, nel 2014 da parte
della Soprintendenza Archeologica della Calabria, di un tratto di asse viario nelle sue immediate adiacenze dell’abitato
medievale di Belforte, in posizione collinare, proteso sulla vallata dello stesso
Mesima, nell’attuale comune di Vazzano
(VV), ora in abbandono dopo il sisma
del 1783, offre l’occasione di approfondire lo studio della viabilità romana in
quest’area calabrese. L’asse viario si caratterizza per il profilo a schiena d’asino
che risulta funzionale allo scivolamento
delle acque piovane sui lati, evitando la
formazione di pozze stagnanti, e per la
presenza sul lato est, di una serie di pietre infisse di taglio, a formare una sorta
di cordolo per contenere lateralmente il
corpo stradale; non c’è traccia di margines o crepidines e manca la parte sommitale (dorsus summum), forse soggetta
ad un’azione di espoliazione in fase di
disuso della strada. La tecnica costruttiva
utilizzata per il nostro asse viario trova
confronto con un tratto della Via Annia
vicino ad Altino che ne consente la datazione ad età romana.
La strada che, nel tratto rinvenuto
corre parallelamente alla vallata del fiume Mesima, potrebbe rappresentare la
porzione di una via di comunicazione
trasversale che metteva in comunica-
zione l’antica via romana nota come
Annia-Popilia, nel tratto di territorio
compreso tra Vibo Valentia, S. Onofrio
e Mileto, con il mar Ionio e con la via
costiera jonica nota sin da età greca, attraverso le Serre calabresi.
A tale proposito, analizzando le testimonianze letterarie, archeologiche,
toponomastiche, aerofotografiche e la
cartografia storica e attuale, si valuterà
l’ipotesi dell’esistenza, in età antica, di
un percorso trasversale, transappenninico, che congiungesse direttamente Vibo
Valentia con Scylletium, verificando tale
ipotesi anche attraverso i più aggiornati
strumenti geomatici, prima tra tutte la
slope and distance analysis.
Si valuteranno inoltre le dinamiche
evolutive della viabilità interna in questa
porzione di Calabria in età altomedievale e medievale, in relazione ai mutamenti del sistema insediativo, del paesaggio
e delle tipologie di sfruttamento delle
risorse del territorio.
Le ipotesi che andremo a enucleare
sono frutto di un lavoro interdisciplinare in grado di integrare aspetti e considerazioni di diversa natura. Verrà posta
particolare attenzione all’antropizzazione dell’area nel corso dei secoli a partire
dall’età romana e dunque alle due scelte
dei modelli insediativi in un territorio
che si presenta particolarmente ricco di
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Antonino Facella
Università di Genova
E-mail:
[email protected]
Giovanni Boschian
Università di Pisa, Palaeo-Research
Institute, University of Johannesburg
E-mail:
[email protected]
Ginevra Gaglianese
Responsabile Museo aziendale
LanificioLeo
E-mail:
[email protected]
Maria Teresa Iannelli
Socio SIGEA, già funzionario archeologo
Soprintendenza Archeologica della
Calabria
E-mail:
[email protected]
Pietro Carmelo Manti
Scuola Normale Superiore di Pisa
E-mail:
[email protected]
Nota: nell’ambito di un lavoro comune, il
par. 1 è di G. Gaglianese e M.T. Iannelli, il
par. 2 di A. Facella e P.C. Manti, il par. 3
di G. Boschian
risorse, soprattutto in riferimento ai giacimenti minerari.
Oltre alle finalità puramente storicotopografiche, consistenti in primo luogo
nel tentativo di tracciare il percorso, o
meglio i possibili percorsi tra Ionio e
Tirreno nell’area in questione, si valuterà anche in quale misura una strada
possa, per usare parole care a G. Uggeri,
divenire “veicolo culturale”, lasciando
intorno a se una capacità di attrazione
e stratificazione del popolamento che
va oltre gli originari motivi economici e
strategici che ne hanno dettato la nascita,
e si arricchisce di connotati culturali (ad
esempio, religiosi) e identitari più ampi.
1. INQUADRAMENTO
STORICO ED EVIDENZE
ARCHEOLOGICHE
Il presente contributo prende spunto
da un rinvenimento effettuato nel 2014
da parte della Soprintendenza ai Beni Archeologici della Calabria1: un tratto di asse
viario è stato individuato in località Carromonaco (Fig. 1) lungo la vallata del fiume Mesima, alla sua sinistra idrografica,
all’interno dell’attuale territorio comunale
di Vazzano (VV), e nelle immediate adiacenze dell’abitato medievale di Belforte.
Quest’ultimo (Fig. 2), posto in posizione collinare e proteso sulla vallata del
Mesima, è oggi ridotto in ruderi perché
77
Figura 1. Ubicazione del sito di Carromonaco (su stralcio del Digital Atlas of the Roman Empire, modificato)
distrutto dal terremoto del 1783, ma già
alla fine del Seicento Padre Giovanni
Fiore da Cropani ne attestava la decadenza: «Oggigiorno piccolo, e povero
castello, di soli 13 fuochi; ma ne’ tempi
più antichi, abitazione nobilissima»2.
Il sito fu sede di un romitorio nel IX
secolo, fondato ad opera di due fratelli
monaci, Onofrio e Elena; un vero e proprio villaggio, ricco di edifici a carattere
civile e religioso, sorse in età normanna,
per svilupparsi ulteriormente in epoca
angioina e aragonese. Ancora Fiore da
Cropani annota che Re Ferdinando il
Cattolico concesse il castello alla nobile
famiglia Carafa di Nocera, aggregandolo alla contea di Soriano. Alla morte
dell’ultimo dei Carafa senza eredi, Belforte fu venduto al monastero domenicano di Soriano. In assenza di ricerche
archeologiche, tuttavia, non è possibile
definirne in dettaglio l’evoluzione storica e monumentale. Oggi rimangono
visibili i resti del Convento degli Agostiniani dedicato a San Francesco (XV
secolo), della Chiesa di Santa Caterina,
monoabsidata (XIII secolo), del palazzo
‘comitale’, di alcune abitazioni terrazzate
e tratti di mura e torri del XIV-XV sec.3.
Il sito di Belforte dominava la vallata del fiume Mesima, occupando senza dubbio una posizione strategica di
controllo dei percorsi che garantivano
la mobilità di uomini e merci, non solo
in relazione alla viabilità nord-sud, rappresentata già in età romana dalla via
Annia-Popilia nel tratto che interessava il territorio di Vibo Valentia (più ad
ovest) (Fig. 1), ma anche in relazione
ad eventuali vie di comunicazione trasversali, ovest-est, in grado di collegare
quel territorio con le aree più interne e
montagnose, ricche di risorse boschive
e minerarie, e di raggiungere poi il mar
Ionio e la via costiera jonica (nota sin da
età greca), attraverso le Serre calabresi.
L’area di riferimento non è mai stata
però oggetto di indagini archeologiche
sistematiche. I pochi rinvenimenti archeologici, risalenti a molti decenni or
sono e scarsamente documentati, hanno
tutti carattere sporadico. Si tratta di un
‘vaso antico’, forse un dolium, rinvenuto
fortuitamente nel fondo S. Vito in località S. Maria subito a sud dal paese moderno di Filogaso (quasi tre chilometri
a nord di Belforte); di un sarcofago in
terracotta con i resti di almeno due individui ritrovato casualmente in località
Santa Barbara (oltre due km a sud di
Belforte); alla medesima area di necropoli potrebbero forse riferirsi anche due
sepolture in fossa terragna con copertura fittile, rinvenute sempre nei pressi
di località S. Barbara4. Per nessuno dei
tre ritrovamenti è possibile al momento
stabilire una cronologia sicura di riferimento. Al III sec. a.C. si data invece
il rinvenimento più significativo nell’area, relativo a un tesoretto di quadrigati
argentei romani, di cui non si conosce
il luogo esatto di ritrovamento, ma che
Figura 2. Stralcio della carta delle evidenze archeologiche allegata al progetto di fattibilità tecnico-economica della SS 182 “Trasversale delle Serre”, con indicazione del sito
medievale di Belforte (in rosso), del segmento di tracciato stradale individuato (in marrone) e di alcuni toponimi riferibili alla viabilità (in nero)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
78
furono sequestrati a diversi abitanti del
comune di Filogaso nel 19405.
Non meno problematica appare la
presenza di un’iscrizione, relativa a Q.
Laronius Q.f augure e quattuorviro quinquennale, attualmente custodita presso il
museo comunale di Vazzano. L’attestazione a Vazzano dell’importante famiglia dei
Laronii, proprietari di figlinae in varie zone
del territorio calabrese e particolarmente
legati alla cerchia di Ottaviano6, risulterebbe di grande interesse. Tuttavia, già
Capialbi nel 1832 la annoverava insieme
ad altre iscrizioni presenti a Vibo Valentia, specificandone l’ubicazione nell’atrio
del ‘real collegio’, ovvero il Reale LiceoGinnasio Filangeri. Per ragioni ignote poi
essa scomparve da Vibo per essere rinvenuta, utilizzata come acquasantiera, nella
chiesa di San Nicola di Bari a Vazzano7.
Nel 1905 passò in mano privata, per ricomparire poi nel museo comunale8. Una
provenienza vibonese dell’epigrafe è pertanto largamente probabile.
D’altro canto, è molto significativa la
toponomastica dell’area di ritrovamento
del tratto stradale in questione (Fig. 2):
esso è stato rinvenuto tra le località
Carromonaco e Carruccio (entrambe
chiaramente riferibili alla viabilità, verosimilmente medievale), mentre proseguendo di circa un km verso l’interno è presente, sulla sponda opposta del
Mesima, l’altro interessante toponimo
‘destra di Migliari’.
L’asse stradale oggetto del rinvenimento, che presentiamo per la prima
volta e il cui studio è ancora ad uno
stadio assolutamente preliminare, apparve in sezione su entrambi i lati di
un’escavazione meccanica, improvvidamente eseguita, che lo ha messo in luce
e danneggiato (Figg. 3-5). In seguito a
ciò, la Soprintendenza ha effettuato alcuni piccoli saggi di scavo, il primo dei
quali (saggio 1), in corrispondenza dei
resti nella sezione nord-est, ha fornito
i risultati più significativi, mettendo in
luce (Fig. 6), per un piccolo tratto (lungo circa 2,45 m), una carreggiata con
andamento rettilineo e orientamento di
225° sud-ovest/nord-est (cioè parallela
al corso del Mesima).
La struttura è costituita da una fossa, larga 2,55 m (US -3) appositamente
tagliata sul terreno sterile (US 4), suc-
cessivamente riempita, partendo dal
basso, da materiale di riporto argilloso
bluastro, compatto e tenace, spesso 70
cm circa (US 2). Volendo usare una terminologia ‘romana’, tale strato di argilla
potrebbe corrispondere allo statumen,
che secondo Vitruvio era generalmente composto da grossi blocchi per uno
spessore di almeno 30 cm, ma talvolta
poteva essere costituito anche da materiali diversi e assumere uno spessore
maggiore. Questo primo strato di allettamento è coperto quindi da pietre di
medie e grandi dimensioni, una sorta di
ruderatio (US 1) (Fig. 6), al cui interno è
da segnalare anche la presenza di travetti
di legno infissi in verticale in corrispondenza della mezzeria, come per segnare
la quota massima (US 5). Al di sopra
delle pietre, la presenza di ghiaia formerebbe un terzo strato, ovvero il nucleus,
che appare meglio conservato in altri
tratti di strada, rinvenuti in successivi
saggi di scavo (Fig. 7). Lo strato di ghiaia si estende anche oltre le dimensioni
della fossa riempita di argilla e pietre: la
superficie della carreggiata doveva pertanto avere larghezza ben superiore ai
Figura 3. Palaeo-Research Institute, University of Johannesburg, loc. Carromonaco.
Il tratto stradale principale. Sezione sud-ovest
Figura 4. Vazzano (VV), loc. Carromonaco. Il tratto stradale principale. Sezione
nord-est
Figura 5. Vazzano (VV), loc. Carromonaco. Il tratto stradale principale. Sezione
nord-est, particolare
Figura 6. Vazzano (VV), loc. Carromonaco. Il tratto stradale principale. Sezione
nord-est, saggio 1
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
79
Figura 7. Vazzano (VV), loc. Carromonaco. Strato superficiale di ghiaia da un tratto
stradale messo in luce nel saggio 5
2,55 m della ruderatio, e misurare forse
più di 4 metri (Fig. 8).
Manca un eventuale summum dorsum,
un lastricato: il mancato rinvenimento
di basole nell’area e l’assenza di tracce
di spoliazione farebbero pensare che ci
si trovi in presenza di una strada glareata.
L’asse viario si caratterizza per un
profilo convesso, funzionale allo scivolamento delle acque piovane sui lati. Non
vi è traccia di margines o crepidines.
Non è stato rinvenuto nessun elemento o materiale mobile che possa
essere utile a datare la struttura. Essa è
certamente anteriore alla strada sterrata di età moderna che ha preceduto la
SP 65 (a sua volta adesso sostituita dalla
‘Trasversale delle Serre’), sterrato da cui
è separata da uno spesso strato di terreno sterile, forse franato da monte. Se il
contesto insediativo del territorio circostante appare particolarmente ricco in
età medievale e postmedievale, d’altro
canto le tecniche costruttive non consentono neppure di escludere a priori, al
momento, una datazione più antica, ad
età romana9.
Pertanto, il rinvenimento di Carromonaco, poiché relativo a resti di un
tracciato stradale in un’area interna del
Vibonese, riporta alla luce un noto ‘fantasma’ archeologico-topografico della
viabilità della Calabria antica, romana
in particolare, e cioè quello del percorso interno da Vibo a Scolacium, una
vera e propria ‘trasversale delle Serre’
ante litteram (come la Annia-Popilia
fu in un certo senso un’antenata della
A3 Salerno-Reggio Calabria). Un tale
percorso ‘Trasversale delle Serre’ però è
ricordato soltanto nella Tabula Peutingeriana (Fig. 9).
In quest’ultima, che come è noto
costituisce il più importante documento
cartografico raffigurante l’ecumene antica, la cui stesura originaria si colloca
Figura 8. Vazzano (VV), loc. Carromonaco. Il tratto stradale principale. Sezione
nord-est, visione d’insieme. Si noti la conformazione convessa della carreggiata
nei decenni centrali del IV sec. d.C.10,
è riportata infatti l’esistenza di un percorso trasversale, transappenninico, che
congiungeva la Calabria jonica a quella tirrenica all’altezza delle Serre (Tab.
Peut., VI, 2). Il percorso si snoda in una
sola tappa, dalla statio di Vibo Valentia
(Vibona Balentia, corredata nella carta di
una vignetta del tipo edificio a due torri)
a quella di Scylletium (Scilatio). La lunghezza del tratto è segnata in 25 miglia,
corrispondenti a circa 37 chilometri.
Non deve peraltro stupire, nella
Tabula, la collocazione erronea di Scyl-
Figura 9. Stralcio della Tabula Peutingeriana: al centro il Bruttius, con indicazione della via interna Vibona
Balentia-Scilatio
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
80
letium, in posizione interna e non costiera. Essa è verosimilmente dovuta
alla ferma volontà di rappresentare la
fine della catena montuosa appenninica in corrispondenza di Capo Cocinto/
Kaulonia (Caulon), secondo un’opinione
che risaliva a Polibio (2, 16, 4 da leggere
insieme a 2, 14, 4-6). L’inserimento degli Appennini all’altezza di Caulon ha
sconvolto l’ordinata rappresentazione
della via costiera jonica, facendo slittare
nell’interno sia l’ubicazione di Scillezio
che le indicazioni delle distanze tra i
Castra Hannibalis e quest’ultima e tra
questa e Caulon (30 miglia e 30 miglia),
e causando un’interruzione nella linea
spezzata continua che simboleggia la
via costiera ionica (linea che da Annibali prosegue piegando a sinistra verso
Scilatio, ma senza più congiungersi con
Caulon, da cui riparte un nuovo tratto)11.
La ferma volontà di far terminare la
catena appenninica al Capo Cocinto ha
insomma determinato un piccolo ‘sconquasso’ nell’area tra Kaulonia e i Castra
Hannibalis: tale ‘sconquasso’ non nasce
con la Tabula, che invero lo eredita da una
fonte anteriore, verosimilmente dal proprio archetipo (l’Orbis Pictus di Agrippa?), e si ripercuote anche nelle fonti
cartografiche successive, prima tra tutte
l’itinerario del Ravennate, realizzato nel
VII sec. (An. Rav., 4, 31-32 e 34)12.
Su questo percorso ‘interno’ e ‘diretto’
da Vibo a Scolacium menzionato dalla
Tabula, tra i pochi studiosi che se ne sono occupati (tra tutti Givigliano) prevale lo scetticismo. Intanto la distanza di
25 miglia appare in qualsiasi caso troppo
esigua (a meno che non si voglia pensare
che si riferisca solo ad una parte del percorso, ad esempio al solo tratto trasversale tra le vie tirrenica e jonica). Inoltre,
esso non è presente in altre fonti antiche.
Solo in Appiano (Bellum Civile, 5, 103)
è menzionato un rapido spostamento di
Ottaviano nel 36 a.C. da Vibo/Ipponio
a Scolacium e poi di nuovo ad Ipponio,
ma non si specifica che egli abbia seguito
una via interna. Ragion per cui si è dedotto che si sia trattato, anche nel caso
di Ottaviano, della ben nota via istmica
tra i golfi di S. Eufemia e Squillace, nota
sin dalla preistoria13.
D’altro canto però, se quello raffigurato nella Tabula fosse stato il percorso
settentrionale passante per l’istmo di
Catanzaro, il tracciato sarebbe dovuto
partire da Aque Ange o da Annicia, e non
direttamente da Vibo (Fig. 9)14.
2. RICOSTRUZIONE DEI
POSSIBILI PERCORSI
INTERNI ATTRAVERSO
MODELLI DIGITALI
Per queste ed altre incertezze, abbiamo deciso di indagare la percorribilità
del territorio attraverso la costruzione di
un modello dei costi della superficie topografica realizzato tramite applicativo
Figura 10. Carta 3D della Calabria centrale, con indicazione di possibili percorsi da Vibo a Scolacium
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
GIS e utilizzato per individuare le direttrici di minimo sforzo15. Nei sistemi
GIS lo studio dei costi di percorrenza è
conosciuto come Cost Surface Analysis16
e si realizza attraverso l’impiego di algoritmi che generano un raster della
superficie in cui ogni cella è caratterizzata da un dato numerico, che indica,
in unità di tempo, l’energia consumata
da un individuo per muoversi in quella
determinata area17. Per la costruzione
del modello è stato usato l’archivio cartografico digitale reperibile nel Geoportale della Regione Calabria. Dato di
partenza è stato il Modello Digitale del
Territorio (DTM) con passo 5x5 m, opportunamente elaborato, nella porzione
di territorio che va da Capo Vaticano a
Sant’ Eufemia sul versante tirrenico e da
Isca Marina a Cropani Marina sul lato
jonico. I parametri territoriali impiegati
per la costruzione del modello dei costi
di percorrenza sono stati, oltre alla quota, la pendenza e il reticolo idrografico.
Va premesso ovviamente che, in
un’indagine di tipo Least Cost Path
Analysis, l’elaboratore non è neutrale,
poiché sceglie l’importanza relativa da
dare ai vari parametri tenuti in considerazione: ad esempio, se ritiene che la
pendenza sia un problema secondario
rispetto alla lunghezza del percorso, favorirà la scelta di un percorso di montagna, e viceversa. Questo va tenuto in
conto. Comunque, abbiamo cercato di
81
settare i parametri impostando valori
che fossero i più neutrali possibili, usando quelli solitamente applicati a questo
genere di analisi18.
Il risultato è stato che il percorso
con costo energetico minore tra Vibo
e Scolacium, secondo il nostro modello
(Figg. 10-11), è proprio quello passante
dall’istmo di Catanzaro (tracciato blu).
Nella prima parte esso doveva seguire
ovviamente la via da Reggio a Capua
(la Annia Popilia), per poi deviare verso
est prima di raggiungere il fiume Amato.
Quindi, è nel giusto Givigliano a considerare questo percorso come la prima
scelta per chi dovesse viaggiare da Vibo a Scolacium e viceversa, anche se si
tratta di un percorso lungo ben 59 km
(Fig. 12). Anzi, nella pratica dobbiamo
pensare che esso fosse anche più lungo:
una nostra simulazione (tracciato viola),
in cui abbiamo ipotizzato un percorso
che prima di piegare verso est passava
dalla statio di Ad Turres (statio dell’Itinerarium Antonini da collocare alla sinistra
dell’Amato, la cui ubicazione è accertata
finora solo genericamente – noi abbiamo scelto l’ipotesi accolta dalla maggioranza degli studiosi) ha dato un risultato
di ben 61 km (Figg. 10-12), forse più
aderente alla realtà19.
Abbiamo poi interrogato il modello
cercando di capire quanto fosse praticabile un percorso più breve tra Vibo e Scolacium, anche se magari più impegnativo
in termini di dislivelli, e da dove potesse
passare.
Ne è venuto fuori un tracciato piuttosto interessante (tracciato nero), decisamente ‘trasversale’, che da Vibo passa
a nord di S. Onofrio e Maierato (cioè,
ancora con maggior precisione, segue il
percorso della Reggio-Capua), per poi
scendere lungo la valle dell’Angitola, risalire subito a nord-ovest di Tre Croci
nel comune di Polia, da dove prosegue
verso est passando poco a nord della
Fossa del Lupo (un paio di km a sudest di Scendamo), dove raggiunge, nel
punto più alto, gli oltre 900 m di quota,
per poi scollinare dolcemente, proseguendo sempre verso est tra Amaroni a
nord e Vallefiorita a sud, e passando infine a nord di Squillace fino a Scolacium
(Figg. 10-12).
Ovviamente, il prossimo passo dovrà
essere quello di verificare materialmente l’eventuale reale esistenza di un tale
percorso, in età antica e/o medievale,
attraverso le metodologie tradizionali
(analisi delle foto aeree, dei rinvenimenti archeologici, della documentazione d’archivio e dei dati toponomastici
storici e attuali). È interessante notare
Figura 11. Carta della pendenza della Calabria centrale, con indicazione di possibili percorsi da Vibo a Scolacium
come la distanza totale sia in questo percorso di soli 47 km (che sono comunque
sempre maggiori delle 25 miglia indicate nella Tabula per la via interna ViboScolacium, ma sono in ogni caso il 25%
di strada in meno rispetto al percorso
istmico settentrionale), e la pendenza
massima arrivi a 31° circa, risultando
inferiore a quella del percorso istmico
(ma, naturalmente, più significativo è il
dato della pendenza media, che invece
in questo caso è maggiore, intorno al
9%). Un percorso più duro, dunque, ma
tutt’altro che impossibile.
A questo punto, abbiamo voluto testare anche l’ipotesi di un percorso da
Vibo a Scolacium che passasse più a sud
per la località Carromonaco, dove cioè
abbiamo rinvenuto i resti di strada in
questione. Un secondo punto fisso è
stato ipoteticamente collocato in cor-
rispondenza del Ponte di Sofia, presso
Argusto, che costituisce l’unico altro
resto materiale riferibile ad un’infrastruttura viaria presente nella zona. Si
tratta di un ponticello (Fig. 13) verosimilmente medievale, che non abbiamo
ancora esaminato autopticamente20.
Ne è venuto fuori un tracciato ViboCarromonaco-Ponte di Sofia-Scolacium
(Figg. 10-12, tracciato rosso) non dissimile per pendenza media dal tracciato
‘diretto trasversale’ (tracciato nero), e
solo di poco più lungo: 51 km (peraltro corrispondenti a 35 miglia romane:
si potrebbe quasi sospettare un errore
materiale nell’indicazione di distanza
presente nella Tabula: XXV invece di
XXXV miglia, ma ovviamente al momento non ci sono assolutamente elementi per proporre una correzione del
genere). L’altezza massima raggiunta da
Figura 12. Profili altimetrici dei 4 percorsi da Vibo a Scolacium analizzati
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
82
questa trasversale ‘meridionale’ sarebbe
perfino inferiore a quella del tracciato
‘interno diretto’ (il nero), mantenendosi
sotto i 900 metri. Dunque, anche questo percorso attraverso Carromonaco e
Ponte di Sofia appare tutt’altro che impraticabile.
Anche nel caso del percorso rosso, è
poi possibile che un eventuale tracciato reale fosse lievemente dislocato: ad
esempio, tra Carromonaco e il Ponte di
Sofia i pochi rinvenimenti archeologici (a Vallelonga: anfora, vasi figurati e
moneta d’oro21) e il reticolo di trazzere
e mulattiere ricavabile dalla cartografia
storica e da quella IGM 1:25.000 farebbero pensare ad un percorso lievemente
più meridionale di quello indicato dal
modello (Fig. 11, tracciato fucsia tratteggiato, in basso) e cioè: Carromonaco
- Carruccio - lato opposto a ‘Destra di
Migliari’ - valle sinistra del Mesima fino
a Calcari e Oliveto - sentiero a nord di
Pigna - a nord di ‘Sopra i Piani’ - C.
Melia - a mezza via tra Aguglia e Mezzocanto - Vallone Aguglia - Fontana
Sgrau - Case Fabbruni - Piano della
Pietra Balena (o a nord di questo, tramite S. Lucia?) - S. Antonio - Chiaravalle
- Ponte di Sofia. Per il tratto da Argusto
a Scolacium invece è interessante notare
come il tracciato ipotizzato dal GIS non
discenda subito verso la costa jonica (ad
es. nella zona di Soverato), ma continui
attraverso un percorso più interno, così
da evitare l’attraversamento di nume-
rose foci di fiumare, che sarebbe stato
certamente disagevole. Segnaliamo che
un eventuale percorso ‘trasversale’ come
questo passante dalla sinistra del Mesima e dall’area di Chiaravalle avrebbe
anche consentito, agli abitanti delle zone più interne di questa porzione delle
Serre, di recarsi a Scolacium senza dover
necessariamente spostarsi prima in area
tirrenica e fare poi un lungo giro da nord.
In conclusione, in attesa di proseguire le indagini, che come premesso sono
ancora ad una fase del tutto preliminare,
possiamo ribadire che i nuovi strumenti digitali, oltre ad essere tutt’altro che
neutrali o asettici, in quanto dipendono dal settaggio dei parametri previsto
dall’elaboratore, possono certo suggerire ipotesi e possibilità relative a vie di
comunicazione antiche e medievali, ma
non possono sostituirsi alle metodologie di indagine tradizionale (ricerche
storiche, archeologiche, archivistiche,
aerofotografiche), che divengono anzi
indispensabili, in un passo successivo,
per calibrare e validare le ipotesi sul terreno. E purtroppo, da questo punto di
vista, non si può che lamentare l’assenza
di indagini archeologiche sistematiche
in questi (ed altri) settori della Calabria
interna, dove le poche testimonianze che possediamo sono quasi sempre
frutto di rinvenimenti fortuiti, e quindi
quasi mai riescono a fornire indicazioni significative sul popolamento, sullo
sfruttamento del territorio e sulle vie di
Figura 13. Il ponte di Sofia presso Argusto (CZ). Foto dott. Laratta
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
comunicazione di età antica e medievale. Ci auguriamo che queste lacune
siano presto colmate, in seguito ad una
maggiore attenzione e sensibilità degli
studiosi alle problematiche del popolamento antico nelle aree più interne della
Calabria.
3. CARATTERISTICHE
GEOLOGICHE E
GEOMORFOLOGICHE DEI
PERCORSI IPOTIZZATI
Osservazioni sulla natura fisica del
territorio, in particolare la morfologia e
la geologia che caratterizzano i percorsi
ipotizzati, possono dare informazioni
interessanti sull’effettiva economicità
(in senso Least Cost Path Analysis) di
ogni percorso, sulla realizzabilità tecnica di un percorso stradale e sull’impegno
necessario a mantenerlo in efficienza.
Qualora si voglia effettuare una ricognizione, aerofotografica o sul terreno,
per individuare i percorsi stradali, le caratteristiche fisiche attuali del territorio
possono suggerire quali siano le aree
dove è più probabile che il percorso si
sia conservato.
Il territorio calabro è infatti assai
complesso dal punto di vista geologico
e frequenti sono le litologie che danno
origine a instabilità che si può manifestare sia a breve periodo (frane e smottamenti) che in tempi più lunghi (erosione dei versanti, accumulo di sedimenti
recenti). Nell’esame elle caratteristiche
83
Figura 14. Profili altimetrici dei percorsi ipotizzati, con indicazione dei corsi d’acqua che li attraversano (linee
azzurre)
geologiche del territorio è stata utilizzata la Carta Geologica alla scala 1:25000
realizzata negli anni 1959-1960 a cura
della Cassa per il Mezzogiorno e messa
a disposizione dalla Regione Calabria.
Le litologie affioranti sono state suddivise in quattro classi di rischio (nullo,
moderato, medio, elevato) in base alla
erodibilità e franosità delle rocce.
Da un punto di vista morfotopografico i due percorsi settentrionali differiscono di poco, anche in termini di
lunghezza, con il transito Ad Turres che,
a fronte di un modesto prolungamento che segue brevemente il basso corso
dell’Amato, consente di evitare il lungo
falso piano del terrazzo di Campolungo e la conseguente ripida discesa nella
valle del torrente Cottola, a ovest di S.
Pietro a Maida, ricongiungendosi poi al
percorso 1-GIS (Fig. 14). Questo prolungamento richiederebbe però di transitare attraverso la piana costiera, caratterizzata da terreni sabbiosi poco tenaci
e, soprattutto, da zone che all’epoca si
presentavano più paludose di oggi e pertanto di più difficoltoso attraversamento. I due percorsi, da qui coincidenti, si
inoltrano nella valle del Torrente Pesipe
percorrendone il fondo pianeggiante, tra
versanti ove affiorano terreni argillosi e
argilloso-sabbiosi, oggi apparentemente
stabili ma comunque fonte di sedimenti
fini che in seguito a lungo accumularsi
possono aver obliterato eventuali tracce
dell’antico asse viario. In seguito il per-
corso si innalza su aree terrazzate e terreni più compatti e facilmente percorribili per ridiscendere infine nella valle
dell’Usito, attraverso una breve e ripida
discesa nuovamente su terreni argillosi
e in genere poco stabili. Qui, la testata della valle dell’Usito presenta una
morfologia complessa e accidentata che
suggerisce un progressivo avanzamento
delle forme vallive verso l’interno, unito
a processi erosivi di ragguardevole entità
che possono aver obliterato le testimonianze archeologiche, sia a causa dell’erosione che dell’accumulo di sedimenti
nel fondovalle. L’ultimo tratto del percorso si snoda nell’ampia valle del Corace, oggi diffusamente antropizzata. In
linea generale, questi due percorsi sono
i più agevoli, sebbene più lunghi, con dislivelli minori contenuti tra 2200 e 2800
metri e pendenze relativamente modeste (Tab. 1) tranne che nei passaggi che
portano all’interno/esterno delle valli. Il
numero di corsi d’acqua da attraversare è relativamente grande, ma si tratta
prevalentemente di torrenti di scarsa
portata e a regime stagionale, tranne che
nella piana di S. Eufemia, presso la foce
dell’Amato.
I due percorsi che tagliano la catena
appenninica con un percorso significativamente più breve implicano però
dislivelli molto maggiori, approssimativamente da 4500 a 5500 metri (Fig. 14).
La parte centrale di entrambi i percorsi
attraversa il nucleo cristallino della catena, su rocce metamorfiche estremamente stabili, ma che originano talora
morfologie impervie.
Il percorso 3 diretto interno si inoltra dapprima verso nord-est percorrendo
terreni argillosi poco stabili nella stretta
valle del Fosso Scuotrapiti e dopo aver
valicato il fiume Angitola prosegue nella
valle del Reschia su un substrato lievemente migliore ma sempre su morfolo-
Tabella 1. Caratteristiche morfologiche dei percorsi ipotizzati
Vibo-Scolacium
(GIS)
(1)
Vibo-Ad Turres-Scolacium
(2)
Interno Vibo-Scolacium
(3)
Vibo-CarromonacoScolacium
(4)
Quota inizio (m)
Quota fine (m)
Dislivello (m)
Distanza (km)
Distanza reale (km)
479
14
465
60,7
60,9
64,3
64,5
48,4
48,8
52,2
52,7
Salita (m)
1154
903
2577
2514
Discesa (m)
1619
1368
2112
2980
Dislivello totale (m)
2773
2271
4689
5494
Quota minima (m)
3
1
14
9
Quota massima (m)
499
499
925
906
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
84
gie accidentate fino oltre Poia, ove inizia
un’erta salita che porta sulla dorsale. Qui
un lungo percorso in quota porta ad attraversare alcune valli e corsi d’acqua su
terreni stabili, fino a immettersi nell’ampia valle del Ghetterello su terreni dilavati e con frequenti soliflussi. L’ultima
parte del percorso affronta un paesaggio
accidentato, solcato alle numerose valli
che si aprono sullo Jonio. Qui e fino al
termine del percorso i terrazzi fluviali sono in parte basati su conglomerati che, a
seconda del grado di cementazione, possono dare origine a fenomeni franosi, soprattutto allorché alla loro base affiorano
argille facilmente erodibili.
L’ultimo percorso, che passa per
Carromonaco, sembra in realtà il meno
vantaggioso dal punto di vista dell’energia necessaria a percorrerlo, trattandosi
di 5 km in più rispetto a quello diretto e
con un dislivello di quasi 1000 m maggiore (Tab. 1).
Il tratto iniziale come nel percorso 3
si snoda su affioramenti argillosi instabili e su un paesaggio accidentato, almeno fino a entrare nella valle del Mesima,
e poi di nuovo su valloni e balze conglomeratiche fino all’erta di S. Nicola da
Crissa che, dopo ripida salita, conduce
su pianori e terrazzi fondati su rocce
metamorfiche, scisti e gneiss di buona
tenuta. Da qui poi dopo Chiaravalle
scende verso la linea degli insediamenti
collinari prospicienti lo Jonio (Petrizzi,
Montepaone, Gasperina, etc.), su terreni generalmente buoni, prevalentemente conglomeratici e talora meno buoni,
argillosi, mantenendosi su una linea di
dorsali che evitano i sottostanti valloni
e le aree a maggiore instabilità. Pur non
essedo un percorso agevole – anzi faticoso, ha tuttavia alcuni vantaggi rispetto al
diretto perché evita i substrati più infidi,
tranne ove impossibile; serve inoltre vari
centri della fascia jonica, mettendoli in
comunicazione con quelli del centro e
della costa tirrenica.
5. Felici, 2017, p. 34.
ste interessanti indicazioni sono tutte da sottoporre a verifica sul terreno.
6. Paoletti, 1984; Zumbo, 1999.
21. Felici, 2017, p. 35.
4. Felici, 2017, pp. 34-35.
7. Capialbi aveva interpretato il blocco come i
resti di una mensa ponderaria. Secondo ultime BIBLIOGRAFIA
interpretazioni la superficie concava che at- Conolly J., Lake M. (2006), Geographical
Information Systems in Archaeology, Camtualmente presenta il blocco di marmo sarebbe
bridge University Press, Cambridge.
stata causata dall’adattamento ad acquasantiera; scartando l’ipotesi di una mensa di età Cuteri F.A., Iannelli M.T. (2011), Memoria e rinascita. L’archeologia post classica
romana, si è pertanto più propensi a pensare ad
nel vibonese, Limen 2011, n°1, pp. 65-66.
una iscrizione collocata su una base di statua.
8. Zumbo, 1999.
9. La tecnica costruttiva utilizzata per il nostro
asse viario trova confronto con un tratto della
Via Annia vicino ad Altinum (VE), dove lo statumen, proprio come per la nostra strada, è costituito da argilla calcarea (RADKE 1981, p. 49).
10. Harley e Woodward, 1987, p. 238; Salway,
2005.
11. L’intera questione è analizzata in dettaglio
in Facella, 2001, in part. p. 105.
12. Facella, 2001, in part. pp. 109-110. In
realtà il testo del Ravennate non deriva direttamente dalla Tabula: i toponimi che esso
presenta sono ricavati in gran parte dallo spoglio di una carta simile e grossomodo contemporanea ad essa, ma non identica perché più
ricca di dati. Sul metodo compositivo del Ravennate cfr. Dillemann, 1997, pp. 38-40, 211;
si veda anche Facella, 2001, p. 112 e nota 57,
con bibl. Su Scillezio in An. Rav., 4, 34 cfr.
Facella, 2001, pp. 111-113, Appendice. L’elenco
di toponimi in An. Rav., 4, 34 (e in Guido,
43), oggetto di un’interpretazione fuorviante
da parte di Nissen, seguito da molti altri studiosi, era stato correttamente inteso già da G.
Grasso (1907). Si deduce che nel VII secolo il
Ravennate consultava una carta di IV secolo
che, per quanto riguarda l’area in analisi, presentava le stesse identiche ‘anomalie’ visibili
nella Tabula Peutingeriana. È logico quindi
ipotizzare che queste anomalie risalgano ad
un archetipo comune.
13. Sull’intera questione Givigliano, 1989, pp.
761-762 e nota 85; Givigliano, 1994, pp. 320321, 358 nota 377.
14. Sulle due stationes di Aque Ange e Annicia
cfr. almeno Givigliano, 1994, pp. 292, 307309, 316, 356 nota 347, 359 nota 422.
15. Il modello è stato elaborato da P.C. Manti.
16. Wheatley e Gillings, 2002, pp.147-163;
Forte, 2002, pp. 54.
Si ringraziano gli anonimi referee per
17. Connoly e Lake, 2006.
i preziosi suggerimenti.
18. Van Leusen, 1999, pp. 215-217.
NOTE
1. Il ritrovamento è avvenuto nell’ambito del
cantiere ANAS di Vazzano per la realizzazione dalla SS 182 ‘Trasversale delle Serre’
(tronco 1° lotto 1°). I lavori di supervisione
archeologica sono stati diretti da Maria Teresa
Iannelli, ispettrice della Soprintendenza per i
Beni Archeologici della Calabria, e condotti
da Ginevra Gaglianese e Antonino Facella.
19. Volendo, avremmo potuto anche considerare nel modello la forza attrattrice di stationes
e centri urbani: nel caso in questione non lo
abbiamo fatto perché l’ubicazione della statio
che ci interessava non è accertata con precisione, e pertanto tale inclusione avrebbe avuto
poco senso.
20. Ci è stato riferito dal dott. Laratta, che si è
occupato della sua ripulitura e che ringraziamo di cuore, che l’elevato è certamente medie2. Fiore da Cropani, 2000.
vale, mentre l’impianto di sostegno in pilastri
3. Fiore da Cropani, 2000; Cuteri e Iannelli,
di laterizi troverebbe confronto con strutture
2011.
di Scolacium di età romana. Ovviamente, que-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Dillemann L. (1997), La Cosmographie du
Ravennate, Latomus, Bruxelles.
Facella A. (2001), Capo Cocinto (Punta
Stilo) nella geografia della Calabria antica,
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Pisa, Quaderni, 11-12, 2001, pp. 103-116.
Felici F. (2017), ANAS s.p.a. SS 182 “Trasversale delle Serre”. Tronco 1° Lotto 1° Stralcio 2° completamento. Progetto di fattibilità
tecnico-economica. Studio per la verifica
dell’interesse archeologico. Relazione archeologica, inedito.
Fiore Da Cropani G. (2000), Della Calabria Illustrata, a cura di U. Nisticò, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli.
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Givigliano G.P. (1989), L’organizzazione
del territorio, in AA.VV., Giornate di studio
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l’Amato e il Savuto, a cura di G. De Sensi Sestito, Rubbettino Editore, Soveria
Mannelli, pp. 254-269.
85
La paleogeografia della
pianura costiera a sud di
Catania tra il V-IV sec. a.C.,
con la via greca LeontinoiKatane proveniente da
Syracosion e i luoghi
descritti da Diodoro Siculo
(XIV 57-62) per le battaglie
del 396 a.C. fra l’esercito
dei siracusani e quello dei
cartaginesi
Roberto Mirisola
Geologo, socio delle Soc. Siracusana di
Storia Patria e Ass. “Trireme” di Siracusa
The southern littoral plain paleogeography
of Catania in the 4th-5th century BC
with the ancient road from Syracosion to
Leontini-Katane, and the battles sites (396
BC) between Syracusan and Carthaginian
armies in the Diodorus Siculus narrative
Parole chiave: via Leontinoi-Katane e linea di riva, traghetto sul Simeto, latitudine della
foce
Key words: via Leontinoi-Katane and shore line, Simeto ferry boat, mouth in latitude
RIASSUNTO
La ricostruzione paleogeografica
della pianura costiera a Sud di Catania
tra il V-IV sec. a.C. è stata possibile individuando le corrispondenze tra i luoghi
del paesaggio moderno, poi radicalmente modificato dalle moderne bonifiche,
e quello antico a volte narrato dagli
storici Tucidide, tra il 415-413 a.C., e
Diodoro Siculo nel 396 a.C. Quest’ultimo descrive (L. XIV 57-62) lo strategico “Quadro operativo” predisposto da
Dionìsio (tiranno di Siracusa greca) con
il supporto di “caposaldi” viari militari
e logistici (obbligati passaggi collinari
e fluviali, o adiacenti a città/fortezze),
intorno alle località da lui scelte per la
grande battaglia che sarebbe dovuta avvenire intorno alla pianura a Sud di Katane tra il suo esercito e quello enorme
dei Cartaginesi di Ìmilcone. Le succitate fonti storiche, infatti, suggeriscono
utili notizie di geografia fisica e stradale,
riguardanti le antiche Vie greche Syracosion-Leontinoi-Katane prima percorse
dall’esercito siracusano di Dionìsio con
due successivi accampamenti strategici:
il primo, elevato presso il Tauro (Brucoli, frazione di Augusta) per control-
lare le mosse del nemico; il secondo a
Sud di Katane, in adiacenza al passaggio sul fiume Simeto, per affrontare da
quel “caposaldo” sulla pianura e lungo
confini fluviali verso l’entroterra la fanteria cartaginese e la loro flotta presso
la spiaggia settentrionale della foce del
Simeto. Per la paleogeografia della fascia
costiera nel V-IV sec. a.C., è stato quindi
sostanziale identificare sulla topografia
attuale quelle posizioni: l’arretrata linea
di riva del mare; la foce, allora più a
Nord; il suddetto tracciato viario, lungo la pianura a Sud di Katane, sino al
probabile traghetto sul tratto terminale del Simeto vicino all’accampamento
siracusano. Inoltre, per ricostruire l’ambiente fisico con il fiume di allora, le
notizie delle fonti storiche, dei percorsi
viari (ora tracciati dopo nuovi studi) e
dei resti archeologici sono state correlate con l’evoluzione progressiva della
pianura, modificata per cicliche e simili
variazioni climatico-ambientali, dedotta soprattutto da recenti pubblicazioni:
di Geotettonica (risalita del livello del
mare sulla pianura costiera in relazione
ai movimenti verticali); di Geo-Archeologia (oscillazioni in longitudine della
linea di riva); di Geografia e Fisiografia
comparata del corso terminale Simeto
(secolari migrazioni in latitudine della
foce).
1. LE RADICALI
TRASFORMAZIONI
ANTROPICHE DELLA
PIANA DI CATANIA NEI
SECOLI XIX E XX
La rete idrografica e viaria dell’attuale fascia costiera della pianura di
Catania è molto diversa da quella della
pianura antica. Infatti, la fascia costiera
attuale con la foce del Simeto, limitata a oriente da una spiaggia composta
da sabbie e detriti lunga circa 20 Km e
di larghezza variabile da poche decine
ad alcune centinaia di metri, ha subìto
profonde trasformazioni antropiche
tra il XIX e il XX secolo, a causa delle
bonifiche pubbliche e dei successivi insediamenti industriali, agrari e turistici
mentre fino alla seconda metà del XVII
secolo avvenivano soltanto circoscritte
bonifiche private e solo per iniziativa di
alcuni grandi e facoltosi proprietari che
avevano subito gravi danni agrari e viari
provocati dal ripetuto straripamento dei
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
86
fiumi sulla pianura costiera: esemplare
fu quella che fece confluire il Gornalunga sul tratto terminale del Simeto.1 Tra
la fine del XIX e poco dopo la metà del
XX secolo, i caratteri morfo-idrologici
della “Piana” paludosa di Catania sono
radicalmente cambiati rispetto al passato, per opera di due grandiose bonifiche pubbliche per debellare la malaria
e sviluppare l’agricoltura insieme a una
rete stradale: la “Bonifica integrale”,
anni ’20-‘30 del novecento, e quella recente compiuta nel decennio successivo
alla disastrosa alluvione del 1951. Con
quest’ultima bonifica infine si realizzarono le rettifiche del corso dei fiumi
della “Piana” sino al tratto terminale del
Simeto attraversato presso la foce, con la
confluenza del Gornalunga, dal nuovo
Ponte di Primosole. Qui, fu costruito un
lungo e largo canale artificiale cementificato a sezione imbutiforme per contribuire ad evitare le secolari migrazioni
del suo tratto meandrico terminale del
Simeto sulla fascia costiera e per smaltire il grande e rapido deflusso le acque
durante le piene stagionali evitando le
esondazioni (D’Arrigo, 1953; Gemmellaro,1837; Longhitano, Colella, 2007).
Inoltre, con la bonifica iniziata negli anni cinquanta fu realizzata, verso l’interno
e sino al bacino idrografico collinare, la
creazione di traverse fluviali, con piccole
centrali idroelettriche, di numerosi argini per canali e dighe in terra per piccoli
e grandi invasi artificiali (Ogliastro, Ancipa, Pozzillo, Nicoletti e altri), necessari
per usi civili e agricoli.
2. LE OSCILLAZIONI
SECOLARI DELLA
LINEA DI SPIAGGIA NEL
MERIDIONE D’ITALIA PER
CICLICHE VARIAZIONI
CLIMATICO-AMBIENTALI
In base ai dati dendrocronologici,
palinologici e strumentali della temperatura per gli ultimi 500 e 160 anni, ricavati dalla stratigrafia geo-archeologica
e ambientale in diversi siti-archivi del
Mediterraneo (dal meridione d’Italia
alla Grecia e sino alle coste settentrionali dell’Africa), l’attuale riscaldamento globale rappresenta nelle previsioni
climatiche di molti autori l’inizio di un
altro periodo caldo e poco piovoso simile a quello Medievale, che all’inizio
fu interrotto al centro-nord da un breve
periodo molto freddo, piovoso e con effetti catastrofici alle più alte latitudini.2
Il periodo caldo attuale sarebbe
dunque un’altra delle secolari, e simili
variazioni climatiche naturali iniziate
dopo la fine del IX sec. a.C., correla-
te con le circa-millenarie variazioni
dell’attività solare, che si sono poi ripetute ciclicamente nel periodo storico
con l’alternanza di Periodi freddo/umidi
e molto piovosi. Questi periodi hanno
così interrotto nell’Area Mediterranea i
più lunghi Periodi Stabili o di “Transizione”, con temperature e piogge a clima
mediterraneo (con piccole oscillazioni
delle linee di riva e delle foci dei fiumi),
favorevoli al progresso umano, a prescindere dall’incremento dell’“Effetto
Serra” poi sempre più amplificato dalle
attività antropiche dell’Era industriale.3
Infatti, nei territori Italiani interessati da tali alternanze, sono avvenute
a varie latitudini e con diversi impatti,
importanti modificazioni geo-morfologiche e idrologiche del suolo (evidenti
in diverse sezioni stratigrafiche), con
gravi effetti sia sulle attività antropiche
prevalentemente agricole e insediative,
con abbandoni e migrazioni, sia sulle risorse naturali (coperture forestali,
distribuzione delle acque superficiali e
sotterranee, etc.)4.
Così, tali discontinuità climatiche
hanno particolarmente modificato
gli ambienti fisici delle basse pianure
dell’Italia meridionale al di sotto della
latitudine 42°- 41° Nord, come avvenuto nell’evoluzione della grande pianura
di Catania e della Sicilia. Infatti, per la
precoce risalita della vicina fascia aridodesertica dall’Area africana, nell’Isola si
sono ripetuti dai secoli VIII a.C. al XIX
tre periodi caldo/aridi con scarse piogge
e minimi apporti solidi fluviali ed erosioni delle spiagge che sono arretrate
con il contributo dell’innalzamento del
livello del mare per fusione dei ghiacciai e per l’azione delle mareggiate. Al
contrario, per l’alternanza dell’azione
secolare di tre periodi freddo/umidi, pur
con piogge e alluvioni meno intense e
più tarde nell’Italia meridionale e in Sicilia, ha invece provocato aggradazioni
sulle basse pianure e progradazioni più
sensibili sulle lunghe spiagge (Mariani,
2006)5.
3. LE CICLICHE E
SECOLARI MIGRAZIONI
DELLA FOCE DEL SIMETO
TRA I SECOLI XX-XII
ESTRAPOLATE SINO AGLI
INIZI DEL IV A.C.
Come accertato da studi geografici
e fisiografici dal XX all’XI secolo sino
all’età greco-arcaica, il corso del Simeto
si è spostato periodicamente sulla bassa
pianura costiera con lente e ampie oscillazioni meandriche a ventaglio che, iniziate da un punto nodale non lontano a
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
nord dall’attuale confluenza con il Gornalunga, hanno fatto migrare la sua foce
sulla linea di spiaggia, alternativamente
da sud a nord e viceversa. Le successive
inversioni pare che si siano innescate
alla fine per l’erosione della particolare
conformazione della foce con la concausa di varie azioni: mareggiate, rotazione
terrestre (forza di Coriolis), inversioni
della declinazione magnetica sulle sabbie a magnetite del tratto fluviale con la
foce A volte la migrazione più rapida
del Simeto è stata favorita da alluvionamenti invernali con la risultante di tre
azioni dinamiche: dalle acque defluenti
verso il mare; dalle azioni idrodinamiche tra venti e mareggiate di massima
traversia dai quadranti I (grecale) o II
(scirocco); dell’azione della corrente di
marea da o verso lo Stretto di Messina
(rema montante o scendente). Dalla colonizzazione greca, queste lente migrazioni del tratto terminale del Simeto tra
le paludi malariche dell’inospitale fascia
costiera erano probabilmente già in atto,
in sintonia con le periodiche variazioni climatiche iniziate con il passaggio
all’attuale “Fase Sub-atlantica”. In conseguenza, durante il periodo climatico
freddo e piovoso della cd Piccola Era
Glaciale Arcaica (520-350 a.C.) una
migrazione con la foce del Simeto molto
più a Nord di oggi, nell’attuale contrada
di Passo Martino, può essersi ripetuta
anche nel 396 a.C., in analogia con
quanto avvenne con il tratto terminale
della foce, nel 1784 (Fig. 2) (D’Arrigo,
1950; Marinelli, 1926).
4. OSCILLAZIONI DELLA
LINEA DI SPIAGGIA
DELLA PIANURA DI
CATANIA A MINIMA
PENDENZA PER LE
SECOLARI VARIAZIONI
CLIMATICHE DAL
X SEC. A.C. AL XXI
SEC. CON MAGGIORE
TRASGRESSIONE DELLA
LINEA DI RIVA
Il Periodo freddo/umido e molto
piovoso tra la metà del XVI e la fine del
XIX sec. noto come Piccola era Glaciale,
che, come in due simili variazioni climatiche già avvenute tra il 500-750 e
il 520-350 a.C., ha provocato la notevole progradazione delle basse pianure
facendo avanzare nel mare le foci e le
spiagge dei maggiori fiumi italiani, come in Sicilia anche quelle del Simeto.6
Negli anni seguenti la PEG (Piccola
Era Glaciale), la diminuzione progressiva delle piogge con grandi portate
fluviali, cause di allagamenti e alluvioni
87
anche in Sicilia, favorì la costruzione di
nuove strade e ponti con tecniche moderne. Infatti, alcune bonifiche borboniche delle paludi sulla fascia costiera della
“Piana” iniziarono proprio nella prima
metà dell’ottocento e in conseguenza fu
costruita una nuova strada moderna, per
la prima volta diritta e vicina al mare, da
Catania al nuovo ponte sul Simeto e al
vicino promontorio di Primosole (strada poi ristrutturata e prolungata come
SS.114). Infatti, questa strada andò a
sostituire la più interna e arcuata Katane-Leontinoi, importante collegamento
militare e commerciale tra le due città
e Siracusa.7
Per risalire allo stato della pianura di
Katane nel V-IV sec. a.C si è tenuto conto di un recente studio geologico, stratigrafico e sedimentologico con datazioni 14C AMS, nel bonificato Pantano di
Lentini che ne ha scoperto l’origine in
una laguna formatasi tra la seconda metà e la fine del IX sec. a.C.8.
Per valutare le oscillazioni secolari
della linea di riva è stato fondamentale
per lo scrivente considerare nel suddetto
studio geologico l’interferenza tra due
concomitanti e lentissimi movimenti
del tardo Olocene: il sollevamento tet-
tonico verticale della “Piana” e quello
della risalita eustatica e glacio-isostatica
del livello marino. I dati ottenuti hanno rivelato che la risalita del livello del
mare (0,2 mm/anno), dalla metà del
IX sec. a.C. a oggi, annualmente superava soltanto per circa 1 mm/anno,
quasi compensandolo, il sollevamento
della pianura costiera a Sud di Catania. In conseguenza, soprattutto per la
prevalenza delle “progradazioni” per gli
apporti di sedimenti fluviali e costieri
(durante i Periodi freddo/umidi e piovosi) rispetto alle inferiori erosioni della
spiaggia (durante i periodi caldo/aridi),
la linea di spiaggia è avanzata lentamente verso il bassofondo del mare, mentre
la pianura ha mantenuto nei secoli, pur
con modeste “aggradazioni”, quasi inalterata la sua bassissima pendenza (minore di 1%). Per ciò il tratto terminale
del Simeto è stato sempre interessato
dalla risalita del mare per almeno 2
km formando stagni e impaludamenti
continuando sempre ad attraversare la
pianura con ampi meandri invasi dal
mare; e uno scenario simile si sarà probabilmente presentato in Sicilia anche
fra il V-IV sec. a.C., peraltro durante la
succitata PEG Arcaica.9
5. LA POSIZIONE DELLE
LINEE DI RIVA SULLE
SPIAGGIA DEL RECINTO
LAGUNARE DEL TERIAS
CON QUELLA A SUD DI
KATANE PER IPOTESI
GEOLOGICA (X SEC.
A.C.) E PER LE FONTI
STORICHE SIA ANTICHE
(IV-V SEC. A.C.) CHE DEI
SECOLI SUCCESSIVI
(NOTE 10,11,12)
Per stabilire la posizione della linea
di spiaggia sulla pianura di Catania nel
V-IV sec. a.C., è stato utile un recente studio geologico eseguito a sud nel
settore settentrionale dell’ex Pantano
di Lentini dove si è scoperta una laguna originatasi intorno alla metà del
X.secolo, allora aperta sul mare su un
lungo cordone sabbioso che la recintava
(Monaco et al., 2004). Queste sabbie, per
lo più provenienti dalle spiagge settentrionali per mezzo di correnti venivano
in parte deposte intorno al promontorio
settentrionale dell’Alto di S. Demetrio
sino quasi a lambirne l’estremità (oggi a
circa 1,5 Km dal mare), modellando al di
là anche tutta la spiaggia meridionale. In
tale studio, sfruttando l’ubicazione di un
Figura 1. (Villaggio Delfino; IGM 1: 25.000, F°270 III S.O.). Linea di riva all’inizio del IV sec. a.C. (in blu) e il tratto della Via greca Leontini-Katane, dall’Alto di S.
Demetrio al ponte di Passo Martino (in arancione); a circa 1 km a Nord di Grotte San Giorgio, ed in adiacenza alla strada (nel tondino rosso), la necropoli romana
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
88
Figura 2. (Catania Sud: IGM, F°270 III N.O.) Linea di riva e schema della foce del Simeto nel 396 a.C. (in blu); Via dal ponte di Passo Martino a Katane (in arancione)
tra i comandi degli accampamenti nemici (cerchi in rosso)
solo sondaggio (in un’area sconvolta da
bonifiche), è stato per ipotesi ricostruito
il limite verticale sul mare lungo il cordone sabbioso che recintava l’antica laguna
nel X sec. a.C. che poi è stato estrapolato
a nord anche come limite di spiaggia per
la pianura di Catania passante sul limite
del promontorio di S. Demetrio13. Ma
questo limite (schematizzato in scala
1: 200.000) allora poteva invece essere
ancora arcuato. Lo scrivente, con validi
supporti, ha direttamente ricostruito i
limiti di spiaggia tra il V-IV sec. a.C.,
ricostruendo: prima, quello esterno della succitata laguna relativo alla foce del
fiume di Leontinoi (descritta dalle fonti
storiche tra il V-IV sec. a.C.), poi estrapolandolo ancora a Nord come limite di
spiaggia per la pianura di Catania passante sul mare davanti al promontorio
di S. Demetrio14. Ciò è stato dedotto
anche con riferimenti documentari e
archeologici (esaminati in un successivo capitolo) e con la posizione spaziale
di una necropoli relativa a un villaggio
romano (Symaetus) e della adiacente Via
Leontinoi-Katane. Le descrizioni dello
Pseudo-Scilace, forniscono le distanze
di Leontinoi lungo il suo fiume Terias
(dal XII sec. S. Leonardo) sino alla foce
interna alla suddetta laguna, limitata a
Sud dal promontorio attraversato oggi
dalla Galleria Filippella. La foce allora
era navigabile con grandi barconi e poi,
per progressivo interramento, soltanto
con barche e chiatte con le quali le merci
delle navi sul mare interno alla laguna
erano trasportate nella vicina foce del
Terias e da qui lungo il fiume arrivavano sino al porto vicino alla periferia di
Leontinoi (DIOD. XVI, 6, 1). Le fonti
antiche che precisano la distanza fluviale
di Lentini dal mare, sono le seguenti: 20
stadi (poco meno di 4 Km) secondo Pseudo
Scilace nel “Periplo 13” (V-IV sec. a.C.); 6
miglia (circa 9 km) per Edrisi (metà del
XII sec.), per l’avanzata della spiaggia di
5 Km in 15 secoli; 5 miglia (circa 7,5 Km)
per Fazello (metà del XVI sec.), con il ritiro
della spiaggia di 1,5 Km in poco più di 4
secoli. (Peretti, 1988; Fazello, 1558).
Tali discontinuità secolari delle distanze della linea di riva dal mare fornite
da questi storici e dalla precedente relazione geologica hanno lasciato alquanto
perplessi vari studiosi sull’affidabilità di
tali notizie. Ma tra le suddette notizie storiche a noi interessa soprattutto
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
quella più antica fornita nel Periplo dello
Pseudo-Scilace (V-IV sec. a.C.) che pone
Leontinoi a 20 stadi dalla foce del fiume
Terias”, distanza già valutata in circa 3,7
Km da recenti autori che hanno ritenuto la linea riva del mare allora vicina
al limite delle colline. Questo oggi, dopo la progradazione per bonifica della
pianura, si è spostato sul mare di circa
3 Km più a levante. La distanza di 20
stadi è stata controllata dallo scrivente
verificando il percorso fluviale dell’odierno fiume S. Leonardo che, partendo
dall’antico sbocco dalle colline sulla pianura, arriva nell’interno poco a NE della
Stazione FF.SS., nei pressi dell’attuale
periferia settentrionale di Lentini, dove
potrebbe trovarsi sepolto l’antico porto
fluviale15. La distanza di Leontinoi dal
mare nel V-IV sec. a.C. è stata poi arrotondata a 4 Km16, aggiungendo almeno
altri 400 m del lungo e stretto “promontorio” roccioso nella pianura bonificata
che oggi costringe il fiume a scorrergli
ancora in adiacenza, e che in antico lo
guidava ad avere la foce nel mare interno
della laguna dove le navi si riparavano.
Ben sessanta quelle degli Ateniesi nel
415 a.C. (Thuc. VI 50, 3-4).
89
6. LE VIE PERCORSE
DALL’ESERCITO
DI DIONISIO DA
SYRACOSION, CON LA
TAPPA STRATEGICA
PRESSO IL TAURO,
SINO AL CAPOSALDO
DI LEONTINOI CHE,
CON LA FORTEZZA DI
AETHNA/INESSA (A NO),
PRECLUDEVA LE ALTRE
VIE DI USCITA DALLA
PIANURA DI KATANE
Sulla costa orientale fu molto importante il percorso dal nodo stradale
di Siracusa a Catania e da qui sino a
Messina che, riutilizzato dai Romani
dopo la conquista della Sicilia, costituì
la Via Pompeia.
Nel 396 a.C. Dionìsio di Siracusa
per evitare l’assedio dell’esercito cartaginese intorno alla sua città, predispose
in anticipo un suo “Quadro operativo”
per obbligare i nemici alla battaglia in
prescelte località della piana di Katane,
aveva già stabilito tutt’intorno il controllo viario con caposaldi fortificati e
con riserve logistiche e militari.
La prima Via descritta da Diodoro
(XIV 58) è quella percorsa nel 396 a.C.
da Dionìsio di Syracosion con il suo numeroso esercito, composto dalla fanteria seguita e supportata sul mare dalla
flotta, per recarsi dalla sua città, dopo
l’accampamento intermedio al Tauro,
a Leontinoi e da qui a un secondo accampamento strategico sul limite della
pianura con il fiume Simeto, ormai non
lontano da Katane. Lo storico Diodoro
(XIV, 58) narra che Dionìsio uscì con
la numerosa fanteria da una porta sulle
mura arcaiche della sua città (esistenti
ancora nel IV sec. a.C.) e marciando
per 160 stadi, corrispondenti a circa
28,5 Km, si accampò strategicamente
presso la località del Tauro17. Il primo e
antico tratto viario dalla città, giunto ai
tornanti in discesa alla fine dell’odierno
Viale Scala greca e arrivato sulla pianura di Targia, proseguiva parallelamente
alla costa seguendo il tracciato della ex
Trazzera Regia demaniale, poi occupato dalla ferrovia. Questa via antica,
continuando a ricalcare un percorso del
Neolitico che serviva i villaggi presso il
mare, poi passava di fronte alla penisola
di Magnisi (l’antica Thapsos). Il percorso giungeva quindi vicino alla Stazione
FF.SS. presso l’attuale Priolo per risalire
a NO attraverso la cittadina per vecchia
SS. Orientale Sicula 114 e attraversare
a monte la Cava Sorciaro in un punto
stretto e meno profondo, come avviene
ancora oggi anche con la strada moder-
na. Sul tratto successivo, ipotizzato sino a pochi anni fa da diversi autori con
una successiva deviazione verso NO, il
toponimo Tauro è inesistente.18 Invece,
con la recente ricerca di G. Sirena, tale
toponimo è stato trovato alla fine di una
diversa prosecuzione del tratto viario
greco (più verosimile per tracce di carraie con adiacenti resti archeologici greci, romani e bizantini) che subito dopo
la Cava Sorciaro, deviava verso NNE e
dopo circa 4 Km dalla periferia di Priolo,
giunta in vicinanza della masseria S. Cusumano, si dirigeva verso destra (tratto
ora attraversato dalla moderna SS. 114)
scendendo sulla pianura. Qui, dopo un
percorso di 1,5 Km verso nord e parallelo alla vicina costa del golfo di Augusta, la strada antica passava vicina alle
distrutte mura arcaiche dell’importante
città di Mégara Hyblaea con l’importante forte (phrourion) siracusano, costruito nel 414 a.C. durante la guerra contro
gli Ateniesi, per controllare il percorso
viario, impedendo il passaggio ai nemici (Tucidide VI 94). Proseguendo sulla
via si dovevano attraversare (entro 3,5
Km) tre su ponti, probabilmente allora
di legno, in connessione strategica con il
precedente forte, per attraversare tre fiumi più o meno piccoli che oggi sfociano
nel vicino Golfo di Augusta: il Cantèra
(ex Alabon); il più grande Marcellino
(ex Mylas), in contrada Ponte Reale, e
infine il Mulinello arrivando così sulla
S.S. 193 per Augusta. Da qui la strada
antica, invece di proseguire subito dopo il ponte moderno sul fiume, saliva
gradualmente, per più di un centinaio
di metri verso NO, sul fianco dell’erta
e rocciosa valle sinistra del Mulinello,
grazie ad una coppia di paralleli e larghi
incassi artificiali scavati a mezza costa
(detti “tagliate”) con interasse di 2,35
m e carraie larghe 1,60 m. La Via, presto giunta su un pianoro poco inclinato,
saliva ancora, ora diretta verso settentrione, per 4 Km circa sino alla contrada
Malfitano e all’innesto a “T” dell’attuale
S.P. 57 (bivio per Carlentini e Lentini,
a O-NO, e per Brucoli a E-SE). Qui
lo stratega Dionisio fece accampare il
suo numeroso esercito distribuendolo intorno al trivio e lungo la strada in
discesa sino all’elevata Stazione FF.SS.
vicina alla frazione marittima di Brucoli. Questa posizione collinare dominava il sottostante porto (probabilmente
l’antico stanziamento greco del Trotilon) situato sul mare di ponente con un
Castello medievale su un promontorio
(oggi anche occupato dalla succitata frazione), limitato verso l’interno da un canale (ex sede fluviale sommersa), proteso
nel piccolo golfo chiuso a levante dalla
Punta della Tonnara sotto l’incombente altopiano collinare dell’antico Tauro
(Diod. XIV, 58), oggi detto in dialetto locale: “u’ Munti”. Allora lo stratega
scelse qui il luogo per accamparsi probabilmente per le seguenti ragioni: avere
in vista l’esercito e la flotta che li aveva
seguiti nel porto; disporre delle acque
di pozzi e sorgenti che alimentavano il
limitrofo fiume Pantakyas (oggi Torrente Porcaria); restare nascosto dalla vista
del nemico ma avere delle posizioni
strategiche vicine dalle quali osservarlo.
Infatti, a circa 2 Km a O-NO dal bivio
della strada antica ancora da percorrere
verso Leontinoi, costeggiando il vallone
del fiume Pantakyas (oggi Maccaudo),
si allunga sulla destra la rocciosa collina
di Cozzo Telegrafo (126 m s.l.m.) dalla
cui sommità si apriva verso settentrione
uno straordinario panorama. Principalmente due erano le viste strategiche: sul
mare, verso NW e N, per osservare gli
eventuali movimenti delle navi nemiche
nella laguna del fiume Terias di Leontinoi e nel “golfo” di Katane; verso Ovest,
sulla relativa fascia costiera della Piana
dove si potevano intravvedere nell’interno, lungo la Via Katane-Leontinoi,
i movimenti di un’eventuale marcia di
avvicinamento dei Cartaginesi. Dionigi,
fatte le sue osservazioni dalla collina e
altri accertamenti con esploratori presso
i vicini porti di Castelluccio e Agnone,
non rilevando presenze nemiche l’indomani proseguì con l’esercito sulla Via a
O-NO (oggi S.P. 57) e marciando per
circa 20 Km giunse a Leontinoi. Questa città, poco tempo prima da lui occupata, era stata fatta potenziare nelle
fortificazioni, rifornita con depositi di
grano e vettovaglie era stata donata ai
suoi 10.000 mercenari Campani anche
per resistere sulla via per Katane come
“caposaldo” a un eventuale lungo assedio
dei Cartaginesi (Diodoro XIV, 58). E
ancora Diodoro narra che, nello stesso
periodo e per lo stesso scopo, Dionigi
aveva già convinto anche gli altri mercenari Campani che popolavano Katane
ad abbandonare la città, non adeguatamente fortificata, e a trasferirsi a circa
20 Km a NO sul promontorio sulla fortezza di Aethna/Inessa a 2,5 Km di Ibla
Gereatis. Quest’ultima, controllando da
vicino a un bivio il passaggio della strada
che secondaria che collegava Katane con
i centri intorno all’Etna, supportava la
fortezza, il vero “caposaldo” strategico
che controllava dall’alto della riva destra
del Simeto l’altra grande via diretta da
Katane verso l’interno della Sicilia e con
la costa del mar Tirreno. Infatti, dopo il
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
90
passaggio del Simeto e la prosecuzione della via, nell’interno si trovava non
molto lontana Centuripe e altre città che
essendosi alleate con il nemico potevano
contribuire a inviargli soccorsi militari e
logistici (Tucidite VI 94, 3 e VII 32). Allora, in previsione della grande battaglia
del 396 a.C. sulla pianura di Katane, per
Dionigi impedire il passaggio del Simeto significava: evitare che i Cartaginesi,
dopo aver imboccato l’importante diramazione viaria che dopo Ibla Gereatis
(oggi sito di Paternò) e Aethna/Inessa si
dirigessero pe una via secondaria a Leontinoi (ancora in funzione almeno sino
al medioevo) e lo prendessero alle spalle
precludendogli così un’eventuale ritirata; al contrario lui avrebbe avuto anche la
possibilità di fare intervenire i Campani
di Aethna/Inessa per la via passante da
Ibla sino a Katane per assalire alle spalle
i Cartaginesi.
7. L’IMPORTANZA
PALEOGEOGRAFICA
E STORICA DELLA
VIA GRECA SULLA
PIANURA KATANE (396
A.C.), PROVENIENTE
DA LEONTINOI, CON
LO STRATEGICO
CAPOSALDOACCAMPAMENTO
IN ADIACENZA AL
PASSAGGIO SUL FIUME
SIMETO PRESSO LA FOCE
Tra il V-IV sec. a.C. il primo tratto della via antica proveniente da Leontinoi percorsa dall’esercito siracusano
diretto a settentrione, dopo aver attraversato il fiume Terias (dal XII sec. S.
Leonardo), saliva sul promontorio di
S.Demetrio, come fa oggi la SS.194 sino a Primosole, ma poco prima di essere
giunto all’attuale bivio Iazzotto, girava
a sinistra e scendeva (oggi attraversato
dalla SS. 385) sino al margine NO del
promontorio, passando in adiacenza al
sito archeologico di Grotte S. Giorgio
sul margine della pianura di Catania
(Fig. 1). Per ottenere un percorso completo e dettagliato del successivo tratto viario sulla pianura sino al Ponte di
Passo Martino, la Via antica, esistente
(come quella proveniente da Siracusa)
dalla prima metà del VI sec a.C. presso il
limite interno delle paludi di allora, probabilmente a 1,5-2 Km dal mare, in analogia all’attuale strada interna alle paludi di Vendicari (SR), è stata ricostruita
allineando altri due successivi caposaldi
viari. Il primo caposaldo, a circa 1 Km
dal sito archeologico di Grotte S. Giorgio e con direzione N-NO, attraverso i
fiumi Gornalunga e Simeto, è costituito
dai resti archeologici di una necropoli
romana di età imperiale apparsa nel
1800 a poco più di due metri sotto il
suolo di calpestio per escavazione fluviale di un’alluvione. Il vicino villaggio
(ancora non trovato), era allora vicinissimo alla Via greca e romana lontana
dal mare (1,5-2 La posizione delle linee di
riva) sino al limite est del promontorio
di S. Demetrio, fu allora identificato dal
soprintendente di Catania Sciuto-Patti
con “Symaetus”, nome registrato dalle
fonti romane (Fig. 2). E nello stesso
sito probabilmente si venne a trovare
con un nome simile anche il successivo
Casale di Ximet (o Simed), registrato
come vetus in età normanna (1093),
anch’esso connesso alla frequentata via
Lentini-Catania per le attività agricole, commerciali e probilmente anche di
sosta. Procedendo sulla Via ancora nella
stessa direzione N-NO e per poco più
di 2 Km, si trovava il secondo caposaldo
viario intorno all’attuale ponte di Passo
Martino sul Simeto (toponimo forse legato un evento cruento della guerra del
“Vespro”) situato in una strettoia del
tratto interno e più stabile del fiume.
Intorno a questo sito il passaggio tra le
due sponde del fiume spesso avveniva,
sino alla prima metà del XIX secolo,
con un traghetto detto “giarretta” (allora anche sinonimo del Simeto) ma a
volte con ponti poi distrutti dalle piene.
Questo tratto viario rettilineo, da Grotte S. Giorgio sino all’ex Ponte di Passo
Martino, si può apprezzare visivamente
perchè oggi è ripercorso all’incirca dal
tratto dell’Autostrada Catania-Siracusa sino alla Galleria di S. Demetrio.
Tra il V-IV sec. a.C. le rive opposte di
quest’attraversamento del Simeto che
avveniva ancora con un traghetto, erano
probabilmente controllate da altrettante stazioni doganali fortificate poiché il
grande fiume costituì il limite territoriale tra le due città sino all’inizio dell’età imperiale romana (Strabone VI, 2 e
5). Qui furono probabilmente posti in
meno di vent’anni gli accampamenti di
due eserciti Siracusani: il primo nel 415
a.C., prima di attaccare gli Ateniesi nel
loro accampamento invernale nel Porto
militare di Katane (Tucidide VI 65,1); il
secondo nel 396 a.C., prima della programmata difesa e contro-attacco della
fanteria di Dionìsio. Il grande stratega,
infatti, essendo con la fanteria e la flotta
in grande inferiorità numerica, nel rapporto di 10 a 1 (Diod. XIV 62), si era
fermato in quella posizione per sfruttarla contro i Cartaginesi come caposaldo
e fulcro bellico per le seguenti battaglie,
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terrestre e navale, sulla pianura, lungo
le rive del Simeto e degli affluenti; lungo la spiaggia, a settentrione della non
lontana foce del fiume (Diod. XIV 63,
2-3). Questa, per ciclica migrazione poteva essersi spostata molto più a Nord
di oggi, come avvenuto ciclicamente tra
il basso Medioevo e il Rinascimento. E
tale posizione della foce dunque poteva
trovarsi, come più avanti suggeriscono
alcuni passi di Diodoro, a settentrione
delle attuali contrade Passo MartinoTorre Allegra e, in analogia al rilievo
della migrazione del 1784, a capo di
un terminale tratto fluviale simile a un
doppio meandro a “S” (Fig. 2).19 Dopo
il traghettamento sul Simeto (poi “Passo
Martino”) la Via raggiungeva l’opposto
margine settentrionale della pianura
con un arcuato e lungo percorso prima
subparallelo alla spiaggia per poi avvicinarsi sempre più meridione a Katane al
suo porto militare. Probabilmente questo lungo tratto è oggi all’incirca ripercorso dalla strada secondaria SP 91 con
la sua ideale prosecuzione attraverso la
più interna Zona industriale di Catania
e il tratto della ferrovia accanto al limite ovest dell’Aeroporto di Fontanarossa.
La Via, oggi sotto l’ultimo tratto della
SS. 192 proveniente da Enna (località
Zia Lisa) e della sua prosecuzione per
Via Gelso bianco, passava a Sud di Librino (presso i ruderi di una grande Villa
romana) e a S.O. dell’attuale periferia di
Catania, oggi coperta da strade e palazzi,
per dirigersi infine diritta a NE verso la
porta meridionale di Katane. Quest’ingresso si apriva sotto le alte mura della
fortificazione greca presso la spiaggia
e qui probabilmente sotto la protezione di una grande torre (fondata sopra
il minore dei terrazzi morfologici degradanti dall’alto della città) funzionale
anche per l’avvistamento sul mare e per
la vicina difesa dei due porti. Sullo stesso
sito di questa torre, poi romana, venne
costruito nella prima metà del XIII sec.
il Castello Ursino, allora ancora vicino e
incombente sulla spiaggia. Infatti, le fortificazioni delle antiche mura meridionali di Katane, erette lungo il margine di
un’alta scarpata sulla pianura (diretta da
O-NO a E-SE), pur dopo distruzioni
per assedi o sismi furono ristrutturate e
ricostruite negli stessi siti perché condizionate dalla geomorfologia dei luoghi, rimasti quasi inalterati sino al 1669
(anno della grande colata lavica, distruttiva e stravolgente, dell’Etna). In conseguenza una visione verosimigliante di
questa parte dell’antica Katane ci viene
oggi ancora fornita dalle immagini documentarie con le mura meridionali dei
91
Figura 3. Foce del Simeto
secoli XVI e XVII (con ristrutturazioni
di ruderi greco-romani) sino al Castello
Ursino vicino alla spiaggia e con la Via
antica ancora diretta verso la sua porta
d’ingresso.20 In adiacenza a questa, dalle
mura fortificate greche e lungo 400-500
m della spiaggia meridionale, si trovava
il Porto militare della città, protetto intorno da una palizzata fortificata, dove si
vennero a stanziare: nel 415 a.C la flotta
degli Ateniesi; nel 396 a.C. quella dei
Cartaginesi (cfr. Diod. XIV 62 in n. 28
). Questa enorme flotta di 3.250 navi
(Diodoro XIV 60 e 62), giunta a Katane,
in attesa della fanteria d’Imilcone che,
per la via bloccata dalla lava dell’Etna (5
Km a NE di Acireale) stava aggirando
il vulcano, si stanziò dal piccolo porto
roccioso della città a oltre la spiaggia del
Porto militare, per poi distribuirsi probabilmente sino agli inizi dell’attuale
“Plaia”.
8. LA FASCIA COSTIERA
DESCRITTA DA DIODORO
(XIV 59-60), POCO
PRIMA DELLA BATTAGLIA
NAVALE DEL 396 A.C.,
A INTEGRAZIONE
DELLA PRECEDENTE
RICOSTRUZIONE
PALEOGEOGRAFICA CON
IL CORSO TERMINALE
DEL SIMETO E LA SUA
FOCE
Dal confronto tra la descrizione della battaglia navale (Diodoro XIV 59),
predisposta da Dionìsio (in assenza
della fanteria d’Imilcone) sulla pianura a Sud di Katane per la ricostruzione
paleogeografica si può infine dedurre
quanto segue:
1) l’accampamento siracusano, già localizzato in adiacenza al passaggio
sul Simeto della via Leontinoi-Katane dovendosi da questo una gran
massa di fanteria trasferire in poco
tempo sulla spiaggia presso la foce
attraverso un’impervia fascia paludosa, doveva essere lontano dal mare 1.5-2 Km e con questa probabilmente collegato da lunghe bretelle
viarie lungo gli argini fluviali;
2) poiché il tratto terminale del Simeto,
come scrive Diodoro (XIV 59), era
allora navigabile per penetrazione del
mare dalle triremi a basso pescaggio
dalla foce sino all’accampamento siracusano adiacente al traghettamento del fiume (Thuc. VI 65, 1), questi
doveva essere sbarrato sulle rive almeno da un phrourion per impedire ai
nemici la risalita sino allo strategico
attraversamento della via LeontinoiKatane. Inoltre poiché viene ancora
scritto da Diodoro (XIV 60, 1) che
prima della battaglia del giorno dopo
non si vedevano fra loro: a) i 20.000
fanti siracusani fatti schierare lungo
la spiaggia (almeno sino a 1 Km a
Nord dalla foce del Simeto e all’altezza della loro flotta sul mare) di
fronte all’enorme flotta cartaginese
distribuita a Sud per almeno 1 Km
sino all’attuale Plaia; b) che soltanto quando queste ultime navi incominciarono a muoversi verso sud per
schierarsi con il resto della flotta per
la battaglia avvistarono presto i fanti
siracusani, si deduce che le navi car-
taginesi, prima stanziate alla Plaia,
erano distanti dai fanti siracusani almeno 4,5 Km (come visivamente verificato) e dalla foce del Simeto circa
5,5 Km, in accordo con quanto detto
prima. In conclusione, si può dunque
affermare che la battaglia navale del
396 a.C. tra le flotte dei Siracusani e
dei Cartaginesi deve essersi svolta a
non più di 6,5 Km dal Porto commerciale adiacente a Katane. Oggi la
zona centrale di quello scontro tra
le flotte (perso disastrosamente dai
Siracusani per avventatezza del loro
ammiraglio) si dovrebbe trovare nello “specchio di mare”, oggi coperto
in gran parte all’interno della fascia
costiera formata da sabbie, alluvioni e bonifiche successive all’evento,
al centro dei semi-arcuati toponimi
cartografici delle contrade S. Francesco alla rena e S. Giuseppe alla rena,
di fronte alla vecchia Zona Industriale di “Piano (ex Pantano) d’Arci” a
Sud di Catania. Dionìsio, dopo il disastro navale subìto, per non rischiare che durante il successivo scontro
con i fanti Cartaginesi la loro flotta
potesse attaccare e conquistare Siracusa (com’era avvenuto prima Messina) decise di vincere il 2° tempo di
quella partita a Siracusa, rinserrato
tra le sue inespugnabili fortificazioni
già costruite. Qui lo stratega, dopo
aver sfiancato il nemico in un inutile
e lungo assedio, con una sortita notturna di aggiramento del campo nemico sul Porto Grande, riportò una
strepitosa vittoria decisiva per i greci
e per i destini dell’Occidente.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
92
località Primosole, Monaco et al. (2004), n. 11, scontrate in numerosi sondaggi petroliferi dalla periferia a Sud di Catania sino ad Agnone,
1. Il fiume Gornalunga sino al 1621 aveva un Fig. 1 a p. 172.
corso ancora indipendente dal Simeto, del 8. Tre sondaggi petroliferi a carotaggio conti- che da allora sino alle bonifiche si sono estese
quale fu reso affluente con l’escavazione di un nuo eseguiti nella metà occidentale del Panta- progressivamente verso le spiagge. Le paludi,
nuovo alveo ad opera privata del vescovo di no di Lentini, bonificato negli anni cinquanta a parere degli autori, potrebbero ripristinarsi
Catania, proprietario del feudo di S. Agata, e giacente oggi a -2,5 m sotto il livello del verso la fine di questo secolo per l’ingressione
per evitare le ripetute alluvioni che invadeva- mare, hanno accertato nei 2/3 m superiori del del mare (sollevatosi per il riscaldamento glono e isolavano le sue campagne.
substrato depositi lagunari con limi organici bale) e per l’arresto del sollevamento tettonico
della bassa pianura di Catania.
2. La spiaggia dell’Oasi è da 65 anni sotto- nerastri e con fossili di gasteropodi polmonati
posta all’erosione accelerata favorita dal solle- che sono risultati appartenenti a una laguna 14. La modellazione della costa, sin dalla
vamento marino per lo scioglimento glaciale; costiera (formatasi 2858 +/- 70 anni fa) recin- Protostoria, è stata determinata sia dal moto
infatti, nell’ultimo decennio (1953-1982) ha tata da dune sabbiose. Si veda Monaco et al. ondoso dei venti dominanti, sia dalle correnti
da o per lo stretto di Messina che, erodendo e
subito il ritiro di 4-30 m della riva. Si veda: (2004).
Amore et al.,(1983).
9. Per l’invasione del mare per 2 Km dalla foce deponendo i sedimenti trasportati, hanno fatto spostare, come si dirà più avanti, la foce del
3. L’Oasi del Simeto, Riserva dal 1984 per il del Simeto, si veda Marinelli (1926). Tra il
Simeto e la larghezza delle spiagge (v. Longrande interesse floristico e ornitologico, è V-IV sec. a.C., durante la fredda PEG Arcaighitano e Colella, 2007, p. 198, Figure 2, 15ca,
piogge
con
temporali
si
avevano
già
all’iun’area allungata verso Nord di 8 x 2,3 Km e
17). Molto importante per il rimodellamento
limitata dal mare da una spiaggia con antiche nizio di Settembre, come avvenne per esemin larghezza della spiaggia a Sud di Catania
dune ricoperte dai resti dell’antica macchia pio, durante la ritirata Ateniese del 413 a.C.
è stato poi il promontorio di 600 metri creada
Siracusa,
nei
pressi
di
Floridia
(Tucidide
mediterranea. Il limite meridionale è prossito nel mare dalla lava dell’eruzione vulcanica
mo alla vecchia foce del fiume Gornalunga, VII 79,3) e di Noto (VII 84,3). Infatti, per il
del 1669 che, dopo aver circondato il Castello
ora ridotta a un piccolo lago a circa 1,5 Km tempo avverso, in Sicilia la guerra terrestre si
Ursino, seppellì la vicina spiaggia con l’antico
a Sud della recente foce artificiale del fiume sospendeva anche con la navigazione (per le
Porto militare di origine greca.
intense
mareggiate)
che
riprendevano
in
priSimeto. E poco a sud, si trova il più ridotto
15. L’antico porto fluviale di Leontinoi si
Lago Gurnazza che indica una fra le posizioni mavera/estate (Thuc. VI, 8,1 e 30,1).
più meridionali raggiunte dalla foce del Sime- 10. La modellazione della costa, sin dalla pro- potrebbe trovare poco a N-E della Stazioto che all’inizio del XII secolo, secondo Edrisi, tostoria, è stata determinata sia dal moto on- ne FF.SS. dell’odierna all’interno della desarebbe arrivata ancora 1 Km più in basso. Si doso dei venti dominanti, sia dalle correnti da pressione in località Salemi-Guastella, un
ex-meandro del Terias coperto dalle alluvioveda: D’arrigo, pp. 598-99 e Fig.1.
o per lo stretto di Messina che, erodendo e deni. Nell’antico meandro dovevano conflui4. L’inizio del Periodo Caldo Medievale ponendo i sedimenti trasportati, hanno fatto re i fiumi di Cava Mulinelli e forsanche del
(1050-1270), simile a quello in età romana spostare la foce del Simeto e la larghezza delle Lisso-Carrunchio dai quali poi sarebbe sta(100 a.C-300 d. C.), fu però preceduto dal spiagge (v. Longhitano e Colella, Op. cit., p. to possibile trasportare le merci con piccole
minimo di Oort (1010-1050), un breve perio- 198, Figure 2, 15-17). Molto importante per barche in città. La posizione del porto, con
do di freddo intenso, piogge e neve nel Nord il rimodellamento in larghezza della spiaggia l’abbondante acqua di questi fiumi, sarebbe
Europa, provocando carestie e morti. Vedi: a Sud di Catania è stato poi il promontorio di stata strategica per le attività industriali e per
600 metri creato nel mare dalla lava dell’eruOrtolani e Pagliuca (2003; 2007).
i trasporti terrestri. Questi potevano avvenire
5. Negli ultimi 2.800 anni, nel Sud-Italia e in zione vulcanica del 1669 che, dopo aver cir- lungo due strade: una proveniente dalla foce
Sicilia, come in altre regioni dell’Anatolia e condato il Castello Ursino, seppellì la vicina lungo la riva destra del fiume Terias (oggi con
della Magna Grecia, dopo le siccità locali del- spiaggia con l’antico Porto militare di origine portata molto ridotta); l’altra lungo l’antica
le prime metà dei secoli XII-IX a.C. (nell’in- greca.
Via principale che si dirigeva a meridione
stabile fase olocenica Sub-boreale), per l’inizio 11. Le cicliche alternanze climatiche, con pe- verso la vicina periferia di Leontinoi e dalla
dell’attuale fase Sub-atlantica sono iniziati gli riodi simili, sono iniziate con la “Fase clima- parte opposta, attraversando il fiume sul Ponalterni e ciclici periodi climatici. E nei suc- tica del Sub-atlantico” (800 a.C. circa). Vedi: te dei Malati, a Katane (strada oggi ripercorsa
cessivi periodi caldo/aridi avvenuti nell’Isola Mariani, Il Clima, 2006, pp. 20, 21 e Tab. 4. dalla SS. 194).
si è riattivata l’intensa erosione delle spiagge, Infatti, il sito di Katane e Leontinoi, fondate 16. Da Siracusa i collegamenti viari proseguicome oggi. Esemplare, oltre a quella con il nella seconda metà del secolo VIII a.C., fu vano ancora a Ovest con il tratto della Via per
Simeto, la lunghissima spiaggia tra Cattolica scelto ai margini estremi della vasta e ino- Akrai (l’attuale Palazzolo Acreide), parte della
Eraclea e Montallegro che in circa 40 anni è spitale pianura per avere: un porto marino o Via Selinuntina, e a Sud con la Via Elorina.
fluviale (con foce stabile); un sito salubre e un Si veda: R. Mirisola, L. Polacco (1996) pp.
arretrata di 200 m.
6. I precedenti periodi freddo-umidi e piovosi fertile retroterra.
49-63 e 65-75, Figure 4-30. Che le succitate
NOTE
12. Le tre precedenti migrazioni della foce del
Simeto (1016, 1290 e 1564) hanno avuto la
massima ampiezza nella progressione da Sud a
Nord di 5 km, mentre in quella del 1784-1800
l’ampiezza, è stata di 4,2 Km. Infatti, dopo il
1564 l’ampiezza sinusoidale del “Diagramma
periodale delle migrazioni della foce”, pur con
stesso periodo medio di 137 anni, si è andata
smorzando. In conseguenza l’escursione verso
Nord nei secoli precedenti all’anno mille potrebbe essere stata anche maggiore e almeno
7. La via antica da Catania a Lentini, allora di un altro Km. Si vedano: D’Arrigo, 1953, pp.
detta di “Passo Martino”, era ancora rimasta 598, 599-600 e Figura1; Marinelli (1926).
dal VI sec. a.C. sino alla fine del XIX secolo il 13. Per l’ipotesi paleogeografica con la linea di
percorso meno distante dal mare per gli inter- spiaggia del golfo di Catania nel Neolitico e
posti terreni paludosi lungo la fascia costiera, nel sec. X a.C., vedi: Monaco et al., 2004, Op.
detti più a Nord “I Pantani di Catania”.Vedi: cit., p. 178 e Figura 5; pp. 177 e 178-181. E in
Sciuto Patti (1880); e, per la serie delle antiche Fig. 1 a p. 172 si può vedere (sulla corografia
paludi (definite con sondaggi) tra Catania e attuale) la lunga serie di paludi e lagune, ri(protrattisi anche per circa 2 secoli) sono anche detti “PEG” per similitudine con l’ultimo
periodo del 1580-1820 che, per le temperature molto rigide con nevicate nell’Europa transalpina), è noto come “Piccola Età Glaciale”.
Si vedano: Le Roy Ladurie (1982); Ortolani e
Pagliuca (2007, pp. 13-17); Marabini (2002);
le portate di massima piena e magra alla foce
nel 1824 e nel 1938, il Simeto ha assunto un
carattere torrentizio. Vedi D’Arrigo, Op. cit.
p. 607.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Vie fossero larghe tanto da far marciare un
esercito in colonna in file di 4/5 fanti, si evince anche dalla descrizione tucididea (Thuc.
VII 78,1) della ritirata dei 40.000 Ateniesi
dall’accampamento sul Porto Grande di Siracusa (413 a.C.): “L’esercito marciava in formazione serrata; davanti guidavano le truppe di
Nicia, quelle di Demostene seguivano dietro; le
salmerie e la massa restante stavano in mezzo
tra gli Opliti”.
17. Diodoro Siculo nel L. XIV al cap. 58,
infatti, così scrive: “Dionisio… “Dopo, fece
avanzare tutto l’esercito ad una distanza di 160
stadi da Siracusa e si accampò presso il così detto
Tauro”.… “Aveva allora trentamila fanti, più di
tremila cavalieri, centottanta navi ma di queste
poche erano triremi”. Il percorso della numerosa
fanteria di Dionigi di 160 stadi in un giorno
sono stati considerati equivalenti a 28,5 Km
93
circa, stimando qui ancora valido lo stadio BIBLIOGRAFIA
1926, Firenze, I.G.M..
itinerante di 177,6 m. Infatti, questa distan- Amari M. (1817), Idrisi, Biblioteca arabo- Mirisola R. (2015), Il Porto Piccolo con l’arsenale dionigiano del Lakkios, forza strategiza corrisponde a quella reale verificata sul
sicula, Palermo.
ca di Siracusa greca, Atti del I convegno napercorso dell’antica strada che partendo dalla Amari M. (1843) La Guerra del Vespro Sizionale di geoarcheologia, Aidone (EN),
ciliano. Un periodo delle storie Siciliane del
porta Nord di “Siracusa dionigiana”, circa a
geologia dell’Ambiente, suppl.2/2015.
secolo XIII, Vol. II, Cap. XIII, 15, II a Ed.
metà dell’odierno Corso Gelone, arrivava sino
Mirisola R., Polacco L. (1996), ContriItaliana,
Libreria Baudry, Parigi.
all’accampamento presso il M. “Tauro”, vicino
buti alla paleogeografia di Siracusa e del terAmari M., Schiapparelli C. (1883), L’Ial paese marittimo di Brucoli.
18. La Soprintendenza di Siracusa alla fine
degli anni ’90 ha condotto indagini archeologiche presso il Comune di Priolo intorno alla
cosiddetta “Guglia di Marcello” (un Mausoleo
ellenistico) e nella seguente fascia a ponente
in adiacenza alla ferrovia FF.SS. in località
Specchi-Aguglia presso la Penisola di Magnisi (l’antica Thapsos). Gli scavi hanno messo in luce tre lunghi tratti stradali della Via
Syracosion-Megara-Leontinoi diretti da S-SE
a N-NO ma sub-paralleli e spostati sempre
più verso ovest dal periodo greco a quello romano. Si tratta di tre successive ricostruzioni
più all’interno dello stesso tracciato probabilmente per evitare nuovi smottamenti e impaludamenti provocati dalle piene invernali dei
torrenti provenienti dal vicino Monte Climiti
e dalla risalita delle acque dal vicino Pantano
di Thapsos (ex antiche saline). I tre tratti stradali dai dati di scavo sono risultati: a est della
Guglia i due greci (tra la metà-fine del VI e
la prima metà del V sec. a.C.); ad ovest della
Guglia, il largo tratto romano largo 12 m e
in basolato calcareo poligonale. I due suddetti
tratti greci più a est, in acciottolato e con solchi di carreggiata a 1,65 m, hanno mostrato:
il più antico a levante, un asse stradale largo
2,80 m; il più interno ed evoluto, con acciottolato alto 0,70 m contenuto lateralmente da
due filari di blocchi calcarei, larghezza di 3,70
m. I caratteri e le misure di quest’ultimo tratto
viario erano simili a quello successivo presso il
lontano ingresso della Porta occidentale arcaica di Megara Hyblea.
19. Il corso terminale del fiume Simeto con
la foce si è spostato tra il 1677 e il 1800 dalla
posizione più a meridione del Lago Gurnazza
(a circa 12 Km da Catania), sino alle contrade
più settentrionali di Passo Martino-Torrazza
con un’escursione di 3 Km. Invece, per l’andamento sinusoidale smorzato (crescente a
ritroso) negli anni 1556,1230 e 950, la posizione della foce si trovava ancora poco più a
settentrione (con un’escursione tra Sud e Nord
di 5 Km). Vedi: D’Arrigo (1953) pp. 599 e
601 con Fig.1 (Diagramma periodale) e Fig.2
(Migrazioni della foce del Simeto). Un autore
riferisce (senza cronologia e fonti) un’eccezionale risalita della foce ancora più a Nord.
20. Le corrispondenze tra i resti della Katane
greca-Catana romana e della città fortificata
rinascimentale, pur ristrutturata sulle città antiche in parte ricostruite dopo guerre e terremoti, sono chiare osservando il confronto fra
i disegni militari degli architetti per la difesa
della città spagnola fra XVI e XVII sec. e le
Carte con restituzioni grafiche dell’assetto urbano del 1584 e della Catania moderna (prima e post sisma del 1693). Si veda: Scaglione
(2010, pp. 51-53 e Figure 1-2-3; 67-69; 91-92
e Figura 10; 95 e Tavola 2; 99 e Tav. 4; 129 e
Tav. 13).
talia descritta nel “Libro di Ruggero” compilato da Edrisi, in Memorie dell’Accademia
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
94
Le vie di comunicazione nel
suburbio orientale di Ostia
in età romana
Simona Pannuzi
MIC – Istituto centrale per il restauro,
Roma
E-mail:
[email protected]
The roads in the eastern suburb of Ostia
in roman age
Parole chiave: viabilità, Ostia, età romana, meandro fluviale, Tevere
Key words: roads, Ostia, roman age, river meander, Tiber river
RIASSUNTO
Le indagini di scavo archeologico
preventivo, portate avanti negli anni
duemila dall’ex Soprintendenza ostiense,
anche affiancate da una rilettura critica
della documentazione d’archivio relativa
a vecchi scavi novecenteschi, hanno consentito di ampliare le nostre conoscenze
circa la viabilità antica del suburbio meridionale ed orientale di Ostia, venendo
in parte a precisare e a modificare alcune
ipotesi proposte in precedenza. Numerosi sono i nuovi dati emersi durante
queste indagini, sia a livello topografico,
che monumentale. Le indagini effettuate testimoniano come l’individuazione
di qualsiasi resto archeologico può essere determinante nella ricostruzione
della viabilità territoriale, utilizzata per
collegare insediamenti, costruzioni, o
semplicemente luoghi usati per i più diversi motivi dalla popolazione che viveva
e frequentava quella zona.
In particolare, importanti dati sono scaturiti circa i percorsi stradali
esistenti nell’area fuori Porta Romana
(il cd.”Trastevere Ostiense” e la zona
dell’attuale borgata di Ostia Antica),
caratterizzata dalla presenza dell’antico meandro del Tevere, e fuori Porta
Laurentina (la moderna loc. Pianabella), nella quale si estendeva senza soluzione di continuità una estesissima
necropoli, separata in ambiti funerari
differenti solo modernamente, con la
costruzione dell’attuale tracciato della
via Ostiense-via del Mare e della Ferrovia Roma-Lido. Di particolare interesse
è il collegamento tra la viabilità antica
del suburbio ostiense e l’attracco portuale posizionato nel meandro fluviale.
Altri contesti significativi riguardo alla
viabilità sono stati quelli messi in luce
nella zona della grande necropoli meridionale, dove è stata notata una chiara
diversificazione in età romana imperiale
tra le strade principali, basolate, e quelle
secondarie sistemate a battuto, a volte
rinforzato con cocciopesto.
Il percorso del Tevere nel suburbio
orientale dovette condizionare in modo
determinante la maglia stradale, procurando probabilmente cambiamenti
di percorso della strada più importante
del territorio, l’antica via Ostiense, che
dovette modificare il suo tracciato verso
la città in conseguenza degli spostamenti del meandro del fiume. Nel tratto più
verso Roma la strada romana mantenne
sempre l’allineamento antico, scavalcando il grande acquitrino su un imponente
viadotto, già presente in epoca romana
e ancora ben indicato nella cartografia
cinquecentesca ed oltre.
Per la ricostruzione delle comunicazioni stradali nell’area ostiense nelle
epoche post-antiche è infatti da sottolineare il significativo supporto della
cartografia rinascimentale e moderna.
Alcuni dei percorsi stradali utilizzati
in età antica mantennero una certa continuità di tracciato anche nelle epoche
successive, come si è constatato nell’area poi occupata dall’abitato medievale
di Gregoriopoli ed anche per l’asse viario
parallelo all’acquedotto, odierna via Gesualdo.
INTRODUZIONE
I risultati emersi dalle indagini archeologiche, effettuate negli ultimi
anni1, insieme allo studio della documentazione d’archivio ed al riesame dei
vecchi scavi novecenteschi, hanno consentito di ampliare le nostre conoscenze
circa la viabilità antica nel suburbio della
città romana di Ostia. Numerosi sono i
nuovi dati emersi durante le recenti ricerche, sia a livello topografico, che monumentale, evidenziando come, anche
durante scavi preventivi, effettuati con
tempi ristretti in aree limitate ed a volte
già manomesse, possano comunque raggiungersi risultati di notevole interesse.
In particolare, riguardo alla ricostruzione dei percorsi stradali di un determinato territorio, le indagini archeologiche,
anche quelle preventive, testimoniano
come l’individuazione di qualsiasi resto
antico possa essere determinante nella
ricostruzione della rete viaria, utilizzata
per collegare insediamenti, costruzioni,
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
o semplicemente luoghi usati per i più
diversi motivi dalla popolazione che viveva e frequentava quel territorio.
IL PERCORSO DELLA VIA
OSTIENSE E IL MEANDRO
FLUVIALE
Nell’immediato suburbio della città
il percorso della via Ostiense, fondamentale collegamento tra Roma e Ostia,
e le sue modalità costruttive furono
condizionate dall’estensione del grande
bacino palustre e, nella zona più vicina
all’abitato urbano, dal meandro del Tevere. Quest’ansa scomparve definitivamente nei primi mesi del 1562, dopo la
piena del 15572, dando vita all’odierno
tracciato fluviale e provocando la creazione, nell’area prima occupata dallo
stretto meandro, di un’area acquitrinosa, conosciuta nella toponomastica
tardo-rinascimentale e moderna come
località Fiume morto (Fig.1). Secondo
alcune ricerche geoarcheologiche effet-
Figura 1. Pianta del territorio di Ostia di Giovanni
Battista Gingolani a.1692 (da Frutaz 1972, II, tav.
164, part.)
95
Figura 2. Veduta di Silvestro Appunti del 1745 (PAOANT, G 37)
tuate alla fine del secolo scorso ed altre
realizzate recentissimamente (Arnoldus
Huyzendveld e Paroli, 1995, pp. 383385, Fig. 2; Pannuzi et al. c.s.), il meandro ostiense, avrebbe subito nel tempo
dei cambiamenti nel suo lobo meridionale, con uno slittamento verso Sud: il
fiume sarebbe venuto così a frapporsi al
tracciato più diretto della via Ostiense
verso la sua meta finale, la città di Ostia3.
Infatti, sappiamo dai ritrovamenti archeologici (Serra, 2007, pp.22-61;
Carbonara e Panariti, 2016, pp. 109117) e dalla cartografia rinascimentale4
che nel suburbio ostiense la strada manteneva un percorso rettilineo, parallelo
all’antico acquedotto anch’esso proveniente da Est (vedi Fig. 1)5. La strada
superava la grande laguna ostiense grazie alla costruzione di un lungo ponte, probabilmente realizzato già in età
tardo-repubblicana6. Questo permetteva di scavalcare l’area acquitrinosa, pur
mantenendo un collegamento idrico
tra lo Stagno vero e proprio e la zona
lacustre più a Nord, con tutta probabilità utilizzata già in epoca antica come
Saline (Pannuzi, 2013, pp.2-5; Pannuzi,
2019b, pp.12-14). Tale viadotto soprav-
visse fino all’età moderna, poiché risulta
ancora chiaramente rappresentato nella
carta cinquecentesca di Eufrosino della
Volpaia, nel seicentesco Catasto Alessandrino ed in modo più schematico
in una pianta delle Saline conservata
all’Archivio di Stato di Roma databile al
XVIII secolo, mentre in una veduta del
1745 di Silvestro Appunti il ponte basolato è raffigurato in buone condizioni
ed ancora percorribile (Frutaz, 1972, II,
tavv. 30 e 128; ASR, Ostia b1586, cit. in
Pannuzi, 2013, fig. 10; PAOANT, Archivio Fotografico, G 37) (Fig. 2). Dalla
testimonianza del viaggiatore svizzero
C.De Bonstetten sappiamo che era ancora utilizzato nei primi dell’Ottocento
per raggiungere l’abitato ostiense (De
Bonstetten, 1804-1805, p. 40; Frutaz,1972, III, tav. 226).
