Il presente numero è stato stampato
con il contributo della Fondazione CARIPT
Copyright © 2018 by
IstItuto storIco della resIstenza
e dell'età
contemporanea In provIncIa dI pIstoIa
Sede legale: Piazza S. Leone 1 - 51100 Pistoia
Ufficio, archivio e biblioteca: Viale Petrocchi, 159 - Pistoia 51100
Tel e Fax 0573 359399
In copertina: Calimero, uno dei personaggi più popolari di Carosello, fece la sua apparizione nel 1963
QUADERNI DI
FARESTORIA
PERIODICO DELL’ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA
E DELL’ETA’ CONTEMPORANEA IN PROVINCIA DI PISTOIA
ANNO XX, N. 3
SETTEMBRE - DICEMBRE 2018
GLI ANNI DEL BOOM NEL TERRITORIO PISTOIESE
Presentazione
roberto barontInI
presIdente dell’IstItuto storIco della resIstenza
contemporanea In provIncIa dI pIstoIa
e dell’età
5
Saggi
FIlIppo mazzonI
Per una storia del miracolo italiano
11
steFano bartolInI
La fine della mezzadria
25
steFano rosIgnolI
La provincia di Pistoia negli anni
del boom economico italiano
39
andrea ottanellI
Il settore industriale-manifatturiero
53
maurIzIo lazzarI
Lo sviluppo delle “case popolari ed economiche”
61
danIela FarallI
I ragazzi del juke box. Balli proibiti
alla Casa del popolo di Tobbiana
67
alberto cIprIanI
Dal boom allo sboom
81
gabrIele magnolFI
Il miracolo economico italiano:
una rassegna bibliografica aggiornata
85
Contributi
QUADERNI DI
FARESTORIA
ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA
E DELL’ETÀ CONTEMPORANEA IN PROVINCIA DI PISTOIA
Presidente: Roberto Barontini
Vice presidente: Sonia Soldani
Direttore: Matteo Grasso
Sede legale: Piazza S. Leone 1- 51100 Pistoia.
Ufficio, archivio e biblioteca: Viale Petrocchi, 159 - 51100 Pistoia - Tel e Fax 0573 359399
www.istitutostoricoresistenza.it
Per associarsi e ricevere la rivista quadrimestrale QF:
€ 20,00 (venti/00).
Il versamento può essere effettuato:
• con bollettini di Conto Corrente Postale sul numero 10443513 intestato a Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (O.N.L.U.S.) specificando la causale; oppure con bonifico Conto Corrente Postale IBAN
IT30S0760113800000010443513
• presso il nostro ufficio in viale Petrocchi n° 159 a Pistoia
• con Bonifico Bancario sul conto n. 68711100000000722 di Intesa San Paolo filiale Porta al Borgo intestato a
Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (O.N.L.U.S.) IBAN IT66Z0306913834100000000722.
Supplemento di “Farestoria”,
Rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età Contemporanea nella Provincia di Pistoia.
Autorizzazione del Tribunale di Pistoia n. 259 del 16.2.1981.
Redazione: Viale Petrocchi, 159 – 51100 Pistoia. Tel. 0573 359399
E-mail:
[email protected]
Direttore responsabile: Cristiana Bianucci
Direttore di redazione: Stefano Bartolini
Comitato di redazione:
Roberto Barontini, Francesco Cutolo, Daniela Faralli, Matteo Grasso, Maurizio Lazzari,
Edoardo Lombardi, Chiara Martinelli, Filippo Mazzoni, Francesca Perugi, Alice Vannucchi
Presentazione
dI
roberto barontInI
Presidente
dell’IstItuto
e dell'età
storIco della resIstenza
contemporanea In provIncIa dI pIstoIa
Mi accingo a presentare questo QF avendo dentro di me un sentimento che deriva
dalla mia esperienza politica. Questo sentimento scaturisce dal fatto che quest’ultima è
iniziata proprio nel decennio del miracolo economico. Potrei pertanto essere condizionato nella lettura degli eventi, riportando un giudizio non oggettivo bensì soggettivo
degli stessi. Mi tranquillizza però quanto è stato scritto nel Manifesto in difesa dello studio della storia nelle scuole. «La Storia è un bene comune che ha come conoscenza un
principio di democrazia e di uguaglianza […] Lo storico ha le proprie idee politiche ma
deve metterle alla prova di documenti e del dibattito confrontandosi con le idee altrui».
Tutti sanno che il mio impegno politico e istituzionale si è esplicitato nel Partito
repubblicano italiano, partito risorgimentale con Mazzini, laico e azionista con Ugo La
Malfa. Con questo sentimento e con questa precisazione ho letto i saggi e i contributi
e devo dire che sono tutti estremamente utili per la conoscenza di un periodo eccezionale della storia italiana del Novecento. Mi sento tranquillo perché Ugo La Malfa ha
scritto «I partiti sono strumento della democrazia, i partiti non sono chiese, non sono
tabernacoli, non sono dogmi».
Dividerò le mie considerazioni e osservazioni riferendomi ad uno scenario che
si apre con l’analisi del contesto socio-economico che precedette il miracolo economico
e si chiude con il giudizio storico-politico su questo periodo della nostra storia economica e sociale.
Filippo Mazzoni ha egregiamente inquadrato quanto avvenne nel periodo precedente gli anni Sessanta. Ugo La Malfa fu ministro del Bilancio nel primo governo
di centro-sinistra presieduto da Fanfani e fornì la Nota aggiuntiva al bilancio del 1962.
L’assunto di fondo del documento era che l’economia di mercato non potesse
risolvere i gravi squilibri che attanagliavano il paese. L’impossibilità di assicurare uno
sviluppo senza eliminare gli squilibri territoriali e settoriali, la necessità di distribuire
le risorse tra consumi e investimenti secondo una precisa scala di priorità, la necessità
di una visione globale del problema, indicando gli obiettivi di medio e lungo periodo,
eliminandoli in tempi ragionevoli.
5
Anche di questa politica economica si erano occupati nell’Ufficio Studi della
Banca Commerciale Matteoli, Ruffolo, Giolitti, La Malfa, insieme a Vanoni e Pieraccini che erano ministri del governo del Paese. A questo punto mi è utile e necessario
soffermarmi su Ugo La Malfa il politico che fu chiamato Cassandra e per questo non
fu mai ascoltato. In quel periodo ci fu un intenso confronto tra i fautori di una politica
economica liberista portata avanti dalla DC e dal PLI e una politica socio-economica
che preferiva un intervento dello Stato nell’economia, voluta soprattutto dal PCI e in
parte dal PSI.
Mancava una vera politica di orientamento keynesiano che prevedesse un intervento dello Stato attraverso la programmazione economica, che impostasse le scelte
del governo e del Parlamento guidando il mercato verso un graduale ma efficace superamento degli squilibri sociali, territoriali, culturali del Paese e combattendo quelle ingiustizie che derivano da un capitalismo dominante e da una burocrazia parassitaria.
Il Governo Fanfani-La Malfa del febbraio 1962 fu lo sbocco che avviò la fase
del processo di centro-sinistra, con un programma caratterizzato da due impegni di
grandissimo rilievo riformatore: la programmazione economica e la nazionalizzazione dell’energia elettrica. La Malfa era un sostenitore dell’economia di mercato, ma di
scuola keynesiana. Con la famosa Nota aggiuntiva presentata dal Ministro del Bilancio
e redatta con l’ausilio di una nuova generazione di economisti allora poco conosciuti
(Luigi Spaventa, Paolo Sylos Labini, Francesco Forte, Giorgio Ruffolo) offrì al Parlamento e al Paese un documento di straordinaria importanza politica.
Vi era enunciata una coerente strategia di politica economica assai avanzata, che
letta oggi contiene impostazioni di assoluta validità. Che l’economia di mercato non
potesse risolvere di per sé i gravi squilibri che affliggevano il Paese era l’assunto di
fondo del documento.
L’impossibilità di assicurare uno sviluppo durevole nel tempo senza eliminare gli squilibri territoriali e settoriali; la necessità di distribuire le risorse tra consumi
e investimenti secondo precise priorità, fissando obiettivi di medio e lungo termine
per eliminare in tempi ragionevoli sia il divario tra le due italie sia l’elevato livello
della disoccupazione. Non si può ignorare il fatto che le forze politiche della sinistra
nutrivano, a loro volta, qualche incertezza nei confronti della nuova situazione: oltre
alla perdurante divisione tra autonomisti e sinistra a proposito delle forme e dei modi
con cui attuare la politica di programmazione, vi erano differenze e dubbi ancora più
profondi. Osservava Giorgio Amendola (PCI): «dopo ritardi e incertezze e dure lotte
politiche ed economiche, che hanno sempre accompagnato l’espansione economica
negli ultimi anni e ne hanno nei fatti rappresentato la critica più efficace, la classe
operaia italiana e i suoi partiti hanno elaborato una politica corrispondente alle esigenze poste dalla nuova fase di espansione monopolistica, una politica fondata su una
programmazione democratica e su profonde riforme di struttura, politica necessaria
6
per assicurare la continuità e l’espansione economica e fare sì che essa si traduca non
in un aggravamento delle contraddizioni sociali e degli squilibri territoriali, ma in un
progresso generale di tutta la società nazionale».
Nella Nota aggiuntiva, Ugo La Malfa scrisse che poteva seguire al periodo di
espansione un periodo di grave crisi economica; e ciò perché sarebbe esploso lo “shock
energetico”.
Infatti aumentò in maniera spaventosa il costo del petrolio anche perché si rinforzò il potere delle “sette sorelle” e i produttori americani, che avevano costi di produzione enormemente più alti, avevano tutto l’interesse a rendere economici i loro
pozzi. Nel giro di pochi mesi il prezzo del greggio quintuplicò. In tutti i paesi si cercò di aumentare i prezzi dei prodotti esportati. L’inflazione provocata dal prezzo del
greggio esplose in maniera preoccupante.
Un’altra vicenda che contribuì far nascere il “miracolo economico” deriva dal
fatto che occorreva stimolare con la concorrenza una crescita economica che avrebbe
favorito proprio le zone più deboli, e quindi anche il Mezzogiorno.
Il Ministro del Bilancio ha scritto: «Cancellammo di colpo il protezionismo e
l’autarchia, abbassammo i dazi del 10%, fummo il primo Paese dell’OESCE ad aprire
le frontiere prima ancora della Germania. E poiché spesso sono considerato un pazzo quando parlo e faccio proposte, i grossi industriali lombardi mi rinfacciavano che
con quella sortita, con quel colpo improvviso avrei messo a terra l’industria italiana.
Quando di lì a pochi mesi l’autore del miracolo tedesco il ministro Ludwig Erhard che
sarebbe poi diventato cancelliere mi incontrò alla fiera di Milano mi chiese come mai
avevamo avuto il coraggio di varare un simile provvedimento. Il boom del miracolo
economico è stato il frutto della spinta coraggiosa e innovativa».
Dopo queste considerazioni sulla vicenda – irripetibile – del miracolo economico, i contributi degli autori preceduti dallo scritto di Filippo Mazzoni, tutti molto interessanti, riguardano la ricaduta sulla nostra economia e sull’economia del territorio.
Maurizio Lazzari, mio prezioso amico, ha dimostrato ancora una volta di essere,
caso abbastanza raro, contemporaneamente un urbanista e un architetto.
Nel decennio di riferimento Pistoia è cambiata sia nel disegno urbano sia nelle
sue caratteristiche edilizie. La nascita e lo sviluppo delle case popolari ed economiche
in Italia durante il periodo del miracolo economico fu dovuta anche al fatto che nelle
zone del Centro e del Nord ci furono migrazioni interne e consistenti spostamenti di
persone dalla montagna al piano e dalla campagna alla città.
Il tramonto della mezzadria, di cui ha scritto in questo QF Stefano Bartolini,
cambiò un aspetto significativo dell’offerta di lavoro e di domanda di alloggi dall’agricoltura, all’artigianato e all’industria.
L’espansione della città non avvenne a macchia d’olio ma si creò una tipologia
insediativa caratterizzata dalla nascita dei “villaggi”. La nascita di questi ultimi risa-
7
liva a prima della guerra ma il suo sviluppo e il suo incremento si realizzò negli anni
Cinquanta e Sessanta nel contesto antropologico dello spostamento dei lavoratori e
dell’industrializzazione.
L’analisi di Lazzari è completa e perfetta. I villaggi, fatte le dovute proporzioni,
erano dei micro arrondissement per la presenza di servizi essenziali e l’inserimento dei
lavori di personaggi di grandissimo livello come Michelucci e Savioli sui quali è forse
necessario un approfondimento.
Nel contributo di Alberto Cipriani appare evidente che è stato ed è contemporaneamente uno storico e un economista. Avendoli vissuti personalmente come consigliere comunale, devo soffermarmi sulla situazione dei progetti per lo sviluppo, nella
seconda metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, dell’economia del nostro Paese.
Il CENSIS adottò la formula “piccolo e bello” e di conseguenza «l’arcipelago
delle economie». Ricordo in una sala della Cassa di Risparmio, De Rita illustrò questa
proposta. Mi permisi di intervenire criticandola perché confliggeva con la politica di
programmazione territoriale e socio economica, che invece presupponeva l’intervento
su un area vasta e sufficientemente omogenea mentre “l’arcipelago delle economie”
presupponeva piccole isole magari belle ma separate dal mare.
Stefano Bartolini scrivendo sulla fine della mezzadria ha dimostrato ancora una
volta di essere informatissimo sulla storia dell’agricoltura e in particolare della mezzadria in Italia, in Toscana e nel nostro territorio. Spero di non apparire esagerato o
superficiale pensando, leggendo il contributo di Stefano, che la storia dell’agricoltura
rappresenta la doppia faccia di una medaglia. Si può infatti pensare che l’agricoltura
non risentì del miracolo economico ma sentì le conseguenze negative di quel miracolo.
Nel nostro paese si sviluppò l’industria, l’artigianato, il commercio, i servizi creando occupazione spesso attraverso migrazioni interne, una migrazione dalla Toscana del Sud, dall’Umbria, dalle Marche. I giovani abbandonavano i campi per entrare
nell’officina. I campi venivano abbandonati anche dai nuovi arrivati, dai contadini che
speravano di diventare operai (soprattutto giovani). I borghi venivano abbandonati
per scendere nelle periferie delle città. Alcune leggi a sostegno dell’agricoltura furono
votate con l’obiettivo ragionevole e necessario di combattere il latifondo, di tutelare il
lavoro del mezzadro ma la ripercussione positiva si vide solo in certe zone del mezzogiorno. Ci fu un miracolo che non assomigliava alle nozze di Caana del Vangelo. il
vino e il pane non aumentarono miracolosamente.
Sappiamo tutti che Andrea Ottanelli è un conoscitore attento e impegnato della
storia locale e quindi anche della storia economica del nostro territorio e non solo. Il
suo contributo spazia su quanto è avvenuto durante e dopo il decennio del miracolo economico. Essendomi occupato a livello istituzionale dello sviluppo economico e
delle attività produttive della nostra Provincia, e leggendo e apprezzando il lavoro di
8
Ottanelli, desidero in modo succinto e forse anche superficiale fare alcune considerazioni. Durante il decennio crebbe e si sviluppò il tessuto economico, l’occupazione, la
formazione, che già esistevano prima degli anni Sessanta. La vicinanza a Prato influì
positivamente sul tessile e sulle maglierie nei comuni limitrofi di Agliana e Montale.
Quando negli anni Ottanta arrivò la crisi, ne risentirono anche questi ultimi. Quando
Prato fu inserita dalla Comunità europea nell’Obiettivo 2 come area a declino industriale, la proverbiale e storica avversità tra Prato e Pistoia si manifestò con l’esclusione dei
comuni di Agliana, Quarrata e Montale dall’Obiettivo 2 del declino industriale. Però riuscimmo, andando direttamente a Bruxelles, a inserire anche questi Comuni limitrofi
nell’area sopraddetta, con un certo malessere dei pratesi.
Per quanto riguarda le grandi aziende industriali, la SMI di Campo Tizzoro e
la OMFP, la prima risentì positivamente dell’effetto del miracolo economico; per la
seconda però, la storica San Giorgio, non vi furono gli stessi vantaggi. Riprendo alcune notizie dal prezioso libro di Pierluigi Guastini; si capisce che negli anni Sessanta
la OMFP fu impegnata in tutti i suoi settori. Nel 1964 furono acquisite commesse di
rilevanza internazionale. Essendo l’IRI e la Finmeccanica enti controllati dalle partecipazioni statali, l’OMFP risentì positivamente di questo. Però nel 1966, con lo scoppio
della guerra tra Israele ed Egitto, furono annullate le commesse con quest’ultimo paese
e ciò provocò danni enormi.
Mi preme, a questo punto, sottolineare che in tutto questo periodo i pistoiesi
hanno dimostrato ancora una volta di saper lavorare. Nei capannoni della fabbrica ho
visto e apprezzato i caporeparto con la loro tenuta grigia, molti dei quali provenivano dall’Istituto tecnico “Pacinotti”, dimostrando una professionalità, un attaccamento
alla vita dell’azienda, una passione per il lavoro che furono d’esempio ai giovani lavoratori e molto apprezzato anche dalla direzione della fabbrica.
Daniela Faralli ha scritto come le Case del Popolo e, in particolare, quella di Tobbiana hanno vissuto il miracolo economico. Daniela ama davvero la storia della sua
terra, c’è tutta una documentazione, storia orale, sentimento e passione.
Nel decennio del miracolo economico ci fu un radicale cambiamento nei consumi degli italiani. I consumi sono una componente essenziale della politica economica.
Ci sono consumi collettivi, individuali, indispensabili, utili e piacevoli. La politica economica di un paese deve fare in modo che tutti i cittadini ne godano, e quindi anche
le Case del popolo, ma in maniera giusta ed equilibrata. Era pertanto ineccepibile che
cambiasse il modo di vivere nelle Case del popolo, perché sono del popolo e del popolo
sovrano. Era importante che vi fossero il divertimento, il ballo, il jukebox, la TV, le feste, le cene e, perché no, l’amore. L’importante era il mantenere vivi e vitali i principi
fondanti per cui nacquero e si svilupparono le Case: la politica, la formazione, la solidarietà tra compagni e amici. I ricchi e i potenti avevano altri modi di riunirsi: i clubs
e, in qualche caso, le Logge.
9
Lascio per ultimo gli scritti di Gabriele Magnolfi e di Stefano Rosignoli. Si tratta,
in entrambi i casi, di lavori utili e originali.
È particolarmente utile il contributo di Magnolfi, perché ci consente di conoscere
quanto è stato scritto da storici e politologi di grande prestigio. Dalle analisi di queste
rassegne appare evidente che negli anni del miracolo economico ci furono grandi luci
e anche qualche ombra, sia nel suo inizio, sia nel suo percorso che nella sua conclusione, come si evince anche, in ultima analisi, dalla lettura di quasi tutto il QF.
Anche il contributo di Rosignoli è particolarmente utile, perché la precisa e dettagliata esposizione coincide anch’essa con i contenuti dei lavori del QF.
Concludo questa presentazione facendo un passo indietro e riprendendo l’analisi del percorso politico, istituzionale e culturale che caratterizzò gli anni Sessanta.
Questa volta non parlerò di Ugo la Malfa ma di Bruno Trentin, che scrisse: «Si pone
qui un grande problema, di rappresentanza e di democrazia sindacale, nel coinvolgere
in una prassi di concertazione tutte le articolazioni del mercato del lavoro. Si pone il
problema di estendere le rappresentanze dei soggetti, pubblici e privati, oggettivamente implicati in una politica di programmazione del territorio. Dai sindacati alle
associazioni imprenditoriali, alla scuola, alle istituzioni pubbliche locali e nazionali,
alle associazioni non governative e alle varie forme di volontariato, particolarmente
del terzo settore». Bruno Trentin era figlio di Silvio Trentin, storico, antifascista, economista e azionista.
10
Per una storia del miracolo italiano
dI
FIlIppo mazzonI
Non so quante medaglie d’oro totalizzeremo alla fine di questi giochi olimpici. Non credo molte ma una, se fosse in palio, fin d’ora, ci spetterebbe quella
per lo spettacolo […]. È stata una serena festa italiana, dell’Italia degli anni della
prosperità. Gli stranieri a decine di migliaia hanno colmato lo stadio Olimpico,
con cui da parecchi anni seguono la nostra vita. I discorsi non hanno fatto pesare
ai forestieri il fatto che lo sfondo delle Olimpiadi fosse la romanità con gli immensi
ruderi che essi non hanno. I doveri di casa son stati fatti da un Paese vivo e non
dagli eredi di una civiltà unica […]. Ecco, dunque, e finalmente, nella gran vampa
del sole iniziarsi lo spettacolo dei 4200 atleti che entrano nello stadio con quel curioso sfilare olimpico che rassomiglia a uno stranissimo show […]1
L’inaugurazione della diciassettesima edizione dei Giochi olimpici rappresentava l’emblema del “miracolo” in corso, miracolo che caratterizzerà la storia italiana
almeno fino al 1963.
Per giungere a quanto accadde e accadeva in quegli anni è necessario fare un
passo indietro e tornare al 25 aprile 1945 quando la guerra che aveva interessato il
nostro territorio a partire dal 1940 e ancor più dopo l’8 settembre 1943 poteva considerarsi conclusa. Lutti e rovine avevano interessato l’intero paese da nord a sud, dalle
forze combattenti alla popolazione civile.
L’economia aveva subito danni che avevano interessato il settore industriale ma
ancor più l’agricoltura, che aveva accusato perdite notevoli a cominciare dalle colture
proseguendo con le superfici coltivabili, gli impianti, le attrezzatture, le opere di bonifica e di irrigazione, infine il patrimonio zootecnico.
I primi governi che amministrarono il Paese nei primi anni del secondo dopoguerra si confrontarono non soltanto con la ricostruzione politica, sociale e culturale
ma dovettero fare i conti anche con quella economica e rispetto a quest’ultima si scon1 «Corriere della Sera», 26 agosto 1960.
11
travano due impostazioni: la prima statalista (cioè fautrice di un intervento dello Stato
nell’economia) e l’altra liberista, a favore dell’intervento del mercato nell’economia.
Tra queste due filosofie ebbe la meglio quella liberista anche se l’economia almeno per
un primo periodo non dava sostanziali segni di miglioramento, anzi l’inflazione progrediva minacciosamente, diffondendo nel paese il panico e rendendo sempre più difficili le condizioni delle classi a reddito fisso. La speculazione, specie quella di borsa,
era attivissima e piccoli e grandi operatori vi partecipavano nel tentativo di moltiplicare i propri risparmi minacciati dalla rapida svalutazione della moneta. Il disavanzo
del bilancio statale raggiungeva la cifra record di 610 miliardi di Lire. Per arginare
questa situazione il ministro Einaudi restringeva il credito bancario alle industrie e
più ancora ai privati, bloccando di colpo l’ingente movimento di capitali verso gli investimenti borsistici e si emanava una serie di provvedimenti per un severo controllo
delle scorte che si erano accumulate nei magazzini di ditte industriali e commerciali a
scopo di speculazione. Le misure consentirono una sensibile riduzione dell’inflazione
ma dall’altro lato la piccola e media industria conobbe notevoli difficoltà nell’accesso
al credito e ciò dette luogo ad un sensibile calo degli investimenti e della produzione e
infine si verificarono numerosi licenziamenti2.
Nel frattempo, il 5 giugno 1947 il segretario di Stato americano George Marshall
in un suo discorso tenuto a Harvard lanciava il famoso piano con il quale si prometteva l’aiuto statunitense all’Europa Occidentale, un aiuto non soltanto per ricostruire le
principali economie europee ma anche per arginare il pericolo di una “sovietizzazione” in Occidente. Il piano poneva come obiettivi economici fondamentali l’aumento
della produzione, la realizzazione della stabilità finanziaria interna, la creazione di un
ente permanente per la cooperazione economica e l’eliminazione del deficit commerciale in dollari con un’espansione delle esportazioni.
Il Governo italiano nel protocollo bilaterale firmato il 28 giugno del ’48, nel rispetto degli obiettivi ERP, si impegnava sia a promuovere lo sviluppo della produzione industriale ed agricola, sia a stabilizzare la propria moneta, a fissare un tasso di
cambio effettivo e a pareggiare il bilancio dello Stato.
Il Fondo-Lire, intestato al Governo italiano per finanziare progetti utili allo sviluppo della produttività, doveva essere destinato a scopi da concordare di volta in
volta con il Governo degli Stati Uniti.
Per quanto riguardava la sua utilizzazione, si trovarono schierati i liberisti da
una parte, i programmatori dall’altra, mentre la Confindustria, diretta da Angelo Costa, per la sua particolare posizione politica e burocratica, favoriva i gruppi finanziari.
Il programma prevedeva l’investimento di 2.273 miliardi di Lire nel quadriennio
2 G. Mammarella, L’Italia Contemporanea, (1943-2011), Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 104-108.
12
1948-1952, così distribuiti: 665 all’agricoltura, 920 all’industria, 630 a trasporti e telecomunicazione, 8 a corsi per riqualificazione professionale per favorire l’occupazione.
Dei 920 miliardi assegnati all’industria, oltre il 40% era destinato alle compagnie
elettriche, circa il 20% a Finsider e Falk e un altro 20% all’industria meccanica3.
Il programma, facendo delle scelte di priorità, si proponeva molti obiettivi oltre
a quelli definiti nel protocollo.
Erano urgenti la trasformazione-riconversione degli impianti industriali, il rimodernamento dell’agricoltura, in modo che le produzioni potessero essere competitive sui mercati esteri; per una maggiore integrazione dell’Italia nell’Europa, si ritenevano necessarie la riattivazione degli scambi multilaterali tra i paesi europei anche
dell’Est e la riapertura degli sbocchi dell’industria manifatturiera, dove minore era la
competitività con le nostre industrie4.
Nonostante la posizione degli Stati Uniti si facesse più pressante e rigorosa, soprattutto dopo la vittoria della Dc del 18 aprile 1948, affinché il Governo mutasse atteggiamento e allentasse la stretta creditizia, esso continuò con ostinazione a perseguire
gli obiettivi cardine della politica economica italiana: il pareggio del bilancio e l’accrescimento delle riserve valutarie5.
La società italiana all’inizio degli anni Cinquanta si manteneva sostanzialmente arretrata e povera, come testimonia l’Inchiesta parlamentare sulla miseria dalla quale
emergeva che l’11,8% delle famiglie italiane potevano essere definite misere: di queste,
l’1,5% abitava al Nord, il 28,3% al Sud. I nuclei familiari che vivevano in condizioni
disagiate (che abitavano in case con più di una persona per stanza, che avevano un’alimentazione che non poteva ritenersi discreta e che potevano disporre di un vestiario
mediocre) rappresentavano l’11,6% del totale, cioè 1.345.000 famiglie: il 4,3% viveva a
Nord, il 21,9% al Sud. I poveri del Sud disponevano per le spese mensili di una somma
pari ai due terzi di quella su cui potevano contare i poveri del Nord.
Sul fronte dei consumi alimentari oltre quattro milioni di famiglie non mangiavano mai carne e oltre tre milioni ne mangiavano una sola volta alla settimana; oltre un
milione e settecentomila famiglie non consumavano mai zucchero e oltre seicentomila
ne consumavano in quantità minime. Per quel che riguarda il vestiario solo il 54%
degli italiani possedeva buone o ottime scarpe; quasi seicentomila famiglie le avevano
in condizioni misere. La città più ricca era Milano, quella più povera Agrigento: il rapporto nel reddito medio pro-capite dei loro cittadini era di cinque a uno6.
