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Scrittura

in Enciclopedia italiana. X appendice, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, vol. II, pp. 476-481.

SCHIAVITÙ - SCRITTURA caratteristiche della catena dello sfruttamento nel settore, legata alle logiche del mercato alimentare globale e della distribuzione dei suoi prodotti (Leogrande 2008). Più in generale, forme di sfruttamento basate sulla coercizione si trovano spesso in quegli ambiti del lavoro ‘informale’, dove operano soggetti deboli che hanno difficoltà a rivendicare e a far valere i propri diritti, così come in quei contesti dove i diritti dei lavoratori sono compressi da legislazioni o pratiche antisindacali. Sono questi gli ambiti dove, a dispetto dell’universale messa al bando, appaiono gli avatar contemporanei della schiavitù. Bibliografia: I. Kopytoff, Slavery, «Annual review of anthropology», 1982, 11; R. Blackburn, The overthrow of colonial slavery, 1776-1848, London-New York 1988; BIT (Bureau International du Travail), Le travail dans le monde, Genève 1993; M.A. Klein, Breaking the chains: Slavery, bondage, and emancipation in modern Africa and Asia, Madison 1993; D. Weissbrodt, Anti-Slavery International, Formes contemporaines d’esclavage, ONU Commissione dei diritti umani, E/CN.4/Sub.2/ 2000/3 e E/CN.4/Sub.2/2000/3/Add. 1, 2000; S. Miers, Slavery in the twentieth century. The evolution of a global problem, Walnut Creek (Cal.) 2003; K. Bales, Disposable people. New slavery in the global economy, Berkeley (Cal.) 2004; Esclavage moderne ou modernité de l’esclavage?, «Cahiers d’études africaines», 2005, 45, 179-180; D.B. Davis, Inhuman bondage: the rise and fall of slavery in the new world, Oxford 2006; F. Viti, Schiavi, servi e dipendenti, Antropologia delle forme di dipendenza personale in Africa, Milano 2007; A. Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Milano 2008; S. Drescher, Abolition: a history of slavery and antislavery, Cambridge 2009; P.E. Lovejoy, Transformation in slavery. A history of slavery in Africa, Cambridge 2011 (trad. it. Milano 2019); J. Quirk, The anti-slavery project: from the slave trade to human trafficking, Philadelphia 2011; G. Turi, Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età moderna a oggi, Bari 2012. Gino Satta Migranti che svolgono attività di lavoro agricolo manifestano con l’USB (UNIONE SINDACALE DI BASE), in piazza Esquilino, vicino al ministero dell’Interno per chiedere la regolarizzazione, il rispetto dei contratti di lavoro e il diritto di uscire dal lavoro sommerso, Roma, 11 agosto 2020 (fot. Simona Granati - Corbis/Getty Images) che deriva dai rapporti debitori. Una persona e i suoi familiari (talvolta persino i discendenti) possono essere costretti al lavoro per tutta la vita per far fronte a un debito inestinguibile. Molto diffuso nel subcontinente indiano, il lavoro coatto è presente, in forme differenti, in diversi altri contesti e costituisce la principale fonte di asservimento nel mondo contemporaneo. Di notevole diffusione e gravità sono anche i rapporti di schiavitù nell’ambito della prostituzione. Molte donne – in diverse parti del mondo – sono sottratte ai loro contesti di origine e costrette, spesso con la violenza, a prostituirsi da organizzazioni criminali che esercitano su di loro un possesso di fatto, sebbene illegale e spesso severamente punito dalle leggi vigenti. Altro ambito nel quale vigono rapporti analoghi a quelli schiavistici è quello del lavoro minorile; sebbene identificare in ogni forma di prestazione lavorativa da parte di minori una forma di schiavitù sia assai discutibile, non vi è dubbio che i minori, per la loro particolare debolezza, siano tra le figure più a rischio di forme estreme di assoggettamento. Per motivi simili, il lavoro domestico e di cura è un altro ambito dove possono spesso trovarsi rapporti simili ad alcune arcaiche forme di schiavitù. Di rapporti analoghi alla schiavitù si è spesso parlato, negli ultimi anni, in relazione al fenomeno del caporalato. Diffuso soprattutto nel lavoro agricolo, il caporalato costituisce una forma illegale di intermediazione della manodopera che ha gravi effetti di coercizione sui lavoratori, soprattutto migranti; anche se, in questo caso, l’uso del vocabolario schiavistico sembra più nascondere che non mettere in luce le SCRITTURA. – Scrivere e digitare. Dal digitale al multimediale. Scritto e parlato. Grafismi, iconismi, punteggiatura emotiva. Testi, ipertesti, ipotesti. Bibliografia