SCHIAVITÙ - SCRITTURA
caratteristiche della catena dello
sfruttamento nel settore, legata alle
logiche del mercato alimentare globale e della distribuzione dei suoi
prodotti (Leogrande 2008).
Più in generale, forme di sfruttamento basate sulla coercizione si
trovano spesso in quegli ambiti del
lavoro ‘informale’, dove operano
soggetti deboli che hanno difficoltà
a rivendicare e a far valere i propri
diritti, così come in quei contesti
dove i diritti dei lavoratori sono
compressi da legislazioni o pratiche
antisindacali. Sono questi gli ambiti
dove, a dispetto dell’universale
messa al bando, appaiono gli avatar
contemporanei della schiavitù.
Bibliografia: I. Kopytoff, Slavery,
«Annual review of anthropology», 1982,
11; R. Blackburn, The overthrow of colonial slavery, 1776-1848, London-New
York 1988; BIT (Bureau International
du Travail), Le travail dans le monde, Genève 1993; M.A. Klein, Breaking the
chains: Slavery, bondage, and emancipation in modern Africa and Asia, Madison 1993; D. Weissbrodt,
Anti-Slavery International, Formes contemporaines d’esclavage, ONU Commissione dei diritti umani, E/CN.4/Sub.2/
2000/3 e E/CN.4/Sub.2/2000/3/Add. 1, 2000; S. Miers, Slavery in the twentieth century. The evolution of a global problem,
Walnut Creek (Cal.) 2003; K. Bales, Disposable people. New
slavery in the global economy, Berkeley (Cal.) 2004; Esclavage
moderne ou modernité de l’esclavage?, «Cahiers d’études africaines», 2005, 45, 179-180; D.B. Davis, Inhuman bondage: the
rise and fall of slavery in the new world, Oxford 2006; F. Viti,
Schiavi, servi e dipendenti, Antropologia delle forme di dipendenza personale in Africa, Milano 2007; A. Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del
Sud, Milano 2008; S. Drescher, Abolition: a history of slavery
and antislavery, Cambridge 2009; P.E. Lovejoy, Transformation in slavery. A history of slavery in Africa, Cambridge 2011
(trad. it. Milano 2019); J. Quirk, The anti-slavery project: from
the slave trade to human trafficking, Philadelphia 2011; G. Turi,
Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età
moderna a oggi, Bari 2012.
Gino Satta
Migranti che svolgono attività di lavoro agricolo manifestano con l’USB
(UNIONE SINDACALE DI BASE), in piazza Esquilino, vicino al ministero
dell’Interno per chiedere la regolarizzazione, il rispetto dei contratti di
lavoro e il diritto di uscire dal lavoro sommerso, Roma, 11 agosto 2020
(fot. Simona Granati - Corbis/Getty Images)
che deriva dai rapporti debitori. Una persona e i suoi
familiari (talvolta persino i discendenti) possono essere costretti al lavoro per tutta la vita per far fronte a
un debito inestinguibile. Molto diffuso nel subcontinente indiano, il lavoro coatto è presente, in forme differenti, in diversi altri contesti e costituisce la principale fonte di asservimento nel mondo contemporaneo.
Di notevole diffusione e gravità sono anche i rapporti di schiavitù nell’ambito della prostituzione. Molte
donne – in diverse parti del mondo – sono sottratte ai
loro contesti di origine e costrette, spesso con la violenza, a prostituirsi da organizzazioni criminali che
esercitano su di loro un possesso di fatto, sebbene illegale e spesso severamente punito dalle leggi vigenti.
Altro ambito nel quale vigono rapporti analoghi a
quelli schiavistici è quello del lavoro minorile; sebbene identificare in ogni forma di prestazione lavorativa da parte di minori una forma di schiavitù sia assai
discutibile, non vi è dubbio che i minori, per la loro
particolare debolezza, siano tra le figure più a rischio
di forme estreme di assoggettamento. Per motivi simili, il lavoro domestico e di cura è un altro ambito
dove possono spesso trovarsi rapporti simili ad alcune
arcaiche forme di schiavitù.
