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Geologia dell'Ambiente, pp. 162-167.

2019, Percorsi antichi nel territorio locrese meridionale (chora), vie longitudinali e trasversali rispetto alla costa tra le vallate delle fiumare La Verde e Bruzzano.

Sigea, atti del convegno: "Le vie di comunicazione nell'antichità" - Roma 24-25/05/2019

Geologia dell’Ambiente Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 - DCB Roma Supplemento al n. 1/2021 ISSN 1591-5352 Periodico trimestrale della SIGEA Società Italiana di Geologia Ambientale ATTI DEL CONVEGNO LE VIE DI COMUNICAZIONE NELL’ANTICHITÀ ROMA 24-25 MAGGIO 2019 A CURA DI EUGENIO DI LORETO, GIUSEPPE GISOTTI, GIOACCHINO LENA, CARLO ROSA Società Italiana di Geologia Ambientale Associazione di protezione ambientale a carattere nazionale riconosciuta dal Ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare con D.M. 24/5/2007 e con successivo D.M. 11/10/2017 PRESIDENTE Antonello Fiore CONSIGLIO DIRETTIVO NAZIONALE Lorenzo Cadrobbi, Franco D’Anastasio (Segretario), Daria Duranti (Tesoriere), Ilaria Falconi, Antonello Fiore (Presidente), Sara Frumento, Fabio Garbin, Enrico Gennari, Giuseppe Gisotti (Presidente onorario), Gioacchino Lena (✝), Luciano Masciocco, Michele Orifici (Vicepresidente), Vincent Ottaviani (Vicepresidente), Paola Pino d’Astore, Livia Soliani Geologia dell’Ambiente Periodico trimestrale della SIGEA Supplemento al N. 1/2021 Anno XXIX • gennaio-marzo 2021 Iscritto al Registro Nazionale della Stampa n. 06352 Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 229 del 31 maggio 1994 DIRETTORE RESPONSABILE Giuseppe Gisotti VICE DIRETTORE RESPONSABILE Eugenio Di Loreto COMITATO SCIENTIFICO Mario Bentivenga, Aldino Bondesan, Giovanni Bruno, Francesco Cancellieri, Maria Di Nezza, Massimiliano Fazzini, Giuseppe Gisotti, Giancarlo Guado, Gioacchino Lena (✝), Endro Martini, Luciano Masciocco, Davide Mastroianni, Mario Parise, Giacomo Prosser, Giuseppe Spilotro, Vito Uricchio, Luca Valensise COMITATO DI REDAZIONE Fatima Alagna, Giorgio Boccalaro, Giorgio Cardinali, Valeria De Gennaro, Eugenio Di Loreto, Sara Frumento, Fabio Garbin, Michele Orifici, Vincent Ottaviani, Laura Pala, Maurizio Scardella REDAZIONE Sigea c/o Fidaf - Via Livenza, 6 00198 Roma tel. 06 5943344 [email protected] PROCEDURA PER L’ACCETTAZIONE DEGLI ARTICOLI I lavori sottomessi alla rivista dell’Associazione, dopo che sia stata verificata la loro pertinenza con i temi di interesse della Rivista, saranno sottoposti ad un giudizio di uno o più referees UFFICIO GRAFICO Pino Zarbo (Fralerighe Book Farm) www.fralerighe.it PUBBLICITÀ Sigea Sommario PRESENTAZIONE Le vie di comunicazione nell’antichità Gioacchino Lena RELAZIONI DI APERTURA Mario Tozzi Presidente Parco Regionale dell’Appia Antica 9 Francesco Arcangelo Violo Presidente Consiglio Nazionale dei Geologi 10 Gianluigi Giannella Ordine dei Geologi del Lazio 11 Rosario Santanastasio Presidente Archeoclub d’Italia 12 SESSIONE I LE STRADE: LA SEDE, IL TRACCIATO, LE OPERE Moderazione: Giorgio Cesari Il progressivo spopolamento dell’antica città di Tharros. Indagini archeologiche sull’antico porto Anna Ardu, Angela Rita Conte 17 Ripristino archeologico e ingegneria naturalistica: il caso dell’antica Via Flacca Federico Boccalaro 26 Risultati preliminari sulla possibile individuazione della Mutatio Gelasium lungo la via romana Catania-Agrigento (It. Provinciarum Antonini Augusti n. 88) Giovanni Bruno, Germana Barone, Giorgio De Guidi, Rosanna Maniscalco, Paolo Mazzoleni 39 I porti, gli approdi e l’antica rete stradale nella zona iblea dal mare alla terraferma Giovanni Cassarino, Saverio Scerra 46 La Via Campana-Portuense e le cavità sotterranee Giancarlo Ciotoli, Stefania Nisio 64 Brevi note di viabilità e ambiente a Ostia Antica Massimiliano David 70 STAMPA Industria grafica Sagraf Srl, Capurso (BA) La quota di iscrizione alla SIGEA per il 2021 è di € 30 e da diritto a ricevere la rivista “Geologia dell’Ambiente”. Per ulteriori informazioni consulta il sito web all’indirizzo www.sigeaweb.it 5 Pubblicazione realizzata con il sostegno del Consiglio Nazioanle dei Geologi In copertina: Parco dell’Appia Antica. Ph. Bebo_cik. Il tracciato stradale di loc. Carromonaco nel fondovalle del Mesima (VV). Prime ipotesi sulla viabilità antica e medievale tra la via Annia-Popilia e le Serre calabresi: evidenze archeologiche e modelli predittivi in ambiente GIS Antonino Facella, Giovanni Boschian, Ginevra Gaglianese, Maria Teresa Iannelli, Pietro Carmelo Manti 76 La paleogeografia della pianura costiera a sud di Catania tra il V-IV sec. a.C., con la via greca Leontinoi-Katane proveniente da Syracosion e i luoghi descritti da Diodoro Siculo (XIV 57-62) per le battaglie del 396 a.C. fra l’esercito dei siracusani e quello dei cartaginesi Roberto Mirisola 85 Le vie di comunicazione nel suburbio orientale di Ostia in età romana Simona Pannuzi 94 SESSIONE II IL SUPERAMENTO DI DIFFICOLTÀ GEOLOGICHE E IDROGRAFICHE Moderazione: Simona Pannuzi e Carlo Rosa La progettazione della via Laurentina e le modifiche del territorio attraversato Anna Buccellato, Fulvio Coletti, Anne De Loof 111 La Via Severiana come difesa costiera e risorsa infrastrutturale del Lazio romano Stefano De Togni 118 La Via Appia antica al valico dei Monti Aurunci: aspetti geologici e geomorfologici Emiliano Di Luzio 123 Vibo Valentia: spunti per la definizione della viabilità urbana nelle fasi greca e romana Giuseppe Ferraro, Maria Teresa Iannelli, Anna Maria Rotella 133 Viabilità ed episodi alluvionali in età romana: archeologia della via Emilia a Modena e delle vie oblique in Emilia Donato Labate, Gianluca Bottazzi 144 L’antica via Ardeatina, l’arteria e le infrastrutture Leonardo Schifi 153 SESSIONE III LE FONTI STORICHE E CARTOGRAFICHE Moderazione: Carlo Rosa Cartografia storica e geomorfologia nella ricostruzione della Via Annia: il caso di Altino Paola Furlanetto, Aldino Bondesan 161 Le porte storiche. Valichi stradali obbligati nell’antichità classica Lamberto Laureti 170 SESSIONE IV LE COMUNICAZIONI FLUVIALI E I PORTI FLUVIALI Moderazione: Maurizio Lanzini La via alzaia del Tevere dall’età romana al XVI secolo Anna Buccellato, Alessandra Ghelli, Carlo Rosa 179 Il Tevere: la più antica via della civiltà romana Giorgio Cesari 189 Il ruolo del fiume nella produzione agricola e nel commercio delle eccedenze alimentari durante l’antichità. Il caso dell’Eufrate Giuseppe Gisotti, Paolo Malagrinò 194 Il porto di Hadria. La ricostruzione del paesaggio fluviale antico. Ipotesi preliminari Davide Mastroianni 201 Il Tevere, asse di comunicazione e di sviluppo tra Roma, il litorale ed i porti Renato Matteucci, Carlo Rosa, Renato Sebastiani 208 Il porto fluviale di Roma antica presso Monte Secco e la discarica di anfore (Roma, Quartiere Prati) Carlo Rosa 213 SESSIONE V LA RICOSTRUZIONE DEI PAESAGGI ATTRAVERSATI Moderazione: Maurizio Lanzini L’organizzazione del territorio attraversato dalla via laurentina antica tra v e vii miglio: architettura, infrastrutture e paesaggi tra l’età arcaica e la tarda antichità Anna Buccellato, Fulvio Coletti 219 Le vie dei Pellegrini in Italia Roberto Ranciaro 226 SESSIONE POSTER Moderazione: Giovanni Bruno La via Nomentana: luoghi di culto ipogei e acque sotterranee Pio Bersani, Stefania Nisio 237 La Via Amerina nel Lazio tra passato e futuro Gianluca Cerri, Antonio Mancini 243 La via Latina tra storia e geologia Maria Luisa Felici, Giulio Caratelli 250 Analisi preliminare per lo studio del territorio e delle vie di comunicazione in Magnesia nell’antichità Stefano Paderni 255 Percorsi antichi nel territorio locrese meridionale (Calabria): vie longitudinali e trasversali rispetto alla costa tra le vallate delle fiumare La Verde e Bruzzano Gianluca Sapio 262 5 Presentazione F in dalla Preistoria l’umanità ha sentito il bisogno non solo di muoversi da una parte all’altra del territorio ma di riuscire a ritrovare lo stesso percorso in caso di reiterare l’attività che lo aveva condotto a uscire fuori dalla sede abituale e di indicarla agli altri. Non si trattava di costruire strade ma di rendere evidenti in qualche modo i sentieri e i percorsi effettuati. Operazioni perfezionate poi nel corso del Neolitico quando le necessità commerciali spinsero a percorrere vie di comunicazione note e ben individuabili sul terreno fra un sito e l’altro. Si pensi a questo proposito alla via dell’ossidiana o a quella, in senso inverso, dell’ambra. Strade, forse non dissimili dal concetto odierno, furono quelle persiane o egizie. Persino i greci, dotati di vie di comunicazione fangose e di difficile percorso, furono in grado di realizzarne alcune di grande impatto come la siciliana Selinuntia odòs, che, fra Siracusa e Selinunte, attraversava tutta la Sicilia. Il concetto di strada così come oggi lo concepiamo è sicuramente romano, ereditato a sua volta dalla civiltà etrusca. Gli ingegneri, nel progettare e realizzare la miriade di vie di comunicazione che, partendo da Roma, si diramavano in tutto l’impero, dovettero avere studiato bene le caratteristiche geologiche e geomorfologiche dei terreni da attraversare. Ad esse seppero adattarsi escogitando, volta per volta, soluzioni diverse nel tracciare il percorso ma anche nel trovare e utilizzare i materiali necessari. Da sempre, quindi, le strade rappresentano lo specchio della civiltà del territorio su cui esse insistono e di conseguenza la loro ideazione, progettazione ed esecuzione non potrà mai prescindere dal contesto geologico, biologico, e quindi paesaggistico, che le circonda. Ne consegue come l’iter progettuale risulti necessariamente di natura squisitamente multidisciplinare e costretto a svilupparsi rispettando i canoni di un’ingegneria realmente compatibile. All’origine di una corretta ideazione di una rete di trasporti non può che esservi un’ approfondita conoscenza di come sia nata e si sia sviluppata l’idea di strada partendo dalla sua ideazione fino a giungere alla sua costruzione . A volte, tuttavia, fu preferita una via fluviale, più comoda e più veloce per raggiungere siti ubicati lungo il percorso fluviale o immediatamente vicini e facilmente raggiungibili con comode bretelle. Un discorso a parte merita la comunicazione via mare della quale abbiamo esempi notevoli fin dalla Preistoria. Il trasporto di uomini, merci (e idee) è stato preferito per la facilità oggettiva che il trasporto marittimo consentiva. Un esempio per tutte: il relitto di Ulu Burun in Turchia, con duecento lingotti di rame equivalenti a un carico di quasi sei tonnellate risale al Bronzo medio e trasportava materiali dalla Mesopotamia e dall’Egitto. Esso è la testimonianza di una facilità di trasporto e trasmissione di merci e civiltà da un posto all’altro del Mediterraneo. Il convegno intitolato le “vie di comunicazione nell’antichità” quindi ha riguardato le tecniche costruttive, gli accorgimenti tecnici messi in opera per sfruttare la geomorfologia e, al contrario, superare gli ostacoli geomorfologici incontrati lungo il percorso (fiumi, forre, paludi, ecc), lo sfruttamento delle caratteristiche geologiche per l’approvvigionamento dei materiali necessari alla costruzione. Assieme a queste l’adattamento di precise caratteristiche fluviali per ubicarvi le strutture portuali e le modalità di raggiungimento dei siti di interesse economico, politico o militare. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020 6 • • • • • • Le sessioni attraverso le quali ha avuto svolgimento sono state: Le strade (la sede, il tracciato, le opere d’arte) Il superamento di difficoltà geologiche e idrografiche Le fonti storiche e cartografiche Le comunicazioni fluviali e i porti fluviali La ricostruzione dei paesaggi attraversati Una sessione poster su gli argomenti enunciati Gli interventi che si sono succeduti hanno riguardato spazialmente varie regioni italiane dal Friuli alla Sardegna, dall’Emilia alla Sicilia mentre tutte le sessioni sono state oggetto di trattazione. Non è mancato nella “sessione poster” uno studio preliminare dei paesaggi e delle vie di comunicazione in un panorama che spazia del Lazio alla Calabria, dalla Sicilia alla regione di Magnesia, in Tessaglia. Gioacchino Lena Sigea Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020 RELAZIONI DI APERTURA APPIA ANTICA UN PARCO UNICO AL MONDO La Campagna Romana a un chilometro dal Colosseo www.parcoappiaantica.it www.facebook.com/parcoappiaantica www.twitter.com/parcoappia www.instagram.com/parcoappia PARCO REGIONALE DELL’APPIA ANTICA 9 Elogio del sampietrino S e anche ci fossero stati i Romani, però mezzo milione di anni fa –invece che solo 2800 –, la Città Eterna non sarebbe neppure stata immaginata così come è oggi, con tutte le sue pietre vulcaniche, le sue malte pozzolaniche, i suoi rivestimenti imperiali in travertino. Sarebbe stata una città diversa, forse dorata di rocce arenacee oppure bianca e grigia di calcari compatti. Non solo perché non ci sarebbero state le competenze tecniche e non certo per l’incapacità di immaginazione, ma per la mancanza di materia prima: come si sarebbe potuto innalzare la città caput mundi senza travertini, senza tufi e senza lave? Dove avrebbero potuto trovare – quegli uomini – i prodotti di vulcani che ancora non erano nati? Roma antica era certo candida di marmi delle Apuane e sicuramente il suo nucleo fondante era quello dei mattoni rossi imperiali, opportunamente arrangiati negli opus che abbiamo conosciuto dai tempi di scuola. Ma a pensarci bene Roma è soprattutto la città del tufo, cioè di quelle ceneri ricadute – o fluite ancora bollenti e plastiche in nubi ardenti – e poi squadrate in blocchetti fino ancora ad oggi. È la città del travertino, pietra calcarea convogliata in superficie dalle stesse grandi spaccature che hanno favorito il vulcanismo e poi depostasi a velo soprattutto a Tivoli, la città del lapis tiburtinus, appunto. La trama di Roma è, però, intessuta, più di ogni altra cosa, dalla nuova colata artificiale di lava costituita dal reticolo fittissimo delle strade e dei vicoli della città, lastricati da quella trama di minuscoli sampietrini che hanno sostituito i basoli antichi – lavorati con fatica dopo essere stati strappati al vulcano – e che formano il reticolo strutturale orizzontale dell’intera città. Dalla Regina viarum (la Via Appia), fino all’ultimo vicolo di Trastevere, Roma è il regno del basolato e del sampietrino, cioè delle antiche lave che sono un prodotto primario dell’attività vulcanica del gigantesco Vulcano Laziale. Sono decine e decine la cave aperte un po’ dovunque a sud di Roma alla ricerca del basalto – come impropriamente viene chiamata la roccia dei basoli e dei sampietrini –, ma se volete vedere una colata ancora in posto dirigetevi lungo il Grande Raccordo Anulare nei pressi dell’Appia antica: lì la strada taglia la cosiddetta colata di Capo di Bove, fatta di lave grigie e compatte, fratturatasi a causa del raffreddamento, ma ancora così calda da cuocere il sottostante livello di rocce vulcaniche, caratteristicamente arrossato in superficie dalla temperatura elevata della colata. Non è basalto, però, ma una complessa miscela di rocce che hanno diversi nomi, spesso una leucitite, cioè una roccia povera in silice e ricca di potassio, con grandi cristalli bianco-latte quasi sferici. Altre volte è una tefrite, una lava pure povera di silice, ma che non sviluppa cristalli di leucite così evidenti, oppure una fonolite, ancora una roccia simile, ma che, a colpirla con un martello, suona caratteristicamente (come dice il nome). Il basolato romano ha valore religioso oltre che pratico: al Monte Cavo la Via Sacra è ancora oggi percorribile con i suoi basoli irregolarmente squadrati, così come pure accade alla Via Appia Antica, in tanti tratti riconoscibile ancora nonostante la crescita spesso indifferente della città moderna e l’insulto dell’asfalto. Le vie consolari sono state le strade della “selce” romana, le vie delle lave leucititiche, affioranti a pelle di leopardo lungo tutta la penisola. Lave che i geologi si sono divertiti a caratterizzarle da un punto di vista mineralogico: la leucitite, per esempio, è più densa dei calcari e dei tufi e presenta molti pochi vuoti al suo interno, come a dire che è molto compatta e sostiene molto bene i carichi. È dunque ideale a sostenere il traffico carrabile, come avevano ben compreso i romani antichi; inoltre resiste molto efficacemente all’usura per attrito radente, come quello degli pneumatici. Che, però, è meglio che la facciano finita di passarci sopra. Mario Tozzi Presidente Parco Regionale dell’Appia Antica Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020 10 I l Consiglio Nazionale dei Geologi condivide il grande interesse che la categoria, unitamente agli archeologi, ingegneri e architetti, ha per questo convegno. Esso, organizzato da SIGEA attraverso la sua Area Tematica “Geoarcheologia”, mette in risalto come le caratteristiche geologico-tecniche abbiano sempre avuto una grande importanza nella costruzione e nell’esercizio delle vie di comunicazione nell’antichità, siano esse dovute alla geologia e geomorfologia dei siti attraversati, sia all’inserimento di esse nei paesaggi, sia anche nello sfruttamento della forza dell’’acqua dei fiumi e dei porti fluviali. Il programma del Convegno, molto articolato e complesso, rende evidente questi rapporti attraverso cinque sessioni e una sessione poster. D’altra parte consideriamo che le vie di comunicazione hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione delle civiltà, hanno reso il mondo più “piccolo”. Sulle strade si incontravano, e spesso si incontrano, le diversità, le culture dei popoli. Una rete di comunicazione efficiente si identificava, storicamente, con il governo e controllo di quel territorio e con un fiorente sistema di scambi commerciali. Le strade rappresentano, quindi, un bene della civiltà che oggi spesso non viene manutenuto e preservato come si dovrebbe. Attualmente la rete stradale italiana, che registra la più alta densità veicolare in ambito comunitario, espressa in veicoli per km, è interessata da un numero elevatissimo di frane. Dal “Rapporto di sintesi sul dissesto idrogeologico in Italia” (Ispra- 2014), si evince che “l’Ispra ha stimato 6.180 punti di criticità per fenomeni franosi solo lungo la rete stradale principale (autostrade, superstrade, strade statali, tangenziali e raccordi), di cui 720 lungo la rete autostradale”. In tale contesto, le attività di manutenzione e prevenzione devono essere pianificate senza soluzione di continuità, con un approccio multidisciplinare delle competenze, tra cui quelle geologiche che rivestono un ruolo fondamentale. Dai dati rivelati in un seminario del 2017 tenutosi al Politecnico di Milano dal Prof. W. Phillip Yen, Presidente della IABEE, nonché ingegnere capo del settore dinamica strutturale dei ponti presso il Dipartimento dei Trasporti degli USA e coordinatore scientifico di diversi programmi di ricerca internazionali sui temi infrastrutturali, si evince che su un patrimonio di circa 600.000 ponti costruiti negli USA (contro i circa 46.000 in Italia), nel periodo 1980-2012 hanno raggiunto il collasso 1062 ponti di cui ben il 47% per cause da addebitarsi a fenomeni di dissesto geo-idrologico (alluvioni, scalzamento fondazioni..). Da questi dati emerge che, come confermato in Italia in questi ultimi anni, i crolli dei ponti avvengono per cause diverse ed in misura importante per eventi di dissesto geo-idrologico. Il nostro paese, alla luce dei recenti eventi drammatici che hanno interessato la rete stradale italiana, ha bisogno di un rapido avvio di attività di verifica e monitoraggio, finalizzato alla valutazione della sicurezza, alla classificazione del rischio ed alla conseguente progettazione di piani di intervento, stabilendo innanzitutto le priorità. Tali attività devono partire dalla conoscenza delle opere da manutenere e del loro ambito territoriale significativo, in cui è possibile rilevare interrelazioni di carattere dinamico di origine ambientale e geologica. Operando così, si consentirà di migliorare i livelli di sicurezza delle strade e di trasformare gran parte dei costi destinati alla gestione delle emergenze in risorse per la prevenzione e manutenzione. Francesco Arcangelo Violo Presidente Consiglio Nazionale dei Geologi Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020 11 B uongiorno. In veste di Consigliere dell’Ordine dei Geologi del Lazio porto a tutti i presenti il saluto del Presidente Roberto Troncarelli e di tutto il Consiglio. Mi preme in primo luogo esprimere il mio personale apprezzamento e compiacimento per l’organizzazione di questo convegno che l’Ordine regionale ha sostenuto per i temi di grande interesse tecnicoscientifico che riguardano sia la figura professionale del geologo sia, più in generale, discipline e saperi collaterali che almeno in parte debbono rientrare nel bagaglio culturale della nostra categoria. Rivolgo pertanto un ringraziamento agli ideatori e organizzatori dell’evento e alla SIGEA, nonché al Presidente e al Direttore del Parco regionale dell’Appia Antica per aver dato la disponibilità di questa prestigiosa sede per lo svolgimento di un programma fitto di relazioni, articolato su cinque diverse sessioni di lavori sviluppate in due giornate. Le vie di comunicazione stradale coinvolgono il geologo per aspetti diversi che intervengono in fasi successive: la scelta del tracciato, che investe i settori della geomorfologia, della geologia e dell’idrogeologia al fine di trovare i percorsi ottimali che si avvalgono dei vantaggi della conformazione topografica e che tendono a contenere le opere necessarie al superamento degli ostacoli geomorfologici (fiumi, valli, rilievi, ecc.), ma che diano anche le indispensabili garanzie di sicurezza nei confronti dei pericoli geologici presenti (frane, alluvioni, cedimenti del terreno, terremoti, ecc.); l’analisi degli impatti che l’infrastruttura stradale produce nei confronti dell’ambiente e del paesaggio e, se necessario, la proposta di adeguate azioni di mitigazione; le determinazioni a supporto della progettazione delle opere di ingegneria (scavi, ponti e viadotti, opere di sostegno, gallerie, ecc.) che riguardano le sfere delle già citate geomorfologia, geologia ed idrogeologia, ma anche quelle della sismica, della geotecnica e della geomeccanica; le ricerche per l’approvvigionamento dei materiali da costruzione. I collegamenti stradali sono indispensabili per lo sviluppo sostenibile dei territori serviti. La sostenibilità riguarda anche la costruzione delle opere stradali: essa non si misura solo in funzione del loro corretto inserimento nel contesto ambientale del territorio di riferimento al momento della loro realizzazione, ma anche assicurando che le stesse opere nel tempo non producano la perdita della qualità e della funzionalità delle diverse componenti del territorio medesimo. Ciò vuol dire che gli interventi debbono essere ben progettati e supportati da adeguati programmi di manutenzione continui e costanti. La carente dotazione di opere di drenaggio, la mancata pulizia delle canalette di scolo delle acque, la presenza di crepe nell’asfalto, in condizioni geomorfologiche predisponenti come ad esempio nelle aree di versante, facilitano l’innesco di dissesti che si evolvono progressivamente da fenomeni di minore entità, come l’erosione accelerata, a eventi di dimensioni crescenti nel tempo, come gli smottamenti e le frane, che coinvolgono direttamente la struttura viaria rendendola inutilizzabile. Va evidenziato che questi dissesti non solo vanno a interessare la sede stradale ma, prima o poi, porzioni sempre più ampie dei pendii, la cui successiva stabilizzazione richiede risorse economiche ben più consistenti di quelle del semplice rifacimento stradale ed enormemente più alte del costo della mancata manutenzione. È forse superfluo sottolineare che il ripristino stradale che non contempli la stabilizzazione della frana è destinato a durare un tempo molto breve in quanto il movimento gravitativo rimobilizza l’infrastruttura e rende del tutto inefficace l’intervento. Tempo fa il direttore del Servizio bacini montani della Provincia autonoma di Trento – amministrazione virtuosa nel panorama nazionale -, che si occupa della progettazione e della realizzazione delle opere idrauliche e forestali provinciali, sostenne che buona parte dei dissesti di versante erano connessi alla realizzazione di opere antropiche, ed in particolare di strade, soprattutto per l’inadeguato sistema di smaltimento delle acque superficiali. Il Rapporto di sintesi sul Dissesto Idrogeologico in Italia dell’ISPRA (2018) evidenzia che solo lungo la rete stradale principale (autostrade, strade statali, tanGeologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020 12 genziali e raccordi) siano presenti ben 6.180 punti di criticità per fenomeni franosi. Altri 1.862 punti di criticità per frana sono presenti sui 16.000 km di rete ferroviaria. Nella Regione Lazio, delle 729 frane che hanno provocato danni ingenti, il 56% ha interessato infrastrutture stradali. Val la pena sottolineare che l’analisi prende in rassegna il solo reticolo viario principale, che è dotato di un più elevato livello di progettazione e che comunque dispone di programmi di manutenzione. Ben diversi e più compromessi si presuppone debbano essere gli scenari causati da sterri prodotti per la costruzione delle strade provinciali e comunali o delle strade di campagna. Come mi ricordava il collega Eugenio Di Loreto, nonostante la situazione di dissesto idrogeologico che da sempre interessa gran parte del territorio nazionale, solo a partire dal 1969 una circolare dell’ANAS ha prescritto l’obbligatorietà di uno studio geognostico e geologico preliminare, a firma di un geologo iscritto all’Albo, per la redazione dei progetti per la costruzione e sistemazione delle strade. Ma si parla comunque di strade statali. I cambiamenti del regime climatico e soprattutto l’aumento progressivo della vulnerabilità del territorio connesso a una crescente e continua occupazione del suolo per fini antropici - in molti casi incompatibile con l’assetto geomorfologico dei luoghi -, espone sempre più frequentemente il nostro Paese a gravose condizioni di rischio idrogeologico. I naturali processi geomorfologici interferiscono con le strutture e le infrastrutture esistenti, causando la limitazione o la perdita della loro funzionalità. Ciò considerato, a mio avviso, oltre agli interventi strutturali e non strutturali per la prevenzione del rischio idrogeologico, sarebbe necessaria anche l’attivazione di programmi di diverso grado gerarchico finalizzati all’adeguamento e alla manutenzione della rete stradale esistente e realizzati attraverso la collaborazione di geologi, idraulici e ingegneri, ma anche di specialisti in urbanistica e, soprattutto, economia. Perché molte volte i costi per il ripristino della funzionalità delle strade rappresentano solo una piccola parte dei costi economici e sociali che derivano dal non agire. Iniziative come questo convegno pertanto, sono utili per incrementare una cultura orientata alla tutela del territorio, che si affida alle lezioni del passato per stimolare riflessioni su problematiche attuali. E anche per far crescere nel geologo – parlo per la categoria che qui rappresento – la consapevolezza dell’importanza del proprio ruolo. Gianluigi Giannella Ordine dei Geologi del Lazio Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020 13 I l tema delle vie di comunicazioni antiche di fatto ancora oggi è di estrema attualità, sia per l’aspetto scientifico, ma anche perché spesso viene introdotto con lo scopo di favorire un turismo sostenibile e quindi finalizzato alla conoscenza dei luoghi storici del nostro passato. Le antiche vie consolari (Appia Antica con tutte le sue diramazioni, la Salaria etc...) hanno rappresentato i tracciati geomorfologici preferenziali di collegamento tra le antiche città, suddivise tra strade lastricate e in terra battuta, quest’ultime sufficientemente larghe e adatte per i carri, attraverso di esse si potevano effettuare scambi commerciali, fare marciare gli eserciti e spostarsi nel suolo italico mantenendo il dominio economico e il potere politico su tutto il territorio. A seguire, ed in epoche diverse, si sono individuate altre vie preferenziali associate ai percorsi di pellegrinaggio. Studi scientifici, come questa pubblicazione, hanno la caratteristica di coinvolgere più figure professionali (topografo, cartografo, geologo, archeologo e storico) che, ognuno per la propria competenza, riescono a caratterizzare i tracciati, a leggerne i particolari e a comprenderne le tecniche costruttive che hanno permesso e favorito anche la conservazione. Infine, concludo ringraziando la Sigea ed in particolare il prof. Gioacchino Lena grande appassionato e competente e che, con la sua capacità dialettica ha da sempre affascinato i tanti appassionati, studenti e studiosi sul tema delle vie di comunicazione antica. Rosario Santanastasio Presidente Archeoclub d’Italia Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2020 Ge Check s.r.l. Diagnostica & Geofisica Sede Operativa: Via Stazzone, 45 - 95025 Aci Sant’Antonio (CT) P.I. 03042530877 - n° Iscr. Trib. CT015 -29218 Sez. Ord. 196305 Tel/Fax 095 413000 Sito web: www.geocheck.it E-mail: [email protected] GEOFISICA APPLICATA ALL’ARCHEOLOGIA E AI BENI CULTURALI Nel caso in oggetto, lo scopo quello di rilevare la presenza di metalli all’interno della muratura e cioè individuare ferri di armatura e barre metalliche ossidate, inserite durante interventi precedenti all’interno della struttura della colonna. N A (V) 2.732 1.2 Difetto fisico (medio tasso di ammaloramento) 1.1 1 0.9 Shots Griglia strisciate 0.10 m N 0.000 TOMOGRAFIA SONICA SU COLONNA La tecnica di indagine sonica si basa sulla generazione di onde elastiche, nell'ambito di frequenze soniche, in uno o più punti della struttura sottoposta ad analisi, attraverso sorgenti a percussione o con trasduttori elettrodinamici. L'elaborazione dei dati, invece, consiste nel calcolo del tempo e della velocità di attraversamento dell’impulso dato nella muratura / compagine lapidea. I dati verranno invertiti tomograficamente secondo algoritmi di ottimizzazione (Generalized Simulated Annealing Optimization). L'impiego di un'antenna a 2700 MHz consentirà il raggiungimento dello scopo con una penetrazione di circa 0.50 metri e una risoluzione orizzontale pari a 0.01 metri. Sensori - Distance (m) GEORADAR HF SU COLONNE Geoelettrica Geosonica GEORADAR HF AD ALTA FREQUENZA Il metodo si basa sull’immissione di brevi impulsi Elettromagnetismo elettromagnetici ad alta frequenza, ripetuti con continuità ed emessi da Vibrazioni un’antenna posta in prossimità della superficie da indagare. 0.8 0.7 1.2 -2.732 0.6 0.5 in nd Tre ni sio e le ion sez 1.1 0.3 Difetto fisico (medio tasso di ammaloramento) 0.1 0 0.1 0.2 0.3 Distance (m) 0.4 0.9 0.8 0.7 Giunto 0.6 0.5 in nd Tre 0.4 0.70m MISURE VIBRAZIONALI SU COLONNA Il metodo consiste nel misurare il rumore ambientale alla base e in testa della colonna posizionando n° 2 accelerometri sismici 3D (tre componenti Z, NS, EW) e acquisendo per 20 minuti. Il segnale acquisito e trattato nel dominio delle frequenze consentirà di determinare la frequenza di oscillazione della colonna. La frequenza misurata è utilizzabile per definire la rigidezza della colonna stessa e quindi stimare eventuali miglioramenti elastici nel caso di consolidamenti, iniezioni, ecc…. e sion e le ion sez Shots Sensori - Distance (m) 0.4 0.2 in nd Tre 1 ion sez 0.3 Difetto fisico (alto tasso di ammaloramento) 0.2 0.1 0.10 m S N 0 E 0.1 0.2 2900 2800 2700 2600 2500 2400 2300 2200 2100 2000 1900 1800 1700 1600 1500 1400 1300 1200 1100 1000 900 Scala cromatica delle velocità Vp (m/s) GEORADAR IN 3D DI TIPO ARCHEOLOGICO 0.3 Distance (m) Difetti fisici TOMOGRAFIA ELETTRICA 3D e sion e le 0.4 W SESSIONE I LE STRADE: LA SEDE, IL TRACCIATO, LE OPERE SPERI è un’azienda multidisciplinare composta da Ingegneri, Geologi, Architetti, Designer e Tecnici eccezionali focalizzati sulla realizzazione di progetti integrati che combinano estetica ed efficienza e sostenibilità. Dipartimento Geologia Ambiente e Territorio Ingegneria integrata dal 1974 Nella struttura organizzativa SPERI Il Dipartimento GAT presidia i processi di studio e gestione del territorio e di tutela dell’ambiente che connotano una moderna società professionale e d’ingegneria. Attraverso il proprio contributo ai processi d’Ingegneria GAT garantisce la Sostenibilità Ambientale dell’approccio progettuale - con particolare riguardo all’uso strategico delle risorse del pianeta – e la programmazione delle azioni di Recupero e Tutela del Territorio. Gestione del Territorio Monitoraggi • Analisi territoriali del rischio (geologico, geomorfologico, idrogeologico, sismico) • Redazione di Cartografia Tematica e di Cartografia di Analisi • Progettazione e Direzione Lavori Sistemazione Frane e Dissesti • Rilievi, Monitoraggi e Modellazioni di Impatto (suolo e sottosuolo, acque superficiali e sotterranee, acustici e vibrazionali, qualità dell’aria, vegetazionali e faunistici, traffico) • Progettazione e gestione monitoraggi geologici, geotecnici e idrogeologici (aree in dissesto, opere geotecniche ante, corso e post opera) Studi Geologici e Sismotettonici Grandi Opere Cantieristica • Pericolosità sismica in area epicentrale • Fagliazione superficiale e Frane Sismoindotte • Modellizzazione geologica, idrogeologica e geotecnica • Progettazione e Direzione Lavori di Campagne di Indagine • Direzione Lavori geologica per Opere in Sotterraneo e per Opere Speciali Geotecniche • Sistemi di Gestione Ambientale di Cantiere Studi e Progettazioni Ambientali Sistemi Informativi • Procedure e Studi di Screening, VIA, VAS, VINCA • Rilievi, Monitoraggi e Modellazioni Ante-Corso-Post Opera delle componenti ambientali • Gestione Rifiuti e Terre-Rocce da Scavo, redazione Piani di Utilizzo e Piani Gestione Materie • Progettazione e gestione Sistemi Informativi Territoriali • Progettazione geotematica territoriale ed Analisi Multicriteria in ambiente GIS. • Integrazione BIM – GIS Studio SPERI societa’ di Ingegneria S.r.l. Lungotevere delle navi 19 - 00196 - Rome Tel: +39 06 3601 0314 Email: [email protected] WWW.STUDIOSPERI.IT 17 Il progressivo spopolamento dell’antica città di Tharros. Indagini archeologiche sull’antico porto Anna Ardu (A.A.) Archeologa subacquea, Independent Researcher, Cabras (OR) E-mail: [email protected] Angela Rita Conte (A.R.C.) Archeologa, Independent Researcher, Roma E-mail: [email protected] The progressive depopulation of the ancient city of Tharros. Archaeological investigations on the ancient harbour Parole chiave: Archeologia del Paesaggio, Ricognizione, Tharros, Mistras, Foto Aeree (Aerial photographs), Piccola Età Glaciale Alto Medievale Key words: Landscape Archaeology, Survey, Tharros, Mistras, Aerial photographs, LALIA RIASSUNTO La localizzazione del porto dell’antica città di Tharros, sorta nel promontorio che chiude a Nord il Golfo di Oristano, lungo la costa centro-occidentale della Sardegna, è stata oggetto di studio da parte delle autrici e argomento della loro tesi di laurea. Indagini archeologiche hanno permesso di stabilire che l’antico porto era situato all’interno di quella che oggi è la laguna di Mistras. Ai tempi in cui lo scalo era funzionale, l’attuale laguna era una baia aperta che, a causa di eventi meteorologici estremi, accompagnati a forti fasi di moto ondoso dal mare ha subito fenomeni di interrimento che hanno reso impraticabile il porto. La frequentazione avviene probabilmente dall’età protostorica ma le strutture artificiali, individuate grazie alle ricognizioni subacquee sono da attribuire alla tradizione ingegneristica e architettonica levantina utilizzata dai Fenici nella realizzazione degli impianti portuali. Il lavoro è stato inteso come una ricerca multidisciplinare, nella quale sono stati utilizzati gli studi di carattere geomorfologico, l’approfondimento della documentazione storica, cartografica, le diagnostiche di vario genere, l’aerofotointerpretazione e lo studio delle immagini remote, le ricognizioni terrestri e subacquee e lo studio dei materiali. Grazie a queste indagini è stato possibile avere una visione complessiva delle attività produttive e commerciali relative all’unico porto con strutture artificiali di età fenicio-punica esistente in Sardegna. Dalla fine dell’età imperiale, Tharros mostra i segni di una profonda crisi, che provoca un lento spopolamento dell’area urbana; la causa principale di questo fenomeno pare proprio essere la perdita della funzionalità del porto, da questo periodo nell’entroterra furono occupati insediamenti vicini alle vie di comuni- cazione terrestri, in aree fertili, legati allo sfruttamento delle risorse. Chi scrive si è impegnata in una ricerca d’archivio, dove fonti attendibili di cronisti parlano di eventi catastrofici in tutto il Mediterraneo, caratterizzati da un abbassamento generale della temperatura dell’emisfero boreale. I ricercatori definiscono questo periodo tra il 500 e il 700 d. C. “Piccola Età Glaciale Alto Medievale”, proprio allora Tharros viene lentamente abbandonata. L’area è attualmente interessata sia da fenomeni erosivi sia da alluvionamento, grazie all’aereofotointerpretazione si intuisce che, sepolta sotto i limi, giace una porzione di paesaggio finora mai indagata, importantissima per ricostruire il popolamento degli insediamenti costieri. Sono state esaminate le varie fasi della vita dell’approdo, analizzati modelli diversi e articolati di contatto e interrelazione tra le popolazioni locali e le genti che giungevano attraverso il mare, sono stati rilevati numerosi indicatori di processi di trasformazione/interazione tra uomo e ambiente, come i mutamenti della linea di riva e l’alterazione dell’habitat costiero, che saranno sempre meglio evidenziati in futuro, avvalendosi di studi multidisciplinari. INTRODUZIONE Nell’estremità più meridionale della regione del Sinis, nel territorio di Cabras, si trova la penisola di Capo San Marco, una sottile striscia di terra lambita a occidente dal mar di Sardegna e nell’insenatura a levante riparata dall’ampio golfo di Oristano. Nel promontorio il popolamento più antico è testimoniato dalla presenza di strutture protostoriche (nuraghi e villaggi), l’unico sito indagato archeologicamente si trova nel versante orientale, nella piccola altura di Murru Mannu; un abitato di capanne dove è stato rinve- nuto un deposito ceramico del Bronzo Medio finale (Santoni, 1978, p. 81; idem 1985, p. 33). Nella stessa area, ma fuori giacitura stratigrafica, è stato rinvenuto un frammento di parete di forma chiusa d’importazione con dipinto un iris stilizzato, ascrivibile al Miceneo IIIA2 (circa il 1400 - 1325 a.C.) (Bernardini, 1989, pp. 285-286). Anche se si tratta di un solo manufatto, non pare azzardato ipotizzare che il Sinis Meridionale fosse già inserito dal XV sec. a.C. nelle rotte commerciali tra Oriente e Occidente, ma per avere conferme a riguardo sarebbe opportuno riprendere le indagini e mettere in luce quello che resta dell’insediamento nuragico (Ardu, 2019 c.s). Alla fine dell’VIII sec. (730-700 a.C.), durante la piena età del Ferro, proprio a Murru Mannu, grazie al ritrovamento di un numero consistente di ceramiche d’importazione, abbiamo le prime testimonianze di un occupazione stabile da parte dei Fenici (Acquaro, 1991, pp. 547-558). A parere di chi scrive, non si può parlare fino alla seconda metà del VII sec. a.C., di un assetto urbano e di fondazione della città di Tharros, ma di una convivenza pacifica tra le popolazioni locali e genti allogene che rivitalizzarono il tessuto sociale originando cambiamenti interni, che diventeranno uno stimolo, e incentiveranno attività imprenditoriali (Bernardini e Perra, 2012; Tronchetti e Van Dommelen, 2005). Il centro di Tharros e il suo entroterra (il Sinis) erano un ottimo luogo per l’applicazione e la sperimentazione della strategia insediativa fenicia, che prevedeva approvvigionamento alimentare e costruzione di approdi funzionali alle loro attività commerciali (Moscati, 2005, pp. 137-143). Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 18 La città fu un ottimo punto di riferimento per il controllo delle rotte iberiche e tirreniche, forse il maggior scalo commerciale in Sardegna sulla rotta spagnola e africana e importante interlocutrice nel bacino mediterraneo. La località prescelta per costruire un insediamento doveva soddisfare diverse esigenze, fra cui quella della sicurezza; talvolta, come nel caso di Tharros, costituiva una situazione piuttosto favorevole la presenza di “un promontorio che poteva disporre di approdo da ambedue le parti”, in quanto, a seconda dell’andamento dei venti, questo assicurava l’ormeggio nel golfo di Oristano (Mare Morto) in regime di venti settentrionali ed occidentali, oppure nel Mare Sardo occidentale quando soffiavano i venti di levante e meridionali (Zucca, 1993, p.44). La documentazione archeologica relativa all’insediamento fenicio, al momento si riduce al primo strato del tophet e alle aree funerarie di Capo San Marco e San Giovanni di Sinis (Spanu e Zucca, 2010). Con la conquista cartaginese dell’isola, avvenuta nella seconda metà del VI sec. a.C., aumentano in maniera esponenziale le tracce archeologiche sul territorio di Tharros che diviene un centro nevralgico tra il V e il III sec. a.C., assumendo un aspetto monumentale, con l’impianto di una cinta muraria fortificata e di vari edifici di culto. (Acquaro e Mezzolani, 1995). La presenza antropica diventa capillare per via della politica cartaginese che promuove uno sfruttamento agrario di tipo intensivo nelle campagne, rendendo la città del golfo oristanese una delle più importanti della Sardegna. Dopo la conquista romana della Sardegna (238 a.C.), Tharros subì numerose trasformazioni: le fortificazioni furono rinnovate (II secolo a.C.); un nuovo assetto urbano fu ridefinito con la costruzione di strade mediante lastre di basalto; infine, nel II-III secolo d.C., furono edificati numerosi edifici pubblici (Tomei, 2008; Ghiotto, 2004). Tharros inizierà il suo lento declino e perderà progressivamente la sua importanza durante l’età imperiale romana, sostituita da centri nevralgici come Karales e Turris Libissonis. Dalla metà del V sec. d. C., con l’inizio dell’età tardo antica, la città di Tharros mostra i segni di una profonda crisi che provoca un lento spopolamento dell’area urbana (Fig. 1). Gradualmente, le entità demiche che popolavano i territori prossimi al mare si spinsero in aree più interne e maggiormente protette. In seguito a quest’avvenimento, abbiamo la rioccupazione di siti di età romana e la fondazione di nuovi insediamenti rurali sparsi, spesso raggruppati accanto a edifici di culto. Questa situazione ha favorito la riorganizzazione del territorio, e l’incremento di attività produttive negli Figura 1. Vista aerea della città di Tharros (Andrea Marongiu Air Photograpy 2019) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 insediamenti rurali (Ardu, 2017; Spanu, 1988; Stiglitz, 1998). Gli scrittori greci e latini ricordano fuggevolmente la città con diverse varianti del suo nome; la prima fonte scritta dove appare il nome di Tharros si trova nelle Historiae di Sallustio (Historiae II, 1). Intorno al 150 d.C. il geografo Claudio Tolomeo (Geographia, 3,3,2), descrivendo la fascia costiera della Sardegna nel versante occidentale, parla di “Τάρραι πόλις” e ne indica la longitudine (30° 20’) e la latitudine (37° 20’). In periodi storici contrassegnati da una forte povertà di documenti, anche un breve elenco di nomi costituisce una testimonianza importante; è il caso dei “dispacci” bizantini che fanno riferimento ad alcuni antichi insediamenti sardi, tra i quali Tharros. Il geografo Giorgio Ciprio, nella sua descrizione dell’Orbe romano nel 604 d.C., cita Σίνης, distinta dalla città di Tharros, probabilmente sede vescovile, ‘Αριστιάνης λιμνήν e Кάστρον τοΰ Τάρων (Descriptio orbis romani, 684). La Sardegna fu annessa al regno vandalico verso la metà del V sec. e, in seguito alla conquista da parte delle truppe del duca Cirillo (Pani Ermini, 1988), divenne una provincia della diocesi bizantina d’Africa nel 534 d.C.. Per l’isola, inizia una lunga e importante fase della sua storia che si concluderà tra il X e l’XI sec. d.C. (Corrias e Cosentino, 2002). 19 Le prime incursioni da parte degli Arabi furono intraprese all’inizio dell’VIII sec. (Bazama, 1988) e non determinarono in ogni caso la distruzione dei centri abitati, ma causarono fasi di abbandono temporaneo; l’episodicità delle scorrerie, a parere di chi scrive, non costituì un elemento decisivo per l’abbandono definitivo delle aree costiere (Ardu, 2016). STORIA DEGLI STUDI SUL PORTO DI THARROS In Sardegna, i porti fenicio-punici sono stati oggetto di studi e di ricerche che hanno presentato alti livelli di difficoltà e di complessità a causa dei sensibili mutamenti subiti a opera di fattori naturali come le variazioni della linea di costa e di attività antropiche come escavazioni o discariche. La prima campagna archeologica operativa nelle acque prospicienti Tharros ebbe luogo dal 1 al 10 settembre1979; il lavoro venne svolto in forma congiunta dalla Soprintendenza Archeologica per le Province di Cagliari e Oristano e dal Servizio Nazionale per l’Archeologia delle Acque Interne (SNAAI), sotto la direzione di Luigi Fozzati, con la supervisione archeologica di Enrico Acquaro, allora Direttore della missione archeologica a Tharros del Centro di Studi per la Civiltà fenicia e punica del C.N.R. e con la consulenza scientifica di Piero Bartoloni, allora ricercatore del medesimo centro di studio, che ha diretto in acqua una parte delle operazioni. Nella relazione finale Luigi Fozzati scrive: “Di fronte all’antica città, nella località chiamata “Porto Vecchio”, la ricognizione rivelò l’esistenza di strutture sommerse, ovvero una duplice serie di blocchi di arenaria, manufatti, distanti dalla linea di costa circa 50 m, con un andamento rettilineo per circa 20 m di lunghezza, che convergeva leggermente in direzione del mare aperto” (Fozzati, 1980). Alcuni anni più tardi, nel 1984, il Prof. Elisha Linder dell’Università di Haifa effettuò degli studi nell’ambito del “Sardinian Coastal Study Project” indirizzato alla ricerca delle testimonianze archeologiche dei primi contatti tra i Fenici e gli abitanti della Sardegna. Le ricognizioni e il monitoraggio con l’ecoscandaglio e le perlustrazioni dell’area di fronte alle terme di Convento Vecchio convinsero anche Linder dell’esistenza in situ di strutture murarie sommerse con probabile funzione di frangiflutti (Linder, 1987). Ai fini della ricerca è stato importante l’apporto del geologo Alessandro Fioravanti, che esaminando con la fo- tointerpretazione la linea di costa antica, per la prima volta ipotizzò che l’antico porto si trovasse verso l’area lagunare che si sviluppa verso nord (Fioravanti, 1985, 89, pl. 2). Uno studio del 1999 a cura di E. Acquaro, B. Marcolongo, F. Vangelista e F. Verga fu effettuato senza l’ausilio di prospezioni subacquee, ma servendosi di apporti cartografici e fotografie aeree. Per tentare di chiarire le presenze di infrastrutture portuali antiche, la missione del 1997-1999, si avvalse dell’elaborazione di immagini telerilevate, comparate ad altri dati cartografici e utilizzando il Sistema Informativo Geografico (SIG) (Marcolongo, Vangelista e Verga, 1999). In seguito a questi studi preliminari, negli ultimi anni, Raimondo Zucca ha presentato una nuova ipotesi (Zucca, 1993, p. 45; 80), incentrata sulla ricerca dell’antico porto all’interno di quella che è oggi la laguna di Mistras, rafforzata anche dalla presenza di una già nota struttura a doppio paramento denominata “strada romana”. Dal 2008 al 2015, sono iniziate nuove ricerche supportate da ricognizioni, indagini geomorfologiche, saggi di scavo e recupero e studio di materiali, a cura della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e di Oristano e delle Università di Cagliari e Sassari, che hanno portato alla scoperta di un contesto archeologico straordinario, e alla conferma che le strutture portuali si trovavano lungo le coste orientali dell’istmo; un contesto ideale per un approdo fenicio-punico. Infatti, l’arenile che si affaccia nel Golfo di Oristano, denominato “Mare Morto” è formato da un cordone sabbioso che, verso l’interno, si inframmezza con affioramenti arenacei e formazioni alluvionali. Esso ha una conformazione e una struttura determinate da apporti terrigeni del fiume Tirso (Porcu, 1983), che sfocia al centro dello stesso Golfo, oltreché da depositi marini organogeni e dal disfacimento della Panchina Tirreniana. L’area di retrospiaggia è caratterizzata dalla presenza di lagune o paludi minori (Su Pizzinnu Mortu e Pauli S’Argiolas), che costituiscono dei piccoli bacini endoreici. Durante il periodo estivo, in seguito all’evaporazione, si formano crostoni di sale (PUC Comune di Cabras, 2011, p. 74). Parallelamente alla spiaggia di Mare Morto, nell’immediato entroterra, si sviluppa la laguna di Mistras (Fig. 2) delimitata verso il mare da un cordone litorale. Nella sua parte interna, è presente una freccia di sabbia depositata dall’azione del mare e dal vento, che la suddivide in due parti: una occidentale (Sa Mistra Manna), con rive rettilinee e fondali fangoso-sabbiosi regolari che raggiungono il metro e mezzo di profondità, ed una orientale (Sa Mistraredda), con rive più frastagliate e numerosi affioramenti sabbiosi e fondali profondi mediamente 0,30-0,40 metri (Camboni, 1995, p. 21). La freccia ha una superficie di circa 450 ettari con una forma stretta e allungata e un’origine da mettere in relazione con l’emersione di alcuni cordoni Figura 2. Fotografia aerea della laguna di Mistras (Autore F. Cubeddu) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 20 sabbiosi che hanno racchiuso tratti di mare; essa è limitata verso terra dalle calcareniti del paleo cordone litorale e, nella sua zona occidentale, da un’estesa area umida a sommersione temporanea (Forti e Orrù, 1995, p. 4-5). A.A. LE RICERCHE DAL 2008 AL 2011 In questo contributo, che è stato anche argomento della tesi di laurea e di specializzazione delle autrici, è stata analizzata la documentazione storica e cartografica, si è utilizzata l’aerofotointerpretazione e lo studio delle immagini remote, sono state interpretate le indagini di carattere geomorfologico, si sono svolte accurate ricognizioni subacquee e nei terreni limitrofi ai siti di interesse, e sono stati disegnati e studiati i materiali ceramici diagnostici (Cambi, 2009). Sono stati presi in esame, secondo una prospettiva diacronica, i fenomeni che hanno condizionato le scelte insediative dei gruppi umani che hanno occupato i siti nel periodo storico indagato, correlandoli alle dinamiche di origine naturale e antropica. L’intento di questo lavoro è stato quello di individuare le tracce archeologiche nell’area costiera dove sorgeva l’antico insediamento di Tharros e il suo immediato entroterra. In particolare si è cercato di comprendere il suo ruolo di città portuale e spazio di incontro privilegiato per differenti gruppi umani. A.A., A.R.C. LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE VISIBILI SULLE FOTO AEREE Prima di effettuare le ricognizioni sul campo, sono state analizzate le foto aeree conservate presso l’Aerofototeca Nazionale, parte dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. I risultati più rilevanti ai fini della ricerca sono stati conseguiti grazie alla selezione e all’acquisizione di due voli effettuati sulla Sardegna negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Il c.d. Volo Base, datato 4 agosto 1955, è formato da tre tavolette in bianco e nero di cui non si conosce la scala; esso copre un’area compresa tra Capo San Marco e Punta Maimoni (direzione sud-nord). Il volo E.I.R.A è stato eseguito nel 1968 a una scala compresa tra 1:17500 e 1:20800 ed è composto da quindici tavolette in bianco e nero. La zona interessata dal volo è quella compresa fra Pauli Banatou e Capo San Marco (direzione nord-sud). I dati raccolti dall’analisi dei due voli, analizzati in via preliminare nel 2012 (Conte, 2012), sono stati incrociati con quelli ricavati dalle foto aeree a colori consultabili sul sito della Regione Au- Figura 3. Carta delle evidenze archeologiche con il posizionamento dei siti individuati (elaborazione grafica di A. R. Conte su base della Carta Tecnica Regionale Numerica Sezioni n. 528060 – 528100 San Salvatore e Capo San Marco, Regione Autonoma della Sardegna) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 21 tonoma della Sardegna, realizzate per il controllo dell’erosione costiera negli anni 1987, 1995, 1998, 1999, 2001 e 2002, insieme alle ortofoto del 2006. Tali informazioni, insieme a quelle derivanti dalle ricognizioni terrestri, sono state inserite su una nuova carta delle evidenze archeologiche, realizzata sulla base della “Carta Tecnica Regionale Numerica, Sezioni n. 528060 – 528100, San Salvatore e Capo San Marco”, della Regione Autonoma della Sardegna, in scala 1:10000 (Fig. 3). Del Volo Base 1955 è stato preso in esame solo il secondo fotogramma, il primo è stato escluso a causa dei graffi che hanno danneggiato il negativo, mentre il terzo non è stato preso in considerazione poiché riprende la zona di Punta Maimoni che esula dalla zona interessata dalle ricerche. La tavoletta (Fig. 4) risulta in buono stato di conservazione, a parte qualche piccolo graffio, e permette una buona visione generale dell’area della laguna di Mistras e della zona relativa a Capo San Marco. La laguna di Mistras, tra Capo S. Marco e S. Giovanni di Sinis a sud-ovest e Torre Grande a est, si trova nel settore settentrionale dell’ampio Golfo di Oristano e confina a nord con lo stagno di Cabras. L’analisi attenta del fotogramma ha rivelato la presenza di almeno 8 anomalie riferibili a possibili resti di strutture sommerse, di diverso orientamento, che si presentano di colore chiaro e con tracce di microrilievo (Fig. 5). La prima, è posizionata a circa 50 metri dalla riva, lungo la sponda meridionale dell’insenatura settentrionale della laguna di Mistras. Essa è orientata sud-ovest/ nord-est ed è visibile per una lunghezza di circa 220 metri (Fig. 5, n. 6; Fig. 3, n. 6). A nord di essa, e a circa 70 metri dalla riva, si intercetta la seconda, che è parallela a quella del Sito 6 e presenta il medesimo orientamento (sud-ovest/ nord-est), visibile per una lunghezza superiore ai 200 metri circa (Fig. 5, n.7; Fig. 3, n.7). Connessa ad essa, alla quale sembra legarsi a sud-ovest, è presente una terza anomalia (Fig. 5, n. 8; Fig. 3, n. 8), con andamento in senso sud-nord. Parallela alla sponda nord dell’insenatura settentrionale della laguna, posizionata a circa 286 metri dalla riva, è stata individuata una quarta anomalia, orientata sud-ovest/nord-est (Fig. 5, n. 10; Fig. 3, n. 10), visibile per una lunghezza di circa 700 metri. Ad est di essa, con la quale è in asse, e a circa 350 metri dalla riva, è presente una singolarità, (Fig. 5, n. 14; Fig. 3, n. 14) con orientamento sud-ovest/nord-est, visibile per una lunghezza di circa 500 Figura 4. Volo Base del 1955 (Aerofototeca Nazionale, fondo Volo Base, volo del 1955) Figura 5. Particolare della Laguna di Mistras dalla foto aerea del VB 1955 (Aerofototeca Nazionale, fondo Volo Base, volo del 1955) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 22 metri. A nord-est del Sito 14 e a circa 60 metri dalla riva, si intercettano altre due irregolarità (Fig. 5, nn. 11, 12; Fig. 3, nn. 11, 12) connesse tra loro. La prima (Sito 11), segue l’andamento nord-ovest/sud-est, ed è visibile per circa 450 metri di lunghezza. A sudest si appoggia al Sito 14, mentre a nordovest sembra essere in connessione con il Sito 12; essa è orientata sud-ovest/ nord-est, è lunga circa 390 metri ed è distante circa 60 metri dalla riva. Proseguendo in direzione sud-est dal Sito 14, ad una distanza di circa 325 metri dalla riva nord dell’insenatura meridionale della laguna di Mistras, si denota la presenza di un’anomalia che segue l’andamento in senso sud-ovest/nordest (Fig. 5, n. 13; Fig. 3, n. 13), visibile per una lunghezza di circa 560 metri. Dei 15 fotogrammi in bianco e nero del volo E.I.R.A del 1968, ne sono stati presi in esame solo 3 che riguardano la zona oggetto di studio. I fotogrammi sono a una scala compresa tra 1:17500 e 1:20800 e sono in uno stato di conservazione abbastanza buono. Nell’area della laguna di Mistras, le anomalie che si intravedevano nella foto del 1955 sono totalmente invisibili, mentre ne compaiono due nuove nella zona occidentale dello stagno, riferibili a possibili resti di strutture sommerse (Fig. 3, nn. 9, 15). La prima (Sito 9, Fig. 6 b; Fig. 3, n. 9), posizionata a circa 150 – 240 metri circa dalla riva, ha orientamento Sud-Nord ed è visibile per circa 150 metri. La seconda (Sito 15, Fig. 6 a; Fig. 3, n. 15), visibile ad est della prima, segue l’andamento SudOvest/Nord-Est ed è in connessione a nord-est con il Sito 10 (Fig. 3). L’analisi delle foto aeree a colori realizzate per il controllo dell’erosione costiera, consultabili sul sito della Regione Autonoma della Sardegna, non ha restituito nessuna traccia di anomalia nell’area oggetto di questo studio (Ardu n. 5), i più grandi dei quali lunghi circa 1 metro e larghi circa 0,6 metri. e Conte, 2018, pp. 206-210). I blocchi, in arenaria eolica, sono alA.R.C. lineati di testa e di taglio, e si presentano LE PROSPEZIONI accostati gli uni agli altri in modo accuSUBACQUEE E LO STUDIO rato e disposti regolarmente; la struttuDEI MATERIALI ra ha forma pressoché trapezoidale e si L’indagine subacquea si è estesa estende in lunghezza per circa 10 metri. successivamente all’interno della lagu- Si può ipotizzare che si trattasse di una na, nell’area di Sa Mistra Manna, do- banchina di alaggio per il ricovero e la ve è localizzata una struttura già nota manutenzione di piccole imbarcazioni, (Spano, 1851, 179-180 nota 4). Con destinate anticamente alla navigazione uno sviluppo di quasi 200 metri e un in bassi fondali (Ardu, 2013, p. 3; Ardu orientamento sud-ovest/nord-est, l’ope- e Conte, 2018, p. 213). ra è composta da un doppio paramento Presso la banchina trapezoidale sono di blocchi a forma di parallelepipedo in stati rinvenuti diversi frammenti fittili arenaria, ben squadrati e regolarmente che documentano la forte valenza comallineati, in tangenza sul lato lungo e in merciale di quest’area. I materiali archealcuni casi posti di taglio (Fig. 7 a-b) ologici sono in prevalenza anforacei, ma (Del Vais et al., 2008, p. 409). «I blocchi sono presenti, anche se in scarsa quantità, squadrati misurano da 0,90 a 1, 20 metri vasi di piccole dimensioni e ceramica da in lunghezza e da 0, 40 a 0,60 metri in mensa. La ceramica è difficilmente claslarghezza» (idem, p. 410). sificabile, in quanto si presenta in forma Questa struttura è confrontabile con frammentata e in genere “fluitata”, cioè una simile che si trova a Mozia (Fig. 8 fortemente levigata in seguito all’aziob), dove sono presenti i resti sommersi ne dell’energia ambientale delle acque in di un’antica strada in blocchi calcarei che, cui giaceva. I materiali selezionati sono prima della scoperta delle strutture di Mi- di grande interesse: infatti, i reperti più stras, era considerata un unicum “archeolo- antichi risalgono alla frequentazione gico”. Questa collegava la Porta Nord del dello scalo in età punica, mentre i più circuito murario con la riva prospicente recenti appartengono all’età romana im(Fig. 8 a-b), oltrepassando la porzione set- periale avanzata (Ardu e Conte, 2018). tentrionale dello Stagnone di Marsala nei La tecnica di giustapporre grandi pressi di Birgi, dove la necropoli lambisce blocchi di arenaria di taglio senza cela strada (Benessi et al., 2008). mento ha radici molto antiche e si spieUn’altra struttura di un certo inte- ga con la necessità di limitare i danni resse, è stata individuata dalla scriven- creati alle strutture portuali dall’ostrute nella primavera del 2010, durante le zione delle darsene tramite accumulo ricognizioni subacquee relative alla tesi di sedimenti fangosi; questo fu infatti, di laurea “Nuove ipotesi sul sistema por- fin da tempi assai remoti, uno dei protuale di Tharros”. A circa 20 metri dalla blemi maggiori al quale l’esperienza dei riva, lungo la sponda orientale dell’inse- costruttori tentò di porre rimedio atnatura settentrionale della laguna di Mi- traverso un accorto posizionamento di stras (Sa Mistraredda), è stata rinvenuta banchine e di barriere frangiflutti edifiuna serie di blocchi rettangolari allineati cate tramite l’impiego di blocchi lapidei e ben squadrati (Fig. 9 a e b; Fig. 3, Sito posti a taglio (Blackman, 1982). Figura 6 a-b. Volo E.I.R.A. del 1968 (Aerofototeca Nazionale, fondo E.I.R.A., volo del 1968) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 23 Figura 7 a-b. Mistras (Sa Mistra Manna) struttura sommersa a doppio paramento (foto A. Ardu) L’impiego di questa tecnica è stata riscontrata nei porti fenici dell’ età del ferro di Tabbat-el Hamman in Siria e Athlit in Palestina (Frost, 1972). Come sembrano suggerire i dati archeologici, si può istituire un parallelo tra i citati esempi di tecniche edilizie portuali fenicie, ascrivibili cronologicamente ad un periodo compreso tra la tarda età del Ferro e l’alto Arcaismo, e quelli della tarda età del Bronzo come Dor. L’antichissima città che faceva parte della pentapoli filistea (Raban, 1985), anche essa a circa 30 km. a sud di Haifa, è menzionata per la prima volta nel XIII sec. a.C. e successivamente anche nel racconto di Wenamon (intorno al 1100 a.C.); il suo porto era compreso tra due lagune poco profonde, una a nord e l’altra a sud che hanno reso testimonianza di 3000 anni di storia. In entrambi i casi, si è potuta riscontrare la presenza di banchine edificate mediante l’impiego di elementi lapidei di forma rettangolare, delimitati da un’area lastricata in arenaria. Fra i giorni 21 e 30 settembre 2009, chi scrive ha partecipato a un saggio di scavo di 2 x 2 m, con la direzione scientifica di P. Bernardini, E. Garau, P. G. Spanu e R. Zucca, effettuato nell’area intermedia fra la linea di costa orientale odierna del bacino occidentale della laguna, raggiungendo una profondità massima di circa 80 cm. I risultati sono di una certa rilevanza, poiché consentono per la prima volta di analizzare una stratigrafia, per quanto estremamente limitata nello spazio e nell’estensione, dell’interrimento di Mistras. La sequenza stratigrafica evidenza un’alternanza di strati sabbiosi per lo più sterili con altri stati ricchi di materiali ceramici. I materiali archeologici, in prevalenza anforacei, si datano fra il 600 e il 400 a.C., con una discreta concentrazione tra il 550 e il 450 a.C. e con una forte prevalenza di anfore fenicie e cartaginesi. Nello strato di base raggiunto dallo scavo, i materiali ceramici sono associati a resti malacologici, tra i quali va notata in particolare la presenza di due specie appartenenti alla famiglia dei gasteropodi: la monodonta turbinata (conosciuta volgarmente col nome di lumaca di mare) e la patella cerulea che possono sopravvivere esclusivamente in zone litoranee tra gli scogli: è evidente che ci troviamo di fronte ad un ambiente marino piuttosto che lagunare. L’esame dei dati stratigrafici e del contenuto malacologico ha dunque evidenziato situazioni morfologiche incompatibili con la situazione attuale (Ardu, 2013, p.2). Questo saggio, cui dovrebbero seguirne altri e numerosi, consente di ancorare l’interrimento di una linea di costa fossile, seguita per circa 800 metri, al tardo periodo fenicio e al primo periodo punico. La laguna di Mistras doveva essere una baia riparata dai venti e aperta verso il Golfo di Oristano; il periodo cui riferire questo scenario dovrebbe abbracciare ben 2.500 anni, tra la media età del Bronzo e la fase tardo-antica. Le sponde di Mistras probabilmente sono state il teatro di scambi tra le genti nuragiche e i prospectors orientali; gli insediamenti costieri dovevano essere legati al controllo degli approdi e all’organizzazione e alla logistica di questi traffici. Il quadro archeologico finora rilevato, con le serie di blocchi squadrati e con Figura 8 a-b. Confronto tra la strada di Mozia (TP) e la struttura sommersa di Mistras (Foto Benassi et. alii e A. Ardu) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 24 Figura 9 a-b. Sa Mistraredda, banchina sommersa (Foto A. Ardu) il materiale ceramico anforaceo riferibile a contesti di età fenicio-punica e romana, attesta chiaramente la “destinazione portuale” di un contesto geografico oggi del tutto inadatto a questo scopo. A.A. L’ABBANDONO DEL PORTO DI THARROS Gli studi archeologici e geologici intergrati, ci portano a ipotizzare che il porto sia caduto in disuso in età tardoantica, interrito da potenti limi; non sarebbe da scartare un’ipotesi partita dallo studio delle testimonianze lasciate dai cronisti dell’epoca, a cui è seguita una serie di studi scientifici, che l’antico porto sia caduto in disuso a causa di fenomeni meteorologici catastrofici, che in una zona geomorfologicamente così instabile, devono aver influito sulla fine dell’utilizzo del porto e sul conseguente definitivo declino della città di Tharros (Ardu, 2013, p. 7). Sono stati ricostruiti dei periodi più freddi e più piovosi dell’attuale, denominati piccole età glaciali, durante i quali si sono verificate catastrofiche modificazioni: le aree costiere hanno subito consistenti mutamenti con rapide progradazioni della linea di costa, con il conseguente colmamento di preesistenti aree umide e la formazione di nuove lagune costiere (Marriner, Morhange, Skrimshire, 2010) Sono stati studiati importanti cambiamenti climatici intercorsi; questo periodo,caratterizzato da un abbassamento generale della temperatura nell’emisfero boreale è definito dai ricercatori Piccola Età Glaciale Alto Medievale (in inglese si utilizza l’eufonico acronimo LALIA) un periodo freddo, durato dal 536 al 660 d.C. Di particolare rilievo furono gli eventi meteorologici estremi che avvennero nel 535-536 (Keys, 2000). I cronisti narrano di eventi catastrofici; si racconta che ci furono dei giorni di buio, che la peste imperversava in tut- to il mondo, che caddero degli imperi e che le inondazioni portarono il caos. Procopio riferisce: «Nel corso di questo anno un terribile segno ha avuto luogo. Il sole ha dato via la sua luce senza luminosità» e anche Giovanni Lydus rivela: «Il sole è diventato debole, per quasi tutto l’anno. In questo modo i frutti sono stati uccisi in un momento fuori stagione», mentre Michele il Siriano precisa «Il sole divenne scuro e la sua oscurità durò diciotto mesi. Ogni giorno brillava per circa quattro ore e ancora questa luce era flebile ombra. I frutti non maturarono e il vino era aspro». Vi è anche la testimonianza impressionante di Cassiodoro: «Il sole sembra aver perso la sua luce abituale, e appare di un colore bluastro. Ci meravigliamo di non vedere le ombre dei nostri corpi a mezzogiorno, di sentire la forza del calore del sole trasformata in debolezza, sono i fenomeni che accompagnano normalmente un’eclisse lunga un anno intero, abbiamo un’estate senza caldo e i raccolti gelati dal vento del nord». Alcuni studi hanno suggerito che questi cambiamenti siano stati causati da un fenomeno noto come ‘inverno vulcanico’; un evento naturale causato da una massiccia eruzione; un’esplosione che proiettò nell’atmosfera miliardi di tonnellate di polveri e ceneri, tali da oscurare il sole per diciotto mesi e procurare a livello planetario sconvolgimenti climatici che durarono per sessant’anni, cui seguirono pestilenze e alluvioni. Nel caso di forti eruzioni protrattesi per alcuni decenni, possono essersi determinate delle riduzioni generali della temperatura e un conseguente sviluppo dei ghiacciai (Smiraglia e Bernardi, 1999). Notizie storiche riferiscono di un periodo di dissesto idrogeologico, con probabile durata di un secolo, dopo la metà del VI sec. d.C.; questo periodo comprende anche l’episodio del ‘diluvio’ che è citato da Paolo Diacono, certamente collegato a un deterioramento ambientale con forte piovosità, ma an- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 che a una situazione di generale degrado del territorio. Nella sua interessante testimonianza, lo storico racconta che nell’anno 590 d.C., sui territori della Venezia, della Liguria e di altre regioni d’Italia, si scatenò un diluvio «di cui pare non essercene stato un altro dai tempi di Noè; allora il Tevere arrivò a scorrere dentro Roma, oltrepassando le mura e allagando moltissimi rioni della città. Nell’anno successivo si registra al contrario una terribile siccità con assoluta mancanza di pioggia da gennaio a settembre». Una buona risposta è stata offerta dagli studi di paleoclimatologia, che comprende lo studio di alcune caratteristiche fisiche dell’ambiente antico che si conservano all’interno di alcuni “registratori” naturali: anelli di accrescimento degli alberi, sedimenti lacustri, calotte glaciali. Queste ultime, in particolare, conservano stratificati i residui dell’atmosfera (micro particelle) che ogni anno vi si depositano; grazie ai carotaggi, gli scienziati possono risalire alle caratteristiche climatiche di uno specifico periodo storico, registrandone le anomalie. Le calotte della Groenlandia hanno dato risposte interessanti: pare che, proprio nel 536 d.C., nell’emisfero nord ebbe luogo una fortissima eruzione vulcanica che sparse nella stratosfera un grande numero di particelle, che rimasero sospese nell’aria; questo fornirebbe una spiegazione plausibile alle testimonianze tramandate dai cronisti bizantini. Una seconda eruzione avvenuta qualche anno dopo, nel 541, stavolta a latitudini tropicali e più devastante, insieme a una terza di minore intensità, nel 547, furono la causa di estati fredde e inverni rigidi (Büntgen et al., 2016). La sensibilità verso problematiche poste dalle variazioni climatiche e ambientali nell’orizzonte antico rende l’indagine archeologica più attenta al rilevamento di dati utili ad una ricerca 25 orientata in tale senso, propedeutico per una originale ricostruzione della storia del clima, dell’ambiente e dell’uomo. I cambiamenti climatici sono uno dei principali argomenti attuali e definire quanto sia importante l’impatto umano è di estrema importanza. Indagare come gli ambienti potrebbero cambiare in risposta ai cambiamenti climatici del passato è una delle chiavi per ipotizzare scenari a breve/medio termine. Per quanto riguarda la laguna di Mistras, attualmente disponiamo di alcuni indicatori geoarchelogici che attestano la formazione di cordoni dunali interni; la successiva formazione lagunare appare connessa all’apporto di sabbia dal fiume Tirso e dai fenomeni meteo marini estremi causati dai venti predominanti e le correnti interne del golfo. Al momento si tratta di dati preliminari che necessitano di ulteriori indagini sia con il prosieguo di saggi di scavo lungo le linee di riva fossili sia, soprattutto, con dettagliati studi paleoambientali, che permettano di datare le strutture portuali ai diversi livelli cronologici relativi alla frequentazione del sito. A.A. BIBLIOGRAFIA Acquaro E. (1991), Tharros, tra Fenicia e Cartagine, Atti del II Congresso Internazionale di Studi Fenici e Punici, Roma 9-14 novembre 1987, Roma, 1991, pp. 547-558. Acquaro E., Mezzolani A. (1995), Tharros itinerari XVII Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, p. 108. Ardu A. 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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 26 Ripristino archeologico e ingegneria naturalistica: il caso dell’antica Via Flacca Federico Boccalaro Socio esperto SIGEA (Società Italiana di GEologia Ambientale), AIPIN (Associazione Italiana per l’Ingegneria Naturalistica) e Archeoclub d’Italia – E-mail: [email protected] Archaeological restoration and soil bioengineering: the case of the ancient Via Flacca Parole chiave: Ingegneria Naturalistica, bene archeologico, paesaggio, ambiente naturale, geosito, erosione Key words: Soil Bioengineering, archaeological heritag, landscape, natural environment, geosite, erosion PREMESSA A partire dal secolo XVIII gli storici regionali di Gaeta citano e descrivono, generalmente a proposito di studi sulle strade romane di questo settore, i resti di quella che dominava il mare fra la città suddetta e Sperlonga. in vista è quella costruita sulla costa tra Sperlonga (Grotta di Tiberio) ed il lido di S. Agostino. Questo evento ha due conseguenze importanti: una immediata, che riguarda le tipologie delle rovine da considerare (muri di sostegno, gallerie, ecc.); l’altra, più generale, che Figura 1. percorso sulla costa tra Sperlonga (grotta di Tiberio) ed il lido di S. Agostino (da F. Boccalaro, 2015) La sola parte che resta veramente in vista è quella costruita sulla costa tra Sperlonga (grotta di Tiberio) ed il lido di S. Agostino (Fig. 1). Questa riscoperta ha due conseguenze importanti. Una è immediata: si tratta della tipologia delle rovine da studiare (muri di sostegno, gallerie, ecc.); l’altra riguarda gli aspetti generali di questa strada, che, come vedremo, era solo localmente una vera strada di “montagna”. Bisogna ricordare che fino al 1958 non esisteva, al di fuori precisamente dei ruderi di questa via, ridotta dopo tanto tempo allo stato di sentiero, un’altra strada terrestre diretta per andare da Sperlonga a Gaeta (Figg. 2–3). Prima di procedere all’analisi delle rovine conservate conviene osservare un fatto apparentemente paradossale: la sola parte che oggi resta veramente fa riflettere come questa strada, come vedremo, era solo localmente una vera strada di “montagna”. All’antica strada, tracciata pare nel 187 a.C. dal censore Lucio Valerio Flacco, si è sovrapposta alla fine degli anni ’50 del secolo una moderna rotabile con Figura 2. Via che conduceva a Sperlonga e Gaeta (da Pratilli, 1745) Figura 3. Stato della viabilità litorale tra Sperlonga e Formia nel sud del Lazio (da Lafon Xavier, “La voie littorale Sperlonga-Gaeta-Formia”, 1979) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 27 Figura 4. Scorcio dell’antica e nuova Via Flacca (da F. Boccalaro, 2014) uno strascico di inevitabili polemiche da parte di quanti invocavano l’assoluta tutela di uno degli ultimi tratti di costa tirrenica privi di strada carrabile. La strada fu alla fine fatta e innescò il consueto fenomeno dell’abusivismo diffuso nonostante su tutta l’area vigessero vincoli paesaggistici e fermi propositi di protezione. La nuova Via Flacca permise però di scoprire e valorizzare il sito archeologico dell’antro di Tiberio con l’apertura di un interessante museo, pochi chilometri a sud di Sperlonga. Della strada romana oggi non si sono perse tutte le tracce. Nei punti più dirupati della costa, con falesie che scendono a picco sul mare, e dove la moderna rotabile transita in galleria, si scorgono ancora i muri di sostegno e la massicciata dell’antico, inviolato monumento della tecnica stradale romana (Figg. 4-5). ASPETTI ARCHEOLOGICI GEOMETRIA L’esame di questi ruderi implica una serie di constatazioni concernenti ciò che si potrebbe chiamare la sua capacità di transito, legata a tre parametri, che Figura 5. Scorcio dell’antica e nuova Via Flacca (da F. Boccalaro, 2014) consistono nella larghezza della carreggiata, nell’entità delle pendenze, e nella qualità del suo rivestimento. Oggigiorno questa larghezza sembra molto ridotta perché si presenta ora per lo più come un sentiero. Ma una serie di misurazioni prese là dove si può essere sicuri che la carreggiata sia conservata nella sua integrità (presenza di antichi muri di sostegno, tracce dei bordi, là dove le rocce sono state soltanto intagliate dallo scavo) indicano che essa non è stata mai inferiore ai 4 metri, e ciò anche nei passaggi più difficili, salvo per il tunnel, dove all’entrata si misura solo 3,8 metri. Questa via litoranea si situa dunque nella buona media delle strade romane. Le pendenze non sembrano essere più forti della media di quelle delle altre strade romane: da 7% a 10%, in particolare di quelle della regione. L’insieme di questi dati mostra che questa strada era idonea non solamente per il passaggio delle bestie da soma, delle lettighe o dei pedoni, ma anche a quello dei carri, anche se in quest’ultimo caso occorre immaginare, a causa del tipo di orme di carreggiata, la possibilità Figura 6. Tratto di carreggiata dell’antica Via Flacca (da F. Boccalaro, 2015) di veicoli più stretti di quelli che si conoscono abitualmente (Figg. 6-7). FUNZIONALITÀ Questa strada può dunque essere assimilata per il suo tracciato ad un raddoppio dell’Appia tra Fondi e Formia, là dove la Regina Viarum taglia dritto, nell’affrontare successivamente la vallata di due torrenti, ma lasciando per contro il litorale. Si può motivare la sua costruzione considerando, su un piano teorico, l’aspetto militare e secondariamente quello economico. I testi classici ci informano che la regione di Fondi era una zona viticola importante (Catone, “De Agricoltura”, 160 a.C.). Se tuttavia si può localizzare il Caecubum nel nord-ovest della piana, la zona di produzione del Fundianum, propriamente detta, poteva bene estendersi fino alle colline situate a sud-est (che oggigiorno sono sempre una regione di vigne e di alberi da frutto), dove passava la strada Fondi – Sperlonga. Si può quindi dire che la costruzione di questa strada sia del tutto stata possibile per motivi di ordine sia economico Figura 7. Tratto di carreggiata dell’antica Via Flacca (da F. Boccalaro, 2015) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 28 Figura 8. Muri di terrazzamento in opera poligonale (da F. Boccalaro, 2008) che militare in una data relativamente anteriore al II° secolo. Esiste un passo di Tito Livio che riferisce di lavori stradali eseguiti dal censore Lucius Valerius Flaccus nel 184. “Et separatim Flaccus molem ad Neptunias Aquas, ut iter populo esset, et viam per Formianum montem ... (fecit)”. Figura 9. Muro ciclopico in opera poligonale su cui poggia spesso la via litoranea (da F. Boccalaro, 2008) La strada fu costruita, secondo l’abituale tecnica costruttiva romana, a mezza costa, ivi compreso su certe spiagge; ad eccezione dei litorali di Sperlonga e di Bazzano, dove in effetti tutte le tracce sono sparite; l’altitudine media è di una quarantina di metri, che oscilla fra i 15 metri (fra due delle ville costiere) e 60 metri (alla estremità della spiaggia di S. Agostino). Si trattò di realizzare un duplice lavoro, in una zona di calcari, dove le rocce precipitano sovente a picco sul mare: il taglio della roccia per la sede della strada e la costruzione di muri di sostegno. Al di là del suo aspetto spettacolare, più volte sottolineato, con- viene notare due fatti. In primo luogo, naturalmente la difficoltà dell’impresa, ciò che sembra indicare, almeno a prima vista, che questi lavori rispondevano ad una necessità importante. Bisogna ricordare che fino al 1958 non esisteva, al di fuori precisamente dei ruderi di questa via, ridotta dopo tanto tempo allo stato di sentiero, alcun’altra strada terrestre diretta per andare da Sperlonga a Gaeta. D’altra parte, un esame attento delle strutture murarie conservate, mostra che esistono ben due tipi di muri di sostegno per questa strada. Il sistema più frequente, per esempio fra la Torre Capovento e la spiaggia di S. Agostino, si caratterizza per un paramento di grossi blocchi assai irregolari (in media misuranti in diagonale da m 0,40 a 1,30), montati a secco, con linee di posa orizzontali mal definite, ma con pochissime schegge di pietra nei giunti. Molto curiosamente le dimensioni dei blocchi vanno aumentando dal basso verso l’alto, probabilmente per il meglio adattarsi delle fondazioni alla morfolo- Figura 10. La via Flacca in galleria in località Trepani (da F. Boccalaro, 2008) Figura 11. La via Flacca in galleria in località Capovento (da F. Boccalaro, 2008) TECNICHE COSTRUTTIVE Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 gia accidentata dei luoghi attraversati. L’altezza di questi muri è molto varia (da 1,5 m a più di 15 m), poiché la loro fondazione si trova su asperità della stessa roccia, per definizione assai irregolari. La struttura interna è nettamente visibile nei tratti dove il paramento è crollato, permettendo dai punti stessi una visione del muro in sezione. Si nota spesso un riempimento di piccole pietre mescolate a terra. Riguardo al paramento questi muri appartengono al “tipo poligonale di seconda specie”, secondo la classificazione adottata da G. Lugli in “La tecnica edilizia romana” (Roma, 1957) (Figg. 8-9). Fra le altre opere d’arte resesi necessarie per la realizzazione di questa strada, conviene ricordare una galleria senza dubbio in origine naturale (le caverne abbondavano nella regione, da cui il nome stesso di Sperlonga), ma adattata nell’antichità per dar luogo alla strada di superare la punta di Trapani (Figg. 10-11). ASPETTI NATURALISTICI L’ambiente naturale del Monumento di Sperlonga è essenzialmente di tipo mediterraneo ed è influenzato dalle peculiari caratteristiche della zona, quali mitezza del clima, forte insolazione, azione delle onde marine. Tra le specie vegetali che ricoprono il territorio, distinguiamo quelle di tipo arbustivo quali eriche, lentischi, mirti, ginestre, filliree, cisti ed una rigogliosissima popolazione di rosmarini (Figg. 12-13-14-15). Tra gli alberi, da sottolineare, esemplari di carrubo, quercia da sughero e ginepro fenicio. Più numerosa la popolazione di pini di Aleppo che popolano anche impervi anfratti a strapiombo sul mare. Discorso a parte merita la rara palma nana di cui abbiamo un buon numero di esemplari sulle falesie costiere. 29 Figura 12. Palma nana a Capovento (da F. Boccalaro, 2008) Figura 13. Macchia mediterranea a Punta Cetarola (da F. Boccalaro, 2008) Figura 14. Fiordaliso di scogliera (Centaurea cineraria) (da E. Banfi, 2000) Figura 15. Barba di Giove (Anthyllis barba-jovis) (da F. Boccalaro, 2008) Tra gli animali, l’avifauna offre spunti di notevole interesse, considerato che le coste rocciose offrono un valido punto di appoggio alle specie migratorie ed un tranquillo rifugio alle specie stanziali. Tra le prime abbiamo l’upupa, il martin pescatore, la poiana; tra le seconde, il falco pellegrino, il gheppio, gabbiani e cormorani. Tra gli animali di terra da ricordare esemplari di lepri selvatiche e rettili di vario genere. Discorso a parte merita l‘Area Marina Protetta annessa al Monumento Naturale che abbraccia tutta la fascia costiera rocciosa del comune di Sperlonga, a sud del promontorio della Grotta di Tiberio. Sott’acqua, proliferano numerose e variopinte specie ittiche quali cernie, orate, spigole, ricciole, tracine, saraghi, occhiate, salpe, triglie, mormore, muggini, donzelle, perchie, scorfani, sciarrani, Figura 16. Sciarrano (Serranus scriba) (da A. Madonna, 2002) tordi, polpi, murene, gamberi, granchi e ricci di mare (Figg.16-17). LA VEGETAZIONE DELLE RUPI MARITTIME Una delle più comuni associazioni rupestri, che troviamo largamente diffusa sui nostri litorali là dove giungono abitualmente gli spruzzi d’acqua salsedinosa e anche le onde impetuose durante le tempeste, è il Critmeto (Crithmo-Sta- Figura 17. Itinerari subacquei nella Riviera di Ulisse (da A.Madonna, 2008) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 30 ticetum). È costituito dall’immancabile Critmo o Critamo, noto più comunemente come Finocchio di mare (Crithmum maritimum), ombrellifera dalle foglie succulente, di sapore salato, con ombrelle di fiori bianco-verdastri, e da alcune Statici rupestri (Statice cancellata, lungo il litorale adriatico, Statice reticulata e altre specie lungo il litorale tirrenico). Man mano che si sottrae all’immediata vicinanza dei flutti, questa vegetazione si arricchisce di specie molto ornamentali: della Cineraria maritti- LA MACCHIA I caratteri più tipici della Macchia mediterranea sono: anzitutto il predominio in essa di arbusti (e sovente di alberi allo stato di arbusto) “sclerofilli”, come il Mirto, il Lentisco, il Corbezzolo, il Tino, il Leccio, l’Alloro; un’altezza media della vegetazione di 2-3 metri circa; la ricchezza di liane, che contribuiscono a creare un intreccio inestricabile, una tale densità e compattezza della vegetazione che ben pochi sono gli spazi in cui possa svilupparsi altra vegetazione erbacea. la forma degradata, cioè la cosiddetta Macchia “secondaria”. Gli interventi antropici per la creazione di spazi agro-pastorali determinano o una riduzione della complessità strutturale delle formazioni a sclerofille mediterranee o la loro scomparsa; l’abbandono delle colture o del pascolamento vede l’instaurarsi di una evoluzione della vegetazione che, in assenza di incendi, porta a formazioni sempre più complesse nel tempo, sino alla ricostituzione della macchia o del bosco a leccio (Figg. 20-21). Figura 18. Cineraria (Senecio cineraria) (da F. Boccalaro, 2008) Figura 19. Violaciocca rossa (Matthiola incana) (da F. Boccalaro, 2008) Figura 20. Euforbia arborea (da F. Boccalaro, 2008) Figura 21. Ginepro fenicio (da F. Boccalaro, 2008) ma (Senecio cineraria), dai grandi cespi cotonosi-biancastri così spesso coltivati come bordure nei nostri giardini; della Mattiola Lanuginosa (Matthiola incana), e della Violaciocca di mare (Matthiola sinuata); del Loto falso Citiso (Lotus cytisoides), ecc. (Figg. 18-19). Sulle rupi a picco sul mare fiorisce splendida con fiori di un color rosa vivo il candido Fiordaliso delle scogliere (Centaurea cineraria), insieme alla Barba di Giove (Anthyllis barba-jovis) e alla Mattiola lanuginosa. Soggetta a molteplici forme di degradazione, può variare in densità, in altezza, in composizione, ma tende allora a trasformarsi in altre formazioni di struttura meno complessa. L’attuale Macchia mediterranea può essere originaria, primitiva, o come si suol dire “primaria”, come per esempio ai limiti continentali dell’area di sviluppo del Leccio; oppure la Macchia può derivare da foreste scomparse di Leccio o di altri alberi sempreverdi, di cui costituisce null’altro che il sottobosco, Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 ASPETTI GEOLOGICI GEOSITO (Fig. 22) Un’antica linea di costa viene riconosciuta dagli indizi di erosione e sedimentazione operate dal mare. Lungo le coste rocciose, come è quella che si ripercorre da Terracina a Gaeta, il moto ondoso scava col tempo un “solco di battigia” che finisce col favorire il crollo della parete rocciosa sovrastante; il ripetersi continuo del meccanismo porta alla formazione di un’alta “falesia”. 31 Figura 22. Schema geologico-strutturale (da “Guide Geologiche Regionali. Lazio”, SGI, 1993) Legenda: colore azzurro Calcari di mare poco profondo (Giurassico - Cretacico inferiore); punto di sosta 10. Torre Capovento Figura 23. Linea di costa tirreniana a Torre Capovento (Sperlonga) (da “Guide Geologiche Regionali – Lazio”, SGI, 1993). Legenda: 1. detrito di falda cementato; 2. breccia di falesia tirreniana; 3. solco di battente attuale; 4. fori di litodomi; 5. cavità carsica rielaborata dall’erosione marina attuale; 6. dolomie giurassiche (substrato) Figura 24. Antica linea di costa tirreniana nei pressi di Torre Capovento (da F. Boccalaro, 2008) Nel valutare un’antica linea di costa si deve tener conto dell’eventuale presenza di sedimenti marini costieri, ma indizi decisivi sono la posizione dei solchi di battigia e delle fasce di fori di litofagi, bivalvi che operano con un’azione chimica “perforante” nella zona medio litorale. Solchi di battigia e fasce di fori di litodomi corrispondono ad una sosta più o meno prolungata del livello marino. L’affioramento che interessa è a 2-3 m sul livello del mare (Fig. 23). Si rinvengono delle puddinghe i cui ciottoli sono forati da litodomi, mentre la matrice è costituita da arenarie grossolane arrossate. Si possono ritrovare anche dei frammenti di bivalvi (Glycymeris). Lo spessore del deposito è di circa un paio di metri. Completano l’affioramento delle brecce di pendio, con clasti eterogenei a spigoli vivi, e il substrato carbonatico di calcari e dolomie, di cui è possibile notare la stratificazione. I terreni affioranti appartengono alla cosiddetta successione laziale-abruzzese (Accordi, 1964). I rilievi sono caratterizzati , per la maggior parte, da calcari e dolomie in facies di piattaforma carbonatica, che vanno dal Triassico superiore (220 Ma) al Paleocene (66 Ma), con uno spessore di circa 4.000 metri. Il Quaternario è caratterizzato da formazioni di vari ambienti, fra cui importanti sono i sedimenti marini del Tirreniano (0,25-0,10 Ma) lungo la costa tra Terracina e Gaeta (Fig. 23). Sulla parete della piccola falesia si ritrovano fori di litodomi fino a circa 7 metri sul livello del mare. Si possono attribuire gli affioramenti di puddinghe e i fori di litodomi ad una antica linea di riva, correlabile con il Tirreniano (0,120,16 Ma) (Figg. 24-25). Figura 25. Gusci di Lithophaga lithophaga prelevati da alcune statue dal Parco Archeologico Sommerso di Baia; fori prodotti dal Dattero di mare Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 32 Figura 26. Dinamica della falesia (da Quaderni Habitat - MFSN, 2004) presenta diffusi fenomeni di distacco di frammenti rocciosi ad opera delle azioni meteoriche e carsiche, e piccoli scoscendimenti di accumuli di detrito e di suolo nei tratti più ripidi. La dinamica della falesia può produrre in molti casi situazioni d’instabilità e di pericolo. È necessario comprendere pertanto quali siano i parametri in gioco e le reali possibilità di crolli, e che interventi sia possibile effettuare (Fig. 26). Nella realtà si possono presentare casi assai complessi e molto diversi tra loro, che non riguardano solamente la falesia ma anche il versante-falesia o il versante (Figg. 27-28-29-30-31-32). Queste situazioni richiedono, quindi, indagini geologiche specialistiche particolarmente sui seguenti punti: • struttura dell’ammasso roccioso alle spalle della falesia, anche per profondità di centinaia di metri o chilometri; • tettonica quaternaria; • studio stratigrafico dettagliato, per comprendere la geometria della stratificazione e i cambiamenti litologici; in particolare la sovrapposizione di corpi rocciosi a diversa deformabilità e a diversa erodibilità; la giacitura della superficie di separazione tra i due corpi; • analisi dell’alterazione della roccia e della permeabilità; • valutazione dello stato di copertura vegetale e della infiltrazione dell’acqua nel sottosuolo; • ricerche morfologiche per riconoscere rotture superficiali del terreno che testimoniano movimenti rotazionali del substrato o movimenti gravitativi profondi innescati dal taglio della falesia. Per quanto riguarda i dissesti gravitativi, lungo le catene montuose Carbonatiche dei Monti Lepini, Ausoni e Aurunci, e nel promontorio del Circeo, è stata rilevata una notevole densità di dissesti costituiti in massima parte da frane di crollo, che hanno interessato strade, ferrovie e centri abitati. La scarsa copertura vegetale nella zona favorisce i fenomeni di erosione superficiale. Inoltre le stesse aree, nel periodo estivo, sono spesso percorse da incendi che, depauperando ulteriormente la coltre vegetale, ampliano le aree a rischio di rotolamento dei massi che si distaccano dalle scarpate. Le aree tra Sperlonga e Gaeta sono a pericolo di frana elevato, interessate da frane caratterizzate da media intensità, con bassi volumi e/o velocità moderata (da <1,5 m/giorno a 1,5 m/mese): scorrimenti traslazionali in terreni complessi, scorrimenti rotazionali in terreni caratterizzati da alternanze di terreni a differente comportamento, colate. Tali aree possono essere caratterizzate dalla presenza di scarpate di altezza significativa. In particolare, la costa rocciosa calcarea attraversata dall’antica Via Flacca Figura 27. Tetto roccioso (da F. Boccalaro, 2008) Figura 28. Smottamento superficiale (da F. Boccalaro, 2008) DISSESTO IDROGEOLOGICO Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 33 Figura 29. Sfornellamento della volta della galleria a punta Trapani (da F. Boccalaro, 2008) Figura 31. Smottamenti lungo la via Flacca (da F. Boccalaro, 2008) ASPETTI TURISTICI Fino ad alcuni anni fa l’intero tracciato si poteva percorrere a piedi abbastanza agevolmente; oggi, non più mantenuto e non segnalato, necessita esperienza e un po’ di fatica supplementare. Alcuni tratti sono esposti e richiedono una certa prudenza. Questa escursione è quindi indicata a coloro che apprezzano questo genere di reperti archeologici, tenuto anche conto che sarà gioco forza percorrere alcuni tratti di asfalto lungo la trafficata strada moderna. A consolazione va detto che, oltre all’antica strada e agli incantevoli anfratti costieri, l’itinerario suggerisce la visita del museo di Tiberio, del centro storico di Sperlonga e, se il tempo lo consente, anche un meritato bagno. Il tracciato dell’Antica Via Flacca è ancora ben visibile, specie via mare, in tutto il tratto di costa che si snoda dal promontorio della Villa di Tiberio fino Figura 30. Parete rocciosa a rischio crolli (da F. Boccalaro, 2008) Figura 32. Falesie in erosione (da F. Boccalaro, 2008) a Punta Cetarola. L’ingresso si trova sul ciglio della Via Flacca (SS 213) accanto all’ingresso della galleria detta “Trepani” viaggiando in direzione Napoli (Figg. 33-34). L’ambiente, particolarmente incontaminato, presenta elementi tipici della macchia mediterranea tra cui spicca il Pino d’Aleppo, aggrappato alle rocce a picco sul mare. Sul percorso, che non è stato ancora posto in sicurezza, si incontra una grotta naturale oltre la quale è assolutamente sconsigliato proseguire anche ai più esperti. In ogni caso, prima di effettuare escursioni, è obbligatorio contattare (nei giorni feriali) la Sede del Parco al numero 0771.743070 oppure contattare verbalmente i guardaparco presenti in loco. Figura 33. Area protetta promontorio Villa di Tiberio e Costa Torre Capovento – Punta Cetarola (da Parco Riviera di Ulisse, 2005) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 34 • Figura 34. Itinerario turistico lungo la via Flacca (da Airone, 2005) «Ad ogni uscita di galleria – aveva annotato negli anni ‘50, subito dopo la costruzione della strada, il critico d’arte Cesare Brandi – una nuova spiaggetta, con caratteristiche sue, e i monti di roccia a picco, con i colori che ora sono quelli della costa amalfitana, ora quelli della costa calabra». INTERVENTI DI INGEGNERIA NATURALISTICA A DIFESA DELLE OPERE VIARIE ANTICHE SU RUPI COSTIERE L’antica Via Flacca sarà oggetto di un ripristino attento della sua stabilità e viabilità a fini escursionistici ma, visto l’alto valore naturalistico del paesaggio che attraversa (tipico ambiente rupestre costiero mediterraneo tutelato dal Parco Regionale “Riviera di Ulisse”), necessita di interventi di stabilizzazione e consolidamento a basso impatto ambientale, per un corretto inserimento nell’habitat circostante. L’Ingegneria Naturalistica è la branca di Ingegneria Ambientale che più si presta ad effettuare interventi di recupero da dissesto idrogeologico di siti archeologici inseriti in un pregiato habitat costiero. L’Ingegneria Naturalistica (I.N., ted. Ingenieurbiologie, ingl. Soil Bioengineering) è una disciplina tecnica che utilizza le piante vive negli interventi antierosivi e di consolidamento, in genere in abbinamento con altri materiali (legno, terra, roccia, geotessili, reti zincate, ecc.), per la ricostruzione di ecosistemi tendenti al naturale ed all’aumento della biodiversità. I campi di intervento vanno da quelli tradizionali di consolidamento dei versanti e delle frane al recupero delle aree degradate (cave, discariche, cantieri), alla mitigazione degli impatti legati alla realizzazione di opere di ingegneria (barriere antirumore e visive, filtri alla diffusione di polveri, ecosistemi-filtro a valle di scarichi idrici), all’inserimento ambientale delle infrastrutture di trasporto lineari (scarpate stradali e ferroviarie), alla rinaturazione dei corsi d’acqua, ecc. Le finalità degli interventi di I.N. sono principalmente: • tecnico-funzionali, ad esempio antierosive e di consolidamento di una scarpata o di una sponda; Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 naturalistiche, in quanto lo scopo non è la semplice copertura a verde ma la ricostituzione o l’innesco di comunità vegetali appartenenti alla serie dinamica autoctona; • estetiche e paesaggistiche di inserimento nel paesaggio naturale; • economiche, in quanto tipologie alternative e competitive alle opere tradizionali (ad esempio muri di sottoscarpa in cemento sostituiti da palificate vive). Gli interventi di I.N. si contraddistinguono da quelli tradizionali per: • l’esame delle caratteristiche microclimatiche, geomorfologiche e pedologiche delle aree di intervento; • l’analisi floristica e vegetazionale, con particolare riferimento alla ricostruzione della serie dinamica e all’individuazione delle specie d’impiego in funzione delle loro caratteristiche biotecniche; • l’uso di materiali non tradizionali quali i geotessuti sintetici in abbinamento a piante o parti di esse; • l’accurata selezione delle specie vegetali da impiegare (miscele di sementi, specie arboree ed arbustive, talee, rizomi, trapianti di zolle); • l’abbinamento della funzione di consolidamento con quella del reinserimento ambientale; • il miglioramento nel tempo delle suddette funzioni per lo sviluppo delle parti aeree e sotterranee delle piante. Le opere stabilizzanti consolidano il terreno in profondità nei pendii minacciati da frane, che presentano strati di scivolamento vicini alla scarpata. L’efficacia di tali interventi è dovuta agli apparati radicali delle piante grazie alla loro capacità di legare e consolidare in profondità il terreno, nonché di resistere alle sollecitazioni meccaniche esterne e di drenare il suolo. L’effetto immediato dipende dalla messa a dimora e dalla densità delle opere a verde. Con la formazione di radici, l’efficacia cresce sensibilmente ed aumenta costantemente al crescere dell’età, a seconda dello sviluppo dei singoli interventi. Gli interventi stabilizzanti possono essere puntiformi o distribuiti linearmente, per cui devono essere completati per mezzo di interventi di rivestimento (inerbimenti) che esplicano la loro efficacia sull’intera superficie del terreno. Le opere combinate, in ausilio a quelle stabilizzanti, sono costituite da interventi di difesa dall’erosione, di sostegno di pendii instabili e di consolidamento di fossi ed alvei torrentizi e fluviali. 35 Possono essere eseguiti in combinazione con elementi vivi producendo gli effetti desiderati subito dopo l’ultimazione dei lavori. Mediante la radicazione e lo sviluppo delle piante e delle porzioni di piante vive impiegate, col passare del tempo aumenta con continuità il grado di efficienza delle opere. Normalmente gli interventi combinati vengono eseguiti in ordine di tempo prima degli interventi stabilizzanti, di copertura e complementari, che invece sono costruiti esclusivamente con materiali vivi. Passeremo in rassegna alcune tipologie di interventi applicabili all’ambiente attraversato dall’antica Via Flacca (Tab. 1). RETE METALLICA E GEOSTUOIE O BIOSTUOIE / BIOFELTRI RIVESTIMENTO VEGETATIVO A TASCHE Usualmente, per pendii in terra o roccia alterata, la rete metallica è abbinata e sovrapposta a uno dei rivestimenti vegetativi descritti nel relativo paragrafo. La rete metallica a doppia torsione avrà una maglia esagonale tipo 6x8 in accordo alle UNI-EN 10223-3, tessuta con trafilato di ferro, conforme alle UNI-EN 10223-3 per le caratteristiche meccaniche e per le tolleranze sui diametri, a forte zincatura, quantitativo minimo di zinco pari a 260 g/mq, conforme a quanto previsto dalle UNI-EN 10223-3 e alla Circolare del Consiglio dei Lavori Pubblici (Figg. 35-36). Rivestimento di scarpate in roccia di natura friabile o compatta con inclinazione compresa tra 40° e 55°, costituito da un supporto in rete metallica a doppia torsione, rivestita internamente da un geotessuto o geostuoia sintetica, debitamente tesa ed ancorata al substrato a mezzo di chiodi in tondino di acciaio, il tutto nelle quantità tali da garantire la stabilità e l’aderenza della rete. Nel caso di rocce particolarmente friabili verranno operate delle legature in fune d’acciaio anche tra i chiodi lungo la superficie a miglioramento dell’aderenza della rete al substrato. Le tasche, aperte Tabella 1. Uso combinato di piante vive e materiali naturali o artificiali (da G. Sauli, 2004) Solo piante vive Solo materiali artificiali Piante vive + materiali Piante vive con funzione tecnica primaria Piante vive con funzione tecnica primaria + materiali biodegradabili (legno, biostuoie) dominanti Piante vive con funzione tecnica secondaria + materiali non biodegradabili dominanti: naturali (pietra, terra) e artificiali (plastica) Es: Gradonata viva Es: Palificata viva Es: Es: Gabbionate rinverdite, scogliere Cribb wall verdi, mantellate rinverdite, terre rinforzate cemento inerbite rinverdite, geosintetici rinverditi Solo azioni morfologiche Per rinaturalizzazione + aumento biodiversità Piante vive prive di funzione tecnica, ma per realizzazione unità ecosistemiche + materiali artificiali dominanti Es: Muro c.a., rete zincata Solo materiali Materiali naturali per favorire la Materiali naturali per colonizzazione spontanea delle la realizzazione unità dune morfologiche Materiali naturali o artificiali per il mantenimento biodiversità faunistica Es: Incannucciamento Es: Tubi per anfibi, sovrappassi per ungulati, rampe risalita per i pesci Figura 35. Rete metallica, stuoia e talee di salice (ISPRA, 2012) Es: Canalette legno e pietra, briglie legname e pietrame, dighe in terra per conservazione habitat di pregio Figura 36. Feltro preseminato e rete metallica a Sgurgola (FR), lungo la linea FS Roma-Napoli (da F. Boccalaro, 2006) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 36 Figura 37. Rete metallica, terra, cotico erboso e stuoia (ISPRA, 2012) Figura 38. Rivestimento vegetativo a tasche (da Ferraiolo, 2003) verso l’alto, vengono riempite di terra mensionale sintetica fissata in basso su scarpata rocciosa a pendenza massima vegetale (Figg. 37-38). 45°, distanziato e ammorsato alla rocRIVESTIMENTO VEGETATIVO A cia mediante barre metalliche a formare MATERASSO degli strati di inerte terroso di 20-40 cm Materasso realizzato con una rete di spessore. Il riempimento avviene dal metallica zincata (e plastificata), rive- basso verso l’alto, la roccia funge da base stita internamente con una stuoia tridi- di supporto e la rete metallica con la ge- ostuoia funge da coperchio. La rete viene chiusa lateralmente e superiormente. La superficie viene seminata o idroseminata e vengono messe a dimora talee e arbusti radicati (Fig. 39). MESSA A DIMORA DI TALEE I materiali impiegati constano di talee di due o più anni di età (lunghezza minima di 50-80 cm e diametro 2-5 cm), astoni (rami L = 100-300 cm, dritti e poco ramificati di Salici) e verghe e ramaglie vive (rami sottili L = 1-5 m e diametro 1-3 cm di Tamerici). Per la posa in opera di talee nel suolo, mentre un operaio esegue con un piede di porco o con un ferro appuntito dei fori nel terreno, estraendolo di nuovo lentamente, un secondo operaio infila la talea nel foro e comprime la terra tutt’ intorno. Le talee non vengono danneggiate se vengono assestate con una mazza (Figg. 40-41). Figura 39. Rivestimento vegetativo a materasso (da G. Ferraiolo) Figura 40. Talee di salici e arbusti, cotico erboso da idrosemina (da Florineth) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Figura 41. Particolare talea di Salice, prima fase di sviluppo fogliare (da F. Boccalaro, 1994) 37 STECCATO VIVO Lo steccato vivo utilizza i seguenti materiali: • paleria di larice o di castagno: lunghezza = 1,5 m, diametro = 15÷20 cm; • “sciaveri” (mezzi tronchi): lunghezza > 2 m, diametro = 10 cm; • talee di salice: lunghezza > 80 cm; • filo di ferro zincato: diametro = 3 mm. Queste palizzate, della lunghezza di 2÷3 m, vanno disposte in modo irregolare lungo il versante così da esercitare in maniera più efficace la loro funzione di consolidamento del terreno (Figg. 42-43). GRATA VIVA La grata viva a camera a parete semplice in legname durevole, con talee di salice o tamerice e piantine radicate, ha struttura portante costituita da un reticolato (altezza massima di 15÷20 m) in tronchi scortecciati di larice o castagno (lunghezza 2÷4 m, diametro 20÷40 cm), a maglie con lato di 1,0÷2,0 m, uniti tra loro con chiodi o graffe di acciaio zincato e legature con filo di ferro zincato. Gli elementi verticali sono quelli portanti l’intera struttura e possono essere più radi e di maggiori dimensioni, La palificata in legname con talee può essere ad una o a due pareti. La palificata a due pareti richiede uno scavo maggiore, ma può resistere a spinte più elevate ed avere un’altezza superiore (max 5 m) (Figg. 46-47). Figura 46. Palificata viva con talee (da ISPRA, 2012) Figura 47. Palificata viva a parete doppia in Val Venosta (BZ) (da F. Boccalaro, 1994) Figura 42. Palizzata con talee e/o piantine (ISPRA, 2012) Figura 43. Steccato vivo in Val Venosta (da F. Boccalaro, 1994) MURATURA IN PIETRAME A SECCO mentre gli elementi orizzontali posso- RINVERDITA Le murature in pietrame a secco no essere di dimensioni minori e la loro densità sarà maggiore al crescere dell’in- dovranno essere eseguite con pietre ridotte con il martello alla forma più che clinazione del pendio (Figg. 44-45). sia possibile regolare ed a spigoli vivi con speciale riguardo ai piani d’assetto, restando assolutamente escluse quelle di forma rotonda od aventi superfici tondeggianti e comunque fortemente irregolari. Nell’interno della muratura si farà uso delle scaglie soltanto per appianare i corsi e riempire gli interstizi tra pietra e pietra. Resta pertanto vietato l’impiego Figura 45. Grata viva a Cadibona (SV) (da F. Boc- di scaglie nelle strutture di paramento calaro, 1994) (Figg. 48-49). PALIFICATA Figura 44. Grata viva (da F. Boccalaro, 1995) VIVA A PARETE DOPPIA La palificata di sostegno in legname a parete doppia, riempita di terreno e rinverdita con talee di salice o tamerice e piantine radicate di specie autoctone, è composta da correnti e traversi di legno scortecciato idoneo e durabile di latifoglia o conifera (diametro minimo di 10÷25 cm, lunghezza di 1÷3 m), fissati tra loro con chiodi, staffe e caviglie di acciaio zincato, opportunamente sagomati negli incastri, ancorata al piano di base con picchetti e filo di ferro (diam = 3 mm) in acciaio zincato. Figura 48. Muratura in pietrame a secco rinverdita (da Florineth) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 38 Figura 49. Muratura in pietrame a secco rinverdita in Val Venosta (da F. Boccalaro, 2005) CHIODATURA NEL TERRENO La chiodatura nei terreni o “soil nailing” comprende elementi di rinforzo profondi quali chiodi ad attrito in barre d’acciaio o di altri idonei materiali (vetroresina, fibre di carbonio o similari), ed elementi di contenimento superficiali quali geostuoie bi-tridimensionali o biostuoie (paglia e cocco, fibre miste, trucioli di legno) ed eventuale rete metallica a doppia torsione (zincata ed eventualmente plastificata). La tecnica della chiodatura nei terreni o “soil nailing” si applica al consolidamento per instabilità locale di scarpate di rilevati, versanti di trincea e naturali o fronti di scavo in terreni sciolti o rocce alterate (Figg. 50-51-52-53). Figura 51. Chiodatura del terreno prima dei lavori (da GEOBRUGG) Figura 52. Chiodatura del terreno durante i lavori (da GEOBRUGG) Figura 50. Azione del soil nailing nel terreno (da GEOBRUGG) CONCLUSIONI Il caso del recupero dell’antica Via Flacca riassume in modo esemplare la profonda correlazione tra numerosi aspetti afferenti a diverse discipline tecnico-scientifiche: • archeologia antica (la strada romana) e rinascimentale (la torre costiera); • geologia applicata (dissesto idrogeologico); • agraria (studio del suolo); • botanica (rinaturalizzazione); • ingegneria ambientale (interventi di messa in sicurezza e di rivegetazione); • turismo (valorizzazione escursionistica). Figura 53. Chiodatura del terreno dopo i lavori (da GEOBRUGG) BIBLIOGRAFIA AA.VV. (1992), Sistemazione tecnica e biologica dei corsi d’acqua: 20 anni di esperienze. Azienda Speciale per la Regolazione dei Corsi d’Acqua e la Difesa del Suolo. Provincia Autonoma di Bolzano. AA.VV. (1992), Tutela e gestione degli ambienti fluviali - Serie atti e studi n° 8. WWF Fondo Mondiale per la Natura. Roma. AA.VV. (1993), Manuale tecnico di Ingegneria Naturalistica. Regione Emilia-Romagna e Veneto. Bologna e Arabba (BL) . AA.VV. (2001), Principi e linee guida per l’Ingegneria Naturalistica. Regione Toscana. Firenze. AA.VV. (2002, 2004), Manuale di Ingegneria Naturalistica. Vol. 1, Sistemazioni Idrauli- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 che; Vol. 2, Strade, Coste, Cave, Discariche. Regione Lazio. Roma. AA.VV. (1995), Elenco Prezzi materiali e opere di Ingegneria Naturalistica. Regione Piemonte. Torino. AA.VV. (1995), Opere e tecniche di Ingegneria Naturalistica e Recupero Ambientale. Regione Liguria. Genova. AA.VV. (2002), Atlante delle Opere di Sistemazione dei Versanti. ANPA. Roma. AA.VV. (2006), Linee Guida per Capitolati Speciali per interventi di Ingegneria Naturalistica e lavori di Opere a Verde. Ministero dell’Ambiente - AIPIN. Roma. Boccalaro F. (2006), Difesa del Territorio e Ingegneria Naturalistica. Flaccovio editore. Palermo. 39 Risultati preliminari sulla possibile individuazione della Mutatio Gelasium lungo la via romana Catania-Agrigento (It. Provinciarum Antonini Augusti n. 88) Preliminary report on the possible identification of Mutatio Gelasium along the Roman road Catania-Agrigento (It. Provinciarum Antonini Augusti n. 88) Parole chiave: Mutatio Gelasium, Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88, Via romana Catania-Agrigento Key words: Mutatio Gelasium, Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88, Roman road Catania-Agrigento ABSTRACT As is well known, the possible paths of Roman road tracks often have as their confirmation the land and sea routes reported on the Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti (Parthey and Pinder, 1848) and those reported of the Tabula Peutingeriana (Miller, 1964). A recent monograph on the archaeological area of the city of Morgantina (Bruno, 2017), addresses the theme of the extra-urban viability of the city which, according to the reconstructions, likely has been located near the route of the Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88 Catania-Agrigento, at least until the beginning of the fourth century d.C. In the monograph the author, based on topographic data and historical sources, reconstructs the road layout and the possible locations of mansiones and/or mutationes along it. In particular, accrediting a possible key to reading of the It. Ant. Aug. n. 88 advanced by another researcher (Bonacini, 2010), he hypothesizes the existence of a Mutatio Gelasium and places it inside the Chora di Morgantina. In order to ascertain the existence and exact location of the Mutatio Gelasium, along the aforementioned road layout, surveys and sampling of earthenware for mineralogical-petrographic analyses in the laboratory were performed. The first phase the survey consisted of a geomorphological study, aimed at defining the plano-altimetric characteristics of the Roman road section between the Mansiones Capitonianis and the Mutatio Gelasium and of the litotypes out- cropping along the same path. In the second phase, the reliefs were concentrated in the area around the Masseria Belmontino Sottano, in the homonymous district, and consisted of an aerofotogrammetric survey conducted with drone and in the sampling of terracotta samples on which petrographic analyses were conducted on thin section, through a polarized light transmitted microscope, and X-ray diffractometry. The results obtained, although preliminary, are very encouraging and indicate the presence, in the area around the farm, of numerous traces of perimeter and/or foundation walls of buildings made up of several square-shaped compartments placed side by side. The analyses carried out on the finds of earthenware indicate that all the samples analysed show petrographic characteristics common to those of Greco-Roman terracotta in central-eastern Sicily (Barone et al., 2005; Barone et al., 2012; Barone et al., 2014). The X-ray diffractometric analyses have shown the presence of quartz, hematite and k-feldspar also of new Ca-silicatic phases (anorthite, diopside and sporadic gehlenite) which indicate cooking temperatures close to 850° C. Considering the preliminary nature of these analyses, it can however be affirmed that the mineralogical-petrographic characteristics and the cooking temperatures of the analysed samples are similar to those of terracotta, of sure local production, used in Morgantina to realize various types of bricks, water Giovanni Bruno DICATECh - Politecnico di Bari, Socio SIGEA E-mail: [email protected] Germana Barone DSBGA - Università degli Studi di Catania E-mail: [email protected] Giorgio De Guidi DSBGA - Università degli Studi di Catania E-mail: [email protected] Rosanna Maniscalco DSBGA - Università degli Studi di Catania E-mail: [email protected] Paolo Mazzoleni DSBGA - Università degli Studi di Catania E-mail: [email protected] Danilo Messina DSBGA - Università degli Studi di Catania E-mail: [email protected] Alessandra G. Pellegrino DSBGA - Università degli Studi di Catania E-mail: [email protected] pipes and domestic or votive handworks (Atzori et al., 1995; Bruno, 2017). The hypothesis of the existence of a Mutatio Gelasium and its location inside the Chora di Morgantina, along the Roman road that from Catania to Agrigento, passing through the Capitonianis and Philosophianis Mansiones, mentioned in the It. Ant. Aug. n. 88, seems to be strongly supported by the material evidence found in the site investigated and by the results of laboratory analyses conducted on the terracottas taken there. However, a definitive confirmation could come from archaeological excavation essays. RIASSUNTO Com’è noto, le possibili ricostruzioni dei tracciati stradali di epoca romana hanno spesso come riscontro gli itinerari terrestri e marittimi riportati sull’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti (Parthey and Pinder, 1848) e quelli riportati della Tabula Peutingeriana (Miller, 1964). Una recente monografia riguardante l’area archeologica della città di Morgantina (Bruno, 2017), affronta il tema della viabilità extraurbana della città che, secondo le ricostruzioni, sembra sorgesse in prossimità del tracciato stradale dell’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88 Catania-Agrigento, almeno fino all’inizio del IV sec. d.C.. Nella monografia l’autore, basandosi su dati topografici e sulle fonti storiche, ricostruisce il tracciato stradale e le possibili ubicazioni delle mansiones e/o mutationes lungo esso. In particolare, accreditando una possibile chiave di Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 40 lettura dell’It. Ant. Aug. n. 88 avanzata da un’altra ricercatrice (Bonacini, 2010), egli ipotizza l’esistenza di una Mutatio Gelasium e la colloca all’interno della Chora di Morgantina. Al fine di accertare l’esistenza e l’esatta ubicazione della Mutatio Gelasium, lungo il predetto tracciato stradale, si è avviato un progetto di ricerca che ha comportato indagini e rilievi in situ nonché il prelievo di campioni di terrecotte, ritrovati nell’area investigata, per l’esecuzione di analisi mineralogico-petrografiche in laboratorio. La prima fase delle indagini è consistita in un rilievo geomorfologico, finalizzato alla definizione delle carat- Figura 1. Itinerari del cursus publicus romano, Messina-Marsala (via Valeria), Siracusa-Marsala (via Selenuntina) e Siracusa-Termini Imerese (via Pompeia per il tratto Siracusa-Catania): a) Stralcio dei segmenti VI,5 e VII,1-3 della Tabula Peutingeriana (da: Miller, 1964); b) Itinerari riportati su una mappa attuale (da: La Verde, 2016) Figura 2. Ricostruzione, secondo l’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88, della strada CataniaAgrigento con ubicazione della Mansio Capitonianis e della Mutatio Gelasium (da: Bruno, 2017) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 teristiche plano-altimetriche del tratto di strada romana compreso tra la Mansiones Capitonianis e la Mutatio Gelasium e dei litotipi affioranti lungo lo stesso. Nella seconda fase, i rilievi sono stati concentrati nell’area intorno alla Masseria Belmontino Sottano, nell’omonima contrada, e sono consistiti in un rilievo aerofotogrammetrico condotto con drone e nel prelievo di campioni di terrecotte sui quali sono state condotte analisi petrografiche in sezione sottile, tramite microscopio a luce tramessa polarizzata, e diffrattometria a raggi X. I risultati ottenuti, per quanto preliminari, sono molto incoraggianti e indicano la presenza, nell’area intorno alla masseria, di numerose tracce di muri perimetrali e/o di fondazione di edifici costituiti da diversi vani affiancati di forma squadrata. Le analisi condotte sui reperti di terrecotte indicano che tutti i campioni analizzati presentano caratteri petrografici comuni a quelli delle terrecotte greco-romane della Sicilia centro-orientale (Barone et al., 2005; Barone et al., 2012; Barone et al., 2014). Le analisi diffrattometriche a raggi X, hanno evidenziato la presenza oltre che di quarzo, ematite e k-feldspato anche di fasi Ca-silicatiche di neoformazione (anortite, diopside e sporadica gehlenite) che indicano temperature di cottura prossime agli 850°C. Tenuto conto del carattere preliminare di queste analisi, si può, tuttavia, affermare che l’insieme dei caratteri mineralogico-petrografici e delle temperature di cottura dei campioni analizzati sono simili a quelli delle terrecotte, di sicura produzione locale, utilizzate a Morgantina per realizzare varie tipologie di laterizi, condotte idriche e manufatti di tipo domestico o votivo (Atzori et al., 1995; Bruno, 2017). L’ipotesi dell’esistenza di una Mutatio Gelasium e la sua ubicazione all’interno della Chora di Morgantina, lungo la strada romana che da Catania conduceva ad Agrigento, passando per le Mansiones Capitonianis e Philosophianis, citate nell’It. Ant. Aug. n. 88, sembra essere fortemente supportata dalle evidenze materiali riscontrate nel sito investigato e dai risultati delle analisi laboratorio condotte sulle terrecotte ivi prelevate. Tuttavia, per una conferma definitiva è necessario un grado di approfondimento maggiore delle ricerche, corroborate anche da altre tipologie di investigazione (saggi di scavo archeologico). INTRODUZIONE In Sicilia, la presenza di un’estesa rete viaria (cursus publicus) che collegava 41 le più importanti città, ubicate lungo le coste, è ampiamente documentata sin dall’antichità (Uggeri, 2007; Brienza, 2018). In tal senso si ricordano le citazioni storiche riguardanti la via Pompeia, che collegava Messina a Siracusa passando per Catania (Cicerone, Verrine. II, 3.); la via Selenuntina, che collegava Siracusa a Marsala (Lilibeo) riportata sia sull’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti (Parthey and Pinder, 1848) che sulla Tabula Peutingeriana (Miller, 1964) e, più importante fra tutte la via Valeria, costruita dal Console Marco Valerio Levino nel 210 a.C. dopo la II guerra punica (Strabone, Gheographikà. VI, 3), che collegava Tindari (Tyndaris) a Marsala (Fig. 1). Meno nota, soprattutto nello sviluppo dei tracciati e nell’ubicazione delle tappe intermedie (Mansiones, Mutationes, Stationes), è la rete stradale che attraversando le aree interne dell’isola doveva spesso superare non poche difficoltà di carattere geomorfologico dovute alla presenza di rilievi montuosi, affioramenti di rocce argillose prone al franamento e/o attraversamento di corsi d’acqua a regime torrentizio e, quindi, con portate di piena estremamente variabili. Nel complesso, le strade della Sicilia romana erano il risultato del riadattamento di precedenti tracciati (Uggeri, 2007) e, in generale, non presentavano né grandi opere d’arte (ponti) né quell’andamento spiccatamente rettilineo, tipico delle grandi arterie concepite ex novo in aree di pianura, quale quello della via Appia o Emilia. Tra le vie interne all’isola, certamente presenti già durante il periodo greco arcaico e utilizzate con continuità sin dopo il periodo romano repubblicano, alcune dovevano passare per la città di Morgantina che sarà stato un importante crocevia nella rete stradale dell’isola, durante i periodi greco ellenistico e della Roma repubblicana, sia lungo le direttrici N-S che E-W. Di seguito si elencano alcune delle più importanti strade della Sicilia, riportate nelle fonti storiche e bibliografiche: • la via Agrigento-Palermo con andamento N-S, denominata via Aurelia dal nome Aurelio Cotta riportato su un miliario rinvenuto nel paese di Corleone (probabilmente si tratta di Gaio Aurelio Cotta, console nel 252 e 248 a.C.), fu la prima strada costruita dai romani nell’isola per agevolare le operazioni militari durante la I guerra punica; • la via Gela (Geloi)-Agira (Agyrium) che con andamento N-S passava da Morgantina, come riportato da Dio- doro Siculo (Bibliotheca Historica. XIV, 95) che era nativo di Agyrium; • la via Ragusa (Hybla)-Divieto che con andamento N-S passava per Morgantina e Centuripe (Centuripae); • la via Catania-Termini Imerese (Thermae Himerae) con andamento E-W e che, come rappresentato nei segmenti VI,5 e VII,1-3 della Tabula Peutingeriana (Miller, 1964), passava per Enna; • la via Catania-Agrigento con andamento E-W che, secondo l’interpretazione dell’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88 fornita da Cuntz (1929) relativamente al tratto Capitonianis - Philosophianis, le possibili ipotesi di tracciato (Paladino, 2007; Bonacini, 2010; Casano Del Puglia, 2012) e le recenti ricostruzioni (Bruno, 2017), passava per la Mutatio Gelasium (Fig. 2). Evidenze toponomastiche, relative alle tappe presenti lungo la strada Catania-Agrigento (Fig. 3), si sono conservate nella cartografia dell’isola anche in epoca più recente quando questi vecchi tracciati erano già stati riassorbiti dalla rete delle “trazzere”, termine quest’ultimo che ad oggi non sembra essere anteriore al 1557 quando compare in un contratto d’affitto nei pressi di Trapani (Santagati, 2013). modificazioni dopo l’abbandono della città nel I sec. d.C. grazie alla sua ubicazione interna all’isola e alla spiccata vocazione agricola che l’hanno tenuto lontano dai processi di urbanizzazione e industrializzazione. Secondo la recente ricostruzione di Bruno (2017), basata su una cartografia del 1890 (Cordov, 1890), e le ricerche ancora in corso, la Chora di Morgantina ospitava la Mutatio Gelasium (Contrada Belmontino Sottano) e i due tratti di strada, citati nell’It. Prov. Ant. Aug. n. 88, che la collegavano verso SW alla Mansio Philosophianis (Contrada Sophiana nel Comune di Mazzarino) e verso SE alla Mansio Capitonianis (Località Frumentara nel Comune di Mineo) (Fig. 4). Volendo ripercorrere il tracciato stradale in esame, utilizzando la toponomastica odierna, si parte dalla Mansio Capitonianis, ubicata in località Frumentara in sinistra idrografica del F. dei Monaci (poco a Nord della confluenza fra il F. Caltagirone o dei Margi e il Torrente Catalfaro), e dopo un tratto di circa 0.8 km in direzione SW, coincidente con la SS. 417, al bivio per Ramacca si prende l’attuale SP. 25i fino a raggiungere la suddetta città che rappresenta la quota più elevata del tracciato. Da Ramacca il tracciato, che prosegue in discesa per 8.1 km, coincide Figura 3. Mappa della Sicilia con ubicazione e toponomastica delle tappe lungo la strada Catania-Agrigento riportate dagli It. Prov. Ant. Aug. nn. 88 (in blu) e 94 (in rosso) (da: Ortelius A.,1624 - modificata) A fronte di una flebile memoria nella toponomastica, tuttavia, nel tempo si sono persi gli esatti tracciati stradali e le relative tappe ivi presenti. Ne consegue l’odierna difficoltà nel ricostruirli anche in seguito ai, sia pur limitati, mutamenti naturali e antropici subiti dal territorio. Il territorio di pertinenza (Chora) della città greco-romana di Morgantina, sembra non aver subito significative con l’attuale SP. 103 fino a C.da Margherito Sotto (Aidone) da dove, superato l’incrocio con la SP. 182, si prende a destra una strada di campagna, probabilmente una vecchia “trazzera”, che risale di quota in direzione NW per circa 3.1 km fino all’incrocio con la SP. 73. Da questo incrocio si prosegue sulla SP. 73, per 1.4 km, fino ad un incrocio dal quale, abbandonata la strada pro- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 42 Figura 4. Ubicazione della Mutatio Gelasium (C.da Belmontino Sottano), lungo il tratto di strada Mansio Philosophianis-Mansio Capitonianis, all’interno della Chora di Morgantina con indicazione della destinazione agricola dei terreni: a) bosco e pascolo; b) uliveti; c) frutteti ed orti; d) vigneti; e) seminativo; f ) eschatià (da: Bruno, 2017 - modificata) vinciale si prosegue in direzione NW su una strada di campagna e dopo circa 1.2 km si giunge alla Mutatio Gelasium, in C.da Belmontino Sottano (Aidone), che attualmente ricade sul margine meridionale di massimo invaso del Lago artificiale Ogliastro-Don Sturzo. Dalla Mutatio Gelasium, il tracciato prosegue in salita su una strada di campagna e in direzione Ovest e, superato il Fosso di Feudonuovo, probabilmente con l’unico ponte che doveva essere presente lungo di esso, dopo 7.7 km si innesta sulla SS. 288; quindi, costeggiando la parte bassa dell’altopiano sul quale vi sono i resti archeologici di Morgantina prosegue per la Mansio Philosophianis. CARATTERI GEOMORFOLOGICI E TECNICI DEL TRACCIATO STRADALE DALLA MANSIO CAPITONIANA ALLA MUTATIO GELASIUM Lungo il margine nord-occidentale del Plateau Ibleo (Sicilia SE), l’Avanfossa Catania-Gela separa la porzione affiorante dell’Avampaese Ibleo dalle strutture tettoniche del fronte più avanzato della catena Maghrebide siciliana, noto come “Gela Nappe o Falda di Gela” (Bianchi et al., 1989; Butler et al., 1992). Il tratto di strada in esame, che dalla Mansio Capitonianis conduce alla Mutatio Gelasium, si sviluppa interamente sui litotipi affioranti della Falda di Gela (Fig. 5). Nel dettaglio, partendo dalla Mansio Capitonianis, i primi 15.4 km del percorso si snodano sulle unità alloctone della Falda di Gela, costituite da argille marnose del Miocene medio-superiore e, localmente, da evaporiti (Calcare di Base e gessi) e calcari marnosi (Trubi) del Pliocene inferiore, deformate da strutture a pieghe e faglie inverse. La deformazione duttile e fragile (pieghe, pieghe rovesciate, thrust e back thrusts) postdata la deposizione dei Trubi del Pliocene inferiore (Grasso et al. 1990; Lickorish et al., 1999) ed ha una vergenza prevalente verso SE. Negli ultimi 5.4 km del percorso e fino alla Mutatio Gelasium, la strada si sviluppa sul substra- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 to cretaceo-miocenico costituito, quasi esclusivamente, dalle argille brune del Flysch Numidico e da limitati affioramenti di Argille Varicolori. La morfologia del territorio su cui insiste l’antico tracciato stradale è caratterizzata da aree pianeggianti e da rilievi, dalla sommità arrotondata, le cui altezze rientrano nella fascia altimetrica compresa tra i 50 e i 560 m s.l.m.. In generale, la strada taglia in direzione SE-NW un territorio caratterizzato da strutture tettoniche compressive (Fig. 5). Le geometrie dei principali assi di pieghe e delle strutture a thrust del fronte di catena, orientati ENE-WSW, hanno condizionato il modellamento del paesaggio morfologico e lo sviluppo dei principali bacini fluviali che insistono nell’area di studio (Fiumi Caltagirone e Pietrarossa) i cui reticoli idrografici sono allungati in direzione parallela alle strutture tettoniche. Dal punto di vista plano-altimetrico (Fig. 5), si tratta di un tracciato stradale mediamente rettilineo caratterizzato da limitate variazioni di direzione con quote che dagli 81 m s.l.m. della Mansio Capitonianis arrivano fino ad un valore max. di 297 m s.l.m. per poi ridiscendere, con altalenanti perdite e guadagni di quota, fino ai 205 m s.l.m. della Mutatio Gelasium. La strada, in quanto cursus publicus e/o cursus clabularis, secondo quanto prescritto dalla Legge delle XII Tavole (Tito Livio Ab Urbe Condita. III) doveva avere una larghezza media, variabile in relazione alle condizioni locali, di circa 2.45 m nei rettilinei e 4.90 m nelle curve. Le pendenze medie, calcolate lungo il tracciato ipotizzato, sono del 3.5% (in salita) e del 2.6% (in discesa), mentre i valori massimi sono del 9.9% (in salita) e 9.5% (in discesa) e si riscontrano nei primi 5.8 km a partire dalla Mansio Capitonianis, dove la strada deve superare il dislivello di circa 300 m della collina “La Montagna”, un’antica struttura tettonica orientata ESE-WNW, costituita prevalentemente da livelli più competenti delle formazioni evaporitiche e dei Trubi. INDAGINI IN SITO E IN LABORATORIO SULLE EVIDENZE MATERIALI RISCONTRATE NELL’AREA Al fine di verificare sul campo l’ipotesi di ubicazione della Mutatio Gelasium, sono state condotte delle indagini in situ durante le quali è stato eseguito un rilievo aerofotogrammetrico con Aeromobile a Pilotaggio Remoto e il campionamento di reperti di terrecotte per l’esecuzione di analisi mineralogico-petrografiche. 43 Figura 5. Carta geologica con indicazione del tracciato stradale, compreso fra la Mansiones Capitonianis e la Mutatio Gelasium, e relativo profilo altimetrico realizzato con Google Earth Pro (da: Lentini e Carbone, 2014 - modificata) bile individuare porzioni di murature in blocchi, che non si ergono dal piano campagna, probabili resti archeologici degli edifici della Mutatio Gelasium (Fig. 6). Nello specifico, le evidenze riscontrate sembrano essere costituite dalla parte basale di muri perimetrali e/o di fondazione di edifici costituiti da diversi vani affiancati, di forma prevalentemente rettangolare (Fig. 7). IL RILIEVO AEREO CON AEROMOBILE A PILOTAGGIO REMOTO APR Il rilievo aerofotogrammetrico, per l’analisi dei resti archeologici di quella che si suppone essere la Mutatio Gelasium, è stato strutturato mediante lo sviluppo integrato del rilievo topografico di “target” o GCPs (Ground Control Points), posti sul terreno secondo una disposizione predeterminata dagli operatori. La definizione dei parametri di volo dell’APR (Aeromobile a Pilotaggio Remoto) e l’elaborazione della nuvola di punti rilevata durante la fase di volo, secondo strisciate tra esse parallele, sono stati definiti ed elaborati per mezzo di software dedicati (Pix4d capture, Pix4d mapper). Il drone utilizzato per il rilievo è un DJI Phantom 4, attrezzato con una fotocamera, stabilizzata meccanicamente su 3 assi, la cui risoluzione è di 12 MegaPixel (4000x3000), con una lunghezza focale di 20 mm e angolo di presa (FOV) di 94°. Il ricevitore GNSS, utilizzato per il rilievo dei punti di appoggio (GCPs), è un Topcon HiperV a LE Figura 6. Fotorestituzione del rilievo aerofotogrammetrico con sovrapposizione della planimetria catastale (in bianco) e delle probabili evidenze archeologiche (in rosso) doppia frequenza (L1 + L2). Il numero di fotogrammi scattati dall’aeromobile è 212, l’altezza di volo 27.6 m, la risoluzione sulla superficie di campagna è di 1.01 cm/pix, la superficie dell’area rilevata è di 0.0187 km². L’elaborazione dei dati rilevati ha consentito di orientare l’intero blocco fotogrammetrico e creare il modello digitale del terreno dal quale, grazie all’alta risoluzione dell’immagine, è stato possi- INDAGINI MINERALOGICHE E PETROGRAFICHE I reperti in terracotta sono stati campionati nell’area circostante la diruta masseria “Belmontino Sottano” e su un appezzamento di terreno agricolo che si estende per circa 2.5 ettari a SSE di quest’ultima. Sui campioni, costituiti da frammenti di suppellettili di vario tipo (Fig. 8a) e da materiali da costruzione: pavimenti, tegole, mattoni (Fig. 8b), sono state effettuate le analisi petrografiche in sezione sottile tramite microscopio a luce tramessa polarizzata. Lo schema descrittivo utilizzato è quello proposto da Whitbread (1995). Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 44 Figura 7. a) Cantonale di muro perimetrale costituito da un paramento di pietre squadrate; b) Porzione di muro perimetrale del tipo “a sacco” Figura 8. Campioni di terracotta analizzati: a) Suppellettili; b) Materiali da costruzione Figura 9. Microfoto a nicols incrociati di un frammento di terracotta (ingrandimento 10x) Tutti i campioni presentano simili caratteri petrografici (Fig. 9), con pasta di fondo scarsamente micacea, omogenea e con bassa-media attività ottica. I vuoti sono prevalentemente irregolari di dimensioni fino a 0.5 mm; più rare sono le vescicole. Gli inclusi hanno una distribuzione granulometrica unimodale e sono costituiti da prevalente quarzo, scarsi feldspati e molto rari frammenti di roc- ce vulcaniche basiche. Le osservazioni effettuate, se confrontate con i dati di numerosi centri di produzione della Sicilia centro orientale (Barone et al., 2005; Barone et al., 2012; Barone et al., 2014), non presentano peculiarità tali da consentire l’univoca individuazione delle aree di produzione dei manufatti studiati. Tuttavia, i caratteri petrografici di queste terrecotte sono simili a quelli dei materiali, di sicura produzione locale, utilizzati a Morgantina per realizzare varie tipologie di laterizi, condotte idriche e vasellame di tipo domestico o votivo (Atzori et al., 1995; Bruno, 2017). Le analisi diffrattometriche a raggi X condotte sulle polveri di tutti i campioni, tramite diffrattometro Siemens D5000, hanno evidenziato la presenza oltre che di quarzo, ematite e k-feldspato anche di fasi Ca-silicatiche di neoformazione (anortite, diopside e sporadica gehlenite) che indicano temperature di cottura dei manufatti prossime agli 850°C (Fig. 10). Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 CONCLUSIONI In una recente monografia sulla città greco-romana di Morgantina sono state avanzate le ipotesi che il tracciato stradale, riportato nell’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti n. 88, che con quattro tappe intermedie collegava le antiche città di Catania e Agrigento, passasse per la Chora di Morgantina e che proprio nella sua periferia fosse ubicata la seconda delle tappe del tracciato, la Mutatio Gelasium. Al fine di trovare delle evidenze in grado di avvalorare tali ipotesi, è stato avviato un progetto di ricerca, ancora in corso di svolgimento, che consiste in ricostruzioni geoarcheologiche del tracciato stradale, rilievi topografici mediante Aeromobile a Pilotaggio Remoto, prelievo di campioni di frammenti di terrecotte, affioranti sul piano campagna, ed esecuzione di analisi mineralogico-petrografiche. La ricostruzione del tracciato stradale compreso fra la Mansio Capitonianis e la Mutatio Gelasium ha restituito una distanza fra le due tappe di 20.8 km, confrontabile con i XIIII mpm (20.83 km) tramandati da una lectio difficilior dell’It. Prov. Ant. Aug. n. 88 (1-2 Capitonianibus Gela siue fiuo p XIIII Sofianis mp XXI), successivamente corretta e tralasciata. Le caratteristiche litologiche dei terreni attraversati e quelle plano-altimetriche del tracciato, che presenta quote comprese fra 81 e 297 m s.l.m. e pendenze medie del 3.5% (in salita), del 2.6% (in discesa) e valori massimi del 9.9% (in salita) e 9.5% (in discesa), sono congruenti con una strada di pianura-collina del tipo su fondo naturale, con tracciato prevalentemente rettilineo e senza ponti, fatta eccezione per quello che, forse, consentiva di guadare il Fosso di Feudonuovo in C.da Belmontino Sottano. Il rilevo aerofotogrammetrico ha consentito di individuare, nell’area in cui si ipotizza sorgesse la Mutatio Gelasium, porzioni di murature in blocchi affioranti al livello del piano campagna. Nello specifico, le evidenze riscontrate sembrano essere costituite dalla parte basale di muri perimetrali e/o di fondazione di edifici costituiti da diversi vani affiancati, di forma prevalentemente rettangolare. Nell’area in cui affiorano le murature e, soprattutto, nel territorio adiacente, sono stati rinvenuti numerosi frammenti di terracotta dei quali sono stati prelevati alcuni campioni per l’esecuzione di analisi mineralogico-petrografiche. I caratteri petrografici di queste terrecotte sono simili a quelli dei manufatti di varia tipologia (laterizi, condotte idriche 45 Figura 10. Diffrattogramma a raggi X di polveri sottili dei campioni di terrecotte prelevati nell’area. di età romana. Atti del Convegno “L’antica Archaeological Sciences, vol. 39, pp. 11-22. e vasellame di tipo domestico o votivo) Petiliana nell’Itinerarium Antonini” Società Barone G., Mazzoleni P., Aquilia A., rinvenuti a Morgantina e che, secondo nissena di storia patria, a cura di Santagati L. Barbera G. (2014), The Hellenistic and studi precedenti, sono di sicura produe Busub P., 6 Settembre 2014, Delia (CL). Roman Syracuse (Sicily) fine pottery produczione locale e di epoca greco-romana. tion explored by chemical and petrographic Lentini F., Carbone S. (2014), Carta geoIn conclusione, l’insieme delle evilogica della Sicilia. Scala 1:250.000. S.El. analysis. Archaeometry, vol. 56(1), pp. 70-87. denze materiali riscontrate consentono Bianchi F., Carbone S., Grasso M., InCa. Firenze. di attestare che il sito individuato in vernizzi G., Lentini F., Longaretti Lickorish W.H., Grasso M., Butler R.W.H., Argnani A., Maniscalco R. G., Merlini S., And Mostardini F. C.da Belmontino Sottano (Aidone), (1999), Structural styles and regional tecto(1989), Sicilia orientale: Profilo geologise pur non corrispondesse alla Mutatio nic setting of the ‘Gela Nappe’ and frontal co NebrodiIblei. Memorie della Società Gelasium, presenta tracce di un insepart of the Maghrebian thrust belt in Sicily. Geologica Italiana, 38, 429-458. diamento archeologico di epoca grecoTectonics, 18, 655-668. Bonacini E. (2010), Una proposta di identifiromana, verosimilmente ubicato lungo cazione lungo la via A Catina - Agrigentum. Miller K. (1964), Itineraria Romana «Röil tracciato stradale che, almeno fino mische Reisewegw an der Hand der Tabula AITNA Quaderni di Topografia Antica, all’inizio del IV sec. d.C., collegava le Peutingeriana». Ed. L’Erma di Bretschnei4, Centro Siciliano di Topografia Antica der, Roma. (CE.SI.T.A.), Ed. ALMA, Catania. città di Catania e Agrigento. RINGRAZIAMENTI Si ringrazia la Soprintendenza BB. CC. e AA. di Enna per aver concesso l’esecuzione delle analisi chimico-petrografiche sulle terrecotte campionate in situ e la relativa pubblicazione dei risultati. “Contributo realizzato con fondi per la Ricerca di Ateneo-Piano per la Ricerca 2016/2018”. BIBLIOGRAFIA Atzori P., Bruno G., Crouch D. P., Mazzoleni P., Pezzino A. (1995), Hydrogeological, Petrographic and geochemical characterization of Morgantina Hydraulic network (Sicily- Italy). Proc. of 1st Int. Congr. “Science and technology for the safeguard of cultural heritage in the mediterranean basin”, Nov. 27- Dec. 2 - 1995, Catania - Siracusa (Italy). Barone G., Lo Giudice A., Mazzoleni P. And Pezzino A. (2005), Chemical characterization and statistical multivariate analysis of ancient pottery from Messina, Catania, Lentini and Siracusa (Sicily). Archaeometry, vol. 47(4), pp. 745-762. Barone G., Mazzoleni P., Spagnolo G., Aquilia E. (2012), The Transport Amphorae of Gela: A Multidisciplinary Study on Provenance and Technological Aspects. Journal of Brienza E. (2018), Un approccio per l’archeologia dei paesaggi nel territorio di Enna e Morgantina. Cronache di Archeologia, 37, ISSN: 2532-8484, Edizioni Quasar. Bruno G. (2017), Morgantina: Geoarcheologia della città in epoca greco-romana. Guide Geroarcheologiche d’Italia, vol. I, ISBN 9788885245068, Ed. Fralerighe, Tivoli. Butler R.W.H., Grasso M., And La Manna F. (1992), Origin and deformation of the Neogene-Recent Maghrebian foredeep at the Gela Nappe, SE Sicily. Journal of the Geological Society, London 149, 547-556. Casano Del Puglia R. (2012), La rete viaria nella Sicilia Greca. Le Pagine di Storia, Brigantino-il Portale del Sud, http://www. ilportaledelsud.org/rete_viaria_greca.htm. Cicerone M. T., Verrine. II, 3. Cordova V. (1890), Le origini della città di Aidone ed il suo statuto tradotto e documentato anno 1890. Tipografia del senato - Forzani, Roma. 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Atti del Convegno di Studi “Ricerche storiche e archeologiche nel Val Demone”, a cura di Imbesi F., Pantano G., Santagati L., 1718 maggio 2014, Monforte San Giorgio (Messina), 107-128. Strabone, Gheographikà. VI, 3. Tito Livio, Ab Urbe Condita. III. Uggeri G. (2007), La formazione del sistema stradale romano in Sicilia. Atti del Convegno di Studi “La Sicilia romana tra Repubblica e Alto Impero”, a cura di Miccichè C. Modeo S. e Santagati L., 20-21 Maggio 2006, Caltanissetta, SiciliAntica, 228-243. Whitbread I. K. (1995), Greek transport amphorae: a petrological and archaeological study. Fitch Laboratory Occasional Paper, 4, British School at Athens, Athens. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 46 I porti, gli approdi e l’antica rete stradale nella zona iblea dal mare alla terraferma Giovanni Cassarino (G.C.) Dirigente U.O. Archeologia della Soprintendenza BB.CC.AA. di Ragusa E-mail: [email protected] Saverio Scerra (S.S.) Funzionario dir. archeologo della Soprintendenza BB.CC.AA. di Ragusa E-mail: [email protected] Harbours, landing places and ancient road’networks in the Hyblaean area from the sea to the mainland Parole chiave: Area Iblea, approdi, antiche vie di comunicazione Key words: hyblaean area, wharf places, ancient network of roads RIASSUNTO La Sicilia, ed in particolare i Monti Iblei, rappresentano un importante nodo viario nella storia del Mediterraneo essendo luogo centrale dei traffici fra il ricco oriente e l’occidente, fra l’Africa e l’Europa. Gli incerti tragitti preistorici saranno stati certamente condizionati dai traffici transmarini con l’area egea e sicuramente legati a direttrici costiere o a corsi d’acqua da risalire; con l’arrivo dei Greci, invece, Siracusa e Gela diventano i due poli da collegare per terra e per mare. Alla via costiera (Elorina) e a quella che taglia le montagne del massiccio Ibleo (Selinuntina) si affiancano piccoli ripari costieri ancora oggi testimoniati da resti di bitte lungo la frastagliata costa. Le insenature offrivano facili ripari durante le tempeste ed erano i punti di partenza per vie che risalendo i corsi d’acqua, a quei tempi navigabili, permettevano le comunicazioni trasversali sulla terrafer- ma raggiungendo quelle aree che daranno origine ai grossi centri urbani di Ragusa, Modica e Scicli e a diversi siti scomparsi. È proprio questa rete primordiale che ancora oggi percorriamo che si è trasformata nelle moderne carreggiate. Le recenti scoperte archeologiche forniscono un chiaro quadro fra queste primordiali arterie e quelle che dopo la riforma enfiteutica dei Conti Cabrera alla fine del XIV secolo divennero le regie trazzere delimitate dai tradizionali muri a secco iblei. LE PECULIARITÀ GEOLOGICHE E LA PALEOVIABILITÀ DELL’AREA Nulla sappiamo, e non è certo rimasta traccia evidente, delle vie del commercio preistorico, ma una cosa è certa: quando crebbero, sia le necessità alimentari, che l’industria della selce (e poi dei metalli), si pose il problema di vie Figura 1. Esempi di carraie Iblee. A: lungo la S.P.13 nei pressi di Ragusa; B: area del Plemmirio di Siracusa; C: muli da trasporto (da Navarra G. 2016); D: carretti che trasportano la pietra asfaltica al caricatoio di Mazzarelli (cartolina illustrata dei primi del novecento) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 di collegamento sicure e rapide per raggiungere i luoghi di scambio e il mare. Il carro con slitte (stràule), a due o a quattro ruote negli ultimi 5000 anni è stato il protagonista dei trasporti via terra: in tempi recenti ne ereditano le funzionalità i tipici carretti siciliani che, sino a cinquant’anni fa, si incontravano nelle campagne siciliane. Ma i trasporti di mercanzie avvenivano anche per mezzo di lunghe carovane di animali da soma, guidate dal bordonaro, che percorrevano sterrati, piste armentizie, strade definite da cippi e miliari che, a poco a poco si sono trasformate nella rete stradale recente che quei percorsi ancora oggi ricalca reiterandone, a volte, le asperità (Fig. 1). In fatto di viabilità antica gli Iblei, nella Sicilia sud-orientale, hanno una storia ancora tutta da raccontare. Caratterizzati da territori aspri, all’apparenza altopianeggianti (una superficie di oltre 3000 Kmq con una quota superiore ai 500 mt s.l.m.), questi monti sono percorsi da valli fluviali parallele tra loro per noti eventi tettonici e condizionano, ancor oggi, sia dal punto di vista archeologico, che geomorfologico, che idrografico gli sviluppi della rete stradale (Fig. 2). Gli Iblei sono un massiccio carbonatico studiato, di recente, anche grazie alle ricerche di greggio e gas naturali di cui è ricco il sottosuolo ragusano (Fig. 3). Gli affioramenti mostrano una successione di varie alternanze di rocce carbonatiche depositatesi dal Cretaceo superiore all’attuale (in profondità si è raggiunto il Trias attraversando sia rocce carbonatiche, sia vulcaniche). Non mancano, in affioramento, gli episodi legati alla crisi di salinità messiniana con gessi e la relativa copertura di Trubi ai margini del plateau ibleo, ma anche episodi vulcanici, sia cretaceo-eocenici nell’area di Porto Palo di Capo Passero, che dal Miocene sino al Plio-Pleistocene infe- 47 Figura 2. La provincia Iblea Figura 3. A: La perforazione nel 1954 del pozzo Ragusa 1; B: Schema strutturale dei Monti Iblei (da Catalano & D’Argenio, 1982); C: Carta geologica degli iblei (Grasso 1997) Figura 4. A: Altopiano calcareo nei pressi di Ragusa; B: Le vulcaniti pliopleistoceniche iblee a Buccheri e sullo sfondo l’Etna riore, nella parte centrale e settentrionale, precursori del vulcanismo della vicina Etna (Fig. 4). Le quote vanno dallo zero del mare Ionio (ad est) e del Canale di Sicilia (a sud-sud ovest) ai 987 mt s.l.m. del Monte Lauro, un vulcano (non l’unico) spento posto quasi al centro del massiccio. Un tempo queste montagne erano ricche di vegetazione, ma la forte deforestazione, iniziata dal periodo greco, denudò l’altopiano ed i versanti; la conseguenza fu un enorme trasporto Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 48 Figura 5. Schema stratigrafico strutturale dei M. Iblei (da Lentini F., Carbone S., Cugno G., Grasso M., Di Geronimo I., Scamarda G., Bommarito S., Iozzia S., La Rosa N. & Sciuto F., 1984) solido di brecce di versante e materiali alluvionali che intasarono le foci. La tettonica è stata sempre molto attiva nell’area e se pensiamo che a 980 mt s.l.m., presso Buccheri, ritroviamo affioramenti Tirreniani a Strombus coronatus (circa 100.000 anni fa), si può intuire il notevole tasso di sollevamento. Figura 6. Affioramenti cretacei e oligocenici di selce in provincia di Ragusa. A: liste di selce cretacea (Form. Amerillo) presso Casasia; B: noduli di selce lungo il Fiume Amerillo; C: affioramento d selce oligocenica del Mb. Leonardo della Form. Ragusa presso Monterosso Almo; D: L’intervallo stratigrafico di riferimento tratto da Grasso 1999 Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 L’areale è fortemente sismico e sembra superfluo ricordare che nel 1693 è stato registrato e descritto (Visini et alii, 2009) il più grosso evento sismico della storia italiana, se non del Mediterraneo. Un terremoto stimato di magnitudo 7,4 che rase al suolo una cinquantina di abitati provocando circa 60.000 vittime e che fece registrare sull’intera costa ionica dell’Isola uno tsunami con run-up stimato di 8 metri. Questi movimenti tettonici e il costante innalzamento delle quote orografiche rispetto al mare, produssero un tasso di sollevamento tra i più alti della Sicilia esponendo all’erosione gli affioramenti profondi, ma anche creando un reticolo fluviale con forti pendenze e con allineamenti nord-est/ sud-ovest e nord-sud a seconda del periodo tettonico di riferimento (Fig. 5). Attualmente il Riparo di Fontana Nuova (Marina di Ragusa) sembra essere il sito antropizzato più antico degli Iblei ragusani. Si tratta di un rifugio stagionale, risalente al Paleolitico superiore, frequentato nelle stagione della caccia. Qui, dal Barone Grimaldi, fu rinvenuta una ricca messe di strumentazione in selce, oggi al Museo “P. Orsi” di Siracusa (Bernabo’ Brea,1958; Tusa, 1992). Ed è proprio la selce, di cui sono ricchi gli Iblei, la merce di scambio più ambita nella preistoria: nella parte più antica degli affioramenti iblei (oltre al vulcanismo di Porto Palo) si evidenzia, 49 Figura 7. Miniere di selce di Monte Tabuto. A: pianta (Orsi 1898) dell’unica attualmente visibile lungo la S.P. 9 (ingresso e interno in B e C) nella zona occidentale e settentrionale dell’altopiano, la porzione sommitale del Cretaceo-eocene carbonatico e il successivo oligocene, con abbondanti affioramenti di selce. Si tratta della parte superiore della Formazione Amerillo e di quella inferiore della Formazione Ragusa (Membro Leonardo), che emergono fra Monterosso Almo e Licodia Eubea (Fig. 6). Procedendo verso meridione, si moltiplicano gli affioramenti di selci oligoceniche e, nelle unità litostratigrafiche, ormai smantellate, non è difficile imbattersi in vene di selci multicolore lungo Figura 8. Siti preistorici iblei e siciliani in cui è presente industria estrattiva e di lavorazione della selce (da Nicoletti 1990 e Bernabo Brea 1958 modificati) la stella nel particolare degli Iblei rappresenta il distretto minerario di Monte Tabuto, Sallia Raci e Racello Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 50 i terrazzi alluvionali. In tutta la successione geologica dei litotipi più recenti dell’Oligocene, sia nel settore occidentale, che orientale, non si rinvengono più selci se non sporadicamente in alcune coltri alluvionali. Al pari, lungo le valli che si dipartono centripete dall’area del Monte Lauro, per la natura vulcanica dei luoghi, si rinvengono grossi ciottoli basaltici da cui, in antico, si ricavavano macine e asce largamente esportate. Sin dalle epoche più antiche della preistoria abbiamo una grande diffusione della selce grezza o lavorata e l’uomo ibleo farà dell’estrazione di questo minerale una voce fondamentale della sua economia con la conseguente creazione di veri e propri distretti minerari la cui attività, studiata, per la prima volta, nell’Ottocento dai Baroni vizzinesi Corrado e Ippolito Cafici, quasi unica in Italia, è attestata dal neolitico all’età del Rame e fino a tutto il Bronzo Antico (facies di Castelluccio) (Bernabo’ Brea,1958; Tusa, 1992). La presenza di un distretto minerario fra Monte Tabuto e le Contrade Sallia, Raci e Racello di ben sette miniere scoperte da Paolo Orsi nel 1897 di cui oggi si vedono solo due accessi lungo la S.P. 9 (Fig. 7) e i vicini abitati con stazione officina dove avvenivano le lavorazioni determina un periodo di floridi commerci di quel minerale, grezzo e lavorato. Dalle ricche pianure costiere e da quella ipparina, lungo direttrici parafluviali, cereali e altre derrate alimentari vengono scambiati con il materiale grezzo o in parte lavorato proveniente dalle aree di maggior presenza di selce. Un utile baratto da cui sarà, di certo, derivato un potenziamento della viabilità di interconnessione tra aree costiere e distretti selciferi. Tra queste stazioni officina, non solo quella notissima di Monte Tabuto, in prossimità del fiume Ippari, ma lungo il Fiume Dirillo, nell’area di Piano Arceri, in prossimità dell’attuale Acate, si raccoglie, ancor oggi dal materasso alluvionale, selce che doveva essere oggetto di accurate lavorazioni anche per il fatto che, qui, sembra presentare una buon numero di varianti per quanto a sfumature di colore: si va, infatti, da quelle di colore nero e marrone, a quelle rosse e gialle (diaspri), alle agate, forse le stesse decantate da filosofo greco Teofrasto, nel III sec. a.C., come uniche nel Mediterraneo. Centri di lavorazione e commercio della selce dovevano trovarsi, sulla costa, a settentrione di Camarina e a nord della moderna Scoglitti (Zafaglione, Berdia) e a Punta Braccetto-Branco Grande, dove l’Orsi individuò una grande stazione officina (Fig. 8). Anche lungo il Fiume Irminio ed i suoi affluenti, la raccolta di placers doveva essere veramente intensa a giudicare dalle stazioni officina sinora censite. Vale appena la pena di ricordare che il fiume Irminio, come documentato per altri fiumi siciliani (Bruno, 2017), sino all’epoca storica era navigabile almeno sin sotto Ragusa Ibla; oggi lo vediamo intasato da sedimenti ed alluvioni perché con il forte disboscamento (in particolare di aree medio-fluviali come quelle del Bennit e Silva Suri) iniziato dai Greci e conclusosi nel Medioevo, le brecce di versante ed i terreni da monte sono stati dilavati andando a intasarne la foce dove era un grande porto attestato dalle fonti antiche. Dalle coste iblee l’isola di Malta dista meno di 100 Km e da qui dovette dipartirsi una via transmarina della selce che forse, a partire dall’età del rame, giunge anche in Grecia e nel vicino oriente. Tra le stazioni officina alla foce dell’Irminio era certo importantissima quella di Gravina-Maulli, dove la selce era estratta, lavorata ed esportata via mare e dove, per altro, attraverso una forma di paleoviabilità para-fluviale, forse, confluiva la selce dall’alto corso dell’Irminio ed in particolare quella proveniente dall’areale Giarratana-Monte Casale-Ragusa. Qui erano grandi stazioni officina tra cui spiccano quella che doveva trovarsi nell’area attorno al noto ipogeo di Calaforno (Guzzardi, 1980) (Fig. 9), o quella nei pressi delle grotte San Filippo e del Gigante, poco a nord di Ragusa. Altre stazioni officina erano sicuramente più ad est, nel modicano e lungo il torrente di Cava Ispica. Se le “strade” della preistoria erano poco più che sentieri, esse diventano strade e itinerari in età greca, prima e romana, poi (Orsi, 1907; Pace, 1958; Paladino, 2007; Uggeri, 2006; Santagati, 2006; Bruno, 2017). Nella cuspide sud-orientale della Sicilia, l’arteria più importante era quella attraverso cui i Greci di Siracusa erano penetrati nel massiccio degli Iblei per commerciare e/o scontrarsi con i Siculi. La via cosiddetta Selinuntina, attraverso Akrai, Kasmenai ed Akrillai, dalle fonti dell’Irminio, raggiungeva la foce del Ippari per poi, lungo la costa raggiungere Gela e Akragas (Fig. 10). Attraverso antichi percorsi parafluviali lungo l’Irminio, un diverticolo della via Selinuntina, probabilmente sarà giunto a Hybla Heraia e da qui, alla foce dell’Irminio dove incrociava la via Elorina che si sviluppava a sud lungo la costa. Quest’ultima era stata aperta dai Siracusani per raggiungere Eloro, la città che segnava il limite dell’espansione di Siracusa verso sud: evitando, poi, la zona del Pachynum, giungeva nella zona oggi nota col nome di Porto Ulisse per svolgersi, verso ovest, lungo la costa, raggiungendo la foce dell’Irminio, Camarina, la foce del Dirillo raccordandosi, quindi, alla via Selinuntina che arrivava a Gela e Akragas. La rete stradale inaugurata dai Greci, ampiamente utilizzata dai Romani e nel Medioevo è ancora oggi in uso e Figura 9. Pianta ipogeo di Calaforno (da Guzzardi 1980) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 51 Figura 10. Itinerari iblei antichi. A: la via elorina; B: la via selinuntina (da Baglieri et alii 2002); C: estratto della Tabula Peutingeriana per il tratto Calvisiana-Hybla_Agris (nel cerchietto il sito di Hyble l’odierna Ragusa); D: proposta di viabilità antica georeferenziata dal sito www.pelagios.org costituisce in alcuni casi l’unica direttrice che unisce una località all’altra come, lungo la costa, dove si attende ancora, dagli anni Cinquanta, la sua trasformazione in rete autostradale. G.C. LA VIABILITÀ LUNGO LA COSTA E VERSO L’ENTROTERRA E GLI ANTICHI APPRODI IN TERRA IBLEA Lo studio della costa e nel caso specifico di quella iblea, non può prescindere da una serie di considerazioni sul rapporto uomo - mare - terra rimasto sostanzialmente immutato dalla preistoria fino all’invenzione della macchina a vapore. Fintanto ci si è mossi sul mare solo con la forza del vento e dei remi, l’uomo ne ha sfruttato le potenzialità naturali, d’approdo, di difesa e d’approvvigionamento, sempre allo stesso modo: questa costa che Polibio definisce “aspra e importuosa” (Polibio, Historiae, I, XXXVII), non ha mai smesso di essere considerata, dalle popolazioni iblee, una delle poche vie per proiettarsi verso il mondo e per superare una marginalità geografica e territoriale resa ancora più aspra da vie terrestri da sempre poco affidabili. Le fonti antiche e gli antichi viaggiatori descrivono le terre comprese fra il Dirillo e l’Irminio come una sorta di paradiso, ricco di acque e dal clima mite, favorevole ad ogni tipo di colture e all’allevamento da cui, le popolazioni locali, traevano e traggono vita e sostentamento. A questo Eden le popolazioni dell’antichità hanno sempre guardato e le coste, da cui si dipartivano le rotte verso tutto il mondo conosciuto, sono state battute, in tutte le epoche, da ogni tipo di naviglio amico e non, e da esse sono partiti per ogni dove, fino al secolo scorso, canapa, granaglie, vino e pietra pece grezza e lavorata e beni di ogni sorta. Agli estremi opposti di questo territorio, tra la foce del Dirillo e le aree umide di Punta Castellazzo della Marza, stanno due tra i più importanti scali dell’antichità: quello di Camarina – Scoglitti e quello di Pozzallo. Il sistema di approdi, ripari e ridotti, spesso, troppo generosamente definiti porti, in terra iblea, faceva riferimento alla antica litoranea tra Agrigento e Siracusa segnata nell’Itinerarium per maritima loca che descrive, oltre a questa, altre otto strade della Sicilia romana (Fig. 11). Questa direttrice giungeva in terra iblea alla foce del fiume Dirillo, dove, in antico, era, di certo un approdo. Quindi, da un lato, proseguiva verso l’interno, sulla riva sinistra del fiume, per andare a ricongiungersi con l’antica via Selinuntina che da Siracusa, attraverso gli Iblei, menava alla volta di Agrigento; dall’altro, lungo la costa, raggiungeva, attraverso la macchia mediterranea e i “macconi” sabbiosi (l’apparato dunale) della plaga Mesopotamium (contrada Alcerito), la foce dell’Ippari (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004; Uggeri, 2017b). Qui, in età greca, era il porto canale dell’antica Camarina di cui, Paolo Orsi, ai primi del secolo scorso, durante i lavori di bonifica dell’alveo del fiume Ippari, individuò moli e banchine (Pelagatti, 1966). La vocazione mercantile della costa camarinese, nell’ultimo trentennio, è stata sottolineata non solo dalla scoperta di porzioni del porto dell’antica colonia greca, ma anche da una straordinaria messe di ritrovamenti subacquei di varia cronologia (Di Stefano e Pelagatti, 1998; Di Stefano, 1998). Qui il mare, tanto generoso è stato per gli archeologi, quanto «color del vino» per gli antichi naviganti che spesso vi fecero naufragio. Un ufficiale e idrografo inglese, William Henry Smith che, tra il 1814 e il 1816, eseguiva un rilevo delle coste sicilia- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 52 Figura 11. La via costiera e gli approdi lungo l’ Itinerarium per maritima loca (da: Uggeri 1970) ne, a proposito della baia di Cammarana, ne sottolinea la pericolosità e ci informa che la chiesetta dedicata alla Vergine, già Tempio di Atena dell’antica colonia greca, era colma di ex voto e di cime di vascelli, dedicati da chi si era salvato, nel tentativo di approdare alla baia (Smith, 1824) E Paolo Orsi, quasi un secolo dopo, tratteggiando il panorama di queste plaghe, all’altezza di Branco Grande (Punta Braccetto), descrive la spiaggia «… seminata di carcasse di navi naufragate» (Orsi, 1910). Sulle rovine dell’antica Camarina, come testimoniato dal ritrovamento di alcune monete di Manfredi, Federico il Semplice e alcuni piatti della stessa epoca (Pelagatti, 1962), dovette stanziarsi, a partire dal XII – XIII secolo, un modesto borgo medievale ricordato da Edrisi (Amari-Schiapparelli, 1883) che faceva capo alla chiesetta di cui alla testimonianza di Smith e menzionata da T. Fazello perché, ogni quindici Agosto, vi si celebrava il culto della Vergine con grandi onori e pellegrinaggi (Fazello, 1574). Sul margine occidentale del promontorio dell’antica Camarina era una torre, purtroppo franata in mare nel 1915: la più antica notizia che la riguarda risale al 1392 quando re Martino I concede a Bernardo Cabrera «turrim Cammaranae cum foresta et territorio eius » (Sipione, 1966). La sua ricostruzione ipotetica è possibile grazie ad un antico acquerello (Spannocchi, 1596; Camiliano, 1877) e non si esclude si trattasse di una torre, medievale nell’aspetto, di pianta quadrata, molto al- ta, a quattro livelli costituiti, a partire dal piano terra, da tre ambienti monocellulari collegati da una scala a chiocciola, ricavata in un angolo della spessa muratura e da un attico terrazzato, con parapetto e feritoie. Essa era posta a baluardo del Santuario Mariano alle sue spalle, della pesca e dei traffici commerciali che si svolgevano lungo il tratto di costa immediatamente sottostante dove convergevano, fino ai primi del secolo scorso, per essere esportati, i prodotti agricoli (il vino soprattutto) e dell’allevamento provenienti dall’intera Valle dell’Ippari (Mazzarella–Zanca, 1985; Monello, 1996; AA.VV., 2008). Qui venne sfruttato in un primo tempo l’antico porto canale della colonia greca e forse, a causa del suo graduale insabbiamento, l’approdo si spostò a poco a poco verso la moderna Scoglitti. Come era naturale l’intensa attività di questo scalo non sfuggì alle orde bar- Figura 12. Carraie antiche lungo la S.P.13 Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 baresche e piratesche che, sin dal XIV secolo, affiggevano le coste del Mediterraneo e della Sicilia: alla metà circa del XVI sec. la torre di Cammarana venne attaccata da Uccialì (Uluç Alì) con scarsi risultati (Mazzarella-Zanca, 1985) e il 21 Settembre del 1591 si registra un incursione sulla spiaggia di Cammarana lì dove, evidentemente, era una grande vivacità commerciale grazie a uno scalo assai attivo con alle spalle un ricchissimo comprensorio (Bonaffini, 1991). L’antica strada costiera nota all’Itinerarium, fuori dalle mura di Camarina, si diramava in due direttrici: la prima, a Rifriscolaro, si dirigeva verso la zona di Passolato, dove erano delle antiche cave di pietra, per poi risalire verso contrada Castiglione e l’altopiano ragusano, lungo un percorso non distante dalle moderne arterie stradali, come dimostrerebbero alcune carraie rinvenute lungo la S.P.13 (Fig. 12). 53 Figura 13. Gli approdi delle Caucane La seconda, attraversato l’antico Oanis, si volgeva verso l’interno, in direzione dell’areale dove sorge la moderna Santa Croce Camerina nella quale sono importanti testimonianze di età tardo-imperiale, bizantina e medievale (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004). Si allontanava, dunque, dalla costa e dal sistema di approdi che gli antichi chiamavano Caucanae Portus, definito da una serie di baie che andavano dall’attuale Punta Braccetto, alla foce del torrente Biddiemi, presso la moderna Casuzze (Scerra, 2015; Scerra, 2017; Uggeri, 2017) (Fig. 13). Profondamente alterato dalla modernità e da devastanti fenomeni erosivi, questo tratto di costa, nell’antichità, comprendeva una serie di scali e ridotti, tra i quali anche l’antico Kaúkana limén (Tolomeo, Geographia, III, 4-7) che parrebbe coincidere con un refugium Cymbe noto all’Itinerarium, cui si è soliti ascrivere i ruderi di contrada Anticaglie, ad est della moderna Punta Secca (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004). In questi antichi approdi giungevano, via Malta, le rotte annonarie dall’Oriente e dalla Tripolitania (De Romanis, 2004): dai loro bassi fondali si vuole siano salpati, nel 533 d.C., alla volta di Malta e del Nord – Africa i dromoni bizantini schierati da Belisario, contro i Vandali (Procopio, De Bello Vandalico, I, 14), nonché, nell’XI secolo, sempre alla volta di Malta, i drakkar della flotta normanna di Ruggero per rintuzzare gli ultimi focolai di resistenza musulmana (Amari-Schiapparelli, 1883). Ma è l’antico scalo di Ras Caran-Rosacambra-Capo Scalambri (Punta Secca), nel tratto in cui la costa iblea è meno distante dall’arcipelago maltese, tra due insenature protette dallo scirocco e dal maestrale, che parrebbe coincidere col Kaúkana limén, a poche decine di metri più ad ovest dai ruderi delle Anticaglie (Pelagatti e Di Stefano, 1999; Pelagatti, 2005; Di Stefano, 2006; Di Stefano, 2014a; Di Stefano, 2014b). Se la rada di ponente di quest’antico ancoraggio è ancora oggi facilmente identificabile, presso l’odierna Punta Secca, sia per la stessa conformazione della costa, sia, soprattutto, per una serie di bitte d’ormeggio ai piedi di una torre d’avvistamento della fine del XVI secolo, rileggendo gli studiosi e i viaggiatori che, dal Fazello (Fazello, 1574), sino alla fine del XIX secolo, giunsero, a vario titolo, lungo questa costiera, è possibile, oggi, tentare di ricostruire l’aspetto della baia di levante e l’immagine dell’antico scalo. Camillo Camilliani ricorda Rasarami o capo Scarami come una cala da cui i vascelli partivano per Malta e lo descrive come una punta sabbiosa, di poco superiore all’acqua, che si prolun- gava sul mare per sessanta canne fino a un ampio scoglio (oggi comunemente denominato “l’isola”) sì da creare due baie che garantivano al naviglio riparo da tutte le tempeste (Camiliano, 1877). Filippo Geraci, nel suo portolano del XVII secolo, conferma che dentro la punta, detta secca, nella parte di levante della costa denominata, ai suoi tempi, “Antiguglia” era un ridosso protetto sia dai venti di ponente che di maestrale (Pedone, 1987). Andrea Massa, nel 1709, a Capo Scarami, vede la torre di guardia e, di fronte ad essa, nota lo scoglio vicinissimo alla riva notato da Camilliani. Da qui verso levante descrive le timpe di Longobardo che si estendevano per tre miglia con una punta (dove ricorda ‹‹…le atterrate vestigia di disfatto castello…››) e una cala omonime di cui la punta stessa era argine e spalla, capace di 25 galee. Quelle erano quindi seguite da una seconda punta e una seconda cala chiamate con lo stesso nome delle prime e quindi altre timpe di Longobardo con la Cala e la punta Anghegef (oggi il piccolo borgo marinaro di Casuzze) con fonti di acqua dolce (Massa, 1709). Nel 1790 Richard Colt Hoare, attratto dalle “Anticaglie” di Caucana e del suo porto sulla spiaggia (‹‹…now called Seno Longobardo.››), in una baia vicina ‹‹…close to the Anticaglie…››, su una nave mercantile, partiva alla volta di Malta descrivendo la rotta che da Punta Secca menava all’isola dei Cavalieri (Colt Hoare,1817). William Henry Smyth, nel 1816, con chiaro riferimento al ruolo svolto nella portualità antica dai suoli alluvionali a ridosso della costa, riteneva di recente formazione la spiaggia tra Longobardo e Capo Scalambra e che, lì, doveva esserci un bacino molto capace grazie alla presenza di aree umide a ridosso della costa (Smyth, 1989). Così anche George Dennis, console britannico in Sicilia e cultore di archeologia, tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta del XIX secolo, in visita a Punta Secca, asserisce che a est del promontorio del faro, nella baia di “Porto Secco”, sia da identificare l’antico porto di Caucana e suppone un mutamento delle linee di costa e che una baia spaziosa esistesse tra Capo Scalambri e Punta Longobardo (Dennis, 1864). Julius Schubring non ha dubbi nel collocare a Capo Scalambri-Punta Secca il porto di Caucana, ritenendo che il mare, a ponente del faro (a 1,75 s.l.m.), si addentrasse a formare una grande rada delimitata dalla rocca del faro, a scirocco, Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 54 e da una bassa scogliera a pelo d’acqua, a ponente (Schubring, 2000). Eduard Freeman a Caucana con il celebre Arthur Evans, suo genero, vede in alcune baie a est di Scalambri, il sito dell’omonimo porto (Freeman, 1891). Paolo Orsi, ai primi del secolo scorso annota nei suoi taccuini che, nello specchio di mare in cui si affacciano i resti dei quartieri di Anticaglie, i pescatori, in estate, ormeggiavano le loro imbarcazioni, approfittando dell’alta marea (Pelagatti, 2006). Ad est dell’ottocentesco faro di Punta Secca, ancora tra XVI e XVIII secolo, il mare doveva addentrarsi molto più di quanto non faccia oggi (Dennis) creando una rada piuttosto ampia, da dove, facilmente, ci si imbarcava per Malta (Colt Hoare): quella rada era delimitata ad est dalla c.d. Punta di Longobardo oggi affiorante a pelo d’acqua, ad ovest da una lunga e bassa lingua di sabbia, un istmo, che prolungava in mare il promontorio (Camilliani) su cui si erge il moderno faro. Quella lingua di terra, lunga 123m circa (le sessanta canne di Camillo Camilliani), raggiungeva lo scoglio affiorante oggi chiamato “l’isola”: questo stretto istmo, forse tra il XVIII e la fine del XIX secolo, come a Portopalo di Capo Passero, fu letteralmente smantellato dalle ancora violente correnti. Da allora la costa ad est del faro è in avanzata erosione ed è notevolmente alterata rispetto alle antiche descrizioni (Fig. 14). Protetta dai venti occidentali e di maestro, nella tarda antichità o forse, anche un po’ prima, su di essa si affacciò l’abitato di Caucana-Anticaglie, non a caso, aggregatosi lì dove giungeva anche l’antica direttrice che dall’interno menava sulla costa, volgendosi ad est lungo le baie dell’antico scalo. Si tratta dell’attuale Via delle Vignazze, transita alle spalle degli edifici 15 e 23 di Anticaglia II e nel suo volgere verso capo Scalambri, passa nei pressi dell’edificio 22, un edificio pubblico, con aula absidata e stretti ambienti quadrangolari e allungati, non comunicanti tra loro che si aprono su un grande cortile centrale (Pelagatti e Di Stefano, 1999; Di Stefano 2014a), forse correlato alle attività dell’antico porto-rifugio (un mercato o horrea ?). Funzionale e necessario alla navigazione da e verso Malta, dallo scalo, forse stagionale, di Caucana-Ras Caran-Capo Scalambri dovettero transitare merci e uomini fino al medioevo e, tra il XVI e il XVII secolo, in loro difesa e degli approdi minacciati dalla corsa ottomana, si costruirono tre torri di guardia (di Capo Scalambri, di Pietro o di Mezzo e di Vigliena) che costituirono una straordinaria linea di fortificazioni costiere sopravvissuta, in quest’area, più fitta che da ogni altra parte della costa ragusana (Mazzarella e Zanca, 1985; AA.VV., 2008). Raggiunta l’area del santacrocese l’antica via segnata nell’Itinerarium, si dirigeva verso il torrente Biddiemi, ne percorreva la riva sinistra e guadatolo, a nord di Mazzarellj (Marina di Ragusa), ridiscendendo, nei pressi della contrada Castellana Vecchia, si raccordava con un percorso non distante dall’attuale S.P. 89 e proseguiva verso il fiume Irminio che si guadava al Passo di Palma (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004). Il porto canale alla foce di quel fiume era noto agli antichi: a partire dal VI sec. a.C. i Greci si stanziarono sulla sponda sinistra di esso in contrada Maestro (Di Stefano, 1987) e, in età araba, il porto era Figura 14. Ricostruzione dell’approdo di Capo Scalambri Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 segnalato col nome Mahal (oggi Maulli). Risalendo il corso del fiume, forse in buona parte navigabile, si giungeva a Hybla ed ai fertili altipiani dell’interno e, in età Normanna, Edrisi descrive l’attività internazionale dello scalo « dove le navi entrano per lasciare e prendere carichi » (Amari e Schiapparelli, 1883). Il porto, successivamente, dovette gradualmente insabbiarsi, a causa anche del disboscamento del medio corso del fiume cui sopra si faceva cenno (Solarino, 1885/1905): cadde in disuso e le attività ad esso connesse furono demandate ai ridotti in prossimità della vicina Mazzarellj, mentre rimaneva come punto sicuro di approvvigionamento idrico per le navi che incrociavano quel tratto di costa (Pedone, 1987). Oggi, a ridosso della costa, delle antiche strutture portuali, non resta più nulla, mentre rimane traccia della presenza degli 55 Figura 15. Pozzetti alla foce dell’Irminio antichi abitati a loro servizio: tre pozzetti circolari posti a 1m circa l’uno dall’altro, del diametro di 40cm e profondi in media 30/40cm, sono stati rinvenuti su un tratto di scogliera a destra della foce: il rinveni- mento, presso di uno di essi, di una pietra circolare col bordo inferiore sagomato a guisa di coperchio a chiusura ermetica, potrebbe far pensare a contenitori per la conservazione di derrate (Fig. 15). Figura 16. Le antiche fabbriche presso la spiaggia degli Americani Sempre a destra della foce, lungo la battigia, nella spiaggia comunemente definita “degli Americani”, sono i resti di almeno due antichi edifici (Fig. 16) che per struttura e tecnica edilizia adoperata, potrebbero essere attribuiti ad un abitato di età tardo-imperiale e bizantina e, forse, medievale in parte coevo a quello di Caucana–Anticaglie (Pace, 1927; Bracchitta, 2012). Poco si conosce della vita del borgo marinaro di Mazzarellj dopo la fine dell’attività del porto alla foce dell’Irminio, e la sua storia di importante scalo con ricco entroterra agricolo si lega a quella della Torre di Mazzarellj (Mazzarella e Zanca, 1985; AA.VV., 2008). Costruita tra il XVI e il XVII secolo, delle sue antiche strutture, oggi, resta visibile solo la grande terrazza a scarpata per le artiglierie che la riconduce, nell’aspetto generale, alla torre di Pozzallo. Nota altresì alle cronache per storie di concussione e di diserzione, era difesa da un discreto numero di uomini e di pezzi d’artiglieria e, ancora nel 1804, era presidiata da quattro caporali e munita di tre cannoni di ferro su cassa a ruote, due mascoli per gli spari d’avviso, quattro schioppi e quattro spingarde con cavalletti e « giochi d’arme ». Nel 1813 i suoi armamenti torre si ridussero a un cannone di bronzo, quattro tromboni e due cannoni di ferro, ancora oggi posti sulla terrazza a scarpata. Il primo dei due cannoni di ferro, lungo 2,35m, posto oggi su due plinti, arrugginito per la lunga esposizione agli agenti atmosferici, privo della gioia, sembra cronologicamente il più antico dei due pezzi superstiti: si data forse alla fine del XVI sec. e sembrerebbe corrispondere a quel cannone che, da notizie d’archivio, s’apprende venisse appellato col nomignolo di «panza vecchia». Il secondo, lungo 2,50m ca., collocato in verticale all’interno di una nicchia all’estremità orientale della balconata, è anch’esso privo della gioia e reca la culatta immersa nel cemento: potrebbe essere datato tra la metà del XVIII e gli inizi del XIX secolo. Superato il fiume Irminio, attraverso le alture rocciose, di Piano Grande e Timpe Rosse, la strada antica raggiungeva, nei pressi della costa, Donnalucata. Il toponimo deriva dall’arabo «‘Ayn ʹal ʹAwqât» (fonte delle ore) perché l’acqua, da una fonte sull’arenile in contrada Micenci, pare sgorgasse cinque volte al dì, nell’ora delle preghiere (Amari e Schiapparelli, 1883). La necessità di interdire l’accesso alla fonte ai barbareschi che in prossimità di essa avevano agio d’approdare e fare Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 56 Figura 17. Fortezza denominata il “Palazzo” l’acquata, fa sì che, nei suoi pressi, fosse costruita una torre citata da Camilliani che si suole identificare con un edificio a 76m s.l.m. in Contrada Dammuso che, però non pare corrispondere all’edificio descritto «a un tiro di scopetta» dalla fonte (Camiliano, 1877). Si tratta piuttosto di una struttura che si sviluppa in larghezza con un prospetto di 17,90m (Mazzarella e Zanca, 1985; AA.VV., 2008) molto simile ad un’altra costruzione, inedita, “il Palazzo”, nella contrada omonima (Fig. 17). Esso, che George Dennis, nel XIX secolo, definì fortezza (Dennis, 1864), sulla riva destra dell’Irminio, ne domina da nord-ovest l’ultimo tratto, fino alla foce e al Passo di Palma. Incombe da buona altezza, a circa 2 Km chilometri di distanza, sul tratto di costa denominato Punta di Guardia Vecchia, (oggi spiaggia degli Americani), dove insistono i ruderi degli antichi edifici tardoantichi sopra ricordati. L’edificio di contrada Palazzo, in effetti, potrebbe coincidere con un fortilizio quattrocentesco, la fortezza del Pantano della Castellana, che controllava la costa e, in sua prossimità, l’antica via paralitoranea annotata nell’Itinera- Figura 18. Posto di guardia in contrada Timpe Rosse Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 ium, che corrisponderebbe, più o meno, al tracciato della S.P. 89. Sulla sponda opposta del fiume Irminio, il Palazzo “avvistava” un punto di guardia con ambienti ipogeici, escavato su uno sperone roccioso in località Timpe Rosse (Fig. 18), da cui, verso est, si intraguardava la “torre” in contrada Dammuso (Mazzarella e Zanca, 1985; AA.VV., 2008) e la torre campanaria del Santuario della Madonna delle Milizie (XI-XVIII secolo) da cui era possibile controllare, sia un ampio tratto della costa, sia i tracciati viarii verso Ragusa e Modica lungo le opposte sponde del fiume Irminio. Questi edifici, posti, come si diceva, lungo l’antico percorso viario sub e paracostiero, facevano parte di un più ampio sistema integrato di avvistamento e difesa della costa, a protezione della viabilità e del ricco entroterra agricolo: costituitosi forse tra il quattrocento e il seicento con un sistema di forti posti ad una certa altezza s.l.m., si correlava, a sua volta, con altri punti di guardia e avvistamento alle loro spalle segnalando, all’interno, eventuali pericoli imminenti comunicati dai fani di guardia sulla costa. L’antico itinerario, ad est di Donnalucata, seguendo la linea di costa, raggiungeva la foce del fiume di Modica (Motykanos) dove si suole collocare l’antica statio marittima di Heraeum (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004) che, tuttavia, in questa sede, si propone di identificare presso la foce del fiume Irminio. Qui, come si è visto, le testimonianze archeologiche rilevate giustificherebbero meglio la presenza di una statio: lo stesso, di contro, non si può affermare per l’area intorno alla foce del fiume di Modica dove, non si rinviene traccia di antichità alcuna e permane, soltanto nelle fonti, la memoria di un antico caricatore medievale (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004). Si aggiunga poi che, dal punto di vista strettamente onomastico, il toponimo Hereum meglio si spiegherebbe con una sua diretta derivazione dall’epiclesi Heraia con cui si soleva distinguere la Hybla ragusana, naturalmente affacciata sul medio corso dell’Irminio, lungo il quale, al tempo di Edrisi, risalivano alla sua volta, dalla foce, genti e mercanzie (Amari e Schiapparelli, 1883). Atteso inoltre che l’attuale direttrice paralitoranea, per grandi linee, sembra coincidere con la viabilità antica, se accogliamo, in via del tutto ipotetica, l’ubicazione di alcuni abitati tardoantichi e altomedievali sulla costa, ci accorgiamo che le distanze tra l’uno e l’altro così come indicate nell’Itinerarium non coincidono 57 Figura 19. Tabella di comparazione fra le distanze indicate nell’Itinerarium per maritima loca e le distanze reali affatto con quelle reali. Tuttavia, ammettendo l’ipotesi di collocare l’Heraeum in località Gravina-Maulli (Spiaggia “degli Americani”) presso Marina di Ragusa, dove è verificata la presenza dei ruderi tardoantichi più volte citati, la distanza tra Mesopotamio ed Hereo calcolata in circa 35,8 km sembrerebbe coincidere grossomodo con quella riportata nell’Itinerarium (Fig. 19). Raggiunte le cale di Sampieri- Pisciotto, prima e di Punta Regilione, poi, che offrono ampie possibilità di riparo dai venti orientali la prima, occidentali, la seconda, l’Itinerarium, senza discostarsi troppo dalla costa, tirava dritto verso Pozzallo. L’attività di questo scalo era forse già intensa fra la tarda età bizantina e quella araba, allorquando, controllava i traffici per Malta e il nord Africa insieme al porto di Rasacambra. Edrisi lo chiama «Marsâ ʹad Darâmin» (Porto dei Dromoni), a ricordo, forse, di quelle antiche frequentazioni (Amari e Figura 20. Carraie alla foce del torrente Busaidone Schiapparelli, 1883). In effetti il toponimo arabo è probabile alluda al fatto che nell’area, dove nel XIV secolo sorse la residenza dei Cabrera, a partire almeno dal VII/VIII sec. d.C., giungevano, forse, dall’entroterra ibleo (da Tabuna, presso Ragusa e da Castelluccio-Steppenosa a nord-ovest di Scicli), ingenti quantità di materiali bituminosi da cui ricavare la pece, fondamentale, sia per calafatare le imbarcazioni (il quartiere più antico di Pozzallo, ancor oggi, è chiamato in dialetto « u scaru» dal greco eskarion – bacino di alaggio), sia per alimentare il “fuoco greco”, il rudimentale lanciafiamme di cui erano dotati i dromoni bizantini sin dal VII secolo d.C. A partire, poi, dal XIV secolo, il caricatore è posto sotto la giurisdizione dei Cabrera che ivi costruiscono un palazzo in stile tardo-gotico trasformato, nel XVI secolo, in forte e munito di piattaforma per le artiglierie (Mazzarella Zanca, 1985; Nobile, 1997; AA.VV., 2008) a controllo dei traffici di grana- glie e di ogni altro bene producesse la Contea di Modica (Militello, 2001). Nei secoli a seguire, la crescita esponenziale del Porto di Pozzallo, con quelli di Scoglitti e Mazzarellj (Marina di Ragusa), condizionò la vita di altri scali circonvicini, più piccoli, controllati dal suo portolano che furono relegati al ruolo di piccoli approdi d’appoggio, nelle rotte di piccolo e medio cabotaggio, lungo le coste iblee: qui fino alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso continuarono, ininterrottamente, a convergere gli interessi di tutto il Mediterraneo. Oltre ai locali, soprattutto Pozzallesi e Sciclitani, padroni di barca Maltesi, Trapanesi (a Mazzarellj uno scalo è chiamato appunto «Trapanese»), operarono nel commercio con Malta e con altri centri del Mediterraneo verso cui esportavano carrube, canapa, vino, riso, latticini, cereali e bestiame e da cui importavano legname, ferro, mobili, botti e ceramiche (Militello, 2001; Dormiente, 1991; Dormiente, 2009). Più ad est, lungo l’Itinerarium, un antico abitato costiero doveva essere nell’area di S. Maria del Focallo, dove, alla destra della foce del torrente Busaidone, sulla falesia argillosa, ancora oggi, si leggono le tracce di antiche carraie, forse funzionali a un caricatore dove si imbarcavano tegole la cui produzione è attestata nella zona dal ricordo di antiche fornaci (Dormiente, 2009) e dai toponimi (Fig. 20). Pochi chilometri ancora più ad oriente è il Porto d’Ulisse o di Odyssa/Edyssa che Giovanni Uggeri fa coincidere con la statio detta di Apolline, in prossimità della quale l’Itinerarium piegava verso nord-est, alla volta di Helorum, evitando il Pachynum (Uggeri, 1970; Uggeri, 2004). Questo tratto di costa, in realtà, afferisce ad un sistema di ampie baie che oltre il Capo Pachino, passando per la Punta delle Formiche, hanno offerto facile riparo al naviglio a vela di ogni epoca che incrociava, seguendo rotte commerciali assai antiche, la pericolosa e importuosa costa meridionale della Sicilia. Conosciuto altresì per la presenza di un Tempio di Apollo Lybistinus (Macrobio, Saturnalia. 117, 24), fonti di età ellenistica e romana vi individuano toponimi legati al passaggio del Laertide in Sicilia: valgano per tutti la menzione ciceroniana di un Portus Odyssae (Cicerone, Verrine, V, 34, 87), quella Pliniana di un Ulixis Portus (Plinio Naturalis Historia, III, 8 [14], 89) e quella di Licofrone che, nella sua Alessandra, successivamente commentata da Tzetses, conferma l’esistenza, presso il capo Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 58 Pachino, di un promontorio di Ulisse che avrebbe qui innalzato un tempio ad Ecate e un cenotafio di Ecuba (Lycophr., Alessandra 1030 e sg.; Tzetzes In Lycophr., Alessandra 1030). Tolomeo, infine, riferisce di un’area portuale tra il Pachynos e la foce del fiume Motycanos (Tolomeo, Geographia., III 4,3). In questo tratto di mare è forse da rintracciare quel Marsa Al B.Walis – Marsa Abuli (NI) S citato da Edrisi e letto dall’Amari in Porto d’Ulisse (Amari e Schiapparelli, 1883), riletto in Marsa Abuli (NI) S dall’Uggeri che interpreta il secondo termine come corruzione di Apollinis e nei pressi di Punta Castellazzo pone pertanto, il Portus Apollinis da cui deriverebbe il nome di Apolline dell’Itinerarium (Uggeri, 1970). Sebbene ogni tentativo di identificazione dei luoghi citati dalle fonti ci appare essere assai arduo certo è che nella vasta baia ad est della breve penisola di Punta Castellazzo, protetta dei venti di ponente e di libeccio, è con molta probabilità da rinvenire quello scalo ricordato dal Columba (Columba, 1906) e dal Camilliani (Camiliano, 1877) e segnato nella prima carta di delimitazione del territorio comunale di Ispica del 1820 (Calvo, 1982). Quest’area, ancora oggi reca il nome di Porto Ulisse, ma appare difficile la sua idntificazione con il Portus Odyssae di Cicerone così come, allo stato della ricerca, appare molto difficile attribuirne i resti antichi alla statio di Apolline (Fig. 11) anche per la distanza dalla statio di Hereo che va ben oltre le venti miglia segnate nell’Itinerarium (Fig. 19) L’abitato che si affacciava su quell’ampia insenatura portuale, noto al Fazello, al Massa, al Camiliano (Fazello, 1574; Massa, 1709; Camiliano, 1877), e di cui oggi si sono trovate cospicue tracce, doveva digradare dal culmine del vasto promontorio calcarenitico alle sue spalle, dove ancor oggi si erge una postazione radar della Guardia di Finanza, fino al mare. Era limitato, ad ovest e ad est, dai pantani che, almeno nel caso del Pantano Longarini, forse, furono utilizzati come bacini interni a servizio delle antiche strutture portuali. All’imboccatura del Pantano Longarini, alla fine degli anni Sessanta fu rinvenuto, scavato e, successivamente, recuperato, quel che restava di una maestosa imbarcazione del VII secolo d.C., forse una sorta di chiatta per la navigazione in aree paludose, già parzialmente distrutta nel corso di alcuni lavori di bonifica di quel bacino palustre, attualmente conservata presso i magazzini della Soprintendenza di Siracusa Figura 21. Punta Castellazzo: aree sottoposte ad indagine archeologica e ancor oggi oggetto di approfonditi e accurati studi (Trockmorton e Kapitän, 1968; Trockmorton e Trockmorton, 1973; Kampbell, 2007). Per quanto poi all’abitato antico (Fig. 21), già qualche anno orsono, si ricordavano ruderi sulle pendici del promontorio e intense tracce archeologiche a monte e a valle della S.P. 67, S. Maria del Focallo – Pozzallo. Nel corso di una serie scavi archeologici preventivi, mai editi, effettuati dalla Soprintendenza di Siracusa nel 1985, in un appezzamento di terreno subito a nord della ex regia trazzera e in prossimità dell’istmo che collega la penisoletta del Castellazzo alla terraferma, si rinvennero i resti di un’abitazione di età bizantina e una fossa di lavorazione da ricollegare a attività finalizzate alla lavorazione del pescato. Di quanto sopra, tuttavia, tutt’oggi non si rinviene traccia, mentre nel cor- so di una breve campagna di scavi, nel 1988, sulla penisoletta del Castellazzo, furono identificate una ventina di sepolture a fossa di epoca tardoantica, di forma, sia rettangolare, che circolare (Di Stefano, 1993-1994), da riferire di sicuro al vicino abitato di cui costituivano evidentemente il limite sud-occidentale, come indicherebbe un’altra tomba, fortuitamente rinvenuta nel 2011, parzialmente violata da scavatori di frodo, nella falesia che orla la spiaggia ad ovest della penisola (Fig. 21). In prossimità dell’istmo, sempre nel corso delle indagini del 1988, vennero in luce resti di focolari erosi dal mare evidentemente molto simili a quelli rinvenuti tre anni prima, nel 1985, un po’ più a monte. L’area, sottoposta a vincoli di natura archeologica e paesaggistica sin dal 1985, fra il 2004 e il 2011 è stata oggetto di un’ulteriore serie di restrizioni Figura 22. Punta Castellazzo: resti di edifici antichi nella falesia in erosione Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 59 Figura 23. Punta Castellazzo: edificio tardoantico lungo il limite occidentale dell’abitato vincolistiche ivi apposte per fermare il dilagante abusivismo edilizio che, spesso, fuori controllo e in barba ad ogni restrizione, non ha tenuto affatto conto della presenza di resti archeologici nel sottosuolo determinandone l’inevitabile scomparsa. Tracce di antiche muraglie sono visibili in sezione lungo la falesia immediatamente a est della penisoletta e stanno inesorabilmente scivolando verso il mare a causa della erosione marina e della pressione, al di sopra di essi, di moderne strutture private che ne compromettono seriamente la staticità (Fig. 22). Tuttavia la disponibilità di alcuni privati cittadini, proprietari di appezzamenti di terreno a ridosso della costa ad ovest e ad est della breve penisola, ha permesso di riportare alla luce resti di strutture dell’antico abitato, sopravvissuti a un’intensa attività agricola che in passato, come si dirà di seguito, con arature profonde che hanno anche intaccato i sedimi di base, hanno determinato, in alcuni casi, la distruzione quasi totale delle strutture antiche e il conseguente spargimento sui soprassuoli di un numero straordinario di reperti in frammenti la cui quantità, di sovente, non ha come immediato riscontro la presenza di strutture nel sottosuolo. In particolare in un’area libera da superfetazioni moderne e compresa sempre tra la S.P. 67 e la ex regia trazzera che costeggia il mare ad ovest dell’istmo, sono state svolte delle indagini di superficie con l’apporto della tecnologia georadar che hanno identificato alcu- ne anomalie che, al riscontro poi dello scavo archeologico sistematico, si sono rivelate essere i resti di un edificio orientato in senso approssimativamente nord-sud di cui esistono frammenti di spiccato murario a livello quasi di fondazione (4,30m in senso est-ovest e 12m in senso nord-sud, con uno spessore di 60cm ca.) (Fig. 23) e due cavità poco profonde, di forma sub-circolare e del diametro variabile tra i 2,70 e i 3,00 m di cui non si coglie l’esatta destinazione d’uso (focolari, fosse di lavorazione, scassi moderni ?). I saggi effettuati nella stessa area hanno del resto appurato quanto sopra asserito e cioè la totale assenza di altre strutture murarie forse a causa di una Figura 24. Punta Castellazzo: segni di profonde arature vera e propria devastazione causata dalle attività agricole pregresse (Fig. 24) con conseguente spargimento di frammenti di suppellettile antica (frustuli di sigillate africane di tipo D, di tegole e di anfore) che consentono di datare l’abitato nel pieno VII sec. d.C. In un altro caso, in un appezzamento di terreno libero da strutture moderne, collocato ad est dell’istmo, all’incrocio tra la S.P. 67 e la regia trazzera in direzione dell’istmo (Fig. 20, Area 2), due sondaggi conoscitivi hanno rivelato la presenza di creste di muri e cospicue tracce di crolli di antiche abitazioni ancora in strato perché non intaccati dai lavori agricoli data anche la profondità della loro giacenza. Detti resti tra l’altro sono più all’interno rispetto a quelli visibili in sezione lungo la falesia ad est della Punta Castellazzo e permettono di ipotizzare, in quest’area, una presenza un po’ più fitta di strutture forse perché l’abitato, da questo lato, cominciava a caratterizzarsi per una sua maggiore densità in quanto afferiva direttamente alla rada più importante dell’antico porto (Scerra, 2012). S.S. LA VIABILITÀ RECENTE I Romani, fuori dai grandi centri urbani, in Sicilia, non costruirono strade lastricate. Piuttosto si servirono di strade a fondo naturale, della larghezza di 3,5m, che si allargavano di 1m circa in curva o in tornante, per favorire la rotazione dei carichi (Bruno, 2017). Dove il materiale di cui era fatto il fondo stra- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 60 dale era dilavabile, lo si sistemava con grossi ciottoli fluviali dando così forma ad una “ciancata” (Fig. 24). Per tutta l’età romana le principali direttrici collegavano le mansiones, distanti l’una dall’altra 12-18 miglia, tra le quali erano le mutationes, dove uomini e cavalcature potevano trovare ogni forma di ristoro e spesso nell’ambito di più ampi vici, sul cui modello, in età araba, nacquero i “fondaci” e da cui, a poco a poco, si svilupparono veri e propri abitati. La moderna Ispica, ad esempio, il cui nome potrebbe derivare dal greco eis ten peghen (verso la fonte), era collocata lungo uno di questi percorsi: ampie tracce di carraie sono attestate a sud del moderno abitato e il toponimo Spaccaforno, con cui fu conosciuta fino al 1935, potrebbe essere derivato da un Hyspicaefundus, con cui, forse già in età romana, si indicava un vicus, successivamente trasformatosi in fondaco. La viabilità minore, in terra iblea (Fig. 25), rimase sostanzialmente immutata sin dalle epoche più remote e fu quella delle migrazioni armentizie che costeggiavano i fiumi e li attraversavano in prossimità di guadi noti (come il passo di Bidis, sul Dirillo), atteso che nessuna costruzione di ponti è attestata, in antico, nell’area iblea. Si deve al Viceré Marco Antonio Colonna, nel 1584, l’istituzione del servizio postale, che si svolgeva a cavallo nei tre Valli (Demone, di Noto e di Mazara). Per percorrere il Val di Mazara il corriere impiegava 18 giorni seguendo due possibili itinerari: Palermo per Alcamo dove si optava per Trapani e Mazzara o passando per Corleone per arrivare a Castelvatrano. Le giornate salivano a 24 per il Val Demone con terreni molto accidentati e 20 per arrivare negli Iblei, a Noto, perché si seguiva un itinerario interno che passava per Castrogiovanni, l’odierna Enna. Naturalmente in inverno i tempi si dilatavano per scarsa qualità della viabilità (Sciorto S. 2013). I tempi di percorrenza, ovviamente si dilatavano d’inverno, allorquando, la pioggia e il fango rallentavano la marcia dei cavalli (Fig. 26). Nel 1788 la Consulta del Maestro Segreto, Marchese Francesco Buglio, traccia finalmente una rete stradale più moderna: le Regie Trazzere. La “trazzera” è una via pubblica percorsa da armenti, di diretta derivazione dalla “tractoria” romana, più comunemente detta tratturo (Fig. 27). Ripercorrendo in parte proprio le direttrici di età greco-romana, le trazzere formarono un sistema viario, controllato dal Demanio Regio, di ben 1400 km, alla base della moderna rete stradale siciliana che per- Figura 25. Viabilità storica (da Cassini G.M. 1790) in cui si confermano anche in tempi recenti gli itinerari antonino ed elorino con la variante interna passante per l’odierna Ragusa Figura 26. Viabilità originaria storicizzata sui percorsi attuali nell’area fra Camarina, Castiglione e Hybla (elaborazione su Google maps) correva l’Isola, in lungo ed in largo, con carreggiate larghe fino a 37,68m e che, nel 1836, fu aggiornato con la costruzione di una serie di ponti. A metà del XIX secolo della nostra era, la scoperta dell’uso alternativo della pietra asfaltica e la conseguente produzione di asfalti, bitumi e derivati, proprio a Ragusa, in contrada Tabuna, toglie, finalmente, dalle strade la polvere in estate ed i fossi ed il fango in inverno, migliorandone la percorribilità. G.C. CONCLUSIONI Certamente dunque, i corsi del Dirillo e dell’Irminio, hanno costituito, sin dai primordi, le direttrici principali lungo le quali si dipana la rete stradale Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 degli Iblei Ragusani. L’Ippari, il Fiume di Santa Croce, il Biddiemi, la fiumara di Modica (Motykanos), il Busaidone, con i primi hanno, a loro volta, contribuito e contribuiscono ad agevolare le comunicazioni tra la costa e l’entroterra. Il sistema di valli, convalli e “cave” che lega gli uni agli altri corsi d’acqua crea una viabilità apparentemente secondaria, ma che non è affatto trascurabile: con percorsi a mezza costa o di fondo valle, determina una fitta maglia di vie di comunicazione certamente di interscambio fino all’alto e basso medioevo, non sempre ripercorsa dalle regie trazzere, ma di contro, oggi, ripresa, spesso, dalla moderna viabilità provinciale e comunale. Ovviamente lungo questi sistemi viari si sono mossi uomini e merci: nella prei- 61 Figura 27. Viabilità ottocentesca e rete trazzerale. A: La viabilità ed i limiti della Contea di Modica cartografate da Delisde (1779); B: Stralcio da una Carta degli itinerari della Sicilia disegnata dal Reale Officio Topografico di Napoli (1823); C: Sistema viario borbonico da Perez (1861); D: Rete trazzerale al 1929; E: Pianta topografica con viabilità carrozzabile in progetto o già realizzate nella Provincia di Siracusa al 1836 (da Archivio di Stato Ragusa) storia e nell’età del bronzo Antico (facies di Castelluccio) in particolare, erano messi in stretta relazione tra loro siti d’altura, specializzati nelle attività di estrazione e lavorazione della selce (quelli dell’area di Monterosso-Giarratana e di Monte Tabuto), con quelli degli altipiani, più a meridione, (ad esempio quello di contrada Scifazzo-Cimillà a sud di Ragusa), più vocati all’allevamento, alla pastorizia, alla macellazione e lavorazione delle carni, alla produzione casearia e alle attività agricole. Ovviamente il sistema viario era funzionale più che ai sistemi di scambio tra una comunità e l’altra (circostanza che allo stato della ricerca non è appurabile) al grande network della selce: dai siti costieri di età castellucciana (Zafaglione, Branco Grande, GravinaMaulli etc.), la selce raggiungeva remote sedi trasmarine anche in area Egea e microasiatica, rendendo giustizia alle popolazioni di quell’epoca, troppo spesso considerate di terra, più che avvezze alla navigazione e all’interscambio come quelle della successiva età del bronzo Medio (facies di Thapsos) che con le prime potrebbero porsi, invece, in rapporto di assoluta continuità come dimostrerebbe il rinvenimento dell’insediamento costiero thapsiano presso contrada Bruca (Cava d’Aliga). I primi approcci dei Greci con gli Iblei ragusani furono di tipo conoscitivo in un primo momento e, insediativo, in un momento successivo. Mercanti ellenofoni già dall’VIII-VII secolo a.C., percorrendo le antiche direttrici parafluviali dalle fonti e/o dalla foci, dovettero approcciare i Siculi di Motyka di Hybla e della Cava d’Ispica con finalità commerciali, forse legate all’arte autoctona della metallurgia, come dimostrerebbero i ricchi corredi della necropoli indigena di Via Polara a Modica con materiali greci (coppe di tipo Thapsos e Aetos 666) e le kotylai protocorinzie dalla Forza di Ispica. Lungo la costa tra Eloro e Pachino e da qui verso l’Irminio e la foce del Dirillo, ai bordi della direttrice più tarda tràdita dallo Itinerarium per maritima loca, si fermarono piccole comunità di Greci che intercettavano la rotta mercantile che dall’Africa, attraverso l’odierna Tunisia, giungeva in Sicilia. Da alcune di queste comunità precoloniali sorsero più tardi, Selinunte, Agrigento, Gela e Camarina. L’economia della Sicilia romana, come è noto, segnò gradualmente la fine di alcune poleis siceliote più piccole, quali Camarina, ma, negli Iblei ragusani, favorì, di contro, il rapporto tra la costa e l’entroterra in ragione, soprattutto tra il II e il III sec. d.C., di due fattori legati ai rifornimenti granari di Roma: da un lato lo sfruttamento intensivo dei campi (produzione cerealicola, olivicola e vitivinicola da parte di élites locali che ebbero una posizione non da poco nei rifornimenti annonari); dall’altro, soprattutto in età Severiana, il ruolo svolto dai porti e dagli ancoraggi lungo la costa meridionale della Sicilia, e di quelli lungo la costa iblea in particolare, di testa di ponte tra Roma e l’Africa nei commerci di grano, olio e vino. Nel IV secolo d.C. a Mesopotamium, a Caucana, all’Heraeum, a Porto Ulisse, pervengono le rotte annonarie provenienti dall’Egitto alla volta di Roma che viene raggiunta anche attraverso la più antica rete viaria dell’entroterra che, dall’età bizantina alla tarda antichità, metterà in collegamento ampie massae, villae, fattorie e vici alla cui centralità corrisponde la decadenza dei grandi centri urbani. In questa precisa fase storica crea qualche perplessità, come abbiamo visto, l’identificazione di alcuni siti paracostieri sulla base dell’Itinerarium per maritima loca proposta da Giovanni Uggeri. Pochi i dati a nostra disposizione per l’individuazione, in contrada Alcerito, della plaga Mesopotamium che Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 62 forse, già tra il I e il II secolo d.C., ricadeva nei fondi di un Albius: questo nome appare qui su dei laterizi con bollo Albii scoperti altresì, più a nord, nella Villa di Cozzo Cicirello, sulla sponda sinistra del Dirillo. Il recente rinvenimento di una fornace per laterizi e di, una tegola con lo stesso bollo nello scavo di un impianto termale in contrada Cifali, in agro di Chiaramonte Gulfi, in prossimità delle fonti dell’Ippari, lungo la direttrice che collegava la costa camarinese, con l’area pedemontana e la via Selinuntina, induce a pensare che i fondi di Albio avessero una vastissima estensione tra il Dirillo e l’Ippari e che l’appellativo Mesopotamium sia da attribuire a un latifondo, piuttosto che a una singola statio (Fig. 11). Lo stesso dicasi per la statio di Hereo [sive Cymbe]. Acclarato dallo stesso Uggeri che, ad occidente dell’Hereo, Cymbe potrebbe indicare i ruderi che afferiscono ad uno degli scali del porto di Caucana, la duplice toponimia riferita dall’Itinerarium potrebbe essere indicativa dell’estensione in larghezza di un ennesimo latifondo che verosimilmente andava dall’area a ridosso del Caucanae Portus alla foce dell’Irminio dove abbiamo ritenuto più verisimile collocare lo scalo marittimo di Heraeum anche sulla base di un ricalcolo delle distanze da Mesopotamium. Altrettanto improbabile, come abbiamo visto, l’identificazione della statio di Apolline nei resti dell’abitato tardoantico di porto Ulisse sebbene esso, dalla tarda età imperiale fino al medioevo, grazie alla sua ampia insenatura portuale, potrebbe avere avuto un ruolo non indifferente nelle rotte commerciali lungo la costa meridionale della Sicilia. Allo stato delle ricerche, purtroppo alquanto lacunose, non è possibile stabilire l’estensione di quell’antico abitato, sia che fosse un centro urbano, sia che fosse un chorion come Caucana. È molto probabile, tuttavia, che esso si concentrasse attorno alla grande rada di Porto Ulisse, protetta dai forti venti occidentali e sulle pendici del basso promontorio che verso di essa digrada. A Caucana rimanda anche l’unico edificio qui scavato e, stando ai reperti ceramici rinvenutivi, pare che le fasi di massimo sviluppo dell’abitato possano fissarsi nel VII sec. d.C. Non è possibile attualmente stabilire una cronologia per le ultime fasi di vita dell’abitato di Porto Ulisse che, nel medioevo, come attestato da Edrisi (Amari e Schiapparelli, 1883) e dal rinvenimento di frustuli ceramici (Grassia, 2004), sembrerebbe avere avuto una certa con- tinuità di vita e una sua funzionalità nelle rotte commerciali per e da Malta e più in generale tra occidente e oriente. Sulla base delle distanze segnate nell’Itinerarium, la statio di Apolline, o forse il latifondo omonimo, potrebbero identificarsi nell’area della moderna Pozzallo (o del Focallo), a venti miglia circa dall’Hereo, come segnato nell’Itinerarium: qui è più probabile che la via costiera piegasse verso l’interno alla volta di Ispica e dell’imboccatura della Cava per volgersi poi verso le plaghe Elorine, sulle rive del Tellaro dove è nota l’omonima villa romana di contrada Caddeddi. Non è da escludere, tuttavia, un percorso di età romana che includesse la cuspide sud-orientale dell’Isola attraversando le paludi paralitoranee con imbarcazionichiatta, come testimonierebbe il relitto di Pantano Longarini di cui si è detto. Tra il XVI e il XVII commerci trasmarini sempre più a largo raggio e l’imperversare dei barbareschi imposero la difesa della costa iblea e dei feraci territori dell’entroterra con un sistema di torri dotate di milizie e artiglierie. La fine di quei commerci, negli anni immediatamente successivi il Secondo Conflitto Mondiale, è certamente una delle concause per cui l’antichissima maglia di arterie stradali, grandi e piccole degli Iblei ragusani che, in ultimo, aveva reso assai agevole e veloce lo spostamento delle truppe alleate verso l’entroterra, dopo il 10 luglio 1943, non subisse ulteriori trasformazioni e ammodernamenti per giungere a noi in tutto il suo obsolescente fascino. S.S. BIBLIOGRAFIA AA.VV. (2008), Le Torri nei paesaggi costieri siciliani (secoli XIII – XIX), Palermo 2008. AA.VV. (1929), Mappa in scala 1:250.000 edita dall’Ufficio Tecnico Speciale per le Trazzere del Dipartimento Regionale dell’Agricultura della Regione Siciliana, Palermo. Amari E., Schiapparelli C. (1883), L’Italia descritta nel “Libro di Re Ruggero” compilato da Edrisi, Roma 1883. Baglieri G., Battaglia A., Bellina G., Conti C., Di Stefano G., Giannone V., Iannizzotto E., Lo Monaco G. (2002), Dal Museo al Territorio. 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La sua realizzazione risale alla metà del IV sec. a.C., quando la zona delle grandi saline etrusche passò sotto il controllo di Roma. In prossimità della foce del Tevere, nel VIII sec. a.C., sorgevano le saline alimentate dallo stagno salmastro di Maccarese. Questa zona fu per lungo tempo contesa per le risorse di sale tra romani ed etruschi e passò sotto il dominio di Roma dopo la conquista di Veio nel 396 a.C. Il tracciato urbano della Via Campana viene riportato nella Forma Urbis di Lanciani, tuttavia, permangono, ancora molti dubbi sul punto d’inizio della strada, che doveva coincidere con il Foro Boario, nonché sull’esatto andamento nel tratto extraurbano. La strada ,durante l’età imperiale, fu divisa in due rami: il nome di Via Portuense rimase all’asse viario più interno. Con il tempo l’area divenne un luogo importante per la coltivazione in sotterraneo di piroclastiti e ghiaie; oggi permangono molti ipogei ancora nascosti sotto il tessuto urbano. ABSTRACT The Via Campana - Portuense has been the main route of connection between the Roman area and the Tyrrhenian coast since the protohistoric age. The ancient Via Campana passed through the south-western portion of the city of Rome and crossed the salt zone of the Campus Salinarum Romanarum, parallel to the course of the Tiber river. Its construction dates back to the mid-4th century BC, when the area of the large Etruscan saltworks was under the control of Rome. In the 8th century B.C. near the outlet of the Tiber river the salt pans fed by the brackish pond of Maccarese occurs. For long time, this area with salt resources was contended between Romans and Etruscans and came under the dominion of Rome after the conquest of Veio in 396 BC . The urban layout of the Via Campana is reported in Lanciani’s Forma Urbis, however, there are still many doubts about the starting point of the road, which was to coincide with the Foro Boario, as well as the exact course in the extra-urban section. The road was divided into two branches, the name of Via Portuense remained on the innermost road axis. The area became an important site for the underground extraction of pyroclastic stones and gravels. Today many hypogea are still hidden under the urban fabric. La parte iniziale del percorso delle due strade probabilmente coincideva, seguendo un tracciato entro l’urbe lungo la riva destra del Tevere; tra il I e il II miglio, in corrispondenza della zona di Pozzo Pantaleo (Fig. 2), le strade si dividevano: la via Portuense seguiva un tracciato più interno, attraverso le colline, la via Campana, invece, proseguiva lungo la valle del Tevere (Fig. 3). In prossimità di tale bivio è documentata (Eufrosinio de la Volpaia, 1548) la presenza di una piccola cappella la cui identificazione lascia molti dubbi, ma alcuni pensano possa essere ricondotta alla piccola chiesa di S. Pantaleo fuori Porta Portese, oggi del tutto scomparsa (Figg. 1 e 3). All’altezza dell’XI miglio, presso Ponte Galeria, le due strade si ricongiungevano per proseguire sino alla città di Porto (Nibby; 1849, 1927; Mazzolari 1806). LA VIA CAMPANA E Parte dei basolati antichi delle strade IL BIVIO VERSO LA sono stati rinvenuti presso Pozzo PantaPORTUENSE leo (Fig. 4), via Carcani, nell’area della La Via Campana –Portuense ha co- ex Vigna Costa, nei pressi della nuova stituito un’importante via di comunica- stazione Trastevere. zione durante il periodo etrusco e quello romano. Essa, dapprima, costeggiando il fiume Tevere, collegava Roma alle saline di Maccarese in seguito collegò l’Urbe con l’antica città di Porto (Fiumicino). La Via, in particolare, partendo dal centro di Roma portava ad alcuni importanti luoghi di culto tra cui il santuario di Fons Fortuna, posto in prossimità del I miglio, il Pozzo Pantaleo in prossimità del II miglio, il tempio degli Arvali in prossimità del V- VI miglio (Pellegrini; 1865; Scaglia, 1911; Scheid, 1976). La via Campana mantenne il suo percorso, presso la riva destra del Tevere, per secoli, sino alla prima età imperiale, quando fu realizzato dall’imperatore Claudio il nuovo porto alla foce del fiume Tevere. Fu costruito in quegli anni un nuovo asse viario, la via Portuensis, che garanti- Figura 1. Stralcio della carta di Eufrosino de la Volpaia va un più rapido e agevole collegamento 1548, è visibile il bivio presso l’area di pozzo Pantaleo via terra con il nuovo porto (Fig. 1). Campano e la cappella oggi scomparsa di san Pantaleo Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 65 Figura 2. La Via Portuense gli orti di Cesare e il bivio presso Pozzo Pantaleo campano Figura 3. Antica cartografia che mette in evidenza il bivio della presso il secondo miglio, le aree paludose le aree di cava Figura 4. Il bivio di pozzo Pantaleo e l’area archeologica come si presenta in epoca moderna LE CAVE DI TUFO Lungo il percorso della Via Campana - Portuense erano diffuse sin dall’epoca romana le attività di estrazione di materiale da costruzione, per la coltivazione del tufo lionato (nella variante tufo di Monteverde), che interessavano una vasta area intorno all’asse viario, dalle propaggini più meridionali delle colline di Monteverde sino alla Magliana. Il tufo di Monteverde, per le sue qualità meccaniche e per la facilità di lavorazione, fu ampiamente utilizzato come materiale da costruzione nel corso dei secoli e fu coltivato prevalentemente in sotterraneo. In misura minore, sono attestate anche cave di ghiaia che veniva estratta in sotterraneo in prossimità delle colline della riva destra del Tevere (Via delle Vigne). Nelle cave sotterranee si svilupparono in seguito vaste aree di necropoli, che segneranno per secoli la destinazione funeraria del territorio portuense (Fig.5). Fu riportato alla luce, in particolare, un grande complesso necropolare, ricavato in un’area precedentemente destinata ad attività di cava a giorno, risalente alla metà del II secolo a.C. Inoltre tra il 2001 e il 2010, in occasione di alcune indagini in via Portuense, al civico 319, gli scavi per la posa di cavi a fibre ottiche hanno permesso di documentare i resti di una grande cava a cielo aperto. Nei pressi di Via Belluzzo e di Via di Vigna Pia sono stati rinvenuti edifici funerari che documentano l’uso diffuso, a partire dalla metà I d.C., di ricavare necropoli in tali aree estrattive. L’estrazione del tufo in queste cave continuò probabilmente nel corso di tutta l’età repubblicana, mentre l’abbandono potrebbe essere avvenuto a partire dal I secolo d.C. quando fu realizzato tale complesso funerario, di cui si attestano anche un sepolcro collettivo a colombario e una tomba familiare. I segni di attività di cava in sotterraneo sono molti e documentati anche presso via Ricci Curbastro e presso Largo Ruspoli, dove in seguito ai lavori per la costruzione di un parcheggio interrato è emersa una vasta area di gallerie. La presenza di cavità sotterranee in questa zona è confermata anche dal toponimo dell’attuale via dei Grottoni dove le gallerie sono percorribili per un certo tratto. L’attività estrattiva in sotterraneo sembra proseguire lungo la via Via Campana - Portuense, anche se in maniera discontinua, durante l’età post antica, per poi riprendere in maniera assidua durante l’età moderna. A questa fase più recente è riferibile l’uso delle gallerie di cava come luoghi di ricovero e probabilmente di rifugio durante la seconda guerra mondiale. Presso l’ospedale Forlanini è stato individuato un ampio sistema di cave sotterranee ancora attive tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Le gallerie di cava si estendono per un’area di circa 100 mq e si attestano in parte sotto il livello di falda, dando origine a un lago sotterraneo (Bersani et al. 2018). Gran parte del tufo utilizzato per la costruzione degli edifici dell’ospedale, venne estratto proprio da queste cave, sicuramente già conosciute e sfruttate sin dall’antichità. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 66 Figura 5. Resti archeologici presso la Via Portuense. Area archeologica Viale di Vigna Pia civico 33 Infine, più avanti in direzione Fiumicino lungo l’asse viario della Via Campana, presso Via Giannetto Valli, Via delle Vigne e in località Pian due Torri, è stata documentata la presenza di cave di ghiaia. I segni di questa attività estrattiva sono visibili anche dalle foto aeree di inizio ‘900 che documentano questo settore del suburbio sud-occidentale prima della grande urbanizzazione. Le cavità sotterranee abbandonate e dimenticate creano oggi problemi di stabilità al tessuto urbano (Bisconti et al. 2018; Nisio et al. 2017); nel 2001 manifesto un crollo di un’itera Palazzina in Via di Vigna Jacobini, dove persero la vita decine di persone. Le cause del crollo non furono mai documentate e non vi sono certezze circa la presenza o meno di cavità sotterranee. Figura 6. Via di Vigna Jacobini, targa in memoria dei caduti durante il crollo di una palazzina Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 IL CIMITERO DI SAN FELICE AL III MIGLIO Lungo la Portuense era presente ed era importante meta di pellegrinaggio in epoca medioevale il cimitero cristiano di San Felice (Bosio 1632; Guidi 1922; Kirsch, 1924; 1933; Marchi 1844-1847; Martinelli , 1653; Marucchi , 1933; Moroni, 1861; Testini 1966; Ciotoli e Nisio, 2019). Il complesso, dedicato all’antipapa San Felice II (Anastasio 1754; Amore, 1975) , costituito da una chiesa e da catacombe veniva descritto in prossimità del III miglio della via. La catacomba e la chiesa da cui si accedeva, secondo alcune fonti, furono restaurate in tre distinte epoche storiche sino al 858 da Papa Niccolò; il cimitero ricordato nei Mirabilia Urbis fu meta di pellegrinaggio sino al 1100 circa (Albertini, 1510). Nel periodo medievale esso permase come destinazione per il diffuso pellegrinaggio che partiva dalla Basilica di san Paolo fuori le Mura, passando da Santa Passera, procedeva verso il cimitero di San Felice praticava per recarsi alle spoglie del popolare Santo, tuttavia, in seguito, dopo il 1500 circa, l’ingresso e l’ubicazione della catacomba si persero. Nel corso dei secoli, molti Autori, lo hanno cercato invano (Baronio 1583, Bosio 1632; Bianchini, 1747; Boldet- 67 Figura 7. Ubicazioni possibili del terzo miglio sulla Via Portuense ti 1720; Armellini, 1893) e le ricerche continuano ancora oggi (Verrando 1988, Ciotoli e Nisio 2019). L’impossibilità di trovare tale cimitero scomparso risiede nel fatto che l’antico percorso della Via Portuense era differente dall’attuale e che non è noto con certezza il punto di inizio della Via all’interno dell’Urbe. Ciò che è certo è che il cimitero di Felice era posto su un’altura dalla quale si poteva scorgere, in distanza, la zona immediatamente a nord della basilica di S. Paolo. Il luogo era raggiungibile, dalla via Campana-Portuense, in salita, mediante uno stradello che si snodava dalla riva del fiume. La chiesa di San felice, probabilmente coincideva con un edificio preesistente fatto realizzare da Papa Giulio I e non vi sono riferimenti che fanno ritenere l’edificio stesso una basilica ipogea. Al fine di individuare il luogo esatto in cui ricadeva il III miglio si può effettuare il calcolo dalla porta da cui aveva origine la Via Portuense nelle Mura Serviane (Ciotoli e Nisio 2019, Fig. 7). È probabile che nelle ricerche il punto di inizio della Via Portuense sia errato (Porta Trigemina) e che si sia cercato nella parte più interna della città. Tuttavia considerando il percorso della Portuense dalla Porta Flumentana, e non da Porta Trigemina, posta sulla riva sinistra dell’Isola Tiberina, presso il tempio di Portuno, il secondo miglio della strada coincide con l’area di Pantaleo Campano, ed il sesto con l’area del cimitero di Generosa ad Sestum Philippi. Il Terzo miglio secondo tale ipotesi potrebbe coincidere con l’area, posta sul rilievo al di sopra della Via Magliana, di Via Pallavicini-Via Mancini-Via Prospero Colonna-Via Giannetto Valli (Ciotoli e Nisio 2018). Secondo ulteriori ipotesi l’area potrebbe essere quella Figura 8. Catacombe di Generosa al sesto miglio della via Portuense: accesso e immagini dall’interno Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 68 Figura 9. Dipinto cinquecentesco conservato presso i Musei Vaticani a Roma; la Via Portuense costeggia il fiume Tevere, è presente lungo essa uno stagno prossima a Via dei Grottoni o a Via delle Vigne (Verrando, 1988). È possibile tuttavia che il cimitero in questione così come la chiesa dalla quale si accedeva siano stati sottoposti nel tempo a fenomeni franosi e di sprofondamento e che parte di esso sia stato perduto con i lavori e l’urbanizzazione compiuta a partire dagli anni cinquanta con la costruzione anche della ferrovia e della stazione di Trastevere. Lungo la stessa via , inoltre, presso un podere chiamato ad Sestum Philippi, sorgono le Catacombe di Generosa (VI miglio, Fig. 8). Queste furono realizzate in un’area di cava preesistente, su di un unico livello. Il cimitero di Generosa è stato riscoperto di recente da De Rossi, anch’esso scomparso per secoli. A tali catacombe si accede da uno stradello che sale ripidamente dalla via Magliana, con alcuni tornanti, su di una collina, parimenti a quello che doveva condurre al cimitero di Felice. VIA CAMPANAPORTUENSE AREA DI PALUDI E DI INONDAZIONI Nella storia evolutiva del territorio portuense il fiume Tevere ha sempre rivestito un duplice importante ruolo: da un lato ha rappresentato un’indispensabile risorsa naturale e una fondamentale via per i traffici e i contatti commerciali, dall’altro, con la sua azione di modellamento (erosione e sedimentazione), ha contribuito in modo determinante a modificare il territorio (Ceselli, 1848). Gli abitanti del territorio portuense probabilmente furono costretti ad adottare strategie e soluzioni diversificate per creare un equilibrio con il fiume. In quest’ottica probabilmente la scelta di creare un tracciato secondario della via Portuense, probabilmente, è stata anche dettata dalla necessità di cercare un percorso alternativo alle inondazioni del Tevere (Fig. 9). Quest’area del suburbio portuense, inoltre, era attraversata, oltre che dal Te- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 vere, anche da alcuni fossi, che nel corso dei secoli hanno variato il loro percorso: il fosso di Papa Leone e il fosso di Pozzo Pantaleo. Questi affluenti minori sono oggi quasi del tutto scomparsi, poiché interrati per via dell’intensa urbanizzazione che ha cambiato totalmente l’aspetto del paesaggio a partire dalla seconda metà del Novecento. Tuttavia la toponomastica e la cartografia storica ci aiutano a ricostruirne, almeno in parte, il percorso: entrambi i canali scorrevano in senso Nord-Sud, seguendo un andamento perpendicolare al Tevere, nel quale andavano a sfociare, uno all’altezza dell’attuale quartiere Eur, l’altro poco a più a Nord della chiesa di S. Passera. Un altro piccolo canale, il Fosso la Passera, attraversava con andamento NO-S-E il versante meridionale dei colli di Santa Passera. Lo studio della cartografia storica di quest’area (Tomassetti 1899; Tomassetti et al. 1977; Valenti, 1750; Valentini e Zucchetti, 1953; Frutaz, 1962, 1972) mostra chiaramente il tracciato e l’ampiezza del Tevere ed è testimonianza delle molteplici alluvioni che sconvolsero Roma nel corso del 1500. Infatti nel tratto prossimo alla chiesa di Santa Passera, il fiume sembra dividersi intorno ad una piccola isola che testimonia come questo settore della piana fosse spesso invaso costantemente dalle acque del fiume. Altra testimonianza delle inondazioni e della presenza di terreni paludosi emerge dal toponimo con cui ricorre lo scomparso cimitero di San Felice. Quest’ultimo veniva denominato anche cimitero ad insalatas o ad insalsadas o ad insalsados probabilmente per la presenza di acque salmastre o paludi. Viceversa è possibile che lungo l’antico percorso della via Campana vi siano state aree paludose di stoccaggio del sale o vere e proprie saline, o di aree di sosta del sale proveniente dai campi di Fiumicino (Ciotoli e Nisio 2018). CONCLUSIONI L’antico percorso della Via Portuense, via di origine etrusca, era differente dall’attuale, l’analisi, della cartografia storica fa ritenere che esso coincidesse con la Magliana Vecchia. In età imperiale il percorso si divise nei pressi del Pozzo Pantaleo dove fu realizzato un bivio e un percorso secondario: il vecchio asse asse mantenne la denominazione di Via Campana (successivamente cambiata in Via della Magliana) costeggiando il Tevere, l’asse nuovo si sviluppò in salita sulle colline 69 gianicolensi e prese la denominazione di Via Portuense. I due tronconi si ricongiungevano, più avanti proseguendo verso la Città di Fiumicino; tale soluzione evitò il percorso nei pressi del Tevere, territorio probabilmente sottoposto periodicamente alle inondazioni del fiume. L’area della Portuense è sempre stata un’area di estrazione di piroclastiti, per la presenza di ampie colline tabulati con scarpate verticali da cui si creavano imbocchi per la coltivazione in sotterraneo. Gli impianti di cava furono presto sfruttati come aree di necropoli e sepolture. In particolare in questo territorio era presente al terzo miglio della via un cimitero oggi scomparso: il cimitero di San Felice. Quest’ultimo è stato oggetto d studi in quanto la sua scomparsa rimane dubbia e lascia ipotizzare che tutto o parte di esso si trovi ancora sotto il tessuto urbano. Il cimitero era in posizione dominate su di una collina ad esso si accedeva attraverso uno stradello in salita così come, al sesto miglio, era ubicato un altro cimitero quello di Generosa, scomparso anch’esso per secoli e riscoperto poco più di 100 anni fa (De Rossi, 1864). La via Portuense pertanto nasconde ancora altre cavità ipogee, possibili aree a rischio del territorio, che sono messe in evidenza anche dalla carta di densità di sinkholes (Nisio, 2019; Ciotoli et al. 2015b). Questo settore della città, infatti, è notoriamente interessato da fenomeni di sprofondamento improvviso del suolo (Nisio, 2019) che hanno provocato danni alle infrastrutture con chiusura di strade o crolli di palazzi (Ciotoli et al. 2015 a, b, 2016). BIBLIOGRAFIA Albertini F. (1510), Septem mirabilia orbis et urbis Romae et Florentinae, presso lo stampatore Iacopo Mazzocchi di Roma. Amore A. (1975), I martiri di Roma. Ed. Tau a cura di Buonfiglio, 2013, pp. 364. Anastasio L.A. 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La formazione dei nuovi suburbi derivata dalla costruzione della nuova cerchia muraria tardorepubblicana - si delinea nel corso della seconda metà del I secolo a.C. e assume un’articolazione complessa già in età augustea. L’applicazione di un grande piano di ricostruzione della città attuato negli anni di Adriano non coinvolge solo lo spazio intramurano, ma anche i suburbi. Nell’area fuori porta Marina di grande interesse sono le modalità progettuali del cosiddetto decumanus nell’approccio al mare. SISTEMI VIARI EXTRAURBANI NEL MONDO ROMANO Come è noto la costituzione di una rete di città in Italia dipende in gran parte dai processi di colonizzazione di epoca arcaica e classica e dai conseguenti, connessi meccanismi di trasformazione delle società italiche. In particolare, a partire dal IV secolo a.C., si sperimenta- no nuove forme di occupazione e sfruttamento del territorio che trovano pieno compimento grazie al coordinamento e all’egemonia di una sola città. Originale è il carattere sinecistico dell’insediamento di Roma, posizionato in quella delicatissima zona di cerniera tra le due Etrurie tirreniche. La città generò un sistema di strade che avrebbe assicurato il futuro controllo del territorio, ben leggibile fuori dalle porte delle mura Serviane (Fig. 1). L’impresa di incamerare nel mondo romano la pianura padana si rese pienamente possibile dopo la seconda guerra Figura 1. Mappa di Roma con indicazione delle ramificazioni stradali fuori dalle porte delle mura Serviane (elab. M. David) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 71 Figura 2. Mappa dell’Italia settentrionale in epoca repubblicana con indicazione delle principali vie consolari: via Emilia, via Postumia, via Popilia-Annia (elab. M. David) punica (Fig. 2). In realtà, l’atto fondativo della grandiosa operazione di urbanizzazione risaliva al 218 a.C., cioè poco prima della guerra annibalica, con la strategica fondazione di due grandi città al centro della pianura padana (Piacenza e Cremona). Forse proprio in queste città e in questa regione si riscontrano i più complessi e riusciti casi di inserimento nell’ambiente e di attuazione dei sistemi di irradiazione delle strade dalle porte urbiche. Piacenza assicurava il controllo sulla sponda destra del Po; fu poi raggiunta da Figura 3. Foto aerea zenitale di Piacenza con indicazione del circuito delle mura e delle vie extraurbane (elab. M. David) due vie consolari primarie, in un punto nodale del tracciato della via Postumia e all’estremità occidentale della via Aemilia. Dalla città così efficentemente interrelata si irradiavano le strade verso ogni settore del territorio (Fig. 3). Cremona garantiva il controllo della sponda sinistra del Po; venne poi attraversata dalla via Postumia e dunque integrata nel sistema viabilistico della regione. Nel caso di Bologna, attraversata da una via consolare, all’estremità del tratto urbano dell’Aemilia mediante i cosiddetti carrobbi (cioè quadrivia) si sprigionarono cinque vie dirette nell’ager Bononiensis (Fig. 4). Anche nel caso di Mediolanum, un centro urbano a nord del Po non raggiunto da alcuna via consolare, si irradiarono le strade dalle porte formando bivi o quadrivi. Nel settore sud-orientale della città partono da due pusterle (una della prima cerchia e una della seconda) coppie di vie a corto raggio probabilmente pensate solo a favore delle esigenze del suburbio (la pusterla del Bottonuto e la pusterla di S. Stefano) (cfr. David, 1986) (Fig. 5). IL CASO DI OSTIA Il caso della prima colonia di Roma è quello di un insediamento per così dire estremo: unica tra le città del Lazio Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 72 Figura 5. Mappa del centro urbano di Mediolanum con indicazione delle ramificazioni stradali fuori dalle mura urbane (A: pusterla del Bottonuto; B: pusterla di S. Stefano)(elab. M. David) Figura 4. Foto aerea zenitale di Bologna con indicazione delle vie exraurbane. Sono indicate con due circoletti le posizioni del gruppo episcopale urbano e della principale area cimiteriale cristiana (elab. M. David) Figura 6. Mappa del Lazio antico (elab. M. David) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 settentrionale (Laurentum, Lavinium e Ardea erano tutte dislocate nell’entroterra (Fig. 6), Ostia è posta al di là delle zone umide che fiancheggiavano la foce del Tevere e in prossimità del mare, in un paesaggio dinamico ad alta velocità di trasformazione. Gli elementi disponibili sui caratteri delle prime fasi insediative ostiensi appaiono ancora troppo frammentari e limitati per definire i caratteri dell’abitato. Ciò vale, evidentemente, anche per l’e- 73 Figura 7. Mappa del primo nucleo insediativo di Ostia con indicazione delle vie pomeriali e della viabilità extraurbana (elab. M. David – S. De Togni) ventuale viabilità anteriore al centro detto convenzionalmente castrum (Fig. 7). La riconosciuta struttura del primo nucleo rettangolare della colonia si reggeva su un elementare impianto regolare ortogonale legato a Roma attraverso la via Ostiense che, come un vero e proprio cordone ombelicale, fiancheggiava il Tevere nelle sue divagazioni mantenendosi sempre sulla riva sinistra (Figg. 8-9). La flessione del Tevere e la vistosa erosione del tracciato dell’Ostiense, conseguenza probabile di una grave esondazione verificatasi alla fine del I secolo d.C., obbligò al ricorso ad una bretella trapezoidale che influì profondamente nella conformazione della viabilità nel lembo di terra tra la città e l’area umida (Fig. 10). Il centro disponeva di vie pomeriali sia all’interno del circuito murario sia all’esterno, ma si relazionava con l’ambiente circostante anche grazie ad una via – nota con il nome di Laurentina – con lo stagno ostiense in uso come bacino portuale interno (Vittori et al., 2015; Salomon et al., 2018). L’abitato si connetteva anche con le banchine portuali sulla riva del Tevere attraverso il cosiddetto “cardine massimo” (Fig. 7). Per mezzo di una biforcazione fuori dalla porta occidentale del cosiddetto castrum, la colonia si connetteva con le due ragioni primarie dell’insediamento: il controllo della foce del grande fiume e l’affaccio diretto sul mare. Si trattava di percorsi stradali a corto raggio di fondamentale importanza che assicuravano lo sfruttamento delle risorse e delle potenzialità ambientali. Verso la metà del I secolo a.C. la metamorfosi del quadro ambientale e la città in costante espansione impongono un nuovo perimetro murario (Fig. 9). Nell’anno del consolato di Cicerone (63 a.C.) l’opera, pensata a protezione dei suburbi cresciuti intorno alle vie extraurbane, fu iniziata e cinque anni dopo, nel 58 a.C., fu portata a compimento, così come Fausto Zevi ha dimostrato ricostruendo il testo dell’iscrizione celebrativa posta sulla porta Romana della città (Zevi, 1998). Figura 8. Mappa del primo nucleo insediativo di Ostia con indicazione delle zone di espansione extraurbana prima della costruzione della seconda cerchia di mura (elab. M. David – S. De Togni) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 74 Figura 9. Mappa di Ostia dopo la costruzione della seconda cerchia di mura e indicazione della principale viabilità (elab. M. David – S. De Togni) Figura 10. Mappa del settore orientale di Ostia con indicazione del corso modificato del Tevere e della conseguente flessione della via Ostiense (elab. S. De Togni) Figura 11. Mappa dell’area di Ostia fuori porta Marina con le prime direttrici della viabilità extraurbana (elab. M. David – S. De Togni) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 All’esigenza dello sfruttamento in senso agricolo del lembo di terra posto tra lo stagno e il mare risponde il disegno di una microcenturiazione (Fig. 9), che arrivava a toccare il fianco meridionale dell’insediamento dove passava la via Ostiense. Il reticolo segnò anche l’esaurimento della via detta Laurentina che connetteva la città al bacino interno. L’ultimo ventennio di ricerche si è dimostrato decisivo per una migliore comprensione del contesto ambientale di Ostia giungendo a meglio definire le dinamiche di trasformazione del paesaggio romano e post-romano. Le indagini svolte dai ricercatori del Progetto Ostia Marina nel suburbio marittimo non toccano solo le questioni relative alle grandi opere di epoca adrianea, ma permettono di approfondire aspetti inediti relativi alle forme di connessione della città con il mare in epoca tardorepubblicana e nella primissima età imperiale (cfr. Barbera et al., 2019). È stato possibile osservare e visualizzare per mezzo del GIS - elaborato da Stefano De Togni nell’ambito della sua tesi di dottorato in archeologia presso l’Università di Digione - che fuori da porta Marina la via diretta alla spiaggia si allargava a ventaglio (Fig. 11). A ovest si spingeva oltre la battigia con un molo legato ad una diga foranea, a est conduceva alla spiaggia. La particolare conformazione di questa infrastruttura era studiata evidentemente per le esigenze dei pescatori che operavano a breve distanza dalla costa con barche di piccolo cabotaggio ormeggiate al minuscolo molo o tirate in secco sulla spiaggia. Il rinvenimento in scavo di attrezzi per la pesca con la lenza e con piccole reti riflette questa fase d’uso dell’area anche se la pesca continuò ad essere praticata a lungo sotto costa (David et al., 2013). Nel corso del I secolo d.C. l’area continua ad essere interessata dalla regressione marina e il quartiere trova nuovi spazi di espansione. Così, più o meno all’altezza della loggia di Cartilio Poplicola, si irradia un’ulteriore via verso il mare (Fig. 12). Il settore meridionale delle mura tardorepubblicane è ancora scarsamente indagato. Sulla base dei dati disponibili è ipotizzabile la presenza di pusterle dalle quali si dipartivano biforcazioni stradali a corto raggio chiaramente funzionali per le esigenze funerarie (in modo forse non dissimile dal caso di Mediolanum) (Fig. 13). Una tale conformazione e assetto infrastrutturale saranno presto superati quando in età flavia, in seguito a un ulteriore allontanamento del mare, verrà tracciata una prima via costiera, che in 75 età severiana assumerà la solidità e la stabilità di una vera e propria via consolare anche se singolarmente solo tangente rispetto alla città marittima (cfr. il contributo di S. De Togni in questo stesso convegno) (Fig. 14). BIBLIOGRAFIA Barbera M., David M., Stasolla F.R. (2019), Ostia. Scavare, conservare e valorizzare una città antica, in Atti della Pontificia Accademia romana di archeologia. Rendiconti, XCI, pp. 153-168. Calza G. (1931), Ostia (Itinerari dei musei e monumenti d’Italia), Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma. 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Prime ipotesi sulla viabilità antica e medievale tra la via AnniaPopilia e le Serre calabresi: evidenze archeologiche e modelli predittivi in ambiente GIS The ancient road at Carromonaco in the Mesima valley (VV). Preliminary hypotheses on ancient and medieval roads between the via Annia-Popilia and the Calabrian Serre: archaeological evidence and GIS predictive models Parole chiave: viabilità antica e medievale, Calabria, Serre Calabresi, Via Annia-Popilia Key words: ancient and medieval roads, Calabria, Calabrian Serre, Via Annia-Popilia RIASSUNTO Il rinvenimento, nel 2014 da parte della Soprintendenza Archeologica della Calabria, di un tratto di asse viario nelle sue immediate adiacenze dell’abitato medievale di Belforte, in posizione collinare, proteso sulla vallata dello stesso Mesima, nell’attuale comune di Vazzano (VV), ora in abbandono dopo il sisma del 1783, offre l’occasione di approfondire lo studio della viabilità romana in quest’area calabrese. L’asse viario si caratterizza per il profilo a schiena d’asino che risulta funzionale allo scivolamento delle acque piovane sui lati, evitando la formazione di pozze stagnanti, e per la presenza sul lato est, di una serie di pietre infisse di taglio, a formare una sorta di cordolo per contenere lateralmente il corpo stradale; non c’è traccia di margines o crepidines e manca la parte sommitale (dorsus summum), forse soggetta ad un’azione di espoliazione in fase di disuso della strada. La tecnica costruttiva utilizzata per il nostro asse viario trova confronto con un tratto della Via Annia vicino ad Altino che ne consente la datazione ad età romana. La strada che, nel tratto rinvenuto corre parallelamente alla vallata del fiume Mesima, potrebbe rappresentare la porzione di una via di comunicazione trasversale che metteva in comunica- zione l’antica via romana nota come Annia-Popilia, nel tratto di territorio compreso tra Vibo Valentia, S. Onofrio e Mileto, con il mar Ionio e con la via costiera jonica nota sin da età greca, attraverso le Serre calabresi. A tale proposito, analizzando le testimonianze letterarie, archeologiche, toponomastiche, aerofotografiche e la cartografia storica e attuale, si valuterà l’ipotesi dell’esistenza, in età antica, di un percorso trasversale, transappenninico, che congiungesse direttamente Vibo Valentia con Scylletium, verificando tale ipotesi anche attraverso i più aggiornati strumenti geomatici, prima tra tutte la slope and distance analysis. Si valuteranno inoltre le dinamiche evolutive della viabilità interna in questa porzione di Calabria in età altomedievale e medievale, in relazione ai mutamenti del sistema insediativo, del paesaggio e delle tipologie di sfruttamento delle risorse del territorio. Le ipotesi che andremo a enucleare sono frutto di un lavoro interdisciplinare in grado di integrare aspetti e considerazioni di diversa natura. Verrà posta particolare attenzione all’antropizzazione dell’area nel corso dei secoli a partire dall’età romana e dunque alle due scelte dei modelli insediativi in un territorio che si presenta particolarmente ricco di Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Antonino Facella Università di Genova E-mail: [email protected] Giovanni Boschian Università di Pisa, Palaeo-Research Institute, University of Johannesburg E-mail: [email protected] Ginevra Gaglianese Responsabile Museo aziendale LanificioLeo E-mail: [email protected] Maria Teresa Iannelli Socio SIGEA, già funzionario archeologo Soprintendenza Archeologica della Calabria E-mail: [email protected] Pietro Carmelo Manti Scuola Normale Superiore di Pisa E-mail: [email protected] Nota: nell’ambito di un lavoro comune, il par. 1 è di G. Gaglianese e M.T. Iannelli, il par. 2 di A. Facella e P.C. Manti, il par. 3 di G. Boschian risorse, soprattutto in riferimento ai giacimenti minerari. Oltre alle finalità puramente storicotopografiche, consistenti in primo luogo nel tentativo di tracciare il percorso, o meglio i possibili percorsi tra Ionio e Tirreno nell’area in questione, si valuterà anche in quale misura una strada possa, per usare parole care a G. Uggeri, divenire “veicolo culturale”, lasciando intorno a se una capacità di attrazione e stratificazione del popolamento che va oltre gli originari motivi economici e strategici che ne hanno dettato la nascita, e si arricchisce di connotati culturali (ad esempio, religiosi) e identitari più ampi. 1. INQUADRAMENTO STORICO ED EVIDENZE ARCHEOLOGICHE Il presente contributo prende spunto da un rinvenimento effettuato nel 2014 da parte della Soprintendenza ai Beni Archeologici della Calabria1: un tratto di asse viario è stato individuato in località Carromonaco (Fig. 1) lungo la vallata del fiume Mesima, alla sua sinistra idrografica, all’interno dell’attuale territorio comunale di Vazzano (VV), e nelle immediate adiacenze dell’abitato medievale di Belforte. Quest’ultimo (Fig. 2), posto in posizione collinare e proteso sulla vallata del Mesima, è oggi ridotto in ruderi perché 77 Figura 1. Ubicazione del sito di Carromonaco (su stralcio del Digital Atlas of the Roman Empire, modificato) distrutto dal terremoto del 1783, ma già alla fine del Seicento Padre Giovanni Fiore da Cropani ne attestava la decadenza: «Oggigiorno piccolo, e povero castello, di soli 13 fuochi; ma ne’ tempi più antichi, abitazione nobilissima»2. Il sito fu sede di un romitorio nel IX secolo, fondato ad opera di due fratelli monaci, Onofrio e Elena; un vero e proprio villaggio, ricco di edifici a carattere civile e religioso, sorse in età normanna, per svilupparsi ulteriormente in epoca angioina e aragonese. Ancora Fiore da Cropani annota che Re Ferdinando il Cattolico concesse il castello alla nobile famiglia Carafa di Nocera, aggregandolo alla contea di Soriano. Alla morte dell’ultimo dei Carafa senza eredi, Belforte fu venduto al monastero domenicano di Soriano. In assenza di ricerche archeologiche, tuttavia, non è possibile definirne in dettaglio l’evoluzione storica e monumentale. Oggi rimangono visibili i resti del Convento degli Agostiniani dedicato a San Francesco (XV secolo), della Chiesa di Santa Caterina, monoabsidata (XIII secolo), del palazzo ‘comitale’, di alcune abitazioni terrazzate e tratti di mura e torri del XIV-XV sec.3. Il sito di Belforte dominava la vallata del fiume Mesima, occupando senza dubbio una posizione strategica di controllo dei percorsi che garantivano la mobilità di uomini e merci, non solo in relazione alla viabilità nord-sud, rappresentata già in età romana dalla via Annia-Popilia nel tratto che interessava il territorio di Vibo Valentia (più ad ovest) (Fig. 1), ma anche in relazione ad eventuali vie di comunicazione trasversali, ovest-est, in grado di collegare quel territorio con le aree più interne e montagnose, ricche di risorse boschive e minerarie, e di raggiungere poi il mar Ionio e la via costiera jonica (nota sin da età greca), attraverso le Serre calabresi. L’area di riferimento non è mai stata però oggetto di indagini archeologiche sistematiche. I pochi rinvenimenti archeologici, risalenti a molti decenni or sono e scarsamente documentati, hanno tutti carattere sporadico. Si tratta di un ‘vaso antico’, forse un dolium, rinvenuto fortuitamente nel fondo S. Vito in località S. Maria subito a sud dal paese moderno di Filogaso (quasi tre chilometri a nord di Belforte); di un sarcofago in terracotta con i resti di almeno due individui ritrovato casualmente in località Santa Barbara (oltre due km a sud di Belforte); alla medesima area di necropoli potrebbero forse riferirsi anche due sepolture in fossa terragna con copertura fittile, rinvenute sempre nei pressi di località S. Barbara4. Per nessuno dei tre ritrovamenti è possibile al momento stabilire una cronologia sicura di riferimento. Al III sec. a.C. si data invece il rinvenimento più significativo nell’area, relativo a un tesoretto di quadrigati argentei romani, di cui non si conosce il luogo esatto di ritrovamento, ma che Figura 2. Stralcio della carta delle evidenze archeologiche allegata al progetto di fattibilità tecnico-economica della SS 182 “Trasversale delle Serre”, con indicazione del sito medievale di Belforte (in rosso), del segmento di tracciato stradale individuato (in marrone) e di alcuni toponimi riferibili alla viabilità (in nero) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 78 furono sequestrati a diversi abitanti del comune di Filogaso nel 19405. Non meno problematica appare la presenza di un’iscrizione, relativa a Q. Laronius Q.f augure e quattuorviro quinquennale, attualmente custodita presso il museo comunale di Vazzano. L’attestazione a Vazzano dell’importante famiglia dei Laronii, proprietari di figlinae in varie zone del territorio calabrese e particolarmente legati alla cerchia di Ottaviano6, risulterebbe di grande interesse. Tuttavia, già Capialbi nel 1832 la annoverava insieme ad altre iscrizioni presenti a Vibo Valentia, specificandone l’ubicazione nell’atrio del ‘real collegio’, ovvero il Reale LiceoGinnasio Filangeri. Per ragioni ignote poi essa scomparve da Vibo per essere rinvenuta, utilizzata come acquasantiera, nella chiesa di San Nicola di Bari a Vazzano7. Nel 1905 passò in mano privata, per ricomparire poi nel museo comunale8. Una provenienza vibonese dell’epigrafe è pertanto largamente probabile. D’altro canto, è molto significativa la toponomastica dell’area di ritrovamento del tratto stradale in questione (Fig. 2): esso è stato rinvenuto tra le località Carromonaco e Carruccio (entrambe chiaramente riferibili alla viabilità, verosimilmente medievale), mentre proseguendo di circa un km verso l’interno è presente, sulla sponda opposta del Mesima, l’altro interessante toponimo ‘destra di Migliari’. L’asse stradale oggetto del rinvenimento, che presentiamo per la prima volta e il cui studio è ancora ad uno stadio assolutamente preliminare, apparve in sezione su entrambi i lati di un’escavazione meccanica, improvvidamente eseguita, che lo ha messo in luce e danneggiato (Figg. 3-5). In seguito a ciò, la Soprintendenza ha effettuato alcuni piccoli saggi di scavo, il primo dei quali (saggio 1), in corrispondenza dei resti nella sezione nord-est, ha fornito i risultati più significativi, mettendo in luce (Fig. 6), per un piccolo tratto (lungo circa 2,45 m), una carreggiata con andamento rettilineo e orientamento di 225° sud-ovest/nord-est (cioè parallela al corso del Mesima). La struttura è costituita da una fossa, larga 2,55 m (US -3) appositamente tagliata sul terreno sterile (US 4), suc- cessivamente riempita, partendo dal basso, da materiale di riporto argilloso bluastro, compatto e tenace, spesso 70 cm circa (US 2). Volendo usare una terminologia ‘romana’, tale strato di argilla potrebbe corrispondere allo statumen, che secondo Vitruvio era generalmente composto da grossi blocchi per uno spessore di almeno 30 cm, ma talvolta poteva essere costituito anche da materiali diversi e assumere uno spessore maggiore. Questo primo strato di allettamento è coperto quindi da pietre di medie e grandi dimensioni, una sorta di ruderatio (US 1) (Fig. 6), al cui interno è da segnalare anche la presenza di travetti di legno infissi in verticale in corrispondenza della mezzeria, come per segnare la quota massima (US 5). Al di sopra delle pietre, la presenza di ghiaia formerebbe un terzo strato, ovvero il nucleus, che appare meglio conservato in altri tratti di strada, rinvenuti in successivi saggi di scavo (Fig. 7). Lo strato di ghiaia si estende anche oltre le dimensioni della fossa riempita di argilla e pietre: la superficie della carreggiata doveva pertanto avere larghezza ben superiore ai Figura 3. Palaeo-Research Institute, University of Johannesburg, loc. Carromonaco. Il tratto stradale principale. Sezione sud-ovest Figura 4. Vazzano (VV), loc. Carromonaco. Il tratto stradale principale. Sezione nord-est Figura 5. Vazzano (VV), loc. Carromonaco. Il tratto stradale principale. Sezione nord-est, particolare Figura 6. Vazzano (VV), loc. Carromonaco. Il tratto stradale principale. Sezione nord-est, saggio 1 Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 79 Figura 7. Vazzano (VV), loc. Carromonaco. Strato superficiale di ghiaia da un tratto stradale messo in luce nel saggio 5 2,55 m della ruderatio, e misurare forse più di 4 metri (Fig. 8). Manca un eventuale summum dorsum, un lastricato: il mancato rinvenimento di basole nell’area e l’assenza di tracce di spoliazione farebbero pensare che ci si trovi in presenza di una strada glareata. L’asse viario si caratterizza per un profilo convesso, funzionale allo scivolamento delle acque piovane sui lati. Non vi è traccia di margines o crepidines. Non è stato rinvenuto nessun elemento o materiale mobile che possa essere utile a datare la struttura. Essa è certamente anteriore alla strada sterrata di età moderna che ha preceduto la SP 65 (a sua volta adesso sostituita dalla ‘Trasversale delle Serre’), sterrato da cui è separata da uno spesso strato di terreno sterile, forse franato da monte. Se il contesto insediativo del territorio circostante appare particolarmente ricco in età medievale e postmedievale, d’altro canto le tecniche costruttive non consentono neppure di escludere a priori, al momento, una datazione più antica, ad età romana9. Pertanto, il rinvenimento di Carromonaco, poiché relativo a resti di un tracciato stradale in un’area interna del Vibonese, riporta alla luce un noto ‘fantasma’ archeologico-topografico della viabilità della Calabria antica, romana in particolare, e cioè quello del percorso interno da Vibo a Scolacium, una vera e propria ‘trasversale delle Serre’ ante litteram (come la Annia-Popilia fu in un certo senso un’antenata della A3 Salerno-Reggio Calabria). Un tale percorso ‘Trasversale delle Serre’ però è ricordato soltanto nella Tabula Peutingeriana (Fig. 9). In quest’ultima, che come è noto costituisce il più importante documento cartografico raffigurante l’ecumene antica, la cui stesura originaria si colloca Figura 8. Vazzano (VV), loc. Carromonaco. Il tratto stradale principale. Sezione nord-est, visione d’insieme. Si noti la conformazione convessa della carreggiata nei decenni centrali del IV sec. d.C.10, è riportata infatti l’esistenza di un percorso trasversale, transappenninico, che congiungeva la Calabria jonica a quella tirrenica all’altezza delle Serre (Tab. Peut., VI, 2). Il percorso si snoda in una sola tappa, dalla statio di Vibo Valentia (Vibona Balentia, corredata nella carta di una vignetta del tipo edificio a due torri) a quella di Scylletium (Scilatio). La lunghezza del tratto è segnata in 25 miglia, corrispondenti a circa 37 chilometri. Non deve peraltro stupire, nella Tabula, la collocazione erronea di Scyl- Figura 9. Stralcio della Tabula Peutingeriana: al centro il Bruttius, con indicazione della via interna Vibona Balentia-Scilatio Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 80 letium, in posizione interna e non costiera. Essa è verosimilmente dovuta alla ferma volontà di rappresentare la fine della catena montuosa appenninica in corrispondenza di Capo Cocinto/ Kaulonia (Caulon), secondo un’opinione che risaliva a Polibio (2, 16, 4 da leggere insieme a 2, 14, 4-6). L’inserimento degli Appennini all’altezza di Caulon ha sconvolto l’ordinata rappresentazione della via costiera jonica, facendo slittare nell’interno sia l’ubicazione di Scillezio che le indicazioni delle distanze tra i Castra Hannibalis e quest’ultima e tra questa e Caulon (30 miglia e 30 miglia), e causando un’interruzione nella linea spezzata continua che simboleggia la via costiera ionica (linea che da Annibali prosegue piegando a sinistra verso Scilatio, ma senza più congiungersi con Caulon, da cui riparte un nuovo tratto)11. La ferma volontà di far terminare la catena appenninica al Capo Cocinto ha insomma determinato un piccolo ‘sconquasso’ nell’area tra Kaulonia e i Castra Hannibalis: tale ‘sconquasso’ non nasce con la Tabula, che invero lo eredita da una fonte anteriore, verosimilmente dal proprio archetipo (l’Orbis Pictus di Agrippa?), e si ripercuote anche nelle fonti cartografiche successive, prima tra tutte l’itinerario del Ravennate, realizzato nel VII sec. (An. Rav., 4, 31-32 e 34)12. Su questo percorso ‘interno’ e ‘diretto’ da Vibo a Scolacium menzionato dalla Tabula, tra i pochi studiosi che se ne sono occupati (tra tutti Givigliano) prevale lo scetticismo. Intanto la distanza di 25 miglia appare in qualsiasi caso troppo esigua (a meno che non si voglia pensare che si riferisca solo ad una parte del percorso, ad esempio al solo tratto trasversale tra le vie tirrenica e jonica). Inoltre, esso non è presente in altre fonti antiche. Solo in Appiano (Bellum Civile, 5, 103) è menzionato un rapido spostamento di Ottaviano nel 36 a.C. da Vibo/Ipponio a Scolacium e poi di nuovo ad Ipponio, ma non si specifica che egli abbia seguito una via interna. Ragion per cui si è dedotto che si sia trattato, anche nel caso di Ottaviano, della ben nota via istmica tra i golfi di S. Eufemia e Squillace, nota sin dalla preistoria13. D’altro canto però, se quello raffigurato nella Tabula fosse stato il percorso settentrionale passante per l’istmo di Catanzaro, il tracciato sarebbe dovuto partire da Aque Ange o da Annicia, e non direttamente da Vibo (Fig. 9)14. 2. RICOSTRUZIONE DEI POSSIBILI PERCORSI INTERNI ATTRAVERSO MODELLI DIGITALI Per queste ed altre incertezze, abbiamo deciso di indagare la percorribilità del territorio attraverso la costruzione di un modello dei costi della superficie topografica realizzato tramite applicativo Figura 10. Carta 3D della Calabria centrale, con indicazione di possibili percorsi da Vibo a Scolacium Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 GIS e utilizzato per individuare le direttrici di minimo sforzo15. Nei sistemi GIS lo studio dei costi di percorrenza è conosciuto come Cost Surface Analysis16 e si realizza attraverso l’impiego di algoritmi che generano un raster della superficie in cui ogni cella è caratterizzata da un dato numerico, che indica, in unità di tempo, l’energia consumata da un individuo per muoversi in quella determinata area17. Per la costruzione del modello è stato usato l’archivio cartografico digitale reperibile nel Geoportale della Regione Calabria. Dato di partenza è stato il Modello Digitale del Territorio (DTM) con passo 5x5 m, opportunamente elaborato, nella porzione di territorio che va da Capo Vaticano a Sant’ Eufemia sul versante tirrenico e da Isca Marina a Cropani Marina sul lato jonico. I parametri territoriali impiegati per la costruzione del modello dei costi di percorrenza sono stati, oltre alla quota, la pendenza e il reticolo idrografico. Va premesso ovviamente che, in un’indagine di tipo Least Cost Path Analysis, l’elaboratore non è neutrale, poiché sceglie l’importanza relativa da dare ai vari parametri tenuti in considerazione: ad esempio, se ritiene che la pendenza sia un problema secondario rispetto alla lunghezza del percorso, favorirà la scelta di un percorso di montagna, e viceversa. Questo va tenuto in conto. Comunque, abbiamo cercato di 81 settare i parametri impostando valori che fossero i più neutrali possibili, usando quelli solitamente applicati a questo genere di analisi18. Il risultato è stato che il percorso con costo energetico minore tra Vibo e Scolacium, secondo il nostro modello (Figg. 10-11), è proprio quello passante dall’istmo di Catanzaro (tracciato blu). Nella prima parte esso doveva seguire ovviamente la via da Reggio a Capua (la Annia Popilia), per poi deviare verso est prima di raggiungere il fiume Amato. Quindi, è nel giusto Givigliano a considerare questo percorso come la prima scelta per chi dovesse viaggiare da Vibo a Scolacium e viceversa, anche se si tratta di un percorso lungo ben 59 km (Fig. 12). Anzi, nella pratica dobbiamo pensare che esso fosse anche più lungo: una nostra simulazione (tracciato viola), in cui abbiamo ipotizzato un percorso che prima di piegare verso est passava dalla statio di Ad Turres (statio dell’Itinerarium Antonini da collocare alla sinistra dell’Amato, la cui ubicazione è accertata finora solo genericamente – noi abbiamo scelto l’ipotesi accolta dalla maggioranza degli studiosi) ha dato un risultato di ben 61 km (Figg. 10-12), forse più aderente alla realtà19. Abbiamo poi interrogato il modello cercando di capire quanto fosse praticabile un percorso più breve tra Vibo e Scolacium, anche se magari più impegnativo in termini di dislivelli, e da dove potesse passare. Ne è venuto fuori un tracciato piuttosto interessante (tracciato nero), decisamente ‘trasversale’, che da Vibo passa a nord di S. Onofrio e Maierato (cioè, ancora con maggior precisione, segue il percorso della Reggio-Capua), per poi scendere lungo la valle dell’Angitola, risalire subito a nord-ovest di Tre Croci nel comune di Polia, da dove prosegue verso est passando poco a nord della Fossa del Lupo (un paio di km a sudest di Scendamo), dove raggiunge, nel punto più alto, gli oltre 900 m di quota, per poi scollinare dolcemente, proseguendo sempre verso est tra Amaroni a nord e Vallefiorita a sud, e passando infine a nord di Squillace fino a Scolacium (Figg. 10-12). Ovviamente, il prossimo passo dovrà essere quello di verificare materialmente l’eventuale reale esistenza di un tale percorso, in età antica e/o medievale, attraverso le metodologie tradizionali (analisi delle foto aeree, dei rinvenimenti archeologici, della documentazione d’archivio e dei dati toponomastici storici e attuali). È interessante notare Figura 11. Carta della pendenza della Calabria centrale, con indicazione di possibili percorsi da Vibo a Scolacium come la distanza totale sia in questo percorso di soli 47 km (che sono comunque sempre maggiori delle 25 miglia indicate nella Tabula per la via interna ViboScolacium, ma sono in ogni caso il 25% di strada in meno rispetto al percorso istmico settentrionale), e la pendenza massima arrivi a 31° circa, risultando inferiore a quella del percorso istmico (ma, naturalmente, più significativo è il dato della pendenza media, che invece in questo caso è maggiore, intorno al 9%). Un percorso più duro, dunque, ma tutt’altro che impossibile. A questo punto, abbiamo voluto testare anche l’ipotesi di un percorso da Vibo a Scolacium che passasse più a sud per la località Carromonaco, dove cioè abbiamo rinvenuto i resti di strada in questione. Un secondo punto fisso è stato ipoteticamente collocato in cor- rispondenza del Ponte di Sofia, presso Argusto, che costituisce l’unico altro resto materiale riferibile ad un’infrastruttura viaria presente nella zona. Si tratta di un ponticello (Fig. 13) verosimilmente medievale, che non abbiamo ancora esaminato autopticamente20. Ne è venuto fuori un tracciato ViboCarromonaco-Ponte di Sofia-Scolacium (Figg. 10-12, tracciato rosso) non dissimile per pendenza media dal tracciato ‘diretto trasversale’ (tracciato nero), e solo di poco più lungo: 51 km (peraltro corrispondenti a 35 miglia romane: si potrebbe quasi sospettare un errore materiale nell’indicazione di distanza presente nella Tabula: XXV invece di XXXV miglia, ma ovviamente al momento non ci sono assolutamente elementi per proporre una correzione del genere). L’altezza massima raggiunta da Figura 12. Profili altimetrici dei 4 percorsi da Vibo a Scolacium analizzati Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 82 questa trasversale ‘meridionale’ sarebbe perfino inferiore a quella del tracciato ‘interno diretto’ (il nero), mantenendosi sotto i 900 metri. Dunque, anche questo percorso attraverso Carromonaco e Ponte di Sofia appare tutt’altro che impraticabile. Anche nel caso del percorso rosso, è poi possibile che un eventuale tracciato reale fosse lievemente dislocato: ad esempio, tra Carromonaco e il Ponte di Sofia i pochi rinvenimenti archeologici (a Vallelonga: anfora, vasi figurati e moneta d’oro21) e il reticolo di trazzere e mulattiere ricavabile dalla cartografia storica e da quella IGM 1:25.000 farebbero pensare ad un percorso lievemente più meridionale di quello indicato dal modello (Fig. 11, tracciato fucsia tratteggiato, in basso) e cioè: Carromonaco - Carruccio - lato opposto a ‘Destra di Migliari’ - valle sinistra del Mesima fino a Calcari e Oliveto - sentiero a nord di Pigna - a nord di ‘Sopra i Piani’ - C. Melia - a mezza via tra Aguglia e Mezzocanto - Vallone Aguglia - Fontana Sgrau - Case Fabbruni - Piano della Pietra Balena (o a nord di questo, tramite S. Lucia?) - S. Antonio - Chiaravalle - Ponte di Sofia. Per il tratto da Argusto a Scolacium invece è interessante notare come il tracciato ipotizzato dal GIS non discenda subito verso la costa jonica (ad es. nella zona di Soverato), ma continui attraverso un percorso più interno, così da evitare l’attraversamento di nume- rose foci di fiumare, che sarebbe stato certamente disagevole. Segnaliamo che un eventuale percorso ‘trasversale’ come questo passante dalla sinistra del Mesima e dall’area di Chiaravalle avrebbe anche consentito, agli abitanti delle zone più interne di questa porzione delle Serre, di recarsi a Scolacium senza dover necessariamente spostarsi prima in area tirrenica e fare poi un lungo giro da nord. In conclusione, in attesa di proseguire le indagini, che come premesso sono ancora ad una fase del tutto preliminare, possiamo ribadire che i nuovi strumenti digitali, oltre ad essere tutt’altro che neutrali o asettici, in quanto dipendono dal settaggio dei parametri previsto dall’elaboratore, possono certo suggerire ipotesi e possibilità relative a vie di comunicazione antiche e medievali, ma non possono sostituirsi alle metodologie di indagine tradizionale (ricerche storiche, archeologiche, archivistiche, aerofotografiche), che divengono anzi indispensabili, in un passo successivo, per calibrare e validare le ipotesi sul terreno. E purtroppo, da questo punto di vista, non si può che lamentare l’assenza di indagini archeologiche sistematiche in questi (ed altri) settori della Calabria interna, dove le poche testimonianze che possediamo sono quasi sempre frutto di rinvenimenti fortuiti, e quindi quasi mai riescono a fornire indicazioni significative sul popolamento, sullo sfruttamento del territorio e sulle vie di Figura 13. Il ponte di Sofia presso Argusto (CZ). Foto dott. Laratta Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 comunicazione di età antica e medievale. Ci auguriamo che queste lacune siano presto colmate, in seguito ad una maggiore attenzione e sensibilità degli studiosi alle problematiche del popolamento antico nelle aree più interne della Calabria. 