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Teatro ad oltranza

2020, Acting Archives

Teatro ad oltranza. Giuliano Scabia e la partecipazione radicale  L'autunno caldo di Torino non si è arrestato sulla soglia della FIAT, non si è limitato ai quartieri operai, ai cortei, alle assemblee, alle aule universitarie. Le azioni del decentramento dello Stabile di Torino del 1969 sono un esempio che chiarisce fino a che punto quella stagione di conflitto abbia investito anche il teatro. Fu Edoardo Fadini, critico dell'Unità e di Rinascita, responsabile dell'Unione Culturale di Torino dal 1962 al 1974, a scegliere Giuliano Scabia per dirigere le azioni del decentramento che si sarebbero svolte in quattro quartieri operai del capoluogo piemontese: Mirafiori Sud, Le Vallette, Corso Taranto e La Falchera. Scabia si trovò quindi a lavorare a Torino, tra il novembre 1969 e l'aprile dell'anno successivo, come guida di un "gruppo di ricerca" formato da attori e collaboratori: Gigi Angelillo, Pierantonio Barbieri, Walter Cassani, Luciana Barberis, Loredana Perissinotto e Armando Vello. Esistono due libri che permettono qui di non indulgere su un resoconto completo del lavoro del gruppo di ricerca. Teatro nello spazio degli scontri, dello stesso Scabia, contiene i dettagliati diari di quei mesi di frenetica sperimentazione; mentre 600.000 e altre azioni teatrali, di Stefano Casi, propone un lavoro di ricostruzione degli spettacoli. Se, dunque, la narrazione del processo creativo del decentramento si trova nei diari del poeta padovano, se gli spettacoli sono stati ricostruiti con cura da Casi, in questa sede mi pongo l'obbiettivo di guardare all'esperienza torinese di Scabia da una prospettiva diversa. Prima di tutto cercherò di comprendere cosa abbia contribuito al manifestarsi di una iniziativa che, a distanza di cinquant'anni, appare portatrice di un radicalità ancora largamente attuale, cioè in grado di tenere stretti partecipazione e conflitto o, dimensione etica e dimensione politico-estetica. L'ipotesi è che ci si trovi in presenza di un lavoro in grado di unire aspetti che, come sostiene Jacques Rancière, tendono spesso a divergere nelle poetiche  This essay is an INCOMMON research project work.

Anno X, numero 19 – Maggio 2020 Marco Baravalle Teatro ad oltranza. Giuliano Scabia e la partecipazione radicale L'autunno caldo di Torino non si è arrestato sulla soglia della FIAT, non si è limitato ai quartieri operai, ai cortei, alle assemblee, alle aule universitarie. Le azioni del decentramento dello Stabile di Torino del 1969 sono un esempio che chiarisce fino a che punto quella stagione di conflitto abbia investito anche il teatro. Fu Edoardo Fadini, critico dell'Unità e di Rinascita, responsabile dell'Unione Culturale di Torino dal 1962 al 1974, a scegliere Giuliano Scabia per dirigere le azioni del decentramento che si sarebbero svolte in quattro quartieri operai del capoluogo piemontese: Mirafiori Sud, Le Vallette, Corso Taranto e La Falchera. Scabia si trovò quindi a lavorare a Torino, tra il novembre 1969 e l'aprile dell'anno successivo, come guida di un "gruppo di ricerca" formato da attori e collaboratori: Gigi Angelillo, Pierantonio Barbieri, Walter Cassani, Luciana Barberis, Loredana Perissinotto e Armando Vello. Esistono due libri che permettono qui di non indulgere su un resoconto completo del lavoro del gruppo di ricerca. Teatro nello spazio degli scontri, dello stesso Scabia, contiene i dettagliati diari di quei mesi di frenetica sperimentazione; mentre 600.000 e altre azioni teatrali, di Stefano Casi, propone un lavoro di ricostruzione degli spettacoli. Se, dunque, la narrazione del processo creativo del decentramento si trova nei diari del poeta padovano, se gli spettacoli sono stati ricostruiti con cura da Casi, in questa sede mi pongo l'obbiettivo di guardare all'esperienza torinese di Scabia da una prospettiva diversa. Prima di tutto cercherò di comprendere cosa abbia contribuito al manifestarsi di una iniziativa che, a distanza di cinquant'anni, appare portatrice di un radicalità ancora largamente attuale, cioè in grado di tenere stretti partecipazione e conflitto o, dimensione etica e dimensione politico-estetica. L’ipotesi è che ci si trovi in presenza di un lavoro in grado di unire aspetti che, come sostiene Jacques Rancière, tendono spesso a divergere nelle poetiche  This essay is an INCOMMON research project work. In praise of community. Shared creativity in arts and politics in Italy (1959-1979). INCOMMON received funding from the European Research Council (ERC) under the European Union’s Horizon 2020 research and innovation program (grant agreement No 678711). The information and views set out in the articles published are those of the authors and do not necessarily reflect the official opinion of the European Union. Neither the European Union institutions and bodies nor any person acting on their behalf may be held responsible for the use which may be made of the information contained therein. © 2020 Acting Archives ISSN: 2039‐9766 www.actingarchives.it 102 Marco Baravalle, Teatro ad oltranza contemporanee. Rancière descrive infatti una svolta etica della politica e dell’estetica, intendendo con questa formula il progressivo abbandono (da parte dell’arte) di una prospettiva di conflitto di classe e il parallelo focalizzarsi su questioni di esclusione ed inclusione. Il risultato, a detta del filosofo francese, è l’emergere di una serie di pratiche in cui l’aspetto estetico-politico (di rottura e dissenso), tende a svanire dentro un’ottica di egemonia dell’etica (intesa come esigenza di ritessitura di un generico legame sociale comunitario).1 In seconda battuta accennerò all'importanza dei rapporti tra teatro radicale degli anni Sessanta e Settanta e il coevo ambito delle arti visive. Non si tratta di questione di poco conto, specialmente se si tiene presente il lavoro di Claire Bishop sulle social practices contemporanee, le cui origini vengono rintracciate dalla storica dell'arte al tempo delle avanguardie storiche, in ambito teatrale e performativo, nelle serate futuriste e nel teatro sovietico ispirato alle linee guida dal Proletkult.2 Questo articolo interpreta le azioni del decentramento torinese come un dispositivo.3 L'accadere di questa singolare ed importante esperienza si dà come concatenamento di tre elementi. Primo, le specifiche condizioni storico-politiche. Secondo, le conseguenze istituzionali di tali condizioni (cioè i loro temporanei effetti sulla trasformazione del ruolo e della funzione delle istituzioni culturali), in particolare sul fenomeno del decentramento. Terzo, l'affermarsi di una volontà diffusa, questa sì di Scabia e di un nutrito gruppo di operatori estetici (non solo afferenti al teatro) di problematizzare le forme artistiche allora egemoni a fronte di una nuova e pressante domanda sociale. 1. L'evento del sessantotto Le condizioni storiche eccezionali sono quelle del Sessantotto. È grazie a questa mobilitazione globale, con la sua messa in discussione del principio di autorità su cui si basava l'organizzazione sociale del capitalismo, che possono manifestarsi tutte le tensioni estetico-politiche delle azioni di Scabia del '69. Giova richiamare brevemente due eventi centrali per ricostruire la via teatrale al Sessantotto, in Italia. Il primo è il Convegno di Ivrea (tenutosi tra il 10 e il 12 giugno 1967), in cui l’avanguardia teatrale si riunisce con l’ambizione non solo di confrontarsi, ma anche di emergere con maggiore chiarezza in senso programmatico. A tal proposito, visto l’oggetto di questo articolo, è utile segnalare quanto il tema della partecipazione, declinato come “teatro collettivo”, fosse tra i Cfr. J. Rancière, La svolta etica dell’estetica e della politica, in Il Disagio dell’estetica, Edizioni ETS, Pisa, 2009, pp. 107-125. 