In questo tratto i resti della via Ostiense sono stati rinvenuti durante alcuni scavi effettuati negli anni ‘20 del Novecento,
che hanno messo in luce un basolato largo
circa m. 5 e i suoi strati di preparazione in
scaglie di tufo e breccia fluviale7. La strada e le sue preparazioni erano contenute
sui fianchi da blocchi di tufo (larghezza
totale di m. 6,4), con il rafforzamento
esterno di una serie di contrafforti sempre
in tufo; la struttura poggiava su una potente massicciata in calcestruzzo, gettata
su palificazioni lignee8.
Recentissimamente questo medesimo tratto stradale è stato oggetto di una
nuova indagine archeologica, di cui sono
stati comunicati i primi dati preliminari
(Lorenzatti, D’Ammassa, De Laurenzi
2018), senza accennare minimamente
agli importantissimi ritrovamenti passati e senza purtroppo portare nuovi
elementi circa le modalità costruttive
antiche; viceversa è stato ipotizzato un
riutilizzo in età rinascimentale dei resti
dell’acquedotto romano adiacente alla
strada, al fine di un ipotetico allargamento della sede viaria. In realtà, la pavimentazione a battuto rinvenuta, definita
“tarda”, presenta una larghezza coincidente all’incirca con quella dell’antica
carreggiata stradale e non risulta obliterare in alcun modo la struttura dell’acquedotto9.
Grazie alle sezioni realizzate in occasione di scavi, effettuati nel secolo
scorso nei pressi della borgata moderna
di Ostia Antica, è stato possibile notare
che i resti della preparazione stradale
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
96
Figura 3. Suburbio di Ostia, resti dell’antica via Ostiense (PAOANT, Archivio Disegni, pianta e sezione inv. 6312,
dis. A. Pascolini a.1983-84, in Ricciardi, Santa Maria Scrinati 1996, fig.126)
Figura 4. Suburbio di Ostia, Trincea SIP con indicazione dei ritrovamenti dell’antica via Ostiense (PAOANT,
Archivio Disegni, inv. 4434, dis. G. e A. Pascolini a.1974
furono rinvenuti molto in profondità
(quasi m. 4 sotto il livello stradale attuale) (PAOANT, Archivio Disegni, inv
4434 a.1974, dis. dis. G e A.Pascolini e
inv. 6312, a.1983-84 dis. A.Pascolini, cit.
in Ricciardi, Santa Maria Scrinari, 1996,
fig.126) (Fig.3). In particolare, dalla sezione allegata alla pianta inv.4434, realizzata per cavi SIP nel 1974 (Fig.4), nei
vari punti di rinvenimento al di sotto
della “breccia”, da interpretare più precisamente come una pavimentazione
stradale glareata, appaiono preparazioni
stradali differenti, ma sempre fondate
su un livello di grandi blocchi di tufo;
in un punto sembrerebbe che i livelli
di pavimentazione glareata siano due,
benchè ciò non sia chiaramente specificato10. Inoltre, all’altezza del moderno
abitato ostiense risulta rinvenuta una
pavimentazione basolata, ad un livello
stratigrafico superiore a quello glareato. La strada presentava un andamento chiaramente in salita verso Ovest e
all’altezza dell’incrocio con la moderna
via Ducati i livelli stradali rinvenuti risultano senz’altro due11.
Nell’attuale borgata di Ostia Antica
la via Ostiense fu messa in luce in più
punti al di sotto della carreggiata stradale della moderna via dei Romagnoli
(Floriani Squarciapino, 1958, pp. 5260), durante differenti lavori di pubblica utilità effettuati per la posa in opera
di cavidotti nel 193812, poi nel 1947 ed
ancora nel 1974 e negli anni ’80 del Novecento13: purtroppo la documentazione conservata è sempre molto scarna e
non fornisce alcun elemento utile per la
Figura 5. PAOANT, Archivio Disegni, pianta e sezioni inv. 2436: il ritrovamento dell’antica via Ostiense al di sotto dell’attuale via dei Romagnoli all’altezza della moderna borgata di Ostia Antica
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
97
Figura 6. PAOANT, Archivio Fotografico, n. 2640, part.: l’antica via Ostiense rinvenuta al di sotto dell’attuale
via dei Romagnoli all’altezza della moderna borgata di Ostia Antica
datazione del tratto stradale rinvenuto
e per identificare le strutture adiacenti messe parzialmente in luce (Fig.5).
Dalle immagini fotografiche del 1938 si
nota che la strada antica individuata sul
lato più orientale del moderno abitato
(davanti alle “case popolari”) era basolata e presentava crepidini in blocchi di
tufo (Fig.6).
Sempre in questa zona, sul lato meridionale della strada già nel 1831 con
gli scavi Pacca, ricordati da Pietro Campana, e poi nel 1911 con gli scavi del
Gatti, furono rinvenuti sepolcri anche
di una certa monumentalità rivestiti in travertino14. Nella fondamentale
planimetria di Ostia Antica e del suo
immediato suburbio di Italo Gismondi
(a.1949) risultano numerose indicazioni
di strutture su questo lato, difficilmente
interpretabili però vista la scala di rappresentazione e la limitatezza dei resti
messi in luce15.
A Sud del percorso viario antico, in
quella che è l’odierna Piazza Gregoriopoli, sempre negli anni ’30 del Novecento furono rinvenuti alcuni edifici
funerari (PAOANT, Archivio Fotografico, per es. B 2175, B 2422, poi meglio
descritti in una planimetria del 1991
Figura 7. Suburbio di Ostia, ritrovamenti di età romana lungo via dei Romagnoli, via delle Saline e via della Gente Salinatoria(PAOANT, Archivio Disegni, inv. 9846,
dis. A. Pascolini a.1991)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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(PAOANT, Archivio Disegni, inv. 9846,
a.1991, dis. A. Pascolini) (Fig.7); in anni
recenti è stato qui scavato un colombario ed altre strutture funerarie sono state rinvenute tutt’intorno (Pannuzi et al.,
2006, pp. 203-206, Pannuzi et al., 2013,
pp.366 e 376-381; Pannuzi, 2019a, pp.
184-186). Invece, subito a Nord del
tracciato stradale, all’altezza dell’incrocio tra via dei Romagnoli, via P.Ducati
e via delle Saline, furono rinvenute alcune strutture murarie di età imperiale ed
alcune formae con sepolture ad inumazione di non meglio specificato ambito
cronologico. Più ad Ovest, al di sotto di
case all’epoca di proprietà delle famiglie
Menghi e Savini, nel 1958 furono visti i resti di un edificio forse a carattere
commerciale (PAOANT, Archivio Storico, Giornale di Scavo vol.33,1, a.1958,
Giornale di Scavo vol.45, a.1974, scavi SIP e PAOANT, Archivio Disegni,
planimetria con sezioni di A. e G. Pascolini del 1974, inv.4434; planimetria
inv.9846, dis. A. Pascolini a. 1991).
Di recente, la sistemazione di un
condotto fognario all’incrocio tra via
Gesualdo-via Claudia Quinta e via dei
Romagnoli ha permesso di intercettare
un tratto di basolato con tutta probabilità anch’esso attribuibile all’antica
via Ostiense. Anche in questo punto la
strada, costruita su una preparazione di
circa cm. 90 di scaglie di tufo, era fornita
Figura 8. Particolare del tratto di basolato stradale
con crepidine rinvenuto nel 2007 all’incrocio tra via
Gesualdo-via Claudia Quinta e via dei Romagnoli
all’altezza di piazza Gregoriopoli (foto ACEA)
di crepidine (Pannuzi, 2013a, pp. 366367, fig. 191) (Fig.8). Nella sezione
del 1974 per cavi SIP prima ricordata
(PAOANT, Archivio Disegni, inv.4434)
(vedi Fig.4), il disegnatore Giorgio Pascolini indica in questo tratto, all’altezza
dell’incrocio tra via dei Romagnoli e via
Ducati, due livelli della strada, riferibili con tutta evidenza a due differenti
periodi, purtroppo di non specificata
cronologia, ed individuati da una pavimentazione a basoli al di sopra di un
più antico tracciato basolato. Pertanto,
appare abbastanza chiaro che tale percorso stradale abbia avuto nel tempo
risistemazioni e ripavimentazioni, forse
anche in connessione con lo sviluppo
edilizio lungo la carreggiata stradale e
con i possibili impaludamenti che potevano verificarsi in questo territorio nei
punti più vicini ad aree d’acqua, come lo
Stagno ed il meandro del Tevere.
Grazie ai successivi ritrovamenti,
perciò, il percorso rettilineo della via
Ostiense risulta certo dalla zona dello
Stagno fino all’altezza dell’attuale piazza Gregoriopoli nella moderna borgata.
Tale tracciato è riportato graficamente
in una pianta conservata nell’Archivio
Disegni del Parco Archeologico di Ostia
Antica (PAOANT, Archivio Disegni,
inv. 11138, a. 1993, disegno di A. Pascolini) (Fig.9), dove è indicato il ritrovamento anche di un tratto della strada
più ad Ovest, poco prima dell’ingresso
originario al Borgo medievale presso la
torre quadrangolare, di cui purtroppo
non risultano altre notizie.
Proprio in quest’area il percorso
originario della via Ostiense di età romana doveva lambire l’antico meandro
dal Tevere. Recenti ricerche geoarcheologiche in quest’area hanno ulteriormente precisato lo studio del Segre
sull’evoluzione del percorso del Tevere
dall’inizio dell’Olocene alle epoche
storiche (Dragone, Malatesta, Segre,
1960-1961; Dragone et al., 1967; Segre,
1986), venendo a fornire una puntuale
localizzazione della riva sinistra dell’ansa fluviale, quella più esterna, con i suoi
successivi spostamenti verso Sud e verso
Figura 9. Suburbio di Ostia, resti dell’antica via Ostiense, dell’acquedotto romano e dell’imbarcazione rinvenuta in quello che doveva essere l’antico alveo fluviale (PAOANT,
Archivio Disegni, pianta inv. 11138, dis. A. Pascolini a. 1993)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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Figura 10. Borgo di Ostia, basolato romano rinvenuto al di sotto della moderna via del Vescovado (PAOANT, Archivio Disegni, inv. 2463, dis. A. Pascolini a. 1969)
Est nel corso dell’età storica (Arnoldus
Huyzendveld e Paroli 1995; Salomon et
al., 2017; Pannuzi et al., c.s.). In particolare gli slittamenti verso Sud dovettero
condizionare necessariamente il tracciato della via Ostiense, la viabilità extraurbana ad essa collegata e la localizzazione
degli edifici presso il fiume16.
Infatti, già da un importante studio
del 1995 di A. Arnoldus Huyzendveld,
supportato da indagini geoelettriche, è
stato evidenziato che la riva sinistra del
fiume nella zona del meandro subì uno
spostamento verso Est e verso Sud tra
l’età tiberiana e le epoche successive, con
un allargamento dell’ansa fluviale nella zona più vicina al Castello di Giulio II17. Dalla planimetria elaborata in
quella occasione, con l’indicazione dei
diversi tracciati fluviali nelle differenti
epoche, appare chiaro come, dopo l’età
tiberiana, la via Ostiense avesse trovato il suo percorso verso la città sbarrato
dall’alveo del fiume, con l’impossibilità
di raggiungere Porta Romana tramite
un percorso rettilineo.
Inoltre, altre importanti precisazioni
a questo riguardo sono state acquisite
grazie ad una ricerca geoarcheologica
portata avanti dall’équipe francese di
J-P. Goiran e F. Salomon con la collaborazione dell’allora Soprintendenza
Archeologica di Ostia (Salomon et al.,
2017; Pannuzi et al., c.s.), che, grazie ad
una serie di carotaggi realizzati proprio
in questo tratto del meandro, hanno
puntualizzato l’ipotesi di uno slittamento progressivo da Ovest ad Est e
poi verso Sud della riva sinistra del fiume. Queste recenti indagini geoarche-
ologiche avrebbero evidenziato che la
massima estensione dell’ansa verso Sud
sarebbe avvenuta tra la metà del IV secolo a.C. e la metà del I secolo d.C., durante successive piene; tale slittamento
provocò inevitabilmente un’erosione del
più antico tracciato della via Ostiense.
Potrebbe ipotizzarsi perciò dall’età
repubblicana e fino forse all’età tiberiana un iniziale andamento rettilineo della
via Ostiense dall’attuale piazza Gregoriopoli fino a Porta Romana; poi in epoca pieno imperiale (post età tiberiana),
con l’allargamento dell’ansa fluviale, la
strada dovette assumere un nuovo percorso per evitare il meandro. In questa
zona, infatti, non risulta nè storicamente nè archeologicamente che vi fossero
ponti per scavalcare l’alveo fluviale18.
Ma se un ponte vi fu nel suburbio di
Ostia, senz’altro dovette essere costruito
in un punto che la tecnica ingegneristica
romana considerò favorevole in relazione alla corrente del fiume. Difatti questo
tratto del fiume non risulta essere tra i
più idonei per la costruzione di un ponte in muratura, poiché in un’ansa fluviale l’erosione della corrente si esercita
in modo diverso tra la sponda concava
(esterna), contro la quale viene posta
maggiore energia, rispetto alla sponda
convessa (interna), in cui invece la velocità della corrente si riduce, favorendo il
deposito di materiale alluvionale19.
Non conservandosi perciò alcuna testimonianza di un ponte in questo punto del fiume, né risultando ciò plausibile dal punto di vista strutturale, appare
più che probabile che la strada abbia
dovuto adattarsi ad un nuovo percorso,
probabilmente riutilizzando viabilità
già esistenti con differenti orientamenti, all’interno di un territorio in cui da
tempo erano presenti edifici di carattere
diverso, sepolcrale ma anche residenziale e/o commerciale.
Il cambiamento di percorso della
via Ostiense avvenne con tutta probabilità dopo un ennesimo, notevole
evento naturale, inquadrabile secondo
le ricerche paleoambientali in epoca
post-tiberiana, all’interno comunque di
un contesto idrogeologico che dal periodo repubblicano fino almeno alla fine
del II-III secolo dimostrò sempre una
grande mobilità. Una riconfigurazione
della viabilità nel suburbio orientale
della città avvenne forse dopo la piena
del 69 d.C.20, ricordata dalle fonti come disastrosa per Roma, dove addirittura venne abbattuto Ponte Sublicio, e
probabilmente anche per l’area ostiense.
Altrimenti si può ipotizzare che ciò sia
avvenuto dopo una delle piene successive: per esempio quella sotto Nerva,
oppure l’alluvione avvenuta all’epoca di
Traiano o quella ricordata nel periodo di
Adriano, che sappiamo aver creato molti
danni, o ancora quella del 147 d.C., di
cui vi è memoria anche nei Fasti ostiensi,
oppure, infine, quella avvenuta durante
l’impero di Marco Aurelio21.
Poichè il percorso rettilineo della
strada verso Porta Romana venne sbarrato dall’ansa del Tevere in un punto in
cui non risultava idoneo costruire un
ponte, poiché l’alveo del fiume era soggetto ad una certa mobilità, si può ipotizzare che per raggiungere la città sia
stato deciso di utilizzare percorsi già esi-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
100
stenti, senz’altro più tortuosi, aggirando
il meandro e deviando perciò il tracciato
della via Ostiense verso Sud, con un largo giro per poi risalire verso Nord, verso Porta Romana. Un accenno a questa
problematica si trova in un contributo
del 1991 di A. Pellegrino che, proponendo un cambiamento di percorso della strada tra l’età repubblicana e quella
post-tiberiana, ipotizza l’esistenza di
“un’ampia curva, come sembrerebbe dimostrare la direzione della via all’interno del borgo medievale di Ostia Antica”
(Pellegrino, 1991, p. 74). A causa delle
costruzioni già esistenti in quest’area del
suburbio, in particolare una serie di sepolcri e colombari di età tardo repubblicana e primo-imperiale, l’”ampia curva”
proposta, però, dovrebbe meglio leggersi
come un percorso a zigzag, con un cambiamento di direzione della strada a 90
gradi, presso l’angolo Nord-orientale
delle mura del Borgo medievale (Pannuzi, 2012, pp.97-98). Da questo punto
infatti si sarebbe potuto utilizzare un
tracciato viario con tutta probabilità già
esistente con andamento circa NordSud, il cui basolato è stato rinvenuto al
di sotto della moderna via del Vescovado all’interno del Borgo. Tale basolato è stato documentato graficamente
nel 1993 da Aldo Pascolini, sulla base
di ritrovamenti effettuati nei decenni
precedenti, alcuni dei quali, per scavi di
pubblica utilità, segnalati nei Giornali
di Scavo degli anni 1969 e 1973 e in
un breve articolo di Umberto Broccoli
(PAOANT, Archivio Storico, Giornale di scavo 1969, vol.44, scavi ACEA, e
Giornale di scavo 1973, vol.45, pp.1-6,
scavi SIP, e Archivio Disegni, inv. 2463,
dis. A. Pascolini a. 1969 e inv. 11138,
dis. A. Pascolini a. 1993; Broccoli, 1983,
pp.170-175, scavi ITALGAS) (Fig.10).
Secondo questa ricostruzione, perciò, il tratto di strada sopra menzionato rinvenuto davanti alle mura del
Borgo, di cui purtroppo non si hanno
immagini, né più esaustivi dati rispetto a quanto indicato nella planimetria
del 1993 (PAOANT, Archivio Disegni,
inv. 11138, dis. A. Pascolini a. 1993) (vedi Fig.9), sarebbe da riferire al più antico
percorso della via Ostiense, poi abbandonato dopo l’allargamento verso Sud
dell’ansa fluviale. A favore dell’ipotesi
che la strada romana rinvenuta sotto via
del Vescovado sia stata utilizzata come
nuovo percorso della via Ostiense, dopo l’abbandono dell’originario tracciato
rettilineo, sta il fatto che la basilica funeraria di S.Aurea, poi cattedrale ostiense,
fu costruita in età probabilmente tardoantica (o al più tardi nel VII secolo) con
la facciata e l’ingresso proprio su questa
strada basolata22.
La strada rinvenuta sotto via del Vescovado doveva essere in origine uno dei
percorsi principali all’interno di questa
parte della grande area funeraria del
suburbio meridionale di Ostia, visto il
collegamento diretto con il più antico
tracciato della via Ostiense, ad essa perpendicolare, la larghezza della carreggiata (circa m. 4)23 e il fatto che la strada fosse basolata, mentre altri percorsi
all’interno della necropoli erano glareati o semplici battuti di terra (Heinzelmann, 1998; Pellegrino et al.,1999,
pp.73-84; Pannuzi, Carbonara 2006,
pp.6-7). Infatti, questa parte dell’area
funeraria, dove poi si svilupperà l’abitato altomedioevale intorno alla basilica di
S.Aurea, era organizzata lungo una serie
di percorsi stradali secondari (attuale via
del Forno, via della Colonia, piazza della
Rocca), tra di loro paralleli e perpendicolari alla strada romana sotto via del
Vescovado (PAOANT, Archivio Storico, Giornale di Scavo vol.44, a.1969, p.7
scavi ACEA; Giornale di Scavo vol.45,
a.1973, pp.1-6, scavi SIP; Broccoli 1983,
pp.170-175, scavi ITALGAS). Dalla
documentazione conservata negli Archivi del Parco Archeologico di Ostia
Antica, emerge la presenza di differenti
tipologie viarie antiche, basolate, a cocciopesto e con semplici battuti di terra24,
ma è impossibile riuscire a definire, da
quanto sinteticamente riportato e senza
l’ausilio di un’adeguata documentazione
grafica e fotografica, se queste pavimentazioni siano riferibili allo stesso ambito
cronologico, ovvero, come è più probabile e confermato da alcuni cenni nel
Giornale di Scavo del 1969, se furono
individuati livelli pavimentali sovrapposti riferibili a periodi differenti, anche
medievali25. In particolare, sopra alla
strada romana basolata corrispondente
all’odierna via del Vescovado, furono
messi in luce due livelli di battuto, di
cui quello più antico definito in “cocciopesto”, mentre quello più recente realizzato in modo diverso, “con cocciopesto
misto a parte di materiale chiaro”, con
la presenza di ceramica smaltata definita
“medievale o moderna”26. Quest’ultimo
livello pavimentale, dalla descrizione
riportata, è senz’altro da riferire ad una
fase di vita rinascimentale dell’abitato,
mentre il più antico “cocciopesto” potrebbe probabilmente essere riferibile ad
una fase di pieno Medioevo.
Nella continuazione della trincea su
via del Vescovado da Sud verso Nord,
cioè dall’ingresso dell’Episcopio verso la
Porta aperta in età moderna nelle mura
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
del Borgo su piazza Umberto I, venne
notato che il basolato antico saliva di
quota. All’altezza della cinta muraria
medievale si verificò che il basolato era
stato distrutto per la costruzione della
fondazione delle fortificazioni del Borgo; subito fuori dell’abitato medievale fu
ritrovato invece un altro tratto di basolato stradale per una lunghezza di m. 1,527.
Purtroppo nella varie planimetrie questi
resti di pavimentazioni stradali messi in
luce nel Borgo sono indicati con una
medesima caratterizzazione, non permettendo di comprendere le differenze
costruttive e di distinguere la rete stradale romana da quella postantica28.
Nella fondata ipotesi che in età imperiale la strada romana rinvenuta sotto
via del Vescovado sia stata utilizzata da
un certo periodo in poi come viabilità principale del territorio (cioè come
via Ostiense), si può verificare una sua
supposta continuazione nel basolato in
parte ancora visibile nel giardino pubblico fuori del Borgo medievale presso
l’odierno Episcopio: questo percorso
stradale risulta deviare bruscamente verso Nord-Ovest rispetto a via del
Vescovado, evidentemente in modo da
aggirare la curva del fiume e riprendere una direzione diretta verso la città
di Ostia (PAOANT, Archivio Disegni,
inv. 11138, dis. A. Pascolini a. 1993)
(vedi Fig.9).
Notizie riguardo alla messa in luce di
questo basolato, tutt’oggi visibile, non se
ne hanno: è indicato nella planimetria
inv. 11138, dove risulta avere un leggero cambiamento di percorso verso Sud,
poco prima dell’incrocio tra la moderna
via dei Romagnoli e via della Stazione
Vecchia, punto in cui dopo i recentissimi
scavi è risultato visibile un altro tratto
di pavimentazione con basoli (vedi dopo)29. Tale diversa angolazione non è
però riportata per il medesimo percorso stradale nella planimetrica elaborata
dallo Heinzelmanm nel 1998 (Heinzelmanm, 1998, beilage 1). Solo uno scavo
più ampio con un nuovo ed accurato
rilievo potrebbero chiarire il preciso allineamento di questo percorso stradale,
che forse potrebbe aver avuto, in particolare per il tratto più ad Ovest, delle
trasformazioni in periodo postantico.
In questo tratto, nell’attuale parco
del Castello, la strada correva parallela
a Nord all’acquedotto di età imperiale,
il quale proveniva da Est, correndo nel
territorio ostiense affiancato all’antica
via Ostiense30. Nei pressi dell’area funeraria dove poi fu costruita la basilica di
S.Aurea l’acquedotto, databile tra la fine
del II e gli inizi III secolo, deviava bru-
101
scamente, con tutta probabilità, anche in
questo caso, a causa dello spostamento
del meandro fluviale verso Sud. Il tracciato dell’acquedotto veniva perciò a creare
un angolo, procedendo Nord-Est/SudOvest con alte arcate, poi inglobate nelle
mura altomedievali del Borgo ed ancor
oggi visibili, per dirigersi poi verso la città romana con un percorso nuovamente
all’incirca Est-Ovest (Ricciardi, Santa
Maria Scrinari, 1996; Bedello Tata et al.,
2006, pp.489-490, 511-517; Pannuzi,
2006; Bukowiecki, Dessales, Dubouloz,
del 1993, che lo riprende da una pianta
redatta di Italo Gismondi nel 194931.
Recentissimamente in quest’area è stata effettuata una nuova indagine archeologica32, che ha portato alla luce un
mausoleo a pianta circolare foderato con
blocchi di travertino, che sembrerebbe
databile tra la fine del I secolo a.C. e gli
inizi del I secolo d.C.; secondo l’ipotesi
proposta durante il recente scavo, questo
mausoleo sarebbe stato riutilizzato in
periodo tardo e circondato da sepolture,
anche sovrapposte, di varia datazione33.
Figura 11. Il basolato stradale visibili nel giardino pubblico ad Ovest del Castello di Ostia Antica (foto S. Pannuzi)
2008, p.55-59). Il tracciato dell’acquedotto e quello della via Ostiense postiberiana verrebbero così grosso modo a
coincidere, indicando un terminus ante
quem per lo slittamento dell’ansa fluviale
alla fine del II-inizi III secolo.
Al di fuori delle mura urbiche della
città di Ostia, subito ad Est di Porta Romana, è ben documentato archeologicamente un percorso stradale rettilineo, in
continuazione del Decumano massimo,
ritenuto comunemente l’ultimo tratto
della via Ostiense, attorniato da sepolcri
in prevalenza di età imperiale, a partire dall’età augustea, ma anche con resti
di cremazioni repubblicane di II sec.
a.C. (Pellegrino, 1991, p. 74). Rimane
da chiarire perciò, dopo l’allargamento
dell’ansa fluviale, con quale percorso la
via Ostiense raggiungesse la Porta urbica, ricongiungendosi al basolato ancora visibile nel parco pubblico presso il
Castello di Giulio II, attribuito alla fase
‘post-tiberiana’ della strada, come sopra
delineato (Fig. 11).
Nell’area del giardino pubblico il
percorso stradale basolato doveva essere affiancato da edifici, ed in particolare
uno di questi, di forma circolare, risulta
indicato nella planimetria del Pascolini
Da questo punto la strada avrebbe
continuato il suo percorso verso Ovest
(Pellegrino, Raddi, 2014, pp.11-13),
fino a raggiungere gli edifici romani
rimasti sempre parzialmente visibili in
questi ultimi anni all’interno del parco
e probabilmente oggetto già ai primi
del Novecento di un qualche scavo, come si vede da un’immagine fotografica
scattata dagli spalti del Castello in quel
periodo (PAOANT, Archivio Fotografico, inv. A 2428). Queste strutture, in
parte riportate anche nella pianta del
Gismondi del 1949, sono state oggetto
di un regolare scavo archeologico negli anni ’70 del Novecento (PAOANT,
Archivio Storico, Giornale di scavo
1971-72, vol. 44; PAOANT, Archivio
Disegni, inv. 4440, dis. G. e A. Pascolini, a. 1971, e pianta inv. 11138, dis.
A. Pascolini, a. 1993) e poi di nuova
indagine effettuata pochi anni fa da
parte dalla stessa équipe che ha scavato il vicino mausoleo circolare34. Dai
primi dati finora pubblicati, sono stati
qui rinvenuti vari ambienti, tra cui uno
pavimentato con un notevole mosaico
in opus sectile; alcuni di questi sarebbero stati interpretati come ambienti di
lavorazione, appartenenti forse ad una
domus di media età imperiale con ristrutturazioni in età tardo antica (fine
del IV secolo)35. A Nord, queste strutture risultano prospicienti ad un’area
basolata, localizzata all’incirca sull’asse della strada antica proveniente dal
mausoleo circolare: finora però non è
stata purtroppo pubblicata una nuova
planimetria per verificare l’effettivo andamento di questo percorso stradale.
Da quanto è stato possibile esaminare nell’area di scavo, lasciata per lungo
tempo visibile al pubblico prima dell’idonea ricopertura alla conclusione delle
indagini, sembrerebbe che lungo quello
che doveva essere l’asse stradale siano
stati costruiti ambienti, senz’altro di
epoca tarda, e che i basoli siano stati ricollocati, appoggiandoli all’esterno dei
muri che delimitavano queste strutture
(Fig.12)36. Parrebbe perciò che il basolato sia venuto a pavimentare quella
che sembrerebbe più un’area scoperta
circondata da ambienti chiusi, piutto-
Figura 12. La pavimentazione con basoli rinvenuta presso gli ambienti scavati nel parco pubblico all’angolo tra
via dei Romagnoli e via della Stazione Vecchia (foto S. Pannuzi)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
102
sto che una vera e propria strada, secondo modalità già evidenziate nel vicino
contesto archeologico messo in luce nel
1998, e poi più estesamente nel 2009,
presso il Bar della Stazione di Ostia
Antica della Ferrovia Roma-Lido37. Da
quanto visibile nel parco, perciò, questo tratto di basolato non sembrerebbe
potersi considerare una strada pubblica, risultando inserito tra ambienti di
diverso uso della supposta “domus”, dai
piani di calpestio molto più bassi di
quello dell’adiacente basolato. Quindi,
due lati da costruzioni antiche39. Questo
tratto stradale antico è indicato anche in
una planimetria del 1974, inv.4434, come
“strada romana” (vedi Fig.4)40.
Un’altra planimetria conservata nell’Archivio ostiense, inv. 5041
(Fig.13), suggerisce che dopo via Guido Calza la strada antica avrebbe continuato ancora un po’ verso Ovest, per
poi incrociare un percorso con direzione
Nord/Sud, già presente nelle piante del
Gismondi del 1925 e del 1949 (Calza et
al., 1953, figg. 17 e 36). Secondo l’ipote-
sopra menzionata, un cenno sull’ultimo
incrocio stradale che avrebbe condotto
la via Ostiense a Porta Romana potrebbe
trovarsi nel Giornale di Scavo del 1922,
dove viene ricordato il ritrovamento di
una strada, precedente alla realizzazione della cd.via delle Tombe (o via dei
Sepolcri), costruita parallelamente alla
via Ostiense, la quale a circa 160 metri dalle mura della città, “dall’Ostiense
più antica si staccava dirigendosi verso
Sud”43. Sarebbe interessante in un prossimo futuro poter esplorare quest’area
Figura 13. Suburbio di Ostia, ritrovamenti di età romana subito ad Ovest del Castello (PAOANT, Archivio Disegni, pianta inv. 5041, senza data)
questa pavimentazione sembrerebbe
essere stata risistemata e rialzata ad
una quota superiore, forse perché parte
dell’antica carreggiata stradale, da cui i
basoli provenivano, era stata invasa dagli ambienti della presunta “domus”38.
Dopo l’incrocio tra le moderne via dei
Romagnoli-via Guido Calza e via della
Stazione Vecchia, secondo la planimetria
del 1993 la strada basolata avrebbe proseguito verso Ovest, con un nuovo orientamento incomprensibilmente spostato
un po’ più verso Sud, fiancheggiata sui
si proposta in uno studio recente di A.
Carbonara e F. Panariti41, la via Ostiense
avrebbe perciò deviato verso Nord utilizzando quest’asse, fiancheggiato sul
lato Est da due, o forse più, ambienti
quadrangolari, forse interpretabili come
sepolcri. Girando poi ad Ovest, la strada
si sarebbe diretta verso Porta Romana42.
Questo tratto del percorso è quello per
il quale purtroppo si hanno meno indicazioni archeologiche: nelle planimetrie
di Gismondi non vi è alcuna indicazione
precisa, ma, secondo la recente ipotesi
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
per verificare o meno quest’ipotesi, che
attualmente non sembra trovare precisi
riscontri metrici nelle diverse planimetrie del Gismondi (a.1925 e a.1949),
dalle quali un eventuale incrocio tra le
due viabilità verrebbe a localizzarsi a più
di 200 metri dalle mura urbiche. Va però considerato che la misura riportata
nel Giornale di scavo (160 metri) sia da
intendersi come meramente indicativa.
Comunque queste informazioni
tratte dal Giornale di scavo del 1922
appaiono molto interessanti riguardo al
103
fluviale46.
Figura 14. PAOANT, Archivio Fotografico, scavi SIP,
senza anno: scavi archeologici lungo via Guido Calza
presso l’ingresso degli scavi di Ostia Antica
problema della ricostruzione del tracciato dell’antica via Ostiense, in quanto
segnalano chiaramente l’esistenza di due
livelli stradali diversi di questa strada,
chiamata “seconda via Laurentina” e
parallela alla via Ostiense, il più antico
dei quali caratterizzato da una pavimentazione glareata (“breccia alluvionale”).
Secondo quanto indicato nel Giornale
di scavo, il rialzamento stradale, che
avrebbe portato alla sistemazione della
cd.via delle Tombe, obliterando la “seconda via Laurentina”, sarebbe avvenuto
alla fine del I secolo d.C., per il rinvenimento di una fistula acquaria di età domizianea. Questo ritrovamento riporta
anch’esso, perciò, ad un periodo successivo alla piena del 69 d.C., in particolare all’impero di Domiziano, quando fu
realizzato il castellum aquae, relativo ad
un acquedotto che con tutta probabilità
doveva già esistere ad Ostia44, e quando
potrebbe essere avvenuta una delle riconfigurazioni della viabilità territoriale, collegate ai cambiamenti di percorso
della principale via di comunicazione45.
LA VIABILITÀ A NORD E
A SUD DELL’ANTICA VIA
OSTIENSE
Più ci si avvicinava alla città antica
e più la via Ostiense veniva ad incrociarsi con altri tracciati che mettevano
in comunicazione sia a Nord che a Sud
ambiti di territorio suburbano utilizzati per varie attività (agricole, funerarie,
commerciali e produttive). Proprio l’ansa fluviale veniva a dividere il territorio
extraurbano in due parti ben distinte,
una in riva sinistra, rivolta verso il suburbio meridionale ed utilizzata prevalentemente come necropoli, ed una in riva
destra (cd.Trastevere ostiense), inglobata
all’interno del meandro e separata dal-
La
la città di Ostia dall’alveo
parte di territorio in riva sinistra, utilizzata per scopi funerari dalla fine della
repubblica e per tutta l’età imperiale,
trovò una sistemazione in ambiti diversi:
quelli riservati ai ceti più alti della città
lungo la viabilità principale da Roma
ad Ostia, mentre le aree destinate alle
classi medio, medio-basse e alle classi
più povere erano localizzate più verso
Sud, verso la zona paludosa dello Stagno (Pannuzi, 2019a, pp.181-188, con
bibliografia precedente).
A Sud dell’antica via Ostiense, l’attuale via Gesualdo risulterebbe essere
l’esito moderno di un antico tracciato
che, secondo l’ipotesi dell’Heinzelmann, doveva collegare la via Ostiense
con la grande necropoli meridionale individuata in località Pianabella (Heinzelmann 1998, suppl. 1, n.V). Il percorso
rettilineo, che doveva provenire da Sud,
all’altezza dell’attuale Parco dei Ravennati avrebbe avuto, forse solo da un
determinato periodo in poi, uno scarto
verso Nord-Est, forse per la presenza
dell’imponente mole dell’acquedotto
romano, datato in questo tratto alla fine
del II-inizi del III secolo d. C. (Bedello
Tata et al., 2006, pp.489-490, 511-517;
Bukowiecki, Dessales, Dubouloz, 2008,
p.55-59), di cui forse venne anche a
costituire una viabilità di servizio. Un
battuto stradale riferibile a questo antico percorso è stato rinvenuto alcuni
anni fa durante sondaggi ACEA lungo
il tratto più meridionale dell’odierna via
Gesualdo, presso un contesto di sepolture ad incinerazione e ad inumazione
che si estendevano nell’adiacente Parco
dei Ravennati47. Questo tracciato, ancora indicato in una pianta dell’Archivio
Segreto Vaticano del XVII secolo raffigurante il Borgo medievale di Ostia
(Danesi Squarzina 1981, fig.1), avrebbe
Figura 15. Uno dei battuti stradali rinascimentali rinvenuti nel 2005 lungo via Gesualdo (foto ACEA).
avuto perciò una continuità di utilizzo
fino ai nostri giorni. Ciò è stato ulteriormente verificato grazie al ritrovamento
nel 2005, in un limitato saggio di scavo
ACEA lungo il lato più settentrionale
della moderna via Gesualdo, di una successione di battuti stradali sovrapposti,
caratterizzati dalla presenza di scarsi
frammenti ceramici tardomedievalirinascimentali, intervallati da depositi
alluvionali, uno dei quali potrebbe essere
connesso con la famosa piena del 1557,
che comportò il definitivo cambiamento
di percorso del vicino Tevere (Fig.15).
Nel corso del Novecento sul lato settentrionale dell’antica via Ostiense (in
questo tratto attuale via dei Romagnoli),
lungo la moderna via delle Saline, furono effettuati in anni diversi ritrovamenti
di una serie di tratti murari, documentati
in una planimetria del 1991 conservata
nell’Archivio ostiense48. Durante recenti scavi ITALGAS, lungo la stessa strada
moderna sono state messe in luce alcune
strutture che, pur non concordando con
la localizzazione dei muri documentati
nella pianta del 1991, sembrerebbero
confermare l’ipotesi di utilizzo commerciale dell’area presso l’antica ansa
del Tevere, collegata con le banchine
portuali (Pannuzi et al., 2006, pp.209210, fig.27). Infatti all’altezza dell’edificio della Scuola Elementare “F. Marini”,
al n.civico 4, ad una profondità di circa
m.1 dal piano stradale, si sono evidenziati i resti della fronte di un grande
edificio, con orientamento Nord-Sud,
nel quale si aprivano più ingressi. Sono
stati riscontrate varie pavimentazioni
e ristrutturazioni murarie della costruzione, legate a differenti fasi edilizie. I
resti antichi sono apparsi purtroppo in
uno stato di conservazione mediocre, a
causa della presenza di alcune condutture moderne. Malgrado le recenti manomissioni, è stato possibile inquadrare
cronologicamente tale edificio alla prima età imperiale (seconda metà I-primi
decenni II secolo d.C.), evidenziando
una successione di differenti fasi edilizie
all’interno di uno stretto arco temporale, in parte dovute probabilmente ad incendi ed esondazioni del vicino fiume49.
L’allineamento Nord/Sud delle varie
aperture potrebbe far ipotizzare che l’edificio gravitasse lungo un asse stradale
suburbano, confermando così l’ipotesi
dell’Heinzelmann che posizionava un
percorso antico lungo l’attuale via delle Saline (Heinzelmann 1998, suppl. 1,
n.IV). La presenza di una strada antica
su questo asse dovrebbe invece respingersi, se si accettasse la ricostruzione
planimetrica del Pascolini, nella quale
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
104
veniva indicato il ritrovamento di muri
paralleli in luogo di un percorso stradale50. Tale aporia una volta di più mette
in evidenza il problema dell’esatto posizionamento e della corretta lettura dei
ritrovamenti effettuati nel corso del Novecento nel suburbio di Ostia, quando si
operava senza moderne strumentazioni
di rilevamento topografico e di restituzione grafica, utilizzando invece una
certa ‘fantasia interpretativa’, che compensava anche la mancanza di reali indagini stratigrafiche, a causa dell’assenza costante sui cantieri di professionalità
specifiche del settore archeologico.
Un’altra scoperta importante riguardo alla viabilità antica sul lato settentrionale della via Ostiense è quella avvenuta nel 1976, in fondo alla moderna
via delle Saline, in connessione con il
rinvenimento dei resti del cd. molo repubblicano sul meandro fluviale, oggi in
gran parte rinterrati51. In particolare, è
riferita in questo contesto l’esistenza di
una “massicciata posteriore”, collegata
alla “massicciata” originaria perpendicolare al molo e riferibile con tutta probabilità alla preparazione di una strada
basolata, definita all’epoca della scoperta
di “epoca tarda”, senza ulteriori specificazioni52.
Infatti, da una piccola sezione inserita in basso a destra della planimetria
inv. 4817 (PAOANT, Archivio Disegni,
planimetria inv.4817 a.1976, dis. G.
Pascolini), si desume chiaramente che
nell’area più settentrionale del contesto
di scavo sulla più antica “massicciata” se
ne appoggiò un’altra, utilizzata come
base per una pavimentazione stradale
in grandi basoli. Dalla sezione sembrerebbe che la strada avesse la stessa quota
del molo: risulta perciò ipotizzabile che
la strada fosse connessa con esso, in modo da permettere un comodo e diretto
carico e scarico delle merci. Pertanto,
vista la verosimile contemporaneità tra
il molo ed il basolato, appare poco convincente la definizione di strada di epoca
“tarda”, attribuita a suo tempo a questa
pavimentazione stradale53.
La strada basolata sembrerebbe
continuare dal molo verso Nord-Est:
con tutta probabilità, da un’analisi della viabilità extraurbana ostiense, appare verosimile che la strada andasse poi
in qualche modo a connettersi più ad
Est, attraverso un percorso trasversale Nord-Sud, con l’antica via Ostiense, che in questa zona corrispondeva
all’attuale via dei Romagnoli. La strada
antica sarebbe stata perciò intercettata
da Nord, in modo da permettere un
collegamento tra il porto extraurbano
di Ostia e Roma. In precedenza, era
stato proposto che la strada si dirigesse verso Nord, senza però indicare una
particolare meta54. Effettivamente, se
così fosse, la strada avrebbe raggiunto
la parte più settentrionale dello Stagno
ostiense, dove si presume fossero localizzate le antiche saline romane, benchè
questo sia ancora da accertare con elementi concreti (Pannuzi, 2013, pp.2-5;
Pannuzi, 2019b, pp.12-14). In tal caso,
questo molo avrebbe forse potuto avere
un utilizzo specifico, cioè quello di imbarcare su battelli fluviali il sale prodotto
ad Ostia per il trasporto fino a Roma55.
Questa ipotesi non appare del tutto
inverosimile, anche perché verrebbe a
spiegare la particolare localizzazione
del molo proprio su questo lato dell’ansa del Tevere. Inoltre tale ipotesi trova
un ulteriore appoggio in quella che fu
senz’altro l’organizzazione delle saline
in età tardomedioevale/primo-rinascimentale, quando il sale veniva immagazzinato, per poi essere imbarcato per
Roma nell’antica Chasa del sale (attuale
Casalone), indicata chiaramente nella
cartografia cinquecentesca non lontano
da questo antico molo (Pannuzi, 2013,
pp. 11-14; Pannuzi, 2017, pp.115-117;
Pannuzi, 2020, p.148).
appare seguire proprio lo spostamento
del meandro fluviale.
Anche il più recente tracciato della
via Ostiense, ipotizzato dopo lo slittamento verso Sud del meandro, appare
essersi adattato alla nuova ansa del fiume, probabilmente riutilizzando percorsi già esistenti con differenti orientamenti e inserendosi all’interno di un
territorio suburbano ormai a quell’epoca
intensivamente edificato con numerose
costruzioni di carattere diverso, in particolare funerario ma anche residenziale e commerciale, la cui presenza venne
a condizionare il nuovo percorso della
strada.
NOTE
1. Gran parte delle più recenti indagini archeologiche sono state effettate nel corso
dell’attività di tutela territoriale da parte di chi
scrive, come funzionario archeologo dell’allora
Soprintendenza ostiense, ora Parco Archeologico di Ostia Antica (da ora PAOANT).
2. A proposito delle modalità e dei tempi con
cui avvenne il cambiamento di percorso del
fiume dopo la piena, si vedano le testimonianze storiche in Pannuzi 2009, pp. 46-47 con
bibliografia.
3. Riguardo alla complessa problematica, che
esula da questa ricerca, legata al percorso più
antico della via Ostiense (IV-III secolo a. C.)
in relazione al castrum di Ostia, si veda: CalCONCLUSIONI
za et al. 1953, pp. 93- 112; Van Essen 1957;
Le modificazioni dell’ansa ostiense Meiggs 1973, pp. 111-115; Mar 1991, pp. 84del Tevere con uno slittamento verso 89; Zevi 1996, pp. 71-76; Zevi 2001, pp. 10Sud, ormai ben ricostruito grazie alle 12; Zevi 2002, pp. 11-16.
ricerche geoarcheologiche, dovettero
senz’altro procurare un cambiamento di
percorso della via Ostiense nell’ultimo
tratto verso l’ingresso della città, presumibilmente in origine rettilineo. Questo
avvenne in un periodo successivo all’età
tiberiana dopo un ennesimo evento naturale, che impose una riconfigurazione
della viabilità nel suburbio orientale della città. Dalle opere costruttive avvenute
in epoca flavia relativamente alle strutture connesse con l’acquedotto ostiense
e alla ricostruzione domizianea di Porta
Romana, si potrebbe ipotizzare che anche i cambiamenti della viabilità principale del territorio siano avvenuti in questo periodo, dopo la piena del 69 d.C.56,
ricordata dalle fonti come disastrosa per
Roma e fors’anche per l’area ostiense57.
Non si può nemmeno escludere, però,
che ciò sia accaduto dopo una delle alluvioni testimoniate successivamente,
e comunque prima della costruzione
del tratto conclusivo dell’acquedotto
ostiense alla fine del II-inizi del III secolo, il cui percorso, rettilineo nel territorio ostiense, presso alla città venne a
caratterizzarsi per una grande curva, che
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
4. Molte sono le carte che tra Cinquecento
ed Ottocento riportano il percorso dell’antica
strada romana, dalla pianta di Anonimo del
1557 (Frutaz 1972, II, n. 39a) alla pianta di
G. Verani del 1803-1804 (PAOANT, Archivio Disegni, inv. 5442b). Su questo argomento
si veda: (Pannuzi 2020, pp.149-150).
5. Bedello Tata et al. 2006, pp.486-488, 521525; Bukowiecki, Dessales, Dubouloz 2008.
Numerose carte di XVII-XIX secolo raffigurano il tracciato stradale affiancato dall’acquedotto romano: si veda per es. la stampa di Giacomo Filippo Ameti, a. 1693 (Frutaz 1972, II,
tav. 176),
6. Quilici Gigli 1992, p. 78, fig. 8; Quilici 1996, pp. 72-73, 76: secondo il Quilici il
viadotto potrebbe essere attribuito al periodo
sillano.
7. Il ritrovamento è avvenuto nell’attuale località Saline, al km. 22,740 della moderna via
Ostiense, all’incrocio con uno dei canali di bonifica (Collettore primario): Calza et al. 1953,
p.65, fig.18, tav.XXVIII; Quilici Gigli 1992,
p. 78, fig. 8; Quilici 1996, pp. 72-73, 76; Serra 2007, pp.62-63; Carbonara, Panariti 2016,
p.117. Si veda anche PAOANT, Archivio Disegni, invv. 2440-2441, a.1923 (secondo le indicazioni archivistiche un disegno sarebbe di
G.Pascolini e l’altro di I.Gismondi, ma il primo nome non risulta plausibile per l’anagrafi-
ca del disegnatore). Nel 2008 e poi nel 2011
sempre in questa zona ma più ad Est e a Sud
della moderna via del Mare (km 22,300), sono
state rinvenute delle strutture probabilmente
connesse con l’antica viabilità (Pannuzi et al.
2013, pp.393-394).
8. Espedienti di questo genere furono utilizzati in età romana anche in altri contesti
territoriali, quando vi era necessità di creare
una fondazione adeguata a terreni paludosi,
caratterizzati da acque di risalita oppure da
problemi alluvionali. Per esempio a questo
proposito si vedano le strutture di fondazione
del Circo di Arles, per il quale furono utilizzati circa 30.000 pali lignei (Allinne 2007, pp.12), e quelle simili rinvenute per un contesto
residenziale a Rouen (Lequoy, Guilhot 2004).
9. L’utilizzo dei resti dell’acquedotto per un
ipotetico allargamento della sede stradale
si è basato anche sull’interpretazione di una
completa obliterazione della struttura antica
(Lorenzatti, D’ammassa, De Laurenzi 2018,
pp.298-299), ricavata da un brevissimo accenno fatto nella prima metà del Settecento da G.R. Volpi, il quale riporta che “iuxta
hunc lacum antiqui aquaeductus vestigia olim
visebantur” (Volpi 1734, p. XXIV). In realtà,
tutte le fonti storiche (De Bonstetten 18041805, pp.40-41) e cartografiche fino alla fine
dell’Ottocento indicano come ancora visibili
nel territorio ostiense i resti dell’acquedotto,
chiaramente riconosciuto in quello che doveva essere il suo antico uso (vestigia aquaeductus
ostiensis) (si vedano le piante di G.B.Ghigi,
a.1777, di G.Morozzo, a.1791, di B.Olivieri,
aa.1798-1799, di C. De Bonstetten, a.18041805, di R.Lanciani, circa aa.1895-1906:
Frutaz 1972, III, tavv.200, 214, 219, 226,
410): perciò l’ipotesi proposta dagli autori
dello scavo, che i resti della struttura antica
indicati nelle cartografia storica si riferiscano al viadotto, risulta del tutto inconsistente
(Lorenzatti, D’ammassa, De Laurenzi 2018,
pp.298-299 e nota 16). Invece, da quanto
può desumersi dalla breve documentazione
archeologica recentemente pubblicata (Lorenzatti, D’ammassa, De Laurenzi 2018), appare piuttosto evidente che in questo tratto i
resti dell’acquedotto messi in luce nello scavo
siano stati utilizzati come contrafforte per il
tracciato viario, più che per un allargamento
della sede stradale, d’altronde assolutamente
incomprensibile in epoca rinascimentale. Ad
una risistemazione di tal genere potrebbero in
qualche modo ben riferirsi anche le testimonianze delle fonti quattrocentesche, che indicano la costruzione ad Ostia di un ponte novo
e i resti dell’acquedotto come sostegno per il
ponte sullo Stagno (I Commentari di papa Pio
II 1584, l.XI, p.555; Lanciani 1902, p.53).
della via Ostiense sembra trovare un preciso
confronto con quanto riscontrato per la vicina
via Laurentina, anch’essa in parte condizionata dai superamenti idrografici e dagli eventi
alluvionali: qui le ricerche recenti hanno potuto raggiugere più definiti dati cronologici
(si veda A.Buccellato, A. de Loof in questo
volume), che in parte potrebbero essere forse
ricondotti anche alle successive fasi costruttive
della via Ostiense.
duati tre successivi spostamenti verso Est della
sponda destra per una distanza complessiva di
m. 25, avvenuti in concomitanza di tre alluvioni, la prima alla fine del I secolo, la seconda
nel 1530 e la terza nel 1557: purtroppo non
sono state fornite precise informazioni circa
gli elementi storico-archeologici che hanno
portato alla definizione di queste cronologie
(Arnoldus Huyzendveld, Paroli 1995, p. 391,
fig. 2, n. 8; Indagini geopedologiche e sedimentologiche, in Relazione tecnico-scientifica 1997 di Antonia Arnoldus, conservata
nell’Archivio Storico del PAOANT, vol. 90,
a. 1997, p. 2).
12. PAOANT, Archivio Fotografico, per es.
B 2629, B 2640, B 2643. Si vedano anche alcune planimetrie con sezioni riferibili al rinvenimento del basolato dell’antica via Ostiense:
PAOANT, Archivio Disegni, inv. 2435, 2436, 18. In quella che doveva essere la parte più
2437, senza data.
meridionale del meandro del fiume in età post
13. PAOANT, Archivio Storico, Giornale di tiberiana, sono stati rinvenuti nel 1983 i reScavo vol. 29, a. 1947; PAOANT, Archivio sti di un’imbarcazione di epoca incerta, che
Disegni, inv. 4437 (G. Pascolini, a. 1974); all’epoca portò ad ipotizzare l’esistenza di un
Santa Maria Scrinari 1984, p. 359 nota 3: la ponte di barche (Fig. 9). Purtroppo però dalle
Scrinari segnala sondaggi degli anni ‘80 del poche testimonianze conservate è impossibiNovecento durante i quali lungo via dei Ro- le oggi poter stabilire la cronologia e l’utilizmagnoli venne alla luce, accanto all’antica via zo di tale imbarcazione, indicata come “nave
Ostiense, anche parte “dell’acquedotto sotter- oneraria” in una planimetria del 1993 senza
reali elementi a riscontro. Umberto Broccoli,
raneo con fistole in terracotta”.
che scavò tali resti, li attribuì invece ad epoca
14. Floriani Squarciapino 1958, pp.52-53, con
rinascimentale, senza fornire però una motibibliografia: i sepolcri in blocchi di travertino
vazione (Broccoli 1984, p.27; Broccoli 1986,
furono rinvenuti “a sinistra della via Ostiense”,
p.166; Segre 1986, p.16; PAOANT, Archivio
“prossimamente all’odierna sede vescovile” e
Fotografico, R 3526bis, R 3547; PAOANT,
“poco prima della borgata moderna”.
Archivi Disegni, sezione inv.6046, a.1983 di
15. Planimeria generale di Ostia Antica A.Pascolini, e planimetria inv.11138, a. 1993
(a.1949), dis. I.Gismondi in Calza et al.1953, di A.Pascolini). Pertanto, qualsiasi ipotesi di
fig.36. L’allineamento lungo la viabilità prin- datazione, vista la mancanza di dati archeocipale del territorio potrebbe far interpretare logici sulla struttura e su un eventuale cariqueste strutture come resti funerari, ma in re- co della barca, appare al momento priva di
altà non è riportato alcun elemento che possa fondamento. Dai pochi elementi in nostro
concretamente supportare questa ipotesi. For- possesso potrebbe ipotizzarsi che la barca sia
se a questi resti, o a parte di essi, potrebbero semplicemente affondata nel fiume in epoca
far rifermento i prima menzionati sepolcri in non precisabile, ovvero che sia stata affonblocchi di travertino rinvenuti in scavi otto- data volontariamente, al fine di rafforzare la
centeschi e primo novecenteschi (cfr. Floriani sponda fluviale come protezione contro le
Squarciapino 1958, pp.52-53).
piene, pratica questa attestata nell’Antichità
16. Si è notato che la maggior parte delle (si veda Marziale, Epigrammi, X, 85). Altriplanimetrie del suburbio ostiense, allegate a menti la barca avrebbe potuto far parte di un
studi archeologici, riporta tracciati diversi del ponte di barche, forse quello fatto costruire
meandro fluviale, senza una loro storicizzazio- probabilmente dal Buontalenti nel tratto finane, da cui deriva la conseguente indicazione le del Tevere durante l’assedio alla fortezza di
solo di quelle strutture archeologiche che non Ostia da parte degli Spagnoli nel 1556 (Guvanno a sovrapporsi al percorso fluviale. Ciò glielmotti 1894, p. 300) e poi distrutto dalla
crea una certa confusione nell’effettiva rico- piena del 1557: la sua costruzione, realizzata
struzione delle evidenze archeologiche di que- a fini bellici, doveva inevitabilmente impedisto territorio suburbano e nella comprensione re la navigazione in quel tratto terminale del
braccio ostiense del fiume. È del tutto plaudella loro esatta funzione.
17. Arnoldus Huyzendveld, Paroli 1995, sibile che con la piena del 1557 questo ponte
pp. 383-385, fig. 2. Anche lo slittamento del- sia andato distrutto e l’imbarcazione rinvenuta
la riva destra del meandro fluviale, segnata da potrebbe ad esso ben essere riferita, in quanto
una serie di cippi di terminazione dell’alveo la sua presenza, collegata ad altri possibili usi
di età tiberiana (Bertacchi 1960, p. 22, fig. 6 ; ed epoche, risulterebbe con tutta probabilità
Arnoldus Huyzendveld, Paroli 1995, pp. 383- incompatibile con la navigazione fluviale che
385, fig. 2, n. 5, 5’, 5’’, 5’’’, 5’’’’), è apparsa ben si effettuava senz’altro in epoca antica e poi
individuabile grazie alle indicazioni fornite da di nuovo nel Quattro-Cinquecento in questo
vecchie indagini archeologiche (Calza 1921, tratto del fiume. Riguardo all’interpretazione
p. 262), nelle quali si è evidenziato l’ingloba- e alla datazione di questi resti si veda anche
mento degli antichi cippi terminali nelle nuo- Pannuzi 2009, p.45, nota 45; Pannuzi 2011,
ve strutture murarie che vennero progressiva- p. 296, fig. 1.
10. I due livelli stradali sono invece chiaramente indicati nella sezione inv.6312
(PAOANT, Archivio Disegni) (si veda Fig. 3).
Da questa sezione sembrerebbe che la preparazione sia stata contenuta da una parte da un
muro in grandi blocchi di tufo e dall’altra da
uno spesso muro in cementizio dalla cortina mente ad ingrandire gli edifici, seguendo lo
non individuabile. Tutta la struttura stradale spostamento del meandro. Grazie ad un’altra
risulterebbe tagliata in strati di argilla e torba. indagine di scavo, menzionata dall’Arnoldus,
11. Questa successione di livelli pavimentali effettuata più a Nord-Est, sono stati indivi-
19. Certo appare difficile non immaginare
almeno un ponte nel territorio ostiense, per
garantire gli indispensabili collegamenti tra le
due rive, che in alternativa, comunque, pote-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
105
106
vano essere unite da un servizio di traghetti.
D’altronde, un ponte sul fiume in questo tratto, dove la navigazione fluviale era intensa e
continua, avrebbe potuto creare delle difficoltà
nel passaggio delle barche ed addirittura aggravare i rischi di un’inondazione, non potendo in molti casi resistere strutturalmente
all’impeto delle piene (Allinne 2007). A questo proposito, per una lettura generale delle
fonti antiche, si veda Maganzani 2012 e 2014.
durante un recentissimo sondaggio ACEAIlluminazione pubblica, effettuato nel 2010
con la sorveglianza della dott.ssa Alice Ceazzi
e con il coordinamento di chi scrive per l’allora Soprintendenza ostiense, davanti al Castello si è evidenziata, al di sotto della pavimentazione moderna, la presenza di spessi strati di
riporto, evidentemente sistemati a coprire la
più profonda condotta dell’acqua, per installare la quale furono asportati i livelli pavimentali
20. Tacito, Hist. I, 86; Plutarco, Oth. IV; Sve- antichi.
tonio, Oth., 8. Numerose sono le piene fluviali 27. Anni dopo, nel 1981, questo stesso tratattestati dalle fonti antiche tra V secolo a. C. to di strada basolata fu di nuovo intercettato
e il III secolo d.C.: Le Gall 1953, pp.63-64; durante la realizzazione del collettore ITALGAS in piazza Ravenna, subito all’interno
Bersani, Bencivenga 2001, pp.6-13.
21. Antonia Arnoldus Huyzendveld ipotizza- del Borgo medievale (PAOANT, Giornale di
va che l’alluvione che comportò così impor- Scavo vol.45, a.1981, scavi ITALGAS).
tanti cambiamenti nel territorio ostiense fosse
avvenuta alla fine del I secolo d.C., senza però
meglio specificare il preciso periodo e le motivazioni di questa ipotesi: Arnoldus Huyzendveld, Paroli 1995, p.391.
un cantiere-scuola dell’American Institute
for Roman Culture: Pellegrino, Raddi 2014.
In particolare riguardo a questo settore sono
state fornite informazioni da D. Arya durante
l’intervento dal titolo Parco dei Ravennati nel
corso del Quarto Seminario ostiense del 2016.
35. Si sono attribuiti alcuni interventi addirittura ad età rinascimentale, ma ciò andrebbe sicuramente meglio verificato (Pellegrino, Raddi 2014, p.6). Lungo la moderna via
della Stazione nel 1976, da foto conservate
nell’Archivio Fotografico del PAOANT
(invv. 13198, 13199), è testimoniata anche
la scoperta, durante uno scavo Italgas, di una
pavimentazione a tessellatum, realizzato con
cubetti di pietra bianca di media grandezza,
di cui non è specificato in alcun modo però il
28. PAOANT, Archivio Disegni, inv. 11138, a. punto preciso di ritrovamento.
1993, dis. A.Pascolini (vedi Fig. 9). Nemme- 36. Viene in questo caso a porsi un problema,
no nella pianta pubblicata da U. Broccoli nel già sollevato in altri simili contesti, del rappor1983 (Broccoli 1983, fig.e, dis. A.Pascolini a. to tra suolo pubblico e privato in età romana
1973) risulta una più precisa caratterizzazione ed in particolare in età tarda, quando sembra
grafica dei rinvenimenti dei differenti percorsi cominciare quella progressiva appropriazione
stradali.
da parte dei singoli cittadini di parte delle aree
29. Lo scavo è stato realizzato dall’ex Soprin- pubbliche limitrofe a quelle private, che sarà
tendenza ostiense, affiancata da un cantiere- poi una caratteristica dell’età medievale.
scuola dell’American Institute for Roman 37. Pannuzi, Carbonara 2007, p. 7; Pannuzi et
Culture.
al. 2013, pp. 381-384: i ritrovamenti qui effet-
22. Anche le altre basiliche funerarie del territorio, la quasi coeva basilica di Pianabella e
quella di S. Ercolano, la cui cronologia è ancora da stabilirsi con precisione, furono costruite su viabilità importanti per i collegamenti
nell’ambito territoriale ostiense: a questo proposito si veda Pannuzi 2008, pp.268-270.
30. Ricciardi, Santa Maria Scrinari 1996; Bu23. La notevole larghezza della carreggiata kowiecki, Dessales, Dubouloz 2008, pp.55-59:
rendeva perciò la strada utilizzabile anche per in questo tratto l’acquedotto sarebbe databile
il traffico continuo e costante necessario ad tra la fine del II e gli inizi III secolo d.C.; di
una viabilità principale di collegamento del un precedente acquedotto databile nella prima
metà del I secolo d.C., con rifacimenti sucterritorio.
cessivi,
collegato al castellum aquae esistente
24. Per esempio, nel 1973, durante lavori efall’interno
delle mura cittadine di Ostia, finora
fettuati per la posa di cavi SIP all’interno del
non
si
è
rinvenuta
traccia nei pressi della città.
Borgo, fu realizzata una conduttura lungo tutta la lunghezza di via del Forno, dove fu rinvenuto un battuto a cocciopesto ed il tratto di un
muro antico in cortina laterizia. Sempre lungo la stessa strada moderna fu messo in luce
anche un tratto di pavimento con frammenti
laterizi (forse un pavimento in opus spicatum?)
di cui non è specificata la relazione stratigrafica con il battuto in cocciopesto. Un’eventuale
pavimentazione a spicatum sarebbe comunque
da riferire ad un edificio e non ad un tracciato
stradale.
25. Cercare di comprendere la cronologia dei
vari resti rinvenuti è praticamente impossibile. Tra i pochi cenni utili in tal senso rimane
la notizia che nel 1969, per la sistemazione di
un pozzetto di controllo ad una profondità
di – m.2 dal piano stradale attuale, all’incrocio tra via del Vescovado e via del Forno, si
raggiunse una quota sottostante al basolato
antico, mettendo in luce una fistula plumbea
con andamento Nord/Sud; alla stessa quota di
questa era presente uno strato di terra mista a
frammenti di anfore databili al III secolo d.C.,
sotto al quale si evidenziò uno strato di sabbia
alluvionale privo di materiale.
26. Nella documentazione del 1969, conservata nell’Archivio Storico del PAOANT, è anche riportato che nell’area davanti al Castello
l’ACEA, nel posare una tubatura, asportò in
parte, purtroppo, una successione di livelli
stradali, prima che l’allora Soprintendenza
ostiense potesse intervenire. Effettivamente,
tuati forse attribuibili ad un contesto residenziale e/o commerciale, testimoniano una particolare attenzione alla regolarizzazione delle
acque di falda e meteoriche ed una continuità
di uso delle strutture dall’età imperiale fino ad
epoca tarda, evidenziata anche dalla distruzione, almeno parziale, di un basolato stradale,
forse quello attribuibile ad un percorso orientato Nord-Ovest/Sud-Est, rinvenuto nell’area
31. PAOANT, Archivio Disegni, inv. 11138, funeraria più a Sud.
a. 1993, dis. A. Pascolini; planimetria generale 38. La ‘deviazione’ della strada indicata dal
di Ostia Antica (a.1949), dis. I.Gismondi in Pascolini potrebbe attribuirsi forse ad ‘un’inCalza et al.1953, fig.36; si veda anche un’al- terpretazione’ del disegnatore, visto che alcuni
tra pianta senza data, effettuata dopo il ri- degli ambienti già messi in luce negli anni ’70
trovamento dei cd. Magazzini Aldobrandini: andavano a localizzarsi proprio su quello che
PAOANT, Archivio Disegni, inv.5041.
doveva essere l’antico percorso della strada. Si
32. Lo scavo è stato realizzato dall’ex Soprin- può ipotizzare, perciò, che il percorso stradatendenza ostiense, affiancata da un cantiere- le in questo punto procedesse rettilineo e che
scuola dell’American Institute for Roman in età tarda fosse stato obliterato da strutture
Culture: l’indagine è stata in parte pubblicata probabilmente con funzioni in parte residennel 2014: Pellegrino, Raddi 2014, pp.8-11. Al- ziali e in parte artigianali; forse parte del basotre notizie riguardo a queste indagini archeo- lato fu riutilizzato per pavimentare una corte
logiche sono state fornite da D. Arya con l’in- scoperta.
tervento dal titolo Parco dei Ravennati durante 39. Forse questi tracciati stradali, tutti preceil Quarto Seminario ostiense svoltosi a Roma denti allo spostamento del meandro fluviale,
il 16 e 17 novembre del 2016, senza però tro- dovettero in qualche modo riallinearsi sevare pubblicazione nei relativi Atti.
condo i nuovi spazi creati dai cambiamenti
33. Il mausoleo circolare era anch’esso già indicato nella pianta del Gismondi del 1949. La
riutilizzazione della struttura in periodo tardo
o addirittura altomedioevale appare senz’altro
da meglio verificare; inoltre, del tutto priva di
evidenza risulta l’attribuzione al “cimitero paleocristiano e medievale sviluppatosi intorno
alla basilica di S.Aurea” del gruppo di tombe
a fossa rinvenute, nelle quali non è stato rintracciato alcun elemento archeologicamente
riferibile alla religione cristiana né all’epoca
medievale: Pellegrino, Raddi 2014, pp.8-11.
idrologici. D’altronde, se il mausoleo circolare è effettivamente databile ad età augustea
(Pellegrino, Raddi 2014, p.8), anche il basolato stradale ad esso prospiciente sarebbe da
riferire almeno a quest’epoca e non invece ad
un periodo successivo al II secolo d.C., come
risulta indicato dall’équipe del recente scavo (Pellegrino, Raddi 2014, p.13). Se questo
divenne perciò il tracciato della via Ostiense
dopo l’allargamento dell’ansa fluviale, risulta
evidente che riutilizzò un percorso già esistente all’interno della necropoli, i cui edifici
34. Anche questo scavo è stato realizzato funerari furono conservati probabilmente per
dall’ex Soprintendenza ostiense, affiancata da motivi sacrali.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
40. PAOANT, Archivio Disegni, inv. 4434,
a.1974, dis. di Giorgio e Aldo Pascolini. Da
immagini fotografiche effettuate durante i
cavi SIP lungo via Guido Calza, dopo l’incrocio con via della Stazione Vecchia, sono
visibili soltanto muri paralleli pertinenti ad
una serie di ambienti, ma non è distinguibile alcun basolato antico, che avrebbe dovuto
essere coperto dalla carreggiata stradale moderna (Fig.14). Tra l’altro, da queste foto si
evince che l’area di scavo interessò soltanto il
marciapiede del lato settentrionale della strada moderna, benchè se sulla planimetria siano
tratteggiate anche delle strutture sul lato Sud.
Perciò sorge il dubbio se quanto indicato nella
schematica planimetria del 1974 non sia da
riferire solo una mera supposizione dei disegnatori.
Scavo vol.29, a.1947, lungo via delle Saline
furono rinvenuti muri laterizi paralleli, interpretati come resti di un horreum. Altri resti
di muri tra loro paralleli furono messi in luce
durante scavi ACEA nel 1974 e scavi SIP nel
1991: di questi ritrovamenti non c’è menzione
nei Giornali di Scavo dell’epoca, rimanendo
solo documentati in una planimetria redatta
da A.Pascolini (PAOANT, Archivio Disegni,
inv.9846. a.1991): in questa planimetria sono
inseriti ritrovamenti avvenuti in periodi diversi, rendendo la ricostruzione dei resti antichi
abbastanza complessa. Inoltre, ad Ovest di via
delle Saline nel 1959 fu rinvenuto un ambiente quadrangolare formato da blocchi di tufo,
interpretato dubitativamente come una struttura tarda (PAOANT, Archivio Storico, Giornale di Scavo vol.33.1, a.1959).
41. Carbonara, Panariti 2016, p.120. Ringra- 49. Il carattere commerciale dell’edificio può
zio Andrea Carbonara per le interessanti in- ipotizzarsi strutturalmente dalla lunghezza
formazioni a questo proposito.
della fronte, con almeno due aperture di am42. È’ da notare come questa importante porta piezza omogenea, e dalla localizzazione in
urbica ostiense trovi verso il territorio suburba- un’area prossima al Tevere, vicino agli appreno uno sbocco stradale limitato, con tutta pro- stamenti portuali e ad altri edifici col medesibabilità proprio a causa della presenza sempre mo utilizzo, databili anch’essi nell’ambito del
più ingombrante dell’ansa fluviale. Per il caso I e II secolo d.C., scoperti nel cd.Trastevere
diverso di Porta Marina ad Ostia si veda il Ostiense in scavi operati nel secolo passato: a
tal proposito Arnoldus Huyzendveld, Paroli
contributo di M. David in questo volume.
1995, pp.385-386, con bibliografia.
43. PAOANT, Archivio Storico, Giornale di
scavo 1922: questa strada, riprodotta in uno 50. Di questi muri manca qualsiasi indicazione
schizzo non precisamente localizzabile, vie- in riferimento al tipo di paramento, alla crone chiamata “seconda via Laurentina” e dalle nologia ed alla profondità del rinvenimento.
indicazioni riportate sembrerebbe una strada 51. Santa Maria Scrinari 1984: il molo vero e
glareata, fiancheggiata da blocchi di tufo.
proprio sarebbe stato costituito da una strut44. Per il rinvenimento di una conduttura tura in grandi blocchi di tufo, su cui si sarebd’acqua databile all’età dell’imperatore Clau- be venuta ad innestare ortogonalmente una
dio nella cisterna sotto la palestra delle Terme massicciata di cui si evincono fasi diverse, non
di Nettuno, si ipotizza che questa costituisse il chiaramente approfondite durante lo scavo,
deposito terminale di un acquedotto già esi- per quanto riguarda la loro funzione ed il loro
stente ad Ostia in quel periodo, anche se finora ambito cronologico. Per un’interpretazione di
non se ne è rinvenuta traccia. Inoltre, rimane questi resti si veda: Pannuzi et al. c.s.
un’iscrizione di Vespasiano che indica la co- 52. Santa Maria Scrinari 1984, p.363, fig. 5 distruzione o forse meglio il restauro di un pre- dascalia. La Scrinari non fu testimone diretto
cedente acquedotto (Bedello Tata et al. 2006, della scoperta, effettuata invece alla presenza
pp.491-492, 509-510). I resti attualmente dell’allora Soprintendente M.L. Veloccia Riconservati, che si andavano a connettere al naldi e del funzionario archeologo A. Morandi.
castellum aquae a Porta Romana, riadattando
53. Piuttosto, andrebbero identificati come rile mura urbiche, e le arcate ancora visibili inferibili ad epoca pieno o tardo imperiale i muri
globate nelle mura del Borgo medievale, sono
che, secondo le indicazioni planimetriche,
però successivi al periodo flavio, datandosi alla
avrebbero invaso la sede stradale: attualmente
fine del II-inizi del III secolo d.C. (Bedello
però questo non è verificabile, visto il reinterro
Tata et al. 2006, pp.494).
delle strutture. È del tutto plausibile che lun45. D’altronde di periodo domizianeo è il re- go il molo si siano venuti a costruire edifici di
stauro di Porta Romana (Pavolini 2006, p.50), vario utilizzo, in particolare magazzini, che nel
forse connesso con un intervento più ampio tempo, potrebbero anche aver invaso in parte
che potrebbe aver interessato anche la via la sede stradale, o, nel caso di trasformazioni
Ostiense che raggiungeva la città attraverso e/o di abbandono del molo, aver obliterato del
questa Porta.
tutto la banchina.
46. Fin dalle prime ricerche archeologiche sul 54. Arnoldus Huyzendveld, Paroli 1995,
territorio suburbano di Ostia apparve evidente p.389: era stato anche affermato che avesse
che il lato Nord della via Ostiense presso la cit- avuto “numerose ripavimentazioni”, anche se
tà fosse stato utilizzato per finalità pubbliche di tali rifacimenti non c’è traccia né nella breve
e non per scopi funerari, come invece il lato pubblicazione del ritrovamento né nella documeridionale: Calza et al.1953, pp.112-113.
mentazione d’archivio.
47. Pannuzi et al. 2006, pp.206-208, fig.26: 55. Appare comunque più che verosimile che,
in asse con la strada sul suo lato orientale era oltre ad un collegamento stradale con la parte
impostato un recinto funerario di prima età più settentrionale della laguna, vi fosse anche
imperiale che delimitava l’area sepolcrale.
una viabilità di comunicazione fra l’attracco
48. PAOANT, Archivio Storico, Giornale di portuale e la via Ostiense.
56. Tac., Hist. I, 86; Plutarco, Oth. IV; Svet.
Oth., 8. Numerose sono le piene fluviali attestate dalle fonti antiche tra il V secolo a. C.
e il III secolo d.C.: Le Gall 1953, pp.63-64;
Bersani, Bencivenga 2001, pp.6-13.
57. Anche nell’area lungo la via Laurentina
più prossima al Tevere sono state individuate
risistemazioni viarie effettuate dopo la piena
69 d.C. (si veda intervento di A. Buccellato,
A. De Loof in questo volume).
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SESSIONE II
IL SUPERAMENTO DI
DIFFICOLTÀ GEOLOGICHE
E IDROGRAFICHE
Via Ingegneria ha superato i trenta anni di attività. Fondata nel 1988 è
cresciuta con la realizzazione di progetti infrastrutture in Italia e all'estero.
Via Ingegneria sviluppa i progetti in ogni loro fase, dal concept fino al
progetto esecutivo e alla direzione dei lavori con particolare attenzione alle
problematiche di inserimento nel contesto geologico e geomorfologico e
paesaggistico.
Con questa mission abbiamo progettato, reso cantierabili e completato
decine di grandi opere che sono oggi parte della rete infrastrutturale del
nostro paese.
Partendo dalla progettazione di ferrovie, strade e gallerie la nostra storia è
continuata con l’acquisizione di specializzazioni in altri campi, fino agli ultimi
progetti di opere strategiche.
VIA INGEGNERIA s.r.l. – Via Flaminia 999 – 00189 ROMA (RM) Italia – Tel +39 06 3327441 – www.via.it
111
La progettazione della via
Laurentina e le modifiche
del territorio attraversato
The design of the via Laurentina and the
modifications of the crossed territory
Parole chiave: Via Laurentina antica, progettazione stradale, opere di manutenzione,
dispositivi idraulici
Key words: Ancient Via Laurentina, road design, maintenance works, hydraulic devices
RIASSUNTO
Nel panorama scientifico il riconoscimento della via Laurentina costituisce
un’acquisizione relativamente recente
ma i dati archeologici recuperati nell’ultimo decennio fino a tutt’oggi costituiscono un esempio paradigmatico, sia
delle strategie politiche economico per
lo sviluppo delle vie di penetrazione nel
territorio sia delle modalità di realizzazione dell’opera. Questi criteri spaziano
dalla progettazione dell’andamento planimetrico del tracciato attraverso l’orografia di luoghi alla valutazione dei costi
di costruzione e funzionalità nel tempo,
declinati nelle fasi di ristrutturazione
succedutesi con vari livelli di anche a
breve spazio di tempo. Nell’ ager suburbano, tra il V e l’VIII miglio, il percorso
di Virgiliana memoria attraversa la valle
del bacino del Vallerano superando la
difficoltà idrografica con opere di bonifica e sopraelevazione, successivamente
entro una tagliata monumentale procede
a salire su una dorsale tufacea nella tenuta di Tor de’ Cenci, per ridiscendere poi
attraverso la valle del fosso di Malafede
al mare, con direzione N-NE/S-SO, tagliando le valli con marcata angolazione
rispetto agli assi fluviali. La scelta della
Figura 1.Cartografia del suburbio sud ovest. Carta dell’Agro georiferita su cui è segnato il tracciato della via Laurentina antica in base ai ritrovamenti (elaborazione di A. Buccellato – F. Coletti – E. Giannini)
Anna Buccellato
Già Funzionario della Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e
Paesaggio di Roma
E-mail:
[email protected]
Fulvio Coletti
Parco Archeologico del Colosseo
E-mail:
[email protected]
Anne De Loof
Ricercatore Indipendente
E-mail:
[email protected]
direttrice, che in epoca romana sottende
valutazioni geometriche e geomorfologiche nello studio topografico del territorio, già in età protostorica era condizionata da percorsi di collegamento con
Castel di Decima, probabile Tellenae,
centro autonomo del Latium Vetus.
I dati archeologici acquisiti dalla SSABAP di Roma hanno rimesso in luce in
totale circa 2 chilometri di percorso, che
evidenziano le caratteristiche tecnico costruttive delle vie di grande comunicazione e ne sottolineano gli interventi necessari per la conduzione e la manutenzione:
1. Opere di sistemazione idraulica, scavo in trincea e riporti di terre e ghiaie;
2. Superamento attraverso un ponte dell’irregimentazione del fosso
dell’Acqua Acetosa;
3. Misura di larghezza della sede di oltre m 4 per permettere il passaggio
contemporaneo dei carri in entrambe le direzioni;
4. Attività di manutenzione ordinaria e
straordinaria, declinate in successione di pianciti in tufo e/o massicciate
di selce, glaree fino alla pavimentazione basolata, con mutamenti di
asse e/o sede e percorsi di servizio.
Nell’eccezionale cornice della continuità cronologica, tali interventi denotano prima la volontà della repubblica
Romana di penetrazione dei territori e
manutenzione delle Viae, e successivamente in età imperiale l’impegno dello
stato nelle soluzioni ingegneristiche per
ovviare alle difficoltà di ordine orografico e di funzionalità stradale.
Si illustreranno in particolare i siti
della piana del Castellaccio nella valle
alluvionale dei fossi del Ciuccio, Acqua
Acetosa e Vallerano (V Miglio), i segmenti stradali esposti tra via dell’Acqua
Acetosa Ostiense e via di Decima (tra
VI e VII miglio).
INTRODUZIONE
Nel panorama scientifico il riconoscimento della via Laurentina (Fig. 1)
costituisce un’acquisizione relativamen-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
112
gliando le valli con marcata angolazione
rispetto gli assi fluviali. La scelta della
direttrice, già in età protostorica, era
condizionata dai collegamenti con gli
abitati del Latium Vetus come Castel di
Decima, probabile Tellenae, uno dei centri autonomi che secondo Plinio furono
distrutti da Anco Marcio per realizzare
l’espansione al mare.
Le testimonianze archeologiche
acquisite dalla Soprintendenza hanno
rimesso in luce diversi segmenti della
viabilità per un totale di ben 4 miglia,
che rivelano la tipologia delle vie di
grande comunicazione e ne sottendono
gli interventi necessari per la conduzione dalle opere di bonifica ai criteri di
costruzione canonici fino all’interrotta
attività di manutenzione ordinaria e
straordinaria.
Figura 2.Planimetria del segmento della Laurentina tra V e VII miglio. A. sito in località Castellaccio; B. sito di
via dell’Acqua Acetosa Ostiense; C. sito nella tenuta di Mostacciato (elaborazione di A. Buccellato – F. Coletti – E.
Giannini)
te recente, ma i dati archeologici recuperati nell’ultimo decennio costituiscono un esempio paradigmatico sia delle
strategie politico-economiche dello sviluppo delle vie di penetrazione nel territorio, sia delle modalità di realizzazione
dell’opera, in particolare riguardo alle
soluzioni ingegneristiche adottate nel
segmento tra IV e VI miglio. Questi criteri spaziano dalla progettazione planoaltimetrica del tracciato attraverso l’orografia di luoghi, alla valutazione dei tipi
di terreno, dei costi di realizzazione e
della funzionalità nel tempo, declinati
nelle fasi di ristrutturazione succedutesi
con vari livelli anche a breve spazio di
tempo (Per il riconoscimento della via
Laurentina nel tracciato sostanzialmente perpetuato dalla Pontina Vecchia e da
via di Pratica vedi, da ultimo, Buccellato,
2005, Lexicon, pp. 213-227).
Nell’area suburbana, partendo dal 4
miglio, il percorso di virgiliana memoria
attraversa la valle del bacino del Vallerano e, salendo su una dorsale tufacea
nella tenuta di Tor de’ Cenci, ridiscende
attraverso la valle del fosso di Malafede
al mare con direzione N/NE-S/SO, ta-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
LA VIABILITÀ TRA
IV E VI MIGLIO: IL
SITO IN LOCALITÀ
CASTELLACCIO (FIG. 2 A)
All’interno del bacino idrografico
del Vallerano, nella piana alluvionale dei
fossi del Ciuccio, Acqua Acetosa e Vallerano tributari del Tevere (Ascani et al.,
2008, pp. 93-97), il rettifilo esposto in
località Castellaccio per ca. 400 m. presenta vari livelli di costruzione e manutenzione dall’età arcaica al tardoantico,
che documentano il costante impegno
organizzativo e tecnico dello Stato romano nel superamento delle difficoltà
idrografiche (Buccellato, 2007). Dal
primo livello condotto in un invaso naturale argilloso in età alto-repubblicana,
i successivi pianciti con pavimentazioni
in scaglie tufacee o glarea, entro crepidini di scaglie di leucitite, mantengono in
funzione la viabilità nell’arco del periodo medio repubblicano (Fig. 3).
Intorno alla metà del I secolo a.C.,
verosimilmente a seguito di un evento
alluvionale (Aldrete, 2007, pp. 19-28;
per un’ampia trattazione degli eventi
naturali a Roma vedi Conte, 2019), si
attua la prima sostruzione finalizzata a
preservare la carreggiata da allagamenti
e ristagni causati dalle acque reflue di
origine meteorica, di falda ed inondazione. Viene, così, realizzato un terrapieno di spessore notevole, con strati
alternati di lenti di ghiaia e pezzame di
tufo, difeso a monte da un muro in opera
incerta, mentre nella zona meridionale
tale funzione è assolta da più murature di delimitazione di recinti funerari,
a dimostrazione di una progettazione
organica di aree pubbliche. Il summum
dorsum glareato è caratterizzato da una
larghezza significativa di 5,50 m. D’altra
113
Figura 3.La via Laurentina in località Castellaccio. I livelli di manutenzione e rifacimento della viabilità tra
l’epoca tardoarcaica e la tardoantichità (Foto di A. De Loof )
parte, in merito al problema endemico
del comportamento fluttuante del fiume e sui conseguenti eventi distruttivi,
una messe importante di dati proviene
dalle fonti letterarie: abbiamo notizia di
numerosi eventi alluvionali durante il I
secolo a.C.: nel 60, 54, 44, 32, 27, 23, 22,
13 (Dio., 37. 58, 2-4; 39.61, 1-2; 50.8,3;
53.20,1; 53.33,5; 54.1; 54.25,2; Cic. Ad
Quin. Fr., 3.7, 1; Hor. Car. 1.2.1-20; CIL
6, 1305). In particolare, Dione Cassio ci
informa in che misura l’alluvione del 54
a.C. fosse stata particolarmente dannosa
in alcune zone suburbane, con pesanti
ripercussioni sul I miglio della via Appia
nell‘allagamento dei monumenti che in
quel punto della consolare insistevano.
Si tratta, naturalmente, del settore in cui
la viabilità incontra il fosso dell’Almone,
che deve essersi gonfiato a causa delle
acque di risalita dal Tevere, di cui era
anticamente era tributario. Possiamo
immaginare che la medesima sorte possa essere accaduta alla piana alluvionale
tra V e VI miglio della via Laurentina
attraversata dagli altri due tributari.
Verosimilmente a partire dal regno
di Tiberio, le strategie politiche e gli
effetti della grave inondazione del Tevere del 15 d.C. (Bersani e Bencivenga, 2001, pp. 11-12), associata ai gravi
eventi sismici che colpirono la città di
Roma nel 51 d.C., narrati da Tacito e
Dione Cassio (Tac. 12, 43.1; Dio. 61,
33.2;), convinsero il potere centrale a
perfezione la viabilità a livello ingegneristico, conferendo alla Laurentina
aspetto e dimensione significative di
via consolare (l’evento distruttivo del
51 d.C. è, inoltre, ricordato in un’epigrafe che menziona la ricostruzione ad
opera di Iulia Saturnina nel 52 d.C., di
un’edicola marmorea rinvenuta presso il
Collegio Augustiniano Maggiore Castrense di Roma, a viale Aventino nei
pressi del Circo Massimo lesionato in
seguito al terremoto, Panciera, 1988, p.
123). Il corpo stradale, che assume la
notevole larghezza di 6,50 – 7 m., viene
allettato sul summum dorsum precedente, ricaricato con un nucleus di ghiaia ed
impacchettato entro due cordonature in
opera reticolata, contraffortate a distanze regolari di 3,50- 4 m (Fig. 4). Della
pavimentazione in poligoni di selce, originariamente a quota 10,20 m., rimangono le impronte in quanto asportata
in epoca tarda. L‘attribuzione a Tiberio
indicata dai materiali trova conferma
nel documento epigrafico relativo al-
Figura 4.La via Laurentina in località Castellaccio. La
viabilità e i contenimenti contraffortati in opera reticolata di epoca giulio-claudia (Foto di M. Letizia)
l’XI miliario, conservato fino al 1995
lungo via Pontina nel luogo originario,
che testimonia un intervento sull’arteria
(Gregori e Buccellato, 2006, p. 367).
Fino a questo periodo, la Laurentina
superava il fosso quasi ortogonalmente,
con un guado nella fase del I livello, in
cui mostra un selciato più largo fino a
6,50 m., mentre nelle fasi successive verosimilmente era in uso un chiavicotto
inserito nel terrapieno.
Nella seconda metà del I sec. d.C.,
probabilmente in conseguenza dell’alluvione del 69 d.C. - ricordata dalle fonti
come evento catastrofico (Tac., Hist.,
I.86.2; Plut., Oto 4.5) - fu realizzata
una sistemazione idraulico-territoriale
del fosso dell’Acqua Acetosa nel contesto del bacino imbrifero dei tre fossi
tributari del Tevere. L’opera di regimazione, rintracciata nell’intera piana,
consiste nella rettifica delle sponde
dell’alveo finora sinuoso con fodere in
opera reticolata, alte ca. 2 m. e parallele
alla distanza di 7 m. Le finalità risiedono nella volontà di regolare la portata
del rivo, in relazione sia alla raccolta di
acque reflue, nel contesto di un’estesa
bonifica delle aree attraversate, sia al
controllo dei regimi di piena, originati
soprattutto dalle frequenti inondazioni
del Tevere: si rivela quindi un notevole
livello di progettualità idraulica, studio
del suolo e capacità attuative.
La necessità di un ponte per l’attraversamento determinò diverse modifiche strutturali nella via Laurentina.
Il corpo struttivo fu asportato per un
troncone di ca. 10 m, al duplice scopo
di fondare l’infrastruttura ed adeguare
le dimensioni del rilevato attraverso un
restringimento della carreggiata, ricostruendo le fiancate disassate rispetto
alla direttrice originaria, fino ad ottenere
un passaggio obliquo largo ca. 4,80 m.
(Fig. 5 a-b) L’infrastruttura, verosimilmente un ponte misto con piloni in muratura e soprastrutture lignee, poggiava
su due piedritti fondati internamente al
rilevato ed addossati alle arginature del
fosso, coprendo una luce di non meno di
7,20-7,50 metri. Le strutture in conglomerato cementizio sono state rinvenute
con l’originaria sbadacciatura lignea, le
cui analisi al carbonio hanno confermato l’epoca di attribuzione dell’opera
(Fig. 6).
Un secondo evento alluvionale ricordato dalle fonti nel 162 d.C. (Hist.
Aug., M. Aur., 8) originò il restauro
della Laurentina nel tratto interessato
dall’incrocio con il fosso ed in particolare la realizzazione di un nuovo ponte,
nell’anno di impero congiunto di M.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
114
Figura 5. La via Laurentina in località Castellaccio. Resti del ponte edificato in muratura e legno punto di incontro tra la viabilità e l’antico corso del Fosso dell’Acqua Acetosa:
A. Sezione Nord-Sud con evidenza dei resti del pilastro sud che ingloba il precedente muro di irreggimentazione del fosso; B. Sezione Est-Ovest con dispositivi collocati sul
fondo atti al contrasto della forza di scorrimento (RAM Srl)
Figura 6. La via Laurentina in località Castellaccio.
Resti delle sbadacciature lignee del ponte di epoca vespasianea
Aurelio e Commodo. L’infrastruttura,
con una luce di ca. 6 m. mostra spalle in opera laterizia a sostegno di una
singola arcata probabilmente a sesto ribassato, poggiante su piloni che in parte
inglobano le fondazioni precedenti, in
parte sono composti da nuove strutture
fondate nell’alveo dell’Acqua Acetosa.
Inglobando gli argini e realizzando un
piano di imposta a piattaforma, probabilmente coronato da una seconda cornice, si raggiunge un triplice risultato:
l’equilibrio del peso e della spinta dell’arco che evita, in tal modo, la rottura per
compressione e rotazione; il contrasto
della forza di scorrimento favorita dalle
infiltrazioni d’acqua nel punto di cesura
fra fodere e piedritti; infine, il riutilizzo
delle strutture preesistenti sia come con-
trospinta dell’arco, sia come sostruzione
del punto di innesto.
Si determinò anche l’adeguamento
della sede viaria: adattando le strutture
preesistenti, in considerazione dell’innalzamento di livello della carreggiata
imposto dal passaggio sull’arcata, si creò,
attraverso rampe in contropendenza
della lunghezza di almeno m. 15, la nuova quota del piano rotabile di 12,5 m. al
colmo, con una pendenza calcolabile del
12%. Al riguardo, dal momento che la
pendenza acclarata si attesta tra l’8 e il
9% con punte fino 13% (Quilici, 2006, p.
159), si potrebbe porre la problematica
della sostituzione degli animali da tiro
per trasporti onerosi in caso di dislivelli
elevati (per cui si veda, da ultimo, I.M.
Gallo, Vias romanas: Ingeniería y técnica costructiva, Madrid 2006, pp. 21, 48,
209). Nel nostro esempio il cambio poteva avvenire nella vicina statio riconosciuta al V miglio (Buccellato, 2007, p.
3-4; Buccellato et al., 2011, p. 155-157;
Buccellato et al., 2018, pp. 129-131).
Il rapporto di ortogonalità con il
fosso generò un andamento disassato
rispetto al rilevato: pertanto, raccordandosi parzialmente alle vecchie fiancate, i
muri di testa assumevano un andamento
spezzato rispetto all’asse longitudinale e
il profilo risultava formare una sorta di
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
“esse dilatata”. In merito all’inquadramento cronologico dell’infrastruttura,
la data certa del 177 d.C. è indicata dal
documento epigrafico riferibile a Marco
Aurelio e Commodo, nell’anno di consolato congiunto, recuperato durante gli
scavi, tra i materiali di crollo che obliteravano parzialmente la struttura (Gregori e Buccellato, 2006, p. 158).
La presenza del ponte - che riduce
la larghezza del fosso a 5 m - determina
una strozzatura per cui sulla parte inferiore dell’alveo sono state messe in atto
disposizioni volte a facilitare il ripristino delle condizioni del flusso normale
ed evitare erosioni: in corrispondenza
dell’infrastruttura, infatti, una massicciata di scaglie di leucitite consolida il
fondo e appena a valle emergono pilastri lignei contenuti da blocchi; infine,
a 10 m. di distanza dal ponte ha inizio
una pavimentazione in cocciopesto in
contropendenza. L’omissione del rivestimento per il tratto d’alveo lungo
circa 12 m., compreso tra il ponte e la
modesta soglia in pietrame lavico che
segna gli inizi del rivestimento, formano
insieme una sorta di vasca di calma a
fondo ribassato con scabrezza idraulica
maggiore. In merito al dispositivo dei
pali di olmo, piuttosto che l’interpretazione di sorta di frangiflutti, appare più
115
fondata dal punto di vista strutturale il
riconoscimento di un’opera provvisionale, temporanea, legata al momento
della costruzione del ponte in cui i pali
prolungati in altezza probabilmente sostenevano i ritti di un ponte in legno
provvisorio, utile ai lavori di costruzione.
Passando al periodo tardo imperiale,
tra il III e il IV secolo, si assiste ad un
ulteriore rifacimento della sede carrabile realizzato mediante il riutilizzo del
piancito precedente. Durante le epoche
successive, il rilevato stradale fu in parte
defunzionalizzato e interessato da profondi rimaneggiamenti e spoliazioni: in
generale risulta asportato il pavimentum
basolato fino a riportare in luce i livelli glareati sottostanti, mentre vengono
creati percorsi con parziali riutilizzi, che
attraversano con andamento sinuoso la
viabilità primo imperiale, fuoriuscendone dalla sede, quasi che si conservasse
consapevolezza dell’antico orientamento. Nonostante la difficoltà di fruizione
del tracciato originario è evidente la
persistenza d’uso della direttrice della
via Laurentina.
LA VIABILITÀ TRA VI E
VII MIGLIO, IL SITO DI VIA
DELL’ACQUA ACETOSA
OSTIENSE
In prossimità del fosso di Vallerano,
il tracciato della via Laurentina era già
fissato dal periodo repubblicano e la
mancanza di un substrato compatto e
l’assenza di strutture di contenimento
e rialzamento obbligarono a continui
rifacimenti del percorso, fino a cinque
livelli dall’età tardo-repubblicana al III
secolo d.C. (per la seriazione e la suddivisione in livelli si fa riferimento a quanto proposto per il segmento in località
Castellaccio). In particolare, in questo
sito sono documentati un livello non
noto negli altri segmenti e differenti
scelte realizzative. La metodologia applicata - stratigrafia, restituzione grafica
classica ed elaborazioni digitali - ha permesso di affinare la cronologia dei dati
di scavo con lo studio delle fonti antiche. La strada, che risale dalla piana del
Castellaccio, deve oltrepassare i terreni
alluvionali del fosso e affrontare la collina tufacea della tenuta di Mostacciano.
Questa salita corrisponde al passaggio
– sulla base della carta litografica – dalle alluvioni ghiaiose, sabbiose, argillose
nella valle del fosso ai depositi vulcanici
del complesso delle Pozzolanelle.
L’odierno fosso del Vallerano oggi
corre come un rettifilo, ma non è difficile
o inverosimile pensare per l’epoca romana ad un andamento meno regolare, che
incide le stratigrafie più profonde e lambisce gli speroni tufacei, fiancheggiato
qui lungo il lato meridionale dalla via.
Questo tipo di ricostruzione è avvalorata, oltre che dai dati di campo, anche
dall’interpolazione con il DEM a base
10 m., che rileva una più ampia e sinuosa
valle fluviale (Fig. 7). La via Laurentina in tutte le sue fasi esposte in località
Acqua Acetosa Ostiense restituisce un
andamento sinuoso della strada proprio
in prossimità del passaggio fra tufo e
valle alluvionale.
morfologia di piano inclinato ad Est
verso il fosso per lo smaltimento delle
acque meteoriche.
Il percorso tardo repubblicano viene obliterato da una alluvione. Le fonti
ricordano una tempesta di portata eccezionale nel 60 a.C., con danni lungo tutto il corso del Tevere dal ponte Sublicio
(nella sua fase lignea) alla foce (Aldrete, 2007, pp. 19-20): questa datazione
è coerente con il quadro ricostruttivo
proposto. Tra la tarda età repubblicana
e l’età augustea, a ridosso dell’area di ca-
Figura 7. Elaborazione digitale su base modello di elevazione DEM 10 metri (elaborazione A. De Loof )
Analizzando i dati di scavo (Fig. 8),
la più antica testimonianza è rappresentata da un’attività di cava di tufo
a blocchi, del tipo a cielo aperto, che
sfrutta i lembi della collina retrostante;
l’impianto è abbandonato a seguito di
eventi alluvionali già nell’età repubblicana. Su questi strati, infatti, troviamo
il più antico livello stradale senza fondazione, che poggia direttamente su di
un livellamento del deposito stesso. La
strada, ampia circa 4,60 m., è realizzata in schegge di leucitite e presenta ripristini con frammenti di laterizi e di
tufo; mostra un andamento curvilineo,
probabilmente allo scopo di affrontare
la ripida salita della collina a Sud ed una
va, troviamo opere murarie con funzione
di bonifica o regolarizzazione del territorio: hanno una vita breve, poiché in
epoca augustea sono rasate da un nuovo
percorso glareato, che utilizza parte delle macerie delle strutture come sottofondazione. Nell’evidente impossibilità
di riutilizzare il percorso repubblicano,
che correva circa 1 metro più in basso e ricoperto dai depositi alluvionali,
la soluzione di questo livello “inedito”
rispetto agli altri settori è cercare di
posizionarsi più vicino possibile ad un
substrato solido ed in posizione rilevata,
spostando la sede circa 9 m ad W della
via repubblicana. La datazione, basata su
elementi materiali e stratigrafici, con-
Figura 8. Laser Scanner e fotogrammetria terrestre scavi 2015-2019 con periodizzazione (elaborazione A. De
Loof e M. Carilli)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
116
nel 69 d.C. e nel 70 d.C. furono visibili
per chilometri nella campagna romana
(Conte, 2019; Aldrete, 2007, pp. 26-27).
Successivi depositi di sedimenti alluvionali ci dimostrano che la zona è
particolarmente soggetta all’andamento idrografico del fosso per cui troviamo
verso la fine del III secolo d.C. l’ultimo
intervento strutturale sulla via Laurentina, con la posa di un nuovo basolato.
Figura 9. La via Laurentina nella tenuta di Mostacciano. Foto aerea del tracciato basolato (Foto M. Letizia)
riutilizza in parte tracciati e stratigrafie
sottostanti come base: di questa via datata in epoca tiberiana, - ampia circa 7
m - restano visibili le crepidini ed una
piazzola di sosta sul lato E.
Un’ampia basolata senza contenimento e/o rialzamento, fondata su strati
alluvionali, è fisiologicamente più esposta agli agenti climatici, atmosferici e a
fenomeni di smottamento. In età Flavia,
probabilmente riutilizzando il lastricato
tiberiano, troviamo una seconda pavimentazione (livello VII), che restringe
leggermente la carreggiata rispetto alla
precedente. Di nuovo sono le fonti che
ci danno una indicazione del periodo
cronologico: gli effetti delle alluvioni
LA VIABILITÀ AL
VII MIGLIO E IL SITO
NELLA TENUTA DI
MOSTACCIANO (FIG. 2 C)
Da questo punto possiamo ipotizzare
che la strada, nell’ambito di una distanza
di ca 100 m., affronti la salita verso la
dorsale di Tor de Cenci fino al segmento individuato alla quota di m.s.l. 24,83,
nel sito che copre la distanza tra VI e
VII miglio. Il percorso, esposto per ca m.
290, sale con una pendenza di ca 8% con
una curva a gomito, all’interno di una
sella artificialmente trasformata in una
tagliata monumentale larga da 15,00 a
20 metri alla sommità e 9,00 metri alla
base (Fig. 9). Le pareti fino ad un’altezza
di m 9 sono tagliate con profilo verticale
o terrazzato nei vari sedimenti geologici
di tufi e pozzolane, frutto di accumuli
cineritici (in particolare crosta di tufo di
sacrofano, tufo terroso da trascinamento
vulcanico e tufo biancastro dai sedimenti più antichi), mentre nell ‘argilla nei
livelli inferiori (Fig. 9-10)
La strada presenta la struttura canonica: strati di rudus in grosso pietrame,
Figura 10. La via Laurentina nella tenuta di Mostacciano. I livelli di manutenzione e rifacimento della viabilità tra l’epoca tardoarcaica e quella repubblicana. Il
piano rotabile basolato è in questo punto assente a causa
della spoliazione (Foto F. Coletti)
corda con lo studio delle fonti antiche e
possiamo ipotizzarne un abbandono già
in epoca tiberiana. Nella correlazione fra
eventi metereologici e cambiamenti climatici in epoca antica esiste una ricca
bibliografia ed in particolare lo studio
di Harvard, che classifica per entità in
un geodatabase gli eventi climatici delle
fonti, mostra più eventi con il massimo
grado in tarda età augustea, con il picco
dell’alluvione del 15 d.C. (Mc Cormick
et al., 2012, pp. 169-220; Mc Cormick
et al., 2013). La risposta pubblica a questo ciclico problema – con un intervento
esteso in tutti i tratti documentati - è la
via Laurentina con pavimentazione in
basoli (VI livello). Qui la strada presenta
non il contenimento in opera reticolata
del sito del Castellaccio ma solo l’innalzamento funzionale del piano carraio e
Figura 11. La via Laurentina nella tenuta di Mostacciano. Panoramica della viabilità in forte pendenza vista da
Nord/Est nel punto di entrata nella monumentale tagliata (Foto F. Coletti)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
117
Figura 12. La via Laurentina nella tenuta di Mostacciano. Carta geologica con esemplificazione della varietà litotipologica nei punti di penetrazione della viabilità (Elaborazione di A. Buccellato – F. Coletti-E. Celluprica)
nucleus in breccia più fine e pavimentum
in lastricato displuviato di poligoni di
selce perfettamente connessi; la sede è
delimitata da umbones poste a coltello
con la faccia vista all’interno ed il cuneo
esterno a contenimento dei marciapiedi in battuti di breccia, intervallate da
gomphi che impedivano ai carri di salire sui marciapiedi mentre facilitavano
il viaggiatore nel salire e scendere dal
carro. La larghezza della carreggiata, che
presenta diversi segni di usura con interasse medio di 1,40 metri, misura m. 4,1,
permettendo il passaggio contemporaneo dei carri in entrambe le direzioni
ed aumenta fino a m 6 nei segmenti con
maggiore pendenza per agevolare gli incroci. All’interno dell’invaso, fiancheggiano l’arteria sul lato orientale segmenti di selciati in leucitite con funzione di
viabilità laterale di servizio o funzionale
ai vari rifacimenti.
Per quanto riguarda l’inquadramento cronologico, questo tracciato è sicuramente riferibile al regno di Tiberio;
non abbiamo dati archeologici certi per
attribuire la regolarizzazione della gola
nella morfologia attuale ad un‘ epoca
precedente e d’altra parte i criteri di
ordine geometrico e geologico presupposti, nonché l’impegno costruttivo per
la definizione del tracciato, si inquadrano nel perfezionamento imperiale della
tecnologie ingegneristiche. Possiamo
supporre, comunque, che in questo settore settentrionale la conduzione della
strada, già dal periodo repubblicano se
non prima, utilizzasse la depressione
favorevole del terreno ed i livelli corrispondenti per motivi di acclività siano
stati cancellati dai rifacimenti successivi.
Nel settore meridionale, invece, sul
crinale in corrispondenza del punto di
tangenza con la moderna via Pontina,
dall’ epoca tardoarcaica alla repubblica,
i piani declinano la successione inin-
terrotta delle opere di restauro della superficie carrabile dal fondo naturale alla
glarea in buona tessitura di ciottoli di
leucitite (Fig. 7): particolarmente significativo l’intervento di epoca sillana che
rivela una valutazione geotecnica nella
sostruzione del piano rotabile con una
struttura muraria in opera quadrata a
mezza costa (un vero e proprio rudus di
pietrisco di leucitite sostenuto da un allineamento di blocchi di tufo rialza il piano rotabile in ghiaia a m 35,90: a questo
intervento si riferisce presumibilmente
il testo epigrafico che cita un restauro di
5000 piedi - quindi un miglio – discusso
in Gregori, Buccellato 2006).
