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ALCHIMIA E PSICOLOGIA

Indice Introduzione, 6 Parte I: ALCHIMIA E PSICOLOGIA, 10 Capitolo 1: L’OPUS, 11 - 1.1_ Lo spirito nella materia, 19 - 1.2_ Redemptor macrocosmi, 22 - 1.3_ Materia prima, Mercurio, Lapis, 29 Materia prima, 29 Mercurio, 31 Lapis, 34 - 1.4_ Vas: il linguaggio ermetico, 36 Capitolo 2: L’ALCHIMIA SECONDO JUNG, 42 - 2.1_ Antecedenti storici, 42 2.2_ L’inconscio del Cristianesimo, 45 2.3_ Parallelismi, 50 2.4_ Natura psichica dell’opera alchimistica, 53 La proiezione sulla materia, 53 Natura inconscia dell’Opus, 55 La congiunzione degli opposti, 58 Capitolo 3: OPERA ALCHEMICA E PROCESSO PSICHICO, 60 - 3.1_ Le fasi dell’Opera, 60 Nigredo, 61 Cauda pavonis, 72 Albedo, 76 Rubedo, 82 - 3.2_ Circulatio, 86 La ciclicità dell’Opera, 86 La quadratura del cerchio, 87 Ouroboros: la via dall’Uno all’Uno, 89 Parte II: CONIUNCTIO OPPOSITORUM, 94 Capitolo 1: GLI OPPOSTI, 96 - 1.1_ Il principio oscuro, 96 Per tenebras ad lucem, 96 Il Quarto, 97 Critica della privatio boni, 99 Ombra, 101 Tra bene e male, 103 La determinazione del positivo psicologico, 106 - 1.2_ Sol e Luna, 109 Opposti alchemici, 109 La coppia astrale, 114 Eros e Logos, 118 - 1.3_ Coscienza e inconscio, 120 Natura e Spirito, 120 Io e Sé, 125 Concezione stratigrafica, 130 Opposizione complessa, 135 - 1.4_ Dinamica degli opposti psichici, 137 Concezione dinamica e antinomie, 137 Energetica psichica, 139 Dinamica della compensazione, 141 - 1.5_ Opposizionalismo metodologico, 145 Capitolo 2: LE NOZZE CHIMICHE, 156 - 2.1_ L’archetipo della coniunctio, 156 2.2_ Übertragung: la relazione terapeutica, 160 2.3_ Il compimento dell’incesto, 166 2.4_ Interpretazione psicologica delle immagini del Rosarium philosophorum, 173 Capitolo 3: L’OPERA SIMBOLICA, 187 - 3.1_ Carattere simbolico dell’opera, 187 3.2_ La trasformazione simbolica, 189 3.3_ Teorie del simbolo, 200 3.4_ Methodos: la via simbolica, 206 Appendice I: EMPIRICO E TRASCENDENTALE, 212 Appendice II: L’ARTEFICE CONTEMPORANEO, 264 Bibliografia, 267 2 Se dopo molte lune questo lavoro ha finalmente visto la luce lo devo all’ispirazione di alcuni amici, nonché alla pazienza dei genitori. Lo dedico a tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno condiviso la mia fatica. 3 4 “Libros rumpite, ne corda vestra rumpantur”. [Spezzate i libri, affinché non vi si spezzi il cuore.] Rosarium philosophorum 5 Introduzione La presente ricerca segue le tracce di un parallelismo centrale nell’opera di Jung: il suo principale obiettivo è porre in luce la corrispondenza feconda della psicologia del profondo con la tradizione alchemica, e mostrare quindi l’analogia sostanziale dei loro presupposti metodologici. Risulta ben presto evidente la straordinaria complessità del ruolo dell’alchimia nell’ambito della produzione junghiana. L’atteggiamento di Jung oscilla tra l’indagine empirico-oggettiva propria dello storico da un lato, e la piena assunzione del simbolismo dell’“arte regia”, nonché dei suoi capisaldi teorici, dall’altro. Anzitutto il suo grande merito consiste nell’aver sottratto la scienza alchemica all’interpretazione di stampo positivista che tendeva a ridurla ad una mera antenata della chimica moderna. Pertanto egli è il primo tra gli studiosi contemporanei a rilevarne il carattere essenzialmente simbolico. In questo filone prettamente storico-culturale della sua indagine va collocata la celebre tesi sul parallelismo tra la tradizione filosofale ed il Cristianesimo, e più specificamente tra i loro simboli di redenzione: il parallelo Lapis-Cristo. Ma Jung si spinge ben oltre i limiti della pura indagine storica, presentando la tradizione alchemica come un grandioso movimento di compensazione della coscienza filosofica e religiosa dell’Occidente: il suo simbolismo diventa l’espressione paradigmatica dell’inconscio del Cristianesimo. 6 così Psicologia e alchimia (1944), ed i primi lavori di Jung sull’alchimia stessa, hanno infatti lo scopo principale di mostrare la natura psichica dell’opera alchimistica. Negli esperimenti di questi antichi “filosofi” egli ravvisa la rappresentazione di un processo psichico a decorso parallelo, che essi finivano per proiettare nell’oscurità della materia chimica. Il padre della psicologia analitica giunge così ad interpretare quell’astrusa simbologia quale espressione del processo di individuazione psicologico. Queste considerazioni aprono la strada ad un ulteriore parallelismo: psicologia e alchimia si riflettono reciprocamente, si amplificano a vicenda come due piani di una medesima struttura discorsiva. La prima offre la chiave di accesso alla seconda, mentre la seconda fornisce alla prima una significativa base storica. Questa circolarità ermeneutica è possibile in quanto alla base del metodo alchemico sta un autentico mistero, di cui la psicologia moderna è, secondo Jung, l’erede eminente. A questo punto giunge, in buona sostanza, la prima parte del presente lavoro, tentando di rendere il più possibile espliciti i nessi, anche laddove l’Autore li ha lasciati più o meno consapevolmente impliciti. La seconda parte ha invece lo scopo primario di studiare tale fulcro metodologico, ovvero il mistero della congiunzione degli opposti: è infatti questa l’autentica matrice alchemica della psicologa junghiana. Lo studio dell’alchimia costituisce per Jung un momento di chiarificazione dei propri presupposti epistemologici, e di riflessione sulla teoria psicologica. Con la stesura del Mysterium 7 coniunctionis egli perviene a riconoscere l’essenza del metodo alchemico nella congiunzione degli opposti. Questa tesi ha un immediato risvolto: l’archetipo della coniunctio oppositorum diviene la chiave di volta concettuale della stessa indagine psicologica, ed il problema del rapporto di coscienza e inconscio diviene il problema della congiunzione degli opposti. In questo modo la concordanza si approfondisce ulteriormente, al punto di presentare, sempre meno metaforicamente, l’opera psicologica come un vero e proprio processo di estrazione del Sé dalla materia prima dell’inconscio. In questa parte del presente lavoro sono dunque passate in rassegna le varie opposizioni, polarità ed antinomie della psicologia junghiana. Ho tentato di mostrare come questo complesso di opposizioni non abbia una valenza strutturale, quanto piuttosto euristica o metodologica – intendendo la parola “metodo” nella sua accezione originaria di percorso, via (Tao). La dualità non è che la forma manifesta di un’unità superiore di senso. Gli opposti rappresentano la realtà processuale della Totalità. La totalità psichica non è una struttura ma un complesso di relazioni dinamiche. La via individuativa altro non è, infatti, che il frutto della coniunctio degli opposti psichici, allo stesso modo in cui la trasformazione creatrice che sta al cuore dell’alchimia è il frutto del dialogo di Sol e Luna. La trasformazione psichica che in tal modo si compie è quel paradossale processo attraverso il quale si perviene alla propria essenza segreta. Nell’“opposizionalismo” junghiano gli opposti sono correlativi. La loro congiunzione consiste pertanto nel processo attraverso il quale i termini contrapposti entrano in relazione dialettica. La 8 figura-chiave della determinazione del positivo psicologico non è pertanto l’opposizione, e neppure l’identità, bensì la relazione. L’essenza di questo metodo è dialogica. L’autentica matrice alchemica del metodo junghiano va riconosciuta nell’operazione simbolica di congiunzione degli opposti (συµ−βςλλειν). Il simbolo è la forza che toglie l’isolamento della de-terminazione e la apre all’eccedenza di senso. Nella determinazione simbolica si rispecchia la totalità sterminata. Gli opposti costellano la via attraverso la quale, divenendo altro, si diviene ciò che si è. E’ nella sua infinita opera di composizione che l’Uomo esprime il suo anelare all’Uno indiviso. 9 Parte I: ALCHIMIA E PSICOLOGIA Questa parte introduce i caratteri generali dell’opera alchemica ed i suoi capisaldi teorici, in costante riferimento agli scritti di Jung sull’argomento. In particolare il primo capitolo analizza i concetti di prima materia, Mercurio, lapis, vas, la concezione dello spirito nella materia e la figura del redentore alchemico, per concludere con una nota sul linguaggio degli alchimisti. Nel secondo capitolo è analizzato l’approccio – o gli approcci – all’alchimia nelle opere di Jung. Quindi sono presi in considerazione, anzitutto da un punto di vista formale, i diversi piani del rapporto tra psicologia alchimia, e sono esposte le tesi generali dell’autore. Il terzo capitolo entra nel vivo del linguaggio simbolico, mostrando la corrispondenza sostanziale tra le fasi dell’Opus e le figure psicologiche del processo di individuazione. 10 Capitolo 1_ L’Opus “Aurum nostrum non est aurum vulgi.” Senior, De chemia, p.92 Il “mito delle origini”1 riconosce il fondatore2 dell’alchimia nella figura di Ermete Trismegisto (“il tre volte grande”), identificabile con Thoth3 – il dio egizio che presiede a tutte le scienze e le arti sacre. Da sempre i praticanti di quest’arte pretesero che essa fosse “più vecchia della storia”. A quanto pare l’etimo dell’espressione “alchimia” risulta dall’aggiunta del suffisso arabo “al-” ad un termine tardogreco Π0:∴∀ (chēmia), probabilmente derivato da ΠΞΤ (cheō), ovvero “colare, fondere”: al-kimiya4. Ma la tradizione vuole che esso derivi piuttosto da kmt, “Terra Nera”, termine con cui si era soliti designare l’Egitto, forse perché era il paese di Cam, il biblico progenitore della razza nera5. 1 Cfr. Michela Pereira, Arcana sapienza , pp.17 sgg. e H. Sheppard, Alchemy: origin or origins?, p.64-84. D’altronde, come puntualizza Mino Gabriele, Alchimia la tradizione in Occidente, p.11, non va dimenticato “che allo stato attuale i documenti e gli studi riguardanti l’alchimia non rispondono alla domanda circa il tempo e il luogo della sua nascita; al più ci si limita a prendere atto del suo comparire con tracce più o meno consistenti, nell’India vedica, in Assiria e Babilonia nei secoli VII e VIII a.C., in Cina nel IV sec. a.C., anche se la credenza tradizionale degli alchimisti e la notevole letteratura “egizio”-ellenistica pervenutaci ne lasciano supporre la remota origine nei santuari dell’antico Egitto come presso i Caldei”. Data l’insuperabile incertezza, l’unico riferimento oggettivo resta il mythos, il “racconto probabile”. 2 Circa la paternità dell’“arte nera” i pareri sono tuttavia discordi quanto favolosi: una tradizione riferisce l’origine della sapienza alchemica nientemeno che agli angeli decaduti! Cfr. De ortu et progressu Chemiae dissertatio, di Oloaus Barrichius (1626-1690), in Bibliotheca Chemica Curuiosa. 3 Al dio dalla testa canina si riferiva in particolare la lavorazione dei metalli. Dai greci era identificato con Hermes, e dai latini con Mercurio. Nel mito antico, come in Platone (Fedro 274-75), esso è l’inventore per eccellenza. Si vedano i lavori specifici di P. Boylan, Thoth. The Hermes of Egypt, p.88 sgg. e di G. Fowden, The egyptian Hermes, pp.26-27 e 216-217. 4 Cfr. Mino Gabriele, Alchimia e iconologia, pp.11-17. Studi più specifici sull’etimo sono stati svolti da R.Halleux, Les textes alchimiques, Thurnhaut 1979, pp.45-47; Lindsay, The Origins of Alchemy in graeco-roman Egypt, p.68-69; E.O. von Lippmann, Entstehung und Ausbreitung der Alchemie, I, pp.293-314. 5 Salmi, 78, 51 e 106, 21-2. Sulle implicazioni simboliche dell’ipotesi egiziana vedi M. Gabriele, Alchimia. La tradizione in Occidente, pp.14 sgg. In un passo fondamentale di Plutarco, De Iside et Osiride 33, si legge: “♣τι τ←ν Α∩γυπτον ƒν τοιò µÜλιστα µελÜγγειον ο¤σαν, ªσπερ τ’ µÝλαν του “φταλµου,Χηµ ßανκαλουσι”, ovvero che “l’Egitto, per il colore nero della sua terra, viene chiamato chēmia come il nero della pupilla dell’occhio”. Secondo una delle ipotesi più accreditate chēmia è infatti riconducibile al geroglifico kmt ( ) che indica appunto l’Egitto, con esplicito riferimento agli scuri depositi di limo del fiume Nilo. 11 Persino la parola porta con sé le tracce di un’oscura provenienza. Il mito alchemico affonda le sue radici nella storia dell’antica terra d’Egitto; ma esso narra soprattutto della fuoriuscita da questa originaria nerezza, che conduce l’artefice all’ottenimento di uno stato di luminosa perfezione. Come ha detto giustamente Eliade “il mito dell’alchimia è uno dei rari miti ottimisti” in quanto promette all’esistenza umana l’originario stato di perfezione “il cui smarrimento ha ispirato, nel mondo intero, la nascita di tanti miti tragici”6. Essa è stata definita da H. Sheppard “l’arte di liberare parti del cosmo dall’esistenza temporale e di raggiungere la perfezione che per i metalli è l’oro, per l’uomo la longevità, poi l’immortalità e infine la redenzione”7. Molti studiosi propendono per l’ipotesi di un’origine egiziana dell’alchimia occidentale e vicino-orientale. Essa sarebbe dunque sorta in Occidente dall’incontro, in epoca alessandrina, della speculazione greca con la chimica tecnica degli egizi – specialmente la produzione di sostanze coloranti, di pietre preziose artificiali ed il procedimento dell’imbalsamazione8. Quest’ultimo aspetto in particolare pone in relazione l’alchimia occidentale a quella orientale. L’India e la Cina vantano infatti una feconda tradizione parallela – ora in rapporto con la metallurgia e la medicina, ora con le religioni – le cui relazioni con la gemella occidentale non sono tuttavia ancora molto chiare9. 6 Mircea Eliade, Il mito dell’alchimia, p.38. H. Sheppard, European Alchemy in the Context of a Universal Definition. 8 Cfr. Marie-Louise von Franz, Il mito di Jung, p.189-190. Si vedano anche i classici Berthelot, Les origines de l’alchimie, Paris, 1885, pp.21 sgg; J.Bidez et F. Cumont, Les Mages hellenises, Paris 1938, I, p.151 e 198 sgg., II p.309 sgg. ; J.Lindsay, The Origins of Alchemy in Greco-Roman Egypt; A.J. Festugiere, La revelation d’Hermes Trismegiste, I-IV, Paris, 1949-54. 9 Cfr. J. Needham, Il concetto di elisir e la medicina su base chimica in Oriente e in Occidente. Sull’alchimia orientale è fondamentale lo studio dello stesso autore, Science and Civilisation in China; ed il puntuale lavoro di N.Sivin, Chinese Alchemy: preliminary studies. 7 12 Titus Burckhardt ha insistito sull’esistenza di una tradizione ermetico-alchimistica in Egitto fin dalla prima metà del primo millennio avanti Cristo, anche in relazione con le antiche pratiche metallurgiche10. Ma il primo a riportare l’alchimia principalmente alla sacralità della lavorazione dei metalli presso gli antichi babilonesi è stato Mircea Eliade. Questi ha chiarito come per l’umanità arcaica, che non conosceva ancora l’artificiale opposizione di spirito e materia, il carattere divino dell’oro e dell’argento - sostanzialmente connessi con Sole e Luna - doveva apparire più che evidente. Secondo questa concezione i metalli erano come embrioni di cui era gravido il ventre della Madre Terra, in diretta corrispondenza con i sette pianeti. La loro perfezione - sostiene Eliade - doveva dipendere dal grado di maturità raggiunto. In quanto incorruttibili, solo l’argento e l’oro potevano essere considerati formati, mentre era compito del fonditore portare a perfezione gli altri con la propria opera: con ciò esso “si sostituiva all’opera del tempo”11. Resta il fatto che il primo gruppo di alchimisti e filosofi della natura di cui ci sono pervenuti i testi sono greco-egizi12. Questi furono attivi dal II all’VIII secolo, e operarono perlopiù sullo sfondo di credenze ermetiche, gnostiche e neoplatoniche. La vicinanza della tradizione alchimistica e di quella propriamente ermetica si manifesta nella continuità di tematiche, in particolare nel rifiuto delle dicotomie classiche di anima e corpo, animato e inanimato, e nella reciproca permeabilità di fisica e metafisica. 10 Titus Burckhardt, Alchimia, pp.15-24. Cfr. Mircea Eliade, Arti del metallo e alchimia e Cosmologia e alchimia babilonesi. Rispetto alla tesi di Eliade, la Pereira chiarisce come l’alchimia sorga differenziandosi dall’antica metallurgia: era infatti necessaria una teoria dei metalli che ne rendesse plausibile la trasformazione operativa, Arcana sapienza, pp.20 sgg. 12 Tra questi possiamo ricordare Ostane, Maria Profetessa (l’inventrice del celebre bagnomaria e a cui si fa risalire l’“assioma della quaternità”), Zosimo di Panopoli (a cui si deve il perfezionamento di un apparecchio di distillazione che diventerà poi l’alambicco), e più tardi Sinesio e Olimpiodoro. 11 13 Nell’“En to pan” (Uno-Tutto) ermetico essa trova indubbiamente la sua più autentica fondazione simbolica. La Tabula smaragdina comunemente attribuita al mitico Ermete è un vera e propria “tavola della legge” per ogni artefice. Tuttavia la speculazione ermetica va anche tenuta distinta da quel circolo virtuoso di teoria e prassi operativa che caratterizza l’alchimia13. A partire dall’VIII secolo le conoscenze di questi primi filosofi si diffusero a Bisanzio e nel mondo arabo. Il merito dei bizantini consisté soprattutto in un grande lavoro di conservazione, esplicazione e commento, anche se non mancarono contributi originali14. Ma furono soprattutto i musulmani ad orientare lo sviluppo dell’arte sacra, apportando diverse innovazioni tecniche e terminologiche15. A partire dal 1144, la data di traduzione del Morienus16, l’alchimia tornò a diffondersi in Europa attraverso la Sicilia, ma soprattutto in al-Andalus, la Spagna islamica. Grazie all’opera dei traduttori latini essa fece ingresso in Occidente come una novità assoluta, ma solo a partire dal XIII secolo le opere cominciarono ad essere assimilate e a produrre una riflessione autonoma17. A partire da questa data è opportuno distinguere come fa Michela Pereira tre filoni o ambiti differenziati (anche se la tripartizione può essere agevolmente estesa alle altre epoche). Essa si struttura prima di tutto attorno ad un nucleo di perfezione 13 Per questi cenni storici faccio riferimento principalmente allo studio storico di M.Pereira in Arcana sapienza, e al breve saggio di Jacques Van Lennep, Alchimia. 14 Ricordiamo i nomi di Psello, Cosma e Blemmide. 15 Ricordiamo primo fra tutti il grande Geber, in arabo Jabir (VIII sec), l’autore dei Libri della Bilancia, al quale furono attribuite anche molte opere successive. Ma ricordiamo anche il medico iraniano Razi (IX-X sec.), Zadith Senior (X sec.), autore della Tabula chimica, ed il celebre filosofo Avicenna (X-XI sec.), che espresse una posizione alquanto scettica nei confronti della possibilità di raggiungere lo stato di prima materia, ma al quale furono comunque attribuiti alcuni trattati importanti per l’alchimia (es. De congelatione et conglutinatione lapidum). 16 Il Testamento di Morieno. Seguirono opere importanti come il Liber de secretis naturae dello pseudo-Apollonio, la Turba philosophorum ed il Clavis spientiae di Artefio. 17 Ricordiamo i nomi di autori come Michele Scoto, Ruggero Bacone e Arnaldo di Villanova. 14 sia essa la perfezione dei metalli (oro); o l’agente di perfezione sia dei metalli che del corpo umano, chiamato elisir; oppure ancora l’ottenimento della salvezza spirituale. In base a ciò possiamo distinguere “tre settori o ambiti, omologhi fra loro e variamente intrecciati, ma che possono essere considerati separatamente a partire da alcuni peculiari elementi comuni a tutti i settori ma in ciascuno di essi connotato diversamente”18. Come fa notare la Pereira, la sacralità dei metalli ha indubbiamente origini antichissime (Eliade), ma l’alchimia sorge anche differenziandosi da questo sfondo, o dall’incontro con una tradizione filosofica come quella greca19: era soprattutto necessaria una teoria dei metalli che consentisse di concepire organicamente l’idea della trasmutazione. Tale teoria era soltanto accennata da Aristotele, ma venne sviluppata dagli antichi arabi (Avicenna). Nel tredicesimo secolo l’idea che i metalli si formassero per congelazione nel ventre della terra era patrimonio pressoché comune. Si credeva che essi risultassero dalla composizione, secondo diverse proporzioni, di due vapori elementari: lo zolfo caldo-secco ed il mercurio freddo-umido. Ciò rendeva comprensibile la prassi operativa per cui, mediante l’uso del fuoco, i metalli erano portati allo stato liquido, considerato la loro materia prima. A partire da questo stato si poteva riequilibrare la struttura mediante opportune tecniche di lavorazione, o l’aggiunta e la sottrazione delle due esalazioni di base20. La trasformazione dei metalli in oro fu oggetto di interesse anche per alcuni grandi filosofi come Alberto Magno ed il suo 18 Michela Pereira, Alchimia medievale: un sapere che nasce dal fare, dal sito web http://campus.sede.enea.it/internetscuola/alchimia/intro 19 Michela Pereira, pp.20 sgg. 20 Michela Pereira, Alchimia medievale: un sapere che nasce dal fare, cit. 15 discepolo Tommaso d’Aquino, il quale non escludeva a priori la possibilità della trasmutazione. Data la sua peculiare struttura epistemologica l’alchimia faticò tuttavia a trovare una posizione ufficiale tra gli insegnamenti universitari e, in seguito a varie dispute (quaestio de alchimia), venne classificata tra le “arti meccaniche” e genericamente associata con la medicina e l’astrologia. Comunque si diffuse a tutti i livelli sociali: in quanto arte della trasmutazione metallica essa trovò accoglienza presso i sovrani, preoccupati per l’approvvigionamento di metalli preziosi. Ciò diede luogo a non pochi fraintendimenti: quando l’oro prodotto si rivelava falso, gli alchimisti cadevano rapidamente in disgrazia, ed erano cacciati dalle corti. Da questo derivava la percezione diffusa che fossero dei falsari. Essi avevano un bell’insistere: “Aurum nostrum non est aurum vulgi”. E’ infatti nel girone dei falsari che Dante colloca coloro che “furon di natura buona scimia”21. La bolla papale emanata da Giovanni XXII (1317) accusava gli alchimisti di “promettere ciò che non producono”22. Ma l’accusa era rivolta solamente alla falsificazione dell’oro: la Curia mostrò infatti da subito un forte interesse per le ricerche sull’elixir di lunga vita, per i temi legati alla prolongevità. L’alchimia ebbe sorti alterne anche presso gli ordini religiosi che talvolta la proibirono, talaltra la accolsero: è il caso dei francescani, presso i quali trovò terra d’elezione l’alchimia di stampo spirituale. Questa si incentrava sull’idea-chiave della quintessenza ed ebbe le sue figure di spicco nel XIII secolo in 21 22 Dante Alighieri, Divina commedia, Inferno XXVIII, 118-120 e 136-139. « Spondent qua non exiben t »… 16 Arnaldo da Villanova e Raimondo Lullo, e nel XIV in Giovanni di Rupescissa. La cosiddetta “alchimia dell’elixir” si faceva portatrice di un’idea più ampia di perfezione della materia: nei testi ellenistici questa era stata intesa nel senso della salvezza spirituale, mentre gli arabi l’avevano legata all’idea di derivazione orientale dell’immortalità materiale. La ricerca dell’elixir di lunga vita si incontrava nel medioevo con la medicina, in particolare con le ricerche sull’uso farmacologico del distillato di vino. A differenza della teoria metallurgica, questa operava il regresso alla materia prima attraverso una serie di processi di distillazione, volti a riportare i corpi ai loro quattro elementi d’origine per ricavarne successivamente il pharmacon incorruttibile e portatore di incorruttibilità. La convinzione di poter ricavare dai quattro elementi di cui sono fatti i corpi la materia di cui sono fatti i cieli (quinta essentia) poneva l’alchimia in contrasto con la logica dualistica della cosmologia e della filosofia della natura aristotelica, ma si trovava d’altro canto in una linea di continuità con la concezione del pneuma stoica. Chiamando la quintessenza “coelum nostrum”23 Giovanni di Rupesscissa apriva l’alchimia dell’elixir ai suoi risvolti più espressamente spirituali. Gli umanisti furono avidi di conoscenze magiche ed esoteriche, specialmente dopo la scoperta dei testi del Corpus hermeticum, tradotti da Marsilio Ficino e pubblicati nel 1471. Ciò diede inizio alla filosofia ermetica di stampo rinascimentale, che venne a rinsaldare la già ricca ideologia alchemica. 23 “Le ciel humain”, il cielo umano: per lui la quintessenza dei corpi era un liquido azzurro e indistruttibile come il cielo “e il nostro sole l’ha adornata così come il sole adorna il cielo”. Il sole è, naturalmente, un’allegoria dell’oro. 17 Come è noto la ricerca di Jung si rivolse soprattutto alla cosiddetta “alchimia spirituale” di epoca ellenistica e barocca, in quanto più esplicitamente portatrice dei valori simbolici. In questo filone l’opus assumeva la valenza di strumento di perfezionamento interiore. La disposizione d’animo richiesta all’artefice, e l’attribuzione di scritti alchemici a filosofi, profeti e padri spirituali indicano che per gli alchimisti l’opera non riguardava semplicemente un produrre materiale. Così l’idea della perfezione materiale si collegava all’idea della salvezza spirituale, esprimendo le operazioni e la meta con allegorie religiose e mitologiche. L’epoca barocca segna il culmine della tradizione alchemica e l’avvio verso la sua decadenza. Essa infatti non varcò la soglia dell’Illuminismo, se non in forme che ne tradivano ormai il carattere originario, come la società segreta dei Rosacroce24. Ma l’alchimia barocca andava sempre più allontanandosi dalla pratica di laboratorio a favore delle valenze spirituali, o dando sviluppo alla cosiddetta “alchimia da biblioteca”. La neonata scienza chimica continuò a lungo ad influenzarsi reciprocamente con l’antica alchimia. I positivisti tesero infatti ad interpretarla retroattivamente come un’antenata della chimica, alla quale essa avrebbe lasciato posto a partire dal XVIII secolo. Ma con ciò essa perdeva il suo più autentico radicamento in un nucleo operativo: una diversa prospettiva porta a intendere il successivo sviluppo di questa tradizione in senso più espressamente simbolico, filosofico e psicologico. In questa direzione è orientata anche la lettura junghiana. 24 Le Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, scritte in forma di romanzo autobiografico dal teologo Johann Valentin Andreae nel 1616, sono il manifesto del movimento rosacrociano. 18 Lasciando ad un lavoro di tipo storico il compito studiare le complesse vicende dell’arte regia, tenteremo piuttosto individuare, con Jung e con gli altri studiosi contemporanei, i caratteri generali dell’opus alchymicum, a partire dai quali potremo passare ad una considerazione più espressamente teoretica. Lo studioso che voglia ricavare dall’opera Carl Gustav Jung una visione unitaria dell’alchimia deve, al modo degli antichi adepti, cimentarsi in una vera e propria opera di distillazione ed estrazione. I numerosi saggi di Jung in materia, infatti, non presentano mai una esposizione sistematica della scienza alchemica, piuttosto creano parallelismi, amplificano i significati e le prospettive, ripercorrendo ciclicamente le tematiche. Nei paragrafi successivi tenteremo, attraverso l’opera dello psicologo zurighese, di rendere conto dei capisaldi teorici e dei simboli-chiave della tradizione alchemica. 1.1_ Lo spirito nella materia Come si è detto l’alchimia può essere genericamente definita come una disciplina teorica e pratica che si richiama al mito centrale della perfezione della materia, sia essa materia metallica, chimica o spirituale. L’obiettivo dell’artefice era dunque quello di redimere i corpi dall’originario stato di caos, e pervenire alla loro essenza segreta. Le varianti di questo mito sono innumerevoli, e i riferimenti abbondano nei testi di Jung25: dal divino Anthropos, l’uomo superiore che deve essere liberato dall’oscurità; all’anima mundi 25 Cfr. ad es. Psicologia e alchimia, OC XII, pp.285 sgg. 19 che l’alchimista deve estrarre dalla materia; al mito dell’eroe che intraprende la descensus ad inferos per raggiungere il tesoro nascosto. Nelle profondità della materia giace sepolta la divinità (deus absconditus) che invoca aiuto per essere riportata alla luce. Oppure è il figlio del re che chiama e dal profondo esclama (ex profundo clamat): “chi mi libererà dalle acque e mi porterà allo stato di secchezza, sarà ricompensato con ricchezze perpetue”26. Del resto i riscontri di questo mito sono moltissimi anche nelle religioni: dal persiano Gayomart, l’adolescente di luminoso biancore, il cui corpo fecondò la terra tramutandosi nei sette metalli; all’affascinante storia d’amore di Nous e Physis, di origine gnostica27; nel racconto del Genesi gli angeli inviati dal Signore si innamorano delle figlie degli uomini, e generano con esse una stirpe di giganti28; ma anche nella kabbalah ebraica si trova la potente immagine delle scintille divine disperse nel mondo come in una fragorosa esplosione29, analogamente al concetto gnostico dello Spinther (la scintilla divina nell’uomo). Nonostante le differenti versioni in tutti questi miti si racconta di uno spirito disceso e incarnatosi nella materia (descensus spiritus)30. Spesso si tratta di un vero e proprio spirito ctonio o di un dio sotterraneo. Ma questa concezione non va confusa in alcun modo con una prospettiva panteistica o immanentistica: la 26 Si vedano le avventure del “rex marinus” nella Visio Arislei di Michael Maier (1617), in Artis Auriferae volumina duo, vol.1, pp.146 sgg., egregiamente commentata da Jung in Psicologia e alchimia, OC XII, pp.316 sgg. 27 Lo Spirito luminoso resta affascinato dalla propria immagine riflessa nello specchio oscuro della Natura, ma non appena discende sulla terra per possederla, rimane avvinto dal suo abbraccio. Nella gnosi di Giustino, ad esempio, la physis è rappresentata da Edem, donna nella parte superiore e serpente in quella inferiore. Assetata di vendetta, Edem combatte contro lo pneuma perché questo, sotto le spoglie del demiurgo, l’ha abbandonata a se stessa. 28 Genesi 6.1-4. 29 Si veda ad esempio l’alchimia kabbalistica di Khunrath, XVII sec. 30 Vedi Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, pp.285-296. Jung accosta a questa concezione la sua idea psicologica di una proiezione del contenuto inconscio sulla materia. 20 divinità è colta nello specchio della materia, ma mantiene comunque una trascendenza rispetto alla natura. Fin da Zosimo si può riscontrare nell’alchimia, come in tutte le correnti dello gnosticismo, una intensa riflessione sul dogma dell’incarnazione. Pare non fosse sufficiente l’immagine del Cristo-logos che viene dal padre per assumersi tutte le colpe degli uomini31. Nelle trame simboliche di Jung il Logos nella forma negativa e aerea dell’intelletto è infatti spesso rappresentato dal Diavolo o da Mefistofele32. Al contrario il redentore gnostico-alchemico si è pienamente assunto il fardello della materia – ancor prima di quello della malvagità umana – vi si è disseminato, disperso, donato. Questo è il suo autentico gesto d’amore, la sua passione: l’aver accettato l’incerto confronto con la materia. Così questo spirito divino viene a confrontarsi con il più basso ed oscuro, esponendosi alla negazione più grande. In ciò è esso stesso lucifero (lux ferens, portatore di luce), e col diavolo ha a che fare per così dire quotidianamente33. Come ha fatto notare più volte Jung , l’idea dello Spirito nella materia faceva dell’alchimia una sorta di mistero ctonio inferiore, 31 In questo caso Jung si riferisce in particolare al Cristo giovanneo quale paradigma. Proprio il dogma dell’incarnazione sembra stare all’origine dell’inquietudine di tante deviazioni eterodosse rispetto al cristianesimo, ben presto messe al bando dalla Chiesa. L’immagine ortodossa della redenzione era probabilmente troppo estrinseca rispetto alle esigenze di chi sentiva la necessità immediata di intraprendere un cammino di salvezza spirituale, di chi percepiva con la propria pelle la malvagità del mondo circostante. Forse un’autentica elevazione spirituale richiedeva se non di distruggere, perlomeno di radicalizzare l’immagine di uno spirito disincarnato, di un Cristo-logos apollineo ed astratto. 32 Così nell’interpretazione del Faust, Mefistofele rappresenta l’intelletto. Cfr.Psicologia e alchimia, OC XII, pp.93-95, e fig.36. 33 In base a riferimenti biblici e a successive interpretazioni pare addirittura che Satana sia il primo figlio di Dio, fratello maggiore di Cristo. Cfr. Lo spirito Mercurio, in OC XIII, p.272 e n.; Interpretazione psicologica del dogma della Trinità, in OC XI, p.170 e n., ma anche Psicologia e religione, p.83, e Risposta a Giobbe p.373 e 380. Il rapporto di Cristo con la sua ombra, l’anticristo, è uno dei temi-guida di Aion, OC IX, ma è trattato anche negli Studi sull’alchimia, OC XIII: cfr. Lo spirito Mercurio, p.253. 21 quasi un riflesso naturale del mistero divino34. La ricerca di una “luce della natura”35, oltre a significare un relativo svincolamento della filosofia naturale dalla Rivelazione, testimonia della convinzione di una funzione positiva della physis che la tradizione cristiana relegava ad un ruolo meramente negativo. In questo senso l’alchimia rappresenta una meditazione drammatica sul rapporto tra luce e tenebre, bene e male, positivo e negativo, in cui l’artefice è attivamente coinvolto: “Senza tema di errore si può affermare che la luce è il mistero centrale dell’alchimia filosofica”36. 1.2_ Redemptor macrocosmi L’impostazione cristiana è rovesciata specialmente nel fatto che l’adepto non è colui che è redento, ma colui che redime37. A questo scopo egli intraprende una via iniziatica fatta di studio ed apprendimento. In genere il sapere doveva essergli trasmesso da un maestro, ma questo poteva anche essere una figura immaginaria, come spesso erano immaginari i viaggi compiuti alla ricerca di nuove conoscenze38. 34 In Psicologia della traslazione, OC XVI, p.315, “il mistero alchemico è un omologo “inferiore” dei misteri “superiori”, un sacramentum non dello spirito paterno ma della materia materna”. 35 Jung, Paracelso come fenomeno spirituale, in OC XIII, in particolare alle pp.198-201. 36 Questa tradizione sembra richiamarsi ad una dialettica e reciproca determinazione di positivo e negativo differente da quella che ha dominato la tradizione filosofica occidentale. Mi riferisco ad una determinazione del positivo essenzialmente legata alla logica formale dell’identità e della noncontraddizione. Nella prospettiva che sembra trasparire dall’alchimia, e dallo stesso pensiero di Jung, il negativo non è né ciò che deve esser tolto, né ciò che si deve far in modo che si tolga da sé, ma semplicemente l’Altro. Le determinazioni esclusivamente logiche del positivo universale appartengono ad un pensiero senz’anima (psiche). Si tratta di uscire dalla bolla speculativa per trovare un logos dell’anima, e quindi anche della natura. Solo così la filosofia potrà tornare a dialogare con le scienze della natura, ed affrontare positivamente le questioni della Contemporaneità. 37 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, pp.297- 306. 38 Gli alchimisti viaggiavano in cerca di nuove conoscenza di paese in paese. Basti ricordare il pellegrinaggio leggendario di Nicholas Flamel e di sua moglie Perrenelle a San Giacomo di Compostella. San Giacomo era il protettore degli alchimisti, e si diceva che il sentiero che conduceva a Compostella (Campos- stella) fosse una proiezione terrestre della via lattea. 22 Gli alchimisti acquisivano il loro sapere perlopiù dai libri, con interminabili fatiche: uno dei loro motti preferiti era “lege, lege, lege et relege”. Quindi era necessario che l’adepto avesse una disposizione mentale e spirituale idonea al compimento dell’opera39. Per produrre l’uno attraverso la distillazione egli doveva prima di tutto essere uno con se stesso: “Tu non realizzerai mai l’Uno, che tu cerchi, a partire dalle altre cose, se prima non sarai divenuto uno con te stesso”40. In questo modo l’artefice ripeteva, nel suo piccolo, l’opera divina della creazione: d’individuazione “Per rappresentato gli alchimisti dall’opus il è processo un’analogia dell’origine del mondo e l’opus stesso è visto come un’analogia dell’opera creatrice divina. L’uomo è infatti considerato un microcosmo, un equivalente in miniatura del mondo”41. Quindi l’alchimia è anche una grande meditazione sul senso della creazione, che assumeva una posizione più o meno esplicitamente, più o meno consapevolmente critica nei confronti della creatio ex nihilo cristiana. Dio opera la creazione su un fondo in qualche modo preesistente e coeterno, anche se la dualità dialettica è una condizione metodologica più che assiologica della divina trasformazione42. 39 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, pp.252-267. G.Dorn, Speculativa philosophia, in Theatrum chemicum, vol.1. 41 Jung, OC IX, Empiria del processo di individuazione, p.299. In particolare Julius Evola ha sottolineato il nesso tra l’opera di trasformazione alchemica e la creazione del cosmo. Vedi J.Evola, La tradizione ermetica. Del resto anche il Poimandres, testo fondamentale del Corpus hermeticum, si apre con una portentosa visione cosmogonica che ricalca a grandi linee le fasi del processo alchemico. 42 O forse si tratta semplicemente di distinguere il divino creatore (demiurgo) dal dio-Uno: anche in ciò l’alchimia si incontrerebbe con lo gnosticismo. Comunque uno dei più espliciti in merito è Paracelso, con la sua concezione della materia come increatum: vedi Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, pp.310-313. Ma questo rifiuto della creatio ex nihilo coincide col fatto che Dio trovò preesistente la Tehom (Genesi 1.2): “La terra era una massa informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque”. Una visione analoga si ritrova anche ad esempio nello Schelling delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana. 40 23 Ma in questo modo l’artefice non si sostituiva al Creatore, bensì ne portava paradossalmente a compimento l’opera, rendendosi partecipe soltanto secondariamente della natura divina, ovvero in quanto beneficiava indirettamente dell’essenza divina scagionata dalle tenebre della materia. E’ questa una visione profondamente umanistica43: l’uomo è posto al centro del cosmo e di fronte a Dio, e il suo compito è di portare innanzi l’opera della creazione44. L’opera alchemica svolge “una funzione simile a quella della levatrice che presta la sua arte alla natura, permettendole di portare a completa maturazione il frutto la cui evoluzione troppe circostanze temporali avevano contribuito a ostacolare”45. Per usare le parole sferzanti di Paracelso: “Io sotto il Signore, il Signore sotto di me, io sotto di Lui all’infuori del mio ufficio ed Egli sotto di me all’infuori del mio ufficio”46. Nell’opera l’artefice sperimenta la paradossale libertà da/di Dio. Ma, nuovamente, la centralità dell’uomo non significa in alcun modo la sua superiorità o autarchia: sta al centro solo in quanto in lui opera lo Spirito Santo47, così come l’opera si compie solo Deo concedente48. 43 Non siamo distanti dalle espressioni luminose con le quali un umanista come Giovanni Pico della Mirandola apostrofava il divino Adamo: “Non ti diedi né volto né luogo che ti sia proprio, né alcun dono che ti sia particolare, o Adamo, affinché il tuo volto, il tuo posto e i tuoi doni tu li voglia, li conquisti e li possieda da solo. La natura racchiude altre specie di leggi da me stabilite. Ma tu che non soggiaci ad alcun limite, col tuo proprio arbitrio al quale ti affidai, tu ti definisci da te stesso. Ti ho posto al centro del mondo affinché tu possa contemplare meglio ciò che esso contiene. Non ti ho fatto né celeste né terrestre, né mortale né immortale, affinché da te stesso, liberamente, in guisa di buon pittore o provetto scultore, tu plasmi la tua immagine”, Oratio de hominis dignitate. 44 Non è estranea all’alchimia l’idea di una creatio continua o di una rivoluzione permanente. 45 T. Burckhardt, Alchimia, p.112, Sul rapporto opus-natura cfr. ibid. pp.109-120. 46 Paracelso, Liber de caducis, par.1, cit. in Jung, Paracelso come fenomeno spirituale, in OC XIII, p.156. 47 “Il vento che soffia quando vuole e dove vuole”: la concezione junghiana ed alchemica entra qui in assonanza con l’idea gioachimita di una terza età dello Spirito (S.Gioacchino da Fiore, L’età dello Spirito). Jung affronta la questione in Risposta a Giobbe, pp.412-415, e in termini espressamente psicologici ne l’Interpretazione psicologica del dogma della Trinità, pp.156 sgg., in OC XI, ma ha una rilevanza non ancora sufficientemente chiarita nel contesto del pensiero alchemico. 48 Jung, OC XI, Il simbolo della trasformazione nella messa, p.282. 24 Ars perficit naturam: usando un gioco di parole potremmo dire che l’opera dell’artefice è “naturalmente artificiale” e “artificialmente naturale”. Il suo carattere è dichiaratamente tecnico, ma si tratta di una techne che agisce in armonica tensione con la natura, in quanto espressione paradossale della natura stessa attraverso l’uomo e la sua coscienza riflessiva. La formula ermetica “la Natura trae diletto dalla Natura; la Natura contiene la Natura oltre la Natura” riassume in maniera eccellente la consapevolezza che i praticanti dell’arte regia avevano del proprio ruolo nel cosmo. L’uomo è un microcosmo in cui riverberano tutte le relazioni complesse dell’universo naturale. Come sta scritto nella Tabula smaragdina “il microcosmo è stato creato sul modello del macrocosmo”49. La von Franz, allieva e collaboratrice di Jung, ha illuminato eccellentemente il parallelismo sostanziale di microcosmo e macrocosmo nell’alchimia: “Vi sono quattro elementi paralleli: Dio, il cosmo, l’uomo e la pietra. Il parallelismo verte sempre sulla stessa immagine: cioè Dio creò il cosmo e l’uomo a sua immagine, e l’uomo crea il lapis secondo lo stesso modello, l’immagine di Dio, che porta in sé. Il parallelismo non è solo concettuale ma sostanziale: sussiste invero nell’immagine dell’Anthropos, l’uomo luminoso, l’uovo, la talpa, ecc. Accanto al parallelismo c’è anche una relazione, da un lato tra la costellazione astrologica e l’opus alchimistico, dall’altro tra quest’ultimo e la disposizione interiore. L’opus è il luogo in cui 49 La concezione delle monadi leibniziane è analoga. Ogni determinazione porta in sé la relazione alla totalità delle determinazioni e quindi rispecchia nel suo piccolo la Totalità. 25 l’uomo ha una certa libertà e dove, perciò, risiede la relazione forse più intima tra la chimica e l’Io dell’uomo empirico”50. Nella visione ermetico-alchimistica l’uomo è quindi redentore solo nel senso che è inserito nel disegno divino della salvazione. Cristo, in quanto redentore del genere umano, è redemptor microcosmi, mentre il lapis philosophorum è redemptor macrocosmi. Esso può essere rinvenuto ovunque, in particolare nella materia più vile e a buon mercato51. In sterquilinis invenitur: l’infima origine della pietra, ed il carattere inferiore della materia di cui è fatto, indicano una corrispondenza sostanziale tra l’“alto” ed il “basso”. Nulla resta escluso dalla produzione del redemptor macrocosmi, neppure la cenere risultante dal processo di combustione perché, come recita il Rosarium philisophorum, “la cenere è la corona del tuo corpo”. La corrispondenza di alto e basso trova riscontro nella Tabula smaragdina, ove sta scritto che “il più basso è simile in tutto al più alto e il più alto è simile in tutto al più basso, e questo perché si compiano i miracoli di una sola cosa”. Non si dà nell’alchimia elevazione spirituale senza comprensione dell’inferiore, per cui l’ascesi è prima di tutto un processo di immanentizzazione- un “fare l’immanenza”: “La sua potenza è perfetta se è convertita in terra”52. La volatilizzazione del fisso e la fissazione del volatile53 con cui la materia è trasformata 50 richiama la circolarità M.L.von Franz, Psiche e materia, pp.133-134. Jung, Psicologia e alchimia, in OC XII, pp.313-316. 52 Tabula smaragdina. 53 Ibid.: “Separa la terra dal fuoco e il sottile dal grosso, lentamente e con grande prudenza”. 51 26 dell’antichissimo serpente mangiacoda, l’ouroboros54. Questo serpente che divora se stesso, si nutre di se stesso e genera se stesso è un’eccellente rappresentazione dell’En to pan (Unotutto) ermetico, la via dall’Uno all’Uno: “Così come tutte le cose procedono dall’Uno per la meditazione di Uno Solo, ugualmente tutte le cose nascono per adattamento da quest’unica cosa”55. La distillazione è infatti volta alla produzione dell’Uno56, il cui punto di partenza simbolico e materiale è l’immanenza del “basso”, la Terra. Contrariamente al redentore cristiano, quello alchemico perviene ad una dimensione elevata per poi ridiscendere e fecondare la Terra: “Si eleva dalla terra al cielo e ritorna poi alla terra, e riceve così la potenza delle realtà superiori e inferiori”57. Il metodo dell’alchimista è un ritmo senza fine di dissoluzioni e coagulazioni. Con la congiunzione degli opposti prima opportunamente separati si realizza pertanto il mistero della trasformazione, che è la vita del cosmo, dell’artefice e della sua opera. Il grande Paracelso, che Jung ha studiato in alcuni saggi centrali per la sua comprensione dell’alchimia58, battezzò la sua medicina alchemica “spagirica”, un termine derivato dai verbi greci ΦΒςΤ (io divido) e P(γ∴κΤ (io unisco), corrispondenti all’imperativo degli alchimisti: solve et coagula. Non si deve pensare che tutti questi procedimenti riguardassero esclusivamente un’operatività esteriore, e ciò è attestato in particolar modo dal filone spirituale dell’alchimia. Come si potrà intendere meglio in seguito, è stato il grande 54 L’esemplare grafico più antico è custodito alla biblioteca Marciana di Venezia. Tabula smaragdina. 56 Jung, Paracelso come fenomeno spirituale, in OC XIII, pp.187-191. 57 Tabula smaragdina. 58 Sono Paracelso (1929), Paracelso come medico (1941), ma soprattutto Paracelso come fenomeno spirituale (1942). Sono tutti contenuti nel volume XIII delle Opere. 55 27 merito di Jung l’aver mostrato l’importanza strutturale della componente interiore o mistica. Da alcuni testi si ricava l’impressione che la saggezza ermetica dovesse essere letteralmente estratta dalla materia e che, viceversa, non potesse darsi operatività esteriore senza dei presupposti filosofici e spirituali59. La trasmutazione avviene dunque a un livello ibrido o intermedio che Corbin ha appropriatamente chiamato mundus imaginalis60. L’immaginale è un ambito “sottile”, il medio o la radice comune di corpo e spirito, l’ambito proprio di azione dell’artefice61. Così Marie Louise von Franz, ed altri studiosi sulla scia di Jung hanno interpretato l’alchimia come una forma di immaginazione attiva sulla materia oscura62. Del resto gli stessi alchimisti riconobbero nell’imaginatio un ingrediente fondamentale dell’opera, ben distinguendola dalla “fantasia”, di cui Paracelso diceva che è un gioco del pensiero privo di corrispondenza con la natura, “pietra angolare dei folli”. Pertanto quando l’adepto incontra le personificazioni dei metalli o degli elementi, non si tratta per lui di metafore: era davvero come se egli si confrontasse dialogicamente con delle figure reali che gli stavano dinnanzi: phantasia vera et non phantastica63. Già l’allegoria manca di esprimere il motore di questo metodo - l’interpretazione in senso allegorico è un 59 Così Paracelso in De vita longa, p.283: “Anzitutto la sostanza vitale impura deve essere purificata mediante la separazione degli elementi, il che avviene per mezzo della tua meditazione (imaginatio) su di essi”, cit. in Jung, Paracelso come fenomeno spirituale, in OC XIII, p.176, nota 18. 60 Cfr. Henry Corbin, Corpo spirituale e terra celeste. 61 Analogo è il ruolo dell’immaginazione produttiva nei confronti di intelletto e sensibilità nella prima edizione della Critica kantiana. 62 M.L. von Franz, Alchimia, pp.8-28, e 193 sgg. Stefano Fissi ha ripreso con chiarezza questo tema nel saggio I Molti e l’Uno in alchimia: l’imaginatio come luogo di confusività o di integrazione della materia psichica. Il tema è fortemente presente anche in junghiani di spicco come Andrew Samuels e Robert Grinell. 63 Artis auriferae volumina duo (1593), p.214: “et hoc imaginare per per veram imaginationem et non phantasticam”, cit. in Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, p.283. 28 tradimento del valore costitutivamente simbolico dell’opera alchemica. 1.3_Materia prima, Mercurio, Lapis Materia prima L’ottenimento della prima materia era un requisito essenziale per il compimento dell’opus. Sembra che gli alchimisti sapessero molto bene di cosa si trattasse quando ne parlavano, eppure le diedero un’infinità di nomi, contraddicendosi incessantemente64. Essa era il mercurio o l’argento vivo, ma poteva anche essere l’acqua, la terra nera, il fuoco, l’aria, il piombo, il sale, il lapis, lo spirito, il cielo, la rugiada, il mare, la madre, la matrix, la regina, Venere, l’Uno, il Tutto, il caos e così via. Essa era inoltre ad un tempo meretrice e vergine, madre e figlia del suo stesso figlio65. Tutte queste contraddizioni testimoniano comunque del suo stato caotico se non addirittura mostruoso: essa era infatti anche rappresentata come drago, o come lo sfero acquatico del caos66. Era una massa confusa, ma al tempo stesso dotata di ogni qualità. L’alchimista arabo Abu ‘l-Quasim dice che proviene da quel monte nel quale non esistono cose distinte67. Analogamente per Paracelso in essa “non c’è nessun tipo di genere”68. Quindi possiamo dire che essa è l’indeterminato che racchiude in sé inizialmente gli opposti in uno stato indistinto. Gli opposti, che essa contiene allo stato caotico, una volta separati troveranno una riunificazione nel lapis philosophorum. Una tipica 64 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, pp.307-310. Jung, Psicologia della traslazione, OC XVI, p.309. Ma sul rapporto madre-figlio si veda anche Mysterium coniunctionis, OC XIV, pp.23-25. 66 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, p.313-316, e fig.34. 67 Abu ‘l-Quasim, Kitab al ‘ilm, p.24; Cfr. Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, p.415. 68 Paracelso, Philosophia ad Athenienses, in Sudhoff, vol.13, p.402. 65 29 coppia di opposti la caratterizza ad un tempo come aqua permanens e ignis noster69. Oppure essa è l’acqua filosofale da cui ha origine la pietra, ma altrove ci si assicura che è l’acqua ad essere estratta dalla pietra70. In questa accezione essa è ad un tempo la materia di cui è fatto il lapis, ma in quanto il lapis può costituire anche l’inizio dell’opera essa ne è al tempo stesso il solvente. Era quindi identificata con lo stato liquido a cui vengono ridotti i metalli mediante la fusione. La constatazione che il mercurio era l’unico tra i metalli a trovarsi allo stato liquido ne faceva la matrice di tutti gli altri. Ma questo stato caotico degli elementi rappresentava anche in molti casi la materia prima del cosmo, e veniva identificata con l’anima mundi. Così era il fondo passivo e potenziale, il substrato privo di forma di ogni creazione. Per questo Paracelso – ma non fu il solo – giunse a definirla radix ipsius e increatum, affibbiandole gli attributi di una vera e propria dea mater, contrapposta al principio attivo e spirituale che tuttavia racchiude in sé71. In quanto sta all’inizio come alla fine del processo, è ad un tempo vile e nobilissima. Ci si dice che la si può trovare ovunque, e a buon mercato: è sotto gli occhi di tutti, eppure non v’è nessuno che la conosca72. E’ evidente che tutti i paradossi concernenti la sostanza arcana giocano sempre su un’ambiguità: essa è il fondo “femminile” passivo, ma per quanto questo fondo tenda ad un limite di assoluta passività, contiene pur sempre un principio spontaneo di movimento e di attività con cui congiungersi: essa è – virtualmente – la pietra, l’ermafrodito. Per questo lo spirito 69 Ripley, Opera. Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, pp.230-232. 71 Ibid., pp. 310-313. 72 Ibid., pp.313-315. 70 30 creatore cosmico non agisce semplicemente su di essa dall’esterno, ma è in essa radicato, implicato. La materia è indisgiungibile da una componente spirituale e, viceversa, non c’è spirito senza materia: l’alchimia mostra senza posa questa correlazione. Mercurio La coppia fisico-spirituale caratterizza in particolar modo la figura del Mercurio alchemico, la cui complessa simbologia è affrontata da Jung ne Lo spirito Mercurio (1943/48). In questo saggio di grande rilievo è anticipata la tesi capitale sugli opposti. Come si è visto, “Mercurio” è una delle designazioni della sostanza arcana. Tuttavia esso ne incarna anche e soprattutto la componente più attiva e spirituale. La sola prima materia può indicare semplicemente uno stadio caotico su cui non si è effettuata operazione alcuna, mentre la presenza di Mercurio significa di per sé che l’opera ha avuto inizio. Già nella prima materia è implicito il lapis, ma nel mercurio filosofico questa presenza è per così dire ancora più esplicita. Anzi, costituisce il perno su cui ruota la sua figura: esso è infatti il mediatore tra la prima materia e la materia ultima (il lapis), “principio mezzo e fine dell’opera”. Nella sua forma grezza, in quanto prima materia, Mercurio è dunque ad ogni effetto l’uomo primigenio disperso nel mondo fisico, mentre nella sua forma sublimata è la totalità ricostituita dello stesso73. Via via che si passa dalla prima materia al lapis, alla componente passiva e informe della sostanza arcana si viene accoppiando quella attiva e spirituale. Mercurio media queste polarità che nascono da esso stesso e ad un tempo le trascende. 73 Jung, OC XIV, p.22. 31 In quanto mediator non è d’altronde un semplice conciliatore: piuttosto è quel punto intenso e sfuggente in cui gli opposti sono tenuti insieme in tutta la loro tensione74. Nei testi alchimistici veniva rappresentato come una giovane divinità alata in equilibrio sul caos rotundum, oppure come il vecchio saggio accompagnato dall’immancabile caduceo. In esso riapparivano i caratteri dell’Ermete classico: guida e mistagogo, quindi anche rivelatore dei segreti divini; ermeneuta “infidus nimisque fugax” (infido e troppo sfuggente), quindi l’interprete nel senso più alto; messaggero analogo a Eros o addirittura a Cupido; spirito ctonio che si può ritrovare nelle cloache75. Il mercurio alchemico stava anche in rapporto di identità col pianeta Mercurio, che secondo la simbologia astrologica è la stella mattutina, un lucifero, un portatore di luce. E’ il generatore dei suoi genitori, Sole e Luna, ma è anche identificato con quest’ultima. Talvolta è invece in relazione col malvagio Saturno, il che spiega il suo essere malefico. Come la prima materia, dunque, anch’esso ha ricevuto un’infinità di caratterizzazioni. Dato il suo rapporto con il pianeta Mercurio, è in primo luogo l’argento vivo (Hydragyrum – il cui simbolo chimico è Hg) che, analogamente all’oro, va distinto dal mercurius vulgaris et crudus. D’altro canto è anche acqua, aqua sicca76. Nel saggio Le visioni di Zosimo (1938/54) Jung affronta la simbologia dell’acqua divina quale corrispettivo della sostanza di trasformazione77. D’altronde può anche essere fuoco invisibile, 74 Jung, OC XIII, Lo spirito Mercurio, pp.262-263. Ibid., 259-262. 76 Nell’Aquarium sapientum si dice “aqua tangentem non madefaciens”, acqua che non bagna chi la tocca. 77 Jung, OC XIII, Le visioni di Zosimo, pp.119-122. 75 32 fuoco segreto della natura, o fuoco infernale che si trova al centro della terra (ignis gehennalis)78. Nei testi è spesso uno spirito aereo se non incorporeo, intellettuale e metafisico. Oppure è “anima”, specialmente nel senso di principio vitale79. Alcuni filosofi lo pongono, come il lapis, in esplicita analogia con Cristo. Per gli alchimisti era infatti un vero e proprio redentore terrestre, servator e salvator. Talvolta è addirittura unus et trinus, come l’Ermete tricefalo, rappresentando così un corrispondente ctonio della trinità80. Secondo la tradizione ermetica è il dio dai molti nomi, varius ille mercurius, mercurio duplex. La sua caratteristica ambiguità lo rende più che mai inafferrabile e sfuggente: servus/cervus fugitivus. E’ detto “gemello”, maschile e femminile ad un tempo, sposo e sposa, giovane e vecchio, divino e infimo. E’uno spirito benefico, ma può anche mutarsi in una figura diabolica e ingannevole. Tuttavia non è il maligno stesso, lo contiene in se in un modo moralmente indifferente: “benefico con i buoni, malefico coi cattivi” (Khunrath)81. Come rileva Jung, esso è un’esplicita dualità, che però viene sempre indicata come unità, sebbene le sue molte antitesi possano scindersi drammaticamente in altrettante figure diverse e apparentemente indipendenti”82. Mercurio contiene in sé gli opposti, ma al tempo stesso li trascende: così esso è agente simbolico di congiunzione e di trasformazione, “l’immagine riflessa di un’esperienza mistica dell’artifex coincidente con l’opus alchimicum”83. Agisce dunque come un vero e proprio 78 Ibid., Lo spirito Mercurio, pp.241-243. Ibid., pp.243-48. 80 Ibid., pp.251-254. Si ricordi ad esempio il mostro tricefalo all’ingresso dell’inferno dantesco. 81 Ibid., pp.248-251. 82 Ibid., p.263. 83 Ibid., p.264. 79 33 principium individuationis, in quanto trasforma l’inferiore nel superiore, il fisico nello spirituale, e viceversa: rappresenta da un lato il Sé, dall’altro il processo di individuazione, e anche l’inconscio collettivo grazie alle sue illimitate qualificazioni84. Lapis Alla natura duplice di Mercurio fa seguito l’unità del filius philosophorum (unus est lapis), che rappresenta la meta finale dell’opus. Come si è detto questa è stata intesa dagli alchimisti in svariati modi, il che definiva i differenti ambiti dell’alchimia: ora esso era l’oro, ora la panacea contro tutti i mali, ora l’elisir di lunga vita. Tuttavia, come precisa Jung, “se il Lapis fosse stato solo oro gli alchimisti sarebbero stati dei ricconi; se fosse stato la panacea, avrebbero avuto un rimedio contro ogni malattia; se fosse stato l’elisir di lunga vita sarebbero vissuti mille anni e forse più. Ma tutto questo non avrebbe reso necessario parlare del Lapis in termini religiosi. Se infatti quest’ultimo venne celebrato come il secondo avvento del Messia, allora bisogna supporre che gli alchimisti intendessero proprio qualcosa di questo genere”85. Essi intesero dunque la pietra come un vero redentore che, tuttavia, a differenza di Cristo, era redemptor macrocosmi. Era difatti il filius regius di Sole e Luna, la perfetta riproduzione dell’Uomo primigenio che è l’Universo86. Come l’Anthropos del mito platonico esso ha natura di ermafrodito, in quanto unifica in sé, mantenendoli, gli opposti femminile e maschile. Le qualità paradossali che in esso si trovano congiunte stanno ad indicare che il rebis è un’espressione sintetica della totalità attraverso 84 Ibid. Jung, OC XIV, pp.327-328. 86 Ibid., p.327. 85 34 coppie di opposti87: era infatti spesso rappresentato da una quaternità di elementi, ovvero da due coppie di opposti fra loro incrociate88. L’artefice viveva in una partecipazione mistica con l’oggetto dell’opus, e per questo gli autori giunsero a dire: “trasmutatevi da morte pietre in vive pietre filosofiche” (Dorneus). Tuttavia l’artefice stava in un rapporto di dipendenza dal lapis: “Et sic Philosophus non est Magister lapidis, sed potius minister” (Artis auriferae, vol.2, p.356: “il filosofo non è il padrone della pietra, ma ne è piuttosto il servitore”). Come vedremo, la figura del rebis androgino è ulteriormente approfondita da Jung ne La psicologia della traslazione (1946), in cui questo è commentato quale decima e conclusiva immagine del processo descritto nel Rosarium philosophorum89. Il dieci va qui inteso come numero perfetto, in quanto rappresenta un’unità superiore. Il culmine dell’opera non può essere superato se non mediante la moltiplicazione (multiplicatio) all’infinito su altri corpi. La tinctura è infatti radix ipsius, è l’Uno, la fonte inesauribile ed eterna da cui nascono i molti. Si può dire che prima materia, mercurio e lapis, sono infine tre modi di esprimere lo stesso mistero: il mistero della congiunzione e della trasformazione della materia. La prima materia è già in sé il lapis – e infatti talvolta viene così chiamata – ma lo è al suo stato latente: essa è il sostrato della creazione alchemica, ma racchiude in sé un fuoco occulto, ovvero l’agente di trasformazione. In questo senso essa è anche il Mercurio filosofico, che rappresenta la sostanza arcana come agente di 87 Ibid., p.45-47. Ibid., p.279. 89 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, pp.306-319. 88 35 trasformazione. Anche Mercurio è già in Sé il Lapis: quest’ultimo agisce come una causa finale del processo, e quindi è la meta di trasformazione della materia prima. 1.4_Vas: il linguaggio ermetico Prima di procedere oltre è opportuno affrontare la complessa questione della forma espressiva tipica dell’alchimia, attraverso un’altro simbolo fondamentale: il vaso alchemico. Il linguaggio ermetico si riferisce ad un complesso tessuto simbolico ed immaginifico, la cui figura chiave è l’analogia: forse proprio per questo risulta difficilmente comprensibile a chi l’affronti con la rigida univocità di una logica formale. Esso richiede pertanto una certa esperienza della fitta rete di implicazioni simboliche che ogni singola espressione chiama in causa. Secondo Stefano Fissi il testo alchemico metterebbe in mora il pensiero logico-sequenziale attraverso una “tecnica della confusione” che si serve di un groviglio di tipi logici contraddittori al metalivello. Lo studioso sostiene che questa tecnica – una vera e propria struttura formale dell’esperienza e dell’apprendimento – ha la funzione di bloccare le strutture discorsivo-lineari, discriminative e sequenziali dell’emisfero sinistro, per produrre il passaggio alle procedure olistiche, immaginali e analogiche dell’emisfero destro90. James Hillman, dal canto suo, ha messo in luce il valore terapeutico del linguaggio alchemico nei confronti della nevrosi 90 S.Fissi, I Molti e l’Uno in alchimia. Questa interessante analisi, che avvalora l’ipotesi di un’“altra logica”, si riferisce ai lavori del grande ipnologo contemporaneo Milton Erickson, La tecnica della confusione in ipnosi (1964), e soprattutto alle ricerche sul “doppio legame” e sulle “sindromi transcontestuali” di G.Bateson in Doppio vincolo (1969). 