2 Cfr. C. Bishop, Inferni artificiali, Bologna, Sossella Editore, 2015. 3 Utilizzo il termine dispositivo nell'accezione di Michel Foucault. Vd. M. Foucault, Il gioco di Michel Foucault, in Follia e psichiatria. Detti e scritti (1957-1984), a cura di D. Borca e V. Zini, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006. 1 103 AAR Anno X, numero 19 – Maggio 2020 primi punti all’ordine del giorno. Così riporta un testo preparatorio all’incontro, redatto da Bartolucci, Capriolo, Fadini e Quadri: Queste tematiche popolari richiedono un’elaborazione che prevede un lavoro di gruppo, e quand’anche sussista una scrittura drammaturgica individuale, il lavoro di gruppo mantiene la sua preminenza nella fase di progettazione, di elaborazione, e di realizzazione della messinscena.4 Il secondo fatto è il trasferimento in Europa del Living Theatre, nel 1964. È il momento in cui, secondo Marco De Marinis, la compagnia inizia la propria azione di deterritorializzazione del teatro, ovvero di progressiva decostruzione dei suoi capisaldi disciplinari.5 Tale azione raggiungerà il punto di rottura con le messe in scena di Paradise Now, la cui versione torinese, per altro, verrà interrotta su pressioni della polizia nell’ottobre del 1969, giusto un mese prima dell’inizio del lavoro di Scabia nel capoluogo piemontese. Paradise Now vive la sua fase di gestazione a Cefalù, ma debutta ad Avignone nel 1968 tra i tumulti del maggio Francese. Franco Quadri lo descrive come il principale “fatto teatrale” del ’68 e come apice della popolarità dell’utopia della “Bella Rivoluzione Anarchica Non Violenta” di cui il gruppo statunitense si era fatto portavoce.6 È in questo clima di generale agitazione sociale ed estetica che si situano le azioni del decentramento torinese di Scabia, un circoscritto, ma significativo capitolo della vicenda del Sessantotto. È particolarmente importante partire da un fatto, secondario solo in apparenza: il Sessantotto sancisce l'adozione dell'assemblea quale diffuso strumento di confronto e di decisionalità democratica.7 È per questa ragione che Scabia, il gruppo di ricerca ed il Teatro Stabile, poterono ideare una produzione teatrale che passava essenzialmente attraverso una lunga serie di assemblee. È per questo che furono in grado di mettere in atto l'idea di costruire una serie di "attivi teatrali", di gruppi allargati che, all'interno di ogni quartiere, si assunsero il compito di ideare e lavorare sulle azioni. Dobbiamo quindi tenere in considerazione un clima molto differente da quello attuale. Oggi le operazioni artistico-partecipative si trovano spesso 4 G. Bartolucci, E. Capriolo, E. Fadini, F. Quadri, Elementi di Discussione per il convegno sul nuovo teatro, in L'avanguardia teatrale in Italia, a cura di F. Quadri, Torino, Einaudi, 1977, p. 138. 5 Cfr. M. De Marinis, Il nuovo teatro 1947-1970, Milano, Bompiani, 1987, p. 208. 6 Franco Quadri raccoglie importanti materiali originali di Julian Beck e Judith Malina, ma soprattutto ricostruisce in maniera molto documentata la parabola di Paradise Now: la gestazione a Cefalù, il dirompente “fatto teatrale” del Festival di Avignone e il suo progressivo destrutturarsi nelle repliche successive. Vd. Paradise Now, Testo collettivo del Living Theatre scritto da Julian Beck e Judith Malina, a cura di F. Quadri, Torino, Einaudi, 1970. 7 Cfr. N. Martino, Assemblea. Sapere e creatività comuni nel lungo '68 italiano, in È solo l'inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo '68 italiano, a cura di I. Bussoni, N. Martino, Verona, Ombre Corte, 2018. pp. 150-156. 104 Marco Baravalle, Teatro ad oltranza ad operare (perlomeno in Europa e negli Stati Uniti) in contesti fortemente impregnati di ciò che Mark Fisher definì realismo capitalista, un'atmosfera caratterizzata da un diffuso individualismo, da un'antropologia del lavoro segnata dalla retorica imprenditoriale, dal diffondersi di patologie depressive, dalla solitudine digitale e da una generale sensazione di mancanza di alternative di fronte allo status quo.8 Senza menzionare il fatto che tali contesti sono oggi, rispetto agli anni in cui Fisher coniò l'espressione realismo capitalista, caratterizzati da svolte neo-reazionarie del discorso neoliberista. Nel 1969, al contrario, teatranti ed artisti non avevano necessità alcuna di "rieducare" alla partecipazione.9 Così la svolta assembleare di Scabia va inquadrata proprio come scelta di immersione del teatro all'interno di una delle principali forme organizzative che il sociale stava esprimendo. L'assemblea, che certamente era sede di un'aspra dialettica interna (non è forse questo il cuore di Scontri generali?), era cionondimeno comunemente intesa come uno degli strumenti indispensabili alla lotta di classe, uno strumento di parte, non una metodologia di mediazione. Che la temporalità dell'evento sessantottino e dell'Autunno caldo, fatta di scioperi e lotte ad oltranza, di cortei, cariche, arresti ed occupazioni, fosse quella in cui Scabia (ma credo lo stesso si possa affermare per Fadini) cala interamente il suo sforzo di artista durante il decentramento, è provato da un documento. Il diario che il padovano tiene in quei mesi, in cui annota con precisione lo sviluppo del processo creativo, è caratterizzato da alcune note in stampatello maiuscolo, note che appaiono giorno dopo giorno e che riportano i fatti salienti dello scontro politico: manifestazioni, arresti, scioperi e così via. È attraverso la scelta del maiuscolo, la regolarità delle notazioni che Scabia costruisce lo spazio tempo del proprio lavoro torinese: è il tempo del movimento e dello scontro sociale, non quello, ad esempio, delle vicende che riguardano il dibattito del campo teatrale. Ma il Sessantotto non è evento in assenza di soggettività e di soggetti. Studenti ed operai, assieme, misero severamente a critica la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale su cui si basava l'ordine capitalista, cominciando a riconoscere la fabbrica sociale metropolitana come terreno di scontro comune, un terreno che già sconfinava i muri dello stabilimento. Cfr. M. Fisher, Realismo capitalista, Roma, Nero Editions, 2018. Il presente articolo interpreta la partecipazione come presa di posizione dell’artista e messa in moto del processo creativo all’interno di fenomeni di vasta portata sociale (in questo caso il Sessantotto e l’autunno caldo del ’69). Giova però richiamare almeno due studi che hanno esaminato la processualità e le pratiche della partecipazione dello spettatore al suddetto processo creativo. A tal proposito Cfr. P. Giacchè, Lo spettatore partecipante: contributi per un’antropologia del teatro, Milano, Guerini studio, 1991. E P. Giacchè , Un soffio di teatro, in In cammino con lo spettatore. Laggiu soffia, Era, In carne e ossa, a cura di S. Geraci, Firenze, La Casa Usher, 2008, p. 118-126. 