L’utilizzo dell’arteria con vari rifacimenti e restauri si dipana per l‘intera età
imperiale; la spoliazione e l’abbandono
si collocano intorno alla fine del V/inizi
VI secolo d.C. con un’azione sistematica
finalizzata ad interrompere un percorso
stradale fondamentale come la via Laurentina che portava dal litorale sud ovest
fino a Roma forse durante le guerre greco-gotiche: battuti di terra e altri poveri manufatti rinvenuti nelle adiacenze,
denotano, tuttavia, la persistenza d’uso
della direttrice fino al XV-XVI secolo.
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
118
La Via Severiana come
difesa costiera e risorsa
infrastrutturale del Lazio
romano
Stefano De Togni
Sapienza Università di Roma
E-mail:
[email protected]
The “Via Severiana” as coastal barrier and
resource for ancient Latium
Parole chiave: Ostia, Via Severiana, strade romane, erosione marina
Key words: Ostia, Via Severiana, Roman roads, marine erosion
RIASSUNTO
La via Severiana è un’importante
strada costiera costruita verosimilmente nei primi anni del III sec. d.C. che
sostituì un precedente tracciato litoraneo. Il nome è invalso a seguito della
scoperta di un’iscrizione proveniente da
Ardea datata al 238 d.C., in cui sono
ricordate opere di consolidamento della
costa per la protezione della via. Il tracciato, osservabile nella Tabula Peutingeriana, collegava Ostia a Terracina, attraversando una serie di centri litoranei,
come Antium e Lavinium. L’interesse
dei Severi per questo percorso stradale è documentato anche da un miliario
che marcava il sesto miglio posto da
Settimio Severo e Caracalla, rinvenuto
nei pressi di Ostia. Ad Ostia il tratto
di strada basolata messo in luce tra la
Sinagoga e le Terme della Marciana è
stato identificato come un tratto della
via Severiana. Tale tratto si estende fino
all’incrocio con la via della Marciana, da
dove si può ipotizzare che proseguisse
fino alla foce del Tevere. In questo tratto
di costa si erano resi necessari una serie
di apprestamenti (massicciate, dighe,
barriere frangiflutti, ecc.) per protezione dall’erosione marina. Le indagini
condotte dal Progetto Ostia Marina,
missione archeologica dell’Università di
Bologna, hanno permesso di documentare una serie di evidenze di intensi fenomeni erosivi lungo tale tratto di costa
ostiense, un tempo esposta alle onde del
mare. Sono verosimilmente connesse a
tali esigenze di consolidamento e difesa dall’azione delle onde le massicciate
rinvenute nel 1961 da Maria Floriani
Squarciapino associate alla via Severiana, poco a oriente del punto in cui verrà
successivamente scoperta la Sinagoga.
***
Con il nome di via Severiana è tradizionalmente definita un’importante
strada romana, costruita verosimilmente
nei primi anni del III sec. d.C. pavimentando e congiungendo precedenti tracciati in gran parte litoranei, identificata
nel percorso che nella Tabula Peutingeriana collega Ostia a Terracina (Brandizzi Vittucci, 1998, p. 929; Pavolini,
2006, p. 182) (Fig. 1).
Il nome della via è stato attribuito
a partire da un’iscrizione proveniente
da Ardea (CIL X, 6811), già nota agli
antiquari nel XV secolo, posta a ricordo di lavori stradali eseguiti al tempo
di Massimino il Trace. La menzione nel
testo epigrafico della quarta potestà tribunicia consente la datazione al 238 d.C.
In tale iscrizione sono ricordate opere
di consolidamento della riva del mare
“vicinum viae Severianae”, che era stata
distrutta dalle onde e costituiva un pericolo per chi volesse passare.
Alla via Severiana sono associati anche altri importanti rinvenimenti epigrafici, provenienti dai dintorni di Ostia:
un miliario di Settimio Severo e Caracalla (Helbig, 1972, n. 2996), a riprova
dell’interesse dei Severi per il tracciato,
che marcava il sesto miglio, rinvenuto
nel territorio tra Ostia e Castel Fusano
(verosimilmente non più in situ), e due
Figura 1. Tabula Peutingeriana, particolare del territorio a sud di Roma con il tracciato attribuito alla Via Severiana evidenziato in rosso (elab. S. De Togni)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
119
lastre con identica iscrizione (Fig. 2) che
ricordano il rifacimento in pietra di un
ponte da parte degli imperatori Carino e Numeriano (CIL XIV, 126-127),
rinvenute presso il Canale dello Stagno
e oggi murate in un locale della vicina
Villa Sacchetti-Chigi (cfr. Galliazzo,
1994-95, p. 55, n. 44). Come ricordato
dalle stesse epigrafi, che dovevano trovarsi originariamente ai due lati del parapetto del ponte, il canale dello stagno
era anche l’antico confine tra il territorio
ostiense e quello di Laurentum.
Di tale ponte, con cui la via Severiana superava il canale, erano ancora conservati alcuni resti fino al 1943,
quando furono distrutti da una bomba.
È possibile rintracciare il manufatto anche nel
celebre quadro di Pietro da Cortona (“Vedu-
Figura 2. Le due lastre epigrafiche frammentarie di Carino e Numeriano (CIL XIV, 126-127), oggi murate
nell’androne della Villa Chigi-Sacchetti di Castel Fusano (da Benocci 2012, figg. 187-188)
Figura 3. Planimetria ricostruttiva del percorso della Via Severiana presso il ponte sul Canale dello Stagno, con indicazione della posizione del ponte rispetto alla Villa Chigi-Sacchetti (elab. S. De Togni su base satellitare Google Earth)
ta di Villa Sacchetti a Castel Fusano”,
dipinto nel 1630). Confrontando la posizione della villa con la situazione topografica antica (Fig. 3), emerge che tale
villa-castello, che fu costruita negli anni
’20 del ‘600 sopra un preesistente casale,
sorse probabilmente lungo l’antico tracciato viario di epoca romana, forse ancora parzialmente in uso. Il ponte dovette
subire vari restauri e rimaneggiamenti,
tanto che il Nibby, nel 1837, lo definì
“tutto moderno” (Nibby, 1837).
E in effetti, in un carteggio del 1653
(Archivio Sacchetti, Collezioni Minori
XII/29, pp. 106-107), sono riportati dei
lavori che si dovettero eseguire al ponte per il crollo di uno dei piloni. Con
l’occasione fu eseguito anche un disegno
del ponte, che è visibile sia in prospetto
che in pianta (Fig. 4). Da tale disegno
si possono meglio apprezzare le dimensioni e le caratteristiche del manufatto,
che, forse, erano ancora in parte quelle
dell’antico ponte in pietra della fine del
III secolo, almeno nella parte inferiore.
Il ponte era lungo 34 m, largo ca. 6 m,
con tre archi e due piloni. L’arco centrale, maggiore, era largo ca. 12 m e alto 4,5
m. I due archi laterali, più piccoli, erano
larghi ca. 9 m e alti 3 m.
Il tracciato attribuito alla via Severiana è quello osservabile nella Tabula
Peutingeriana, (nella quale il percorso
è però anonimo): essa collegava Ostia
a Terracina, attraversando otto stazioni
intermedie, per un totale di 85 miglia
(cioè circa 126 km).
Non mancano in letteratura alcuni
dubbi circa l’attribuzione dell’intero
tracciato alla via Severiana, anche in
Figura 4. Il ponte della tenuta di Castel Fusano in un
disegno acquerellato datato 6 febbraio 1653 (Archivio
Sacchetti, Collezioni Minori XII/29, pp. 106-107, da
Benocci 2012, fig. 163)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
120
Figura 5. Pianta generale di Ostia e del suo territorio, con indicazione della viabilità principale e, in rosso, il tracciato
della Via Severiana (da Heinzelmann 1998, con modifiche e integrazioni dell’autore)
considerazione della scarsità di resti
archeologici concretamente riferibili
ad essa una volta superato il territorio
ostiense. Ad esempio, una recente interpretazione proponeva di identificare
la via Severiana con il tratto Ostia-Tor
Paterno, considerando i successivi collegamenti fino a Terracina come percorrenze legate agli interessi locali dei centri costieri (Brandizzi Vittucci, 1998).
In questa sede si vuole porre l’attenzione in particolare sul tratto di via
Severiana più prossimo all’antica città di
Ostia (Fig. 5), dove sono state messe in
luce ampie porzioni della pavimentazione in blocchi di basalto ed in alcuni casi
anche i relativi livelli di preparazione,
che evidenziano la duplice natura della
strada costiera, che doveva funzionare
anche come elemento “stabilizzante”
della costa sabbiosa.
Fin dall’epoca tardorepubblicana, infatti, la fascia costiera antistante la città
di Ostia fu rinforzata con opere di sistemazione del litorale, che offrivano anche
protezione agli edifici esposti all’erosione
marina. Sembra rimandare a questo orizzonte cronologico la possente struttura
rinvenuta da Giovanni Becatti durante
gli scavi del c.d. Edificio con opus sectile
fuori porta Marina, interpretata come diga frangiflutti (Becatti, 1969, p. 50). La
diga è larga 6 m, ed è stata intercettata a
partire dall’Edificio con opus sectile proseguendo verso ovest. Attraverso alcuni
saggi ne è stato seguito l’andamento per
circa 200 metri (Becatti, 1969, p. 38).
La minaccia del mare alla costa urbanizzata traspare ancora oltre due secoli
più tardi, tra la fine del II e gli inizi del III
sec. d.C., dalle parole di Minucio Felice,
che descrive nell’Octavius vere e proprie
Figura 6. Ostia, quartiere fuori Porta Marina, pianta degli isolati III, viii e IV, ix-x, con ipotesi ricostruttiva
dell’estensione originale degli edifici e delle strade lungo la costa (elab. S. De Togni)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
barriere frangiflutti nel quartiere marittimo di Ostia (Min. Fel., Octavius, 4).
La porzione di strada individuata ad
Ostia tra la Sinagoga e le Terme della Marciana è stata identificata come
un tratto della via Severiana (Pavolini,
2006, p. 182). Tale tratto si estende fino a ca. 22 m ad est dell’incrocio con
la via della Marciana, dove è attraversata obliquamente dalla recinzione del
Parco Archeologico (Fig. 6). Per cercare
di ricostruire come il tracciato stradale
proseguisse da questo punto in poi, è
indispensabile analizzare nel dettaglio
gli edifici della vicina insula ix, che in
origine dovevano prospettare sulla via
e sul mare, e dunque considerare anche
l’evoluzione dell’antica linea di costa.
Le indagini condotte dal Progetto
Ostia Marina, missione archeologica
dell’Università di Bologna attiva nel
suburbio marittimo della città dal 2007
sotto la direzione del professor Massimiliano David (cfr. David, 2018), hanno
permesso di individuare nella porzione
meridionale di tale insula due diversi edifici. All’incrocio con la via della
Marciana era il Caseggiato delle due
scale, un grande edificio a destinazione
commerciale e abitativa costruito nella
tarda età adrianea. Alcuni bolli laterizi
rinvenuti in opera forniscono per la costruzione il terminus post quem del 134
d.C. Le indagini hanno evidenziato poi
una continuità di vita fino aleno agli inizi del V secolo (David et al., 2015).
Immediatamente ad ovest del Caseggiato delle due scale, separate da uno
stretto vicolo o ambitus, erano le Terme
del Sileno, un complesso termale pubblico di ca. 2000 mq edificato in età
adrianea e con fasi di vita documentate
almeno fino alla fine del IV sec. d.C.
(David, 2013).
Superando la prosecuzione del Decumano fuori porta Marina (ed entrando nell’insula III, viii) dove sorgerà l’Edificio con opus sectile fuori porta
Marina, in epoca adrianea fu costruito
un grande complesso in opera laterizia,
forse a destinazione commerciale. I profondi rimaneggiamenti subiti in epoca
tardoantica rendono assai difficile la lettura planimetrica originaria: si conserva
il lungo muro perimetrale orientale, che
divideva l’edificio dalle attigue Terme
del Sileno, ed alcuni muri ad esso legati,
reimpiegati negli ambienti del peristilio tardo. Riguardo al lato meridionale,
verso il mare, si può ipotizzare che l’area,
a causa della progradazione della linea
di costa, fosse già piuttosto lontana dalla battigia, con la diga ormai in disuso
(cfr. Salomon et al., 2018). È possibile
121
allora ipotizzare l’esistenza di una via
costiera, che andò ad occupare la nuova
fascia di terreno costiero suburbano verosimilmente già attorno alla fine del I
sec. d.C. Questo ipotetico percorso, che
diverrà nel III secolo la via Severiana, è
da mettere certamente in relazione con
la nascita di Portus, con l’apertura della
nuova foce artificiale e con la strada che
attraversava l’Isola Sacra, nota come via
Flavia (cfr. Germoni et al., 2011).
Tutti e tre gli edifici adrianei menzionati, dunque, dovevano in origine
prospettare su tale strada costiera.
Ricostruendo prima l’angolo sudoccidentale delle Terme della Marciana,
e poi la parte meridionale del Caseggiato delle due scale e delle Terme del
Sileno, è possibile ricostruire anche l’ipotetico andamento della via Severiana
(Fig. 6). Il tracciato, dove noto, in effetti
non sempre è rettilineo, ma si adatta via
via alle variazioni di orientamento degli
edifici e della costa stessa.
Il motivo per cui le evidenze di tale
via costiera sono scarse dall’insula ix verso
ovest, va ricercato nell’arretramento della
linea di costa che sembra sia avvenuto dopo l’abbandono della città. Dopo secoli dal
crollo degli edifici del quartiere marittimo,
forse attorno all’XI sec. d.C., fenomeni
erosivi riposizionarono la linea di costa in
prossimità di quella repubblicana (Bellotti, 2011; Bellotti, 2013). L’effetto di tale
erosione, evidentemente amplificata anche dalla cessata manutenzione delle barriere frangiflutti, fu la distruzione graduale
(causata probabilmente dalle mareggiate)
di intere strutture antiche (Fig. 7).
I segni dell’erosione, accompagnati
da ingenti accumuli di sabbia, sono stati
individuati chiaramente lungo il fronte
meridionale dell’insula ix attraverso alcuni sondaggi condotti nell’ambito del
Progetto Ostia Marina, sia nel Caseggiato
delle due scale che nelle Terme del Sileno
(David et al., 2013). Il dato stratigrafico
permette di collocare tali eventi in un momento posteriore al crollo degli edifici, avvenuto tra la metà del V e il VII sec. d.C.
Tracce del tutto simili sono state osservate anche nell’ala meridionale delle
Terme della Marciana, lungo la Severiana verso est, nell’edificio dietro alla
Sinagoga e nell’Edificio con opus sectile
fuori porta Marina.
La fortissima erosione subita dai ruderi lungo la costa in epoca post-classica
ha influito sull’interpretazione degli
stessi in relazione all’antica spiaggia.
La via costiera, e poi la via Severiana,
erano dunque infrastrutture viarie utili
anche alla stabilizzazione e alla protezione della costa sabbiosa.
Sono forse da interpretare in questo
senso le massicciate rinvenute da Maria
Floriani Squarciapino scavando un tratto della via Severiana poco a oriente del
punto in cui si scoprirà la Sinagoga, nel
marzo del 1961. La Squarciapino notava che “(la Severiana) è composta di
un tratto centrale selciato largo m 4,004,20 cui si affiancano due amplissime
crepidini (…). La crepidine di SW verso
mare è larga m 4,00 (…). Sono spesse ca.
38 cm. Sotto alle crepidini e al basolato
corre una poderosa e durissima massicciata di conglomerato alta m 0,70. (…)
La crepidine verso mare è in forte pendio verso la riva, forse per difesa contro
i flutti.” (Archivio Storico PAOA, GdS
vol. 32, 1956-61, pp. 141-143).
Appartengono probabilmente ad un
momento di poco precedente le mas-
Figura 7. Ostia, quartiere fuori Porta Marina, pianta degli isolati III, viii e IV, ix-x, con indicazione della linea
di massima erosione marina ricostruita grazie ai dati archeologici (elab. S. De Togni)
sicciate rinvenute tra il 1978 e il 1980
all’interno di saggi realizzati lungo la via
Severiana ad est e a sud delle Terme di
Porta Marina (Pavolini, 1980). Si tratta di imponenti strutture realizzate in
scaglie di tufo legate con malta, datate
entro la fine del II sec. d.C. La via Severiana, che risalirebbe a pochi anni più
tardi, fu realizzata sopra tali massicciate.
Più recentemente, nell’ambito di
interventi di archeologia preventiva effettuati nell’ambito di lavori di ristrutturazione della strada moderna subito
al di fuori della recinzione del parco
archeologico nei pressi della Sinagoga,
è stata rinvenuta un’altra porzione di
massicciata riferibile alla Severiana. In
questo caso la strada si presenta completamente spogliata dei basoli, ma si
conservano i fori per i pali lignei utili
al consolidamento del terreno sabbioso
(D’Andrea et al., 2018).
La via Severiana ad Ostia sostituì e
potenziò un precedente percorso costiero,
che è verosimile ipotizzare seguisse l’andamento della spiaggia senza soluzione
di continuità dall’area fuori porta Marina
fino alla foce. La via così delineata costituì in epoca tardoantica un’alternativa
all’altro percorso, già evidenziato da Carlo
Pavolini, che conduceva invece all’interno
della città attraverso la via della Marciana
(Pavolini, 2018, pp. 225-226, Fig. 8).
Un importante indizio a favore del
tracciato suburbano della via Severiana
è una lettera del 1879, già pubblicata da
Paola Germoni (Germoni et al., 2011,
p. 255), in cui l’allora vicesegretario del
Museo Kircheriano, Angelo Pellegrini,
informava la Direzione Archeologica
del Ministero del rinvenimento dei resti di una strada basolata, e addirittura
dei piloni di un ponte, durante i lavori per la realizzazione della strada per
Fiumicino. Si riporta qui un estratto
della lettera: ”Sono stato informato che
nell’aprirsi la strada fra Ostia e Fiumicino, dalla parte di Ostia si è incontrata
l’antica strada lastricata a poligoni di
selce (…). Restati sopresi gli ingegneri
(…) hanno testato nell’alveo del Tevere, in cui hanno riconosciuto i piloni di
un ponte che metteva all’Isola Sacra. In
questa parimenti fu seguito il selciato
verso l’altro canale artificiale fatto da
Claudio (…)” (Archivio Storico PAOA,
fascicolo 1879-1884).
La strada che si andava costruendo
dev’essere la stessa visibile, pochi anni
più tardi, nella celebre foto dal pallone
del 1911 (cfr. Shepherd, 2006). Si tratta
grosso modo dello stesso percorso ancora seguito dalla strada attuale. Ne consegue che i resti della strada basolata, e
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
122
Figura 8. Pianta della fascia costiera di Ostia sovrapposta alla foto da pallone frenato del 1911, con ipotesi ricostruttiva della Via Severiana ed evidenziazione della strada
moderna costruita nel 1879 (in giallo) (elab. S. De Togni)
in Rom, 4, Tuebingen.
quisizioni sulla via litoranea e la linea di costa
gli eventuali resti del ponte, si trovavano
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123
La Via Appia antica al valico
dei Monti Aurunci: aspetti
geologici e geomorfologici
Emiliano Di Luzio
CNR-IGAG (Istituto di Geologia
Ambientale e Geoingegneria)
E-mail:
[email protected]
The ancient Via Appia at the pass
of the Aurunci Mountains: geological
and geomorphological aspects
Parole chiave: Via Appia Antica, Monti Aurunci, geologia, geomorfologia
Key words: Ancient Via Appia, Aurunci Mountains, geology, geomorphology
RIASSUNTO
Oltrepassato il Promontorio di Terracina, il primo valico appenninico che
nel IV sec. a.C. il percorso della Via
Appia doveva superare nel suo dirigersi
a sud verso la cittadina di Capua si trovava nella dorsale dei Monti Aurunci,
tra le moderne cittadine di Fondi e Itri.
La strada consolare attraversava un paesaggio prima collinare e poi montuoso,
scosceso e morfologicamente articolato.
In questo lavoro vengono presentati i risultati di uno studio scientifico
multi-disciplinare focalizzato alla comprensione dei rapporti esistenti tra la
realizzazione dell’opera viaria e le caratteristiche geologiche dell’ambiente che
la circondava, non solo in epoca romana
ma anche nei secoli successivi fino all’era
moderna.
L’assetto tettonico e le condizioni
morfologiche del paesaggio, in particolare, condizionarono la scelta del
tracciato, imposero audaci soluzioni ingegneristiche per il superamento degli
ostacoli più impervi, e offrirono un’importante risorsa di materie prime disponibli in loco.
Questo tratto della Via Appia antica
venne ristrutturato in epoca imperiale
(III sec. d.C) con la messa in posto di un
basolato in pietra lavica alloctono, la cui
origine viene investigata attraverso analisi minero-petrografiche e isotopiche.
Successivamente, in epoca Borbonica
(XVIII-XIX sec. d.C.), una successiva
fase di manutenzione del tracciato attinse nuovamente alle risorse locali con
ulteriori e significative modificazioni al
paesaggio circostante, rinnovando in tal
modo la mutua interazione tra opera antropica ed ambiente geologico.
1. INTRODUZIONE
La realizzazione del tracciato
dell’antica Via Appia, conosciuta anche
come la “Regina Viarum”, prima strada
consolare romana, fu intrapresa attraverso il settore centro-meridionale della
Figura 1. a) Mappa dell’Italia centro-meridionale con i tracciati della Via Appia antica, dell’Appia Traiana e i
principali centri urbani attraversati. Vengono riportate le posizioni dei distretti vulcanici della Provincia Magmatica Lucana (LMP) e della Provincia Magmatica romana (PRM), che include i distretti di Roccamonfina e
degli Ernici-Val Latina; b) assetto geologico del Lazio meridionale e della Campania settentrionale (da Parotto
& Tallini, 2013, modificato).
Legenda: 1) depositi continentali e marini (Olocene ‐ Pleistocene sup.); 2) depositi vulcanici dei Colli Albani
(Pleistocene); 3) depositi vulcanici degli Ernici-Val Latina (Pleistocene); 4) depositi vulcanici di Roccamonfina
(Pleistocene ); 5) depositi terrigeni sin-orogenici (Miocene medio-sup.); 6) depositi bacinali ad affinità Liguride
(Miocene inf.-Oligocene); 7) depositi di piattaforma carbonatica (Paleocene-Giurassico inf.); 8) depositi di piattaforma carbonatica (Giurassico inf.-Triassico sup.); 9) sovrascorrimento; 10) faglia normale (tratteggiata quando
presunta); 11) faglia trascorrente; 12) limite regionale Lazio-Campania; 13) valico degli Aurunci
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
124
penisola italiana dalla fine del IV secolo
a.C. (312 a.C.) su iniziativa del Censore
Appius Claudius Caecus. Nel suo primo
tratto il percorso collegava Roma a Capua, in seguito, nella seconda metà del
III secolo a.C., fu esteso a raggiungere
Beneventum. Le operazioni di costruzione dell’asse viario proseguirono ancora
in epoca repubblicana fino all’inizio del
II secolo a.C. (191 a.C.), quando venne
raggiunto il porto di Brundisum. Infine,
durante l’imperio di Traiano (98-117
d.C.), un’altra strada nota come “Appia
Traiana” venne realizzata da Beneventum a Brundisium lungo un percorso
più settentrionale (e.g. Quilici, 1989;
Talbert e Bagnall, 2000). (Fig. 1a).
Dopo aver lasciato l’Urbe e attraversato il fianco meridionale dei Colli
Albani, la Via Appia percorreva con un
lungo rettifilo a direzione NW-SE la
pianura Pontina. Superato il Promontorio di Terracina, la strada entrava nella
piana costiera dell’attuale cittadina di
Fondi per poi avvicinarsi al primo valico appenninico in corrispondenza della
dorsale dei Monti Aurunci. Qui era necessario oltrepassare ripidi rilievi montuosi e un paesaggio articolato per poi
ridiscendere verso la piana alluvionale
Figura 2. a) Visione panoramica del valico dei Monti Aurunci e della Valle di Sant’Andrea attraversati dall’Appia antica; b) murature di sostruzione in opera quadrata e in
pietra calcarea lungo il margine dell’incisione valliva; c) vista da drone di un settore del tracciato dove sono riconoscibili le diverse fasi di rifacimento della pavimentazione;
d) aree di cava visibili all’interno della sequenza geologica cretacica; alcune di esse la incidono con asse di allungamento ortogonale al versante (A-C, vedi Fig. 3)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
125
del fiume Garigliano e arrivare nell’areale vulcanico di Roccamonfina (Fig.1b).
Lasciando a nord-ovest la Piana
di Fondi il percorso della Via Appia
fiancheggiava il lato meridionale della Valle di Sant’Andrea, caratterizzata
ancora da deboli pendenze. L’incisione
fluviale diveniva più stretta, profonda e
accidentata proseguendo verso sud-est,
in direzione di Itri, e il tracciato doveva
necessariamente adagiarsi al fianco del
rilievo carbonatico (Fig. 2a).
Studi e descrizioni archeologiche
dettagliate dell’antica Via Appia al valico dei Monti Aurunci sono contenuti
nelle opere di Quilici (1999, 2002, 2003,
2004, 2007, 2011), Quilici & Quilici
Gigli, (2017). In questo contributo vengono descritti, a grandi linee, gli aspetti
geologici e geomorfologici del paesaggio
naturale che condizionarono la scelta del
percorso e le modalità di realizzazione,
costituendo sia elementi a favore sia veri
ostacoli al superamento del passo appenninico, sin dalle prime fasi di costruzione
dell’opera. Maggiori approfondimenti sui temi qui delineati si ritrovano in
Carfora e Di Luzio, (2016); Di Luzio e
Carfora, (2018); Di Luzio et al., (2018);
Di Luzio e Carfora, (2019).
Il rapporto tra la Via Appia e l’assetto geologico dei Monti Aurunci si
declina nel settore analizzato anche in
termini di potenziale disponibilità di
risorse locali necessarie alla realizzazione delle opere di corredo alla via, inclusi
imponenti muri di sostruzione in pietra
calcarea (fino a 20 metri in altezza, Fig.
2b) che vennero eretti per sostenere i
terrazzamenti del percorso e la costruzione di un tempio di età repubblicana dedicato ad Apollo (Quilici, 2003;
2004). La stessa materia prima venne
utilizzata per la messa in opera della prima pavimentazione lapidea del tracciato
(Fig.a 2c), completata probabilmente in
età augustea (fine I sec. a.C. - inizio I
sec. d.C.) a sostituzione dell’imbrecciato di età repubblicana, oggi non più
osservabile. La necessità di approvvigionamento di materiale da costruzione
lungo il tracciato comportò significative
modificazioni del paesaggio originario.
Queste includono i resti di un sistema
di estrazione caveale così esteso e diffuso
nella parte più settentrionale della Valle
di Sant’Andrea da aver dato origine a
un “quarry landscape” (Bloxam, 2009,
2011; Heldal, 2009; Heldal e Meyer,
2015; Di Luzio e Carfora, 2018).
Anche se le sostruzioni e la prima
pavimentazione vennero realizzate
in pietra calcarea, l’aspetto familiare
dell’antica Via Appia chiama alla men-
te la tipica copertura in basoli, blocchi
lavorati di lava nera la cui origine per
le principali strade consolari nelle vicinanze di Roma è stata studiata da diversi
Autori (e.g. Black et al,. 2004; Laurence,
2004; Worthing et al., 2017). Al valico
degli Aurunci il basolato venne messo in
posto all’inizio del III secolo d.C. (216
d.C.), durante il periodo dell’imperatore Caracalla. In questo lavoro vengono
brevemente discussi i risultati di analisi
mineralogico-petrografiche e isotopiche finalizzate all’individuazione della
possibile area di provenienza del materiale vulcanico alloctono. Le differenti
ipotesi vengono valutate considerando
la posizione e le caratteristiche deposizionali-composizionali delle serie vulcaniche pleistoceniche appartenenti ai
principali centri eruttivi della fascia peri-tirrenica dell’Italia centrale (Fig. 1b).
Successivamente al periodo romano
questo settore della Via Appia venne
sottoposto a importanti opere di manutenzione e restauro in due diversi
momenti dell’età moderna, nel XVI secolo per opera del governo spagnolo di
Napoli e durante il periodo borbonico,
tra la seconda metà del XVIII secolo e
gli inizi del XIX secolo (Quilici, 2002;
Quilici, 2007; Quilici, 2011, Quilici e
Quilici Gigli, 2017). Durante gli ultimi
lavori di rifacimento della sede stradale
il basolato romano venne parzialmente
rimosso, utilizzato per la costruzione di
marciapiedi laterali, e sepolto sotto uno
strato di breccia calcarea contenuta in
gabbionate delimitate da basoli divelti
(Fig. 2c). Sempre all’epoca Borbonica, al
passaggio tra i due secoli, viene fatta risalire la costruzione a spese delle rovine
del Tempio di Apollo di un’imponente
fortificazione posta a difesa del valico e
dell’acceso al Regno di Napoli, i cui resti ora sono ben visibili sulla collina che
precede il passo montano (Fig. 2a, 2d)
2. GEOLOGIA E
GEOMORFOLOGIA: IL
SUPERAMENTO DEGLI
OSTACOLI NATURALI
ATTRAVERSO IL PASSO
APPENNINICO
L’assetto geologico del settore dei
Monti Aurunci tra Fondi e Itri è caratterizzato dall’affioramento di una
successione di piattaforma carbonatica
di età compresa tra il Giurassico Superiore e il Cretacico superiore (Centamore et al., 2007; Parotto e Tallini, 2013),
con questi ultimi termini stratigrafici
prevalenti. In discordanza sulla successione calcareo-dolomitica poggiano le
sequenze continentali quaternarie, costituite da depositi alluvionali, colluviali
e di debris-fan nella parte settentrionale
della Valle di Sant’Andrea e da depositi
di paleofrana e detrito di versante nella
parte più meridionale (Fig. 3).
La sequenza mesozoica è intensamente tettonizzata, con stili deformativi
differenti (Fig. 3). Verso la Piana di Fon-
Figura 3. Carta geologica della Valle di Sant’Andrea e dei rilievi circostanti (modificata da Di Luzio & Carfora,
2018)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
126
di prevalgono faglie di natura distensiva a direzione appenninica (NW-SE) e
anti-appenninica (NE-SW). Le prime
sono parallele al decorso terminale della
Valle di Sant’Andrea; le seconde interessano i versanti laterali dislocando,
con rigetti contenuti, una monoclinale
NW-immergente caratterizzata da una
bassa intensità della deformazione fragile associata (sistemi di joints). Nella
parte meridionale, verso la cittadina di
Itri, prevalgono invece elementi plicativi
quali sovrascorrimenti e pieghe anticlinaliche ad andamento circa E-W.
Infine, l’intero versante cui si adagia la Via Appia antica é caratterizzato
da un lineamento tettonico a carattere
transpressivo sinistro con orientazione
NNW-SSE (Fig. 3). Questo elemento
fa parte di una fascia di faglie trascorrenti che caratterizzano il settore peritirrenico dei Monti Aurunci, estesa da
Gaeta a Itri, fino al limite orientale della
Piana di Fondi (Fig. 4a). La tettonica
trascorrente, successiva alle fasi compressive mioceniche e precedente alla
distensione plio-pleistocenica, ha avuto
un evidente ruolo morfogenetico dando
luogo a zone di debolezza strutturale poi
modellate dall’erosione e dal drenaggio
preferenziale, come la stessa Valle di
Sant’Andrea. Questi elementi lineari,
interrompendo la continuità strutturale
dei Monti Aurunci, vennero a costituire
delle “vie naturali” di accesso e attraversamento della dorsale montuosa, altrimenti difficilmente percorribile.
Se la presenza dell’incisione fluviale
della Valle di Sant’Andrea ebbe molto
probabilmente un ruolo nella scelta del
luogo per l’attraversamento del valico
degli Aurunci, impose al tempo stesso
la necessità di aprire un varco attraverso l’imponente scarpata morfologica
espressione della faglia transpressiva
sopracitata (Fig. 4b). I rilievi geologici hanno messo in luce la prosecuzione dell’elemento tettonico sul versante
settentrionale della valle (Fig. 3); a tale
continuità strutturale doveva corrispondere una continuità degli elementi geomorfologici. Il taglio e la profilatura del
versante montuoso sono ben evidenti
laddove la strada, superato la zona dove
ora sono visibili i resti del Forte Borbonico, era costretta ad addossarsi al versante
carbonatico per evitare la profonda forra
sul lato di nord-est (Fig. 4c). L’ostacolo venne superato attraverso un taglio
rupestre che in alcuni punti raggiunge
un’altezza poco inferiore ai 6 metri (Fig.
4d) e la seguente asportazione del materiale roccioso, operazioni che possono
ragionevolmente essere fatte risalire alla
realizzazione della strada in età repubblicana (IV sec. a.C.)
Figura 4. a) Schema strutturale della dorsale ausono-aurunca prossima alla costa tirrenica (da Centamore et al., 2007, modificato); b) visione da drone ripresa da sud del
passaggio della Via Appia antica al valico degli Aurunci, con evidenza della scarpata rocciosa generata dalla faglia transpressiva che marca il versante sud-occidentale della
valle; c) d); taglio rupestre in corrispondenza del superamento della barriera morfologica legata alla faglia
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
127
Figura 5. a) Mesopiega coricata osservata nella parte centro-meridionale del versante carbonatico, dove prevalgono elementi deformativi di raccorciamento; b-d) cave a cielo
aperto realizzate entro ammassi rocciosi fratturati; e) cava in breccia cataclastica
3. DISPONIBILITÀ E
SFRUTTAMENTO DELLE
RISORSE LOCALI
La necessità di utilizzare materiale
lapideo per la costruzione dei muri di
sostruzione già in epoca repubblicana e,
successivamente, per la messa in opera
della prima pavimentazione lastricata
nel periodo augusteo venne soddisfatta
attraverso l’estrazione e lo sfruttamento
della locale pietra calcarea e calcareodolomitica che costituisce l’ossatura del
versante a cui la strada si affianca nella
sua risalita da Fondi verso Itri. Un complesso sistema di cave in roccia fratturata e breccia venne realizzato in epoche
differenti entro la sequenza geologica
cretacica; ne fanno parte venti aree di
estrazione (Fig. 3), solo in parte riconosciute da studi precedenti (Quilici,
1999, 2011).
Le aree di cava si concentrano nel
settore settentrionale della Valle di
Sant’Andrea mentre sono rare in quello
centro-meridionale (cave D e E). Questa evidenza si può spiegare considerando le deformazioni plastiche (piegamenti) della stratificazione (Fig. 5a) che
rendevano impraticabile la coltivazione
in un settore della valle dove, inoltre, la
pendenza del versante naturale arriva a
valori davvero elevati, fino a circa 45°
(Fig. 2a). La maggior parte delle aree di
cava venne ricavata entro ammassi rocciosi fratturati a basso grado di deformazione fragile, con uno o due sistemi
di joints e la stratificazione ad agire da
discontinuità meccaniche (Fig. 5b-d).
Solo in alcuni casi (cave 2, 5 e C) vennero sfruttate fasce di breccia cataclastica (Fig. 5e) rinvenute in corrispondenza
delle principali faglie normali o nelle
zone d’intersezione tra queste (Fig. 3).
Attraverso l’analisi morfometrica
del sistema caveale, resa possibile dalla preliminare ricostruzione aero-fotogrammetrica della Valle di Sant’Andrea
(Carfora, 2019) e da campagne di rilievo GPS (Bacigalupo et al., 2019), le aree
di estrazione sono state caratterizzate in
termini di limiti, forma, dimensioni, volume di materiale estratto, struttura interna e orientazione rispetto al versante
roccioso stratificato.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
128
Figura 6. Carta geoarcheologica diacronica della Via Appia antica al valico degli Aurunci (modificata da Di Luzio & Carfora, 2018); a)-e) evidenze di tecniche di escavazione e corredi murari di epoca romana
Il rinvenimento di tracce di scavo
riconducibili a tecniche di estrazione
di epoca romana (e.g. Adam, 1988) ha
contribuito alla classificazione delle singole aree: i) in alcuni casi i fronti di scavo
presentano intagli della roccia realizzati
a distanze regolari, corrispondenti a 1 o
2 piedi romani (Fig. 6a); ii) localmente
vennero lasciati pilastri a testimonianza
dell’originaria altezza del versante e/o
per l’installazione di macchine adatte
al sollevamento e movimentazione dei
massi (Fig. 6b); iii) alcuni massi estratti e lasciati sul posto mostrano ancora
chiari segni di lavorazione, come squadrature e intagli degli scalpelli (Fig. 6c);
iv) lungo i muri perimetrali di alcune
cave sono osservabili contro-impronte
di estrazione (Fig. 6d); v) una delle
cave in roccia (la cava 3) è contigua a
una cisterna rivestita da un paramento
in opera reticolata grezza, indicatore di
un’età compresa tra il I sec. a.C. e il I sec.
d.C. (Quilici, 1999, 2002).
Nella Tab. 1 vengono riportati i dati
relativi alla caratterizzazione morfometrica delle cave (volume, forma), al tipo di materiale estratto, alla datazione
dei livelli geologici e il riferimento al
periodo di estrazione ipotizzato. Oltre
a conservare le tracce di lavorazione
Tabella 1. Parametri morfometrici, tipo di materiale estratto, età
geologica ed epoca di coltivazione ipotizzata per le venti cave individuate
nell’area di studio. RF=Roccia fratturata; BC=Breccia cataclastica
Cava Volume (m3)
Forma
Materiale Età geologica Età di estrazione
1
2.208
Sub-rettangolare
RF
Aptiano
Romana
2
220
Semicircolare
BC
Aptiano
Romana
3
570
Rettangolare
RF
Aptiano
Romana
4a
110
Rettangolare
RF
Aptiano
Romana
4b
19
Rettangolare
RF
Aptiano
Romana
5
28
Irregolare
BC
Aptiano
Incerta
6
30
Irregolare
RF
Cenomaniano
Incerta
7
180
Semicircolare
RF
Turoniano
Romana
8
200
Rettangolare
RF
Cenomaniano
Romana
9a
200
Irregolare
RF
Turoniano
Romana
9b
16
Irregolare
RF
Aptiano
Incerta
9c
15
Irregolare
RF
Aptiano
Incerta
10
30
Irregolare
RF
Aptiano
Incerta
11a
95
Irregolare
RF
Aptiano
Incerta
11b
137
Irregolare
RF
Aptiano
Incerta
A
984
Semiellittica
RF
Aptiano
Borbonica
B
185
Semiellittica
RF
Aptiano
Borbonica
C
2100
Semiellittica
BC
Cenomaniano
Borbonica
D
85
Semiellittica
RF
Aptiano
Borbonica
E
160
Semiellittica
RF
Turoniano
Borbonica
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
129
Figura 7. a) Il basolato romano lungo il percorso della Via Appia da Fondi verso Itri; b, c) sezioni petrografiche di due campioni della pavimentazione di età imperiale (III
secolo d.C.). Legenda: cpx=clinopirossesno, lct=leucite, plg=plagiocalsio; d) diagramma dei rapporti isotopici 87Sr/86Sr vs143Nd/144Nd per le rocce vulcaniche plio-quaternarie
dell’Italia centrale, modificato da Peccerillo (2005), e posizione dei campioni Baso_1-5 prelevati dalla Via Appia; e) ingrandimento del plot precedente e confronto con i dati
di letteratura. Legenda:VL-ER=Val Latina-Ernici; HKS=serie ultrapotassica; KAM=serie kamafugitica; SHO=serie shoshonitica
sopra descritte, le cave di supposta età
romana presentano contorni regolari,
forme ben delineate (rettangolari, subrettangoalari o semicircolari) e in alcuni
casi terrazzamenti interni. I volumi sono
compresi tra i 20 e 2200 m3 (cava 4a e
1, rispettivamente). Le cave di supposta
età borbonica, posizionate nelle vicinanze dei punti di rifacimento del basolato e in prossimità del forte, presentano
invece una forma semiellittica con asse
di allungamento sempre ortogonale al
versante (mentre le cave romane sono
allungate in direzione parallela o leggermente obliqua). I volumi variano tra
gli 85 e i 2100 m3 (cave D e C). Infine,
queste cave non presentano evidenze di
tecniche sistematiche di escavazione ed
è lecito supporre che si siano utilizzati
esplosivi per la loro coltivazione. Infine,
esiste un terzo gruppo di cave di dimensioni assai ridotte (volumi compresi tra
30 e 130 m3) per le quali non è stato
possibile ipotizzare alcuna datazione,
vista la mancanza di chiari segni di
tecniche di lavorazione e la loro forma
spesso irregolare e con margini poco
delineati. Sono state considerate come
aree di estrazione occasionale, d’incerta
attribuzione cronologica.
Integrando il tematismo relativo alle
zone di estrazione ad altre informazioni,
quali le tracce dei muri di contenimento
e delle sostruzioni, le superfici terrazza-
te, le fortificazioni, i lineamenti naturali
(scarpate tettoniche o erosive, trincee) e
antropici (tagli di versante), si è arrivati
alla produzione di un’originale mappa
geoarcheologica e diacronica del sito
che viene riportata in Fig. 6.
4. ORIGINE DELLE
RISORSE ALLOCTONE,
NON PRESENTI SUL
TERRITORIO
Come si è documentato neI paragrafo precedente i lavori per la realizzazione della via in età repubblicana e per
il rifacimento del tracciato in lastricato
calcareo nella prima età imperiale furono realizzati utilizzando le risorse locali,
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
130
sfruttate attraverso un sistema di cave
a cielo aperto. Un’altra fase di manutenzione e rifacimento della Via Appia
avvenne in epoca imperiale (Fig. 7a).
Nel 216 d.C., durante il periodo di Caracalla, il lastricato originale venne ricoperto o sostituito con un basolato in
pietra lavica, una risorsa di origine necessariamente alloctona. Il valico degli
Aurunci si trova, infatti, a diverse decine di chilometri di distanza dai distretti
vulcanici della Campania e del Lazio,
dai quali il materiale doveva provenire
(Fig. 1a, 1b).
Formulare un’ipotesi plausibile riguardo alla provenienza del materiale
vulcanico rappresenta il ritrovamento di
un ulteriore tessera per il completamento del mosaico che illustra i rapporti tra
la costruzione dell’Appia antica e i territori circostanti, anche non prossimali
al tracciato.
Cinque campioni di basolato sono
stati analizzati mediante un Microscopio Elettronico a Scansione FEI
Quanta 400 e una microsonda elettronica Cameca SX50. La tessitura dei
campioni si presenta afirica, con rari e
minuti fenocristalli di leucite e, subordinatamente, clinopirosseno e plagioclasio immersi in una pasta di fondo
da micro- a ipocristallina, parzialmente
vetrosa (Fig. 7b, c). Le analisi chimiche
quantitative alla microsonda, corredate
La leucite è il minerale più abbondante tra i costituenti primari. Questo
tettosilicato é caratteristico delle serie
magmatiche potassiche (KS) e ultrapotassiche (HKS) della Provincia Magmatica Romana (Colli Albani, ErniciVal Latina, Monti Sabatini, Monti
Vulsini, Roccamonfina) e del Vesuvio.
Tuttavia, la presenza nei campioni della Via Appia di plagiocasio in quantità
non trascurabili (10-20% in Baso_1-4)
- o addirittura preponderanti (≥65%in
Baso_5) - permette di escludere il distretto vulcanico dei Colli Albani dalle
possibili aree di provenienza, giacché
nei prodotti emessi durante l’attività
effusiva pleistocenica non si rinviene
questo minerale in paragenesi (Trigila
et al., 1995). Considerando il distretto
vulcanico di Roccamonfina quale altra possibile area sorgente, la presenza
della leucite in paragenesi limiterebbe
il campo di ricerca ai prodotti dell’attività vulcanica emessi in precedenza al
collasso calderico dell’edificio, avvenuto
ca. 400ka (De Rita e Giordano, 1996;
Giannetti e Ellam, 1994; Conticelli
et al., 2004; Peccerillo, 2005; Conticelli
et al., 2009). Infine, la presenza di rocce effusive della serie HKS contenenti
leucite è stata più volte messa in evidenza anche per il vulcanismo dei Monti
Ernici-Val Latina (Civetta et al., 1981;
Boari et al., 2009a).
nea) e il Vulture (Fig. 7d). La variabilità
dei rapporti isotopici dei campioni prelevati dall’Appia antica rientra, infatti,
nei campi che caratterizzano i prodotti
emessi dai distretti di Roccamonfina
(nella fase “pre-caldera”) e della Valle
Latina e, più in generale, la Provincia
Magmatica Romana (Fig. 7e).
5. CONSIDERAZIONI
CONCLUSIVE
Le analisi degli aspetti geologici e
geomorfologici del paesaggio naturale
dei Monti Aurunci attraversato dalla
Via Appia antica hanno permesso di
riconoscere una relazione mutuale tra
la realizzazione e manutenzione della
grande via di comunicazione romana e
l’ambiente circostante nelle diverse epoche, per un periodo di quasi 2000 anni.
La Valle di Sant’Andrea, una linea
di drenaggio impostatasi in corrispondenza di una fascia di debolezza strutturale, doveva presentarsi, nel momento
della scelta del percorso nel IV secolo
a.C., come una via naturale di accesso,
attraverso l’aspra morfologia della catena aurunca, alla Piana del Garigliano e
a Capua, prima destinazione della Via
Appia. Se da un lato la profonda incisione valliva facilitò la realizzazione
dell’arteria consolare, dall’altra imponeva la necessità di soluzioni ingegneristiche per garantire l’attraversamento
Tabella 2. Caratterizzazione paragenetica e analisi modale quantitativa dei cinque campioni di basolato
analizzati al SEM, microsonda e microscopio ottico. In grassetto sono riportati i rari fenocristalli, in corsivo
le specie mineralogiche accessorie. Legenda: anf.=anfibolo; apa=apatite; bio=biotite; cpx= clinopirosseno;
gar=granato; K-feld=K-feldspato; lct=leucite; ne=nefelina; ol=olivina; opq=opachi (ossidi Fe e Ti);
plg=plagioclasio
Campione
Paragenesi
Analisi modale
Baso_1
lct, cpx, plg; lct, cpx, plg; ol, apa, opq, anf
lct 55%; cpx 20%; plg ~20%; ol~5%
Baso_2
lct, cpx, plg; lct, cpx, plg; ol, ne, apa, opq, bio
lct 55%; cpx 20%; plg 10%; ol ~10%; ne ~5%
Baso_3
lct, cpx, plg; lct, cpx, plg; ol, apa, opq
lct› 50%; cpx 20%; plg 10%, ol ~5%;
Baso_4
lct, cpx, plg; lct, cpx, plg; ol, apa, opq, anf, kf
lct 55%; cpx 20; plg 20%; ol ~ 5%
Baso_5
plg, cpx; lct, cpx, plg; opq, anf, apa, gar
plg ≥65%; cpx 25%; leu~4%; anf≤5%; opq≤3%;
da un’analisi modale al microscopio ottico, hanno consentito di determinare la
paragenesi dei campioni e la percentuale relativa dei costituenti mineralogici
(Tab. 2). Leucite, clinopirosseno (diopside) e plagiocasio (bytownite) sono i
principali minerali costituenti, mentre
tra i minerali accessori figurano apatite,
ossidi di ferro e titanio (opachi), anfiboli, biotite, olivina, granato, K-feldspato.
I risultati delle analisi permettono di
classificare i campioni Baso_1-4 come
leucititi tefritiche e il campione Baso_5
come una basanite.
Contestualmente alle analisi chimico-petrografiche, la determinazione dei rapporti isotopici 87Sr/86Sr e
143Nd/144Nd per gli stessi campioni
prelevati lungo la Via Appia antica ha
fornito ulteriori indicazioni. Confrontando i valori ottenuti in laboratorio con
i dati di letteratura (Civetta et al., 1981;
Peccerillo 2005; Boari et al., 2009a, b;
Conticelli et al., 2007, 2009; Gaeta et al.
2016; Sottili et al., 2019) è stato possibile escludere come aree di provenienza i
centri della provincia campana (Vesuvio,
Campi Flegrei e isole), la Sicilia (area et-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
del valico in condizioni di sicurezza. Per
questo fu necessario addossare la strada al versante meridionale della valle
aprendo il passaggio attraverso una
barriera naturale costituita da un’alta
scarpata in roccia, espressione morfologica di una faglia di natura transpressiva di grande estensione e d’importanza
sub-regionale. Imponenti murature di
sostruzione in pietra locale furono realizzate per sostenere il piano stradale e
mantenere un andamento regolare con
pendenze non eccessive, che non superano mai i 10°.
131
L’ambiente geologico della piattaforma carbonatica aurunca assicurò nel
corso dei secoli di dominazione romana,
dall’epoca Repubblicana a quella imperiale, una grande disponibilità di materie prime per la realizzazione delle opere
di corredo all’asse viario, come le stesse
sostruzioni e la prima pavimentazione
in lastricato calcareo. Lo sfruttamento
della pietra locale avvenne attraverso
un sistema di cave di estrazione a cielo
aperto e trasformò il paesaggio circostante la Via Appia. Il materiale roccioso estratto dalle aree di cava durante il
periodo di coltivazione romano (tra il IV
secolo a.C. ed almeno il I secolo d.C.)
non doveva tuttavia costituire l’unica
fonte di approvvigionamento di materiale da costruzione.
Se si considera, infatti, il volume totale estratto da tutte le cave ipotizzate di
età romana, e che vennero ricavate entro ammassi rocciosi fratturati, si arriva
a un totale di circa 3500 m3; includendo
anche le cave di datazione incerta si possono stimare poco meno di 3900 m3 di
materiale (Fig. 6 e Tab. 1).
Considerando l’estensione, l’altezza
e la profondità delle opere di sostruzione
muraria lungo il margine del percorso
e volendo aggiungere il lastricato necessario alla messa in posa della prima
pavimentazione per l’intero tratto che
percorre la Valle di Sant’Andrea (Fig. 3)
si arriva, seppure attraverso un calcolo
approssimativo, a un volume di un ordine di grandezza superiore (circa 31.000
m3).
Probabilmente, l’altra fonte di materiale litoide consisteva nei residui dell’opera di incisione dei versanti montuosi.
Dove visibile (Fig. 4d) la sezione asportata del rilievo carbonatico ha un’area di
circa 30-35m2. Valutando che l’incisione del pendio, parallelamente al decorso
della Valle di Sant’Andrea, venne realizzata per circa 800 metri, ne consegue
una stima, sempre approssimativa, compresa tra 24.000 e 28.000 m3 di roccia
rimossa. Questo materiale, sommato a
quello estratto dalle cave, avrebbe prodotto un volume complessivo simile a
quello stimato per la realizzazione delle
principali opere e costruzioni di corredo
alla via.
Successivamente al periodo romano
e alle opere di manutenzione avvenute
nel XVI secolo d.C. da parte degli Spagnoli (Quilici, 2007), un altro momento
importante di manutenzione dell’Appia
antica si ebbe alla fine del XVIII secolo
per opera dei Borboni. Il rifacimento
della sede stradale prevedeva la realizzazione di un nuovo piano imbrecciato
che riempisse le gabbionate ottenute
attraverso la rimozione e il ricollocamento dei basoli (Fig. 2c). La breccia
venne ricavata dall’escavazione della
seconda cava più grande per dimensioni presente nell’area (cava C, Fig. 6
e Tab. 1), collocata nelle vicinanze di
una delle zone restaurate (Fig. 2c, 2d),
e dalla probabile ripresa di cave romane già utilizzate per lo steso scopo (es.
cava 2, Fig. 5e, 6). Sempre allo stesso
intervallo temporale viene ricondotta
la coltivazione delle due grandi cave a
sezione semiellittica, A e B, che vennero
ricavate entro la successione del Cretacico inferiore nelle vicinanze del forte
(Fig. 2d). Si suppone che la loro utilizzazione divenne necessaria per disporre
di materiale da costruzione sufficiente
per la realizzazione del presidio militare,
costruito anche a spese del Tempio di
Apollo oggi non più conservato.
Infine, combinando i risultati di analisi di tipo chimico-petrografico e isotopico, sono state prese in considerazione
due possibili aree di provenienza per i
basoli vulcanici messi in opera lungo
questo tratto della Via Appia nel 216
d.C., vale a dire il centro vulcanico di
Roccamonfina e il distretto degli Ernici-Val Latina (Fig. 1a).
Come più dettagliatamente discusso
in Di Luzio et al., (2018), l’ipotesi di una
provenienza dall’area della media Valle
Latina, seppure non in contrasto con la
caratterizzazione isotopica dei campioni di basolato (Fig. 7e), non è supportata
dalla caratterizzazione petrografica della
locale serie HKS dove prevalgono leucititi a clinopirosseni nella cui paragenesi
il plagiocasio compare sporadicamente
e come minerale accessorio. Il materiale
trasportato in epoca imperiale per la realizzazione del basolato sulla Via Appia
antica, nel tratto compreso tra Fondi
e Itri, venne probabilmente prelevato
da affioramenti di leucititi tefritiche e
basaniti riconducibili ai prodotti della
fase “pre-caldera” del vulcanismo effusivo di Roccamonfina, molto diffusi al
margine tra la Piana del Garigliano e il
settore occidentale del centro vulcanico
campano.
RINGRAZIAMENTI
Questa ricerca è stata condotta
nell’ambito del Progetto FIRB: “Il paesaggio di una grande strada romana: modello di approccio multidisciplinare per una
ricostruzione diacronica applicato alla Via
Appia al valico degli Aurunci”, finanziato
dal MIUR e al quale hanno partecipato
il CNR-ITABC (Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali, attual-
mente confluito in CNR-ISPC, Istituto
di Scienze del Patrimonio Culturale) e
il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali (DILBEC) dell’Università Campania “Luigi Vanvitelli” (http://firb.appiantica.itabc.cnr.it/index.php/it/).
L’autore di questo contributo, coordinatore scientifico del progetto quando
era in servizio presso ITABC, ringrazia la dott.ssa Carfora P., coordinatrice
dell’unità operativa del DILBEC, e tutti
ricercatori e tecnici di CNR-ITABC e
DILBEC che hanno contribuito ai lavori del FIRB. Un particolare ringraziamento è diretto ai professori Quilici
L. e Quilici Gigli S., alla Direzione del
Parco Naturale dei Monti Aurunci, ai
Guardiaparco locali, e ad Albano M. e
Serracino M. (CNR‐IGAG) per il loro
aiuto nelle analisi al SEM e alla microsonda. La parte relativa alle analisi
chimico-petrografiche ed isotopiche dei
basolati è stata possibile grazie al lavoro di Sottili G. (Università “Sapienza”,
Dipartimento di Scienze della Terra),
Arienzo I. (INGV-Osservatorio Vesuviano) e Boccuti S. (CNR-ISB, Istituto
per i Sistemi Biologici ex-IMC, Istituto
per le Metodologie Chimiche).
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133
Vibo Valentia: spunti per la
definizione della viabilità
urbana nelle fasi greca e
romana
Vibo Valentia: ideas for the definition
of urban roads in the Greek and Roman
phase
Giuseppe Ferraro
Geologo libero professionista - Geofisica
Misure s.n.c.
Maria Teresa Iannelli
Archeologo già funzionario
Soprintendenza Archeologica per la
Calabria
Anna Maria Rotella
Archeologo, libero professionista, collaboratore Soprintendenza Archeologia,
Belle Arti e Paesaggio per le province di
Cosenza, Catanzaro e Krotone
Parole chiave: antichi sistemi di insediamento, viabilità in età greca e romana, rischi naturali
Key words: ancient settlement systems, roads in greek and roman times, natural hazards
GEOMORFOLOGIA E
VIABILITÀ
Sul panorama delle frequentazioni
umane nell’Italia meridionale, un momento di notevole importanza è senza
alcun dubbio quel processo insediativo (socio-economico, urbanistico, di
trasformazione dell’uso dei suoli e del
paesaggio in generale) noto come “colonizzazione greca”.
Tra le prime grandi realtà insediative
di questo periodo, molte hanno interessato le aree costiere del versante jonico
del Sud dell’Italia, con un flusso di po-
polazioni elleniche, che ad iniziare dalla seconda metà dell’VIII sec. a.C. fino
alla metà del VII a.C. ha visto il fiorire di numerose città che per estensione
degli abitati e complessità nell’uso del
suolo non aveva precedenti. È proprio
in questo periodo che il numero dei villaggi protostorici, la cui collocazione è,
nella quasi totalità dei casi, riconducibile a terrazzi marini (lungo le coste) o
fluviali (nelle aree interne), subisce una
drastica riduzione, evidentemente a causa dell’egemonia politico-culturale dei
nuovi arrivati nei confronti delle popolazioni indigene. Questo nuovo assetto
insediativo consente sistemi di sfruttamento delle risorse territoriali molto
più efficaci, sia per le nuove tecniche in
agricoltura, ma anche per l’efficienza dei
sistemi di trasporto, resi più facili dalla
posizione “vicino al mare” e nelle piane
alluvionali in prossimità delle foci dei
maggiori corsi d’acqua, utilizzati come
approdo per le imbarcazioni e, più in
generale, per la più facile mobilità nelle
aree pianeggianti.
Figura 1. Nell’immagine a sinistra sono indicate le principali poleis greche fondate tra la fine dell’VIII e il VII sec. a. C. sulle piane alluvionali litoranee della costa jonica.
Nelle due immagini a destra (Sibaritide) è schematizzato il passaggio tra protostoria e fase greca arcaica, con importanti cambiamenti sui sistemi insediativi: si passa da centri
medio-piccoli dell’età del Ferro, collocati in prevalenza sui terrazzi marini, aree caratterizzate da una grande stabilità geomorfologica, ad una polis di grandi dimensioni
(Sibari nello schema). Queste sono collocate quasi sempre nelle piane alluvionali attive e in prossimità delle foci fluviali (utilizzate come approdo per le imbarcazioni). In poco
tempo i villaggi preesistenti sono “assorbiti” dalle città greche
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
134
Un esempio efficace su ciò che accade in questo periodo è quello della Sibaritide (Fig. 1), dove la nascita, sull’allora
foce del fiume Crati, della città greca di
Sibari comporta, in pochi decenni, la
scomparsa di gran parte dei villaggi enotri dell’età del Ferro, che erano impostati
quasi tutti nelle aree dei terrazzi marini e fluviali, molto stabili dal punto di
vista geomorfologico, come testimonia
anche la continuità temporale di questi
insediamenti. Il nuovo sistema insediativo se, come visto, da un lato consente
un efficientamento nella gestione delle
che consente una verifica diretta delle interferenze tra le trasformazioni
ambientali e le loro ripercussioni sulle
comunità umane. Un caso di studio ad
esempio3, sempre nella Sibaritide, ipotizza come ulteriore fattore di rischio sui
processi alluvionali che hanno interessato la Piana, oltre alla subsidenza per
normale consolidamento dei depositi
alluvionali, un abbassamento del suolo
dovuto ad un fattore tettonico (dinamiche plicative con le aree di sinclinali
interessate da subsidenza tettonica, che
vedrebbero la città magno-greca collo-
(mediante datazione radiometrica) alla
seconda metà del V sec. a.C., porta ad
una elevazione della piana di circa 2 m,
sulla quale viene rifondata la città ellenistica. Interferenze tra l’evoluzione del
litorale e le strutture kauloniati sono state messe in evidenza da più campagne
di indagini in mare4 che hanno calcolato un arretramento della linea di riva
rispetto al VII sec. a.C. di oltre 200 m;
dati confermati da un’analisi idrogeologica sulla geometria della falda litoranea
intercettata nei pozzi antichi rinvenuti
nella piana5.
Figura 2. Nell’immagine a sinistra, su DTM, è indicata la posizione della città di Kaulonia, delimitata dalla sua cinta muraria. Vengono riportati anche i dati di spostamento del suolo come da interferometria SAR di immagini radar satellitari su punti PST, mediate nel periodo 2003-2010 (i valori negativi indicano subsidenza, quelli
positivi sollevamento). È evidente che, oltre al settore litoraneo settentrionale della città greca, tutta l’area di foce della fiumara Assi è interessata da fenomeni di subsidenza
(presumibilmente per dinamiche gravitative profonde). L’immagine a destra riporta la stratigrafia archeologica della falesia, dove è evidente lo spesso deposito di un evento
alluvionale parossistico (debris-flow) datato nella seconda metà del V sec. a.C.
risorse del territorio, eventualmente anche con una pressione ambientale meno
impattante rispetto alle tecniche agricole precedenti1, dall’altro crea un sistema
estremamente fragile a causa dell’accentramento del potere politico in un singolo sito e, soprattutto, per la nascita di
condizioni di rischio molto elevato per
la posizione dei nuovi abitati, collocati
nelle piane alluvionali attive e in prossimità delle foci dei fiumi più importanti.
Le dinamiche geomorfologiche delle
aree costiere joniche, sia nell’entroterra che off-shore, da alcuni decenni sono
oggetto di studio da parte di vari enti di
ricerca (CNR, l’INGV, ENEA, OGS),
quale settore esterno della Catena Appenninica, soggetto a trasformazioni
molto vivaci e in cui le interferenze tra
dinamiche tettoniche e geomorfologiche sono tutte da chiarire2.Tra le metodologie di analisi un valido contributo
è certamente dato dalla geoarcheologia,
carsi proprio in tale settore). Il dato più
eclatante sulle interferenze tra i primi
insediamenti greci (fase arcaica) e le dinamiche alluvionali, o geomorfologiche
in generale, è che la gran parte delle città
greche fondate nella fase arcaica, sono
state soggette a seri problemi di danneggiamento degli abitati, che in alcuni
casi ne hanno decretato l’abbandono
(probabilmente avviene per Siris, posta
alla foce del fiume Sinni), mentre Sibari viene alluvionata e sepolta più volte,
con un aggradazione della Piana di almeno otto metri tra l’VIII sec. a.C. e il
piano di campagna attuale, con tre fasi
costruttive sovrapposte (Sibari, Thurii e
la romana Copia).
Eventi distruttivi alluvionali del tipo
debris-flow, si riconoscono nella zona più
litoranea di Kaulonia (fondazione achea
o krotoniate collocabile all’inizio del
VII a.C. nelle sue fasi arcaiche). L’evento, che è stato collocato dallo scrivente
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Forti indizi di fenomeni di subsidenza, forse indotta da grandi frane
profonde, si riconoscono in molti settori del litorale jonico, principalmente
nelle zone di promontorio del crotonese
(settore dell’abitato di Kroton, l’area di
Capo Colonna e di Capo Cimiti). La
conseguenza di questi, oltre ad un “richiamo” per gli eventi alluvionali, sono
i processi di erosione costiera. Una dinamica di questo tipo particolarmente
evidente si riconosce sul promontorio
di Punta Alice, appena a nord di Cirò
Marina (Fig. 3), dove si osserva un’ampia fascia ribassata, delimitata a ovest da
una netta scarpata (presumibilmente di
frana). Dai dati interferometrici satellitari (Progetto PST-SAR del Ministero
dell’Ambiente) tutta questa zona è interessata da subsidenza ad un tasso medio compreso tra 5 e 15 m/a. Nell’area
ricade uno dei templi greci più antichi,
rinvenuto da Paolo Orsi tra il 1914 e
135
1915, risalente al VII sec. a.C.; i processi
di subsidenza, oltre all’erosione costiera, determinano fenomeni di impantanamento, diffuso è l’affioramento della
falda nell’intorno dei resti del tempio,
con il conseguente impostarsi di zone
palustri. Nella stessa area è ipotizzata la
localizzazione della città greca di Krimisa, mai rinvenuta (le aree interne erano
sede di centri indigeni6) e che, viste le dinamiche descritte, potrebbe essere stata
interessata dai processi erosivi costieri.
Le città di fondazione più tarda (dopo il VII sec. a.C.) e soprattutto le subco-
punti di vista, oltre alle esigenze della
ricerca di siti naturalmente protetti per
la loro morfologia (alture naturalmente
protette), ci si sia resi conto delle condizioni di pericolosità naturali riscontrate nelle prime fasi di insediamento
sulle aree costiere joniche. È questo il
caso anche delle due subcolonie della
fiorente Locri Epizephiri fondate sulla
costa tirrenica della Calabria (Fig. 4),
sul finire del VII sec. a.C., Hipponion
e Medma. Quest’ultima ricade su un
terrazzo marino posto ad una quota di
50-60 m.s.l.m., elevato e stabile rispetto
fologico descritto, è il risultato di alcuni
importanti processi geodinamici in atto,
che hanno portato alla definizione per
l’area del promontorio del Poro, in cui
è compreso il terrazzo di Vibo Valentia,
come un alto-strutturale che costituisce
l’horst occidentale dell’area tettonicamente ribassata (Graben) coincidente
con la valle del Mesima. L’alto morfologico/strutturale, quindi, è delimitato
sia a nord-ovest, verso la costa tirrenica,
che verso sud-est, da un sistema di faglie
attive che causano il sollevamento della
struttura del Monte Poro. Il basamento
Figura 3. Modello digitale del terreno dell’area di Punta Alice (Cirò Marina). Sono mappati anche i dati interferometrici SAR, che indicano gli spostamenti del suolo (componente verticale), in rosso (valori negativi) quelli interessati da subsidenza. Si riconosce un’ampia fascia “ribassata”, nella quale ricade anche una porzione dell’abitato di
Cirò Marina, delimitata a ovest da una scarpata morfologica, in cui gli spostamenti da interferometria (dati ERS medianti tra 1995 e 2000) indicano subsidenze comprese
tra 5 e 15 mm/a. In questa fascia ricade il tempio arcaico di Apollo Aleo
lonie, quali le poleis realizzate a supporto
dell’estensione del dominio territoriale
da parte delle città di primo impianto,
tutte caratterizzate da una rapida ascesa politica e amministrativa, spesso tra
loro in conflitto, sembrano adottare
strategie insediative differenti. Per la
localizzazione degli impianti urbani si
abbandonano le aree di foce e le piane
alluvionali attive, per “tornare” sulle stabili superfici dei terrazzi marini/fluviali:
Methauros, Laos, Terina, Heraclea, Poseidon, Medma, Hipponion). È molto
probabile che, per quanto questo aspetto
necessiti di approfondimenti da molti
alla piana alluvionale attiva sottostante.
Per Hipponion il contesto morfologico è più aspro e complesso, la superficie
terrazzata su cui è impostato l’abitato si
sviluppa a quote comprese tra 500 e 570
m.sl.m. che, nell’assetto generale dell’area, costituisce un alto-morfologico interposto tra la costa tirrenica e la valle
del fiume Mesima. Il sito è caratterizzato da un’ampia superficie sub-pianeggiante che nella fascia orientale diviene
più acclive (pendenza tra il 15 e il 20%),
conducendo su due alture poste a quote
di 560-570 m.s.l.m., in cui erano ubicate
due aree sacre hipponiati. L’assetto mor-
che costituisce l’ossatura del promontorio di Capo Vaticano, appartenente al sistema dell’Arco Calabro, è rappresentato
da graniti, gneiss e quarzofilliti, coperti
da affioramenti discontinui di carbonati
miocenici-pliocenici e da depositi terrigeni. In tutta l’area del promontorio del
Poro e a diverse quote affiorano diffusamente depositi terrazzati marini pleistocenici a luoghi ricoperti da un sottile
velo di sedimenti continentali recenti ed
attuali. La storia geologica più recente
(Quaternario) dell’area di interesse è
strettamente legata a quella dell’intero
Arco Calabro, caratterizzata, a partire
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
136
Figura 4. Modello digitale del terreno con le posizioni di Locri Epizephiri e le sue subcolonie di Medma e Hipponion. A destra un dettaglio del territorio di Hipponion, con le
posizioni dell’acropoli, impostata sulla propaggine nord-orientale dell’altopiano del Poro-Capo Vaticano e dell’antico porto della città greca, sulla foce del Torrente Trainiti, in
un tratto di costa ad andamento ovest-nord-ovest/est-sud-est, in “ombra” rispetto alla direzione del moto ondoso più intenso, proveniente da ovest-sud-ovest (Massimo fetch)
dal Pliocene superiore, dall’instaurarsi di
un regime estensionale, con la presenza
di numerose faglie normali sia parallele
(nord-est/sud-ovest) che perpendicolari (ovest-nord-ovest/est-sud-est) alla
direzione generale dell’Arco stesso. A
partire dal Pleistocene medio, i processi estensionali sono stati accompagnati
da un forte sollevamento regionale, di
cui i numerosi terrazzi marini (almeno
12 ordini) sono il principale e peculiare
effetto sul paesaggio costiero7. La polis
non rinuncia ad un approdo che, anzi,
sarà un punto di forza importantissimo
per le sue attività commerciali. Questo
era collocato nel tratto di costa antistante l’abitato8: si tratta di un settore
in cui la costa si sviluppa in direzione
ovest-nord-ovest/est-sud-est, particolarmente favorevole per l’ubicazione di
un approdo, in quanto in “ombra” rispetto alla direzione del moto ondoso più
intenso, proveniente da ovest-sud-ovest
(fetch massimo) e dove il sollevamento
tettonico è stato meno intenso, come
evidente anche nel DTM di Fig. 4.
Queste due condizioni hanno favorito la nascita di una piana alluvionale tra
le foci della fiumara Trainiti e il torrente
Sant’Anna che, come ricostruito in varie
campagne di indagini condotte sul sito
attraverso prospezioni geofisiche e carotaggi da parte della Fondazione Lerici e
Geofisica Misure, ha avuto periodi con
ambienti in facies litorali (di spiaggia),
di laguna e, nelle fasi terminali, palustri.
Il porto di Hipponion prima e della
romana Valentia successivamente, sarà
uno degli approdi più importanti dell’Italia meridionale, e rimane in attività
fino all’inizio del XVII sec. Resta incer-
ta la perimetrazione dei bacini portuali,
attualmente colmati all’interno dell’attuale piana di Bivona. Le stratigrafie vedono un processo di interramento che
procede da sud verso nord e da ovest
verso est, ipotesi confermata anche da
un “ringiovanimento” delle strutture antropiche rinvenute nei saggi effettuati
procedendo in tali direzioni.
Il successo nella continuità d’uso del
sito in cui è impostata la città di Hip-
ponion/Valentia/MonsLeonis/Vibo
Valentia in un certo senso conferma le
ipotesi innanzi esposte, sui rischi molto
elevati a cui sono state soggette molte
delle città magno greche di primo impianto (sulle foci fluviali), in gran parte
abbandonate dopo pochi secoli dalla
loro fondazione o, come avviene per Sibari, più volte ricostruite praticamente
ex-novo, o ancora dislocate “verso l’alto”
come avviene probabilmente per Kroton,
Figura 5. Modello digitale del terreno con le posizioni dell’abitato di Hipponion/Vibo Valentia e dell’area del porto
antico. L’abitato è compreso all’interno della cinta muraria, tutto impostato nel terrazzo più elevato della dorsale
del Poro. I pallini in rosso indicano gli indizi rinvenuti nelle varie campagne di scavo sulla viabilità sia interna
che di collegamento con l’esterno. È indicativa di un intenso rapporto con l’area portuale la presenza di ben quattro
ipotesi viarie sul lato nord-orientale, in direzione dell’area portuale nell’attuale piana di Bivona
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
137
che dalla foce del fiume Esaro, tende ad
espandersi verso il terrazzo dell’attuale
centro storico in età ellenistica e ancor
prima. La stabilità geomorfologica del
terrazzo su cui è ubicato l’abitato di
Hipponion/Vibo Valentia, nonostante
gli avvicendamenti amministrativi, ha
consentito una lunga continuità abitativa. Questo risulta ancor più vero se si
considera la fragilità dell’area portuale
che, se da un lato ha consentito una fiorente economia alla città greca e romana,
il sito litoraneo ha necessitato nel tempo
di continui interventi di regimazione del
flusso di sedimenti costieri (costruzione di antemurali alla foce del torrente
Trainiti) e interventi di ricostruzione
delle strutture portuali man mano che
il bacino veniva interrato dal trasporto solido dei corsi d’acqua citati9, resi
possibili dalla presenza di un efficiente
centro politico-amministrativo del proprio territorio.
Come più innanzi esposto dalle coautrici di questo contributo, la scelta di
ubicazione su quote così elevate dell’abitato, ha necessitato di un impegno rilevante per il collegamento, sia sulle direttrici nord-sud, principale asse viario di
collegamento via terra, che in direzione
della Valle del Mesima (verso sud-est)
e, soprattutto, verso l’area portuale, dove
in meno di 3 km, è da superare un dislivello di oltre 500 m. È proprio in tale
direzione (nord-ovest) che si rinvengono
più numerosi gli indizi (almeno quattro)
sulla presenza di vie collegamento.
Giuseppe Ferraro
VIABILITÀ ESTERNA
La subcolonia locrese di Hipponion
identificata da P. Orsi nell’odierna cittadina di Vibo Valentia nel cuore delle
Serre calabresi, è un centro antico pluristratificato e a continuità di vita, un
classico esempio di archeologia urbana,
condizione che nel tempo ha fortemente limitato la ricerca archeologica sul
campo10. Il tema della viabilità urbana
ed extra urbana della subcolonia prima
e del municipium romano11 poi, è una
delle tante problematiche fortemente
penalizzate dalla sovrapposizione del
centro moderno su quello antico, tant’è
che a oggi, nonostante l’incremento
delle ricerche archeologiche soprattutto
nella città, non sono disponibili dati né
sull’impianto urbano della polis né sul
suo reticolo viario; un po’ meglio documentate sono l’urbanistica e la viabilità interna di età romana12. Pertanto la
presente ricerca si dovrà basare prevalentemente sull’analisi geomorfologica,
sullo studio delle fonti antiche, sui dati
desunti dalla letteratura antiquaria reperibile (gli scritti di Vito Capialbi e di
altri studiosi locali: i fratelli Pignatari,
il Marzano ecc.) e dalla toponomastica
(molto utile è l’analisi della cartografia storica), dati che verranno integrati
laddove possibile, con le testimonianze
archeologiche. A queste considerazioni
sembra necessario aggiungere un’altra
annotazione relativa al fatto che, soprattutto per quel che riguarda la viabilità
esterna, è molto difficile, nella maggior
parte dei casi, stabilire la cronologia
dell’utilizzo dei diversi tracciati viari che
pertanto al momento e solo in via preliminare, dobbiamo supporre in continuità tra l’età greca e quella romana13 in
tutti i casi non altrimenti documentati
di cui ovviamente daremo conto. E tuttavia sembra importante a questo stadio
della ricerca definire lo status questionis
relativamente alla nostra problematica
in modo da stimolare se non proprio
indirizzare le indagini future. Un primo
elemento utile alla comprensione e alla
definizione della viabilità antica di Vibo Valentia è senz’altro la scelta del sito
con la sua marcata valenza strategica:
un ampio terrazzo prospiciente la costa,
posto in posizione preminente rispetto
al territorio circostante, che domina a
nord la piana lametina (attuale golfo
di Sant’Eufemia), a sud quella di Gioia Tauro (antica Methauros); un punto
nodale di transito tra il bacino del Mesima su cui sorgeva la consorella Medma
(attuale Rosarno) e la fascia litoranea.
A ciò si aggiunga la prossimità di un
approdo naturale ampio e riparato che
viene strutturato a partire dall’età greca
e rimane in funzione fino alla fine del
settecento14, che la ricerca archeologica
ha identificato nel tratto di mare compreso tra l’attuale punta Safò e il basso
corso del torrente Sant’Anna15.
La posizione privilegiata del pianoro su cui fu fondata Hipponion determinò un “continuo e remunerativo”
rapporto col mare e soprattutto col suo
porto e contestualmente con il territorio circostante che si organizzò “…in
una forma di economia mista ed integrata: agricolo, pastorale, marittima,
senza per questo trascurare la componente silvicola (pece e legname).”16
La città greca prima, la colonia e
il municipium poi, diventano il polo
socio-economico e politico intorno a
cui gravita questo ricchissimo territorio
peculiare per la sua componente silvopastorale e per la fiorente agricoltura
praticata sul vasto territorio circostante.
Contatti così intensi col territorio
presuppongono l’esistenza di una serie
di percorsi che partendo dalla polis assicurino i collegamenti sia verso nord,
con la piana lametina che verso est con
la vallata del Mesima e il territorio montano, verso ovest con il porto e il resto del
territorio lungo la costa e verso Sud con
il fertile Monte Poro, con la consapevolezza che la scelta di un insediamento di
altura, posto su una superficie terrazzata
che raggiunge quote fino a 568 m slm,
com’è quello di Hipponion-Vibo Valentia, costituisce un serio impegno per i
collegamenti a causa del notevole dislivello naturale certamente difficoltoso
da affrontare.
Non è un caso che la città col nome di “Vibona-Balentia” sia rappresentata nella Tabula Peutingeriana (copia
medievale di un itinerario completo
dell’impero romano e che nel tratto VI
descrive il Bruttium) come una località
da cui si dipartono ben quattro percorsi
stradali e ancora che essa sia presente in
quasi tutti gli Itineraria scripta e picta.
In considerazione delle riflessioni
fatte in premessa, la nostra analisi dovrà necessariamente partire dalla cinta
muraria della città greca17 il cui tracciato è possibile ricostruire quasi completamente e che al momento costituisce
la sola testimonianza archeologica che
correlata allo studio geomorfologico
del pianoro su cui sorge la città, e alle
altre diverse fonti disponibili, consente
di ricostruire, seppur in via ipotetica, gli
accessi principali alla polis.
Analizziamo innanzitutto quelli di
collegamento col porto che sembrano essere stati tre (Fig. 6, nn. 2, 4, 9) e
ubicati tutti sul fianco nord-ovest della cortina muraria18. L’esistenza di una
porta (Fig. 6, n. 2) posizionata nelle
vicinanze di quella che è stata definita
“la torre del porto”19, rinvenuta ai piedi
della collina del Belvedere-Telegrafo, è
stata ipotizzata da Rotella20 per la presenza proprio in quest’area di un asse
viario riportato sulla pianta della città
del 1819 (Fig. 7) che viene indicato con
il toponimo “Strada di Porticela per la
Silica”; all’esistenza, in questa zona di
una porta lungo il tracciato delle murazione di Hipponion, accenna Vito Capialbi21 quando descrive il percorso del
muro di cinta che al Belvedere grande
“… discende piegando verso ponente al
fondo detto “Porticella”, forse da qualche altra antica porta che colà vi era” ed
è Paolo Orsi nel 1921 a dare notizia del
rinvenimento nella zona di due epigrafi
funerarie di cui una tra “la Madonnetta e
il Telegrafo” e l’altra iscrizione graffita su
mattone, è stata proposta da Orsi come
recuperata presso il “Telegrafo”22.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
138
Figura 6. Vibo Valentia, Hipponion la città greca e Vibo Valentia, il municipium: ipotesi degli allineamenti degli assi viari e proposte di ubicazione delle porte
Secondo Givigliano23 un altro ingresso sulla cinta muraria verso il porto
(Fig. 6, n. 4) è ipotizzabile nei pressi
dell’attuale località Madonnella (Chiesa
della Madonna del Buon Consiglio) da
dove si diramava una “strada per il porto”
ben documentata dalla pianta settecentesca del Bisogni De’ Gatti24 (Fig. 8) che
ne indica il toponimo; questo asse viario
che collegava la città con il Castello di
Bivona e con l’omonima marina, passava
per la Fonte “Silica” toponimo quest’ultimo che sempre secondo Givigliano,
individua in genere, una via acciottolata
di età medievale, cosa questa che sarebbe
indizio della persistenza nel tempo di
questa viabilità di collegamento. Sempre per lo studioso il percorso in questione, che per un lungo tratto seguiva
una linea di crinale sviluppandosi poi
lungo una linea di contro crinale, risultava molto ripido in quanto doveva superare in pochi km pendenze eccessive
e quindi sarebbe stato adibito al traffico
leggero25. Di contro esisteva un tracciato
più occidentale rispetto all’ultimo sopra
citato, che partiva dall’attuale località
Cancello Rosso e attraverso una porta
urbica (Fig. 6, n.9) conduceva sempre
all’antico emporio marittimo della città, passando questa volta per la contrada
“Silica” e procedendo poi verso l’attuale
località di Porto Salvo. Questo ulteriore
percorso proposto sempre da Givigliano, aveva un andamento sinuoso definito da parecchi “tornanti che addolciscono una pendenza notevole”26 e che
quindi sarebbe stato più funzionale al
traffico pesante.
Figura 7. Vibo Velentia pianta del Bisogni De’ Gatti 1710
Più problematica risulta l’individuazione di un altro ingresso alla città
questa volta probabilmente di collegamento con il territorio verso MiletoNicotera-Medma e più in generale
verso il Monte Poro, da ubicarsi lungo
il versante nord-est di Hipponion in
un punto non al momento precisabile,
ma compreso nella zona del Cancello
Rosso, dove gli scavi archeologici hanno
rinvenuto una vasta area di necropoli, in
letteratura denominata “necropoli occidentale”27 e la località limitrofa di Piercastello-Lacquari dove la ricerca archeologica ha messo in evidenza una delle
necropoli del municipium (Fig. 6, n. 10).
Un indizio per una più puntuale ubica-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
zione della porta lo fornisce la pianta
del 1819, che proprio al limite est della
località Piercastello-Lacquari, segnala
la presenza di un asse viario indicato
come “Antica strada” (Fig. 6, n. 12). Per
Arslan28 quest’apertura nella murazione
dovrebbe essere ubicata più ad ovest in
corrispondenza della località AffaccioCancello Rosso (Fig. 6, n. 10) dove in
età romano-repubblicana si sviluppava
il percorso della via a lunga percorrenza
ab Regio ad Capuam, costruita nel I sec.
a.C., che collegava Vibo Valentia con
Capua a nord e Reggio a sud, sulla quale
torneremo in seguito. Alla luce dei dati
acquisiti fino a questo momento quindi,
per quest’area della città è forse possibile
139
Figura 8. MonsLeonis/Vibo Valentia, pianta del 1819
ipotizzare la presenza di due assi viari di
collegamento con il territorio: uno che si
dirama nei pressi della località AffaccioCancello Rosso coincidente con l’area
marginale della “necropoli occidentale”,
in uso dalla fine del VII e fino agli inizi
del III sec. a.C., l’altro in corrispondenza con l’area di necropoli PiercastelloLacquari, in uso dal periodo ellenistico
e fino al I secolo, e dalla quale si diparte
l’“Antica Strada”. Nessun indizio certo
della presenza di porte è sul versante sud
della murazione dove in verità le tracce
dell’opera difensiva sono molto labili; in
ogni caso è legittimo ipotizzare anche
da questo fronte una o più possibilità di
collegamento con il territorio in direzione sia dell’attuale frazione di Piscopio
(Fig. 6, n. 11)29 che verso il comune di
Stefanaconi, attraverso quello che è ancora oggi il percorso che collega il centro
storico dei due comuni (Fig. 6, n. 15) e
si connette al piede della collina di Vibo
Valentia con la strada che dalla città esce
sul versante est (Fig. 6, n. 3).
Risalendo lungo il lato est della cinta
muraria, la presenza di una porta (Fig. 6,
n. 3) e la strada ad essa connessa è stata ipotizzata da Rotella30 nella località
Cofinello nota per il rinvenimento da
parte di Vito Capialbi, di una necropoli
ritenuta di età classica, che la studiosa
invece propone come ellenistica, riferendola all’elemento brettio. La presenza di un tracciato viario che se piuttosto
disagevole per il traffico pesante “…permette in pochi minuti di passare dai 550
m circa della cima del colle ai 360 della
valle del Mesima, rendendo praticabile
il collegamento veloce e agevole tra la
città e l’entroterra” è avvalorata dai dati
forniti nella pianta del 1819 (Fig. 7) che
la indica come “Strada della Croce della Neviera per Stefanaconi”31; ad essa,
come si è detto (Fig. 6, n. 15), si collega
quella in uscita per il traffico pesante
dal centro storico cittadino ed assieme
procedono verso la vallata del Mesima
e quindi verso le Serre vibonesi. Anche
il versante Nord delle mura di Hipponion si caratterizza per la presenza di
almeno una porta32 che, al momento, si
configura come unico principale ingresso alla città (Fig. 6, n. 8a) per chi proviene dal territorio lametino, porta che
in età romana viene dismessa con tutta
la murazione su questo fronte e spostata
poco più a Sud verso l’attuale località S.
Aloe (Fig. 6, n. 8b) insieme col coevo
muro di cinta che corre perpendicolarmente all’omonima strada33. Da questa
porta (Fig. 6, n. 8b) dovrebbe entrare
nella città la cosiddetta via ab Regio ad
Capuam che seguendo via S. Aloe attraversa il centro urbano, per poi uscire
dal lato Nord-Ovest attraverso una delle
porte qui ubicate. A questo tratto della
murazione romana sono state connesse anche due epigrafi latine rinvenute
in tempi diversi: una durante lo scavo
del pozzo del frigidarium del complesso
termale di S. Aloe nel 1972, l’altra alla
fine dell’ottocento e già presente nella
collezione della famiglia Cordopatri di
Vibo Valentia34, che secondo la maggior
parte degli studiosi35, risalgono alla seconda metà del I sec. a.C. e si riferiscono
al “restauro della cinta muraria” e delle
porte urbiche.
Una testimonianza tangibile della via ab Regio ad Capuam è il miliario
rinvenuto all’inizio degli anni cinquanta
del secolo scorso nella località Vaccarizzu nel comune di Sant’Onofrio, a soli 5
km dall’odierna città di Vibo Valentia,
che riporta la distanza tra quest’ultima e
la stazione di partenza: Capua36.
Senza entrare nel merito dei vari
tracciati possibili che sono stati proposti
dai diversi autori per la strada ab Regio
ad Capuam in questo tratto e per rimanere in ambito prettamente hipponiate,
abbiamo visto come sia Arslan che Givigliano sostengono, che la via Popilia
penetra all’interno della città con un
percorso che coincide, per grandi linee,
con la via S. Aloe lungo la quale la ricerca archeologica ha messo in luce un
complesso termale pubblico (Fig. 6, n.
6c) con il suo ingresso principale proprio su quella strada37; quest’ultima segue il rigido schema ortogonale secondo
cui è stato realizzato l’impianto urbano
della città38. Chi scrive, insieme con G.
Givigliano ha proposto che l’asse della
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
140
cosiddetta via Annia Popilia dopo aver
attraversato la via Sant’Aloe, continuava
a est “forse sfasato di uno o due isolati,
esce dalla città attraverso la porta che
si apre nelle mura in prossimità della
galleria ferroviaria, per collegarsi direttamente al tracciato meridionale della
via ab Regio ad Capuam”39.
Maria Teresa Iannelli
VIABILITÀ INTERNA
Per quanto concerne la viabilità interna alla città, essa, come abbiamo già
detto, è meglio documentata per l’età
romana, mentre è quasi del tutto inesistente per la fase greca, fatta eccezione
per l’ipotesi di tracciato viario proposta
da Quilici40 in riferimento al collegamento tra l’area sacra al Cofino e quella
in località Scrimbia (Fig. 6, n. 1).
Per la fase romana è stato ipotizzato
che tracce del reticolo urbano rimangono solo in alcune zone del centro antico:
nell’attuale chiesa di San Leoluca e nel
Convento, nella chiesa del Rosario e
nell’annesso Convento in prossimità dei
resti del teatro romano, secondo quanto
proposto da Arslan41, mentre, Iannelli
e Givigliano42 hanno ipotizzato che nel
“quartiere meridionale della città ubicato immediatamente al di sotto della cinta medievale”, alcuni isolati e strade presentano un allineamento perfetto con le
strutture romane rinvenute nel quartiere di S. Aloe. Partendo da quest’ultima
ipotesi e studiando l’orientamento delle
strade interne al centro storico si può
giungere all’identificazione di quello che risulta essere l’unico incrocio di
strade perpendicolari e cioè quello tra
la parte iniziale del corso Umberto I e
la via Guglielmo Marconi (Fig. 6, n. 14)
che, per grandi linee, mantengono l’orientamento delle chiese di San Leoluca
e del Rosario.
Non c’è alcun dubbio che il punto
di partenza per l’analisi sulla viabilità
interna alla città debba essere la località
S. Aloe dove gli scavi del 2003 prima
e successivamente del 2007, effettuati
nelle immediate vicinanze dell’edificio
termale (Fig. 6, nn. 6a, b e c), hanno
messo in luce una serie di strade oltre ad
alcune domus, e quindi un ampio spaccato dell’impianto urbanistico della città
romana, fornendo dati molto importanti per la comprensione del sistema viario
interno al municipium43.
Nell’estremità nord-ovest della vasta
area che costituisce il settore del “parco
archeologico di S. Aloe”, sono stati identificati i resti di due strade (Figg. 9-10),
con andamento est-ovest e con banchine laterali su cui si affacciano gli isola-
Figura 9. Vibo Valentia il municipium romano, località S. Aloe strada basolata con andamento est-ovest
Figura 10. Vibo Valentia il municipium romano, località S. Aloe strada basolata con andamento est-ovest su cui si
affaccia la domus con atrio e impluvium in opus signinum
ti, ad uno dei quali è pertinente a una
domus con impluvium in opus signinum.
Meno lungo che nel resto della zona S.
Aloe sembra essere stato il periodo di
frequentazione dell’area della domus con
l’impluvium e della strada relativa, che,
com’è stato ipotizzato possano essere
andate in disuso intorno alla fine del II
sec d. C., forse a causa degli sconvolgimenti provocati da un importante evento sismico del quale restano importanti
tracce nell’area della domus. È ancora
la scrivente che ipotizza l’estensione
verso sud (cioè verso l’edificio termale)
del sistema viario con andamento nordovest/sud-est con isolati di circa 50 m
sul lato lungo confermato dalla presenza di una seconda strada con lo stesso
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
orientamento, questa volta con lastricato quasi integro, e riconosciuta per la sua
posizione, come limite nord-est dell’edificio termale. Entrambe le strade con
andamento nord-ovest/sud-est, sono
ovviamente perpendicolari a quella che,
come si è detto, potrebbe corrispondere
con uno degli assi principali del tracciato viario urbano, la via ab Reggio ad Capuam che in alcuni tratti dovrebbe essere
stato ricalcato dalla via S. Aloe. In uno
dei saggi eseguiti in prossimità dell’area
delle terme urbane è stato inoltre documentato un ingresso monumentale,
pari ad una larghezza di circa 8 m, riconosciuto come pertinente all’edificio
termale pubblico e aperto sull’asse viario
principale della città.
141
Figura 11. Vibo Valentia il municipium romano, via XX Aprile, proprietà Giamborino parete Ovest dello sbancamento, settore in cui sono stati rinvenuti i due assi viari
Figura 12. Vibo Valentia il municipium romano, via XX Aprile, proprietà Giamborino parete ovest dello sbancamento, strada basolata con andamento est-ovest che incrocia ad angolo retto la precedente, sulla quale è stata
realizzata, in età tardoantica, un condotto fognario voltato (Fig. 12)
Figura 13. Vibo Valentia il municipium romano, via
XX Aprile, proprietà Giamborino parete ovest dello
sbancamento, strada basolata con andamento nord-sud
Un altro scavo (Fig. 6, n. 5) altrettanto importante per la nostra problematica è quello effettuato nel 2015
lungo la via XXV Aprile, nella proprietà
Giamborino44 (Figg. 11-13) dove purtroppo i resti rinvenuti ormai sono stati
probabilmente inglobati in un edificio
costruito in anni recenti. In particolare,
l’indagine eseguita sulla stretta fascia di
terreno lungo la parete ovest del cantiere
(Fig. 11), uno dei due piccoli lembi risparmiati dallo sbancamento degli anni
ottanta45, ha permesso l’identificazione
di diverse fasi di frequentazione: al di
sotto di uno spesso strato legato all’uso
agricolo dell’area, sono stati infatti rilevati lembi delle fondazioni di due muri
relativi all’ultima fase di frequentazione
dell’area per la quale purtroppo, mancano completamente i livelli d’uso a causa
della profonda spoliazione effettuata già
in antico. Il dato certo acquisito è che
quest’ ultima fase di vita è stata impostata su un consistente strato di livellamen-
pianta ortogonale. È necessario evidenziare che questo tratto della viabilità del
municipium romano è ubicato nel cuore
della città antica poiché come si è detto,
per la viabilità in uscita del centro urbano (Fig. 6, n. 4), esso corrisponde quasi
perfettamente con il tracciato della via
XXV Aprile, la cosiddetta “strada per il
porto” alla quale fa riferimento la pianta
del Bisogni De’ Gatti (Fig. 8).
Risale agli anni novanta del secolo
scorso il rinvenimento di un altro asse
viario (Fig. 6, n.13) individuato anche
questa volta nella sezione di uno sbancamento eseguito in contrasto col vincolo
archeologico. Nella proprietà Soriano,
ubicata nelle immediate vicinanze dei
monumentali resti del teatro romano di
Vibo Valentia e quindi non distante dalle
evidenze archeologiche sopra descritte,
l’indagine effettuata e pubblicata da
Sangineto47, ha messo in evidenza lungo
la parete sud dello sbancamento “…una
massicciata lunga 3 m e alta 0,70 costruita
to costituito da un’altissima percentuale
di materiali costruttivi derivanti dalla
spoliazione di edifici romani. Lo strato oblitera la dismissione di un canale
fognario tardoantico (Fig. 12) costituito da due muretti laterali costruiti con
frammenti di laterizi legati da malta e
copertura a volta46. Il pavimento del canale impostato su un livello di pietre di
medie e grandi dimensioni interpretabili come residui di un selciato stradale,
purtroppo irrimediabilmente asportato
dallo sbancamento recente. Nella zona
sud-ovest dell’area indagata sono stati
inoltre evidenziati i resti di un secondo lastricato stradale meglio conservato, ben leggibile nel suo limite ovest, e
orientato in senso nord-sud che risulta
perpendicolare al primo, sul quale è stata costruita la fogna in età tardo antica
(Fig. 13). I due assi stradali rinvenuti
sono tra essi perpendicolari ed è questa
l’unica zona della città nella quale è tangibile l’impianto urbanistico romano a
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
142
NOTE
Figura 14. Vibo Valentia il municipium romano, via Tarallo proprietà Soriano sezione dello sbancamento su cui
sono stati individuati i resti della strada romana
con pietre di piccola e media dimensione
collegate con poca malta…”48, interpretata come strada (Fig. 14). La realizzazione delle strutture rinvenute è riferibile al I sec. d.C. mentre la loro dismissione
è stata datata alla fine del IV-inizi del V
sec. d.C. L’allineamento delle evidenze
messe in luce nella proprietà Soriano, per
quello che se ne può dedurre nonostante
la limitatezza del rinvenimento, sembra
molto simile a quello delle strutture scavate nelle altre aree della città in cui è
stato indagato l’impianto romano. Anche per questa nostra tematica, è ancora
una volta Vito Capialbi a sostenerci con
i risultati delle sue antesignane, attente
e puntuali ricerche di archeologia urbana, magistralmente pubblicate nel suo
“Cenno sulle mura d’Ipponio” del 183249;
lo studioso infatti, ci informa che dietro
la chiesa di San Francesco di Assisi, oggi
del Rosario (Fig. 6, n. 7b), nel 1812 sono
stati rinvenuti i resti di una “antica strada con case su ambo i lati”, che presenta
andamento est-ovest; e poi ancora che,
nel 1819, durante uno scavo presso la
scala del teatro cittadino (Fig. 6, n.7a),
è stata evidenziata una strada che per il
suo orientamento “indicava di essere la
continuazione di quella dissotterrata nel
1812, cosicchè la stessa da ponente verso
levante saliva”. Il rinvenimento delle due
porzioni di strada effettuato dal Capialbi
su due punti relativamente distanti tra
loro, 230 m circa, confermano ulteriormente l’ipotesi dell’orientamento del reticolo urbano di Vibo Valentia proposto
in questo lavoro.
Se è scontato che l’impianto urbano
del municipio si è sviluppato fin dalle
prime fasi della deduzione della colonia latina secondo una maglia regolare,
è altrettanto evidente che al momento, i
dati esaminati non consentano un ulteriore approfondimento dell’analisi.
Alla luce di quanto sopra esposto
non c’è dubbio infatti che abbiamo tentato di ragionare su tracce molto labili
e spesso di incerta interpretazione e che
quindi molte delle ipotesi che abbiamo
formulato, hanno solo valore assolutamente “introduttivo” ad un tema molto
complesso, anche e soprattutto per la
limitatezza dei dati disponibili. Questo
lavoro pertanto, deve essere considerato come un primo approccio multidisciplinare ad uno studio che speriamo
possa essere approfondito dal progredire
dell’indagine archeologica, in un centro
come quello di Hipponion/Vibo Valentia che come abbiamo visto, se presenta
tutte le difficoltà tipiche dell’archeologia urbana in Italia, è anche ricco del
sovrapporsi di millenni di storia che attendono solo di essere ricomposti.
Anna Maria Rotella
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
1. Vanzetti, 2013
2. Morelli et alii, 2011
3. Ferranti et alii, 2011
4. Lena, 1997; Lena, Iannelli 2004, Stanley
et alii, 2007
5. Iannelli et alii, 2016
6. Guzzo, 1989
7. Cucci e Tertulliani, 2006
8. Lena, 1989
9. Cucarzi et alii 1995
10. Iannelli, Givigliano 1989, p. 627
11. L’insieme delle problematiche connesse
con la topografia urbana della città nel periodo romano dalla quale questo lavoro prende le
mosse è stato affrontato in Rotella cs e ancora
in Zumbo, Rotella cs
12. Rotella 2009, ma anche eadem 2014, p.166
13. Givigliano 1989, p. 751 basandosi sull’utilizzo del porto antico fino ad età medievale,
ipotizza che le vie di collegamento col territorio, in età medievale siano rimaste le stesse di
quelle utilizzate in età greco-romana
14. La disamina della documentazione relativa alle fasi post classiche dell’approdo è in
Montesanti 1999 e idem 2012
15. Lena 1989, pp. 601-607 e tavv. XXXIX-XLI
16. Givigliano 1989, p. 763
17. Per le mura di Hipponion si fa riferimento solo alcuni testi ritenuti fondamentali: Orsi
1921 e Aumüller 1994 con bibliografia precedente
18. Per la cinta muraria hipponiate facciamo
riferimento ad Orsi 1921 ed allo studio più
recente con bibliografia precedente, Aumüller
1994
19. Cfr. Rotella 2007, eadem 2014a, p. 128129 e 2014b, pp 105-106; da ultimo anche
Iannelli et alii 2017, pp. 477, 478, 491
20. Rotella 2014a, pp. 105-106
21. Capialbi 1832, p. 12
22. Orsi 1921, p. 485 i dati sono discussi in
Rotella cs
23. Givigliano1989, pp. 750-751
24. Bisogni De’ Gatti 1710
25. L’esistenza di questa via sarebbe confermata anche in età romana per la presenza di
una necropoli, proprio in località Madonnella,
databile genericamente a quell’età, segnalata
in Sabbione 1978, p. 156 e ripresa nel discorso
generale sulla topografia urbana e le necropoli
romane in Rotella cs
26. Givigliano 1989, p. 751 “…su una distanza di 4 Km in linea d’aria si passa da quota 500
a quota 10.”
27. La necropoli occidentale comprende varie
aree di scavo che hanno assunto denominazione diverse dai vari proprietari (Inam, Barbuto,
Salesiani, Carioti); la necropoli di età romana
sorge nelle vicinanze di quella greca, appunto
la “necropoli occidentale”, in località Piercastello-Lacquari cfr. Arslan 1986, Palomba
2009, Cannatà 2011 solo per citare i lavori
fondamentali
28. Arslan 1983, pp. 289, 291
29. Rotella cs
30. Rotella 2014b, p. 97
31. Ibidem
32. Alcune postierle sono state individuate
dall’Aümuller lungo il tracciato delle mura al
Trappeto Vecchio, Aümuller 1994 passim
143
33. Un muraglione in conglomerato identificato come il muro di cinta di età romana, è
stato rinvenuto nel corso di uno scavo di emergenza di una fogna, nel 1972 da E. Arslan, purtroppo molto poco documentato, Arslan 1983,
p. 291, Sabbione 1978, p. 151, n. 21
34. Entrambe le iscrizioni sono attualmente
nel Museo Archeologico Nazionale “Vito Capialbi” di Vibo Valentia
35. Perotti 1973, Paoletti 1994, 491-492 e fig.
22, da ultima Iannelli 2009, pp.32-33. Per la
disponibilità alla lettura delle epigrafi si ringrazia il professor Antonio Zumbo.
36. Givigliano1994, p. 290 con bibliografia
precedente
37. Rotella 2014, p. 165-166
38. A questo proposito cfr. anche Sangineto
2014, pp. 154
39. Iannelli, Givigliano 1989, pp. 679-680; gli
studiosi ipotizzano anche se con molta cautela, le misure degli isolati che sarebbero di 35 m
in larghezza e 53 m in lunghezza
40. L’identificazione proposta prende le mosse dallo studio delle fotografie aeree dell’area
Quilici 1990
41. Arslan 1983, p. 389
42. Iannelli, Givigliano 1989, pp. 679-680
43. Complessivo è lo studio effettuato dalla
studiosa in Rotella 2009, pp. 175-176, eadem
2014 pp. 165-166
44. L’indagine coordinata da M. T. Iannelli, e
seguita sul terreno per periodi diversi da A.M.
Rotella e G. Gargano fino all’aprile 2015, si è
sviluppata su tutte le pareti ed è stata svolta
con la finalità di documentare i danni provocati dallo sbancamento dell’area effettuato dai
proprietari alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, in contrasto con i vari fermo lavori intimati dalla Soprintendenza Archeologica
della Calabria.
45. Nel corso dello scavo coordinato dalla
scrivente sul margine ovest della più estesa
proprietà Giamborino è stata indagata dal 24
marzo al 24 aprile 2015 una fascia di 20 x 3 m
risparmiata dall’azione delle ruspe, così come
non sbancato è risultato, sul lato opposto del
cantiere, un quadrato di terreno altrettanto
ricco di stratigrafie archeologiche ma sul quale
non si è proceduto con l’indagine.
46. Sfortunatamente anche il canale è conservato per un breve tratto perché è stato tagliato
a est dallo sbancamento moderno.
47. Sangineto 1984
48. Ivi p. 21, fig. 3
49. Capialbi 1832, p.13
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
144
Viabilità ed episodi
alluvionali in età romana:
archeologia della via
Emilia a Modena e delle vie
oblique in Emilia
Donato Labate
E-mail:
[email protected]
Gianluca Bottazzi
E-mail:
[email protected]
Viability and alluvial episodes in Roman
times: archaeology of the via Emilia in
Modena and of the oblique streets in
Emilia
Parole chiave: viabilità, episodi alluvionali, via Emilia
Key words: viability, alluvial episodes, via Emilia
RIASSUNTO
Numerosi scavi archeologici sono
stati effettuati lungo un tratto di 17 km
della via Aemilia, tracciata dal console
Emilio Lepido nel 187 a.C., che attraversa il territorio di Modena tra i fiumi Panaro e Secchia. Questi interventi
di scavo hanno consentito di indagare,
rilevare e quotare, in diversi settori, sia
l’ampiezza dell’infrastruttura, con massicciata, crepidini e fossati, sia l’intera successione stratigrafica della strada
dall’età repubblicana all’età contemporanea. È ora possibile, sulla base di dati
oggettivi, mettere in relazione la sua
storia agli interventi di manutenzione
e ai rifacimenti nel corso dell’età imperiale, del tardoantico, del Medioevo e
dell’età moderna.