36 linguistica, che induce a scambiare le parole e i concetti per cose. In questo senso il linguaggio ermetico manterrebbe la virtualità simbolica delle parole nei confronti delle cose senza cadere in indebite ipostatizzazioni. Lo stesso Hillman, sviluppando i presupposti della psicologia junghiana, ha approfondito in maniera estremamente interessante la tematica dell’immagine in rapporto alla parola (logos)91. Un’alchimista contemporaneo, Fulcanelli, ha accreditato l’ipotesi che il linguaggio alchemico sia un argot. L’argot era il gergo dei ladri e dei vagabondi (il cui protettore era Hermes), con il quale essi potevano comunicare fra loro senza farsi capire dagli altri92. Del resto lo stesso vaso in cui l’artefice operava la trasmutazione era un vas bene clausum o hermeticum93: nella parte superiore era infatti chiuso dal sigillo di Ermete, il quale per nessuna ragione doveva essere infranto prima del compimento dell’opera. Come afferma lo stesso Jung: “il recipiente è piuttosto un’idea mistica, un simbolo vero e proprio, come tutti i concetti alchimistici centrali”94. Spesso veniva identificato con la materia in esso contenuta o con il fine ultimo della trasformazione alchemica: “Benché sia uno strumento, è stranamente connesso con la prima materia quanto col Lapis; non è dunque un semplice apparecchio”95. Nella tradizione il vas mirabilis ha assunto molteplici forme, dal forno (athanor), all’aludel, al pellicano distillatorio il quale era assunto anche come allegoria di Cristo. Il vaso, o uovo, è il luogo conchiuso e isolato in cui l’alchimista custodisce e fa germogliare 91 Cfr. J.Hillman, Il valore terapeutico del linguaggio alchemico e Ricerche sull’immagine. Cfr. Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali (1926) e Le dimore filosofali e il simbolismo ermetico nei suoi rapporti con l’arte sacra e l’esoterismo della Grande Opera (1929). 93 Cfr, Jung, Psicologia e alchimia, pp.232 sgg. 94 Jung, OC XII, p.235. 95 Ibid., p.232. 92 37 la propria esperienza più intima: “Per l’alchimista il vaso è qualcosa di assolutamente meraviglioso: un vas mirabile. Dice Maria Prophetissa che tutto il segreto sta nel sapere relativo al vaso ermetico. “Unum est vas” è una frase sottolineata frequentemente. E’ assolutamente necessario che sia rotondo, affinché imiti il cosmo sferico, in quanto in esso le influenze astrali devono contribuire al successo dell’operazione che si sta svolgendo. E’ una specie di matrix o uterus, da cui nascerà il filius philosophorum, la miracolosa pietra”96. Fondamentale è la sua forma sferica, la quale descrive una sorta di circolo magico97 che isola ermeticamete il prezioso contenuto dall’esterno. L’alchimia agisce, nel linguaggio come nell’operari, per sottrazione, per isolamento dell’essenziale: solo così esso potrà entrare in rapporto con la Totalità. La trasmutazione è resa possibile dall’astrazione di una parte singolare dal contesto naturale. La ragione storica dell’oscurità del linguaggio ermetico può essere ricercata nell’esigenza quasi “politica” di difendere l’opera da occhi malevoli o indiscreti: ciò fu particolarmente accentuato dalle condanne ed accuse che in varie epoche furono mosse a carico degli alchimisti. Del resto essi stessi sottolineavano la necessità di non rendere il loro sapere accessibile a chiunque98: una certa autarchia semantica è un carattere comune a diversi percorsi iniziatici, il cui linguaggio può essere compreso perlopiù dagli adepti. “Non ci si deve tuttavia immaginare che gli alchimisti si fossero seduti a tavolino per escogitare una terminologia arcana 96 Ibid., pp.232-234. Ibid., p.167. 98 Ibid., p.241. 97 38 e per esprimere diciamo così in modo cifrato la loro nuova dottrina”, o che dietro le parole si celasse un concetto definito ma intenzionalmente dissimulato99. Ne è riprova il fatto che ogni adepto coniava una propria terminologia, il che poteva portare a grossolane incomprensioni con gli altri. C’è dunque una ragione più profonda e strutturale di questa oscurità. Jung affronta la questione a più riprese: non mancarono indubbiamente ciarlatani e mistificatori (o come li si chiamava “bruciacarboni”), ma il motivo principale della difficoltà del linguaggio alchimistico va riportata alle effettiva oscurità dell’oggetto che essi avevano di fronte: talvolta l’oscurità linguistica poteva divenire un vizio di forma, ma la materia che essi indagavano rappresentava comunque un vero e proprio mistero100. Piuttosto che intorbidare ciò che era chiaro si trattava di dare un nome e una determinazione a qualcosa di indeterminato. L’alchimista aveva scarsa coscienza discriminatrice, il suo era un pensiero analogico sempre rivolto alla totalità naturale e al suo mistero101. Il mistero è il luogo proprio in cui la parola tace, e se non tace – allora sì – diventa chiacchiera e ciarlataneria. Il rapporto con il mistero ed il suo silenzio avvicina l’alchimia alla mistica in senso proprio. “Mistico” deriva infatti da “mistero”, che a sua volta deriva dal greco myein (tacere). Tuttavia credere che l’alchimia fosse una forma di irrazionalismo, o che promuovesse qualche oscurantismo, significa rinunciare a comprenderne il nucleo più autentico. Piuttosto per gli alchimisti l’oggetto della ricerca, l’“altro”, se è 99 Jung, Paracelso come fenomeno spirituale, OC XIII, p.222. Jung, OC XII, p.241, e L’albero filosofico, in OC XIII, p.322-323. 101 Jung, Psicologia della traslazione, in OC XVI, p.289. 100 39 veramente Altro, ha sempre a che fare con una certa oscurità, che comunque va affrontata con il lume della coscienza. L’alchimia è la più paradossale forma di “illuminismo”. Pertanto un’opera di chiarificazione analitica non può che essere vana, o deve partire comunque dal presupposto di incontrare una soglia invalicabile: il mistero. Oscurantismo sarebbe tentare di ridurre, secondo la logica dei positivisti, questo qualcosa di ignoto ad un dato mancante102. Non si tratta di un segreto custodito personalmente da qualcuno, ma è ignoto nella sua essenza. Come si chiarirà nel capitolo dedicato al simbolo, la conoscenza di tipo simbolico postula metodologicamente l’esistenza dell’ignoto, ed il confronto con la sua matrice oscura. Nel simbolo la determinazione è infatti posta in relazione con l’indeterminato da cui si emancipa, e che minaccia sempre di risucchiarla. Gli archetipi universali ed eterni cui gli alchimisti si riferivano non erano chiari e distinti, ma potrebbero essere definiti “distinti-oscuri”103. La loro oscurità intrinseca chiama in causa non tanto una visione intellettuale (theorein) quanto piuttosto un “sentire”. Nella Premessa ad un catalogo di alchimia Jung scrive: “Il linguaggio alchemico si dimostra non tanto semiotico (linguaggio cifrato), quanto piuttosto simbolico, nel senso che non vi viene celato un contenuto noto, bensì si allude a un contenuto ignoto, o piuttosto un contenuto ignoto allude a sé stesso. Tale contenuto può essere solo psicologico. Se analizziamo queste espressioni 102 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, p.459: “Non considero oscurantista colui che confessa di non sapere, ma colui la cui coscienza non si è ancora sviluppata ancora al punto di sapere di non sapere”. 103 Per la caratterizzazione delle idee distinte-oscure mi riferisco a Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, in particolare alle pp.275 sgg. 40 simboliche giungiamo alla conclusione che in esse si sono proiettati contenuti archetipici dell’inconscio collettivo”104. “Ciò che costituisce il fondamento dell’alchimia è un puro e autentico mistero”105. Mistero non è l’alchimia ma il suo fondamento106, che è il fondamento stesso della psicologia del profondo. E questa sapienza arcana ha carattere segreto perché segreta è la vera natura delle cose, e segreto il modo di poterle combinare nelle nozze mistiche107. 104 Jung, OC XIII, Premessa ad un catalogo di alchimia, p.371. Jung, Mysterium coniunctionis, OC XIV, cit. in M.Pereira, Arcana sapienza, p.277. 106 M. Pereira, Il paradigma della trasformazione, p.202. 107 U. Galimberti, Dizionario di psicologia analitica, voce “Alchimia”, pp.22-23. 105 41 Capitolo 2_ L’alchimia secondo Jung “L’inconscio è la storia non scritta dell’uomo da tempi immemorabili”. C. G. Jung, Psicologia e religione, p.183 2.1_ Antecedenti storici Jung108 cominciò ad interessarsi di alchimia relativamente tardi: i principali scritti in materia risalgono tutti all’ultimo periodo della sua produzione, quando i capisaldi della psicologia analitica erano già in buona parte definiti109. Nel resoconto autobiografico leggiamo che l’imminente incontro dello psicologo con la tradizione alchemica fu anticipato da una serie di sogni premonitori110. 108 Carl Gustav Jung nacque nel 1875 in Svizzera, a Kesswil, ed era figlio di un pastore protestante. Si laureò in medicina presso l’università di Basilea, ed intraprese la carriera psichiatrica sotto la guida di Eugen Bleuler. Negli anni successivi strinse un sodalizio scientifico con Freud, dal quale presto si svincolò per sviluppare autonomamente la propria psicologia detta “analitica”. La pubblicazione di Wandlungen und Symbole der Libido nel 1912 segna la rottura col padre della psicanalisi, e l’inizio di un lungo periodo caratterizzato da forti esperienze interiori, in cui Jung si isolò dalla vita pubblica. Con Tipi psicologici (1921), La struttura della psiche (1927), L’Io e l’inconscio e Energetica psichica (1928) egli getta le basi della propria teoria psicologica. Gli anni successivi sono caratterizzati dall’interesse crescente per il mito e la simbologia religiosa. A partire dal 1933 partecipa e tiene conferenze ai convegni di “Eranos” ad Ascona, ed è libero docente al Politecnico di Zurigo. Nel 1934 inizia la sua ricerca sistematica sull’alchimia, i cui dettagli sono trattati in questo lavoro. In questi anni riceve diverse lauree honoris causa, e nel 1948 è fondato il C.G. Jung-Institut a Zurigo. Nel 1960 gli è conferita la cittadinanza onoraria di Kusnacht, dove muore il 6 giugno del 1961. 109 Approssimativamente dal Commento al “Segreto del fiore d’oro” del 1929, OC XIII, al Mysterium coniunctionis, OC XIV, che fu portato a termine nel 1954 e pubblicato nel 1955-56. Le altre opere sull’alchimia comprese in questo periodo sono, in ordine cronologico di pubblicazione (l’eventuale data di pubblicazione di versioni definitive o rivedute è indicata dopo la sbarra): Le visioni di Zosimo (1938/54), in OC XIII; Paracelso come fenomeno spirituale (1942), in OC XIII; Lo spirito Mercurio (1943/48), in OC XIII; Psicologia e alchimia (1944), OC XII; L’albero filosofico (1945/54), in OC XIII; e La psicologia della traslazione (1946), OC XVI. Scritti minori sul tema dell’alchimia sono compresi ancora nel vol.XIII delle Opere complete Studi sull’alchimia: Premessa a un catalogo di alchimia (1946), Alchimia e psicologia (1948) e Faust e l’alchimia (1949/50). Ma Jung si riferisce alla simbologia alchemica anche nei saggi raccolti nel vol.XI Psicologia e religione, in particolare nel saggio omonimo Psicologia e religione pubblicato nel 1938/40. Materiali alchemici sono ampiamente usati anche in Empiria del processo di individuazione (1933/50), in OC IX; ne Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1934/54), in OC IX; in Aion (1951), in OC IX; e nella versione definitiva dei Simboli della trasformazione, in OC V. 110 Jung, RSR, pp.247 sgg. Questa affascinante “autobiografia interiore” fu redatta in realtà con Anela Jaffè, e per volontà di Jung fu esclusa dal piano delle Opere. 42 Fin dagli inizi dell’attività psicoterapeutica Jung aveva sentito l’esigenza di un riscontro storico-oggettivo a cui riferire le dinamiche psichiche osservate in ambito clinico. Ma non si trattava soltanto di esperienze psicoterapeutiche: dopo il lungo quanto travagliato periodo di “confronto con l’inconscio”111 – dal 1913 al 1919 – e la solitudine che esso comportò, egli sentì più che mai l’esigenza di individuare dei precedenti storici delle proprie esperienze interiori. Li individuò dapprima negli gnostici112, che studiò approfonditamente tra il 1918 ed il 1926, “perché anch’essi si erano trovati a confronto con il mondo originario dell’inconscio, e avevano avuto a che fare con i suoi contenuti, con immagini che erano chiaramente contaminate dal mondo degli istinti”113. La moderna psicologia dell’inconscio – Jung ne era profondamente convinto – aveva più di qualcosa in comune con quegli antichi eretici: è ciò che riferisce in una lettera a Freud, facendo notare come i motivi della sessualità e della malvagia autorità paterna fossero già patrimonio gnostico114. I Septem sermones ad mortuos rappresentano il frutto controverso, e circonfuso di mistero, del suo interesse per lo gnosticismo115. Tuttavia l’approccio di questi venerabili padri 111 Jung, RSR, pp.212-244. Cfr. G.Antonelli, La profonda misura dell’anima e Jung e lo gnosticismo; U.Galimberti, La terra senza il male; G.Hanratty, The Gnostic Psychology of Carl Gustav Jung; S.Hoeller, The Gnostic Jung and the Seven Sermons to the Dead; G.Quispel, Jung and Gnosis; R.A. Seagal, The Gnostic Jung. Mi permetto anche di rinviare al mio saggio Jung and Gnosticism, disponibile nel sito http://www.attualamente.org. 113 Jung, RSR, p.245. 114 Jung, RSR, p.246. 115 Sono pubblicati in appendice ai Ricordi. Questi sermoni gnostici furono il cavallo di battaglia dell’accusa di gnosticismo che Martin Buber mosse contro lo psicologo ne L’Eclissi di Dio. Naturalmente furono esclusi dall’opera completa, nonché rinnegati dallo stesso autore come un “peccato di gioventù”. Jung scrisse i Sermones pressappoco a conclusione delle sue esperienze interiori, nel 1916, in un’atmosfera densa e sinistra, caratterizzata da fenomeni parapsicologici, cfr. RSR pp.233-235. Quindi essi precedono lo studio per così dire “oggettivo” degli autori gnostici. Comunque questo scritto meriterebbe una maggiore attenzione, soprattutto da parte della critica ad orientamento filosofico. 112 43 eretici gli appariva spesso troppo intellettualistico e distante dalle moderne problematiche psicologiche: l’esperienza interiore era perlopiù mediata da “rielaborazioni speculative di tipo sistematizzante”. Gli sembrava che quella tradizione fosse stata per così dire bruscamente interrotta, e stentava a capire come si fosse giunti da essa alla psicologia dell’inconscio inaugurata da Freud. La risposta arrivò alcuni anni dopo e, come spesso nella vita di Jung, per opera del “caso”: nel 1928 ricevette da parte del sinologo Richard Wilhelm un esemplare di alchimia cinese, con l’invito a commentarlo116. La lettura di questo testo attivò la sua attenzione sul tema dell’alchimia, nella quale ritenne di aver trovato “l’anello di congiunzione, da tanto tempo cercato, tra la gnosi e i processi dell’inconscio collettivo osservabili nell’uomo d’oggi”117. Come è noto gli alchimisti erano completamente all’oscuro della tradizione gnostica (Jung riferisce di aver trovato un solo alchimista che confessi di aver letto i testi degli eresiologi, non senza un certo orrore e ribrezzo). Pur tuttavia egli congiunge l’alchimia medievale agli gnostici dei primi secoli della cristianità in virtù di “certe filiazioni simboliche, nonché per l’analogia che l’alchimista avverte tra la sua opera e l’opera della creazione, 116 Si tratta de Il segreto del fiore d’oro, tradotto in tedesco da Wilhelm. Il Commento al “Segreto del fiore d’oro” fu pubblicato per la prima volta nel 1929 con la traduzione dell’antico testo cinese. La versione definitiva è del 1957, e appare nel vol. XIII delle Opere. 117 Così nella prefazione alla seconda edizione del Segreto del fiore d’oro del 1938, in OC XIII, p.18. Analogamente nei Ricordi, p.246: “quando cominciai a capire l’alchimia mi resi conto che rappresentava il legame storico con lo gnosticismo, e che perciò c’era una continuità tra il passato e il presente. Fondata sulla filosofia naturale del medioevo, l’alchimia costituiva il ponte verso il passato, con lo gnosticismo, e verso il futuro con la moderna psicologia dell’inconscio”, e a p.250: “notai ben presto che la psicologia analitica concordava stranamente con l’alchimia. Le esperienze degli alchimisti erano, in un certo senso, le mie esperienze, e il loro mondo era il mio mondo. Naturalmente questa fu per me una scoperta importante: avevo trovato l’equivalente storico della mia psicologia dell’inconscio. Ora essa aveva un fondamento storico. La possibilità di un raffronto con l’alchimia, così come la continuità spirituale fino al lontano gnosticismo, le davano la materia”. 44 ambedue redenzione della materia dal caos originario e momento soteriologico dell’anima e del cosmo intero”118. Ma l’affinità si avverte anche sul piano delle problematiche sollevate da queste due tradizioni apparentemente così differenti – in particolare il problema del male. L’alchimia sarebbe dunque nella visione storica di Jung, l’erede eminente della speculazione gnostica dei primi secoli dell’era cristiana. 2.2_ L’inconscio del Cristianesimo Questa prospettiva storica si appoggia principalmente sull’ipotesi psicologica degli “archetipi dell’inconscio collettivo”, e prescinde quindi dall’esistenza di una tradizione diretta. Jung non è estraneo all’idea di un’aurea catena di saggi “che è esistita dal principio dell’alchimia filosofica e dello gnosticismo fino allo Zarathustra di Nietzsche”119. In verità egli era già venuto in contatto con l’alchimia molto prima, attraverso lo studio di un altro discepolo di Freud e massone, Herbert Silberer120, ma “abbastanza stranamente” aveva dimenticato questo scritto, forse perché allora considerava l’alchimia ancora “piuttosto marginale e ridicola”121. Solo molti anni più tardi Jung sentì davvero l’esigenza di rispolverare le proprie conoscenze di greco e di latino, e di cominciare ad affrontare i testi con “metodo puramente filologico”122. 118 Giovanni Rocci, Jung e il suo daimon, pp.249-250. Jung, RSR, pp.232-233. Aurea Catena Homeris è il titolo di uno scritto del 1723. La catena aurea è una lunga successione di saggi che dal leggendario Ermete Trismegisto conduce agli gnostici, agli alchimisti, includendo persino Goethe e Nietzsche. Naturalmente questa non sarebbe basata sulla tradizione diretta, ma sul riferimento a un comune fondo archetipico. Ciò che traspare più o meno esplicitamente dalle allusioni di Jung è la sua appartenenza a questo filone aureo della storia. 120 H.Silberer, Probleme der Mystik un ihre Symbolik, (1914), che faceva riferimento soprattutto all’alchimia più tarda, e quindi meno autentica. Silberer morì suicida nel 1923. 121 Jung, RSR, p.249. 122 Jung, RSR, p.250. 119 45 Pertanto un primo e fondamentale aspetto della tematica alchemica nell’opera di Jung consiste nella comprensione dell’alchimia sul piano della storia della cultura, nell’interpretazione come fenomeno storico in sé. Da un altro lato, tuttavia sono anche indagati i nessi con la psicologia inaugurata da Freud, per cui non ci si deve meravigliare se il suo approccio non è esattamente quello di uno storiografo ma può piuttosto definirsi “psico-storico”123. Del resto psiche e storia intrattengono un rapporto peculiare in virtù della corrispondenza tra la stratificazione storica e quella psicologica, per cui si potrebbe “cum grano salis, scrivere la storia attingendo al proprio inconscio come a un testo oggettivamente esistente”124. “L’inconscio è la storia non scritta dell’uomo da tempi immemorabili”125: il riferimento alla storia era necessario per una psicologia che non si limitava, come quella di Freud, alla sola psiche individuale. Tuttavia la lettura di Jung è più direttamente orientata in senso ermeneutico, in quanto non indaga l’intera storia dell’alchimia, ma il suo “mistero” più autentico126. Tra gli studiosi e gli interpreti moderni egli è stato il primo a svincolare l’arte sacra dalla superficiale riduzione allora corrente – specialmente negli ambiti positivisti – a balbettamento pseudo-chimico. 123 Pier Francesco Pieri, voce Alchimia del Dizionario junghiano, p.34. Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, p.89, ma si veda anche a p.37. In Prefazione a White, “Dio e l’inconscio”, in Psicologia e religione, OC XI, pp.295-296 si legge: “…una popolazione è fatta di strati storici, e comprende individui che dal punto di vista psicologico avrebbero potuto benissimo vivere cinquemila anni prima di Cristo […] relativamente poche hanno raggiunto il grado di coscienza al quale oggi è possibile pervenire” 125 Jung, OC XI, p.183. La von Franz ebbe giustamente a dire che Jung recuperò l’alchimia “dal letamaio delle cose dimenticate del passato”, in Alchimia, p.7. Il nesso con le tesi di filosofia della storia, che Walter Benjamin andava scrivendo in quegli anni, sorge spontaneo: cfr. Angelus Novus, pp.75-86. Le Tesi sul concetto di storia furono redatte da Benjamin nel 1940 e pubblicate per la prima volta nel 1942. Vi si sosteneva l’idea fondamentale che la storia è scritta dai vincitori- da cui il ruolo storicamente e storiograficamente dirompente degli emarginati e degli oppressi. 126 Walter Pagel, Jung’s Views on Alchemy, p.48: “If not the whole story of alchemy ha has tackled its “mystery”, its “Nachtseite”, i.e., the problem most urgent and vexing to the historian”. 124 46 Indubbiamente essa ha avuto un ruolo determinante come antenata della moderna chimica127, ma il grande merito dello psicologo zurighese è stato proprio quello di metterne in luce il portato essenzialmente simbolico. Questo lo ha indotto indubbiamente a sottovalutarne gli aspetti operativi, il valore per la storia della scienza128, e a privilegiarne il cosiddetto filone “spirituale”129; ma a partire da Jung l’alchimia veniva reinserita in una prospettiva interamente rinnovata nel contesto della cultura umana in generale. La tesi storica fondamentale sostenuta dallo psicologo zurighese è che essa sia un grandioso movimento di compensazione rispetto ai lati d’ombra della tradizione filosofica, religiosa e dell’inconscio scientifica consiste dell’Occidente. appunto Una nella delle funzioni compensazione dell’unilateralità della coscienza, quindi l’alchimia esprime in qualche modo l’inconscio della Tradizione cristiana – una sorta di mondo speculare che importa e riterritorializza nel suo ambito il simbolismo religioso. A volte può persino sembrare che essa viva parassitariamente rispetto all’ortodossia cristiana, prendendone a prestito i simboli, ma stravolgendone l’ordine e i riferimenti. Leggere un testo alchemico è come immergersi nelle acque gravide di una scienza e di un pensiero sognante130: “L’alchimia forma infatti una sorta di corrente sotterranea di quel cristianesimo che regna alla superficie. Il rapporto tra alchimia e 127 Si pensi alla produzione della porcellana, del fosforo a partire dall’urina, oppure viceversa all’ispirazione alchemica delle scoperte fatte dal chimico ottocentesco Kekulè sulla struttura di alcuni composti di carbonio. 128 Cfr. W.Pagel, Jung’s Views on Alchemy. 129 Cfr. M.Pereira, L’alchimia e la psicologia di Jung, p.419. 130 E’ curioso notare come la medesima opinione fosse espressa, ma in senso negativo, dai primi chimici. Un Dizionario di chimica del 1766 dichiarava: “i veri chimici consideravano l’alchimia una scienza immaginaria”, cit. in J.van Lennep, Alchimia. 47 cristianesimo è equivalente a quello fra sogno e coscienza, e come il sogno compensa i conflitti della coscienza, così l’alchimia tende a colmare quelle lacune che la tensione dei contrari presente nel cristianesimo ha lasciato da parte”131. Il problema del rapporto tra coscienza e inconscio si pone qui in termini storici: in che senso l’alchimia compensa il cristianesimo, e in che misura può dirsi autonoma? Secondo Jung il simbolo trinitario della divinità soffre di una certa unilateralità, in quanto tende a privilegiare l’elevazione spirituale e la differenziazione della coscienza. La Trinità cristiana sorge sull’esclusione del “quarto dei tre”: l’interpretazione junghiana fa emergere il collegamento simbolico tra la materia (il corpo), il femminile e il male, mostrando come questi rappresentino i grandi esclusi della religiosità occidentale. L’alchimia solleva delle questioni culturali che il Cristianesimo aveva semplicemente messo da parte, e queste stesse tematiche sono più che mai rilevanti per la riflessione filosofica contemporanea. La contrapposizione tra lo schema trinitario e quello della quaternità è in qualche modo il perno di Psicologia e alchimia: “Qui tra le cifre dispari del dogmatismo cristiano si inseriscono le cifre pari che denotano l’elemento femminile, la terra, l’elemento sotterraneo, il male stesso. La loro personificazione è il serpens mercurii, il drago che genera sé stesso e distrugge sé stesso, e che rappresenta la prima materia. Questo pensiero fondamentale dell’alchimia ricorda la Tehom (Genesi 1.2), la Tiamat coi suoi attributi di drago, e quindi quel mondo primordiale patriarcale che, nella teomachia del mito di Marduk, fu vinto dal mondo 131 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, p.27. 48 maschile paterno. L’universale evoluzione storica della coscienza in senso maschile è compensata anzitutto dall’elemento ctoniofemminile dell’inconscio”132. Quindi Jung mostra come la quaternità sia “l’esponente più significativo del culto religioso creato dall’inconscio”133, ovvero di un’esperienza religiosa non mediata dai dogmi, che Jung definisce come un’esperienza degli archetipi134. La quaternità è un’espressione archetipica della totalità come completezza (mentre la trinità esprime piuttosto la perfezione), è un simbolo dell’unità che ha integrato la componente materiale, il negativo come opposto. Il quaternio come archetipo dell’unità è la risultante dell’incrocio di due coppie di opposti135: infatti l’archetipo dell’unità psicologica (Sé), e quello della divinità, sono concepiti dallo psicologo come una complexio oppositorum, e quindi anche come un superamento dello stato di scissione dei contrari136. In questo senso lo schema quaternario rinvia ad una diversa relazione degli opposti, ad un’altra determinazione del negativo. L’obiettivo polemico di Jung è qui soprattutto la determinazione del negativo etico dominante nella teologia cristiana da Agostino in poi: il male come privatio boni. Dunque il lavoro di redenzione della materia degli alchimisti ha a che fare con la riabilitazione simbolica del “male”, privato di realtà ontologica dopo la sconfitta dello gnosticismo e del manicheismo137 - come ha a che fare la riabilitazione 132 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, pp.27-28. Jung, Psicologia e religione, in OC XI, p.46. 134 Cfr. M.Pereira, Il paradigma della trasformazione, pp.429 sgg. 135 Jung, Psicologia e religione, in OC XI, pp.125 sgg. 136 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, p.29. 137 Nelle prime pagine di Mysterium coniunctionis, OC XIV, Jung raffronta alchimia e manicheismo. La questione è importante soprattutto in relazione al dualismo metodologico dell’alchimia come della psicologia analitica, che affronteremo nella seconda parte. 133 49 dell’inconscio (processo di individuazione) e con la messa in relazione alla totalità psicologica (Sé), la cui forma quaternaria è ripetutamente constatata da Jung nella sua esperienza psicoterapeutica. La quaternità emerge in particolar modo nei mandala ricorrenti nei sogni dei pazienti moderni, che Jung descrive nella seconda parte di Psicologia e alchimia: questi simboli della totalità psicologica, piuttosto rari nella religiosità occidentale, sono invece frequenti in quella orientale138. 2.3_ Parallelismi Nella terza parte di Psicologia e alchimia sono invece messe a confronto le differenti “raffigurazioni della meta” alchemica e cristiana: qui emerge la questione dell’autonomia dell’alchimia rispetto al cristianesimo. Il parallelo che Jung istituisce tra il lapis e Cristo non è che un’espressione generale del parallelismo tra le tradizioni. Tuttavia il rilevamento di una relazione generica tra due piani, di un’analogia di struttura, lascia ancora aperta la questione della concreta relazione storica e teorica. Se da un lato l’analogia indica una “identità segreta”139, dall’altro la radicalizzazione dell’imitazione della figura di Cristo come salvator microcosmi, nel lapis come salvator macrocosmi lascia intendere un valore più originario ed un’autonomia, quantomeno di diritto, della tradizione alchemica140. 138 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, pt.2, cap.3, in particolare pp.97-105 e 214-222. Ibid., pp.339-340. 140 Ibid., p.345. Ma, come fa notare la Pereira, Il paradigma della trasformazione, p.214, l’autonomia relativa dell’alchimia troverà un formulazione più chiara solo nel Mysterium coniunctionis: “la pietra non si lascia riportare a Cristo […] La ragione è che il simbolo della pietra contiene, malgrado tutte le analogie, un elemento che non si può unificare con i principi spirituali 139 50 In ultima analisi si tratta di due differenti livelli di stratificazione espressiva in rapporto sincronico141, in cui l’alchimia – inseguendo l’ideale della completezza – non solo compensa ma anche fonda virtualmente l’unilateralità del cristianesimo. Se nella prima l’esperienza archetipica è immediata, in quest’ultimo il riferimento al fondo collettivo è mediato dal dogma. Queste considerazioni trovano un’ulteriore conferma nel parallelismo tra l’opus ed il momento della transustanziazione nella messa, ovvero la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo142. Anche questo parallelo fu istituito esplicitamente da alcuni alchimisti, come Melchior Cibinensis. Jung lo approfondisce mostrando come l’artefice vivesse in qualche modo la propria salvezza in prima persona: nell’opera è infatti l’uomo stesso che salva la divina anima del mondo (Sé) dormiente nella materia, e quindi salva se stesso. Anche qui il simbolismo cristiano è interiorizzato e radicalizzato. In questo modo la lettura junghiana supera il paradigma storiografico di tradizione-rivoluzione: l’alchimia è piuttosto un’“anti- tradizione”143. dell’universo cristiano. L’immagine scelta indica già di per sé la natura di questo simbolo. “Pietra” […] è la materia femminile, la cui idea penetra nella sfera del simbolismo spirituale”, OC XIV, p.309 dell’edizione tedesca, cit.in Pereira. 141 Jung, La sincronicità come principio di nessi acausali, in VIII, pp.447 sgg.; cfr. M.L.von Franz, Psiche e materia, pp.130-131, dove un discorso analogo è portato avanti circa il rapporto tra microcosmo e macrocosmo nell’alchimia. 142 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, pt.3, cap.5, par.2 e-f-g; Simboli della trasformazione nella messa, in OC XI, pp.236 sgg.; Le visioni di Zosimo, in OC XIII, pp.77 sgg. 143 Prendo spunto per questa espressione da Toni Negri, in particolare dai saggi su Spinoza, in cui un discorso analogo è svolto nei confronti della metafisica occidentale. Si tratta di svincolarsi, anche storiograficamente, dalle solite grandi narrazioni, non per un vezzo formale, ma per la semplice constatazione oggettiva che “c’è dell’altro”. Vi sono alternative che vanno ben al di là del solo rifiuto o della negazione determinata (critica negativa), ma che sono già, alla loro origine, delle prospettive “altre” – e non nel senso dell’opposizione, ma in quello della diversità. A partire dalla prospettiva junghiana possiamo dire che l’alchimia s-fonda la “Tradizione” occidentale, ovvero relativizza ogni singola tradizione ponendola in relazione alla totalità storica virtuale- gli archetipi. Cfr. Antonio Negri, Spinoza, pp.23 sgg. e pp.43-48. Sullo s-fondamento cfr. Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione. Cfr. Jung, OC XIV, p.102 e p.303. 51 Di tutt’altro genere è invece il parallelismo tra il lapis ed il Sé, ovvero più genericamente tra alchimia e psicologia. Esso appartiene al filone più espressamente “psicologico” della tematica alchemica in Jung, che introduce il suo pensiero ad una maggiore consapevolezza di tipo epistemologico. La psicologia analitica si pone su un linea di continuità e di evoluzione rispetto alla tradizione ermetico-alchimistica: l’analogia si sviluppa per così dire in senso “orizzontale”, piuttosto che “verticale”. Nessuna delle due ha la preminenza sull’altra: si tratta virtualmente delle medesime esperienze, e del rapporto al medesimo mistero. Per cui la superiorità della formulazione psicologica può essere tutt’al più un’illusione prospettica. Nell’accostamento tra i materiali empirici della pratica psicoterapeutica, e rappresentazioni mitologiche e religiose si instaurano una circolarità ermeneutica e una riverberazione di significati caratteristiche dell’opera junghiana. Così psicologia e alchimia non sono in alcun modo ridotte l’una all’altra: sono semplicemente due piani di una medesima struttura discorsiva che si riflettono reciprocamente. Jung chiama questa modalità interpretativa amplificazione: “L’amplificatio è sempre indicata quando si tratti di un’esperienza oscura, i cui vaghi accenni devono essere dilatati e ampliati da un contesto psicologico per diventare comprensibili. Per questa ragione, nella psicologia complessa noi ricorriamo all’amplificatio per l’interpretazione dei sogni: perché il sogno è una traccia troppo esigua per essere compresa tal quale; dev’essere arricchita e rinsaldata da materiale associativo e analogico per poter essere compresa”144. 144 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, p.281. Jung sottolinea anche l’importanza del metodo analogico per gli stessi alchimisti nella costruzione della theoria che accompagnava la pratica di laboratorio: “Il metodo dell’alchimia è, propriamente parlando, il metodo della sconfinata amplificazione”. Cfr. anche ibid. pp.47-48. Sull’amplificazione si veda G.Maffei, Jung, p.73 e n. 52 La fiducia nel metodo comparativo derivava a Jung dalla vastissima erudizione e dalla formazione umanistica. Su un piano teorico, la comparazione del materiale simbolico offerto dall’inconscio con materiali coscienti del passato145 si fondava sulla stratificazione storica della psiche146. Gli risultava “più che mai evidente la necessità di uno studio comparato dei simboli ai fini della psicologia clinica. A questo scopo la ricerca deve tornare a quei periodi della storia in cui non v’era alcun ostacolo alla formazione di simboli […] L’epoca di questo genere a noi più vicina è quella della medievale filosofia della natura, che raggiunse il vertice nel Seicento e, nel Settecento, cedette a poco a poco alla scienza critica. Il suo sviluppo più significativo fu da essa raggiunto nell’alchimia e nella filosofia ermetica. In quest’ultima vennero a sfociare, come in un bacino collettore, i mitologemi più durevoli e importanti del mondo antico”147. Così era confermata e ampliata l’ipotesi dell’inconscio collettivo148 e l’immaginario alchemico era assunto a emblema delle strutture profonde e costanti dell’immaginazione umana149. 2.4_ Natura psichica dell’opera alchimistica La proiezione sulla materia In questo senso il grande merito di Jung consiste nell’aver compreso e dimostrato che il processo di trasformazione della 145 Jung, Psicologia e religione, in OC XI, p.61. Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, p.37. Cfr. E.Neumann, The Origins of History and Consciousness. 147 Jung, L’albero filosofico, in OC XIII, pp.298-299. 148 Gli archetipi dell’inconscio collettivo, in OC IX, fu pubblicato infatti per la prima volta nel 1934, ed uscì successivamente riveduto e ampliato con nuovi materiali simbolici nel 1954, in corrispondenza con l’ultima stesura del Mysterium coniunctionis. 149 P.F.Pieri, Dizionario junghiano, voce Alchimia, pp.34-35. Ciò gli valse spesso la critica di voler riportare tutte le espressioni della simbologia, della religione e del mito. Tuttavia non era tanto l’alchimia in se stessa che gli interessava, quanto la matrice universale di tutte queste espressioni, che in essa intravedeva più che altrove. 146 53 materia descritto dagli alchimisti (l’estrazione dell’oro dai metalli più vili) è l’espressione del processo di individuazione (l’estrazione della coscienza dall’inconscio): “Il loro lavoro con la materia era, è vero, un serio tentativo di penetrare nell’essenza delle trasformazioni chimiche; però era anche, e spesso in misura preponderante la rappresentazione di un processo “psichico” a decorso parallelo, che poteva con tanto maggior facilità venir proiettato nella chimica sconosciuta della materia in quanto si trattava di un processo naturale inconscio, proprio come la misteriosa trasformazione della materia stessa. E’ appunto la problematica che abbiamo descritto, del processo del divenire della personalità, il cosiddetto processo di individuazione, quello che trova espressione nel simbolismo alchimistico”150. Per questa ragione i testi sottolineavano con molta frequenza le condizioni psichiche e le qualità morali richieste per la realizzazione dell’opera151. L’alchimista lottava realmente con gli elementi chimici e i loro problemi, ma quando si trovava dinnanzi allo spazio oscuro dell’ignoto lo riempiva delle proprie premesse psicologiche. Data la natura oggettiva e impersonale della materia, per analogia venivano proiettati su di essa archetipi impersonali, collettivi. Era “come se nell’oscurità si rispecchiasse il retroscena psichico dell’osservatore”152. La proiezione è un processo immediato di oggettivazione di una premessa psichica di cui non si può essere attualmente coscienti153. Quando gli alchimisti operavano sulla materia era 150 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, pp.37-38. Ibid., pt.3, cap.2, pp.240-279, e p.454. 152 Ibid., pp.255-256. 153 Jung, Lo spirito Mercurio, OC XIII, p.265: le proiezioni alchemiche sono “la fenomenologia di uno spirito oggettivo, di una vera matrix dell’esperienza psichica, il cui simbolo adeguato è perciò la materia”. 151 54 come se operassero sulla propria anima, ma non avevano che una consapevolezza intuitiva e sim-bolica di ciò154. La proiezione è prima di tutto un processo psichico inconsapevole, e una presa di coscienza riflessiva del suo carattere psicologico può aggiungersi solo successivamente. Carattere inconscio dell’opus E’ solo in questo senso che l’opus è “inconscio”, ma ciò non significa in alcun modo – come hanno inteso alcuni critici – che esso sia illogico o irrazionale155. Nonostante la loro affinità col mondo onirico, i testi alchemici non sono semplicemente dei prodotti spontanei dell’inconscio. Gli alchimisti inseguono pur sempre un certo logos – il logos della psiche – e “la loro attività non può essere considerata un’espressione dell’inconscio […], ma va riconosciuta come un’indagine operativa e cosciente volta a sperimentare producendolo, un “oggetto” ancora sconosciuto”156. In termini paradossali potremmo dire che quella dell’alchimista è una sorta di “coscienza inconscia”: l’autore dell’opus è propriamente l’inconscio – ma si tratta di un autore tutt’altro che incosciente! Vi furono comunque alcuni alchimisti che riconobbero l’interiorità umana nella processualità esteriore157. Questa consapevolezza si fece più acuta in autori come il paracelsiano Gherard Dorn, il quale esclamava: “Trasmutemini 154 Nel senso per cui il simbolo è un’idea intuitiva che ha di mira la totalità, e per cui l’uomo e la sua opera erano, simbioticamente, due parti di un medesimo simbolo. Cfr. Andrew Samuels, Jung e i neo-junghiani, p.291. 155 Questo punto ha dato luogo ai più grossolani fraintendimenti, dovuti anche ad una certa leggerezza epistemologica da parte dello stesso Jung. E’ il caso di Titus Burckhardt, Alchimia, pp.90-92 e 130-132. Nonostante la sua penetrante comprensione dell’alchimia, questo padre dello spiritualismo contemporaneo manca di cogliere la portata della psicologia junghiana. Egli parte di fatti dal presupposto anti-psicologico per cui “lo Spirito predomina sempre sull’anima”. In Jung questo rapporto è dialogico o, come vedremo estesamente in seguito, psico-logico. 156 M.Pereira, Arcana sapienza, p.277; cfr. anche M.Pereira, Il paradigma della trasformazione, p.425, dove è precisato che l’alchimia è una “riflessione cosciente su un processo sconosciuto”. 157 E’ad esempio il caso di Petro Bono, XIII secolo. Nel suo trattato Pretiosa margarita novella è particolarmente sottolineato il portato religioso dell’opus. 55 de lapidis mortuis in vivos lapides philosophicos!”, o in Bohme, il quale sosteneva che “l’uomo non può trasmutare la natura se non ha prima trasmutato se stesso”158. A partire dal XVII secolo – che rappresentò ad un tempo il culmine e l’inizio della decadenza della tradizione - quello che Jung chiama il “carattere psicologico dell’opera” divenne pressoché esplicito, ma ciò era l’indice di “un contesto filosofico sempre più nettamente dualistico, dove affermare la “corrispondenza” di interno ed esterno era rimasto l’unico modo per dire l’integrità dell’essere e dell’operare umano nella natura”159. Analogamente le società segrete che sorgevano in questo periodo, come i Rosacroce, non erano altro che un vano tentativo di salvaguardare in una forma esteriore e consapevole l’autenticità del mistero alchemico, creando ad un tempo una interiorità artificiosamente segreta. Gli esperimenti di laboratorio tendevano a produrre sempre più ormai una bevanda igienica e energetica (elixir): “Quando la chimica vera e propria si fu affrancata dagli esperimenti esitanti e dalle speculazioni dell’arte regia, non rimase che il simbolismo, simile a un vapore irreale, privo di qualsiasi sostanzialità. Malgrado tutto esso conservò una certa capacità di fascinazione che trovò sempre qualcuno pronto, in misura maggiore o minore, a subirla”160. Con ciò il segreto della tradizione alchemica era apparentemente esaurito ma, ribatte sibillinamente Jung, “questa perdita non è irreparabile: “natura usque tamen recurret” ”161. L’alchimia decade come sapere storicamente costituito, ma il mistero che 158 J.Bohme, De signatura rerum, XVI sec. M. Pereira, Arcana sapienza, p.215. 160 Jung, Psicologia e alchimia, OC XII, p.414. 161 Ibid., p.407. 159 56 sta al suo fondamento resta vergine: “Come gli alchimisti sapevano che la fabbricazione della loro pietra poteva compiersi soltanto concedente Deo, così lo psicologo moderno si rende conto di non poter produrre che la descrizione, formulata in simboli scientifici, di un processo psichico la cui vera natura trascende la coscienza altrettanto quanto il segreto della vita o quello della materia. Egli non ha in alcun modo spiegato il mistero, ne quindi lo ha fatto appassire”162 Il lapis è per l’ennesima volta in via ejectus, cacciato dai laboratori di ricerca sulla materia viva, e si dovranno attendere oltre due secoli perché esso sia nuovamente raccolto dalla psicologia empirica interessata alla materia viva dell’inconscio. Da Freud in poi la psicologia non ha avuto più tregua nel disvelare l’ombra dell’uomo contemporaneo, ma non per questo potrà mai esaurire il significato simbolico del lapis philosophorum. Essa è piuttosto un’espressione analogica e parziale di questo mistero163 passibile di ulteriori interpretazioni: “Alla base dell’alchimia sta un autentico mistero che a partire dal diciassettesimo secolo venne inteso – in maniera inequivocabile – in senso psichico. Anche noi moderni non possiamo vedervi altro che un prodotto psichico […] Non pretendo però che l’interpretazione psicologica di un mistero debba necessariamente costituire l’ultima parola […] la psicologia potrà pure spogliare l’alchimia dei suoi misteri, senza però riuscire a svelare il mistero dei misteri. Dobbiamo perciò attenderci che in un tempo futuro, il nostro tentativo venga considerato come 162 163 Jung, OC XI, Il simbolo della trasformazione nella messa, p.282. M.Pereira, Arcana sapienza, p.276-277. 57 metaforico e simbolico, allo stesso modo in cui abbiamo fatto per l’alchimia”164. La psicologia analitica interiorizza e allo stesso tempo potenzia il discorso alchemico: “La psicologia rappresenta una consapevolezza delle proiezioni che la “psiche” opera sulla “materia”, quindi una interiorizzazione del discorso alchemico come via individuationis puramente psichica”165. La weltanschaung psicologica pone pertanto una materia prima interiore, più astratta e sottile, ma ciò non esclude che una coscienza più potente166 possa un giorno operare su una materia ancora più raffinata, ma altrettanto potentemente simbolica. La congiunzione degli opposti Un’altro aspetto della tematica alchemica nell’opera di Jung è l’uso del materiale simbolico dell’alchimia per la riflessione sulla teoria della psicoterapia – in particolare sul problema del transfert. La Psicologia della traslazione, pubblicata nel 1946, rappresenta forse il frutto più rilevante per la pratica psicoterapeutica, ed è l’opera che utilizza più linearmente la simbologia alchimistica per il riscontro delle dinamiche psichiche. L’equivalenza archetipica tra le immagini dell’opus e le funzioni psicologiche di individuazione si specifica qui nel confronto tra le “nozze chimiche” di re e regina, ed i meccanismi della traslazione: Jung osserva che ciò che avviene tra medico e paziente può essere considerato anche dal punto di vista dell’archetipo della congiunzione degli opposti. 164 Jung, Mysterium coniunctionis, pp.165-166 dell’ed. Tedesca. G.Rocci, Jung e il suo daimon, p.242. inclusivo era anche lo scopo dichiarato di Jung nei confronti della psicanalisi. 166 Nel senso della potenza, e non in quello del potere. 165 58 Ma la questione della coniunctio oppositorum ha un posto centrale soprattutto nell’ultimo lavoro di grande respiro su questo tema, Mysterium coniunctionis, l’indagine del cui fulcro metodologico rappresenta lo scopo principale del presente lavoro. In quest’opera, che lo occupò per oltre dieci anni di studi, Jung indaga il fondamento dell’arte regia attraverso i testi chiave della tradizione post-medievale. Giunge così ad interpretare l’alchimia come un grande tentativo di integrazione dei contrari: l’archetipo che in essa si manifesta è il segreto dell’unione degli opposti – il mysterium coniunctionis – che viene a rappresentare ad un tempo il suo principale contributo teorico all’interpretazione del metodo alchemico, ed il cuore del suo metodo psicologico. “Mysterium coniunctionis rappresenta la conclusione del confronto tra l’alchimia e la mia psicologia. In esso ancora una volta presi in esame il problema del transfert, ma seguii innanzitutto il mio intento originario di rappresentare l’intera sfera dell’alchimia come una specie di psicologia del profondo. Nel Mysterium coniunctionis la mia psicologia otteneva il suo posto nella realtà ed era stabilita sulle sue fondamenta storiche. Così il mio compito era adempiuto, la mia opera terminata, e ora può durare”167. 167 Jung, Ricordi, p.268. 59 Capitolo 3_ Opera alchemica e processo psicologico « ... facilis descensus Averni; Noctes atque dies patet atri ianua Ditis. Sed revocare gradum superasque evadere ad aura, Hoc opus, hic labor est ».168 Virgilio, Eneide 3.1_ Le fasi dell’Opera La descrizione delle fasi del processo di trasmutazione chimica è un autentico labirinto per lo studioso: a fatica si trovano due autori che concordino pienamente sui procedimenti e le operazioni da compiersi169. Classicamente venivano tuttavia distinti quattro passaggi successivi, rifacendosi alla “quadripartizione della filosofia” (τετραµΞρειν τΞν φιλοσοφ∴αν) di Eraclito: e precisamente la melanosi (innerimento), la leucosi (imbiancamento), la xantosi (ingiallimento) e la iosi (irrossimento). Alle quattro fasi si facevano corrispondere i quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco); le quattro qualità (caldo, freddo, umido ed asciutto); il ciclo delle stagioni; le operazioni sui metalli (solutio, ablutio, congelatio e fixatio); e i tre metalli, che però in realtà erano quattro data la doppia natura di Mercurio. Ma si 168 Virgilio, Eneide, VI. 126-129: “...facile la discesa all’Averno. La notte ma anche il giorno è aperta la porta dell’oscuro Dite; ma ritrarre il passo e in su uscire, ai soffi dell’aria, ecco la pena”. 169 Jung, OC XVI, p.324-325. Il processo alchemico, come quello risultante dall’osservazione psicologica, presenta un’infinita molteplicità di varianti: “L’esperienza mostra infatti che se già tra gli alchimisti regnava la massima incertezza sulla successione dei singoli stadi, anche nell’osservazione dei casi individuali si incontra una molteplicità pressoché incontrollabile di varianti e un’arbitrarietà altrettanto grande, pur essendovi una coerenza di principio sui fatti di fondo. In quest’ambito sembra non esistere un ordinamento logico come noi lo concepiamo, o anche solo la possibilità di un tale ordinamento”. 60 possono trovare numerose altre serie simboliche, come il temperamento (malinconico, flemmatico, bilioso, sanguigno), il ciclo delle stagioni (solitamente l’opera aveva inizio in autunno e terminava simbolicamente in estate), i volatili, etc. A partire dal XV-XVI secolo i colori furono ridotti a tre, perché cadde in disuso l’ingiallimento (citrinitas). Al suo posto vennero talvolta introdotte la viriditas, però dopo la nigredo. Più funzionale al discorso psicologico di Jung risultava invece l’ammissione di un’altra fase intermedia, anch’essa dopo la nigredo: la cauda pavonis170. L’indecisione tipica dei testi alchimistici tra la tripartizione e la quadripartizione del processo era l’indice di un conflitto interno all’alchimia, specialmente consapevolezza della dove sua si faceva incompatibilità più acuta la col dogma171. Quest’oscillazione si rispecchiava nel rapporto individuato da Jung tra la quaternità alchemica e la trinità cristiana: “Questo mutamento nella divisione delle fasi non può essere spiegato con cause esterne, ma dipende piuttosto dal significato simbolico della quaternità e della trinità, dunque da cause interne, psichiche”172. Nigredo “Horridas nostrae mentis purga tenebras” (purifica le orride tenebre della nostra mente): l’opera alchemica prende avvio dalla più profonda oscurità. Una delle immagini più emblematiche di questo momento è l’annegamento del sole nel mare mercuriale, in seguito al quale sopraggiungono le tenebre. 170 Jung, OC XII, p.227-230. E’ ad esempio il caso di Dorneus, cfr. Jung, OC XI, Psicologia e religione, pp.67 sgg. 172 Jung, OC XII, pp.227-228. 171 61 L’ingoiamento del sole da parte di esseri mostruosi è ricorrente in numerosi miti e leggende iniziatiche173. Nello stato di annerimento esercita il suo potere l’anima media natura, corrispondente all’anima mundi platonica. Questa avvolge la sfera del sole e la oscura col suo abbraccio (sol niger)174. Ma la sfera nera è anche il caput mortuum, o la testa del moro175. Come nota Jung, la decapitazione significa la decapitazione dell’intelligentia dalla sofferenza che la natura infligge all’anima176, da quel tormento che fa letteralmente perdere la testa. Nel Rosarium la morte della coppia alchemica è descritta attraverso la dolorosa separazione dell’anima dal corpo, che Jung interpreta come assoluta estinzione della coscienza. La nigredo è una dolorosa esperienza di morte e di separazione. Si ottiene mediante la separatio delle quattro radices o elementi177, ed il raggiungimento dello stato di Caos, come parte essenziale e principio dell’opera178. Come si è già detto la nigredo vera e propria coincide talvolta con lo stadio iniziale del processo, la prima materia allo stato latente, ma è perlopiù un risultato (materia secunda)179. Qui gli elementi non sono semplicemente mescolati in maniera indistinta ma sono effettivamente refrattari e opposti l’uno all’altro: “La nigredo significa mortificatio, putrefactio, solutio, separatio, divisio ecc., dunque lo stato di dissoluzione e decomposizione che precede la sintesi”180. 173 Jung, OC XII, p.186-187. Così l’orso ma anche il lupo ed altri. Jung, OC XIV, p.512. Ma sul sol niger si vedano anche le pp.92-93. 175 E’ il capo del nero Etiope che deve essere sbiancato, o pure di Osiride. Oppure ancora la testa del moro nelle Nozza Chimiche: essa vien cotta in un paiolo, ed il brodo versato in una palla d’oro. Cfr. OC XII, p.386n. 176 Jung, OC XIV, p.512. 177 Jung, OC XIII, pp.86-87. 178 Jung, OC XIV, p.188. 179 Jung, OC XII, 316 e n. 180 Jung, OC XIV, pp.506-507. 174 62 Il vas viene spesso paragonato a un sepolcro, e l’esperienza della nigredo è paragonabile a quella della sepoltura, o della discesa sotterra181. A questo punto sul fondo del vaso si deposita una massa oscura ed informe: “questa nerezza è chiamata terra”182. E’ la terra fertilissima che Adamo portò con sé dal paradiso, “nera, più nera del nero” (“nigrum, nigrius, nigro”Maier), chiamata anche “antimonio”. Ma è anche la terra damnata e foetida, dalla quale emana un odore di sepolcri, fetido e nauseabondo, “che non è sentito dall’odorato, ma dall’intelletto”183. La nigredo non è infatti soltanto una condizione della materia, ma è allo stesso tempo uno stato mentale dell’artefice: la melancholia o umor nero. Questi si trova in un tale stato di afflizione (afflictio animae) che spesso viene paragonato ai tormenti dell’inferno: “Nel mito dell’eroe questo stato corrisponde all’ingoiamento nel ventre della balena (o del drago): dove regna di solito un calore tale che l’eroe perde i capelli, rinasce calvo, glabro, simile a un lattante. Questo calore è l’ignis gehennalis, l’inferno nel quale è disceso anche Cristo per trionfare della morte, ciò che fa parte della sua opera. Il filosofo fa il suo viaggio agli inferi come “redentore”. Il “fuoco occulto” è l’interno contrario dell’umidità fredda del mare. Nella Visio c’è un’inconfondibile calore di incubazione, che corrisponde allo stato di autoincubazione della meditatio. Nello yoga indiano incontriamo un concetto analogo, il tapas, l’autoincubazione”184. La nigredo è certamente l’aspetto più traducibile in termini psicologici del procedimento alchemico, in quanto corrisponde 181 Ibid., p.65. Jung, OC XVI, p.275, citazione dall’Aurora consurgens. 183 Batsdorff, cit. in Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, p.85; cfr. anche Jung, OC XIV, p.512. 184 Jung, OC XII, pp.325-328. 182 63 con esattezza alla fenomenologia della depressione e del “confronto con l’Ombra”. L’oscuro stato di disorientamento descritto dagli alchimisti è il parallelo della perdita dell’orientamento psichico, e della caduta della tensione cosciente (“abbassement du mental”)185: niveau “V’è un annebbiamento della situazione che corrisponde appunto alla natura del contenuto inconscio: il contenuto è oscuro e nero [...], come giustamente dicono gli alchimisti, e carico inoltre di pericolose tensioni opposte, della inimicitia elementorum. Ci si trova immersi in un caos impenetrabile, che è uno dei sinonimi della misteriosa prima materia. A questo corrisponde la natura del contenuto inconscio sotto ogni aspetto, a differenza del fatto che esso non si manifesta, come nell’alchimia, nella sostanza chimica, ma questa volta nell’uomo stesso”186. Anche questo equivalente psichico della nigredo non è sempre in senso assoluto l’inizio, ma nel processo terapeutico “è il risultato del colloquio preliminare e introduttivo, nel quale a un certo momento – momento che si fa spesso attendere a lungo – l’inconscio è sfiorato e si stabilisce l’identità inconscia fra terapeuta e paziente”187. Lo stato di disgregazione degli elementi è il perfetto corrispondente coscienza della dell’Io: “E’ dissociazione palese e dissoluzione l’analogia con uno della stato schizofrenico, e questo è un fatto che va preso sul serio, perché è proprio in quel momento, quando cioè avviene la presa di coscienza dell’inconscio collettivo, del non-Io psichico, che possono diventare acute le psicosi latenti. Questo periodo, 185 Jung, OC XVI, pp.271-272. Ibid., p.198. 187 Ibid., p.193-194. 186 64 spesso lungo, di possibile dissoluzione e disorientamento della coscienza appartiene ai passaggi più difficili del trattamento analitico, e mette spesso a durissima prova la pazienza, il coraggio e la fede sia del terapeuta che del paziente”188. Nella Visio Arislei questo passaggio è descritto come lo smembramento e il divoramento del vecchio re, il cui paese era divenuto ormai sterile. Secondo Jung il re rappresenta la coscienza dominante che viene divorata dall’inconscio per rinascere a una nuova, più fertile vita189. La pericolosità di questa situazione non solo è evidente da parte della psicologia, ma è avvertita ripetutamente pure nei testi alchimistici. La calcinazione della prima materia sviluppava spesso dei vapori velenosi; si producevano avvelenamenti da mercurio e da piombo, oppure si verificavano esplosioni. Il piombo era il primo ed il più pesante dei metalli, che era associato a Saturno190. Non a caso quest’ultimo era a sua volta associato all’umore malinconico, e si sosteneva che il pianeta omonimo ospitasse il diavolo in persona. Il demone del piombo, lo “spirito di gravità” di Nietzsche, era davvero un pericolo per l’artefice, in quanto poteva indurre alla pazzia191. Wei Po-Yang, il più antico degli alchimisti cinesi a noi noti illustrava in termini drastici il manifestarsi fisiologico e psichico di una cattiva condotta dell’opus: “I gas del cibo consumato produrranno rumori nell’intestino e nello stomaco. La giusta essenza (ch’i) sarà esalata e quella cattiva inspirata. Giorni e notti trascorreranno insonni, mese dopo mese. Il corpo si esaurirà e darà motivo di essere considerato pazzo. I cento polsi 188 Ibid., p.270. Jung, OC XII, p.400. 190 Jung, OC XIV, p.218n. 191 Marie Louise von Franz, Il mito di Jung, p.211. 189 65 diverranno inquieti e inizieranno a bollire così forte che spirito e corpo non troveranno più pace” (Wei Po-Yang, An ancient Chinese Treatise on Alchemy, pp.237 sgg)192. La pericolosità era espressa anche dalla comparsa di insidianti figure femminili, fate o sirene allettanti e lamie. All’inizio del viaggio notturno della Songe de Poliphile fanno la loro comparsa le vergini seduttrici. In Paracelso si tratta invece della Meleusina, un’immagine tratta dal repertorio delle fiabe e delle leggende francesi, donna nella parte superiore, e serpente in quella inferiore193. Tutte queste figure stanno a indicare l’aspetto minaccioso dell’Anima alla sua prima comparsa194. In realtà l’Anima rappresenta per Jung soltanto la seconda grande figura del processo di individuazione – la prima è l’Ombra195. Jung intende infatti la prima fase del processo analitico prima di tutto come un “confronto con l’Ombra”, ovvero la progressiva presa di consapevolezza dell’esistenza dell’inconscio personale, per cui “l’Io si sente spogliato della sua illusoria onnipotenza e confrontato con l’oscura e confusa potenza dell’inconscio”196. L’Ombra è il rovescio oscuro e negativo che la coscienza dell’Io proietta all’esterno di sé: “Il confronto dialettico durante il processo del trattamento psichico porta conseguentemente il paziente a confrontarsi con la sua Ombra, con quella parte oscura dell’anima della quale ci si sbarazza di volta in volta mediante le proiezioni: sia che si addossi al proprio vicino, in senso più o meno lato, il peso di tutti i vizi che evidentemente 192 Cit. in Jung, OC XIII, pp.343-346. Jung, OC XIII, Paracelso come fenomeno spirituale, pp.213-220. 194 Jung, OC XII, pp.56-58. 195 Jung, OC IX, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, pp.19 sgg. Le principali figure del processo di individuazione sono in ordine di successione la Persona o maschera, l’Ombra, l’Anima e il Vecchio Saggio. 196 Marie Louise von Franz, Il mito di Jung, p.211. 193 66 possediamo noi stessi, sia che si rimettano i propri peccati mediante la contritio oppure, in forma più mite, mediante la attritio a un mediatore divino”197. Le proiezioni sono delle illusioni oggettivate: un determinato oggetto, di per sé neutro, acquisisce dei connotati negativi o positivi conferitigli dal soggetto, che dà in questo modo consistenza oggettiva all’illusione. Il ritiro delle proiezioni è un difficile processo di disvelamento che comporta l’esperienza della perdita e del lutto – una vera e propria “morte dell’Io”: “L’integrazione di contenuti che erano sempre stati inconsci e proiettati implica una grave lesione dell’Io”198. A questo punto il paziente, come l’adepto, fa esperienza del proprio lato oscuro, identificandosi con gli aspetti più repellenti, terrestri e istintuali della propria personalità. Tutto ciò che si era aborrito e criticato negli altri con sdegno moralistico viene così “servito” come una parte della propria natura: “L’alchimia annuncia una fonte di conoscenza parallela se non equivalente, della rivelazione, fonte che fornisce un’acqua “amara” e che non si raccomanda minimamente al giudizio degli uomini. E’ aspra e amara, simile all’aceto, perché non è cosa facile accettare l’oscurità e la nerezza dell’umbra solis né attraversare la tenebra dell’Ombra. E’ effettivamente amaro dover scoprire che, dietro ai propri ambiziosi ideali, dietro alle convinzioni unilaterali e spesso ostinate, ma tanto più accarezzate, e alla pretese vanagloriose ed eroiche si celano un crudo egoismo, desideri e compiacenze infantili. Questo penoso processo di rettifica e di relativizzazione costituisce una tappa inevitabile di ogni percorso psicoterapeutico. Come dicono gli alchimisti, il processo 197 198 Jung, OC XII, pp.33. Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, p.248. 67 incomincia con la nigredo, oppure la produce come premessa indispensabile della sintesi, perché opposti che non siano costellati e portati alla coscienza non potrebbero essere ricondotti all’unità. Freud si è fermato alla semplice riduzione alla metà inferiore della personalità, ossia alla fiducia di poterla padroneggiare per mezzo della razionalità. Nel far questo egli ha ignorato il pericolo demoniaco costituito dal lato oscuro, pericolo che non consiste soltanto in infantilismi innocui. L’uomo non è né così ragionevole né così buono, per potersi eo ipso misurare con il male. L’oscurità può anche inghiottirlo, e specialmente quando egli trova dei compagni simili a lui”199. Le ultime parole di questa lunga citazione si riferiscono chiaramente agli eventi della seconda guerra mondiale che in quegli anni andavano sconvolgendo l’Europa e il mondo intero; mentre l’allusione a Freud si riferisce al fatto che questi sottovalutò la potenza dell’Ombra. Secondo Jung l’errore padre della psicoanalisi è consistito nel limitarsi a riconoscere un inconscio personale come termine negativo che la coscienza doveva dominare. La presa di consapevolezza dell’Ombra porta invece l’uomo a confrontarsi con gli archetipi dell’inconscio collettivo, con le forme universali che secondo Jung sono l’autentico fondo comune della psiche umana. La fertilità del confronto con l’Ombra corrisponde al valore positivo che, nonostante i pericoli e i tormenti, gli alchimisti attribuivano alla nigredo: essa era soprattutto un evento gradito e a lungo atteso, in quanto annunciava l’inizio dell’opus. Un trattato seicentesco del Filatete lo commentava così: “O triste spettacolo, immagine di morte; ma quale gradito messaggio per l’artefice”; e 199 Jung, OC XIV, pp.244-245. 68 analogamente il Rosarium: “Benedetta natura e benedetto il tuo operato, perché dall’imperfetto fai nascere il perfetto attraverso la vera putrefazione, che è nera e oscura”200. E’ uno stato simile alla stupidità o all’idiozia201, in cui l’artefice sperimenta tutta la propria inattività, la propria impotenza: Dhürer lo ritrasse nella magistrale incisione della Melancolia I (1514). La rappresentazione mostra una matrona dal volto scuro, “negro” di tristezza e angoscia, che reclina il capo sostenendolo con la mano. Tutt’intorno gli inconfondibili strumenti dell’alchimia giacciono in stato di inattività: è proprio questa la ragione dell’umore nero che affligge la donna202. Da un lato nella fase al nero l’artefice sperimentava la componente passiva della materia: i corpi si disfacevano nell’acqua mercuriale e con ciò se ne rivelava anche la “possibilità-di-non-esistere”. L’alchimia gioca molto su questa tensione/ambiguità tra l’ente in quanto attualmente esistente e l’ente in quanto virtualmente negato. La dissoluzione della materia prima si può far corrispondere alla trasposizione del corpo individuale in uno stato di virtualità, alla sua apertura ad un fondo collettivo di compossibilità, con cui questo è posto in relazione alla totalità dei corpi. Da un altro lato l’apprendista sperimentava anche la propria “possibilità-di-non-esistere”: nella 200 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, pp274-275. Assumendo la parola nel suo significato etimologico e originario per cui idion significa individuo. L’idiota è colui che si isola, e così astraendosi ha l’autentica possibilità di cogliere intuitivamente la totalità: “Divenire stolto non richiede una grande arte; l’arte sta invece nel saper trarre saggezza dalla stupidità. Quest’ultima e non la furbizia è la madre della saggezza”, Jung, XI, 218. L’idiota è una fondamentale figura conoscitiva anche in Gilles Deleuze. Concludo questo spunto con alcuni versi degli Einstürzende neubauten: “Es gibt nur einen idioten/ und durch irgendeine Lücke/ dringt er immer wieder ein” (c’è un solo idiota/ e attraverso uno o l’altra fessura, attraverso una crepa o l’altra/ scivola sempre dentro), “Zampano”, Silence is sexy, Mute Records Limited, 2000. 202 Ma in questa atmosfera cupa e gravida già compaiono i simboli della fase successiva, come l’arcobaleno sullo sfondo, che rappresenta la cauda pavonis. Si veda il saggio di Maurizio Calvesi, Arte e alchimia, alle pp.10-19: è trattato con grande chiarezza il rapporto tra alchimia e creazione artistica da una prospettiva che rientra appieno in quella di Jung. 201 69 materia al nero si rispecchiava tutta la sua im-potenza, la sua passiva incapacità a de-cidere. “Per tenebras ad lucem”: questo può essere considerato un vero e proprio comandamento della tradizione alchemica. La ricerca alchemica di una illuminazione passava per il nero abisso del Nulla. L’adepto non si rivolge tanto alla luce della rivelazione, ovvero cerca questa stessa luce nell’oscurità della natura, quasi che questa fosse paradossalmente un’altra luce – lumen naturae. Si potrebbe intendere tutta l’alchimia come una “tecnica di oscuramento”, per molti versi analoga alla mistica – anzi, è essa stessa una singolare forma di misticismo203. Con la nigredo era prodotto un progressivo annerimento della realtà attuale della materia, per poi ottenere, ad un punto critico, una subitanea illuminazione204. Era una sorta di “elastico negativo” – si trattava di creare un vuoto, un recipiente che potesse accogliere lo Spirito trascendente in tutta la sua pienezza. Il fondo opaco della materia si faceva, ad un certo punto, talmente lucido da poter rispecchiare l’immensità della volta celeste. Così Paracelso scopre un firmamentum al fondo del corpo umano. Se volessimo esprimere questo processo in termini psicologici potremmo dire che nell’assoluta incoscienza dello stato al nero finiva per riflettersi (costellarsi) una coscienza superiore o più ampia: “Gli alchimisti e, con loro, anche Paracelso si trovano certo molte volte - nell’intento della loro opera - a confronto con il buio abisso della non-conoscenza e dell’impotenza, ragion per cui – per loro stessa ammissione – 203 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, pp.274-275. Sono molto interessanti in proposito le ricerche di Jung sull’esperienza mistica del satori presso i monaci zen. Cfr. OC XI, Prefazione a D.T. Suzuki “La grande liberazione. Introduzione al buddhismo zen”, pp.549-567. 204 70 non potevano fare a meno di una rivelazione o illuminazione o di un sogno capace di aiutarli”205. Ad ogni modo la tradizione alchemica differisce sostanzialmente dalla mistica, o da un certo tipo di mistica ascetica, in quanto non è in alcun modo una pratica di negazione della corporeità materiale, bensì resta radicata in essa206. La critica della corporeità che si può leggere tra le righe dei molti tormenti inflitti alla materia, e a se stessi, aveva comunque una via di ritorno nella produzione del corpo perfetto. Anche in questo senso l’alchimia è uno dei rarissimi miti positivi207: essa contempla una possibilità di redenzione tra queste cose, in questo mondo. Il termine ultimo del processo di trasformazione resta sempre simbolicamente immanente alla materialità. Essa non è tuttavia solamente una tecnica di dominio sulla materia (come lo è diventata la sua discendente diretta, la scienza moderna tecnologicamente orientata), ma un metodo (nel senso etimologico di methodos, via). L’alchimia è la via che porta dalla Terra al Cielo e dal Cielo alla Terra. E nella misura in cui la mistica è ascesi, l’alchimia non è mistica: l’unica vera ascesi è restare su questa terra... Ponendo in rapporto l’Essere con il Nulla, l’ente con la sua “non-esistenza”, essa sottoponeva i corpi ad una sorta di critica in re. Nella storta essi passavano attraverso una vera e propria “prova del fuoco”, una critica radicale attraverso tutte le negazioni. E’ proprio qui la grande utopia di questa tradizione: partire da una “perfezione negativa”, risultante dalla critica più grande. Qui scende il corvo, l’avis hermetis che simboleggia il 205 Jung, OC XII, p.216. Lugi Aurigemma, Prospettive junghiane, “L’esperienza mistica del Nulla e l’esperienza junghiana del Sé”, p.190 sgg. 207 Mircea Eliade, Il mito dell’alchimia, p.38. 206 71 compimento della prima fase. Non a caso la parola greca che sta per “criticare”, krinein, ha a che fare con il dividere, il rompere. Il fuoco della critica giunge letteralmente a mostrare le crepe delle cose – ma è attraverso queste crepe che una nuova luce può penetrare208. Cauda pavonis L’immagine del bagliore nell’oscurità ci introduce direttamente a quella che Jung riconobbe come la seconda fase classica del processo alchemico: la cauda pavonis o coda di pavone. Secondo Paracelso al termine del primo processo di distillazione compare un “lampo fisico” (fulminatio) col quale si separano il “lampo di Saturno” e quello di Sol (Paracelso, De vita longa). Saturno è l’elemento freddo, pesante e oscuro, mentre il sole rappresenta l’opposto. Quando la separazione è compiuta il corpo è purificato dalla melanconia saturnina e può allora avvenire la coniunctio. Questa avviene perlopiù in primavera, ed è segnalata dalla comparsa dei mille colori209. In Empiria del processo di individuazione Jung analizza il fenomeno del lampo da un punto di vista psicologico210. Si tratta di alcuni disegni, frutto dell’immaginazione attiva di una paziente, ma il parallelo con l’alchimia è gia operante: “La folgore che da luogo alla liberazione è usato nello stesso senso anche da Paracelso e dagli alchimisti. La verga con cui Mosè fende le 208 Ho parafrasato i versi di un grande poeta e cantautore contemporaneo: “There is a crack in everything,/ That’s how the light gets in”, Leonard Cohen, The Future. 209 In un testo attribuito al persiano Ostane, probabilmente del primo secolo, Cleopatra dice: “Le acque, penetrando, ridestano i corpi e gli spiriti, che giacciono prigionieri e privi di forze [...] A poco a poco essi si muovono e si alzano, rivestendosi di mille colori, stupendi come i fiori primaverili. La primavera è lieta e gioisce della fiorente pienezza che sboccia in loro”. Anche in altri testi si legge che la coniunctio avviene preferibilmente in maggio, nel segno del Toro, che è il domicilio di Venere. Cfr. Jung, OC XIII, Paracelso come fenomeno spirituale, p.191-192. 210 Jung, OC IX, Empiria del pricesso di individuazione, pp.286 sgg. 72 rocce, e che ora fa scaturire l’acqua di vita ora si tramuta in serpente, può aver echeggiato qui sullo sfondo. Il lampo denota un mutamento di stato improvviso, sconvolgente e inaspettato”211, e da un punto di vista psicologico può rappresentare l’intuizione212. Ancor prima del lampo viene il motivo alquanto diffuso delle scintille che presto o tardi si possono rinvenire nella sostanza arcana: “Sappi che la terra fetida presto riceve delle piccole scintille bianche”213. Khunrath spiega che queste sono raggi e scintille dell’anima universale che è identica allo spirito di Dio. Sarebbero i mundi futuri seminarum diffusi nel caos, ai quali equivale anche l’intelletto umano214. Non a caso quando Jung parla dell’attivazione di un archetipo dell’inconscio collettivo, o di un suo contenuto, dice che esso viene “costellato”. In un passo decisivo delle Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche215, egli paragona difatti gli archetipi alle scintille: “Queste formae corrispondono alle idee platoniche, dal che risulterebbe quindi una “identità delle scintillae con gli archetipi”, se si suppone che le immagini eterne di Platone, “custodite in luogo sovraceleste”, siano un’espressione filosofica degli archetipi psicologici. Partendo da questa visuale alchimistica si dovrebbe concludere che gli archetipi posseggono 211 una certa luminosità o Ibid., p.287-288. Anche in Böhme la folgore è pregna di significati: “Nello spirito del baleno consiste la grande vita dell’onnipotente” Vierzig Fragen, I.91; “Perché quanto più di batte sull’acutezza della pietra, tanto più si acuisce l’amaro pungiglione della natura e sommamente si irrita; perché la natura nell’acuirsi si spezza, così che la libertà brilla come un baleno” Vom Dreyfachen Leben des Menschen, II.24; Il baleno segna il “generamento della luce” e possiede la facoltà della trasmutazione, Aurora, 10.13; etc. Tra l’altro Böhme associa la folgore alla quaternità. 212 Ibid., p.295. 213 Aurora consurgens, parte II, in Artis auriferae vol.1, p.208. 214 Khunrath, 1604, pp.195 sgg. 215 Jung, OC VIII, pp.208-217. 73 paracoscienza e che quindi alla numinositas corrisponda una luminositas”216. E’ chiaro che questa numinosa luminosità “è il lumen naturae che illumina la coscienza, e le scintille sono luminosità in germe che traspaiono dalle tenebre dell’inconscio”217. E’ lo spettacolo del “firmamento interiore” descritto da Paracelso, per il quale l’interiorità dell’uomo e la profondità del suo corpo erano un cielo disseminato di stelle: “Il cielo stellato è infatti il libro aperto della proiezione cosmica, del riflesso dei mitologemi, degli archetipi appunto. In questa visione astrologia e alchimia, le due antiche rappresentanti della psicologia dell’inconscio collettivo, si danno la mano”218. Jung interpreta dunque le luminosità multiple come piccoli fenomeni di una coscienza frammentata – di una soggettività molteplice – che sono sorti immediatamente dall’inconscio: non è la coscienza dell’Io, è la coscienza degli archetipi dell’inconscio collettivo – nella misura in cui si può e si deve definire “cosciente” una forma di attività direttrice, anche se non agisce manifestamente. Se invece “la luminosità appare monadica, per esempio come singola stella o sole o occhio, assume spesso forma di mandala e va quindi interpretata come “Sé””219. Altrettanto frequente del motivo delle scintillae è il motivo degli “occhi di pesce”220. Spesso nel lapis annerito dalla cottura si depositano delle piccose bollicine simili ad occhi, come una schiumatura iridescente. E’ interessante notare come nel mito i molti occhi di Argo panoptes (onniveggente) siano trasferiti da 216 Ibid., pp.209-210. Ibid., pp.210-211. 218 Ibid., p.213. 219 Jung, OC V, p.217. 220 Jung, OC VIII, pp.214-217. 217 74 Hera proprio sulla coda del pavone. Il pavone dispiega infatti nella sua coda tutti i colori della stagione in fiore, ma è anche l’uccello di Giunone, e Giunonia è uno dei tanti epiteti di Iride221. La cauda pavonis è il risultato dell’estrazione e della volatilizzazione dell’essenza (decoctio, digestio, extractio, evaporatio, sublimatio). In seguito al ritiro delle proiezioni il mondo perde familiarità per l’Io: la coscienza si distacca dalla propria esperienza corporea e mondana. Sulla superficie del metallo fuso, ad esempio il piombo, compariva a questo punto una pellicola multicolore, che scandiva il passaggio dalla totale assenza di colore (nero) alla totalità dei colori congiunti (bianco): “For every colour, whiche maie be thought,/ Shall heere appeare before that white be wrought”222. Gli omnes colores sono una delle prime espressioni della totalità e dell’unificazione alchemica come psichica: “In ogni caso la prima parte dell’opera è compiuta quando la molteplicità delle varie componenti separate dal caos della massa confusa è stata ricondotta all’unità dell’albedo e quando “dai molti è nato l’uno”. Dal punto di vista morale ciò significa, al tempo stesso, che la pluralità psichica che deriva dallo stato originario di disunione con se stessi, il caos interiore di componenti psichiche in collisione reciproca, le “greggi” di Origene, diventano il vir unus, l’uomo unificato”223. Come sullo sfondo della Melancolia I di Dhürer, l’arcobaleno annuncia la fine dell’opus, Iride è messaggera di Dio, e annuncia la nascita del filius regius. Il pavone è di per sé simbolo di rinnovamento e di bellezza interiore, spesso assunto come simbolo dello Spirito Santo. 221 Jung, OC XIV, p.303. Thomas Norton, Ordinall of Alchemy. “Giacchè prima che il bianco sia realizzato/ Appariranno qui tutti i colori immaginabili”. 223 Jung, OC XIV, p.298. 222 75 Albedo La Turba philosophorum, un’autorità classica di origine araba, raccomanda: “congiungete il secco con l’umido, la terra nera con la sua acqua, e cuocete finché diventi bianca. Avrai così acqua e terra in sé e per sé, e la terra imbiancata con acqua: e quella bianchezza è chiamata aria”224. L’ “imbiancamento” è l’illuminazione dopo l’oscuramento, spesso paragonata al primo sorgere del sole (ortus solis)225. Alla terza fase classica dell’albedo si giunge attraverso la purificazione della terra damnata nel fuoco del purgatorio226. L’acqua invece è perlopiù l’acqua sapientiae acquisita dall’alchimista attraverso lo studio dei classici della tradizione e ispiratagli come dono dello Spirito Santo227. Tale fase è stata denominata di volta in volta, o contemporaneamente, ablutio, purificatio, mundificatio, impregnatio, fissatio: era ricorrente la metafora della pioggia che cade per lavare la pietra (ablutio o baptisma), o dei vapores che precipitano per detergere il nero. Altrove ancora si trattava di sbiancare l’etiope. “La mundificatio significa, come abbiamo visto, l’eliminazione del superfluo inerente ai prodotti meramente naturali e presente in particolar modo anche in quei contenuti simbolici inconsci che per l’alchimista si proiettano sulla materia”228. In questo senso l’albedo significa il compiuto ritiro delle proiezioni in seguito al confronto con l’Ombra: è quindi un atteggiamento più riflessivo, distaccato e razionale. Jung nota 224 Turba, cit. in Rosarium philosophorum, p.277 sgg. Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, p.277 sgg. 226 Jung, OC XIV, p.188. 227 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, pp.278-281. 228 Ibid., p.280. 225 76 come quest’essenza aerea che risulta dal lavaggio equivalga appieno all’intelletto ed alla comprensione concettuale229. In Psicologia e alchimia, nel mostrare la natura psichica dell’opera, Jung chiama in causa il Liber platonis quartorum, che ancor prima di Dorneus era giunto a formulare un completo parallelo tra l’opera alchimistica e la trasformazione moraleintelletuale dell’uomo”230. Nella tavola di presentazione dei quattro libri di questo trattato harranita, la terza serie orizzontale, corrisponde alla terza fase dell’opera – l’albedo. In essa, spiega Jung, “alla natura è contrapposta l’anima (...) e avviene un’elevazione nel regno dell’aria; (...) il processo giunge così alle cose “semplici” che in virtù della loro genuinità (cioè per il fatto di non essere mescolate) sono incorruttibili, eterne, e quindi affini alle idee platoniche; infine si trova l’ascesa dalla mens alla ratio, all’anima rationalis, cioè alla forma suprema dell’anima”231. Come si è detto la presa di consapevolezza dell’Ombra porta l’uomo a confrontarsi con gli archetipi dell’inconscio collettivo. L’uomo si ritrova a tutta prima in uno stato di naturale identità con l’inconscio collettivo, e il riconoscimento di ciò è una fase indispensabile del processo di individuazione: “L’uomo naturale non è un Sé, ma massa e particella nella massa, qualcosa di collettivo al punto di non essere sicuro nemmeno del proprio Io”232. E’ anche necessario tuttavia che la sua coscienza non si identifichi con queste “verità eterne”: “Per questo ha bisogno fin dai tempi più antichi, dei misteri della trasformazione che lo fanno diventare “qualcosa” e che in questo modo lo strappano alla psiche collettiva, animale, che è pura e semplice 229 Ibid., pp.281 sgg. Jung, OC XII, pp.257 sgg. 231 Jung, OC XII, p258-259. 232 Ibid., p.84. 230 77 pluralità. Se però questa pluralità insignificante dell’uomo “dato” è ripudiata, respinta, anche la sua integrazione, il suo divenire un Sé diventano impossibili. E ciò significa la morte spirituale”233. L’individuazione non è in alcun modo un processo unilaterale di distaccamento dalla collettività: essa inserisce piuttosto l’individuo nell’eterna dialettica tra l’isolamento (astrazione) e l’integrazione (relazione). L’individuazione è la più radicale realizzazione dell’individuo nella collettività, ma con ciò l’individuo non porta avanti tanto se stesso, quanto la “vita dello Spirito”. E la radice dello sviluppo della cultura umana risiede in quella facoltà ad un tempo diabolica e divina, che è la vita stessa dello Spirito: la riflessione. La facoltà riflettente astrae, isola la vita da ciò che è naturale: “ “Riflessione” non è da intendersi come un semplice atto mentale, bensì piuttosto come un comportamento. Riflessione è una riserva della libertà umana di fronte alla costrizione delle leggi naturali. Come dice la parola reflexio, cioè “ripiegamento”, nella riflessione si tratta di un atto spirituale in senso contrario al corso della natura, cioè un fermarsi, un riconoscersi, un “proiettare immagine”, un intimo riferimento e una spiegazione con l’oggetto contemplato. Riflessione si deve quindi intendere come un atto del divenire cosciente”234. E’ nell’atto della riflessione che si può cogliere la simultanea naturalità ed artificialità dell’Opera. Nel saggio testé citato, in cui Jung interpreta psicologicamente l’archetipo della Trinità, l’atto di ampliamento della coscienza non è che il rovescio della 233 234 Ibid. Jung, OC XI, Interpretazione psicologica del dogma della Trinità, p.157, nota 9. 78 rivelazione divina: “Dio si rivela nell’atto umano di riflessione”235. In questo senso, rispecchiandola, l’uomo prosegue l’opera della creazione divina. La fuoriuscita della coscienza umana in generale dallo stadio inconscio di indistinzione, dalla “montagna in cui tutte le cose stanno indistinte”, è il medesimo processo che viene ripetuto più specificamente da ogni singolo uomo nel momento in cui si emancipa dalla psiche collettiva e segna la via creativa del proprio percorso di individuazione. Allora l’individuo, rispecchiandola in se stesso come in un microcosmo, “fa” la specie236. Il singolo si differenzia individuandosi, e individuando (attualizzando) con sé le verità archetipiche, riconoscendo – e rispettando – l’altro come tale egli determina infine la propria identità. Ma anche l’opera terapeutica che coinvolge analista e paziente è un processo di individuazione e di riflessione. Jung paragona infatti l’interpretazione dei sogni alla extractio animae: individuando un significato nei sogni del paziente, lo psicoterapeuta gli porge per così dire lo specchio, ovvero gli presta la propria facoltà riflettente. La mundificatio rappresenta una separazione di ciò che si trova confuso e mescolato. In questo processo ha un ruolo fondamentale la coscienza riflessiva. Si dovrebbe dire che nel momento in cui “scopre” l’inconscio Jung riscopra anche la coscienza: “L’uomo dotato di ragione che vive in questo mondo deve differenziarsi dall’uomo 235 Ibid. Interessante notare come nella sua “ontologia della differenza” anche Deleuze, sulla scia delle ricerche in campo biologico di Simondon, anteponga l’individuazione alla specificazione (critica del sistema di classificazione aristotelico, critica della teoria evoluzionistica). Il divenire della specie si fa nell’individuo e non è quindi mai estrinseco o trascendente ad esso. Deleuze porta su un piano ontologico il concetto di individuazione, che in Jung opera perlopiù sul piano psicologico e culturale. Del resto il concetti di individuazione vanta una nobile, seppur esigua, tradizione filosofica: da Schelling giù fino a Nietzsche e Schopenhauer, e oltre fino alle ricerche nel campo della biologia e agli approfondimenti filosofici nel XX secolo. 236 79 che potremmo definire “eterno”. In quanto individuo unico, singolo, egli rappresenta anche l’ “uomo” tout court e partecipa di tutto ciò che è mosso dall’inconscio collettivo. In altri termini: le verità “eterne”, quando reprimono l’Io singolo dell’individuo e vivono a sue spese e a suo danno si trasformano in pericolosi fattori di turbamento. Se la nostra psicologia è costretta dalle condizioni particolari del suo materiale empirico a sottolineare l’importanza dell’inconscio, ciò non significa affatto che sia posta in sottordine l’importanza della coscienza. Si tratta soltanto di limitarne l’unilateralità e la tendenza a sopravvalutarla, facendo uso di una certa relativizzazione. La relativizzazione non deve però spingersi al punto che il fascino emanante dalle verità archetipiche sopraffaccia l’Io. L’Io vive nello spazio e nel tempo, e se vuol vivere deve adeguarsi alle loro leggi. Ma se viene assimilato all’inconscio al punto che ogni decisione è lasciata a quest’ultimo, allora l’Io è soffocato e non c’è più nulla in cui l’inconscio possa essere integrato o realizzato. La distinzione tra l’Io empirico e l’uomo “eterno” e universale è perciò d’importanza assolutamente vitale, specie ai nostri giorni, in cui la massificazione della personalità sta compiendo minacciosi progressi”237. L’albedo corrisponde ad un processo di distillazione dell’Io dall’inconscio. La normale personalità è così differenziata da tutte le commistioni inflazionistiche dell’inconscio, dalle sue sirene e meleusine. Ora l’uomo è in grado di scrutare nell’oscurità dell’Ombra e ciò “è già di per sé un’illuminazione, ossia un ampliamento della coscienza tramite l’integrazione di 237 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, pp.293-294. Jung avrebbe già avuto, nei primi decenni del Novecento, sufficienti e sufficientemente forti argomenti per discutere con i contemporanei teorici della globalizzazione. 80 componenti della personalità rimaste inconsce fino a quel momento”238. Saper stare di fronte alla “negatività” dell’ “altro” significa già di per sé renderlo positivo, ovvero riconoscerne l’esistenza239. E’ l’atteggiamento contemplativo-riflessivo, che se da un lato corrisponde alla massima passività, in quanto si limita ad accogliere i contenuti, dall’altro è la massima attività creativa, in quanto pone questi contenuti come esistenti. Dietro l’Anima come figura autonoma e minacciosa, si rivela l’Anima quale funzione di relazione tra l’Io e l’inconscio, tra sé e l’altro240. Ciò equivale all’integrazione della componente della personalità di sesso opposto: l’Anima nel caso dell’uomo, l’Animus nel caso della donna241. Il ritiro della proiezione della componente animica è un processo lungo e delicato, consistente soprattutto in una prudente “regolazione del fuoco”: troppo fuoco distrugge, troppo poco lascia “raffreddare”. L’artefice si trova a questo punto per così dire “sulla soglia” e deve esercitare le molteplici figure della relazione, la giusta distanza, la giusta apertura o chiusura. Si tratta di mantenere un “blando fuoco”, che “non brucia il re e la regina”. Nella relazione tra terapeuta e paziente, come nel rapporto d’amore, il delicato ritiro della proiezione non equivale tanto alla fine assoluta del rapporto. Ciò a cui si pone fine è il morboso attaccamento (transfert), ma il rapporto concreto viene per così dire interiorizzato. La conoscenza della propria anima consente davvero di amare anche nella distanza. L’anima è funzione di relazione in quanto in un certo modo contempla in sé sia la componente attiva che quella ricettiva. Un 238 Jung, OC XIV, p.241. Qualcosa di ben più radicale del “diritto all’esistenza” nel senso dei “diritti dell’uomo”. 240 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, pp.295 sgg. 241 Sulla complessa questione della psicologia femminile si veda sempre OC XVI, pp.296-303. 239 81 simbolo eminente dell’Anima nell’alchimia è la Luna, e non a caso l’albedo era anche un opus ad Lunam. L’anima, dice Plutarco, è resa “gravida ad opera del sole”242, e ciò mostra “che la luna possiede una luce doppia – femminile all’esterno, ma maschile all’interno – che è celata in lei come un fuoco. La luna è propriamente la madre del sole, il che significa – in quanto psicologema – che l’inconscio è gravido di coscienza e che esso la genera [...]. Dall’oscurità dell’inconscio scaturisce la luce dell’illuminazione, dell’albedo. Gli opposti sono contenuti in lei in potentia; ed è di qui che deriva la sua natura ermafrodita, che ne spiega la capacità di riproduzione spontanea ed autoctona”243. Dovremmo dire che più che un ortus solis lo stato argenteo è un ortus lunae: come l’anima è estratta dal nero abisso dell’inconscio così la luna sorge ed illumina la notte, ma essa brilla pur sempre di una luce fredda e riflessa. Rubedo Il Rosarium philosophorum ammonisce: “Rumpite libros ne corda vestra rumpantur”244. Cosa significa questa enigmatica citazione? Jung fa notare come nel caso della psicoterapia molti pazienti si appaghino di giungere ad una comprensione intellettuale del proprio problema, quando non recalcitrino addirittura di fronte a tale comprensione e si accontentino di una soluzione “estetica”, di un’immagine della fantasia. Tuttavia, continua Jung, “sia la comprensione intellettuale sia l’estetismo creano una sensazione ingannevole, seducente, di liberazione e superiorità, sensazione che minaccia però di frantumarsi non appena interviene il sentimento. Il sentimento denota infatti un 242 Plutarco, Iside ed Osiride, XLIII. Jung, OC XIV, pp.169-170. 244 Rosarium philosophorum, p.277 – “Spezzate i libri affinché non vi si spezzi il cuore”. 243 82 certo legame con l’esistenza e con il significato dei contenuti simbolici; i quali a loro volta obbligano a un comportamento etico dal quale estetismo e intellettualismo vorrebbero troppo volentieri affrancarsi”245. Analogamente gli alchimisti sembrano aver percepito il pericolo che la realizzazione dell’Opus si arresti nei limiti di una determinata funzione della coscienza. L’invito a “spezzare i libri” è l’invito a superare la fase bianca della semplice theoria, dell’appercezione. L’artefice non doveva cadere nella tentazione di considerare la conoscenza filosofica come il bene supremo. Allo stesso modo la presa di coscienza dei contenuti inconsci, e una loro eventuale valutazione teorica, non possono essere considerati la fine dell’opera analitica. La rossa sfera incandescente poteva infine sorgere solo se si dava ascolto anche al cuore: “Gli alchimisti pensavano [...] che l’Opus esigesse non solo il lavoro di laboratorio, la lettura dei libri, la meditazione, la pazienza, ma anche l’amore”246. A questo punto si doveva aumentare l’intensità del fuoco fino al suo grado massimo. L’elemento igneo è così al tempo stesso l’elemento di trasformazione ed il risultato dell’Opera stessa. Il fuoco dell’amore introduceva l’artefice alla quarta ed ultima fase dell’Opera, ovvero all’intuizione sintetica della totalità247. Dopo tante opere e parole l’artefice poteva infine ascoltare il mistero silenzioso della vita. L’Harmonia chemica di Lagneus faceva corrispondere alla rubedo il temperamento sanguigno248. L’alchimista vive la finale trasformazione della pietra con palpitante eccitazione emotiva, 245 Jung, OC XVI, p.282. Ibid., p.283. 247 Ibid., p.284. 248 Lagneus, Harmonia chemica, in Theatrum chemicum, vol.4, p.873. 246 83 abbandonandosi alla sua vera identità interiore249. Egli trova finalmente il proprio fuoco ed il proprio sole: l’accrescimento di calore e di luce “corrisponde alla crescente partecipazione, vale a dire all’implicazione della coscienza, che comincia a reagire anche a livello emotivo rispetto ai contenuti prodotti dall’inconscio. Mediante il confronto con l’inconscio, che significa anzitutto un “acceso” conflitto, gli opposti si preparano a fondersi insieme, a operare la loro sintesi. L’alchimia esprime questa situazione con la rubedo, dove si compiono le nozze dell’uomo rosso con la donna bianca, del sole con la luna”250. Questo processo del divenire cosciente, che passa attraverso i contenuti inconsci, altro non è che il processo di individuazione psicologico251. Il mistero del divenir-Sé è la trasformazione che si attua ponendo in relazione le parti della totalità, specialmente quelle fra loro opposte. La pacificazione dopo i conflitti della vita è personificata dalla figura del “Vecchio Saggio”, portatore di un significato non meramente intellettuale. Al termine del suo viaggio l’artefice incontra l’ “Ermete tre-voltegrande, la fonte di ogni saggezza. Si trova così descritto in maniera felice il carattere di quello spirito o di quel pensiero che l’uomo non si procura da se stesso, in quanto “reuccio di questo mondo”, per mezzo di un operazione intellettuale, ma che viene a lui come se provenisse da un Altro, da qualcuno che è più grande, forse dal grande Spirito del Mondo, a cui si addice bene l’attributo di Trismegisto. La lunga riflessione, l’immensa meditatio è per definizione degli alchimisti “un colloquio interiore 249 Salvatore Fissi, I molti e l’Uno in alchimia..., p.94. Per la descrizione delle fasi, oltre ovviamente ai testi di Jung, ho fatto riferimento in particolar modo a questo saggio e a quello della von Franz, Il mito di Jung, pp.211 sgg. 250 Jung, OC XIV, pp.218-219. 251 Jung, OC XII, p.374. 84 con un altro, che è tuttavia invisibile” (Ruland, Lexicon, s.v. Meditatio)”252. L’archetipo del “Vecchio Saggio” che incarna in sé le qualità della benevolenza, del sapere e dell’intuizione rappresenta l’ultima grande figura del processo di individuazione psicologico253. Anziano e saggio è anche Mercurio – Ermete, che in quanto tale è un simbolo del Sé. La rappresentazione di una totalità psicologica può solo avere carattere simbolico, in quanto “anticipa una possibilità la cui attuazione non può costituire oggetto di esperienza”254. La coniunctio oppositorum come espressione della Totalità può essere solamente un’idea intuitiva che più che indicare un determinato punto di arrivo, è la stella che indica la via. E’ la via senza fine dell’individuazione: una volta posti di fronte al Sé non si finisce mai di individuarlo e, individuandolo, di realizzarlo. Il Sé appare come una virtualità, come la reale possibilità di un mondo a venire. Quando si è finalmente ottenuta la pietra rossa, il processo è soltanto appena iniziato: si ha accesso all’unus mundus di Dorneus, il mondo prima della creazione in cui corpo, anima e spirito vivono in simpatetica unità255. Secondo il mito la pietra filosofale ha infatti la proprietà di moltiplicarsi: si propaga come un incendio proiettandosi sulle cose vili del mondo e trasformandole in oro256. E’ un processo senza fine di amplificazione che, attuandosi, partecipa “aurificazione universale”. 252 Jung, OC XIV, p.222. Jung, OC IX, Fenomenologia dello Spirito nella fiaba, pp.211.221. 254 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, p.284. 255 Jung, OC XIV, parte sesta. 256 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, p.307 sgg. 253 85 all’opera di 3.2_ Circulatio La ciclicità dell’Opera D’altronde, che l’Opera non avesse fine era di per sé implicito nella circolarità dei simboli che essa mette in gioco. L’Opus descrive in fin dei conti il percorso circolare del sole, che dalla notte sorge e porta il nuovo giorno. Ma una volta giunti al Mezzogiorno, esso riprende a tramontare. Come ha osservato Maurizio Calvesi “I collegamenti con le quattro stagioni, i quattro momenti del giorno e le quattro età dell’uomo suggeriscono la ciclicità dell’opus: questo infatti non è mai dato una volta per tutte ed ha per simbolo la ruota. L’impresa va sempre ripresa da capo e ripetuta. Dal culmine (la maturità, lo splendore del fuoco, il limpido autunno con la sua chiara luce di rivelazione) si ricade nel punto più basso: l’inverno, la notte, la vecchiaia e la morte, l’interramento e la putrefazione. Ma questa ciclicità è garanzia rasserenante perché dall’inverno si risalirà alla primavera, dalla notte all’alba, dalla morte a una nuova rinascita (e Lutero vedeva nell’opus il simbolo stesso della resurrezione)”257. Questo susseguirsi di luce e oscurità nel “percorso dello Spirito” è una tematica presente in diversi autori fin dall’antichità. Sant’Agostino distingueva nell’uomo una conoscenza mattutina (cognitio matutina) ed una conoscenza vespertina (cognitio vespertina)258. La prima significava la scientia creatoris, una cognizione in cui l’uomo si riconosce nell’immagine del creatore; la seconda era la scientia creaturae, ovvero la conoscenza e l’esperienza delle cose create. Jung riconosce in queste figure il 257 258 Maurizio Calvesi, Arte e alchimia, p.13. Sant’Agostino, De civitate Dei, XI.7, pp.445 sgg. 86 passaggio dall’illuminazione dell’Io da parte del Sé, alla conoscenza delle cose umane e naturali nella quale la coscienza si ottenebra via via fino al ritorno della notte259. Il progressivo oscuramento della luce esprime il fatto che “ogni verità spirituale si concreta a poco a poco e diventa materia o strumento nella mano dell’uomo. Perciò difficilmente questi può sottrarsi all’idea di essere colui che conosce, anzi persino un creatore che dispone di possibilità illimitate. Tale uomo è in sostanza l’alchimista, ma in misura assai maggiore l’uomo moderno. Un alchimista poteva ancora pregare: “Horridas nostrae mentis purga tenebras”. L’uomo moderno, invece, è già tanto ottenebrato, che nulla più illumina il suo mondo, fuor della luce del suo intelletto. “Occasus Christi, passio Christi”. Per questo alla nostra tanto decantata civiltà accadono le cose più strane, che ormai somigliano più a un tramontare del mondo che a un normale crepuscolo”260. La quadratura del cerchio Il processo trova un’altra configurazione simbolica a livello matematico-geometrico nel passaggio dalla forma separata o quadrata alla forma circolare o unitaria, che compare in diverse varianti dell’alchimia ma soprattutto nella quabbalah. La “quadratura del cerchio” era un altro metodo di produzione del lapis e, secondo Jung, “il mandala alchimistico di base”, un simbolo del Sé. Come si può leggere nelle pagine finali del Mysterium coniunctionis “le asserzioni relative alla pietra, se considerate da un punto di vista psicologico, descrivono l’archetipo del Sé, la cui fenomenologia è esemplificata nel 259 Cfr. Jung, OC XIII, Lo spirito Mercurio, pp.273-276. Si veda anche il prezioso commento della von Franz in Il mito di Jung, pp.168-188. 260 Ibid., p.276. 87 simbolismo del mandala. Quest’ultimo descrive il Sé come una struttura concentrica, spesso nella forma della quadratura del cerchio. Gli è associato ogni tipo di simbolo secondario che esprima in generale la natura degli opposti da unire. La struttura è invariabilmente avvertita come la rappresentazione di uno stato centrale o di un centro della personalità sostanzialmente diverso dall’Io”261. Non a caso la tradizione ha dato a Mercurio – Ermete gli epiteti di “quadrato “e “rotondo”262. Per comprendere ciò basta pensare che uno degli attributi preferiti per esprimere la perfezione finale dell’opera era proprio la rotondità – rotundum era detto anche il lapis, e rotondo doveva essere il vaso in cui era prodotto263. La sfera, del resto, sta anche per il punto di partenza, è lo sfero oscuro del caos. La nigredo realizza la separazione della materia prima nei suoi quattro elementi a partire dall’unità indistinta del caos: a ciò corrisponde il quadrato. Così il Rosarium philosophorum: “Fa’ di un uomo e di una donna un cerchio rotondo, ed estrai da questo il quadrangolo e dal quadrangolo il triangolo. Fa’ un cerchio rotondo e otterrai la pietra dei filosofi”264. Una rappresentazione di questo tipo è presente nello Scrutinium chymicum di Michael Maier, dove si legge: “Similmente i Filosofi ritengono che il quadrato vada trasformato in triangolo, cioè in corpo, spirito e anima, i quali, prima del rosso, appaiono di tre colori: il corpo o la terra di colore nero saturnino, lo spirito di biancore lunare, come acqua, l’anima o l’aria di colore giallo solare. Allora il triangolo sarà perfetto, ma 261 Jung, OC XIV, p.343. Jung, OC XII, p.133. 263 Ibid., p.90. 264 La citazione è attribuita dall’autore del Rosarium allo Pseudo-Aristotele, anche se non è riscontrabile nel Tractatus Aristotelis, in Theatrum chemicum, vol.5, pp.880 sgg. 262 88 dovrà essere ancora a sua volta trasformato in cerchio, cioè in un rosso inalterabile”265. Diversamente in Khunrath il triangolo esprime la relazione spirituale e ascendente, il medium tra il cerchio e il quadrato minori e quelli maggiori. Esso corrisponde al percorso ascendente della fase distillatoria attraverso cui lo spirito era purificato. La produzione dei Quattro (elementi) dall’ Uno (caos), e dell’Uno (quintessenza) dai Quattro (elementi) avveniva infatti per mezzo di successive distillazioni, che seguivano un percorso circolare. Nella quadratura del cerchio il rapporto tra l’inizio e la fine dell’Opera è espresso sincronicamente dalle due figure concentriche, tra cui il triangolo funge da spirito mediatore266. Analogamente il “cerchio della coscienza”, nella quale sono racchiuse la componente maschile e femminile, si scinde nello stato conflittuale e “quadrato”. Attraverso il processo astraente e riflessivo si giunge quindi al cerchio maggiore, che esprime bene la “coscienza superiore del Sé”267. Ouroboros : la via dall’Uno all’Uno L’altro mandala alchimistico di base è l’ouroboros, il serpente che divora se stesso, si nutre di se stesso e genera se stesso, ovvero l’Uno-Tutto. Anche questo è un eccellente espressione del processo alchemico come via dall’Uno all’Uno. La “produzione dell’Uno attraverso i Quattro” costituisce il fondamento simbolico e teorico dell’alchimia, espresso sinteticamente quanto enigmaticamente dall’ “assioma della 265 Michael Maier, Scrutinium chymicum, Emblema XXI. Sulla quadratura del cerchio su veda Jung, OC XII, pp127-135. 267 Jung usa spesso l’immagine dei cerchi concentrici per esprimere il rapporto tra coscienza e inconscio: “La coscienza, per estesa che sia, è, e rimane il cerchio minore racchiuso in quello maggiore costituito dall’inconscio, l’isola circondata dall’oceano...”. Cfr. Jung, OC XVI, Psicologia della Traslazione, p.189. 266 89 quaternità” di Maria Profetessa: “L’Uno diventa Due, e i Due Tre, e per mezzo del Terzo il Quarto compie l’Unità”. Jung considera l’assioma di questa antichissima alchimista fondamentale per la comprensione dell’alchimia e della sua forma quaternaria268. Giovanni Rocci, un autore particolarmente attento agli aspetti più espressamente teoretici dell’alchimia come della psicologia del profondo, ha giustamente messo in evidenza come l’Uno sia il fondamento del processo, e come l’assioma della quaternità ne offra un eccellente esemplificazione: “L’Uno diventa Due” (Tò èn gìnetai dýo): è l’espressione del divenir molteplice che chiama anche in causa i due pricipi di ogni opposizione, ovvero l’Identità e l’Alterità. Ma l’uno-che-diventadue è già una determinazione logico-linguistica che presuppone la scissione, non è quell’Uno al di là della polarità di Uno-Due, l’indicibile A-byssos senza fondo. “I Due diventano Tre e dal terzo viene l’Uno come Quarto” (Kaí tà dýo kaí toù gtoù to èn tétarton): il terzo è l’oggettività molteplice che scaturisce dalla relazione dei due. La coscienza discorsiva può cogliere l’Uno e il Due solo nel loro rapporto-opposizione, vale a dire come Terzo. Dal terzo viene infine l’Uno come Quarto. Filosoficamente il Quarto costituisce il ritorno. “Così dai due ne deriva uno” (èn dý èn): il quarto è “l’attuazione vivente dell’Unità, di quell’Unità che porta nel suo seno la polarità opposta all’Alterità, che la pacifica ma non la annulla, la Rebis alchemica (la cosa doppia)”269. Così l’Uno è paradossalmente al tempo stesso indeterminato e determinabile. Il processo alchemico altro non è che un processo di determinazione dell’indeterminato originario – ma la determinazione del lapis non è semplicemente un 268 269 Jung, OC XII, p.29. Giovanni Rocci, Jung e il suo daìmon, pp.243-245. 90 processo di de-finizione e di chiusura rispetto alla Totalità. Essa è piuttosto quella determinazione che sta per tutte – la determinazione universale270. Non è una determinazione astratta ma è a tal punto concreta da essere una pietra – ciononostante essa si mantiene virtualmente in rapporto con il Tutto. Il processo alchemico, che prende avvio come scissione dell’unità, termina simbolicamente nell’Unus Mundus, ovvero il mondo del primo giorno della creazione, quando ancora tutte le possibilità erano aperte. Jung intende il processo di individuazione psicologico esattamente come “una via dall’Uno all’Uno”. D’altronde il mito psicologico junghiano è il mito della nascita della coscienza dall’unità indivisa e caotica, che evoca un tempo in cui l’umanità viveva in uno stato di partecipazione mistica (participation mystique) con gli esseri della natura e l’ “anima del mondo”: “Ma bisogna considerare il fatto che la nostra psicologia cosciente individuale deriva da uno stato originario di incoscienza e quindi di indifferenziazione (che Levy Bruhl definisce “participation mystique”)”271; e “L’essenza della coscienza è la distinzione: per realizzare lo stato cosciente occorre separare i contrari, e questo contra naturam”272. E’ a partire da questo stato di scissione, da questa necessaria “unilateralità della coscienza” che si può fare l’unità superiore del Sé. Quest’ultima, a dire di Jung, è meglio espressa dal simbolo quaternario, piuttosto che dal simbolo trinitario incompleto e unilaterale: “Il quaternario simboleggia le parti, le qualità e gli aspetti dell’Uno”273, ovvero il processo di 270 La Verità. Cfr. Luigi Vero Tarca, Filosofia positiva. Jung, OC VIII, p.123, 272 Jung, OC, XII, p.29. 273 Jung, OC XI, p.65. 271 91 separazione della sua unità indistinta come il percorso che porta all’unità. Del resto la fuoriuscita della coscienza umana in generale dallo stadio inconscio di indistinzione, dalla “montagna in cui tutte le cose stanno indistinte” è lo stesso processo che il singolo individuo, come un microcosmo, compie nei confronti della collettività – il processo psicologico, che compone i conflitti e le opposizioni, è anche il processo del divernir-Uno274. Per lo stesso Autore “E’ il pensiero fondamentale dell’alchimia che tutto provenga dall’Uno – “sicut omnes res fuerunt ab Uni (...) sic omnes res natae fuerunt ab hac re”, dice la Tabula – che quest’Uno si scinda in quattro elementi e che a partire da questi quattro si ricomponga in unità”275. Ma quest’opinione era gia chiaramente espressa dagli alchimisti più consapevoli, quale Dorneus: “Nell’Uno infatti c’è l’Uno e non c’è l’Uno; è semplice e consiste di quattro; quando questo [Quattro] viene purificato dal fuoco nel Sale, ne sgorga l’acqua pura e (l’Uno nella sua quatenità), ritornato alla semplicità, mostrerà all’adepto il compimento dei misteri. Qui è il centro della sapienza naturale, la cui circonferenza conchiusa in se stessa forma un circolo: un ordine incommensurabile che procede all’infinto [...] Qui c’è il numero Quattro, nella misura in cui il numero Tre, insieme con il Due combinato in unità, realizza tutti i miracoli che egli compie. In tali relazioni tra Quattro, Tre, Due e Uno si trova – dice Dorneus – il culmine di ogni sapere e dell’arte mistica, e il centro infallibile del mezzo”276. 274 Jung, OC XII, p.84. Ibid., p.430. 276 Dorneus, Duellum animi cum corpore, in Theatrum chemicum, p.546, cit. in Jung OC XI, pp.189190. Sarebbe interessante mettere in relazione quest’idea del circolo che eternamente si svolge e si avvolge con il “mito dell’eterno ritorno” quale è stato interpretato da Nietzsche e da altri autori nel XX secolo. 275 92 93 Parte II: CONIUNCTIO OPPOSITORUM E’ con la stesura del Mysterium coniunctionis che Jung perviene a determinare l’essenza del metodo alchemico nella congiunzione degli opposti. L’archetipo della coniunctio oppositorum è dunque riconosciuto come il perno essenziale su cui ruota l’alchimia classica. Anche questa constatazione, come tutte quelle espresse sulla tradizione alchemica, costituisce ad un tempo una verifica ed un rispecchiamento del metodo junghiano – una anamnesi dei presupposti cardinali della psicologia del profondo. Da un lato è quest’ultima a prestare gli strumenti empirici dell’indagine storicoermeneutica; dall’altro i risultati della ricerca ne rivelano la costituzione trascendentale, quasi filosofica. L’analisi dei testi di Jung sull’alchimia, e di quelli in cui è determinata la struttura e la dinamica della psiche, rivela l’analogia sostanziale nella concezione degli opposti, alchemici come psicologici. Questo ci deve sorprendere relativamente, date le premesse della ricerca. Piuttosto è buon proposito quello di disegnare un quadro teorico di massima in cui queste concezioni possano essere inserite. Va precisato da subito che gli opposti junghiani non possono rientrare in alcun modo in una rigorosa considerazione di tipo logico o ontologico. Il pensiero di Jung è piuttosto un pensiero “pragmatico”, in esso la theoria si nutre di una circolarità virtuosa con la prassi terapeutica e con l’esperienza individuale. Pertanto l’“opposizionalismo” junghiano dovrà essere compreso nella sua 94 valenza metodologica – intendendo il termine “metodo” nella sua accezione originaria di percorso, via (Tao). Il percorso individuativo altro non è, infatti, che il frutto della coniunctio degli opposti psichici per eccellenza: coscienza e inconscio – allo stesso modo in cui la trasformazione creatrice che sta al cuore dell’alchimia è il frutto del dialogo di Sol e Luna. Tuttavia, come va compreso in che senso gli opposti siano opposti, va anche compreso il significato della loro “congiunzione” (Mysterium coniunctionis). Sarà il compito del terzo capitolo di questa parte, che culmina nella descrizione dell’espressione eminente del linguaggio alchemico che Jung ha fatto propria: il simbolo. Il secondo capitolo indaga invece la fenomenologia della congiunzione nelle immagini di un testo alchimistico, in parallelo con la dinamica terapeutica della traslazione (Psicologia della traslazione). 95 Capitolo 1_ Gli opposti “Ciò che si oppone converge e dai differenti bellissima armonia” Eraclito di Efeso 1.1_Il principio oscuro In poche tradizioni, come nell’arte regia, si può riscontrare una così ossessiva insistenza su toni foschi, per non dire macabri. Questa non è tuttavia una semplice veste estetica, un atteggiamento esteriore: ad una osservazione più attenta si può comprendere la pregnanza etica, se non addirittura ontologica di un tale immaginario – esso rinvia implicitamente alla necessità di porre un principio negativo ed oscuro. Per tenebras ad lucem Nondimeno Jung ricorda che il mito alchemico è anche il racconto di un’aurora consurgens277: nel passaggio dall’oscurità, all’alba, al sorgere del sole, essa è la narrazione di un viaggio attraverso le tenebre. L’alchimista è un ricercatore notturno, ma ciò che egli va cercando nell’oscurità è sopra ogni cosa la luce: per tenebras ad lucem, recita uno dei detti più cari agli adepti. Così l’impresa dell’alchimista è la metafora di un confronto in prima persona con il male più radicale. Nel Commento al “Libro tibetano della grande liberazione” Jung riconnette immediatamente il confronto con l’oscurità alla 277 Cfr. Psicologia della traslazione. “Aurora consurgens”, chiamato anche “Aurea hora” è appunto il titolo di un famoso trattato alchimistico da sempre attribuito a Tommaso d’Aquino. Questo testo fu esposto e commentato da Marie Louise von Franz nella terza parte dell’edizione tedesca del Mysterium coniunctionis. L’idea di un ciclo solare si riconnette alla circulatio propria dell’opera alchemica, nonché alla descensus ad inferos dell’eroe affrontata da Jung nei Simboli della Trasformazione. 96 congiunzione degli opposti e quindi al processo di individuazione psicologico: “L’esperienza mistica che sta al centro dell’illuminazione è giustamente simbolizzata, nella maggior parte delle forme di misticismo, dalla luce. E’ un singolare paradosso che l’avvicinarsi a una regione che ci sembra condurre alla massima oscurità abbia come frutto la luce dell’illuminazione. Questa è tuttavia la consueta enantiodromia per tenebras ad lucem. In molte cerimonie d’iniziazione ha luogo una χατςβασιΗ εkΗ Tντρον [discesa nel buio], un tuffo nella profondità dell’acqua battesimale o un ritorno nel grembo della nascita. Il simbolismo della rinascita descrive semplicemente la congiunzione degli opposti, conscio e inconscio, mediante analogie concretistiche. Alla base di ogni simbolismo di rinascita si trova la funzione trascendente. Dato che questa conduce ad un aumento della consapevolezza (allo stato precedente si aggiungono i contenuti prima inconsci), questo nuovo stato porta con sé maggiore penetrazione, ciò che è simbolizzato da maggior luce. E’ perciò uno stato più illuminato, in confronto alla relativa oscurità dello stato precedente”278. Il Quarto Jung interpreta l’alchimia in primo luogo come un tentativo di integrazione psichica del male, a fronte del “dualismo” della concezione cristiana, il quale relegava i contenuti della corporeità, dell’istintualità, della sensibilità e della femminilità ad una negatività assoluta: “Possiamo quindi supporre che nell’alchimia si cercasse effettivamente di ottenere un’integrazione simbolica del male, localizzando sull’uomo 278 Jung, OC XI, p.523-524. 97 stesso il dramma divino della redenzione”279. Attribuendo uno statuto positivo (in senso ontologico, non etico) alla realtà materiale (il male, il femminile), l’alchimista ricrea quella simmetria che il cristianesimo aveva spezzato, e cerca di completare l’opera della salvezza portando la materia alla sua perfezione280. Nella tematica del Quarto, o della Quaternità, lo psicologo fa emergere il collegamento simbolico tra tutti questi contenuti negletti dalla Tradizione, e che in qualche modo rappresentano l’inconscio dell’Occidente281. Nel Quarto possiamo riconoscere l’Ombra della nostra tradizione filosofica, la cui integrazione è necessaria alla realizzazione di una totalità che includa gli opposti nella loro tensione reciproca e produttiva (complexio oppositorum). Il Quarto pone al cristianesimo la questione dell’Altro o del Negativo: la figura trinitaria della divinità non sa infatti rendere conto della realtà del male se non nella forma della privazione ontologica, ovvero nella formula agostiniana della privatio boni. Secondo Jung la concezione trinitaria “stacca la parte luminosa del quadro divino dalla metà oscura”, e tuttavia “all’immagine della totalità appartiene il peso oscuro della terra”282. Nella sua concezione la Trinità allude ad una circolarità relazionale perfetta, quale solo attiene al pensiero. Alla compiutezza della relazione infratrinitaria la Quaternità contrappone una forma 279 Jung, OC XIV, p.452. Michela Pereira, Il paradigma della trasformazione. L’alchimia nel “Mysterium coniunctionis” di C.G. Jung, p.214. 281 Cfr. Jung, OC XI, Psicologia e religione alle pp.71 sgg., e Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, pp.115 sgg. L’affermazione del Quarto significa la posizione di un elemento irriducibile al processo trinitario: il “quarto dei tre” riapre la questione della creazione e della redenzione e le consegna in parte alla responsabilità dell’Uomo. In questa prospettiva redenzione e creazione divengono un processo sempre aperto e sempre rinnovantesi, mai compiuto (creatio continua). 282 Jung, OC XI, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, p.174. 280 98 relazionale più propria della prassi e del confronto con la materia – che è l’ambito della scissione sempre riproducentesi283. Per questo la Quaternità, quale simbolo divino di totalità, implica il riconoscimento del principio o della componente oscura. D’altronde, col porre l’esistenza necessaria di un lato tenebroso, oscuro e originario, gli alchimisti giungevano ad una prospettiva non molto distante dal dualismo – tanto è vero che nel Mysterium coniunctionis Jung giunge ad accostare l’alchimia con la dottrina di Mani: “Quando la dottrina dell’increatum iniziò a svolgere un ruolo importante nell’alchimia del sedicesimo secolo, nacque un dualismo che si può paragonare a quello manicheo”284. Ad ogni modo l’Autore tiene anche a differenziare la tradizione alchimistica dal manicheismo e da qualsiasi forma di dualismo: questo “dualismo” va inteso nel quadro della costitutiva paradossalità del pensiero alchimistico, e la posizione di un secondo principio, sia questo il “fondo oscuro della creazione” o il diavolo in persona, ha un valore prettamente euristico. Critica della privatio boni Altrettanto paradossale e relativa è l’inclusione del male nella vita della divinità. Una tale concezione non poteva che rispondere al principio metodologico della coincidenza dei contrari: “Pare invece che i nostri filosofi abbiano inteso l’inferno e il suo fuoco come disposizione endodivina, il che è pur necessario se Dio deve valere come coincidentia oppositorum; cioè il concetto di un Dio che tutto abbraccia deve necessariamente racchiudere in sé anche il suo contrario, nel qual caso però la coincidenza non deve riuscire troppo radicale, 283 284 Ibid., pp.124-133. Jung, OC XIV, p.41; cfr. pp.40-50. 99 poiché Dio annullerebbe sé stesso. Il principio della coincidenza dei contrari deve dunque venir integrato dal suo opposto, per giungere al vero paradosso e acquistare quindi validità psicologica”285. Di fatti il dio Mercurio degli alchimisti, come già si è detto, sa tenere insieme nella propria natura il bene ed il male in maniera “moralmente indifferente”286. Egli congiunge in sé il buono e il cattivo in quanto li trascende immediatamente. Dai racconti autobiografici emerge come, fin da fanciullo, Jung fosse tormentato dal problema del male 287 . Egli non accetta la tradizione che ne fa una privatio boni, un concetto del tutto negativo, sottratto a qualsiasi relazione con la natura divina288. In Risposta a Giobbe (1952), un saggio molto intenso e discusso, Jung diede finalmente espressione drammatica a questo nodo: “la fede in un Dio quale Summum Bonum è impossibile a una coscienza che riflette”289. Dio è dunque una coincidentia oppositorum, sommo amore e bontà, e al tempo stesso crudeltà tenebrosa. E’ un dio che si può amare e si deve temere, come nel Vangelo di Giovanni, nel pensiero degli alchimisti e in Böhme: “Il terribile problema della causa del male rimane in Dio, se non vogliamo diventare dualisti, il che corrisponde alla scissione della psiche”290. Ma non si trattava tanto di attribuire a Dio, o a chiunque altro, l’origine del male, quanto di mostrare la reciproca correlazione di positivo e negativo, ovvero l’impossibilità di ipostatizzare gli opposti principi. 285 Jung, OC XIII, Lo spirito Mercurio, p.242. Ibid., p.248-251. 287 Ricordi, pp.64 sgg. 288 Jung, OC XI, Bene e male nella psicologia analitica, pp.469 sgg. 289 Jung, OC XI, Risposta a Giobbe, p.399. Il vero motivo che suscitò scandalo fu l’affermazione da parte di Jung dell’agnosia divina, ovvero dell’inconsapevolezza del Creatore. 290 Ibid. Cfr. M.L. von Franz, Il mito di Jung, pp.151 sgg. 286 100 Ombra Nell’opera di Jung, l’affermazione del principio oscuro trova la sua formulazione psicologica fondamentale nella tematica dell’Ombra. Questa figura centrale della psicologia del profondo costituisce la naturale premessa alla problematica della relazione degli opposti. Nella ricostruzione autobiografica il motivo dell’Ombra viene a sovrapporsi a quello della precoce scoperta del proprio “doppio”, un’esperienza psicologica che Jung considera decisiva per se stesso e per la psicologia analitica291. Il racconto della “lanterna contro vento”292, un sogno fatidico del giovane Jung, offre un’immagine straordinariamente calzante per descrivere l’incontro della “personalità numero 1” con la “personalità numero 2”: “Era notte, in un posto sconosciuto, e camminavo lentamente e con fatica contro un forte vento. Dappertutto intorno v’era una fitta nebbia. Con le mani facevo schermo a un fievole lume che minacciava di spegnersi a ogni momento: tutto dipendeva dal riuscire a tener viva questa piccola luce. Improvvisamente avevo la sensazione che qualcuno stava sopraggiungendo alle mie spalle, mi voltavo, e vedevo una figura nera, gigantesca, che mi seguiva. Ma al momento stesso avevo coscienza, nonostante il mio terrore, di dover salvare la piccola luce tutta la notte e nel vento, senza badare al pericolo. Quando mi svegliai – continua Jung – capii subito di aver visto lo “spettro del Brocken”, la mia propria ombra nel turbinio della nebbia, proiettata dalla piccola luce che portavo; mi resi conto, anche, che questa piccola luce era la mia coscienza, la sola luce che avessi”293. 291 Jung, Ricordi, p.62 sgg. Marie Louise von Franz, Il mito di Jung, pp.40 sgg. 293 Jung, Ricordi, pp.121 sgg. 292 101 La presa di consapevolezza che l’Ombra è l’ombra della nostra coscienza ci porta a comprendere che il male, il negativo, non è mai completamente fuori di noi né come ipostasi metafisica né come persona fisica. In ogni nostro conflitto c’è sempre una compartecipazione all’elemento negativo: l’avversario è “l’altro in noi”294. Mostrando la mutua correlazione di positivo e negativo l’Ombra ci preserva dall’unilateralità, dalla fissazione agli estremi di quel moto oscillatorio che è, per Jung, la psiche umana: “allora ha inizio il conflitto e l’Uno diventa Due”295. L’Ombra junghiana è la prima “figura dell’altro”296 attraverso cui ci si rivelano le altre figure dell’inconscio. Nel corso del processo di individuazione l’Altro (la psiche inconscia) si presenta prima di tutto in veste negativa – l’Ombra appunto. L’Ombra nel suo aspetto oscuro e minaccioso rappresenta dunque l’Alterità esclusa. Ma non per questo essa è l’“opposto” della coscienza: essa rappresenta piuttosto la parte complementare e mancante della personalità. Nelle successive figure essa assume infatti via via tonalità più positive, divenendo figura di relazione (Anima), se non addirittura guida (Vecchio saggio)297. 