8 9 105 AAR Anno X, numero 19 – Maggio 2020 L'autunno caldo del Sessantanove fu il momento di più alta conflittualità sociale di quella figura che gli Operaisti hanno definito operaio massa,10 il protagonista del boom economico italiano degli anni Sessanta, decennio di fulmineo sviluppo industriale fordista. È l'operaio non professionale, alla catena di montaggio, tipicamente immigrato dal Sud Italia o dalle regioni più povere, non politicizzato e inurbato nei nuovi quartieri periferici delle metropoli del nord industriale; proprio quegli spazi su cui decise di insistere il Teatro Stabile di Torino nel 1969. Non va dimenticato che Scabia si troverà a lavorare su un'azione teatrale (quella che poi prenderà il titolo di 600.000) avente come oggetto la rivolta di corso Traiano, una sollevazione avvenuta il 3 luglio del 1969. Quel giorno un corteo operaio, convocato autonomamente dall'Assemblea operai e studenti, scelse di resistere e scontrarsi con la polizia per una notte intera. Lo sciopero aveva come obbiettivo il caro affitti, dunque già eccedeva lo spazio della fabbrica quale terreno della rivendicazione e teneva assieme certamente gli operai, ma anche i giovani, gli studenti e le donne del quartiere. Donne che attraverso la lotta per affitti più equi, volevano vedere riconosciuto quell'invisibile (quanto indispensabile) lavoro di riproduzione sociale che erano costrette a sobbarcarsi in condizioni disumane e in forma completamente gratuita. Questa "battaglia" è passata alla storia come primo atto dell'Autunno Caldo e molti di coloro che avevano combattuto a Corso Traiano si sarebbero poi ritrovati nelle assemblee di quartiere proposte da Scabia, Loredana Perissinotto e Pierantonio Barbieri (i più attivi all'interno del gruppo di ricerca) per definire temi e modi del lavoro. 2. Decentramento I: una breccia nell'apparato istituzionale Quali furono, dunque, in termini di politiche culturali, le conseguenze istituzionali della mobilitazione generale del Sessantotto? Questa esplosione di conflittualità sociale ed operaia aveva reso visibili luoghi precedentemente invisibili, le periferie urbane del nord, e aveva spinto partiti ed istituzioni ad aprire spazi di manovra prima impensabili. Per quanto riguarda le politiche teatrali, il termine che allora meglio sintetizzava l'apertura di un nuovo (per quanto fugace) spazio di manovra, era decentramento. In quegli anni il decentramento diventa un mantra a cui, nella maggioranza dei casi, non corrispondono radicali sperimentazioni nei linguaggi e nell'organizzazione teatrale, ma che certamente segnala la potenza d'urto del conflitto sul dibattito e sulle architetture istituzionali. L'esperienza torinese del 1969 è una fortunata parentesi, un baleno che deflagra all'incrocio tra il teatro di Scabia, le lotte sociali, e il riformismo radicale di Fadini. Nulla a che vedere con ciò che oggi definiremmo audience development, magari attraverso un'azione da realizzarsi come paternalistico 10 Cfr. A. Negri, Dall'operaio massa all’operaio sociale, Verona, Ombre Corte, 2007. 106 Marco Baravalle, Teatro ad oltranza spostamento di spettacoli confezionati al centro e poi "paracadutati" in periferia. Invece, l'esperienza del decentramento del '69 diventa la sede di una severa messa a critica della prassi teatrale contemporanea, e il laboratorio per una sua riconfigurazione in senso partecipativo. Si badi bene a non fraintendere però, perché si tratta esplicitamente di partecipazione alle rivendicazioni di una parte, quella operaia che popolava la periferia torinese. Fadini è molto chiaro su questo punto quando afferma che la committenza dell'operazione di decentramento era rappresentata dagli stessi quartieri operai, con la loro popolazione in gran parte formata da immigrati.11 Il tema del decentramento polarizza la discussione intorno alle politiche teatrali per lo meno dalla fine degli anni Sessanta fino al Settantasette. Teniamo presente questo lasso di tempo, quello compreso all'interno del cosiddetto lungo Sessantotto italiano. Esaurito questo decennio infatti, al riflusso del movimento del '77 corrisponde un restringimento sensibile degli spazi di manovra istituzionali per esperimenti culturali radicali. È in quel momento che si affievolisce il dibattito sul decentramento ed è lì che, nelle arti visive, si apre la stagione della riaffermazione del binomio pittura-pittore (penso ovviamente alla Transavanguardia); è in quel frangente che il pastiche e la citazione cominciano a informare le grammatiche estetiche, il tutto sullo sfondo ideologico di un'aperta vendetta nei confronti dell'austerità della stagione del concettuale e delle tensioni estetiche prodotte dall'incontro tra arte e movimenti sociali.12 Riprendiamo il filo, siamo alla fine degli anni Sessanta. Il Sessantotto costringe la politica, in particolare il centrosinistra, a farsi alfiere di una rinnovata domanda di apertura e di democratizzazione in tutti i campi, compreso quello culturale. Tale apertura dura perlomeno una decina d'anni, se, ancora nel settembre del 1976, il PCI organizza a Prato un convegno sul teatro in cui il tema del decentramento riemerge continuamente come uno degli aspetti cruciali dell'intervento del partito. Gli atti sono raccolti nel volume Per una politica del teatro. Che il lungo Sessantotto italiano sia il lasso di tempo in cui nasce, si sviluppa e infine si affievolisce la portata del termine decentramento, sembra confermato anche da un altro caso, riferito, ancora una volta, al Cfr. E. Fadini, Il teatro degli equivoci, in «Fuoricampo», I, n. 2, giugno 1973. Che nel lungo Sessantotto italiano possano essere identificate alcune costanti per quanto riguarda le estetiche teatrali e non solo, è riconosciuto da Andrea Cortellessa, ripreso da Valentina Valentini: “Nell’Introduzione al volume che raccoglie i numeri della rivista Quindici, scrive Andrea Cortellessa: «il Sessantotto non va inteso come terminus ad quem e, insomma, Fine di una Cosa. Piuttosto Inizio, invece. Di un ciclo che avrà nel Settantasette la sua vera, ultima e autocombusta manifestazione: il ciclo dell’Uscita-da-Sé, dell’Arte e insieme della Politica, e della loro Disseminazione in quello che proprio Blanchot, com’è noto, definiva allora (richiamandosi alla «fine dell’alienazione» marxiana) il Fuori». V. Valentini, Nuovo Teatro Made in Italy 1963-2013, Roma, Bulzoni Editore, 2015, p. 72. 11 12 107 AAR Anno X, numero 19 – Maggio 2020 campo delle arti visive. Qui spicca il nome di Enrico Crispolti. Sull'onda del 68, lo storico dell'arte raccoglie la sfida del decentramento, sfida che porterà avanti tra l'inizio degli anni Settanta e il 1976, anno della sua curatela della sezione Ambiente come Sociale, alla Biennale di Venezia. Ci tornerò a breve. Prima della sconfitta del movimento del Settantasette, intorno al Sessantotto, il decentramento diventa, per gli operatori più coraggiosi ed innovativi, un'occasione. Lo ribadisco, per questi non si tratta di portare, magari in sedicesimo, ciò che è prodotto al centro verso le periferie, ma di testare le pratiche artistiche dentro lo scontro in atto e di adeguarle ad una nuova domanda culturale di massa. Per comprendere il nesso tra politiche di decentramento e modifica della prospettiva istituzionale nella vicenda delle azioni torinesi del '69, è necessario sottolineare il ruolo cruciale Edoardo Fadini,13 critico e organizzatore che negli anni Sessanta, alla guida dell'Unione Culturale, aveva portato agli Infernotti il Nuovo Teatro Italiano e l'avanguardia internazionale.14 Certo, Scabia annota ripetutamente le molte tensioni che si vennero a creare nel corso dei mesi di lavoro tra lui, lo Stabile e Fadini stesso. La guida del Gruppo di ricerca sentirà a più riprese la pressione da parte dell'istituzione la quale chiede, con insistenza, di consegnare uno