Di rapporti analoghi alla schiavitù si è spesso parlato, negli ultimi anni, in relazione al fenomeno del
caporalato. Diffuso soprattutto nel lavoro agricolo, il
caporalato costituisce una forma illegale di intermediazione della manodopera che ha gravi effetti di
coercizione sui lavoratori, soprattutto migranti; anche
se, in questo caso, l’uso del vocabolario schiavistico
sembra più nascondere che non mettere in luce le
SCRITTURA. – Scrivere e digitare. Dal digitale al multimediale. Scritto e parlato. Grafismi, iconismi, punteggiatura emotiva. Testi, ipertesti, ipotesti. Bibliografia
Scrivere e digitare. – Quando, nella seconda metà
del Novecento, l’italiano ha preso finalmente a essere
parlato tutti i giorni dalla maggioranza degli italiani,
il cambiamento rispetto alla tradizione è stato rapido
e profondo. L’impatto con la nuova massa di parlanti
ha rapidamente svecchiato una lingua che fino ad allora era stata soprattutto libresca. Qualcosa di simile è
accaduto quando, all’inizio del 21° sec., ha cominciato
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SCRITTURA
a diffondersi un italiano scritto usato davvero dagli italiani nella loro vita di tutti i giorni: quello che si è diffuso con le e-mail, si è affermato con gli sms e oggi
gran parte degli italiani usa nei social network (v.) e
nei vari tipi di messaggeria istantanea (G. Antonelli,
Scrivere e digitare, in XXI secolo. Comunicare e rappresentare, dir. da T. Gregory, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009, pp. 243-52). Ci si soffermerà qui,
in particolare, sui cambiamenti che la scrittura ha conosciuto negli ultimi dieci anni: a causa non solo dell’evoluzione tecnologica, ma anche – e soprattutto –
delle ricadute che questa ha avuto sulle nostre abitudini comunicative. Venuta meno la distinzione tra forme
di comunicazione sincrone (come un tempo erano le
chat room) e asincrone (come un tempo era l’e-mail),
a dominare è oggi la simultaneità del dialogo. La comunicazione interpersonale, ormai, si svolge tutta in
quella dimensione spazio-temporale già definita telepresenza (Pistolesi 2004, pp. 67-68): la compresenza
virtuale tra persone lontane; la sensazione che il nostro interlocutore sia sempre lì, pronto a risponderci
in qualunque momento.
La desacralizzazione della scrittura, quel rapporto
disinibito con l’atto dello scrivere portato prima dall’informatica e poi dalla telematica, ha esasperato i suoi
effetti con il diffondersi della portabilità degli strumenti di comunicazione. La tastiera del computer si
ritrova oggi a essere sostituita da quelle dei tablet e soprattutto degli smartphone, che ci seguono ovunque
e ci tengono sempre in contatto – anche scritto – con
chiunque (Antonelli 2016). Secondo Audiweb trends
2015, tra i modi di connessione a Internet più diffusi
in Italia al primo posto c’era ancora quella tramite
computer da casa (73,2%), ma quella tramite telefono
era già salita al 68% e quella tramite tablet al 26,8%.
Secondo il 16° Rapporto Censis (2020), gli italiani che
nel 2019 hanno utilizzato Internet sono il 79,3% (nel
2007 erano ancora il 45,3%) e quelli che utilizzano gli
smartphone il 75,7% (nel 2009 si aggiravano intorno
al 15%). Questa rapida obsolescenza tecnologica ha
fatto invecchiare anche la definizione usata finora per
riferirsi a questo tipo di scrittura, che era CMC (Comunicazione Mediata dal Computer): oggi si preferisce
parlare di CMT (Comunicazione Mediata Tecnicamente), proprio perché dal computer passa ormai solo
una parte – e non la più rilevante – della comunicazione telematica (Prada 2015, pp. 15-21).
Rispetto a dieci anni fa, è ormai evidente che scrivere e digitare non sono la stessa cosa. Questo spiega
come la straordinaria fortuna della scrittura telematica
possa convivere con gli allarmanti dati sull’analfabetismo funzionale. Secondo indagini svolte una decina
d’anni fa nell’ambito della ricerca IALS (International
Adult Literacy Survey), circa il 33% degli italiani aveva
serie difficoltà di lettura e scrittura (oltre che di conteggio) e un altro 33% era poco al di sopra della soglia
minima di competenza linguistica; solo il 10% mostrava una competenza giudicabile come elevata. Stando ai
risultati dei test OCSE-Pisa 2009, un quinto dei quindicenni italiani (il 21%) non riusciva a superare il livello
1b, ovvero non andava oltre l’«individuare una o più informazioni dichiarate esplicitamente» o «fare semplici
connessioni tra l’informazione nel testo e conoscenze
comuni di tutti i giorni» (Le competenze in lettura, matematica e scienze degli studenti quindicenni italiani. Rapporto nazionale Pisa 2009, 2011, p. 35).
Altre indagini svolte più di recente ci dicono che
in Italia i cittadini «low skilled in literacy» (assimilabili appunto agli analfabeti funzionali; v. alfabetizzazione) sono quasi 11 milioni: il 28% della popolazione adulta compresa tra 16 e 65 anni a fronte di una
media OCSE pari al 15,5%. Molti di questi (il 72,6%)
vengono da una famiglia in cui erano presenti meno
di venticinque libri (Focus PIAAC: i low skilled in literacy. Profilo degli adulti italiani a rischio di esclusione
sociale, a cura di S. Mineo, M. Amendola, 2017). I
lettori di quotidiani, d’altra parte, si sono ormai ridotti in Italia al 37,3% della popolazione e solo il 41,9%
dichiara di leggere almeno un libro all’anno. Mentre
il digital divide (il ritardo culturale di chi non ha accesso ai mezzi digitali) sta diminuendo, il press divide
(la scarsa confidenza con i testi stampati) è in deciso
aumento e non è compensato né dalla lettura dei giornali in rete (26,4%), né dalla lettura di e-book (8,5%:
16° Rapporto Censis, 2020).