Alcuni interventi di manutenzione
straordinaria della via sono ora correlabili agli eventi catastrofici che hanno
interessato il Modenese, e tra essi in
particolare alle alluvioni, che con i loro
depositi sedimentari hanno modificato
l’assetto del territorio, fino a determinare, nel corso del Medioevo, persino lo
spostamento laterale di alcune decine di
metri del rettifilo stradale.
Dai principali centri urbani romani
fondati lungo la strada consolare (tra essi Bologna, Modena, Parma) si diramarono ben preso vie oblique per collegare
in linea retta (recto itinere) tra di loro le
città, i centri minori della futura regio
VIII augustea e le vallate appenniniche.
Una di queste vie, la Modena-Mantova
tracciata in età repubblicana e sepolta
tra III e VI secolo d.C. da depositi alluvionali, è ora conosciuta sia tramite le testimonianze archeologiche nel suburbio
di Mutina sia da ulteriori evidenze aerofotografiche che ne precisano la persistenza anche nel periodo post-classico.
PREMESSA
La prima notizia di Mutina, come
presidio militare precoloniale probabilmente dotato di adeguate opere difensive, è del 218 a.C. e pertanto precede
di circa un quarantennio la fondazione
della colonia civium Romanorum avvenuta nel 183 a.C. (Labate Malnati, 2017).
Marco Emilio Lepido, uno dei triumviri
della deduzione coloniaria di Mutina e
Parma, è notoriamente anche il console che nel 187 a.C. condusse i lavori di
realizzazione dell’omonima strada consolare che collegava Rimini e Piacenza,
fondate rispettivamente nel 268 a.C. e
nel 218 a.C.. Sulla via Aemilia si impiantarono poi molti altri centri urbani
di età romana: Modena si era comunque
precocemente qualificata come presidio
quasi nel mezzo di tale percorrenza.
Dai principali centri urbani disposti
lungo la via consolare (tra essi Bologna,
Figura 1. ll territorio della Regio VIII: la via Emilia tra Bononia e Placentia in rapporto all’idrografia antica, alle persistenze della centuriazione e alle vie oblique (dis.
G. Bottazzi)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
145
Modena, Parma) si diramarono ben presto vie oblique che attraversavano gli agri
centuriati (Fig. 1) per collegare in linea
retta (recto itinere) tra di loro le città, i centri minori della futura regio VIII augustea
e le vallate appenniniche (Bottazzi, 1988).
Modena, per numero di scavi e di
ricerche multidisciplinari condotte
nell’ultimo trentennio e prontamente
presentate ed edite, si presta a fornire
dati di estremo interesse sui rapporti tra
viabilità romana ed episodi alluvionali
e sedimentari (Bottazzi, 1986; Bottazzi,
Labate, 2017; Labate, 2019). Lo scopo
di queste ricerche è comprendere come e
con quali interventi la viabilità antica si è
rapportata ad una serie di eventi notevoli e catastrofici che hanno interessato il
Figura 2. Modena. Profili stratigrafici della via Emilia dall’età repubblicana all’età contemporanea con numerazione dei rinvenimenti trattati: 1. Fossalta; 2. Sottopasso
tangenziale Pasternak; 3. Via Emilia Est n. 509; 4. Sottopasso ferrovia Modena-Sassuolo; 5. Via Emilia-incrocio via Bonacini; 6. Via Emilia-incrocio via Farini; 7.
Piazza della Torre; 8. Piazza Sant’Agostino; 9. Incrocio via Rainusso-Palazzo Europa; 10. Parco Ferrari 1; 11. Parco Ferrari 2; 12. Rotonda via Virgilio; 13. Sottopasso
Grandemilia; 14. Rotonda Scalo Merci; 15. Sottopasso rilevato ferrovia; 16. Santa Liberata; 17. Oratorio Fontanelli; 18. Annunziata; 19. Marzaglia, rotonda. A – via
Emilia repubblicana, B – via Emilia tardoantica, C – via Emilia contemporanea
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
146
territorio della città emiliana. Si tratta di
ben sei eventi alluvionali e sedimentari
alla datazione dei quali si è giunti grazie
allo studio archeologico e alle datazioni
radiocarboniche dei profili stratigrafici
messi in luce di recente nei principali
scavi condotti dalla Soprintendenza
per i Beni Archeologici (Labate, 2013,
Cremonini-Labate-Curina, 2013; Cremonini- Labate, 2015; Labate, 2017a).
Di questi eventi notevoli e catastrofici è stato inoltre possibile riconoscere,
grazie allo studio dei depositi sabbiosi
presenti nelle alluvioni, a quale fiume attribuire l’esondazione (Lugli-Marchetti
Dori-Fontana, 2007) e inoltre determinare con precisione il secolo di abbandono del letto di uno dei corsi d’acqua,
il Tiepido (fine IV–inizi V secolo d.C.)
che assicurava a levante la difesa di Mutina (Labate, 2017a). Secondo i recenti
studi, come si è già accennato, nell’ultimo quarto del III sec. a.C. fu impiantato
a Mutina un presidio militare posto in
un’area interessata a sud dalla presenza
di terreni paludosi con risorgive, ad est
dal torrente Tiepido, ad ovest i torrenti
Grizzaga e/o Corlo/Formigine, mentre
a nord la difesa poteva essere assicurata da un ampio fossato e dalla possibile confluenza dei vari corsi d’acqua
(Bottazzi,1986; Malnati, 1988; Labate,
2015; Labate-Malnati, 2017).
LA STRADA CONSOLARE
DI MARCO EMILIO LEPIDO
Presso Modena, nel tratto di 17 km
della Via Emilia tra il fiume Panaro e
il fiume Secchia, sono stati aperti una
trentina di cantieri di scavo ed in essi è
stato possibile, grazie alla tutela archeologica preventiva recepita negli strumenti di pianificazione territoriale (Labate-Malnati, 2010), condurre indagini
archeologiche che hanno consentito di
documentare sia le tecniche costruttive
dell’importante infrastruttura viaria, sia
la continua manutenzione della stessa,
anche a seguito delle trasformazioni
territoriali causate dalle alluvioni per
un arco di oltre due millenni (Labate,
2017b).
Oggi la via Emilia, che corrisponde al tracciato dell’antica consolare, è
collocata ad una quota slm tra i 36 m
(ad est), e 52 m (ad ovest) con un leggera depressione di 34 m slm proprio
nel centro storico di Modena. In età
repubblicana la strada era collocata a
profondità maggiori che variano da 34
m slm ad est a 48 m slm ad ovest con
una quota più bassa sempre nel centro
storico antico, 29 m slm, (Labate, 2019)
che corrisponde all’impianto della co-
lonia romana di Mutina posto a circa
5-6 m di profondità dall’attuale piano
di calpestio della città (Malnati, 1988).
Questa notevole profondità è dovuta
sia all’apporto antropico sia ai depositi
alluvionali. Si tratta di ben 6 eventi alluvionali e sedimentari che hanno interessato il territorio dalla fine del I secolo
alla fine del X, eventi dei quali è stato
possibile precisare la datazione (Labate,
2017a): I alluvione (fine I - inizi II sec.
d.C.); II alluvione (fine III-inizi IV sec.
d.C.); III alluvione (fine IV-inizi V sec.
d.C.); IV alluvione (VI sec. d.C.); V
alluvione (fine VI-inizi VII sec. d.C.);
VI alluvione (fine X-inizi XI sec. d.C.).
In questo contributo si presenta la
ricostruzione del profilo stratigrafico
della via Emilia nel Modenese dall’età
repubblicana ad oggi prendendo in esame 19 sezioni rilevate nel corso delle indagini archeologiche condotte dal 1993
al 2016, e a questo profilo si rimanda
indicando di volta in volta il numero
del saggio stratigrafico riportato nella
sezione generale (Fig. 2).
In alcuni scavi è stato possibile indagare l’intera sequenza stratigrafica (es.
Fig. 2,1); in altri l’intera ampiezza della
strada comprensiva di banchine laterali
e fossati (es. Fig. 2,2 d’ora innanzi solo
il num. della sezione); in altri ancora si
sono evidenziate solo alcune delle fasi
costruttive (3). Nel complesso, grazie
a queste indagini è stato possibile ricostruirne la storia, le fasi, le tecniche
costruttive e gli accorgimenti adottati
nel riattivare l’antica percorrenza a seguito di alluvioni che con l’apporto di
consistenti sedimenti limosi ne avevano
momentaneamente obliterato la percorrenza (Labate, 2019).
Alla prima massicciata glareata (realizzata soprattutto con ghiaia) del 187
a.C. si sono sovrapposte altre massic-
ciate e sedimenti alluvionali. I depositi
alluvionali hanno comportato differenti
interventi manutentivi e talvolta rifacimenti veri e propri della strada con una
variazione del numero delle massicciate
documentate che raggiunge un massimo di 11, come riscontrato nel caso
degli scavi in località Cittanova (13).
L’intera ampiezza della via consolare
è stata esposta negli scavi: nel sottopasso
della Tangenziale Pasternak (2); nel sottopasso della Ferrovia Modena-Sassuolo (4), nel sottopasso del supermercato
Grandemilia (13), e nell’area di Santa
Liberata (16) e Annunziata (18).
La massicciata di Marco Emilio
Lepido è dappertutto glareata (Fig. 3)
e s’impianta direttamente sul piano di
calpestio di età romana. La strada doveva ripercorrere o affiancarsi ad un
tracciato più antico che collegava Rimini a Piacenza fondata nel 218 a.C.
(Malnati-Manzelli, 2017). La strada
consolare in tutta l’ampiezza della sede
carrabile varia da 3 (13) a 4,5 m (2) fino
6 m (18). Lo spessore della massicciata,
a schiena d’asino, varia da un minimo di
20 fino ad un massimo di 60 cm. In un
caso al di sotto della massicciata, il terreno è rafforzato da pali (10). L’ampiezza completa della strada, con banchine
e fossati, è stata rilevata nel sottopasso
Pasternak (poco a est di Modena) per
una larghezza di complessivi 28 m (2).
Degna di rilievo è la dimensione dei fossati larghi 4 m e profondi 1,5 m (Bottazzi-Labate, 2017). Questi fossati, per
la loro ampiezza, potrebbero essere stati
utilizzati in alcuni tratti per agevolare il
trasporto degli inerti che servivano per
la massicciata.
Nel corso del tempo, tra l’età alto imperiale e il tardo antico le dimensioni in
larghezza della strada, in particolare dei
piani rotabili, aumentano sensibilmente
Figura 3. Modena, Via Emilia Est-Tangenziale Pasternak (cfr. fig. 2, 2). Massicciata stradale di età repubblicana
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
147
Figura 4. Modena, Cittanova, sottopasso Grandemilia (cfr. fig. 2, 13). Sezione stratigrafica della via Emilia con le massicciate dall’età repubblicata all’età contemporanea
Figura 5. Modena, Cittanova, sottopasso Grandemilia (cfr. fig. 2, 13). Massicciata stradale di età augustea con
profilo a schiena d’asino
Figura 6. Modena, Piazza Torre (cfr. fig. 2, 7). Carotaggio con profilo stratigrafico: A. depositi alluvionali di età
preromana; B. depositi antropici di età romana – I via Emilia di età repubblicana, II via Emilia glareata di età
alto imperiale, III via Emilia basolata di età costantiniana; C. depositi alluvionali di fine VI-inizi VII secolo; D.
depositi antropici di età medievale; E. depositi antropici di età moderna e contemporanea
e si passa dai circa 3-4,5 m di età repubblicana ai 12-13 m in età tardoantica
(Fig. 4) (Labate, 2019).
Le tecniche di costruzione e l’uso
dei materiali restano per lo più costanti
dall’età repubblicana al tardoantico con
l’uso quasi esclusivo di ghiaia di piccole
e medie dimensioni. I principali interventi manutentivi sulla strada sono effettuati da Augusto (Fig. 5) e Costantino. A questi interventi sarebbero da
riferire le nuove massicciate realizzate
al di sopra di quella più antica (2). A
Costantino sarebbe da riferire la basolatura della strada in ambito strettamente
urbano e periurbano (7) (Fig. 6).
La presenza di tre interventi manutentivi entro il corso del I d.C. riscontrati nel saggio della ferrovia Modena-Sassuolo (4) (Fig. 7) sarebbero da riferire, in
parte, ad interventi di carattere pubblico
a livello locale. Le strade erano sottoposte alla vigilanza sia dei curatores viarum
che dei magistrati cittadini ai quali spettavano la manutenzione e la pulizia delle
strade e degli spazi pubblici. .Con la lex
Iulia municipalis (45 a.C.) a ciò furono
incaricati gli edili.
I maggiori e più significativi interventi manutentivi della strada, sia per
l’ampiezza della massicciata, sia per
l’uso di grandi blocchi lapidei e laterizi
per costipare il terreno dopo le alluvioni, sia per il ripristino della strada con
lo scavo dei sedimenti alluvionali, sono
da riferire ai quattro eventi alluvionali
(alluvioni I, III, IV e V) che si sono succeduti dalla fine del I secolo al VI secolo
nel territorio ad est di Mutina. A tale
riguardo si prendono in esame due scavi significativi: sottopasso della ferrovia
Modena-Sassuolo (4) e il sottopasso
della tangenziale Pasternak (2). Nel
primo caso dopo la I alluvione, causata
dal torrente Tiepido, con apporti sedi-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
148
Figura 7. Modena, Via Emilia Est, sottopasso Ferrovia Modena-Sassuolo (cfr. fig. 2, 4). Sezione stratigrafica con
massicciate: I - età repubblicana; II-VI età imperiale; VII età tardo anitca. A. Depositi alluvionali di età preromana;
B. depositi alluvionali tardoantichi (IV alluvione)
Figura 8. Modena, Via Ciro Menotti profilo stratigrafico a ridosso della mura di Mutina con antico letto del
Torrente Tiepido in rapporto ai depositi alluvionali e all’uso del suolo come area cimiteriale tardoantica. Datazione
radiocarbonica della tomba in basso -420-540 d.C.
mentari per uno spessore di circa 0,6 m,
è documentato il ripristino della massicciata, la V, con l’uso esclusivo di laterizi
e a seguire, dopo circa un secolo e forse
dopo la II alluvione al ripristino di una
VI massicciata in laterizi e ghiaia (Fig.
7). Una nuova alluvione, la III, dovuta
sempre al Tiepido che abbandona il suo
antico alveo tra la fine del III e l’inizio
del IV (Fig. 8), torna a seppellire la massicciata della strada con circa 35 cm di
sedimenti. Sui primi 10 cm che coprono
la VI massicciata sono presenti diversi
solchi di antichi carri, poi cancellati dai
successivi apporti sedimentari (Fig. 9).
L’intervento di bonifica e di ricostruzione ex novo della strada è di notevole
portata: sopra il sedimento viene steso,
racchiuso in blocchi lapidei (si tratta di
blocchi derivanti dallo spoglio dei monumenti funerari), un manto di laterizi,
al fine di compattare il terreno, segue una
stesura di materiale più fine, su cui è posata la VII massicciata, in ciottoli, laterizi e frammenti lapidei per un’ampiezza
di circa 11 m (Fig. 7). Stessa tecnica è
stata riscontrata in altri due saggi di scavo posti a poca distanza, all’incrocio con
via Bonacini (5) e al numero civico 509
della via Emilia Est (Fig. 10).
Nel sottopasso della tangenziale Pasternak (2) i depositi della III, IV e V
alluvione, vennero invece asportati manualmente per raggiungere e ripristinare l’ultima massicciata o manto stradale,
ascrivibile al IV secolo. Al tetto del deposito da riferire alla III alluvione è stato rivenuto un tronco datato al 443-550
d.C. - 68,2% (Labate, 2017a) che rappresenta il terminus post quem del successivo deposito (IV alluvione), ascrivibile
quindi al corso del VI secolo. Con la
V alluvione, della seconda metà del VI
secolo, si giunge ad asportare manualmente il sedimento alluvionale sia per
rimettere in luce la strada, per un’ampiezza di circa 6 m e una profondità di
1,5 m, sia per scavare ai lati della grande
trincea due canali di scolo per salvaguardare la strada da successive inondazioni.
La trincea stradale e i canali risultano
colmati da nuovi depositi argillosi (VI
alluvione?) alla cui sommità, a circa –
1,5 m di profondità, sembrerebbe impiantarsi un nuovo battuto stradale, di
probabile età basso medievale.
Figura 9. Modena, Via Emilia Est, sottopasso Ferrovia
Modena.Sassuolo (cfr. fig. 2, 4). Particolare dei primi
depositi alluvionali (III alluvione) con solchi carrai sopra la VI massicciata
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
149
Figura 10. Modena, Via Emilia Est 509 (cfr. fig. 2, 3). Massicciata stradale tardoantica con reimpiego di blocchi
lapidei e laterizi
Figura 11. Modena, Cittanova, Santa Liberata rilevato ferroviario (cfr. fig. 2, 16). Opera di difesa dall’erosione
della strada tardoantica alto medievale: particolare delle palizzate lignee sostenute da tronchi posti in orizzontale
Figura 12. Modena, Cittanova, Santa Liberata rilevato ferroviario (cfr. fig. 2, 16). Massicciata stradale di età
tardoantica con fossato e palizzata lignea di età altomedievale. A gradoni le massicciate dall’età tardoantica all’età
contemporanea
La pratica di rimettere in luce la
massicciata stradale è documentata anche in altri saggi di scavo sia vicino alla
città (7) sia ad occidente della stessa, a
Palazzo Europa (9) e Parco Ferrari (10),
dove si è verificata l’asportazione dei depositi della III e della IV alluvione.
Per una fonte contemporanea ai disastrosi eventi alluvionali di VI secolo si
veda la preziosa notizia relativa all’anno
579 riportata nella cronaca del vescovo
Mario di Avenches (Avenches, 1894).
Fino al pieno VI secolo il percorso
del primigenio tracciato in rettifilo della
strada consolare non subisce mutamenti
e le massicciate si sovrappongono l’una
all’altra in verticale e senza soluzione di
continuità come è stato rilevato negli
scavi del sottopasso del centro commerciale Grandemilia (13) (Fig. 4) .
Solo a cominciare dell’alto medioevo, in particolare dalla seconda metà del
VI e l’inizio del VII, con la V alluvione, è attestata la traslazione laterale di
lunghi tratti della strada sia poco a sud
dell’antica percorrenza (3, 4, 5) ad est
della città, sia poco a nord della stessa
in città e nel suburbio occidentale (da 6
a 11), sia poco a sud nella parte più occidentale del territorio (12, 14, 15 e 16).
Lo spostamento della strada (traslazione laterale), che è stato rilevato avvenire
per pochi metri (3 e 5) m fino ad un
massimo di 30 m (6 e 7), è certamente
da imputare al particolare spessore del
deposito alluvionale, che raggiunge i 2,2
m di copertura della via in prossimità
della città (7) (Fig. 6). All’asportazione
del sedimento si preferì verosimilmente
la realizzazione ex novo di una nuova
massicciata al tetto del deposito alluvionale con l’uso sia di frammenti laterizi
vicino alla città (6), sia di ghiaia nel restante tracciato.
In un caso è documentato l’uso della
massicciata tardoantica fino all’alto medioevo, quando, per prevenire erosioni
della strada da nuove esondazioni, fu
attuato un consolidamento delle sponde del canale laterale, a sud della strada,
dotandolo di una palancata lignea (16)
(Fig. 11). Un legno della palancata è
stato datato su base radiocarbonica tra
l’880 e il 1000 d.C. (Labate, 2017b).
Dopo questa data è documentata la VI
alluvione con al tetto una nuova massicciata in ghiaia coperta a sua volta
dalla VII alluvione (ascrivibile al basso
medioevo) seguita da successive massicciate (Fig. 12).
Nel settore occidentale di Modena dal post-antico all’Ottocento sono
documentate 5 o 6 nuove massicciate,
la più antica (alto medioevo) in grossi
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
150
Emilia è di circa 8 m, un po’ più ampia
della percorrenza di età repubblicana (4
e 5-6 m), minore di quella tardoantica
di 12 e più metri e di molto inferiore
all’ampiezza totale della strada di Marco Emilio Lepido che con banchine e
fossati raggiunse nell’area orientale della
tangenziale Pasternak i 28 m (2).
Figura 13. Modena. Parco Novi Sad. Strada Basolata per Mantova coperta dal depositi alluvionale di fine IV inzi
V sec. d.C. (III alluvione) e successivi (IV e V alluvione)
ciottoli fluviali e le altre in ghiaia, tutte
preservate al di sotto dell’attuale percorrenza della strada statale (9 e 13).
Nel complesso, laddove è stato possibile correlare l’impianto del primo
tracciato della strada con il piano di
calpestio della colonia di Mutina e del
terreno vicino alla consolare, è stato ap-
purato che la quota della via in età repubblicana era leggermente più alta del
piano di campagna antico. Tale quota
si è modificata nel corso tempo fino a
raggiungere, in età contemporanea a
Cittanova, una differenza di circa 2 m
al di sopra del piano di campagna. In
questa zona l’ampiezza attuale della via
Figura 14. Modena. Parco Novi Sad. Strada selciata per Mantova di età augustea
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
LA STRADA OBLIQUA PER
MANTOVA: NUOVI DATI
ANALITICI
Anche la strada obliqua, che si staccava dalla via Emilia a poca distanza
dalle mura di Mutina e che è stata messa in luce nei recenti scavi nell’ex Parco
Novi Sad, presentava una massicciata in
ghiaia (Malnati, 2017).
La strada più antica, impiantata in
età repubblicana e rinvenuta a circa 5,5
m di profondità, si impostava su un leggero dosso fluviale ed era fiancheggiata
da due canali le cui sponde esterne distavano circa 21 m, misura complessiva
dell’infrastruttura stradale conservata
anche in età augustea quando la strada fu selciata con grossi ciottoli fluviali
(massicciata di circa 5 m, crepidini di
4,5 m e fossati di circa 3,5 m).
Questo tratto suburbano della via
risulta attivo fino al IV secolo d.C.
(Labate et al., 2017). L’alluvione di fine III-inizi IV sec. d.C. determinò un
151
Figura 15. Agro centuriato parmense. La Via Emilia in rapporto all’idrografia antica e attuale, le persistenze della centuriazione e le vie oblique a raggiera (dis. G. Bottazzi)
parziale abbandono della stessa che fu
poi completamente obliterata dall’alluvione di fine IV-inizi V secolo (Fig. 13).
La via romana del Parco Novi Sad (Fig.
14), doveva congiungersi con la strada
selciata rinvenuta nell’800 nel greto del
Secchia in località San Giacomo (Labate, 1988), sezionata dal fiume e anche
questa coperta da sedimenti alluvionali.
La percorrenza per Mantova, abbandonata nel tratto sepolto dalle alluvioni, è
stata comunque attiva anche nel post
antico e alcuni tratti persistono nella
viabilità attuale.
Ricognizioni di superficie, intensamente condotte negli ultimi anni nel
territorio di Soliera e di Carpi da Ivan
Zaccarelli con l’ausilio delle immagini
satellitari edite da Google Earth, hanno
consentito di rilevare in superficie lunghi tratti di ghiaia e laterizi da riferire
ad una via glareata il cui rettifilo è ben
identificabile in aerofotografia anche
grazie alla traccia dei fossati paralleli
che la delimitavano (Labate-Zaccarelli,
2018).
I rinvenimenti oltre a testimoniare la
persistenza e la visibilità di alcuni tratti
della antica via, fino al Medioevo ed oltre, in un’area a Nord del fiume Secchia
non interessata da depositi alluvionali,
hanno evidenziato che essa in località
Appalto di Soliera si biforcava in due
direttrici: una in direzione di Carpi e
Mantua (Mantova) e l’altra in direzione
del Po e forse di Ostiglia-Verona.
CONCLUSIONI E
PROSPETTIVE DI
RICERCA
L’estesissima base analitica disponibile per Modena ed il Modenese e
le considerazioni di sintesi che sono
state presentate non hanno confronti
nell’ambito dell’antica regio octava augustea (all’incirca corrispondente all’attuale Emilia Romagna). È evidente che
le variazioni idrografiche ed ambientali
hanno avuto un grande impatto nella
media e bassa pianura emiliano-romagnola, impatto millenario che risulta
particolarmente avvertibile da età romana ad oggi.
Ogni territorio presenta interessanti casi di studio che in questa sede
è impossibile dettagliare. Alcuni di essi
sono però particolarmente significativi.
È il caso del paleoalveo dei “Tari morti”
presso Castell’Aicardi (a meridione di
San Secondo Parmense), rilevato nella
cartografia geologica e visibilissimo nelle foto aeree. Qui il Taro antico, prero-
mano e romano a giudicare dalla copertura/superficialità dei siti archeologici
lungo le sue sponde, presentava una vistosissima divagazione verso Occidente.
Gli antichi agrimensori nell’impostare
il reticolo centuriale della colonia civium
Romanorum di Parma mostrano di conoscere e tenere presente questa particolare ansa del fiume antico: i cardini
della centuriazione raggiungono la sua
sponda destra e di conseguenza superano il fiume per tutto il resto dell’agro
centuriato occidentale (Fig. 15).
L’esito ultimo vede il fiume Taro oggi
seguire l’andamento dei cardini centuriali senza che sia per noi possibile capire se ciò sia dovuto ad un’opera artificiale
programmata oppure ad una rotta con
avulsione naturale che si è canalizzata
lungo i cardini del paesaggio agrario
impostato in età romana. Le persistenze della via obliqua Parma-Cremona
farebbero pensare ad una situazione
creatasi nel corso di età romana. Simile situazione si riscontra a Nord di
Modena, dove il fiume Secchia ha mutato il suo corso di età romana mentre
oggi coincide perfettamente per molti
chilometri con la persistenza di un cardine della centuriazione. Straordinario
è poi l’esempio incontrato in decenna-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
152
li ricerche presso Maccaretolo di San
Pietro in Casale (Bottazzi, 1991). Qui,
un importante vicus stradale era posto
su di un’ansa verso est dell’antico fiume
Reno. In sponda sinistra arrivavano la
via da Aquileia, la Venetia e Vicus Varianus (oggi Vigarano sull’antico corso
del Po) e, forse, una via da e per Mutina
che evitava le bassure tra Panaro e Reno.
Un ponte, ligneo come tanti altri in Cisalpina, dava evidentemente accesso al
villaggio posto sulla sponda destra. Era
un importante centro di servizi (monumenti funerari a cuspide, iscrizioni e
dediche imperiali, una notevole vera di
pozzo del locale santuario dedicato ad
Apollo ora al Museo Civico di Bologna)
ma si caratterizzava soprattutto per una
intensissima lavorazione del ferro (si
tratta di minerali ferrosi delle miniere
del Norico, della Carinzia).
Il centro era raggiunto dalla via da
Bononia al Po, fiume che la via attraversava poco a monte delle sue ramificazioni predeltizie. La scomparsa del vicus
per un cambiamento del corso del Reno
determinerà con ogni probabilità nel VI
secolo l’avvio di un nuovo centro sul Po
che ne evocava la secolare e singolare
valenza produttiva: Ferraria, l’attuale
Ferrara. Qui, poco a nord di Maccaretolo di San Pietro in Casale, la via S.
Maria è anche il visibilissimo argine artificiale del Reno romano, ancora molto ben avvertibile in una pianura che è
solo apparentemente piatta ed uniforme
(Bottazzi, 2003).
Il corso del Reno antico (da tempo
noto in bibliografia come Reno A o di
età etrusco-romana) termina nel corso del VI secolo d.C.. L’impostarsi dei
nuovi corsi altomedievali del Reno nella bassa pianura tra Bologna e Modena
(dove peraltro convergevano anche le
acque di Secchia e Panaro) può costituire uno degli eventi catastrofici ricordati
da Paolo Diacono (il cosiddetto “diluvio” di Paolo Diacono).
Mutina, posta in una zona interconoidale depressa e caratterizzata da un
notevole deficit sedimentario, ha ricevuto prevalentemente da corsi d’acqua
minori una ricostruita serie di eventi
alluvionali ed una notevole copertura
sedimentaria che raggiunge i 6 metri di
spessore e che ha reso difficile la ricerca
archeologica. La copertura sedimentaria
stessa ha però permesso analisi di dettaglio e scoperte straordinarie, rimaste
nascoste alla spoliazione e ai reimpieghi di età post romana, ed ha favorito il
consolidarsi di una continua interazione
disciplinare tra archeologi, geologi e archeobotanici.
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153
L’antica via Ardeatina,
l’arteria e le infrastrutture
Leonardo Schifi
Archeologo collaboratore esterno MiBAC
ed Enti Locali, ricercatore indipendente
E-mail:
[email protected]
The ancient Via Ardeatina, the route and
the infrastructures
Parole chiave: via Ardeatina, collegium funerario, mosaici, basolato
Key words: via Ardeatina, funerary collegium, mosaics, paved road
RIASSUNTO
In questo lavoro viene affrontata la
ricostruzione dell’antico tracciato della
Via Ardeatina in base ai dati archeologici di topografia antica disponibili
in letteratura. Attraverso la descrizione dell’ipotetico percorso da Roma ad
Ardea vengono considerate e discusse
le differenti ipotesi dei vari Autori sul
tracciato di questa antica via consolare.
epoca romana, per le costruzioni edilizie Quilici, dal medesimo curatore della via
(Mangone, Villani, 2009).
Appia (Spera, 2001; Spera, 2002).
Scarse sono le notizie storiche che riLa ricostruzione del tracciato antico
guardano l’antico tracciato e quasi nulli della via appare alquanto problematica sin
i riferimenti diretti su documentazione dal settore prossimo alle mura aureliane;
epigrafica, ad eccezione del ritrovamento se infatti la strada moderna si stacca, dal
di un’iscrizione sepolcrale di incerta pro- lato occidentale della via Appia, tra il I ed
venienza (CIL VI, 8469) che ricorda un il II miglio all’altezza della chiesetta del
manceps viarum Laurentinae et Ardeatinae, Quo vadis?, l’antico asse di collegamento
volendo appunto fare riferimento ad un con Ardea usciva, con molta probabilità,
unico appaltatore per le due vie, che non dalla Porta Nevia del circuito serviano e
***
dovevano, perciò, avere un proprio curator, quindi da un’altra apertura delle mura auL’antica via Ardeatina, annoverata ma essere presumibilmente amministra- reliane, non concordemente identificata
nel quadro delle viae dei cataloghi re- te, secondo l’ipotesi del prof. Lorenzo (Spera, 2001) (Fig. 1).
gionari di epoca costantiniana, insieme
con la vicina via Laurentina ad ovest,
può essere ascritta tra le strade cosiddette “a corto raggio” in quanto la città di
Ardea, sede del popolo dei Rutuli e suo
terminale, distava da Roma circa ventiquattro miglia; l’antico tracciato a buon
diritto può considerarsi fra le più antiche vie che servivano, a sud, il Latium
vetus (Nini, 1996; Spera, 2001).
Il territorio attraversato dall’antico
tracciato, in un continuo saliscendi, è
interessato principalmente dai prodotti
pleistocenici del Vulcano Laziale, subordinatamente di sedimenti pleistocenici
fluvio-palustri e dai depositi alluvionali
recenti dei corsi d’acqua che drenano
tutto l’edificio vulcanico dei Colli.
L’area interessata dal percorso dell’Ar- Figura 1. Planimetria dell’uscita dell’Ardeatina dalla Porta Naevia
deatina è caratterizzata dalla presenza di
numerose cave,dalle quali vengono estratti i principali materiali piroclastici tipici
della successione vulcanica, in particolare dalle pozzolane e dai tufi litoidi, ben
visibili anche lungo le scarpate dei fossi
attraversati. Proprio in corrispondenza di
questi ultimi è possibile osservare l’intera
successione stratigrafica della zona: alla
base delle scarpate si rinvengono i prodotti vulcanici più antichi costituiti da
tufi granulari che sono intercalati fra i
sedimenti pleistocenici fluvio-palustri e,
superiormente, litologie più prettamente
pozzolaniche. In alcune scarpate, sopra
tali depositi, si rinviene il “tufo lionato” ed
il tufo di “villa Senni” che rappresentano
i prodotti vulcanici più ampiamente distribuiti e pertanto più utilizzati, anche in Figura 2. Planimetria dell’uscita dell’Ardeatina dalla Porta Ardeatina
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
154
Finora è apparso assai controverso
l’andamento del primo tratto dell’Ardeatina, sul quale si sono formate tra gli
studiosi diverse interpretazioni.
Per alcuni l’Ardeatina si staccava
dalla via Appia antica all’altezza della
chiesa del Quo vadis?; secondo un’altra
ipotesi ricostruttiva l’antica via usciva
dalle mura aureliane attraverso la Porta
Ardeatina, distrutta con la costruzione,
nel XVI secolo, del bastione realizzato dall’architetto Antonio da Sangallo
(Fig. 2).
In base a questa ipotesi, la via doveva
quindi volgere verso sud con andamento
del tutto autonomo, pressappoco corrispondente al tratto attuale della Cristoforo Colombo, per poi proseguire con il
tracciato della moderna via Ardeatina,
presso il settore poco a nord dell’incrocio con via delle Sette Chiese (Spera,
2002) (Fig. 3).
Almone mediante un unico ponte, per
poi distaccarsene nuovamente all’altezza del Quo vadis?, dove si trova il bivio
con l’attuale via Ardeatina (Spera, 2002)
(Fig. 4).
Le più recenti interpretazioni sostenute dal prof. Vincenzo Fiocchi Nicolai
e dalla prof.ssa Lucrezia Spera avvalorano la seconda ipotesi, sottolineando
come solo in età tardo antica, a partire dal IV secolo in poi, in seguito alla
chiusura della porta delle mura Aureliane dovuta a problemi difensivi, la via si
diramasse direttamente dalla via Appia;
la presenza di numerosi sepolcri e luoghi
di culto cristiani lungo il suo tracciato,
come la catacomba di Balbina, la basilica
circiforme di papa Marco, la catacomba di Marco e Marcelliano e il cimitero
di Domitilla costituiscono un’ulteriore
prova del nuovo percorso della strada
(Spera, 2002; Granelli, De Rossi, 2003).
Figura 3. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina-Cristoforo Colombo
A questa interpretazione si oppone
quella secondo cui il tracciato della via
Ardeatina corrisponderebbe al basolato
rinvenuto un po’ più ad est, proveniente
dalla posterula ardeatina, anche detta
“di Vigna Casali”, posta lungo il viale
delle Mura Ardeatine, ad ovest di Porta
San Sebastiano e ancora visibile ad est,
entrando dagli archi di passaggio della
moderna via Cristoforo Colombo.
Dal portale usciva una strada basolata, con andamento nord ovest - sud
est, diretta chiaramente verso la via Appia, con la quale oltrepassava il fiume
Figura 4. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina verso via Appia
Per una ricostruzione del tracciato
viario tra il III ed il IV miglio dell’Ardeatina sono state prese in considerazione
le tre principali ipotesi ricostruttive.
La prima, ipotizzata dalla prof.ssa
Lucrezia Spera, vede il percorso proseguire dall’incrocio con via delle Sette
Chiese e coincidere con la moderna via
Ardeatina fino al km 6, all’altezza del
quale l’Ardeatina antica piegava a sud
ovest, ricalcando nel tratto iniziale via
della Cecchignola (Spera, 2001; Spera,
2002) (Fig. 5); la seconda ipotesi, sostenuta dal prof. Lorenzo Quilici, sostiene
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
che la strada antica corresse più a ovest
rispetto a quella attuale, con un percorso
tangente il limite occidentale della Tenuta di Tor Marancia. In questo tratto
il percorso costeggiava ad ovest la Torre
medievale di San Tommaso, l’odierna
Tor Marancia e, più a valle, superava
con un ponticello la Marrana di Grotta
Perfetta; quindi, dopo aver superato la
chiesa dell’Annunziatella, con l’omonima catacomba su via di Grotta Perfetta,
il tracciato antico, con una carreggiata
della larghezza di circa 4,1 m ed uno dei
marciapiedi, sul lato della necropoli, di
circa 4 m, si ricongiungeva a quella della
Ardeatina moderna (Cecchini, Pagliardi, Petrassi, 1985; Bedini, 1987-1988;
Santangeli Valenzani, Volpe, 19871988; Granelli, De Rossi, 2003; Pagliardi, Cecchini, Bertinetti, 2004) (Fig. 6).
Una terza ipotesi, sempre del prof.
Lorenzo Quilici, presenta un percor-
so alternativo che dall’incrocio con via
delle Sette Chiese prosegue per via
dell’Annunziatella e per via dei Numisi, tagliando da nord a sud la Tenuta di
Tor Marancia; il tracciato, superata la
Marrana di Grotta Perfetta attraverso
un ponte, si ricongiungeva all’odierno
percorso di via di Grotta Perfetta, per
proseguire poi verso l’Ardeatina moderna (Fig. 7).
All’interno della Tenuta di Tor Marancia, lungo questo tracciato, numerose sono le testimonianze archeologiche
relative ad impianti di ville residenziali
155
Figura 5. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina secondo la prima ipotesi
Figura 6. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina in base alla seconda ipotesi
Figura 7. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina secondo la terza ipotesi
come quella di Munatia Procula e Numisia Procula (Spera, 2001; Spera, 2002;
Granelli, De Rossi, 2003).
Dall’incrocio tra l’attuale via Ardeatina con via di Grotta Perfetta la
viabilità moderna ricalca esattamente
il tracciato antico (Sommella, 1964) e
prosegue fino alla biforcazione con via
della Cecchignola; in questo tratto il
basolato si attesta per una larghezza di
circa 4,5-5 m (Spera, 2001; Spera, 2002;
Pagliardi, Cecchini, 2010; Tella, 2000a;
Tella, 2000b).
Nei pressi dell’incrocio tra la moderna via Ardeatina con via della Cecchignola indagini archeologiche preventive,
eseguite a partire dal 1984 fino al 2015,
hanno messo in luce un lungo tratto relativo all’antico tracciato dell’Ardeatina
vetus della larghezza di circa 3,5 m e
una serie di strutture edilizie di epoca
romana imperiale, verosimilmente sia a
carattere cultuale, sia funerario (Cereghino, Ghelli, Pinelli, 2008; Cereghino,
Ghelli, Luglio, Rocci, 2014).
L’area interessata dai recenti ritrovamenti, compresa nell’ambito del V e VI
miglio dell’Ardeatina vetus, si estende,
con un orientamento circa nord-sud, su
un’ampia fascia prospiciente il lato orientale della moderna via della Cecchignola.
Particolarmente interessante è stato
il ritrovamento di un complesso monu-
mentale, identificabile con un collegium
funeriario, che si estendeva in senso
longitudinale, con orientamento circa
nord est-sud ovest, sul limite orientale
di Via della Cecchignola (Ghelli, 2007;
Cereghino, Ghelli, Luglio, Rocci, 2014).
L’esame planimetrico dei resti individuati ha evidenziato un edificio in
muratura probabilmente sviluppato, in
altezza, con almeno un piano superiore
attualmente non conservato.
La serie di vani messi in luce al
pian terreno si distingue in tre ambienti di rappresentanza disposti in asse,
provvisti di pavimentazione musiva e
decorazione parietale e di cinque ambienti di servizio, che conservano una
pavimentazione in malta di cocciopesto
(Cereghino, Ghelli, Luglio, Rocci, 2014;
Schifi, 2020).
Proseguendo lungo il percorso di via
della Cecchignola, nei pressi dell’incrocio con via del Casale Zola, subito ad est
del quartiere Fonte Meravigliosa, sorgono i resti di un’estesa villa suburbana,
databile tra la tarda età repubblicana e
la metà del II secolo d.C. (Schifi, 2003);
la villa ed i resti di una parte del tracciato dell’antica via Ardeatina furono
individuati per la prima volta nel maggio del 1828 e riscavati nuovamente nel
gennaio del 1939 con il rinvenimento
di alcune stanze con tessellati pavimen-
tali. Un recente riesame della produzione cartografica della zona del 1839 ha
permesso di ipotizzare l’appartenenza
a questa villa anche di un altro grande
mosaico policromo a tessere piccole e
medie, attualmente conservato presso i
Musei Vaticani (Schifi, 2018).
Proseguendo verso sud, dopo aver
superato il fosso della Cecchignola, il
tracciato della via Ardeatina si conserva
per circa 30 m all’interno della cunetta laterale presso il lato occidentale del
moderno tracciato (Sommella, 1964;
De Rossi, 1967).
La strada da questo punto si distaccava poi da via della Cecchignola, in
corrispondenza di via della Cecchignoletta e proseguiva, verso sud, lungo un
viottolo di campagna costeggiando, sul
lato occidentale, l’area dei Casali Romagnoli per oltre 1 km (Fig. 8);
l’antico percorso in questa zona,
ricalcando fedelmente la moderna carrareccia, è disseminato lungo i margini
da numerosissimi basoli fuori posto che
affiorano continuamente (Sommella, 1964; De Rossi, 1967; Spera, 2001;
Spera, 2002).
A partire dalla metà dagli anni Ottanta del secolo scorso e fino al 2015
in quest’area, su entrambi i lati di via
della Cecchignola, sono stati individuati
resti di tombe a fossa, mausolei funerari
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
156
Figura 8. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina, tratto Tenuta Cecchignola
in muratura, alcune cisterne scavate nel
tufo e le tracce di un impianto rustico di
epoca romana (De Rossi, 1967; Schifi,
2003; Cereghino, Ghelli, Pinelli, 2008).
La restituzione ideale del tracciato
antico, dopo aver incrociato via di Tor
Pagnotta e proseguendo per un tratto su
via del Bel Poggio e sull’omonimo vicoletto (Fig. 9), è affidata alla dislocazione
di monumenti superstiti, originariamente connessi alla strada. In particolare in questo punto l’orientamento del
tracciato si identifica con i resti di una
torre medievale, detta “Tor Chiesaccio”,
costruita sui resti di un sepolcro in mattoni di età romana riferibile al II secolo
d.C., nei cui pressi è stato rivenuto un
tratto di basolato ascrivibile all’Ardeatina e ad un suo diverticolo sul lato ovest
(Sommella, 1964; De Rossi, 1967; Spera, 2001; Spera, 2002).
Una volta superato il fosso di Fiorano e attraversato il Grande Raccordo
Anulare l’antica via Ardeatina, presso il
Casale della Torre, si biforcava in due
percorsi che si riunivano circa 15 km
più a sud, presso il Casale di S. Procula
(Fig. 10); non molto distante, ad est della biforcazione che corrisponde pressappoco al VII miglio dell’Ardeatina, sorgeva una torre del XIII secolo, chiamata
la “Torraccia” che probabilmente aveva
la funzione di sorvegliare il punto da cui
si dipartivano le due strade per Ardea
(Sommella, 1964; De Rossi, 1967; Spera, 2001; Spera, 2002).
Il tracciato occidentale è stato
identificato in un sentiero fino all’incrocio con via di Castel di Leva, oltre
la quale l’Ardeatina si sviluppava in un
taglio naturale tra due colline per poi
rivolgersi verso la tenuta della Castelluccia, dove sono stati rinvenuti alcuni
basoli.
Figura 9. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina - via di Tor Chiesaccio
Da questo punto la strada antica tagliava la tenuta di Valleranello fino al
casale della Torretta; quindi, superata
via di Porta Medaglia, il percorso proseguiva lungo l’attuale via Laurentina, a
partire dal km 14, fino ad Ardea (Sommella, 1964; De Rossi, 1967) (Fig. 11).
Il percorso orientale dell’Ardeatina
antica è rintracciabile a partire da via di
Tor Chiesaccia ed è documentato dalla
presenza, in questa zona, di resti di un
impianto di tipo residenziale, presso il
Casale Gasperini, e di un monumentale sepolcro rettangolare del II secolo
d.C.; antiche fonti agiografiche ricordano inoltre la presenza di un cimitero,
tutt’ora non individuato, dove era sepolta la martire Felicola, all’altezza del VII
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
miglio dell’Ardeatina (Sommella, 1964;
De Rossi, 1967; Spera, 2001; Spera,
2002) (Fig. 12).
Il percorso della strada proseguiva lungo un sentiero che passava tra i casali della
Castelluccia e di Sant’Anastasia, quindi
ricalcava grossomodo il tratto più meridionale dell’odierna via di Torre S. Anastasia, dove nel 1965 fu rinvenuta una villa
con impianto termale (De Rossi, 1967).
Dopo via di Porta Medaglia la strada
si dirigeva verso Casal Giudeo, lungo un
sentiero ricavato da un taglio artificiale,
e da qui, volgendosi verso sud est, attraversava la zona oggi occupata da villa
Barberini fino ad incrociare l’odierna
via della Solfarata (Sommella, 1964; De
Rossi, 1967).
Figura 10. Stralcio Tavoletta IGM con percorso
via Ardeatina alla biforcazione
157
Figura 11. Stralcio Tavoletta IGM con percorso occidentale della via Ardeatina
Figura 12. Stralcio Tavoletta IGM con percorso orientale della via Ardeatina
Commissione Archeologica Comunale di
Superato questo incrocio il tratto De Rossi (1967), Tellenae. Forma Italiae Regio
I,
vol.
4,
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occidentale dell’Ardeatina si ricongiunGhelli
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Una
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con
scena
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poi proseguire fino alla città di Ardea
Marancia e la via Ardeatina. Ricognizione
noti da ville nel suburbio sud-occidentale di
e lettura del territorio tra “campagna urbaRoma. Cenni preliminari e nuove attribu(Sommella, 1964; Spera, 2001; Spera,
na”
ed
espansione
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
SESSIONE 3
LE FONTI STORICHE
E CARTOGRAFICHE
161
Paola Furlanetto
Akeo, Padova
Email
[email protected]
Cartografia storica e
geomorfologia nella
ricostruzione della Via
Annia: il caso di Altino
Aldino Bondesan
Università degli Studi di Padova,
Dipartimento di Scienze Storiche,
Geografiche e dell’Antichità – DiSSGeA
Historical cartography and
geomorphology in the reconstruction of
annia way: the case of Altino
Research Fellow in the Department of
Military Geography, Faculty of Military
Science, University of Stellenbosch
(South Africa)
E-mail:
[email protected]
Parole chiave: cartografia storica, archeologia, geomorfologia, Via Annia,
Città romana di Altino
Key words: historical cartography, archeology, geomorphology, Annia Road, Roman
city of Altino)
RIASSUNTO
L’approccio multidisciplinare che
ha caratterizzato l’elaborazione della
Carta geomorfologica digitalizzata della
provincia di Venezia ha portato all’identificazione ed elaborazione grafica di
gran parte del tracciato dell’antica via
consolare Annia, stesa nel II secolo a.C.
da Adria a Aquileia, e ha dato avvio ad
una lunga stagione di studi e pubblicazioni inerenti la strada romana. La sinergia di discipline diverse - archeologia
e geomorfologia in primis-, competenze
specifiche e moderni strumenti di indagine (telerilevamento, modelli digitali
del terreno, foto aeree, carotaggi, datazioni 14C), ha consentito di mettere a
confronto (e a confermare in molti casi)
i tratti della via con i resti archeologici, indicatori della sua presenza (lacerti,
ponti, cippi miliari e necropoli), e con
le caratteristiche geomorfologiche. L’utilizzo di software GIS ha permesso di
organizzare le informazioni cartografiche in livelli distinti e ha consentito la
loro sovrapposizione e verifica puntuale.
Questo tipo di indagine non invasiva,
predittiva e a basso costo si è avvalsa anche della cartografia storica, attraverso
la consultazione e l’utilizzo della banca
dati Imago. La banca dati, contiene più
di 300 carte storiche, dal XV al XVII
secolo, del territorio lagunare e di gronda, e la descrizione archivistica e geomorfologica di ciascuna. La cartografia
storica ha giocato un ruolo importante
e spesso decisivo nella ricostruzione del
tracciato della via Annia nella Carta
geomorfologica e nella successiva Carta
delle unità di paesaggio geo-archeologiche
della provincia di Venezia, confermando,
in molti casi, il percorso rilevato dalle
foto aeree e satellitari. La quasi totalità
delle carte analizzate è riferibile al XVXVI secolo, carte di grande suggestione,
ma secondo un’opinione condivisa tra gli
studiosi, di difficile utilizzo in campo
scientifico: risulta spesso arduo, se non
impossibile, il confronto “a vista” tra carta antica e moderna, né è possibile stabilire una corrispondenza puntuale tra gli
elementi rappresentati nelle due carte,
trattandosi di mappe a scale differenti,
non geodetiche, spesso deformate e almeno all’apparenza, poco corrette e precise. È stata messo a punto un metodo
ad hoc per la georeferenziazione e il trattamento delle immagini, reso possibile
dalla disponibilità di un alto numero di
carte, da immagini ad alta risoluzione,
dall’introduzione dell’indice di errore e
dalla verifica degli elementi rappresentati, a cui si è aggiunta la sovrapposizione con livelli informativi archeologici e
geomorfologici. La stessa metodologia è
stata applicata ad una carta cinquecentesca, conservata all’Archivio di Stato di
Venezia che rappresenta l’area della città
romana di Altino, oggi sepolta. La carta,
mai considerata fino ad ora ai fini di una
lettura archeologica, mostra una buona
coincidenza con gli elementi emersi
dall’indagine archeologica e geomorfologica e, per certi aspetti, sorprendenti
somiglianze con una recente immagine
telerilevata che ha svelato una città perfettamente organizzata e urbanizzata.
PREMESSA
La cartografia antica possiede un
grande valore storico e documentario
ed è considerata una fonte importante e
imprescindibile per lo studio delle dinamiche territoriali e antropiche. Il ruolo
che svolge nell’ambito della geografia
storica, come strumento funzionale alla
lettura del territorio, viene confermato
anche dalla lunga e felice tradizione
di pubblicazioni e ricerche del Dipartimento di Geografia dell’Università
di Padova (attivo fino al 2012), rivolti
allo studio dell’immenso, quanto ra-
ro, patrimonio cartografico conservato
all’Archivio di Stato di Venezia.
Le carte ci restituiscono un’immagine precisa della realtà geografica e
antropica e rappresentano fonti di informazioni geograficamente localizzate
e relative a un preciso momento storico,
fissate “come in un fermo immagine di
un lunghissimo film” (Dall’Aglio, Di
Cocco, Marchetti, 2002). Mostrano, in
successione diacronica, trama narrativa
e trasformazioni naturali e antropiche di
un territorio in una sorta di meravigliosa
biografia figurata (Dai Pra’, Tanzarella,
2009) e sono testimonianza unica e precisa di quei fenomeni che, come scrive
Marinelli (1881), nessuna descrizione
orale o scritta poteva bastare a esporli.
Il potente apparato iconografico che le
caratterizza si rivela però, tanto affascinante quanto di difficile lettura e interpretazione, tanto da essere state definite
“clienti scivolosi” (Harley, 2001). La sola
visione autoptica, fino a poco tempo fa
l’unica possibile, non è sufficiente in
molti casi, specie per le carte più antiche, a leggere, identificare e interpretare
correttamente gli elementi rappresentati. Si rivela inoltre difficile, se non
impossibile, la comparazione visiva tra
carte storiche e moderne, a causa della
differenza di scala e della distorsione di
ordine geometrico che caratterizza la
produzione cartografica pregeodetica.
L’elaborazione della Carta geomorfologica della provincia di Venezia (Bondesan, Meneghel, 2004) è stata l’occasione
per mettere a punto strategie e metodi,
avvalendosi di discipline diverse e di
moderni strumenti d’indagine. In questo contesto (Furlanetto, 2004a) e nell’elaborazione della successiva Carta delle
unità di paesaggio geoarcheologico (Furlanetto, 2012b), la cartografia storica ha
giocato un ruolo del tutto inedito, quanto importante per ciò che ha riguardato
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
162
lo studio degli elementi morfologici e
della topografia storica. L’indagine cartografica si è avvalsa della consultazione
e dell’utilizzo della banca dati Imago e
delle elaborazioni messe a punto in seno
al Progetto Imago, progettato e diretto
dagli scriventi e finanziato dal Magistrato alle Acque di Venezia dal 2002 al
2012 (Furlanetto et al., 2004)
Un’analisi avanzata delle carte e il
loro trattamento digitale hanno contribuito, in sinergia con i dati provenienti
da altre discipline, all’identificazione ed
elaborazione grafica del tracciato, senza
soluzione di continuità, di una antica
via perilagunare riconoscibile solo in
parte col percorso della via consolare
Annia, stesa nel II secolo a.C. da Adria
ad Aquileia per Padova, Altino, Concordia e Aquileia (Bosio, 1990; da ultimo
Rosada et al., 2010). Il riconoscimento
del tracciato ha dato avvio a una lunga
e felice stagione di studi, ricerche e pubblicazioni (Ghedini et al., 2002; Busana,
Ghedini, 2004; Progetto Via Annia: Veronese, 2009; 2011; Rosada et al., 2010).
Una campagna di telerilevamento, condotta una decina di anni fa, ha messo in
luce una spettacolare immagine dell’antica città di Altino, rivelando la struttura
urbanistica e la presenza della via all’interno della città, solo suggerite, prima
di allora, da scavi e ricerche (Ninfo et
al., 2009). Una città antica, Altino, ora
sepolta e invisibile, di lei rimane oggi
solo il ricordo nel toponimo, che le fonti storiche definiscono come un’isola in
mezzo alla laguna, e, solo in parte finora,
messa in luce da ricerche archeologiche.
Una carta cinquecentesca, nota e edita,
mostra uno spazio definito, circondato e attraversato dalle acque, nell’area
occupata dalla città romana di Altino
(Biblioteca del Museo Correr, P. D., C.
843.8), e, mai interpretata in tal senso,
rivela una sorprendente somiglianza
con l’immagine telerilevata.
LA VIA ANNIA, STORIA
DI UNA STRADA, STUDI E
RICERCHE
La via, fatta costruire da Tito Annio
Lusco nel 153 a.C. o più probabilmente da Tito Annio Rufo nel 131 a.C., si
snodava da Adria per Padova, Altino
e Concordia fino ad Aquileia (Bosio,
1990; 1991, p.68). La stazione di arrivo, Aquileia, è confermata dalle fonti
epigrafiche (CIL, V, 7997; 7992=ILS
5860), non trova menzione invece l’altro
capolinea, che gli autori concordemente
identificano con Adria, dove arrivava la
via Popilia, da Rimini da Adria, fatta
costruire dal console Publio Popilio Le-
nate nel 132 a.C., come testimonia un
miliare rinvenuto alla periferia sud ovest
della città (CIL, V; 8007=ILS 5807). Il
tracciato fu rivelato per la prima volta
nel 1884 dalla Commissione incaricata
dalla Real Deputazione di Storia Patria
(Barozzi et al., 1884) che rinvenne le
sue tracce in una larga striscia di ghiaia riconoscibile da Altino fino al Piave, ed è stato confermato in alcuni suoi
tratti in tempi più recenti da ricerche
di superficie tra Sile e Piave e tra Piave
e Tagliamento, che hanno portato alla
luce lacerti di strada, ponti e numerosi
miliari di epoca tardo romana (Basso,
1987;1996). Più di cent’anni di scavi
e ricerche hanno permesso di precisare
l’ingresso della via fiancheggiato da necropoli, nei pressi di Altino e Concordia.
STRUMENTI E METODI
L’approccio multidisciplinare coniugato ad un protocollo di studio ad hoc,
collaudato in seno al Progetto DogeLeo (Bondesan, Meneghel, 2004), ha
caratterizzato l’elaborazione della Carta
geomorfologica della provincia di Venezia, la prima a cartografare in un quadro
unitario tutti i siti archeologici editi e
gli elementi di topografia antica. Ha
contribuito all’elaborazione della carta
la sinergia di discipline diverse, archeologia geomorfologia e geologia in primis, competenze specifiche e moderni
strumenti di indagine (telerilevamento,
fotointerpretazione, carotaggi e prove
geognostiche, datazioni al 14C, DTM
della pianura) e un progetto GIS coordinato, in grado di creare una piattaforma geografica comune di studio e rappresentazione. Un ruolo significativo ha
svolto la cartografia storica, per la quale
è stata elaborata una strategia di studio
di tipo non convenzionale, che ha tenuto
conto dei limiti e delle potenzialità delle
carte. La necessità di superare, da una
parte la mera visione autoptica, compromessa dalla distorsione geometrica,
dall’altra la difficoltà di lettura data dalla
grande varietà di scale, tematismi, finalità, fedeltà, affidabilità della rappresentazione e committenza, hanno portato
a fissare criteri univoci ed oggettivi di
decodificazione delle carte. Era necessario infatti poter disporre di un congruo
numero di carte in successione cronologica che potesse rappresentare un valido
e attendibile campione rappresentativo
e sottoporre ciascuna carta ad un’analisi “spinta”, di tipo non esclusivamente
storico-archivistico, ma anche geografico e geomorfologico, al fine di poter
valutare comparativamente gli elementi
della carta. È stato inoltre fondamentale
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
il ricorso a strumenti di geomatica, per
un trattamento delle immagini che prevedesse georeferenziazione, operazioni
di sovrapposizione (overlay) con carte
moderne, restituzione cartografica degli
elementi ed elaborazione grafica.
L’enorme patrimonio cartografico
conservato all’Archivio di Stato di Venezia ha rappresentato una formidabile
risorsa, con migliaia di carte prodotte
dalle magistrature veneziane della Serenissima dal XVI al XVIII secolo, per
il governo delle acque e dei territori contermini; si tratta di carte di tipo descrittivo, progettuale, amministrativo-fiscale
e celebrativo.
L’indagine cartografica ha potuto
avvalersi della consultazione e dell’utilizzo delle banche dati e delle elaborazioni del Progetto Imago (Image Map
Archive Gis Oriented), relativo allo studio
della cartografia storica della Laguna di
Venezia e della gronda lagunare e finalizzato alla sua ricostruzione diacronica
(Furlanetto, 2004a; Furlanetto et al.,
2004; Furlanetto et al., 2009; Furlanetto, Bondesan, 2012; 2014; Bondesan,
Furlanetto, 2012). Il data base Imago
contiene 350 carte storiche selezionate dallo spoglio di circa 7000 esemplari
originali conservati all’Archivio di Stato
di Venezia, scelti in base all’autore, alla
scala, al secolo, alle finalità e alle caratteristiche intrinseche ed estrinseche
delle carte. Ogni carta viene illustrata
in una scheda che contiene l’immagine
in formato raster ad alta risoluzione, una
sezione descrittiva di tipo archivisticodocumentario, un’altra di tipo geografico e una parte interpretativa, con il
controllo di affidabilità e fedeltà della
rappresentazione. Il data base Forma,
che affianca il data base Imago, riporta
in modo sistematico i principali elementi geomorfologici rappresentati nelle
carte. Le carte ritenute rappresentative,
il 20% del totale, sono state georiferite
e per ognuna di esse si è proceduto alla
sovrapposizione con le carte moderne
e alla vettorializzazione degli elementi
cartografici. Una attenzione del tutto
particolare è stata riservata alla georeferenziazione, ritenuta da molti autori una
sfida impossibile per le carte più antiche
del XVI secolo. La qualità geometrica
di ognuna di esse è stata controllata
attraverso l’errore quadratico medio
(in inglese Mean Squared Error, MSE)
nell’operazione di georeferenziazione.
Nel caso di un MSE particolarmente elevato in funzione della scala della
carta, si è proceduto, nel caso di carte a
piccola scala, a nuove operazioni di georeferenziazione di piccole porzioni e a
163
successiva mosaicatura (Gatta, 2011). In
questo modo è stata possibile la sovrapposizione della carta e la comparazione
degli elementi ivi rappresentati con tutti
gli altri livelli informativi del Progetto
Doge-Leo. Sono state così identificate
e cartografate tutte le tracce antropiche
relative alla rete viaria antica. Tra gli elementi considerati si annoverano anche i
tratti rettilinei presenti nella cartografia
moderna che coincidono (all’interno di
una fascia di buffer che considera sia
l’indeterminatezza legata agli errori di
rappresentazione in fase di rilievo e di
stesura della mappa antica che quelli di
georeferenziazione) con la rete viaria
antica. Tali tratti sono stati poi interpretati, ed eventualmente confermati,
in funzione del con i dati archeologici
e geomorfologici di base.
rilevato dall’indagine geomorfologica
e dalla fotointerpretazione (La pianura
tra Sile e Piave, 1991) (Fig. 1).
I numerosi miliari di epoca tardo
romana rinvenuti a fianco della via ne
scandiscono il tracciato (Basso, 1987;
1996). Anche i siti archeologici rinvenuti in prossimità, come necropoli ed
edifici rustici, databili tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C., costituiscono
elementi indiziari a ulteriore conferma
della presenza della strada.
Sono molti i tratti relitti riconosciuti
nelle carte storiche: alcuni sopravvivono
oggi in direttrici moderne, altri non sono
più visibili, e altri ancora hanno trovato
perfetta coincidenza con quelli messi in
luce dalla fotointerpretazione. La so-
pravvivenza e il rilevamento delle tracce
si rivelano profondamente diverse da zona a zona e sono fortemente condizionate dal tipo di terreno, dalla storia del
sito e dalle caratteristiche geomorfologiche e geologiche. Fotointerpretazione e
rinvenimenti archeologici mostrano un
tracciato a lunghi tratti rettilinei con direzione nord-sud e modesti cambi di direzione da Adria fino a Marghera, nell’area centro meridionale della provincia di
Venezia (e una piccola parte di Padova),
dove sono completamente assenti le
sopravvivenze della via, coperte o manomesse dalla coltre alluvionale post romana dovuta sia a cause naturali che alla
serie di interventi idraulici di deviazione
fluviale messi in atto dalla Serenissima
RISULTATI
LA
VIA PERILAGUNARE
Il percorso di una via prossima al
margine lagunare, arretrato rispetto ad
oggi, è perfettamente ricostruibile nei
tratti rettilinei, caratterizzati da modesti cambi di direzione, che attraversano
da sud a nord, e quindi verso nord-est,
senza soluzione di continuità, il territorio della provincia di Venezia e una parte
di quello di Padova. Sono molte le tracce
antropiche desunte dalla fotointerpretazione, riconoscibili come tratti della via
romana. Sono accumunate dalla stessa
risposta radiometrica: una traccia chiara, 20 m circa di larghezza, delimitata
da due tracce più scure che caratterizza
i numerosi tratti ad andamento rettilineo, ma diversamente orientati che da
Adria per Monsole, Lova, Mestre e Altino arrivano a Concordia. I dati della
fotointerpretazione trovano riscontri
puntuali con tratti di strada rilevati sul
terreno, con i risultati delle ricognizioni
effettuate dal Dese al Livenza dalla Reale Deputazione di Storia Patria alla fine
del 1800 (Barozzi et al., 1883a; 1883b,
1883c; Barozzi et al., 1884) dati forniti
da numerosi sondaggi e da uno scavo
archeologico nei pressi di Ca’ Tron (Busana, Ghedini, 2004) hanno confermato
le misure, una larghezza di 19-24 m, e
la tecnica stradale della via, una glarea
strata, caratterizzata da inghiaiatura superficiale e fiancheggiata da due ampi
fossati. Le tracce identificate si saldano
perfettamente con infrastrutture come i
numerosi ponti, databili tra la fine del I
a.C. e l’inizio del I d.C., nove quelli accertati solo nel tratto Sile-Tagliamento,
che intercettano la strada in presenza
di un corso d’acqua, ancora attivo o,
più frequentemente, di un paleoalveo,
Figura 1. Il tratto della via Annia dal Grassaga al Livenza, nella Carta della fotointerpretazione e dei siti archeologici della provincia di Venezia tra i fiumi Livenza e Tagliamento: 4= ponte sul Grassaga; 6= miliare, 209=
ponte sul Livenza (Bondesan et al., 2002)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
164
Figura 2. a) La strada detta Orlanda, antica via Annia, nei pressi di Mestre (ASVE, SEA LAGUNA, 41,1628); b) la via Annia nella carta geomorfologica della Provincia
di Venezia (Bondesan et al., 2004)
nell’arco di due secoli. Il tracciato dal
Naviglio Brenta a Malcontenta è da ritenersi per ora, pur credibile, ancora ipotetico, dal momento che il tratto rettilineo
messo in luce dalla fotointerpretazione
e finora interpretato come parte della
via (Marchiori, 1986), si è rivelato ad un
controllo recente un elemento strutturale moderno (un metanodotto interrato).
La cartografia storica, messa a confronto
con i rinvenimenti archeologici e i dati
della fotointerpretazione, ha ottenuto
un buon risultato nella ricostruzione del
tracciato da Malcontenta-Marghera ad
Altino, in un’area recentemente e pesan-
Figura 3. Le carte storiche nella ricostruzione del tracciato della via Annia da Altino a Mestre. (a) ASVE, SEA LAGUNA 3, 1532; (b) ASVE, SEA LAGUNA 41, 1628;
(c) Anton Von Zach, Kriegskarte, 1796-1805 (Rossi, 2005), IGM, 1880
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
165
a)
b)
c)
Figura 4. La via Annia tra Sile e Piave, in una mappa del 1547 di Jeronimo Marcolin (a) (ASVE, SEA Diversi, dis.3, 1547 ), nella restituzione grafica (b) e nella Carta
geomorfologica della provincia di Venezia (c) (Bondesan et al., 2004)
temente urbanizzata, apparentemente
priva di tracce dell’antica strada. Emerge
un percorso senza soluzione di continuità, a brevi tratti ad andamento spezzato e
cambio minimo di direzione, che si tiene
a una distanza costante dal margine interno antico. In questo caso si è rivelata
risolutiva l’analisi delle foto aeree della
RAF eseguite durante la Seconda guerra
mondiale, che ha mostrato perfetta coincidenza con i percorsi delle carte storiche
come nel caso della “strada de Orlando”
(SEA LAGUNA 41, 1678), riconoscibile oggi nei pressi di Mestre come Via
Orlanda (Fig. 2 e Fig. 3).
Il tracciato prosegue in un perfetto
gioco ad incastro da Altino fino al Livenza. La via si snodava in prossimità del
margine lagunare antico con direzione
sud-ovest/nord-est e un andamento a
tratti spezzati e modesti cambi di direzione, lambendo una serie di lagune
Figura 5. Il tracciato della via Annia ricostruito sulla base alla cartografia storica, alla fotointerpretazione e ai
siti archeologici
interne, oggi bonificate, dove sfociavano Sile, Piave, Livenza e Tagliamento.
I tratti messi in luce dalla fotointerpretazione, quasi ininterrotti e ben visibili,
trovano buona coincidenza con quelli
desunti da cartografia storica e sono
confermati dai numerosi miliari e ponti
che intercettano la via in prossimità di
paleoalvei (Fig. 4).
Il tratto a sud della Fossetta nei pressi di Bellesine, indicato in una carta storica del 1558 come Strata detta la giarina
(ASVE, Beni Inculti Treviso -Friuli dis
481-58-3), che nel toponimo ricorda la
tecnica costruttiva della via, vale a dire una strada inghiaiata, è parallelo ad
una fossa, oggi coincidente con il Fosso
Gorgazzo, lungo il quale sono stati trovati alcuni miliari.
Il percorso da Stino di Livenza al
Tagliamento, coincidente per un lungo
tratto con la strada attuale e ricostruibile da alcuni brevi tratti desunti da
fotointerpretazione, è scandito da rinvenimenti archeologici, miliari cippi e
impianti produttivi e si mantiene appena a nord dell’area lagunare attualmente
bonificata.
Il tracciato da Adria al Tagliamento (Fig. 5) coincide solo parzialmente
con il tracciato tradizionalmente riconosciuto come via Annia che da Adria
si dirigeva verso Padova e Altino, Concordia e Aquileia. Nessuna fonte antica
ricorda la strada Adria-Aquileia, né il
tratto Adria- Padova; solo l’itinerario
Antonini (281-1-282), un itinerario
stradale di epoca tardo romana, descrive la via da Bononia, Mutina, Vico Semino, Vico Variano, Anneiano, Ateste,
Patavis, Altino, Concordia e Aquileia.
Il percorso di una strada perilagunare,
molto simile alla nostra via, da Ravenna
ad Altino, con le stazioni di posta e le relative distanze, è raffigurato nella Tabula Peutingeriana, databile al IV-inizi V
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
166
Figura 6. Altino nella foto aerea (a) e nello stralcio della carta geomorfologica della provincia di Venezia (b)
(Bondesan, Meneghel, 2004)
d.C.. Non si vuole entrare in merito alla
questione, sul nome della via e il tracciato (per la quale si rimanda a Rosada et al.
2010): via Popilia da Adria ad Altino,
via Annia da Altino ad Aquileia, ma
si propone in questa sede l’esistenza di
una via perilagunare di cui si sottolinea
il caratteristico andamento a tratti spezzati e diversamente orientati seppur con
modesti cambi di direzione e il perfetto
adattamento alle condizioni geomorfologiche. Medesima la risposta radiometrica, le misure, le caratteristiche di strada inghiaiata e l’assetto geomorfologico
che caratterizzano l’intero tracciato. La
strada si mantiene per tutto il percorso
a una distanza costante dal margine lagunare antico, arretrato rispetto a quello
moderno. Il tracciato aggira sia le aree
depresse a quote inferiori allo zero sia
i dossi fluviali debolmente sopraelevati
sulla pianura. Talora la natura litologica della superficie sembra condizionare
l’andamento del tracciato preferendo
terreni ben drenati ai terreni di natura
argillosa (Fig. 5).
ALTINO
E LA VIA ANNIA
Una necropoli monumentale fiancheggiava il lungo tratto della via Annia
messo in luce dalla fotointerpretazione
e sottolineava scenograficamente il suo
ingresso ad Altino (Fig. 6a, b). Le fonti ci restituiscono l’immagine del centro
urbano circondato e attraversato dall’acqua: Strabone la paragona a un’isola e la
colloca circum paludes; la definisce simile
a Ravenna, “costruita interamente in legno e attraversata dall’acqua, vi si circola
perciò su ponti e su barche” (Strabone,
Geographica, V, 7). Vitruvio descrive le
Gallicae paludes qui circum Altinum ed
esalta la salubrità dei luoghi resa possibile dalla realizzazione di canali fino alla
laguna che garantivano il flusso delle maree (Vitruvio, De architectura I,4,11-12).
La presenza di acque salmastre nei canali
che circondavano il centro antico è documentata, tra gli altri, dal ritrovamento
di sedimenti lagunari rinvenuti sotto le
fondazioni della Porta Urbica settentrionale (Tombolani, 1985). Una città-isola
dunque, la cui forma urbis, circondata e
attraversata da corsi d’acqua, e solo parzialmente rivelata da più di cent’anni di
ricerche archeologiche, è stata recentemente “svelata” da una spettacolare immagine satellitare (Ninfo et al., 2009;
Mozzi et al., 2011; Mozzi et al., 2016).
L’immagine mostra singolari coincidenze con una mappa cinquecentesca
che, per la prima volta, grazie alla georeferenziazione e alla sovrapposizione con
Figura 7. Altino nelle mappe storiche di Bartolomeo Fantello (a) del 1572 (Biblioteca del
Museo Correr, P.D.,C. 843.8) e di Locha (b) del 1562 (ASVE, SEA LAGUNA, dis.12)
che raffigurano rispettivamente la parte occidentale e orientale della città romana, ancora
rappresentata nella (c) Kriegskarte di Anton Von Zach, 1796-1805 (Rossi, 2005).
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
167
una carta moderna, è possibile leggere
nel dettaglio. Sono solo due le rappresentazioni cinquecentesche conosciute,
a grande scala, che raffigurano in due
parti contigue l’area occidentale e orientale occupata dalla città (Figg. 8 a e b).
Si tratta di mappe note e edite (Dorigo,
1983; Furlanetto, 1998; Caniato, 2011),
cronologicamente vicine, ma molto diverse, nel tipo e nei modi di rappresentazione: delimitazioni fondiarie nel primo caso, destinazioni d’uso nel secondo
(ASVE, SEA LAGUNA dis.12, 1556;
Biblioteca del Museo Correr, P.D., C.
843.8, 1572).
La mappa redatta da Bartolomeo
Fantello del 1572 (BMC, P.D., C.
843.8), riporta, in un’area circondata,
senza soluzione di continuità, da corsi
d’acqua, l’estensione superficiale espressa in campi, quari e tavole, delle singole
proprietà coltivate o mantenute a prato, della parte occidentale della città
romana (Fig. 7a).
Nella mappa a volo d’uccello del
1556 di Zuane Antonio Locha (orientata con il nord in alto), il lato a ovest
(a sero), confina con la parte orientale
della mappa precedente (ASVE; SEA
Laguna, dis.12). Vi è raffigurato il corso del Sioncello, che dal Sile prosegue
con percorso rettilineo verso Ca’Bianca
(Altino), piega verso est e poi di nuovo
verso sud, e definisce la zona orientale
della città antica fra il Montiron e Trepalade (Fig. 7b). La forte distorsione
geometrica, caratteristica delle carte a
volo d’uccello, non consente di georiferire la mappa e di darne una lettura
puntuale, ma solo di evidenziare un’area
dislocata ad una quota di campagna più
elevata e destinata a pradi e pascoli, che
sembra poter coincidere con il sedime
urbano orientale protetto da una arginatura continua (arzere, parte, refato, parte, vechio), di cui rimane ancora parziale
traccia nella Krieskarte (Rossi, 2005;
Fig. 7c). Il circuito continuo di canali
raffigurato nella mappa di Fantello, che
delimita l’abitato e rimanda alla cittàisola delle fonti, trova buona coincidenza con quanto emerge dall’immagine
telerilevata e viene confermata negli
interventi di arginature spondali, nella
costruzione di approdi e nei paleoalvei
messi in luce dall’indagine archeologica
e geomorfologica (Figg. 8 e 9). La porta
approdo, fiancheggiata da due cortine
murarie prospettava sul canale settentrionale che delimitava la città a nord e
insisteva su un paleoalveo, identificato
in un percorso pleistocenico del Brenta,
che “rilevamenti pedologici hanno confermato essere sede di sedimentazione e
che ha continuato a essere parzialmente
attivo” (Bondesan, Mozzi, 2002). Non
lontano dalla Porta approdo, in località
Ghiacciaia e nell’area a nord del Museo, sono emersi banchine d’ormeggio e
moli porticati lungo il canale arginato,
messo in luce dal telerilevamento e ben
rappresentato nella carta storica, che si
staccava dal Sioncello e entrava nell’area urbana in direzione sud-sud-ovest
(Tirelli, 2001; Tirelli 2011a; 2011b). Il
corso d’acqua che marginava la città ad
occidente trova perfetta corrispondenza con la traccia di un paleoalveo che
intersecava a circa metà del suo percorso un breve canale che confluiva nello
Zero ad ovest, e proseguiva dalla parte
opposta in un canale artificiale mediano
che attraversava la città, da ovest verso
est, ed era in comunicazione con il corso
d’acqua orientale. Si tratta di un ampio
canale di 26 metri di larghezza, identificato per la prima volta dall’immagine
satellitare, dotato nella parte occidentale di almeno due ponti e non perfettamente rettilineo. Al limite sud-ovest,
in località Fornasotti, è stato trovato un
molo porticato nei pressi del corso d’acqua che delimitava a sud l’area urbana,
il cui alveo, ancora riconoscibile in un
profondo avvallamento negli anni ’60
(Tombolani, 1987; Tirelli, 2001; 2011),
è ora evidenziato nello studio di Ninfo
et al. (2009) e coincide, nel primo tratto,
con la traccia nella mappa di Bartolomeo Fantello.
Il rinvenimento delle fondazioni di un
ponte, in prossimità degli edifici perifluviali che prospettavano il canale meridionale, segna l’ingresso della via Annia ad
Altino che entrava in città con un lieve e
duplice cambio di direzione verso est di
circa 70 metri. La via publica attraversava
la città nel suo settore più occidentale –
come aveva già ipotizzato Alessio De Bon
sulla base dei risultati di saggi di scavo
negli anni 30 e come risulta nell’immagine satellitare, con un tracciato rettilineo e
orientato N38°E; la stessa direzione che
caratterizza la via prima del suo ingresso
in città e all’interno del centro urbano, e lo
stesso orientamento che mostrano odeon,
teatro, e l’edificio extraurbano biabsidato,
visibili nell’immagine telerilevata (Mozzi
et al., 2016) (Fig. 10).
Il tracciato coincide sia nei cambi di
direzione del tratto iniziale, due brevi
segmenti ad angolo ottuso, che nell’o-
Figura 8. Altino nella mappa di Fantello del 1565, georeferenziata. In blu, il circuito di corsi d’acqua che delimitava
il centro urbano e il canale mediano che lo attraversava (Fondazione Musei civici di Venezia - Archivio Fotografico)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
168
Figura 9. La stella sulla carta a sinistra indica la porta approdo con due cortine murarie (a destra, ricostruzione
secondo Cresci Marrone, 2011) che prospettano nel canale settentrionale di Altino (Fondazione Musei civici di
Venezia - Archivio Fotografico)
rientamento, con una delimitazione
fondiaria fiancheggiata da una fila continua di alberi che attraversa l’area urbana dall’estremità sud-est fino al canale
settentrionale. All’interno della doppia
ansa del corso d’acqua è visibile una
delimitazione rettilinea angolata che
mostra buona coincidenza con la perimetrazione messa in luce dal satellite e
che sembra possibile identificare come
un relitto della cinta muraria antica della
città (Tirelli 2011; Mozzi et al., 2011).
Cartografia storica e geomorfologia,
messe a confronto con i dati archeologici, consentono di riconoscere e cartografare, con un buon grado di affidabilità,
le tracce antropiche relitte antiche, oggi
scomparse e cancellate, e altrimenti non
più leggibili. Fonti antiche (le mappe)
e tecnologie moderne (il “recupero digitale” e i livelli informativi) si rivelano
ottimi strumenti e validi alleati nell’ambito della topografia antica e mostrano
la loro potenzialità nello studio delle
dinamiche insediative. Il risultato finale
non è solo la ricostruzione di parte o di
tutto il tracciato di una via, dei limites di
una centuriazione o delle sopravvivenze
dell’impianto urbanistico di una città
antica, come nel caso di Altino, ma la
ricostruzione di quel paesaggio storico e
delle relazioni che si instaurano fra i vari
elementi naturali e antropici.
La cartografia storica si conferma
come uno strumento a basso costo,
basso impatto e non invasivo, che può
essere utilizzato sia in ambito di tutela
e difesa del territorio, ma può essere un
valido alleato nell’ambito della archeologia predittiva e preventiva, in grado di
orientare le ricerche future.
Figura 10. Il tracciato della via Annia, in rosso, all’interno della città di Altino nella mappa di Fantello, georiferita. L’etichetta “Mura” indica la delimitazione ad
angolo ottuso che ricalca la perimetrazione interpretabile
come sopravvivenza della cortina muraria (Fondazione
Musei civici di Venezia - Archivio Fotografico)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
169
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
170
Le porte storiche.
Valichi stradali obbligati
nell’antichità classica
Lamberto Laureti
Già docente all’Università di Pavia)
E-mail:
[email protected]
The historical gates. Obliged passes along
the great travel routes in the old ages
Parole chiave: Geografia storica, Comunicazioni stradali, Valichi montuosi
Key words: Historical Geography, Travel routes, Mountain passes
RIASSUNTO
Il fenomeno delle migrazioni, che
in questi anni interessa vaste aree del
vecchio e del nuovo mondo, se può far
pensare ad una conseguenza dell’attuale globalizzazione, in realtà ha sempre
costituito un aspetto fondamentale dei
processi evolutivi che hanno caratterizzato lo sviluppo della popolazione
mondiale. Fin dalla conclusione dei
tempi preistorici, con l’esaurirsi delle
glaciazioni pleistoceniche, circa 12 mila
anni fa, ampi spazi terrestri si aprirono
all’insediamento di sempre più numerose compagini umane preceduto da
frequenti processi migratori che, con
riferimento al “vecchio mondo”, hanno
visto il susseguirsi di cospicui spostamenti di popolazioni, costrette non di
rado al superamento di barriere naturali
(orografiche, fluviali ed anche marine),
alla continua ricerca di cibo e di migliori
condizioni di vita. Le correnti migratorie dalle pianure sarmatiche e dagli altopiani iranici si dirigevano ora verso il
Mediterraneo e l’Europa settentrionale
ora verso l’Asia orientale ma anche verso
le Americhe tramite l’istmo di Bering.
Nei loro spostamenti, questi ricorrenti
flussi migratori si trovarono ad affrontare frequenti ostacoli costituiti da più
o meno elevati rilievi montuosi il cui
superamento era reso possibile non di
rado da profonde incisioni, considerate
vere e proprie “porte”, che videro il passaggio di eserciti, di carovane di mercanti, di svariate moltitudini umane.
Anche oggi gli ampi spazi euro-asiatici
consentono di individuare le tracce di
questi passaggi obbligati attraverso i
rilievi che separano le grandi unità geostrutturali come il blocco indo-pakistano, gli altopiani iranici e anatolici insieme con gli allineamenti montuosi che
dalla penisola balcanica a quella iberica
frastagliano il territorio europeo.
and new world, if one can suppose the
consequence of current globalization.
Has always been a basic aspect of the
evolutionary processes that have characterized the development of the world
population since the end of the prehistoric times when, with the collapse of
the Pleistocene glaciations, about 12000
years ago, large land spaces opened up to
the settlement by an increasing number
of human groups.
In fact, during all the Paleolithic
times the environmental conditions had
strongly influenced the life of human
groups, limiting considerably the demographic development and their spread
on all of the emerged lands. Moreover,
the frequent climate changes with: alternating hot and cold phases, the advance and retreat of the ice shell, the variation of the sea level and therefore also
the changes of the vegetal landscape,
were all factors that, already in Lower
Paleolithic, led the ancient mankind to
frequent transfers and to actual migrations because of the continual search for
food, space and better environmental
conditions.
During the Middle and Upper Paleolithic, population areas became larger
wider, spreading even to the limits of
the glacial regions. The migratory flows
from the Sarmatian steppes and Iranian
highlands headed towards East Asia and
from China to Siberia, while, thanks to
the lowering of sea level that caused the
formation of “continental bridges”, the
population extended from Asia to the
Americas through the temporary Bering isthmus, but also through the same
Pacific Ocean, whose archipelagos continued to be populated even during the
first centuries of the vulgar era.
After the collapse of the last major
glaciation, about 12000 years ago, the
alternations of warm and cold climatic phases that occurred until nowadays
ABSTRACT
have been quite frequent, with more
The human migrations, which in re- or less minor advances or retreats of
cent years affect large parts of the old the glacial fronts and related sea level
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
changes. It was, however, variations that
did not prevent the continuation of the
evolutionary history of human societies
and therefore the gradual and inexorable process of land settlements.
These variations undoubtedly influenced the life and activities of the human communities by getting them, with
some frequency, recurring transfers, real
migratory movements, towards regions
better supplied with resources. Indeed,
it can be said that the history of the ancient human communities in the Old
Euro-Afro-Asian World, especially
during the Neolithic times and with
greater extent in the subsequent metal age, is marked by repeated waves of
immigrations. These,from the margins
of the broad latitudinal band dominated by warm-temperate and subtropical
conditions and which stretched from
the eastern coasts of the Mediterranean
up to the Mesopotamia plains, moved
towards the fertile and rich regions of
Anatolia, Aegean islands and delta and
lower course of the Nile.
As they moved, these recurrent migratory flows, as well as clashing with
the presence of still young geopolitical entities (even, already in the fourth
millennium before the vulgar era, animated the landscape of Mesopotamian
Plains and the archipelagos of Eastern
Mediterranean), found themselves face
to frequent obstacles made up of more
or less high mountains put into place
by the geological and tectonic events.
The overcoming of these obstacles was
made possible by the presence of more
or less deep incisions that interrupted
the continuity of mountain ridges, real
“doors”, often well controlled to ensure
the defense of contiguous territories and
populations. Often, in the course of human history, these passes saw the passage of armies, caravans of merchants,
human moltitudes running away from
famine and drought and looking for
new lands to colonize.
171
Today, thanks to technological development, even the highest mountain
ranges, such as the Andes and the Himalayas, can be overcome with daring
carriage roads that go far beyond the
5000 meters above sea level, while in
old Europe the overcoming of mountain barriers is ensured by road and rail
tunnels that go underground for tens of
kilometers.
In particular, in the wide Euro-Asian
spaces it is still possible to identify the
traces of the of the obligatory passages
that have seen the migratory wanderings, expeditions and military retreats
overcome the obstacles posed by the
reliefs that separate the large geo-structural units such as the blockade Indo-Pakistani, the Iranian and Anatolian
highlands together with the mountain
alignments that jagged the European
territory from the Balkan to the Iberian Peninsula.
1. PREMESSA
Per tutta la durata dei tempi paleolitici le condizioni ambientali hanno fortemente condizionato la vita dei gruppi
umani limitandone sensibilmente le
possibilità di sviluppo demografico e
la diffusione sul complesso delle terre
emerse. Inoltre le frequenti mutazioni
climatiche, con l’alternarsi di fasi calde
e fredde, l’avanzata e il ritiro delle coperture glaciali, le variazioni del livello
marino e quindi anche i cambiamenti
del paesaggio vegetazionale sono tutti fattori che hanno indotto l’antica
umanità a frequenti spostamenti, a vere e proprie migrazioni motivate dalla
continua ricerca di cibo, di spazio e di
migliori condizioni ambientali. Si tratta, ovviamente, di migrazioni avvenute,
già nel Paleolitico inferiore, con estrema
lentezza e con modeste evoluzioni tecnologiche.
Durante il Paleolitico medio e superiore le aree di popolamento si fanno comunque più estese, allargandosi
anche ai limiti delle zone glacializzate.
Le correnti migratorie dalle pianure
sarmatiche e dagli altopiani iranici si
dirigono verso l’Asia orientale e dalla
Cina verso la Siberia, mentre, grazie anche all’abbassamento del livello marino
che provoca la formazione di “ponti
continentali”, il popolamento si estende dall’Asia alle Americhe attraverso il
temporaneo istmo di Bering, ma anche
attraverso lo stesso oceano Pacifico, i
cui arcipelaghi continuarono a popolarsi già durante i primi secoli dell’era
volgare. A tale riguardo è ben nota la teoria del norvegese Thor Heyerdahl che
sperimentò personalmente (1947) la
possibilità di un collegamento via mare
tra le coste peruviane e gli arcipelaghi
polinesiani.
L’elevata mobilità (testimoniata da
spostamenti anche su distanze considerevoli attraverso interi continenti) e
l’adattamento ambientale (non di rado
trasformatosi in vero e proprio isolamento) che hanno caratterizzato gli antichi
gruppi umani, costituiscono altrettanti
fattori alla base delle attuali differenze
razziali, riscontrabili peraltro anche nei
ritrovamenti preistorici. Ad esempio, i
resti umani rinvenuti a Chancelade in
Francia (Périgueux) rivelano tratti tipicamente eschimesi, mentre quelli degli
individui sepolti nella grotta di Grimaldi ai Balzi Rossi (Liguria) evidenziano
fattezze di tipo negroide.
Dopo l’esaurirsi dell’ultima grande
glaciazione, circa 12 mila anni fa, piuttosto frequenti sono state le alternanze
di fasi climatiche calde e fredde che si
sono succedute fino ai nostri giorni, con
più o meno lievi conseguenti avanzate
o arretramenti delle fronti glaciali e relative variazioni del livello marino. Si è
trattato, tuttavia, di variazioni che non
hanno impedito il proseguimento delle
vicende evolutive delle società umane e
quindi del graduale e inarrestabile processo di popolamento delle terre emerse.
Tali variazioni hanno però indubbiamente influenzato la vita e le attività
delle singole comunità umane inducendole, spesso, a ricorrenti migrazioni
verso regioni meglio fornite di risorse.
Anzi, si può dire che la storia delle antiche comunità umane nel Vecchio Mondo euro-afro-asiatico, specialmente nel
corso della durata dei tempi neolitici e
in maggior misura nella successiva età
dei metalli, sia contrassegnata da ripetute ondate migratorie che, dai margini di quello definibile come l’epicentro
dell’ecumene (quella ampia fascia latitudinale, dominata da condizioni di tipo
temperato-caldo e subtropicale e che si
stendeva dalle coste orientali del Mediterraneo fino alle pianure mesopotamiche), si spingevano verso le fertili e
ricche regioni dell’Anatolia, della stessa
Mesopotamia, degli arcipelaghi egei, del
delta e del basso corso del Nilo.
Nei loro spostamenti, questi ricorrenti flussi migratori, oltre a scontrarsi
con la presenza delle ancor giovani entità geopolitiche che, già nel IV millennio
avanti l’era volgare, animavano il panorama delle pianure mesopotamiche e degli arcipelaghi del Mediterraneo orientale, si trovarono ad affrontare frequenti
ostacoli costituiti anche da elevati rilievi
montuosi messi in posto dalle vicende
geologiche e tettoniche che, nel corso
di centinaia di milioni di anni, avevano
modellato l’involucro roccioso che dava
forma alle terre emerse.
Il superamento di questi ostacoli era reso possibile dalla presenza di
più o meno profonde incisioni che interrompevano la continuità dei crinali
montuosi, vere e proprie “porte”, spesso
ben controllate per assicurare la difesa di
contigui territori e popolazioni. Non di
rado, nel corso della storia umana, questi valichi videro il passaggio di eserciti,
di carovane di mercanti, di moltitudini umane in fuga da carestie e siccità,
nonché alla ricerca di nuove terre da
colonizzare.
Tra queste grandi migrazioni che
spesso sconvolsero gli assetti geopolitici
del Mediterraneo orientale e del Vicino
Oriente asiatico è sufficiente ricordare
quelle dei Sumeri, già nel III millennio
avanti l’era cristiana, provenienti dalla regione del Caspio e diretti verso le
pianure del Tigri e dell’Eufrate dove
fonderanno le città-stato di Ur, Lagash,
Uruk, poi degli Hittiti, provenienti, alla
metà del II millennio, dagli altopiani
anatolici e diretti sempre verso le pianure mesopotamiche, e ancora quelle
dei cosiddetti, “popoli del mare”, che nel
XIII secolo avanti Cristo irrompono in
tutto il Mediterraneo orientale, travolgendo la civiltà micenea e l’impero hittita fino a rimanere sconfitti agli inizi del
secolo successivo dalla potenza militare
del faraone Ramsete III che ne blocca
definitivamente il tentativo di invadere
lo stesso Egitto. Ed è particolarmente
significativo che, proprio nell’alternarsi di vicende che vedono contrapposti
agricoltori sumeri ed assiri, pastori accadi ed ittiti, corsari dorici, cittadini egizi
e mercanti fenici, tecnologie, economie
e culture registrino poderosi sviluppi testimoniati dall’invenzione della scrittura e dell’alfabeto fonetico, dall’infittirsi
delle reti commerciali e dai progressi
delle tecniche metallurgiche.
Oggi, grazie allo sviluppo tecnologico, anche le più elevate catene montuose, come le Ande e l’Himalaya, possono
essere superabili grazie ad ardite strade
carrozzabili che si spingono fin oltre i
5000 metri di altitudine, mentre nella
vecchia Europa il superamento degli
ostacoli montuosi è assicurato da gallerie stradali e ferroviarie che si inoltrano
nel sottosuolo per decine di chilometri.
In particolare è negli ampi spazi
euro-asiatici che è possibile individuare
ancora oggi le tracce dei passaggi obbligati che hanno visto le peregrinazioni
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
172
migratorie, le spedizioni e le ritirate militari superare gli ostacoli posti dai rilievi
che separano le grandi unità geo-strutturali come il blocco indo-pakistano,
gli altopiani iranici e anatolici insieme
con gli allineamenti montuosi che dalla
penisola balcanica a quella iberica frastagliano il territorio europeo.
2. LE PORTE STORICHE
DEL CONTINENTE
ASIATICO
Vengono qui presi in considerazione i passaggi obbligati relativi al superamento dei rilievi montuosi costituiti
dall’altopiano anatolico, dalle catene e
dalle alte terre che separano il bassopiano mesopotamico dalle depressioni
iraniane e il bacino indo-gangetico da
quelle afgane, oltre alla catena del Caucaso e a quella che delimita a sud il Mar
Caspio. Sotto il profilo storico si tratta
di una vastissima area che conobbe la
conquista militare da parte dell’esercito
di Alessandro Magno nel corso del IV
secolo a.C.
KHAIBER PASS (1067 m) = al confine
tra Pakistan e Afghanistan, dalla valle
dell’Indo alla catena dell’Indukush, tra
Peshawar e Kabul; via percorsa dagli
Arii provenienti dal tavolato iranico fino
al Pangiab e alle pianure del Gange. Qui
passava l’antica via della seta e marciarono gli eserciti di Dario I e Alessandro
Magno. In tempi più recenti vi arrivò
anche una ferrovia inglese da Peshawar
fino al confine afgano.
BOLAN PASS (1707 m) = presso
Quetta, sui monti del Pakistan occidentale; nell’antichità importante “gateway”
verso l’India per invasori, mercanti e
tribù nomadi. Oggi il valico è percorso
da una ferrovia che collega Quetta con
Karachi e il confine afgano.
PORTE DI CILICIA (PORTÆ/
PYLÆ CILICIÆ) = oggi KÜLEK
BOĞAZI (1050 m) da Tarso e Adana
alla Cappadocia attraverso la catena del
Tauro. Fu una sorta di passaggio obbligato per scendere dall’altopiano anatolico fino alle rive del Mediterraneo per
poi dirigersi verso la costa siriana, proseguendo all’interno della quale occorre
risalire fin o alle Porte di Siria (Fig. 1).
Per questo passaggio e per le porte di
Siria transitò nel 401 a. C. la spedizione di Ciro il Giovane che si concluse a
Cunassa (Babilonia) con la sua morte.
Il ritorno venne guidato dallo storico
Senofonte che si concluse a Bisanzio e
quindi a Pergamo nel 399 a. C. (Fig. 2).
Figura 1. Tavola relativa alla battaglia di Isso (333 a. C.) tra Alessandro re di Macedonia e Dario III re di Persia, con l’indicazione del Pylae Ciliciae (a sinistra) e del Pylae Syriae (a destra). La linea rossa indica il percorso
dell’esercito di Alessandro. In corrispondenza della località di Isso il campo dei due eserciti. Da F. W. Putzgers,
Historischer Schul-Atlas, Velhagen und Klasing, Leipzig, 1914
PORTE DI SIRIA (PORTÆ/PYLÆ
SIRIÆ) = oggi PASSO DI BEYLAN
(700 m) che si snoda poi attraverso i
monti Nur e Amanus tra Antiochia
(Antakia) e Alessandretta (Iskenderun)
(Fig. 1).
VALICO DI BOLU (950 m) posto tra
le località di Düzce e Bolu, sull’agevole
margine occidentale dei Monti Pontici
(Turchia nordoccidentale), qui attraversato dalla moderna autostrada che collega Ankara ad Istanbul facilitando la
Figura 2. Itinerario della spedizione di Ciro il Giovane da Sardi a Babilonia e poi di ritorno a Bisanzio e Pergamo.
Da Senofonte, Anabasi, Rizzoli ed. , Milano 1964
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
173
risalita sull’altopiano anatolico. Da qui PORTA URALO-CASPICA = tra gli
passarono nell’antichità classica eserciti Urali meridionali e il mar Caspio, corripersiani, greci e romani.
sponde all’ampia depressione che scende
fin sotto il livello dei mari, tra il corso
PORTE
DELL’ASIA
(ZAGRI dell’Ural e dell’Emba. La stessa superficie
PORTÆ) oggi PAYE-TAQ (1660 m) = del Mar Caspio si trovava poco dopo la
sui Monti Zagros fra Teheran e Bagdad, metà del secolo scorso a -28 metri rispetal confine irano-iraqeno (presso la loca- to al livello medio dei mari e degli oceani.
lità di Firūzābād); Di qui passarono Accadi, Medi, Babilonesi, Assiri, e lo stesso PORTE CAUCASICHE (PILÆ
Dario. Vi passava anche la VIA REGIA CAUCASIÆ) = attraverso il Caucaso;
che portava da Susa (poco a nord del corrispondono al passo di Dar’jal (1798
Golfo Persico) sia a Persepoli (più a sud- m) nel bacino del fiume Terek, ad est del
est) che a Sardi (nell’Anatolia occidenta- M. Kazbek.
le) a breve distanza dalle coste egee.
PASSO DI NANKOU (580 m) = circa
PORTE PERSICHE (PYLÆ PER- 60 km a nord-ovest di Pechino in prosSICÆ) = attraverso i Monti Zagros, simità di un tratto ben conservato della
all’altezza di Ahwaz. Valico che assi- Grande Muraglia; via di penetrazione
curava il collegamento tra le coste del dalla Mongolia alla Cina.
Golfo Persico e le località interne della
Persia, incontrando anche il percorso 3. LE PORTE STORICHE
NEL CONTINENTE
della Via Regia.
EUROPEO
PORTE CASPICHE (PORTÆ CA- PORTA BURGUNDICA (BURSPIÆ) = attraverso la catena dell’Elburs, GUNDISCHE PFORTE) (quota 350
ad est di Teheran (1100 m); forse corri- m circa) = tra i Vosgi a nord e il Giura
sponde alla stretta di Sirdar o Garmsar. svizzero a sud in vicinanza (circa 30-35
Assicurava il collegamento tra l’altopia- km) di Belfort; è attraversata dal canale
che collega la Doubs al Reno (Fig. 4).
no iranico e il Mar Caspio.
PORTE ZUNGARICHE = sono costituite da due passaggi separati dalla
breve catena del Tarbagatay (3816 m) a
loro volta compresi tra la breve ma elevata catena montuosa dell’Alatau (4463
m) e il massiccio dell’Altai (4506) lungo il confine tra Cina (depressione della
Zungaria nella provincia autonoma del
Sinkiang) e Kazakistan, a breve distanza
il primo dal lago Ebi Nor (190 m, in
territorio cinese) ed il secondo ospitante
il corso superiore dell’Irtysh grande affluente dell’Ob nel bassopiano siberiano. Da qui passarono durante il medio
evo ripetute invasioni mongole e turche
verso quella che è stata definita la Soglia Kazaka (Kazakische Schwelle) ben
aperta verso la depressione aralo-caspica
e le contigue pianure dell’Europa orientale (Fig. 3).
Figura 3.Porte Zungariche. Da Diercke Welt Atlas,
Georges Westermann, Braunschweig, 1972, tav. 98-99
battaglia di San Quintino tra l’esercito
spagnolo guidato da Emanuele Filiberto
di Savoia e quello francese guidato dal
contestabile di Montmorency (Fig. 5).
Figura 5. Posizione della Soglia di Vermandois (Francia
settentrionale), da Atlas Géographique Bordas, Paris,
1991, tav. 29
PORTA D’AQUITANIA = espressione figurata che individua lo spazio tra la
regione francese delle Cevennes e i Pirenei. In effetti di tratta di una ampia depressione che separa i due rilievi facilitando i collegamenti tra le coste francesi
del Mediterraneo e il litorale atlantico.
Oggi corrisponde alla SOGLIA/SEUIL DE NAUROUZE (194 m) nota anSOGLIA/SEUIL DE LORRAINE = che come SEUIL DU LAURAGUAIS.
tra i Vosgi meridionali e il Plateau de
Langres (Fig. 4).
SOGLIA/SEUIL DU POITOU (162
m) tra le alture della Vandea e il Plateau
del Limousin, poco a sud di Poitiers.
PORTE DI FERRO (Portile de Fier,
Eisernestor) = tra Alpi Transilvaniche
(Carpazi meridionali) e Balcani, in corrispondenza di una stretta gola del Danubio (62-36 m) già scavalcata dal Ponte di Traiano progettato da Apollodoro
di Damasco tra il 103 e il 105 durante
la conquista romana della Dacia e di cui
restano le rovine insieme con un targa
marmorea a celebrazione delle imprese
dell’imperatore romano. Oggi vi passa il
confine tra Romania e Serbia.
Figura 4. Posizione della Porta Burgundica (di Borgogna) e della Soglia di Lorena. Da Atlas Géographique
Bordas, Paris, 1991, tav. 29
SOGLIA DI VERMANDOIS (SEUIL DE VERMANDOIS) = nella Piccardia (Francia settentrionale); ampia
depressione bagnata dal corso superiore
dell’Oise, tra le colline dell’Artois a nordovest e la Côte de l’Ile de France a sud.
Già contea con capoluogo S.t Quentin,
prende nome da Vermand, capitale della tribù gallica dei Veromandini. Dopo
la conquista romana quello di Augusta Veromanduorum. Nel 1557 vide la
PORTA ORIENTALĂ (540 m) = nei
Carpazi meridionali in Romania (Alpi
transilvaniche), a sud di Teregova e poco
a nord delle Porte di Ferro. Ebbe una
importante funzione nel corso di storiche invasioni dal vicino oriente verso
l’Europa centrale.
PORTA MÓRAVA (MÄHRISCHE
PFORTE/MORAVSKÁ BRÁNA) =
corridoio tra Sudeti a ovest e i Beschidi
(Carpazi) ad est, a circa 300 m slm, percorso dalla Beǐva che segna lo spartiacque tra i
corsi della Morava (Danubio) e dell’Oder,
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
174
Figura 6. Porta Westfalica con il rilievo (a sinistra) sovrastato dal monumento a Guglielmo I., da K. Baedeker, Northwest-Deutschland, 1911, pag. 106
ad est di Olomouc. Fin da epoche antiche
percorsa da una importante via commerciale; oggi vi passa la ferrovia Brno-Ostrava e l’autostrada europea (E462).
PORTA WESTFALICA = in corrispondenza della stretta del fiume Weser, nei pressi di Minden, al confine tra
i länder della Bassa Sassonia e della
Nordrhein-Westfalen. Si sviluppa lungo
il fiume Weser, tra le colline del Wiehen battimenti tra l’esercito russo e le forze
Gebirge e del Weser Gebirge, sovrastata austro-ungariche agli inizi del primo
dal monumento eretto per il Kaiser Gi- conflitto mondiale (1914-15).
glielmo I (1896) (Fig. 6).
4. PRINCIPALI VALICHI
PORTA MÁGIARA = attraverso i ALPINI E PIRENAICI IN
Carpazi Selvosi (Wald Karpaten), in EPOCA ROMANA
corrispondenza dell’Ushoker Pass (889 COLLE DEL MONGINEVRO
m), sull’attuale confine ucraino-polacco. (1850 m) = “MATRONA MONTES”,
In tempi recenti fu sede di aspri com- sulla strada che collegava Segusium (Su-
Figura 7. Tabula Peutingeriana, segmento III. Si noti lungo il simbolo della catena montuosa inclinato, dal basso a sinistra in alto a destra, le tre indicazioni relative alla
Alpe Cottia (Colle del Monginevro), alla Alpe Graia (passo del Piccolo San Bernardo) e al Summo Pennino (passo del Gran San Bernardo). La linea rossa indica le strade.