Scrivere e digitare. – Quando, nella seconda metà del Novecento, l’italiano ha preso finalmente a essere parlato tutti i giorni dalla maggioranza degli italiani, il cambiamento rispetto alla tradizione è stato rapido e profondo. L’impatto con la nuova massa di parlanti ha rapidamente svecchiato una lingua che fino ad allora era stata soprattutto libresca. Qualcosa di simile è accaduto quando, all’inizio del 21° sec., ha cominciato 476 SCRITTURA a diffondersi un italiano scritto usato davvero dagli italiani nella loro vita di tutti i giorni: quello che si è diffuso con le e-mail, si è affermato con gli sms e oggi gran parte degli italiani usa nei social network (v.) e nei vari tipi di messaggeria istantanea (G. Antonelli, Scrivere e digitare, in XXI secolo. Comunicare e rappresentare, dir. da T. Gregory, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009, pp. 243-52). Ci si soffermerà qui, in particolare, sui cambiamenti che la scrittura ha conosciuto negli ultimi dieci anni: a causa non solo dell’evoluzione tecnologica, ma anche – e soprattutto – delle ricadute che questa ha avuto sulle nostre abitudini comunicative. Venuta meno la distinzione tra forme di comunicazione sincrone (come un tempo erano le chat room) e asincrone (come un tempo era l’e-mail), a dominare è oggi la simultaneità del dialogo. La comunicazione interpersonale, ormai, si svolge tutta in quella dimensione spazio-temporale già definita telepresenza (Pistolesi 2004, pp. 67-68): la compresenza virtuale tra persone lontane; la sensazione che il nostro interlocutore sia sempre lì, pronto a risponderci in qualunque momento. La desacralizzazione della scrittura, quel rapporto disinibito con l’atto dello scrivere portato prima dall’informatica e poi dalla telematica, ha esasperato i suoi effetti con il diffondersi della portabilità degli strumenti di comunicazione. La tastiera del computer si ritrova oggi a essere sostituita da quelle dei tablet e soprattutto degli smartphone, che ci seguono ovunque e ci tengono sempre in contatto – anche scritto – con chiunque (Antonelli 2016). Secondo Audiweb trends 2015, tra i modi di connessione a Internet più diffusi in Italia al primo posto c’era ancora quella tramite computer da casa (73,2%), ma quella tramite telefono era già salita al 68% e quella tramite tablet al 26,8%. Secondo il 16° Rapporto Censis (2020), gli italiani che nel 2019 hanno utilizzato Internet sono il 79,3% (nel 2007 erano ancora il 45,3%) e quelli che utilizzano gli smartphone il 75,7% (nel 2009 si aggiravano intorno al 15%). Questa rapida obsolescenza tecnologica ha fatto invecchiare anche la definizione usata finora per riferirsi a questo tipo di scrittura, che era CMC (Comunicazione Mediata dal Computer): oggi si preferisce parlare di CMT (Comunicazione Mediata Tecnicamente), proprio perché dal computer passa ormai solo una parte – e non la più rilevante – della comunicazione telematica (Prada 2015, pp. 15-21). Rispetto a dieci anni fa, è ormai evidente che scrivere e digitare non sono la stessa cosa. Questo spiega come la straordinaria fortuna della scrittura telematica possa convivere con gli allarmanti dati sull’analfabetismo funzionale. Secondo indagini svolte una decina d’anni fa nell’ambito della ricerca IALS (International Adult Literacy Survey), circa il 33% degli italiani aveva serie difficoltà di lettura e scrittura (oltre che di conteggio) e un altro 33% era poco al di sopra della soglia minima di competenza linguistica; solo il 10% mostrava una competenza giudicabile come elevata. Stando ai risultati dei test OCSE-Pisa 2009, un quinto dei quindicenni italiani (il 21%) non riusciva a superare il livello 1b, ovvero non andava oltre l’«individuare una o più informazioni dichiarate esplicitamente» o «fare semplici connessioni tra l’informazione nel testo e conoscenze comuni di tutti i giorni» (Le competenze in lettura, matematica e scienze degli studenti quindicenni italiani. Rapporto nazionale Pisa 2009, 2011, p. 35). Altre indagini svolte più di recente ci dicono che in Italia i cittadini «low skilled in literacy» (assimilabili appunto agli analfabeti funzionali; v. alfabetizzazione) sono quasi 11 milioni: il 28% della popolazione adulta compresa tra 16 e 65 anni a fronte di una media OCSE pari al 15,5%. Molti di questi (il 72,6%) vengono da una famiglia in cui erano presenti meno di venticinque libri (Focus PIAAC: i low skilled in literacy. Profilo degli adulti italiani a rischio di esclusione sociale, a