STUDI DI ITALIANISTICA
Direttore: Claudio Giovanardi
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GIGGI ZANAZZO
IL TEATRO
a cura di
Laura Biancini e Paola Paesano
Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
LOFFREDO EDITORE
UNIVERSITY PRESS
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STUDI DI ITALIANISTICA
Direttore Responsabile: Claudio Giovanardi
Comitato scientifico: Pietro Trifone, Gabriella Alfieri, Simona Costa, Pietro Frassica
Volume pubblicato con il contributo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
ISBN 978-88-7564-631-8
Finito di stampare nel mese di settembre 2013
© LOFFREDO EDITORE Srl
Via Kerbaker 19 80126 Napoli
http://www.loffredo.it E-mail:
[email protected]
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Presentazione
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Talvolta le date sono esplicite: 1860, la romantica generosa spedizione
dei Mille, la vigilia dell’Unità d’Italia, l’attesa d’una rinascita popolare e
del riscatto dei Fratelli d’Italia; 1911: il cinquantenario dell’Unità, l’inaugurazione del Monumento a Vittorio Emanuele, la guerra di Libia, il tentativo di trasformare l’Italia in una grande potenza colonialista, la vigilia
delle tragedie della guerra prima, del fascismo poi. 51 anni. Proprio i 51
anni in cui si svolse la breve e intensa vita di Luigi Antonio Gioacchino
Zanazzo, il quale volle però passare alla storia soltanto col suo nome romanesco: Giggi.
Giggi era nato il 31 gennaio 1860 a «ora ventuna» secondo il computo di allora (cioè alle 15), al terzo piano di una casa a via dei Delfini 5, di
fianco a Santa Caterina dei Funari. Dove oggi una lapide riporta i suoi
versi: «Da la loggetta / di casa mia m’affaccio / e guardo in giù / vedo la
strada / vedo la piazzetta». E a Roma Giggi muore il 13 dicembre 1913,
e i suoi funerali divennero un’imponente manifestazione di cordoglio e di
dolore popolare.
1860-1911: Roma in quegli anni da «capitale del mondo scende a diventare capitaluccia d’Italia», per dirla con una delle micidiali note azzurre (2319) di Carlo Dossi. «Capitaluccia» o no (e non so quanto si possa
sottoscrivere il perfido giudizio di Dossi), certo Roma in quel cinquantennio si trasforma in maniera radicale da ogni punto di vista: urbanistico, demografico (da 200.000 a 520.000 abitanti), culturale, linguistico.
Una trasformazione che viene vissuta da alcuni come liberazione e avvicinamento a una dimensione moderna, da altri come vera e propria disfatta. Una trasformazione che oggi possiamo valutare da una parte come
l’ovviamente inevitabile risultato di trasformazioni epocali enormi, dall’altra parte come il risultato non sempre omogeneo del sovrapporsi di tendenze e di proposte, sospese fra rimpianto e modernità: a Roma insomma
convivono il futurismo e il Sillabo, la piemontese famiglia reale e il siciliano Pirandello.
Zanazzo diventa di quegli anni, e di quelle trasformazioni antropolo-
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introduzione
giche, un protagonista assoluto. Educato all’amore della vita popolare, egli
si impose il dovere di lasciare davvero il «monumento» (per usare la parola centrale dell’operazione straordinaria che il suo modello unico, Giuseppe Gioachino Belli, gli aveva dato) di quella Roma che si stava trasformando, e si impegnò in un’operazione complessiva utilizzando tutti i registri
letterari e tutte le forme di scrittura: poesia lirica, poesia epico/narrativa,
prosa, teatro. In tutte queste operazioni Zanazzo mostrò un grandissimo
rigore, non solo documentario, sì che a lui dobbiamo la testimonianza
fondamentale degli usi e dei costumi, delle storie e delle leggende, delle
favole e della lingua, della Roma preunitaria (come documentano i suoi
Novelle favole e leggende romanesche, 1907, e Usi costumi e pregiudizi del
popolo di Roma, 1908), testi che nascono anche dalla collaborazione e dalla frequentazione con il grande filologo Francesco Sabatini, e al tempo
stesso di eccellenza di scrittura, tanto da diventare il punto di riferimento
nazionale per tutte le questioni relative a Roma, come dimostra il fatto
che a lui si rivolse Puccini per i versi del pastorello che aprono il terzo atto di Tosca.
Cosa succede in quegli anni nella cultura italiana? Sono gli anni che
traghettano la cultura e la letteratura italiane verso la modernità. Sono gli
anni di Carducci e di Verga, di Pascoli e di D’Annunzio, di Fogazzaro e
di Pirandello, tutti autori peraltro che oltretutto hanno in qualche modo
a che fare con Roma. Bisogna fare i conti con l’eccezionale novità che appunto, finalmente, l’Italia da patria poetica diventi anche patria civile. E
diventi finalmente ‘una’, anche dal punto di vista linguistico. Ma c’è un
rischio in questo processo: quello di perdere, e definitivamente, i tratti
delle identità locali. E allora tutto si svolge in questa dinamica formidabile: da una parte il giovane Stato italiano deve trovare/imporre dall’alto
una soluzione linguistica che unifichi i cittadini; dall’altra le singole aree
regionali o locali hanno come la spinta a conoscersi e farsi conoscere, denunciando lo stato reale in cui versavano e cercando di testimoniare e
mantenere una propria identità culturale che, talvolta oscuramente, si intuiva, o proprio si sentiva, minacciata dai processi di unificazione. In sostanza l’Unità segna l’inizio di una crisi e di declino per i dialetti che si
protraggono sostanzialmente per tutto il Novecento: d’altra parte il dinamismo della nuova Italia spinge decisamente per l’unificazione linguistica di fronte a cui i dialetti cominciano a diventare vernacoli, parlate locali, strumenti per riconoscersi, che vengono utilizzate in abbondanza in
giornali, nel teatro di varietà, nella letteratura umoristica. Lo statuto dei
dialetti tende a ritornare nel chiuso ghetto di una lingua strutturalmente
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minore. Al tempo stesso, come è ovvio, tra lingua e dialetto ormai normalizzato si instaura un doppio processo di contaminazioni: così l’italiano
tende a regionalizzarsi, mentre i dialetti tendono a italianizzarsi. Tanto più
dunque il poeta dialettale sente il bisogno di conservare l’identità, aumentando con ciò il proprio isolamento.
Le prime manifestazioni di questo articolato processo si avvertono nel
periodo immediatamente successivo al raggiungimento dell’unità del paese, nel quale peraltro la contemporanea prevalenza delle soluzioni veriste
forniva un ulteriore elemento di riflessione, di stimolo e sollecitazione:
bisognava infatti fare i conti con la lingua parlata (cioè con il dialetto) anche se poi gli scrittori giungono a soluzioni diverse, come è per Nievo,
Capuana, Verga, De Marchi, Dossi, Faldella, Imbriani. Si ricordi poi che
nella seconda metà dell’Ottocento nasce lo studio scientifico dei dialetti
e delle relative tradizioni letterarie, si fonda la scienza del folclore (Costantino Nigra a Torino, Giuseppe Pitrè in Sicilia, e appunto Giggi Zanazzo a Roma), si predispongono raccolte, si elaborano vocabolari.
Insomma, due sono le tendenze prevalenti della scrittura in dialetto:
da una parte, coerentemente a quello che sta succedendo alla contemporanea poesia in lingua (dove si verifica il fenomeno di un complessivo ‘abbassamento’ sia dei toni, sia della lingua, sia degli argomenti: è la linea che
va dal secondo romanticismo a Pascoli, ai crepuscolari), la letteratura in
dialetto sceglie un tono minore, idillico, bozzettistico, macchiettistico (con
qualche perdonabilissima battuta magari anche un po’ greve, ma di quella grevezza che ha perso la violenza corporea e dissacrante di Porta e Belli); dall’altra l’opzione veristica e l’esigenza che l’Italia in qualche modo si
conoscesse (o proprio si presentasse a se stessa) conducono a una produzione attenta a ritrarre il popolo e a riprodurre, e talvolta a celebrare, le
parlate locali.
Sono le scritture (diverse s’intende fra loro per toni, scelte di contenuti,
soluzioni formali) del pisano Renato Fucini (1843-1921), del bolognese
Olindo Guerrini (1845-1916), dei calabresi Antonio Martino (1818-1884)
e Mastru Brunu (1837-1912), dei milanesi Giovanni Rajberti (1805-1861)
ed Emilio De Marchi (1851-1901), degli abruzzesi Luigi Anelli (1860-1944)
e Gaetano Murolo (1858-1903), dei siciliani Nino Martoglio (1870-1921)
e Alessio Di Giovanni (1872-1946); sono gli anni dell’esplosione della scrittura in napoletano, con le formidabili personalità di Salvatore Di Giacomo
(1860-1934), Ferdinando Russo (1866-1927), Giovanni Capurro (18591920), e dei successivi Raffaele Viviani (1888-1950), Rocco Galdieri (18771923), Ernesto Murolo (1876-1939) e Libero Bovio (1883-1942).
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introduzione
Anche a Roma c’è una nuova letteratura in dialetto, che nasce all’insegna dell’ingombrante eredità di Belli con una serie di imitatori (Luigi Ferretti, Filippo Chiappini) e si identifica nei tre grandi coetanei, Crescenzo
Del Monte (1868-1935), Cesare Pascarella (1858-1940), e appunto Giggi Zanazzo. Ma le strade seguite dai tre poeti sono molto diverse: Del
Monte segue con assoluto scrupolo il magistero del sonetto belliano, testimoniando con la sua scrittura il dialetto giudaico-romanesco, altrimenti destinato a un oblio pressoché totale; anche Pascarella rimane costantemente fedele al sonetto, ma con un dialetto sempre meno plebeo e popolare, mettendo sulla scena un improbabile romano risorgimentale e patriottico, che canta l’epopea garibaldina di Villa Glori (1886), per poi
aprirsi alle rappresentazioni d’ambiente di impianto verista, attraversa la
soluzione epico-comica de La scoperta dell’America (1890), che è il suo capolavoro anche per il suo spassoso anacronismo, e infine per impegnarsi
nella riscrittura della storia di Roma in Storia nostra, un poemetto improntato a ideali nazionali e carducciani; Giggi Zanazzo invece, si fa consapevole e scrupoloso testimone di una città in trasformazione, e si impegna
a scrivere la storia popolare di Roma in tutte le sue manifestazioni e utilizzando tutti i linguaggi. Al tempo stesso poi Zanazzo si fa promotore di
alcune operazioni di promozione culturale, come la fondazione del settimanale in dialetto ‘romanesco’ il «Rugantino», il cui primo numero uscì
il 18 settembre 1887, e che pubblicò le prime poesie di un giovanotto alto alto che si chiamava Carlo Alberto Salustri, ma si firmava «Trilussa».
In questa attività complessiva, un posto preminente occupa il teatro.
Che era il genere popolare per eccellenza, come ci dimostrano anzitutto i
sonetti di Belli, e come testimonia di per sé il grande numero di teatri che
in quegli anni operavano: Apollo, Argentina, Quirino (fondato nel 1871),
Costanzi (fondato nel 1880), Politeama, Valle, Capranica, Metastasio,
Correa, Acquario, Goldoni, Rossini, e poi Adriano, Manzoni, Eliseo. Teatri nei quali ovviamente si esibivano i mostri sacri dello spettacolo italiano, da Zacconi alle sorelle Gramatica, da Ruggeri a Duse, da Pirandello a
D’Annunzio.
Di fronte a questo quadro così imponente, il teatro in dialetto deve
tenere il passo, e cerca di adottare le soluzioni formali e drammaturgiche,
senza però tradire la sua vocazione popolare. Quella vocazione che affonda le sue radici molto lontano: o bastino, solo per il secolo alla fine del
quale opera Zanazzo, l’Ottocento, i nomi di Giovanni Giraud, Alessandro
Barbosi, Luigi Randanini, dei mattatori Filippo Tacconi, Pippo Tamburi,
Gastone Monaldi, solo per citare quelli allora famosi. E guida indispen-
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sabile per chiunque voglia avvicinarsi a quell’autentico mare-maggna di
presenze e di testi rimane il fondamentale lavoro di Anton Giulio Bragaglia. Storia del Teatro Popolare Romano.
In questo percorso, che condurrà al genio di Ettore Petrolini, un posto
di assoluto rilievo lo occupa la produzione teatrale di Zanazzo. Un teatro
tanto popolare e fortunato durante la vita dell’autore quanto, inspiegabilmente, poi caduto nell’oblio.
E invece adesso, e davvero possiamo dire finalmente, il teatro di Zanazzo, tutto il suo teatro (operette, commedie, monologhi, atti unici), torna
alla luce con questa edizione curata con formidabile attenzione da Laura
Biancini e Paola Paesano.
E ce ne sono di scoperte. La scrittura, anzitutto, sempre attenta e mai
sciatta, sempre aperta alla sua natura di testo, appunto, da recitare, e
perciò da adattarsi drammaturgicamente alle situazioni in atto; la ricchezza delle situazioni rappresentate e l’articolazione (stavo per scrivere
la ‘completezza’) dei tipi umani rappresentati e disegnati: monnezzari e
pizzardoni, serve e cantanti, socialisti bestemmiatori ed elettori infruventi, Cammillo e Crementina che se le danno di santa ragione per poi
abbracciarsi innamorati come sempre, pizzicagnoli e ragazzi che fanno
sega, osti e donne che vanno di prescia ma perdono tempo in chiacchiere, ciabattini e senatori, Cencio Sferra, Rosa, Tuta, Meo, Picchiabbò, e
anonimi Maganzesi, Giggi il paino e «voci da dentro»…; la facilità e la
felicità delle trovate; l’indubbia comicità di tanti momenti; la severità
del tutto inaspettata di altri momenti; l’articolazione della scrittura e
della struttura del testo, in prosa e in poesia; la capacità di rapportarsi,
con tutta l’umiltà del caso, perfino al gigante per eccellenza del teatro
di ogni tempo, e cioè Shakespeare.
Insomma, questo libro, che è il risultato di un lungo e attento impegno di lettura e di riscontro che Biancini e Paesano hanno svolto sui testi
a stampa e sugli autografi di Zanazzo conservati nella Biblioteca Angelica
di Roma, costituisce il punto finale d’un lavoro di grande scrupolo, e al
tempo stesso apre la strada sia agli studi finalmente possibili sui testi, sia
alla possibilità di una loro messa in scena che, siamo convinti, reggerà ancora tranquillamente nei confronti del pubblico di oggi.
Risparmiatece - la vostra collera / Nun ce fischiate - per carità.
MARCELLO TEODONIO
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Claudio Giovanardi
Che ne è del romanesco di Giggi Zanazzo?
Nel leggere queste gustose commedie di Zanazzo, che la sollecitudine
fruttuosa di Laura Biancini e Paola Paesano ha restituito da un lungo silenzio (mi riferisco ovviamente ai testi sinora inediti), la prima impressione è che quel romanesco sia ormai irrimediabilmente datato. A poco più
di un secolo, dunque, la fisionomia del dialetto di Roma sembra aver assunto connotati nuovi che, se non sono tali da renderlo irriconoscibile,
testimoniano comunque di un profondo maquillage, dovuto sia alla perdita di numerosi tratti che erano transitati sostanzialmente immuni dal
romanesco belliano sino ai primi decenni del Novecento, sia all’acquisto
di tratti innovativi (invero nettamente minoritari) sviluppati negli ultimi
decenni. Pietro Trifone, nella sua storia linguistica di Roma 1, a proposito
del cosiddetto romanesco ‘di terza fase’, cioè contemporaneo, osserva, ricorrendo a una metafora enologica, che è difficile stabilire se si tratti di
un vino rosso, bianco o rosato, cioè se sia maggiormente caratterizzato
dall’insorgere di nuovi elementi dialettali, oppure dalla progressiva italianizzazione, o ancora da entrambi i fenomeni. Personalmente inclino per
il rosato, con l’avvertenza che l’italianizzazione non è avvenuta in modo
uniforme (la fonologia presenta ad esempio forti sacche di resistenza dialettale che arrivano a lambire anche la pronuncia dei romani colti); ciò ha
imposto una riconsiderazione del continuum lingua-dialetto a Roma ai
giorni nostri2.
Merita piuttosto un supplemento di riflessione l’etichetta di ‘romanesco
postunitario’, ovvero il quarto e ultimo tempo della partizione cronologica proposta da Trifone3 e recentemente accettata e rilanciata anche da
D’Achille4. La domanda che mi è venuto di pormi, leggendo ora i testi di
Zanazzo e qualche anno fa quelli di Petrolini, che ho pubblicato con Ilde
1
P. Trifone, Storia linguistica di Roma, Roma, Carocci, 2008. p. 111.
Mi sia permesso di rinviare a P. D’Achille - C. Giovanardi, Dal Belli ar Cipolla.
Conservazione e innovazione nel romanesco contemporaneo, Roma, Carocci, 2001.
3
P. Trifone, op. cit.
4
P. D’Achille, Questioni aperte nella storia del romanesco: una rilettura dei dati docu2
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Consales5, è la seguente: siamo davvero sicuri che l’unità d’Italia e la proclamazione di Roma capitale siano stati gli elementi scatenanti dell’evoluzione del romanesco verso la fase attuale? Certo, in una prospettiva storica
è evidente che le grandi trasformazioni sociali e politiche subìte da Roma,
prima fra tutte l’esplosione demografica (nel 1871 Roma aveva poco più
di 200.000 abitanti, che solo sessant’anni dopo, nel 1931, erano diventati
quasi un milione), hanno rappresentato il lievito della modificazione linguistica; tuttavia la sensazione è che la ‘sbellizzazione’ (se mi si passa l’ardito neologismo che ricalca il ben noto vocabolo smeridionalizzazione, usato dagli studiosi per sancire il passaggio del romanesco dalla fase medievale a quella rinascimentale toscanizzata) del romanesco vada spostata piuttosto in avanti, all’ultimo dopoguerra. Con ciò intendo dire che autori
come Zanazzo e Petrolini, quando scrivono commedie, dando voce al popolo di Roma, offrono un dialetto che è sostanzialmente sovrapponibile a
quello belliano; se diamo per acquisito che la lingua teatrale costituisce un
testimone in buona parte affidabile dei veri usi linguistici di una determinata comunità in un determinato tempo, dobbiamo concludere che a fine
Ottocento e ancora nei primi decenni del Novecento a Roma si parlava
ancora come ai tempi del sor Gioachino e della sora Cencia.
Dovendo indicare, anche se un po’ alla buona, i principali fattori che,
in pieno Novecento, hanno contribuito alla compiuta sbellizzazione del
romanesco, mi limiterei almeno a tre. Innanzi tutto l’avvento del Fascismo, con la conseguente politica antidialettale e la promozione ossessiva
del mito di Roma imperiale, cui mal si confaceva un dialetto nato e cresciuto nei vicoli provincialissimi della capitale papalina. In secondo luogo
la progressiva assunzione da parte di Roma, dopo la fine della seconda
guerra mondiale, di un assetto cosmopolita, con un continuo viavai non
solo di italiani provenienti da altre regioni, ma di uomini e donne di tutte le parti del mondo, condito da inevitabili spinte al conguaglio e alla
perdita di marcatezza dialettale. Infine, il ruolo importantissimo svolto
prima dal cinema e poi dalla televisione, i nuovi mezzi di comunicazione
nati con una vocazione nazionale, vere e proprie levatrici di un romanesco
(o di un italiano regionale romano) ormai depurato della patina arcaizzante, e largamente fruibile, vista l’indubbia contiguità con l’italiano, per
gli spettatori dell’intera penisola. I veri protagonisti della svolta sono stati
mentari in M. Loporcaro - V. Faraoni - P. A. Di Pretoro (a cura di), Vicende storiche
della lingua di Roma, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012, pp. 3-27.
5
C. Giovanardi - I. Consales (a cura di), Petrolini inedito. Commedie, macchiette e
stornelli mai pubblicati, Roma, Gremese, 2010.
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registi come De Sica, Rossellini, Germi, e attori come Aldo Fabrizi, Anna
Magnani, Renato Rascel, Alberto Sordi, Paolo Panelli, Nino Manfredi,
Vittorio Gassman e altri ancora, nell’àmbito del neorealismo prima, e della commedia all’italiana poi, passando anche per la consacrazione televisiva (si pensi a un personaggio ‘mitico’ della paleotelevisione come il romanissimo Mario Riva).
Prende forma, tra gli anni cinquanta e sessanta del Novecento, quel
‘romanesco standard’ di cui ha parlato Claudio Costa6 a proposito di alcuni poeti come Fabrizi, Ferrara, Roberti e Rossetti; un romanesco sempre
più italianizzato nel lessico, ma con alcune sopravvivenze fonomorfologiche che affondano le radici nei secoli. Si pensi, solo per fare qualche esempio, ai seguenti fenomeni già attivi nel romanesco rinascimentale: il monottongamento di uò in ò (il tipo bòno); lo scadimento della laterale palatale a jod (il tipo fijo, attestato almeno dal Seicento); l’assimilazione del
nesso nd > nn (il tipo quanno); l’apocope dell’infinito (i tipi annà, partì,
esse). A ben vedere, dunque, il romanesco novecentesco, quello che parliamo o che sentiamo parlare ancora oggi, ha mantenuto solidi collegamenti con la sua storia e, al tempo stesso, ha sviluppato anche tratti innovativi, talvolta accentuando la distanza dall’italiano7. Tra questi ultimi
possiamo segnalare il progressivo ampliamento delle condizioni in cui avviene il dileguo di l negli articoli, nelle preposizioni articolate e nei dimostrativi (la cosiddetta ‘lex Porena’)8; il dileguo di v in posizione intervocalica (il tipo brao per bravo); l’assimilazione st > ss (il tipo quesso per questo);
la realizzazione con e chiusa del dittongo jè sovente pronunciato jé anche
nell’italiano regionale romano9.
Nella dialettica tra conservazione e innovazione, spesso meno chiara e
lineare di quanto si potrebbe pensare a tutta prima 10, appare evidente che
6
C. Costa, Il romanesco d’autore: Fabrizi, Ferrara, Roberti, Rossetti, in F. Onorati M. Teodonio (a cura di) La letteratura romanesca del secondo Novecento. Roma, Bulzoni, 2001, pp. 207-263.
7
P. D’Achille - C. Giovanardi, op. cit.
8
Sulla lex Porena rinvio a Trifone, op. cit., pp. 100-102.
9
Per questo tratto specifico rinvio al bel saggio di G. Biasci, Appunti sulla realizzazione del dittongo tonico ie nell’ italiano di Roma, in «La lingua italiana» (2012), VIII, pp.
171-187, il quale addebita il passaggio da jè a jé in buona sostanza proprio alla massiccia
immigrazione cha ha interessato la città di Roma nel secondo dopoguerra e alla abitudini linguistiche degli immigrati che avrebbero, ad un certo punto, soverchiato quelle dei
parlanti autoctoni. Uscirebbe dunque confermata, anche per questo fenomeno fonetico,
l’ipotesi qui sostenuta che il momento cruciale del passaggio dal romanesco belliano a
quello moderno vada spostato decisamente avanti nel tempo.
10
P. D’Achille, op. cit.
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i tratti eliminati nel corso del Novecento per favorire la nascita di un romanesco standard sono proprio quelli che più vistosamente caratterizzano
il romanesco ottocentesco d’impronta belliana e che si continuano invece,
abbastanza fedelmente, tanto in Zanazzo quanto in Petrolini. Ecco dunque che parlare di sbellizzazione del romanesco come fenomeno relativamente recente appare meno provocatorio di quanto si potesse supporre.
Vale insomma per il romanesco, almeno a grandi linee, il medesimo percorso compiuto dall’italiano per diventare, da lingua scritta della tradizione letteraria, patrimonio comune degli italiani anche nella lingua parlata:
il processo si avvia certamente dopo l’unità d’Italia, ma trova la sua consacrazione solo a partire dagli anni cinquanta, in seguito alle profonde
trasformazioni della società italiana11.