spettacolo, un prodotto finito da poter comunicare e mostrare, così da rassicurare la politica cittadina ed il pubblico tradizionale del teatro.15 Ed è pur vero che l'impostazione di Scabia verrà infine soffocata e abbandonata. Eppure, nonostante ciò, si trattò di un'esperienza davvero anomala ed eccezionale nel panorama della proposta teatrale. Salvatore Margiotta insiste sull’importanza dei critici in questo frangente (riconoscendo a Edoardo Fadini un ruolo di primo piano), segnalando una vera e propria corrispondenza tra Nuovo Teatro e Nuova Critica: “Un ruolo cruciale, allora, nel giocare il senso del Nuovo Teatro, lo assolve la critica. Il gruppo di Ivrea (Bartolucci, Quadri, Fadini e Capriolo) è il motore di una Nuova Critica che si esprime parte su «Sipario» parte su «Teatro» la rivista fondata proprio da Bartolucci, Fadini e Capriolo. La Nuova Critica, però, non si risolve solo in loro e non discende direttamente da loro. È un fenomeno ricco e articolato che corrisponde, simmetricamente, al Nuovo Teatro ed è un fenomeno squisitamente italiano, come d’altronde italiana è l’attenzione così specifica per il nuovo come motore di un movimento artistico”. S. Margiotta, Il Nuovo teatro in Italia 1967-1975, Roma, Titivillus, Corazzano, Pisa, 2013, p. 16. Sulla centralità della critica in rapporto alle avanguardie teatrali degli anni ’60, si veda inoltre: D. Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia 1959-1967, Titivillus, Corazzano (Pisa), 2010. 14 Cfr. , R. Bianchi, C’era una volta, «Mimesis Journal», 2, 2, 2013, pp. 1-3. 15 Scabia annota: «ore 12: riunione furiosa con la direzione del teatro: mi chiedono gli spettacoli. ma ognuno dei tre direttori presenti sembra volere una cosa diversa: uno spettacolo per quartiere? Per ora non voglio montare spettacoli: le tracce su cui lavoriamo sono un pretesto per andare alla ricerca di un teatro organico al luogo dove nasce.». (G. Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, Roma, Bulzoni, 1973, p. 233) 13 108 Marco Baravalle, Teatro ad oltranza Stefano Casi, nel volume 600.000, ha ricostruito con cura le particolari circostanze politiche che resero possibile, almeno per un periodo di alcuni mesi, la copertura istituzionale di un esperimento di tale radicalità, ha messo cioè in luce le dinamiche di lottizzazione della direzione dello stabile, le nomine e i fortuiti avvicendamenti che favorirono il processo che stiamo analizzando. A noi interessa che a garantire tale copertura a Scabia e al suo gruppo concorsero vari elementi, sul primo ci siamo già soffermati: la battaglia sul decentramento che i partiti della sinistra istituzionale (messi sotto pressione dall'avanzare del conflitto sociale) si erano intestati. Poi la presenza nella direzione collegiale dello stabile di organizzatori e critici illuminati come Gian Renzo Morteo o Giuseppe Bartolucci e infine l'instancabile attivismo culturale di Edoardo Fadini, protagonista di una appassionata azione di rinnovamento delle forme del teatro politico in quegli anni. Va rilevato, non per gusto di pettegolezzo, ma per restituire un certo clima del dibattito culturale di allora che, subito dopo il 69, i rapporti tra Scabia e Fadini divennero piuttosto tesi, in palio c'era l'eredità immediata del decentramento. In una lettera indirizzata alla rivista Sipario,16 vergata il 15 settembre 1970, Fadini interviene per correggere il tiro di un articolo17 apparso sulla medesima rivista. A suo dire, l'articolo sarebbe colpevole di sottovalutare il ruolo suo e della direzione dello Stabile di Torino nella realizzazione del decentramento, offrendo una ricostruzione in cui l'individuo (Scabia in questo caso), conduce una lotta solitaria contro il Moloch istituzionale e il suo continuo richiamo all'ordine. Faccio qui riferimento alla lettera non per prendere le parti dell'artista o dell'organizzatore, ma per chiarire come le azioni torinesi del decentramento del '69 si comprendano appieno e approcciandosi ad esse come dispositivo. Concorrono fattori diversi, a volte in armonia, altre in conflitto: Giuliano Scabia, le lotte operaie, gli spazi aperti dal decentramento, le forzature istituzionali di Fadini, le assemblee, lo specifico urbanistico dei quartieri, i gruppi di teatro d'occasione (penso al ruolo di Assemblea Teatro)18 e così via. Non è interessante che Fadini rivendichi per sé e per e il team dello Stabile il merito del lavoro di ricerca e di contatto con i quartieri prima dell'arrivo di Scabia nel novembre del '69. Non è interessante perché se quel lavoro fosse stato preso in carico da qualcuno meno capace di Scabia, si sarebbe probabilmente disperso. Preme invece il Lettera dattiloscritta rinvenuta negli archivi dell'Unione Teatrale di Torino. Si tratta in realtà di due articoli sull'esperienza del decentramento torinese del 1969. G. Boursier, Laboratorio teatrale come luogo aperto, «Sipario», n. 291, Luglio 1970, pp. 11-12 e G. Scabia, Nuovo spazio, nuovo teatro, nuova cultura, «Sipario», n. 291, Luglio 1970, pp 12-13. 18 Collettivo teatrale che incrocia il lavoro di Scabia a Torino e che, in forma autonoma (ma con la partecipazione di Scabia stesso e di altri membri del gruppo di ricerca) darà vita ad un'azione teatrale di 33 ore intitolata Sistema di reparto chiuso. 16 17 109 AAR Anno X, numero 19 – Maggio 2020 fatto che Fadini metta in luce una parte del dispositivo, quello del ruolo (certo contraddittorio, ma al tempo stesso cruciale) dell'istituzione in quel frangente. Ecco alcuni passi dalla lettera di Fadini a Sipario. L'interesse dell'iniziativa torinese stava proprio nel tentativo operato da noi di creare una feconda spaccatura, di fare esplodere le contraddizioni che i teatri pubblici si portano dentro ormai da anni. Non si è trattato di due iniziative parallele (Teatro Stabile da una parte e Giuliano Scabia dall'altra, come appare dai due servizi di Sipario), ma di un'unica iniziativa che dal suo interno prevedeva e comprendeva la contraddizione nella quale nasceva. E ancora, la stessa lettera è assolutamente rivelatoria della visione sugli sviluppi del teatro di Fadini, sviluppi che egli, erroneamente, giudicava all'epoca irreversibili, ma che, ancora una volta, restituiscono l'idea di un clima sociale e culturale. Al di là delle contraddizioni e delle ambiguità esiste una situazione, esistono strutture in rapido e continuo sviluppo sia sul piano drammaturgico che su quello organizzativo, all'interno delle quali operano gruppi e forze che hanno funzioni precise nell'evoluzione ormai irreversibile iniziatasi nel campo del teatro (dai partiti politici ai sindacati, da organismi come l'ARCI o l'ATER a singoli gruppi di ricerca, a una certa parte della stessa critica drammatica, a gruppi politici e culturali di base, ecc.) Ed è interessante notare ancora una volta un parallelo. Anche secondo Crispolti è l'impulso delle stesse forze e degli stessi gruppi (dai consigli di fabbrica ai comitati di quartiere, dall'ARCI alle sezioni dei partiti politici democratici) che Fadini cita in quel passaggio, a dovere imprimere una trasformazione radicale del campo artistico, trasformazione su cui tra poco tornerò.19 Una frattura tra Fadini e i protagonisti del Nuovo Teatro Italiano, sembra del resto radicalizzarsi negli anni immediatamente successivi. Nel 1971, al palazzetto di Mestre, nell'ambito della Biennale Teatro diretta da Vladimiro Dorigo, va in scena Scontri Generali di Giuliano Scabia. In sintonia con questo spettacolo, il programma della kermesse si arricchisce di un convengo intitolato Crisi, contraddizione, conflitto nella società e nel teatro d'oggi. Si discute di teatro politico, di cosa possa e cosa non possa un'istituzione culturale, in particolare un festival come quello organizzato da Biennale. In quell'occasione Fadini interviene a gamba tesa: A Venezia ormai può venire il teatro borghese della negazione, quello delle cosiddette cantine, che ormai non fa più paura: è già un prodotto consumabile Cfr. E. Crispolti, Per una alternativa di cooperazione culturale (come premessa ad un itinerario), in E. Crispolti , Arti Visive e Partecipazione Sociale, Bari, De Donato Editore, 1977, pp. 27-28 19 110 Marco Baravalle, Teatro ad oltranza e di scuola, ha figliato seguaci e imitatori, è stato assorbito e assimilato, oppure ridotto allo stremo in un isolamento che lo fa consumare lentamente mentre altri si appropriano della sua lezione in prodotti commerciali che a poco a poco divengono di uso comune [...]