cura di S. Mineo, M. Amendola, 2017). I lettori di quotidiani, d’altra parte, si sono ormai ridotti in Italia al 37,3% della popolazione e solo il 41,9% dichiara di leggere almeno un libro all’anno. Mentre il digital divide (il ritardo culturale di chi non ha accesso ai mezzi digitali) sta diminuendo, il press divide (la scarsa confidenza con i testi stampati) è in deciso aumento e non è compensato né dalla lettura dei giornali in rete (26,4%), né dalla lettura di e-book (8,5%: 16° Rapporto Censis, 2020). Dal digitale al multimediale. – Quello che è avvenuto negli ultimi dieci anni è un cambio di paradigma. Come il linguista Raffaele Simone (2000) aveva previsto tempo fa, al paradigma platonico della scrittura (durato per millenni) e a quello digitale (dominante tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec.) ha fatto seguito il paradigma multimediale. Il secondo paradigma – quello digitale – si è rivelato, insomma, di brevissima durata. Ancora più breve della stagione segnata dalla macchina da scrivere, finora «lo strumento scrittorio durato di meno (poco più di un secolo) nella pratica dello scrivere, anche se largamente prodotto, diffuso e usato nel corso del Novecento in tutto il pianeta, sino alla sua sostituzione con il computer, che ne ereditò in parte la forma e ne moltiplicò le funzioni di registrazione e conservazione dello scritto» (A. Petrucci, Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, 2008, p. 149). La scrittura multimediale, che dalle pagine di Internet si è estesa nel frattempo ai social network e alle varie forme di messaggeria istantanea (Tavosanis 2011), si presenta di solito destrutturata, cioè divisa in brevi blocchi che consentono di essere letti rapidamente, secondo le caratteristiche della scrittura a video. E quasi sempre integrata con altre forme di comunicazione, alle quali rimanda e con le quali interagisce: immagini ferme e in movimento, suoni, rinvii ad altri testi che spesso sono a loro volta ipertesti multimediali. La principale conseguenza dell’affermarsi di questo nuovo paradigma è la progressiva perdita d’importanza della dimensione verbale. «La scrittura offre spesso l’armatura 477 SCRITTURA complessiva dell’architettura, ma non è assolutamente l’unico dei canali di cui ci si serve»: dunque, «la scrittura non è più la modalità privilegiata del testo scritto, ma diventa una modalità insieme ad altre» (R. Simone, Tre paradigmi di scrittura, in La scrittura professionale. Ricerca, prassi, insegnamento, a cura di S. Covino, 2001, pp. 33-52, in partic. p. 49). Proprio come avviene nei social network (Gheno 2017), sempre più usati in tutte le fasce d’età (16° Rapporto Censis, 2020). Facebook, a cui è iscritto attualmente il 55,2% degli italiani, nasce negli Stati Uniti il 4 febbraio 2004 e in Italia si diffonde soprattutto a partire dal 2008, anno in cui si registra un incremento degli utenti che sfiora il 1000%. Di poco successiva è la grande diffusione di Twitter, nato nel 2006 e disponibile in lingua italiana dal dicembre del 2009 (Arcangeli 2016). Twitter era fino al 2014 il terzo social network più usato in Italia (il secondo era Google+), sicuramente quello più in vista in termini di attenzione mediatica e politica. Negli anni successivi, però, ha cominciato a perdere utenti, fino a scendere al 12,5%: circa un terzo di Instagram (35,9%), un social network tutto basato sulle immagini e usato soprattutto dai giovani (65,6%). Anche dal punto di vista della scrittura, i social network rappresentano la grande novità di questi dieci anni. Le diverse forme di neoepistolarità tecnologica che, a partire dalla posta elettronica, erano basate sulla comunicazione tra una o più persone sono state integrate e in parte sostituite da queste ‘reti sociali’ basate sulla condivisione (v.). Dopo la chiocciola – ancora legata simbolicamente all’identità digitale, a un indirizzo-casa (Arcangeli 2015) – il segno dei tempi è diventato l’hashtag, che appunto apre le porte alla condivisione di uno specifico tema. Hashtag, parola dell’anno 2012 secondo l’American Dialect Society, è formata dalla combinazione delle parole inglesi hash (che indica il simbolo #) e tag (cioè «etichetta») ed è usata sia per definire il nuovo uso del simbolo sia per riferirsi ai vocaboli che nel messaggio seguono il simbolo allo scopo d’individuare e segnalare un particolare tema di discussione. Fin dalla sua comparsa – su Twitter, nel 2007 – l’hashtag ha rappresentato un gesto semiotico: un modo