Tornando a Zanazzo e alla felice occasione della pubblicazione del suo
teatro edito e inedito, credo che possa essere di qualche interesse misurare la distanza del suo romanesco da quello di oggi, per capire quali siano
state le principali linee evolutive del dialetto. A tal fine, anziché proporre
una puntuale descrizione della lingua delle commedie (indagine che può
essere rimandata ad un’altra occasione), preferisco annotare e discutere
brevemente, limitandomi alle opere sin qui inedite, quei fenomeni che risultano ormai opachi, se non proprio sconosciuti, ai romani di oggi. Con
quest’ultima definizione alludo a parlanti maturi, non compromessi col
neoromanesco giovanile12, senza sottolineare le distanze sociolinguistiche,
dal momento che di là dal livello di competenza del dialetto di ciascuno
e da singole idiosincrasie idiolettali, vi è un comune percezione di ciò che
nel dialetto c’è ancora e di ciò che non c’è più. Quanto alla rappresentatività che la lingua della commedia e della letteratura in genere ha rispetto
al dialetto, è ben noto che nessun genere letterario sfugge a qualche forma
di stilizzazione del parlato; tuttavia la scrupolosa attenzione dello Zanazzo antropologo e folclorista per le usanze culturali e linguistiche del popolo romano mi sembra la miglior garanzia di un alto grado di attendibilità del parlato dei suoi personaggi, in particolare di quelli di estrazione
popolare. Ci si può fidare di lui, così come è giusto fidarsi di Belli 13. Sep11
T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza (II ed.),1970 e
ora T. De Mauro, Italiano oggi e domani, in C. Marazzini (a cura di), Italia dei territori e Italia del futuro. Varietà e mutamento nello spazio linguistico italiano, Firenze, Le
Lettere, 2012, pp. 29-56.
12
P. D’Achille – C. Giovanardi, op. cit.
13
L. Serianni, Per un profilo fonologico del romanesco belliano, in «Studi linguistici italiani», (1985), 11, pp. 50-89; poi in Saggi di storia linguistica italiana, Napoli, Morano,
1989, pp. 297-343.
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pure il dialetto dei personaggi di Zanazzo può presentare un’accentuazione quantitativa dei tratti che lo caratterizzano, dobbiamo pur riconoscere
che i tratti erano proprio quelli e dovevano risultare del tutto trasparenti
per il pubblico del tempo.
Eviterò, per non appesantire troppo queste note introduttive, di indicare la localizzazione nelle varie commedie delle forme che citerò. Do in
nota l’elenco delle commedie e dei bozzetti su cui mi sono fondato 14.
Partiamo dalla fonetica. Un tratto costante in Zanazzo, oggi di fatto
scomparso, se si fa eccezione per qualche forma residuale come la negazione nun, è il passaggio da o a u atona in posizione pretonica: accusì, bullente, cucchieri, curente, cusì, divuzione, Funtan de Trevi, funtanelle, furtuna, futtuto, giuveddì, giuvinotto, pulitica, scucciante, stuppino, suggizione,
suverchià.
Lo stesso vale per la chiusura in i della e pretonica: apprinsione, impidiranno, pittinata, priciso, prisidente, quarchiduno, ribbijone, siconno, sintimento, sipportura.
In accordo con le fasi più antiche del romanesco, troviamo alcune forme con assenza di anafonesi: fongo, longa, onti, stregnere e fuor d’accento
ognatura ‘unzione’.
Compaiono forme iperdittongate come nuostra, puoco, suono, suonora,
ma si tratta per lo più di forme ipercorrette messe in bocca a una popolana che si sforza di parlare ‘ciovile’.
Per il consonantismo si noti la presenza di v- nelle forme di ‘guardare’:
vardà, varda, vardate, vardateme.
Scarse tracce della ‘lex Porena’, che non va mai oltre l’indebolimento
della laterale e non arriva mai al dileguo: quela tavola, quele crature.
Tra i fenomeni generali, notiamo una fitta presenza della -v- epentetica: appravusi, cavusa, ciovè, infruvente, Pavolo, pavonazzo, pavura, presuntuvoso (prosuntuvoso, prusuntuvoso), statuva.
Prevalgono le forme del futuro e del condizionale prive di sincope: accaderà, anderete, averemo, saperemo, poteranno, vederai, averebbe, poterebbe,
vederebbe. Forme con la tradizionale epitesi di -ne: a cchine?, a mmene,
debbuttane, chi ène?.
Tra fonetica e morfologia si collocano le forme verbali di ‘tenere’ e ‘venire’ con dittongo sia in posizione tonica (tienga, tiengo, vienga, viengo,
14
Queste le commedie: Giulio Cesere, La serva socialista, ’Na dichiarazione d’amore pe’
la Regola, La famiglia de la cantante, Essere o nun essere?, Elettori infruventi, Er pizzardone avvilito, Fanatica pe’ legge li romanzi, Doppo el 20 settembre, L’amore in Trestevere.
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viengheno, vienghi, ariviengo) sia in posizione atona (tienemo, tieremo, vienicce, vienissivo, vienuto, vieranno, vierrà).
Intreressante appare la conservazione di alcune forme pronominali tipicamente belliane: miodine, nostrodine.
Per quanto riguarda la formazione delle parole, è particolarmente produttiva l’anteposizione di a-: abbasta, abbussate, accàpita, accusì, aggarba,
amanca, amancare, ammacchiata, arippresentanti, ariuscito, assoddisfatte,
avantamme.
A questi fenomeni, ormai sostanzialmente spariti dall’orizzonte del romanesco contemporaneo, o comunque molto ridimensionati, se ne dovrebbero aggiungere diversi altri che, seppure ancora presenti, sono tuttavia in forte regresso nel dialetto attuale. Ne cito solo due: l’assimilazione
-nd- > -nn- che oggi vive di fatto solo nelle forme di ‘andare’ e ‘mandare’
e nell’avverbio quanno, e che invece in Zanazzo è sistematica (per non dire dell’assimilazione -mb- > -mm- come in gamme e tommola, oggi impossibile); il passaggio di -o- a -e- nelle forme verbali proparossitone con pronome enclitico (annamesene, fermamese, incollamese, servimese), che se non
proprio uscite dall’uso, sono tuttavia a dir poco residuali.
Il settore della morfologia verbale appare assai lontano dal romanesco
d’oggi, che ha subìto un indubbio percorso di progressiva italianizzazione15. Basti la breve esemplificazione che segue, per far intendere come
Zanazzo offra un modello ancora pienamente omogeneo al romanesco
belliano. Ci si limita a indicare le forme che non hanno più corrispondenza nel dialetto contemporaneo.
Indicativo imperfetto I persona plurale: arimettemio, aspettamio, dicevamio, erimio, facemio, ruzzamio, sapemio, speramio, volevamio.
Indicativo imperfetto II persona plurale: allumavio, arzavio, avevio,
facevio, pagavio, venivio, volevio.
Indicativo passato remoto II persona singolare: dassi, magnassi.
Indicativo passato remoto III persona singolare: agnede ‘andò’, morse
‘morì’, vorse ‘volle’.
Indicativo passato remoto I persona plurale: annassimo, incominciassimo, offrissimo, piantassimo.
Indicativo passato remoto II persona plurale: allisciassivo, arzassivo,
avessivo, battessivo, facessivo, incominciassivo, ordinassimo.
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P. D’Achille - C. Giovanardi, op. cit.; E. Picchiorri, «Un popolante al Santo Padre»: una lettera in romanesco del 1846, in M. Loporcaro et alii, op. cit., pp. 177-193.
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Indicativo passato remoto III persona plurale: cacciorno, s’ingropponno,
offrinno, strillonno.
Congiuntivo imperfetto III persona singolare: avessi, passassi, pijassi,
stassi.
Congiuntivo imperfetto I persona plurale: fussimo.
Congiuntivo imperfetto II persona plurale: avessivo, fussivo, sapessivo,
vienissivo.
Congiuntivo imperfetto III persona plurale: avanzassino, avessino, cadessino, fussino (e fosseno), inchiodassino.
Condizionale I persona singolare16: averebbe, caccerebbe, direbbe, fermerebbe, imposterebbe, metterebbe, sarebbe, troverebbe, vederebbe, vorebbe.
Condizionale II persona singolare: averessi, desidereressi, doveressi, faressi, parleressi, poteressi, staressi.
Condizionale I persona plurale: averessimo, diressimo, domanneressimo,
poteressimo, saressimo, scusaressimo.
Condizionale II persona plurale: averessivo, cureressivo, daressivo, faressivo, preferissivo, trasmetteressivo, voressivo.
Condizionale III persona plurale: abbasterebbeno, averebbeno, farebbeno, pagherebbeno, porterebbeno, potrebbeno.
Nel campo della morfologia nominale spiccano i plurali femminili in
-e: bone azione, povere madre, da ’ste parte, tante osservazione, le raggione,
quale anime?.
Se la morfologia presenta vistose alterazioni rispetto al quadro attuale,
anche l’assetto del lessico e della fraseologia appare profondamente cambiato. Le commedie di Zanazzo pullulano di parole e di modi di dire ormai opachi per i parlanti romani di oggi. È probabile che la competenza
paremiologica vantata dall’autore possa averlo indotto a sovradimensionare nei suoi testi la presenza di frasi fatte, espressioni idiomatiche, adagi
proverbiali del romanesco. Resta però il fatto che, trattandosi di opere
teatrali, destinate quindi anche a un pubblico popolare, l’armamentario
fraseologico messo in campo dall’autore doveva avere un riscontro reale
nelle conoscenze linguistiche dei romani d’allora. Non si può non parlare
di un impoverimento progressivo del patrimonio espressivo del romanesco,
ormai privo di tante parole che ne innervavano e screziavano la compagi16
La forma in -ebbe della prima persona del condizionale ha indubbiamente delle propaggini sino ai giorni nostri. Tuttavia mi sembra ormai confinata, almeno in gran parte, in contesti scherzosi o comunque espressivamente marcati.
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ne lessicale, e sordo a una serie di locuzioni che davano brio e colore al
discorso.
Comincio col citare qualche parola presente nelle commedie zanazziane e uscita fuori corso, senza peraltro alcuna pretesa di completezza 17:
anticòra ‘affanno, oppressione’, appennichetto ‘pisolino’, aspèttito ‘aspetto’, broccolaro ‘permaloso’, bungiancatte ‘accidenti a te’, burzugni ‘zotici’,
a la buscarona ‘malamente’, buvatte ‘fandonie’, canercia ‘oggetto o indumento in cattivo stato’, cassabbanco ‘cassapanca’, ciancicone ‘sfruttatore di
donne’, ciarlevo ‘prendo le botte’, cinico ‘pezzetto’, ciorcinato ‘poveraccio’,
cirignoccola ‘testa’, codetta ‘striscia di cuoio per affilare il rasoio’, conocchie
‘donne da poco’, cornuto a paletta ‘cornuto consapevole’, corvatta ‘cravatta’, diàncine ‘diavolo’, ètte ‘quantita minima’, falloppone ‘smargiasso’, farajolo ‘mantello’, fiandra ‘donna senza scrupoli’, franconi ‘uomini gioviali’,
fritto ‘amante’, fughenzia ‘fuga’, garaghè ‘gioco d’azzardo’, guitarino ‘deretano’, Jeso ‘Gesù’, indivisa ‘divisa (militare)’, ignommeratore ‘arcolaio’, insinenta (o infinenta) ‘fino a’, lecchetto ‘raffinatezza’, lendiere ‘ringhiere’,
magoga ‘confusione’, marco ‘uomo’, mammone ‘gruzzolo’, marvone ‘persona mogia’, maschietti ‘ginocchia’, mentuvà ‘nominare’, miccarolo ‘truffatore’, musicarolo ‘cantante mediocre’, ognatura ‘unzione’, a paletta ‘in grande
quantità’, pettinaro ‘cardatore di lana’, puzzetta ‘cosa o persona di nessun
valore’, riarto ‘piccolo ricevimento’, te rizzollo ‘ti picchio’, ruzza ‘ripicca’,
ruzzamio ‘scherzavamo’, saraga ‘pugnale a lama larga’, scaccione ‘addetto
alle pulizie’, scarmato ‘trafelato’, scassate ‘cancellate’, scellonito ‘intontito’,
sciattini ‘macellai ebrei’, scuffiara ‘modista’, sfrizzolo ‘colpo secco’, soffione
‘suggeritore teatrale’, spasa ‘spargimento’, tatanai ‘confusione’, tontolomei
‘sciocchi’, urione ‘rione’, zugna ‘da nulla’, zunnananà ‘persona di nessun
conto’.
Ed ecco un manipolo di modi di dire e adagi proverbiali decisamente
datati: bizzochi e colli storti ‘bigotti e ipocriti’, ma fajela ‘su, coraggio!’, ma
manco pe’ ’na picchia! ‘nemmeno per sogno’, sbatte la scucchia ‘mangiare’,
chi fa bene ar somaro ciarimette lescia e sapone ‘inutile far del bene a chi
non lo merita’, quant’è lunga la camicia de Meo! ‘di cosa monotona e noiosa’, s’è messo in testa Colonna trojana ‘è uscito di senno’, vestiteve e tocca ‘vestitevi in fretta’, da segnasse col carbone bianco ‘detto di evento eccezionale’,
sputasse un’ala de pormone ‘faticare molto’, fà mosca ‘tacere’, dasse er cin17
Ho controllato le parole prese in considerazione nei vocabolari F. Chiappini, Vocabolario romanesco, Roma, Chiappini, 1967 e F. Ravaro, Dizionario romanesco, Roma,
Newton Compton, 1994.
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quanta ‘stringersi la mano’ (oggi, in tempi di recessione economica, è stato sostituito da dasse er cinque), curre a pianara ‘arrivare in grande quantità’, va a gattaccia ‘va in cerca di facili amori’, annate a l’erba ‘andate a
lavorare’, se ne vanno onti onti ‘camminano adagio’, annerebbe piuttosto a
fà cicoria co li denti ‘ preferirei fare un lavoro molto faticoso’, ce vado proprio in guazzetto ‘vado in sollucchero’, me sa mill’anni ‘non ne potevo più
di aspettare’, sinnò mo’ la sentimo la quaja cantà ‘sennò rischiamo una reprimenda’, daressivo un sedici ‘mettereste nel sacco’, arivate proprio a ciccio
de sellero ‘a proposito’, fà bene la rucca-rucca ‘la ruffiana’, e tocca la viola!
‘e va via!’, Oh cielo li facioletti! ‘magari fosse così!’.
La rassegna qui proposta, sia pure assolutamente parziale, e sia pure
passibile di diverse interpretazioni circa la sopravvivenza nel romanesco
d’oggi di singole forme e di singole parole, mi pare tuttavia confermare
l’impressione di cui dicevo all’inizio di questo scritto: il romanesco di
Zanazzo (come anche quello di Petrolini e di altri autori attivi tra Otto e
Novecento, come ad esempio il Chiappini poeta18) guarda continuamente negli specchietti retrovisori e inquadra immancabilmente il dialetto belliano. Come già visto per i tratti fonetici e morfologici, anche il lessico è
per la massima parte condiviso con quello che compare nei sonetti belliani. Viene da chiedersi, dunque, se l’etichetta di ‘romanesco postunitario’
non potrebbe essere efficacemente sostituita con quella di ‘romanesco postbellico’, alludendo ai complessi fattori storici, culturali, politici e, in ultimo, linguistici, che si mettono in moto dopo il primo conflitto mondiale, ma che trovano nel complessivo rimescolamento del rapporto lingua
nazionale/dialetti, giunto a maturazione nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, il vero motore della definitiva sbellizzazione del romanesco.
18
Sulla lingua dei sonetti di Filippo Chiappini mi permetto di rinviare a C. Giovanardi, I sonetti romaneschi di Filippo Chiappini dai manoscritti alle stampe. Con un testo
adespoto (o del Belli?), in M. Loporcaro et alii, op. cit., pp. 213-233.
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Laura Biancini
«E ppoi dicheno che ar teatro fanno ride»:
introduzione al teatro di Zanazzo
L’impegno economico che i vari stati in Italia dovettero sostenere per
far fronte alle guerre risorgimentali chiude la grande stagione del teatro
dell’Ottocento caratterizzata, a seguito della dominazione napoleonica,
dall’affermazione dell’idea del teatro a gestione pubblica, come garanzia
di qualità e di professionalità, nel quale operavano grandi compagnie stabili con finanziamenti statali.
Venute meno le sovvenzioni pubbliche, l’attività teatrale passò nelle
mani degli impresari privati mentre alcuni dei più importanti attori delle
disciolte stabili diedero vita a compagnie proprie: la seconda metà del XIX
secolo vede dunque il trionfo delle compagnie di giro, più o meno prestigiose, molte delle quali sposarono con impegno e passione la causa dell’Unità d’Italia e contribuirono con il loro nomadismo all’abbattimento di confini politici e linguistici, premessa indispensabile per una auspicata unità
culturale.
Purtroppo una gestione del tutto privata del teatro, a lungo andare,
mostrò inevitabilmente l’altra faccia della medaglia, cioè la necessità di
incassare per vivere, che spesso gravò sulla qualità tanto che alla fine del
secolo «[…] le condizioni del teatro italiano erano desolanti. Le compagnie ormai risultavano tutte concentrate sulla figura di un grande attore,
il cosiddetto ‘mattatore’, mentre le poche altre, dette ‘di complesso’ si basavano su una meccanica applicazione dei ruoli tradizionali o ripiegavano
su un repertorio pochadistico e vaudevillesco.1»
All’indomani dell’unità e di Roma capitale, in un paese tutto da costruire, o ricostruire, anche il teatro fu perciò oggetto di particolari attenzioni sia per migliorare in genere la sua qualità sia per realizzare l’aspirazione, ormai irrinunciabile, a far nascere, nell’ambito di una nuova cultura italiana, un nuovo teatro nazionale dignitoso e solido nelle forme e nei
contenuti.
Numerose furono in quegli anni le proposte, i tentativi, le tappe, le
1
A. Camilleri, I teatri stabili in Italia: 1898-1918. Bologna, Cappelli, 1959, p. 10.
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vittorie, i fallimenti che caratterizzarono i vari momenti di un percorso
non facile il cui punto di arrivo doveva essere l’istituzione di strutture stabili che potessero assumersi il peso della fondazione e del mantenimento
di un teatro capace di rispondere alle esigenze di un pubblico nuovo, in
un paese nuovo, unito ma così variato e differenziato e nel quale ‘gli italiani’, popolo nuovo di zecca, si potessero riconoscere 2.
Roma, nuova capitale, doveva naturalmente impegnarsi da protagonista in questo progetto e tale aspirazione si concretizzò sostanzialmente con
tre iniziative: il Teatro Drammatico Nazionale, la Casa di Goldoni e la
Drammatica Compagnia di Roma.
Nel 1886, a spese e per iniziativa del principe Ruffo della Scaletta e di
altri aristocratici, fu appositamente costruito in via Quattro novembre il
Teatro Drammatico Nazionale dove inizò ad agire una Compagnia anch’essa appositamente istituita con eccellenti attori come Ermete Novelli,
Luigi Biagi, Claudio e Teresa Leigheb, Angelo Vestri, Virginia Marini,
Pierina Giagnoni, mentre il direttore era il commediografo Paolo Ferrari.
Il debutto avvenne con La locandiera di Goldoni, ma nonostante le ottime premesse e le migliori intenzioni l’iniziativa naufragò.
La Casa di Goldoni nacque nel 1899, su modello della Maison de Molière (Comedie Française a Parigi) con sede al Teatro Valle. Il promotore
era Ermete Novelli. Si debuttò con un’opera di Goldoni, Il burbero benefico, alla quale seguì Pane altrui, di Turgheniev, annunciando così un repertorio nazionale e internazionale. Anche questa iniziativa non ebbe il
successo sperato.
Finalmente nel 1905 al Teatro Argentina iniziò la sua attività, sotto la
direzione di Eduardo Boutet, la Drammatica Compagnia di Roma nella
quale agivano, tra gli altri, la ormai anziana Pezzana e il giovane Ferruccio
Garavaglia.
I committenti stavolta erano la Società degli Autori di Roma, la Casa
Reale, il Comune ed alcuni privati e il teatro si proponeva come un vero
e proprio teatro ‘a gestione pubblica’ la cui finalità principale era quella di
realizzare un teatro per tutti. Il debutto avvenne con una memorabile messinscena del Giulio Cesare di Shakespeare, che vedremo avrà grande influenza su Zanazzo. Seguirono Il ventaglio e L’Impresario della Smirne di
Goldoni e successivamente non si trascurò di proporre opere di grande
impegno sociale.
2
Cfr.: L. Biancini, Per un teatro nazionale, relazione al convegno Letteratura, lingua e
dialetto: identità nazionale. Roma, 18-20 ottobre 2011, organizzato dal Centro studi G.
G. Belli. Gli Atti sono in via di pubblicazione.
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Nel 1909 Ettore Paladini, subentrato nella direzione artistica, cambiò
il nome della compagnia in Nuova Stabile, ma il repertorio restò all’altezza della tradizione: La maschera di Bruto e La cena delle beffe di Sem Benelli, La professione della signora Warren di George Bernard Shaw, Il fuoco
della morte di Luigi Antonelli, La vedova scaltra di Goldoni, Il malefico
anello di Domenico Morello un’opera a favore del divorzio, Orione di Ercole Luigi Morselli.
L’istituzione, sotto le diverse direzioni, sopravvisse con alterne vicende
fino al 19173.
Mentre dunque leggi, provvedimenti e quant’altro si impegnano a fare dell’Italia una nazione con un’unica identità politica, culturale, e perciò
anche linguistica, si registra un fenomeno che sembra andare nella direzione opposta. Scrive, infatti, Silvio D’Amico che «la società italiana, fino
alla grande guerra, sembrò dove più dove meno restia a fondere in caratteri unitari e comuni quelli delle rispettive regioni» 4. E l’allusione non è
riferita soltanto alle proposte di teatro in dialetto di autori come, ad esempio, Augusto Novelli, Renato Simoni, Nino Martoglio o il grande Salvatore Di Giacomo, ma anche ad alcune opere in lingua di importanti autori, come Matilde Serao, Grazia Deledda e lo stesso Gabriele d’Annunzio,
nelle quali è facile percepire un evidente regionalismo.
Così a Roma come nel resto d’Italia, parallelamente alle alterne vicende di un teatro nazionale che abbiamo visto affermarsi tra mille difficoltà,
vive, frutto di una tradizione più o meno illustre, un teatro popolare che
riscuote un certo successo e che, seppure non sempre di grande qualità,
continua a dare risultati non privi di interesse e di consensi.
Giuseppe Gioachino Belli, amante del teatro, ma soprattutto esigente
spettatore, aveva spesso dichiarato nei suoi sonetti di preferire proprio
quegli spettacoli che andavano in scena nei piccoli teatri popolari, alla noia del teatro ufficiale, rivendicando dunque al teatro in dialetto indubbie
doti di vivacità e vitalità grazie alle quali esso sopravvisse indisturbato anche nella seconda metà dell’Ottocento.
All’indomani dell’unità d’Italia Anton Giulio Bragaglia registra, infatti, ben trentotto teatri attivi5 a Roma, nei quali agivano attori e compagnie con identiche caratteristiche delle compagnie attive in Italia alla fine
del secolo: dominavano la scena i primi attori, i copioni erano di conse3
Per la storia delle istituzioni teatrali cfr.: F. Doglio, Il teatro pubblico in Italia. Roma,
Bulzoni, 1969, pp.35-73.
4
S. D’Amico, Storia del teatro drammatico, Milano, Garzanti, 1960, II, p. 326.
5
Cfr.: A. G. Bragaglia, Storia del teatro popolare romano, Roma, Colombo, 1958, p. 497.
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guenza disattesi, anzi era ampiamente in uso l’improvvisazione con la riproposta di maschere o tipi fissi in un repertorio formato da opere di facile presa sul pubblico.
Uno dei personaggi molto in voga a Roma era ad esempio Pippetto,
una sorta di maschera derivata dall’Ajo nell’imbarazzo di Giovanni Giraud,
che particolarmente si prestava alle esibizioni istrioniche del suo interprete. Proprio per queste sue caratteristiche Pippetto si affermò come protagonista di numerosi vaudevilles in chiave romanesca, un genere teatrale,
simile all’operetta, composto di brani in prosa, poesia e musica che lasciava ampio spazio all’improvvisazione. Interpreti indiscussi di questo personaggio furono dapprima Oreste Raffaelli6 e poi Oreste Capotondi7 che
ne fecero per anni il loro “cavallo di battaglia” trionfando sui palcoscenici
dei teatri popolari romani.