Su quella in basso, poco prima della fascia costiera la scritta in Alpe Maritima si riferisce al percorso della antica Via Julia Augusta proveniente da Vada Sabatia (l’attuale
Savona) che qui attraversa la località di Albentimillo (l’attuale Ventimiglia) proseguendo verso ovest e passando per Gemenello corrispondente all’attuale Cimiez (Nizza) e
superando il corso del fiume Var per poi passare per Antipolis (l’atttuale Antibes) e Foro Iulii. Ancora più avanti si collegherà, dopo Arles, alla antica Via Domizia.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
175
sa) a Brigantium (Briançon) all’interno
delle Alpi Cozie. “IN ALPE COTTIA”
è la denominazione riportata sulla Tabula Peutingeriana (segmento III); essa
fa riferimento al re locale, Cozio, alleato
dei Romani (Fig. 7).
COLLE DEL PICCOLO SAN BERNARDO (2188 m) = La Tabula Peutingeriana riporta la denominazione
“IN ALPE GRAIA”, sulla strada che
collegava Augusta Prætoria (Aosta) a
Darantasia (Moutiers) all’altezza del
limite tra le Alpi Graie e il Gruppo del
Monte Bianco (Fig. 7).
COLLE DEL GRAN SAN BERNARDO (2473 m) = “IN ALPE POENINA” o “IN SUMMO PENNINO”
(come indica la Tabula Peutingeriana),
sulla strada che collegava Augusta
Prætoria (Aosta) a Octodurus (Martigny) nella valle del Rodano, all’interno
delle Alpi Pennine (Fig. 7).
COL DE LA TRAVERSETTE (2947
m) = situato circa 2,5 km in linea d’aria a
nord-ovest da Pian del Re, alla sommità
della Valle del Po e le falde del Monviso.
Secondo alcune interpretazioni è da qui
che sarebbe passata la spedizione militare comandata da Annibale nel 218 a.
C. per raggiungere la pianura padana e
scontrarsi con le legioni romane.
PASSO DELLO SPLUGA (2118 m) =
“Cuneus Aureus”, sulla strada che collegava in epoca romana le località di Comum (Como) e Clavenna (Chiavenna)
a Curia (Coira) in corrispondenza del limite tra Alpi Lepontine e Alpi Rètiche.
PORT D’IBAŇETA (1057 m) = all’estremità occidentale dei Pirenei, sul versante meridionale, a breve distanza dal
Col de Roncevaux (Roncisvalle) che nel
778 fu sede dell’agguato all’esercito di
Carlo Magno.
COL DE LA PERXA (Col de la Perche) (1577 m) = situato tra la località
spagnola di Puigcerdà e quella francese
di Mont-Louis, ad est di Andorra; nel
1793 fu sede di una battaglia tra francesi e spagnoli all’epoca della Guerra del
Rossiglione (Fig. 8).
LE PERTHUS (279 m) = all’estremità
orientale dei Pirenei, nei pressi del Fort
de Bellegarde (XVII sec.), sull’antica Via
Domitia (II sec. a. C.). A breve distanza,
circa 1 km a sud-ovest, è situato l’antico
valico del COLLE DI PANISSARS
(325 m), oggi importante sito archeo-
specifico paragrafo (Le “porte” storiche)
all’interno del capitolo su “Le migrazioni umane” nel volume “Geografia della
popolazione” pubblicato nel 1975 e più
volte ristampato ed aggiornato.
RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI
Figura 8. La Via Domizia, proveniente da Augusta
Taurinorum (Torino), con il Col de Perthus alla estremità orientale dei Pirenei (a destra) e il Col de la Perche (a sinistra). Da Atlas Géographique Bordas, Paris,
1991, tav. 42.
logico con i resti di un monastero benedettino e dell’antico Trofeo di Pompeo
(71 a.C.) eretto in corrispondenza del
valico sulla Via Domizia (noto come
SUMMUM PYRENAEUM) per celebrare la vittoria del generale romano
sul governatore della Spagna Citeriore
ribellatosi a Roma. Poco più a valle, sul
versante meridionale pirenaico la Via
Domizia si collegava alla Via Augusta
che conduceva a Cadice sulla costa atlantica (Fig. 8). È interessante notare
che sulla prima sezione della Tabula
Peutingeriana nel tratto che rappresenta il territorio iberico figura una catena montuosa con due distinte località
denominate “summo pireneo”, con sicuro
riferimento a due distinti itinerari stradali riferibili agli attuali valichi del Port
d’Ibaňeta e del Col de la Perxa.
5. CONSIDERAZIONI
CONCLUSIVE
Il tema illustrato in questa presentazione non ha certamente la presunzione
di essere esaustivo. Ma nell’affrontarlo
ha dovuto essere necessariamente esaminato da molteplici punti di vista:
storico, geografico, archeologico, toponomastico, cartografico, linguistico, il
che ha indotto ad orientare la ricerca in
senso ovviamente interdisciplinare. Ne
è derivata la necessità di disporre di una
notevole entità di dati e di materiali per
cui è risultato più conveniente limitarsi a
considerare situazioni di particolare interesse. È il caso della determinazione di
quale sia stato il valico alpino effettivamente percorso da Annibale o la individuazione di tutte le località toccate da
Alessandro Magno nel corso delle sue
conquiste in Asia, come pure un preciso
ed esatto riconoscimento di tutta la toponomastica contenuta nella ben nota
Tabula Peutingeriana. Il che conferma
quanto possa essere affascinante questo
tipo di ricerca che in Italia, anni fa, fu
riproposto dal geografo Mario Ortolani (1909-1998) quando le dedicò uno
Aliprandi L. e G., Pomella M. (1974),
Le Alpi nella cartografia dei secoli passati,
1482-1865, Priuli & Verlucca, Ivrea.
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
SESSIONE IV
LE COMUNICAZIONI
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Action
Group),
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manner
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20 water
– ZIP
Code:
40068.
Lazzaro
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051
4992
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of
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the
implementation
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Contracts
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are
and
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Group),
www.skopia-anticipation.it
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TNCdF)
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Group),
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experiences
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governance.
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instrument
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C.F.
01121590374
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sciences,
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Code:
40068.
Santo
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AND WHAT
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providing
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Our
further
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They
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the
general
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They
have
contributed
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landslides,
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SalitaWE
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Molini,2
38123
- Italy sociology, insurance),
Who
we
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through
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Mediaset
channels
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participatory
governance
in the
contracts
diffusion
started
(as
a
button
up
initiative)
with
creation
ofGroup),
a
Table
of ofofarea,
Water
Action
promote
aapproach
bottom
up
innovative
approach
enhance
the
participatory
governance
in
the
www.skopia-anticipation.it
Fiume
together
to
Smart
Rivers
network
(EIP
Water
Action
Group),
contracts
diffusion
started
(as
aiswith
button
upweather
initiative)
with
aas
National
ofof)
Smart
Rivers
network
(EIP
Action
Group),
Fiume
TNCdF)
together
toto
the
Smart
Rivers
network
(EIP
Water
Action
P. issues
I.V.A. Table
00533641205
- R.E.A. BO n. 236650 - R.A.E.E. Italians
n. IT18080000010573
Opportunity
for
discussion,
centers
Mediterranean
on
a other
startup
company
-skopìa
Anticipation
Services®
S.r.l.
(www.skopia-anticipation.it)
to
eIP
realization
of Group),
(andTNCdF)
to Water
enhancement
the
objectives
of
the
provisions
on
public
participation
dfires,
water
etc.
enhancement
of)
the
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of
the
provisions
on
organizations
toareunderstand
mediumand
long-term
changes
and
to impleme
Through
a new
portal,
col.
Mario
Giuliacci
hascont
chop
opics
are pollution,
University
of
Chieti
–Promote
Pescara
MeteoGiuliacci srl is a start up company
operating
inCap.
weather
and
climate
service
sector.
Who
we
are
and
what
we
do
Themes
and
topics
of
interest
Who
we
and
what
we
do
directives
and
guidelines
in
order
to
implement
an
integrated
management
of
water,
land
Sociale
€
1.020.000
I.V
directives
and
guidelines
in
order
to
implement
an
integrated
management
of
water,
land
Studies
and
Anticipation.
concerning
weather
forecasting
tecniques
and
severe
weather-climatic
phenomena.
the
Bologna,
Portawith
di Piazza
San
Donato,
1,
ver
basin.
The
contract
an founded
example
of
how
to
contribute
to
ensuring
the
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
- dei
TNCdF)
2007,
thatcompany
basin.
The
riveraapproach
contract
isinnovative
an
example
of
how
toS.r.l.
contribute
to
ensuring
promote
bottom
upisinnovative
to
enhance
the
participatory
governance
inFiume
the
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
Contratti
di
-provided
TNCdF)
in 2007,
that provided
promote
bottom
up
approach
to
enhance
the
participatory
governance
inFiume
the
are
what
weriver
doinariver
Urbanistica
Informazioni
Planum
online
them
aon
serious
but
also
innovative
-skopìa
Anticipation
Services®
(www.skopia-anticipation.it)
isinaBoard
startup
ssionand
MeteoGiuliacci
develops
and
uses
mathematical
models
of the
atmosphere.
at
the
Department
of
Sociology
and
Social
Research
of
the
ofthe
Trento,
Italy.
he
1977,
inItalian
2020beautiful,
theCode
Company
employs
cipation
contained
the
Italian
National
Board
ofand
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
diimplemented
Fiume
-present.
WFD
and
bySKOPIA
the
Italian
Code
Environment.
Aton
intern
Italian
National
ofand
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
Fiume
-Funded
WFD
and
implemented
byinthe
the
theano
Who
we are and what
we do
Srl
creation/implementation
ofUniversity
international
meteorological
observation
networks,
especially
in the
transformations
from
the
mpacts
of
Salita
dei
Molini,2
38123
Trento
Italy
landscape
in
a
shared
and
subsidiary
manner.
Amongst
the
factors
that
might
have
Department
of
Earth
Sciences
and
Environmental
Geology
landscape
in
a
shared
and
subsidiary
manner.
Amongst
the
factors
that
might
have
THEMES
AND TOPICS
OF
INTEREST
mprovement
ofItalian
water
quality,
protection
against
flood
risks,
as
asisdevelopment
the
support
for
the
of and
river
contracts,
asnetwork
itisweather
became
possible
to
coordinate
improvement
of
water
quality,
protection
against
flood
risks,
as
well
as
the
implementation
river
basin.
river river
contract
iscrucial
an founded
example
of
how
to
contribute
to
ensuring
the
crucial
support
for
the
development
of
river
contracts,
as
it Water
became
possible
to
coordinate
basin.
The
river
contract
animplementation
example
of
how
toProvision
contribute
to
ensuring
the
The
Italian
National
Board
oftheRiver
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
diAction
The
Italian
National
Board
of
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
de
WHO
WE
ARE
AND Forum
WHAT
WE
DONational
Mediterranean
region.
of
forecast
for
World
related
events
in on
Our
recent
projects
had
aWater
focus
on susta
. River
CAEAt
is the
largest
player
in The
its Nazionale
tel.
+39
051
4992
fax
+39
051
4992
709
cision
el
at well
the
Department
of
Sociology
and
Social
Research
of
the
University
ofall
Trento,
Italy.
first
mission
to
develop
and
spread
futures
literacy,
based
theory
ofNational
nt.
international
level
Smart
Rivers
(EIP
Water
Action
Group),
www.skopia-anticipation.it
Board,
led
from
2015
the
EIP
Water
Group
(AG)
“Smart
Rive
The
founding
members
are
professors,
researchers,
trainers
and
consultants
with
industry,
market
leader
within
its
home
TNCdF)
and
Smart
Rivers
network
Water
Action
Group),
Board,
led
from
2015
the
EIP
G
THEMES
AND
TOPICS
OF
INTEREST
Meteogiuliacci
was
born
from theTNCdF)
experience
of Our
col.
Mario
Giuliacci,
a 711
nice
and
well-known
Contracts
(Tavolo
dei
Contratti
di programmes
an
National
Board
of
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
CAE
S.p.A. – www.cae.it
–
[email protected]
sity
ofWFD
Bologna.
contributed
to
an
improvement
in(EIP
the
public
participation
processes
in
Italy
there
are
the
“Action
contributed
to
an
inwith
the
public
participation
processes
there
are
the
“ country
Who
we
are
and
what
we
do
the
Florence
and
the
and
FD
through
the
voluntary
development
of
and
action
plans
efforts
and
compare
experiences
toterritories
build
aofrisks,
culture
of
aAssisi
participatory
collective
ofcommunities,
the
WFD
and
FDprotection
through
the
voluntary
development
of
programmes
action
plans
improvement
of
water
quality,
against
flood
risks,
as ASSOCIAZIONE
well
as
the
implementation
aFiume
national
association,
with
private
legal
personality,
which
represents
and
the
interests
ofin Italy
efforts
and
compare
experiences
to build
a culture
of ais governance.
participatory
collective
governance.
improvement
of water
quality,
against
flood
as
well
as
the
NAZIONALE
CONSORZI
GESTIONE
E
meteorologist
andprotection
climatologist
who
years
described
theand
weather
forecasts
toimplementation
millions
of ANBI
e-mail
[email protected]
and
what
we
do
Inimprovement
brief,
we
work
futures,
by
helping
individuals
and
organizations
toand
see(EIP
the
multiple
EIP
Water
smart
river
network
- TNCdF)
together
to
Smart
Rivers
network
(EIP
Water
Action
Group),
Who
we
are
and
what
we
do heterogeneous
de
resilience
of
mountain
Fiume
-the
TNCdF)
together
toprotects
the
Smart
Rivers
network
Water
A
k”,
yer
in
several
other
countries
the(EIP
“Smart
Rivers
Network”,
Opportunity
for
discussion,
with
other
weather
“cultural
resilience”
adaptive
cap
with
specific
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tothat
transform
river
basins
more
Smart
Rivers
contexts.
The
with
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toinand
transform
basins
inand
more
Sma
The
founding
members
arefor
professors,
researchers,
trainers
and
consultants
with
world.
Up
to
date,
most
relevant
international
Anticipation,
by
developing
“futures
exercises"
with
public
private
organizations
and
backgrounds
(philosophy
of
science,
mathematics,
environmental
sciences,
Smart
Rivers
network
Water
Action
Group),
TNCdF)
together
toinaround
the
Smart
Rivers
network
(EIP
Water
Action
Group),
The
Land
Reclamation
and
Irrigation
Consortia
cover
more
than
50%
of
thp
CAE
S.p.A.
–the
www.cae.it
–River
[email protected]
CAE
state-of-art
systems
dedicated
toinmulti-hazard
monitoring
in river
real
time
and
early
warning.
Italians
through
Mediaset
television
channels
and
theRegistro
weather
column
of E
Corriere
della
Sera.of
National
Table
River
Contracts
”,dothat
is
a supplies
bottom
upimprovement
to
experiment
143
consortia
offorms
land
reclamation,
irrigation
and
land
operating
our
country,
public
National
Table
oforRiver
Contracts
”,movement
is
a specific
bottom
upTrento
movement
to
experiment
Imprese
BO
eACQUE
C.F.
01121590374
Who
we
are
and
what
we
TUTELA
DEL
TERRITORIO
IRRIGUE
at
can
be
applied
an
effective
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to
the
water
management.
In
Italy
river
http://www.sii-ihs.it/
In
Italy,
National
Table
of
Contracts,
respond
to
the
need
for
introducing
new
that
can
be
applied
in
an
effective
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to
the
water
management.
In
Italy
river
of
the
WFD
and
FD
through
the
voluntary
development
of
programmes
and
action
plans
Salita
dei
Molini,2
38123
Italy
In
Italy,
National
Table
of
River
Contracts,
respond
to
the
need
for
introducing
new
forms
of
the
WFD
and
FD
through
the
voluntary
development
of
programmes
and
action
plans
concerning
weather
forecasting
tecniques
and seve
Via Colunga, 20Through
– ZIP Code:
40068.
San
di Savenahas
(BO)
– Italyto continue to inform Italians by providing
promote
a bottom
up
innovative
approach
to
enhance
the
participatory
governance
in the
promote
a
bottom
up
innovative
approach
tohectares.
enhance
the
participatory
and
futures,
the
associated
risks
and
opportunities,
and
prepare
the
most
rtia,
that
change,
communication,
and
ds
a new
portal,
col.Lazzaro
Mario Giuliacci
chosen
ontexts.
The
AG
intends
-skopìa
Anticipation
Services®
S.r.l.
(www.skopia-anticipation
topossible
contribute
to
the
diffusion
oftoof
participative
governance
in
the
management
en
deployed
in
Serbia,
Kyrgyzstan,
country
for
abetween
total
almost
17
million
to
contribute
to
the
diffusion
ofto
participative
governanc
economic
self-government
bodies,
strong
expression
ofmost
subsidiarity,
which
guarantee
the
hydrogeological,
anticipation
of
flood
risks
for
and gov
by
Maldives.
fimate
the
approach
toVietnam,
enhance
the
participatory
governance
inthem
the
heterogeneous
backgrounds
(philosophy
of science,
mathematics,
environmental
sciences,
providing
training
inservice.
activities.
Our
further
mission
in training
and
consultancy
isnegotiated
to
help
a
bottom
up
innovative
approach
to
enhance
the
participatory
governance
in
the
er
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
National
Board
of
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
sociology,
insurance),
with
common
increation
application
and
developments
in
Futures
promote
river
contract
as
a voluntary
instrument
(soft
law)
institutions
-skopìa
Anticipation
Services®
S.r.l.
(www.skopia-anticipation.it)
is
ainterests
startup
company
promote
river
contract
a voluntary
instrument
(soft
law)
negotiated
between
Weas
develop
the
innovative
solutions
support
decision
makers during
extreme
weather
related
creation/implementation
of institutions
international
meteorolo
with
a
serious
but
also
beautiful,
innovative
and
easy
to
use
forecasting
ontracts
diffusion
started
(as
a
button
up
initiative)
with
the
creation
of
a
National
Table
of
Membro
dell’European
Union
of
Water
Management
Associations
eare
di
Irrigants
d’Europe
of
governance
as
well
as
forms
of
voluntary
cooperation
that
requested
by
EU
contracts
diffusion
started
(as
a
button
up
initiative)
with
the
of
a
National
Table
of
that
can
be
applied
in
an
effective
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to
the
water
management.
In
Italy
river
of
governance
as
well
as
forms
of
voluntary
cooperation
that
are
requested
by
EU
that
can
be
applied
in
an
effective
manner
to
the
water
management.
In
Italy
river
d
Geol
river
basin.
The of
river
contract
isthefor
anconstruction,
example
of
how
to
contribute
to
ensuring
the
on
Via Colunga, 20 – ZIP Code: 40068.
San
Lazzaro
diand
Savena
(BO)
–Who
Italydo
river
basin.
The
river
contract
ismaintenance
an
example
of
how
toofofResearch
contribute
to
Who
we
are
and
what
we
do
environmental
and
food safety
the
territory
through
operation
and
of region.
an
P. I.V.A.
00533641205
- R.E.A.
BO
n. 236650
- R.A.E.E.
n. IT18080000010573
Urbanistica
management
of
European
promising
conditions
the
desirable
scenarios.
hydrologic
basins,
through
the
activation
ofthrough
a
cooperative
network.
Italian
sred
emerge
hydrologic
basins,
the
activation
aThe
cooperati
munities,
local
development
Who
we
are
what
we
we
aredevelopments
and
what
we
do
founded
athot-waves,
the
Department
of
Sociology
and
Social
of th
Mediterranean
Provision
weather
forecas
atti
ditogether
Fiume
-network
isNazionale
an
example
of
contribute
toCap.
ensuring
the
The
Consortiums
carry
out
and
provide
forinthe
maintenance
and
operatio
o
dei
diagainst
Fiume
-network
THEMES
AND
OF INTEREST
n.
The
river
contract
is to
an
example
of
how
to
contribute
to inUniversity
ensuring
the
mart
Rivers
(EIP
Water
Action
Group),
CdF)
to
the
Smart
Rivers
(EIP
Water
Action
Group),
depopulation
remote
areas
and
anticipa
SKOPIA
Srl
insurance),
with
common
interests
increation
and
in
Futures
Sociale
€sociology,
1.020.000
I.V
the
general
public.
They
have
contributed
in land
Italy
to
the
realization
of
(and
to
organizations
understand
mediumand
long-term
changes
and
to
implement
and
the
general
public.
They
have
contributed
in
Italy
to
the
realization
of
(and
to
Studies
and
Anticipation.
events:
floods,
flash-floods,
landslides,
storms,
wildfires,
water
pollution,
etc.
founded
atContratti
the how
Department
ofdei
Sociology
and
Research
ofTOPICS
the
of
Trento,
Italy.
ver
Contracts
(Tavolo
Nazionale
Contratti
diSocial
Fiume
-and
TNCdF)
2007,
that
directives
guidelines
in
order
to
an
integrated
management
ofimprovement
water,
land
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
dicreation
Fiume
-provided
TNCdF)
inthe
2007,
that
provided
contracts
diffusion
started
(as
adei
button
up
initiative)
with
the
of
aimplement
National
Table
oftoand
hydraulic
defense
and
regulation
works.
directives
and
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inapplication
order
toaimplement
an
integrated
management
ofquality,
water,
contracts
diffusion
started
(as
adei
button
up
initiative)
with
of
National
Table
of water
protection
against
risks,
as
well
as
implementation
the
territories
ofinthe
Florence
and
Assisi
improvement
ofpatrimony
water
quality,
protection
against
flood
risks,
as
well
as the
the
in
Nazionale
Contratti
di Fiume
.tom
The
Italian
approach
inTuscany,
Tavolo
Nazionale
Contratti
di Fiume EIP Water smart river network EIP Water smart river network
Each
system
consists
of
sensors,
stati
2016
has
been
applied
in flood
Moldova
by
the
project
supported
of
plants,
canals
and
other
infrastructures
for
soil the
protection
(ab
2016
has
been
applied
by
SMARI
sucial
headquarter
in
close
to
city
of
Pisa.
mense
einforcing
.skopia-anticipation.it
otection
against
flood
risks,
astoTavolo
well
as
the
implementation
anagement
(ARM).
All
these
topics
are
n
Group),
ent
ofup
quality,
protection
against
flood
risks,
as
well
as
the
implementation
oach
towater
enhance
the
participatory
governance
in the
The
founding
members
are SMARIGO
professors,
researchers,
traine
innovative
approach
enhance
the
participatory
governance
in with
the
Urbanistica
Informazioni
Planum
online
enhancement
of)
the
objectives
offactors
the
provisions
on
public
participation
contained
[email protected]
the
Cap.
Sociale
€a
1.020.000
I.V
enhancement
of)
the
objectives
of the
provisions
on
public
contained
in monitoring
the
related
to
a Moldova
variety
of
water
issues
a
-skopìa
Anticipation
Services®
S.r.l.
(www.skopia-anticipation.it)
iscontracts,
a -and
startup
company
Studies
and
Anticipation.
transformations
from
the
present.
CAE
S.p.A.
–Contratti
www.cae.it
–participation
Opportunity
for
discussion,
other
weather
centers
ofTNCdF)
Mediterranean
area,
on
issues
support
for
the
development
of
river
contracts,
as
it
became
possible
to
coordinate
The
Italian
National
Board
of
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
and
landscape
in
shared
and
subsidiary
manner.
Amongst
the
factors
that
might
have
crucial
support
for
the
development
of
river
as
it
became
possible
to
coordinate
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
Fiume
TNCdF)
in
2007,
that
provided
Themes
and
topics
of
interest
The
founding
members
are
professors,
researchers,
trainers
consultants
with
The
Italian
National
Board
of
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
di
and
landscape
in
a
shared
and
subsidiary
manner.
Amongst
the
that
might
have
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
Fiume
in
2007,
that
provided
of
the
WFD
and
FD
through
the
voluntary
development
of
programmes
and
action
plans
of
the
WFD
and
FD
through
the
voluntary
development
of
programmes
a
kilometers
of
drainage
and
irrigation
canals,
about
800
water
systems,
22
th
University
of
Chieti
–
Pescara
tel.
+39
051
4992
711
fax
+39
051
4992
709
CAEby
S.p.A.
– www.cae.it
–
[email protected] Our first mission
Porta
di Piazza San Donato,
1, Commission
Who
weCEI
are and
what weand
docentral
eU
natural
phenomena,
related
transmission
is toto
develop
and
spread
futures
literacy, based
on the
theory
of we are andBologna,
usand
ct
supported
the
EU
Commission
CEI
Programme.
In backgrounds
2015
experience
the
river
contract
Programme.
Inofof
2015
thelevel
experience
network
units,
where
users
concerning
weather
forecasting
tecniques
and
severe
phenomena.
Promote
the
WHO
WE
ARE
AND
WHAT
WE DOweather-climatic
voluntary
development
of
programmes
and
action
plans
FD
and
FD
through
the
voluntary
development
ofResearch
programmes
and
action
plans
an
example
of
how
to
contribute
to
ensuring
Who
what
we
do
The
river
contract
is
an
example
of
to of
contribute
the
cognizing
Funded
in
1977,
inItalian
theheterogeneous
Company
employs
over
105the
people.
CAEAt
is the
largest
Italian
player
in
its can monp
dependent
on
the
local
impacts
ofdevelopment
WFD
and
implemented
by
the
Italian
Code
on
the
Environment.
Aton
international
level
(philosophy
science,
mathemati
WFD
and
by
the
Code
the
Environment.
international
ral
installations
to
which
it
provides
assistance
megatrends.
founded
at
the
Department
of
Sociology
and
Social
of
University
Trento,
Italy.
forts
and
compare
experiences
to
build
ahow
culture
ofthe
aOur
participatory
collective
governance.
Fiume
-an
TNCdF)
together
to which
Smart
Rivers
network
(EIP
Water
Action
Group),
tothe
an
improvement
in
the
public
participation
processes
inthe
Italy
there
are
the
“implemented
The
Società
Idrologica
Italiana
(SII),
the
Italianmanagemen
Hydrological
So
efforts
and
compare
experiences
to
build
aensuring
culture
offax
a
participatory
collective
governance.
crucial
support
for
the
river
contracts,
as
itisaofcontributed
became
possible
to
coordinate
ASSOCIAZIONE
CONSORZI
GESTIONE
Emeteorological
Fiume
-the
TNCdF)
together
to
the
Smart
Rivers
network
(EIP
Water
Action
Group),
to
in
the
public
participation
processes
Italy
there
are
the
“2020
crucial
support
for
the
development
of
river
contracts,
as
it became
possible
to
coordinate
etc.)
and irrigation,
the
value
of
theIn
competitiveness
of produc
Department
of
Earth
Sciences
and
Environmental
Geology
of
the
University
ofland,
Bologna.
creation/implementation
international
observation
networks,
especially
in
heterogeneous
backgrounds
(philosophy
ofcontributed
science,
mathematics,
environmental
sciences,
ways,
that
can
be
applied
inthat
an
effective
manner
to
the
water
management.
Italy
river
dei
Molini,2
38123
Trento
-NAZIONALE
Italy
can
be
applied
an
effective
manner
to
the
water
ANBI
is711
national
association,
with
private
legal
personality,
represents
and
protects
the
interests
ofin
tel.
+39
051
4992
+39
051
4992
709
by
first
mission
to
develop
and
spread
futures
literacy,
based
on
the
theory
of
ver
contract
promoted
by
process
data
toSalita
better
support
any
decision
Inimprovement
brief,
we
work
with
futures,
by
helping
individuals
and
organizations
to
see
multiple
Viain
Colunga,
20
– ZIP
Code:
40068.
San
Lazzaro
diWater
Savena
(BO)
–communitie
Italy–
TNCdF,
it the
is
included
in
the
WWAP
UNESCO
–
World
Report
asWor
Euo
TNCdF,
itincreasing
isand
included
in
the
WWAP
UNESCO
Anticipation,
by
developing
“futures
exercises"
with
public
or
private
organizations
and
making
process.
ctive
manner
to
the
water
management.
In
Italy
river
Our
recent
projects
had
a
focus
on
sustainability
and
resilience
of
mountain
be
applied
in
an
effective
manner
to
the
water
management.
In
Italy
river
ion
against
flood
risks,
as
well
as
the
implementation
of
water
quality,
protection
against
flood
risks,
as
well
as
the
implementation
to
promote
the
advancement,
valorization
and
dissemination
https://www.meteogiuliacci.it/
National
Board,
led
from
2015
the
EIP
Water
Action
Group
(AG)
“Smart
Rivers
Network”,
Mediterranean
region.
Provision
of
weather
forecast
for
all
World
Water
Forum
related
events
in
industry,
market
leader
within
its
home
country
a
major
player
in
several
other
countries
around
the
National
Board,
led
from
2015
the
EIP
Water
Action
Group
(AG)
“Smart
Rivers
Network”,
Registro
Imprese
BO
e
C.F.
01121590374
Via
Colunga,
20
–
ZIP
Code:
40068.
San
Lazzaro
di
Savena
(BO)
–
Italy
upcoming
THEMES
AND
TOPICS
OF
INTEREST
Italian
National
Board
of
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
Fiume
TUTELA
DEL
TERRITORIO
E
ACQUE
IRRIGUE
Italian
Board
ofTable
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
Fiume
-real
enterprises
and,
last
butcommon
not
least,
employment.
insurance),
with
interests
increation
application
med
in
September
2009,
SKOPIA
Srl
Italy,
National
Table
ofcompare
River
Contracts,
respond
to
needNational
for
introducing
new
me
of
CAE
state-of-art
systems
to
monitoring
into
time
and
early
warning.
promote
aof
bottom
up
innovative
approach
toexperiment
enhance
the
participatory
governance
inagricultural
the
National
Table
of
River
Contracts
”,forms
that
isirrigation
aE supplies
bottom
upimprovement
movement
to
and
In
Italy,
National
Table
ofcompare
River
Contracts,
toofCONSORZI
the
need
for
introducing
new
efforts
andbest
experiences
to
build
athe
culture
of
arespond
participatory
collective
governance.
143
consortia
land
reclamation,
and
land
operating
inmulti-hazard
our
country,
public
promote
a
bottom
up
innovative
approach
enhance
the
participatory
governance
in
the
National
of
Contracts
”,forms
that
isdedicated
a-skopìa
bottom
up
movement
to
experiment
efforts
and
experiences
toand
build
a
culture
aRiver
participatory
collective
governance.
The
founding
members
are
professors,
researchers,
trainers
and
consultants
with
ASSOCIAZIONE
NAZIONALE
GESTIONE
contracts
diffusion
started
(as
a and
button
upsociology,
initiative)
with
the
creation
of
aare
National
ofin the
Anticipation
Services®
S.r.l.
(www.skopia-anticipation.it)
a ofstartup
company
contracts
diffusion
started
(as
ais button
up
initiative)
with
theTable
of hydro
aan
N
sociology,
insurance),
with
common
interests
in
application
developments
in
Futures
CAE
S.p.A.
– www.cae.it
–
[email protected]
st
objective
bringing
together
three
important
actors
the territories
ofand
Florence
Assisi “futures
Report
as
European
practices.
Megatrends
trends,
patterns
of
chan
e-mail
[email protected]
Anticipation,
by
developing
exercises"
with
public
orassociated
private
organizations
and
work
and
possible
futures,
the
risks
and
opportunities,
and“cultural
prepare
the
most
utton
up
initiative)
with
the
creation
of
aproviding
National
Table
of
training
in
activities.
Our
further
mission
in
training
and
consultancy
is to
help
with
the main
diffusion
started
(as
aofbutton
up
initiative)
with
the
creation
of
a
National
Table
of
untary
development
of
programmes
and
action
plans
nd
FDfor
through
the
voluntary
development
of
programmes
and
action
plans
resilience”
and
adaptive
capacity
to
climate
change,
communication,
an
with
specific
goal
tototransform
river
basins
in
more
Smart
Rivers
contexts.
The
AG
intends
with
specific
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toto
transform
basins
inpractices.
more
Smart
Rivers
contexts.
The
AG
intends
economic
self-government
bodies,
expression
of
subsidiarity,
guarantee
the
hydrogeological,
world.
Up
to river
date,
most
relevant
international
projects
have
been
deployed
in
Vietnam,
Serbia,
Kyrgyzstan,
TNCdF)
and
Smart
Rivers
network
Water
Action
Group),
www.skopia-anticipation.it
Registro
Imprese
BOas
erequested
C.F.
01121590374
TNCdF)
and
Rivers
network
(EIP
Water
Action
Group),
TUTELA
DEL
TERRITORIO
Epromote
ACQUE
IRRIGUE
tSciences
just
Cap.
Sociale
€the
1.020.000
I.V
Membro
dell’European
Union
of promote
Water
Management
Associations
e(EIP
diSmart
Irrigants
d’Europe
The
Land
Reclamation
and
Irrigation
Consortia
cover
more
than
of
land
area
ofCouncil,.
the
governance
as
well
as
forms
of
voluntary
cooperation
that
are
by
EU
river
basin.
The
river
contract
is which
an
example
of
how
to
contribute
toweather
ensuring
the
river
contract
a
voluntary
instrument
(soft
law)
negotiated
between
institutions
governance
as
well
as
forms
of
voluntary
cooperation
that
are
requested
by
EU
In
Italy,
National
Table
of
River
Contracts,
respond
to
the
need
for
introducing
new
forms
The
Association
articulated
on
the
territory
through
ANBI
Regionali,
ca
Studies
and
Anticipation.
river
basin.
The
river
contract
ismakers
an
example
of
how
to
contribute
to then,
ensuring
the
river
contract
as
a
voluntary
instrument
(soft
law)
negotiated
between
institutions
National
Institutional
Authorities
(Territoria
We
develop
the
most
innovative
solutions
support
decision
during
extreme
related
In
Italy,
National
Table
of
River
respond
tostrong
the
need
for
introducing
new
forms
WHO
WE
ARE
AND
WHAT
WE
DO
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
Fiume
-Research
TNCdF)
in
2007,
that
heterogeneous
backgrounds
(philosophy
of
science,
mathematics,
environmental
sciences,
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di.),approach
Fiume
-provided
TNCdF)
in
2007
he
Academy
(University,
P.
I.V.A.
00533641205
R.E.A.
BO
n.Contracts,
236650
- R.A.E.E.
n.
IT18080000010573
founded
at
the
Department
of
Sociology
and
Social
Research
of50%
the
University
of
Trento,
Cap.
Sociale
€ 1.020.000
I.V
http://www.sii-ihs.it/
fined
variable,
with
great
inertia,
that
EIP
Water
smart
river
network
The unique
consists
of providing
turnazionale
dei
Contratti
di
Fiume
EIP
Water
smart-in
river
network
Studies
and
Anticipation.
provider
of
and
Waste
Water
Treatment
environmental
and and
food
safety
of
the mission
territory
through
the
construction,
operation
and
maintenance
ofto 17
promise
toItaly.
continue
in
the
coming
decade
emanner
dei
Contratti
diWater
Fiume
-management.
TNCdF)
in
2007,
that
provided
ntracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
Fiume
TNCdF)
2007,
that
provided
to
the
water
In
Italy
river
providing
training
in
activities.
Our
further
in
training
and
consultancy
is
to
help
promising
conditions
for
the
desirable
scenarios.
applied
in
an
effective
manner
to
the
water
management.
In
Italy
river
organizations
to
understand
mediumlong-term
changes
and
to
implement
Protection,
...)
and
private
operators
(Engineering
Companies,
to
contribute
to
the
diffusion
of
participative
governance
in
the
management
of
European
country
for
a
total
of
almost
million
hectares.
to
contribute
the
diffusion
of
participative
governance
in
the
management
of
European
Via
Colunga,
20
–
ZIP
Code:
40068.
San
Lazzaro
di
Savena
(BO)
–
Italy
representation
of
the
interests
of
the
reclamation
and
the
Consortia
in
the
anticipation
of
flood
risks
for
and
by
local
communities,
local
development
again
Maldives.
Themes
and
topics
of
interest
ns
of
rectives
and
guidelines
in
order
to
implement
an
integrated
management
of
water,
land
s,
District
Authority,
Civil
Themes
and
topics
of
interest
Membroand
dell’European
Union
of
Water
Management
Associations
eare
di Irrigants
d’Europe
improvement
ofevents:
water
quality,
protection
against
flood
risks,
well
as the
thewell
general
public.
They
have
contributed
in
Italy
the
ofstorms,
(and
toas
directives
andofdi
guidelines
inapplication
order
to
implement
an
integrated
management
of
water,
land
ofinsurance),
governance
as
well
as
forms
of
voluntary
cooperation
that
requested
by
EU
improvement
ofrealization
water
quality,
protection
against
flood
risks,
well
as
the
and
the
general
public.
They
haveto
contributed
in
Italy
to
the
realization
of implementation
(and
toas
PUBLIC
ANDimplementation
PRIVATE
AUTHORITIES
TO BE INVOLVED
governance
as
as
forms
of
voluntary
cooperation
that
are
requested
by
EU
floods,
flash-floods,
landslides,
hot-waves,
wildfires,
water
pollution,
etc.
ei
Contratti
di
crucial
support
for
the
development
of
river
contracts,
as
it
became
possible
to
coordinate
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
crucial
support
for
the
development
of
river
contracts,
as
it
became
possibl
nd
extend
the
guarantee,
usually
offered
on
hydraulic
defense
and
regulation
works.
Who
we
are
and
what
we
do
sociology,
with
common
interests
in
and
developments
in
Futures
P.
I.V.A.
00533641205
R.E.A.
BO
n.
236650
R.A.E.E.
n.
IT18080000010573
individual
and
institutional
members
from
academia
and
governm
products,
to
the
overall
effectiveness
of
the
inf
The
founding
members
are
professors,
researchers,
trainers
and
consultants
with
Salita
dei
Molini,2
38123
Trento
Italy
tel.
+39
051
4992
711
fax
+39
051
4992
709
or
generations.
As
megatrends
emerge
Our
first
mission
isnetwork.
to
develop
and
spread
futures
literacy
ent
ofinitiative)
river
contracts,
ascreation
itisup
became
possible
to
coordinate
Enermove
S.r.l.
is
MeteoGiuliacci
srl a
is
a
start
up
company
operating
in to
weather
andofclimatemediumservice
sector.
for
development
of
river
contracts,
as
itimplement
became
possible
to
coordinate
npport
up
with
the
of
National
Table
of
...).
SII
with
its
over
250
sion
started
(as
aamission
button
with
the
creation
of athe
National
Table
their
and approach
operative
assuring
the
necessary
ontratti
dithe
Fiume
-051
as immense
a activity,
global
impacts
at in
theassistance
localan
CAE
S.p.A.
–the
www.cae.it
–out
[email protected]
hydrologic
basins,
through
activation
of
aprovide
cooperative
network.
Italian
in Theprocess,
SKOPIA
Srl
organizations
understand
and
long-term
changes
and
to Consortiums
implement
ors
of
hydrologic
basins,
through
the
activation
ofinstitutional
aThe
cooperative
Italian
approach
transformations
from
present.
tel.
+39
4992
711
fax
+39
051
4992
Urbanistica
Our
first
toinitiative)
develop
and
spread
futures
literacy,
based
on
of
carry
and
foraction
the
and
operation
of
an
nd
landscape
in
shared
and
subsidiary
manner.
Amongst
the
factors
that
might
have
depopulation
in
remote
areas
and
anticipatory
risk
(ARM).
All
these
topics
al
ofthe
the
WFD
and
FDand
through
the
voluntary
development
of
programmes
and
plans
enhancement
of)
the
objectives
oftheory
the
provisions
on
public
participation
contained
in
thecompare
and
landscape
a709
shared
and
subsidiary
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Amongst
the
factors
that
might
have
directives
guidelines
in
order
to
an
integrated
management
of
water,
land
of
the
WFD
FDThe
through
the
voluntary
development
of
programmes
and
plans
enhancement
of)
the
objectives
of the
provisions
on
public
participation
contained
in
the
directives
and
guidelines
in
order
to
implement
an
integrated
management
ofand
water,
land
theaction
Network
of management
National
Hydrological
Associations
(NHAs)
ction
Group),
efforts
and
experiences
tomaintenance
build
a culture
of
a Water
participatory
collective
governance.
network
Water
Action
Group),
efforts
and
compare
experiences
to
build
a
culture
ofPublic
a
participatory
collecti
ASSOCIAZIONE
NAZIONALE
CONSORZI
GESTIONE
EParticipation
Themes
topics
of
MeteoGiuliacci
develops
and
mathematical
models
of the
atmosphere.
is
a
founding
member
of
m:
post-sales
maintenance,
the
Cap.
Sociale
€with
1.020.000
I.V
Studies
and
Anticipation.
WHO
WE
ARE
AND
WHAT
WE
DO
Dialog
Water
Democracy,
Public
Participation
and
Water
Governance,
usage
of
remote
advanced
tools
and
the
training
economic
andof
juridical
sectors,
defining
the
operative
guidelines
and
the
ob
Dialog
on
Democracy,
an
University
Milan,
European
Weather
Center
of
Bologna,
Weather
Centers
Bologna,
di Piazza
San
Donato,
1,interest
n
company
its
headquarter
in
Tuscany,
close
to
city
of
Pisa.
and
toNational
build
a(EIP
culture
ofincluding
a-self-reinforcing
participatory
collective
governance.
heterogeneous
backgrounds
(philosophy
of
science,
mathematics,
environmental
sciences,
nical,
er
and
cause
negative
compare
experiences
to
build
athe
culture
ofuses
a-subsidiary
participatory
collective
governance.
ei
Contratti
di
Fiume
TNCdF)
in
2007,
that
provided
IAZIONE
NAZIONALE
CONSORZI
GESTIONE
E di
ts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
di
Fiume
TNCdF)
inshared
2007,
that
provided
Anticipation,
by
developing
“futures
exercises"
with
public
or
Each
system
consists
of
sensors,
monitoring
stations
measure
natural
phenomena,
related
transmission
2016
has
applied
in
Moldova
by
the
SMARIGO
project
supported
by
the
EU
patrimony
of
plants,
canals
and
other
infrastructures
for
soil the
protection
(about
thousand
Hydrological
Sciences
(IAHS).
An
elected
Committee
identif
2016
has
been
applied
inon
Moldova
by
SMARIGO
project
supported
by
the
EU
processes
(e.g.
drought>
water
withd
ver
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
Fiume
- are
ndpacts
Board
River
Contracts
(Tavolo
Nazionale
dei
Contratti
Fiume
- Porta
transformations
from
the
present.
Who
we
are
and
what
we
do
we
and
what
we
do
Enermove
is
active
in
I
SKOPIA
Srl
Funded
1977,
inItalian
2020
the
Company
employs
over
105
people.
CAE
is40068.
the
largest
Italian
in its(BO)
ontributed
an
improvement
in
public
participation
processes
in
Italy
there
are
the
“Amongst
that
can
be
applied
in
an
effective
manner
to
the
water
management.
In
Italy
river
WFD
and
implemented
bydi
the
Italian
Code
on
the
Environment.
Aton
international
contributed
to
an
improvement
in
the
public
participation
processes
in
Italy
there
are
the
“ been
and
landscape
in
a01121590374
shared
and
manner.
Amongst
the
factors
that
might
Registro
Imprese
BOEto
e200
C.F.
01121590374
national
Association
of of
that
can
be
applied
an
effective
manner
to
the
management.
In
Italy
river
WFD
and
implemented
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the
Code
the
Environment.
At
international
level
and
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and
subsidiary
manner.
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that
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organizations
and
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TERRITORIO
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issues
and
all
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services,
mounted
units,
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the
In
Italy,
National
Table
of
River
Contracts,
respond
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the
need
for
introducing
new
forms
ce
the
participatory
governance
in
the
ViainColunga,
20
–level
ZIP Code:
San
Lazzaro
di water
Savena
–Countries
Italy
In
Italy,
National
Table
of
River
Contracts,
respond
to
the
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ANBI
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national
association,
with
private
legal
personality,
which
represents
and
protects
the
interests
of
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Informazioni
Planum
online
providing
for
the
examination
and
study
of
the
legislative
measures
concerni
Department
of
Earth
Sciences
and
Environmental
Geology
of
the
University
of
Bologna.
In
brief,
we
work
with
futures,
by
helping
individuals
and
organizations
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the
multiple
(www.skopia-anticipation.it)
is
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startup
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Registro
Imprese
BO
e
C.F.
nspriorities
integrant
part
of
the
Company
value
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Governance,
toward
an
further
development
of
scientific
principles
and
their
application
TUTELA
DEL
TERRITORIO
E
ACQUE
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innovative
and
more
sustainable
management
of
the
river
and
lake
basin
innovative
and
more
sustainable
management
of
th
WHO
WE
ARE
AND
WHAT
WE
DO
proposal.
kilometers
of
drainage
and
irrigation
canals,
about
800
water
systems,
22
bridleways,
Contracts,
respond
to
the
need
for
introducing
new
forms
ational
Table
of
River
Contracts,
respond
to
the
need
for
introducing
new
forms
f
river
contracts,
as
it
became
possible
to
coordinate
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we
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and
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we
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for
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development
of
river
contracts,
as
it
became
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to
coordinate
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which
and
stimulates
sociology,
insurance),
with
common
interests
in2015
application
developments
in
Futures
Meteogiuliacci
was
born
from
experience
of
col.
Mario
aour
nice
and
well-known
ter
scarcity>
drought).
Recognizing
Commission
CEI
Programme.
In “Smart
2015
the
experience
of
the
river
contract
promoted
by
Commission
CEI
Programme.
Incommunities,
the
of
the
river
contract
promoted
network
and central
units,
where
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store
and
process
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support
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providing
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activities.
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further
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Water
Action
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with
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to
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provides
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Our
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projects
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focus
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sustainability
and
resilience
of
mountain
F)
and
Smart
Rivers
(EIP
Water
Action
Group),
tel.
+39
051
4992
711
fax
+39
051
4992
709
megatrends,
assessing
ormeeting
imagining
Molini,2
38123
Trento
-River
Italy
CAE
supplies
state-of-art
systems
dedicated
toin
multi-hazard
monitoring
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and
early
warning.
Our
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of
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of
Contracts
”,and
that
is
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to
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and
143
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ofactivities.
land
reclamation,
irrigation
and
land
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public
contracts
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(as
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National
Table
of
National
Board,
led
from
2015
the
EIP
Water
Action
Group
“Smart
Rivers
Network”,
National
Table
ofspread
River
Contracts
”,
that
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up
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to
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and
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the
public
participation
processes
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market
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its
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country
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in
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countries
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started
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up
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with
the
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National
Table
of
National
Board,
led
from
2015
EIP
Action
Group
Rivers
Network”,
to
an
improvement
in
the
public
participation
processes
indei
Italy
there
are
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“and
AND
TOPICS
OF
INTEREST
and
irrigation
activities
and
those
ofand
the
Consortia;
organizing
researches
and
practice.
organizes
the
3-days
annual
“Giornate
Membro
dell’European
Union
Water
Management
Associations
eare
di
Irrigants
d’Europe
ensuring
the
providing
training
in
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further
mission
in
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consultancy
is
to
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governance
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that
requested
by
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ensuring
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of
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cooperation
that
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megatrends.
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national
association,
with
private
legal
personality,
which
represents
and
protects
the
interests
of
The
Societàas
Idrologica
Italiana
(SII),
the
Italian
Hydrological
Society,
was
formed
in
September
2009,
ce
between
science
and
etc.)
irrigation,
thewell
value
ofgovernance
land,
the competitiveness
ofas
production,
the
income
of
Inyears
brief,
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with
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helping
individuals
and
organizations
see
the
multiple
The
Italian
National
Board
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River
Contracts
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Nazionale
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di
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and
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for
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services
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and
The
Italian
National
Board
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River
(Tavolo
dei
Contratti
di
possible
futures,
the
risks
and
opportunities,
and
to
prepare
the
most
and
Research
of
the
University
Trento,
Italy.
P. I.V.A.
00533641205
-Authorities
R.E.A.
BO n.
236650
R.A.E.E.
n. IT18080000010573
dell’European
Unionof
Water
Management
Associations
di
Irrigants
d’Europe
sbro
of
voluntary
that
are
requested
by
EU
nance
as
as
forms
of
voluntary
cooperation
that
are
requested
by
EU
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culture
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participatory
collective
governance.
experiences
to
build
culture
ofand
acommissioning
participatory
collective
governance.
NE
NAZIONALE
CONSORZI
Ewho
e-mail
[email protected]
TNCdF,
it istoNazionale
included
in
the
WWAP
UNESCO
World
Water
Report
as
European
self-government
strong
expression
of
subsidiarity,
which
guarantee
the
hydrogeological,
Cap. and
Sociale
€ 1.020.000
TNCdF,
itincreasing
isI.Vincluded
in –
the
WWAP
UNESCO
World
Water
Report
as - European
best
Institutional
and
Private
Operators
that
is
the key
poi
d-mpare
resilient
Studies
Anticipation.
making
process.
ts,
isaSocial
relevant
toof economic
anticipate
P.contract
I.V.A.
00533641205
-aR.E.A.
BO bodies,
n.GESTIONE
236650
- R.A.E.E.
n. IT18080000010573
organizations
to issues
understand
mediumand
long-term
cha
important
and–
topical
forbest
the
reclamation
and
irrigation
sector;
orga
omote
riverwell
as
a upcoming
voluntary
instrument
(soft
law)
negotiated
between
institutions
we do
CON IL SOSTEGNO DI
MINISTERO DEGLI ESTERI DIPARTIMENTO PROTEZIONE CIVILE
Autorità di Bacino Distrettuali dell’Italia
Who we are and w
Contatti: Endro Martini Presidente -
[email protected] - Filippo Maria Soccodato Coordinatore -
[email protected]
179
Anna Buccellato
Già SSABAP di Roma
E-mail:
[email protected]
La via alzaia del Tevere
dall’età romana al XVI
secolo
Alessandra Ghelli
Segretariato Regionale del MiBACT per
la Calabria - Servizio Tecnico
E-mail:
[email protected];
The Tiber towpath from Roman times to
the 16th Century
Parole chiave: geomorfologia, Tevere, archeologia, navigazione fluviale
Key words: geomorphology, Tiber, archaeology, river navigation
RIASSUNTO
Con questo contributo si forniscono
nuovi importanti dati di scavo sulla localizzazione della via alzaia del Tevere,
dall’età Romana fino al Rinascimento,
sulla sponda sinistra del Fiume. Fino ad
oggi infatti non era nota la posizione,
in età antica, della via che permetteva
il traino o l’alaggio delle barche che risalivano il corso del Tevere, mentre si
conosceva quella dal Rinascimento al
XIX secolo. Nella cartografia ottocentesca è presente una “via per il tiro delle
bufale” nel Catasto Gregoriano (1835)
ed è localizzata in riva destra del Tevere,
riva sulla quale si trovava anche il principale porto di Roma attivo dal diciassettesimo secolo fino alla costruzione dei
Muraglioni a fine ’800, il porto di Ripa
Grande, localizzato di fronte all’istituto
San Michele, in Trastevere. Sulla stessa
sponda era localizzato anche l’Arsenale
Pontificio, fatto costruire da papa Clemente XI e destinato alla manutenzione
delle navi commerciali papali.
Ma in età Romana i principali porti
commerciali sul Tevere si trovavano in
riva sinistra: a cominciare dal cosiddetto
Porto Imperiale di Ostia, per passare al
cosiddetto Molo repubblicano sempre
ad Ostia e quindi ai porti di Ficana e
del Vicus Alexandri, per quindi giungere ai porti rinvenuti a Testaccio, il primo
scavato da Padre Bruzza nel 1868 e il
secondo, scavato negli anni ’50 e successivamente negli anni ’80 e ’90 del secolo
scorso di fronte all’Emporio, quasi in
prossimità con il moderno Ponte Sublicio. Questi due porti, che dovevano
fare parte in realtà di un continuum di
attracchi sulla sponda sinistra del Tevere, erano di servizio per i numerosi
Horrea presenti nella piana alluvionale
di Testaccio. In età repubblicana invece,
il porto principale fluviale di Roma era
il Portus Tiberinus, localizzato, sempre in
riva sinistra, poco a sud dell‘Isola Tiberina e subito a nord rispetto allo sbocco
della Cloaca Massima.
La necessità di effettuare delle indagini di archeologia preventiva da parte
della SSABAP di Roma in corrispondenza delle aree di imposta dei piloni
del progettato Nuovo Ponte dei Congressi ha consentito al gruppo di lavoro,
diretto da Anna Buccellato in qualità di
Funzionario Archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle
Arti e Paesaggio di Roma, di mettere
in luce la presenza, pochi metri al disotto del piano campagna, nell’area tra
l’argine sinistro del Tevere ed il fiume,
un breve tratto di strada battuta in prossimità del corso d’acqua, che è risultata
Carlo Rosa
Sigea Lazio, Istituto Italiano di
Paleontologia Umana
E-mail:
[email protected]
ne commerciale sul Tevere, soprattutto
dal porto-canale di Fiumicino a Roma,
sorge la necessità, da parte dei pontefici, di regolamentare il trasporto fluviale,
mediante la creazione della Presidenza
delle Ripe, che andava a sostituire l’antico istituto dei Curatores riparum et alvei
Tiberis di età romana imperiale (Aristone e Palazzo, 2012). Nel XVII secolo
vengono costruiti, in riva destra del Tevere, il porto e la dogana di Ripa Grande
(Fig. 1 - 1690 circa) nel luogo dove fino
ad allora erano solite approdare molte
Figura 1. Veduta della Dogana Nuova sopra il Tevere a Ripa Grande, tratta da “Il Quarto libro del nuovo teatro
delli palazzi in prospettiva di Roma moderna dato in luce sotto il felice pontificato di Nostro Signore Papa Innocenzo
XII / disegnato et intagliato da Alessandro Specchi” (1699, Alessandro Specchi)
essere persistente almeno dall’età romana repubblicana sino al quindicesimosedicesimo secolo. La presenza di un
tratto di questa via permette quindi di
meglio definire quello che era il sistema
di comunicazione e trasporto fluviale in
risalita del Tevere, attraverso le piccole
navi tirate probabilmente da buoi, come
risulta dai numerosi elementi iconografici disponibili dal diciassettesimo secolo fino alla fine dell’800.
1. RIFERIMENTI STORICI
Verso la metà del XVI secolo, con la
ripresa di vigore ed importanza del porto di Civitavecchia e conseguentemente
con il rinnovato fiorire della navigazio-
delle imbarcazioni che trasportavano
merci provenienti da Civitavecchia tramite lo scalo di Fiumicino. In questo
scalo venivano trasferite le merci che poi
risalivano il Tevere su imbarcazioni adeguate; si trattava di derrate alimentari,
materie prime, materiali da costruzione
e generi di lusso provenienti dall’estero e
soggetti ad una tassazione doganale pesante. Un piccolo porto, in sinistra idrografica del Tevere, utilizzato sin dal XIV
secolo per lo scarico di legname, carbone
e vino provenienti di territori attraversati dal Tevere a nord di Roma fino ad
Orte, viene ingrandito e monumentalizzato, per volere di Papa Clemente XI, da
Alessandro Specchi in collaborazione
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
180
di Carlo Fontana, ed inaugurato come
Porto di Ripetta o Porto Clementino,
nel 1704 (Fig. 2). Ai primi del Settecento dunque il Tevere è navigabile per
120 miglia, dal “porto della legna dei
Padri di San Francesco”, presso Orte
fino alla foce di Fiumicino, con una zona urbana “non navigabile” dai battelli
commerciali tra Ripetta e Ripa Grande
a causa del locale scarso pescaggio per
la presenza di banchi di sabbia, scarichi
di macerie e rottami vari, ruderi, mulini
e attrezzature per la pesca (Aristone e
Palazzo, 2012). Nonostante la reiterata
esigenza di creare un collegamento tra
questi due scali, manifestata di continuo
in pubbliche lamentazioni, la forza preponderante di pratiche e comportamenti consolidati, connessi alle numerose
autorizzazioni per lo sfruttamento della
risorsa “acqua” all’interno del tessuto urbano, e dei più frequenti veri e propri atti
di abuso privato esistenti per l’utilizzo
del Tevere per funzioni varie, ne ha reso
impossibile la realizzazione (Aristone e
Palazzo, 2012).
2. LA NAVIGAZIONE SUL
FIUME
Ma come avveniva la navigazione
lungo il fiume? Mentre la navigazione in direzione di corrente era favorita
dallo scorrere delle acque e controllata
solo con l’uso del timone, la navigazione
in senso contrario richiedeva l’alaggio,
cioè come abbiamo visto sopra, il traino
dell’imbarcazione tramite più funi (zaganelle o pilorci) tirate da terra e fissate
all’albero centrale del battello da carico.
Il tiro delle imbarcazioni fluviali era eseguito da animali, per lo più bufali, oppure da esseri umani, i pilorciatori, in condizioni che possiamo solo immaginare
(Fig. 3). Nel 1805 una Notificazione di
Pio VII introduce il traino animale per
il percorso da Ripetta ad Orte in sostituzione di quello umano, “….come già si
pratica per consimile tiro …..da Fiumicino
fino al Porto di Ripa Grande...”, l’iniziativa che intende sottrarre i capitani delle
imbarcazioni “..all’arbitrio di contrattare
il tiro coi barcaroli dal recinto fuori porta
del Popolo fino al territorio di Orte”, viene
definita “utile non solo all’Umanità ma
anche al Commercio” (Aristone e Palazzo, 2012). A partire da 1806 è attivo un
servizio pubblico di tiro delle barche a
mezzo di bufale da Roma ad Orte sotto
la direzione dalla Presidenza delle Ripe
che deve anche assicurare, con lavori di
sistemazione e controllo dello stato del
fiume, la navigabilità, spesso difficoltosa e intermittente, che costituiva per
Roma, almeno sin dal XIV secolo, una
Figura 2. Porto di Ripetta (1754, Giuseppe Vasi - Delle magnificenze di Roma antica e moderna. Libro Quinto)
Figura 3. «I battellieri del Volga» di Ilia Répine (1870-1873 – Museo di San Pietroburgo)
Figura 4. Prati e Monti di Campo di Merlo e Tenuta di Torre Carbone, posizionate su immagine satellitare Google
Earth con ingrandimento della indicazione di Tiro di Barche o Tiro delle Bufale (1660 – Presidenza delle Strade
- Catasto Alessandrino, Archivio di Stato di Roma, Progetto Imago II, segnatura 433bis/4 e segnatura 433bis/14)
preziosa fonte di approvvigionamento
di legname e carbone (che costituivano
circa il 50% delle merci trasportate e che
viaggiavano separatamente dai generi
alimentari), vino (che costituiva il 40%
dei singoli carichi), olio, grano (Verdi,
1995). L’introduzione del traino animale nel 1805 non produce miglioramenti
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
del servizio come una sensibile riduzione prevista dei tempi di percorrenza nel
tratto Roma-Orte, ma anzi un aggravio
delle spese per i mercanti di legname, i
principali fruitori del servizio; le barche
in risalita, generalmente prive di carico, impiegano ancora più dei 5-6 giorni
previsti con il tiro delle bufale, contro i
181
12 giorni impiegati dagli uomini (Aristone e Palazzo, 2012).
Ma vediamo in dettaglio dove avveniva la navigazione in senso contrario
alla corrente del Tevere dal XVII al XIX
secolo. Esaminando le mappe acquerellate del Catasto Alessandrino, raccolte
dalla Presidenza delle Strade nel 16601661, in almeno due tra queste è visibile
una strada parallela alla riva del Tevere
con la scritta “Tiro delle Barche” o “Tiro
di Barche”. Si tratta della Tenuta di Tor
Carbone e dei Prati e Monti di Campo di Merlo (Fig. 4) nelle immagini è
possibile vedere come la via alzaia1 si
trovasse già allora sulla riva destra del
Fiume Tevere, riva destra che presentava
a Roma già un luogo di attracco, anche
se non ancora un vero e proprio porto,
Figura 6. Catasto Gregoriano, Sezione di Mappa XXIII, 1818, posizionamento su immagine satellitare Google
Earth ed ingrandimento di «Via del Tiro delle Barche» (1818 – Catasto Gregoriano, Mappe Agro Romano, Archivio
di Stato di Roma, Progetto Imago II, AGRO-023, particolare)
Figura 5. Veduta di Ripa e Mons Testaceus (Pianta di
Roma, Antonio Tempesta, versione del 1606, particolare)
in località Ripa Grande (Fig. 5 Antonio Tempesta 1593 particolare). Nella
cartografia ottocentesca è presente, nel
Catasto Gregoriano (1835), una “Via
del Tiro delle Barche” (Fig. 6), o una
“Strada pel Servizio Pubblico del Tiro
delle Barche” (Fig. 7), o una “Via delle
Bufale“ (Fig. 8) che è localizzata sempre
in riva di destra idrografica del Tevere da
capo due rami a Ripa Grande, riva sulla
quale, come si è già accennato, si trovava anche il principale porto di Roma
attivo dal diciassettesimo secolo fino alla
costruzione dei Muraglioni a fine ‘800,
il porto di Ripa Grande, localizzato in
Trastevere di fronte all’istituto San Michele2. Sempre nel Catasto Gregoriano
troviamo, questa volta in riva sinistra del
Tevere, la stessa riva del porto di Ripetta,
una “Via del Tiro delle Barche” (Fig. 9)
appena fuori Porta del Popolo, e una via
“Servizio pubblico del Tiro delle Barche“ a Settebagni (Sezione di Mappa
XXXV) che continua a nord in direzione di Orte (Fig. 10).
Ma per quanto riguarda le modalità
della navigazione del Tevere in età Romana poco si conosce a parte le tipologie
dei battelli utilizzati ed i principali porti
Figura 7. Catasto Gregoriano, Sezione di Mappa LX, 1819, posizionamento su immagine satellitare Google Earth
ed ingrandimento di « Strada pel servizio pubblico del Tiro delle Barche » (1819 – Catasto Gregoriano, Mappe
Agro Romano, Archivio di Stato di Roma, Progetto Imago II, AGRO-060, particolare)
Figura 8. Catasto Gregoriano, Sezione di Mappa CXVI, 1819, posizionamento su immagine satellitare Google
Earth ed ingrandimento di « Via delle Bufale o del Tiro delle Barche » (1819 – Catasto Gregoriano, Mappe Agro
Romano, Progetto Imago II, AGRO-116, particolare)
commerciali presenti sul Fiume. Questi, in età Imperiale, si trovavano per la
maggior parte in riva sinistra, a cominciare dal cosiddetto Porto Imperiale di
Ostia, per passare al cosiddetto Molo
repubblicano sempre ad Ostia e quindi
ai porti di Ficana e del Vicus Alexandri,
per quindi giungere ai porti rinvenuti
a Testaccio, il primo scavato da Padre
Bruzza nel 1868 e il secondo, scavato
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
182
negli anni ’50 e successivamente negli
anni ’80 e ’90 del secolo scorso di fronte all’Emporio, quasi in prossimità con
il moderno Ponte Sublicio. Questi due
ultimi porti, che dovevano fare parte in
realtà di un continuum di attracchi sulla
sponda sinistra del Tevere, erano di servizio per i numerosi Horrea presenti nella piana alluvionale di Testaccio. In età
Repubblicana invece, il porto principale
fluviale di Roma era il Portus Tiberinus,
localizzato, sempre in riva sinistra, poco
a sud dell‘Isola Tiberina e subito a nord
rispetto allo sbocco della Cloaca Massima, all’interno del circuito delle Mura
Serviane.
Figura 9. Catasto Gregoriano, Sezione di Mappa CLIII, 1819, ingrandimento di « Via del Tiro delle Barche »
(1819 – Catasto Gregoriano, Mappe Agro Romano, Progetto Imago II, AGRO-153, particolare)
Figura 10. Modello digitale del terreno del Lazio con indicate le vie del tiro delle barche del 1600-1870 in riva
destra idrografica (arancione) da Capo due Rami a Ripa Grande e in riva sinistra idrografica (verde) da Ripetta
a Orte con i porti principali di scalo
Figura 11. Immagine satellitare da Google Earth con indicato il punto di passaggio sul Tevere del progettato Nuovo
Ponte dei Congressi
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
3. LE RECENTI INDAGINI
ARCHEOLOGICHE
Nel 2017, la necessità di effettuare
delle indagini di archeologia preventiva
da parte della Soprintendenza Speciale
Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di
Roma in corrispondenza delle aree di
imposta dei piloni del progettato Nuovo Ponte dei Congressi3 (Fig. 11) ha
consentito, al gruppo di lavoro diretto
da Anna Buccellato, in qualità di Funzionario Archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti
e Paesaggio di Roma, di esaminare sia i
sondaggi meccanici a carotaggio continuo che le trincee previste e concordate
con Comune di Roma. Si trattava di 6
carotaggi archeologici profondi 10 metri e 2 geologici profondi 20 metri posti
sull’argine destro, in lato Magliana e 12
carotaggi archeologici profondi 10 metri e 2 geologici profondi 20 metri posizionati sulla cima dell’argine sinistro,
nel lato EUR. Le programmate trincee
esplorative su entrambe le sponde del
Tevere, all’interno delle aree golenali,
in corrispondenza del progettato posizionamento dei piloni del Nuovo Ponte
erano: cinque in sponda destra, a quote
medie tra +8,50 e +9,50 metri s.l.m., di
dimensioni 8 metri x 16 metri e distanti dieci metri tra di loro, e solo quattro
in sponda sinistra, a quote medie tra +9
e +9,38 metri s.l.m., di dimensioni 12
metri x 20 metri a causa di problemi di
minore dimensione dei lotti liberi per le
indagini e per lo stoccaggio temporaneo
delle terre di scavo (Figg. 12, 13, 14). Le
trincee lato Magliana (50, 51, 52, 53, 54),
tutte realizzate, hanno evidenziato solamente la alternanza stratigrafica, da sabbiosa a limoso-argillosa, delle frequenti
fasi alluvionali del Tevere negli ultimi
secoli senza la presenza di elementi di
interesse archeologico. Da segnalare comunque una superficie di erosione connessa ad un mutamento della direzione
183
Figura 12. Carta Tecnica Regionale al 5000 della Regione Lazio con indicato il
punto di passaggio sul Tevere del progettato Nuovo Ponte dei Congressi. In viola sono
indicate le trincee in progetto per le indagini archeologiche preliminari sull’area dei
plinti a terra del Ponte (Elemento CTR n. 374144, particolare)
Figura 13. Immagine da dati LIDAR DSM First 1m x 1m del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Regione Lazio, con indicato il punto di
passaggio sul Tevere del progettato Nuovo Ponte dei Congressi. In viola sono indicate
le trincee in progetto per le indagini archeologiche preliminari sull’area dei plinti a
terra del Ponte (Tavole D41831244_0101, D41831245_0101, D41831246_0101,
D41821244_0101, D41821245_0101)
Figura 14. Carta Tecnica Regionale al 5000 della Regione Lazio, in verde con bordo viola sono indicate le
trincee con numero in progetto per le indagini archeologiche preliminari sull’area dei plinti a terra del Ponte
(Elemento CTR n. 374144, particolare)
di immersione degli strati nelle prime
due Trincee (50 e 51) dal basso verso
l’alto (Fig. 15) che è stata interpretata
come dovuta alla presenza della via Alzaia riscontrata nelle carte del Catasto
Alessandrino e del Catasto Gregoriano,
localizzata proprio a sud-est delle due
trincee e già visibilmente erosa in parte
dalla corrente del Fiume (Fig. 16), la cui
probabile erosione totale, una volta caduta in disuso, ha mutato le condizioni
locali di giacitura delle alluvioni.
In seguito alle obiettive difficoltà di
realizzazione delle trincee lato EUR, e
conseguentemente alla lettura delle sequenze stratigrafiche evidenziate all’interno della trincea 48 e di parte della
trincea 49, il piano di indagini precedentemente concordato in sede di Conferenza dei Servizi è stato rimodulato,
tramite consensuale accordo tra la Direzione Scientifica e la Stazione Appaltante e la Direzione Lavori del Comune
di Roma e si è optato per una campagna di indagini mediante 14 sondaggi
geoarcheologici a carotaggio continuo
(SAP1-SAP14), al fine di verificare la
natura del paleosuolo e, eventualmente, modificare, in base ai risultati dei
sondaggi geoarcheologici, il numero,
Figura 15. Trincea n. 50 lato Magliana sezione di Sud Ovest vista da NE
Figura 16. Catasto Gregoriano, Sezione di Mappa CXVI, 1819, posizionamento su QGIS ed ingrandimento di
«Via delle Bufale» con sovrapposta posizione in verde delle trincee lato Magliana (1819 – Catasto Gregoriano,
Mappe Agro Romano, Progetto Imago II, AGRO-116, particolare)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
184
Figura 17. Carta Tecnica
Regionale al 5000 della
Regione Lazio, in viola
sono indicate le trincee lato
EUR eseguite per le indagini archeologiche preliminari prima della esecuzione
dei 14 carotaggi supplementari, indicati con il pallino rosso (Elemento CTR
n. 374144, particolare)
l’orientamento e le dimensioni delle
trincee previste dal progetto indagini
preventive sul lato sinistro del Tevere
(Fig. 17), in questo modo come vedremo sono stati anche risparmiati denaro
pubblico e tempo. La esecuzione dei
carotaggi archeologici supplementari,
la cui ubicazione è mostrata in figura
17, ha evidenziato la presenza, in tutti i
carotaggi tranne due (SAP10-SAP14),
ad una quota assoluta variabile tra +0,60
e – 3,00 metri s.l.m., di un sabbione
grossolano, quasi ghiaioso (Fig. 18),
interpretabile come antico deposito di
Figura 18. Stratigrafia del carotaggio SAP5 e fotografia delle cassette che contengono le carote con i sedimenti di alveo del Tevere nel passato
Figura 19. Ricostruzione sponda sinistra ed alveo di un Tevere antico individuato
nei carotaggi archeologici supplementari (base topografica Elemento CTR n. 374144,
particolare)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Figura 20. Carta Tecnica Regionale al 5000 della Regione Lazio, in rosso è indicata
la trincea lato EUR 46 eseguita dopo la esecuzione dei 14 carotaggi supplementari,
indicati con il pallino rosso (Elemento CTR n. 374144, particolare)
185
Figura 21. Trincea 46 lato EUR, individuazione del tracciato della via alzaia, in marrone, circondato da depositi
alluvionali, in giallo
Figura 22. Trincea 46 lato EUR, particolare “battuto” via alzaia
fondo alveo del Tevere. Segno che ci trovavamo in corrispondenza della sponda
sinistra dell’antico corso del Tevere, non
meglio databile con i dati a disposizione
(Fig. 19). Si è così deciso, concordemente con la S.A. e la D.L., di eseguire in seguito, al posto delle due trincee e mezza
rimaste non eseguite, una unica trincea
ad hoc (trincea 46 definitiva) con orien-
scuro e largo circa 3 metri con asse di
direzione circa NE-SO (US3), delimitato sui due lati da una superficie erosiva
(US2) e a contatto con depositi alluvionali limoso-argillosi (US1) (Fig. 21). Il
livello US3 conteneva frammenti ceramici parzialmente fluitati, una punta di
chiodo in bronzo, un chiodo in bronzo
a sezione quadrangolare ed una moneta
in bronzo (Figg. 22, 23). A questo punto
di decide di eseguire un saggio di scavo
all’interno della US3. L’US3 presenta
uno spessore di 0,25 m e copre uno strato a matrice argillosa di colore marrone
chiaro (US4). Proseguendo con le operazioni di scavo all’interno del saggio, a
quote compresa tra + 5,79 e + 5,59 m
s.l.m., al di sotto di uno strato a matrice
Figura 23. Trincea 46 lato EUR, reperti individuati nel “battuto”
tamento parallelo al Tevere invece che
perpendicolare, di dimensioni 23x10
metri, in modo da esaminare in dettaglio la natura della sponda del fiume nel
passato (Fig. 20). Quasi subito dopo 50
o 60 cm di riporti moderni, tra +7,92
e +7,00 metri s.l.m. è stato incontrato
un livello terroso limoso-argilloso leggermente sabbioso, di colore marrone
Figura 24. a) relitto di “battuto” di età romana imperiale costituito da frammenti di tufo lionato e sporadici frammenti ceramici (US8), circondato da sedimenti alluvionali del Tevere con stratificazione parallela al bordo della
alzaia lato Tevere; b) particolare del “battuto” visto da SE
limo argillosa compatta di colore giallo
con inclusi sporadici frammenti ceramici (US5=4), si individua un “battuto”
costituito da 54 scapoli irregolari di tufo,
lapidei e sporadici frammenti ceramici
(US8). Lo scarso materiale ceramico recuperato nell’US8, costituito da ceramica comune e da fuoco, permette solo un
generico inquadramento in età romana
imperiale (Fig. 24). Al di sotto dell’US8,
un ulteriore saggio stratigrafico, ha portato all’individuazione, alla quota di
+5,21 m s.l.m., di sporadici frammenti
ceramici (US14), costituiti da 7 frammenti di un recipiente a forma aperta e
1 frammento di quello che sembrerebbe
parte di alto piede, il cui confronto sembrerebbe rimandare al tipo della Pisside
trigemina su alto piede, attestata in ambito piceno, falisco e laziale (Fig. 25). La
Figura 25. a) saggio all’interno della via alzaia con individuazione di ceramica di età repubblicana; b) ceramica
rinvenuta (US14) al di sotto del piano di “battuto” di età romana imperiale (US8); c) Pisside trigemina su alto
piede, attestata in ambito piceno, falisco e laziale
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
186
frammentarietà e l’esiguità dei materiali
afferenti all’US14 permette di fornire
solo un generico inquadramento all’età
Repubblicana. Le attività di scavo della
trincea 46 sono proseguite con la realizzazione di due saggi (saggio 1 e saggio
2), volti a verificare le sequenze stratigrafiche dei livelli sottostanti al fine di
definire lo spessore e il reale stato di
conservazione dei battuti. L’esame delle sezioni all’interno del saggio 1, poi
ampliato sulla parete NO, in direzione
del fiume, hanno evidenziato livelli di
erosione e aggradazione del Tevere che
hanno “cannibalizzato” il battuto, sono
infatti evidenti le tracce di rotolamento
e risedimentazione dei materiali lapidei
che costituivano il battuto (Fig. 26).
Figura 26. Pianta di scavo della trincea 46 lato EUR e foto del saggio di scavo di approfondimento lato “battuto” (US8)
Figura 27. Foto trincea 46 lato EUR vista da SW, sezione lato NE
Figura 28. Foto trincea 48 lato EUR vista da NE, sezione lato SW
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
4. CONCLUSIONI
L’interpretazione finale di questa
struttura artificiale in terra, parallela al
fiume, costituita da diversi strati successivi di messa in posto, è quella di una via
alzaia antica in riva sinistra del Tevere,
che, almeno a partire dall’età Repubbli-
187
Figura 29. Andamento
della alzaia antica individuata nelle due trincee 46 e
48 lato EUR
cana, fino al Tardoantico e al Medioevo,
consentiva la risalita controcorrente del
Tevere in direzione di Roma. La quota
assoluta del livello battuto imperiale, +
5,56 metri s.l.m., certamente rilevato
rispetto alla piana alluvionale di allora,
rende conto di quanto la pianura alluvionale tiberina si sia sollevata (aggradata) nel tempo, con la deposizione continua di sedimenti alluvionali (Figg. 27,
28, 29). Aggradazione per contrastare la
quale, via via nel tempo, sono stati posizionati ulteriori livelli di terreno disponibile localmente, limo sabbioso argil-
Figura 30. Immagine da dati LIDAR DTM 1m x 1m del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Regione Lazio, con indicata in rosso la traccia
della sezione di figura 31 (Tavole Lidar D41831244_0101, D41831245_0101, D41831246_0101, D41821244_0101, D41821245_0101)
Figura 31. Sezione geologica del settore attraverso le due sponde del Tevere
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
188
è stata praticamente resa inservibile ed
interrotta in più punti dal divagare del
fiume. Di conseguenza, nel XVI secolo
o forse anche prima, con il rifiorire dei
commerci attraverso il Tevere, si manifestava la necessità di creare ex novo una
alternativa via di alaggio, questa volta in
destra idrografica, dove si trovava il nuovo porto di Roma, a Ripa Grande.
NOTE
1. Con il termine alzaia si intende (dal Sabatini-Coletti, Dizionario della Lingua Italiana):
1) fune per trainare controcorrente barche,
battelli ecc.; 2) strada di servizio lungo la riva
di un fiume o canale; mentre con il termine
alaggio si intende (dal Sabatini-Coletti, Dizionario della Lingua Italiana): 3) traino di
un’imbarcazione contro corrente grazie a un
cavo tirato da terra; 4) il tirare in secco un’imFigura 32. Modello digitale del terreno del Lazio con indicata la via alzaia in età romana repubblicana, in sinistra barcazione (contrario di varo).
idrografica, in verde, dal cosiddetto porto Imperiale di Ostia al Portus Tiberinus a Roma
2. Sulla stessa sponda, poco più a sud, era localizzato anche l’Arsenale Pontificio, fatto costruire da papa Clemente XI e destinato alla
manutenzione delle navi commerciali papali.
3. Progetto del Comune di Roma, che ha anche finanziato le indagini e gli scavi archeologici preventivi
RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI
Figura 33. Modello digitale del terreno del Lazio con indicata la via alzaia in età romana imperiale, in sinistra
idrografica, in verde, dal cosiddetto porto Imperiale di Ostia e dal porto di Claudio e Traiano a Portus ai porti di
Testaccio a Roma
loso, per tenere libera la via alzaia dalle
interruzioni e dai danni delle frequenti
alluvioni. La quota attuale delle aree
golenali locali in destra e sinistra idrografica è infatti di + 9,40 ~ + 9,50 metri
s.l.m. (almeno 5-6 metri complessivi di
sollevamento della piana alluvionale del
Tevere in circa 2000 anni) (Figg. 30, 31).
La navigazione del Tevere in età Romana Repubblicana (Fig. 32) avveniva,
nella direzione verso Roma, mediante il
tiro contro corrente con uomini o bufali
sulla sinistra idrografica, tenuto anche
conto che la riva in destra idrografica
del Tevere fino al 396 a.C. era la riva
Veiente.
In età tarda repubblicana ed Imperiale la via alzaia resterà ovviamente
in riva sinistra (Fig. 33), anche se so-
no certamente presenti, e con una certa
continuità in età imperiale, in riva destra
moli di attracco per le imbarcazioni fluviali. Una via alzaia che correva parallelamente a questa riva, appositamente
preparata e restaurata nel tempo, permetteva alle navi caudicarie di risalire il
fiume e fermarsi anche nei porti, noti in
letteratura, e presenti lungo il cammino
verso la città, tutti in sinistra idrografica. Le navi che discendevano la corrente ovviamente navigavano agevolmente
col timone ed i remi per stabilizzare
l’imbarcazione secondo la traiettoria di
maggiore velocità della corrente. Sicuramente, in seguito all’incuria e alle numerosissime alluvioni eccezionali avvenute
durante il medioevo, questa antica via di
alaggio in direzione della foce del Tevere
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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Tutela del Territorio e del Mare
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di Stato, Saggi 34, Ministero per i Beni
Culturali e Ambientali, Ufficio Centrale
per i Beni Archivistici, Istituto Poligrafico
e Zecca dello Stato, Roma, pp. 1162-1187.
189
Il Tevere: la più antica via
della civiltà romana
Giorgio Cesari
Già Segretario dell’Autorità di Bacino del
Fiume Tevere
E-mail
[email protected]
The river Tiber: the most ancient way of
Roman civilization
Parole chiave: fiume, navigabilità, commercio, leggende, cultura
Key words: river, navigability, trade, legends, culture
1. RIASSUNTO
Il fiume Tevere è il secondo d’’Italia
per ampiezza di bacino (km2 17.169) e il
terzo per lunghezza (km 405): nel corso
dei secoli, secondo il territorio che attraversava, ha assunto nomi diversi come
Rabula, Serra, Tarentum, Coluber, Rumon (da cui è probabile derivino i nomi
di Romolo e Remo) e, infine, i Romani
lo battezzarono Tiber. La sua sorgente
di trova sul Monte Fumaiolo (1.407 m),
conosciuto nei secoli scorsi come Fiumaiolo per le numerose sorgenti che
sgorgano dalle sue pendici.
Il Tevere costituiva nell’antichità la
linea di demarcazione tra due aree con
caratteristiche diverse, quella etrusca a
nord del fiume e quella delle popolazioni
latine a sud. Dopo la conquista dell’Italia Centrale da parte del popolo romano,
il Tevere è divenuto una fondamentale
arteria commerciale, con numerosi porti
non solo a Roma, per il trasporto di prodotti agricoli di cui era ricca l’Umbria
(olio, vino, fichi, ortaggi) o trasporto di
legnami dall’Appennino o di manufatti
per l’uso quotidiano come le ceramiche e
altri prodotti pregiati e alimentari provenienti da tutto il Mediterraneo.
Ma il Tevere è anche stato il percorso
di miti, tradizioni e leggende, che hanno
accompagnato, a nord verso la sorgente e
alla foce verso il Mediterraneo, l’espansione della civiltà romana, della lingua
latina e di usi e costumi fra e con le popolazioni native.
2. ABSTRACT
The Tiber River is the second in Italy for
basin width (17,169 km2) and the third
for length (405 km): over the centuries,
according to the territory it crossed, it
took on different names such as Rabula,
Serra, Tarentum, Coluber, Rumon (from
which the names of Romulus and Remus
are probably derived) and, finally, the Romans baptized him Tiber. Its source is
on Mount Fumaiolo (1,407 m) known
in past centuries as Fiumaiolo for the numerous springs that flow from its slopes.
In ancient times the Tiber constituted the dividing line between two areas
with different characteristics, the Etrus-
can north of the river and that of the
Latin populations to the south. After the
conquest of Central Italy by the Roman
people, the Tiber became a fundamental
commercial artery, with numerous ports.
Not only in Rome, for the transport of
agricultural products of which Umbria
was rich (oil, wine, figs, vegetables) or
transport of timber from the Apennines
or artefacts for everyday use such as ceramics and other fine and food products
from all over the Mediterranean.
The Tiber has also been the path of
myths, traditions and legends that have
accompanied, to the north towards the
source and to the mouth towards the
Mediterranean, the expansion of the
Roman civilization, of the Latin language and of customs and traditions between and with the native populations.
3. GEOGRAFIA,
TOPONOMASTICA,
ORIENTAMENTO
Il Tevere, il più grande fiume dell’Italia Centrale, nasce ai piedi dei monti
Cemero e Fumaiolo e, attraversando diverse regioni, s’ingrossa di affluenti sempre più ricchi d’acqua: il Chiascio con il
Topino fino così a penetrare in Etruria,
il Nera con il Velino per addentrarsi
nella Sabina e raggiungere i valichi del
Piceno, l’Aniene che fa da collegamento con la Marsica. Il Tevere è, inoltre,
il secondo fiume d’Italia per ampiezza
di bacino (km2 17.169) e il terzo per
lunghezza (km 405). Il suo percorso è
anche stato motivo di diversi appellativi
nel corso dei secoli, secondo il territorio
che attraversava. Così ha assunto nomi
diversi, come Abula, Serra, Tarentum,
Coluber, Rumon (da cui è derivano i
nomi di Romolo e Remo), per essere.
Infine, battezzato dai Romani Tiber, toponimo che pare derivi da Tiberino, un
discendente di Enea, morto annegato
nelle sue acque.
Il Tevere è però anche il più importante fiume italiano con direzione nord
sud, a differenza degli altri principali
corsi d’acqua italiani che si diramano
verso est o ovest o piegano in una delle
due direzioni dopo un breve tratto nord
sud. Tutto è dovuto all’orientazione del
corso del Fiume Tevere determinata dai
principali lineamenti tettonici dell’Appennino centrale e, nella parte bassa del
corso, dalla presenza del vulcanismo
pleistocenico del margine tirrenico.
Per tale motivo l’alto corso presenta un
orientamento appenninico (NW-SE),
interrotto, tra Todi e Orvieto, da un
tratto ad andamento NE-SW.
Inoltre, il fiume presumibilmente
proseguiva ancora e decisamente più a
sud, verso il Lazio meridionale, ma l’inizio dei movimenti, che portarono al
sorgere dell’apparato vulcanico dei Colli Albani, costrinse il Tevere a piegare
verso il Tirreno e porre la foce nell’area
dell’attuale di Ponte Galeria.
4. LINEA DI
PENETRAZIONE
COMMERCIALE
L’orientazione del fiume ha fatto sì
che il Tevere costituisse non solo la linea di demarcazione tra due aree con
caratteristiche diverse, quella etrusca a
nord del fiume e quella delle popolazioni latine a sud, ma sopratutto la possibile via di penetrazione tra due civiltà
(Fig. 1). Il territorio in destra Tevere,
a nord di Roma, nell’età del ferro vide
la fioritura di importanti centri, abitati
da popolazioni distinte etnicamente e
linguisticamente: gli Etruschi, i Capenati, i Falisci, per i quali il fiume era il
naturale confine e anche un’importante
via di comunicazione tra popolazioni i
cui centri principali erano distanti dal
fiume e arroccati su alti ripiani tufacei.
Già un primo importante ruolo nell’uso
della via fluviale fu svolto dalla città di
Veio che deteneva, così, il predominio
sui traffici fluviali.
Verso sud, attiva era la commercializzazione greca nella bassa valle del Tevere, così come interessante era altresì una
penetrazione commerciale dalla zona del
Sele. Simbolo tangibile degli interessi
commerciali legati alla via fluviale sono
i modellini fittili di barche rinvenuti in
contesti funerari, le cui tombe, particolarmente ricche, appaiono appartenere a
soggetti abbienti che fondavano la pro-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
190
Scali, apprestamenti di riva con ormeggi e camminamenti di alaggio sono
noti a Ponte Milvio, a Passo Corese, a
Ponticchio, a Ponzano, alle foci del Treia,
al porto dell’olio di Otricoli, a Piscinale
e a Castiglione di Orte, alla confluenza
del Paglia, a Tizzano sul Nera. Sul fiume erano presenti anche lunghi tratti di
sponda con banchinamenti potenti di
pietra e di terra, fino all’agro Crustumino
e a Orte, che documentano come le rive
dovessero essere ben curate e attrezzate.
Se poi le grandi strade storiche vennero
a scandire, con la conquista romana, gran
parte della penetrazione e a segnare il
nuovo ordine dalla visione centripeta di
Roma, è sopratutto lo stesso Tevere, come via d’acqua, e la rete dei suoi affluenti
che hanno permesso dai primordi una
capillarità straordinaria di rapporti tra le
regioni più interne tra loro e lungo l’asse
maggiore fino al mare. Sul loro percorso
e sulle rive una catena di scali si è perpetuata o alternata a seconda del favore
delle circostanze storiche nei millenni,
fino ai primi secoli dell’età moderna. Gli
antichi ricordano come navigabile, ovviamente con appropriate imbarcazioni,
lo stesso più alto corso del Tevere fino
alle sorgenti, il Chiana fino ad Arezzo, il
Nera come il Velino e perfino rigagnoli
loro affluenti come il Teneas, il fiume di
Mevania che oggi stenteremmo a riconoscere utili a un traffico capillare quale
quello a loro attribuito.
Figura 1. Il Tevere nell’età preromana
pria ricchezza sul commercio tiberino.
Veio, nella seconda metà dell’VIII secolo
a.C. cede progressivamente il predominio commerciale sui traffici tra il mare
e l’approdo del Foro Boario, mentre la
conquista del territorio falisco da parte
di Roma si attivò in circa un secolo e
mezzo, dall’inizio del IV secolo fino alla
resa di Capena nel 241 a.C. e alla distruzione di Falerii Veteres. Queste due
città divengono centri marginali, ma
sempre collegati tramite la via d’acqua,
così come le città fondate dai Romani
nei territori conquistati. E proprio, dopo
la conquista dell’Italia Centrale da parte
del popolo romano, il Tevere è divenuto
una fondamentale arteria commerciale,
con numerosi porti non solo a Roma, per
il trasporto di prodotti agricoli di cui era
ricca l’Umbria (olio, vino, fichi, ortaggi)
o trasporto di legnami dall’Appennino o
di manufatti per l’uso quotidiano, come
le ceramiche e altri prodotti pregiati e
alimentari provenienti da tutto il Mediterraneo. Attraverso la via fluviale transitavano, però, anche pietre e materiali
da costruzione cavati in zona e derivati
come la calce. Oltre al legname, di cui si
accenna dopo, la parte più cospicua dei
traffici erano le derrate alimentari, così
come le carni, il latte e derivati. Molto ricercate erano le giovenche falische candide come neve e ricercate per i sacrifici.
Attraverso il Tevere si rifornivano pure
in flusso contrario i centri abitati e le ville, sopratutto di metalli e manufatti di
vario tipo e di prodotti anche alimentari.
Le regioni più interne erano determinanti per il rifornimento del legname. Si
ricordano sia l’invio massiccio di legname per le navi della flotta romana della
prima guerra Punica, sia, nella seconda,
la provenienza di legname, sempre per
via d’acqua, da Arezzo, Perugia e Chiusi.
5. DIRETTRICE DI
RELAZIONI TRA POPOLI
Già Lucus Feroniae, nel territorio di
Capena, era simbolo di un eccezionale
convergere di interessi: all’ombra del bosco sacro si riunivano, nella periodica festività, Falischi e Latini, Etruschi, Sabini
e Umbri, che, nella scambievole attività
culturale, economica e giuridica, seppero
per tempo trasformare il luogo di fiera e
di mercato in un centro di vita collettivo.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
6. LA NAVIGABILITÀ
Da sempre il Tevere è stato un fiume
navigabile. La navigabilità del Tevere
aveva soglie di penetrazione in proporzione alla stazza dei navigli. A ciò si
aggiungeva il problema del variare delle portate nelle diverse stagioni. Plinio
il Giovane ricorda come le portate del
Tevere, ricche nelle altre stagioni, fossero
tanto ridotte in estate da compromettere
la navigazione nel suo corso superiore.
Plinio il Vecchio ricorda come, a monte
della confluenza del Paglia e del Chiana,
il fiume non fosse ormai navigabile per
esiguità di acqua e per accidentalità del
corso, se non a piroghe più che a barche e
accenna all’accorgimento usato di trattenere l’acqua con chiuse sul percorso, che
erano poi aperte per sfruttare l’onda di
piena. Ciò avveniva ogni nove giorni al
ricorrere delle nundinae i giorni, cioè, nei
quali le barche portavano i prodotti agricoli al mercato. Tracce di queste chiuse
sono state viste in passato sul più alto
corso del fiume e altri esempi sono conservati pure sull’alto corso dell’Arno e in
un rivolo affluente a monte di Roma, il
fosso di Vallelunga. Ostia rappresentava
191
il terminal di flussi di merci a diffusione
regionale trasportati lungo il Tevere. Le
stesse fonti letterarie fanno risalire la vocazione commerciale della colonia d’Ostia fino alle sue antichissime origini: il re
Anco Marzio, il suo fondatore, avrebbe,
in questo modo, soddisfatto anche le esigenze dei mercanti e dei commercianti,
anche se questa notizia è da proiettarsi
dopo la seconda guerra punica, quando
il Porto di Ostia aveva ormai assunto
una funzione, pienamente commerciale
e non più solo militare, nell’ambito del
progetto scipionico in cui essa fu integrata con Puteoli/Pozzuoli, in un sistema di porti tale da assicurare un flusso
costante di merci verso Roma.
costoso, descritto e lodato da Macrobio,
Plinio il Vecchio e Giovenale. Il migliore per qualità era pescato inter duos pontes, vicino all’isola Tiberina. Inoltre, nel
Tevere, si pescavano storioni di notevole
qualità e dimensione.
9. MEZZI DI TRASPORTO
Per il trasporto delle mercanzie degli scali marittimi dalla foce a Roma,
erano impiegate le naves caudicariae,
che avevano le caratteristiche delle navi
onerarie con chiglia piatta e maggiore
sezione di stiva. L’imbarcazione aveva
due alberi senza vela, uno corto a prua
e uno reclinabile centrale, utilizzato
all’occorrenza come gru. I battelli erano
trainati da pariglie di buoi o bufali e il
sistema di rimorchio era denominato
alaggio. In epoca severiana la città contava 1.500.000 abitanti e le modalità di
navigazione e di traino furono motivo
di grande trasformazione delle rive del
fiume sopratutto tra la città e il mare.
Lungo le rive erano costruite ampie
strade per l’alaggio e al calare della notte
erano disponibili basi per la sosta dotate
di ormeggi e installazioni, per un sicuro
riposo con corpi di polizia e vigili del
fuoco. Altre imbarcazioni solcavano il
Tevere e i suoi affluenti, le lintres, naves
fluminales, con lo scafo allungato, stretto
e poco profondo, a prua sollevata e con
sponde basse. Questi battelli, potevano
portare una dozzina di passeggeri più il
timoniere. Altro tratto importante per
la navigazione era quello tra la Città
e Ostia. Molti trasporti interessavano
questo tratto e la navigazione fluviale
portuale avveniva con navi mercantili e
barche di varie dimensioni. Erano imbarcazioni, comunque, non grandi, con
prora a punta e gran numero di remi.
Infine si impiegavano le scaphae, piccole
barche a remi, in genere a fondo piatto,
per i traghetti e i trasporti da sponda a
sponda.
7. IL TEVERE A ROMA
Nell’antichità, più precisamente nel
tratto cittadino in epoca romana, giungevano nei porti mercanzie e derrate da
tutto il mondo. Ricerche archeologiche,
testimonianze epigrafiche e dati topografici, tramandati dai resti della grande
pianta marmorea della città Severiana,
documentano una complessa attrezzatura portuale sulle due rive per lo sbarco
delle derrate e lo smistamento nei grandi horrea appositamente costruiti, dopo
che si rilevò l’inadeguatezza del primitivo porto del Foro Boario, l’Emporium.
Lungo le banchine lavoravano migliaia
di persone per lo scarico, il trasporto, la
dogana e l’incasso delle gabelle Imperiali.
Un’importante testimonianza epigrafica
è stata, a tale proposito, trovata a Campo Marzio: le ciconiae nixiae, un luogo
di approdo specializzato per le consegne
del vino. Altrettanto, per quanto concerneva l’occupazione indiretta legata
al fiume, un vero popolo, di carpentieri,
calafatori, fabbricanti di vele, lavorava in
prossimità e nei quartieri con vocazioni
navali. Vitruvio ricorda la grande attenzione rivolta ai manovratori di mezzi di
sollevamento portuali, così come l’organizzazione del sistema di traino da terra
delle barche in risalita del Tevere, con 10. LA NASCITA DI ROMA
Il luogo dove sorse Roma era un luocambio di bufali lungo il percorso.
go di sosta e di mercato, proprio all’in8. IL TEVERE E
crocio di due vie commerciali, una terL’ALIMENTAZIONE
restre, traversante il Foro e poi il Tevere,
A Roma giungevano attraverso il Te- a mezzo di due brevi ponti di legno, e
vere molti rifornimenti alimentari, dalle l’altra fluviale, che penetrava fino al cenlontane province e dall’entroterra: molti tro della penisola. In mezzo al fiume c’è
traghetti li trasportavano fino al Foro l’Isola Tiberina, che vuole la leggenda
Olitario, al Foro Boario e al Velabro, per sia stata formata con lo scarico delle
il successivo commercio al dettaglio, so- messi saccheggiate ai Tarquini fuggitipratutto dell’alimentazione. Altrettanto vi, ma che, in effetti, è costituita da un
importante, dal punto di vista commer- forte nucleo centrale di tufo resistente
ciale, era l’attività dei pescatori tiberini nei secoli alla corrosione delle acque. Al
che catturavano ottimi e ricercati pesci. sorgere di una città le si attribuisce un
Paolo Giovio ricorda il Lupus, famoso e nome, nel caso Roma. Ma l’Urbs ave-
va pure un nome segreto e misterioso
(come riferiscono Macrobio, Plinio e
altri), che non si poteva manifestare e
che poteva essere pronunciato solo dal
Pontefice e tramandato dai capi di Stato.
Il silenzio era motivato dalla paura di
eventuali maledizioni dei nemici, qualora fossero venuti in possesso del nome misterioso, dopo averne evocato la
divinità protettrice (ad esempio come
fece anche Scipione prima dell’ultimo
assalto a Cartagine). Questo nome segreto sembra essere il nome AMOR,
come attesterebbe un graffito ritrovato
a Pompei (Zizza, 2018). L’antica iscrizione, scoperta in una parete di una casa
tra le isole VI e X della Regione I, riporta
due parole alternate ROMA/AMOR,
leggendole da sinistra a destra, secondo
l’uso dei popoli italici preromani (Fig. 2
– Graffito Pompeiano).
Figura 2. Graffito pompeiano
11. LE PIENE DEL TEVERE
Il Tevere non è solo sempre stato
luogo e via di commercio e navigazione
in genere, ma anche funesto apportatore
di morte e distruzione per le disastrose
piene. L’apporto solido invernale portava in città, infatti, grandi quantità di
detriti, che talora ostacolavano il deflusso. Molte furono nei tempi le iniziative:
l’imperatore Augusto, ad esempio, nominò una commissione di 700 esperti,
una magistratura apposita, i Curatores
alvei et riparum Tiberis (Pollini, 2019)
Questi magistrati si occupavano della
sistemazione e della protezione delle
rive del fiume per eliminare al massimo
i danni provocati dalle piene. Per secoli,
in ogni modo, le inondazioni causate dal
Fiume sono state una minaccia mortale
per Roma e molte lapidi indicano ancora
oggi il livello raggiunto dalle acque. Gli
allagamenti avvenivano o per il rigurgito delle fogne o per lo straripamento
dalle sponde. Le inondazioni del Tevere
furono ben documentate storicamente
fin dalla fine del V secolo a.C. e furono
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
192
così numerose che Livio narra che, nel 12.2 LE MARMORE
Esiste poi un racconto mitologico re189 a.C., il Tevere inondò la zona del
lativo alla creazione della Cascata delle
Campo Marzio per ben 12 volte.
Marmore. Riferisce di una Ninfa bellis12. I PRINCIPALI
sima e leggiadra, Nera, figlia del Dio ApAFFLUENTI DEL TEVERE
pennino, la quale si innamorò del giovaE LE LEGGENDE
ne pastore Velino. La dea Giunone, però,
durante un banchetto venne a sapere di
12.1 IL NESTORE
questo amore profano e decise di punire
Circa 3000 anni prima di Cristo, la Ninfa portandola in cima al Monte
quando l’Umbria era invasa dal Lago Vettore dove la fanciulla fu trasformata
Tiberino (7.654 km2 di superficie) il fiu- in un fiume: il fiume Nera. Ella cominme Nestore non scorreva come attual- ciò a scorrere, come una piena di lacrimente, ma, dalla sorgente in Monteleo- me, fino ad arrivare alla rupe dove aveva
ne d’Orvieto, scendeva verso Città della incontrato Velino la prima volta. Velino,
Pieve e si riuniva col fiume Paglia poco intanto non sapendo che fine avesse fatto
prima dell’odierna Orvieto (non a caso i la sua amata, interrogò una sibilla che gli
due bacini idrografici si incastonano nei svelò che cosa fosse successo. A questo
comuni di Montelelone d’Orvieto, San punto, Velino decise di gettarsi dalla rupe
Venanzo e Città della Pieve). Il fiume per potersi riunire con la sua adorata Necambiò il suo corso quando, alle Gole ra. Quel salto d’acqua, conosciuto come
del Forello, la diga naturale dell’enorme la Cascata delle Marmore, è il simbolo
lago si ruppe e il fiume, appena svasata la del loro amore eterno.
valle, cominciò progressivamente a scendere dal versante sinistro di Monteleone 12.3 L’ANIENE
Per il fiume Aniene la leggenda racd’Orvieto, invece che da quello destro; in
circa cinque anni delimitò il suo corso, conta che Catillo rapì la figlia di Anio
che ha reso incantevole l’omonima vallata e la portò con sé sul monte, che prende
con dolci collinette e valli tondeggianti. il suo nome, cercando di approfittare di
La leggenda racconta che Nestore, miti- lei. Allora il Padre tentò di oltrepassare il
co personaggio dell’Iliade, sembra essersi fiume per raggiungerla, ma fu trascinato
bagnato nelle acque dell’omonimo fiume. via dalle acque e morì. Catillo e la ragazza, che erano ancora sul monte, furono
attirati da un bagliore: apparve loro lo
spirito di Anio che così riuscì a salvare
la fanciulla, abbandonando lo sciagurato
sul monte. Il suo spirito rimase intrappolato in quel luogo, dando appunto il
nome al fiume Aniene.
13. IL FIUME VIA
DELL’OLTRETOMBA
A Roma, il Tevere era visto come
una via che portava temporaneamente
o definitivamente agli inferi, e, cioè, come operatore della «catabasi», ossia della
classica «discesa all’Ade e resurrezione»,
che vede protagonisti gli eroi capaci di
ritornare dal fatidico viaggio, rigenerati dalla prova. Il superamento di una
«catabasi» equivale a riemergere in una
dimensione di immortalità spirituale: è
sempre nelle acque che si sommergono i residui di uno stato di perdizione
e si rigenera l’essere per riaffiorare in
caelestibus, come nel battesimo cristiano o nella sommersione mazdea nelle
piscine di Persepoli. Oggi immergersi e
riemergere dalle acque del Tevere è una
prova potenzialmente mortale, al di là
dell’altezza del trampolino di lancio (i
ponti sul Tevere) e non tanto per possibili infezioni, ma sopratutto per il fatto
di tuffarsi fra relitti sommersi che creano
anche grosse difficoltà all’attuale spostamento di barche e canoe (Fig. 3 – Il tuffo
nel Tevere)
14. L’ISOLA TIBERINA
Sulla nascita dell’isola Tiberina esiste una leggenda di una nave che, nel
291 a.C., scoppiata a Roma una grave
epidemia, salpò verso Epidauro, città sacra a Esculapio, dio guaritore della Grecia, con una commissione di dotti romani per chiedere al nume della medicina
il suo soccorso. Mentre si svolgevano
i riti propiziatori, un serpente enorme
uscì dal tempio e andò a rifugiarsi sulla nave romana. Certi che Esculapio si
fosse trasformato in serpente, la nave
si affrettò a ritornare a Roma. Quando
la nave giunse presso l’isola, il serpente
scese nel fiume e nuotò fino all’isola Tiberina, dove scomparve, indicando, così,
la località dove far sorgere il tempio: la
costruzione, subito iniziata, fu inaugurata nel 289. La posizione coinciderebbe
proprio con la chiesa di S. Bartolomeo,
il cui pozzo medioevale, presso l’altare
della chiesa, corrisponderebbe alla fonte
del tempio antico.
Figura 3. Il tuffo nel Tevere
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
15. LA FOCE DEL TEVERE
Riguardo alla foce, si è discusso per
secoli se il Tevere avesse fino dall’origine due rami nel suo delta o se il solo
193
Figura 4. La foce del Tevere: Da Ostia a Roma (da R. Meiggs)
ramo di Ostia fosse naturale e l’altro di
Fiumicino artificiale. I dati archeologici
sono per un solo ramo iniziale, per cui
il secondo si deve ritenere opera o di
Claudio, che scavò le famose fosse tiberine per liberare Roma dalle inondazioni, o di Traiano per collegare il suo
porto con il fiume. Il gomito del fiume
scomparve nel 1567 a causa di una grande piena che scavò un nuovo alveo più
breve (Fig. 4).