per indicare, sottolineare, proporre qualcosa all’attenzione della comunità che frequenta i social network (Spina 2019). Molti hashtags in questi anni sono diventati una specie di slogan o tormentoni: formule creative, spesso ironiche, riprese nei contesti più disparati. Come #sapevatelo, da un’invenzione del comico Corrado Guzzanti, o #mainagioia, poi diventato il titolo di un libro del blogger Stefano Guerrera. Altri hanno segnato momenti drammatici della nostra storia recente: come #iorestoacasa legato alla pandemia da Covid-19, tradotto poi in molte altre lingue, o come #JeSuisCharlie che – dopo gli attentati terroristici a Parigi del 7 gennaio 2015 – è diventato in tutto il mondo uno dei più usati di sempre (G. Antonelli, Tutti gli hashtag dell’anno, in Il libro dell’anno Treccani, 2015, pp. 308-11). In un social network come Instagram, nato per la condivisione di fotografie, gli hashtags sono di fatto tutto ciò che resta del testo e spesso si tratta di didascalie generiche come #love, #look, #food, #cool, #amazing o addirittura #photo (M. Dota, Una fotografia vale più di mille parole? Fenomenologia linguistica dello storytelling giovanile in Instragram, «Lingue e culture dei media», 2019, 3, pp. 104-30). I fondatori di Instagram, infatti, hanno dichiarato di scommettere su un futuro telematico fatto di immagini molto più che di parole. Una situazione che ci riporterebbe alla prima fase di Internet, con il suo «progressivo spostamento dalle parole scritte alle immagini, dal testuale al visuale» (F. Carlini, Lo stile del Web. Parole e immagini nella comunicazione di rete, 1999, p. 40). Nel nuovo cambio di scenario che la forsennata evoluzione tecnologica sta preparando, tuttavia, c’è anche un altro ritorno di cui bisogna tener conto: quello dell’oralità. Scritto e parlato. – L’era digitale è stata quella del ritorno alla scrittura. Il dominio dell’oralità secondaria (quella del telefono, della radio, della televisione; W. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, 1982; trad. it. 2014) è stato messo in crisi da Internet e dalla mutazione tecnologica del telefono: «con il telefonino», scriveva il filosofo Maurizio Ferraris, «non assistiamo a un trionfo dell’oralità, bensì della scrittura» (Dove sei? Ontologia del telefonino, 2005, p. 24). Solo che al telefonino si è presto sostituito lo smartphone: il sorpasso è avvenuto in Italia nel 2014. Il testo ha ricominciato a perdere terreno rispetto alle immagini (come testimonia appunto il sorpasso di Instagram su Twitter) e anche rispetto all’oralità, grazie alla fortuna sempre maggiore dei messaggi vocali introdotti nel 2013 da Whatsapp (il servizio di messaggeria istantanea è usato oggi dal 71% degli italiani; l’84,6% di quelli sotto ai trent’anni: cfr. 16° Rapporto Censis, 2020). Si tratta di messaggi orali inviati tramite chat: parola che in inglese significa «chiacchiera», anche se negli ultimi decenni ha identificato diverse forme di conversazione scritta. Quella che si sta affermando è, d’altronde, una nuova forma di oralità: diversa dall’oralità primaria, naturale, della conversazione in presenza; ma diversa anche da quella secondaria del Novecento. È un’oralità terziaria, sempre più legata al ruolo dell’intelligenza artificiale e a quel computer talk che domina il dialogo tra persone e macchine (Tavosanis 2018, pp. 75-89). Alla fine del secolo scorso, un titolo come L’e-mail si scrive o si parla? (D. Bertocchi, «Italiano & Oltre», 1999, 14, pp. 70-75) affrontava il nodo centrale del dibattito di quegli anni sulle nuove tecnologie. Formule molto fortunate come written speech o writing conversation insistevano all’epoca sull’idea di una nuova forma di espressione linguistica: una forma ibrida, in cui un medium scritto era usato per veicolare una comunicazione simile – nelle funzioni, nei modi, nella percezione degli utenti – a quella parlata. Negli anni 478 SCRITTURA successivi, il rapporto con il parlato (v.) si è andato definendo sempre più come un rapporto di emulazione e di simulazione. Non così diverso, in realtà, da quello tipico dell’epistolarità tradizionale, di cui la neoepistolarità tecnologica sembra essere (anche per aspetti come l’informalità, la dialogicità, oltre che per il sogno raggiunto della simultaneità) una sorta di punto d’arrivo. Definizioni come «il parlar spedito» (Pistolesi 2004) tengono ormai sempre meno: tanto più per le e-mail, che – nella ristrutturazione dei generi assestatasi nel frattempo – hanno ormai occupato