***
Proprio in questi anni si svolge la breve ma intensa parabola teatrale di
Giggi Zanazzo iniziata al teatro Rossini di Roma dove egli operava con
una sua compagnia, proponendosi in netta controtendenza con la tradizione dominante. Il debutto avvenne nel 1882 con I Maganzesi a Roma,
operetta ambientata negli anni della prima Repubblica Romana e successivamente nel 1887 egli presentò un’altra operetta, intitolata Pippetto ha
fatto sega, che ha come protagonista proprio quel personaggio che come
abbiamo visto godeva di grandi consensi. Ma a differenza di quello che
era l’uso comune, Zanazzo propose un testo completamente e definitivamente scritto e che all’attore interprete di Pippetto, cioè Oreste Capotondi, lasciava soltanto una occasione per improvvisare, la scena dell’interrogazione a scuola nella quale Pippetto impreparato e soprattutto sciocco
dice e fa un’infinità di stupidaggini.
DESIDERIO Come fu che avvenne il diluvio universale?
PIPPETTO (ripetendo) Come fu che avvenne il diluvio universale… Come fu… ecco, ecco. Il Signore vedendo che gli uomini commettevano
ogni sorta di nequizie fece piovere dalla terra… cioè dal cielo, per quaranta notti e quaranta giorni, ossia per quaranta giorni e quaranta notti e quaranta doppo pranzi cioè giorni… ossia (tossisce e s’ impappina)
DESIDERIO Non lo sapete!
6
Oreste Raffaelli, (att. Roma sec. XIX). Attore, cantante e poi capocomico, creatore del
personaggio di Pippetto detto per questo Pippetto Primo.
7
Oreste Capotondi, (att. Roma sec. XIX). Attore imitatore di Oreste Raffaelli detto
per questo Pippetto Siconno.
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PIPPETTO La sone, la sone! Ecco, pe’ quaranta notti un’abbondantissima quantità d’acqua che coperse tutta la terra insinenta a le più alte vette de le montagne… de le montagne. Ah! E non si salvò altro che Noè
il quale essendo verniciato di dentro e di fuori… no, Noè il quale con
la sua arca verniciata di dentro e di fuori, si salvò portando seco… (scena a soggetto)
DESIDERIO Non la sapete. Siete un asino. A voi prendete. (lo frusta)
PIPPETTO Ajo! Mamma aiuto!
Li ragazzi de scola se tiengheno le mano su la panza pe’ nun schiattà da ride 8 .
Successivamente nelle altre sue opere solo raramente troveremo l’indicazione ‘a soggetto’ e comunque soltanto in quei casi in cui sarà necessario
movimentare una scena di gruppo.
Con Pippetto ha fatto sega Zanazzo dichiara guerra all’improvvisazione
e all’istrionismo per ristabilire, anche nel teatro in dialetto, serietà e professionalità sottraendo la recitazione al dominio istrionesco degli attori e
riportando i testi nei ranghi di una vera drammaturgia. Il cambiamento
non è semplicemente formale ma sostanziale, perché a quel teatro, per il
quale invoca rigore e severità, egli vuole restituire un ruolo squisitamente
culturale e sociale come testimone del tempo. In questo modo Zanazzo
opera una vera e propria riforma, in senso moderno, del teatro in dialetto,
sottraendolo ad un contesto limitato e locale per inserirlo a pieno diritto
in un contesto nazionale.
Spenti gli slanci ideologici che avevano condotto all’unità, e che avevano nutrito la dramaturgia risorgimentale il teatro italiano intanto aveva
individuato altre e diverse finalità che tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento si identificavano con l’esigenza di osservare e
descrivere la nuova realtà storica e cioè la nuovissima nazione italiana nella sua quotidianità problematica e contraddittoria.
Chiunque non volesse a bella posta chiudere gli occhi dinanzi alla realtà,
restare sordo alla voce della coscienza, non poteva rifiutarsi di compiere un
esame obiettivo in sé e intorno a sé, non sentire insorgere un bisogno di sincerità, considerando la convivenza civile nel nostro paese. Così Verga vede
con nuovi occhi il mondo contadino tra cui è cresciuto, comprende attraverso la forza del linguaggio nativo l’importanza di rivelarne il dolore e la
natura. Attraverso un linguaggio volutamente consunto, Giacosa della classe a cui appartiene scopre le crisi morali, e il suo dibattersi nel ferreo alveo
delle leggi economiche, i rapporti che si vengono a creare tra i potenti e i
8
Atto I, scena IX.
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deboli nel seno della stessa classe, tra la forza di volontà e l’incapacità di affrontare le più dure prove nella lotta per la vita, la miseria morale delle situazioni, il senso di rinuncia che si accompagna ad ogni soluzione. Da questo momento il dramma non solo interpretava la vita quotidiana, ma entrava a farne parte9.
Analogamente Zanazzo, senza abbandonare il punto di vista da ‘antropologo’ che lo aveva guidato per le sue raccolte sugli usi e costumi romani, con la sua scrittura teatrale che parla in romanesco nelle forme più diverse dal vaudeville alla commedia, dal monologo al contrasto d’amore,
fotografa e osserva la cultura e la società di una Roma che si stava dissolvendo per lasciare il posto a qualcosa di entusiasticamente nuovo, ma non
privo di dubbi e incertezze e cioè la realizzazione del suo nuovo compito
di capitale dell’Italia unita.
***
In questa non semplice impresa Zanazzo doveva inevitabilmente fare
i conti con un’ingombrante eredità del passato, con l’opera di chi aveva
magistralmente assunto a protagonista assoluta della sua poesia quella Roma che sarebbe poi stata spazzata via dai nuovi eventi storici e cioè Giuseppe Gioachino Belli.
A questo proposito è interessante leggere quanto scrive Leonardo Lattarulo citando una lettera scritta da Zanazzo a Pio Spezi il 6 luglio 1910 10:
Quest’ultima [lettera] appare particolarmente interessante, perché contiene una decisa rivendicazione di originalità, soprattutto sul terreno dell’osservazione folklorica, da parte di Zanazzo rispetto alla grande lezione belliana, di cui pure il poeta riconosce tutto il valore. L’occasione della lettera è data da una recensione di Spezi, pubblicata in «Rivista storica italiana», 26 (1909), 2, p. 141-144, dedicata al libro di Giggi Zanazzo, Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma (Torino, STEN, 1908). Lo studioso
aveva scritto che la maggior parte della materia contenuta nel libro era
stata tratta dai sonetti romaneschi del Belli e Zanazzo così gli risponde:
«Meno pochi giuochi, e pochi rimedi simpatici e qualche credenza, null’altro mi è stato offerto dal Belli, perché, per sua confessione, egli non è stato esatto ed ha esagerato nella descrizione delle credenze aggiungendovi
del suo, come ho potuto riscontrare io stesso. Se il Belli avesse lasciato una
9
V. Pandolfi, Storia universale del teatro drammatico, Torino, UTET, 1964, II, p. 547.
G. Zanazzo, Lettera a Pio Spezi, Roma, 6 luglio 1910. BNCR, ARC 46 Zanazzo 2.
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raccolta di tradizioni romane (il che a’ suoi tempi era impossibile) io mi
sarei ben guardato dal fare cosa già fatta e poi da chi!» E più avanti: «Quindi, per ristabilire la verità, ti prego appena hai un po’ di tempo, di confrontare quanto nel libro c’è di mio e quanto è del Belli. Ci tengo a questo
favore e spero che vorrai farmelo alla prima occasione. Essendo io del Belli (come lo siamo tutti) ammiratore devoto ed entusiasta, non posso fare
a meno di citarlo spesso, credendolo un mio dovere; ma altro è citarlo altro è dire che tutto quanto io dico è già stato detto dal Belli! Confronta e
vedrai.»11
Molto tempo dopo in un interessante articolo uscito sulla Strenna dei
Romanisti, Vittorio Clemente, nel fare il punto sulla condizione della poesia in romanesco tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, torna sul rapporto Belli-Zanazzo sostenendo senza esitazione come
quest’ultimo sia riuscito a superare la pesante eredità belliana individuando nella letteratura in dialetto un diverso possibile compito, quello cioè
di registrare e nello stesso tempo conservare l’identità della cultura cui
quel dialetto appartiene.
Il mondo del Belli era tutto da esplorare. Non era un mondo popolare
oggettivamente riprodotto, ma era un mondo creato dalla fantasia di un
grande poeta, con significati e contenuti di verità e di poesia ed espresso
inoltre potentemente, con studio di grammatico e di filologo, usando un
linguaggio vivo e adatto.
Sfuggì agli imitatori e ai tardi epigoni il carattere unitario e ciclico che,
nei duemila sonetti, risolveva insieme le definizioni e le classificazioni di
genere, o di forma o di tema che i sonetti stessi, considerati ciascuno a sé
stante, possono via via suggerire.
Quel mondo immenso venne così a frantumarsi e al giudizio comune e
corrente si ripresentò negli aspetti più appariscenti e deteriori; la musa faceta vi attinse a piene mani i suoi argomenti umoristici e scurrili.
[…]
Tuttavia non mancò chi seppe riprendere con consapevolezza artistica
e poetica l’esplorazione del mondo popolare, come il Chiappini, i due Marini – Augusto e Carlo – il Ferretti, il Tolli; e fra costoro venne bene a collegarsi il giovane Zanazzo.
[…]
11
L. Lattarulo, Per una storia della fortuna del Belli: il Carteggio Spezi in: P. Heyse, Il
carteggio Paul Heyse – Pio Spezi. Un’amicizia intellettuale italo-tedesca tra otto e novecento, a cura di M. Battafarano e C. Costa, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 2009,
p. 15, nota 8.
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introduzione
Di fronte al Belli, Zanazzo ha sentito l’urgenza della ricerca folklorica,
egli ne intende la grande lezione e intuisce che nel mondo dei duemila sonetti l’elemento folklorico, di oggettiva osservazione si trasforma in elemento lirico e di fantasia. Non ha però capacità di approfondire l’intuizione […]
l’importanza della sua opera sta in questo: egli cercò di ricondurre a un significato una poesia di grandi possibilità, come quella romanesca ma che
s’era svuotata di contenuti e valori per effetto di una imitazione accettata su
modelli e mai chiarita criticamente. Bisognava riaccostare, secondo quanto
pensava, la poesia dialettale al popolo genuino e vero; e la formula che tosto
trova nel folklore è semplicemente quella di dipingere al vivo la vita e i sentimenti del popolo […] non però in una sintesi espressiva, come era avvenuto nel sonetto del Belli, ma in un quadro analitico di fatti e di costumi, perché la poesia dialettale – sempre a suo parere – non può ispirarsi al di fuori
delle tradizioni popolari, né deformare popolarescamente ciò che all’animo
popolare è estraneo12.
Applicando questi stessi parametri alla drammaturgia Zanazzo nelle
sue opere teatrali descrive la società che, tra la fine del XIX e l’inizio del
XX secolo, vive o subisce le grandi inevitabili trasformazioni di un paese
che si trova a nascere dalle sue proprie ceneri e che deve costruirsi dal nulla una sua identità, una società nella quale anche le classi di cui si compone cercano di ridefinirsi: l’aristocrazia sembra scomparsa, in realtà è solo
defilata e pronta a recuperare le sue posizioni di prestigio, i ceti medi si
stanno delineando in cerca di un nuovo più autorevole ruolo e il popolo
appare momentaneamente annientato o persino senza coscienza del nuovo presente o forse è semplicemente troppo cosciente che per esso tutto è
cambiato per rimanere tale e quale.
Occupa pertanto il proscenio del teatro di Zanazzo una piccolissima e
meschina borghesia, cialtrona e disgustosamente arrivista ne La famiglia
de la cantante, il cui sottotitolo è non a caso Scene della borghesia romana,
oppure stupidamente tronfia del benessere raggiunto come la protagonista de La Socera, o pericolosamente disonesta e imbrogliona come i lestofanti che agiscono negli Elettori infruventi o infine nostalgica del passato
a vario titolo e senza troppa cognizione di causa come in Doppo il 20 settembre, o Er pizzardone avvilito, o Essere o nun essere.
Qualche anno più tardi questa piccolissima borghesia rafforzata e affermata troverà il suo nuovo cantore in un poeta più giovane di Zanazzo
di soli dieci anni, Trilussa.
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V. Clementi, Giggi Zanazzo poeta e folklorista romanesco nel centenario della sua nascita. «Strenna dei Romanisti», 1960, pp. 42-43.
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Si sa che G. G. Belli deliberò di lasciare un monumento di quello che
era ai suoi tempi la plebe di Roma; Carlo Alberto Salustri (universalmente
noto con lo pseudonimo di Trilussa) inconsciamente lasciò un monumento
alla piccola borghesia (detta generetto per distinguerla dal generone sotto il
cui appellativo era ammantata l’alta borghesia) che a Roma, nell’evoluzione
dei tempi e dopo il passaggio dei poteri pubblici dalle autorità ecclesiastiche
alle autorità regie, aveva preso d’impeto il posto già tenuto per secoli dalla
plebe ritiratasi volontariamente nei vicoli a rimembrare i tempi d’oro del
passato. Man mano che ci si allontanava dal 20 settembre 1870 questa piccolissima borghesia prendeva forma e forza, si affermava, cominciava a fare
sentire il suo peso in tutti i campi d’attività, ognora pronta a dire la sua e a
far valere i suoi diritti con agitazioni, scioperi, sommosse, rivolte (famose
quelle del 1889!). La plebe del Belli mormorava, mugugnava, prendeva in
giro Papa e Cardinali, preti e frati, ma, avvinta dalla fede, accettava la propria condizione di sudditanza quasi come volontà divina. La borghesia nuova si muoveva, si agitava sotto la spinta dei fermenti ideologici, del romanticismo, del positivismo e dell’idealismo, affascinata dal libero pensiero, di
cui tutti parlavano, ma nessuno sapeva esattamente cosa fosse. Trilussa, che
apparteneva a questa piccola borghesia […] di questa piccola borghesia si
fece cantore più immediato e più completo, e in ciò riuscì in quanto aveva
il modello belliano a portata di mano13.
Ma intanto quella borghesia è incerta, insicura e, attraverso i personaggi teatrali di Zanazzo, manifesta le sue paure e i suoi dubbi tanto che volentieri torna persino a ricordare con nostalgia il passato come nei versi di
Che tempacci!:
Chi ce lo avesse detto! ecchece qua…
Prima che tempi, ma che tempi belli
E stamio tutto er giorno a baccajà!
Er Signore ciopprime co’ ‘sto morbo
d’avecce fatto piove li fratelli.
o nella battuta (purtroppo poi soppressa dall’autore) che ad essi sembra far eco e che pronuncia Ameleto protagonista di Essere o nun essere:
13
G. Vaccaro, Vocabolario romanesco trilussiano e italiano-romanesco: etimologico, lessicale, grammaticale, fraseologico, dei proverbi e modi proverbiali, dei sinonimi e degli opposti, Roma, Romana libri alfabeto, 1971, pp. 7-8.
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introduzione
AMELETO Me viè da ride quando penso che sotto a li preti desideravamo più li fratelli che ll’ovo de Pasqua. A senticce, Roma doveva diventà
Pariggi; l’arte se doveva inalzà a un livello spropositato, li quatrini doveveno piove dal Cielo ... E invece? È successo come tempo fa che per
impedì al popolo de scortellasse, fu fatta la Lega contro el Cortello; e
poi se scannaveno peggio de prima ...14
Né in Che tempacci! né nelle parole di Ameleto però leggiamo rassegnazione o sterile rimpianto per il bel tempo che fu; nei versi come in tutto il teatro emerge piuttosto una forma, seppure controllata, di delusione
delle aspettative, una delusione che non solo è profonda, ma forse è soprattutto persino… troppo consapevole che la soluzione non c’è.
E quale dialetto si parlava a Roma in quegli anni? Un dialetto ormai
lontano dal modello belliano ma che non è ancora quello di Trilussa, un
dialetto che come sempre si evolve, muta e in questo particolare periodo
va progressivamente accogliendo in sé parole italiane.
Zanazzo nelle sue opere teatrali lo usa con sottile abilità adattandolo
via via alle diverse esigenze, al ceto, alla cultura, al carattere del personaggio, alla situazione contingente, passando dal dialetto crudo dei personaggi più popolari a quello più italianizzato parlato in ambienti più borghesi nei quali più evidente è la commistione con la lingua nazionale quale
segno distintivo di una nuova nascente cultura.
Anche le didascalie seguono le sorti della lingua usata: sono in romanesco se così parlano i personaggi, mentre altrove sfoggiano un italiano
persino forbito.
Diverso è il caso poi di quei personaggi che cercano di “parlare bene”
e che Zanazzo teatralmente risolve reinventando per loro un linguaggio
secondo le regole praticamente eterne della comicità: ad esempio Agheta
ne La famiglia de la cantante, o Ustacchio, cameriere in Evviva la migragna! dicono cose senza senso, storpiano le parole, le usano in modo improprio, fanno persino fantasiose citazioni in latino, il tutto naturalmente con effetti esilaranti.
Il risultato è una sicura efficacia della scrittura drammaturgica la quale, unita ad una sapiente conoscenza del linguaggio teatrale evita a Zanazzo di cadere nel facile bozzetto popolare o in un pedante realismo. E quando poi sceglie forme di spettacolo diverse da quelle classiche, il vaudeville
ad esempio, sa bene dove cercare il modello, non si ferma a guardare le
infinite imitazioni che poteva trovare intorno a sé, guarda dritto all’opera
14
Scena III.
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di Geoges Feydeau o di Eugène Labiche. Come i commediografi francesi
perciò riesce ad utilizzare al meglio il delicato ma perfetto ingranaggio di
questo genere teatrale troppo spesso ingiustamente trascurato e sottovalutato ma che Vito Pandolfi, ad esempio, identifica come diretto discendente della migliore tradizione della commedia dell’arte:
Quel che la Commedia dell’Arte deve a Plauto, il vaudeville deve alla
Commedia dell’Arte: l’impianto scenico e l’effetto comico.
[…]
Il senso primo del genere vaudeville si lega all’accordo tra musica e prosa,
alla scoperta della commedia musicale, in altri termini dell’esigenza spettacolare anzitutto nel testo e nella musica. Gli spettacoli italiani traevano il loro
successo esclusivamente dall’interprete, cioè dalla Maschera. L’interprete prende il suo vigore dall’archetipo, che egli crea e rinnova. Finché non si fa frusto.
Ed ecco sorgere la necessità di un nuovo genere, di un testo vero e proprio che
dia modo all’interprete di trionfare sulla scena. Il vaudeville fornisce appunto
questa trama, e a poco a poco diviene sinonimo nel teatro francese di genere
comico, come a dire teatro professionale, fatto per il pubblico e dal pubblico
sostenuto, in quanto dispone di ampie facoltà per quel che riguarda il suo potere nei confronti del riso, che sono contenute fin nel testo stesso.
Lesage, e più tardi Scribe, Labiche, Feydeau, Bisson e gli altri scoprono il
riso che conviene alla loro epoca, ogni volta: la satira o l’ironia non sono per
loro un fine, bensì un mezzo, il fine restando la tecnica comica del gioco scenico, affidata sostanzialmente alla situazione, a volte anche alla battuta.
Il professionismo teatrale ha bisogno della comicità come del pane per
vivere, e deve di continuo rinnovarla perché il pubblico se ne stanca presto.
La storia del vaudeville risulta appunto la storia di questo continuo lavorìo
con trapasso dei poteri (e anche lunghe pause). Ci si rifà al costume contemporaneo, ai personaggi della vita quotidiana, ma per mero pretesto formale:
ciò non toglie che alla fine ne risulti un quadro pittoresco. Dipinge a vivi
colori il suo pubblico, in un ritratto che ne accomuna i gusti e i costumi15.
Zanazzo ha bene assimilato la lezione francese tanto da poterla rimodellare sulla situazione romana. Alla leggerezza, all’eleganza del vaudeville
francese egli risponde con i modi e le cadenze della sua scrittura in dialetto, all’ambiente borghese parigino egli sostituisce quello della sua Roma,
e se l’operazione non riesce sempre, l’intuizione è assai interessante e qua
e là offre più di uno spunto alla piacevole risata sottraendo il teatro in dialetto ad un destino che sembra negargli la possibilità di accontentare il
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V. Pandolfi, Storia universale…, op. cit., II, pp. 385-386.
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pubblico al di fuori di una scontata comicità troppo spesso grossolana o
persino volgare.
Sono tre le opere scritte in forma di operetta e tutte edite: I Maganzesi a Roma (1882), Pippetto ha fatto sega (1887) e La Guida Monaci (1887)
musicate rispettivamente da Giovanni Mascetti, Cesare Pascucci e Valerio
Romano. Purtroppo non è restata traccia delle partiture musicali, o almeno finora non se ne è avuta notizia (chissà che in seguito a questa pubblicazione non possa emergere qualcosa da qualche ignorato cassetto o scaffale) ed è pertanto difficile giudicare le opere nella totalità della loro resa
scenica.
***
Li Maganzesi a Roma, come abbiamo già detto, è il primo lavoro teatrale di Zanazzo. Terminata il 10 ottobre 1880, l’operetta andò in scena
per la prima volta al Teatro Rossini il 30 settembre del 1882 in collaborazione con la compagnia di Filippo Tamburri16.
L’azione si svolge a Roma nel 1798 ed ha come protagonista il popolo
romano che non tollera la presenza degli Austriaci, i Maganzesi, i quali,
come è noto, il 27 novembre del 1798 erano giunti a Roma, e vi si erano
insediati, al comando di Karl von Mach che aveva condotto vittorioso
l’esercito napoletano contro la Repubblica Romana. Gli invasori, prepotenti e arroganti, parlano un italiano da burletta che ricorda quello dello
sguizzero der Papa ne La pissciata pericolosa di Belli, o dei soldatini tedeschi delle Sturmtruppen di Bonvi17 e naturalmente insidiano le donne.
Cencio che non può tollerare tale affronto riunisce i cittadini romani e
così si rivolge loro:
Prima, cqua, in ‘sto castelluccio,
stamio guas’in paradiso;
io le cose nu’ le sviso:
nun è fforse verità?
Ma dde post’in un momento,
viè da ll’estro ‘na canaja
che ppe’ Roma se sparpaja,
e ce mett’a ttrìbbolà.
16
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Filippo Tamburri, (att. Roma sec. XIX). Attore del teatro operettirstico romanesco.
Pseudonimo di Franco Bonvicini (1941-1995).
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Poi, ne fa d’ogn’erb’un fascio;
e protenne de f ’affronti,
(manco noi fussimo tonti)
a le femmine de equa.
Romani, perbìo,
su, ddite ‘da bravi:
volet’ esse’ schiavi
o sta’ ‘n libbertà18?
Si decide perciò di dare ai Maganzesi una lezione. L’appuntamento è
per la sera della Befana a piazza Sant’Eustachio dove il popolo tradizionalmente si ritrovava tra le bancarelle del mercato di Natale.
Purtroppo l’edizione a stampa è lacunosa, mancano alcune scene e, ad
esempio, proprio nell’atto terzo manca la scena in cui i popolani avrebbero dovuto picchiare gli austriaci. Si salta, infatti, dalla scena quinta che
dovrebbe preludere all’agguato, alla scena ottava che chiude la commedia
con un trionfale brindisi nel quale, però, i romani non inneggiano alla
vendetta compiuta o alla libertà, ma solo al vino.
Pippetto ha fatto sega, alla quale abbiamo già accennato, ha la struttura
tipica del vaudeville che si sviluppa solida ed equilibrata nella sua rigorosa scansione di arie, duetti e cori. La vicenda a sua volta ha il ritmo concitato della farsa fatta di intrecci e di equivoci che troveranno soluzione
soltanto alla fine, e ruota attorno alla stupidità del protagonista, Pippetto.
Per acquistare credito agli occhi della promessa sposa egli, per volere dei
suoi genitori si rassegna ad andare a scuola, ma poiché è anche poco diligente un bel giorno decide di fuggire uscendo dalla finestra della sua aula
per raggiungere il luogo dove i suoi genitori, i futuri suoceri, la sua promessa sposa e anche il suo insegnante si sono dati appuntamento per far
festa. Senza essere visto e comunque non potendo farsi vedere Pippetto,
unico dichiarato ‘disobbediente’, nel suo vagabondare scopre situazioni
assai imbarazzanti assistendo alla sfacciata ipocrisia di parenti e conoscenti.