Dal digitale al multimediale. – Quello che è avvenuto negli ultimi dieci anni è un cambio di paradigma. Come il linguista Raffaele Simone (2000) aveva
previsto tempo fa, al paradigma platonico della scrittura (durato per millenni) e a quello digitale (dominante
tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec.) ha fatto seguito
il paradigma multimediale. Il secondo paradigma – quello
digitale – si è rivelato, insomma, di brevissima durata.
Ancora più breve della stagione segnata dalla macchina
da scrivere, finora «lo strumento scrittorio durato di
meno (poco più di un secolo) nella pratica dello scrivere, anche se largamente prodotto, diffuso e usato nel
corso del Novecento in tutto il pianeta, sino alla sua sostituzione con il computer, che ne ereditò in parte la
forma e ne moltiplicò le funzioni di registrazione e conservazione dello scritto» (A. Petrucci, Scrivere lettere.
Una storia plurimillenaria, 2008, p. 149).
La scrittura multimediale, che dalle pagine di Internet si è estesa nel frattempo ai social network e alle
varie forme di messaggeria istantanea (Tavosanis 2011),
si presenta di solito destrutturata, cioè divisa in brevi
blocchi che consentono di essere letti rapidamente, secondo le caratteristiche della scrittura a video. E quasi
sempre integrata con altre forme di comunicazione,
alle quali rimanda e con le quali interagisce: immagini
ferme e in movimento, suoni, rinvii ad altri testi che
spesso sono a loro volta ipertesti multimediali. La principale conseguenza dell’affermarsi di questo nuovo paradigma è la progressiva perdita d’importanza della dimensione verbale. «La scrittura offre spesso l’armatura
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SCRITTURA
complessiva dell’architettura, ma non è assolutamente
l’unico dei canali di cui ci si serve»: dunque, «la scrittura non è più la modalità privilegiata del testo scritto,
ma diventa una modalità insieme ad altre» (R. Simone,
Tre paradigmi di scrittura, in La scrittura professionale.
Ricerca, prassi, insegnamento, a cura di S. Covino, 2001,
pp. 33-52, in partic. p. 49). Proprio come avviene nei
social network (Gheno 2017), sempre più usati in tutte
le fasce d’età (16° Rapporto Censis, 2020). Facebook,
a cui è iscritto attualmente il 55,2% degli italiani, nasce
negli Stati Uniti il 4 febbraio 2004 e in Italia si diffonde soprattutto a partire dal 2008, anno in cui si registra un incremento degli utenti che sfiora il 1000%.
Di poco successiva è la grande diffusione di Twitter,
nato nel 2006 e disponibile in lingua italiana dal dicembre del 2009 (Arcangeli 2016). Twitter era fino al
2014 il terzo social network più usato in Italia (il secondo era Google+), sicuramente quello più in vista
in termini di attenzione mediatica e politica. Negli anni
successivi, però, ha cominciato a perdere utenti, fino
a scendere al 12,5%: circa un terzo di Instagram (35,9%),
un social network tutto basato sulle immagini e usato
soprattutto dai giovani (65,6%).
Anche dal punto di vista della scrittura, i social
network rappresentano la grande novità di questi dieci
anni. Le diverse forme di neoepistolarità tecnologica
che, a partire dalla posta elettronica, erano basate sulla
comunicazione tra una o più persone sono state integrate e in parte sostituite da queste ‘reti sociali’ basate sulla condivisione (v.). Dopo la chiocciola – ancora legata simbolicamente all’identità digitale, a un
indirizzo-casa (Arcangeli 2015) – il segno dei tempi è
diventato l’hashtag, che appunto apre le porte alla condivisione di uno specifico tema. Hashtag, parola dell’anno 2012 secondo l’American Dialect Society, è
formata dalla combinazione delle parole inglesi hash
(che indica il simbolo #) e tag (cioè «etichetta») ed è
usata sia per definire il nuovo uso del simbolo sia per
riferirsi ai vocaboli che nel messaggio seguono il simbolo allo scopo d’individuare e segnalare un particolare tema di discussione. Fin dalla sua comparsa – su
Twitter, nel 2007 – l’hashtag ha rappresentato un gesto
semiotico: un modo per indicare, sottolineare, proporre qualcosa all’attenzione della comunità che frequenta i social network (Spina 2019).