Il Nord industrializzato traina la trasformazione della società italiana, traina lo
3 C. Daneo, La politica economica della ricostruzione 1945-1949, Torino, Einaudi, 1975, pp. 249-250.
4 G. Lombardo, L’Istituto Mobiliare Italiano, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 35.
5 U. F. Ruffolo, La linea Einaudi, in «Storia Contemporanea», 4, 1974, p. 659.
6 L. Gorgolini, L’Italia in movimento. Storia sociale degli anni Cinquanta, Milano, Mondadori, 2013, pp. 11-13.
13
sviluppo del Paese che a partire dal 1951 inizia progressivamente a farsi sostenuto raggiungendo percentuali importanti e che non si sarebbero più ripetute nel corso della
storia repubblicana.
La metamorfosi avviene tra il 1958 e il 1963, quando il nostro Paese conosce un
sensibile sviluppo economico definito dalla storiografia come “miracolo economico”.
A testimonianza e conferma di quanto sopra ci vengono in soccorso alcune cifre. Il
reddito nazionale netto passa dai 17.000 miliardi del 1954 ai 30.000 del 1964: quasi si
raddoppia in un decennio. Nello stesso periodo il reddito pro capite passa da 350.000
a 571.000 Lire. Gli occupati in agricoltura sono più di 8 milioni ancora nel 1954, meno
di 5 milioni dieci anni dopo: scendono cioè dal 40% al 25% del totale degli attivi,
mentre nell’industria gli occupati passano dal 32% al 40% e nei servizi dal 28 al 35%.
Fra il 1959 e il 1963 «la fabbricazione di autoveicoli quintuplicò, salendo da 148.000
a 760.000 unità, i frigoriferi da 370.000 diventarono un milione e mezzo e i televisori
634.000»7.
Queste cifre e questo andamento dell’economia italiana ci vengono confermati
anche dalle relazioni economiche presentate dai ministri del Bilancio nel corso di quegli anni in Parlamento. Le stesse ribadiscono la traiettoria dell’imponente sviluppo
economico italiano, sviluppo orientato verso i consumi e tale propensione è alimentata
soprattutto dal nuovo mezzo di comunicazione, la televisione, “l’oracolo” della “civiltà dei consumi” che “dettava” o addirittura “imponeva” nuovi bisogni standardizzati.
Ma l’avvento della società dei consumi di massa determinò uno sconvolgimento
degli schemi dominanti. Con l’incremento della ricchezza media a disposizione delle
famiglie si modificò la stessa struttura gerarchica dei loro consumi: con il crescere della
spesa, l’importanza relativa dei consumi primari (alimentazione, abitazione, vestiario) diminuì e, per contro, aumentò l’incidenza delle spese destinate all’acquisto di
altri prodotti e servizi; questo passaggio significò anche un notevole aumento della
diffusione dei beni di consumo durevoli, specie di quelli nuovi: nel 1953 il 14% delle
famiglie italiane possedeva un frigorifero, il 4% una lavatrice e nessuna (per ovvie
ragioni) un televisore; nel 1965 le cifre diventeranno il 55% per il frigorifero, il 23%
per la lavatrice e il 55% per il televisore. Almeno da un punto di vista quantitativo,
relativamente agli stupefacenti indici di crescita, il settore degli elettrodomestici può
essere considerato il settore simbolo del miracolo economico italiano: ad esempio i
fabbricanti di frigoriferi, 15 nel 1953, divennero una sessantina nel 1960; i fabbricanti
di lavatrici, passarono da 5 a 50: ai vecchi marchi – Fiat, Cge, Breda – si affiancarono i
nuovi, quali Ignis, Candy, Ariston e Rex8.
7 G. Crainz, Storia del miracolo italiano, Roma, Donzelli, 2005, p. 87.
8 Ivi pp. 55-56.
14
L’Italia del miracolo è anche l’Italia della mobilità privata, delle scampagnate
fuori porta ma anche del turismo. A questo proposito Giorgio Bocca nel suo La scoperta
dell’Italia scrive quanto segue:
È fermo, la domenica sera, alle strozzature fatali di una società che fabbrica
le automobili prima che le strade […]. Ingranare la prima, avanti di tre o quattro
metri, fermi per non urtare la macchina che sta davanti: lampeggiatori rosso –
arancione, fumo di accampamenti, immobilità, sigarette […]. 161 mila automobili
nuove immatricolate nel’ 55; 380 mila nel ’60; 640 mila nel ’62. Raddoppiati negli
ultimi quattro anni gli autoveicoli, ormai più di tre milioni di autovetture sulle
nostre strade senza contare le invasioni straniere9.
L’affermazione della società dei consumi avviene anche attraverso una delle trasmissioni simbolo di quegli anni, Carosello: una striscia serale messa in onda a conclusione del telegiornale nella quale attori più o meno famosi recitavano scenette in cui
al termine delle stesse si reclamizzavano prodotti alimentari ma anche abbigliamento,
prodotti per l’igiene personale e per la casa.
Il vero cambiamento di cui Carosello è testimone è nell’organizzazione della vita
quotidiana. Ci si deve fidare del marchio perché non si può andare tutti i giorni nello
stesso negozio, la spesa non si fa giorno per giorno ma una, due volte la settimana.
Questo perché nella grande città non è sempre possibile avere il droghiere sotto casa,
ma anche perché la donna che lavora non può fare la spesa in ogni momento. Ed ecco
che la sicurezza del marchio le permette di rifornirsi di prodotti che non scendono
sotto un certo standard di qualità.
Non fare la spesa tutti i giorni è una grande comodità, ma senza frigorifero non è
possibile. Non si possono acquistare comode sottilette che, contrariamente ai formaggini come il Milione di Susanna, possono riempire panini per l’appetito robusto che, in
periodi precedenti alle manie per la linea, poteva essere un valore.
Comprati a rate, con sacrifici, magari affiancati al bollitore a legna, nelle cucine
degli italiani compaiono i primi monumentali frigoriferi. Carosello ce la mette tutta. Se
con il frigorifero ha indicato la possibilità di risparmiare sul tempo della spesa, estende
questa esigenza a tutti i lavori domestici, a cominciare dal bucato, rivoluzionando un
processo centrale nella vita delle famiglie.
Assieme al superamento del bucato a mano arrivano i detersivi. Comincia una
sorta di gara nazionale per convincere le massaie che un detersivo lava meglio di un
altro, che un bianco è opaco, che un fustino è meglio di due, che ci vuole il candeggio
più spinto per il bucato più spento ecc.
9 G. Bocca, La scoperta dell’Italia, Bari, Laterza, 1963, pp. 8-9.
15
A questo si aggiunge la tecnologia degli spray per eliminare gli insetti estivi, si
passa poi al salutismo attraverso cibi genuini, i succhi di frutta che danno la sensazione di riuscire a far assumere vitamine ai bambini anche senza costringerli a mangiare
la frutta e gli oli vegetali che non fanno ingrassare.
Insetticidi, cibi genuini, medicinali, spazzolini, dentifrici, cosmetici, creme, trucchi, profumi invadono le case degli italiani.
La donna che lavora è libera, esce la sera ed è sempre pronta a incontri imprevisti. E qui si apre un altro capitolo essenziale della modernità e dei modelli di consumo
che si sviluppano assieme al nuovo modo di vivere degli italiani del periodo del boom.
Con il costume, anche il gusto si evolve, le narici si fanno raffinate e gli odori più naturali, con i quali abbiamo convissuto per millenni, diventano sgradevoli. Non basta,
naturalmente, deodorarsi: bisogna anche profumarsi e uomini e donne devono fare i
conti con colonie, lavande, dopobarba e profumi che evocano atmosfere esotiche.
Quando si deve sedurre bisogna occuparsi anche dei capelli e quindi shampoo,
lacca. A ciò si aggiunge anche l’abbigliamento, dai soprabiti al tailleur. Col tempo
l’abbigliamento diventerà importante anche per l’uomo anche se è la donna a restare
al centro dei caroselli, dove una cospicua serie di spot si occupa dell’indumento di
seduzione per eccellenza, la calza di nylon.
Carosello ha esercitato con sagacia la sua capacità di promuovere il consumo e
sviluppare il gusto per il cambiamento, pensiamo ad esempio ai pannolini, i cibi pronti
per l’infanzia, come le farine latte, gli omogenizzati, ma soprattutto le merendine. Non
possiamo dimenticare le gomme da masticare, i materassi a molle, le termocoperte e
tanti altri prodotti che non elenchiamo per esigenze di spazio10.
Il “miracolo” non è poi così miracoloso, così allettante, così meraviglioso per tutti coloro che scelgono di emigrare all’estero, in aumento 250.000 persone nel 1954, una
media annua di 380.000 persone nel 1960-62. All’emigrazione transoceanica si sostituisce progressivamente quella europea, ove la Germania soppianta la Svizzera come
meta principale. L’emigrazione all’estero perde però il tradizionale rilievo a fronte delle colossali proporzioni delle migrazioni interne, che muovono più precocemente dalle
campagne povere dell’Italia settentrionale e centrale e poi dal Mezzogiorno, lungo direttrici articolate e complesse. Fra il 1955 e il 1970, in base alle iscrizioni e cancellazioni
anagrafiche, abbiamo 24.800.000 spostamenti di residenza anche da un comune all’altro: 15 milioni all’interno del Centro-Nord e 5 milioni all’interno del Mezzogiorno; 3
milioni che seguono una direttrice che dal Sud va al Nord e un milione la direttrice
opposta11.
La prima impressione delle città settentrionali era, per gli immigrati dal Mezzogiorno contadino, sconcertante e spesso paralizzante. Quello che li colpiva di più
10 P. Dorfles, Carosello, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 7-54.
11 G. Crainz, Storia del miracolo…, cit. pp. 87-88.
16
erano le ampie strade piene di traffico, le luci al neon e i cartelloni pubblicitari, il modo
di vestire dei settentrionali. Per quelli che arrivavano d’inverno la cosa peggiore era la
nebbia gelata che avviluppava Torino e Milano e le faceva sembrare città di un altro
paese, meglio ancora di un altro pianeta.
Coloro che potevano si recavano, appena giunti, da parenti, amici e conoscenti.
Chi non poteva, ed erano parecchi nei primi anni, trovava un letto in qualche piccola
locanda vicino alla stazione: quattro o cinque per stanza e qualche volta anche dieci
o quindici. Chi non poteva permettersi queste locande non poteva che scegliere tra le
sale di aspetto delle stazioni o gli scompartimenti vuoti dei treni. Un biglietto da 50
Lire per una stazione vicina era in genere sufficiente per essere lasciati in pace, per
tutta la notte, dalla polizia ferroviaria12.
Le ombre, le contraddizioni, le negatività del “miracolo” sono raccontate anche
dalla letteratura e in particolare dallo stesso Luciano Bianciardi nel suo romanzo La
vita agra:
Tutti questi sono i sintomi, visti al negativo, di un fenomeno che i più chiamano miracoloso, scordando, pare, che i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme e beve […].
I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra che tutti ci
credano, a questo miracolo balordo: quelli che lo dicono già compiuto e anche
gli altri, quelli che affermano non è vero, ma lasciate fare a noi e il miracolo ve lo
montiamo sul serio, noi […].
Tutto quello che c’è di medio è aumentato, dicono contenti. E quelli che
lo negano propongono però anche loro di fare aumentare, e non a chiacchiere, le
medie; il prelievo fiscale medio, la scuola media e i ceti medi. Faranno insorgere
bisogni mai sentiti prima […]
A tutti. Purché lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a
pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo.
Quassù ero venuto non per far crescere le medie e i bisogni, ma per distruggere il
torracchione di vetro e cemento, con tutte le umane relazioni che ci stanno dentro
[… ]13.
Il miracolo è emigrazione, è spaesamento, è difficoltà di integrazione, è spostamento anche quotidiano, come avviene per centinaia di migliaia di persone che si
spostano per lavoro verso Milano e Torino. Si calcola che nel capoluogo lombardo, in
due ore e ogni mattina, entravano 300.000 persone, 200.000 a Torino e 75.000 a Roma.
Ancor più eloquente l’immagine descritta sempre da Luciano Bianciardi:
12 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, Torino, Einaudi, 1995, pp. 266-267.
13 L. Bianciardi, L’antimeridiano, Milano, Isbn edizioni, vol. I, pp. 697-698.
17
[…] Duecentocinquantamila che ogni giorno, ordinatamente, dimessamente, occupano la città. E dell’esercito hai la sensazione se una mattina qualunque
ti apposti alla stazione per vederli arrivare […]. La grande sala dalla volta a botte
della stazione è deserta; poi, all’improvviso, ecco il primo reparto che esce, inquadrato dal cancello che dà sui binari. Avanzano al passo, serrati spalla a spalla, coi
visi duri e un po’ gonfi di sonno; li regola ancora lo stretto passaggio che porta
sulla piazza cittadina […].
Alle otto ha finito di scorrere la folla degli operai, e cominciano ad arrivare
anche gli altri. Questi per esempio hanno la cravatta e la camicia bianca, ma tuttavia rimane grigio il tono fondamentale. Né bastano a romperlo le ragazze che
adesso cominciano a punteggiare il reparto in arrivo; non bastano perché anche
loro sono grigie; belle forse, ma son ragazze che vanno al lavoro, e non a mostrare
la propria bellezza – quasi che da sola fosse un valore – come accade invece nelle
strade del centro, fra le dodici e le una, per esempio, all’ora del tè […]14 .
Il miracolo economico fece sentire i suoi effetti nel mercato del lavoro, caratterizzato dalla presenza di emigrati meridionali, molti dei quali iniziavano come addetti al
settore edile. L’orario di lavoro era prolungato, l’avvicendamento frequente e le misure di sicurezza minime. Molti di questi emigranti trovarono il loro primo impiego, soprattutto a Torino, attraverso “cooperative”. Organizzatori di tali “cooperative” erano
capetti di origine meridionale che rifornivano le fabbriche del Nord di manodopera a
basso costo in cambio di lucrose tangenti. Le condizioni nelle piccole e medie aziende erano molto dure. L’orario di lavoro, compresi gli straordinari, durava raramente
meno di dieci o dodici ore. I contratti erano sempre brevi, da tre a sei mesi, e la mobilità
elevata quasi come nell’edilizia. La massa dei meridionali restava confinata nella terza
delle tre categorie operaie, con scarsissime possibilità di avanzamento. Le aziende più
grandi, come la Fiat, cercarono in questi anni di evitare di assumere, per quanto possibile, manodopera meridionale, preferendo attingere al tradizionale serbatoio della
campagna piemontese.
Anche le donne meridionali, una volta che ebbero raggiunto al Nord i loro uomini, trovarono un mercato del lavoro che offriva nuove possibilità. La maggioranza
delle donne rimaneva in casa e molte di loro svolgevano un qualche lavoro a domicilio
come cucitrici o simili. Il lavoro domestico presso un’altra famiglia era in genere evitato perché malsicuro, ma un numero rilevante di giovani donne meridionali entrò per
la prima volta in fabbrica.
In altre fabbriche, più piccole, la manodopera femminile era prevalentemente
meridionale. Si trattava di aziende che operavano al limite della legalità e producevano materiali plastici, pezzi per televisori, lampadine, ammortizzatori, penne biro,
dolci, prodotti di bellezza, ecc. I salari erano all’incirca la metà di quegli degli uomini
14 Ivi pp. 863-864.
18
e mancava ogni misura di sicurezza, così come non si versava alcun contributo assicurativo15.
A un mercato del lavoro e a un modello come quello precedentemente rappresentato si contrapponeva la sperimentazione di Adriano Olivetti, che costituiva
un’eccezione nel mondo industriale lasciando nello stesso un’impronta molto debole.
Il successo straordinario dell’industria produttrice di macchine da scrivere è testimoniato dal forte aumento dei dipendenti che in poco più di dieci anni passano dai 6.200
a 15.000. Ma ciò che caratterizza l’azione di Olivetti è la sua idea di impresa, un’idea
che presuppone accanto al profitto un percorso di rinnovamento sociale, a cominciare
dagli stessi servizi inseriti per contratto tra i diritti delle maestranze: la riduzione delle
ore di lavoro, l’eliminazione di più della metà dei sabati lavorativi, il dialogo tra dirigenti e maestranze16.
Alle luci dunque si contrappongono le ombre, ombre insite in questo sviluppo
distorto che tra l’altro da luogo, come abbiamo già ricordato in precedenza, ad un considerevole afflusso di immigrati meridionali che pone grossi problemi alle principali
città del Nord Italia, le quali, pur essendo un cantiere aperto, non riescono a soddisfare le esigenze dei nuovi arrivati nella loro interezza. Tra il 1951 e il 1961 le licenze
edilizie concesse a Milano passarono da un milione di stanze a un milione e ottocento.
Nel 1955 vennero costruite 8.105 abitazioni, altre 17.732 vennero edificate l’anno successivo. Secondo stime però, l’80% dei vani realizzati nel secondo dopoguerra erano
di edilizia privata; dei 310.000 vani costruiti al 31 dicembre 1958 meno del 20% erano
di edilizia economica e popolare. In questo modo la gran parte delle nuove abitazioni
erano precluse ai nuovi cittadini, i quali, non essendo in grado di far fronte all’affitto
e men che meno all’acquisto di uno di questi appartamenti, furono molto spesso costretti a vivere in scantinati, alloggi fatiscenti, definiti “impropri”: si calcola che nel
1961 a Milano fossero ancora 117.000 gli alloggi privi di servizi igienici, 64.000 quelli
senza acqua corrente. Nello stesso anno, l’amministrazione comunale sosteneva che
per eliminare sovraffollamenti e alloggi impropri occorressero 505.000 stanze; su scala
provinciale il fabbisogno veniva calcolato in 1.226.124 stanze17.
Se le abitazioni non erano a sufficienza per soddisfare le esigenze dei nuovi arrivati, questi ultimi come ovviarono a questo dramma? Attraverso la costruzione delle
cosiddette “coree” cioè di un insieme di casette monofamiliari realizzate dagli stessi,
oppure attraverso l’aiuto di un muratore. Particolarmente significativo è il racconto di
Danilo Montaldi in Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del «miracolo» e che
di seguito riportiamo:
15 P. Ginsborg, Storia d’Italia…, cit. pp. 268-269.
16 S. Colarizi, Storia del Novecento italiano, Milano, BUR, 2005, pp. 353-354.
17 L. Gorgolini, L’Italia…, cit. p. 42.
19
La casa nasce come un cubo di cemento, ma quello che si vede di fuori non
dice niente; la casa comincia dalla cantina, è la cantina che permette la costruzione
della casa, perché viene subito affittata a una famiglia che non ha tutti i soldi per
potersela costruire da sola; una famiglia vive in affitto in cantina, la famiglia del
padrone di casa a pian terreno: sono due stanze e un bugigattolo, o una stanza
con tramezza. L’anno dopo, se le cose vanno bene, l’immigrato ha fatto un primo
piano, nel quale andrà subito ad abitare. Gli inquilini dalla cantina saliranno a
pian terreno e la cantina verrà ceduta in subaffitto a una nuova famiglia appena
arrivata. Il padrone di casa mostra il terrazzo a un nuovo immigrato, se gli va bene
ci si può costruire un piano, uno o due muri ci sono già e intanto può cominciare a
portare la roba, basta consegnarli a fondo perduto una cifra, e il padrone lo prende
in affitto. Quando l’altro non ci sta vuol dire che preferisce costruirsi la casa da
solo, tuttavia il prezzo del terreno è aumentato: firmerà un numero più grande di
cambiali18.
Con il miracolo cambiano pertanto faccia le città, che, come ci ricorda Carlo Emilio Gadda, si dilatano, si estendono; gli esperti preparano tabelle e grafici in cui mostrano lo sviluppo delle stesse. Al 1951 si contano 26 città con oltre 100.000 abitanti, che
diventano 45 nel 1971. Ancor più eloquenti gli indici di aumento della popolazione in
alcune realtà del milanese tra cui Bresso, che conosce il 155% di crescita nel decennio
mentre per Pero, Cinisello Balsamo e Limbiate, oscilla tra il 140 e il 147%.
Un’ulteriore immagine e descrizione della città, come già avvenuto per altri
aspetti connaturati e connessi al «miracolo», è rappresentata e illustrata da Luciano
Bianciardi nel suo romanzo intitolato L’integrazione e di seguito riportata:
[…] Perché la città, come era scritto nei giornali, era veramente tutto un
cantiere […]. Dietro il tavolato fervevano i lavori. Nella maggior parte dei casi il
lavoro consisteva nel buttar giù una casa, ed infatti dalle fessure filtrava polvere
e fragore di macerie rovinose. Poi ricostruivano, più alto e più brutto. Quando toglievano il tavolato, ecco che l’edificio aveva guadagnato un palmo di marciapiede, rispetto al precedente. E subito alzavano un’altra barriera di legno, per buttar
giù la casa accanto. Ma nemmeno dinanzi alla nuova si placava l’ansia costruttiva
[…].
In questo modo si spiega l’altro fenomeno che, per strada, colpì subito noi
nella grande città giungevamo di fresco, e cioè il modo di marciare dei suoi abitatori. Essendo così esiguo il margine a noi concesso, risultava impossibile, una
volta scesi in strada, non dico arrestarsi o tornare indietro, ma anche rallentare il
passo: le poche volte che, agli inizi, ci provammo, fu inevitabile l’urto con quelli
che marciavano dietro. Sulle due fettucce marginali, rosicchiate ogni giorno dai
18 F. Alasia, D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del «miracolo», Roma, Donzelli, 2010, p.
59.
20
lavori in corso, ingombre di sassi, di neve, di tavole, di cacche di cane, la colonna
dei pedoni doveva di necessità muoversi al passo, come quando eravamo sotto le
armi […]19.
Il miracolo italiano venne fatto, materialmente, in primo luogo dagli uomini,
dai contadini fuggiti dalle campagne e messi per la prima volta davanti alle catene di
montaggio, dagli operai più anziani che conoscevano alla perfezione e forse amavano
le loro vecchie macchine e che nel giro di pochi anni ne vennero espropriati in virtù
dei nuovi modi di produzione, dalle migliaia di operai emiliani che, licenziati, non si
erano rassegnati all’inattività e stavano trasformando le proprie case, cucine, scantinati in botteghe artigiane, dove si lavorava non otto, ma dieci, dodici, quattordici ore al
giorno. Venne fatto soprattutto dagli uomini, ma anche dalle donne. Regine della casa,
angeli del focolare, madri ansiose, erano loro le inconsapevoli destinatarie di quanto
si produceva nelle grandi fabbriche, nei laboratori, negli scantinati, di tutto quanto si
inventava o si copiava, fosse la lana recuperata dagli stracci arrivati dall’America, le
calze di nylon, le caffetterie o i frigoriferi. Il frigorifero fu, per le donne, quello che la
Vespa fu per i giovani: uno strumento di libertà e di benessere. Accanto ai frigoriferi,
le lavatrici rappresenteranno un simbolo dell’Italia di quegli anni.
Nell’aumento dei consumi tradizionali, nella possibilità di consumi nuovi c’è la
soddisfazione di vecchi e nuovi bisogni e un forte desiderio di libertà. La tradizionale
virtù delle famiglie italiane, anche di quelle del ceto medio, cede di fronte all’ansia
degli acquisti, resi possibili dal nuovo sistema di pagamento: si firmano cambiali, si
impegna il futuro. Tutto si può comprare a rate: il cappotto, la macchina da cucire, la
biancheria, il giradischi, il televisore, i mobili, la casa20.
Il miracolo conduce a maggiori spostamenti e rende quindi necessarie nuove
strade, nuovi collegamenti; non a caso nel 1963 viene inaugurata l’Autostrada del Sole. I
luoghi di villeggiatura che vanno per la maggiore sono la Versilia e le principali località di mare, ma anche la montagna.
La Vespa, la Lambretta, la Fiat 500 e altre automobili ma anche la musica trasformano il volto delle vacanze. Fra il 1956 e il 1965, come ci ricorda Guido Crainz nel suo
Storia del miracolo italiano, raddoppiano le presenze negli alberghi e ancor di più quelle
nei campeggi: al 1958 sono 3.700.000, nel 1965 11.000.000.
È del 1961 la prima canzone di grande successo pensata proprio per l’estate:
Legata a un granello di sabbia, di Nico Fidenco, che vende un milione e mezzo di dischi
e inaugura una fitta serie (da Una rotonda sul mare di Fred Bongusto a Pinne, fucile ed
occhiali di Edoardo Vianello, da Stessa spiaggia stesso mare di Piero Focaccia a Sapore di
sale di Gino Paoli). Nel 1962 Natalia Aspesi fa un rapido inventario del succedersi delle
19 L. Bianciardi, L’antimeridiano, cit. pp. 476-477.
20 M. Mafai, Il sorpasso. Gli straordinari anni del miracolo economico. 1958-1963, Milano, Mondadori, 1997, pp. 52 – 54.
21
mode, in un articolo che indulge più del dovuto al luogo comune. Si intitola Le vacanze
bruciate sulle ginocchia. In Versilia impazzano twist e madison, a scapito di flirt, canasta e
cocktails. Si riferisce, naturalmente, ai giovani:
In spiaggia ci vanno pochissimo, non più di un’ora al giorno […]. La barca
li annoia, la macchina li affatica, il go-kart li nausea […], il flirt non è più neppur
pensabile […]. L’unica attività consentita di giorno è frugare con rabbia nelle ceste
dei venditori ambulanti alla ricerca delle famose magliacce Saint Tropez, con l’ancora, il timone o la stella ricamata in mezzo al petto, vendute a migliaia al giorno
al modico prezzo di millecinquecento lire21.
C’è voglia di evasione, di divertirsi e ancora una volta Luciano Bianciardi racconta le distorsioni del boom scrivendo quanto segue:
Hanno attaccato col dire comprate oggi pagherete domani, e allora la gente
s’è scatenata, quassù. Quassù l’ottimismo è virtù canonica, più della fede, speranza e carità sommate assieme […]. Raccontano le statistiche che trentacinque
miliardi di tredicesime mensilità sono andati spesi sotto le feste; e dev’essere vero,
a guardarli come marciavano a ranghi serrati, denti stretti, occhio duro e testa
bassa, all’acquisto di chicchessia […].
In un Paese notoriamente analfabeta qual è il nostro, le vendite dei libri han
segnato “punte” inverosimili […]. Compravano storie di briganti, diari di puttane, elenchi di ghigliottinati, avventure di uomini che han cambiato sesso, o di altri
che un sesso preciso non hanno mai avuto, oppure donne di malaffare convertite
all’improvviso alla castità e alla clausura. Dopo le cosiddette «canzoni della mala»
son diventati di moda anche i libri della “mala” ed è bene regalarli, in edizione di
lusso, sotto il Natale, che sarebbe la festa della pace in terra agli uomini di buona
volontà […]22.
Nel 1955 vanno al cinema ogni giorno, in media, oltre due milioni di italiani e
sono ancora un numero ragguardevole nel 1961, per poi scendere fino a 360.000 nel
1984. I film di maggior incasso in quel periodo sono Belle ma povere (1957) di Dino
Risi, La dolce vita di Federico Fellini, emblema dell’Italia del miracolo economico, ricca,
felice, corrotta, disperata. L’occhio di Fellini ha visto prima e meglio di altri cosa sta
diventando il nostro Paese. E a raccontare l’Italia di quegli anni non c’era solo Fellini
ma anche Luchino Visconti, che con Rocco e i suoi fratelli denuncia le contraddizioni, le
distorsioni, i guasti provocati dal “miracolo” e lo fa portando sullo schermo la tragedia
dei nostri emigranti, lo sradicamento dei meridionali in una città nemica, dove non c’è
21 G. Crainz, Storia del miracolo…, cit. pp. 143-144.
22 L. Bianciardi, L’antimeridiano, cit. vol. II, p. 465.
22
posto per i poveri valori tradizionali della famiglia contadina.
Ma non ci sono solo Federico Fellini e Luchino Visconti a scuotere, con i loro
film, la pubblica opinione, a farla riflettere, discutere, scandalizzare. Insieme a loro c’è
anche Antonioni, che con L’avventura indaga sul disagio, le angosce, i turbamenti di
uomini e donne.