Il secondo dei vaudevilles, La Guida Monaci, propone un soggetto originalissimo.
Quando Roma divenne capitale, gli innumerevoli almanacchi, guide e
annuari stampati fino all’anno precedente per fornire preziose e fondamentali informazioni sulla città, sulle sue istituzioni religiose, civili e culturali, sui commerci, i servizi, gli abitanti, etc., furono sostituiti da un’uni18
Atto II, scena VI.
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ca pubblicazione, la Guida Monaci, che prese il nome dal suo editore e
che, con i dovuti cambiamenti, esce tuttora.
Il protagonista della pièce, Cucchimetto, di professione portiere, decide di usufruire di questo prezioso strumento di informazione che è la Guida Monaci: prende l’elenco degli abitanti di sesso maschile di Roma e a
tutti loro spedisce un’identica lettera nella quale, insinuando il sospetto
del tradimento da parte «di una persona che vi sta a cuore», li invita nel
presunto luogo degli incontri clandestini dove, dietro pagamento di una
mancia, potranno avere interessanti informazioni.
L’indirizzo fornito corrisponde al palazzo dove Cucchimetto è portiere
e dove naturalmente è pronto a ricevere il malcapitato e soprattutto… la
sua mancia. In realtà egli cercherà di rassicurare il povero marito garantendo di non aver mai visto la sua signora e sostenendo per di più che lì
non abita nessun uomo appetibile. A questo punto, convinto di essere
stato vittima di un terribile equivoco, il marito non più ‘cornuto’ se ne
dovrebbe andare felice rimpinguando la mancia, con piena soddisfazione
del portiere. Le cose non andranno così e tra equivoci, inevitabili esilaranti situazioni e agnizioni a sorpresa la commedia si conclude felicemente.
Evviva la migragna! (edita nel 1888) è un atto unico, non in forma di
operetta, ma il protagonista canta sempre, anzi tutta l’azione ruota proprio attorno a questa sua abitudine. Il protagonista, Grispino, sfoggia un
repertorio di tutto rispetto, alle strofette e agli stornelli popolari alterna
arie da melodrammi che forse tranne la prima: «Ah dolce voluttà /desio
d’amor gentil» dal Ruy Blas, libretto di Carlo d’Ormeville e musica di Filippo Marchetti, sono tutte facilmente riconoscibili e tutte verdiane: «Ah
che la morte ognora» da Il Trovatore, «Rivedrai le foreste imbalsamate» da
Aida, «Sei tu l’uom della caverna» da I Lombardi alla prima crociata e infine «Quando la sera al placido» dalla Luisa Miller l’unica che subisce una
gustosa storpiatura:
Quando le sere al placido
chiaror d’un ciel stellato
meco figgea nell’etere
lo sguardo innamorato,
diventa:
Quanno la sera al placido
chiaror d’un ciel stellato
meco friggea nell’ellera...
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E ancora: Addio mia bella addio, la famosa canzone di Carlo Alberto
Bosi, musica di anonimo, nata nel 1848 per i volontari che partivano per
andare a combattere a Curtatone.
Anche ne La famiglia de la cantante si sfoggiano arie da melodrammi
verdiani: «Sempre libera degg’io» dalla Traviata, mentre tutti cantano pasticciandolo il duetto di Leonora e Manrico dal Trovatore.
Ma torniamo a Evviva la migragna!
I dialoghi sono piacevoli e ben costruti ma la pièce risente di un certo
moralismo riscattato però dalla sapiente costruzione del rapporto tra il
ciabattino Cucchimetto e Agnesa sua moglie e il ricco senatore e la sua
signora, un rapporto dignitoso e reciprocamente rispettoso, assolutamente privo di servilismo.
I protagonisti, che non nuotano nell’oro, rifiutano infatti il compenso
di una generosa cifra in cambio della rinuncia da parte di Cucchimetto a
cantare mentre lavora, o almeno a non farlo in certi orari. Accettano invece, alle stesse condizioni, che il senatore si adoperi per procurare clienti che aumentino per loro lavoro e reddito. Ma assai più interessante è la
lezione di felicità che Agnesa dà alla moglie del senatore: le consiglia, innanzi tutto, di occuparsi direttamente del figlio piuttosto che affidarlo ad
una balia e aggiunge:
AGNESE […] fate quarche bbella spasseggiata a ppiedi; ce sò certi siti indove la carozza nun ce pò annà, e llà sse troveno spesso certi poveretti
vecchi, ammalati e infermi che hanno de bbisogno. Je date quarche ccosa senza offennelli, e bbona notte. E quanno aritornate a ccasa, abbraccicato ch’avete vostro marito e vostro fijo, annatevene a lletto presto,
arzateve a bbon’ora e si ddoppo fatte tutte ‘ste cose voi nun sete contenta, nun me chiamate ppiù Agnesa Stella19!
Quella precisazione: «senza offennelli» nella quale l’idea di solidarietà
va a sostituire quella di carità, non è di poco conto.
Una curiosa vicenda di coppia si rappresenta in Essere o non essere: un
marito geloso, Ameleto, getta inconsapevolmente la moglie, che normalmente tiene reclusa in casa, nelle braccia di un vecchio amore. Scritta nel
1889, la pièce si apre con un lungo dialogo tra la protagonista Teta e Vittoria, amica e lavandaia, durante il quale la presentazione dei personaggi
e dei fatti, avviene intercalata con la spunta dei capi di bucato.
Nel 1887 era andata per la prima volta in scena al teatro Valle di Ro19
Scena VIII.
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ma, Tristi amori di Giuseppe Giacosa interpretata dagli attori della Drammatica Compagnia Nazionale. Certamente Zanazzo ebbe modo di assistere
a quella rappresentazione e se ne ricordò poi al momento opportuno. Come
è noto alla fine del primo atto, la situazione delicatamente critica che si è
venuta a creare tra Emma, protagonista della commedia di Giacosa e il suo
giovane amante, viene bruscamente turbata dalla domestica che deve risolvere un problema a proposito della biancheria riconsegnata dalla lavandaia
nella quale è stata trovata una tovaglia che non è della casa:
MARTA Signora!
EMMA Che!... La bambina?...
MARTA È rimasta di sotto a giuocare coi figli del droghiere. C’è la lavandaia che domanda se non ha portato ieri una tovaglia scompagna
dalle nostre.
EMMA Non so - c’eri tu!
MARTA Già, il conto tornava, ma poi piegandola ho visto bene io che ce
n’era una non nostra (apre la credenza e prende una tovaglia). Eccola qui.
EMMA Dagliela.
MARTA Lasci fare20.
Lo stesso equivoco si ripete in Essere o nun essere, con la sola differenza
che in questo caso si tratta di una camicia. Nel momento in cui sappiamo
che Teta ha raggiunto il suo vecchio amore, l’amica lavandaia torna a casa
e al marito ignaro di tutto e felice di aver convinto la moglie ad uscire,
restituisce una camicia che precedentemente per errore si era portata via:
VITTORIA
sora Teta!
AMELETO
VITTORIA
sua.
AMELETO
(con un involto sotto il braccio entra, chiamando) Sora Teta,
Che vvòi?
Ah gnente, je volevo fa’ vede si ’sta camicia la riconosce pe’
Be’ aritorna più tardi, allora perché Teta nun c’è21.
La coincidenza non può essere casuale.
Ancora sul tema dell’amore sono i due atti unici, che Zanazzo chiama
scenette, L’amore in Trastevere (edita nel 1888) e ‘Na dichiarazione d’amore pe’ la Regola che ripropongono il tipico contrasto amoroso nel quale un
“lui” e una “lei”, fra gelosie false o motivate, equivoci di ogni genere e ca20
21
Atto I, scena XI.
Scena ultima.
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pricci a volontà, battibeccano con una certa veemenza. Ma se nella prima
i due protagonisti alla fine non fanno che riconfermarsi l’amore di sempre, un velo di malinconia copre la conclusione della seconda scenetta dove il timidissimo protagonista non riuscendo a palesare il suo amore si allontana tristemente. Curiosamente Zanazzo redige di questo atto unico
una seconda versione pressoché identica con un titolo lievemente diverso
‘Na dichiarazione d’amore pe’ li Monti, ma con un finale lieto.
Ne Li carbonari il contrasto fra “lui” e “lei” avviene davanti ad un giudice conciliatore, che si chiama Imbroji. Tra i vari querelanti in attesa di
giudizio, la coppia più litigiosa, due venditori di carbone con le botteghe
vicine che si accusano reciprocamente di concorrenza sleale, finiscono per
convolare a giuste nozze.
In queste ultime pièces che abbiamo definito ‘contrasti d’amore’ risulta
inoltre assai interessante la scelta del linguaggio: il dialetto romanesco è
particolarmente serrato e duro. La scelta di Zanazzo non risponde però
semplicemente ad una esigenza di verità coerente con le caratteristiche dei
personaggi, cioè non è soltanto una scelta squisitamente linguistica, anche
se cronologicamente corrispondono ad un periodo in cui il dialetto è usato dall’autore in maniera praticamente esclusiva. Non ci sentiamo però di
escludere in quella scelta anche una componente drammaturgica: l’uso di
un linguaggio così intenso può essere più efficace per rendere scenicamente una situazione tesa e concitata come è teso e concitato il dialogo tra due
amanti che bisticciano, si feriscono, si lanciano parole ed espressioni terribili sotto le quali però si celano l’amore e le passioni.
Altra atmosfera troviamo in quelle opere che traggono spunto dall’attualità come Elettori infruventi e Doppo er 20 settembre.
Nella prima, spietata rappresentazione di quanto gira attorno ad apparentemente normali operazioni di voto, i protagonisti sono coloro che devono compilare le liste da presentare poi nei seggi elettorali. I due schieramenti politici contendenti, sgangherati e rumorosi, sono riuniti nella stessa
osteria, attorno a due tavoli poco distanti l’uno dall’altro. Tra un bicchiere
di vino e l’altro scelgono e appoggiano candidati in situazioni di democrazia quanto meno improbabili: inetti fantocci che però sborsano quattrini e
lestofanti chiacchieroni che approfittano della situazione e, mostrando disponibilità, disinteresse e spirito di sacrificio, sono in realtà solo pronti a
conquistare il potere e certamente non a vantaggio del bene comune.
Il quadro che dipinge Zanazzo è veramente scoraggiante; da esso emerge, infatti, con inesorabile lucidità, il ritratto di una classe politica che oltre ad essere improvvisata, millantatrice e… disonesta è anche scandalo-
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samente e disperatamente ignorante. Ecco la battuta del Caffettiere a proposito di uno degli elettori influenti, il presidente della Società Elettorale-Democratica:
CAFFETTIERE Chi, quel somaro!? Adesso ve ne dico un’altra per farve
ride. Ve basti el dire che ggiorni fa, me fece questa domanda. Dice: «Ma
dditeme un po’ sor Pavolo, ma er parlamento sta ppe’ ttutti li paesi
d’Itaja 22?»
Tra uno sfacciato sfoggio di buoni propositi e la recita di tutto il repertorio delle promesse elettorali, il rito delle votazioni e dei conseguenti scrutini si consuma disinvoltamente con brogli e pasticci nella assoluta convinzione di recitare una pantomima perché tutto è inutile e nulla cambierà.
E il ‘popolo’? Niente altro che un fantasma: è rappresentato infatti da
poveri e ignoranti operai assoldati per poche lire e, come semplici ‘comparse’, costituiscono il raccogliticcio pubblico delle varie riunioni pre-elettorali: per tutto il tempo non fanno che dormire e solo a comando, come
marionette, si svegliano, applaudono e crollano di nuovo in un sonno
profondo.
Doppo el 20 settembre, scritta nel 1908, è ambientata nei giorni successivi alla breccia di Porta Pia. Mentre si festeggia Roma Capitale, un gruppo di cospiratori, che vorrebbero restaurare il governo papalino, progetta
di andare a Civitavecchia, richiamare i Francesi e con loro liberare il Papa
e la città dagli ‘invasori’. Nel bel mezzo della riunione irrompe in casa un
amico che finge di essere il delegato di polizia. I congiurati non si perdono d’animo e trasformano la loro assemblea clandestina in prove per uno
spettacolo che vuole celebrare l’unità d’Italia e senza alcun turbamento
inneggiano al nuovo re.
Tutto ciò accade nei primi due atti e la commedia potrebbe concludersi qui. Ma c’è un terzo atto che solo apparentemente può sembrare estraneo e quasi artificiosamente aggiunto, ma che invece completa l’opera che
altrimenti si risolverebbe come una esilarante ma troppo facile satira sui
romani nostalgici del potere pontificio.
Sono trascorsi cinque anni dagli eventi accaduti precedentemente
e molte cose sono cambiate, qualcuno dei personaggi ha trovato il modo di adattarsi alla nuova situazione, mentre i protagonisti, che erano
commercianti di stoffe, non ci sono riusciti, sono ormai poveri e la
giovane figlia malata di tisi sta morendo. Naturalmente la responsabi22
Atto IV, scena IV.
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lità di tanta rovina va cercata nel nuovo assetto politico e di conseguenza economico, anche se manca una analisi, seppure esclusivamente drammaturgica, che chiarisca cause ed effetti, tranne qualche breve
cenno ai nuovi esercizi commerciali romani, tra i quali è ricordata anche la Rinascente.
Uguale scontento per il nuovo assetto politico emerge dal monologo
de Er pizzardone avvilito nel quale il protagonista lamenta la sua impossibilità a riconoscersi nella nuova realtà e se la prende con tutti anche con
«‘sti communisti de la…». La sua è però una ribellione senza costrutto che
si risolve in momentanee quanto inutili lamentele o in improvvisi quanto
sterili slanci durante i quali minaccia di esser pronto ad andare a protestare presso i suoi superiori, anzi persino a dare le «dimensioni» (dimissioni)
salvo poi riflettere e rassegnarsi:
Ah! a le mie dimensioni... (pausa. Si gratta il capo) Già, ddico bbene,
già ma ddoppo, quanno je lò date, come se magna? Come se sbatte la scucchia?... (pausa) Ma ssò ppoco Ggiggi a ppijàmmene tanto! È mmejo a nun
impicciasse: nun dico bbene? Nun ho raggione? Come se dice: chi vvò Tturchi se l’ammazzi!... (ridendo) Abbasta: nun ce pensamo: annàmmesene a riscote ‘st’antre du’ bbollette, pe’ ssentisse dì a ‘gni scampanellata: (imitando
la voce) «Mamma, ecco er monnezzaro!»
Resta infine un ultimo gruppo di opere nel quale prevale la donna come protagonista, si tratta de: La Zitellona, La famija della cantante, La socera, Accidenti a la prescia, Fanatica pe’ llegge li romanzi, e l’abbozzo La
serva socialista.
Nel teatro di Zanazzo i personaggi femminili difficilmente fanno una
brutta figura, anche quando sono negativi. Fermezza d’animo, orgoglio,
coerenza nel comportamento e soprattutto senso dell’indipendenza sono
qualità in genere spese bene, soprattutto nelle situazioni che meglio afferiscono all’emancipazione femminile. È una donna, Crementina, in una
popolazione prevalentemente analfabeta, la protagonista di Fanatica pe’
llegge li romanzi, vero e proprio omaggio alla lettura e in particolare alla
letteratura ‘italiana’. Crementina è irrimediabile fan di Alessandro Manzoni, trascura le faccende domestiche, la casa, il marito, dimentica persino
di mangiare pur di seguire le vicende di Renzo e Lucia e gioire alla sconfitta del prepotente don Rodrigo che odia in maniera viscerale.
Mostra però un inaspettato interesse per la cultura e la lettura anche
un’altra donna, un’altra Crementina, figlia di uno dei terribilli elettori influenti, la quale nell’ammirare il lussuoso studio dell’altrettanto terribile
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introduzione
candidato l’avvocato Tomboni, nota anche i numerosi libri sugli scaffali
delle librerie che ricoprono le pareti.
SPUTAROSSO (nel vederle) Sangue-der-naso! Ma cche vvienite a ffà a
rompe la divuzione, quann’uno sta occupato in de l’affari.
CRODOVEA C’è vvorsuta vienì la tu’ fija.
CREMENTINA Che vv’arincresce?
SPUTAROSSO (con importanza) No, ma capirete che quanno uno cià un
craus d’affari da sbrigà, nun pò ddà retta a nisuno. M’hanno messo in
mano... se tratta er maneggio de tutto quanto er corpo littorale.
CREMENTINA (osservando lo studio) Che bella cammera!
CRODOVEA Davero va! Che bbelle portrone, che quadri!
CREMENTINA E tutti ‘sti libri. Eh papà cce sò romanzi da legge? (rovista mettendo ogni cosa ssossopra)23.
Ne La famija de la cantante i personaggi femminili invece appaiono,
per tutta la prima parte della commedia, irrimediabilmente negativi e senza possibilità di riscatto in confronto ai personaggi maschili, più miti o
comunque privi della irriducibile protervia delle donne. Ma se è vero che
anche nel male c’è una grandezza, Bice la cantante, Nena la madre e Agheta l’amica, tutte arriviste, pronte anche a prostituirsi pur di raggiungere il
successo, sono altrettanto pronte a riconoscere le loro sconfitte e, testarde
e coerenti fino in fondo, continuano a lottare pronte a tentare ancora la
sorte, perché chissà… non si sa mai!
La stessa cosa non può dirsi dei personaggi maschili più miti sì, ma in
realtà anche più fragili e più meschini; incoscientemente e spavaldamente
sicuri nella buona sorte, si abbattono nel momento della sconfitta e si arrendono senza opporre resistenza, incapaci di agire, ma soprattutto di reagire.
E anche nei ‘contrasti d’amore’, che abbiamo già esaminato, la donna
prevale in un certo senso sull’uomo: per nulla dolce e remissiva e tanto
meno supplichevole o piagnucolosa rivela in genere un pessimo carattere
che cela però orgoglio e dignità in nome dei quali, anche a costo di sembrare incrollabilmente testarda, non rinuncia ad un millimetro della propria fierezza e autonomia.
Un insolito interno al femminile nel quale agisce un curioso campionario di donne con una variegata gamma di pregi e difetti troviamo in
Zitellona che insieme a La famija della cantante e Doppo el 20 settembre
23
Atto III, scena IV.
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potrebbe costituire un interessante trittico dei vinti in chiave antiunitaria
o forse semplicemente postunitaria.
In una atmosfera un po’ patetica e un po’ crudele ancora una volta si
presenta la situazione di una famiglia distrutta dal nuovo assetto politico. Sempre poco chiare sono le profonde motivazioni (la concorrenza?
le troppe tasse?) per cui il benessere di quella famiglia sotto il governo
del papa sia miseramente svanito nel Regno d’Italia. È però evidente che
il disastro è grande e travolge senza alcun riguardo vite e sentimenti innescando reazioni individuali finemente delineate dal punto di vista
drammaturgico.
Tra i personaggi di Zitellona, Vittoriona sembra essere il progetto in
nuce o, per meglio dirla in termini teatrali, la ‘prova generale’ di Cammilla la protagonista de La socera che forse, insieme agli Elettori infruventi, è
la più riuscita, compatta e coerente delle opere teatrali di Zanazzo. Sia
Vittoriona che Camilla sono suocere, arricchite e presuntuosamente ignoranti, godono con grossolana ostentazione del benessere economico conquistato duramente e lo difendono con crudele tenacia. Mentre però la
figura di Vittoriona resta allo stato di abbozzo, nel personaggio di Cammilla, summa di ogni cattiveria e negatività, queste caratteristiche sembrano fondersi perfettamente per dar vita ad un personaggio maturo, intenso e a tutto tondo che, con incredibile cinismo e sottile perfidia, muove i
fili di un’intrigata vicenda che si sviluppa attorno a una lettera da lei malignamente interpretata a danno del genero.
Ancora ne La socera compare, perfettamente compiuto e delineato, un
altro singolare personaggio: Roma. Aveva fatto una fugace apparizione in
Pippetto ha fatto sega mostrandosi all’orizzonte languidamente adagiata
«immezzo ar crepuscolo» come «un chiarore smorto […] illuminata a gasse24». Ora invece si mostra in piena luce quando, durante le passeggiate
non sempre innocenti del marito di Cammilla, si aprono insospettati spiragli sulla nuova città capitale che sta nascendo:
CAMMILLA Indove ve n’andate che vve vedo tutto in arme e bagaji?
GIUSEPPE El solito. A famme una passeggiata pe’ li quartieri novi, che sò
una sciccheria. Si vedi che paradiso che sò li quartieri Ludovisi, li prati
de Castello, l’Esquilino!... Che strade larghe, che aria, che sole! ah benemio, te senti arinato!... Tu, invece, te ne stai sempre a covà a ccasa…25
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Pippetto ha fatto sega, Atto III, didascalia iniziale.
Atto I, scena III.
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Due personaggi femminili sono protagonisti assoluti di Accidenti alla
prescia, una brevissima pièce nella quale, due amiche, Barbera e Mitirde,
si incontrano di ritorno dal mercato. Sono indaffaratissime, ma nel saluto
frettoloso non mancano di scambiarsi rapidi cenni a succulenti pettegolezzi. Non resistendo alla curiosità le due donne si fermano per darsi rapide spiegazioni ripromettendosi di riprendere subito il cammino. In realtà le chiacchiere si prolungano. A scandire il tempo che passa entra in scena il padrone del negozio davanti al quale sono ferme Barbera e Mitirde,
il quale, a mo’ di siparietto brechtiano, si affaccia sulla soglia della sua
bottega le osserva ironicamente e reca loro generi di conforto per aiutarle
nella lunga sosta.
Una insospettata e piacevole sorpresa è infine la traduzione in romanesco
del Giulio Cesare di William Shakespeare.
C’era già stato da parte di Zanazzo un primo timido omaggio al
drammaturgo inglese, autore che evidentemente conosceva e amava, nelle
scenette popolari pubblicate con il titolo Un mortorio a Roma26 .
Divise in tre parti, le scenette descrivono i diversi momenti di un
funerale: il compianto, il corteo funebre e la sepoltura. Nella seconda parte
non è difficile scorgere dietro i frati in attesa della bara del defunto che
discorrono del più e del meno, i becchini che scavano la fossa per seppellire
Ofelia 27. Becchini e frati auspicano piacevoli bevute, anche se per i primi
si tratta di una pinta di birra e per i secondi naturalmente di «un bicchier
de vino bono».
Zanazzo potrebbe aver maturato l’idea di tradurre il Giulio Cesare all’indomani della memorabile messa in scena del capolavoro shakesperiano
avvenuta a Roma al teatro Argentina, il 29 dicembre 1905. Tra gli interpreti tutti componenti della Drammatica Compagnia di Roma diretta da
Eduardo Boutet, ricordiamo l’anziana Giacinta Pezzana28 e numerosi giovani attori tra i quali Ferruccio Garavaglia29.
Inoltre Zanazzo certamente conosceva le vicende del teatro in romanesco e non ignorava che nei primi decenni dell’Ottocento alcuni illustri
26
G. Zanazzo, Un mortorio a Roma, Roma, Cerroni e Solaro Edizioni, 1887.
W. Shakespeare, Amleto, atto V, scena I.
28
Giacinta Pezzana (1841-1919), una delle più rappresentative attrici del suo tempo.
Propose un nuovo modo di interpretazione fuori degli schemi ottocenteschi recitando
con coraggio anche personaggi maschili come ad esempio Amleto. Nel 1915 girò anche
un film, Teresa Raquin, con la regia di Nino Martoglio.
29
Ferruccio Garavaglia (1868-1916) importante attore di teatro ma che recitò anche in
numerosi film tratti da opere liriche o da drammi: Otello (1909), La morte civile (1910),
Rigoletto (1910), Romeo e Giulietta (1912).
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intellettuali, a scopo divulgativo o per semplice sperimentalismo, avevano
tradotto in romanesco la Didone abbandonata di Metastasio, divenuta ad
opera di Alessansro Barbosi la Didona der Metastazzio (1838) e Il Campiello e I Rusteghi di Goldoni divenuti La piazzetta (1843) e Una quaterna
de quattro scontenti (1838) ad opera di Luigi Randanini.