la casella alta degli usi epistolari, soppiantando la lettera cartacea anche negli usi istituzionali (basti pensare alla PEC, Posta Elettronica Certificata). Tutto questo sta finendo con il modificare il rapporto dinamico tra scritto e parlato: un rapporto che, nella tradizione degli studi italiani, è stato solitamente inteso come un progressivo recuperare terreno del secondo (il parlato, il grande assente nella storia della nostra lingua) sul primo. Negli ultimi tempi, invece, si è registrata un’inversione di tendenza. L’italiano telematico ha creato finalmente le condizioni per l’affermarsi di un italiano scritto informale. L’impressione di vicinanza al parlato è in gran parte dovuta proprio a tale spiccata informalità e al riflesso automatico che porta a sovrapporre ‘grammatica informale’ e ‘grammatica del parlato’. Alla luce di queste rinnovate condizioni, si può affermare che lo scritto è diventato per la prima volta nella storia dell’italiano un secondo motore del mutamento linguistico, non più il luogo dove si ratifica il successo di alcuni tratti dell’oralità (Antonelli 2014, pp. 542-44). Grafismi, iconismi, punteggiatura emotiva. – I tratti più caratteristici della scrittura elettronica rispondevano, fin dall’inizio, al tentativo di forzare i limiti della comunicazione scritta. Dal tono di voce alla mimica, dalla gestualità al contesto comunicativo, questo tipo di scrittura ha cercato fin dall’inizio di rendere la concretezza sensoriale di una chiacchierata faccia a faccia, trasformando il testo in un luogo d’incontro virtuale. Ma per fare questo ha lavorato sullo specifico del mezzo scritto, insistendo in particolare sugli aspetti che riguardano la grafia, l’iconicità, la punteggiatura. All’inizio del 21° sec., al centro dell’attenzione c’erano soprattutto i ‘messaggini’ sms, che da noi – grazie alla straordinaria diffusione dei telefoni portatili – si erano affermati in maniera molto più rapida e pervasiva rispetto alla comunicazione via computer, sperimentando una scrittura «condizionata dalle limitate escursioni permesse dallo schermo di un cellulare» (L. Serianni, Lingua scritta, in Enciclopedia dell’italiano, dir. da R. Simone, 1° vol., Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010-2011, pp. 816-24, in partic. p. 818). Le preoccupazioni espresse a più riprese dai mezzi di comunicazione di massa riguardavano soprattutto l’uso delle abbreviazioni e di grafie diverse da quelle tradizionali: «un linguaggio basato su acrostici mutuati dal vocabolario delle chat line di Internet e popolato di emoticon (neologismo nato fondendo ‘emotion’ e ‘icon’, icona emotiva): simboli che combinano lettere e segni. Poi ci sono le abbreviazioni, spesso molto ardite. I neofiti sappiano che «xk» vuol dire «perché» e «xxx» sta per «tanti baci», «6» è la seconda persona del verbo essere. Mentre «xk 6 :-(? Xxx» va tradotto: «Perché sei triste? Tanti baci» («L’espresso», 16 marzo 2000). In realtà, sia in Italia sia all’estero, gli studi linguistici sono sempre stati concordi nel ridimensionare la portata dei tratti su cui si era incentrata la vulgata giornalistica (G. Antonelli, Il linguaggio degli sms, in XXI secolo. Comunicare e rappresentare, dir. da T. Gregory, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009, pp. 417-26). Gli sms, oltretutto, sono ormai in procinto di scomparire, rimpiazzati dai social network e dai vari servizi di messaggeria istantanea. Con il progressivo invecchiare dei cosiddetti nuovi media, rapidissimo è stato anche il declino di quel vecchio slang grafico che all’epoca serviva a mostrarsi alfabetizzati in queste forme di scrittura. Le abbreviazioni sono ormai passate di moda e alle emoticon, le faccine realizzate con i segni di punteggiatura, si preferiscono di gran lunga gli emoji: quei disegnini fatti per rappresentare stati d’animo e oggetti vari (G. Antonelli, L’e-taliano tra storia e leggende, in L’e-taliano. Scriventi e scritture nell’era digitale, a cura di S. Lubello, 2018, pp. 9-31). Questa progressiva fusione tra comunicazione alfabetica e comunicazione ideografica è stata recentemente confermata dall’Oxford English Dictionary, che nel 2015 ha proclamato parola dell’anno non una parola propriamente detta, ma appunto un emoji: la faccina che piange dal ridere o, secondo la denominazione ufficiale, di gioia («Face with tears of joy»). Niente di cui stupirsi, in realtà, visto che la ‘parola’ più usata nel 2014 in Internet era stata, secondo il Global language