Nel 1961 fanno il loro esordio Ermanno Olmi, Franco Brusati e Vittorio De Seta
ma è anche l’anno nel quale vedono la luce film come Una vita difficile di Dino Risi o
L’oro di Roma di Lizzani, che si richiamano esplicitamente alla più recente storia d’Italia, recuperando quei valori dell’antifascismo cui hanno dato nuova vitalità e credibilità le vicende del luglio 1960 con la sconfitta di Tambroni.
Non si analizza soltanto la società, non si effettua un’operazione di memoria
storica, ma si raccontano le trasformazioni, i mutamenti, le novità o la voglia di novità
che percorre la società italiana di quel periodo a, cominciare dal tema del divorzio, che
caratterizza Divorzio all’italiana di Pietro Germi.
Il lungometraggio in oggetto non è altro che uno spietato e irridente pamphlet
contro un costume e una società, non solo quella meridionale, che, in nome dell’indissolubilità del matrimonio, affonda nell’ipocrisia e, se indispensabile, nel delitto. Si
dovrà attendere il 1970 perché il Parlamento approvi una legge sul divorzio.
Se poi dovessimo scegliere un personaggio, uno solo, in grado di riassumere in
sé il carattere, gli umori, le ambizioni dell’italiano medio nel pieno del miracolo, ebbene sceglieremmo senza dubbio Bruno Cortona, il protagonista del Sorpasso, che vive a
credito, di piccoli espedienti, è cinico ma pronto alla commozione, maleducato, inventa o meglio porta sullo schermo, le corna e lo sberleffo, gesti abituali dell’automobilista
italiano, è maestro di seduzione.
Il “miracolo” è raccontato non soltanto con la macchina da presa ma anche con
la penna. Così fanno Gadda, Bianciardi, Mastronardi e il Pagliarani della “ragazza
Carla”. Il miracolo italiano è anche un trauma, la fine di una civiltà contadina alla
quale la cultura cattolica e quella comunista erano legate, sebbene con sentimenti e
con spirito diverso. L’inurbamento selvaggio, la crescita impetuosa delle nostre città
e l’abbandono di vecchi principi morali vengono vissuti e descritti come una perdita
complessiva di identità:
Guardali in faccia; stirati, con gli occhi della febbre, di tutto tranne che dei
soldi che ci vogliono ogni giorno e che servono per lavorare soltanto quanto basta
per stare in piedi, per lavorare, trottare ancora e fare altri soldi. Un giro vizioso.
E la tragedia sta proprio nel fatto che di questo loro non si avvedono, che si ritengono privilegiati… Neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a
fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la
macchina nuova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone e credono che sia questa la vita moderna, la felicità.
23
Sgobbano, corrono come allucinati, dalla mattina alla sera, per comprarsi
quello che credono di desiderare: in realtà quel che al padrone piace che si desideri23.
Nel frattempo si afferma sempre più il mezzo televisivo che in breve tempo sostituisce la radio, mentre la diffusione delle radioline portatili a transitors si inserisce
in una più ampia trasformazione del mezzo.
Evoluzione e successi del mercato discografico contribuiscono in maniera decisiva al definirsi di un universo giovanile ed hanno anche implicazioni più generali: «i
Beatles aprono le porte ufficialmente al villaggio globale della comunicazione».
In questo periodo si afferma anche un’editoria di massa, annunciata dalle grandissime tirature di alcuni romanzi e definitivamente sancita poi dall’avvio della collana degli Oscar Mondadori. Gli Oscar sono i primi libri che si vendono in edicola e
sono pubblicizzati come “libri-transitors”. Inaugura la serie Addio alle armi, di Ernest
Hemingway.
Accanto alle novità editoriali compaiono anche nuovi quotidiani come Il Giorno,
di proprietà dell’ENI e che si segnalerà per una forte attenzione alla società, al Paese
reale e per un’impostazione decisamente progressista24.
A partire dalla seconda metà del 1963 gli effetti del boom iniziavano a poco a
poco a venir meno in virtù della cosiddetta “congiuntura” cioè una crisi economica temporanea che fu affrontata attraverso l’adozione di una politica deflazionistica
che condusse all’aumento della disoccupazione; i consumi segnarono una riduzione
rispetto al periodo qui raccontato, inoltre lo stesso potere contrattuale dei lavoratori
diminuì. Alla politica di riforme si preferì far riprendere l’economia nel suo insieme.
La seconda metà degli anni Sessanta sarà particolarmente importante per la storia repubblicana, sia per le trasformazioni che interessano la società, sia per l’esplosione dei
prodromi della contestazione studentesca, sia per le prime manifestazioni di violenza
e, infine, per il cosiddetto “autunno caldo”. Eravamo alla vigilia di eventi che avrebbero sconvolto complessivamente la società italiana.
23 M. Mafai, Il sorpasso…, cit. pp. 65-79.
24 G. Crainz, Storia del miracolo…, cit. pp. 148-151, da cui è tratta la citazione.
24
La fine della mezzadria
dI
steFano bartolInI
Posta all’incrocio tra la storia dell’agricoltura, del lavoro e dei fenomeni sociali, la questione della fine della mezzadria chiama in causa molteplici problematiche,
spesso non facili da indagare per la loro complessa sfaccettatura a cui si aggiunge una
memoria che tende a proiettare un’immagine bucolica sul passato contadino, finito con
un “esodo”, come viene chiamato, che già nel richiamo biblico mette in risalto la sua
portata epocale ma anche una certa quale estraneità all’analisi storiografica in favore
di un approccio più emotivo. Eppure questo passaggio resta cruciale ai fini della comprensione della storia locale ma non solo, fornendo tanti spunti di riflessione.
Tra le poche fonti a disposizione, meritano una menzione quelle di origine
sindacale, nella fattispecie dell’archivio della Federmezzadri, conservato tra i fondi
dell’archivio storico della CGIL di Pistoia, preziose sia per la copiosità dei dati ivi
rinvenibili sia per l’opportunità di potervi trovare uno sguardo che si allontana dalla
versione canonica dell’esodo, come le pagine seguenti – basate sull’indagine in tale
fondo – speriamo possano dimostrare1.
L’agricoltura pistoiese iniziò a cambiare con decisione tra il 1950 e il 1960, anche
se non erano mancate trasformazioni precedenti, in particolare con l’avvento del settore
vivaistico. La coltura granaria e il granturco crollarono, mentre la saggina dimezzava la
superficie rispetto al 1930. Il panico invece raddoppiava e l’uva da vino aveva un grande impulso. L’olivo precipitò sotto i colpi di un parassita, il fleotripide, ed il bestiame
manteneva i bovini, perdeva negli ovini e aumentava i suini. I castagneti si ritraevano.
Per gli alberi da frutto si registrarono incrementi per le pesche, le mele e le susine. Stabili le pere e le ciliegie. I vivai invece erano più che raddoppiati, da 200 a 505 ettari, e la
coltura dei fiori nel pesciatino esplodeva, soprattutto il garofano, seguito dai gladioli2.
1 Per una più ampia ricostruzione della storia della mezzadria nel pistoiese rinvio al mio S. Bartolini, La mezzadria
nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione, Pistoia, Settegiorni, 2015.
2 C. Vezzosi, L’agricoltura nella provincia di Pistoia. Dall’inizio del Novecento ad oggi, s.e., s.l., 2002, pp. 22-24.
25
In questa congiuntura, all’incrocio tra la modernizzazione dell’agricoltura, il suo
cambio di indirizzo tecnico e vocazionale, l’arrivo del consumismo e il boom economico, la mezzadria passava dalla progressiva diminuzione all’esodo. Secondo i dati
dell’Ufficio contributi unificati, nel 1960 c’erano 6.690 poderi dati a mezzadria e 408
abbandonati. La percentuale dei poderi abbandonati non rendeva conto del fenomeno, essendo assai limitata, nell’ordine del 5,76%. Ma il numero assoluto delle unità
mezzadrili era in netto calo. Dalle 29.124 del 1955, che erano comunque circa 22.000
in meno rispetto a quelle di 10 anni prima, si era passati alle 23.354 del 1959, più che
dimezzate rispetto al 1945, e con quasi seimila unità perse in 4 anni3. Quello che stava
avvenendo, più che l’abbandono in tronco dei poderi, era la progressiva fuoriuscita
dalla mezzadria dei suoi componenti, a partire dai giovani e dalle donne, con una
nuova declinazione della tradizionale “pluriattività” contadina. Dalle industrie domestiche alle tante competenze non agricole che il mezzadro aveva e faceva fruttare
con attività integrative si andava affermando una pluriattività nuova, sostanzialmente
inedita, indotta dalla trasformazione italiana e che si inseriva nella strategia di uscita dalla mezzadria e dalla campagna. Anche la progressiva meccanizzazione liberava
tempo di lavoro, lasciando liberi di impiegarlo altrove, in nuovi lavori o in nuovi divertimenti, ma i secondi restavano di difficile accesso per i mezzadri, con poco denaro
e lontani sui “loro” poderi. Si andava allora a lavorare nelle fabbriche, dando vita alla
figura del cosiddetto “metalmezzadro”, impiegato tanto in fabbrica che sul podere,
mentre più scarso rimaneva l’ingresso di manodopera di origine mezzadrile nel commercio. Le donne andavano a lavorare a domicilio, o iniziavano il cosiddetto “lavoro
domiciliare”. Il miracolo economico apriva spazi occupazionali mai visti fino ad allora.
Il consumismo cambiava costumi e stili di vita. La famiglia patriarcale si disgregava
sotto i colpi concentrici dei nuovi modelli di vita unifamiliari, dei nuovi consumi, delle
nuove aspirazioni, della progressiva liberazione della donna mezzadra dai vincoli della famiglia e del patriarcato, anche sotto la spinta democratizzante dell’organizzazione
sindacale. L’abbandono prendeva forme graduali. I membri della famiglia venivano
mandati in esplorazione, oppure si ribellavano al capoccia, si impiegavano altrove,
magari per mezza giornata o per certi periodi di pausa del ciclo agrario. Una transizione per gradi. Per questo i dati registravano numeri non esagerati di poderi vuoti, un
calo meno drastico delle famiglie, e un crollo verticale degli addetti. I vecchi restavano
sul podere, per tradizione, per amore, per caparbietà, per incapacità ad adattarsi, per
raggiungere, forse, una pensione. Alcuni vi restarono fino alla fine, altri poi se ne andarono, buoni ultimi, quando ormai del loro mondo non era restato che un ricordo4.
3 Ivi p. 23.
4 Per una serie di testimonianze G. Contini, Aristocrazia contadina. Sulla complessità della società mezzadrile. Fattorie,
famiglie, individui, Pistoia, Gli Ori, 2008, pp. 140-176.
26
La lavatrice fu uno dei simboli dell’irruzione della modernità nelle famiglie italiane,
favorendo l’emancipazione femminile attraverso un maggior tempo libero dalle faccende di casa.
In previsione della Conferenza nazionale sull’agricoltura del 1961, l’amministrazione provinciale pistoiese ne organizzò una locale nel maggio di quell’anno. L’Assessore provinciale all’agricoltura, il comunista di Larciano Spartaco Beragnoli, nella
sua relazione puntò l’indice contro la diminuzione dei redditi agricoli pur in presenza
di un aumento della produttività e dell’espansione del vivaismo e dei fiori. Calcolò i
poderi vuoti al 1960 in 537, e ammoniva: «questi dati non danno il quadro esatto della
situazione poiché altre centinaia e centinaia sono i poderi ove una famiglia contadina
è formalmente insediata ma che in realtà sono in quasi completo abbandono. Infatti
in questi poderi le forze di lavoro più valide, i giovani, non vi lavorano più ma sono
occupati nelle fabbriche o sono emigrati all’estero». Beragnoli riportò che tra il 1951 e il
1960 le famiglie mezzadrili erano diminuite di 910 nuclei, da 7.600 a 6.690. Nello stesso
arco temporale, gli occupati nell’industria e nell’artigianato erano aumentati da 13.653
a 30.034. Nel 1959 la popolazione attiva nell’industria aveva quasi eguagliato quella
agricola, con il 36,6% contro il 38.6%, ma i redditi degli operai erano diventati il 63,40%
del totale dei redditi provinciali mentre quelli dei contadini erano il 17,40%. Beragnoli
riepilogò i contributi pubblici dati all’agricoltura, accusando che fossero stati utilizzati
per speculazioni e non per migliorare la situazione dei lavoratori della terra. Lo stesso
progresso tecnico aveva anzi peggiorato la situazione. Erano aumentate le spese, e il
reddito netto era sceso dal 67 al 57%. Ancora nel ‘59 la frammentazione proprietaria
27
era il dato saliente: 3.175 proprietari possedevano da uno a tre poderi; 278 proprietari
da quattro a dieci; 56 proprietari da undici a venti; 9 proprietari da ventuno a sessantacinque. Nel frattempo era iniziato un fenomeno nuovo, l’immigrazione da altre regioni
italiane di famiglie contadine che si insediavano sui poderi abbandonati. Nel 1957-’58
erano arrivate 356 famiglie: 30 pugliesi; 30 calabresi; 15 venete; 25 umbre; 6 siciliane;
250 dalle altre province toscane di Arezzo, Siena, Lucca e Firenze. Queste famiglie si
insediavano sui poderi per avere una soluzione abitativa temporanea, ma cercavano
lavoro fuori anch’esse. Inoltre venivano abbandonate a se stesse e non erano abituate
ai sistemi di coltivazione locali, con grandi problemi di inserimento, e finivano per
cercare di trapiantare sistemi di agricoltura inadeguati al territorio5.
Un dato che potrebbe sorprendere, in questa prima trasformazione è che l’estensione del vivaismo e della coltivazione dei fiori non andava di pari passo con la
diminuzione della mezzadria. Anzi, esistevano casi di mezzadri dediti alla produzione
di piante e garofani, magari affiancati da manodopera salariata qualificata per le operazioni più complesse. Si diffondeva cioè la cosiddetta azienda mista.
Specchio di questi fenomeni era il dato del tesseramento al sindacato. Negli anni
‘60 il calo degli iscritti divenne un crollo in caduta libera. Nel 1962 furono perse quasi
mille unità rispetto all’anno precedente, calando a 5.065 iscritti. In 10 anni si erano
persi circa 3.600 tesserati, ma adesso il ritmo si accelerava. Anche il numero di famiglie
“iscritte”, quelle cioè a cui aderiva il capoccia, era in calo, seppur più contenuto. Tra
il 1961 ed il 1964 si passo da 3.312, cifra già inferiore di quasi 600 unità rispetto a dieci
anni prima, a 2.782. Tra il 1952 e il 1965 le famiglie aderenti alla Federmezzadri erano
passate da 4.007 a 2.618. Dai conti fatti dai sindacalisti confrontando i propri dati con
quelli dell’Ufficio contributi unificati emergeva come in percentuale la Federmezzadri continuasse ad organizzare la stessa quota di mezzadri sul totale, intorno al 50%.
Non era il sindacato a crollare, era la mezzadria che si era dimezzata, con una velocità
sempre più sostenuta a partire dagli anni ‘60 6. Non era quindi per disaffezione che gli
iscritti calavano, molti si limitavano a cambiare categoria, e non era nemmeno il frutto
di un accesso alla proprietà della terra, impossibile economicamente per i più. I mezzadri, gli affittuari, i coltivatori diretti stavano abbandonando le campagna per andare
a lavorare nelle fabbriche, nei laboratori artigiani, nel commercio. Alcuni restavano
nell’ambito agricolo, lavorando nei vivai. Altri si lanciavano in piccole esperienze imprenditoriali, a volte con successo. Per certi periodi la famiglia, o parte di essa, poteva
continuare ad abitare in campagna nella casa colonica – e questo valeva per le famiglie
5 Archivio storico CGIL Pistoia (d’ora in poi ASCGILPt), Federmezzadri, Serie indagini e statistiche, Busta 43,
Fasc. 43.4 “Conferenza provinciale agricoltura 27-28 maggio 1961” 1961, Relazione La situazione dell’agricoltura
pistoiese nel quadro di quella nazionale e le sue prospettive.
6 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie organizzazione, Sottoserie relazioni e verbali, Busta 27, Fasc. 27.1 [“Relazioni
organizzative 1954-1966”] 1954-1966.
28
pluriattive dei mezzadri – ma all’orizzonte c’era il trasferimento nei centri urbani, anche piccolissimi come i paesi, ma dotati di molte più comodità, come i trasporti, l’illuminazione, l’acqua, nonché più igienici, e la fine del modello plurifamiliare patriarcale,
in favore della famiglia mononucleare. Chi passava a fare il lavoratore dipendente non
abbandonava il sindacato, restava iscritto alla CGIL, a dimostrare che il problema era
la fine di un mondo, non mancanze dell’organizzazione sindacale. Le famiglie “iscritte” calavano in proporzione più lentamente proprio perché i capi famiglia, i vecchi
capoccia, erano di norma gli ultimi ad abbandonare la terra.
La composizione sociale della mezzadria ebbe però il tempo di cambiare una
muta, come già detto. Dagli anni ‘50 era in corso il movimento migratorio interno dal
sud verso il nord, che riversò anche nella provincia di Pistoia molte famiglie che per un
periodo abbastanza lungo sostituirono quelle locali che abbandonavano i poderi. Per i
migranti era un modo per mantenere il precedente legame con la terra, disporre di una
casa, prendere confidenza con il territorio mentre ci si dedicava alla pluriattività, con
alcuni membri della famiglia che lavoravano, o cercavano di lavorare, nelle manifatture. Per questi migranti, insieme alla diffidenza dei locali ed a tutti i problemi storici
della mezzadria si aggiunsero altri problemi specifici, come una non conoscenza del
clima, delle terre, delle tecniche colturali e dei prodotti agricoli tipici della zona, per
cui a volte potevano capitare tentativi di importazione di colture del sud inadatte ad
un clima come quello del pistoiese.
I documenti preparatori per il Congresso della Federmezzadri del 1960 fotografavano la situazione. La superficie seminata a grano era diminuita rispetto al 1958 e
la produzione dei cereali dal 1953 aveva iniziato a diminuire. Anche i prodotti dell’allevamento del bestiame erano in calo tra il 1949 e il 1956, mentre su base nazionale
l’aumento era stato di circa il 15%. Le coltivazioni legnose nell’agricoltura pistoiese
erano invece in rapida ascesa, attestandosi nel 1956 a più del doppio del prodotto del
1949, un balzo da considerarsi dovuto al rapido sviluppo del vivaismo. Nel complesso
la produzione vendibile era aumentata, ma anche le spese erano aumentate. Per la Federmezzadri l’aumento di queste ultime assorbiva il reddito mezzadrile.
La distribuzione della proprietà terriera continuava ad evidenziare i caratteri
classici di grande frammentazione del pistoiese, che anzi tendeva ad aumentare, probabilmente perché era già in corso la dismissione di alcune fattorie, o la conversione
dalla mezzadria ad altri sistemi di conduzione e di produzione da parte delle aziende
più importanti, che potevano permettersi gli investimenti per una riconversione, accrescendo il peso percentuale e assoluto dei piccoli proprietari sul totale dei poderi
dati a mezzadria. Su 6.762 poderi, 2.452, il 36%, erano di proprietari con un solo podere. 1.652, il 24%, di proprietari con 2/3 poderi. Esisteva un solo proprietario con un
numero grande di poderi, 65, a Lamporecchio. Ma l’azienda subito dietro si fermava
a 39. Il 60% dei poderi, 4.104, erano posseduti da ben 3.175 proprietari. Nel 1959 su
29
3.519 proprietari c’erano 6.662 famiglie di mezzadri. Solo 66 aziende avevano più di 10
poderi, per un totale 1.115 famiglie coloniche, concentrate in particolare nei comuni di
Lamporecchio, Pistoia, Quarrata e Montale7.
I poderi vuoti in provincia superavano i 600, soprattutto in collina o in montagna.
Le famiglie mezzadrili diminuivano continuamente, ed i poderi vuoti sarebbero stati di
più se le famiglie non fossero state sostituite da altre provenienti dal sud, che in certi
comuni erano già il 16% del totale delle famiglie insediate sui poderi. Questi immigrati
non risolvevano comunque il problema dello spopolamento delle campagne: arrivavano non con l’idea di fare i contadini, lo stare in campagna per loro era una soluzione
provvisoria e di compromesso, il loro obiettivo era impiegare i figli nell’industria locale
in via di sviluppo, come l’abbigliamento, il legno, i materassi del Pofferi, il settore alberghiero. Come notava Romanelli, noto sindacalista mezzadrile locale, tra le famiglie
originarie aumentava continuamente la ricerca di un lavoro extrapoderale, ed aumentava anche il lavoro a domicilio delle donne ed «i datori di lavoro, siano essi di cappellotti da damigiane, di [illeggibile] di scarpe, di corone di erbe secche o di montaggi per
lampadine, sfruttano la precarietà economica delle masse contadine e pagano questi
lavori una cosa insignificante». La responsabilità della fuga dalla terra era imputata
al padronato agrario, inetto e/o sfruttatore, «ma la cacciata di manodopera avviene
prima di tutto perché gli agrari non fanno investimenti», con l’agricoltura in continua
decadenza, ad eccezione della produzione dei garofani, che per Romanelli alterava in
attivo in dato della produzione agricola. Le vecchie colture erano ancora praticate nella
stragrande maggioranza del territorio, ma stava aumentando la produzione di panico,
ed il grano era diminuito di circa l’8%. Lo stesso valeva per olio, vino e frutta. Sulla produzione vinicola c’era da rilevare come molta venisse effettuata nelle zone di pianura
e fosse perciò scadente, mentre nelle zone collinari la produzione era in diminuzione.
Le cifre sull’abbandono della mezzadria esposte dal dirigente erano già impressionanti. Tra il 1948 e il 1959 le famiglie erano diminuite da 7.748 a 6.752 unità, cioè di
ben 1.022. Il totale degli attivi era passato tra il 1948 e il 1960 da 33.668 a 23.952, 9.716
in meno pari al 29%, con un calo costante negli anni. Il tenore di vita non migliorava e molti cercavano lavoro altrove. Dal 1948 i poderi acquistati dai mezzadri erano
688, grazie alla legge di quell’anno sulla formazione della piccola proprietà contadina.
Poco a fronte del crollo di famiglie e addetti. La meccanizzazione procedeva lentamente, con un aumento di soli 30 trattori dal 1956, passando da 340 a 370.
Da rilevare come la diffusione della cultura vivaistica nei poderi condotti a mezzadria nel comune di Pistoia fosse tutt’altro che indolore per il mezzadro, il quale si
ritrovava a produrre piante che poi non poteva consumare come gli altri prodotti o
7 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie congressi, Sottoserie federmezzadri, Busta 42, Fasc. 42.4 “Congressi 1960”
1960.
30
comunque vendere attraverso i suoi canali classici o tramite le cooperative, aprendo
un nuovo fronte conflittuale già sul riparto classico e sulla consegna del denaro al mezzadro, dato che la vendita poi veniva curata dai concedenti trasformatisi in vivaisti8.
A fronte del prevalente orientamento ad abbandonare la terra, lo spettacolo di
miseria e arretratezza che ancora davano i contadini piccoli proprietari, specie nelle
colline, non poteva far sì che la conquista della terra, così ambita in passato, restasse
una battaglia allettante per i mezzadri.
All’epoca del 6° Congresso provinciale nel 1963 la frammentazione proprietaria
era ancora la cifra della mezzadria pistoiese. Il sindacato si impegnò in una «indagine
sui processi in atto nella provincia di Pistoia relativi alle trasformazioni; tendenze del
padronato e delle famiglie mezzadrili»9. 3.110 aziende avevano fino a 3 poderi, 148 da
3 a 5, 161 oltre i 5. La stragrande maggioranza dei poderi avevano superfici comprese
tra i 2 e i 10 ettari. 1.454 erano quelli di 2 ettari, 1.645 di 2,50, 2.138 di 3, 1.736 di 3,50,
2.264 di 4, 1.624 di 4,50, 1.780 di 5, 4.305 di 7,50, 1.760 di 10. In totale c’erano 23.720
ettari di terra coltivati a mezzadria, per un totale di 6.287 poderi, ormai in minoranza
rispetto ai 26.637 ettari coltivati con salariati e ai 38.800 a conduzione diretta. Le principali colture erano il frumento, i prati avvicendati e gli erbai, il vigneto specializzato,
le colture promiscue, i garofani e il vivaismo. Buono l’allevamento, con 19.929 bovini
di cui 4.770 vacche da latte con una media di 3 e ½ per azienda. Le aziende con equini
erano 694. La mezzadria era presente i montagna, con 1.792 poderi per ettari 8.537, in
collina con 2.516 poderi con 8.311 ettari ed in pianura con 1.979 poderi su 7.487 ettari10.
Il Direttivo uscente prendeva atto del cambiamento epocale avvenuto nei tre
anni precedenti: «siamo ormai passati definitivamente da una società agrario-industriale a una società industriale-agraria». Una trasformazione tumultuosa, inficiata
dai poteri forti economici, che se ne erano serviti a proprio vantaggio: «alla poderosa
espansione economica non ha coinciso e corrisposto una eguale espansione sociale».
Nel 1952 il reddito agricolo pro capite era stato del 50% inferiore a quello industriale.
In provincia di Pistoia l’esodo aveva assunto proporzioni vertiginose, nonostante fosse
continuata l’immigrazione da altre province, specialmente dall’Umbria e dal Mezzogiorno, che ormai in alcuni comuni rappresentava il 20% della residua mezzadria. Nei
cinque anni precedenti i nuclei familiari mezzadrili erano calati di 683, e le unità lavorative, calcolate come sempre prendendo a riferimento i maggiori di dodici anni, erano
diminuite di 5.529, il 20% del totale. I dati dell’Ufficio contributi unificati andavano
8 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie congressi, Sottoserie federmezzadri, Busta 43, Fasc. 43.3 “5° Congresso
provinciale Federmezzadri” 1960, Romanelli Lido relazione al 5° Congresso provinciale.
9 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie congressi, Sottoserie federmezzadri, Busta 42, Fasc. 42.17 “Congresso
provinciale congressi di lega 1962-1963” 1962-1963, Sottofasc. Indagine trasformazioni.
10 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie congressi, Sottoserie federmezzadri, Busta 43, Fasc. 43,6 “6° Congresso
provinciale Federmezzadri” 1961-1963.
31
presi per difetto, perché nella realtà molti iscritti nei ruoli per l’assistenza mutualistica
e la pensione poi lavoravano in altri settori produttivi. Inoltre c’erano anche affittuari
assicurati come mezzadri per motivi di convenienza.
La stragrande maggioranza di chi aveva abbandonato la terra aveva trovato occupazione nell’industria e nel terziario. Solo 141 erano diventati proprietari, 87 si erano trasformati in affittuari e 82 in braccianti. I poderi vuoti erano 580, di cui una parte
completamente abbandonata e alcuni erano coltivati parzialmente con colture arboree.
Il valore della produzione in provincia era aumentato in valori monetari perché trainato dalla produzione delle piante ornamentali, dai garofani, gladioli, peperoncini,
cetrioli, frutta e panico. Il vivaismo pistoiese e il distretto del fiore pesciatino stavano
dunque prendendo il sopravvento proprio nel corso degli anni ‘60. Queste nuove colture avevano comportato l’immissione di nuova manodopera, qualificata. L’aggressione del mercato aveva falcidiato ulteriormente i redditi dei mezzadri e dei coltivatori
diretti, con uno squilibrio enorme tra il valore dei prodotti pagato ai contadini e il
prezzo praticato nella vendita al consumo.