Molto probabilmente Zanazzo non aveva intenti divulgativi mentre è
probabile che la sua traduzione sia un impegnativo esercizio linguistico,
un modo per mettere ulteriormente alla prova le possibilità espressive del
romanesco che aveva già così ampiamente sperimentato in tutto il suo
teatro, ma che ora osava confrontare con il genio sommo della drammaturgia.
Purtroppo l’opera è rimasta incompiuta. I soli tre atti tradotti sono però sufficienti per apprezzare la delicata e non facile impresa che risulta assolutamente rispettosa del testo originale, tranne qualche taglio e qualche
anacronismo.
È opportuno forse chiarire che non si tratta né di una parodia, né di
un adattamento. Tutta la forza e l’intensità della vicenda della congiura
per uccidere Giulio Cesare resta intatta, come intatte restano le psicologie
dei personaggi.
***
Infine a dimostrazione di una inesauribile creatività di Zanazzo nel
proporre personaggi e situazioni per la magia del palcoscenico, nell’ultima
carta del grande faldone della Biblioteca Angelica che raccoglie il suo teatro, si possono leggere due abbozzi La serva socialista, e Parlare di un socialista alla moglie.
Il primo certamente prelude alla redazione di una commedia dal momento che sono già indicati i personaggi, l’altro potrebbe essere il nucleo
per un monologo, genere già sperimentato da Zanazzo con Il pizzardone
avvilito.
Troppo brevi, troppo poco strutturati per capire il loro futuro sviluppo, i due abbozzi hanno in realtà un’importanza particolare per comprendere la scrittura drammaturgica di Zanazzo, la sua singolare evoluzione e
la fortuna scenica del suo teatro.
Paola Paesano nella sua relazione presentata nell’ambito del convegno del 2010, alla quale rinviamo per l’ampia e interessante analisi 30,
30
Cfr.: P. Paesano, Un poeta romanesco tra gli Arcadi: il Fondo Zanazzo alla Biblioteca
Angelica in: Le voci di Roma... Omaggio a Giggi Zanazzo. Atti del convegno di studi
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giustamente sottolinea come nel Parlare di un socialista alla moglie risulta evidente «la duplice natura dell’opera del nostro autore, di ascolto e
osservazione dei parlanti, ma anche di originale e autonoma creazione31.»
E ancora poco dopo scrive: «Quando si tratta di dar voce al ‘popolo minuto’, di rappresentarlo ma anche di intrattenerlo, Zanazzo insomma
sembra sintonizzato sul parlare naturale del volgo, ma al contempo è la
sua propria voce che abilmente inventa. Ecco, credo che questo frammento del laboratorio zanazziano ci dica molto, da solo, del processo di
osmosi continua tra un teatro, per così dire, della vita, naturale e diffuso, e un teatro artificiale, che solo apparentemente restituisce una mimesi dell’oralità.32»
Identico discorso può farsi per La serva socialista nel quale la protagonista, che non a caso si chiama Ardita Rivolta, si presenta come serva e
donna evoluta, dal comportamento un po’ bislacco, ma certamente determinato e finalizzato all’emancipazione delle lavoratrici come lei per le
quali Zanazzo annota nove punti fondamentali di rivendicazioni.
La figura di Ardita Rivolta richiama inevitabilmente la protagonista
della scenetta Fanatica pe’ li romanzi ed entrambe possono essere accomunate alla moglie del protagonista del monologo del Parlare di un socialista,
a proposito della quale, esclusivamente dalle parole del marito, apprendiamo che è ben poco sottomessa e per nulla ciecamente compresa nel suo
ruolo di moglie.
Tralasciando le infinite implicazioni sociali e culturali che queste figure femminili lasciano intravedere, ai fini del nostro discorso teatrale non
possiamo non soffermarci con Paola Paesano su una considerazione fondamentale.
Nel delineare questi personaggi Zanazzo opera una vera e propria «forzatura, sul piano culturale e sociale» probabilmente frutto «di una idealizzazione, da parte sua, della plebe romana, alla quale attribuisce non soltanto briosità e fantasia, ma anche adeguatezza sociale e capacità di stare
al passo nella mutata realtà di Roma capitale d’Italia 33.»
In realtà il discorso vale per tutto il suo teatro ed ha inevitabili ricadute sulla sua fortuna.
Se ripercorriamo cronologicamente, almeno per quanto è possibile ipoRoma, 18-19 novembre 2010, a cura di F. Onorati e G. Scalessa, Roma, Centro Studi Giuseppe Gioacchino Belli, 2011, pp. 103-109.
31
Ivi, p. 105.
32
Ivi, p. 107.
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Ivi, p. 108
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tizzare una cronologia in assenza di dati oggettivi, notiamo che il successo arride a Zanazzo finché la sua scrittura drammaturgica, benché rinnovata, si attiene a descrivere un mondo riconoscibile nella realtà e lo fa nelle forme rispondenti alle convenzioni in uso nell’ambito della finzione
scenica. In termini di produzione teatrale possiamo indicare un arco temporale che va da I Maganzesi a Li carbonari. Nel momento in cui Zanazzo,
pur continuando ad usare il dialetto, affida al suo teatro gli stessi compiti di quello in lingua, e cioè la rappresentazione e l’interpretazione della
realtà, qualcosa non funziona più e le sue opere registrano dapprima successi con riserva e poi insuccessi veri e propri.
Così come abbiamo visto che Zanazzo aveva idealizzato in alcune sue
opere i popolani che assumeva come personaggi, allo stesso modo aveva
probabilmente idealizzato anche il pubblico al quale si rivolgeva, un pubblico che stava cambiando, certamente, ma che non era ancora pronto ad
accogliere un discorso così audace come quello che egli proponeva… e
chissà quando lo sarebbe stato.
Questo potrebbe forse spiegare quella specie di damnatio memoriae che
da quel momento in poi ha cancellato il ricordo del nome di Zanazzo non
soltanto dalle storie del teatro in lingua ma anche da quelle del teatro in
dialetto, causando un grave danno per lo studio e la conoscenza della tradizione teatrale in genere e in particolare di quella romana e del suo dialetto che, come ogni altra lingua, trova sul palcoscenico uno dei luoghi
più appropriati e significativi per formarsi, rinnovarsi e svilupparsi.
Nel 1907 Zanazzo aveva legato la sua attività a quella di una delle più
importanti attrici del momento, Giacinta Pezzana. Con lei, oltre ad aver
ideato un concorso per opere teatrali in dialetto, preparò l’allestimento
de La socera che andò in scena al Teatro Quirino di Roma il 18 aprile
1908. Il successo fu discreto tanto che incoraggiò la messa in scena, di lì
a poco, anche de La famija della cantante che però non ebbe uguale riscontro34.
Quella fu comunque l’ultima apparizione ufficiale del commediografo
romano e del suo teatro. Dai copioni manoscritti della Biblioteca Angelica si può dedurre che esisteva ancora un altro progetto da realizzare al Teatro Quirino, ma che non andò in porto. Il copione dell’opera Doppo el 20
settembre sembra infatti destinato alla rappresentazione, ha tutte le caratteristiche di un copione ufficiale dal momento che reca, oltre al timbro di
34
F. Bonanni Paratore, Il teatro di Zanazzo, in G. Zanazzo, La sôcera, Roma, Bulzoni, 1980, p. 13.
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possesso dell’attrice Giacinta Pezzana, il visto della censura: 29 aprile 1908
e la scritta in alto a destra sulla copertina “Quirino” 35.
Ma ormai il momento ‘magico’ era passato e inoltre le condizioni di
salute di Zanazzo si facevano sempre più precarie. Lo scrittore morirà infatti poco tempo dopo, il 13 dicembre del 1911.
Per tanto tempo la sua fama è stata affidata soltanto alle tante pagine
dell’opera sulle tradizioni popolari di Roma mentre delle opere teatrali,
sia edite che inedite, si era praticamente persa memoria. Finalmente, soprattutto dopo la scadenza del doppio anniversario di nascita e morte che
ha inevitabilmente acceso i riflettori della ribalta su Giggi Zanazzo, si è
cercato di ricostruire correttamente la sua figura di intellettuale a tutto
tondo, attento testimone della sua epoca: giornalista e animatore in prima
persona di fortunate pubblicazioni periodiche, antropologo ante litteram
e interessante poeta, colto e raffinato spettatore, assiduo frequentatore del
teatro di prosa e lirico, attore, che più di una volta si è esibito in palcoscenico e certamente regista, almeno delle sue opere e infine abile ed originale drammaturgo, in dialetto romanesco.
A tale scopo speriamo possa contribuire questa pubblicazione del suo
teatro, che oggi noi proponiamo «non per tesserne l’elogio», come fa dire
Shakespeare al suo Antonio, o meglio «no’ pe’ laudallo», come dice invece Antonio in romanesco, ma per restituire a Giggi Zanazzo quella attenzione accurata e oggettiva che avrebbe da sempre meritato.
35
Francesca Bonanni cita altre possibili, seppure non documentate, riproposte di opere di Zanazzo nel 1911 all’Acquario Romano o forse anche al Metastasio dove agiva la
compagnia romanesca di Oreste Raffaelli. Ivi
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1. introduzione
Paola Paesano
«Er fatto succede a Roma».
Il teatro di Zanazzo tra palcoscenico e memorie d’archivio.
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47
A leggere il teatro di Zanazzo, l’immagine dell’archivio, di un archivio
generosamente esposto (nella valenza di spazio sia fisico sia concettuale),
prende paradossalmente corpo come deposito di testimonianza, che integra, nella sua specificità, il lascito di documentazione a tutto campo – poetico, antropologico, linguistico, musicale, giornalistico e di costume – che
l’autore ha consegnato della sua città, un lascito che evidenzia quanto
complessa e contraddittoria, alla fine, appaia la realtà sociale della capitale umbertina anche nella soluzione ‘comica’ prediletta da Zanazzo.
Diciamo questo non solo perché – va ricordato – ‘archivistica’ è la
chiave che permette l’accesso materiale alla parte più cospicua di tale teatro1; ma soprattutto in quanto, leggendo i testi delle sue commedie, entriamo in stretto contatto con un vero e proprio archivio storico e sentimentale di tipi umani, luoghi, oggetti, mestieri, rappresentativi della situazione sociale romana degli ultimi due decenni dell’Ottocento e del
primo decennio del Novecento. Per non dire della mentalità, delle parlate, dell’immaginario di quella particolare società. Se poi volessimo considerare solo il gioco dilettevole e farsesco, a volte irresistibile, altre volte
di una comicità più convenzionale, scopriremmo pure come si divertiva
il pubblico romano e come, da un certo momento in poi, non si sia divertito più: è infatti noto come il successo, precedentemente arriso dalle
platee al commediografo, sia venuto meno negli ultimi anni della sua vita, intorno al 1908-19112. E sempre che non si voglia considerare ancora l’approccio archivistico del contributo finora generalmente ritenuto
1
Facciamo riferimento al Fondo Zanazzo conservato nella Biblioteca Angelica dal 1948,
quando il figlio dello scrittore, Alfredo, vendette le carte paterne all’istituzione romana. Cfr. P. Paesano, Un poeta romanesco tra gli Arcadi. Il Fondo Zanazzo alla Biblioteca
Angelica, in: Le voci di Roma. Omaggio a Giggi Zanazzo. Atti del convegno di studi Roma, 18-19 novembre 2010, a cura di F. Onorati e G. Scalessa, Roma, Centro Studi
Giuseppe Gioacchino Belli, 2011, pp. 97-109.
2
Ne parla Francesca Bonanni nelle pagine introduttive a La socera, Roma, Bulzoni,
1980, pp. 12-13.
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introduzione
più significativo dell’intera attività di Giggi Zanazzo: il lavoro di raccolta e rielaborazione narrativa compiuto dallo scrittore nei confronti delle
tradizioni popolari di Roma e del Lazio. La città deve molto, infatti, alla
passione archivistica di Zanazzo, il quale persegue con metodo originale
il suo interesse antropologico di scrittore: che, in parte, è figlio di una
sensibilità romantica nostalgica di un passato ritenuto più genuino, in
parte è in sintonia con le istanze positivistiche del suo tempo, le quali favorivano, per l’appunto, operazioni di recupero sistematico di varie tipologie di documenti.
Le competenze linguistico-antropologiche dell’autore, presupposto dei
quattro volumi delle Tradizioni popolari romane3, attraversano infatti fittamente anche il teatro, così come succede per i suoi componimenti in
versi e per le canzoni; queste competenze sono funzionali a una rappresentazione del popolo che coincide con la sua vita quotidiana e domestica,
in cui popolani e popolane, ma anche, sempre più spesso, esponenti della
piccola borghesia – il generetto romano –, sono ritratti, oltre che nella loro parlata ricca di modi di dire, di espressioni idiomatiche e proverbiali,
anche nei costumi, nella ‘saggezza’, nell’arte di arrangiarsi. Nondimeno
Zanazzo trasferisce la perizia di studioso del folclore sul terreno mobile
dell’attualità, dove i suoi concittadini vengono variamente rappresentati
nella capacità di adeguamento ai tempi presenti o, al contrario, nella resistenza e nel disagio causati dai nuovi assetti che si impongono nella realtà sociale ed economica della Roma post-unitaria. Troviamo perciò, nel
suo teatro, umili casalinghe, che sono lettrici accanite (Fanatica pe’ llegge
li romanzi) e serve non solo indomite, ma anche sindacalizzate (La serva
socialista); come pure altri personaggi che recriminano sul governo laico
e sui «buzzurri» e risentono in generale di una diversa ‘centralità’ di Roma,
liberata dal medioevo e tolta a un letargo secolare, ma anche sottratta a
una sorta di rapporto ombelicale con la sua popolazione che, ricordiamo,
era ripartita nelle componenti sociali dell’aristocrazia nera, dei mercanti
di campagna – il cosiddetto generone –, della piccola borghesia, e della
plebe.
Non vi è dubbio infatti che lo scrittore sia stato il termometro a un
tempo delle euforie e dello smarrimento della base della società romana
al cospetto di così rapidi rivolgimenti. La quale è colta da lui – da uno
Zanazzo partecipe in prima persona: non solo come poeta, uomo di teatro e antropologo, ma anche come giornalista, impiegato ministeriale e
3
G. Zanazzo, Tradizioni popolari romane, Torino, STEN, 1907-1910, 3 voll., più il IV
vol. uscito postumo a cura di G. Orioli, Roma, Staderini, 1960.
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figlio di un padre commerciante – nelle contraddizioni tra sentimento di
appartenenza alla nazione de li fratelli tajani e l’incapacità/impossibilità
di esprimere una vera cultura civile.
Basti pensare all’affondo satirico de Gli Elettori infruventi, il più feroce
realizzato da Zanazzo commediografo, dove clientelismo e scadimento
qualunquista sono il contrassegno del costume politico cittadino, preso
di mira dall’autore e attribuito, in una comune irresponsabilità, a candidati politici ed elettori.
Più in generale, quindi, attraverso il teatro, questa caratteristica ‘archivistico-museale’, che si diceva essere propria dell’arte di Zanazzo, aggiunge vive suggestioni al ricordo di una certa Roma di fine Ottocento/inizio
Novecento, ed è in grado di animare una scrittura drammaturgica ammirevole, per la capacità narrativa, di sceneggiatura, di invenzione delle azioni, di mordacità delle battute e di calcolo quasi sempre efficacissimo dei
tempi comici.
Tra l’altro, i manoscritti teatrali di Zanazzo manifestano come queste
qualità, godibili anche alla lettura, siano raggiunte grazie a un accurato
lavoro di lima da parte dell’autore che procede a diverse stesure (fino a tre)
dei suoi testi; molte delle quali sono tormentatissime, con cancellature di
varia estensione, ripensamenti (spesso in funzione della ‘dicibilità’ delle
battute), integrazioni, finali alternativi, inserti, note esplicative.
Se da una parte, quindi, come ricorda il figlio Alfredo4, egli scrive sotto l’urgenza dell’andata in scena (in un’attività febbrile causa probabile
della perdita di molti dei suoi lavori5), dall’altra egli sperimenta una fase,
più tarda, che coincide con l’impiego presso la biblioteca del Ministero
della Pubblica Istruzione, in cui l’approfondimento degli studi folclorici
e una maggiore distensione nei tempi e nei modi della scrittura creativa
sembrano andare di pari passo.
Detto questo, rimane il fatto che le commedie di Zanazzo sono pressoché ignorate dalle storie del teatro italiano. C’è da ripetere che solo poche furono pubblicate al tempo, ma certo è inspiegabile che finanche Anton Giulio Bragaglia, nella sua Storia del teatro popolare romano, ricordi
Zanazzo più che altro per aver dato vita al personaggio seriale di Pippetto
(con Pippetto ha fatto sega). Si può anzi dire che Bragaglia ne liquidi il ruolo, quando attribuisce a motivi pubblicitari, di autopromozione, il fatto
4
A. Zanazzo, Mio padre, «Orazio diario di Roma», a. V, n. 5-7, maggio-luglio 1953,
ora in: Omaggio a Giggi Zanazzo, a cura di F. Onorati, Roma, Quaderni delle Fondazioni Marco ed Ernesta Besso, XII, [pp. 33-56], p.39.
5
Cfr. più oltre la nostra Avvertenza.
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introduzione
che l’autore romano porti in giro nelle rassegne carnevalesche italiane la
maschera di Rugantino, più che altro per reclamizzare il suo giornale6.
Ora, a parte la velenosità di questa asserzione, la circostanza che Zanazzo,
nonostante faccia di Rugantino una bandiera della romanità, non lo utilizzi poi drammaturgicamente, è cosa che va sottolineata e che evidenzia
il suo interesse per una scena naturalistica, fondata su un teatro di scrittura nel quale non trovano posto, salvo pochissime eccezioni, personaggi
caricaturali o figure di popolani stereotipati. Certo vi sono contemplate
suocere-virago, mariti-gelosi e cornuti, zitelle-predestinate, ma, ad esempio, la figura del ‘geloso’ porta in scena un raro esempio di artigiano mosaicista che ragiona pure sul decadimento del suo mestiere:
SCENA III
Ameleto solo (sedendo al banco)
Mettiamose al lavoro... Eh povero Ameleto, chi tte l’avesse detto, d’ariducette, per tirà avanti la vita, a llavorà pel Quarantotto! Poveri artisti romani! Prima l’arte del musaicista te faceva mangià co’ la forchetta d’oro. E
adesso? Adesso manco con quella de stagno. Prima tutti li musaicisti padronali, cominciando da papà mio, marciaveno in carrozza; e adesso è un pianto. Uno s’è ridotto a ffà el pizzardone, uno el poliziotto, un altro el cicerone... E ll’arte nostra che era la più aristocratica de tutte, adesso ha da fà le
spille da quarantotto centesimi per annà a gegno a le serve!...
Così la suocera molesta della commedia omonima non è in prevedibile polemica con la nuora, ma con il genero (e vedremo più avanti con quali dinamiche); il personaggio della Zitellona, infine, non appartiene affatto alla categoria delle zitelle risentite e, semmai, è un tipo soccorrevole e
sempre pronto a mettere pace.
In generale, a parte la Cammilla della Socera, la scena di Zanazzo non
prevede un personaggio protagonista, conformemente con la tradizione
di certo teatro popolare che sembra attingere più alla scena del presepe
che a quella della commedia.
L’autore rifugge tanto dal teatro d’improvvisazione quanto dal teatro
che si regge sul carisma dell’attore brillante e funambolico, del capocomico o dell’attrice sciantosa che nell’Ottocento, anche a Roma, già si affermavano e in qualche caso furoreggiavano nel teatro leggero.
6
A. G. Bragaglia, Storia del teatro popolare romano, Roma, Colombo, 1958, p. 417.
Per quanto riguarda il giornale Il Rugantino, che Zanazzo diresse dal 1887 al 1897, cfr.
P. Puglisi, «Ggente mia, garbata e bbella»: Zanazzo giornalista, in: Le voci di Roma.
op. cit., pp. 52-61.
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Il teatro di Zanazzo si basa invece, perlopiù, su una scena corale, di cui
protagonisti sono, come già dicevamo, un vasto campionario di tipi umani, ma, ancor più, gli intrecci e le parlate, le coloriture lessicali, i motteggi e gli alterchi fino all’insulto, il tutto poi tenuto insieme anche da una
funzione larvatamente pedagogica.
Pensiamo soltanto a quanto si diverta Zanazzo nell’esibire, in molte
sue commedie, la parlata ciovile di personaggi che si sforzano di esprimersi nell’idioma nazionale infilando preziosi strafalcioni: «palco osceno»,
«librettino» (libertino), «bruttiferio» (putiferio), «speranze avane», «lupopanare», «il brandolo di questa matassa aruffianata», «lupus est in fabbrica», «animali [annali] dell’arte», «società filantronica» fino a quello sfondone che evidentemente deve essere una sorta di archetipo dello sproposito linguistico, «a ogni pier sospinto», riemerso intatto per bocca di un
ministro della Pubblica Istruzione dei nostri ultimi anni e reso, così, indimenticabile.
Si diceva degli aspetti corali della scena zanazziana, che predilige la
piazza, l’osteria, la bottega, l’aula di giustizia, o la guardiola del portiere:
spazio di confine dove si rifrangono le storie di fuori con quelle interne
alle case; una dimensione corale che si realizza ancora nella simultaneità
dell’azione, come in certe scene de Gli elettori infruventi (dove le azioni
possono essere anche quattro o cinque contemporaneamente) o di Essere
o nun essere, che pone in primo piano un intero inventario della biancheria di casa (un piccolo tesoro per quei tempi): per certi aspetti rientrante
in quell’‘attrazione’ archivistica già detta, per altri confacente alla figura
retorica del catalogo, dell’elencazione. Ma, sul piano dell’espressione vocale e della rappresentazione, si tratta di una sorta di litania impersonale,
di un vero e proprio controcanto alle trame di due comari a colloquio (le
sottolineature sono nostre):
e
SCENA I
Teta e Vittoria
VITTORIA (seduta; tiene ai suoi piedi un grande involto di biancheria, da
cui ogni tanto ne toglie un pezzo e lo consegna a Teta) Dunque scassate.
Avemo detto, quattro para de carzette...
TETA (seduta al banco con un lapis e la nota della biancheria) Avanti.
VITTORIA (c.s.) Cinque stracci; du’ lenzoli; quattro camicie de lui...
TETA E quella camicia dell’altra settimana?
VITTORIA Ve la porto giuveddì; perché l’ho ridovuta arimette in bucata... Scassate: du’ para de mutanne de lui... A preposito, tramente vienivo qua da voi, azzeccate un po’ chi ho incontrato?
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[...]
VITTORIA Io?! Je metterebbe ppiù... Scassate: quattro tovaje; sei sarviette; un barettino da notte; cinque para de pedalini...
[...]
VITTORIA Annatevel’a ccerca, annatevela!... Sei fasciatori; otto fazzoletti de colore; cinque paracaduti [N. d. A.: sospensorio];... Anzi da oggi
in poi, sapete che vve dico? Secca la lingua mia si vve n’ariparlo. Nu’ ne
vojo sapé ppiù ppuzza. Aibbò!... Cinque fazzoletti de tela; una parannanza;... Dice bbene: Chi ffa bbene ar somaro ciarimette lescìa e ssapone.
[...]
VITTORIA Annatevel’a cerca! Io nu’ je l’ho domannato, perché nun me
sta bbene a impicciamme. Lo sapete, sò ttanta dilicata in certe cose...
Tre ffodere; quattro veste; otto panni; sei scuffiette der pupo...
[...]
TETA Sento rumore. Zitta, per l’amordeddio, che ecco lui!
VITTORIA E cciarifà!... Cinque canavacci; quattro zinaloni der pupo...
Non mancano ovviamente la coralità/convivialità che riunisce commensali per un brindisi o un pranzo, in casa e in trattoria. L’osteria, come
è facile aspettarsi, è uno dei luoghi deputati del teatro di Zanazzo, ma il
riferimento agli ambienti non è mai generico; questi hanno quasi sempre
indirizzi precisi e reali. Per esempio, lo spazio antistante l’osteria di Melafumo (che si trovava in prossimità di Ponte Milvio) è la scena su cui si
apre il secondo atto di Pippetto ha fatto sega. E cosi pure, sempre in Pippetto, ci si può imbattere nella trattoria Ar Farcone (in Via Trionfale, 60,
tuttora attiva), mentre, in Evviva la migragna, è menzionata l’Osteria della Farnesina, detta del Ciarlotto, che si trovava in Trastevere.