Molti hashtags in questi anni sono diventati una
specie di slogan o tormentoni: formule creative, spesso
ironiche, riprese nei contesti più disparati. Come #sapevatelo, da un’invenzione del comico Corrado Guzzanti, o #mainagioia, poi diventato il titolo di un libro
del blogger Stefano Guerrera. Altri hanno segnato momenti drammatici della nostra storia recente: come
#iorestoacasa legato alla pandemia da Covid-19, tradotto poi in molte altre lingue, o come #JeSuisCharlie che – dopo gli attentati terroristici a Parigi del 7
gennaio 2015 – è diventato in tutto il mondo uno dei
più usati di sempre (G. Antonelli, Tutti gli hashtag dell’anno, in Il libro dell’anno Treccani, 2015, pp. 308-11).
In un social network come Instagram, nato per la condivisione di fotografie, gli hashtags sono di fatto tutto
ciò che resta del testo e spesso si tratta di didascalie generiche come #love, #look, #food, #cool, #amazing o
addirittura #photo (M. Dota, Una fotografia vale più
di mille parole? Fenomenologia linguistica dello storytelling giovanile in Instragram, «Lingue e culture dei
media», 2019, 3, pp. 104-30). I fondatori di Instagram,
infatti, hanno dichiarato di scommettere su un futuro
telematico fatto di immagini molto più che di parole.
Una situazione che ci riporterebbe alla prima fase di
Internet, con il suo «progressivo spostamento dalle parole scritte alle immagini, dal testuale al visuale» (F.
Carlini, Lo stile del Web. Parole e immagini nella comunicazione di rete, 1999, p. 40). Nel nuovo cambio di
scenario che la forsennata evoluzione tecnologica sta
preparando, tuttavia, c’è anche un altro ritorno di cui
bisogna tener conto: quello dell’oralità.
Scritto e parlato. – L’era digitale è stata quella
del ritorno alla scrittura. Il dominio dell’oralità secondaria (quella del telefono, della radio, della televisione; W. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, 1982; trad. it. 2014) è stato messo
in crisi da Internet e dalla mutazione tecnologica del
telefono: «con il telefonino», scriveva il filosofo Maurizio Ferraris, «non assistiamo a un trionfo dell’oralità, bensì della scrittura» (Dove sei? Ontologia del telefonino, 2005, p. 24). Solo che al telefonino si è presto
sostituito lo smartphone: il sorpasso è avvenuto in Italia nel 2014. Il testo ha ricominciato a perdere terreno
rispetto alle immagini (come testimonia appunto il
sorpasso di Instagram su Twitter) e anche rispetto all’oralità, grazie alla fortuna sempre maggiore dei messaggi vocali introdotti nel 2013 da Whatsapp (il servizio di messaggeria istantanea è usato oggi dal 71%
degli italiani; l’84,6% di quelli sotto ai trent’anni: cfr.
16° Rapporto Censis, 2020). Si tratta di messaggi orali
inviati tramite chat: parola che in inglese significa
«chiacchiera», anche se negli ultimi decenni ha identificato diverse forme di conversazione scritta. Quella
che si sta affermando è, d’altronde, una nuova forma
di oralità: diversa dall’oralità primaria, naturale, della
conversazione in presenza; ma diversa anche da quella
secondaria del Novecento. È un’oralità terziaria, sempre più legata al ruolo dell’intelligenza artificiale e a
quel computer talk che domina il dialogo tra persone
e macchine (Tavosanis 2018, pp. 75-89).
Alla fine del secolo scorso, un titolo come L’e-mail
si scrive o si parla? (D. Bertocchi, «Italiano & Oltre»,
1999, 14, pp. 70-75) affrontava il nodo centrale del
dibattito di quegli anni sulle nuove tecnologie. Formule molto fortunate come written speech o writing
conversation insistevano all’epoca sull’idea di una nuova
forma di espressione linguistica: una forma ibrida, in
cui un medium scritto era usato per veicolare una comunicazione simile – nelle funzioni, nei modi, nella
percezione degli utenti – a quella parlata. Negli anni
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SCRITTURA
successivi, il rapporto con il parlato (v.) si è andato definendo sempre più come un rapporto di emulazione e di simulazione. Non così diverso, in realtà,
da quello tipico dell’epistolarità tradizionale, di cui la
neoepistolarità tecnologica sembra essere (anche per
aspetti come l’informalità, la dialogicità, oltre che per
il sogno raggiunto della simultaneità) una sorta di
punto d’arrivo. Definizioni come «il parlar spedito»
(Pistolesi 2004) tengono ormai sempre meno: tanto
più per le e-mail, che – nella ristrutturazione dei generi assestatasi nel frattempo – hanno ormai occupato
la casella alta degli usi epistolari, soppiantando la lettera cartacea anche negli usi istituzionali (basti pensare alla PEC, Posta Elettronica Certificata).