L’isola formata dallo scavo della
Fossa Traiana si chiamò Sacra, perché
sia adibita a sepolcreto degli abitanti di
Porto, sia consacrata nei primi tempi del
cristianesimo dall’approdo di reliquie di
martiri condotti in Roma da ogni parte
dell’impero.
Nel I secolo d.C. l’espansione demografica, commerciale e marittima della
Roma imperiale rese insufficiente l’unico porto di Ostia del IV secolo a.C.
Sotto Claudio furono iniziati i lavori del
nuovo bacino portuale a circa 3,5 km a
nord di Ostia, sfruttando probabilmente
un’insenatura naturale a nord della foce
attuale. Causa il rapido insabbiamento del bacino dovuto anche all’ampia
apertura verso il mare, tra il 100 e il 112
d.C. Traiano fece scavare nel delta un
bacino artificiale di forma esagonale, ora
chiamato Lago di Traiano, più protetto
dall’apporto di sedimenti del Tevere. I
due porti costituivano un solo complesso
portuale (il più grande del Mediterraneo
antico), con imponenti infrastrutture e
un ingegnoso sistema di comunicazione idraulica con il mare e con il fiume.
Il complesso fu certamente usato fino
al VI secolo d.C., quando l’interramento progressivo dei bacini per l’avanzamento del delta e la caduta dell’impero
romano d’Occidente ne determinarono
l’abbandono.
16. SITOGRAFIA
Giorgio Cesari (2016 a), Il percorso nella natura e nella storia del fiume Tevere - https://
www.idrotecnicaitaliana.it/lacquaonline/
energia-ambiente/2016/percorso-nellanatura-nella-storia-del-fiume-Tevere
Giorgio Cesari (2016 b), Il Tevere. Dove è nata la portualità romana - https://
www.idrotecnicaitaliana.it/lacquaonline/
lacquerello/2016/energia-ieri-oggi-domani-litalia-2/
Lucio Maria Pollini (2019) Il Tevere in epoca romana - http://www.
luciomariapollini,com/cultura/
enrica%vinci/II%20tevere/il%20tevere%20in%epoca%20romana.htm
Annamaria Zizza, (2018) - Sine nomine: il
nome segreto di Roma - https://mediterraneoantico.it >Articoli >ArcheologiaClassica
Valeria Copperi, Viaggio a Roma tra miti,
leggende, storia e curiosità - http://www.
viaggionauta.com/viaggio-a-roma-tramiti-leggende-storia-e-curiosita/
Tra miti e leggende.- VisiTodi - http://www.
vistodi.eu/tra_miti_e_leggende.htm
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
194
Il ruolo del fiume nella
produzione agricola e
nel commercio delle
eccedenze alimentari
durante l’antichità. Il caso
dell’Eufrate
Giuseppe Gisotti
Presidente onorario SIGEA
Email:
[email protected]
Paolo Malagrinò
Geologo e Archeologo. SIGEA
Email:
[email protected]
The role of the river in agricultural
production and in the trade of food
surpluses. The study case of the Euphrate
Parole chiave: fiume, produzione agricola, commercio, eccedenze agricole,
Mesopotamia, Eufrate, Tigri, irrigazione
Key words: river, agricultural production, trade, food surpluses,
Mesopotamia, Eufrate, Tigri, irrigation
RIASSUNTO
La civiltà dei Sumeri rientra fra le
cosiddette “civiltà fluviali”, poiché essa
nacque e si sviluppò, a cominciare circa
dal 3000 a.C., a motivo della presenza
dei due grandi fiumi che avevano formato la Mesopotamia, la “terra fra i due
fiumi”, l’Eufrate e il Tigri. Questi corsi
d’acqua permisero non solo lo sviluppo
di una florida agricoltura, che in base
ad un innovativo e accorto uso delle acque di irrigazione artificiale dei campi
portò alla accumulazione primaria delle
eccedenze alimentari rispetto ai bisogni
domestici della popolazione e quindi ne
consentì un eccezionale sviluppo sociale
ed economico, la realizzazione di grandi
complessi palaziali e religiosi, ma anche
un esteso commercio di beni effettuato
attraverso una capillare ed efficace rete
fluviale di fiumi e canali. I fiumi, oltre
all’acqua, portavano anche una materia
prima indispensabile per la nascita e lo
sviluppo di una civiltà, l’argilla, con la
quale furono realizzati i mattoni crudi
per le costruzioni e le “tavolette”, che
permisero la creazione della prima scrittura, quella cuneiforme. Quindi i fiumi
della Mesopotamia furono indispensabili per creare le eccedenze alimentari e
il benessere della popolazione, processo
che portò alla realizzazione di una civiltà evoluta che aveva bisogno di materie
prime non disponibili nella pianura alluvionale e di conseguenza furono necessari gli scambi di merci con luoghi
anche lontani: le vie d’acqua permisero
questi traffici.
1.IL FIUME COME
FATTORE DI PRODUZIONE
AGRICOLA E PASTORALE
E DI BIOMASSA
LA MESOPOTAMIA
Figura 1. Immagine attuale della grande pianura alluvionale della Mesopotamia, formata dai fiumi Eufrate e
Tigri. Nel riquadro la posizione dell’antica città sumerica di Uruk, una delle prime città della storia, che si trovava
sulle rive dell’Eufrate e che adesso ne dista parecchi chilometri (Fonte: Jotheri, 2018)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
La Mesopotamia, “terra tra i due
fiumi”, è una grande pianura alluvionale formata dai fiumi Eufrate e Tigri,
che scendono dai Monti Tauro a nord
e che sono alimentati anche dai fiumi
che scendono dai Monti Zagros ad est
(Fig. 1). Essa confina col Deserto Arabico ad ovest, con i Monti Zagros ad est
(nell’attuale Iran), con i Monti Tauro a
nord (non presenti nella mappa) e col
Golfo Persico a sud. L’Eufrate e il Tigri
in epoca antica avevano foci separate, in
prossimità delle sponde del Golfo Persico; poi con la progradazione delle loro
foci i due corsi d’acqua si fusero nello
Shatt-al Arab (fiume degli Arabi), che
attraversa un’ampia area paludosa prima
di gettarsi nel Golfo Persico. Dal periodo “Antico Uruk” (circa 3500 a. C.) ad
oggi la terraferma è avanzata verso il
mare di varie diecine di chilometri.
195
Si premette che specialmente la Mesopotamia meridionale è stata sempre
una terra intersecata da canali naturali
e artificiali: uno dei più importanti canali artificiali fu quello navigabile fatto
costruire dal re babilonese Nabucodonosor (604-562 a. C.) per collegare
l’Eufrate con il Tigri (Erodoto, I, 193).
Nella Mesopotamia meridionale
erano insediati i Sumeri, circa dal 3200
a. C. (all’inizio dell’età del Bronzo), con
le loro città-stato Uruk, Ur, Nippur, Lagash. In particolare Uruk era ubicata in
prossimità delle sponde dell’Eufrate,
mentre ora i suoi resti archeologici si
trovano a circa 12 chilometri dal fiume,
poiché in circa cinquemila anni il corso d’acqua ha subìto degli spostamenti;
inoltre da allora la costa ha subìto una
progradazione di parecchi chilometri
(circa 50), per cui alcune città sumeriche,
come Ur, che all’inizio del III millennio a.C. si trovavano presso la linea di
costa, adesso ne sono lontane parecchi
chilometri.
La Bassa Mesopotamia era ed è caratterizzata da un clima caldo arido, tipico della steppa, e solo lungo le sponde
dei due fiumi era presente una vegetazione lussureggiante. La steppa inaridiva
alla siccità estiva, e con le piogge invernali tornava per breve tempo a coprirsi
di verde. L’Eufrate scorreva nell’area e
si sarebbe potuto usufruire delle acque
di questo fiume. In primavera, quando
le nevi delle montagne cominciavano a
sciogliersi, la piena del fiume inondava
vaste zone della pianura, talora alluvionandole. In una fascia lungo l’Eufrate
le periodiche inondazioni avevano creato un paesaggio di acquitrini e paludi
(Fig. 2).
«Si verificavano una cronica scarsità
di pioggia durante la prima parte della
stagione della crescita delle piante, una
debilitante calura estiva e periodiche e
frequenti inondazioni, insomma un clima
caldo-arido che dava origine a un ambiente
pre-desertico o alla steppa.
Solo nella fascia di inondazione fluviale era presente una vegetazione lussureggiante. L’abbondanza delle acque fluviali
e la fertilità del suolo spinsero gli ingegnosi coloni ad organizzare le prime opere di
irrigazione, che portarono ad abbondanti
e frequenti raccolti e quindi ad eccedenze
di produzione agricola. Anche grazie a
questo surplus si sviluppò la stratificazione economica e sociale e dai primi villaggi
rurali si passò alla urbanizzazione, dove
l’invenzione della scrittura rappresentò lo
strumento dello sviluppo economico, sociale,
culturale. Inoltre si sviluppò il commercio,
eminentemente fluviale, per lo scambio tra
i prodotti locali e dell’allevamento della
Bassa Mesopotamia e quelli di altre regioni, quali legname, pietre da costruzione,
metalli.
Della Mesoptamia erano coltivabili solo quelle aree dove si sarebbe potuto portare
l’acqua, mentre il resto poteva servire come
pascolo per il bestiame di piccola taglia.
I primi insediamenti agricoli, sorti intorno al 3200 a.C., che diedero luogo poi
alle città-stato dei Sumeri come Uruk, Ur,
Nippur, nacquero in una pianura alluvionale coperta da vaste paludi, piene di canneti rigogliosi, interrotte da aridi banchi
di fango e sabbia e periodicamente inondata da piene; per tortuosi canali le acque
fangose fluivano pigramente al mare, nel
Golfo Persico, allora molto più vicino all’area in esame; le acque fluviali pullulavano
di pesci, i boschetti di canne erano pieni di
Figura 2. Immagine odierna di un tratto della pianura del Fiume Eufrate, come doveva essere allorché la popolazione dei Sumeri, nel IV millennio a. C., colonizzò la regione (Fonte: Gisotti, 2016b)
selvaggina, e sui tratti di terreno emerso
crescevano le palme da dattero; se il flusso
delle acque poteva essere controllato e incanalato, le paludi drenate, e i banchi aridi
irrigati, la giungla diventava un giardino
dell’Eden».
Questo passo, liberamente tratto
da un testo del paletnologo britannico
Childe (1973), descrive quella che doveva essere l’area alluvionale della Bassa
Mesopotamia, colonizzata dai Sumeri
per realizzare una delle prime civiltà
della storia, nel corso della transizione
da uno stadio di “barbarie” neolitica ad
uno stadio di “civiltà” storica, in quella
fase della storia che Childe chiamò “rivoluzione urbana”.
IL SISTEMA DI IRRIGAZIONE DELLA
MESOPOTAMIA, I “CAMPI LUNGHI”
Il ventaglio di rotta (crevasse splay)
è una forma fluviale che si origina dalla
“rotta” di un argine fluviale, di solito a
causa di una piena: l’acqua e i sedimenti
che fuoriescono dall’alveo formano un
deposito a forma di ventaglio debolmente inclinato e col vertice nel punto di squarcio dell’argine. Il deposito é
formato essenzialmente da sabbie fini
e da limo, oltre che da detriti organici,
e pertanto costituisce un suolo relativamente fertile, sia dal punto di vista
della granulometria che da quello della
fertilità chimica. I ventagli di rotta sia
per il processo che per la forma hanno
molti punti in comune con i conoidi di
deiezione.
I ventagli di rotta, secondo Jotheri ( Jotheri et al., 2017) e Wilkinson
(Wilkinson et al., 2015), furono i primi sub-ambienti fluviali che le prime
popolazioni della Mesopotamia (a cominciare dai Sumeri) colonizzarono per
costruirvi il sistema di canali di irrigazione, allo scopo di deviare le acque dei
fiumi (Tigri ed Eufrate) e realizzare le
loro fattorie e quindi le città, come Uruk
(Gisotti, 2016a). Pertanto tali siti sono
ricchi di reperti archeologici.
Questi popoli cominciarono con lo
sfruttare il ventaglio di rotta e il canale trasversale (al canale fluviale principale), per realizzare una serie di canali
artificiali minori, a spina di pesce, che
diramandosi da quello principale irrigavano ciascuno un piccolo appezzamento
di terra. Questo sistema dei “campi lunghi”, con irrigazione a solco, era costituito da sottili strisce di terreno parallele
fra loro, in leggera e regolare pendenza,
in modo da ottenere una pendenza longitudinale dei piccoli canali, ottimale
per l’irrigazione, e un loro basso grado
di interrimento. Tale sistema idraulico
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
196
Figura 3. I “campi lunghi”, sistema irriguo degli antichi
popoli della Mesopotamia: partendo dal canale trasversale (al fiume) che ha dato luogo al ventaglio di rotta, si
realizza una rete di canali a spina di pesce, dove ciascun
canale irriga un appezzamento di terra (Fonte: Wilkinson et al., 2015; Jotheri et al., 2017)
fu sostenibile per lunghi periodi, per
millenni (Fig. 3).
In particolare, dal punto di vista
agronomico, i campi lunghi, erano lotti
di terreno coltivabile costituiti da sottili
strisce parallele fra loro, che si estendevano in lunghezza per varie centinaia di
metri, in leggera e regolare pendenza, e
che hanno una “testata alta” adiacente
al canale da cui ricavano l’acqua, e una
“testata bassa” verso acquitrini o bacini di drenaggio. L’acqua inondava solo
i solchi, e il terreno era imbevuto per
percolazione orizzontale (laterale). La
costante inclinazione del terreno si adattava a quella della morfologia, con canali
sopraelevati (per accumulo di sedimenti)
entro i loro argini, e bacini o paludi laterali di sfogo dell’acqua eccedente. Tutto
ciò mostra come il fattore vincente nella
colonizzazione del delta si basava su una
organica sistemazione idraulica del territorio, collettiva, che diede luogo ad una
forte produzione agricola, alle eccedenze alimentari e che fu quindi all’origine
dell’urbanesimo locale.
Va aggiunto che questa agricoltura
poté contare, oltre sulla sistemazione
idraulica, su altre due innovazioni tecnologiche: l’aratro seminatore e la slittatrebbiatrice (Liverani, 1998).
L’economia dei Sumeri era basata
sostanzialmente su due risorse: l’orzo, le
cui eccedenze si basavano sulla avanzata
agricoltura irrigua, e il bestiame, in primis la pecora, seguita dal bue, dall’asino
e dal cavallo (Rathbone, 2010). A queste
risorse bisogna aggiungere la biomassa
prodotta dalle estese paludi del delta, in
particolare il foraggio per il bestiame,
costituito dai germogli delle canne acquatiche, che forniva anche il materiale
per i cesti.
Per cui la loro produzione (e il commercio) erano basati essenzialmente
sull’orzo, la lana e i tessuti di lana, più
altri prodotti quali l’olio di sesamo e il
dattero, ricavato dalla palma, che forniva
cibo, legname, fibre per le corde e per la
copertura dei tetti.
In questa economia della Bassa Mesopotamia proto-urbana, caratterizzata
da straordinaria potenzialità agricola,
si verificava così un accumulo di materie prime e soprattutto di cibo, grazie
a favorevoli fattori ecologici, oltre che
tecnologici e socio-economici. Secondo alcuni studiosi, l’operazione di sottrarre l’eccedenza ai consumi familiari
per convogliarla verso una utilizzazione
comune, e cioè per finanziare le grandi
opere di infrastrutturazione idraulica e
di edilizia templare, condizioni alla base della urbanizzazione, fu organizzata
dalla classe sacerdotale (Liverani, 1998).
La stessa scrittura, nata in questa regione per l’esigenza di registrare i beni (in
gran parte derrate alimentari) accumulati nei magazzini, dimostra il surplus
delle citate materie prime.
Il terreno alluvionale era quindi potenziamene molto fertile, ossia produttivo. Col fango depositato dalla corrente
fluviale, costituito da una miscela di limo
e argilla, si realizzavano i mattoni cotti al
sole, con i quali, cementati col bitume,
furono costruiti le abitazioni, i templi, i
palazzi del potere, le mura, le necropoli.
Con l’argilla si realizzavano le stoviglie
e le tavolette per la scrittura cuneiforme: nacque per l’esigenza di registrare i
beni nei magazzini dove venivano accumulate le eccedenze alimentari. Quindi
nasce come mezzo di registrazione del
reddito e dei pagamenti, e subito si svi-
luppa da mezzo ausiliario della memoria
e del calcolo in uno strumento adeguato
per fermare ed eternare la parola detta (Fig. 4). In particolare la scrittura
pittografica del periodo “Antico Uruk”
(3500-3200 a. C.), la più antica conosciuta nel mondo, fu ridotta a forme
angolari per imprimerla più facilmente
nell’argilla fresca con una cannuccia di
vimini; questo diede ai tratti il loro caratteristico aspetto a forma di cuneo. La
scrittura cuneiforme venne usata tra il
III e il I millennio a. C.
Oltre alla produzione agricola, non
bisogna dimenticare l’attività pastorale
(anzitutto pecore, poi capre e buoi), che
si sviluppava nelle aree non utilizzate
dalla agricoltura irrigua e l’importante
apporto di biomassa fornita dalle estesissime aree delle paludi e del delta, con
il foraggio (germogli di canne acquatiche) per gli animali, l’allevamento dei
bufali e la pesca (D’Agostino, 2017).
I fattori favorevoli agli insediamenti
agricoli e poi urbani erano quindi costituiti dalla abbondanza di acqua quando
essa fu destinata all’irrigazione, dalla
potenziale fertilità del suolo, e dal clima
caldo, che permisero una elevata potenzialità agricola. L’inconveniente della
scarsità e irregolarità delle precipitazioni fu ovviato mediante l’irrigazione.
Le irregolarità del regime idrico erano sapientemente regolate da una rete
di canali che servivano sia ai bisogni
dell’irrigazione, sia ai trasporti, che erano praticati preferibilmente lungo le vie
d’acqua naturali o artificiali: ciò avvenne mediante una sapiente sistemazione
idraulica del territorio, che oltre alla pra-
Figura 4. La scrittura fu inventata nella Bassa Mesopotamia dalla civiltà Sumer. Un materiale geologico è stato
quello sul quale è stata impressa per la prima volta la scrittura: le tavolette di argilla tenera di origine fluviale.
Su questa tavoletta è stato registrato un contratto di vendita di un terreno del 2250 circa a. C. (Fonte: Museo del
Louvre, Parigi; in Gisotti, 2016a)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
197
Figura 5. Mappa di un quartiere della città di Nippur su un frammento di tavoletta di argilla, risalente al XIV
secolo a. C. Nippur era situata sull’Eufrate (adesso le sue vestigia ne sono lontane) ed era un’altra città-stato dei
Sumeri, circa 110 km a NW di Uruk (Fonte: looklex.com/e.o/nippur.htm)
tica irrigua servì a mitigare il rischio di
inondazione.
Nella fase matura di tale sistema
urbano si assiste ad una concentrazione
urbana di dimensione precedentemente impensabile, per cui le città-stato
dei Sumeri arrivarono ad una superficie molto estesa (anche 100 ettari per
Uruk) con le mura urbiche, i templi e
gli ziggurat (particolari templi rettangolari a gradoni), i palazzi del potere, i
grandi magazzini, come è stato il caso
di Nippur. Nella immagine di Fig. 5 le
due linee parallele alla estremità sinistra
della tavoletta ci descrivono il corso del
fiume mentre le linee adiacenti, che rappresentano la doppia cinta delle mura
urbiche, ci dicono che le mura per un
lungo tratto fronteggiavano il fiume, che
veniva considerato un elemento per la
difesa militare, oltre che per l’irrigazione
e il trasporto delle merci. Il quartiere era
racchiuso tra le mura, di cui si notano
alcune porte. Le strutture squadrate alla
estremità destra sono dei templi. Sono
individuati due grandi magazzini alla
estremità inferiore della mappa. Le due
linee parallele che attraversano la tavoletta al centro, dall’alto in basso, rappresentano un canale di irrigazione.
In conclusione le principali città dei
Sumeri, che possiamo indicare come
le prime o fra le prime città dell’uomo,
furono il risultato di un sistema socioeconomico che prevedeva l’interazione
di almeno tre componenti economiche,
basate sull’avanzato sistema di sfruttamento delle locali risorse naturali: l’a-
gricoltura irrigua, con ampie eccedenze
(che fu la grande invenzione dei Sumeri),
la pastorizia e l’apporto del mondo delle
paludi del delta (D’Agostino, 2017).
2. LA PROVENIENZA
DELLE MATERIE PRIME
IMPORTATE DAI POPOLI
DELLA MESOPOTAMIA
I Sumeri con il loro sviluppo socioeconomico ebbero bisogno di materiale
lapideo e di legno (legname da opera)
per le costruzioni, di bitume per im-
permeabilizzare le loro imbarcazioni e i
canestri e come cemento per i mattoni,
di metalli per le armi e gli utensili, quali
rame e stagno (più tardi per realizzare
il bronzo), l’argento e l’oro, più alcune
pietre dure (lapislazzuli, serpentino, clorite, ossidiana) per realizzare ad esempio
i sigilli cilindrici, tutti materiali che importavano mediante il commercio eminentemente fluviale.
Il mondo con il quale i popoli della Mesopotamia interagivano per i loro
scambi commerciali era quello che si
può indicare come Vicino Oriente (“vicino” per noi occidentali).
Quindi l’ampia varietà di risorse naturali in alcune regioni del Vicino Oriente e la scarsità/deficienza delle stesse
risorse in altre regioni (pietre, legname,
metalli) hanno giocato un ruolo fondamentale nelle economie delle società
del Vicino Oriente. Ma il commercio
dalla Mesopotamia settentrionale verso
quella meridionale si sviluppò non solo
con le esportazioni delle citate materie
prime, ma anche di altri materiali più
raffinati, come lapislazzuli, ossidiana,
avorio, oro, argento. Uno studio sistematico effettuato da Massa e Palmisano
(2018) su 157 siti archeologici del Vicino Oriente, riferibili alla prima e media
età del Bronzo (3200 – 1600 a. C.), ha
permesso di evidenziare quattro tipologie di materiali, avorio, lapislazzuli e
manufatti archeologici, bottiglie siriane
e pesi di bilance a piatti: la scelta di queste quattro tipologie di materiali è stata
giustificata dal fatto che essi sono stati
considerati come possibili indicatori di
Figura 6. Mappa del Vicino Oriente con i siti archeologici analizzati, che mostrano le principali regioni geo-culturali
e le città tra le quali si svolgeva il commercio citato nel testo, durante la prima e la media età del Bronzo (Fonte:
Massa, Palmisano, 2018). Per indicare le regioni con le quali si svolgeva il commercio dei popoli mesopotamici, a
questa mappa andrebbe aggiunta la catena dei Monti Zagros (nell’attuale Iran) che delimita la Mesopotamia ad
est, e le terre che si affacciano sul Golfo Persico nella parte meridionale
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
198
contatti a lunga distanza fra differenti
entità politiche e culturali di quest’area,
come viene illustrato nella Fig. 6.
Le materi prime di cui abbisognavano i Sumeri (e poi gli altri popoli insediati nella Mesopotamia) erano quelle
che non si trovavano nella pianura alluvionale. Essi erano (Fig. 7):
• il legname da costruzione, in particolare il legno pregiato ossia il cedro, per la costruzione dei templi e
degli ziggurat, che veniva importato
dai Monti Amano e dai Monti del
Libano;
• le pietre, per la realizzazione dei
templi e dei palazzi, venivano importate dai Monti Zagros, ricchi in
particolare di calcare chiaro;
• il marmo, che serviva per le sculture,
veniva importato dai Monti Tauro;
• il rame, lo stagno, l’argento e l’oro venivano importati dalle regioni che si
affacciano sul Golfo Persico, in particolare da Dilmun (Isole Bahrain) e
da Magan (attuale Oman); in generale i metalli venivano importati dal
Golfo Persico;
• il bitume serviva per cementare i
mattoni e per impermeabilizzare
gli scafi delle imbarcazioni, e veniva
estratto in un’area del medio Eufrate, presso la città di Hit (Is), “a otto
giorni di cammino da Babilonia” secondo Erodoto;
• le “pietre dure”, quali serpentino,
clorite, lapislazzuli, ossidiana, venivano usate per realizzare i sigilli
cilindrici (usati per stampigliare
una serie di simboli su una superficie tenera, quale argilla); l’ossidiana
veniva estratta presso il Lago Van
(nell’alto bacino del Tigri), il serpentino in Siria, la clorite nei Paesi
del Golfo Persico.
3.IL TRASPORTO
FLUVIALE
In Mesopotamia la rete di navigazione interna era molto sviluppata: il Tigri e l’Eufrate, i loro affluenti ed effluenti
ed i canali di irrigazione più importanti
permettevano di trasportare le merci in
modo più agevole, sicuro e meno costoso
che via terra. Le principali città mesopotamiche erano raggiungibili per mezzo
dei fiumi o dei canali, naturali o artificiali. Lungo l’Eufrate esse erano, da nord
a sud: Karkemish (Carchemish), Ebla
(non si affacciava sul grande fiume ma
poteva essere raggiunta mediante una
rete fluviale secondaria), Mari, Babilonia, Nippur, Kis (Kish), Isin, Uruk, Ur.
L’Eufrate consentiva il collegamento fra
l‘Alta Mesopotamia e l’area siriaca con
Figura 7. Mappa del Vicino Oriente con indicazione dei luoghi di provenienza delle principali materie prime che
venivano importate dai Sumeri e in generale dai popoli della Mesopotamia
la Bassa Mesopotamia, mentre il Tigri
consentiva il collegamento fra quest’ultima e l’Assiria orientale (Fig. 7).
Nella Bassa Mesopotamia (o Mesopotamia meridionale) mancavano le
pietre da costruzione, i minerali e gli alberi (legname) e quindi per lo sviluppo
della loro economia i Sumeri (e dopo
gli Accadi e i Babilonesi) dovevano in
cambio esportare i loro prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento ovino: di
questi prodotti venivano esportati dai
Sumeri cereali (e in particolare l’orzo),
la lana e i suoi tessuti.
Non dobbiamo dimenticare che anche la scrittura cuneiforme, inventata
dai Sumeri nei decenni attorno al 3000
a. C., acquisita da Ebla che si trovava
nell’alto corso dell’Eufrate, fu probabilmente esportata lungo il corso d’acqua
(Matthiae, 1986).
Questo scambio avvenne più che altro attraverso le “vie d’acqua”, la fitta rete
di fiumi e canali navigabili.
Scendendo dall’Alta Mesopotamia
lungo l’Eufrate e il Tigri, arrivavano “via
acqua” nella Bassa Mesopotamia (Uruk,
Ur, Nippur, Babilonia) le materie prime
di cui abbisognavano le popolazioni,
quali l’ossidiana del lago Van, nell’alto
bacino del Tigri, il legno di cedro dai
monti Amano e dai monti del Libano e anche dalla catena del Tauro, da
cui proveniva anche il marmo, il rame
dall’Oman, regione che si affaccia sul
Golfo Persico, nelle coste meridionali
della penisola arabica; il bitume, usato
per cementare i mattoni crudi e impermeabilizzare le imbarcazioni, proveniva
dal Medio Eufrate: Erodoto racconta
(Libro I, 179) che a 8 giorni di marcia
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
da Babilonia nei pressi della città di Hit
(Is), un affluente dell’Eufrate fa sgorgare
insieme con l’acqua, fiotti di bitume.
I commerci si sviluppavano non solo
con le altre popolazioni ma anche con
colonie delle “metropoli” dei Sumeri, e in
particolare durante il tardo-Uruk, nell’Alta Mesopotamia, come Habuba Kebira.
I
PORTI FLUVIALI
Uno dei primi porti fluviali sull’Eufrate fu quello di Ur, che faceva parte di
Sumer: fu creato a partire dal fiume, un
canale artificiale che circondava la città,
e lungo tale canale venne realizzato il
porto (o un secondo porto) (Fig. 8).
Figura 8. La città di Ur sull’Eufrate, collegata col fiume
mediante un canale artificiale. Essa disponeva di due
porti fluviali, di una cinta muraria e di strutture civili e
religiose. M: Mausoleo; PR: Palazzo Reale; Z: Ziggurat;
P: Palazzo (Fonte: Archeo, Monografie, 5/2015)
Più tardi, Babilonia divenne la principale città della Mesopotamia e sotto il
regno di Nabucodonosor (604 – 562 a.
C.) grazie anche al suo porto sull’Eufrate,
“Babilonia possedeva tutta l’attività economica internazionale dell’epoca”. Non
si hanno documentazione o resti arche-
199
Figura 9. Pianta di Babilonia (Fonte: Gisotti, 2016)
LE
IMBARCAZIONI
I popoli mesopotamici sembra che
non fossero grandi marinai, pur navigando lungo le due principali vie d’acqua della pianura. Per trasportare carichi
leggeri usavano imbarcazioni di giunchi
(Fig. 11), con cui traghettavano anche
i carri da guerra in battaglia, mentre
la quffa (Fig. 12), era una barca circolare
simile a un catino con un’armatura di
legno coperta di pelli e impermeabiliz-
zata con bitume; una “barca” talmente
fuori dell’ordinario che perfino Erodoto
la descrive nelle sue cronache.
Per trasportare i carichi pesanti usavano zattere rese galleggianti da pelli di
animale gonfiate: ad esempio in questo modo venivano trasportati enormi
Figura 10. Ricostruzione di Babilonia con l’affaccio
sull’Eufrate, il ponte che collegava le due parti e le banchine fluviali per l’attracco delle imbarcazioni
ologici su un porto fluviale di questa città,
ma si può supporre che tale infrastruttura
fu realizzata creando delle banchine lungo la parte della città che si affacciava sul
fiume (il waterfront) (Figg. 9 e 10).
Figura 11. Imbarcazione di giunchi intrecciati raffigurata su di un sigillo mesopotamico di epoca accadica (III
mill. a.C.); ibid., pg 35
Figura 12. Imbarcazioni molto simili alle quffa sono
ancor oggi utilizzate nell’ultimo tratto del fiume Indo.
(Arch. Centro Studi Ricerche Ligabue); ibid., pg 36
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
200
blocchi di pietra, sommariamente sbozzati, che poi venivano rifiniti sul posto
(Fig. 13)
L’altra “barca” era in realtà una grande
zattera, sempre di legno, il cui galleggiamento era rinforzato da sacche di pelle
gonfie d’aria, attaccate ai bordi (Fig. 13).
che funzionavano da galleggianti, potevano portare da 5 a 30 tonnellate (le più
grandi) (Fonte: Quotidiano Honebu di
Storia e Archeologia, Navigazione Antica, 26 ottobre 2010).
L’Eufrate era navigabile, durante il
periodo di morbida, in primavera, da
maggiore. Quando, seguendo la corrente, siano giunti a Babilonia e abbiano
venduto la loro mercanzia, vendono
all’asta le fiancate e tutta la paglia, ma
le pelli le caricano in groppa agli asini
e se ne tornano in Armenia. Infatti non
potrebbero essi risalire il fiume, data la
Figura 13. Zattera per carichi pesanti, fatta di legno e da pelli di animale gonfiate. In questa immagine vengono trasportati enormi blocchi di pietra, sommariamente sbozzati,
che poi vengono rifiniti sul posto (Bassorilievo da Ninive, Regno di Sannacherib, 704-681 a. C.)
Altro materiale pesante e ingombrante da importare era il legname, in
particolare quello di cedro, che proveniva dai Monti Amano, al confine fra gli
attuali Siria e Turchia, e dai Monti del
Libano (Fig. 14).
Karkemish (o Carchemish, nell’Alta
Mesopotamia) fino al Golfo Persico. Da
agosto a novembre, periodo di magra,
la navigazione era resa più difficoltosa
per l’affioramento di secche e di rocce.
Con la piena, la corrente si faceva spesso
rapidità della corrente; ed è per questo,
anche, che essi fanno le imbarcazioni
non in legno, ma di pelle. Quando poi,
spingendosi innanzi gli asini, siano tornati in Armenia, con lo stesso modo si
procurano altri battelli”.
BIBLIOGRAFIA
Figura 14. Imbarcazioni fluviali per il trasporto del legname nei fiumi mesopotamici. Il legname doveva essere
importato poiché nella pianura alluvionale della Mesopotamia, a causa del clima arido, scarseggiavano gli alberi.
Questo bassorilievo, proveniente dal palazzo di Sargon, a dur Shurrakin, mostra gli Assiri che trasportano dal
Libano tronchi di cedro per costruire un edificio (Fonte: Rathbone, 2010)
Il peso delle merci trasportate per via
fluviale raggiungeva indici notevoli. Le
grandi zattere trasportavano fino a 90
tonnellate; una barca di 36 tonnellate
necessitava solo di 6 o 7 uomini di equipaggio per una manovra contro-corrente. Il carico normalmente trasportato si
aggirava sulle 6 tonnellate ed equivaleva
al carico trasportato da 66 asini. I kelek, ossia le zattere attrezzate con otri
violenta e impediva la risalita del fiume,
tanto che si dovevano attendere anche
dei mesi per riprendere la navigazione.
Erodoto (I, 194) racconta le modalità di trasporto fluviale fra l’Armenia
(nell’alto bacino dell’Eufrate) e Babilonia, utilizzando “imbarcazioni di
forma rotonda e tutte in pelle”. “……
in ciascun battello si imbarca un asino
vivo, in quelli più grandi un numero
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201
Il porto di Hadria. La
ricostruzione del paesaggio
fluviale antico. Ipotesi
preliminari
Davide Mastroianni
PhD in Topografia Antica, Università
degli Studi di Siena, Dipartimento di
Scienze Storiche e dei Beni Culturali
E-mail:
[email protected]
The harbour of Hadria. The reconstruction
of ancient fluvial landscapes. The
preliminary hyphotheses
Parole chiave: Abruzzo, Torre Cerrano, porti, archeologia subacquea, paesaggi costieri
Key words: Abruzzo, Torre Cerrano, harbours), underwater archaeology, coastal
landscapes
RIASSUNTO
Nel luglio del 1982, nelle acque antistanti la Torre di Cerrano, nel comune di
Pineto in provincia di Teramo, a seguito
di una serie di immersione subacquee,
furono individuate alcune strutture in
conglomerato e alcune in laterizi di origine antropica, blocchi squadrati in calcare, grandi elementi quadrangolari in
conglomerato, resti di mura in laterizio,
una bitta in arenaria e resti di colonne
sempre in arenaria. In quest’area, Strabone segnalava l’esistenza di un epìneion
in epoca romana, ovvero il porto commerciale di città non marittime quale
era Atri, ubicato nell’Ager Hatrianus
e più precisamente alla foce del fiume
Matrino. Strabone, nella sua Geografia,
descrive lo scalo atriano, importante sia
per la strategica localizzazione nell’Adriatico Centrale sia per la funzione di
utile scalo di merci su rotte commerciali. Queste correvano longitudinalmente alle coste sabbiose dell’Adriatico
occidentale e trasversalmente tra quelle
occidentali e orientali, coincidendo con
la foce del fiume Matrino, corso acqua
discendente dalla città di Hatria, per il
quale è ancora dibattuta l’esatta ubicazione. Molte sono le discussioni aperte
tra gli studiosi e le varie ipotesi delineano un quadro storico poco chiaro. I più
sono propensi a far coincidere il porto
romano di Atri con la foce del fiume
Vomano, dove peraltro sono stati rinvenuti in passato numerosi resti di ville,
come quelle presenti sulla sinistra e destra idrografica del fiume stesso, manufatti di epoca romana, come il recente
mosaico rinvenuto nella zona di Fonte
dell’Olmo, nel territorio di Roseto degli
Abruzzi e monete d’argento e di bronzo di età imperiale lungo le sponde del
fiume. Lugi Sorricchio, storico locale del
XIX secolo, nel manoscritto di famiglia
“Le antichità dell’Adria Picena”, descri-
ve, definendone le dimensioni strutturali, strutture portuali nell’area alle pendici
di Colle Morino di Pineto (TE), colle
che per assonanza richiama il toponimo Maurinum o Macrinum, menzionato anche nella Tabula Peutingeriana.
In questo caso, l’area dove insisteva il
porto, non meglio definita lungo la linea di costa, si trovava in un crocevia
fiume/strada, all’intersezione tra la foce
del fiume Vomano e la via Cecilia. Con
molta probabilità la foce a quei tempi
era collocata alcune centinaia di metri
dietro quella attuale e spostata di quasi
1 km a sud dell’attuale, come ci testimoniano recenti studi geomorfologici.
Altre ipotesi riconducono l’approdo di
Hatria coincidente con la zona di foce
tra il Piomba e il Saline, facendo risalire
ad epoca medievale il porto di Atri edificato in Pinna Cerrani.
Un’attenta rilettura del materiale
cartografico storico, dei portolani e del
paesaggio attuale attraverso l’analisi e
l’interpretazione della copertura satellitare disponibile per l’area oggetto della
ricerca, permetterà di proporre una ipotesi preliminare ricostruttiva del paesaggio fluviale e portuale dell’area del porto
di Hatria.
1. INQUADRAMENTO
DELL’AREA
Ci troviamo in una porzione di territorio che corrisponde, attualmente,
alla fascia costiera del Teramano meridionale e del Pescarese settentrionale,
delimitata dai fiumi Vomano e Pescara
e compresa, anticamente, nell’area della
Regio IV (Sabina e Samnium) (Fig. 1).
Il centro principale di questa porzione
di territorio, posta al confine tra l’Ager
Praetuttianus e l’Ager Hadrianus, era la
città di Hadria. Fu fondata come colonia latina nel 289 a.C., a presidio del
Pretuzio meridionale, in un’area interes-
Figura 1. La città di Hatria e il quadro idrografico (La
Regina 2010)
sata dalle necropoli italiche di località
Pretara e località Colle della Giustizia
(d’Ercole, Copersino, 2001). La città
presentava un tessuto urbano regolare
con maglie di 2x3 actus (70x150 m),
aventi il lato breve disposto lungo l’asse
principale e corrispondente all’attuale
Corso Elio Adriano. La città ebbe vita
fiorente tra la fine dell’età repubblicana e
la piena età imperiale. Nel corso del III
secolo d.C., subì diverse trasformazioni
dell’assetto urbano con progressiva obliterazione dell’impianto antico a seguito
di numerosi crolli e abbandono di settori
estesi della città. Questa si avviò verso la
sua decadenza intorno al VI secolo d.C.,
tanto che nell’VIII secolo d.C., Paolo
Diacono la definì vetustate consumpta
Hadria (Colucci, 1795). A partire dall’XI secolo d.C., la città si sdoppia in due
insediamenti: Atri Vetulum e Castellum
de Atri (questi menzionato in una carta farfense del 1085) e ubicabile nelle
immediate adiacenze del centro romano
(Azzena 1987; Staffa 2001).
2. LE FONTI ANTICHE E LE
FONTI MEDIEVALI
I primi cenni riguardanti il porto
di Hadria li abbiamo da Strabone (V,
4, 2), il quale lo collocava in corrispondenza del fiume Matrinum o Macrinum. L’idrografia attuale ha reso la sua
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
202
identificazione abbastanza complessa.
Il Macrinum, chiamato da Strabone
“Ματρῖνος ποταμός”, è stato identificato, a più riprese con il Vomano, il Cerrano, il Saline e il Piomba. Strabone citava
chiaramente che il Matrino (Ματρῖνος)
bagnava la città degli Adriani (ῥέων ἀπὸ
τῆς Ἀδριανῶν πόλεως) e che il suo scalo o arsenale (ἐπίνειον) era eponimo del
fiume, quindi Porto Matrino. L’esistenza
di un porto presso la foce del Cerrano
era nota già a partire dal Medioevo. Un
diploma del 1215 del Cardinale Pietro
Capocci ad Ascoli, legato di Innocenzo
IV, (Sorricchio, 1983) elencava diversi
privilegi concessi dallo stesso alla città di
Atri quali: divenire sede vescovile, poter
eleggere il podestà purché non ghibellino ed erigere un porto (…concedimus
ut Civitas Adriae possit habere portum
per lius et litura maris per suum Comitatum ubique…). In un documento del
1225 (Sorricchio 1983), si leggeva che il
pontefice Alessandro IV confermava la
concessione per la costruzione del porto
di Pinna Cerrani (Vobis et Civitati Vestre
portum in Penna Cerrani, et ubique per
litora maris per districtum et territorium
Civitatis eiusdem). Nel 1283 (Angeletti,
1983), furono costruiti: un ospedale, una
torre di avvistamento e difesa, diverse
case, un ospizio, un chiostro e la chiesa
di San Nicola. Alla fine del XIII secolo il
porto doveva essere in piena efficienza e
soggetto, dunque, a continue manutenzioni, tant’è che un documento del 1287
(Angeletti, 1983) menzionava il “poter
reparare e riedificare una certa vecchia torre ed il luogo frastagliato sul lido del mare
dove avrebbero potuto trovare ricetto i navigli e caricarsi e scaricarsi merci ed altre
cose lecite” (…quandam Turrim veterem,
et locum fractum sita in territorio civitatis
Adriae in loco qui dicitur Penna Cerrani).
Alle spese contribuirono i castra di Silvi
e Montepagano che avrebbero potuto
giovare delle attività commerciali. Il
porto, come citano ulteriori documenti del 1307 e 1309 (Angeletti, 1983), si
trovava in plagia Cerrani. Nel 1347 il
porto fu teatro di un attacco dal mare ad
opera del provenzale Frate Moriale. Nel
1447, la Repubblica di Venezia inviò una
flotta da guerra, comandata da Andrea
Loredan, che distrusse il porto e le difese del Cerrano, per ribadire la supremazia della flotta commerciale veneziana
nell’acque dell’adriatico. Nonostante gli
sforzi degli atriani nel contribuire economicamente al restauro delle strutture
e a causa dei continui insabbiamenti del
fondale, il porto fu ceduto ad una società
privata. L’ultima notizia relativa al porto
è del 1516 (Angeletti 1983), in cui esso
risultava interrato e per questo motivo si
decise di costruirne uno nuovo alla foce del torrente Calvano, 3.5 km a nord
della Torre del Cerrano, attualmente
all’interno dell’abitato di Pineto. La costruzione nel 1568 dell’attuale Torre di
Cerrano, inserita all’interno del più vasto complesso di difesa ed avvistamento
delle coste del Regno di Napoli, sancì
l’ormai definitiva chiusura del porto che
subì un ulteriore sconvolgimento nel
1627, a causa di una violenta frana, tra
Atri e Mutignano, che terminò il suo
corso in mare. Questo avvenimento potrebbe aver causato un ulteriore insabbiamento delle strutture portuali e un
loro conseguente abbassamento (AA.
VV, 1991; Sorricchio, 1911).
3. LE ATTIVITÀ
SUBACQUEE
Le prime esplorazioni subacquee,
nel tratto di mare antistante la Torre del
Cerrano, ebbero avvio nel 1982, sotto il
coordinamento scientifico del Professore Pier Giorgio Data, dell’Università di
Chieti, in collaborazione con l’ANIS di
Roma, il CRAS Club di Pescara e i Vigili del Fuoco di Teramo. Le prospezioni
subacquee si concentrarono in un’area di
800 m a E della Torre (Fig. 2), con l’individuazione di diverse strutture in pie-
tra e in laterizio, frammenti di ceramica,
resti di contenitori da trasporto ed elementi architettonici (Figg. 3, 4) (Angeletti, 1983). Tra il 1987 e il 1988, sotto il
coordinamento scientifico della Prof.ssa
Luisa Migliorati, docente di Topografia Antica dell’Università degli Studi di
Roma “La Sapienza”, la Soprintendenza
Archeologica per l’Abruzzo, l’Agip e la
cooperativa Atlantis, furono condotte
ulteriori prospezioni subacquee volte ad ampliare le conoscenze sull’area
(Migliorati, 1997). Tra il 2009 e il 2011
sempre in collaborazione con la Prof.
ssa Migliorati, la Soprintendenza per i
Beni Archeologici dell’Abruzzo e l’Associazione Culturale Archeosub Hatria, le nuove prospezioni hanno avuto
lo scopo di verificare la situazione delle
strutture sommerse, al fine di riprendere e completare la documentazione. Le
evidenze archeologiche occupavano una
superficie di circa 90.000 mq; fu individuato un bacino portuale di 480x350
m racchiuso da due moli a tenaglia con
ingresso a NE, costituiti da grossi blocchi con moduli di 2x4x6 m di cui, quello
più a S, era proteso verso NE, a protezione dai venti del II Quadrante (Nuovo,
2016). Le scansioni subacquee sono state effettuate mediante un Sub-Bottom
Profiler e il Side Scan Sonar, portando
Figura 2. Area di costa antistante la Torre di Cerrano. In rosso, l’area interessata dalle ricognizioni subacquee
(Ortofoto Regione Abruzzo 2007. Elaborazione Autore)
Figura 3. Bitta in arenaria (Foto Archeosub Hatria)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Figura 4. Frammento di capitello (Foto Archeosub Hatria)
203
Figura 5. Planimetria delle prospezioni subacquee effettuate mediante un Sub-Bottom Profiler e il Side Scan
Sonar (Angeletti 2001)
all’’individuazione di 120 anomalie ad
alta riflettività, ascrivibili con molta
probabilità alla presenza di materiale
lapideo e/o roccioso all’interno della
matrice sabbiosa del fondale (Angeletti, 2001). Una prima serie di anomalie
fu riscontrata in un tratto compreso tra
i 100 e i 400 m dalla terraferma; una
seconda a circa 800 m dalla costa, in un
settore posto più a sud rispetto alla torre
(Fig. 5). Sono stati riconosciuti tratti di
molo in opera cementizia, ad una profondità compresa tra i 2 e gli 8 m. Nei
blocchi del molo, in pietra d’Istria, sono
presenti bitte in puddinga poste lungo le
estremità del bacino e bitte in arenaria
poste, invece, all’interno. La posizione,
le dimensioni e i materiali delle bitte
sembrerebbero organizzate in base alla
grandezza delle imbarcazioni che attraccavano: le più grandi lungo la banchina esterna e le più piccole all’interno
del bacino (Angeletti, 1983; Migliorati,
1997). Inoltre, sono stati recuperati da
diversi pescatori, numerosi frammenti
di anfore di tipo Lamboglia 2 / Dressel
6A, a testimonianza del commercio del
vino atriano e della produzione locale
di questo tipo di contenitore, rinvenuto
in tutto il territorio di Atri nel corso di
diverse ricognizioni di superficie.
4. LA RICOSTRUZIONE
DEL PAESAGGIO
FLUVIALE. LA TABULA
PEUTINGERIANA E LE
SUE DERIVAZIONI
Il toponimo Macrinū, citato da Strabone, potrebbe coincidere con l’area di
costa nei pressi di Torre del Cerrano
(Fig. 6). La cartografia storica, scar-
samente usata dagli archeologi per lo
studio dell’area del porto, ha fornito
numerosi elementi per la ricostruzione del paesaggio costiero e fluviale del
territorio antico limitrofo. La situazione
idrografica attuale è strutturata come segue: l’unico grande fiume, per lunghezza
e portata, che discende dal colle di Atri,
è il Cerrano. Immediatamente a S il
Gallo che prima di tuffarsi a mare sver-
sa nel Piomba. Il fiume Saline ha una
maggiore portata rispetto al Cerrano
e al Piomba, ma non passa per Atri. Il
Vomano e la sua foce si trovano molto
più a N, a circa 5 km (Fig. 7). Quindi, il
Cerrano risulterebbe l’unico candidato
per il Macrinū di Strabone.
La Tabula menziona i fiumi Comara
e Sanmium e un fiume più a N, ma senza toponimo. Alcune strutture portuali
rinvenute a N e a S della foce del Vomano hanno condotto diversi studiosi a
collocare in quest’area i resti del porto di
Hadria. Come suggerisce Nereo Alfieri
(Staffa, 2001), le strutture individuate,
di carattere privato, apparterrebbero agli
approdi di un impianto rustico presso
S. Martino in Vomano a N della foce
del fiume omonimo e del monastero
di Santa Maria in Maurinis a S, presso la località di Colle Maurino a Pineto. Inoltre, l’ipotesi di Andrea Rosario
Staffa di accostare il toponimo in Maurinis a Macrinū risulterebbe alquanto
forzata (Staffa, 2001). Calcolando le
distanze indicate dalla tabula, partendo
da S verso N, la situazione attuale, con
uno scarto di poche centinaia di metri,
apparirebbe quanto segue: il Samnium
corrisponderebbe al Salinus, idronimico
latino del Saline, il Comara al Piomba (al
momento non ci sono ipotesi sull’evoluzione del toponimo) e il torrente più a N
Figura 6. Stralcio della Tabula Peutingeriana (XI-XIII secolo d.C.) con l’indicazione del Macrinum e di Hadria
Figura 7. Situazione idrografica attuale con l’ubicazione della Torre di Cerrano e del borgo di Atri. (Ortofoto
Regione Abruzzo 2007. Elaborazione Autore)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
204
Figura 9. Stralcio della Tabula Europae VI. Della Geografia di Tolomeo degli Eredi di Melchiorre Sessa di
Venezia, 1599
Figura 8. Confronto e calcolo delle misure tra la Tabula Peutingeriana e l’idrografia attuale (Elaborazione Autore)
Figura 10. Particolare dell’Italia Antiqua di Cluverio
1688
al Vomano (Fig. 8). Esistono alcune cartografie storiche che in parte ricalcano
i nomi e i percorsi che si ritrovano nella
Tabula Peutingeriana, come ad esempio
La Tabula Europae VI. Della Geografia di
Tolomeo, pubblicata dagli eredi di Melchiorre Sessa di Venezia, nel 1599 (Fig.
9); l’Italia Antiqua di Cluverio del 1688
(Fig. 10); la Regionum Italiae Mediarum
Tabula Geographica di Delisle Guillaume, nel 1711 (Fig. 11) e la Tabula Italiae Antiquae dello stesso, ma del 1715
(Fig. 12).
I quattro autori riportano Adria e
per la prima volta il fiume Macrinū o
Matrinus. Guillaume, nella sua carta del
1711, è il primo ad assoluto a indicare
il porto navale di Hadria posto alla foce
del fiume Macrinū (Matrinium Hadria
navale). Riporta a S di questi il Suinus
come affluente del Comara. Secondo i
calcoli delle miglia sulla Tabula, il Sinium corrisponde al Saline, il Comara
al Piomba; nella carta, la descrizione
del cartografo francese, il Comara corrisponderebbe, oggi, al Saline e il Macrinus al Piomba, stravolgendo la topografia idrografica. Il fiume che scorre al
di sotto di Hadria, compare nuovamente
(l’attuale Cerrano?).
Guillaume, nel 1715, pubblica una
seconda edizione della sua opera. Sparisce il toponimo Comara, ora solo Salinae, mentre il fiume che ha origine da
Hadria è identificato con il Matrinum.
II “Piomba-Matrinum” della carta del
1711 perde il suo toponimo nella secon-
5. IL PORTO DI TORRE
CERRANO NELLA
CARTOGRAFIA STORICA
Del 1548 è la carta della Marcha
de Ancona Nova di Giovanbattista Pedrezano (Fig. 13). Nei pressi del piccolo
tratto di costa ai piedi di Atri, rientrante tra le proprietà della città di Venezia,
Figura 11. Stralcio della Regionum Italiae Mediarum Tabula Geographica di Delisle Guillaume, 1711
Figura 12. Particolare della Tabula Italiae Antiquae di Delisle Guillaume,1715
da edizione del 1715 e, come si evince
dalla stessa, sfocia nel Salinae. Quest’ultima è l’unica che corrisponde alla ricostruzione dell’attuale paesaggio fluviale,
confrontata con le misure della Tabula, e
per la prima volta il fiume che ha origine
da Atri, l’attuale Cerrano, è identificato
con il Matrinum.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
205
Figura 13. Stralcio della Marcha de Ancona Nova di Giovanbattista Pedrezano, 1548. Pota de Ziran = Punta
Cerrano (è rappresentata la costa di forma allungata); P: datri = Porto di Atri
seguenza, il P. d’Alatri corrisponderebbe
al “P. di Atri”, ovvero il Porto di Atri. La
carta indica la presenza del Porto di Atri
nei pressi della località di Cerrano. Da
sottolineare è la presenza di un fiume,
privo di riferimenti toponomastici, che
ha origine da Atri e di cui si conserva
il porto presso la sua foce. Nell’Abruzzo Citra et Ultra, del 1604, di Giovanni
Antonio Magini, sono raffigurati il borgo di Atri, posto su una collina, e un fiume che scende dalla stessa (il Cerrano) e
che sfocia a mare nei pressi di una torre,
indicata dal toponimo “torre”.
È menzionato il Piomba, Silva (l’attuale paese di Silvi) e il Porto di Calvano
Figura 14. Particolare della Tavola Nuova della Marcha de Ancona di Vincenzo Valgrisi, 1561. Punta di
Girano = Punta Cerrano (con la rappresentazione della
lingua di costa); P. d’Atri = Porto di Atri
spiccano due toponimi di interesse: pota
de ziran e p. datri. Il primo conserva una
certa assonanza con Punta di Cerrano,
mentre il secondo indica chiaramente il
porto di Atri.
Del 1561 è la Tavola Nuova della
Marcha de Ancona, di Vincenzo Valgrisi (Fig. 14). L’autore riporta il porto di
Atri (P. Atri) insieme alla vicina Punta di Girano che conferma l’ipotesi del
toponimo “Pota-Punta” e della località
Cerrano, quindi Punta di Cerrano, che
rimanda, molto probabilmente, alla caratteristica forma appuntita del tratto di
costa. Nella carta di Pirro Ligorio (Nova
Regni Neapolit. Descript. Usq. Ad pharum
cum Parte Romandiola nota Marca Anconitana, Umbria, Roma, e tota Campania)
del 1558, l’autore menziona a N di Pars
S. Angelo, i toponimi di Cerrano e Pars
d’Alatri, oltre al Calvano, nuova sede del
porto in sostituzione di quello del Cerrano (Fig. 15).
Molto probabilmente, erano stati
già avviati i lavori di trasferimento della sede del porto da Torre Cerrano alla
nuova, in località Calvano. La carta di
Abraham Ortelius del 1570 (Regni Neapolitani Verissima Secvndum Antiqvorum
Et Recentiorum Traditionem Descriptio),
Figura 15. Particolare della Regni Neapolitani Verissima Secvndum Antiqvorum Et Recentiorum Traditionem
Descriptio di Abraham Ortelius, 1570. È riportata la lingua di costa con la località Cerrano. È presente anche la
nuova sede di località Calvano
(Fig. 17). Per la prima volta è menzionato il Porto di Calvano e ogni riferimento
al Porto di Atri nei pressi del Cerrano
scompare; rimane solo la torre. Molto
probabilmente i resti del Porto di Cerrano erano già completamente sommersi,
tant’è che sparisce la rappresentazione
grafica della “Pinna/Punta”, e le attività portuali, secondo le fonti erano già
state trasferite presso la nuova sede di
Calvano. Inoltre, nel 1568, hanno avuto
inizio i lavori per la costruzione dell’atFigura 16. Stralcio della carta Abruzzo Citra et Ultra
di Giovanni Antonio Magini, 1604. Sparisce il lembo
di costa e il toponimo. Resta traccia del toponimo Torre. Compare il primo riferimento al porto di Calvano.
Scompare la costa
copia dell’opera di Ligorio, riporta da N
verso S, il fiume Vomano, i toponimi di
Calvano, P. d’Alatri, Cerrano, P. S. Angelo,
P. di Saline e per la prima volta il fiume
Piomba (Fig. 16).
L’autore nel citare Alatri, (da non
confondere con Alatri di Frosinone),
aggiunge il suffisso “olim Atria”, ovvero
“un tempo nota con il nome di”. Di con-
Figura 17. Particolare dell’Atlante geografico del regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni,
1808. Compare il toponimo T. di Cerrano insieme al
Fosso omonimo. Nei pressi della torre sono indicate delle
strutture sommerse
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
206
Figura 18. Stralcio della Generalkarte von dem Koenigreiche Neapel oder Napoli (northwestern sheet di
Giovanni Antonio Rizzi Zannoni e Franz Anton
Schraembl, del 1800. Anche qui sono rappresentati dei
resti sommersi
Figura 19.
tuale Torre del Cerrano. Il primissimo
riferimento toponomastico al Fosso del
Cerrano si trova nell’opera di Rizzi Zannoni, del 1808, insieme al Fosso del Gallo
che sfocia nel Piomba, il borgo di Atri, da
cui scende il Cerrano verso il mare e la
sua foce che si trova a sud di T. di Cerrano (Fig. 18). L’autore, oltre a riportare
l’edificio, sembra indicare la presenza di
una struttura sommersa ai piedi dello
stesso. La struttura appare in un’altra
carta storica, di Rizzi Zannoni insieme
a Franz Anton Schraembl, pubblicata
qualche anno prima, nel 1789, insieme
al simbolo della torre (Fig. 19). Sono,
invece, assenti i riferimenti ai Fossi del
Cerrano e del Gallo. Anche in questo
caso non vi è traccia della Punta/Pinna.
6. IL PORTO DI
TORRE CERRANO NEI
PORTOLANI
Anche i portolani forniscono informazioni alquanti interessanti. Del 1311
è la carta nautica di Pietro Vesconte, nella quale tra San Flabian (Giulianova) e
Saline (il fiume Saline), compare il toponimo di Ponta de Ciran, che rimanderebbe a “Punta del Cerrano” (Fig. 20). Nella
carta si riconosce un elemento di forma
circolare (la torre?) su un promontorio
o su piccola porzione di spiaggia che si
affaccia sul mare. In una carta nautica
Figura 20.
anonima del XIV e in quella di Angelino
Dulcert del 1335, tra il Comano (l’attuale Piomba) e San Andrea (l’attuale
Penne S. Andrea), compare la località
di Atri. Il percorso del fiume, probabilmente l’attuale Cerrano che si trova a N
del Comano (l’attuale Piomba), sembra
risalire verso l’interno. La stessa situazione si riscontra nell’Atlante Catalano
di Abraham Cresques del 1375.
Nell’opera di Grazioso Benincasa
del 1470, tra San Fabiano e Salino, è
riportato il toponimo Ponta di Cirano,
in prossimità di una piccola sporgenza
sul mare, proprio come nella carta del
Visconte (Fig. 21). Nei successivi portolani (Albino de Canepa, 1489; Jorge
Aguiar, 1492; Iacopo Russo 1533), fa la
sua ricomparsa il toponimo Atri, posto
a N del Comano. In una carta nautica
successiva, del 1572, donata dal senato romano a Marcantonio Colonna, si
menziona nuovamente Ponta de Cerano
tra Saline e San Falvian, con l’illustrazione della “punta”, mentre nel lavoro di
Placido Calorio e Giovanni Oliva (Fig.
22), del 1650, troviamo il toponimo Ciran, con l’indicazione della sporgenza e
di un elemento sommerso nell’area antistante Ciran, come nelle due opere di
Rizzi Zannoni.
Figura 21. Il portolano di Grazioso Benincasa del 1470
con l’indicazione del toponimo Ponta di Cirano e della
costa con la caratteristica forma a punta
Figura 22. Il portolano di Pietro Calorio e Giovanni
Oliva, del 1650. Oltre al toponimo Ciran e alla rappresentazione della costa, è indicata la presenza di un
elemento sommerso, come nelle carte di Giovanni Rizzi
Zannoni
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
7. IL CONTRIBUTO DELLA
FOTOGRAFIA AEREA
L’analisi della fotografia aerea storica e moderna ha permesso di aggiungere informazioni considerevoli al quadro fin ora illustrato. Lo spoglio della
copertura aerofotografica della Regione
Abruzzo ha consentito di individuare,
nel tratto di costa nei pressi di Torre
del Cerrano, diverse anomalie riferibili
a eventuali strutture sommerse. Queste
si riscontrano in alcuni fotogrammi dei
seguenti voli: Volo IGM 1954; 1985;
Regione Abruzzo 2007 e 2010. Le anomalie evidenziano, nei fotogrammi del
1954, 1985 e 2007, un grande complesso
sommerso di forma quadrangolare con
orientamento NE-SO, a 350-400 m
circa a NE della torre. Il fotogramma
del VRA 2010 delinea maggiormente il
profilo della struttura caratterizzata da
una forma di L rovesciata e che, quindi,
conferma pienamente il molo a doppia
tenaglia, ma con ingresso a E e non a
NE. Un altro elemento sommerso, perfettamente in asse con il vasto complesso sommerso, molto probabilmente, si
colloca circa 300 m a S dello stesso e circa 440 m a SE della torre (Figg. 23, 24).
8. CONCLUSIONI
Sappiamo dalle fonti medievali di
un porto in Pinna Cerrani e della possibilità di poterlo ricostruire in un luogo
frastagliato sul lido del mare. Questi
elementi testimoniano la connotazione
sia topografica sia amministrativa di un
porto alla foce del fiume Cerrano, probabilmente già esistente e per i seguenti motivi: difficoltà logistiche, oggettive
ed economiche nel procedere alla realizzazione di nuove strutture portuali
in una costa soggetta a insabbiamento per il basso fondale per la presenza
delle vicine foci di ben due fiumi e due
torrenti di grande portata. Il toponimo
Pinna Cerrani, nelle sue forme Pota de
Ziran e Punta di Girano è noto dalla
cartografia storica di XV secolo. Nella
cartografia nautica, chi si occupava della
navigazione, doveva essere il più possibile preciso nel ricostruire i tratti della
costa e i punti di approdo più agevoli
all’attracco, stando attento, quindi, a disegnare più punti di riferimento possibili: colline, monti, fari, tracce di basso
fondale e pericoli di attracco. I toponimi
Ponta de Ciran, Ponta di Cirano, Ponta
de Cerano e Ciran, con la raffigurazione
di una piccola lingua di costa e, in alcuni casi la torre, li rinveniamo in carte
nautiche antecedenti al 1600. Siamo
a conoscenza del maremoto del 1627
(Angeletti, 1983), che sicuramente in-
207
Figura 23. Volo Regione Abruzzo 2010. Fotogramma 1340. Anomalie sommerse
Figura 24. Restituzione aerofotogrammetrica (IGM 1954_2716-VRA_2010_1340) su Carta Tecnica Regionale 1.5000
ghiotti il porto e la costa, tanto da non
comparire (sia a livello toponomastico
sia grafico) sulle cartografie storiche e
nautiche prossime o successive all’anno
del maremoto stesso. Per quanto riguarda l’identificazione del Matrinum con il
torrente Cerrano è abbastanza evidente;
è l’unico fiume che attraversa il borgo di
Atri, come indica Strabone. Il torrente del Fosso del Gallo non ha origine
dal borgo, lo costeggia a sud e sfocia
nel Piomba poco prima di giungere
alla costa. I calcoli delle distanze della
Tabula Peutingeriana confermano che il
Samnium, il Comara e il terzo fiume, da
S a N, corrispondono, senza dubbio, al
Saline, al Piomba e al Vomano. E questo è confermato anche dalla cartografia
storica successiva e dall’idrografia attuale. Per quanto riguarda la localizzazione
dei resti del porto romano di Hadria è
evidente la sua posizione ai piedi della spiaggia di Torre del Cerrano, come
confermano le evidenze subacquee e
l’aerofotointerpretazione archeologica,
con l’individuazione del molo di attracco a doppia tenaglia, che occupa una
superficie di quasi un 1 kmq e strutture
minori a poca distanza e in asse con il
complesso portuale. Suggestiva, ma non
del tutto improbabile, la rappresentazione delle strutture sommerse del porto
nelle carte storiche di Rizzi Zannoni
e nel Portolano di Calorio e Oliva. In
quest’ultimo, molto probabilmente, sono indicate come pericolo, in quanto la
presenza di un “locum fractum in Pinna
Cerrani” non era certamente un punto
favorevole all’attracco.
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Valgrisi V. (1561), Tavola Nuova della
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
208
Il Tevere, asse di
comunicazione e di sviluppo
tra Roma, il litorale ed i
porti
Renato Matteucci
SIGEA Lazio
Carlo Rosa
SIGEA Lazio - Istituto Italiano di
Paleontologia Umana
Renato Sebastiani
Soprintendenza Speciale Archeologia
Belle Arti e Paesaggio di Roma
The Tiber, communication and
development axis between Rome, the
coast and ports
Parole chiave: Tevere, porti, archeologia
Key words: Tiber, ports, archaeology
RIASSUNTO
Il corso del fiume Tevere è il primo e
fondamentale elemento nella storia con
funzione e caratteristiche di via di comunicazione tra Roma e il Mare, oltre che
risorsa di acqua potabile e ambiente ideale
per la pesca. Esso rappresenta l’elemento
distintivo e caratterizzante dal quale nascono tutte le direttrici stradali storiche
che ruotano intorno al fiume, e successivamente, la viabilità moderna che ricalca
in parte l’antica e la amplia (Fig. 1).
Questo lavoro si propone, in particolare, di mettere in evidenza il doppio ruolo che ha avuto ed ha il fiume
nell’ambito evolutivo degli insediamenti nell’area romana: quello di risorsa indispensabile come via di comunicazione
e quello di agente morfogenetico che,
attraverso la sua azione erosiva, di trasporto, di sedimentazione, ha variato la
morfologia del paesaggio, costringendo
l’uomo, quando lo ha fatto, ad adottare
strategie e soluzioni tecniche diverse e
complesse, nella continua e complicata
ricerca di adattare l’ambiente alle sue
esigenze. Per potere studiare gli spostamenti del Tevere, anche in epoche prive
di documentazioni cartografiche o iconografiche, è necessario partire dalla conoscenza delle sue facies alluvionali, che
sono differenti al variare della posizione
del sedimento deposto rispetto all’alveo.
Questo contributo intende analizzare il rapporto costituito dal fiume Tevere e dai suoi affluenti compresi nella
loro estensione e modificazione con la
viabilità (fluviale, terrestre e marittima),
sull’asse di sviluppo e di comunicazione
tra Roma ed il Mare, attraverso l’analisi ed il confronto dei caratteri storicoarcheologico-insediamentali e degli
aspetti geologico-ambientali ed economico-produttivi, strettamente correlati
e condizionati dal corso del fiume Tevere e dalle sue variazioni nel tempo.
INQUADRAMENTO
GEOLOGICO DELLA
VALLE DEL TEVERE
Nel corso dell’Olocene il corpo alluvionale del Tevere e del suo Delta prendono forma e si strutturano con il susseguirsi degli eventi alluvionali di maggiore
intensità. La aggradazione produce via
via nel tempo un innalzamento del livello della piana alluvionale esondabile e,
parallelamente, dell’alveo del fiume fino
alle quote attuali, mentre la progradazione produce un ingrandimento del Delta
verso ovest a spese dell’area occupata un
tempo dal mare (Bellotti et al., 2011;
Milli et al. 2013; Milli et al., 2016). Con-
Figura 1. Fotomosaico della bassa valle del Tevere tratto da foto USAAF 3rd Photo Group, March 16th, 1944 (ICCD – Aerofototeca Nazionale, fondo MAPRW - Mediterranean Allied Photo Reconnaissance Wing)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
209
Figura 2. Sezione geologica tipo in un settore privo di argini artificiali con rappresentate le facies alluvionali Tiberine
Figura 3. Blocco diagramma geomorfologico che rappresenta la piana alluvionale esondabile del Tevere e la sua
sezione verticale (base fotografica satellitare da Google Earth)
Figura 4. Sezione geologico-stratigrafica della piana alluvionale del Tevere all’altezza di castel Sant’Angelo (da
Corazza et al., 1999, modificata)
cordemente con quanto avviene nella
valle principale del Tevere anche le valli
alluvionali dei suoi affluenti subiscono
lo stesso processo di aggradazione, che
porta i fondovalli pianeggianti alle quote
attuali, in leggera pendenza verso il corso
d’acqua principale.
Nella sua condizione di “equilibrio
dinamico”, sia orizzontale che verticale,
il Tevere, ad andamento meandriforme
almeno da Perugia in giù, ha quindi, per
tutta la sua storia, modificato il suo corso
nel tempo all’interno della sua valle alluvionale. Per potere studiare gli spostamenti del Tevere, anche in epoche prive
di documentazioni cartografiche o iconografiche, è necessario partire dalla conoscenza delle sue facies alluvionali, che
sono differenti al variare della posizione
del sedimento deposto rispetto all’alveo
(Fig. 2). I depositi granulometricamente più grandi in assoluto si trovano al
fondo dell’alveo e sono costituiti da
sabbie grossolane e/o ghiaie; all’interno
dell’alveo, lateralmente, nella sponda
convessa in accrescimento, i depositi
possono variare, a seconda della stagione e del livello del fiume, da sabbiosi a
limoso-sabbiosi a limoso-argillosi; la
sponda concava in erosione ovviamente
non lascia depositi perché questi vengono presi in carico e trasportati dalla
corrente più a valle; sabbie sono presenti
sugli argini naturali del fiume, mentre
nella piana alluvionale esondabile, raggiunta dalle acque e dai loro depositi in
fase di piena eccezionale che scavalca
gli argini, si rinvengono sedimenti via
via più fini granulometricamente con la
distanza dall’alveo.
In Fig. 3 è presentato un tratto della
valle alluvionale del Tevere in un settore,
a nord di Settebagni e Prima Porta, non
troppo modificato morfologicamente
dalle attività umane, mentre in Fig. 4
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
210
si mostra una sezione del Tevere all’interno della città di Roma, con la evoluzione della morfologia in conseguenza
dell’antropizzazione delle sue sponde e
della sua piana alluvionale. Dopo la costruzione in città degli argini del Tevere
(i cosiddetti «muraglioni» - 1875-1925)
il centro storico di Roma non ha più subito esondazioni per eventi alluvionali
eccezionali dal 1870.
LE MODIFICHE DEL
CORSO DEL FIUME
Come abbiamo già sottolineato, il
Fiume Tevere, come tutti gli altri corsi
d’acqua nel mondo, è in equilibrio dinamico con l’ambiente che lo circonda in
ogni settore del suo corso. Il fiume tende
subito a ripristinare un nuovo equilibrio
se interviene una causa esterna (naturale
o antropica) che ne vari le caratteristiche, come:
• la portata liquida (variazioni climatiche, messa in opera di dighe a monte)
• il carico solido (disboscamento a
monte, messa in opera di dighe a
monte)
• la sezione dell’alveo (frane, arginature, presenza di mulini fissi lungo il
corso, “passonate”)
• la lunghezza del suo corso (taglio
naturale del meandro di Ostia antica nel 1557, taglio artificiale del
meandro di Spinaceto nel 1940)
• la quota assoluta locale e la distanza dalla foce (variazioni eustatiche,
subsidenza del delta)
Locali modifiche del corso del fiume,
naturali come la rotta di Ostia del 1557
o antropiche come il “drizzagno” di Spinaceto nel 1938-40, hanno contribuito
a produrre, a monte, effetti di accelerazione del flusso delle acque con conseguenti pericolosi fenomeni di erosione
retrograda del letto dell’alveo difficili
da contrastare. In particolare, il drizzagno di Spinaceto, con la riduzione del
percorso del Tevere di circa 2700 metri,
aumentando localmente la velocità del
fiume ha prodotto effetti erosivi negativi
in una situazione già fortemente destabilizzata del letto del fiume. Una prima
causa di destabilizzazione fu la regolarizzazione e restringimento dell’alveo
di magra, da Capo Due rami a S. Paolo
fuori le mura terminata nel 1925, voluta
dal Governo per favorire la navigazione,
con il suo conseguente sperato approfondimento purtroppo non solo locale
ma anche retrogrado, coinvolgendo anche il tratto a monte e lo stesso tronco
urbano. Un’altra causa di destabilizzazione fu la costruzione dei muraglioni,
con restringimento della sezione del
Tevere, e della rimozione di fine ottocento di tutti i ruderi, mulini ed altre
opere che frenavano il corso del fiume,
favorendo così un aumento di velocità
della corrente anche all’interno della città ed un aumento, invece che una attesa
diminuzione dei livelli di piena (Frosini,
1977). Se a questa si aggiunge la diminuzione del trasporto solido legata alla
costruzione di dighe a monte di Roma
(dighe del Salto e del Turano 1939, traversa di Castel Giubileo 1946, diga di
Nazzano 1953-1955, diga di Corbara
1962) si comprende perché i fondali
del Tevere, come constatato a partire
dal 1930 (gli effetti delle modificazioni
sull’alveo del fiume non sono immediati
ma occorre un lasso di tempo per sortire
effetti evidenti), iniziano via via ad approfondirsi anche all’interno della città
sino ad arrivare alla soglia esistente sottostante il ponte Milvio. Per contrastare
gli effetti perniciosi di un abbassamento
progressivo del fondo del fiume, stimato dal 1871 al 1983, di 1-2 metri complessivi, con valori differenti nei diversi
tratti considerati, nel 1960 una apposita
Commissione Ministeriale decise la costruzione di una serie di soglie artificiali
per contrastare questo fenomeno (Frosini, 1966; Frosini, 1977; Bencivenga
et al., 1995). Otto soglie sono state da
allora realizzate, la prima 300 a valle di
Ponte Palatino (1963), seguirono quella a valle di ponte Milvio (1964-1967),
ultima quella di ponte Cestio (1994)
(Bencivenga et al., 1995) ponendo così
un ostacolo alla possibilità di navigare il fiume da ponte Marconi all’Isola
Figura 5. Tevere da Ponte Milvio a Santa Passera con
posizione dei Cippi dei Curatores alvei Tiberis et riparum rinvenuti in situ
Tiberina e tra il ponte Duca d’Aosta
e il ponte Flaminio. Ovviamente della
realizzazione dei tre ulteriori drizzagni
previsti negli anni 30 del secolo scorso,
uno a Tor di Valle, uno a Pian due Torri e
l’ultimo a Dragoncello, per complessivi
6,450 km, non si è più parlato.
LE RICERCHE
ARCHEOLOGICHE
Abbiamo visto che il Tevere come
tutti i fiumi del suo tipo, subisce modifiche nel tempo di posizione e quote
assolute del suo alveo e quote assolute
della sua piana alluvionale, ma allora
come è possibile ricostruire la posizione
Figura 6. Sezione geologico-stratigrafica del Tevere all’altezza dell’attuale ponte della scienza, in basso a destra
la traccia della sezione
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
211
del Fiume in età romana? L’archeologia
offre un validissimo contributo per rispondere a questa domanda.
Nell’antica Roma a partire dal 15
d.C. sotto l’Imperatore Tiberio, viene
istituito il titolo e la funzione di Curatores alvei Tiberis et riparum, una commissione di 5 senatori incaricata di sorvegliare la portata del fiume, delimitarne le
sponde, in riva destra ed in riva sinistra,
con dei cippi in travertino recanti sulla
superficie rivolta verso fiume1 una scritta di terminazione del demanio pubblico, che conteneva anche i loro nomi e sul
retro la distanza dai cippi vicini, curare la
pulizia delle sponde e vietarne l’utilizzo
per fini privati (Le Gall, 2005). Questi
in realtà, con il posizionamento dei cippi
di terminazione, continuano un lavoro
già intrapreso nella metà del I secolo a.
C. dai Censori M. Valerius Messala e P.
Servilius Vatia Isauricus; sono infatti del
55-54 a.C. i primi cippi ritrovati in situ
con i nomi dei suddetti Censori. Seguono cippi dell’8 a.C. (Consoli C. Marcius
Censorinus e C. Asinius Gallus), del 7-6
a.C. (fatti installare da Augusto). Seguono ancora i cippi dei Curatores che
vanno da quelli del 15 d. C. a quelli del
73 d.C. in cui si riduce ad uno solo il
Curator alvei Tiberis et riparum, con
intervalli estremamente irregolari fino
al 198 d.C. per un totale di 126 cippi ritrovati di cui 5 fuori da Roma di
cui parla Le Gall (2005), a cui vanno
sicuramente aggiunti i due nuovi cippi
rinvenuti in situ nel 2012 nello scavo di
via Giulia (Filippi, 2016). Dal 101-103
d.C. in avanti il Curator acquisisce ufficialmente anche la cura cloacarum Urbis.
In Fig. 5 viene presentata con tratteggio
blu la ricostruzione dell’andamento delle sponde del Tevere a Roma tra il 54-55
a.C. ed il 198 d.C., considerando solo la
posizione dei cippi rinvenuti in posto e
quella determinabile con precisione. Il
Tevere, in età protostorica e repubblicana aveva molto probabilmente un corso
diverso dall’attuale, basti pensare ai numerosi livelli di ghiaie (facies di alveo del
Tevere come abbiamo visto) segnalate
tra i -5 ed i +2 metri dalle stratigrafie di
carotaggi disponibili in settori del campo Marzio poi occupati dal Portico di
Ottavia e da altri edifici monumentali.
In prossimità di S. Omobono recenti
studi confermano una posizione diversa
del Tevere ed il suo successivo sposta-
Figura 7. Posizionamento su CTR al 5000 della Regione Lazio della pianta di scavo del 1940 della c.d. villa di
Pietra Papa; è intuibile lo spostamento verso sud-est della sponda del Tevere rispetto a quella di età romana
Figura 8. Foto satellitare di Google Earth del 29 luglio 2007 che mostra la banchina di età romana imperiale del
Tevere ora al centro del corso del fiume presso Riva Pian due Torri
Figura 9. Alveo del Tevere in età Augustea (in blu a tratteggio) rispetto alla posizione attuale nell’Elemento CTR
al 5.000 della regione Lazio del 2006 n. 347101, desunta
dalla posizione dei cippi di delimitazione delle ripe in situ
Figura 10. La posizione dell’alveo del Tevere all’altezza
di Ponte Milvio non è cambiata affatto dal 55-54 a.C.
(posizione cippi) se si confronta con la posizione attuale
delle sponde del fiume su CTR al 5000
mento (Ammerman e Filippi, 2004;
Marra et al., 2018).
Guardando la Fig. 5 risulta evidente
lo spostamento locale delle sponde attuali del Tevere rispetto a quelle di età
imperiale, pur dotate di argini in muratura e monumentali attracchi portuali.
Spostamenti della riva per più di 140
metri verso ovest come alla sponda sinistra del Tevere all’Ostiense (Fig. 6) o di
1 In un solo caso è stato rinvenuto un cippo circa 50 metri verso est della sponda decon iscrizione su entrambe le facce (Le Gall, stra all’altezza di Pietra Papa (Fig. 7), o
di 50 metri verso ovest della sponda de2005)
stra all’altezza di Pian due Torri (Fig. 8),
oppure i circa 100 metri verso ovest
nella sponda sinistra al Campo Marzio
all’altezza di via Giulia (Fig. 9), sono
visibili accanto a zone rimaste praticamente immutate dall’età dei cippi, come al Ponte Milvio (Fig. 10) o a Castel
Sant’Angelo in sponda destra o all’Isola
Tiberina e al Lungotevere Aventino in
sponda sinistra. Alcuni spostamenti apparenti sono più semplicemente legati
alla costruzione dei muraglioni di fine
‘800, con il conseguente raddrizzamen-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
212
Figura 11. a) bitta in travertino vandalizzata, inglobata nei muraglioni in riva destra idrografica del Tevere poco a sud dell’Isola Tiberina e di Ponte Palatino; b) bitta in
travertino vandalizzata, inglobata nei muraglioni in riva destra idrografica del Tevere poco a sud dell’Isola Tiberina e di Ponte Palatino poco più a nord della precedente
Figura 12. a) bitta in travertino vandalizzata, faceva parte del molo scavato da Padre Bruzza nel 1868, inglobata nei muraglioni del Tevere in sinistra idrografica
all’altezza di via Florio a Testaccio; b) vista delle due bitte vandalizzate tuttora visibili dopo la periodica pulizia delle sponde, inglobate nel muraglione in riva sinistra
idrografica del Tevere
to e rimodellamento di alcuni settori
delle sponde nel centro storico, ma sono
facilmente individuabili confrontando
la cartografia storica di fine XIX secolo con quella attuale, come sul Lungotevere della Farnesina, spostato di 48
metri verso sudovest. In molti punti dei
muraglioni invece, le bitte in travertino
ad anello o a testa di leone sono state
semplicemente inglobate nella muratura degli argini moderni, a testimoniare la
continuità della posizione della sponda
tiberina, purtroppo per venire poi vandalizzate e ridotte a poveri resti ai giorni
nostri (Figg. 11, 12).
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213
Il porto fluviale di Roma
antica presso Monte Secco
e la discarica di anfore
(Roma, Quartiere Prati)
Carlo Rosa
SIGEA Lazio - Istituto Italiano di
Paleontologia Umana
Email:
[email protected]
The ancient Rome river port near Monte
Secco and the landfill of amphorae
(Rome, Prati district)
Parole chiave: geomorfologia, Roma, archeologia, porto fluviale
Key words: geomorphology, Rome, archaeology, river port
RIASSUNTO
Nel presente lavoro si analizza la
notevole trasformazione che ha subito
la zona di Prati di Castello a Roma. In
particolare, in prossimità del fiume Tevere, esisteva una piccola collina oblunga denominata “Monte Secco”, che si
elevava dai cinque agli otto metri al di
sopra della campagna circostante, che
non era altro che un ammasso artificiale
di “cocci, scaglie di travertino e di marmi
di differenti qualità, ossa umane, di bestie,
ecc…” Questa, ed altre evidenze raccolte nella documentazione archeologica di
fine secolo permettono di identificare
questo settore in riva destra del Tevere
come luogo di attracco e scarico di anfore, probabilmente vinarie, provenienti
dai territori attraversati dal fiume a nord
di Roma. Con un certo sconcerto per
l’oblio a cui questa notizia è andata incontro, si può quindi accreditare come
fortemente attendibile la presenza di
un ulteriore porto fluviale del Tevere in
età romana, questa volta in riva destra
con annessi magazzini per lo stoccaggio
delle merci.
ABSTRACT
In this work we analyze the remarkable transformation that the area of Prati di Castello in Rome has undergone.
Particularly, near the Tiber river there
was a small elongated hill called Monte
Secco, which rose from 5 to 7 meters
above the surrounding countryside, and
which was nothing more than an artificial mass of “shards, flakes of travertine
and marble of different qualities, human
and animal bones, etc…”. This and other
evidences, collected in the archaeological documentation of the end of the
century, allow to identify this sector, on
the right bank of the Tiber, as a place
of docking and unloading of amphorae, probably wine, coming from the
territories crossed by the river north of
Rome. With some bewilderment at the
oblivion to which this news has gone, we
can therefore credit as strongly reliable
the presence of a further river port of
the Tiber in Roman times, on the right
bank, with annexed warehouses for the
storage of goods.
INQUADRAMENTO
GEOGRAFICO
La zona di Prati di Castello a Roma
ha avuto una notevolissima trasformazione con la nascita di Roma Capitale nel
periodo che va dalla fine del diciannovesimo secolo fino agli anni venti del secolo
scorso. In circa trenta anni, il panorama di
questo settore di Roma è passato da una
campagna agricola esterna alla città, con
una quota media di 14-15 metri s.l.m.
(Fig. 1 – Frutaz,1962), ad un quartiere popoloso con edifici alti almeno 5 o 6 piani
e fitte strade asfaltate ed una quota media
stradale di 17-19 metri s.l.m. (Figg. 2-3).
Nella prima edizione (1877) delle tavolette al 25.000 “Monte Mario”,
“Castel Giubbileo”, “Maglianella” e
“Roma”, dell‘Istituto Geografico Militare, delle quali la immagine di figura
1 è un montaggio del 1876, si vede ancora chiaramente la vocazione agricola
del territorio, costellato da piccoli edifici
rurali connessi tra loro da poche strade
bianche ed attraversato da due fossi che
scendendo dai rilievi collinari ad ovest
confluiscono nel Tevere ad Est: il Fosso
della Balduina a nord ed il Fosso della
Valle dell’Inferno più a sud.
Esaminando con maggiore attenzione la morfologia precedente alla urbanizzazione di questo settore della città,
si nota subito la presenza di una collina
oblunga costituita da due cime ed alline-
Figura 1. L’area di Prati di Castello e quella più a nord rappresentate nella “Carta Topografica dei dintorni di
Roma”, edita dall’Istituto Topografico Militare, scala 1:25.000, 1875-1876, Foglio 5° di 9, Istituto Geografico
Militare, stampata nello stabilimento Wurster, Randegger & C.ia a Winterthur (Svizzera) 1876 (da Frutaz,
1962, Pianta CCXIII, Tavola 538 - particolare)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
214
Figura 2. L’area di Prati di Castello e quella più a nord rappresentate nella Carta Tecnica Regionale al 5.000 della
Regione Lazio (Restituzione del 2005 da volo del 2002, Elementi 374063 e 374062 - particolare)
ricostruire, in una sezione morfologica
ad andamento nordest-sudovest, che
dalla piana alluvionale attraversa il Tevere fino alla sponda in sinistra idrografica, l’andamento delle quote negli anni
pre-urbanizzazione e quello delle quote
attuali. Le quote precedenti l’urbanizzazione sono ricavate dalle due tavolette
IGM del 1877 già citate in precedenza
(Fig. 5), mentre l’andamento delle quote attuali lungo la traccia della sezione è
stato ottenuto su QGIS 3.4 dai dati LIDAR 1x1 del Ministero dell’Ambiente
(versione Digital Terrain Model, DTM
– Fig. 6), utilizzando il plugin terrain profile. Osservando la sezione morfologica
di Fig. 7 si vede come li rilievo di Monte
Secco fosse addirittura più alto dell’attuale argine artificiale in riva sinistra del
Tevere, sul quale attualmente passa la via
del Lungotevere Flaminio, ad una quota
assoluta intorno ai 20 metri s.l.m..
Figura 5. Traccia della Sezione topografica posizionata
sulla Carta Topografica dei dintorni di Roma”, edita
dall’Istituto Topografico Militare, scala 1:25.000,
1875-1876, Foglio 5° di 9, Istituto Geografico Militare, stampata nello stabilimento Wurster, Randegger &
C.ia a Winterthur (Svizzera) 1876. Tratta da Frutaz,
1962, particolare
Fig. 3 – Foto satellitare del Quartiere Prati di Roma del 29 Luglio 2007 tratta da Google Earth (particolare)
Figura 4. L’area di Monte Secco e zona circostante
(dalla “Carta Topografica dei dintorni di Roma”, edita dall’Istituto Topografico Militare, scala 1:25.000,
1875-1876, Foglio 5° di 9, Istituto Geografico Militare, stampata nello stabilimento Wurster, Randegger &
C.ia a Winterthur (Svizzera) 1876. Tratta da Frutaz,
1962, particolare
ata con il bordo della piana alluvionale,
in prossimità del fiume Tevere, nota con
il toponimo di “Monte Secco”, con quote
massime tra i 20 ed i 23 metri s.l.m., e che
quindi si elevava dai cinque agli otto metri al di sopra della campagna antistante
(Fig. 4). Questa morfologia non è spiegabile semplicemente come un argine
naturale del fiume Tevere perché troppo
alta: i dislivelli degli argini naturali del
Tevere rispetto alla pianura alluvionale
sono di due-tre metri al massimo (vedi le
morfologie nel Piano Topografico di Roma e Suburbio 1908-1924, scala 1:5.000,
Istituto Geografico Militare). Per evidenziare la sua particolarità, è necessario
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
LE ORIGINI DI MONTE
SECCO
Ma quindi quale era la natura del
rilievo del Monte Secco, che come
abbiamo visto non esiste più, almeno
nella sua porzione superiore, in quanto
spianato per la costruzione del nuovo
quartiere? La risposta in parte è già nel
nome dato a questa collinetta. Ma per
risolvere il problema bisogna esaminare
i dati storici degli interventi urbanistici
eseguiti a fine ’800. Durante la costruzione di una grande fognatura di servizio ai nuovi isolati che si andavano
edificando, nel 1884 venne effettuato
un grande sbancamento trasversale. Nel
volume di Notizie di Scavi di Antichità
di quell’anno si trova, alle pagine 392393, un resoconto di Rodolfo Lanciani
che testualmente dice “La sezione che
ne è risultata, ha dimostrato chiaramente,
215
Figura 6. LIDAR Regione Lazio DTM 1 mt x 1 mt, Unione Tavole: D41921245_0101, D41921246_0101,
D41921247_0101, D41921248_0101, D41911246_0101, D41911247_0101, D41901245_0101,
D41901246_0101, D41901247_0101 (particolare con sovrapposta, mediante QGIS, la linea rossa della traccia
della sezione morfologica)(fonte dati Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare)
che le piccole alture di questa località sono
artificiali essendo composte da ammassi di
cocci, scaglie di travertino e di marmi di
differenti qualità, ossa umane, di bestie, ecc.
Predominano i cocci di anfore e doli disposti secondo il centro di gravità; nel basso
cioè i frammenti maggiori, tutt’attorno i
più piccoli.”. Il resoconto del Lanciani si
conclude con il riconoscimento di questi depositi come materiali di scarico di
anfore utilizzate per il commercio fluviale nella porzione del Tevere a Nord di
Roma, così come il Testaccio costituiva
il luogo di scarico delle anfore che arrivavano lungo la porzione sud del Tevere attraverso il commercio marittimo. Il
nome Monte Secco derivava dal fatto
che, essendo essenzialmente costituito
da cocci, non tratteneva affatto l’umidità.
Queste evidenze della documentazione archeologica di fine secolo, presenti anche nella Carta Archeologica di
Roma, Tavola I prima edizione (Istituto
Geografico Militare, Firenze 1962) e relative note illustrative (C1,2,4) e nella
nuova Carta Archeologica di Roma,
Primo Quadrante (Tomei, Liverani,
2005), permettono quindi, a Rodolfo
Lanciani, di identificare questo settore
in riva destra del Tevere come luogo
di attracco e scarico di anfore, probabilmente per la maggior parte vinarie,
provenienti dai territori attraversati dal
fiume a nord di Roma.
Altri Autori, Castagnoli (1980),
Quilici (1986) e Maiuro (2008), più re-
centemente citano il Monte Secco. Si
può quindi assumere come fortemente
attendibile la presenza di un ulteriore
porto fluviale del Tevere in età romana,
questa volta in riva destra, localizzato
lungo la sponda a monte o più probabilmente a valle del rilievo in esame.
Ma, se esisteva un porto di attracco
per le imbarcazioni fluviali nelle vicinanze di questa collina, dovevano necessariamente esistere anche magazzini
per il temporaneo stoccaggio delle merci. Nella Fig. 8 è mostrata una fotografia
del 1880 circa, che ritrae il muro residuo
di un grande edificio di età romana, localizzato in quella che era divenuta la
Piazza d’Armi per le esercitazioni delle forze armate, dopo la presa di Roma
del 1871 da parte del Regno d’Italia e
la costruzione delle numerose caserme
che a tutt’oggi caratterizzano questo
settore a nord del quartiere Prati. Grazie
alla presenza nella fotografia e all’allineamento della cupola di San Pietro e
dell’angolo SE dell’edificio nord di una
caserma perfettamente riconoscibile per
le sue caratteristiche merlature e finestre a bifora (la Caserma dei Carabinieri Capitano Orlando De Tommaso)
è stato possibile identificare il settore
della Piazza d‘Armi in cui si trovavano i resti della struttura antica: quella
che è attualmente l’area compresa fra
Piazza Mazzini e Viale delle Milizie, a
circa 500 metri dall’area dove sorgeva il
Monte Secco (Fig. 9). Area confermata
Figura 7. Sezione morfologica passante per il rilievo di Monte Secco. (le quote sono ottenute dai dati Tavolette IGM
e LIDAR DTM 1mt. X 1 mt. del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare).
Figura 8. Fotografia di Piazza d’Armi del 1898-1900 di Giovanni Gargiolli (ICCD, Gabinetto Fotografico
Nazionale, Fondo GFN, Numero inventario C000283)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
216
RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI
Figura 9. Traccia proiezione asse tra Cupola di San Pietro e angolo SE dell’edificio nord della Caserma dei Carabinieri Capitano Orlando De Tommaso su CTR Regione Lazio. Cerchio rosso: area presunta della posizione della
struttura muraria, area in marrone: rilievo di Monte Secco, le frecce nere indicano rispettivamente la posizione
della cima della Cupola di San Pietro e lo spigolo SE dell’edificio nord della Caserma dei Carabinieri Capitano
Orlando De Tommaso
Figura 10. Stessa immagine di Fig. 9 ma con inserito e georiferito su QGIS lo stralcio della Tavoletta I.G.M. F150IVSO Roma, edizione 1894 con la indicazione grafica di presenza rudere e con iscrizione “Rud”
dalla edizione del 1894 della tavoletta
dell’I.G.M. “Roma”, che indica ancora
chiaramente in quella zona la presenza
di un rudere (Fig. 10). De Rossi nel 1981
pubblica per la prima volta un disegno
del rudere prima della sua demolizione
tratto da una documentazione dell’Archivio di Stato che attribuiva i resti ad
un antico sepolcro. Mineo nel 1992 dedica un lavoro specifico a questo rudere, che secondo una pratica conservata
nell’Archivio Scientifico della allora
Soprintendenza Archeologica di Roma
(oggi SSABAP) venne demolito il 30
settembre del 1896 su richiesta ufficiale
della Direzione Territoriale del Genio
Militare di Roma all’Ufficio Regionale
per i Monumenti di Roma in quanto co-
stituiva ingombro per le esigenze delle
esercitazioni militari e nell’imminenza
di una parata organizzata in onore delle
nozze di Vittorio Emanuele III.
CONCLUSIONI
Le considerazioni e le osservazioni
sopra descritte meritano sicuramente
ulteriori approfondimenti. Sarà compito delle future generazioni di archeologi
effettuare dei saggi di scavo per verificare la natura e la provenienza dei resti di
anfore e doli ancora presenti al di sotto
degli attuali Lungotevere Oberdan e
delle Armi e di Piazza del Fante e Piazza
del Monte Grappa (ponderata la scelta
di quest’ultimo nome o persistenze toponomastiche casuali?).
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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SESSIONE V
LA RICOSTRUZIONE
DEI PAESAGGI ATTRAVERSATI
219
L’organizzazione del
territorio attraversato dalla
via laurentina antica tra v
e vii miglio: architettura,
infrastrutture e paesaggi
tra l’età arcaica e la tarda
antichità
Anna Buccellato
Già Funzionario della Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e
Paesaggio di Roma
E-mail:
[email protected]
Fulvio Coletti
Parco Archeologico del Colosseo
E-mail:
[email protected]
The development of the territory crossed
by the ancient Laurentina way, between
the V and the VII mile: architecture,
infrastructure, landscape in the archaic
age and late antiquity
Parole chiave: Via Laurentina antica, Infrastrutture, morfologia vulcanica, Necropoli ,
opere di sistemazione idraulica
Key words: Ancient Laurentina way, infrastructure, volcanic morphology, Necropolis,
Hydraulic works
RIASSUNTO
Gli interventi dello stato romano già
qualificati dalle opere di manutenzione
e rifacimenti si concretizzano anche
nelle dotazioni infrastrutturali. Tra il
V e il VI miglio si addensano una serie
di evidenze che restituiscono, tra il VI
secolo a.C. e l’epoca tardo antica, la vitalità e il dinamismo di questo distretto
suburbano sotto il profilo economico,
strutturale e infrastrutturale. Fiancheggiano l’arteria una necropoli con fasi
da età repubblicana ad imperiale, due
edifici rustici inquadrabili tra il VI e il
III secolo a.C. situato nel punto di confluenza tra la Laurentina un tracciato
secondario che si diparte in direzione
est, lungo l’originario percorso del fosso
dell’Acqua Acetosa Ostiense ed, infine,
un complesso architettonico di grandi
dimensioni di circa m2 1380, in corrispondenza del tratto in cui si conserva il
basolato. Tali edifici permettono, inoltre,
di verificare periodo per periodo le tipologie insediative e le scelte funzionali,
monitorando i cambiamenti di destinazioni e le trasformazioni del territorio
a seconda delle epoche. Si passa, così,
dalle semplici unità rurali di epoca tardo arcaica, che traggono la loro vitalità
dallo sfruttamento agricolo delle campagne circostanti, ad una fattoria organizzata medio repubblicana coinvolta
in specifiche attività, che immaginiamo
esportasse nell’urbs il surplus prodotto,
ad uno stabulum per l’offerta di servizi
ai viaggiatori in transito verso la costa.
Peculiare per la continuità di vita è il caso dell’edificio polifunzionale.
Interessato da numerose fasi di vita e
ristrutturazione dal II secolo a.C. alla
fine del IV secolo d.C. con murature
in opera quadrata, incerta e reticolata,
questo edificio presenta un’articolazione
planimetrica a corte collegata alla strada
da un insieme di vani di servizio (verosimilmente alloggi e cucine); qualifica la corte un ambiente polifunzionale
contraffortato con parte scoperta per il
passaggio ed il parcheggio per veicoli,
anche di scambio, e secondo piano ligneo con contabulatio per l’immagazzinamento delle derrate. Tali peculiarità,
ripetute nelle diverse fasi con le caratteristiche fisse della presenza di un accesso ai carriaggi per trasporto delle merci,
uscita sul lato opposto e disponibilità
di stoccaggio, unite al collegamento
con il tracciato viario, evidenziato da
porticati nella fase più antica e da collegamenti strutturali nel periodo imperiale, suggeriscono il riconoscimento di
una struttura commerciale di servizio
ai viaggiatori. Infine, come tutte le vie
consolari, la Laurentina era fiancheggiata da una necropoli dell’estensione
di ca. m2 1000, comprendente oltre 250
tombe, in gran parte ad inumazione e
in misura minore ad incinerazione a.C.
la restituzione stratigrafica dei livelli di
sepoltura e l’analisi dei corredi hanno
permesso di individuare almeno tre fasi
di fruizione funeraria, comprese tra la
fine del IV- inizio del III sec. a.C., ed i
primi due secoli dell’impero. La successione mostra un’ordinata distribuzione
spaziale, sempre correlata ai livelli della
Laurentina ed alle sue strutture di contenimento e costruzione: si passa dagli
allineamenti lungo la strada del periodo
medio repubblicano, alla dislocazione
della II fase entro recinti che assolvono
la duplice funzione di delimitazione di
recinti o vani funerari e contenimento
del terrapieno stradale, suggerendo un’ipotesi di progettazione organica fino alla fase più recente, tra la prima e la media
età imperiale, rappresentata da una vasta
occupazione di tombe dislocate su tutta
l’area della necropoli.
1. INQUADRAMENTO
STORICO TOPOGRAFICO
Il paesaggio attraversato dall’antica Laurentina tra V e VII miglio offre
un’interessante lettura del rapporto di
interazione uomo ambiente nelle reciproche influenze tra fattori naturali e
attività antropiche. Fattori determinanti
nello sviluppo risultano le vie d’acqua
preferenziali direttrici di comunicazioni
ma anche componente di energia da gestire e le vie di terra che per scopi politici,
commerciali e amministrativi strutturano le viabilità storiche (Fig. 1).
Nella valle alluvionale dei fossi Ciuccio,Acqua Acetosa e Vallerano,nel settore
interessante il V miglio, l’antica Laurentina ed il diverticolo che correndo a sud
dell’originario percorso fosso dell’Acqua
Acetosa conduce verosimilmente all’a-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
220
Figura 1. Planimetria del segmento della Laurentina tra V e VI miglio in Località Castellaccio. A. Via Laurentina;
B. Edificio polifunzionale (locanda); C. Ponte sull’antico corso del Fosso dell’Acqua Acetosa; D. Antico corso del Fosso
dell’Acqua Acetosa; E. Fattoria mediorepubblicana; F. Tracciato del diverticolo verso l’abitato della Laurentina Acqua Acetosa; G. Necropoli; H. Edificio rustico tardo arcaico (elaborazione di A. Buccellato – F. Coletti – E. Giannini)
bitato omonimo determinano strategie
di occupazione mentre il fosso è oggetto
di opere di irreggimentazione e bonifica
(Ascani et al. 2008, pp. 93-97; Buccellato,
Coletti, De Loof, 2019 IN C.S.).
Sulla dorsale del VII miglio, caratterizzata da litotipi tufacei e pozzolanici frutto dei depositi vulcanici, si impongono dall’età Repubblicana a quella
Imperiale organismi funerari, nella zona
di confluenza della viabilità di collegamento con l’Ostiense, mentre in merito
al regime idrico si verifica l’attività opposta di captazione e conserva (Bozzano
et al. 2017, pp. 2-7).
il confine dell’Ager Romanus Antiquus,
luogo della celebrazione dei Terminalia
o Lustratio dei confini, annoverabile tra
i culti e santuari che, posti in corrispondenza delle vie di accesso alla città, delimitavano il territorio urbano forse già
dalla fine dell’VIII-inizi VII secolo a.C,
le dinamiche occupazionali contemplano due edifici rustici ed una stazione di
sosta in sequenza cronologica (rispettivamente Fig. 1 H, E, B), mentre la
fruizione funeraria si declina in tre fasi
di una necropoli dell’estensione di ca.
m2 1000, comprendente oltre 250 tombe
(Fig. 1 G) (in ordine alle problematiche
relative al riconoscimento dei santuari
2. LA VALLE DEL BACINO relativi alla cintura dell’ager romanus anDEL VALLERANO E DEL
tiquus e sui dubbi in merito alle interpreFOSSO DELL’ACQUA
tazioni moderne, da ultimo si vedano in
ACETOSA
generale gli Atti del Convegno I confini
A ridosso del VI miglio in una stretta di Roma, in Dubbini 2019, con particocorrelazione spaziale e funzionale con il lare riferimento a Fulminante 2019, p.
fosso, concordemente identificato con 65 et passim; Bianco 2019 p. 114-115).
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Il primo nucleo di insediamento riferibile alla prima meta del VI secolo a
si localizza lungo la sponda meridionale della Laurentina nella parte centrale della piana (Figg. 1 H, 2). L’edificio
rustico esteso per ca. m2 240 si articola
in 4 ambienti contigui disposti secondo
un asse est-ovest con accesso sul lato
meridionale e si sviluppa in 6 fasi, delle
quali 2 delineano i momenti di vita e
fruizione del complesso mentre sui livelli di abbandono e obliterazione, si
imposterà un’appendice della limitrofa
grande necropoli (Fig. 1 G).
Conservate tutte a livello di fondazione, le strutture sono realizzate in opera pseudo-isodoma con spezzoni di tufo
verde pisolitico rinforzati con zeppe, ricavate in un deposito sterile costituito
da argilla color giallo ocra con presenza
diffusa di ciottoli e ghiaia, che denuncia
il carattere alluvionale del terreno. Sulla
base di confronti tipologici è possibile
ipotizzare un alzato realizzato con tecnica ‘a pisé’, mentre i battuti pavimentali
si compongono di terra battuta mista a
ghiaia, ciottoli e concrezioni argillose,
presumibilmente in questa fase ricoperte con stuoie. Il muro perimetrale nord è
realizzato con spezzoni di tufo alloggiati
in un cavo poco profondo a mezza costa, nel declivio del terreno regolarizzato
da una colmata il cui scavo ha restituito materiali frammentari in posizione
rovesciata: due oinochai e una fuseruola
in bucchero, una fuseruola in ceramica
d’impasto bruno e due scodelle una in
impasto chiaro sabbioso e rosso bruno.