È anche vero che la tavola si fa notare, sulla scena, più per la sua precarietà e scarsezza che per l’abbondanza; insomma, si fa un gran parlare
di pranzi e di ristoranti, ma il più delle volte il problema principale è trovare il modo di sfamarsi, di «sbattere la scucchia» e diviene, come è facile
immaginare, l’elemento capace di condizionare schemi di comportamento e relazioni tra le diverse parti.
E d’altra parte Zanazzo, meticoloso osservatore del quotidiano, non
manca di portare sul palcoscenico tutta una serie di piatti e bevande a illustrazione della cucina popolare. Ecco di seguito cosa mangiano, cosa
bevono (ma anche cosa vagheggiano) i suoi personaggi: ristoro (brodo ristretto con un uovo battuto), maccheroni/maccaroni, pasticcio di gnocchi,
minestra cor sartarello, preciutto/presciutto, carne cotta ne la pila, stufatino
ar sellero, provature (mozzarelle), cacio, alice coll’ermo (con l’elmo), torsoli
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d’uovo sbattuto, noce pe’ ffrutti, cocommeri, rumme e caffé rumato, Marsalla,
ma anche il porazzo7 e, ovviamente, il vino che, possiamo dire, scorre a
fiumi sulla scena del nostro: dal Chianti al Frascati.
Sono in linea con il naturalismo e la coralità di Zanazzo i temi di ispirazione storica e di vago sapore epicizzante, come nella divertente operetta Li Maganzesi a Roma, ambientata nel 1798, durante la Repubblica Romana, opera prima del giovane commediografo, già capacissimo di destreggiarsi con le invenzioni linguistiche tra gergo francioso e parlata tedeschizzante, o come la commedia in tre atti Doppo er 20 Settembre che dichiara addirittura un valore di autentica testimonianza. Così recita l’annotazione manoscritta a margine nel copione: «Fatto storico avvenuto
presso a poco nel 1876. Alcuni dei personaggi sono ancora vivi». E, per
quanto Zanazzo abbia potuto giocare con la comicità veramente esilarante dell’azione centrale della commedia – l’irruzione delle forze di polizia
(finte) nel covo di congiurati papalini (veri) –, certo essa dà molto bene
l’idea, seppure in chiave satirica, di quali fossero i sentimenti e le posizioni di una certa piccola borghesia romana colpita nel vivo dell’«interesse»,
e in rapporti e abitudini consolidati.
E del resto, sempre a proposito del teatro romanesco ‘di scrittura’ di
Zanazzo, in buona parte storico e corale, non può che leggersi in questo
senso anche il cimento, da parte sua, di tradurre in dialetto romanesco il
Giulio Cesare, senz’altro la più ‘corale’ (insieme con il Coriolano) delle tragedie di Shakespeare.
Se poi pensiamo alle commedie più tarde di Zanazzo, in cui la sua idea
di popolo si estende al generetto romano – quel ceto piccolo borghese che
a Roma si afferma in ritardo rispetto al Nord dell’Italia, e che è in gran
parte il risultato sociale di un rapido travaso di popolazione nella capitale
– la città stessa, in piena e rapida trasformazione urbanistica e demografica, diviene protagonista delle più articolate pièces zanazziane. In generale, in questa fase più tarda dell’attività dello scrittore, l’inquadramento dei
luoghi romani si estende da un indistinto e astorico scenario trasteverino
delle prime opere, al percorso di un’intera città, tanto che nel teatro-archivio di Zanazzo si possono rintracciare vecchie piazze oggi scomparse e
quartieri di recente edificazione. In La Guida Monaci risaltano il «vicolo
der boja» (in realtà vicolo del Campanile a Borgo, così chiamato perché
al n. 4 c’era la casa del boja) e la chiesa di S. Maria in Cacaberis demolita
7
Una specie di acquavite ottenuta dalla fermentazione dei tubercoli del porrazzo (Asphodelus ramosus) pianta spontanea della campagna romana, indirettamente menzionata da
Agnesa in Evviva la migragna! per insultare il marito Grispino: «purazziere!»
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nel 1881, quando fu tracciata la via Arenula, e della quale si conserva tuttora il nome nell’omonima strada di Santa Maria dei Calderari.
Le note dell’autore intervengono a chiarire particolari anche poco significanti come, per esempio, nella battuta iniziale di Mimma in Zitellona: «Sant’Antonio ha sonato le cinque e mezza; è ora che vadi a fare el
caffé...», in cui l’autore specifica che la chiesa di «Sant’Antonio [dei Portoghesi] è meglio di S. Maria in Publicolis in piazza Costaguti».
La scena del terzo atto della Socera si apre su «piazza Padella», un nome all’apparenza di fantasia e invece denotante, al tempo, la piazza realmente situata tra Via Giulia e il Lungotevere dei Tebaldi, nell’area oggi
occupata dal Liceo Virgilio. Sempre nella stessa commedia, il marito della «socera» ama ricrearsi nei quartieri nuovi:
CAMMILLA Indove ve n’andate che vve vedo tutto in arme e bagaji?
GIUSEPPE El solito. A famme una passeggiata pe’ li quartieri novi, che
sò una sciccheria. Si vedi che paradiso che sò li quartieri Ludovisi, li
Prati de Castello, l’Esquilino!... Che strade larghe, che aria, che sole!
ah bene mio, te senti arinato!... Tu invece te ne stai sempre a covà a
ccasa...
Dove non è poi tanto nascosto, come verrà chiarito qualche battuta
più avanti, il senso metaforico adombrato nel desiderio di ‘respirare’ del
povero Giuseppe, in fuga dall’opprimente personalità della moglie, e alla
quale, non a caso, è attribuito, invece, l’attaccamento alla vecchia Roma
e la derisione dei quartieri nuovi:
CAMMILLA Sai che cose rare! Speciarmente queli belli nomi che j’hanno messo! Via Terenzia Mammana, via Pistalossi, Marco Pepe, Vitturino de Fertro, Ardo Pannuccio...
GIUSEPPE Già, voi nun sete bona altro che a ccriticà tutto e tutti. Invece a me, me piaceno; ce vado e me ce trattengo con piacere8.
Ove il richiamo dell’autore ai nuovi quartieri Ludovisi rinnova nei lettori odierni lo sconcerto per la distruzione delle ville tra il Castro Pretorio
e Porta Pinciana avvenuta, non molti anni prima del riferimento che qui
ne fa Zanazzo, in nome di una «febbre edilizia» che non volle tenere con-
8
Atto I, scena III.
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to della bellezza secolare di quelle architetture, compresa appunto la villa
Ludovisi, «il più bel giardino del mondo»9.
In Zitellona, ambientata nel 1875, c’è una battuta che vale pure a segnalare il recentissimo collegamento della parte più nuova della Capitale
con il cuore della vecchia Roma: «[...]Semo montati in tranvaise al Castro
Petrolio [Pretorio] e siamo arivati infinenta a San Pietro indove la quale
abbiamo cenato a la trattoria a piazza Rusticucci» 10.
Risulta difficile immaginare il contrasto abbagliante di questo tragitto
che, dalle alture dove sorgevano le trionfali e aperte ville della Roma patrizia, si infittiva nelle contorsioni dei vicoli di Borgo per riemergere in
piazza Rusticucci, in seguito azzerata con il più recente sventramento per
l’apertura di Via della Conciliazione.
Una città, si diceva, che viene rappresentata anche nelle sue trasformazioni demografiche economiche e sociali. Non sorprende che l’osservatore del costume e delle tradizioni popolari abbia costellato l’intera sua produzione di ritratti e bozzetti che hanno a protagonisti i mestieri di Roma,
gli antichi e i moderni11, ma soltanto un punto di vista teatrale, come
quello di Zanazzo, poteva cogliere il valore di rappresentazione diffusa,
offerto da bottegai e ambulanti. Le voci delle «piccole industrie nomadi»
o le comunicazioni ‘sapute’ di bbarbieri e macellari sono riconosciute dall’autore e riprodotte come «parlata d’arte», per usare l’espressione con cui
Giorgio Vigolo definisce la parlata immaginosa del popolano di Belli 12.
Se le arti e i mestieri (ma anche, ovviamente, i tipi di preti e senatori) messi in scena, o anche solo menzionati da Zanazzo sono ancora di belliana
memoria, – come osti e ostesse, camerieri, barbieri, pizzicagnoli, fornai/fornari, sordati, regazzi de bbottega, lavannare/lavandaje, stracciarole, rigattiere, carzolari, stiratrisci, pedanti, bidelli, cantanti, tenori, suonatori e suggeritori, – altri invece non compaiono nei 2279 sonetti: donne di casa e prime donne, postini, pettinari, musaicisti padronali, osti padronali, custodi
alle scuole alimentari, maestri di musica, suonatori di corno, giornalisti e
giornalai, commessi viaggiatori ma anche chi ha una «bottega di Stireria».
In Belli, poi, curiosamente, abbiamo i calzolari, ma non i ciavattini, e,
9
Cfr. I. Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica 1870-1970, Torino,
Einaudi, 1976, (1962), pp. 52-54.
10
Atto secondo, scena VII, battuta di Vittoriona.
11
Zanazzo dedica un intero capitolo - Parte V. Voci degli antichi e odierni venditori ambulanti di Roma - del III volume delle Tradizioni popolari romane (Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma), alle espressioni delle antiche e nuove occupazioni popolari.
12
G.G. Belli, I sonetti, a cura di G. Vigolo, Milano, A. Mondadori , 1952, 3 voll., I,
p. LXVII.
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certo, neppure i ciavattini padronali, tanto meno, poi, i veramente molto
zanazziani ciavattini con la «faccia da carzolaro padronale».
Negli Elettori infruventi sono poi chiamate a raccolta tutta una serie di
associazioni di mestieri – ancora un ‘elenco’ – di diverse categorie, di cui
alcune decisamente strampalate: Società Parrucchieri-Ebbanisti-Falegnami,
Società ariunite Scopatori e Tripparoli, Società Muratori-Stagnari-Callarari,
Pertichini de l’Omminibbussi, Società Gassisti, Liquoristi, Asfaldisti, Marmisti, Callisti, Società de li vota-pozzi.
Ma accanto alla lista stravagante degli Elettori infruventi possiamo anche ricordare i dati di una microeconomia, così come emergono, per esempio, in La Famiglia de la cantante che, in poche battute, illustra una situazione di dissesto insieme alla capacità di nuovi arrangiamenti; le donne di
Zanazzo difficilmente si danno per vinte:
NENA Accusì se siamo ridotti: che a lui, a forza de trascurà la bottega,
gliè toccato a chiudella per via che nun veniva più un cane; e io per consiglio vostro sò venuta da un mese a stà qui con voi, indove per furtuna,
nun ce conosce gnisuno; e ho messo ’sta stireria a lucido che cce va a
rotta de collo…
AGHETA (con autorità) Cianderà meglio allorquando metteremo scritto
defora cor una mostra indorata, (che già ho ordinato): «Qui nun si addropa che l’amido Sbanfi». Lassate che venghi da un momento all’antro,
da Milano el rippresentante viaggiatore de la casa Sbanfi e ve n’accorgerete13.
E vale la pena di notare come lo spirito intraprendente ma poco attendibile di Agheta (che arriva a progettare un «Bar automonico a du’ soldi
a la Stazione de Trestevere») sia poi integrato dall’autore con il dato realistico dell’«amido Sbanfi», evidente allusione alla casa Banfi di Milano,
produttrice dell’amido industriale negli anni 1890-1910. Il senso per il
commercio di Agheta «la saputa» rivela anche notevole spirito autopromozionale:
AGHETA Nun ve l’ho detto fin’ora per pavura che lo propagandassivo;
ma siccome ormai la cosa è avviata, ve lo dirò. Sto dunque facendo pratica cor Vaticano pe’ mette su la mostra «Fornitrice de li sacri palazzi
apostolichi».14
13
Atto III, scena I.
Atto III, scena I. Questa ultima parte della battuta nel manoscritto sostituisce una
precedente versione cancellata: «[…] cor Ministerio de la Real Casa, pe’ mette su’ la mo14
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Se volessimo procedere ora a un tentativo di sistemazione, almeno schematica, della produzione teatrale di Zanazzo (di quella oggi disponibile),
al di là del suo andamento puramente cronologico, si può fare riferimento a tre sostanziali raggruppamenti.
1. Il primo, di carattere ancora bozzettistico, spiccatamente popolaresco e di sapore arcaico, non situabile, si direbbe, per temi e linguaggio, in
una precisa epoca storica. Ne fanno parte grosso modo: L’amore in Trastevere (1887), ‘Na dichiarazione d’amore (non datata), Evviva la migragna
(1887), Accidenti alla prescia (1898), Er pizzardone avvilito, Parlare di un
socialista alla moglie (entrambe non datate).
2. Il secondo, sempre di ambientazione strettamente popolare, comprende vere e proprie commedie in cui sono presenti, pur sempre, componenti farsesche e il cui scioglimento finale è rigorosamente lieto, a volte ingenuo, altre volte più efficacemente studiato nelle trovate burlesche.
Vi fanno parte: Guida Monaci (1887), Pippetto ha fatto sega (1887), Essere o nun essere (1889), Li carbonari (non datata), Fanatica pe’ llegge li romanzi (non datata, ma non prima del 1894).
3. Il terzo gruppo è costituito, infine, dalle commedie di ambientazione piccolo borghese, più complesse delle precedenti sul piano della struttura, dei temi, del linguaggio, tutte accomunate da un medesimo esito
amaro. Pur variando il dosaggio delle componenti comica e grottesca, e
pur trovando diversi livelli fra patetico e ridicolo e fra patetico e malinconico, tutte chiudono, al meglio, nella disillusione-rassegnazione dei personaggi, al peggio, in una loro catastrofe economica e sociale. Appartengono a questo insieme: Zitellona (1894), La famija de la cantante (1902),
Doppo er 20 Settembre (1906), Elettori Infruventi (non datata, ma non prima del 1895/1897), in parte La socera (1906).
-
1. In generale, i bozzetti e le commedie che mettono in scena i popolani hanno ancora come presupposto l’idea quasi mitica di una plebe portatrice dei valori di genuinità, laboriosità e, a seconda dei casi, di un’indole oscillante tra mitezza, briosità e spacconaggine.
-
stra: “Fornitrice della Casa Reale”». È probabile che l’autore attribuisse indifferentemente questo o quel prestigioso committente alla strategia pubblicitaria del personaggio un
po’ fanfarone di Agheta, ma al contempo il ripensamento può essere una spia ulteriore
dell’indifferenza/incertezza con cui nell’immaginario collettivo veniva rappresentato il
cliente più suggestivo oltre che più facoltoso.
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In L’amore in Trastevere e in ‘Na dichiarazione d’amore la scena della
piazzetta romana e del «mignano» (del balconcino) sembra essere l’equivalente urbano della natura primitiva e pura, una sorta di sfondo bucolico-cittadino: non pastori, ninfe, satiri e creature del bosco, ma Giggi e
Ninetta che giocano in un eterno contrasto d’amore.
Un sapore decisamente arcaico, da favola moraleggiante e consolatoria
ha il bozzetto Evviva la migragna, che non è privo di un buon andamento
narrativo e di qualche interessante spunto di psicologia popolare. Tuttavia
esso forse risente del sostegno di Fabrizio Colonna, cui l’opera è dedicata,
e dell’occasione della sua messa in scena, che avvenne il 2 dicembre 1887
al Teatro Rossini, in una serata di beneficenza per l’«Infanzia abbandonata», in cui erano presenti la regina Margherita e il Principe di Napoli. La
«scena succede a casa de Grispino in una piazzetta de Trestevere». Un ciavattino e sua moglie vivono allegri e innamorati, trascorrono il loro tempo lavorando, danzando e cantando, nonostante mangino un giorno sì e
«dua no». Quando, in seguito all’incontro con il vicino senatore, entrano
in possesso di una somma di danaro capace di migliorare la loro condizione, i due coniugi iniziano a litigare, il loro umore si incupisce, perdono
la felicità. Il mammone, insomma, (che non a caso, in un romanesco di
derivazione biblica, significa gruzzolo, denaro, ma anche demonio15) sprigiona effetti diabolici e corruttori ed è elemento che conferisce al bozzetto la sua patina di favola ancestrale:
GRISPINO [...] maledetto mammone. È llui la causa de tutto ‘sto diavolerio... Da quanno è entrato qui drento, la mì’ casa è diventata un inferno. (se strappa li capelli) Dio potente, quanto se soffre a esse ricchi!16
Questa la conclusione: «Evviva la migragna che vordì l’allegria e la pace der core». La particolare occasione dello spettacolo può spiegare l’omaggio reso ai personaggi del senatore e di sua moglie, perfetti campioni di
buona educazione e di autentiche e rispettose gentilezza e generosità; mentre il momento comico è affidato al loro cameriere, che parla ciovile ed è
ostentatamente e grottescamente classista.
Il pezzo più memorabile del gruppo che definiamo delle ‘arcaiche’ è
senz’altro Accidenti alla prescia, la pièce più originale e la più irresistibile
per comicità: due comari si incontrano per strada con la sporta della spe15
Cfr. F. Ravaro, Dizionario romanesco. Da «abbacchià» a «zurugnone» i vocaboli noti
e meno noti del linguaggio popolare di Roma, Roma, Newton Compton, 1994, ad vocem.
16
Atto unico, scena XII.
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sa salutandosi frettolosissime, senonché vari accenni di commiato si susseguono senza che le due donne riescano a congedarsi realmente, ma senza neppure concedersi una vera sosta; le due, «impicciate», accalorate,
mettendo le mani ai fianchi, alternando il gesto di posare la sporta a terra,
poi di riprenderla, sciorinano confidenze e rivelazioni mentre il droghiere
Crescenzio, con aria canzonatoria, si gode la scena. Il dialogo tra le due
donne propone molti dei temi ricorrenti nello Zanazzo più ‘popolare’: una
spiccata caratterizzazione dei personaggi femminili come particolarmente
volitivi e dominanti, ma anche litigiosi e linguacciuti, insinuanti e sospettosi, inclini tanto alla rivalità fra loro quanto anche a una sostanziale solidarietà di genere, e sempre comunque ritratti in atteggiamenti operosi,
in contrapposizione alla flemma e all’indolenza (quando non alla cialtroneria e alla disonestà) riservata invece ai personaggi maschili. Vi compaiono, menzionati nel dialogo, vari motivi e situazioni più o meno conflittuali, sempre generatori di comicità: la querela, la maldicenza:
BARBERA Una quarela! Capite? Doppo che l’ho ttirata su a mmollica a
mmollica, annamme a mmette male co’ la madre de lui, cor dije che io
m’ero azzardata d’annà ddicenno che quelli pochi sordi che lei s’è mmessi da parte… l’ha ffatti, gnentedemeno! Cor fa la rucca-rucca ar tempo
de li francesi!17
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6
le massime sentenziose («Eh la lingua, sora Barbera mia, nun cià ll’osso e rompe l’osso…»), le liti domestiche, le tresche amorose e l’adulterio,
lo spauracchio della pigione da pagare; ma anche alcuni motivi che inquadrano, come in questa battuta esilarante e fulminea, il grado di estraneità
del personaggio-popolo alla nazione italiana:
-
BARBERA Eh ddice bbene er proverbio: «Moje e bbovi de li paesi tovi!»
De che nnazione era, a ppreposito?
MITIRDE Era, lo possino scansallo, Cicijano de Catagna18.
-
-
59
Non mancano poi gli strafalcioni linguistici «[…]era ‘na lettra armonica indove la quale uno che se segnava N. N.[...]». La battuta contiene
anche un riferimento all’espediente della lettera che, oltre a segnalare quasi sempre la condizione di analfabetismo del popolo (Mitirde: «M’abbussa er postino. M’affaccio; dico chi è? Dice: una lettra per Mitirda Nasca.
17
18
Scena unica.
Ibidem.
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Abbasta, scegno, pijo la lettra, me la vado a ffà llegge dar computista der
macellaro»), è spesso da Zanazzo utilizzato come elemento drammaturgico: una lettera infatti è il motivo del contrasto della coppia de L’amore
in Trestevere, è il congegno ordito ai danni di un marito geloso in Essere o
nun essere, è l’idea-fulcro della Guida Monaci, è «il corpo del delitto» nella Socera, è la maldestra risoluzione di una circostanza imbarazzante nella Zitellona.
Il breve atto unico porta ancora la ‘firma’ riconoscibile di Zanazzo nella esibizione di un campionario di oggetti dell’uso quotidiano che si riconferma e si rinnova ricchissimo a ogni commedia. E del resto la puntualità con cui Zanazzo colloca gli oggetti nei suoi testi non crediamo sia
un fatto soltanto spontaneo o dato per scontato in una scrittura che si
prefigge di essere realistica. Si ha invece l’impressione che Zanazzo sia
consapevole di operare un ‘salvataggio’ di quegli oggetti perché ne appaiono sempre di nuovi al passare da una commedia all’altra. La sua attitudine all’archiviazione, come sappiamo, fortemente operante e produttiva
per quanto riguarda le tradizioni popolari, nel teatro si estende agli oggetti, ai mestieri (tutti, non solo quelli riferiti al popolo) con una vocazione rappresentativa che intende farli rivivere sul palcoscenico: il museo-archivio tutto sentimentale di Zanazzo. Qui la scena prevede quantomeno una «sporta colma ed altri impicci, il mazzetto della trippa compreso», e, non visti, ma menzionati, lo «spido», la «scopa», lo «stennarello». Non manca neppure, secondo un uso anch’esso abituale in Zanazzo,
un riferimento almeno, ai quartieri della città, ai vecchi come ai nuovi, e
alle forme varie della loro frequentazione: qui il ricordo va a una «merenna, all’osteria» in Prati.
Riguardo al primo gruppo, anche il frammento Parlare di un socialista
ubriaco (non datato)19, non si discosta da questa ambientazione sostanzialmente ‘primitiva’ e marcatamente dialettale, nonostante sia attualizzata in
chiave ‘socialista’; mentre, al contrario, il monologo Er pizzardone avvilito
(anch’esso non datato), che vi si potrebbe avvicinare per brevità di forma
e taglio bozzettistico, mostra invece un tono ‘crepuscolare’ e ripiegato, più
affine allo Zanazzo dell’ultima maniera. Le didascalie scritte in lingua e
non in dialetto (come avviene sempre a partire dal 1894 con Zitellona) pure autorizzano a situarlo in una fase successiva della sua produzione. Inoltre, diversamente delle prove ‘arcaiche’, questo bozzetto trae spunto da occasioni reali della vita municipale (per esempio i provvedimenti per l’igie19
Rinvio, per questo frammento, a un precedente contributo: P.Paesano, op. cit., pp.
103-105.
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ne e il decoro urbano) e della politica nazionale (alle prese con decisioni
relative al calmiere), registrate qui nei ragionamenti umorali di un tipico
esponente dell’ufficialità capitolina. Tale il caso del pizzardone, appunto,
che viene ritratto con simpatia dall’autore e aggiunto a quella folta schiera
di rappresentanti di arti e mestieri che abbiamo prima nominato. Estensione inoffensiva dell’autorità dell’Urbe fin dentro il cuore popolano di
Roma, il pizzardone di Zanazzo patisce anche lui (come era stato per il
mosaicista), lo svilimento della professione: essere ridotto a una sorta di
tuttofare della municipalità, dal riscuotere la tassa per la nettezza urbana
al comparire in servizi di guardia o di parata. Anche se ciò che soprattutto
intristisce questo popolano in divisa, è il trattamento tra irriguardoso e
diffidente riservatogli dal suo stesso popolo tipizzato in «lavandaie pubbliche» e «pezzi di marcantogne». Quasi venisse meno il calore del pubblico
a questo attore del ‘civico proscenio’, che resta malinconico e patetico fino
alla fine, soprattutto quando l’autore, per tirarlo su, prova a condire il suo
monologo con doppi sensi un po’ maldestri e grossolani.