294 Jung, OC XI, Psicologia e religione, p.83-84. Questo assunto, che poggia tra l’altro su presupposti ontologici (si veda la critica della privatio boni, l’opposizionalismo, il principio di correlazione), costituisce uno dei fondamentali “comandamenti” dell’etica junghiana – un antidoto infallibile contro ogni fanatismo. 295 Jung, Oc XVI, Psicologia della traslazione, p.208. 296 Per le “figure dell’altro” si veda l’illuminante monografia di E.G. Humbert, Carl Gustav Jung, introduzione ai fondamenti della psicologia del profondo di orientamento filosofico, pp.59 sgg. 297 Jung, OC XI, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, pp.19 sgg. Per la tematica dell’Ombra in generale, rinvio all’ottimo saggio di Pier Aldo Rovatti, Riflessioni sull’ombra: anche Rovatti osserva come “il contenuto dell’Ombra scivola in secondo piano a vantaggio del carattere relazionale”. 102 Tra bene e male In quanto solo la corporeità materiale è in grado di produrre un’Ombra, e di proiettarla sulle cose circostanti, il confronto con essa significa soprattutto il confronto con la densità della materia: “Mediante l’assimilazione dell’ombra l’uomo diventa per così dire corporeo: la sfera animale dei suoi istinti, nonché la psiche primitiva e arcaica si trovano esposte anch’esse al fascio luminoso della coscienza”298. Jung pone così il problema pressante, da un punto di vista psicologico come filosofico, della riconciliazione dell’uomo cosciente e della sua moralità con l’esistenza corporea. Chi manca questo confronto perde il contatto con la gravità della Terra, e si consegna ad una “positività” aerea ed astratta299. La guerra come la distruzione sorgono psichicamente da una sottrazione al rapporto polemico (nel senso di polemos) con l’“altro”. E’ quando questi viene posto come “negativo”, quando si tende a negare la sua positiva esistenza, che sorge una negatività del rapporto. Il “negativo” sorge dall’isolamento dei termini relativi, dalla negazione della relazione. La rimozione o la repressione possono avere solamente una funzione di limitazione o di contenimento dell’inevitabile. Ma con ciò l’Ombra viene isolata dalla coscienza attuale, e quest’ultima potrebbe esserne travolta da un momento all’altro: se l’Ombra non viene affrontata consapevolmente, la tensione da essa provocata non potrà che risolversi in una catastrofe “naturale” attraverso l’intervento dell’inconscio. 298 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, p.246. Per il rapporto dell’Ombra con la corporeità si veda anche Pier Aldo Rovatti, Riflessioni sull’ombra, p.103-106: l’Ombra dà corporeità. 299 Ibid., p.84-85. 103 La vera sconfitta etica consiste nell’ipostatizzazione del Male, e quindi nel mancato confronto con l’“altro”, pur in tutta la sua negatività effettiva. Bene e Male sono in sé principi inattingibili che sottostanno perlopiù alla soggettività del giudizio. La negazione, l’ipostatizzazione e l’isolamento dei contenuti psichici sono in qualche modo l’equivalente del giudizio morale. Secondo Jung non si tratta di privilegiare alcun contenuto, conscio o inconscio che sia, quanto di porli in dialogo fra loro il più possibile. Nel rapporto con il negativo la psiche si trova di fatto coinvolta in un complesso gioco di apertura e di chiusura, di accoglimento e di reazione. La più alta sfida spirituale per l’uomo consiste nel mettere sempre in questione, nel relativizzare il proprio ethos e le proprie abitudini di fronte ai fatti, lottando pur tuttavia per ricostruire in tutto ciò un senso. E’ necessario che talvolta il paziente si arrischi a sperimentare la potenza del male, il cui senso più profondo sta nella redenzione. Quando l’uomo non fa ciò si divide in se stesso, si scinde dalla propria ombra e rinnega una parte potenzialmente positiva della propria personalità300. L’ombra psichica detiene dunque una innegabile positività (ontologica) il cui riconoscimento è il più alto compito etico: “Un individuo abbastanza coraggioso per ritirare tutte queste proiezioni è un individuo cosciente dell’importanza della propria ombra. Un uomo siffatto si è accollato nuovi problemi e nuovi conflitti. Egli è diventato per sé stesso un serio problema, poiché ora non è più in grado di dire che gli altri fanno questo o quello, che essi sono in errore e che essi devono venire combattuti. Egli vive nella “casa della coscienza di sé”, del raccoglimento 300 Jung, OC XI, Bene e male nella psicologia analitica, pp.468-481. 104 interiore. Un tale uomo sa che qualunque cosa vada a rovescio nel mondo va a rovescio anche in lui stesso, e che col suo imparare a tenere testa alla propria ombra egli ha fatto qualcosa di positivo per il mondo. E’ riuscito a rispondere a una parte infinitesimale dei giganteschi problemi dei nostri giorni. La difficoltà di questi problemi sta in gran parte nel veleno delle mutue proiezioni. Come è possibile che qualcuno veda chiaro quando non vede nemmeno se stesso, né quelle tenebre che egli stesso inconsciamente proietta in ogni situazione?”301. In generale, la presa di coscienza dell’ombra provoca conflitti che rimettono in discussione le abitudini, le credenze, i legami affettivi. In termini alchemici è la cosiddetta melancholia. Come abbiamo visto nella prima parte dei questo studio, il confronto con l’Ombra è il corrispondente psicologico della nigredo alchemica, e della sua paradossale positività per l’artefice. Pertanto anche gli alchimisti “avevano scoperto la specifica esistenza psicologica di un’Ombra che si contrappone alla figura positiva cosciente (compensandola). Per loro l’Ombra non significava affatto una privatio lucis, ma una realtà così concreta per cui essi pensavano addirittura di poterne discernere la densità materiale; le attribuirono la dignità di una matrice, di una sostanza eterna e incorruttibile”302. Ebbero così la “percezione intuitiva dell’effetto compensatorio della posizione contraria; [la posizione dell’Ombra] non va quindi intesa in senso dualistico come un semplice opposto, ma piuttosto come un complemento, indubbiamente pericoloso, ma nondimeno soccorrevole della 301 302 Jung, OC XI, Psicologia e religione, p.89. Jung, OC XIV, p.122. 105 posizione cosciente. Ciò corrisponde alla realtà funzionale dell’inconscio”303. La determinazione del positivo psicologico Nella “metafora dell’Ombra”304 ne va della curvatura stessa del pensare: in essa si compie “il passaggio, all’interno della costellazione metaforico-simbolica luce-ombra, da un atteggiamento ‘intellettualistico’ ad un atteggiamento ‘etico’”305. Queste considerazioni stanno ad indicare che la determinazione del positivo psicologico306 (l’individuazione del Sè) ha in Jung un radicamento non tanto logico-formale quanto essenzialmente etico. E in questa determinazione hanno un ruolo centrale non tanto l’identità e la negazione, quanto la relazione, il riconoscimento della positività (ontologica) dell’altro. Queste considerazioni possono essere estese, cum grano salis, anche alla tradizione alchemica. Il problema dell’ottenimento del Lapis corrisponde alla determinazione del positivo universale, ovvero della Verità in senso filosofico. Si può dire che l’alchimia, come la psicologia analitica, si fondi su una determinazione del positivo che non ha carattere logico-formale, quanto essenzialmente etico-pratico. 303 Ibid., p.123. Mario Trevi, Ombra: metafora e simbolo: l’Ombra non è infatti tanto un simbolo quanto una metafora polisemica e produttrice di senso. 305 P.A. Rovatti, Riflessioni sull’ombra, p.108. 306 La domanda fondamentale in questo senso è: come si produce la determinazione della coscienza, e quale rapporto intrattiene con il suo altro? Una determinazione oppositiva della coscienza è, dal punto di vista psicologico, perdente in partenza. Quindi il problema di Jung è come la coscienza possa differenziarsi dall’inconscio senza per questo essere esclusiva, negativa (repressione, rimozione). Riguardo all’impostazione del problema filosofico di una determinazione (nonop)positiva del positivo mi riferisco a Luigi Vero Tarca, Differenza e negazione. Per una filosofia positiva. Come vedremo in seguito la risposta junghiana è essenzialmente la seguente: la coscienza può differenziarsi positivamente dall’inconscio solo riflettendo su di esso – la coscienza è lo specchio nella quale l’inconscio scorge il proprio volto. Analogamente nel processo di individuazione ha luogo un rispecchiamento della totalità psichica, sociale o naturale. 304 106 Essa pone al centro della sua attenzione le figure della relazione e della trasformazione. In Jung, dell’etica paradigma contestualmente della tradizione, del rapporto L’assolutizzazione cristiana alla emerge tra del nuova dunque positivo Bene considerazione un peculiare e negativo. conduce alla determinazione del Male come una privazione d’essere (privatio boni). Ma il riconoscimento della realtà del male non significa neppure un semplice rovesciamento dell’impostazione cristiana (assolutizzazione del Male), o la ricaduta in una forma di esplicito dualismo (opposizione di Bene in sé e Male in sé): anche il male, come il bene, non è ipostatizzabile. Relativizzando i principi etici assoluti Jung perviene invece al riconoscimento (affermazione) della positività ontologica del tutto: tutto è posto, sia esso buono o cattivo, luce o ombra. La moralità dell’uomo è pertanto in costante e necessaria relazione con la sua ombra, in quanto quest’ultima riguarda in qualche modo la sua essenza migliore (Jung sottointende la reciproca specularità della parte più alta ed evoluta dell’uomo con la sua parte più bassa). Non si tratta più dunque di stabilire un doveressere, ovvero cosa sia Bene in sé o Male in sé, cosa debba esistere e cosa no, quanto di aver a che fare con cose buone e cattive. Questo nuovo paradigma incentra la determinazione del positivo etico e psicologico non più tanto sulle figure dell’identità e della negazione quanto su quelle della differenza e della relazione. Il positivo etico, per costituirsi, dovrà essere svincolato da qualsiasi logica negativo-oppositiva. Analogamente una determinazione op-positiva della 107 coscienza (repressione, rimozione) è, dal punto di vista psicologico, perdente in partenza (enantiodromia): positiva è la relazione e la trasformazione vitale del tutto. La determinazione del positivo psicologico ha luogo attraverso la relazione riflettente della coscienza con l’inconscio che, rispecchiando la totalità, la realizza. L’unico dovere etico dell’uomo, che significa anche il suo sviluppo psicologico, è quello di confrontarsi con la sua Ombra, perché questa non è, in ultima analisi, che il suo Altro, il cui mancato riconoscimento conduce al conflitto. Il negativo in quanto tale consiste invece nell’isolamento, nella riflessività astratta, nella negazione della relazione con la totalità che significa la morte. La concezione etica di Jung si risolve in una costituzione del campo etico come relazione dialogica e tensionale tra i due principi trascendentali di bene e male. Ma non è tanto una guerra tra due principi opposti, quanto un vero e prorpio processo di trasformazione. Il processo di individuazione psichico implica il drammatico coinvolgimento in questo processo: l’introiezione del negativo è infatti l’autentico motore del processo di individuazione. Così l’uomo che prende consapevolezza del negativo si fa immediatamente carico degli opposti e tenta di porli in relazione reciproca. Ciò che qui è in gioco non è tanto la determinazione della sua identità, quanto la sua positiva trasformazione: così l’individuo può “diventare ciò che è”. 108 1.2_Sol e Luna Opposti alchemici Nelle pagine successive si tratta di comprendere quali siano le opposizioni fondamentali della psicologia analitica, e di indagare come esse si strutturino. Nel fare ciò naturalmente manterremo aperto il raffronto con la scienza alchemica. Prima di discutere la tesi centrale sull’alchimia come metodo della congiunzione degli opposti, e quindi i caratteri generali dell’“opposizionalismo” junghiano, è opportuno rilevare la corrispondenza concettuale tra le coppie alchemiche e le polarità della psiche. Infatti, come queste sono il presupposto basilare del processo di individuazione, quelle preludono all’opera di trasformazione della materia in vista dell’ottenimento della pietra filosofale. Come nota Jung, nell’alchimia gli opposti appaiono perlopiù personificati307. Una delle rappresentazioni ricorrenti della meta dell’Opera era appunto la realizzazione delle Nozze chimiche. Si è già accennato al fatto che tutta la tradizione alchemica, e l’antichità in generale, concepiva gli elementi della physis e le loro qualità secondo coppie in opposizione tra loro: “humidumsiccum, frigidum-calidum, superiora-inferiora, spiritus (a volte anima)-corpus, coelum-terra, ignis-aqua, chiaro-scuro, agens (attivo)-patiens (passivo), volatile-fixum, pretiosum (a volte anche carum)-vile, bonum-malum, manifestum-occultum (oppure celatum), oriens-occidens, vivum-mortuum, masculus-foemina, Sol-Luna”308. 307 308 Jung, OC XIV, pp.88 sgg., “La personificazione degli opposti”. Ibid., p.11. 109 Spesso queste polarità venivano a disporsi in un quaternio, ovvero due coppie di opposti incrociati. Essi formavano così la croce della physis quadripartita, simbolo eccellente del mondo fisico sublunare, del “regno quaternario ed elementare”309. La quaternità rappresenta una “sintesi”, risultante dal movimento circolare nel tempo (circulatio, rota) e, come sappiamo, “la sintesi dei quattro è una della principali preoccupazioni dell’alchimia, allo stesso modo (ma in misura minore) di quella dei sette (cioè metalli)”310. In questo modo è espressa una totalità, spesso personificata dallo spirito Mercurio che riunisce in sé gli opposti, dalla quinta essentia, ovvero dal punctum. Così John Dee, un’alchimista del sedicesimo secolo: “Non è irragionevole <supporre> che al mistero dei quattro elementi alludano quattro linee rette che corrono in opposte direzioni a partire da un singolo punto individuale” poiché “dal punto e dalla monade hanno preso avvio le cose e gli esseri”311. Un’altra espressione della meta dell’Opus, analoga a quella delle nuptiae chymicae e spesso simbolicamente confusa con essa, è quella dello hieros gamos (nozze sacre) degli dei, la mistica prerogativa dei sovrani, le nozze di Sol e Luna. Il carattere divino, regale e cosmico di queste coppie di opposti rimanda secondo Jung “al carattere trascendente delle coppie di opposti rispetto alla coscienza. Esse non fanno parte della personalità dell’Io, ma le sono superiori. Quest’ultima si trova tra loro come l’“anima inter bona et mala sita” (l’anima posta tra il 309 Ibid. Ibid., p.16. 311 John Dee, Monas hieroglyphica, in Theatrum chemicum, vol.2, p.218. Sul punctum si veda Jung, OC, XIV, pp.45 sgg. 310 110 bene e il male). Le coppie di opposti rientrano invece nella fenomenologia del Sé paradossale, della totalità dell’uomo”312. Il campo descritto dalle coppie di opposti definisce una totalità trascendente – più ampia, ulteriore, ma anche trascendentale – rispetto alla coscienza egoica, la quale è per definizione parziale, limitata all’attualità ed alla presenza. Si potrebbe dire che in questa occasione gli opposti abbiano un ruolo trascendentale e costitutivo rispetto a questa attualità. Al di là dell’inimicizia degli elementi, uno dei contrasti più forti dell’immaginario alchemico è dunque quello tra maschile e femminile, incarnato via via da Sol e Luna, Rex e Regina, Adamo ed Eva. D’altronde Jung mette subito in guardia circa il carattere di tali coppie simboliche: “In questa contrapposizione si pensa anzitutto alla forza della passione e dell’amore, che spinge l’uno verso l’altro i poli separati, e si dimentica il fatto che una simile violenta attrazione si richiede soltanto là dove c’è una resistenza, altrettanto forte, a tener separate le parti. In verità l’“inimicizia” è posta solo tra il serpente e la donna (Genesi 3.15), ma la maledizione di estende anche alla relazione tra i sessi. A Eva viene detto: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (3.16). E ad Adamo è detto che, a causa sua, il suolo era stato “maledetto”, perché egli aveva “ascoltato la voce della moglie” (3.17). V’è una colpa originaria tra i due, ossia l’apertura di un’ostilità che appare illogica solo alla ragione, ma non alla natura (psichica)”. “La nostra ragione – prosegue Jung – è influenzata in alto grado – e spesso anche troppo – proprio dalla physis, cosicché l’unione tra i sessi le par essere l’unica cosa sensata e l’impulso 312 Jung, OC XIV, p.13. 111 all’unione come il più savio di tutti. Se concepiamo la natura nel senso più elevato come l’insieme di tutti i fenomeni, quello fisico diventa solo uno dei due aspetti, accanto a quello pneumatico. Sin dall’antichità il primo è stato considerato femminile, il secondo maschile. La meta del primo è l’unione; quella del secondo è invece la discriminazione. Al giorno d’oggi alla nostra ragione fa difetto, per sopravvalutazione dell’aspetto fisico, l’orientamento spirituale, vale a dire lo pneuma”313. Una precisazione: nelle ultime righe Jung non intende dire che la contemporaneità faccia difetto di discriminazione – al contrario! Lo spirito che manca all’uomo d’oggi è invece chiaramente l’alchemico spirito della materia. Ad ogni modo, nel lungo passo del Mysterium coniunctionis qui riportato, Jung individua, attraverso la contrapposizione alchemica di maschile e femminile, la fondamentale polarità psichica di spirito e natura. Il “problema morale dell’alchimia” è dunque quello di “conciliare con il principio dello spirito quel fondo primordiale, femminile-materno della psiche maschile, che è agitato dalle passioni... davvero un compito erculeo!”314. Secondo la von Franz lo psicologo giunge a sfiorare il problema di fondo dell’alchimia, che è anche il problema della scienza contemporanea: il rapporto tra materia e spirito, o tra materia e psiche315. Come vedremo nei paragrafi a seguire 313 Jung, OC XIV, p.88. Ibid., pp.43-44. Cfr. Dorn, Speculativa philosophia, in Theatrum chemicum, vol.1, p.299: “Impara perciò, o Mente, a esercitare nei riguardi del tuo corpo un amore (caritas) partecipe, limitandone ogni vano appetito, in modo tale che esso sia pronto insieme a te ad ogni cosa. Acciocché questo accada, mi darò pena affinché egli beva insieme a te dalla fonte della virtù e, quando poi i due saranno diventati uno, affinché voi troviate pace nella loro conciliazione. Vieni, corpo, alla tua fonte, affinché con la tua mente tu ti abbeveri a sazietà e in futuro non abbia più sete di questa fonte, che rende i due uno e che mette pace fra i nemici. La fonte dell’amore (amor) può far scaturire una mente dallo spirito e dall’anima, ma qui crea l’uomo uno (vir unus) di mente e corpo”. 315 Marie Louise von Franz, Alchimia, p.28; Il mito di Jung, pp.76 sgg.; ma soprattutto si veda Psiche e materia, p.3-18 e 113-127. La discepola di Jung ha spinto innanzi gli studi del maestro sulla sincronicità ponendoli in rapporto con le ultime scoperte della scienza contemporanea. 314 112 natura e spirito suono due categorie trascendentali della psicologia junghiana. La loro opposizione è l’opposizione tra l’“unificazione indeterminante” determinante”. Pertanto essi e la “differenziazione rappresentano anche la contrapposizione tra una logica simbolica, olistica e analogica, volta all’unità ed alla totalità, e una logica analitica, volta alla conoscenza specifica delle parti e dei loro rapporti formali: la prima tende a porre in relazione le parti ma manca di coglierne la distinzione; la seconda coglie le distinzioni, ma tende ad isolare le parti tra loro. L’opposizione di Spirito e Materia, che assume in Jung un indubbio portato epistemologico, si riferisce alla fondamentale relazione alchemica tra maschile e femminile. Anche questa è, di per sé, un’opposizione complessa. I termini in gioco non si respingono ma si attraggono: Jung precisa subito che nella congiunzione alchemica degli opposti è in gioco non solo l’attrazione e l’amore, ma anche l’odio e l’ostilità . Questa caratterizzazione degli opposti, oltre a rievocare la freudiana coppia di Eros e Thanathos316, ricorda quella dell’antico fisico, mago e taumaturgo, Empedocle. Secondo questo filosofo presocratico i quattro elementi si trasformavano in virtù delle due forze cosmiche che chiamò Amore (Afrodite) o Amicizia (Philia), e Odio (Neikos) o Discordia317. I personaggi che inscenano questo dramma cosmico e spirituale nell’alchimia sono il Sole e la Luna, il Re e la Regina, Adamo ed Eva. Come si vedrà meglio in seguito, la coniunctio alchemica è anche spesso raffigurata nella forma dell’incesto. Ciò offre a Jung lo spunto principale per la stesura della 316 317 Freud, Al di là del principio del piacere, in Metapsychology. Empedocle, Sulla natura, in Diels. 113 Psicologia della traslazione, un capolavoro di analisi ed interpretazione in cui la simbologia dello hieros gamos è messa a confronto con quella del processo psicoterapeutico. Spesso l’incesto avviene tra l’orfano (lapis) e la vedova (prima materia), motivo per cui Jung ha accostato alchimia e manicheismo: i manichei venivano infatti chiamati “figli della vedova”318. La coppia astrale Tuttavia la raffigurazione alchemica degli opposti psicologici più frequente in assoluto è rappresentata dalla coppia astrale di Sol e Luna: “Nel corso delle nostre riflessioni abbiamo spesso osservato che nonostante la completa assenza di ogni conoscenza psicologica, le proiezioni alchemiche abbozzano un quadro di certi fatti psicologici fondamentali e quasi lo riflettono nella materia. Tra questi fatti fondamentali rientra la coppia primaria di opposti, quella costituita da coscienza e inconscio, di cui sono simboli Sol e Luna”319. Il sole significa anzitutto l’oro filosofico, con cui ha in comune il segno grafico (un cerchio con un punto nel centro): “Sol è infatti la radice dell’incorruttibilità (...) In verità non vi è altro fondamento dell’Arte che Sol e la sua ombra”320. Il sole, o la sostanza in esso nascosta (zolfo rosso) rappresenta la componente maschile e attiva, la sostanza di trasformazione dagli effetti benefici. E’ chiaro che “ “Sol” nell’alchimia non è tanto una sostanza chimica ben definita quanto piuttosto una virtus, una forza misteriosa cui veniva attribuita un’azione procreativa e trasformativa. Come il sole fisico rischiara e riscalda l’universum, così nel corpo umano 318 Jung, OC XIV, pp.23-44. Ibid., p.104. 320 Consilium coniugii, in Ars chemica, p.138. Cfr. Jung OC XIV, pp.91 sgg. 319 114 esiste un altro arcano solare nel cuore, da cui fluiscono vita e calore”321. Scrive dunque Dorneus che in Sol “Dimorano la virtù seminale e formale di tutte le cose”322. Zosimo da parte sua cita il detto di Ermete secondo cui “Helios è il creatore di ogni cosa”323. Spesso lo hieros gamos è espresso nella forma della coniunctio di Sol e Mercurio, in cui a quest’ultimo tocca il ruolo della sposa324. Sol generalmente rappresenta invece la parte “ascendente”, mascolina e attiva di Mercurio stesso, il quale è ad un tempo suo figlio e madre-sposa. Come in molti altri casi le analogie e i parallelismi proliferano, fino a coinvolgere lo stesso mistero cristiano. Gli alchimisti prendono infatti alla lettera la designazione di Cristo come Sol, frequente nei Padri della Chiesa. Allora “Se ricordiamo che il Sol alchemico potrebbe corrispondere dal punto di vista psicologico alla coscienza, al lato diurno della psiche, a questa osservazione dobbiamo aggiungere ancora l’analogia di Sol con Cristo. Cristo appare anzitutto come figlio, e cioè come figlio della sua madre-sposa (Luna-Maria Ecclesia). Il ruolo del figlio spetta anche alla coscienza dell’Io, in quanto essa è un rampollo dell’inconscio materno”325. E’ importante notare che la componente attiva da un lato è dipendente e subordinata a quella femminile, dall’altro la subordina a sé. Secondo Jung “il concetto di Sol ha non poco a che fare con la nascita della coscienza moderna”, e quindi anche della coscienza scientifica. La quaedam luminositas del Sol alchemico 321 Jung, OC XIV, p.93. Codex Berol. Lat. 532 (fol.154). 323 Berthelot, 1887-88, vol.3, XXI.3, p.175. 324 Jung, OC XIV, p.98. 325 Ibid., p.99. 322 115 è infatti equiparabile al lumen naturae326. Il sorgere del sole rappresenta la nascita stessa dell’uomo e della sua coscienza dall’oscurità originaria e latente dell’inconscio. Tuttavia al sorgere del sole dalla notte indeterminata è sempre accompagnato il sorgere dell’ombra (umbra solis). L’avvento della coscienza discriminatrice, della luce che consente di distinguere le determinazioni, porta con sé un doppio ineliminabile, a tal punto che non può essere considerato come una semplice privatio lucis327. E’ così che, allo stesso modo in cui l’alchimia raccomandava di estrarre la luce dall’oscurità della materia (lumen naturae), così raccomandava di estrarre dalla luce la sua ombra: “Figlio, estrai dal raggio la sua ombra”328. Jung intende dunque l’avvento della luce della coscienza perlopiù come dell’indeterminato l’accadere originario, di per una cui determinazione finalmente possono distinguersi gli enti fra loro, ma soprattutto si distingue quell’ente che li riconosce e li pone. E’ la facoltà riflessiva e creatrice dell’Io come soggetto, non tanto una consapevolezza immediata dell’oggetto, quanto soprattutto un’autoconsapevolezza. Non è tanto importante che l’Io riconosca il suo oggetto, quanto che riconosca oggettivamente se stesso come soggetto, per cui può sorgere “la parola che controbilanciò l’intera creazione: questo è il mondo e questo sono io. Fu il primo mattino del mondo, il primo albore dopo le tenebre originarie, il momento in cui quel complesso capace di crearsi coscienza, il figlio dell’oscurità, l’Io, operò la distinzione conoscitiva tra soggetto e oggetto, e diede al 326 Ibid., p.95. Ibid., pp.96-97. 328 E’ un detto classico di Ermete, che si trova ad esempio nel Tractatus aureus, in Ars chemica, cap.2, p.15. 327 116 mondo e a se stesso un’esistenza definita, conferendo a lui e a sé voce e nome. Il corpo rifulgente del sole è l’Io e il suo campo di coscienza – Sol et eius umbra –, luce al di fuori e ombra dentro. Nella fonte luminosa c’è oscurità sufficiente per costruire delle proiezioni, poiché alla base dell’Io è l’oscurità della psiche”329. Questa oscurità è anche rappresentata dal fioco lume notturno, la sposa per eccellenza di Sol: Luna330. Naturalmente questa è umida e fredda, pallida sino a diventare oscura, femminile, corporea e passiva. E’ spesso intesa come vaso del sole e in generale come imbuto, utero, mediatrix, receptaculum omnium (ricettacolo universale di tutte le cose)331. E’ spesso posta in relazione con la terra e con l’acqua, ma in particolare con l’anima332. Ma è anche connessa in certo modo con lo spirito e l’intelletto333. A differenza della coscienza solare che si distingue nettamente dal suo negativo, alla fievole luce della luna le componenti positive giacciono per così dire mescolate a quelle negative, in uno stato perlopiù caotico. Lo stesso astro dichiara la propria natura umbratile, il proprio altro, oscurandosi periodicamente334. Come l’inconscio Luna non significa tanto l’oscurità assoluta: anch’essa è dotata di una luce, seppur minima, senza la quale essa non sarebbe conoscibile, non avrebbe esistenza oggettiva. Se l’inconscio ha esistenza oggettiva, è infatti nella forma dell’attività inconscia. 329 Ibid., p.106. Ibid., pp.125 sgg. 331 Ibid., p.126. 332 Ibid., pp.126-28. 333 Ibid., pp.131 sgg. 334 Ibid., p.142 e p.236. 330 117 Da queste considerazioni si può facilmente comprendere in che senso Sol e Luna non siano due semplici opposti, quanto due polarità, la cui natura intrinseca è determinata da opposizioni complesse, a differenti gradi e livelli. Sia Sol che Luna portano in sé le opposte componenti di luce e ombra, in cui l’una rimanda immediatamente all’altra, ma nell’astro diurno queste componenti sono ben separate, mentre in quello notturno sono quasi indistinguibili. Come vedremo nelle pagine seguenti, ciò corrisponde esattamente alla struttura della psiche. Jung nota come sotto questo rispetto la coscienza femminile sia l’esatto opposto di quella maschile: alla componente lunare attiene un carattere scarsamente discriminatorio335. Ciò non significa che la coscienza delle donne sia una forma di incoscienza: piuttosto nella psiche femminile il fattore discriminatorio sta in un diverso rapporto con il lato oscuro, per cui si tratta di una logica più incline a collegare, a istituire analogie, a inseguire intuizioni e sentimenti. Eros e Logos A seguito di queste osservazioni Jung accosta gli archetipi di Sol e Luna alle idee intuitive di Logos ed Eros: “Partendo da considerazioni meramente psicologiche, ho tentato in altra sede di caratterizzare la coscienza maschile con il concetto di Logos, e quella femminile con quello di Eros. Ho inteso con Logos la facoltà di discriminare, giudicare e riconoscere, e con Eros la capacità di “porre in relazione””336. 335 Ibid., pp.170 sgg. Ibid., p.171. L’autore tiene a precisare che Eros e Logos vanno intesi come delle idee intuitive, utili da un punto di vista pratico piuttosto che scientifico. Questa coppia, come l’analoga coppia di Psiche e Logos, è un vero e proprio perno della sua psico-logia. Attorno ad essa ruotano tutte le fondamentali questioni epistemologiche: il carattere metodologico aperto, e non sistematico, della 336 118 In realtà anche Logos è in grado di porre in relazione: anzi, come indica il suo stesso etimo, leghein, la sua capacità principale è proprio quella di istituire nessi. Ma i nessi che Logos istituisce sono univoci, rigidi ed esclusivi, volti a determinare strutture, ad tenere all’essenziale eliminando l’accidentale: la sua è la ricerca di un’unità formale. Eros produce invece l’unità materiale e sostanziale: crea connessioni simboliche, apre ciò che è chiuso e astratto. E’ anche la logica della complicazione e della complessità, che fa proliferare all’infinito i nessi, secondo la logica del “tutto è in tutto” (En to pan). Il fatto che si “opponga” a Logos non significa che non sia esso stesso un pensare. In quanto gode anch’esso di una forma di attività (quaedam luminositas), in certo modo pensa: anche le tenebre “hanno il loro intelletto e la loro logica, che va presa molto sul serio”337. Il “pensiero erotico” è un atto di pensiero inconscio, analogo a quello dei sogni, delle libere associazioni e dei prodotti dell’immaginazione: si muove sul piano delle contaminazioni, sei sinonimi e delle analogie, in breve sul piano delle corrispondenze338. La psiche erotica corrisponde alla matrice di ogni possibilità, al fondo materno e femminile: “E’ lo spirito delle acque caotiche primordiali precedente al secondo giorno della Creazione, ossia alla separazione degli opposti, e antecedente quindi all’avvento della coscienza. Per questo motivo chi ne resta vittima non viene fatto procedere oltre né “al di là”, ma è ricacciato indietro nel psicologia del profondo; l’impossibilità di una metapsicologia; la reciproca relazione di soggetto e oggetto; e la circolarità di “empirico” e “trascendentale”. 337 Ibid., p.244. 338 Ibid., p.238. Esplicitamente Jung riserva questa serie di considerazioni alla “logica” degli alchimisti, ma queste possono benissimo essere attribuite alla psiche erotica. Del resto, che l’inconscio esista significa per Jung soprattuto che esso “pensa” autonomamente: il suo centro direttivo non è infatti l’Io ma il Sé, nel quale gli opposti e le determinazioni in generale non sono tanto indistinte quanto “complicate” (complexio oppositorum). 119 caos dei primordi. Questo spirito corrisponde a quella componente della psiche che non è ancora stata assimilata alla coscienza e la cui trasformazione e integrazione rappresentano per gli alchimisti il risultato di un Opus lungo e faticoso”339. 1.3_Coscienza e inconscio Natura e Spirito Come osserva Mario Trevi, nel passaggio da una psicologia del sospetto (Freud) ad una psicologia della diffidenza (Jung) il rapporto tra coscienza e inconscio subisce un scarto significativo: “quella “falsa coscienza”, di cui il sottile margine della coscienza critica deve sospettare, si rivela della stessa sostanza della coscienza critica; cade la dicotomia radicale tra verità della pulsione e falsità dell’Io, tra purezza incontaminata della natura e menzogna della cultura, tra nettezza dell’inconscio nelle sue determinazioni assolute e impurità della coscienza nelle sue tergiversazioni occultanti”340. Si direbbe che Jung, nell’accogliere le conseguenze della nietzscheana “morte del soggetto”, e quindi della sua decostruzione, riscopra ad un tempo l’inestimabile valore della coscienza riflessiva quale specchio inverante della totalità cosmica e psicologica, quale strumento che dona l’esistenza attuale alla realtà evanescente del sogno. La psicologia del profondo non è soltanto una psicologia dell’inconscio, bensì proprio in quanto psico-logia non può essere pensata al di fuori 339 Ibid., pp.187-88. Mario Trevi, Per una valutazione critica dell’opera di Jung, p.5. Secondo Trevi in questo modo Jung esce dal dualismo radicale, di stampo schopenhaueriano, tra l’immediatezza degli impulsi e la mediatezza cosciente. La teoria dei complessi pone un confine elastico e discontinuo tra i due territori. Cfr. Jung, Considerazioni generali sulla teoria dei complessi (1934), OC VIII. 340 120 della polarità dialettica di coscienza e inconscio341. Questa è la coppia fondamentale di “opposti” psichici – si tratta tuttavia di comprendere in che senso essi siano opposti. Come risulterà chiaro di seguito, la strutturazione della psiche junghiana, che precede di diversi anni la stesura del Mysterium coniunctionis corrisponde sostanzialmente alla struttura degli opposti alchemici. Trevi coglie chiaramente, come la distanza di Jung dal padre della psicanalisi, e quindi la diversa concezione del rapporto tra coscienza e inconscio, si determini a partire dalla problematica espressamente antropologica del rapporto tra natura e cultura: “Per la prima volta, pertanto, si inverte il rapporto tra individuo e cultura: questa non deve essere considerata solo come un grande schermo ricettivo su cui inesorabilmente e ripetitivamente vengono proiettate le dolorose “figure” del travagliato passaggio dell’individuo dalla naturalità dell’infanzia alla norma civile e collettiva della vita adulta, bensì (anche) come un processo multiplo di straordinaria complessità e relativa autonomia che si riflette nella vita immaginale dell’individuo”342. Questo nesso tra psicologia e antropologia è anche, tra l’altro, il nucleo autentico ed originario attorno al quale si costruisce la teoria junghiana del simbolo343. 341 Mario Trevi, Una polarità implicita nel pensiero di Jung, pp.295-303: “La polarità di conscio e inconscio è il primo porsi del principio dialettico nella ricerca psicologica”, p. 301. 342 Mario Trevi, Per una valutazione critica dell’opera di Jung, p.13 sgg: le lettere di Jung a Freud tra il ’10 e il ’12 “documentano del sorgere di un’intuizione della vita psichica irriducibile alla dialettica bipolare di natura e cultura, di pulsione e repressione, di rimosso e ritorno del rimosso. Per la prima volta il sospetto viene portato sul sospetto, per la prima volta la pietra angolare dell’Edipo viene sospettata di essere solo un’ingegnosa e brillante metafora della regressione e dell’insopprimibile desiderio di permanenza dell’uomo nello stato alveare e protetto dell’infanzia”. 343 Mario Trevi, Simbolo, progetto, utopia, p.71 sgg. La vera inconsapevolezza che Jung attribuisce al padre putativo è circa gli inevitabili presupposti antropologici della sua dottrina. Questa è, secondo Trevi, “la vera critica di Jung a Freud”. Si veda anche la limpida analisi di Silvia Montefoschi, Jung, un pensiero in divenire, p.13 sgg. 121 Risale dunque già all’Energetica psichica (1928) il riconoscimento della contrapposizione che secondo lo psicologo svizzero sta alla base della vita psichica. Da un lato sono le espressioni risultanti da una “eccedenza libidica”, ovvero “attività che vanno definite specificamente attività culturali, in antitesi con le funzioni istintive che procedono secondo leggi naturali”344. Questa polarità è l’espressione energetica del conflitto tra la coscienza e l’inconscio, che è sorto con la coscienza stessa e che ha determinato il destino dell’animale-uomo345. Per Jung coscienza e inconscio si polarizzano reciprocamente, e sotto questo aspetto le sue concezioni coincidono con quelle di Freud. Non è così però per quanto concerne la polarità di spirito e materia, giacché il padre della psicanalisi credeva soltanto a un fondamento materiale dei processi psichici. Per quest’ultimo, infatti, l’energia psichica si caratterizzava essenzialmente come libido sessuale346. Per quanto si voglia ridurre la componente spirituale a quella materiale, sia su un piano teorico che su un piano esistenziale, questa tende a reimporsi. Per questo – sostiene Jung – siamo costretti ad ammettere che “il principio spirituale (qualunque cosa sia) si impone con forza inaudita contro il principio puramente naturale. Si può anzi dire che anch’esso è “naturale” e che entrambi i principi scaturiscono da una medesima “natura”. Non metto assolutamente in dubbio questa origine, ma devo far rilevare che questa cosa “naturale” consiste in un conflitto tra due principi a cui si può dare questo o quel nome, secondo i propri 344 Jung, OC VIII, Energetica psichica, p.57. Silvia Montefoschi, Jung, un pensiero in divenire, p.22 sgg. 346 Ibid., p.59 sgg. Nel distacco da Freud è in gioco un’altra coppia polare di concetti: causalità e finalità. Accanto all’approccio causale riduttivo Jung introdusse quello prospettico-finalistico. Cfr.Mario Trevi, Per uno junghismo critico, III, “Individuazione e funzione simbolica”: la nozione di fine “svelleva di colpo la psicologia dal tronco delle scienze della natura su cui il positivismo l’aveva faticosamente costituita”. 345 122 gusti, e che questo contrasto è l’espressione e forse anche il fondamento di questa tensione che definiamo come energia psichica”347. La cultura è il risultato di un ri-piegamento dell’istinto su se stesso. Nulla si adatta meglio a questa concezione del celebre detto ermetico: “la natura contiene la natura oltre la natura” (phisis yper physim). Questo processo, che altro non è che la riflessione della coscienza, inaugura il conflitto tra l’ambito istintuale e quello del senso. La spontanea immediatezza della natura si oppone alla componente attiva e creativa dello spirito: “Alla molteplicità e allo smembramento contraddittorio si oppone un’unità integratrice la cui forza è grande quanto quella delle pulsioni. Anzi, entrambe le parti formano per così dire una coppia di contrari necessaria all’autoregolazione, coppia che è stata spesso definita nei termini di natura e spirito. Alla base di questi concetti stanno condizioni psichiche tra le quali la coscienza dell’uomo oscilla come l’ago di una bilancia”348. Il processo riflessivo è il movimento ad un tempo negativo e positivo che rende possibile la relativa autonomia della coscienza: ““Riflessione” non è da intendersi come un semplice atto mentale, bensì piuttosto come un comportamento. Riflessione è una riserva della libertà umana di fronte alla costrizione delle leggi naturali. Come dice la parola reflexio, cioè “ripiegamento”, nella riflessione si tratta di un atto spirituale in senso contrario al corso della natura, cioè un fermarsi, un riconoscersi, un “proiettare immagine”, un intimo riferimento e 347 Jung, OC VIII, Energetica psichica, p.62. Jung, Energetica psichica, p.60. La cultura rappresenta l’ambito della mediazione, mai da considerarsi autonomo da quello dell’immediatezza. L’immediatezza naturale è propriamente ciò da cui la mediazione culturale si emancipa. Alla base di questa dinamica stanno i processi di progressione e regressione dell’energia psichica, cfr. ibid. pp. 40 sgg. Del resto Jung aveva trattato della “dislocazione della libido” e della costituzione del simbolico già nei Simboli della trasformazione, pt.2, cap.3; e nei Tipi psicologici, “Definizioni”. 348 123 una spiegazione con l’oggetto contemplato. Riflessione si deve quindi intendere come un atto del divenire cosciente”349. L’auto-riflessione è in un certo senso il peccato originale e l’atto di nascita della coscienza: è la sua astrazione originaria. Prima ancora di astrarre (separare, isolare) determinati contenuti da altri, la coscienza finita astrae se stessa dalla Totalità, si considera autonoma ed assoluta. Ma è solo attraverso questa negazione del Tutto che essa si de-termina ed acquisisce la positiva capacità di de-terminare. La linea astratta della coscienza disegna, con arbitraria necessità, i contorni indecidibili delle determinazioni. Gli stessi archetipi, i fondamentali elementi architettonici della psiche, sono strutture bipolari. Da un lato essi si confondono e trapassano in processi fisiologici che portano a formulare l’ipotesi di un inconscio psicoide; dall’altro trapassano in processi in cui prevale la componente spirituale (come ad esempio i fenomeni paranormali), e che ne dimostrano empiricamente l’autonoma sussistenza: “A dispetto, o forse proprio a causa della sua affinità con l’istinto, l’archetipo rappresenta l’elemento proprio dello spirito; di uno spirito tuttavia che non si identifica con l’intelletto dell’uomo ma ne rappresenta lo spiritus rector”350. 349 Jung OC XI, Interpretazione psicologica del dogma della Trinità, p.157 e nota 9. Sembra quasi il mito di Narciso, ma ancor prima è il mito della gnostica Sophia, nelle sue numerose versioni. Sophia, la conoscenza, è l’ultimo degli eoni, che inseguendo la propria immagine spezza l’originaria unità del pleroma divino, e viene avvinta dalla physis. E’ la diabolica hybris della parte, che nega la totalità (se ne astrae), e pone se stessa come assoluta. Ma si veda anche la concezione dello Spirito Santo come effetto della riflessione tra Padre e Figlio, sempre a p.157. 350 Ibid., Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, p.223-224: “Archetipo e istinto formano i massimi opposti pensabili, e lo si può costatare facilmente paragonando un uomo dominato dall’istinto con un uomo dominato dallo spirito. Ma come tra tutti gli elementi contrari sussiste un rapporto così stretto che non è possibile né trovare né pensare una posizione senza il suo correlativo negativo, anche in questo caso è valido l’assioma: “les extrèmes se touchent”. In quanto correlativi i due opposti formano un tutt’uno, e non già nel senso che l’uno possa venire dedotto dall’altro, ma nel senso che ciascuno coesiste accanto all’altro come nelle rappresentazioni che ci facciamo a proposito dell’antitesi che è alla base dell’energetismo psichico. [...] Le antitesi naturali vanno 124 Io e Sé Per Jung la “psiche” consiste in una totalità (Ganzheit) di coscienza ed inconscio, di cui questi costituiscono rispettivamente il lato luminoso ed il lato oscuro. La “coscienza” è l’aspetto immediatamente manifesto della psiche ovvero quella funzione complessa espressa dall’attività del pensiero, dal volere, dal deliberare, dall’avvertenza egoica e tutte le caratteristiche della dimensione “diurna”. Per coscienza Jung intende il riferimento dei contenuti psichici all’Io, e quindi quel sistema di conoscenza in cui l’individuo ripone la propria identità. Per “Io” egli intende un complesso di rappresentazioni che per l’uomo costituisce il centro del campo del conscio351, per cui si parla anche di “complesso dell’Io”. Il complesso dell’Io è tanto una condizione che un contenuto del conscio352. In quanto condizione funzionale della personalità totale esso è mediatore dei conflitti: nel suo riferimento all’esterno si configura come Persona, e nel suo riferimento all’interno come Funzione animica: “Dapprima, a dire il vero, si affermano solo le esigenze incompatibili esteriori ed interiori, e l’Io sta frammezzo, come fra l’incudine e il martello”353. Secondo Jung il Crocefisso è certamente l’espressione simbolica più adeguata di questa situazione psichica: esso rappresenta la lacerazione dell’Io di fronte agli opposti, che è la condizione preliminare di ogni processo di individuazione. Il considerate da un punto di vista analogo a quello delle scienze naturali. Le antitesi reali non sono affatto incommensurabili, perché se lo fossero non potrebbero mai unificarsi; a dispetto di ogni opposizione rivelano sempre la tendenza a unificarsi, e Nicolò Cusano ha definito Dio stesso una complexio oppositorum”. Cfr. Andrew Samuels, Jung e i neo-junghiani, p.58-59: “Gli archetipi esprimono la polarità intrinseca degli aspetti positivi e negativi dell’esperienza delle emozioni”; anche la von Franz, Psiche e materia, p.9-11, ha svolto un’analisi accurata degli archetipi nel loro inserirsi tra i poli speculari di materia e spirito. 351 Jung, OC VI, Tipi psicologici, p.468. 352 Ibid., p.433 e 468. 353 Jung, L’Io e l’inconscio, Corpus junghiano minore, p.111. 125 realizzarsi del processo di individuazione significa che attraverso la crocifissione simbolica l’Io ha saputo rispondere all’istanza dell’inconscio ponendosi come soggetto unitario dinnanzi al proprio oggetto. L’individuazione è in primo luogo una questione d’integrità. Per un secondo aspetto, tuttavia, l’Io è pure uno dei termini in conflitto. E’ l’aspetto per cui si costituisce unilateralmente come punto di riferimento di tutte le rappresentazioni consce, ma per cui si costituisce anche una sorta di alter-ego: l’Ombra354, di cui si è trattato approfonditamente all’inizio del presente capitolo. Il terzo aspetto è il più problematico, e costituisce un’altra polarità fondamentale della vita psichica, in quanto specifica ulteriormente la polarità di coscienza e inconscio: l’“asse IoSè”355. Quest’ultimo esprime il conflitto dell’uomo come soggetto e l’uomo come oggetto, l’uomo come condizionato e l’uomo come arbitro e padrone della propria esistenza: “E’ qui che entra in gioco il terzo aspetto dell’Io , che coincide con il momento in cui l’uomo, prendendo distanza dalla globalità del suo esserci per riflettere su di esso, sperimenta la libertà di disporre della propria energia e di deciderne il destino. Poiché tale destino coincide con quello del Sé, la libertà dell’uomo è infine quella di dire sì oppure no al divenire creativo della vita, di cui il Sé è espressione”356. Il “Sé” indica generalmente il centro virtuale della psiche inconscia357, ma in certi casi ha anche il significato di totalità 354 Cfr. Silvia Montefoschi, Jung, un pensiero in divenire, pp.41-42. Quest’espressione è stata coniata da Erich Neumann (1959), ma è stata ripresa da E.F. Edinger (1960, 1972). Cfr., A. Samuels, Jung e i neo-junghiani, pp.194 sgg. 356 Silvia Montefoschi, Jung, un pensiero in divenire, pp.42-43. 357 Jung, L’Io e l’inconscio, p150 sg. Mi riferisco all’edizione del Corpus junghiano minore. 355 126 della psiche. Secondo Jung è una complexio oppositorum358, ed è indissolubilmente connesso con la scoperta del significato e del destino della vita individuale: è infatti spesso paragonato all’idea indiana di Atman personale o sovrapersonale. Esso costituisce una prefigurazione inconscia dell’Io, da cui quest’ultimo sorge differenziandosi. Come la coscienza al suo sorgere, o come il sol alchemico, l’Io si contrappone da subito al Sé: ne ha luogo una dialettica infinita che è il motore più intimo dell’individuazione psicologica. D’altronde, nel rapporto con il Sé, la funzione dell’Io è ad un tempo pienamente svalutata e rivalutata. Da una parte la coscienza dell’Io rivela il suo carattere finito, parziale (decentramento dell’Io). Essa è sorta infatti differenziandosi dall’inconscio, e quindi ha in parte reciso i nessi con la propria origine e matrice: “L’Io è l’unico contenuto del Sé che conosciamo. L’Io individuato si sente oggetto di un soggetto ignoto e superiore”359 La coscienza dell’Io è una coscienza finita non solo in quanto è cosciente solamente di una parte della totalità, ma anche in quanto tende a perdere consapevolezza del legame originario e necessario che al Tutto la lega. D’altra parte l’Io diviene in qualche modo lo “specchio” in cui il Sé coglie il proprio volto, lo schermo su cui la soggettività trascendentale oggettiva se stessa e, oggettivandosi, si realizza. In questa accezione la riflessione dell’Io è un processo di autooggettivazione della totalità psicologica: “Quindi si potrebbe anche definire l’Io come una personificazione relativamente 358 Andrebbe chiarito il significato della complexio oppositorum: per quanto sia al centro della psiche inconscia o indifferenziata non bisogna pensare che nel Sé gli opposti sussistano in uno stato di indistinzione o di reciproco annullamento. Piuttosto gli opposti vi sono ripiegati, complicati (complicatio), ad un tempo differenziati e indifferenziati: attualmente indifferenziati, virtualmente differenziati. Per questo il Sé è virtualmente l’Io individuato, costituisce nel suo essere complesso un’implicita anticipazione della personalità differenziata. 359 Ibid., p.163. 127 costante dell’inconscio o come lo specchio di Schopenhauer in cui l’inconscio scorge il proprio volto. Tutti i mondi primordiali precedettero fisicamente l’uomo. Accadimento senza nome, e non già esistere determinato; mancava infatti ancora quella minima concentrazione della psiche, che pronunciò la parola importante quanto l’intera creazione: “Questo è il mondo e questo sono io”. Fu il primo giorno del mondo... quando l’Io, complesso capace di coscienza, separò soggetto e oggetto, attribuendo così a se stesso un esistere determinato”360. Sotto questo aspetto è facilmente comprensibile il senso del ruolo creatore della coscienza finita. Essa è questo stesso porre i propri oggetti, che nasce separando sé come soggetto dai propri oggetti; è attività ri-flettente che pone i suoi contenuti come esistenti; è attività de-terminante del fondo indeterminato della psiche, della totalità naturale, se non addirittura della totalità divina361. In Risposta a Giobbe (1952) è infatti delineata in qualche modo una contrapposizione (inconsapevolezza) di Dio, e tra la la naturale consapevolezza agnosia umana rappresentata da Giobbe. Qui la coscienza riflettente è posta non più semplicemente di fronte al Sé, quanto di fronte alla totalità divina: pur nella sua miseria e finitezza, essa ha al cospetto di Dio il vantaggio della consapevolezza, la quale costituisce il proprium dell’essere umano in quanto tale. In ciò la coscienza dell’Io assume il ruolo positivo di pars pro toto e immagine stessa di Dio. L’umana consapevolezza riflette la divinità, è quello 360 Jung, OC XIV, p.105-106. Jung, OC X, p.124; Ricordi, p.288. Ciò porta a comprendere, per esempio, la paradossale identificazione dell’Io con Dio nella filosofia indiana: “Lo spirito indiano si è accorto a suo modo dell’importanza universalmente creatrice della coscienza che si manifesta nell’uomo”, OC XIV, cap.1, par.2, cit. in von Franz, Il mito di Jung, p.49. 361 128 specchio differenziante che realizza il mistero dell’Uno nelle determinazioni molteplici. In quest’insolita prospettiva il dialogo tra coscienza e inconscio può essere inteso come una contrapposizione tra parte e totalità, soggetto e oggetto. E’ una dialettica in cui le strutture della coscienza e quelle dell’inconscio si riflettono reciprocamente362, spesso invertendo la propria funzione. Infatti l’Io, nella sua relazione al Sé, può anche essere inteso come il soggetto di fronte all’oggetto (“l’inconscio è l’oggetto” e “ciò che è inconscio viene proiettato”!). In un primo momento l’oggetto non è che l’Ombra del soggetto (Io). Il processo di individuazione che si attua nella dialettica Io-Sé significa anche l’inversione di questo rapporto: l’oggetto rivela la propria soggettività (ritiro della proiezione, nigredo), ed il soggetto si rivela essere oggetto di una soggettività superiore e più ampia (Sé). Anzi, l’lo diviene la stessa auto-oggettivazione (ri-flessione, albedo) della Totalità psichica, attraverso la quale il Sé si realizza (rubedo). L’inconscio junghiano nel senso forte decentra dunque l’Io empirico a favore della soggettività trascendentale del Sé, Quest’ultima, infatti, non è semplicemente un’altra coscienza empirica – non è un’altro Io e nemmeno un Tu: piuttosto è un Sé. Questo terzo che determina il dialogo tra prima e seconda persona è qualcosa di molto simile ad una mente naturale (natural mind)363, ad un logos superiore ai molteplici logoi infrapsichici ed interpsichici – un “sovraconscio”, ovvero una coscienza più ampia ed estesa364. 362 Marie Louise von Franz, Il mito di Jung, p.48 sgg. Nei Ricordi Jung attribuisce una natural mind persino alla figura di sua madre. 364 Jung, OC VIII, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, p196-197. 363 129 Il Sé è pertanto una totalità che trascende il cerchio concluso della coscienza e smaschera la parzialità della sua hybris. L’inconscio comprende la coscienza come un cerchio maggiore include un cerchio minore o, secondo un immagine dello stesso Jung, è un’isola nel mare dell’inconscio. L’Io è soltanto una parte emergente di una coscienza ignota e superiore, per cui in certo modo sta in rapporto con il Sé come la parte sta in rapporto alla totalità. Concezione stratigrafica E’ tuttavia in saggi quali L’io e l’inconscio (1928), La struttura della psiche (1927/1931) e soprattutto Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche (1947/1954), che Jung giunge a presentare un modello strutturale della psiche. In realtà lo psicologo espone come sua consuetudine diversi modelli teorici, potenzialmente riconducibili ad una concezione unitaria, ma che comportano un notevole scarto nel passaggio dall’uno all’altro. A tutta prima la questione strutturale del rapporto coscienzainconscio è indistricabile dalla problematica epistemologica, ovvero dal problema della conoscibilità dell’inconscio: infatti la sua conoscenza presuppone in ogni caso la mediazione della coscienza365. Jung ammette che la psiche inconscia rappresenta soltanto un limite estremo: l’inconscio in quanto tale non è direttamente accessibile alla nostra osservazione, altrimenti non sarebbe inconscio. Tuttavia – ribatte – la sua esistenza può venir dedotta dalla presenza di un’attività inconscia: “Della psiche fa parte anche l’inconscio. E’ lecito, per analogia con i vari contenuti della 365 Jung, La struttura della psiche, p.162. 130 coscienza parlare di contenuti dell’inconscio? In tal modo noi dovremmo per così dire, postulare un’altra consapevolezza dell’inconscio, [o perlomeno limitarci] al quesito se nell’inconscio possiamo distinguere qualcosa oppure no”366. Se noi siamo in grado di distinguere “qualcosa” nel lato non manifesto della psiche significa che esso non è qualcosa di indeterminato tout court, ma al contrario sussiste in esso una certa determinatezza. Questa determinatezza, se esiste, non può essere altro che il frutto dell’attività dirimente di una coscienza, che riflettendo l’oggetto lo pone e lo determina come un contenuto esistente. L’esistenza dell’inconscio è dunque deducibile da un’“attività”367 e da contenuti che non sono il prodotto della coscienza dell’Io. Tale attività non è direttamente accessibile ma si manifesta indirettamente nei sogni e negli stati patologici della psiche. Essa non appare, ma è come se fosse presente – è presente come un’altra “consapevolezza”368. Quindi è di due coscienze che si tratta, ma non nel senso patologico della schizofrenia. Piuttosto una coscienza è riferita all’Io; mentre l’altra si riferisce a ciò che altrove Jung chiama Sé: è propriamente coscienza della totalità. Supporre un soggetto dei processi inconsci significa porre una “coscienza dell’inconscio”, ipotesi che sembra essere avvalorata, tra l’altro, dall’esistenza di atti di volontà inconsci369. Questo significa che anche il fondo istintuale e immediato dell’inconscio, in quanto strato relativamente autonomo e 366 Ibid., p.163. Nel lessico junghiano “attività” corrisponde sempre in qualche modo a “coscienza”, ovvero ad un centro direttivo, una volontà ed un’azione ordinatrice 368 Jung usa qui il termine “consapevolezza” per distinguere in qualche modo l’attività dell’inconscio da quella della coscienza dell’Io. Ma è pur sempre una forma di coscienza, di attività direttrice, per quanto più debole. 369 Jung, OC VIII, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, p192. 367 131 concluso, contiene un barlume del suo opposto: l’attività mediatrice riflettente. La visione junghiana disloca in questo modo il soggetto monoliticamente cosciente su vari livelli – anche la coscienza come l’inconscio non è una struttura o un’essenza ma una funzione di relazione multipla e complessa. Il riconoscimento dell’attività riflettente e dirimente come propria non soltanto della coscienza manifesta dell’Io, ma anche di altri processi psichici370, spezza il rigido dualismo di coscienzainconscio ed apre la via ad una concezione più complessa della psiche. La problematica epistemologica induce ad introdurre una concezione del rapporto coscienza-inconscio modulata secondo differenti gradi di consapevolezza. La problematica degli opposti trova dunque una nuova inquadratura nel modello “stratigrafico”371, dove emerge più chiaramente il parallelismo con la concezione alchemica. La struttura della psiche è infatti un’eredità filogenetica che reca in sé i segni della propria evoluzione. Pertanto, dal punto di vista dei contenuti, in essa è rinvenibile una vera e propria stratificazione storica372. Dal punto di vista formale si possono distinguere invece tre strati principali: la coscienza, l’inconscio personale, e l’inconscio collettivo373. Questi tre strati crescono dal basso in alto e stanno ad indicare una crescente differenziazione della personalità374. Giunti a questo punto “possiamo tentare di sostituire una diversa concezione che, fondata sui livelli di profondità, intenda 370 Jung, L’Io e l’inconscio, p.35. Jung, OC VIII, La struttura della psiche, pp.163 sgg. Cfr.G.Rocci, Jung e il suo daìmon, p.85 sgg. 372 Jung, Ricordi, p.266, p.320; XI, p.299. 373 Jung, OC VIII, La struttura della psiche, pp.170-171. La coscienza è limitata all’attualità del presente, mentre la psiche più profonda perde via via i caratteri della temporalità (atemporalità dell’inconscio). 374 G.Rocci, Jung e il suo daìmon, pp. 89 sgg.: in questo modo la psiche è anche inserita in una prospettiva evolutiva. 371 132 conscio e inconscio non come due dimensioni contrapposte, bensì come un andare da livelli più alti, caratterizzati dalle attribuzioni della razionalità, a livelli più profondi, perché filogeneticamente e storicamente più antichi...”375. Seguendo le indicazioni di Giovanni Rocci, la visione junghiana della psiche si complica notevolmente, ma ci consente di comprendere “la presenza in ogni strato della psiche di quelle dimensioni che vengono denominate “coscienza” e “inconscio”: la differenza non è qualitativa ma consiste quantitativamente nella maggiore intensità delle qualità che caratterizzano la dimensione detta “notturna” o quella detta “diurna””376. Certamente negli strati più elevati, ovvero nell’ambito della coscienza, prevarrà la componente libera, logica e dirimente, e i contenuti risulteranno maggiormente differenziati. Viceversa la componente diurna sarà presente con minore intensità mano a mano che si scende negli strati più profondi della tettonica psichica. Nell’avvicinarsi alla physis o al Sé prevarrà la componente passiva e necessitante377, ed i contenuti saranno difficilmente distinguibili l’uno dall’altro. Tuttavia la gradualità del passaggio da coscienza a inconscio non significa in alcun modo la loro continuità riducibile ad un unico principio ed alla sua privazione. Piuttosto va tenuta ferma la dinamica tensionale ed opposizionale secondo cui pur sempre gli opposti sussistono nella loro radicalità. Coscienza e inconscio non sono mai, in ultima analisi, nettamente distinguibili. Sono concetti relativi, per cui non si può nominare uno senza chiamare in causa anche l’altro: “Si giunge 375 Ibid., p.92. Ibid., p.93. 377 La coppia necessità-libertà è un’altra chiave del rapporto coscienza-inconscio. Cfr. Mario Trevi, Per uno junghismo critico. 376 133 così alla conclusione paradossale che non esiste contenuto della coscienza che sia inconscio sotto un altro aspetto. E forse non esiste neppure psichismo inconscio che non sia al tempo stesso conscio”378. La stessa coscienza mostra varie gradazioni al suo interno per cui, ad esempio, tra “io faccio” e “io sono cosciente di ciò che faccio” corre una differenza abissale379. Abbiamo visto inoltre come l’Io porti con sé la propria Ombra, per cui si deve ammettere che il massimo vertice di consapevolezza si rovescia immediatamente in un’oscura inconsapevolezza. E più la luce della coscienza è viva, più per contrasto si farà nera e profonda la sua ombra: possiamo dunque paradossalmente affermare che “l’Io è inconscio”. Questa affermazione, tra tutte le interpretazioni possibili significa anche che l’Io non è centrale né autonomo nella vita della psiche. Esso è piuttosto solamente il polo luminoso in correlazione necessaria con quello oscuro. L’illusione della coscienza ci porta a credere di essere i protagonisti assoluti della nostra vita, mentre la consapevolezza della relatività dell’Io ci porta a comprendere che “Non sono io che vivo, ma è la vita che vive me”380. Sennonché nemmeno l’inconscio è semplicemente inconscio. Anche lo strato più profondo della psiche è in ogni caso caratterizzata da una seppur minima attività ordinatrice. A partire da queste considerazioni l’inconscio si rovescia in una coscienza superiore, una psiche oggettiva di cui l’Io è solamente parte. 