Tutto questo sta finendo con il modificare il rapporto dinamico tra scritto e parlato: un rapporto che,
nella tradizione degli studi italiani, è stato solitamente
inteso come un progressivo recuperare terreno del secondo (il parlato, il grande assente nella storia della
nostra lingua) sul primo. Negli ultimi tempi, invece,
si è registrata un’inversione di tendenza. L’italiano
telematico ha creato finalmente le condizioni per l’affermarsi di un italiano scritto informale. L’impressione di vicinanza al parlato è in gran parte dovuta
proprio a tale spiccata informalità e al riflesso automatico che porta a sovrapporre ‘grammatica informale’ e ‘grammatica del parlato’. Alla luce di queste
rinnovate condizioni, si può affermare che lo scritto
è diventato per la prima volta nella storia dell’italiano
un secondo motore del mutamento linguistico, non
più il luogo dove si ratifica il successo di alcuni tratti
dell’oralità (Antonelli 2014, pp. 542-44).
Grafismi, iconismi, punteggiatura emotiva. –
I tratti più caratteristici della scrittura elettronica rispondevano, fin dall’inizio, al tentativo di forzare i limiti della comunicazione scritta. Dal tono di voce alla
mimica, dalla gestualità al contesto comunicativo, questo tipo di scrittura ha cercato fin dall’inizio di rendere la concretezza sensoriale di una chiacchierata faccia a faccia, trasformando il testo in un luogo d’incontro
virtuale. Ma per fare questo ha lavorato sullo specifico del mezzo scritto, insistendo in particolare sugli
aspetti che riguardano la grafia, l’iconicità, la punteggiatura. All’inizio del 21° sec., al centro dell’attenzione c’erano soprattutto i ‘messaggini’ sms, che
da noi – grazie alla straordinaria diffusione dei telefoni portatili – si erano affermati in maniera molto più
rapida e pervasiva rispetto alla comunicazione via
computer, sperimentando una scrittura «condizionata
dalle limitate escursioni permesse dallo schermo di un
cellulare» (L. Serianni, Lingua scritta, in Enciclopedia
dell’italiano, dir. da R. Simone, 1° vol., Istituto della
Enciclopedia Italiana, 2010-2011, pp. 816-24, in partic. p. 818).
Le preoccupazioni espresse a più riprese dai mezzi
di comunicazione di massa riguardavano soprattutto
l’uso delle abbreviazioni e di grafie diverse da quelle
tradizionali: «un linguaggio basato su acrostici mutuati
dal vocabolario delle chat line di Internet e popolato
di emoticon (neologismo nato fondendo ‘emotion’ e
‘icon’, icona emotiva): simboli che combinano lettere
e segni. Poi ci sono le abbreviazioni, spesso molto ardite. I neofiti sappiano che «xk» vuol dire «perché» e
«xxx» sta per «tanti baci», «6» è la seconda persona del
verbo essere. Mentre «xk 6 :-(? Xxx» va tradotto: «Perché sei triste? Tanti baci» («L’espresso», 16 marzo 2000).
In realtà, sia in Italia sia all’estero, gli studi linguistici
sono sempre stati concordi nel ridimensionare la portata dei tratti su cui si era incentrata la vulgata giornalistica (G. Antonelli, Il linguaggio degli sms, in XXI
secolo. Comunicare e rappresentare, dir. da T. Gregory,
Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009, pp. 417-26).
Gli sms, oltretutto, sono ormai in procinto di scomparire, rimpiazzati dai social network e dai vari servizi
di messaggeria istantanea. Con il progressivo invecchiare dei cosiddetti nuovi media, rapidissimo è stato
anche il declino di quel vecchio slang grafico che all’epoca serviva a mostrarsi alfabetizzati in queste forme
di scrittura. Le abbreviazioni sono ormai passate di
moda e alle emoticon, le faccine realizzate con i segni
di punteggiatura, si preferiscono di gran lunga gli emoji:
quei disegnini fatti per rappresentare stati d’animo e
oggetti vari (G. Antonelli, L’e-taliano tra storia e leggende, in L’e-taliano. Scriventi e scritture nell’era digitale, a cura di S. Lubello, 2018, pp. 9-31).