Gli investimenti pubblici, con il Piano verde diventato la Legge 2 giugno 1961
n. 454, si erano indirizzati a integrare e sostituire l’investimento privato nelle grandi
aziende, che si modernizzavano a spese dello Stato senza intaccare ancora una volta i propri patrimoni. Questa politica di trasformazione capitalistica delle campagne
era per la Federmezzadri la responsabile principale dell’esodo, nonché del permanere
dell’accentuarsi di uno sviluppo dualistico in vaste zone unito alla degradazione economica e sociale. Nel pistoiese i contributi statali erano stati erogati in netta prevalenza
alle aziende più grandi. I mezzadri non ne avevano tratto beneficio. Alle fattorie Beretta, Felceti, Rospigliosi e Vizzano i contributi statali erano sì serviti per costruire bacini
artificiali, impianti di irrigazione, silos, stalle razionali e per acquistare macchine; peccato che poi i mezzadri, in ossequio alle peggiori tradizioni della mezzadria, per irrigare dovevano pagare alla fattoria tariffe a prezzo di mercato, ed altrettanto valeva per
l’uso delle macchine. In pratica la proprietà si riadattava alla nuova politica economica
del Governo senza cambiare il suo assunto di fondo, l’aumento della rendita. Adesso
non scaricava più i costi sul mezzadro per queste opere, se le faceva pagare dallo Stato
e poi vi ricavava un profitto dal mezzadro.
I contributi per la formazione della piccola proprietà erano stati modesti. Il Direttivo rivendicava come le lotte sindacali degli anni precedenti avessero avuto il pregio di far maturare ed esplodere la crisi della mezzadria, facendola dichiarare superata insieme all’esigenza di trasformarla in proprietà contadina. Nel 1961 il Governo
Fanfani aveva convocato la Conferenza nazionale dell’agricoltura, durante la quale la
mezzadria fu condannata duramente come anacronistica.
Le lotte aziendali alla trebbiatura però perdevano di intensità, e permanevano le
rappresaglie padronali, che avevano anche messo in difficoltà finanziaria il sindacato.
32
La Federmezzadri aveva dimostrato «scarsa capacità […] di sapersi adeguare ad una
situazione nuova con le forze e gli strumenti che ormai si sono logorati». Ancora non
si era riusciti a intavolare una trattativa con la Confagricoltura, neanche a livello locale,
e restava vigente il Contratto di epoca fascista del 1928, tranne che nei punti accessori
regolati localmente da un accordo in merito alla mietitura e alla falciatura con macchine di terzi.
La consapevolezza della fragilità della situazione era completa: «la mezzadria
resta ancora in piedi in quanto i redditi agricoli vengono integrati da redditi provenienti da altri settori produttivi». La situazione nelle campagne non era stagnante ma
in movimento. 214 poderi erano condotti con braccianti, e nella stragrande maggioranza erano poderi abbandonati da mezzadri. Le trasformazioni e riconversioni colturali
in atto erano poche. Nei mesi precedenti al Congresso la Federmezzadri registrava
una tendenza nuova in diverse aziende, tra cui Spallotti, Corniolo, Baldi Papini, Poggi
Banchieri, Cini, Beretta, Solvavecchia, che proponevano ai mezzadri di restare come
salariati sullo stesso podere in coincidenza con il termine dell’annata agraria. Però
non stavano riconvertendo l’azienda a nuove colture, per cui il sindacato rimaneva
perplesso di fronte a questi cambiamenti. Tanti proprietari tentavano di sottrarre alla
conduzione mezzadrile attività che si prestavano a una conduzione diretta. Diversi industriali pratesi, proprietari di un solo podere, chiedevano ai mezzadri di trasformarsi
in salariati. In parte erano proposte strumentali, dato che la conduzione con salariati
rispetto a quella a mezzadria imponeva meno vincoli per una successiva destinazione
del podere a scopo edilizio. Sono gli anni della grande speculazione e dell’urbanizzazione estesa da cui nascerà la cosiddetta “area metropolitana”.
Il sindacato prevedeva uno sviluppo disorganico dell’agricoltura, con isole centrali costituite da grandi aziende, finanziate con i fondi pubblici per l’agricoltura, in
posizione di vantaggio e privilegio e le aziende contadine relegate in un ruolo di subordinazione. Le grandi aziende insieme alla Federconsorzi sarebbero state in grado
di imporre la politica di mercato a loro più conveniente. Per evitare questo scenario
la Federmezzadri chiedeva che oltre alle agevolazioni creditizie e fiscali fossero varati
provvedimenti legislativi che rendessero obbligatoria la vendita della terra, evitando
così anche la prospettiva che fossero cedute solo le terre peggiori. Nemmeno la modifica del riparto dal 53 al 60% poteva rappresentare una soluzione al problema contrattuale. In alcune zone nemmeno l’80% dei prodotti e degli utili sarebbero stati sufficienti a remunerare il mezzadro per il lavoro svolto e i capitali conferiti, anche perché
restando in piedi l’architettura del Contratto fascista il mezzadro sarebbe restato in
posizione subordinata. Ormai l’orientamento del sindacato verso la trasformazione
della mezzadria in azienda contadina era completo, come si comprende anche dalla
freddezza e dalla diffidenza con cui vengono accolte le trasformazioni in rapporti
salariati.
33
La linea che annunciava il Direttivo era quella della richiesta di una riforma
agraria generale che prevedesse il passaggio di tutta la proprietà della terra a chi la
lavorava, anche se in modo graduale, con l’obiettivo di fondare l’agricoltura italiana
sulla proprietà liberamente associata in forma cooperativa e modernamente attrezzata,
che avrebbe dovuto anche operare per la lavorazione dei prodotti, la vendita sul mercato, la somministrazione di servizi.
Su questa strada però la Federmezzadri si distaccava dai mezzadri, intesi come
categoria sociale. Solo quelli che caparbiamente intendevano restare sulla terra, per
amore, per tradizione, per passione, capacità o inclinazione potevano seguirla su questa via e nelle lotte conseguenti. Tutti gli altri, la grande massa dei lavoratori della
terra, orientati a migliorare le loro condizioni di vita in qualunque modo, se non addirittura ostili alla permanenza in campagna, non erano così interessati ad una battaglia
lunga, dura, complessa, difficile e dai dubbi risultati – se non per adesione ideale e solidarietà – quando potevano trasferirsi a lavorare altrove, avere una casa moderna e un
mondo di relazioni sociali urbano, lavatrici, cucine, negozi ed altre comodità moderne
e consumistiche. Restavano legati al sindacato ed ormai avevano acquisito un’identità
politica che esprimevano nel voto e nella partecipazione alle manifestazioni e feste dei
partiti socialista e più spesso comunista. La Federmezzadri però non vedeva questo
scarto, anzi rimarcava come il momento fosse favorevole, con un risveglio tra i mezzadri, con diversi di loro che andavano a chiedere come poter acquistare la terra dopo la
presentazione del disegno di legge agrario governativo. Probabilmente erano episodi
portati avanti da una minoranza, che tuttavia rimaneva significativa e incoraggiava i
sindacalisti a insistere sulla linea della trasformazione dell’agricoltura nella direzione
della proprietà associata e della gestione cooperativa11.
Comunque, le manifestazioni promosse dalla Federmezzadri rimasero numerose, riuscendo ancora ad intercettare l’azione dei mezzadri più militanti, o orientati
verso la terra. Le proteste continuavano a riguardare i contratti, la riforma agraria, la
previdenza12. Il 19 febbraio del 1964 i mezzadri scesero in “sciopero” e svolsero una
manifestazione provinciale a Pistoia per la riforma agraria13. Ancora per tutto l’anno
la Federmezzadri organizzò numerose mobilitazioni14. Nel settembre inviò una dele-
11 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie congressi, Sottoserie federmezzadri, Busta 43, Fasc. 43,6 “6° Congresso
provinciale Federmezzadri” 1961-1963, Relazione del Comitato direttivo uscente.
12 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie organizzazione, Sottoserie varie, Busta 41, Fasc. 41.8 “Mezzadri” 1960-1967,
Lettera del 20 maggio 1963.
13 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie fogli sciolti, Busta 30, Fasc. 30.1 [Relazioni e ordini del giorno dal 1960 al 1966]
1960-1966.
14 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie scioperi e manifestazioni, Busta 37, Fascicoli da 37.16 a 37.23 e Fasc. 37.30
“1964 lotte estive” 1964.
34
gazione alla Camera dei deputati15 e organizzò una tre giorni di manifestazioni per
sostenere l’approvazione della legge sulla mezzadria16.
Il 15 settembre del 1964 il Parlamento varò la Legge n. 756, frutto del lavoro
del primo Governo con la partecipazione organica dei socialisti nato nel dicembre del
1963. La Legge recepì buona parte delle indicazioni che i sindacati avevano espresso
al CNEL sulle questioni contrattuali e rappresentò un evento storico per la mezzadria,
un punto di svolta, stabilendone definitivamente il superamento e quindi la fine. L’art.
3 prevedeva che non potessero più essere stipulati nuovi contratti di mezzadria, e che
quelli eventualmente fatti fossero nulli. Per i rapporti già esistenti il riparto doveva
essere effettuato dando al mezzadro una quota non inferiore al 58%. Le parti potevano anche convenire di dividere il prodotto dopo la conservazione o trasformazione
eseguita negli impianti del concedente. In mancanza di accordo il mezzadro aveva
comunque diritto di immagazzinare, lavorare e trasformare la sua quota negli impianti
aziendali, corrispondendo un equo compenso al concedente.
Finalmente, il mezzadro non doveva più regalie, prestazioni gratuite, onoranze
e qualsiasi altro compenso e si annullavano le pattuizioni in merito. Le spese per la
coltivazione e per le attività connesse, compresi l’impiego e la manutenzione dei mezzi meccanici, si dividevano a metà, escluse quelle per la mano d’opera. Il concedente
doveva anticipare senza interesse e sino alla scadenza dell’anno agrario le spese se il
mezzadro era sfornito di mezzi propri.
Sulla direzione all’art. 6 si stabiliva che «il mezzadro collabora con il concedente
nella direzione dell’impresa. A tal fine le parti concordano tutte le decisioni di rilevante interesse, secondo le esigenze della buona tecnica agraria». In caso di disaccordo si
poteva chiedere l’intervento dell’Ispettorato all’agricoltura. Nelle compravendite delle
cose o prodotti di comune interesse il mezzadro aveva il diritto di partecipare alle
operazioni.
L’art. 7 interveniva su un aspetto sociale storico: «la composizione della famiglia colonica può essere modificata senza il consenso del concedente anche fuori dai
casi previsti dall’articolo 2142 del Codice civile, purché non ne risulti compromessa
la normale conduzione del fondo. Ai fini della presente legge, il lavoro della donna è
considerato equivalente a quello dell’uomo».
Il mezzadro poi poteva eseguire innovazioni nell’ordinamento produttivo anche
con l’opposizione del proprietario se aveva il riconoscimento della sicura utilità dal
capo dell’Ispettorato, e poteva ottenere per queste i contributi e le agevolazioni statali.
15 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie scioperi e manifestazioni, Busta 37, Fasc. 37.25 “Delegazione alla Camera 4
settembre” 1964.
16 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie scioperi e manifestazioni, Busta 37, Fasc. 37.24 “Manifestazioni 9-10-11 settembre
1964” 1964.
35
Il mezzadro aveva anche diritto ad un’indennità corrispondente alla spesa sostenuta
per eseguire le innovazioni, detratti i contributi pubblici17.
Per un’ironia della storia, il momento in cui i mezzadri vedevano riconosciute
per legge alcune delle loro rivendicazioni storiche corrispondeva alla sanzione della
morte della mezzadria.
Nonostante il divieto di nuovi patti mezzadrili ci furono numerose elusioni della
Legge, tanto da costringere i legislatori a tornarci sopra più volte fino ad una legge
correttiva del 199018. La Confagricoltura, dagli anni ‘50 vicina all’MSI, si oppose alla
Legge19. Nel 1962 aveva preso apertamente posizione contro il superamento della mezzadria, posizione espressa localmente dal suo presidente, Giulio Poggi-Banchieri, erede dell’importante famiglia proprietaria e già fascista, il quale attaccò con veemenza
un discorso di Aldo Moro del 10 novembre al consiglio nazionale della Dc a favore della politica agraria del centrosinistra. Il Poggi-Banchieri reagì con i metodi antichi dei
proprietari, e tipici anche delle peak association, attraverso un colloquio con il Prefetto,
il Questore e il Comandante dei Carabinieri e l’invio di telegrammi di protesta ai ministeri dell’Agricoltura e degli Interni. A suo dire, il programma della CISL coincideva
troppo con quello delle sinistre e della CGIL. Nel ‘63 la Confagricoltura fece attiva
campagna elettorale contro il superamento della mezzadria20.
Infine, nel 1965 il Governo mise mano anche alla parte rimasta fuori dalla Legge 756 e oggetto della discussione al CNEL con i sindacati, quella per l’accesso alla
proprietà, varando la Legge 26 maggio 1965 n. 590. Con la Legge 14 luglio 1965 n. 901
venivano invece istituiti gli enti di sviluppo agricolo. Anche in questo caso le leggi non
soddisfecero appieno la Federmezzadri, ed anche sull’applicazione locale ci furono
problemi e riserve. L’Ente Maremma escluse la provincia di Pistoia dalle sue competenze, mentre vi rientravano le limitrofe Pisa, Firenze e Lucca21. Per l’applicazione della Legge 590 i criteri dell’Ispettorato compartimentale dell’agricoltura della Toscana
non furono appaganti. Il certificato di idoneità per l’acquisto dei fondi rustici da parte
dei lavoratori della terra ai sensi della Legge prevedeva che la superficie dovesse raggiungere i 6 ettari circa. I sindacati lamentarono, a ragione, che nella provincia di Pistoia la superficie media dei fondi si aggirava sui 3,5 ettari per la mezzadria e sui 2 per
17 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie organizzazione, Sottoserie varie, Busta 45, Fasc. 45.1 [Opuscoli] 1947-1970,
testo integrale della legge 15 settembre 1964 n. 756.
18 S. Anselmi, Mezzadri e mezzadrie nell’Italia centrale, in P. Bevilacqua, Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, Vol. II, Uomini e classi, Venezia, Marsilio, 1990, p. 257.
19 A. Spinelli, Il ritorno alla democrazia. La Confagricoltura nell’Italia repubblicana, in S. Rogari (a cura di), La
Confagricoltura nella storia d’Italia. Dalle origini dell’associazionismo agricolo nazionale ad oggi, Bologna, Il Mulino,
1999, p. 537.
20 Ivi pp. 679-684.
21 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie fogli sciolti, Busta 30, Fasc. 30.1 [Relazioni e ordini del giorno dal 1960 al 1966]
1960-1966.
36
l’affittanza, e che quelli più grandi erano di proprietà di grandi aziende non propense
a vendere, per cui nessun lavoratore o quasi avrebbe potuto accedervi22.
Per concludere, il bottino che il movimento mezzadrile aveva portato a casa era
stato ben misero, ma le ricadute che la sua presenza aveva causato erano di portata
epocale, con la fine della famiglia patriarcale e l’impulso alla liberazione della donna
nelle campagne attraverso il riconoscimento del suo ruolo in famiglia e sul lavoro. Per
una beffa della storia, i mezzadri giunsero a ottenere per legge una parte di quello che
avevano chiesto per più di 60 anni con un atto che mentre riconosceva la validità delle
loro ragioni ne decretava anche la morte come categoria sociale. E dovettero anche
allora combattere per avere il poco che gli era stato riconosciuto.
22 ASCGILPt, Federmezzadri, Serie fogli sciolti, Busta 30, Fasc. 30.1 [Relazioni e ordini del giorno dal 1960 al 1966]
1960-1966, Lettera del 13 aprile 1966.
37
La provincia di Pistoia negli anni
del boom economico italiano
dI
steFano rosIgnolI
Introduzione
L’epoca del miracolo economico italiano è il periodo successivo alla ricostruzione industriale del dopoguerra: collocato tra gli anni 50 e gli anni 60 del XX secolo, fu
un periodo caratterizzato da una forte crescita economica e sviluppo tecnologico, a cui
seguì nel decennio successivo una notevole crescita demografica (il cosiddetto baby
boom).
Figura 0.1: Pil Italiano in migliaia di euro annue dall’unità d’Italia ad oggi.
Se escludiamo gli anni immediatamente successivi alla fine della guerra la crescita del PIL [Figura 0.1] avvenuta nel decennio 50-60 (con tassi che oscillavano dal 4%
al 6%) non si è più registrata fino ai nostri giorni (sebbene si sia mantenuta positiva
fino al periodo dell’ultima crisi economica).
39
PIL
CONSUMI
FAMIGLIE
CONSUMI PA
INVESTIMENTI
ESPORTAZIONI
51-61
6.27%
4.65%
4.97%
10.34%
14.12%
61-70
6.23%
6.39%
5.89%
5.86%
11.27%
71-00
2.42%
2.59%
2.61%
1.45%
4.94%
00-08
0.89%
0.66%
1.15%
1.52%
2.35%
08-15
-1.02%
-0.71%
-0.57%
-4.38%
0.90%
PERIODO
Figura 0.2: Tassi medi annui di crescita per periodi storici. Fonte: Banca d’Italia e Istat.
Lo sviluppo economico italiano fu trainato dalla crescita del commercio internazionale (le esportazioni crebbero mediamente del 14.12%), gli investimenti crebbero
del 10.34%, ed i consumi delle famiglie e della pubblica amministrazione crebbero di
oltre il 4.5%.
Questa dinamica non si presentò uniforme in tutta Italia: molte regioni e province, in particolare quelle del mezzogiorno rimasero prevalentemente agricole, la Toscana e la provincia di Pistoia seguirono il trend medio italiano con qualche anno di
ritardo e con la costituzione di imprese industriali più piccole rispetto alle dimensioni
e dinamiche nelle regioni del nord.
Questo capitolo ha il compito di mostrare tabelle e grafici relativi al territorio
della provincia di Pistoia, alla popolazione ed al sistema produttivo in quegli anni: 22
comuni che gravitavano attorno ad un centro in rapida crescita economica e demografica.
Tutti i dati presenti in questo lavoro sono stati tratti dai censimenti della popolazione di quegli anni1 raccolti da ISTAT nell’archivio “8milaCensus” e dai censimenti
delle attività produttive del 1951, 1961 e 1971 (sempre di fonte ISTAT).
Nelle pagine successive quando non risulteranno peculiarità comunali da evidenziare faremo riferimento a diverse aree della provincia ed in particolare:
Montagna Pistoiese: composta da Cutigliano, Marliana, San Marcello, Piteglio,
Sambuca Pistoiese.
Abetone (isolato rispetto alla montagna pistoiese per le sue peculiarità)
Pistoia Centro: Pistoia e Serravalle pistoiese
Valdinievole: Montecatini Terme, Pieve a Nievole, Monsummano Terme, Massa
e Cozzile, Buggiano, Pescia, Uzzano, Ponte Buggianese, Chiesina Uzzanese, Larciano
Pistoia Est: Montale, Agliana, Quarrata, Lamporecchio
1 Censimenti della popolazione del 1951, 1961 e 1971.
40
Faremo costantemente un confronto con la struttura e la dinamica socio-economica della Toscana e dell’Italia.
Il capitolo è composto da 7 paragrafi: nel primo mostreremo la struttura del territorio provinciale, nel secondo la struttura e dinamica della popolazione, nel terzo la
struttura familiare, nel quarto le caratteristiche delle abitazioni, nel quinto l’istruzione,
nel sesto il mercato del lavoro, nel settimo il sistema produttivo ed i settori.
1. Dimensione e conformazione territoriale
La provincia di Pistoia ha una estensione di 965 kmq e corrisponde al 4.2% della
superficie regionale della Toscana ed allo 0.3% di quella Italiana. È composta da 22
comuni [Figura 1.1 e 1.2], di diversa dimensione: il più grande è il comune di Pistoia
con 238 kmq seguito da San Marcello (84), Sambuca Pistoiese (80) e Pescia (79). Dagli
anni ‘50 ad oggi la conformazione e la disposizione politica dei comuni non si è modificata (eccezion fatta per il comune di Chiesina Uzzanese che si è costituito nel 1963
separandosi dal territorio di Uzzano2). La conformazione morfologica territoriale è
rimasta immutata negli anni, anche se chiaramente l’inurbamento delle zone centrali
ha modificato nel tempo l’assetto antropologico ed idro-geologico del territorio.
superficie in kmq
Figura 1.1: Mappa della provincia e dimensione dei comuni.
2. Struttura e crescita demografica
Nel 1950 la popolazione provinciale era poco superiore a 218.000 residenti: i
2 Nelle tabelle successive provvederemo ad una stima dei dati di popolazione, occupati ed addetti del territorio
di Chiesina Uzzanese anche per gli anni precedenti al 1963 (applicando le variazioni di tutto il territorio Uzzano
+ Chiesina Uzzanese).
41
comuni più popolati erano Pistoia (77.200 ab.), Pescia (14.600 ab.), Montecatini Terme
(14.700 ab.), Quarrata (13.100 ab.) e San Marcello (10.300 ab.). Nel decennio 50-60 ed
ancor di più in quello 60-70 si assistette ad una crescita demografica della provincia
rispettivamente del 6.5% e del 9.5% un livello ancora più accentuato della crescita regionale (4.0% e 5.7%) e nazionale (6.5% e 6.9%).
I comuni a maggiore crescita demografica furono Agliana, Pieve a Nievole, Massa e Cozzile, Monsummano Terme, Montale, Montecatini Terme a conseguente spopolamento dei quattro comuni montani di San Marcello Pistoiese, Sambuca Pistoiese,
Marliana e Cutigliano.
Comune
1951
1961
1971
Abetone
818
823
833
Agliana
7.330
10.038
12.619
Buggiano
5.382
5.360
6.062
Cutigliano
2.677
2.310
2.035
Lamporecchio
6.165
6.279
6.363
Larciano
5.047
5.176
5.532
Marliana
3.353
2.865
2.419
Massa e Cozzile
3.529
3.957
5.241
Monsummano T.me
9.646
11.596
14.499
Montale
5.512
6.387
7.715
Montecatini-Terme
14.696
17.697
20.618
Pescia
20.686
20.029
19.331
Pieve a Nievole
3.941
4.430
6.402
Pistoia
77.198
84.244
93.175
Piteglio
3.870
3.392
2.811
Ponte Buggianese
6.516
6.305
6.587
Quarrata
13.100
14.648
17.386
Sambuca Pistoiese
4.637
3.235
1.915
San Marcello P.se
10.373
10.071
8.707
Serravalle Pistoiese
7.795
7.519
7.656
Uzzano
3.241
3.014
2.726
Chiesina Uzzanese
Provincia
Toscana
Italia
2.663
2.889
3.768
218.176
232.263
254.399
3158.811
3.286.160
3.473.097
47.515.537
50.623.569
54.136.547
Figura 2.1: Crescita demografica tra il 1951 ed il 1971.
42
La densità demografica della provincia pari nel 1950 a 224 abitanti/kmq seguì
chiaramente la dinamica della popolazione (passando a 238 nel 1961 e 261 nel 1971), e
rimase costantemente al di sopra della media regionale (137, 143 e 151 nei tre anni) ed
a quella nazionale (157, 168 e 180).
3. Struttura familiare
Le famiglie in provincia nel 1951 erano 42.145: anche queste aumentarono nel tempo sia per l’incremento della popolazione che per la trasformazione della struttura familiare che passò (tra il 1950 ed il 1970) da una media di 5.2 a 3.2 componenti per famiglia.
Figura 3.1: Componenti per famiglia.
Nei comuni montani (Piteglio, Sambuca Pistoiese e San Marcello Pistoiese) la
media dei componenti per famiglia passò rispettivamente da 6, 5.5, 4.5 nel 1951 a 3,
2.5 e 2.9 nel 1971. Questi comuni furono caratterizzati dallo spopolamento dei giovani
che si separarono dalla famiglia “allargata” di origine andando a risiedere e lavorare
nelle città: nei comuni montani rimase prevalentemente la popolazione sopra i 65 anni.
Figura 3.2: Indice di vecchiaia ((pop65_+/pop0_14)*100).
43
Nel censimento del 19503 la popolazione presente nei nuclei e case sparse era più
numerosa e se escludiamo pochi comuni (Montecatini Terme, Piteglio, San Marcello)
risultava superiore al 40%, fino a superare incidenze dell’80% come nel caso dell’Abetone e di Ponte Buggianese. Complessivamente l’incidenza provinciale raggiungeva la
quota del 50%, molto al di sopra della media toscana (35%) e di quella Italiana (24%).
Nel corso degli anni l’inurbamento ridusse notevolmente tale incidenza (soprattutto
per i comuni di pianura).
Figura 3.3: Incidenza della popolazione presente in case sparse.
3 Nei censimenti della popolazione l’ISTAT distingue tra Centri Abitati, Nuclei Abitati e Case sparse: i centri
abitati sono insiemi di abitazioni costituiti da non meno di 25 fabbricati distanti tra loro non più di 70 metri
l’una dall’altra. I nuclei abitati sono insiemi di abitazioni che raccolgono complessivamente non meno di cinque famiglie e distano tra loro non più di 30 metri. Le case sparse sono le abitazioni disseminate nel territorio
comunale a distanza tale da non poter costituire nemmeno un nucleo abitato.
44
4. Abitazioni
Nel 1951 in Italia il 40% delle abitazioni risultavano di proprietà dei residenti, in
Toscana e nella provincia questa percentuale era più bassa (arrivando rispettivamente
al 33% ed al 37%). Nei due decenni a seguire questa percentuale crebbe arrivando per
la provincia a raggiungere il livello del 52% (superiore ad Italia e Toscana di due punti
percentuali).
Figura 4.1: Incidenza delle abitazioni in proprietà.
All’interno della provincia nelle zone montane ed in particolare nel comune
dell’Abetone le case erano prevalentemente di proprietà dei residenti. Più bassa ed in
linea con la regione risultavano le case di proprietà nelle zone urbanizzate di Valdinievole e nella piana pistoiese (Pistoia Est e Pistoia Centro).
Gli effetti del boom economico si notano anche dalla presenza di servizi igienici
nell’abitazione: nel 1951 in Italia appena il 25% ne era dotato ed il territorio regionale e
provinciale risultavano in linea con il dato nazionale. In venti anni questa caratteristica
mutò fino a raggiungere al livello nazionale la quota dell’85% delle abitazioni. Stesse
dinamiche avvennero in Regione e Provincia. Pistoia Est fu l’area che subì il più radicale cambiamento (soprattutto nel decennio tra il 1961 ed il 1971).
Figura 4.2: Percentuale di abitazioni con i servizi igienici.
45
5. Istruzione
Nel 1951 risultava analfabeta il 10% della popolazione provinciale, tale incidenza si ridusse nel 1971 ad una media del 3.8%, sempre al di sotto del livello regionale e
nazionale e con una dinamica di riduzione simile nei due decenni. Al livello comunale
i cambiamenti seguirono la tendenza della provincia ed avvennero prevalentemente
per la modifica della struttura per età della popolazione nei comuni: nelle aree montane rimase la popolazione di età più elevata e meno istruita. Fa eccezione il comune
di San Marcello Pistoiese che partiva sin dal 1950 da livelli di analfabetismo estremamente bassi (rispetto alla media provinciale) grazie alla presenza dell’industria e di
occupati che risiedevano nel comune.
Figura 5.1: Incidenza degli analfabeti (analfabeti /popolazione *100).
La percentuale di popolazione diplomata e laureata partiva da un livello provinciale del 3.2% e raddoppiò nei venti anni raggiungendo l’incidenza del 6.5%. Tuttavia
rimase sempre inferiore sia rispetto alla Toscana (4.1% nel 1950 e 8.3% nel 1970) che
rispetto all’Italia (4.3% nel 1950 e 8.7% nel 1970). Internamente alla provincia, Pistoia
e Montecatini risultavano i comuni con un livello di istruzione superiore ed universitaria maggiore della media italiana (4.6% e 5.9%) ed una dinamica nei venti anni
successivi ancora più marcata.