378 Jung, OC VIII, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, pp.206-207. Ibid., p.206. 380 Jung, OC XIII, p.61. 379 134 Opposizione complessa La coppia fondamentale che caratterizza la vita psichica non è da considerarsi come una coppia di opposti semplici. La loro struttura tensionale è ben più complessa della mera opposizione tra due principi. Coscienza e inconscio non operano su un medesimo piano o livello, ma sono essi stessi strutturati su livelli diversi, in cui giocano diverse gradazioni di opposti. Ad una opposizione “verticale” fa da controcanto una opposizione “orizzontale”: come ogni totalità anche la psiche risulta ben rappresentata da una struttura quaternaria. In realtà lo schema coscienza-incoscio è una notevole semplificazione della struttura psichica, e come tutte le semplificazioni va incontro a gravi inconvenienti (tra l’altro l’espressione della psiche come struttura è una formula euristica, che astrae dalla processualità che le è propria: la psiche è relazione, e come tale è divenire, processo, trasformazione). E’ per questo che le parole “conscio” e “inconscio” non andrebbero mai intese in senso sostantivale quanto aggettivale. L’inconscio non è un qualcosa, non è una sostanza a cui si applichino delle variazioni: è piuttosto in senso assoluto una qualità, un modo d’essere di tutto ciò che è inconscio. Lo stesso dicasi per la coscienza. Qui giuoca un ruolo centrale la valenza funzionale del costrutto concettuale della psicologia analitica, i cui concetti non possono essere ipostatizzati: “Le due “realtà”, il mondo della coscienza e il mondo dell’inconscio, non si contestano il primato, ma si rendono reciprocamente relative. Che la realtà dell’inconscio sia assai relativa, è cosa che non susciterà molte obiezioni, ma che la realtà del mondo della coscienza possa 135 essere tratta in dubbio, è cosa che pochi tollerano. Eppure entrambe le “realtà” sono esperienza psichica, apparenza psichica, sopra sfondi irriconoscibilmente oscuri. Di fronte a un’indagine critica nulla resta di una realtà assoluta”381. Dato il carattere dell’opposizione di coscienza e inconscio l’indagine di Jung sfocia in un ulteriore modello della psiche: in essa gli opposti non si contrappongono ma nel rapportarsi reciproco si intrecciano in un’immagine complessa e frastagliata (complexio oppositorum). La psiche è in realtà una soggettività multipla, costellazione, arcipelago382. Quest’ultimo modello complesso, che può forse essere considerato come l’interpolazione di tre o quattro diverse concezioni (la psiche come realtà bipolare tra istinto e spiritualità, natura e cultura; la concezione energetica; la concezione stratigrafica), rappresenta l’esito più estremo delle riflessioni junghiane. La coscienza non è dunque un’unica isola nel mare dell’inconscio, un’unica luce nell’oscurità: essa è piuttosto arcipelago, costellazione. Si ricordi ad esempio che nella psicologia analitica gli archetipi sono analoghi a costellazioni, e nel linguaggio junghiano “si costellano” ogniqualvolta diventano attivi. Immagini analoghe abbondano nella simbologia alchemica e non: i mundi futuri seminarum di Khunrath, la teoria del lumen naturae, il firmamento interiore di Paracelso, il cielo stellato di Kant, etc: “Visioni di questo genere vanno certo intese come intuizioni introspettive che colgono lo stato dell’inconscio, e al tempo stesso come assimilazione dell’idea centrale cristiana. Come è ovvio lo stesso motivo compare con lo stesso significato 381 382 Jung, L’Io e l’inconscio, pp.136-137. Jung, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, pp.208 sgg. 136 anche in sogni e in fantasie moderne [...] Poiché la coscienza è caratterizzata da tempi immemorabili da espressioni derivate da fenomeni luminosi, a mio parere non è azzardato supporre che le luminosità multiple corrispondano a piccoli fenomeni della coscienza”383. Ancora una volta sono le immagini della tradizione simbolica a dare la risposta ultima ai problemi della psiche. 1.4_ La dinamica degli opposti Concezione dinamica e antinomie Se nelle pagine precedenti si è presentata una descrizione della psiche come struttura, va tuttavia precisato che essa è in primo luogo un processo, un divenire384. La totalità psichica, scrive Jung, è “l’idea di un essere paradossale”. Ciò che si intende con “totalità” psichica non è infatti la semplice somma di conscio e inconscio, ma la loro relazione: la psiche è un organismo dinamico e relazionale385. E’ soprattutto in questo quadro che va intesa la configurazione delle sue opposizioni fondamentali. Mario Trevi osserva come la concezione junghiana dell’inconscio eluda l’aut-aut contemporaneo di struttura e processo386. La psiche è una struttura che si identifica solo divenendo, e viceversa il suo divenir-altro è un paradossale processo in cui si perviene alla propria natura più intima, in cui si “diviene ciò che si è”. Allora possiamo accettare “il paradosso – così scandalizzante per i più – per cui lo psicologo dei modelli 383 Ibid., p.216-217. Si veda il saggio illuminante di Mario Trevi, Struttura e processo nella concezione junghiana dell’inconscio; e il lavoro di Silvia Montefoschi, Jung, un pensiero in divenire. 385 E.G.Humbert, Carl Gustav Jung, p.76 sgg. 386 Mario Trevi, Struttura e processo nella concezione junghiana dell’inconscio, pp.526 sgg. 384 137 inalienabili dell’inconscio collettivo, e lo psicologo delle forme tipologiche originarie è anche lo psicologo della “metànoia”, della radicale trasformazione individuante”387. Nel medesimo contesto va inteso il carattere antinomico dei concetti cardinali del pensiero di Jung: “Ogni affermazione attorno a una cosa che non è di per sé direttamente conoscibile deve essere necessariamente antagonistica”. La descrizione della complessità psichica necessita l’enunciazione di molteplici antinomie388. Più in generale il padre della psicologia del profondo sottolinea la particolare congiuntura epistemologica che porta al prodursi di un’articolazione antinomica. Le nostre affermazioni intellettuali prendono forma di antinomia soltanto quando ci si trovi nella necessità di accordare la condizione di esistenza a qualcosa di cui si fa esperienza ma di cui non c’è un sapere: “Ogniqualvolta l’intelletto umano vuole fare delle affermazioni che non ha compreso e non può comprendere, è costretto – se procede rettamente – a creare una contraddizione, a spezzare cioè quel quid nei suoi elementi opposti, per poterlo conoscere in qualche misura. Il conflitto tra l’aspetto fisico e l’aspetto spirituale è soltanto prova del fatto che la realtà psichica è in definitiva qualcosa di inafferrabile. “Qualche cosa” c’è. Essa è l’unica nostra esperienza immediata”389. Le antinomie psichiche rispecchiano in ultima analisi la fondamentale antinomia epistemologica per cui la psiche è ad un tempo il soggetto e l’oggetto del conoscere psicologico: come la mancata presa di coscienza dei contrari porta al conflitto psichico 387 Ibid. Jung, OC XVI, Principi di psicoterapia pratica. 389 OC VIII, Il problema fondamentale della psicologia contemporanea, pp.378 sgg. 388 138 ed alla dissociazione, così l’elusione della fase antinomica condurrebbe inevitabilmente alla lacerazione del suo tessuto epistemologico390. Nel saggio sull’Energetica psichica (1928), ad esempio l’antinomia di sostanza e sistema energetico, come quella di causalismo e finalismo, è “superata” con un postulato antinomico391. Il prevalere dell’una o dell’altra visione – precisa Jung – dipende non tanto dal comportamento oggettivo delle cose quanto dall’atteggiamento psicologico del ricercatore, dalla sua “equazione personale” (vedi Tipi psicologici). Ma questo postulato non va inteso come una rassegnata posizione relativista, bensì ne costituisce il superamento in un principio autenticamente dialettico392. Energetica psichica Del resto la considerazione della vita psichica da un punto di vista energetico porta già con sé un concetto di polarità, di un contrasto tra valori opposti. Non c’è energia se non c’è differenza di potenziale: tra i poli di quel sistema vivente che è la psiche sussiste una tensione che si manifesta sotto forma di accadimenti psichici. La libido, l’energia psichica si sposta pertanto per caduta da un valore al suo contrario, seguendo sia un moto progressivo sia un moto regressivo: “Il decorso energetico ha una direzione definita (fine), in quanto segue invariabilmente (inevitabilmente) la differenza di potenziale. L’energia non è da concepirsi come una sostanza che si muove 390 Cfr. P.F. Pieri, voce “Antinomia”, del duo Dizionario junghiano. Jung, OC VIII, Energetica psichica, pp.32-33. 392 Mario Trevi, Una polarità implicita nel pensiero di Jung, p.281 sgg. 391 139 nello spazio; essa è piuttosto un concetto astratto delle relazioni di moto”393. Il moto progressivo riceve la sua direzione dalla coscienza e consiste nell’adattamento dell’uomo alle esigenze ambientali. A questo scopo è essenziale l’adeguata risoluzione dei conflitti mediante l’inserimento, il coordinamento dei contrasti. Ad ogni modo l’atteggiamento consapevole richiesto dall’adattamento porta all’inconsapevole rifiuto di altre caratteristiche incompatibili con la circostanza ambientale. Ne consegue quasi sempre un irrigidimento, una perdita della capacità di adattarsi a nuove situazioni – stasi unilaterale dell’energia. I valori contrari che fino ad allora si erano compensati accentuano la loro opposizione. Le coppie di opposti coscienti tendono a scomporsi, e si verificano tentativi di rimozione di uno dei termini: qui sorge la possibilità di una nevrosi o di una dissociazione. Se la coscienza non interviene tempestivamente ad un certo punto si arresta il moto progressivo della psiche (regressione). Ciò non significa che il movimento energetico si arresti: piuttosto esso si trasferisce sulla psiche inconscia. Il valore degli opposti consci diminuisce, dando luogo ad una situazione di apparente stasi, mentre le caratteristiche di segno opposto a quelle con cui l’Io è identificato si caricano oltremodo. Così esse entrano, o rientrano, nell’ambito della consapevolezza dell’Io, dando a questo la possibilità di un rinnovato atteggiamento394. La progressione può finalmente riprendere: “A un’osservazione superficiale ciò che la regressione spinge in superficie non è che il fango e la sozzura che si agita nel fondo. 393 394 Jung, OC VIII, Energetica psichica, p.11. Jung, OC VIII, Energetica psichica, pp.41-44. 140 Ma se non ci si ferma a un esame e a una valutazione superficiali dei materiali così forniti, e si rinuncia anche a giudicare dalle apparenze, in base a opinioni dottrinarie e preconcette, si scoprirà che in questi materiali è possibile individuare non solo residui incompatibili e quindi respinti dall’esistenza quotidiana, o tendenze primordiali, incomode e riprovevoli dell’uomo animalesco, ma anche germi di nuove possibilità di vita”395. Va dunque precisato il carattere positivo della stessa regressione: progressione e regressione della libido non vanno quindi identificate come evoluzione e involuzione, ma sono, come dice Jung, “semplici movimenti vitali” nella dinamica compensatoria della psiche396. Dinamica della compensazione A partire dalla constatazione che i sogni producono un contrappunto dinamico della vita diurna, egli era pervenuto infatti alla conclusione che la funzione principale dell’inconscio fosse il bilanciamento ed il contrasto dell’atteggiamento cosciente. La prima situazione, il semplice bilanciamento, si osserva in un funzionamento psichico normale, mentre il contrasto è emblematico di un funzionamento nevrotico397. Con Jung la compensazione diviene una vera e propria legge che presiede all’equilibrio ottimale della vita psichica: “La vita psichica quale sistema autoregolantesi è equilibrata come la vita di un corpo, cosicché per ogni iperfunzione si determinano 395 Ibid., p.44. Silvia Montefoschi, Jung, un pensiero in divenire, pp.18-21. 397 P.F.Pieri, Dizionario junghiano, voce “Compensazione”. Come nota il Pieri il concetto di compensazione è strettamente connesso al problematicismo ed alla forma dialogica della psicoterapia. 396 141 tosto e necessariamente delle compensazioni: senza di ciò non potrebbe esistere un normale ricambio organico nè una psiche normale. In tal senso si può concepire il “principio di compensazione” come regola fondamentale del comportamento psichico in generale”398. Egli ha anche mostrato come, dal punto di vista psicologico, l’eccessiva insistenza su uno degli opposti provochi uno squilibrio tale che la situazione finisce per rovesciarsi nell’altro opposto. Oltre a definirsi reciprocamente, gli opposti possono anche costellarsi l’un l’altro: una forte luce comporta un’ombra più intensa, e viceversa. Ciò spiega quel fenomeno che, con un termine mutuato da Eraclito Jung chiama “enantiodromia”: è la spietata “corsa nell’opposto” che si verifica ogniqualvolta si assiste ad un’unilateralità dell’atteggiamento cosciente399. Tuttavia per Jung non si tratta, (come accade ad esempio in Nietzsche), di opporre ad un’unilateralità un’altra unilateralità. Se una tale parzialità può essere giustificata in alcuni casi, deve essere tuttavia sempre in vista della totalità. Non si tratta di promuovere le opposizioni: al contrario la grandezza della sua opera sta proprio nel proporre un ideale pratico di completezza. E’ questa “aspirazione alla presa di coscienza della totalità che differenzia Jung da tutti gli altri ispiratori di motivi e movimenti parziali di contestazione della gerarchia dei valori collettivi”400. Se in questo senso la compensazione sembra avere di mira principalmente l’appianamento dei conflitti, va precisato che non 398 Jung, OC XVI, cit. in Pieri; Cfr. anche OC VIII, La funzione trascendente, p.83, e L’Io e l’inconscio, p.89. 399 Umberto Galimberti, voce “Opposti” del Dizionario di psicologia analitica. Cfr. OC VI, Tipi psicologici, pp.437-38: “Questo fenomeno caratteristico si verifica quasi universalmente là dove una direttiva completamente unilaterale domina la vita cosciente, così che col tempo si forma una contrapposizione inconscia altrettanto forte, che dapprima si manifesta con un’inibizione delle prestazioni della coscienza e in seguito con un’interruzione dell’indirizzo cosciente”. 400 Francesco Caracciolo, Valori di compensazione e valori di totalità della psicologia junghiana nella trasformazione della società contemporanea, p.48. 142 solo l’eccesso di contrasto, ma anche la sua assenza, ovvero l’assenza di una direzionalità precisa, è indice di una disfunzionalità psichica. Se l’eccessiva rigidità induce al rischio di dissociazione, l’eccessiva apertura espone l’atteggiamento cosciente al rischio di un’inflazione: “Se non si lascia l’inconscio esprimersi in un modo qualunque, per mezzo delle parole o dell’azione, dell’inquietudine, della sofferenza, dell’attenzione, della resistenza, ecc. allora la divisione interiore si ristabilisce, con tutte le conseguenze incalcolabili che spesso comporta il disprezzo dell’inconscio. Se, al contrario, si cede troppo, si produce un’inflazione della personalità, sia positiva che negativa. In qualunque modo si consideri la situazione, essa costituisce un conflitto al tempo stesso interno ed esterno... A questa situazione, per la verità molto scomoda, ciascuno vorrebbe fuggire, salvo scoprire un giorno che quello che egli ha lasciato dietro di sé era lui stesso”401. Pertanto la compensazione, sia sul piano psicologico che su quello psicoterapeutico402, non mira e non deve mirare ad un equilibrio che annulla le tensioni, bensì a un funzionamento più ampio dei dinamismi psichici. Humbert insiste molto chiaramente su questo punto cruciale: “E’ compito dell’analista assicurarle [alla compensazione] un libero gioco e intenderla, molto più che imporre le proprie ragioni” 403. Come nota Humbert404, a differenza di altri metodi di azione psicologica, quello junghiano pone la necessità del conflitto nel processo di crescita interiore – e ciò, bisogna esserne 401 Jung, OC XI. P.F. Pieri, Dizionario junghiano, p.135: la dinamica compensatoria opera infatti sia sul piano individuale (contenuti, tipologie, e patologie), che sul piano terapeutico o interindividuale in genere. Ovviamente la compensazione terapeutica richiede la consapevolezza dell’analista. 403 E.G. Humbert, C.G.Jung, pp.41 sgg. 404 Ibid. 402 143 consapevoli, nella medesima misura in cui si tiene al valore necessario ed inestimabile della coscienza riflettente. E’ dalla determinatezza della coscienza che scaturisce necessariamente il conflitto psichico: “L’unilateralità è una caratteristica inevitabile, perché necessaria, del processo direzionato, perché direzione è unilateralità”405. Jung ha mostrato anche su un piano storico la straordinaria, seppur tragica, importanza della determinatezza cosciente: “La resistenza che la coscienza oppone all’inconscio e la sottovalutazione di quest’ultimo sono necessità di sviluppo storiche, senza le quali la coscienza non avrebbe mai potuto differenziarsi dall’inconscio”406. Dunque la dinamica compensatoria non appiana semplicemente le tensioni, e nemmeno le rafforza: consiste piuttosto nella dialettica fra queste opposte tendenze, la tendenza all’unità (amore) e quella al contrasto (guerra). In ultima analisi la dinamica compensatoria degli opposti psichici risponde alla medesima legge fisica di “conservazione dell’energia”: “L’idea dell’energia e della sua conservazione deve essere un’immagine antichissima che stava sopita da tempi immemorabili nell’inconscio collettivo. Per giungere a questa conclusione bisogna fornire la prova che quest’immagine antichissima è esistita realmente nella storia dello spirito e che fu attiva nel corso di millenni... E la prova è che le religioni primitive nei più diversi paesi si sono fondate su questa immagine. Sono le cosiddette religioni dinamistiche, il cui solo ed essenziale pensiero è che esista un forza magica diffusa in ogni dove, attorno alla quale tutto gira... L’anima stessa è questa forza, 405 406 Jung, OC VIII, La funzione trascendente, p.85. Jung, OC XII, p.54. 144 secondo un’idea antica; la sua conservazione sta nell’idea della sua immortalità e nella concezione buddhistica e primitiva della metempsicosi è insita la sua illimitata capacità di trasformarsi pur rimanendo costante”407. Come nel mondo fisico anche nella psiche è insito un principio entropico, secondo il quale l’energia potenziale cade progressivamente tendendo alla perfetta quiete. La fisica classica considera questo processo irreversibile. Per analogia, una distribuzione troppo uniforme dell’energia psichica dovrebbe condurre ad una stasi, ad una sorta di “morte psichica” irreversibile. Tuttavia i processi psicologici mostrano la reversibilità di questi stati. La psicologia, al contrario del determinismo della fisica classica, pone dunque anche un principio negherentropico408. E’ questa la funzione propria della coscienza, la quale è in grado di intervenire nel corso naturale in virtù della sua relativa autonomia, e di riattivare così il potenziale energetico, la tensione vitale409. 1.5_ Opposizionalismo metodologico Dalle considerazioni emerse nelle pagine precedenti è possibile trarre delle conclusioni sul carattere dell’“opposizionalismo” junghiano. La psicologia del profondo è attraversata da opposizioni a tutti i livelli – sul piano della struttura della psiche, come su quello epistemologico – ma questo non ci autorizza a collocarla in un 407 Jung, Über die psychologie des Unbewusstes, p.123, cit. In Jolande Jacobi, p.75. Ipotesi che sembra essere confermata dagli ultimi sviluppi della fisica. Deleuze mostra come la progressiva e universale riduzione della differenza (principi di Carnot, di Curie e di Le Chatelier) si fondi in ultima analisi sulla logica del buon senso, cfr. Differenza e ripetizione, pp.288 sgg. 409 Jolande Jacobi, La psicologia di Carl Gustav Jung, pp.67-77. 408 145 orizzonte dualista. Non bisogna lasciarsi trarre in inganno dalla necessità, espressa dallo stesso Jung, di pensare la totalità della vita attraverso coppie di opposti polari. Al contrario, in Jung l’opposizione è sempre la forma manifesta di una unità superiore di senso. Il tendenziale dualismo, degli alchimisti come di Jung, è in realtà volta a salvaguardare l’unità del cosmo nonché del divino. Così tutta la ricerca empirica nel “regno quaternario ed elementare” ha sempre un risvolto nell’unità mistica del molteplice: nell’essere naturale Dio è colto in speculum. Pertanto la dualità degli opposti sta a rappresentare la necessaria illusione in cui l’Uno indivisibile di rispecchia e, rispecchiandosi, si fa molteplice. I conflitti le dualità e le scissioni appartengono in un certo senso alla superficie apparente della nostra realtà, eppure dietro questo “velo di Maia” la radice dell’Essere permane nella sua intatta unità. “L’Uno diventa Due, i Due diventano Tre e dal Terzo viene l’Uno come Quarto; così da due ne deriva Uno”. L’Uno è il fondamento dell’intero processo, egregiamente rappresentato dall’immagine simbolica dell’Ouroboros, il serpente che circolarmente distrugge se stesso, si nutre di se stesso e genera se stesso. In un certo senso la dualità degli opposti, e l’ulteriore complicarsi della loro dialettica nella quaternità (due coppie di opposti incrociate), rientrano pur sempre nell’eterno respiro dell’Uno. La psicologia junghiana, come l’alchimia, è una via dall’Uno all’Uno. “Non invochiamo un dualismo che per rifiutarne un altro. Ci serviamo di un dualismo di modelli solamente per arrivare ad un processo che rifiuti ogni modello. Ogni volta occorrono correttori cerebrali che disfino i dualismi che non abbiamo voluto fare, 146 attraverso i quali passiamo. Arrivare alla formula magica che cerchiamo tutti: PLURALISMO=MONISMO, passando per tutti i dualismi che sono il nemico, ma il nemico assolutamente necessario, il mobile che non cessiamo di spostare”410. Queste ficcanti parole, che Gilles Deleuze riferisce al proprio pensiero, si adattano alla perfezione alla situazione epistemologica dello stesso Jung, e non per caso. Questi pensatori si muovono infatti in un mutato paradigma di relazione del positivo con il negativo, e quindi in un differente atteggiamento nei confronti del pensiero. L’opposizionalismo di Jung non definisce uno stato dell’essere: esso è piuttosto un’espressione euristica della totalità, una formula metodologica. In che senso l’opposto è opposto? Su questa domanda ha dibattuto a lungo, e dibatte tutt’ora, la critica junghiana411. Come osserva anche Andrew Samuels anche se talvolta Jung sembra trattare le sue opposizioni come se fossero logiche, esse sono sempre piuttosto opposizioni empiriche. “L’opposizionalismo non è che una metafora di un modo di guardare alle cose. Soprattutto è una metafora della percezione che aiuta e incoraggia l’Io con le sue limitate capacità olistiche, ma anche con le sue maggiori capacità analitiche”412. Nel parlare di un “opposizionalismo metodologico” la parola “metodo” va assunta nel suo significato originario, radicalmente differente dalla rigidità aprioristica del “sistema” che si applica invariabilmente alle situazioni concrete. Il metodo allude alla via (methodos), alla strada da percorrere, sempre aperta e incerta 410 Gilles Deleuze, Rizoma, p.42. A. Samuels, Jung e i neo-junghiani, pp.189 sgg.: Samuels esprime in sintesi la posizione di Freud come quella degli “opposti in conflitto”, quella di Jung come concezione degli “opposti passibili di conciliazione”, e infine quella di Hillmann come “circolarità e identità degli opposti”, p.192. 412 Ibid., p.191. 411 147 proprio per il suo ineludibile confronto con la materia, con il Quarto. Metodologica è una ragione nomade, in costante spostamento ed evoluzione, autentico percorso di ricerca e di saggezza che mantiene vivo il suo legame con la Terra. Allo stesso modo in cui il metodo alchemico si nutre della circolarità virtuosa dell’operatio e della theoria, la teoria junghiana vive in simbiosi con la pratica terapeutica. Così l’opposizionalismo di Jung, come quello degli antichi adepti, è l’indice di un pensiero radicato nella ricerca empirica, che da questa sorge e a questa si riferisce. La pratica empirica, il laboratorio, è infatti l’ambito in cui si riproduce costantemente la scissione. Pertanto a nulla vale, per una teoria psicologica che voglia mantenersi aperta all’autentica relazione terapeutica, esporre una dottrina univoca ed epurata dalle oscillazioni semantiche, dalla relatività dei modelli concettuali. Il “Due” è la cifra del pensare junghiano413: la metodologia del paradosso, dell’anfibolia, del rovesciamento dialettico rispecchia la costitutiva antinomicità trascendentale dell’essere (di sapore kantiano) ed il suo manifestarsi nella forma dell’opposizione. Il Due è la cifra di quell’interminabile dialogo tra gli opposti che non si risolve mai nella mediazione pacificante, ma si complica piuttosto all’infinito fino ad offrire un’immagine della totalità concreta. Così la trama degli opposti incrociati a differenti livelli e dimensioni definisce l’immagine di una molteplicità complessa. 413 Nelle sue Conversazioni con Jung, p.104, E.A. Bennet riporta nel seguente modo le opinioni dello psicologo sui numeri: “Uno è nulla, perché si può pensare a uno solamente se si ha una serie di uni; ma potrebbe anche essere ogni cosa, come l’Uno (e i Molti), cioè la totalità di Dio. Due sono gli opposti, il bene e il male, ed è trascurato da tutti quelli che non hanno a che fare con gli opposti, come coloro che accettano l’idea della privatio boni...”Per farsi un’idea dell’importanza simbolica dei numeri e della numerologia basta leggere l’introduzione a Psicologia e alchimia, in particolare alle pp.33-35; oppure il commento al Timeo, nell’Interpretazione psicologica del dogma della Trinità, OC XI, pp.124 sgg. 148 La complessità junghiana è la controparte del riduttivismo semplificante di stampo positivista: la “psicologia complessa” riserva a se stessa la funzione di “incrinare la semplicità spinta talora fino alla “monotonia” delle altre due concezioni [psicoanalisi e psicologia individuale] aiutando a prendere coscienza della reale, inimmaginabile complessità dell’anima umana”414. L’ideale junghiano della totalità che si raggiunge attraverso la coniunctio oppositorum si esprime nella concezione della complexio. Il Sé psicologico, come il Lapis alchemico, sono infatti figure antinomiche e paradossali per eccellenza. Il loro stato determinato è quello della com-plicazione degli opposti. E in questa dialettica che si costruisce la Via (Tao), che si traccia il percorso individuativo dell’anima inter bona et mala sita. Gli opposti costellano la via che conduce l’individuo a se stesso, l’Io al Sé. Nella sua infinita opera simbolica di composizione degli opposti bisogni spirituali e naturali, l’essere umano si fa esso stesso simbolo vivente, determinazione che rispecchia sinteticamente la totalità. La via simbolica è un processo di determinazione del positivo universale, di quella determinazione particolare che esprime elettivamente tutte le altre senza passare per l’imposizione prevaricante (hybris). Il processo di individuazione junghiano esprime essenzialmente il confronto ed il conflitto tra il principio differenziante (la coscienza) ed il suo fondo indifferenziante (inconscio). Nella lotta eroica che intraprende tra queste opposte tendenze l’Uomo esprime il suo anelare all’Uno indiviso. 414 Jung, OC IV, Prefazione a W. M. Kranefeldt, “La psicoanalisi” (1930), p.352. 149 L’individuazione non è infatti una semplice trasformazione nel senso del divenire genericamente altro, piuttosto è quel nitzscheano “diventare ciò che si è”, un “diventare intero” attraverso tutti i conflitti: “Uso l’espressione “individuazione” per designare il processo mediante il quale un essere diventa un individuo (non-diviso) psicologico, cioè un’unità autonoma e indivisibile, una totalità”415. Chiaramente la determinazione del positivo propria di Jung e degli alchimisti non può rientrare in una rigorosa considerazione di tipo logico: infatti essa non si svolge su un piano espressamente logico e teoretico, bensì ad un livello eticopratico. Nelle pagine precedenti di questo capitolo si è tentato di mostrare, tra l’altro, come la categorie concettuali che stanno al centro della determinazione del positivo psicologico non siano tanto quelle dell’identità e dell’opposizione quanto quella della relazione. Anzi, forse è proprio in virtù del radicamento etico della teoresi junghiana che la categoria della relazione assume un ruolo centrale. Il processo di individuazione è un progressivo toglimento dell’isolamento reciproco delle determinazioni (il processo di integrazione dei contrari), e la trasformazione creatrice è il frutto del loro entrare in relazione. L’essenza della psiche stessa è la relazione, dopo che essa si è manifestata in un primo tempo nella figura negativo-oppositiva dell’Ombra. Nelle Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche troviamo le seguenti importanti considerazioni: Jung scrive che “tra tutti gli elementi contrari sussiste un rapporto così stretto che non è possibile né trovare né pensare una posizione senza il suo 415 Jung, OC IV, Tipi psicologici, p.255. 150 correlativo negativo”, ovvero “è valido l’assioma :“les extrèmes se touchent”. In quanto correlativi i due opposti formano un tutt’uno, e non già nel senso che l’uno possa venir dedotto dall’altro, ma nel senso che ognuno coesiste accanto all’altro come nelle rappresentazioni che ci facciamo a proposito dell’antitesi che è alla base dell’energetismo psichico”. Tali antitesi, prosegue Jung, “non sono affatto incommensurabili, perché se lo fossero non potrebbero mai unificarsi; a dispetto di ogni opposizione rivelano sempre la tendenza a unificarsi, e Nicolò Cusano ha definito Dio stesso come una complexio oppositorum”416. Alla voce “Opposti” del Dizionario junghiano ad opera di Pier Francesco Pieri si trova scritto: “ Termini o oggetti che quanto al loro significato, sono legati da una relazione di esclusione, ma quanto alla loro forza di significare sono invece legati da una relazione di tipo polare che li mantiene in uno stato di tensione. Non mettendo mai capo a una sintesi totale, tale stato tensionale è inteso alla base del dinamismo psichico in quanto strutturazione e destrutturazione continua dei significati di sé e del mondo”417. Pieri mostra come, in analogia con la logica tradizionale, nella coscienza la relazione di opposizione si dà nelle quattro forme della contraddizione, della contrapposizione, della contrarietà e della correlazione. In questo senso il processo individuativo può essere inteso come il passaggio da una logica razionale, per la quale tutto ciò che è contraddittorio, contrapposto e contrario non può essere pensato come simultaneamente presente nello stesso oggetto, ad un pensare 416 417 Jung, OC VIII, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, pp.223-224. P.F. Pieri, Dizionario junghiano, p.495, voce “Opposti”. 151 simbolico ed olistico che espone invece la coesistenza degli opposti. La congiunzione simbolica può dunque essere letta come il rivelarsi dell’originaria correlazione di ciò che il regime dirimente della coscienza ha disgiunto418. Conseguentemente si possono riconoscere i successivi momenti fondamentali della relazione tensionale, in cui gli opposti rimangono gli stessi come oggetti in sé ma mutano nella rappresentazione psichica: 1) il divergere degli opposti, ovvero il loro emergere come irrelati; 2) il confliggere degli opposti, che sta ad indicare una situazione antagonistica, in cui rientrano ad esempio i meccanismi dell’enantiodromia , e del sacrificio dell’Io sospeso tra gli opposti (cruciatio); 3) l’elidersi e il liberarsi degli opposti, in cui ha un ruolo primario la funzione trascendente; 4) Il convergere degli opposti, ovvero la loro coniunctio su un piano non tanto intellettuale e razionale (identità logica) quanto sul piano pratico-intuitivo (simbolo)419. Nelle parole di Mario Trevi, “A ben vedere la novità metodologica che Jung introduce nella ricerca psicologica è l’uso (talvolta esplicito, ma molto spesso implicito nel testo) del principio di correlazione. Per Jung nessun aspetto della realtà umana è pensabile se non prendendo in immediata considerazione l’aspetto che a lui si oppone correlativamente, nessun elemento dell’esistere è pensabile se non implicando immediatamente nella considerazione pensante l’elemento opposto e correlato”. Il principio di correlazione è una vera e propria rivoluzione metodologica che consente di cogliere 418 419 Ibid. Ibid. 152 l’aspetto dinamico della psiche attraverso l’affermazione delle coppie polari420. Trevi osserva che nel primo Jung convivono due atteggiamenti diversi: la ricerca di un principio di relatività delle formulazioni psicologiche, in particolare nei Tipi psicologici (1921), ed il tentativo di ricerca di un principio conciliatore delle opposizioni. Per molti anni la posizione relativista è un motivo costante della sua speculazione. Nello Jung più tardo, in particolare modo nelle Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche (1954), si compie il superamento dialettico del relativismo. E’ introdotto dunque nel campo psicologico il movimento dialettico di matrice hegeliana per cui la teoria psicologica astratta si toglie implicando l’opposto, ed attinge così ad una sintesi che conserva gli opposti tolti. L’eco hegeliana di questa formulazione è presto smentita, ad ogni modo, se si osserva che in Jung gli opposti dialettici non sono contraddittori, ma correlativi, e che non si perviene ad una vera e propria sintesi unificatrice in senso hegeliano421. Se si può parlare di una “dialettica junghiana”, questa si differenzia da una dialettica di tipo idealista per l’ingiunzione alla realizzazione operativa (operatio), per il tentativo estremo di assumere l’empirismo. Nel metodo junghiano, data la peculiare relazione di soggetto e oggetto, si compie la “dialettizzazione dell’oggettivismo”. Il movimento dialettico essenziale consiste nel passaggio dalla visione oggettivante ed astratta (theoria) alla relazione trasformante del soggetto conoscente con l’evento che gli sta dinnanzi422. 420 Mario Trevi, Struttura e processo nella concezione junghiana dell’inconscio, pp.524 sgg.. Mario Trevi, Una polarità implicita nel pensiero di Jung, pp.281 sgg. e 295 sgg. 422 Silvia Montefoschi, C.G. Jung un pensiero in divenire, pp.188-189. 421 153 La conseguenza immediata dell’introduzione del principio dialettico è la relativizzazione della stessa teoria psicologica al processo psichico. La psicologia “diventa il processo medesimo. L’effetto è il seguente: il processo raggiunge la coscienza, e così facendo la psicologia realizza l’impulso dell’inconscio a procedere verso la coscienza. La psicologia è il “farsi coscienza” del processo psichico, ma in un senso più profondo non è una spiegazione di tale processo, perché ogni spiegazione del fatto psichico non può essere altro che lo stesso processo vitale della psiche. La psicologia deve abolirsi come scienza, e proprio abolendosi raggiunge il proprio scopo scientifico. Ogni altra scienza ha un “al di fuori” di se stessa; ma non la psicologia, il cui oggetto è il soggetto di ogni scienza in generale”423. Per cui al cuore della stessa epistemologia junghiana, e non solo della vita psichica, sta un dialogo profondo: come nella terapia analitica, al centro è sempre una relazione, un confronto non solamente logico-dialettico, ma anche umano-affettivo. Non si tratta di imporre il logos della psicologia del profondo, e nemmeno di instaurare un confronto dialettico tra i differenti logoi. La generale situazione epistemologica della psicologia junghiana è quella per cui “il discorso sulla psiche” è anche “discorso della psiche”. La posta in palio del processo di individuazione non è tanto una nuova ed ulteriore conoscenza filosofica, quanto la relazione trasformante che congiunge l’uomo con la sua Anima profonda. Nel sapere psico-logico il logos chiarificatore intrattiene un rapporto aperto e fecondo con il silenzioso abisso dell’anima, da cui proviene quel soffio vitale 423 Jung, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, p.240. 154 (psychè) che spira al principio come al compiersi della parola stessa. Un’altra autrice particolarmente attenta nel cogliere questo fondamentale passaggio metodologico, soprattutto in relazione al distacco di Jung da Freud, è Silvia Montefoschi424. Abbandonando il metodo oggettivante per quello dialettico, la psicologia junghiana si apre ad una visione dinamica della realtà umana che investe la stessa teoria psicologica. Nella considerazione di questa autrice, al centro della dialettica psicologica junghiana sta la fondamentale coppia antinomica di soggetto e oggetto, la quale “esprime, anzitutto, l’esperienza contraddittoria che l’uomo fa di se stesso, soggetto libero e attivo sul mondo e oggetto passivo condizionato dal mondo e, ancora, soggetto della conoscenza e oggetto a un tempo della medesima; l’uomo è colui che conosce se stesso e il se stesso che egli conosce. Questa antinomia è quindi una realtà dialettica, in quanto sta a fondamento del processo conoscitivo dell’uomo che segna il divenire del mondo umano. Soggetto e oggetto sono quindi due aspetti o due momenti di una unica realtà che li comprende e li media: il divenire della coscienza riflessiva dell’essere”425. 424 425 Silvia Montefoschi, C.G. Jung un pensiero in divenire, pp.187 sgg. Ibid., p.206. 155 Capitolo 2_ Le nozze chimiche “Non più rimani circoscritto Nell’ombra dell’oscurità, E nuovo ardore ti rapisce A una più alta congiunzione” W.GOETHE, Divano Orientale-Occidentale 2.1_ L’archetipo della coniunctio. Nei due ultimi lavori di Jung sull’alchimia la “congiunzione degli opposti” diventa una chiave di volta concettuale: “La coniunctio oppositorum, rappresentata da Sol e Luna o dalla coppia regale fratello-sorella o madre-figlio, occupa un posto così importante nell’alchimia che a volte l’intero processo assume la forma dello hieròs gàmos e dei fenomeni mistici che lo accompagnano”426. Questo è in particolare il caso del Rosarium philosophorum, un testo di alchimia del 1550 le cui immagini offrono il filo conduttore della Psicologia della traslazione. Il saggio, pubblicato nel 1946, è concepito come una descrizione del fenomeno terapeutico del transfert, e presenta ad un tempo una descrizione del processo alchemico di rara linearità e chiarezza. E’ così spinto innanzi il parallelo tra alchimia e psicologia del profondo, già nettamente delineato nei precedenti lavori sull’alchimia. Jung giunge anzitutto a riconoscere nell’archetipo della coniunctio oppositorum la comune problematica attorno a cui gravitano l’alchimia come la psicologia del profondo. Sulla traccia di questa intuizione è istituito il parallelismo tra opposti alchemici ed opposti psicologici: il problema del rapporto tra coscienza e inconscio è dunque il problema della congiunzione degli opposti, 426 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, p.210. 156 che la ricca e complessa simbologia alchemica ha elaborato in maniera ancora in gran parte inconsapevole. Il pensiero alchemico, in quanto non pervenne alla comprensione del problema psicologico della proiezione e dell’inconscio, non seppe tra l’altro affrancare la congiunzione degli opposti dalle “secche del sessualismo” in cui si era imprigionato. Curiosamente, quando Freud riportò alla luce quest’ordine di problemi, diede ancora un ruolo fondamentale alla sessualità: “Il problema dell’unificazione dei contrari, che nella sua formulazione sessualistica era latente da secoli, dovette attendere che l’illuminismo e l’oggettività scientifica fossero tanto progrediti da poter accogliere la sessualità nel discorso scientifico”427. Insomma, quando la coscienza scientifica urtò contro l’inconscio non poté fare a meno di esserne influenzata: il sessualismo fu elevato ad una sorta di dogma religioso non esente dal fanatismo. Ciò portò in primo luogo a trascurare gli archetipi e a sottovalutare l’orizzonte del simbolico, credendo si trattasse semplicemente di una questione di realizzazione erotica. Con la psicologia del profondo il problema della coniunctio oppositorum perviene alla sua piena comprensione simbolica428. “L’Opus si sforza di esprimere figuratamente, su un piano superiore, conflitto, morte e rinascita: ora, nella practica, in forma di trasmutazioni chimiche, ora, nella theoria, in forma di concetti e di immagini”429. Jung riconosce nel processo di congiunzione degli opposti, nel conflitto che da essi si genera, nella morte che 427 Ibid., p.316. Ibid., pp.316-17. 429 Ibid., p.267. 428 157 fa seguito al conflitto, e infine nella rinascita sotto forma di filius, la trama simbolica essenziale dell’opera alchemica. Allo stesso modo il processo di individuazione psicologico consiste nel riconoscimento e nella congiunzione degli opposti psichici, e nella loro estinzione e rinascita nella forma del figlio divino: “ [...] L’unione della coscienza o della personalità dell’Io con l’inconscio personificato come Anima genera una personalità nuova che racchiude entrambe le componenti, “ut duo qui fuerunt unum quasi corpore fiant”. La nuova personalità non costituisce affatto un terzo intermedio tra coscienza e inconscio, ma è l’una e l’altro insieme. Essa trascende la coscienza e perciò non dev’essere più definita come “Io”, ma come “Sé””430. Pertanto, come sarà meglio chiarito in seguito, il conflitto, la morte e la rinascita costituiscono la trama simbolica della stessa traslazione terapeutica. La tradizione filosofale espresse spesso e volentieri questo archetipo in forma di jερ’Η γςµοΗ 431 o “nozze mistiche”. Va tenuto presente che l’idea delle “nozze mistiche” era prima di tutto una rappresentazione fantastica dell’unione degli elementi chimici, tanto è vero che i testi parlano anche di nuptiae chymicae per riferirsi all’unione degli opposti432. Ma non dobbiamo neppure dimenticare il particolare valore simbolico, l’eccedenza di significato di questi processi nella mente dell’alchimista. A conferma 430 del coinvolgimento Ibid., p.269. La traduzione letterale è “matrimonio sacro”, un tema che storicamente ha assunto molte forme. E’ infatti già presente nella visione agostiniana in cui le nozze sacre avvengono tra Cristo e la Chiesa, dove il ruolo di Cristo è quello di Sol, mentre l’Ecclesia- mater ha il ruolo di Luna. Ma la fonte pagana è ben più antica e rinvia alle nozze regali vere e proprie cha avvenivano nell’antico Egitto, o all’unione nuziale dell’iniziato con la divinità. 432 Chymische Hochzeit di Christian Rosencreutz, alias Valentin Andreae, del 1616, è uno dei testi fondamentali del movimento Rosacroce. Il vero autore quasi certamente si chiamava Johann Valentin Andreae, un teologo del Württemberg, che visse dal 1586 al 1654. 431 158 dell’inconscio in questi procedimenti troviamo nei testi una serie di designazioni antropomorfe e teriomorfe. Spesso e volentieri l’intera opera era espressa nella forma di un rapporto erotico – come nel Rosarium. Quindi i termini della relazione erano concepiti come agens e patiens, masculus e foemina, oppure come cane e cagna, drago alato e senz’ali, e così via. Come la Coniunctio ebbe un’importanza capitale per la successiva conoscenza della materia chimica433, così svolge un ruolo centrale ai fini della conoscenza dell’oscuro mondo interiore. In testi come il Rosarium philosophorum l’unione degli opposti chimici e degli opposti psichici è rappresentata simbolicamente. E in senso essenzialmente simbolico vanno lette queste rappresentazioni, se non si vuole cadere nell’inconveniente di comprenderle riduttivamente. Ad esempio l’incesto a cui allude il Rosarium non va interpretato come un evento concreto, bensì come un evento simbolico: esso non accade realmente ma è proprio come se così fosse. L’incesto avviene realmente “solo” nell’inconscio dell’artefice, nella virtualità della sua psiche, e per questo è come se avvenisse, ad un tempo, nella materia chimica su cui esso l’ha proiettato. Pertanto sarebbe senza dubbio deviante intendere quella del Rosarium come una fenomenologia esclusivamente sessuale. Nella traslazione, precisa infatti Jung, l’aspetto “erotico” è “incontestabile, tuttavia esso non è sempre l’unico, né quello essenziale”434. Nelle stesse pagine egli abbozza una “scala 433 Non si può difatti affermare che l’alchimia sia stata del tutto inutile agli sviluppi successivi della chimica. Si pensi all’immagine delle coppie danzanti che pose il chimico ottocentesco Kekulé sulla traccia della struttura di certi composti di carbonio; o al concetto tutt’altro che scontato di trasmutabilità degli elementi chimici. 434 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, p.184. 159 erotica del Quattro” in cui emerge, al di là del carattere puramente istintuale dell’Eros (rappresentato da Eva), un carattere Animico (Elena di Troia), quindi spirituale-celeste (Maria), e infine sapienziale (Sophia)435. In questo modo l’archetipo dell’unione dei contrari comprende ed eccede il piano di una mera sessualità istintuale. Esso è l’Eros come agente di trasformazione: la chiave simbolica dell’evoluzione spirituale dell’uomo, in quanto è l’archetipo stesso dell’individuazione intesa come processo di unione delle opposte polarità nell’uomo. L’archetipo della Coniunctio è il fondamento stesso del simbolico in quanto rende possibile quell’unione degli opposti che si realizza nel simbolo (sym-ballein). Il simbolo è l’amore che pone in relazione tutto ciò che si oppone. 2.2_Übertragung: la relazione terapeutica. La Psychologie der Übertagung è forse il luogo delle opere di Jung dove il parallelo tra psicologia e alchimia si fa più esplicito e pregnante, tanto da far apparire, sempre meno metaforicamente, il lavoro del terapeuta come un opus alchymicum: l’archetipo della Coniunctio è da un lato il fondamento dell’Opus che unisce adepto e soror mystica436, dall’altro dell’opera che unisce analista e paziente. Così il terapeuta, come l’alchimista, è colui che deve produrre l’unità a partire dall’iniziale stato di separazione e di 435 Ibid., p.185-86. “Qualcosa di meno – commenta curiosamente Jung – significa non di rado qualcosa di più”. 436 L’alchimista è infatti spesso accompagnato nella sua impresa da un partner del sesso opposto che psicologicamente può essere considerato come la sua Anima. Questa era generalmente una figura interiore, ma talvolta anche una persona reale: si pensi alle raffigurazioni del Mutus liber, oppure alla celebre leggenda dell’alchimista Nicholas Flamel e di sua moglie Perrenelle. Jung dedica la Psicologia della traslazione a sua moglie. 160 conflitto. Per usare le parole di Origene, il fine è divenire un essere umano interiormente unitario437. Questa impresa riguarda sia il paziente che il terapeuta. Questi “si trova non di rado nella posizione dell’alchimista, il quale spesso non sa più se egli è colui che fonde nel crogiuolo la sostanza arcana metallica, oppure se è lui stesso ad ardere nel fuoco come la salamandra. L’inevitabile induzione psichica fa sì che medico e paziente siano coinvolti e trasformati entrambi nella trasmutazione del terzo, e che solo il sapere del terapeuta illumini, sia pure con luce fioca e tremante, l’oscura profondità del processo”438. Il “terzo” in questione è, naturalmente, il Sé, la personalità virtuale che si realizza individuandosi. L’individuazione come trasformazione psichica è sempre frutto della connessione polemica di coscienza e inconscio – i due opposti par excellance della psiche, rappresentanti l’uno il suo lato luminoso e l’altro il suo lato oscuro. E’ nel dialogo appassionato tra luce e tenebre che l’uomo vive e trasforma se stesso. Nella relazione terapeutica, tuttavia, la situazione si fa alquanto più complessa in quanto sono, per così dire, due coscienze e due inconsci ad entrare in dialogo. Ed è esattamente qui che sorge il problema terapeutico del transfert o traslazione (Übertragung), di cui tratta il saggio di Jung. Del resto il transfert, da un punto di vista psicologico, non è che il paradigma specifico della relazione interpersonale in generale, a prescindere dal fatto che questa avvenga tra un medico e un paziente. 437 438 Origene, Homiliae in Librum Regnarum, 1.4. Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, pp.208-209. 161 Esso può sorgere quando il processo di individuazione del singolo è per così dire mediato dalla figura del terapeuta439. Quindi non si può negare che il terapeuta, in quanto mediatore del processo di individuazione, non possa in ultima analisi esimersi dall’indirizzarlo in una direzione piuttosto che in un’altra440. La traslazione è un evento che si verifica frequentemente nella pratica terapeutica. La sua individuazione e descrizione risale già a Freud441, mentre nella psicoterapia pre-analitica e dei medici dell’età romantica era nota come rapport442. Nella sua autobiografia Jung ebbe a definire l’Übertragung come “il problema principale della psicoterapia medica”443. Dall’analisi pratica dei processi inconsci risulta infatti che questi appaiono sempre “proiettati” su persone o situazioni oggettive. In particolare è definito transfert la proiezione dei contenuti inconsci sulla figura del terapeuta. Tra questi contenuti ha un ruolo particolare il rapporto col genitore del sesso opposto, nonché il rapporto fratello-sorella, per cui il paziente tende a rinnovare sul medico tutte le esperienze dell’infanzia. Le fantasie che emergono nella traslazione hanno in genere un carattere spiccatamente “erotico”, ovvero “sessuale”, il che 439 Quale medico-guaritore e rappresentante. Agli occhi del paziente, delle forze sovrannaturali dell’inconscio, lo psicologo può essere visto come una secolarizzazione della figura cristiana del prete...In effetti molti critici hanno riconosciuto, con diverse sfumature, nella psicologia del profondo un tentativo di rifondare una certa religiosità. Non bisogna neppure dimenticare che il padre di Jung era un pastore protestante. Cfr. Romano Madera, Jung, p. 34-35. Richard Noll, The Jung Cult. Origin of a carismatic Movement, tende invece a presentare lo psicologo come il fondatore di un vero e proprio movimento religioso e spirituale. 440 Questo può farci comprendere fino a che punto una terapia istituzionalizzata possa essere un’arma a doppio taglio. Il suo potere di orientamento è pur sempre quello di una coscienza determinata, e di una certa visione del mondo. Jung ha ben presente questo pericolo, e infatti consiglia sempre di proporre in primo luogo al paziente il senso del mitologema tradizionale. L’ideale di un orientamento puro senza condizionamento resta una utopia bella e buona: o forse bisognerebbe rovesciare la situazione ed inseguire l’utopia di un’analisi senza terapeuta? 441 Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, pp.602 sgg. 442 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, p.188. 443 Jung, Ricordi, p.258. 162 contribuisce al sorgere di una peculiare atmosfera familiareincestuosa. L’analista viene così coinvolto, volente o nolente, in un’intimità irreale che turba penosamente il rapporto col paziente. Qualora questo legame sopraggiunga – non è infatti sempre il caso – si trova a fondamento dell’opera che unisce l’analista e il paziente. Esso è spesso di intensità e di importanza tale che si può parlare di una vera e propria “coniunctio”, in quanto ne deriva “un mixtum compositum tra la sanità mentale del terapeuta e l’equilibrio turbato del paziente”. A questo punto Jung si pone la domanda “che ne farai tu, di questa traslazione?”, ovvero: qual è il ruolo del terapeuta in tutto ciò? A differenza di Freud, il quale invitava a distanziarsi il più possibile da un tale fenomeno, nell’ottica di Jung il terapeuta deve letteralmente addossarsi e condividere col paziente la sua carenza psichica, esponendosi lui stesso ai contenuti che premono dall’inconscio. Quando questi contenuti sono attivati anche nel terapeuta, ed il caso incomincia pertanto ad “interessarlo”, “medico e paziente si trovano in un rapporto fondato su una comune incoscienza”444. Il simbolo archetipico del guaritore è il medico divino che porta in sé il male che guarisce. Nella mitologia greca è Esculapio, creatura ad un tempo ctonia e divina, strettamente connessa al mito della trasformazione, ovvero della morte e della rinascita445. Allo stesso modo di Esculapio il terapeuta deve assumere su di sé la contraddittorietà inesauribile della propria 444 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, p.187. E’ molto curioso il racconto onirico dei Ricordi, pp.344-353 , in relazione alla miracolosa guarigione di Jung da una malattia al principio del 1944. Nel suo coma Jung “vede” il proprio medico come il re della città di Coo, famosa nell’antichità per il suo tempio di Esculapio (ivi era nato pure Ippocrate, V secolo). Jung spiega come il medico gli doni letteralmente la vita. Infatti, contemporaneamente al suo ristabilirsi, il medico cade gravemente malato, e muore. 445 163 esistenza personale, ben al di là dei limiti ristretti della sua attività professionale446. Il terapeuta “è colui che fa di ogni relazione il luogo ed il momento di quella conoscenza trasformativa che crea la nuova vita; e colui che fa della propria vita un costante processo di trasformazione non può non realizzare questo processo in ogni relazione, sicché la funzione terapeutica è inerente alla sua stessa esistenza”447. Come egli tende ad esigere dal paziente il suo impegno nella totalità di uomo, così deve pretendere il medesimo impegno da sé. La pratica psicoterapeutica richiede la partecipazione genuina del medico nella sua totalità. Come dicevano gli alchimisti, “ars requirit totum hominem”448. L’importanza della traslazione sta anche nel mettere chiaramente in luce come l’uomo possa guarire e individuarsi solo nella relazione con un altro individuo: “L’uomo senza relazioni – scrive infatti Jung – non possiede totalità perché la totalità è raggiungibile solo attraverso l’anima, la quale dal canto suo non può esistere senza la sua controparte, che si trova sempre nel Tu. La totalità consiste nella combinazione di Io e Tu, che appaiono come parti di un’unità trascendente la cui essenza non può essere afferrata che simbolicamente, per esempio mediante il simbolo del rotundum, della rosa, della ruota o della coniunctio Solis et Lunae”449. Analogamente, nel processo terapeutico è necessario che il paziente prenda coscienza dell’altro-in-sé-stesso, ovvero della propria conflittualità interiore. Fintantoché egli proietta la propria 446 Silvia Montefoschi, Un pensiero in divenire, pp.143-4. Ibid., p.115-116. 448 Hoghelande, De alchimiae difficultatibus, in Theatrum chemicum, vol.1, p.193, cit. in Jung, OC XVI, p.209. 449 Jung, OC XVI, Psicologia della traslazione, p.250. 447 164 Ombra sul terapeuta la relazione trasformazionale è inibita: è questa una fase negativa della traslazione, caratterizzata da una resistenza al trattamento analitico e allo stabilirsi di un’identità inconscia col terapeuta. Ciò avviene perché il conflitto comporta un dolore e una tensione talvolta insopportabili, che non sempre è il caso di scatenare a tutti i costi. Solamente quando e se il paziente riconosce in sé la presenza dei contrari (il Due) ha inizio il vero e proprio processo alchemico-terapeutico. Questa situazione corrisponde al tenebroso stadio della nigredo nell’alchimia. Con la presa di coscienza dell’Ombra “v’è un annebbiamento della situazione che corrisponde appunto alla natura del contenuto inconscio: il contenuto è oscuro e nero – nigrum, nigrius nigro (nero, più nero del nero), - come giustamente dicono gli alchimisti, e carico inoltre di pericolose tensioni opposte, della inimicitia elementorum”450. Nell’analisi questo momento si fa spesso attendere a lungo, ed è generalmente annunciato in sogni che evocano immagini di conflitto o di trasformazione. Abbiamo visto in altro luogo come per gli stessi alchimisti la nigredo non rappresentasse l’inizio del processo in senso assoluto: essa costituiva già in qualche modo un risultato (materia secunda). Inizia a questo punto l’autentico dialogo tra paziente e analista, il quale non si svolge affatto solo sul piano cosciente: l’inconscio dell’uno è entrato infatti in rapporto con l’inconscio dell’altro. L’opera comune dei due sarà, a questo punto, un vero e proprio processo di purificazione – “horridas nostrae mentis purga tenebras”, dice infatti il testo dell’Aurora consurgens – 450 Ibid., p.198. 165 attraverso il quale essi tenteranno di superare il conflitto e di ottenere dal Due (sia paziente e analista, che gli opposti nel paziente) l’Uno (l’anima, ovvero la personalità integrata). A partire dalla comune incoscienza l’analisi si svolge come un duplice processo di individuazione in cui i due “attori” si trasformano reciprocamente. Questa fenomenologia psichica, che il terapeuta può osservare durante il confronto con l’inconscio proprio e del paziente, è la stessa che alcuni testi di alchimia, come il Rosarium, descrivono con una precisione talvolta sconcertante. Il processo analitico corrisponde dunque alla congiunzione degli opposti nel vas ermetico, alla loro morte simbolica a dissoluzione o putrefazione, e infine alla loro nascita sotto forma di ermafrodito ovvero di philius philosophorum. 2.3_ Il compimento dell’incesto. Un ruolo fondamentale è svolto, come già si è accennato, dal compimento dell’incesto, il cui archetipo è sostanzialmente identico a quello dell’unione dei contrari. Il richiamo alla teoria freudiana del complesso edipico è chiaro, ma altrettanto chiara è la distanza da Freud su questo punto. In primo luogo Jung rifiuta una concezione dell’incesto come mera pulsione sessuale e ne sottolinea il carattere sostanzialmente simbolico451.Ma il nodo dell’incesto è presente fin da Wandlungen und Symbole der Libido (1912). Come ha notato Romano Madera452, nella messa in discussione del mito centrale della teoria freudiana, Jung è 451 452 Ibid., p.186, 190. Romano Madera, Jung, p.30-35. 166 mosso da un atteggiamento, ironia della sorte, a sua volta edipico: esso rappresenta il distacco conflittuale dal padreanalista da un lato, e riecheggia dall’altro il difficile rapporto col padre naturale, un pastore protestante – Jung è infatti alla ricerca di un senso più autentico della religiosità e del sacro. Ma la rivalità e la conflittualità di questo distacco dai padri è attraversata ad un tempo da una singolare fedeltà: “Il movimento è complesso: Freud deve essere superato in nome del sapere da lui fondato, la psicanalisi. Ma questo superamento riapre la via all’atteggiamento religioso, e quindi, in un certo modo, Jung rimane fedele alla missione del padre pastore, perché rende accessibile all’uomo della modernità razionalista la saggezza cristiana, traducendola e reinterpretandola in un nuovo linguaggio. Una strana fedeltà, in entrambi i casi indistinguibile dalla rivalità. Al padre contende il possesso e il rapporto fecondo con la verità cristiana, a Freud il primato sul nuovo territorio della psiche profonda. Forse Jung rimane fedele all’oggetto scelto dai padri, all’oggetto della loro passione intellettuale: la figura sublimata della madre”453. Il pomo della discordia, sul piano teorico, è insomma offerto dalla natura della psiche intesa come femminile e come madre454. Il confronto con l’inconscio è rappresentato dalla discesa dell’eroe nel “regno delle madri”, il cui esito dipende dalla consapevolezza con la quale il sacrificio è affrontato: l’eroe rinuncia consapevolmente all’apparente autonomia dell’Io dalle 453 Ibid., pp.34-35. La donna è motivo di contesa sul piano teorico e non solo... Qui si colloca quella “segreta simmetria” di cui ha parlato Carotenuto, Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud, Astrolabio, Roma 1980. Come emerge velatamente anche dai Ricordi, tra Freud e Jung, le tensioni si addensavano attorno alle reciproche mogli e cognate. Sabina Spielrein, amica dello stesso Freud, fu tra le prime pazienti che Jung trattò con il nuovo metodo terapeutico. Successivamente divenne sua amante fino alla definitiva rottura, che la portò nella Russia natìa, dove fu uccisa durante le persecuzioni. Svolse un ruolo fondamentale nel movimento psicoanalitico, al quale contribuì anche con importanti pubblicazioni scientifiche e fondando il celebre “asilo bianco”. 