. Ma oggi si chiama a Venezia Mario Ricci e si potrebbero chiamare Leo de Berardinis e Perla Peragallo: il loro testardo isolamento li ha resi innocui. Che cosa quindi, non può venire a Venezia oggi? Non può venire il teatro che trae i suoi moduli drammaturgici dalle manifestazioni di piazza, che si collega a situazioni socio-politiche, precise, che si situa all'interno dei movimenti di lotta, che spesso si pone al servizio di questa e della classe che la esprime e la sviluppa.20 È questo un Fadini che, solamente due anni dopo l'esperienza del Decentramento torinese, suona decisamente tranchant. Manca, in questi suoi interventi, quella tensione da riformista radicale che pure lo aveva mosso nella sua avventura allo Stabile. Qui non c'è più alcuna compatibilità possibile tra istituzione e teatro politico, mentre la nuova scena italiana sembra già essersi ridotta a maniera di se stessa. Con il senno di poi è possibile leggere una certa premonizione in questa durezza di Fadini, la premonizione di un progressivo "svuotamento" di senso del dibattito intorno al decentramento che, in effetti, pur non cessando di esistere, con la fine del lungo '68 italiano, verrà relegato nuovamente ai margini. Lo stesso percorso di Scabia sembra, almeno parzialmente, seguire questa parabola. Se il decentramento torinese del '69, paradossalmente, catapulta il suo teatro al centro di quello "spazio degli scontri" che programmaticamente si prefissava di praticare, al contrario, durante tutti gli anni Settanta, Scabia (allora docente al DAMS di Bologna) opera ciò che appare un allontanamento dal cuore dell'agone sociale, in un movimento verso nuove periferie, quelle dell'Italia rurale o dello sprawl urbano, luoghi che sono soprattutto periferie della memoria. Ecco allora l'esperienza del Gorilla Qaudrùmano, iniziata nel 1974 e conclusasi due anni dopo. È un viaggio sull'Appennino Emiliano in cerca di storie, di leggende, di esempi di teatro popolare da rivitalizzare, è un viaggio che approda anche a Mira, all'ombra della torre della Mira-Lanza, nell'epoca dello sviluppo della metropoli diffusa del Veneto. È questa una scelta di campo in cui pare echeggiare maggiormente il rifiuto mariglianese di Leo e Perla, piuttosto che la poetica del decentramento torinese. E sebbene Scabia sia presente a Bologna nel 1977 (rimane memoria dell'azione di costruzione e volo delle mongolfiere di carta), in quegli anni sceglie un approccio di sottrazione allo spazio degli scontri, più che di ingaggio (come era avvenuto nel '69 a Torino). E. Fadini, Crisi, contraddizione, conflitto nella società e nel teatro d'oggi. Atti della tavola rotonda internazionale del 25 e 26 settembre 1971, Venezia, Sala degli specchi di Ca’Giustinian, La Biennale di Venezia, 1972, p. 22. 20 111 AAR Anno X, numero 19 – Maggio 2020 In questa parabola, dunque, sembra riaffiorare lo schema narrativo che è divenuto senso comune, quello che abbraccia il '68 come inizio (un inizio magari caotico, spontaneista, al limite ipocrita, ma pur sempre carico di aspettative di futuro) e il '77 come fine (sconfitta, violenza, carcere, morte, autodistruzione, tramonto dell'illusione, fine di una storia). Bisognerà avere la forza di indagare questi processi e rimettere a verifica la narrazione egemone intorno al Settantasette, cominciando con l'adozione di nuove prospettive da cui osservare i fatti artistici e teatrali, sempre così "costretti" dentro alle categorie dell'opera e dell'autore. Infatti, dal punto di vista delle estetiche, il Settantasette si manifesta invece come uno spaziotempo ostile ai nomi propri, ai titoli, alla committenza istituzionale. Si assiste all'affermazione di forme comuni della creatività: da quelle più riconoscibili come le radio libere e le riviste, fino ad una serie di pratiche collettive in cui la creatività si manifesta, letteralmente, come atto di resistenza e come creazione di nuove forme di vita.21 È in queste acque, ostili agli strumenti tradizionali della storia dell'arte e del teatro, che è invece urgente immergersi. In ballo c'è l'eredità di una stagione intera, una stagione che, non possiamo dimenticarlo, era stata inaugurata, ben prima del Settantasette, da un celebre abbandono, quello di Carla Lonzi che, con Autoritratto (1969), si congeda dal campo artistico con un feroce, per quanto implicito, atto d'accusa verso l'impostazione patriarcale della critica contemporanea. Il decentramento, in questo periodo, è un campo aperto di tensioni, può manifestarsi con lo spirito civico del servizio alle periferie, ma al tempo stesso può essere l'incubatore di radicali esperimenti di messa in discussione dello statuto del teatro e delle arti. Gigi Livio, nel 1976, in un intervento non immemore della lezione di Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa, mette in guardia nei confronti di un uso paternalista e populistico del decentramento.22 Livio rifiuta l'idea di un decentramento che si limita a prelevare alcuni prodotti finiti per «portarli al popolo», un popolo che è inteso («fascisticamente», viene precisato) come oggetto e non come soggetto della storia. Lo «sperimentalismo» a cui Livio associa il decentramento non è quello formale, come volgarmente si intende l'innovazione linguistica delle avanguardie, ma è la sperimentazione di un rapporto. Rapporto con chi o che cosa? Con il territorio. Anche qui il critico torinese si premura di proporre un distinguo, mettendo in guardia contro la falsa convinzione che il termine territorio sia sempre sinonimo di luogo arretrato, di campagna primitiva; critica inoltre una certa piega missionaria Cfr. F. Berardi Bifo, Quarant'anni contro il lavoro, Roma, Derive Approdi, 2017. Una raccolta di testi degli anni '70 e '80 in cui Bifo delinea con efficacia il tema delle forme comuni e collettive della creatività. 22 Cfr. G. Livio, Sperimentazione e territorio in Per una politica del teatro, Roma, Bulzoni Editore, 1977, pp 250-254. 