3. CARATTERISTICHE GEOLOGICHE E GEOMORFOLOGICHE DEI PERCORSI IPOTIZZATI Osservazioni sulla natura fisica del territorio, in particolare la morfologia e la geologia che caratterizzano i percorsi ipotizzati, possono dare informazioni interessanti sull’effettiva economicità (in senso Least Cost Path Analysis) di ogni percorso, sulla realizzabilità tecnica di un percorso stradale e sull’impegno necessario a mantenerlo in efficienza. Qualora si voglia effettuare una ricognizione, aerofotografica o sul terreno, per individuare i percorsi stradali, le caratteristiche fisiche attuali del territorio possono suggerire quali siano le aree dove è più probabile che il percorso si sia conservato. Il territorio calabro è infatti assai complesso dal punto di vista geologico e frequenti sono le litologie che danno origine a instabilità che si può manifestare sia a breve periodo (frane e smottamenti) che in tempi più lunghi (erosione dei versanti, accumulo di sedimenti recenti). Nell’esame elle caratteristiche 83 Figura 14. Profili altimetrici dei percorsi ipotizzati, con indicazione dei corsi d’acqua che li attraversano (linee azzurre) geologiche del territorio è stata utilizzata la Carta Geologica alla scala 1:25000 realizzata negli anni 1959-1960 a cura della Cassa per il Mezzogiorno e messa a disposizione dalla Regione Calabria. Le litologie affioranti sono state suddivise in quattro classi di rischio (nullo, moderato, medio, elevato) in base alla erodibilità e franosità delle rocce. Da un punto di vista morfotopografico i due percorsi settentrionali differiscono di poco, anche in termini di lunghezza, con il transito Ad Turres che, a fronte di un modesto prolungamento che segue brevemente il basso corso dell’Amato, consente di evitare il lungo falso piano del terrazzo di Campolungo e la conseguente ripida discesa nella valle del torrente Cottola, a ovest di S. Pietro a Maida, ricongiungendosi poi al percorso 1-GIS (Fig. 14). Questo prolungamento richiederebbe però di transitare attraverso la piana costiera, caratterizzata da terreni sabbiosi poco tenaci e, soprattutto, da zone che all’epoca si presentavano più paludose di oggi e pertanto di più difficoltoso attraversamento. I due percorsi, da qui coincidenti, si inoltrano nella valle del Torrente Pesipe percorrendone il fondo pianeggiante, tra versanti ove affiorano terreni argillosi e argilloso-sabbiosi, oggi apparentemente stabili ma comunque fonte di sedimenti fini che in seguito a lungo accumularsi possono aver obliterato eventuali tracce dell’antico asse viario. In seguito il per- corso si innalza su aree terrazzate e terreni più compatti e facilmente percorribili per ridiscendere infine nella valle dell’Usito, attraverso una breve e ripida discesa nuovamente su terreni argillosi e in genere poco stabili. Qui, la testata della valle dell’Usito presenta una morfologia complessa e accidentata che suggerisce un progressivo avanzamento delle forme vallive verso l’interno, unito a processi erosivi di ragguardevole entità che possono aver obliterato le testimonianze archeologiche, sia a causa dell’erosione che dell’accumulo di sedimenti nel fondovalle. L’ultimo tratto del percorso si snoda nell’ampia valle del Corace, oggi diffusamente antropizzata. In linea generale, questi due percorsi sono i più agevoli, sebbene più lunghi, con dislivelli minori contenuti tra 2200 e 2800 metri e pendenze relativamente modeste (Tab. 1) tranne che nei passaggi che portano all’interno/esterno delle valli. Il numero di corsi d’acqua da attraversare è relativamente grande, ma si tratta prevalentemente di torrenti di scarsa portata e a regime stagionale, tranne che nella piana di S. Eufemia, presso la foce dell’Amato. I due percorsi che tagliano la catena appenninica con un percorso significativamente più breve implicano però dislivelli molto maggiori, approssimativamente da 4500 a 5500 metri (Fig. 14). La parte centrale di entrambi i percorsi attraversa il nucleo cristallino della catena, su rocce metamorfiche estremamente stabili, ma che originano talora morfologie impervie. Il percorso 3 diretto interno si inoltra dapprima verso nord-est percorrendo terreni argillosi poco stabili nella stretta valle del Fosso Scuotrapiti e dopo aver valicato il fiume Angitola prosegue nella valle del Reschia su un substrato lievemente migliore ma sempre su morfolo- Tabella 1. Caratteristiche morfologiche dei percorsi ipotizzati Vibo-Scolacium (GIS) (1) Vibo-Ad Turres-Scolacium (2) Interno Vibo-Scolacium (3) Vibo-CarromonacoScolacium (4) Quota inizio (m) Quota fine (m) Dislivello (m) Distanza (km) Distanza reale (km) 479 14 465 60,7 60,9 64,3 64,5 48,4 48,8 52,2 52,7 Salita (m) 1154 903 2577 2514 Discesa (m) 1619 1368 2112 2980 Dislivello totale (m) 2773 2271 4689 5494 Quota minima (m) 3 1 14 9 Quota massima (m) 499 499 925 906 Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 84 gie accidentate fino oltre Poia, ove inizia un’erta salita che porta sulla dorsale. Qui un lungo percorso in quota porta ad attraversare alcune valli e corsi d’acqua su terreni stabili, fino a immettersi nell’ampia valle del Ghetterello su terreni dilavati e con frequenti soliflussi. L’ultima parte del percorso affronta un paesaggio accidentato, solcato alle numerose valli che si aprono sullo Jonio. Qui e fino al termine del percorso i terrazzi fluviali sono in parte basati su conglomerati che, a seconda del grado di cementazione, possono dare origine a fenomeni franosi, soprattutto allorché alla loro base affiorano argille facilmente erodibili. L’ultimo percorso, che passa per Carromonaco, sembra in realtà il meno vantaggioso dal punto di vista dell’energia necessaria a percorrerlo, trattandosi di 5 km in più rispetto a quello diretto e con un dislivello di quasi 1000 m maggiore (Tab. 1). Il tratto iniziale come nel percorso 3 si snoda su affioramenti argillosi instabili e su un paesaggio accidentato, almeno fino a entrare nella valle del Mesima, e poi di nuovo su valloni e balze conglomeratiche fino all’erta di S. Nicola da Crissa che, dopo ripida salita, conduce su pianori e terrazzi fondati su rocce metamorfiche, scisti e gneiss di buona tenuta. Da qui poi dopo Chiaravalle scende verso la linea degli insediamenti collinari prospicienti lo Jonio (Petrizzi, Montepaone, Gasperina, etc.), su terreni generalmente buoni, prevalentemente conglomeratici e talora meno buoni, argillosi, mantenendosi su una linea di dorsali che evitano i sottostanti valloni e le aree a maggiore instabilità. Pur non essedo un percorso agevole – anzi faticoso, ha tuttavia alcuni vantaggi rispetto al diretto perché evita i substrati più infidi, tranne ove impossibile; serve inoltre vari centri della fascia jonica, mettendoli in comunicazione con quelli del centro e della costa tirrenica. 5. Felici, 2017, p. 34. ste interessanti indicazioni sono tutte da sottoporre a verifica sul terreno. 6. Paoletti, 1984; Zumbo, 1999. 21. Felici, 2017, p. 35. 4. Felici, 2017, pp. 34-35. 7. Capialbi aveva interpretato il blocco come i resti di una mensa ponderaria. Secondo ultime BIBLIOGRAFIA interpretazioni la superficie concava che at- Conolly J., Lake M. (2006), Geographical Information Systems in Archaeology, Camtualmente presenta il blocco di marmo sarebbe bridge University Press, Cambridge. stata causata dall’adattamento ad acquasantiera; scartando l’ipotesi di una mensa di età Cuteri F.A., Iannelli M.T. (2011), Memoria e rinascita. L’archeologia post classica romana, si è pertanto più propensi a pensare ad nel vibonese, Limen 2011, n°1, pp. 65-66. una iscrizione collocata su una base di statua. 8. Zumbo, 1999. 9. La tecnica costruttiva utilizzata per il nostro asse viario trova confronto con un tratto della Via Annia vicino ad Altinum (VE), dove lo statumen, proprio come per la nostra strada, è costituito da argilla calcarea (RADKE 1981, p. 49). 10. Harley e Woodward, 1987, p. 238; Salway, 2005. 11. L’intera questione è analizzata in dettaglio in Facella, 2001, in part. p. 105. 12. Facella, 2001, in part. pp. 109-110. In realtà il testo del Ravennate non deriva direttamente dalla Tabula: i toponimi che esso presenta sono ricavati in gran parte dallo spoglio di una carta simile e grossomodo contemporanea ad essa, ma non identica perché più ricca di dati. Sul metodo compositivo del Ravennate cfr. Dillemann, 1997, pp. 38-40, 211; si veda anche Facella, 2001, p. 112 e nota 57, con bibl. Su Scillezio in An. Rav., 4, 34 cfr. Facella, 2001, pp. 111-113, Appendice. L’elenco di toponimi in An. Rav., 4, 34 (e in Guido, 43), oggetto di un’interpretazione fuorviante da parte di Nissen, seguito da molti altri studiosi, era stato correttamente inteso già da G. Grasso (1907). Si deduce che nel VII secolo il Ravennate consultava una carta di IV secolo che, per quanto riguarda l’area in analisi, presentava le stesse identiche ‘anomalie’ visibili nella Tabula Peutingeriana. È logico quindi ipotizzare che queste anomalie risalgano ad un archetipo comune. 13. Sull’intera questione Givigliano, 1989, pp. 761-762 e nota 85; Givigliano, 1994, pp. 320321, 358 nota 377. 14. Sulle due stationes di Aque Ange e Annicia cfr. almeno Givigliano, 1994, pp. 292, 307309, 316, 356 nota 347, 359 nota 422. 15. Il modello è stato elaborato da P.C. Manti. 16. Wheatley e Gillings, 2002, pp.147-163; Forte, 2002, pp. 54. Si ringraziano gli anonimi referee per 17. Connoly e Lake, 2006. i preziosi suggerimenti. 18. Van Leusen, 1999, pp. 215-217. NOTE 1. Il ritrovamento è avvenuto nell’ambito del cantiere ANAS di Vazzano per la realizzazione dalla SS 182 ‘Trasversale delle Serre’ (tronco 1° lotto 1°). I lavori di supervisione archeologica sono stati diretti da Maria Teresa Iannelli, ispettrice della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, e condotti da Ginevra Gaglianese e Antonino Facella. 19. Volendo, avremmo potuto anche considerare nel modello la forza attrattrice di stationes e centri urbani: nel caso in questione non lo abbiamo fatto perché l’ubicazione della statio che ci interessava non è accertata con precisione, e pertanto tale inclusione avrebbe avuto poco senso. 20. Ci è stato riferito dal dott. Laratta, che si è occupato della sua ripulitura e che ringraziamo di cuore, che l’elevato è certamente medie2. Fiore da Cropani, 2000. vale, mentre l’impianto di sostegno in pilastri 3. Fiore da Cropani, 2000; Cuteri e Iannelli, di laterizi troverebbe confronto con strutture 2011. di Scolacium di età romana. Ovviamente, que- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Dillemann L. (1997), La Cosmographie du Ravennate, Latomus, Bruxelles. Facella A. (2001), Capo Cocinto (Punta Stilo) nella geografia della Calabria antica, Annali della Scuola Normale superiore di Pisa, Quaderni, 11-12, 2001, pp. 103-116. Felici F. (2017), ANAS s.p.a. SS 182 “Trasversale delle Serre”. Tronco 1° Lotto 1° Stralcio 2° completamento. Progetto di fattibilità tecnico-economica. Studio per la verifica dell’interesse archeologico. Relazione archeologica, inedito. Fiore Da Cropani G. (2000), Della Calabria Illustrata, a cura di U. Nisticò, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli. Forte M. (2002), I sistemi informativi geografici in archeologia, MondoGis, Roma. Givigliano G.P. (1989), L’organizzazione del territorio, in AA.VV., Giornate di studio su Hipponion-Vibo Valentia, Annali della Scuola Normale superiore di Pisa, s. III, XIX, 1989, pp. 737-764. Givigliano G.P. (1994), Percorsi e strade, in Storia della Calabria antica II. Età italica e romana, a cura di S. Settis, Gangemi, Roma-Reggio Calabria, pp. 243-362. Grasso G. (1907), La descrizione bruzziocalabra nell’Anonimo Ravennate, Studi Medievali, II, 3, 1907, pp. 446-455. Harley J.B., Woodward D. (eds.) (1987), The History of Cartography. 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Laronius dalla Piana Lametina, in Tra l’Amato e il Savuto, a cura di G. De Sensi Sestito, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, pp. 254-269. 85 La paleogeografia della pianura costiera a sud di Catania tra il V-IV sec. a.C., con la via greca LeontinoiKatane proveniente da Syracosion e i luoghi descritti da Diodoro Siculo (XIV 57-62) per le battaglie del 396 a.C. fra l’esercito dei siracusani e quello dei cartaginesi Roberto Mirisola Geologo, socio delle Soc. Siracusana di Storia Patria e Ass. “Trireme” di Siracusa The southern littoral plain paleogeography of Catania in the 4th-5th century BC with the ancient road from Syracosion to Leontini-Katane, and the battles sites (396 BC) between Syracusan and Carthaginian armies in the Diodorus Siculus narrative Parole chiave: via Leontinoi-Katane e linea di riva, traghetto sul Simeto, latitudine della foce Key words: via Leontinoi-Katane and shore line, Simeto ferry boat, mouth in latitude RIASSUNTO La ricostruzione paleogeografica della pianura costiera a Sud di Catania tra il V-IV sec. a.C. è stata possibile individuando le corrispondenze tra i luoghi del paesaggio moderno, poi radicalmente modificato dalle moderne bonifiche, e quello antico a volte narrato dagli storici Tucidide, tra il 415-413 a.C., e Diodoro Siculo nel 396 a.C. Quest’ultimo descrive (L. XIV 57-62) lo strategico “Quadro operativo” predisposto da Dionìsio (tiranno di Siracusa greca) con il supporto di “caposaldi” viari militari e logistici (obbligati passaggi collinari e fluviali, o adiacenti a città/fortezze), intorno alle località da lui scelte per la grande battaglia che sarebbe dovuta avvenire intorno alla pianura a Sud di Katane tra il suo esercito e quello enorme dei Cartaginesi di Ìmilcone. Le succitate fonti storiche, infatti, suggeriscono utili notizie di geografia fisica e stradale, riguardanti le antiche Vie greche Syracosion-Leontinoi-Katane prima percorse dall’esercito siracusano di Dionìsio con due successivi accampamenti strategici: il primo, elevato presso il Tauro (Brucoli, frazione di Augusta) per control- lare le mosse del nemico; il secondo a Sud di Katane, in adiacenza al passaggio sul fiume Simeto, per affrontare da quel “caposaldo” sulla pianura e lungo confini fluviali verso l’entroterra la fanteria cartaginese e la loro flotta presso la spiaggia settentrionale della foce del Simeto. Per la paleogeografia della fascia costiera nel V-IV sec. a.C., è stato quindi sostanziale identificare sulla topografia attuale quelle posizioni: l’arretrata linea di riva del mare; la foce, allora più a Nord; il suddetto tracciato viario, lungo la pianura a Sud di Katane, sino al probabile traghetto sul tratto terminale del Simeto vicino all’accampamento siracusano. Inoltre, per ricostruire l’ambiente fisico con il fiume di allora, le notizie delle fonti storiche, dei percorsi viari (ora tracciati dopo nuovi studi) e dei resti archeologici sono state correlate con l’evoluzione progressiva della pianura, modificata per cicliche e simili variazioni climatico-ambientali, dedotta soprattutto da recenti pubblicazioni: di Geotettonica (risalita del livello del mare sulla pianura costiera in relazione ai movimenti verticali); di Geo-Archeologia (oscillazioni in longitudine della linea di riva); di Geografia e Fisiografia comparata del corso terminale Simeto (secolari migrazioni in latitudine della foce). 1. LE RADICALI TRASFORMAZIONI ANTROPICHE DELLA PIANA DI CATANIA NEI SECOLI XIX E XX La rete idrografica e viaria dell’attuale fascia costiera della pianura di Catania è molto diversa da quella della pianura antica. Infatti, la fascia costiera attuale con la foce del Simeto, limitata a oriente da una spiaggia composta da sabbie e detriti lunga circa 20 Km e di larghezza variabile da poche decine ad alcune centinaia di metri, ha subìto profonde trasformazioni antropiche tra il XIX e il XX secolo, a causa delle bonifiche pubbliche e dei successivi insediamenti industriali, agrari e turistici mentre fino alla seconda metà del XVII secolo avvenivano soltanto circoscritte bonifiche private e solo per iniziativa di alcuni grandi e facoltosi proprietari che avevano subito gravi danni agrari e viari provocati dal ripetuto straripamento dei Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 86 fiumi sulla pianura costiera: esemplare fu quella che fece confluire il Gornalunga sul tratto terminale del Simeto.1 Tra la fine del XIX e poco dopo la metà del XX secolo, i caratteri morfo-idrologici della “Piana” paludosa di Catania sono radicalmente cambiati rispetto al passato, per opera di due grandiose bonifiche pubbliche per debellare la malaria e sviluppare l’agricoltura insieme a una rete stradale: la “Bonifica integrale”, anni ’20-‘30 del novecento, e quella recente compiuta nel decennio successivo alla disastrosa alluvione del 1951. Con quest’ultima bonifica infine si realizzarono le rettifiche del corso dei fiumi della “Piana” sino al tratto terminale del Simeto attraversato presso la foce, con la confluenza del Gornalunga, dal nuovo Ponte di Primosole. Qui, fu costruito un lungo e largo canale artificiale cementificato a sezione imbutiforme per contribuire ad evitare le secolari migrazioni del suo tratto meandrico terminale del Simeto sulla fascia costiera e per smaltire il grande e rapido deflusso le acque durante le piene stagionali evitando le esondazioni (D’Arrigo, 1953; Gemmellaro,1837; Longhitano, Colella, 2007). Inoltre, con la bonifica iniziata negli anni cinquanta fu realizzata, verso l’interno e sino al bacino idrografico collinare, la creazione di traverse fluviali, con piccole centrali idroelettriche, di numerosi argini per canali e dighe in terra per piccoli e grandi invasi artificiali (Ogliastro, Ancipa, Pozzillo, Nicoletti e altri), necessari per usi civili e agricoli. 2. LE OSCILLAZIONI SECOLARI DELLA LINEA DI SPIAGGIA NEL MERIDIONE D’ITALIA PER CICLICHE VARIAZIONI CLIMATICO-AMBIENTALI In base ai dati dendrocronologici, palinologici e strumentali della temperatura per gli ultimi 500 e 160 anni, ricavati dalla stratigrafia geo-archeologica e ambientale in diversi siti-archivi del Mediterraneo (dal meridione d’Italia alla Grecia e sino alle coste settentrionali dell’Africa), l’attuale riscaldamento globale rappresenta nelle previsioni climatiche di molti autori l’inizio di un altro periodo caldo e poco piovoso simile a quello Medievale, che all’inizio fu interrotto al centro-nord da un breve periodo molto freddo, piovoso e con effetti catastrofici alle più alte latitudini.2 Il periodo caldo attuale sarebbe dunque un’altra delle secolari, e simili variazioni climatiche naturali iniziate dopo la fine del IX sec. a.C., correla- te con le circa-millenarie variazioni dell’attività solare, che si sono poi ripetute ciclicamente nel periodo storico con l’alternanza di Periodi freddo/umidi e molto piovosi. Questi periodi hanno così interrotto nell’Area Mediterranea i più lunghi Periodi Stabili o di “Transizione”, con temperature e piogge a clima mediterraneo (con piccole oscillazioni delle linee di riva e delle foci dei fiumi), favorevoli al progresso umano, a prescindere dall’incremento dell’“Effetto Serra” poi sempre più amplificato dalle attività antropiche dell’Era industriale.3 Infatti, nei territori Italiani interessati da tali alternanze, sono avvenute a varie latitudini e con diversi impatti, importanti modificazioni geo-morfologiche e idrologiche del suolo (evidenti in diverse sezioni stratigrafiche), con gravi effetti sia sulle attività antropiche prevalentemente agricole e insediative, con abbandoni e migrazioni, sia sulle risorse naturali (coperture forestali, distribuzione delle acque superficiali e sotterranee, etc.)4. Così, tali discontinuità climatiche hanno particolarmente modificato gli ambienti fisici delle basse pianure dell’Italia meridionale al di sotto della latitudine 42°- 41° Nord, come avvenuto nell’evoluzione della grande pianura di Catania e della Sicilia. Infatti, per la precoce risalita della vicina fascia aridodesertica dall’Area africana, nell’Isola si sono ripetuti dai secoli VIII a.C. al XIX tre periodi caldo/aridi con scarse piogge e minimi apporti solidi fluviali ed erosioni delle spiagge che sono arretrate con il contributo dell’innalzamento del livello del mare per fusione dei ghiacciai e per l’azione delle mareggiate. Al contrario, per l’alternanza dell’azione secolare di tre periodi freddo/umidi, pur con piogge e alluvioni meno intense e più tarde nell’Italia meridionale e in Sicilia, ha invece provocato aggradazioni sulle basse pianure e progradazioni più sensibili sulle lunghe spiagge (Mariani, 2006)5. 3. LE CICLICHE E SECOLARI MIGRAZIONI DELLA FOCE DEL SIMETO TRA I SECOLI XX-XII ESTRAPOLATE SINO AGLI INIZI DEL IV A.C. Come accertato da studi geografici e fisiografici dal XX all’XI secolo sino all’età greco-arcaica, il corso del Simeto si è spostato periodicamente sulla bassa pianura costiera con lente e ampie oscillazioni meandriche a ventaglio che, iniziate da un punto nodale non lontano a Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 nord dall’attuale confluenza con il Gornalunga, hanno fatto migrare la sua foce sulla linea di spiaggia, alternativamente da sud a nord e viceversa. Le successive inversioni pare che si siano innescate alla fine per l’erosione della particolare conformazione della foce con la concausa di varie azioni: mareggiate, rotazione terrestre (forza di Coriolis), inversioni della declinazione magnetica sulle sabbie a magnetite del tratto fluviale con la foce A volte la migrazione più rapida del Simeto è stata favorita da alluvionamenti invernali con la risultante di tre azioni dinamiche: dalle acque defluenti verso il mare; dalle azioni idrodinamiche tra venti e mareggiate di massima traversia dai quadranti I (grecale) o II (scirocco); dell’azione della corrente di marea da o verso lo Stretto di Messina (rema montante o scendente). Dalla colonizzazione greca, queste lente migrazioni del tratto terminale del Simeto tra le paludi malariche dell’inospitale fascia costiera erano probabilmente già in atto, in sintonia con le periodiche variazioni climatiche iniziate con il passaggio all’attuale “Fase Sub-atlantica”. In conseguenza, durante il periodo climatico freddo e piovoso della cd Piccola Era Glaciale Arcaica (520-350 a.C.) una migrazione con la foce del Simeto molto più a Nord di oggi, nell’attuale contrada di Passo Martino, può essersi ripetuta anche nel 396 a.C., in analogia con quanto avvenne con il tratto terminale della foce, nel 1784 (Fig. 2) (D’Arrigo, 1950; Marinelli, 1926). 4. OSCILLAZIONI DELLA LINEA DI SPIAGGIA DELLA PIANURA DI CATANIA A MINIMA PENDENZA PER LE SECOLARI VARIAZIONI CLIMATICHE DAL X SEC. A.C. AL XXI SEC. CON MAGGIORE TRASGRESSIONE DELLA LINEA DI RIVA Il Periodo freddo/umido e molto piovoso tra la metà del XVI e la fine del XIX sec. noto come Piccola era Glaciale, che, come in due simili variazioni climatiche già avvenute tra il 500-750 e il 520-350 a.C., ha provocato la notevole progradazione delle basse pianure facendo avanzare nel mare le foci e le spiagge dei maggiori fiumi italiani, come in Sicilia anche quelle del Simeto.6 Negli anni seguenti la PEG (Piccola Era Glaciale), la diminuzione progressiva delle piogge con grandi portate fluviali, cause di allagamenti e alluvioni 87 anche in Sicilia, favorì la costruzione di nuove strade e ponti con tecniche moderne. Infatti, alcune bonifiche borboniche delle paludi sulla fascia costiera della “Piana” iniziarono proprio nella prima metà dell’ottocento e in conseguenza fu costruita una nuova strada moderna, per la prima volta diritta e vicina al mare, da Catania al nuovo ponte sul Simeto e al vicino promontorio di Primosole (strada poi ristrutturata e prolungata come SS.114). Infatti, questa strada andò a sostituire la più interna e arcuata Katane-Leontinoi, importante collegamento militare e commerciale tra le due città e Siracusa.7 Per risalire allo stato della pianura di Katane nel V-IV sec. a.C si è tenuto conto di un recente studio geologico, stratigrafico e sedimentologico con datazioni 14C AMS, nel bonificato Pantano di Lentini che ne ha scoperto l’origine in una laguna formatasi tra la seconda metà e la fine del IX sec. a.C.8. Per valutare le oscillazioni secolari della linea di riva è stato fondamentale per lo scrivente considerare nel suddetto studio geologico l’interferenza tra due concomitanti e lentissimi movimenti del tardo Olocene: il sollevamento tet- tonico verticale della “Piana” e quello della risalita eustatica e glacio-isostatica del livello marino. I dati ottenuti hanno rivelato che la risalita del livello del mare (0,2 mm/anno), dalla metà del IX sec. a.C. a oggi, annualmente superava soltanto per circa 1 mm/anno, quasi compensandolo, il sollevamento della pianura costiera a Sud di Catania. In conseguenza, soprattutto per la prevalenza delle “progradazioni” per gli apporti di sedimenti fluviali e costieri (durante i Periodi freddo/umidi e piovosi) rispetto alle inferiori erosioni della spiaggia (durante i periodi caldo/aridi), la linea di spiaggia è avanzata lentamente verso il bassofondo del mare, mentre la pianura ha mantenuto nei secoli, pur con modeste “aggradazioni”, quasi inalterata la sua bassissima pendenza (minore di 1%). Per ciò il tratto terminale del Simeto è stato sempre interessato dalla risalita del mare per almeno 2 km formando stagni e impaludamenti continuando sempre ad attraversare la pianura con ampi meandri invasi dal mare; e uno scenario simile si sarà probabilmente presentato in Sicilia anche fra il V-IV sec. a.C., peraltro durante la succitata PEG Arcaica.9 5. LA POSIZIONE DELLE LINEE DI RIVA SULLE SPIAGGIA DEL RECINTO LAGUNARE DEL TERIAS CON QUELLA A SUD DI KATANE PER IPOTESI GEOLOGICA (X SEC. A.C.) E PER LE FONTI STORICHE SIA ANTICHE (IV-V SEC. A.C.) CHE DEI SECOLI SUCCESSIVI (NOTE 10,11,12) Per stabilire la posizione della linea di spiaggia sulla pianura di Catania nel V-IV sec. a.C., è stato utile un recente studio geologico eseguito a sud nel settore settentrionale dell’ex Pantano di Lentini dove si è scoperta una laguna originatasi intorno alla metà del X.secolo, allora aperta sul mare su un lungo cordone sabbioso che la recintava (Monaco et al., 2004). Queste sabbie, per lo più provenienti dalle spiagge settentrionali per mezzo di correnti venivano in parte deposte intorno al promontorio settentrionale dell’Alto di S. Demetrio sino quasi a lambirne l’estremità (oggi a circa 1,5 Km dal mare), modellando al di là anche tutta la spiaggia meridionale. In tale studio, sfruttando l’ubicazione di un Figura 1. (Villaggio Delfino; IGM 1: 25.000, F°270 III S.O.). Linea di riva all’inizio del IV sec. a.C. (in blu) e il tratto della Via greca Leontini-Katane, dall’Alto di S. Demetrio al ponte di Passo Martino (in arancione); a circa 1 km a Nord di Grotte San Giorgio, ed in adiacenza alla strada (nel tondino rosso), la necropoli romana Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 88 Figura 2. (Catania Sud: IGM, F°270 III N.O.) Linea di riva e schema della foce del Simeto nel 396 a.C. (in blu); Via dal ponte di Passo Martino a Katane (in arancione) tra i comandi degli accampamenti nemici (cerchi in rosso) solo sondaggio (in un’area sconvolta da bonifiche), è stato per ipotesi ricostruito il limite verticale sul mare lungo il cordone sabbioso che recintava l’antica laguna nel X sec. a.C. che poi è stato estrapolato a nord anche come limite di spiaggia per la pianura di Catania passante sul limite del promontorio di S. Demetrio13. Ma questo limite (schematizzato in scala 1: 200.000) allora poteva invece essere ancora arcuato. Lo scrivente, con validi supporti, ha direttamente ricostruito i limiti di spiaggia tra il V-IV sec. a.C., ricostruendo: prima, quello esterno della succitata laguna relativo alla foce del fiume di Leontinoi (descritta dalle fonti storiche tra il V-IV sec. a.C.), poi estrapolandolo ancora a Nord come limite di spiaggia per la pianura di Catania passante sul mare davanti al promontorio di S. Demetrio14. Ciò è stato dedotto anche con riferimenti documentari e archeologici (esaminati in un successivo capitolo) e con la posizione spaziale di una necropoli relativa a un villaggio romano (Symaetus) e della adiacente Via Leontinoi-Katane. Le descrizioni dello Pseudo-Scilace, forniscono le distanze di Leontinoi lungo il suo fiume Terias (dal XII sec. S. Leonardo) sino alla foce interna alla suddetta laguna, limitata a Sud dal promontorio attraversato oggi dalla Galleria Filippella. La foce allora era navigabile con grandi barconi e poi, per progressivo interramento, soltanto con barche e chiatte con le quali le merci delle navi sul mare interno alla laguna erano trasportate nella vicina foce del Terias e da qui lungo il fiume arrivavano sino al porto vicino alla periferia di Leontinoi (DIOD. XVI, 6, 1). Le fonti antiche che precisano la distanza fluviale di Lentini dal mare, sono le seguenti: 20 stadi (poco meno di 4 Km) secondo Pseudo Scilace nel “Periplo 13” (V-IV sec. a.C.); 6 miglia (circa 9 km) per Edrisi (metà del XII sec.), per l’avanzata della spiaggia di 5 Km in 15 secoli; 5 miglia (circa 7,5 Km) per Fazello (metà del XVI sec.), con il ritiro della spiaggia di 1,5 Km in poco più di 4 secoli. (Peretti, 1988; Fazello, 1558). Tali discontinuità secolari delle distanze della linea di riva dal mare fornite da questi storici e dalla precedente relazione geologica hanno lasciato alquanto perplessi vari studiosi sull’affidabilità di tali notizie. Ma tra le suddette notizie storiche a noi interessa soprattutto Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 quella più antica fornita nel Periplo dello Pseudo-Scilace (V-IV sec. a.C.) che pone Leontinoi a 20 stadi dalla foce del fiume Terias”, distanza già valutata in circa 3,7 Km da recenti autori che hanno ritenuto la linea riva del mare allora vicina al limite delle colline. Questo oggi, dopo la progradazione per bonifica della pianura, si è spostato sul mare di circa 3 Km più a levante. La distanza di 20 stadi è stata controllata dallo scrivente verificando il percorso fluviale dell’odierno fiume S. Leonardo che, partendo dall’antico sbocco dalle colline sulla pianura, arriva nell’interno poco a NE della Stazione FF.SS., nei pressi dell’attuale periferia settentrionale di Lentini, dove potrebbe trovarsi sepolto l’antico porto fluviale15. La distanza di Leontinoi dal mare nel V-IV sec. a.C. è stata poi arrotondata a 4 Km16, aggiungendo almeno altri 400 m del lungo e stretto “promontorio” roccioso nella pianura bonificata che oggi costringe il fiume a scorrergli ancora in adiacenza, e che in antico lo guidava ad avere la foce nel mare interno della laguna dove le navi si riparavano. Ben sessanta quelle degli Ateniesi nel 415 a.C. (Thuc. VI 50, 3-4). 89 6. LE VIE PERCORSE DALL’ESERCITO DI DIONISIO DA SYRACOSION, CON LA TAPPA STRATEGICA PRESSO IL TAURO, SINO AL CAPOSALDO DI LEONTINOI CHE, CON LA FORTEZZA DI AETHNA/INESSA (A NO), PRECLUDEVA LE ALTRE VIE DI USCITA DALLA PIANURA DI KATANE Sulla costa orientale fu molto importante il percorso dal nodo stradale di Siracusa a Catania e da qui sino a Messina che, riutilizzato dai Romani dopo la conquista della Sicilia, costituì la Via Pompeia. Nel 396 a.C. Dionìsio di Siracusa per evitare l’assedio dell’esercito cartaginese intorno alla sua città, predispose in anticipo un suo “Quadro operativo” per obbligare i nemici alla battaglia in prescelte località della piana di Katane, aveva già stabilito tutt’intorno il controllo viario con caposaldi fortificati e con riserve logistiche e militari. La prima Via descritta da Diodoro (XIV 58) è quella percorsa nel 396 a.C. da Dionìsio di Syracosion con il suo numeroso esercito, composto dalla fanteria seguita e supportata sul mare dalla flotta, per recarsi dalla sua città, dopo l’accampamento intermedio al Tauro, a Leontinoi e da qui a un secondo accampamento strategico sul limite della pianura con il fiume Simeto, ormai non lontano da Katane. Lo storico Diodoro (XIV, 58) narra che Dionìsio uscì con la numerosa fanteria da una porta sulle mura arcaiche della sua città (esistenti ancora nel IV sec. a.C.) e marciando per 160 stadi, corrispondenti a circa 28,5 Km, si accampò strategicamente presso la località del Tauro17. Il primo e antico tratto viario dalla città, giunto ai tornanti in discesa alla fine dell’odierno Viale Scala greca e arrivato sulla pianura di Targia, proseguiva parallelamente alla costa seguendo il tracciato della ex Trazzera Regia demaniale, poi occupato dalla ferrovia. Questa via antica, continuando a ricalcare un percorso del Neolitico che serviva i villaggi presso il mare, poi passava di fronte alla penisola di Magnisi (l’antica Thapsos). Il percorso giungeva quindi vicino alla Stazione FF.SS. presso l’attuale Priolo per risalire a NO attraverso la cittadina per vecchia SS. Orientale Sicula 114 e attraversare a monte la Cava Sorciaro in un punto stretto e meno profondo, come avviene ancora oggi anche con la strada moder- na. Sul tratto successivo, ipotizzato sino a pochi anni fa da diversi autori con una successiva deviazione verso NO, il toponimo Tauro è inesistente.18 Invece, con la recente ricerca di G. Sirena, tale toponimo è stato trovato alla fine di una diversa prosecuzione del tratto viario greco (più verosimile per tracce di carraie con adiacenti resti archeologici greci, romani e bizantini) che subito dopo la Cava Sorciaro, deviava verso NNE e dopo circa 4 Km dalla periferia di Priolo, giunta in vicinanza della masseria S. Cusumano, si dirigeva verso destra (tratto ora attraversato dalla moderna SS. 114) scendendo sulla pianura. Qui, dopo un percorso di 1,5 Km verso nord e parallelo alla vicina costa del golfo di Augusta, la strada antica passava vicina alle distrutte mura arcaiche dell’importante città di Mégara Hyblaea con l’importante forte (phrourion) siracusano, costruito nel 414 a.C. durante la guerra contro gli Ateniesi, per controllare il percorso viario, impedendo il passaggio ai nemici (Tucidide VI 94). Proseguendo sulla via si dovevano attraversare (entro 3,5 Km) tre su ponti, probabilmente allora di legno, in connessione strategica con il precedente forte, per attraversare tre fiumi più o meno piccoli che oggi sfociano nel vicino Golfo di Augusta: il Cantèra (ex Alabon); il più grande Marcellino (ex Mylas), in contrada Ponte Reale, e infine il Mulinello arrivando così sulla S.S. 193 per Augusta. Da qui la strada antica, invece di proseguire subito dopo il ponte moderno sul fiume, saliva gradualmente, per più di un centinaio di metri verso NO, sul fianco dell’erta e rocciosa valle sinistra del Mulinello, grazie ad una coppia di paralleli e larghi incassi artificiali scavati a mezza costa (detti “tagliate”) con interasse di 2,35 m e carraie larghe 1,60 m. La Via, presto giunta su un pianoro poco inclinato, saliva ancora, ora diretta verso settentrione, per 4 Km circa sino alla contrada Malfitano e all’innesto a “T” dell’attuale S.P. 57 (bivio per Carlentini e Lentini, a O-NO, e per Brucoli a E-SE). Qui lo stratega Dionisio fece accampare il suo numeroso esercito distribuendolo intorno al trivio e lungo la strada in discesa sino all’elevata Stazione FF.SS. vicina alla frazione marittima di Brucoli. Questa posizione collinare dominava il sottostante porto (probabilmente l’antico stanziamento greco del Trotilon) situato sul mare di ponente con un Castello medievale su un promontorio (oggi anche occupato dalla succitata frazione), limitato verso l’interno da un canale (ex sede fluviale sommersa), proteso nel piccolo golfo chiuso a levante dalla Punta della Tonnara sotto l’incombente altopiano collinare dell’antico Tauro (Diod. XIV, 58), oggi detto in dialetto locale: “u’ Munti”. Allora lo stratega scelse qui il luogo per accamparsi probabilmente per le seguenti ragioni: avere in vista l’esercito e la flotta che li aveva seguiti nel porto; disporre delle acque di pozzi e sorgenti che alimentavano il limitrofo fiume Pantakyas (oggi Torrente Porcaria); restare nascosto dalla vista del nemico ma avere delle posizioni strategiche vicine dalle quali osservarlo. Infatti, a circa 2 Km a O-NO dal bivio della strada antica ancora da percorrere verso Leontinoi, costeggiando il vallone del fiume Pantakyas (oggi Maccaudo), si allunga sulla destra la rocciosa collina di Cozzo Telegrafo (126 m s.l.m.) dalla cui sommità si apriva verso settentrione uno straordinario panorama. Principalmente due erano le viste strategiche: sul mare, verso NW e N, per osservare gli eventuali movimenti delle navi nemiche nella laguna del fiume Terias di Leontinoi e nel “golfo” di Katane; verso Ovest, sulla relativa fascia costiera della Piana dove si potevano intravvedere nell’interno, lungo la Via Katane-Leontinoi, i movimenti di un’eventuale marcia di avvicinamento dei Cartaginesi. Dionigi, fatte le sue osservazioni dalla collina e altri accertamenti con esploratori presso i vicini porti di Castelluccio e Agnone, non rilevando presenze nemiche l’indomani proseguì con l’esercito sulla Via a O-NO (oggi S.P. 57) e marciando per circa 20 Km giunse a Leontinoi. Questa città, poco tempo prima da lui occupata, era stata fatta potenziare nelle fortificazioni, rifornita con depositi di grano e vettovaglie era stata donata ai suoi 10.000 mercenari Campani anche per resistere sulla via per Katane come “caposaldo” a un eventuale lungo assedio dei Cartaginesi (Diodoro XIV, 58). E ancora Diodoro narra che, nello stesso periodo e per lo stesso scopo, Dionigi aveva già convinto anche gli altri mercenari Campani che popolavano Katane ad abbandonare la città, non adeguatamente fortificata, e a trasferirsi a circa 20 Km a NO sul promontorio sulla fortezza di Aethna/Inessa a 2,5 Km di Ibla Gereatis. Quest’ultima, controllando da vicino a un bivio il passaggio della strada che secondaria che collegava Katane con i centri intorno all’Etna, supportava la fortezza, il vero “caposaldo” strategico che controllava dall’alto della riva destra del Simeto l’altra grande via diretta da Katane verso l’interno della Sicilia e con la costa del mar Tirreno. Infatti, dopo il Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 90 passaggio del Simeto e la prosecuzione della via, nell’interno si trovava non molto lontana Centuripe e altre città che essendosi alleate con il nemico potevano contribuire a inviargli soccorsi militari e logistici (Tucidite VI 94, 3 e VII 32). Allora, in previsione della grande battaglia del 396 a.C. sulla pianura di Katane, per Dionigi impedire il passaggio del Simeto significava: evitare che i Cartaginesi, dopo aver imboccato l’importante diramazione viaria che dopo Ibla Gereatis (oggi sito di Paternò) e Aethna/Inessa si dirigessero pe una via secondaria a Leontinoi (ancora in funzione almeno sino al medioevo) e lo prendessero alle spalle precludendogli così un’eventuale ritirata; al contrario lui avrebbe avuto anche la possibilità di fare intervenire i Campani di Aethna/Inessa per la via passante da Ibla sino a Katane per assalire alle spalle i Cartaginesi. 7. L’IMPORTANZA PALEOGEOGRAFICA E STORICA DELLA VIA GRECA SULLA PIANURA KATANE (396 A.C.), PROVENIENTE DA LEONTINOI, CON LO STRATEGICO CAPOSALDOACCAMPAMENTO IN ADIACENZA AL PASSAGGIO SUL FIUME SIMETO PRESSO LA FOCE Tra il V-IV sec. a.C. il primo tratto della via antica proveniente da Leontinoi percorsa dall’esercito siracusano diretto a settentrione, dopo aver attraversato il fiume Terias (dal XII sec. S. Leonardo), saliva sul promontorio di S.Demetrio, come fa oggi la SS.194 sino a Primosole, ma poco prima di essere giunto all’attuale bivio Iazzotto, girava a sinistra e scendeva (oggi attraversato dalla SS. 385) sino al margine NO del promontorio, passando in adiacenza al sito archeologico di Grotte S. Giorgio sul margine della pianura di Catania (Fig. 1). Per ottenere un percorso completo e dettagliato del successivo tratto viario sulla pianura sino al Ponte di Passo Martino, la Via antica, esistente (come quella proveniente da Siracusa) dalla prima metà del VI sec a.C. presso il limite interno delle paludi di allora, probabilmente a 1,5-2 Km dal mare, in analogia all’attuale strada interna alle paludi di Vendicari (SR), è stata ricostruita allineando altri due successivi caposaldi viari. Il primo caposaldo, a circa 1 Km dal sito archeologico di Grotte S. Giorgio e con direzione N-NO, attraverso i fiumi Gornalunga e Simeto, è costituito dai resti archeologici di una necropoli romana di età imperiale apparsa nel 1800 a poco più di due metri sotto il suolo di calpestio per escavazione fluviale di un’alluvione. Il vicino villaggio (ancora non trovato), era allora vicinissimo alla Via greca e romana lontana dal mare (1,5-2 La posizione delle linee di riva) sino al limite est del promontorio di S. Demetrio, fu allora identificato dal soprintendente di Catania Sciuto-Patti con “Symaetus”, nome registrato dalle fonti romane (Fig. 2). E nello stesso sito probabilmente si venne a trovare con un nome simile anche il successivo Casale di Ximet (o Simed), registrato come vetus in età normanna (1093), anch’esso connesso alla frequentata via Lentini-Catania per le attività agricole, commerciali e probilmente anche di sosta. Procedendo sulla Via ancora nella stessa direzione N-NO e per poco più di 2 Km, si trovava il secondo caposaldo viario intorno all’attuale ponte di Passo Martino sul Simeto (toponimo forse legato un evento cruento della guerra del “Vespro”) situato in una strettoia del tratto interno e più stabile del fiume. Intorno a questo sito il passaggio tra le due sponde del fiume spesso avveniva, sino alla prima metà del XIX secolo, con un traghetto detto “giarretta” (allora anche sinonimo del Simeto) ma a volte con ponti poi distrutti dalle piene. Questo tratto viario rettilineo, da Grotte S. Giorgio sino all’ex Ponte di Passo Martino, si può apprezzare visivamente perchè oggi è ripercorso all’incirca dal tratto dell’Autostrada Catania-Siracusa sino alla Galleria di S. Demetrio. Tra il V-IV sec. a.C. le rive opposte di quest’attraversamento del Simeto che avveniva ancora con un traghetto, erano probabilmente controllate da altrettante stazioni doganali fortificate poiché il grande fiume costituì il limite territoriale tra le due città sino all’inizio dell’età imperiale romana (Strabone VI, 2 e 5). Qui furono probabilmente posti in meno di vent’anni gli accampamenti di due eserciti Siracusani: il primo nel 415 a.C., prima di attaccare gli Ateniesi nel loro accampamento invernale nel Porto militare di Katane (Tucidide VI 65,1); il secondo nel 396 a.C., prima della programmata difesa e contro-attacco della fanteria di Dionìsio. Il grande stratega, infatti, essendo con la fanteria e la flotta in grande inferiorità numerica, nel rapporto di 10 a 1 (Diod. XIV 62), si era fermato in quella posizione per sfruttarla contro i Cartaginesi come caposaldo e fulcro bellico per le seguenti battaglie, Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 terrestre e navale, sulla pianura, lungo le rive del Simeto e degli affluenti; lungo la spiaggia, a settentrione della non lontana foce del fiume (Diod. XIV 63, 2-3). Questa, per ciclica migrazione poteva essersi spostata molto più a Nord di oggi, come avvenuto ciclicamente tra il basso Medioevo e il Rinascimento. E tale posizione della foce dunque poteva trovarsi, come più avanti suggeriscono alcuni passi di Diodoro, a settentrione delle attuali contrade Passo MartinoTorre Allegra e, in analogia al rilievo della migrazione del 1784, a capo di un terminale tratto fluviale simile a un doppio meandro a “S” (Fig. 2).19 Dopo il traghettamento sul Simeto (poi “Passo Martino”) la Via raggiungeva l’opposto margine settentrionale della pianura con un arcuato e lungo percorso prima subparallelo alla spiaggia per poi avvicinarsi sempre più meridione a Katane al suo porto militare. Probabilmente questo lungo tratto è oggi all’incirca ripercorso dalla strada secondaria SP 91 con la sua ideale prosecuzione attraverso la più interna Zona industriale di Catania e il tratto della ferrovia accanto al limite ovest dell’Aeroporto di Fontanarossa. La Via, oggi sotto l’ultimo tratto della SS. 192 proveniente da Enna (località Zia Lisa) e della sua prosecuzione per Via Gelso bianco, passava a Sud di Librino (presso i ruderi di una grande Villa romana) e a S.O. dell’attuale periferia di Catania, oggi coperta da strade e palazzi, per dirigersi infine diritta a NE verso la porta meridionale di Katane. Quest’ingresso si apriva sotto le alte mura della fortificazione greca presso la spiaggia e qui probabilmente sotto la protezione di una grande torre (fondata sopra il minore dei terrazzi morfologici degradanti dall’alto della città) funzionale anche per l’avvistamento sul mare e per la vicina difesa dei due porti. Sullo stesso sito di questa torre, poi romana, venne costruito nella prima metà del XIII sec. il Castello Ursino, allora ancora vicino e incombente sulla spiaggia. Infatti, le fortificazioni delle antiche mura meridionali di Katane, erette lungo il margine di un’alta scarpata sulla pianura (diretta da O-NO a E-SE), pur dopo distruzioni per assedi o sismi furono ristrutturate e ricostruite negli stessi siti perché condizionate dalla geomorfologia dei luoghi, rimasti quasi inalterati sino al 1669 (anno della grande colata lavica, distruttiva e stravolgente, dell’Etna). In conseguenza una visione verosimigliante di questa parte dell’antica Katane ci viene oggi ancora fornita dalle immagini documentarie con le mura meridionali dei 91 Figura 3. Foce del Simeto secoli XVI e XVII (con ristrutturazioni di ruderi greco-romani) sino al Castello Ursino vicino alla spiaggia e con la Via antica ancora diretta verso la sua porta d’ingresso.20 In adiacenza a questa, dalle mura fortificate greche e lungo 400-500 m della spiaggia meridionale, si trovava il Porto militare della città, protetto intorno da una palizzata fortificata, dove si vennero a stanziare: nel 415 a.C la flotta degli Ateniesi; nel 396 a.C. quella dei Cartaginesi (cfr. Diod. XIV 62 in n. 28 ). Questa enorme flotta di 3.250 navi (Diodoro XIV 60 e 62), giunta a Katane, in attesa della fanteria d’Imilcone che, per la via bloccata dalla lava dell’Etna (5 Km a NE di Acireale) stava aggirando il vulcano, si stanziò dal piccolo porto roccioso della città a oltre la spiaggia del Porto militare, per poi distribuirsi probabilmente sino agli inizi dell’attuale “Plaia”. 8. LA FASCIA COSTIERA DESCRITTA DA DIODORO (XIV 59-60), POCO PRIMA DELLA BATTAGLIA NAVALE DEL 396 A.C., A INTEGRAZIONE DELLA PRECEDENTE RICOSTRUZIONE PALEOGEOGRAFICA CON IL CORSO TERMINALE DEL SIMETO E LA SUA FOCE Dal confronto tra la descrizione della battaglia navale (Diodoro XIV 59), predisposta da Dionìsio (in assenza della fanteria d’Imilcone) sulla pianura a Sud di Katane per la ricostruzione paleogeografica si può infine dedurre quanto segue: 1) l’accampamento siracusano, già localizzato in adiacenza al passaggio sul Simeto della via Leontinoi-Katane dovendosi da questo una gran massa di fanteria trasferire in poco tempo sulla spiaggia presso la foce attraverso un’impervia fascia paludosa, doveva essere lontano dal mare 1.5-2 Km e con questa probabilmente collegato da lunghe bretelle viarie lungo gli argini fluviali; 2) poiché il tratto terminale del Simeto, come scrive Diodoro (XIV 59), era allora navigabile per penetrazione del mare dalle triremi a basso pescaggio dalla foce sino all’accampamento siracusano adiacente al traghettamento del fiume (Thuc. VI 65, 1), questi doveva essere sbarrato sulle rive almeno da un phrourion per impedire ai nemici la risalita sino allo strategico attraversamento della via LeontinoiKatane. Inoltre poiché viene ancora scritto da Diodoro (XIV 60, 1) che prima della battaglia del giorno dopo non si vedevano fra loro: a) i 20.000 fanti siracusani fatti schierare lungo la spiaggia (almeno sino a 1 Km a Nord dalla foce del Simeto e all’altezza della loro flotta sul mare) di fronte all’enorme flotta cartaginese distribuita a Sud per almeno 1 Km sino all’attuale Plaia; b) che soltanto quando queste ultime navi incominciarono a muoversi verso sud per schierarsi con il resto della flotta per la battaglia avvistarono presto i fanti siracusani, si deduce che le navi car- taginesi, prima stanziate alla Plaia, erano distanti dai fanti siracusani almeno 4,5 Km (come visivamente verificato) e dalla foce del Simeto circa 5,5 Km, in accordo con quanto detto prima. In conclusione, si può dunque affermare che la battaglia navale del 396 a.C. tra le flotte dei Siracusani e dei Cartaginesi deve essersi svolta a non più di 6,5 Km dal Porto commerciale adiacente a Katane. Oggi la zona centrale di quello scontro tra le flotte (perso disastrosamente dai Siracusani per avventatezza del loro ammiraglio) si dovrebbe trovare nello “specchio di mare”, oggi coperto in gran parte all’interno della fascia costiera formata da sabbie, alluvioni e bonifiche successive all’evento, al centro dei semi-arcuati toponimi cartografici delle contrade S. Francesco alla rena e S. Giuseppe alla rena, di fronte alla vecchia Zona Industriale di “Piano (ex Pantano) d’Arci” a Sud di Catania. Dionìsio, dopo il disastro navale subìto, per non rischiare che durante il successivo scontro con i fanti Cartaginesi la loro flotta potesse attaccare e conquistare Siracusa (com’era avvenuto prima Messina) decise di vincere il 2° tempo di quella partita a Siracusa, rinserrato tra le sue inespugnabili fortificazioni già costruite. Qui lo stratega, dopo aver sfiancato il nemico in un inutile e lungo assedio, con una sortita notturna di aggiramento del campo nemico sul Porto Grande, riportò una strepitosa vittoria decisiva per i greci e per i destini dell’Occidente. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 92 località Primosole, Monaco et al. (2004), n. 11, scontrate in numerosi sondaggi petroliferi dalla periferia a Sud di Catania sino ad Agnone, 1. Il fiume Gornalunga sino al 1621 aveva un Fig. 1 a p. 172. corso ancora indipendente dal Simeto, del 8. Tre sondaggi petroliferi a carotaggio conti- che da allora sino alle bonifiche si sono estese quale fu reso affluente con l’escavazione di un nuo eseguiti nella metà occidentale del Panta- progressivamente verso le spiagge. Le paludi, nuovo alveo ad opera privata del vescovo di no di Lentini, bonificato negli anni cinquanta a parere degli autori, potrebbero ripristinarsi Catania, proprietario del feudo di S. Agata, e giacente oggi a -2,5 m sotto il livello del verso la fine di questo secolo per l’ingressione per evitare le ripetute alluvioni che invadeva- mare, hanno accertato nei 2/3 m superiori del del mare (sollevatosi per il riscaldamento glono e isolavano le sue campagne. substrato depositi lagunari con limi organici bale) e per l’arresto del sollevamento tettonico della bassa pianura di Catania. 2. La spiaggia dell’Oasi è da 65 anni sotto- nerastri e con fossili di gasteropodi polmonati posta all’erosione accelerata favorita dal solle- che sono risultati appartenenti a una laguna 14. La modellazione della costa, sin dalla vamento marino per lo scioglimento glaciale; costiera (formatasi 2858 +/- 70 anni fa) recin- Protostoria, è stata determinata sia dal moto infatti, nell’ultimo decennio (1953-1982) ha tata da dune sabbiose. Si veda Monaco et al. ondoso dei venti dominanti, sia dalle correnti da o per lo stretto di Messina che, erodendo e subito il ritiro di 4-30 m della riva. Si veda: (2004). Amore et al.,(1983). 9. Per l’invasione del mare per 2 Km dalla foce deponendo i sedimenti trasportati, hanno fatto spostare, come si dirà più avanti, la foce del 3. L’Oasi del Simeto, Riserva dal 1984 per il del Simeto, si veda Marinelli (1926). Tra il Simeto e la larghezza delle spiagge (v. Longrande interesse floristico e ornitologico, è V-IV sec. a.C., durante la fredda PEG Arcaighitano e Colella, 2007, p. 198, Figure 2, 15ca, piogge con temporali si avevano già all’iun’area allungata verso Nord di 8 x 2,3 Km e 17). Molto importante per il rimodellamento limitata dal mare da una spiaggia con antiche nizio di Settembre, come avvenne per esemin larghezza della spiaggia a Sud di Catania dune ricoperte dai resti dell’antica macchia pio, durante la ritirata Ateniese del 413 a.C. è stato poi il promontorio di 600 metri creada Siracusa, nei pressi di Floridia (Tucidide mediterranea. Il limite meridionale è prossito nel mare dalla lava dell’eruzione vulcanica mo alla vecchia foce del fiume Gornalunga, VII 79,3) e di Noto (VII 84,3). Infatti, per il del 1669 che, dopo aver circondato il Castello ora ridotta a un piccolo lago a circa 1,5 Km tempo avverso, in Sicilia la guerra terrestre si Ursino, seppellì la vicina spiaggia con l’antico a Sud della recente foce artificiale del fiume sospendeva anche con la navigazione (per le Porto militare di origine greca. intense mareggiate) che riprendevano in priSimeto. E poco a sud, si trova il più ridotto 15. L’antico porto fluviale di Leontinoi si Lago Gurnazza che indica una fra le posizioni mavera/estate (Thuc. VI, 8,1 e 30,1). più meridionali raggiunte dalla foce del Sime- 10. La modellazione della costa, sin dalla pro- potrebbe trovare poco a N-E della Stazioto che all’inizio del XII secolo, secondo Edrisi, tostoria, è stata determinata sia dal moto on- ne FF.SS. dell’odierna all’interno della desarebbe arrivata ancora 1 Km più in basso. Si doso dei venti dominanti, sia dalle correnti da pressione in località Salemi-Guastella, un ex-meandro del Terias coperto dalle alluvioveda: D’arrigo, pp. 598-99 e Fig.1. o per lo stretto di Messina che, erodendo e deni. Nell’antico meandro dovevano conflui4. L’inizio del Periodo Caldo Medievale ponendo i sedimenti trasportati, hanno fatto re i fiumi di Cava Mulinelli e forsanche del (1050-1270), simile a quello in età romana spostare la foce del Simeto e la larghezza delle Lisso-Carrunchio dai quali poi sarebbe sta(100 a.C-300 d. C.), fu però preceduto dal spiagge (v. Longhitano e Colella, Op. cit., p. to possibile trasportare le merci con piccole minimo di Oort (1010-1050), un breve perio- 198, Figure 2, 15-17). Molto importante per barche in città. La posizione del porto, con do di freddo intenso, piogge e neve nel Nord il rimodellamento in larghezza della spiaggia l’abbondante acqua di questi fiumi, sarebbe Europa, provocando carestie e morti. Vedi: a Sud di Catania è stato poi il promontorio di stata strategica per le attività industriali e per 600 metri creato nel mare dalla lava dell’eruOrtolani e Pagliuca (2003; 2007). i trasporti terrestri. Questi potevano avvenire 5. Negli ultimi 2.800 anni, nel Sud-Italia e in zione vulcanica del 1669 che, dopo aver cir- lungo due strade: una proveniente dalla foce Sicilia, come in altre regioni dell’Anatolia e condato il Castello Ursino, seppellì la vicina lungo la riva destra del fiume Terias (oggi con della Magna Grecia, dopo le siccità locali del- spiaggia con l’antico Porto militare di origine portata molto ridotta); l’altra lungo l’antica le prime metà dei secoli XII-IX a.C. (nell’in- greca. Via principale che si dirigeva a meridione stabile fase olocenica Sub-boreale), per l’inizio 11. Le cicliche alternanze climatiche, con pe- verso la vicina periferia di Leontinoi e dalla dell’attuale fase Sub-atlantica sono iniziati gli riodi simili, sono iniziate con la “Fase clima- parte opposta, attraversando il fiume sul Ponalterni e ciclici periodi climatici. E nei suc- tica del Sub-atlantico” (800 a.C. circa). Vedi: te dei Malati, a Katane (strada oggi ripercorsa cessivi periodi caldo/aridi avvenuti nell’Isola Mariani, Il Clima, 2006, pp. 20, 21 e Tab. 4. dalla SS. 194). si è riattivata l’intensa erosione delle spiagge, Infatti, il sito di Katane e Leontinoi, fondate 16. Da Siracusa i collegamenti viari proseguicome oggi. Esemplare, oltre a quella con il nella seconda metà del secolo VIII a.C., fu vano ancora a Ovest con il tratto della Via per Simeto, la lunghissima spiaggia tra Cattolica scelto ai margini estremi della vasta e ino- Akrai (l’attuale Palazzolo Acreide), parte della Eraclea e Montallegro che in circa 40 anni è spitale pianura per avere: un porto marino o Via Selinuntina, e a Sud con la Via Elorina. fluviale (con foce stabile); un sito salubre e un Si veda: R. Mirisola, L. Polacco (1996) pp. arretrata di 200 m. 6. I precedenti periodi freddo-umidi e piovosi fertile retroterra. 49-63 e 65-75, Figure 4-30. Che le succitate NOTE 12. Le tre precedenti migrazioni della foce del Simeto (1016, 1290 e 1564) hanno avuto la massima ampiezza nella progressione da Sud a Nord di 5 km, mentre in quella del 1784-1800 l’ampiezza, è stata di 4,2 Km. Infatti, dopo il 1564 l’ampiezza sinusoidale del “Diagramma periodale delle migrazioni della foce”, pur con stesso periodo medio di 137 anni, si è andata smorzando. In conseguenza l’escursione verso Nord nei secoli precedenti all’anno mille potrebbe essere stata anche maggiore e almeno 7. La via antica da Catania a Lentini, allora di un altro Km. Si vedano: D’Arrigo, 1953, pp. detta di “Passo Martino”, era ancora rimasta 598, 599-600 e Figura1; Marinelli (1926). dal VI sec. a.C. sino alla fine del XIX secolo il 13. Per l’ipotesi paleogeografica con la linea di percorso meno distante dal mare per gli inter- spiaggia del golfo di Catania nel Neolitico e posti terreni paludosi lungo la fascia costiera, nel sec. X a.C., vedi: Monaco et al., 2004, Op. detti più a Nord “I Pantani di Catania”.Vedi: cit., p. 178 e Figura 5; pp. 177 e 178-181. E in Sciuto Patti (1880); e, per la serie delle antiche Fig. 1 a p. 172 si può vedere (sulla corografia paludi (definite con sondaggi) tra Catania e attuale) la lunga serie di paludi e lagune, ri(protrattisi anche per circa 2 secoli) sono anche detti “PEG” per similitudine con l’ultimo periodo del 1580-1820 che, per le temperature molto rigide con nevicate nell’Europa transalpina), è noto come “Piccola Età Glaciale”. Si vedano: Le Roy Ladurie (1982); Ortolani e Pagliuca (2007, pp. 13-17); Marabini (2002); le portate di massima piena e magra alla foce nel 1824 e nel 1938, il Simeto ha assunto un carattere torrentizio. Vedi D’Arrigo, Op. cit. p. 607. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Vie fossero larghe tanto da far marciare un esercito in colonna in file di 4/5 fanti, si evince anche dalla descrizione tucididea (Thuc. VII 78,1) della ritirata dei 40.000 Ateniesi dall’accampamento sul Porto Grande di Siracusa (413 a.C.): “L’esercito marciava in formazione serrata; davanti guidavano le truppe di Nicia, quelle di Demostene seguivano dietro; le salmerie e la massa restante stavano in mezzo tra gli Opliti”. 17. Diodoro Siculo nel L. XIV al cap. 58, infatti, così scrive: “Dionisio… “Dopo, fece avanzare tutto l’esercito ad una distanza di 160 stadi da Siracusa e si accampò presso il così detto Tauro”.… “Aveva allora trentamila fanti, più di tremila cavalieri, centottanta navi ma di queste poche erano triremi”. Il percorso della numerosa fanteria di Dionigi di 160 stadi in un giorno sono stati considerati equivalenti a 28,5 Km 93 circa, stimando qui ancora valido lo stadio BIBLIOGRAFIA 1926, Firenze, I.G.M.. itinerante di 177,6 m. Infatti, questa distan- Amari M. (1817), Idrisi, Biblioteca arabo- Mirisola R. (2015), Il Porto Piccolo con l’arsenale dionigiano del Lakkios, forza strategiza corrisponde a quella reale verificata sul sicula, Palermo. ca di Siracusa greca, Atti del I convegno napercorso dell’antica strada che partendo dalla Amari M. (1843) La Guerra del Vespro Sizionale di geoarcheologia, Aidone (EN), ciliano. Un periodo delle storie Siciliane del porta Nord di “Siracusa dionigiana”, circa a geologia dell’Ambiente, suppl.2/2015. secolo XIII, Vol. II, Cap. XIII, 15, II a Ed. metà dell’odierno Corso Gelone, arrivava sino Mirisola R., Polacco L. (1996), ContriItaliana, Libreria Baudry, Parigi. all’accampamento presso il M. “Tauro”, vicino buti alla paleogeografia di Siracusa e del terAmari M., Schiapparelli C. (1883), L’Ial paese marittimo di Brucoli. 18. La Soprintendenza di Siracusa alla fine degli anni ’90 ha condotto indagini archeologiche presso il Comune di Priolo intorno alla cosiddetta “Guglia di Marcello” (un Mausoleo ellenistico) e nella seguente fascia a ponente in adiacenza alla ferrovia FF.SS. in località Specchi-Aguglia presso la Penisola di Magnisi (l’antica Thapsos). Gli scavi hanno messo in luce tre lunghi tratti stradali della Via Syracosion-Megara-Leontinoi diretti da S-SE a N-NO ma sub-paralleli e spostati sempre più verso ovest dal periodo greco a quello romano. Si tratta di tre successive ricostruzioni più all’interno dello stesso tracciato probabilmente per evitare nuovi smottamenti e impaludamenti provocati dalle piene invernali dei torrenti provenienti dal vicino Monte Climiti e dalla risalita delle acque dal vicino Pantano di Thapsos (ex antiche saline). I tre tratti stradali dai dati di scavo sono risultati: a est della Guglia i due greci (tra la metà-fine del VI e la prima metà del V sec. a.C.); ad ovest della Guglia, il largo tratto romano largo 12 m e in basolato calcareo poligonale. I due suddetti tratti greci più a est, in acciottolato e con solchi di carreggiata a 1,65 m, hanno mostrato: il più antico a levante, un asse stradale largo 2,80 m; il più interno ed evoluto, con acciottolato alto 0,70 m contenuto lateralmente da due filari di blocchi calcarei, larghezza di 3,70 m. I caratteri e le misure di quest’ultimo tratto viario erano simili a quello successivo presso il lontano ingresso della Porta occidentale arcaica di Megara Hyblea. 19. Il corso terminale del fiume Simeto con la foce si è spostato tra il 1677 e il 1800 dalla posizione più a meridione del Lago Gurnazza (a circa 12 Km da Catania), sino alle contrade più settentrionali di Passo Martino-Torrazza con un’escursione di 3 Km. Invece, per l’andamento sinusoidale smorzato (crescente a ritroso) negli anni 1556,1230 e 950, la posizione della foce si trovava ancora poco più a settentrione (con un’escursione tra Sud e Nord di 5 Km). Vedi: D’Arrigo (1953) pp. 599 e 601 con Fig.1 (Diagramma periodale) e Fig.2 (Migrazioni della foce del Simeto). Un autore riferisce (senza cronologia e fonti) un’eccezionale risalita della foce ancora più a Nord. 20. Le corrispondenze tra i resti della Katane greca-Catana romana e della città fortificata rinascimentale, pur ristrutturata sulle città antiche in parte ricostruite dopo guerre e terremoti, sono chiare osservando il confronto fra i disegni militari degli architetti per la difesa della città spagnola fra XVI e XVII sec. e le Carte con restituzioni grafiche dell’assetto urbano del 1584 e della Catania moderna (prima e post sisma del 1693). Si veda: Scaglione (2010, pp. 51-53 e Figure 1-2-3; 67-69; 91-92 e Figura 10; 95 e Tavola 2; 99 e Tav. 4; 129 e Tav. 13). talia descritta nel “Libro di Ruggero” compilato da Edrisi, in Memorie dell’Accademia dei Lincei, s. II, VIII, Roma. Amico V. M. (1740-1746), Catania illustrata, Pars. II; Catania. Amore C, Giuffrida E., Zanini A. (1983), Variazioni del trasporto solido del fiume Simeto e loro influenza sul litorale del Golfo di Catania, in Atti del 23° Congr. Geogr. It., Catania 9-13 maggio, 2, pp.1-16. Armetta A. (1980), I porti della Sicilia (XVIII-XIX Secolo), in Frammenti di Storia ed Architettura, Palermo. Baudrand M. A. (1681) Geographia, Tomus II, Ed. Michelet, Paris, p. 238. Branca S., Tanguy J.C. (1980), Carta geologica del vulcano Etna: l’attività eruttiva negli ultimi 2.700 anni; in Memorie descrittive della Carta Geologica d’Italia. Ciancio S. (1967), Leontinoi, Ed. Ciranna, Roma. D’Arrigo A. 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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 94 Le vie di comunicazione nel suburbio orientale di Ostia in età romana Simona Pannuzi MIC – Istituto centrale per il restauro, Roma E-mail: [email protected] The roads in the eastern suburb of Ostia in roman age Parole chiave: viabilità, Ostia, età romana, meandro fluviale, Tevere Key words: roads, Ostia, roman age, river meander, Tiber river RIASSUNTO Le indagini di scavo archeologico preventivo, portate avanti negli anni duemila dall’ex Soprintendenza ostiense, anche affiancate da una rilettura critica della documentazione d’archivio relativa a vecchi scavi novecenteschi, hanno consentito di ampliare le nostre conoscenze circa la viabilità antica del suburbio meridionale ed orientale di Ostia, venendo in parte a precisare e a modificare alcune ipotesi proposte in precedenza. Numerosi sono i nuovi dati emersi durante queste indagini, sia a livello topografico, che monumentale. Le indagini effettuate testimoniano come l’individuazione di qualsiasi resto archeologico può essere determinante nella ricostruzione della viabilità territoriale, utilizzata per collegare insediamenti, costruzioni, o semplicemente luoghi usati per i più diversi motivi dalla popolazione che viveva e frequentava quella zona. In particolare, importanti dati sono scaturiti circa i percorsi stradali esistenti nell’area fuori Porta Romana (il cd.”Trastevere Ostiense” e la zona dell’attuale borgata di Ostia Antica), caratterizzata dalla presenza dell’antico meandro del Tevere, e fuori Porta Laurentina (la moderna loc. Pianabella), nella quale si estendeva senza soluzione di continuità una estesissima necropoli, separata in ambiti funerari differenti solo modernamente, con la costruzione dell’attuale tracciato della via Ostiense-via del Mare e della Ferrovia Roma-Lido. Di particolare interesse è il collegamento tra la viabilità antica del suburbio ostiense e l’attracco portuale posizionato nel meandro fluviale. Altri contesti significativi riguardo alla viabilità sono stati quelli messi in luce nella zona della grande necropoli meridionale, dove è stata notata una chiara diversificazione in età romana imperiale tra le strade principali, basolate, e quelle secondarie sistemate a battuto, a volte rinforzato con cocciopesto. Il percorso del Tevere nel suburbio orientale dovette condizionare in modo determinante la maglia stradale, procurando probabilmente cambiamenti di percorso della strada più importante del territorio, l’antica via Ostiense, che dovette modificare il suo tracciato verso la città in conseguenza degli spostamenti del meandro del fiume. Nel tratto più verso Roma la strada romana mantenne sempre l’allineamento antico, scavalcando il grande acquitrino su un imponente viadotto, già presente in epoca romana e ancora ben indicato nella cartografia cinquecentesca ed oltre. Per la ricostruzione delle comunicazioni stradali nell’area ostiense nelle epoche post-antiche è infatti da sottolineare il significativo supporto della cartografia rinascimentale e moderna. Alcuni dei percorsi stradali utilizzati in età antica mantennero una certa continuità di tracciato anche nelle epoche successive, come si è constatato nell’area poi occupata dall’abitato medievale di Gregoriopoli ed anche per l’asse viario parallelo all’acquedotto, odierna via Gesualdo. INTRODUZIONE I risultati emersi dalle indagini archeologiche, effettuate negli ultimi anni1, insieme allo studio della documentazione d’archivio ed al riesame dei vecchi scavi novecenteschi, hanno consentito di ampliare le nostre conoscenze circa la viabilità antica nel suburbio della città romana di Ostia. Numerosi sono i nuovi dati emersi durante le recenti ricerche, sia a livello topografico, che monumentale, evidenziando come, anche durante scavi preventivi, effettuati con tempi ristretti in aree limitate ed a volte già manomesse, possano comunque raggiungersi risultati di notevole interesse. In particolare, riguardo alla ricostruzione dei percorsi stradali di un determinato territorio, le indagini archeologiche, anche quelle preventive, testimoniano come l’individuazione di qualsiasi resto antico possa essere determinante nella ricostruzione della rete viaria, utilizzata per collegare insediamenti, costruzioni, Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 o semplicemente luoghi usati per i più diversi motivi dalla popolazione che viveva e frequentava quel territorio. IL PERCORSO DELLA VIA OSTIENSE E IL MEANDRO FLUVIALE Nell’immediato suburbio della città il percorso della via Ostiense, fondamentale collegamento tra Roma e Ostia, e le sue modalità costruttive furono condizionate dall’estensione del grande bacino palustre e, nella zona più vicina all’abitato urbano, dal meandro del Tevere. Quest’ansa scomparve definitivamente nei primi mesi del 1562, dopo la piena del 15572, dando vita all’odierno tracciato fluviale e provocando la creazione, nell’area prima occupata dallo stretto meandro, di un’area acquitrinosa, conosciuta nella toponomastica tardo-rinascimentale e moderna come località Fiume morto (Fig.1). Secondo alcune ricerche geoarcheologiche effet- Figura 1. Pianta del territorio di Ostia di Giovanni Battista Gingolani a.1692 (da Frutaz 1972, II, tav. 164, part.) 95 Figura 2. Veduta di Silvestro Appunti del 1745 (PAOANT, G 37) tuate alla fine del secolo scorso ed altre realizzate recentissimamente (Arnoldus Huyzendveld e Paroli, 1995, pp. 383385, Fig. 2; Pannuzi et al. c.s.), il meandro ostiense, avrebbe subito nel tempo dei cambiamenti nel suo lobo meridionale, con uno slittamento verso Sud: il fiume sarebbe venuto così a frapporsi al tracciato più diretto della via Ostiense verso la sua meta finale, la città di Ostia3. Infatti, sappiamo dai ritrovamenti archeologici (Serra, 2007, pp.22-61; Carbonara e Panariti, 2016, pp. 109117) e dalla cartografia rinascimentale4 che nel suburbio ostiense la strada manteneva un percorso rettilineo, parallelo all’antico acquedotto anch’esso proveniente da Est (vedi Fig. 1)5. La strada superava la grande laguna ostiense grazie alla costruzione di un lungo ponte, probabilmente realizzato già in età tardo-repubblicana6. Questo permetteva di scavalcare l’area acquitrinosa, pur mantenendo un collegamento idrico tra lo Stagno vero e proprio e la zona lacustre più a Nord, con tutta probabilità utilizzata già in epoca antica come Saline (Pannuzi, 2013, pp.2-5; Pannuzi, 2019b, pp.12-14). Tale viadotto soprav- visse fino all’età moderna, poiché risulta ancora chiaramente rappresentato nella carta cinquecentesca di Eufrosino della Volpaia, nel seicentesco Catasto Alessandrino ed in modo più schematico in una pianta delle Saline conservata all’Archivio di Stato di Roma databile al XVIII secolo, mentre in una veduta del 1745 di Silvestro Appunti il ponte basolato è raffigurato in buone condizioni ed ancora percorribile (Frutaz, 1972, II, tavv. 30 e 128; ASR, Ostia b1586, cit. in Pannuzi, 2013, fig. 10; PAOANT, Archivio Fotografico, G 37) (Fig. 2). Dalla testimonianza del viaggiatore svizzero C.De Bonstetten sappiamo che era ancora utilizzato nei primi dell’Ottocento per raggiungere l’abitato ostiense (De Bonstetten, 1804-1805, p. 40; Frutaz,1972, III, tav. 226). In questo tratto i resti della via Ostiense sono stati rinvenuti durante alcuni scavi effettuati negli anni ‘20 del Novecento, che hanno messo in luce un basolato largo circa m. 5 e i suoi strati di preparazione in scaglie di tufo e breccia fluviale7. La strada e le sue preparazioni erano contenute sui fianchi da blocchi di tufo (larghezza totale di m. 6,4), con il rafforzamento esterno di una serie di contrafforti sempre in tufo; la struttura poggiava su una potente massicciata in calcestruzzo, gettata su palificazioni lignee8. Recentissimamente questo medesimo tratto stradale è stato oggetto di una nuova indagine archeologica, di cui sono stati comunicati i primi dati preliminari (Lorenzatti, D’Ammassa, De Laurenzi 2018), senza accennare minimamente agli importantissimi ritrovamenti passati e senza purtroppo portare nuovi elementi circa le modalità costruttive antiche; viceversa è stato ipotizzato un riutilizzo in età rinascimentale dei resti dell’acquedotto romano adiacente alla strada, al fine di un ipotetico allargamento della sede viaria. In realtà, la pavimentazione a battuto rinvenuta, definita “tarda”, presenta una larghezza coincidente all’incirca con quella dell’antica carreggiata stradale e non risulta obliterare in alcun modo la struttura dell’acquedotto9. Grazie alle sezioni realizzate in occasione di scavi, effettuati nel secolo scorso nei pressi della borgata moderna di Ostia Antica, è stato possibile notare che i resti della preparazione stradale Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 96 Figura 3. Suburbio di Ostia, resti dell’antica via Ostiense (PAOANT, Archivio Disegni, pianta e sezione inv. 6312, dis. A. Pascolini a.1983-84, in Ricciardi, Santa Maria Scrinati 1996, fig.126) Figura 4. Suburbio di Ostia, Trincea SIP con indicazione dei ritrovamenti dell’antica via Ostiense (PAOANT, Archivio Disegni, inv. 4434, dis. G. e A. Pascolini a.1974 furono rinvenuti molto in profondità (quasi m. 4 sotto il livello stradale attuale) (PAOANT, Archivio Disegni, inv 4434 a.1974, dis. dis. G e A.Pascolini e inv. 6312, a.1983-84 dis. A.Pascolini, cit. in Ricciardi, Santa Maria Scrinari, 1996, fig.126) (Fig.3). In particolare, dalla sezione allegata alla pianta inv.4434, realizzata per cavi SIP nel 1974 (Fig.4), nei vari punti di rinvenimento al di sotto della “breccia”, da interpretare più precisamente come una pavimentazione stradale glareata, appaiono preparazioni stradali differenti, ma sempre fondate su un livello di grandi blocchi di tufo; in un punto sembrerebbe che i livelli di pavimentazione glareata siano due, benchè ciò non sia chiaramente specificato10. Inoltre, all’altezza del moderno abitato ostiense risulta rinvenuta una pavimentazione basolata, ad un livello stratigrafico superiore a quello glareato. La strada presentava un andamento chiaramente in salita verso Ovest e all’altezza dell’incrocio con la moderna via Ducati i livelli stradali rinvenuti risultano senz’altro due11. Nell’attuale borgata di Ostia Antica la via Ostiense fu messa in luce in più punti al di sotto della carreggiata stradale della moderna via dei Romagnoli (Floriani Squarciapino, 1958, pp. 5260), durante differenti lavori di pubblica utilità effettuati per la posa in opera di cavidotti nel 193812, poi nel 1947 ed ancora nel 1974 e negli anni ’80 del Novecento13: purtroppo la documentazione conservata è sempre molto scarna e non fornisce alcun elemento utile per la Figura 5. PAOANT, Archivio Disegni, pianta e sezioni inv. 2436: il ritrovamento dell’antica via Ostiense al di sotto dell’attuale via dei Romagnoli all’altezza della moderna borgata di Ostia Antica Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 97 Figura 6. PAOANT, Archivio Fotografico, n. 2640, part.: l’antica via Ostiense rinvenuta al di sotto dell’attuale via dei Romagnoli all’altezza della moderna borgata di Ostia Antica datazione del tratto stradale rinvenuto e per identificare le strutture adiacenti messe parzialmente in luce (Fig.5). Dalle immagini fotografiche del 1938 si nota che la strada antica individuata sul lato più orientale del moderno abitato (davanti alle “case popolari”) era basolata e presentava crepidini in blocchi di tufo (Fig.6). Sempre in questa zona, sul lato meridionale della strada già nel 1831 con gli scavi Pacca, ricordati da Pietro Campana, e poi nel 1911 con gli scavi del Gatti, furono rinvenuti sepolcri anche di una certa monumentalità rivestiti in travertino14. Nella fondamentale planimetria di Ostia Antica e del suo immediato suburbio di Italo Gismondi (a.1949) risultano numerose indicazioni di strutture su questo lato, difficilmente interpretabili però vista la scala di rappresentazione e la limitatezza dei resti messi in luce15. A Sud del percorso viario antico, in quella che è l’odierna Piazza Gregoriopoli, sempre negli anni ’30 del Novecento furono rinvenuti alcuni edifici funerari (PAOANT, Archivio Fotografico, per es. B 2175, B 2422, poi meglio descritti in una planimetria del 1991 Figura 7. Suburbio di Ostia, ritrovamenti di età romana lungo via dei Romagnoli, via delle Saline e via della Gente Salinatoria(PAOANT, Archivio Disegni, inv. 9846, dis. A. Pascolini a.1991) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 98 (PAOANT, Archivio Disegni, inv. 9846, a.1991, dis. A. Pascolini) (Fig.7); in anni recenti è stato qui scavato un colombario ed altre strutture funerarie sono state rinvenute tutt’intorno (Pannuzi et al., 2006, pp. 203-206, Pannuzi et al., 2013, pp.366 e 376-381; Pannuzi, 2019a, pp. 184-186). Invece, subito a Nord del tracciato stradale, all’altezza dell’incrocio tra via dei Romagnoli, via P.Ducati e via delle Saline, furono rinvenute alcune strutture murarie di età imperiale ed alcune formae con sepolture ad inumazione di non meglio specificato ambito cronologico. Più ad Ovest, al di sotto di case all’epoca di proprietà delle famiglie Menghi e Savini, nel 1958 furono visti i resti di un edificio forse a carattere commerciale (PAOANT, Archivio Storico, Giornale di Scavo vol.33,1, a.1958, Giornale di Scavo vol.45, a.1974, scavi SIP e PAOANT, Archivio Disegni, planimetria con sezioni di A. e G. Pascolini del 1974, inv.4434; planimetria inv.9846, dis. A. Pascolini a. 1991). Di recente, la sistemazione di un condotto fognario all’incrocio tra via Gesualdo-via Claudia Quinta e via dei Romagnoli ha permesso di intercettare un tratto di basolato con tutta probabilità anch’esso attribuibile all’antica via Ostiense. Anche in questo punto la strada, costruita su una preparazione di circa cm. 90 di scaglie di tufo, era fornita Figura 8. Particolare del tratto di basolato stradale con crepidine rinvenuto nel 2007 all’incrocio tra via Gesualdo-via Claudia Quinta e via dei Romagnoli all’altezza di piazza Gregoriopoli (foto ACEA) di crepidine (Pannuzi, 2013a, pp. 366367, fig. 191) (Fig.8). Nella sezione del 1974 per cavi SIP prima ricordata (PAOANT, Archivio Disegni, inv.4434) (vedi Fig.4), il disegnatore Giorgio Pascolini indica in questo tratto, all’altezza dell’incrocio tra via dei Romagnoli e via Ducati, due livelli della strada, riferibili con tutta evidenza a due differenti periodi, purtroppo di non specificata cronologia, ed individuati da una pavimentazione a basoli al di sopra di un più antico tracciato basolato. Pertanto, appare abbastanza chiaro che tale percorso stradale abbia avuto nel tempo risistemazioni e ripavimentazioni, forse anche in connessione con lo sviluppo edilizio lungo la carreggiata stradale e con i possibili impaludamenti che potevano verificarsi in questo territorio nei punti più vicini ad aree d’acqua, come lo Stagno ed il meandro del Tevere. Grazie ai successivi ritrovamenti, perciò, il percorso rettilineo della via Ostiense risulta certo dalla zona dello Stagno fino all’altezza dell’attuale piazza Gregoriopoli nella moderna borgata. Tale tracciato è riportato graficamente in una pianta conservata nell’Archivio Disegni del Parco Archeologico di Ostia Antica (PAOANT, Archivio Disegni, inv. 11138, a. 1993, disegno di A. Pascolini) (Fig.9), dove è indicato il ritrovamento anche di un tratto della strada più ad Ovest, poco prima dell’ingresso originario al Borgo medievale presso la torre quadrangolare, di cui purtroppo non risultano altre notizie. Proprio in quest’area il percorso originario della via Ostiense di età romana doveva lambire l’antico meandro dal Tevere. Recenti ricerche geoarcheologiche in quest’area hanno ulteriormente precisato lo studio del Segre sull’evoluzione del percorso del Tevere dall’inizio dell’Olocene alle epoche storiche (Dragone, Malatesta, Segre, 1960-1961; Dragone et al., 1967; Segre, 1986), venendo a fornire una puntuale localizzazione della riva sinistra dell’ansa fluviale, quella più esterna, con i suoi successivi spostamenti verso Sud e verso Figura 9. Suburbio di Ostia, resti dell’antica via Ostiense, dell’acquedotto romano e dell’imbarcazione rinvenuta in quello che doveva essere l’antico alveo fluviale (PAOANT, Archivio Disegni, pianta inv. 11138, dis. A. Pascolini a. 1993) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 99 Figura 10. Borgo di Ostia, basolato romano rinvenuto al di sotto della moderna via del Vescovado (PAOANT, Archivio Disegni, inv. 2463, dis. A. Pascolini a. 1969) Est nel corso dell’età storica (Arnoldus Huyzendveld e Paroli 1995; Salomon et al., 2017; Pannuzi et al., c.s.). In particolare gli slittamenti verso Sud dovettero condizionare necessariamente il tracciato della via Ostiense, la viabilità extraurbana ad essa collegata e la localizzazione degli edifici presso il fiume16. Infatti, già da un importante studio del 1995 di A. Arnoldus Huyzendveld, supportato da indagini geoelettriche, è stato evidenziato che la riva sinistra del fiume nella zona del meandro subì uno spostamento verso Est e verso Sud tra l’età tiberiana e le epoche successive, con un allargamento dell’ansa fluviale nella zona più vicina al Castello di Giulio II17. Dalla planimetria elaborata in quella occasione, con l’indicazione dei diversi tracciati fluviali nelle differenti epoche, appare chiaro come, dopo l’età tiberiana, la via Ostiense avesse trovato il suo percorso verso la città sbarrato dall’alveo del fiume, con l’impossibilità di raggiungere Porta Romana tramite un percorso rettilineo. Inoltre, altre importanti precisazioni a questo riguardo sono state acquisite grazie ad una ricerca geoarcheologica portata avanti dall’équipe francese di J-P. Goiran e F. Salomon con la collaborazione dell’allora Soprintendenza Archeologica di Ostia (Salomon et al., 2017; Pannuzi et al., c.s.), che, grazie ad una serie di carotaggi realizzati proprio in questo tratto del meandro, hanno puntualizzato l’ipotesi di uno slittamento progressivo da Ovest ad Est e poi verso Sud della riva sinistra del fiume. Queste recenti indagini geoarche- ologiche avrebbero evidenziato che la massima estensione dell’ansa verso Sud sarebbe avvenuta tra la metà del IV secolo a.C. e la metà del I secolo d.C., durante successive piene; tale slittamento provocò inevitabilmente un’erosione del più antico tracciato della via Ostiense. Potrebbe ipotizzarsi perciò dall’età repubblicana e fino forse all’età tiberiana un iniziale andamento rettilineo della via Ostiense dall’attuale piazza Gregoriopoli fino a Porta Romana; poi in epoca pieno imperiale (post età tiberiana), con l’allargamento dell’ansa fluviale, la strada dovette assumere un nuovo percorso per evitare il meandro. In questa zona, infatti, non risulta nè storicamente nè archeologicamente che vi fossero ponti per scavalcare l’alveo fluviale18. Ma se un ponte vi fu nel suburbio di Ostia, senz’altro dovette essere costruito in un punto che la tecnica ingegneristica romana considerò favorevole in relazione alla corrente del fiume. Difatti questo tratto del fiume non risulta essere tra i più idonei per la costruzione di un ponte in muratura, poiché in un’ansa fluviale l’erosione della corrente si esercita in modo diverso tra la sponda concava (esterna), contro la quale viene posta maggiore energia, rispetto alla sponda convessa (interna), in cui invece la velocità della corrente si riduce, favorendo il deposito di materiale alluvionale19. Non conservandosi perciò alcuna testimonianza di un ponte in questo punto del fiume, né risultando ciò plausibile dal punto di vista strutturale, appare più che probabile che la strada abbia dovuto adattarsi ad un nuovo percorso, probabilmente riutilizzando viabilità già esistenti con differenti orientamenti, all’interno di un territorio in cui da tempo erano presenti edifici di carattere diverso, sepolcrale ma anche residenziale e/o commerciale. Il cambiamento di percorso della via Ostiense avvenne con tutta probabilità dopo un ennesimo, notevole evento naturale, inquadrabile secondo le ricerche paleoambientali in epoca post-tiberiana, all’interno comunque di un contesto idrogeologico che dal periodo repubblicano fino almeno alla fine del II-III secolo dimostrò sempre una grande mobilità. Una riconfigurazione della viabilità nel suburbio orientale della città avvenne forse dopo la piena del 69 d.C.20, ricordata dalle fonti come disastrosa per Roma, dove addirittura venne abbattuto Ponte Sublicio, e probabilmente anche per l’area ostiense. Altrimenti si può ipotizzare che ciò sia avvenuto dopo una delle piene successive: per esempio quella sotto Nerva, oppure l’alluvione avvenuta all’epoca di Traiano o quella ricordata nel periodo di Adriano, che sappiamo aver creato molti danni, o ancora quella del 147 d.C., di cui vi è memoria anche nei Fasti ostiensi, oppure, infine, quella avvenuta durante l’impero di Marco Aurelio21. Poichè il percorso rettilineo della strada verso Porta Romana venne sbarrato dall’ansa del Tevere in un punto in cui non risultava idoneo costruire un ponte, poiché l’alveo del fiume era soggetto ad una certa mobilità, si può ipotizzare che per raggiungere la città sia stato deciso di utilizzare percorsi già esi- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 100 stenti, senz’altro più tortuosi, aggirando il meandro e deviando perciò il tracciato della via Ostiense verso Sud, con un largo giro per poi risalire verso Nord, verso Porta Romana. Un accenno a questa problematica si trova in un contributo del 1991 di A. Pellegrino che, proponendo un cambiamento di percorso della strada tra l’età repubblicana e quella post-tiberiana, ipotizza l’esistenza di “un’ampia curva, come sembrerebbe dimostrare la direzione della via all’interno del borgo medievale di Ostia Antica” (Pellegrino, 1991, p. 74). A causa delle costruzioni già esistenti in quest’area del suburbio, in particolare una serie di sepolcri e colombari di età tardo repubblicana e primo-imperiale, l’”ampia curva” proposta, però, dovrebbe meglio leggersi come un percorso a zigzag, con un cambiamento di direzione della strada a 90 gradi, presso l’angolo Nord-orientale delle mura del Borgo medievale (Pannuzi, 2012, pp.97-98). Da questo punto infatti si sarebbe potuto utilizzare un tracciato viario con tutta probabilità già esistente con andamento circa NordSud, il cui basolato è stato rinvenuto al di sotto della moderna via del Vescovado all’interno del Borgo. Tale basolato è stato documentato graficamente nel 1993 da Aldo Pascolini, sulla base di ritrovamenti effettuati nei decenni precedenti, alcuni dei quali, per scavi di pubblica utilità, segnalati nei Giornali di Scavo degli anni 1969 e 1973 e in un breve articolo di Umberto Broccoli (PAOANT, Archivio Storico, Giornale di scavo 1969, vol.44, scavi ACEA, e Giornale di scavo 1973, vol.45, pp.1-6, scavi SIP, e Archivio Disegni, inv. 2463, dis. A. Pascolini a. 1969 e inv. 11138, dis. A. Pascolini a. 1993; Broccoli, 1983, pp.170-175, scavi ITALGAS) (Fig.10). Secondo questa ricostruzione, perciò, il tratto di strada sopra menzionato rinvenuto davanti alle mura del Borgo, di cui purtroppo non si hanno immagini, né più esaustivi dati rispetto a quanto indicato nella planimetria del 1993 (PAOANT, Archivio Disegni, inv. 11138, dis. A. Pascolini a. 1993) (vedi Fig.9), sarebbe da riferire al più antico percorso della via Ostiense, poi abbandonato dopo l’allargamento verso Sud dell’ansa fluviale. A favore dell’ipotesi che la strada romana rinvenuta sotto via del Vescovado sia stata utilizzata come nuovo percorso della via Ostiense, dopo l’abbandono dell’originario tracciato rettilineo, sta il fatto che la basilica funeraria di S.Aurea, poi cattedrale ostiense, fu costruita in età probabilmente tardoantica (o al più tardi nel VII secolo) con la facciata e l’ingresso proprio su questa strada basolata22. La strada rinvenuta sotto via del Vescovado doveva essere in origine uno dei percorsi principali all’interno di questa parte della grande area funeraria del suburbio meridionale di Ostia, visto il collegamento diretto con il più antico tracciato della via Ostiense, ad essa perpendicolare, la larghezza della carreggiata (circa m. 4)23 e il fatto che la strada fosse basolata, mentre altri percorsi all’interno della necropoli erano glareati o semplici battuti di terra (Heinzelmann, 1998; Pellegrino et al.,1999, pp.73-84; Pannuzi, Carbonara 2006, pp.6-7). Infatti, questa parte dell’area funeraria, dove poi si svilupperà l’abitato altomedioevale intorno alla basilica di S.Aurea, era organizzata lungo una serie di percorsi stradali secondari (attuale via del Forno, via della Colonia, piazza della Rocca), tra di loro paralleli e perpendicolari alla strada romana sotto via del Vescovado (PAOANT, Archivio Storico, Giornale di Scavo vol.44, a.1969, p.7 scavi ACEA; Giornale di Scavo vol.45, a.1973, pp.1-6, scavi SIP; Broccoli 1983, pp.170-175, scavi ITALGAS). Dalla documentazione conservata negli Archivi del Parco Archeologico di Ostia Antica, emerge la presenza di differenti tipologie viarie antiche, basolate, a cocciopesto e con semplici battuti di terra24, ma è impossibile riuscire a definire, da quanto sinteticamente riportato e senza l’ausilio di un’adeguata documentazione grafica e fotografica, se queste pavimentazioni siano riferibili allo stesso ambito cronologico, ovvero, come è più probabile e confermato da alcuni cenni nel Giornale di Scavo del 1969, se furono individuati livelli pavimentali sovrapposti riferibili a periodi differenti, anche medievali25. In particolare, sopra alla strada romana basolata corrispondente all’odierna via del Vescovado, furono messi in luce due livelli di battuto, di cui quello più antico definito in “cocciopesto”, mentre quello più recente realizzato in modo diverso, “con cocciopesto misto a parte di materiale chiaro”, con la presenza di ceramica smaltata definita “medievale o moderna”26. Quest’ultimo livello pavimentale, dalla descrizione riportata, è senz’altro da riferire ad una fase di vita rinascimentale dell’abitato, mentre il più antico “cocciopesto” potrebbe probabilmente essere riferibile ad una fase di pieno Medioevo. Nella continuazione della trincea su via del Vescovado da Sud verso Nord, cioè dall’ingresso dell’Episcopio verso la Porta aperta in età moderna nelle mura Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 del Borgo su piazza Umberto I, venne notato che il basolato antico saliva di quota. All’altezza della cinta muraria medievale si verificò che il basolato era stato distrutto per la costruzione della fondazione delle fortificazioni del Borgo; subito fuori dell’abitato medievale fu ritrovato invece un altro tratto di basolato stradale per una lunghezza di m. 1,527. Purtroppo nella varie planimetrie questi resti di pavimentazioni stradali messi in luce nel Borgo sono indicati con una medesima caratterizzazione, non permettendo di comprendere le differenze costruttive e di distinguere la rete stradale romana da quella postantica28. Nella fondata ipotesi che in età imperiale la strada romana rinvenuta sotto via del Vescovado sia stata utilizzata da un certo periodo in poi come viabilità principale del territorio (cioè come via Ostiense), si può verificare una sua supposta continuazione nel basolato in parte ancora visibile nel giardino pubblico fuori del Borgo medievale presso l’odierno Episcopio: questo percorso stradale risulta deviare bruscamente verso Nord-Ovest rispetto a via del Vescovado, evidentemente in modo da aggirare la curva del fiume e riprendere una direzione diretta verso la città di Ostia (PAOANT, Archivio Disegni, inv. 11138, dis. A. Pascolini a. 1993) (vedi Fig.9). Notizie riguardo alla messa in luce di questo basolato, tutt’oggi visibile, non se ne hanno: è indicato nella planimetria inv. 11138, dove risulta avere un leggero cambiamento di percorso verso Sud, poco prima dell’incrocio tra la moderna via dei Romagnoli e via della Stazione Vecchia, punto in cui dopo i recentissimi scavi è risultato visibile un altro tratto di pavimentazione con basoli (vedi dopo)29. Tale diversa angolazione non è però riportata per il medesimo percorso stradale nella planimetrica elaborata dallo Heinzelmanm nel 1998 (Heinzelmanm, 1998, beilage 1). Solo uno scavo più ampio con un nuovo ed accurato rilievo potrebbero chiarire il preciso allineamento di questo percorso stradale, che forse potrebbe aver avuto, in particolare per il tratto più ad Ovest, delle trasformazioni in periodo postantico. In questo tratto, nell’attuale parco del Castello, la strada correva parallela a Nord all’acquedotto di età imperiale, il quale proveniva da Est, correndo nel territorio ostiense affiancato all’antica via Ostiense30. Nei pressi dell’area funeraria dove poi fu costruita la basilica di S.Aurea l’acquedotto, databile tra la fine del II e gli inizi III secolo, deviava bru- 101 scamente, con tutta probabilità, anche in questo caso, a causa dello spostamento del meandro fluviale verso Sud. Il tracciato dell’acquedotto veniva perciò a creare un angolo, procedendo Nord-Est/SudOvest con alte arcate, poi inglobate nelle mura altomedievali del Borgo ed ancor oggi visibili, per dirigersi poi verso la città romana con un percorso nuovamente all’incirca Est-Ovest (Ricciardi, Santa Maria Scrinari, 1996; Bedello Tata et al., 2006, pp.489-490, 511-517; Pannuzi, 2006; Bukowiecki, Dessales, Dubouloz, del 1993, che lo riprende da una pianta redatta di Italo Gismondi nel 194931. Recentissimamente in quest’area è stata effettuata una nuova indagine archeologica32, che ha portato alla luce un mausoleo a pianta circolare foderato con blocchi di travertino, che sembrerebbe databile tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C.; secondo l’ipotesi proposta durante il recente scavo, questo mausoleo sarebbe stato riutilizzato in periodo tardo e circondato da sepolture, anche sovrapposte, di varia datazione33. Figura 11. Il basolato stradale visibili nel giardino pubblico ad Ovest del Castello di Ostia Antica (foto S. Pannuzi) 2008, p.55-59). Il tracciato dell’acquedotto e quello della via Ostiense postiberiana verrebbero così grosso modo a coincidere, indicando un terminus ante quem per lo slittamento dell’ansa fluviale alla fine del II-inizi III secolo. Al di fuori delle mura urbiche della città di Ostia, subito ad Est di Porta Romana, è ben documentato archeologicamente un percorso stradale rettilineo, in continuazione del Decumano massimo, ritenuto comunemente l’ultimo tratto della via Ostiense, attorniato da sepolcri in prevalenza di età imperiale, a partire dall’età augustea, ma anche con resti di cremazioni repubblicane di II sec. a.C. (Pellegrino, 1991, p. 74). Rimane da chiarire perciò, dopo l’allargamento dell’ansa fluviale, con quale percorso la via Ostiense raggiungesse la Porta urbica, ricongiungendosi al basolato ancora visibile nel parco pubblico presso il Castello di Giulio II, attribuito alla fase ‘post-tiberiana’ della strada, come sopra delineato (Fig. 11). Nell’area del giardino pubblico il percorso stradale basolato doveva essere affiancato da edifici, ed in particolare uno di questi, di forma circolare, risulta indicato nella planimetria del Pascolini Da questo punto la strada avrebbe continuato il suo percorso verso Ovest (Pellegrino, Raddi, 2014, pp.11-13), fino a raggiungere gli edifici romani rimasti sempre parzialmente visibili in questi ultimi anni all’interno del parco e probabilmente oggetto già ai primi del Novecento di un qualche scavo, come si vede da un’immagine fotografica scattata dagli spalti del Castello in quel periodo (PAOANT, Archivio Fotografico, inv. A 2428). Queste strutture, in parte riportate anche nella pianta del Gismondi del 1949, sono state oggetto di un regolare scavo archeologico negli anni ’70 del Novecento (PAOANT, Archivio Storico, Giornale di scavo 1971-72, vol. 44; PAOANT, Archivio Disegni, inv. 4440, dis. G. e A. Pascolini, a. 1971, e pianta inv. 11138, dis. A. Pascolini, a. 1993) e poi di nuova indagine effettuata pochi anni fa da parte dalla stessa équipe che ha scavato il vicino mausoleo circolare34. Dai primi dati finora pubblicati, sono stati qui rinvenuti vari ambienti, tra cui uno pavimentato con un notevole mosaico in opus sectile; alcuni di questi sarebbero stati interpretati come ambienti di lavorazione, appartenenti forse ad una domus di media età imperiale con ristrutturazioni in età tardo antica (fine del IV secolo)35. A Nord, queste strutture risultano prospicienti ad un’area basolata, localizzata all’incirca sull’asse della strada antica proveniente dal mausoleo circolare: finora però non è stata purtroppo pubblicata una nuova planimetria per verificare l’effettivo andamento di questo percorso stradale. Da quanto è stato possibile esaminare nell’area di scavo, lasciata per lungo tempo visibile al pubblico prima dell’idonea ricopertura alla conclusione delle indagini, sembrerebbe che lungo quello che doveva essere l’asse stradale siano stati costruiti ambienti, senz’altro di epoca tarda, e che i basoli siano stati ricollocati, appoggiandoli all’esterno dei muri che delimitavano queste strutture (Fig.12)36. Parrebbe perciò che il basolato sia venuto a pavimentare quella che sembrerebbe più un’area scoperta circondata da ambienti chiusi, piutto- Figura 12. La pavimentazione con basoli rinvenuta presso gli ambienti scavati nel parco pubblico all’angolo tra via dei Romagnoli e via della Stazione Vecchia (foto S. Pannuzi) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 102 sto che una vera e propria strada, secondo modalità già evidenziate nel vicino contesto archeologico messo in luce nel 1998, e poi più estesamente nel 2009, presso il Bar della Stazione di Ostia Antica della Ferrovia Roma-Lido37. Da quanto visibile nel parco, perciò, questo tratto di basolato non sembrerebbe potersi considerare una strada pubblica, risultando inserito tra ambienti di diverso uso della supposta “domus”, dai piani di calpestio molto più bassi di quello dell’adiacente basolato. Quindi, due lati da costruzioni antiche39. Questo tratto stradale antico è indicato anche in una planimetria del 1974, inv.4434, come “strada romana” (vedi Fig.4)40. Un’altra planimetria conservata nell’Archivio ostiense, inv. 5041 (Fig.13), suggerisce che dopo via Guido Calza la strada antica avrebbe continuato ancora un po’ verso Ovest, per poi incrociare un percorso con direzione Nord/Sud, già presente nelle piante del Gismondi del 1925 e del 1949 (Calza et al., 1953, figg. 17 e 36). Secondo l’ipote- sopra menzionata, un cenno sull’ultimo incrocio stradale che avrebbe condotto la via Ostiense a Porta Romana potrebbe trovarsi nel Giornale di Scavo del 1922, dove viene ricordato il ritrovamento di una strada, precedente alla realizzazione della cd.via delle Tombe (o via dei Sepolcri), costruita parallelamente alla via Ostiense, la quale a circa 160 metri dalle mura della città, “dall’Ostiense più antica si staccava dirigendosi verso Sud”43. Sarebbe interessante in un prossimo futuro poter esplorare quest’area Figura 13. Suburbio di Ostia, ritrovamenti di età romana subito ad Ovest del Castello (PAOANT, Archivio Disegni, pianta inv. 5041, senza data) questa pavimentazione sembrerebbe essere stata risistemata e rialzata ad una quota superiore, forse perché parte dell’antica carreggiata stradale, da cui i basoli provenivano, era stata invasa dagli ambienti della presunta “domus”38. Dopo l’incrocio tra le moderne via dei Romagnoli-via Guido Calza e via della Stazione Vecchia, secondo la planimetria del 1993 la strada basolata avrebbe proseguito verso Ovest, con un nuovo orientamento incomprensibilmente spostato un po’ più verso Sud, fiancheggiata sui si proposta in uno studio recente di A. Carbonara e F. Panariti41, la via Ostiense avrebbe perciò deviato verso Nord utilizzando quest’asse, fiancheggiato sul lato Est da due, o forse più, ambienti quadrangolari, forse interpretabili come sepolcri. Girando poi ad Ovest, la strada si sarebbe diretta verso Porta Romana42. Questo tratto del percorso è quello per il quale purtroppo si hanno meno indicazioni archeologiche: nelle planimetrie di Gismondi non vi è alcuna indicazione precisa, ma, secondo la recente ipotesi Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 per verificare o meno quest’ipotesi, che attualmente non sembra trovare precisi riscontri metrici nelle diverse planimetrie del Gismondi (a.1925 e a.1949), dalle quali un eventuale incrocio tra le due viabilità verrebbe a localizzarsi a più di 200 metri dalle mura urbiche. Va però considerato che la misura riportata nel Giornale di scavo (160 metri) sia da intendersi come meramente indicativa. Comunque queste informazioni tratte dal Giornale di scavo del 1922 appaiono molto interessanti riguardo al 103 fluviale46. Figura 14. PAOANT, Archivio Fotografico, scavi SIP, senza anno: scavi archeologici lungo via Guido Calza presso l’ingresso degli scavi di Ostia Antica problema della ricostruzione del tracciato dell’antica via Ostiense, in quanto segnalano chiaramente l’esistenza di due livelli stradali diversi di questa strada, chiamata “seconda via Laurentina” e parallela alla via Ostiense, il più antico dei quali caratterizzato da una pavimentazione glareata (“breccia alluvionale”). Secondo quanto indicato nel Giornale di scavo, il rialzamento stradale, che avrebbe portato alla sistemazione della cd.via delle Tombe, obliterando la “seconda via Laurentina”, sarebbe avvenuto alla fine del I secolo d.C., per il rinvenimento di una fistula acquaria di età domizianea. Questo ritrovamento riporta anch’esso, perciò, ad un periodo successivo alla piena del 69 d.C., in particolare all’impero di Domiziano, quando fu realizzato il castellum aquae, relativo ad un acquedotto che con tutta probabilità doveva già esistere ad Ostia44, e quando potrebbe essere avvenuta una delle riconfigurazioni della viabilità territoriale, collegate ai cambiamenti di percorso della principale via di comunicazione45. LA VIABILITÀ A NORD E A SUD DELL’ANTICA VIA OSTIENSE Più ci si avvicinava alla città antica e più la via Ostiense veniva ad incrociarsi con altri tracciati che mettevano in comunicazione sia a Nord che a Sud ambiti di territorio suburbano utilizzati per varie attività (agricole, funerarie, commerciali e produttive). Proprio l’ansa fluviale veniva a dividere il territorio extraurbano in due parti ben distinte, una in riva sinistra, rivolta verso il suburbio meridionale ed utilizzata prevalentemente come necropoli, ed una in riva destra (cd.Trastevere ostiense), inglobata all’interno del meandro e separata dal- La la città di Ostia dall’alveo parte di territorio in riva sinistra, utilizzata per scopi funerari dalla fine della repubblica e per tutta l’età imperiale, trovò una sistemazione in ambiti diversi: quelli riservati ai ceti più alti della città lungo la viabilità principale da Roma ad Ostia, mentre le aree destinate alle classi medio, medio-basse e alle classi più povere erano localizzate più verso Sud, verso la zona paludosa dello Stagno (Pannuzi, 2019a, pp.181-188, con bibliografia precedente). A Sud dell’antica via Ostiense, l’attuale via Gesualdo risulterebbe essere l’esito moderno di un antico tracciato che, secondo l’ipotesi dell’Heinzelmann, doveva collegare la via Ostiense con la grande necropoli meridionale individuata in località Pianabella (Heinzelmann 1998, suppl. 1, n.V). Il percorso rettilineo, che doveva provenire da Sud, all’altezza dell’attuale Parco dei Ravennati avrebbe avuto, forse solo da un determinato periodo in poi, uno scarto verso Nord-Est, forse per la presenza dell’imponente mole dell’acquedotto romano, datato in questo tratto alla fine del II-inizi del III secolo d. C. (Bedello Tata et al., 2006, pp.489-490, 511-517; Bukowiecki, Dessales, Dubouloz, 2008, p.55-59), di cui forse venne anche a costituire una viabilità di servizio. Un battuto stradale riferibile a questo antico percorso è stato rinvenuto alcuni anni fa durante sondaggi ACEA lungo il tratto più meridionale dell’odierna via Gesualdo, presso un contesto di sepolture ad incinerazione e ad inumazione che si estendevano nell’adiacente Parco dei Ravennati47. Questo tracciato, ancora indicato in una pianta dell’Archivio Segreto Vaticano del XVII secolo raffigurante il Borgo medievale di Ostia (Danesi Squarzina 1981, fig.1), avrebbe Figura 15. Uno dei battuti stradali rinascimentali rinvenuti nel 2005 lungo via Gesualdo (foto ACEA). avuto perciò una continuità di utilizzo fino ai nostri giorni. Ciò è stato ulteriormente verificato grazie al ritrovamento nel 2005, in un limitato saggio di scavo ACEA lungo il lato più settentrionale della moderna via Gesualdo, di una successione di battuti stradali sovrapposti, caratterizzati dalla presenza di scarsi frammenti ceramici tardomedievalirinascimentali, intervallati da depositi alluvionali, uno dei quali potrebbe essere connesso con la famosa piena del 1557, che comportò il definitivo cambiamento di percorso del vicino Tevere (Fig.15). Nel corso del Novecento sul lato settentrionale dell’antica via Ostiense (in questo tratto attuale via dei Romagnoli), lungo la moderna via delle Saline, furono effettuati in anni diversi ritrovamenti di una serie di tratti murari, documentati in una planimetria del 1991 conservata nell’Archivio ostiense48. Durante recenti scavi ITALGAS, lungo la stessa strada moderna sono state messe in luce alcune strutture che, pur non concordando con la localizzazione dei muri documentati nella pianta del 1991, sembrerebbero confermare l’ipotesi di utilizzo commerciale dell’area presso l’antica ansa del Tevere, collegata con le banchine portuali (Pannuzi et al., 2006, pp.209210, fig.27). Infatti all’altezza dell’edificio della Scuola Elementare “F. Marini”, al n.civico 4, ad una profondità di circa m.1 dal piano stradale, si sono evidenziati i resti della fronte di un grande edificio, con orientamento Nord-Sud, nel quale si aprivano più ingressi. Sono stati riscontrate varie pavimentazioni e ristrutturazioni murarie della costruzione, legate a differenti fasi edilizie. I resti antichi sono apparsi purtroppo in uno stato di conservazione mediocre, a causa della presenza di alcune condutture moderne. Malgrado le recenti manomissioni, è stato possibile inquadrare cronologicamente tale edificio alla prima età imperiale (seconda metà I-primi decenni II secolo d.C.), evidenziando una successione di differenti fasi edilizie all’interno di uno stretto arco temporale, in parte dovute probabilmente ad incendi ed esondazioni del vicino fiume49. L’allineamento Nord/Sud delle varie aperture potrebbe far ipotizzare che l’edificio gravitasse lungo un asse stradale suburbano, confermando così l’ipotesi dell’Heinzelmann che posizionava un percorso antico lungo l’attuale via delle Saline (Heinzelmann 1998, suppl. 1, n.IV). La presenza di una strada antica su questo asse dovrebbe invece respingersi, se si accettasse la ricostruzione planimetrica del Pascolini, nella quale Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 104 veniva indicato il ritrovamento di muri paralleli in luogo di un percorso stradale50. Tale aporia una volta di più mette in evidenza il problema dell’esatto posizionamento e della corretta lettura dei ritrovamenti effettuati nel corso del Novecento nel suburbio di Ostia, quando si operava senza moderne strumentazioni di rilevamento topografico e di restituzione grafica, utilizzando invece una certa ‘fantasia interpretativa’, che compensava anche la mancanza di reali indagini stratigrafiche, a causa dell’assenza costante sui cantieri di professionalità specifiche del settore archeologico. Un’altra scoperta importante riguardo alla viabilità antica sul lato settentrionale della via Ostiense è quella avvenuta nel 1976, in fondo alla moderna via delle Saline, in connessione con il rinvenimento dei resti del cd. molo repubblicano sul meandro fluviale, oggi in gran parte rinterrati51. In particolare, è riferita in questo contesto l’esistenza di una “massicciata posteriore”, collegata alla “massicciata” originaria perpendicolare al molo e riferibile con tutta probabilità alla preparazione di una strada basolata, definita all’epoca della scoperta di “epoca tarda”, senza ulteriori specificazioni52. Infatti, da una piccola sezione inserita in basso a destra della planimetria inv. 4817 (PAOANT, Archivio Disegni, planimetria inv.4817 a.1976, dis. G. Pascolini), si desume chiaramente che nell’area più settentrionale del contesto di scavo sulla più antica “massicciata” se ne appoggiò un’altra, utilizzata come base per una pavimentazione stradale in grandi basoli. Dalla sezione sembrerebbe che la strada avesse la stessa quota del molo: risulta perciò ipotizzabile che la strada fosse connessa con esso, in modo da permettere un comodo e diretto carico e scarico delle merci. Pertanto, vista la verosimile contemporaneità tra il molo ed il basolato, appare poco convincente la definizione di strada di epoca “tarda”, attribuita a suo tempo a questa pavimentazione stradale53. La strada basolata sembrerebbe continuare dal molo verso Nord-Est: con tutta probabilità, da un’analisi della viabilità extraurbana ostiense, appare verosimile che la strada andasse poi in qualche modo a connettersi più ad Est, attraverso un percorso trasversale Nord-Sud, con l’antica via Ostiense, che in questa zona corrispondeva all’attuale via dei Romagnoli. La strada antica sarebbe stata perciò intercettata da Nord, in modo da permettere un collegamento tra il porto extraurbano di Ostia e Roma. In precedenza, era stato proposto che la strada si dirigesse verso Nord, senza però indicare una particolare meta54. Effettivamente, se così fosse, la strada avrebbe raggiunto la parte più settentrionale dello Stagno ostiense, dove si presume fossero localizzate le antiche saline romane, benchè questo sia ancora da accertare con elementi concreti (Pannuzi, 2013, pp.2-5; Pannuzi, 2019b, pp.12-14). In tal caso, questo molo avrebbe forse potuto avere un utilizzo specifico, cioè quello di imbarcare su battelli fluviali il sale prodotto ad Ostia per il trasporto fino a Roma55. Questa ipotesi non appare del tutto inverosimile, anche perché verrebbe a spiegare la particolare localizzazione del molo proprio su questo lato dell’ansa del Tevere. Inoltre tale ipotesi trova un ulteriore appoggio in quella che fu senz’altro l’organizzazione delle saline in età tardomedioevale/primo-rinascimentale, quando il sale veniva immagazzinato, per poi essere imbarcato per Roma nell’antica Chasa del sale (attuale Casalone), indicata chiaramente nella cartografia cinquecentesca non lontano da questo antico molo (Pannuzi, 2013, pp. 11-14; Pannuzi, 2017, pp.115-117; Pannuzi, 2020, p.148). appare seguire proprio lo spostamento del meandro fluviale. Anche il più recente tracciato della via Ostiense, ipotizzato dopo lo slittamento verso Sud del meandro, appare essersi adattato alla nuova ansa del fiume, probabilmente riutilizzando percorsi già esistenti con differenti orientamenti e inserendosi all’interno di un territorio suburbano ormai a quell’epoca intensivamente edificato con numerose costruzioni di carattere diverso, in particolare funerario ma anche residenziale e commerciale, la cui presenza venne a condizionare il nuovo percorso della strada. NOTE 1. Gran parte delle più recenti indagini archeologiche sono state effettate nel corso dell’attività di tutela territoriale da parte di chi scrive, come funzionario archeologo dell’allora Soprintendenza ostiense, ora Parco Archeologico di Ostia Antica (da ora PAOANT). 2. A proposito delle modalità e dei tempi con cui avvenne il cambiamento di percorso del fiume dopo la piena, si vedano le testimonianze storiche in Pannuzi 2009, pp. 46-47 con bibliografia. 3. Riguardo alla complessa problematica, che esula da questa ricerca, legata al percorso più antico della via Ostiense (IV-III secolo a. C.) in relazione al castrum di Ostia, si veda: CalCONCLUSIONI za et al. 1953, pp. 93- 112; Van Essen 1957; Le modificazioni dell’ansa ostiense Meiggs 1973, pp. 111-115; Mar 1991, pp. 84del Tevere con uno slittamento verso 89; Zevi 1996, pp. 71-76; Zevi 2001, pp. 10Sud, ormai ben ricostruito grazie alle 12; Zevi 2002, pp. 11-16. ricerche geoarcheologiche, dovettero senz’altro procurare un cambiamento di percorso della via Ostiense nell’ultimo tratto verso l’ingresso della città, presumibilmente in origine rettilineo. Questo avvenne in un periodo successivo all’età tiberiana dopo un ennesimo evento naturale, che impose una riconfigurazione della viabilità nel suburbio orientale della città. Dalle opere costruttive avvenute in epoca flavia relativamente alle strutture connesse con l’acquedotto ostiense e alla ricostruzione domizianea di Porta Romana, si potrebbe ipotizzare che anche i cambiamenti della viabilità principale del territorio siano avvenuti in questo periodo, dopo la piena del 69 d.C.56, ricordata dalle fonti come disastrosa per Roma e fors’anche per l’area ostiense57. Non si può nemmeno escludere, però, che ciò sia accaduto dopo una delle alluvioni testimoniate successivamente, e comunque prima della costruzione del tratto conclusivo dell’acquedotto ostiense alla fine del II-inizi del III secolo, il cui percorso, rettilineo nel territorio ostiense, presso alla città venne a caratterizzarsi per una grande curva, che Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 4. Molte sono le carte che tra Cinquecento ed Ottocento riportano il percorso dell’antica strada romana, dalla pianta di Anonimo del 1557 (Frutaz 1972, II, n. 39a) alla pianta di G. Verani del 1803-1804 (PAOANT, Archivio Disegni, inv. 5442b). Su questo argomento si veda: (Pannuzi 2020, pp.149-150). 5. Bedello Tata et al. 2006, pp.486-488, 521525; Bukowiecki, Dessales, Dubouloz 2008. Numerose carte di XVII-XIX secolo raffigurano il tracciato stradale affiancato dall’acquedotto romano: si veda per es. la stampa di Giacomo Filippo Ameti, a. 1693 (Frutaz 1972, II, tav. 176), 6. Quilici Gigli 1992, p. 78, fig. 8; Quilici 1996, pp. 72-73, 76: secondo il Quilici il viadotto potrebbe essere attribuito al periodo sillano. 7. Il ritrovamento è avvenuto nell’attuale località Saline, al km. 22,740 della moderna via Ostiense, all’incrocio con uno dei canali di bonifica (Collettore primario): Calza et al. 1953, p.65, fig.18, tav.XXVIII; Quilici Gigli 1992, p. 78, fig. 8; Quilici 1996, pp. 72-73, 76; Serra 2007, pp.62-63; Carbonara, Panariti 2016, p.117. Si veda anche PAOANT, Archivio Disegni, invv. 2440-2441, a.1923 (secondo le indicazioni archivistiche un disegno sarebbe di G.Pascolini e l’altro di I.Gismondi, ma il primo nome non risulta plausibile per l’anagrafi- ca del disegnatore). Nel 2008 e poi nel 2011 sempre in questa zona ma più ad Est e a Sud della moderna via del Mare (km 22,300), sono state rinvenute delle strutture probabilmente connesse con l’antica viabilità (Pannuzi et al. 2013, pp.393-394). 8. Espedienti di questo genere furono utilizzati in età romana anche in altri contesti territoriali, quando vi era necessità di creare una fondazione adeguata a terreni paludosi, caratterizzati da acque di risalita oppure da problemi alluvionali. Per esempio a questo proposito si vedano le strutture di fondazione del Circo di Arles, per il quale furono utilizzati circa 30.000 pali lignei (Allinne 2007, pp.12), e quelle simili rinvenute per un contesto residenziale a Rouen (Lequoy, Guilhot 2004). 9. L’utilizzo dei resti dell’acquedotto per un ipotetico allargamento della sede stradale si è basato anche sull’interpretazione di una completa obliterazione della struttura antica (Lorenzatti, D’ammassa, De Laurenzi 2018, pp.298-299), ricavata da un brevissimo accenno fatto nella prima metà del Settecento da G.R. Volpi, il quale riporta che “iuxta hunc lacum antiqui aquaeductus vestigia olim visebantur” (Volpi 1734, p. XXIV). In realtà, tutte le fonti storiche (De Bonstetten 18041805, pp.40-41) e cartografiche fino alla fine dell’Ottocento indicano come ancora visibili nel territorio ostiense i resti dell’acquedotto, chiaramente riconosciuto in quello che doveva essere il suo antico uso (vestigia aquaeductus ostiensis) (si vedano le piante di G.B.Ghigi, a.1777, di G.Morozzo, a.1791, di B.Olivieri, aa.1798-1799, di C. De Bonstetten, a.18041805, di R.Lanciani, circa aa.1895-1906: Frutaz 1972, III, tavv.200, 214, 219, 226, 410): perciò l’ipotesi proposta dagli autori dello scavo, che i resti della struttura antica indicati nelle cartografia storica si riferiscano al viadotto, risulta del tutto inconsistente (Lorenzatti, D’ammassa, De Laurenzi 2018, pp.298-299 e nota 16). Invece, da quanto può desumersi dalla breve documentazione archeologica recentemente pubblicata (Lorenzatti, D’ammassa, De Laurenzi 2018), appare piuttosto evidente che in questo tratto i resti dell’acquedotto messi in luce nello scavo siano stati utilizzati come contrafforte per il tracciato viario, più che per un allargamento della sede stradale, d’altronde assolutamente incomprensibile in epoca rinascimentale. Ad una risistemazione di tal genere potrebbero in qualche modo ben riferirsi anche le testimonianze delle fonti quattrocentesche, che indicano la costruzione ad Ostia di un ponte novo e i resti dell’acquedotto come sostegno per il ponte sullo Stagno (I Commentari di papa Pio II 1584, l.XI, p.555; Lanciani 1902, p.53). della via Ostiense sembra trovare un preciso confronto con quanto riscontrato per la vicina via Laurentina, anch’essa in parte condizionata dai superamenti idrografici e dagli eventi alluvionali: qui le ricerche recenti hanno potuto raggiugere più definiti dati cronologici (si veda A.Buccellato, A. de Loof in questo volume), che in parte potrebbero essere forse ricondotti anche alle successive fasi costruttive della via Ostiense. duati tre successivi spostamenti verso Est della sponda destra per una distanza complessiva di m. 25, avvenuti in concomitanza di tre alluvioni, la prima alla fine del I secolo, la seconda nel 1530 e la terza nel 1557: purtroppo non sono state fornite precise informazioni circa gli elementi storico-archeologici che hanno portato alla definizione di queste cronologie (Arnoldus Huyzendveld, Paroli 1995, p. 391, fig. 2, n. 8; Indagini geopedologiche e sedimentologiche, in Relazione tecnico-scientifica 1997 di Antonia Arnoldus, conservata nell’Archivio Storico del PAOANT, vol. 90, a. 1997, p. 2). 12. PAOANT, Archivio Fotografico, per es. B 2629, B 2640, B 2643. Si vedano anche alcune planimetrie con sezioni riferibili al rinvenimento del basolato dell’antica via Ostiense: PAOANT, Archivio Disegni, inv. 2435, 2436, 18. In quella che doveva essere la parte più 2437, senza data. meridionale del meandro del fiume in età post 13. PAOANT, Archivio Storico, Giornale di tiberiana, sono stati rinvenuti nel 1983 i reScavo vol. 29, a. 1947; PAOANT, Archivio sti di un’imbarcazione di epoca incerta, che Disegni, inv. 4437 (G. Pascolini, a. 1974); all’epoca portò ad ipotizzare l’esistenza di un Santa Maria Scrinari 1984, p. 359 nota 3: la ponte di barche (Fig. 9). Purtroppo però dalle Scrinari segnala sondaggi degli anni ‘80 del poche testimonianze conservate è impossibiNovecento durante i quali lungo via dei Ro- le oggi poter stabilire la cronologia e l’utilizmagnoli venne alla luce, accanto all’antica via zo di tale imbarcazione, indicata come “nave Ostiense, anche parte “dell’acquedotto sotter- oneraria” in una planimetria del 1993 senza reali elementi a riscontro. Umberto Broccoli, raneo con fistole in terracotta”. che scavò tali resti, li attribuì invece ad epoca 14. Floriani Squarciapino 1958, pp.52-53, con rinascimentale, senza fornire però una motibibliografia: i sepolcri in blocchi di travertino vazione (Broccoli 1984, p.27; Broccoli 1986, furono rinvenuti “a sinistra della via Ostiense”, p.166; Segre 1986, p.16; PAOANT, Archivio “prossimamente all’odierna sede vescovile” e Fotografico, R 3526bis, R 3547; PAOANT, “poco prima della borgata moderna”. Archivi Disegni, sezione inv.6046, a.1983 di 15. Planimeria generale di Ostia Antica A.Pascolini, e planimetria inv.11138, a. 1993 (a.1949), dis. I.Gismondi in Calza et al.1953, di A.Pascolini). Pertanto, qualsiasi ipotesi di fig.36. L’allineamento lungo la viabilità prin- datazione, vista la mancanza di dati archeocipale del territorio potrebbe far interpretare logici sulla struttura e su un eventuale cariqueste strutture come resti funerari, ma in re- co della barca, appare al momento priva di altà non è riportato alcun elemento che possa fondamento. Dai pochi elementi in nostro concretamente supportare questa ipotesi. For- possesso potrebbe ipotizzarsi che la barca sia se a questi resti, o a parte di essi, potrebbero semplicemente affondata nel fiume in epoca far rifermento i prima menzionati sepolcri in non precisabile, ovvero che sia stata affonblocchi di travertino rinvenuti in scavi otto- data volontariamente, al fine di rafforzare la centeschi e primo novecenteschi (cfr. Floriani sponda fluviale come protezione contro le Squarciapino 1958, pp.52-53). piene, pratica questa attestata nell’Antichità 16. Si è notato che la maggior parte delle (si veda Marziale, Epigrammi, X, 85). Altriplanimetrie del suburbio ostiense, allegate a menti la barca avrebbe potuto far parte di un studi archeologici, riporta tracciati diversi del ponte di barche, forse quello fatto costruire meandro fluviale, senza una loro storicizzazio- probabilmente dal Buontalenti nel tratto finane, da cui deriva la conseguente indicazione le del Tevere durante l’assedio alla fortezza di solo di quelle strutture archeologiche che non Ostia da parte degli Spagnoli nel 1556 (Guvanno a sovrapporsi al percorso fluviale. Ciò glielmotti 1894, p. 300) e poi distrutto dalla crea una certa confusione nell’effettiva rico- piena del 1557: la sua costruzione, realizzata struzione delle evidenze archeologiche di que- a fini bellici, doveva inevitabilmente impedisto territorio suburbano e nella comprensione re la navigazione in quel tratto terminale del braccio ostiense del fiume. È del tutto plaudella loro esatta funzione. 17. Arnoldus Huyzendveld, Paroli 1995, sibile che con la piena del 1557 questo ponte pp. 383-385, fig. 2. Anche lo slittamento del- sia andato distrutto e l’imbarcazione rinvenuta la riva destra del meandro fluviale, segnata da potrebbe ad esso ben essere riferita, in quanto una serie di cippi di terminazione dell’alveo la sua presenza, collegata ad altri possibili usi di età tiberiana (Bertacchi 1960, p. 22, fig. 6 ; ed epoche, risulterebbe con tutta probabilità Arnoldus Huyzendveld, Paroli 1995, pp. 383- incompatibile con la navigazione fluviale che 385, fig. 2, n. 5, 5’, 5’’, 5’’’, 5’’’’), è apparsa ben si effettuava senz’altro in epoca antica e poi individuabile grazie alle indicazioni fornite da di nuovo nel Quattro-Cinquecento in questo vecchie indagini archeologiche (Calza 1921, tratto del fiume. Riguardo all’interpretazione p. 262), nelle quali si è evidenziato l’ingloba- e alla datazione di questi resti si veda anche mento degli antichi cippi terminali nelle nuo- Pannuzi 2009, p.45, nota 45; Pannuzi 2011, ve strutture murarie che vennero progressiva- p. 296, fig. 1. 10. I due livelli stradali sono invece chiaramente indicati nella sezione inv.6312 (PAOANT, Archivio Disegni) (si veda Fig. 3). Da questa sezione sembrerebbe che la preparazione sia stata contenuta da una parte da un muro in grandi blocchi di tufo e dall’altra da uno spesso muro in cementizio dalla cortina mente ad ingrandire gli edifici, seguendo lo non individuabile. Tutta la struttura stradale spostamento del meandro. Grazie ad un’altra risulterebbe tagliata in strati di argilla e torba. indagine di scavo, menzionata dall’Arnoldus, 11. Questa successione di livelli pavimentali effettuata più a Nord-Est, sono stati indivi- 19. Certo appare difficile non immaginare almeno un ponte nel territorio ostiense, per garantire gli indispensabili collegamenti tra le due rive, che in alternativa, comunque, pote- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 105 106 vano essere unite da un servizio di traghetti. D’altronde, un ponte sul fiume in questo tratto, dove la navigazione fluviale era intensa e continua, avrebbe potuto creare delle difficoltà nel passaggio delle barche ed addirittura aggravare i rischi di un’inondazione, non potendo in molti casi resistere strutturalmente all’impeto delle piene (Allinne 2007). A questo proposito, per una lettura generale delle fonti antiche, si veda Maganzani 2012 e 2014. durante un recentissimo sondaggio ACEAIlluminazione pubblica, effettuato nel 2010 con la sorveglianza della dott.ssa Alice Ceazzi e con il coordinamento di chi scrive per l’allora Soprintendenza ostiense, davanti al Castello si è evidenziata, al di sotto della pavimentazione moderna, la presenza di spessi strati di riporto, evidentemente sistemati a coprire la più profonda condotta dell’acqua, per installare la quale furono asportati i livelli pavimentali 20. Tacito, Hist. I, 86; Plutarco, Oth. IV; Sve- antichi. tonio, Oth., 8. Numerose sono le piene fluviali 27. Anni dopo, nel 1981, questo stesso tratattestati dalle fonti antiche tra V secolo a. C. to di strada basolata fu di nuovo intercettato e il III secolo d.C.: Le Gall 1953, pp.63-64; durante la realizzazione del collettore ITALGAS in piazza Ravenna, subito all’interno Bersani, Bencivenga 2001, pp.6-13. 21. Antonia Arnoldus Huyzendveld ipotizza- del Borgo medievale (PAOANT, Giornale di va che l’alluvione che comportò così impor- Scavo vol.45, a.1981, scavi ITALGAS). tanti cambiamenti nel territorio ostiense fosse avvenuta alla fine del I secolo d.C., senza però meglio specificare il preciso periodo e le motivazioni di questa ipotesi: Arnoldus Huyzendveld, Paroli 1995, p.391. un cantiere-scuola dell’American Institute for Roman Culture: Pellegrino, Raddi 2014. In particolare riguardo a questo settore sono state fornite informazioni da D. Arya durante l’intervento dal titolo Parco dei Ravennati nel corso del Quarto Seminario ostiense del 2016. 35. Si sono attribuiti alcuni interventi addirittura ad età rinascimentale, ma ciò andrebbe sicuramente meglio verificato (Pellegrino, Raddi 2014, p.6). Lungo la moderna via della Stazione nel 1976, da foto conservate nell’Archivio Fotografico del PAOANT (invv. 13198, 13199), è testimoniata anche la scoperta, durante uno scavo Italgas, di una pavimentazione a tessellatum, realizzato con cubetti di pietra bianca di media grandezza, di cui non è specificato in alcun modo però il 28. PAOANT, Archivio Disegni, inv. 11138, a. punto preciso di ritrovamento. 1993, dis. A.Pascolini (vedi Fig. 9). Nemme- 36. Viene in questo caso a porsi un problema, no nella pianta pubblicata da U. Broccoli nel già sollevato in altri simili contesti, del rappor1983 (Broccoli 1983, fig.e, dis. A.Pascolini a. to tra suolo pubblico e privato in età romana 1973) risulta una più precisa caratterizzazione ed in particolare in età tarda, quando sembra grafica dei rinvenimenti dei differenti percorsi cominciare quella progressiva appropriazione stradali. da parte dei singoli cittadini di parte delle aree 29. Lo scavo è stato realizzato dall’ex Soprin- pubbliche limitrofe a quelle private, che sarà tendenza ostiense, affiancata da un cantiere- poi una caratteristica dell’età medievale. scuola dell’American Institute for Roman 37. Pannuzi, Carbonara 2007, p. 7; Pannuzi et Culture. al. 2013, pp. 381-384: i ritrovamenti qui effet- 22. Anche le altre basiliche funerarie del territorio, la quasi coeva basilica di Pianabella e quella di S. Ercolano, la cui cronologia è ancora da stabilirsi con precisione, furono costruite su viabilità importanti per i collegamenti nell’ambito territoriale ostiense: a questo proposito si veda Pannuzi 2008, pp.268-270. 30. Ricciardi, Santa Maria Scrinari 1996; Bu23. La notevole larghezza della carreggiata kowiecki, Dessales, Dubouloz 2008, pp.55-59: rendeva perciò la strada utilizzabile anche per in questo tratto l’acquedotto sarebbe databile il traffico continuo e costante necessario ad tra la fine del II e gli inizi III secolo d.C.; di una viabilità principale di collegamento del un precedente acquedotto databile nella prima metà del I secolo d.C., con rifacimenti sucterritorio. cessivi, collegato al castellum aquae esistente 24. Per esempio, nel 1973, durante lavori efall’interno delle mura cittadine di Ostia, finora fettuati per la posa di cavi SIP all’interno del non si è rinvenuta traccia nei pressi della città. Borgo, fu realizzata una conduttura lungo tutta la lunghezza di via del Forno, dove fu rinvenuto un battuto a cocciopesto ed il tratto di un muro antico in cortina laterizia. Sempre lungo la stessa strada moderna fu messo in luce anche un tratto di pavimento con frammenti laterizi (forse un pavimento in opus spicatum?) di cui non è specificata la relazione stratigrafica con il battuto in cocciopesto. Un’eventuale pavimentazione a spicatum sarebbe comunque da riferire ad un edificio e non ad un tracciato stradale. 25. Cercare di comprendere la cronologia dei vari resti rinvenuti è praticamente impossibile. Tra i pochi cenni utili in tal senso rimane la notizia che nel 1969, per la sistemazione di un pozzetto di controllo ad una profondità di – m.2 dal piano stradale attuale, all’incrocio tra via del Vescovado e via del Forno, si raggiunse una quota sottostante al basolato antico, mettendo in luce una fistula plumbea con andamento Nord/Sud; alla stessa quota di questa era presente uno strato di terra mista a frammenti di anfore databili al III secolo d.C., sotto al quale si evidenziò uno strato di sabbia alluvionale privo di materiale. 26. Nella documentazione del 1969, conservata nell’Archivio Storico del PAOANT, è anche riportato che nell’area davanti al Castello l’ACEA, nel posare una tubatura, asportò in parte, purtroppo, una successione di livelli stradali, prima che l’allora Soprintendenza ostiense potesse intervenire. Effettivamente, tuati forse attribuibili ad un contesto residenziale e/o commerciale, testimoniano una particolare attenzione alla regolarizzazione delle acque di falda e meteoriche ed una continuità di uso delle strutture dall’età imperiale fino ad epoca tarda, evidenziata anche dalla distruzione, almeno parziale, di un basolato stradale, forse quello attribuibile ad un percorso orientato Nord-Ovest/Sud-Est, rinvenuto nell’area 31. PAOANT, Archivio Disegni, inv. 11138, funeraria più a Sud. a. 1993, dis. A. Pascolini; planimetria generale 38. La ‘deviazione’ della strada indicata dal di Ostia Antica (a.1949), dis. I.Gismondi in Pascolini potrebbe attribuirsi forse ad ‘un’inCalza et al.1953, fig.36; si veda anche un’al- terpretazione’ del disegnatore, visto che alcuni tra pianta senza data, effettuata dopo il ri- degli ambienti già messi in luce negli anni ’70 trovamento dei cd. Magazzini Aldobrandini: andavano a localizzarsi proprio su quello che PAOANT, Archivio Disegni, inv.5041. doveva essere l’antico percorso della strada. Si 32. Lo scavo è stato realizzato dall’ex Soprin- può ipotizzare, perciò, che il percorso stradatendenza ostiense, affiancata da un cantiere- le in questo punto procedesse rettilineo e che scuola dell’American Institute for Roman in età tarda fosse stato obliterato da strutture Culture: l’indagine è stata in parte pubblicata probabilmente con funzioni in parte residennel 2014: Pellegrino, Raddi 2014, pp.8-11. Al- ziali e in parte artigianali; forse parte del basotre notizie riguardo a queste indagini archeo- lato fu riutilizzato per pavimentare una corte logiche sono state fornite da D. Arya con l’in- scoperta. tervento dal titolo Parco dei Ravennati durante 39. Forse questi tracciati stradali, tutti preceil Quarto Seminario ostiense svoltosi a Roma denti allo spostamento del meandro fluviale, il 16 e 17 novembre del 2016, senza però tro- dovettero in qualche modo riallinearsi sevare pubblicazione nei relativi Atti. condo i nuovi spazi creati dai cambiamenti 33. Il mausoleo circolare era anch’esso già indicato nella pianta del Gismondi del 1949. La riutilizzazione della struttura in periodo tardo o addirittura altomedioevale appare senz’altro da meglio verificare; inoltre, del tutto priva di evidenza risulta l’attribuzione al “cimitero paleocristiano e medievale sviluppatosi intorno alla basilica di S.Aurea” del gruppo di tombe a fossa rinvenute, nelle quali non è stato rintracciato alcun elemento archeologicamente riferibile alla religione cristiana né all’epoca medievale: Pellegrino, Raddi 2014, pp.8-11. idrologici. D’altronde, se il mausoleo circolare è effettivamente databile ad età augustea (Pellegrino, Raddi 2014, p.8), anche il basolato stradale ad esso prospiciente sarebbe da riferire almeno a quest’epoca e non invece ad un periodo successivo al II secolo d.C., come risulta indicato dall’équipe del recente scavo (Pellegrino, Raddi 2014, p.13). Se questo divenne perciò il tracciato della via Ostiense dopo l’allargamento dell’ansa fluviale, risulta evidente che riutilizzò un percorso già esistente all’interno della necropoli, i cui edifici 34. Anche questo scavo è stato realizzato funerari furono conservati probabilmente per dall’ex Soprintendenza ostiense, affiancata da motivi sacrali. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 40. PAOANT, Archivio Disegni, inv. 4434, a.1974, dis. di Giorgio e Aldo Pascolini. Da immagini fotografiche effettuate durante i cavi SIP lungo via Guido Calza, dopo l’incrocio con via della Stazione Vecchia, sono visibili soltanto muri paralleli pertinenti ad una serie di ambienti, ma non è distinguibile alcun basolato antico, che avrebbe dovuto essere coperto dalla carreggiata stradale moderna (Fig.14). Tra l’altro, da queste foto si evince che l’area di scavo interessò soltanto il marciapiede del lato settentrionale della strada moderna, benchè se sulla planimetria siano tratteggiate anche delle strutture sul lato Sud. Perciò sorge il dubbio se quanto indicato nella schematica planimetria del 1974 non sia da riferire solo una mera supposizione dei disegnatori. Scavo vol.29, a.1947, lungo via delle Saline furono rinvenuti muri laterizi paralleli, interpretati come resti di un horreum. Altri resti di muri tra loro paralleli furono messi in luce durante scavi ACEA nel 1974 e scavi SIP nel 1991: di questi ritrovamenti non c’è menzione nei Giornali di Scavo dell’epoca, rimanendo solo documentati in una planimetria redatta da A.Pascolini (PAOANT, Archivio Disegni, inv.9846. a.1991): in questa planimetria sono inseriti ritrovamenti avvenuti in periodi diversi, rendendo la ricostruzione dei resti antichi abbastanza complessa. Inoltre, ad Ovest di via delle Saline nel 1959 fu rinvenuto un ambiente quadrangolare formato da blocchi di tufo, interpretato dubitativamente come una struttura tarda (PAOANT, Archivio Storico, Giornale di Scavo vol.33.1, a.1959). 41. Carbonara, Panariti 2016, p.120. Ringra- 49. Il carattere commerciale dell’edificio può zio Andrea Carbonara per le interessanti in- ipotizzarsi strutturalmente dalla lunghezza formazioni a questo proposito. della fronte, con almeno due aperture di am42. È’ da notare come questa importante porta piezza omogenea, e dalla localizzazione in urbica ostiense trovi verso il territorio suburba- un’area prossima al Tevere, vicino agli appreno uno sbocco stradale limitato, con tutta pro- stamenti portuali e ad altri edifici col medesibabilità proprio a causa della presenza sempre mo utilizzo, databili anch’essi nell’ambito del più ingombrante dell’ansa fluviale. Per il caso I e II secolo d.C., scoperti nel cd.Trastevere diverso di Porta Marina ad Ostia si veda il Ostiense in scavi operati nel secolo passato: a tal proposito Arnoldus Huyzendveld, Paroli contributo di M. David in questo volume. 1995, pp.385-386, con bibliografia. 43. PAOANT, Archivio Storico, Giornale di scavo 1922: questa strada, riprodotta in uno 50. Di questi muri manca qualsiasi indicazione schizzo non precisamente localizzabile, vie- in riferimento al tipo di paramento, alla crone chiamata “seconda via Laurentina” e dalle nologia ed alla profondità del rinvenimento. indicazioni riportate sembrerebbe una strada 51. Santa Maria Scrinari 1984: il molo vero e glareata, fiancheggiata da blocchi di tufo. proprio sarebbe stato costituito da una strut44. Per il rinvenimento di una conduttura tura in grandi blocchi di tufo, su cui si sarebd’acqua databile all’età dell’imperatore Clau- be venuta ad innestare ortogonalmente una dio nella cisterna sotto la palestra delle Terme massicciata di cui si evincono fasi diverse, non di Nettuno, si ipotizza che questa costituisse il chiaramente approfondite durante lo scavo, deposito terminale di un acquedotto già esi- per quanto riguarda la loro funzione ed il loro stente ad Ostia in quel periodo, anche se finora ambito cronologico. Per un’interpretazione di non se ne è rinvenuta traccia. Inoltre, rimane questi resti si veda: Pannuzi et al. c.s. un’iscrizione di Vespasiano che indica la co- 52. Santa Maria Scrinari 1984, p.363, fig. 5 distruzione o forse meglio il restauro di un pre- dascalia. La Scrinari non fu testimone diretto cedente acquedotto (Bedello Tata et al. 2006, della scoperta, effettuata invece alla presenza pp.491-492, 509-510). I resti attualmente dell’allora Soprintendente M.L. Veloccia Riconservati, che si andavano a connettere al naldi e del funzionario archeologo A. Morandi. castellum aquae a Porta Romana, riadattando 53. Piuttosto, andrebbero identificati come rile mura urbiche, e le arcate ancora visibili inferibili ad epoca pieno o tardo imperiale i muri globate nelle mura del Borgo medievale, sono che, secondo le indicazioni planimetriche, però successivi al periodo flavio, datandosi alla avrebbero invaso la sede stradale: attualmente fine del II-inizi del III secolo d.C. (Bedello però questo non è verificabile, visto il reinterro Tata et al. 2006, pp.494). delle strutture. È del tutto plausibile che lun45. D’altronde di periodo domizianeo è il re- go il molo si siano venuti a costruire edifici di stauro di Porta Romana (Pavolini 2006, p.50), vario utilizzo, in particolare magazzini, che nel forse connesso con un intervento più ampio tempo, potrebbero anche aver invaso in parte che potrebbe aver interessato anche la via la sede stradale, o, nel caso di trasformazioni Ostiense che raggiungeva la città attraverso e/o di abbandono del molo, aver obliterato del questa Porta. tutto la banchina. 46. Fin dalle prime ricerche archeologiche sul 54. Arnoldus Huyzendveld, Paroli 1995, territorio suburbano di Ostia apparve evidente p.389: era stato anche affermato che avesse che il lato Nord della via Ostiense presso la cit- avuto “numerose ripavimentazioni”, anche se tà fosse stato utilizzato per finalità pubbliche di tali rifacimenti non c’è traccia né nella breve e non per scopi funerari, come invece il lato pubblicazione del ritrovamento né nella documeridionale: Calza et al.1953, pp.112-113. mentazione d’archivio. 47. Pannuzi et al. 2006, pp.206-208, fig.26: 55. Appare comunque più che verosimile che, in asse con la strada sul suo lato orientale era oltre ad un collegamento stradale con la parte impostato un recinto funerario di prima età più settentrionale della laguna, vi fosse anche imperiale che delimitava l’area sepolcrale. una viabilità di comunicazione fra l’attracco 48. PAOANT, Archivio Storico, Giornale di portuale e la via Ostiense. 56. Tac., Hist. I, 86; Plutarco, Oth. IV; Svet. Oth., 8. Numerose sono le piene fluviali attestate dalle fonti antiche tra il V secolo a. C. e il III secolo d.C.: Le Gall 1953, pp.63-64; Bersani, Bencivenga 2001, pp.6-13. 57. Anche nell’area lungo la via Laurentina più prossima al Tevere sono state individuate risistemazioni viarie effettuate dopo la piena 69 d.C. (si veda intervento di A. Buccellato, A. De Loof in questo volume). BIBLIOGRAFIA Allinne C. (2007), Les villes romaines face aux inondations. La place des données archéologiques dans l’étude des risques fluviaux, in Géomorphologie: relief, processus, environnement,13,1,[Enligne], URL:http://journals.openedition.org/ geomorphologie/674;DOI :10.4000/geomorphologie.674. Arnoldus Huyzendveld A., Paroli L. (1995), Alcune considerazioni sullo sviluppo storico dell’ansa del Tevere presso Ostia e sul porto-canale, in Archeologia Laziale, XII, pp.383-392. 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Con questa mission abbiamo progettato, reso cantierabili e completato decine di grandi opere che sono oggi parte della rete infrastrutturale del nostro paese. Partendo dalla progettazione di ferrovie, strade e gallerie la nostra storia è continuata con l’acquisizione di specializzazioni in altri campi, fino agli ultimi progetti di opere strategiche. VIA INGEGNERIA s.r.l. – Via Flaminia 999 – 00189 ROMA (RM) Italia – Tel +39 06 3327441 – www.via.it 111 La progettazione della via Laurentina e le modifiche del territorio attraversato The design of the via Laurentina and the modifications of the crossed territory Parole chiave: Via Laurentina antica, progettazione stradale, opere di manutenzione, dispositivi idraulici Key words: Ancient Via Laurentina, road design, maintenance works, hydraulic devices RIASSUNTO Nel panorama scientifico il riconoscimento della via Laurentina costituisce un’acquisizione relativamente recente ma i dati archeologici recuperati nell’ultimo decennio fino a tutt’oggi costituiscono un esempio paradigmatico, sia delle strategie politiche economico per lo sviluppo delle vie di penetrazione nel territorio sia delle modalità di realizzazione dell’opera. Questi criteri spaziano dalla progettazione dell’andamento planimetrico del tracciato attraverso l’orografia di luoghi alla valutazione dei costi di costruzione e funzionalità nel tempo, declinati nelle fasi di ristrutturazione succedutesi con vari livelli di anche a breve spazio di tempo. Nell’ ager suburbano, tra il V e l’VIII miglio, il percorso di Virgiliana memoria attraversa la valle del bacino del Vallerano superando la difficoltà idrografica con opere di bonifica e sopraelevazione, successivamente entro una tagliata monumentale procede a salire su una dorsale tufacea nella tenuta di Tor de’ Cenci, per ridiscendere poi attraverso la valle del fosso di Malafede al mare, con direzione N-NE/S-SO, tagliando le valli con marcata angolazione rispetto agli assi fluviali. La scelta della Figura 1.Cartografia del suburbio sud ovest. Carta dell’Agro georiferita su cui è segnato il tracciato della via Laurentina antica in base ai ritrovamenti (elaborazione di A. Buccellato – F. Coletti – E. Giannini) Anna Buccellato Già Funzionario della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma E-mail: [email protected] Fulvio Coletti Parco Archeologico del Colosseo E-mail: [email protected] Anne De Loof Ricercatore Indipendente E-mail: [email protected] direttrice, che in epoca romana sottende valutazioni geometriche e geomorfologiche nello studio topografico del territorio, già in età protostorica era condizionata da percorsi di collegamento con Castel di Decima, probabile Tellenae, centro autonomo del Latium Vetus. I dati archeologici acquisiti dalla SSABAP di Roma hanno rimesso in luce in totale circa 2 chilometri di percorso, che evidenziano le caratteristiche tecnico costruttive delle vie di grande comunicazione e ne sottolineano gli interventi necessari per la conduzione e la manutenzione: 1. Opere di sistemazione idraulica, scavo in trincea e riporti di terre e ghiaie; 2. Superamento attraverso un ponte dell’irregimentazione del fosso dell’Acqua Acetosa; 3. Misura di larghezza della sede di oltre m 4 per permettere il passaggio contemporaneo dei carri in entrambe le direzioni; 4. Attività di manutenzione ordinaria e straordinaria, declinate in successione di pianciti in tufo e/o massicciate di selce, glaree fino alla pavimentazione basolata, con mutamenti di asse e/o sede e percorsi di servizio. Nell’eccezionale cornice della continuità cronologica, tali interventi denotano prima la volontà della repubblica Romana di penetrazione dei territori e manutenzione delle Viae, e successivamente in età imperiale l’impegno dello stato nelle soluzioni ingegneristiche per ovviare alle difficoltà di ordine orografico e di funzionalità stradale. Si illustreranno in particolare i siti della piana del Castellaccio nella valle alluvionale dei fossi del Ciuccio, Acqua Acetosa e Vallerano (V Miglio), i segmenti stradali esposti tra via dell’Acqua Acetosa Ostiense e via di Decima (tra VI e VII miglio). INTRODUZIONE Nel panorama scientifico il riconoscimento della via Laurentina (Fig. 1) costituisce un’acquisizione relativamen- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 112 gliando le valli con marcata angolazione rispetto gli assi fluviali. La scelta della direttrice, già in età protostorica, era condizionata dai collegamenti con gli abitati del Latium Vetus come Castel di Decima, probabile Tellenae, uno dei centri autonomi che secondo Plinio furono distrutti da Anco Marcio per realizzare l’espansione al mare. Le testimonianze archeologiche acquisite dalla Soprintendenza hanno rimesso in luce diversi segmenti della viabilità per un totale di ben 4 miglia, che rivelano la tipologia delle vie di grande comunicazione e ne sottendono gli interventi necessari per la conduzione dalle opere di bonifica ai criteri di costruzione canonici fino all’interrotta attività di manutenzione ordinaria e straordinaria. Figura 2.Planimetria del segmento della Laurentina tra V e VII miglio. A. sito in località Castellaccio; B. sito di via dell’Acqua Acetosa Ostiense; C. sito nella tenuta di Mostacciato (elaborazione di A. Buccellato – F. Coletti – E. Giannini) te recente, ma i dati archeologici recuperati nell’ultimo decennio costituiscono un esempio paradigmatico sia delle strategie politico-economiche dello sviluppo delle vie di penetrazione nel territorio, sia delle modalità di realizzazione dell’opera, in particolare riguardo alle soluzioni ingegneristiche adottate nel segmento tra IV e VI miglio. Questi criteri spaziano dalla progettazione planoaltimetrica del tracciato attraverso l’orografia di luoghi, alla valutazione dei tipi di terreno, dei costi di realizzazione e della funzionalità nel tempo, declinati nelle fasi di ristrutturazione succedutesi con vari livelli anche a breve spazio di tempo (Per il riconoscimento della via Laurentina nel tracciato sostanzialmente perpetuato dalla Pontina Vecchia e da via di Pratica vedi, da ultimo, Buccellato, 2005, Lexicon, pp. 213-227). Nell’area suburbana, partendo dal 4 miglio, il percorso di virgiliana memoria attraversa la valle del bacino del Vallerano e, salendo su una dorsale tufacea nella tenuta di Tor de’ Cenci, ridiscende attraverso la valle del fosso di Malafede al mare con direzione N/NE-S/SO, ta- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 LA VIABILITÀ TRA IV E VI MIGLIO: IL SITO IN LOCALITÀ CASTELLACCIO (FIG. 2 A) All’interno del bacino idrografico del Vallerano, nella piana alluvionale dei fossi del Ciuccio, Acqua Acetosa e Vallerano tributari del Tevere (Ascani et al., 2008, pp. 93-97), il rettifilo esposto in località Castellaccio per ca. 400 m. presenta vari livelli di costruzione e manutenzione dall’età arcaica al tardoantico, che documentano il costante impegno organizzativo e tecnico dello Stato romano nel superamento delle difficoltà idrografiche (Buccellato, 2007). Dal primo livello condotto in un invaso naturale argilloso in età alto-repubblicana, i successivi pianciti con pavimentazioni in scaglie tufacee o glarea, entro crepidini di scaglie di leucitite, mantengono in funzione la viabilità nell’arco del periodo medio repubblicano (Fig. 3). Intorno alla metà del I secolo a.C., verosimilmente a seguito di un evento alluvionale (Aldrete, 2007, pp. 19-28; per un’ampia trattazione degli eventi naturali a Roma vedi Conte, 2019), si attua la prima sostruzione finalizzata a preservare la carreggiata da allagamenti e ristagni causati dalle acque reflue di origine meteorica, di falda ed inondazione. Viene, così, realizzato un terrapieno di spessore notevole, con strati alternati di lenti di ghiaia e pezzame di tufo, difeso a monte da un muro in opera incerta, mentre nella zona meridionale tale funzione è assolta da più murature di delimitazione di recinti funerari, a dimostrazione di una progettazione organica di aree pubbliche. Il summum dorsum glareato è caratterizzato da una larghezza significativa di 5,50 m. D’altra 113 Figura 3.La via Laurentina in località Castellaccio. I livelli di manutenzione e rifacimento della viabilità tra l’epoca tardoarcaica e la tardoantichità (Foto di A. De Loof ) parte, in merito al problema endemico del comportamento fluttuante del fiume e sui conseguenti eventi distruttivi, una messe importante di dati proviene dalle fonti letterarie: abbiamo notizia di numerosi eventi alluvionali durante il I secolo a.C.: nel 60, 54, 44, 32, 27, 23, 22, 13 (Dio., 37. 58, 2-4; 39.61, 1-2; 50.8,3; 53.20,1; 53.33,5; 54.1; 54.25,2; Cic. Ad Quin. Fr., 3.7, 1; Hor. Car. 1.2.1-20; CIL 6, 1305). In particolare, Dione Cassio ci informa in che misura l’alluvione del 54 a.C. fosse stata particolarmente dannosa in alcune zone suburbane, con pesanti ripercussioni sul I miglio della via Appia nell‘allagamento dei monumenti che in quel punto della consolare insistevano. Si tratta, naturalmente, del settore in cui la viabilità incontra il fosso dell’Almone, che deve essersi gonfiato a causa delle acque di risalita dal Tevere, di cui era anticamente era tributario. Possiamo immaginare che la medesima sorte possa essere accaduta alla piana alluvionale tra V e VI miglio della via Laurentina attraversata dagli altri due tributari. Verosimilmente a partire dal regno di Tiberio, le strategie politiche e gli effetti della grave inondazione del Tevere del 15 d.C. (Bersani e Bencivenga, 2001, pp. 11-12), associata ai gravi eventi sismici che colpirono la città di Roma nel 51 d.C., narrati da Tacito e Dione Cassio (Tac. 12, 43.1; Dio. 61, 33.2;), convinsero il potere centrale a perfezione la viabilità a livello ingegneristico, conferendo alla Laurentina aspetto e dimensione significative di via consolare (l’evento distruttivo del 51 d.C. è, inoltre, ricordato in un’epigrafe che menziona la ricostruzione ad opera di Iulia Saturnina nel 52 d.C., di un’edicola marmorea rinvenuta presso il Collegio Augustiniano Maggiore Castrense di Roma, a viale Aventino nei pressi del Circo Massimo lesionato in seguito al terremoto, Panciera, 1988, p. 123). Il corpo stradale, che assume la notevole larghezza di 6,50 – 7 m., viene allettato sul summum dorsum precedente, ricaricato con un nucleus di ghiaia ed impacchettato entro due cordonature in opera reticolata, contraffortate a distanze regolari di 3,50- 4 m (Fig. 4). Della pavimentazione in poligoni di selce, originariamente a quota 10,20 m., rimangono le impronte in quanto asportata in epoca tarda. L‘attribuzione a Tiberio indicata dai materiali trova conferma nel documento epigrafico relativo al- Figura 4.La via Laurentina in località Castellaccio. La viabilità e i contenimenti contraffortati in opera reticolata di epoca giulio-claudia (Foto di M. Letizia) l’XI miliario, conservato fino al 1995 lungo via Pontina nel luogo originario, che testimonia un intervento sull’arteria (Gregori e Buccellato, 2006, p. 367). Fino a questo periodo, la Laurentina superava il fosso quasi ortogonalmente, con un guado nella fase del I livello, in cui mostra un selciato più largo fino a 6,50 m., mentre nelle fasi successive verosimilmente era in uso un chiavicotto inserito nel terrapieno. Nella seconda metà del I sec. d.C., probabilmente in conseguenza dell’alluvione del 69 d.C. - ricordata dalle fonti come evento catastrofico (Tac., Hist., I.86.2; Plut., Oto 4.5) - fu realizzata una sistemazione idraulico-territoriale del fosso dell’Acqua Acetosa nel contesto del bacino imbrifero dei tre fossi tributari del Tevere. L’opera di regimazione, rintracciata nell’intera piana, consiste nella rettifica delle sponde dell’alveo finora sinuoso con fodere in opera reticolata, alte ca. 2 m. e parallele alla distanza di 7 m. Le finalità risiedono nella volontà di regolare la portata del rivo, in relazione sia alla raccolta di acque reflue, nel contesto di un’estesa bonifica delle aree attraversate, sia al controllo dei regimi di piena, originati soprattutto dalle frequenti inondazioni del Tevere: si rivela quindi un notevole livello di progettualità idraulica, studio del suolo e capacità attuative. La necessità di un ponte per l’attraversamento determinò diverse modifiche strutturali nella via Laurentina. Il corpo struttivo fu asportato per un troncone di ca. 10 m, al duplice scopo di fondare l’infrastruttura ed adeguare le dimensioni del rilevato attraverso un restringimento della carreggiata, ricostruendo le fiancate disassate rispetto alla direttrice originaria, fino ad ottenere un passaggio obliquo largo ca. 4,80 m. (Fig. 5 a-b) L’infrastruttura, verosimilmente un ponte misto con piloni in muratura e soprastrutture lignee, poggiava su due piedritti fondati internamente al rilevato ed addossati alle arginature del fosso, coprendo una luce di non meno di 7,20-7,50 metri. Le strutture in conglomerato cementizio sono state rinvenute con l’originaria sbadacciatura lignea, le cui analisi al carbonio hanno confermato l’epoca di attribuzione dell’opera (Fig. 6). Un secondo evento alluvionale ricordato dalle fonti nel 162 d.C. (Hist. Aug., M. Aur., 8) originò il restauro della Laurentina nel tratto interessato dall’incrocio con il fosso ed in particolare la realizzazione di un nuovo ponte, nell’anno di impero congiunto di M. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 114 Figura 5. La via Laurentina in località Castellaccio. Resti del ponte edificato in muratura e legno punto di incontro tra la viabilità e l’antico corso del Fosso dell’Acqua Acetosa: A. Sezione Nord-Sud con evidenza dei resti del pilastro sud che ingloba il precedente muro di irreggimentazione del fosso; B. Sezione Est-Ovest con dispositivi collocati sul fondo atti al contrasto della forza di scorrimento (RAM Srl) Figura 6. La via Laurentina in località Castellaccio. Resti delle sbadacciature lignee del ponte di epoca vespasianea Aurelio e Commodo. L’infrastruttura, con una luce di ca. 6 m. mostra spalle in opera laterizia a sostegno di una singola arcata probabilmente a sesto ribassato, poggiante su piloni che in parte inglobano le fondazioni precedenti, in parte sono composti da nuove strutture fondate nell’alveo dell’Acqua Acetosa. Inglobando gli argini e realizzando un piano di imposta a piattaforma, probabilmente coronato da una seconda cornice, si raggiunge un triplice risultato: l’equilibrio del peso e della spinta dell’arco che evita, in tal modo, la rottura per compressione e rotazione; il contrasto della forza di scorrimento favorita dalle infiltrazioni d’acqua nel punto di cesura fra fodere e piedritti; infine, il riutilizzo delle strutture preesistenti sia come con- trospinta dell’arco, sia come sostruzione del punto di innesto. Si determinò anche l’adeguamento della sede viaria: adattando le strutture preesistenti, in considerazione dell’innalzamento di livello della carreggiata imposto dal passaggio sull’arcata, si creò, attraverso rampe in contropendenza della lunghezza di almeno m. 15, la nuova quota del piano rotabile di 12,5 m. al colmo, con una pendenza calcolabile del 12%. Al riguardo, dal momento che la pendenza acclarata si attesta tra l’8 e il 9% con punte fino 13% (Quilici, 2006, p. 159), si potrebbe porre la problematica della sostituzione degli animali da tiro per trasporti onerosi in caso di dislivelli elevati (per cui si veda, da ultimo, I.M. Gallo, Vias romanas: Ingeniería y técnica costructiva, Madrid 2006, pp. 21, 48, 209). Nel nostro esempio il cambio poteva avvenire nella vicina statio riconosciuta al V miglio (Buccellato, 2007, p. 3-4; Buccellato et al., 2011, p. 155-157; Buccellato et al., 2018, pp. 129-131). Il rapporto di ortogonalità con il fosso generò un andamento disassato rispetto al rilevato: pertanto, raccordandosi parzialmente alle vecchie fiancate, i muri di testa assumevano un andamento spezzato rispetto all’asse longitudinale e il profilo risultava formare una sorta di Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 “esse dilatata”. In merito all’inquadramento cronologico dell’infrastruttura, la data certa del 177 d.C. è indicata dal documento epigrafico riferibile a Marco Aurelio e Commodo, nell’anno di consolato congiunto, recuperato durante gli scavi, tra i materiali di crollo che obliteravano parzialmente la struttura (Gregori e Buccellato, 2006, p. 158). La presenza del ponte - che riduce la larghezza del fosso a 5 m - determina una strozzatura per cui sulla parte inferiore dell’alveo sono state messe in atto disposizioni volte a facilitare il ripristino delle condizioni del flusso normale ed evitare erosioni: in corrispondenza dell’infrastruttura, infatti, una massicciata di scaglie di leucitite consolida il fondo e appena a valle emergono pilastri lignei contenuti da blocchi; infine, a 10 m. di distanza dal ponte ha inizio una pavimentazione in cocciopesto in contropendenza. L’omissione del rivestimento per il tratto d’alveo lungo circa 12 m., compreso tra il ponte e la modesta soglia in pietrame lavico che segna gli inizi del rivestimento, formano insieme una sorta di vasca di calma a fondo ribassato con scabrezza idraulica maggiore. In merito al dispositivo dei pali di olmo, piuttosto che l’interpretazione di sorta di frangiflutti, appare più 115 fondata dal punto di vista strutturale il riconoscimento di un’opera provvisionale, temporanea, legata al momento della costruzione del ponte in cui i pali prolungati in altezza probabilmente sostenevano i ritti di un ponte in legno provvisorio, utile ai lavori di costruzione. Passando al periodo tardo imperiale, tra il III e il IV secolo, si assiste ad un ulteriore rifacimento della sede carrabile realizzato mediante il riutilizzo del piancito precedente. Durante le epoche successive, il rilevato stradale fu in parte defunzionalizzato e interessato da profondi rimaneggiamenti e spoliazioni: in generale risulta asportato il pavimentum basolato fino a riportare in luce i livelli glareati sottostanti, mentre vengono creati percorsi con parziali riutilizzi, che attraversano con andamento sinuoso la viabilità primo imperiale, fuoriuscendone dalla sede, quasi che si conservasse consapevolezza dell’antico orientamento. Nonostante la difficoltà di fruizione del tracciato originario è evidente la persistenza d’uso della direttrice della via Laurentina. LA VIABILITÀ TRA VI E VII MIGLIO, IL SITO DI VIA DELL’ACQUA ACETOSA OSTIENSE In prossimità del fosso di Vallerano, il tracciato della via Laurentina era già fissato dal periodo repubblicano e la mancanza di un substrato compatto e l’assenza di strutture di contenimento e rialzamento obbligarono a continui rifacimenti del percorso, fino a cinque livelli dall’età tardo-repubblicana al III secolo d.C. (per la seriazione e la suddivisione in livelli si fa riferimento a quanto proposto per il segmento in località Castellaccio). In particolare, in questo sito sono documentati un livello non noto negli altri segmenti e differenti scelte realizzative. La metodologia applicata - stratigrafia, restituzione grafica classica ed elaborazioni digitali - ha permesso di affinare la cronologia dei dati di scavo con lo studio delle fonti antiche. La strada, che risale dalla piana del Castellaccio, deve oltrepassare i terreni alluvionali del fosso e affrontare la collina tufacea della tenuta di Mostacciano. Questa salita corrisponde al passaggio – sulla base della carta litografica – dalle alluvioni ghiaiose, sabbiose, argillose nella valle del fosso ai depositi vulcanici del complesso delle Pozzolanelle. L’odierno fosso del Vallerano oggi corre come un rettifilo, ma non è difficile o inverosimile pensare per l’epoca romana ad un andamento meno regolare, che incide le stratigrafie più profonde e lambisce gli speroni tufacei, fiancheggiato qui lungo il lato meridionale dalla via. Questo tipo di ricostruzione è avvalorata, oltre che dai dati di campo, anche dall’interpolazione con il DEM a base 10 m., che rileva una più ampia e sinuosa valle fluviale (Fig. 7). La via Laurentina in tutte le sue fasi esposte in località Acqua Acetosa Ostiense restituisce un andamento sinuoso della strada proprio in prossimità del passaggio fra tufo e valle alluvionale. morfologia di piano inclinato ad Est verso il fosso per lo smaltimento delle acque meteoriche. Il percorso tardo repubblicano viene obliterato da una alluvione. Le fonti ricordano una tempesta di portata eccezionale nel 60 a.C., con danni lungo tutto il corso del Tevere dal ponte Sublicio (nella sua fase lignea) alla foce (Aldrete, 2007, pp. 19-20): questa datazione è coerente con il quadro ricostruttivo proposto. Tra la tarda età repubblicana e l’età augustea, a ridosso dell’area di ca- Figura 7. Elaborazione digitale su base modello di elevazione DEM 10 metri (elaborazione A. De Loof ) Analizzando i dati di scavo (Fig. 8), la più antica testimonianza è rappresentata da un’attività di cava di tufo a blocchi, del tipo a cielo aperto, che sfrutta i lembi della collina retrostante; l’impianto è abbandonato a seguito di eventi alluvionali già nell’età repubblicana. Su questi strati, infatti, troviamo il più antico livello stradale senza fondazione, che poggia direttamente su di un livellamento del deposito stesso. La strada, ampia circa 4,60 m., è realizzata in schegge di leucitite e presenta ripristini con frammenti di laterizi e di tufo; mostra un andamento curvilineo, probabilmente allo scopo di affrontare la ripida salita della collina a Sud ed una va, troviamo opere murarie con funzione di bonifica o regolarizzazione del territorio: hanno una vita breve, poiché in epoca augustea sono rasate da un nuovo percorso glareato, che utilizza parte delle macerie delle strutture come sottofondazione. Nell’evidente impossibilità di riutilizzare il percorso repubblicano, che correva circa 1 metro più in basso e ricoperto dai depositi alluvionali, la soluzione di questo livello “inedito” rispetto agli altri settori è cercare di posizionarsi più vicino possibile ad un substrato solido ed in posizione rilevata, spostando la sede circa 9 m ad W della via repubblicana. La datazione, basata su elementi materiali e stratigrafici, con- Figura 8. Laser Scanner e fotogrammetria terrestre scavi 2015-2019 con periodizzazione (elaborazione A. De Loof e M. Carilli) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 116 nel 69 d.C. e nel 70 d.C. furono visibili per chilometri nella campagna romana (Conte, 2019; Aldrete, 2007, pp. 26-27). Successivi depositi di sedimenti alluvionali ci dimostrano che la zona è particolarmente soggetta all’andamento idrografico del fosso per cui troviamo verso la fine del III secolo d.C. l’ultimo intervento strutturale sulla via Laurentina, con la posa di un nuovo basolato. Figura 9. La via Laurentina nella tenuta di Mostacciano. Foto aerea del tracciato basolato (Foto M. Letizia) riutilizza in parte tracciati e stratigrafie sottostanti come base: di questa via datata in epoca tiberiana, - ampia circa 7 m - restano visibili le crepidini ed una piazzola di sosta sul lato E. Un’ampia basolata senza contenimento e/o rialzamento, fondata su strati alluvionali, è fisiologicamente più esposta agli agenti climatici, atmosferici e a fenomeni di smottamento. In età Flavia, probabilmente riutilizzando il lastricato tiberiano, troviamo una seconda pavimentazione (livello VII), che restringe leggermente la carreggiata rispetto alla precedente. Di nuovo sono le fonti che ci danno una indicazione del periodo cronologico: gli effetti delle alluvioni LA VIABILITÀ AL VII MIGLIO E IL SITO NELLA TENUTA DI MOSTACCIANO (FIG. 2 C) Da questo punto possiamo ipotizzare che la strada, nell’ambito di una distanza di ca 100 m., affronti la salita verso la dorsale di Tor de Cenci fino al segmento individuato alla quota di m.s.l. 24,83, nel sito che copre la distanza tra VI e VII miglio. Il percorso, esposto per ca m. 290, sale con una pendenza di ca 8% con una curva a gomito, all’interno di una sella artificialmente trasformata in una tagliata monumentale larga da 15,00 a 20 metri alla sommità e 9,00 metri alla base (Fig. 9). Le pareti fino ad un’altezza di m 9 sono tagliate con profilo verticale o terrazzato nei vari sedimenti geologici di tufi e pozzolane, frutto di accumuli cineritici (in particolare crosta di tufo di sacrofano, tufo terroso da trascinamento vulcanico e tufo biancastro dai sedimenti più antichi), mentre nell ‘argilla nei livelli inferiori (Fig. 9-10) La strada presenta la struttura canonica: strati di rudus in grosso pietrame, Figura 10. La via Laurentina nella tenuta di Mostacciano. I livelli di manutenzione e rifacimento della viabilità tra l’epoca tardoarcaica e quella repubblicana. Il piano rotabile basolato è in questo punto assente a causa della spoliazione (Foto F. Coletti) corda con lo studio delle fonti antiche e possiamo ipotizzarne un abbandono già in epoca tiberiana. Nella correlazione fra eventi metereologici e cambiamenti climatici in epoca antica esiste una ricca bibliografia ed in particolare lo studio di Harvard, che classifica per entità in un geodatabase gli eventi climatici delle fonti, mostra più eventi con il massimo grado in tarda età augustea, con il picco dell’alluvione del 15 d.C. (Mc Cormick et al., 2012, pp. 169-220; Mc Cormick et al., 2013). La risposta pubblica a questo ciclico problema – con un intervento esteso in tutti i tratti documentati - è la via Laurentina con pavimentazione in basoli (VI livello). Qui la strada presenta non il contenimento in opera reticolata del sito del Castellaccio ma solo l’innalzamento funzionale del piano carraio e Figura 11. La via Laurentina nella tenuta di Mostacciano. Panoramica della viabilità in forte pendenza vista da Nord/Est nel punto di entrata nella monumentale tagliata (Foto F. Coletti) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 117 Figura 12. La via Laurentina nella tenuta di Mostacciano. Carta geologica con esemplificazione della varietà litotipologica nei punti di penetrazione della viabilità (Elaborazione di A. Buccellato – F. Coletti-E. Celluprica) nucleus in breccia più fine e pavimentum in lastricato displuviato di poligoni di selce perfettamente connessi; la sede è delimitata da umbones poste a coltello con la faccia vista all’interno ed il cuneo esterno a contenimento dei marciapiedi in battuti di breccia, intervallate da gomphi che impedivano ai carri di salire sui marciapiedi mentre facilitavano il viaggiatore nel salire e scendere dal carro. La larghezza della carreggiata, che presenta diversi segni di usura con interasse medio di 1,40 metri, misura m. 4,1, permettendo il passaggio contemporaneo dei carri in entrambe le direzioni ed aumenta fino a m 6 nei segmenti con maggiore pendenza per agevolare gli incroci. All’interno dell’invaso, fiancheggiano l’arteria sul lato orientale segmenti di selciati in leucitite con funzione di viabilità laterale di servizio o funzionale ai vari rifacimenti. Per quanto riguarda l’inquadramento cronologico, questo tracciato è sicuramente riferibile al regno di Tiberio; non abbiamo dati archeologici certi per attribuire la regolarizzazione della gola nella morfologia attuale ad un‘ epoca precedente e d’altra parte i criteri di ordine geometrico e geologico presupposti, nonché l’impegno costruttivo per la definizione del tracciato, si inquadrano nel perfezionamento imperiale della tecnologie ingegneristiche. Possiamo supporre, comunque, che in questo settore settentrionale la conduzione della strada, già dal periodo repubblicano se non prima, utilizzasse la depressione favorevole del terreno ed i livelli corrispondenti per motivi di acclività siano stati cancellati dai rifacimenti successivi. Nel settore meridionale, invece, sul crinale in corrispondenza del punto di tangenza con la moderna via Pontina, dall’ epoca tardoarcaica alla repubblica, i piani declinano la successione inin- terrotta delle opere di restauro della superficie carrabile dal fondo naturale alla glarea in buona tessitura di ciottoli di leucitite (Fig. 7): particolarmente significativo l’intervento di epoca sillana che rivela una valutazione geotecnica nella sostruzione del piano rotabile con una struttura muraria in opera quadrata a mezza costa (un vero e proprio rudus di pietrisco di leucitite sostenuto da un allineamento di blocchi di tufo rialza il piano rotabile in ghiaia a m 35,90: a questo intervento si riferisce presumibilmente il testo epigrafico che cita un restauro di 5000 piedi - quindi un miglio – discusso in Gregori, Buccellato 2006). L’utilizzo dell’arteria con vari rifacimenti e restauri si dipana per l‘intera età imperiale; la spoliazione e l’abbandono si collocano intorno alla fine del V/inizi VI secolo d.C. con un’azione sistematica finalizzata ad interrompere un percorso stradale fondamentale come la via Laurentina che portava dal litorale sud ovest fino a Roma forse durante le guerre greco-gotiche: battuti di terra e altri poveri manufatti rinvenuti nelle adiacenze, denotano, tuttavia, la persistenza d’uso della direttrice fino al XV-XVI secolo. BIBLIOGRAFIA Aldrette G.S. (2007), Floods of the Tiber in ancient Rome, The John Hopkins University Press, Baltimore. Ascani F., Bozzano F., Buccellato A., Del Monte M., Matteucci R., Vergari F. (2008), Evoluzione del paesaggio e antiche vie di drenaggio nell’area de “Il Castellaccio” (Roma) da indagini geologiche, geomorfologiche e archeologiche, in Geologica Romana, 41, Roma, pp. 93-116. Bersani P., Bencivenga M. 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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 118 La Via Severiana come difesa costiera e risorsa infrastrutturale del Lazio romano Stefano De Togni Sapienza Università di Roma E-mail: [email protected] The “Via Severiana” as coastal barrier and resource for ancient Latium Parole chiave: Ostia, Via Severiana, strade romane, erosione marina Key words: Ostia, Via Severiana, Roman roads, marine erosion RIASSUNTO La via Severiana è un’importante strada costiera costruita verosimilmente nei primi anni del III sec. d.C. che sostituì un precedente tracciato litoraneo. Il nome è invalso a seguito della scoperta di un’iscrizione proveniente da Ardea datata al 238 d.C., in cui sono ricordate opere di consolidamento della costa per la protezione della via. Il tracciato, osservabile nella Tabula Peutingeriana, collegava Ostia a Terracina, attraversando una serie di centri litoranei, come Antium e Lavinium. L’interesse dei Severi per questo percorso stradale è documentato anche da un miliario che marcava il sesto miglio posto da Settimio Severo e Caracalla, rinvenuto nei pressi di Ostia. Ad Ostia il tratto di strada basolata messo in luce tra la Sinagoga e le Terme della Marciana è stato identificato come un tratto della via Severiana. Tale tratto si estende fino all’incrocio con la via della Marciana, da dove si può ipotizzare che proseguisse fino alla foce del Tevere. In questo tratto di costa si erano resi necessari una serie di apprestamenti (massicciate, dighe, barriere frangiflutti, ecc.) per protezione dall’erosione marina. Le indagini condotte dal Progetto Ostia Marina, missione archeologica dell’Università di Bologna, hanno permesso di documentare una serie di evidenze di intensi fenomeni erosivi lungo tale tratto di costa ostiense, un tempo esposta alle onde del mare. Sono verosimilmente connesse a tali esigenze di consolidamento e difesa dall’azione delle onde le massicciate rinvenute nel 1961 da Maria Floriani Squarciapino associate alla via Severiana, poco a oriente del punto in cui verrà successivamente scoperta la Sinagoga. *** Con il nome di via Severiana è tradizionalmente definita un’importante strada romana, costruita verosimilmente nei primi anni del III sec. d.C. pavimentando e congiungendo precedenti tracciati in gran parte litoranei, identificata nel percorso che nella Tabula Peutingeriana collega Ostia a Terracina (Brandizzi Vittucci, 1998, p. 929; Pavolini, 2006, p. 182) (Fig. 1). Il nome della via è stato attribuito a partire da un’iscrizione proveniente da Ardea (CIL X, 6811), già nota agli antiquari nel XV secolo, posta a ricordo di lavori stradali eseguiti al tempo di Massimino il Trace. La menzione nel testo epigrafico della quarta potestà tribunicia consente la datazione al 238 d.C. In tale iscrizione sono ricordate opere di consolidamento della riva del mare “vicinum viae Severianae”, che era stata distrutta dalle onde e costituiva un pericolo per chi volesse passare. Alla via Severiana sono associati anche altri importanti rinvenimenti epigrafici, provenienti dai dintorni di Ostia: un miliario di Settimio Severo e Caracalla (Helbig, 1972, n. 2996), a riprova dell’interesse dei Severi per il tracciato, che marcava il sesto miglio, rinvenuto nel territorio tra Ostia e Castel Fusano (verosimilmente non più in situ), e due Figura 1. Tabula Peutingeriana, particolare del territorio a sud di Roma con il tracciato attribuito alla Via Severiana evidenziato in rosso (elab. S. De Togni) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 119 lastre con identica iscrizione (Fig. 2) che ricordano il rifacimento in pietra di un ponte da parte degli imperatori Carino e Numeriano (CIL XIV, 126-127), rinvenute presso il Canale dello Stagno e oggi murate in un locale della vicina Villa Sacchetti-Chigi (cfr. Galliazzo, 1994-95, p. 55, n. 44). Come ricordato dalle stesse epigrafi, che dovevano trovarsi originariamente ai due lati del parapetto del ponte, il canale dello stagno era anche l’antico confine tra il territorio ostiense e quello di Laurentum. Di tale ponte, con cui la via Severiana superava il canale, erano ancora conservati alcuni resti fino al 1943, quando furono distrutti da una bomba. È possibile rintracciare il manufatto anche nel celebre quadro di Pietro da Cortona (“Vedu- Figura 2. Le due lastre epigrafiche frammentarie di Carino e Numeriano (CIL XIV, 126-127), oggi murate nell’androne della Villa Chigi-Sacchetti di Castel Fusano (da Benocci 2012, figg. 187-188) Figura 3. Planimetria ricostruttiva del percorso della Via Severiana presso il ponte sul Canale dello Stagno, con indicazione della posizione del ponte rispetto alla Villa Chigi-Sacchetti (elab. S. De Togni su base satellitare Google Earth) ta di Villa Sacchetti a Castel Fusano”, dipinto nel 1630). Confrontando la posizione della villa con la situazione topografica antica (Fig. 3), emerge che tale villa-castello, che fu costruita negli anni ’20 del ‘600 sopra un preesistente casale, sorse probabilmente lungo l’antico tracciato viario di epoca romana, forse ancora parzialmente in uso. Il ponte dovette subire vari restauri e rimaneggiamenti, tanto che il Nibby, nel 1837, lo definì “tutto moderno” (Nibby, 1837). E in effetti, in un carteggio del 1653 (Archivio Sacchetti, Collezioni Minori XII/29, pp. 106-107), sono riportati dei lavori che si dovettero eseguire al ponte per il crollo di uno dei piloni. Con l’occasione fu eseguito anche un disegno del ponte, che è visibile sia in prospetto che in pianta (Fig. 4). Da tale disegno si possono meglio apprezzare le dimensioni e le caratteristiche del manufatto, che, forse, erano ancora in parte quelle dell’antico ponte in pietra della fine del III secolo, almeno nella parte inferiore. Il ponte era lungo 34 m, largo ca. 6 m, con tre archi e due piloni. L’arco centrale, maggiore, era largo ca. 12 m e alto 4,5 m. I due archi laterali, più piccoli, erano larghi ca. 9 m e alti 3 m. Il tracciato attribuito alla via Severiana è quello osservabile nella Tabula Peutingeriana, (nella quale il percorso è però anonimo): essa collegava Ostia a Terracina, attraversando otto stazioni intermedie, per un totale di 85 miglia (cioè circa 126 km). Non mancano in letteratura alcuni dubbi circa l’attribuzione dell’intero tracciato alla via Severiana, anche in Figura 4. Il ponte della tenuta di Castel Fusano in un disegno acquerellato datato 6 febbraio 1653 (Archivio Sacchetti, Collezioni Minori XII/29, pp. 106-107, da Benocci 2012, fig. 163) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 120 Figura 5. Pianta generale di Ostia e del suo territorio, con indicazione della viabilità principale e, in rosso, il tracciato della Via Severiana (da Heinzelmann 1998, con modifiche e integrazioni dell’autore) considerazione della scarsità di resti archeologici concretamente riferibili ad essa una volta superato il territorio ostiense. Ad esempio, una recente interpretazione proponeva di identificare la via Severiana con il tratto Ostia-Tor Paterno, considerando i successivi collegamenti fino a Terracina come percorrenze legate agli interessi locali dei centri costieri (Brandizzi Vittucci, 1998). In questa sede si vuole porre l’attenzione in particolare sul tratto di via Severiana più prossimo all’antica città di Ostia (Fig. 5), dove sono state messe in luce ampie porzioni della pavimentazione in blocchi di basalto ed in alcuni casi anche i relativi livelli di preparazione, che evidenziano la duplice natura della strada costiera, che doveva funzionare anche come elemento “stabilizzante” della costa sabbiosa. Fin dall’epoca tardorepubblicana, infatti, la fascia costiera antistante la città di Ostia fu rinforzata con opere di sistemazione del litorale, che offrivano anche protezione agli edifici esposti all’erosione marina. Sembra rimandare a questo orizzonte cronologico la possente struttura rinvenuta da Giovanni Becatti durante gli scavi del c.d. Edificio con opus sectile fuori porta Marina, interpretata come diga frangiflutti (Becatti, 1969, p. 50). La diga è larga 6 m, ed è stata intercettata a partire dall’Edificio con opus sectile proseguendo verso ovest. Attraverso alcuni saggi ne è stato seguito l’andamento per circa 200 metri (Becatti, 1969, p. 38). La minaccia del mare alla costa urbanizzata traspare ancora oltre due secoli più tardi, tra la fine del II e gli inizi del III sec. d.C., dalle parole di Minucio Felice, che descrive nell’Octavius vere e proprie Figura 6. Ostia, quartiere fuori Porta Marina, pianta degli isolati III, viii e IV, ix-x, con ipotesi ricostruttiva dell’estensione originale degli edifici e delle strade lungo la costa (elab. S. De Togni) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 barriere frangiflutti nel quartiere marittimo di Ostia (Min. Fel., Octavius, 4). La porzione di strada individuata ad Ostia tra la Sinagoga e le Terme della Marciana è stata identificata come un tratto della via Severiana (Pavolini, 2006, p. 182). Tale tratto si estende fino a ca. 22 m ad est dell’incrocio con la via della Marciana, dove è attraversata obliquamente dalla recinzione del Parco Archeologico (Fig. 6). Per cercare di ricostruire come il tracciato stradale proseguisse da questo punto in poi, è indispensabile analizzare nel dettaglio gli edifici della vicina insula ix, che in origine dovevano prospettare sulla via e sul mare, e dunque considerare anche l’evoluzione dell’antica linea di costa. Le indagini condotte dal Progetto Ostia Marina, missione archeologica dell’Università di Bologna attiva nel suburbio marittimo della città dal 2007 sotto la direzione del professor Massimiliano David (cfr. David, 2018), hanno permesso di individuare nella porzione meridionale di tale insula due diversi edifici. All’incrocio con la via della Marciana era il Caseggiato delle due scale, un grande edificio a destinazione commerciale e abitativa costruito nella tarda età adrianea. Alcuni bolli laterizi rinvenuti in opera forniscono per la costruzione il terminus post quem del 134 d.C. Le indagini hanno evidenziato poi una continuità di vita fino aleno agli inizi del V secolo (David et al., 2015). Immediatamente ad ovest del Caseggiato delle due scale, separate da uno stretto vicolo o ambitus, erano le Terme del Sileno, un complesso termale pubblico di ca. 2000 mq edificato in età adrianea e con fasi di vita documentate almeno fino alla fine del IV sec. d.C. (David, 2013). Superando la prosecuzione del Decumano fuori porta Marina (ed entrando nell’insula III, viii) dove sorgerà l’Edificio con opus sectile fuori porta Marina, in epoca adrianea fu costruito un grande complesso in opera laterizia, forse a destinazione commerciale. I profondi rimaneggiamenti subiti in epoca tardoantica rendono assai difficile la lettura planimetrica originaria: si conserva il lungo muro perimetrale orientale, che divideva l’edificio dalle attigue Terme del Sileno, ed alcuni muri ad esso legati, reimpiegati negli ambienti del peristilio tardo. Riguardo al lato meridionale, verso il mare, si può ipotizzare che l’area, a causa della progradazione della linea di costa, fosse già piuttosto lontana dalla battigia, con la diga ormai in disuso (cfr. Salomon et al., 2018). È possibile 121 allora ipotizzare l’esistenza di una via costiera, che andò ad occupare la nuova fascia di terreno costiero suburbano verosimilmente già attorno alla fine del I sec. d.C. Questo ipotetico percorso, che diverrà nel III secolo la via Severiana, è da mettere certamente in relazione con la nascita di Portus, con l’apertura della nuova foce artificiale e con la strada che attraversava l’Isola Sacra, nota come via Flavia (cfr. Germoni et al., 2011). Tutti e tre gli edifici adrianei menzionati, dunque, dovevano in origine prospettare su tale strada costiera. Ricostruendo prima l’angolo sudoccidentale delle Terme della Marciana, e poi la parte meridionale del Caseggiato delle due scale e delle Terme del Sileno, è possibile ricostruire anche l’ipotetico andamento della via Severiana (Fig. 6). Il tracciato, dove noto, in effetti non sempre è rettilineo, ma si adatta via via alle variazioni di orientamento degli edifici e della costa stessa. Il motivo per cui le evidenze di tale via costiera sono scarse dall’insula ix verso ovest, va ricercato nell’arretramento della linea di costa che sembra sia avvenuto dopo l’abbandono della città. Dopo secoli dal crollo degli edifici del quartiere marittimo, forse attorno all’XI sec. d.C., fenomeni erosivi riposizionarono la linea di costa in prossimità di quella repubblicana (Bellotti, 2011; Bellotti, 2013). L’effetto di tale erosione, evidentemente amplificata anche dalla cessata manutenzione delle barriere frangiflutti, fu la distruzione graduale (causata probabilmente dalle mareggiate) di intere strutture antiche (Fig. 7). I segni dell’erosione, accompagnati da ingenti accumuli di sabbia, sono stati individuati chiaramente lungo il fronte meridionale dell’insula ix attraverso alcuni sondaggi condotti nell’ambito del Progetto Ostia Marina, sia nel Caseggiato delle due scale che nelle Terme del Sileno (David et al., 2013). Il dato stratigrafico permette di collocare tali eventi in un momento posteriore al crollo degli edifici, avvenuto tra la metà del V e il VII sec. d.C. Tracce del tutto simili sono state osservate anche nell’ala meridionale delle Terme della Marciana, lungo la Severiana verso est, nell’edificio dietro alla Sinagoga e nell’Edificio con opus sectile fuori porta Marina. La fortissima erosione subita dai ruderi lungo la costa in epoca post-classica ha influito sull’interpretazione degli stessi in relazione all’antica spiaggia. La via costiera, e poi la via Severiana, erano dunque infrastrutture viarie utili anche alla stabilizzazione e alla protezione della costa sabbiosa. Sono forse da interpretare in questo senso le massicciate rinvenute da Maria Floriani Squarciapino scavando un tratto della via Severiana poco a oriente del punto in cui si scoprirà la Sinagoga, nel marzo del 1961. La Squarciapino notava che “(la Severiana) è composta di un tratto centrale selciato largo m 4,004,20 cui si affiancano due amplissime crepidini (…). La crepidine di SW verso mare è larga m 4,00 (…). Sono spesse ca. 38 cm. Sotto alle crepidini e al basolato corre una poderosa e durissima massicciata di conglomerato alta m 0,70. (…) La crepidine verso mare è in forte pendio verso la riva, forse per difesa contro i flutti.” (Archivio Storico PAOA, GdS vol. 32, 1956-61, pp. 141-143). Appartengono probabilmente ad un momento di poco precedente le mas- Figura 7. Ostia, quartiere fuori Porta Marina, pianta degli isolati III, viii e IV, ix-x, con indicazione della linea di massima erosione marina ricostruita grazie ai dati archeologici (elab. S. De Togni) sicciate rinvenute tra il 1978 e il 1980 all’interno di saggi realizzati lungo la via Severiana ad est e a sud delle Terme di Porta Marina (Pavolini, 1980). Si tratta di imponenti strutture realizzate in scaglie di tufo legate con malta, datate entro la fine del II sec. d.C. La via Severiana, che risalirebbe a pochi anni più tardi, fu realizzata sopra tali massicciate. Più recentemente, nell’ambito di interventi di archeologia preventiva effettuati nell’ambito di lavori di ristrutturazione della strada moderna subito al di fuori della recinzione del parco archeologico nei pressi della Sinagoga, è stata rinvenuta un’altra porzione di massicciata riferibile alla Severiana. In questo caso la strada si presenta completamente spogliata dei basoli, ma si conservano i fori per i pali lignei utili al consolidamento del terreno sabbioso (D’Andrea et al., 2018). La via Severiana ad Ostia sostituì e potenziò un precedente percorso costiero, che è verosimile ipotizzare seguisse l’andamento della spiaggia senza soluzione di continuità dall’area fuori porta Marina fino alla foce. La via così delineata costituì in epoca tardoantica un’alternativa all’altro percorso, già evidenziato da Carlo Pavolini, che conduceva invece all’interno della città attraverso la via della Marciana (Pavolini, 2018, pp. 225-226, Fig. 8). Un importante indizio a favore del tracciato suburbano della via Severiana è una lettera del 1879, già pubblicata da Paola Germoni (Germoni et al., 2011, p. 255), in cui l’allora vicesegretario del Museo Kircheriano, Angelo Pellegrini, informava la Direzione Archeologica del Ministero del rinvenimento dei resti di una strada basolata, e addirittura dei piloni di un ponte, durante i lavori per la realizzazione della strada per Fiumicino. Si riporta qui un estratto della lettera: ”Sono stato informato che nell’aprirsi la strada fra Ostia e Fiumicino, dalla parte di Ostia si è incontrata l’antica strada lastricata a poligoni di selce (…). Restati sopresi gli ingegneri (…) hanno testato nell’alveo del Tevere, in cui hanno riconosciuto i piloni di un ponte che metteva all’Isola Sacra. In questa parimenti fu seguito il selciato verso l’altro canale artificiale fatto da Claudio (…)” (Archivio Storico PAOA, fascicolo 1879-1884). La strada che si andava costruendo dev’essere la stessa visibile, pochi anni più tardi, nella celebre foto dal pallone del 1911 (cfr. Shepherd, 2006). Si tratta grosso modo dello stesso percorso ancora seguito dalla strada attuale. Ne consegue che i resti della strada basolata, e Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 122 Figura 8. Pianta della fascia costiera di Ostia sovrapposta alla foto da pallone frenato del 1911, con ipotesi ricostruttiva della Via Severiana ed evidenziazione della strada moderna costruita nel 1879 (in giallo) (elab. S. De Togni) in Rom, 4, Tuebingen. quisizioni sulla via litoranea e la linea di costa gli eventuali resti del ponte, si trovavano Galliazzo V. (1994-95), I ponti romani, antica, in Ricerche su Ostia e il suo territorio proprio dove si sarebbe trovata l’ipoteCanova, Treviso. (Collection de l’École française de Rome, tica strada costiera, se fatta proseguire 553), Atti del Terzo Seminario Ostiense Germoni P., Millett M., Keay S., fino a torre Boacciana (Fig. 8). In quel Reynolds J., Strutt K. (2011), The Iso(Roma 21-22 ottobre 2015), Roma, http:// punto era dunque possibile attraversare la Sacra: Reconstructing the Roman Lanbooks.openedition.org/efr/3774. il fiume, con un traghetto o forse con un David M. (2013) Un nuovo complesso edilizio dscape, in Keay, S., Paroli, L. (eds.), Portus and its hinterland (Archaeological Monopubblico a Ostia antica. Prime annotazioni ponte, e arrivare a Portus tramite la via graphs of the British School at Rome, 18), sulle Terme del Sileno, Ocnus, 21, pp. 229-236. Flavia, nota anche archeologicamente. BIBLIOGRAFIA Becatti G., (1969), Scavi di Ostia, VI. Edificio con opus sectile fuori Porta Marina, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma. 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(2006), Il ‘rilievo topografico di Ostia dal pallone’ (1911), Archeologia Aerea, II, pp. 15-38. 123 La Via Appia antica al valico dei Monti Aurunci: aspetti geologici e geomorfologici Emiliano Di Luzio CNR-IGAG (Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria) E-mail: [email protected] The ancient Via Appia at the pass of the Aurunci Mountains: geological and geomorphological aspects Parole chiave: Via Appia Antica, Monti Aurunci, geologia, geomorfologia Key words: Ancient Via Appia, Aurunci Mountains, geology, geomorphology RIASSUNTO Oltrepassato il Promontorio di Terracina, il primo valico appenninico che nel IV sec. a.C. il percorso della Via Appia doveva superare nel suo dirigersi a sud verso la cittadina di Capua si trovava nella dorsale dei Monti Aurunci, tra le moderne cittadine di Fondi e Itri. La strada consolare attraversava un paesaggio prima collinare e poi montuoso, scosceso e morfologicamente articolato. In questo lavoro vengono presentati i risultati di uno studio scientifico multi-disciplinare focalizzato alla comprensione dei rapporti esistenti tra la realizzazione dell’opera viaria e le caratteristiche geologiche dell’ambiente che la circondava, non solo in epoca romana ma anche nei secoli successivi fino all’era moderna. L’assetto tettonico e le condizioni morfologiche del paesaggio, in particolare, condizionarono la scelta del tracciato, imposero audaci soluzioni ingegneristiche per il superamento degli ostacoli più impervi, e offrirono un’importante risorsa di materie prime disponibli in loco. Questo tratto della Via Appia antica venne ristrutturato in epoca imperiale (III sec. d.C) con la messa in posto di un basolato in pietra lavica alloctono, la cui origine viene investigata attraverso analisi minero-petrografiche e isotopiche. Successivamente, in epoca Borbonica (XVIII-XIX sec. d.C.), una successiva fase di manutenzione del tracciato attinse nuovamente alle risorse locali con ulteriori e significative modificazioni al paesaggio circostante, rinnovando in tal modo la mutua interazione tra opera antropica ed ambiente geologico. 1. INTRODUZIONE La realizzazione del tracciato dell’antica Via Appia, conosciuta anche come la “Regina Viarum”, prima strada consolare romana, fu intrapresa attraverso il settore centro-meridionale della Figura 1. a) Mappa dell’Italia centro-meridionale con i tracciati della Via Appia antica, dell’Appia Traiana e i principali centri urbani attraversati. Vengono riportate le posizioni dei distretti vulcanici della Provincia Magmatica Lucana (LMP) e della Provincia Magmatica romana (PRM), che include i distretti di Roccamonfina e degli Ernici-Val Latina; b) assetto geologico del Lazio meridionale e della Campania settentrionale (da Parotto & Tallini, 2013, modificato). Legenda: 1) depositi continentali e marini (Olocene ‐ Pleistocene sup.); 2) depositi vulcanici dei Colli Albani (Pleistocene); 3) depositi vulcanici degli Ernici-Val Latina (Pleistocene); 4) depositi vulcanici di Roccamonfina (Pleistocene ); 5) depositi terrigeni sin-orogenici (Miocene medio-sup.); 6) depositi bacinali ad affinità Liguride (Miocene inf.-Oligocene); 7) depositi di piattaforma carbonatica (Paleocene-Giurassico inf.); 8) depositi di piattaforma carbonatica (Giurassico inf.-Triassico sup.); 9) sovrascorrimento; 10) faglia normale (tratteggiata quando presunta); 11) faglia trascorrente; 12) limite regionale Lazio-Campania; 13) valico degli Aurunci Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 124 penisola italiana dalla fine del IV secolo a.C. (312 a.C.) su iniziativa del Censore Appius Claudius Caecus. Nel suo primo tratto il percorso collegava Roma a Capua, in seguito, nella seconda metà del III secolo a.C., fu esteso a raggiungere Beneventum. Le operazioni di costruzione dell’asse viario proseguirono ancora in epoca repubblicana fino all’inizio del II secolo a.C. (191 a.C.), quando venne raggiunto il porto di Brundisum. Infine, durante l’imperio di Traiano (98-117 d.C.), un’altra strada nota come “Appia Traiana” venne realizzata da Beneventum a Brundisium lungo un percorso più settentrionale (e.g. Quilici, 1989; Talbert e Bagnall, 2000). (Fig. 1a). Dopo aver lasciato l’Urbe e attraversato il fianco meridionale dei Colli Albani, la Via Appia percorreva con un lungo rettifilo a direzione NW-SE la pianura Pontina. Superato il Promontorio di Terracina, la strada entrava nella piana costiera dell’attuale cittadina di Fondi per poi avvicinarsi al primo valico appenninico in corrispondenza della dorsale dei Monti Aurunci. Qui era necessario oltrepassare ripidi rilievi montuosi e un paesaggio articolato per poi ridiscendere verso la piana alluvionale Figura 2. a) Visione panoramica del valico dei Monti Aurunci e della Valle di Sant’Andrea attraversati dall’Appia antica; b) murature di sostruzione in opera quadrata e in pietra calcarea lungo il margine dell’incisione valliva; c) vista da drone di un settore del tracciato dove sono riconoscibili le diverse fasi di rifacimento della pavimentazione; d) aree di cava visibili all’interno della sequenza geologica cretacica; alcune di esse la incidono con asse di allungamento ortogonale al versante (A-C, vedi Fig. 3) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 125 del fiume Garigliano e arrivare nell’areale vulcanico di Roccamonfina (Fig.1b). Lasciando a nord-ovest la Piana di Fondi il percorso della Via Appia fiancheggiava il lato meridionale della Valle di Sant’Andrea, caratterizzata ancora da deboli pendenze. L’incisione fluviale diveniva più stretta, profonda e accidentata proseguendo verso sud-est, in direzione di Itri, e il tracciato doveva necessariamente adagiarsi al fianco del rilievo carbonatico (Fig. 2a). Studi e descrizioni archeologiche dettagliate dell’antica Via Appia al valico dei Monti Aurunci sono contenuti nelle opere di Quilici (1999, 2002, 2003, 2004, 2007, 2011), Quilici & Quilici Gigli, (2017). In questo contributo vengono descritti, a grandi linee, gli aspetti geologici e geomorfologici del paesaggio naturale che condizionarono la scelta del percorso e le modalità di realizzazione, costituendo sia elementi a favore sia veri ostacoli al superamento del passo appenninico, sin dalle prime fasi di costruzione dell’opera. Maggiori approfondimenti sui temi qui delineati si ritrovano in Carfora e Di Luzio, (2016); Di Luzio e Carfora, (2018); Di Luzio et al., (2018); Di Luzio e Carfora, (2019). Il rapporto tra la Via Appia e l’assetto geologico dei Monti Aurunci si declina nel settore analizzato anche in termini di potenziale disponibilità di risorse locali necessarie alla realizzazione delle opere di corredo alla via, inclusi imponenti muri di sostruzione in pietra calcarea (fino a 20 metri in altezza, Fig. 2b) che vennero eretti per sostenere i terrazzamenti del percorso e la costruzione di un tempio di età repubblicana dedicato ad Apollo (Quilici, 2003; 2004). La stessa materia prima venne utilizzata per la messa in opera della prima pavimentazione lapidea del tracciato (Fig.a 2c), completata probabilmente in età augustea (fine I sec. a.C. - inizio I sec. d.C.) a sostituzione dell’imbrecciato di età repubblicana, oggi non più osservabile. La necessità di approvvigionamento di materiale da costruzione lungo il tracciato comportò significative modificazioni del paesaggio originario. Queste includono i resti di un sistema di estrazione caveale così esteso e diffuso nella parte più settentrionale della Valle di Sant’Andrea da aver dato origine a un “quarry landscape” (Bloxam, 2009, 2011; Heldal, 2009; Heldal e Meyer, 2015; Di Luzio e Carfora, 2018). Anche se le sostruzioni e la prima pavimentazione vennero realizzate in pietra calcarea, l’aspetto familiare dell’antica Via Appia chiama alla men- te la tipica copertura in basoli, blocchi lavorati di lava nera la cui origine per le principali strade consolari nelle vicinanze di Roma è stata studiata da diversi Autori (e.g. Black et al,. 2004; Laurence, 2004; Worthing et al., 2017). Al valico degli Aurunci il basolato venne messo in posto all’inizio del III secolo d.C. (216 d.C.), durante il periodo dell’imperatore Caracalla. In questo lavoro vengono brevemente discussi i risultati di analisi mineralogico-petrografiche e isotopiche finalizzate all’individuazione della possibile area di provenienza del materiale vulcanico alloctono. Le differenti ipotesi vengono valutate considerando la posizione e le caratteristiche deposizionali-composizionali delle serie vulcaniche pleistoceniche appartenenti ai principali centri eruttivi della fascia peri-tirrenica dell’Italia centrale (Fig. 1b). Successivamente al periodo romano questo settore della Via Appia venne sottoposto a importanti opere di manutenzione e restauro in due diversi momenti dell’età moderna, nel XVI secolo per opera del governo spagnolo di Napoli e durante il periodo borbonico, tra la seconda metà del XVIII secolo e gli inizi del XIX secolo (Quilici, 2002; Quilici, 2007; Quilici, 2011, Quilici e Quilici Gigli, 2017). Durante gli ultimi lavori di rifacimento della sede stradale il basolato romano venne parzialmente rimosso, utilizzato per la costruzione di marciapiedi laterali, e sepolto sotto uno strato di breccia calcarea contenuta in gabbionate delimitate da basoli divelti (Fig. 2c). Sempre all’epoca Borbonica, al passaggio tra i due secoli, viene fatta risalire la costruzione a spese delle rovine del Tempio di Apollo di un’imponente fortificazione posta a difesa del valico e dell’acceso al Regno di Napoli, i cui resti ora sono ben visibili sulla collina che precede il passo montano (Fig. 2a, 2d) 2. GEOLOGIA E GEOMORFOLOGIA: IL SUPERAMENTO DEGLI OSTACOLI NATURALI ATTRAVERSO IL PASSO APPENNINICO L’assetto geologico del settore dei Monti Aurunci tra Fondi e Itri è caratterizzato dall’affioramento di una successione di piattaforma carbonatica di età compresa tra il Giurassico Superiore e il Cretacico superiore (Centamore et al., 2007; Parotto e Tallini, 2013), con questi ultimi termini stratigrafici prevalenti. In discordanza sulla successione calcareo-dolomitica poggiano le sequenze continentali quaternarie, costituite da depositi alluvionali, colluviali e di debris-fan nella parte settentrionale della Valle di Sant’Andrea e da depositi di paleofrana e detrito di versante nella parte più meridionale (Fig. 3). La sequenza mesozoica è intensamente tettonizzata, con stili deformativi differenti (Fig. 3). Verso la Piana di Fon- Figura 3. Carta geologica della Valle di Sant’Andrea e dei rilievi circostanti (modificata da Di Luzio & Carfora, 2018) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 126 di prevalgono faglie di natura distensiva a direzione appenninica (NW-SE) e anti-appenninica (NE-SW). Le prime sono parallele al decorso terminale della Valle di Sant’Andrea; le seconde interessano i versanti laterali dislocando, con rigetti contenuti, una monoclinale NW-immergente caratterizzata da una bassa intensità della deformazione fragile associata (sistemi di joints). Nella parte meridionale, verso la cittadina di Itri, prevalgono invece elementi plicativi quali sovrascorrimenti e pieghe anticlinaliche ad andamento circa E-W. Infine, l’intero versante cui si adagia la Via Appia antica é caratterizzato da un lineamento tettonico a carattere transpressivo sinistro con orientazione NNW-SSE (Fig. 3). Questo elemento fa parte di una fascia di faglie trascorrenti che caratterizzano il settore peritirrenico dei Monti Aurunci, estesa da Gaeta a Itri, fino al limite orientale della Piana di Fondi (Fig. 4a). La tettonica trascorrente, successiva alle fasi compressive mioceniche e precedente alla distensione plio-pleistocenica, ha avuto un evidente ruolo morfogenetico dando luogo a zone di debolezza strutturale poi modellate dall’erosione e dal drenaggio preferenziale, come la stessa Valle di Sant’Andrea. Questi elementi lineari, interrompendo la continuità strutturale dei Monti Aurunci, vennero a costituire delle “vie naturali” di accesso e attraversamento della dorsale montuosa, altrimenti difficilmente percorribile. Se la presenza dell’incisione fluviale della Valle di Sant’Andrea ebbe molto probabilmente un ruolo nella scelta del luogo per l’attraversamento del valico degli Aurunci, impose al tempo stesso la necessità di aprire un varco attraverso l’imponente scarpata morfologica espressione della faglia transpressiva sopracitata (Fig. 4b). I rilievi geologici hanno messo in luce la prosecuzione dell’elemento tettonico sul versante settentrionale della valle (Fig. 3); a tale continuità strutturale doveva corrispondere una continuità degli elementi geomorfologici. Il taglio e la profilatura del versante montuoso sono ben evidenti laddove la strada, superato la zona dove ora sono visibili i resti del Forte Borbonico, era costretta ad addossarsi al versante carbonatico per evitare la profonda forra sul lato di nord-est (Fig. 4c). L’ostacolo venne superato attraverso un taglio rupestre che in alcuni punti raggiunge un’altezza poco inferiore ai 6 metri (Fig. 4d) e la seguente asportazione del materiale roccioso, operazioni che possono ragionevolmente essere fatte risalire alla realizzazione della strada in età repubblicana (IV sec. a.C.) Figura 4. a) Schema strutturale della dorsale ausono-aurunca prossima alla costa tirrenica (da Centamore et al., 2007, modificato); b) visione da drone ripresa da sud del passaggio della Via Appia antica al valico degli Aurunci, con evidenza della scarpata rocciosa generata dalla faglia transpressiva che marca il versante sud-occidentale della valle; c) d); taglio rupestre in corrispondenza del superamento della barriera morfologica legata alla faglia Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 127 Figura 5. a) Mesopiega coricata osservata nella parte centro-meridionale del versante carbonatico, dove prevalgono elementi deformativi di raccorciamento; b-d) cave a cielo aperto realizzate entro ammassi rocciosi fratturati; e) cava in breccia cataclastica 3. DISPONIBILITÀ E SFRUTTAMENTO DELLE RISORSE LOCALI La necessità di utilizzare materiale lapideo per la costruzione dei muri di sostruzione già in epoca repubblicana e, successivamente, per la messa in opera della prima pavimentazione lastricata nel periodo augusteo venne soddisfatta attraverso l’estrazione e lo sfruttamento della locale pietra calcarea e calcareodolomitica che costituisce l’ossatura del versante a cui la strada si affianca nella sua risalita da Fondi verso Itri. Un complesso sistema di cave in roccia fratturata e breccia venne realizzato in epoche differenti entro la sequenza geologica cretacica; ne fanno parte venti aree di estrazione (Fig. 3), solo in parte riconosciute da studi precedenti (Quilici, 1999, 2011). Le aree di cava si concentrano nel settore settentrionale della Valle di Sant’Andrea mentre sono rare in quello centro-meridionale (cave D e E). Questa evidenza si può spiegare considerando le deformazioni plastiche (piegamenti) della stratificazione (Fig. 5a) che rendevano impraticabile la coltivazione in un settore della valle dove, inoltre, la pendenza del versante naturale arriva a valori davvero elevati, fino a circa 45° (Fig. 2a). La maggior parte delle aree di cava venne ricavata entro ammassi rocciosi fratturati a basso grado di deformazione fragile, con uno o due sistemi di joints e la stratificazione ad agire da discontinuità meccaniche (Fig. 5b-d). Solo in alcuni casi (cave 2, 5 e C) vennero sfruttate fasce di breccia cataclastica (Fig. 5e) rinvenute in corrispondenza delle principali faglie normali o nelle zone d’intersezione tra queste (Fig. 3). Attraverso l’analisi morfometrica del sistema caveale, resa possibile dalla preliminare ricostruzione aero-fotogrammetrica della Valle di Sant’Andrea (Carfora, 2019) e da campagne di rilievo GPS (Bacigalupo et al., 2019), le aree di estrazione sono state caratterizzate in termini di limiti, forma, dimensioni, volume di materiale estratto, struttura interna e orientazione rispetto al versante roccioso stratificato. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 128 Figura 6. Carta geoarcheologica diacronica della Via Appia antica al valico degli Aurunci (modificata da Di Luzio & Carfora, 2018); a)-e) evidenze di tecniche di escavazione e corredi murari di epoca romana Il rinvenimento di tracce di scavo riconducibili a tecniche di estrazione di epoca romana (e.g. Adam, 1988) ha contribuito alla classificazione delle singole aree: i) in alcuni casi i fronti di scavo presentano intagli della roccia realizzati a distanze regolari, corrispondenti a 1 o 2 piedi romani (Fig. 6a); ii) localmente vennero lasciati pilastri a testimonianza dell’originaria altezza del versante e/o per l’installazione di macchine adatte al sollevamento e movimentazione dei massi (Fig. 6b); iii) alcuni massi estratti e lasciati sul posto mostrano ancora chiari segni di lavorazione, come squadrature e intagli degli scalpelli (Fig. 6c); iv) lungo i muri perimetrali di alcune cave sono osservabili contro-impronte di estrazione (Fig. 6d); v) una delle cave in roccia (la cava 3) è contigua a una cisterna rivestita da un paramento in opera reticolata grezza, indicatore di un’età compresa tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. (Quilici, 1999, 2002). Nella Tab. 1 vengono riportati i dati relativi alla caratterizzazione morfometrica delle cave (volume, forma), al tipo di materiale estratto, alla datazione dei livelli geologici e il riferimento al periodo di estrazione ipotizzato. Oltre a conservare le tracce di lavorazione Tabella 1. Parametri morfometrici, tipo di materiale estratto, età geologica ed epoca di coltivazione ipotizzata per le venti cave individuate nell’area di studio. RF=Roccia fratturata; BC=Breccia cataclastica Cava Volume (m3) Forma Materiale Età geologica Età di estrazione 1 2.208 Sub-rettangolare RF Aptiano Romana 2 220 Semicircolare BC Aptiano Romana 3 570 Rettangolare RF Aptiano Romana 4a 110 Rettangolare RF Aptiano Romana 4b 19 Rettangolare RF Aptiano Romana 5 28 Irregolare BC Aptiano Incerta 6 30 Irregolare RF Cenomaniano Incerta 7 180 Semicircolare RF Turoniano Romana 8 200 Rettangolare RF Cenomaniano Romana 9a 200 Irregolare RF Turoniano Romana 9b 16 Irregolare RF Aptiano Incerta 9c 15 Irregolare RF Aptiano Incerta 10 30 Irregolare RF Aptiano Incerta 11a 95 Irregolare RF Aptiano Incerta 11b 137 Irregolare RF Aptiano Incerta A 984 Semiellittica RF Aptiano Borbonica B 185 Semiellittica RF Aptiano Borbonica C 2100 Semiellittica BC Cenomaniano Borbonica D 85 Semiellittica RF Aptiano Borbonica E 160 Semiellittica RF Turoniano Borbonica Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 129 Figura 7. a) Il basolato romano lungo il percorso della Via Appia da Fondi verso Itri; b, c) sezioni petrografiche di due campioni della pavimentazione di età imperiale (III secolo d.C.). Legenda: cpx=clinopirossesno, lct=leucite, plg=plagiocalsio; d) diagramma dei rapporti isotopici 87Sr/86Sr vs143Nd/144Nd per le rocce vulcaniche plio-quaternarie dell’Italia centrale, modificato da Peccerillo (2005), e posizione dei campioni Baso_1-5 prelevati dalla Via Appia; e) ingrandimento del plot precedente e confronto con i dati di letteratura. Legenda:VL-ER=Val Latina-Ernici; HKS=serie ultrapotassica; KAM=serie kamafugitica; SHO=serie shoshonitica sopra descritte, le cave di supposta età romana presentano contorni regolari, forme ben delineate (rettangolari, subrettangoalari o semicircolari) e in alcuni casi terrazzamenti interni. I volumi sono compresi tra i 20 e 2200 m3 (cava 4a e 1, rispettivamente). Le cave di supposta età borbonica, posizionate nelle vicinanze dei punti di rifacimento del basolato e in prossimità del forte, presentano invece una forma semiellittica con asse di allungamento sempre ortogonale al versante (mentre le cave romane sono allungate in direzione parallela o leggermente obliqua). I volumi variano tra gli 85 e i 2100 m3 (cave D e C). Infine, queste cave non presentano evidenze di tecniche sistematiche di escavazione ed è lecito supporre che si siano utilizzati esplosivi per la loro coltivazione. Infine, esiste un terzo gruppo di cave di dimensioni assai ridotte (volumi compresi tra 30 e 130 m3) per le quali non è stato possibile ipotizzare alcuna datazione, vista la mancanza di chiari segni di tecniche di lavorazione e la loro forma spesso irregolare e con margini poco delineati. Sono state considerate come aree di estrazione occasionale, d’incerta attribuzione cronologica. Integrando il tematismo relativo alle zone di estrazione ad altre informazioni, quali le tracce dei muri di contenimento e delle sostruzioni, le superfici terrazza- te, le fortificazioni, i lineamenti naturali (scarpate tettoniche o erosive, trincee) e antropici (tagli di versante), si è arrivati alla produzione di un’originale mappa geoarcheologica e diacronica del sito che viene riportata in Fig. 6. 4. ORIGINE DELLE RISORSE ALLOCTONE, NON PRESENTI SUL TERRITORIO Come si è documentato neI paragrafo precedente i lavori per la realizzazione della via in età repubblicana e per il rifacimento del tracciato in lastricato calcareo nella prima età imperiale furono realizzati utilizzando le risorse locali, Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 130 sfruttate attraverso un sistema di cave a cielo aperto. Un’altra fase di manutenzione e rifacimento della Via Appia avvenne in epoca imperiale (Fig. 7a). Nel 216 d.C., durante il periodo di Caracalla, il lastricato originale venne ricoperto o sostituito con un basolato in pietra lavica, una risorsa di origine necessariamente alloctona. Il valico degli Aurunci si trova, infatti, a diverse decine di chilometri di distanza dai distretti vulcanici della Campania e del Lazio, dai quali il materiale doveva provenire (Fig. 1a, 1b). Formulare un’ipotesi plausibile riguardo alla provenienza del materiale vulcanico rappresenta il ritrovamento di un ulteriore tessera per il completamento del mosaico che illustra i rapporti tra la costruzione dell’Appia antica e i territori circostanti, anche non prossimali al tracciato. Cinque campioni di basolato sono stati analizzati mediante un Microscopio Elettronico a Scansione FEI Quanta 400 e una microsonda elettronica Cameca SX50. La tessitura dei campioni si presenta afirica, con rari e minuti fenocristalli di leucite e, subordinatamente, clinopirosseno e plagioclasio immersi in una pasta di fondo da micro- a ipocristallina, parzialmente vetrosa (Fig. 7b, c). Le analisi chimiche quantitative alla microsonda, corredate La leucite è il minerale più abbondante tra i costituenti primari. Questo tettosilicato é caratteristico delle serie magmatiche potassiche (KS) e ultrapotassiche (HKS) della Provincia Magmatica Romana (Colli Albani, ErniciVal Latina, Monti Sabatini, Monti Vulsini, Roccamonfina) e del Vesuvio. Tuttavia, la presenza nei campioni della Via Appia di plagiocasio in quantità non trascurabili (10-20% in Baso_1-4) - o addirittura preponderanti (≥65%in Baso_5) - permette di escludere il distretto vulcanico dei Colli Albani dalle possibili aree di provenienza, giacché nei prodotti emessi durante l’attività effusiva pleistocenica non si rinviene questo minerale in paragenesi (Trigila et al., 1995). Considerando il distretto vulcanico di Roccamonfina quale altra possibile area sorgente, la presenza della leucite in paragenesi limiterebbe il campo di ricerca ai prodotti dell’attività vulcanica emessi in precedenza al collasso calderico dell’edificio, avvenuto ca. 400ka (De Rita e Giordano, 1996; Giannetti e Ellam, 1994; Conticelli et al., 2004; Peccerillo, 2005; Conticelli et al., 2009). Infine, la presenza di rocce effusive della serie HKS contenenti leucite è stata più volte messa in evidenza anche per il vulcanismo dei Monti Ernici-Val Latina (Civetta et al., 1981; Boari et al., 2009a). nea) e il Vulture (Fig. 7d). La variabilità dei rapporti isotopici dei campioni prelevati dall’Appia antica rientra, infatti, nei campi che caratterizzano i prodotti emessi dai distretti di Roccamonfina (nella fase “pre-caldera”) e della Valle Latina e, più in generale, la Provincia Magmatica Romana (Fig. 7e). 5. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Le analisi degli aspetti geologici e geomorfologici del paesaggio naturale dei Monti Aurunci attraversato dalla Via Appia antica hanno permesso di riconoscere una relazione mutuale tra la realizzazione e manutenzione della grande via di comunicazione romana e l’ambiente circostante nelle diverse epoche, per un periodo di quasi 2000 anni. La Valle di Sant’Andrea, una linea di drenaggio impostatasi in corrispondenza di una fascia di debolezza strutturale, doveva presentarsi, nel momento della scelta del percorso nel IV secolo a.C., come una via naturale di accesso, attraverso l’aspra morfologia della catena aurunca, alla Piana del Garigliano e a Capua, prima destinazione della Via Appia. Se da un lato la profonda incisione valliva facilitò la realizzazione dell’arteria consolare, dall’altra imponeva la necessità di soluzioni ingegneristiche per garantire l’attraversamento Tabella 2. Caratterizzazione paragenetica e analisi modale quantitativa dei cinque campioni di basolato analizzati al SEM, microsonda e microscopio ottico. In grassetto sono riportati i rari fenocristalli, in corsivo le specie mineralogiche accessorie. Legenda: anf.=anfibolo; apa=apatite; bio=biotite; cpx= clinopirosseno; gar=granato; K-feld=K-feldspato; lct=leucite; ne=nefelina; ol=olivina; opq=opachi (ossidi Fe e Ti); plg=plagioclasio Campione Paragenesi Analisi modale Baso_1 lct, cpx, plg; lct, cpx, plg; ol, apa, opq, anf lct 55%; cpx 20%; plg ~20%; ol~5% Baso_2 lct, cpx, plg; lct, cpx, plg; ol, ne, apa, opq, bio lct 55%; cpx 20%; plg 10%; ol ~10%; ne ~5% Baso_3 lct, cpx, plg; lct, cpx, plg; ol, apa, opq lct› 50%; cpx 20%; plg 10%, ol ~5%; Baso_4 lct, cpx, plg; lct, cpx, plg; ol, apa, opq, anf, kf lct 55%; cpx 20; plg 20%; ol ~ 5% Baso_5 plg, cpx; lct, cpx, plg; opq, anf, apa, gar plg ≥65%; cpx 25%; leu~4%; anf≤5%; opq≤3%; da un’analisi modale al microscopio ottico, hanno consentito di determinare la paragenesi dei campioni e la percentuale relativa dei costituenti mineralogici (Tab. 2). Leucite, clinopirosseno (diopside) e plagiocasio (bytownite) sono i principali minerali costituenti, mentre tra i minerali accessori figurano apatite, ossidi di ferro e titanio (opachi), anfiboli, biotite, olivina, granato, K-feldspato. I risultati delle analisi permettono di classificare i campioni Baso_1-4 come leucititi tefritiche e il campione Baso_5 come una basanite. Contestualmente alle analisi chimico-petrografiche, la determinazione dei rapporti isotopici 87Sr/86Sr e 143Nd/144Nd per gli stessi campioni prelevati lungo la Via Appia antica ha fornito ulteriori indicazioni. Confrontando i valori ottenuti in laboratorio con i dati di letteratura (Civetta et al., 1981; Peccerillo 2005; Boari et al., 2009a, b; Conticelli et al., 2007, 2009; Gaeta et al. 2016; Sottili et al., 2019) è stato possibile escludere come aree di provenienza i centri della provincia campana (Vesuvio, Campi Flegrei e isole), la Sicilia (area et- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 del valico in condizioni di sicurezza. Per questo fu necessario addossare la strada al versante meridionale della valle aprendo il passaggio attraverso una barriera naturale costituita da un’alta scarpata in roccia, espressione morfologica di una faglia di natura transpressiva di grande estensione e d’importanza sub-regionale. Imponenti murature di sostruzione in pietra locale furono realizzate per sostenere il piano stradale e mantenere un andamento regolare con pendenze non eccessive, che non superano mai i 10°. 131 L’ambiente geologico della piattaforma carbonatica aurunca assicurò nel corso dei secoli di dominazione romana, dall’epoca Repubblicana a quella imperiale, una grande disponibilità di materie prime per la realizzazione delle opere di corredo all’asse viario, come le stesse sostruzioni e la prima pavimentazione in lastricato calcareo. Lo sfruttamento della pietra locale avvenne attraverso un sistema di cave di estrazione a cielo aperto e trasformò il paesaggio circostante la Via Appia. Il materiale roccioso estratto dalle aree di cava durante il periodo di coltivazione romano (tra il IV secolo a.C. ed almeno il I secolo d.C.) non doveva tuttavia costituire l’unica fonte di approvvigionamento di materiale da costruzione. Se si considera, infatti, il volume totale estratto da tutte le cave ipotizzate di età romana, e che vennero ricavate entro ammassi rocciosi fratturati, si arriva a un totale di circa 3500 m3; includendo anche le cave di datazione incerta si possono stimare poco meno di 3900 m3 di materiale (Fig. 6 e Tab. 1). Considerando l’estensione, l’altezza e la profondità delle opere di sostruzione muraria lungo il margine del percorso e volendo aggiungere il lastricato necessario alla messa in posa della prima pavimentazione per l’intero tratto che percorre la Valle di Sant’Andrea (Fig. 3) si arriva, seppure attraverso un calcolo approssimativo, a un volume di un ordine di grandezza superiore (circa 31.000 m3). Probabilmente, l’altra fonte di materiale litoide consisteva nei residui dell’opera di incisione dei versanti montuosi. Dove visibile (Fig. 4d) la sezione asportata del rilievo carbonatico ha un’area di circa 30-35m2. Valutando che l’incisione del pendio, parallelamente al decorso della Valle di Sant’Andrea, venne realizzata per circa 800 metri, ne consegue una stima, sempre approssimativa, compresa tra 24.000 e 28.000 m3 di roccia rimossa. Questo materiale, sommato a quello estratto dalle cave, avrebbe prodotto un volume complessivo simile a quello stimato per la realizzazione delle principali opere e costruzioni di corredo alla via. Successivamente al periodo romano e alle opere di manutenzione avvenute nel XVI secolo d.C. da parte degli Spagnoli (Quilici, 2007), un altro momento importante di manutenzione dell’Appia antica si ebbe alla fine del XVIII secolo per opera dei Borboni. Il rifacimento della sede stradale prevedeva la realizzazione di un nuovo piano imbrecciato che riempisse le gabbionate ottenute attraverso la rimozione e il ricollocamento dei basoli (Fig. 2c). La breccia venne ricavata dall’escavazione della seconda cava più grande per dimensioni presente nell’area (cava C, Fig. 6 e Tab. 1), collocata nelle vicinanze di una delle zone restaurate (Fig. 2c, 2d), e dalla probabile ripresa di cave romane già utilizzate per lo steso scopo (es. cava 2, Fig. 5e, 6). Sempre allo stesso intervallo temporale viene ricondotta la coltivazione delle due grandi cave a sezione semiellittica, A e B, che vennero ricavate entro la successione del Cretacico inferiore nelle vicinanze del forte (Fig. 2d). Si suppone che la loro utilizzazione divenne necessaria per disporre di materiale da costruzione sufficiente per la realizzazione del presidio militare, costruito anche a spese del Tempio di Apollo oggi non più conservato. Infine, combinando i risultati di analisi di tipo chimico-petrografico e isotopico, sono state prese in considerazione due possibili aree di provenienza per i basoli vulcanici messi in opera lungo questo tratto della Via Appia nel 216 d.C., vale a dire il centro vulcanico di Roccamonfina e il distretto degli Ernici-Val Latina (Fig. 1a). Come più dettagliatamente discusso in Di Luzio et al., (2018), l’ipotesi di una provenienza dall’area della media Valle Latina, seppure non in contrasto con la caratterizzazione isotopica dei campioni di basolato (Fig. 7e), non è supportata dalla caratterizzazione petrografica della locale serie HKS dove prevalgono leucititi a clinopirosseni nella cui paragenesi il plagiocasio compare sporadicamente e come minerale accessorio. Il materiale trasportato in epoca imperiale per la realizzazione del basolato sulla Via Appia antica, nel tratto compreso tra Fondi e Itri, venne probabilmente prelevato da affioramenti di leucititi tefritiche e basaniti riconducibili ai prodotti della fase “pre-caldera” del vulcanismo effusivo di Roccamonfina, molto diffusi al margine tra la Piana del Garigliano e il settore occidentale del centro vulcanico campano. RINGRAZIAMENTI Questa ricerca è stata condotta nell’ambito del Progetto FIRB: “Il paesaggio di una grande strada romana: modello di approccio multidisciplinare per una ricostruzione diacronica applicato alla Via Appia al valico degli Aurunci”, finanziato dal MIUR e al quale hanno partecipato il CNR-ITABC (Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali, attual- mente confluito in CNR-ISPC, Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale) e il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali (DILBEC) dell’Università Campania “Luigi Vanvitelli” (http://firb.appiantica.itabc.cnr.it/index.php/it/). L’autore di questo contributo, coordinatore scientifico del progetto quando era in servizio presso ITABC, ringrazia la dott.ssa Carfora P., coordinatrice dell’unità operativa del DILBEC, e tutti ricercatori e tecnici di CNR-ITABC e DILBEC che hanno contribuito ai lavori del FIRB. Un particolare ringraziamento è diretto ai professori Quilici L. e Quilici Gigli S., alla Direzione del Parco Naturale dei Monti Aurunci, ai Guardiaparco locali, e ad Albano M. e Serracino M. (CNR‐IGAG) per il loro aiuto nelle analisi al SEM e alla microsonda. La parte relativa alle analisi chimico-petrografiche ed isotopiche dei basolati è stata possibile grazie al lavoro di Sottili G. (Università “Sapienza”, Dipartimento di Scienze della Terra), Arienzo I. (INGV-Osservatorio Vesuviano) e Boccuti S. (CNR-ISB, Istituto per i Sistemi Biologici ex-IMC, Istituto per le Metodologie Chimiche). BIBLIOGRAFIA Adam J.P. (1988), L’Arte di costruire presso i Romani. Materiali e Tecniche, Biblioteca di Archeologia, 10, Longanesi, Milano. Bacigalupo C., De Meo A., Leti Messina T. (2019), Il rilievo topografico e fotogrammetrico nell’area del Forte di Sant’Andrea. In: Di Luzio E., Carfora P. (Eds.), Approcci multidisciplinari per la ricostruzione del paesaggio di una grande strada romana. 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Maria Teresa Iannelli Archeologo già funzionario Soprintendenza Archeologica per la Calabria Anna Maria Rotella Archeologo, libero professionista, collaboratore Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Cosenza, Catanzaro e Krotone Parole chiave: antichi sistemi di insediamento, viabilità in età greca e romana, rischi naturali Key words: ancient settlement systems, roads in greek and roman times, natural hazards GEOMORFOLOGIA E VIABILITÀ Sul panorama delle frequentazioni umane nell’Italia meridionale, un momento di notevole importanza è senza alcun dubbio quel processo insediativo (socio-economico, urbanistico, di trasformazione dell’uso dei suoli e del paesaggio in generale) noto come “colonizzazione greca”. Tra le prime grandi realtà insediative di questo periodo, molte hanno interessato le aree costiere del versante jonico del Sud dell’Italia, con un flusso di po- polazioni elleniche, che ad iniziare dalla seconda metà dell’VIII sec. a.C. fino alla metà del VII a.C. ha visto il fiorire di numerose città che per estensione degli abitati e complessità nell’uso del suolo non aveva precedenti. È proprio in questo periodo che il numero dei villaggi protostorici, la cui collocazione è, nella quasi totalità dei casi, riconducibile a terrazzi marini (lungo le coste) o fluviali (nelle aree interne), subisce una drastica riduzione, evidentemente a causa dell’egemonia politico-culturale dei nuovi arrivati nei confronti delle popolazioni indigene. Questo nuovo assetto insediativo consente sistemi di sfruttamento delle risorse territoriali molto più efficaci, sia per le nuove tecniche in agricoltura, ma anche per l’efficienza dei sistemi di trasporto, resi più facili dalla posizione “vicino al mare” e nelle piane alluvionali in prossimità delle foci dei maggiori corsi d’acqua, utilizzati come approdo per le imbarcazioni e, più in generale, per la più facile mobilità nelle aree pianeggianti. Figura 1. Nell’immagine a sinistra sono indicate le principali poleis greche fondate tra la fine dell’VIII e il VII sec. a. C. sulle piane alluvionali litoranee della costa jonica. Nelle due immagini a destra (Sibaritide) è schematizzato il passaggio tra protostoria e fase greca arcaica, con importanti cambiamenti sui sistemi insediativi: si passa da centri medio-piccoli dell’età del Ferro, collocati in prevalenza sui terrazzi marini, aree caratterizzate da una grande stabilità geomorfologica, ad una polis di grandi dimensioni (Sibari nello schema). Queste sono collocate quasi sempre nelle piane alluvionali attive e in prossimità delle foci fluviali (utilizzate come approdo per le imbarcazioni). In poco tempo i villaggi preesistenti sono “assorbiti” dalle città greche Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 134 Un esempio efficace su ciò che accade in questo periodo è quello della Sibaritide (Fig. 1), dove la nascita, sull’allora foce del fiume Crati, della città greca di Sibari comporta, in pochi decenni, la scomparsa di gran parte dei villaggi enotri dell’età del Ferro, che erano impostati quasi tutti nelle aree dei terrazzi marini e fluviali, molto stabili dal punto di vista geomorfologico, come testimonia anche la continuità temporale di questi insediamenti. Il nuovo sistema insediativo se, come visto, da un lato consente un efficientamento nella gestione delle che consente una verifica diretta delle interferenze tra le trasformazioni ambientali e le loro ripercussioni sulle comunità umane. Un caso di studio ad esempio3, sempre nella Sibaritide, ipotizza come ulteriore fattore di rischio sui processi alluvionali che hanno interessato la Piana, oltre alla subsidenza per normale consolidamento dei depositi alluvionali, un abbassamento del suolo dovuto ad un fattore tettonico (dinamiche plicative con le aree di sinclinali interessate da subsidenza tettonica, che vedrebbero la città magno-greca collo- (mediante datazione radiometrica) alla seconda metà del V sec. a.C., porta ad una elevazione della piana di circa 2 m, sulla quale viene rifondata la città ellenistica. Interferenze tra l’evoluzione del litorale e le strutture kauloniati sono state messe in evidenza da più campagne di indagini in mare4 che hanno calcolato un arretramento della linea di riva rispetto al VII sec. a.C. di oltre 200 m; dati confermati da un’analisi idrogeologica sulla geometria della falda litoranea intercettata nei pozzi antichi rinvenuti nella piana5. Figura 2. Nell’immagine a sinistra, su DTM, è indicata la posizione della città di Kaulonia, delimitata dalla sua cinta muraria. Vengono riportati anche i dati di spostamento del suolo come da interferometria SAR di immagini radar satellitari su punti PST, mediate nel periodo 2003-2010 (i valori negativi indicano subsidenza, quelli positivi sollevamento). È evidente che, oltre al settore litoraneo settentrionale della città greca, tutta l’area di foce della fiumara Assi è interessata da fenomeni di subsidenza (presumibilmente per dinamiche gravitative profonde). L’immagine a destra riporta la stratigrafia archeologica della falesia, dove è evidente lo spesso deposito di un evento alluvionale parossistico (debris-flow) datato nella seconda metà del V sec. a.C. risorse del territorio, eventualmente anche con una pressione ambientale meno impattante rispetto alle tecniche agricole precedenti1, dall’altro crea un sistema estremamente fragile a causa dell’accentramento del potere politico in un singolo sito e, soprattutto, per la nascita di condizioni di rischio molto elevato per la posizione dei nuovi abitati, collocati nelle piane alluvionali attive e in prossimità delle foci dei fiumi più importanti. Le dinamiche geomorfologiche delle aree costiere joniche, sia nell’entroterra che off-shore, da alcuni decenni sono oggetto di studio da parte di vari enti di ricerca (CNR, l’INGV, ENEA, OGS), quale settore esterno della Catena Appenninica, soggetto a trasformazioni molto vivaci e in cui le interferenze tra dinamiche tettoniche e geomorfologiche sono tutte da chiarire2.Tra le metodologie di analisi un valido contributo è certamente dato dalla geoarcheologia, carsi proprio in tale settore). Il dato più eclatante sulle interferenze tra i primi insediamenti greci (fase arcaica) e le dinamiche alluvionali, o geomorfologiche in generale, è che la gran parte delle città greche fondate nella fase arcaica, sono state soggette a seri problemi di danneggiamento degli abitati, che in alcuni casi ne hanno decretato l’abbandono (probabilmente avviene per Siris, posta alla foce del fiume Sinni), mentre Sibari viene alluvionata e sepolta più volte, con un aggradazione della Piana di almeno otto metri tra l’VIII sec. a.C. e il piano di campagna attuale, con tre fasi costruttive sovrapposte (Sibari, Thurii e la romana Copia). Eventi distruttivi alluvionali del tipo debris-flow, si riconoscono nella zona più litoranea di Kaulonia (fondazione achea o krotoniate collocabile all’inizio del VII a.C. nelle sue fasi arcaiche). L’evento, che è stato collocato dallo scrivente Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Forti indizi di fenomeni di subsidenza, forse indotta da grandi frane profonde, si riconoscono in molti settori del litorale jonico, principalmente nelle zone di promontorio del crotonese (settore dell’abitato di Kroton, l’area di Capo Colonna e di Capo Cimiti). La conseguenza di questi, oltre ad un “richiamo” per gli eventi alluvionali, sono i processi di erosione costiera. Una dinamica di questo tipo particolarmente evidente si riconosce sul promontorio di Punta Alice, appena a nord di Cirò Marina (Fig. 3), dove si osserva un’ampia fascia ribassata, delimitata a ovest da una netta scarpata (presumibilmente di frana). Dai dati interferometrici satellitari (Progetto PST-SAR del Ministero dell’Ambiente) tutta questa zona è interessata da subsidenza ad un tasso medio compreso tra 5 e 15 m/a. Nell’area ricade uno dei templi greci più antichi, rinvenuto da Paolo Orsi tra il 1914 e 135 1915, risalente al VII sec. a.C.; i processi di subsidenza, oltre all’erosione costiera, determinano fenomeni di impantanamento, diffuso è l’affioramento della falda nell’intorno dei resti del tempio, con il conseguente impostarsi di zone palustri. Nella stessa area è ipotizzata la localizzazione della città greca di Krimisa, mai rinvenuta (le aree interne erano sede di centri indigeni6) e che, viste le dinamiche descritte, potrebbe essere stata interessata dai processi erosivi costieri. Le città di fondazione più tarda (dopo il VII sec. a.C.) e soprattutto le subco- punti di vista, oltre alle esigenze della ricerca di siti naturalmente protetti per la loro morfologia (alture naturalmente protette), ci si sia resi conto delle condizioni di pericolosità naturali riscontrate nelle prime fasi di insediamento sulle aree costiere joniche. È questo il caso anche delle due subcolonie della fiorente Locri Epizephiri fondate sulla costa tirrenica della Calabria (Fig. 4), sul finire del VII sec. a.C., Hipponion e Medma. Quest’ultima ricade su un terrazzo marino posto ad una quota di 50-60 m.s.l.m., elevato e stabile rispetto fologico descritto, è il risultato di alcuni importanti processi geodinamici in atto, che hanno portato alla definizione per l’area del promontorio del Poro, in cui è compreso il terrazzo di Vibo Valentia, come un alto-strutturale che costituisce l’horst occidentale dell’area tettonicamente ribassata (Graben) coincidente con la valle del Mesima. L’alto morfologico/strutturale, quindi, è delimitato sia a nord-ovest, verso la costa tirrenica, che verso sud-est, da un sistema di faglie attive che causano il sollevamento della struttura del Monte Poro. Il basamento Figura 3. Modello digitale del terreno dell’area di Punta Alice (Cirò Marina). Sono mappati anche i dati interferometrici SAR, che indicano gli spostamenti del suolo (componente verticale), in rosso (valori negativi) quelli interessati da subsidenza. Si riconosce un’ampia fascia “ribassata”, nella quale ricade anche una porzione dell’abitato di Cirò Marina, delimitata a ovest da una scarpata morfologica, in cui gli spostamenti da interferometria (dati ERS medianti tra 1995 e 2000) indicano subsidenze comprese tra 5 e 15 mm/a. In questa fascia ricade il tempio arcaico di Apollo Aleo lonie, quali le poleis realizzate a supporto dell’estensione del dominio territoriale da parte delle città di primo impianto, tutte caratterizzate da una rapida ascesa politica e amministrativa, spesso tra loro in conflitto, sembrano adottare strategie insediative differenti. Per la localizzazione degli impianti urbani si abbandonano le aree di foce e le piane alluvionali attive, per “tornare” sulle stabili superfici dei terrazzi marini/fluviali: Methauros, Laos, Terina, Heraclea, Poseidon, Medma, Hipponion). È molto probabile che, per quanto questo aspetto necessiti di approfondimenti da molti alla piana alluvionale attiva sottostante. Per Hipponion il contesto morfologico è più aspro e complesso, la superficie terrazzata su cui è impostato l’abitato si sviluppa a quote comprese tra 500 e 570 m.sl.m. che, nell’assetto generale dell’area, costituisce un alto-morfologico interposto tra la costa tirrenica e la valle del fiume Mesima. Il sito è caratterizzato da un’ampia superficie sub-pianeggiante che nella fascia orientale diviene più acclive (pendenza tra il 15 e il 20%), conducendo su due alture poste a quote di 560-570 m.s.l.m., in cui erano ubicate due aree sacre hipponiati. L’assetto mor- che costituisce l’ossatura del promontorio di Capo Vaticano, appartenente al sistema dell’Arco Calabro, è rappresentato da graniti, gneiss e quarzofilliti, coperti da affioramenti discontinui di carbonati miocenici-pliocenici e da depositi terrigeni. In tutta l’area del promontorio del Poro e a diverse quote affiorano diffusamente depositi terrazzati marini pleistocenici a luoghi ricoperti da un sottile velo di sedimenti continentali recenti ed attuali. La storia geologica più recente (Quaternario) dell’area di interesse è strettamente legata a quella dell’intero Arco Calabro, caratterizzata, a partire Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 136 Figura 4. Modello digitale del terreno con le posizioni di Locri Epizephiri e le sue subcolonie di Medma e Hipponion. A destra un dettaglio del territorio di Hipponion, con le posizioni dell’acropoli, impostata sulla propaggine nord-orientale dell’altopiano del Poro-Capo Vaticano e dell’antico porto della città greca, sulla foce del Torrente Trainiti, in un tratto di costa ad andamento ovest-nord-ovest/est-sud-est, in “ombra” rispetto alla direzione del moto ondoso più intenso, proveniente da ovest-sud-ovest (Massimo fetch) dal Pliocene superiore, dall’instaurarsi di un regime estensionale, con la presenza di numerose faglie normali sia parallele (nord-est/sud-ovest) che perpendicolari (ovest-nord-ovest/est-sud-est) alla direzione generale dell’Arco stesso. A partire dal Pleistocene medio, i processi estensionali sono stati accompagnati da un forte sollevamento regionale, di cui i numerosi terrazzi marini (almeno 12 ordini) sono il principale e peculiare effetto sul paesaggio costiero7. La polis non rinuncia ad un approdo che, anzi, sarà un punto di forza importantissimo per le sue attività commerciali. Questo era collocato nel tratto di costa antistante l’abitato8: si tratta di un settore in cui la costa si sviluppa in direzione ovest-nord-ovest/est-sud-est, particolarmente favorevole per l’ubicazione di un approdo, in quanto in “ombra” rispetto alla direzione del moto ondoso più intenso, proveniente da ovest-sud-ovest (fetch massimo) e dove il sollevamento tettonico è stato meno intenso, come evidente anche nel DTM di Fig. 4. Queste due condizioni hanno favorito la nascita di una piana alluvionale tra le foci della fiumara Trainiti e il torrente Sant’Anna che, come ricostruito in varie campagne di indagini condotte sul sito attraverso prospezioni geofisiche e carotaggi da parte della Fondazione Lerici e Geofisica Misure, ha avuto periodi con ambienti in facies litorali (di spiaggia), di laguna e, nelle fasi terminali, palustri. Il porto di Hipponion prima e della romana Valentia successivamente, sarà uno degli approdi più importanti dell’Italia meridionale, e rimane in attività fino all’inizio del XVII sec. Resta incer- ta la perimetrazione dei bacini portuali, attualmente colmati all’interno dell’attuale piana di Bivona. Le stratigrafie vedono un processo di interramento che procede da sud verso nord e da ovest verso est, ipotesi confermata anche da un “ringiovanimento” delle strutture antropiche rinvenute nei saggi effettuati procedendo in tali direzioni. Il successo nella continuità d’uso del sito in cui è impostata la città di Hip- ponion/Valentia/MonsLeonis/Vibo Valentia in un certo senso conferma le ipotesi innanzi esposte, sui rischi molto elevati a cui sono state soggette molte delle città magno greche di primo impianto (sulle foci fluviali), in gran parte abbandonate dopo pochi secoli dalla loro fondazione o, come avviene per Sibari, più volte ricostruite praticamente ex-novo, o ancora dislocate “verso l’alto” come avviene probabilmente per Kroton, Figura 5. Modello digitale del terreno con le posizioni dell’abitato di Hipponion/Vibo Valentia e dell’area del porto antico. L’abitato è compreso all’interno della cinta muraria, tutto impostato nel terrazzo più elevato della dorsale del Poro. I pallini in rosso indicano gli indizi rinvenuti nelle varie campagne di scavo sulla viabilità sia interna che di collegamento con l’esterno. È indicativa di un intenso rapporto con l’area portuale la presenza di ben quattro ipotesi viarie sul lato nord-orientale, in direzione dell’area portuale nell’attuale piana di Bivona Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 137 che dalla foce del fiume Esaro, tende ad espandersi verso il terrazzo dell’attuale centro storico in età ellenistica e ancor prima. La stabilità geomorfologica del terrazzo su cui è ubicato l’abitato di Hipponion/Vibo Valentia, nonostante gli avvicendamenti amministrativi, ha consentito una lunga continuità abitativa. Questo risulta ancor più vero se si considera la fragilità dell’area portuale che, se da un lato ha consentito una fiorente economia alla città greca e romana, il sito litoraneo ha necessitato nel tempo di continui interventi di regimazione del flusso di sedimenti costieri (costruzione di antemurali alla foce del torrente Trainiti) e interventi di ricostruzione delle strutture portuali man mano che il bacino veniva interrato dal trasporto solido dei corsi d’acqua citati9, resi possibili dalla presenza di un efficiente centro politico-amministrativo del proprio territorio. Come più innanzi esposto dalle coautrici di questo contributo, la scelta di ubicazione su quote così elevate dell’abitato, ha necessitato di un impegno rilevante per il collegamento, sia sulle direttrici nord-sud, principale asse viario di collegamento via terra, che in direzione della Valle del Mesima (verso sud-est) e, soprattutto, verso l’area portuale, dove in meno di 3 km, è da superare un dislivello di oltre 500 m. È proprio in tale direzione (nord-ovest) che si rinvengono più numerosi gli indizi (almeno quattro) sulla presenza di vie collegamento. Giuseppe Ferraro VIABILITÀ ESTERNA La subcolonia locrese di Hipponion identificata da P. Orsi nell’odierna cittadina di Vibo Valentia nel cuore delle Serre calabresi, è un centro antico pluristratificato e a continuità di vita, un classico esempio di archeologia urbana, condizione che nel tempo ha fortemente limitato la ricerca archeologica sul campo10. Il tema della viabilità urbana ed extra urbana della subcolonia prima e del municipium romano11 poi, è una delle tante problematiche fortemente penalizzate dalla sovrapposizione del centro moderno su quello antico, tant’è che a oggi, nonostante l’incremento delle ricerche archeologiche soprattutto nella città, non sono disponibili dati né sull’impianto urbano della polis né sul suo reticolo viario; un po’ meglio documentate sono l’urbanistica e la viabilità interna di età romana12. Pertanto la presente ricerca si dovrà basare prevalentemente sull’analisi geomorfologica, sullo studio delle fonti antiche, sui dati desunti dalla letteratura antiquaria reperibile (gli scritti di Vito Capialbi e di altri studiosi locali: i fratelli Pignatari, il Marzano ecc.) e dalla toponomastica (molto utile è l’analisi della cartografia storica), dati che verranno integrati laddove possibile, con le testimonianze archeologiche. A queste considerazioni sembra necessario aggiungere un’altra annotazione relativa al fatto che, soprattutto per quel che riguarda la viabilità esterna, è molto difficile, nella maggior parte dei casi, stabilire la cronologia dell’utilizzo dei diversi tracciati viari che pertanto al momento e solo in via preliminare, dobbiamo supporre in continuità tra l’età greca e quella romana13 in tutti i casi non altrimenti documentati di cui ovviamente daremo conto. E tuttavia sembra importante a questo stadio della ricerca definire lo status questionis relativamente alla nostra problematica in modo da stimolare se non proprio indirizzare le indagini future. Un primo elemento utile alla comprensione e alla definizione della viabilità antica di Vibo Valentia è senz’altro la scelta del sito con la sua marcata valenza strategica: un ampio terrazzo prospiciente la costa, posto in posizione preminente rispetto al territorio circostante, che domina a nord la piana lametina (attuale golfo di Sant’Eufemia), a sud quella di Gioia Tauro (antica Methauros); un punto nodale di transito tra il bacino del Mesima su cui sorgeva la consorella Medma (attuale Rosarno) e la fascia litoranea. A ciò si aggiunga la prossimità di un approdo naturale ampio e riparato che viene strutturato a partire dall’età greca e rimane in funzione fino alla fine del settecento14, che la ricerca archeologica ha identificato nel tratto di mare compreso tra l’attuale punta Safò e il basso corso del torrente Sant’Anna15. La posizione privilegiata del pianoro su cui fu fondata Hipponion determinò un “continuo e remunerativo” rapporto col mare e soprattutto col suo porto e contestualmente con il territorio circostante che si organizzò “…in una forma di economia mista ed integrata: agricolo, pastorale, marittima, senza per questo trascurare la componente silvicola (pece e legname).”16 La città greca prima, la colonia e il municipium poi, diventano il polo socio-economico e politico intorno a cui gravita questo ricchissimo territorio peculiare per la sua componente silvopastorale e per la fiorente agricoltura praticata sul vasto territorio circostante. Contatti così intensi col territorio presuppongono l’esistenza di una serie di percorsi che partendo dalla polis assicurino i collegamenti sia verso nord, con la piana lametina che verso est con la vallata del Mesima e il territorio montano, verso ovest con il porto e il resto del territorio lungo la costa e verso Sud con il fertile Monte Poro, con la consapevolezza che la scelta di un insediamento di altura, posto su una superficie terrazzata che raggiunge quote fino a 568 m slm, com’è quello di Hipponion-Vibo Valentia, costituisce un serio impegno per i collegamenti a causa del notevole dislivello naturale certamente difficoltoso da affrontare. Non è un caso che la città col nome di “Vibona-Balentia” sia rappresentata nella Tabula Peutingeriana (copia medievale di un itinerario completo dell’impero romano e che nel tratto VI descrive il Bruttium) come una località da cui si dipartono ben quattro percorsi stradali e ancora che essa sia presente in quasi tutti gli Itineraria scripta e picta. In considerazione delle riflessioni fatte in premessa, la nostra analisi dovrà necessariamente partire dalla cinta muraria della città greca17 il cui tracciato è possibile ricostruire quasi completamente e che al momento costituisce la sola testimonianza archeologica che correlata allo studio geomorfologico del pianoro su cui sorge la città, e alle altre diverse fonti disponibili, consente di ricostruire, seppur in via ipotetica, gli accessi principali alla polis. Analizziamo innanzitutto quelli di collegamento col porto che sembrano essere stati tre (Fig. 6, nn. 2, 4, 9) e ubicati tutti sul fianco nord-ovest della cortina muraria18. L’esistenza di una porta (Fig. 6, n. 2) posizionata nelle vicinanze di quella che è stata definita “la torre del porto”19, rinvenuta ai piedi della collina del Belvedere-Telegrafo, è stata ipotizzata da Rotella20 per la presenza proprio in quest’area di un asse viario riportato sulla pianta della città del 1819 (Fig. 7) che viene indicato con il toponimo “Strada di Porticela per la Silica”; all’esistenza, in questa zona di una porta lungo il tracciato delle murazione di Hipponion, accenna Vito Capialbi21 quando descrive il percorso del muro di cinta che al Belvedere grande “… discende piegando verso ponente al fondo detto “Porticella”, forse da qualche altra antica porta che colà vi era” ed è Paolo Orsi nel 1921 a dare notizia del rinvenimento nella zona di due epigrafi funerarie di cui una tra “la Madonnetta e il Telegrafo” e l’altra iscrizione graffita su mattone, è stata proposta da Orsi come recuperata presso il “Telegrafo”22. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 138 Figura 6. Vibo Valentia, Hipponion la città greca e Vibo Valentia, il municipium: ipotesi degli allineamenti degli assi viari e proposte di ubicazione delle porte Secondo Givigliano23 un altro ingresso sulla cinta muraria verso il porto (Fig. 6, n. 4) è ipotizzabile nei pressi dell’attuale località Madonnella (Chiesa della Madonna del Buon Consiglio) da dove si diramava una “strada per il porto” ben documentata dalla pianta settecentesca del Bisogni De’ Gatti24 (Fig. 8) che ne indica il toponimo; questo asse viario che collegava la città con il Castello di Bivona e con l’omonima marina, passava per la Fonte “Silica” toponimo quest’ultimo che sempre secondo Givigliano, individua in genere, una via acciottolata di età medievale, cosa questa che sarebbe indizio della persistenza nel tempo di questa viabilità di collegamento. Sempre per lo studioso il percorso in questione, che per un lungo tratto seguiva una linea di crinale sviluppandosi poi lungo una linea di contro crinale, risultava molto ripido in quanto doveva superare in pochi km pendenze eccessive e quindi sarebbe stato adibito al traffico leggero25. Di contro esisteva un tracciato più occidentale rispetto all’ultimo sopra citato, che partiva dall’attuale località Cancello Rosso e attraverso una porta urbica (Fig. 6, n.9) conduceva sempre all’antico emporio marittimo della città, passando questa volta per la contrada “Silica” e procedendo poi verso l’attuale località di Porto Salvo. Questo ulteriore percorso proposto sempre da Givigliano, aveva un andamento sinuoso definito da parecchi “tornanti che addolciscono una pendenza notevole”26 e che quindi sarebbe stato più funzionale al traffico pesante. Figura 7. Vibo Velentia pianta del Bisogni De’ Gatti 1710 Più problematica risulta l’individuazione di un altro ingresso alla città questa volta probabilmente di collegamento con il territorio verso MiletoNicotera-Medma e più in generale verso il Monte Poro, da ubicarsi lungo il versante nord-est di Hipponion in un punto non al momento precisabile, ma compreso nella zona del Cancello Rosso, dove gli scavi archeologici hanno rinvenuto una vasta area di necropoli, in letteratura denominata “necropoli occidentale”27 e la località limitrofa di Piercastello-Lacquari dove la ricerca archeologica ha messo in evidenza una delle necropoli del municipium (Fig. 6, n. 10). Un indizio per una più puntuale ubica- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 zione della porta lo fornisce la pianta del 1819, che proprio al limite est della località Piercastello-Lacquari, segnala la presenza di un asse viario indicato come “Antica strada” (Fig. 6, n. 12). Per Arslan28 quest’apertura nella murazione dovrebbe essere ubicata più ad ovest in corrispondenza della località AffaccioCancello Rosso (Fig. 6, n. 10) dove in età romano-repubblicana si sviluppava il percorso della via a lunga percorrenza ab Regio ad Capuam, costruita nel I sec. a.C., che collegava Vibo Valentia con Capua a nord e Reggio a sud, sulla quale torneremo in seguito. Alla luce dei dati acquisiti fino a questo momento quindi, per quest’area della città è forse possibile 139 Figura 8. MonsLeonis/Vibo Valentia, pianta del 1819 ipotizzare la presenza di due assi viari di collegamento con il territorio: uno che si dirama nei pressi della località AffaccioCancello Rosso coincidente con l’area marginale della “necropoli occidentale”, in uso dalla fine del VII e fino agli inizi del III sec. a.C., l’altro in corrispondenza con l’area di necropoli PiercastelloLacquari, in uso dal periodo ellenistico e fino al I secolo, e dalla quale si diparte l’“Antica Strada”. Nessun indizio certo della presenza di porte è sul versante sud della murazione dove in verità le tracce dell’opera difensiva sono molto labili; in ogni caso è legittimo ipotizzare anche da questo fronte una o più possibilità di collegamento con il territorio in direzione sia dell’attuale frazione di Piscopio (Fig. 6, n. 11)29 che verso il comune di Stefanaconi, attraverso quello che è ancora oggi il percorso che collega il centro storico dei due comuni (Fig. 6, n. 15) e si connette al piede della collina di Vibo Valentia con la strada che dalla città esce sul versante est (Fig. 6, n. 3). Risalendo lungo il lato est della cinta muraria, la presenza di una porta (Fig. 6, n. 3) e la strada ad essa connessa è stata ipotizzata da Rotella30 nella località Cofinello nota per il rinvenimento da parte di Vito Capialbi, di una necropoli ritenuta di età classica, che la studiosa invece propone come ellenistica, riferendola all’elemento brettio. La presenza di un tracciato viario che se piuttosto disagevole per il traffico pesante “…permette in pochi minuti di passare dai 550 m circa della cima del colle ai 360 della valle del Mesima, rendendo praticabile il collegamento veloce e agevole tra la città e l’entroterra” è avvalorata dai dati forniti nella pianta del 1819 (Fig. 7) che la indica come “Strada della Croce della Neviera per Stefanaconi”31; ad essa, come si è detto (Fig. 6, n. 15), si collega quella in uscita per il traffico pesante dal centro storico cittadino ed assieme procedono verso la vallata del Mesima e quindi verso le Serre vibonesi. Anche il versante Nord delle mura di Hipponion si caratterizza per la presenza di almeno una porta32 che, al momento, si configura come unico principale ingresso alla città (Fig. 6, n. 8a) per chi proviene dal territorio lametino, porta che in età romana viene dismessa con tutta la murazione su questo fronte e spostata poco più a Sud verso l’attuale località S. Aloe (Fig. 6, n. 8b) insieme col coevo muro di cinta che corre perpendicolarmente all’omonima strada33. Da questa porta (Fig. 6, n. 8b) dovrebbe entrare nella città la cosiddetta via ab Regio ad Capuam che seguendo via S. Aloe attraversa il centro urbano, per poi uscire dal lato Nord-Ovest attraverso una delle porte qui ubicate. A questo tratto della murazione romana sono state connesse anche due epigrafi latine rinvenute in tempi diversi: una durante lo scavo del pozzo del frigidarium del complesso termale di S. Aloe nel 1972, l’altra alla fine dell’ottocento e già presente nella collezione della famiglia Cordopatri di Vibo Valentia34, che secondo la maggior parte degli studiosi35, risalgono alla seconda metà del I sec. a.C. e si riferiscono al “restauro della cinta muraria” e delle porte urbiche. Una testimonianza tangibile della via ab Regio ad Capuam è il miliario rinvenuto all’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso nella località Vaccarizzu nel comune di Sant’Onofrio, a soli 5 km dall’odierna città di Vibo Valentia, che riporta la distanza tra quest’ultima e la stazione di partenza: Capua36. Senza entrare nel merito dei vari tracciati possibili che sono stati proposti dai diversi autori per la strada ab Regio ad Capuam in questo tratto e per rimanere in ambito prettamente hipponiate, abbiamo visto come sia Arslan che Givigliano sostengono, che la via Popilia penetra all’interno della città con un percorso che coincide, per grandi linee, con la via S. Aloe lungo la quale la ricerca archeologica ha messo in luce un complesso termale pubblico (Fig. 6, n. 6c) con il suo ingresso principale proprio su quella strada37; quest’ultima segue il rigido schema ortogonale secondo cui è stato realizzato l’impianto urbano della città38. Chi scrive, insieme con G. Givigliano ha proposto che l’asse della Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 140 cosiddetta via Annia Popilia dopo aver attraversato la via Sant’Aloe, continuava a est “forse sfasato di uno o due isolati, esce dalla città attraverso la porta che si apre nelle mura in prossimità della galleria ferroviaria, per collegarsi direttamente al tracciato meridionale della via ab Regio ad Capuam”39. Maria Teresa Iannelli VIABILITÀ INTERNA Per quanto concerne la viabilità interna alla città, essa, come abbiamo già detto, è meglio documentata per l’età romana, mentre è quasi del tutto inesistente per la fase greca, fatta eccezione per l’ipotesi di tracciato viario proposta da Quilici40 in riferimento al collegamento tra l’area sacra al Cofino e quella in località Scrimbia (Fig. 6, n. 1). Per la fase romana è stato ipotizzato che tracce del reticolo urbano rimangono solo in alcune zone del centro antico: nell’attuale chiesa di San Leoluca e nel Convento, nella chiesa del Rosario e nell’annesso Convento in prossimità dei resti del teatro romano, secondo quanto proposto da Arslan41, mentre, Iannelli e Givigliano42 hanno ipotizzato che nel “quartiere meridionale della città ubicato immediatamente al di sotto della cinta medievale”, alcuni isolati e strade presentano un allineamento perfetto con le strutture romane rinvenute nel quartiere di S. Aloe. Partendo da quest’ultima ipotesi e studiando l’orientamento delle strade interne al centro storico si può giungere all’identificazione di quello che risulta essere l’unico incrocio di strade perpendicolari e cioè quello tra la parte iniziale del corso Umberto I e la via Guglielmo Marconi (Fig. 6, n. 14) che, per grandi linee, mantengono l’orientamento delle chiese di San Leoluca e del Rosario. Non c’è alcun dubbio che il punto di partenza per l’analisi sulla viabilità interna alla città debba essere la località S. Aloe dove gli scavi del 2003 prima e successivamente del 2007, effettuati nelle immediate vicinanze dell’edificio termale (Fig. 6, nn. 6a, b e c), hanno messo in luce una serie di strade oltre ad alcune domus, e quindi un ampio spaccato dell’impianto urbanistico della città romana, fornendo dati molto importanti per la comprensione del sistema viario interno al municipium43. Nell’estremità nord-ovest della vasta area che costituisce il settore del “parco archeologico di S. Aloe”, sono stati identificati i resti di due strade (Figg. 9-10), con andamento est-ovest e con banchine laterali su cui si affacciano gli isola- Figura 9. Vibo Valentia il municipium romano, località S. Aloe strada basolata con andamento est-ovest Figura 10. Vibo Valentia il municipium romano, località S. Aloe strada basolata con andamento est-ovest su cui si affaccia la domus con atrio e impluvium in opus signinum ti, ad uno dei quali è pertinente a una domus con impluvium in opus signinum. Meno lungo che nel resto della zona S. Aloe sembra essere stato il periodo di frequentazione dell’area della domus con l’impluvium e della strada relativa, che, com’è stato ipotizzato possano essere andate in disuso intorno alla fine del II sec d. C., forse a causa degli sconvolgimenti provocati da un importante evento sismico del quale restano importanti tracce nell’area della domus. È ancora la scrivente che ipotizza l’estensione verso sud (cioè verso l’edificio termale) del sistema viario con andamento nordovest/sud-est con isolati di circa 50 m sul lato lungo confermato dalla presenza di una seconda strada con lo stesso Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 orientamento, questa volta con lastricato quasi integro, e riconosciuta per la sua posizione, come limite nord-est dell’edificio termale. Entrambe le strade con andamento nord-ovest/sud-est, sono ovviamente perpendicolari a quella che, come si è detto, potrebbe corrispondere con uno degli assi principali del tracciato viario urbano, la via ab Reggio ad Capuam che in alcuni tratti dovrebbe essere stato ricalcato dalla via S. Aloe. In uno dei saggi eseguiti in prossimità dell’area delle terme urbane è stato inoltre documentato un ingresso monumentale, pari ad una larghezza di circa 8 m, riconosciuto come pertinente all’edificio termale pubblico e aperto sull’asse viario principale della città. 141 Figura 11. Vibo Valentia il municipium romano, via XX Aprile, proprietà Giamborino parete Ovest dello sbancamento, settore in cui sono stati rinvenuti i due assi viari Figura 12. Vibo Valentia il municipium romano, via XX Aprile, proprietà Giamborino parete ovest dello sbancamento, strada basolata con andamento est-ovest che incrocia ad angolo retto la precedente, sulla quale è stata realizzata, in età tardoantica, un condotto fognario voltato (Fig. 12) Figura 13. Vibo Valentia il municipium romano, via XX Aprile, proprietà Giamborino parete ovest dello sbancamento, strada basolata con andamento nord-sud Un altro scavo (Fig. 6, n. 5) altrettanto importante per la nostra problematica è quello effettuato nel 2015 lungo la via XXV Aprile, nella proprietà Giamborino44 (Figg. 11-13) dove purtroppo i resti rinvenuti ormai sono stati probabilmente inglobati in un edificio costruito in anni recenti. In particolare, l’indagine eseguita sulla stretta fascia di terreno lungo la parete ovest del cantiere (Fig. 11), uno dei due piccoli lembi risparmiati dallo sbancamento degli anni ottanta45, ha permesso l’identificazione di diverse fasi di frequentazione: al di sotto di uno spesso strato legato all’uso agricolo dell’area, sono stati infatti rilevati lembi delle fondazioni di due muri relativi all’ultima fase di frequentazione dell’area per la quale purtroppo, mancano completamente i livelli d’uso a causa della profonda spoliazione effettuata già in antico. Il dato certo acquisito è che quest’ ultima fase di vita è stata impostata su un consistente strato di livellamen- pianta ortogonale. È necessario evidenziare che questo tratto della viabilità del municipium romano è ubicato nel cuore della città antica poiché come si è detto, per la viabilità in uscita del centro urbano (Fig. 6, n. 4), esso corrisponde quasi perfettamente con il tracciato della via XXV Aprile, la cosiddetta “strada per il porto” alla quale fa riferimento la pianta del Bisogni De’ Gatti (Fig. 8). Risale agli anni novanta del secolo scorso il rinvenimento di un altro asse viario (Fig. 6, n.13) individuato anche questa volta nella sezione di uno sbancamento eseguito in contrasto col vincolo archeologico. Nella proprietà Soriano, ubicata nelle immediate vicinanze dei monumentali resti del teatro romano di Vibo Valentia e quindi non distante dalle evidenze archeologiche sopra descritte, l’indagine effettuata e pubblicata da Sangineto47, ha messo in evidenza lungo la parete sud dello sbancamento “…una massicciata lunga 3 m e alta 0,70 costruita to costituito da un’altissima percentuale di materiali costruttivi derivanti dalla spoliazione di edifici romani. Lo strato oblitera la dismissione di un canale fognario tardoantico (Fig. 12) costituito da due muretti laterali costruiti con frammenti di laterizi legati da malta e copertura a volta46. Il pavimento del canale impostato su un livello di pietre di medie e grandi dimensioni interpretabili come residui di un selciato stradale, purtroppo irrimediabilmente asportato dallo sbancamento recente. Nella zona sud-ovest dell’area indagata sono stati inoltre evidenziati i resti di un secondo lastricato stradale meglio conservato, ben leggibile nel suo limite ovest, e orientato in senso nord-sud che risulta perpendicolare al primo, sul quale è stata costruita la fogna in età tardo antica (Fig. 13). I due assi stradali rinvenuti sono tra essi perpendicolari ed è questa l’unica zona della città nella quale è tangibile l’impianto urbanistico romano a Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 142 NOTE Figura 14. Vibo Valentia il municipium romano, via Tarallo proprietà Soriano sezione dello sbancamento su cui sono stati individuati i resti della strada romana con pietre di piccola e media dimensione collegate con poca malta…”48, interpretata come strada (Fig. 14). La realizzazione delle strutture rinvenute è riferibile al I sec. d.C. mentre la loro dismissione è stata datata alla fine del IV-inizi del V sec. d.C. L’allineamento delle evidenze messe in luce nella proprietà Soriano, per quello che se ne può dedurre nonostante la limitatezza del rinvenimento, sembra molto simile a quello delle strutture scavate nelle altre aree della città in cui è stato indagato l’impianto romano. Anche per questa nostra tematica, è ancora una volta Vito Capialbi a sostenerci con i risultati delle sue antesignane, attente e puntuali ricerche di archeologia urbana, magistralmente pubblicate nel suo “Cenno sulle mura d’Ipponio” del 183249; lo studioso infatti, ci informa che dietro la chiesa di San Francesco di Assisi, oggi del Rosario (Fig. 6, n. 7b), nel 1812 sono stati rinvenuti i resti di una “antica strada con case su ambo i lati”, che presenta andamento est-ovest; e poi ancora che, nel 1819, durante uno scavo presso la scala del teatro cittadino (Fig. 6, n.7a), è stata evidenziata una strada che per il suo orientamento “indicava di essere la continuazione di quella dissotterrata nel 1812, cosicchè la stessa da ponente verso levante saliva”. Il rinvenimento delle due porzioni di strada effettuato dal Capialbi su due punti relativamente distanti tra loro, 230 m circa, confermano ulteriormente l’ipotesi dell’orientamento del reticolo urbano di Vibo Valentia proposto in questo lavoro. Se è scontato che l’impianto urbano del municipio si è sviluppato fin dalle prime fasi della deduzione della colonia latina secondo una maglia regolare, è altrettanto evidente che al momento, i dati esaminati non consentano un ulteriore approfondimento dell’analisi. Alla luce di quanto sopra esposto non c’è dubbio infatti che abbiamo tentato di ragionare su tracce molto labili e spesso di incerta interpretazione e che quindi molte delle ipotesi che abbiamo formulato, hanno solo valore assolutamente “introduttivo” ad un tema molto complesso, anche e soprattutto per la limitatezza dei dati disponibili. Questo lavoro pertanto, deve essere considerato come un primo approccio multidisciplinare ad uno studio che speriamo possa essere approfondito dal progredire dell’indagine archeologica, in un centro come quello di Hipponion/Vibo Valentia che come abbiamo visto, se presenta tutte le difficoltà tipiche dell’archeologia urbana in Italia, è anche ricco del sovrapporsi di millenni di storia che attendono solo di essere ricomposti. Anna Maria Rotella Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 1. Vanzetti, 2013 2. Morelli et alii, 2011 3. Ferranti et alii, 2011 4. Lena, 1997; Lena, Iannelli 2004, Stanley et alii, 2007 5. Iannelli et alii, 2016 6. Guzzo, 1989 7. Cucci e Tertulliani, 2006 8. Lena, 1989 9. Cucarzi et alii 1995 10. Iannelli, Givigliano 1989, p. 627 11. L’insieme delle problematiche connesse con la topografia urbana della città nel periodo romano dalla quale questo lavoro prende le mosse è stato affrontato in Rotella cs e ancora in Zumbo, Rotella cs 12. Rotella 2009, ma anche eadem 2014, p.166 13. Givigliano 1989, p. 751 basandosi sull’utilizzo del porto antico fino ad età medievale, ipotizza che le vie di collegamento col territorio, in età medievale siano rimaste le stesse di quelle utilizzate in età greco-romana 14. La disamina della documentazione relativa alle fasi post classiche dell’approdo è in Montesanti 1999 e idem 2012 15. Lena 1989, pp. 601-607 e tavv. XXXIX-XLI 16. Givigliano 1989, p. 763 17. Per le mura di Hipponion si fa riferimento solo alcuni testi ritenuti fondamentali: Orsi 1921 e Aumüller 1994 con bibliografia precedente 18. Per la cinta muraria hipponiate facciamo riferimento ad Orsi 1921 ed allo studio più recente con bibliografia precedente, Aumüller 1994 19. Cfr. Rotella 2007, eadem 2014a, p. 128129 e 2014b, pp 105-106; da ultimo anche Iannelli et alii 2017, pp. 477, 478, 491 20. Rotella 2014a, pp. 105-106 21. Capialbi 1832, p. 12 22. Orsi 1921, p. 485 i dati sono discussi in Rotella cs 23. Givigliano1989, pp. 750-751 24. Bisogni De’ Gatti 1710 25. L’esistenza di questa via sarebbe confermata anche in età romana per la presenza di una necropoli, proprio in località Madonnella, databile genericamente a quell’età, segnalata in Sabbione 1978, p. 156 e ripresa nel discorso generale sulla topografia urbana e le necropoli romane in Rotella cs 26. Givigliano 1989, p. 751 “…su una distanza di 4 Km in linea d’aria si passa da quota 500 a quota 10.” 