Per questo deposito appare verosimile
l’interpretazione di atto piaculatorio o
rito di chiusura, alludente alla conclusione di una realtà sacralizzata a cui sussegue un utilizzo abitativo e funzionale.
Suggestiva è anche la riflessione sulla
funzione del vasellame che rimanda per
le oinochoai all’attività del simposio o al
pasto sacro per una divinità femminile
rappresentata dagli strumenti della filatura.
In merito alle destinazioni funzionali, un dolio alloggiato nella pavimentazione di un ambiente (Fig. 2 A)
consente di ipotizzare la destinazione
di magazzino ove conservare i prodotti agricoli, in questo caso vino, ottenuti
dallo sfruttamento del territorio vallivo
circostante al complesso. Sempre legate
ad attività lavorative, sono da interpretare le due fosse realizzate nei piani pavimentali e nel sottostante livello sterile, funzionale al contenimento di essa è
possibile avanzare l’ipotesi di un utilizzo
per il lavaggio della lana, o alla pigiatura
dell’uva (Fig. 2 B-C).
221
Figura 2. Via Laurentina VI Miglio in località Castellaccio: Edificio rustico tardoarcaico: foto aerea. A. Magazzino
con dolio; B-C. Vasche per l’attività della pigiatura dell’uva (Foto di E Giannini)
Nella seconda metà del V secolo a.C.
l’edificio viene ricostruito e potenziato
da un nuovo complesso strutturale, che
ingloba il precedente, impostandosi immediatamente al di sopra delle fondazioni rasate, mantenendo orientamento e articolazione: defunzionalizzando
il dolio e le fosse di lavorazione l’area
viene parzialmente colmata e rialzata
con strati costipati di scaglie di tufo con
funzione di vespai per mantenere i nuovi
livelli pavimentali sopraelevati e drenati.
Assise di lastre di tufo rosso vengono
allettate direttamente sulle fondazioni
precedenti, eccetto lungo il limite settentrionale dove si assiste a un avanzamento di 1 m del fronte dell’edificio, in
considerazione della più marcata risalita della falda acquifera vista la naturale
pendenza del terreno. Lungo il nuovo
limite si addossa una massicciata di tufi
rossi e verdi funzionale a un calpestio in
ambiente semipalustre; se ne ricava una
struttura con triplice funzione di rialzamento dei piani d’imposta di contenimento della falda e di delimitazione del
nuovo edificio. A livello planimetrico
si individua una grande cortile centrale
fiancheggiato da più vani, con finalità
sia abitative che produttive indicate dal
ritrovamento di un numero cospicuo di
pesi da telaio e da frammenti di dolio.
Il passaggio al IV secolo registra lo
spostamento occupazionale nella zona
Figura 3. Via Laurentina VI Miglio in località Castellaccio: Fattoria di epoca mediorepubblicana. A. Via Laurentina; B. Diverticolo verso l’abitato della Laurentina Acqua Acetosa; C. Ambiente con torcularium (Foto di M. Letizia)
all’incrocio con il diverticolo strutturato
in questo periodo (Figg. 1 E-F, 3 A-B).
Le motivazioni possono ravvisarsi nella
scelta di un sito a quota più elevata, in
cui si potessero evitare problemi di alluvioni e/o risalita di falda ed, inoltre,
in un’area commercialmente più favorevole per il passaggio di merci e uomini
per Roma e verso l’antico abitato della
Laurentina Acqua Acetosa. Questa fattoria in un periodo di vita che copre il IV
e il III secolo a.C. mostra in un’areale di
circa m2 282, in disposizione paratattica,
dodici ambienti di modesta estensione
originariamente con pareti ‘a pisè’ e copertura in parte straminea e in parte a
tegole; la seconda fase connotata dal generale innalzamento dei muri e dei piani pavimentali in argilla compattata con
inclusi tufacei e diverticolo, vede una più
complessa articolazione planimetrica
con l’allargamento dell’edificio verso il
diverticolo e la creazione di un vasto
ambiente dotato di vasca in cocciopesto
e condotta di scarico, riferibili ad un torcularium per vino (Fig. 3 C). L’abbandono si colloca nel II secolo a.C. e l’intera
zona in epoca imperiale viene inglobata
nella sede dell’ultimo rifacimento del
diverticolo documentando un passaggio
di proprietà da privata a pubblica nella
generale alternanza che caratterizza il
sito (Buccellato 2007, p. 3).
Coeva alle fasi di vita della fattoria
la necropoli (Figg. 1 G, 4) si sviluppa in
area limitrofa al primo edificio e presenta indizi di fruizione non esclusivamente
locale: i corredi in ceramiche fini da mensa, che denotano una certa ricercatezza,
e l’attestazione di rituali sia con resti di
pasto in sit u che attengono alle attività
libatorie espletate al momento della sepoltura sia con riti successivi in occasione
dei giorni destinati alla memoria collettiva del defunto, permettono di riferire la
classe sociale fruitrice di questa necropoli
ad un ceto medio alto forse di ambito urbano (Buccellato et al. 2011, pp. 41-55;
Coletti 2012, pp. 313-314).
Dal II secolo a.C. la sequenza insediativa registra un mutamento tipologico condizionato dalle specifiche topografiche e attrattive del sito, anche per lo
stanziamento o utilizzo di una stazione
stradale (Figg. 1 B, 5): vicinanza alla necropoli e al luogo di uno dei santuari
liminari del VI miglio presenza del fosso
(Fig. 1 D), come fonte di approvvigionamento idrico, e infine la prossimità ad
un ponte (Fig. 1 C), funzionale per il
fattore generante di richiesta di alloggio
e ristoro in occasione sia di viaggi sia di
lavori di manutenzione stradale (Buccellato 2007, pp. 1-2).
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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Figura 4. Via Laurentina VI Miglio in località Castellaccio: Necropoli. Planimetria complessiva delle sepolture
divise secondo i tre principali periodi di fruizione (elaborazione di A. Buccellato – F. Coletti)
L’impianto realizzato con murature
in opera quadrata cronologicamente riferibile al metà del II secolo a.C. rivela
la connotazione commerciale nella presenza di un cortile pilastrato (Fig. 5 A),
verosimilmente utilizzato come stalla
collegato alla strada da un porticato e pavimentato con piccoli scapoli di tufo verde. Nel secolo successivo si aggiungono
altri vani verosimilmente deputati alle
attività commerciali con magazzini per
derrate (Fig. 5 F, G), alloggi (Fig. 5 D-E)
e una cucina (Fig. 5 B), mentre nell‘epoca imperiale più fasi di ristrutturazione
con varie tecniche dall’opera reticolata
all’utilizzo di materiali di reimpiego e
rialzamenti dei piani di calpestio in calce, sempre in collegamento con i lavori
stradali conducono al massimo sviluppo planimetrico fino a raggiungere un
areale di m2 1380. Esemplificativo della
floridezza delle attività di immagazzinamento e smercio è rappresentato dalla
trasformazione del cortile in un vasto
ambiente polifunzionale contraffortato
con parte scoperta per il passaggio ed
il parcheggio dei veicoli (mediante un
vano basolato, Fig. 5 C), anche di scambio, e secondo piano ligneo con contabulatio per le derrate. La mancanza del
settore termale suggerisce l’interpretazione di una locanda con possibilità di
pernottamento e stallaggio, mentre le
caratteristiche della presenza di cortile
per i veicoli, anticamera al piano terreno affacciata sulla strada e fiancheggiata da stanze per ristorazione e alloggio
rendono l’edificio assimilabile ad uno
stabulum. Per quanto riguarda l’aspetto
gestionale, nella difficoltà acclarata di
distinguere tra privato e pubblico, si può
avanzare l’interpretazione di un esercizio commerciale funzionale alla ricezione utilizzato episodicamente per finalità
pubbliche fino all’abbandono riferibile
al primo quarto del IV secolo d.C. e
successiva de - funzionalizzazione con
riconversione funeraria tra la fine del IV
e gli inizi del V secolo d.C. In ordine agli
aspetti socio economici e cultuali, nella
fase tardo antica si segnalano significativi
materiali correlati alle fasi finali dell’edificio connotandone la vitalità economica
fino all’abbandono. Un vano di accesso
ha restituito un gruppo di reperti pertinenti alla sfera rituale domestica di una
cucina contestualizzando un tabernacolo dedicato al culto dei Lari (statuina
di Lare danzante, tre lucerne integre, un
tegame in ceramica di produzione africana ed una patera in bronzo, due cunei
pertinenti ad asce in ferro e un calzare in
cuoio). Nel vano attiguo il recupero di un
ripostiglio monetale costituito da 60 folles di epoca tetrarchica in buono stato di
conservazione, associato a due pendenti
in pasta vitrea di particolare interesse per
la fattura e l’iconografia dei soggetti incisi, entrambi raffiguranti scene desunte
dal mito di Ercole e un chiodo di bronzo interpretabile come apotropaico per
la mancanza di utilizzo e la presenza di
segni misteriosi, documenta l’improvviso abbandono per un evento traumatico
a noi sconosciuto, nel periodo costantiniano di contrazione economica delle
attività produttive del suburbio (Tali
reperti dovevano essere contenuti entro
una casa lignea ben rifinita, tracce della
quale sotto forma di frammenti di legno
mineralizzato sono stati recuperati sulle
monete, in associazione a quattro borchie lavorate ed una maniglia in metallo
zincati, di accurata fattura) (Buccellato,
Coletti 2013, pp. 67-71; Buccellato et al.
2018, pp. 129-132)
Coeva alle importanti fasi edilizie
della struttura di accoglienza la vitalità
del sito è documentata dalla necropoli. Nella fase tardo repubblicana assume carattere di monumentalizzazione
e presenta le deposizioni entro recinti
che assolvono la duplice funzione di
delimitazione di recinti o vani funerari
e contenimento del terrapieno stradale,
suggerendo un’ipotesi di progettazione
organica che attiene al rapporto politico-commerciale tra pubblico e privato.
Figura 5. Via Laurentina V Miglio in località Castellaccio: Edificio polifunzionale (locanda), foto aerea. A. Ambiente per il ricovero degli animali e contabulatio; B. Cucina; C. Accesso basolato; D-E. Probabili alloggi, F-G.
Magazzini per le derrate (Foto di M. Letizia)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
223
Nell’ordinata distribuzione spaziale, di
epoca imperiale, invece, sempre correlata ai livelli della Laurentina ed alle sue
strutture di contenimento e sostruzione,
si registrano gli indizi di una presenza
cosmopolita sulla base del tipo di rituale attestato ed indicatori antropologici,
quali la variabilità morfometrica e la
mancanza di un profilo demografico di
una comunità naturale
3. L’OCCUPAZIONE
DELL’ALTURA
NELLA TENUTA DI
MOSTACCIANO:
ORGANISMI FUNERARI
E INFRASTRUTTURE
IDRICHE
Sulla dorsale tufacea che si erge ad
ovest del bacino del fosso del Vallerano,
in ragione della posizione strategica per
i collegamenti, prossima al passaggio del
primario asse Ostiense-Ardeatina-Appia e la morfologia stretta e allungata,
prevale l’utilizzo funerario che sottolinea il passaggio di un asse sussidiario
della antica Laurentina e gli incroci
di due percorsi che si dipartono dalla
principale con funzioni di collegamento
verso l’ostiense (Fig. 6) (per l’inquadramento del paesaggio solcato dalla Laurentina al VII miglio si veda Buccellato
2005, pp. 215-217).
Condotti in epoca tardo-arcaica con
larghezza di ca m 2 o 3 all’interno di invasi sul substrato vergine di profondità
diverse correlate alla variabile dei dislivelli da superare, i tracciati viari minori
sono riconoscibili dalle coppie di solchi
carrai a interasse m 1,30 che denotano
intensità di traffico e risultano utilizzati
fino alla piena epoca imperiale con ripristini di selciati in scaglie di leucitite: il
primo, definito strada 2 (Fig. 7), al fine
di superare i problemi di acclività, sale con andamento sinuoso sul declivio
e corrisponde all’antico tracciato ricalcato dall’attuale via Decima. Il secondo
s‘innesta con ampio scasso nella tagliata
della Laurentina (Fig. 8), fornendo un
dato cronologico di conferma dell’inquadramento in periodo repubblicano
dell‘impegnativa opera di regolarizzazione della sella in cui viene strutturato
il percorso dell’arteria.
Nei pressi de gli incroci e sull‘invaso
della strada 2, in età medio-repubblicana,
si localizzano le quattro tombe a camera che stigmatizzano lo stato sociale e le
sfere d’influenza dei ricchi signori della
terra, proprietari dei fundi nell’ambito dei
quali si installa il monumento: nel settore
sud del suburbio, la distribuzione di tali
sepolture, appartenenti a gruppi gentili-
Figura 6. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: viabilità basolata, foto aerea 8Foto di MK. Letizia)
zi, isolate o disposte a piccoli gruppi in
prossimità di assi viari o al loro incrocio,
delinea un modello di divisione del territorio secondo precise sfere d’influenza
e su criteri di tipo catastale (Bedini 1997,
pp. 180-184). In merito alla struttura, invece, mentre due si dispongono su più
ambienti con una spazialità più articolata (Fig. 9) altre due a pianta rettangolare
con unica banchina con la presenza di
caratteri architettonici ricorrenti quali
la ridotta dimensione delle camere, una
certa rozzezza nella fattura che le rende
simili a piccole grotte, il corridoio di accesso a scivolo e la chiusura con scaglioni o lastre di tufo, confermano l’ipotesi
dell’esistenza di una tradizione locale in
questo comparto territoriale.
In merito alle infrastrutture idriche,
la cui presenza e riconoscibile come costante topografica in associazione alle se-
Figura 7. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta
di Mostacciano: viabilità secondaria (Strada 2) identificata con il tracciato ricalcato dalla via di Decima
(Foto di F. Coletti)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
224
Figura 8. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: diverticolo principale tagliato nel substrato
piroclastico (Foto di M. Letizia)
Figura 9. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: Tomba a camera a due vani con dromos e
scalinata di accesso, datata alla fine IV secolo a.C. (Foto. F. Coletti)
Figura 10. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta
di Mostacciano: Cisterna con pozzo centrale scavata nel
suolo originario piroclastico (Foto di M. Letizia)
polture, l’ambiente deposizionale brullo,
determina la necessita di captare l’acqua
nel sottosuolo con pozzi e conservarla
in cisterne. Dal punto di vista funzionale, esse arricchiscono le dotazioni delle
proprietà fondiarie, rendendo il luogo
attrattivo per le soste ma si confermano
anche una necessità per la celebrazione
dei riti sia di sepoltura (silicernium) che
celebrare le ricorrenze nell’imperituro
rapporto vivi-morti (parentalia) (Coletti,
Buccellato 2015, pp. 585-588).
Contemporanei alle camere funerarie e defunzionalizzati dall‘opera di monumentalizzazione della gola in epoca
tiberiana, lungo il versante della strada
2 sono ricavati nel substrato tufaceo tre
pozzi di cui uno all’interno di una vasca
rettangolare funzionale alla raccolta di
raccolta delle acque di corrivazione ed
alla stazionamento (Fig. 10). La ricca
rete idrica è completata da un quarto
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
pozzo a sud del secondo diverticolo e un
ultimo manufatto sulle pendici orientali dell‘invaso dell‘arteria ancora riferibile al periodo medio-repubblicano.
Un’ampia cisterna a corridoio costituita
da più camere comunicanti con un’altezza originaria di oltre m. 1,80 e un’estensione ricostruibile ca 150 mq si apre
sull’imponente parete della Laurentina
(Fig. 11) che attraversa i sedimenti geologici: è difficile ricostruirne la morfologia originaria a causa degli interventi
successivi che hanno compromesso la
conservazione degli elementi strutturali
componenti il sistema, quali il condotto
di adduzione soprastante.
Presso l’innesto del secondo diverticolo, infine, una funzione di bacino
d acqua si può attribuire ad una fossa
estesa per m2 150 e profonda ca. 1 m creata sicuramente in epoca anteriore alla
riconversione funeraria del I secolo d.C.
Si può quindi evidenziare come questo articolato sistema idrico rifletta la
facies di utilizzo del territorio precedente all’impianto della consolare di epoca
primo imperiale: il potenziamento della
strada per adeguarla ad un più intenso
traffico da e per l’urbs rispetto al periodo
precedente, de funzionalizza tali apprestamenti idrici (al pari delle stesse tombe a camera già in disuso) registrando il
mutamento del regime della distribuzione territoriale. Nella tarda repubblica si
segnala l’assenza di sepolture riferibili
agli insediamenti locali già riscontrata in
questo distretto e ricondotta agli eventi
storici che causano il fenomeno dell’inurbamento dei proprietari e dei loro
contadini (Bedini 1997, pp. 180-181)
L’utilizzo funerario del sito riprende
nei primi due secoli dell’impero con più
organismi funerari di sepolture a inumazioni in fossa: il primo scandisce il
passaggio della strada 2, mentre il secondo l’innesto del secondo diverticolo
nella laurentina rispettivamente all’interno ed all’esterno del bacino esteso
più a valle sopra un terrazzamento della
parte occidentale della tagliata, il terzo
gruppo si presenta più ricco per numero
di deposizioni e corredi con una serrata
successione di più di 60 inumazioni che
hanno restituito brocche e/o bottiglie in
ceramica comune da mensa, lucerne e
unguentari in vetro (Fig. 12).
Si può concludere, pertanto, come in
questi organismi funerari comuni a partire dalla seconda metà del I secolo d.C.
la distribuzione delle sepolture e le modalità dei seppellimenti che rinviano alla
sfera delle ritualità e delle norme funerarie condivise, siano il riverbero di quel
macro fenomeno dei mutamenti sociali
225
Figura 11. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: Cisterna a corridoi di epoca mediorepubblicana riutilizzata come sepoltura nel periodo tardoantico (Foto di F. Coletti)
Figura 12. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: area necropolare con sepolture di tardo I-II
secolo d.C. (Foto di M. Letizia)
e dei centri economici. Se, infatti, l’utilizzo del territorio suburbano non appaia
più appannaggio dei signori della terra,
un tempo seppelliti nelle ricche tombe
a camera che insieme agli indicatori di
produzione (spesso cave per l’estrazione
dei materiali) ne stigmatizzavano il potere nella sfera di proprietà del fundus familiare, la documentazione attesta ora
la massiccia presenza di gruppi del ceto
medio basso che, con statuto di lavoratori liberi, sono impegnati nel lavoro dei
campi. I nuclei di sepolture, altresì, possono identificare gruppi appartenenti
ad una struttura unica, forse uno sconosciuto vicus non intercettato dagli scavi,
i cui fruitori si può immaginare siano gli
stessi che occupavano i due nuclei necropolari, lavoratori dei campi nell’ambito dello sterminato latifondo imperiale
che ingloba il territorio suburbano dal
II secolo in poi. Inoltre, nelle ultime fasi
di vita del sito, in epoca tardoantica, si
segnalano l’utilizzo della cisterna a corridoio (Fig. 11) come luogo per semplice
sepolture ad inumazione mentre, nei livelli soprastanti le massicciate di servizio che fiancheggiano la Laurentina, la
costruzione di un’edicola come segnale
di proprietà nei pressi della grande area
funeraria in cui, invece, al di sopra degli
strati di abbandono s’imposta una percorrenza in acciottolato che dimostra il
carattere di crocevia del distretto.
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
226
Le vie dei Pellegrini in Italia
Roberto Ranciaro
E-mail:
[email protected]
The pilgrim routes in Italy
Parole chiave: culto dei santi e pellegrinaggio, distribuzione geografica, costa adriatica, turismo lento
Key words: cult of saints and pilgrimage, geographical distribution, adriatic coast,
slow tourism
1.1. INTRODUZIONE
Negli ultimi anni, con l’affermarsi
del “turismo lento”, che predilige i viaggi
a piedi ed in bicicletta, è sorta l’esigenza
di individuare percorsi che oltre ad essere attrattivi per il valore paesaggistico,
siano interessanti anche da un punto di
vista storico e artistico. Chiaramente,
grazie ai Giubilei del 2000, del 2016, e al
futuro Giubileo del 2025, l’attenzione è
stata rivolta alle vie romee e jacopee che
erano utilizzate nel Medioevo per recarsi in pellegrinaggio a Roma e a Santiago
di Compostela.
Va ricordato che ad oggi gli storici
riconoscono in Italia “il titolo” di via romea solo alla Via Francigena ed alla Via
Romea Germanica perché descritte nei
resoconti di viaggio dei pellegrini medievali, giunti fino ai giorni nostri; non
si hanno notizie certe dell’esistenza di
vie jacopee. Lo sforzo fatto negli ultimi
vent’anni per trovare nuovi percorsi attraverso l’esame dei testi antichi ha dato
scarsi risultati.
La ricerca presentata in quest’articolo è stata condotta tentando un approccio diverso, basato sullo studio del territorio. In particolare è stata analizzata
la distribuzione dei siti, principalmente
chiese, dedicati a santi strettamente legati al mondo dei pellegrinaggi.
I risultati sono stati sorprendenti
perché si sono potuti riconoscere chiaramente diversi allineamenti alcuni dei
quali coincidono quasi perfettamente
con i tracciati delle antiche strade romane e per questo motivo si ritiene costituiscano dei percorsi.
Le informazioni acquisite attraverso
la ricerca sono tali da far ritenere che per
quanto concerne la viabilità medievale ci
sia ancora molto da indagare.
1.2. IL METODO
D’INDAGINE
L’indagine è stata finalizzata ad
accertare l’area di maggior diffusione
del culto dei santi strettamente legati
al mondo dei pellegrinaggi. In particolare sono stati individuati i luoghi esistenti dedicati a San Cristoforo, a San
Giacomo e a San Giuliano l’ospitalie-
re, patroni dei viandanti, a San Nicola
protettore oltre che dei viandanti anche
dei navigatori, a San Martino patrono
dei forestieri e dei mendicanti, e a San
Pellegrino.
In un secondo momento la ricerca è
stata allargata ai santi patroni delle principali città della costa adriatica perché,
sulla base di alcuni indizi, si è ritenuto
abbiano avuto un ruolo fondamentale
nella storia dei pellegrinaggi; infatti sicuramente non è casuale che la Santa
Casa di Maria sia giunta a Loreto, che
il protettore di Macerata sia San Giuliano l’ospitaliere, che San Pellegrino sia il
patrono di Pescara ed il compatrono di
Ancona, e che San Nicola, oltre ad essere
il protettore di Bari, sia particolarmente
venerato a Venezia.
L’indagine ha interessato l’intero
territorio italiano, la Corsica e la costa
occidentale della penisola balcanica.
Prima di illustrarne i risultati è bene
soffermarsi brevemente sulle caratteristiche salienti dei santi presi in considerazione (AA.VV., 1960-1970).
Nel Medioevo veniva chiesta la sua
protezione dai pellegrini che si apprestavano ad intraprendere percorsi difficili e
pericolosi, oggi è divenuto il protettore
degli automobilisti che lo invocano contro gli incidenti stradali.
San Cristoforo di Licia - Vari indizi
fanno ritenere che fu martire in Licia nel
250, durante la persecuzione dell’imperatore Decio. È stato uno dei santi più
venerati del Medioevo; il culto si diffuse in Europa a partire dal VI secolo. In
Italia, tra le chiese più antiche sono da
segnalare quelle di Taormina, attestata
nel 598 (Mozzoni & Paraventi, 2000, p.
53), e di San Cristoforo ad Aquilam, nei
pressi di Pesaro, in località Colombarone, risalente alla stessa epoca (Tassinari
et al., 2008). Probabilmente a causa del
nome viene rappresentato spesso come
un gigante che attraversa un fiume portando sulle spalle il Cristo.
Con la diffusione del culto, immagini di dimensioni sempre più gigantesche presero a campeggiare sulle facciate di chiese e porte cittadine in tutta
Europa; la più grande raffigurazione
conosciuta, alta oltre 10 m, è stata affrescata nel XIV secolo su una parete
della Collegiata di Santa Maria a Visso
dove è ancora presente (Mozzoni & Paraventi, 2000, p. 57).
San Pellegrino - Trattasi di santo che
pone seri problemi per quanto riguarda
la sua identificazione.
In Italia la figura più conosciuta è
quella del principe scozzese (o irlandese) che dopo aver rinunciato al trono ed
essersi recato in pellegrinaggio a Gerusalemme, visse come eremita nell’Appennino tosco-emiliano, tra le provincie
di Lucca e Modena, compiendo molti
prodigi.
Esiste, però, anche un San Pellegrino,
vescovo di Terni, a cui è dedicato l’importante ciclo di affreschi nella chiesa di
San Pellegrino a Bominaco in Abruzzo.
Non sono da dimenticare, inoltre, i santi
con questo nome venerati ad Ancona, a
Rimini e a Pescara. È assai probabile che
tutte queste figure siano da ricondurre a
San Pellegrino vescovo di Auxerre nel
III secolo, il cui culto si affermò in Italia
nel IX secolo (AA.VV., 2016).
Tali devozioni quasi leggendarie non
vanno confuse con quella ben conosciuta di San Pellegrino Laziosi, compatrono di Forlì, vissuto tra il 1265 ed il 1345.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
San Giacomo il Maggiore - È uno degli apostoli di Gesù insieme al fratello
Giovanni l’Evangelista; non va confuso
con l’altro apostolo Giacomo, il figlio di
Alfeo, detto il Minore, e con altre devozioni marchigiane ed umbre. Il culto si
propagò in modo “esplosivo” dalla Spagna dopo la scoperta del sepolcro, avvenuta all’incirca nell’anno 813, a Compostela, in Galizia. La popolarità è dovuta
soprattutto al fatto che nella Spagna
occupata dagli arabi e in un’Europa minacciata da tali invasori, San Giacomo si
trasformò in una sorta di difensore della
fede cristiana e la sua tomba fu meta di
grandi pellegrinaggi; tale pratica, che
ebbe un impulso notevole all’inizio del
XII secolo, contribuì a far divenire l’apostolo il patrono dei pellegrini.
227
San Nicola di Bari - Un enorme diffusione in Italia e nel mondo ebbe il culto
di San Nicola, vescovo di Myra nel corso
del IV secolo, dopo che le sue reliquie
da Myra, nell’attuale Turchia, giunsero
a Bari nel 1087; da allora il santo fu venerato come patrono della città che divenne meta di pellegrinaggi soprattutto
da parte dei cristiani di fede ortodossa.
È importante ricordare che le reliquie baresi comprendono i frammenti di
maggiori dimensioni; il resto fu prelevato dai veneziani e deposto nel 1100 nella
chiesa di San Nicolò al Lido. Per questo
motivo anche Venezia è particolarmente
devota al santo e ne diffuse il culto sui
suoi possedimenti.
San Martino di Tours – Nasce in Ungheria nel 316, trascorre l’infanzia a
Pavia e una volta intrapresa la carriera
militare viene inviato in Francia; congedatosi dall’esercito a circa quarant’anni
si fa monaco e nel 371 diviene vescovo
di Tours. Morirà nei pressi della città
francese ad oltre ottanta anni di età. Il
culto è assai popolare e si diffonde dalla
Francia probabilmente a partire dalla
seconda metà del secolo XIII.
San Giuliano l’ospitaliere – Secondo
la tradizione Giuliano nasce ad Ath,
in Belgio, nel 631. Divenuto un nobile cavaliere, a causa del temperamento
violento e di un tragico malinteso, uccide i genitori; per espiare la colpa inizia
una lunga peregrinazione che termina
sul fiume Potenza dove per tutta la vita
traghetta i pellegrini offrendo loro assistenza. Il culto non è molto comune e si
confonde con altri santi omonimi (San
Giuliano di Brioude, San Giuliano di
Le Mans, San Giuliano di Sora e San
Giuliano di Rimini). Significativo è il
fatto che muoia sulle rive del Potenza e
che sia patrono di Macerata.
Sant’Apollinare - È il patrono di Ravenna, città di cui fu il primo vescovo,
dove si ritiene che morì martire intorno
alla metà del II secolo. Il culto ebbe una
vasta diffusione fin dall’alto Medioevo
sia nei territori bizantini che in quelli
longobardi; al suo affermarsi contribuirono anche i monasteri benedettini, camaldolesi e avellaniti.
Nell’area indagata compaiono spesso siti dedicati a San Cristoforo vicino
ad altri consacrati a Sant’Apollinare e
nella chiesa di Casteldimezzo (Comune
di Pesaro) i due santi sono associati.
San Paterniano - È il patrono di Fano,
città di cui fu vescovo, e visse, probabil-
mente, nella prima metà del IV secolo. Il
culto è ben presente non solo nelle Marche, ma anche in Romagna, nel Veneto,
in Toscana, in Umbria ed in Dalmazia.
Nell’area indagata compaiono spesso siti dedicati a San Cristoforo o a
Sant’Apollinare vicino ad altri consacrati a San Paterniano, mentre nella
chiesa di Monterado (Comune di Trecastelli) il vescovo fanese è associato a
San Giacomo.
San Ciriaco, la Santa Croce e Santo
Stefano - Stranamente, a differenza
dei patroni di Ravenna e Fano, nelle
Marche non si hanno notizie di una
devozione a San Ciriaco, il patrono di
Ancona le cui reliquie giunsero nel capoluogo marchigiano nel 418; ciò è sorprendente anche perché Ancona è stata
un’antica città greco-romana, la quinta
repubblica marinara e il porto più importante dell’Adriatico nel Medioevo
dopo Venezia, ma prima di giungere a
conclusioni affrettate è bene esaminare
attentamente la figura di San Ciriaco.
Secondo un testo agiografico è grazie al rabbino ebreo Giuda che l’imperatrice Elena, divenuta poi Sant’Elena,
riesce a trovare il luogo in cui era stata
sepolta la croce di Gesù. Successivamente, di fronte al miracolo che permette di distinguere la croce santa dalle
croci dei due ladroni, il rabbino ebreo si
converte assumendo il nome di Ciriaco e divenendo di li a poco vescovo di
Gerusalemme. Tale testo venne sconfessato da papa Gelasio verso la fine del
secolo V con un decreto che ne dichiarò l’inattendibilità (Santarelli, 2007, p.
165).
Probabilmente la vicenda di San
Ciriaco va inquadrata all’interno dei
pessimi rapporti esistenti tra il papato
e gli imperatori bizantini che avevano
la pretesa di sostituirsi all’autorità pontificia riunendo nella loro figura sia il
potere temporale che quello spirituale.
Chiaramente un atteggiamento del genere, tipico dei precedenti imperatori
romani, non poteva essere accettato dal
Santo Padre. Quindi non è da escludere
che la vicinanza del patrono di Ancona
all’imperatrice Elena, la madre di Costantino, e, di conseguenza, agli imperatori bizantini, fosse ritenuta sospetta
e preoccupante dal papa così tanto da
indurlo all’emissione del decreto citato.
Nonostante tale provvedimento, che sicuramente impedì la diffusione del culto
di San Ciriaco, Ancona è stata sempre
molto legata al proprio patrono; una tradizione locale vuole che Ciriaco sia stato
anche vescovo della città.
Rimane ora da capire se “gli anconetani” non abbiano trovato il modo di
superare questa difficoltà. In particolare
si può ipotizzare che da Ancona si siano
diffusi altri culti, anche in considerazione del fatto che nella vicenda di San Ciriaco si individuano diverse figure sante come Sant’Elena, ma soprattutto la
Santa Croce e Santo Stefano; quest’ultimo, oltre ad essere oggetto di una grande
venerazione ad Ancona, sarebbe, sulla
base di una leggenda cittadina, fratello
di San Ciriaco (Mangani, 2016, pp. 1720; Santarelli, 2007, p. 166).
Non è da escludere che pure la devozione di San Quirico, vista la somiglianza nel nome, si sia propagata dal
capoluogo come sembra trasparire da
alcune località marchigiane (Serra San
Quirico, Lapedona e Altidona) e istriane (Visignano, l’attuale Visnjan) (Kudis
Buric, 2008, p. 233).
San Tommaso - Le reliquie dell’apostolo incredulo sono conservate nella
basilica omonima ad Ortona, dove è
venerato come patrono, e vi giunsero nel
1258 dopo essere state trafugate dall’isola greca di Chios. Da allora Ortona
divenne meta di pellegrinaggi ed il culto
del santo apostolo si diffuse per tutto
l’Abruzzo.
San Timoteo - Va segnalata anche Termoli che venera come patrono San Timoteo e ne conserva le reliquie dal 1239;
trattasi di figura eccellente perché fu uno
dei discepoli di San Paolo e destinatario
di due lettere (Prima Lettera a Timoteo e
Seconda Lettera a Timoteo) inserite nel
Nuovo Testamento tradizionalmente attribuite all’ “Apostolo dei Gentili”. Ciò
nonostante sia i molisani che gli abruzzesi non si sono mai dimostrati particolarmente devoti a San Timoteo perché il
culto è rimasto relegato a Termoli.
San Michele Arcangelo – In questa
ricerca non si può non tenere conto
del fatto che sul Gargano, in Puglia, è
presente il più importante santuario al
mondo dedicato a San Michele, dove
l’Arcangelo apparve per ben tre volte
alla fine del secolo V ed un’ultima volta nel 1656. Dalle prime apparizioni il
culto si propagò rapidamente in Italia
ed in Europa.
1.3. ANALISI DEI
RISULTATI
Nelle Figg. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9 sono riportati i risultati di quest’indagine
dai quali scaturiscono le osservazioni di
seguito illustrate.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
228
1. i siti esistenti dedicati a San Cristoforo sono più diffusi lungo la fascia
che unisce la Romagna all’Umbria
interessando la parte orientale della Toscana e le provincie di Pesaro,
Ancona e Macerata nelle Marche;
al suo interno si riconoscono vari
allineamenti. Nel resto del territorio
italiano il culto di San Cristoforo si
individua principalmente nell’Appennino tosco-ligure-emiliano tra le
provincie di Piacenza e La Spezia,
nei dintorni di Bologna, in Piemonte
lungo la valle del Tanaro, nei dintorni
di Milano e nel Triveneto tra Trento
ed il vicentino, ma senza raggiungere la concentrazione riscontrata nella
fascia tra la Romagna, le Marche e
l’Umbria. Al di là dell’Adriatico tale
culto compare nei territori istriani,
tra Trieste e Zara, nell’Albania sudorientale ed in Grecia.
2. assai diversa appare la distribuzione
dei siti esistenti dedicati a San Giacomo che sono presenti su tutto il
territorio nazionale, ma soprattutto
nel nord dell’Italia; è curioso il fatto che tra le Marche settentrionali
e la Toscana meridionale si nota
una striscia in cui i siti dedicati al
santo quasi si azzerano. Rilevante è
anche la sua presenza lungo la costa
tra Trieste e Spalato mentre tende a
scomparire più a sud.
3. poco significativo è il dato riguardante San Pellegrino poiché il culto
è scarsamente diffuso. Si segnalano
solo due zone in cui è stata trovata
una particolare devozione: la Garfagnana in Toscana e le provincie di
Reggio Emilia e Modena; in queste
4.
5.
6.
7.
8.
ultime è stato notato un allineamento
niano; la maggiore concentrazione
ben evidente lungo circa 70 km che
di siti esistenti dedicati a San Paterda Ponte San Pellegrino, nei pressi di
niano si rileva lungo la stessa fascia
Mirandola, giunge sino a Ceredolo
tra la Romagna, le Marche e l’Umdei Coppi, a sud di Reggio Emilia.
bria orientale. Nel resto dell’Italia il
il culto di San Nicola è diffuso in tutculto è quasi assente.
ta l’Italia, ma a differenza di quello 9. i culti della Santa Croce e di Santo
di San Giacomo, principalmente al
Stefano, poiché ritenuti sostitutivi
sud, compresi i settori meridionali
di quello di San Ciriaco per i motivi
delle Marche e dell’Umbria. Molto
precedentemente esposti, verranno
numerosi sono i siti lungo la costa
associati. Tali culti si rinvengono su
occidentale della penisola balcanica.
tutto il territorio italiano, tuttavia si
la distribuzione dei siti esistenti
riconoscono delle zone in cui si rilededicati a San Martino è simile a
va una maggiore concentrazione che
quella di San Giacomo con una netsono:
ta prevalenza nel nord dell’Italia; in
• la fascia alpina e prealpina tra il
quest’area rappresenta il culto più
Piemonte e la Lombardia,
diffuso tra i vari presi in considera• l’area tra Firenze, Pisa e Genova,
zione. Nel sud dell’Italia si rileva una
• l’area umbro-marchigiana,
particolare concentrazione solamen• la parte settentrionale della Sarte in Campania, tra le provincie di
degna,
Salerno e Caserta. Il culto è ben at• la fascia tra Salerno e Caserta;
testato anche sulla costa occidentale
al di là dell’Adriatico tale culto è piutdella penisola balcanica, tra Trieste e
tosto comune tranne che in Albania e
Dubrovnik, ma scompare più a sud.
nella Grecia nord-occidentale.
come quello di San Pellegrino anche 10. per quanto riguarda San Michele
il culto di San Giuliano l’ospitaliere
il dato più evidente è la mancanè poco significativo data la sua scarza di un centro di irradiazione che
sa diffusione; si notano comunque
dovrebbe essere rappresentato dal
degli allineamenti interessanti tra le
santuario del Gargano, ma di fatto
Marche ed il Lazio e tra la Lombarnon è così. Nell’area studiata il culto
dia e il Piemonte.
si concentra maggiormente tra Sai siti esistenti dedicati a Sant’Apollilerno, Benevento, Caserta e Napoli
nare hanno una distribuzione simile a
ed è presente soprattutto sulle cime
quella già vista per San Cristoforo. La
dei monti e dei colli (Montesarchio,
maggior parte ricadono nella fascia ciRoccavivara ecc.) e nei pressi di grottata dove si distinguono chiaramente
te (Grottaminarda ecc.); si notano
vari allineamenti; al di fuori di questa
alcuni allineamenti, ma la mancanza
il culto è presente in modo sporadico.
di un centro di irradiazione fa ritenele osservazioni fatte per Sant’Apolre che siano il frutto della casualità e
linare valgono anche per San Paternon di una progettazione.
Figura 1. Distribuzione sul territorio italiano e sulla costa occidentale della penisola
balcanica dei siti esistenti dedicati a San Cristoforo (da Google Earth, modificata)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Figura 2. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Giacomo il Maggiore, come
in Fig. 1
229
Figura 3. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Pellegrino
Figura 4. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Nicola di Bari
Figura 5. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Martino
Figura 6. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Giuliano l’ospitaliere
Figura 7. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a Sant’Apollinare (in bianco) e a San
Paterniano (in rosso)
Figura 8. Distribuzione dei siti esistenti dedicati alla Santa Croce (in bianco) e a
Santo Stefano (in celeste)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
230
Figura 9. Distribuzione nelle regioni circostanti il promontorio del Gargano dei siti esistenti dedicati a San Michele
(da Google Earth, modificata)
1.4. ALCUNE
CONSIDERAZIONI
L’analisi della distribuzione dei siti
individuati mostra chiaramente l’esistenza di allineamenti che si ipotizza
rappresentino dei percorsi.
Si è potuto constatare che tali allineamenti divengono più visibili se si
associano in modo opportuno due o più
culti, come già si è visto per la Santa
Croce e Santo Stefano.
In particolare, all’interno dell’area
indagata, tenendo conto dei luoghi di
origine dei vari culti, dell’epoca in cui
sono comparsi e della loro distribuzione
sul territorio, si ritiene di poter fare le
seguenti associazioni:
1. Sant’Apollinare-San PaternianoSan Cristoforo,
2. Santa Croce-Santo Stefano-San
Pellegrino, (San Giacomo),
3. San Nicola,
4. San Giacomo,
5. San Martino.
Sant’Apollinare, San Paterniano e
San Cristoforo rappresentano i culti più
antichi e hanno una distribuzione molto
simile perché si sono diffusi su un’area
limitata, per lungo tempo sotto la protezione dell’impero bizantino: la Romagna, la Pentapoli nel nord delle Marche
e il cosiddetto “Corridoio Bizantino” in
Umbria; a conferma di ciò è stato notato
uno stretto rapporto con la via Flaminia (e le sue derivazioni), l’importante
arteria stradale che durante il periodo
longobardo collegava Ravenna a Roma.
La presenza di queste devozioni al di
fuori dei territori bizantini è sporadica
e da riferire, molto probabilmente, ad
un’epoca posteriore.
I culti della Santa Croce, di Santo Stefano e di San Pellegrino sono
successivi, diffusi sull’intero territorio nazionale e legati ad Ancona per i
motivi precedentemente esposti; è bene ricordare che anche San Pellegrino
può considerarsi un santo anconetano
perché figura tra i compatroni della città (Santarelli, 2007, pp. 177-184) e nel
capoluogo marchigiano si trova la chiesa
di San Pellegrino agli Scalzi. Per quanto
riguarda San Giacomo, trattandosi di un
culto più recente e molto più diffuso nel
nord dell’Italia, si può ipotizzare che al
centro e al sud sia stato utilizzato in una
fase successiva, a supporto dei culti più
antichi, soprattutto quelli “anconetani”.
San Nicola è un culto presente in
tutta l’Italia, ma soprattutto al sud dove
dà origine ad allineamenti ben evidenti
(Calabria, Sicilia, Puglia e Molise) senza
essere associato ad altre devozioni.
Il culto di San Giacomo proviene
dalla Spagna e si diffonde principalmente nell’Italia settentrionale dove
forma allineamenti senza essere associato ad altre devozioni.
San Martino è il culto più recente tra quelli indicati, presente in tutta
l’Italia, ma soprattutto al nord dove si
individuano vari allineamenti; la grande
diffusione in quest’area è da attribuire
ad un aumento della popolazione che
sicuramente ha interessato l’intero territorio nazionale.
1.5. CONCLUSIONI
Si ritiene che gli allineamenti individuati attraverso l’indagine siano percorsi, in particolare vie romee o jacopee,
perché:
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
1. sono organizzati, con soste che raramente si collocano ad una distanza
maggiore di 18 km l’una dall’altra
(distanza misurata in linea retta);
2. alcuni di questi coincidono perfettamente con le antiche strade romane.
I percorsi nacquero, dunque, con
lo scopo di aiutare i viandanti che non
conoscevano i territori da attraversare e
la lingua degli abitanti, a raggiungere la
meta senza perdersi e morire di stenti;
lungo il cammino si poteva trovare ospitalità nelle chiese e località dedicate ai
santi presi in considerazione dalla ricerca. Chiaramente, poiché diversi di questi siti, soprattutto le chiese, sono sorti
in un momento successivo è probabile
che inizialmente negli stessi luoghi vi
fosse solo un eremo, una cappellina o un
oratorio di pochi metri quadrati, simili
all’eremo della Santa Croce sul Monte
Morrone nel Parco della Maiella o all’oratorio di San Pellegrino nel comune di
Aviano in Friuli.
Un altro dato importante che emerge è la grande variabilità dei percorsi a
seconda delle epoche. Pertanto si può
ipotizzare:
1. una prima fase, collocabile tra i secoli
VI e VIII, in cui
• l’Italia, in seguito all’invasione
longobarda (568), era sottomessa
a un popolo pagano e solo in alcuni suoi lembi, come la Romagna,
la Pentapoli nel nord delle Marche, una parte dell’Umbria e il Lazio, che dipendevano dall’Impero
Bizantino, si poté continuare a
professare la fede cristiana;
• i territori istriani, tra Trieste e
Zara, erano controllati dall’Impero Bizantino e quindi rimasero
fedeli alla Chiesa;
• la Dalmazia divenne una regione pagana perché fu invasa dagli
Avari e dagli Slavi che, nella prima metà del secolo VII, distrussero importanti città romane come Salona (nei pressi dell’odierna
Spalato) e Narona;
• la Grecia, in quanto parte dell’Impero Bizantino, rimase cristiana.
2. una seconda fase, compresa tra i secoli IX e XI, in cui cessarono le divisioni religiose grazie alla conversione
al cristianesimo dei popoli invasori;
3. una terza fase, segnata dall’arrivo
delle reliquie di San Nicola a Bari,
avvenuto nel 1087, che sicuramente
suscitò un notevole clamore in Italia;
4. una quarta fase, in cui, grazie alla “reconquista”, iniziata all’incirca nel 1100,
si aprono le porte della Spagna e di
Santiago di Compostela ai pellegrini;
231
5. una quinta fase in cui, probabilmente
in seguito all’operato del re Luigi IX
(il re santo), a partire dalla seconda
metà del secolo XIII, dalla Francia si
diffonde il culto di San Martino.
Ad ogni fase corrispondono percorsi
diversi, in particolare:
1. le figure di San Cristoforo, Sant’Apollinare e San Paterniano identificano prevalentemente percorsi romei
(Fig. 10) creati durante il periodo longobardo (568-774) perché si sviluppano all’interno o nei pressi del Cor-
ridoio Bizantino ed iniziano tutti dai 2. i culti della Santa Croce, di Santo
porti della Romagna e della PentaStefano e di San Pellegrino (Figg.
poli nel nord delle Marche, che erano
11-12-13) individuano sia percorcontrollati da Costantinopoli. Al di là
si romei che jacopei formatisi in un
dell’Adriatico gli stessi culti compaperiodo in cui hanno avuto fine le
iono nei territori istriani, tra Trieste e
divisioni religiose perché sono preZara, nell’Albania sud-orientale ed in
senti sull’intero territorio nazionale;
Grecia. La presenza del culto di San
tali culti compaiono con numerosi
Cristoforo in Sicilia fa ritenere che
siti anche sulla costa tra Trieste e il
molti pellegrini partissero dalla GrePeloponneso. I percorsi romei princicia per raggiungere la costa siracusana
pali dovevano partire da Ancona; per
e messinese, ma anche e soprattutto
quanto riguarda la loro età possono
quella marchigiano-romagnola.
essere d’aiuto le notizie provenienti
Figura 10. Sono evidenziati in celeste i percorsi ravennati-fanesi che si sviluppano
lungo gli allineamenti formati dai siti dedicati a San Cristoforo (in giallo), a Sant’Apollinare (in bianco) e a San Paterniano (in rosso) (da Google Earth, modificata)
Figura 11. Sono evidenziati in arancione i percorsi della Santa Croce e di Santo
Stefano che si sviluppano lungo gli allineamenti formati dai siti dedicati alla Santa
Croce (in bianco), a Santo Stefano (in celeste), a San Pellegrino (in viola) e a San
Giacomo (in verde) (da Google Earth, modificata)
Figura 12. Come in Fig. 11
Figura 13. Come in Fig. 11; vengono riportate in rosa anche la via Francigena (ad
ovest) e la via Romea Germanica (ad est)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
232
Figura 14. Sono evidenziati in verde i percorsi di San Nicola; (da Google Earth, modificata)
Figura 15. Come in Fig. 14
dall’antica abbazia di Santa Croce al
in Sicilia (Fig. 15) e anche al nord,
Chienti, situata circa 40 km a sud di
in Liguria e nel Triveneto. Il culto,
Ancona lungo uno di questi percorsi,
inoltre, è assai diffuso lungo la costa
che venne costruita verso la fine del
balcanica occidentale, soprattutto
secolo IX su un preesistente insediain quelli che erano i possedimenmento benedettino e, per circa tre seti veneziani. A causa dello scisma
coli, fu una delle più potenti abbazie
avvenuto nel 1054 e grazie alla pomarchigiane (Verdini, 2014, p. 50).
polarità di San Nicola nella Chiesa
3. i percorsi caratterizzati dalla figura
ortodossa tali tracciati divengono un
di San Nicola sono per lo più diretti
riferimento per i cristiani orientali.
a Roma e vengono realizzati dopo 4. i percorsi di San Giacomo si forl’arrivo delle reliquie del santo a Bamano quando i pellegrini iniziano
ri; chiaramente i percorsi principali
a recarsi a Santiago di Compostela,
iniziano da questa città e sono molto
quindi a partire dal secolo XII, e nel
evidenti tra la Puglia e la Campania
nord dell’Italia sono ben riconosci(Fig. 14), ma altri simili sono presenbili (Figg. 16-17). Al centro e al sud,
ti in Abruzzo-Molise, in Calabria,
invece, il culto di San Giacomo viene
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
utilizzato per perfezionare i percorsi romei più antichi, in particolare
quelli “anconetani”. Al di là dell’Adriatico tale devozione è piuttosto
comune tra Trieste e Spalato mentre risulta quasi assente più a sud; è
verosimile che l’invasione ottomana
verso la fine del secolo XIV ne abbia
impedito la diffusione in quest’area.
5. anche il culto di San Martino viene
utilizzato per creare percorsi jacopei
facilmente riconoscibili nel nord
dell’Italia (Fig. 18) dove è particolarmente diffuso probabilmente
proprio per questo motivo.
Si può capire, da quanto riferito, il
ruolo fondamentale ed inatteso avuto
dalle città della costa adriatica nella “gestione” dei pellegrinaggi sull’intero territorio italiano. Probabilmente ciò è potuto
accadere perché i pellegrini provenienti
dall’area balcanica e dalle provincie asiatiche dell’impero bizantino sono stati in
numero di gran lunga superiore rispetto
alle altre regioni europee; questi sbarcavano principalmente sulle città della
costa adriatica e si incamminavano per
Roma. Di conseguenza tali città con i
loro culti sono divenute un punto di riferimento ed il modello da imitare.
Successivamente, a partire dal secolo
XII, quando, con la liberazione della Spagna nordorientale dalla dominazione araba, i pellegrini iniziano a recarsi a Santiago di Compostela è l’Italia settentrionale
ad assumere un ruolo da protagonista.
Dall’indagine si scopre pure che i
viandanti evitavano accuratamente le zone acquitrinose e paludose in cui il rischio
di contrarre la temutissima malaria era
elevato; perciò non c’è da stupirsi che territori come la Maremma, l’Agro Pontino,
la Piana Reatina, il Tavoliere delle Puglie,
il Campidano in Sardegna e la Piana del
Fucino, per citare i più importanti, rimangano al di fuori di qualsiasi itinerario.
Va sottolineata, infine, la grande importanza avuta nell’alto Medioevo dal
fiume Po e dai suoi affluenti come vie
di comunicazione tra il Piemonte (Torino), il Lodigiano in Lombardia e la
provincia di Reggio Emilia (Brescello).
Dall’inizio del secolo XV, con la crescita della popolazione e dei commerci, si
ha un generale miglioramento delle condizioni del pellegrinaggio; si diffondono
gli ospitalia, cioè i ricoveri per forestieri,
all’interno delle città e vengono avviate
numerose opere di bonifica grazie alle
quali le strade si riappropriano dei fondivalle; non si sente più la necessità di creare percorsi ispirati dal culto dei santi che
salgono lungo i crinali ed arrivano sulle
cime dei monti. I vecchi tracciati sono
233
Figura 16. Sono evidenziati in bianco i percorsi di San Giacomo. Viene rappresentata
in rosa anche la Via Romea Germanica (da Google Earth, modificata)
Figura 17. Come in Fig. 16; vengono riportate in rosa anche la via Francigena e la
via Romea Germanica
Mangani G. (2016), Il vescovo e l’antiquario.
Giuda Ciriaco, Ciriaco Pizzecolli e le origini
dell’identità adriatica anconitana, Il Lavoro Editoriale.
Mozzoni L., Paraventi M. (2000), In viaggio con San Cristoforo. Pellegrinaggi e devozione tra Medio Evo e Età Moderna, Giunti.
Santarelli G. (2007), Le Origini del Cristianesimo nelle Marche, Edizioni Lauretane Santa Casa, Loreto.
Tassinari C., Destro M., Di Luca M. T.
(2008), Colombarone. La villa romana e la
basilica paleocristiana di San Cristoforo ad
Aquilam, Ante Quem.
Verdini M. (2014), Problemi di insediamento nella valle del Chienti: il caso della basilica
imperiale di Santa Croce, Grafiche Fioroni.
SITOGRAFIA
Figura 18. Sono evidenziati in giallo i percorsi di
San Martino. Viene rappresentata in rosa anche la
Via Francigena (da Google
Earth, modificata)
abbandonati e con il passare del tempo
se ne perde la memoria; rimangono solo
alcune chiese ubicate in luoghi remoti
dedicate a santi “particolari” non di rado
estranei alle comunità locali.
In occasione del Giubileo nell’anno 1500, il cartografo tedesco Erhard
Etzlaub pubblica la “Romweg-Karte”,
una mappa in cui sono riportati i principali percorsi dell’epoca che dalle coste
del Belgio a quelle della Polonia giungono sino a Roma. La carta, che è la prima
del genere dell’Europa centrale, mostra i
vari stati politici e le regioni montuose e,
soprattutto, dà la possibilità di calcolare le distanze lungo gli itinerari. Grazie
a queste innovazioni il pellegrino può
pianificare il viaggio.
Termina la grande epopea dei pellegrinaggi e si appresta ad iniziare l’era dei
“viaggi organizzati”.
BIBLIOGRAFIA
AA.VV. (1960-1970), Bibliotheca Sanctorum, Roma.
AA.VV. (2016), San Pellegrino tra mito e
storia: I luoghi di culto in Europa, a cura di
Trezzini A., Gangemi Editore.
Kudis Buric N. (2008), La pittura tardomanierista nella Diocesi di Parenzo-Pola: il
contesto storico e religioso, la committenza e
gli autori, in “Saggi e Memorie di storia
dell’arte”, Fondazione Giorgio Cini - Istituto di storia dell’arte, 30.
Lanzoni F. (1927), Le diocesi d’Italia dalle
origini al principio del secolo VII (an. 604),
2 vol.
Per l’individuazione di gran parte delle località di culto presenti nelle varie figure
sono stati utilizzati i seguenti siti internet:
Le Chiese delle Diocesi Italiane, http://
www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/
chieseitaliane/;
Geoportale Nazionale, http://www.pcn.minambiente.it/viewer/;
I Luoghi del Silenzio, http://www.iluoghidelsilenzio.it/;
Santi, Beati e Testimoni, http://www.santiebeati.it/;
La Via Francigena, https://www.viefrancigene.org/it/mappe/;
Via Romea Germanica, http://www.viaromeagermanica.com/;
Centro Studi Romei, http://www.centrostudiromei.eu/;
Sicilia Jacopea, http://www.siciliajacopea.it/;
Confraternita di San Jacopo di Compostella,
http://www.confraternitadisanjacopo.it/;
Jakobsweg
Südtirol,
http://www.jakobswegsuedtirol.it/;
Cammini d’Italia, https://www.turismo.politicheagricole.it/news/atlante-digitaledei-cammini-ditalia-nuova-mappa/.
Inoltre di grande aiuto è stato lo strumento
di ricerca del software Google Earth Pro distribuito gratuitamente dalla società Google.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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. ADRIA . PADOVA . ALTINO . CONCOR DI A . A Q U I L E A .
VIA ANNIA
Come si viaggiava nell’antichità? Com’erano fatte le strade? Com’era il paesaggio del
Veneto all’epoca dei Romani? Di certo era molto diverso dall’attuale. Era un paesaggio
dominato dall’acqua delle lagune, delle aree paludose, dei corsi fiumi, un paesaggio dove
l’acqua abbracciava i campi coltivati, per buona parte divisi in un sistema centuriale.
Ed era questo era lo scenario che, in epoca romana, per un buon tratto vedeva chi
intraprendeva un viaggio lungo la Via Annia, una delle arterie stradali più importanti
dell’Italia settentrionale. La Via Annia collegava Aquileia con un capolinea meridionale, ancora oggi di incerta identificazione, posto a sud di Adria. Oggi il paesaggio ha
profondamente cambiato i suoi connotati: le acque sono state irregimentate, le paludi
bonificate, il mondo “anfibio” ha lasciato spazio a un susseguirsi di fertili campagne,
dove prosperano coltivazioni ben diverse rispetto a quelle praticate nel passato.
Il tracciato della Via Annia proposto dal topografo L. Bosio
Ma il fascino di quel mondo antico ancora oggi sopravvive, sia pure attraverso labili
tracce che bisogna saper cogliere. Se in mezzo ai campi coltivati talvolta emergono
come fantasmi le vestigia di una realtà sepolta - ponti, lacerti stradali - non meno
eloquenti sono alcuni toponimi “trasparenti” che a quella realtà passata rinviano:
Levada e Levaduzza, diffusi qua e là lungo l’antico tracciato dell’Annia, rievocano
proprio quella via che, nelle aree paludose, correva sopraelevata per non essere travolta dalla presenza dell’acqua. E proprio da queste labili tracce è partito il Progetto
Via Annia, per il recupero e la valorizzazione di quest’antica arteria viaria, perno
su cui si è sviluppata l’identità dei territori del nord-est. Voli aerei alla ricerca delle
tracce, scavi archeologici, indagini geomorfologiche, allestimenti museali, cartellonistica diffusa hanno così contribuito a ricostruire la storia della strada e a renderla
nota al grande pubblico, facendola, per così dire, uscire dai libri dov’era confinata.
Tracce della Via Annia: il ponte romano in località Ceggia
(VE) (foto: Archivio Progetto Via Annia - Dipartimento di
Geografia, Università degli Studi di Padova)
Costruire una strada romana: fasi di lavorazione
La Via Annia nei Musei: la sezione dedicata alla strada nel
Museo Archeologico di Padova (foto: Gabinetto Fotografico
Musei Civici)
Particolare di un mosaico nel Piazzale delle
Corporazioni del Parco Archeologico di Ostia
Antica
237
La via Nomentana: luoghi
di culto ipogei e acque
sotterranee
Stefania Nisio
ISPRA – Dipartimento per il Servizio
Geologico d’Italia
E-mail:
[email protected]
Pio Bersani
Geologo, libero professionista
E-mail:
[email protected]
Nomentana street: cult places
and underground waters
Parole chiave: Via Nomentana, Roma, culti, cavità sotterranee, catacombe, sorgenti
Key words: Nomentana Street, Rome, cults, underground cavities, catacombs, springs
RIASSUNTO
La Via Nomentana è una delle tante
vie consolari che devono il proprio nome alla città a cui arrivavano partendo
dal centro di Roma, dunque a Nomentum (attuale Mentana).
La denominazione originale era via
Ficulensis, perché la strada era inizialmente limitata a Ficulea; il prolungamento fino a Nomentum portò in seguito
al cambio di nome.
La strada aveva origine a Roma presso Porta Collina, nelle mura serviane, e
da lì proseguiva in direzione nord-est
fino a Nomentum.
Attualmente, la via Nomentana parte da Porta Pia, a un centinaio di metri
dall’originale porta, nella porzione settentrionale di Roma.
Il territorio ai lati della via Nomentana, entro l’Urbe e subito fuori di essa
(oggi può essere circoscritto al Grande
Raccordo Anulare), era particolarmente
ricco di luoghi di culti pagani e in seguito cristiani.
I culti ebraici e cristiani, in particolare, hanno dato luogo ad un imponente
sviluppo di aree cimiteriali sotterranee,
di cui alcune sono oggi ancora sconosciute.
Tali catacombe scomparse potrebbero rappresentare un rischio per la
popolazione in quanto potenzialmente
sottoposti a fenomeni di sprofondamento improvviso (sinkholes).
L’area della via Nomentana, inoltre,
in epoca romana e pre-romana era ricca
di acque e di sorgenti il territorio circostante si presentava particolarmente
paludoso. In tal senso Plutarco riferisce
che uno degli impegni di Giulio Cesare
fu proprio quello di bonificare le paludi
nomentane che erano del tutto paragonabili a quelle Pontine.
Lungo la strada sorgevano alcune
sorgenti di acque minerali; Strabone ricorda le Acque Labane, oggi scomparse,
che avevano grande portata; si presentavano fredde e albule alla vista, ovvero
opalescenti, mineralizzate.
ABSTRACT
Nomentana is one of the many roman streets that owes its name to the
city it comes; Nomentana street came to
Nomentum (current Mentana).
Its original name was Ficulensis, because the road was initially limited to
Ficulea; the extension to Nomentum led
to change its name.
The road originated in Rome from
Porta Collina, in the Servian walls, and
it continued to north-eastern direction
until Nomentum.
Currently, Nomentana street starts
from Porta Pia, some hundred meters
from the original Porta Collina, in the
northern area of Rome.
The territory of the Nomentana, immediately outside the City (today it can
be circum-scribed to the Grande Raccordo Anulare), was particularly rich of
pagan and Christian cults. The Jewish
and Christian cults, in particular, gave
rise to an impressive development of
underground cemeteries. Some of them
are still unknown. These disappeared cemeteries could represent a risk for the
population that is potentially subjected
to sudden sinking phenomena (sinkholes).
In Roman and pre-Roman time the
Nomentana area was rich in water and
springs too, the surrounding area was
particularly marshy. About this Plutarch
reports that Julius Caesar commitment
the draining of the swamps that were
completely comparable to the Pontine
ones.
Along the way stood some mineral
water springs; Strabone remembers the
Labane Waters, now disappeared, which
had great scope; they appeared cold and
albule, opalescent and mineralized.
LUOGHI DI CULTO
PAGANO SULLA VIA
NOMENTANA
La via Nomentana era una delle
principali zone della città in cui in epoca romana e pre-romana si praticavano
culti pagani.
Questi erano dedicati soprattutto
ad alcune divinità ctonie (con il termine divinità ctonie si intende tutte quelle
divinità legate ai culti della terra e del
mondo sotterraneo, di personificazione
di forze sismiche o vulcaniche); erano,
inoltre, presenti sulla strada, ai margini
della città, necropoli e luoghi dedicati al
culto dei morti.
Figura 1. Immagine della Campagna Romana e della sedia del Diavolo, resti della tomba dedicata a Elio Callisto
(Immagine da Pro-Loco Roma – Roma sparita)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
238
Lungo la strada, subito fuori dalle
porte dell’Urbe, erano ubicati due altari
di cui uno dedicato alla Dea Nenia, dea
ctonia minore della religione pagana,
tutelare dei canti funebri. Alcuni Autori considerano Nenia la divinità della
morte e da tale dea deriva la locuzione
latina naenia, cioè il triste lamento che
veniva recitato come accompagnamento
ai riti funebri sino al sepolcro (in epoca
romana le donne venivano pagate per
piangere le nenie funebri); è particolare il fatto che con lo stesso termine si
indicava anche la compilazione di particolari formule magiche. Alla dea Nenia, inoltre, si affidava la protezione dei
moribondi.
Lungo la stessa via era presente anche un sacello dedicato alla Dea Diana
(tale altare oggi non molto identificabile
è rimasto nella storia perché il luogo ove
morì decapitato Papa Urbano).
Inoltre, le fonti storiche riportano
alcune necropoli pagane e vari cimiteri
ipogei cristiani. Delle necropoli pagane, in particolare, rimane un testimone
quello che è chiamato dagli abitanti la
Sedia del Diavolo (Fig. 1). Questo, ubicato in piazza Elio Callistio nel quartiere Trieste, è un rudere dell’architettura
funebre romana (Fig. 2) che ricorda la
forma di una grande sedia, in realtà è
una tomba appartenuta Elio Callistio e
alla sua famiglia. La sedia sorgeva su di
una collina lungo l’antico percorso della
Via Nomentana e divenne nel Medio
Evo il rifugio di viaggiatori, di pastori,
di sbandati nonché mercato di prostituzione. Di notte i pastori erano soliti
accendere fuochi che in lontananza illuminavano il rudere in maniera spettrale
per gli osservatori che la guardavano dal
centro di Roma. Con il tempo la gente
ebbe timore del monumento e nacquero
leggende di stregonerie nonché la credenza popolare che il Diavolo stesso si
fosse seduto sul rudere provocandone il
crollo parziale (da cui il nome).
IL CAMPUS SCELERATUS
PRESSO PORTA COLLINA
Porta Collina (dal latino Collis,
il colle su cui sorgeva la porta che era
quello del Quirinale), da cui parte la
Nomentana, era una delle porte nelle
Mura regie serviane di Roma, era collocata all’incirca all’incrocio tra le attuali
via Goito e via XX Settembre (Fig. 3),
esattamente presso l’incrocio delle due
strade (Bianchini, 1747). Resti dell’antica porta si rinvengono presso il cortile
del palazzo del Ministero delle Finanze
in Via XX Settembre. Per la realizzazione del palazzo del Ministero, nel 1872,
altri ruderi della Porta furono demoliti.
Porta Collina venne poi sostituita con
Porta Pia da cui attualmente parte la Via
Nomentana.
subito ma facevano una lunga agonia,
forse provviste di un iniziale minimo di
sussistenza alimentare, per prolungarne
la pena.
Molte sacerdotesse non avevano
commesso la colpa, ma venivano ingiustamente punite insieme ai presunti
amanti, condannati anche questi a morte per decapitazione o fustigazione.
Si narra che alcuni Imperatori, quali
Domiziano e Caracalla, invaghitisi di
belle Vestali ma respinti, si vendicarono
accusando queste di avere violato il loro mandato e confinandole nel Campus
Sceletatus.
IPOGEI E CIMITERI
CRISTIANI
Numerosi sono i cimiteri ipogei
cristiani lungo la Nomentana (Aringhi, 1651; Armellini, 1887, 1893, Bosio 1632, D’Agincourt, 1835), alcuni di
questi hanno sfruttato impianti caveali
per l’estrazione di tufo che erano già presenti nell’area. Numerosi cunicoli si so-
Figura 3. Antica rappresentazione di Porta Collina; il nome deriva da Colle su cui sorgeva, ovvero il Quirinale.
Anche che oggi il Quirinale viene definito talvolta di “Colle”
Figura 2. La Sedia del Diavolo come si presenta oggi;
foto S. Nisio
Il Campo Scellerato era un ambiente ipogeo di epoca romana scomparso
sotto il tessuto urbano e ancora non
rinvenuto; era ubicato, in base alle fonti
storiche, lungo il percorso della strada
di fronte o nei pressi della Porta Collina
(Bianchini, 1747). Esso, in particolare,
era il luogo sotterraneo dove le Vestali
colpevoli di aver violato il voto di castità, venivano sepolte vive e venivano
condannate a morte.
Si trattava di un’ampia camera posta sotto il piano stradale, con una porta
d’ingresso che veniva bloccata dall’esterno una volta che le Vestali erano
fatte entrare. Le Vestali non morivano
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
no invece sviluppati indipendentemente
dalle aree di cava.
Il primo cimitero è quello di Nicomede all’inizio della via; presso Villa
Torlonia è presente il cimitero ebraico, e
presso la basilica di Sant’Agnese i Cimiteri Maggiore e Minore. Numerosi sono
anche i rami secondari di tali impianti
cimiteriali e molte le gallerie sotterranee
di cava di cui non se ne conosce ancora
oggi l’effettiva estensione.
Ubicato dalle fonti storiche al VII
miglio della Nomentana (10,36 km
dalla Porta Collina) è presente subito
fuori il Grande Raccordo Anulare, il
Cimitero di Sant’Alessandro Papa. Le
239
fonti attestano inoltre, al XIV miglio il
cimitero di Primo e Feliciano e al XVI
miglio il cimitero di Restituto (Bosio
1632, D’Agincourt 1835).
Il cimitero di Sant’Alessandro fu
riscoperto nel 1854 da De Rossi, quando vennero alla luce i resti della relativa
basilica interrata. La dedica ad Alessandro deriva dalla presenza dell’iscrizione
rivolta al Papa martire insieme ai compagni Evenzio e Teodulo, vittime della
persecuzione di Diocleziano.
La basilica fu edificata all’inizio del
V secolo restaurando un piccolo santuario precedente, per volere di Urso,
vescovo di Nomentu, durante il papato
di Innocenzo I. Il complesso scomparve
probabilmente in seguito al saccheggio
operato dai barbari; a lungo cercato, ricomparve solo a metà dell’ottocento interrato di alcuni metri rispetto al piano
di campagna. Le catacombe di Sant’Alessandro, scavate nei terreni piroclastici,
hanno accesso direttamente dalla basilica e si sviluppano su di un unico piano
generando continui errori di identificazione (Panvinio 1568; Bosio 1634;
D’Agincourt 1835, Gori 1862; De Rossi, 1864, 1882; Gaume, 1879 Marucchi
1903; Pavia, 1998, 2015).
Le fonti storiche, ad esempio, riportano sulla Via Nomentana un cimitero
molto conosciuto e meta di pellegrinaggio nella prima età cristiana e in epoca
medioevale, da cui sgorgavano delle sorgenti chiamate Ninfe e dove San Pietro,
secondo la tradizione, avrebbe battezzato i fedeli: il Cimitero ad Nymphas.
Panvino (1568) riporta tale cimitero
tra il VII e l’VIII miglio da Roma, nel
podere di Severa e le acque che vi sgorgavano in sotterraneo erano di grande
portata (Boldetti 1720).
Alcuni sostengono che in esso vennero martirizzati, nell’anno 330 d.C.
sotto Diocleziano, i santi Papia e Mauro (Gori, 1862). Il Martirologio riporta
infatti: “Quorum corpora collegit Joannes
presbite noctu et sepelivit in via Nomentana sub die februarii ad nymphas ubi Petrus
pozzi per acqua, inoltre diversi sistemi
di captazione erano presenti nelle vigne
attigue al cimitero. Un ingresso delle catacombe di Sant’Ippolito doveva essere
sulla Tiburtina, l’altro sulla Nomentana,
ma i cunicoli delle catacombe interrotti
da crolli dovevano un tempo essere un
tempo comunicanti (Gori 1862).
Le catacombe Ad Nynphas sono
state anche associate all’Ipogeo di Via
Livenza (presso Piazza Fiume a Roma;
Wippert 1903, Cecchelli, 1951). Tale
ipogeo presenta una sala con una vasca
(posta a 9 m dal p.c.), probabilmente per
immersioni viste le sue dimensioni, alle
cui spalle è presente la figura di diana
cacciatrice.
C’è chi sostiene e che l’intero ipogeo
è un luogo per il battesimo cristiano e
che la figura di Diana cacciatrice simboleggia il paganesimo nell’atto di allontanare dalla fonte battesimale i cervi mentre una Ninfa al contrario rappresenta il
cristianesimo nascente e da tale rappresentazione prende il luogo: Ad Nimphas
Figura 4. La Basilica Ipogea di S. Alessandro e le Catacombe annesse
(Fig. 4). All’interno del complesso di S.
Alessandro, oltre alla basilica (costituita
da un atrio, un ingresso, due locali in
cui si trovano le tombe dei tre martiri e
varie costruzioni funerarie) era descritto
nelle fonti storiche alla fine di una scala
un pozzo in sotterraneo di acqua limpidissima che serviva al battesimo; in tale
pozzo fu ritrovata ancora acqua durante
gli anni del ritrovamento della catacomba nel 1854.
CIMITERO AD NYNPHAS
SCOMPARSO SULLA VIA
NOMENTANA
Molta confusione è stata fatta nel
tempo riguardo i cimiteri cristiani della
Nomentana soprattutto perché a molte
aree cimiteriali sono stati attribuiti nomi
differenti nelle diverse epoche storiche,
baptizabat”. Bosio e molti altri Autori,
successivamente, non trovandolo lo
identificarono con una delle aree cimiteriali conosciute. Alcuni lo assimilarono al cimitero di Santa Agnese, altri a
quello di Sant’Alessandro Papa anche
se le distanze riportate dalle fonti non
erano congruenti: “Noi con tutte le diligenze fatte non abbiamo potuto averne
alcuna notizia” (Bosio, 1634; Boldetti,
1720), altresì, riporta: “…oggi dì il suo
sito è affatto incognito”.
Ancora oggi permangono solo ipotesi, di fatto non è stato possibile ubicare con assoluta certezza il cimitero in
questione.
Gori (1862) propone che esso possa
coincidere con il Cimitero di Sant’Ippolito, presso la Basilica di Santo Stefano,
dove furono trovati nei sotterranei molti
sacti Petri ubi baptezavit (Wilpert 1903;
Cecchelli 1951).
Tuttavia, le pareti di accesso alla vasca sono alte circa due metri (Fig. 5),
contrariamente alle altre vasche per il
battesimo cristiano e risulta difficile
ipotizzare un battistero cristiano siffatto all’interno di un ipogeo pagano
(Pavia; 1998, 2015). Paribeni (1923), lo
scopritore, sostenne la tesi di un luogo
di riunione dei Baptai, un’antica setta misterica devota alla dea Cotys, che
praticava il tuffo rituale nell’intento
di provocare uno choc che conducesse
all’estasi e all’ipnosi. Altri autori, invece,
attribuiscono l’ipogeo all’età romana di
Costantino identificandolo con un tempio per il culto delle acque.
Marucchi (1933) ritenne che il cimitero ad Nymphas fosse quello di Priscilla
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
240
Figura 5. Ipogeo di Via Livenza: Vasca per il battesimo
sulla via Salaria (coincidente anche con
il cimitero ostriano), presso una delle
cappelle vi è un antico ninfeo che può
rappresentare il nesso con la denominazione ad nymphas.
De rossi (1864) sostiene, infine, che
i santi Papia e Mauro furono sepolti nel
cimitero Ad nymphas da cui si accedeva
dalla basilica di Sant’Emerenziana posta presso quella di Agnese.
CIMITERO OSTRIANO
Il cimitero Ad Nymphas viene
spesso confuso con il cimitero Ostriano,
perché anche quest’ultimo ricorda la
tradizione del battesimo di San Pietro.
Esso viene rappresentato anche nel film
Quo Vadis, con una famosissima scena
che riguarda l’apostolo Pietro nell’atto
del battesimo in sotterraneo. Il cimitero
Ostriano secondo le fonti storiche era
“de sede ubi prius sedit Sanctus Petrus“,
ovvero la prima località in cui sostò San
Pietro arrivando a Roma.
Lì l’Apostolo battezzava i fedeli con
l’acqua di un torrente che sgorgava da
un’altura, tra la via Salaria e la via Nomentana ovvero con acqua di fonte che
scaturiva in sotterraneo. Il torrente (il
cui nome forse era Ostrio) è quello che
successivamente è stato chiamato Fosso
Figura 6. Tavola esatta dell’antico Lazio e nova Campagna di Roma dedicata a Sigismondo Chigi Gran Priore di Roma a cura di Innocenzo Mattei, 1670. Sono ubicate
distintamente le tre aree cimiteriali dei cimiteri Ad Nymphas, Ostriano e Novella
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
241
di Sant’Agnese e oggi è un asse fognario
del quartiere, sul percorso corso Triste,
viale Eritrea, viale Libia. Nello stesso
quartiere è presente il toponimo Via
Ostriana, prossima alla via Salaria.
Ostrum (da cui il nome Ostriano)
potrebbe anche derivare una grande cisterna che veniva utilizzata in sotterraneo per il battesimo.
L’esatta posizione di tale cimitero
è ancora sconosciuta e gli Autori sono
stati sempre in disaccordo identificandolo con il complesso di Santa Priscilla
ovvero con altre catacombe che da Piazza Santa Emerenziana dovevano congiungersi con il complesso del Cimitero
Maggiore (De Rossi, 1864).
Successivamente, il Coemeterium
Ostrianum è stato identificato con il
Cimitero Maggiore della via Nomentana (Marucchi, 1933), del quale è stato
scoperto un ingresso su un lato di via
Asmara (vicino a piazza Annibaliano),
in verità un po’ distante dall’attuale via
Ostriana e dove era l’entrata della piccola Catacomba Ostriana (via di Priscilla).
Nelle Gesta Liberii si narra che quando
papa Liberio fu confinato dall’imperatore
si rifugiò al terzo miglio della via salaria
non lontano dal cimitero di Novella e nel
cimitero Ostriano battezzava i fedeli.
I testi antichi descrivono, poi, di un
altro cimitero, il terzo, quello di Novella,
che non doveva essere troppo distante
da quello Ostriano che alcuni hanno
identificato con il Cimitero di Priscilla.
Boldetti (1720) ipotizza che il cimitero Ostriano era una parte di quello
di Priscilla non lontano dal cimitero di
Novella ed era ubicato al terzo miglio
miglio dalla città.
Nel presente lavoro viene riportato, a
titolo di esempio, uno stralcio della Carta di Mattei (1670) in cui viene proposta l’ubicazione di entrambe i cimiteri
(Fig. 6). Da tale carta l’ubicazione del
Cimitero Ad Nymphas è più spostata
all’esterno della città. L’Autore posiziona, nel dettaglio, il cimitero oltre il Ponte
Tazio sulla Nomentana nei pressi di Casal de Pazzi; più prossimo alla via Salaria
è il cimitero Ostriano dove ricorreva il
battesimo di Papa Liberio.
LE ACQUE DELLA VIA
NOMENTANA
L’area della via Nomentana in epoca
romana e pre-romana era ricca di acque e
di sorgenti e il territorio circostante si presentava particolarmente paludoso. In tal
senso Plutarco riferisce che uno degli impegni di Giulio Cesare fu proprio quello di
bonificare le paludi nomentane che erano
del tutto paragonabili a quelle Pontine.
Lungo la strada erano presenti alcune sorgenti di acque minerali; Strabone
ricorda le Acque Labane, oggi scomparse,
che avevano grande portata; si presentavano fredde e albule alla vista, ovvero
opalescenti, mineralizzate. In passato
tali acque venivano utilizzate a scopi terapeutici ed erano ubicate presso l’antica città di Eretum (coincidente secondo
alcuni Autori con la frazione di Grotta
Marozza nei pressi di Monte Rotondo;
Brancaleoni et alii, 2015).
Le sorgenti di Grotta Marozza sono ubicate circa 3 km ad est della Via
Nomentana, fuori dal grande Raccordo
Anulare. Esse sono riportate (con il n.
24) nella “Carta idrogeologica della Regione Lazio” (in scala 1:250.000; Boni
et al. 1988). In tale studio la quota delle
sorgenti è posta a 87 m s.l.m., ha una
temperatura di 21,5°C ed è segnalata la
presenza di gas; le sorgenti sono poste in
prossimità di sistemi di faglie con andamento appenninico NW – SE.
All’interno del Grande Raccordo
Anulare di Roma, è presente lo stabi-
Figura 7. Immagine della Via Nomentana a fine ‘800 presso Ponte Tazio, dove erano ubicate le sorgenti dell’Acqua
Sacra; da collezione “Roma Sparita”
limento dell’Acqua Sacra, ubicato in
prossimità della Via Nomentana, nel
quartiere Montesacro in Via Monte del
Furlo 57, a poca distanza da Ponte Tazio
sul fiume Aniene (Fig. 7).
La sorgente dell’Acqua Sacra (Camponeschi e Nolasco, 1982) è stata scoperta con un sondaggio nel 1943, che
partendo dalla quota di 24,5 m del piano
campagna ha incontrato l’acqua mineralizzata a 43 m di profondità, pertanto
tale acqua è estratta attraverso un sistema di pozzi.
L’attività di estrazione e imbottigliamento è iniziata nel 1946 ed è tuttora
funzionante. La prima concessione mineraria per acque minerali e anidride
carbonica era denominata “Acqua nomentana”, successivamente la concessione prese il nome di “Acqua sacra” e
si sviluppa su un’area di circa 70 ettari.
L’acqua della sorgente Acqua sacra
(Padovano, 2010) è di sapore acidulo,
ha un PH inferiore a 7 (leggermente
acido) e un Residuo secco pari a 841,8
mg/l. Il Ministero della Salute con D.M.
17/11/2005 n. 3643 ha riconosciuto le
sue qualità terapeutiche: un efficace
effetto diuretico, un’azione favorente i
processi digestivi oltre ad un’attività di
stimolo nel ricambio purinico (riduzione dell’uricemia).
Il nome Acqua Sacra è legato alla
presenza del “Monte Sacro”, ubicato all’esterno della cinta della mura aureliane,
a metà strada tra l’Urbe e il borghetto
di Ficulea, lungo il percorso della Via
Nomentana. Il Monte Sacro era anche il
luogo dove gli Auguri si recavano per fare
i loro vaticini osservando il volo degli uccelli. In età repubblicana Agrippa ricompose una questione con la plebe in rivolta
contro l’ordinamento sociale romano. La
plebe accampata sulla collina del Monte Sacro ottenne l’istituzione dei tribuni
della plebe e degli edili della plebe, con
l’istituzione di una propria assemblea. In
ricordo dell’evento e a monito per il mantenimento degli accordi pattuiti i plebei
eressero sulla cima del monte un’area dedicata a Giove Terrifico. Non è escluso
che quest’area sacra a Giove abbia poi dato il nome di “sacro” a tutto il monte e in
conseguenza, in tempi molto più recenti,
anche all’acqua (Padovano, 2010).
Presenza di acque in sotterraneo
viene riportata anche nei cimiteri cristiani di Alessandro e Priscilla dove
sono presenti pozzi per emungimento.
Presso località S. Alessandro, lungo Via
della Cesarina, sono riportate altre tre
sorgenti (Regione Lazio, 2012), con
portata inferiore a 10 l/s, di cui una è
indicata come termale.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
242
CONCLUSIONI
La via Nomentana era una delle principali zone della città in cui in
epoca romana e pre-romana si praticavano culti pagani dei defunti e dove
sono sorti in epoca cristiana numerosi
cimiteri. Quest’ultimi hanno sfruttato
anche impianti caveali pre-esistenti per
l’estrazione del tufo. Inoltre, l’area è stata
interessata dalla coltivazione mineraria
in sotterraneo del tufo anche in epoche
successive.
Le immagini del paesaggio mostrano in antichità aree collinari oggi inesistenti perché sottoposte all’eccessivo
sbancamento (cave di Via Tripoli, area
di Piazza Elio Callisto).
Molte aree ipogee risultano oggi ancora nascoste sotto il tessuto urbano e
potrebbero rappresentare eventuali aree
ad alta suscettibilità per gli eventi di
sprofondamento (Ciotoli et al. 2015 a,
2015 b; Bisconti et al. 2017; Nisio et al.
2017; Nisio 2018, 2019).
Risultano, tuttavia. oggi ancora non
individuate alcune aree cimiteriali quali:
il famoso cimitero Ad Nymphas, il cimitero Ostriano e quello di Novella (che
potrebbero coincidere o rappresentare
aree annesse ad altri cimiteri conosciuti).
La Carta di Mattei, in effetti, riporta
tali aree cimiteriali separate e collocate in posizioni distanti e differenti e ci
sprona ad una più attenta indagine del
territorio nomentano al fine di individuare altre aree sotterranee nascoste
sotto il tessuto urbano.
Inoltre l’area della Via Nomentana
era ricca di sorgenti e di acque che erano
utilizzate a volte per culti religiosi o venivano utilizzate ad uso potabile (Bersani et al. 2018). La presenza di tali acque
è riconosciuta anche nei sotterranei di
alcuni cimiteri cristiani e ipogei pagani
(cimitero S. Ippolito, cimitero S. Alessandro, Cimitero di Priscilla, Ipogeo di
Via Livenza).
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243
La Via Amerina nel Lazio tra
passato e futuro
The Via Amerina in Lazio between past
and future
Gianluca Cerri
Architetto
E-mail:
[email protected]
Antonio Mancini
Geologo
E-mail:
[email protected]
Parole chiave: Via Amerina, reticolo idrografico, tufo, corridoio Bizantino, ponte romano, strada romana, basolato
Key words: Via Amerina, hydrographic pattern, tuff, Byzantine pathway, roman bridge,
roman road, paved road
RIASSUNTO
L’antica via Amerina nel Lazio, strada romana che univa Roma con Amelia, è un percorso suggestivo percorribile
scendendo e risalendo le forre scavate
nel “tufo rosso vicano”. Realizzata nel
III secolo a.c. presenta un tracciato
pressoché rettilineo. Essa attraversa da
sud verso nord il reticolo idrografico del
fiume Treia sino a giungere ai confini laziali sul fiume Tevere. Lo scavo del tufo
ha dato origine alle cosiddette “tagliate”
e l’attraversamento dei numerosi corsi
d’acqua è stato realizzato con ponti ad
arco a tutto sesto, di cui alcuni ancora
oggi transitabili. Il percorso, in diversi
punti, è delimitato da necropoli di età
romana. Via di passaggio per numerosi
eserciti e, per diversi secoli, strada privilegiata per Roma, l’Amerina ha visto
la sua fortificazione con la costruzione
di torri di avvistamento e di castelli a
difesa del tracciato. In seguito alla caduta dell’impero romano si è proceduto
all’incastellamento dei borghi anch’essi
costruiti in gran parte con il tufo rosso
vicano. Questi borghi, tutti con la caratteristica di essere rinserrati su pianori
difesi naturalmente su tre lati e muniti di
rocche e trincee sul lato meno protetto,
appaiono dal boscoso fondo valle come
sospesi in un “continuum” con le pareti
delle forre.
SUMMARY
The ancient Roman road “Via Amerina” in the Lazio region, which used to
link Rome with Amelia, is a striking
route which can be followed lay going
down and up the gorges dug in the Red
Vicano tuff. It was built in the third century BC and it is a mainly straight path.
It crosses the hidrographic pattern of the
Treia river up to the Lazio borders on
the Tiber river. Tuff excavations gave rise to the so called “tagliate”. The bridges
over the waterways have round arches
and some of them still praticable. The
road includes several Roman necropolises with its defence network of towers
and castles, for many centuries Amerina
was the route of many armies and a privileged way to Rome. Red tuff was also
used for the encastellation of the villages
of the area after the fall of the Roman
Empire. These villages, all locked up
on plateaux and naturally protected on
three sides and fortify with castle and
drenches on the least protected side, can
be seen from the bottom of the valley as
if they were suspended in a “continuum”
with the sides of the gorges.
Figura 1. La Via Amerina nel contesto geologico laziale,
Carta Geologica d’Italia F.137-143
1 IL CONTESTO
1.1 IL
CONTESTO AMBIENTALE
Il tracciato della Via Amerina si snoda, procedendo da sud verso nord, tra
tre distinti domini geomorfologici: i distretti vulcanici del Lazio centro settentrionale, la valle Tiberina, i primi rilievi
del preappennino quando si giunge nel
territorio umbro. (Fig. 1)
Nel tratto laziale la strada scende
dai margini settentrionali delle alture
dei Sabatini a sud (circa 240 m. s.l.m.)
verso la Valle del Tevere a nord (circa
60 m. s.l.m.).Il tracciato, prima di giungere alla Valle del Tevere, attraversa in
senso meridiano gran parte del reticolo
idrografico del F. Treia, ultimo grande
affluente di destra del suddetto fiume.
Tale reticolo ha un andamento dendritico impostato sui prodotti vulcanici delle
eruzioni sabatine nella zona meridionale e sui materiali vicani in quella centro
settentrionale; procedendo da sud verso nord l’andamento dei corsi d’acqua
si sposta da una direzione sud nord ad
una ovest - est.
La morfologia di tutta la zona è caratterizzata da lievi ondulazioni (plateau tufacei) incise da profonde forre i cui
fianchi e il fondo, sono pressoché coperti
di boschi (Fig. 2) Sugli speroni tufacei
cosi formati sono stati edificati gli antichi abitati dell’area realizzati in tufo
e che sembrano sospesi sui fondovalle
in un continuum verso l’alto delle pareti
delle forre.(Fig. 3)
Il tufo utilizzato nelle costruzioni
dei borghi (Figg. 3-4) è riconducibile,
per quelli più a nord lungo l’asse viario
dell’Amerina, alle formazioni del Tufo
rosso a scorie nere vicano (“Ignimbrite”
III tefritico fonolitica). e, per quelli più
meridionali lungo la stessa via, anche al
Tufo giallo sabatino (“Ignimbrite” fonolitico tefritica)
Le caratteristiche di permeabilità
delle vulcaniti fanno sì che, per i corsi
d’acqua le cui aste fluviali si snodano
alle quote più alte, si abbia un comportamento torrentizio, mentre, per quelli che scorrono alle quote più basse, si
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
244
Figura 2. Il pianoro tufaceo dove sorge Civita Castellana (foto Gianluca Cerri)
abbia una portata di base più costante,
poiché sono alimentati dalla falda basale ospitata all’interno delle vulcaniti.
Tale assetto, connesso alla morfologia
assai acclive, rendeva necessari nella
costruzione della strada attraversamenti mediante ponti, anch’essi in tufo. La
realizzazione della carreggiata invece ha
utilizzato dei basoli ricavati dalle lave
grigie ricche in leucite, che sono assai
diffuse nell’area (Fig. 11).
Giunti più a nord, nei pressi della
valle del Tevere, le formazioni vulcaniche lasciano il posto a formazioni
sedimentarie continentali sottostanti (Fig. 5), ai travertini e alle alluvioni
ghiaioso sabbiose e quindi le modalità
realizzative della opere si sono adeguate
a questi materiali sia per il basolato sia
per le opere viarie connesse (Fig. 12).
Attraversato il Tevere la strade giunge in Umbria risalendo verso i contrafforti collinari del pre – appennino impostati su sedimenti argilloso sabbiosi.
1.2 IL
CONTESTO STORICO
-
LA
CONQUISTA ROMANA DELL’ETRURIA
All’inizio della politica espansionistica romana vediamo nell’area a nord di
Roma una suddivisione territoriale costituita da Veio; Capena sul lato tiberino; Falerii e Narce, centri di formazione
falisca, che controllavano un territorio
che va dalle sorgenti del fiume Treia al
Tevere e alle pendici dei Monti Cimini;
Tarquinia che controllava l’area a nord
dei Cimini con roccaforti come Orte sul
Tevere.
Caduta definitivamente Veio nel
396 a.C. i romani si espandono all’interno del territorio conquistato con la
sconfitta di Capena nel 395 a.C. e porFigura 3. Il borgo di Calcata (foto Studio Fotografico Giuseppe Paolozzi)
Figura 4. Il borgo di Corchiano
(foto Gianluca Cerri)
Figura 5. Stratigrafia della forra di Gallese
(foto A. Mancini)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Figura 6. Via Cava di Sant’Egidio a Corchiano
(foto Gianluca Cerri)
245
tandosi verso nord minacciando il territorio dei Falisci.
La spinta romana verso nord si concentra nella conquista delle città falische di Sutri e Nepi, claustra Etruriae,
che controllavano il lato meridionale
dei Monti Cimini e, di fatto, il confine
tarquiniese con i tentativi di superare la
Silva Cimina, tali mire espansionistiche
sono alla base dell’alleanza tra Falisci e
Tarquiniesi. Sutri e Nepi sono annoverate come colonie nel 383 a.C. (Livio 6, 9, 4)
In seguito alla guerra del 358 - 351 e
la battaglia di Sentino (Sassoferrato) nel
295 con la sconfitta della coalizione antiromana costituita da etruschi, sanniti,
galli senoni e umbri si assiste alla definitiva conquista dell’Etruria, sancita con
la battaglia del lago Vadimone (presso
Orte) nel 283 a.C.
Figura 7. La città di Falerii Novi con indicato l’asse della Via Amerina (cardo)
2. LA STORIA DEL
TERRITORIO, LA FORMA
DELL’INSEDIAMENTO E
LA VIABILITÀ
2.1 PERIODO
PREROMANO
La distribuzione dei siti preromani
nell’area della futura Via Amerina si
caratterizza per la presenza di una città
egemone (Veio fino al 390 a.C. e poi
Falerii) che esercita un ruolo centripeto
con siti satelliti di piccola dimensione.
La distribuzione territoriale si colloca
lungo la Valle del Treia che assumeva
un asse preferenziale nei commerci tra
l’Umbria, la Silva Cimina e il campus salinarum alla foce del Tevere controllato
fino al X secolo da Veio.
Figura 8. Porta detta di Giove presso Falerii Novi (foto Gianluca Cerri)
Figura 9. Il Corridoio Bizantino (Cerri G., Rossi P., 1999)
Figura 10. La Via Amerina e la rete stradale romana (Cerri G., Rossi P., 1999)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
246
Le caratteristiche insediative vedono la preferenza di pianori tufacei difesi
naturalmente da corsi d’acqua e profonde forre con un sistema viario che segue,
per quanto possibile, i crinali ed utilizza,
nei passaggi di scavalcamento, le tortuose vie cave. (Fig. 6)
2.2 PERIODO
CAMPAGNA)
ROMANO
(CITTÀ
E
È a partire dal 241 a.C con la definitiva sconfitta di Falerii che Roma
ha il controllo totale sul territorio. La
fondazione ex novo di una città, Falerii
Novi, posta all’incrocio con la Via Cimina (decumanus), che conduceva da Sutri
al Tevere, e con la Via Amerina (kardo)
è il sugello di un nuovo sistema politico
territoriale nell’Agro Falisco (Fig. 7). La
Via Amerina e Falerii Novi divengono
quindi gli elementi per il controllo militare ed economico sull’area che vede
l’abbandono progressivo dei precedenti
siti fortificati e la nascita di centinaia di
centri rurali che gravitano sulla nuova
arteria viaria (Fig. 8) (Potter 1985)
2.3 PERIODO
Figura 11. La Via Amerina presso Corchiano (foto
Gianluca Cerri)
Figura 12. La Via Amerina presso il Porto di Seripola
(foto Gianluca Cerri)
Figura 13. Schema di attraversamento delle forre con il sistema delle tagliate viarie (Cerri G., Rossi P., 1999)
ALTOMEDIEVALE/
MEDIEVALE E I BORGHI FORTIFICATI
L’indebolirsi del sistema romano, a
partire dal IV sec. d.C., le progressive
ondate di popolazioni che calano dal
nord (nel 410 Alarico disceso lungo la
Flaminia staziona a lungo nella zona)
spingono all’abbandono dei centri rurali
(ville e fattorie) posti lungo l’Amerina e
la Flamina per un “ritorno” negli antichi siti di origine preromana. L’Amerina diviene un asse privilegiato per il
collegamento tra l’Esarcato di Ravenna
e Roma sia durante la guerra greco-gotica (535-553) dove vengono fortificati
da parte dell’impero romano d’Oriente
tutti i centri lungo la strada, anche la
stessa Falerii Novi, sia durante la conquista longobarda (568-772) venendo a
costituire il Corridoio Bizantino. (Bavant B. 1979) (Fig. 9)
3. I MANUFATTI LUNGO
L’AMERINA
3.1 LA
STRADA
La Via Amerina, codificata definitivamente nel III sec. a.C., attraversa in
direzione sud-nord il territorio veiente-falisco staccandosi dalla Via Cassia
(nella valle di Baccano) ed attraversando
il Tevere ad Orte (Porto di Seripola) per
raggiungere, sempre verso nord, Amelia
(Ameria) e poi l’entroterra umbro fino a
Perugia per collegarsi con la Flaminia
nei pressi di Luceoli (Cantiano). (Fig. 10)
Nell’area laziale la strada è progettata con i seguenti scopi: tracciato
Figura 14. La Via Amerina in località Cavo degli Zucchi (foto Gianluca Cerri)
perfettamente rettilineo; aggiramento
degli antichi nuclei preromani posti in
siti morfologicamente “difficili”; attraversamento dei numerosi corsi d’acqua
(31 tra la Cassia e il Tevere) nei punti
meno acclivi; tracciato che si sviluppa su
una quota altimetrica costante intorno
ai 200-280 m. s.l.m. ad esclusione della
valle tiberina (67 m s.l.m.); superamento del Tevere prima della confluenza
con il Nera. La sezione stradale ha una
dimensione media di 2,45 ml (8 piedi) realizzata, a seconda delle zone di
approvvigionamento, prevalentemente
con lave più o meno ricche in leucite o
rocce calcaree. (Figg. 11 e 12)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
3.2 LE TAGLIATE VIARIE
Costituiscono, insieme ai terrapieni,
la soluzione tecnica per consentire un
agevole superamento delle forre tufacee
all’interno delle quali scorrono i numerosi
torrenti dell’area.
Sfruttando la facile lavorabilità del tufo i romani perfezionano la tecnica delle
vie cave etrusche con imponenti trincee a
pendenza costante che consentono la riduzione della quota d’imposta dei ponti
e conseguentemente la loro lunghezza
(Fig. 13).
Il materiale estratto viene utilizzato
per la realizzazione dei viadotti e le pareti
verticali della tagliata sono sfruttate per
247
Figura 15. Il ponte sul Fosso dei Tre Ponti (foto Gianluca Cerri)
Figura 16. La spalla settentrionale del ponte sul Rio Maggiore (foto Gianluca Cerri)
sepolture con colombari, fosse, arcosoli,
loculi, camere, mausolei e tombe a dado
(Figg. 19 e 20).
3.5 TORRI,
CASTELLI E BORGHI
MEDIEVALI
Figura 17. Canali di drenaggio presso il ponte sul Rio
Maggiore (foto Gianluca Cerri)
Figura 18. Cunicolo di drenaggio presso il ponte sul Rio
Fossitello a Nepi (foto Gianluca Cerri)
Via di passaggio per numerosi eserciti e, per diversi secoli, strada privilegiata per Roma l’Amerina ha visto la sua
fortificazione con la costruzione di torri
di avvistamento e di castelli a difesa del
tracciato (Wickham C.J., 1978, 1979).
L’apparato di incastellamento della
Valle del Treia ha costituito per tutto
il medioevo uno dei migliori sistemi di
difesa di Roma al quale hanno partecipato anche i villaggi e le città sorti dopo
la caduta dell’Impero romano tutti con
la caratteristica di essere rinserrati su
pianori difesi naturalmente su tre lati e
Figura 19. Necropoli del Cavo degli Zucchi (foto Gianluca Cerri)
la realizzazione di necropoli sul modello protezione della massicciata stradale e
preromano. (Fig. 14)
delle spalle dei ponti come canalizzazioni e cunicoli per il deflusso delle ac3.3 I PONTI
que in caso di piene (Frederiksen, Ward
L’attraversamento dei corsi d’acqua Perkins 1957) (Figg. 17 e18).
avviene su ponti in tufo con arco a tutto
sesto ad unica campata, resa possibile 3.4 LE NECROPOLI
A partire dalla realizzazione della
dalla realizzazione delle trincee, tra questi spicca quello dei Tre Ponti nei pressi strada III sec. a.C., fino al IV d.C., le
di Falerii Novi. (Figg. 15 e 16). Le strut- pareti delle tagliate, utilizzate per ridurture di scavalcamento dei corsi d’acqua re la quota di attraversamento dei corsi
presentano numerose soluzioni per la d’acqua, sono scavate da centinaia di
Figura 20. Necropoli del Cavo degli Zucchi (foto Gianluca Cerri)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
248
Figura 21. Il sito di Isola Conversina a difesa della Via Amerina (foto Gianluca Cerri)
Figura 23. La rocca borgiana e il sistema di difesa di Civita Castellana (foto Gianluca Cerri)
Figura 24. Escursionisti sulla Via Amerina in località San Lorenzo (foto Gianluca Cerri)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Figura 22. La torre campanaria di Santa Bruna (foto
Gianluca Cerri)
249
muniti di rocche e trincee sul lato meno
protetto come Orte, Vasanello, Gallese, Corchiano, Civita Castellana, Nepi,
Faleria, Calcata. Numerosi i castelli con
le medesime caratteristiche, oggi diruti.
(Figg. 21, 22 e 23)
4. CONCLUSIONI
4.1 LA
PERCORRIBILITÀ DEL
TRACCIATO
Sin dai primi anni Novanta è stata
intrapresa un’azione collettiva dai Comuni e dalle associazioni dell’area per
il ripristino e la percorribilità pedonale
del tracciato.
Oggi possiamo percorrere la Via
Amerina, per gran parte sul tracciato
originario, dal suo inizio presso la valle di Baccano fino ad Amelia per una
lunghezza di 60 km. Il percorso è stato riconosciuto come uno dei primi 4
cammini della Regione Lazio dalla L.R.
13/2017 (Fig. 24).
4.2 IL COLLEGAMENTO
AQUILEIA
CON
Di grande suggestione costituisce il
progetto di attivazione di una greenway
del Corridoio Bizantino che unisce
Aquileia con Roma attraverso Venezia, Ravenna, Cesena, Urbino, Perugia,
Assisi.
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
250
La via Latina tra storia e
geologia
Maria Luisa Felici
Geologa, giornalista
Giulio Caratelli
Psicologo, sociologo, giornalista
The Latina street, between history and
archeology
Parole chiave: Via Latina, Roma, tombe, formazioni piroclastiche
Key words: Latina Street, Rome, graves, pyroclastic formations
RIASSUNTO
La Via Latina era una strada romana,
che a differenza delle altre vie di comunicazione romane, non porta il nome del
suo costruttore, per cui si può presumere
che si tratti di una strada molto antica,
precedente alle altre.
La via Latina iniziava da Roma,
all’altezza di Porta Capena (ma secondo altri autori vicino l’Isola Tiberina) e
andava in direzione sud est snodandosi
per circa 200 km fino ad arrivare a Casilinum, l’attuale Capua. L’antico tracciato è ancora visibile all’interno della
città, nel quartiere Tuscolano, in cui si
conserva un tratto del III miglio della
via Latina, attualmente tutelato nel Parco archeologico delle Tombe della via
Latina, forse pre-romano, costellato da
ricche tombe risalenti al I-II secolo d.C.
che si affacciavano sul percorso, perfettamente preservate nelle loro decorazioni policrome sulle facciate e all’interno.
Nel suo percorso iniziale romano, la via
Latina scorre lungo la Valle della Caffarella in cui sono presenti ancora tracce
di basolati oltre ai sepolcri ipogei nelle
strade adiacenti ed è ad essa che si farà
riferimento per la geologia della zona.
Sotto questo punto di vista la storia geologica della Caffarella è strettamente
connessa con quella del Vulcano Laziale, la cui attività si protrasse per migliaia di anni, alternando fasi effusive (lave)
con fasi altamente esplosive, che davano luogo alle colate piroclastiche (tufi e
pozzolane).
Una sintetica sezione geologica della
Valle della Caffarella indica che alla base
della valle si trovano le piroclastiti emesse dalla seconda colata piroclastica del
Vulcano Laziale, comunemente indicate come pozzolane rosse (le piroclastiti
della prima colata non sono visibili nella
Valle della Caffarella). Al di sopra delle
pozzolane rosse troviamo il tufo litoide lionato emesso nel corso della terza
colata piroclastica e al di sopra la quarta colata piroclastica, nota anche con il
nome di tufo di Villa Senni o tufo ad
occhi di pesce. Questi spessori hanno
permesso la coltivazione delle cave di
tufo e delle pozzolane fin dai tempi dei
Romani. In ultimo la Valle è stata ricoperta da sedimenti alluvionali del fiume
Almone, il corso d’acqua che ha inciso
l’area e che nasce vicino Monte Cavo.
Ai tempi degli antichi Romani, il fiume
Almone era identificato con uno spirito
divino, il dio Almone e ogni anno, il 27
marzo, si celebrava il suo culto.
LA VIA LATINA, DA ROMA
A CAPUA
La via Latina era una strada, che a
differenza delle altre vie di comunicazione romane, non porta il nome del suo
costruttore, per cui si può presumere che
si tratti di una strada molto antica, precedente alle altre. Infatti, il suo percorso,
pur essendo stato tracciato tra il IV e
III secolo a.C., era noto in età preistorica e successivamente utilizzato dagli
Etruschi per arrivare in Campania tra i
secoli VIII e VI a.C. Questa via naturale
tra la valle del Tevere e la Campania era
già in uso durante l’età eneolitica (circa
2500-1700 a.C.).