21 112 Marco Baravalle, Teatro ad oltranza del teatro a partecipazione, spesso a rischio di abbandonare l'analisi antropologica a favore dell'ingenua ricerca di una inesistente purezza originaria. È improbabile che tale polemica di Livio si riferisse celatamente al teatro a partecipazione di Scabia, al suo viaggio nelle campagne e nelle provincie italiane di quegli anni, è più probabile che avesse in mente i primi esiti dell'animazione (categoria che non ha mai entusiasmato nemmeno il poeta padovano) che andava diffondendosi come metodologia applicata al decentramento. D'altro canto, quando Livio afferma che la parola territorio può riferirsi anche ad un'istituzione, come ad esempio la scuola, il pensiero non può non tornare all'esperienza del torinese del '69. Il decentramento operato da Scabia, anche grazie all'attività preliminare di Fadini e dello Stabile, è un lavoro di indagine non solo di specifici ambienti urbani, costruito assieme a chi li abita, ma pure sul ruolo delle istituzioni territoriali: la scuola, la chiesa, la fabbrica e, non da ultimo, il teatro. Non bisogna infatti scordare che il Decentramento teatrale del 1969 coinvolse operai, rappresentanti degli enti locali, studenti, parroci, maestre, psichiatri militanti, extraparlamentari e così via. Non si dimentichi che alcuni degli spazi fisici utilizzati per le assemblee e gli spettacoli furono centri sociali (nel senso di spazi di proprietà pubblica messi a disposizione per le attività di quartiere), scuole e parrocchie. Anche quello della sinistra istituzionale, del resto, è un ruolo ambiguo e come tale va letto, oltre l'esaltazione e la condanna, nella sua complessità. Il Partito Comunista, prima di schierarsi apertamente contro il movimento del Settantasette, aveva, nei decenni precedenti, fornito un'importante copertura politico-finanziaria a piccoli e grandi esperimenti culturali, pur rimanendo vigile custode dell'ortodossia e censore. Del resto, è noto che Scontri Generali incontrò una prima battuta d'arresto proprio perché il Partito Comunista emiliano lo giudicò un testo ideologicamente pericoloso. 3. Decentramento II: una breccia nelle estetiche e nelle prassi teatrali dominanti. Studiosi come Stefano Casi, Annalisa Sacchi e Livia Cavaglieri hanno interpretato la discontinuità del Nuovo Teatro Italiano alla luce della sua opera di decostruzione del centro. Casi individua una diffusa pratica di critica della centralità come «coordinata logistico-concettuale»,23 Sacchi insiste sul decentramento della posizione registica.24 Cavaglieri sottolinea S. Casi, 600.000 e altre azioni teatrali per Giuliano Scabia, Pisa, Edizioni ETS, p. 19 A. Sacchi, Il posto del Re. Estetiche della regia teatrale nel modernismo e nel contemporaneo, Roma, Bulzoni Editore, 2012. 23 24 113 AAR Anno X, numero 19 – Maggio 2020 come l'evoluzione del linguaggio registico di Quartucci derivi da «esperimenti di vero e proprio decentramento produttivo».25 C'è dunque da rilevare la prolificità del termine decentramento che, tra i Sessanta e i Settanta, "lavora" su più livelli come concetto guida di pratiche di trasformazione radicale della dimensione amministrativa ed estetica, influendo, ad un tempo, sulle politiche culturali e sulla ridefinizione delle forme teatrali. Del resto non è possibile separare nettamente i due livelli, anzi, la portata del decentramento non è comprensibile senza illuminarne il rapporto. Il decentramento (come fenomeno politico amministrativo) apre spazi di manovra per ripensare le forme teatrali ed artistiche, ma non va dimenticato che le condizioni per l'emersione di sperimentazioni culturali radicali (in ogni caso una minoranza a fronte dei molti esempi di utilizzo paternalistico dello strumento), sono la presenza di movimenti attivi e la forza propulsiva dei conflitti. Seguire la riflessione e la produzione di Scabia dentro lo spazio degli scontri aperto dal biennio 68-69, significa essere testimoni di un concatenamento, di una macchina estetico-politica che, sebbene nel tempo ristretto di un paio di anni, funziona attraverso la costruzione di una relazione che non appiattisce, ma gioca a proprio favore il rapporto tra autonomia del linguaggio autoriale-formale e conflitto sociale. Scabia non ripropone in forma farsesca l'obbiettivo, proprio delle avanguardie storiche, di fondere arte e vita, né la sua organicità è sinonimo di agit-prop o di adesione programmatica al teatro d'occasione, quello praticato, ad esempio, dall'Assemblea Teatro, collettivo che ebbe un ruolo di primo piano in una delle azioni di maggiore impatto del decentramento torinese: Sistema di reparto chiuso. Il biennio 68-69, con il decentramento torinese e la scrittura di Scontri Generali, segna il momento di maggiore organicità di Scabia, non solo al luogo, ma al movimento. Dal 1971 in poi, come abbiamo evidenziato, inizierà la lunga stagione dello Scabia "vagante", certamente stagione non impolitica, ma di allontanamento da un movimento che il poeta sentirà sempre più prigioniero di quelle che, ne L'azione perfetta, vengono descritte come "le manie", pulsioni di morte assecondate in nome della realizzazione di un'utopia. La lucidità di Scabia, nel biennio 68-69, sta nel cogliere la potenzialità di trovarsi, da artista, all'intreccio tra l'evento rivoluzionario e la conseguente apertura istituzionale da quello innescata, un'apertura che l'autore, sull'onda di una domanda sociale maggioritaria, declina come critica radicale non solo del momento della scrittura o dello spazio-tempo della scena, ma di tutto il modo di produzione di uno spettacolo teatrale. L. Cavaglieri, Nuovo teatro e teatri stabili. Carlo Quartucci a Genova (1963-1966), «Il Castello di Elsinore», n. 61, 2010, p. 114. 25 114 Marco Baravalle, Teatro ad oltranza La questione della domanda è importante e torna più volte, sia Scabia che Crispolti sono molto chiari in questo. Il primo, ne Il teatro nello spazio degli scontri afferma: È una domanda di teatro, di cultura, di serietà politica e culturale / è un livello davvero alto quello in cui ci muoviamo / il livello più alto di tutti, qui a Mirafiori Sud / a corso Taranto / alle Vallette / alla Falchera / rispetto a tutto il teatro italiano, il più alto / ora ne sono convinto anch’io.26 Crispolti, dal canto suo, come si evince dalla riflessione raccolta in Arti visive e partecipazione sociale, individuerà come elemento cruciale del Sessantotto una nuova domanda di massa di cultura (non solo popolare, ma di ricerca). È questo il tratto che lo porterà, per tutta la prima metà degli anni Settanta, ad interrogarsi a livello sia teorico che curatoriale, sulle necessarie e radicali trasformazioni che le pratiche, le soggettività e le istituzioni artistiche avrebbero dovuto affrontare proprio per rispondere a tale rinnovata domanda. È nella ricerca di una risposta che il curatore romano proporrà quella che appare come una vera e propria rivoluzione del ruolo dell'artista. Crispolti è interprete di quella che potremmo definire una sorta di critica dell'ideologia artistica, che sebbene appaia meno severa e circostanziata della critica dell'ideologia architettonica che, negli stessi anni, Manfredo Tafuri portava avanti,27 cionondimeno si propone di riformare radicalmente il compito sociale dell'arte al punto tale di indicare con urgenza la trasformazione dell'artista in operatore estetico o, meglio ancora, in co-operatore estetico. Certo, andrebbe analizzato con cura il rapporto tra le caratteristiche di questo crispoltiano co-operatore e la figura dell'animatore teatrale, va inoltre sottolineato che, se da una parte Crispolti è molto netto nella sua volontà di smantellamento della funzione artista, lo è assai meno nei confronti della figura del critico. Queste obiezioni pongono certamente dei problemi, ma non inficiano nella sostanza un'esigenza reale di rispondere, attraverso una critica della prassi artistica, alle sollecitazioni di quei movimenti di protesta che stavano, in quegli anni, scuotendo la società dalle fondamenta. Quale lezione, dunque, è possibile trarre dall'esperienza del decentramento dello Stabile di Torino del 69? Non si rende giustizia a quel lavoro nel momento in cui si desideri, ad esempio, ricavarne una metodologia disciplinare. Non si può dimenticare che fu la particolare congiuntura socio-politica a contribuire a quel tipo di risultato. Quale teatro stabile, oggi, in Italia, per quanto parzialmente, al prezzo di conflitti e lacerazioni, rincorse e arretramenti, si lancerebbe mai nella produzione di qualcosa di simile? È il movimento che spinge l'istituzione alla trasformazione, non è G. Scabia. Teatro nello spazio degli scontri, Roma, Bulzoni, 1973, p. 260 Per approfondire la Tafuriana critica dell'ideologia architettonica, si rimanda a M. Tafuri , Progetto e Utopia, Roma, Laterza, 1973. 