27. La necropoli occidentale comprende varie aree di scavo che hanno assunto denominazione diverse dai vari proprietari (Inam, Barbuto, Salesiani, Carioti); la necropoli di età romana sorge nelle vicinanze di quella greca, appunto la “necropoli occidentale”, in località Piercastello-Lacquari cfr. Arslan 1986, Palomba 2009, Cannatà 2011 solo per citare i lavori fondamentali 28. Arslan 1983, pp. 289, 291 29. Rotella cs 30. Rotella 2014b, p. 97 31. Ibidem 32. Alcune postierle sono state individuate dall’Aümuller lungo il tracciato delle mura al Trappeto Vecchio, Aümuller 1994 passim 143 33. Un muraglione in conglomerato identificato come il muro di cinta di età romana, è stato rinvenuto nel corso di uno scavo di emergenza di una fogna, nel 1972 da E. Arslan, purtroppo molto poco documentato, Arslan 1983, p. 291, Sabbione 1978, p. 151, n. 21 34. Entrambe le iscrizioni sono attualmente nel Museo Archeologico Nazionale “Vito Capialbi” di Vibo Valentia 35. Perotti 1973, Paoletti 1994, 491-492 e fig. 22, da ultima Iannelli 2009, pp.32-33. Per la disponibilità alla lettura delle epigrafi si ringrazia il professor Antonio Zumbo. 36. Givigliano1994, p. 290 con bibliografia precedente 37. Rotella 2014, p. 165-166 38. A questo proposito cfr. anche Sangineto 2014, pp. 154 39. Iannelli, Givigliano 1989, pp. 679-680; gli studiosi ipotizzano anche se con molta cautela, le misure degli isolati che sarebbero di 35 m in larghezza e 53 m in lunghezza 40. L’identificazione proposta prende le mosse dallo studio delle fotografie aeree dell’area Quilici 1990 41. Arslan 1983, p. 389 42. Iannelli, Givigliano 1989, pp. 679-680 43. Complessivo è lo studio effettuato dalla studiosa in Rotella 2009, pp. 175-176, eadem 2014 pp. 165-166 44. L’indagine coordinata da M. T. Iannelli, e seguita sul terreno per periodi diversi da A.M. Rotella e G. Gargano fino all’aprile 2015, si è sviluppata su tutte le pareti ed è stata svolta con la finalità di documentare i danni provocati dallo sbancamento dell’area effettuato dai proprietari alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, in contrasto con i vari fermo lavori intimati dalla Soprintendenza Archeologica della Calabria. 45. Nel corso dello scavo coordinato dalla scrivente sul margine ovest della più estesa proprietà Giamborino è stata indagata dal 24 marzo al 24 aprile 2015 una fascia di 20 x 3 m risparmiata dall’azione delle ruspe, così come non sbancato è risultato, sul lato opposto del cantiere, un quadrato di terreno altrettanto ricco di stratigrafie archeologiche ma sul quale non si è proceduto con l’indagine. 46. Sfortunatamente anche il canale è conservato per un breve tratto perché è stato tagliato a est dallo sbancamento moderno. 47. Sangineto 1984 48. Ivi p. 21, fig. 3 49. Capialbi 1832, p.13 BIBLIOGRAFIA Arslan E.A. (1983), La ricerca archeologica nel Bruzio, in Costabile F. Mosino F. (a cura di), Brettii Greci e Romani, V Congresso Storico Calabrese, Cosenza, Vibo Valentia, Reggio Calabria 28-31 ottobre 1973, ma Roma 1983, pp. 271-310. Arslan E.A. (1986), DANIMS.4. Necropoli “INAM” di Vibo Valentia-Hipponion, ASNP, S. III, XIV, 1986, pp. 1029-1058. Aumüller T. 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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 144 Viabilità ed episodi alluvionali in età romana: archeologia della via Emilia a Modena e delle vie oblique in Emilia Donato Labate E-mail: [email protected] Gianluca Bottazzi E-mail: [email protected] Viability and alluvial episodes in Roman times: archaeology of the via Emilia in Modena and of the oblique streets in Emilia Parole chiave: viabilità, episodi alluvionali, via Emilia Key words: viability, alluvial episodes, via Emilia RIASSUNTO Numerosi scavi archeologici sono stati effettuati lungo un tratto di 17 km della via Aemilia, tracciata dal console Emilio Lepido nel 187 a.C., che attraversa il territorio di Modena tra i fiumi Panaro e Secchia. Questi interventi di scavo hanno consentito di indagare, rilevare e quotare, in diversi settori, sia l’ampiezza dell’infrastruttura, con massicciata, crepidini e fossati, sia l’intera successione stratigrafica della strada dall’età repubblicana all’età contemporanea. È ora possibile, sulla base di dati oggettivi, mettere in relazione la sua storia agli interventi di manutenzione e ai rifacimenti nel corso dell’età imperiale, del tardoantico, del Medioevo e dell’età moderna. Alcuni interventi di manutenzione straordinaria della via sono ora correlabili agli eventi catastrofici che hanno interessato il Modenese, e tra essi in particolare alle alluvioni, che con i loro depositi sedimentari hanno modificato l’assetto del territorio, fino a determinare, nel corso del Medioevo, persino lo spostamento laterale di alcune decine di metri del rettifilo stradale. Dai principali centri urbani romani fondati lungo la strada consolare (tra essi Bologna, Modena, Parma) si diramarono ben preso vie oblique per collegare in linea retta (recto itinere) tra di loro le città, i centri minori della futura regio VIII augustea e le vallate appenniniche. Una di queste vie, la Modena-Mantova tracciata in età repubblicana e sepolta tra III e VI secolo d.C. da depositi alluvionali, è ora conosciuta sia tramite le testimonianze archeologiche nel suburbio di Mutina sia da ulteriori evidenze aerofotografiche che ne precisano la persistenza anche nel periodo post-classico. PREMESSA La prima notizia di Mutina, come presidio militare precoloniale probabilmente dotato di adeguate opere difensive, è del 218 a.C. e pertanto precede di circa un quarantennio la fondazione della colonia civium Romanorum avvenuta nel 183 a.C. (Labate Malnati, 2017). Marco Emilio Lepido, uno dei triumviri della deduzione coloniaria di Mutina e Parma, è notoriamente anche il console che nel 187 a.C. condusse i lavori di realizzazione dell’omonima strada consolare che collegava Rimini e Piacenza, fondate rispettivamente nel 268 a.C. e nel 218 a.C.. Sulla via Aemilia si impiantarono poi molti altri centri urbani di età romana: Modena si era comunque precocemente qualificata come presidio quasi nel mezzo di tale percorrenza. Dai principali centri urbani disposti lungo la via consolare (tra essi Bologna, Figura 1. ll territorio della Regio VIII: la via Emilia tra Bononia e Placentia in rapporto all’idrografia antica, alle persistenze della centuriazione e alle vie oblique (dis. G. Bottazzi) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 145 Modena, Parma) si diramarono ben presto vie oblique che attraversavano gli agri centuriati (Fig. 1) per collegare in linea retta (recto itinere) tra di loro le città, i centri minori della futura regio VIII augustea e le vallate appenniniche (Bottazzi, 1988). Modena, per numero di scavi e di ricerche multidisciplinari condotte nell’ultimo trentennio e prontamente presentate ed edite, si presta a fornire dati di estremo interesse sui rapporti tra viabilità romana ed episodi alluvionali e sedimentari (Bottazzi, 1986; Bottazzi, Labate, 2017; Labate, 2019). Lo scopo di queste ricerche è comprendere come e con quali interventi la viabilità antica si è rapportata ad una serie di eventi notevoli e catastrofici che hanno interessato il Figura 2. Modena. Profili stratigrafici della via Emilia dall’età repubblicana all’età contemporanea con numerazione dei rinvenimenti trattati: 1. Fossalta; 2. Sottopasso tangenziale Pasternak; 3. Via Emilia Est n. 509; 4. Sottopasso ferrovia Modena-Sassuolo; 5. Via Emilia-incrocio via Bonacini; 6. Via Emilia-incrocio via Farini; 7. Piazza della Torre; 8. Piazza Sant’Agostino; 9. Incrocio via Rainusso-Palazzo Europa; 10. Parco Ferrari 1; 11. Parco Ferrari 2; 12. Rotonda via Virgilio; 13. Sottopasso Grandemilia; 14. Rotonda Scalo Merci; 15. Sottopasso rilevato ferrovia; 16. Santa Liberata; 17. Oratorio Fontanelli; 18. Annunziata; 19. Marzaglia, rotonda. A – via Emilia repubblicana, B – via Emilia tardoantica, C – via Emilia contemporanea Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 146 territorio della città emiliana. Si tratta di ben sei eventi alluvionali e sedimentari alla datazione dei quali si è giunti grazie allo studio archeologico e alle datazioni radiocarboniche dei profili stratigrafici messi in luce di recente nei principali scavi condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici (Labate, 2013, Cremonini-Labate-Curina, 2013; Cremonini- Labate, 2015; Labate, 2017a). Di questi eventi notevoli e catastrofici è stato inoltre possibile riconoscere, grazie allo studio dei depositi sabbiosi presenti nelle alluvioni, a quale fiume attribuire l’esondazione (Lugli-Marchetti Dori-Fontana, 2007) e inoltre determinare con precisione il secolo di abbandono del letto di uno dei corsi d’acqua, il Tiepido (fine IV–inizi V secolo d.C.) che assicurava a levante la difesa di Mutina (Labate, 2017a). Secondo i recenti studi, come si è già accennato, nell’ultimo quarto del III sec. a.C. fu impiantato a Mutina un presidio militare posto in un’area interessata a sud dalla presenza di terreni paludosi con risorgive, ad est dal torrente Tiepido, ad ovest i torrenti Grizzaga e/o Corlo/Formigine, mentre a nord la difesa poteva essere assicurata da un ampio fossato e dalla possibile confluenza dei vari corsi d’acqua (Bottazzi,1986; Malnati, 1988; Labate, 2015; Labate-Malnati, 2017). LA STRADA CONSOLARE DI MARCO EMILIO LEPIDO Presso Modena, nel tratto di 17 km della Via Emilia tra il fiume Panaro e il fiume Secchia, sono stati aperti una trentina di cantieri di scavo ed in essi è stato possibile, grazie alla tutela archeologica preventiva recepita negli strumenti di pianificazione territoriale (Labate-Malnati, 2010), condurre indagini archeologiche che hanno consentito di documentare sia le tecniche costruttive dell’importante infrastruttura viaria, sia la continua manutenzione della stessa, anche a seguito delle trasformazioni territoriali causate dalle alluvioni per un arco di oltre due millenni (Labate, 2017b). Oggi la via Emilia, che corrisponde al tracciato dell’antica consolare, è collocata ad una quota slm tra i 36 m (ad est), e 52 m (ad ovest) con un leggera depressione di 34 m slm proprio nel centro storico di Modena. In età repubblicana la strada era collocata a profondità maggiori che variano da 34 m slm ad est a 48 m slm ad ovest con una quota più bassa sempre nel centro storico antico, 29 m slm, (Labate, 2019) che corrisponde all’impianto della co- lonia romana di Mutina posto a circa 5-6 m di profondità dall’attuale piano di calpestio della città (Malnati, 1988). Questa notevole profondità è dovuta sia all’apporto antropico sia ai depositi alluvionali. Si tratta di ben 6 eventi alluvionali e sedimentari che hanno interessato il territorio dalla fine del I secolo alla fine del X, eventi dei quali è stato possibile precisare la datazione (Labate, 2017a): I alluvione (fine I - inizi II sec. d.C.); II alluvione (fine III-inizi IV sec. d.C.); III alluvione (fine IV-inizi V sec. d.C.); IV alluvione (VI sec. d.C.); V alluvione (fine VI-inizi VII sec. d.C.); VI alluvione (fine X-inizi XI sec. d.C.). In questo contributo si presenta la ricostruzione del profilo stratigrafico della via Emilia nel Modenese dall’età repubblicana ad oggi prendendo in esame 19 sezioni rilevate nel corso delle indagini archeologiche condotte dal 1993 al 2016, e a questo profilo si rimanda indicando di volta in volta il numero del saggio stratigrafico riportato nella sezione generale (Fig. 2). In alcuni scavi è stato possibile indagare l’intera sequenza stratigrafica (es. Fig. 2,1); in altri l’intera ampiezza della strada comprensiva di banchine laterali e fossati (es. Fig. 2,2 d’ora innanzi solo il num. della sezione); in altri ancora si sono evidenziate solo alcune delle fasi costruttive (3). Nel complesso, grazie a queste indagini è stato possibile ricostruirne la storia, le fasi, le tecniche costruttive e gli accorgimenti adottati nel riattivare l’antica percorrenza a seguito di alluvioni che con l’apporto di consistenti sedimenti limosi ne avevano momentaneamente obliterato la percorrenza (Labate, 2019). Alla prima massicciata glareata (realizzata soprattutto con ghiaia) del 187 a.C. si sono sovrapposte altre massic- ciate e sedimenti alluvionali. I depositi alluvionali hanno comportato differenti interventi manutentivi e talvolta rifacimenti veri e propri della strada con una variazione del numero delle massicciate documentate che raggiunge un massimo di 11, come riscontrato nel caso degli scavi in località Cittanova (13). L’intera ampiezza della via consolare è stata esposta negli scavi: nel sottopasso della Tangenziale Pasternak (2); nel sottopasso della Ferrovia Modena-Sassuolo (4), nel sottopasso del supermercato Grandemilia (13), e nell’area di Santa Liberata (16) e Annunziata (18). La massicciata di Marco Emilio Lepido è dappertutto glareata (Fig. 3) e s’impianta direttamente sul piano di calpestio di età romana. La strada doveva ripercorrere o affiancarsi ad un tracciato più antico che collegava Rimini a Piacenza fondata nel 218 a.C. (Malnati-Manzelli, 2017). La strada consolare in tutta l’ampiezza della sede carrabile varia da 3 (13) a 4,5 m (2) fino 6 m (18). Lo spessore della massicciata, a schiena d’asino, varia da un minimo di 20 fino ad un massimo di 60 cm. In un caso al di sotto della massicciata, il terreno è rafforzato da pali (10). L’ampiezza completa della strada, con banchine e fossati, è stata rilevata nel sottopasso Pasternak (poco a est di Modena) per una larghezza di complessivi 28 m (2). Degna di rilievo è la dimensione dei fossati larghi 4 m e profondi 1,5 m (Bottazzi-Labate, 2017). Questi fossati, per la loro ampiezza, potrebbero essere stati utilizzati in alcuni tratti per agevolare il trasporto degli inerti che servivano per la massicciata. Nel corso del tempo, tra l’età alto imperiale e il tardo antico le dimensioni in larghezza della strada, in particolare dei piani rotabili, aumentano sensibilmente Figura 3. Modena, Via Emilia Est-Tangenziale Pasternak (cfr. fig. 2, 2). Massicciata stradale di età repubblicana Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 147 Figura 4. Modena, Cittanova, sottopasso Grandemilia (cfr. fig. 2, 13). Sezione stratigrafica della via Emilia con le massicciate dall’età repubblicata all’età contemporanea Figura 5. Modena, Cittanova, sottopasso Grandemilia (cfr. fig. 2, 13). Massicciata stradale di età augustea con profilo a schiena d’asino Figura 6. Modena, Piazza Torre (cfr. fig. 2, 7). Carotaggio con profilo stratigrafico: A. depositi alluvionali di età preromana; B. depositi antropici di età romana – I via Emilia di età repubblicana, II via Emilia glareata di età alto imperiale, III via Emilia basolata di età costantiniana; C. depositi alluvionali di fine VI-inizi VII secolo; D. depositi antropici di età medievale; E. depositi antropici di età moderna e contemporanea e si passa dai circa 3-4,5 m di età repubblicana ai 12-13 m in età tardoantica (Fig. 4) (Labate, 2019). Le tecniche di costruzione e l’uso dei materiali restano per lo più costanti dall’età repubblicana al tardoantico con l’uso quasi esclusivo di ghiaia di piccole e medie dimensioni. I principali interventi manutentivi sulla strada sono effettuati da Augusto (Fig. 5) e Costantino. A questi interventi sarebbero da riferire le nuove massicciate realizzate al di sopra di quella più antica (2). A Costantino sarebbe da riferire la basolatura della strada in ambito strettamente urbano e periurbano (7) (Fig. 6). La presenza di tre interventi manutentivi entro il corso del I d.C. riscontrati nel saggio della ferrovia Modena-Sassuolo (4) (Fig. 7) sarebbero da riferire, in parte, ad interventi di carattere pubblico a livello locale. Le strade erano sottoposte alla vigilanza sia dei curatores viarum che dei magistrati cittadini ai quali spettavano la manutenzione e la pulizia delle strade e degli spazi pubblici. .Con la lex Iulia municipalis (45 a.C.) a ciò furono incaricati gli edili. I maggiori e più significativi interventi manutentivi della strada, sia per l’ampiezza della massicciata, sia per l’uso di grandi blocchi lapidei e laterizi per costipare il terreno dopo le alluvioni, sia per il ripristino della strada con lo scavo dei sedimenti alluvionali, sono da riferire ai quattro eventi alluvionali (alluvioni I, III, IV e V) che si sono succeduti dalla fine del I secolo al VI secolo nel territorio ad est di Mutina. A tale riguardo si prendono in esame due scavi significativi: sottopasso della ferrovia Modena-Sassuolo (4) e il sottopasso della tangenziale Pasternak (2). Nel primo caso dopo la I alluvione, causata dal torrente Tiepido, con apporti sedi- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 148 Figura 7. Modena, Via Emilia Est, sottopasso Ferrovia Modena-Sassuolo (cfr. fig. 2, 4). Sezione stratigrafica con massicciate: I - età repubblicana; II-VI età imperiale; VII età tardo anitca. A. Depositi alluvionali di età preromana; B. depositi alluvionali tardoantichi (IV alluvione) Figura 8. Modena, Via Ciro Menotti profilo stratigrafico a ridosso della mura di Mutina con antico letto del Torrente Tiepido in rapporto ai depositi alluvionali e all’uso del suolo come area cimiteriale tardoantica. Datazione radiocarbonica della tomba in basso -420-540 d.C. mentari per uno spessore di circa 0,6 m, è documentato il ripristino della massicciata, la V, con l’uso esclusivo di laterizi e a seguire, dopo circa un secolo e forse dopo la II alluvione al ripristino di una VI massicciata in laterizi e ghiaia (Fig. 7). Una nuova alluvione, la III, dovuta sempre al Tiepido che abbandona il suo antico alveo tra la fine del III e l’inizio del IV (Fig. 8), torna a seppellire la massicciata della strada con circa 35 cm di sedimenti. Sui primi 10 cm che coprono la VI massicciata sono presenti diversi solchi di antichi carri, poi cancellati dai successivi apporti sedimentari (Fig. 9). L’intervento di bonifica e di ricostruzione ex novo della strada è di notevole portata: sopra il sedimento viene steso, racchiuso in blocchi lapidei (si tratta di blocchi derivanti dallo spoglio dei monumenti funerari), un manto di laterizi, al fine di compattare il terreno, segue una stesura di materiale più fine, su cui è posata la VII massicciata, in ciottoli, laterizi e frammenti lapidei per un’ampiezza di circa 11 m (Fig. 7). Stessa tecnica è stata riscontrata in altri due saggi di scavo posti a poca distanza, all’incrocio con via Bonacini (5) e al numero civico 509 della via Emilia Est (Fig. 10). Nel sottopasso della tangenziale Pasternak (2) i depositi della III, IV e V alluvione, vennero invece asportati manualmente per raggiungere e ripristinare l’ultima massicciata o manto stradale, ascrivibile al IV secolo. Al tetto del deposito da riferire alla III alluvione è stato rivenuto un tronco datato al 443-550 d.C. - 68,2% (Labate, 2017a) che rappresenta il terminus post quem del successivo deposito (IV alluvione), ascrivibile quindi al corso del VI secolo. Con la V alluvione, della seconda metà del VI secolo, si giunge ad asportare manualmente il sedimento alluvionale sia per rimettere in luce la strada, per un’ampiezza di circa 6 m e una profondità di 1,5 m, sia per scavare ai lati della grande trincea due canali di scolo per salvaguardare la strada da successive inondazioni. La trincea stradale e i canali risultano colmati da nuovi depositi argillosi (VI alluvione?) alla cui sommità, a circa – 1,5 m di profondità, sembrerebbe impiantarsi un nuovo battuto stradale, di probabile età basso medievale. Figura 9. Modena, Via Emilia Est, sottopasso Ferrovia Modena.Sassuolo (cfr. fig. 2, 4). Particolare dei primi depositi alluvionali (III alluvione) con solchi carrai sopra la VI massicciata Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 149 Figura 10. Modena, Via Emilia Est 509 (cfr. fig. 2, 3). Massicciata stradale tardoantica con reimpiego di blocchi lapidei e laterizi Figura 11. Modena, Cittanova, Santa Liberata rilevato ferroviario (cfr. fig. 2, 16). Opera di difesa dall’erosione della strada tardoantica alto medievale: particolare delle palizzate lignee sostenute da tronchi posti in orizzontale Figura 12. Modena, Cittanova, Santa Liberata rilevato ferroviario (cfr. fig. 2, 16). Massicciata stradale di età tardoantica con fossato e palizzata lignea di età altomedievale. A gradoni le massicciate dall’età tardoantica all’età contemporanea La pratica di rimettere in luce la massicciata stradale è documentata anche in altri saggi di scavo sia vicino alla città (7) sia ad occidente della stessa, a Palazzo Europa (9) e Parco Ferrari (10), dove si è verificata l’asportazione dei depositi della III e della IV alluvione. Per una fonte contemporanea ai disastrosi eventi alluvionali di VI secolo si veda la preziosa notizia relativa all’anno 579 riportata nella cronaca del vescovo Mario di Avenches (Avenches, 1894). Fino al pieno VI secolo il percorso del primigenio tracciato in rettifilo della strada consolare non subisce mutamenti e le massicciate si sovrappongono l’una all’altra in verticale e senza soluzione di continuità come è stato rilevato negli scavi del sottopasso del centro commerciale Grandemilia (13) (Fig. 4) . Solo a cominciare dell’alto medioevo, in particolare dalla seconda metà del VI e l’inizio del VII, con la V alluvione, è attestata la traslazione laterale di lunghi tratti della strada sia poco a sud dell’antica percorrenza (3, 4, 5) ad est della città, sia poco a nord della stessa in città e nel suburbio occidentale (da 6 a 11), sia poco a sud nella parte più occidentale del territorio (12, 14, 15 e 16). Lo spostamento della strada (traslazione laterale), che è stato rilevato avvenire per pochi metri (3 e 5) m fino ad un massimo di 30 m (6 e 7), è certamente da imputare al particolare spessore del deposito alluvionale, che raggiunge i 2,2 m di copertura della via in prossimità della città (7) (Fig. 6). All’asportazione del sedimento si preferì verosimilmente la realizzazione ex novo di una nuova massicciata al tetto del deposito alluvionale con l’uso sia di frammenti laterizi vicino alla città (6), sia di ghiaia nel restante tracciato. In un caso è documentato l’uso della massicciata tardoantica fino all’alto medioevo, quando, per prevenire erosioni della strada da nuove esondazioni, fu attuato un consolidamento delle sponde del canale laterale, a sud della strada, dotandolo di una palancata lignea (16) (Fig. 11). Un legno della palancata è stato datato su base radiocarbonica tra l’880 e il 1000 d.C. (Labate, 2017b). Dopo questa data è documentata la VI alluvione con al tetto una nuova massicciata in ghiaia coperta a sua volta dalla VII alluvione (ascrivibile al basso medioevo) seguita da successive massicciate (Fig. 12). Nel settore occidentale di Modena dal post-antico all’Ottocento sono documentate 5 o 6 nuove massicciate, la più antica (alto medioevo) in grossi Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 150 Emilia è di circa 8 m, un po’ più ampia della percorrenza di età repubblicana (4 e 5-6 m), minore di quella tardoantica di 12 e più metri e di molto inferiore all’ampiezza totale della strada di Marco Emilio Lepido che con banchine e fossati raggiunse nell’area orientale della tangenziale Pasternak i 28 m (2). Figura 13. Modena. Parco Novi Sad. Strada Basolata per Mantova coperta dal depositi alluvionale di fine IV inzi V sec. d.C. (III alluvione) e successivi (IV e V alluvione) ciottoli fluviali e le altre in ghiaia, tutte preservate al di sotto dell’attuale percorrenza della strada statale (9 e 13). Nel complesso, laddove è stato possibile correlare l’impianto del primo tracciato della strada con il piano di calpestio della colonia di Mutina e del terreno vicino alla consolare, è stato ap- purato che la quota della via in età repubblicana era leggermente più alta del piano di campagna antico. Tale quota si è modificata nel corso tempo fino a raggiungere, in età contemporanea a Cittanova, una differenza di circa 2 m al di sopra del piano di campagna. In questa zona l’ampiezza attuale della via Figura 14. Modena. Parco Novi Sad. Strada selciata per Mantova di età augustea Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 LA STRADA OBLIQUA PER MANTOVA: NUOVI DATI ANALITICI Anche la strada obliqua, che si staccava dalla via Emilia a poca distanza dalle mura di Mutina e che è stata messa in luce nei recenti scavi nell’ex Parco Novi Sad, presentava una massicciata in ghiaia (Malnati, 2017). La strada più antica, impiantata in età repubblicana e rinvenuta a circa 5,5 m di profondità, si impostava su un leggero dosso fluviale ed era fiancheggiata da due canali le cui sponde esterne distavano circa 21 m, misura complessiva dell’infrastruttura stradale conservata anche in età augustea quando la strada fu selciata con grossi ciottoli fluviali (massicciata di circa 5 m, crepidini di 4,5 m e fossati di circa 3,5 m). Questo tratto suburbano della via risulta attivo fino al IV secolo d.C. (Labate et al., 2017). L’alluvione di fine III-inizi IV sec. d.C. determinò un 151 Figura 15. Agro centuriato parmense. La Via Emilia in rapporto all’idrografia antica e attuale, le persistenze della centuriazione e le vie oblique a raggiera (dis. G. Bottazzi) parziale abbandono della stessa che fu poi completamente obliterata dall’alluvione di fine IV-inizi V secolo (Fig. 13). La via romana del Parco Novi Sad (Fig. 14), doveva congiungersi con la strada selciata rinvenuta nell’800 nel greto del Secchia in località San Giacomo (Labate, 1988), sezionata dal fiume e anche questa coperta da sedimenti alluvionali. La percorrenza per Mantova, abbandonata nel tratto sepolto dalle alluvioni, è stata comunque attiva anche nel post antico e alcuni tratti persistono nella viabilità attuale. Ricognizioni di superficie, intensamente condotte negli ultimi anni nel territorio di Soliera e di Carpi da Ivan Zaccarelli con l’ausilio delle immagini satellitari edite da Google Earth, hanno consentito di rilevare in superficie lunghi tratti di ghiaia e laterizi da riferire ad una via glareata il cui rettifilo è ben identificabile in aerofotografia anche grazie alla traccia dei fossati paralleli che la delimitavano (Labate-Zaccarelli, 2018). I rinvenimenti oltre a testimoniare la persistenza e la visibilità di alcuni tratti della antica via, fino al Medioevo ed oltre, in un’area a Nord del fiume Secchia non interessata da depositi alluvionali, hanno evidenziato che essa in località Appalto di Soliera si biforcava in due direttrici: una in direzione di Carpi e Mantua (Mantova) e l’altra in direzione del Po e forse di Ostiglia-Verona. CONCLUSIONI E PROSPETTIVE DI RICERCA L’estesissima base analitica disponibile per Modena ed il Modenese e le considerazioni di sintesi che sono state presentate non hanno confronti nell’ambito dell’antica regio octava augustea (all’incirca corrispondente all’attuale Emilia Romagna). È evidente che le variazioni idrografiche ed ambientali hanno avuto un grande impatto nella media e bassa pianura emiliano-romagnola, impatto millenario che risulta particolarmente avvertibile da età romana ad oggi. Ogni territorio presenta interessanti casi di studio che in questa sede è impossibile dettagliare. Alcuni di essi sono però particolarmente significativi. È il caso del paleoalveo dei “Tari morti” presso Castell’Aicardi (a meridione di San Secondo Parmense), rilevato nella cartografia geologica e visibilissimo nelle foto aeree. Qui il Taro antico, prero- mano e romano a giudicare dalla copertura/superficialità dei siti archeologici lungo le sue sponde, presentava una vistosissima divagazione verso Occidente. Gli antichi agrimensori nell’impostare il reticolo centuriale della colonia civium Romanorum di Parma mostrano di conoscere e tenere presente questa particolare ansa del fiume antico: i cardini della centuriazione raggiungono la sua sponda destra e di conseguenza superano il fiume per tutto il resto dell’agro centuriato occidentale (Fig. 15). L’esito ultimo vede il fiume Taro oggi seguire l’andamento dei cardini centuriali senza che sia per noi possibile capire se ciò sia dovuto ad un’opera artificiale programmata oppure ad una rotta con avulsione naturale che si è canalizzata lungo i cardini del paesaggio agrario impostato in età romana. Le persistenze della via obliqua Parma-Cremona farebbero pensare ad una situazione creatasi nel corso di età romana. Simile situazione si riscontra a Nord di Modena, dove il fiume Secchia ha mutato il suo corso di età romana mentre oggi coincide perfettamente per molti chilometri con la persistenza di un cardine della centuriazione. Straordinario è poi l’esempio incontrato in decenna- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 152 li ricerche presso Maccaretolo di San Pietro in Casale (Bottazzi, 1991). Qui, un importante vicus stradale era posto su di un’ansa verso est dell’antico fiume Reno. In sponda sinistra arrivavano la via da Aquileia, la Venetia e Vicus Varianus (oggi Vigarano sull’antico corso del Po) e, forse, una via da e per Mutina che evitava le bassure tra Panaro e Reno. Un ponte, ligneo come tanti altri in Cisalpina, dava evidentemente accesso al villaggio posto sulla sponda destra. Era un importante centro di servizi (monumenti funerari a cuspide, iscrizioni e dediche imperiali, una notevole vera di pozzo del locale santuario dedicato ad Apollo ora al Museo Civico di Bologna) ma si caratterizzava soprattutto per una intensissima lavorazione del ferro (si tratta di minerali ferrosi delle miniere del Norico, della Carinzia). Il centro era raggiunto dalla via da Bononia al Po, fiume che la via attraversava poco a monte delle sue ramificazioni predeltizie. La scomparsa del vicus per un cambiamento del corso del Reno determinerà con ogni probabilità nel VI secolo l’avvio di un nuovo centro sul Po che ne evocava la secolare e singolare valenza produttiva: Ferraria, l’attuale Ferrara. Qui, poco a nord di Maccaretolo di San Pietro in Casale, la via S. Maria è anche il visibilissimo argine artificiale del Reno romano, ancora molto ben avvertibile in una pianura che è solo apparentemente piatta ed uniforme (Bottazzi, 2003). Il corso del Reno antico (da tempo noto in bibliografia come Reno A o di età etrusco-romana) termina nel corso del VI secolo d.C.. L’impostarsi dei nuovi corsi altomedievali del Reno nella bassa pianura tra Bologna e Modena (dove peraltro convergevano anche le acque di Secchia e Panaro) può costituire uno degli eventi catastrofici ricordati da Paolo Diacono (il cosiddetto “diluvio” di Paolo Diacono). Mutina, posta in una zona interconoidale depressa e caratterizzata da un notevole deficit sedimentario, ha ricevuto prevalentemente da corsi d’acqua minori una ricostruita serie di eventi alluvionali ed una notevole copertura sedimentaria che raggiunge i 6 metri di spessore e che ha reso difficile la ricerca archeologica. La copertura sedimentaria stessa ha però permesso analisi di dettaglio e scoperte straordinarie, rimaste nascoste alla spoliazione e ai reimpieghi di età post romana, ed ha favorito il consolidarsi di una continua interazione disciplinare tra archeologi, geologi e archeobotanici. BIBLIOGRAFIA Aventicensis M. (1894), Chronica, all’an- no 579 (Marii Episcopi Aventicensis, Chronica, a cura di T. Mommsen in MGH, auctores antiquissimi, II: Chronica minora saec. IV-VII, vol. 2, Berolini 1894 (rist. anast. München 1981), pp. 225-239. Bottazzi G. (1986), L’alluvionamento di Modena romana. 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Attraverso la descrizione dell’ipotetico percorso da Roma ad Ardea vengono considerate e discusse le differenti ipotesi dei vari Autori sul tracciato di questa antica via consolare. epoca romana, per le costruzioni edilizie Quilici, dal medesimo curatore della via (Mangone, Villani, 2009). Appia (Spera, 2001; Spera, 2002). Scarse sono le notizie storiche che riLa ricostruzione del tracciato antico guardano l’antico tracciato e quasi nulli della via appare alquanto problematica sin i riferimenti diretti su documentazione dal settore prossimo alle mura aureliane; epigrafica, ad eccezione del ritrovamento se infatti la strada moderna si stacca, dal di un’iscrizione sepolcrale di incerta pro- lato occidentale della via Appia, tra il I ed venienza (CIL VI, 8469) che ricorda un il II miglio all’altezza della chiesetta del manceps viarum Laurentinae et Ardeatinae, Quo vadis?, l’antico asse di collegamento volendo appunto fare riferimento ad un con Ardea usciva, con molta probabilità, unico appaltatore per le due vie, che non dalla Porta Nevia del circuito serviano e *** dovevano, perciò, avere un proprio curator, quindi da un’altra apertura delle mura auL’antica via Ardeatina, annoverata ma essere presumibilmente amministra- reliane, non concordemente identificata nel quadro delle viae dei cataloghi re- te, secondo l’ipotesi del prof. Lorenzo (Spera, 2001) (Fig. 1). gionari di epoca costantiniana, insieme con la vicina via Laurentina ad ovest, può essere ascritta tra le strade cosiddette “a corto raggio” in quanto la città di Ardea, sede del popolo dei Rutuli e suo terminale, distava da Roma circa ventiquattro miglia; l’antico tracciato a buon diritto può considerarsi fra le più antiche vie che servivano, a sud, il Latium vetus (Nini, 1996; Spera, 2001). Il territorio attraversato dall’antico tracciato, in un continuo saliscendi, è interessato principalmente dai prodotti pleistocenici del Vulcano Laziale, subordinatamente di sedimenti pleistocenici fluvio-palustri e dai depositi alluvionali recenti dei corsi d’acqua che drenano tutto l’edificio vulcanico dei Colli. L’area interessata dal percorso dell’Ar- Figura 1. Planimetria dell’uscita dell’Ardeatina dalla Porta Naevia deatina è caratterizzata dalla presenza di numerose cave,dalle quali vengono estratti i principali materiali piroclastici tipici della successione vulcanica, in particolare dalle pozzolane e dai tufi litoidi, ben visibili anche lungo le scarpate dei fossi attraversati. Proprio in corrispondenza di questi ultimi è possibile osservare l’intera successione stratigrafica della zona: alla base delle scarpate si rinvengono i prodotti vulcanici più antichi costituiti da tufi granulari che sono intercalati fra i sedimenti pleistocenici fluvio-palustri e, superiormente, litologie più prettamente pozzolaniche. In alcune scarpate, sopra tali depositi, si rinviene il “tufo lionato” ed il tufo di “villa Senni” che rappresentano i prodotti vulcanici più ampiamente distribuiti e pertanto più utilizzati, anche in Figura 2. Planimetria dell’uscita dell’Ardeatina dalla Porta Ardeatina Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 154 Finora è apparso assai controverso l’andamento del primo tratto dell’Ardeatina, sul quale si sono formate tra gli studiosi diverse interpretazioni. Per alcuni l’Ardeatina si staccava dalla via Appia antica all’altezza della chiesa del Quo vadis?; secondo un’altra ipotesi ricostruttiva l’antica via usciva dalle mura aureliane attraverso la Porta Ardeatina, distrutta con la costruzione, nel XVI secolo, del bastione realizzato dall’architetto Antonio da Sangallo (Fig. 2). In base a questa ipotesi, la via doveva quindi volgere verso sud con andamento del tutto autonomo, pressappoco corrispondente al tratto attuale della Cristoforo Colombo, per poi proseguire con il tracciato della moderna via Ardeatina, presso il settore poco a nord dell’incrocio con via delle Sette Chiese (Spera, 2002) (Fig. 3). Almone mediante un unico ponte, per poi distaccarsene nuovamente all’altezza del Quo vadis?, dove si trova il bivio con l’attuale via Ardeatina (Spera, 2002) (Fig. 4). Le più recenti interpretazioni sostenute dal prof. Vincenzo Fiocchi Nicolai e dalla prof.ssa Lucrezia Spera avvalorano la seconda ipotesi, sottolineando come solo in età tardo antica, a partire dal IV secolo in poi, in seguito alla chiusura della porta delle mura Aureliane dovuta a problemi difensivi, la via si diramasse direttamente dalla via Appia; la presenza di numerosi sepolcri e luoghi di culto cristiani lungo il suo tracciato, come la catacomba di Balbina, la basilica circiforme di papa Marco, la catacomba di Marco e Marcelliano e il cimitero di Domitilla costituiscono un’ulteriore prova del nuovo percorso della strada (Spera, 2002; Granelli, De Rossi, 2003). Figura 3. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina-Cristoforo Colombo A questa interpretazione si oppone quella secondo cui il tracciato della via Ardeatina corrisponderebbe al basolato rinvenuto un po’ più ad est, proveniente dalla posterula ardeatina, anche detta “di Vigna Casali”, posta lungo il viale delle Mura Ardeatine, ad ovest di Porta San Sebastiano e ancora visibile ad est, entrando dagli archi di passaggio della moderna via Cristoforo Colombo. Dal portale usciva una strada basolata, con andamento nord ovest - sud est, diretta chiaramente verso la via Appia, con la quale oltrepassava il fiume Figura 4. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina verso via Appia Per una ricostruzione del tracciato viario tra il III ed il IV miglio dell’Ardeatina sono state prese in considerazione le tre principali ipotesi ricostruttive. La prima, ipotizzata dalla prof.ssa Lucrezia Spera, vede il percorso proseguire dall’incrocio con via delle Sette Chiese e coincidere con la moderna via Ardeatina fino al km 6, all’altezza del quale l’Ardeatina antica piegava a sud ovest, ricalcando nel tratto iniziale via della Cecchignola (Spera, 2001; Spera, 2002) (Fig. 5); la seconda ipotesi, sostenuta dal prof. Lorenzo Quilici, sostiene Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 che la strada antica corresse più a ovest rispetto a quella attuale, con un percorso tangente il limite occidentale della Tenuta di Tor Marancia. In questo tratto il percorso costeggiava ad ovest la Torre medievale di San Tommaso, l’odierna Tor Marancia e, più a valle, superava con un ponticello la Marrana di Grotta Perfetta; quindi, dopo aver superato la chiesa dell’Annunziatella, con l’omonima catacomba su via di Grotta Perfetta, il tracciato antico, con una carreggiata della larghezza di circa 4,1 m ed uno dei marciapiedi, sul lato della necropoli, di circa 4 m, si ricongiungeva a quella della Ardeatina moderna (Cecchini, Pagliardi, Petrassi, 1985; Bedini, 1987-1988; Santangeli Valenzani, Volpe, 19871988; Granelli, De Rossi, 2003; Pagliardi, Cecchini, Bertinetti, 2004) (Fig. 6). Una terza ipotesi, sempre del prof. Lorenzo Quilici, presenta un percor- so alternativo che dall’incrocio con via delle Sette Chiese prosegue per via dell’Annunziatella e per via dei Numisi, tagliando da nord a sud la Tenuta di Tor Marancia; il tracciato, superata la Marrana di Grotta Perfetta attraverso un ponte, si ricongiungeva all’odierno percorso di via di Grotta Perfetta, per proseguire poi verso l’Ardeatina moderna (Fig. 7). All’interno della Tenuta di Tor Marancia, lungo questo tracciato, numerose sono le testimonianze archeologiche relative ad impianti di ville residenziali 155 Figura 5. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina secondo la prima ipotesi Figura 6. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina in base alla seconda ipotesi Figura 7. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina secondo la terza ipotesi come quella di Munatia Procula e Numisia Procula (Spera, 2001; Spera, 2002; Granelli, De Rossi, 2003). Dall’incrocio tra l’attuale via Ardeatina con via di Grotta Perfetta la viabilità moderna ricalca esattamente il tracciato antico (Sommella, 1964) e prosegue fino alla biforcazione con via della Cecchignola; in questo tratto il basolato si attesta per una larghezza di circa 4,5-5 m (Spera, 2001; Spera, 2002; Pagliardi, Cecchini, 2010; Tella, 2000a; Tella, 2000b). Nei pressi dell’incrocio tra la moderna via Ardeatina con via della Cecchignola indagini archeologiche preventive, eseguite a partire dal 1984 fino al 2015, hanno messo in luce un lungo tratto relativo all’antico tracciato dell’Ardeatina vetus della larghezza di circa 3,5 m e una serie di strutture edilizie di epoca romana imperiale, verosimilmente sia a carattere cultuale, sia funerario (Cereghino, Ghelli, Pinelli, 2008; Cereghino, Ghelli, Luglio, Rocci, 2014). L’area interessata dai recenti ritrovamenti, compresa nell’ambito del V e VI miglio dell’Ardeatina vetus, si estende, con un orientamento circa nord-sud, su un’ampia fascia prospiciente il lato orientale della moderna via della Cecchignola. Particolarmente interessante è stato il ritrovamento di un complesso monu- mentale, identificabile con un collegium funeriario, che si estendeva in senso longitudinale, con orientamento circa nord est-sud ovest, sul limite orientale di Via della Cecchignola (Ghelli, 2007; Cereghino, Ghelli, Luglio, Rocci, 2014). L’esame planimetrico dei resti individuati ha evidenziato un edificio in muratura probabilmente sviluppato, in altezza, con almeno un piano superiore attualmente non conservato. La serie di vani messi in luce al pian terreno si distingue in tre ambienti di rappresentanza disposti in asse, provvisti di pavimentazione musiva e decorazione parietale e di cinque ambienti di servizio, che conservano una pavimentazione in malta di cocciopesto (Cereghino, Ghelli, Luglio, Rocci, 2014; Schifi, 2020). Proseguendo lungo il percorso di via della Cecchignola, nei pressi dell’incrocio con via del Casale Zola, subito ad est del quartiere Fonte Meravigliosa, sorgono i resti di un’estesa villa suburbana, databile tra la tarda età repubblicana e la metà del II secolo d.C. (Schifi, 2003); la villa ed i resti di una parte del tracciato dell’antica via Ardeatina furono individuati per la prima volta nel maggio del 1828 e riscavati nuovamente nel gennaio del 1939 con il rinvenimento di alcune stanze con tessellati pavimen- tali. Un recente riesame della produzione cartografica della zona del 1839 ha permesso di ipotizzare l’appartenenza a questa villa anche di un altro grande mosaico policromo a tessere piccole e medie, attualmente conservato presso i Musei Vaticani (Schifi, 2018). Proseguendo verso sud, dopo aver superato il fosso della Cecchignola, il tracciato della via Ardeatina si conserva per circa 30 m all’interno della cunetta laterale presso il lato occidentale del moderno tracciato (Sommella, 1964; De Rossi, 1967). La strada da questo punto si distaccava poi da via della Cecchignola, in corrispondenza di via della Cecchignoletta e proseguiva, verso sud, lungo un viottolo di campagna costeggiando, sul lato occidentale, l’area dei Casali Romagnoli per oltre 1 km (Fig. 8); l’antico percorso in questa zona, ricalcando fedelmente la moderna carrareccia, è disseminato lungo i margini da numerosissimi basoli fuori posto che affiorano continuamente (Sommella, 1964; De Rossi, 1967; Spera, 2001; Spera, 2002). A partire dalla metà dagli anni Ottanta del secolo scorso e fino al 2015 in quest’area, su entrambi i lati di via della Cecchignola, sono stati individuati resti di tombe a fossa, mausolei funerari Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 156 Figura 8. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina, tratto Tenuta Cecchignola in muratura, alcune cisterne scavate nel tufo e le tracce di un impianto rustico di epoca romana (De Rossi, 1967; Schifi, 2003; Cereghino, Ghelli, Pinelli, 2008). La restituzione ideale del tracciato antico, dopo aver incrociato via di Tor Pagnotta e proseguendo per un tratto su via del Bel Poggio e sull’omonimo vicoletto (Fig. 9), è affidata alla dislocazione di monumenti superstiti, originariamente connessi alla strada. In particolare in questo punto l’orientamento del tracciato si identifica con i resti di una torre medievale, detta “Tor Chiesaccio”, costruita sui resti di un sepolcro in mattoni di età romana riferibile al II secolo d.C., nei cui pressi è stato rivenuto un tratto di basolato ascrivibile all’Ardeatina e ad un suo diverticolo sul lato ovest (Sommella, 1964; De Rossi, 1967; Spera, 2001; Spera, 2002). Una volta superato il fosso di Fiorano e attraversato il Grande Raccordo Anulare l’antica via Ardeatina, presso il Casale della Torre, si biforcava in due percorsi che si riunivano circa 15 km più a sud, presso il Casale di S. Procula (Fig. 10); non molto distante, ad est della biforcazione che corrisponde pressappoco al VII miglio dell’Ardeatina, sorgeva una torre del XIII secolo, chiamata la “Torraccia” che probabilmente aveva la funzione di sorvegliare il punto da cui si dipartivano le due strade per Ardea (Sommella, 1964; De Rossi, 1967; Spera, 2001; Spera, 2002). Il tracciato occidentale è stato identificato in un sentiero fino all’incrocio con via di Castel di Leva, oltre la quale l’Ardeatina si sviluppava in un taglio naturale tra due colline per poi rivolgersi verso la tenuta della Castelluccia, dove sono stati rinvenuti alcuni basoli. Figura 9. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina - via di Tor Chiesaccio Da questo punto la strada antica tagliava la tenuta di Valleranello fino al casale della Torretta; quindi, superata via di Porta Medaglia, il percorso proseguiva lungo l’attuale via Laurentina, a partire dal km 14, fino ad Ardea (Sommella, 1964; De Rossi, 1967) (Fig. 11). Il percorso orientale dell’Ardeatina antica è rintracciabile a partire da via di Tor Chiesaccia ed è documentato dalla presenza, in questa zona, di resti di un impianto di tipo residenziale, presso il Casale Gasperini, e di un monumentale sepolcro rettangolare del II secolo d.C.; antiche fonti agiografiche ricordano inoltre la presenza di un cimitero, tutt’ora non individuato, dove era sepolta la martire Felicola, all’altezza del VII Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 miglio dell’Ardeatina (Sommella, 1964; De Rossi, 1967; Spera, 2001; Spera, 2002) (Fig. 12). Il percorso della strada proseguiva lungo un sentiero che passava tra i casali della Castelluccia e di Sant’Anastasia, quindi ricalcava grossomodo il tratto più meridionale dell’odierna via di Torre S. Anastasia, dove nel 1965 fu rinvenuta una villa con impianto termale (De Rossi, 1967). Dopo via di Porta Medaglia la strada si dirigeva verso Casal Giudeo, lungo un sentiero ricavato da un taglio artificiale, e da qui, volgendosi verso sud est, attraversava la zona oggi occupata da villa Barberini fino ad incrociare l’odierna via della Solfarata (Sommella, 1964; De Rossi, 1967). Figura 10. Stralcio Tavoletta IGM con percorso via Ardeatina alla biforcazione 157 Figura 11. Stralcio Tavoletta IGM con percorso occidentale della via Ardeatina Figura 12. Stralcio Tavoletta IGM con percorso orientale della via Ardeatina Commissione Archeologica Comunale di Superato questo incrocio il tratto De Rossi (1967), Tellenae. Forma Italiae Regio I, vol. 4, Roma Roma, vol. 92, 544-549. occidentale dell’Ardeatina si ricongiunGhelli A. (2007) Una lastra con scena di batSchifi L. (2003), L’abitato e la necropoli della geva, all’altezza della già citata chiesa di taglia da Via della Cecchignola, in Museo & Laurentina Acqua Acetosa. 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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 SESSIONE 3 LE FONTI STORICHE E CARTOGRAFICHE 161 Paola Furlanetto Akeo, Padova Email [email protected] Cartografia storica e geomorfologia nella ricostruzione della Via Annia: il caso di Altino Aldino Bondesan Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità – DiSSGeA Historical cartography and geomorphology in the reconstruction of annia way: the case of Altino Research Fellow in the Department of Military Geography, Faculty of Military Science, University of Stellenbosch (South Africa) E-mail: [email protected] Parole chiave: cartografia storica, archeologia, geomorfologia, Via Annia, Città romana di Altino Key words: historical cartography, archeology, geomorphology, Annia Road, Roman city of Altino) RIASSUNTO L’approccio multidisciplinare che ha caratterizzato l’elaborazione della Carta geomorfologica digitalizzata della provincia di Venezia ha portato all’identificazione ed elaborazione grafica di gran parte del tracciato dell’antica via consolare Annia, stesa nel II secolo a.C. da Adria a Aquileia, e ha dato avvio ad una lunga stagione di studi e pubblicazioni inerenti la strada romana. La sinergia di discipline diverse - archeologia e geomorfologia in primis-, competenze specifiche e moderni strumenti di indagine (telerilevamento, modelli digitali del terreno, foto aeree, carotaggi, datazioni 14C), ha consentito di mettere a confronto (e a confermare in molti casi) i tratti della via con i resti archeologici, indicatori della sua presenza (lacerti, ponti, cippi miliari e necropoli), e con le caratteristiche geomorfologiche. L’utilizzo di software GIS ha permesso di organizzare le informazioni cartografiche in livelli distinti e ha consentito la loro sovrapposizione e verifica puntuale. Questo tipo di indagine non invasiva, predittiva e a basso costo si è avvalsa anche della cartografia storica, attraverso la consultazione e l’utilizzo della banca dati Imago. La banca dati, contiene più di 300 carte storiche, dal XV al XVII secolo, del territorio lagunare e di gronda, e la descrizione archivistica e geomorfologica di ciascuna. La cartografia storica ha giocato un ruolo importante e spesso decisivo nella ricostruzione del tracciato della via Annia nella Carta geomorfologica e nella successiva Carta delle unità di paesaggio geo-archeologiche della provincia di Venezia, confermando, in molti casi, il percorso rilevato dalle foto aeree e satellitari. La quasi totalità delle carte analizzate è riferibile al XVXVI secolo, carte di grande suggestione, ma secondo un’opinione condivisa tra gli studiosi, di difficile utilizzo in campo scientifico: risulta spesso arduo, se non impossibile, il confronto “a vista” tra carta antica e moderna, né è possibile stabilire una corrispondenza puntuale tra gli elementi rappresentati nelle due carte, trattandosi di mappe a scale differenti, non geodetiche, spesso deformate e almeno all’apparenza, poco corrette e precise. È stata messo a punto un metodo ad hoc per la georeferenziazione e il trattamento delle immagini, reso possibile dalla disponibilità di un alto numero di carte, da immagini ad alta risoluzione, dall’introduzione dell’indice di errore e dalla verifica degli elementi rappresentati, a cui si è aggiunta la sovrapposizione con livelli informativi archeologici e geomorfologici. La stessa metodologia è stata applicata ad una carta cinquecentesca, conservata all’Archivio di Stato di Venezia che rappresenta l’area della città romana di Altino, oggi sepolta. La carta, mai considerata fino ad ora ai fini di una lettura archeologica, mostra una buona coincidenza con gli elementi emersi dall’indagine archeologica e geomorfologica e, per certi aspetti, sorprendenti somiglianze con una recente immagine telerilevata che ha svelato una città perfettamente organizzata e urbanizzata. PREMESSA La cartografia antica possiede un grande valore storico e documentario ed è considerata una fonte importante e imprescindibile per lo studio delle dinamiche territoriali e antropiche. Il ruolo che svolge nell’ambito della geografia storica, come strumento funzionale alla lettura del territorio, viene confermato anche dalla lunga e felice tradizione di pubblicazioni e ricerche del Dipartimento di Geografia dell’Università di Padova (attivo fino al 2012), rivolti allo studio dell’immenso, quanto ra- ro, patrimonio cartografico conservato all’Archivio di Stato di Venezia. Le carte ci restituiscono un’immagine precisa della realtà geografica e antropica e rappresentano fonti di informazioni geograficamente localizzate e relative a un preciso momento storico, fissate “come in un fermo immagine di un lunghissimo film” (Dall’Aglio, Di Cocco, Marchetti, 2002). Mostrano, in successione diacronica, trama narrativa e trasformazioni naturali e antropiche di un territorio in una sorta di meravigliosa biografia figurata (Dai Pra’, Tanzarella, 2009) e sono testimonianza unica e precisa di quei fenomeni che, come scrive Marinelli (1881), nessuna descrizione orale o scritta poteva bastare a esporli. Il potente apparato iconografico che le caratterizza si rivela però, tanto affascinante quanto di difficile lettura e interpretazione, tanto da essere state definite “clienti scivolosi” (Harley, 2001). La sola visione autoptica, fino a poco tempo fa l’unica possibile, non è sufficiente in molti casi, specie per le carte più antiche, a leggere, identificare e interpretare correttamente gli elementi rappresentati. Si rivela inoltre difficile, se non impossibile, la comparazione visiva tra carte storiche e moderne, a causa della differenza di scala e della distorsione di ordine geometrico che caratterizza la produzione cartografica pregeodetica. L’elaborazione della Carta geomorfologica della provincia di Venezia (Bondesan, Meneghel, 2004) è stata l’occasione per mettere a punto strategie e metodi, avvalendosi di discipline diverse e di moderni strumenti d’indagine. In questo contesto (Furlanetto, 2004a) e nell’elaborazione della successiva Carta delle unità di paesaggio geoarcheologico (Furlanetto, 2012b), la cartografia storica ha giocato un ruolo del tutto inedito, quanto importante per ciò che ha riguardato Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 162 lo studio degli elementi morfologici e della topografia storica. L’indagine cartografica si è avvalsa della consultazione e dell’utilizzo della banca dati Imago e delle elaborazioni messe a punto in seno al Progetto Imago, progettato e diretto dagli scriventi e finanziato dal Magistrato alle Acque di Venezia dal 2002 al 2012 (Furlanetto et al., 2004) Un’analisi avanzata delle carte e il loro trattamento digitale hanno contribuito, in sinergia con i dati provenienti da altre discipline, all’identificazione ed elaborazione grafica del tracciato, senza soluzione di continuità, di una antica via perilagunare riconoscibile solo in parte col percorso della via consolare Annia, stesa nel II secolo a.C. da Adria ad Aquileia per Padova, Altino, Concordia e Aquileia (Bosio, 1990; da ultimo Rosada et al., 2010). Il riconoscimento del tracciato ha dato avvio a una lunga e felice stagione di studi, ricerche e pubblicazioni (Ghedini et al., 2002; Busana, Ghedini, 2004; Progetto Via Annia: Veronese, 2009; 2011; Rosada et al., 2010). Una campagna di telerilevamento, condotta una decina di anni fa, ha messo in luce una spettacolare immagine dell’antica città di Altino, rivelando la struttura urbanistica e la presenza della via all’interno della città, solo suggerite, prima di allora, da scavi e ricerche (Ninfo et al., 2009). Una città antica, Altino, ora sepolta e invisibile, di lei rimane oggi solo il ricordo nel toponimo, che le fonti storiche definiscono come un’isola in mezzo alla laguna, e, solo in parte finora, messa in luce da ricerche archeologiche. Una carta cinquecentesca, nota e edita, mostra uno spazio definito, circondato e attraversato dalle acque, nell’area occupata dalla città romana di Altino (Biblioteca del Museo Correr, P. D., C. 843.8), e, mai interpretata in tal senso, rivela una sorprendente somiglianza con l’immagine telerilevata. LA VIA ANNIA, STORIA DI UNA STRADA, STUDI E RICERCHE La via, fatta costruire da Tito Annio Lusco nel 153 a.C. o più probabilmente da Tito Annio Rufo nel 131 a.C., si snodava da Adria per Padova, Altino e Concordia fino ad Aquileia (Bosio, 1990; 1991, p.68). La stazione di arrivo, Aquileia, è confermata dalle fonti epigrafiche (CIL, V, 7997; 7992=ILS 5860), non trova menzione invece l’altro capolinea, che gli autori concordemente identificano con Adria, dove arrivava la via Popilia, da Rimini da Adria, fatta costruire dal console Publio Popilio Le- nate nel 132 a.C., come testimonia un miliare rinvenuto alla periferia sud ovest della città (CIL, V; 8007=ILS 5807). Il tracciato fu rivelato per la prima volta nel 1884 dalla Commissione incaricata dalla Real Deputazione di Storia Patria (Barozzi et al., 1884) che rinvenne le sue tracce in una larga striscia di ghiaia riconoscibile da Altino fino al Piave, ed è stato confermato in alcuni suoi tratti in tempi più recenti da ricerche di superficie tra Sile e Piave e tra Piave e Tagliamento, che hanno portato alla luce lacerti di strada, ponti e numerosi miliari di epoca tardo romana (Basso, 1987;1996). Più di cent’anni di scavi e ricerche hanno permesso di precisare l’ingresso della via fiancheggiato da necropoli, nei pressi di Altino e Concordia. STRUMENTI E METODI L’approccio multidisciplinare coniugato ad un protocollo di studio ad hoc, collaudato in seno al Progetto DogeLeo (Bondesan, Meneghel, 2004), ha caratterizzato l’elaborazione della Carta geomorfologica della provincia di Venezia, la prima a cartografare in un quadro unitario tutti i siti archeologici editi e gli elementi di topografia antica. Ha contribuito all’elaborazione della carta la sinergia di discipline diverse, archeologia geomorfologia e geologia in primis, competenze specifiche e moderni strumenti di indagine (telerilevamento, fotointerpretazione, carotaggi e prove geognostiche, datazioni al 14C, DTM della pianura) e un progetto GIS coordinato, in grado di creare una piattaforma geografica comune di studio e rappresentazione. Un ruolo significativo ha svolto la cartografia storica, per la quale è stata elaborata una strategia di studio di tipo non convenzionale, che ha tenuto conto dei limiti e delle potenzialità delle carte. La necessità di superare, da una parte la mera visione autoptica, compromessa dalla distorsione geometrica, dall’altra la difficoltà di lettura data dalla grande varietà di scale, tematismi, finalità, fedeltà, affidabilità della rappresentazione e committenza, hanno portato a fissare criteri univoci ed oggettivi di decodificazione delle carte. Era necessario infatti poter disporre di un congruo numero di carte in successione cronologica che potesse rappresentare un valido e attendibile campione rappresentativo e sottoporre ciascuna carta ad un’analisi “spinta”, di tipo non esclusivamente storico-archivistico, ma anche geografico e geomorfologico, al fine di poter valutare comparativamente gli elementi della carta. È stato inoltre fondamentale Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 il ricorso a strumenti di geomatica, per un trattamento delle immagini che prevedesse georeferenziazione, operazioni di sovrapposizione (overlay) con carte moderne, restituzione cartografica degli elementi ed elaborazione grafica. L’enorme patrimonio cartografico conservato all’Archivio di Stato di Venezia ha rappresentato una formidabile risorsa, con migliaia di carte prodotte dalle magistrature veneziane della Serenissima dal XVI al XVIII secolo, per il governo delle acque e dei territori contermini; si tratta di carte di tipo descrittivo, progettuale, amministrativo-fiscale e celebrativo. L’indagine cartografica ha potuto avvalersi della consultazione e dell’utilizzo delle banche dati e delle elaborazioni del Progetto Imago (Image Map Archive Gis Oriented), relativo allo studio della cartografia storica della Laguna di Venezia e della gronda lagunare e finalizzato alla sua ricostruzione diacronica (Furlanetto, 2004a; Furlanetto et al., 2004; Furlanetto et al., 2009; Furlanetto, Bondesan, 2012; 2014; Bondesan, Furlanetto, 2012). Il data base Imago contiene 350 carte storiche selezionate dallo spoglio di circa 7000 esemplari originali conservati all’Archivio di Stato di Venezia, scelti in base all’autore, alla scala, al secolo, alle finalità e alle caratteristiche intrinseche ed estrinseche delle carte. Ogni carta viene illustrata in una scheda che contiene l’immagine in formato raster ad alta risoluzione, una sezione descrittiva di tipo archivisticodocumentario, un’altra di tipo geografico e una parte interpretativa, con il controllo di affidabilità e fedeltà della rappresentazione. Il data base Forma, che affianca il data base Imago, riporta in modo sistematico i principali elementi geomorfologici rappresentati nelle carte. Le carte ritenute rappresentative, il 20% del totale, sono state georiferite e per ognuna di esse si è proceduto alla sovrapposizione con le carte moderne e alla vettorializzazione degli elementi cartografici. Una attenzione del tutto particolare è stata riservata alla georeferenziazione, ritenuta da molti autori una sfida impossibile per le carte più antiche del XVI secolo. La qualità geometrica di ognuna di esse è stata controllata attraverso l’errore quadratico medio (in inglese Mean Squared Error, MSE) nell’operazione di georeferenziazione. Nel caso di un MSE particolarmente elevato in funzione della scala della carta, si è proceduto, nel caso di carte a piccola scala, a nuove operazioni di georeferenziazione di piccole porzioni e a 163 successiva mosaicatura (Gatta, 2011). In questo modo è stata possibile la sovrapposizione della carta e la comparazione degli elementi ivi rappresentati con tutti gli altri livelli informativi del Progetto Doge-Leo. Sono state così identificate e cartografate tutte le tracce antropiche relative alla rete viaria antica. Tra gli elementi considerati si annoverano anche i tratti rettilinei presenti nella cartografia moderna che coincidono (all’interno di una fascia di buffer che considera sia l’indeterminatezza legata agli errori di rappresentazione in fase di rilievo e di stesura della mappa antica che quelli di georeferenziazione) con la rete viaria antica. Tali tratti sono stati poi interpretati, ed eventualmente confermati, in funzione del con i dati archeologici e geomorfologici di base. rilevato dall’indagine geomorfologica e dalla fotointerpretazione (La pianura tra Sile e Piave, 1991) (Fig. 1). I numerosi miliari di epoca tardo romana rinvenuti a fianco della via ne scandiscono il tracciato (Basso, 1987; 1996). Anche i siti archeologici rinvenuti in prossimità, come necropoli ed edifici rustici, databili tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C., costituiscono elementi indiziari a ulteriore conferma della presenza della strada. Sono molti i tratti relitti riconosciuti nelle carte storiche: alcuni sopravvivono oggi in direttrici moderne, altri non sono più visibili, e altri ancora hanno trovato perfetta coincidenza con quelli messi in luce dalla fotointerpretazione. La so- pravvivenza e il rilevamento delle tracce si rivelano profondamente diverse da zona a zona e sono fortemente condizionate dal tipo di terreno, dalla storia del sito e dalle caratteristiche geomorfologiche e geologiche. Fotointerpretazione e rinvenimenti archeologici mostrano un tracciato a lunghi tratti rettilinei con direzione nord-sud e modesti cambi di direzione da Adria fino a Marghera, nell’area centro meridionale della provincia di Venezia (e una piccola parte di Padova), dove sono completamente assenti le sopravvivenze della via, coperte o manomesse dalla coltre alluvionale post romana dovuta sia a cause naturali che alla serie di interventi idraulici di deviazione fluviale messi in atto dalla Serenissima RISULTATI LA VIA PERILAGUNARE Il percorso di una via prossima al margine lagunare, arretrato rispetto ad oggi, è perfettamente ricostruibile nei tratti rettilinei, caratterizzati da modesti cambi di direzione, che attraversano da sud a nord, e quindi verso nord-est, senza soluzione di continuità, il territorio della provincia di Venezia e una parte di quello di Padova. Sono molte le tracce antropiche desunte dalla fotointerpretazione, riconoscibili come tratti della via romana. Sono accumunate dalla stessa risposta radiometrica: una traccia chiara, 20 m circa di larghezza, delimitata da due tracce più scure che caratterizza i numerosi tratti ad andamento rettilineo, ma diversamente orientati che da Adria per Monsole, Lova, Mestre e Altino arrivano a Concordia. I dati della fotointerpretazione trovano riscontri puntuali con tratti di strada rilevati sul terreno, con i risultati delle ricognizioni effettuate dal Dese al Livenza dalla Reale Deputazione di Storia Patria alla fine del 1800 (Barozzi et al., 1883a; 1883b, 1883c; Barozzi et al., 1884) dati forniti da numerosi sondaggi e da uno scavo archeologico nei pressi di Ca’ Tron (Busana, Ghedini, 2004) hanno confermato le misure, una larghezza di 19-24 m, e la tecnica stradale della via, una glarea strata, caratterizzata da inghiaiatura superficiale e fiancheggiata da due ampi fossati. Le tracce identificate si saldano perfettamente con infrastrutture come i numerosi ponti, databili tra la fine del I a.C. e l’inizio del I d.C., nove quelli accertati solo nel tratto Sile-Tagliamento, che intercettano la strada in presenza di un corso d’acqua, ancora attivo o, più frequentemente, di un paleoalveo, Figura 1. Il tratto della via Annia dal Grassaga al Livenza, nella Carta della fotointerpretazione e dei siti archeologici della provincia di Venezia tra i fiumi Livenza e Tagliamento: 4= ponte sul Grassaga; 6= miliare, 209= ponte sul Livenza (Bondesan et al., 2002) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 164 Figura 2. a) La strada detta Orlanda, antica via Annia, nei pressi di Mestre (ASVE, SEA LAGUNA, 41,1628); b) la via Annia nella carta geomorfologica della Provincia di Venezia (Bondesan et al., 2004) nell’arco di due secoli. Il tracciato dal Naviglio Brenta a Malcontenta è da ritenersi per ora, pur credibile, ancora ipotetico, dal momento che il tratto rettilineo messo in luce dalla fotointerpretazione e finora interpretato come parte della via (Marchiori, 1986), si è rivelato ad un controllo recente un elemento strutturale moderno (un metanodotto interrato). La cartografia storica, messa a confronto con i rinvenimenti archeologici e i dati della fotointerpretazione, ha ottenuto un buon risultato nella ricostruzione del tracciato da Malcontenta-Marghera ad Altino, in un’area recentemente e pesan- Figura 3. Le carte storiche nella ricostruzione del tracciato della via Annia da Altino a Mestre. (a) ASVE, SEA LAGUNA 3, 1532; (b) ASVE, SEA LAGUNA 41, 1628; (c) Anton Von Zach, Kriegskarte, 1796-1805 (Rossi, 2005), IGM, 1880 Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 165 a) b) c) Figura 4. La via Annia tra Sile e Piave, in una mappa del 1547 di Jeronimo Marcolin (a) (ASVE, SEA Diversi, dis.3, 1547 ), nella restituzione grafica (b) e nella Carta geomorfologica della provincia di Venezia (c) (Bondesan et al., 2004) temente urbanizzata, apparentemente priva di tracce dell’antica strada. Emerge un percorso senza soluzione di continuità, a brevi tratti ad andamento spezzato e cambio minimo di direzione, che si tiene a una distanza costante dal margine interno antico. In questo caso si è rivelata risolutiva l’analisi delle foto aeree della RAF eseguite durante la Seconda guerra mondiale, che ha mostrato perfetta coincidenza con i percorsi delle carte storiche come nel caso della “strada de Orlando” (SEA LAGUNA 41, 1678), riconoscibile oggi nei pressi di Mestre come Via Orlanda (Fig. 2 e Fig. 3). Il tracciato prosegue in un perfetto gioco ad incastro da Altino fino al Livenza. La via si snodava in prossimità del margine lagunare antico con direzione sud-ovest/nord-est e un andamento a tratti spezzati e modesti cambi di direzione, lambendo una serie di lagune Figura 5. Il tracciato della via Annia ricostruito sulla base alla cartografia storica, alla fotointerpretazione e ai siti archeologici interne, oggi bonificate, dove sfociavano Sile, Piave, Livenza e Tagliamento. I tratti messi in luce dalla fotointerpretazione, quasi ininterrotti e ben visibili, trovano buona coincidenza con quelli desunti da cartografia storica e sono confermati dai numerosi miliari e ponti che intercettano la via in prossimità di paleoalvei (Fig. 4). Il tratto a sud della Fossetta nei pressi di Bellesine, indicato in una carta storica del 1558 come Strata detta la giarina (ASVE, Beni Inculti Treviso -Friuli dis 481-58-3), che nel toponimo ricorda la tecnica costruttiva della via, vale a dire una strada inghiaiata, è parallelo ad una fossa, oggi coincidente con il Fosso Gorgazzo, lungo il quale sono stati trovati alcuni miliari. Il percorso da Stino di Livenza al Tagliamento, coincidente per un lungo tratto con la strada attuale e ricostruibile da alcuni brevi tratti desunti da fotointerpretazione, è scandito da rinvenimenti archeologici, miliari cippi e impianti produttivi e si mantiene appena a nord dell’area lagunare attualmente bonificata. Il tracciato da Adria al Tagliamento (Fig. 5) coincide solo parzialmente con il tracciato tradizionalmente riconosciuto come via Annia che da Adria si dirigeva verso Padova e Altino, Concordia e Aquileia. Nessuna fonte antica ricorda la strada Adria-Aquileia, né il tratto Adria- Padova; solo l’itinerario Antonini (281-1-282), un itinerario stradale di epoca tardo romana, descrive la via da Bononia, Mutina, Vico Semino, Vico Variano, Anneiano, Ateste, Patavis, Altino, Concordia e Aquileia. Il percorso di una strada perilagunare, molto simile alla nostra via, da Ravenna ad Altino, con le stazioni di posta e le relative distanze, è raffigurato nella Tabula Peutingeriana, databile al IV-inizi V Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 166 Figura 6. Altino nella foto aerea (a) e nello stralcio della carta geomorfologica della provincia di Venezia (b) (Bondesan, Meneghel, 2004) d.C.. Non si vuole entrare in merito alla questione, sul nome della via e il tracciato (per la quale si rimanda a Rosada et al. 2010): via Popilia da Adria ad Altino, via Annia da Altino ad Aquileia, ma si propone in questa sede l’esistenza di una via perilagunare di cui si sottolinea il caratteristico andamento a tratti spezzati e diversamente orientati seppur con modesti cambi di direzione e il perfetto adattamento alle condizioni geomorfologiche. Medesima la risposta radiometrica, le misure, le caratteristiche di strada inghiaiata e l’assetto geomorfologico che caratterizzano l’intero tracciato. La strada si mantiene per tutto il percorso a una distanza costante dal margine lagunare antico, arretrato rispetto a quello moderno. Il tracciato aggira sia le aree depresse a quote inferiori allo zero sia i dossi fluviali debolmente sopraelevati sulla pianura. Talora la natura litologica della superficie sembra condizionare l’andamento del tracciato preferendo terreni ben drenati ai terreni di natura argillosa (Fig. 5). ALTINO E LA VIA ANNIA Una necropoli monumentale fiancheggiava il lungo tratto della via Annia messo in luce dalla fotointerpretazione e sottolineava scenograficamente il suo ingresso ad Altino (Fig. 6a, b). Le fonti ci restituiscono l’immagine del centro urbano circondato e attraversato dall’acqua: Strabone la paragona a un’isola e la colloca circum paludes; la definisce simile a Ravenna, “costruita interamente in legno e attraversata dall’acqua, vi si circola perciò su ponti e su barche” (Strabone, Geographica, V, 7). Vitruvio descrive le Gallicae paludes qui circum Altinum ed esalta la salubrità dei luoghi resa possibile dalla realizzazione di canali fino alla laguna che garantivano il flusso delle maree (Vitruvio, De architectura I,4,11-12). La presenza di acque salmastre nei canali che circondavano il centro antico è documentata, tra gli altri, dal ritrovamento di sedimenti lagunari rinvenuti sotto le fondazioni della Porta Urbica settentrionale (Tombolani, 1985). Una città-isola dunque, la cui forma urbis, circondata e attraversata da corsi d’acqua, e solo parzialmente rivelata da più di cent’anni di ricerche archeologiche, è stata recentemente “svelata” da una spettacolare immagine satellitare (Ninfo et al., 2009; Mozzi et al., 2011; Mozzi et al., 2016). L’immagine mostra singolari coincidenze con una mappa cinquecentesca che, per la prima volta, grazie alla georeferenziazione e alla sovrapposizione con Figura 7. Altino nelle mappe storiche di Bartolomeo Fantello (a) del 1572 (Biblioteca del Museo Correr, P.D.,C. 843.8) e di Locha (b) del 1562 (ASVE, SEA LAGUNA, dis.12) che raffigurano rispettivamente la parte occidentale e orientale della città romana, ancora rappresentata nella (c) Kriegskarte di Anton Von Zach, 1796-1805 (Rossi, 2005). Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 167 una carta moderna, è possibile leggere nel dettaglio. Sono solo due le rappresentazioni cinquecentesche conosciute, a grande scala, che raffigurano in due parti contigue l’area occidentale e orientale occupata dalla città (Figg. 8 a e b). Si tratta di mappe note e edite (Dorigo, 1983; Furlanetto, 1998; Caniato, 2011), cronologicamente vicine, ma molto diverse, nel tipo e nei modi di rappresentazione: delimitazioni fondiarie nel primo caso, destinazioni d’uso nel secondo (ASVE, SEA LAGUNA dis.12, 1556; Biblioteca del Museo Correr, P.D., C. 843.8, 1572). La mappa redatta da Bartolomeo Fantello del 1572 (BMC, P.D., C. 843.8), riporta, in un’area circondata, senza soluzione di continuità, da corsi d’acqua, l’estensione superficiale espressa in campi, quari e tavole, delle singole proprietà coltivate o mantenute a prato, della parte occidentale della città romana (Fig. 7a). Nella mappa a volo d’uccello del 1556 di Zuane Antonio Locha (orientata con il nord in alto), il lato a ovest (a sero), confina con la parte orientale della mappa precedente (ASVE; SEA Laguna, dis.12). Vi è raffigurato il corso del Sioncello, che dal Sile prosegue con percorso rettilineo verso Ca’Bianca (Altino), piega verso est e poi di nuovo verso sud, e definisce la zona orientale della città antica fra il Montiron e Trepalade (Fig. 7b). La forte distorsione geometrica, caratteristica delle carte a volo d’uccello, non consente di georiferire la mappa e di darne una lettura puntuale, ma solo di evidenziare un’area dislocata ad una quota di campagna più elevata e destinata a pradi e pascoli, che sembra poter coincidere con il sedime urbano orientale protetto da una arginatura continua (arzere, parte, refato, parte, vechio), di cui rimane ancora parziale traccia nella Krieskarte (Rossi, 2005; Fig. 7c). Il circuito continuo di canali raffigurato nella mappa di Fantello, che delimita l’abitato e rimanda alla cittàisola delle fonti, trova buona coincidenza con quanto emerge dall’immagine telerilevata e viene confermata negli interventi di arginature spondali, nella costruzione di approdi e nei paleoalvei messi in luce dall’indagine archeologica e geomorfologica (Figg. 8 e 9). La porta approdo, fiancheggiata da due cortine murarie prospettava sul canale settentrionale che delimitava la città a nord e insisteva su un paleoalveo, identificato in un percorso pleistocenico del Brenta, che “rilevamenti pedologici hanno confermato essere sede di sedimentazione e che ha continuato a essere parzialmente attivo” (Bondesan, Mozzi, 2002). Non lontano dalla Porta approdo, in località Ghiacciaia e nell’area a nord del Museo, sono emersi banchine d’ormeggio e moli porticati lungo il canale arginato, messo in luce dal telerilevamento e ben rappresentato nella carta storica, che si staccava dal Sioncello e entrava nell’area urbana in direzione sud-sud-ovest (Tirelli, 2001; Tirelli 2011a; 2011b). Il corso d’acqua che marginava la città ad occidente trova perfetta corrispondenza con la traccia di un paleoalveo che intersecava a circa metà del suo percorso un breve canale che confluiva nello Zero ad ovest, e proseguiva dalla parte opposta in un canale artificiale mediano che attraversava la città, da ovest verso est, ed era in comunicazione con il corso d’acqua orientale. Si tratta di un ampio canale di 26 metri di larghezza, identificato per la prima volta dall’immagine satellitare, dotato nella parte occidentale di almeno due ponti e non perfettamente rettilineo. Al limite sud-ovest, in località Fornasotti, è stato trovato un molo porticato nei pressi del corso d’acqua che delimitava a sud l’area urbana, il cui alveo, ancora riconoscibile in un profondo avvallamento negli anni ’60 (Tombolani, 1987; Tirelli, 2001; 2011), è ora evidenziato nello studio di Ninfo et al. (2009) e coincide, nel primo tratto, con la traccia nella mappa di Bartolomeo Fantello. Il rinvenimento delle fondazioni di un ponte, in prossimità degli edifici perifluviali che prospettavano il canale meridionale, segna l’ingresso della via Annia ad Altino che entrava in città con un lieve e duplice cambio di direzione verso est di circa 70 metri. La via publica attraversava la città nel suo settore più occidentale – come aveva già ipotizzato Alessio De Bon sulla base dei risultati di saggi di scavo negli anni 30 e come risulta nell’immagine satellitare, con un tracciato rettilineo e orientato N38°E; la stessa direzione che caratterizza la via prima del suo ingresso in città e all’interno del centro urbano, e lo stesso orientamento che mostrano odeon, teatro, e l’edificio extraurbano biabsidato, visibili nell’immagine telerilevata (Mozzi et al., 2016) (Fig. 10). Il tracciato coincide sia nei cambi di direzione del tratto iniziale, due brevi segmenti ad angolo ottuso, che nell’o- Figura 8. Altino nella mappa di Fantello del 1565, georeferenziata. In blu, il circuito di corsi d’acqua che delimitava il centro urbano e il canale mediano che lo attraversava (Fondazione Musei civici di Venezia - Archivio Fotografico) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 168 Figura 9. La stella sulla carta a sinistra indica la porta approdo con due cortine murarie (a destra, ricostruzione secondo Cresci Marrone, 2011) che prospettano nel canale settentrionale di Altino (Fondazione Musei civici di Venezia - Archivio Fotografico) rientamento, con una delimitazione fondiaria fiancheggiata da una fila continua di alberi che attraversa l’area urbana dall’estremità sud-est fino al canale settentrionale. All’interno della doppia ansa del corso d’acqua è visibile una delimitazione rettilinea angolata che mostra buona coincidenza con la perimetrazione messa in luce dal satellite e che sembra possibile identificare come un relitto della cinta muraria antica della città (Tirelli 2011; Mozzi et al., 2011). Cartografia storica e geomorfologia, messe a confronto con i dati archeologici, consentono di riconoscere e cartografare, con un buon grado di affidabilità, le tracce antropiche relitte antiche, oggi scomparse e cancellate, e altrimenti non più leggibili. Fonti antiche (le mappe) e tecnologie moderne (il “recupero digitale” e i livelli informativi) si rivelano ottimi strumenti e validi alleati nell’ambito della topografia antica e mostrano la loro potenzialità nello studio delle dinamiche insediative. Il risultato finale non è solo la ricostruzione di parte o di tutto il tracciato di una via, dei limites di una centuriazione o delle sopravvivenze dell’impianto urbanistico di una città antica, come nel caso di Altino, ma la ricostruzione di quel paesaggio storico e delle relazioni che si instaurano fra i vari elementi naturali e antropici. La cartografia storica si conferma come uno strumento a basso costo, basso impatto e non invasivo, che può essere utilizzato sia in ambito di tutela e difesa del territorio, ma può essere un valido alleato nell’ambito della archeologia predittiva e preventiva, in grado di orientare le ricerche future. Figura 10. Il tracciato della via Annia, in rosso, all’interno della città di Altino nella mappa di Fantello, georiferita. L’etichetta “Mura” indica la delimitazione ad angolo ottuso che ricalca la perimetrazione interpretabile come sopravvivenza della cortina muraria (Fondazione Musei civici di Venezia - Archivio Fotografico) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 169 BIBLIOGRAFIA AA.VV., La pianura tra Sile e Piave nell’antichità, Provincia di Venezia, 15,4/6. Barozzi N., Berchet G., Contin A., Stefani F. (1884), Da Altino al Livenza. Archivio Veneto,14, 481-490. Barozzi N., Berchet G., Stefani F. (1883a), Da Mestre ad Altino. Archivio Veneto, 26, 231-237. 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Fin dalla conclusione dei tempi preistorici, con l’esaurirsi delle glaciazioni pleistoceniche, circa 12 mila anni fa, ampi spazi terrestri si aprirono all’insediamento di sempre più numerose compagini umane preceduto da frequenti processi migratori che, con riferimento al “vecchio mondo”, hanno visto il susseguirsi di cospicui spostamenti di popolazioni, costrette non di rado al superamento di barriere naturali (orografiche, fluviali ed anche marine), alla continua ricerca di cibo e di migliori condizioni di vita. Le correnti migratorie dalle pianure sarmatiche e dagli altopiani iranici si dirigevano ora verso il Mediterraneo e l’Europa settentrionale ora verso l’Asia orientale ma anche verso le Americhe tramite l’istmo di Bering. Nei loro spostamenti, questi ricorrenti flussi migratori si trovarono ad affrontare frequenti ostacoli costituiti da più o meno elevati rilievi montuosi il cui superamento era reso possibile non di rado da profonde incisioni, considerate vere e proprie “porte”, che videro il passaggio di eserciti, di carovane di mercanti, di svariate moltitudini umane. Anche oggi gli ampi spazi euro-asiatici consentono di individuare le tracce di questi passaggi obbligati attraverso i rilievi che separano le grandi unità geostrutturali come il blocco indo-pakistano, gli altopiani iranici e anatolici insieme con gli allineamenti montuosi che dalla penisola balcanica a quella iberica frastagliano il territorio europeo. and new world, if one can suppose the consequence of current globalization. Has always been a basic aspect of the evolutionary processes that have characterized the development of the world population since the end of the prehistoric times when, with the collapse of the Pleistocene glaciations, about 12000 years ago, large land spaces opened up to the settlement by an increasing number of human groups. In fact, during all the Paleolithic times the environmental conditions had strongly influenced the life of human groups, limiting considerably the demographic development and their spread on all of the emerged lands. Moreover, the frequent climate changes with: alternating hot and cold phases, the advance and retreat of the ice shell, the variation of the sea level and therefore also the changes of the vegetal landscape, were all factors that, already in Lower Paleolithic, led the ancient mankind to frequent transfers and to actual migrations because of the continual search for food, space and better environmental conditions. During the Middle and Upper Paleolithic, population areas became larger wider, spreading even to the limits of the glacial regions. The migratory flows from the Sarmatian steppes and Iranian highlands headed towards East Asia and from China to Siberia, while, thanks to the lowering of sea level that caused the formation of “continental bridges”, the population extended from Asia to the Americas through the temporary Bering isthmus, but also through the same Pacific Ocean, whose archipelagos continued to be populated even during the first centuries of the vulgar era. After the collapse of the last major glaciation, about 12000 years ago, the alternations of warm and cold climatic phases that occurred until nowadays ABSTRACT have been quite frequent, with more The human migrations, which in re- or less minor advances or retreats of cent years affect large parts of the old the glacial fronts and related sea level Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 changes. It was, however, variations that did not prevent the continuation of the evolutionary history of human societies and therefore the gradual and inexorable process of land settlements. These variations undoubtedly influenced the life and activities of the human communities by getting them, with some frequency, recurring transfers, real migratory movements, towards regions better supplied with resources. Indeed, it can be said that the history of the ancient human communities in the Old Euro-Afro-Asian World, especially during the Neolithic times and with greater extent in the subsequent metal age, is marked by repeated waves of immigrations. These,from the margins of the broad latitudinal band dominated by warm-temperate and subtropical conditions and which stretched from the eastern coasts of the Mediterranean up to the Mesopotamia plains, moved towards the fertile and rich regions of Anatolia, Aegean islands and delta and lower course of the Nile. As they moved, these recurrent migratory flows, as well as clashing with the presence of still young geopolitical entities (even, already in the fourth millennium before the vulgar era, animated the landscape of Mesopotamian Plains and the archipelagos of Eastern Mediterranean), found themselves face to frequent obstacles made up of more or less high mountains put into place by the geological and tectonic events. The overcoming of these obstacles was made possible by the presence of more or less deep incisions that interrupted the continuity of mountain ridges, real “doors”, often well controlled to ensure the defense of contiguous territories and populations. Often, in the course of human history, these passes saw the passage of armies, caravans of merchants, human moltitudes running away from famine and drought and looking for new lands to colonize. 171 Today, thanks to technological development, even the highest mountain ranges, such as the Andes and the Himalayas, can be overcome with daring carriage roads that go far beyond the 5000 meters above sea level, while in old Europe the overcoming of mountain barriers is ensured by road and rail tunnels that go underground for tens of kilometers. In particular, in the wide Euro-Asian spaces it is still possible to identify the traces of the of the obligatory passages that have seen the migratory wanderings, expeditions and military retreats overcome the obstacles posed by the reliefs that separate the large geo-structural units such as the blockade Indo-Pakistani, the Iranian and Anatolian highlands together with the mountain alignments that jagged the European territory from the Balkan to the Iberian Peninsula. 1. PREMESSA Per tutta la durata dei tempi paleolitici le condizioni ambientali hanno fortemente condizionato la vita dei gruppi umani limitandone sensibilmente le possibilità di sviluppo demografico e la diffusione sul complesso delle terre emerse. Inoltre le frequenti mutazioni climatiche, con l’alternarsi di fasi calde e fredde, l’avanzata e il ritiro delle coperture glaciali, le variazioni del livello marino e quindi anche i cambiamenti del paesaggio vegetazionale sono tutti fattori che hanno indotto l’antica umanità a frequenti spostamenti, a vere e proprie migrazioni motivate dalla continua ricerca di cibo, di spazio e di migliori condizioni ambientali. Si tratta, ovviamente, di migrazioni avvenute, già nel Paleolitico inferiore, con estrema lentezza e con modeste evoluzioni tecnologiche. Durante il Paleolitico medio e superiore le aree di popolamento si fanno comunque più estese, allargandosi anche ai limiti delle zone glacializzate. Le correnti migratorie dalle pianure sarmatiche e dagli altopiani iranici si dirigono verso l’Asia orientale e dalla Cina verso la Siberia, mentre, grazie anche all’abbassamento del livello marino che provoca la formazione di “ponti continentali”, il popolamento si estende dall’Asia alle Americhe attraverso il temporaneo istmo di Bering, ma anche attraverso lo stesso oceano Pacifico, i cui arcipelaghi continuarono a popolarsi già durante i primi secoli dell’era volgare. A tale riguardo è ben nota la teoria del norvegese Thor Heyerdahl che sperimentò personalmente (1947) la possibilità di un collegamento via mare tra le coste peruviane e gli arcipelaghi polinesiani. L’elevata mobilità (testimoniata da spostamenti anche su distanze considerevoli attraverso interi continenti) e l’adattamento ambientale (non di rado trasformatosi in vero e proprio isolamento) che hanno caratterizzato gli antichi gruppi umani, costituiscono altrettanti fattori alla base delle attuali differenze razziali, riscontrabili peraltro anche nei ritrovamenti preistorici. Ad esempio, i resti umani rinvenuti a Chancelade in Francia (Périgueux) rivelano tratti tipicamente eschimesi, mentre quelli degli individui sepolti nella grotta di Grimaldi ai Balzi Rossi (Liguria) evidenziano fattezze di tipo negroide. Dopo l’esaurirsi dell’ultima grande glaciazione, circa 12 mila anni fa, piuttosto frequenti sono state le alternanze di fasi climatiche calde e fredde che si sono succedute fino ai nostri giorni, con più o meno lievi conseguenti avanzate o arretramenti delle fronti glaciali e relative variazioni del livello marino. Si è trattato, tuttavia, di variazioni che non hanno impedito il proseguimento delle vicende evolutive delle società umane e quindi del graduale e inarrestabile processo di popolamento delle terre emerse. Tali variazioni hanno però indubbiamente influenzato la vita e le attività delle singole comunità umane inducendole, spesso, a ricorrenti migrazioni verso regioni meglio fornite di risorse. Anzi, si può dire che la storia delle antiche comunità umane nel Vecchio Mondo euro-afro-asiatico, specialmente nel corso della durata dei tempi neolitici e in maggior misura nella successiva età dei metalli, sia contrassegnata da ripetute ondate migratorie che, dai margini di quello definibile come l’epicentro dell’ecumene (quella ampia fascia latitudinale, dominata da condizioni di tipo temperato-caldo e subtropicale e che si stendeva dalle coste orientali del Mediterraneo fino alle pianure mesopotamiche), si spingevano verso le fertili e ricche regioni dell’Anatolia, della stessa Mesopotamia, degli arcipelaghi egei, del delta e del basso corso del Nilo. Nei loro spostamenti, questi ricorrenti flussi migratori, oltre a scontrarsi con la presenza delle ancor giovani entità geopolitiche che, già nel IV millennio avanti l’era volgare, animavano il panorama delle pianure mesopotamiche e degli arcipelaghi del Mediterraneo orientale, si trovarono ad affrontare frequenti ostacoli costituiti anche da elevati rilievi montuosi messi in posto dalle vicende geologiche e tettoniche che, nel corso di centinaia di milioni di anni, avevano modellato l’involucro roccioso che dava forma alle terre emerse. Il superamento di questi ostacoli era reso possibile dalla presenza di più o meno profonde incisioni che interrompevano la continuità dei crinali montuosi, vere e proprie “porte”, spesso ben controllate per assicurare la difesa di contigui territori e popolazioni. Non di rado, nel corso della storia umana, questi valichi videro il passaggio di eserciti, di carovane di mercanti, di moltitudini umane in fuga da carestie e siccità, nonché alla ricerca di nuove terre da colonizzare. Tra queste grandi migrazioni che spesso sconvolsero gli assetti geopolitici del Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente asiatico è sufficiente ricordare quelle dei Sumeri, già nel III millennio avanti l’era cristiana, provenienti dalla regione del Caspio e diretti verso le pianure del Tigri e dell’Eufrate dove fonderanno le città-stato di Ur, Lagash, Uruk, poi degli Hittiti, provenienti, alla metà del II millennio, dagli altopiani anatolici e diretti sempre verso le pianure mesopotamiche, e ancora quelle dei cosiddetti, “popoli del mare”, che nel XIII secolo avanti Cristo irrompono in tutto il Mediterraneo orientale, travolgendo la civiltà micenea e l’impero hittita fino a rimanere sconfitti agli inizi del secolo successivo dalla potenza militare del faraone Ramsete III che ne blocca definitivamente il tentativo di invadere lo stesso Egitto. Ed è particolarmente significativo che, proprio nell’alternarsi di vicende che vedono contrapposti agricoltori sumeri ed assiri, pastori accadi ed ittiti, corsari dorici, cittadini egizi e mercanti fenici, tecnologie, economie e culture registrino poderosi sviluppi testimoniati dall’invenzione della scrittura e dell’alfabeto fonetico, dall’infittirsi delle reti commerciali e dai progressi delle tecniche metallurgiche. Oggi, grazie allo sviluppo tecnologico, anche le più elevate catene montuose, come le Ande e l’Himalaya, possono essere superabili grazie ad ardite strade carrozzabili che si spingono fin oltre i 5000 metri di altitudine, mentre nella vecchia Europa il superamento degli ostacoli montuosi è assicurato da gallerie stradali e ferroviarie che si inoltrano nel sottosuolo per decine di chilometri. In particolare è negli ampi spazi euro-asiatici che è possibile individuare ancora oggi le tracce dei passaggi obbligati che hanno visto le peregrinazioni Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 172 migratorie, le spedizioni e le ritirate militari superare gli ostacoli posti dai rilievi che separano le grandi unità geo-strutturali come il blocco indo-pakistano, gli altopiani iranici e anatolici insieme con gli allineamenti montuosi che dalla penisola balcanica a quella iberica frastagliano il territorio europeo. 2. LE PORTE STORICHE DEL CONTINENTE ASIATICO Vengono qui presi in considerazione i passaggi obbligati relativi al superamento dei rilievi montuosi costituiti dall’altopiano anatolico, dalle catene e dalle alte terre che separano il bassopiano mesopotamico dalle depressioni iraniane e il bacino indo-gangetico da quelle afgane, oltre alla catena del Caucaso e a quella che delimita a sud il Mar Caspio. Sotto il profilo storico si tratta di una vastissima area che conobbe la conquista militare da parte dell’esercito di Alessandro Magno nel corso del IV secolo a.C. KHAIBER PASS (1067 m) = al confine tra Pakistan e Afghanistan, dalla valle dell’Indo alla catena dell’Indukush, tra Peshawar e Kabul; via percorsa dagli Arii provenienti dal tavolato iranico fino al Pangiab e alle pianure del Gange. Qui passava l’antica via della seta e marciarono gli eserciti di Dario I e Alessandro Magno. In tempi più recenti vi arrivò anche una ferrovia inglese da Peshawar fino al confine afgano. BOLAN PASS (1707 m) = presso Quetta, sui monti del Pakistan occidentale; nell’antichità importante “gateway” verso l’India per invasori, mercanti e tribù nomadi. Oggi il valico è percorso da una ferrovia che collega Quetta con Karachi e il confine afgano. PORTE DI CILICIA (PORTÆ/ PYLÆ CILICIÆ) = oggi KÜLEK BOĞAZI (1050 m) da Tarso e Adana alla Cappadocia attraverso la catena del Tauro. Fu una sorta di passaggio obbligato per scendere dall’altopiano anatolico fino alle rive del Mediterraneo per poi dirigersi verso la costa siriana, proseguendo all’interno della quale occorre risalire fin o alle Porte di Siria (Fig. 1). Per questo passaggio e per le porte di Siria transitò nel 401 a. C. la spedizione di Ciro il Giovane che si concluse a Cunassa (Babilonia) con la sua morte. Il ritorno venne guidato dallo storico Senofonte che si concluse a Bisanzio e quindi a Pergamo nel 399 a. C. (Fig. 2). Figura 1. Tavola relativa alla battaglia di Isso (333 a. C.) tra Alessandro re di Macedonia e Dario III re di Persia, con l’indicazione del Pylae Ciliciae (a sinistra) e del Pylae Syriae (a destra). La linea rossa indica il percorso dell’esercito di Alessandro. In corrispondenza della località di Isso il campo dei due eserciti. Da F. W. Putzgers, Historischer Schul-Atlas, Velhagen und Klasing, Leipzig, 1914 PORTE DI SIRIA (PORTÆ/PYLÆ SIRIÆ) = oggi PASSO DI BEYLAN (700 m) che si snoda poi attraverso i monti Nur e Amanus tra Antiochia (Antakia) e Alessandretta (Iskenderun) (Fig. 1). VALICO DI BOLU (950 m) posto tra le località di Düzce e Bolu, sull’agevole margine occidentale dei Monti Pontici (Turchia nordoccidentale), qui attraversato dalla moderna autostrada che collega Ankara ad Istanbul facilitando la Figura 2. Itinerario della spedizione di Ciro il Giovane da Sardi a Babilonia e poi di ritorno a Bisanzio e Pergamo. Da Senofonte, Anabasi, Rizzoli ed. , Milano 1964 Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 173 risalita sull’altopiano anatolico. Da qui PORTA URALO-CASPICA = tra gli passarono nell’antichità classica eserciti Urali meridionali e il mar Caspio, corripersiani, greci e romani. sponde all’ampia depressione che scende fin sotto il livello dei mari, tra il corso PORTE DELL’ASIA (ZAGRI dell’Ural e dell’Emba. La stessa superficie PORTÆ) oggi PAYE-TAQ (1660 m) = del Mar Caspio si trovava poco dopo la sui Monti Zagros fra Teheran e Bagdad, metà del secolo scorso a -28 metri rispetal confine irano-iraqeno (presso la loca- to al livello medio dei mari e degli oceani. lità di Firūzābād); Di qui passarono Accadi, Medi, Babilonesi, Assiri, e lo stesso PORTE CAUCASICHE (PILÆ Dario. Vi passava anche la VIA REGIA CAUCASIÆ) = attraverso il Caucaso; che portava da Susa (poco a nord del corrispondono al passo di Dar’jal (1798 Golfo Persico) sia a Persepoli (più a sud- m) nel bacino del fiume Terek, ad est del est) che a Sardi (nell’Anatolia occidenta- M. Kazbek. le) a breve distanza dalle coste egee. PASSO DI NANKOU (580 m) = circa PORTE PERSICHE (PYLÆ PER- 60 km a nord-ovest di Pechino in prosSICÆ) = attraverso i Monti Zagros, simità di un tratto ben conservato della all’altezza di Ahwaz. Valico che assi- Grande Muraglia; via di penetrazione curava il collegamento tra le coste del dalla Mongolia alla Cina. Golfo Persico e le località interne della Persia, incontrando anche il percorso 3. LE PORTE STORICHE NEL CONTINENTE della Via Regia. EUROPEO PORTE CASPICHE (PORTÆ CA- PORTA BURGUNDICA (BURSPIÆ) = attraverso la catena dell’Elburs, GUNDISCHE PFORTE) (quota 350 ad est di Teheran (1100 m); forse corri- m circa) = tra i Vosgi a nord e il Giura sponde alla stretta di Sirdar o Garmsar. svizzero a sud in vicinanza (circa 30-35 Assicurava il collegamento tra l’altopia- km) di Belfort; è attraversata dal canale che collega la Doubs al Reno (Fig. 4). no iranico e il Mar Caspio. PORTE ZUNGARICHE = sono costituite da due passaggi separati dalla breve catena del Tarbagatay (3816 m) a loro volta compresi tra la breve ma elevata catena montuosa dell’Alatau (4463 m) e il massiccio dell’Altai (4506) lungo il confine tra Cina (depressione della Zungaria nella provincia autonoma del Sinkiang) e Kazakistan, a breve distanza il primo dal lago Ebi Nor (190 m, in territorio cinese) ed il secondo ospitante il corso superiore dell’Irtysh grande affluente dell’Ob nel bassopiano siberiano. Da qui passarono durante il medio evo ripetute invasioni mongole e turche verso quella che è stata definita la Soglia Kazaka (Kazakische Schwelle) ben aperta verso la depressione aralo-caspica e le contigue pianure dell’Europa orientale (Fig. 3). Figura 3.Porte Zungariche. Da Diercke Welt Atlas, Georges Westermann, Braunschweig, 1972, tav. 98-99 battaglia di San Quintino tra l’esercito spagnolo guidato da Emanuele Filiberto di Savoia e quello francese guidato dal contestabile di Montmorency (Fig. 5). Figura 5. Posizione della Soglia di Vermandois (Francia settentrionale), da Atlas Géographique Bordas, Paris, 1991, tav. 29 PORTA D’AQUITANIA = espressione figurata che individua lo spazio tra la regione francese delle Cevennes e i Pirenei. In effetti di tratta di una ampia depressione che separa i due rilievi facilitando i collegamenti tra le coste francesi del Mediterraneo e il litorale atlantico. Oggi corrisponde alla SOGLIA/SEUIL DE NAUROUZE (194 m) nota anSOGLIA/SEUIL DE LORRAINE = che come SEUIL DU LAURAGUAIS. tra i Vosgi meridionali e il Plateau de Langres (Fig. 4). SOGLIA/SEUIL DU POITOU (162 m) tra le alture della Vandea e il Plateau del Limousin, poco a sud di Poitiers. PORTE DI FERRO (Portile de Fier, Eisernestor) = tra Alpi Transilvaniche (Carpazi meridionali) e Balcani, in corrispondenza di una stretta gola del Danubio (62-36 m) già scavalcata dal Ponte di Traiano progettato da Apollodoro di Damasco tra il 103 e il 105 durante la conquista romana della Dacia e di cui restano le rovine insieme con un targa marmorea a celebrazione delle imprese dell’imperatore romano. Oggi vi passa il confine tra Romania e Serbia. Figura 4. Posizione della Porta Burgundica (di Borgogna) e della Soglia di Lorena. Da Atlas Géographique Bordas, Paris, 1991, tav. 29 SOGLIA DI VERMANDOIS (SEUIL DE VERMANDOIS) = nella Piccardia (Francia settentrionale); ampia depressione bagnata dal corso superiore dell’Oise, tra le colline dell’Artois a nordovest e la Côte de l’Ile de France a sud. Già contea con capoluogo S.t Quentin, prende nome da Vermand, capitale della tribù gallica dei Veromandini. Dopo la conquista romana quello di Augusta Veromanduorum. Nel 1557 vide la PORTA ORIENTALĂ (540 m) = nei Carpazi meridionali in Romania (Alpi transilvaniche), a sud di Teregova e poco a nord delle Porte di Ferro. Ebbe una importante funzione nel corso di storiche invasioni dal vicino oriente verso l’Europa centrale. PORTA MÓRAVA (MÄHRISCHE PFORTE/MORAVSKÁ BRÁNA) = corridoio tra Sudeti a ovest e i Beschidi (Carpazi) ad est, a circa 300 m slm, percorso dalla Beǐva che segna lo spartiacque tra i corsi della Morava (Danubio) e dell’Oder, Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 174 Figura 6. Porta Westfalica con il rilievo (a sinistra) sovrastato dal monumento a Guglielmo I., da K. Baedeker, Northwest-Deutschland, 1911, pag. 106 ad est di Olomouc. Fin da epoche antiche percorsa da una importante via commerciale; oggi vi passa la ferrovia Brno-Ostrava e l’autostrada europea (E462). PORTA WESTFALICA = in corrispondenza della stretta del fiume Weser, nei pressi di Minden, al confine tra i länder della Bassa Sassonia e della Nordrhein-Westfalen. Si sviluppa lungo il fiume Weser, tra le colline del Wiehen battimenti tra l’esercito russo e le forze Gebirge e del Weser Gebirge, sovrastata austro-ungariche agli inizi del primo dal monumento eretto per il Kaiser Gi- conflitto mondiale (1914-15). glielmo I (1896) (Fig. 6). 4. PRINCIPALI VALICHI PORTA MÁGIARA = attraverso i ALPINI E PIRENAICI IN Carpazi Selvosi (Wald Karpaten), in EPOCA ROMANA corrispondenza dell’Ushoker Pass (889 COLLE DEL MONGINEVRO m), sull’attuale confine ucraino-polacco. (1850 m) = “MATRONA MONTES”, In tempi recenti fu sede di aspri com- sulla strada che collegava Segusium (Su- Figura 7. Tabula Peutingeriana, segmento III. Si noti lungo il simbolo della catena montuosa inclinato, dal basso a sinistra in alto a destra, le tre indicazioni relative alla Alpe Cottia (Colle del Monginevro), alla Alpe Graia (passo del Piccolo San Bernardo) e al Summo Pennino (passo del Gran San Bernardo). La linea rossa indica le strade. Su quella in basso, poco prima della fascia costiera la scritta in Alpe Maritima si riferisce al percorso della antica Via Julia Augusta proveniente da Vada Sabatia (l’attuale Savona) che qui attraversa la località di Albentimillo (l’attuale Ventimiglia) proseguendo verso ovest e passando per Gemenello corrispondente all’attuale Cimiez (Nizza) e superando il corso del fiume Var per poi passare per Antipolis (l’atttuale Antibes) e Foro Iulii. Ancora più avanti si collegherà, dopo Arles, alla antica Via Domizia. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 175 sa) a Brigantium (Briançon) all’interno delle Alpi Cozie. “IN ALPE COTTIA” è la denominazione riportata sulla Tabula Peutingeriana (segmento III); essa fa riferimento al re locale, Cozio, alleato dei Romani (Fig. 7). COLLE DEL PICCOLO SAN BERNARDO (2188 m) = La Tabula Peutingeriana riporta la denominazione “IN ALPE GRAIA”, sulla strada che collegava Augusta Prætoria (Aosta) a Darantasia (Moutiers) all’altezza del limite tra le Alpi Graie e il Gruppo del Monte Bianco (Fig. 7). COLLE DEL GRAN SAN BERNARDO (2473 m) = “IN ALPE POENINA” o “IN SUMMO PENNINO” (come indica la Tabula Peutingeriana), sulla strada che collegava Augusta Prætoria (Aosta) a Octodurus (Martigny) nella valle del Rodano, all’interno delle Alpi Pennine (Fig. 7). COL DE LA TRAVERSETTE (2947 m) = situato circa 2,5 km in linea d’aria a nord-ovest da Pian del Re, alla sommità della Valle del Po e le falde del Monviso. Secondo alcune interpretazioni è da qui che sarebbe passata la spedizione militare comandata da Annibale nel 218 a. C. per raggiungere la pianura padana e scontrarsi con le legioni romane. PASSO DELLO SPLUGA (2118 m) = “Cuneus Aureus”, sulla strada che collegava in epoca romana le località di Comum (Como) e Clavenna (Chiavenna) a Curia (Coira) in corrispondenza del limite tra Alpi Lepontine e Alpi Rètiche. PORT D’IBAŇETA (1057 m) = all’estremità occidentale dei Pirenei, sul versante meridionale, a breve distanza dal Col de Roncevaux (Roncisvalle) che nel 778 fu sede dell’agguato all’esercito di Carlo Magno. COL DE LA PERXA (Col de la Perche) (1577 m) = situato tra la località spagnola di Puigcerdà e quella francese di Mont-Louis, ad est di Andorra; nel 1793 fu sede di una battaglia tra francesi e spagnoli all’epoca della Guerra del Rossiglione (Fig. 8). LE PERTHUS (279 m) = all’estremità orientale dei Pirenei, nei pressi del Fort de Bellegarde (XVII sec.), sull’antica Via Domitia (II sec. a. C.). A breve distanza, circa 1 km a sud-ovest, è situato l’antico valico del COLLE DI PANISSARS (325 m), oggi importante sito archeo- specifico paragrafo (Le “porte” storiche) all’interno del capitolo su “Le migrazioni umane” nel volume “Geografia della popolazione” pubblicato nel 1975 e più volte ristampato ed aggiornato. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Figura 8. La Via Domizia, proveniente da Augusta Taurinorum (Torino), con il Col de Perthus alla estremità orientale dei Pirenei (a destra) e il Col de la Perche (a sinistra). Da Atlas Géographique Bordas, Paris, 1991, tav. 42. logico con i resti di un monastero benedettino e dell’antico Trofeo di Pompeo (71 a.C.) eretto in corrispondenza del valico sulla Via Domizia (noto come SUMMUM PYRENAEUM) per celebrare la vittoria del generale romano sul governatore della Spagna Citeriore ribellatosi a Roma. Poco più a valle, sul versante meridionale pirenaico la Via Domizia si collegava alla Via Augusta che conduceva a Cadice sulla costa atlantica (Fig. 8). È interessante notare che sulla prima sezione della Tabula Peutingeriana nel tratto che rappresenta il territorio iberico figura una catena montuosa con due distinte località denominate “summo pireneo”, con sicuro riferimento a due distinti itinerari stradali riferibili agli attuali valichi del Port d’Ibaňeta e del Col de la Perxa. 5. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Il tema illustrato in questa presentazione non ha certamente la presunzione di essere esaustivo. Ma nell’affrontarlo ha dovuto essere necessariamente esaminato da molteplici punti di vista: storico, geografico, archeologico, toponomastico, cartografico, linguistico, il che ha indotto ad orientare la ricerca in senso ovviamente interdisciplinare. Ne è derivata la necessità di disporre di una notevole entità di dati e di materiali per cui è risultato più conveniente limitarsi a considerare situazioni di particolare interesse. È il caso della determinazione di quale sia stato il valico alpino effettivamente percorso da Annibale o la individuazione di tutte le località toccate da Alessandro Magno nel corso delle sue conquiste in Asia, come pure un preciso ed esatto riconoscimento di tutta la toponomastica contenuta nella ben nota Tabula Peutingeriana. Il che conferma quanto possa essere affascinante questo tipo di ricerca che in Italia, anni fa, fu riproposto dal geografo Mario Ortolani (1909-1998) quando le dedicò uno Aliprandi L. e G., Pomella M. (1974), Le Alpi nella cartografia dei secoli passati, 1482-1865, Priuli & Verlucca, Ivrea. Bätzing W. (1991), Die Alpen. Geschichte und Zukunft einer europäischen Kulturlandschaft, C. H. Beck, München. Bosio L. 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(2005), Lo Spluga. Il passo sublime, Centro di studi storici valchiavennaschi, Chiavenna. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 SESSIONE IV LE COMUNICAZIONI FLUVIALI E I PORTI FLUVIALI WORLD WATER FORUM 2024 ITALY: FIRENZE & ASSISI and ROMA FACING A GLOBAL CHANGE: IN THE MAKING OF THE WATER “RINASCIMENTO” LE VIE D’ACQUA, ANTICHE STRADE DI COMUNICAZIONE NELL’ANTICHITÀ Tiberis, antea Thybris appellatus et prius Albula, e media fere longitudine Appennini finibus Arretinorum profluit, tenuis primo nec nisi piscinis corrivatus emissusque navigabilis, sicuti Tinia et Clanis influentes in eum, novenorum ita conceptu dierum, si non adiuvent imbres. Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, III, V, 53) https://www.meteogiuliacci.it/ WHO WE ARE AND WHAT WE DO MeteoGiuliacci srl is a start up company operating in weather and climate service sector. MeteoGiuliacci develops and uses mathematical models of the atmosphere. Meteogiuliacci was born from the experience of col. Mario Giuliacci, a nice and well-known meteorologist and climatologist who for years described the weather forecasts to millions of https://www.meteogiuliacci.it/ Italians through the Mediaset television channels and the weather column of Corriere della Sera. Through a new portal, col. Mario Giuliacci has chosen to continue to inform Italians by providing WHO WE ARE AND WHAT WE DO them with a serious but also beautiful, innovative and easy to use forecasting service. THEMES AND TOPICS OF INTEREST MeteoGiuliacci srl is a start up company operating in weather and climate service sector. MeteoGiuliacci develops and uses mathematical models of the atmosphere. Opportunity for discussion, with other weather centers of Mediterranean area, on issues University of Chieti – Pescara concerning weather forecasting tecniques and severe weather-climatic phenomena. Promote the Meteogiuliacci was born from the experience of col. Mario Giuliacci, a nice and well-known creation/implementation of international meteorological observation networks, especially in the meteorologist and climatologist who for years described the weather forecasts to millions of Mediterranean region. Provision of weather forecast for all World Water Forum related events in Italians through the Mediaset television channels and the weather column of Corriere della Sera. the territories of Florence and Assisi Through a new portal, col. Mario Giuliacci has chosen to continue to inform Italians by providing them with a serious but also beautiful, innovative and easy to use forecasting service. THEMES AND TOPICS OF INTEREST www.italywaterforum.it design: C. Goretti - graphisphaera.it taly CANDIDATURA UFFICIALE DELL’ITALIA AD OSPITARE NEL 2024 IL DECIMO WORLD WATER FORUM FIRENZE, ASSISI E ROMA PARTNER ASSOCIATI Opportunity for discussion, with other weather centers of Mediterranean area, on issues University of Chieti – Pescara concerning weather forecasting tecniques and severe weather-climatic phenomena. Promote the creation/implementation of international meteorological observation networks, especially in the Mediterranean region. Provision of weather forecast for all World Water Forum related events in the territories of Florence and Assisi ver network - Contratti dei diSrl Fiume SKOPIA ion.it company EIP Water smart river network EIP Italian National BoardItalian of River Contracts (Tavolo Nazionale dei(Tavolo ContrattN National Board of River Contracts TNCdF) and Smart Rivers network Water Action Group), www.skG TNCdF) and(EIP Smart Rivers network (EIP Water Action Urbanistica Planum online https://www.meteogiuliacc Who we are and what we do ita deiItaly. Molini,2 38123 Trento - Italy nto, nts with sciences, di zionale dei Contratti di n Futures p), Water Action Group), he patory governance in the company Informazioni anticipation.it) is a startup he ntribute to University ensuring ofthe heory earch ofofthe Trento, Italy. on ell as the implementation tions and ers, trainers and consultants with ns ammes and action plans s to help mathematics, environmental sciences, er nagement. In Italy river Italy mplement lication developments of on of aand National Table ofin Futures Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume WHO WE ARE AND WHAT WE DO Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume EIP Water riverWho network Tavolo Nazionale dei ContrattiWho di Fiume EIP Water riverwe network we are andsmart what we dowe are andsmart what do MeteoGiuliacci srl is a start up company operating in weather and cli The Italian National Board of River Nazionale dei(T The Italian National Board(Tavolo of models River MeteoGiuliacci develops andContracts uses mathematical ofContracts the atmosphere. Who we are and what weRivers doItalian National BoardItalian of River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume - Contratti National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale dei diSrl Fiume Fiume - TNCdF) together to -the Smart Rivers network (EIP Water Act Fiume TNCdF) together toSKOPIA the Smart net Meteogiuliacci wasGroup), born from the experience of col. Mario Giuliacci, a Urbanistica TNCdF) and Smart Rivers network Water Action Group), www.skopia-anticipation.it TNCdF) and(EIP Smart Rivers network (EIP Water Action promote ahttps://www.meteogiuliacci.it/ bottom up innovative towho enhance the participatory gover promoteand aapproach bottom up innovative approach to weather enhance -skopìa Anticipation Services® S.r.l. (w meteorologist climatologist for years described the for Italians through theisMediaset television the weather column river basin. The weriver contract an founded example of to contribute to oh e Planum online basin. The river contract isand an example Who we are and what do river at channels the how Department of Sociology Salita dei Molini,2 38123 Trento - Italyof an Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume EIP Water smart river network EIPARE Water smart river network WHO WE AND WHAT WE DO Through a new portal, col. Mario Giuliacci has chosen to continue to inform improvement of water quality, protection against floodprotection risks, as well as the imp improvement of water quality, against flood them with a serious but alsoThe beautiful, innovative and easy toare use forecasting founding members professor CAE S.p.A. – www.cae.it – [email protected] Who we are and what Who we srl dowe weoperating do and of the WFD FDTHEMES through the voluntary development of programmes and MeteoGiuliacci is aare startand up what company in weather and climate service sector. of the and through the voluntary developme ANDWFD TOPICS OF FD INTEREST heterogeneous backgrounds (philosophy MeteoGiuliacci and uses mathematical models atmosphere. Italian National BoardItalian of River Contracts (Tavolo Nazionale deiNational Contratti di develops Fiume - National thatBoard be inthat an can effective manner toanthe water management. National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale Contratti dican Fiume -of theNazionale be applied effective manner theId SKOPIA Srl ViainColunga, 20 – ZIP Code: 40068.di Santo Lazzaro The Italian Board of dei River Contracts (Tavolo dei(Tavolo Contratti The Italian of applied River Contracts Nazionale dei Contratti Opportunity for discussion, withdiotherinsurance), weather centers of Mediterrane sociology, with common inter PUBLIC AND PRIVATE AUTHORITIES TO BE INVOLVED Who we are and what we do University of TNCdF) and Smart Rivers network Water Action Group), www.skopia-anticipation.it contracts diffusion started (as a button up initiative) with the creation of a Natio TNCdF) and(EIP Smart Rivers network (EIP Water Action Group), contracts diffusion started (as aAction button up initiative) wit Meteogiuliacci was born from the experience of col. Mario Giuliacci, a nice and well-known concerning weather forecasting tecniques and severe weather-climatic phen Fiume - TNCdF) together to -the Smart together Rivers network (EIP Water Action Group), Fiume TNCdF) to the Smart Rivers network (EIP Water Group), Cap. Sociale € 1.020.000 I.V Studies Anticipation. meteorologist and climatologist who River for years described (Tavolo thecreation/implementation weather forecasts to of and ofContratti international meteorological observation Contracts Nazionale deimillions di Fiume - dei TNCdF) in 2007, t River Contracts (Tavolo Nazionale Contratti dinetwor Fium promote upthrough innovative to channels enhance participatory governance in the University of Milan, European Center EIP of Bologna, Weather Centers promote aapproach bottom up innovative approach to enhance the participatory governance in the Who we of arethe andMediterranean what we doa bottom volo Nazionale dei Contratti di Fiume EIP Water smartWeather river network Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume Water smart river network is fora allstartup compa -skopìa Anticipation Services® S.r.l. (www.skopia-anticipation.it) Italians the Mediaset television andthe the weather column of Corriere della Sera. Salita dei Molini,2 38123 Trento Italy https://www.meteogiuliacci.it/ Mediterranean region. Provision of weather forecast World Water Fo ed F) in 2007, that provided crucial support development of providing river contracts, as711 itis became possible t crucial support for the development of river contracts, Countries Through a new portal, col. has chosen to continue to inform of Italians by tel. +39 mission 051 4992 +39 051 4992 river contract is Mario an Giuliacci example of how to contribute to ensuring the first tofax develop and709 sp river basin. The river contract is for anthe example of how toOur contribute to ensuring the the territories Florence and Assisi Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume EIP Water smart river network EIP Water smart riverriver networkbasin. The founded at the Department of Sociology and Social Research of the University of Trento, Ital te me possible based to coordinate them with a serious but also beautiful, efforts innovative andcompare easy to useexperiences forecasting service. and torisks, buildNAZIONALE a culture a participatory collective efforts and compare experiences to buildCONSORZI a culture of a GESTIO Who we are and what Who we doweWHO are WE andARE what do WEimprovement ANDwe WHAT DO ltiple es literacy, on the theory of of water AND quality, protection against flood risks, as well as ASSOCIAZIONE the implementation improvement of water quality, protection against flood as well as of the Anticipation, by implementation developing “futures exe THEMES TOPICS OF INTEREST The founding members are professors, researchers, trainers and consultants wi Registro Imprese BO e C.F. 01121590374 ng. TUTELA DEL TERRITORIO E ACQUE IRRIGUE e. alian National BoardItalian of River Contracts (Tavolo Nazionale dei(Tavolo Contratti di Fiumedei - Contratti ry collective governance. National Board of River Contracts Nazionale diof Fiume - and FD through In Italy, of River Contracts, respond toand the need for introducin CAE S.p.A.National – www.cae.itTable – [email protected] In Italy, National Table of River Contracts, respond to SKOPIA Srl the WFD the voluntary development of programmes and action plans of theand WFD andservice FD through the di voluntary development of programmes action plans h public or private organizations and MeteoGiuliacci srl Board is a start upRiver company operatingdei in(Tavolo weather climate sector. The National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale Contratti di providing training inenvironmental activities. Ourscience furthe The Italian National of Contracts Nazionale dei Contratti - Italian d introducing heterogeneous backgrounds (philosophy ofdell’European science, mathematics, ms h NCdF) and Italian Smart network Action Group), www.skopia-anticipation.it or newRivers forms Membro Union of as Water Management Associations eare di Irrigants d’Euro TNCdF) and(EIP Smart Rivers network (EIP Action Group), National Board of Water River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti diwe Fiume - that of in governance asofmanagement. well asgovernance forms ofItaly cooperation thatriver reque Italian National Board of Water River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume -inthat of asissues well formsIn of voluntary coop SKOPIA Srl Opportunity for discussion, with other weather centers Mediterranean area, onvoluntary Who are and what we do MeteoGiuliacci develops and uses models of the atmosphere. can be applied anGroup), effective manner toanGroup), the Inwater river P. I.V.A. 00533641205 -Italy R.E.A. BO n. 236650 - R.A can be applied effective manner the management. n training and consultancy is to help Colunga, 20 water – ZIP Code: 40068. Lazzaro Savena (BO) – Italy University ofto Chieti –Promote Pescara Fiume - TNCdF) together toPRIVATE Smart Rivers network (EIP Water Action Fiume -the TNCdF) together to the mathematical Smart Rivers network (EIP Water Action Tavolo Nazionale dei Contratti diVia Fiume EIPdiWater smart river network toEIPunderstand Tavolo Nazionale dei Contratti di San Fiume Watermanagement smart rivermediumnetworko organizations concerning weather forecasting tecniques and severe weather-climatic phenomena. the U PUBLIC AND AUTHORITIES TO BE INVOLVED at are requested by EU TNCdF) and Smart Rivers network (EIP Water Action Group), www.skopia-anticipation.it directives and guidelines in order to implement an integrated TNCdF) and Smart Rivers network (EIP Water Action Group), directives and guidelines in order to implement an inte sociology, insurance), with common interests increation application and developments in Futur ale dei Contratti di Fiume EIP Water smart river network Who EIP Water smart river network 0000010573 contracts diffusion started (as a button up initiative) with the creation of a National Table of contracts diffusion started (as a button up initiative) with the of a National Table of WHO WE ARE AND WHAT WE DO we are and what we do Salita dei Molini,2 38123 Trento - Italy creation/implementation international meteorological networks, especially transformations in the promote a bottom up innovative to enhance the participatory governance in the promoteMeteogiuliacci aapproach bottom up innovative approach to ofenhance the participatory governance in theobservation -term changes and land to implement was born from the experience col. Mario Giuliacci, aofnice and well-known -skopìa Anticipation Services® S.r.l. (www.skopia-anticipation.it) a Anticipation. startup company the po from thethe present. nd anagement of water, and landscape in aContratti shared and subsidiary manner.and Amongst factors and landscape in a shared subsidiary manner.that A Cap.isand Sociale € 1.020.000 I.V Studies Mediterranean region. Provision of forecast for all World Water related events Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di - dei TNCdF) in 2007, that WE River (Tavolo Nazionale di Fiume -provided TNCdF) that provided meteorologist and climatologist who for years described the weather forecasts toweather ofFiume University ofdo Milan, European Weather Center ofRiver Bologna, Weather Centers of Mediterranean Who we are and what we WHO WE AREForum AND WHAT DO in in 2007, river basin. The river contract is The an founded example how to contribute to and ensuring the Salita dei Trento - the Italy river basin. river contract isMolini,2 an example of how to Contracts contribute tomillions ensuring MeteoGiuliacci srl isina the startpublic up company opera at of the Department of38123 Sociology Social Research ofBoard the University ofthe Italy. ve eho factors that might have contributed toTrento, anbecame improvement inNazionale the public participation processes in Italy th the territories of Florence and Assisi we di are and what we dowe tocoordinate an improvement participatio Who and EIP what doriver network EIP Water smart river are network Italians through the Mediaset television channels and the weather column of Corriere della Sera. Contratti Fiume Waterwe smart Italian National of River Contracts (Tavolo dei Contratti dicoordinate Fiume - helping Countries Italian National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contr ANBI is acontributed national association, with private legal personality, which represents and pro SK crucial support for the development of river contracts, as it possible to crucial support for the development of river contracts, as it became possible to In brief, we work with futures, by in MeteoGiuliacci develops and uses mathematical mo Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume improvement of water quality, protection against flood risks, as well as the implementation ational Board of River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume tel. +39 051 4992 711 fax +39 051 4992 709 improvement of water quality, protection against flood risks, as well as the implementation SKOPIA Srl Our first mission is to develop and spread futures literacy, based on the theory munities, Through a new col. Mario Giuliacci has to continue to inform Italians by National providing the “ ofin Italy there es themultiple “ CAE systems toinm Table of River Contracts ”, (EIP that isirrigation a supplies bottom up exp 143 consortia of network landTable reclamation, andstate-of-art land improvement operating National of River Contracts ”,movement that isdedicated a to bottom The portal, founding members arechosen professors, researchers, trainers andnetwork with Who we are and what Who we dowe are and what we do TNCdF) and Smart Rivers Water Action Group), www.skopia-anticipation.it sts TNCdF) Smart Action Group), CAE S.p.A. – www.cae.it –and [email protected] nd to are see the efforts experiences tocompare build a culture ofconsultants a and participatory collective governance. efforts and experiences to(EIP build aRivers culture of a participatory collective governance. ASSOCIAZIONE NAZIONALE CONSORZI GESTIONE E andWater possible futures, the associated risks an a them with ahttps://www.meteogiuliacci.it/ serious but also beautiful, innovative and easy to action use service. rk (EIP Water Action Group), he Italian National Board ofWater River Contracts (Tavolo Nazionale Contratti di www.skopia-anticipation.it of the and FD through the voluntary development of programmes and plans ndorganizations Smart Rivers network (EIP Action Group), The Italian National Board ofWFD River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di compare ofdei the WFD and FD through the voluntary development offorecasting programmes and action plans economic self-government bodies, strong expression ofmost subsidiarity, which guarantee Anticipation, by developing “futures exercises" with public orlaw) private organizations tion, and onitoring in real time and earlyand warning. nd yzstan, public Meteogiuliacci was born from the experience of ment to experiment promote river contract as a voluntary instrument (soft negotiated betwee promote river contract as a voluntary instrument (soft We develop the innovative solutions to sup Registro Imprese BO e C.F. 01121590374 Who we are and what we do heterogeneous backgrounds (philosophy of science, mathematics, environmental sciences, TUTELA DEL TERRITORIO E ACQUE IRRIGUE THEMES AND TOPICS OF INTEREST InGroup), Italy, National Table ofItaly River Contracts, respond the need introducing new forms In Italy, National Table River Contracts, respond to need for introducing new forms ities, and toof prepare the most Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume EIP Water smart river network environmental andare food safety of the territory through the construction, operation Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume EIPto Water smart riverfor network ume - (Tavolo TNCdF) together todei Smart Rivers network (EIP Water Action Group), that can be applied inthat an manner toan the management. In river ntracts Nazionale Contratti di Fiume -WHO Fiume -the TNCdF) together todei theContratti Smart Rivers network (EIP Water Action The Italian National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di can be applied effective manner the management. InofItaly river alagainst Board River Contracts (Tavolo Nazionale diSrl Fiume -effective promising conditions for the desirable scen The Italian National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Who we andthe what we do in meteorologist and climatologist who for dei years de ogical, SKOPIA Salita Molin ViainColunga, 20 water – ZIP Code: 40068. Santo Lazzaro di water Savena (BO) – Italy ns AND WHAT WETrento DO providing training ininactivities. Our further mission training and consultancy is to between tated makers during extreme weather and the general public. They have contributed inrequested Italy totelevision the realization Whoinstitutions we are andrelated what we do the general public. They have contributed inhe events: floods, flash-floods, landslides, hot-wav SalitaWE deiARE Molini,2 38123 - Italy sociology, insurance), Who we are and what we do hydraulic and regulation works. with common interests increation application and developments Futures Membro dell’European Union of as Water Management Associations edefense di Irrigants d’Europe ofthegovernance asNational wellofofthe as forms voluntary cooperation that and are requested by EU Urbanistica governance well forms of voluntary cooperation that are by EU through the Mediaset channels a nce of omote a bottom up- innovative to-the enhance the participatory governance in the contracts diffusion started (as a button up initiative) with creation ofGroup), a Table of ofofarea, Water Action promote aapproach bottom up innovative approach enhance the participatory governance in the www.skopia-anticipation.it Fiume together to Smart Rivers network (EIP Water Action Group), contracts diffusion started (as aiswith button upweather initiative) with aas National ofof) Smart Rivers network (EIP Action Group), Fiume TNCdF) together toto the Smart Rivers network (EIP Water Action P. issues I.V.A. Table 00533641205 - R.E.A. BO n. 236650 - R.A.E.E. Italians n. IT18080000010573 Opportunity for discussion, centers Mediterranean on a other startup company -skopìa Anticipation Services® S.r.l. (www.skopia-anticipation.it) to eIP realization of Group), (andTNCdF) to Water enhancement the objectives of the provisions on public participation dfires, water etc. enhancement of) the objectives of the provisions on organizations toareunderstand mediumand long-term changes and to impleme Through a new portal, col. Mario Giuliacci hascont chop opics are pollution, University of Chieti –Promote Pescara MeteoGiuliacci srl is a start up company operating inCap. weather and climate service sector. Who we are and what we do Themes and topics of interest Who we and what we do directives and guidelines in order to implement an integrated management of water, land Sociale € 1.020.000 I.V directives and guidelines in order to implement an integrated management of water, land Studies and Anticipation. concerning weather forecasting tecniques and severe weather-climatic phenomena. the Bologna, Portawith di Piazza San Donato, 1, ver basin. The contract an founded example of how to contribute to ensuring the River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di - dei TNCdF) 2007, thatcompany basin. The riveraapproach contract isinnovative an example of how toS.r.l. contribute to ensuring promote bottom upisinnovative to enhance the participatory governance inFiume the River Contracts (Tavolo Nazionale Contratti di -provided TNCdF) in 2007, that provided promote bottom up approach to enhance the participatory governance inFiume the are what weriver doinariver Urbanistica Informazioni Planum online them aon serious but also innovative -skopìa Anticipation Services® (www.skopia-anticipation.it) isinaBoard startup ssionand MeteoGiuliacci develops and uses mathematical models of the atmosphere. at the Department of Sociology and Social Research of the ofthe Trento, Italy. he 1977, inItalian 2020beautiful, theCode Company employs cipation contained the Italian National Board ofand River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti diimplemented Fiume -present. WFD and bySKOPIA the Italian Code Environment. Aton intern Italian National ofand River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume -Funded WFD and implemented byinthe the theano Who we are and what we do Srl creation/implementation ofUniversity international meteorological observation networks, especially in the transformations from the mpacts of Salita dei Molini,2 38123 Trento Italy landscape in a shared and subsidiary manner. Amongst the factors that might have Department of Earth Sciences and Environmental Geology landscape in a shared and subsidiary manner. Amongst the factors that might have THEMES AND TOPICS OF INTEREST mprovement ofItalian water quality, protection against flood risks, as asisdevelopment the support for the of and river contracts, asnetwork itisweather became possible to coordinate improvement of water quality, protection against flood risks, as well as the implementation river basin. river river contract iscrucial an founded example of how to contribute to ensuring the crucial support for the development of river contracts, as it Water became possible to coordinate basin. The river contract animplementation example of how toProvision contribute to ensuring the The Italian National Board oftheRiver Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti diAction The Italian National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale de WHO WE ARE AND Forum WHAT WE DONational Mediterranean region. of forecast for World related events in on Our recent projects had aWater focus on susta . River CAEAt is the largest player in The its Nazionale tel. +39 051 4992 fax +39 051 4992 709 cision el at well the Department of Sociology and Social Research of the University ofall Trento, Italy. first mission to develop and spread futures literacy, based theory ofNational nt. international level Smart Rivers (EIP Water Action Group), www.skopia-anticipation.it Board, led from 2015 the EIP Water Group (AG) “Smart Rive The founding members are professors, researchers, trainers and consultants with industry, market leader within its home TNCdF) and Smart Rivers network Water Action Group), Board, led from 2015 the EIP G THEMES AND TOPICS OF INTEREST Meteogiuliacci was born from theTNCdF) experience of Our col. Mario Giuliacci, a 711 nice and well-known Contracts (Tavolo dei Contratti di programmes an National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di CAE S.p.A. – www.cae.it – [email protected] sity ofWFD Bologna. contributed to an improvement in(EIP the public participation processes in Italy there are the “Action contributed to an inwith the public participation processes there are the “ country Who we are and what we do the Florence and the and FD through the voluntary development of and action plans efforts and compare experiences toterritories build aofrisks, culture of aAssisi participatory collective ofcommunities, the WFD and FDprotection through the voluntary development of programmes action plans improvement of water quality, against flood risks, as ASSOCIAZIONE well as the implementation aFiume national association, with private legal personality, which represents and the interests ofin Italy efforts and compare experiences to build a culture of ais governance. participatory collective governance. improvement of water quality, against flood as well as the NAZIONALE CONSORZI GESTIONE E meteorologist andprotection climatologist who years described theand weather forecasts toimplementation millions of ANBI e-mail [email protected] and what we do Inimprovement brief, we work futures, by helping individuals and organizations toand see(EIP the multiple EIP Water smart river network - TNCdF) together to Smart Rivers network (EIP Water Action Group), Who we are and what we do heterogeneous de resilience of mountain Fiume -the TNCdF) together toprotects the Smart Rivers network Water A k”, yer in several other countries the(EIP “Smart Rivers Network”, Opportunity for discussion, with other weather “cultural resilience” adaptive cap with specific goal tothat transform river basins more Smart Rivers contexts. The with goal toinand transform basins inand more Sma The founding members arefor professors, researchers, trainers and consultants with world. Up to date, most relevant international Anticipation, by developing “futures exercises" with public private organizations and backgrounds (philosophy of science, mathematics, environmental sciences, Smart Rivers network Water Action Group), TNCdF) together toinaround the Smart Rivers network (EIP Water Action Group), The Land Reclamation and Irrigation Consortia cover more than 50% of thp CAE S.p.A. –the www.cae.it –River [email protected] CAE state-of-art systems dedicated toinmulti-hazard monitoring in river real time and early warning. Italians through Mediaset television channels and theRegistro weather column of E Corriere della Sera.of National Table River Contracts ”,dothat is a supplies bottom upimprovement to experiment 143 consortia offorms land reclamation, irrigation and land operating our country, public National Table oforRiver Contracts ”,movement is a specific bottom upTrento movement to experiment Imprese BO eACQUE C.F. 01121590374 Who we are and what we TUTELA DEL TERRITORIO IRRIGUE at can be applied an effective manner to the water management. In Italy river http://www.sii-ihs.it/ In Italy, National Table of Contracts, respond to the need for introducing new that can be applied in an effective manner to the water management. In Italy river of the WFD and FD through the voluntary development of programmes and action plans Salita dei Molini,2 38123 Italy In Italy, National Table of River Contracts, respond to the need for introducing new forms of the WFD and FD through the voluntary development of programmes and action plans concerning weather forecasting tecniques and seve Via Colunga, 20Through – ZIP Code: 40068. San di Savenahas (BO) – Italyto continue to inform Italians by providing promote a bottom up innovative approach to enhance the participatory governance in the promote a bottom up innovative approach tohectares. enhance the participatory and futures, the associated risks and opportunities, and prepare the most rtia, that change, communication, and ds a new portal, col.Lazzaro Mario Giuliacci chosen ontexts. The AG intends -skopìa Anticipation Services® S.r.l. (www.skopia-anticipation topossible contribute to the diffusion oftoof participative governance in the management en deployed in Serbia, Kyrgyzstan, country for abetween total almost 17 million to contribute to the diffusion ofto participative governanc economic self-government bodies, strong expression ofmost subsidiarity, which guarantee the hydrogeological, anticipation of flood risks for and gov by Maldives. fimate the approach toVietnam, enhance the participatory governance inthem the heterogeneous backgrounds (philosophy of science, mathematics, environmental sciences, providing training inservice. activities. Our further mission in training and consultancy isnegotiated to help a bottom up innovative approach to enhance the participatory governance in the er Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di sociology, insurance), with common increation application and developments in Futures promote river contract as a voluntary instrument (soft law) institutions -skopìa Anticipation Services® S.r.l. (www.skopia-anticipation.it) is ainterests startup company promote river contract a voluntary instrument (soft law) negotiated between Weas develop the innovative solutions support decision makers during extreme weather related creation/implementation of institutions international meteorolo with a serious but also beautiful, innovative and easy to use forecasting ontracts diffusion started (as a button up initiative) with the creation of a National Table of Membro dell’European Union of Water Management Associations eare di Irrigants d’Europe of governance as well as forms of voluntary cooperation that requested by EU contracts diffusion started (as a button up initiative) with the of a National Table of that can be applied in an effective manner to the water management. In Italy river of governance as well as forms of voluntary cooperation that are requested by EU that can be applied in an effective manner to the water management. In Italy river d Geol river basin. The of river contract isthefor anconstruction, example of how to contribute to ensuring the on Via Colunga, 20 – ZIP Code: 40068. San Lazzaro diand Savena (BO) –Who Italydo river basin. The river contract ismaintenance an example of how toofofResearch contribute to Who we are and what we do environmental and food safety the territory through operation and of region. an P. I.V.A. 00533641205 - R.E.A. BO n. 236650 - R.A.E.E. n. IT18080000010573 Urbanistica management of European promising conditions the desirable scenarios. hydrologic basins, through the activation ofthrough a cooperative network. Italian sred emerge hydrologic basins, the activation aThe cooperati munities, local development Who we are what we we aredevelopments and what we do founded athot-waves, the Department of Sociology and Social of th Mediterranean Provision weather forecas atti ditogether Fiume -network isNazionale an example of contribute toCap. ensuring the The Consortiums carry out and provide forinthe maintenance and operatio o dei diagainst Fiume -network THEMES AND OF INTEREST n. The river contract is to an example of how to contribute to inUniversity ensuring the mart Rivers (EIP Water Action Group), CdF) to the Smart Rivers (EIP Water Action Group), depopulation remote areas and anticipa SKOPIA Srl insurance), with common interests increation and in Futures Sociale €sociology, 1.020.000 I.V the general public. They have contributed in land Italy to the realization of (and to organizations understand mediumand long-term changes and to implement and the general public. They have contributed in Italy to the realization of (and to Studies and Anticipation. events: floods, flash-floods, landslides, storms, wildfires, water pollution, etc. founded atContratti the how Department ofdei Sociology and Research ofTOPICS the of Trento, Italy. ver Contracts (Tavolo Nazionale Contratti diSocial Fiume -and TNCdF) 2007, that directives guidelines in order to an integrated management ofimprovement water, land River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti dicreation Fiume -provided TNCdF) inthe 2007, that provided contracts diffusion started (as adei button up initiative) with the of aimplement National Table oftoand hydraulic defense and regulation works. directives and guidelines inapplication order toaimplement an integrated management ofquality, water, contracts diffusion started (as adei button up initiative) with of National Table of water protection against risks, as well as implementation the territories ofinthe Florence and Assisi improvement ofpatrimony water quality, protection against flood risks, as well as the the in Nazionale Contratti di Fiume .tom The Italian approach inTuscany, Tavolo Nazionale Contratti di Fiume EIP Water smart river network EIP Water smart river network Each system consists of sensors, stati 2016 has been applied in flood Moldova by the project supported of plants, canals and other infrastructures for soil the protection (ab 2016 has been applied by SMARI sucial headquarter in close to city of Pisa. mense einforcing .skopia-anticipation.it otection against flood risks, astoTavolo well as the implementation anagement (ARM). All these topics are n Group), ent ofup quality, protection against flood risks, as well as the implementation oach towater enhance the participatory governance in the The founding members are SMARIGO professors, researchers, traine innovative approach enhance the participatory governance in with the Urbanistica Informazioni Planum online enhancement of) the objectives offactors the provisions on public participation contained [email protected] the Cap. Sociale €a 1.020.000 I.V enhancement of) the objectives of the provisions on public contained in monitoring the related to a Moldova variety of water issues a -skopìa Anticipation Services® S.r.l. (www.skopia-anticipation.it) iscontracts, a -and startup company Studies and Anticipation. transformations from the present. CAE S.p.A. –Contratti www.cae.it –participation Opportunity for discussion, other weather centers ofTNCdF) Mediterranean area, on issues support for the development of river contracts, as it became possible to coordinate The Italian National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di and landscape in shared and subsidiary manner. Amongst the factors that might have crucial support for the development of river as it became possible to coordinate River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume TNCdF) in 2007, that provided Themes and topics of interest The founding members are professors, researchers, trainers consultants with The Italian National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale dei di and landscape in a shared and subsidiary manner. Amongst the that might have River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume in 2007, that provided of the WFD and FD through the voluntary development of programmes and action plans of the WFD and FD through the voluntary development of programmes a kilometers of drainage and irrigation canals, about 800 water systems, 22 th University of Chieti – Pescara tel. +39 051 4992 711 fax +39 051 4992 709 CAEby S.p.A. – www.cae.it – [email protected] Our first mission Porta di Piazza San Donato, 1, Commission Who weCEI are and what weand docentral eU natural phenomena, related transmission is toto develop and spread futures literacy, based on the theory of we are andBologna, usand ct supported the EU Commission CEI Programme. In backgrounds 2015 experience the river contract Programme. Inofof 2015 thelevel experience network units, where users concerning weather forecasting tecniques and severe phenomena. Promote the WHO WE ARE AND WHAT WE DOweather-climatic voluntary development of programmes and action plans FD and FD through the voluntary development ofResearch programmes and action plans an example of how to contribute to ensuring Who what we do The river contract is an example of to of contribute the cognizing Funded in 1977, inItalian theheterogeneous Company employs over 105the people. CAEAt is the largest Italian player in its can monp dependent on the local impacts ofdevelopment WFD and implemented by the Italian Code on the Environment. Aton international level (philosophy science, mathemati WFD and by the Code the Environment. international ral installations to which it provides assistance megatrends. founded at the Department of Sociology and Social of University Trento, Italy. forts and compare experiences to build ahow culture ofthe aOur participatory collective governance. Fiume -an TNCdF) together to which Smart Rivers network (EIP Water Action Group), tothe an improvement in the public participation processes inthe Italy there are the “implemented The Società Idrologica Italiana (SII), the Italianmanagemen Hydrological So efforts and compare experiences to build aensuring culture offax a participatory collective governance. crucial support for the river contracts, as itisaofcontributed became possible to coordinate ASSOCIAZIONE CONSORZI GESTIONE Emeteorological Fiume -the TNCdF) together to the Smart Rivers network (EIP Water Action Group), to in the public participation processes Italy there are the “2020 crucial support for the development of river contracts, as it became possible to coordinate etc.) and irrigation, the value of theIn competitiveness of produc Department of Earth Sciences and Environmental Geology of the University ofland, Bologna. creation/implementation international observation networks, especially in heterogeneous backgrounds (philosophy ofcontributed science, mathematics, environmental sciences, ways, that can be applied inthat an effective manner to the water management. Italy river dei Molini,2 38123 Trento -NAZIONALE Italy can be applied an effective manner to the water ANBI is711 national association, with private legal personality, represents and protects the interests ofin tel. +39 051 4992 +39 051 4992 709 by first mission to develop and spread futures literacy, based on the theory of ver contract promoted by process data toSalita better support any decision Inimprovement brief, we work with futures, by helping individuals and organizations to see multiple Viain Colunga, 20 – ZIP Code: 40068. San Lazzaro diWater Savena (BO) –communitie Italy– TNCdF, it the is included in the WWAP UNESCO – World Report asWor Euo TNCdF, itincreasing isand included in the WWAP UNESCO Anticipation, by developing “futures exercises" with public or private organizations and making process. ctive manner to the water management. In Italy river Our recent projects had a focus on sustainability and resilience of mountain be applied in an effective manner to the water management. In Italy river ion against flood risks, as well as the implementation of water quality, protection against flood risks, as well as the implementation to promote the advancement, valorization and dissemination https://www.meteogiuliacci.it/ National Board, led from 2015 the EIP Water Action Group (AG) “Smart Rivers Network”, Mediterranean region. Provision of weather forecast for all World Water Forum related events in industry, market leader within its home country a major player in several other countries around the National Board, led from 2015 the EIP Water Action Group (AG) “Smart Rivers Network”, Registro Imprese BO e C.F. 01121590374 Via Colunga, 20 – ZIP Code: 40068. San Lazzaro di Savena (BO) – Italy upcoming THEMES AND TOPICS OF INTEREST Italian National Board of River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume TUTELA DEL TERRITORIO E ACQUE IRRIGUE Italian Board ofTable River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume -real enterprises and, last butcommon not least, employment. insurance), with interests increation application med in September 2009, SKOPIA Srl Italy, National Table ofcompare River Contracts, respond to needNational for introducing new me of CAE state-of-art systems to monitoring into time and early warning. promote aof bottom up innovative approach toexperiment enhance the participatory governance inagricultural the National Table of River Contracts ”,forms that isirrigation aE supplies bottom upimprovement movement to and In Italy, National Table ofcompare River Contracts, toofCONSORZI the need for introducing new efforts andbest experiences to build athe culture of arespond participatory collective governance. 143 consortia land reclamation, and land operating inmulti-hazard our country, public promote a bottom up innovative approach enhance the participatory governance in the National of Contracts ”,forms that isdedicated a-skopìa bottom up movement to experiment efforts and experiences toand build a culture aRiver participatory collective governance. The founding members are professors, researchers, trainers and consultants with ASSOCIAZIONE NAZIONALE GESTIONE contracts diffusion started (as a and button upsociology, initiative) with the creation of aare National ofin the Anticipation Services® S.r.l. (www.skopia-anticipation.it) a ofstartup company contracts diffusion started (as ais button up initiative) with theTable of hydro aan N sociology, insurance), with common interests in application developments in Futures CAE S.p.A. – www.cae.it – [email protected] st objective bringing together three important actors the territories ofand Florence Assisi “futures Report as European practices. Megatrends trends, patterns of chan e-mail [email protected] Anticipation, by developing exercises" with public orassociated private organizations and work and possible futures, the risks and opportunities, and“cultural prepare the most utton up initiative) with the creation of aproviding National Table of training in activities. Our further mission in training and consultancy is to help with the main diffusion started (as aofbutton up initiative) with the creation of a National Table of untary development of programmes and action plans nd FDfor through the voluntary development of programmes and action plans resilience” and adaptive capacity to climate change, communication, an with specific goal tototransform river basins in more Smart Rivers contexts. The AG intends with specific goal toto transform basins inpractices. more Smart Rivers contexts. The AG intends economic self-government bodies, expression of subsidiarity, guarantee the hydrogeological, world. Up to river date, most relevant international projects have been deployed in Vietnam, Serbia, Kyrgyzstan, TNCdF) and Smart Rivers network Water Action Group), www.skopia-anticipation.it Registro Imprese BOas erequested C.F. 01121590374 TNCdF) and Rivers network (EIP Water Action Group), TUTELA DEL TERRITORIO Epromote ACQUE IRRIGUE tSciences just Cap. Sociale €the 1.020.000 I.V Membro dell’European Union of promote Water Management Associations e(EIP diSmart Irrigants d’Europe The Land Reclamation and Irrigation Consortia cover more than of land area ofCouncil,. the governance as well as forms of voluntary cooperation that are by EU river basin. The river contract is which an example of how to contribute toweather ensuring the river contract a voluntary instrument (soft law) negotiated between institutions governance as well as forms of voluntary cooperation that are requested by EU In Italy, National Table of River Contracts, respond to the need for introducing new forms The Association articulated on the territory through ANBI Regionali, ca Studies and Anticipation. river basin. The river contract ismakers an example of how to contribute to then, ensuring the river contract as a voluntary instrument (soft law) negotiated between institutions National Institutional Authorities (Territoria We develop the most innovative solutions support decision during extreme related In Italy, National Table of River respond tostrong the need for introducing new forms WHO WE ARE AND WHAT WE DO River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume -Research TNCdF) in 2007, that heterogeneous backgrounds (philosophy of science, mathematics, environmental sciences, River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di.),approach Fiume -provided TNCdF) in 2007 he Academy (University, P. I.V.A. 00533641205 R.E.A. BO n.Contracts, 236650 - R.A.E.E. n. IT18080000010573 founded at the Department of Sociology and Social Research of50% the University of Trento, Cap. Sociale € 1.020.000 I.V http://www.sii-ihs.it/ fined variable, with great inertia, that EIP Water smart river network The unique consists of providing turnazionale dei Contratti di Fiume EIP Water smart-in river network Studies and Anticipation. provider of and Waste Water Treatment environmental and and food safety of the mission territory through the construction, operation and maintenance ofto 17 promise toItaly. continue in the coming decade emanner dei Contratti diWater Fiume -management. TNCdF) in 2007, that provided ntracts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume TNCdF) 2007, that provided to the water In Italy river providing training in activities. Our further in training and consultancy is to help promising conditions for the desirable scenarios. applied in an effective manner to the water management. In Italy river organizations to understand mediumlong-term changes and to implement Protection, ...) and private operators (Engineering Companies, to contribute to the diffusion of participative governance in the management of European country for a total of almost million hectares. to contribute the diffusion of participative governance in the management of European Via Colunga, 20 – ZIP Code: 40068. San Lazzaro di Savena (BO) – Italy representation of the interests of the reclamation and the Consortia in the anticipation of flood risks for and by local communities, local development again Maldives. Themes and topics of interest ns of rectives and guidelines in order to implement an integrated management of water, land s, District Authority, Civil Themes and topics of interest Membroand dell’European Union of Water Management Associations eare di Irrigants d’Europe improvement ofevents: water quality, protection against flood risks, well as the thewell general public. They have contributed in Italy the ofstorms, (and toas directives andofdi guidelines inapplication order to implement an integrated management of water, land ofinsurance), governance as well as forms of voluntary cooperation that requested by EU improvement ofrealization water quality, protection against flood risks, well as the and the general public. They haveto contributed in Italy to the realization of implementation (and toas PUBLIC ANDimplementation PRIVATE AUTHORITIES TO BE INVOLVED governance as as forms of voluntary cooperation that are requested by EU floods, flash-floods, landslides, hot-waves, wildfires, water pollution, etc. ei Contratti di crucial support for the development of river contracts, as it became possible to coordinate (Tavolo Nazionale dei Contratti crucial support for the development of river contracts, as it became possibl nd extend the guarantee, usually offered on hydraulic defense and regulation works. Who we are and what we do sociology, with common interests in and developments in Futures P. I.V.A. 00533641205 R.E.A. BO n. 236650 R.A.E.E. n. IT18080000010573 individual and institutional members from academia and governm products, to the overall effectiveness of the inf The founding members are professors, researchers, trainers and consultants with Salita dei Molini,2 38123 Trento Italy tel. +39 051 4992 711 fax +39 051 4992 709 or generations. As megatrends emerge Our first mission isnetwork. to develop and spread futures literacy ent ofinitiative) river contracts, ascreation itisup became possible to coordinate Enermove S.r.l. is MeteoGiuliacci srl a is a start up company operating in to weather andofclimatemediumservice sector. for development of river contracts, as itimplement became possible to coordinate npport up with the of National Table of ...). SII with its over 250 sion started (as aamission button with the creation of athe National Table their and approach operative assuring the necessary ontratti dithe Fiume -051 as immense a activity, global impacts at in theassistance localan CAE S.p.A. –the www.cae.it –out [email protected] hydrologic basins, through activation of aprovide cooperative network. Italian in Theprocess, SKOPIA Srl organizations understand and long-term changes and to Consortiums implement ors of hydrologic basins, through the activation ofinstitutional aThe cooperative Italian approach transformations from present. tel. +39 4992 711 fax +39 051 4992 Urbanistica Our first toinitiative) develop and spread futures literacy, based on of carry and foraction the and operation of an nd landscape in shared and subsidiary manner. Amongst the factors that might have depopulation in remote areas and anticipatory risk (ARM). All these topics al ofthe the WFD and FDand through the voluntary development of programmes and plans enhancement of) the objectives oftheory the provisions on public participation contained in thecompare and landscape a709 shared and subsidiary manner. Amongst the factors that might have directives guidelines in order to an integrated management of water, land of the WFD FDThe through the voluntary development of programmes and plans enhancement of) the objectives of the provisions on public participation contained in the directives and guidelines in order to implement an integrated management ofand water, land theaction Network of management National Hydrological Associations (NHAs) ction Group), efforts and experiences tomaintenance build a culture of a Water participatory collective governance. network Water Action Group), efforts and compare experiences to build a culture ofPublic a participatory collecti ASSOCIAZIONE NAZIONALE CONSORZI GESTIONE EParticipation Themes topics of MeteoGiuliacci develops and mathematical models of the atmosphere. is a founding member of m: post-sales maintenance, the Cap. Sociale €with 1.020.000 I.V Studies and Anticipation. WHO WE ARE AND WHAT WE DO Dialog Water Democracy, Public Participation and Water Governance, usage of remote advanced tools and the training economic andof juridical sectors, defining the operative guidelines and the ob Dialog on Democracy, an University Milan, European Weather Center of Bologna, Weather Centers Bologna, di Piazza San Donato, 1,interest n company its headquarter in Tuscany, close to city of Pisa. and toNational build a(EIP culture ofincluding a-self-reinforcing participatory collective governance. heterogeneous backgrounds (philosophy of science, mathematics, environmental sciences, nical, er and cause negative compare experiences to build athe culture ofuses a-subsidiary participatory collective governance. ei Contratti di Fiume TNCdF) in 2007, that provided IAZIONE NAZIONALE CONSORZI GESTIONE E di ts (Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume TNCdF) inshared 2007, that provided Anticipation, by developing “futures exercises" with public or Each system consists of sensors, monitoring stations measure natural phenomena, related transmission 2016 has applied in Moldova by the SMARIGO project supported by the EU patrimony of plants, canals and other infrastructures for soil the protection (about thousand Hydrological Sciences (IAHS). An elected Committee identif 2016 has been applied inon Moldova by SMARIGO project supported by the EU processes (e.g. drought> water withd ver Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti Fiume - are ndpacts Board River Contracts (Tavolo Nazionale dei Contratti Fiume - Porta transformations from the present. Who we are and what we do we and what we do Enermove is active in I SKOPIA Srl Funded 1977, inItalian 2020 the Company employs over 105 people. CAE is40068. the largest Italian in its(BO) ontributed an improvement in public participation processes in Italy there are the “Amongst that can be applied in an effective manner to the water management. In Italy river WFD and implemented bydi the Italian Code on the Environment. Aton international contributed to an improvement in the public participation processes in Italy there are the “ been and landscape in a01121590374 shared and manner. Amongst the factors that might Registro Imprese BOEto e200 C.F. 01121590374 national Association of of that can be applied an effective manner to the management. In Italy river WFD and implemented byinhave the Code the Environment. At international level and landscape inautomation aWho and subsidiary manner. the factors that might have Anticipation, developing “futures exercises" with public or private organizations and TUTELA DEL TERRITORIO ACQUE IRRIGUE related to aplayer variety of water issues and all are dependent on the local ering services, mounted units, ernance into the In Italy, National Table of River Contracts, respond tothousand the need for introducing new forms ce the participatory governance in the ViainColunga, 20 –level ZIP Code: San Lazzaro di water Savena –Countries Italy In Italy, National Table of River Contracts, respond to the need forimpacts introdu ANBI isby askid national association, with private legal personality, which represents and protects the interests of rbanistica Informazioni Planum online providing for the examination and study of the legislative measures concerni Department of Earth Sciences and Environmental Geology of the University of Bologna. In brief, we work with futures, by helping individuals and organizations to see the multiple (www.skopia-anticipation.it) is a startup company Registro Imprese BO e C.F. nspriorities integrant part of the Company value rsue, Governance, toward an further development of scientific principles and their application TUTELA DEL TERRITORIO E ACQUE IRRIGUE innovative and more sustainable management of the river and lake basin innovative and more sustainable management of th WHO WE ARE AND WHAT WE DO proposal. kilometers of drainage and irrigation canals, about 800 water systems, 22 bridleways, Contracts, respond to the need for introducing new forms ational Table of River Contracts, respond to the need for introducing new forms f river contracts, as it became possible to coordinate Who we are and what we do t for the development of river contracts, as it became possible to coordinate inabroad which and stimulates sociology, insurance), with common interests in2015 application developments in Futures Meteogiuliacci was born from experience of col. Mario aour nice and well-known ter scarcity> drought). Recognizing Commission CEI Programme. In “Smart 2015 the experience of the river contract promoted by Commission CEI Programme. Incommunities, the of the river contract promoted network and central units, where users can monitor, store and process data to better support any providing training inSII activities. Our further mission inbydecision training twork (EIP Water Action Group), www.skopia-anticipation.it dational with several installations to which itTHEMES provides assistance Our recent projects had aWater focus oninitiative) sustainability and resilience of mountain F) and Smart Rivers (EIP Water Action Group), tel. +39 051 4992 711 fax +39 051 4992 709 megatrends, assessing ormeeting imagining Molini,2 38123 Trento -River Italy CAE supplies state-of-art systems dedicated toin multi-hazard monitoring in started real time and early warning. Our first mission isnetwork develop futures literacy, based on the theory of Table of Contracts ”,and that is bottom up movement to experiment and 143 consortia ofactivities. land reclamation, irrigation and land improvement operating country, public contracts diffusion (as a(AG) button up the creation of aof National Table of National Board, led from 2015 the EIP Water Action Group “Smart Rivers Network”, National Table ofspread River Contracts ”, that isand aGiuliacci, bottom up movement to experiment and contributed an improvement inathe the public participation processes in Italy there are the “the industry, market leader within its home country awith major player in several other countries around contracts diffusion started a(AG) button up initiative) with the creation ofexperience aofand National Table of National Board, led from 2015 EIP Action Group Rivers Network”, to an improvement in the public participation processes indei Italy there are theand “and AND TOPICS OF INTEREST and irrigation activities and those ofand the Consortia; organizing researches and practice. organizes the 3-days annual “Giornate Membro dell’European Union Water Management Associations eare di Irrigants d’Europe ensuring the providing training in Our further mission in training consultancy is to of(as governance as forms ofthe voluntary cooperation that requested by EU how to contribute toto ensuring the as well forms of voluntary cooperation that aretheir reqds ation megatrends. maintenance. ANBI is of aecontributed national association, with private legal personality, which represents and protects the interests of The Societàas Idrologica Italiana (SII), the Italian Hydrological Society, was formed in September 2009, ce between science and etc.) irrigation, thewell value ofgovernance land, the competitiveness ofas production, the income of Inyears brief, weassociated with futures, by helping individuals and organizations see the multiple The Italian National Board ofwork River Contracts (Tavolo Nazionale Contratti di meteorologist and climatologist for described the weather forecasts to millions ofContracts d lake basins. site services such as plant and The Italian National Board ofhelp River (Tavolo dei Contratti di possible futures, the risks and opportunities, and to prepare the most and Research of the University Trento, Italy. P. I.V.A. 00533641205 -Authorities R.E.A. BO n. 236650 R.A.E.E. n. IT18080000010573 dell’European Unionof Water Management Associations di Irrigants d’Europe sbro of voluntary that are requested by EU nance as as forms of voluntary cooperation that are requested by EU uild culture acooperation participatory collective governance. experiences to build culture ofand acommissioning participatory collective governance. NE NAZIONALE CONSORZI Ewho e-mail [email protected] TNCdF, it istoNazionale included in the WWAP UNESCO World Water Report as European self-government strong expression of subsidiarity, which guarantee the hydrogeological, Cap. and Sociale € 1.020.000 TNCdF, itincreasing isI.Vincluded in – the WWAP UNESCO World Water Report as - European best Institutional and Private Operators that is the key poi d-mpare resilient Studies Anticipation. making process. ts, isaSocial relevant toof economic anticipate P.contract I.V.A. 00533641205 -aR.E.A. BO bodies, n.GESTIONE 236650 - R.A.E.E. n. IT18080000010573 organizations to issues understand mediumand long-term cha important and– topical forbest the reclamation and irrigation sector; orga omote riverwell as a upcoming voluntary instrument (soft law) negotiated between institutions we do CON IL SOSTEGNO DI MINISTERO DEGLI ESTERI DIPARTIMENTO PROTEZIONE CIVILE Autorità di Bacino Distrettuali dell’Italia Who we are and w Contatti: Endro Martini Presidente - [email protected] - Filippo Maria Soccodato Coordinatore - [email protected] 179 Anna Buccellato Già SSABAP di Roma E-mail: [email protected] La via alzaia del Tevere dall’età romana al XVI secolo Alessandra Ghelli Segretariato Regionale del MiBACT per la Calabria - Servizio Tecnico E-mail: [email protected]; The Tiber towpath from Roman times to the 16th Century Parole chiave: geomorfologia, Tevere, archeologia, navigazione fluviale Key words: geomorphology, Tiber, archaeology, river navigation RIASSUNTO Con questo contributo si forniscono nuovi importanti dati di scavo sulla localizzazione della via alzaia del Tevere, dall’età Romana fino al Rinascimento, sulla sponda sinistra del Fiume. Fino ad oggi infatti non era nota la posizione, in età antica, della via che permetteva il traino o l’alaggio delle barche che risalivano il corso del Tevere, mentre si conosceva quella dal Rinascimento al XIX secolo. Nella cartografia ottocentesca è presente una “via per il tiro delle bufale” nel Catasto Gregoriano (1835) ed è localizzata in riva destra del Tevere, riva sulla quale si trovava anche il principale porto di Roma attivo dal diciassettesimo secolo fino alla costruzione dei Muraglioni a fine ’800, il porto di Ripa Grande, localizzato di fronte all’istituto San Michele, in Trastevere. Sulla stessa sponda era localizzato anche l’Arsenale Pontificio, fatto costruire da papa Clemente XI e destinato alla manutenzione delle navi commerciali papali. Ma in età Romana i principali porti commerciali sul Tevere si trovavano in riva sinistra: a cominciare dal cosiddetto Porto Imperiale di Ostia, per passare al cosiddetto Molo repubblicano sempre ad Ostia e quindi ai porti di Ficana e del Vicus Alexandri, per quindi giungere ai porti rinvenuti a Testaccio, il primo scavato da Padre Bruzza nel 1868 e il secondo, scavato negli anni ’50 e successivamente negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso di fronte all’Emporio, quasi in prossimità con il moderno Ponte Sublicio. Questi due porti, che dovevano fare parte in realtà di un continuum di attracchi sulla sponda sinistra del Tevere, erano di servizio per i numerosi Horrea presenti nella piana alluvionale di Testaccio. In età repubblicana invece, il porto principale fluviale di Roma era il Portus Tiberinus, localizzato, sempre in riva sinistra, poco a sud dell‘Isola Tiberina e subito a nord rispetto allo sbocco della Cloaca Massima. La necessità di effettuare delle indagini di archeologia preventiva da parte della SSABAP di Roma in corrispondenza delle aree di imposta dei piloni del progettato Nuovo Ponte dei Congressi ha consentito al gruppo di lavoro, diretto da Anna Buccellato in qualità di Funzionario Archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, di mettere in luce la presenza, pochi metri al disotto del piano campagna, nell’area tra l’argine sinistro del Tevere ed il fiume, un breve tratto di strada battuta in prossimità del corso d’acqua, che è risultata Carlo Rosa Sigea Lazio, Istituto Italiano di Paleontologia Umana E-mail: [email protected] ne commerciale sul Tevere, soprattutto dal porto-canale di Fiumicino a Roma, sorge la necessità, da parte dei pontefici, di regolamentare il trasporto fluviale, mediante la creazione della Presidenza delle Ripe, che andava a sostituire l’antico istituto dei Curatores riparum et alvei Tiberis di età romana imperiale (Aristone e Palazzo, 2012). Nel XVII secolo vengono costruiti, in riva destra del Tevere, il porto e la dogana di Ripa Grande (Fig. 1 - 1690 circa) nel luogo dove fino ad allora erano solite approdare molte Figura 1. Veduta della Dogana Nuova sopra il Tevere a Ripa Grande, tratta da “Il Quarto libro del nuovo teatro delli palazzi in prospettiva di Roma moderna dato in luce sotto il felice pontificato di Nostro Signore Papa Innocenzo XII / disegnato et intagliato da Alessandro Specchi” (1699, Alessandro Specchi) essere persistente almeno dall’età romana repubblicana sino al quindicesimosedicesimo secolo. La presenza di un tratto di questa via permette quindi di meglio definire quello che era il sistema di comunicazione e trasporto fluviale in risalita del Tevere, attraverso le piccole navi tirate probabilmente da buoi, come risulta dai numerosi elementi iconografici disponibili dal diciassettesimo secolo fino alla fine dell’800. 1. RIFERIMENTI STORICI Verso la metà del XVI secolo, con la ripresa di vigore ed importanza del porto di Civitavecchia e conseguentemente con il rinnovato fiorire della navigazio- delle imbarcazioni che trasportavano merci provenienti da Civitavecchia tramite lo scalo di Fiumicino. In questo scalo venivano trasferite le merci che poi risalivano il Tevere su imbarcazioni adeguate; si trattava di derrate alimentari, materie prime, materiali da costruzione e generi di lusso provenienti dall’estero e soggetti ad una tassazione doganale pesante. Un piccolo porto, in sinistra idrografica del Tevere, utilizzato sin dal XIV secolo per lo scarico di legname, carbone e vino provenienti di territori attraversati dal Tevere a nord di Roma fino ad Orte, viene ingrandito e monumentalizzato, per volere di Papa Clemente XI, da Alessandro Specchi in collaborazione Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 180 di Carlo Fontana, ed inaugurato come Porto di Ripetta o Porto Clementino, nel 1704 (Fig. 2). Ai primi del Settecento dunque il Tevere è navigabile per 120 miglia, dal “porto della legna dei Padri di San Francesco”, presso Orte fino alla foce di Fiumicino, con una zona urbana “non navigabile” dai battelli commerciali tra Ripetta e Ripa Grande a causa del locale scarso pescaggio per la presenza di banchi di sabbia, scarichi di macerie e rottami vari, ruderi, mulini e attrezzature per la pesca (Aristone e Palazzo, 2012). Nonostante la reiterata esigenza di creare un collegamento tra questi due scali, manifestata di continuo in pubbliche lamentazioni, la forza preponderante di pratiche e comportamenti consolidati, connessi alle numerose autorizzazioni per lo sfruttamento della risorsa “acqua” all’interno del tessuto urbano, e dei più frequenti veri e propri atti di abuso privato esistenti per l’utilizzo del Tevere per funzioni varie, ne ha reso impossibile la realizzazione (Aristone e Palazzo, 2012). 2. LA NAVIGAZIONE SUL FIUME Ma come avveniva la navigazione lungo il fiume? Mentre la navigazione in direzione di corrente era favorita dallo scorrere delle acque e controllata solo con l’uso del timone, la navigazione in senso contrario richiedeva l’alaggio, cioè come abbiamo visto sopra, il traino dell’imbarcazione tramite più funi (zaganelle o pilorci) tirate da terra e fissate all’albero centrale del battello da carico. Il tiro delle imbarcazioni fluviali era eseguito da animali, per lo più bufali, oppure da esseri umani, i pilorciatori, in condizioni che possiamo solo immaginare (Fig. 3). Nel 1805 una Notificazione di Pio VII introduce il traino animale per il percorso da Ripetta ad Orte in sostituzione di quello umano, “….come già si pratica per consimile tiro …..da Fiumicino fino al Porto di Ripa Grande...”, l’iniziativa che intende sottrarre i capitani delle imbarcazioni “..all’arbitrio di contrattare il tiro coi barcaroli dal recinto fuori porta del Popolo fino al territorio di Orte”, viene definita “utile non solo all’Umanità ma anche al Commercio” (Aristone e Palazzo, 2012). A partire da 1806 è attivo un servizio pubblico di tiro delle barche a mezzo di bufale da Roma ad Orte sotto la direzione dalla Presidenza delle Ripe che deve anche assicurare, con lavori di sistemazione e controllo dello stato del fiume, la navigabilità, spesso difficoltosa e intermittente, che costituiva per Roma, almeno sin dal XIV secolo, una Figura 2. Porto di Ripetta (1754, Giuseppe Vasi - Delle magnificenze di Roma antica e moderna. Libro Quinto) Figura 3. «I battellieri del Volga» di Ilia Répine (1870-1873 – Museo di San Pietroburgo) Figura 4. Prati e Monti di Campo di Merlo e Tenuta di Torre Carbone, posizionate su immagine satellitare Google Earth con ingrandimento della indicazione di Tiro di Barche o Tiro delle Bufale (1660 – Presidenza delle Strade - Catasto Alessandrino, Archivio di Stato di Roma, Progetto Imago II, segnatura 433bis/4 e segnatura 433bis/14) preziosa fonte di approvvigionamento di legname e carbone (che costituivano circa il 50% delle merci trasportate e che viaggiavano separatamente dai generi alimentari), vino (che costituiva il 40% dei singoli carichi), olio, grano (Verdi, 1995). L’introduzione del traino animale nel 1805 non produce miglioramenti Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 del servizio come una sensibile riduzione prevista dei tempi di percorrenza nel tratto Roma-Orte, ma anzi un aggravio delle spese per i mercanti di legname, i principali fruitori del servizio; le barche in risalita, generalmente prive di carico, impiegano ancora più dei 5-6 giorni previsti con il tiro delle bufale, contro i 181 12 giorni impiegati dagli uomini (Aristone e Palazzo, 2012). Ma vediamo in dettaglio dove avveniva la navigazione in senso contrario alla corrente del Tevere dal XVII al XIX secolo. Esaminando le mappe acquerellate del Catasto Alessandrino, raccolte dalla Presidenza delle Strade nel 16601661, in almeno due tra queste è visibile una strada parallela alla riva del Tevere con la scritta “Tiro delle Barche” o “Tiro di Barche”. Si tratta della Tenuta di Tor Carbone e dei Prati e Monti di Campo di Merlo (Fig. 4) nelle immagini è possibile vedere come la via alzaia1 si trovasse già allora sulla riva destra del Fiume Tevere, riva destra che presentava a Roma già un luogo di attracco, anche se non ancora un vero e proprio porto, Figura 6. Catasto Gregoriano, Sezione di Mappa XXIII, 1818, posizionamento su immagine satellitare Google Earth ed ingrandimento di «Via del Tiro delle Barche» (1818 – Catasto Gregoriano, Mappe Agro Romano, Archivio di Stato di Roma, Progetto Imago II, AGRO-023, particolare) Figura 5. Veduta di Ripa e Mons Testaceus (Pianta di Roma, Antonio Tempesta, versione del 1606, particolare) in località Ripa Grande (Fig. 5 Antonio Tempesta 1593 particolare). Nella cartografia ottocentesca è presente, nel Catasto Gregoriano (1835), una “Via del Tiro delle Barche” (Fig. 6), o una “Strada pel Servizio Pubblico del Tiro delle Barche” (Fig. 7), o una “Via delle Bufale“ (Fig. 8) che è localizzata sempre in riva di destra idrografica del Tevere da capo due rami a Ripa Grande, riva sulla quale, come si è già accennato, si trovava anche il principale porto di Roma attivo dal diciassettesimo secolo fino alla costruzione dei Muraglioni a fine ‘800, il porto di Ripa Grande, localizzato in Trastevere di fronte all’istituto San Michele2. Sempre nel Catasto Gregoriano troviamo, questa volta in riva sinistra del Tevere, la stessa riva del porto di Ripetta, una “Via del Tiro delle Barche” (Fig. 9) appena fuori Porta del Popolo, e una via “Servizio pubblico del Tiro delle Barche“ a Settebagni (Sezione di Mappa XXXV) che continua a nord in direzione di Orte (Fig. 10). Ma per quanto riguarda le modalità della navigazione del Tevere in età Romana poco si conosce a parte le tipologie dei battelli utilizzati ed i principali porti Figura 7. Catasto Gregoriano, Sezione di Mappa LX, 1819, posizionamento su immagine satellitare Google Earth ed ingrandimento di « Strada pel servizio pubblico del Tiro delle Barche » (1819 – Catasto Gregoriano, Mappe Agro Romano, Archivio di Stato di Roma, Progetto Imago II, AGRO-060, particolare) Figura 8. Catasto Gregoriano, Sezione di Mappa CXVI, 1819, posizionamento su immagine satellitare Google Earth ed ingrandimento di « Via delle Bufale o del Tiro delle Barche » (1819 – Catasto Gregoriano, Mappe Agro Romano, Progetto Imago II, AGRO-116, particolare) commerciali presenti sul Fiume. Questi, in età Imperiale, si trovavano per la maggior parte in riva sinistra, a cominciare dal cosiddetto Porto Imperiale di Ostia, per passare al cosiddetto Molo repubblicano sempre ad Ostia e quindi ai porti di Ficana e del Vicus Alexandri, per quindi giungere ai porti rinvenuti a Testaccio, il primo scavato da Padre Bruzza nel 1868 e il secondo, scavato Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 182 negli anni ’50 e successivamente negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso di fronte all’Emporio, quasi in prossimità con il moderno Ponte Sublicio. Questi due ultimi porti, che dovevano fare parte in realtà di un continuum di attracchi sulla sponda sinistra del Tevere, erano di servizio per i numerosi Horrea presenti nella piana alluvionale di Testaccio. In età Repubblicana invece, il porto principale fluviale di Roma era il Portus Tiberinus, localizzato, sempre in riva sinistra, poco a sud dell‘Isola Tiberina e subito a nord rispetto allo sbocco della Cloaca Massima, all’interno del circuito delle Mura Serviane. Figura 9. Catasto Gregoriano, Sezione di Mappa CLIII, 1819, ingrandimento di « Via del Tiro delle Barche » (1819 – Catasto Gregoriano, Mappe Agro Romano, Progetto Imago II, AGRO-153, particolare) Figura 10. Modello digitale del terreno del Lazio con indicate le vie del tiro delle barche del 1600-1870 in riva destra idrografica (arancione) da Capo due Rami a Ripa Grande e in riva sinistra idrografica (verde) da Ripetta a Orte con i porti principali di scalo Figura 11. Immagine satellitare da Google Earth con indicato il punto di passaggio sul Tevere del progettato Nuovo Ponte dei Congressi Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 3. LE RECENTI INDAGINI ARCHEOLOGICHE Nel 2017, la necessità di effettuare delle indagini di archeologia preventiva da parte della Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma in corrispondenza delle aree di imposta dei piloni del progettato Nuovo Ponte dei Congressi3 (Fig. 11) ha consentito, al gruppo di lavoro diretto da Anna Buccellato, in qualità di Funzionario Archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, di esaminare sia i sondaggi meccanici a carotaggio continuo che le trincee previste e concordate con Comune di Roma. Si trattava di 6 carotaggi archeologici profondi 10 metri e 2 geologici profondi 20 metri posti sull’argine destro, in lato Magliana e 12 carotaggi archeologici profondi 10 metri e 2 geologici profondi 20 metri posizionati sulla cima dell’argine sinistro, nel lato EUR. Le programmate trincee esplorative su entrambe le sponde del Tevere, all’interno delle aree golenali, in corrispondenza del progettato posizionamento dei piloni del Nuovo Ponte erano: cinque in sponda destra, a quote medie tra +8,50 e +9,50 metri s.l.m., di dimensioni 8 metri x 16 metri e distanti dieci metri tra di loro, e solo quattro in sponda sinistra, a quote medie tra +9 e +9,38 metri s.l.m., di dimensioni 12 metri x 20 metri a causa di problemi di minore dimensione dei lotti liberi per le indagini e per lo stoccaggio temporaneo delle terre di scavo (Figg. 12, 13, 14). Le trincee lato Magliana (50, 51, 52, 53, 54), tutte realizzate, hanno evidenziato solamente la alternanza stratigrafica, da sabbiosa a limoso-argillosa, delle frequenti fasi alluvionali del Tevere negli ultimi secoli senza la presenza di elementi di interesse archeologico. Da segnalare comunque una superficie di erosione connessa ad un mutamento della direzione 183 Figura 12. Carta Tecnica Regionale al 5000 della Regione Lazio con indicato il punto di passaggio sul Tevere del progettato Nuovo Ponte dei Congressi. In viola sono indicate le trincee in progetto per le indagini archeologiche preliminari sull’area dei plinti a terra del Ponte (Elemento CTR n. 374144, particolare) Figura 13. Immagine da dati LIDAR DSM First 1m x 1m del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Regione Lazio, con indicato il punto di passaggio sul Tevere del progettato Nuovo Ponte dei Congressi. In viola sono indicate le trincee in progetto per le indagini archeologiche preliminari sull’area dei plinti a terra del Ponte (Tavole D41831244_0101, D41831245_0101, D41831246_0101, D41821244_0101, D41821245_0101) Figura 14. Carta Tecnica Regionale al 5000 della Regione Lazio, in verde con bordo viola sono indicate le trincee con numero in progetto per le indagini archeologiche preliminari sull’area dei plinti a terra del Ponte (Elemento CTR n. 374144, particolare) di immersione degli strati nelle prime due Trincee (50 e 51) dal basso verso l’alto (Fig. 15) che è stata interpretata come dovuta alla presenza della via Alzaia riscontrata nelle carte del Catasto Alessandrino e del Catasto Gregoriano, localizzata proprio a sud-est delle due trincee e già visibilmente erosa in parte dalla corrente del Fiume (Fig. 16), la cui probabile erosione totale, una volta caduta in disuso, ha mutato le condizioni locali di giacitura delle alluvioni. In seguito alle obiettive difficoltà di realizzazione delle trincee lato EUR, e conseguentemente alla lettura delle sequenze stratigrafiche evidenziate all’interno della trincea 48 e di parte della trincea 49, il piano di indagini precedentemente concordato in sede di Conferenza dei Servizi è stato rimodulato, tramite consensuale accordo tra la Direzione Scientifica e la Stazione Appaltante e la Direzione Lavori del Comune di Roma e si è optato per una campagna di indagini mediante 14 sondaggi geoarcheologici a carotaggio continuo (SAP1-SAP14), al fine di verificare la natura del paleosuolo e, eventualmente, modificare, in base ai risultati dei sondaggi geoarcheologici, il numero, Figura 15. Trincea n. 50 lato Magliana sezione di Sud Ovest vista da NE Figura 16. Catasto Gregoriano, Sezione di Mappa CXVI, 1819, posizionamento su QGIS ed ingrandimento di «Via delle Bufale» con sovrapposta posizione in verde delle trincee lato Magliana (1819 – Catasto Gregoriano, Mappe Agro Romano, Progetto Imago II, AGRO-116, particolare) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 184 Figura 17. Carta Tecnica Regionale al 5000 della Regione Lazio, in viola sono indicate le trincee lato EUR eseguite per le indagini archeologiche preliminari prima della esecuzione dei 14 carotaggi supplementari, indicati con il pallino rosso (Elemento CTR n. 374144, particolare) l’orientamento e le dimensioni delle trincee previste dal progetto indagini preventive sul lato sinistro del Tevere (Fig. 17), in questo modo come vedremo sono stati anche risparmiati denaro pubblico e tempo. La esecuzione dei carotaggi archeologici supplementari, la cui ubicazione è mostrata in figura 17, ha evidenziato la presenza, in tutti i carotaggi tranne due (SAP10-SAP14), ad una quota assoluta variabile tra +0,60 e – 3,00 metri s.l.m., di un sabbione grossolano, quasi ghiaioso (Fig. 18), interpretabile come antico deposito di Figura 18. Stratigrafia del carotaggio SAP5 e fotografia delle cassette che contengono le carote con i sedimenti di alveo del Tevere nel passato Figura 19. Ricostruzione sponda sinistra ed alveo di un Tevere antico individuato nei carotaggi archeologici supplementari (base topografica Elemento CTR n. 374144, particolare) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Figura 20. Carta Tecnica Regionale al 5000 della Regione Lazio, in rosso è indicata la trincea lato EUR 46 eseguita dopo la esecuzione dei 14 carotaggi supplementari, indicati con il pallino rosso (Elemento CTR n. 374144, particolare) 185 Figura 21. Trincea 46 lato EUR, individuazione del tracciato della via alzaia, in marrone, circondato da depositi alluvionali, in giallo Figura 22. Trincea 46 lato EUR, particolare “battuto” via alzaia fondo alveo del Tevere. Segno che ci trovavamo in corrispondenza della sponda sinistra dell’antico corso del Tevere, non meglio databile con i dati a disposizione (Fig. 19). Si è così deciso, concordemente con la S.A. e la D.L., di eseguire in seguito, al posto delle due trincee e mezza rimaste non eseguite, una unica trincea ad hoc (trincea 46 definitiva) con orien- scuro e largo circa 3 metri con asse di direzione circa NE-SO (US3), delimitato sui due lati da una superficie erosiva (US2) e a contatto con depositi alluvionali limoso-argillosi (US1) (Fig. 21). Il livello US3 conteneva frammenti ceramici parzialmente fluitati, una punta di chiodo in bronzo, un chiodo in bronzo a sezione quadrangolare ed una moneta in bronzo (Figg. 22, 23). A questo punto di decide di eseguire un saggio di scavo all’interno della US3. L’US3 presenta uno spessore di 0,25 m e copre uno strato a matrice argillosa di colore marrone chiaro (US4). Proseguendo con le operazioni di scavo all’interno del saggio, a quote compresa tra + 5,79 e + 5,59 m s.l.m., al di sotto di uno strato a matrice Figura 23. Trincea 46 lato EUR, reperti individuati nel “battuto” tamento parallelo al Tevere invece che perpendicolare, di dimensioni 23x10 metri, in modo da esaminare in dettaglio la natura della sponda del fiume nel passato (Fig. 20). Quasi subito dopo 50 o 60 cm di riporti moderni, tra +7,92 e +7,00 metri s.l.m. è stato incontrato un livello terroso limoso-argilloso leggermente sabbioso, di colore marrone Figura 24. a) relitto di “battuto” di età romana imperiale costituito da frammenti di tufo lionato e sporadici frammenti ceramici (US8), circondato da sedimenti alluvionali del Tevere con stratificazione parallela al bordo della alzaia lato Tevere; b) particolare del “battuto” visto da SE limo argillosa compatta di colore giallo con inclusi sporadici frammenti ceramici (US5=4), si individua un “battuto” costituito da 54 scapoli irregolari di tufo, lapidei e sporadici frammenti ceramici (US8). Lo scarso materiale ceramico recuperato nell’US8, costituito da ceramica comune e da fuoco, permette solo un generico inquadramento in età romana imperiale (Fig. 24). Al di sotto dell’US8, un ulteriore saggio stratigrafico, ha portato all’individuazione, alla quota di +5,21 m s.l.m., di sporadici frammenti ceramici (US14), costituiti da 7 frammenti di un recipiente a forma aperta e 1 frammento di quello che sembrerebbe parte di alto piede, il cui confronto sembrerebbe rimandare al tipo della Pisside trigemina su alto piede, attestata in ambito piceno, falisco e laziale (Fig. 25). La Figura 25. a) saggio all’interno della via alzaia con individuazione di ceramica di età repubblicana; b) ceramica rinvenuta (US14) al di sotto del piano di “battuto” di età romana imperiale (US8); c) Pisside trigemina su alto piede, attestata in ambito piceno, falisco e laziale Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 186 frammentarietà e l’esiguità dei materiali afferenti all’US14 permette di fornire solo un generico inquadramento all’età Repubblicana. Le attività di scavo della trincea 46 sono proseguite con la realizzazione di due saggi (saggio 1 e saggio 2), volti a verificare le sequenze stratigrafiche dei livelli sottostanti al fine di definire lo spessore e il reale stato di conservazione dei battuti. L’esame delle sezioni all’interno del saggio 1, poi ampliato sulla parete NO, in direzione del fiume, hanno evidenziato livelli di erosione e aggradazione del Tevere che hanno “cannibalizzato” il battuto, sono infatti evidenti le tracce di rotolamento e risedimentazione dei materiali lapidei che costituivano il battuto (Fig. 26). Figura 26. Pianta di scavo della trincea 46 lato EUR e foto del saggio di scavo di approfondimento lato “battuto” (US8) Figura 27. Foto trincea 46 lato EUR vista da SW, sezione lato NE Figura 28. Foto trincea 48 lato EUR vista da NE, sezione lato SW Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 4. CONCLUSIONI L’interpretazione finale di questa struttura artificiale in terra, parallela al fiume, costituita da diversi strati successivi di messa in posto, è quella di una via alzaia antica in riva sinistra del Tevere, che, almeno a partire dall’età Repubbli- 187 Figura 29. Andamento della alzaia antica individuata nelle due trincee 46 e 48 lato EUR cana, fino al Tardoantico e al Medioevo, consentiva la risalita controcorrente del Tevere in direzione di Roma. La quota assoluta del livello battuto imperiale, + 5,56 metri s.l.m., certamente rilevato rispetto alla piana alluvionale di allora, rende conto di quanto la pianura alluvionale tiberina si sia sollevata (aggradata) nel tempo, con la deposizione continua di sedimenti alluvionali (Figg. 27, 28, 29). Aggradazione per contrastare la quale, via via nel tempo, sono stati posizionati ulteriori livelli di terreno disponibile localmente, limo sabbioso argil- Figura 30. Immagine da dati LIDAR DTM 1m x 1m del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Regione Lazio, con indicata in rosso la traccia della sezione di figura 31 (Tavole Lidar D41831244_0101, D41831245_0101, D41831246_0101, D41821244_0101, D41821245_0101) Figura 31. Sezione geologica del settore attraverso le due sponde del Tevere Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 188 è stata praticamente resa inservibile ed interrotta in più punti dal divagare del fiume. Di conseguenza, nel XVI secolo o forse anche prima, con il rifiorire dei commerci attraverso il Tevere, si manifestava la necessità di creare ex novo una alternativa via di alaggio, questa volta in destra idrografica, dove si trovava il nuovo porto di Roma, a Ripa Grande. NOTE 1. Con il termine alzaia si intende (dal Sabatini-Coletti, Dizionario della Lingua Italiana): 1) fune per trainare controcorrente barche, battelli ecc.; 2) strada di servizio lungo la riva di un fiume o canale; mentre con il termine alaggio si intende (dal Sabatini-Coletti, Dizionario della Lingua Italiana): 3) traino di un’imbarcazione contro corrente grazie a un cavo tirato da terra; 4) il tirare in secco un’imFigura 32. Modello digitale del terreno del Lazio con indicata la via alzaia in età romana repubblicana, in sinistra barcazione (contrario di varo). idrografica, in verde, dal cosiddetto porto Imperiale di Ostia al Portus Tiberinus a Roma 2. Sulla stessa sponda, poco più a sud, era localizzato anche l’Arsenale Pontificio, fatto costruire da papa Clemente XI e destinato alla manutenzione delle navi commerciali papali. 3. Progetto del Comune di Roma, che ha anche finanziato le indagini e gli scavi archeologici preventivi RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Figura 33. Modello digitale del terreno del Lazio con indicata la via alzaia in età romana imperiale, in sinistra idrografica, in verde, dal cosiddetto porto Imperiale di Ostia e dal porto di Claudio e Traiano a Portus ai porti di Testaccio a Roma loso, per tenere libera la via alzaia dalle interruzioni e dai danni delle frequenti alluvioni. La quota attuale delle aree golenali locali in destra e sinistra idrografica è infatti di + 9,40 ~ + 9,50 metri s.l.m. (almeno 5-6 metri complessivi di sollevamento della piana alluvionale del Tevere in circa 2000 anni) (Figg. 30, 31). La navigazione del Tevere in età Romana Repubblicana (Fig. 32) avveniva, nella direzione verso Roma, mediante il tiro contro corrente con uomini o bufali sulla sinistra idrografica, tenuto anche conto che la riva in destra idrografica del Tevere fino al 396 a.C. era la riva Veiente. In età tarda repubblicana ed Imperiale la via alzaia resterà ovviamente in riva sinistra (Fig. 33), anche se so- no certamente presenti, e con una certa continuità in età imperiale, in riva destra moli di attracco per le imbarcazioni fluviali. Una via alzaia che correva parallelamente a questa riva, appositamente preparata e restaurata nel tempo, permetteva alle navi caudicarie di risalire il fiume e fermarsi anche nei porti, noti in letteratura, e presenti lungo il cammino verso la città, tutti in sinistra idrografica. Le navi che discendevano la corrente ovviamente navigavano agevolmente col timone ed i remi per stabilizzare l’imbarcazione secondo la traiettoria di maggiore velocità della corrente. Sicuramente, in seguito all’incuria e alle numerosissime alluvioni eccezionali avvenute durante il medioevo, questa antica via di alaggio in direzione della foce del Tevere Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Archivio di Stato di Roma (1660), Presidenza delle Strade - Catasto Alessandrino, Progetto Imago II. Archivio di Stato di Roma (1818-1819), Catasto Gregoriano, Mappe Agro Romano, Progetto Imago II. Aristone O., Palazzo A.L. (2012), Roma e il suo “contado lineare”. L’approvvigionamento urbano attraverso il Tevere nel primo trentennio dell’Ottocento. In: (a cura di Alfani, Di Tullio, Mocarelli) “Storia economica e ambiente italiano (ca. 1400-1850)”, Franco Angeli Storia, Milano, pp. 346-362. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (2008), LIDAR DSM First e DTM 1m x 1m, Regione Lazio. Regione Lazio (2006), Carta Tecnica Regionale in scala 1: 5.000, Elemento n. 374144. Specchi A. (1699), Il quarto libro del nuovo teatro delli palazzi in prospettiva di Roma moderna dato in luce sotto il felice pontificato di Nostro Signore Papa Innocenzo XII / disegnato et intagliato da Alessandro Specchi. Vasi G. (1754), Delle magnificenze di Roma antica e moderna. Libro Quinto, Roma. Verdi O. (1995), Il commercio delle derrate alimentari a Roma nei porti di Ripa e Ripetta (secolo XVIII). In: “Gli Archivi per la storia dell’Alimentazione”, Tomo II, Atti del Convegno, Potenza-Matera 5-8 settembre 1988, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi 34, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, pp. 1162-1187. 189 Il Tevere: la più antica via della civiltà romana Giorgio Cesari Già Segretario dell’Autorità di Bacino del Fiume Tevere E-mail [email protected] The river Tiber: the most ancient way of Roman civilization Parole chiave: fiume, navigabilità, commercio, leggende, cultura Key words: river, navigability, trade, legends, culture 1. RIASSUNTO Il fiume Tevere è il secondo d’’Italia per ampiezza di bacino (km2 17.169) e il terzo per lunghezza (km 405): nel corso dei secoli, secondo il territorio che attraversava, ha assunto nomi diversi come Rabula, Serra, Tarentum, Coluber, Rumon (da cui è probabile derivino i nomi di Romolo e Remo) e, infine, i Romani lo battezzarono Tiber. La sua sorgente di trova sul Monte Fumaiolo (1.407 m), conosciuto nei secoli scorsi come Fiumaiolo per le numerose sorgenti che sgorgano dalle sue pendici. Il Tevere costituiva nell’antichità la linea di demarcazione tra due aree con caratteristiche diverse, quella etrusca a nord del fiume e quella delle popolazioni latine a sud. Dopo la conquista dell’Italia Centrale da parte del popolo romano, il Tevere è divenuto una fondamentale arteria commerciale, con numerosi porti non solo a Roma, per il trasporto di prodotti agricoli di cui era ricca l’Umbria (olio, vino, fichi, ortaggi) o trasporto di legnami dall’Appennino o di manufatti per l’uso quotidiano come le ceramiche e altri prodotti pregiati e alimentari provenienti da tutto il Mediterraneo. Ma il Tevere è anche stato il percorso di miti, tradizioni e leggende, che hanno accompagnato, a nord verso la sorgente e alla foce verso il Mediterraneo, l’espansione della civiltà romana, della lingua latina e di usi e costumi fra e con le popolazioni native. 2. ABSTRACT The Tiber River is the second in Italy for basin width (17,169 km2) and the third for length (405 km): over the centuries, according to the territory it crossed, it took on different names such as Rabula, Serra, Tarentum, Coluber, Rumon (from which the names of Romulus and Remus are probably derived) and, finally, the Romans baptized him Tiber. Its source is on Mount Fumaiolo (1,407 m) known in past centuries as Fiumaiolo for the numerous springs that flow from its slopes. In ancient times the Tiber constituted the dividing line between two areas with different characteristics, the Etrus- can north of the river and that of the Latin populations to the south. After the conquest of Central Italy by the Roman people, the Tiber became a fundamental commercial artery, with numerous ports. Not only in Rome, for the transport of agricultural products of which Umbria was rich (oil, wine, figs, vegetables) or transport of timber from the Apennines or artefacts for everyday use such as ceramics and other fine and food products from all over the Mediterranean. The Tiber has also been the path of myths, traditions and legends that have accompanied, to the north towards the source and to the mouth towards the Mediterranean, the expansion of the Roman civilization, of the Latin language and of customs and traditions between and with the native populations. 3. GEOGRAFIA, TOPONOMASTICA, ORIENTAMENTO Il Tevere, il più grande fiume dell’Italia Centrale, nasce ai piedi dei monti Cemero e Fumaiolo e, attraversando diverse regioni, s’ingrossa di affluenti sempre più ricchi d’acqua: il Chiascio con il Topino fino così a penetrare in Etruria, il Nera con il Velino per addentrarsi nella Sabina e raggiungere i valichi del Piceno, l’Aniene che fa da collegamento con la Marsica. Il Tevere è, inoltre, il secondo fiume d’Italia per ampiezza di bacino (km2 17.169) e il terzo per lunghezza (km 405). Il suo percorso è anche stato motivo di diversi appellativi nel corso dei secoli, secondo il territorio che attraversava. Così ha assunto nomi diversi, come Abula, Serra, Tarentum, Coluber, Rumon (da cui è derivano i nomi di Romolo e Remo), per essere. Infine, battezzato dai Romani Tiber, toponimo che pare derivi da Tiberino, un discendente di Enea, morto annegato nelle sue acque. Il Tevere è però anche il più importante fiume italiano con direzione nord sud, a differenza degli altri principali corsi d’acqua italiani che si diramano verso est o ovest o piegano in una delle due direzioni dopo un breve tratto nord sud. Tutto è dovuto all’orientazione del corso del Fiume Tevere determinata dai principali lineamenti tettonici dell’Appennino centrale e, nella parte bassa del corso, dalla presenza del vulcanismo pleistocenico del margine tirrenico. Per tale motivo l’alto corso presenta un orientamento appenninico (NW-SE), interrotto, tra Todi e Orvieto, da un tratto ad andamento NE-SW. Inoltre, il fiume presumibilmente proseguiva ancora e decisamente più a sud, verso il Lazio meridionale, ma l’inizio dei movimenti, che portarono al sorgere dell’apparato vulcanico dei Colli Albani, costrinse il Tevere a piegare verso il Tirreno e porre la foce nell’area dell’attuale di Ponte Galeria. 4. LINEA DI PENETRAZIONE COMMERCIALE L’orientazione del fiume ha fatto sì che il Tevere costituisse non solo la linea di demarcazione tra due aree con caratteristiche diverse, quella etrusca a nord del fiume e quella delle popolazioni latine a sud, ma sopratutto la possibile via di penetrazione tra due civiltà (Fig. 1). Il territorio in destra Tevere, a nord di Roma, nell’età del ferro vide la fioritura di importanti centri, abitati da popolazioni distinte etnicamente e linguisticamente: gli Etruschi, i Capenati, i Falisci, per i quali il fiume era il naturale confine e anche un’importante via di comunicazione tra popolazioni i cui centri principali erano distanti dal fiume e arroccati su alti ripiani tufacei. Già un primo importante ruolo nell’uso della via fluviale fu svolto dalla città di Veio che deteneva, così, il predominio sui traffici fluviali. Verso sud, attiva era la commercializzazione greca nella bassa valle del Tevere, così come interessante era altresì una penetrazione commerciale dalla zona del Sele. Simbolo tangibile degli interessi commerciali legati alla via fluviale sono i modellini fittili di barche rinvenuti in contesti funerari, le cui tombe, particolarmente ricche, appaiono appartenere a soggetti abbienti che fondavano la pro- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 190 Scali, apprestamenti di riva con ormeggi e camminamenti di alaggio sono noti a Ponte Milvio, a Passo Corese, a Ponticchio, a Ponzano, alle foci del Treia, al porto dell’olio di Otricoli, a Piscinale e a Castiglione di Orte, alla confluenza del Paglia, a Tizzano sul Nera. Sul fiume erano presenti anche lunghi tratti di sponda con banchinamenti potenti di pietra e di terra, fino all’agro Crustumino e a Orte, che documentano come le rive dovessero essere ben curate e attrezzate. Se poi le grandi strade storiche vennero a scandire, con la conquista romana, gran parte della penetrazione e a segnare il nuovo ordine dalla visione centripeta di Roma, è sopratutto lo stesso Tevere, come via d’acqua, e la rete dei suoi affluenti che hanno permesso dai primordi una capillarità straordinaria di rapporti tra le regioni più interne tra loro e lungo l’asse maggiore fino al mare. Sul loro percorso e sulle rive una catena di scali si è perpetuata o alternata a seconda del favore delle circostanze storiche nei millenni, fino ai primi secoli dell’età moderna. Gli antichi ricordano come navigabile, ovviamente con appropriate imbarcazioni, lo stesso più alto corso del Tevere fino alle sorgenti, il Chiana fino ad Arezzo, il Nera come il Velino e perfino rigagnoli loro affluenti come il Teneas, il fiume di Mevania che oggi stenteremmo a riconoscere utili a un traffico capillare quale quello a loro attribuito. Figura 1. Il Tevere nell’età preromana pria ricchezza sul commercio tiberino. Veio, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. cede progressivamente il predominio commerciale sui traffici tra il mare e l’approdo del Foro Boario, mentre la conquista del territorio falisco da parte di Roma si attivò in circa un secolo e mezzo, dall’inizio del IV secolo fino alla resa di Capena nel 241 a.C. e alla distruzione di Falerii Veteres. Queste due città divengono centri marginali, ma sempre collegati tramite la via d’acqua, così come le città fondate dai Romani nei territori conquistati. E proprio, dopo la conquista dell’Italia Centrale da parte del popolo romano, il Tevere è divenuto una fondamentale arteria commerciale, con numerosi porti non solo a Roma, per il trasporto di prodotti agricoli di cui era ricca l’Umbria (olio, vino, fichi, ortaggi) o trasporto di legnami dall’Appennino o di manufatti per l’uso quotidiano, come le ceramiche e altri prodotti pregiati e alimentari provenienti da tutto il Mediterraneo. Attraverso la via fluviale transitavano, però, anche pietre e materiali da costruzione cavati in zona e derivati come la calce. Oltre al legname, di cui si accenna dopo, la parte più cospicua dei traffici erano le derrate alimentari, così come le carni, il latte e derivati. Molto ricercate erano le giovenche falische candide come neve e ricercate per i sacrifici. Attraverso il Tevere si rifornivano pure in flusso contrario i centri abitati e le ville, sopratutto di metalli e manufatti di vario tipo e di prodotti anche alimentari. Le regioni più interne erano determinanti per il rifornimento del legname. Si ricordano sia l’invio massiccio di legname per le navi della flotta romana della prima guerra Punica, sia, nella seconda, la provenienza di legname, sempre per via d’acqua, da Arezzo, Perugia e Chiusi. 5. DIRETTRICE DI RELAZIONI TRA POPOLI Già Lucus Feroniae, nel territorio di Capena, era simbolo di un eccezionale convergere di interessi: all’ombra del bosco sacro si riunivano, nella periodica festività, Falischi e Latini, Etruschi, Sabini e Umbri, che, nella scambievole attività culturale, economica e giuridica, seppero per tempo trasformare il luogo di fiera e di mercato in un centro di vita collettivo. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 6. LA NAVIGABILITÀ Da sempre il Tevere è stato un fiume navigabile. La navigabilità del Tevere aveva soglie di penetrazione in proporzione alla stazza dei navigli. A ciò si aggiungeva il problema del variare delle portate nelle diverse stagioni. Plinio il Giovane ricorda come le portate del Tevere, ricche nelle altre stagioni, fossero tanto ridotte in estate da compromettere la navigazione nel suo corso superiore. Plinio il Vecchio ricorda come, a monte della confluenza del Paglia e del Chiana, il fiume non fosse ormai navigabile per esiguità di acqua e per accidentalità del corso, se non a piroghe più che a barche e accenna all’accorgimento usato di trattenere l’acqua con chiuse sul percorso, che erano poi aperte per sfruttare l’onda di piena. Ciò avveniva ogni nove giorni al ricorrere delle nundinae i giorni, cioè, nei quali le barche portavano i prodotti agricoli al mercato. Tracce di queste chiuse sono state viste in passato sul più alto corso del fiume e altri esempi sono conservati pure sull’alto corso dell’Arno e in un rivolo affluente a monte di Roma, il fosso di Vallelunga. Ostia rappresentava 191 il terminal di flussi di merci a diffusione regionale trasportati lungo il Tevere. Le stesse fonti letterarie fanno risalire la vocazione commerciale della colonia d’Ostia fino alle sue antichissime origini: il re Anco Marzio, il suo fondatore, avrebbe, in questo modo, soddisfatto anche le esigenze dei mercanti e dei commercianti, anche se questa notizia è da proiettarsi dopo la seconda guerra punica, quando il Porto di Ostia aveva ormai assunto una funzione, pienamente commerciale e non più solo militare, nell’ambito del progetto scipionico in cui essa fu integrata con Puteoli/Pozzuoli, in un sistema di porti tale da assicurare un flusso costante di merci verso Roma. costoso, descritto e lodato da Macrobio, Plinio il Vecchio e Giovenale. Il migliore per qualità era pescato inter duos pontes, vicino all’isola Tiberina. Inoltre, nel Tevere, si pescavano storioni di notevole qualità e dimensione. 9. MEZZI DI TRASPORTO Per il trasporto delle mercanzie degli scali marittimi dalla foce a Roma, erano impiegate le naves caudicariae, che avevano le caratteristiche delle navi onerarie con chiglia piatta e maggiore sezione di stiva. L’imbarcazione aveva due alberi senza vela, uno corto a prua e uno reclinabile centrale, utilizzato all’occorrenza come gru. I battelli erano trainati da pariglie di buoi o bufali e il sistema di rimorchio era denominato alaggio. In epoca severiana la città contava 1.500.000 abitanti e le modalità di navigazione e di traino furono motivo di grande trasformazione delle rive del fiume sopratutto tra la città e il mare. Lungo le rive erano costruite ampie strade per l’alaggio e al calare della notte erano disponibili basi per la sosta dotate di ormeggi e installazioni, per un sicuro riposo con corpi di polizia e vigili del fuoco. Altre imbarcazioni solcavano il Tevere e i suoi affluenti, le lintres, naves fluminales, con lo scafo allungato, stretto e poco profondo, a prua sollevata e con sponde basse. Questi battelli, potevano portare una dozzina di passeggeri più il timoniere. Altro tratto importante per la navigazione era quello tra la Città e Ostia. Molti trasporti interessavano questo tratto e la navigazione fluviale portuale avveniva con navi mercantili e barche di varie dimensioni. Erano imbarcazioni, comunque, non grandi, con prora a punta e gran numero di remi. Infine si impiegavano le scaphae, piccole barche a remi, in genere a fondo piatto, per i traghetti e i trasporti da sponda a sponda. 7. IL TEVERE A ROMA Nell’antichità, più precisamente nel tratto cittadino in epoca romana, giungevano nei porti mercanzie e derrate da tutto il mondo. Ricerche archeologiche, testimonianze epigrafiche e dati topografici, tramandati dai resti della grande pianta marmorea della città Severiana, documentano una complessa attrezzatura portuale sulle due rive per lo sbarco delle derrate e lo smistamento nei grandi horrea appositamente costruiti, dopo che si rilevò l’inadeguatezza del primitivo porto del Foro Boario, l’Emporium. Lungo le banchine lavoravano migliaia di persone per lo scarico, il trasporto, la dogana e l’incasso delle gabelle Imperiali. Un’importante testimonianza epigrafica è stata, a tale proposito, trovata a Campo Marzio: le ciconiae nixiae, un luogo di approdo specializzato per le consegne del vino. Altrettanto, per quanto concerneva l’occupazione indiretta legata al fiume, un vero popolo, di carpentieri, calafatori, fabbricanti di vele, lavorava in prossimità e nei quartieri con vocazioni navali. Vitruvio ricorda la grande attenzione rivolta ai manovratori di mezzi di sollevamento portuali, così come l’organizzazione del sistema di traino da terra delle barche in risalita del Tevere, con 10. LA NASCITA DI ROMA Il luogo dove sorse Roma era un luocambio di bufali lungo il percorso. go di sosta e di mercato, proprio all’in8. IL TEVERE E crocio di due vie commerciali, una terL’ALIMENTAZIONE restre, traversante il Foro e poi il Tevere, A Roma giungevano attraverso il Te- a mezzo di due brevi ponti di legno, e vere molti rifornimenti alimentari, dalle l’altra fluviale, che penetrava fino al cenlontane province e dall’entroterra: molti tro della penisola. In mezzo al fiume c’è traghetti li trasportavano fino al Foro l’Isola Tiberina, che vuole la leggenda Olitario, al Foro Boario e al Velabro, per sia stata formata con lo scarico delle il successivo commercio al dettaglio, so- messi saccheggiate ai Tarquini fuggitipratutto dell’alimentazione. Altrettanto vi, ma che, in effetti, è costituita da un importante, dal punto di vista commer- forte nucleo centrale di tufo resistente ciale, era l’attività dei pescatori tiberini nei secoli alla corrosione delle acque. Al che catturavano ottimi e ricercati pesci. sorgere di una città le si attribuisce un Paolo Giovio ricorda il Lupus, famoso e nome, nel caso Roma. Ma l’Urbs ave- va pure un nome segreto e misterioso (come riferiscono Macrobio, Plinio e altri), che non si poteva manifestare e che poteva essere pronunciato solo dal Pontefice e tramandato dai capi di Stato. Il silenzio era motivato dalla paura di eventuali maledizioni dei nemici, qualora fossero venuti in possesso del nome misterioso, dopo averne evocato la divinità protettrice (ad esempio come fece anche Scipione prima dell’ultimo assalto a Cartagine). Questo nome segreto sembra essere il nome AMOR, come attesterebbe un graffito ritrovato a Pompei (Zizza, 2018). L’antica iscrizione, scoperta in una parete di una casa tra le isole VI e X della Regione I, riporta due parole alternate ROMA/AMOR, leggendole da sinistra a destra, secondo l’uso dei popoli italici preromani (Fig. 2 – Graffito Pompeiano). Figura 2. Graffito pompeiano 11. LE PIENE DEL TEVERE Il Tevere non è solo sempre stato luogo e via di commercio e navigazione in genere, ma anche funesto apportatore di morte e distruzione per le disastrose piene. L’apporto solido invernale portava in città, infatti, grandi quantità di detriti, che talora ostacolavano il deflusso. Molte furono nei tempi le iniziative: l’imperatore Augusto, ad esempio, nominò una commissione di 700 esperti, una magistratura apposita, i Curatores alvei et riparum Tiberis (Pollini, 2019) Questi magistrati si occupavano della sistemazione e della protezione delle rive del fiume per eliminare al massimo i danni provocati dalle piene. Per secoli, in ogni modo, le inondazioni causate dal Fiume sono state una minaccia mortale per Roma e molte lapidi indicano ancora oggi il livello raggiunto dalle acque. Gli allagamenti avvenivano o per il rigurgito delle fogne o per lo straripamento dalle sponde. Le inondazioni del Tevere furono ben documentate storicamente fin dalla fine del V secolo a.C. e furono Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 192 così numerose che Livio narra che, nel 12.2 LE MARMORE Esiste poi un racconto mitologico re189 a.C., il Tevere inondò la zona del lativo alla creazione della Cascata delle Campo Marzio per ben 12 volte. Marmore. Riferisce di una Ninfa bellis12. I PRINCIPALI sima e leggiadra, Nera, figlia del Dio ApAFFLUENTI DEL TEVERE pennino, la quale si innamorò del giovaE LE LEGGENDE ne pastore Velino. La dea Giunone, però, durante un banchetto venne a sapere di 12.1 IL NESTORE questo amore profano e decise di punire Circa 3000 anni prima di Cristo, la Ninfa portandola in cima al Monte quando l’Umbria era invasa dal Lago Vettore dove la fanciulla fu trasformata Tiberino (7.654 km2 di superficie) il fiu- in un fiume: il fiume Nera. Ella cominme Nestore non scorreva come attual- ciò a scorrere, come una piena di lacrimente, ma, dalla sorgente in Monteleo- me, fino ad arrivare alla rupe dove aveva ne d’Orvieto, scendeva verso Città della incontrato Velino la prima volta. Velino, Pieve e si riuniva col fiume Paglia poco intanto non sapendo che fine avesse fatto prima dell’odierna Orvieto (non a caso i la sua amata, interrogò una sibilla che gli due bacini idrografici si incastonano nei svelò che cosa fosse successo. A questo comuni di Montelelone d’Orvieto, San punto, Velino decise di gettarsi dalla rupe Venanzo e Città della Pieve). Il fiume per potersi riunire con la sua adorata Necambiò il suo corso quando, alle Gole ra. Quel salto d’acqua, conosciuto come del Forello, la diga naturale dell’enorme la Cascata delle Marmore, è il simbolo lago si ruppe e il fiume, appena svasata la del loro amore eterno. valle, cominciò progressivamente a scendere dal versante sinistro di Monteleone 12.3 L’ANIENE Per il fiume Aniene la leggenda racd’Orvieto, invece che da quello destro; in circa cinque anni delimitò il suo corso, conta che Catillo rapì la figlia di Anio che ha reso incantevole l’omonima vallata e la portò con sé sul monte, che prende con dolci collinette e valli tondeggianti. il suo nome, cercando di approfittare di La leggenda racconta che Nestore, miti- lei. Allora il Padre tentò di oltrepassare il co personaggio dell’Iliade, sembra essersi fiume per raggiungerla, ma fu trascinato bagnato nelle acque dell’omonimo fiume. via dalle acque e morì. Catillo e la ragazza, che erano ancora sul monte, furono attirati da un bagliore: apparve loro lo spirito di Anio che così riuscì a salvare la fanciulla, abbandonando lo sciagurato sul monte. Il suo spirito rimase intrappolato in quel luogo, dando appunto il nome al fiume Aniene. 13. IL FIUME VIA DELL’OLTRETOMBA A Roma, il Tevere era visto come una via che portava temporaneamente o definitivamente agli inferi, e, cioè, come operatore della «catabasi», ossia della classica «discesa all’Ade e resurrezione», che vede protagonisti gli eroi capaci di ritornare dal fatidico viaggio, rigenerati dalla prova. Il superamento di una «catabasi» equivale a riemergere in una dimensione di immortalità spirituale: è sempre nelle acque che si sommergono i residui di uno stato di perdizione e si rigenera l’essere per riaffiorare in caelestibus, come nel battesimo cristiano o nella sommersione mazdea nelle piscine di Persepoli. Oggi immergersi e riemergere dalle acque del Tevere è una prova potenzialmente mortale, al di là dell’altezza del trampolino di lancio (i ponti sul Tevere) e non tanto per possibili infezioni, ma sopratutto per il fatto di tuffarsi fra relitti sommersi che creano anche grosse difficoltà all’attuale spostamento di barche e canoe (Fig. 3 – Il tuffo nel Tevere) 14. L’ISOLA TIBERINA Sulla nascita dell’isola Tiberina esiste una leggenda di una nave che, nel 291 a.C., scoppiata a Roma una grave epidemia, salpò verso Epidauro, città sacra a Esculapio, dio guaritore della Grecia, con una commissione di dotti romani per chiedere al nume della medicina il suo soccorso. Mentre si svolgevano i riti propiziatori, un serpente enorme uscì dal tempio e andò a rifugiarsi sulla nave romana. Certi che Esculapio si fosse trasformato in serpente, la nave si affrettò a ritornare a Roma. Quando la nave giunse presso l’isola, il serpente scese nel fiume e nuotò fino all’isola Tiberina, dove scomparve, indicando, così, la località dove far sorgere il tempio: la costruzione, subito iniziata, fu inaugurata nel 289. La posizione coinciderebbe proprio con la chiesa di S. Bartolomeo, il cui pozzo medioevale, presso l’altare della chiesa, corrisponderebbe alla fonte del tempio antico. Figura 3. Il tuffo nel Tevere Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 15. LA FOCE DEL TEVERE Riguardo alla foce, si è discusso per secoli se il Tevere avesse fino dall’origine due rami nel suo delta o se il solo 193 Figura 4. La foce del Tevere: Da Ostia a Roma (da R. Meiggs) ramo di Ostia fosse naturale e l’altro di Fiumicino artificiale. I dati archeologici sono per un solo ramo iniziale, per cui il secondo si deve ritenere opera o di Claudio, che scavò le famose fosse tiberine per liberare Roma dalle inondazioni, o di Traiano per collegare il suo porto con il fiume. Il gomito del fiume scomparve nel 1567 a causa di una grande piena che scavò un nuovo alveo più breve (Fig. 4). L’isola formata dallo scavo della Fossa Traiana si chiamò Sacra, perché sia adibita a sepolcreto degli abitanti di Porto, sia consacrata nei primi tempi del cristianesimo dall’approdo di reliquie di martiri condotti in Roma da ogni parte dell’impero. Nel I secolo d.C. l’espansione demografica, commerciale e marittima della Roma imperiale rese insufficiente l’unico porto di Ostia del IV secolo a.C. Sotto Claudio furono iniziati i lavori del nuovo bacino portuale a circa 3,5 km a nord di Ostia, sfruttando probabilmente un’insenatura naturale a nord della foce attuale. Causa il rapido insabbiamento del bacino dovuto anche all’ampia apertura verso il mare, tra il 100 e il 112 d.C. Traiano fece scavare nel delta un bacino artificiale di forma esagonale, ora chiamato Lago di Traiano, più protetto dall’apporto di sedimenti del Tevere. I due porti costituivano un solo complesso portuale (il più grande del Mediterraneo antico), con imponenti infrastrutture e un ingegnoso sistema di comunicazione idraulica con il mare e con il fiume. Il complesso fu certamente usato fino al VI secolo d.C., quando l’interramento progressivo dei bacini per l’avanzamento del delta e la caduta dell’impero romano d’Occidente ne determinarono l’abbandono. 16. SITOGRAFIA Giorgio Cesari (2016 a), Il percorso nella natura e nella storia del fiume Tevere - https:// www.idrotecnicaitaliana.it/lacquaonline/ energia-ambiente/2016/percorso-nellanatura-nella-storia-del-fiume-Tevere Giorgio Cesari (2016 b), Il Tevere. Dove è nata la portualità romana - https:// www.idrotecnicaitaliana.it/lacquaonline/ lacquerello/2016/energia-ieri-oggi-domani-litalia-2/ Lucio Maria Pollini (2019) Il Tevere in epoca romana - http://www. luciomariapollini,com/cultura/ enrica%vinci/II%20tevere/il%20tevere%20in%epoca%20romana.htm Annamaria Zizza, (2018) - Sine nomine: il nome segreto di Roma - https://mediterraneoantico.it >Articoli >ArcheologiaClassica Valeria Copperi, Viaggio a Roma tra miti, leggende, storia e curiosità - http://www. viaggionauta.com/viaggio-a-roma-tramiti-leggende-storia-e-curiosita/ Tra miti e leggende.- VisiTodi - http://www. vistodi.eu/tra_miti_e_leggende.htm Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 194 Il ruolo del fiume nella produzione agricola e nel commercio delle eccedenze alimentari durante l’antichità. Il caso dell’Eufrate Giuseppe Gisotti Presidente onorario SIGEA Email: [email protected] Paolo Malagrinò Geologo e Archeologo. SIGEA Email: [email protected] The role of the river in agricultural production and in the trade of food surpluses. The study case of the Euphrate Parole chiave: fiume, produzione agricola, commercio, eccedenze agricole, Mesopotamia, Eufrate, Tigri, irrigazione Key words: river, agricultural production, trade, food surpluses, Mesopotamia, Eufrate, Tigri, irrigation RIASSUNTO La civiltà dei Sumeri rientra fra le cosiddette “civiltà fluviali”, poiché essa nacque e si sviluppò, a cominciare circa dal 3000 a.C., a motivo della presenza dei due grandi fiumi che avevano formato la Mesopotamia, la “terra fra i due fiumi”, l’Eufrate e il Tigri. Questi corsi d’acqua permisero non solo lo sviluppo di una florida agricoltura, che in base ad un innovativo e accorto uso delle acque di irrigazione artificiale dei campi portò alla accumulazione primaria delle eccedenze alimentari rispetto ai bisogni domestici della popolazione e quindi ne consentì un eccezionale sviluppo sociale ed economico, la realizzazione di grandi complessi palaziali e religiosi, ma anche un esteso commercio di beni effettuato attraverso una capillare ed efficace rete fluviale di fiumi e canali. I fiumi, oltre all’acqua, portavano anche una materia prima indispensabile per la nascita e lo sviluppo di una civiltà, l’argilla, con la quale furono realizzati i mattoni crudi per le costruzioni e le “tavolette”, che permisero la creazione della prima scrittura, quella cuneiforme. Quindi i fiumi della Mesopotamia furono indispensabili per creare le eccedenze alimentari e il benessere della popolazione, processo che portò alla realizzazione di una civiltà evoluta che aveva bisogno di materie prime non disponibili nella pianura alluvionale e di conseguenza furono necessari gli scambi di merci con luoghi anche lontani: le vie d’acqua permisero questi traffici. 1.IL FIUME COME FATTORE DI PRODUZIONE AGRICOLA E PASTORALE E DI BIOMASSA LA MESOPOTAMIA Figura 1. Immagine attuale della grande pianura alluvionale della Mesopotamia, formata dai fiumi Eufrate e Tigri. Nel riquadro la posizione dell’antica città sumerica di Uruk, una delle prime città della storia, che si trovava sulle rive dell’Eufrate e che adesso ne dista parecchi chilometri (Fonte: Jotheri, 2018) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 La Mesopotamia, “terra tra i due fiumi”, è una grande pianura alluvionale formata dai fiumi Eufrate e Tigri, che scendono dai Monti Tauro a nord e che sono alimentati anche dai fiumi che scendono dai Monti Zagros ad est (Fig. 1). Essa confina col Deserto Arabico ad ovest, con i Monti Zagros ad est (nell’attuale Iran), con i Monti Tauro a nord (non presenti nella mappa) e col Golfo Persico a sud. L’Eufrate e il Tigri in epoca antica avevano foci separate, in prossimità delle sponde del Golfo Persico; poi con la progradazione delle loro foci i due corsi d’acqua si fusero nello Shatt-al Arab (fiume degli Arabi), che attraversa un’ampia area paludosa prima di gettarsi nel Golfo Persico. Dal periodo “Antico Uruk” (circa 3500 a. C.) ad oggi la terraferma è avanzata verso il mare di varie diecine di chilometri. 195 Si premette che specialmente la Mesopotamia meridionale è stata sempre una terra intersecata da canali naturali e artificiali: uno dei più importanti canali artificiali fu quello navigabile fatto costruire dal re babilonese Nabucodonosor (604-562 a. C.) per collegare l’Eufrate con il Tigri (Erodoto, I, 193). Nella Mesopotamia meridionale erano insediati i Sumeri, circa dal 3200 a. C. (all’inizio dell’età del Bronzo), con le loro città-stato Uruk, Ur, Nippur, Lagash. In particolare Uruk era ubicata in prossimità delle sponde dell’Eufrate, mentre ora i suoi resti archeologici si trovano a circa 12 chilometri dal fiume, poiché in circa cinquemila anni il corso d’acqua ha subìto degli spostamenti; inoltre da allora la costa ha subìto una progradazione di parecchi chilometri (circa 50), per cui alcune città sumeriche, come Ur, che all’inizio del III millennio a.C. si trovavano presso la linea di costa, adesso ne sono lontane parecchi chilometri. La Bassa Mesopotamia era ed è caratterizzata da un clima caldo arido, tipico della steppa, e solo lungo le sponde dei due fiumi era presente una vegetazione lussureggiante. La steppa inaridiva alla siccità estiva, e con le piogge invernali tornava per breve tempo a coprirsi di verde. L’Eufrate scorreva nell’area e si sarebbe potuto usufruire delle acque di questo fiume. In primavera, quando le nevi delle montagne cominciavano a sciogliersi, la piena del fiume inondava vaste zone della pianura, talora alluvionandole. In una fascia lungo l’Eufrate le periodiche inondazioni avevano creato un paesaggio di acquitrini e paludi (Fig. 2). «Si verificavano una cronica scarsità di pioggia durante la prima parte della stagione della crescita delle piante, una debilitante calura estiva e periodiche e frequenti inondazioni, insomma un clima caldo-arido che dava origine a un ambiente pre-desertico o alla steppa. Solo nella fascia di inondazione fluviale era presente una vegetazione lussureggiante. L’abbondanza delle acque fluviali e la fertilità del suolo spinsero gli ingegnosi coloni ad organizzare le prime opere di irrigazione, che portarono ad abbondanti e frequenti raccolti e quindi ad eccedenze di produzione agricola. Anche grazie a questo surplus si sviluppò la stratificazione economica e sociale e dai primi villaggi rurali si passò alla urbanizzazione, dove l’invenzione della scrittura rappresentò lo strumento dello sviluppo economico, sociale, culturale. Inoltre si sviluppò il commercio, eminentemente fluviale, per lo scambio tra i prodotti locali e dell’allevamento della Bassa Mesopotamia e quelli di altre regioni, quali legname, pietre da costruzione, metalli. Della Mesoptamia erano coltivabili solo quelle aree dove si sarebbe potuto portare l’acqua, mentre il resto poteva servire come pascolo per il bestiame di piccola taglia. I primi insediamenti agricoli, sorti intorno al 3200 a.C., che diedero luogo poi alle città-stato dei Sumeri come Uruk, Ur, Nippur, nacquero in una pianura alluvionale coperta da vaste paludi, piene di canneti rigogliosi, interrotte da aridi banchi di fango e sabbia e periodicamente inondata da piene; per tortuosi canali le acque fangose fluivano pigramente al mare, nel Golfo Persico, allora molto più vicino all’area in esame; le acque fluviali pullulavano di pesci, i boschetti di canne erano pieni di Figura 2. Immagine odierna di un tratto della pianura del Fiume Eufrate, come doveva essere allorché la popolazione dei Sumeri, nel IV millennio a. C., colonizzò la regione (Fonte: Gisotti, 2016b) selvaggina, e sui tratti di terreno emerso crescevano le palme da dattero; se il flusso delle acque poteva essere controllato e incanalato, le paludi drenate, e i banchi aridi irrigati, la giungla diventava un giardino dell’Eden». Questo passo, liberamente tratto da un testo del paletnologo britannico Childe (1973), descrive quella che doveva essere l’area alluvionale della Bassa Mesopotamia, colonizzata dai Sumeri per realizzare una delle prime civiltà della storia, nel corso della transizione da uno stadio di “barbarie” neolitica ad uno stadio di “civiltà” storica, in quella fase della storia che Childe chiamò “rivoluzione urbana”. IL SISTEMA DI IRRIGAZIONE DELLA MESOPOTAMIA, I “CAMPI LUNGHI” Il ventaglio di rotta (crevasse splay) è una forma fluviale che si origina dalla “rotta” di un argine fluviale, di solito a causa di una piena: l’acqua e i sedimenti che fuoriescono dall’alveo formano un deposito a forma di ventaglio debolmente inclinato e col vertice nel punto di squarcio dell’argine. Il deposito é formato essenzialmente da sabbie fini e da limo, oltre che da detriti organici, e pertanto costituisce un suolo relativamente fertile, sia dal punto di vista della granulometria che da quello della fertilità chimica. I ventagli di rotta sia per il processo che per la forma hanno molti punti in comune con i conoidi di deiezione. I ventagli di rotta, secondo Jotheri ( Jotheri et al., 2017) e Wilkinson (Wilkinson et al., 2015), furono i primi sub-ambienti fluviali che le prime popolazioni della Mesopotamia (a cominciare dai Sumeri) colonizzarono per costruirvi il sistema di canali di irrigazione, allo scopo di deviare le acque dei fiumi (Tigri ed Eufrate) e realizzare le loro fattorie e quindi le città, come Uruk (Gisotti, 2016a). Pertanto tali siti sono ricchi di reperti archeologici. Questi popoli cominciarono con lo sfruttare il ventaglio di rotta e il canale trasversale (al canale fluviale principale), per realizzare una serie di canali artificiali minori, a spina di pesce, che diramandosi da quello principale irrigavano ciascuno un piccolo appezzamento di terra. Questo sistema dei “campi lunghi”, con irrigazione a solco, era costituito da sottili strisce di terreno parallele fra loro, in leggera e regolare pendenza, in modo da ottenere una pendenza longitudinale dei piccoli canali, ottimale per l’irrigazione, e un loro basso grado di interrimento. Tale sistema idraulico Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 196 Figura 3. I “campi lunghi”, sistema irriguo degli antichi popoli della Mesopotamia: partendo dal canale trasversale (al fiume) che ha dato luogo al ventaglio di rotta, si realizza una rete di canali a spina di pesce, dove ciascun canale irriga un appezzamento di terra (Fonte: Wilkinson et al., 2015; Jotheri et al., 2017) fu sostenibile per lunghi periodi, per millenni (Fig. 3). In particolare, dal punto di vista agronomico, i campi lunghi, erano lotti di terreno coltivabile costituiti da sottili strisce parallele fra loro, che si estendevano in lunghezza per varie centinaia di metri, in leggera e regolare pendenza, e che hanno una “testata alta” adiacente al canale da cui ricavano l’acqua, e una “testata bassa” verso acquitrini o bacini di drenaggio. L’acqua inondava solo i solchi, e il terreno era imbevuto per percolazione orizzontale (laterale). La costante inclinazione del terreno si adattava a quella della morfologia, con canali sopraelevati (per accumulo di sedimenti) entro i loro argini, e bacini o paludi laterali di sfogo dell’acqua eccedente. Tutto ciò mostra come il fattore vincente nella colonizzazione del delta si basava su una organica sistemazione idraulica del territorio, collettiva, che diede luogo ad una forte produzione agricola, alle eccedenze alimentari e che fu quindi all’origine dell’urbanesimo locale. Va aggiunto che questa agricoltura poté contare, oltre sulla sistemazione idraulica, su altre due innovazioni tecnologiche: l’aratro seminatore e la slittatrebbiatrice (Liverani, 1998). L’economia dei Sumeri era basata sostanzialmente su due risorse: l’orzo, le cui eccedenze si basavano sulla avanzata agricoltura irrigua, e il bestiame, in primis la pecora, seguita dal bue, dall’asino e dal cavallo (Rathbone, 2010). A queste risorse bisogna aggiungere la biomassa prodotta dalle estese paludi del delta, in particolare il foraggio per il bestiame, costituito dai germogli delle canne acquatiche, che forniva anche il materiale per i cesti. Per cui la loro produzione (e il commercio) erano basati essenzialmente sull’orzo, la lana e i tessuti di lana, più altri prodotti quali l’olio di sesamo e il dattero, ricavato dalla palma, che forniva cibo, legname, fibre per le corde e per la copertura dei tetti. In questa economia della Bassa Mesopotamia proto-urbana, caratterizzata da straordinaria potenzialità agricola, si verificava così un accumulo di materie prime e soprattutto di cibo, grazie a favorevoli fattori ecologici, oltre che tecnologici e socio-economici. Secondo alcuni studiosi, l’operazione di sottrarre l’eccedenza ai consumi familiari per convogliarla verso una utilizzazione comune, e cioè per finanziare le grandi opere di infrastrutturazione idraulica e di edilizia templare, condizioni alla base della urbanizzazione, fu organizzata dalla classe sacerdotale (Liverani, 1998). La stessa scrittura, nata in questa regione per l’esigenza di registrare i beni (in gran parte derrate alimentari) accumulati nei magazzini, dimostra il surplus delle citate materie prime. Il terreno alluvionale era quindi potenziamene molto fertile, ossia produttivo. Col fango depositato dalla corrente fluviale, costituito da una miscela di limo e argilla, si realizzavano i mattoni cotti al sole, con i quali, cementati col bitume, furono costruiti le abitazioni, i templi, i palazzi del potere, le mura, le necropoli. Con l’argilla si realizzavano le stoviglie e le tavolette per la scrittura cuneiforme: nacque per l’esigenza di registrare i beni nei magazzini dove venivano accumulate le eccedenze alimentari. Quindi nasce come mezzo di registrazione del reddito e dei pagamenti, e subito si svi- luppa da mezzo ausiliario della memoria e del calcolo in uno strumento adeguato per fermare ed eternare la parola detta (Fig. 4). In particolare la scrittura pittografica del periodo “Antico Uruk” (3500-3200 a. C.), la più antica conosciuta nel mondo, fu ridotta a forme angolari per imprimerla più facilmente nell’argilla fresca con una cannuccia di vimini; questo diede ai tratti il loro caratteristico aspetto a forma di cuneo. La scrittura cuneiforme venne usata tra il III e il I millennio a. C. Oltre alla produzione agricola, non bisogna dimenticare l’attività pastorale (anzitutto pecore, poi capre e buoi), che si sviluppava nelle aree non utilizzate dalla agricoltura irrigua e l’importante apporto di biomassa fornita dalle estesissime aree delle paludi e del delta, con il foraggio (germogli di canne acquatiche) per gli animali, l’allevamento dei bufali e la pesca (D’Agostino, 2017). I fattori favorevoli agli insediamenti agricoli e poi urbani erano quindi costituiti dalla abbondanza di acqua quando essa fu destinata all’irrigazione, dalla potenziale fertilità del suolo, e dal clima caldo, che permisero una elevata potenzialità agricola. L’inconveniente della scarsità e irregolarità delle precipitazioni fu ovviato mediante l’irrigazione. Le irregolarità del regime idrico erano sapientemente regolate da una rete di canali che servivano sia ai bisogni dell’irrigazione, sia ai trasporti, che erano praticati preferibilmente lungo le vie d’acqua naturali o artificiali: ciò avvenne mediante una sapiente sistemazione idraulica del territorio, che oltre alla pra- Figura 4. La scrittura fu inventata nella Bassa Mesopotamia dalla civiltà Sumer. Un materiale geologico è stato quello sul quale è stata impressa per la prima volta la scrittura: le tavolette di argilla tenera di origine fluviale. Su questa tavoletta è stato registrato un contratto di vendita di un terreno del 2250 circa a. C. (Fonte: Museo del Louvre, Parigi; in Gisotti, 2016a) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 197 Figura 5. Mappa di un quartiere della città di Nippur su un frammento di tavoletta di argilla, risalente al XIV secolo a. C. Nippur era situata sull’Eufrate (adesso le sue vestigia ne sono lontane) ed era un’altra città-stato dei Sumeri, circa 110 km a NW di Uruk (Fonte: looklex.com/e.o/nippur.htm) tica irrigua servì a mitigare il rischio di inondazione. Nella fase matura di tale sistema urbano si assiste ad una concentrazione urbana di dimensione precedentemente impensabile, per cui le città-stato dei Sumeri arrivarono ad una superficie molto estesa (anche 100 ettari per Uruk) con le mura urbiche, i templi e gli ziggurat (particolari templi rettangolari a gradoni), i palazzi del potere, i grandi magazzini, come è stato il caso di Nippur. Nella immagine di Fig. 5 le due linee parallele alla estremità sinistra della tavoletta ci descrivono il corso del fiume mentre le linee adiacenti, che rappresentano la doppia cinta delle mura urbiche, ci dicono che le mura per un lungo tratto fronteggiavano il fiume, che veniva considerato un elemento per la difesa militare, oltre che per l’irrigazione e il trasporto delle merci. Il quartiere era racchiuso tra le mura, di cui si notano alcune porte. Le strutture squadrate alla estremità destra sono dei templi. Sono individuati due grandi magazzini alla estremità inferiore della mappa. Le due linee parallele che attraversano la tavoletta al centro, dall’alto in basso, rappresentano un canale di irrigazione. In conclusione le principali città dei Sumeri, che possiamo indicare come le prime o fra le prime città dell’uomo, furono il risultato di un sistema socioeconomico che prevedeva l’interazione di almeno tre componenti economiche, basate sull’avanzato sistema di sfruttamento delle locali risorse naturali: l’a- gricoltura irrigua, con ampie eccedenze (che fu la grande invenzione dei Sumeri), la pastorizia e l’apporto del mondo delle paludi del delta (D’Agostino, 2017). 2. LA PROVENIENZA DELLE MATERIE PRIME IMPORTATE DAI POPOLI DELLA MESOPOTAMIA I Sumeri con il loro sviluppo socioeconomico ebbero bisogno di materiale lapideo e di legno (legname da opera) per le costruzioni, di bitume per im- permeabilizzare le loro imbarcazioni e i canestri e come cemento per i mattoni, di metalli per le armi e gli utensili, quali rame e stagno (più tardi per realizzare il bronzo), l’argento e l’oro, più alcune pietre dure (lapislazzuli, serpentino, clorite, ossidiana) per realizzare ad esempio i sigilli cilindrici, tutti materiali che importavano mediante il commercio eminentemente fluviale. Il mondo con il quale i popoli della Mesopotamia interagivano per i loro scambi commerciali era quello che si può indicare come Vicino Oriente (“vicino” per noi occidentali). Quindi l’ampia varietà di risorse naturali in alcune regioni del Vicino Oriente e la scarsità/deficienza delle stesse risorse in altre regioni (pietre, legname, metalli) hanno giocato un ruolo fondamentale nelle economie delle società del Vicino Oriente. Ma il commercio dalla Mesopotamia settentrionale verso quella meridionale si sviluppò non solo con le esportazioni delle citate materie prime, ma anche di altri materiali più raffinati, come lapislazzuli, ossidiana, avorio, oro, argento. Uno studio sistematico effettuato da Massa e Palmisano (2018) su 157 siti archeologici del Vicino Oriente, riferibili alla prima e media età del Bronzo (3200 – 1600 a. C.), ha permesso di evidenziare quattro tipologie di materiali, avorio, lapislazzuli e manufatti archeologici, bottiglie siriane e pesi di bilance a piatti: la scelta di queste quattro tipologie di materiali è stata giustificata dal fatto che essi sono stati considerati come possibili indicatori di Figura 6. Mappa del Vicino Oriente con i siti archeologici analizzati, che mostrano le principali regioni geo-culturali e le città tra le quali si svolgeva il commercio citato nel testo, durante la prima e la media età del Bronzo (Fonte: Massa, Palmisano, 2018). Per indicare le regioni con le quali si svolgeva il commercio dei popoli mesopotamici, a questa mappa andrebbe aggiunta la catena dei Monti Zagros (nell’attuale Iran) che delimita la Mesopotamia ad est, e le terre che si affacciano sul Golfo Persico nella parte meridionale Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 198 contatti a lunga distanza fra differenti entità politiche e culturali di quest’area, come viene illustrato nella Fig. 6. Le materi prime di cui abbisognavano i Sumeri (e poi gli altri popoli insediati nella Mesopotamia) erano quelle che non si trovavano nella pianura alluvionale. Essi erano (Fig. 7): • il legname da costruzione, in particolare il legno pregiato ossia il cedro, per la costruzione dei templi e degli ziggurat, che veniva importato dai Monti Amano e dai Monti del Libano; • le pietre, per la realizzazione dei templi e dei palazzi, venivano importate dai Monti Zagros, ricchi in particolare di calcare chiaro; • il marmo, che serviva per le sculture, veniva importato dai Monti Tauro; • il rame, lo stagno, l’argento e l’oro venivano importati dalle regioni che si affacciano sul Golfo Persico, in particolare da Dilmun (Isole Bahrain) e da Magan (attuale Oman); in generale i metalli venivano importati dal Golfo Persico; • il bitume serviva per cementare i mattoni e per impermeabilizzare gli scafi delle imbarcazioni, e veniva estratto in un’area del medio Eufrate, presso la città di Hit (Is), “a otto giorni di cammino da Babilonia” secondo Erodoto; • le “pietre dure”, quali serpentino, clorite, lapislazzuli, ossidiana, venivano usate per realizzare i sigilli cilindrici (usati per stampigliare una serie di simboli su una superficie tenera, quale argilla); l’ossidiana veniva estratta presso il Lago Van (nell’alto bacino del Tigri), il serpentino in Siria, la clorite nei Paesi del Golfo Persico. 3.IL TRASPORTO FLUVIALE In Mesopotamia la rete di navigazione interna era molto sviluppata: il Tigri e l’Eufrate, i loro affluenti ed effluenti ed i canali di irrigazione più importanti permettevano di trasportare le merci in modo più agevole, sicuro e meno costoso che via terra. Le principali città mesopotamiche erano raggiungibili per mezzo dei fiumi o dei canali, naturali o artificiali. Lungo l’Eufrate esse erano, da nord a sud: Karkemish (Carchemish), Ebla (non si affacciava sul grande fiume ma poteva essere raggiunta mediante una rete fluviale secondaria), Mari, Babilonia, Nippur, Kis (Kish), Isin, Uruk, Ur. L’Eufrate consentiva il collegamento fra l‘Alta Mesopotamia e l’area siriaca con Figura 7. Mappa del Vicino Oriente con indicazione dei luoghi di provenienza delle principali materie prime che venivano importate dai Sumeri e in generale dai popoli della Mesopotamia la Bassa Mesopotamia, mentre il Tigri consentiva il collegamento fra quest’ultima e l’Assiria orientale (Fig. 7). Nella Bassa Mesopotamia (o Mesopotamia meridionale) mancavano le pietre da costruzione, i minerali e gli alberi (legname) e quindi per lo sviluppo della loro economia i Sumeri (e dopo gli Accadi e i Babilonesi) dovevano in cambio esportare i loro prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento ovino: di questi prodotti venivano esportati dai Sumeri cereali (e in particolare l’orzo), la lana e i suoi tessuti. Non dobbiamo dimenticare che anche la scrittura cuneiforme, inventata dai Sumeri nei decenni attorno al 3000 a. C., acquisita da Ebla che si trovava nell’alto corso dell’Eufrate, fu probabilmente esportata lungo il corso d’acqua (Matthiae, 1986). Questo scambio avvenne più che altro attraverso le “vie d’acqua”, la fitta rete di fiumi e canali navigabili. Scendendo dall’Alta Mesopotamia lungo l’Eufrate e il Tigri, arrivavano “via acqua” nella Bassa Mesopotamia (Uruk, Ur, Nippur, Babilonia) le materie prime di cui abbisognavano le popolazioni, quali l’ossidiana del lago Van, nell’alto bacino del Tigri, il legno di cedro dai monti Amano e dai monti del Libano e anche dalla catena del Tauro, da cui proveniva anche il marmo, il rame dall’Oman, regione che si affaccia sul Golfo Persico, nelle coste meridionali della penisola arabica; il bitume, usato per cementare i mattoni crudi e impermeabilizzare le imbarcazioni, proveniva dal Medio Eufrate: Erodoto racconta (Libro I, 179) che a 8 giorni di marcia Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 da Babilonia nei pressi della città di Hit (Is), un affluente dell’Eufrate fa sgorgare insieme con l’acqua, fiotti di bitume. I commerci si sviluppavano non solo con le altre popolazioni ma anche con colonie delle “metropoli” dei Sumeri, e in particolare durante il tardo-Uruk, nell’Alta Mesopotamia, come Habuba Kebira. I PORTI FLUVIALI Uno dei primi porti fluviali sull’Eufrate fu quello di Ur, che faceva parte di Sumer: fu creato a partire dal fiume, un canale artificiale che circondava la città, e lungo tale canale venne realizzato il porto (o un secondo porto) (Fig. 8). Figura 8. La città di Ur sull’Eufrate, collegata col fiume mediante un canale artificiale. Essa disponeva di due porti fluviali, di una cinta muraria e di strutture civili e religiose. M: Mausoleo; PR: Palazzo Reale; Z: Ziggurat; P: Palazzo (Fonte: Archeo, Monografie, 5/2015) Più tardi, Babilonia divenne la principale città della Mesopotamia e sotto il regno di Nabucodonosor (604 – 562 a. C.) grazie anche al suo porto sull’Eufrate, “Babilonia possedeva tutta l’attività economica internazionale dell’epoca”. Non si hanno documentazione o resti arche- 199 Figura 9. Pianta di Babilonia (Fonte: Gisotti, 2016) LE IMBARCAZIONI I popoli mesopotamici sembra che non fossero grandi marinai, pur navigando lungo le due principali vie d’acqua della pianura. Per trasportare carichi leggeri usavano imbarcazioni di giunchi (Fig. 11), con cui traghettavano anche i carri da guerra in battaglia, mentre la quffa (Fig. 12), era una barca circolare simile a un catino con un’armatura di legno coperta di pelli e impermeabiliz- zata con bitume; una “barca” talmente fuori dell’ordinario che perfino Erodoto la descrive nelle sue cronache. Per trasportare i carichi pesanti usavano zattere rese galleggianti da pelli di animale gonfiate: ad esempio in questo modo venivano trasportati enormi Figura 10. Ricostruzione di Babilonia con l’affaccio sull’Eufrate, il ponte che collegava le due parti e le banchine fluviali per l’attracco delle imbarcazioni ologici su un porto fluviale di questa città, ma si può supporre che tale infrastruttura fu realizzata creando delle banchine lungo la parte della città che si affacciava sul fiume (il waterfront) (Figg. 9 e 10). Figura 11. Imbarcazione di giunchi intrecciati raffigurata su di un sigillo mesopotamico di epoca accadica (III mill. a.C.); ibid., pg 35 Figura 12. Imbarcazioni molto simili alle quffa sono ancor oggi utilizzate nell’ultimo tratto del fiume Indo. (Arch. Centro Studi Ricerche Ligabue); ibid., pg 36 Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 200 blocchi di pietra, sommariamente sbozzati, che poi venivano rifiniti sul posto (Fig. 13) L’altra “barca” era in realtà una grande zattera, sempre di legno, il cui galleggiamento era rinforzato da sacche di pelle gonfie d’aria, attaccate ai bordi (Fig. 13). che funzionavano da galleggianti, potevano portare da 5 a 30 tonnellate (le più grandi) (Fonte: Quotidiano Honebu di Storia e Archeologia, Navigazione Antica, 26 ottobre 2010). L’Eufrate era navigabile, durante il periodo di morbida, in primavera, da maggiore. Quando, seguendo la corrente, siano giunti a Babilonia e abbiano venduto la loro mercanzia, vendono all’asta le fiancate e tutta la paglia, ma le pelli le caricano in groppa agli asini e se ne tornano in Armenia. Infatti non potrebbero essi risalire il fiume, data la Figura 13. Zattera per carichi pesanti, fatta di legno e da pelli di animale gonfiate. In questa immagine vengono trasportati enormi blocchi di pietra, sommariamente sbozzati, che poi vengono rifiniti sul posto (Bassorilievo da Ninive, Regno di Sannacherib, 704-681 a. C.) Altro materiale pesante e ingombrante da importare era il legname, in particolare quello di cedro, che proveniva dai Monti Amano, al confine fra gli attuali Siria e Turchia, e dai Monti del Libano (Fig. 14). Karkemish (o Carchemish, nell’Alta Mesopotamia) fino al Golfo Persico. Da agosto a novembre, periodo di magra, la navigazione era resa più difficoltosa per l’affioramento di secche e di rocce. Con la piena, la corrente si faceva spesso rapidità della corrente; ed è per questo, anche, che essi fanno le imbarcazioni non in legno, ma di pelle. Quando poi, spingendosi innanzi gli asini, siano tornati in Armenia, con lo stesso modo si procurano altri battelli”. BIBLIOGRAFIA Figura 14. Imbarcazioni fluviali per il trasporto del legname nei fiumi mesopotamici. Il legname doveva essere importato poiché nella pianura alluvionale della Mesopotamia, a causa del clima arido, scarseggiavano gli alberi. Questo bassorilievo, proveniente dal palazzo di Sargon, a dur Shurrakin, mostra gli Assiri che trasportano dal Libano tronchi di cedro per costruire un edificio (Fonte: Rathbone, 2010) Il peso delle merci trasportate per via fluviale raggiungeva indici notevoli. Le grandi zattere trasportavano fino a 90 tonnellate; una barca di 36 tonnellate necessitava solo di 6 o 7 uomini di equipaggio per una manovra contro-corrente. Il carico normalmente trasportato si aggirava sulle 6 tonnellate ed equivaleva al carico trasportato da 66 asini. I kelek, ossia le zattere attrezzate con otri violenta e impediva la risalita del fiume, tanto che si dovevano attendere anche dei mesi per riprendere la navigazione. Erodoto (I, 194) racconta le modalità di trasporto fluviale fra l’Armenia (nell’alto bacino dell’Eufrate) e Babilonia, utilizzando “imbarcazioni di forma rotonda e tutte in pelle”. “…… in ciascun battello si imbarca un asino vivo, in quelli più grandi un numero Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Childe V. G. (1973), Il progresso nel mondo antico, Einaudi, Torino. D’Agostino F. (2017), Ahwar. Dove finisce la Mesopotamia, in Archeologia Viva 181. Gisotti G. (2016a), La fondazione delle città. Le scelte insediative da Uruk a New York, Carocci editore, Roma. Gisotti G. (2016b), Uruk, la prima città della storia, in Ecologia Urbana. La natura della città 28(1) Livorno. Jotheri J. (2018), Recognition criteria for canals and rivers in the Mesopotamia floodplain, in Yijie Zhuang, Mark Altaweel (Eds.) Water Societies and Technologies from the Past and Present, UCL Press. Jotheri J., Altaweel M., Tuji A., Anma R., Pennington B., Rost S., Watanabe C. (2017), Holocene fluvial and anthropogenic processes in the region of Uruk in southern Mesopotamia, in Quaternary International, Elsevier. Liverani M. (1998), Uruk la prima città, Editori Laterza, Bari, Roma. Malagrinò P. (2017), Mesopotamia. La terra tra i due fiumi, in Geologia dell’Ambiente 3/2017 Matthiae P. (1986), Scoperte di archeologia orientale, Editori Laterza, Bari, Roma. Rathbone D. (a cura di) (2010), Vita e costumi nel mondo antico, Logos. Schmökel H. (1959), I Sumeri, Sansoni, Firenze. Wilkinson T. J., Rayne L., Jotheri J. (2015), Hydraulic landscapes in Mesopotamia: the role of human niche construction, Water Hist. 7(4), Springer Science. 201 Il porto di Hadria. La ricostruzione del paesaggio fluviale antico. Ipotesi preliminari Davide Mastroianni PhD in Topografia Antica, Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali E-mail: [email protected] The harbour of Hadria. The reconstruction of ancient fluvial landscapes. The preliminary hyphotheses Parole chiave: Abruzzo, Torre Cerrano, porti, archeologia subacquea, paesaggi costieri Key words: Abruzzo, Torre Cerrano, harbours), underwater archaeology, coastal landscapes RIASSUNTO Nel luglio del 1982, nelle acque antistanti la Torre di Cerrano, nel comune di Pineto in provincia di Teramo, a seguito di una serie di immersione subacquee, furono individuate alcune strutture in conglomerato e alcune in laterizi di origine antropica, blocchi squadrati in calcare, grandi elementi quadrangolari in conglomerato, resti di mura in laterizio, una bitta in arenaria e resti di colonne sempre in arenaria. In quest’area, Strabone segnalava l’esistenza di un epìneion in epoca romana, ovvero il porto commerciale di città non marittime quale era Atri, ubicato nell’Ager Hatrianus e più precisamente alla foce del fiume Matrino. Strabone, nella sua Geografia, descrive lo scalo atriano, importante sia per la strategica localizzazione nell’Adriatico Centrale sia per la funzione di utile scalo di merci su rotte commerciali. Queste correvano longitudinalmente alle coste sabbiose dell’Adriatico occidentale e trasversalmente tra quelle occidentali e orientali, coincidendo con la foce del fiume Matrino, corso acqua discendente dalla città di Hatria, per il quale è ancora dibattuta l’esatta ubicazione. Molte sono le discussioni aperte tra gli studiosi e le varie ipotesi delineano un quadro storico poco chiaro. I più sono propensi a far coincidere il porto romano di Atri con la foce del fiume Vomano, dove peraltro sono stati rinvenuti in passato numerosi resti di ville, come quelle presenti sulla sinistra e destra idrografica del fiume stesso, manufatti di epoca romana, come il recente mosaico rinvenuto nella zona di Fonte dell’Olmo, nel territorio di Roseto degli Abruzzi e monete d’argento e di bronzo di età imperiale lungo le sponde del fiume. Lugi Sorricchio, storico locale del XIX secolo, nel manoscritto di famiglia “Le antichità dell’Adria Picena”, descri- ve, definendone le dimensioni strutturali, strutture portuali nell’area alle pendici di Colle Morino di Pineto (TE), colle che per assonanza richiama il toponimo Maurinum o Macrinum, menzionato anche nella Tabula Peutingeriana. In questo caso, l’area dove insisteva il porto, non meglio definita lungo la linea di costa, si trovava in un crocevia fiume/strada, all’intersezione tra la foce del fiume Vomano e la via Cecilia. Con molta probabilità la foce a quei tempi era collocata alcune centinaia di metri dietro quella attuale e spostata di quasi 1 km a sud dell’attuale, come ci testimoniano recenti studi geomorfologici. Altre ipotesi riconducono l’approdo di Hatria coincidente con la zona di foce tra il Piomba e il Saline, facendo risalire ad epoca medievale il porto di Atri edificato in Pinna Cerrani. Un’attenta rilettura del materiale cartografico storico, dei portolani e del paesaggio attuale attraverso l’analisi e l’interpretazione della copertura satellitare disponibile per l’area oggetto della ricerca, permetterà di proporre una ipotesi preliminare ricostruttiva del paesaggio fluviale e portuale dell’area del porto di Hatria. 1. INQUADRAMENTO DELL’AREA Ci troviamo in una porzione di territorio che corrisponde, attualmente, alla fascia costiera del Teramano meridionale e del Pescarese settentrionale, delimitata dai fiumi Vomano e Pescara e compresa, anticamente, nell’area della Regio IV (Sabina e Samnium) (Fig. 1). Il centro principale di questa porzione di territorio, posta al confine tra l’Ager Praetuttianus e l’Ager Hadrianus, era la città di Hadria. Fu fondata come colonia latina nel 289 a.C., a presidio del Pretuzio meridionale, in un’area interes- Figura 1. La città di Hatria e il quadro idrografico (La Regina 2010) sata dalle necropoli italiche di località Pretara e località Colle della Giustizia (d’Ercole, Copersino, 2001). La città presentava un tessuto urbano regolare con maglie di 2x3 actus (70x150 m), aventi il lato breve disposto lungo l’asse principale e corrispondente all’attuale Corso Elio Adriano. La città ebbe vita fiorente tra la fine dell’età repubblicana e la piena età imperiale. Nel corso del III secolo d.C., subì diverse trasformazioni dell’assetto urbano con progressiva obliterazione dell’impianto antico a seguito di numerosi crolli e abbandono di settori estesi della città. Questa si avviò verso la sua decadenza intorno al VI secolo d.C., tanto che nell’VIII secolo d.C., Paolo Diacono la definì vetustate consumpta Hadria (Colucci, 1795). A partire dall’XI secolo d.C., la città si sdoppia in due insediamenti: Atri Vetulum e Castellum de Atri (questi menzionato in una carta farfense del 1085) e ubicabile nelle immediate adiacenze del centro romano (Azzena 1987; Staffa 2001). 2. LE FONTI ANTICHE E LE FONTI MEDIEVALI I primi cenni riguardanti il porto di Hadria li abbiamo da Strabone (V, 4, 2), il quale lo collocava in corrispondenza del fiume Matrinum o Macrinum. L’idrografia attuale ha reso la sua Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 202 identificazione abbastanza complessa. Il Macrinum, chiamato da Strabone “Ματρῖνος ποταμός”, è stato identificato, a più riprese con il Vomano, il Cerrano, il Saline e il Piomba. Strabone citava chiaramente che il Matrino (Ματρῖνος) bagnava la città degli Adriani (ῥέων ἀπὸ τῆς Ἀδριανῶν πόλεως) e che il suo scalo o arsenale (ἐπίνειον) era eponimo del fiume, quindi Porto Matrino. L’esistenza di un porto presso la foce del Cerrano era nota già a partire dal Medioevo. Un diploma del 1215 del Cardinale Pietro Capocci ad Ascoli, legato di Innocenzo IV, (Sorricchio, 1983) elencava diversi privilegi concessi dallo stesso alla città di Atri quali: divenire sede vescovile, poter eleggere il podestà purché non ghibellino ed erigere un porto (…concedimus ut Civitas Adriae possit habere portum per lius et litura maris per suum Comitatum ubique…). In un documento del 1225 (Sorricchio 1983), si leggeva che il pontefice Alessandro IV confermava la concessione per la costruzione del porto di Pinna Cerrani (Vobis et Civitati Vestre portum in Penna Cerrani, et ubique per litora maris per districtum et territorium Civitatis eiusdem). Nel 1283 (Angeletti, 1983), furono costruiti: un ospedale, una torre di avvistamento e difesa, diverse case, un ospizio, un chiostro e la chiesa di San Nicola. Alla fine del XIII secolo il porto doveva essere in piena efficienza e soggetto, dunque, a continue manutenzioni, tant’è che un documento del 1287 (Angeletti, 1983) menzionava il “poter reparare e riedificare una certa vecchia torre ed il luogo frastagliato sul lido del mare dove avrebbero potuto trovare ricetto i navigli e caricarsi e scaricarsi merci ed altre cose lecite” (…quandam Turrim veterem, et locum fractum sita in territorio civitatis Adriae in loco qui dicitur Penna Cerrani). Alle spese contribuirono i castra di Silvi e Montepagano che avrebbero potuto giovare delle attività commerciali. Il porto, come citano ulteriori documenti del 1307 e 1309 (Angeletti, 1983), si trovava in plagia Cerrani. Nel 1347 il porto fu teatro di un attacco dal mare ad opera del provenzale Frate Moriale. Nel 1447, la Repubblica di Venezia inviò una flotta da guerra, comandata da Andrea Loredan, che distrusse il porto e le difese del Cerrano, per ribadire la supremazia della flotta commerciale veneziana nell’acque dell’adriatico. Nonostante gli sforzi degli atriani nel contribuire economicamente al restauro delle strutture e a causa dei continui insabbiamenti del fondale, il porto fu ceduto ad una società privata. L’ultima notizia relativa al porto è del 1516 (Angeletti 1983), in cui esso risultava interrato e per questo motivo si decise di costruirne uno nuovo alla foce del torrente Calvano, 3.5 km a nord della Torre del Cerrano, attualmente all’interno dell’abitato di Pineto. La costruzione nel 1568 dell’attuale Torre di Cerrano, inserita all’interno del più vasto complesso di difesa ed avvistamento delle coste del Regno di Napoli, sancì l’ormai definitiva chiusura del porto che subì un ulteriore sconvolgimento nel 1627, a causa di una violenta frana, tra Atri e Mutignano, che terminò il suo corso in mare. Questo avvenimento potrebbe aver causato un ulteriore insabbiamento delle strutture portuali e un loro conseguente abbassamento (AA. VV, 1991; Sorricchio, 1911). 