454 167 potenze inconsce e regredisce nell’indistinzione dell’inconscio materno. Questa introversione può imprigionare nei lacci di un’inerzia autodistruttiva. Ma se la lotta con la Madre è vinta l’eroe ha riconquistato un raro tesoro d’energia455. Il “ritorno alla madre” è un processo di introversione che corrisponde ad un ritiro della libido dagli oggetti esterni, e a conseguenti disturbi della “funzione di realtà”. La caduta di interesse e di capacità di orientamento nei confronti del reale indica una accezione di libido ben più ampia della freudiana sessualità: essa va intesa piuttosto come energia psichica indifferenziata, appetitus, desiderio e volontà456. Se nell’edizione di Wandlungen und Symbole der Libido del 1912 il pensare immaginale e simbolico ha ancora la valenza di una regressione infantile e narcisistica, nella successiva edizione del 1952 (Symbole der Wandlung) assume invece la portata positiva della funzione simbolica nella teoria junghiana: il pensare simbolico “non indirizzato” non ha più un carattere inferiore né necessariamente patologico. Esso non è più inteso come una deformazione dell’oggettività, ma come una differente immagine del mondo457. Dunque il carattere sostanzialmente simbolico dell’incesto rinvia al superamento del pansessualismo freudiano ed alla centralità della funzione simbolica: esso è, anzi, il luogo privilegiato del costituirsi del simbolo. Come osserva acutamente Silvia Montefoschi, il compimento simbolico dell’incesto costituisce il cardine teorico del rovesciamento del metodo, nonché dell’antropologia freudiana458. 455 Romano Madera, Jung, pp.35-44: “Verso il regno delle madri”. Cfr. Jung, OC VIII, Energetica psichica, pp.23 sgg. 457 Romano Madera, Jung, pp.44-48 458 Silvia Montefoschi, Jung, un pensiero in divenire, pp.203-209. 456 168 Il tabù dell’incesto, vietando il congiungimento tra il figlio e la madre, tra gli uomini e le donne della stessa famiglia, tutela la differenziazione del soggetto cosciente dall’oggettualità del reale nonché la differenziazione del maschile dal femminile. Quindi “costringe il pensiero ad essere univoco e a riprodurre la visione dicotomica del reale459. Ma questo modo di pensare univoco vieta qualsiasi unione dei contrari separati, impedendo che il nuovo sorga e si presenti alla coscienza: “Così il tabù dell’incesto, che nasce a salvaguardia della coscienza, finirebbe con l’arrestarne il divenire se non si osasse mai infrangerlo. La nuova conoscenza nasce solamente quando nell’uomo il soggetto torna a unirsi all’oggettualità da cui si era separato, quando il maschile torna in lui ad abbracciare il proprio femminile, quando si compie l’incesto infrangendo il tabù che lo vieta”460. La mitologia parla dell’incesto come di una prerogativa divina: colui che compie tale impresa è infatti sacrificato e fatto Dio. La sacralità dell’incesto riconferma la necessità della distanza, la distanza del soggetto dall’oggetto, del creatore dalla creatura, indispensabile al proseguire della dialettica creativa461. Il compimento simbolico dell’incesto, che corrisponde sostanzialmente all’archetipo della Coniunctio oppositorum, costituisce pertanto la condizione di attuabilità del divenire creativo dell’uomo e della sua evoluzione – il fondamento del processo di individuazione in generale, come del processo analitico in particolare462. 459 Ibid., p.214. Ibid., p.215. 461 Ibid., p.217 462 Ibid., p.219. 460 169 Nell’analisi gli opposti sono in primo luogo il paziente e l’analista, come re e regina sono gli opposti nel processo alchemico. Nel transfert deve pur sempre trattarsi di opposizione, per quanto le due persone che vi sono implicate non siano effettivamente “opposte” dal punto di vista umano, cosciente e sociale: l’analisi si innesta su una piega della realtà quotidiana e sociale, non si svolge sul piano dell’ordinario ma penetra in profondità attraverso le sue crepe e le sue falle. Jung ci avverte che, trattandosi del rapporto tra la coscienza del soggetto e la parte di personalità di sesso opposto proiettata, nella relazione analitica la situazione si complica notevolmente. In quanto Re e Regina sono frutto di proiezioni, rappresentano il lato inconscio di sesso opposto di adepto e soror, per cui dovremo distinguere quattro piani di relazione: a) una relazione semplice sul piano personale tra adepto e soror, b) una relazione dell’uomo con la sua Anima, e una relazione analoga della donna con il suo Animus, c) una relazione tra Animus e Anima e viceversa, d) una relazione dell’Animus femminile con l’uomo (che si attua se la donna si identifica con l’Animus), e una relazione dell’Anima maschile con la donna (che si verifica se l’uomo si identifica con la sua Anima)463. Questa situazione può esser descritta dal modello seguente: 463 Jung, OC XVI, pp.228 sgg. 170 Adepto <------------------(a)--------------------->Soror Λ \ / Λ I \ / I ca I \ / I I (b) X I (b) I (d) / \ (d) I I / \ I V / \ V Anima <------------------(c)--------------------->Animus, che ha un esatto corrispondente in ciò che si può dedurre dall’accurata analisi della traslazione. Il dialogo tra analista e paziente si svolge infatti: a) sul piano della coscienza, che non implica la vita profonda dei due b) tra la coscienza e l’inconscio dell’analista da un lato, e tra la coscienza e l’inconscio del paziente dall’altro c) esclusivamente sul piano dell’inconscio d) tra la coscienza dell’analista e l’inconscio del paziente, e viceversa464. Nella condizione ideale l’analista deve avere una maggiore disponibilità al dialogo con il proprio inconscio (b) di quella del paziente, e deve quindi poter disporre sul piano conscio delle sue funzioni inconsce, in primo luogo la funzione animica, che come sappiamo è la fondamentale figura di relazione alla psiche inconscia. Se il dialogo si svolge esclusivamente sul piano a) non vi sarà che uno scambio superficiale; se si svolge anche sul piano c) vi sarà una reciproca influenza inconscia senza che si instauri un vero e proprio rapporto terapeutico; quest’ultimo, infatti, si stabilisce soprattutto sul piano d). 464 Silvia Montefoschi, Jung, un pensiero in divenire, pp.121-128. 171 Questo richiede infatti la consapevolezza, in primo luogo da parte del terapeuta, di ciò che avviene sul piano dell’inconscio: egli può utilizzare consapevolmente le sue caratteristiche di sesso opposto nei confronti del paziente, mentre quest’ultimo tende ad identificarvicisi e ad usarle coattivamente465. I rapporti incrociati descritti in questo modello trovano numerosi riscontri nelle fiabe, come nei modelli sociologici che caratterizzano la famiglia tribale466. E’ l’archetipo delle coppie incrociate, definito da Jung “quaternio coniugale”, corrispondente tra l’altro ai risultati delle ricerche di John Layard sul tabù dell’incesto467. Lo psicologema proprio della traslazione si traspone sociologicamente nel matrimonio di un uomo con la figlia del fratello della madre. Egli dà sua sorella in sposa al fratello di sua moglie (“sister-exchange-marriage”). Da cui il cosiddetto “cross cousin marriage”. Questo fenomeno sociologico di notevole importanza, con tutte le sue varianti, è il frutto di un compromesso tra la tendenza esogamica e la tendenza endogamica. Secondo le stesse premesse di Layard, qui è in questione il conflitto tra la tendenza ad un soddisfacimento puramente biologico del desiderio, ed un ambito spirituale in cui il desiderio primario di ricongiunzione con l’origine può essere soddisfatto. Così lo psicologema caratteristico dell’alchimia trova degli antecedenti storici nelle fiabe e nei matrimoni incrociati presso le tribù primitive, tutti corrispondenti al medesimo archetipo del quaternio coniugale. Ma nell’arte regia il soddisfacimento spirituale della pulsione che il tabù dell’incesto vieta non si trova 465 Sono di grandissima efficacia i chiarimenti in merito della Montefoschi, ibid., in particolare le esemplificazioni della dinamica traslazionale, alle pp.126-128. 466 Jung, OC XVI, La psicologia della traslazione, pp.233-239. 467 John Layard, The Incest Taboo, 1945, pp.253 sgg. 172 proiettata nell’ambito della sacralità trascendente, quanto nell’immanenza della materia. L’operatività concreta dell’alchimista si tinge così dei toni della spiritualità ultraterrena. 2.4_ Interpretazione psicologica delle immagini del Rosarium philosophorum. Veniamo dunque alla vera e propria descrizione del processo alchemico-terapeutico attraverso le immagini simboliche del Rosarium,e del loro significato psicologico. 1_ La prima raffigurazione468 del Rosarium è una complessa rappresentazione dell’oscuro fondamento dell’opera alchemica e delle sue fasi. Le quattro stelle agli angoli definiscono una “quaternità quadratica”, che denota uno stato caotico e conflittuale dei quattro elementi, dai quali dovrà essere estratta la quinta essentia: la quinta stella al centro in alto. Il procedimento avverrà nella matrice rotonda e perfetta della fontana. Questa rappresenta infatti il vas hermeticum contenente l’acqua mercuriale che sgorga circolarmente da tre tubi – Mercurio è infatti triunus ed è un’analogia ctonia della trinità 468 Jung, OC XVI, La psicologia della traslazione, pp.212-218. 173 celeste.Tra la fonte mercuriale e la quintessentia stanno Sol e Luna, i genitori della metamorfosi mistica. La duplice colonna di fumo che si diparte dal duplice serpente mercuriale sta a ricordare la circolarità del processo di distillazione, nonché il nesso dell’alto con il basso (Tabula smaragdina): sono i due fumi di Maria l’Ebrea o la Copta 469 . Ed è Proprio alla stessa Maria Prophetissa i filosofi attribuivano il celebre detto ermetico nel quale l’opus era descritto come una via dall’Uno all’Uno attraverso il Quattro: “L’Uno diventa Due, i Due diventano Tre, e per mezzo del Terzo, il Quarto compie l’Unità” (“assioma di Maria”). La tetrametria (quadripartizione) del processo di trasmutazione inizia appunto con i quattro elementi (=caos), procede con la triade mercuriale, raggiunge la dualità dei Sol e Luna, per culminare nella natura una e incorruttibile del Lapis. Quest’immagine simbolica descrive il metodo e la filosofia che gli alchimisti credevano di estrarre dalla materia. Tuttavia, secondo la celebre tesi di Jung, essi non facevano altro che proiettare nell’alambicco la propria inconscia aspirazione a divenire ciò che erano. La quaternità significa psicologicamente la totalità caotica e conflittuale, l’iniziale condizione di illibertà. La triade rappresenta l’attività maschile, la determinazione volitiva che la diade femminile accoglie passivamente. L’acqua mercuriale rappresenta l’inconscio collettivo, la materia prima del processo di analisi. 469 Artis auriferae, vol.1, p.321: “Ipsa sunt duo fumi complectentes duo lumina”. 174 2_ Nella seconda immagine470 Re e Regina, posti rispettivamente su Sol e Luna, si vengono incontro in abiti regali. I due si reciprocamente la sinistra, gesto inusuale... le sostengono tendono mano alquanto mani destre invece una struttura formata da cinque (4+1) fiori, rappresentanti i quattro elementi (due attivi e maschili, e due passivi e femminili) più la quinta essentia retta dalla colomba, simbolo eminente dello Spirito Santo (l’arte regia è infatti donum Spiritus Sancti). La struttura evoca il simbolo dei Rosacroce, per quanto la costituzione del movimento sia posteriore alla stesura del Rosarium. I tre steli ricordano la triplice fonte mercuriale della prima figura da un lato, mentre dall’altro alludono ai tre autori dell’opera: il Re, la Regina e lo Spirito Santo. Questa triade, associata ai cinque fiori, dà luogo a un ogdoade – una doppia quaternità. Da un punto di vista psicologico, l’incontro delle mani sinistre sta ad indicare la congiunzione dell’inconscio471, ovvero l’inconscia unità di paziente e terapeuta già fin dal primo incontro: l’inconscio è ciò che unisce a priori medico e paziente. Ma l’abbigliamento formale ed il gesto complesso delle mani 470 Jung, OC XVI, La psicologia della traslazione, pp.219-242. I seguaci del tantrismo chiamano il segreto da custodire scrupolosamente “il sentiero della mano sinistra”. La sinistra è la parte del cuore, e “sinistro” è detto ciò che è oscuro e sfavorevole. 471 destre sta ad indicare il carattere ancora distaccato dell’incontro, che corrisponde alla diffidenza con cui a tutta prima analista e paziente si approcciano. Il simultaneo intervento dello Spirito Santo evoca il carattere sacro dell’incesto a cui si allude. L’incesto è l’unione dell’essere con sé stesso, l’individuazione o il divenire del Sé (totalità psicologica). Tornando al modello del “quaternio coniugale” descritto sopra possiamo notare che la sua struttura è analoga a quella formata dalle mani sinistre e dai fiori nelle destre. L’incontro avviene sul piano a) e sul piano c). L’unione sul piano inconscio avviene all’insaputa delle rispettive coscienze, le quali si incontrano perlopiù formalmente. Non è ancora avvenuta una presa di consapevolezza da parte del paziente, né un’azione della coscienza del terapeuta sull’inconscio del paziente472. Questo corrisponde al carattere perlopiù inconsapevole del transfert, come di qualsiasi forma di proiezione. 3_ Nella terza immagine i coniugi regali sono completamente nudi, e l’incontro avviene ancora tramite l’incrocio dei fiori. La mano sinistra della Regina regge lo stelo, la destra tocca il fiore. Il Re lo tocca invece con la sinistra e regge lo stelo con la destra. Con il fiore sorretto dalla colomba si viene a formare un’esade, ovvero una doppia triade. E’ infatti iniziata una fase 472 Silvia Montefoschi, Jung, un pensiero in divenire, pp.129-131. 176 attiva: avviene finalmente l’incontro tra la coscienza dell’uno e l’inconscio dell’altro, e viceversa (piano d). Nell’iscrizione Sol chiede infatti la mano di Luna, e Luna si concede a Sol. Ciò accade in quanto è stato abbandonato l’atteggiamento formale: il veli pudichi sono caduti473. Il denudamento preclude all’amore carnale, ma la colomba sta a sottolineare il valore simbolico dell’unione, che trascende l’immediatezza della pulsione. L’unione è in spirito: “Spiritus est qui unificat”, reca la scritta. La caduta della maschera delle convenzioni significa anche psicologicamente la presa di coscienza dell’Ombra dell’Io (inconscio personale), mediante la quale “l’uomo diventa per così dire corporeo”474. Inoltre l’Io e la sua Ombra non persistono più in uno stato di dualità o di scissione, ma si compongono in unità, sia pure conflittualmente. 4_ Il immagine475 bagno è della quarta naturalmente il bagno mercuriale in cui ha luogo la solutio476 degli opposti regali. Più precisamente l’acqua è il corrispondente ctonio dello Spirito che scende dall’alto477. Il testo del 473 Cfr. Cantico dei Cantici, 5.3: “Expoliavi me tunica mea”. Jung, OC XVI, La psicologia della traslazione, p.246. 475 Ibid. , pp.247-252. 476 Nella Visio Arislei Gabricus si dissolve nel corpo di sua sorella Beja. Ma la dissoluzione delle membra è ricorrente: è ciò che accade allo sventurato Re Merulinus che finisce per prendersi una memorabile sbornia d’acqua. 477 La natura spirituale dell’acqua è una concezione diffusa fina dall’antichità classica, ma anche nella tradizione ecclesiastica. Spesso l’acqua è Spirito divenuto corporeo. Vedi ad es. Hoghelande, in Theatrum chemicum, vol.1, p.186, dove essa è “spiritus qui in ventre (corporis) occultus est, et fiet aqua et corpus absque spiritus: qui est spiritualis naturae” – ma nella tradizione è anche ricorrente il nesso con l’anima e con la morte: “E’ morte per le anime diventar acqua” (Eraclito). 474 177 Rosarium dice “Anima est Sol et Luna”, dunque essa rappresenta il legame amoroso tra Re e Regina – il vinculum tra spirito (Re) e corpo (Regina). E’ la concezione della psiche di origine neoplatonica come anima media natura. Conformemente alla concezione junghiana, l’anima è dunque una funzione di relazione478. L’immersione nel bagno è chiaramente una discesa nell’inconscio, un viaggio notturno per mare479. L’emergere del Mercurio ctonio ha il significato di una libido sessuale in contrapposizione all’amore solamente spirituale della colomba, che tuttavia permane. E’ la presa di coscienza delle fantasie sessuali, e la corrispondente tonalità della traslazione. 5_ La congiunzione propriamente avviene solo nelle raffigurazioni 5 e 5a480. Le onde del mare si sono richiuse sulla coppia ritornata così nel caotico stato primordiale. Il testo del Rosarium cita l’alchimista arabo Khālid: “Prendi il cane coetaneo e la cagna armena, accoppiali e ti genereranno un cucciolo”481. Il figlio, di cui Khālid dice che è “del colore del cielo”, è l’Uno che nasce dalla Coniunctio, il luminoso philius philosophorum, il Lapis. 478 Jung, OC XVI, La psicologia della traslazione, p.240 e 250. E’ una nekya, o una descensus ad inferos, ma le varianti sono innumerevoli: dall’annegamento del re, al leone verde che ingoia il sole, alla discesa del sole nella fonte, o dell’iniziato nel ventre della balena, alla dissoluzione nel corpo dell’amata, etc. 480 Jung, OC XVI, La psicologia della traslazione, pp.253-261. 481 Rosarium philosophorum, p.248. La citazione di Khālid proviene dal Liber secretorum alchemiae..., in Artis auriferae, vol.1, p.340. 479 178 L’immagine è spiccatamente erotica, ma Jung invita a coglierla nel suo significato simbolico. L’unione dei corpi avviene infatti nell’acqua, nella profondità dell’inconscio e, come suggeriscono le ali della variante 5a, ha un senso fortemente spirituale. Se è sparito il simbolo unificatore delle immagini precedenti è perché i due partner sono diventati essi stessi simbolo: “l’unione a livello biologico è simbolo dell’unio oppositorum nel senso più alto. Con ciò si vuol dimostrare da un lato che nell’arte l’unione regia dei è contrari altrettanto essenziale quanto per il senso comune la cohabitatio; dall’altro che l’Opus è un’analogia del processo naturale, e che per sua virtù l’energia istintuale si trasfonde, almeno in parte, in attività L’accoppiamento simbolica”. è dunque la höere Begattung di Goethe482. L’unio mystica degli opposti regali è il simbolo che finalmente allude alla totalità, allo stesso modo in cui la realizzazione dell’identità inconscia di paziente e analista è una tappa fondamentale nel loro percorso di raggiungimento della totalità psicologica (individuazione). Ciò che è inconscio è infatti non tanto il paziente, quanto la relazione che tra essi intercorre: in questo senso si può dire che la relazione è il mistico. 482 Goethe, Divano occidentale-orientale, “Beata nostalgia”: “Non più rimani circoscritto/ Nell’ombra dell’oscurità, / E nuovo ardore ti rapisce / A una più alta congiunzione/”. 179 6_ Alla festa della vita che si attua nella coniunctio segue un’immobilità simile alla morte: dopo che i contrari sono entrati in relazione si appianano i dislivelli e viene a mancare ogni energia. La sesta immagine483 reca infatti il titolo “putrefactio” (imputridimento e dissoluzione). “Qui giacciono morti Re e Regina/ Con grande pena l’anima se ne separa”. La “grande pena” dell’anima che segue all’incesto, per quanto regale esso sia, corrisponde al doloroso stato di nerezza. Questa svolta catastrofica è – neanche a dirlo – la nigredo, oggetto di tante e così diffuse lamentazioni da parte dei filosofi. Ma l’iscrizione dell’immagine ci avverte che qui si tratta anche di conceptio: questa morte è la condizione per la nascita di una nuova vita, allo stesso modo del seme di grano nella terra484. Vita e morte non sono qui dei fatti che riguardano l’individuo, ma sono considerati su scala macrocosmica – dal punto di vista del processo naturale. In questo processo di morte e rinascita che sta a fondamento dell’Opus la psicoterapia riconosce il processo psichico per eccellenza, in quanto riconosce chiaramente il contenuto delle nevrosi di traslazione. Al ritiro ed integrazione delle proiezioni (Ombra personale) l’individuo si trova dinnanzi ai 483 Jung, OC XVI, La psicologia della traslazione, pp.262-70. Hortulanus, Tabula smaragdina a cura di J.Ruska, p.186: “Vocatum (lapis) etiam granum frumenti, quod nisi mortuum fuerit, ipsum solum manet”,etc. 484 180 contenuti collettivi. La personalità si amplia a tal punto che l’Io viene in larga misura abolito. La putrefazione significa infatti la dissoluzione dell’Io nell’inconscio che fa seguito al ritiro delle proiezioni: si tratterà di delirio di grandezza nel caso di inflazione positiva, o di annientamento dell’Io nel caso di inflazione negativa. Ma come in alchimia la morte significa il concepimento del filius philosophorum, così dall’unione della coscienza dell’Io con l’Anima inconscia si genera una nuova personalità trascendentale e trans-soggettiva: il Sé, ovvero il simbolo unificatore che, in quanto è una complexio oppositorum può essere espresso soltanto mediante figure simboliche. 7_ La separazione dell’anima dal corpo e la sua ascesa al cielo485 fa riferimento secondo Jung alla perdita di un orientamento razionale in seguito alla presa di coscienza dell’inconscio collettivo, fino alla possibilità limite dissociazione di una psicotica (schizofrenia). Ma se l’ascesa al cielo rappresenta la morte dell’Io, indica anche l’esigenza di “estrarre” una nuova coscienza dal tessuto dell’inconscio collettivo (extractio animae). 485 E’ la settima figura, che Jung commenta in OC XVI, La psicologia della traslazione, pp.271-276. 181 In questa fase è fondamentale che il paziente non si identifichi alle figure collettive. Al suo naturale disorientamento deve far fronte l’orientamento del terapeuta. E’ una fase prettamente intellettuale, ma di un intelletto che deve adeguarsi alla natura dell’inconscio senza pretendere di sovrastarlo con teorie e dottrine. Esso così “integra l’inconscio al punto che gradualmente emerge un punto di vista superiore in cui sono rappresentati l’uno e l’altro elemento: coscienza e inconscio”486. 8_ Nell’ottava immagine487 la rugiada scende e lava dalle impurità il corpo nero che si sta putrefacendo nel sarcofago. E’ la fase dell’imbiancamento (albedo seu dealbatio), il sorgere della luce dopo le tenebre notturne. L’acqua che cade a inumidire la terra, preannunciando il ritorno dell’anima, è l’aqua doctrinae, ovvero la sapientia ispirata all’alchimista da Dio, ed il frutto dello studio fervente dei “libri”. Ma il testo del Rosarium contiene anche un invito a non fermarsi ad una mera comprensione teorica ed intellettuale, considerandola il compimento dell’opera. Sul piano psicologico, ciò equivarrebbe a considerare come fine del lavoro analitico il fatto di aver reso coscienti i contenuti inconsci e di averli eventualmente illuminati con una valutazione teorica. 486 487 Ibid., p.274. Ibid., p.277 sgg. 182 In seguito alla dissoluzione nell’inconscio, ed alla sua relativa identità con i fattori inconsci, l’Io è contaminato dal corpo spesso e pesante. L’impurità e l’immunditia percepita dagli alchimisti corrisponde alle commistioni inflazionistiche delle quali si dovrà liberare attraverso un processo circolare di sublimazione e di distillazione: è lo stadio dell’iterum mori, ovvero della morte reiterata. La mundificatio è dunque una separazione della coscienza individuale dal pericoloso amplesso dell’inconscio collettivo, dell’Io empirico dall’uomo “eterno” ed universale. La mundificatio ad opera dell’aqua sapientiae equivale a un processo di eliminazione del superfluo e di esplicitazione dell’idea contenuta nell’inconscio e nei sogni. Ma il solo pensiero pregiudicherebbe il sentimento, impedendo il ritorno dell’anima. Il cuore, il “sentimento” garantisce infatti, anche nella pratica terapeutica il valore vincolante a ciò che è stato compreso, rende reale il confronto con l’altro, e denota un certo legame con l’esistenza. 9_ nona L’interpretazione figura488 complessa. In è della piuttosto sintesi essa rappresenta il ritorno dell’anima che discende dal cielo per riportare in vita il cadavere. La coppia di uccelli, l’uno capace di volare e l’altro ancora implume richiama la duplice natura dello spirito ctonio – Mercurio – ed indica il permanere del conflitto a 488 Ibid., pp.285-305. 183 livello inconscio. Il testo del Rosarium prosegue citando Morienus: “Cinerem ne vilipendas: nam ipse est diadema cordis tuis”489. La cenere corporea è infatti paradossalmente la corona dell’anima, la quale a sua volta discende dal cielo incoronata come un re. “L’anima che si riunisce al corpo è l’Uno dei Due, in quanto vinculum comune. L’anima appare così come la quintessenza della relazione”490. Con il dissolversi delle proiezioni, e la distinzione Io-inconscio, l’anima diventa funzione di relazione tra Io e inconscio. Sostanzialmente diversa sarà la funzione dell’Animus femminile: la funzione animica nella donna è difatti prettamente intellettuale-discriminatrice, piuttosto che erotica. I due uccelli in basso a sinistra stanno ad indicare il permanere del conflitto a livello inconscio. Processi come la coniunctio e il ritorno in vita del corpo si svolgono infatti interamente nell’inconscio collettivo. L’ermafrodito è figlio degli opposti: li contiene in sé e ad un tempo li supera. Così l’opposizione permane, ma la natura ha già fatto emergere da essa e oltre ad essa una nuova nascita. 10_ E difatti la decima e ultima figura491 rappresenta il filius philosophorum nella forma di uomo primordiale androgino, in cui è implicito il parallelo con Cristo. Cristo è infatti l’Anthropos per eccellenza. Nella tradizione gnostica ed ecclesiastica non mancano riferimenti all’androginia di Cristo, anche se la figura dell’ermafrodito è sicuramente molto più antica. Non è casuale che questa sia proprio la decima figura: il denarius è spesso 489 Rosarium philosophorum, p.283. Jung, OC XVI, La psicologia della traslazione, p.295. 491 Ibid., pp.307-319. 490 184 allegoria Christi, ed il dieci è il numero perfetto in quanto somma dei quattro numeri dell’“assioma di Maria” (1+2+3+4)492. In quanto rappresenta il culmine dell’opera non può essere superato se non mediante la cosiddetta multiplicatio: può espandersi all’infinito in ragione di 10, 100, 1000, etc. senza mai esaurirsi. Pertanto esso è un creatum-increatum, l’Uno da cui tutto è nato: “...Ipsa omnia sunt ex uno et de uno et cum uno, quod est radix ipsius”493. Tornando alla figura, possiamo osservare il Rebis ritto in trionfo sopra la luna, il ricettacolo femminile e vas. Le ali ne stanno ad indicare il carattere spirituale. In una mano regge il calice eucaristico con un serpente tricefalo, e nell’altra un solo serpente. E’ indubbiamente riferimento presente all’“assioma il di Maria”. I tre serpenti a sinistra rappresentano un equivalente ctonio della Trinità: quello a destra la loro unità nel serpens mercurialis. Il simbolismo del serpente, comunque, evoca il problema del male: il corvo alla sinistra del Rebis è difatti sinonimo del demonio. Al lato opposto si leva l’“albero del sole e della luna”, l’arbor philosophica della sapienza. 492 “Numerus perfectus est denarius”; la stessa concezione è già presente presso i pitagorici, come è testimoniato da Ippolito. Penetrò nell’alchimia probabilmente attraverso la Turba philosophorum, ama la si ritrova in molto autori come Senior, Artefius, e poi Dorneus e John Dee. Cfr. Jung OC XVI, La psicologia della traslazione, p.307, n.1. 493 Rosarium philosophorum, p.369. 185 Il carattere mostruoso della meta dell’opera può essere ben spiegato da un lato col valore compensatorio rispetto alla simbologia cristiana, le cui figure sono sempre benevole e luminose; dall’altro la deformità del Rebis, si spiega con la natura autentica della meta: la perfectio operis, come totalità dell’uomo potrà essere descritta solo per antinomie. Psicologicamente, infatti, esso rappresenta il Sé, che è per definizione una complexio oppositorum, la cui unità può essere colta solo come “un’esperienza vissuta intuitiva e sentimentale”. L’opus è un processo di individuazione del Sé, o dell’uomo originario il quale in ultima analisi è il vero artefice: “perciò il filosofo non è il maestro della pietra, bensì ne è il servo”494. Il testo del Rosarium riporta un lungo poema sulla natura dell’androgino, che presenta senza dubbio un notevole interesse psicologico. L’androgino è senza dubbio l’Anima, la quale è rinata dalla sua sfavorevole condizione originaria (inconscia) ed è diventata feconda: tanto è vero che si accoppia con suo figlio – così dice il poema – e nasce contemporaneamente ad esso, pur restando vergine. Questo paradosso temporale è tipicamente connesso con la natura atemporale dell’inconscio, per cui non vale l’ordinaria successione temporale. La fine del poema contiene un accenno all’immortalità: l’idea di una sostanza eternamente durevole (aqua permanens, incorruptibilitas lapidis, elixir vitae, cibus immortalis) è anch’essa connessa alla natura atemporale dell’inconscio. L’esperienza del Sé è infatti connessa ad un sentimento di atemporalità o di eternità. 494 Rosarium philosophorum, p.356. 186 Capitolo 3_ L’opera simbolica « Habentibus symbolum facilis est transitus » [Facile è il passaggio per coloro che possiedono il simbolo] Mylius, Philosophia reformata 3.1_ Carattere simbolico dell’Opera “Chiunque possieda una sia pur limitata conoscenza della letteratura alchemica sa che agli adepti interessava ottenere l’unione finale delle sostanze, qualunque nome attribuissero a queste ultime. Mediante tale combinazione essi speravano di portare a compimento l’Opera, ossia di giungere alla produzione dell’oro o di un suo equivalente simbolico. La congiunzione è senza dubbio l’immagine primordiale di ciò che noi oggi chiamiamo combinazione chimica. Ma non è possibile dimostrare in maniera evidente che l’antico adepto parlasse in termini concreti, come fa il chimico moderno. Quando parla di unione delle “nature” (νβΦ,4Η), di una “lega” di ferro e rame o di una “combinazione” di zolfo e mercurio, l’alchimista intende nello stesso tempo un simbolo”495. Riscattando l’alchimia dal ruolo alquanto riduttivo di antenata della moderna chimica Jung ne riscopriva il “carattere prevalentemente simbolico”. Il simbolo ha un ruolo centrale nel nesso che egli istituì tra la propria psicologia e la tradizione alchemica: non solo, come si è visto nelle pagine precedenti, sul piano dei contenuti e dei materiali di comparazione, ma soprattutto ad un livello teorico e metodologico. La concezione junghiana del simbolo è in larga parte debitrice a quel sapere che 495 Jung, OC XIV, p.458. 187 i praticanti dell’“arte regia” possedevano per così dire istintivamente. Va precisato che rilevare il carattere simbolico dell’opera alchemica non significava tanto, come si è spesso creduto, rinnegarne l’operatività concreta: “simbolica” è anzitutto la coesistenza di quest’ultima con il processo psicologico. Individuazione e trasformazione della materia stanno in reciproca corrispondenza attraverso il processo di proiezione, ma questa proiezione, oltre ad essere un’“illusione oggettivata”, è anche espressione dell’originaria participation mystique della mente umana con la realtà naturale. Il processo simbolico degli alchimisti ha pertanto il suo baricentro nell’esteriorità della materia, la quale ha tra l’altro il potere magico di condurre l’adepto al perfezionamento interiore. Del resto, quando giunge a riconoscere che “noi siamo la pietra” (Dorneus), lo stesso alchimista intuisce l’unità simbolica del processo materiale con quello psicologico, ma quest’ultimo non giunge ad un sufficiente livello di consapevolezza per esser preso seriamente in considerazione. Secondo Jung l’opera di perfezionamento ha invece un carattere essenzialmente interiore. Dopo secoli di occultamento di questa forma di sapere la psicologia riconosce la prima materia nell’inconscio, ma ciò non vuol dire che il mistero simbolico abbia perduto la sua potenza originaria. Come stanno a dimostrare gli studi sulla sincronicità, ciò non significava in alcun modo escludere il nesso concreto tra materia psichica e materia fisica. In ultima analisi l’opera psicologia è, nella sua forma e costituzione, “simbolica” quanto l’opera alchemica, con la sola differenza che pone 188 l’accento prevalentemente sull’interiorità della psiche: la psicologia ha infatti “ritirato la proiezione” del processo. Quindi la ricerca della “pietra dei filosofi” non può essere intesa in senso meramente metaforico, né tanto meno allegorico. L’Opera va definita “simbolica” in quanto gli alchimisti seppero o tentarono comporre concretamente i piani operativi paralleli, siano essi materiali o spirituali, concreti o astratti, sostanziali o espressivi, pratici o teorici, empirici o trascendentali, oggettivi o soggettivi. Questo operare “simbiotico” dell’adepto non è il frutto di una riflessione, ma ha il carattere immediato di un gesto compensatorio nei confronti dell’unilateralità della coscienza scientifica del suo tempo. L’alchimista ha un’infallibile istinto olistico, ciò che ha di mira è comunque la totalità. Sulla base di queste considerazioni nemmeno il nesso che Jung istituì tra la propria psicologia e l’opera alchemica può essere inteso metaforicamente. 3.2_ La trasformazione simbolica La concezione del simbolo costituisce una delle più notevoli acquisizioni teoriche della produzione scientifica di Jung. Egli eredita questa problematica in particolare dal romanticismo, e la recupera ad un superiore livello di consapevolezza dopo l’occultamento della psicologia positivista. Da un lato essa svolge un ruolo fondamentale quale cifra espressiva del pensiero alchimistico; dall’altro, il riconoscimento della forma simbolica costituisce per il nostro autore uno dei momenti chiave di presa di consapevolezza del proprio metodo psicologico: il simbolo 189 costituisce l’autentico motore del processo di congiunzione degli opposti. “Solo dopo che l’alchimia mi fu diventata familiare – scrive nella sua autobiografia – capii che l’inconscio è un processo, e che la psiche si trasforma o si sviluppa a seconda della relazione dell’Io con i contenuti dell’inconscio. [...] Attraverso lo studio dei processi individuali e collettivi di trasformazione, e grazie alla comprensione del simbolismo alchimistico, pervenni al concetto centrale della mia psicologia: il processo di individuazione”496. In questa parte conclusiva della ricerca occorre comprendere in che senso la trasformazione psicologica, come quella alchimistica, sia il frutto della congiunzione ovvero della relazione dialettica degli opposti. E’ questa la funzione eminente del simbolo, ovvero quella di com-porre (συµ−βςλλειν) gli opposti che altrimenti minaccerebbero di distruggere la coscienza497. L’individuazione come trasformazione psichica è sempre il frutto della connessione polemica di coscienza e inconscio, i due opposti par excellance della psiche, rappresentanti uno il suo lato luminoso e l’altro il suo lato oscuro. E’ nel dialogo appassionato tra luce e tenebre che l’uomo vive e trasforma se stesso. In quest’opera simbolica, che è il più alto compito etico, oltre che psicologico, l’individuo diviene a sua volta simbolo.Per usare le parole di Mario Trevi “il simbolo junghiano si manifesta perlopiù in immagini compositive, capaci di “tenere assieme” o comporre opposti altrimenti inconciliabili da parte del pensiero razionale, 496 Jung, Ricordi, p.254-5. Umberto Galimberti, La terra senza il male. Jung, dall’inconscio al simbolo. In tutta la trattazione della dottrina junghiana del simbolo faremo ampio riferimento a questo testo, ai preziosi lavori di Mario Trevi, in particolare Simbolo, progetto, utopia; Per uno junghismo critico; Per una valutazione critica di Jung; e Struttura e processo nella concezione junghiana dell’inconscio. 497 190 quegli opposti in cui appunto la coscienza sorvegliata e diurna si lacera e scompone” 498. In questo modo il simbolo esplica l’operazione più segreta e costitutiva dell’individuazione, ovvero la sintesi degli opposti: “Le immagini o simboli dell’inconscio assoluto rivelano il proprio valore se sono sottoposti ad un trattamento sintetico (non analitico). Come l’analisi (il procedimento causale-riduttivo) scompone il simbolo negli elementi che lo compongono, così il procedimento sintetico integra il simbolo in un espressione generale e comprensibile”499. In primo luogo bisogna intendere che tale “sintesi” non ha nulla a che fare con un processo di unificazione o di pacificazione degli opposti. Gli studi sulla concezione romantica del simbolo, in particolare quelli di Todorov (1977), ne hanno messo giustamente in luce la funzione sintetica. Tuttavia, come osserva lo stesso Trevi, nel caso di Jung dobbiamo parlare di “sinteticità non unificatrice”: questa operazione non comporta alcuna unificazione o superamento degli opposti in senso hegeliano. Nel simbolo gli op-posti restano posti in tutta la loro tensione reciproca500. Come rappresentante della totalità psicologica, il Sé è l’espressione emblematica di questa situazione, in quanto è esplicitamente definito come una complexio oppositorum. La complexio sta ad indicare appunto uno stato di com-plicazione risultante dalla relazione dialettica degli opposti. L’ideale junghiano della totalità non tende tanto all’unità quanto alla complessità. Nonostante la sua apparente semplicità originaria il 498 Trevi, Per una valutazione critica dell’opera di Jung, p.24. Jung, Psicologia dell’inconscio, OC VII, pp.148-149. 500 Trevi, Per uno junghismo critico, p.193 sgg. 499 191 simbolo “copre sempre una situazione complessa, che si trova talmente al di là della portata del linguaggio da non potere generalmente essere espressa in modo univoco”501. Pertanto, se da un lato il simbolo agisce conciliando le opposte tendenze, dall’altro esso non rappresenta in alcun modo un compromesso unificante: nulla di più distante dall’idea di un “giusto mezzo”. La mediazione simbolica offre piuttosto alla coscienza “un terzo termine in cui gli opposti possano unirsi. Qui l’intelletto con la sua logica si trova di solito costretto ad abdicare, perché non esiste un terzo termine, un’alternativa logica. Il “solvente” può essere solo di tipo irrazionale. In natura l’equilibrio tra gli opposti è sempre un processo, vale a dire un processo energetico: viene trattato simbolicamente nel senso più profondo della parola. Si compie infatti ciò che esprime entrambi i lati, così come una cascata rende visibili e collega tra loro un “sopra” e un “sotto”. Essa rappresenta in questo caso il terzo elemento incommensurabile”502. Del resto, come nota lo stesso Jung, il nesso tra la mediazione simbolica e la trasformazione era già ben chiaro agli alchimisti, che lo espressero nella complessa figura di Mercurio. Abbiamo già trattato estesamente della duplice natura di questo simbolo alchemico per eccellenza: si è visto come varius ille Mercurius sia definito di volta in volta il gemello, maschio e femmina ad un tempo, vecchio e bambino503, buono e cattivo etc. In quanto spirito degli opposti Mercurius duplex ne è anche il mediatore: “La Coniunctio – scrive Jung – non assume la forma 501 Jung, OC VI, p.244, Il simbolo della trasformazione nella messa. Ma sulla complessità del simbolo si veda in particolare la definizione dei Tipi psicologici, in OC VI, p.488. 502 Jung, OC XIV, p.495. 503 Si veda in proposito il Paedogeron, il “fanciullo vecchio” ritratto da Albrecht Dürer, Parigi, Louvre. 192 di un’unione immediata e diretta poiché necessita di un determinato mezzo oppure avviene in esso, secondo il motto “Non fieri transitum nisi per medium” (Solo attraverso un mezzo può avere luogo il passaggio). “Mercurius est medium coniungendi” (Mercurio è il mezzo della congiunzione)”504. Ma lo spirito dell’argento vivo non è certo un mediatore dei più concilianti: piuttosto è quel tratto implicito, difficile a cogliersi, in cui gli opposti sono tenuti assieme in tutta la loro tensione. Questo “luogo simbolico” è a tal punto intenso e carico di turbolenze che è impresa alquanto ardua starvi appresso a lungo. E’ dunque comprensibile che gli alchimisti riconoscessero in Mercurio, oltre che un mediatore, un principio elusivo e sfuggente (cervus o servus fugitivus). Questa figura sapienziale della congiunzione alchemica condivide con il simbolo junghiano una caratteristica saliente: nel momento in cui scatena il “dissidio violentissimo”, sfugge alla stessa logica dell’opposizione. Laddove pone in relazione gli opposti, contemporaneamente li trascende. Il “dio dai mille mutamenti” esprime dunque “la “disposizione mediana” (dispositio media) attraverso cui si può giungere in profondità. Essa costituisce il “mezzo tra la profondità e la larghezza” (media est inter profunditatem et latitudinem), come tra due estremi o due opposti (contraria). Evidentemente il nostro autore [Alberto Magno] ha in mente l’idea di una croce, poiché la profondità sottintende anche l’altezza. In tal modo si allude dunque alla quaternità, simbolo del Mercurius quadratus che, in quanto Lapis, è formata di quattro elementi. Esso occupa dunque il punto centrale nella quaternità cosmica e rappresenta la 504 Jung, OC XIV, p.461. 193 quintessenza, l’unità e l’essenza estratta dal mondo fisico, dunque l’anima mundi. Come ho già mostrato altrove questo simbolo corrisponde alle moderne rappresentazioni del Sé”505. Il testo di Alberto Magno commentato da Jung non fa altro che descrivere in un linguaggio immaginifico la struttura e la dinamica dell’agente alchemico di trasformazione. Ad una attenta osservazione le medesime cose potrebbero dirsi dell’agente psicologico di trasformazione: il simbolo. Anche quest’ultimo si costituisce infatti attraverso due movimenti indisgiungibili ed interdipendenti: la mediazione (coniunctio, συµ−βςλλειν) attraverso cui gli opposti entrano in relazione dialettica; l’affermazione di un tertium paradossale al di là degli opposti (funzione trascendente), che è l’autentico perno della trasformazione. Ne L’Io e l’inconscio (1928) Jung lamenta la mancanza nella cultura occidentale di “un concetto che serva a conciliare i contrasti in una via di mezzo (punto capitale dell’esperienza interiore), e tanto meno un nome che possa stare decentemente a lato del cinese tao”506. Questo aspetto rappresenta per così dire il movimento “orizzontale” attraverso cui si costituisce il simbolo: la coesistenza delle opposte tendenze l’una affianco all’altra. Il movimento per così dire “verticale” del simbolo è invece espresso da quella che Jung chiama la “funzione trascendente”507. Quest’ultima consiste nell’opera simbolica di liberazione dal contrasto tra coscienza e inconscio (nirvandva), 505 Jung, OC XIV, p.505. In questo passo Jung si riferisce al Liber octo capitolorum de lapide philosophorum di Alberto Magno, in Theatrum chemicum, vol.4, p.948 sg. Il commento di Jung si trova alle pp.499-505. 506 Jung, L’Io e l’inconscio, p.122. 507 ibid., p.138: “A questa modificazione [della personalità], che è raggiunta mediante il confronto con l’incoscio ho dato il nome di funzione trascendente”. 194 come “lo spirito sottile degli alchimisti si libera ascendendo dalla materia caotica per poi trasformarla508. Non è dunque un caso che “questa singolare capacità di trasformazione dell’anima umana, che si esprime appunto nella funzione trascendente,” fosse già “il precipuo oggetto della filosofia alchimistica del tardo medioevo, dove fu espressa col ben noto simbolismo degli alchimisti”. L’alchimia spirituale mosse dunque “il primo esitante passo della moderna psicologia”, il cui “segreto è il fatto della funzione trascendente, la trasformazione della personalità mediante la miscela e il legame di costituenti nobili e ignobili, delle funzioni differenziate e indifferenziate, del conscio e dell’inconscio”509. Analogo è il processo descritto da Jung nel saggio espressamente dedicato a La funzione trascendente (1957/58)510. Egli mostra come la prima parte del processo di individuazione consista essenzialmente nel lasciar emergere i contenuti compensatori dell’inconscio lasciando loro libero gioco. I contenuti opposti della coscienza e dell’inconscio formano così la “materia” prima del simbolo511, ma quest’ultimo non si costituisce finché i contenuti non siano messi attivamente in relazione. La seconda fase è costituita dunque dal confronto consapevole della coscienza con l’inconscio, che corrisponde all’instaurarsi della funzione trascendente. Tale confronto può infatti avere luogo solo se la coscienza dell’Io si differenzia da se stessa in quanto termine del conflitto. La coscienza egoica diviene dunque una coscienza autenticamente simbolica nel 508 Ibid., p.142-143. Ibid., p.138-9. 510 Jung, OC VIII, La funzione trascendente, pp.79 sgg. La prima redazione del saggio risale al 1916. 511 Cfr. Jung, OC VI, Tipi psicologici, p.491. 509 195 momento in cui l’Io “presta” la funzione trascendente, si pone cioè ad eguale distanza dai contenuti consci e da quelli inconsci. In virtù della propria capacità di essere oggetto a se stessa la coscienza è ad un tempo il trasformatore e ciò che è trasformato512. La funzione trascendente è un vero e proprio frutto del dialogo tra coscienza e inconscio, da cui scaturisce un terzo in cui i dialoganti si specchiano: “L’alternarsi degli argomenti e degli affetti rappresenta la funzione trascendente degli opposti. Il contrasto delle posizioni comporta una tensione carica di energia che produce qualcosa di vivo, un terzo elemento che non è affatto, secondo l’assioma tertium non datur, un aborto logico, ma è invece una progressione che nasce dalla sospensione dell’antitesi, una nascita viva che introduce un nuovo grado dell’essere, una nuova situazione. La funzione trascendente si manifesta come una caratteristica di opposti che si sono reciprocamente avvicinati”513. Può destare sorpresa il fatto che nella formazione del simbolo la coscienza svolga un ruolo così importante. Tuttavia, in diversi luoghi della sua opera, Jung ribadisce che i simboli, per quanto siano delle espressioni dell’inconscio, non hanno carattere esclusivamente irrazionale. L’origine del simbolo non è mai esclusivamente cosciente né esclusivamente inconscia: piuttosto esso sorge dalla equilibrata cooperazione (Mitwirkung) di entrambi i fattori514. Trevi ha rimarcato con grande chiarezza il ruolo essenziale della coscienza rispetto al costituirsi del simbolo: “Generantesi al 512 Cfr. Jung, OC VIII, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, p.219: “La coscienza di per sé non è solo una trasformazione, ma anche un trasformatore del quadro istintuale originario”. 513 Jung, OC VIII, La funzione trascendente, p. 105. 514 Jung, OC VI, Tipi psicologici, p.487-8. 196 di fuori del dirimente regime della coscienza, il simbolo ha tuttavia bisogno – e qui sta il segreto della sua più alta sinteticità – della coscienza che, sacrificando la sua logica analitica, lo assume faticosamente come ospite tanto problematizzante quanto creatore”515. La formazione del simbolo nell’inconscio va tenuta distinta dall’atto della coscienza che ne sancisce la costituzione autentica: “Che una cosa sia un simbolo o no dipende anzitutto dall’atteggiamento della coscienza che osserva”516. Con la sua proposta compositrice il simbolo chiama a nascere una nuova e più ampia coscienza”. Rispondendo affermativamente quest’ultima riconosce il simbolo e si apre al processo di trasformazione: “Se il simbolo è l’operatore della trasformazione, non c’è simbolo al di fuori della coscienza trasformantesi, come non c’è trasformazione della coscienza al di fuori del simbolo”517. Già nel saggio sull’Energetica psichica (1928) Jung aveva individuato il ruolo del simbolo nella “trasformazione della libido”518. Come apprendiamo in questo scritto, il simbolo opera attraverso il “trasferimento di intensità o valori psichici da un contenuto a un altro, analogamente alla trasformazione dell’energia”. Il “travaso” della libido su un analogo dell’oggetto pulsionale è reso possibile da un’“eccedenza libidica”, la volontà, attraverso la quale l’essere umano può disporre liberamente della propria energia e direzionarla ai propri fini: “Come l’uomo è riuscito a inventare la turbina, a deviarvi un corso d’acqua e a produrre, con l’energia motrice che ne ricava, l’elettricità suscettibile di 515 Mario Trevi, Per una valutazione critica dell’opera di Jung, p.25. Jung, OC VI, Tipi psicologici, p.485. 517 Mario Trevi, L’altra lettura di Jung, p.72. 518 Cfr. Jung, OC VIII, Energetica psichica, p.50-71. 516 197 molteplici applicazioni, così è riuscito a trasporre mediante una macchina la pulsione naturale, che scorre seguendo il suo gradiente naturale senza produrre lavoro, in un’altra forma dinamica che rende possibile ottenere lavoro”519. La macchina psicologica che opera la trasformazione dell’energia trasferendo l’interesse su un oggetto diverso da quello dell’istinto è appunto il simbolo520. A tutta prima l’attività simbolica sembra presentarsi in opposizione alla vita istintiva, sembra rappresentare cioè una deviazione patologica laddove quest’ultima non ha trovato modo di esplicarsi. Tale è la visione del primo Jung, che guarda ancora all’attività simbolica in maniera parzialmente negativa, ovvero nell’ambito dei meccanismi tipici di repressione e di sublimazione della libido521. Nelle opere successive appare sempre più chiaramente che il simbolo non ha la funzione di opporsi all’istinto, bensì di trasformarlo creativamente congiungendolo alla componente spirituale. Con questa attività è sorto l’uomo, ovvero ha avuto inizio la storia attraverso la quale esso diviene trasformando la propria essenza. In questo modo l’attività simbolica veniva a identificarsi sostanzialmente con l’attività spirituale, e a porsi come esigenza primaria ed irriducibile dell’essere umano, nel quale si realizzano ad un tempo la sua libertà ed il recupero della sua animalità 519 Ibid., p.51. Ibid., pp.55 sgg. 521 Cfr. Romano Madera, Carl Guastav Jung. Biografia e teoria, pp. 44-48. Ad esempio è evidente come nella prima edizione dei Simboli della trasformazione (Trasformazioni e simboli della libido, 1912) Jung sia ancora fortemente influenzato dalla concezione freudiana della libido, e quindi dalla sua lettura riduttiva del simbolico. Nella seconda edizione del 1952 la prospettiva muta sostanzialmente: “E’ nella diversa valutazione del pensare immaginale, della funzione simbolica, presente nell’edizione del 1952 che si può percepire il radicale mutamento di prospettiva operato nel lavoro dei quarant’anni trascorsi. Una innovazione che penso costituisca, insieme all’idea del processo di individuazione, il centro vitale delle concezioni junghiane e la cui portata investe l’asse non solo delle psicologie del profondo ma di ogni scienza della cultura”. 520 198 naturale. Come l’opera dell’artefice, l’’attività simbolica è un opus ad naturam contra naturam522. Nel simbolo l’immediatezza della tensione vitale si ri-piega su di sé: l’immagine simbolica raccoglie in sé, come in uno specchio tutta la ricchezza dell’essere naturale. Questa riflessione è ad un tempo il sorgere del simbolo e di una nuova coscienza. Quindi si danno due movimenti energetici fondamentali: il sorgere della vita ed il suo contenersi nella contemplazione di se stessa523. Silvia Montefoschi coglie chiaramente come nella concezione antropologica implicita in Jung l’uomo è un sistema vitale-conoscitivo in cui sempre più energia si sottrae alla dispersione entropica. L’uomo è questa tensione tra l’autocoscienza e l’immediatezza del suo esserci. In quanto sistema ordinato di attività vitali che riflette su se stesso, in quanto incontro di animalità e mediazione l’uomo stesso è nella sua essenza simbolo e trasformazione524. Nel simbolo è pertanto racchiuso il significato ultimo della trasformazione e del divenire della specie umana: “Se l’individuazione è quel passaggio dell’individuo da mero prodotto di cultura a produttore di cultura, da oggetto senza libertà a soggetto dotato di un sia pur sottilissimo margine di libertà, l’operatore ultimo di questo passaggio è il sintetismo del simbolo che compone o tenta di comporre, i divergenti bisogni dell’uomo”525. 522 Silvia Montefoschi, Jung, un pensiero in divenire, pp.24-25. Ibid., pp.26-27. 524 Ibid., pp.28-9. 525 Mario Trevi, Per una valutazione critica dell’opera di Jung, pp.25-26. 523 199 3.3_ Teorie del simbolo “A mio modo di vedere il concetto di simbolo va rigorosamente distinto dal concetto di mero segno. Significato simbolico e significato semeiotico sono cose completamente diverse”526. Nelle definizioni dei Tipi psicologici Jung ha cura di distinguere nettamente il concetto di segno come espressione analogica o abbreviata di una cosa nota, dal concetto di simbolo. Quest’ultimo “invece presuppone sempre che l’espressione scelta sia la migliore indicazione o formulazione possibile di un fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria”527. Ciò che caratterizza in prima istanza il simbolo junghiano è la sua eccedenza di significazione per cui le cose significano se stesse e anche altro. L’eccedenza semantica è ciò che si inserisce tra i segni, tra gli ordini e i codici, preservandoli dall’irrigidimento e dalla chiusura. Pertanto il simbolo insorge pericolosamente laddove si dà la disorganizzazione di un ordine o la disgregazione di una struttura, giocando in quel difficile intervallo in cui la definitiva distruzione è a malapena distinguibile dalla nuova creazione528. In ciò risiede l’autentica “pregnanza” del simbolo, ovvero nel fatto che esso reca il significato nascituro nascosto nel proprio ventre529. A differenza del segno linguistico, che esaurisce la sua funzione nel rimando al significato, il significante simbolico non rimanda ad alcunché di determinato: il significato appare 526 Jung, OC VI, Tipi psicologici, p.483. Ibid., p.484. 528 Umberto Galimberti, La terra senza il male, pp.56-58. 529 Mario Trevi, Per uno junghismo critico, p.193. 527 200 assente. Il correlato della pregnanza è l’“intransitività”530, che corrisponde esattamente alla dimensione individuata dai romantici (F.Schlegel, Novalis e Schelling), per i quali il simbolo è certamente carico di “senso” ma non ha un vero e proprio significato. La critica più attenta ha dunque rimarcato l’“asemanticità” essenziale di questa concezione del simbolo531. Ad ogni modo va precisato che non c’è vera e propria opposizione tra segno e simbolo: il primo è segretamente abitato dal secondo, come l’inconscio costituisce il “doppio fondo” nascosto della razionalità umana: “Tra il simbolo e il sistema della ragione non c’è dualismo, ma se mai una dissoluzione di tutto ciò che prevede di porsi come unico, come esemplare, come subordinante la ricchezza del molteplice”532. L’eccedenza semantica è resa possibile dal fatto che nel simbolo il segno de-terminato emerge, per così dire, con la propria ombra. Il simbolo porta necessariamente con sé un lato oscuro e originario: è l’“altro” della determinazione, attraverso il quale quest’ultima si trova “elevata” nell’origine e riconnessa alla totalità533. L’intrinseca instabilità del simbolo, che è il tratto saliente della sua capacità trasformativa, risiede proprio nel fatto che esso non ha “nulla” a fondamento. Questa caratteristica impossibilità lo infondatezza sbilancia s-fonda ad la un’apertura coscienza e estrema. La sua s-termina le de- terminazioni534. 530 Cfr. Todorov, Teoria del simbolo. Cfr. Ibid., pp.62 sgg. e Mario Trevi, Per uno junghismo critico, p193 sgg.. 532 Umberto Galimberti, La terra senza il male, p.64. 533 Cfr. Paulo Barone, Il finito possibile. Schelling e Jung, p.88; e Pier Aldo Rovatti, Riflessioni sull’ombra. 534 Paulo Barone, Il finito possibile. Schelling e Jung, p.93. 531 201 Rivolgendo la determinazione al suo fondo indeterminato la espone pericolosamente alla possibilità-di-non-essere: “C’è un punto in cui il movimento semiotico è contiguo al simbolico; al realizzarsi di una condizione estrema, sebbene in linea con la sua natura, il segno sembra sovrapporsi alle caratteristiche del simbolo. Tale contiguità si dà allorquando l’ultimo “significato” equivale a “nulla”; quando il segno, all’ultimo, non rinvia più che a “nulla”, lì anche il simbolo comincia. La differenza – decisiva – tra il “nulla” del segno e quello del simbolo sta in ciò: mentre il primo è un “nulla” negativamente assunto dal concetto, il secondo è positivamente assunto come “principio” delle cose”535. Il nulla assunto come principio allude all’inesauribile potenza del simbolico, un genere di possibilità ben diverso da quello del mero segno536. Quindi il simbolo è anche l’espressione di un rapporto della determinazione con il nulla, sia intesa la determinazione come segno, come ente, oppure come la determinazione della totalità psichica – la coscienza. Il nulla espone la determinazione al suo limite, alla possibilità-di-non-essere (im-possibilità). In tal modo il segno è strappato alla sua univocità ed è posto in relazione con la totalità significante. Tuttavia è alquanto riduttivo confinare la teoria junghiana del simbolo esclusivamente alla sua contrapposizione al regime semiotico. In questo modo si corre il rischio di lasciarsi sfuggire i presupposti di fondo di questa concezione. Lo stesso Trevi pone all’attenzione il punto nodale in cui il simbolo junghiano si colloca, ovvero al fortunato incontro tra 535 536 Ibid., p.90. Ibid., pp.90-93. 202 psicologia e antropologia537. E’ a partire da quest’ultima che si decide lo scarto essenziale da Freud nella concezione del simbolico, e più in generale il distacco dal grembo della psicoanalisi: “Se l’antropologia sottesa all’universo psicologico di Freud è quella del fondamento pulsionale dell’agire umano e del suo correlato psichico che è il desiderio, l’antropologia sottesa all’universo psicologico di Jung è l’individuazione, con il suo correlato psicologico del progetto” 538. Il simbolo come “mascheramento del desiderio rimosso” non può rendere conto della dinamica trasformatrice dell’umanità che sta al cuore della psicologia e dell’antropologia di Jung. Questa dinamica, il processo di individuazione, è pensabile solo a partire da una concezione sostanzialmente differente da quella di Freud. Per Jung la sua “psicologia dello smascheramento” fa tutt’uno con il procedimento riduttivo. Essa tende a ridurre i simboli a circostanze, cose o persone determinate che il medico presume di conoscere a priori, piuttosto che concepirli come simboli autentici, che alludono a qualcosa di sconosciuto. Al contrario nella psicologia del profondo “l’inconscio non viene più ridotto a ciò che è noto e conscio, [...] esso viene invece riconosciuto come effettivamente inconscio; e il simbolo non viene ridotto, bensì amplificato attraverso il contesto addotto dal sognatore e attraverso la composizione con mitologemi analoghi, così da giungere a capire ciò che l’inconscio ha voluto esprimere con esso. In questo modo il simbolo può essere integrato e la dissociazione superata. Il metodo riduttivo, al 537 Mario Trevi, Simbolo, progetto, utopia, p.72. Mario Trevi, Per uno junghismo critico, p.191. La prospettiva junghiana può porsi come oltrepassamento di quella psicoanalitica in quanto “il progetto non ignora il desiderio ma lo assume come condizione della propria forma, poiché il progetto non è né astrattamente libero né arbitrariamente vuoto”. 538 203 contrario allontana l’inconscio e non fa che rafforzare l’unilateralità della coscienza”539. Il simbolo freudiano è il prodotto di un processo omeostatico: esso permette infatti il recupero dell’equilibrio psichico mediante la reintroduzione, in forma sublimata, del rappresentante pulsionale rimosso. Per il padre della psicoanalisi il simbolo altro non è che un abile mascheramento attraverso il quale è riammesso ciò che la coscienza ha estromesso. Di conseguenza, tutta la sfera umana del simbolico può e deve essere letta quale espressione di una verità ulteriore e scabrosa, di un significato nascosto540. L’importante distacco di Jung rispetto a tale concezione consiste soprattutto nel passaggio da una visione statica ad una visione dinamica dell’umanità, la quale da ancorata al passato a causa di una colpa originaria (il parricidio) diviene protesa al futuro per l’affermazione e la realizzazione di un universo utopico. Questa visione consegna ogni singolo uomo la responsabilità di vivere come soggetto capace di una concreta trasformazione di sé e, attraverso di sé, dell’ambiente in cui si trova a operare. Questo futuro è una possibilità concreta, in quanto si riferisce alla materia prima del vissuto individuale, alle sue tensioni irrisolte ed alla sofferenza del suo scontro con l’altro da sé541. In una tale concezione l’inconscio “non è soltanto il luogo del rimosso, ma anche di ciò che non è ancora giunto alla soglia della coscienza”. Quindi, all’idea di un inconscio soltanto 539 Jung, OC XIII, L’albero filosofico, p.366. Mario Trevi, Simbolo, progetto, utopia, pp.73-75. 541 Silvia Montefoschi, C.G. Jung, un pensiero in divenire, pp.26-31. 540 204 desiderante, va contrapposta la visione di un inconscio che opera con determinati scopi542. Emerge dunque un’ulteriore, e forse decisiva angolatura da cui guardare alla dottrina del simbolo. Come è noto Jung ha introdotto nella psicologia la procedura finalistica accanto a quella causale e meccanicistica, consapevole tra l’altro del ruolo che Kant aveva affidato alla categoria di fine543. A partire da questo ordine di considerazioni Trevi ha posto in luce la dimensione progettante del simbolo junghiano. Quest’ultimo non è dunque un “rivelatore” dell’inconscio, non ha la funzione di presentare la mera datità degli istinti e degli archetipi che altrimenti rimarrebbe nascosta. Se così fosse si ridurrebbe a semplice funzione della struttura psichica, e rientrerebbe pur’esso in quel processo di deduzione causalistica da cui Jung lo intende svincolare: “Il vero simbolo è “progetto”, ed è relativo non al già-dato, ma al non-ancora”544. Questa essenza pro-gettante o “probletica” (pro-bàllein) fa del simbolo l’operatore per eccellenza della trasformazione psichica. Esso agisce rispetto alla datità dell’inconscio come un mediatore. La sintesi simbolica è ciò che fa della struttura psichica un processo dinamico. Laddove il simbolo probletico è concepito come “compresenza e implicazione di struttura e processo, e ove alla operatività del simbolo è consegnata [...] la autentica natura della vita psichica, allora il simbolo cessa di essere un mero espediente di disvelamento della struttura celata, oppure, al contrario, un sottile meccanismo per occultarla proprio 542 Jung, L’Io e l’inconscio, pp.29 sgg. Cfr. Umberto Galimberti, Jung e i problemi di metodo nel sapere psicologico, pp.42-44. Come ha mostrato Kant la categoria di fine “trascende i limiti della pura ragione [...] perché non potendo esser tratta dall’esperienza, e non essendo necessaria alla possibilità dell’esperienza, non v’è modo di assicurare alla nozione di fine una realtà oggettiva”, Critica del Giudizio (1788), Laterza, Bari 1960, par.74, cit. in Galimberti, p.42. 