Figura 5.3 : Incidenza della popolazione diplomata e laureata.
46
6. Mercato del lavoro
Il tasso di partecipazione al mercato del lavoro è il rapporto tra popolazione
attiva (che lavora od è in cerca di lavoro) e popolazione in età lavorativa (nel 1951 era
quella oltre i 10 anni). Nel 1951 il tasso in Italia era pari al 52.6% e nel corso di dieci
anni si ridusse al 47.5% per effetto dell’invecchiamento della popolazione nel decennio
successivo (tra il 1960 ed il 1970 la tendenza si arrestò riportando il tasso ad un livello
leggermente superiore, del 48.2%). In Toscana e nella provincia di Pistoia la quota nel
1951 era leggermente inferiore (51.7% e 50.3%) e seguì nei due decenni successivi una
dinamica simile a quella italiana.
Figura 6.1: Tasso di partecipazione al mercato del lavoro totale a (dx) e femminile (sx).
I comuni montani della provincia (compreso l’Abetone) registrarono nel 1950
un tasso di partecipazione inferiore alla media provinciale e regionale, a differenza di
quelli della Valdinievole in via di urbanizzazione in cui la popolazione residente era
prevalentemente costituita da famiglie di attivi ed occupati. Il comune di Pistoia ad un
grado di sviluppo più elevato era luogo di residenza di famiglie allargate in cui erano
presenti sia componenti attivi ed occupati che residenti non attivi (bambini, casalinghe, ultrasessantacinquenni), questa composizione manteneva il tasso di partecipazione di Pistoia inferiore alla media provinciale.
Il tasso di partecipazione della popolazione femminile [Figura 6.1] nel 1950 si
attestava in Italia al 26%. In Toscana e soprattutto in provincia era molto più basso
(rispettivamente 23% e 19%). Inoltre nel corso del decennio ’51-61 si ridusse ulteriormente: complice la riduzione della dimensione familiare e lo spostamento dei giovani
nuclei nelle città, spostamento che richiedeva alle donne la presenza costante in casa
per la cura dei figli, della casa e della famiglia.
47
La zona centrale e ad est della provincia di Pistoia avevano nel 1951 livelli di
partecipazione femminile al mercato del lavoro piuttosto bassi, anche se nei due decenni successivi la forte dinamica fece raggiungere a queste aree gli stessi livelli della
media provinciale.
Il tasso di occupazione è il rapporto tra la popolazione occupata e la popolazione
sopra i 15 anni di età. I livelli e la sua dinamica ebbero le stesse caratteristiche del tasso
di partecipazione. In particolare la provincia, pur partendo da livelli inferiori rispetto
a Toscana ed Italia, ha nell’arco di venti anni recuperato il gap collocandosi nel 1971
sulle stesse quote.
Figura 6.2: Tasso di occupazione totale a (dx) e femminile (sx).
La Valdinievole appariva l’area più sviluppata in quegli anni, i comuni ad est
della provincia pur partendo da livelli (nel 1950) molto bassi registrarono la dinamica
più intensa portando quest’area a raggiungere la media provinciale.
7. Tessuto imprenditoriale ed occupazione nei settori
Gli occupati nella provincia nel 1951 erano poco più di 88.000, nel 1961 crebbero
a 91.100 e nel 1971 a 97.200 circa, ma il cambiamento maggiore fu nella struttura per
settori economici (Figura 7.1 che mostra il cambiamento della composizione settoriale
avvenuto tra il 1950 ed il 1970).
48
Figura 7.1: Composizione degli addetti per settori economici.
La prima cosa che salta in evidenza è la riduzione degli addetti nel settore agricolo: nel 1950 l’agricoltura contava circa il 50% sul totale degli addetti, nel 1961 questa
percentuale si ridusse al 28% e nel 1971 al 17%. Nel contempo tutti gli altri settori
incrementarono il proprio peso. Le imprese attive (in base censimento dell’industria
e servizi4) nel 1951 erano nella provincia pari a 9.276 e gli addetti 32.073. In dieci anni
il numero delle imprese manifatturiere crebbe del 51.8% e quello degli addetti di tali
imprese dell’80%: mai nella storia recente si è assistito ad un incremento così marcato
nell’arco di dieci anni. L’incremento continuò anche negli anni successivi anche se con
ritmi più contenuti.
4 Nel 1951 fu realizzato anche il quarto censimento dell’industria e servizi. In tale censimento che misurava il
numero di imprese e di addetti nel territorio non venivano rilevate le attività agricole, quelle della pubblica
amministrazione e degli enti no profit, (quindi non copriva una parte delle attività svolte dalla popolazione
residente e gli addetti risultavano meno degli occupati residenti). Il pregio di tale censimento era (come lo è
tuttora) la estrema particolarità con cui venivano classificate le attività produttive.
49
Settori particolarmente presenti nella provincia dopo l’agricoltura ed i servizi
pubblici erano il commercio, il tessile, l’abbigliamento e calzature, la meccanica, il legno e mobili, gli alberghi e ristoranti e l’industria alimentare.
Nel 1951 i comuni della provincia a spiccata specializzazione agricola (oltre il
50% degli occupati lo erano nel settore agricolo) erano Marliana, Larciano, Chiesina
Uzzanese, Serravalle Pistoiese, Quarrata e Ponte Buggianese. Tra i comuni ad alta intensità industriale spiccavano invece il comune di San Marcello Pistoiese, quello di
Montale ed Agliana, Piteglio e Monsummano Terme. L’Abetone e Montecatini Terme,
già nel 1950 come comuni turistici con una grossa incidenza di attività commerciali e
di servizi.
Figura 7.2: Composizione settoriale della popolazione residente occupata nel 1951.
Figura 7.3: Composizione settoriale della popolazione residente occupata nel 1961.
50
Figura 7.4: Composizione settoriale della popolazione residente occupata nel 1971.
Comuni
Settori di specializzazione
Abetone
agricoltura, alberghi e ristoranti, commercio, legna
Agliana
trasformazione minerali non metalliferi, industria tessile, commercio
Buggiano
trasformazione minerali non metalliferi, stampa ed editoria, industria tessile
Cutigliano
agricoltura, industria tessile
Lamporecchio
abbigliamento e calzatura, plastica ed altre manifatture
Larciano
legno e mobili, plastica ed altre manifatture
Marliana
agricoltura, comunicazioni
Massa e Cozzile
industria alimentare, servizi alla persona, servizi pubblici
Monsummano Terme
abbigliamento e calzature, alimentari, legno e mobili
Montale
industria tessile, servizi alla persona
Montecatini-Terme
alberghi e ristoranti, commercio al dettaglio, servizi alla persona
Pescia
pelle e cuoio, cartotecnica, agricoltura
Pieve a Nievole
petrolchimica, depurazione acqua, legno e mobili
Pistoia
credito e assicurazioni, industria della gomma, industria meccanica
Piteglio
estrazioni di minerali, cartotecnica, commercio
Ponte Buggianese
agricoltura, industria cine-fotografica
Quarrata
industria del legno e del mobile, agricoltura
Sambuca Pistoiese
comunicazioni, agricoltura
San Marcello Pistoiese
metallurgia, meccanica, prod. idroelettrica
Serravalle Pistoiese
agricoltura
Uzzano
lavorazione minerali non metalliferi, agricoltura
Chiesina Uzzanese
agricoltura
Tabella 7.2: Specializzazioni nei territori comunali.
51
Sintesi delle evidenze tra il 1950 ed il 1960
La dimensione territoriale non è cambiata nel tempo
La popolazione crebbe a ritmi del 7% (da 220 mila a 260 mila abitanti)
Ci fu uno spostamento dai comuni montani della provincia a quelli più centrali e
urbanizzati
Lo spopolamento frazionò le famiglie e ridusse la dimensione dei nuclei familiari (in
montagna i nuclei più anziani in città quelli più giovani)
L’indice di vecchiaia (pop65+/pop0_14) passò dal 53.6% al 73.2%
La quota di case in proprietà salì dal 37% al 45%
La quota di popolazione diplomata e laureata passò dal 3.6% al 3.8% (nel 1971 al
6.5%)
Il tasso di partecipazione femminile al lavoro non aumentò molto (dal 19.4% al
20.7%) in alcuni cassi addirittura si ridusse (occorre aspettare al 1971 per un incremento più elevato al 26.7%)
Ci fu una notevole riduzione dell’attività agricola (il cui peso nell’economia passò
dal 50% al 28%)
Le imprese manifatturiere crebbero del 51.8% (da 3.400 a 5.200 circa)
Gli addetti delle imprese manifatturiere crebbero dell’80% (da 16.600 a 30.000 circa)
52
Il settore industriale-manifatturiero
dI
andrea ottanellI
I prerequisiti
I prerequisiti per uno sviluppo del settore secondario a scapito del primario si
formano gradatamente nel Pistoiese in una prospettiva di lunga durata che può essere
datata dal Granducato di Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena si consolida nella prima
metà dell’Ottocento e costituisce solide radici dopo il compimento dell’unità d’Italia.
Prende corpo in quei lunghi decenni una struttura economica costituita da un
sistema infrastrutturale basato su moderne vie di comunicazione stradali e ferroviarie
per Modena, Bologna, Firenze e Lucca, ma anche su un adeguato sistema bancario,
un quadro di sociabilità espresso nelle Società di mutuo soccorso, un tessuto diffuso
di botteghe artigiane e manifatture specializzate in vari settori, una rete di istituti di
beneficenza che formano apprendisti per gli opifici. Nell’ultimo quarto di secolo, poi,
prende il via il ricambio della classe dirigente locale; agli esponenti del ceto nobiliare
che trae origine e profitti dalla proprietà terriera e dalla rendita si vanno gradatamente
sostituendo nei consigli elettivi gli esponenti della borghesia delle professioni liberali
e del mondo artigianale e commerciale che gestiscono la cosa pubblica.
È una Pistoia sospesa tra industria e industriosità quella che, ad esempio, invia i
prodotti delle proprie botteghe alle varie esposizioni che si susseguono dalla metà del
secolo XIX. Si tratta di pochi artigiani, che partecipano a Firenze nel 1854 alla Pubblica
esposizione dei prodotti naturali e industriali della Toscana, divenuti più numerosi a quella
circondariale pistoiese del 1886 in piazza del Carmine e infine più folti e consapevoli
del proprio ruolo sociale ed economico a quella di piazza San Francesco del 1889.
Ruolo confermato dal primo Censimento degli Opifici e delle Imprese industriali del 1911 che registrerà ventisei imprese con “più di venticinque lavoranti” (la San
Giorgio ne dichiara 882, ma dieci imprese ne dichiarano più di cinquanta ciascuna).
Ma sarà la Mostra circondariale pistoiese dell’industria, dell’artigianato e dell’orticultura (sic) tenutasi nel 1925, sempre in piazza San Francesco in occasione dell’inaugu53
razione del monumento ai caduti, a mostrare l’esistenza all’inizio del fascismo di una
base industriale diffusa e ormai consolidata che continuerà a mostrarsi vitale nonostante le scelte in direzione opposta di alcuni esponenti del regime.
In quell’occasione gli espositori del Settore industrie e manifatture furono suddivisi in ben trentuno categorie che coprivano praticamente ogni tipologia produttiva
dell’epoca.
Nuovi scenari dopo la guerra
La struttura industriale di Pistoia e della sua provincia esce duramente provata
dalla guerra. Insieme agli stabilimenti sono andate distrutte praticamente tutte le principali infrastrutture e molte abitazioni. La vita civile e politica deve riprendere su basi
completamente nuove.
Gli ultimi anni Quaranta sono quelli della ricostruzione. La San Giorgio è già
attiva nel 1946-47, la ferrovia Porrettana è ricostruita a tempo di record tra il 1946 e il
1949, si ricostituiscono in un quadro democratico i sindacati e gli enti economici insieme con gli organismi elettivi.
I primi anni cinquanta sono quelli del decollo.
Una pubblicazione della Camera di Commercio dall’eloquente titolo 5 anni di
progresso fotografa con efficacia la forte dinamica industriale e i cambiamenti economici e sociali verificatisi nella provincia di Pistoia tra il 1954 e il 1959, gli anni centrali
del Miracolo.
Per descrivere i progressi compiuti vengono presentate in numeri assoluti e percentuali le variazioni intercorse nel quinquennio nei principali parametri di riferimento usati a livello nazionale per verificare le condizioni di vita degli abitanti.
Innanzi tutto la popolazione che passa da quasi 223.000 abitanti a oltre 230.000
con un incremento di oltre 7.000 unità, frutto dell’aumento delle nascite a partire dai
primissimi anni del dopoguerra, dell’inurbamento e dell’emigrazione da altre aree
della Toscana e d’Italia. Anche i livelli di istruzione migliorano. Gli alunni di elementari e scuole secondarie sono aumentati di oltre il 13% anche se rimangono consistenti
sacche di analfabetismo che, però, è passato dai 26.918 analfabeti del 1931 ai 19.489
del 1951. Cresce il flusso dei turisti sia italiani sia stranieri, il numero delle industriali
e artigiane (+ 25,53%) e i depositi a risparmio (oltre il 120%). Ma un dato significativo
è quello relativo alla motorizzazione per cui le autovetture passano in appena cinque
anni da 3.297 a 7.366 e altrettanto crescono moto e motocicli. Le esportazioni in tutti i
settori produttivi si confermano in forte crescita, così come due indicatori sociali molto
significativi: gli abbonati al telefono e alla televisione aumentano di oltre il 100% e i
consumi di energia elettrica del 50%. In questo contesto i disoccupati passano dagli
8.125 del 1954 ai 5.376 di cinque anni dopo. Un dato importante ma, come si vede, la
54
crescita non riesce ad assorbire l’eccedenza di manodopera e ancora per molti anni
muratori, manovali ed ex carbonai delle colline e delle montagne pistoiesi continueranno ad alimentare il flusso di emigrazione, temporanea o definitiva, verso Francia,
Svizzera e Germania.
Continuavano a esistere sacche di povertà e malessere specialmente nei quartieri proletari e operai come Porta S. Marco e Porta al Borgo, o abitazioni malsane come
a S. Mercuriale, nella “Cirenaica” o in via Valiani e il problema della casa permaneva
grave per molte famiglie e troverà parziale soluzione solo con i cospicui investimenti
dello IACP negli anni successivi.
Una pubblicazione del 1948, agli albori del boom, fotografa una realtà industriale
della provincia che risulta costituita da almeno ottanta ditte presenti in quasi tutte le
principali attività economiche. Troviamo così imprese meccaniche, siderurgiche, tessili,
chimiche, alimentari insieme a fonderie, cartiere, concerie, fornaci, calzaturifici, mobilifici, e le lavorazioni artigiane di alta qualità come le trafile per la pasta, le fonderie artistiche, i piatti musicali, i ricami e una consistente presenza di ortovivaisti e floricoltori.
Sono presenti in particolare nel capoluogo, nella Montagna e in alcune aree della
Val di Nievole. Solo due appartengono al settore della grande industria, ma sono stabilimenti di imprese nazionali, la San Giorgio che occupa 1.983 operai e la S.M.I. con
stabilimenti a Campo Tizzoro, Limestre e Mammiano e 1.430 operai, ma molte altre
occupano oltre cento operai. Ma queste eccellenze operano in un quadro di piccole e
piccolissime imprese artigiane ampiamente diffuse in tutto il territorio e in tutti i settori produttivi.
Sono aziende che, lentamente e con gravi crisi produttive e di riconversione,
cercano di uscire dalle difficoltà del dopoguerra, spesso in un clima di forte contrapposizione politica e sindacale e accese lotte per la difesa del posto di lavoro, contro i
licenziamenti, per gli adeguamenti salariali e migliori condizioni di vita in fabbrica.
Parte da questa realtà un percorso che alla fine del decennio vedrà occupati
nell’intera provincia 18.000 operai e in un ventennio modificarsi così i dati percentuali
della popolazione attiva:
1951
1971
Agricoltura
37,8
12,8
Secondario
36,6
52,2
Terziario
25,6
35
I dati non nascondono, però, un quadro caratterizzato dalla polverizzazione del
tessuto produttivo con rete di piccole imprese artigiane e commerciali, presenti nella
meccanica, tessitura, vestiario, calzature, legno e mobilio, carta ed edilizia insieme a un
terziario che registra un turismo di massa nascente.
55
Gli enti locali accompagneranno questo percorso e in particolare la Camera di
commercio con il suo Centro studi che lo sosterrà a lungo con ricerche, convegni, pubblicazioni e statistiche sempre aggiornate.
Le dinamiche di settore
Il metalmeccanico
Le imprese siderurgiche e meccaniche rappresentano l’asse portante dell’industria pistoiese. La San Giorgio dal 1950 viene resa indipendente dalla casa madre genovese e incorporata nell’IRI con la denominazione Officine Meccaniche Ferroviarie
Pistoiesi. Fin dall’inizio in fabbrica si accende una forte contrapposizione tra i sindacati di sinistra e la direzione con frequenti tagli occupazionali, licenziamenti di dirigenti
sindacali ed esponenti politici di sinistra tra il 1952 e il 1963. La dirigenza cerca di
affiancare alla tradizionale produzione di materiale rotabile ferroviario e tramviario
quelle affini di filobus e autobus ma anche innovative come quelle di roulotte, rimorchi, macchine e attrezzi agricoli, macchine tessili come carde e telai e lavori carpenteria.
Una produzione dispersiva, spesso non di qualità, che comporterà crisi ricorrenti finché lo stabilimento non sarà indirizzato, con frequenti passaggi di proprietà,
verso la produzione specializzata di treni, metropolitane e autobus.
Lo stabilimento sarà per anni “la fabbrica” dei pistoiesi, luogo di formazione
della classe dirigente politica, sindacale e amministrativa e contribuirà in maniera determinante al miglioramento delle condizioni di vita generali del Pistoiese.
In montagna tutto ruota intorno agli stabilimenti della Società metallurgica italiana. Una difficilissima riconversione dalla produzione bellica a quella di pace comporta frequenti, numerosi e continui licenziamenti della manodopera per cui si riapre
agli abitanti della montagna la strada dell’emigrazione, ora verso industrie meccaniche
specializzate del nord Europa. L’attività continuerà per anni ad essere impostata sulla
produzione di munizioni, laminati e minuterie nei paesi-fabbrica di Campo Tizzoro,
Limestre e Mammiano ancora attivi negli anni del miracolo economico, ma destinati
gradatamente alla chiusura. Cesseranno l’attività prima Limestre e Mammiano e la
ridurrà gradatamente Campo Tizzoro e insieme al lento e inarrestabile declino della
cartiera di La Lima (dai 500 addetti del 1950 ai 270 del 1965 alla chiusura nel 1977) si
chiuderà il capitolo della storia dell’industria montana.
Tra mobili e telai
Quarrata e Montale-Agliana. Percorsi simili in ambiti produttivi diversi: il primo tutto endogeno e originale, l’altro mutuato dalla vocazione tessile del vicino distretto pratese.
56
La produzione del mobile a Quarrata ha inizio negli anni Venti nel laboratorio
artigiano di Nello Lenzi e costituisce il primo, limitato atto di un processo che porterà
nell’arco di pochi decenni a trasformare un piccolo centro con una decisa vocazione
agricola a una cittadina con un’importante componente industriale.
Inizialmente destinata prevalentemente alla produzione di un particolare tipo di
divano, esplode letteralmente nei primi anni del dopoguerra in concomitanza con la
ricostruzione degli edifici distrutti dagli eventi bellici e, successivamente, con il boom
dell’edilizia e delle nuove abitazioni con nuove tendenze e nuovi gusti che richiedono
nuovi tipo di arredamento.
Alla prima fase del periodo 1920-1950, pionieristica e limitata, succede così il
decennio del miracolo economico in cui Lenzi diviene un’azienda leader del settore
e contemporaneamente nascono numerose piccole imprese che crescono progressivamente con identità e specializzazioni produttive e la città cresce insieme a loro, spesso
in maniera disordinata. Prende forma così un originale modello produttivo-espositivo
che finisce per definire il paesaggio urbano: le “mostre”, edifici a più piani disposti
a nastro lungo l’asse viario principale che collega Quarrata alla statale e che hanno
l’intero piano terreno esposto al pubblico con ampie vetrate che espongono gli arredamenti per ogni locale della casa. La trasformazione in atto è sancita dalla denominazione del Comune che nel 1959 cessa di essere intitolato all’antico insediamento collinare
di Tizzana per essere trasferito al centro, già da anni capoluogo, di Quarrata.
Più minuto, defilato e caratterizzato dal lavoro in fabbriche, fabbrichette e a domicilio quello che accade nelle campagne di Agliana e Montale.
La vicinanza del centro industriale tessile di Prato, in piena espansione, genera
un indotto diffuso che coinvolge tutti coloro che dimostrano intraprendenza, spirito
di sacrificio e voglia di lavorare. Qui il segno tangibile del cambiamento può essere
individuato nello “stanzone”, un locale in cui vengono sistemati i telai che producono
semilavorati per Prato. Nei centri abitati può essere ricavato in un locale a piano terra,
in un garage in disuso ma nelle campagne spesso nelle case coloniche prende e occupa
lo spazio destinato alla stalla o alle rimesse degli attrezzi agricoli; è il segno tangibile
del trapasso dal mondo secolare della mezzadria ai tempi nuovi dell’industria.
Anche in questo caso i ritmi di lavoro sono intensi, così come la mobilità sociale
e nel tempo si formano piccole imprese a conduzione familiare e poi vere e proprie
industrie.
Il calzaturiero
La presenza della manifattura delle calzature espletata attraverso il mestiere del
calzolaio e la bottega artigiana a conduzione famigliare è documentata a Monsummano e nei centri vicini di Montevettolini e Cintolese a partire almeno dall’ultimo quarto
57
del secolo XVIII. Trasmessa di generazione in generazione non supera però il ristretto
ambito del piccolo laboratorio, della produzione artigiana spesso su commissione e
con un mercato ristretto alle comunità gravitanti intorno all’abitato di Monsummano,
ma si mantiene viva e operante per tutta la prima metà del secolo XIX, sostenuta anche
dalle vicine industrie conciarie di Santa Croce e Pescia che fornivano facilmente la
materia prima.
Per poter iniziare a parlare di una produzione frutto di una mentalità protoindustriale con l’impiego di capitali adeguati e una sede che si avvicini al moderno concetto
di fabbrica occorre attendere però l’unità d’Italia con la creazione di un mercato unico
nazionale, la formazione di una classe dirigente locale e il sistema delle commesse
pubbliche.
Infatti la prima consistente realtà produttiva nel settore delle calzature a Monsummano risale alla seconda metà degli anni settanta del secolo XIX quando Lorenzo Billi
riesce a ottenere dallo Stato una fornitura di calzature militari per la sua bottega artigiana che fino ad allora poteva rientrare nella dimensione dei piccoli opifici tradizionali.
Il “Calzaturificio per forniture militari Lorenzo Billi” costituisce la base iniziale
di un quadro economico locale che all’inizio del nuovo secolo univa a un’agricoltura
basata sulle tradizionali colture promiscue, tra cui la lavorazione delle erbe palustri,
l’attività estrattiva, le fornaci per laterizi, gli stabilimenti balnerari, gravitanti intorno
al centro di Monsummano che assumeva sempre più le dimensioni di un Comune polivalente e con funzioni amministrative e, dal 1907, collegato attraverso la tranvia con
Montecatini, Pescia e Lucca.
Nel 1910 la fabbrica Billi produceva 48.000 paia di calzature militari annue impiegando 8.000 quintali di cuoio, ma è negli anni successivi alla Grande Guerra che,
per gemmazione, spirito di emulazione o rapporti con centri calzaturieri nazionali
come Vigevano, sorgono i primi veri e propri calzaturifici, per cui nel 1928, al momento dell’incorporazione di Monsummano nella neonata provincia di Pistoia, erano già
presenti «sette fabbriche di calzature a macchina con suole di cuoio»1 e una occupava
circa cento operai e nel 1934 su 15 calzaturifici registrati nella provincia di Pistoia, ben
9 erano presenti a Monsummano che si qualificava già come il principale centro di
questo tipo di produzione e 10 anni dopo, a guerra finita e liberazione avvenuta, erano
divenuti 11.
Nella seconda metà degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta il processo di
maturazione del settore calzaturiero giunge a compimento permettendo lo sviluppo
e la crescita capitalistico-industriale di Monsummano, con riflessi anche sui comuni
confinanti. Fondamentale sarà l’esaurimento progressivo del sistema di produzione
agricolo basato sulla mezzadria che liberò energie considerevoli in termini di mano1 Archivio Storico del Comune di Monsummano, b. 171.
58
dopera a basso costo da un lato e ampie capacità imprenditoriali represse dall’altro e
creando contemporaneamente un ampio mercato di vendita di beni di consumo.
Su questi basi ha inizio un rapido processo di creazione dell’apparato industriale e di specializzazione del territorio per cui si passa dalla bottega all’impresa per finire
alla fabbrica diffusa per cui nell’agglomerato urbano coesistono impianti industriali
veri e propri, piccole fabbriche e il lavoro a domicilio compiuto nel chiuso delle case,
nelle cucine, nei garage, nelle stanze liberate dai mobili o nelle stalle trasformate in
stanzoni. Lì si compivano le mille piccole fasi della costruzione di una scarpa, lavorando il cuoio, le tomaie, le suole, i tacchi che poi altre mani, spesso nuovamente di donna,
assemblavano in capannoni o stanzoni vicini. Prende così forma il distretto industriale
della calzatura e Monsummano passa rapidamente da centro di emigrazione di balie e
operai a polo attrattore di manodopera generica che si impiega e si specializza rapidamente nel tessuto industriale locale.
Gli abitanti del comune in 100 anni raddoppiano passando dai poco più di 5.800
del 1861 agli oltre 10.000 del 1961: si tratta di un processo frutto dell’urbanesimo e di
processi migratori da altre zone della Toscana e dall’Italia meridionale. Si emigra a
Monsummano dall’aretino e dal senese ma, in misura massiccia, da Campania, Basilicata e Sicilia: “Trovare un lavoro cercare un alloggio” divengono le parole d’ordine di
centinaia di uomini e donne che formano una costante catena migratoria dal sud Italia.
Sono gli anni dell’impetuosa crescita urbanistica che prende avvio nel 1947 e si
sviluppa in particolare lungo gli assi stradali ma anche saturando tutte le aree libere
con nuovi edifici, case, capannoni, case con annessi capannoni e laboratori aperti sulle
strade.
Spesso il processo di industrializzazione passa attraverso alcune fasi per cui si
inizia come operai, si acquisiscono conoscenze e abilità e si intraprende una piccola
produzione per conto proprio in locali improvvisati, magari con macchine di seconda
mano in prestito o acquistate a credito, e inizialmente anche senza percepire stipendi
individuali fissi, si conquistano così piccole quote di produzione in funzione di imprese più grandi e poi si cresce rapidamente acquisendo autonomia sul mercato. Così si
comincia ad assumere qualche operaio, magari parente, si rallentano le fasi iniziali di
super lavoro e ci si stabilizza come artigiani o piccoli industriali.
E inoltre intorno alla scarpa nasce tutto un mondo economico che le ruota attorno: venditori di macchine e macchinari, montatori di manovie meccaniche, persone
che portano e ritirano il lavoro a domicilio poiché la produzione viene parcellizzata in
numerose piccole diverse fasi integrate tra loro, ed effettuate in luoghi diversi, e che
poi si concentrano nella fabbrica.