Questa progressiva fusione tra comunicazione alfabetica e comunicazione ideografica è stata recentemente confermata dall’Oxford English Dictionary, che
nel 2015 ha proclamato parola dell’anno non una parola propriamente detta, ma appunto un emoji: la faccina che piange dal ridere o, secondo la denominazione ufficiale, di gioia («Face with tears of joy»). Niente
di cui stupirsi, in realtà, visto che la ‘parola’ più usata
nel 2014 in Internet era stata, secondo il Global language monitor, l’emoji con il cuoricino pulsante. Le
emoticon erano nate negli anni Ottanta per accompagnare le parole con una sorta di punteggiatura mimica;
gli emoji (inventati in Giappone negli anni Novanta)
puntano a sostituire le parole, creando un nuovo esperanto. Alla Library of Congress di Washington si trova
già dal 2010 Emoji Dick, traduzione integrale del capolavoro dello scrittore Herman Melville; nel 2014 è
stato pubblicato un romanzo che l’artista cinese Xu
Bing ha scritto usando solo emoji; a partire da un’idea
di Francesca Chiusaroli, Johanna Monti e Federico
Sangati, un gruppo di lavoro ha realizzato su Twitter
e poi pubblicato con testo a fronte Pinocchio in
Emojitaliano (2017).
È evidente, ormai, che l’influsso di emoticon ed
emoji sta cambiando anche la percezione collettiva dei
segni di punteggiatura tradizionali (Punteggiatura, sintassi, testualità nella varietà dei testi contemporanei, a
cura di A. Ferrari et al., 2019). Negli sms, in chat, nei
social network la punteggiatura gode oggi di una centralità e di un’autonomia che finora aveva conosciuto
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SCRITTURA
solo nei fumetti. Nell’ambito di una scrittura che è per
frequenza, utenti, mezzi molto diversa da quella tradizionale, anche la punteggiatura viene interpretata in
modo differente. Certo, la punteggiatura ha sempre
rappresentato «una zona della lingua con debole statuto normativo» (L. Serianni, Prima lezione di grammatica, 2006, p. 120). Solo di recente, tuttavia, si è affermata nella percezione collettiva la sensazione che
non esista una punteggiatura oggettivamente corretta,
ma l’uso dipenda di volta in volta dai diversi contesti
e dai diversi stati d’animo.
All’«estremismo interpuntorio» (B. Mortara Garavelli, Prontuario di punteggiatura, 2003, p. 67), ovvero
la tendenza a usare solo due segni, la virgola e il punto,
si è sostituito un sempre più radicale relativismo interpuntorio: un’interpretazione soggettiva e contingente dettata dal prevalere della funzione emotiva su
tutte le altre. Le sue implicazioni, più che linguistiche,
sono psicologiche. Una certa avversione per il punto
e virgola, per es., nasce dal fatto che, soprattutto nella
lingua inglese, quel segno è sentito come troppo raffinato (L. Truss, Eats, Shoots & Leaves, 2003; trad. it.
Virgole per caso, 2005). Ancora più radicata, da qualche tempo, è l’idea che il punto fermo abbia nel dialogo telematico una valenza ostile; che corrisponda a
un atteggiamento aggressivo. La questione è stata sollevata qualche anno fa da un giornalista americano:
«nelle mie conversazioni online la gente non lo utilizza
semplicemente per chiudere una frase, ma per segnalare una cosa del tipo “non sono contento di come si
stia mettendo la conversazione”» (B. Crair, When did
our plainest punctuation mark become so aggressive?,
«New Republic», 25 novembre 2013). Il fatto è che
ormai, nel dialogo telematico, la segmentazione di ogni
turno di parola in vari invii funziona già come una
forma di punteggiatura, finendo con il rendere superflua tutta l’interpunzione che non abbia valore intonativo o, appunto, emotivo.
Testi, ipertesti, ipotesti. – Se si guarda ai social
network, ai messaggi scambiati in chat e persino ai vecchi sms, ci si accorge subito che i testi telematici sono
diversi dai tradizionali testi scritti. La vera differenza,
però, non sta nelle varie soluzioni grafiche e neanche
nell’uso delle ‘faccine’. La vera rivoluzione è quella
che investe l’idea stessa di testo, per andare incontro
a intelligenze sempre più abituate a guardare che a leggere. È questa la dimensione in cui cercare le caratteristiche dell’Italiano scritto 2.0 (2017).
La metafora della nuvola (cloud), in cui i nostri testi
finiscono per essere conservati, ha reso ancora più
evidente che si tratta di testi smaterializzati: sempre più
lontani da un supporto fisico e sempre più distanti dalla
mano che li ha scritti. Suscettibili quindi di essere rimaneggiati, ritagliati, rincollati in qualunque momento
e per qualunque destinazione. Ecco allora che la scrittura si fa «liquida» (Fiorentino 2013) e il testo sempre
più labile: tanto da non essere più percepito come un
insieme coeso e coerente, pensato per essere letto dalla
prima all’ultima parola.