544 Mario Trevi, Struttura e processo nella concezione junghiana dell’inconscio, p.532. 543 205 nel momento del suo svelarsi. Esso diventa il mezzo con cui l’uomo, pur determinato dalla struttura, si apre alla sua concreta storicità, progetta se stesso come radicale novità, come concreto non-ancora”545. Il simbolo vivo non si limita a riconoscere l’immobile compiutezza delle strutture dell’esistente: non prescinde da questo riconoscimento, ma lo assume come il terreno indispensabile a partire dal quale si protende ogni ulteriore sviluppo546. 3.4_ Methodos: la via simbolica L’opera simbolica è un’impresa senza fine perché infinito è l’orizzonte dei simboli. Senza dubbio essi “muoiono”, ma il loro esaurimento è non solo inevitabile, bensì auspicabile affinché prosegua il processo di crescita e di ricerca individuale. La morte di un simbolo annuncia già la nascita di quello successivo, come dietro a una soglia se ne rivela in trasparenza un’altra. La consapevolezza della sua storicità è la condizione necessaria per non cadere in una considerazione idolatra o pretestuosamente esoterica. Ciò che non può morire, perché sempre ritorna, è piuttosto la funzione simbolica. La vita del simbolo è segnata dal medesimo destino del serpente mangiacoda, il quale prospera divorando e distruggendo ciclicamente se stesso. Nonostante la complessità il movimento è estremamente semplice: “Questo magistero 545 546 Ibid., p.534. Ibid., pp.532-33. 206 scaturisce anzitutto da un’unica radice, che poi si espande in molte cose, per tornare nuovamente all’unità”547. Se in un primo tempo l’immagine simbolica svolge l’indispensabile funzione di tenere assieme gli opposti altrimenti inconciliabili dal punto di vista della coscienza, una volta costituito il simbolo, ha luogo la differenziazione delle determinazioni segniche, l’analisi dei significati specifici nella totalità sinteticamente dischiusa. Nella vita del simbolo traspare la vita stessa dell’Uno: il percorso circolare di proiezione, realizzazione e interiorizzazione dell’immagine, in realtà non si chiude mai, perché al suo compimento corrisponde l’apertura di un orizzonte ulteriore, di un circolo più ampio. Alla cognitio matutina in cui l’uomo si rivolge all’immagine del Creatore, in cui la coscienza dell’Io è illuminata dal Sé, segue la cognitio vespertina. La conoscenza alla luce chiara del mattino si trasforma gradualmente nel crepuscolo, in cui l’individuo si perde nel numero sterminato delle cose create. Solo attraverso questo progressivo oscuramento l’uomo può attingere nuovamente, e con maggiore intensità, alla luce interiore del Sé. L’alchimia è soprattutto il mito di un viaggio notturno e, attraverso di esso, del ciclico sorgere del sole. Jung assume questo racconto, quest’“aurora consurgens” nel proprio “mito personale”, ma l’assunzione non è “soltanto simbolica”. Nel presente lavoro si è tentato di porre in luce l’intensa circolarità ermeneutica tra i contenuti simbolici dell’“arte regia” e le espressioni dell’inconscio collettivo. Ma nell’opera di Jung la corrispondenza va ben al di là dei soli contenuti: è la stessa 547 Morieno, De transmutatione metallorum, in Artis auriferae. 207 forma del simbolico a suggellare il felice sposalizio di psicologia e alchimia. Nella seconda parte abbiamo dunque evidenziato gli innumerevoli riscontri metodologici per i quali possiamo parlare senza ombra di dubbio di una sostanziale convergenza del metodo alchemico e di quello psicologico. Il metodo alchemico psicologico è l’interminabile opera simbolica della composizione degli opposti, in cui la composizione non è solo una pacificazione e in cui gli opposti sono anche correlativi. Si è visto come alla fine la dialettica dei contrari si risolva da un lato nella figura della complessità (complexio), e dall’altro nel dinamismo proprio della psiche. Emerge dunque l’ulteriore correlazione formale tra il divenire individuativo della psiche ed il procedimento alchemico di trasformazione della materia. Al processo di estrazione della “pietra che non è una pietra” dal caos della prima materia, corrisponde la paradossale trasformazione della personalità attraverso cui si “diviene ciò che si è”. Al cuore di questi processi sta lo stesso autentico mistero, perché è per definizione ignoto ciò che il simbolo “porta nel suo grembo”. Il mistero alchemico, ben lontano dall’occultamento consapevole, è la cifra di un rinvio al futuro, al tempo dell’attesa. La congiunzione degli opposti non presenta una concreta soluzione, ma indica una Via (Tao). Il simbolo stesso non è soltanto il fine, ma indica simultaneamente il mezzo, la guida e il percorso stesso (methodos). La ragione che abbraccia la via simbolica intraprende un lungo cammino, in cui ciò che conta non è giungere ad una definitiva acquisizione, ad un luogo preciso, quanto tendere instancabilmente ad esso. Ciò con cui la coscienza razionale 208 finalmente si ricongiunge è quel fondo potenziale che segretamente la abita. E’ “il mondo al primo giorno della creazione”, l’Unus mundus descritto da Dorneus e commentato da Jung nel sesto e conclusivo capitolo del Mysterium coniunctionis. Se, come dice Jung, il mysterium coniunctionis non può essere concretamente colto, è proprio perché l’Opera è il progetto di una realizzazione concreta, e non soltanto mentale: “E’ significativo non solo per la concezione dorneiana, ma anche per l’alchimia in generale che un’unione mentale non rappresenti ancora il punto culminante, bensì soltanto la prima tappa del processo. Il secondo stadio viene raggiunto quando l’unione mentale, ossia l’unità di spirito e anima, viene collegato al corpo. Ci si può attendere però un compimento del mysterium coniunctionis solo quando l’unità di spirito, anima e corpo si è collegata con l’unus mundus delle origini”. La ricongiunzione della posizione spirituale con la corporeità, e con il cosmo stesso, significava ovviamente che la conoscenza non può rimanere sospesa, ma deve giungere ad una applicazione concreta. L’uomo che è giunto a conoscere, sia pur in maniera approssimativa, la sua paradossale interezza si trova dunque di fronte al problema difficilissimo di come questa totalità possa essere realizzata. E’ soprattutto in ciò che consiste la crux dell’individuazione. La questione psicologica dell’individuazione riguarda essenzialmente il rapporto di ciò che è soltanto pensato con la realtà materiale, il suo è un problema di rappresentazione. Una congiunzione che non abbia a che fare anche con la realtà concreta della materia, con la sua nigredo, non potrà definirsi 209 autenticamente simbolica. L’individuazione segna il passaggio da un atteggiamento puramente estetico-contemplativo ad una attiva e consapevole presa di responsabilità del proprio ruolo. Ma come il lapis non viene prodotto così l’Unus mundus non è mai raggiunto. E questo non perché gli alchimisti fossero dei ciarlatani, ma perché la totalità non viene mai raggiunta empiricamente: la pietra che non è una pietra (λ∴ηο. ο⇔ λ∴ηο.) è una realtà trascendentale. La congiunzione con l’unus mundus a cui allude Dorneus non conduce alla fusione o all’adattamento dell’individuo con il suo ambiente empirico, bensì ad un’unio mystica con il “mondo potenziale”, con lo sfondo trascendentale dei fenomeni empirici. La meta dell’alchimia è “simbolica” non perché non sia empirica, ma perché è anche trascendentale. L’alchimia non è una dottrina, ma un metodo proprio perché si nutre della circolarità virtuosa di operatio e theoria, di ricerca empirica e ricerca trascendentale. A ciò corrisponde il carattere assolutamente non sistematico della psicologia analitica ed il suo nesso profondo con la teoria psicoterapeutica. La stessa teoria junghiana è l’espressione di un processo di individuazione. Nell’appendice I si mostra come una delle chiavi del metodo junghiano risieda proprio nell’operare simbiotico della ricerca empirica con l’esercizio trascendentale (a dispetto della pretesa di Jung di non essere un “filosofo”). E’ questo il vitale movimento epistemologico che la psicologia del profondo eredita dalla tradizione filosofale. Ciò che nella psico-logia la parola (logos) dice instancabilmente è la sua provenienza da un oscuro fondo potenziale. E’ nel riconoscimento di quel fondo abissale che lo sfonda che il discorso sulla psiche diviene discorso della psiche. 210 Ricongiungendosi con la propria anima la logica diurna della coscienza si eclissa per abbracciare la percezione erotica dell’intima connessione del Tutto. In questa nuova forma del pensare la parola finalmente si ricompone al soffio vitale e silenzioso da cui scaturisce (psychè). 211 Appendice I: EMPIRICO E TRASCENDENTALE Nel progetto originario, queste pagine dovevano costituire la seconda parte del lavoro. Durante la stesura ho deciso, per una serie di motivi, di relegarle in appendice: in primo luogo perché esse aprono un discorso talmente vasto che richiederebbe ben altri tempi di ricerca (erano state pensate altre tre parti: soggetto e oggetto; teoria e prassi; psiche e logos); in secondo luogo perché non le ho ritenute indispensabili per l’economia del lavoro; in terzo luogo alcune parti restavano oscure, eterogenee, per cui avrebbero richiesto ulteriore studio e ricerca. L’obiettivo personale era, e rimane, quello di capire cosa significhi “avere un metodo”, e quindi quale sia il metodo (methodos, non sistema!) di Jung e degli alchimisti. Questo è l’inizio di una risposta. Le pagine seguenti trattano pertanto di una coppia-chiave nel metodo, e nello status epistemologico della psicologia analitica. In realtà quella che mi sembra di cogliere come una sola idea, o movimento, si spezza in una serie di tematiche piuttosto eterogenee: Jung come filosofo; carattere del suo empirismo; critica della metafisica; posizione rispetto alle scienze della natura; statuto dei concetti psicologici; la psiche come virtualità; raffronto con l’epistemologia alchemica; mistica junghiana! 212 1_La questione epistemologica Come è risultato dalla prima parte, con l’approfondimento della tematica alchemica la psicologia analitica perviene ad una notevole chiarificazione dei propri presupposti. Per cui lo studio dell’alchimia e del suo metodo fa tutt’uno con l’elaborazione, o l’individuazione, di un metodo proprio della psicologia. Jung stesso fa notare come quest’ultima goda di un particolare statuto conoscitivo, che ne determina ad un tempo il limite e la forza. Nella psicologia infatti il soggetto conoscente si identifica con l’oggetto conosciuto, la ratio cognoscendi viene a coincidere con la ratio riconoscimento essendi. di Come questa fa notare eccezionalità Mario Trevi, il epistemologica è presente fin dalle origini della psicologia analitica (Tipi psicologici), e consiste nell’inconsapevole assunzione di una problematica autenticamente ermeneutica548. In questo modo Jung avviava la neonata scienza psicologica ad una problematizzazione metodologica, ed apriva la possibilità di un “pensare psicologico”, analogamente a quanto aveva fatto Weber in ambito sociologico549. Già nel 1929 egli denunciava l’“ingenuità” epistemologica di Freud, consistente nella totale assenza di considerazione critica degli impliciti e inevitabili presupposti filosofici della propria psicologia550. Secondo Trevi l’unica vera critica di Jung a Freud è proprio quella basata sull’inconsapevolezza di quest’ultimo 548 circa l’antropologia Mario Trevi, Per uno junghismo critico, pp.8 sgg.; anche Romano Madera, Jung, pp.10 sgg., mette in particolare evidenza come l’intreccio in districabile di soggettività e oggettività sia un passaggio decisivo della sua “mitobiografia”, tanto da essere determinante per la sua vocazione di psichiatra. Per la questione del rapporto tra soggetto e oggetto nella psicologia analitica rimando comunque al capitolo successivo. 549 Mario Trevi, Per uno junghismo critico, p.61 sgg. 550 Jung, OC IV, Il contrasto tra Freud e Jung. 213 filosofica che la propria dottrina suppone, e che ogni psicologia inevitabilmente suppone551. L’indagine empirica dell’oggetto psicologico richiedeva dunque una simultanea analitica trascendentale del soggetto ricercatore. Ciononostante è nota la vaghezza con cui lo psicologo zurighese trattò le questioni epistemologiche: egli era perlopiù refrattario al chiarimento delle proprie categorie concettuali (quasi che un concetto fosse già un eccesso di formalizzazione!). La psicologia analitica è un groviglio quasi inestricabile di problematiche epistemologiche, in cui Jung si muove più o meno consapevolmente, ponendo in opera modelli teorici talvolta a stento compatibili tra loro per portare innanzi il proprio discorso sulla psiche. Ad ogni modo non era certamente sua intenzione costruire un sistema filosofico coerente ed univoco. Egli lascia questo compito ai filosofi in senso stretto, quasi che la filosofia fosse davvero, hegelianamente, la nottola di Minerva, che spicca il volo solo sul far del tramonto. Tutta l’opera di Jung è una filosofia in statu nascendi, e resta fino alla fine una ricerca aperta. Non sono molti i critici disposti, o comunque attenti, nel riconoscere il portato autenticamente filosofico della psicologia junghiana: “La componente filosofica presente nella visione junghiana dello psichico solleva infatti all’intera psicologia del profondo delle difficoltà che mettono in questione la sua collocazione, i suoi metodi di lettura e di interpretazione. Del resto è tempo che la psicologia del profondo parli con la filosofia, non solo perché il discorso sulla psiche è nato in ambito filosofico, ma perché, dopo la sua autonomizzazione e il suo 551 Mario Trevi, Simbolo, progetto, utopia, p.71. 214 profilarsi in direzione della scienza, la psicologia ha messo in gioco concetti e figure alla cui costruzione la filosofia aveva dedicato diverse epoche della sua storia”552. Tra gli altri Giovanni Rocci è particolarmente sollecito nel seguire questa traccia interpretativa, da cui emerge il rapporto controverso - eppure decisivo - di Jung con il logos filosofico553. In ogni caso c’è da dire che in merito si sono pronunciate le affermazioni più disparate, a testimonianza di quanto la questione sia spinosa e sfuggente. Jung filosofo? Cosa ha a che fare la psicologia analitica con la filosofia? E’ curioso notare come gli psicologi, specialmente quelli di stampo freudiano, tendano a tacciare Jung di essere un “filosofo”, quindi indegno di attenzione; i Filosofi dal canto loro sono piuttosto restii ad accoglierlo nell’olimpo dei pensatori. Non poche volte Jung è stato liquidato come un mistificatore. E’ divenuta celebre l’“accusa” di “gnosticismo” mossagli da Martin Buber554, contemporaneamente al giudizio di “agnosticismo” da parte di un’autorevole fonte teologica. D’altronde è anche stato tacciato di volta in volta di ateismo e di teismo, di misticismo e materialismo555. Ma c’è persino anche chi ha voluto vedere in Jung il profeta di una nuova religione556. Senza dubbio ciascuno aveva le sue ragioni, ma da che parte stava veramente Jung? Questi si difendeva così da chi tentava di affibbiargli etichette o definizioni: “Il mio materiale oggettivo sembra contenere un po’ di tutto, consta cioè di elementi primitivi, 552 Umberto Galimberti, “Jung e la filosofia dell’occidente”, in Trattato di psicologia analitica, pp.3-23. Si veda anche il saggio successivo di Mario Pezzella, “Temi filosofici nell’opera di Jung”. 553 Giovanni Rocci, Jung e il suo daìmon- filosofia e psicologia analitica, p 13 sgg. 554 Martin Buber, L’eclissi di Dio. Vedi la Risposta a Martin Buber in OC XI. In un intervista rilasciata successivamente alla BBC Jung aveva risposto così alla domanda se credesse in Dio: “Non ho bisogno di credere, io so Dio”. Come si può immaginare le parole di Jung suscitarono un vero e proprio caso. 555 Jung, “Risposta a Martin Buber”, in OC XI, p.462. 556 Richard Noll, The Jung cult. Origin of a carismatic movement. Il titolo parla da solo. 215 occidentali e orientali. Quasi non c’è mitologema che non sia occasionalmente sfiorato, né eresia che non vi lasci un po’ della sua stravaganza. Forse è questa la composizione dello strato profondo collettivo della psiche umana. Può darsi che a questo punto l’intellettuale e il razionalista felicemente credenti inorridiscano accusandomi del più empio eclettismo, come se io avessi inventato i fatti della storia naturale e spirituale dell’umanità e ne avessi tratto un orribile miscuglio teosofico. Chi ha fede, e preferisce parlare in termini filosofici, non ha certamente bisogno di darsi pena dei fatti, ma un medico non può eludere la terribile realtà della natura umana. E’ certamente difficile che le mie formulazioni siano comprese nel senso giusto dai rappresentanti di sistemi tradizionali. Così ugualmente uno gnostico non sarebbe affatto contento di me; anzi mi rimprovererebbe la mancanza di una cosmogonia e la mia gnosi messa giù alla buona in relazione ai fenomeni che si svolgono nel pleroma. Un buddista mi biasimerebbe dicendomi abbagliato dalla maya, un taoista mi taccerebbe di complicatezza. Un cristiano ortodosso non potrebbe non trovare a ridire sul mio modo di navigare, incurante e irrispettoso, nel cielo delle idee dogmatiche. Devo perciò pregare i miei critici spietati di voler tenere presente che io parto da fatti, che cerco di interpretare”557. Nell’epistolario Jung ribadisce a più riprese di essere “soltanto un medico”, e non nasconde la propria avversione per l’approccio filosofico e le spiegazioni intellettualistiche: “Rifiuto il termine “romantico” per la mia concezione dell’inconscio perché questo è un concetto empirico e tutt’altro che filosofico. Ciò non cambia per il fatto che io divido le iniziali “C.G.” con Carus e 557 Jung, OC XI, pp.467-8. 216 come lui uso la parola inconscio. Egli era un filosofo, io no. Io non “postulo” l’inconscio. Il mio concetto è un nome che copre fatti empirici che possono essere verificati a qualsiasi ora. Se postulassi gli archetipi, per esempio, non sarei uno scienziato ma un platonico. Filosoficamente sono bastantemente antiquato da non essere andato più in là di Kant, così non ho alcuna applicazione per le ipotesi romantiche e sono rigorosamente “not at home” per le opinioni filosofiche. La gente può solo provarmi che certi fatti non esistono, ma sto ancora attendendo questa prova”558. Il richiamo all’esperienza è l’unico canone metodico che Jung dichiara di usare. Nei testi sono frequenti, quasi ossessive, le sue proteste di essere un mero “empirista”, se non addirittura un fenomenologo, e di partire esclusivamente da “fatti psicologici””: “Benché mi abbiano spesso chiamato filosofo, io sono un empirista e mi attengo al punto di vista fenomenologico. E’ mia opinione che riflettere su valori che vadano oltre quelli di una semplice raccolta e classificazione di esperienze non significhi affatto urtare contro i principi dell’empirismo scientifico. In realtà credo che un’esperienza senza meditata riflessione sia assolutamente impossibile, poiché l’esperienza è un processo di assimilazione senza il quale non può esistere intendimento. Partendo da questa constatazione, io mi accosto ai fatti psicologici da un punto di vista scientifico, non filosofico. In quanto la religione ha un aspetto psicologico importantissimo, io tratto l’argomento da un punto di vista strettamente empirico, cioè mi limito ad osservare dei fenomeni, e mi astengo da qualsiasi considerazione metafisica. Io non nego il valore di altre specie di 558 Jung, Lettere, I, p.329. 217 considerazioni, ma non posso pretendere d’avere una competenza tale da permettermi di rifarmi a tali punti di vista senza cadere in errori”559. Come dobbiamo intendere in realtà questo richiamo all’esperienza? Cosa ha davvero di mira Jung quando dichiara di non essere un filosofo? Dobbiamo credere a ciò che egli sostiene, ovvero che la psicologia analitica non ha nulla da spartire con la filosofia? In questo studio muoviamo dall’ipotesi che, per quanto il nostro Autore persegua un approccio empirico (anche se non dei più classici) comunque si riferisca ad un implicito orizzonte filosofico. Egli è indubbiamente uno scienziato empirico, ma è anche un filosofo. La questione dell’empirismo di Jung viene troppo spesso liquidata sbrigativamente sostenendone il carattere non canonico o dubbio. E’ invece proprio questa, a mio avviso, una chiave d’accesso privilegiata per comprendere il suo atteggiamento metodologico ed epistemologico. Nonostante faccia dapprima riferimento all’ambito dell’“esperienza” oggettiva egli è anche, a modo suo, un pensatore in senso trascendentale. Del resto non avrebbe mai potuto navigare così fortunatamente nelle acque dell’inconscio se nel “cielo filosofico” qualche buona stella non gli avesse indicato la Via. Certamente fu un pensatore alquanto singolare, tutto rivolto al terreno dell’esperienza anziché al cielo della speculazione- quasi un “filosofo alla rovescia”. Piuttosto che una vera e propria filosofia la sua dovrebbe dirsi un’opera filosofica. E’ come se tutta la psicologia junghiana non semplicemente rispondesse ma fosse la risposta ad una domanda originaria e trascendentale: “Che cos’è l’anima? Che 559 Jung, OC XI, p.15, ma possiamo trovare dichiarazioni analoghe in numerosi altri passi della sua opera. 218 cos’è la psicologia? – come se il logos astratto della tradizione filosofica si fosse finalmente “incarnato” nel grembo oscuro e materno dell’anima e le avesse dato voce560. Nella psico-logia junghiana il discorso sulla psiche è anche discorso della psiche561. Pertanto nelle pagine seguenti, oltre a spiegare in che senso Jung sia un empirista dovremo chiarire, nei limiti delle nostre possibilità, in che senso sia pure un filosofo. Ma più che mostrare la semplice coesistenza di questi diversi atteggiamenti, preme in maniera particolare mostrare il nesso metodologico che intercorre tra i due piani epistemologici. Insomma, l’importanza dell’opera di Jung consiste nel tentativo di riallacciare il nesso tra la ricerca di tipo empirico e la speculazione mistico-filosofica, che si era spezzato con l’avvento della scienza moderna. E ciò in perfetta linea con la tradizione filosofale. Come ha mostrato lo stesso Jung, l’alchimia è caratterizzata dall’unità inscindibile di ricerca empirica e riflessione trascendentale. Al mero nominalismo della scienza moderna, gli alchimisti sapevano accostare un’indagine sugli universali – secondo Jung, gli archetipi dell’inconscio collettivo. L’esplorazione del “regno quaternario ed elementare” era in verità una “ricerca sul quinto” – la quintessenza. Questi filosofi della natura medievali seppero tener ferma la luce della rivelazione accanto all’indagine sulla physis oscura. E c’era indubbiamente una forte religio nell’atteggiamento empirico degli 560 Mi riferisco al mito gnostico della creazione, un vero e proprio mito-guida dell’epistemologia junghiana. Vale la pena di citare le parole di uno dei più grandi interpreti del pensiero junghiano, James Hillman, a proposito del ruolo epistemologico del mito per ogni psicologia. Hillman scrive che “senza mito tutto si ridurrebbe al me, al personale, circoscritto alla storia di un caso. Il mito sta più indietro rispetto alla psiche, e agisce come una superficie speculare per la riflessione oggettiva. Perciò la mitologia non può che divenire metapsicologia, indispensabile per ogni descrizione ontologica della psiche”- Il mito dell’analisi, p.276. 561 Mario Trevi, L’altra lettura di Jung, p.41-43 e Per uno junghismo critico, parte I. 219 alchimisti, tanto che Jung poté definirli “empiristi dell’anima” o “empirici dell’esperienza di Dio”. Essi seppero cogliere la rivelazione divina nello specchio della natura, per una sorta di benefica schizofrenia, che consentì loro di essere ad un tempo empirici e credenti. V’è ad esempio in Paracelso l’idea alquanto curiosa per cui la filosofia dovrebbe essere letteralmente estratta dalla natura, dalla materia stessa. Analogamente, nelle pagine successive tenteremo di compiere un lavoro di esplicitazione di alcuni presupposti filosofici della psicologia del profondo. Cercheremo, nei limiti del possibile, di inserire la psicologia di Jung in un orizzonte epistemologico, cercheremo di collocarla sotto un cielo speculativo dal quale Jung sembra sempre essersi ironicamente astenuto. Come si è detto egli era piuttosto restio a compiere il passo della formalizzazione concettuale, per quanto ve ne fossero tutte le premesse. La sua riflessione filosofica era occasionale e frammentaria, e cercare di renderla univoca e coerente significa indubbiamente contravvenire in qualche modo alle sue stesse indicazioni. 220 2_Empirismo e critica della metafisica In che senso va dunque inteso il presunto empirismo junghiano? Che ruolo svolge l’approccio empirico – o fenomenologico – nella sua opera? Per rispondere a queste domande dobbiamo dapprima focalizzare l’attenzione sulla problematicità intrinseca di qualsiasi empirismo in ambito psicologico: “Nonostante tutto però è difficile anche oggi applicare con coerenza nella psicologia il punto di vista puramente empirico o fenomenologico”562. Come è noto l’empirismo (dal greco empeirìa= esperienza) costituisce nel processo conoscitivo un rimando ineludibile all’esperienza. Ma tra quest’ultima e l’elaborazione di una tesi o di una descrizione scientifica va messa in conto l’interpretazione che filtra ogni “fatto”, per quanto immediato esso sia. Ogni dichiarato empirismo deve pur sempre affidarsi ad una determinata concezione di ciò che è esperienza, e conseguentemente ad un campo di esperienza possibile. L’assunzione più o meno consapevole da parte di Jung di questa problematica autenticamente ermeneutica non può non mettere in discussione il suo preteso empirismo. Come egli stesso nota, ogni psicologo parte da una visione del mondo e dell’uomo, da una precomprensione inconscia che può essere resa conscia solo attraverso una operazione di carattere trascendentale563. Il richiamo al valore dell’esperienza non toglie che “un fatto concreto non può produrre da solo un significato, ma dipende in questo eminentemente dal modo 562 in cui è compreso. Jung, OC VIII, p.179. Jung, OC IV, pp.360 sgg: “La consapevolezza del carattere soggettivo di ogni psicologia, che è il prodotto di un singolo individuo, dovrebbe essere la caratteristica che mi distingue più rigorosamente da Freud” 563 221 L’“interpretazione” è indispensabile alla comprensione del significato: ai nudi fatti in sé non si accompagna senso alcuno”564. A maggior ragione questo discorso è valido quando l’esperienza a cui ci si riferisce è di carattere psichico-soggettivo, e richiede pertanto una certa sensibilità, oltre che una rigorosa apprensione. L’oggetto della ricerca psicologica è soprattutto un oggetto interiore, e può quindi associare alla componente oggettiva una forte componente soggettiva565. Nel testo junghiano il termine “empirico”, o il corrispondente “esperienza”, sono impiegati con molte valenze e sfumature di significato. Non sempre essi sono aderenti al senso canonico conferito loro dalla scienza moderna. Talvolta sembrano piuttosto accordarsi al significato che potrebbero avere in alcuni sistemi filosofici orientali566. Talaltra costituiscono un richiamo all’immanenza della vita vissuta, in opposizione ad una comprensione intellettuale ed astratta567, oppure ancora si riferiscono all’“esperienza viva dell’inconscio e degli archetipi”568. L’opera di Jung è indubbiamente basata su una vastissima esperienza clinica e terapeutica, ma non si può dimenticare il peso che le esperienze interiori ebbero nella sua vita. Si è già accennato al tormentato “confronto con l’inconscio”569 che lo occupò a partire dal 1912, sottraendolo a quasi tutte le attività 564 Jung, OC XI, p.271. Umberto Galimberti, “Jung e la filosofia dell’Occidente” in Trattato di psicologia analitica, p.13: “Questa consapevolezza ermeneutica […] è il più grande guadagno che Jung trae dalla decostruzione dell’Io penso: esso consiste nella presa di coscienza esplicita dell’impossibilità di una psicologia come scienza oggettiva” 566 Cfr. la seconda sezione di Psicologia e religione, OC XI, in particolare i saggi “Prefazione a D.T. Suzuki, “La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen” e Santi indiani. Prefazione a H.Zimmer, “La via del Sé”. 567 Jung, Ricordi, pp.103-4, e p.141. 568 Ad esempio, in Psicologia e alchimia, OC XII, p.54, parlando del tremendo conflitto interiore di una paziente, dice che esso “non può essere risolto comprendendolo con la testa, ma unicamente attraverso un’esperienza viva. Ogni fase del processo deve essere vissuta . Non esistono interpretazioni o altri artifizi che possano servire a raggirare con inganni queste difficoltà”. 569 Jung, Ricodi, pp.212 sgg. 565 222 esterne. Molti critici insistono sull’importanza decisiva di quel periodo: “Jung mantenne per tutta la sua vita un constante contatto con le fonti che ispirarono il suo Libro rosso. Egli rimase un rivelatore ispirato - alcuni potrebbero dire posseduto - per il resto dei suoi giorni. Il suo lavoro scientifico non rappresentò mai un settore della sua esistenza che dovesse o potesse essere separato dalla sua vita mistica e profetica; le due erano interrelate intricatamente ed inesorabilmente”570. Ma la tesi è confermata dallo stesso Autore nella sua biografia, il quale esprimeva ciò – guarda caso – con una metafora alchemica: “In fondo le sole vicende della mia vita che mi sembrano degne di essere riferite sono quelle nelle quali il mondo imperituro ha fatto irruzione in questo mondo transeunte. Ecco perché parlo principalmente di esperienze interiori, nelle quali comprendo i miei sogni e le mie immaginazioni. Questi costituiscono parimenti la materia prima della mia attività scientifica: sono stati per me il magma incandescente dal quale nasce, cristallizzandosi, la pietra che deve essere scolpita”571. Scrive Rocci che “il punto fondamentale, che mostra come il pensiero junghiano possa offrire un pensare non intellettualistico, bensì fondato sui concreti Erlebnisse della vita psichica, è nel continuo ribadire che sul piano psicologico – e qui piano 570 Stephen Hoeller, The gnostic Jung, pp.3-4, (mia la traduzione dall’inglese). Nel metter in luce la componente gnostica del pensiero junghiano, Hoeller insiste sull’importanza del cosiddetto Libro rosso, scritto in quel periodo e mai pubblicato. 571 Jung, Ricordi, p.29; cfr. anche p.236:“Oggi posso dire di non aver mai perduto il contatto con le mie esperienze iniziali. Tutte le mie opere , tutta la mia attività creatrice è sorta da quelle iniziali fantasie, e dai sogni che cominciarono nel 1912, circa cinquanta anni fa. Tutto ciò che in seguito ho fatto nella mia vita vi era già contenuto, anche se prima solo in forma di emozioni e di immagini. La mia scienza era il solo mezzo che avessi di districarmi da quel caos. Altrimenti il materiale mi sarebbe rimasto attaccato come lappole o piante di palude. Misi ogni cura nel cercare di intendere tutte le immagini, tutti i dettagli del mio inventario psichico, di classificarli scientificamente, per quanto possibile, e, soprattutto, di attuarli nella vita. Ciò è quanto di solito trascuriamo di fare. Lasciamo sorgere le immagini, e forse ce ne sorprendiamo , ma questo è tutto: non ci diamo la pena di capirle, ne traiamo solo delle conclusioni morali. E’ così che si provocano gli effetti negativi dell’inconscio”. 223 psicologico vale per piano della vita nella pienezza istintuale e sentimentale, il piano dell’Anima, questo fondamentale archetipo della vita – si può capire solo ciò di cui si è fatta personale esperienza: i concetti della psicologia analitica non sono, in tutto quanto è essenziale, formulazioni intellettuali, ma designazioni di determinati campi di esperienza, la cui descrizione rimane morta astrazione per chiunque non li abbia direttamente sperimentati”572. Infine non bisogna dimenticare l’ascendente kantiana del pensiero di Jung. In gioventù, nel poco tempo che riesce a ritagliare dallo studio universitario l’apprendista psicologo è assiduo lettore dei filosofi, in particolare di Kant573. Nel 1929, nel prendere le distanze da Freud, Jung riconosce il carattere determinante della soggettività trascendentale del ricercatore. Egli non parla ovviamente di “soggettività trascendentale”, ma riconosce che da Kant ha preso avvio il processo per cui il pensare è inteso come funzione psichica. Perciò scrive di non aver “mai rifiutato di bere il calice dolce-amaro della filosofia critica”574. La “filosofia critica” è appunto la critica dei fondamenti logici ed epistemologici del nostro conoscere, che si identifica sostanzialmente con la critica kantiana della conoscenza575. Quindi l’empirismo di Jung va inteso nel senso kantiano per cui la conoscenza non può mai essere svincolata da un’esperienza possibile. 572 G.Rocci, Jung e il suo daìmon, p.17. Jung, Ricordi, p.138: “I semestri seguenti, di clinica medica, mi tennero così occupato che quasi non mi rimaneva tempo per le mie scorribande in altri campi. Solo la domenica potevo studiare Kant. Leggevo con continuità anche Eduard von Hartmann. Per un po’ di tempo avevo avuto in programma anche la lettura di Nietzsche, ma esitavo a cominciare perché non mi ritenevo preparato abbastanza.” Tra le letture filosofiche dell’apprendista psicologo rientravano anche Pitagora, Eraclito, Empedocle, Platone, Eckhart e Schopenhauer. E’ la passione per quest’ultimo a porlo sulle tracce di Kant e della Critica della ragion pura. 574 OC IV, p.359. 575 Mario Trevi, Per una valutazione critica dell’opera di Jung, pp.7-8. 573 224 Tuttavia la posizione del padre della psicologia analitica nei confronti del sapere filosofico e della metafisica è assolutamente ambigua. Il gesto con cui si sottrae alla filosofia è curiosamente… filosofico. Infatti l’“opzione empirica” non si oppone in alcun modo alla riflessione filosofica, bensì ne costituisce il presupposto irrinunciabile. Si oppone invece a quel tipo di conoscenza la quale abbia la pretesa di costituirsi a prescindere dall’esperienza, che Jung chiama in senso negativo “metafisica”576. Il suo empirismo svolge una funzione ironica577 nei confronti della “metafisica”: lo sottrae all’accusa di occuparsi di “metafisica”, ovvero di questioni teologiche e/o filosofiche, mostrando come egli si riferisca ad esperienze oggettive e quindi incontestabili; in seconda battuta svolge una funzione di critica della metafisica, intesa come conoscenza che sviluppa le proprie riflessioni senza riferirsi all’esperienza. Ma quello di Jung nei confronti della metafisica è a sua volta un doppio gioco: da un lato se ne sottrae, criticandola implicitamente; dall’altro ne assume l’eredità, rinnovandola su un altro piano. 576 Cfr. G.Rocci, Jung e il suo daìmon, p.74: “Posto in termini di “io penso”, il campo della metafisica è, per Jung, quello della “cosa in sé” della prima edizione della Critica della ragion pura”. Per Jung la metafisica è l’al di là della psiche, l’ambito che trascende il fenomeno psichico, per definizione inaccessibile alla conoscenza. Cfr. Jung, XI, p.462: ““metafisici” […] cioè persone che per qualche motivo credono di essere al corrente di cose inconoscibili nell’“aldilà””. Jung “gira” ai metafisici la stessa accusa che gli veniva spesso rivolta. Egli aveva scritto la sua tesi di laurea su una medium, sua cugina Helene Preiswerk. Freud e l’ambiente scientifico non seppero mai perdonargli il suo interesse per lo spiritismo e la magia. Per questo e numerosi altri motivi che si possono benissimo ricavare dalla biografia, Jung si portò addosso questo alone per tutta la vita. Sono curiose a proposito le affermazioni della biografia sull’aldilà: “Ciò che ho da dire sull’aldilà e sulla vita dopo la morte consiste interamente di ricordi, di immagini nelle quali ho vissuto, e di pensieri che mi hanno travagliato. Questi ricordi in un certo modo sono anche a fondamento delle mie opere; poiché queste non sono altro, in fondo, che tentativi sempre ripetuti di dare una risposta al problema della correlazione tra l’ “al-di-qua” e l’ “aldilà”. Ma io non ho mai scritto expressis verbis sulla vita dopo la morte; perché allora avrei dovuto documentare le mie idee, e non ho mai avuto modo di farlo. Comunque, quali che siano, voglio ora manifestarle. Anche adesso – prosegue Jung – non posso fare altro che raccontare storie sull’argomento: mythologhéin”, Ricordi, p.354. 577 Uso la parola “ironia” nel senso di quella presa di distanza evasiva che consente la dissimulazione. Ciò che Jung dissimula è, come vedremo di seguito, il proprio “doppio gioco” nei confronti della metafisica. L’espressione “ironia” fa più al caso nostro dell’espressione “critica”, in quanto più che attaccarla direttamente Jung se ne sottrae fenomenologicamente (epochè). 225 La critica psicologica della metafisica è svolta dapprima da un punto di vista fenomenologico: “Come metodo questo procedimento non implica una valutazione del contenuto dottrinale. La scienza critica deve attenersi al punto di vista secondo il quale un’opinione, un giudizio o una credenza non ipotizzano alcun fatto reale oltre a quello psicologico; occorre però considerare che con ciò non si è prodotto un mero nulla; è stata data invece espressione a una realtà psichica, a quella appunto che, in modo empiricamente concepibile, sta alla base dell’asserzione della credenza o del rito. Se la psicologia “spiega” un’asserzione di questo tipo, in primo luogo non sottrae realtà alcuna all’oggetto di quell’asserzione, al quale ha anzi riconosciuto una realtà psichica, e in secondo luogo non ha attribuito a quell’asserzione, metafisicamente pensata, alcun fondamento, in quanto essa non è mai stata altro che un fenomeno psichico. La sua particolare colorazione “metafisica” vuol significare che il suo oggetto oltrepassa la portata della percezione e della comprensione umana, salvo che nel suo modo psichico di manifestarsi, e che pertanto non può essere giudicato. Ogni scienza termina nell’inconoscibile, ma non sarebbe scienza se considerasse definitivo il suo confine momentaneo e provvisorio, e negasse l’esistenza di ciò che oltrepassa quel punto. Nessuna scienza considera le proprie ipotesi come verità definitiva. Tra la spiegazione psicologica e l’affermazione metafisica non esiste contraddizione, così come non ne esiste tra la spiegazione che la fisica dà della materia e la natura (ancora sconosciuta e inconoscibile) della materia stessa. Il presupposto stesso della fede ha la realtà di un fatto psichico, ma non 226 possiamo in ogni modo sapere quel che intendiamo col concetto di “psiche”, poiché la psicologia si trova in questa infelice situazione: in essa osservatore e osservato sono, in fin dei conti, identici. Purtroppo essa non dispone, al di fuori, di un punto di appoggio, in quanto ogni percezione è di natura psichica, e noi abbiamo soltanto una conoscenza indiretta di ciò che non è psichico”578. E’ interessante ricordare che il fondatore del più antico empirismo, Sesto Empirico, era esso stesso un medico. Questi diceva che il medico empirico “non afferma nulla temerariamente intorno ai fatti oscuri, ma, senza presumere di dire se siano o no comprensibili, segue i fenomeni e da questi prende ciò che sembra giovare”. Analogamente la psicologia sospende il giudizio (epochè) sugli aspetti non esperibili: essa pone come esistenti tutti i fenomeni psicologici a prescindere dalla verità o meno del giudizio (metafisico) che essi esprimono. Così pone ogni realtà (psicologica), anche quella dell’illusione579, ma non si pronuncia sull’esistenza di contenuti che non possono essere oggetto di esperienza. Fino a questo punto essa è fedelmente kantiana, e fenomenologica. 578 Jung, OC XI, p.238, ma si veda anche p.16: “Poiché gli argomenti che sto per esporre sono di natura piuttosto insolita, non posso partire dal presupposto che il mio uditorio conosca a fondo il punto di vista metodologico del ramo di psicologia da me rappresentato. Tale punto di vista è esclusivamente fenomenologico, vale a dire s’interessa di casi, di avvenimenti, di esperienze, insomma, di fatti. La sua verità è un dato di fatto, e non un giudizio. Parlando ad esempio del principio della partogenesi, la psicologia si occupa soltanto del fatto che tale idea esiste, ma non si domanda se tale idea sia vera o falsa in qualsiasi altro senso”. 579 Ciò corrisponde al punto di vista introverso della filosofia Orientale che riconosce la realtà effettiva dell’essere psichico, del pensiero e dell’illusione stessa. Cfr. Jung, Commento psicologico al libro tibetano della grande liberazione, in OC XI, p.496. In questo senso la psicologia del profondo sembra collocarsi in un nuovo paradigma ontologico, e una nuova determinazione del positivo. Tutti gli enti psicologici sono “positivi” in quanto esistenti. Naturalmente si tratta di una positività ontologica, e non etica. Comunque questa rinnovata prospettiva non è priva di implicazioni etiche. Si veda la questione dell’Ombra, degli opposti, e la conseguente determinazione del positivo nella terza parte di questo lavoro. 227 Per lo psicologo empirico “ogni esperienza religiosa consiste in un particolare stato psichico”580. Per cui Jung sembra difendersi a ragione dall’accusa di psicologismo: “Come gli alchimisti sapevano che la fabbricazione della loro pietra era un miracolo che poteva compiersi solo concedente Deo, così lo psicologo moderno si rende conto di non poter produrre che la descrizione, formulata in simboli scientifici, di un processo psichico la cui vera natura trascende la coscienza altrettanto quanto il segreto della vita o quello della materia. Egli non ha in alcun modo spiegato il mistero, né quindi lo ha fatto appassire. Lo ha soltanto avvicinato un po’ più, secondo lo spirito della tradizione cristiana, alla coscienza individuale, rendendo visibile, mediante prove empiriche, la positività e la sperimentabilità del processo di individuazione. Il fatto di considerare una cosiddetta affermazione metafisica come un processo psichico non significa affatto che questo sia “unicamente psichico”, come amano esprimersi i miei critici. Come se con la parola “psichico” si venisse a stabilire qualcosa di universalmente conosciuto! Non è ancora abbastanza chiaro che quando diciamo “psiche” accenniamo simbolicamente all’oscurità più fitta che si possa immaginare? Sta all’etica del ricercatore riconoscere dove finisce il suo sapere. Questa fine è infatti l’inizio di una più alta conoscenza”581. Jung dunque non riduce la religione e i suoi fatti numinosi in termini psicologici, ma li considera solo nel loro rapporto con la psiche. 580 Jung, OC XI, p.69. Jung, OC XI, pp. 282-283. Tuttavia, come mostrerò di seguito, qui Jung sta bluffando. Come ama spesso fare confonde le carte in tavola, ovvero intreccia la questione della fenomenologia e dello psicologismo, con quella ben diversa del carattere non definitivo del sapere psicologico. Quest’ultima non ha nulla a che fare con l’epochè fenomenologia o con il valore ipotetico del sapere, bensì rientra nella problematica ermeneutica di un ulteriore ritiro della proiezione rispetto alla psicologia ed al mistero che sta al suo cuore. 581 228 Tuttavia, come ha fatto notare Mario Trevi, alla fine Jung non mantiene la sua promessa nei confronti della fenomenologia582 (anche se non concordiamo completamente con Trevi sul fatto che questa mancata promessa si profili nel senso di una “ricaduta nel naturalismo”, ovvero una ipostatizzazione della realtà naturale). Altri passi mostrano inequivocabilmente come l’apprensione fenomenologica operi un vero e proprio “spiazzamento” delle affermazioni metafisiche: queste vengono in realtà riterritorializzate sul terreno psichico, e tutta la loro numinosità è trasferita sulla psiche: “Purtroppo viviamo nell’ambiente moderno, dove gli ultimi fini sono dubbi, dove la preistoria è divenuta sconfinata, dove la gente è pienamente conscia del fatto che, se mai esiste una qualche esperienza numinosa, questa è l’esperienza della psiche. Noi non possiamo più a lungo rappresentarci un empireo che circonda il trono di Dio, e neppure in sogno ci verrebbe in mente di cercare Dio in qualche posto dietro il sistema galattico. Ma ci sembra che l’anima alberghi dei misteri, inquantochè per l’empirista ogni esperienza religiosa consiste in un particolare stato psichico”583. Venendo meno alla sua iniziale umiltà fenomenologica, Jung giunge a sostenere che “L’inconscio è la matrice di tutte le affermazioni metafisiche, di tutta la mitologia, di tutta la filosofia (sempre che non sia soltanto critica) e di tutte le forme di vita che poggiano su presupposti psicologici”584, oppure che “l’istanza metafisica è, psicologicamente, un’istanza inconscia”585. L’uomo 582 Mario Trevi, Struttura e processo nella concezione junghiana dell’inconsio, p.523. In verità Trevi si riferisce ad una precedente osservazione di Medard Boss in Psicoanalisi e analitica esistenziale, p.25-31. 583 Jung, OC XI, p.69. 584 Jung, OC XI, p.562. 585 Jung, OC XI, p.279 n. Cfr. L-II, OC IV, p.263, e OC XI, 491. 229 è per sua natura portato a formulare asserzioni trascendentali le quali rappresentano involontarie esperienze numinose, che possono costituire il fondamento di affermazioni filosofiche e religiose. Comunque l’uomo, volente o nolente, resta rinchiuso nella sua psiche, e la sua esperienza della realtà è comunque psichica. Persino l’intelletto “non è un ens per se o una facoltà spirituale indipendente, bensì una funzione psichica e come tale dipendente dalle condizioni della psiche in quanto essa è tutto. Stabilire filosoficamente qualcosa è frutto di una determinata personalità che vive in un tempo determinato in un luogo determinato, e non il risultato di un processo puramente logico e impersonale. Fino a questo punto si tratta di un’opinione principalmente soggettiva, dotata o meno di valore oggettivo a seconda se sia condivisa da molti o da pochi. L’isolamento dell’uomo all’interno della sua psiche, conseguente alla critica gnoseologica, ha logicamente condotto alla critica psicologica. Questo tipo di critica non è gradito ai filosofi: essi infatti considerano volentieri l’intelletto filosofico lo strumento perfetto e imparziale della filosofia. Tuttavia questo intelletto è una funzione dipendente dalla psiche individuale determinata da tutti i lati da condizioni soggettive, a prescindere interamente dagli influssi ambientali”586. Dunque, non solamente la metafisica, ma anche la logica formale è espressione della psiche, per quanto appartenga agli strati più alti della sua tettonica – quelli linguistici e razionali, appunto587. Jung mette all’erta l’uomo contemporaneo dai pericoli alienanti di un “ipertrofia del logos”: se la parola non sa riferirsi 586 587 Jung, OC XI, p.494. Cfr. G. Rocci, Jung e il suo daìmon, p.22. 230 ad un tessuto esperienziale e sensibile, alla “Terra dell’anima”, è destinata a rimanere un’ astrazione aerea e vuota. Jung avvertiva spesso un profondo disagio nelle sue discussioni con teologi e filosofi perché, diceva, “mi sembra che essi non parlino dell’oggetto, della cosa, ma soltanto delle parole; sostituiamo le parole all’intera realtà. [...] Oggi vi è il pericolo di vedere sostituita dalle parole l’intera realtà, è questo che conduce alla spaventosa assenza di istinti dell’uomo contemporaneo”588. Le proposizioni della metafisica sono dunque in primo luogo proiezioni di processi inconsci su oggetti irreali, fantastici, non empirici589. Nell’epistolario leggiamo che nella “filosofia critica del futuro” dovrà esservi un capitolo dedicato alla “psicopatologia della filosofia”, giacché spesso la cosa pensata è meno importante di chi la pensa, ed il filosofo nevroticamente in disaccordo con se stesso sistematizza le proprie incertezze interiori tramite la filosofia590. In fin dei conti la metafisica non è altro che l’assolutizzazione di proiezioni archetipiche591. La proiezione è una forma di ipostatizzazione: essa riferisce infatti determinati fenomeni ad un sostrato autonomo ed esteriore. Nella sua critica psicologica Jung sembra riconoscere nell’ipostatizzazione la malattia propria di ogni metafisica. Il metafisico attribuisce autonomia o sostanza ai propri concetti, li assolutizza dimenticando di riferirli alla sostanza loro propria, che è quella dell’esperienza: “Oggi [...] la natura non ha più nulla da temere dalle interpretazioni psicologiche; ma il campo dello spirito sicuramente sì e, in particolare, quello che comunemente va sotto il nome di 588 Jung, OC XI, pp.469 e 479. Jung, OC XI, p.176. 590 Jung, Lettere I, pp.330-2. 591 Jung, OC XIII p.322. Cfr. XIV, p.396. 589 231 “metafisica”. Qui si aggirano ancor oggi mitologemi che rivendicano a sé la verità assoluta, e chi, con una certa solennità, si fa portavoce di uno di essi, crede di aver stabilito qualcosa di valido, giungendo ad ascriversi il merito di non possedere quella modestia che conviene al nostro limitato intelletto umano, la modestia che sa di non sapere”592. La posizione dello psicologo ricorda la docta ignorantia di Nicolò da Cusa, una delle sue letture preferite593. Del resto l’intento di ricondurre la metafisica alla psicologia affondava le sue radici nell’ingiunzione anti-metafisica di Nietzsche: “Oggi siamo ancora ben lontani dal considerare con Nietzsche la filosofia, o addirittura la teologia, come ancilla psychologiae, poiché neanche lo psicologo è pienamente deciso a considerare le sue asserzioni come una professione di fede condizionata - almeno in parte - soggettivamente”594. Lo stesso Freud aveva espresso fin dalla Psicopatologia un programma di riduzione della metafisica a metapsicologia595. Affrontando la questione della metafisica Jung affronta anche indirettamente quella della metapsicologia, che forse è la questione. Come è possibile una metapsicologia? Come può la psiche essere oggetto se è anche soggetto del conoscere psicologico? Il problema della metapsicologia è il problema del rapporto tra psiche e logos, tra l’anima e la parola e, per estensione, tra la psicologia e la filosofia. Qui si decide in che misura la psicologia possa essere una filosofia. 592 Jung, OC XIII, p.322. La vicinanza di Jung alle tematiche cusaniane è confermata, come vedremo, anche dalla coniunctio oppositorum. Cfr. OC VIII, p.224; OC XI, p.182; OC XIV, pp.102 e 159; Ricordi, p.396. 594 Jung, OC VIII, p180. 595 Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, Opere III, pp.279-280. Già Freud concepiva la mitologia e le religioni cone “psicologia proiettata sul mondo esterno”. Sulla questione della metapsicologia in Freud e Jung sono di estrema chiarezza le pagine di Rocci, Jung e il suo daìmon, p.18-24. 593 232 Jung rifiuta la risposta Freudiana e nega la possibilità di una metapsicologia in senso stretto, ovvero come sistemazione teorico-oggettiva delle situazioni analitiche, in quanto il discorso psicologico non è trascendibile né oggettivabile. Ne è tuttavia recuperata la possibilità in seconda battuta, nel senso ermeneutico per cui la metapsicologia è una vera e propria visione del mondo di livello trascendentale e fondativo, in cui si riconosce che un discorso psicologico è un discorso filosofico, ma ancor più autentico di quello tradizionale, in quanto basato sugli erlebnisse della psicologia clinica. Scrive Rocci che “Pur non essendo metapsicologico in senso stretto, il discorso junghiano è però filosofico, perché considerando certi momenti psicologici significativamente creativi e collegandoli alle creazioni simboliche del mondo culturale, Jung elabora una costruzione immaginale che è insieme una strutturazione del “mondo” e un vissuto psichico. Ma questo è proprio uno dei possibili significati della filosofia!”596. Jung vorrebbe costruire una psicologia scientifica, ma la sua psicologia è perlopiù una filosofia, come sono autenticamente e propriamente filosofici i suoi concetti. Di più, la filosofia di Jung nella sua profondità – l’Uno – è ontologia, scienza dell’essere597. Dietro la trama di questi movimenti concettuali si agita un problema di rappresentazione: è posta la questione di quale sia la forma linguistica atta a “rappresentare” la Totalità. Una psicologia può essere più filosofica della filosofia? Non possiamo escludere che il linguaggio comunemente riconosciuto come “filosofico” cada in una tale deriva linguistica, tale alienazione e sradicamento, da diventare meno atto ad esprimere la realtà del 596 597 G.Rocci, Jung e il suo daìmon, p.21. Ibid., p.22. 233 Tutto di altri linguaggi chiamati “psicologico”, “scientifico” o “artistico”... A questo punto dobbiamo chiederci: quale filosofia? A prescindere da questioni di ordine epistemologico in che senso pensa la psicologia junghiana? La questione non è delle più semplici. Da molti testi traspare l’idea per cui la psicologia sia l’erede della speculazione filosofica occidentale. Nel Commento psicologico al “Libro tibetano della grande liberazione”598 Jung accosta la psicologia occidentale alla metafisica orientale. La “filosofia critica”, ovvero la filosofia Kantiana, sarebbe la “madre della psicologia moderna” che ha consentito di concepire lo “spirito” come una “funzione psichica”. Nonostante la svolta critica consistente nella critica epistemologica della metafisica – prosegue Jung – l’Occidente è caratterizzato dal conflitto tra scienza e fede, “una nuova malattia basata su un doppio fraintendimento”. La scienza, nella sua implicita critica della metafisica finisce per essere a sua volta metafisica o, per usare le parole di Jung, “negativo-metafisica”: nel negare la realtà degli oggetti metafisici essa fa della propria ipotesi – la materia – una ipostasi. Dal canto suo la fede religiosa si aggrappa secondo lo psicologo ad una infantile posizione precritica599. Nella prefazione a “Dio e l’inconscio” di Victor White600 leggiamo che “Come all’uomo del diciottesimo secolo riesce naturale riflettere ragionevolmente, cioè razionalisticamente, all’uomo del ventesimo secolo riesce naturale riflettere psicologicamente. [... Per quest’ultimo] sarebbe anacronistico, 598 Jung, OC XI, pp.491 sgg. Ibid., pp. 492-493. 600 Ibid., pp.287 sgg. 599 234 cioè regressivo, risolvere i propri conflitti razionalmente e metafisicamente; egli perciò trovandovisi costretto si è costruito come ha potuto una psicologia”601. La svolta di pensiero dalla filosofia alla psicologia, e la scoperta dell’inconscio, sono state annunciate dall’epistemologia kantiana. Nonostante la resistenza della filosofia la psicologia incarna lo spirito dei tempi602, affermando la relatività della coscienza e l’autonomia trascendentale dell’inconscio603. La passione autenticamente filosofica della psicologia supera l’intelletto filosofico per penetrare fino alla conoscenza di colui che conosce: non si tratta più del pensare, ma, nel senso più alto, “del pensatore del pensiero”. La filosofia e il soggetto pensante sono coinvolti in un drammatico processo di trasformazione che inghiotte interamente l’intelletto604. Pare che dopo il criticismo kantiano l’unica strada percorribile dalla filosofia sia psico-logica, ovvero il percorso di un Logos che rinuncia alla propria autonomia, di un pensatore che riconosce il carattere soggettivo della propria conoscenza. “Noi conosciamo nella realtà soltanto ciò che vi abbiamo posto”: Jung traduce questa affermazione gnoseologica in una fondamentale verità psicologica. La metafisica se ne sprofonda nella sua interiorità e per molti aspetti sembra avvicinarsi alla conoscenza filosofica in senso orientale (ovviamente ci riferiamo alla concezione junghiana del “pensiero orientale”). La metafisica orientale non ha affrontato la 601 Ibid., p.296. Altrove Jung parla di un’“epoca dell’anima”. 603 Jung, OC VIII, p.189 sgg. 604 Jung, OC XI, pp.557-558. Jung si riferisce qui allo Zarathustra di Nietzsche, l’uomo nuovo, completamente trasformato, “che ha infranto il guscio dell’antico e che ha non soltanto scorto, ma anche creato un cielo nuovo e una terra nuova”. Jung cita di seguito i versi di Angelus Silesius, Cherubinischer Wandersmann: “Il mio corpo è un guscio in cui un pulcino/ Sarà covato dallo spirito dell’eternità”. 602 235 critica kantiana, in quanto gode di un punto di vista naturale. La prospettiva orientale, a differenza di quella occidentale è una prospettiva interiore. In un certo senso gli orientali non conoscono e non hanno bisogno di una psicologia perché hanno ancora una autentica metafisica. E’ come se, nella prospettiva di Jung, la nostra metafisica avesse assolto alla sua funzione fino alla critica kantiana. La metafisica orientale invece elude la critica kantiana in quanto sa la proiettività, la psichicità dell’oggetto metafisico605. Così ad esempio la filosofia del Bardo Thodol è “la più sublime critica psicologica della metafisica”, ma al tempo stesso sa considerare come reali le divinità che critica. Così essa mostra di sapere la realtà dell’illusione e l’illusione della realtà606: “Mentre l’occidentale tende, in filosofia e in teologia, a considerare le proposizioni di per sé e a disputare su di esse in sé e per sé, senza il perché della loro genesi e della loro funzione nel contesto psicologico, l’orientale ha capito che è la psiche che pronuncia asserzioni metafisiche in virtù della sua innata divina forza creatrice”607. Il programma più o meno esplicito, più o meno consapevole di Jung nei confronti della filosofia è di portare la metafisica a consapevolezza psicologica608: “tutto ciò di cui acquisiamo consapevolezza è immagine e questa immagine è anima”609. Si può dunque sostenere a buona ragione che la psicologia del profondo di Jung riterritorializza il pensiero filosofico dalle proiezioni fantastiche della metafisica al fondo immaginifico 605 Jung, OC XI, p.496. Jung, OC XI, pp. 524 sgg., Commento psicologico al “Bardo Thodol”. In relazione all’Oriente è uno dei rari casi in cui Jung usa l’espressione “metafisico”in senso positivo. L’altro caso che mi viene in mente è in relazione alla “natura metafisica del mandala” in Psicologia e alchimia, OC XIV, pp.101 e 108: anche qui metafisico è usato nel senso di attestazione dell’inconscio, e non come ipostasi. 607 G.Rocci, Jung e il suo daimon, p.81. 608 Ibid., p.75. 609 Jung, OC XIII, pp.58-60. 606 236 dell’anima: “E’ la psiche che stabilisce la distinzione delle entità metafisiche. Essa non è soltanto la condizione della realtà metafisica, ma questa realtà stessa”. 237 3_Lo statuto dei concetti strutturali della psicologia del profondo La psicologia analitica intrattiene dunque un rapporto ambiguo e controverso con la metafisica, ed il sapere filosofico in generale: è una psicologia empirica ma resta comunque aperta a problematiche di carattere trascendentale. Nonostante le esplicite promesse in merito, Jung oltrepassa ampiamente l’ambito di una pura fenomenologia. Ad ogni modo la questione non può essere liquidata così sommariamente: non è affatto sufficiente porre in luce le generiche quanto sporadiche velleità metafisiche dello psicologo svizzero. Per intendere in quale direzione pensi la psicologia del profondo dobbiamo soprattutto indagare - pur sempre nei limiti che questo studio ci concede - lo statuto epistemologico dei suoi concetti strutturali. L’esplicita posizione di Jung a riguardo è a prima vista quella del più radicale nominalista: egli pretende infatti che i suoi concetti non rappresentino altro che “nomi per determinati campi di esperienza”610. I concetti della psicologia analitica non si riferirebbero pertanto a delle strutture psichiche oggettivamente esistenti, bensì sarebbero dei meri segni che possono predicarsi di più individui concreti ed empirici611. Jung tendeva a concepire i propri concetti come elementi ausiliari che svolgevano una determinata funzione piuttosto che 610 Jung, OC XIII, p.347. Qui Jung rievoca la teoria del medievale Roscelllino del concetto universale come flatus voci. Il concetto non godrebbe di autonomia ontologica o epistemologica rispetto agli individui empirici cui è riferito. Cfr. Jung OC XI, p.58, dove l’Autore rivaluta l’immediatezza della vita individuale rispetto all’universalità astratta del dogma. 