Ed anche gli ambiti familiari sono profondamente modificati attraverso la pratica diffusa del lavoro a domicilio. Così gli uomini vanno a lavorare in fabbrica, mentre
le mogli sono occupate nella produzione in un angolo della casa, le nonne accudiscono
59
ai bambini e i figli più grandi, dopo la scuola, compiono la spola fabbrica-casa per ritirare la materia prima e riportare il prodotto finito.
Si introducono nuovi prodotti sul mercato come il mocassino e si inventano fasi
e tecniche produttive appropriate per cui una ditta si specializza inizialmente in una
determinata fase di lavorazione e poi si passa ad altre fino al ciclo completo.
Si può scegliere di lavorare part-time entrando o uscendo dal ciclo produttivo
con facilità, si creano dal niente nuove figure professionali basandosi solo sulle doti
personali e sull’intraprendenza come gli stilisti o modellisti, che disegnano i nuovi modelli e curano i campionari di varie ditte. Si tratta di un gruppo di persone in numero
limitato, stimati da tutti per il loro gusto e capacità di disegnare, fondamentali per
rinnovare il campionario e battere la concorrenza e che spesso si formavano all’interno
della fabbrica unendo al talento personale l’esperienza accumulata nel lavoro.
Il risultato di questo processo è già evidente nei primi anni Cinquanta, quando
Monsummano inizia ad assumere i contorni e le caratteristiche di una cittadina industrializzata e di un centro operaio con nuovi soggetti sociali: una miriade di piccoli
artigiani, imprenditori e un numero più limitato di industriali e dall’altra una classe
lavoratrice organizzata.
Socialmente Monsummano si presenta pertanto come un’area caratterizzata da
un’alta intraprendenza e da un forte dinamismo individuali con un’amministrazione
comunale che fornisce un sostegno istituzionale per lo sviluppo locale e la forte mobilità sociale genera la formazione di un nuovo ampio ceto medio.
All’inizio degli anni Cinquanta il processo di industrializzazione può dirsi ormai avviato su solide basi con un meccanismo autopropulsivo fondato anche su salari
più contenuti e condizioni di lavoro più dure della media nazionale e in quel periodo
l’amministrazione locale ottiene il riconoscimento del comune «quale centro di notevole attività industriale»2 essendo ormai uno dei principali centri calzaturieri italiani
con quasi sessanta calzaturifici di cui 41 a tipo industriale con una produzione media
annua di quasi 700.000 paia di scarpe e oltre mille addetti.
Questo modello assicurerà ben oltre il miracolo economico, e almeno fino agli
anni Ottanta, un periodo di espansione non programmata né ordinata ma che cresce
da sé per successivi e costanti incrementi, fino a quando comincia a entrare in crisi e
l’intero distretto inizia ad assetarsi su nuove basi. Sono gli anni in cui si avvertono i
limiti della mancanza di un associazionismo e di una programmazione, la scarsità di
rinnovamento tecnologico e di formazione professionale, la limitata attenzione alle
relazioni industriali e sindacali, la monocommittenza e la scelta di indirizzarsi verso la
produzione di prodotti economici.
2 Il riconoscimento venne richiesto dall’amministrazione comunale ai sensi dell’art. 176 della legge comunale e
provinciale del 1934
60
Lo sviluppo delle “case popolari ed economiche”
dI
maurIzIo lazzarI
Evoluzione della cultura dell’edilizia popolare ed economica
Il concetto di edilizia popolare viene da lontano, con caratteristiche legate alle
condizioni contingenti dello stato italiano; si caratterizza ora come supporto alle condizioni economiche della popolazione, ora come incentivo alla ricostruzione dopo
le devastazioni delle guerre, ora come azione integrata nel risanamento e recupero
di parti del territorio urbano degradato. Il testo unico delle disposizioni sull’edilizia
popolare ed economica del 1938 è il primo grande impianto normativo che cerca di
riordinare in modo organico la materia, potenziando il ruolo degli Istituti Autonomi
per le Case Popolari (IACP) e delle cooperative orientate all’attività edilizia, dettando
nuove disposizioni in materia di esproprio e di pianificazione delle aree destinate agli
insediamenti residenziali.
Nel testo unico vengono anche definite quelle che devono essere le caratteristiche progettuali delle case popolari:
Sono considerate case popolari, agli effetti del presente testo unico, quelle
costruite per essere date in locazione dagli enti e dalle società preposti e che restano in proprietà inalienabile degli enti e delle società medesimi. Ogni alloggio deve:
a) avere non più di tre vani abitabili ed eccezionalmente non più di cinque,
oltre ai locali accessori, costituiti da cucina, bagno, latrina, ripostiglio e ingresso;
b) avere il proprio accesso diretto dal ripiano della scala;
c) essere fornito di latrina propria;
d) essere provvisto di presa d’acqua nel suo interno se esiste nel centro
urbano l’impianto completo di distribuzione dell’acqua potabile;
e) soddisfare alle altre condizioni di salubrità richieste dai regolamenti di
igiene e di edilizia.
Nelle case popolari od economiche può essere consentita la costruzione di
locali destinati a scopi di igiene, assistenza ed educazione o da adibirsi a pubblici
61
esercizi, eccettuati quelli destinati esclusivamente a spaccio di bevande alcoliche1.
Ed è soprattutto il delicato tema dell’esproprio che caratterizza anche le leggi
successive; in particolare la prima legge urbanistica generale italiana, quella del 1942,
che affronta in modo organico questo tema senza che le procedure proposte, spesso
avveniristiche, in sostanza abbiano poi trovato una effettiva e sostanziale applicazione. La legge nasce in periodo bellico e di lì a poco la ricostruzione diventerà un torrente
in piena, la cui rapidità e diffusione renderà quasi del tutto inefficaci i complessi meccanismi amministrativi previsti, spalancando le porte ad un processo di speculazione
inarrestabile che determinerà, nei successivi 30-40 anni, una trasformazione irreversibile della morfologia degli insediamenti ed un gigantesco sconvolgimento del paesaggio su gran parte del territorio italiano.
I primi interventi a Pistoia dopo la legge del ’38 sono i due edifici in via Ferrucci
che nel 1946 si chiamava ancora via Campo Marzio. A questi seguono quelli di viale
Matteotti (allora viale Malta) e di viale Italia. Si tratta delle case per i senzatetto: fabbricati che vanno ad inserirsi nel tessuto urbano in modo traumatico, con la demolizione
di vasti tratti delle mura urbane [Foto 1]. L’intenzione dei pianificatori appare come
la ricerca di una immediata integrazione nella trama urbana più recente, senza una
preoccupazione eccessiva per la qualità architettonica, accettando edifici severi, spesso
anonimi e di tipologia elementare e ripetitiva.
Foto 1
Nel 1949, di fronte ad un nuovo progetto del Genio Civile che prevede la costruzione di altri tre edifici di 12 alloggi mediante la demolizione di un ulteriore tratto di
mura per poterne utilizzare l’area ed i materiali, giunge la diffida della Soprintendenza che, invocando la legge 1089 del 1939, ne blocca la costruzione costringendone lo
spostamento sul lato ovest della via delle Casermette per i primi due e sul lato opposto
per il terzo.
Foto 1
1 Regio Decreto 28 aprile 1938, n. 1165.
62
I Villaggi
Verso la metà degli anni ’40 inizia a formarsi una tipologia insediativa più caratterizzata: quella dei cosiddetti Villaggi. Gli insediamenti diventano più consistenti
e la loro presenza non costituisce più solamente una integrazione della trama urbana
esistente ma diventa un vero e proprio sistema urbano che, pur ancora privo di servizi autonomi per la collettività, determina ambiti urbani ben riconoscibili. Si rafforza
anche una concezione nefasta per la vita delle città: quella degli “alloggi per…” quindi della concentrazione nello stesso ambito urbano di categorie sociali omogenee. Lo
stesso Comune di Pistoia realizza 14 alloggi per i dipendenti comunali in via dei Macelli, lungo il torrente Brana.
È da rilevare come la cultura architettonica rimanga ancora largamente ai margini di queste realizzazioni; si costruiscono sempre edifici sostanzialmente simili, differenti solo nella dimensione o nell’orientamento ma lontani da una ricerca progettuale
di qualità.
Nel 1956 viene completato il programma per la realizzazione dei 41 edifici delle
case popolari ed economiche ai margini della via Pagliucola, in quell’area che sarà poi
individuata come il quartiere urbano delle “Casermette”.
Negli anni successivi continuano gli interventi puntuali in molte aree del territorio comunale, mentre la legislazione nazionale dà un ulteriore contributo alla cultura
della classificazione dei cittadini per categorie economiche, promulgando la legge che
finanzia le abitazioni da riservare ai lavoratori agricoli dipendenti2.
Viene così realizzato, lungo la via Ombrone Vecchio, in area vivaistica, il Villaggio di Castel de Luci: 19 edifici, che poi diventeranno 22 per un totale di 37 alloggi.
Con la stessa legge verranno finanziati anche i 13 edifici con complessivi 19 alloggi in località Sei Arcole. Una ulteriore fonte di finanziamento viene aperta per consentire l’eliminazione delle “case malsane”3.
La realizzazione dei Villaggi prosegue: nel 1958 viene completato il Villaggio di
via Sestini; si tratta ancora di un piccolo quartiere dormitorio costituito da 8 edifici per
un totale di 32 alloggi. Anche in questo caso la tipologia insediativa è costituita da moduli identici ripetuti più volte, in modo da «formare un piccolo villaggetto autonomo
e compiuto in se stesso»4.
Il Villaggio Belvedere
Dopo il completamento delle Casermette, l’IACP è alla ricerca di nuovi terreni
per realizzare alloggi popolari e nel 1957 inizia una complessa trattativa per l’acquisto
2 Legge n. 1676/1960. Norma per la costruzione di alloggi per i lavoratori agricoli.
3 Legge n. 640/1964. Provvedimenti per l’eliminazione delle case malsane.
4 Relazione tecnica del progettista Ing. Rauty.
63
delle aree tra la via Dalmazia e la via di Valdibrana, al margine sud del Villone Puccini.
L’iniziativa vede ancora l’azione congiunta di IACP e INA casa che provvedono alla
redazione di un Piano urbanistico unitario. Nella sostanza INA casa provvederà alla
realizzazione di quello che poi nella vulgata, ma anche nei caratteri identificativi della
popolazione, sarà il “Villaggio di sopra”, con l’eccezione di un edificio lungo la via
Vecchio Uliveto, mentre IACP realizzerà i fabbricati posti tra il viale del Belvedere e la
via di Valdibrana che verranno poi definiti il “Villaggio di sotto”.
Con questo complesso residenziale inizia una nuova configurazione dello spazio urbano: non più un sistema residenziale fine a se stesso ma un vero e proprio quartiere, dotato di buona parte dei servizi e delle attrezzature che caratterizzano i centri
urbani. Oltre alle abitazioni saranno insediati negozi, centri per l’aggregazione, una
chiesa, una scuola, un parco giochi ed attrezzature sportive.
Il Villaggio Belvedere si identifica perfettamente in quello che avrebbe dovuto
essere il carattere comune delle periferie urbane: luoghi dove sono presenti una buona
qualità insediativa ed una complessità di rapporti tra residenza e paesaggio. Queste
caratteristiche rappresenteranno un valore nuovo per la città di Pistoia, che inizierà a
manifestare i suoi effetti nel corso degli anni ‘60.
Anche dal punto di vista morfologico, i “due villaggi” sono assai diversi tra di
loro. L’area INA casa ha una maggior dotazione di servizi, ha spazi più ampi e viabilità più agevole con aree di parcheggio più capienti; tuttavia la sua maggiore caratterizzazione di “modernità” a cui contribuiscono anche architetti di grande prestigio (Giovanni Michelucci, Leonardo Savioli…) non trova altrettanta qualità nella realizzazione
dei quattro grandi edifici che la caratterizzano, quelli appunto di Savioli [Foto 2], la cui
complessità progettuale non si estrinseca in una maggiore vivibilità ma, al contrario,
farà pesare sugli abitanti grossi limiti legati alla poca attenzione prestata al confort
abitativo, alla sicurezza, alla
privacy.
L’area IACP, pur con
una edilizia meno blasonata ma in ogni caso non banale, si caratterizza per una
struttura più densa, dove il
vicinato costituisce un tratto
di maggiore intensità per la
vita comunitaria, senza che
si generino aspetti critici
dovuti alla tipologia progettuale. Qui si sperimentano
soluzioni comunque interessanti, come il “grattacie64
lo”: un edificio che si inserisce quando la realizzazione degli altri fabbricati è già in
corso e viene completato nel 1962. È costituito da 20 alloggi molto ampi e dotati di una
razionale distribuzione interna, mentre tutto il piano terra sarà destinato ad attrezzature per la collettività.
Anche il fabbricato definito “Case dei giovani sposi” rappresenta un insediamento caratteristico e, nelle intenzioni, di positiva funzione. Come da delibera del
Consiglio si dichiarava che «per effetto delle vigenti disposizioni in materia, i piccoli
nuclei familiari restano di solito esclusi dalle assegnazioni, per cui è difficilissimo che
due giovani sposi all’inizio della vita matrimoniale possano ottenere una casa popolare pur essendo in possesso dei requisiti richiesti»5.
Ma è dal punto di vista dei rapporti umani che questa esperienza urbanistica
offre i suoi frutti migliori.
La consegna di buona parte degli alloggi avviene sostanzialmente in modo simultaneo intorno al 1960-61 e le famiglie assegnatarie condividono in maggioranza la
stessa condizione sociale; si tratta di giovani coppie, spesso con figli piccoli o in procinto di averne, che condividono quindi uno stesso percorso di vita ed il processo di
integrazione risulterà così abbastanza rapido.
Nonostante la provenienza dei nuclei familiari sia molto varia, per i giovani
risiedere al Villaggio Belvedere rappresenta un tratto caratteristico che induce ad una
immediata identificazione. Nel villaggio il tenore di vita non è mai caratterizzato dal
disagio e, anche con condizioni modeste, il lavoro è un valore diffuso, con una buona
parte dei residenti occupata alle officine San Giorgio, diventate poi Breda. I due Villaggi, pur nella sostanziale integrazione, offrono tuttavia scenari differenti anche da
un punto di vista politico, caratterizzandosi maggiormente quello “di sopra” per la
presenza della chiesa [Foto 3]
e del Circolo Acli, e quello “di
sotto” per la presenza del Circolo Arci, in quella dialettica
a volte colta e a volte un po’
da stadio, che sarà comunque
uno degli elementi tipici della
vivacità di quegli anni.
Questa circostanza sarà
inoltre una delle basi dialettiche, a volte anche molto
intense, per comprendere i
differenti modi e motivi di
aggregazione sociale ed uno
5 Deliberazione del Consiglio di Amministrazione n. 86 del 1959.
65
degli strumenti della percezione e progettazione della vita della comunità urbana,
espressione caratteristica degli anni Sessanta e patrimonio umano straordinario del
quale, nei decenni seguenti, purtroppo mancheranno una attenta valutazione ed una
adeguata valorizzazione.
Dal Villaggio Belvedere sono scaturiti una grande quantità di giovani fortemente motivati: molti laureati, professionisti, artisti, a riprova del fatto che la diversità,
unita al desiderio di integrazione e di comunità, può produrre quella qualità sociale
ed umana che rappresenta l’unico vero supporto alla convivenza ed allo sviluppo in
una società civile.
66
I ragazzi del jukebox
Balli proibiti alla Casa del popolo di Tobbiana
dI
danIela FarallI
Non è un caso se questo intervento, che vuole mettere in luce la passione per
la musica e il ballo di quegli italiani e italiane che si trovarono a vivere la loro adolescenza nell’Italia degli anni del boom, prenda le mosse da una canzone di Adriano
Celentano. Correva infatti l’anno 1959 quando il popolare cantante, allora appena ventunenne, incideva su 45 giri I ragazzi del jukebox, un vero inno a una generazione per la
quale (come recita appunto il suddetto brano) «La felicità costa un gettone»1.
È proprio durante il periodo del Miracolo economico che, per la prima volta, i
giovani italiani sarebbero diventati una categoria sociale a sé stante, ben distinta da
quella dei loro genitori e dei loro nonni in fatto di abitudini e gusti. Negli anni del boom
le nuove generazioni nate negli anni ’40 erano ormai cresciute, e si stavano affacciando
al mondo con tutto il loro entusiasmo giovanile. Questi ragazzi erano speciali per molti motivi: come nota infatti Stephen Gundle, «gli adolescenti degli anni del boom costituirono la prima generazione della storia italiana a essere nel complesso omogenea in
termini di lingua, gusti e riferimenti culturali»2. La televisione in primis e gli altri media
di massa (riviste, radio, cinema) avevano contribuito fortemente a formare i gusti di
questi ragazzi. Inoltre, grazie alla diffusione di mezzi di locomozione a basso costo
come Vespe e Lambrette, anche i giovani che vivevano in campagna erano in grado
di raggiungere più facilmente la città, dove potevano andare al cinema, a ballare o ad
acquistare fumetti e riviste illustrate3.
1 La prima strofa della canzone recita: «La felicità costa un gettone / per i ragazzi del jukebox / la gioventù /
la gioventù / la compra per cinquanta lire / e nulla di più». Testo disponibile al sito: http://www.angolotesti.
it/A/testi_canzoni_adriano_celentano_8/testo_canzone_i_ragazzi_del_juke_box_1229809.html, consultato in
data 11/9/2018.
2 S. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, Firenze, Giunti, 1995, p. 240. In Italia «Gli iscritti alla scuola
media e all’avviamento professionale sono 500.000 nel 1947 e 900.000 nel 1955, ma nel 1962 – alla immediata
vigilia dell’istituzione della scuola media unica e obbligatoria – sono già 1.600.000: non lontani, dunque, dal
livello che verrà raggiunto dopo l’entrata in vigore di essa (1.800.000 nel 1965, poco meno di 2.000.000 nel 1968).
Fra il 1955 e il 1965, inoltre, gli iscritti alle superiori passano da 600.000 a 1.200.000». G. Crainz, Storia del miracolo
italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma, Donzelli, 1996, p. 73.
3 Ivi p. 241.
67
Ed è per l’appunto dalla campagna (o meglio, dalla collina) che analizzerò il peculiare rapporto che venne creandosi fra le Case del popolo e la diffusione degli stili di
vita dettati dall’incipiente società dei consumi e della passione per la musica e il ballo
fra le nuove generazioni. Prendendo infatti come esempio paradigmatico la Casa del
popolo di Tobbiana (situata nel comune di Montale, in provincia di Pistoia), vedremo
come queste poliedriche istituzioni ebbero un ruolo decisivo nell’accompagnare, a ritmo di musica, la gioventù danzante nei suoi “balli peccaminosi” (scopriremo il perché
di questa piccante definizione andando avanti nella narrazione).
Questa pubblicità della Vespa riesce a sintetizzare perfettamente i cambiamenti
in atto nelle campagne e il nuovo spirito del tempo che si andava diffondendo
Conosciamo adesso più da vicino la Casa del popolo di Tobbiana, la cui vicenda
può essere letta come un paradigma per molte altre realtà simili. Infatti, seppure ognuna delle Case del popolo site nella provincia di Pistoia possegga una propria storia
particolare, negli accadimenti della Casa del popolo di Tobbiana ritroviamo pressoché
tutti gli elementi tipici di questa forma di associazionismo popolare: la nascita “dal
basso”, il volontariato, la fede politica di sinistra, lo scontro con la Chiesa cattolica e la
Democrazia cristiana, l’intrecciarsi di “ricreativo e culturale”. E “ricreativo” significa
anche “ballo”: a Tobbiana si ballava, e molto, persino prima che la grande sala della
Casa del popolo fosse ufficialmente inaugurata, alla metà degli anni ‘60. Ma partiamo
dall’inizio, ossia dall’arrivo alla Casa del popolo di uno degli oggetti-simbolo di quel
68
Miracolo economico che stava allora per manifestarsi anche nella piccola frazione collinare.
Nell’Italia della seconda metà degli anni ‘50, una novità dirompente esplose nel
circuito dei media di massa. Fu proprio in quel tempo, infatti, che un nuovo astro si
sarebbe acceso a illuminare, col suo piccolo schermo, i sogni e le speranze degli italiani
di una luce tutta nuova.
Era il 3 gennaio 1954 quando la Rai dette il via alle sue trasmissioni4: iniziava
così, per la nostra Penisola, l’era dell’intrattenimento televisivo. Già tra gli anni ‘30 e
‘50, la crescita della cultura commerciale aveva gettato le basi della futura cultura del
consumo degli anni del boom; ma va però notato che il cinema, lo sport, la stampa e
la musica popolare non fecero parte, in quel periodo, del repertorio quotidiano della
maggioranza degli italiani, specialmente in tutti quei luoghi di campagna lontani e isolati dalle sfavillanti “luci della città”5. Con l’arrivo della televisione, invece, la cultura
consumistica poté facilmente giungere anche nei luoghi più remoti d’Italia, generando
inediti desideri e bisogni anche fra gli strati più umili della popolazione. Nessuno
restò immune dal fascino dello strumento televisivo: nemmeno gli operai e le loro
famiglie, compresi anche molti iscritti al Partito comunista6.
Al contrario, la dirigenza del Pci non nutriva gli stessi sentimenti della sua base
verso questa nuova macchina. L’avvio delle trasmissioni televisive sotto un’amministrazione della Rai sponsorizzata politicamente dalla Dc, infatti, non poteva che suscitare una reazione molto circospetta nel Partito7. Il Pci condannò allora il “monopolio
clericale” della direzione Rai, puntò il dito contro la scarsa qualità dei programmi e
considerò nell’insieme la diffusione televisiva in termini di pura propaganda8. Questo
4 I. Piazzoni, Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv, Roma, Carocci editore, 2014, p. 24.
5 D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana. 1936-1954, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 378.
6 S. Gundle, I comunisti…, cit. pp. 218-219.
7 Posta saldamente nelle mani della compagine democristiana di governo e sottoposta alla diretta influenza del
Vaticano, la Rai si trovò, fin dagli esordi, a subire queste pesanti influenze. Il codice di condotta che essa si
autoimpose mostrava chiaramente lo sforzo per fare del nuovo mezzo televisivo il bastione di un rigido ordinamento sociale. Ciò non si rifletteva solo nella messa al bando dalle trasmissioni di ogni allusione sessuale
e di ogni dichiarazione che potesse essere interpretata come segno di ostilità verso l’istituzione familiare, ma
fissava l’impegno attivo della Rai verso la tutela della “moralità generale” e della “moralità nel comportamento”. Mettendo l’accento sul divertimento e sull’intrattenimento delle famiglie, la Rai-tv si guadagnò una
reputazione di rassicurante familiarità (non a caso, venne poi soprannominata “mamma Rai”). La discussione
politica era assente; non venne fatto il pur minimo tentativo di osservare criticamente i problemi o le istituzioni
della società: gli argomenti difficili venivano semplicemente evitati, presentando un’immagine convenzionale
e conformista delle relazioni sociali. Ivi pp. 163-164.
8 «Se il PCI continuò a considerare la televisione soprattutto come uno strumento della propaganda nemica fu
perché non vi era alcun controllo democratico del mezzo […]. Si dovette attendere il 1960 e l’introduzione delle
tribune elettorali perché sul piccolo schermo potesse apparire qualche comunista. Togliatti poté essere visto
dagli spettatori per la prima volta nell’aprile del 1963, ben nove anni dopo l’inizio delle trasmissioni». Ivi p.
225.
69
modo esclusivamente politico di vedere la questione ostacolò un’analisi più approfondita. Per questo motivo, il Partito dedicò ben poca attenzione al fatto che la televisione
stava diventando un elemento importante della vita quotidiana dei suoi iscritti, allargandone gli orizzonti e contribuendo a veicolare nuovi gusti e stili di vita9. Le federazioni locali del Pci, talvolta, proibirono di installare apparecchi televisivi nelle Case del
popolo; i militanti più stalinisti denunciarono inoltre i programmi come “spazzatura
clericale” e tentarono di dissuadere gli altri compagni dal prestarvi attenzione10. Indubbiamente, tutto questo non accadde alla Casa del popolo di Tobbiana.
Infatti, tra le molte Case del popolo che, ignorando bellamente le “direttive
dall’alto” del Partito, vennero rapidamente dotate di un apparecchio televisivo, era
compresa anche quella di Tobbiana. Avvenne così che, nella seconda metà degli anni
‘50, la Casa del popolo della frazione fu presto fornita dalla dirigenza di un televisore,
uno dei pochissimi presenti in paese in quel tempo. L’arrivo della televisione alla Casa
del popolo fu una grossa novità per gli abitanti. Il bar si riempì allora di decine e decine di spettatori, affascinati da quel nuovo congegno tecnologico e dai programmi della
neonata “mamma Rai” che esso trasmetteva. Dunque, gli adulti, i ragazzi e i bambini
del paese si trovavano tutti insieme alla Casa del popolo per consumare il rito della
visione collettiva11 dei più popolari programmi dell’epoca, fra cui Lascia o raddoppia?,
il Festival di Sanremo e il celeberrimo contenitore pubblicitario Carosello. Vale la pena,
nella nostra analisi, di spendere due parole proprio su quest’ultima trasmissione, vista
l’enorme influenza che essa esercitava proprio sulle generazioni più giovani dell’epoca.
Attraverso la pubblicità, la televisione convinceva le masse dei telespettatori di
ogni fede politica della necessità di acquistare certi oggetti e certi prodotti. Il modello
a cui si guardava erano gli Stati Uniti, le cui suggestioni e i cui esempi ebbero un ruolo
fondamentale nell’ispirare la ridefinizione dei costumi e degli stili di vita durante la
transizione italiana verso il consumismo12. In particolare, fu proprio la pubblicità televisiva a far entrare coloro i quali si trovavano al di fuori delle principali correnti della
prosperità entro questo nuovo stato di cose – e un paese come Tobbiana, da sempre
isolato nella sua economia di sopravvivenza, ne è un chiaro esempio13. Detto questo,
9 Ivi p. 216.
10 Ivi p. 218.
11 «Specialmente nei centri minori […] il pubblico ha preso l’abitudine di raccogliersi nei locali dotati di televisori
attirato dall’accattivante novità. Nei primi anni di erogazione del servizio, in effetti, la modalità di fruizione
prevalente è quella collettiva. […] Un’indagine del marzo 1956 [svolta dalla SIAE] accerta che ben 42.822 locali
pubblici possiedono un televisore». I. Piazzoni, Storia delle…, cit. p. 46.
12 Ivi p. 169.
13 L’economia della frazione era basata essenzialmente sulle migrazioni stagionali della grande maggioranza della
popolazione maschile, che si recava a esercitare il mestiere di carbonaio in Maremma, in Calabria, in Corsica e
altrove.
70
però, il modello che venne adottato dalla Rai-tv era molto diverso dall’esperienza statunitense: la pubblicità venne infatti inizialmente respinta a favore di un sistema di
finanziamento pubblico basato sul canone di abbonamento. Ciò accadde perché i poderosi interessi cattolici rimasero allora molto diffidenti verso la pubblicità commerciale, dato che quest’ultima faceva leva sulla dimensione materiale piuttosto che su
quella spirituale. Ben lontani, quindi, dal voler promuovere l’acquisto di beni di consumo, i detentori del controllo della Rai-tv cercarono di minimizzare l’impatto che la
televisione aveva nel rivoluzionare le aspirazioni della gente. I comunicati pubblicitari
non sarebbero stati trasmessi con regolari interruzioni dei programmi; sarebbero stati
invece raggruppati in trasmissioni appositamente dedicate, quasi a rinchiuderli in una
specie di cordone sanitario. Ma non solo: una stretta regolamentazione venne imposta
anche riguardo al contenuto delle trasmissioni pubblicitarie stesse. Il messaggio promozionale degli spot doveva infatti essere concentrato nel cosiddetto “codino” finale
di 30 secondi, preceduto da un “pezzo” di 1 minuto e 45 secondi dove non si poteva
alludere al prodotto reclamizzato14. Carosello, il più celebre di tali contenitori, andò in
onda a partire dal febbraio 1957, subito dopo il telegiornale della sera. Paradossalmente, questa lotta per moderare l’impatto della logica della pubblicità e del consumismo
in televisione dette un contributo essenziale nel garantirne la più ampia diffusione15.