2. Altro sviluppo hanno i componimenti teatrali che abbiamo collocato nel secondo gruppo: soprattutto farse e operette, in uno o più atti (tre
ne hanno sia Li Maganzesi a Roma sia Pippetto ha fatto sega). Sotto l’aspetto cronologico, esse sono contemporanee di quelle fin qui descritte, ma
mostrano un interesse dell’autore per forme più recenti di teatro leggero,
anche musicale alla francese, che guardano specialmente al genere del vaudeville, di cui astro e caposcuola è, in quegli anni, Georges Feydeau 20.
In questo senso la farsa Li carbonari dichiara esplicitamente una non
identificata fonte francese. E difatti appare molto generico e poco zanazziano il personaggio di questo giudice conciliatore: un pubblico ufficiale
davvero improbabile, che filosofeggia spericolatamente e agisce in totale
arbitrio:
IMBROJI [...] ci sono degli individui i quali passano la loro vita a litigare
[...] Eccone uno per esempio che si querela indovinate perché? Perché
gli hanno rubato l’orologio davanti al casotto della donna barbuta! Che
cosa me ne importa a me? E chi mi può provare che colui che gli hanno
rubato l’orologio non sia cento volte più birbone di lui? Poiché è bene
che lo si sappia una buona volta: sotto la veste di un giudice c’è la stoffa del filosofo... sicuro, del filosofo che capisce tutte le debolezze dell’uma20
Per il richiamo a Feydeau e al vaudeville come chiari modelli per Zanazzo, cfr. L. Biancini, «La scena arippresenta...». Zanazzo teatrale, in Le voci di Roma, op. cit., pp. 146-147.
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nità, che le sa scusare e le sa, nel medesimo tempo, incoraggiare. Infatti se togliamo totalmente dalla società i ladri, gli assassini, gli scrocconi... che cosa ci resta? Della gente onesta. E con la gente onesta si fanno
in fede mia delle belle cose, dei buoni affari!... Tanto che, se ve lo debbo
confessare, io amo più i malfattori, almeno non vi vengono mai ad incomodare per querelarsi della gente onesta, mentre questa è sempre in
querela coi malfattori 21.
Riconosciamo, invece, lo spirito del nostro autore non appena l’aula
giudiziaria diviene il luogo deputato della lite, dell’incrocio di querele,
in cui si affrontano e si esibiscono, in una sorta di arena protetta e controllata, tipi di popolani che raccontano di torti subiti, che, all’occasione,
insultano e sottilizzano, e che, nel chiedere soddisfazione, portano sulla
ribalta gli echi di antiche focosità e il costume di un’orgogliosa insubordinazione:
MENICA [...] stavo a stenne li panni quant’ècchete che me se presenta un
pizzardone e me dice che sò cascata in contravisione. Che volete io?!
Dimme che ero cascata in contravisione e levàmmese er lume dall’occhi
fu tutta ‘na cosa. Dico: e com’è uscita ‘sta contravisione si sò pe’ lo meno venti anni che viengo a stenne qui sor co... capite? Dico: che proprio
stammadina v’ho dato sur naso? Dice: pagate e nun fate tante ciarle,
sinnò ve porto in carcere. In carcere a me? dico: ce porterete... capite sor
giudice? Allora lui me fa dice: me parete un po’ troppo vassallona. Nun
me l’avesse mai detto, sor giudice mio, nun me l’avesse mai detto! N’antro tantino me j’attaccavo a l’occhi 22.
E, d’altra parte, lo scontro tra lavandaie e pizzardoni aveva colpito l’occhio teatrale di Zanazzo già diversi anni prima, per esempio nel sonetto
del 6 marzo 1880 – La murta a la lavannara23 – e in uno datato due giorni
prima – La lavannara – che così, molto bellianamente conclude:
[...]
Loro nun vonno più che pe’ decoro
s’abbi da stènne drento la città:
loro... se pò sapé chi sò ‘sti loro?!...
21
Atto unico, scena I.
Ivi, scena II.
23
G. Zanazzo, Poesie romanesche, a cura di Giovanni Orioli, Roma, Avanzini e Torraca, 1968, I, pp.57-58.
22
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Io stenno, incoccio, intigno più d’un mulo:
m’avessino magara da squartà:
nu’ me faccio schiaffà la zeppa in culo.
4 marzo 188024
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Quasi fossero depositari, alcuni personaggi femminili di Zanazzo, di
un’atavica spavalderia, sia quando mettono mano allo spadino – estensione
femminile e meno letale del coltello del bullo – sia quando esibiscono una
sicumera da mattatrici (come vedremo meglio più avanti).
L’Ufficio del giudice conciliatore è, di per sé, quindi, teatro di un rituale
nel quale in qualche modo si fissano regole e modalità della convivenza
civile e lo scioglimento dei conflitti che ne possono derivare.
Anche l’aula di giustizia della commedia di Zanazzo, come luogo
di concentrazione di un crescendo di conflittualità e di un successivo
appianamento della tensione, viene a configurarsi come espressione emblematica della società e del suo rapporto con l’individuo singolo, pur
in presenza della situazione decisamente comica dell’atto unico dei Carbonari. Al cospetto del giudice Imbroji si avvicendano i casi di lite che
abbondano in tutta la produzione zanazziana, ma che qui trovano una
debita esaltazione. Senonché lo scioglimento del conflitto si ottiene per
un ribaltamento di situazione sfruttando, in un colpo solo, l’espediente
teatrale del doppio, della maschera e dell’agnizione. I due querelanti,
calati come per incanto in una nuova forma di relazione, interagiscono
secondo il topos dell’agnizione, ma cambiato di segno: non un riconoscimento, ma un ‘disconoscimento’, per così dire. Infatti i due giovani
carbonari abituati a vedersi (a non vedersi) con la faccia sporca e annerita, la domenica successiva, in un secondo incontro dal giudice col volto
lavato non si riconoscono per i litigiosi reciproci querelanti di un tempo.
E come se disponessero, quindi, di una doppia esistenza, si piacciono e
decidono, seduta stante, di sposarsi; non prima di avere anche risolto
tra loro il precedente litigio. Come si vede, lo spirito popolare, generalmente diffidente nei confronti delle autorità civili, in qualche modo
trionfa su queste ultime, in una risoluzione del conflitto tutta esterna
ai meriti della giustizia. I due, per così dire, si fanno giustizia da sé e
ribaltano l’oppressione di un contenzioso, in sprigionamento di vitalità
addirittura nuziale
24
Ivi, p. 53.
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PIPPO [...]Che domannamo? Domannamo che ce dite come se deve fà
per annà a sposà ar Municipio, tutte le carte che ce vonno, e quello che
bisogna scajà.
TERESA Sì, sì perché se volemo marità llesto e presto25.
Trovano anche su due piedi i testimoni; cosicché il rituale erotico trionfa sul rituale processuale. Tuttavia il tema dei popolani che alla fine risolvono nella retorica dell’autosufficienza vitalistica le loro controversie,
non è del tutto slegato qui da un contesto di educazione civile. In fondo
essi interloquiscono con l’istituzione e sono messi in relazione anche con
un’aspettativa di laico risarcimento. Anche la lavandaia multata della scena
precedente (a differenza dei tipi più selvatici e sofferenti dei due sonetti
ricordati), in definitiva è conciliante:
IMBROJI Dunque la multa l’avete pagata?
MENICA Sicuro! (caccia ‘na carta) Ecco qua ciò tamanta de ricevuta!
M’ha fatto spenne 80 bajocchi. Che ce se possi comprà 80 bajocchi de
spezzieria 26.
Così come la figura del giudice è poco zanazziana e il suo ufficio è,
in qualche modo, strumentale a fare da palcoscenico all’alterco di alcune
figure di popolani, anche lo schema dell’agnizione (derivato dalla commedia cinquecentesca che a sua volta lo riprendeva dal teatro di Plauto e di
Terenzio) non appare una scelta di Zanazzo, che infatti non lo utilizza in
nessun’altra opera teatrale. La vena autenticamente zanazziana di questi
Carbonari è piuttosto nell’interesse dell’autore a rappresentare il temperamento della lavandaia che tiene all’‘onore’:
MENICA Io moderà li termini? Me fa mórto spece come parlate. Io sò
‘na pubbrica cittadina e vojo fà quello che me pare e piace. Insinenta
che m’ha fatto pagà la murta, nun m’è importato gnente; ma dimme
vassallona a mme! A mme! lui se sbaja assai! Vassallone sarà lui co’
quell’antri quattro cani che stanno ar Municipio!27
Così pure del litigio dei due giovani carbonai conserviamo, al di fuori
di uno schema scenico poco zanazziano (quello dell’agnizione), in fondo, una variante dell’arcaico contrasto fra ‘Giggi’ e ‘Ninetta’. Tuttavia già
25
Atto unico, scena X.
Ivi, scena II.
27
Ibidem.
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Li carbonari rivelano l’intenzione dell’autore di dedicarsi a una forma di
spettacolo più studiato drammaturgicamente. Zanazzo sperimenta, con un
occhio al teatro brillante francese (e con un occhio al successo del napoletano Eduardo Scarpetta28), una forma di spettacolo collocabile tra farsa e
operetta che abbiamo, per comodità, raggruppato in un insieme a parte.
Di questo gruppo, La Guida Monaci è la più interessante. L’intuizione del giovane commediografo è degna di una commedia brillantissima,
in cui gli elementi di un potenziale sofisticato vaudeville in salsa trasteverina ruotano attorno al personaggio di un intraprendente portiere in
cerca di più fortunati guadagni. La figura del (o della) concierge, comune
a tanta narrativa d’oltralpe, aggiunge una ulteriore suggestione francese
alla commedia che pure trova una originalità tutta zanazziana, tutta romana e tutta italiana nello scegliere, a protagonista della pièce, la «Guida
Monaci», un nuovissimo ritrovato dell’editoria post-unitaria. L’insuperato
repertorio anagrafico-istituzionale-commerciale uscito a Roma nel 1871 è
il motore del «girotondo» di Zanazzo e conferma la natura corale-sociale
del suo teatro. Lo scrittore antropologo, ma anche lo scrittore giornalista,
capta immediatamente i segni dei mutamenti economici e di costume, e li
esprime nel linguaggio che conosce meglio, ancora una volta quello della
scena e quello dell’archivio: la Guida Monaci come archivio vivente, repertorio in atto di casi «industriali», «scientifici», «artistici» e quindi umani,
realtà operosa consultabile nell’orizzontale dominio dell’ordine alfabetico,
strumento che inaugura la violabilità della privacy, irresistibile dispositivo teatrale per la scena di Zanazzo. Lo sguardo intelligente dello scrittore
coglie la portata innovativa della Guida, rubrica concreta e insieme repertorio virtuale di una moderna e diffusa comunicazione; e se ne serve per
azionare drammaturgicamente un ‘girotondo’ di mariti sospettosi di essere
ingannati dalle loro mogli: a questo serve la lettera circolare (che rinnova
l’espediente consumato della lettera anonima) inviata agli indirizzi estratti
dalla guida. Peccato che poi Zanazzo vincoli questa visione da rete urbana
alle beghe di cortile di Cucchimetto e Totarella; e che lo stratagemma occasionato dalla Guida Monaci si annacqui e si disperda nell’impianto di
uno scontato vaudeville, con tanto di canzonetta finale che ammicca al
pubblico, e che suggella, così, l’esito di un puro intrattenimento da avanspettacolo. La farsa, tuttavia, segna un ulteriore passo avanti dello Zanazzo
commediografo, che è qui intento a calare il suo già comprovato sguardo,
naturalmente teatrale, nel linguaggio specifico del palcoscenico. L’autore,
28
Cfr. Eduardo Scarpetta. Cenni critici e biografici raccolti da Giggi Zanazzo, Roma,
Edoardo Perino, 1890.
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introduzione
poi, trova una misura del tutto originale, in questa prova, nell’utilizzare diversi elementi dell’attualità, come la voga del vaudeville ricercava. Il Giggi e
la Ninetta di tante situazioni dello Zanazzo ‘trasteverino’ (che qui portano
il nome di Cucchimetto e Totarella), e che, alquanto deludentemente, si
insinuano anche ne La Guida Monaci, non impediscono tuttavia all’autore
di modulare una sorta di loro crescita sotto l’aspetto del personaggio-popolo che essi rappresentano. Cucchimetto, sebbene sia male in arnese, come
portiere in uno stabile abitato in prevalenza da buzzurri del Nord, è un
tipo di popolano transitante verso la condizione di una piccolissima borghesia come è quella che i nuovi tempi determinano:
CUCCHIMETTO (viè ffori dar casotto) Vardate che ber modo da trattà
er portiere! Sò ccari davero st’appiggionanti. Tratteno er portiere come
si fussi er servitore loro. Ma ggià da quanno sò vienuti questi, se ne vedeno de tutte le spece. Quelli de sta casa speciarmente sò propio grazziosi. Nun ve guardeno manco ‘n faccia, e pretenneno cho uno je se cacci er cappello, che je se portino su a ccasa le lettre, e poi si ve danno pe’
Agosto e Natale cinque pavoli è grasso che cola!...29
Alfabetizzato, ma subalterno di una nuova genia sociale – i piccolo-borghesi piemontesi – Cucchimetto rappresenta, come dicevamo, l’evoluzione del personaggio-popolano ‘primitivo’ e gradasso (gargante). Il popolano
de La Guida Monaci, da bullo o timido si è fatto «strutto» e scaltro: inventa «un modo ingegnoso e novo[...]pe’ fà quatrini» come Cucchimetto,
o tiene alla propria mercè stuoli di donne desiderose di farsi divinare il
futuro con le carte, come Matteo. Evidentemente si tratta di una tappa
necessaria per passare dal bozzetto o dalla farsa alla commedia leggera. La
cosa, però, sotto questo aspetto, gli riesce, al momento, solo in parte, e
giustifica la qualifica di «bozzetto popolare romanesco» che l’autore in definitiva attribuisce alla sua Guida Monaci.
L’operetta comica Pippetto ha fatto sega a scola non offre, al contrario
della precedente, spunti di particolare originalità inventiva, ma costruisce,
attorno al personaggio seriale di Pippetto, una vicenda più articolata con
la messa in scena di un numero maggiore di tipi umani. Satira e intento pedagogico vi compaiono nonostante che il personaggio-macchietta di
Pippetto spinga in una direzione tutta ludica e di assoluta distensione. Il
personaggio, degradato a caricatura dello scolaro discolo (pur essendo in
età di prendere moglie), arriva però a ribaltare la sua sfavorevole posizione
29
Atto unico, scena III.
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di partenza: egli teme la reazione del maestro per aver marinato la scuola,
ma infine avrà la meglio su di lui e sugli stessi genitori che, come tutti gli
adulti di questa vicenda, hanno ognuno qualcosa da nascondere. Primo
fra tutti il maestro Don Desiderio, che, per esempio, incita la serva Tota a
‘fare la cresta’ al padrone che la corteggia, per avvantaggiarsene egli stesso.
A parte un certo sapore arcaicizzante dovuto all’intreccio da commedia
burlesca (al quale contribuisce pure, su un altro piano, l’uso del termine
pedante per ‘maestro di scuola’30), si può rintracciare, anche in Pippetto ha
fatto sega, la specifica predilezione di Zanazzo per il personaggio-popolo al
femminile. Alla figura regressiva e caricaturale di Pippetto, giovanottone
in calzoni corti, viene opposta quella francamente e consapevolmente infantile di Michelina:
N. 7 (Romanza de Micchelina)
MICCHELINA Viva la faccia mia sempre contenta,
sempre burlona! Godo e me la canto;
senza sapé che sii dolore e pianto;
senza sapé che ssia soffrì e penà!31
Ciò che ne fa una sorta di derivato della Mirandolina goldoniana è la
sua ostinazione a voler restare libera da vincoli affettivi, per perdurare nella
sua lietezza infantile:
MICCHELINA [...]E sento ‘na voce /ch’alegra me dice /per esse felice/l’amore nun fà.
[…]
MICCHELINA […]Aibbò, io nun ciò lui; e nemmanco li vojo.
GIGGI Nemmanco uno piccolo piccolo, ciuco ciuco, carinello carinello?
MICCHELINA Nemmanco. Io vojo esse padrona de me stessa.
Per questo Michelina, in virtù della libertà di cui gode, può stabilire e
ordire i destini degli altri. Decide infatti di favorire l’amore di Giggi per
Teta, riuscendo nell’intento, a dispetto dei diversi calcoli dei genitori della giovane. Questa condizione di disimpegno, ma anche di padronanza,
tipico del gioco infantile, le consente, con Pippetto, di trionfare sul mondo degli adulti su di un piano morale: non ha niente di cui vergognarsi,
niente da nascondere; e su di un piano pratico: può infatti imporre la sua
30
La figura del pedante è già messa abbondantemente in ridicolo nel teatro comico del
Cinquecento. Basti qui ricordarne il capofila: Il pedante di Francesco Belo (Roma, 1529).
31
Atto II, scena V.
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volontà: «Ma dunque ‘sta sora Micchelina è una serpentina che se diverte
a le spalle nostre»32.
Possiamo considerare anche la scenetta Fanatica pe’ llegge li romanzi
(che come Er pizzardone non è datata), come appartenente al momento
più tardo della produzione delle commedie di ambientazione popolare
di Zanazzo. Se vogliamo tenere conto di un paio di indizi, uno esterno, uno interno al testo, l’atto unico parrebbe riferirsi agli ultimi anni
dell’Ottocento, quando Zanazzo lavorava alla Biblioteca del Ministero
della Pubblica Istruzione (1894-1911)33. Ma anche sotto l’aspetto tematico la Fanatica pe’ llegge li romanzi ci porta a un periodo più tardo
della produzione teatrale di Zanazzo. L’ambientazione ancora tutta popolaresca di questa scenetta a due (un terzo personaggio compare solo
nel finale) non impedisce all’autore di accompagnare i suoi beniamini
verso un destino di promozione sociale, improponibile nei bozzetti che
per comodità abbiamo qualificato come ‘arcaici’. La lettrice della pièce,
divoratrice di libri, al cui centro brilla il romanzo nazionale per eccellenza
de I promessi sposi, è difficile ritenerla come rappresentativa di una intera
generazione; tuttavia, è proprio sul piano dell’affacciarsi di una nuova fase
generazionale (successiva a quella riferita al trentennio 1870-1900) che
Zanazzo intende marcare la differenza con l’analfabetismo sempre da lui
segnalato, sia nei personaggi di giovani delle commedie anteriori al 1990,
sia nei personaggi di anziani delle commedie tarde (tra queste ultime è,
per esempio, analfabeta l’agiata cinquantenne de La socera). E tuttavia,
32
Atto III, scena X, battuta di Antonio.
L’unica stesura della commedia conservatasi, per di più di mano autografa, è infatti
trascritta su un foglio tipo protocollo recante il marchio (cancellato a penna) del Ministero della Pubblica Istruzione, che è il supporto tipico di tutti i copioni più tardi
dello scrittore. L’altro elemento determinante per una datazione collocabile nella fase
più matura della produzione teatrale di Zanazzo è costituito dalle didascalie scritte
in lingua, uso che si accompagna a tutte le commedie dell’autore a partire da Zitellona, il cui manoscritto è datato 16 febbraio 1894. Solo il manoscritto dell’atto unico
Essere o nun essere sembra fare eccezione all’attendibilità di questo criterio di datazione: la pièce, che è trascritta anch’essa su fogli tipo protocollo, recanti il marchio del
Ministero della Pubblica Istruzione, e che ha pure le didascalie scritte in lingua presenta, in calce, la data di giugno 1889. Dei due indizi, senz’altro quello riguardante
la lingua delle didascalie è da tenersi in maggiore considerazione, poiché l’autore potrebbe avere ricopiato da una precedente stesura il copione angelicano. Sotto l’aspetto,
invece, dell’uso distinto del dialetto per i testi delle commedie, e dell’italiano per le
didascalie, è un dato certo che, a partire dallo «scherzo comico» di Essere o nun essere,
(dopo il quale la successiva commedia datata è Zitellona del 1894), tutte le commedie
hanno le didascalie in lingua.
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in questa divertente commedia, la figura di Crementina da una parte è
rappresentativa dell’adeguamento-emancipazione sociale del personaggio-popolo, senz’altro idealizzato del suo autore, dall’altra è generatrice di
comicità come personaggio che ha un’idea fissa capace di sopravanzare la
realtà stessa: Crementina legge un romanzo e ne è talmente assorbita da
trascurare ogni altra occupazione, finanche mangiare e dormire. Ciò che
legge prende il sopravvento sulla realtà vissuta quando la giovane sveglia
il marito operaio al suo primo sonno, per informarlo che «Don Rodrigo
se l’è presa in saccoccia».
3. Avevamo isolato un ulteriore insieme, tra le commedie di Giggi
Zanazzo, riconducibile agli anni 1894-1906. Dicevamo che, tra gli elementi che caratterizzano questo gruppetto di testi, anche quello di un triste
epilogo è significativo di una nuova fase della pratica teatrale di Zanazzo.
L’autore sembra muoversi tra satira e commozione-malumore, riservando
soprattutto alla conclusione, al momento di congedarsi dallo spettatore, la
dose massima di cupezza di cui è capace. Così assistiamo al ‘sacrificio’ di
Mimma, la zitellona della commedia che apre questo nuovo ciclo ‘borghese’; ai rovesci di fortuna e alla conseguente caduta sociale dei componenti
di due famiglie: quella dei Laurini, in Doppo el 20 Settembre, e quella de La
famiglia de la cantante. Così si spiega, ancora, il generale tono amaro preso
dalla commedia satirica degli Elettori infruventi.
Dunque Zanazzo, scrittore di operette, già ricettivo nei confronti di un
vaudeville scacciapensieri, declina a modo suo l’immaginario Belle époque
sfruttandone i luccichii per la scena sfarzosa di alcuni suoi atti primi, salvo
poi precipitare negli allestimenti scenici della miseria e del congedo funebre negli atti terzi. In Doppo el 20 settembre il sipario cala giusto sul «grido
lacerante» che annuncia la morte della giovane Peppina Laurini, mentre la
cantante de La famiglia conclude la sua mai avviata carriera musicale, in
una casa di appuntamenti.
Insomma, Zanazzo, a un certo punto, sembra tentato dalle severità del
dramma, e da toni anche tragici; e in questo senso la sua riduzione del
Giulio Cesare di Shakespeare non è certo casuale. A tal proposito Francesca Bonanni ricorda un articolo dell’autore uscito sul «Rugantino» del
22 gennaio 1888, in cui egli senza mezzi termini auspicava che «alla ormai esagerata e antiartistica operetta si sostituisse la vera commedia o il
dramma, e si creasse anche in Roma, come nelle altre nostre provincie, un
teatro popolare [...]. Finiamola una buona volta con questi tenori soprani
e cantori sfiatati e fondiamo un teatro romanesco in cui le forti passioni
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e le magnanime virtù del nostro popolo siano messe a nudo e servano di
ammaestramento e di esempio...»34.
Proprio con La famiglia de la cantante Zanazzo prende di mira l’ambiente dello spettacolo, stigmatizzato nella vanagloria di certi suoi esponenti, ritratti in una medesima mitomania di stampo piccolo borghese,
insieme con bottegai che aspirano a vivere della luce riflessa di mogli o
figlie cantanti: un po’ da parassiti, un po’ da patiti dell’arte musicale e,
in più di un caso, disposti a fare da mezzani pur di raggiungere la fama e
i guadagni procurati dal palcoscenico; il quale, non a caso, è ribattezzato
«palco osceno» da Agheta la Saputa, in uno strafalcione-lapsus che amplifica comicamente la sua inconsapevolezza linguistica in una inconsapevole
metafora della sua leggerezza morale.
Il teatro è ancora tema prediletto della commedia Doppo el 20 settembre, sulla quale vale la pena di soffermarsi come una delle più compiute e
interessanti di Zanazzo: un punto d’arrivo anche della sua riflessione su
temi e motivi che lo hanno sempre interessato e che qui troviamo riuniti
in una nuova e più complessa struttura. Il teatrino di casa Laurini è motore
dell’azione e, in certo modo, depositario dell’unica fede del capofamiglia
che è indifferente sia alle smanie cospiratrici di papalini irriducibili (che
frequentano a vario titolo la sua casa) sia al governo anticlericale appena
insediatosi, di cui si fa portavoce Francesco, amministratore inascoltato
della impresa commerciale della famiglia.