611 238 pezzi di un sistema preesistente e invariabile: “Come ogni scienza empirica, anche la mia psicologia ha bisogno di concetti ausiliari, ipotesi, modelli. Tanto il teologo quanto il filosofo incorrono spesso nell’errore di vedervi degli assiomi metafisici”612. Jung teneva particolarmente a distinguere la sua teoretica dall’ipostatizzazione “metafisica” o da qualsiasi volontà sistematizzante. I concetti della psicologia analitica non possono certo riferirsi ad un sistema coerente, e tanto meno possono essere inquadrati in una precisa tradizione. Eppure essi rivelano in ultima analisi un portato autenticamente filosofico: nonostante il loro carattere “empirico” sembrano alludere ad un orizzonte ulteriore. E’ per questo che la chiave per una valutazione della psicologia analitica come scienza e come forma di conoscenza va ricercata nelle nozioni fondamentali di “inconscio”, “simbolo”, “individuazione”, “Sé”, “archetipo”. In particolare quest’ultimo è a nostro avviso paradigmatico di come Jung oltrepassi il limite di una psicologia solamente empirica nel senso di una riflessione di carattere trascendentale. L’analisi del concetto di archetipo meriterebbe senza dubbio più spazio di quanto gliene possiamo effettivamente dedicare, in quanto solleva tutta una serie di problematiche filosofiche, e tra l’altro chiama in causa il complesso rapporto della psicologia del 612 Jung, OC XI, pp.293-294. Curioso pure il proseguio: “L’atomo di cui parla il fisico non è un’ipostasi metafisica, ma un modello. Allo stesso modo il mio concetto di archetipo o dell’energia psichica è soltanto un’idea ausiliare che può sempre essere sostituita da una formula migliore. I miei concetti empirici sarebbero, visti filosoficamente, monstra logici, e io come filosofo farei una triste figura. Da un punto di vista teologica, il mio concetto di anima, ad esempio, è gnosticismo bello e buono: perciò sono spesso catalogato tra gli gnostici. Il processo di individuazione, per di più, sviluppa un simbolismo i cui più stretti parenti si trovano nelle concezioni folcloristiche, gnostiche, alchimistiche e in altre concezioni “mistiche” e, last but not least, sciamaniche. Dal confronto di simili materiali risulta un brulicare di prove “bizzarre”, “stiracchiate”, e chi sfoglia un libro invece di leggerlo cade facilmente nell’illusione di avere a che fare con un sistema gnostico. In realtà il processo di individuazione è quel processo biologico, semplice o complesso a seconda dei casi, attraverso il quale ogni essere vivente diventa quello che è destinato a diventare fin dal principio”. 239 profondo con la religione e con il divino. Ai nostri fini considereremo comunque gli archetipi sotto tre aspetti essenziali: nel loro rapporto con il dogma; nel rapporto con la storia del pensiero filosofico; ed infine nella funzione o ruolo epistemologico all’interno della psicologia analitica. Quanto al primo aspetto troviamo un numero considerevole di indicazioni nell’undicesimo volume delle Opere, che raccoglie i saggi sulla religione. Anche in questo caso contravverremo alle espresse indicazioni di Jung per offrire - come egli stesso si esprimeva - l’ennesima “prova stiracchiata” della sua vena autenticamente filosofica: a nostro avviso l’approccio di Jung a questo ordine di tematiche può essere definito, cum grano salis, “gnostico” ed “agnostico” ad un tempo. La psicologia infatti “fa astrazione dalla pretesa, propria di ogni credenza, di essere l’unica ed eterna verità”613. In un certo senso essa oggettiva l’atto stesso di credere e lo tratta come un oggetto di esperienza e di indagine. In quanto non si pronuncia sull’oggetto creduto il suo atteggiamento può dirsi “agnostico” – per quanto non sia in alcun modo irreligioso o riduzionista. Quindi l’archetipo psicologico non intacca in alcun modo l’integrità del dogma: nei confronti della religione e dei suoi eventi numinosi la psicologia applica la modestia dell’intelletto che “sa di non sapere” 614. Tuttavia, in quanto essa indaga con gli strumenti dell’esperienza e dell’intelletto i fenomeni religiosi, il suo atteggiamento può dirsi al tempo stesso “gnostico”615. E’ chiaro 613 Jung, OC XI, p.19. Questo atteggiamento trova la conferma più esplicita nel carattere problematico del rapporto tra il Sè (come numinosum psicologico) e Dio (come oggetto metafisico della pistis). Cfr. OC XI, p.66 e l’interessante lettura del Timeo alle pp.124-133, che tratta del rapporto tra il Dio creatore e l’anima mundi. Il Sé è un “recipiente della grazia divina” – ma quanto questa imago psicologica sia adeguata al suo oggetto resta per Jung un problema. Tenteremo di chiarire la questione nell’ultima parte di questo lavoro. Cfr.Antonelli, Jung e l’immagine di Dio. 615 Cfr. Jung OC XI, pp.43 sgg. 614 240 che queste attribuzioni vanno intese in un senso del tutto relativo, ma come altro dovremmo definire un atteggiamento per il quale la psicologia è l’unica via di accesso per la “comprensione delle cose della religione”? Essa – prosegue Jung – rifonde delle forme di pensiero storicamente irrigidite (i dogmi) in forme d’intuizione dell’esperienza immediata (gli archetipi)616. La psicologia del profondo rinnova dunque nella propria forma e nel proprio linguaggio l’esperienza617 dei simboli morenti della tradizione religiosa, in particolare cristiana e protestante. “E’ certamente un’impresa difficile – conclude Jung – ritrovare il ponte che congiunge la concezione del dogma con l’esperienza immediata degli archetipi psicologici, ma l’indagine dei simboli dell’inconscio ci fornisce il materiale necessario”618. E’ dunque scopo più o meno esplicito di Jung quello di riferire i dogmi della religione agli archetipi dell’inconscio collettivo. Ma la discussione psicologica dei simboli religiosi si inquadra nella più ampia problematica del rapporto tra fede e ragione, tra mysterium fidei e lumen naturae, così determinante a partire dal medioevo, e così cara agli stessi alchimisti. La psicologia tenta di giungere ad una comprensione riflessiva ed intellettuale dell’esperienza immediata ed intuitiva del credente: “La fede ha già occupato la vetta, cui il pensiero si sforza di giungere con faticosa ascesa [...] La fede nel dogma da un lato, la riflessione sul dogma dall’altro ne dimostrano la vitalità”619. Tuttavia ben presto la situazione si rovescia e, come nel caso della filosofia, Jung finisce per attribuire alla psiche 616 Jung, OC XI, p.95. Si noti il felice doppio senso con cui siamo costretti ad usare la parola “esperienza”: in realtà Jung parte da una nuova esperienza empirico-oggettiva per giungere ad una rinnovata esperienza interiore-soggettiva! 618 Jung, OC XI, p.95. 619 Jung, OC, pp.117-118. La riflessione è riferita piuttosto da Jung alla teologia, ma la sua posizione è, in un certo senso, quella di un “teologo non credente”. 617 241 l’autenticità nonché l’origine di tutte le esperienze religiose: “La religione è una delle prime e più universali espressioni dell’animo umano”. Lo stesso dogma finisce così per dipendere dall’archetipo, In questo modo tutta la numinosità dell’empireo dello Spirito è trasferita sul fondo speculare della Psiche, nella quale non si trovano tanto i dogmi, quanto gli archetipi dell’inconscio collettivo. Con un’operazione tipica di Jung il rapporto tra dogma e archetipo si rovescia: da modello conoscitivo ausiliario ed empirico esso assurge allo status di fondamentale struttura gnoseologica ed epistemologica. Un movimento analogo può essere riscontrato, e ulteriormente approfondito, collocando gli archetipi nel contesto della storia del pensiero. Lo stesso Jung è ben consapevole che la nozione di “archetipo” ha avuto antecedenti illustri nella tradizione filosofica occidentale: “La teoria di idee originarie preconsce non è affatto una mia invenzione, come dimostra la parola “archetipo”, che appartiene ai primi secoli della nostra era620. Con particolare riguardo troviamo questa teoria nelle opere di Adolf Bastian e poi ancora in Nietzsche621. Nella letteratura francese Hubert e Mauss e Levy Bruhl riportano idee del genere. Io non ho fatto altro che dare una base empirica alla teoria delle idee originarie o elementari, “catégories” o “habitudes 620 Nota di Jung: “L’espressione “archetipo” è usata da Cicerone, Plinio e altri. Come espresso concetto filosofico appare nel Corpo ermetico I,8 (“Tu hai visto nel tuo intelletto la forma archetipa, il principio del principio che non ha fine”). 621 In nota Jung cita le interessantissime affermazioni di Nietzsche sul sogno in Umano troppo umano: “Nel sonno e nel sogno espletiamo ancora una volta il compito dell’umanità primitiva... Voglio dire: come l’uomo ancora oggi ragiona in sogno, così l’umanità ragionò anche nella veglia per molti millenni [...] Nel sogno continua ad agire in noi questa antichissima parte di umanità, poiché essa è la base sulla quale si sviluppò e si sviluppa ancora in ogni uomo la superiore ragione; il sogno ci riporta indietro in remoti stadi di civiltà umana e fornisce il mezzo per comprenderli meglio”. 242 directrices de la consciensce” ecc. come si chiamavano un tempo, intraprendendo indagini particolareggiate”622. Anche questo aspetto dell’archetipo richiederebbe molto più spazio ai fini di una trattazione esauriente. Si può indubbiamente accostarlo a numerose concezioni filosofiche, mostrandone la derivazione più o meno diretta; ma ciò che più ci interessa è porne in luce l’originalità epistemologica, e quindi il ruolo peculiare nel metodo junghiano. Con straordinaria chiarezza Marie Louise von Franz ha scritto in proposito: “Gli archetipi junghiani sono stati paragonati spesso alle idee platoniche. Va detto tuttavia che la differenza tra l’immagine archetipica e l’idea platonica consiste nel fatto che l’idea platonica è concepita come un puro contenuto di pensiero, mentre un archetipo si può anche esprimere come sentimento, azione o fantasia mitologica. L’archetipo junghiano è perciò un concetto più ampio dell’idea platonica”623. Potremmo dire che l’archetipo corrisponde all’immanentizzazione, all’“incarnazione” delle idee platoniche nel tessuto vitale ed esperienziale della psiche: rappresentano in qualche modo il rovescio speculare, o l’“ombra” del regno platonico delle Idee. Questa concezione apparentemente stravagante trova conferma nelle parole dello stesso Autore: Jung rileva come nel Rinascimento alcuni contenuti psichici siano fuoriusciti dal quadro dogmatico e da allora siano rimasti in uno stato di secolarizzazione, “dove sono stati esposti al principio esplicativo immanente, vale a dire all’interpretazione 622 Jung, OC XI, p.59. Ma si veda anche OC IX, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, p.4, dove Jung riferisce la nozione di archetipo al neoplatonico Filone di Alessandria, a Ireneo, al Corpus hermeticum, a Dionigi l’Aeropagita, a Sant’Agostino e infine alle representations collectives dell’antropologo Levy Bruhl. 623 Marie Louise von Franz, Psiche e materia, p.7. 243 naturalistica e personalistica. Solo la scoperta dell’inconscio collettivo ha cambiato qualcosa a tale riguardo; nei limiti dell’esperienza psichica, esso sostituisce il regno platonico delle Idee; in luogo del potere che questi modelli avevano di determinare forme, l’inconscio assicura mediante i suoi archetipi la condizione a priori di ogni attribuzione di significato”624. Del resto il rovesciamento del platonismo era già stato annunciato nelle profetiche parole di Nietzsche, cui fanno eco quelle di Jung: “Se la nostra eredità naturale si è volatilizzata, anche lo spirito, per esprimerci come Eraclito, è sceso dalla sua altezza infuocata. Ma quando lo spirito diventa pesante si trasforma in acqua; allora l’intelletto, con luciferina presunzione, si impossessa della sede sulla quale un tempo troneggiava lo spirito. Lo spirito può, sì , rivendicare la patria potestas sull’anima; ma non lo può l’intelletto, che è terrestre, che dell’uomo è strumento, ma non è creatore di mondi spirituali o un padre dell’anima”. Siamo dunque entrati in “un’epoca in cui lo spirito non sta più in alto, ma in basso, non è più fuoco ma acqua. La via dell’anima che cerca il padre perduto, come Sophia cerca il Bythos, porta perciò all’acqua, a quell’oscuro specchio che poggia sul suo fondo”625. Abbiamo già osservato come il mito gnostico della creazione rappresenti il mito-guida dell’epistemologia junghiana: Jung scende al “regno delle madri”, un oscuro fondo di compossibilità in cui coglie in speculum le costellazioni archetipiche. Pertanto tutti i critici autorevoli che hanno rivolto a Jung l’accusa di confondere le idee e i più alti simboli della 624 625 Jung, OC XIV, p.86. Jung, OC IX, p.15. 244 coscienza con l’ambito istintuale e del rimosso626, hanno mancato di cogliere questo passaggio metodologico fondamentale. La trascendenza dell’iperuranio si rispecchia e corrisponde simbolicamente al fondo oscuro e ctonio dell’anima, poiché “il più basso è simile in tutto al più alto e il più alto è simile in tutto al più basso, e questo perché si compiano i miracoli di una sola cosa”627. E’ il medesimo movimento che porta anche al rovesciamento del rapporto dogma-archetipo: lo spirito sta ora in basso, e lì va cercato. Definiamo “ultra-immanente” o “iper-fisico”628 il carattere ontologico ed epistemologico degli archetipi, e cerchiamo di chiarire cosa ciò significhi. A questo scopo bisogna distinguere tra l’archetipo come struttura in sé e l’immagine archetipica come rappresentazione dell’archetipo stesso: “Qualunque cosa asseriamo circa gli archetipi si tratta di dimostrazioni o concretizzazioni che appartengono alla coscienza. Ma non possiamo parlare di archetipi se non in questo modo. Non bisogna mai dimenticare che ciò che noi intendiamo col termine “archetipo” è di per sé irrappresentabile, ma ha effetti – le rappresentazioni archetipiche – che rendono possibili dimostrazioni verificabili”629. Da un lato l’archetipo nella sua esistenza oggettiva trascende infatti l’ambito dei fenomeni esperibili: “mi sembra probabile che la vera natura dell’archetipo sia incapace di coscienza, ossia trascendente, ragion per cui lo definiamo 626 Ad esempio Renè Guenon, Jakob Burkhardt... Tabula smaragdina. 628 Nel senso di un superamento della physis attraverso la physis stessa, come dell’immanenza attraverso l’immanenza. D’altronde physis yper physim (la natura oltre la natura) era un’espressione degli stessi alchimisti, ed indica un atteggiamento “mistico-negativo” nei confronti della realtà trascendente. 629 Jung, OC VIII, p.231. Cfr. Marie Luoise von Franz, Psiche e materia, p.7. 627 245 psicoide”630. Noi non possiamo mai conoscerlo in sé, come struttura trascendentale, l’aspetto empirico, possiamo condizionato tutt’al dalla più conoscerne nostra soggettività. Dall’altro lato la “trascendenza” dell’archetipo psicologico non è la stessa trascendenza dell’ipostasi metafisica, in quanto trova il suo “aldilà” alle radici dell’immanenza, della Terra e dell’esperienza. Come è noto Jung ha attribuito agli archetipi un certo rapporto con la physis e con gli istinti, da cui deriva il suo carattere essenzialmente psicoide. La natura psicoide degli archetipi significa appunto il loro radicamento nella corporeità biologica e fisica631. Da un lato gli archetipi sono strutture in sé che trascendono i limiti dell’esperienza, dall’altro sono pienamente derivabili dall’esperienza: ““tipi” numinosi: contenuti, processi e dinamismi inconsci e, se così si può dire, trascendenti-immanenti”632. Essi hanno il carattere del noumeno kantiano, reale eppure inattingibile, e conseguentemente definiscono un ambito epistemologicamente problematico che trascende il limite dell’apprensione fenomenica. Tuttavia essi restano ad un tempo immanenti all’esperienza. E’ in questo senso che li abbiamo definiti “ultra-immanenti” o “iper-fisici”. Jung ha spesso definito gli archetipi in termini kantiani: essi sono infatti vere e proprie strutture trascendentali, a priori dell’esistenza e della conoscenza psicologica. Ma essi vanno anche accuratamente distinti da una lettura di tipo kantiano633. A differenza del trascendentale kantiano essi non agiscono 630 Ibid. Ibid. 632 Jung, OC XI, p.463, corsivo mio. E’ evidente, per quanto non esplicito, che qui si riferisce agli archetipi. 633 Mario Pezzella, Temi filosofici nell’opera di Jung, in Trattato di psicologia analitica, p.30. 631 246 semplicemente come un condizionamento estrinseco rispetto ad un oggetto dato, ma sono anche degli autentici principi produttivi autonomi che pongono l’oggetto stesso a cui danno forma634. Introducendo l’istanza genetica nel trascendentale essi tendono a superare il dualismo di intuizione empirica e concetto tipico dell’impostazione kantiana635. In questo modo essi riallacciano il nesso che può condurre dalla fenomenologia alla formazione di concetti a priori. L’universale psicologico diviene esperibile proprio in quanto è il soggetto trascendentale produttivo dell’esperienza stessa. Gli archetipi sono strutture intrinsecamente ermeneutiche636, e al fondo della loro più intima natura regna l’oscurità del mistero. A differenza delle Idee dell’iperuranio essi non appartengono infatti ad una sovracoscienza luminosa: piuttosto l’archetipo in sé è un 634 Jung. OC XI, p.217 sgg. Il tentativo di superamento del dualismo kantiano attraverso la critica del punto di vista del mero condizionamento era del resto un’istanza centrale delle scuole neokantiane. E’ probabile che gli archetipi kantiani trovino l’accostamento più adeguato proprio nella prospettiva di queste scuole filosofiche contemporanee di Jung. Non a caso queste ultime frequentavano alcune tematiche centrali nella stessa opera junghiana: la critica dello psicologismo e dell’empirismo positivista; la teoria della cultura indirizzata a rintracciare il fondamento delle strutture trascendentali della coscienza pura. In particolare Natorp, che elevò la psicologia al rango di scienza filosofica (Psicologia generale) forzò la nozione di esperienza oltre quella puramente scientifica. Questa prospettiva si incentrava su una rilettura delle idee regolative kantiane in senso platonico: le idee sono così intese come funzioni della conoscenza, dell’esperienza e dell’azione umana. In ogni caso il superamento della dualità kantiana di empirico e trascendentale attraverso l’introduzione del punto di vista genetico era già stato operato nel XVIII secolo da un interprete perlopiù dimenticato di Kant: Salomon Maïmon. Cfr. Versuch ǘber Transzendental philosophie, 1790; e Max Geroult, La philosophie trascendentale de Salomon Maimon. Ma forse prima ancora gli archetipi come principi genetici e formativi dovrebbero essere studiati in rapporto al carattere produttivo delle ipostasi neoplatoniche, o agli archetipi nel senso della tradizione ermetica. Mi rendo conto di quanto oscuro e sommario possa apparire il discorso da me svolto in queste pagine, ma non ho ancora trovato modo migliore per rendere un percorso che ho potuto intravedere nell’opera junghiana. Nella misura in cui le mie indicazioni non siano state sufficientemente chiare, vadano intese come spunto per una futura possibile indagine. In verità, nel tracciare questo percorso ho seguito come una stella-guida l’ontologia di Gilles Deleuze. La sua opera presenta ai miei occhi numerose analogie con quella di Jung – in particolare la concezione deleuziana dell’Idea si avvicina, su un piano esplicitamente ontologico, in maniera strabiliante all’archetipo junghiano. Per cui rimando alla quarta parte della sua ontologia della differenza. Cfr. Gilles Deleuze. Differenza e ripetizione, p.219 sgg. In secondo luogo si dovrebbe esaminare il concetto di individuazione nei due autori. Si veda in proposito la ricerca di Alberto Toscano, Fanaticism and Production: On Schelling philosophy of Indifference, Pli, “The Warwick Journal of Philosophy”, Vol.8, Coventry 1999. 636 Sul rapporto di Jung con l’ermeneutica Cfr. Mario Trevi e la ricerca di Giovanni Rocci, Jung e il suo daìmon. 635 247 fattore oscuro, o opaco637, una disposizione che, in un determinato momento dello sviluppo dello spirito umano, comincia ad agire ordinando il materiale della coscienza in rappresentazioni determinate638: “[...] chiunque sa contare fino a quattro sa cosa è un cerchio e un quadrato, ma come principi formativi essi sono inconsci, e così pure non è conscio il loro significato psicologico. Le mie opinioni e i miei concetti più importanti sono derivati da queste esperienze. Prima vennero le osservazioni, e soltanto in seguito sono riuscito, e con fatica, a formarmi delle idee in proposito. Così accade anche alla mano che guida la matita o il pennello, al piede che compie il passo di danza, alla vista e all’udito, alla parola e al pensiero: è un impulso oscuro quello che alla fine decide della configurazione, un a priori inconscio preme verso il divenire della forma, e noi ignoriamo che la coscienza di un altro è messa in moto dagli stessi motivi, pur avendo la sensazione di essere in preda ad una illimitata casualità soggettiva. Su tutto questo processo sembra aleggiare un oscuro “saper-di-già” non solo della configurazione, ma anche del suo senso”639. Come emerge da queste parole in tutta l’opera di Jung la ricerca empirica e l’indagine trascendentale sono in un rapporto di circolarità virtuosa. Dunque non solamente il concetto di archetipo va inquadrato in questa prospettiva: esso è piuttosto paradigmatico dell’epistemologia junghiana in generale, in quanto non si limita a mostrare la coesistenza parallela dell’anima empirista e di quella filosofica nello psicologo 637 Mi riferisco al processo di “opacizzazione del trascendentale” kantiano per cui questo perde la propria “autotrasparenza”. In questo senso Jung si inserisce perfettamente nel mutamento di paradigma della filosofia contemporanea dal Soggetto al Linguaggio: la sua prospettiva è autenticamente ermeneutica. Cfr. Lucio Cortella, Dal Soggetto al Linguaggio. Lezioni sulla Storia della Filosofia Contemporanea. 638 Jung, OC XI, p.89. 639 Jung, OC XI, p.221. 248 zurighese, ma ne espone il nesso metodologico fondamentale: negli archetipi, come in tutta la psicologia del profondo, la ricerca empirica assume ad un tempo la valenza di esercizio trascendentale. Ma resta ancora da chiarire la prospettiva generale che consente questo oltrepassamento dell’empirismo. Non ha forse ragione chi segnala la ricaduta naturalistica di Jung, o chi lo accusa di incorrere nello stesso errore che egli rimproverava alla scienza: ovvero di essere “negativo-metafisica”, di finire per ipostatizzare ciò in nome di cui criticava la metafisica (nel caso della scienza, la materia)? In che modo la psicologia del profondo può pervenire ad una prospettiva trascendentale senza per questo tradire l’originario assunto empirista? In altre parole, quale statuto epistemologico, e ontologico, conviene all’archetipo e agli altri concetti strutturali della psicologia junghiana? Da un punto di vista empirico l’archetipo può assurgere ad una oggettività soltanto relativa ai soggetti conoscenti, collettiva e non universale – in una parola a posteriori: “L’esistenza psicologica è soggettiva, in quanto un’idea si trova in un solo individuo. Ma è oggettiva in quanto è condivisa, in quanto gode del consensus gentium, del consenso di un numero rilevante di persone”640. In questo senso l’oggettività dell’archetipo è paragonabile a quella dell’oggetto della scienza empirica, la quale si basa appunto sul consenso generale641. Ma il passaggio ad una oggettività trascendentale a priori implica un livello ulteriore rispetto alla mera fenomenologia dell’archetipo collettivo. Come si è già detto questo passaggio non è tanto nel senso di una meta-fisica quanto nel senso di una 640 641 Jung, OC XI, p.15. Epistemologia e politica! 249 “iper-fisica”: infatti non si perviene tanto alla posizione di un’ipostasi quanto alla formulazione di un’ipotesi. L’archetipo, come tutte le nozioni fondamentali della teoria psicologica, ha uno statuto epistemologicamente e ontologicamente “ipotetico”. Tuttavia l’“ipotesi” cui si riferisce Jung non ha esattamente la stessa valenza dell’ipotesi scientifica: piuttosto che il ruolo di “spiegazione possibile” essa svolge il ruolo di un’intuizione originaria e un’idea trainante. La teoria psicologica formula dei modelli virtuali, degli als ob (“come se”): l’attuale fenomenologia della psiche funziona come se esistessero dei tali modelli strutturali trascendentali e produttivi. Non si dice che questi modelli esistono, ma che è come se esistessero. Dello status dei concetti junghiani potremmo dire ciò che Cassirer diceva dell’Urphänomenon, il “fenomeno originante” di Goethe. Si tratta di un modello “che non esiste, in quanto tale, in natura, e tuttavia illumina e rende comprensibile la struttura intima dell’esistente e delle relazioni reciproche che sussistono fra le sue singole parti [...]. La pianta originaria è insieme principio e struttura, è una regola che si sviluppa dall’intuizione stessa e si mostra attraverso di essa”642. A differenza dell’ipotesi scientifica l’als ob junghiano non ha un semplice valore esplicativo-conoscitivo ma anche ontologico in quanto pone un ambito di esistenza problematico: “La realtà della psiche è la mia ipotesi di lavoro”. All’asserzione dogmatica della metafisica, la psicologia sostituisce l’asserzione problematica – “problematica” perché non inclusa nel cerchio dell’attualità empirica. L’ipotesi psicologica si costituisce in riferimento ad un inattingibile fondo 642 Cassirer, Idee un Gestalt, 1981, pp.48-49. Ho già accennato nella nota 88 ad un possibile accostamento di Jung alle scuole neokantiane. Sull’Urphänomenon si veda anche Mario Pezzella, Temi filosofici nell’opera di Jung, p.30-31, da cui ho tratto tra l’altro la citazione di Cassirer. E’ evidente che anche Pezzella segue la “stella deleuziana”. 250 archetipico che, come è stato colto acutamente “non è esistente al modo dell’oggetto di conoscenza nella tradizione metafisica occidentale, ma in quanto poter essere, pluralità coesistente e complessa, complicatio di mondi immaginali possibili”643. Mario Pezzella insiste giustamente sul fatto che la psicologia junghiana vada compresa nel riferimento alla modalità del possibile, senza la quale lo stesso concetto di archetipo diventa inafferrabile e sfuggente644. Ad esempio Jung dice che “il concetto di inconscio non è che un ipotesi fatta da noi per comodità. In realtà io sono inconscio, in altre parole io non ho la minima idea dell’origine della mia voce”645. Ma quest’ipotesi costituisce allo stesso tempo un ambito di compossibilità al fondo della coscienza attuale: “a questa psiche “potenziale” io ho dato il nome di inconscio collettivo”646. La natura potenziale della psiche va ben distinta da una declinazione del concetto di potenza in senso aristotelico (non ancora attuale), oppure nel senso del rimosso freudiano (non più attuale). L’inconscio non può essere inteso come una sorta di scatola nera nella quale siano conservati i contenuti non ancora o non più coscienti: in questo modo l’inconscio potenziale sarebbe una sorta di eterna duplicazione del divenire cosciente. Piuttosto, come scrive Pezzella, l’opera di Jung “si iscrive nella sospensione tra il “non esser più” e il “non essere ancora” che caratterizza la percezione moderna dei fondamenti”647. La potenzialità della psiche inconscia va intesa per così dire 643 Mario Pezzella, Temi filosofici nell’opera di Jung, p.33-34. Ibid., p.30. 645 Jung, OC XI, p.48. 646 Jung, Simboli della trasformazione, OC V, p.397. 647 Mario Pezzella, Temi filosofici nell’opera di Jung, p.29 644 251 “perpendicolarmente” rispetto alla linea del divenire temporale della coscienza: la sua atemporalità ha appunto il significato di un’anteriorità trascendentale rispetto al costituirsi dell’orizzonte della temporalità. Analogamente il concetto di Sé esprime la totalità virtuale della psiche: “Una delle qualità peculiari del Sé è che esso è un essente non esistente e, per così dire, un centro puramente virtuale”648. Mario Trevi nota a sua volta come l’individuazione ed i suoi sottoprocessi siano strettamente imperniati sulla categoria della possibilità e radicalmente avulsi dalla categoria della necessità. Ciò vuol dire che ogni strutturazione interna o esterna è sempre connessa al rischio di destrutturazione è non è in alcun modo garantita da qualsivoglia “legge” di sviluppo naturalistico”649. Questa serie di osservazioni e considerazioni ci consente di stabilire che le fondamentali nozioni psicologiche hanno valore “ipotetico” ma nel senso specifico per cui si costituiscono in riferimento ad un ambito di “virtualità”, per cui l’attualità empirica del divenire della coscienza è posta in relazione dialettica con la virtualità trascendentale l’atteggiamento di Jung genetica650. e è 648 “metafisico”, Per se molti versi intendiamo Jung, Nietzsche’s Zarathustra, p.148. Mario Trevi, Per uno junghismo critico. 650 Per il concetto di virtuale, specialmente in opposizione alla concezione aristotelica della potenza, cfr.Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, p.269 sgg.: “Il virtuale non si oppone al reale, ma soltanto all’attuale. Il virtuale possiede una realtà piena in quanto virtuale. Occorre dire del virtuale quello che Proust diceva degli stati di risonanza: “Reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti” e simbolici senza essere fittizi. Il virtuale va anche inteso come una parte integrante dell’oggetto reale – come se l’oggetto avesse una sua parte nel virtuale e vi vi si immergesse come in una dimensione oggettiva [...]. La realtà del virtuale consiste negli elementi e nei rapporti differenziali, nei punti singolari loro corrispondenti. La struttura è la realtà del virtuale [...]. In tutto questo il solo pericolo è di confondere il virtuale con il possibile, dato che il possibile si oppone al reale, e il processo del possibile è quindi una “realizzazione”. Il virtuale, viceversa, non si oppone al reale, possiede di per sé una realtà piena, e il suo processo è l’attualizzazione”. Ma si veda anche lo studio di Paolo Virno che mette in luce una concezione della potenza anteriore rispetto all’atto: Il ricordo del presente, pp.49 sgg. 649 252 quest’ultima come scienza che trascende il mero ambito dell’esperienza attuale nel senso della totalità dell’essere. 4_Tra empirismo e mistica: psicologia analitica e alchimia Nella definizione della posizione epistemologica della psicologia del profondo ha una funzione essenziale il raffronto con la scienza alchemica: è proprio con lo studio dell’alchimia, infatti, che Jung giunge a chiarire lo statuto della propria psicologia. Egli rileva i presupposti cardinali della tradizione alchemica, e li sussume nel proprio metodo ad un “superiore” livello critico e riflessivo. Come Jung stesso tiene a sottolineare, ciò che caratterizza la scienza alchemica è la simbiosi di ricerca empirica e teoria filosofica, di scienza chimico-fisica e speculazione misticosimbolica651. Questa scienza si imperniava sull’esperienza viva, che è la comune radice dell’operatio di laboratorio e della theoria652. Tuttavia, con l’inizio della sua decadenza “cominciava a profilarsi una divisione sempre più netta tra mystica e physica. Da un lato si rafforzava la corrente mistico-filosofica, dall’altro si delineava sempre più distintamente la chimica vera e propria”653. La mistica ermetica, separata dalla scienza naturale, prendeva sempre più il senso di una speculazione astratta ed il suo simbolismo diveniva “simile ad un vapore irreale, privo di 651 Jung ,OC XI, p.103. Jung, OC XII, p.280 sgg. Molti altri studiosi hanno riconosciuto questo carattere essenziale dell’alchimia. Tra gli altri Walter Pagel, il quale rimprovera a Jung di aver sottovalutato l’aspetto empirico a favore di quello simbolico, che è invece suo grande merito aver riscoperto. 653 Jung, OC XII, pp.406-407. 652 253 qualsiasi sostanzialità654. Dunque secondo Jung da un lato l’alchimia è la matrice della scienza moderna655, dall’altro quest’ultima si astrae completamente dalla componente misticosimbolica. Ebbene, il rapporto che la psicologia del profondo intrattiene con l’alchimia non è affatto accidentale. Come si è visto, nel rilevarne il carattere di psicologia ante litteram, essa si pone al tempo stesso come erede di quella forma di sapere. Pur assumendo da un lato la prospettiva empirica propria della scienza moderna essa recupera contemporaneamente la componente “mistica”. Abbiamo già chiarito nelle parti precedenti in che senso vada inteso l’empirismo junghiano – resta ora da definire il significato dell’espressione “mistica” riferito alla sua opera psicologica. E’ esemplare al riguardo la posizione dell’alchimia nei confronti della scienza di matrice aristotelica. Michela Pereira rimarca che “al fondo della dottrina alchemica si deve riconoscere una “logica del vivente” profondamente diversa da quella aristotelica”656. Gherard Dorneus, discepolo del grande Paracelso657, era un platonico, fanatico avversario di Aristotele. Il pomo della discordia risiedeva in gran parte nell’antica controversia sugli universali, ovvero di quale statuto ontologico convenisse ai concetti universali dell’intelletto. Jung rileva in proposito come la moderna scienza empirica e obiettiva 654 Jung, OC XII, p.414. Michela Pereira, L’alchimia e la psicologia di Carl Gustav Jung, p.431. 656 Michela Pereira, Arcana sapienza, p.39. L’autrice fa qui riferimento ad un o studio di Multhuf, The Origins of Chemistry. Molto interessante anche ciò che dice in altro luogo: “l’Arte Sacra, come la fisica contemporanea, richiede una logica non aristotelica e non cartesiana, che rimpiazzi i principi di identità, di non contraddizione e del terzo escluso con una struttura triadica non oppositiva, in cui la dicotomia fra i principi contrari cede il passo a una dualità che definisce uno spazio (la realtà ontologica della trasformazione, il medium, il sale), di cui la coppia di principi esprime la polarizzazione”, ibid., p.82. 657 Basti sentire con quali soavi parole Paracelso apostrofi medici, dottori e professori del suo tempo, e con essi il loro capostipite Aristotele, Paragrano, Piccola Biblioteca Laterza, p.82-83. 655 254 rappresenti la vittoria della tendenza nominalistica. L’empirismo nominalista di stampo aristotelico è pervenuto all’oggettività della conoscenza eliminando le premesse psichiche e soggettive. Dal canto suo egli auspica la reintroduzione di queste premesse senza per questo rinunciare all’obiettività. Analogamente la filosofia ermetica si prefiggeva di dare una descrizione e una spiegazione in cui fosse inclusa anche la psiche. I principi archetipici della psicologia analitica, che già gli alchimisti conoscevano intuitivamente, rappresentano appunto gli universali della conoscenza psicologica, che sono ad un tempo le componenti essenziali dell’immagine del mondo empirica. La posizione degli alchimisti e di Jung può definirsi realista rispetto all’esistenza dell’universale, ma questo universale può essere colto conoscitivamente solo in re (empiricamente!). Dato il suo assunto kantiano la psicologia non può pronunciarsi sull’esistenza a priori dell’universale: questo ha un’esistenza prettamente “metafisica”. Il concetto resta infine un nome che esprime una realtà solamente virtuale. Tuttavia l’intera indagine fenomenologica è volta a mostrare che questa realtà può anche essere attuale, anzi, ne è in certo modo l’attuazione vivente. Questo dire silenzioso, che accenna segretamente all’esistenza di una realtà “altra” indicibile eppure necessaria – che mostra questa realtà attulizzandola eppure non può dirla – è propriamente il mistico658. D’altronde Paracelso insisteva nel dire che un vero medico dovesse essere anche un filosofo. Ma per lui la filosofia era piuttosto “una filosofia della natura di stampo empirico”, una speculazione simbologica sull’essere 658 del cosmo e della L’espressione “mistica” deriva infatti dal greco myein, tacere – nell’accezione che vogliamo dargli, il trascendimento del logos è in qualche modo il perno dell’esperienza mistica. 255 natura659. La filosofia, trattando di qualcosa di “occulto”660, è essa stessa un arcanum, e deve dunque essere tratta dalla materia dove di nasconde. La natura stessa è filosofia – il medico alchimista trae la sua verità non tanto dalla luce della rivelazione, quanto dall’oscura luce della natura: “La “Theorica” è per lui religio medica”661. Per l’alchimista la natura è come uno specchio formato dai quattro elementi: è in questo specchio che va ricercato il quintum esse, l’essenza eterea del cosmo662. Come nella psicologia analitica la ricerca trascendentale, così empirica è nell’alchimia ad un tempo l’indagine del indagine “regno quaternario ed elementare” è ad un tempo “ricerca del quinto”: la vita mistica dell’Uno va ricercata nella molteplicità del Quattro663. Jung concepisce infatti la propria psicologia in una linea di continuità con l’alchimia. Come egli fa notare quest’ultima rientra da un lato nella storia delle religioni, ma è ad ogni modo profondamente radicata in una filosofia della natura di stampo empirico. La speculazione teologico-filosofica astratta è così proiettata sulla materia chimica: il logos filosofico discende per così dire nella natura incarnandosi in essa. Lo scopo principale di questa scienza è individuare un logos della e nella natura – in un certo senso la sua domanda è: che cosa pensa la natura? Cosa 659 Jung, OC XIII, Paracelso come medico, pp.127-146. Non nel senso dell’“occultismo”: la filosofia è occulta in quanto implicata, nascosta nell’essere naturale. 661 Jung, OC XIII, p.145. 662 Interessante l’osservazione della Pereira, Arcana sapienza, p.161, che riconnette la quintessenza alla concezione stoica del pneuma: “La convinzione di poter ottenere con artifici di laboratorio la materia di cui sono fatti i cieli e il cuore occulto delle cose terrestri, scompagina il sistema cosmologico di Aristotele e della scolastica, e rende gli alchimisti-distillatori demolitori convinti della logica dualista che “fa ostacolo alla definizione di una costanza, di una permanenza sotto la diversità dei viventi”, quale invece rintracciano nella quinta essenza, erede del pneuma storico”. 663 Jung, OC XIV, p11 sgg. 660 256 pensano le pietre?664 Analogamente la domanda su cui fa perno l’indagine junghiana della psiche è: come pensa l’anima, qual è il suo logos? Gli alchimisti seppero curiosamente far convivere nella loro attività un atteggiamento di tipo “empirico” con uno di tipo “mistico-filosofico”, e quando Jung parla della “natura psichica dell’opera alchimistica” è anche a ciò che si riferisce665. In questo sta la chiave della comprensione junghiana del metodo alchimistico, come del riconoscimento di un metodo proprio della psicologia del profondo. Riletta su questo piano la tesi di Jung sull’alchimia rivela una valenza epistemologica insospettata: “L’opera alchimistica non consiste per la maggior parte in meri esperimenti chimici, ma anche in qualcosa di simile a dei processi psichici espressi in linguaggio pseudo-chimico. Gli antichi sapevano, entro certi limiti, cos’erano i processi chimici; dovevano quindi anche sapere che ciò di cui si occupavano non era, diciamo, la chimica ordinaria. Che sapessero di questa differenza, si vede già dal titolo di un trattato dello Pseudo- Democrito, attribuito al primo secolo: τς φυσιχς χα∴ µυστυχς. E poco dopo aumentano le testimonianze dalle quali risulta che 664 Come leggiamo dalla biografia Jung si pose questa domanda fina dalla prima infanzia. Si veda il suo rapporto con la “grande pietra” nella casa paterna di Kusnacht: “In seguito mia madre mi disse che in quel periodo ero spesso depresso. In realtà non lo ero, piuttosto ero assorto a rimuginare il mio segreto. Allora stranamente mi dava un senso di sicurezza e di calma andare a sedermi sulla pietra, come se in qualche modo mi liberasse dai dubbi. Quando pensavo di essere la pietra il conflitto si placava. “La pietra non ha incertezze, non ha bisogno di comunicare, ed è eterna, vive per millenni” pensavo “mentre io sono solo un fenomeno passeggero, turbato da emozioni d’ogni genere, simili a una fiamma che divampa rapidamente e poi si spegne”. Io ero solo la somma delle mie emozioni, e Altro in me era la pietra senza tempo” – Ricordi, p.71. 665 Jung, OC XII, pp.240 sgg. Il riconoscimento della possibile coesistenza di due atteggiamenti così distanti fra loro non è riguarda solamente di Jung, ma va inserita nella critica novecentesca del sapere scientifico. Tra gli altri il nobel per la fisica Wolfgang Pauli, che aveva conosciuto Jung durante il trattamento analitico descritto nella seconda parte di Psicologia e alchimia. Questi poneva il problema della tensione tra l’atteggiamento critico-razionale e quello mistico-irrazionale. Pauli riconosceva esplicitamente nelle ricerche degli alchimisti un tentativo di sintesi tra scienza e misticismo, ovvero tra “l’autocoscienza che osserva il mondo” e “l’esperienza unitaria”. Cfr. W.Pauli, La scienza e il pensiero occidentale, 1955, cit. in Michela Pereira, L’alchimia e la psicologia di Jung, p.415 sgg. 257 nell’alchimia coesistono due correnti eterogenee (per noi), parallele, che non ci è possibile in alcun modo ritenere compatibili. Il “tam ethice quam phisice” dell’alchimia è incomprensibile alla nostra logica”666. Per l’alchimista la scienza naturale è una pratica immediatamente etica: è una prospettiva non solo inconcepibile, ma anche quanto mai attuale per la nostra epoca, in cui la scienza fatica a trovare il senso umano del proprio operare e quasi si sorprende che questo le venga richiesto. Tam ethice quam phisice: la componente soggettiva può, anzi deve coesistere con quella oggettiva, quella trascendentale e mistica con quella empirica. Ciò testimonia l’operare di una logica olistica e analogica, volta all’esperienza della totalità piuttosto che dei fenomeni isolati667. “Mistica” è anche quella logica che garantisce un minimo necessario di determinazione a favore di una visione il più possibile unitaria e sintetica; che sacrifica la capacità discriminativa e riflessiva all’intuizione del tutto, senza per questo escludere a priori l’esperienza oggettiva. Pertanto possiamo constatare con Jung che nell’alchimia classica “la scienza empirica e la filosofia mistica si presentano, per così dire, indifferenziate, indivise”668. E’ davvero come se Jung, nel chiarire la prospettiva degli alchimisti, chiarisse a se stesso la propria: egli rileva pienamente l’atteggiamento degli antichi filosofi, anche se dopo oltre due secoli, in cui si è compiuta la rottura tra la scienza e la 666 Ibid., pp.240-241. La procedura che mira a possedere le cose nel loro isolamento, τα πραγµατα, e in quanto tali le rende funzionali ai bisogni contingenti, è la stessa logica che guida il pragmatismo acefalo della società contemporanea, come il processo di specializzazione idiota e indefinita della ricerca scientifica. Cfr. Emanuele Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, cap. III “L’etica della scienza”, pp.67 sgg. 668 Jung, OC XII, p.226. 667 258 speculazione mistico-filosofica. La ricomposizione di queste due anime del sapere avviene, naturalmente, su un rinnovato e “più astratto” livello riflessivo, in quanto la netta differenziazione ne ha consentito lo sviluppo. Come afferma sibillinamente Jung: “Natura usque tamen recurret”669. La sua prospettiva è per molti versi analoga a quella per la quale Psello, un alchimista bizantino del secolo XI, poteva apostrofare così il suo mecenate: “Tu vedi, mio signore e padrone della mia anima, cosa mi fai obbligandomi a scendere dall’altezza della filosofia a una tecnica meccanica da fabbro, e persuadendomi a trasformare la materia e a modificare la natura. O forse anche questo attiene alla filosofia e dipende dalla scienza della natura?” (Crisopea, I, 27). La psicologia del profondo rientra appieno nell’ambito di una filosofia mistica della natura, con la sola differenza che alla ricerca sulla physis rimpiazza l’esperienza della psiche. La problematica epistemologica del pensiero junghiano va dunque inquadrata anche nel rapporto tra ragione scientifica e fede religiosa, ovvero tra il lumen naturae ed il mysterium fidei. Difatti nella prospettiva dello stesso Jung lo spirito europeo vive una storica scissione, in virtù della quale sussiste il conflitto tra fede e ragione. Da un lato la scienza porta avanti una fede psicologicamente innaturale nei fatti e nella loro oggettività; dall’altro la verità religiosa porta avanti una coercizione altrettanto innaturale a credere670. Al contrario il tipo di “empirista” che ha in mente Jung, strettamente affine al modello degli alchimisti, si rivolge alle cose della natura con una certa “religiosità”. Dello psicologo empirico 669 670 Ibid., pp.406 sgg. Jung, OC XI, Lo Yoga e l’Occidente, pp.541-543. 259 egli dice infatti che “la sua “religio” consiste nello stabilire fatti osservabili e dimostrabili, che descrive e circoscrive, come fa il mineralologo con i suoi campioni, e il botanico con le sue piante”671. E’ una religiosità che, si direbbe, si rivolge prima alle cose create da Dio che a Dio stesso. Sono significative le parole di William James che Jung cita per definire la propria posizione nei confronti della religione: “[...] Ma la considerazione in cui teniamo i fatti non ha neutralizzato in noi la religiosità. Essa è di per se stessa, in certo modo, religiosa; il nostro carattere scientifico è devoto”672. E’ in questo senso che Marie Louise von Franz può affermare che “Gli alchimisti erano dunque, per così dire “gli empirici dell’esperienza di Dio”, in contrapposizione ai rappresentanti confessionali delle religioni che miravano non all’esperienza, ma in primo luogo al consolidamento e all’interpretazione di una verità già rivelata” 673. Secondo l’autrice si trovavano quindi in una situazione analoga a chi tenta di esplorare l’oscurità della psiche inconscia. Tale concezione corrisponde esattamente al rapporto tra il dogma e l’archetipo a cui abbiamo accennato nelle pagine precedenti. Questo spirito religioso “in stretta connessione con l’empirismo della ricerca naturalistica” ha dato uno dei suoi frutti più notevoli nell’intuizione del lumen naturae. Jung ripercorre più volte questa tematica fondamentale della tradizione alchemica, in particolare nei suoi saggi su Paracelso674. E’ in quest’ultimo che 671 Jung, OC XI, Prefazione a White..., p.291. William James, Pragmatism, cit. in OC XI, p.18 e n. 673 Ma forse l’affermazione risale allo stesso Jung. Cfr. Marie Louise von Franz, Il mito di Jung, p.192: 674 Jung, OC XIII, Paracelso (1929), Paracelso come medico (1941), ed il fondamentale Paracelso come fenomeno spirituale (1942), 672 260 si rende lampante la tensione tra la divina rivelazione ed il mistero naturale. Nella concezione di questo grande medico alchimista la luce celata nella natura illumina l’uomo sugli attributi della natura stessa, e gli consente la comprensione delle cose naturali. La produzione di tale luce è la produzione del filius philosophorum: “In Paracelso, come in altri alchimisti, quest’idea della luce coincide con il concetto di sapientia o di scientia. Senza tema di errore, si può affermare che la luce è il mistero centrale dell’alchimia filosofica. Essa viene quasi sempre personificata dal “filius”, o perlomeno menzionata come uno dei suoi principali attributi”675. Del resto come nel caso del parallelo lapis-Cristo, è difficile dimostrare se e in quale misura gli alchimisti fossero consapevoli del contrasto della loro concezione con la verità rivelata. Paracelso ad esempio non rinnegò mai la fede e la rivelazione, e per tutta la sua vita la Chiesa fu per lui come una madre. Ma, per esprimerci con le parole di Jung, Paracelso di madri ne ebbe due: l’altra era Madre Natura. Così eresse la sua scienza pagana (“pagoya”) senza rinnegare l’autorità, e piuttosto accanto ad essa. Il filosofo della natura traeva per lui la propria conoscenza dall’esperienza, e non per autorità. Questa conoscenza proveniva dal lumen naturae, quell’astrum676 o quinta essentia celeste che poteva essere estratta dalla materia fisica677 e dal corpo umano. In altri termini, ciò che consentì agli alchimisti una posizione di questo genere fu una sorta di felice inconsapevolezza, che 675 Jung, OC XIII, Paracelso come fenomeno spirituale, p.165. Con la teoria paracelsiana dell’astrum in corpore o del firmamento interiore l’alchimia raggiunge uno dei suoi vertici poetici. 677 Jung, OC XIII, Paracelso come fenomeno spirituale, pp.152 sgg. 676 261 consentì loro di proiettare contenuti religiosi sull’oscurità della natura e di cogliere pertanto il lumen naturale im Speigel des Stoffes (nello specchio delle cose). Nello Spirito Mercurio leggiamo: “Degna di nota è la dualità dell’anima determinata dalla presenza del Mercurio: “da un lato l’immortale anima rationalis, infusa da Dio padre, che distingue l’uomo dagli altri animali; dall’altro l’anima vitale (mercuriale), che secondo ogni apparenza è connessa con l’inflatio o inspiratio dello Spirito Santo: fondamento psicologico della doppia sorgente d’illuminazione”678. Dunque dal punto di vista della psicologia “il lumen naturae è lo spirito naturale, di cui possiamo osservare l’azione singolare e incisiva nelle espressioni dell’inconscio”679. Al di là della consapevolezza o meno degli alchimisti, serpeggia nella loro tradizione l’ideale di un’assimilazione del mistero della fede al mondo naturale, la speranza “in una nuova incarnazione e trasformazione del [sistema della fede] in una rivelazione naturale”. Questo processo di assimilazione tra verità rivelata e conoscenza della natura costituisce “un precedente del metodo di cui la psicologia empirica si serve per accostarsi alle idee dogmatiche, accostamento che Nietzsche aveva già pensato ed esposto con chiarezza. La psicologia in quanto scienza della natura considera il mondo delle rappresentazioni religiose sotto il profilo della sua fenomenologia psichica, senza toccarne il contenuto teologico”680. La mistica naturale degli alchimisti offre insomma a Jung il paradigma generale del metodo alchemico, per il quale un contenuto trascendente e misterioso veniva proiettato sulla natura, ovvero sulla materia 678 Ibid., Lo spirito Mercurio, p.246. Ibid., p.222. 680 Jung, OC XIV, p.335. Abbiamo visto come in realtà, pur “non toccando” i contenuti della teologia, li “rovesci” sul terreno della psiche. 679 262 chimica. In questo modo i contenuti della verità rivelata potevano essere esperiti ed indagati oggettivamente. Questo stesso metodo è il motore della psicologia del profondo, qualora si sappia riconoscere nella psiche il soggetto e l’oggetto di tutte le proiezioni psico-logiche. 263 Appendice II: L’ARTEFICE CONTEMPORANEO Il testo seguente è stato da me redatto, ma è uno dei tanti frutti della riflessione e della sperimentazione che da diverso tempo porto avanti con alcuni amici. La nostra ricerca collettiva verte sulla possibilità reale di un nuovo percorso alchemico nella società odierna. Pertanto ci siamo chiesti chi sia l’artefice contemporaneo, quale sia la sua prima materia, e quale il suo mito. Cosa significa divenire artefice? Ogni artista è un uomo morto, la poetica è spazzatura. Non ci sono più artisti ma solo artefici e tecnologi. Non ci sono più poetiche ma solo metodi. La poetica è prassi fatta con l’esperienza. L’artefice è artigiano, meccanico e architetto: la sua arte è il suo sapere, il suo sapere è il suo lavoro, e il suo lavoro è la sua vita. E viceversa. L’arte è artificio – è negazione della natura e trasfigurazione della materia. L’arte dell’artefice è l’apoteosi dell’artificiale. L’arte è pura finzione: solo così può essere reale. L’artefice è spontaneo soltanto nella ricerca e nella costruzione del metodo: così è spontaneamente metodico. L’artificio è il perfezionamento e l’autocoscienza della natura. L’arte è conoscenza di sé 264 nell’artificio. L’arte dell’artefice è la simultanea trasformazione della materia e dell’artefice. L’artefice è un nomade, un cacciatore e un ladro. Chi cerca sfugge alle abitudini e sceglie la scomodità. L’artefice raccoglie per la strada, nei bassifondi. La sua materia è povera e poco nobile – è oscurità e rifiuto: solo così potrà illuminarla. L’artefice si incarna nella propria materia. La materia è la sua condanna e maledizione. L’artefice sceglie di vivere in questo caos e di abbandonare per sempre il paradiso della forma universale. Egli cerca nella materia oscura l’ordine e la forma, e così la porta alla luce. Trovando la propria forma assolutamente singolare l’artefice rinnova, ricorda e ricrea la forma universale (Idea). L’azione creativa è il termine naturale di un pensiero che ha riconosciuto la propria differenza dal reale. Il pensiero, per essere pensiero deve realizzarsi. L’arte dell’artefice è una simbiosi di pensiero e azione: l’azione genera il pensiero e il pensiero l’azione. Un’Idea che non si può realizzare non è neanche un’Idea: è astrazione e negatività. Questo è il primo problema estetico, pratico ed esistenziale dell’artefice: la rappresentazione dell’Idea. L’attore creativo agisce come un lombrico e pensa come un uccelloide. 265 L’arte è un’attività contemplativa. L’artefice esperisce se stesso creando. L’esperienza e la conoscenza di sé sono il motore primo e il fine ultimo dell’arte. Tutte le esperienze dell’artefice fanno parte di una trama e di un destino: costituiscono un racconto, un mito. L’artefice è un creatore di miti, che danno senso al mondo. Il mito dell’artefice misura la distanza tra il cielo e la terra. La poetica è una pragmatica. Avere una poetica significa avere un metodo. Artefice è colui che ha un metodo, una via. L’artefice è il misuratore di un caos informe e il geometra dell’infinito. L’artefice è un idiota: sa solo la sua materia e il suo mondo. L’artefice è bambino e animale: vive nell’immediatezza dell’aperto. L’artefice è il custode di un sapere e di un’esperienza. 266 Bibliografia Opere di Jung Tutti gli scritti di Jung citati nel presente lavoro fanno riferimento ai volumi delle Opere pubblicati da Bollati Boringhieri. Pertanto le note riportano in numeri romani il volume dell’opera completa (abbreviato “OC”), seguito dalle pagine, e quasi sempre dal titolo del saggio. Fanno eccezione L’Io e l’inconscio, per il quale mi riferisco edizione del Corpus junghiano minore, sempre dell’Editore Boringhieri, e l’autobiografia Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli BUR, che cito abbreviatamente come “Ricordi”. Di seguito i titoli e le date di pubblicazione dei diciannove volumi della traduzione italiana delle “Opere di C.G. Jung”: 1. Studi psichiatrici (1970). 2. Tomo 1: L’associazione verbale negli individui normali (1979). Tomo 2: Ricerche sperimentali (1979). 3. Psicogenesi delle malattie mentali (1971). 4. Freud e la psicoanalisi (1973). 5. Simboli della trasformazione (1970). 6. Tipi psicologici (1969). 7. Due testi di psicologia analitica (1983) 8. La dinamica dell’inconscio (1976). 9. Tomo 1: Gli archetipi e l’inconscio collettivo (1980). Tomo 2: Aion: ricerche sul simbolismo del Sé (1982). 10. Tomo 1: Civiltà in transizione: Il periodo fra le due guerre (1985). Tomo 2: Civiltà in transizione: Dopo la catastrofe (1985). 11. Psicologia e religione (1979). 12. Psicologia e alchimia (1981). 13. Studi sull’alchimia (1988). 14. Mysterium coniunctionis (1989/90) 15. Psicoanalisi e psicologia analitica (1991) 16. Pratica della psicoterapia (1981). 17. Lo sviluppo della personalità (1986). 18. La vita simbolica (1991). 19. Indici generali (1993). 267 Segue la cronologia dei principali scritti presi in considerazione secondo la data di pubblicazione (eventuali differenti date di stesura sono indicate tra parentesi): JUNG, CARL GUSTAV, 1912/52 Wandlungen un Symbole der Libido (1912)/ Symbole der Wandlung (1952). Trad. it. Trasformazioni e simboli sella libido (1912). Edizione definitiva in Opere, vol.V, Simboli della trasformazione, Boringhieri, Torino 1970. JUNG, CARL GUSTAV, 1918 Über das Unbewusste. Trad. it. in Opere vol.X*, Sull’inconscio. JUNG, CARL GUSTAV, 1919 Instinkt und Unbewusstes. Trad. it. in Opere vol.VIII, Istinto e inconscio. JUNG, CARL GUSTAV, 1921 Psychologische Typen (1920). Trad. it. in Opere vol.VI, Tipi psicologici. JUNG, CARL GUSTAV, 1925 Psychologische Typen. Trad. it. in Opere vol.VI (Appendice), Tipi psicologici. JUNG, CARL GUSTAV, 1927/31 Die Struktur der Seele. Trad. it. in Opere vol.VIII, La struttura della psiche. JUNG, CARL GUSTAV, 1928 Psychologische Typen. Trad. it. in Opere vol.VI (Appendice), Tipi psicologici. JUNG, CARL GUSTAV, 1928 Die Beziehungen zwischen dem Ich und dem Unbewusstsein. Trad. it. in Corpus junghiano minore, L’Io e l’inconscio. JUNG, CARL GUSTAV, 1928 Über die Energetik der Seele. Trad. it. in Opere vol.VIII, Energetica psichica. JUNG, CARL GUSTAV, 1928/31 Analytische Psychologie und Weltanschauung (1927/31). Trad. it. in Opere vol.VIII, Psicologia analitica e concezione del mondo. JUNG, CARL GUSTAV, 1929 Der Gegensatz Freud-Jung. Trad. it. in Opere vol.IV, Il contrasto tra Freud e Jung. JUNG, CARL GUSTAV, 1929 Paracelsus. Trad. it. in Opere vol.XIII, Paracelso. 268 JUNG, CARL GUSTAV, 1929/57 Kommentar zu “Das Geheimnis der goldenen Blüte”. Trad. it. in Opere vol.XIII, Commento al “Segreto del fiore d’oro”. JUNG, CARL GUSTAV, 1933 Wirklichkeit und Überwirklichkeit. Trad. it. in Opere vol.VIII, Realtà e surrealtà. JUNG, CARL GUSTAV, 1934 Allegemeines zur Komplextheorie. Trad. it. in Opere vol.VIII, Considerazioni generali sulla teoria dei complessi. JUNG, CARL GUSTAV, 1934/54 Über die Archetypen des kollektiven Unbewussten. Trad. it. In Opere vol. IX*, Gli archetipi dell’inconscio collettivo. JUNG, CARL GUSTAV, 1935 Grunsätzliches zur praktischen Psycotherapie. Trad. it. In Opere vol.XVI, Principi di psicoterapia pratica. JUNG, CARL GUSTAV, 1935/53 Psychologischer Kommentar zum “Bardo Thödol” (Das tibetanische Totenbuch). Trad. it. in Opere vol.XI, Commento psicologico al “Bardo Thödol” (Libro tibetano dei morti). JUNG, CARL GUSTAV, 1936 Psychologische Typen. Trad. it. in Opere vol.VI (Appendice), Tipi psicologici. JUNG, CARL GUSTAV, 1938/40 Psychology and Religion (1937/40). Trad. it. in Opere vol. XI, Psicologia e religione. JUNG, CARL GUSTAV, 1938/54 Die Visionen des Zosimos (1937/54). Trad. it. in Opere vol. XIII, Le visioni di Zosimo. JUNG, CARL GUSTAV, 1939 Bewusstsein, Unbewusstes und Individuation. Trad. it. in Opere vol.IX*, Coscienza, inconscio e individuazione. JUNG, CARL GUSTAV, 1939 Vorwort zu D.T. Suzuki: “Die grosse Befreiung. Einfürung in den ZenBuddhismus”. Trad. it. in Opere vol.XI, Prefazione a D.T. Suzuki “La grande liberazione. Introduzione al buddhismo zen”. 269 JUNG, CARL GUSTAV, 1941 Paracelsus als Arzt. Trad. it. in Opere vol.XIII, Paracelso come medico. JUNG, CARL GUSTAV, 1942 Vorwort zu “Paracelsica”. Trad. it. in Opere vol.XIII, Premessa a “Scritti su Paracelso”. JUNG, CARL GUSTAV, 1942 Paracelsus als geistige Erscheinung (1941). Trad. it. in Opere vol.XIII, Paracelso come fenomeno spirituale. JUNG, CARL GUSTAV, 1942/48 Versuch zu einer psychologischen Deutung des Trinitätsdogmas (1940/48). Trad. it. in Opere vol.XI, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, Boringhieri. JUNG, CARL GUSTAV, 1942/54 Das Wandlungssymbol in der Messe (1941/54). Trad. it. in Opere vol.XI, Il simbolo della trasformazione nella messa. JUNG, CARL GUSTAV, 1943 Zur Psychologie ostlicher Meditation. Trad. it. in Opere vol.XI, Psicologia della meditazione orientale. JUNG, CARL GUSTAV, 1943 Aus einem Brief an einem protestantischen Theologen. Trad. it. in Opere vol.XI, Da una lettera a un teologo protestante. JUNG, CARL GUSTAV, 1943 Psychotherapie und Weltanschauung (1942). Trad. it. in Opere vol.XVI, Psicoterapia e visione del mondo. JUNG, CARL GUSTAV, 1943/48 Der Geist Mercurius (1942/48). Trad. it. in Opere vol.XIII, Lo spirito Mercurio. JUNG, CARL GUSTAV, 1944 Über den indischen Heiligen. Vorwort zu H. Zimmer: “Der Weg zum Selbst”. Trad. it. in Opere vol.XI, Santi indiani. 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Vol.2: RIPLEUS, Duodecim portarum axiomata philosophica (pp.123-29); DEE, Monas hieroglyphica (pp.218-43); VENTURA, De ratione conficiendi lapidis (pp.244-346); PICO DELLA MIRANDOLA, De auro (pp.357-432); ALBERTO MAGNO, Super Arborem Aristotelis (pp.524-27). Vol.3: De magni lapidis compositione et operatione (pp.1-56); RUPESCISSA, Liber de confectione veri lapidis philosophorum (pp.191200); PENOTUS, Philosophi artem potius occultare quam patefacere (Tavola dei simboli, p.123). Vol.4: LULLO, Theorica et practica (pp.1-191); ARTEFIO, Clavis majoris sapientiae (pp.221-40); Aurelia occulta philosophorum (pp.525-81); ARNALDO DI VILLANOVA, Speculum alchymiae (pp.583-613); ERMETE TRISMEGISTO, Tractatus aureus de lapidis physici secreto (pp.672-797); LAGNEUS, Harmonia Chemica (pp.813-903); ALBERTO MAGNO, Liber de lapide philosophorum (pp.948-71); VALENTINO, Opus praeclarum (pp.1061-75). Vol.5: Allegoriae sapientum: supra librum turbae (pp.64-100); Liber Platonis quartorum (pp.114-208); SENIOR, De chemia (pp.219-66); BONO, Pretiosa margarita novella correctissima (pp.589-794); Consilium coniugii seu de massa solis et lunae (pp.479-566); Tractatus Aristotelis alchymistae ad Alezandrum Magnum, de lapide philosophico (pp.893-900); Vol.6: VIGENERUS, De igne et sale (pp.1-139); ORTHELIUS, Epilogus et recapitulatio in novum lumen chymicum Sendivogii (pp.430-58) ; ID., Discursus (pp.470-74). TRISMOSIN, SALOMON, -Aureum vellus, oder Guldin Schatz und Kunstkammer (Rorschach 1598). Splendor solis è il Tractatus tertius. 286 Altri testi di riferimento BENJAMIN WALTER, -Schriften, Suhrkamp Verlag, (1955); trad. it. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1955. CACCIARI MASSIMO, -L’angelo necessario, Adelphi, Milano 1986. CORTELLA, LUCIO, -Dal Soggetto al Linguaggio. Lezioni sulla Storia della Filosofia Contemporanea, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 1994. 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