monitor, l’emoji con il cuoricino pulsante. Le emoticon erano nate negli anni Ottanta per accompagnare le parole con una sorta di punteggiatura mimica; gli emoji (inventati in Giappone negli anni Novanta) puntano a sostituire le parole, creando un nuovo esperanto. Alla Library of Congress di Washington si trova già dal 2010 Emoji Dick, traduzione integrale del capolavoro dello scrittore Herman Melville; nel 2014 è stato pubblicato un romanzo che l’artista cinese Xu Bing ha scritto usando solo emoji; a partire da un’idea di Francesca Chiusaroli, Johanna Monti e Federico Sangati, un gruppo di lavoro ha realizzato su Twitter e poi pubblicato con testo a fronte Pinocchio in Emojitaliano (2017). È evidente, ormai, che l’influsso di emoticon ed emoji sta cambiando anche la percezione collettiva dei segni di punteggiatura tradizionali (Punteggiatura, sintassi, testualità nella varietà dei testi contemporanei, a cura di A. Ferrari et al., 2019). Negli sms, in chat, nei social network la punteggiatura gode oggi di una centralità e di un’autonomia che finora aveva conosciuto 479 SCRITTURA solo nei fumetti. Nell’ambito di una scrittura che è per frequenza, utenti, mezzi molto diversa da quella tradizionale, anche la punteggiatura viene interpretata in modo differente. Certo, la punteggiatura ha sempre rappresentato «una zona della lingua con debole statuto normativo» (L. Serianni, Prima lezione di grammatica, 2006, p. 120). Solo di recente, tuttavia, si è affermata nella percezione collettiva la sensazione che non esista una punteggiatura oggettivamente corretta, ma l’uso dipenda di volta in volta dai diversi contesti e dai diversi stati d’animo. All’«estremismo interpuntorio» (B. Mortara Garavelli, Prontuario di punteggiatura, 2003, p. 67), ovvero la tendenza a usare solo due segni, la virgola e il punto, si è sostituito un sempre più radicale relativismo interpuntorio: un’interpretazione soggettiva e contingente dettata dal prevalere della funzione emotiva su tutte le altre. Le sue implicazioni, più che linguistiche, sono psicologiche. Una certa avversione per il punto e virgola, per es., nasce dal fatto che, soprattutto nella lingua inglese, quel segno è sentito come troppo raffinato (L. Truss, Eats, Shoots & Leaves, 2003; trad. it. Virgole per caso, 2005). Ancora più radicata, da qualche tempo, è l’idea che il punto fermo abbia nel dialogo telematico una valenza ostile; che corrisponda a un atteggiamento aggressivo. La questione è stata sollevata qualche anno fa da un giornalista americano: «nelle mie conversazioni online la gente non lo utilizza semplicemente per chiudere una frase, ma per segnalare una cosa del tipo “non sono contento di come si stia mettendo la conversazione”» (B. Crair, When did our plainest punctuation mark become so aggressive?, «New Republic», 25 novembre 2013). Il fatto è che ormai, nel dialogo telematico, la segmentazione di ogni turno di parola in vari invii funziona già come una forma di punteggiatura, finendo con il rendere superflua tutta l’interpunzione che non abbia valore intonativo o, appunto, emotivo. Testi, ipertesti, ipotesti. – Se si guarda ai social network, ai messaggi scambiati in chat e persino ai vecchi sms, ci si accorge subito che i testi telematici sono diversi dai tradizionali testi scritti. La vera differenza, però, non sta nelle varie soluzioni grafiche e neanche nell’uso delle ‘faccine’. La vera rivoluzione è quella che investe l’idea stessa di testo, per andare incontro a intelligenze sempre più abituate a guardare che a leggere. È questa la dimensione in cui cercare le caratteristiche dell’Italiano scritto 2.0 (2017). La metafora della nuvola (cloud), in cui i nostri testi finiscono per essere conservati, ha reso ancora più evidente che si tratta di testi smaterializzati: sempre più lontani da un supporto fisico e sempre più distanti dalla mano che li ha scritti. Suscettibili quindi di essere rimaneggiati, ritagliati, rincollati in qualunque momento e per qualunque destinazione. Ecco allora che la scrittura si fa «liquida» (Fiorentino 2013) e il testo sempre più labile: tanto da non essere più percepito come un insieme coeso e coerente, pensato per essere letto dalla prima all’ultima parola. Era il 1995, quando Umberto Eco distingueva tra libri da consultare – come dizionari ed enciclopedie – adatti alla fruizione informatica, e libri da leggere; considerando i secondi irriducibilmente legati alla loro tradizionale materialità: «la tecnologia ci promette delle macchine