Nella sua opera Geographia, Strabone racconta che il Lazio aveva tre
vie principali: la via Appia, la via Latina e la via Valeria (meglio conosciuta
Figura 1. Porta Latina (Foto di Giulio Caratelli)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
come via Tiburtina). La prima bordava la costa fino a Sinuessa, e la terza
seguiva il confine della Sabina fino al
paese dei Marsi, mentre la via Latina
scorreva tra le due fino a raggiungere
Casilinum, ovvero la città di Capua. La
via Latina iniziava quindi a Roma, da
Porta Capena, insieme alla via Appia.
Le due vie si separavano molto presto
tanto che nelle Mura Aureliane ebbero
ognuna una porta propria, Porta Latina
e Porta Appia (divenuta poi Porta San
Sebastiano), poi la via Latina oltrepassava i Colli Albani e scendeva lungo le
valli dei fiumi Sacco e Liri. A questa via,
nel 312 a.C., se ne aggiunse una nuova,
che attraversava la pianura pontina, la
via Appia dal nome del suo costruttore
Appio Claudio, mentre la precedente
strada fu chiamata semplicemente via
Latina perché attraversava il territorio
abitato dai popoli latini.
Il tracciato della strada subì, durante tutto il III secolo a.C., un lavoro di
rettificazione reso ancora più complesso
dalle asperità del terreno.
Il percorso complessivo della via
Latina, da Roma a Capua, era lungo in
origine 147 miglia (15 in più rispetto
alla via Appia costruita da Appio Clau-
251
valore storico, artistico e architettonico,
alcuni dei quali ancora visibili in superficie mentre altri sono sepolti al di sotto
dell’attuale superficie o inglobati in edifici di epoca moderna.
Considerando la numerosità dei reperti archeologici presenti nell’area della
via Latina, in questo lavoro gli autori si
limitano necessariamente a citare soltanto i reperti più importanti, essendo
l’articolo incentrato essenzialmente sulla
caratterizzazione geologica della via Latina nell’area romana (AA.VV., 1988b).
Figura 2. Dettaglio della parte superiore della Porta Latina (Foto di Giulio Caratelli)
dio), ma per effetto della rettificazione
divenne di 129 miglia (circa 191 km), tre
miglia in meno rispetto alla via Appia.
L’antico tracciato è ancora visibile all’interno della città, nel quartiere
Tuscolano, in cui si conserva un tratto
del selciato del III miglio, attualmente
tutelato nel Parco Archeologico delle
Tombe della via Latina.
Il percorso di questa antica strada è
tradizionalmente suddiviso in quattro
tratte, identificate da primo, secondo,
terzo e quarto miglio, ciascuna caratterizzata da resti archeologici di grande
PORTA LATINA
Come detto in precedenza, sia la via
Latina che la via Appia Antica uscivano
da Porta Capena, una apertura nelle Mura
Repubblicane, oggi scomparsa, che si trovava tra il Circo Massimo e la Passeggiata
Archeologica; le due strade formavano
quindi un unico tratto fino alla biforcazione ancor oggi esistente a piazza Numa
Pompilio, dopo le terme di Caracalla.
Di lì, la via Latina procede stretta e
chiusa da due muraglioni fino a raggiungere, sulla destra e un centinaio di metri prima di Porta Latina, l’ingresso del
parco pubblico della Villa degli Scipioni, che si estende da via di Porta Latina
Figura 3. Parco delle Tombe Latine: un dettaglio dell’antico basolato della Porta Latina (Foto: Maria Luisa Felici)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
252
Figure 4 e 5. Parco delle Tombe Latine (Foto di Maria Luisa Felici)
fino a via di Porta S. Sebastiano, dove si
affianca al sepolcro degli Scipioni e al
colombario di Pomponio Hylas.
Lungo le Mura Aureliane, cinta muraria fatta erigere dall’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) per proteggere
Roma dalle invasioni barbariche, si trova la Porta Latina, la quale, a differenza
di Porta S. Sebastiano, era già in origine
ad un solo grande fornice.
Della primitiva torre rimangono la
torre semicircolare di destra e la facciata
rivestita di travertino mentre la torre di
sinistra risale alla seconda metà del XII
secolo. Durante i lavori di rinforzo promossi dall’imperatore Onorio, il fornice
venne rimpicciolito, mentre la porta fu rialzata di un piano nel quale furono aperte
le cinque finestrelle ad arco che si vedono ancora oggi (Caratelli, 1996; Gatto,
2011; De Cerretani, 2015) (Figg. 1 e 2).
IL PARCO
ARCHEOLOGICO DELLE
TOMBE DELLA VIA
LATINA
Il Parco Archeologico delle Tombe
della Via Latina (Figg. 3, 4 e 5), all’interno del più esteso Parco Archeologico
dell’Appia Antica, è stato istituito nel
1879 a seguito dell’acquisizione da parte
dello Stato di una vasta area in cui erano
stati portati alla luce importanti resti archeologici di età romana e si trova tra le
attuali via Appia Nuova e via Tuscolana.
L’area ospita tombe risalenti al I-II secolo
d.C. che si affacciavano sul percorso della
via Latina, ricche di decorazioni policrome sulle facciate, volte rivestite d’intonaco dipinto e stucco, con pareti affrescate
raffiguranti scene di carattere funerario
e pavimenti in mosaico (AA.VV. 1988).
Dalla strada è inoltre possibile raggiungere la Basilica di S. Stefano, esempio di impianto paleocristiano eretto
sotto il pontificato di Leone Magno
intorno alla metà del V secolo.
Tra le tombe più importanti ricordiamo il Sepolcro Barberini o dei
Corneli, la Tomba dei Valeri, la Tomba dei Pancrazi. Inoltre, all’interno del
Parco, è possibile vedere un tratto del
III miglio dell’antica via Latina, con la
pavimentazione formata dai basoli originali, grandi pietre di forma poligonale
in lava basaltica, e le crepidini, ovvero i
marciapiedi laterali in terra battuta per
il passaggio dei pedoni, ancora in buono
stato di conservazione.
LA VALLE DELLA
CAFFARELLA
Subito dopo Porta San Sebastiano, tra la via Appia Antica e l’Appia
Pignatelli da una parte e la via Latina
dall’altra, si estende in poco più di 180
ettari la Valle della Caffarella (AA.VV.
1988; AA.VV. 1994) (Fig. 6). La storia
geologica della Caffarella è strettamente
connessa con quella del Vulcano Laziale, i cui materiali piroclastici, tufi e pozzolane, hanno ricoperto la valle (Parotto,
2008; Chiocchini, 2015).
In seguito a numerosi interventi di
bonifica e di sistemazione nel corso dei
secoli, l’area della Caffarella è ancora
oggi un tratto di campagna romana caratterizzata da pascoli, campi coltivati e
da una ricca flora (tra cui ailanto, robinia, olmo campestre, sambuco, pioppo,
quercia, leccio, acero, edera, vitalba, rovo,
fiori di vario tipo come colchico, tasso,
barbasso, papavero, cardo, sanguinella) e
fauna (come merlo, capinera, balestruc-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Figura 6. Delimitazione della Valle della Caffarella
Fonte: Carta archeologica-naturalistica scala 1:25.000
allegata a “La Valle della Caffarella: spiccioli di natura”
cio, usignolo, rapaci, rondini, cappellaccia, storno, topi di campagna, volpe).
Situata al di fuori delle mura della
città, la Caffarella è anche un esempio
di suburbio della Roma imperiale, con
i suoi boschi sacri, sede di ricche ville e
tenute dei nobili patrizi romani, tra cui
Erode Attico il quale vi costruì la sua
casa di campagna. Poi, per effetto delle
numerose gallerie scavate ai fini dell’attività estrattiva del tufo, è stata sede di
catacombe e di luogo di culto. Infine
nel medioevo, sono state costruite torri
di guardia e le valche, edifici utilizzati
per la lavorazione dei panni di lana. Nel
1500 è divenuto un ricco podere agrico-
253
lo con casali e mulini di proprietà della
famiglia Caffarelli da cui la valle prese il
nome. Nell’area sono ancora ben visibili
ruderi di cisterne, ville, sepolcri, oltre al
Tempio di Cerere e Faustina, conosciuto
anche come chiesa di Sant’Urbano, il Sepolcro di Annia Regilla denominato anche Tempio del Dio Redicolo, il Ninfeo
d’Egeria, il Colombario Costantiniano,
datati tra il I ed il II secolo dopo Cristo,
resti di torri medievali lungo il fiume
Almone, casali del XVI e XVII secolo
tra cui la Vaccareccia del 1547, le valche.
Ai tempi degli antichi Romani, il
fiume Almone era identificato con uno
spirito divino, il dio Almone e ogni anno,
il 27 marzo, si celebrava il suo culto (conosciuto con il nome Marrana, derivato
dal termine Acqua Mariana). Una delle
costruzioni romane più caratteristiche
della Valle della Caffarella è il Ninfeo
di Egeria, costruito nel II secolo d.C. in
una grotta e composto da un ambiente
di circa 80 m2 coperto da una volta a
botte alta 8,50 m, in cui sono state ricavate nelle pareti sei nicchie ad arco e
due semicircolari e nella parete di fondo si riconosce una esedra parzialmente
conservata nella quale era sospesa una
statua rappresentativa del dio Almone
su tre mensole. L’acqua emergeva dalle
mensole e dalla statua e in base al loro
stato di usura si è ipotizzato che lo scorrimento dell’acqua sia durato circa 500
anni. La grotta del Ninfeo comprendeva
un portico di fronte al quale si raccoglieva l’acqua, che poi passava in un piccolo
lago dove confluivano anche le acque del
Fosso Almone formando il Lacus salutaris con riferimento alle proprietà salutari
dell’acqua.
Nel suo tratto romano, subito dopo
la Porta Latina, la via Latina mostra le
sue peculiarità geologiche nella valle del
Fosso dell’Almone, in cui insiste il Parco
della Caffarella.
La valle del Fosso Almone tra via
Appia Antica, via Appia Pignatelli e via
Latina è ubicata nella parte centro- meridionale del territorio comunale di Roma ed è orientata in direzione NO-SE
fino all’altezza della via Appia Antica dove l’orientamento diventa O-E
(Chiocchini, 2015).
Questa area è caratterizzata dalla presenza delle successioni connesse all’attività del Distretto Vulcanico Sabatino a
NO e del Vulcano dei Colli Albani a SE,
attivi dal Pleistocene medio p.p. all’Olocene (Parotto, 2008). L’attività vulcanica
si è sviluppata su un substrato costituito
da successioni di ambiente marino di
piattaforma (Formazione di Monte Vaticano del Pliocene inferiore p.p.- Pliocene
superiore p.p.), marino di acque basse e
di transizione (Formazione di Ponte Galeria, Formazione di Monte delle Piche,
Formazione di Monte Mario del Pleistocene medio p.p.). Contemporaneamente
si è sviluppata una sedimentazione in
ambienti di tipo fluviale e palustre (Formazione di S. Cecilia, Formazione di
Valle Giulia, Formazione di Fosso Torrino, Formazione Aurelia, Formazione di
Vitinia del Pleistocene medio p.p.).
Nell’area in esame si riconosce una
successione costituita da tre formazioni
piroclastiche, connesse all’attività del vulcano dei Colli Albani. Tutta l’area mostra
una estesa copertura di depositi eluvio colluviali, caratterizzata da spessore, in alcuni punti, anche di oltre 4 m e da colore e
tessitura omogenei. Sono inoltre presenti
i depositi alluvionali del Fosso Almone
e diversi accumuli di materiali eterogenei
dovuti all’attività antropica.
Molto schematicamente, la successione stratigrafica dell’area in esame
comprende alla base l’Unità del Palatino, cui seguono le Pozzolane Rosse e le
Pozzolanelle e infine i Depositi Colluviali e i Depositi Alluvionali.
L’Unità del Palatino affiora molto
limitatamente solo in destra del Fosso
Almone nelle zone di Campo di Marte e della Vaccheria situata nella valle
della Caffarella ed è composta da tufo
massivo caotico di colore giallo scuro e
grigio medio con leucite analcimizzata,
pirosseni, biotite, litici di lava grigia e
matrice cineritica. Lo spessore è di 3-4
m; l’età radiometrica stimata è 533 +/- 5
ka (Pleistocene medio p.p.).
La formazione delle Pozzolane Rosse è visibile in destra del Fosso Almone
sui rilievi collinari della Vaccheria del
Parco della Caffarella e a SE di quest’ultima. La successione comprende alla
base un tufo massivo caotico coerente
e semicoerente di colore grigio mediamente scuro con abbondanti scorie di
colore grigio scuro fino a nero, più raramente rossastro, fino a 9 cm, rara leucite analcimizzata, litici di lava grigia e
matrice cineritica.
Al di sopra si riconoscono due livelli
a quote 30 m e 40 m s.l.m. nella zona tra
Vaccheria e Via dell’Almone, costituiti
da paleosuolo sabbioso medio-grossolano, variabile da poco coerente a coerente
di colore marrone con spessore di 2-3 m.
La successione termina con tufo massivo caotico coerente e semicoerente di
colore oscillante tra marrone, rossastro,
viola pallido, grigio scuro medio con
leucite analcimizzata, pirosseni, biotite,
litici di lava grigia e di tufo di colore
giallastro, matrice cineritica, con spessore fino a 25 m.
Le Pozzolane Rosse sono state riconosciute nel sottosuolo della catacomba
di Pretestato dove la successione com-
Figura 7. Sezione geologica della Valle della Caffarella
LEGENDA:
1. Depositi alluvionali dei corsi d’acqua attuali. 2. Colata di lava. 3. Pozzolanelle. 4. Pozzolane nere. 5. Pozzolane rosse. (Rocce da 2 a 5: prodotti del distretto vulcanico
dei Colli Albani). 6. Tufi stratificati varicolori di Sacrofano (prodotti dal distretto vulcanico dei Sabatini). 7. Formazione di S. Cecilia. 8. Formazione di Ponte Galeria. 9.
Formazione delle marne vaticane (Fonte: https://www.caffarella.it/il-parco/da-conoscere/la-geologia-della-caffarella/)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
254
prende circa 4-8 m dal p. c. (quota 44
m s.l.m.).
L’Unità delle Pozzolanelle affiora
solo in sinistra del Fosso Almone in due
zone a NO di S. Urbano ed è composta da un tufo massivo caotico di colore
moderatamente giallastro con leucite
analcimizzata, pirosseni, biotite, abbondanti pomici, litici di lava grigia, scorie
nere, matrice cineritica. Lo spessore arriva a 7-8 m. L’età radiometrica stimata
è compresa tra 357 +/- 2 ka e 338 +/- 8
ka (Pleistocene medio p.p.).
I Depositi Eluvio-colluviali sono
molto estesi e più sviluppati in sinistra
del Fosso Almone, in particolare nella
zona tra la Chiesa Domine Quo Vadis e
il Tempio del Dio Redicolo, e nelle numerose vallecole presenti sia in sinistra
sia in destra del Fosso Almone.
I Depositi Eluvio-colluviali sono costituiti da sabbie limose con contenuto
variabile di argilla, di colore marrone
scuro e rossastro, a volte pedogenizzati.
Questi caratteri sono omogeneamente
presenti in tutta l’area. Lo spessore arriva a 4 m.
Infine, i Depositi Alluvionali, visibili
lungo l’incisione del Fosso Almone, sono
rappresentati da sabbie medio-grossolane limoso-argillose di colore marrone,
con spessore superiore ai 20 metri.
Non va comunque dimenticato che
tutta l’area in esame è stata oggetto di
interventi antropici almeno a far data dal
IV secolo a.C. connessi a costruzione di
ville, templi, tombe e strade (via Appia
Antica e via Latina) in epoca romana;
attività estrattiva di pozzolana in superficie e nel sottosuolo, molto diffusa lungo i rilievi della valle del Fosso Almone;
costruzione di edifici nell’ex-Municipio
IX a partire da fine 1800/primi anni del
1900; sviluppo e successiva demolizione del Borghetto Latino; costruzione di
reti di servizi pubblici.
Dal punto di vista morfologico, la
valle del Fosso Almone si sviluppa nel
tratto inferiore dell’Almone lungo una
piana alluvionale tra la via omonima, a
quota circa 30 m s.l.m., e la via Appia
Antica (ovest), a quota 15 m s.l.m., con
pendenza molto bassa (7°).
Il corso d’acqua è un affluente di sinistra del Fiume Tevere, ha una lunghezza
di circa 21 km, si sviluppa in un bacino
idrografico allungato in direzione NO SE di circa 54 km2, percorre l’area tabulare di Ciampino-Capannelle, poi l’area
in esame ed infine devia in direzione
E-O in corrispondenza della via Appia
Antica, passando poi al di sotto della via
Cristoforo Colombo. Circa 250 metri
prima di questa importante arteria stra-
dale il corso d’acqua, che confluiva nel
Tevere nei pressi della Via Ostiense, è
stato deviato ed intubato nel sottosuolo.
Il bacino idrografico comprende i
sobborghi meridionali di Roma (Quadraro, Cinecittà, Quarto Miglio e Statuario), le borgate Capannelle e Morena,
gli abitati di Ciampino, Marino e parzialmente di Rocca di Papa.
Le portate del Fosso Almone sono
state stimate negli anni 60 tra 300 e 390
m3/sec. I depositi alluvionali, costituiti
da limi e argille con materiale vegetale e
da torba e residui vegetali, indicano che
durante l’Olocene la capacità di erosione
del corso d’acqua è stata molto modesta
a causa essenzialmente della bassa pendenza dell’area.
La genesi della valle è connessa essenzialmente alla fase glaciale del Würm
(0.080 - 0.010 ka), durante la quale il
livello di base si è approfondito localmente fino a - 120 m rispetto all’attuale
livello, causando una fase di erosione
nella bassa valle del F. Tevere e dei suoi
affluenti. In seguito il livello di base è
risalito producendo la deposizione di
sedimenti alluvionali che nella bassa valle del Fosso Almone presentano
spessori superiori ai 20 metri. Questo
evento sarebbe stato condizionato anche dall’attività del Vulcano dei Colli
Albani (Funiciello & Giordano, 2008).
Nell’area in esame sono state individuate 6 sorgenti denominate Quo Vadis
n. 108, Valle Caffarella n. 110, Caffarella n. 111, Fontana Ninfa Egeria n. 112,
Acquasanta n. 113, Acquasanta n. 114.
Le sorgenti emergono alla base dei rilievi collinari a quote comprese tra 27 m
e 19 s.l.m. La portata misurata nel mese
di aprile 2014 è compresa tra 0,125 e 2
l/sec e la temperatura tra 14,9°C e 17°C.
Il confronto delle portate e temperature
indica che in circa 30 anni non si sono
verificate variazioni sensibili, semmai il
problema più serio consiste nella qualità
delle acque, in cui nel corso degli anni
sono state riscontrate tracce di inquinamento da parte di fosfati e nitrati.
Se da punto di vista della franosità, i
movimenti gravitativi dei versanti sono
abbastanza contenuti, altrettanto non
può dirsi per le numerose voragini che
caratterizzano il territorio rientrante
nel Parco della Caffarella e anche nelle
zone limitrofe. Infatti, l’intensa attività
estrattiva ai tempi dei Romani che ha
interessato le Pozzolane Rosse, molto
utilizzate per produrre, insieme alla calce idrata, la malta idraulica, si è svolta
in superficie, lasciando visibili tracce di
cave inattive, con tipica geometria a semicerchio, con la tecnica delle “camere
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
e pilastri”. Alcune delle gallerie abbandonate sono state utilizzate nel corso del
tempo come catacombe, luoghi di culto,
fungaie, rifugi sotterranei.
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http://www.parcoappiaantica.it/luoghi/
tombe-della-via-latina/
Strabone, Geographia, Volume 3, Libro V,
Capitolo VII, traduzione di Francesco Ambrosoli, Milano, Paolo Andrea Molina, 1833,
https://it.wikisource.org/wiki/Geografia_
(Strabone)_volume_3/Libro_V/Capitolo_VII
255
Analisi preliminare per lo
studio del territorio e delle
vie di comunicazione in
Magnesia nell’antichità
Stefano Paderni
Università degli Studi di Messina Dicam - Dottorato di Ricerca in Storia,
Archeologia e Filologia
E-mail:
[email protected]
Preliminary analysis for the study of the
territory and comunnication routes in
Magnesia in antiquity
Parole chiave: Magnesia, geomorfologia, strade e percorsi
Key words: Magnesia, geo-morphology, roads and paths
RIASSUNTO
Il lavoro si incentra sullo studio della
Tessaglia ed è rivolto alla comprensione
delle dinamiche storico-archeologiche
e geo-topografiche della regione. Nello
specifico l’indagine geo-storica, storiografica, topografica ed archeologica si è
focalizzata sulla Magnesia e sulla piana di
Volos, dove sorge l’importante centro di
Demetriàs. L’arco temporale preso in esame si estende dal IV sec. a.C. al I sec. d.C.
Quest’area può rappresentare una
sorta di osservatorio privilegiato per
tentare di comprendere aspetti, tutt’altro che secondari, che hanno caratterizzato la Magnesia, sia da un punto
di vista geo-morfologico che storicoarcheologico. Il prerequisito essenziale
Figura 1. Cartina della Magnesia tratta dal satellite (rielaborazione autore)
LEGENDA
Strade
——
---——
——
——
——
Tracciato 1: da Omolio a Demetriàs (percorso costiero)
Tracciato 2: da Sepias ad Aphete
Tracciato 3: da Omolio a Demetriàs
Tracciato 4: Valle di Agyia
Tracciato 5: da Demetriàs ad Aphete
Antica configurazione del Lago Boibes
Quadrato: luogo certo
Punto Blu: area di possibile localizzazione con presenza di resti archeologici
Punto Rosso: ipotesi di localizzazione
per questa ricerca è lo studio geo-storico
del territorio esaminato per giungere ad
una localizzazione e contestualizzazione topografica ed archeologica degli insediamenti e delle vie di comunicazione.
Un essenziale confronto incrociato dei
dati storico-letterari ed archeologici
deve essere messo in atto per cercare
di definire, con la maggiore precisione
possibile, la localizzazione delle aree, il
probabile andamento degli assi viari e
l’ubicazione dei centri più controversi.
La nostra ricerca adotterà un metodo
analitico-descrittivo ed interpretativo,
si svolgerà attraverso una presentazione
geografica del territorio ed uno studio
dei centri minori della regione magnetica. Si tenterà, quindi, di affrontare alcuni
importanti aspetti e problemi della geografia antica della Magnesia, cercando
di superare alcuni dei principali ostacoli,
rappresentati soprattutto dai mutamenti del quadro oro-idro-geografico causati da eventi naturali e fattori antropici,
per la ricostruzione del sistema stradale
e dei paesaggi attraversati.
GEOMORFOLOGIA
GENERALE DELLA
MAGNESIA
La Magnesia, antico regno posizionato nella parte più orientale della Tessaglia, si presenta come una striscia di
terra che si affaccia sul golfo termaico,
lunga approssimativamente 350 km. e
larga 30 km. (Talbert-Bagnal 2000:
mappa 55). Il territorio è caratterizzato
da una catena montuosa costiera, compresa tra i monti Olimpo ed Ossa ed il
massiccio del Pelio (Stählin 2001: 61)1.
Questo limite naturale divide il golfo
termaico (a S della prefettura di Salonicco) dalla piana della città di Larissa
(odierno capoluogo) e dal Golfo di Volos. Più si procede verso S, più la dorsale montagnosa si assottiglia, creando la
penisoletta magnetica (Fig. 1).
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
256
Figura 2. Valle di Tempe e Monte Olimpo dalla cima del Monte Ossa (foto autore)
La catena si articola in tre parti, il cui
inizio è la Valle di Tempe che rappresenta un passo strategico nel Nord della
Tessaglia in quanto via cruciale di collegamento tra Larissa, situata al centro
dell’omonima piana, e la costa. Questa
valle costituisce il punto di separazione
tra il M. Olimpo ed il M. Ossa e si presenta nella forma di una gola, lunga 10
km. e stretta circa 250 mt., all’interno
della quale scorre il fiume Peneios. Questo è il più importante corso d’acqua
della Tessaglia e viene chiamato oggi
Salamvriàs; lungo 216 km, scaturisce dal
versante orientale del M. Pindo, bagna
Trikkala e Larissa, per poi sfociare nel
golfo termaico.
Il geografo greco Strabone mette in
evidenza come la depressione di Tempe,
circondata da vette da tutte le parti, fosse
ad una quota più alta rispetto al mare
(Strabon, Geo., 9, 5.2). Di particolare
rilevanza risulta anche l’annotazione
geomorfologica secondo cui la valle di
Tempe è definita “frattura” prodotta da
terremoti: “ἐχούσης τὰ χωρία ὑπὸ δὲ
σεισμῶν ῥήγματος γενομένου” (Strabon, Geo., 7, fr. 14-15)2.
I sistemi montuosi, Olimpo-OssaPelio, anche se con qualche interruzione,
si concludono a metà della penisoletta
della Magnesia, trasformandosi in un
territorio collinare che raggiunge i 500
metri. La ripida costa sul lato orientale
della Magnesia prosegue quasi rettilinea
fino al mare. È interessante notare che
Strabone nella descrizione geografica
indichi come i sistemi montuosi possiedano un andamento che conferisce una
morfologia quasi circolare alla Tessaglia, ad eccezione del Pelio e dell’Ossa,
i quali “non circondano nel loro circuito
una vasto territorio” poiché hanno un
andamento quasi rettilineo che segna
un confine naturale (Strabon, Geo, 9,
5,1). Anche lo storico greco Erodoto di
Alicarnasso, in un passo in cui descrive
brevemente la Tessaglia, mette in risalto
la funzione dei massicci Ossa/Pelio che
vengono proprio definiti come una “barriera” (Erodoto, Storie, 7, 129). È il braccio di mare chiamato Canale di Trikeri
a dividere la Magnesia dall’Eubea, ed è
l’unica porta di accesso al Golfo di Volos.
Il M. Ossa, odierno Kissavos, a N è
delimitato dalla Valle di Tempe ed a S è
separato dal massiccio del Pelio da una
ampia frattura (fig.2) (Stählin 2001).
L’avvallamento forma una piccola pianura denominata Agyia o Agia, dove
scorre il fiume, oggi dalla ridotta portata d’acqua, chiamato Agyokampos, che
sfocia nella città omonima (fig.3). Questa valle può essere considerata come il
confine naturale tra Ossa e Pelio (Claudii Ptolemaei, Geo, 3, 13, vv. 16,18,19).
Il Pelio appartiene geologicamente
alla cintura sedimentaria che un tempo circondava il massiccio dell’Olimpo,
dalla Calcidica fino al M. Gavrini, nel si-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
stema del M. Othrys orientale. Il Pelio è
il massiccio sopravvissuto agli sprofondamenti risalenti all’epoca Terziaria corrispondenti ai golfi termaico e pagasitico. Da un punto di vista geologico non
rappresenta una catena montuosa vera e
propria ma corrisponde più ad un massiccio caratterizzato da vari altopiani,
che possono raggiungere anche i 14001500 mt. di altezza. Il sistema montuoso
si estende dalla Valle di Agyia, a N, fino
alla punta più estrema della penisoletta
magnetica denominata M. Tisaion, a S.
Il massiccio del Pelio si affaccia ad E
verso Volos, dove si apre una piccola valle protesa sul Golfo di Pagasai, ed ad O
verso il golfo termaico (Sivignon, 1975).
Come sottolinea Stählin, nonostante
le sue altitudini variabili, il massiccio
rappresenta una catena ininterrotta, offrendo come “l’impressione di un esteso ed
ombroso bastione che separa l’interno della
Tessaglia dal mare” (Stählin 2001: 64).
A riguardo di quest’area Strabone
afferma che la costa del Pelio è in gran
parte rocciosa e che la sua lunghezza è
di 80 stadi, 14 km. circa (Strabon, Geo,
9, 5, 22). L’indicazione relativa alla lunghezza dell’area del massiccio del Pelio e
del M. Ossa che il Geografo indica come
coincidente, sembra difficile da sostenere
considerate le differenze geomorfologiche tra Ossa e Pelio, tranne che si faccia
riferimento esclusivamente alla cima più
alta del massiccio del Pelio, il M. Pliassidi.
257
A causa della sua impervia conformazione fisica, la Magnesia non ha
grandi vie di comunicazione. Attraverso
un’analisi geomorfologica del territorio
e seguendo le direttrici indicate dalle
fonti in nostro possesso cercheremo di
descrivere, anche se in forma necessariamente sintetica, il territorio ed i centri,
partendo dalla Valle di Tempe a N fino
ad arrivare al Golfo di Volos a S.
I principali assi viari della Magnesia,
in direzione N-S, risultano essere due:
uno lato costa, parte dalla Valle di Tempe,
presso la città di Omolio ai piedi del M.
Ossa, prosegue lungo la costa, aggira la
punta estrema del Golfo e giunge a Demetriàs, antica città della Piana di Volos.
L’altro, sul versante interno, inizia sempre
dalla stessa Valle, segue i piedi del Pelio,
si inoltra nella piana di Larissa, supera il
lago Boibe ed alcune zone paludose, per
poi, oltrepassando alcune basse colline,
arrivare nuovamente a Demetriàs.
Un’ulteriore via, E-O, percorreva la
valle di Agyia (Fig. 1 tracciato 4 in arancione), tra Ossa e Pelio, e, collegando la
costa alla Piana di Larissa, consentiva di
dirigersi o verso Demetriàs a S o verso
Tempe a N. L’autore macedone Polieno
offre un’indicazione interessante relativa
ad un sentiero che attraversava l’Ossa e
che venne realizzato da Alessandro Magno nell’autunno del 336 a.C. per aggirare Tempe, sorvegliata dai Tessali. Il Re
macedone avrebbe creato una strada che
consentisse all’esercito di oltrepassare il
M. Ossa, altrimenti invalicabile, scavandone le rocce scoscese e facendo realizzare piccoli “gradini”. Questo percorso consentì di aggirare le difese tessale a Tempe,
colpendole alle spalle, ed esso fu sucessivamente conosciuto come “Αλεξανδρου
κλιμακα”, scala di Alessandro (Polyaenus,
Strat., 4, 3, 23). Al di là della vericidità o
meno della realizzazione del percorso, il
passo di Polieno risulta di fondamentale
importanza in quanto mette in risalto come l’asperità geomorfologica del territorio magnetico incidesse profondamente
nei percorsi viari tanto da indurre il Re a
creare una via alternativa che consentisse
l’accesso nella protetta valle di Tempe,
valicando il M. Ossa.
Altre fonti importanti a cui riferirsi,
per fare luce sull’andamento dei tragitti, oltre i citati Strabone, Polieno, sono
Scilace e Plinio il Vecchio. Infatti la loro
presentazione dei centri della Magnesia
consente di proporre una possibile ricostruzione dei percorsi.
Il viaggiatore greco Scilace, in
particolare, riporta, in successione, un elenco di città: “Εθνος εστι
Μαγνητες παρα Θαλατταν και πολεις
αιδε Ιωλκος, Μεθωνη, Κορακαι,
Σπαλαυθρα, Ολιζων, Ισαι λιμην. Εξω
δε του Κολπου Παγασητικου Μελιβοια,
Ριζους, Ευρυμεναι, Μυραι” (Scilace di
Carianda, Perip., 28). Anche l’erudito
romano Plinio passa in rassegna i centri
tessali nella sua descrizione del territorio: “Thessaliae adnexa Magnesia est, eius
fons Libethra, oppida Iolcos, Ormenium,
Pyrrha, Methone, Olizon, promuntorium
Sepias, oppida Castana, Spalathra, promuntorium Aeantium, oppida Meliboea,
Rizhus, Erymnae, ostium Penii, oppida
Homolium, Orthe, Iresiae, Pelinna, Thaumacie, Gyrton, Crannon, Acharne, Dotion,
Melite, Phylace, Potniae. Epiri, Achaiae,
Atticae, Thessaliae in porrectum longitudo CCCCXC traditur, latitudo CCIIIC”
(Pliny, Nat. Hist., 4, 9, 32).
I COLLEGAMENTI VIARII
E LE CITTÀ DELLA COSTA
ORIENTALE DELLA
MAGNESIA
La prima direttrice che da N scende
verso S (Fig. 1 tracciato 1 in rosso), seguendo la costa magnetica del golfo termaico, potrebbe verosimilmente partire
dall’area di Omolio (Fig. 1 n.1), antica
città citata dalle fonti, situata su di un’altura alle pendici dell’Ossa presso la Valle
di Tempe (Strabon, Geo., 9, 5,22; Scilace
di Carianda, Perip., 28; Livy, Ab Urbe,
42, 38; Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32; Apollonius Rhodius, Arg., 1, vv. 593-600;
Stählin 2001: 69 n. 74). Oggi la maggior
parte degli studiosi identificano Omolio proprio con le rovine situate presso
l’omonimo centro moderno dove l’archeologo greco Aρβανιτòπουλος trovò
resti di un abitato del V sec. a.C. (Tabula
Figura 3. Valle di Agyia e Monte Pelio dalla cima del Monte Ossa (foto autore)
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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imperi Byzantini: 173; Leake 1835: 414415; Αρβανιτòπουλος 1911: 280-285;
Mézières 1854: 245; Stählin 2001: 71;
Rogers 1932: 88-90; Παπαχατζής 1959:
3-21; Van Buren 1973: 40-43; Miller
1979: 3-5.; Helly 2004: 101-124, 110;
Helly 2010: 391-418).
A N di Omolio, seguendo questo
ipotetico percorso, troviamo il centro
Paleopyrgos (Fig. 1 n.2), la cui identificazione è stata forse resa possibile dalla
scoperta di resti di mura di un abitato
(Stählin 2001: 69-70).
Proseguendo verso S, lungo la costa,
si potevano raggiungere le antiche città
di Karitsa (Fig. 1 n.3) e, a poca distanza,
Eurymenai (Fig. 1 n.4) (Strabon, Geo.,
9, 5, 22; Apollonius Rhodius, Arg., 1,
597; Procopio di Cesarea, De Aed., IV,
3, 14; Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32; Stählin
2001: 73; Σδρόλια 2000: 197-204; Helly
2010: 391-413)3.
Vicino al centro di Eurymenai doveva sorgere Rhizus (Fig. 1 n.5) (Pliny, Nat.
Hist., 4, 9,32; Scilace di Carianda, Perip.,
28; Stefano di Bisanzio, Eth., 545,4).
Secondo l’archeologo greco Σδρόλια,
potrebbe essere ubicata vicino al centro
di Paliouria, dove sono emersi blocchi di
pietra lavorati, databili presumibilmente
nel II-I sec. a.C., cocci di età ellenistica, monete e sepolture di età tardoantica (Σδρόλια 2006: 73-74, 403-419;
Δουλγέρη-Ιντζεσίλογλου 2000: 182).
Un’altra importante città costiera è
Meliboia (Fig. 1 n.6), la cui esatta localizzazione, probabilmente nell’avvallamento tra il M. Ossa ed il massiccio del
Pelio, ancora oggi risulta estremamente
complessa a causa della mancanza di dati
archeologici certi (Strabon, Geo., 9, 5,16,
22; Omero, Il., 2, 717; Lucano, Guerra
civile, 6, 354; Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32;
Stählin 2001: 74; Wace 1906: 143). Lo
storico romano Livio, nella descrizione degli scontri tra il re di Macedonia
Perseo, figlio di Filippo V, ed i Romani
avvenuti tra il 175 ed il 168 a.C., indica Meliboia, posta ai piedi del M. Ossa,
quale centro di controllo per la via che
portava alla città di Demetriàs nel Golfo
di Volos (Livy, Ab Urbe, 44,13). È difficile stabilire con certezza se l’autore si
riferisca ad una via marittima o terrestre.
Considerata comunque la collocazione
costiera del centro è presumibile che
Meliboia fosse in posizione di controllo sia della strada che della rotta verso
Demetriàs. L’ipotesi di Meliboia quale
centro portuale è difficile da confermare,
tuttavia rimane certo il suo ruolo strategico nella principale strada militare
che portava a Demetriàs. La via si sviluppava lungo la costa e doveva partire
dal fiume Peneios, presso Omolio, passare da Karitsa/Eurymenai e giungere a
Meliboia, sulla biforcazione delle strade
che da qui dipartivano. I percorsi infatti
qui si dividevano. Una direttrice lungo
la costa, conduceva da Meliboia a Keramidi/Kasthania; un’altra sezione, che
oltrepassava il M. Ossa e andava verso
O, portava fino a Larissa, attraverso la
pianura di Agyia. Era possibile da qui
intraprendere il tragitto che si dirigeva
verso Demetriàs a S, seguendo i piedi
del massiccio del Pelio, costeggiando le
rive del lago Boibes (oggi Karla) e oltrepassando alcune basse colline. Un ulteriore sentiero collegava anche Kasthania
con Demetriàs. Infatti da Kasthania si
scollinavano le alture del massiccio del
Pelio lungo un percorso montano, per
ricollegarsi presso il Boibes al sentiero
che portava a Demetriàs.
La città di Kasthania o Kasthanaia (Fig. 1 n.7) è identificabile secondo
Stählin con delle rovine a N della odierna città di Keramidi (Pliny, Nat. Hist., 4,
9,32; Stählin 2001: 75; Mézières 1854:
218, 221).
Altri centri situati lungo la direttrice
costiera erano Ipnoi (Fig. 1 n.8), probabilmente nell’area di Venetos, e Sepias (Fig. 1
n.9), vicino a Capo Sepias, oggi Pouri, di
incerta localizzazione (Erodoto, Storie, 7,
188; Strabon, Geo., 9, 5,22; Stählin 2001:
75; Αδρύμη-Σισμάνη 1996: 331-335;
Αδρύμη-Σισμάνη 1996: 11-15). Nella
stessa area doveva forse sorgere Thaumakie (Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32).
Questo territorio descritto è la parte
continentale della costa della Magnesia.
Superato Capo Pouri, ci si incammina
verso la sezione finale della dorsale
montagnosa del Pelio che ha la conformazione di una sottile striscia di terra,
incurvata verso SO, protesa verso il mare
e caratterizzata da basse colline. Questa
parte della Magnesia costituisce la penisoletta vera e propria che chiude ad E il
Golfo di Volos e lo separa da quello termaico. Sulla base della documentazione
in nostro possesso non sembrerebbe che
la parte esterna della penisoletta fosse
abitata in antico, probabilmente per la
sua asperità; comunque è possibile ipotizzare un percorso che da Sepias, lungo la costa, si dirigesse verso il centro
di Aphete e l’altura del Tisaion (Fig. 1,
tracciato 2 rosso tratteggiato).
LE VIARIE E LE CITTÀ DEL
VERSANTE OCCIDENTALE
DELLA MAGNESIA
Fino ad adesso abbiamo descritto
la direttrice che da N scende verso S,
seguendo la costa magnetica del golfo
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
termaico. Un secondo asse si sviluppava
lungo l’area O della Magnesia (confinante con la Pelasgiotide) che inizia
dalla Valle di Tempe ed arriva alla costa
demetriaca (Fig. 1, tracciato 3 in blu).
La parte interna della Magnesia è
caratterizzata dalle pianure situate ai
piedi del M. Ossa e del massiccio del
Pelio. Tale area si può considerare come
parte integrante della Pianura di Larissa. Questa lambisce ad O il M. Ossa,
confina a N con la Perrebia ed a S con
il Lago Boibes. Partendo da Tempe iniziava la valle propriamente detta.
Lo studio di quest’area è reso oltremodo complesso da una serie di problemi di difficile risoluzione: i profondi, ed
a volte radicali, cambiamenti geomorfologici sopravvenuti nel corso del tempo;
l’assenza di dati archeologici certi e la
poca chiarezza delle fonti storico-letterarie a disposizione. Dalla Valle di Tempe si doveva sviluppare una direttrice
verso la Piana di Keserli. Questa inizia
a NE di Larissa, vicino all’imbocco della
Valle di Tempe; si tratta di una piccola
depressione, delimitata a N dal fiume
Peneios, ad E dal M. Ossa e ad O da
alcune basse colline (Stählin 2001: 81).
Livio, nella narrazione delle guerre
macedoniche, si sofferma proprio sull’area da noi analizzata, mettendo in evidenza che l’esercito macedone, dopo una
battaglia vittoriosa contro i Romani, si
accampò nell’area di Mopsion, altura tra
Larissa e Tempe (Livy, Ab Urbe, 42, 61).
L’indicazione risulta di grande interesse,
perché consente, da un lato, di confermare la strategicità di tale area, ben protetta
dalle alture, e, dall’altro, di ipotizzare un
asse viario percorribile dalle truppe.
La piana è divisa in due settori dalla
collina di Baltsi: la parte più a N si chiama Kalamitsa, quella più meridionale è
il basso piano di Toibasi. La parte S della
piana è caratterizzata dalla piccola catena di colline Mopsion/Chasabali. Nella
zona meridionale di questo piccolo prolungamento del Pelio, lateralmente alle
colline, passavano vie che conducevano
verso S all’ingresso della Valle di Agyia
e verso O nel Dotion/Piana di Larissa (Leake 1835: 420-451; Γεωργιάδης
1894: 48; Lolling 1889: 154; Helly
1987: 134-139; Αρβανιτόπουλος 1910:
241-254). Secondo Sthälin tali vie portavano prima verso Karalar, identificabile forse con l’odierno villaggio di Eleutherio (Fig. 1 n.26), e poi verso il fiume
Asmaki, oggi solo un torrente (Stählin
2001: 83). Tutte quest’aree segnavano il
confine N del Lago Boibes.
La pianura presso Eleutherio/Karalar rappresenta un ulteriore collegamento
259
viario tra la Piana di Larissa ad O, quella
di Keserli a N e quella di Agyia ad E.
Superato quest’incrocio e proseguendo a S del Dotion, sul confine
occidentale del Boibes, si trovavano le
Didima Ore (cime gemelle) dove probabilmente erano ubicate Lakereia ed
Amyros (Fig. 1 n.10), due importanti
centri citati dalle fonti, la cui ubicazione è comunque oggi ancora controversa (Apollonius Rhodius, Arg., 4, v. 615;
Stählin 2001: 83). In questa area doveva
scorrere il fiume Amyros. Considerata la
diversa attuale conformazione del territorio è forse possibile identificare questo
fiume con il Deres, oggi Milolavkos, un
torrentello che scende verso il Boibes
(Stählin 2001: 83-84).
Superata quest’area, si arriva nella
parte centrale della Magnesia, dove si
trova il già citato Lago Boibes. Questo,
in antico, si situava parallelamente alle
propaggini del Pelio verso O e, secondo
le ricostruzioni più attendibili, le sue
acque bagnavano gran parte della zona
centro-orientale della Piana di Larissa,
dalla Valle di Agyia, alle pendici dell’Ossa, fino alle colline a N di Demetriàs.
Dalle risultanze geologiche sembra
che il Boibes si sia formato dall’accumulo stagionale delle acque dei fiumi
Asmaki ed Amyros, che avrebbero dato
vita a due distese lacustri: quella a N
prese il nome di Nessonis e quella a S
di Boibes (Sivignon 1975: 402; Strabon,
Geo. 1996: 244 n. 9; Helly- Bravard-Caputo 1997: 30 e ss.)
Secondo un’interessante notizia fornitaci da Archino, il Boibes confluiva nel
lago Nessonis, ma bisogna tener conto
del fatto che né Omero né Erodoto, ma
solo Strabone, menzionano tale lago
(Stählin 2001: 83-84). Attraverso un’analisi geomorfologica del territorio, si
evincerebbe che forse non è mai esistito
un lago con il nome Nessonis e che il
Boibes invece doveva avere sicuramente una portata nettamente superiore rispetto a quella odierna (Sivignon 1975:
402; Helly-Bravard-Caputo 1997: 31).
Si tenga inoltre presente che tra il 1955
ed il 1960 si è verificato il prosciugamento artificiale del lago che al giorno
d’oggi ha invece ripreso una sua funzionalità per consentire l’irrigazione dei
terreni circostanti (Fig. 1 antica configurazione del lago in viola) (Sivignon
1975: 402; Strabon, Geo. 1996: 244 n. 9;
Helly-Bravard-Caputo 1997: 33).
Attraverso lo studio del Catalogo
delle Navi e di Strabone abbiamo notizia di due centri importanti, che sorgevano intorno al Lago Boibes; si tratterebbe della città omonima di Boibe a
SE (Fig. 1 n.11), e di quella di Glaphere a S (Fig. 1 n.12) (Strabon, Geo., 9,
5,15; Omero, Il., 2, vv. 711-715). La loro ubicazione troverebbe una conferma
in alcuni resti archeologici; la prima in
quelli ritrovati vicino alla odierna città
di Kanalia e la seconda presso l’omonima Glafiri (Γεωργιάδης 1894: 130; Hope Simpson-Lazenby 1970; WindsantVermeulen 1975; Stählin 2001: 85-86;
Decourt-Nielsen-Helly 2004: 689).
Fondamentale, per la ricostruzione
delle direttrici viarie nella zona centrale
della Tessaglia, risulta il contributo di
Bruno Helly. Lo studioso francese descrive alcuni itinerari in epoca storica,
prendendo spunto da un passo di Tito
Livio nel quale Perseo, figlio di Filippo V,
parte dal suo campo, in pianura, per andare a Krannon; in un altro brano, tratto
da Polibio, invece vi è uno spostamento
degli Etoli che da Tebe, in Acaia Ftiotide, arrivano a saccheggiare la Pianura di
Larissa. Helly ipotizza che in entrambi i
casi gli autori antichi avessero ripreso gli
itinerari percorsi dal mitico eroe tessalo
Erysichthon, e sottolinea che Larissa è
al di fuori di questi sentieri. Per avvalorare questa ipotesi egli distingue due
tipologie di strade: quelle sacre e quelle
militari. Per quanto riguarda le vie sacre
analizza l’itinerario di Apollo da Tempe, passando per Iolkos, nella Piana di
Volos, fino a Delfi, che la tradizione ha
conservato nell’Inno omerico ad Apollo
(Helly 1987: 139). Il testo si data alla
fine del VII sec. a.C. o inizi VI sec. a.C..
Il dio, venendo dalla Pieria, attraversò il
paese degli Eniani e dei Perrebi prima
di raggiungere Iolkos lungo la strada
più diretta (Omero, Inno ad Apollo, vv.
214-220).
Il paese degli Eniani è il Dotion e
confina a N con quello dei Perrebi. Helly
contesta la tesi di Béquignon che invece suppone un passaggio montano di
Apollo, presso Ossa e Pelio (Béquignon
1932 : 7-8; Helly 1987: 140). L’interpretazione di queste fonti, anche se di
ambito mitologico, consente di cogliere
il legame che il Golfo di Volos aveva con
la Piana di Larissa.
La seconda tipologia viaria descritta
da Helly riguarda le strade militari. Egli
menziona un passo di Senofonte in cui
viene presentata un’operazione militare
condotta dal generale Agesilao nel 395
a.C., e segue la ricostruzione, operata
da Decourt, del possibile tragitto che
Agesilao e la sua truppa intraprendono dall’Asia fino alla Grecia centrale,
evitando le grandi città come Larissa,
Krannon, Skoutussa e Farsalo. Decourt
suppone che il tragitto parta dall’entra-
ta N della Tessaglia, ovvero dalla Valle
di Tempe, per poi seguire una direttrice che attraversava la pianura tessala,
il Dotion, da N a S, evitando Larissa,
valicando i M. Revenia, in direzione della Valle dell’Enipeo, più a O di Larissa
(Helly 1987: 142; Decourt 1986: 131135; Bequignon 1937: 36-38, 290-291).
Helly versa nella discussione le opere
di un pittore della fine del XVIII sec.,
G.B. Pouqueville, viaggiatore attraverso
la Grecia che risiedette presso Ioannina,
Tessalonica e Larissa.
Pouqueville ci ha lasciato un’importante ricostruzione dei suoi itinerari in
alcuni quadri, nei quali descrive i principali tragitti nella pianura forse coincidenti con quelli antichi: dapprima il
percorso da Larissa a Tempe, che oggi
corrisponde all’attuale strada LarissaMakrichori-Tempe; poi altre vie: una
da Larissa ad Agyia e soprattutto un’altra che conduce da Ampelakia a Farsala. L’itinerario verso Farsala passa da
Chasabali (Erimon), Omorphochori
(Nechali), incrocia la strada da Larissa a Volos (ad E di Larissa), passa ad
E di Nikaia ed infine a Nikaia stessa.
Helly pensa che vi fossero state un numero elevato di strade nella pianura
tessalo-orientale che non si irradiavano da Larissa e non ne tenevano conto
come punto di passaggio. Ciò risulta di
difficile comprensione se si tiene conto
del fatto che Larissa rappresentava uno
snodo centrale della pianura tessala, ma
lo studioso invece sostiene che ciò è naturale se si considera che la città è nata e
si è sviluppata posteriormente alla definizione dei principali assi viari e conclude il suo ragionamento supponendo che
queste strade dovessero percorrere degli
itinerari verso centri in quel momento
importanti, in particolare verso Lakereia
e Amyros (Helly 1987: 140- 145).
LA PIANA DI VOLOS
E LE CITTÀ DELLA
PENISOLA MAGNETICA
ALL’INTERNO DEL GOLFO
Oltre il lago Boibes, seguendo la
direttrice verso S, e superate le colline
dietro Demetriàs, si accede alla parte
centrale del Golfo di Volos. Caratterizzato da una piccola piana omonima tale
Golfo è una delle zone più importanti
non solo della Magnesia ma dell’intera
Tessaglia, sia per la vicinanza geografica alla pianura tessala, di cui era l’unica
via d’accesso dal mare, sia perché area
portuale, commerciale e militare. La
Piana di Volos, ristretta area di terreno
alluvionale a S del Boibes, è la parte più
settentrionale del Golfo.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
260
La zona è ben protetta naturalmente,
in quanto ad E si trova l’altura di Goritsa
che scende fino al mare verso O creando
una barriera; ad O invece vi è la collina
di Demetriàs, i cui piedi giungono ad E
del centro, segnando una via, a SO, verso il centro di Halmyros (nella piana di
Halos, in Pelasgiotide). A NO la Piana
di Volos è chiusa dal massiccio del Pelio
ed è circondata da un arco uniforme di
colline che arrivano fino al Boibes, confinando ad E con il massiccio del Pelio.
La via d’accesso dalla Piana di Larissa, a N, alla Piana di Volos, a S, è la sella
chiamata Pilaftepé, che ad O interrompe
le montagne della Pelasgiotide e le colline alle spalle di Volos. In questo avvallamento di circa 200 mt., passavano le vie
di comunicazione per Dimini/Sesklò e
poi quelle più importanti per Larissa e
Pherai (Stählin 2001: 87). Oggi la piana,
dominata dalla città di Volos, è caratterizzata da tre corsi d’acqua: Kaliakudonas Rema, Krausidonas ed Almeria.
La Piana di Volos presenta tracce
di insediamento dall’età neolitica fino a
quella storica. Dimini, Sesklò, Iolkos e
Pagasai (Fig. 1 n.19, n.20, n.21, n.22)
furono i centri più importanti fino alla
fondazione di Demetriàs (Fig. 1 n.23)
nel 293 a.C. per opera di Demetrio Poliorcete (Esiodo, fr. 19; Pindaro, Nemea,
IV, 89; Erodoto, Storie, 5, 94; Strabon,
Geo, 9, 5,15; Scilace di Carianda, Perip.,
28; Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32; Livy, Ab
Urbe, 44, 12 8; Omero, Il. 11, vv. 259;
Apollonius Rhodius, Arg., I, v. 441; Wace-Thompson 1912; Παπαχατζις 1954;
Schachermeyr 1954; Schachermeyr
1955). In successione, ad E di Volos,
altre importanti città che sorgevano in
questa piana sono Neleia, Amphanai e
Orminion/Goritsa (Fig. 1 n.23, n.24,
n.25) (Bakhuizen 1987: 323; DecourtNielsen-Helly 2004: 676-731). La seconda, in particolare, viene collocata da
Plinio tra Iolkos e Methone (Pliny, Nat.
Hist., 4, 32).
Di sicuro interesse risulta un’indicazione fornita da Strabone riguardante
una strada composta da due segmenti:
il primo di 7 stadi da Demetriàs a Iolkos,
il secondo di 20 stadi da Iolkos ad Orminion (Stählin 2001: 87)4.
Seguendo il percorso che parte da
Volos e segue tutta la costa fino alla
punta più estrema della penisoletta magnetica (Fig. 1, tracciato 5 in giallo) la
prima città che si incontra è Methone
(Fig. 1 n.13), citata da Plinio, Scilace e
Strabone (Strabon, Geo., 9, 5,16; Pliny,
Nat. Hist., 4, 9,32; Scilace di Carianda,
Perip, 28). Il carente stato della documentazione archeologica non consente
di pronunciarsi con sicurezza sulla sua
esatta posizione.
La città successiva, sempre all’interno del Golfo, seguendo l’elenco fornitoci da Scilace, è Koraki (Fig. 1 n.14)
(Stählin, 2001). Stählin localizza il sito
nell’area del piccolo centro di Kala Nerà, dove sono state trovate importanti
evidenze archeologiche, tra cui i resti
di un santuario oracolare di Apollo di
Korope (Fig. 1 n.15) (Lolling 1889: 69;
Αρβανιτόπουλος 1906: 123-30). Considerata l’importanza politico-religiosa
di tale area sacra, è possibile ipotizzare
che l’asse viario diretto verso la parte
finale della penisoletta magnetica seguisse questo itinerario. Scilace e Plinio collocano, non molto lontano da
Koraki, il centro di Spalauthra (Fig. 1
n.18), all’interno del Golfo, anche se di
controversa ubicazione (Pliny, Nat. Hist.,4, 9,32; Lolling 1889: 99-352, 154;
Γεωργιάδης, 1894: 13; Wace A. 1906:
143-168; Mézières 1984: 149-266,
169-172; Stählin 2001: 77; Napolitano 2002: 104-106; Decourt- NielsenHelly 2004: 721). Nell’elenco di Scilace segue il centro di Olizon (Fig. 1
n.16) (Scilace di Carianda, Perip., 28).
Sebbene non risulti particolarmente
chiara la sua localizzazione a causa di
un’incongruenza delle fonti, Stählin lo
identifica in un Paleokastro sito sulla
collina chiamata Vigla o Spiada, che si
eleva tra l’odierno centro di Mavri Petra
ed il paese di Sant’Andrea, nel punto
più stretto della striscia di terra in cui la
penisoletta della Magnesia disegna un
arco (Pliny, Nat. Hist., 4,32; Plutarch,
Them., 8, 22; Αρβανιτόπουλος 1906:
126-127; Αρβανιτόπουλος 1910: 217;
Stählin 2001: 78).
Nell’ultima parte della penisoletta,
proprio dove sorge l’odierna città di Trikeri, precisamente sulla altura denominata Aiantion, vicino al moderno centro
di Agia Kiriaki, si situa oggi Capo Kavulia (Claudii Ptolemaei, Geo, 3, 13, vv.
16,18,19). In quest’area sorgeva l’altura
del Tisaion, forse oggi identificabile con
la collina del Bardzogja/Tisaio Oros
(Stählin 2001: 78). Da Polieno, Polibio,
Livio ed Appiano apprendiamo che la
cima del Tisaion era al centro di tutta
una rete di segnalazioni visive operate
attraverso fuochi; da qui le informazioni raggiungevano gli strategici centri di
Pagasai/Demetrias (Polybius, Storie, 10,
42; Livy, Ab Urbe, 28, 5; Appian, Hist.,
12, 35).
Un altro centro citato dalle fonti è
Aphetai o Aphete (Fig. 1 n.17) (Erodoto, Storie, 7, 193; Strabon, Geo., 9, 5,15;
Apollonius Rhodius, Arg., 1, v. 591).
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
Incrociando i dati a nostra disposizione
sembra emergere che Aphete sia uno
degli ultimi centri della Magnesia a S;
Stählin la identifica con l’odierna Platania all’esterno del Golfo di Volos, ma
una localizzazione precisa risulta assai
problematica, soprattutto per la carenza
di dati archeologici (Stählin 2001: 79;
Wace 1906: 143-168).
CONCLUSIONE
Tra tanti problemi ed incertezze interpretative, che comunque hanno reso
la ricerca assai stimolante e meritevole
di ulteriori approfondimenti, è emerso,
con sufficiente chiarezza, il quadro di
un territorio ricco di questioni ancora
aperte.
Particolarmente efficace risulta la
definizione di Stählin a proposito della
Magnesia: “La Magnesia può essere paragonata ad un’aquila con le ali spiegate che
arrivano fino a Tempe ed al capo Sepias,
e con il cuore che batte a Volos” (Stählin,
2001).
Dall’analisi preliminare fin qui condotta, emergono chiaramente l’asperità
geomorfologica del territorio magnetico, caratterizzato da un baluardo montano (Ossa-Pelio) interrotto solamente
da due valli (Tempe ed Agyia), le trasformazioni causate da rilevanti fattori
antropici (si pensi alla bonifica del Lago
Boibes) e la carenza di dati archeologici. Tuttavia l’analisi geomorfologica del
territorio e la presenza di una notevole
quantità di centri, citati dalle fonti anche
se non sempre di facile localizzazione,
consentono di ipotizzare la presenza di
vie di comunicazione e di collegamento
che facilitassero spostamenti, scambi e
contatti.
I principali assi viari della Magnesia
si sviluppavano verosimilmente in direzione N-S partendo dalla Valle di Tempe fino a Demetriàs. Abbiamo ipotizzato che uno seguisse la costa ed aggirasse
la punta estrema del golfo (M. Tisaion
e Capo Sepias); un altro si sviluppasse
sul versante interno, lungo i piedi del
massiccio del Pelio, nella Piana di Larissa. Ulteriori vie, in direzione E-O,
dovevano attraversare le valli di Tempe
e di Agyia, unendo la costa all’interno. A
questi percorsi bisogna infine aggiungere quelli diretti verso le aree centrali del
Dotion e che collegavano Demetriàs a
Farsala e Larissa, in Pelasgiotide.
Tenendo conto di un quadro così
complesso e articolato, a distanza di più
di un secolo, ci sono sembrate per molti
versi ancora valide le parole di Wace a
proposito della ricerche in Magnesia e,
più in generale in Tessaglia: “I would like
261
to point out to archaeologists who are too
often content only with a tour to Larissa,
Tempe, the Metéora and Phersala, that
Thessaly is in many respects a terra incognita” (Wace 1906: 147).
NOTE
1. Si tenga presente che anticamente era usuale estendere il toponimo dalla cima più rilevante a tutta la catena. Questi monti costituiscono una propaggine meridionale dell’antica
dorsale montuosa balcanica e, come mette in
evidenza Stählin, sono una zolla residua del
sistema montuoso orientata SE e separata tettonicamente mediante linee di frattura, piccoli
avvallamenti, orientati E-O.
2. Strabone, inoltre, attribuisce a questo evento sismico il prosciugamento della pianura
centrale della Tessaglia che in origine sostiene
essere stata totalmente paludosa.
3. Stählin identifica tale centro nell’area di Kokkino Nerò (Κοκκινο Νερο, lat.
39.833403-long. 22.79279).
4. Sthälin confrontando le notizie date dal
Geografo con altre forniteci da Eraclide, suppone che i 7 stadi siano la distanza da Demetriàs a Iolkos e che i 20 stadi siano calcolati
dal limite della pianura a O fino alla collina
di Goritsa.
BIBLIOGRAFIA
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
262
Percorsi antichi nel territorio
locrese meridionale
(Calabria): vie longitudinali
e trasversali rispetto
alla costa tra le vallate
delle fiumare La Verde e
Bruzzano
Gianluca Sapio
Università di Torino Dottorato in Storia
del Patrimonio Archeologico e Artistico
E-mail:
[email protected]
Ancient routes in the southern Locrese
area (Calabria): longitudinal and trasversal
roads between the valleys of the La Verde
and Bruzzano rivers
Parole chiave: Geologia; Ricognizione archeologica; Fonti documentali; Popolamento
antico; Archeologia del paesaggio della Magna Grecia
Key words: Geology; Archaeological survey; Documentary sources; Ancient population; Landscape archaeology of Magna Graecia
RIASSUNTO
Il tema del presente articolo è tratto dalla ricerca di dottorato (XXVIII
ciclo) dell’autore, discussa nell’ottobre
del 2017 presso l’Università di Torino
ed incentrata sulla definizione di una
carta archeologica multimediale di una
porzione, compresa tra le vallate delle
fiumare Bruzzano e La Verde, nel territorio dell’antica colonia greca di Locri
Epizefiri.
La ricerca ha avuto un carattere
multidisciplinare che ha consentito di
indagare molte fonti documentali: la
fotografia aerea (fotogrammi IGM,
strisciate 1955, 1995, 2000), la cartografia storica e la toponomastica (documenti pre unitari e cartografia ufficiale
in piccola e grande scala (carte IGM,
CTR, ecc.)), fonti d’archivio e bibliografia scientifica (in particolare dagli
archivi di stato di Reggio Calabria, Catanzaro e Napoli e della Soprintendenza
archeologica per la Calabria), il survey
archeologico (campagne di ricognizione
effettuate tra il 2015 ed il 2016).
Le indagini sul campo in particolare
sono state pianificate solo dopo un attento studio dei rinvenimenti archeologici noti sul territorio in esame e dopo
una puntuale analisi delle caratteristiche
geo litologiche ed idrografiche dell’area.
Sono stati individuati i principali litotipi
utilizzati per la realizzazione di strutture
produttive (in particolare i “palmenti”,
per la produzione del vino) e, in base
alle differenti fasi cronologiche, per la
realizzazione di strutture murarie.
Per l’età antica, con specifico riguardo alle fasi romano imperiali, è stato
possibile constatare che le vie di comunicazione ed attraversamento verso l’interno e lungo la costa, alcune delle quali
attive già in età protostorica, siano divenute di straordinaria importanza per le
produzioni agricole nel territorio. Tale
evenienza è stata determinata dall’abbandono dello scalo marittimo d’età
greco-ellenistica presso il Capo Bruzzano, antico Capo Zefirio (Strabone VI,
1, 7), che, fino almeno al I secolo d.C.
dovette essere lo sbocco naturale e la via
commerciale principale per questa area.
Dai dati archeologici è infine emerso
come la viabilità antica in questo settore, di cui restano evidenze monumentali,
venne gradualmente abbandonata fino
ad un definitivo e radicale riassetto territoriale avvenuto in età angioina (XIII
sec.), con lo spostamento degli assi di attraversamento principali lungo i pianori
geologicamente più stabili dell’interno.
Tale riassetto, controllato dall’edificazione di nuovi centri fortificati naturalmente protetti, dovette essere motivato
anche da una crescente insicurezza dei
centri costieri dovuta alle frequenti incursioni piratesche dal mare.
Nell’articolo vengono presentati, i
metodi e le fonti documentali utilizzate, oltre che i dati scientifici principali
sulla viabilità antica di questo settore,
illustrando con immagini e planimetrie
i tratti stradali basolati, quelli parzialmente scolpiti nel banco roccioso, ecc.
Il discorso viene preliminarmente in-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
trodotto da un inquadramento geolitologico del territorio, utile a capire quali
potenzialità dello stesso l’uomo sia stato
in grado di sfruttare di più nell’antichità.
TRACCE DELLA VIABILITÀ
LUNGO LA COSTA
IONICA DELLA CALABRIA
MERIDIONALE; PER UNA
RICOSTRUZIONE DELLA
STORIA DEGLI STUDI
RECENTE
Dopo i fondamentali lavori di Paolo
Orsi (Soprintendente per la Calabria tra
il 1908 ed il 1927), decisivi soprattutto
per la definizione topografica dei principali siti da lui indagati e per le prime
ipotesi sui percorsi di attraversamento
nel territorio, è stato soprattutto a cavallo degli anni Settanta e Ottanta del
secolo scorso che sono stati pubblicati
alcuni contributi significativi per una
conoscenza complessiva del territorio e
della viabilità antica nella Calabria meridionale. Tra le altre, le ricerche topografiche di G. Givigliano ebbero come
interesse specifico la ricostruzione della
viabilità in Calabria tra protostoria ed
età antica; queste ricerche hanno permesso di ipotizzare una serie di tragitti
longitudinali e trasversali rispetto alla
costa (Givigliano 1978), definiti come
percorsi “a spina di pesce”1 in base anche alla conformazione geo litologica
del suolo e rispetto al loro andamento
lungo le vallate comprese tra un “asse
centrale” dato dalle alture aspromontane e le pianure costiere sul Tirreno e lo
263
Ionio. Sui ritrovamenti archeologici dal
territorio locrese in realtà, un primo breve articolo venne fatto da C. Sabbione
(già responsabile di zona per la Soprintendenza archeologica della Calabria) in
occasione del XVI Convegno di Studi
sulla Magna Grecia, tenutosi a Taranto
nel 19762.
Nel contributo sono presentati brevemente, in un quadro d’insieme, i ritrovamenti occasionali effettuati dalla
Soprintendenza; essi hanno permesso
di ipotizzare, soprattutto per le fasi di
età greca e romana, percorsi e vie di attraversamento che potevano collegare
i centri principali della Calabria meridionale.
Oltre a contributi di più specifico
carattere archeologico e topografico, in
quegli anni furono importanti per la definizione di percorsi antichi anche le indagini di G. Schmiedt sullo studio della
fotografia aerea3; nel corso degli anni
Settanta l’applicazione di questa nuova
tecnica all’archeologia ha costituito uno
spunto importante soprattutto per la
conoscenza più approfondita dei territori. Le tracce antropiche “anomale” sui
fotogrammi, relative a edifici o percorsi
antichi, hanno costituito anche per la
Calabria meridionale un momento importante per la conoscenza dei contesti.
Lo studio dei percorsi antichi di
questo settore è indubbiamente passato
anche attraverso i risultati di alcuni lavori più specifici di ricerca archivistica
ed epigrafica che, verso la fine degli anni
Settanta, hanno cominciato a riguardare
anche le fasi comprese tra l’età romana
imperiale e l’età tardo antica.
Gli studi di D. Minuto, che comprendono fonti documentali, testimonianze orali e perlustrazioni in situ, hanno permesso di tracciare un quadro di
sintesi complessivo degli edifici rurali di
età bizantina che, soprattutto in settori
come la bassa costa ionica, restituiscono
le evidenze principali relative alle ultime
fasi di vita dei percorsi antichi (Minuto
1977). Questi piccoli edifici alto medievali, in effetti, sorgevano tutti lungo le
strade principali, sia lungo la costa che
verso l’interno; questo tipo di evidenza è più difficilmente riscontrabile in
contesti successivi al X secolo, quando
il pericolo derivante dalle incursioni dal
mare, determinò in molti tratti della regione l’abbandono degli insediamenti
stanziali lungo le coste.
Di fondamentale importanza per la
comprensione delle fasi di età romana
imperiale sono stati infine gli studi dell’equipe di G. Nenci, della Scuola Normale
Superiore di Pisa, attraverso essi venne
compiuto lo studio e l’interpretazione
dei principali itineraria (picta e adnotata) che indubbiamente costituiscono la
principale fonte scritta sul popolamento
e la distribuzione dei principali siti nella
regione (Nenci et al. 1981).
Negli anni ’90 del secolo scorso alcuni quadri di sintesi più esaustiva sono
stati indubbiamente anche il frutto delle ricerche portate avanti nel decennio
precedente.
Una serie di contributi di F. Costabile è stata di estremo interesse riguardo
all’ipotesi per l’età classica di una via,
tra Locri e Reggio, più interna rispetto
alla linea costiera4. Questa teoria deriva
dall’interpretazione di testi antichi come Tucidide (III, 9) che, descrivendo
gli anni precedenti lo scontro tra il contingente ateniese e quello siracusano,
riportano una serie di itinerari seguiti
dalle truppe ateniesi per compiere scorribande militari nel territorio locrese.
Negli stessi anni, altri interessanti
contributi di F. Costabile a proposito
della viabilità antica riguardano il ritrovamento di due cippi miliari di età
romana medio imperiale (IV sec. d.C.)
che portarono ad ipotizzare una fase
monumentale di lavori di manutenzione
della viabilità. Osanna nel 1990 pubblicò un lavoro complessivo sul territorio
delle chorai coloniali greche dell’arco ionico, affrontando anche la questione dei
percorsi di attraversamento antichi tra i
diversi centri principali (Osanna 1992).
Da citare, tra i contributi specifici
pubblicati negli anni ’90, anche le carte topografiche tardo settecentesche
dei possedimenti del principe V. Maria
Carafa di Roccella, ad opera di R. Fuda
(Fuda 1995), dal momento che questi
dati costituiscono una fonte documentale imprescindibile per lo studio della
viabilità antica, anche e soprattutto per il
patrimonio di toponimi ormai in disuso
che riportano su documenti cartografici
che per il 1771 erano all’avanguardia,
realizzati con un ottimo livello di precisione e dettaglio.
I primi decenni del nuovo millennio
hanno infine portato ad un interesse
più diretto e stringente verso i temi del
territorio magno greco e, pertanto, accanto alle attività della Soprintendenza,
pubblicate in diverse sedi e, tra gli altri,
soprattutto da R. Agostino a proposito
della viabilità antica tra Reggio e Bova5,
sono stati diversi enti universitari a proporre lavori di survey e scavo nella Calabria meridionale: l’Università di Pisa,
con il coordinamento di M. C. Parra e
A. Facella (Facella, Parra 2011), nel territorio di Kaulon, attuale Monasterace
Marina; l’Università di Cambridge, con
il coordinamento di J. Robb e L. Foxhall
(Robb 2008), nel settore della valle del
S. Pasquale, tra Bova e Palizzi; l’Università di Siena, con il coordinamento di
G. Cordiano (Cordiano 2014), in diversi
settori tra Palizzi e Brancaleone.
Ultimi in ordine di tempo sono stati
i lavori, diretti sul campo da M. Sica per
conto della Soprintendenza, durante la
realizzazione del nuovo tratto di SS. 106
compreso tra Siderno e S. Ilario dello
Ionio (Agostino, Sica 2019). Durante
queste indagini di archeologia preventiva e di emergenza sono stati documentati numerosi nuovi contesti compresi
tra l’età protostorica e quella medievale.
LA RICERCA SUI
PERCORSI ANTICHI E IL
TERRITORIO LOCRESE
MERDIONALE
I risultati presentati brevemente in
questa sede provengono da uno studio
specifico al centro del progetto di dottorato dello scrivente, realizzato con
l’Università di Torino tra il 2014 ed il
20176. Tale lavoro ha riguardato, per
la prima volta nel territorio locrese, lo
studio sistematico di fonti documentali
(ricerca bibliografica, cartografia storica,
toponomastica, documenti d’archivio,
fotografia aerea) e l’esecuzione di una
serie di survey di tipo intensivo e sistematico in una trincea territoriale di circa
22 km quadrati, che in antico dovette essere settore liminare delle chorai magnogreche di Reghion e di Locri Epizephiri;
questa area è oggi compresa nella Città
Metropolitana di Reggio Calabria, tra le
vallate delle fiumare Bruzzano/torrente
Fiumarella e La Verde, a cavallo tra il
Capo Bruzzano (antico Zephirion akron
menzionato tra gli altri in Strabone VI,
1, 7) e le alture di Ferruzzano (Fig. 1).
Sono stati individuati 16 nuovi siti
e, tra Unità Topografiche e Materiale
Sporadico (erratico), almeno 104 contesti complessivi; questi dati hanno
permesso di chiarire meglio non solo
la distribuzione fisica e diacronica dei
singoli siti, permettendo di ipotizzare in
alcuni casi anche la loro articolazione e
funzionalità, ma anche di capire il loro
rapporto con le vie di attraversamento
territoriale principali, sia lungo la costa,
che verso l’interno (Fig. 2).
ELEMENTI ARCHEOLOGICI
SUI PERCORSI DI ETÀ
PROTOSTORICA
La conoscenza archeologica ancora
lacunosa dei contesti d’età preistorica e
protostorica della Calabria meridiona-
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
264
le, costituisce al momento certamente
il limite più grande per la ricerca. Per
l’età del Ferro i lavori pionieristici di R.
Peroni a Broglio di Trebisacce e nella
sibaritide, sono stati il primo momento importante per la conoscenza della
Calabria pregreca. Una serie di siti “di
altura”, naturalmente difesi, costituisce
il livello topografico preminente e più
interessante per le comunità di età del
Ferro, sia in contesti del versante ionico
della Calabria, sia in altri sul versante
tirrenico.
Inoltre la posizione topografica di
questi siti ha, in tutti i casi rilevati nella
Calabria meridionale, uno stretto legame con il controllo delle vie commerciali
età del Ferro di S. Onofrio di Roccella (Chiartano 1980, pp. 491-539), di
Monte Scifa, di Gerace e Locri-Piano
Cusemi (Cardosa, 2010), di Calanna
(Agostino 2010) e di quelli nei pressi di
Palizzi e Capo Spartivento (Cordiano
2014).
Tra le vallate delle fiumare La Verde e Bruzzano dovettero esserci vie di
comunicazione di grande importanza
probabilmente anche per la transumanza. In questo senso grande rilievo assumono i passi montani ai piedi del monte
Scapparone e verso il “Serro Schiavone”.
Proprio da questi settori, nell’ambito
della ricerca di chi scrive, provengono
i ritrovamenti più consistenti di mate-
PERCORSI DI ETÀ GRECA
Per l’età greca l’interesse scientifico
per lo studio del popolamento nel territorio ha un’origine più recente rispetto
all’indagine dei contesti urbani. Nonostante siano molti i dati e i contesti
archeologici a noi noti, risulta ancora
difficile poter avere un esaustivo sguardo
d’insieme sulla distribuzione del popolamento nelle diverse fasi storiche.
Le indagini condotte nel settore tra
le fiumare Bruzzano e La Verde hanno
fornito numerosi dati per le fasi comprese tra l’età classica e la romanizzazione; invece meno numerosi quantitativamente sono i dati per l’età arcaica ed
alto arcaica.
Figura 1. Veduta di Capo Bruzzano (antico Zephirion Akron) da S. Si tratta dell’unica emergenza di rocce sedimentarie lungo la bassa costa locrese.
e di valico; questi percorsi, erano per lo
più caratterizzati dall’andamento a “spina di pesce” (G. Givigliano), in grado
di collegare aree interne con la costa e
quindi zone di sfruttamento del territorio e del pascolo “montane” ad altre
“costiere”.
Dopo le prime indagini di P. Orsi ai
primi del ‘900, alle necropoli di Canale, Ianchina, Patarriti vicino Portigliola
e Stefanelli presso Gerace, importanti
contributi recenti sui contesti di età del
Bronzo e del Ferro nella bassa Calabria
ionica si sono avuti: con l’indagine del
sito del Bronzo Antico di Prestarona
(Costabile 1972, pp. 5-27) e di Petti
di Portigliola (Cardosa 2010), quelli di
riale sporadico che sono indizio di una
frequentazione (anche stagionale) in età
del Ferro. Si tratta dei primi dati archeologici da un settore che non aveva mai
ancora restituito evidenze archeologiche rilevanti.
Ritrovamenti ‘in situ’ relativi all’età
del Ferro finale (prima parte dell’VIII
sec. a.C.), in particolare frammenti di
grandi pithoi, di un fornello e di una
tazza carenata in ceramica d’impasto,
possono forse fare ipotizzare la presenza
di un insediamento stabile sulla sommità dell’altura di Ferruzzano. Da questo
luogo sarebbe stato possibile controllare
agevolmente gli itinerari sulla costa e le
vie di penetrazione interne7 (Fig. 2).
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
In ogni caso, già in età greca tardo
arcaica è probabile si sia articolato un
sistema di percorsi di crinale e di mezza
costa con attraversamento longitudinale
e trasversale di questo settore del territorio. La via principale, longitudinale alla
costa, doveva passare nei pressi della rada
immediatamente a nord di Capo Bruzzano, che, in base alle fonti documentali
ed ai dati archeologici è probabile costituisse il punto di approdo agevolato
denominato nelle fonti letterarie antiche
Zephirion akròn, luogo che vide anche,
sullo scorcio dell’VIII sec. a.C., l’approdo del contingente coloniale locrese8.
Il buon numero di reperti relativi al IV-III sec. a.C., porta a pensare
265
Figura 2. Veduta complessiva del territorio centro dell’indagine presentata.
Figura 3. Distribuzione dei siti individuati e della viabilità principale di età greca (IV-III sec. a.C.).
Grande importanza doveva avere
la vallata del torrente Fiumarella che è
probabile fosse il percorso più agevole di
risalita verso le alture pre aspromontane,
che, data l’instabilità geo-litologica della
costa verso Reggio, da qui poteva costituire il punto di passaggio preferenziale
per proseguire verso S, seguendo un tragitto che dovette avere lunga continuità
d’uso, tanto da risultare ancora ampiamente utilizzato anche nella cartografia storica d’età moderna. È oltretutto
lungo questa direttrice che l’Università di Cambridge, con lavori diretti sul
campo da L. Foxhall, ha individuato ed
esplorato un phrourion (piccolo edificio
fortificato) che ebbe una fine cruenta
intorno all’ultimo quarto del V sec. a.C.
e che, collocato a 1.200 m s.l.m., presso località Piani di Bova, doveva servire
da nucleo protettivo importante per il
percorso che connetteva la chora reggina
con quella locrese (Foxhall, 2009).
Nei pressi della foce del torrente
Fiumarella, presso località Serro Rocchette, è stato possibile indagare, nel
lavoro di chi scrive, un ulteriore sito
fortificato (un perypolion?), già parzialmente individuato da G. Cordiano nel
2014 e collocabile cronologicamente tra
la metà del IV sec. a.C. e la prima parte
del III sec. a.C.
Questo sito, che aveva nelle vicinanze solo altri piccoli siti rurali, doveva trovare la sua valenza strategica in
una protezione da eventuali attacchi via
mare, per i siti dell’entroterra, ma soprattutto per l’asse viario lungo il corso
del Fiumarella, agevole per una penetrazione nell’entroterra e verso un tragitto
meridionale lungo costa (Sapio, 2017)
(Fig. 3).
PERCORSI DI ETÀ
ROMANA
Anche la conoscenza archeologica
del territorio calabrese di età romana ha
avuto una genesi complessa e tardiva,
ha indubbiamente sofferto del confronto con l’indagine scientifica dei contesti magnogreci. Solo di recente si sono
prodotti quadri di lettura archeologica
complessiva dei Bruttii, come quello di
B. Sangineto (Sangineto, 2013).
A grandi linee il dato più evidente
archeologicamente è legato ad una forte
discontinuità nelle modalità di sfruttamento del suolo: si passò, in diversi setFigura 4. Distribuzione dei siti individuati e della viabilità principale di età romana imperiale.
tori della regione, da una gestione del
territorio attraverso piccoli nuclei rurali
che l’economia locale, basata su piccoli Certamente in questa fase doveva essere autosufficienti, alla definizione di grandi
nuclei (fattorie?) autosufficienti, si sia utilizzato anche un percorso di crina- proprietà (latifondi) sottoposte alla gemaggiormente “strutturata” attorno ad le che attraversava, da S a N, l’altura di stione di un unico dominus.
una produzione di vino, olio e cereali. Ferruzzano.
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
266
Figura 5. Distribuzione dei siti individuati e della viabilità principale di età normanna (dopo il X sec.)
Anche nel settore compreso tra le
vallate del Bruzzano e del La Verde
con la romanizzazione si evidenzia un
cambiamento di assetto e sfruttamento
del territorio compiutosi in modo definitivo probabilmente solo nel corso del
I sec. d.C.
È interessante notare come, in questo
settore della costa calabrese, è proprio a
partire da questa fase cronologica che
si innesta la cultura del latifondo, una
serie di grandi ville (pochi km più a N è
nota quella di loc. Palazzi di Casignana)
che gestiscono ampie proprietà terriere.
In relazione con questo cambiamento di
assetto territoriale i dati archeologici del
survey hanno permesso di evidenziare
un abbandono dei contesti prospicienti
lo scalo, a N di Capo Bruzzano, e, di
contro, la continuità di vita solo di alcuni
siti, posti strategicamente lungo la via
di percorrenza principale, che sembra
essere ora, quella che attraversa da S a
N la collina di Ferruzzano (Fig. 6). L’e-
Figura 6. Tratto verso Ferruzzano della strada parzialmente basolata e scavata nella roccia
Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
videnza monumentale di questa strada
parzialmente lastricata e intagliata nella roccia (già emersa più a S nei lavori
di G. Cordiano) è forse da riconnettere
con i rifacimenti della strada costiera,
documentata più a S (Bova M. e Melito
P.S.) attraverso il ritrovamento di due
miliari di età medio imperiale (Costabile, 1987).
Già E. Andronico ha proposto la
datazione di questo percorso stradale
all’età romana imperiale (Andronico,
2005), nel lavoro condotto da chi scrive,
oltre a ricostruire nel dettaglio il tragitto sono state realizzate alcune sezioni
longitudinali e trasversali di alcuni tratti
dell’arteria. è stato possibile sottolineare
alcuni aspetti di estremo interesse:
• La pendenza regolare del tracciato, che digrada con costanza su
entrambi i versanti della collina di
Ferruzzano.
• L’asse stradale che è ampio in media
circa 1,8 m, con spesso una o due
canalette di scolo laterali, bene evidenti soprattutto nel tratto conservatosi all’interno di località Bosco di
Rudinà.
• Il rapporto topografico stretto che
corre tra l’asse stradale e le strutture
di palmento (per la produzione in
loco del mosto). Quest’ultimo è un
indizio importante sia per la defi-
267
nizione dei metodi di produzione e
stoccaggio del vino, sia per una definizione cronologica delle strutture
di palmento, che hanno rapporto
diretto con percorsi utilizzati in età
antica e fino all’alto medioevo.
• Dallo studio delle fotografie aeree IGM appare evidente come il
settore oggi occupato dal Bosco di
Rudinà, fosse organizzato, sui lati
dell’asse stradale, con piccole proprietà divise da muretti a secco.
I dati archeologici ricavati dal lavoro
qui brevemente presentato inoltre, potrebbero essere connessi col dato epigrafico in merito alle evidenze nei pressi
di Capo Bruzzano (antico Zephirion
Akron); infatti tra gli itineraria di età medio e tardo imperiale, è evidente la perdita della statio secondaria di “Altanum”.
L’origine del nome di questo luogo
è da riconnettere ad un punto protetto dai venti occidentali, a ricordo della
tradizione letteraria d’età greca, esso si
trova ancora menzionato nell’Itinerarium Antonini, ma non compare più
in quelli successivi; la sua collocazione
inoltre, in base al conteggio delle miglia,
dà grossi dubbi interpretativi (Nenci et
al. 1981). È quindi forse possibile che,
dopo l’abbandono dei contesti abitativi
presso la rada N di Capo Bruzzano, si sia
gradualmente persa la “memoria fisica”
di un luogo noto ormai solo attraverso
le tradizioni letterarie (Fig. 4).
sono ancora collocate lungo le antiche
vie di attraversamento principali (cfr.
Minuto 1977), e in particolare lungo il
percorso che attraversava longitudinalmente, da N a S, l’altura di Ferruzzano.
Dai dati archeologici un cambiamento è evidente solo a partire dall’età
normanna (dopo il X sec.) quando sorgono una serie di centri fortificati di altura secondo la tradizione delle “motte”
e la via principale non passa più sulla
collina di Ferruzzano, ma più all’interno,
protetta rispetto alla costa. Si trovano
infatti in questi luoghi i piccoli insediamenti rurali a carattere stabile (Fig. 5).
Non è un caso che, dai documenti di
età angioina, risulta che re Carlo I, nel
1284, scelse proprio la vallata del Bruzzano come sede temporanea della sua
corte per gestire i disordini causati dalle
guerre del Vespro. Il sistema di fortificazioni realizzato già in età normanna, una
via sicura per Reggio che risaliva verso le
alture aspromontane, uno scalo marittimo presso Capo Bruzzano, garantivano
al sovrano le condizioni migliori per
portare avanti anche da quella sperduta
provincia l’attività amministrativa del
suo regno.
età romana sfruttati più intensivamente. Un indizio evidente di queste dinamiche può essere dato probabilmente
anche dalla tradizione toponomastica
greca bizantina, nella quale, ancora oggi
per molte località il riferimento a territori coperti da una vegetazione spontanea (p.es “marasà”: campo di finocchi).
Anche per il settore compreso tra le
vallate del Bruzzano e del La Verde un
deciso cambiamento di assetto nei percorsi principali non si avverte nelle fasi
di età alto medievale, in cui comunque,
i dati archeologici emersi descrivono
un’occupazione forse più “rada” del territorio. Le testimonianze di chiesette
rurali di età bizantina (sia da fonti documentali, che da evidenze archeologiche)
5. In particolare: per l’ipotesi di una serie di
percorsi costieri tra Reggio e Bova cfr. Agostino 2001, pp. 9-19 e Agostino 2009, pp. 13-21.
NOTE
1. Givigliano 1978, p. 87.
2. Sabbione 1976, pp. 363-373.
3. Sono diversi i contributi preziosi per la
fotografia aerea in archeologia, basti ricordare anche la figura di D. Adamesteanu in
PERCORSI IN ETÀ POST
Basilicata. I lavori complessivi più importati
ANTICA
per lo studio dei territori magno greci furono
Quantitativamente non abbondanti senz’altro: G. Schmiedt, Atlante delle sedi umasono stati anche i materiali individuati ne in Italia, IGM, Firenze 1970; G. Schmiedt,
nel survey per l’età alto medioevale, dove Antichi porti d’Italia, IGM, Firenze 1975.
sembra che, come documentato in al- 4. In particolare: per l’ipotesi di un percorso
tri settori della regione, si assista ad un parallelo alla costa ionica più interno cfr. Cograduale e lento abbandono degli asset- stabile 1976; per il ritrovamento di due cippi
ti territoriali antichi, con il progressivo miliari romani cfr. Costabile 1987, pp. 219“inselvatichimento” di ampi settori in 234.
6. La ricerca, per il XXVIII ciclo, ha come titolo: Topografia e cultura insediativa in Calabria meridionale: l’area Locrese tra le vallate
delle fiumare La Verde e Bruzzano.
7. Sapio 2018, pp. 56-58.
8. Strabo, VI, 1, 5.
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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021
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Ge Geologia
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Giuseppe Gisotti
Forme del terreno
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Carocci
editore
CONVEGNO
LE VIE
DI COMUNICAZIONE
NELL’ANTICHITÀ
24-25 maggio 2019
Sala conferenze Parco Regionale dell’Appia Antica
Via Appia Antica, 42 - Roma
D
a sempre le strade rappresentano lo specchio della civiltà del territorio su cui esse insistono e di conseguenza la
loro ideazione, progettazione ed esecuzione non potrà mai prescindere dal contesto geologico, biologico, e quindi
paesaggistico, che le circonda. Ne consegue come l’iter progettuale risulti necessariamente di natura squisitamente
multidisciplinare e costretto a svilupparsi rispettando i canoni di un’ ingegneria realmente compatibile. All’origine di una
corretta ideazione di una rete di trasporti non può che esservi un’approfondita conoscenza di come sia nata e si sia sviluppata
l’idea di strada partendo dalla sua ideazione fino a giungere alla sua costruzione.
Il convegno riguarderà le tecniche costruttive, gli accorgimenti tecnici messi in opera per trarre beneficio dalla geomorfologia
e, al contrario, superare gli ostacoli geomorfologici incontrati lungo il percorso (fiumi, forre, paludi, rilievi, ecc), l’utilizzo
della litologie per l’approvvigionamento dei materiali necessari alla costruzione. Inoltre saranno trattate le caratteristiche
fluviali per ubicarvi le strutture portuali e le modalità di raggiungimento dei siti di interesse economico, politico o militare.
Il convegno, a partecipazione libera e gratuita, prevede sessione orale e sessione poster suddivisa in cinque temi:
• Le strade: la sede, il tracciato, le opere d’arte
• Il superamento di difficoltà geologiche e idrografiche
• Le fonti storiche e cartografiche
• Le comunicazioni fluviali e i porti fluviali
• La ricostruzione dei paesaggi attraversati
È stata inoltrata richiesta per crediti formativi per geologi.
Con nota del MIUR U.0021807-09-05-2019 è stato concesso l’esonero dall’obbligo di servizio ai docenti di ogni ordine e grado.
MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE
Iscrizioni per il 24 maggio • Iscrizioni per il 25 maggio
http://o2.geologilazio.it/
con il patrocinio di
Concept design: www.fralerighe.it
Parco dell’Appia Antica - Ph Bebo_cik
SOCIETÀ
ITALIANA
DI GEOLOGIA
AMBIENTALE
Le vie di comunicazione nell’antichità
Sala conferenze Parco Regionale dell’Appia Antica
Via Appia Antica, 42 Roma
24-25 maggio 2019
SOCIETÀ
ITALIANA
DI GEOLOGIA
AMBIENTALE
Programma
Venerdì 24 maggio 2019
09.00 | Registrazione partecipanti
09.30 | Apertura lavori e saluti delle Autorità
Rappresentante Ministero dei Beni e delle Attività Culturali
Gianluigi Giannella, Ordine dei Geologi del Lazio
Erasmo D’Angelis, Segretario Generale dell’Autorità di Bacino Distrettuale dell’Appennino Centrale
Rappresentante Parco Regionale dell’Appia Antica
Giuseppe Gisotti,Presidente Onorario Sigea
Gioacchino Lena, Coordinatore Sigea area tematica Geoarchelogia
Sessioni orali
Sessione I. Le strade: la sede, il tracciato, le opere d’arte
Modera i lavori: GIORGIO CESARI
10.00 | Storia del porto di Tharros e dello spopolamento della città causato dai dissesti idrogeologici che ne causarono la
distruzione – Anna Ardu
10.20 | L’antica via Flacca. Tra turismo archeologico e ambientale – Federico Boccalaro
10.40 | Risultati preliminari sulla possibile individuazione della Mutatio Gelasium lungo il tratto di via romana Catania
Agrigento (It Antonini n. 88) – Giovanni Bruno, Germana Barone, Giorgio De Guidi,
Rosanna Maniscalco, Paolo Mazzoleni, Danilo Messina, Alessandra G. Pellegrino
11.00 | I porti, gli approdi e l’antica rete stradale nella zona Iblea dal mare alla terraferma – Giovanni Cassarino,
Saverio Scerra
11.20 | La via campana Portuense e le cavità sotterranee – Giancarlo Ciotoli, Stefania Nisio
10.40 | Viabilità nell’area ostiense: Ostia verso il fiume e verso il mare – Massimiliano David
12.00 | Il tracciato stradale di Loc. Carromonaco nel fondovalle del Mesima (VV).Prime ipotesi sulla viabilità antica e
medievale tra la via Annia-Popilia e i giacimenti religiosi e minerari delle Serre calabresi – Antonino Facella,
Ginevra Gaglianese, Pietro Carmelo Manti, Maria Teresa Iannelli
12.20 | La vie di comunicazione fra Catania e Siracusa in età greca – Roberto Mirisola
12.40 | Sentieri preistorici nebroidei – Rosaria Natoli, Michele Orifici
13.00 | Le vie di comunicazione in area ostiense in età antica – Simona Pannuzi
13.20 | Pausa pranzo
15.00 | Apertura dei lavori pomeriggio
Sessione II. Il superamento di difficoltà geologiche e idrografiche
Modera i lavori: SIMONA PANNUZI
15.00 | Viabilità ed episodi alluvionali in età romana: archeologia della via Emilia a Modena e delle vie oblique
in Emilia – Gianluca Bottazzi, Donato Labate
15.20 | La progettazione della Laurentina e le modifiche del paesaggio attraversato – Anna Buccellato, Fulvio Coletti,
Anne de Loof
15.40 | La via Severiana come difesa costiera e risorsa strutturale del Lazio romano – Stefano De Togni
16.00 | La via Appia Antica al valico degli Appennini Monti Aurunci: aspetti geologici e geomorfologici – Emiliano
Di Luzio, Gianluca Sottili
16.20 | Vibo Valentia: spunti per la definizione della viabilità urbana nella fase greca e romana – Giuseppe Ferrraro,
Maria Teresa Iannelli, Anna Rotella
Le vie di comunicazione nell’antichità
Sala conferenze Parco Regionale dell’Appia Antica
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24-25 maggio 2019
SOCIETÀ
ITALIANA
DI GEOLOGIA
AMBIENTALE
16.40 | Una via al limite: aspetti geologici della via Annia, strada romana al contatto tra pianura e lagune dell’Italia
nord-orientale – Alessandro Fontana, Paolo Mozzi, Sandro Rossato, Francesco Ferrarese,
Francesca Veronese, Massimo Capulli
17.00 | Analisi geoarcheologiche integrate per la definizione dei tracciati di viabilità antica lungo l’Appennino Meridionale: il
caso della Via Herculia e della Via ab Regio ad Capuam – Maurizio Lazzari, Teodora Ciccheli
17.20 | L’antica Via Ardeatina, il tracciato e le infrastrutture – Leonardo Schifi
Sessione III. Le fonti storiche e cartografiche
17.40 | Cartografia storica e geomorfologia nella ricostruzione della via Annia: il caso di Altino – Aldino Bondesan,
Paola Furlanetto, Mariolina Gamba
18.00 | Le porte storiche: valichi stradali obbligati dall’antichità ad oggi – Lamberto Laureti
18.20 | Chiusura lavori a cura di Gioacchino Lena e Anna Buccellato
Sabato 25 maggio 2019
Sessione poster
09.30 | Discussione poster (i poster potranno essere esposti a partire dal venerdì 24 maggio)
Modera i lavori: GIOVANNI BRUNO
La via Latina fra storia e geologia – Maria Luisa Felici, Giulio Caratelli
La via Nomentana, luoghi di culto e acque sotterranee – Pio Bersani, Stefania Nisio
Indagini geo-storiche, topografiche, storiografiche e archeologiche sulla Magnesia (Tessaglia) – Stefano Paderni
Percorsi antichi nel territorio locrese meridionale (Calabria): vie longitudinali e trasversali rispetto alla costa tra le vallate
dei torrenti Bruzzano e La Verde – Gianluca Sapio
Sessioni orali
10.30 | Sessione IV. Le comunicazioni fluviali e i porti fluviali
Modera i lavori: CARLO ROSA
10.30 | Il Tevere: la più antica via della civiltà romana – Giorgio Cesari
10.50 | La via alzaia del Tevere dall’età romana al XVI secolo – Anna Buccellato, Alessandra Ghelli, Carlo Rosa
11.10 | Il ruolo del fiume nella produzione agricola e nel commercio delle eccedenze alimentari durante l’antichità. Il caso
dell’Eufrate (Uruk, Ur, Nippur, Babilonia) – Giuseppe Gisotti, Paolo Malagrinò
11.30 | Il porto di Hadria (Pineto, Abruzzo) La ricostruzione del paesaggio fluviale antico. Ipotesi preliminare – Davide
Mastroianni
11.50 | Il Tevere asse di comunicazione e di sviluppo tra Roma, il litorale e i porti – Renato Matteucci, Carlo Rosa,
Renato Sebastiani
12.10 | Il porto fluviale di Roma antica presso Monte Secco e la discarica di anfore (Prati) – Carlo Rosa
Sessione V. Le La ricostruzione dei paesaggi attraversati
12.30 | L’organizzazione del territorio attraversato dalla via Laurentina antica tra il V e il VII miglio: architettura,
infrastrutture e paesaggi tra l’età arcaica e la tarda antichità – Anna Buccellato, Fulvio Coletti
12.50 | Paesaggi delle acque interne prossime al mare: il caso di Aquileia – Paola Maggi, Flaviana Oriolo,
Paola Ventura, Alessandro Fontana
13.10 | La via degli Schiavoni: le vie romee tra la Romagna e la Puglia – Roberto Ranciaro
13.30 | Chiusura lavori a cura di Giuseppe Gisotti e Alma Rossi
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Le vie di comunicazione nell’antichità
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24-25 maggio 2019
COMITATO ORGANIZZATORE
Franco D’Anastasio
Ilaria Falconi
Antonello Fiore
Giuseppe Gisotti
Gioacchino Lena
Luciano Masciocco
Vincent Ottaviani
Carlo Rosa
Franco Violo
COMITATO SCIENTIFICO
Piero Bellotti, Roma
Aldino Bondesan, Università Padova
Giovanni Bruno, Politecnico Bari
Ilaria Falconi, Sigea, Roma
Antonello Fiore, Sigea, Bari
Giuseppe Gisotti, Sigea, Roma
Maria Rosaria Iacono, Italia Nostra
Donato Labate, Soprintendenza Bologna, Modena
Maurizio Lazzari, CNR), Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali, Tito Scalo (PZ)
Gioacchino Lena, Sigea, Cosenza
Luciano Masciocco, Università Torino
Davide Mastroianni, Teramo
Pietro Militello, Università Catania
Vincent Ottaviani, Sigea, Magione (PG)
Mario Pagano, Soprintendenza Cosenza, Catanzaro, Crotone
Mario Parise, Università degli Studi di Bari
Carlo Rosa, Sigea, Roma
Rosario Santanastasio, Archeoclub
Giuseppe Spilotro, Università degli Studi della Basilicata
Armando Taliano Grasso, Università della Calabria
Evento organizzato in cooperazione tra Sigea e Ordine dei Geologi del Lazio
INFORMAZIONI LOGISTICHE
Il luogo del Convegno è costituito dalle strutture della ex Cartiera Latina che si snodano sulla sponda sinistra del “Fiume
Almone” il quale attraversa il Parco Regionale dell’Appia Antica. La Cartiera Latina acquisiva l’energia tramite il “Fiume
Almone” (o Marana della Caffarella), tanto è vero che la struttura si snoda lungo il fiume stesso. Per raggiungere la sede del
Convegno si possono utilizzare gli autobus dell’ATAC. Con l’auto si può disporre del parcheggio privato dell’Ente Parco.
DAVIDE MASTROIANNI | GIUSEPPE GISOTTI
INTRODUZIONE ALLA
GEOARCHEOLOGIA
PRINCIPI, METODI E
TECNOLOGIE DI INDAGINE
La SIGEA si occupa dello studio e della diffusione della geologia ambientale, materia che può essere definita come
“applicazione delle informazioni geologiche alla soluzione dei problemi ambientali”.
È un’associazione culturale senza fini di lucro, riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare come “associazione di protezione ambientale a carattere nazionale” con decreto 24 maggio
2007 (G.U. n. 127 del 4/6/2007). Ha sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Arma dei Carabinieri, il 20/12/2017,
per la collaborazione a svolgere attività di monitoraggio al fine di segnalare criticità in materia di dissesto idrogeologico e di impatto ambientale.
Agisce per la promozione del ruolo delle Scienze della Terra nella protezione della salute e nella sicurezza dell’uomo,
nella salvaguardia della qualità dell’ambiente naturale e antropizzato e nell’utilizzazione più responsabile del territorio e delle sue risorse. È aperta a tutte le persone e gli Enti (persone giuridiche) che hanno interesse alla migliore
conoscenza e tutela dell’ambiente.
La SIGEA
• Favorisce il progresso, la valorizzazione e la diffusione della geologia ambientale con l’organizzazione di eventi in
ambito nazionale e locale mediante corsi, convegni, escursioni di studio, interventi sui mezzi di comunicazione.
• Promuove il coordinamento e la collaborazione interdisciplinare nelle attività conoscitive e applicative rivolte alla
conoscenza e tutela ambientale; per questo scopo ha costituito le Aree tematiche “Patrimonio geologico”, “Dissesto
idrogeologico”, “Geoarcheologia”, “Educazione ambientale”, “Caratterizzazione e bonifica dei siti inquinati”,
“Protezione civile”, “Aree protette”.
• Opera sull’intero territorio nazionale nei settori dell’educazione e divulgazione scientifica, della formazione professionale, della ricerca applicata, della protezione civile, occupandosi di varie tematiche ambientali, quali previsione,
prevenzione e riduzione dei rischi geologici, bonifica siti contaminati, studi d’impatto ambientale, tutela delle risorse
geologiche e del patrimonio geologico, geologia urbana, pianificazione territoriale, pianificazione del paesaggio, geoarcheologia, e in altri settori. Opera in ambito locale con i gruppi e le Sezioni regionali.
• Informa attraverso il periodico trimestrale “Geologia dell’Ambiente”, che approfondisce e diffonde argomenti di
carattere tecnico-scientifico su tematiche geoambientali di rilevanza nazionale e internazionale. La rivista è distribuita ai soci e a Enti pubblici e privati. L’informazione e la comunicazione avviene anche attraverso il sito web, la
newsletter e la pagina facebook.
• Interviene sui mezzi di comunicazione attraverso propri comunicati stampa affrontando problemi attuali che
coinvolgono le componenti ambientali.
• Collabora con gli Ordini professionali, con il mondo universitario e con altre Associazioni sulle tematiche
riguardanti l’educazione, l’informazione e la formazione. In particolare coopera con CATAP (Coordinamento delle
associazioni tecnico-scientifiche per l’ambiente e il paesaggio) cui SIGEA aderisce, Associazione Idrotecnica Italiana,
Federazione Italiana Dottori in Agraria e Forestali, Italia Nostra, Legambiente, WWF, ProGEO (International
Association for Geological Heritage), Alta Scuola, Società Geografica Italiana, Società Geologica Italiana, Accademia
Kronos, ecc.
• Collabora anche a livello internazionale, in particolare con ProGEO, con la quale ha organizzato nel maggio
del 1996 a Roma il 2° Symposium internazionale sui geositi e nel settembre 2012 a Bari il 7° Symposium sullo stesso
argomento. Inoltre è attiva per svolgere studi, ricerche, censimenti e valorizzazione del patrimonio geologico.
I soci SIGEA
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• Ricevono mediante newsletter informazioni sulle attività della SIGEA e di altre Associazioni.
• Ricevono gratuitamente, a seconda della disponibilità e in formato .pdf, numeri arretrati della rivista e gli atti di
convegni organizzati dalla SIGEA. L’elenco dei numeri della rivista e dei suoi supplementi con i relativi articoli si
trovano nel sito web.
• Partecipano ai convegni, ai corsi e altre iniziative a pagamento organizzati dall’Associazione, con lo sconto applicato ai soci.
• Disponibilità per candidature, in rappresentanza di Sigea, in Comitati e Commissioni di studio presso Enti pubblici nazionali e locali.
• Disporre di condizioni vantaggiose per l’acquisto dei volumi della “Collana SIGEA di Geologia Ambientale”
(sconto del 30% sul prezzo di copertina) dell’Editore Dario Flaccovio di Palermo.
Volumi pubblicati: 1. Difesa del territorio e ingegneria naturalistica; 2. Ambiente urbano. Introduzione all’ecologia urbana;
3. Le cave. Recupero e pianificazione ambientale; 4. Geotermia. Nuove frontiere delle energie rinnovabili; 5. Geologia e
geotecnica stradale. I materiali e la loro caratterizzazione; 6. Contratti di fiume. Pianificazione strategica e partecipata dei
bacini idrografici; 7. Le unità di paesaggio. Analisi geomorfologica per la pianificazione territoriale e urbanistica; 8. Difesa
delle coste e ingegneria naturalistica. Manuale di ripristino degli habitat lagunari, dunari, litoranei e marini; 9. Il paesaggio
nella pianificazione territoriale. Ricerche, esperienze e linee guida per il controllo delle trasformazioni; 10. Il dissesto idrogeologico. Previsione, prevenzione e mitigazione del rischio; 11. Calamità naturali e coperture assicurative.