26 27 115 AAR Anno X, numero 19 – Maggio 2020 un caso, infatti, che la riforma (certamente imperfetta, ma pur sempre mossa dalla necessità di superare l'impianto fascista) della Biennale di Venezia è largamente il frutto delle proteste che avevano investito l'organizzazione lagunare proprio nel 1968. Ma non è possibile limitarsi a questa constatazione. Ciò che appare oggi come problema aperto, è che molte delle forme d'arte (mi riferisco soprattutto alla cosiddetta arte sociale/partecipativa, definizione afferente al campo delle arti visive, ma non lontana dall'animazione o da quella che, nell'ambito delle politiche urbane, è oggi conosciuta come "innovazione sociale") che aggiornano il ricorso alla partecipazione, sembrano partecipare alla governance neoliberale della cultura o dello spazio urbano, piuttosto che eccederla.28 Non intendo sostenere che laddove si presentino delle opportunità istituzionali sia necessario rifiutarle, ma lo spazio degli scontri va evidentemente aggiornato alle mutate condizioni del presente. Non è possibile, infatti, non fare i conti con il recupero che l'apparato istituzionale ha operato della radicale richiesta di autonomia propria dei movimenti del Sessantotto,29 recupero che ha affinato la capacità delle industrie culturali (il fenomeno è molto chiaro per quanto riguarda il sistema dell'arte contemporanea) di farsi apparato di cattura di resistenze, eccedenze, pratiche e immaginari radicali, sempre a rischio di trasformarsi in prodotti per una nicchia di mercato, incapaci di operare una seria critica del lavoro artistico, elemento cardine dei progetti torinesi di Scabia. Personalità quali Scabia e Crispolti ebbero l'indubbio merito di mettere a critica la prassi artistica di quel periodo. Il critico romano era guidato da ciò che egli stesso definì come il bisogno di testare «una praticabilità sociale reale (e non più utopica) per l'artista, per l'operatore estetico»30 nel momento del palesarsi di una inedita e radicale domanda di massa. La sfida del teatro (o dell'arte) nello spazio degli scontri è una sfida di corpi situati in spazi situati, di organicità al luogo, di partecipazione, è teatro di accadimenti (sempre per citare un'espressione di Scabia). Esso popola spazi striati ed impervi: quartieri, scuole, rioni, fabbriche, sedi di partito, parrocchie, centri sociali. Nel 1969, Scabia interviene sulla rivista Giovane Critica: Vi è un'ampia letteratura che si è soffermata sul problema della cattura dell'arte partecipativa da parte della "ragione neoliberista". Qui ci limitiamo ad indicare un paio di esempi: G. Sholette, Delirium And Resistance, Activist Art And The Crisis Of Capitalism, London, Pluto Press, 2017, e AA. VV., L'arte della sovversione, a cura di M. Baravalle, Roma, Manifestolibri, 2009. 29 Si veda, in merito alla cattura, da parte capitalista, della "critica artistica" propria del 68: E. Chiapello, L Boltanski, Il nuovo spirito del capitalismo, Milano, Mimesis, 2014. 30 E. Crispolti, Per una alternativa di cooperazione culturale (come premessa ad un itinerario), in E. Crispolti , Arti Visive e Partecipazione Sociale, Bari, De Donato Editore, 1977, p. 18. 28 116 Marco Baravalle, Teatro ad oltranza A questo punto è possibile che torni buona un'arte politica. Non più apologetica, appoggiata ai partiti e in particolare al Partito Comunista, ma pienamente autonoma - come strumento di penetrazione per costruire una nuova fase della lotta [...] Se sarà parallelo alla punta avanzata della lotta politica (non certo mettendola in scena come ha fatto qualche ingenuo), allora avrà senso parlare di nuovo teatro politico.31 Se Bartolucci, come del resto Casi rileva nel suo volume, aveva sezionato ideologicamente il testo di Scontri Generali, mettendone in luce influenze maoiste, illuministe e socialiste-utopiche,32 sembra non avere rilevato certi toni che riecheggiano alcuni elementi del discorso operaista così come era andato definendosi nel corso degli anni Sessanta. Ma qui è importante una precisazione, non intendo proporre la tesi di uno Scabia operaista, semplicemente non reggerebbe dal punto di vista storico. È comunque interessante notare che il suo richiamo all'autonomia dell'arte non è sviluppato in chiave francofortese, ma esplicitamente come indipendenza dal partito, come critica della rappresentazione, come immersione nella lotta, quella lotta che proprio nel '68 esplode oltre i confini delle tradizionali istituzioni del movimento operaio. È possibile parlare di un operaismo di Scabia solo a patto di non intenderlo in senso programmatico. Quello che si sviluppa durante la temperie del '68 (nell'ideazione di Scontri Generali e della Visita alla prova dell'Isola Purpurea) e che matura durante l'autunno caldo torinese dell'anno successivo, è un operaismo di fatto che deriva dal lavoro teatrale con gli operai, circostanza che spinge l'autore a mettere a critica il modo di produzione teatrale istituzionale (anche quello del teatro politico per come lo si conosceva fino al '68). Il biennio '68-'69 (con una propaggine nel '70) è, per Scabia, un momento di critica pratica dell'ideologia teatrale, non solo nella misura di un rifiuto del teatro borghese, ma come superamento di un teatro politico apologetico e ripensamento della funzione sociale del teatrante e dell'artista. 4. Scabia e la partecipazione radicale. Un tema d'attualità. Il dibattito, soprattutto nel campo delle arti visive, rispetto a temi quali relazionalità e partecipazione, è fervido. La partecipazione è di volta in volta elogiata o attaccata. Concentriamoci sul secondo caso. Senza pretesa di esaustività, possiamo elencare due posizioni polemiche nei confronti delle pratiche artistiche di stampo partecipativo. La prima è di matrice marxista e insiste sulla cattura neoliberale della partecipazione. Vengono così svelati i processi di assorbimento dell'arte impegnata in operazioni di rigenerazione urbana (leggi gentrificazione) o di depoliticizzazione di elementi critico-sovversivi nella macchina del circuito artistico G. Scabia, Teatro politico o lotta politica?, in «Giovane Critica», n. 19, inverno 1968-69, p. 111 Cfr. G. Bartolucci, La tentazione politica di Giuliano Scabia: utopia-realtà, in G. Bartolucci, Testi Critici 1964 - 1987, a cura di V. Valentini, G. Mancini, Roma, 2007, Bulzoni Editore. 