3. LE ATTIVITÀ SUBACQUEE Le prime esplorazioni subacquee, nel tratto di mare antistante la Torre del Cerrano, ebbero avvio nel 1982, sotto il coordinamento scientifico del Professore Pier Giorgio Data, dell’Università di Chieti, in collaborazione con l’ANIS di Roma, il CRAS Club di Pescara e i Vigili del Fuoco di Teramo. Le prospezioni subacquee si concentrarono in un’area di 800 m a E della Torre (Fig. 2), con l’individuazione di diverse strutture in pie- tra e in laterizio, frammenti di ceramica, resti di contenitori da trasporto ed elementi architettonici (Figg. 3, 4) (Angeletti, 1983). Tra il 1987 e il 1988, sotto il coordinamento scientifico della Prof.ssa Luisa Migliorati, docente di Topografia Antica dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, la Soprintendenza Archeologica per l’Abruzzo, l’Agip e la cooperativa Atlantis, furono condotte ulteriori prospezioni subacquee volte ad ampliare le conoscenze sull’area (Migliorati, 1997). Tra il 2009 e il 2011 sempre in collaborazione con la Prof. ssa Migliorati, la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo e l’Associazione Culturale Archeosub Hatria, le nuove prospezioni hanno avuto lo scopo di verificare la situazione delle strutture sommerse, al fine di riprendere e completare la documentazione. Le evidenze archeologiche occupavano una superficie di circa 90.000 mq; fu individuato un bacino portuale di 480x350 m racchiuso da due moli a tenaglia con ingresso a NE, costituiti da grossi blocchi con moduli di 2x4x6 m di cui, quello più a S, era proteso verso NE, a protezione dai venti del II Quadrante (Nuovo, 2016). Le scansioni subacquee sono state effettuate mediante un Sub-Bottom Profiler e il Side Scan Sonar, portando Figura 2. Area di costa antistante la Torre di Cerrano. In rosso, l’area interessata dalle ricognizioni subacquee (Ortofoto Regione Abruzzo 2007. Elaborazione Autore) Figura 3. Bitta in arenaria (Foto Archeosub Hatria) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Figura 4. Frammento di capitello (Foto Archeosub Hatria) 203 Figura 5. Planimetria delle prospezioni subacquee effettuate mediante un Sub-Bottom Profiler e il Side Scan Sonar (Angeletti 2001) all’’individuazione di 120 anomalie ad alta riflettività, ascrivibili con molta probabilità alla presenza di materiale lapideo e/o roccioso all’interno della matrice sabbiosa del fondale (Angeletti, 2001). Una prima serie di anomalie fu riscontrata in un tratto compreso tra i 100 e i 400 m dalla terraferma; una seconda a circa 800 m dalla costa, in un settore posto più a sud rispetto alla torre (Fig. 5). Sono stati riconosciuti tratti di molo in opera cementizia, ad una profondità compresa tra i 2 e gli 8 m. Nei blocchi del molo, in pietra d’Istria, sono presenti bitte in puddinga poste lungo le estremità del bacino e bitte in arenaria poste, invece, all’interno. La posizione, le dimensioni e i materiali delle bitte sembrerebbero organizzate in base alla grandezza delle imbarcazioni che attraccavano: le più grandi lungo la banchina esterna e le più piccole all’interno del bacino (Angeletti, 1983; Migliorati, 1997). Inoltre, sono stati recuperati da diversi pescatori, numerosi frammenti di anfore di tipo Lamboglia 2 / Dressel 6A, a testimonianza del commercio del vino atriano e della produzione locale di questo tipo di contenitore, rinvenuto in tutto il territorio di Atri nel corso di diverse ricognizioni di superficie. 4. LA RICOSTRUZIONE DEL PAESAGGIO FLUVIALE. LA TABULA PEUTINGERIANA E LE SUE DERIVAZIONI Il toponimo Macrinū, citato da Strabone, potrebbe coincidere con l’area di costa nei pressi di Torre del Cerrano (Fig. 6). La cartografia storica, scar- samente usata dagli archeologi per lo studio dell’area del porto, ha fornito numerosi elementi per la ricostruzione del paesaggio costiero e fluviale del territorio antico limitrofo. La situazione idrografica attuale è strutturata come segue: l’unico grande fiume, per lunghezza e portata, che discende dal colle di Atri, è il Cerrano. Immediatamente a S il Gallo che prima di tuffarsi a mare sver- sa nel Piomba. Il fiume Saline ha una maggiore portata rispetto al Cerrano e al Piomba, ma non passa per Atri. Il Vomano e la sua foce si trovano molto più a N, a circa 5 km (Fig. 7). Quindi, il Cerrano risulterebbe l’unico candidato per il Macrinū di Strabone. La Tabula menziona i fiumi Comara e Sanmium e un fiume più a N, ma senza toponimo. Alcune strutture portuali rinvenute a N e a S della foce del Vomano hanno condotto diversi studiosi a collocare in quest’area i resti del porto di Hadria. Come suggerisce Nereo Alfieri (Staffa, 2001), le strutture individuate, di carattere privato, apparterrebbero agli approdi di un impianto rustico presso S. Martino in Vomano a N della foce del fiume omonimo e del monastero di Santa Maria in Maurinis a S, presso la località di Colle Maurino a Pineto. Inoltre, l’ipotesi di Andrea Rosario Staffa di accostare il toponimo in Maurinis a Macrinū risulterebbe alquanto forzata (Staffa, 2001). Calcolando le distanze indicate dalla tabula, partendo da S verso N, la situazione attuale, con uno scarto di poche centinaia di metri, apparirebbe quanto segue: il Samnium corrisponderebbe al Salinus, idronimico latino del Saline, il Comara al Piomba (al momento non ci sono ipotesi sull’evoluzione del toponimo) e il torrente più a N Figura 6. Stralcio della Tabula Peutingeriana (XI-XIII secolo d.C.) con l’indicazione del Macrinum e di Hadria Figura 7. Situazione idrografica attuale con l’ubicazione della Torre di Cerrano e del borgo di Atri. (Ortofoto Regione Abruzzo 2007. Elaborazione Autore) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 204 Figura 9. Stralcio della Tabula Europae VI. Della Geografia di Tolomeo degli Eredi di Melchiorre Sessa di Venezia, 1599 Figura 8. Confronto e calcolo delle misure tra la Tabula Peutingeriana e l’idrografia attuale (Elaborazione Autore) Figura 10. Particolare dell’Italia Antiqua di Cluverio 1688 al Vomano (Fig. 8). Esistono alcune cartografie storiche che in parte ricalcano i nomi e i percorsi che si ritrovano nella Tabula Peutingeriana, come ad esempio La Tabula Europae VI. Della Geografia di Tolomeo, pubblicata dagli eredi di Melchiorre Sessa di Venezia, nel 1599 (Fig. 9); l’Italia Antiqua di Cluverio del 1688 (Fig. 10); la Regionum Italiae Mediarum Tabula Geographica di Delisle Guillaume, nel 1711 (Fig. 11) e la Tabula Italiae Antiquae dello stesso, ma del 1715 (Fig. 12). I quattro autori riportano Adria e per la prima volta il fiume Macrinū o Matrinus. Guillaume, nella sua carta del 1711, è il primo ad assoluto a indicare il porto navale di Hadria posto alla foce del fiume Macrinū (Matrinium Hadria navale). Riporta a S di questi il Suinus come affluente del Comara. Secondo i calcoli delle miglia sulla Tabula, il Sinium corrisponde al Saline, il Comara al Piomba; nella carta, la descrizione del cartografo francese, il Comara corrisponderebbe, oggi, al Saline e il Macrinus al Piomba, stravolgendo la topografia idrografica. Il fiume che scorre al di sotto di Hadria, compare nuovamente (l’attuale Cerrano?). Guillaume, nel 1715, pubblica una seconda edizione della sua opera. Sparisce il toponimo Comara, ora solo Salinae, mentre il fiume che ha origine da Hadria è identificato con il Matrinum. II “Piomba-Matrinum” della carta del 1711 perde il suo toponimo nella secon- 5. IL PORTO DI TORRE CERRANO NELLA CARTOGRAFIA STORICA Del 1548 è la carta della Marcha de Ancona Nova di Giovanbattista Pedrezano (Fig. 13). Nei pressi del piccolo tratto di costa ai piedi di Atri, rientrante tra le proprietà della città di Venezia, Figura 11. Stralcio della Regionum Italiae Mediarum Tabula Geographica di Delisle Guillaume, 1711 Figura 12. Particolare della Tabula Italiae Antiquae di Delisle Guillaume,1715 da edizione del 1715 e, come si evince dalla stessa, sfocia nel Salinae. Quest’ultima è l’unica che corrisponde alla ricostruzione dell’attuale paesaggio fluviale, confrontata con le misure della Tabula, e per la prima volta il fiume che ha origine da Atri, l’attuale Cerrano, è identificato con il Matrinum. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 205 Figura 13. Stralcio della Marcha de Ancona Nova di Giovanbattista Pedrezano, 1548. Pota de Ziran = Punta Cerrano (è rappresentata la costa di forma allungata); P: datri = Porto di Atri seguenza, il P. d’Alatri corrisponderebbe al “P. di Atri”, ovvero il Porto di Atri. La carta indica la presenza del Porto di Atri nei pressi della località di Cerrano. Da sottolineare è la presenza di un fiume, privo di riferimenti toponomastici, che ha origine da Atri e di cui si conserva il porto presso la sua foce. Nell’Abruzzo Citra et Ultra, del 1604, di Giovanni Antonio Magini, sono raffigurati il borgo di Atri, posto su una collina, e un fiume che scende dalla stessa (il Cerrano) e che sfocia a mare nei pressi di una torre, indicata dal toponimo “torre”. È menzionato il Piomba, Silva (l’attuale paese di Silvi) e il Porto di Calvano Figura 14. Particolare della Tavola Nuova della Marcha de Ancona di Vincenzo Valgrisi, 1561. Punta di Girano = Punta Cerrano (con la rappresentazione della lingua di costa); P. d’Atri = Porto di Atri spiccano due toponimi di interesse: pota de ziran e p. datri. Il primo conserva una certa assonanza con Punta di Cerrano, mentre il secondo indica chiaramente il porto di Atri. Del 1561 è la Tavola Nuova della Marcha de Ancona, di Vincenzo Valgrisi (Fig. 14). L’autore riporta il porto di Atri (P. Atri) insieme alla vicina Punta di Girano che conferma l’ipotesi del toponimo “Pota-Punta” e della località Cerrano, quindi Punta di Cerrano, che rimanda, molto probabilmente, alla caratteristica forma appuntita del tratto di costa. Nella carta di Pirro Ligorio (Nova Regni Neapolit. Descript. Usq. Ad pharum cum Parte Romandiola nota Marca Anconitana, Umbria, Roma, e tota Campania) del 1558, l’autore menziona a N di Pars S. Angelo, i toponimi di Cerrano e Pars d’Alatri, oltre al Calvano, nuova sede del porto in sostituzione di quello del Cerrano (Fig. 15). Molto probabilmente, erano stati già avviati i lavori di trasferimento della sede del porto da Torre Cerrano alla nuova, in località Calvano. La carta di Abraham Ortelius del 1570 (Regni Neapolitani Verissima Secvndum Antiqvorum Et Recentiorum Traditionem Descriptio), Figura 15. Particolare della Regni Neapolitani Verissima Secvndum Antiqvorum Et Recentiorum Traditionem Descriptio di Abraham Ortelius, 1570. È riportata la lingua di costa con la località Cerrano. È presente anche la nuova sede di località Calvano (Fig. 17). Per la prima volta è menzionato il Porto di Calvano e ogni riferimento al Porto di Atri nei pressi del Cerrano scompare; rimane solo la torre. Molto probabilmente i resti del Porto di Cerrano erano già completamente sommersi, tant’è che sparisce la rappresentazione grafica della “Pinna/Punta”, e le attività portuali, secondo le fonti erano già state trasferite presso la nuova sede di Calvano. Inoltre, nel 1568, hanno avuto inizio i lavori per la costruzione dell’atFigura 16. Stralcio della carta Abruzzo Citra et Ultra di Giovanni Antonio Magini, 1604. Sparisce il lembo di costa e il toponimo. Resta traccia del toponimo Torre. Compare il primo riferimento al porto di Calvano. Scompare la costa copia dell’opera di Ligorio, riporta da N verso S, il fiume Vomano, i toponimi di Calvano, P. d’Alatri, Cerrano, P. S. Angelo, P. di Saline e per la prima volta il fiume Piomba (Fig. 16). L’autore nel citare Alatri, (da non confondere con Alatri di Frosinone), aggiunge il suffisso “olim Atria”, ovvero “un tempo nota con il nome di”. Di con- Figura 17. Particolare dell’Atlante geografico del regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, 1808. Compare il toponimo T. di Cerrano insieme al Fosso omonimo. Nei pressi della torre sono indicate delle strutture sommerse Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 206 Figura 18. Stralcio della Generalkarte von dem Koenigreiche Neapel oder Napoli (northwestern sheet di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni e Franz Anton Schraembl, del 1800. Anche qui sono rappresentati dei resti sommersi Figura 19. tuale Torre del Cerrano. Il primissimo riferimento toponomastico al Fosso del Cerrano si trova nell’opera di Rizzi Zannoni, del 1808, insieme al Fosso del Gallo che sfocia nel Piomba, il borgo di Atri, da cui scende il Cerrano verso il mare e la sua foce che si trova a sud di T. di Cerrano (Fig. 18). L’autore, oltre a riportare l’edificio, sembra indicare la presenza di una struttura sommersa ai piedi dello stesso. La struttura appare in un’altra carta storica, di Rizzi Zannoni insieme a Franz Anton Schraembl, pubblicata qualche anno prima, nel 1789, insieme al simbolo della torre (Fig. 19). Sono, invece, assenti i riferimenti ai Fossi del Cerrano e del Gallo. Anche in questo caso non vi è traccia della Punta/Pinna. 6. IL PORTO DI TORRE CERRANO NEI PORTOLANI Anche i portolani forniscono informazioni alquanti interessanti. Del 1311 è la carta nautica di Pietro Vesconte, nella quale tra San Flabian (Giulianova) e Saline (il fiume Saline), compare il toponimo di Ponta de Ciran, che rimanderebbe a “Punta del Cerrano” (Fig. 20). Nella carta si riconosce un elemento di forma circolare (la torre?) su un promontorio o su piccola porzione di spiaggia che si affaccia sul mare. In una carta nautica Figura 20. anonima del XIV e in quella di Angelino Dulcert del 1335, tra il Comano (l’attuale Piomba) e San Andrea (l’attuale Penne S. Andrea), compare la località di Atri. Il percorso del fiume, probabilmente l’attuale Cerrano che si trova a N del Comano (l’attuale Piomba), sembra risalire verso l’interno. La stessa situazione si riscontra nell’Atlante Catalano di Abraham Cresques del 1375. Nell’opera di Grazioso Benincasa del 1470, tra San Fabiano e Salino, è riportato il toponimo Ponta di Cirano, in prossimità di una piccola sporgenza sul mare, proprio come nella carta del Visconte (Fig. 21). Nei successivi portolani (Albino de Canepa, 1489; Jorge Aguiar, 1492; Iacopo Russo 1533), fa la sua ricomparsa il toponimo Atri, posto a N del Comano. In una carta nautica successiva, del 1572, donata dal senato romano a Marcantonio Colonna, si menziona nuovamente Ponta de Cerano tra Saline e San Falvian, con l’illustrazione della “punta”, mentre nel lavoro di Placido Calorio e Giovanni Oliva (Fig. 22), del 1650, troviamo il toponimo Ciran, con l’indicazione della sporgenza e di un elemento sommerso nell’area antistante Ciran, come nelle due opere di Rizzi Zannoni. Figura 21. Il portolano di Grazioso Benincasa del 1470 con l’indicazione del toponimo Ponta di Cirano e della costa con la caratteristica forma a punta Figura 22. Il portolano di Pietro Calorio e Giovanni Oliva, del 1650. Oltre al toponimo Ciran e alla rappresentazione della costa, è indicata la presenza di un elemento sommerso, come nelle carte di Giovanni Rizzi Zannoni Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 7. IL CONTRIBUTO DELLA FOTOGRAFIA AEREA L’analisi della fotografia aerea storica e moderna ha permesso di aggiungere informazioni considerevoli al quadro fin ora illustrato. Lo spoglio della copertura aerofotografica della Regione Abruzzo ha consentito di individuare, nel tratto di costa nei pressi di Torre del Cerrano, diverse anomalie riferibili a eventuali strutture sommerse. Queste si riscontrano in alcuni fotogrammi dei seguenti voli: Volo IGM 1954; 1985; Regione Abruzzo 2007 e 2010. Le anomalie evidenziano, nei fotogrammi del 1954, 1985 e 2007, un grande complesso sommerso di forma quadrangolare con orientamento NE-SO, a 350-400 m circa a NE della torre. Il fotogramma del VRA 2010 delinea maggiormente il profilo della struttura caratterizzata da una forma di L rovesciata e che, quindi, conferma pienamente il molo a doppia tenaglia, ma con ingresso a E e non a NE. Un altro elemento sommerso, perfettamente in asse con il vasto complesso sommerso, molto probabilmente, si colloca circa 300 m a S dello stesso e circa 440 m a SE della torre (Figg. 23, 24). 8. CONCLUSIONI Sappiamo dalle fonti medievali di un porto in Pinna Cerrani e della possibilità di poterlo ricostruire in un luogo frastagliato sul lido del mare. Questi elementi testimoniano la connotazione sia topografica sia amministrativa di un porto alla foce del fiume Cerrano, probabilmente già esistente e per i seguenti motivi: difficoltà logistiche, oggettive ed economiche nel procedere alla realizzazione di nuove strutture portuali in una costa soggetta a insabbiamento per il basso fondale per la presenza delle vicine foci di ben due fiumi e due torrenti di grande portata. Il toponimo Pinna Cerrani, nelle sue forme Pota de Ziran e Punta di Girano è noto dalla cartografia storica di XV secolo. Nella cartografia nautica, chi si occupava della navigazione, doveva essere il più possibile preciso nel ricostruire i tratti della costa e i punti di approdo più agevoli all’attracco, stando attento, quindi, a disegnare più punti di riferimento possibili: colline, monti, fari, tracce di basso fondale e pericoli di attracco. I toponimi Ponta de Ciran, Ponta di Cirano, Ponta de Cerano e Ciran, con la raffigurazione di una piccola lingua di costa e, in alcuni casi la torre, li rinveniamo in carte nautiche antecedenti al 1600. Siamo a conoscenza del maremoto del 1627 (Angeletti, 1983), che sicuramente in- 207 Figura 23. Volo Regione Abruzzo 2010. Fotogramma 1340. Anomalie sommerse Figura 24. Restituzione aerofotogrammetrica (IGM 1954_2716-VRA_2010_1340) su Carta Tecnica Regionale 1.5000 ghiotti il porto e la costa, tanto da non comparire (sia a livello toponomastico sia grafico) sulle cartografie storiche e nautiche prossime o successive all’anno del maremoto stesso. Per quanto riguarda l’identificazione del Matrinum con il torrente Cerrano è abbastanza evidente; è l’unico fiume che attraversa il borgo di Atri, come indica Strabone. Il torrente del Fosso del Gallo non ha origine dal borgo, lo costeggia a sud e sfocia nel Piomba poco prima di giungere alla costa. I calcoli delle distanze della Tabula Peutingeriana confermano che il Samnium, il Comara e il terzo fiume, da S a N, corrispondono, senza dubbio, al Saline, al Piomba e al Vomano. E questo è confermato anche dalla cartografia storica successiva e dall’idrografia attuale. Per quanto riguarda la localizzazione dei resti del porto romano di Hadria è evidente la sua posizione ai piedi della spiaggia di Torre del Cerrano, come confermano le evidenze subacquee e l’aerofotointerpretazione archeologica, con l’individuazione del molo di attracco a doppia tenaglia, che occupa una superficie di quasi un 1 kmq e strutture minori a poca distanza e in asse con il complesso portuale. Suggestiva, ma non del tutto improbabile, la rappresentazione delle strutture sommerse del porto nelle carte storiche di Rizzi Zannoni e nel Portolano di Calorio e Oliva. In quest’ultimo, molto probabilmente, sono indicate come pericolo, in quanto la presenza di un “locum fractum in Pinna Cerrani” non era certamente un punto favorevole all’attracco. BIBLIOGRAFIA AA.VV (1991), Il porto di Atri. Un invito alla ricerca archeologica. Angeletti G. (1993), Strutture sommerse antistanti la Torre di Cerrano, in M. Sgattoni, P. Zanni Ulisse (a cura di), Cerrano ieri e oggi, 119-123. Angeletti G. (2001), Ricerche Archeologiche nel Porto di Cerrano, in Documenti dell’Abruzzo Teramano, Volume 1, Dalla Valle del Piomba alla valle del Basso Pescara, 160-162. Azzena G. (1987), Atri, Città Antiche in Italia, 1, Roma. Benincasa G. (1470), Portolano. Calorio P., Oliva G. (1650), Portolano. Cluverio F. 1688, Italia Antiqua. Colucci G. (1795), Antichità Picene, Tomo XXV. Delle antichità del Medio, e dell’Infimo Evo, Tomo X, p. 154. D’Ercole V., Copersino M. R. (2001), Il territorio di Atri e il comprensorio vestino costiero prima della conquista romana, in Documenti dell’Abruzzo Teramano, Volume 1, Dalla Valle del Piomba alla valle del Basso Pescara, 63-68. Delisle G. (1711), Regionum Italiae Mediarum Tabula Geographica. Eredi di Melchiorre Sessa di Venezia (1559), Tabula Europae VI. Della Geografia di Tolomeo. Magini G. A. (1604), Abruzzo Citra et Ultra. Migliorati L. (1997), Insediamenti costieri del Piceno meridionale: primi risultati delle campagne di ricerca, in Bollettino di Archeologia Subacquea, 1-2, 229-236. Nuovo M. (2016), Roman harbours: coastal and underwater landscapes in the centralsouthern Adriatic Sea, in N.E.R.D., New European Researches and Discoveries in Underwaterarchaeology Conference, 21-23 November 2014, Kiel, 56-64. Ortelius A. (1570), Regni Neapolitani Verissima Secvndum Antiqvorum Et Recentiorum Traditionem Descriptio. Pedrezano G. (1548), Marcha de Ancona Nova. Rizzi Zannoni G. A., Schraembl F. A. (1800), von dem Koenigreiche Neapel oder Napoli (northwestern sheet). Rizzi Zannoni G. A. (1808), Atlante geografico del regno di Napoli. Sorricchio L. (1983), Il comune atriano nel XIII e XIV sec. Sorricchio L. (1991), Hatria-Atri. Staffa A. R. (2001), Contributo per una ricostruzione del quadro insediativo dall’antichità al medioevo, in Documenti dell’Abruzzo Teramano, Volume 1, Dalla Valle del Piomba alla valle del Basso Pescara, 122-147. Valgrisi V. (1561), Tavola Nuova della Marcha de Ancona. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 208 Il Tevere, asse di comunicazione e di sviluppo tra Roma, il litorale ed i porti Renato Matteucci SIGEA Lazio Carlo Rosa SIGEA Lazio - Istituto Italiano di Paleontologia Umana Renato Sebastiani Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma The Tiber, communication and development axis between Rome, the coast and ports Parole chiave: Tevere, porti, archeologia Key words: Tiber, ports, archaeology RIASSUNTO Il corso del fiume Tevere è il primo e fondamentale elemento nella storia con funzione e caratteristiche di via di comunicazione tra Roma e il Mare, oltre che risorsa di acqua potabile e ambiente ideale per la pesca. Esso rappresenta l’elemento distintivo e caratterizzante dal quale nascono tutte le direttrici stradali storiche che ruotano intorno al fiume, e successivamente, la viabilità moderna che ricalca in parte l’antica e la amplia (Fig. 1). Questo lavoro si propone, in particolare, di mettere in evidenza il doppio ruolo che ha avuto ed ha il fiume nell’ambito evolutivo degli insediamenti nell’area romana: quello di risorsa indispensabile come via di comunicazione e quello di agente morfogenetico che, attraverso la sua azione erosiva, di trasporto, di sedimentazione, ha variato la morfologia del paesaggio, costringendo l’uomo, quando lo ha fatto, ad adottare strategie e soluzioni tecniche diverse e complesse, nella continua e complicata ricerca di adattare l’ambiente alle sue esigenze. Per potere studiare gli spostamenti del Tevere, anche in epoche prive di documentazioni cartografiche o iconografiche, è necessario partire dalla conoscenza delle sue facies alluvionali, che sono differenti al variare della posizione del sedimento deposto rispetto all’alveo. Questo contributo intende analizzare il rapporto costituito dal fiume Tevere e dai suoi affluenti compresi nella loro estensione e modificazione con la viabilità (fluviale, terrestre e marittima), sull’asse di sviluppo e di comunicazione tra Roma ed il Mare, attraverso l’analisi ed il confronto dei caratteri storicoarcheologico-insediamentali e degli aspetti geologico-ambientali ed economico-produttivi, strettamente correlati e condizionati dal corso del fiume Tevere e dalle sue variazioni nel tempo. INQUADRAMENTO GEOLOGICO DELLA VALLE DEL TEVERE Nel corso dell’Olocene il corpo alluvionale del Tevere e del suo Delta prendono forma e si strutturano con il susseguirsi degli eventi alluvionali di maggiore intensità. La aggradazione produce via via nel tempo un innalzamento del livello della piana alluvionale esondabile e, parallelamente, dell’alveo del fiume fino alle quote attuali, mentre la progradazione produce un ingrandimento del Delta verso ovest a spese dell’area occupata un tempo dal mare (Bellotti et al., 2011; Milli et al. 2013; Milli et al., 2016). Con- Figura 1. Fotomosaico della bassa valle del Tevere tratto da foto USAAF 3rd Photo Group, March 16th, 1944 (ICCD – Aerofototeca Nazionale, fondo MAPRW - Mediterranean Allied Photo Reconnaissance Wing) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 209 Figura 2. Sezione geologica tipo in un settore privo di argini artificiali con rappresentate le facies alluvionali Tiberine Figura 3. Blocco diagramma geomorfologico che rappresenta la piana alluvionale esondabile del Tevere e la sua sezione verticale (base fotografica satellitare da Google Earth) Figura 4. Sezione geologico-stratigrafica della piana alluvionale del Tevere all’altezza di castel Sant’Angelo (da Corazza et al., 1999, modificata) cordemente con quanto avviene nella valle principale del Tevere anche le valli alluvionali dei suoi affluenti subiscono lo stesso processo di aggradazione, che porta i fondovalli pianeggianti alle quote attuali, in leggera pendenza verso il corso d’acqua principale. Nella sua condizione di “equilibrio dinamico”, sia orizzontale che verticale, il Tevere, ad andamento meandriforme almeno da Perugia in giù, ha quindi, per tutta la sua storia, modificato il suo corso nel tempo all’interno della sua valle alluvionale. Per potere studiare gli spostamenti del Tevere, anche in epoche prive di documentazioni cartografiche o iconografiche, è necessario partire dalla conoscenza delle sue facies alluvionali, che sono differenti al variare della posizione del sedimento deposto rispetto all’alveo (Fig. 2). I depositi granulometricamente più grandi in assoluto si trovano al fondo dell’alveo e sono costituiti da sabbie grossolane e/o ghiaie; all’interno dell’alveo, lateralmente, nella sponda convessa in accrescimento, i depositi possono variare, a seconda della stagione e del livello del fiume, da sabbiosi a limoso-sabbiosi a limoso-argillosi; la sponda concava in erosione ovviamente non lascia depositi perché questi vengono presi in carico e trasportati dalla corrente più a valle; sabbie sono presenti sugli argini naturali del fiume, mentre nella piana alluvionale esondabile, raggiunta dalle acque e dai loro depositi in fase di piena eccezionale che scavalca gli argini, si rinvengono sedimenti via via più fini granulometricamente con la distanza dall’alveo. In Fig. 3 è presentato un tratto della valle alluvionale del Tevere in un settore, a nord di Settebagni e Prima Porta, non troppo modificato morfologicamente dalle attività umane, mentre in Fig. 4 Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 210 si mostra una sezione del Tevere all’interno della città di Roma, con la evoluzione della morfologia in conseguenza dell’antropizzazione delle sue sponde e della sua piana alluvionale. Dopo la costruzione in città degli argini del Tevere (i cosiddetti «muraglioni» - 1875-1925) il centro storico di Roma non ha più subito esondazioni per eventi alluvionali eccezionali dal 1870. LE MODIFICHE DEL CORSO DEL FIUME Come abbiamo già sottolineato, il Fiume Tevere, come tutti gli altri corsi d’acqua nel mondo, è in equilibrio dinamico con l’ambiente che lo circonda in ogni settore del suo corso. Il fiume tende subito a ripristinare un nuovo equilibrio se interviene una causa esterna (naturale o antropica) che ne vari le caratteristiche, come: • la portata liquida (variazioni climatiche, messa in opera di dighe a monte) • il carico solido (disboscamento a monte, messa in opera di dighe a monte) • la sezione dell’alveo (frane, arginature, presenza di mulini fissi lungo il corso, “passonate”) • la lunghezza del suo corso (taglio naturale del meandro di Ostia antica nel 1557, taglio artificiale del meandro di Spinaceto nel 1940) • la quota assoluta locale e la distanza dalla foce (variazioni eustatiche, subsidenza del delta) Locali modifiche del corso del fiume, naturali come la rotta di Ostia del 1557 o antropiche come il “drizzagno” di Spinaceto nel 1938-40, hanno contribuito a produrre, a monte, effetti di accelerazione del flusso delle acque con conseguenti pericolosi fenomeni di erosione retrograda del letto dell’alveo difficili da contrastare. In particolare, il drizzagno di Spinaceto, con la riduzione del percorso del Tevere di circa 2700 metri, aumentando localmente la velocità del fiume ha prodotto effetti erosivi negativi in una situazione già fortemente destabilizzata del letto del fiume. Una prima causa di destabilizzazione fu la regolarizzazione e restringimento dell’alveo di magra, da Capo Due rami a S. Paolo fuori le mura terminata nel 1925, voluta dal Governo per favorire la navigazione, con il suo conseguente sperato approfondimento purtroppo non solo locale ma anche retrogrado, coinvolgendo anche il tratto a monte e lo stesso tronco urbano. Un’altra causa di destabilizzazione fu la costruzione dei muraglioni, con restringimento della sezione del Tevere, e della rimozione di fine ottocento di tutti i ruderi, mulini ed altre opere che frenavano il corso del fiume, favorendo così un aumento di velocità della corrente anche all’interno della città ed un aumento, invece che una attesa diminuzione dei livelli di piena (Frosini, 1977). Se a questa si aggiunge la diminuzione del trasporto solido legata alla costruzione di dighe a monte di Roma (dighe del Salto e del Turano 1939, traversa di Castel Giubileo 1946, diga di Nazzano 1953-1955, diga di Corbara 1962) si comprende perché i fondali del Tevere, come constatato a partire dal 1930 (gli effetti delle modificazioni sull’alveo del fiume non sono immediati ma occorre un lasso di tempo per sortire effetti evidenti), iniziano via via ad approfondirsi anche all’interno della città sino ad arrivare alla soglia esistente sottostante il ponte Milvio. Per contrastare gli effetti perniciosi di un abbassamento progressivo del fondo del fiume, stimato dal 1871 al 1983, di 1-2 metri complessivi, con valori differenti nei diversi tratti considerati, nel 1960 una apposita Commissione Ministeriale decise la costruzione di una serie di soglie artificiali per contrastare questo fenomeno (Frosini, 1966; Frosini, 1977; Bencivenga et al., 1995). Otto soglie sono state da allora realizzate, la prima 300 a valle di Ponte Palatino (1963), seguirono quella a valle di ponte Milvio (1964-1967), ultima quella di ponte Cestio (1994) (Bencivenga et al., 1995) ponendo così un ostacolo alla possibilità di navigare il fiume da ponte Marconi all’Isola Figura 5. Tevere da Ponte Milvio a Santa Passera con posizione dei Cippi dei Curatores alvei Tiberis et riparum rinvenuti in situ Tiberina e tra il ponte Duca d’Aosta e il ponte Flaminio. Ovviamente della realizzazione dei tre ulteriori drizzagni previsti negli anni 30 del secolo scorso, uno a Tor di Valle, uno a Pian due Torri e l’ultimo a Dragoncello, per complessivi 6,450 km, non si è più parlato. LE RICERCHE ARCHEOLOGICHE Abbiamo visto che il Tevere come tutti i fiumi del suo tipo, subisce modifiche nel tempo di posizione e quote assolute del suo alveo e quote assolute della sua piana alluvionale, ma allora come è possibile ricostruire la posizione Figura 6. Sezione geologico-stratigrafica del Tevere all’altezza dell’attuale ponte della scienza, in basso a destra la traccia della sezione Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 211 del Fiume in età romana? L’archeologia offre un validissimo contributo per rispondere a questa domanda. Nell’antica Roma a partire dal 15 d.C. sotto l’Imperatore Tiberio, viene istituito il titolo e la funzione di Curatores alvei Tiberis et riparum, una commissione di 5 senatori incaricata di sorvegliare la portata del fiume, delimitarne le sponde, in riva destra ed in riva sinistra, con dei cippi in travertino recanti sulla superficie rivolta verso fiume1 una scritta di terminazione del demanio pubblico, che conteneva anche i loro nomi e sul retro la distanza dai cippi vicini, curare la pulizia delle sponde e vietarne l’utilizzo per fini privati (Le Gall, 2005). Questi in realtà, con il posizionamento dei cippi di terminazione, continuano un lavoro già intrapreso nella metà del I secolo a. C. dai Censori M. Valerius Messala e P. Servilius Vatia Isauricus; sono infatti del 55-54 a.C. i primi cippi ritrovati in situ con i nomi dei suddetti Censori. Seguono cippi dell’8 a.C. (Consoli C. Marcius Censorinus e C. Asinius Gallus), del 7-6 a.C. (fatti installare da Augusto). Seguono ancora i cippi dei Curatores che vanno da quelli del 15 d. C. a quelli del 73 d.C. in cui si riduce ad uno solo il Curator alvei Tiberis et riparum, con intervalli estremamente irregolari fino al 198 d.C. per un totale di 126 cippi ritrovati di cui 5 fuori da Roma di cui parla Le Gall (2005), a cui vanno sicuramente aggiunti i due nuovi cippi rinvenuti in situ nel 2012 nello scavo di via Giulia (Filippi, 2016). Dal 101-103 d.C. in avanti il Curator acquisisce ufficialmente anche la cura cloacarum Urbis. In Fig. 5 viene presentata con tratteggio blu la ricostruzione dell’andamento delle sponde del Tevere a Roma tra il 54-55 a.C. ed il 198 d.C., considerando solo la posizione dei cippi rinvenuti in posto e quella determinabile con precisione. Il Tevere, in età protostorica e repubblicana aveva molto probabilmente un corso diverso dall’attuale, basti pensare ai numerosi livelli di ghiaie (facies di alveo del Tevere come abbiamo visto) segnalate tra i -5 ed i +2 metri dalle stratigrafie di carotaggi disponibili in settori del campo Marzio poi occupati dal Portico di Ottavia e da altri edifici monumentali. In prossimità di S. Omobono recenti studi confermano una posizione diversa del Tevere ed il suo successivo sposta- Figura 7. Posizionamento su CTR al 5000 della Regione Lazio della pianta di scavo del 1940 della c.d. villa di Pietra Papa; è intuibile lo spostamento verso sud-est della sponda del Tevere rispetto a quella di età romana Figura 8. Foto satellitare di Google Earth del 29 luglio 2007 che mostra la banchina di età romana imperiale del Tevere ora al centro del corso del fiume presso Riva Pian due Torri Figura 9. Alveo del Tevere in età Augustea (in blu a tratteggio) rispetto alla posizione attuale nell’Elemento CTR al 5.000 della regione Lazio del 2006 n. 347101, desunta dalla posizione dei cippi di delimitazione delle ripe in situ Figura 10. La posizione dell’alveo del Tevere all’altezza di Ponte Milvio non è cambiata affatto dal 55-54 a.C. (posizione cippi) se si confronta con la posizione attuale delle sponde del fiume su CTR al 5000 mento (Ammerman e Filippi, 2004; Marra et al., 2018). Guardando la Fig. 5 risulta evidente lo spostamento locale delle sponde attuali del Tevere rispetto a quelle di età imperiale, pur dotate di argini in muratura e monumentali attracchi portuali. Spostamenti della riva per più di 140 metri verso ovest come alla sponda sinistra del Tevere all’Ostiense (Fig. 6) o di 1 In un solo caso è stato rinvenuto un cippo circa 50 metri verso est della sponda decon iscrizione su entrambe le facce (Le Gall, stra all’altezza di Pietra Papa (Fig. 7), o di 50 metri verso ovest della sponda de2005) stra all’altezza di Pian due Torri (Fig. 8), oppure i circa 100 metri verso ovest nella sponda sinistra al Campo Marzio all’altezza di via Giulia (Fig. 9), sono visibili accanto a zone rimaste praticamente immutate dall’età dei cippi, come al Ponte Milvio (Fig. 10) o a Castel Sant’Angelo in sponda destra o all’Isola Tiberina e al Lungotevere Aventino in sponda sinistra. Alcuni spostamenti apparenti sono più semplicemente legati alla costruzione dei muraglioni di fine ‘800, con il conseguente raddrizzamen- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 212 Figura 11. a) bitta in travertino vandalizzata, inglobata nei muraglioni in riva destra idrografica del Tevere poco a sud dell’Isola Tiberina e di Ponte Palatino; b) bitta in travertino vandalizzata, inglobata nei muraglioni in riva destra idrografica del Tevere poco a sud dell’Isola Tiberina e di Ponte Palatino poco più a nord della precedente Figura 12. a) bitta in travertino vandalizzata, faceva parte del molo scavato da Padre Bruzza nel 1868, inglobata nei muraglioni del Tevere in sinistra idrografica all’altezza di via Florio a Testaccio; b) vista delle due bitte vandalizzate tuttora visibili dopo la periodica pulizia delle sponde, inglobate nel muraglione in riva sinistra idrografica del Tevere to e rimodellamento di alcuni settori delle sponde nel centro storico, ma sono facilmente individuabili confrontando la cartografia storica di fine XIX secolo con quella attuale, come sul Lungotevere della Farnesina, spostato di 48 metri verso sudovest. In molti punti dei muraglioni invece, le bitte in travertino ad anello o a testa di leone sono state semplicemente inglobate nella muratura degli argini moderni, a testimoniare la continuità della posizione della sponda tiberina, purtroppo per venire poi vandalizzate e ridotte a poveri resti ai giorni nostri (Figg. 11, 12). Bellotti P., Calderoni G., Di Rita F., D’Orefice M.,D’Amico C.,Esu D.,Magri D., Preite Martinez M., Tortora P., Valeri, P. (2011), The tiber river delta plain (central italy): coastal evolution and implications for the ancient ostia roman settlement, The Holocene, 21(7), pp.1105-1116. Bencivenga M., Di Loreto E., Liperi L. (1995), Il regime idrologico del Tevere, con particolare riguardo alle piene nella città di Roma, Memorie descrittive della Carta Geologica d’Italia, Vol.50, pp.123-172, Roma. Filippi F. (2016), Campo Marzio. Nuove ricerche. Seminario di Studi. Quasar, pp.476. Frosini P. (1966), Il Tevere e la difesa di Roma dalle inondazioni, Memorie e studi idrog rafici, 4, Roma. RIFERIMENTI Frosini P. (1977), Il Tevere. Le inondazioni BIBLIOGRAFICI di Roma e i provvedimenti presi dal Governo Ammerman A.J., Filippi D. (2004), Dal Italiano per evitarle, Accademia Nazionale Tevere all’Argileto, Bullettino della Comdei Lincei. Commissione di studio delle calamità naturali e della degradazione missione Archeologica Comunale di Rodell’ambiente. Vol. XIII, pp.323, Roma. ma, CV, pp. 7-28. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Le Gall J. (2005), Il Tevere. Fiume di Roma nell’antichità, edizione in Italiano curata da C. Moccheggiani Carpano e G. Pisani Sartorio, Quasar, Roma, pp. 442. Marra F., Motta L., Brock AL., Macrì P., Florindo F., Sadori L., Terrenato N. (2018), Rome in its setting. Post-glacial aggradation history of the Tiber River alluvial deposits and tectonic origin of the Tiber Island, PLoS ONE, 13 (3) e0194838. Milli, S., D’Ambrogi C., Bellotti P., Calderoni G., Carboni M. G., Celant A., Di Bella L., Di Rita F., Frezza V., Magri D, Pichezzi R. M., Ricci V. (2013), The transition from wave-dominated estuary to wave-dominated delta: The Late Quaternary stratigraphic architecture of Tiber River deltaic succession (Italy), Sedimentary Geology, 284–285, pp. 159-180. Milli S., Mancini M., Moscatelli M., Stigliano F., Marini M., Cavinato G. (2016), From river to shelf, anatomy of a high-frequency depositional sequence: The Late Pleistocene to Holocene Tiber depositional sequence, Sedimentology, 63, pp. 1886-1928. 213 Il porto fluviale di Roma antica presso Monte Secco e la discarica di anfore (Roma, Quartiere Prati) Carlo Rosa SIGEA Lazio - Istituto Italiano di Paleontologia Umana Email: [email protected] The ancient Rome river port near Monte Secco and the landfill of amphorae (Rome, Prati district) Parole chiave: geomorfologia, Roma, archeologia, porto fluviale Key words: geomorphology, Rome, archaeology, river port RIASSUNTO Nel presente lavoro si analizza la notevole trasformazione che ha subito la zona di Prati di Castello a Roma. In particolare, in prossimità del fiume Tevere, esisteva una piccola collina oblunga denominata “Monte Secco”, che si elevava dai cinque agli otto metri al di sopra della campagna circostante, che non era altro che un ammasso artificiale di “cocci, scaglie di travertino e di marmi di differenti qualità, ossa umane, di bestie, ecc…” Questa, ed altre evidenze raccolte nella documentazione archeologica di fine secolo permettono di identificare questo settore in riva destra del Tevere come luogo di attracco e scarico di anfore, probabilmente vinarie, provenienti dai territori attraversati dal fiume a nord di Roma. Con un certo sconcerto per l’oblio a cui questa notizia è andata incontro, si può quindi accreditare come fortemente attendibile la presenza di un ulteriore porto fluviale del Tevere in età romana, questa volta in riva destra con annessi magazzini per lo stoccaggio delle merci. ABSTRACT In this work we analyze the remarkable transformation that the area of Prati di Castello in Rome has undergone. Particularly, near the Tiber river there was a small elongated hill called Monte Secco, which rose from 5 to 7 meters above the surrounding countryside, and which was nothing more than an artificial mass of “shards, flakes of travertine and marble of different qualities, human and animal bones, etc…”. This and other evidences, collected in the archaeological documentation of the end of the century, allow to identify this sector, on the right bank of the Tiber, as a place of docking and unloading of amphorae, probably wine, coming from the territories crossed by the river north of Rome. With some bewilderment at the oblivion to which this news has gone, we can therefore credit as strongly reliable the presence of a further river port of the Tiber in Roman times, on the right bank, with annexed warehouses for the storage of goods. INQUADRAMENTO GEOGRAFICO La zona di Prati di Castello a Roma ha avuto una notevolissima trasformazione con la nascita di Roma Capitale nel periodo che va dalla fine del diciannovesimo secolo fino agli anni venti del secolo scorso. In circa trenta anni, il panorama di questo settore di Roma è passato da una campagna agricola esterna alla città, con una quota media di 14-15 metri s.l.m. (Fig. 1 – Frutaz,1962), ad un quartiere popoloso con edifici alti almeno 5 o 6 piani e fitte strade asfaltate ed una quota media stradale di 17-19 metri s.l.m. (Figg. 2-3). Nella prima edizione (1877) delle tavolette al 25.000 “Monte Mario”, “Castel Giubbileo”, “Maglianella” e “Roma”, dell‘Istituto Geografico Militare, delle quali la immagine di figura 1 è un montaggio del 1876, si vede ancora chiaramente la vocazione agricola del territorio, costellato da piccoli edifici rurali connessi tra loro da poche strade bianche ed attraversato da due fossi che scendendo dai rilievi collinari ad ovest confluiscono nel Tevere ad Est: il Fosso della Balduina a nord ed il Fosso della Valle dell’Inferno più a sud. Esaminando con maggiore attenzione la morfologia precedente alla urbanizzazione di questo settore della città, si nota subito la presenza di una collina oblunga costituita da due cime ed alline- Figura 1. L’area di Prati di Castello e quella più a nord rappresentate nella “Carta Topografica dei dintorni di Roma”, edita dall’Istituto Topografico Militare, scala 1:25.000, 1875-1876, Foglio 5° di 9, Istituto Geografico Militare, stampata nello stabilimento Wurster, Randegger & C.ia a Winterthur (Svizzera) 1876 (da Frutaz, 1962, Pianta CCXIII, Tavola 538 - particolare) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 214 Figura 2. L’area di Prati di Castello e quella più a nord rappresentate nella Carta Tecnica Regionale al 5.000 della Regione Lazio (Restituzione del 2005 da volo del 2002, Elementi 374063 e 374062 - particolare) ricostruire, in una sezione morfologica ad andamento nordest-sudovest, che dalla piana alluvionale attraversa il Tevere fino alla sponda in sinistra idrografica, l’andamento delle quote negli anni pre-urbanizzazione e quello delle quote attuali. Le quote precedenti l’urbanizzazione sono ricavate dalle due tavolette IGM del 1877 già citate in precedenza (Fig. 5), mentre l’andamento delle quote attuali lungo la traccia della sezione è stato ottenuto su QGIS 3.4 dai dati LIDAR 1x1 del Ministero dell’Ambiente (versione Digital Terrain Model, DTM – Fig. 6), utilizzando il plugin terrain profile. Osservando la sezione morfologica di Fig. 7 si vede come li rilievo di Monte Secco fosse addirittura più alto dell’attuale argine artificiale in riva sinistra del Tevere, sul quale attualmente passa la via del Lungotevere Flaminio, ad una quota assoluta intorno ai 20 metri s.l.m.. Figura 5. Traccia della Sezione topografica posizionata sulla Carta Topografica dei dintorni di Roma”, edita dall’Istituto Topografico Militare, scala 1:25.000, 1875-1876, Foglio 5° di 9, Istituto Geografico Militare, stampata nello stabilimento Wurster, Randegger & C.ia a Winterthur (Svizzera) 1876. Tratta da Frutaz, 1962, particolare Fig. 3 – Foto satellitare del Quartiere Prati di Roma del 29 Luglio 2007 tratta da Google Earth (particolare) Figura 4. L’area di Monte Secco e zona circostante (dalla “Carta Topografica dei dintorni di Roma”, edita dall’Istituto Topografico Militare, scala 1:25.000, 1875-1876, Foglio 5° di 9, Istituto Geografico Militare, stampata nello stabilimento Wurster, Randegger & C.ia a Winterthur (Svizzera) 1876. Tratta da Frutaz, 1962, particolare ata con il bordo della piana alluvionale, in prossimità del fiume Tevere, nota con il toponimo di “Monte Secco”, con quote massime tra i 20 ed i 23 metri s.l.m., e che quindi si elevava dai cinque agli otto metri al di sopra della campagna antistante (Fig. 4). Questa morfologia non è spiegabile semplicemente come un argine naturale del fiume Tevere perché troppo alta: i dislivelli degli argini naturali del Tevere rispetto alla pianura alluvionale sono di due-tre metri al massimo (vedi le morfologie nel Piano Topografico di Roma e Suburbio 1908-1924, scala 1:5.000, Istituto Geografico Militare). Per evidenziare la sua particolarità, è necessario Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 LE ORIGINI DI MONTE SECCO Ma quindi quale era la natura del rilievo del Monte Secco, che come abbiamo visto non esiste più, almeno nella sua porzione superiore, in quanto spianato per la costruzione del nuovo quartiere? La risposta in parte è già nel nome dato a questa collinetta. Ma per risolvere il problema bisogna esaminare i dati storici degli interventi urbanistici eseguiti a fine ’800. Durante la costruzione di una grande fognatura di servizio ai nuovi isolati che si andavano edificando, nel 1884 venne effettuato un grande sbancamento trasversale. Nel volume di Notizie di Scavi di Antichità di quell’anno si trova, alle pagine 392393, un resoconto di Rodolfo Lanciani che testualmente dice “La sezione che ne è risultata, ha dimostrato chiaramente, 215 Figura 6. LIDAR Regione Lazio DTM 1 mt x 1 mt, Unione Tavole: D41921245_0101, D41921246_0101, D41921247_0101, D41921248_0101, D41911246_0101, D41911247_0101, D41901245_0101, D41901246_0101, D41901247_0101 (particolare con sovrapposta, mediante QGIS, la linea rossa della traccia della sezione morfologica)(fonte dati Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare) che le piccole alture di questa località sono artificiali essendo composte da ammassi di cocci, scaglie di travertino e di marmi di differenti qualità, ossa umane, di bestie, ecc. Predominano i cocci di anfore e doli disposti secondo il centro di gravità; nel basso cioè i frammenti maggiori, tutt’attorno i più piccoli.”. Il resoconto del Lanciani si conclude con il riconoscimento di questi depositi come materiali di scarico di anfore utilizzate per il commercio fluviale nella porzione del Tevere a Nord di Roma, così come il Testaccio costituiva il luogo di scarico delle anfore che arrivavano lungo la porzione sud del Tevere attraverso il commercio marittimo. Il nome Monte Secco derivava dal fatto che, essendo essenzialmente costituito da cocci, non tratteneva affatto l’umidità. Queste evidenze della documentazione archeologica di fine secolo, presenti anche nella Carta Archeologica di Roma, Tavola I prima edizione (Istituto Geografico Militare, Firenze 1962) e relative note illustrative (C1,2,4) e nella nuova Carta Archeologica di Roma, Primo Quadrante (Tomei, Liverani, 2005), permettono quindi, a Rodolfo Lanciani, di identificare questo settore in riva destra del Tevere come luogo di attracco e scarico di anfore, probabilmente per la maggior parte vinarie, provenienti dai territori attraversati dal fiume a nord di Roma. Altri Autori, Castagnoli (1980), Quilici (1986) e Maiuro (2008), più re- centemente citano il Monte Secco. Si può quindi assumere come fortemente attendibile la presenza di un ulteriore porto fluviale del Tevere in età romana, questa volta in riva destra, localizzato lungo la sponda a monte o più probabilmente a valle del rilievo in esame. Ma, se esisteva un porto di attracco per le imbarcazioni fluviali nelle vicinanze di questa collina, dovevano necessariamente esistere anche magazzini per il temporaneo stoccaggio delle merci. Nella Fig. 8 è mostrata una fotografia del 1880 circa, che ritrae il muro residuo di un grande edificio di età romana, localizzato in quella che era divenuta la Piazza d’Armi per le esercitazioni delle forze armate, dopo la presa di Roma del 1871 da parte del Regno d’Italia e la costruzione delle numerose caserme che a tutt’oggi caratterizzano questo settore a nord del quartiere Prati. Grazie alla presenza nella fotografia e all’allineamento della cupola di San Pietro e dell’angolo SE dell’edificio nord di una caserma perfettamente riconoscibile per le sue caratteristiche merlature e finestre a bifora (la Caserma dei Carabinieri Capitano Orlando De Tommaso) è stato possibile identificare il settore della Piazza d‘Armi in cui si trovavano i resti della struttura antica: quella che è attualmente l’area compresa fra Piazza Mazzini e Viale delle Milizie, a circa 500 metri dall’area dove sorgeva il Monte Secco (Fig. 9). Area confermata Figura 7. Sezione morfologica passante per il rilievo di Monte Secco. (le quote sono ottenute dai dati Tavolette IGM e LIDAR DTM 1mt. X 1 mt. del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare). Figura 8. Fotografia di Piazza d’Armi del 1898-1900 di Giovanni Gargiolli (ICCD, Gabinetto Fotografico Nazionale, Fondo GFN, Numero inventario C000283) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 216 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Figura 9. Traccia proiezione asse tra Cupola di San Pietro e angolo SE dell’edificio nord della Caserma dei Carabinieri Capitano Orlando De Tommaso su CTR Regione Lazio. Cerchio rosso: area presunta della posizione della struttura muraria, area in marrone: rilievo di Monte Secco, le frecce nere indicano rispettivamente la posizione della cima della Cupola di San Pietro e lo spigolo SE dell’edificio nord della Caserma dei Carabinieri Capitano Orlando De Tommaso Figura 10. Stessa immagine di Fig. 9 ma con inserito e georiferito su QGIS lo stralcio della Tavoletta I.G.M. F150IVSO Roma, edizione 1894 con la indicazione grafica di presenza rudere e con iscrizione “Rud” dalla edizione del 1894 della tavoletta dell’I.G.M. “Roma”, che indica ancora chiaramente in quella zona la presenza di un rudere (Fig. 10). De Rossi nel 1981 pubblica per la prima volta un disegno del rudere prima della sua demolizione tratto da una documentazione dell’Archivio di Stato che attribuiva i resti ad un antico sepolcro. Mineo nel 1992 dedica un lavoro specifico a questo rudere, che secondo una pratica conservata nell’Archivio Scientifico della allora Soprintendenza Archeologica di Roma (oggi SSABAP) venne demolito il 30 settembre del 1896 su richiesta ufficiale della Direzione Territoriale del Genio Militare di Roma all’Ufficio Regionale per i Monumenti di Roma in quanto co- stituiva ingombro per le esigenze delle esercitazioni militari e nell’imminenza di una parata organizzata in onore delle nozze di Vittorio Emanuele III. CONCLUSIONI Le considerazioni e le osservazioni sopra descritte meritano sicuramente ulteriori approfondimenti. Sarà compito delle future generazioni di archeologi effettuare dei saggi di scavo per verificare la natura e la provenienza dei resti di anfore e doli ancora presenti al di sotto degli attuali Lungotevere Oberdan e delle Armi e di Piazza del Fante e Piazza del Monte Grappa (ponderata la scelta di quest’ultimo nome o persistenze toponomastiche casuali?). Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Castagnoli F. (1980), Installazioni portuali a Roma (Port Installations at Rome), Memoirs of the American Academy in Rome Vol. 36, The Seaborne Commerce of Ancient Rome: Studies in Archaeology and History, pp. 35-42. De Rossi G.M. (1981), Note sulla topografia antica di Monte Mario, Archeologia Classica, Vol. 33, pp. 27-54. Frutaz A.P. (1962), Le piante di Roma. Carta Topografica dei dintorni di Roma, edita dall’Istituto Topografico Militare, scala 1:25.000, 1875-1876, Foglio 5° di 9, Istituto Topografico Militare, stampata nello stabilimento Wurster, Randegger & C.ia a Winterthur (Svizzera) 1876, Pianta CCXIII, Tavola 538. Istituto Geografico Militare (1873), Tavoletta al 25.000 150-IVSO “Roma” Istituto Geografico Militare (1894), Tavoletta al 25.000 150-IVSO “Roma” Istituto Geografico Militare (1873), Tavoletta al 25.000 150-IVNO “Castel Giubbileo”. Istituto Geografico Militare (1873), Tavoletta al 25.000 149-INE “Monte Mario”. Istituto Geografico Militare (1873), Tavoletta al 25.000 149-ISE “Maglianella”. Istituto Geografico Militare (1908), Piano Topografico di Roma e Suburbio, scala 1:5.000, 6 fogli. Istituto Geografico Militare (1924), Piano Topografico di Roma e Suburbio, scala 1:5.000, 12 fogli. Istituto Geografico Militare (1962), Carta Archeologica di Roma. Tavola I e note illustrative, Firenze. Lanciani R. (1884), Note del comm. prof. R. Lanciani, sulle scoperte avvenute in Roma e nel suburbio nel 1884. Regione XIV Prati di Castello. Notizie degli Scavi di Antichità, 1884, pp. 392-393. Maiuro M. (2008), Tiberis, in Lexicon Topographicum Urbis Romae - Suburbium, V, Quasar, pp.148-156. Mineo S. (1992), Un monumento dell’ex Piazza d’Armi e la topografia dell’ager Vaticanus orientale, Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma, Vol. 94 n.2, pp. 287-300. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (2006), LIDAR DTM con risoluzione a terra 1 metro - Regione Lazio - Piano Straordinario di Telerilevamento Ambientale. Quilici L. (1986), Il Tevere e l’Aniene come vie d’acqua a monte di Roma in età imperiale, Il Tevere e le altre vie d’acqua del Lazio antico, Archeologia Laziale VII, Quaderni di Archeologia Etrusco-Italica 12, C.N.R., pp. 198-217. Regione Lazio (2006), Carta Tecnica Regionale in scala 1:5.000, provincia di Roma, Elementi 374061, 374062, 374063, 374064. Tomei M. A., Liverani P. (2005), Carta archeologica di Roma. Primo quadrante, Lexicon topographicum urbis Romae. Supplementum. I, Edizioni Quasar, Roma. SESSIONE V LA RICOSTRUZIONE DEI PAESAGGI ATTRAVERSATI 219 L’organizzazione del territorio attraversato dalla via laurentina antica tra v e vii miglio: architettura, infrastrutture e paesaggi tra l’età arcaica e la tarda antichità Anna Buccellato Già Funzionario della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma E-mail: [email protected] Fulvio Coletti Parco Archeologico del Colosseo E-mail: [email protected] The development of the territory crossed by the ancient Laurentina way, between the V and the VII mile: architecture, infrastructure, landscape in the archaic age and late antiquity Parole chiave: Via Laurentina antica, Infrastrutture, morfologia vulcanica, Necropoli , opere di sistemazione idraulica Key words: Ancient Laurentina way, infrastructure, volcanic morphology, Necropolis, Hydraulic works RIASSUNTO Gli interventi dello stato romano già qualificati dalle opere di manutenzione e rifacimenti si concretizzano anche nelle dotazioni infrastrutturali. Tra il V e il VI miglio si addensano una serie di evidenze che restituiscono, tra il VI secolo a.C. e l’epoca tardo antica, la vitalità e il dinamismo di questo distretto suburbano sotto il profilo economico, strutturale e infrastrutturale. Fiancheggiano l’arteria una necropoli con fasi da età repubblicana ad imperiale, due edifici rustici inquadrabili tra il VI e il III secolo a.C. situato nel punto di confluenza tra la Laurentina un tracciato secondario che si diparte in direzione est, lungo l’originario percorso del fosso dell’Acqua Acetosa Ostiense ed, infine, un complesso architettonico di grandi dimensioni di circa m2 1380, in corrispondenza del tratto in cui si conserva il basolato. Tali edifici permettono, inoltre, di verificare periodo per periodo le tipologie insediative e le scelte funzionali, monitorando i cambiamenti di destinazioni e le trasformazioni del territorio a seconda delle epoche. Si passa, così, dalle semplici unità rurali di epoca tardo arcaica, che traggono la loro vitalità dallo sfruttamento agricolo delle campagne circostanti, ad una fattoria organizzata medio repubblicana coinvolta in specifiche attività, che immaginiamo esportasse nell’urbs il surplus prodotto, ad uno stabulum per l’offerta di servizi ai viaggiatori in transito verso la costa. Peculiare per la continuità di vita è il caso dell’edificio polifunzionale. Interessato da numerose fasi di vita e ristrutturazione dal II secolo a.C. alla fine del IV secolo d.C. con murature in opera quadrata, incerta e reticolata, questo edificio presenta un’articolazione planimetrica a corte collegata alla strada da un insieme di vani di servizio (verosimilmente alloggi e cucine); qualifica la corte un ambiente polifunzionale contraffortato con parte scoperta per il passaggio ed il parcheggio per veicoli, anche di scambio, e secondo piano ligneo con contabulatio per l’immagazzinamento delle derrate. Tali peculiarità, ripetute nelle diverse fasi con le caratteristiche fisse della presenza di un accesso ai carriaggi per trasporto delle merci, uscita sul lato opposto e disponibilità di stoccaggio, unite al collegamento con il tracciato viario, evidenziato da porticati nella fase più antica e da collegamenti strutturali nel periodo imperiale, suggeriscono il riconoscimento di una struttura commerciale di servizio ai viaggiatori. Infine, come tutte le vie consolari, la Laurentina era fiancheggiata da una necropoli dell’estensione di ca. m2 1000, comprendente oltre 250 tombe, in gran parte ad inumazione e in misura minore ad incinerazione a.C. la restituzione stratigrafica dei livelli di sepoltura e l’analisi dei corredi hanno permesso di individuare almeno tre fasi di fruizione funeraria, comprese tra la fine del IV- inizio del III sec. a.C., ed i primi due secoli dell’impero. La successione mostra un’ordinata distribuzione spaziale, sempre correlata ai livelli della Laurentina ed alle sue strutture di contenimento e costruzione: si passa dagli allineamenti lungo la strada del periodo medio repubblicano, alla dislocazione della II fase entro recinti che assolvono la duplice funzione di delimitazione di recinti o vani funerari e contenimento del terrapieno stradale, suggerendo un’ipotesi di progettazione organica fino alla fase più recente, tra la prima e la media età imperiale, rappresentata da una vasta occupazione di tombe dislocate su tutta l’area della necropoli. 1. INQUADRAMENTO STORICO TOPOGRAFICO Il paesaggio attraversato dall’antica Laurentina tra V e VII miglio offre un’interessante lettura del rapporto di interazione uomo ambiente nelle reciproche influenze tra fattori naturali e attività antropiche. Fattori determinanti nello sviluppo risultano le vie d’acqua preferenziali direttrici di comunicazioni ma anche componente di energia da gestire e le vie di terra che per scopi politici, commerciali e amministrativi strutturano le viabilità storiche (Fig. 1). Nella valle alluvionale dei fossi Ciuccio,Acqua Acetosa e Vallerano,nel settore interessante il V miglio, l’antica Laurentina ed il diverticolo che correndo a sud dell’originario percorso fosso dell’Acqua Acetosa conduce verosimilmente all’a- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 220 Figura 1. Planimetria del segmento della Laurentina tra V e VI miglio in Località Castellaccio. A. Via Laurentina; B. Edificio polifunzionale (locanda); C. Ponte sull’antico corso del Fosso dell’Acqua Acetosa; D. Antico corso del Fosso dell’Acqua Acetosa; E. Fattoria mediorepubblicana; F. Tracciato del diverticolo verso l’abitato della Laurentina Acqua Acetosa; G. Necropoli; H. Edificio rustico tardo arcaico (elaborazione di A. Buccellato – F. Coletti – E. Giannini) bitato omonimo determinano strategie di occupazione mentre il fosso è oggetto di opere di irreggimentazione e bonifica (Ascani et al. 2008, pp. 93-97; Buccellato, Coletti, De Loof, 2019 IN C.S.). Sulla dorsale del VII miglio, caratterizzata da litotipi tufacei e pozzolanici frutto dei depositi vulcanici, si impongono dall’età Repubblicana a quella Imperiale organismi funerari, nella zona di confluenza della viabilità di collegamento con l’Ostiense, mentre in merito al regime idrico si verifica l’attività opposta di captazione e conserva (Bozzano et al. 2017, pp. 2-7). il confine dell’Ager Romanus Antiquus, luogo della celebrazione dei Terminalia o Lustratio dei confini, annoverabile tra i culti e santuari che, posti in corrispondenza delle vie di accesso alla città, delimitavano il territorio urbano forse già dalla fine dell’VIII-inizi VII secolo a.C, le dinamiche occupazionali contemplano due edifici rustici ed una stazione di sosta in sequenza cronologica (rispettivamente Fig. 1 H, E, B), mentre la fruizione funeraria si declina in tre fasi di una necropoli dell’estensione di ca. m2 1000, comprendente oltre 250 tombe (Fig. 1 G) (in ordine alle problematiche relative al riconoscimento dei santuari 2. LA VALLE DEL BACINO relativi alla cintura dell’ager romanus anDEL VALLERANO E DEL tiquus e sui dubbi in merito alle interpreFOSSO DELL’ACQUA tazioni moderne, da ultimo si vedano in ACETOSA generale gli Atti del Convegno I confini A ridosso del VI miglio in una stretta di Roma, in Dubbini 2019, con particocorrelazione spaziale e funzionale con il lare riferimento a Fulminante 2019, p. fosso, concordemente identificato con 65 et passim; Bianco 2019 p. 114-115). Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Il primo nucleo di insediamento riferibile alla prima meta del VI secolo a si localizza lungo la sponda meridionale della Laurentina nella parte centrale della piana (Figg. 1 H, 2). L’edificio rustico esteso per ca. m2 240 si articola in 4 ambienti contigui disposti secondo un asse est-ovest con accesso sul lato meridionale e si sviluppa in 6 fasi, delle quali 2 delineano i momenti di vita e fruizione del complesso mentre sui livelli di abbandono e obliterazione, si imposterà un’appendice della limitrofa grande necropoli (Fig. 1 G). Conservate tutte a livello di fondazione, le strutture sono realizzate in opera pseudo-isodoma con spezzoni di tufo verde pisolitico rinforzati con zeppe, ricavate in un deposito sterile costituito da argilla color giallo ocra con presenza diffusa di ciottoli e ghiaia, che denuncia il carattere alluvionale del terreno. Sulla base di confronti tipologici è possibile ipotizzare un alzato realizzato con tecnica ‘a pisé’, mentre i battuti pavimentali si compongono di terra battuta mista a ghiaia, ciottoli e concrezioni argillose, presumibilmente in questa fase ricoperte con stuoie. Il muro perimetrale nord è realizzato con spezzoni di tufo alloggiati in un cavo poco profondo a mezza costa, nel declivio del terreno regolarizzato da una colmata il cui scavo ha restituito materiali frammentari in posizione rovesciata: due oinochai e una fuseruola in bucchero, una fuseruola in ceramica d’impasto bruno e due scodelle una in impasto chiaro sabbioso e rosso bruno. Per questo deposito appare verosimile l’interpretazione di atto piaculatorio o rito di chiusura, alludente alla conclusione di una realtà sacralizzata a cui sussegue un utilizzo abitativo e funzionale. Suggestiva è anche la riflessione sulla funzione del vasellame che rimanda per le oinochoai all’attività del simposio o al pasto sacro per una divinità femminile rappresentata dagli strumenti della filatura. In merito alle destinazioni funzionali, un dolio alloggiato nella pavimentazione di un ambiente (Fig. 2 A) consente di ipotizzare la destinazione di magazzino ove conservare i prodotti agricoli, in questo caso vino, ottenuti dallo sfruttamento del territorio vallivo circostante al complesso. Sempre legate ad attività lavorative, sono da interpretare le due fosse realizzate nei piani pavimentali e nel sottostante livello sterile, funzionale al contenimento di essa è possibile avanzare l’ipotesi di un utilizzo per il lavaggio della lana, o alla pigiatura dell’uva (Fig. 2 B-C). 221 Figura 2. Via Laurentina VI Miglio in località Castellaccio: Edificio rustico tardoarcaico: foto aerea. A. Magazzino con dolio; B-C. Vasche per l’attività della pigiatura dell’uva (Foto di E Giannini) Nella seconda metà del V secolo a.C. l’edificio viene ricostruito e potenziato da un nuovo complesso strutturale, che ingloba il precedente, impostandosi immediatamente al di sopra delle fondazioni rasate, mantenendo orientamento e articolazione: defunzionalizzando il dolio e le fosse di lavorazione l’area viene parzialmente colmata e rialzata con strati costipati di scaglie di tufo con funzione di vespai per mantenere i nuovi livelli pavimentali sopraelevati e drenati. Assise di lastre di tufo rosso vengono allettate direttamente sulle fondazioni precedenti, eccetto lungo il limite settentrionale dove si assiste a un avanzamento di 1 m del fronte dell’edificio, in considerazione della più marcata risalita della falda acquifera vista la naturale pendenza del terreno. Lungo il nuovo limite si addossa una massicciata di tufi rossi e verdi funzionale a un calpestio in ambiente semipalustre; se ne ricava una struttura con triplice funzione di rialzamento dei piani d’imposta di contenimento della falda e di delimitazione del nuovo edificio. A livello planimetrico si individua una grande cortile centrale fiancheggiato da più vani, con finalità sia abitative che produttive indicate dal ritrovamento di un numero cospicuo di pesi da telaio e da frammenti di dolio. Il passaggio al IV secolo registra lo spostamento occupazionale nella zona Figura 3. Via Laurentina VI Miglio in località Castellaccio: Fattoria di epoca mediorepubblicana. A. Via Laurentina; B. Diverticolo verso l’abitato della Laurentina Acqua Acetosa; C. Ambiente con torcularium (Foto di M. Letizia) all’incrocio con il diverticolo strutturato in questo periodo (Figg. 1 E-F, 3 A-B). Le motivazioni possono ravvisarsi nella scelta di un sito a quota più elevata, in cui si potessero evitare problemi di alluvioni e/o risalita di falda ed, inoltre, in un’area commercialmente più favorevole per il passaggio di merci e uomini per Roma e verso l’antico abitato della Laurentina Acqua Acetosa. Questa fattoria in un periodo di vita che copre il IV e il III secolo a.C. mostra in un’areale di circa m2 282, in disposizione paratattica, dodici ambienti di modesta estensione originariamente con pareti ‘a pisè’ e copertura in parte straminea e in parte a tegole; la seconda fase connotata dal generale innalzamento dei muri e dei piani pavimentali in argilla compattata con inclusi tufacei e diverticolo, vede una più complessa articolazione planimetrica con l’allargamento dell’edificio verso il diverticolo e la creazione di un vasto ambiente dotato di vasca in cocciopesto e condotta di scarico, riferibili ad un torcularium per vino (Fig. 3 C). L’abbandono si colloca nel II secolo a.C. e l’intera zona in epoca imperiale viene inglobata nella sede dell’ultimo rifacimento del diverticolo documentando un passaggio di proprietà da privata a pubblica nella generale alternanza che caratterizza il sito (Buccellato 2007, p. 3). Coeva alle fasi di vita della fattoria la necropoli (Figg. 1 G, 4) si sviluppa in area limitrofa al primo edificio e presenta indizi di fruizione non esclusivamente locale: i corredi in ceramiche fini da mensa, che denotano una certa ricercatezza, e l’attestazione di rituali sia con resti di pasto in sit u che attengono alle attività libatorie espletate al momento della sepoltura sia con riti successivi in occasione dei giorni destinati alla memoria collettiva del defunto, permettono di riferire la classe sociale fruitrice di questa necropoli ad un ceto medio alto forse di ambito urbano (Buccellato et al. 2011, pp. 41-55; Coletti 2012, pp. 313-314). Dal II secolo a.C. la sequenza insediativa registra un mutamento tipologico condizionato dalle specifiche topografiche e attrattive del sito, anche per lo stanziamento o utilizzo di una stazione stradale (Figg. 1 B, 5): vicinanza alla necropoli e al luogo di uno dei santuari liminari del VI miglio presenza del fosso (Fig. 1 D), come fonte di approvvigionamento idrico, e infine la prossimità ad un ponte (Fig. 1 C), funzionale per il fattore generante di richiesta di alloggio e ristoro in occasione sia di viaggi sia di lavori di manutenzione stradale (Buccellato 2007, pp. 1-2). Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 222 Figura 4. Via Laurentina VI Miglio in località Castellaccio: Necropoli. Planimetria complessiva delle sepolture divise secondo i tre principali periodi di fruizione (elaborazione di A. Buccellato – F. Coletti) L’impianto realizzato con murature in opera quadrata cronologicamente riferibile al metà del II secolo a.C. rivela la connotazione commerciale nella presenza di un cortile pilastrato (Fig. 5 A), verosimilmente utilizzato come stalla collegato alla strada da un porticato e pavimentato con piccoli scapoli di tufo verde. Nel secolo successivo si aggiungono altri vani verosimilmente deputati alle attività commerciali con magazzini per derrate (Fig. 5 F, G), alloggi (Fig. 5 D-E) e una cucina (Fig. 5 B), mentre nell‘epoca imperiale più fasi di ristrutturazione con varie tecniche dall’opera reticolata all’utilizzo di materiali di reimpiego e rialzamenti dei piani di calpestio in calce, sempre in collegamento con i lavori stradali conducono al massimo sviluppo planimetrico fino a raggiungere un areale di m2 1380. Esemplificativo della floridezza delle attività di immagazzinamento e smercio è rappresentato dalla trasformazione del cortile in un vasto ambiente polifunzionale contraffortato con parte scoperta per il passaggio ed il parcheggio dei veicoli (mediante un vano basolato, Fig. 5 C), anche di scambio, e secondo piano ligneo con contabulatio per le derrate. La mancanza del settore termale suggerisce l’interpretazione di una locanda con possibilità di pernottamento e stallaggio, mentre le caratteristiche della presenza di cortile per i veicoli, anticamera al piano terreno affacciata sulla strada e fiancheggiata da stanze per ristorazione e alloggio rendono l’edificio assimilabile ad uno stabulum. Per quanto riguarda l’aspetto gestionale, nella difficoltà acclarata di distinguere tra privato e pubblico, si può avanzare l’interpretazione di un esercizio commerciale funzionale alla ricezione utilizzato episodicamente per finalità pubbliche fino all’abbandono riferibile al primo quarto del IV secolo d.C. e successiva de - funzionalizzazione con riconversione funeraria tra la fine del IV e gli inizi del V secolo d.C. In ordine agli aspetti socio economici e cultuali, nella fase tardo antica si segnalano significativi materiali correlati alle fasi finali dell’edificio connotandone la vitalità economica fino all’abbandono. Un vano di accesso ha restituito un gruppo di reperti pertinenti alla sfera rituale domestica di una cucina contestualizzando un tabernacolo dedicato al culto dei Lari (statuina di Lare danzante, tre lucerne integre, un tegame in ceramica di produzione africana ed una patera in bronzo, due cunei pertinenti ad asce in ferro e un calzare in cuoio). Nel vano attiguo il recupero di un ripostiglio monetale costituito da 60 folles di epoca tetrarchica in buono stato di conservazione, associato a due pendenti in pasta vitrea di particolare interesse per la fattura e l’iconografia dei soggetti incisi, entrambi raffiguranti scene desunte dal mito di Ercole e un chiodo di bronzo interpretabile come apotropaico per la mancanza di utilizzo e la presenza di segni misteriosi, documenta l’improvviso abbandono per un evento traumatico a noi sconosciuto, nel periodo costantiniano di contrazione economica delle attività produttive del suburbio (Tali reperti dovevano essere contenuti entro una casa lignea ben rifinita, tracce della quale sotto forma di frammenti di legno mineralizzato sono stati recuperati sulle monete, in associazione a quattro borchie lavorate ed una maniglia in metallo zincati, di accurata fattura) (Buccellato, Coletti 2013, pp. 67-71; Buccellato et al. 2018, pp. 129-132) Coeva alle importanti fasi edilizie della struttura di accoglienza la vitalità del sito è documentata dalla necropoli. Nella fase tardo repubblicana assume carattere di monumentalizzazione e presenta le deposizioni entro recinti che assolvono la duplice funzione di delimitazione di recinti o vani funerari e contenimento del terrapieno stradale, suggerendo un’ipotesi di progettazione organica che attiene al rapporto politico-commerciale tra pubblico e privato. Figura 5. Via Laurentina V Miglio in località Castellaccio: Edificio polifunzionale (locanda), foto aerea. A. Ambiente per il ricovero degli animali e contabulatio; B. Cucina; C. Accesso basolato; D-E. Probabili alloggi, F-G. Magazzini per le derrate (Foto di M. Letizia) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 223 Nell’ordinata distribuzione spaziale, di epoca imperiale, invece, sempre correlata ai livelli della Laurentina ed alle sue strutture di contenimento e sostruzione, si registrano gli indizi di una presenza cosmopolita sulla base del tipo di rituale attestato ed indicatori antropologici, quali la variabilità morfometrica e la mancanza di un profilo demografico di una comunità naturale 3. L’OCCUPAZIONE DELL’ALTURA NELLA TENUTA DI MOSTACCIANO: ORGANISMI FUNERARI E INFRASTRUTTURE IDRICHE Sulla dorsale tufacea che si erge ad ovest del bacino del fosso del Vallerano, in ragione della posizione strategica per i collegamenti, prossima al passaggio del primario asse Ostiense-Ardeatina-Appia e la morfologia stretta e allungata, prevale l’utilizzo funerario che sottolinea il passaggio di un asse sussidiario della antica Laurentina e gli incroci di due percorsi che si dipartono dalla principale con funzioni di collegamento verso l’ostiense (Fig. 6) (per l’inquadramento del paesaggio solcato dalla Laurentina al VII miglio si veda Buccellato 2005, pp. 215-217). Condotti in epoca tardo-arcaica con larghezza di ca m 2 o 3 all’interno di invasi sul substrato vergine di profondità diverse correlate alla variabile dei dislivelli da superare, i tracciati viari minori sono riconoscibili dalle coppie di solchi carrai a interasse m 1,30 che denotano intensità di traffico e risultano utilizzati fino alla piena epoca imperiale con ripristini di selciati in scaglie di leucitite: il primo, definito strada 2 (Fig. 7), al fine di superare i problemi di acclività, sale con andamento sinuoso sul declivio e corrisponde all’antico tracciato ricalcato dall’attuale via Decima. Il secondo s‘innesta con ampio scasso nella tagliata della Laurentina (Fig. 8), fornendo un dato cronologico di conferma dell’inquadramento in periodo repubblicano dell‘impegnativa opera di regolarizzazione della sella in cui viene strutturato il percorso dell’arteria. Nei pressi de gli incroci e sull‘invaso della strada 2, in età medio-repubblicana, si localizzano le quattro tombe a camera che stigmatizzano lo stato sociale e le sfere d’influenza dei ricchi signori della terra, proprietari dei fundi nell’ambito dei quali si installa il monumento: nel settore sud del suburbio, la distribuzione di tali sepolture, appartenenti a gruppi gentili- Figura 6. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: viabilità basolata, foto aerea 8Foto di MK. Letizia) zi, isolate o disposte a piccoli gruppi in prossimità di assi viari o al loro incrocio, delinea un modello di divisione del territorio secondo precise sfere d’influenza e su criteri di tipo catastale (Bedini 1997, pp. 180-184). In merito alla struttura, invece, mentre due si dispongono su più ambienti con una spazialità più articolata (Fig. 9) altre due a pianta rettangolare con unica banchina con la presenza di caratteri architettonici ricorrenti quali la ridotta dimensione delle camere, una certa rozzezza nella fattura che le rende simili a piccole grotte, il corridoio di accesso a scivolo e la chiusura con scaglioni o lastre di tufo, confermano l’ipotesi dell’esistenza di una tradizione locale in questo comparto territoriale. In merito alle infrastrutture idriche, la cui presenza e riconoscibile come costante topografica in associazione alle se- Figura 7. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: viabilità secondaria (Strada 2) identificata con il tracciato ricalcato dalla via di Decima (Foto di F. Coletti) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 224 Figura 8. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: diverticolo principale tagliato nel substrato piroclastico (Foto di M. Letizia) Figura 9. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: Tomba a camera a due vani con dromos e scalinata di accesso, datata alla fine IV secolo a.C. (Foto. F. Coletti) Figura 10. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: Cisterna con pozzo centrale scavata nel suolo originario piroclastico (Foto di M. Letizia) polture, l’ambiente deposizionale brullo, determina la necessita di captare l’acqua nel sottosuolo con pozzi e conservarla in cisterne. Dal punto di vista funzionale, esse arricchiscono le dotazioni delle proprietà fondiarie, rendendo il luogo attrattivo per le soste ma si confermano anche una necessità per la celebrazione dei riti sia di sepoltura (silicernium) che celebrare le ricorrenze nell’imperituro rapporto vivi-morti (parentalia) (Coletti, Buccellato 2015, pp. 585-588). Contemporanei alle camere funerarie e defunzionalizzati dall‘opera di monumentalizzazione della gola in epoca tiberiana, lungo il versante della strada 2 sono ricavati nel substrato tufaceo tre pozzi di cui uno all’interno di una vasca rettangolare funzionale alla raccolta di raccolta delle acque di corrivazione ed alla stazionamento (Fig. 10). La ricca rete idrica è completata da un quarto Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 pozzo a sud del secondo diverticolo e un ultimo manufatto sulle pendici orientali dell‘invaso dell‘arteria ancora riferibile al periodo medio-repubblicano. Un’ampia cisterna a corridoio costituita da più camere comunicanti con un’altezza originaria di oltre m. 1,80 e un’estensione ricostruibile ca 150 mq si apre sull’imponente parete della Laurentina (Fig. 11) che attraversa i sedimenti geologici: è difficile ricostruirne la morfologia originaria a causa degli interventi successivi che hanno compromesso la conservazione degli elementi strutturali componenti il sistema, quali il condotto di adduzione soprastante. Presso l’innesto del secondo diverticolo, infine, una funzione di bacino d acqua si può attribuire ad una fossa estesa per m2 150 e profonda ca. 1 m creata sicuramente in epoca anteriore alla riconversione funeraria del I secolo d.C. Si può quindi evidenziare come questo articolato sistema idrico rifletta la facies di utilizzo del territorio precedente all’impianto della consolare di epoca primo imperiale: il potenziamento della strada per adeguarla ad un più intenso traffico da e per l’urbs rispetto al periodo precedente, de funzionalizza tali apprestamenti idrici (al pari delle stesse tombe a camera già in disuso) registrando il mutamento del regime della distribuzione territoriale. Nella tarda repubblica si segnala l’assenza di sepolture riferibili agli insediamenti locali già riscontrata in questo distretto e ricondotta agli eventi storici che causano il fenomeno dell’inurbamento dei proprietari e dei loro contadini (Bedini 1997, pp. 180-181) L’utilizzo funerario del sito riprende nei primi due secoli dell’impero con più organismi funerari di sepolture a inumazioni in fossa: il primo scandisce il passaggio della strada 2, mentre il secondo l’innesto del secondo diverticolo nella laurentina rispettivamente all’interno ed all’esterno del bacino esteso più a valle sopra un terrazzamento della parte occidentale della tagliata, il terzo gruppo si presenta più ricco per numero di deposizioni e corredi con una serrata successione di più di 60 inumazioni che hanno restituito brocche e/o bottiglie in ceramica comune da mensa, lucerne e unguentari in vetro (Fig. 12). Si può concludere, pertanto, come in questi organismi funerari comuni a partire dalla seconda metà del I secolo d.C. la distribuzione delle sepolture e le modalità dei seppellimenti che rinviano alla sfera delle ritualità e delle norme funerarie condivise, siano il riverbero di quel macro fenomeno dei mutamenti sociali 225 Figura 11. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: Cisterna a corridoi di epoca mediorepubblicana riutilizzata come sepoltura nel periodo tardoantico (Foto di F. Coletti) Figura 12. Via Laurentina VII Miglio presso la tenuta di Mostacciano: area necropolare con sepolture di tardo I-II secolo d.C. (Foto di M. Letizia) e dei centri economici. Se, infatti, l’utilizzo del territorio suburbano non appaia più appannaggio dei signori della terra, un tempo seppelliti nelle ricche tombe a camera che insieme agli indicatori di produzione (spesso cave per l’estrazione dei materiali) ne stigmatizzavano il potere nella sfera di proprietà del fundus familiare, la documentazione attesta ora la massiccia presenza di gruppi del ceto medio basso che, con statuto di lavoratori liberi, sono impegnati nel lavoro dei campi. I nuclei di sepolture, altresì, possono identificare gruppi appartenenti ad una struttura unica, forse uno sconosciuto vicus non intercettato dagli scavi, i cui fruitori si può immaginare siano gli stessi che occupavano i due nuclei necropolari, lavoratori dei campi nell’ambito dello sterminato latifondo imperiale che ingloba il territorio suburbano dal II secolo in poi. Inoltre, nelle ultime fasi di vita del sito, in epoca tardoantica, si segnalano l’utilizzo della cisterna a corridoio (Fig. 11) come luogo per semplice sepolture ad inumazione mentre, nei livelli soprastanti le massicciate di servizio che fiancheggiano la Laurentina, la costruzione di un’edicola come segnale di proprietà nei pressi della grande area funeraria in cui, invece, al di sopra degli strati di abbandono s’imposta una percorrenza in acciottolato che dimostra il carattere di crocevia del distretto. BIBLIOGRAFIA Ascani F., Bozzano F., Buccellato A., Del Monte M., Matteucci R., Vergari F. (2008), Evoluzione del paesaggio e antiche vie di drenaggio nell’area de “Il Ca- stellaccio” (Roma) da indagini geologiche, geomorfologiche e archeologiche, in Geologica Romana, 41, Roma, pp. 93-116. Bedini A. (1997), Modi di insediamento e bonifica agraria nel suburbio di Roma, in Atti dell’Incontro di studio sul tema “Uomo Acqua e Paesaggio. 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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 226 Le vie dei Pellegrini in Italia Roberto Ranciaro E-mail: [email protected] The pilgrim routes in Italy Parole chiave: culto dei santi e pellegrinaggio, distribuzione geografica, costa adriatica, turismo lento Key words: cult of saints and pilgrimage, geographical distribution, adriatic coast, slow tourism 1.1. INTRODUZIONE Negli ultimi anni, con l’affermarsi del “turismo lento”, che predilige i viaggi a piedi ed in bicicletta, è sorta l’esigenza di individuare percorsi che oltre ad essere attrattivi per il valore paesaggistico, siano interessanti anche da un punto di vista storico e artistico. Chiaramente, grazie ai Giubilei del 2000, del 2016, e al futuro Giubileo del 2025, l’attenzione è stata rivolta alle vie romee e jacopee che erano utilizzate nel Medioevo per recarsi in pellegrinaggio a Roma e a Santiago di Compostela. Va ricordato che ad oggi gli storici riconoscono in Italia “il titolo” di via romea solo alla Via Francigena ed alla Via Romea Germanica perché descritte nei resoconti di viaggio dei pellegrini medievali, giunti fino ai giorni nostri; non si hanno notizie certe dell’esistenza di vie jacopee. Lo sforzo fatto negli ultimi vent’anni per trovare nuovi percorsi attraverso l’esame dei testi antichi ha dato scarsi risultati. La ricerca presentata in quest’articolo è stata condotta tentando un approccio diverso, basato sullo studio del territorio. In particolare è stata analizzata la distribuzione dei siti, principalmente chiese, dedicati a santi strettamente legati al mondo dei pellegrinaggi. I risultati sono stati sorprendenti perché si sono potuti riconoscere chiaramente diversi allineamenti alcuni dei quali coincidono quasi perfettamente con i tracciati delle antiche strade romane e per questo motivo si ritiene costituiscano dei percorsi. Le informazioni acquisite attraverso la ricerca sono tali da far ritenere che per quanto concerne la viabilità medievale ci sia ancora molto da indagare. 1.2. IL METODO D’INDAGINE L’indagine è stata finalizzata ad accertare l’area di maggior diffusione del culto dei santi strettamente legati al mondo dei pellegrinaggi. In particolare sono stati individuati i luoghi esistenti dedicati a San Cristoforo, a San Giacomo e a San Giuliano l’ospitalie- re, patroni dei viandanti, a San Nicola protettore oltre che dei viandanti anche dei navigatori, a San Martino patrono dei forestieri e dei mendicanti, e a San Pellegrino. In un secondo momento la ricerca è stata allargata ai santi patroni delle principali città della costa adriatica perché, sulla base di alcuni indizi, si è ritenuto abbiano avuto un ruolo fondamentale nella storia dei pellegrinaggi; infatti sicuramente non è casuale che la Santa Casa di Maria sia giunta a Loreto, che il protettore di Macerata sia San Giuliano l’ospitaliere, che San Pellegrino sia il patrono di Pescara ed il compatrono di Ancona, e che San Nicola, oltre ad essere il protettore di Bari, sia particolarmente venerato a Venezia. L’indagine ha interessato l’intero territorio italiano, la Corsica e la costa occidentale della penisola balcanica. Prima di illustrarne i risultati è bene soffermarsi brevemente sulle caratteristiche salienti dei santi presi in considerazione (AA.VV., 1960-1970). Nel Medioevo veniva chiesta la sua protezione dai pellegrini che si apprestavano ad intraprendere percorsi difficili e pericolosi, oggi è divenuto il protettore degli automobilisti che lo invocano contro gli incidenti stradali. San Cristoforo di Licia - Vari indizi fanno ritenere che fu martire in Licia nel 250, durante la persecuzione dell’imperatore Decio. È stato uno dei santi più venerati del Medioevo; il culto si diffuse in Europa a partire dal VI secolo. In Italia, tra le chiese più antiche sono da segnalare quelle di Taormina, attestata nel 598 (Mozzoni & Paraventi, 2000, p. 53), e di San Cristoforo ad Aquilam, nei pressi di Pesaro, in località Colombarone, risalente alla stessa epoca (Tassinari et al., 2008). Probabilmente a causa del nome viene rappresentato spesso come un gigante che attraversa un fiume portando sulle spalle il Cristo. Con la diffusione del culto, immagini di dimensioni sempre più gigantesche presero a campeggiare sulle facciate di chiese e porte cittadine in tutta Europa; la più grande raffigurazione conosciuta, alta oltre 10 m, è stata affrescata nel XIV secolo su una parete della Collegiata di Santa Maria a Visso dove è ancora presente (Mozzoni & Paraventi, 2000, p. 57). San Pellegrino - Trattasi di santo che pone seri problemi per quanto riguarda la sua identificazione. In Italia la figura più conosciuta è quella del principe scozzese (o irlandese) che dopo aver rinunciato al trono ed essersi recato in pellegrinaggio a Gerusalemme, visse come eremita nell’Appennino tosco-emiliano, tra le provincie di Lucca e Modena, compiendo molti prodigi. Esiste, però, anche un San Pellegrino, vescovo di Terni, a cui è dedicato l’importante ciclo di affreschi nella chiesa di San Pellegrino a Bominaco in Abruzzo. Non sono da dimenticare, inoltre, i santi con questo nome venerati ad Ancona, a Rimini e a Pescara. È assai probabile che tutte queste figure siano da ricondurre a San Pellegrino vescovo di Auxerre nel III secolo, il cui culto si affermò in Italia nel IX secolo (AA.VV., 2016). Tali devozioni quasi leggendarie non vanno confuse con quella ben conosciuta di San Pellegrino Laziosi, compatrono di Forlì, vissuto tra il 1265 ed il 1345. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 San Giacomo il Maggiore - È uno degli apostoli di Gesù insieme al fratello Giovanni l’Evangelista; non va confuso con l’altro apostolo Giacomo, il figlio di Alfeo, detto il Minore, e con altre devozioni marchigiane ed umbre. Il culto si propagò in modo “esplosivo” dalla Spagna dopo la scoperta del sepolcro, avvenuta all’incirca nell’anno 813, a Compostela, in Galizia. La popolarità è dovuta soprattutto al fatto che nella Spagna occupata dagli arabi e in un’Europa minacciata da tali invasori, San Giacomo si trasformò in una sorta di difensore della fede cristiana e la sua tomba fu meta di grandi pellegrinaggi; tale pratica, che ebbe un impulso notevole all’inizio del XII secolo, contribuì a far divenire l’apostolo il patrono dei pellegrini. 227 San Nicola di Bari - Un enorme diffusione in Italia e nel mondo ebbe il culto di San Nicola, vescovo di Myra nel corso del IV secolo, dopo che le sue reliquie da Myra, nell’attuale Turchia, giunsero a Bari nel 1087; da allora il santo fu venerato come patrono della città che divenne meta di pellegrinaggi soprattutto da parte dei cristiani di fede ortodossa. È importante ricordare che le reliquie baresi comprendono i frammenti di maggiori dimensioni; il resto fu prelevato dai veneziani e deposto nel 1100 nella chiesa di San Nicolò al Lido. Per questo motivo anche Venezia è particolarmente devota al santo e ne diffuse il culto sui suoi possedimenti. San Martino di Tours – Nasce in Ungheria nel 316, trascorre l’infanzia a Pavia e una volta intrapresa la carriera militare viene inviato in Francia; congedatosi dall’esercito a circa quarant’anni si fa monaco e nel 371 diviene vescovo di Tours. Morirà nei pressi della città francese ad oltre ottanta anni di età. Il culto è assai popolare e si diffonde dalla Francia probabilmente a partire dalla seconda metà del secolo XIII. San Giuliano l’ospitaliere – Secondo la tradizione Giuliano nasce ad Ath, in Belgio, nel 631. Divenuto un nobile cavaliere, a causa del temperamento violento e di un tragico malinteso, uccide i genitori; per espiare la colpa inizia una lunga peregrinazione che termina sul fiume Potenza dove per tutta la vita traghetta i pellegrini offrendo loro assistenza. Il culto non è molto comune e si confonde con altri santi omonimi (San Giuliano di Brioude, San Giuliano di Le Mans, San Giuliano di Sora e San Giuliano di Rimini). Significativo è il fatto che muoia sulle rive del Potenza e che sia patrono di Macerata. Sant’Apollinare - È il patrono di Ravenna, città di cui fu il primo vescovo, dove si ritiene che morì martire intorno alla metà del II secolo. Il culto ebbe una vasta diffusione fin dall’alto Medioevo sia nei territori bizantini che in quelli longobardi; al suo affermarsi contribuirono anche i monasteri benedettini, camaldolesi e avellaniti. Nell’area indagata compaiono spesso siti dedicati a San Cristoforo vicino ad altri consacrati a Sant’Apollinare e nella chiesa di Casteldimezzo (Comune di Pesaro) i due santi sono associati. San Paterniano - È il patrono di Fano, città di cui fu vescovo, e visse, probabil- mente, nella prima metà del IV secolo. Il culto è ben presente non solo nelle Marche, ma anche in Romagna, nel Veneto, in Toscana, in Umbria ed in Dalmazia. Nell’area indagata compaiono spesso siti dedicati a San Cristoforo o a Sant’Apollinare vicino ad altri consacrati a San Paterniano, mentre nella chiesa di Monterado (Comune di Trecastelli) il vescovo fanese è associato a San Giacomo. San Ciriaco, la Santa Croce e Santo Stefano - Stranamente, a differenza dei patroni di Ravenna e Fano, nelle Marche non si hanno notizie di una devozione a San Ciriaco, il patrono di Ancona le cui reliquie giunsero nel capoluogo marchigiano nel 418; ciò è sorprendente anche perché Ancona è stata un’antica città greco-romana, la quinta repubblica marinara e il porto più importante dell’Adriatico nel Medioevo dopo Venezia, ma prima di giungere a conclusioni affrettate è bene esaminare attentamente la figura di San Ciriaco. Secondo un testo agiografico è grazie al rabbino ebreo Giuda che l’imperatrice Elena, divenuta poi Sant’Elena, riesce a trovare il luogo in cui era stata sepolta la croce di Gesù. Successivamente, di fronte al miracolo che permette di distinguere la croce santa dalle croci dei due ladroni, il rabbino ebreo si converte assumendo il nome di Ciriaco e divenendo di li a poco vescovo di Gerusalemme. Tale testo venne sconfessato da papa Gelasio verso la fine del secolo V con un decreto che ne dichiarò l’inattendibilità (Santarelli, 2007, p. 165). Probabilmente la vicenda di San Ciriaco va inquadrata all’interno dei pessimi rapporti esistenti tra il papato e gli imperatori bizantini che avevano la pretesa di sostituirsi all’autorità pontificia riunendo nella loro figura sia il potere temporale che quello spirituale. Chiaramente un atteggiamento del genere, tipico dei precedenti imperatori romani, non poteva essere accettato dal Santo Padre. Quindi non è da escludere che la vicinanza del patrono di Ancona all’imperatrice Elena, la madre di Costantino, e, di conseguenza, agli imperatori bizantini, fosse ritenuta sospetta e preoccupante dal papa così tanto da indurlo all’emissione del decreto citato. Nonostante tale provvedimento, che sicuramente impedì la diffusione del culto di San Ciriaco, Ancona è stata sempre molto legata al proprio patrono; una tradizione locale vuole che Ciriaco sia stato anche vescovo della città. Rimane ora da capire se “gli anconetani” non abbiano trovato il modo di superare questa difficoltà. In particolare si può ipotizzare che da Ancona si siano diffusi altri culti, anche in considerazione del fatto che nella vicenda di San Ciriaco si individuano diverse figure sante come Sant’Elena, ma soprattutto la Santa Croce e Santo Stefano; quest’ultimo, oltre ad essere oggetto di una grande venerazione ad Ancona, sarebbe, sulla base di una leggenda cittadina, fratello di San Ciriaco (Mangani, 2016, pp. 1720; Santarelli, 2007, p. 166). Non è da escludere che pure la devozione di San Quirico, vista la somiglianza nel nome, si sia propagata dal capoluogo come sembra trasparire da alcune località marchigiane (Serra San Quirico, Lapedona e Altidona) e istriane (Visignano, l’attuale Visnjan) (Kudis Buric, 2008, p. 233). San Tommaso - Le reliquie dell’apostolo incredulo sono conservate nella basilica omonima ad Ortona, dove è venerato come patrono, e vi giunsero nel 1258 dopo essere state trafugate dall’isola greca di Chios. Da allora Ortona divenne meta di pellegrinaggi ed il culto del santo apostolo si diffuse per tutto l’Abruzzo. San Timoteo - Va segnalata anche Termoli che venera come patrono San Timoteo e ne conserva le reliquie dal 1239; trattasi di figura eccellente perché fu uno dei discepoli di San Paolo e destinatario di due lettere (Prima Lettera a Timoteo e Seconda Lettera a Timoteo) inserite nel Nuovo Testamento tradizionalmente attribuite all’ “Apostolo dei Gentili”. Ciò nonostante sia i molisani che gli abruzzesi non si sono mai dimostrati particolarmente devoti a San Timoteo perché il culto è rimasto relegato a Termoli. San Michele Arcangelo – In questa ricerca non si può non tenere conto del fatto che sul Gargano, in Puglia, è presente il più importante santuario al mondo dedicato a San Michele, dove l’Arcangelo apparve per ben tre volte alla fine del secolo V ed un’ultima volta nel 1656. Dalle prime apparizioni il culto si propagò rapidamente in Italia ed in Europa. 1.3. ANALISI DEI RISULTATI Nelle Figg. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9 sono riportati i risultati di quest’indagine dai quali scaturiscono le osservazioni di seguito illustrate. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 228 1. i siti esistenti dedicati a San Cristoforo sono più diffusi lungo la fascia che unisce la Romagna all’Umbria interessando la parte orientale della Toscana e le provincie di Pesaro, Ancona e Macerata nelle Marche; al suo interno si riconoscono vari allineamenti. Nel resto del territorio italiano il culto di San Cristoforo si individua principalmente nell’Appennino tosco-ligure-emiliano tra le provincie di Piacenza e La Spezia, nei dintorni di Bologna, in Piemonte lungo la valle del Tanaro, nei dintorni di Milano e nel Triveneto tra Trento ed il vicentino, ma senza raggiungere la concentrazione riscontrata nella fascia tra la Romagna, le Marche e l’Umbria. Al di là dell’Adriatico tale culto compare nei territori istriani, tra Trieste e Zara, nell’Albania sudorientale ed in Grecia. 2. assai diversa appare la distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Giacomo che sono presenti su tutto il territorio nazionale, ma soprattutto nel nord dell’Italia; è curioso il fatto che tra le Marche settentrionali e la Toscana meridionale si nota una striscia in cui i siti dedicati al santo quasi si azzerano. Rilevante è anche la sua presenza lungo la costa tra Trieste e Spalato mentre tende a scomparire più a sud. 3. poco significativo è il dato riguardante San Pellegrino poiché il culto è scarsamente diffuso. Si segnalano solo due zone in cui è stata trovata una particolare devozione: la Garfagnana in Toscana e le provincie di Reggio Emilia e Modena; in queste 4. 5. 6. 7. 8. ultime è stato notato un allineamento niano; la maggiore concentrazione ben evidente lungo circa 70 km che di siti esistenti dedicati a San Paterda Ponte San Pellegrino, nei pressi di niano si rileva lungo la stessa fascia Mirandola, giunge sino a Ceredolo tra la Romagna, le Marche e l’Umdei Coppi, a sud di Reggio Emilia. bria orientale. Nel resto dell’Italia il il culto di San Nicola è diffuso in tutculto è quasi assente. ta l’Italia, ma a differenza di quello 9. i culti della Santa Croce e di Santo di San Giacomo, principalmente al Stefano, poiché ritenuti sostitutivi sud, compresi i settori meridionali di quello di San Ciriaco per i motivi delle Marche e dell’Umbria. Molto precedentemente esposti, verranno numerosi sono i siti lungo la costa associati. Tali culti si rinvengono su occidentale della penisola balcanica. tutto il territorio italiano, tuttavia si la distribuzione dei siti esistenti riconoscono delle zone in cui si rilededicati a San Martino è simile a va una maggiore concentrazione che quella di San Giacomo con una netsono: ta prevalenza nel nord dell’Italia; in • la fascia alpina e prealpina tra il quest’area rappresenta il culto più Piemonte e la Lombardia, diffuso tra i vari presi in considera• l’area tra Firenze, Pisa e Genova, zione. Nel sud dell’Italia si rileva una • l’area umbro-marchigiana, particolare concentrazione solamen• la parte settentrionale della Sarte in Campania, tra le provincie di degna, Salerno e Caserta. Il culto è ben at• la fascia tra Salerno e Caserta; testato anche sulla costa occidentale al di là dell’Adriatico tale culto è piutdella penisola balcanica, tra Trieste e tosto comune tranne che in Albania e Dubrovnik, ma scompare più a sud. nella Grecia nord-occidentale. come quello di San Pellegrino anche 10. per quanto riguarda San Michele il culto di San Giuliano l’ospitaliere il dato più evidente è la mancanè poco significativo data la sua scarza di un centro di irradiazione che sa diffusione; si notano comunque dovrebbe essere rappresentato dal degli allineamenti interessanti tra le santuario del Gargano, ma di fatto Marche ed il Lazio e tra la Lombarnon è così. Nell’area studiata il culto dia e il Piemonte. si concentra maggiormente tra Sai siti esistenti dedicati a Sant’Apollilerno, Benevento, Caserta e Napoli nare hanno una distribuzione simile a ed è presente soprattutto sulle cime quella già vista per San Cristoforo. La dei monti e dei colli (Montesarchio, maggior parte ricadono nella fascia ciRoccavivara ecc.) e nei pressi di grottata dove si distinguono chiaramente te (Grottaminarda ecc.); si notano vari allineamenti; al di fuori di questa alcuni allineamenti, ma la mancanza il culto è presente in modo sporadico. di un centro di irradiazione fa ritenele osservazioni fatte per Sant’Apolre che siano il frutto della casualità e linare valgono anche per San Paternon di una progettazione. Figura 1. Distribuzione sul territorio italiano e sulla costa occidentale della penisola balcanica dei siti esistenti dedicati a San Cristoforo (da Google Earth, modificata) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Figura 2. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Giacomo il Maggiore, come in Fig. 1 229 Figura 3. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Pellegrino Figura 4. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Nicola di Bari Figura 5. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Martino Figura 6. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a San Giuliano l’ospitaliere Figura 7. Distribuzione dei siti esistenti dedicati a Sant’Apollinare (in bianco) e a San Paterniano (in rosso) Figura 8. Distribuzione dei siti esistenti dedicati alla Santa Croce (in bianco) e a Santo Stefano (in celeste) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 230 Figura 9. Distribuzione nelle regioni circostanti il promontorio del Gargano dei siti esistenti dedicati a San Michele (da Google Earth, modificata) 1.4. ALCUNE CONSIDERAZIONI L’analisi della distribuzione dei siti individuati mostra chiaramente l’esistenza di allineamenti che si ipotizza rappresentino dei percorsi. Si è potuto constatare che tali allineamenti divengono più visibili se si associano in modo opportuno due o più culti, come già si è visto per la Santa Croce e Santo Stefano. In particolare, all’interno dell’area indagata, tenendo conto dei luoghi di origine dei vari culti, dell’epoca in cui sono comparsi e della loro distribuzione sul territorio, si ritiene di poter fare le seguenti associazioni: 1. Sant’Apollinare-San PaternianoSan Cristoforo, 2. Santa Croce-Santo Stefano-San Pellegrino, (San Giacomo), 3. San Nicola, 4. San Giacomo, 5. San Martino. Sant’Apollinare, San Paterniano e San Cristoforo rappresentano i culti più antichi e hanno una distribuzione molto simile perché si sono diffusi su un’area limitata, per lungo tempo sotto la protezione dell’impero bizantino: la Romagna, la Pentapoli nel nord delle Marche e il cosiddetto “Corridoio Bizantino” in Umbria; a conferma di ciò è stato notato uno stretto rapporto con la via Flaminia (e le sue derivazioni), l’importante arteria stradale che durante il periodo longobardo collegava Ravenna a Roma. La presenza di queste devozioni al di fuori dei territori bizantini è sporadica e da riferire, molto probabilmente, ad un’epoca posteriore. I culti della Santa Croce, di Santo Stefano e di San Pellegrino sono successivi, diffusi sull’intero territorio nazionale e legati ad Ancona per i motivi precedentemente esposti; è bene ricordare che anche San Pellegrino può considerarsi un santo anconetano perché figura tra i compatroni della città (Santarelli, 2007, pp. 177-184) e nel capoluogo marchigiano si trova la chiesa di San Pellegrino agli Scalzi. Per quanto riguarda San Giacomo, trattandosi di un culto più recente e molto più diffuso nel nord dell’Italia, si può ipotizzare che al centro e al sud sia stato utilizzato in una fase successiva, a supporto dei culti più antichi, soprattutto quelli “anconetani”. San Nicola è un culto presente in tutta l’Italia, ma soprattutto al sud dove dà origine ad allineamenti ben evidenti (Calabria, Sicilia, Puglia e Molise) senza essere associato ad altre devozioni. Il culto di San Giacomo proviene dalla Spagna e si diffonde principalmente nell’Italia settentrionale dove forma allineamenti senza essere associato ad altre devozioni. San Martino è il culto più recente tra quelli indicati, presente in tutta l’Italia, ma soprattutto al nord dove si individuano vari allineamenti; la grande diffusione in quest’area è da attribuire ad un aumento della popolazione che sicuramente ha interessato l’intero territorio nazionale. 1.5. CONCLUSIONI Si ritiene che gli allineamenti individuati attraverso l’indagine siano percorsi, in particolare vie romee o jacopee, perché: Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 1. sono organizzati, con soste che raramente si collocano ad una distanza maggiore di 18 km l’una dall’altra (distanza misurata in linea retta); 2. alcuni di questi coincidono perfettamente con le antiche strade romane. I percorsi nacquero, dunque, con lo scopo di aiutare i viandanti che non conoscevano i territori da attraversare e la lingua degli abitanti, a raggiungere la meta senza perdersi e morire di stenti; lungo il cammino si poteva trovare ospitalità nelle chiese e località dedicate ai santi presi in considerazione dalla ricerca. Chiaramente, poiché diversi di questi siti, soprattutto le chiese, sono sorti in un momento successivo è probabile che inizialmente negli stessi luoghi vi fosse solo un eremo, una cappellina o un oratorio di pochi metri quadrati, simili all’eremo della Santa Croce sul Monte Morrone nel Parco della Maiella o all’oratorio di San Pellegrino nel comune di Aviano in Friuli. Un altro dato importante che emerge è la grande variabilità dei percorsi a seconda delle epoche. Pertanto si può ipotizzare: 1. una prima fase, collocabile tra i secoli VI e VIII, in cui • l’Italia, in seguito all’invasione longobarda (568), era sottomessa a un popolo pagano e solo in alcuni suoi lembi, come la Romagna, la Pentapoli nel nord delle Marche, una parte dell’Umbria e il Lazio, che dipendevano dall’Impero Bizantino, si poté continuare a professare la fede cristiana; • i territori istriani, tra Trieste e Zara, erano controllati dall’Impero Bizantino e quindi rimasero fedeli alla Chiesa; • la Dalmazia divenne una regione pagana perché fu invasa dagli Avari e dagli Slavi che, nella prima metà del secolo VII, distrussero importanti città romane come Salona (nei pressi dell’odierna Spalato) e Narona; • la Grecia, in quanto parte dell’Impero Bizantino, rimase cristiana. 2. una seconda fase, compresa tra i secoli IX e XI, in cui cessarono le divisioni religiose grazie alla conversione al cristianesimo dei popoli invasori; 3. una terza fase, segnata dall’arrivo delle reliquie di San Nicola a Bari, avvenuto nel 1087, che sicuramente suscitò un notevole clamore in Italia; 4. una quarta fase, in cui, grazie alla “reconquista”, iniziata all’incirca nel 1100, si aprono le porte della Spagna e di Santiago di Compostela ai pellegrini; 231 5. una quinta fase in cui, probabilmente in seguito all’operato del re Luigi IX (il re santo), a partire dalla seconda metà del secolo XIII, dalla Francia si diffonde il culto di San Martino. Ad ogni fase corrispondono percorsi diversi, in particolare: 1. le figure di San Cristoforo, Sant’Apollinare e San Paterniano identificano prevalentemente percorsi romei (Fig. 10) creati durante il periodo longobardo (568-774) perché si sviluppano all’interno o nei pressi del Cor- ridoio Bizantino ed iniziano tutti dai 2. i culti della Santa Croce, di Santo porti della Romagna e della PentaStefano e di San Pellegrino (Figg. poli nel nord delle Marche, che erano 11-12-13) individuano sia percorcontrollati da Costantinopoli. Al di là si romei che jacopei formatisi in un dell’Adriatico gli stessi culti compaperiodo in cui hanno avuto fine le iono nei territori istriani, tra Trieste e divisioni religiose perché sono preZara, nell’Albania sud-orientale ed in senti sull’intero territorio nazionale; Grecia. La presenza del culto di San tali culti compaiono con numerosi Cristoforo in Sicilia fa ritenere che siti anche sulla costa tra Trieste e il molti pellegrini partissero dalla GrePeloponneso. I percorsi romei princicia per raggiungere la costa siracusana pali dovevano partire da Ancona; per e messinese, ma anche e soprattutto quanto riguarda la loro età possono quella marchigiano-romagnola. essere d’aiuto le notizie provenienti Figura 10. Sono evidenziati in celeste i percorsi ravennati-fanesi che si sviluppano lungo gli allineamenti formati dai siti dedicati a San Cristoforo (in giallo), a Sant’Apollinare (in bianco) e a San Paterniano (in rosso) (da Google Earth, modificata) Figura 11. Sono evidenziati in arancione i percorsi della Santa Croce e di Santo Stefano che si sviluppano lungo gli allineamenti formati dai siti dedicati alla Santa Croce (in bianco), a Santo Stefano (in celeste), a San Pellegrino (in viola) e a San Giacomo (in verde) (da Google Earth, modificata) Figura 12. Come in Fig. 11 Figura 13. Come in Fig. 11; vengono riportate in rosa anche la via Francigena (ad ovest) e la via Romea Germanica (ad est) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 232 Figura 14. Sono evidenziati in verde i percorsi di San Nicola; (da Google Earth, modificata) Figura 15. Come in Fig. 14 dall’antica abbazia di Santa Croce al in Sicilia (Fig. 15) e anche al nord, Chienti, situata circa 40 km a sud di in Liguria e nel Triveneto. Il culto, Ancona lungo uno di questi percorsi, inoltre, è assai diffuso lungo la costa che venne costruita verso la fine del balcanica occidentale, soprattutto secolo IX su un preesistente insediain quelli che erano i possedimenmento benedettino e, per circa tre seti veneziani. A causa dello scisma coli, fu una delle più potenti abbazie avvenuto nel 1054 e grazie alla pomarchigiane (Verdini, 2014, p. 50). polarità di San Nicola nella Chiesa 3. i percorsi caratterizzati dalla figura ortodossa tali tracciati divengono un di San Nicola sono per lo più diretti riferimento per i cristiani orientali. a Roma e vengono realizzati dopo 4. i percorsi di San Giacomo si forl’arrivo delle reliquie del santo a Bamano quando i pellegrini iniziano ri; chiaramente i percorsi principali a recarsi a Santiago di Compostela, iniziano da questa città e sono molto quindi a partire dal secolo XII, e nel evidenti tra la Puglia e la Campania nord dell’Italia sono ben riconosci(Fig. 14), ma altri simili sono presenbili (Figg. 16-17). Al centro e al sud, ti in Abruzzo-Molise, in Calabria, invece, il culto di San Giacomo viene Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 utilizzato per perfezionare i percorsi romei più antichi, in particolare quelli “anconetani”. Al di là dell’Adriatico tale devozione è piuttosto comune tra Trieste e Spalato mentre risulta quasi assente più a sud; è verosimile che l’invasione ottomana verso la fine del secolo XIV ne abbia impedito la diffusione in quest’area. 5. anche il culto di San Martino viene utilizzato per creare percorsi jacopei facilmente riconoscibili nel nord dell’Italia (Fig. 18) dove è particolarmente diffuso probabilmente proprio per questo motivo. Si può capire, da quanto riferito, il ruolo fondamentale ed inatteso avuto dalle città della costa adriatica nella “gestione” dei pellegrinaggi sull’intero territorio italiano. Probabilmente ciò è potuto accadere perché i pellegrini provenienti dall’area balcanica e dalle provincie asiatiche dell’impero bizantino sono stati in numero di gran lunga superiore rispetto alle altre regioni europee; questi sbarcavano principalmente sulle città della costa adriatica e si incamminavano per Roma. Di conseguenza tali città con i loro culti sono divenute un punto di riferimento ed il modello da imitare. Successivamente, a partire dal secolo XII, quando, con la liberazione della Spagna nordorientale dalla dominazione araba, i pellegrini iniziano a recarsi a Santiago di Compostela è l’Italia settentrionale ad assumere un ruolo da protagonista. Dall’indagine si scopre pure che i viandanti evitavano accuratamente le zone acquitrinose e paludose in cui il rischio di contrarre la temutissima malaria era elevato; perciò non c’è da stupirsi che territori come la Maremma, l’Agro Pontino, la Piana Reatina, il Tavoliere delle Puglie, il Campidano in Sardegna e la Piana del Fucino, per citare i più importanti, rimangano al di fuori di qualsiasi itinerario. Va sottolineata, infine, la grande importanza avuta nell’alto Medioevo dal fiume Po e dai suoi affluenti come vie di comunicazione tra il Piemonte (Torino), il Lodigiano in Lombardia e la provincia di Reggio Emilia (Brescello). Dall’inizio del secolo XV, con la crescita della popolazione e dei commerci, si ha un generale miglioramento delle condizioni del pellegrinaggio; si diffondono gli ospitalia, cioè i ricoveri per forestieri, all’interno delle città e vengono avviate numerose opere di bonifica grazie alle quali le strade si riappropriano dei fondivalle; non si sente più la necessità di creare percorsi ispirati dal culto dei santi che salgono lungo i crinali ed arrivano sulle cime dei monti. I vecchi tracciati sono 233 Figura 16. Sono evidenziati in bianco i percorsi di San Giacomo. Viene rappresentata in rosa anche la Via Romea Germanica (da Google Earth, modificata) Figura 17. Come in Fig. 16; vengono riportate in rosa anche la via Francigena e la via Romea Germanica Mangani G. (2016), Il vescovo e l’antiquario. Giuda Ciriaco, Ciriaco Pizzecolli e le origini dell’identità adriatica anconitana, Il Lavoro Editoriale. Mozzoni L., Paraventi M. (2000), In viaggio con San Cristoforo. Pellegrinaggi e devozione tra Medio Evo e Età Moderna, Giunti. Santarelli G. (2007), Le Origini del Cristianesimo nelle Marche, Edizioni Lauretane Santa Casa, Loreto. Tassinari C., Destro M., Di Luca M. T. (2008), Colombarone. La villa romana e la basilica paleocristiana di San Cristoforo ad Aquilam, Ante Quem. Verdini M. (2014), Problemi di insediamento nella valle del Chienti: il caso della basilica imperiale di Santa Croce, Grafiche Fioroni. SITOGRAFIA Figura 18. Sono evidenziati in giallo i percorsi di San Martino. Viene rappresentata in rosa anche la Via Francigena (da Google Earth, modificata) abbandonati e con il passare del tempo se ne perde la memoria; rimangono solo alcune chiese ubicate in luoghi remoti dedicate a santi “particolari” non di rado estranei alle comunità locali. In occasione del Giubileo nell’anno 1500, il cartografo tedesco Erhard Etzlaub pubblica la “Romweg-Karte”, una mappa in cui sono riportati i principali percorsi dell’epoca che dalle coste del Belgio a quelle della Polonia giungono sino a Roma. La carta, che è la prima del genere dell’Europa centrale, mostra i vari stati politici e le regioni montuose e, soprattutto, dà la possibilità di calcolare le distanze lungo gli itinerari. Grazie a queste innovazioni il pellegrino può pianificare il viaggio. Termina la grande epopea dei pellegrinaggi e si appresta ad iniziare l’era dei “viaggi organizzati”. BIBLIOGRAFIA AA.VV. (1960-1970), Bibliotheca Sanctorum, Roma. AA.VV. (2016), San Pellegrino tra mito e storia: I luoghi di culto in Europa, a cura di Trezzini A., Gangemi Editore. Kudis Buric N. (2008), La pittura tardomanierista nella Diocesi di Parenzo-Pola: il contesto storico e religioso, la committenza e gli autori, in “Saggi e Memorie di storia dell’arte”, Fondazione Giorgio Cini - Istituto di storia dell’arte, 30. Lanzoni F. (1927), Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), 2 vol. Per l’individuazione di gran parte delle località di culto presenti nelle varie figure sono stati utilizzati i seguenti siti internet: Le Chiese delle Diocesi Italiane, http:// www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/ chieseitaliane/; Geoportale Nazionale, http://www.pcn.minambiente.it/viewer/; I Luoghi del Silenzio, http://www.iluoghidelsilenzio.it/; Santi, Beati e Testimoni, http://www.santiebeati.it/; La Via Francigena, https://www.viefrancigene.org/it/mappe/; Via Romea Germanica, http://www.viaromeagermanica.com/; Centro Studi Romei, http://www.centrostudiromei.eu/; Sicilia Jacopea, http://www.siciliajacopea.it/; Confraternita di San Jacopo di Compostella, http://www.confraternitadisanjacopo.it/; Jakobsweg Südtirol, http://www.jakobswegsuedtirol.it/; Cammini d’Italia, https://www.turismo.politicheagricole.it/news/atlante-digitaledei-cammini-ditalia-nuova-mappa/. Inoltre di grande aiuto è stato lo strumento di ricerca del software Google Earth Pro distribuito gratuitamente dalla società Google. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 La Formazione nelle tue mani! Ente Formatore Autorizzato Consiglio Nazionale Geologi per attività di formazione APC Codice EFA006 Ente di formazione accreditato Regione Siciliana (C.I.R. ACR542) FORMAZIONE B-C-D (Formazione successiva; Formazione superiore; Formazione continua e permanente) Soggetto formatore accreditato per la formazione certificata in materia di sicurezza e salute sul lavoro Codice SR_052 ÀBEO è SISTEMI DI GESTIONE Progettazione, implementazione ed auditing Sistemi di Gestione - Qualità ISO 9001 - Ambiente ISO 14001 - Sicurezza ISO 45001 SICUREZZA SUL LAVORO - RSPP, CSP, CSE - Supporto tecnico ed amministrativo - Valutazione del rischio - Sicurezza nei cantieri - DVR, DUVRI, PSC, POS… - Formazione / Informazione FORMAZIONE - Progettazione e gestione eventi formativi - Monitoraggio didattico, amministrativo e finanziario - Fondi interprofessionali ed altre fonti di finanziamento ABEOsrl ÀBEO s.r.l. Via Principato di Monaco 12 – 96100 SIRACUSA (SR) Telefono e fax 0931 758510 www.abeo.it e-mail [email protected] Direttore / Responsabile formativo: geol. Umberto Vanella ÀBEO è E-LEARNING www.elearning.abeo.it www.formazione.abeo.it  audio e video lezioni multimediali con sincronia slides  test, interaction e gamification  rispondenza ai requisiti normativi sulla tracciabilità frequenza e completamento percorso formativo  conversione eventi, convegni e lezioni d’aula in corsi e-learning accreditati APC SESSIONE POSTER . ADRIA . PADOVA . ALTINO . CONCOR DI A . A Q U I L E A . VIA ANNIA Come si viaggiava nell’antichità? Com’erano fatte le strade? Com’era il paesaggio del Veneto all’epoca dei Romani? Di certo era molto diverso dall’attuale. Era un paesaggio dominato dall’acqua delle lagune, delle aree paludose, dei corsi fiumi, un paesaggio dove l’acqua abbracciava i campi coltivati, per buona parte divisi in un sistema centuriale. Ed era questo era lo scenario che, in epoca romana, per un buon tratto vedeva chi intraprendeva un viaggio lungo la Via Annia, una delle arterie stradali più importanti dell’Italia settentrionale. La Via Annia collegava Aquileia con un capolinea meridionale, ancora oggi di incerta identificazione, posto a sud di Adria. Oggi il paesaggio ha profondamente cambiato i suoi connotati: le acque sono state irregimentate, le paludi bonificate, il mondo “anfibio” ha lasciato spazio a un susseguirsi di fertili campagne, dove prosperano coltivazioni ben diverse rispetto a quelle praticate nel passato. Il tracciato della Via Annia proposto dal topografo L. Bosio Ma il fascino di quel mondo antico ancora oggi sopravvive, sia pure attraverso labili tracce che bisogna saper cogliere. Se in mezzo ai campi coltivati talvolta emergono come fantasmi le vestigia di una realtà sepolta - ponti, lacerti stradali - non meno eloquenti sono alcuni toponimi “trasparenti” che a quella realtà passata rinviano: Levada e Levaduzza, diffusi qua e là lungo l’antico tracciato dell’Annia, rievocano proprio quella via che, nelle aree paludose, correva sopraelevata per non essere travolta dalla presenza dell’acqua. E proprio da queste labili tracce è partito il Progetto Via Annia, per il recupero e la valorizzazione di quest’antica arteria viaria, perno su cui si è sviluppata l’identità dei territori del nord-est. Voli aerei alla ricerca delle tracce, scavi archeologici, indagini geomorfologiche, allestimenti museali, cartellonistica diffusa hanno così contribuito a ricostruire la storia della strada e a renderla nota al grande pubblico, facendola, per così dire, uscire dai libri dov’era confinata. Tracce della Via Annia: il ponte romano in località Ceggia (VE) (foto: Archivio Progetto Via Annia - Dipartimento di Geografia, Università degli Studi di Padova) Costruire una strada romana: fasi di lavorazione La Via Annia nei Musei: la sezione dedicata alla strada nel Museo Archeologico di Padova (foto: Gabinetto Fotografico Musei Civici) Particolare di un mosaico nel Piazzale delle Corporazioni del Parco Archeologico di Ostia Antica 237 La via Nomentana: luoghi di culto ipogei e acque sotterranee Stefania Nisio ISPRA – Dipartimento per il Servizio Geologico d’Italia E-mail: [email protected] Pio Bersani Geologo, libero professionista E-mail: [email protected] Nomentana street: cult places and underground waters Parole chiave: Via Nomentana, Roma, culti, cavità sotterranee, catacombe, sorgenti Key words: Nomentana Street, Rome, cults, underground cavities, catacombs, springs RIASSUNTO La Via Nomentana è una delle tante vie consolari che devono il proprio nome alla città a cui arrivavano partendo dal centro di Roma, dunque a Nomentum (attuale Mentana). La denominazione originale era via Ficulensis, perché la strada era inizialmente limitata a Ficulea; il prolungamento fino a Nomentum portò in seguito al cambio di nome. La strada aveva origine a Roma presso Porta Collina, nelle mura serviane, e da lì proseguiva in direzione nord-est fino a Nomentum. Attualmente, la via Nomentana parte da Porta Pia, a un centinaio di metri dall’originale porta, nella porzione settentrionale di Roma. Il territorio ai lati della via Nomentana, entro l’Urbe e subito fuori di essa (oggi può essere circoscritto al Grande Raccordo Anulare), era particolarmente ricco di luoghi di culti pagani e in seguito cristiani. I culti ebraici e cristiani, in particolare, hanno dato luogo ad un imponente sviluppo di aree cimiteriali sotterranee, di cui alcune sono oggi ancora sconosciute. Tali catacombe scomparse potrebbero rappresentare un rischio per la popolazione in quanto potenzialmente sottoposti a fenomeni di sprofondamento improvviso (sinkholes). L’area della via Nomentana, inoltre, in epoca romana e pre-romana era ricca di acque e di sorgenti il territorio circostante si presentava particolarmente paludoso. In tal senso Plutarco riferisce che uno degli impegni di Giulio Cesare fu proprio quello di bonificare le paludi nomentane che erano del tutto paragonabili a quelle Pontine. Lungo la strada sorgevano alcune sorgenti di acque minerali; Strabone ricorda le Acque Labane, oggi scomparse, che avevano grande portata; si presentavano fredde e albule alla vista, ovvero opalescenti, mineralizzate. ABSTRACT Nomentana is one of the many roman streets that owes its name to the city it comes; Nomentana street came to Nomentum (current Mentana). Its original name was Ficulensis, because the road was initially limited to Ficulea; the extension to Nomentum led to change its name. The road originated in Rome from Porta Collina, in the Servian walls, and it continued to north-eastern direction until Nomentum. Currently, Nomentana street starts from Porta Pia, some hundred meters from the original Porta Collina, in the northern area of Rome. The territory of the Nomentana, immediately outside the City (today it can be circum-scribed to the Grande Raccordo Anulare), was particularly rich of pagan and Christian cults. The Jewish and Christian cults, in particular, gave rise to an impressive development of underground cemeteries. Some of them are still unknown. These disappeared cemeteries could represent a risk for the population that is potentially subjected to sudden sinking phenomena (sinkholes). In Roman and pre-Roman time the Nomentana area was rich in water and springs too, the surrounding area was particularly marshy. About this Plutarch reports that Julius Caesar commitment the draining of the swamps that were completely comparable to the Pontine ones. Along the way stood some mineral water springs; Strabone remembers the Labane Waters, now disappeared, which had great scope; they appeared cold and albule, opalescent and mineralized. LUOGHI DI CULTO PAGANO SULLA VIA NOMENTANA La via Nomentana era una delle principali zone della città in cui in epoca romana e pre-romana si praticavano culti pagani. Questi erano dedicati soprattutto ad alcune divinità ctonie (con il termine divinità ctonie si intende tutte quelle divinità legate ai culti della terra e del mondo sotterraneo, di personificazione di forze sismiche o vulcaniche); erano, inoltre, presenti sulla strada, ai margini della città, necropoli e luoghi dedicati al culto dei morti. Figura 1. Immagine della Campagna Romana e della sedia del Diavolo, resti della tomba dedicata a Elio Callisto (Immagine da Pro-Loco Roma – Roma sparita) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 238 Lungo la strada, subito fuori dalle porte dell’Urbe, erano ubicati due altari di cui uno dedicato alla Dea Nenia, dea ctonia minore della religione pagana, tutelare dei canti funebri. Alcuni Autori considerano Nenia la divinità della morte e da tale dea deriva la locuzione latina naenia, cioè il triste lamento che veniva recitato come accompagnamento ai riti funebri sino al sepolcro (in epoca romana le donne venivano pagate per piangere le nenie funebri); è particolare il fatto che con lo stesso termine si indicava anche la compilazione di particolari formule magiche. Alla dea Nenia, inoltre, si affidava la protezione dei moribondi. Lungo la stessa via era presente anche un sacello dedicato alla Dea Diana (tale altare oggi non molto identificabile è rimasto nella storia perché il luogo ove morì decapitato Papa Urbano). Inoltre, le fonti storiche riportano alcune necropoli pagane e vari cimiteri ipogei cristiani. Delle necropoli pagane, in particolare, rimane un testimone quello che è chiamato dagli abitanti la Sedia del Diavolo (Fig. 1). Questo, ubicato in piazza Elio Callistio nel quartiere Trieste, è un rudere dell’architettura funebre romana (Fig. 2) che ricorda la forma di una grande sedia, in realtà è una tomba appartenuta Elio Callistio e alla sua famiglia. La sedia sorgeva su di una collina lungo l’antico percorso della Via Nomentana e divenne nel Medio Evo il rifugio di viaggiatori, di pastori, di sbandati nonché mercato di prostituzione. Di notte i pastori erano soliti accendere fuochi che in lontananza illuminavano il rudere in maniera spettrale per gli osservatori che la guardavano dal centro di Roma. Con il tempo la gente ebbe timore del monumento e nacquero leggende di stregonerie nonché la credenza popolare che il Diavolo stesso si fosse seduto sul rudere provocandone il crollo parziale (da cui il nome). IL CAMPUS SCELERATUS PRESSO PORTA COLLINA Porta Collina (dal latino Collis, il colle su cui sorgeva la porta che era quello del Quirinale), da cui parte la Nomentana, era una delle porte nelle Mura regie serviane di Roma, era collocata all’incirca all’incrocio tra le attuali via Goito e via XX Settembre (Fig. 3), esattamente presso l’incrocio delle due strade (Bianchini, 1747). Resti dell’antica porta si rinvengono presso il cortile del palazzo del Ministero delle Finanze in Via XX Settembre. Per la realizzazione del palazzo del Ministero, nel 1872, altri ruderi della Porta furono demoliti. Porta Collina venne poi sostituita con Porta Pia da cui attualmente parte la Via Nomentana. subito ma facevano una lunga agonia, forse provviste di un iniziale minimo di sussistenza alimentare, per prolungarne la pena. Molte sacerdotesse non avevano commesso la colpa, ma venivano ingiustamente punite insieme ai presunti amanti, condannati anche questi a morte per decapitazione o fustigazione. Si narra che alcuni Imperatori, quali Domiziano e Caracalla, invaghitisi di belle Vestali ma respinti, si vendicarono accusando queste di avere violato il loro mandato e confinandole nel Campus Sceletatus. IPOGEI E CIMITERI CRISTIANI Numerosi sono i cimiteri ipogei cristiani lungo la Nomentana (Aringhi, 1651; Armellini, 1887, 1893, Bosio 1632, D’Agincourt, 1835), alcuni di questi hanno sfruttato impianti caveali per l’estrazione di tufo che erano già presenti nell’area. Numerosi cunicoli si so- Figura 3. Antica rappresentazione di Porta Collina; il nome deriva da Colle su cui sorgeva, ovvero il Quirinale. Anche che oggi il Quirinale viene definito talvolta di “Colle” Figura 2. La Sedia del Diavolo come si presenta oggi; foto S. Nisio Il Campo Scellerato era un ambiente ipogeo di epoca romana scomparso sotto il tessuto urbano e ancora non rinvenuto; era ubicato, in base alle fonti storiche, lungo il percorso della strada di fronte o nei pressi della Porta Collina (Bianchini, 1747). Esso, in particolare, era il luogo sotterraneo dove le Vestali colpevoli di aver violato il voto di castità, venivano sepolte vive e venivano condannate a morte. Si trattava di un’ampia camera posta sotto il piano stradale, con una porta d’ingresso che veniva bloccata dall’esterno una volta che le Vestali erano fatte entrare. Le Vestali non morivano Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 no invece sviluppati indipendentemente dalle aree di cava. Il primo cimitero è quello di Nicomede all’inizio della via; presso Villa Torlonia è presente il cimitero ebraico, e presso la basilica di Sant’Agnese i Cimiteri Maggiore e Minore. Numerosi sono anche i rami secondari di tali impianti cimiteriali e molte le gallerie sotterranee di cava di cui non se ne conosce ancora oggi l’effettiva estensione. Ubicato dalle fonti storiche al VII miglio della Nomentana (10,36 km dalla Porta Collina) è presente subito fuori il Grande Raccordo Anulare, il Cimitero di Sant’Alessandro Papa. Le 239 fonti attestano inoltre, al XIV miglio il cimitero di Primo e Feliciano e al XVI miglio il cimitero di Restituto (Bosio 1632, D’Agincourt 1835). Il cimitero di Sant’Alessandro fu riscoperto nel 1854 da De Rossi, quando vennero alla luce i resti della relativa basilica interrata. La dedica ad Alessandro deriva dalla presenza dell’iscrizione rivolta al Papa martire insieme ai compagni Evenzio e Teodulo, vittime della persecuzione di Diocleziano. La basilica fu edificata all’inizio del V secolo restaurando un piccolo santuario precedente, per volere di Urso, vescovo di Nomentu, durante il papato di Innocenzo I. Il complesso scomparve probabilmente in seguito al saccheggio operato dai barbari; a lungo cercato, ricomparve solo a metà dell’ottocento interrato di alcuni metri rispetto al piano di campagna. Le catacombe di Sant’Alessandro, scavate nei terreni piroclastici, hanno accesso direttamente dalla basilica e si sviluppano su di un unico piano generando continui errori di identificazione (Panvinio 1568; Bosio 1634; D’Agincourt 1835, Gori 1862; De Rossi, 1864, 1882; Gaume, 1879 Marucchi 1903; Pavia, 1998, 2015). Le fonti storiche, ad esempio, riportano sulla Via Nomentana un cimitero molto conosciuto e meta di pellegrinaggio nella prima età cristiana e in epoca medioevale, da cui sgorgavano delle sorgenti chiamate Ninfe e dove San Pietro, secondo la tradizione, avrebbe battezzato i fedeli: il Cimitero ad Nymphas. Panvino (1568) riporta tale cimitero tra il VII e l’VIII miglio da Roma, nel podere di Severa e le acque che vi sgorgavano in sotterraneo erano di grande portata (Boldetti 1720). Alcuni sostengono che in esso vennero martirizzati, nell’anno 330 d.C. sotto Diocleziano, i santi Papia e Mauro (Gori, 1862). Il Martirologio riporta infatti: “Quorum corpora collegit Joannes presbite noctu et sepelivit in via Nomentana sub die februarii ad nymphas ubi Petrus pozzi per acqua, inoltre diversi sistemi di captazione erano presenti nelle vigne attigue al cimitero. Un ingresso delle catacombe di Sant’Ippolito doveva essere sulla Tiburtina, l’altro sulla Nomentana, ma i cunicoli delle catacombe interrotti da crolli dovevano un tempo essere un tempo comunicanti (Gori 1862). Le catacombe Ad Nynphas sono state anche associate all’Ipogeo di Via Livenza (presso Piazza Fiume a Roma; Wippert 1903, Cecchelli, 1951). Tale ipogeo presenta una sala con una vasca (posta a 9 m dal p.c.), probabilmente per immersioni viste le sue dimensioni, alle cui spalle è presente la figura di diana cacciatrice. C’è chi sostiene e che l’intero ipogeo è un luogo per il battesimo cristiano e che la figura di Diana cacciatrice simboleggia il paganesimo nell’atto di allontanare dalla fonte battesimale i cervi mentre una Ninfa al contrario rappresenta il cristianesimo nascente e da tale rappresentazione prende il luogo: Ad Nimphas Figura 4. La Basilica Ipogea di S. Alessandro e le Catacombe annesse (Fig. 4). All’interno del complesso di S. Alessandro, oltre alla basilica (costituita da un atrio, un ingresso, due locali in cui si trovano le tombe dei tre martiri e varie costruzioni funerarie) era descritto nelle fonti storiche alla fine di una scala un pozzo in sotterraneo di acqua limpidissima che serviva al battesimo; in tale pozzo fu ritrovata ancora acqua durante gli anni del ritrovamento della catacomba nel 1854. CIMITERO AD NYNPHAS SCOMPARSO SULLA VIA NOMENTANA Molta confusione è stata fatta nel tempo riguardo i cimiteri cristiani della Nomentana soprattutto perché a molte aree cimiteriali sono stati attribuiti nomi differenti nelle diverse epoche storiche, baptizabat”. Bosio e molti altri Autori, successivamente, non trovandolo lo identificarono con una delle aree cimiteriali conosciute. Alcuni lo assimilarono al cimitero di Santa Agnese, altri a quello di Sant’Alessandro Papa anche se le distanze riportate dalle fonti non erano congruenti: “Noi con tutte le diligenze fatte non abbiamo potuto averne alcuna notizia” (Bosio, 1634; Boldetti, 1720), altresì, riporta: “…oggi dì il suo sito è affatto incognito”. Ancora oggi permangono solo ipotesi, di fatto non è stato possibile ubicare con assoluta certezza il cimitero in questione. Gori (1862) propone che esso possa coincidere con il Cimitero di Sant’Ippolito, presso la Basilica di Santo Stefano, dove furono trovati nei sotterranei molti sacti Petri ubi baptezavit (Wilpert 1903; Cecchelli 1951). Tuttavia, le pareti di accesso alla vasca sono alte circa due metri (Fig. 5), contrariamente alle altre vasche per il battesimo cristiano e risulta difficile ipotizzare un battistero cristiano siffatto all’interno di un ipogeo pagano (Pavia; 1998, 2015). Paribeni (1923), lo scopritore, sostenne la tesi di un luogo di riunione dei Baptai, un’antica setta misterica devota alla dea Cotys, che praticava il tuffo rituale nell’intento di provocare uno choc che conducesse all’estasi e all’ipnosi. Altri autori, invece, attribuiscono l’ipogeo all’età romana di Costantino identificandolo con un tempio per il culto delle acque. Marucchi (1933) ritenne che il cimitero ad Nymphas fosse quello di Priscilla Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 240 Figura 5. Ipogeo di Via Livenza: Vasca per il battesimo sulla via Salaria (coincidente anche con il cimitero ostriano), presso una delle cappelle vi è un antico ninfeo che può rappresentare il nesso con la denominazione ad nymphas. De rossi (1864) sostiene, infine, che i santi Papia e Mauro furono sepolti nel cimitero Ad nymphas da cui si accedeva dalla basilica di Sant’Emerenziana posta presso quella di Agnese. CIMITERO OSTRIANO Il cimitero Ad Nymphas viene spesso confuso con il cimitero Ostriano, perché anche quest’ultimo ricorda la tradizione del battesimo di San Pietro. Esso viene rappresentato anche nel film Quo Vadis, con una famosissima scena che riguarda l’apostolo Pietro nell’atto del battesimo in sotterraneo. Il cimitero Ostriano secondo le fonti storiche era “de sede ubi prius sedit Sanctus Petrus“, ovvero la prima località in cui sostò San Pietro arrivando a Roma. Lì l’Apostolo battezzava i fedeli con l’acqua di un torrente che sgorgava da un’altura, tra la via Salaria e la via Nomentana ovvero con acqua di fonte che scaturiva in sotterraneo. Il torrente (il cui nome forse era Ostrio) è quello che successivamente è stato chiamato Fosso Figura 6. Tavola esatta dell’antico Lazio e nova Campagna di Roma dedicata a Sigismondo Chigi Gran Priore di Roma a cura di Innocenzo Mattei, 1670. Sono ubicate distintamente le tre aree cimiteriali dei cimiteri Ad Nymphas, Ostriano e Novella Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 241 di Sant’Agnese e oggi è un asse fognario del quartiere, sul percorso corso Triste, viale Eritrea, viale Libia. Nello stesso quartiere è presente il toponimo Via Ostriana, prossima alla via Salaria. Ostrum (da cui il nome Ostriano) potrebbe anche derivare una grande cisterna che veniva utilizzata in sotterraneo per il battesimo. L’esatta posizione di tale cimitero è ancora sconosciuta e gli Autori sono stati sempre in disaccordo identificandolo con il complesso di Santa Priscilla ovvero con altre catacombe che da Piazza Santa Emerenziana dovevano congiungersi con il complesso del Cimitero Maggiore (De Rossi, 1864). Successivamente, il Coemeterium Ostrianum è stato identificato con il Cimitero Maggiore della via Nomentana (Marucchi, 1933), del quale è stato scoperto un ingresso su un lato di via Asmara (vicino a piazza Annibaliano), in verità un po’ distante dall’attuale via Ostriana e dove era l’entrata della piccola Catacomba Ostriana (via di Priscilla). Nelle Gesta Liberii si narra che quando papa Liberio fu confinato dall’imperatore si rifugiò al terzo miglio della via salaria non lontano dal cimitero di Novella e nel cimitero Ostriano battezzava i fedeli. I testi antichi descrivono, poi, di un altro cimitero, il terzo, quello di Novella, che non doveva essere troppo distante da quello Ostriano che alcuni hanno identificato con il Cimitero di Priscilla. Boldetti (1720) ipotizza che il cimitero Ostriano era una parte di quello di Priscilla non lontano dal cimitero di Novella ed era ubicato al terzo miglio miglio dalla città. Nel presente lavoro viene riportato, a titolo di esempio, uno stralcio della Carta di Mattei (1670) in cui viene proposta l’ubicazione di entrambe i cimiteri (Fig. 6). Da tale carta l’ubicazione del Cimitero Ad Nymphas è più spostata all’esterno della città. L’Autore posiziona, nel dettaglio, il cimitero oltre il Ponte Tazio sulla Nomentana nei pressi di Casal de Pazzi; più prossimo alla via Salaria è il cimitero Ostriano dove ricorreva il battesimo di Papa Liberio. LE ACQUE DELLA VIA NOMENTANA L’area della via Nomentana in epoca romana e pre-romana era ricca di acque e di sorgenti e il territorio circostante si presentava particolarmente paludoso. In tal senso Plutarco riferisce che uno degli impegni di Giulio Cesare fu proprio quello di bonificare le paludi nomentane che erano del tutto paragonabili a quelle Pontine. Lungo la strada erano presenti alcune sorgenti di acque minerali; Strabone ricorda le Acque Labane, oggi scomparse, che avevano grande portata; si presentavano fredde e albule alla vista, ovvero opalescenti, mineralizzate. In passato tali acque venivano utilizzate a scopi terapeutici ed erano ubicate presso l’antica città di Eretum (coincidente secondo alcuni Autori con la frazione di Grotta Marozza nei pressi di Monte Rotondo; Brancaleoni et alii, 2015). Le sorgenti di Grotta Marozza sono ubicate circa 3 km ad est della Via Nomentana, fuori dal grande Raccordo Anulare. Esse sono riportate (con il n. 24) nella “Carta idrogeologica della Regione Lazio” (in scala 1:250.000; Boni et al. 1988). In tale studio la quota delle sorgenti è posta a 87 m s.l.m., ha una temperatura di 21,5°C ed è segnalata la presenza di gas; le sorgenti sono poste in prossimità di sistemi di faglie con andamento appenninico NW – SE. All’interno del Grande Raccordo Anulare di Roma, è presente lo stabi- Figura 7. Immagine della Via Nomentana a fine ‘800 presso Ponte Tazio, dove erano ubicate le sorgenti dell’Acqua Sacra; da collezione “Roma Sparita” limento dell’Acqua Sacra, ubicato in prossimità della Via Nomentana, nel quartiere Montesacro in Via Monte del Furlo 57, a poca distanza da Ponte Tazio sul fiume Aniene (Fig. 7). La sorgente dell’Acqua Sacra (Camponeschi e Nolasco, 1982) è stata scoperta con un sondaggio nel 1943, che partendo dalla quota di 24,5 m del piano campagna ha incontrato l’acqua mineralizzata a 43 m di profondità, pertanto tale acqua è estratta attraverso un sistema di pozzi. L’attività di estrazione e imbottigliamento è iniziata nel 1946 ed è tuttora funzionante. La prima concessione mineraria per acque minerali e anidride carbonica era denominata “Acqua nomentana”, successivamente la concessione prese il nome di “Acqua sacra” e si sviluppa su un’area di circa 70 ettari. L’acqua della sorgente Acqua sacra (Padovano, 2010) è di sapore acidulo, ha un PH inferiore a 7 (leggermente acido) e un Residuo secco pari a 841,8 mg/l. Il Ministero della Salute con D.M. 17/11/2005 n. 3643 ha riconosciuto le sue qualità terapeutiche: un efficace effetto diuretico, un’azione favorente i processi digestivi oltre ad un’attività di stimolo nel ricambio purinico (riduzione dell’uricemia). Il nome Acqua Sacra è legato alla presenza del “Monte Sacro”, ubicato all’esterno della cinta della mura aureliane, a metà strada tra l’Urbe e il borghetto di Ficulea, lungo il percorso della Via Nomentana. Il Monte Sacro era anche il luogo dove gli Auguri si recavano per fare i loro vaticini osservando il volo degli uccelli. In età repubblicana Agrippa ricompose una questione con la plebe in rivolta contro l’ordinamento sociale romano. La plebe accampata sulla collina del Monte Sacro ottenne l’istituzione dei tribuni della plebe e degli edili della plebe, con l’istituzione di una propria assemblea. In ricordo dell’evento e a monito per il mantenimento degli accordi pattuiti i plebei eressero sulla cima del monte un’area dedicata a Giove Terrifico. Non è escluso che quest’area sacra a Giove abbia poi dato il nome di “sacro” a tutto il monte e in conseguenza, in tempi molto più recenti, anche all’acqua (Padovano, 2010). Presenza di acque in sotterraneo viene riportata anche nei cimiteri cristiani di Alessandro e Priscilla dove sono presenti pozzi per emungimento. Presso località S. Alessandro, lungo Via della Cesarina, sono riportate altre tre sorgenti (Regione Lazio, 2012), con portata inferiore a 10 l/s, di cui una è indicata come termale. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 242 CONCLUSIONI La via Nomentana era una delle principali zone della città in cui in epoca romana e pre-romana si praticavano culti pagani dei defunti e dove sono sorti in epoca cristiana numerosi cimiteri. Quest’ultimi hanno sfruttato anche impianti caveali pre-esistenti per l’estrazione del tufo. Inoltre, l’area è stata interessata dalla coltivazione mineraria in sotterraneo del tufo anche in epoche successive. Le immagini del paesaggio mostrano in antichità aree collinari oggi inesistenti perché sottoposte all’eccessivo sbancamento (cave di Via Tripoli, area di Piazza Elio Callisto). Molte aree ipogee risultano oggi ancora nascoste sotto il tessuto urbano e potrebbero rappresentare eventuali aree ad alta suscettibilità per gli eventi di sprofondamento (Ciotoli et al. 2015 a, 2015 b; Bisconti et al. 2017; Nisio et al. 2017; Nisio 2018, 2019). Risultano, tuttavia. oggi ancora non individuate alcune aree cimiteriali quali: il famoso cimitero Ad Nymphas, il cimitero Ostriano e quello di Novella (che potrebbero coincidere o rappresentare aree annesse ad altri cimiteri conosciuti). La Carta di Mattei, in effetti, riporta tali aree cimiteriali separate e collocate in posizioni distanti e differenti e ci sprona ad una più attenta indagine del territorio nomentano al fine di individuare altre aree sotterranee nascoste sotto il tessuto urbano. Inoltre l’area della Via Nomentana era ricca di sorgenti e di acque che erano utilizzate a volte per culti religiosi o venivano utilizzate ad uso potabile (Bersani et al. 2018). La presenza di tali acque è riconosciuta anche nei sotterranei di alcuni cimiteri cristiani e ipogei pagani (cimitero S. Ippolito, cimitero S. Alessandro, Cimitero di Priscilla, Ipogeo di Via Livenza). BIBLIOGRAFIA Amore A. (1975), I martiri di Roma. Ed. Tau a cura di Buonfiglio, 2013, pp. 364. Aringhi P. (1651), Roma Subterranea novissima. Vol I, Roma, 1651, p. 360-373. Armellini M. (1887), Le chiese di Roma dalle origini sino al secolo XVI, Roma, 1887, p. 759. Armellini M. (1893), Gli antichi cimiteri cristiani di Roma e d’Italia, Roma, 1893, p. 513. Bersani P., Nisio S., Pizzino L. (2015), Manifestazioni gassose, solfuree e eventi di collasso nel centro storico di Roma. Mem. Descr. Carta Geol. D’It. 99, 43-68. Bersani P., Nisio S., Pizzino L. (2018), La presenza di acque nelle cavità sotterranee di Roma. SIGEA - Soc. It. di Geol. Amb., Geologia dell’Ambiente 4/2018 Bianchini G. (1747), Delle magnificenze di Roma antica e moderna, I, Le porte e mura di Roma da G. 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Lo scavo del tufo ha dato origine alle cosiddette “tagliate” e l’attraversamento dei numerosi corsi d’acqua è stato realizzato con ponti ad arco a tutto sesto, di cui alcuni ancora oggi transitabili. Il percorso, in diversi punti, è delimitato da necropoli di età romana. Via di passaggio per numerosi eserciti e, per diversi secoli, strada privilegiata per Roma, l’Amerina ha visto la sua fortificazione con la costruzione di torri di avvistamento e di castelli a difesa del tracciato. In seguito alla caduta dell’impero romano si è proceduto all’incastellamento dei borghi anch’essi costruiti in gran parte con il tufo rosso vicano. Questi borghi, tutti con la caratteristica di essere rinserrati su pianori difesi naturalmente su tre lati e muniti di rocche e trincee sul lato meno protetto, appaiono dal boscoso fondo valle come sospesi in un “continuum” con le pareti delle forre. SUMMARY The ancient Roman road “Via Amerina” in the Lazio region, which used to link Rome with Amelia, is a striking route which can be followed lay going down and up the gorges dug in the Red Vicano tuff. It was built in the third century BC and it is a mainly straight path. It crosses the hidrographic pattern of the Treia river up to the Lazio borders on the Tiber river. Tuff excavations gave rise to the so called “tagliate”. The bridges over the waterways have round arches and some of them still praticable. The road includes several Roman necropolises with its defence network of towers and castles, for many centuries Amerina was the route of many armies and a privileged way to Rome. Red tuff was also used for the encastellation of the villages of the area after the fall of the Roman Empire. These villages, all locked up on plateaux and naturally protected on three sides and fortify with castle and drenches on the least protected side, can be seen from the bottom of the valley as if they were suspended in a “continuum” with the sides of the gorges. Figura 1. La Via Amerina nel contesto geologico laziale, Carta Geologica d’Italia F.137-143 1 IL CONTESTO 1.1 IL CONTESTO AMBIENTALE Il tracciato della Via Amerina si snoda, procedendo da sud verso nord, tra tre distinti domini geomorfologici: i distretti vulcanici del Lazio centro settentrionale, la valle Tiberina, i primi rilievi del preappennino quando si giunge nel territorio umbro. (Fig. 1) Nel tratto laziale la strada scende dai margini settentrionali delle alture dei Sabatini a sud (circa 240 m. s.l.m.) verso la Valle del Tevere a nord (circa 60 m. s.l.m.).Il tracciato, prima di giungere alla Valle del Tevere, attraversa in senso meridiano gran parte del reticolo idrografico del F. Treia, ultimo grande affluente di destra del suddetto fiume. Tale reticolo ha un andamento dendritico impostato sui prodotti vulcanici delle eruzioni sabatine nella zona meridionale e sui materiali vicani in quella centro settentrionale; procedendo da sud verso nord l’andamento dei corsi d’acqua si sposta da una direzione sud nord ad una ovest - est. La morfologia di tutta la zona è caratterizzata da lievi ondulazioni (plateau tufacei) incise da profonde forre i cui fianchi e il fondo, sono pressoché coperti di boschi (Fig. 2) Sugli speroni tufacei cosi formati sono stati edificati gli antichi abitati dell’area realizzati in tufo e che sembrano sospesi sui fondovalle in un continuum verso l’alto delle pareti delle forre.(Fig. 3) Il tufo utilizzato nelle costruzioni dei borghi (Figg. 3-4) è riconducibile, per quelli più a nord lungo l’asse viario dell’Amerina, alle formazioni del Tufo rosso a scorie nere vicano (“Ignimbrite” III tefritico fonolitica). e, per quelli più meridionali lungo la stessa via, anche al Tufo giallo sabatino (“Ignimbrite” fonolitico tefritica) Le caratteristiche di permeabilità delle vulcaniti fanno sì che, per i corsi d’acqua le cui aste fluviali si snodano alle quote più alte, si abbia un comportamento torrentizio, mentre, per quelli che scorrono alle quote più basse, si Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 244 Figura 2. Il pianoro tufaceo dove sorge Civita Castellana (foto Gianluca Cerri) abbia una portata di base più costante, poiché sono alimentati dalla falda basale ospitata all’interno delle vulcaniti. Tale assetto, connesso alla morfologia assai acclive, rendeva necessari nella costruzione della strada attraversamenti mediante ponti, anch’essi in tufo. La realizzazione della carreggiata invece ha utilizzato dei basoli ricavati dalle lave grigie ricche in leucite, che sono assai diffuse nell’area (Fig. 11). Giunti più a nord, nei pressi della valle del Tevere, le formazioni vulcaniche lasciano il posto a formazioni sedimentarie continentali sottostanti (Fig. 5), ai travertini e alle alluvioni ghiaioso sabbiose e quindi le modalità realizzative della opere si sono adeguate a questi materiali sia per il basolato sia per le opere viarie connesse (Fig. 12). Attraversato il Tevere la strade giunge in Umbria risalendo verso i contrafforti collinari del pre – appennino impostati su sedimenti argilloso sabbiosi. 1.2 IL CONTESTO STORICO - LA CONQUISTA ROMANA DELL’ETRURIA All’inizio della politica espansionistica romana vediamo nell’area a nord di Roma una suddivisione territoriale costituita da Veio; Capena sul lato tiberino; Falerii e Narce, centri di formazione falisca, che controllavano un territorio che va dalle sorgenti del fiume Treia al Tevere e alle pendici dei Monti Cimini; Tarquinia che controllava l’area a nord dei Cimini con roccaforti come Orte sul Tevere. Caduta definitivamente Veio nel 396 a.C. i romani si espandono all’interno del territorio conquistato con la sconfitta di Capena nel 395 a.C. e porFigura 3. Il borgo di Calcata (foto Studio Fotografico Giuseppe Paolozzi) Figura 4. Il borgo di Corchiano (foto Gianluca Cerri) Figura 5. Stratigrafia della forra di Gallese (foto A. Mancini) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Figura 6. Via Cava di Sant’Egidio a Corchiano (foto Gianluca Cerri) 245 tandosi verso nord minacciando il territorio dei Falisci. La spinta romana verso nord si concentra nella conquista delle città falische di Sutri e Nepi, claustra Etruriae, che controllavano il lato meridionale dei Monti Cimini e, di fatto, il confine tarquiniese con i tentativi di superare la Silva Cimina, tali mire espansionistiche sono alla base dell’alleanza tra Falisci e Tarquiniesi. Sutri e Nepi sono annoverate come colonie nel 383 a.C. (Livio 6, 9, 4) In seguito alla guerra del 358 - 351 e la battaglia di Sentino (Sassoferrato) nel 295 con la sconfitta della coalizione antiromana costituita da etruschi, sanniti, galli senoni e umbri si assiste alla definitiva conquista dell’Etruria, sancita con la battaglia del lago Vadimone (presso Orte) nel 283 a.C. Figura 7. La città di Falerii Novi con indicato l’asse della Via Amerina (cardo) 2. LA STORIA DEL TERRITORIO, LA FORMA DELL’INSEDIAMENTO E LA VIABILITÀ 2.1 PERIODO PREROMANO La distribuzione dei siti preromani nell’area della futura Via Amerina si caratterizza per la presenza di una città egemone (Veio fino al 390 a.C. e poi Falerii) che esercita un ruolo centripeto con siti satelliti di piccola dimensione. La distribuzione territoriale si colloca lungo la Valle del Treia che assumeva un asse preferenziale nei commerci tra l’Umbria, la Silva Cimina e il campus salinarum alla foce del Tevere controllato fino al X secolo da Veio. Figura 8. Porta detta di Giove presso Falerii Novi (foto Gianluca Cerri) Figura 9. Il Corridoio Bizantino (Cerri G., Rossi P., 1999) Figura 10. La Via Amerina e la rete stradale romana (Cerri G., Rossi P., 1999) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 246 Le caratteristiche insediative vedono la preferenza di pianori tufacei difesi naturalmente da corsi d’acqua e profonde forre con un sistema viario che segue, per quanto possibile, i crinali ed utilizza, nei passaggi di scavalcamento, le tortuose vie cave. (Fig. 6) 2.2 PERIODO CAMPAGNA) ROMANO (CITTÀ E È a partire dal 241 a.C con la definitiva sconfitta di Falerii che Roma ha il controllo totale sul territorio. La fondazione ex novo di una città, Falerii Novi, posta all’incrocio con la Via Cimina (decumanus), che conduceva da Sutri al Tevere, e con la Via Amerina (kardo) è il sugello di un nuovo sistema politico territoriale nell’Agro Falisco (Fig. 7). La Via Amerina e Falerii Novi divengono quindi gli elementi per il controllo militare ed economico sull’area che vede l’abbandono progressivo dei precedenti siti fortificati e la nascita di centinaia di centri rurali che gravitano sulla nuova arteria viaria (Fig. 8) (Potter 1985) 2.3 PERIODO Figura 11. La Via Amerina presso Corchiano (foto Gianluca Cerri) Figura 12. La Via Amerina presso il Porto di Seripola (foto Gianluca Cerri) Figura 13. Schema di attraversamento delle forre con il sistema delle tagliate viarie (Cerri G., Rossi P., 1999) ALTOMEDIEVALE/ MEDIEVALE E I BORGHI FORTIFICATI L’indebolirsi del sistema romano, a partire dal IV sec. d.C., le progressive ondate di popolazioni che calano dal nord (nel 410 Alarico disceso lungo la Flaminia staziona a lungo nella zona) spingono all’abbandono dei centri rurali (ville e fattorie) posti lungo l’Amerina e la Flamina per un “ritorno” negli antichi siti di origine preromana. L’Amerina diviene un asse privilegiato per il collegamento tra l’Esarcato di Ravenna e Roma sia durante la guerra greco-gotica (535-553) dove vengono fortificati da parte dell’impero romano d’Oriente tutti i centri lungo la strada, anche la stessa Falerii Novi, sia durante la conquista longobarda (568-772) venendo a costituire il Corridoio Bizantino. (Bavant B. 1979) (Fig. 9) 3. I MANUFATTI LUNGO L’AMERINA 3.1 LA STRADA La Via Amerina, codificata definitivamente nel III sec. a.C., attraversa in direzione sud-nord il territorio veiente-falisco staccandosi dalla Via Cassia (nella valle di Baccano) ed attraversando il Tevere ad Orte (Porto di Seripola) per raggiungere, sempre verso nord, Amelia (Ameria) e poi l’entroterra umbro fino a Perugia per collegarsi con la Flaminia nei pressi di Luceoli (Cantiano). (Fig. 10) Nell’area laziale la strada è progettata con i seguenti scopi: tracciato Figura 14. La Via Amerina in località Cavo degli Zucchi (foto Gianluca Cerri) perfettamente rettilineo; aggiramento degli antichi nuclei preromani posti in siti morfologicamente “difficili”; attraversamento dei numerosi corsi d’acqua (31 tra la Cassia e il Tevere) nei punti meno acclivi; tracciato che si sviluppa su una quota altimetrica costante intorno ai 200-280 m. s.l.m. ad esclusione della valle tiberina (67 m s.l.m.); superamento del Tevere prima della confluenza con il Nera. La sezione stradale ha una dimensione media di 2,45 ml (8 piedi) realizzata, a seconda delle zone di approvvigionamento, prevalentemente con lave più o meno ricche in leucite o rocce calcaree. (Figg. 11 e 12) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 3.2 LE TAGLIATE VIARIE Costituiscono, insieme ai terrapieni, la soluzione tecnica per consentire un agevole superamento delle forre tufacee all’interno delle quali scorrono i numerosi torrenti dell’area. Sfruttando la facile lavorabilità del tufo i romani perfezionano la tecnica delle vie cave etrusche con imponenti trincee a pendenza costante che consentono la riduzione della quota d’imposta dei ponti e conseguentemente la loro lunghezza (Fig. 13). Il materiale estratto viene utilizzato per la realizzazione dei viadotti e le pareti verticali della tagliata sono sfruttate per 247 Figura 15. Il ponte sul Fosso dei Tre Ponti (foto Gianluca Cerri) Figura 16. La spalla settentrionale del ponte sul Rio Maggiore (foto Gianluca Cerri) sepolture con colombari, fosse, arcosoli, loculi, camere, mausolei e tombe a dado (Figg. 19 e 20). 3.5 TORRI, CASTELLI E BORGHI MEDIEVALI Figura 17. Canali di drenaggio presso il ponte sul Rio Maggiore (foto Gianluca Cerri) Figura 18. Cunicolo di drenaggio presso il ponte sul Rio Fossitello a Nepi (foto Gianluca Cerri) Via di passaggio per numerosi eserciti e, per diversi secoli, strada privilegiata per Roma l’Amerina ha visto la sua fortificazione con la costruzione di torri di avvistamento e di castelli a difesa del tracciato (Wickham C.J., 1978, 1979). L’apparato di incastellamento della Valle del Treia ha costituito per tutto il medioevo uno dei migliori sistemi di difesa di Roma al quale hanno partecipato anche i villaggi e le città sorti dopo la caduta dell’Impero romano tutti con la caratteristica di essere rinserrati su pianori difesi naturalmente su tre lati e Figura 19. Necropoli del Cavo degli Zucchi (foto Gianluca Cerri) la realizzazione di necropoli sul modello protezione della massicciata stradale e preromano. (Fig. 14) delle spalle dei ponti come canalizzazioni e cunicoli per il deflusso delle ac3.3 I PONTI que in caso di piene (Frederiksen, Ward L’attraversamento dei corsi d’acqua Perkins 1957) (Figg. 17 e18). avviene su ponti in tufo con arco a tutto sesto ad unica campata, resa possibile 3.4 LE NECROPOLI A partire dalla realizzazione della dalla realizzazione delle trincee, tra questi spicca quello dei Tre Ponti nei pressi strada III sec. a.C., fino al IV d.C., le di Falerii Novi. (Figg. 15 e 16). Le strut- pareti delle tagliate, utilizzate per ridurture di scavalcamento dei corsi d’acqua re la quota di attraversamento dei corsi presentano numerose soluzioni per la d’acqua, sono scavate da centinaia di Figura 20. Necropoli del Cavo degli Zucchi (foto Gianluca Cerri) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 248 Figura 21. Il sito di Isola Conversina a difesa della Via Amerina (foto Gianluca Cerri) Figura 23. La rocca borgiana e il sistema di difesa di Civita Castellana (foto Gianluca Cerri) Figura 24. Escursionisti sulla Via Amerina in località San Lorenzo (foto Gianluca Cerri) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Figura 22. La torre campanaria di Santa Bruna (foto Gianluca Cerri) 249 muniti di rocche e trincee sul lato meno protetto come Orte, Vasanello, Gallese, Corchiano, Civita Castellana, Nepi, Faleria, Calcata. Numerosi i castelli con le medesime caratteristiche, oggi diruti. (Figg. 21, 22 e 23) 4. CONCLUSIONI 4.1 LA PERCORRIBILITÀ DEL TRACCIATO Sin dai primi anni Novanta è stata intrapresa un’azione collettiva dai Comuni e dalle associazioni dell’area per il ripristino e la percorribilità pedonale del tracciato. Oggi possiamo percorrere la Via Amerina, per gran parte sul tracciato originario, dal suo inizio presso la valle di Baccano fino ad Amelia per una lunghezza di 60 km. Il percorso è stato riconosciuto come uno dei primi 4 cammini della Regione Lazio dalla L.R. 13/2017 (Fig. 24). 4.2 IL COLLEGAMENTO AQUILEIA CON Di grande suggestione costituisce il progetto di attivazione di una greenway del Corridoio Bizantino che unisce Aquileia con Roma attraverso Venezia, Ravenna, Cesena, Urbino, Perugia, Assisi. BIBLIOGRAFIA AA.VV. (1986), Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo, catalogo della mostra 21 aprile - 29 giugno, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma. AA.VV. (1988), Etruria Meridionale conoscenza, conservazione, fruizione, Atti del Convegno di Viterbo 29/30 novembre 1 dicembre, Quasar, Roma. AA.VV. (1987), La Civiltà del Falisci, Atti del XV Convegno di Studi Etruschi e Italici, Civita Castellana 28-31 maggio, Olschki, Firenze. AA.VV., (2012), Civita Castellana e il suo territorio. Ricognizioni archeologiche e archivistiche, Officina edizioni, Roma. Ashby T. 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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 250 La via Latina tra storia e geologia Maria Luisa Felici Geologa, giornalista Giulio Caratelli Psicologo, sociologo, giornalista The Latina street, between history and archeology Parole chiave: Via Latina, Roma, tombe, formazioni piroclastiche Key words: Latina Street, Rome, graves, pyroclastic formations RIASSUNTO La Via Latina era una strada romana, che a differenza delle altre vie di comunicazione romane, non porta il nome del suo costruttore, per cui si può presumere che si tratti di una strada molto antica, precedente alle altre. La via Latina iniziava da Roma, all’altezza di Porta Capena (ma secondo altri autori vicino l’Isola Tiberina) e andava in direzione sud est snodandosi per circa 200 km fino ad arrivare a Casilinum, l’attuale Capua. L’antico tracciato è ancora visibile all’interno della città, nel quartiere Tuscolano, in cui si conserva un tratto del III miglio della via Latina, attualmente tutelato nel Parco archeologico delle Tombe della via Latina, forse pre-romano, costellato da ricche tombe risalenti al I-II secolo d.C. che si affacciavano sul percorso, perfettamente preservate nelle loro decorazioni policrome sulle facciate e all’interno. Nel suo percorso iniziale romano, la via Latina scorre lungo la Valle della Caffarella in cui sono presenti ancora tracce di basolati oltre ai sepolcri ipogei nelle strade adiacenti ed è ad essa che si farà riferimento per la geologia della zona. Sotto questo punto di vista la storia geologica della Caffarella è strettamente connessa con quella del Vulcano Laziale, la cui attività si protrasse per migliaia di anni, alternando fasi effusive (lave) con fasi altamente esplosive, che davano luogo alle colate piroclastiche (tufi e pozzolane). Una sintetica sezione geologica della Valle della Caffarella indica che alla base della valle si trovano le piroclastiti emesse dalla seconda colata piroclastica del Vulcano Laziale, comunemente indicate come pozzolane rosse (le piroclastiti della prima colata non sono visibili nella Valle della Caffarella). Al di sopra delle pozzolane rosse troviamo il tufo litoide lionato emesso nel corso della terza colata piroclastica e al di sopra la quarta colata piroclastica, nota anche con il nome di tufo di Villa Senni o tufo ad occhi di pesce. Questi spessori hanno permesso la coltivazione delle cave di tufo e delle pozzolane fin dai tempi dei Romani. In ultimo la Valle è stata ricoperta da sedimenti alluvionali del fiume Almone, il corso d’acqua che ha inciso l’area e che nasce vicino Monte Cavo. Ai tempi degli antichi Romani, il fiume Almone era identificato con uno spirito divino, il dio Almone e ogni anno, il 27 marzo, si celebrava il suo culto. LA VIA LATINA, DA ROMA A CAPUA La via Latina era una strada, che a differenza delle altre vie di comunicazione romane, non porta il nome del suo costruttore, per cui si può presumere che si tratti di una strada molto antica, precedente alle altre. Infatti, il suo percorso, pur essendo stato tracciato tra il IV e III secolo a.C., era noto in età preistorica e successivamente utilizzato dagli Etruschi per arrivare in Campania tra i secoli VIII e VI a.C. Questa via naturale tra la valle del Tevere e la Campania era già in uso durante l’età eneolitica (circa 2500-1700 a.C.). Nella sua opera Geographia, Strabone racconta che il Lazio aveva tre vie principali: la via Appia, la via Latina e la via Valeria (meglio conosciuta Figura 1. Porta Latina (Foto di Giulio Caratelli) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 come via Tiburtina). La prima bordava la costa fino a Sinuessa, e la terza seguiva il confine della Sabina fino al paese dei Marsi, mentre la via Latina scorreva tra le due fino a raggiungere Casilinum, ovvero la città di Capua. La via Latina iniziava quindi a Roma, da Porta Capena, insieme alla via Appia. Le due vie si separavano molto presto tanto che nelle Mura Aureliane ebbero ognuna una porta propria, Porta Latina e Porta Appia (divenuta poi Porta San Sebastiano), poi la via Latina oltrepassava i Colli Albani e scendeva lungo le valli dei fiumi Sacco e Liri. A questa via, nel 312 a.C., se ne aggiunse una nuova, che attraversava la pianura pontina, la via Appia dal nome del suo costruttore Appio Claudio, mentre la precedente strada fu chiamata semplicemente via Latina perché attraversava il territorio abitato dai popoli latini. Il tracciato della strada subì, durante tutto il III secolo a.C., un lavoro di rettificazione reso ancora più complesso dalle asperità del terreno. Il percorso complessivo della via Latina, da Roma a Capua, era lungo in origine 147 miglia (15 in più rispetto alla via Appia costruita da Appio Clau- 251 valore storico, artistico e architettonico, alcuni dei quali ancora visibili in superficie mentre altri sono sepolti al di sotto dell’attuale superficie o inglobati in edifici di epoca moderna. Considerando la numerosità dei reperti archeologici presenti nell’area della via Latina, in questo lavoro gli autori si limitano necessariamente a citare soltanto i reperti più importanti, essendo l’articolo incentrato essenzialmente sulla caratterizzazione geologica della via Latina nell’area romana (AA.VV., 1988b). Figura 2. Dettaglio della parte superiore della Porta Latina (Foto di Giulio Caratelli) dio), ma per effetto della rettificazione divenne di 129 miglia (circa 191 km), tre miglia in meno rispetto alla via Appia. L’antico tracciato è ancora visibile all’interno della città, nel quartiere Tuscolano, in cui si conserva un tratto del selciato del III miglio, attualmente tutelato nel Parco Archeologico delle Tombe della via Latina. Il percorso di questa antica strada è tradizionalmente suddiviso in quattro tratte, identificate da primo, secondo, terzo e quarto miglio, ciascuna caratterizzata da resti archeologici di grande PORTA LATINA Come detto in precedenza, sia la via Latina che la via Appia Antica uscivano da Porta Capena, una apertura nelle Mura Repubblicane, oggi scomparsa, che si trovava tra il Circo Massimo e la Passeggiata Archeologica; le due strade formavano quindi un unico tratto fino alla biforcazione ancor oggi esistente a piazza Numa Pompilio, dopo le terme di Caracalla. Di lì, la via Latina procede stretta e chiusa da due muraglioni fino a raggiungere, sulla destra e un centinaio di metri prima di Porta Latina, l’ingresso del parco pubblico della Villa degli Scipioni, che si estende da via di Porta Latina Figura 3. Parco delle Tombe Latine: un dettaglio dell’antico basolato della Porta Latina (Foto: Maria Luisa Felici) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 252 Figure 4 e 5. Parco delle Tombe Latine (Foto di Maria Luisa Felici) fino a via di Porta S. Sebastiano, dove si affianca al sepolcro degli Scipioni e al colombario di Pomponio Hylas. Lungo le Mura Aureliane, cinta muraria fatta erigere dall’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) per proteggere Roma dalle invasioni barbariche, si trova la Porta Latina, la quale, a differenza di Porta S. Sebastiano, era già in origine ad un solo grande fornice. Della primitiva torre rimangono la torre semicircolare di destra e la facciata rivestita di travertino mentre la torre di sinistra risale alla seconda metà del XII secolo. Durante i lavori di rinforzo promossi dall’imperatore Onorio, il fornice venne rimpicciolito, mentre la porta fu rialzata di un piano nel quale furono aperte le cinque finestrelle ad arco che si vedono ancora oggi (Caratelli, 1996; Gatto, 2011; De Cerretani, 2015) (Figg. 1 e 2). IL PARCO ARCHEOLOGICO DELLE TOMBE DELLA VIA LATINA Il Parco Archeologico delle Tombe della Via Latina (Figg. 3, 4 e 5), all’interno del più esteso Parco Archeologico dell’Appia Antica, è stato istituito nel 1879 a seguito dell’acquisizione da parte dello Stato di una vasta area in cui erano stati portati alla luce importanti resti archeologici di età romana e si trova tra le attuali via Appia Nuova e via Tuscolana. L’area ospita tombe risalenti al I-II secolo d.C. che si affacciavano sul percorso della via Latina, ricche di decorazioni policrome sulle facciate, volte rivestite d’intonaco dipinto e stucco, con pareti affrescate raffiguranti scene di carattere funerario e pavimenti in mosaico (AA.VV. 1988). Dalla strada è inoltre possibile raggiungere la Basilica di S. Stefano, esempio di impianto paleocristiano eretto sotto il pontificato di Leone Magno intorno alla metà del V secolo. Tra le tombe più importanti ricordiamo il Sepolcro Barberini o dei Corneli, la Tomba dei Valeri, la Tomba dei Pancrazi. Inoltre, all’interno del Parco, è possibile vedere un tratto del III miglio dell’antica via Latina, con la pavimentazione formata dai basoli originali, grandi pietre di forma poligonale in lava basaltica, e le crepidini, ovvero i marciapiedi laterali in terra battuta per il passaggio dei pedoni, ancora in buono stato di conservazione. LA VALLE DELLA CAFFARELLA Subito dopo Porta San Sebastiano, tra la via Appia Antica e l’Appia Pignatelli da una parte e la via Latina dall’altra, si estende in poco più di 180 ettari la Valle della Caffarella (AA.VV. 1988; AA.VV. 1994) (Fig. 6). La storia geologica della Caffarella è strettamente connessa con quella del Vulcano Laziale, i cui materiali piroclastici, tufi e pozzolane, hanno ricoperto la valle (Parotto, 2008; Chiocchini, 2015). In seguito a numerosi interventi di bonifica e di sistemazione nel corso dei secoli, l’area della Caffarella è ancora oggi un tratto di campagna romana caratterizzata da pascoli, campi coltivati e da una ricca flora (tra cui ailanto, robinia, olmo campestre, sambuco, pioppo, quercia, leccio, acero, edera, vitalba, rovo, fiori di vario tipo come colchico, tasso, barbasso, papavero, cardo, sanguinella) e fauna (come merlo, capinera, balestruc- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Figura 6. Delimitazione della Valle della Caffarella Fonte: Carta archeologica-naturalistica scala 1:25.000 allegata a “La Valle della Caffarella: spiccioli di natura” cio, usignolo, rapaci, rondini, cappellaccia, storno, topi di campagna, volpe). Situata al di fuori delle mura della città, la Caffarella è anche un esempio di suburbio della Roma imperiale, con i suoi boschi sacri, sede di ricche ville e tenute dei nobili patrizi romani, tra cui Erode Attico il quale vi costruì la sua casa di campagna. Poi, per effetto delle numerose gallerie scavate ai fini dell’attività estrattiva del tufo, è stata sede di catacombe e di luogo di culto. Infine nel medioevo, sono state costruite torri di guardia e le valche, edifici utilizzati per la lavorazione dei panni di lana. Nel 1500 è divenuto un ricco podere agrico- 253 lo con casali e mulini di proprietà della famiglia Caffarelli da cui la valle prese il nome. Nell’area sono ancora ben visibili ruderi di cisterne, ville, sepolcri, oltre al Tempio di Cerere e Faustina, conosciuto anche come chiesa di Sant’Urbano, il Sepolcro di Annia Regilla denominato anche Tempio del Dio Redicolo, il Ninfeo d’Egeria, il Colombario Costantiniano, datati tra il I ed il II secolo dopo Cristo, resti di torri medievali lungo il fiume Almone, casali del XVI e XVII secolo tra cui la Vaccareccia del 1547, le valche. Ai tempi degli antichi Romani, il fiume Almone era identificato con uno spirito divino, il dio Almone e ogni anno, il 27 marzo, si celebrava il suo culto (conosciuto con il nome Marrana, derivato dal termine Acqua Mariana). Una delle costruzioni romane più caratteristiche della Valle della Caffarella è il Ninfeo di Egeria, costruito nel II secolo d.C. in una grotta e composto da un ambiente di circa 80 m2 coperto da una volta a botte alta 8,50 m, in cui sono state ricavate nelle pareti sei nicchie ad arco e due semicircolari e nella parete di fondo si riconosce una esedra parzialmente conservata nella quale era sospesa una statua rappresentativa del dio Almone su tre mensole. L’acqua emergeva dalle mensole e dalla statua e in base al loro stato di usura si è ipotizzato che lo scorrimento dell’acqua sia durato circa 500 anni. La grotta del Ninfeo comprendeva un portico di fronte al quale si raccoglieva l’acqua, che poi passava in un piccolo lago dove confluivano anche le acque del Fosso Almone formando il Lacus salutaris con riferimento alle proprietà salutari dell’acqua. Nel suo tratto romano, subito dopo la Porta Latina, la via Latina mostra le sue peculiarità geologiche nella valle del Fosso dell’Almone, in cui insiste il Parco della Caffarella. La valle del Fosso Almone tra via Appia Antica, via Appia Pignatelli e via Latina è ubicata nella parte centro- meridionale del territorio comunale di Roma ed è orientata in direzione NO-SE fino all’altezza della via Appia Antica dove l’orientamento diventa O-E (Chiocchini, 2015). Questa area è caratterizzata dalla presenza delle successioni connesse all’attività del Distretto Vulcanico Sabatino a NO e del Vulcano dei Colli Albani a SE, attivi dal Pleistocene medio p.p. all’Olocene (Parotto, 2008). L’attività vulcanica si è sviluppata su un substrato costituito da successioni di ambiente marino di piattaforma (Formazione di Monte Vaticano del Pliocene inferiore p.p.- Pliocene superiore p.p.), marino di acque basse e di transizione (Formazione di Ponte Galeria, Formazione di Monte delle Piche, Formazione di Monte Mario del Pleistocene medio p.p.). Contemporaneamente si è sviluppata una sedimentazione in ambienti di tipo fluviale e palustre (Formazione di S. Cecilia, Formazione di Valle Giulia, Formazione di Fosso Torrino, Formazione Aurelia, Formazione di Vitinia del Pleistocene medio p.p.). Nell’area in esame si riconosce una successione costituita da tre formazioni piroclastiche, connesse all’attività del vulcano dei Colli Albani. Tutta l’area mostra una estesa copertura di depositi eluvio colluviali, caratterizzata da spessore, in alcuni punti, anche di oltre 4 m e da colore e tessitura omogenei. Sono inoltre presenti i depositi alluvionali del Fosso Almone e diversi accumuli di materiali eterogenei dovuti all’attività antropica. Molto schematicamente, la successione stratigrafica dell’area in esame comprende alla base l’Unità del Palatino, cui seguono le Pozzolane Rosse e le Pozzolanelle e infine i Depositi Colluviali e i Depositi Alluvionali. L’Unità del Palatino affiora molto limitatamente solo in destra del Fosso Almone nelle zone di Campo di Marte e della Vaccheria situata nella valle della Caffarella ed è composta da tufo massivo caotico di colore giallo scuro e grigio medio con leucite analcimizzata, pirosseni, biotite, litici di lava grigia e matrice cineritica. Lo spessore è di 3-4 m; l’età radiometrica stimata è 533 +/- 5 ka (Pleistocene medio p.p.). La formazione delle Pozzolane Rosse è visibile in destra del Fosso Almone sui rilievi collinari della Vaccheria del Parco della Caffarella e a SE di quest’ultima. La successione comprende alla base un tufo massivo caotico coerente e semicoerente di colore grigio mediamente scuro con abbondanti scorie di colore grigio scuro fino a nero, più raramente rossastro, fino a 9 cm, rara leucite analcimizzata, litici di lava grigia e matrice cineritica. Al di sopra si riconoscono due livelli a quote 30 m e 40 m s.l.m. nella zona tra Vaccheria e Via dell’Almone, costituiti da paleosuolo sabbioso medio-grossolano, variabile da poco coerente a coerente di colore marrone con spessore di 2-3 m. La successione termina con tufo massivo caotico coerente e semicoerente di colore oscillante tra marrone, rossastro, viola pallido, grigio scuro medio con leucite analcimizzata, pirosseni, biotite, litici di lava grigia e di tufo di colore giallastro, matrice cineritica, con spessore fino a 25 m. Le Pozzolane Rosse sono state riconosciute nel sottosuolo della catacomba di Pretestato dove la successione com- Figura 7. Sezione geologica della Valle della Caffarella LEGENDA: 1. Depositi alluvionali dei corsi d’acqua attuali. 2. Colata di lava. 3. Pozzolanelle. 4. Pozzolane nere. 5. Pozzolane rosse. (Rocce da 2 a 5: prodotti del distretto vulcanico dei Colli Albani). 6. Tufi stratificati varicolori di Sacrofano (prodotti dal distretto vulcanico dei Sabatini). 7. Formazione di S. Cecilia. 8. Formazione di Ponte Galeria. 9. Formazione delle marne vaticane (Fonte: https://www.caffarella.it/il-parco/da-conoscere/la-geologia-della-caffarella/) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 254 prende circa 4-8 m dal p. c. (quota 44 m s.l.m.). L’Unità delle Pozzolanelle affiora solo in sinistra del Fosso Almone in due zone a NO di S. Urbano ed è composta da un tufo massivo caotico di colore moderatamente giallastro con leucite analcimizzata, pirosseni, biotite, abbondanti pomici, litici di lava grigia, scorie nere, matrice cineritica. Lo spessore arriva a 7-8 m. L’età radiometrica stimata è compresa tra 357 +/- 2 ka e 338 +/- 8 ka (Pleistocene medio p.p.). I Depositi Eluvio-colluviali sono molto estesi e più sviluppati in sinistra del Fosso Almone, in particolare nella zona tra la Chiesa Domine Quo Vadis e il Tempio del Dio Redicolo, e nelle numerose vallecole presenti sia in sinistra sia in destra del Fosso Almone. I Depositi Eluvio-colluviali sono costituiti da sabbie limose con contenuto variabile di argilla, di colore marrone scuro e rossastro, a volte pedogenizzati. Questi caratteri sono omogeneamente presenti in tutta l’area. Lo spessore arriva a 4 m. Infine, i Depositi Alluvionali, visibili lungo l’incisione del Fosso Almone, sono rappresentati da sabbie medio-grossolane limoso-argillose di colore marrone, con spessore superiore ai 20 metri. Non va comunque dimenticato che tutta l’area in esame è stata oggetto di interventi antropici almeno a far data dal IV secolo a.C. connessi a costruzione di ville, templi, tombe e strade (via Appia Antica e via Latina) in epoca romana; attività estrattiva di pozzolana in superficie e nel sottosuolo, molto diffusa lungo i rilievi della valle del Fosso Almone; costruzione di edifici nell’ex-Municipio IX a partire da fine 1800/primi anni del 1900; sviluppo e successiva demolizione del Borghetto Latino; costruzione di reti di servizi pubblici. Dal punto di vista morfologico, la valle del Fosso Almone si sviluppa nel tratto inferiore dell’Almone lungo una piana alluvionale tra la via omonima, a quota circa 30 m s.l.m., e la via Appia Antica (ovest), a quota 15 m s.l.m., con pendenza molto bassa (7°). Il corso d’acqua è un affluente di sinistra del Fiume Tevere, ha una lunghezza di circa 21 km, si sviluppa in un bacino idrografico allungato in direzione NO SE di circa 54 km2, percorre l’area tabulare di Ciampino-Capannelle, poi l’area in esame ed infine devia in direzione E-O in corrispondenza della via Appia Antica, passando poi al di sotto della via Cristoforo Colombo. Circa 250 metri prima di questa importante arteria stra- dale il corso d’acqua, che confluiva nel Tevere nei pressi della Via Ostiense, è stato deviato ed intubato nel sottosuolo. Il bacino idrografico comprende i sobborghi meridionali di Roma (Quadraro, Cinecittà, Quarto Miglio e Statuario), le borgate Capannelle e Morena, gli abitati di Ciampino, Marino e parzialmente di Rocca di Papa. Le portate del Fosso Almone sono state stimate negli anni 60 tra 300 e 390 m3/sec. I depositi alluvionali, costituiti da limi e argille con materiale vegetale e da torba e residui vegetali, indicano che durante l’Olocene la capacità di erosione del corso d’acqua è stata molto modesta a causa essenzialmente della bassa pendenza dell’area. La genesi della valle è connessa essenzialmente alla fase glaciale del Würm (0.080 - 0.010 ka), durante la quale il livello di base si è approfondito localmente fino a - 120 m rispetto all’attuale livello, causando una fase di erosione nella bassa valle del F. Tevere e dei suoi affluenti. In seguito il livello di base è risalito producendo la deposizione di sedimenti alluvionali che nella bassa valle del Fosso Almone presentano spessori superiori ai 20 metri. Questo evento sarebbe stato condizionato anche dall’attività del Vulcano dei Colli Albani (Funiciello & Giordano, 2008). Nell’area in esame sono state individuate 6 sorgenti denominate Quo Vadis n. 108, Valle Caffarella n. 110, Caffarella n. 111, Fontana Ninfa Egeria n. 112, Acquasanta n. 113, Acquasanta n. 114. Le sorgenti emergono alla base dei rilievi collinari a quote comprese tra 27 m e 19 s.l.m. La portata misurata nel mese di aprile 2014 è compresa tra 0,125 e 2 l/sec e la temperatura tra 14,9°C e 17°C. Il confronto delle portate e temperature indica che in circa 30 anni non si sono verificate variazioni sensibili, semmai il problema più serio consiste nella qualità delle acque, in cui nel corso degli anni sono state riscontrate tracce di inquinamento da parte di fosfati e nitrati. Se da punto di vista della franosità, i movimenti gravitativi dei versanti sono abbastanza contenuti, altrettanto non può dirsi per le numerose voragini che caratterizzano il territorio rientrante nel Parco della Caffarella e anche nelle zone limitrofe. Infatti, l’intensa attività estrattiva ai tempi dei Romani che ha interessato le Pozzolane Rosse, molto utilizzate per produrre, insieme alla calce idrata, la malta idraulica, si è svolta in superficie, lasciando visibili tracce di cave inattive, con tipica geometria a semicerchio, con la tecnica delle “camere Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 e pilastri”. Alcune delle gallerie abbandonate sono state utilizzate nel corso del tempo come catacombe, luoghi di culto, fungaie, rifugi sotterranei. BIBLIOGRAFIA AA. VV. (1988), La Valle della Caffarella: spiccioli di natura (a cura di Geraci S.), Roma, pp. 1-19; 39-68. AA. VV (1994), La Valle della Caffarella: la storia ci racconta, Roma. AA.VV. (1988), Il Patrimonio Archeologico della IX Circoscrizione (a cura di Sementilli M. L.), Roma, pp. 16-25, 29-32, 38-42, 45-76, 111-113, 115-130. Caratelli G.(1996a), La Torretta dell’Angelo, l’Aniene è, Anno X n. 96-97 luglioagosto 1996, p. 34. 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Nello specifico l’indagine geo-storica, storiografica, topografica ed archeologica si è focalizzata sulla Magnesia e sulla piana di Volos, dove sorge l’importante centro di Demetriàs. L’arco temporale preso in esame si estende dal IV sec. a.C. al I sec. d.C. Quest’area può rappresentare una sorta di osservatorio privilegiato per tentare di comprendere aspetti, tutt’altro che secondari, che hanno caratterizzato la Magnesia, sia da un punto di vista geo-morfologico che storicoarcheologico. Il prerequisito essenziale Figura 1. Cartina della Magnesia tratta dal satellite (rielaborazione autore) LEGENDA Strade —— ---—— —— —— —— Tracciato 1: da Omolio a Demetriàs (percorso costiero) Tracciato 2: da Sepias ad Aphete Tracciato 3: da Omolio a Demetriàs Tracciato 4: Valle di Agyia Tracciato 5: da Demetriàs ad Aphete Antica configurazione del Lago Boibes Quadrato: luogo certo Punto Blu: area di possibile localizzazione con presenza di resti archeologici Punto Rosso: ipotesi di localizzazione per questa ricerca è lo studio geo-storico del territorio esaminato per giungere ad una localizzazione e contestualizzazione topografica ed archeologica degli insediamenti e delle vie di comunicazione. Un essenziale confronto incrociato dei dati storico-letterari ed archeologici deve essere messo in atto per cercare di definire, con la maggiore precisione possibile, la localizzazione delle aree, il probabile andamento degli assi viari e l’ubicazione dei centri più controversi. La nostra ricerca adotterà un metodo analitico-descrittivo ed interpretativo, si svolgerà attraverso una presentazione geografica del territorio ed uno studio dei centri minori della regione magnetica. Si tenterà, quindi, di affrontare alcuni importanti aspetti e problemi della geografia antica della Magnesia, cercando di superare alcuni dei principali ostacoli, rappresentati soprattutto dai mutamenti del quadro oro-idro-geografico causati da eventi naturali e fattori antropici, per la ricostruzione del sistema stradale e dei paesaggi attraversati. GEOMORFOLOGIA GENERALE DELLA MAGNESIA La Magnesia, antico regno posizionato nella parte più orientale della Tessaglia, si presenta come una striscia di terra che si affaccia sul golfo termaico, lunga approssimativamente 350 km. e larga 30 km. (Talbert-Bagnal 2000: mappa 55). Il territorio è caratterizzato da una catena montuosa costiera, compresa tra i monti Olimpo ed Ossa ed il massiccio del Pelio (Stählin 2001: 61)1. Questo limite naturale divide il golfo termaico (a S della prefettura di Salonicco) dalla piana della città di Larissa (odierno capoluogo) e dal Golfo di Volos. Più si procede verso S, più la dorsale montagnosa si assottiglia, creando la penisoletta magnetica (Fig. 1). Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 256 Figura 2. Valle di Tempe e Monte Olimpo dalla cima del Monte Ossa (foto autore) La catena si articola in tre parti, il cui inizio è la Valle di Tempe che rappresenta un passo strategico nel Nord della Tessaglia in quanto via cruciale di collegamento tra Larissa, situata al centro dell’omonima piana, e la costa. Questa valle costituisce il punto di separazione tra il M. Olimpo ed il M. Ossa e si presenta nella forma di una gola, lunga 10 km. e stretta circa 250 mt., all’interno della quale scorre il fiume Peneios. Questo è il più importante corso d’acqua della Tessaglia e viene chiamato oggi Salamvriàs; lungo 216 km, scaturisce dal versante orientale del M. Pindo, bagna Trikkala e Larissa, per poi sfociare nel golfo termaico. Il geografo greco Strabone mette in evidenza come la depressione di Tempe, circondata da vette da tutte le parti, fosse ad una quota più alta rispetto al mare (Strabon, Geo., 9, 5.2). Di particolare rilevanza risulta anche l’annotazione geomorfologica secondo cui la valle di Tempe è definita “frattura” prodotta da terremoti: “ἐχούσης τὰ χωρία ὑπὸ δὲ σεισμῶν ῥήγματος γενομένου” (Strabon, Geo., 7, fr. 14-15)2. I sistemi montuosi, Olimpo-OssaPelio, anche se con qualche interruzione, si concludono a metà della penisoletta della Magnesia, trasformandosi in un territorio collinare che raggiunge i 500 metri. La ripida costa sul lato orientale della Magnesia prosegue quasi rettilinea fino al mare. È interessante notare che Strabone nella descrizione geografica indichi come i sistemi montuosi possiedano un andamento che conferisce una morfologia quasi circolare alla Tessaglia, ad eccezione del Pelio e dell’Ossa, i quali “non circondano nel loro circuito una vasto territorio” poiché hanno un andamento quasi rettilineo che segna un confine naturale (Strabon, Geo, 9, 5,1). Anche lo storico greco Erodoto di Alicarnasso, in un passo in cui descrive brevemente la Tessaglia, mette in risalto la funzione dei massicci Ossa/Pelio che vengono proprio definiti come una “barriera” (Erodoto, Storie, 7, 129). È il braccio di mare chiamato Canale di Trikeri a dividere la Magnesia dall’Eubea, ed è l’unica porta di accesso al Golfo di Volos. Il M. Ossa, odierno Kissavos, a N è delimitato dalla Valle di Tempe ed a S è separato dal massiccio del Pelio da una ampia frattura (fig.2) (Stählin 2001). L’avvallamento forma una piccola pianura denominata Agyia o Agia, dove scorre il fiume, oggi dalla ridotta portata d’acqua, chiamato Agyokampos, che sfocia nella città omonima (fig.3). Questa valle può essere considerata come il confine naturale tra Ossa e Pelio (Claudii Ptolemaei, Geo, 3, 13, vv. 16,18,19). Il Pelio appartiene geologicamente alla cintura sedimentaria che un tempo circondava il massiccio dell’Olimpo, dalla Calcidica fino al M. Gavrini, nel si- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 stema del M. Othrys orientale. Il Pelio è il massiccio sopravvissuto agli sprofondamenti risalenti all’epoca Terziaria corrispondenti ai golfi termaico e pagasitico. Da un punto di vista geologico non rappresenta una catena montuosa vera e propria ma corrisponde più ad un massiccio caratterizzato da vari altopiani, che possono raggiungere anche i 14001500 mt. di altezza. Il sistema montuoso si estende dalla Valle di Agyia, a N, fino alla punta più estrema della penisoletta magnetica denominata M. Tisaion, a S. Il massiccio del Pelio si affaccia ad E verso Volos, dove si apre una piccola valle protesa sul Golfo di Pagasai, ed ad O verso il golfo termaico (Sivignon, 1975). Come sottolinea Stählin, nonostante le sue altitudini variabili, il massiccio rappresenta una catena ininterrotta, offrendo come “l’impressione di un esteso ed ombroso bastione che separa l’interno della Tessaglia dal mare” (Stählin 2001: 64). A riguardo di quest’area Strabone afferma che la costa del Pelio è in gran parte rocciosa e che la sua lunghezza è di 80 stadi, 14 km. circa (Strabon, Geo, 9, 5, 22). L’indicazione relativa alla lunghezza dell’area del massiccio del Pelio e del M. Ossa che il Geografo indica come coincidente, sembra difficile da sostenere considerate le differenze geomorfologiche tra Ossa e Pelio, tranne che si faccia riferimento esclusivamente alla cima più alta del massiccio del Pelio, il M. Pliassidi. 257 A causa della sua impervia conformazione fisica, la Magnesia non ha grandi vie di comunicazione. Attraverso un’analisi geomorfologica del territorio e seguendo le direttrici indicate dalle fonti in nostro possesso cercheremo di descrivere, anche se in forma necessariamente sintetica, il territorio ed i centri, partendo dalla Valle di Tempe a N fino ad arrivare al Golfo di Volos a S. I principali assi viari della Magnesia, in direzione N-S, risultano essere due: uno lato costa, parte dalla Valle di Tempe, presso la città di Omolio ai piedi del M. Ossa, prosegue lungo la costa, aggira la punta estrema del Golfo e giunge a Demetriàs, antica città della Piana di Volos. L’altro, sul versante interno, inizia sempre dalla stessa Valle, segue i piedi del Pelio, si inoltra nella piana di Larissa, supera il lago Boibe ed alcune zone paludose, per poi, oltrepassando alcune basse colline, arrivare nuovamente a Demetriàs. Un’ulteriore via, E-O, percorreva la valle di Agyia (Fig. 1 tracciato 4 in arancione), tra Ossa e Pelio, e, collegando la costa alla Piana di Larissa, consentiva di dirigersi o verso Demetriàs a S o verso Tempe a N. L’autore macedone Polieno offre un’indicazione interessante relativa ad un sentiero che attraversava l’Ossa e che venne realizzato da Alessandro Magno nell’autunno del 336 a.C. per aggirare Tempe, sorvegliata dai Tessali. Il Re macedone avrebbe creato una strada che consentisse all’esercito di oltrepassare il M. Ossa, altrimenti invalicabile, scavandone le rocce scoscese e facendo realizzare piccoli “gradini”. Questo percorso consentì di aggirare le difese tessale a Tempe, colpendole alle spalle, ed esso fu sucessivamente conosciuto come “Αλεξανδρου κλιμακα”, scala di Alessandro (Polyaenus, Strat., 4, 3, 23). Al di là della vericidità o meno della realizzazione del percorso, il passo di Polieno risulta di fondamentale importanza in quanto mette in risalto come l’asperità geomorfologica del territorio magnetico incidesse profondamente nei percorsi viari tanto da indurre il Re a creare una via alternativa che consentisse l’accesso nella protetta valle di Tempe, valicando il M. Ossa. Altre fonti importanti a cui riferirsi, per fare luce sull’andamento dei tragitti, oltre i citati Strabone, Polieno, sono Scilace e Plinio il Vecchio. Infatti la loro presentazione dei centri della Magnesia consente di proporre una possibile ricostruzione dei percorsi. Il viaggiatore greco Scilace, in particolare, riporta, in successione, un elenco di città: “Εθνος εστι Μαγνητες παρα Θαλατταν και πολεις αιδε Ιωλκος, Μεθωνη, Κορακαι, Σπαλαυθρα, Ολιζων, Ισαι λιμην. Εξω δε του Κολπου Παγασητικου Μελιβοια, Ριζους, Ευρυμεναι, Μυραι” (Scilace di Carianda, Perip., 28). Anche l’erudito romano Plinio passa in rassegna i centri tessali nella sua descrizione del territorio: “Thessaliae adnexa Magnesia est, eius fons Libethra, oppida Iolcos, Ormenium, Pyrrha, Methone, Olizon, promuntorium Sepias, oppida Castana, Spalathra, promuntorium Aeantium, oppida Meliboea, Rizhus, Erymnae, ostium Penii, oppida Homolium, Orthe, Iresiae, Pelinna, Thaumacie, Gyrton, Crannon, Acharne, Dotion, Melite, Phylace, Potniae. Epiri, Achaiae, Atticae, Thessaliae in porrectum longitudo CCCCXC traditur, latitudo CCIIIC” (Pliny, Nat. Hist., 4, 9, 32). I COLLEGAMENTI VIARII E LE CITTÀ DELLA COSTA ORIENTALE DELLA MAGNESIA La prima direttrice che da N scende verso S (Fig. 1 tracciato 1 in rosso), seguendo la costa magnetica del golfo termaico, potrebbe verosimilmente partire dall’area di Omolio (Fig. 1 n.1), antica città citata dalle fonti, situata su di un’altura alle pendici dell’Ossa presso la Valle di Tempe (Strabon, Geo., 9, 5,22; Scilace di Carianda, Perip., 28; Livy, Ab Urbe, 42, 38; Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32; Apollonius Rhodius, Arg., 1, vv. 593-600; Stählin 2001: 69 n. 74). Oggi la maggior parte degli studiosi identificano Omolio proprio con le rovine situate presso l’omonimo centro moderno dove l’archeologo greco Aρβανιτòπουλος trovò resti di un abitato del V sec. a.C. (Tabula Figura 3. Valle di Agyia e Monte Pelio dalla cima del Monte Ossa (foto autore) Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 258 imperi Byzantini: 173; Leake 1835: 414415; Αρβανιτòπουλος 1911: 280-285; Mézières 1854: 245; Stählin 2001: 71; Rogers 1932: 88-90; Παπαχατζής 1959: 3-21; Van Buren 1973: 40-43; Miller 1979: 3-5.; Helly 2004: 101-124, 110; Helly 2010: 391-418). A N di Omolio, seguendo questo ipotetico percorso, troviamo il centro Paleopyrgos (Fig. 1 n.2), la cui identificazione è stata forse resa possibile dalla scoperta di resti di mura di un abitato (Stählin 2001: 69-70). Proseguendo verso S, lungo la costa, si potevano raggiungere le antiche città di Karitsa (Fig. 1 n.3) e, a poca distanza, Eurymenai (Fig. 1 n.4) (Strabon, Geo., 9, 5, 22; Apollonius Rhodius, Arg., 1, 597; Procopio di Cesarea, De Aed., IV, 3, 14; Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32; Stählin 2001: 73; Σδρόλια 2000: 197-204; Helly 2010: 391-413)3. Vicino al centro di Eurymenai doveva sorgere Rhizus (Fig. 1 n.5) (Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32; Scilace di Carianda, Perip., 28; Stefano di Bisanzio, Eth., 545,4). Secondo l’archeologo greco Σδρόλια, potrebbe essere ubicata vicino al centro di Paliouria, dove sono emersi blocchi di pietra lavorati, databili presumibilmente nel II-I sec. a.C., cocci di età ellenistica, monete e sepolture di età tardoantica (Σδρόλια 2006: 73-74, 403-419; Δουλγέρη-Ιντζεσίλογλου 2000: 182). Un’altra importante città costiera è Meliboia (Fig. 1 n.6), la cui esatta localizzazione, probabilmente nell’avvallamento tra il M. Ossa ed il massiccio del Pelio, ancora oggi risulta estremamente complessa a causa della mancanza di dati archeologici certi (Strabon, Geo., 9, 5,16, 22; Omero, Il., 2, 717; Lucano, Guerra civile, 6, 354; Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32; Stählin 2001: 74; Wace 1906: 143). Lo storico romano Livio, nella descrizione degli scontri tra il re di Macedonia Perseo, figlio di Filippo V, ed i Romani avvenuti tra il 175 ed il 168 a.C., indica Meliboia, posta ai piedi del M. Ossa, quale centro di controllo per la via che portava alla città di Demetriàs nel Golfo di Volos (Livy, Ab Urbe, 44,13). È difficile stabilire con certezza se l’autore si riferisca ad una via marittima o terrestre. Considerata comunque la collocazione costiera del centro è presumibile che Meliboia fosse in posizione di controllo sia della strada che della rotta verso Demetriàs. L’ipotesi di Meliboia quale centro portuale è difficile da confermare, tuttavia rimane certo il suo ruolo strategico nella principale strada militare che portava a Demetriàs. La via si sviluppava lungo la costa e doveva partire dal fiume Peneios, presso Omolio, passare da Karitsa/Eurymenai e giungere a Meliboia, sulla biforcazione delle strade che da qui dipartivano. I percorsi infatti qui si dividevano. Una direttrice lungo la costa, conduceva da Meliboia a Keramidi/Kasthania; un’altra sezione, che oltrepassava il M. Ossa e andava verso O, portava fino a Larissa, attraverso la pianura di Agyia. Era possibile da qui intraprendere il tragitto che si dirigeva verso Demetriàs a S, seguendo i piedi del massiccio del Pelio, costeggiando le rive del lago Boibes (oggi Karla) e oltrepassando alcune basse colline. Un ulteriore sentiero collegava anche Kasthania con Demetriàs. Infatti da Kasthania si scollinavano le alture del massiccio del Pelio lungo un percorso montano, per ricollegarsi presso il Boibes al sentiero che portava a Demetriàs. La città di Kasthania o Kasthanaia (Fig. 1 n.7) è identificabile secondo Stählin con delle rovine a N della odierna città di Keramidi (Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32; Stählin 2001: 75; Mézières 1854: 218, 221). Altri centri situati lungo la direttrice costiera erano Ipnoi (Fig. 1 n.8), probabilmente nell’area di Venetos, e Sepias (Fig. 1 n.9), vicino a Capo Sepias, oggi Pouri, di incerta localizzazione (Erodoto, Storie, 7, 188; Strabon, Geo., 9, 5,22; Stählin 2001: 75; Αδρύμη-Σισμάνη 1996: 331-335; Αδρύμη-Σισμάνη 1996: 11-15). Nella stessa area doveva forse sorgere Thaumakie (Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32). Questo territorio descritto è la parte continentale della costa della Magnesia. Superato Capo Pouri, ci si incammina verso la sezione finale della dorsale montagnosa del Pelio che ha la conformazione di una sottile striscia di terra, incurvata verso SO, protesa verso il mare e caratterizzata da basse colline. Questa parte della Magnesia costituisce la penisoletta vera e propria che chiude ad E il Golfo di Volos e lo separa da quello termaico. Sulla base della documentazione in nostro possesso non sembrerebbe che la parte esterna della penisoletta fosse abitata in antico, probabilmente per la sua asperità; comunque è possibile ipotizzare un percorso che da Sepias, lungo la costa, si dirigesse verso il centro di Aphete e l’altura del Tisaion (Fig. 1, tracciato 2 rosso tratteggiato). LE VIARIE E LE CITTÀ DEL VERSANTE OCCIDENTALE DELLA MAGNESIA Fino ad adesso abbiamo descritto la direttrice che da N scende verso S, seguendo la costa magnetica del golfo Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 termaico. Un secondo asse si sviluppava lungo l’area O della Magnesia (confinante con la Pelasgiotide) che inizia dalla Valle di Tempe ed arriva alla costa demetriaca (Fig. 1, tracciato 3 in blu). La parte interna della Magnesia è caratterizzata dalle pianure situate ai piedi del M. Ossa e del massiccio del Pelio. Tale area si può considerare come parte integrante della Pianura di Larissa. Questa lambisce ad O il M. Ossa, confina a N con la Perrebia ed a S con il Lago Boibes. Partendo da Tempe iniziava la valle propriamente detta. Lo studio di quest’area è reso oltremodo complesso da una serie di problemi di difficile risoluzione: i profondi, ed a volte radicali, cambiamenti geomorfologici sopravvenuti nel corso del tempo; l’assenza di dati archeologici certi e la poca chiarezza delle fonti storico-letterarie a disposizione. Dalla Valle di Tempe si doveva sviluppare una direttrice verso la Piana di Keserli. Questa inizia a NE di Larissa, vicino all’imbocco della Valle di Tempe; si tratta di una piccola depressione, delimitata a N dal fiume Peneios, ad E dal M. Ossa e ad O da alcune basse colline (Stählin 2001: 81). Livio, nella narrazione delle guerre macedoniche, si sofferma proprio sull’area da noi analizzata, mettendo in evidenza che l’esercito macedone, dopo una battaglia vittoriosa contro i Romani, si accampò nell’area di Mopsion, altura tra Larissa e Tempe (Livy, Ab Urbe, 42, 61). L’indicazione risulta di grande interesse, perché consente, da un lato, di confermare la strategicità di tale area, ben protetta dalle alture, e, dall’altro, di ipotizzare un asse viario percorribile dalle truppe. La piana è divisa in due settori dalla collina di Baltsi: la parte più a N si chiama Kalamitsa, quella più meridionale è il basso piano di Toibasi. La parte S della piana è caratterizzata dalla piccola catena di colline Mopsion/Chasabali. Nella zona meridionale di questo piccolo prolungamento del Pelio, lateralmente alle colline, passavano vie che conducevano verso S all’ingresso della Valle di Agyia e verso O nel Dotion/Piana di Larissa (Leake 1835: 420-451; Γεωργιάδης 1894: 48; Lolling 1889: 154; Helly 1987: 134-139; Αρβανιτόπουλος 1910: 241-254). Secondo Sthälin tali vie portavano prima verso Karalar, identificabile forse con l’odierno villaggio di Eleutherio (Fig. 1 n.26), e poi verso il fiume Asmaki, oggi solo un torrente (Stählin 2001: 83). Tutte quest’aree segnavano il confine N del Lago Boibes. La pianura presso Eleutherio/Karalar rappresenta un ulteriore collegamento 259 viario tra la Piana di Larissa ad O, quella di Keserli a N e quella di Agyia ad E. Superato quest’incrocio e proseguendo a S del Dotion, sul confine occidentale del Boibes, si trovavano le Didima Ore (cime gemelle) dove probabilmente erano ubicate Lakereia ed Amyros (Fig. 1 n.10), due importanti centri citati dalle fonti, la cui ubicazione è comunque oggi ancora controversa (Apollonius Rhodius, Arg., 4, v. 615; Stählin 2001: 83). In questa area doveva scorrere il fiume Amyros. Considerata la diversa attuale conformazione del territorio è forse possibile identificare questo fiume con il Deres, oggi Milolavkos, un torrentello che scende verso il Boibes (Stählin 2001: 83-84). Superata quest’area, si arriva nella parte centrale della Magnesia, dove si trova il già citato Lago Boibes. Questo, in antico, si situava parallelamente alle propaggini del Pelio verso O e, secondo le ricostruzioni più attendibili, le sue acque bagnavano gran parte della zona centro-orientale della Piana di Larissa, dalla Valle di Agyia, alle pendici dell’Ossa, fino alle colline a N di Demetriàs. Dalle risultanze geologiche sembra che il Boibes si sia formato dall’accumulo stagionale delle acque dei fiumi Asmaki ed Amyros, che avrebbero dato vita a due distese lacustri: quella a N prese il nome di Nessonis e quella a S di Boibes (Sivignon 1975: 402; Strabon, Geo. 1996: 244 n. 9; Helly- Bravard-Caputo 1997: 30 e ss.) Secondo un’interessante notizia fornitaci da Archino, il Boibes confluiva nel lago Nessonis, ma bisogna tener conto del fatto che né Omero né Erodoto, ma solo Strabone, menzionano tale lago (Stählin 2001: 83-84). Attraverso un’analisi geomorfologica del territorio, si evincerebbe che forse non è mai esistito un lago con il nome Nessonis e che il Boibes invece doveva avere sicuramente una portata nettamente superiore rispetto a quella odierna (Sivignon 1975: 402; Helly-Bravard-Caputo 1997: 31). Si tenga inoltre presente che tra il 1955 ed il 1960 si è verificato il prosciugamento artificiale del lago che al giorno d’oggi ha invece ripreso una sua funzionalità per consentire l’irrigazione dei terreni circostanti (Fig. 1 antica configurazione del lago in viola) (Sivignon 1975: 402; Strabon, Geo. 1996: 244 n. 9; Helly-Bravard-Caputo 1997: 33). Attraverso lo studio del Catalogo delle Navi e di Strabone abbiamo notizia di due centri importanti, che sorgevano intorno al Lago Boibes; si tratterebbe della città omonima di Boibe a SE (Fig. 1 n.11), e di quella di Glaphere a S (Fig. 1 n.12) (Strabon, Geo., 9, 5,15; Omero, Il., 2, vv. 711-715). La loro ubicazione troverebbe una conferma in alcuni resti archeologici; la prima in quelli ritrovati vicino alla odierna città di Kanalia e la seconda presso l’omonima Glafiri (Γεωργιάδης 1894: 130; Hope Simpson-Lazenby 1970; WindsantVermeulen 1975; Stählin 2001: 85-86; Decourt-Nielsen-Helly 2004: 689). Fondamentale, per la ricostruzione delle direttrici viarie nella zona centrale della Tessaglia, risulta il contributo di Bruno Helly. Lo studioso francese descrive alcuni itinerari in epoca storica, prendendo spunto da un passo di Tito Livio nel quale Perseo, figlio di Filippo V, parte dal suo campo, in pianura, per andare a Krannon; in un altro brano, tratto da Polibio, invece vi è uno spostamento degli Etoli che da Tebe, in Acaia Ftiotide, arrivano a saccheggiare la Pianura di Larissa. Helly ipotizza che in entrambi i casi gli autori antichi avessero ripreso gli itinerari percorsi dal mitico eroe tessalo Erysichthon, e sottolinea che Larissa è al di fuori di questi sentieri. Per avvalorare questa ipotesi egli distingue due tipologie di strade: quelle sacre e quelle militari. Per quanto riguarda le vie sacre analizza l’itinerario di Apollo da Tempe, passando per Iolkos, nella Piana di Volos, fino a Delfi, che la tradizione ha conservato nell’Inno omerico ad Apollo (Helly 1987: 139). Il testo si data alla fine del VII sec. a.C. o inizi VI sec. a.C.. Il dio, venendo dalla Pieria, attraversò il paese degli Eniani e dei Perrebi prima di raggiungere Iolkos lungo la strada più diretta (Omero, Inno ad Apollo, vv. 214-220). Il paese degli Eniani è il Dotion e confina a N con quello dei Perrebi. Helly contesta la tesi di Béquignon che invece suppone un passaggio montano di Apollo, presso Ossa e Pelio (Béquignon 1932 : 7-8; Helly 1987: 140). L’interpretazione di queste fonti, anche se di ambito mitologico, consente di cogliere il legame che il Golfo di Volos aveva con la Piana di Larissa. La seconda tipologia viaria descritta da Helly riguarda le strade militari. Egli menziona un passo di Senofonte in cui viene presentata un’operazione militare condotta dal generale Agesilao nel 395 a.C., e segue la ricostruzione, operata da Decourt, del possibile tragitto che Agesilao e la sua truppa intraprendono dall’Asia fino alla Grecia centrale, evitando le grandi città come Larissa, Krannon, Skoutussa e Farsalo. Decourt suppone che il tragitto parta dall’entra- ta N della Tessaglia, ovvero dalla Valle di Tempe, per poi seguire una direttrice che attraversava la pianura tessala, il Dotion, da N a S, evitando Larissa, valicando i M. Revenia, in direzione della Valle dell’Enipeo, più a O di Larissa (Helly 1987: 142; Decourt 1986: 131135; Bequignon 1937: 36-38, 290-291). Helly versa nella discussione le opere di un pittore della fine del XVIII sec., G.B. Pouqueville, viaggiatore attraverso la Grecia che risiedette presso Ioannina, Tessalonica e Larissa. Pouqueville ci ha lasciato un’importante ricostruzione dei suoi itinerari in alcuni quadri, nei quali descrive i principali tragitti nella pianura forse coincidenti con quelli antichi: dapprima il percorso da Larissa a Tempe, che oggi corrisponde all’attuale strada LarissaMakrichori-Tempe; poi altre vie: una da Larissa ad Agyia e soprattutto un’altra che conduce da Ampelakia a Farsala. L’itinerario verso Farsala passa da Chasabali (Erimon), Omorphochori (Nechali), incrocia la strada da Larissa a Volos (ad E di Larissa), passa ad E di Nikaia ed infine a Nikaia stessa. Helly pensa che vi fossero state un numero elevato di strade nella pianura tessalo-orientale che non si irradiavano da Larissa e non ne tenevano conto come punto di passaggio. Ciò risulta di difficile comprensione se si tiene conto del fatto che Larissa rappresentava uno snodo centrale della pianura tessala, ma lo studioso invece sostiene che ciò è naturale se si considera che la città è nata e si è sviluppata posteriormente alla definizione dei principali assi viari e conclude il suo ragionamento supponendo che queste strade dovessero percorrere degli itinerari verso centri in quel momento importanti, in particolare verso Lakereia e Amyros (Helly 1987: 140- 145). LA PIANA DI VOLOS E LE CITTÀ DELLA PENISOLA MAGNETICA ALL’INTERNO DEL GOLFO Oltre il lago Boibes, seguendo la direttrice verso S, e superate le colline dietro Demetriàs, si accede alla parte centrale del Golfo di Volos. Caratterizzato da una piccola piana omonima tale Golfo è una delle zone più importanti non solo della Magnesia ma dell’intera Tessaglia, sia per la vicinanza geografica alla pianura tessala, di cui era l’unica via d’accesso dal mare, sia perché area portuale, commerciale e militare. La Piana di Volos, ristretta area di terreno alluvionale a S del Boibes, è la parte più settentrionale del Golfo. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 260 La zona è ben protetta naturalmente, in quanto ad E si trova l’altura di Goritsa che scende fino al mare verso O creando una barriera; ad O invece vi è la collina di Demetriàs, i cui piedi giungono ad E del centro, segnando una via, a SO, verso il centro di Halmyros (nella piana di Halos, in Pelasgiotide). A NO la Piana di Volos è chiusa dal massiccio del Pelio ed è circondata da un arco uniforme di colline che arrivano fino al Boibes, confinando ad E con il massiccio del Pelio. La via d’accesso dalla Piana di Larissa, a N, alla Piana di Volos, a S, è la sella chiamata Pilaftepé, che ad O interrompe le montagne della Pelasgiotide e le colline alle spalle di Volos. In questo avvallamento di circa 200 mt., passavano le vie di comunicazione per Dimini/Sesklò e poi quelle più importanti per Larissa e Pherai (Stählin 2001: 87). Oggi la piana, dominata dalla città di Volos, è caratterizzata da tre corsi d’acqua: Kaliakudonas Rema, Krausidonas ed Almeria. La Piana di Volos presenta tracce di insediamento dall’età neolitica fino a quella storica. Dimini, Sesklò, Iolkos e Pagasai (Fig. 1 n.19, n.20, n.21, n.22) furono i centri più importanti fino alla fondazione di Demetriàs (Fig. 1 n.23) nel 293 a.C. per opera di Demetrio Poliorcete (Esiodo, fr. 19; Pindaro, Nemea, IV, 89; Erodoto, Storie, 5, 94; Strabon, Geo, 9, 5,15; Scilace di Carianda, Perip., 28; Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32; Livy, Ab Urbe, 44, 12 8; Omero, Il. 11, vv. 259; Apollonius Rhodius, Arg., I, v. 441; Wace-Thompson 1912; Παπαχατζις 1954; Schachermeyr 1954; Schachermeyr 1955). In successione, ad E di Volos, altre importanti città che sorgevano in questa piana sono Neleia, Amphanai e Orminion/Goritsa (Fig. 1 n.23, n.24, n.25) (Bakhuizen 1987: 323; DecourtNielsen-Helly 2004: 676-731). La seconda, in particolare, viene collocata da Plinio tra Iolkos e Methone (Pliny, Nat. Hist., 4, 32). Di sicuro interesse risulta un’indicazione fornita da Strabone riguardante una strada composta da due segmenti: il primo di 7 stadi da Demetriàs a Iolkos, il secondo di 20 stadi da Iolkos ad Orminion (Stählin 2001: 87)4. Seguendo il percorso che parte da Volos e segue tutta la costa fino alla punta più estrema della penisoletta magnetica (Fig. 1, tracciato 5 in giallo) la prima città che si incontra è Methone (Fig. 1 n.13), citata da Plinio, Scilace e Strabone (Strabon, Geo., 9, 5,16; Pliny, Nat. Hist., 4, 9,32; Scilace di Carianda, Perip, 28). Il carente stato della documentazione archeologica non consente di pronunciarsi con sicurezza sulla sua esatta posizione. La città successiva, sempre all’interno del Golfo, seguendo l’elenco fornitoci da Scilace, è Koraki (Fig. 1 n.14) (Stählin, 2001). Stählin localizza il sito nell’area del piccolo centro di Kala Nerà, dove sono state trovate importanti evidenze archeologiche, tra cui i resti di un santuario oracolare di Apollo di Korope (Fig. 1 n.15) (Lolling 1889: 69; Αρβανιτόπουλος 1906: 123-30). Considerata l’importanza politico-religiosa di tale area sacra, è possibile ipotizzare che l’asse viario diretto verso la parte finale della penisoletta magnetica seguisse questo itinerario. Scilace e Plinio collocano, non molto lontano da Koraki, il centro di Spalauthra (Fig. 1 n.18), all’interno del Golfo, anche se di controversa ubicazione (Pliny, Nat. Hist.,4, 9,32; Lolling 1889: 99-352, 154; Γεωργιάδης, 1894: 13; Wace A. 1906: 143-168; Mézières 1984: 149-266, 169-172; Stählin 2001: 77; Napolitano 2002: 104-106; Decourt- NielsenHelly 2004: 721). Nell’elenco di Scilace segue il centro di Olizon (Fig. 1 n.16) (Scilace di Carianda, Perip., 28). Sebbene non risulti particolarmente chiara la sua localizzazione a causa di un’incongruenza delle fonti, Stählin lo identifica in un Paleokastro sito sulla collina chiamata Vigla o Spiada, che si eleva tra l’odierno centro di Mavri Petra ed il paese di Sant’Andrea, nel punto più stretto della striscia di terra in cui la penisoletta della Magnesia disegna un arco (Pliny, Nat. Hist., 4,32; Plutarch, Them., 8, 22; Αρβανιτόπουλος 1906: 126-127; Αρβανιτόπουλος 1910: 217; Stählin 2001: 78). Nell’ultima parte della penisoletta, proprio dove sorge l’odierna città di Trikeri, precisamente sulla altura denominata Aiantion, vicino al moderno centro di Agia Kiriaki, si situa oggi Capo Kavulia (Claudii Ptolemaei, Geo, 3, 13, vv. 16,18,19). In quest’area sorgeva l’altura del Tisaion, forse oggi identificabile con la collina del Bardzogja/Tisaio Oros (Stählin 2001: 78). Da Polieno, Polibio, Livio ed Appiano apprendiamo che la cima del Tisaion era al centro di tutta una rete di segnalazioni visive operate attraverso fuochi; da qui le informazioni raggiungevano gli strategici centri di Pagasai/Demetrias (Polybius, Storie, 10, 42; Livy, Ab Urbe, 28, 5; Appian, Hist., 12, 35). Un altro centro citato dalle fonti è Aphetai o Aphete (Fig. 1 n.17) (Erodoto, Storie, 7, 193; Strabon, Geo., 9, 5,15; Apollonius Rhodius, Arg., 1, v. 591). Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 Incrociando i dati a nostra disposizione sembra emergere che Aphete sia uno degli ultimi centri della Magnesia a S; Stählin la identifica con l’odierna Platania all’esterno del Golfo di Volos, ma una localizzazione precisa risulta assai problematica, soprattutto per la carenza di dati archeologici (Stählin 2001: 79; Wace 1906: 143-168). CONCLUSIONE Tra tanti problemi ed incertezze interpretative, che comunque hanno reso la ricerca assai stimolante e meritevole di ulteriori approfondimenti, è emerso, con sufficiente chiarezza, il quadro di un territorio ricco di questioni ancora aperte. Particolarmente efficace risulta la definizione di Stählin a proposito della Magnesia: “La Magnesia può essere paragonata ad un’aquila con le ali spiegate che arrivano fino a Tempe ed al capo Sepias, e con il cuore che batte a Volos” (Stählin, 2001). Dall’analisi preliminare fin qui condotta, emergono chiaramente l’asperità geomorfologica del territorio magnetico, caratterizzato da un baluardo montano (Ossa-Pelio) interrotto solamente da due valli (Tempe ed Agyia), le trasformazioni causate da rilevanti fattori antropici (si pensi alla bonifica del Lago Boibes) e la carenza di dati archeologici. Tuttavia l’analisi geomorfologica del territorio e la presenza di una notevole quantità di centri, citati dalle fonti anche se non sempre di facile localizzazione, consentono di ipotizzare la presenza di vie di comunicazione e di collegamento che facilitassero spostamenti, scambi e contatti. I principali assi viari della Magnesia si sviluppavano verosimilmente in direzione N-S partendo dalla Valle di Tempe fino a Demetriàs. Abbiamo ipotizzato che uno seguisse la costa ed aggirasse la punta estrema del golfo (M. Tisaion e Capo Sepias); un altro si sviluppasse sul versante interno, lungo i piedi del massiccio del Pelio, nella Piana di Larissa. Ulteriori vie, in direzione E-O, dovevano attraversare le valli di Tempe e di Agyia, unendo la costa all’interno. A questi percorsi bisogna infine aggiungere quelli diretti verso le aree centrali del Dotion e che collegavano Demetriàs a Farsala e Larissa, in Pelasgiotide. Tenendo conto di un quadro così complesso e articolato, a distanza di più di un secolo, ci sono sembrate per molti versi ancora valide le parole di Wace a proposito della ricerche in Magnesia e, più in generale in Tessaglia: “I would like 261 to point out to archaeologists who are too often content only with a tour to Larissa, Tempe, the Metéora and Phersala, that Thessaly is in many respects a terra incognita” (Wace 1906: 147). NOTE 1. Si tenga presente che anticamente era usuale estendere il toponimo dalla cima più rilevante a tutta la catena. Questi monti costituiscono una propaggine meridionale dell’antica dorsale montuosa balcanica e, come mette in evidenza Stählin, sono una zolla residua del sistema montuoso orientata SE e separata tettonicamente mediante linee di frattura, piccoli avvallamenti, orientati E-O. 2. Strabone, inoltre, attribuisce a questo evento sismico il prosciugamento della pianura centrale della Tessaglia che in origine sostiene essere stata totalmente paludosa. 3. Stählin identifica tale centro nell’area di Kokkino Nerò (Κοκκινο Νερο, lat. 39.833403-long. 22.79279). 4. Sthälin confrontando le notizie date dal Geografo con altre forniteci da Eraclide, suppone che i 7 stadi siano la distanza da Demetriàs a Iolkos e che i 20 stadi siano calcolati dal limite della pianura a O fino alla collina di Goritsa. BIBLIOGRAFIA Bakhuizen S.C. (1987), Magnesia under makedonischer Suzeränitat, στο S. C. Bakhuizen και αλ. (εκδ.), in Demetrias V, Bonn: 319-338. Bequignon Y. 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Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 262 Percorsi antichi nel territorio locrese meridionale (Calabria): vie longitudinali e trasversali rispetto alla costa tra le vallate delle fiumare La Verde e Bruzzano Gianluca Sapio Università di Torino Dottorato in Storia del Patrimonio Archeologico e Artistico E-mail: [email protected] Ancient routes in the southern Locrese area (Calabria): longitudinal and trasversal roads between the valleys of the La Verde and Bruzzano rivers Parole chiave: Geologia; Ricognizione archeologica; Fonti documentali; Popolamento antico; Archeologia del paesaggio della Magna Grecia Key words: Geology; Archaeological survey; Documentary sources; Ancient population; Landscape archaeology of Magna Graecia RIASSUNTO Il tema del presente articolo è tratto dalla ricerca di dottorato (XXVIII ciclo) dell’autore, discussa nell’ottobre del 2017 presso l’Università di Torino ed incentrata sulla definizione di una carta archeologica multimediale di una porzione, compresa tra le vallate delle fiumare Bruzzano e La Verde, nel territorio dell’antica colonia greca di Locri Epizefiri. La ricerca ha avuto un carattere multidisciplinare che ha consentito di indagare molte fonti documentali: la fotografia aerea (fotogrammi IGM, strisciate 1955, 1995, 2000), la cartografia storica e la toponomastica (documenti pre unitari e cartografia ufficiale in piccola e grande scala (carte IGM, CTR, ecc.)), fonti d’archivio e bibliografia scientifica (in particolare dagli archivi di stato di Reggio Calabria, Catanzaro e Napoli e della Soprintendenza archeologica per la Calabria), il survey archeologico (campagne di ricognizione effettuate tra il 2015 ed il 2016). Le indagini sul campo in particolare sono state pianificate solo dopo un attento studio dei rinvenimenti archeologici noti sul territorio in esame e dopo una puntuale analisi delle caratteristiche geo litologiche ed idrografiche dell’area. Sono stati individuati i principali litotipi utilizzati per la realizzazione di strutture produttive (in particolare i “palmenti”, per la produzione del vino) e, in base alle differenti fasi cronologiche, per la realizzazione di strutture murarie. Per l’età antica, con specifico riguardo alle fasi romano imperiali, è stato possibile constatare che le vie di comunicazione ed attraversamento verso l’interno e lungo la costa, alcune delle quali attive già in età protostorica, siano divenute di straordinaria importanza per le produzioni agricole nel territorio. Tale evenienza è stata determinata dall’abbandono dello scalo marittimo d’età greco-ellenistica presso il Capo Bruzzano, antico Capo Zefirio (Strabone VI, 1, 7), che, fino almeno al I secolo d.C. dovette essere lo sbocco naturale e la via commerciale principale per questa area. Dai dati archeologici è infine emerso come la viabilità antica in questo settore, di cui restano evidenze monumentali, venne gradualmente abbandonata fino ad un definitivo e radicale riassetto territoriale avvenuto in età angioina (XIII sec.), con lo spostamento degli assi di attraversamento principali lungo i pianori geologicamente più stabili dell’interno. Tale riassetto, controllato dall’edificazione di nuovi centri fortificati naturalmente protetti, dovette essere motivato anche da una crescente insicurezza dei centri costieri dovuta alle frequenti incursioni piratesche dal mare. Nell’articolo vengono presentati, i metodi e le fonti documentali utilizzate, oltre che i dati scientifici principali sulla viabilità antica di questo settore, illustrando con immagini e planimetrie i tratti stradali basolati, quelli parzialmente scolpiti nel banco roccioso, ecc. Il discorso viene preliminarmente in- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 trodotto da un inquadramento geolitologico del territorio, utile a capire quali potenzialità dello stesso l’uomo sia stato in grado di sfruttare di più nell’antichità. TRACCE DELLA VIABILITÀ LUNGO LA COSTA IONICA DELLA CALABRIA MERIDIONALE; PER UNA RICOSTRUZIONE DELLA STORIA DEGLI STUDI RECENTE Dopo i fondamentali lavori di Paolo Orsi (Soprintendente per la Calabria tra il 1908 ed il 1927), decisivi soprattutto per la definizione topografica dei principali siti da lui indagati e per le prime ipotesi sui percorsi di attraversamento nel territorio, è stato soprattutto a cavallo degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso che sono stati pubblicati alcuni contributi significativi per una conoscenza complessiva del territorio e della viabilità antica nella Calabria meridionale. Tra le altre, le ricerche topografiche di G. Givigliano ebbero come interesse specifico la ricostruzione della viabilità in Calabria tra protostoria ed età antica; queste ricerche hanno permesso di ipotizzare una serie di tragitti longitudinali e trasversali rispetto alla costa (Givigliano 1978), definiti come percorsi “a spina di pesce”1 in base anche alla conformazione geo litologica del suolo e rispetto al loro andamento lungo le vallate comprese tra un “asse centrale” dato dalle alture aspromontane e le pianure costiere sul Tirreno e lo 263 Ionio. Sui ritrovamenti archeologici dal territorio locrese in realtà, un primo breve articolo venne fatto da C. Sabbione (già responsabile di zona per la Soprintendenza archeologica della Calabria) in occasione del XVI Convegno di Studi sulla Magna Grecia, tenutosi a Taranto nel 19762. Nel contributo sono presentati brevemente, in un quadro d’insieme, i ritrovamenti occasionali effettuati dalla Soprintendenza; essi hanno permesso di ipotizzare, soprattutto per le fasi di età greca e romana, percorsi e vie di attraversamento che potevano collegare i centri principali della Calabria meridionale. Oltre a contributi di più specifico carattere archeologico e topografico, in quegli anni furono importanti per la definizione di percorsi antichi anche le indagini di G. Schmiedt sullo studio della fotografia aerea3; nel corso degli anni Settanta l’applicazione di questa nuova tecnica all’archeologia ha costituito uno spunto importante soprattutto per la conoscenza più approfondita dei territori. Le tracce antropiche “anomale” sui fotogrammi, relative a edifici o percorsi antichi, hanno costituito anche per la Calabria meridionale un momento importante per la conoscenza dei contesti. Lo studio dei percorsi antichi di questo settore è indubbiamente passato anche attraverso i risultati di alcuni lavori più specifici di ricerca archivistica ed epigrafica che, verso la fine degli anni Settanta, hanno cominciato a riguardare anche le fasi comprese tra l’età romana imperiale e l’età tardo antica. Gli studi di D. Minuto, che comprendono fonti documentali, testimonianze orali e perlustrazioni in situ, hanno permesso di tracciare un quadro di sintesi complessivo degli edifici rurali di età bizantina che, soprattutto in settori come la bassa costa ionica, restituiscono le evidenze principali relative alle ultime fasi di vita dei percorsi antichi (Minuto 1977). Questi piccoli edifici alto medievali, in effetti, sorgevano tutti lungo le strade principali, sia lungo la costa che verso l’interno; questo tipo di evidenza è più difficilmente riscontrabile in contesti successivi al X secolo, quando il pericolo derivante dalle incursioni dal mare, determinò in molti tratti della regione l’abbandono degli insediamenti stanziali lungo le coste. Di fondamentale importanza per la comprensione delle fasi di età romana imperiale sono stati infine gli studi dell’equipe di G. Nenci, della Scuola Normale Superiore di Pisa, attraverso essi venne compiuto lo studio e l’interpretazione dei principali itineraria (picta e adnotata) che indubbiamente costituiscono la principale fonte scritta sul popolamento e la distribuzione dei principali siti nella regione (Nenci et al. 1981). Negli anni ’90 del secolo scorso alcuni quadri di sintesi più esaustiva sono stati indubbiamente anche il frutto delle ricerche portate avanti nel decennio precedente. Una serie di contributi di F. Costabile è stata di estremo interesse riguardo all’ipotesi per l’età classica di una via, tra Locri e Reggio, più interna rispetto alla linea costiera4. Questa teoria deriva dall’interpretazione di testi antichi come Tucidide (III, 9) che, descrivendo gli anni precedenti lo scontro tra il contingente ateniese e quello siracusano, riportano una serie di itinerari seguiti dalle truppe ateniesi per compiere scorribande militari nel territorio locrese. Negli stessi anni, altri interessanti contributi di F. Costabile a proposito della viabilità antica riguardano il ritrovamento di due cippi miliari di età romana medio imperiale (IV sec. d.C.) che portarono ad ipotizzare una fase monumentale di lavori di manutenzione della viabilità. Osanna nel 1990 pubblicò un lavoro complessivo sul territorio delle chorai coloniali greche dell’arco ionico, affrontando anche la questione dei percorsi di attraversamento antichi tra i diversi centri principali (Osanna 1992). Da citare, tra i contributi specifici pubblicati negli anni ’90, anche le carte topografiche tardo settecentesche dei possedimenti del principe V. Maria Carafa di Roccella, ad opera di R. Fuda (Fuda 1995), dal momento che questi dati costituiscono una fonte documentale imprescindibile per lo studio della viabilità antica, anche e soprattutto per il patrimonio di toponimi ormai in disuso che riportano su documenti cartografici che per il 1771 erano all’avanguardia, realizzati con un ottimo livello di precisione e dettaglio. I primi decenni del nuovo millennio hanno infine portato ad un interesse più diretto e stringente verso i temi del territorio magno greco e, pertanto, accanto alle attività della Soprintendenza, pubblicate in diverse sedi e, tra gli altri, soprattutto da R. Agostino a proposito della viabilità antica tra Reggio e Bova5, sono stati diversi enti universitari a proporre lavori di survey e scavo nella Calabria meridionale: l’Università di Pisa, con il coordinamento di M. C. Parra e A. Facella (Facella, Parra 2011), nel territorio di Kaulon, attuale Monasterace Marina; l’Università di Cambridge, con il coordinamento di J. Robb e L. Foxhall (Robb 2008), nel settore della valle del S. Pasquale, tra Bova e Palizzi; l’Università di Siena, con il coordinamento di G. Cordiano (Cordiano 2014), in diversi settori tra Palizzi e Brancaleone. Ultimi in ordine di tempo sono stati i lavori, diretti sul campo da M. Sica per conto della Soprintendenza, durante la realizzazione del nuovo tratto di SS. 106 compreso tra Siderno e S. Ilario dello Ionio (Agostino, Sica 2019). Durante queste indagini di archeologia preventiva e di emergenza sono stati documentati numerosi nuovi contesti compresi tra l’età protostorica e quella medievale. LA RICERCA SUI PERCORSI ANTICHI E IL TERRITORIO LOCRESE MERDIONALE I risultati presentati brevemente in questa sede provengono da uno studio specifico al centro del progetto di dottorato dello scrivente, realizzato con l’Università di Torino tra il 2014 ed il 20176. Tale lavoro ha riguardato, per la prima volta nel territorio locrese, lo studio sistematico di fonti documentali (ricerca bibliografica, cartografia storica, toponomastica, documenti d’archivio, fotografia aerea) e l’esecuzione di una serie di survey di tipo intensivo e sistematico in una trincea territoriale di circa 22 km quadrati, che in antico dovette essere settore liminare delle chorai magnogreche di Reghion e di Locri Epizephiri; questa area è oggi compresa nella Città Metropolitana di Reggio Calabria, tra le vallate delle fiumare Bruzzano/torrente Fiumarella e La Verde, a cavallo tra il Capo Bruzzano (antico Zephirion akron menzionato tra gli altri in Strabone VI, 1, 7) e le alture di Ferruzzano (Fig. 1). Sono stati individuati 16 nuovi siti e, tra Unità Topografiche e Materiale Sporadico (erratico), almeno 104 contesti complessivi; questi dati hanno permesso di chiarire meglio non solo la distribuzione fisica e diacronica dei singoli siti, permettendo di ipotizzare in alcuni casi anche la loro articolazione e funzionalità, ma anche di capire il loro rapporto con le vie di attraversamento territoriale principali, sia lungo la costa, che verso l’interno (Fig. 2). ELEMENTI ARCHEOLOGICI SUI PERCORSI DI ETÀ PROTOSTORICA La conoscenza archeologica ancora lacunosa dei contesti d’età preistorica e protostorica della Calabria meridiona- Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 264 le, costituisce al momento certamente il limite più grande per la ricerca. Per l’età del Ferro i lavori pionieristici di R. Peroni a Broglio di Trebisacce e nella sibaritide, sono stati il primo momento importante per la conoscenza della Calabria pregreca. Una serie di siti “di altura”, naturalmente difesi, costituisce il livello topografico preminente e più interessante per le comunità di età del Ferro, sia in contesti del versante ionico della Calabria, sia in altri sul versante tirrenico. Inoltre la posizione topografica di questi siti ha, in tutti i casi rilevati nella Calabria meridionale, uno stretto legame con il controllo delle vie commerciali età del Ferro di S. Onofrio di Roccella (Chiartano 1980, pp. 491-539), di Monte Scifa, di Gerace e Locri-Piano Cusemi (Cardosa, 2010), di Calanna (Agostino 2010) e di quelli nei pressi di Palizzi e Capo Spartivento (Cordiano 2014). Tra le vallate delle fiumare La Verde e Bruzzano dovettero esserci vie di comunicazione di grande importanza probabilmente anche per la transumanza. In questo senso grande rilievo assumono i passi montani ai piedi del monte Scapparone e verso il “Serro Schiavone”. Proprio da questi settori, nell’ambito della ricerca di chi scrive, provengono i ritrovamenti più consistenti di mate- PERCORSI DI ETÀ GRECA Per l’età greca l’interesse scientifico per lo studio del popolamento nel territorio ha un’origine più recente rispetto all’indagine dei contesti urbani. Nonostante siano molti i dati e i contesti archeologici a noi noti, risulta ancora difficile poter avere un esaustivo sguardo d’insieme sulla distribuzione del popolamento nelle diverse fasi storiche. Le indagini condotte nel settore tra le fiumare Bruzzano e La Verde hanno fornito numerosi dati per le fasi comprese tra l’età classica e la romanizzazione; invece meno numerosi quantitativamente sono i dati per l’età arcaica ed alto arcaica. Figura 1. Veduta di Capo Bruzzano (antico Zephirion Akron) da S. Si tratta dell’unica emergenza di rocce sedimentarie lungo la bassa costa locrese. e di valico; questi percorsi, erano per lo più caratterizzati dall’andamento a “spina di pesce” (G. Givigliano), in grado di collegare aree interne con la costa e quindi zone di sfruttamento del territorio e del pascolo “montane” ad altre “costiere”. Dopo le prime indagini di P. Orsi ai primi del ‘900, alle necropoli di Canale, Ianchina, Patarriti vicino Portigliola e Stefanelli presso Gerace, importanti contributi recenti sui contesti di età del Bronzo e del Ferro nella bassa Calabria ionica si sono avuti: con l’indagine del sito del Bronzo Antico di Prestarona (Costabile 1972, pp. 5-27) e di Petti di Portigliola (Cardosa 2010), quelli di riale sporadico che sono indizio di una frequentazione (anche stagionale) in età del Ferro. Si tratta dei primi dati archeologici da un settore che non aveva mai ancora restituito evidenze archeologiche rilevanti. Ritrovamenti ‘in situ’ relativi all’età del Ferro finale (prima parte dell’VIII sec. a.C.), in particolare frammenti di grandi pithoi, di un fornello e di una tazza carenata in ceramica d’impasto, possono forse fare ipotizzare la presenza di un insediamento stabile sulla sommità dell’altura di Ferruzzano. Da questo luogo sarebbe stato possibile controllare agevolmente gli itinerari sulla costa e le vie di penetrazione interne7 (Fig. 2). Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 In ogni caso, già in età greca tardo arcaica è probabile si sia articolato un sistema di percorsi di crinale e di mezza costa con attraversamento longitudinale e trasversale di questo settore del territorio. La via principale, longitudinale alla costa, doveva passare nei pressi della rada immediatamente a nord di Capo Bruzzano, che, in base alle fonti documentali ed ai dati archeologici è probabile costituisse il punto di approdo agevolato denominato nelle fonti letterarie antiche Zephirion akròn, luogo che vide anche, sullo scorcio dell’VIII sec. a.C., l’approdo del contingente coloniale locrese8. Il buon numero di reperti relativi al IV-III sec. a.C., porta a pensare 265 Figura 2. Veduta complessiva del territorio centro dell’indagine presentata. Figura 3. Distribuzione dei siti individuati e della viabilità principale di età greca (IV-III sec. a.C.). Grande importanza doveva avere la vallata del torrente Fiumarella che è probabile fosse il percorso più agevole di risalita verso le alture pre aspromontane, che, data l’instabilità geo-litologica della costa verso Reggio, da qui poteva costituire il punto di passaggio preferenziale per proseguire verso S, seguendo un tragitto che dovette avere lunga continuità d’uso, tanto da risultare ancora ampiamente utilizzato anche nella cartografia storica d’età moderna. È oltretutto lungo questa direttrice che l’Università di Cambridge, con lavori diretti sul campo da L. Foxhall, ha individuato ed esplorato un phrourion (piccolo edificio fortificato) che ebbe una fine cruenta intorno all’ultimo quarto del V sec. a.C. e che, collocato a 1.200 m s.l.m., presso località Piani di Bova, doveva servire da nucleo protettivo importante per il percorso che connetteva la chora reggina con quella locrese (Foxhall, 2009). Nei pressi della foce del torrente Fiumarella, presso località Serro Rocchette, è stato possibile indagare, nel lavoro di chi scrive, un ulteriore sito fortificato (un perypolion?), già parzialmente individuato da G. Cordiano nel 2014 e collocabile cronologicamente tra la metà del IV sec. a.C. e la prima parte del III sec. a.C. Questo sito, che aveva nelle vicinanze solo altri piccoli siti rurali, doveva trovare la sua valenza strategica in una protezione da eventuali attacchi via mare, per i siti dell’entroterra, ma soprattutto per l’asse viario lungo il corso del Fiumarella, agevole per una penetrazione nell’entroterra e verso un tragitto meridionale lungo costa (Sapio, 2017) (Fig. 3). PERCORSI DI ETÀ ROMANA Anche la conoscenza archeologica del territorio calabrese di età romana ha avuto una genesi complessa e tardiva, ha indubbiamente sofferto del confronto con l’indagine scientifica dei contesti magnogreci. Solo di recente si sono prodotti quadri di lettura archeologica complessiva dei Bruttii, come quello di B. Sangineto (Sangineto, 2013). A grandi linee il dato più evidente archeologicamente è legato ad una forte discontinuità nelle modalità di sfruttamento del suolo: si passò, in diversi setFigura 4. Distribuzione dei siti individuati e della viabilità principale di età romana imperiale. tori della regione, da una gestione del territorio attraverso piccoli nuclei rurali che l’economia locale, basata su piccoli Certamente in questa fase doveva essere autosufficienti, alla definizione di grandi nuclei (fattorie?) autosufficienti, si sia utilizzato anche un percorso di crina- proprietà (latifondi) sottoposte alla gemaggiormente “strutturata” attorno ad le che attraversava, da S a N, l’altura di stione di un unico dominus. una produzione di vino, olio e cereali. Ferruzzano. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 266 Figura 5. Distribuzione dei siti individuati e della viabilità principale di età normanna (dopo il X sec.) Anche nel settore compreso tra le vallate del Bruzzano e del La Verde con la romanizzazione si evidenzia un cambiamento di assetto e sfruttamento del territorio compiutosi in modo definitivo probabilmente solo nel corso del I sec. d.C. È interessante notare come, in questo settore della costa calabrese, è proprio a partire da questa fase cronologica che si innesta la cultura del latifondo, una serie di grandi ville (pochi km più a N è nota quella di loc. Palazzi di Casignana) che gestiscono ampie proprietà terriere. In relazione con questo cambiamento di assetto territoriale i dati archeologici del survey hanno permesso di evidenziare un abbandono dei contesti prospicienti lo scalo, a N di Capo Bruzzano, e, di contro, la continuità di vita solo di alcuni siti, posti strategicamente lungo la via di percorrenza principale, che sembra essere ora, quella che attraversa da S a N la collina di Ferruzzano (Fig. 6). L’e- Figura 6. Tratto verso Ferruzzano della strada parzialmente basolata e scavata nella roccia Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 videnza monumentale di questa strada parzialmente lastricata e intagliata nella roccia (già emersa più a S nei lavori di G. Cordiano) è forse da riconnettere con i rifacimenti della strada costiera, documentata più a S (Bova M. e Melito P.S.) attraverso il ritrovamento di due miliari di età medio imperiale (Costabile, 1987). Già E. Andronico ha proposto la datazione di questo percorso stradale all’età romana imperiale (Andronico, 2005), nel lavoro condotto da chi scrive, oltre a ricostruire nel dettaglio il tragitto sono state realizzate alcune sezioni longitudinali e trasversali di alcuni tratti dell’arteria. è stato possibile sottolineare alcuni aspetti di estremo interesse: • La pendenza regolare del tracciato, che digrada con costanza su entrambi i versanti della collina di Ferruzzano. • L’asse stradale che è ampio in media circa 1,8 m, con spesso una o due canalette di scolo laterali, bene evidenti soprattutto nel tratto conservatosi all’interno di località Bosco di Rudinà. • Il rapporto topografico stretto che corre tra l’asse stradale e le strutture di palmento (per la produzione in loco del mosto). Quest’ultimo è un indizio importante sia per la defi- 267 nizione dei metodi di produzione e stoccaggio del vino, sia per una definizione cronologica delle strutture di palmento, che hanno rapporto diretto con percorsi utilizzati in età antica e fino all’alto medioevo. • Dallo studio delle fotografie aeree IGM appare evidente come il settore oggi occupato dal Bosco di Rudinà, fosse organizzato, sui lati dell’asse stradale, con piccole proprietà divise da muretti a secco. I dati archeologici ricavati dal lavoro qui brevemente presentato inoltre, potrebbero essere connessi col dato epigrafico in merito alle evidenze nei pressi di Capo Bruzzano (antico Zephirion Akron); infatti tra gli itineraria di età medio e tardo imperiale, è evidente la perdita della statio secondaria di “Altanum”. L’origine del nome di questo luogo è da riconnettere ad un punto protetto dai venti occidentali, a ricordo della tradizione letteraria d’età greca, esso si trova ancora menzionato nell’Itinerarium Antonini, ma non compare più in quelli successivi; la sua collocazione inoltre, in base al conteggio delle miglia, dà grossi dubbi interpretativi (Nenci et al. 1981). È quindi forse possibile che, dopo l’abbandono dei contesti abitativi presso la rada N di Capo Bruzzano, si sia gradualmente persa la “memoria fisica” di un luogo noto ormai solo attraverso le tradizioni letterarie (Fig. 4). sono ancora collocate lungo le antiche vie di attraversamento principali (cfr. Minuto 1977), e in particolare lungo il percorso che attraversava longitudinalmente, da N a S, l’altura di Ferruzzano. Dai dati archeologici un cambiamento è evidente solo a partire dall’età normanna (dopo il X sec.) quando sorgono una serie di centri fortificati di altura secondo la tradizione delle “motte” e la via principale non passa più sulla collina di Ferruzzano, ma più all’interno, protetta rispetto alla costa. Si trovano infatti in questi luoghi i piccoli insediamenti rurali a carattere stabile (Fig. 5). Non è un caso che, dai documenti di età angioina, risulta che re Carlo I, nel 1284, scelse proprio la vallata del Bruzzano come sede temporanea della sua corte per gestire i disordini causati dalle guerre del Vespro. Il sistema di fortificazioni realizzato già in età normanna, una via sicura per Reggio che risaliva verso le alture aspromontane, uno scalo marittimo presso Capo Bruzzano, garantivano al sovrano le condizioni migliori per portare avanti anche da quella sperduta provincia l’attività amministrativa del suo regno. età romana sfruttati più intensivamente. Un indizio evidente di queste dinamiche può essere dato probabilmente anche dalla tradizione toponomastica greca bizantina, nella quale, ancora oggi per molte località il riferimento a territori coperti da una vegetazione spontanea (p.es “marasà”: campo di finocchi). Anche per il settore compreso tra le vallate del Bruzzano e del La Verde un deciso cambiamento di assetto nei percorsi principali non si avverte nelle fasi di età alto medievale, in cui comunque, i dati archeologici emersi descrivono un’occupazione forse più “rada” del territorio. Le testimonianze di chiesette rurali di età bizantina (sia da fonti documentali, che da evidenze archeologiche) 5. In particolare: per l’ipotesi di una serie di percorsi costieri tra Reggio e Bova cfr. Agostino 2001, pp. 9-19 e Agostino 2009, pp. 13-21. NOTE 1. Givigliano 1978, p. 87. 2. Sabbione 1976, pp. 363-373. 3. Sono diversi i contributi preziosi per la fotografia aerea in archeologia, basti ricordare anche la figura di D. Adamesteanu in PERCORSI IN ETÀ POST Basilicata. I lavori complessivi più importati ANTICA per lo studio dei territori magno greci furono Quantitativamente non abbondanti senz’altro: G. Schmiedt, Atlante delle sedi umasono stati anche i materiali individuati ne in Italia, IGM, Firenze 1970; G. Schmiedt, nel survey per l’età alto medioevale, dove Antichi porti d’Italia, IGM, Firenze 1975. sembra che, come documentato in al- 4. In particolare: per l’ipotesi di un percorso tri settori della regione, si assista ad un parallelo alla costa ionica più interno cfr. Cograduale e lento abbandono degli asset- stabile 1976; per il ritrovamento di due cippi ti territoriali antichi, con il progressivo miliari romani cfr. Costabile 1987, pp. 219“inselvatichimento” di ampi settori in 234. 6. La ricerca, per il XXVIII ciclo, ha come titolo: Topografia e cultura insediativa in Calabria meridionale: l’area Locrese tra le vallate delle fiumare La Verde e Bruzzano. 7. Sapio 2018, pp. 56-58. 8. Strabo, VI, 1, 5. BIBLIOGRAFIA Agostino R. (2001), Dal territorio di Rhegion: scoperte in località Occhio di Pellaro, Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, LXVIII (2001). Agostino R. (2009), Il parco archeologico di Deri-S. Pasquale-Bova Marina, Iiriti editore, Reggio Calabria. Agostino R. (2010), La necropoli rupestre di Calanna, Iiriti editore, Reggio Calabria. Agostino R., Sica M. (2019), Tra il Torbido e il Condojanni. Indagini archeologiche nella locride per i lavori ANAS della nuova 106 (2007-2013), Rubbettino, Soveria Mannelli. Andronico E. (2005), La viabilità in età romana in Calabria, Lo stretto di Messina nell’antichità, Società Stretto di Messina, Roma. Cardosa M. (2010), Preistoria e protostoria della Locride, Siderno e la Locride; storia, cultura, economia, Rubbettino, Soveria Mannelli. Chiartano B. (1980), Roccella Jonica (Reggio Calabria) – Necropoli pre ellenica in contrada S. Onofrio, Notizie e Scavi d’Antichità. Cordiano G. 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Il settore tra le fiumare La Verde e Bruzzano tra l’età arcaica e la romanizzazione, Atti e Memorie della Società Magna Grecia, II. Sapio G. (2018), Ferruzzano, loc. Cimitero (Ferruzzano e Samo, Rc), Notiziario di Preistoria e Protostoria, 5.I. Geologia dell’Ambiente • Supplemento al n. 1/2021 a i g o l o Ge Geologia per per archeologi i g o l o arche Giuseppe Gisotti Forme del terreno e civiltà antiche o n e r r e t l e d e Form e h c i t n a à t l i v i ec Carocci editore CONVEGNO LE VIE DI COMUNICAZIONE NELL’ANTICHITÀ 24-25 maggio 2019 Sala conferenze Parco Regionale dell’Appia Antica Via Appia Antica, 42 - Roma D a sempre le strade rappresentano lo specchio della civiltà del territorio su cui esse insistono e di conseguenza la loro ideazione, progettazione ed esecuzione non potrà mai prescindere dal contesto geologico, biologico, e quindi paesaggistico, che le circonda. Ne consegue come l’iter progettuale risulti necessariamente di natura squisitamente multidisciplinare e costretto a svilupparsi rispettando i canoni di un’ ingegneria realmente compatibile. All’origine di una corretta ideazione di una rete di trasporti non può che esservi un’approfondita conoscenza di come sia nata e si sia sviluppata l’idea di strada partendo dalla sua ideazione fino a giungere alla sua costruzione. Il convegno riguarderà le tecniche costruttive, gli accorgimenti tecnici messi in opera per trarre beneficio dalla geomorfologia e, al contrario, superare gli ostacoli geomorfologici incontrati lungo il percorso (fiumi, forre, paludi, rilievi, ecc), l’utilizzo della litologie per l’approvvigionamento dei materiali necessari alla costruzione. Inoltre saranno trattate le caratteristiche fluviali per ubicarvi le strutture portuali e le modalità di raggiungimento dei siti di interesse economico, politico o militare. Il convegno, a partecipazione libera e gratuita, prevede sessione orale e sessione poster suddivisa in cinque temi: • Le strade: la sede, il tracciato, le opere d’arte • Il superamento di difficoltà geologiche e idrografiche • Le fonti storiche e cartografiche • Le comunicazioni fluviali e i porti fluviali • La ricostruzione dei paesaggi attraversati È stata inoltrata richiesta per crediti formativi per geologi. Con nota del MIUR U.0021807-09-05-2019 è stato concesso l’esonero dall’obbligo di servizio ai docenti di ogni ordine e grado. MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE Iscrizioni per il 24 maggio • Iscrizioni per il 25 maggio http://o2.geologilazio.it/ con il patrocinio di Concept design: www.fralerighe.it Parco dell’Appia Antica - Ph Bebo_cik SOCIETÀ ITALIANA DI GEOLOGIA AMBIENTALE Le vie di comunicazione nell’antichità Sala conferenze Parco Regionale dell’Appia Antica Via Appia Antica, 42 Roma 24-25 maggio 2019 SOCIETÀ ITALIANA DI GEOLOGIA AMBIENTALE Programma Venerdì 24 maggio 2019 09.00 | Registrazione partecipanti 09.30 | Apertura lavori e saluti delle Autorità Rappresentante Ministero dei Beni e delle Attività Culturali Gianluigi Giannella, Ordine dei Geologi del Lazio Erasmo D’Angelis, Segretario Generale dell’Autorità di Bacino Distrettuale dell’Appennino Centrale Rappresentante Parco Regionale dell’Appia Antica Giuseppe Gisotti,Presidente Onorario Sigea Gioacchino Lena, Coordinatore Sigea area tematica Geoarchelogia Sessioni orali Sessione I. Le strade: la sede, il tracciato, le opere d’arte Modera i lavori: GIORGIO CESARI 10.00 | Storia del porto di Tharros e dello spopolamento della città causato dai dissesti idrogeologici che ne causarono la distruzione – Anna Ardu 10.20 | L’antica via Flacca. Tra turismo archeologico e ambientale – Federico Boccalaro 10.40 | Risultati preliminari sulla possibile individuazione della Mutatio Gelasium lungo il tratto di via romana Catania Agrigento (It Antonini n. 88) – Giovanni Bruno, Germana Barone, Giorgio De Guidi, Rosanna Maniscalco, Paolo Mazzoleni, Danilo Messina, Alessandra G. Pellegrino 11.00 | I porti, gli approdi e l’antica rete stradale nella zona Iblea dal mare alla terraferma – Giovanni Cassarino, Saverio Scerra 11.20 | La via campana Portuense e le cavità sotterranee – Giancarlo Ciotoli, Stefania Nisio 10.40 | Viabilità nell’area ostiense: Ostia verso il fiume e verso il mare – Massimiliano David 12.00 | Il tracciato stradale di Loc. Carromonaco nel fondovalle del Mesima (VV).Prime ipotesi sulla viabilità antica e medievale tra la via Annia-Popilia e i giacimenti religiosi e minerari delle Serre calabresi – Antonino Facella, Ginevra Gaglianese, Pietro Carmelo Manti, Maria Teresa Iannelli 12.20 | La vie di comunicazione fra Catania e Siracusa in età greca – Roberto Mirisola 12.40 | Sentieri preistorici nebroidei – Rosaria Natoli, Michele Orifici 13.00 | Le vie di comunicazione in area ostiense in età antica – Simona Pannuzi 13.20 | Pausa pranzo 15.00 | Apertura dei lavori pomeriggio Sessione II. Il superamento di difficoltà geologiche e idrografiche Modera i lavori: SIMONA PANNUZI 15.00 | Viabilità ed episodi alluvionali in età romana: archeologia della via Emilia a Modena e delle vie oblique in Emilia – Gianluca Bottazzi, Donato Labate 15.20 | La progettazione della Laurentina e le modifiche del paesaggio attraversato – Anna Buccellato, Fulvio Coletti, Anne de Loof 15.40 | La via Severiana come difesa costiera e risorsa strutturale del Lazio romano – Stefano De Togni 16.00 | La via Appia Antica al valico degli Appennini Monti Aurunci: aspetti geologici e geomorfologici – Emiliano Di Luzio, Gianluca Sottili 16.20 | Vibo Valentia: spunti per la definizione della viabilità urbana nella fase greca e romana – Giuseppe Ferrraro, Maria Teresa Iannelli, Anna Rotella Le vie di comunicazione nell’antichità Sala conferenze Parco Regionale dell’Appia Antica Via Appia Antica, 42 Roma 24-25 maggio 2019 SOCIETÀ ITALIANA DI GEOLOGIA AMBIENTALE 16.40 | Una via al limite: aspetti geologici della via Annia, strada romana al contatto tra pianura e lagune dell’Italia nord-orientale – Alessandro Fontana, Paolo Mozzi, Sandro Rossato, Francesco Ferrarese, Francesca Veronese, Massimo Capulli 17.00 | Analisi geoarcheologiche integrate per la definizione dei tracciati di viabilità antica lungo l’Appennino Meridionale: il caso della Via Herculia e della Via ab Regio ad Capuam – Maurizio Lazzari, Teodora Ciccheli 17.20 | L’antica Via Ardeatina, il tracciato e le infrastrutture – Leonardo Schifi Sessione III. Le fonti storiche e cartografiche 17.40 | Cartografia storica e geomorfologia nella ricostruzione della via Annia: il caso di Altino – Aldino Bondesan, Paola Furlanetto, Mariolina Gamba 18.00 | Le porte storiche: valichi stradali obbligati dall’antichità ad oggi – Lamberto Laureti 18.20 | Chiusura lavori a cura di Gioacchino Lena e Anna Buccellato Sabato 25 maggio 2019 Sessione poster 09.30 | Discussione poster (i poster potranno essere esposti a partire dal venerdì 24 maggio) Modera i lavori: GIOVANNI BRUNO La via Latina fra storia e geologia – Maria Luisa Felici, Giulio Caratelli La via Nomentana, luoghi di culto e acque sotterranee – Pio Bersani, Stefania Nisio Indagini geo-storiche, topografiche, storiografiche e archeologiche sulla Magnesia (Tessaglia) – Stefano Paderni Percorsi antichi nel territorio locrese meridionale (Calabria): vie longitudinali e trasversali rispetto alla costa tra le vallate dei torrenti Bruzzano e La Verde – Gianluca Sapio Sessioni orali 10.30 | Sessione IV. Le comunicazioni fluviali e i porti fluviali Modera i lavori: CARLO ROSA 10.30 | Il Tevere: la più antica via della civiltà romana – Giorgio Cesari 10.50 | La via alzaia del Tevere dall’età romana al XVI secolo – Anna Buccellato, Alessandra Ghelli, Carlo Rosa 11.10 | Il ruolo del fiume nella produzione agricola e nel commercio delle eccedenze alimentari durante l’antichità. Il caso dell’Eufrate (Uruk, Ur, Nippur, Babilonia) – Giuseppe Gisotti, Paolo Malagrinò 11.30 | Il porto di Hadria (Pineto, Abruzzo) La ricostruzione del paesaggio fluviale antico. Ipotesi preliminare – Davide Mastroianni 11.50 | Il Tevere asse di comunicazione e di sviluppo tra Roma, il litorale e i porti – Renato Matteucci, Carlo Rosa, Renato Sebastiani 12.10 | Il porto fluviale di Roma antica presso Monte Secco e la discarica di anfore (Prati) – Carlo Rosa Sessione V. Le La ricostruzione dei paesaggi attraversati 12.30 | L’organizzazione del territorio attraversato dalla via Laurentina antica tra il V e il VII miglio: architettura, infrastrutture e paesaggi tra l’età arcaica e la tarda antichità – Anna Buccellato, Fulvio Coletti 12.50 | Paesaggi delle acque interne prossime al mare: il caso di Aquileia – Paola Maggi, Flaviana Oriolo, Paola Ventura, Alessandro Fontana 13.10 | La via degli Schiavoni: le vie romee tra la Romagna e la Puglia – Roberto Ranciaro 13.30 | Chiusura lavori a cura di Giuseppe Gisotti e Alma Rossi SOCIETÀ ITALIANA DI GEOLOGIA AMBIENTALE Le vie di comunicazione nell’antichità Sala conferenze Parco Regionale dell’Appia Antica Via Appia Antica, 42 Roma 24-25 maggio 2019 COMITATO ORGANIZZATORE Franco D’Anastasio Ilaria Falconi Antonello Fiore Giuseppe Gisotti Gioacchino Lena Luciano Masciocco Vincent Ottaviani Carlo Rosa Franco Violo COMITATO SCIENTIFICO Piero Bellotti, Roma Aldino Bondesan, Università Padova Giovanni Bruno, Politecnico Bari Ilaria Falconi, Sigea, Roma Antonello Fiore, Sigea, Bari Giuseppe Gisotti, Sigea, Roma Maria Rosaria Iacono, Italia Nostra Donato Labate, Soprintendenza Bologna, Modena Maurizio Lazzari, CNR), Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali, Tito Scalo (PZ) Gioacchino Lena, Sigea, Cosenza Luciano Masciocco, Università Torino Davide Mastroianni, Teramo Pietro Militello, Università Catania Vincent Ottaviani, Sigea, Magione (PG) Mario Pagano, Soprintendenza Cosenza, Catanzaro, Crotone Mario Parise, Università degli Studi di Bari Carlo Rosa, Sigea, Roma Rosario Santanastasio, Archeoclub Giuseppe Spilotro, Università degli Studi della Basilicata Armando Taliano Grasso, Università della Calabria Evento organizzato in cooperazione tra Sigea e Ordine dei Geologi del Lazio INFORMAZIONI LOGISTICHE Il luogo del Convegno è costituito dalle strutture della ex Cartiera Latina che si snodano sulla sponda sinistra del “Fiume Almone” il quale attraversa il Parco Regionale dell’Appia Antica. La Cartiera Latina acquisiva l’energia tramite il “Fiume Almone” (o Marana della Caffarella), tanto è vero che la struttura si snoda lungo il fiume stesso. Per raggiungere la sede del Convegno si possono utilizzare gli autobus dell’ATAC. Con l’auto si può disporre del parcheggio privato dell’Ente Parco. DAVIDE MASTROIANNI | GIUSEPPE GISOTTI INTRODUZIONE ALLA GEOARCHEOLOGIA PRINCIPI, METODI E TECNOLOGIE DI INDAGINE La SIGEA si occupa dello studio e della diffusione della geologia ambientale, materia che può essere definita come “applicazione delle informazioni geologiche alla soluzione dei problemi ambientali”. È un’associazione culturale senza fini di lucro, riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare come “associazione di protezione ambientale a carattere nazionale” con decreto 24 maggio 2007 (G.U. n. 127 del 4/6/2007). Ha sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Arma dei Carabinieri, il 20/12/2017, per la collaborazione a svolgere attività di monitoraggio al fine di segnalare criticità in materia di dissesto idrogeologico e di impatto ambientale. Agisce per la promozione del ruolo delle Scienze della Terra nella protezione della salute e nella sicurezza dell’uomo, nella salvaguardia della qualità dell’ambiente naturale e antropizzato e nell’utilizzazione più responsabile del territorio e delle sue risorse. È aperta a tutte le persone e gli Enti (persone giuridiche) che hanno interesse alla migliore conoscenza e tutela dell’ambiente. La SIGEA • Favorisce il progresso, la valorizzazione e la diffusione della geologia ambientale con l’organizzazione di eventi in ambito nazionale e locale mediante corsi, convegni, escursioni di studio, interventi sui mezzi di comunicazione. • Promuove il coordinamento e la collaborazione interdisciplinare nelle attività conoscitive e applicative rivolte alla conoscenza e tutela ambientale; per questo scopo ha costituito le Aree tematiche “Patrimonio geologico”, “Dissesto idrogeologico”, “Geoarcheologia”, “Educazione ambientale”, “Caratterizzazione e bonifica dei siti inquinati”, “Protezione civile”, “Aree protette”. • Opera sull’intero territorio nazionale nei settori dell’educazione e divulgazione scientifica, della formazione professionale, della ricerca applicata, della protezione civile, occupandosi di varie tematiche ambientali, quali previsione, prevenzione e riduzione dei rischi geologici, bonifica siti contaminati, studi d’impatto ambientale, tutela delle risorse geologiche e del patrimonio geologico, geologia urbana, pianificazione territoriale, pianificazione del paesaggio, geoarcheologia, e in altri settori. Opera in ambito locale con i gruppi e le Sezioni regionali. • Informa attraverso il periodico trimestrale “Geologia dell’Ambiente”, che approfondisce e diffonde argomenti di carattere tecnico-scientifico su tematiche geoambientali di rilevanza nazionale e internazionale. La rivista è distribuita ai soci e a Enti pubblici e privati. L’informazione e la comunicazione avviene anche attraverso il sito web, la newsletter e la pagina facebook. • Interviene sui mezzi di comunicazione attraverso propri comunicati stampa affrontando problemi attuali che coinvolgono le componenti ambientali. • Collabora con gli Ordini professionali, con il mondo universitario e con altre Associazioni sulle tematiche riguardanti l’educazione, l’informazione e la formazione. In particolare coopera con CATAP (Coordinamento delle associazioni tecnico-scientifiche per l’ambiente e il paesaggio) cui SIGEA aderisce, Associazione Idrotecnica Italiana, Federazione Italiana Dottori in Agraria e Forestali, Italia Nostra, Legambiente, WWF, ProGEO (International Association for Geological Heritage), Alta Scuola, Società Geografica Italiana, Società Geologica Italiana, Accademia Kronos, ecc. • Collabora anche a livello internazionale, in particolare con ProGEO, con la quale ha organizzato nel maggio del 1996 a Roma il 2° Symposium internazionale sui geositi e nel settembre 2012 a Bari il 7° Symposium sullo stesso argomento. Inoltre è attiva per svolgere studi, ricerche, censimenti e valorizzazione del patrimonio geologico. I soci SIGEA • Ricevono la rivista trimestrale “Geologia dell’Ambiente” in formato cartaceo o digitale e altre eventuali pubblicazioni dell’Associazione. • Ricevono mediante newsletter informazioni sulle attività della SIGEA e di altre Associazioni. • Ricevono gratuitamente, a seconda della disponibilità e in formato .pdf, numeri arretrati della rivista e gli atti di convegni organizzati dalla SIGEA. L’elenco dei numeri della rivista e dei suoi supplementi con i relativi articoli si trovano nel sito web. • Partecipano ai convegni, ai corsi e altre iniziative a pagamento organizzati dall’Associazione, con lo sconto applicato ai soci. • Disponibilità per candidature, in rappresentanza di Sigea, in Comitati e Commissioni di studio presso Enti pubblici nazionali e locali. • Disporre di condizioni vantaggiose per l’acquisto dei volumi della “Collana SIGEA di Geologia Ambientale” (sconto del 30% sul prezzo di copertina) dell’Editore Dario Flaccovio di Palermo. Volumi pubblicati: 1. Difesa del territorio e ingegneria naturalistica; 2. Ambiente urbano. Introduzione all’ecologia urbana; 3. Le cave. Recupero e pianificazione ambientale; 4. Geotermia. Nuove frontiere delle energie rinnovabili; 5. Geologia e geotecnica stradale. I materiali e la loro caratterizzazione; 6. Contratti di fiume. Pianificazione strategica e partecipata dei bacini idrografici; 7. Le unità di paesaggio. Analisi geomorfologica per la pianificazione territoriale e urbanistica; 8. Difesa delle coste e ingegneria naturalistica. Manuale di ripristino degli habitat lagunari, dunari, litoranei e marini; 9. Il paesaggio nella pianificazione territoriale. Ricerche, esperienze e linee guida per il controllo delle trasformazioni; 10. Il dissesto idrogeologico. Previsione, prevenzione e mitigazione del rischio; 11. Calamità naturali e coperture assicurative.