con cui potremmo esplorare via computer le biblioteche di tutto il mondo». Ma Eco immaginava che i testi scelti li avremmo stampati, ritrovandoci in mano «ancora e sempre, un libro» («L’espresso», 17 marzo 1995). Invece non è andata così. L’ulteriore sviluppo tecnologico ha cambiato profondamente le nostre abitudini di lettura, oltre che di scrittura. La sconfinata disponibilità di testi – organizzati spesso in enormi banche dati (database) interrogabili grazie alle marcature (tag) – ha favorito l’affermarsi di una lettura selettiva, giungendo forse a modificare i nostri stessi schemi mentali (brainframe). Ciò che rende diversi i testi telematici dai testi scritti tradizionali è la «somma di brevità, frammentazione, fluidità e dialogicità» (Pistolesi 2014, p. 351). Non sono solo brevi, sono incompleti: singole battute di un testo molto più ampio costituito dall’insieme del dialogo a distanza, che può passare contemporaneamente per gli sms, le telefonate, le e-mail, le foto inviate e così via. Più che gli ipertesti, di cui tanto si è parlato nei decenni scorsi (D. Fiormonte, Scrittura e filologia nell’era digitale, 1999), a dominare l’esperienza quotidiana di scrittura sono oggi degli ipotesti. Questo spiega perché li possano scrivere, e ovviamente leggere, anche i tanti italiani che non toccano mai libri o giornali, anche i tanti che quando leggono un articolo di giornale non sono in grado di capire cosa dice. Il brainframe cibernetico – a differenza di quello alfabetico – è frammentario, discontinuo, poco avvezzo alla linearità temporale. Alla complessità dei testi tradizionali preferisce i microtesti. Questo vale senz’altro quando si scrive, ma vale anche quando si legge. Come risposta alle nostre interrogazioni, i motori di ricerca ci offrono una serie di piccole porzioni di testo dette snippet. Spezzoni che ci fanno perdere di vista la natura del testo da cui provengono e ci invitano a una lettura parziale. Ecco perché saper digitare non equivale a saper scrivere; o meglio: l’italiano digitato è una varietà diversa dall’italiano scritto tradizionalmente inteso. Una varietà cui si potrebbe dare il nome di «e-taliano»: nome complessivo, che racchiude le diverse sottovarietà telematiche legate ai diversi mezzi e contesti d’uso (Antonelli 2014). L’«e-taliano» è il punto d’arrivo, inevitabilmente provvisorio, di una trasformazione durata decenni. Per le persone colte rappresenta una scelta stilistica, uno dei tanti registri possibili: l’evoluzione di quell’«italiano dell’uso medio» descritto da Francesco Sabatini nel 1985 (L’“italiano dell’uso medio”: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in Id., L’italiano nel mondo moderno. Saggi scelti dal 1968 al 2009, a cura di V. Coletti et al., t. 3, 2011, pp. 3-36). Ma per tutti 480 SCRITTURA - SCUOLA quelli che scrivono soltanto in queste occasioni potrebbe finire con il diventare l’unico modo di scrivere; l’unica scelta, ghettizzante e socialmente deficitaria. L’e-taliano, in questo caso, come italiano neopopolare, mutazione tecnologica di quell’italiano popolare usato per secoli da chi, sapendo a malapena tenere la penna in mano, si trovava a cimentarsi con la scrittura (Fresu 2018). Bibliografia: R. Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari 2000; E. Pistolesi, Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e sms, Padova 2004; M. Tavosanis, L’italiano del web, Roma 2011; G. Fiorentino, Frontiere della scrittura. Lineamenti di web writing, Roma 2013; G. Antonelli, L’e-taliano: una nuova realtà tra le varietà linguistiche italiane?, in Dal manoscritto al web: canali e modalità di trasmissione dell’italiano, a cura di E. Garavelli, E. SuomelaHarma, 2° vol., Firenze 2014, pp. 537-56; E. Pistolesi, Le scritture digitali, in Storia dell’italiano scritto, a cura di G. Antonelli, M. Motolese, L. Tomasin, 1° vol., Roma 2014, pp. 349-75; M. Arcangeli, Biografia di una chiocciola. Storia confidenziale di @, Roma 2015; M. Prada, L’italiano in rete. Usi e generi della comunicazione mediata tecnicamente, Milano 2015; G. Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione 2.0, Bologna 2016; M. Arcangeli, Breve storia di Twitter, Roma 2016; V. Gheno, Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network, Firenze 2017; M. Palermo, Italiano scritto 2.0. Testi e ipertesti, Roma 2017; R. Fresu, Semicolti (solo?) nella rete. Riflessioni sul substandard nel web italiano, in L’italiano e la rete, le reti per l’italiano, a cura di G. Patota, F. Rossi, Firenze 2018, pp. 149-62; M. Tavosanis, Lingue e intelligenza artificiale, Roma 2018; S. Spina, Fiumi di parole. Discorso e grammatica delle conversazioni scritte in Twitter, Roma 2019; 16° Rapporto Censis sulla comunicazione. I media e la costruGiuseppe Antonelli zione dell’identità, Milano 2020. SCUOLA. – Gli anni Novanta. Reinventare la scuola: la lezione americana. La crisi del CURRICULUM. Il modello europeo della nuova scuola. I nodi irrisolti della scuola italiana al tempo del Covid-19. Bibliografia La scuola è la grande questione in gioco nelle società occidentali al passaggio del 21° secolo. A partire dagli anni Novanta si può dire che non ci sia stato Paese europeo che non abbia conosciuto conflitti accesissimi intorno alla sfera dell’istruzione e della sua riforma. Un intero modello, quello della scuola generalista e delle sue radici politiche e culturali nella prima metà del Novecento, è stato messo in discussione, con esiti differenti da Paese a Paese, ma lungo la linea di uno svolgimento comune. Dovunque, la scuola è stata riallineata alle imperiose richieste dell’economia e la breve stagione del compromesso democratico – contemperare le esigenze avanzate dal funzionamento della società con l’ideale della formazione umana – messa da parte. In questa sede ci soffermeremo in particolare su due aspetti della transizione: quello che lega la riforma della scuola alle nuove concezioni del governo e dell’organizzazione della macchina pubblica, così come sono emerse nell’ultimo decennio del Novecento tra Stati Uniti ed Europa; la crisi del curricolo, in secondo luogo, come effetto della svalutazione del modello cognitivo nella scuola e del peso crescente che nei processi formativi ha via via assunto l’idea secondo cui la scuola debba servire innanzitutto le esigenze di ‘impiegabilità’ dei giovani. Infine, in riferimento all’emergenza sanitaria causata dall’epidemia da Covid-19 (Coronavirus disease 2019), che ha colpito l’Italia e il mondo tra l’inverno e la primavera del 2020, si metterà in evidenza il modo in cui la scuola emersa dal ciclo di riforme cominciato a metà degli anni Novanta ha fatto fronte alle conseguenze del confinamento sociale, prima; del rientro in condizioni di sicurezza, dopo. Gli anni Novanta. – Gli anni Novanta ci hanno introdotti a una fase nuova della storia scolastica, caratterizzata se non da un’inversione vera e propria del ciclo della democratizzazione dell’istruzione, senz’altro da una revoca generalizzata di fiducia nei confronti del modello della scuola generalista. A partire da qui i sistemi educativi nazionali in Europa e negli Stati Uniti, per effetto di processi politico-istituzionali di ampia portata (e sotto l’impulso di un largo giro di orizzonte ideologico), hanno cominciato a muoversi in direzione di un nuovo assetto. L’esito di questo spostamento è stato, pur nelle numerose differenze da Paese a Paese, la ridefinizione del modello sociale del secondo dopoguerra e del posto che in esso vi occupava la scuola come istituzione a base universalistica. Una parola su tutte si è imposta nel dibattito delle rispettive opinioni pubbliche: riforma. Parola che aveva attraversato con ben altra accezione la storia dei sistemi scolastici nazionali tra Ottocento e Novecento e che ora ricompariva con un significato del tutto nuovo. La riforma della scuola è diventata così una delle principali poste in gioco della politica sul crinale di fine Novecento. Un oggetto partigiano per eccellenza e, data la sua natura, ad altissima infiammabilità ideologica. Sebbene – ed è un aspetto qualificante della vicenda, qui, più che in qualsiasi altro ambito del conflitto politico parlamentare – il discrimine destra/sinistra appaia poco perspicuo per comprendere la portata delle questioni in gioco e il modo in cui sono state trattate nell’arco di questi ultimi trent’anni. In questo senso, la riforma della scuola è anche il portato di una profonda trasformazione delle basi ideali e della natura stessa della politica alla fine del ciclo della democratizzazione delle società occidentali (Scotto di Luzio 2013, pp. 65-69). Reinventare la scuola: la lezione americana. – C’è un aspetto da mettere subito in evidenza in questo vasto movimento che investe la questione scolastica in Occidente al passaggio del secolo. Lo scenario della trasformazione è lo Stato, non l’economia, e l’attore principale resta sempre la politica. Benché la portata dei cambiamenti nella sfera dell’economia e della 481