31 32 117 AAR Anno X, numero 19 – Maggio 2020 istituzionale. In questo contesto, il ruolo delle social practices diventa ambiguo. Si pone il problema della trasformazione della partecipazione da elemento di critica sociale (dunque da peculiare strumento estetico di conflitto) a metodologia di mediazione dei conflitti. Un autore che si è fatto portavoce di tale prospettiva è Gregory Sholette, soprattutto nel libro Delirium And Resistance, Activist Art And the Crisis Of Capitalism. La seconda posizione, quella esemplificata dal volume Inferni artificiali di Claire Bishop, è invece di stampo post-francofortese e accusa la svolta partecipativa dell'arte contemporanea di privilegiare la dimensione etica a scapito di quella estetico-politica. La storica dell'arte si spinge fino al punto di sostenere che certe pratiche siano impossibili da riconoscere come arte, mancando del tutto la possibilità di una valutazione estetica di quei processi-prodotti. A partire da Jacques Rancière, Bishop si impegna, prima di tutto, a sostenere l'intrinseca politicità della dimensione estetica33 e si augura che cessi la fuoriuscita verso il sociale di queste forme d'arte, in favore di un ritorno entro i confini dell'opera, di una riaffermazione della sua autonomia che (richiamandosi ad Adorno)34 rappresenterebbe l'unica condizione di autentica libertà per l'arte. La tesi che qui voglio sostenere è che le azioni del decentramento torinese del '69 spiazzano questa seconda posizione polemica nei confronti della partecipazione (che indica il problema di una mutua esclusione tra la dimensione etica e quella estetico-politica) e che, al tempo stesso, non possono essere accusate di de-politicizzare il conflitto, essendo ben calate nel vivo di un contesto di lotta, avendo inoltre scelto una posizione partigiana e non certo di mediazione. Il poeta padovano, pur avendo con continuità utilizzato il termine "partecipazione" per descrivere il proprio teatro, a Torino non precipita sui quartieri una metodologia di ricerca preconfezionata. Lo prova il fatto, prima di tutto, che le azioni teatrali prodotte non sono assolutamente omogenee in termini di grammatiche sceniche. Inoltre, partecipazione, nel decentramento torinese del '69, non è in nulla sinonimo di mediazione, come comunemente il termine viene inteso dalla governance neoliberale, anche nelle sue varianti artistiche. Al contrario, quella di Scabia, che pure si troverà per contingenza a dovere mediare tra i tanti attori in gioco, è una volontà di partecipazione agli scontri e alle contraddizioni sociali in atto: quelle tra movimento e poteri costituiti, come quelle interne allo stesso campo dei movimenti della sinistra. La prassi di Scabia (mi limito qui, è bene ancora una volta ricordarlo, allo Scabia del 1969-70) sembra fare proprio questo programma di militanza culturale: un nuovo teatro politico è un teatro di parte, non può nascere da un'idea di arte come universale al di fuori della dimensione sociale. Il nuovo teatro politico sceglie come 33 34 Cfr., J. Rancière, Il disagio dell’estetica, Pisa, Ets, 2009. Cfr. T. W. Adorno, Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1975. 118 Marco Baravalle, Teatro ad oltranza propri la parte operaia ed il campo proletario, immergendovisi. Non è possibile, fuori da questa parzialità, da questa scelta di campo, costruire una nuova arte politica. La conoscenza è tutta dentro il comune in rivolta, un comune che non pregiudica la funzione artista, ma che la arricchisce. Nelle azioni del decentramento torinese sembrano emergere alcuni dei caratteri che Claire Bishop identifica nei migliori casi di arte partecipativa degli ultimi decenni. Nel lavoro del poeta padovano a Torino, infatti, l'etica non è chiamata in causa per tacitare gli aspetti politici ed estetici (uno dei limiti ricorrenti dell'arte partecipativa contemporanea secondo la critica d'arte inglese). La relazionalità, l'orizzontalità, l'idea che tutti gli attori debbano confrontarsi su un piano paritario all'interno dell'opera, pur essendo questioni ripetutamente avvertite, non sono il fine dell'opera. Il fine è esplicitamente politico-estetico. È politico poiché partecipa allo scontro scegliendo la propria parte e affiancandola in un conflitto sociale in atto. È politico nella ricerca di un teatro dialettico, (consapevole che la dialettica è fatto interno anche allo stesso campo proletario). Ma questo carattere politico emerge in stretta connessione con un incessante lavoro sul piano dell'estetica e dei linguaggi. Del resto, la volontà di non abdicare mai all'autorialità, pur sottoponendola allo stressante esercizio della partecipazione, risponde proprio alla necessità di portare lo scontro anche sul piano delle estetiche teatrali istituzionali. Diversamente da Bishop però, e si tratta di una differenza fondamentale, le azioni del decentramento torinese di Scabia non fanno mai ritorno al santuario dell'autonomia dell'opera d'arte. Piuttosto esse creano un convincente concatenamento tra dimensione estetica e politica, non rinunciando alla "discesa" nella dimensione sociale. Scabia, inoltre, sembra riconoscere la centralità del sapere operaio. È forse solo un momento, un'annotazione passeggera, ma il 29 marzo del '69, tra una furiosa riunione con la direzione dello Stabile e una prova del Demiurgo alle Vallette, Scabia registra questa riflessione sul ruolo della cultura operaia in relazione ai linguaggi del teatro d'avanguardia. [...] ma sono convinto che gli operai possono offrire una verifica fondamentale purché si sappia interrogarsi a vicenda (col metodo giusto): la cultura operaia è la coscienza del livello di scontro in atto diventata azione: è questo un momento di verifica/ che è verifica di una direzione generale di lavoro/verifica anche dei linguaggi d'avanguardia35 La relazione con il sapere operaio è imprescindibile, anche per la verifica dei linguaggi d'avanguardia. Vi è, infine, nel teatro partecipativo che Scabia sperimenta a Torino, addirittura una certa tensione utopica: 35 G. Scabia. Teatro nello spazio degli scontri, Bulzoni, Roma, 1973, p. 249. 119 AAR Anno X, numero 19 – Maggio 2020 Ciò che unifica forse tutta la mia pratica teatrale è la presenza (cosciente e razionalizzata) del discorso utopico. Per me utopia vuol dire tensione, partecipazione, scatenamento delle forze interne di comunicazione/espressione/formazione della comunità attraverso una partecipazione crescente, e in ultima analisi, liberazione dalla scansione di tempo e spazio imposte dal lavoro servo.36 Molto ci sarebbe da dire in merito al rapporto tra arte ed utopia ed in merito alla critica di quest'ultima quale confortevole rifugio per una soggettività artistica incapace di fare presa sul reale, ma non c'è qui lo spazio per approfondire.37 In ogni caso l'utopia torinese di Scabia presenta tratti peculiari. Siamo infatti in presenza di una declinazione dell'utopia al tempo presente, entro i confini di un luogo preciso, storicizzato, nient'affatto fuori dalla materialità dei rapporti sociali, uno spazio striato da scontri e contraddizioni. Teatro è qui strumento per realizzare l'utopia della liberazione (certo temporanea, ma reale) «dalla scansione di tempo e spazio imposte dal lavoro servo». Questo teatro non immagina utopie future e non si ritira dal mondo per realizzarle, non abita il Monte Verità, non si rifugia in comuni di campagna, non "colonizza" qualche meravigliosa isola del Mediterraneo. Sta alla Falchera, alle Vallette, a corso Taranto, a Mirafiori Sud, luoghi che, normalmente, non situeremmo nemmeno alla periferia della più modesta utopia. Ivi, p. XXI Cfr. M. Assennato, Progetto e metropoli. Saggio su operaismo e architettura, Macerata, Quodlibet, 2019. In questo volume, Assennato, prendendo in esame alcuni articoli di Manfredo Tafuri e, più in generale, il pensiero operaista, si concentra sul tema della critica dell'utopia in rapporto alla produzione delle neoavanguardie architettoniche italiane degli anni Settanta. 36 37 120