Come rileva Stephen Gundle, infatti, «Per vendere i propri prodotti gli inserzionisti
furono costretti a una maggiore inventiva per intrattenere il pubblico con storielle, raccontini, scenette comiche o cartoni animati. In tal modo Carosello contribuì a tradurre
la coscienza consumistica in una situazione familiare e casalinga di facile riconoscimento in cui ci si poteva facilmente identificare»16.
Ben presto i bambini, a Tobbiana come altrove, costrinsero i genitori a mandarli
a letto solo “dopo Carosello”. Questi piccoli telespettatori conoscevano a memoria i
prodotti e i personaggi associati a questi ultimi (come il pulcino Calimero e l’olandesina della Mira Lanza, Carmencita e Caballero della Lavazza), e si divertivano a recitarne gli accattivanti jingle e a giocare ripetendo fra loro le “scenette” che avevano visto proprio durante Carosello. Questo dato risulta essere particolarmente interessante,
perché quei bambini che, alla fine degli anni ‘50, restavano incollati davanti al piccolo
schermo (e in particolare davanti a Carosello), sarebbero poi diventati i futuri ragazzi
degli anni ‘60. “Piccoli consumatori crescono”, si potrebbe dire: l’aspirazione ai nuovi
consumi veniva così efficacemente instillata non soltanto nelle generazioni adulte, ma,
nonostante tutte le precauzioni adottate, anche in questi adolescenti del domani17.
14 I. Piazzoni, Storia delle…, cit. p. 57.
15 S. Gundle, I comunisti…, cit. pp. 171-172.
16 Ivi p. 173.
17 Carosello era infatti «costruito per catturare l’ascolto di tutti, senza eccezioni, i promotori d’acquisto, i bambini
71
Dunque, i giovani e i giovanissimi provenienti dalle famiglie comuniste di Tobbiana trovarono un primo, importante contatto col nascente stile di vita consumistico
proprio alla Casa del popolo. Del resto, era stata la generazione dei loro genitori a
portare la televisione alla Casa del popolo, nonostante le indicazioni di segno opposto
che giungevano dai vertici del Partito. Oltre a ciò, il “pienone” portato dalla massa
dei telespettatori fu uno dei fattori che convinsero la dirigenza della bontà della loro
decisione di costruire ex novo un edificio più grande e moderno, dove trasferire i locali
della Casa del popolo (che era posta, fino ad allora, in un edificio in affitto). Avvenne
così che, nella seconda metà degli anni ‘50, la Casa del popolo venne trasferita proprio
nel nuovo stabile di proprietà, costruito dagli attivisti del paese.
Nella nuova e fiammante sede, era stato ovviamente trasferito anche il televisore, che continuava a riscuotere una notevole affluenza di pubblico. La grossa novità
che la più ampia struttura portò con sé fu l’arrivo di un jukebox: fu così che, all’inizio
degli anni ‘60 (in piena Guerra fredda!), uno dei simboli statunitensi per eccellenza
entrò a far parte della Casa del popolo. Questa innovazione ebbe un grande successo,
e la gioventù – letteralmente – vi si accalcava intorno per ascoltare la sua musica preferita. Nelle sere estive, il jukebox veniva posto all’aperto; le voci dei cantanti amati dai
giovani dell’epoca si diffondevano allora nell’aria, facendo la gioia dei ragazzi e delle
ragazze del paese, che si scatenavano liberamente nel ballo. Ma non solo: pur di “comprare la felicità con un gettone”, c’era chi giungeva a Tobbiana da Montale, Santomato
e addirittura da Montemurlo e Bagnolo, allora in provincia di Firenze (oggi di Prato).
Anche in questo caso, il ruolo svolto dalla televisione nel formare i gusti degli
adolescenti di Tobbiana (e, a quanto pare, anche delle zone limitrofe e non) si rivelò fondamentale. Nato nel gennaio 1951 come trasmissione radiofonica, il Festival di
Sanremo cominciò a essere trasmesso dalla Rai nel 1955. Se ai suoi esordi fu caratterizzato da una neutralità segnata da celebrazioni pseudo-popolari dell’amore materno18
e della vita di paese, dalla fine del decennio qualcosa iniziò a cambiare. Non furono
tanto i testi, ma i ritmi incalzanti e i movimenti allusivi dei cantanti che decretarono il
successo di questi brani fra i giovani. Due canzoni rappresentative del nuovo indirizzo
furono Volare di Domenico Modugno e 24.000 baci di Adriano Celentano, un pezzo
energetico a tempo di rock’ n’ roll che stabilì il record di vendite tra le canzoni del
Festival del 196119. Col loro atteggiamento disinvolto e più fisico, questi due cantanti
annunciarono un primo distacco dall’atmosfera assai perbenistica del Festival20.
in prima fila. […] Carosello è perfetto per catturare il grosso del pubblico di allora spesso estraneo al circuito
del consumo “moderno”. […] nato tra mille cautele e mistificazioni, finisce per trasferire i suoi personaggi, le
sue gag, i suoi jingle, i suoi slogan nell’immaginario collettivo nazionale insinuando “la gioia del consumo” e
nuovi modelli in un popolo aduso al risparmio e al sacrificio». I. Piazzoni, Storia delle…, cit. pp. 97-98.
18 A vincere il Festival nel 1954 fu la canzone Tutte le mamme, interpretata da Giorgio Consolini.
19 Vincitori del Festival del 1961 furono Betty Curtis e Luciano Tajoli, col brano Al di là.
20 G. Borgna, La grande evasione. Storia del festival di San Remo – 30 anni di costume italiano, Roma, Savelli, 1980, p. 38.
72
Dunque, ancora una volta, una tendenza proveniente dagli Stati Uniti si andava
diffondendo nell’Italia del Miracolo (e nelle Case del popolo!). Infatti, i giovani del
boom sembravano prediligere, nei loro gusti musicali, suoni che fossero in qualche
modo esotici e che, almeno all’inizio, venivano generalmente offerti loro da cantanti
statunitensi – ad esempio, artisti come Neil Sedaka, Gene Pitney e Paul Anka ebbero
grande successo in Italia, e registrarono alcune delle loro canzoni anche in italiano21.
Pur essendo quella che arrivò in Italia una versione addolcita del rock’ n’ roll22, i giovani se ne impadronirono come di qualcosa che apparteneva solo a loro e non come
se fosse un prodotto diretto principalmente al pubblico adulto. Con i jukebox, i primi
giradischi portatili e le radioline a transistor, questi cantanti contribuirono a definire
l’identità di una generazione che tendeva a considerare la sfera ricreativa come un luogo essenziale per la creazione della propria identità, e che si accostava ai dischi senza
alcuna mediazione23.
La Rai non rimase certo a guardare: dal 1962, infatti, sulla neonata Rai 224, iniziò
a essere trasmesso Alta pressione, un programma dedicato ai gusti musicali dei giovani e che ebbe il merito di lanciare due artisti come Rita Pavone e Gianni Morandi,
amatissimi dal pubblico. Più della radio, era proprio la televisione ad allacciare un
rapporto diretto con l’industria del disco, nella consapevolezza che la musica leggera
aveva ormai raggiunto un mercato in un’espansione tale da trarre «Fiumi d’oro da un
piccolo solco» – come a metà del 1961 titolava il Radiocorriere Tv, evidenziando il fatto
che il mercato discografico fosse ormai arrivato a vendere diciotto milioni di dischi25
(che diventeranno più di trenta milioni nel 1964)26. Come fa notare Marilisa Merolla,
Il piccolo schermo luminoso offriva e assicurava la ribalta ai nuovi idoli
della canzone che emergevano grazie ai tanti varietà e quiz musicali come Il Musichiere, Canzonissima, Giardino d’inverno e Studio Uno, per citare i più celebri,
che assicuravano un feedback tra pubblico televisivo e mercato della canzone. E
ancor più consentivano alla Rai-Tv di esercitare da una parte il ruolo di vero e
proprio talent scout, selezionando le proposte musicali da lanciare in commercio,
le nuove voci e consacrando i divi già noti; dall’altra di controllare e gestire la tra21 Cfr: A. Portelli, Elvis Presley è una tigre di carta (ma sempre una tigre), in D. Carpitella, La musica in Italia, Roma,
Savelli, 1978, pp. 6-68
22 Gene Vincent e Chuck Berry, per esempio, sarebbero rimasti sconosciuti ancora per anni in Italia.
23 S. Gundle, I comunisti…, cit. p. 243 e F. Rositi, La cultura giovanile, in Id. Informazione e complessità sociale. Critica
delle politiche culturali in Italia, Bari, De Donato, 1978, pp. 80-83.
24 Le trasmissioni del Secondo canale iniziarono il 4 novembre 1961. I. Piazzoni, Storia delle…, cit. p. 71.
25 M. Merolla, American Bandstand “Italian way”: il caso di Alta Pressione, ottobre 2017, testo disponibile al sito: https://
www.officinadellastoria.eu/it/2017/10/17/american-bandstand-italian-way-il-caso-di-alta-pressione/#_ftn4,
consultato in data 11/09/2018.
26 S. Gundle, I comunisti…, cit. p. 244.
73
volgente rivoluzione musicale, accettando la sfida della modernità. Spettava alla
Rai-Tv governativa consacrare anche attraverso la radio e la televisione di Stato la
“via italiana” al rock and roll, mediazione musicale tra modernità e tradizione27.
Il rock’ n’ roll trovò infatti un equivalente locale nei cosiddetti “urlatori”, che sfidarono a colpi di grida e note musicali i cantanti melodici tradizionali agli inizi degli
anni ‘60. Però anche loro, nella maggior parte dei casi, non poterono fare a meno di
assumere nomi esotici (come fece, ad esempio, Tony Dallara). Ancora verso la metà
degli anni ‘60, era inoltre frequente che i cantanti leggeri moderni, oltre ad adottare
nomi d’arte anglosassoni, cantassero storpiando le parole con un accento americaneggiante (come ben evidenziano gli esempi di Little Tony e Bobby Solo28). Sarebbe però
sbagliato considerare la popolarità della musica e delle mode americane fra i giovani come un segno di integrazione passiva. Al contrario, tutto ciò dava loro un modo
chiaro per identificarsi col moderno e un canale per la formazione di gusti culturali
diversi da quelli delle persone più grandi. Ma ciò non significa che il pop fosse di
fatto sovversivo: «mai, nel corso degli anni ‘60, la musica pop italiana acquistò quel
carattere radicale tipico, per esempio, dei Rolling Stones e degli Who in Gran Bretagna […]. Al massimo presentò un rituale e moderato anticonformismo che può anche
aver scandalizzato alcuni genitori, insegnanti ed esponenti religiosi, ma di per sé era
sostanzialmente innocente»29. Le facce pulite di cantanti come Massimo Ranieri, Rita
Pavone o Gianni Morandi «hanno in comune quello che oggi si chiamerebbe affidabilità. Sono entusiasti e spontanei […]. Non sono ragazzacci sbandati e senza timor di
Dio, come certi personaggi che Inghilterra e Stati Uniti vorrebbero propinarci nello
stesso periodo»30.
Sappiamo che il Pci, almeno in un primo momento, non vedeva certo di buon
grado la “permeabilità” dei giovani alla nuova cultura di massa – così intrisa di americanismo – che andava allora dilagando in Italia. Ad esempio, in un articolo di Noi
Donne del 1965 dedicato all’arcinoto Piper Club, troviamo una durissima condanna
della musica pop e della cultura giovanile in generale, condanna che non avrebbe potuto essere più decisa31. Ma, secondo Stephen Gundle,
Sarebbe però sbagliato dedurre da ciò che il Pci fosse completamente separato dalla cultura giovanile. Nelle zone in cui le strutture del partito erano più
profondamente integrate nella vita della comunità il Pci, o le strutture del movi27 M. Merolla, American…, cit.
28 S. Gundle, I comunisti…, cit. p. 244.
29 Ivi pp. 246-247.
30 G. Baldazzi, La canzone italiana nel Novecento, Roma, Newton Compton, 1989, p. 124.
31 S. Gundle, I comunisti…, cit. p. 252.
74
mento operaio, offrivano ai giovani opportunità e spazi che avrebbero finito per
favorire la formazione e la diffusione di nuovi interessi. Mentre la chiesa continuava a stigmatizzare il ballo, la Casa dei giovani aperta accanto alla federazione
del PCI di Modena organizzò verso la metà degli anni Cinquanta la prima discoteca della città32.
Dunque, la dirigenza del Partito non esitava a disapprovare i “moderni divertimenti”, intesi come pericolose deviazioni di matrice statunitense insidiatesi nella vita
dei militanti comunisti, che li avrebbero distratti dai loro ben più importanti compiti di
lotta politica. Ma, se dal centro le direttive ufficiali erano quelle di un’aspra condanna
delle riviste, della musica e del ballo (soprattutto del rock’ n’ roll), in periferia i dirigenti
delle varie sezioni del Partito si comportavano invece in maniera molto più elastica –
e, in fin dei conti, al di là dei proclami ufficiali, non erano poi così ostacolati in questo
atteggiamento dagli stessi vertici del Partito. A riprova di ciò, abbiamo visto come, nel
suo piccolo, anche la Casa del popolo di Tobbiana non fosse mai stata impermeabile
all’avvento delle “innovazioni tecnologiche” e dei gusti portati dall’incipiente modernità; ma che, anzi, fosse stata essa stessa il vettore fondamentale della diffusione, fra i
giovani paesani, dei nuovi desideri e dei nuovi consumi in voga negli anni del boom. La
Casa del popolo di Tobbiana non mancò poi di ribadire in grande stile il suo ruolo di
“centro di propagazione musicale” alla metà degli anni ‘60, quando venne finalmente
inaugurata la sala da ballo.
Ecco che, dopo l’arrivo del jukebox, alla Casa del popolo giungeva un’altra pietra miliare che avrebbe segnato la vita dei ragazzi e delle ragazze di Tobbiana. Era il
1965 quando, tra il giubilo dei paesani (o, per meglio dire, tra il giubilo dei paesani
comunisti), veniva inaugurata la grande sala della Casa del popolo. Adesso anche a Tobbiana c’era un luogo spazioso, dove ritrovarsi per convegni, conferenze politiche e…
ballare! La domenica, dalle 21.00 alla mezzanotte, la gioventù danzante si riuniva sulle
note di Jimmy Fontana, Don Backy, Mina e tanti altri cantanti. La serata di inaugurazione della sala fu un grande evento per il paese: nasceva allora il Dancing La Roccia,
con tanto di cocktail creato per l’occasione, chiamato (non a caso) Roccino33.
Sembra che, all’inaugurazione, fosse presente addirittura Mike Bongiorno, col
compito di promuovere i prodotti di bellezza della L’Oréal. Un personaggio simbolo
della cultura televisiva nazional-popolare dell’epoca alla Casa del popolo, e per di più
a pubblicizzare frivoli prodotti di bellezza, vero e proprio simbolo del consumismo
più inutile! Una prova evidente di quanto la nuova cultura di massa, pregna di americanismo, e i nuovi consumi individuali, un tempo impensabili, si fossero fatti strada in
32 Ivi p. 253.
33 La composizione del Roccino venne tenuta rigorosamente segreta; ancora oggi, non è dato sapere quale fosse
la ricetta per la sua creazione.
75
un’Italia ormai decisamente avviata nel suo Miracolo economico (con grande scorno
del Pci, che aveva dovuto fare buon viso a cattivo gioco per non alienarsi il consenso
delle masse popolari)34. La musica allora era rigorosamente dal vivo, e sul palco del
Dancing La Roccia si sono esibiti, in quegli anni, innumerevoli gruppi musicali e cantanti famosi: Mal, Dino, Massimo Ranieri, Giorgio Gaber e molti altri.
Tante storie e tanti amori sono nati sulle dolci note suonate al Dancing La Roccia,
dove i cuori dei giovani erano liberi di palpitare a ritmo di musica; ma, a tal proposito,
vi è da fare un’importante precisazione. Ancora alla metà degli anni ‘60, il paese di
Tobbiana rimaneva nettamente diviso fra lo schieramento comunista e quello democristiano, in un’atmosfera molto simile a quella rievocata dai film di Don Camillo e
Peppone35. Allora i democristiani evitavano di recarsi alla Casa del popolo36, e proibivano ai loro figli «di frequentare quel posto di scomunicati e bestemmiatori perché
era peccato»37. In particolare, erano le ragazze provenienti da famiglie “bianche” a non
recarsi a ballare alla Casa del popolo del paese38. Chiacchiere paesane mi hanno messo
a conoscenza che, a Tobbiana, delle coppie sono “scoppiate” proprio perché lui, comunista, voleva portare lei, democristiana, a ballare alla Casa del popolo.
Questo fenomeno non si verificò soltanto a Tobbiana: infatti, generalmente, le
ragazze di provenienza democristiana temevano che l’atto stesso del ballare alla Casa
del popolo avrebbe potuto compromettere la loro reputazione. La condanna della
Chiesa contro i “balli peccaminosi” veniva da lontano39; ancora nel secondo dopoguerra, il ballo era visto come un «diabolico trattenimento»40. I balli erano sempre dannosi,
a maggior ragione per le donne: facendosi traviare dai balli, infatti, le future madri di
famiglia minavano uno dei valori fondanti della società ispirata ai principi cattolici.
Era l’essenza stessa del ballo che metteva a repentaglio la virtù delle giovani donne; se34 S. Gundle, I comunisti…, cit. pp. 145-147.
35 Per una breve analisi dell’opera Mondo piccolo di Giovanni Guareschi Cfr: S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana.
Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 112-117.
36 Ovviamente i comunisti facevano altrettanto, evitando accuratamente il Circolo Acli, detto “La Tranquillona”
allora attivo in paese.
37 A. Signorini, Tobbiana, storia e ricordi di un paese, Pistoia, Ed. Parrocchia di S. Michele Arc. Tobbiana col patrocinio
del Comune di Montale, 2002, p. 97.
38 Qualcuna di loro andava a ballare, ma non in paese; pare che le mete più gettonate dove recarsi a ballare di
nascosto fossero i locali nella zona di Montecatini.
39 «Il fervore contro i balli, pur avendo origini antichissime, inizia con una certa intensità a metà ‘800, con la nascita
dei cosiddetti balli moderni [valzer, polka, mazurka can can etc.], definiti anche “balli esotici”, individuati come
i maggiori responsabili del “tramonto” dei sentimenti quali pudore e moralità». A. Tonelli, E ballando ballando.
La storia d’Italia a passi di danza. (1815-1996), Milano, Franco Angeli editore, 2000, pp. 124-125.
40 «[…] è intollerabile l’organizzazione di balli da parte di esigui gruppi di giovani, in locali chiusi, con l’assenza
completa di persone anziane e responsabili. Non osiamo riferire quello che abbiamo appreso da chi ha partecipato
a questi diabolici trattenimenti». Moralità pagana e moralità cristiana, Lettera pastorale dell’Arcivescovo di Trani
Reginaldo G. M. Addazi del 7 marzo 1962, in Lettere pastorali 1962-63 (a cura dei padri francescani di Cittadella),
Cittadella (Padova), editrice La voce dei pastori, 1963, cit. in ivi, p. 140.
76
condo la Chiesa cattolica, la vicinanza stessa dei corpi avrebbe portato inevitabilmente
a uno scoppio dei “bassi istinti” e, di conseguenza, a una relazione di natura sessuale.
Per le adolescenti, a cui era richiesta la salvaguardia delle verginità fino al matrimonio,
la cosa migliore sarebbe stata perciò evitare completamente i balli. Chi, al contrario,
si recava a ballare, sapeva già di poter perdere l’illibatezza e, con essa, la possibilità di
un matrimonio soddisfacente sotto il profilo sociale ed economico. Ma, anche se la
verginità non fosse andata perduta, anche la sola “compromissione coi balli” avrebbe
precluso alla donna la possibilità di trovare un uomo disposto a portarla all’altare:
«Questo spiega[va] il proliferare di sermoni cattolici che insist[evano] sul tema del
ballo peccaminoso, destinato a condannare le impenitenti ballerine alla triste condizione di sedotte e abbandonate o inevitabili zitelle»41. Certamente, alla metà degli anni
‘60, il condizionamento della Chiesa cattolica sulle relazioni e sulla morale era ancora
molto forte, soprattutto nei riguardi del sesso femminile. Del resto, la maggior parte
della popolazione italiana avrebbe condiviso ancora per lungo tempo la tradizionale
mentalità maschilista e misogina – una mentalità generale, questa, che prescindeva dal
colore politico di appartenenza42. Ma vi è da dire che, nei confronti della musica e del
ballo, i comunisti potevano vantare, rispetto ai democristiani, una mentalità decisamente più aperta e un’esperienza ormai ventennale, iniziata nell’immediato secondo
dopoguerra43.
Il generale clima di entusiasmo per il ballo che scoppiò subito dopo la guerra
era strettamente collegato a un nuovo senso di acquisita libertà, giunto dopo un conflitto che era stato particolarmente provante per tutta la popolazione. I primi locali
danzanti “popolari” nacquero proprio nelle Case del popolo44: e quella di Tobbiana
non fece eccezione. Infatti, sappiamo che, già nel 1947, la dirigenza prese in affitto un
piccolo appezzamento di terreno nei pressi della Casa del popolo, dove costruire una
pista da ballo all’aperto. Nasceva così, ben prima che il Miracolo economico italiano
fosse persino immaginabile, il Dancing Fico Verdino – detto anche La pista sotto al fico,
per la presenza di una rigogliosa pianta di fico sotto alla quale venne costruita la pista. Al Dancing Fico Verdino gli avventori potevano trovare il banchetto delle bibite,
il palco per l’orchestra, diversi tavolini e, infine, la pista da ballo, fatta di mattonelle
un po’ sconnesse, dove i paesani ballavano e si divertivano. Potrebbe forse apparire
quantomeno strano che, dopo una dittatura ventennale seguita da una guerra particolarmente sanguinosa, i tobbianesi “pensassero a ballare”. In realtà, a Tobbiana come in
41 Ivi p. 163.
42 M. Casalini, Famiglie comuniste, ideologie e vita quotidiana nell’Italia degli anni Cinquanta, Bologna, Il Mulino, 2010,
p. 41; S. Bellassai, La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del PCI (1947-1956), Roma, Carocci,
2000, p. 37.
43 D. Forgacs , S. Gundle, Cultura…, cit. pp. 365-366.
44 Ivi pp. 63-64.
77
molte altre parti d’Italia, nel secondo dopoguerra le popolazioni concentrarono i loro
sforzi «per una sopravvivenza che aveva bisogno del lavoro, del cibo, della casa come
della riscoperta della capacità di divertirsi. Questo era quanto sfuggiva al colonnello
Stevens quando dai microfoni di Radio Londra contrappose, a un’Europa in cui tutti
lavoravano per ricostruire, un’Italia dove cosa si fa? “In Italia si balla”»45.
Osservando i tobbianesi ballare al Fico Verdino, possiamo notare come la dirigenza della Casa del popolo, seppure composta da uomini animati da un’indubbia
fede politica “rossa” e che avevano vissuto sulla propria pelle la tragedia della guerra
e dell’occupazione nazifascista, non fosse mai stata chiusa e riottosa nei riguardi della
dimensione ricreativa – ma che, anzi, fosse sempre stata ben lieta di creare, promuovere e organizzare in prima persona dei momenti di svago per la popolazione e per
i giovani della piccola frazione. Se, altrove, l’arrivo del jukebox alla Casa del popolo
«aveva spesso il sapore amaro della sconfitta»46, gli attivisti tobbianesi scelsero invece
di installarne uno per permettere ai ragazzi e alle ragazze di divertirsi al suono della
loro musica preferita (che, sembra, non dispiacesse nemmeno ai “grandi”). Lo stesso
ragionamento può essere fatto anche per il Dancing La Roccia, che pare essere la naturale evoluzione del piccolo Dancing Fico Verdino del dopoguerra. La direzione della Casa
del popolo era ben consapevole del fatto che la grande sala sarebbe diventata, oltre che
un luogo adibito a conferenze e a manifestazioni politiche, anche il luogo dove i giovani (compresi i loro figli e le loro figlie) avrebbero finito per ballare “a ritmo di rock”.
Sebbene i ragazzi e le ragazze, al Dancing La Roccia, non restassero mai da soli senza la
presenza costante di persone adulte (gli stessi attivisti “anziani”, i genitori che spesso
accompagnavano a ballare i figli), è indubbio che, in generale, da parte dei comunisti
vi fosse una maggiore apertura riguardo ai “balli peccaminosi” e alle “musiche del
demonio” che tanto preoccupavano la controparte democristiana e la Chiesa cattolica.
Insomma, possiamo dire che, per il paese di Tobbiana come per tante altre realtà simili, fu proprio la Casa del popolo a costituire il primo e più importante luogo
di diffusione, fra i giovani, dei nuovi consumi e dei nuovi stili di vita giunti in paese
sull’onda del boom. La televisione, la musica leggera e il ballo ebbero un ruolo cruciale
nel definire la personalità di questa generazione di paesani; ma tutto questo non sarebbe stato certamente possibile senza la volontà e l’azione della precedente leva di
attivisti. Infatti, furono i “vecchi” a promuovere e a costruire (letteralmente) quelle
attività e quegli spazi dove i ragazzi e le ragazze avrebbero avuto modo di ritrovarsi
per condividere assieme il loro “tempo del divertimento”. Di lì a breve, ognuno di
loro avrebbe intrapreso la propria strada: ci fu chi iniziò a lavorare e chi a studiare; chi
45 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 592.
46 S. Gundle, I comunisti…, cit. p. 227.
78
iniziò a divertirsi fuori dal paese grazie all’automobile; chi si sposò e se ne andò via
da Tobbiana. Ma, nonostante il fatto che la vita li avrebbe poi portati verso altri luoghi
e verso altre esperienze, quei ragazzi del jukebox non avrebbero mai dimenticato i loro
giorni spensierati trascorsi in allegria alla Casa del popolo di Tobbiana.
79
Dal boom allo sboom
dI
alberto cIprIanI
Com’è noto, la grande trasformazione sociale del miracolo economico (tradizionalmente ascritto al quinquennio 1958-1963) ha recato, insieme all’innegabile processo
di ammodernamento, non pochi elementi definiti “patologici”. Ed ha proiettato i suoi
effetti nel ben più lungo periodo. In modo tale che uno specialista come Guido Crainz
ha potuto scrivere di “un’occasione mancata”; anzi, proprio scorrendo nei successivi
decenni, di un’Italia come “Paese mancato”.
Eppure, nel corso delle prime trasformazioni e cioè in un breve periodo temporale (quello dal primato agricolo all’industriale, in politica dal centrismo al centro
sinistra) ci fu una straordinaria fioritura di studi e di ricerche, di organismi propositivi,
di libri e saggi: il tutto rivolto ad una programmazione indirizzata a proseguire – in
termini meno spontaneistici e quindi più razionali – lo sviluppo sia economico che sociale. Un incremento di pensiero e di azioni, scrive ancora Crainz, forse come non mai
nell’Italia del secondo dopoguerra. Furono gli anni in cui, dopo la Nota aggiuntiva di
La Malfa del 1962, si pose mano alla Commissione nazionale per la programmazione
economica. Conducevano le loro ricerche e ne davano pubblicamente conto uomini
come Saraceno, Ardigò Sylos Labini, Ruffolo, Giolitti; operatori come Olivetti e Bassetti; enti come il Censis e la Svimez: E poi, in campo toscano, l’Irpet, quando sorse la
Regione Toscana e si iniziò ad elaborare la programmazione regionale. Con, in generale, alcune voci critiche (Calvino, Bianciardi, Revelli) che indicavano quali pericoli si
stavano creando.