Era il 1995, quando Umberto Eco distingueva tra
libri da consultare – come dizionari ed enciclopedie –
adatti alla fruizione informatica, e libri da leggere; considerando i secondi irriducibilmente legati alla loro
tradizionale materialità: «la tecnologia ci promette delle
macchine con cui potremmo esplorare via computer
le biblioteche di tutto il mondo». Ma Eco immaginava
che i testi scelti li avremmo stampati, ritrovandoci in
mano «ancora e sempre, un libro» («L’espresso», 17
marzo 1995). Invece non è andata così. L’ulteriore sviluppo tecnologico ha cambiato profondamente le nostre abitudini di lettura, oltre che di scrittura. La sconfinata disponibilità di testi – organizzati spesso in
enormi banche dati (database) interrogabili grazie alle
marcature (tag) – ha favorito l’affermarsi di una lettura selettiva, giungendo forse a modificare i nostri
stessi schemi mentali (brainframe).
Ciò che rende diversi i testi telematici dai testi scritti
tradizionali è la «somma di brevità, frammentazione,
fluidità e dialogicità» (Pistolesi 2014, p. 351). Non sono
solo brevi, sono incompleti: singole battute di un testo
molto più ampio costituito dall’insieme del dialogo a
distanza, che può passare contemporaneamente per gli
sms, le telefonate, le e-mail, le foto inviate e così via.
Più che gli ipertesti, di cui tanto si è parlato nei decenni scorsi (D. Fiormonte, Scrittura e filologia nell’era digitale, 1999), a dominare l’esperienza quotidiana
di scrittura sono oggi degli ipotesti. Questo spiega perché li possano scrivere, e ovviamente leggere, anche i
tanti italiani che non toccano mai libri o giornali, anche
i tanti che quando leggono un articolo di giornale non
sono in grado di capire cosa dice. Il brainframe cibernetico – a differenza di quello alfabetico – è frammentario, discontinuo, poco avvezzo alla linearità temporale. Alla complessità dei testi tradizionali preferisce i
microtesti. Questo vale senz’altro quando si scrive, ma
vale anche quando si legge. Come risposta alle nostre
interrogazioni, i motori di ricerca ci offrono una serie
di piccole porzioni di testo dette snippet. Spezzoni che
ci fanno perdere di vista la natura del testo da cui provengono e ci invitano a una lettura parziale.
Ecco perché saper digitare non equivale a saper scrivere; o meglio: l’italiano digitato è una varietà diversa
dall’italiano scritto tradizionalmente inteso. Una varietà cui si potrebbe dare il nome di «e-taliano»: nome
complessivo, che racchiude le diverse sottovarietà telematiche legate ai diversi mezzi e contesti d’uso (Antonelli 2014). L’«e-taliano» è il punto d’arrivo, inevitabilmente provvisorio, di una trasformazione durata
decenni. Per le persone colte rappresenta una scelta stilistica, uno dei tanti registri possibili: l’evoluzione di
quell’«italiano dell’uso medio» descritto da Francesco
Sabatini nel 1985 (L’“italiano dell’uso medio”: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in Id., L’italiano
nel mondo moderno. Saggi scelti dal 1968 al 2009, a cura
di V. Coletti et al., t. 3, 2011, pp. 3-36). Ma per tutti
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SCRITTURA - SCUOLA
quelli che scrivono soltanto in queste occasioni potrebbe finire con il diventare l’unico modo di scrivere;
l’unica scelta, ghettizzante e socialmente deficitaria.
L’e-taliano, in questo caso, come italiano neopopolare,
mutazione tecnologica di quell’italiano popolare usato
per secoli da chi, sapendo a malapena tenere la penna
in mano, si trovava a cimentarsi con la scrittura (Fresu
2018).
Bibliografia: R. Simone, La terza fase. Forme di sapere
che stiamo perdendo, Roma-Bari 2000; E. Pistolesi, Il parlar
spedito. L’italiano di chat, e-mail e sms, Padova 2004; M. Tavosanis, L’italiano del web, Roma 2011; G. Fiorentino, Frontiere della scrittura. Lineamenti di web writing, Roma 2013; G.
Antonelli, L’e-taliano: una nuova realtà tra le varietà linguistiche italiane?, in Dal manoscritto al web: canali e modalità
di trasmissione dell’italiano, a cura di E. Garavelli, E. SuomelaHarma, 2° vol., Firenze 2014, pp. 537-56; E. Pistolesi, Le
scritture digitali, in Storia dell’italiano scritto, a cura di G. Antonelli, M. Motolese, L. Tomasin, 1° vol., Roma 2014, pp.
349-75; M. Arcangeli, Biografia di una chiocciola. Storia confidenziale di @, Roma 2015; M. Prada, L’italiano in rete. Usi
e generi della comunicazione mediata tecnicamente, Milano 2015;
G. Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione 2.0,
Bologna 2016; M. Arcangeli, Breve storia di Twitter, Roma
2016; V. Gheno, Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network, Firenze 2017; M. Palermo, Italiano scritto 2.0.