La questione che si pone, e di cui devo occuparmi, è quella di quali siano stati – e
di che peso – i cambiamenti nel territorio pistoiese. Nel quale non sono mancati studi
indirizzati a quantificare, valutare, definire, inquadrare il senso del mutamento nella
logica della futura dinamica: cioè in quella della programmazione estesa alla realtà
locale. Erano già sorti studi e progetti che si indirizzavano verso la creazione della
Regione, prevista dalla costituzione ma non realizzata fino al 1970. A questi studi, di
ambito locale, farò riferimento per misurare la Pistoia di allora (con i suoi progetti e le
sue speranze) e la realtà di oggi.
In Pistoia lo sviluppo vigoroso si accese durante quel peculiare processo di industrializzazione che fece sorgere, in molte parti del territorio, piccole imprese ma81
nifatturiere nei settori che poi furono definiti “tipici”. Una dinamica accuratamente
esaminata e descritta in una pubblicazione della Camera di Commercio dal titolo significativo: Lo sviluppo economico negli anni Sessanta della Provincia di Pistoia; un consuntivo di questo tipo d’evoluzione che prese in esame tutte le grandezze statistiche
della crescita nei comparti economici, registrò con soddisfazione i mutamenti positivi
e tracciò – come allora era consueto – le linee di un futuro programma. Notando che
gran parte di quel progresso locale era stato ottenuto «quasi esclusivamente con le proprie forze, perché gli aiuti esterni sono stato molto modesti», è un chiaro accenno ed
invito a ciò che avrebbe potuto essere introdotto con la programmazione di più ampio
raggio, quella della Regione che stava per sorgere e di cui la politica economica già si
stava occupando.
Quasi in contemporanea la Camera di Commercio aveva fatto uscire i tre volumi dal Rapporto nella Provincia di Pistoia: ricerca completa (economica, urbanistica,
sociologica) che non si limitava alla descrizione dell’esistente; ma tracciava precisi
programmi indicando, in un capitolo conclusivo, le linee di una politica economica
da attuare. Il Rapporto fu discusso con le forze politiche, e rappresentò la presa di coscienza dei cambiamenti avvenuti e di quelli che si prefiguravano. Quelli di indirizzo
in sede locale, sia di ambito economico che sociale, furono a lungo illustrati dal Censis
con la formula del “piccolo è bello”: teorizzazione delle forze “spontanee”, nate dal
basso, delle piccole imprese, quasi come evoluzione delle precedenti mezzadrili: con
i loro pregi (spirito di sacrificio, gusto del bello, capacità d’inventiva per tradurlo nel
manufatto, ecc.), ed anche con difetti. Che cominciarono ad evidenziarsi nel lavoro
nero, nello sfruttamento, nella “cultura del telaio” che coinvolgeva tutta la società familiare, nel legame rimasto con il modello agricolo (l’orto accanto al capannone) che
forniva aiuto, ma tagliava il tempo “liberato” dalle varie forme d’occupazione che si
sovrapponevano.
Avanzandosi il modello che in seguito sarà detto della globalizzazione, il Censis
cambiò formula ed adottò quella del “sistemico è bello”, che tendeva a definire meglio – cioè in chiave più moderna – i legami fra le piccole manifatture, unite contro la
concorrenza delle grandi. Quando tali interdipendenze settoriali, nel mutato quadro
economico, si sono sempre più allentate, il Censis ha descritto la società “densa”, vischiosa, con elementi di staticità, non dinamica: con le caratteristiche della difficile e
lenta ricerca del lavoro, della disoccupazione, degli scarsi investimenti per la ricerca
e lo sviluppo, del gap generazionale, della microconflittualità (e lentezza della giustizia), della bassa natalità. Ma siamo, si può dire, all’oggi.
Bisogna pur aggiungere che, tutto sommato, le forze economiche e politiche locali, almeno fino agli anni Ottanta, hanno espresso soddisfazione e fiducia sul modello
economico adottato: non c’erano segni di forte preoccupazione e dissenso. Si possono
citare, a mo’ d’esempio, i due studi commissionati dalla Cassa di Risparmio al Censis,
e pubblicamente discussi: Occupazione giovanile e sistema socio-economico pistoiese (1980);
82
Reti terziarie ed economia locali. Il caso Pistoia (1983). Le loro conclusioni non erano negative; le proposte non tali da alterare il quadro esistente. Le ragioni, a mio giudizio,
stavano nell’affidamento – oggi è facile definirlo fideistico – al distretto industriale.
Che in Pistoia, nei settori tessili, calzaturiero, degli abbigliamenti, dei mobili, delle metalmeccaniche, per certi aspetti delle agricolture specializzate, hanno avuto notevole
successo e dato corpo – appunto – al piccolo, ed anche al sistemico, è bello.
Sui distretti industriali, nati per intuizione di Alfred Marshall fin dal 1920, in
Toscana abbiamo avuto studi e specialisti assoluti: basterà citare Giacomo Becattini, i
suoi amici ed allievi dell’Università di Firenze, le tante acute pubblicazioni prodotte,
il clima di attenzione generale – con numerosi richiami politici – che venne generato. I distretti, per citare Becattini, «avvengono in aree territoriali locali caratterizzate
da elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto
fra la presenza delle imprese e la popolazione residente nonché alla specializzazione
produttiva dell’insieme delle imprese». Sono dunque sistemi produttivi, caratterizzati
da alto numero di imprese piccole o piccolissime, impegnate in diversi stadi e modi
di produzioni omogenee. «Il back ground di questa imprenditorialità diffusa era la
mezzadria» (Trigila): il che spiega il passaggio avvenuto senza soverchie scosse dal
comparto primario al secondario, cioè lo sfondo dell’industrializzazione leggera toscana citata dalla prima programmazione regionale e di cui ha scritto lo stesso Becattini.
I distretti, nel tempo, sono stati distinti nelle tipologie di prima e seconda generazione, a seconda che fossero nelle loro aree privi o forniti di interventi esterni; sono
stati così forti da aver avuto una legge nazionale che poteva dar loro impulso. Ma era
una legge ponte, cui avrebbero dovuto far seguito altri interventi legislativi. Il quadro
economico generale ha finito col superare queste “distretterie” (termine a suo tempo
usato), le ha affondate nei settori “maturi” (quasi tutti), cioè quelli le cui produzioni
furono surclassate dalla concorrenza delle imprese più grandi. Con l’inizio degli anni
Duemila, in un volume collettivo «in onore del padre dei distretti italiani Giacomo
Becattini», si coglie il tentativo di definire l’evoluzione di un’economia senza gabbie,
cioè «con una panoramica sull’attualità dei distretti e la loro identità di fronte alla globalizzazione». Ma forse quella stagione era tramontata.
L’ultima ricerca del Censis su Pistoia, commissionata dalla Fondazione Cassa di
Risparmio nel 2014 su Identità e valori a Pistoia. Aspirazioni, ideali e speranze dei pistoiese
nei tempi della crisi. Affrontare il presente e costruire il futuro (ho citato titolo e sottotitoli,
perché significativi), dice chiaramente – in chiave più latamente sociologica che economica – che occorrono percorsi nuovi; ed analizza gli elementi per uscire da quello
spirito ”egoistico” (cioè non collettivo e corale) che fino ad ora ci ha guidati.
Davvero sarebbe difficile dare indicazioni in merito; non saprei farlo, né qualcosa del genere mi è stato chiesto. Solo di offrire una visione retrospettiva del cambiamento intervenuto. Nel quale credo abbia avuto un ruolo importante lo spengersi di
quello che – per alcuni decenni dopo il miracolo – è stato l’elemento guida delle politi83
che economiche, a diversi livelli: dico la programmazione. Anche Pistoia, sulla scorta
della programmazione regionale (almeno a partire dal 1984), ha dibattuto a lungo i
progetti sull’area metropolitana centrale, fra Firenze, Prato e Pistoia; con tutte le aggregazioni che avrebbero dovuto seguire. Progetti che sembrano tramontati, conducendo
anche il nostro territorio, per dirlo in termini popolari, da boom allo sboom. Infatti, per
rispondere alla precisa domanda postami, la programmazione c’è stata; ha prodotto
contrasti e discussioni, ma aveva finalità costruttive e politiche (nel senso etimologico
del termine). Ora mi sembra si tiri a campare.
84
Il miracolo economico italiano:
una rassegna bibliografica aggiornata
dI
gabrIele magnolFI
In questa rassegna bibliografica andrò a illustrare dodici volumi che si concentrano, adottando prospettive differenti, sul tema del miracolo economico italiano. Per
offrire una panoramica – che non vuole essere esaustiva ma orientativa – aggiornata
ho preso in considerazione esclusivamente studi usciti negli ultimi dieci anni. È possibile raggruppare i volumi in tre gruppi in base alla loro metodologia e ai loro presupposti di ricerca: un primo insieme è rappresentato da due testi di riferimento utili per
fornire una panoramica storica del periodo del boom; secondariamente ho individuato
studi di storia economica e storia del pensiero economico; infine il terzo e più nutrito filone, che studia gli effetti dei rapidi mutamenti sociali/culturali/tecnologici che
hanno portato a quella “rivoluzione” di spazi e costumi di cui l’italiano fu non solo
oggetto ma anche soggetto.
Iniziamo dal testo di Valerio Castronovo, L’Italia del miracolo economico1, succinto
ma attento a vari aspetti. Castronovo propende per un modello esplicativo del boom
export-led, con una crescita basata sulla grande impresa e lanciata dall’ingresso nel
Mercato comune europeo (MEC). Nella persistenza di un settore prevalentemente arretrato dedicato ai consumi interni a fronte di un più dinamico settore industriale votato all’esportazione, Castronovo vede le radici di quella «configurazione dualistica che
venne assumendo il sistema economico italiano». Un tema che riscontreremo in molti
testi e in molti saggi è quello dello scontro fra innovazione e tradizione, fra persistenza
e transizione, ed anche Castronovo non manca di sottolineare come questo aspetto
permei la società del boom, con resistenze sia in ambito economico/politico – timori
sull’ingresso nel MEC –, che sociale – musica e televisione fra “suggestioni americane”
e denunce da parte degli intellettuali italiani. Molti di questi temi li ritroviamo nella
parte dedicata all’Italia del “miracolo” nel testo di Battilani-Fauri: L’economia italiana
dal 1945 ad oggi2. Qui in luogo di boom le due autrici prediligono il termine Golden
1 V. Castronovo, L’Italia del miracolo economico, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 149.
2 P. Battilani, F. Fauri, L’economia italiana dal 1945 a oggi, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 216.
85
Age e nella loro partizione cronologica prendono in considerazione il periodo 19521973, denominato della “seconda globalizzazione”. Rispetto a Castronovo anticipano
nel tempo l’importanza del ruolo delle esportazioni, dal momento che già dal 1951
l’Italia aveva la percentuale di liberalizzazione più alta tra i paesi dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea (OECE), ridimensionando relativamente il
momento dell’ingresso italiano nel MEC. Questo porta Battilani-Fauri a sostenere la
tesi di una crescita «dapprima sostenuta dagli investimenti e dalle esportazioni e, successivamente, a partire dal 1960, anche dai consumi privati». Le due autrici pongono
l’accento anche sul ruolo fondamentale della piccola-medio impresa italiana, seppur
non dimenticando che i settori trainanti furono quelli della grande impresa, meccanica; siderurgica; chimica.
Passiamo ai testi di carattere più specificatamente economico, con Economia e
politica economica in Italia di Garofoli3. Un vero e proprio manuale – lo stesso autore
dichiara che lo scopo del volume è prevalentemente didattico – che, proprio per il suo
carattere introduttivo a temi di politica economica di non immediata comprensione,
si rivela uno strumento molto utile per chi proviene da ambiti disciplinari differenti.
Il periodo 1953-1963 è qui definito di “sviluppo estensivo”, ovvero una fase determinata dall’aumento dell’occupazione e dall’estendersi in numero e in capacità produttiva delle imprese nazionali. Le esportazioni nel 1958 superarono per la prima volta
le importazioni, determinando il boom che sarebbe durato fino al 1963. Per Garofoli
l’Italia ha scelto un modello “imitativo” dei paesi più avanzati, ed ha concentrato la
sua attenzione nella produzione di massa a scapito un settore più specializzato per una
serie di motivi: la sicurezza economica che questo modello garantiva nell’immediato;
la semplicità nella gestione burocratica di un numero relativamente limitato di grandi
aziende di riferimento; la disponibilità di enormi masse di lavoratori non specializzati
– e dunque meno costosi – giunti dalle campagne e dal sud. Una crescita accompagnata da elevati squilibri territoriali – sia regionali che nel rapporto città/campagna
– e settoriali – nuovi settori industriali/settori tradizionali. E sul carattere dualistico
dell’economia italiana del boom passiamo al testo di Carmen Vita: Il dualismo economico
in Italia4. Testo molto più “tecnico” rispetto al precedente, si concentra sui dibattiti sorti
intorno alle teorie economiche elaborate tra gli anni Cinquanta e Settanta. Vita si rifà
al principio di causazione cumulativa dell’economista Gunnar Myrdal per spiegare
il significato di “processo dualistico”: una “differenziazione cumulativa fra due parti
della stessa economia”, data da un processo di sviluppo dinamico che però non porta
3 G. Garofoli, Economia e politica economica in Italia. Lo sviluppo economico italiano dal 1945 ad oggi, Milano, Edizioni
Franco Angeli, 2014, pp. 250.
4 C. Vita, Il dualismo economico in Italia. La teoria e il dibattito (1950-1970), Milano, Edizioni Franco Angeli, 2012, pp.
166.
86
con sé il superamento delle differenze fra il settore produttivo di punta – la grande
industria italiana, caratterizzata da tassi di crescita elevati – e quello tradizionale – con
tassi di crescita molto più bassi. Queste teorie sono state accantonate dalla politica a
favore di modelli di sviluppo neoclassici come quello di Vera Lutz, che non vedono
nella forte migrazione dal sud al nord una situazione patologica. Pongo volutamente
alla fine di questo insieme di testi di carattere economico la raccolta di saggi curata da
Franco Amatori, L’approdo mancato5. Questo volume fa da cerniera fra temi di carattere storico/economico e storico/sociali, contenendo una varietà di studi riguardanti
gli anni Cinquanta-Sessanta che hanno un carattere prevalentemente economico, ma
con un’attenzione particolare alla società italiana nel suo complesso. I saggi sul periodo del boom evidenziano in particolare le occasioni mancate, una storia di sconfitte
inaugurata dalla fine degli anni Cinquanta che giunge fino ai giorni nostri. Come si
evince dalle considerazioni finali di Alberto Martinelli, il tono generale dell’opera è
decisamente pessimista e negativo, tanto che lo stesso Martinelli tenta di smorzarlo
nel finale ricordando che tuttavia «la storia economica italiana della sua storia unitaria
è stata complessivamente una storia di successo», rimandando le cause di quello che
è considerato un «caso di modernizzazione incompleta, bloccata, lasciata a se stessa»
principalmente alla politica, piuttosto che all’economia.
Occasioni sprecate sono presenti anche nel libro di Marco Pivato, Il miracolo scip6
pato , primo testo dell’ultimo e più corposo gruppo di studi riguardante l’evoluzione
della società italiana negli anni Cinquanta e Sessanta. Pivato analizza quattro “casi”
legati a personaggi che hanno caratterizzato i rispettivi settori nel panorama italiano di
quegli anni: Olivetti e l’elettronica; Mattei e il settore petrolifero; Ippolito e il nucleare;
infine Marotta e la sanità. L’Italia, scrive Pivato, è l’unica fra i paesi industrializzati a
seguire «un modello di sviluppo senza ricerca». Seppure con le dovute differenze, fra
questi casi c’è un fil rouge: sono storie di personaggi che hanno agito non con il sostegno dello Stato ma addirittura spesso contro lo Stato, ed anche contro una grossa fetta
di opinione pubblica. E le tensioni della scienza con la politica diventano anche tensioni interne alla politica, che “politicizzano”, rallentano, e talvolta smantellano lo sviluppo scientifico. Se Fauri-Battilani risaltano il ruolo del governo italiano nel «puntare alla
modernizzazione tecnologica dell’industria grazie all’importazioni di macchinari e
attrezzature americani», Pivato punta invece il dito proprio contro questa decisione
che ha ostacolato la ricerca scientifica nostrana. Gli scontri sono presenti anche nella
storia sociale italiana degli anni Cinquanta, fotografata da Luca Gorgolini ne L’Italia in
5 F. Amatori (a cura di), L’approdo mancato: economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico, Milano,
Feltrinelli, 2017, pp. 373.
6 M. Pivato, Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni Sessanta, Roma, Donzelli,
2011, pp. 197.
87
movimento7. Un movimento che allude non solo al cambiamento, ma anche al vero e
proprio spostamento fisico di persone. Gorgolini analizza con cura le direttrici delle
migrazioni, che avvennero inizialmente tra aree contigue, e solo in seguito presero la
direttrice sud-nord. Una popolazione sempre più giovane che dette vita, sul modello
americano, a quella società dei consumi che alle soglie degli anni Sessanta vedeva nel
vestito non più una distinzione tra classi sociali, ma uno stacco generazionale. Rispetto
ad altri testi presenti in questa rassegna, quello di Gorgolini ha un carattere più ottimista sugli effetti dello sviluppo, seppur non dimenticando di soffermarsi sulle frizioni
sociali – incarnate ad esempio dalla battaglia della Chiesa contro il rock. I movimenti
degli italiani scatenarono un altro fenomeno fondamentale nell’Italia del miracolo: lo
sregolato boom edilizio. In Storie di case, curato da Filippo de Pieri; Bruno Bonomo; Gaia
Caramellino e Federico Zanfi8, viene evidenziato in particolare cosa la casa significasse
per l’individuo. Sono qui prese in considerazione le realtà di Milano, Roma e Torino.
La casa di proprietà rappresentava il raggiungimento di un obiettivo, ottenere una
certa casa in una determinata zona era visto come il riconoscimento di uno status. La
costruzione di unità abitative scatenava la gioia e le fantasie delle persone già alla visione dei progetti: «questa è una cosa bellissima, ci sarà il giardino, ci sarà la piscina!».
Questo volume offre uno spaccato molto “intimo”, in cui si dà spazio anche alla malinconia dell’individuo costretto a lasciare la sua casa di campagna spesso non per volontà ma per necessità, e dove anche un piccolo giardino di un appartamento al piano
terra veniva avvertito come un riallacciamento con la propria identità, la propria storia. Sempre sulle trasformazioni edilizie della città si concentra Consumi e trasformazioni urbane tra anni Sessanta e Ottanta, a cura di Angelo Varni e Roberto Parisini9. Come
nel volume precedente, sono qui presenti studi su specifici casi cittadini in quel momento in cui «l’urbanizzazione penetrò a fondo nella società italiana, travolgendola.
Ciò che cambia è appunto la cultura, cioè l’approccio alla realtà». Anche qui torna l’aspetto che accomuna tanti di questi testi: l’incontro che diventa quasi un’“accozzaglia”
tra tradizione e innovazione. Come nello studio di Piccioni sulla cernita o “capatura”
dei rifiuti che a Roma resisterà a lungo, fino almeno al 1964, in un ambiente dove uno
sregolato sviluppo edilizio non aiuterà certo ad ammortizzare questo scontro tra vecchio e nuovo. A proposito del caso fiorentino, Giuntini effettua un’osservazione molto
acuta che illustra un fattore chiave degli anni Cinquanta: «in un momento di grave
stato di crisi, rendere accessibili gas, raccolta dei rifiuti, elettricità e trasporti rappresentava per la cittadinanza il segno della raggiunta normalità». Il ruolo fondamentale
7 L. Gorgolini, L’ Italia in movimento. Storia sociale degli anni Cinquanta, Milano, Bruno Mondadori, 2013, pp. 146.
8 F. De Pieri, B. Bonomo, G. Caramellino, F. Zanfi (a cura di), Storie di case. Abitare l’Italia del boom, Roma, Donzelli,
2013, pp. 526.
9 A. Varni, R. Parisini (a cura di), Consumi e trasformazioni urbane tra gli anni Sessanta e Ottanta, Bologna, Bononia
University Press (BUP), 2010, pp. 194.
88
dei servizi nella società, specialmente in determinati periodi storici. Ed un servizio che
dal 1954 irromperà nella vita italiana è rappresentato dalla televisione, di cui Irene
Piazzoni ripercorre l’excursus in Storia delle televisioni in Italia10: dai primi intenti pedagogici della RAI verso una popolazione con livelli di alfabetizzazione fra i più bassi di
Europa, alla vera e propria febbre da tv con programmi come Lascia o raddoppia?, Carosello e Canzonissima. L’impatto della televisione in Italia sarà tale che gli indici riguardanti la sottoscrizione di abbonamenti e le vendite di televisori raggiungeranno e supereranno velocemente quelli di altri paesi europei, in cui la tv era giunta prima. Nelle
zone più povere in cui le persone erano maggiormente isolate le persone erano «disposte a sostenere sacrifici economici superiori pur di accedere a forme di divertimento
ormai assunte come imprescindibili». Piazzoni sottolinea come anche qui il conformismo cattolico abbia frenato e dettato spesso l’agenda ed il modus operandi, sin dall’inizio, del nuovo mezzo. E vengono esposte anche le molte critiche di chi vede nella tv
non un mezzo del progresso, ma «una vera e propria strozzatura» di una società «proiettata in avanti». Le denunce verteranno anche sul ruolo di “inebetimento” del nuovo
mezzo, utile a dare divertimento alle persone e “tenerle buone”, posizioni assunte dalla critica marxista. Altro aspetto fondamentale della società del miracolo economico è
la canzone, e Leonardo Campus in Non solo canzonette ci offre un interessante spaccato
del fenomeno del Festival di Sanremo11. Degno di nota è, in questo testo, il fatto che
Campus operi «un’analisi non solo testuale o sociologica delle canzonette dell’epoca
(1951-1964), ma anche musicale», come nota il celebre pianista Stefano Bollani nell’introduzione. Sanremo è il primo festival di musica italiana ad ottenere successo tra il
pubblico, ma come gli altri fenomeni mediatici dell’epoca non rimane immune dalla
censura, dalla rigida regolazione e conformazione ai costumi dei “benpensanti”. Le
prime edizioni abbondano infatti di canzoni “sedative”, che servono esclusivamente
ad intrattenere – e Campus è bravo a notare come in una società appena uscita dalla
guerra la gente necessitasse essenzialmente di quello –. Ma “l’Italia cominciò a volare”
nel 1958: il miracolo è anche l’esplosione della stella di Modugno e di una nuova
espressività, più viva, che troverà poi interpreti sempre più spregiudicati – e contestati – in figure come Mina o Celentano. Un testo molto coinvolgente, che invita all’ascolto delle canzoni durante la lettura per comprendere appieno il significato delle canzoni, dal momento che «una canzone non è poesia […] bensì una particolarissima fusione
di musica e testo». Un altro curioso punto di vista sugli anni Cinquanta e Sessanta ci è
offerto da Penso che un sogno così non ritorni mai più, a cura di Pietro Cavallo e Pasquale
10 I. Piazzoni, Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv, Roma, Carocci, 2014, pp. 320.
11 L. Campus, Non solo canzonette. L’Italia della ricostruzione e del miracolo attraverso il Festival di Sanremo, Firenze,
Le Monnier–Mondadori Università, 2015, pp. 320.
89
Iaccio12. Qui lo studio delle fonti tradizionali si accompagna a quello delle fonti audiovisive, ma non solo cinematografiche o relative alla canzone. Nel saggio di Ravveduto,
Il miracolo in superotto, vengono analizzate addirittura le pellicole girate in famiglia, in
cui sono presenti scenari quotidiani mediati solo da una piccola cinepresa, non da attori, registi, o fini propagandistici. Nell’affrontare lo sviluppo del cinema negli anni del
miracolo vengono fatti notare i cambiamenti di una società, ma non sono dimenticati i
freni dettati da tradizioni o, meglio, istituzioni. Se prima del boom il neorealismo costituì il filone portante del cinema italiano, dalla seconda metà degli anni Cinquanta «gli
autori impegnati furono osteggiati in ogni modo», per lasciare spazio al dilagare della
commedia all’italiana. Interessante anche il saggio di Platania, Il corpo misura del mondo,
in cui il “corpo giovane” vestito di t-shirt e blue-jeans diventa un gruppo, una classe,
che poi nel ’68 si troverà unita nella lotta contro il “corpo del potere”.
In conclusione, negli ultimi dieci anni sul tema del miracolo economico sono
stati pubblicati diversi testi interessanti, molti con uno spiccato interesse per la società
e la cultura dell’epoca. Questo a conferma dell’indirizzo che oramai da tempo, anche
nella storiografia italiana, porta a porre sempre maggiore attenzione su aspetti a lungo
considerati secondari o non considerati affatto degni di ricerca storica (come le canzoni o i programmi TV). Anche l’approccio interdisciplinare che in maniera più o meno
accentuata è riscontrabile in tutti i testi che ho illustrato – ad eccezione del testo di
Vita, più specificatamente economico –, è una felice e feconda costante che permette, a
studiosi e non, di ottenere un quadro più completo sul periodo del boom.
12 P. Cavallo, P. Iaccio, Penso che un sogno così non ritorni mai più. L’Italia del miracolo tra storia, cinema, musica e
televisione, Napoli, Liguori Editore, 2016, pp. 256.
90
Riferimenti bibliografici
Testi di orientamento generale
Battilani Patrizia, Francesca Fauri, L’economia italiana dal 1945 a oggi, Bologna, Il mulino, 2014, 216 pp.
Castronovo Valerio, L’Italia del miracolo economico, Roma-Bari, Laterza, 2010, 149 pp.
Testi di orientamento economico
Amatori Franco (a cura di), L’approdo mancato: economia, politica e società in Italia dopo il
miracolo economico, Milano, Feltrinelli, 2017, 373 pp.
Garofoli Gioacchino, Economia e politica economica in Italia. Lo sviluppo economico italiano
dal 1945 ad oggi, Milano, Edizioni Franco Angeli, 2014, 250 pp.
Vita Carmen, Il dualismo economico in Italia. La teoria e il dibattito (1950-1970), Milano,
Edizioni Franco Angeli, 2012, 166 pp.
Testi di orientamento tecnologico/sociale/culturale
Campus Leonardo, Non solo canzonette. L’Italia della ricostruzione e del miracolo attraverso
il Festival di Sanremo, Firenze, Le Monnier–Mondadori Università, 2015, 320 pp.
Cavallo Pietro, Pasquale Iaccio (a cura di), Penso che un sogno così non ritorni mai più.
L’Italia del miracolo tra storia, cinema, musica e televisione, Napoli, Liguori Editore,
2016, 256 pp.
De Pieri Filippo, Bruno Bonomo, Gaia Caramellino, Federico Zanfi (a cura di), Storie di
case. Abitare l’Italia del boom, Roma, Donzelli, 2013, 526 pp.
Gorgolini Luca, L’ Italia in movimento. Storia sociale degli anni Cinquanta, Milano, Bruno
Mondadori, 2013, 146 pp.
Piazzoni Irene, Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv, Roma, Carocci,
2014, 320 pp.
Pivato Marco, Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli
anni Sessanta, Roma, Donzelli, 2011, 197 pp.
Varni Angelo, Roberto Parisini (a cura di), Consumi e trasformazioni urbane tra gli anni
Sessanta e Ottanta; Bologna, Bononia University Press (BUP), 2010, 194 pp.
91
Stampato nel mese di maggio 2019, in 500 copie
Tipografia GF PRESS snc - Masotti - Serravalle Pistoiese - PT
0573 518036 - www.gfpress.it -
[email protected]