Testi e ipertesti, Roma 2017; R. Fresu, Semicolti (solo?) nella
rete. Riflessioni sul substandard nel web italiano, in L’italiano e
la rete, le reti per l’italiano, a cura di G. Patota, F. Rossi, Firenze 2018, pp. 149-62; M. Tavosanis, Lingue e intelligenza
artificiale, Roma 2018; S. Spina, Fiumi di parole. Discorso e
grammatica delle conversazioni scritte in Twitter, Roma 2019;
16° Rapporto Censis sulla comunicazione. I media e la costruGiuseppe Antonelli
zione dell’identità, Milano 2020.
SCUOLA. – Gli anni Novanta. Reinventare la
scuola: la lezione americana. La crisi del CURRICULUM. Il modello europeo della nuova scuola. I
nodi irrisolti della scuola italiana al tempo del
Covid-19. Bibliografia
La scuola è la grande questione in gioco nelle società occidentali al passaggio del 21° secolo. A partire
dagli anni Novanta si può dire che non ci sia stato
Paese europeo che non abbia conosciuto conflitti accesissimi intorno alla sfera dell’istruzione e della sua
riforma. Un intero modello, quello della scuola generalista e delle sue radici politiche e culturali nella prima
metà del Novecento, è stato messo in discussione, con
esiti differenti da Paese a Paese, ma lungo la linea di
uno svolgimento comune. Dovunque, la scuola è stata
riallineata alle imperiose richieste dell’economia e la
breve stagione del compromesso democratico – contemperare le esigenze avanzate dal funzionamento
della società con l’ideale della formazione umana –
messa da parte. In questa sede ci soffermeremo in particolare su due aspetti della transizione: quello che
lega la riforma della scuola alle nuove concezioni del
governo e dell’organizzazione della macchina pubblica, così come sono emerse nell’ultimo decennio del
Novecento tra Stati Uniti ed Europa; la crisi del curricolo, in secondo luogo, come effetto della svalutazione del modello cognitivo nella scuola e del peso crescente che nei processi formativi ha via via assunto
l’idea secondo cui la scuola debba servire innanzitutto
le esigenze di ‘impiegabilità’ dei giovani. Infine, in riferimento all’emergenza sanitaria causata dall’epidemia da Covid-19 (Coronavirus disease 2019), che ha
colpito l’Italia e il mondo tra l’inverno e la primavera
del 2020, si metterà in evidenza il modo in cui la scuola
emersa dal ciclo di riforme cominciato a metà degli
anni Novanta ha fatto fronte alle conseguenze del confinamento sociale, prima; del rientro in condizioni di
sicurezza, dopo.
Gli anni Novanta. – Gli anni Novanta ci hanno
introdotti a una fase nuova della storia scolastica, caratterizzata se non da un’inversione vera e propria del
ciclo della democratizzazione dell’istruzione, senz’altro da una revoca generalizzata di fiducia nei confronti
del modello della scuola generalista. A partire da qui
i sistemi educativi nazionali in Europa e negli Stati
Uniti, per effetto di processi politico-istituzionali di
ampia portata (e sotto l’impulso di un largo giro di
orizzonte ideologico), hanno cominciato a muoversi
in direzione di un nuovo assetto. L’esito di questo spostamento è stato, pur nelle numerose differenze da
Paese a Paese, la ridefinizione del modello sociale del
secondo dopoguerra e del posto che in esso vi occupava la scuola come istituzione a base universalistica.
Una parola su tutte si è imposta nel dibattito delle rispettive opinioni pubbliche: riforma. Parola che aveva
attraversato con ben altra accezione la storia dei sistemi scolastici nazionali tra Ottocento e Novecento e
che ora ricompariva con un significato del tutto nuovo.
La riforma della scuola è diventata così una delle
principali poste in gioco della politica sul crinale di
fine Novecento. Un oggetto partigiano per eccellenza
e, data la sua natura, ad altissima infiammabilità ideologica. Sebbene – ed è un aspetto qualificante della
vicenda, qui, più che in qualsiasi altro ambito del conflitto politico parlamentare – il discrimine destra/sinistra appaia poco perspicuo per comprendere la portata delle questioni in gioco e il modo in cui sono state
trattate nell’arco di questi ultimi trent’anni. In questo senso, la riforma della scuola è anche il portato di
una profonda trasformazione delle basi ideali e della
natura stessa della politica alla fine del ciclo della democratizzazione delle società occidentali (Scotto di
Luzio 2013, pp. 65-69).
Reinventare la scuola: la lezione americana. –
C’è un aspetto da mettere subito in evidenza in questo vasto movimento che investe la questione scolastica in Occidente al passaggio del secolo. Lo scenario
della trasformazione è lo Stato, non l’economia, e l’attore principale resta sempre la politica. Benché la portata dei cambiamenti nella sfera dell’economia e della
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