Vale la pena riassumere in un rapido elenco i temi cari a Zanazzo tutti
insieme presenti in questa commedia: il grande mutamento storico della
Roma moderna, varie volte dall’autore raccontato come trauma culturale,
antropologico, oltre che sociale ed economico, e qui affrontato quasi in
presa diretta; un anticlericalismo franco, ma in definitiva bonario; la delineazione di precisi ambienti (lo spaccio di stoffe), e di alcuni mestieri: il
mercantino e la scuffiara (è difficile che non venga rappresentato o nominato un nuovo mestiere passando da una commedia all’altra), ma anche
i «mercanti di campagna», l’unica vera potente alta borghesia romana; la
passione per il teatro, per il palcoscenico, gli attori, il pubblico, che spesso
qui si esprime (come in altri testi) con il ricorso alla formula del teatro nel
teatro, e che trova una felice esaltazione nella riuscita di una clamorosa
burla, quest’ultima sempre gradita, come trovata scenica, a Zanazzo; la delineazione di caratteri femminili incisivi, sempre prevalenti sui personaggi
maschili, che sono, al contrario, ridicolmente ambiziosi o cialtroneschi,
34
F. Bonanni Paratore, op. cit., pp.14-15.
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spesso flemmatici e tiraccampare, se non profittatori e, in molti altri casi,
ipocritamente benpensanti («bizzocchi e colli storti»); una fondamentale
saggezza e schiettezza attribuita ai popolani; la tresca adulterina; la convivialità aiutata dal cibo e dal vino; la menzione di eventi storicamente accaduti; il ricorso a una onomastica e a una toponomastica precise e sempre
realistiche (quelle che si riferiscono a strade, piazze, chiese, palazzi, titoli
di giornali, insegne commerciali, attrici di fama), con i nomi talvolta (in
pochi casi) lievemente camuffati e contraffatti: per esempio, il generale
tedesco Hermann Kanzler comandante supremo delle forze armate pontificie e proministro delle armi durante la presa di Roma diviene, nella
commedia, sia Andler sia Landller, mentre il nome del cancelliere Bismarck
viene dialettilizzato in Sbimmarche.
Rappresenta invece una novità, rispetto al linguaggio abituale dello
Zanazzo commediografo, l’indugiare sul fallimento e sull’emarginazione sociale vissuti dalla famiglia Laurini; senza contare l’altissimo prezzo che si
trova a pagare il personaggio della povera Peppina che, dopo essere stata la
trascinante regista della burla spassosa orchestrata ai danni di grotteschi papalini, ritroviamo qui malata di tubercolosi e infine morta. Più che un colpo
di scena, inteso a sbalordire il pubblico, questo mutamento di clima sembra
l’interesse a esplorare una realtà teatralmente più ampia e anche il tentativo
di trovare un nuovo rapporto con il pubblico: evidentemente chiamato non
solo a divertirsi ma anche a immedesimarsi e a commuoversi.
Aver preso in considerazione le commedie più tarde, in particolar modo
sotto l’aspetto di un loro ripiegare verso conclusioni malinconiche, ci aiuta
a comprendere di che natura è il rapporto di Zanazzo teatrale col personaggio-popolo. E in che modo questo rapporto ne abbia condizionato un
altro: quello dell’autore con il suo pubblico.
È significativo, infatti, che La socera, in tutto rispondente alle caratteristiche di questo terzo raggruppamento, se ne allontani proprio per la
scelta conclusiva, che, sebbene giocata in chiave estremamente ironica e
quindi con un esito non autenticamente felice per la protagonista, neppure
ne profila il fallimento o un qualche ridimensionamento della posizione.
Sotto questo aspetto, La socera la si potrebbe eleggere a commedia ‘ponte’
tra i due diversi trattamenti che Zanazzo riserva alla società romana del suo
tempo, che si tratti della energica e trionfante vitalità da lui attribuita al
popolo, o, al contrario, dei ridicoli e a volte velleitari tentativi di emancipazione attribuiti alla piccola borghesia.
Zanazzo, insomma, si mantiene fedele alla convenzione per cui al di-
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vario sociale fra gli strati inferiori e quelli superiori della società corrispondeva un divario drammaturgico: i popolani nelle «scenette dal vero», nei
bozzetti, nelle farse; i borghesi nel dramma in tre o quattro atti. Anche
nelle commedie di impianto più strutturato in cui sono protagonisti esponenti del popolo, questi non sono mai posti in situazione drammatica, ma
sempre lieta, tutt’al più sono messi in litigio. Solo i borghesi, piccoli e medi, soffrono. Tutto ciò trova conferma ne La Socera in cui l’agiata Cammilla, ex ‘pizzicarola’ di Panico, mantiene nei rapporti con i familiari di
seconda generazione, più sensibili alle apparenze, il suo sanguigno temperamento di popolana dai modi diretti veraci e vissuti dagli altri come
imbarazzanti. Ebbene, siffatto personaggio della socera, proterva e dominatrice, animata da un irriducibile odio verso il genero e sospettosa nei
confronti degli uomini in genere, convinta di avere in pugno il flemmatico marito, viene ‘graziata’ dall’autore; gli viene concesso, cioè, di poter
conservare la sua natura di personaggio trionfante; non importa se doppiamente ingannato35. Insomma il personaggio di Cammilla, tolto di peso dalle commedie di ambientazione più popolaresca, non consente al suo
autore di farne una vinta, o quantomeno una vinta consapevole. La peripezia finale di piazza Padella ottiene il risultato che non le sia svelata la
relazione adulterina del marito Paolo; questi riesce a farla franca, facendone fare le spese al giovane di studio del genero, che si assume una colpa
non sua; ma, soprattutto, ne esce rinvigorita la sora Cammilla che in questo modo può mantenere intatta l’indomita protervia. Non ha importanza che al personaggio faccia difetto la capacità di capire come stanno veramente le cose, poiché la sua natura stolida è insieme la sua forza, la stessa che le consente di essere una personalità dominante. Ella, alla fine,
mantiene il punto e rilancia, rivolta al genero: «Che si ‘sta vorta ho preso
un granchio, spero un’altra vorta de nun pijallo. E si er vostro giovine ha
fatto quer che ha fatto, averà imparato certo dar padrone» 36.
Il carattere di Cammilla è travolgente; sbaraglia tutti senza eccezione;
impone la sua personalità a dispetto della sua ignoranza (è analfabeta, non
conosce alcun codice urbano di relazione) e a dispetto del suo amore per i
parenti stretti (calpesta i sentimenti delle figlie, tiene in soggezione il mari35
Cammilla è a un passo dallo scoprire la verità sulle cui tracce è stata messa da una
lettera fortuitamente trovata; si tratta di una verità per lei assai scomoda: che non solo non le consentirebbe di cogliere sul fatto, come avrebbe voluto, il genero sospettato
ingiustamente di adulterio, ma che al contrario le svelerebbe il tradimento del proprio
marito, della cui fedeltà si faceva vanto.
36
Atto III, scena XIX.
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to). Anzi impone questa sua natura primitiva come elemento di forza e di
autenticità. Tanto è vero che la padronanza con cui dispone dei movimenti
dei suoi prossimi è degna non solo di una commediante, ma anche di una
commediografa, nel momento in cui inventa e ordisce una burla ai danni
dell’osteggiato genero. La burla, poi, non è priva di un suo fondamento
morale, riguardo a un argomento che Zanazzo ha già avuto modo di portare ne L’ammazzacani37: l’avvocato si ritiene oltraggiato quando finalmente
si scopre che «il caro» di cui i due popolani lamentano il sequestro è un
cane: senonché il dileggio escogitato dalla socera ai suoi danni non esclude
che il sentimento dei due coniugi, addolorati per la perdita della bestia, sia
autentico.
Avevamo già incontrato un personaggio con le caratteristiche di questa
Cammilla nei panni della Vittoriona della Zitellona. Ma quest’ultima, una
ex «orbivendola» tosta e invelenita, tollerata dalla cerchia del parentado in
virtù «dell’interesse» che ne trae, non agisce del tutto incontrastata. Altri
personaggi le tengono testa: una consuocera forte di una migliore educazione, una figlia di quest’ultima, arrampicatrice sociale.
L’umoralità di Cammilla è invece portata alle estreme conseguenze: ella
talmente ribolle nella ostinata avversione nei confronti del genero da risultare un personaggio di ossessa. La sua ‘scontentezza’ di suocera si riversa
anche sul pretendente della figlia più giovane, che pure viene travolto dalla sua esigente brutalità. L’acme di questo conflitto, molto efficacemente
condotto da Zanazzo, viene raggiunto nel momento in cui la forsennata
donna sembra trionfare doppiamente sul genero: e perché organizza una
beffa ben riuscita ai suoi danni e perché ritiene di avere la prova della sua
infedeltà coniugale. Senonché l’astio verso il genero avvocato si colora così
dei due agenti che muovono l’agiata donna ben ancorata alle sue origini popolane: da una parte la rivalsa di classe sul professionista «strutto»,
dall’altro la rivalsa sull’uomo che le ha sottratto la figlia. Non che nella
commedia il tratto della possessività di madre venga esplicitato più di tanto, ma certo è che la furia crescente di Cammilla si placa soltanto quando
la figlia finalmente passa la notte a letto con lei, mentre tutti gli uomini
della casa restano esclusi dai rispettivi talami.
***
37
Si tratta di un componimento in 22 sestine del 1884, (poi pubblicato a cura di G.
Orioli, in G. Zanazzo, Poesie romanesche, op. cit., pp.588-594) su una figura di popolano che si ribella all’accalappiacani municipale spalancando lo sportello del «carettone», e liberando le bestie.
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introduzione
Come si vede, diversi sono i registri utilizzati da Zanazzo nell’intento
di realizzare un teatro popolare in lingua romanesca. Egli, come tutti gli
scrittori in dialetto venuti dopo Giuseppe Gioachino Belli, ha dovuto fare
i conti con quella materia poetico-linguistica definitiva e inesauribile che
costituisce i 2279 sonetti. Ma non è accaduto che Zanazzo si sia fatto
scoraggiare da un tale poderoso modello; egli ha perseguito con fedeltà e
talento il suo originale percorso artistico-antropologico. Sostenuto dall’intuizione che il teatro avrebbe accolto tutta la gamma delle espressioni del
popolo da lui osservate e reinventate, egli ha saputo spaziare, sul palco,
dalle pareti domestiche ai più ampi scenari della storia e della politica, tutti
offerti da una protagonista d’eccezione, e quanto mai presente anch’essa
sulla scena, come la città eterna.
Zanazzo ha riversato nel teatro tutto ciò che ha osservato e amato del
popolo (come già indicato, oltre la lingua e la cultura: la salute, la psicologia, la forza, sia mite sia luciferina) ad un certo punto intrecciandone
il destino con quello di una piccola borghesia emergente non altrettanto
amata, e tuttavia parte consistente del pubblico al quale egli si rivolgeva.
Lo stesso scrittore, con il consueto amabile garbo, fornisce i connotati di
un tale pubblico:
Un tempo s’andava a teatro per farsi straziare il cuore, per piangere; ma
nell’anno di grazia 1889, coi pensieri della crisi edilizia, degli scioperi, dei
cracs; dopo passata una giornata a sgobbare su di una scrivania, se impiegati; a far la divisione delle vostre sostanze per tasse e sopratasse, se proprietari; o a correr le vie per liquidare i vostri crediti, è giusto che ognuno la sera
si voglia ricrear l’animo oppresso, e infili il teatro ove recita Eduardo Scarpetta, il re, anzi l’imperatore del buon umore!38
Non c’è dubbio che questi fossero gli interlocutori ai quali Zanazzo
stesso si rivolgeva; ha poca importanza che egli si riferisca qui alle commedie brillanti di Eduardo Scarpetta, in occasione del caloroso omaggio da
lui tributato in una raccolta di scritti per l’editore Perino. Il quadro, per la
verità un po’ sconfortante e ingenuo, degli umori che l’autore attribuisce
alla piccola e media borghesia romana o napoletana, è anche sufficientemente rappresentativo degli umori dello stesso Zanazzo se egli non esita
a offrire un’immagine generica, ma che di lui conosciamo bene: quell’autobiografico impiegatizio «sgobbare» che è il rovescio esatto della molto
più appagante, per lui, attività di commediografo, di regista e di attore.
38
Eduardo Scarpetta, op. cit, p. 7.
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Ma, tornando all’auspicato «buon umore» e al teatro come ‘ricreazione’, da Zanazzo vagheggiati a proposito di Scarpetta, abbiamo visto come
l’autore, in realtà, abbia dato voce anche al dramma della rassegnazione
e dell’impotenza, riepilogando nel triste destino di singoli personaggi il
crollo delle illusioni seguito a epocali trasformazioni politiche. In questo
nuovo orientamento il pubblico non lo ha seguito: La socera riscuote un
discreto successo, Zitellona non convince e La famija de la cantante è un
fiasco clamoroso. Certo, anche alla lettura che noi oggi ne possiamo fare,
le ultime due commedie rappresentate vivente l’autore, nonostante i molti spunti interessanti, sembrano non trovare il ritmo teatrale proprio di
Zanazzo; probabilmente per un suo mutamento di prospettiva che qui, nei
limiti degli interni borghesi, non può accordarsi alla voce corale delle sue
migliori invenzioni. La sostanziale mancanza d’azione di Zitellona e de La
famija non viene sostituita dal dramma-conversazione in cui i personaggi,
per cosi dire, agiscono mentre conversano. Semmai, in assenza di una vera
comunicazione e di una storia da raccontare, i personaggi si scambiano
battute senza provocare, nel pubblico, immedesimazione, e senza dare luogo a una franca comicità. Al contrario Zanazzo trova (o ritrova, a seconda
della datazione dell’opera, che è incerta) una sicurezza di andatura in Gli
elettori infruventi, grazie a un genere teatrale più rigido, se vogliamo più
convenzionale, ma intonato a rappresentare quella scena movimentata, affollata, corale che più volte abbiamo distinto in lui.
Il ricorso a schemi collaudati del linguaggio teatrale popolare (lo spazio
neutro dell’osteria con i suoi cerimonieri: l’oste, sua moglie, il garzone) e
a tipi umani fissi (il «brillante», l’«insignificante», l’«imbecille», il «faticone
che non fa niente») consente paradossalmente all’autore, in questa fase più
matura della sua riflessione, una maggiore inventiva e una maggiore libertà
d’azione. A suo agio in questo metro, Zanazzo coniuga al meglio satira e
sentimento di amara rassegnazione. L’osteria è una sorta di arena dove si
confrontano fannulloni prestati a una profittevole propaganda elettorale –
gli «elettori infruventi» del titolo – e candidati politici di sicuro successo se
appartenenti alla categoria dell’«homo novus», valido per tutte le stagioni:
TOMBONI [il candidato] Ma per carità, veh, non disgustate nessuno. Sono momenti questi in cui si ha di bisogno di tutti. (si suona nuovamente il campanello) Di tutti: de’ clericali, de’ socialisti, de’ monarchici... di
tutti, vi ripeto, di tutti.
[...]
DENTAMARO [elettore] A pproposito. De llà è vvenuto er prisidente der
Circolo Imparziale che ppuzza un tantino de prete...
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TOMBONI Contentatolo, è più degli altri. (con precauzione) Anzi, se vi domandasse qualcosa intorno a’ miei principii, ditegli che in fondo poi
sono moderato... sono monarchico... magari che vado a messa tutti i
giorni.
SPUTAROSSO [elettore] Avemo capito. A li realisti, che ssete realista, alli
repubbricani che ssete repubbricano...
DENTAMARO A li socialisti che ssete de li loro...
SPUTAROSSO E accusì via discurrenno. Fanno tutti lo stesso...
DENTAMARO Sete un gran omo!
TOMBONI Eh miei cari, chi non sa fingere, non sa regnare...39
39
Atto III, scena II.
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BA. Ms. 2414, c. 81: Zitellona.
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BA. Ms. 2414, c. 523: Elettori infruventi.
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AVVERTENZA
Sono dodici le commedie inedite di Giggi Zanazzo qui pubblicate
dal faldone1 della Biblioteca Angelica (Ms 2414) insieme con le sette già
edite.
Si presenta quindi, per la prima volta, la raccolta completa di tutto il
teatro zanazziano attualmente disponibile.
Le sei commedie pubblicate vivente l’Autore (Li Maganzesi a Roma, La
Guida Monaci, Pippetto ha fatto sega, Evviva la migragna!, Accidenti alla
prescia! L’amore in Trastevere) vengono oggi riproposte a distanza di più di
un secolo dalla loro prima apparizione. Una settima commedia, La socera,
– l’unica pubblicata postuma (1980) – viene qui presentata in una diversa redazione inedita compresa anch’essa nel faldone angelicano.
Viene infine riproposto, in appendice, un testo del 1882 – Un’infornata
al Teatro Nazionale – il pezzo forse più noto della produzione letteraria di
Zanazzo: un vero e proprio saggio di metateatro nonostante sia scritto in
sestine.
L’attività di commediografo di Giggi Zanazzo va dal 1876 al 1906 circa. I testi – che sono vari per estensione, temi, linguaggio – sono presentati
in ordine di composizione. Sulla base di diversi indizi (materiali, linguistici, e storici), si è cercato di situare cronologicamente anche le opere
non datate: ‘Na dichiarazione d’amore, Er pizzardone, Li carbonari, Elettori
infruventi, Fanatica pe’ llegge li romanzi. Collocazione a parte trovano la
traduzione in romanesco del Giulio Cesare di Shakespeare, anch’essa non
datata, e due scritti in fase di abbozzo: La Serva Socialista e Parlare di un
socialista alla moglie.
1
Il faldone insieme ad altro materiale archivistico di Giggi Zanazzo è stato acquisito
nel 1948 dalla Biblioteca Angelica sotto la direzione di Francesco Barberi. Per ulteriori
dettagli cfr. P. Paesano, Un poeta romanesco tra gli Arcadi: il Fondo Zanazzo alla Biblioteca Angelica, in Le voci di Roma. Omaggio a Giggi Zanazzo. Atti del convegno di studi
Roma, 18-19 novembre 2010, a cura di F. Onorati e G. Scalessa, Roma, Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli, 2011, pp. 97-109.
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introduzione
Tuttavia si ha notizia di una più ampia produzione teatrale di Giggi
Zanazzo. Dai dati raccolti da Francesca Bonanni2, sulla base delle testimonianze di alcuni studiosi e dei giornali dell’epoca, risultano oggi introvabili
le seguenti opere: Muzio Scevola3, operetta, 1882; L’obelisco incatramato,
scherzo comico, musica del maestro Galanti, Teatro Rossini, settembre
1883; Crementinella, operetta, 1883; Chi sente ‘na campana e nun ne sente
‘n’antra, è ‘n brutto sòno, rappresentata per la prima volta al Teatro Corea
nell’agosto 1883; Li fanatichi pel gioco der lotto, operetta, musica del maestro Mascetti, teatro Rossini, dicembre 1883; Streghe stregoni e fattucchieri,
operetta, musica del maestro Pascucci, Teatro Rossini, dicembre 1884; Li
tempi de Checco e Nina, operetta, 1884; Lo sposalizio der boccio, operetta
(forse in collaborazione), 1884; E’ re Gobbetto4, Teatro Rossini, gennaio
1885; Fischi pe’ fiaschi, Teatro Rossini, ottobre 1887; Pippetto Mozzirecchio,
musica del maestro Rispetto, Teatro Rossini, novembre 1887; Er testamento de padron Checco.
A questi titoli Bonanni aggiunge tre riduzioni in romanesco: Maria la
grevetta (dal francese), 1886; La consegna è di russare, 1908; Mastro Nino
(dallo spagnolo, probabilmente una riduzione dal Juan Josè di Dicenta),
1908.
La studiosa menziona ancora alcune riduzioni teatrali di Gaetano Sbodio in dialetto milanese da Zanazzo: Evviva la bolletta! Bozzetto in un
atto da Evviva la migragna!, in: Repertorio del teatro milanese, 164, Milano,
Carlo Barbini, 1889, pp. 5-28; In Viarenna: scena popolare da L’amore in
Trastevere, Milano, C. Aliprandi, 1889; La me voeur? Milano, C. Aliprandi,
s.a., dal bozzetto Me voressivo? (dallo stesso bozzetto si segnala anche una
riduzione in dialetto veneziano ad opera di Emilio Zago).
Criteri usati nella trascrizione dei testi
Sono state conservate tutte le forme varianti nella grafia di una stessa
parola anche in caso di un uso incoerente da parte dell’autore: es. ttutto/
tutto; pensacce/ppensacce; giuvedì/ giuveddì.
2
Cfr.: F. Bonanni, Il teatro di Zanazzo, in G. Zanazzo, La sôcera, Roma, Bulzoni,
1980, pp. 11-12.
3
Nel Ms BA 2416, cc. 146-162, è conservato un esemplare a stampa incompleto (presenti solo i primi due canti) del poemetto: Muzio Scevola. Poema giocoso in Dialetto
Romanesco di Luigi Zanazzo, Roma, Tipografia Economica, Via del Corso, 837, 1870
[ma 1875].[ Sul frontespizio:] Proprietà dell’Autore.
4
Presente, con lo stesso titolo, una fiaba nel Ms BA 2410, cc. 19v-22r.
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Sono stati osservati, invece, criteri unitari normativi nell’uso dell’accentazione e dell’apostrofo, vario e contraddittorio nei testi originali, sia
manoscritti che a stampa:
– è stato eliminato il segno di apostrofo nelle voci verbali all’infinito,
che spesso in Zanazzo è presente insieme con il segno di accento (es.: annà
per annà’, vedé per vedé’);
– la grafia delle forme: co, pe, nu; mi, tu, su; sto, sta, sti, ste, presenti nei
testi a volte con apostrofo, altre con accento, altre senza segno, sono state
così uniformate: co’, pe’, nu’; mi’, tu’, su’;‘sto, ‘sta, ‘sti, ‘ste;
– si è normalizzata l’accentazione della voce verbale della I e della III
persona del presente indicativo del verbo esse (=essere): io sò per io sô, io so’,
io so; essi sò per essi sô, essi so’, essi so;
– è stato sempre eliminato l’accento circonflesso; solo in pochi casi è
stato sostituito con l’accento grave per maggiore chiarezza di comprensione e pronuncia: pòi per pôi (puoi); vòi per vôi (vuoi);
– sempre per maggiore chiarezza di comprensione e pronuncia è stato
aggiunto, in qualche caso, l’accento grave o acuto.
Si è intervenuti sulla punteggiatura semplificandola, ai fini di una più
agevole leggibilità del testo.
Si è adattato alla forma moderna l’uso non coerente delle iniziali maiuscole dando quindi la preferenza alle minuscole.
Sono stati corretti i pochi casi di errori ortografici.
Le citazioni dei discorsi di terzi all’interno delle battute, dall’autore resi
a volte in corsivo, a volte tra virgolette, sono stati riportati sempre tra virgolette caporali.
Le note che lo stesso Autore ha aggiunto ai testi sono riportate a pié di
pagina, contrassegnate da: N. d. A.
Per le note esplicative dei termini romaneschi ci si e’ avvalsi di: F. Ravaro, Dizionario romanesco: da «abbacchià» a «zurugnone» i vocaboli noti
e meno noti del linguaggio popolare di Roma, Roma, Newton Compton,
1994; più raramente si è fatto ricorso a F. Chiappini, Vocabolario Romanesco, con aggiunte e postille di U. Rolandi, Roma, Leonardo da Vinci,
1933; in questo secondo caso è ogni volta segnalata la fonte.
I brani e le singole parole cancellati dall’Autore e le varianti fra le diverse redazioni sono riportati in nota soltanto nei casi ritenuti significativi ai
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introduzione
fini di questa edizione, che intende presentare il teatro di Giggi Zanazzo
nella forma piu’ completa e rigorosa, ma anche agevolmente accessibile.
Pertanto sono state segnalate varianti di testo solo se costituiscono un ripensamento di tipo espressivo (linguistico-lessicale), o censorio, e sempre
nel caso in cui si tratti di forme alternative dell’azione scenica.
Abbreviazioni
BA: Biblioteca Angelica
BNCR: Biblioteca Nazionale Centrale di Roma
Ms: manoscritto.
Le due curatrici hanno lavorato nella piena condivisione del metodo e
della generale impostazione critica all’edizione del presente volume; tuttavia la responsabilità del volume va attribuita nel modo seguente:
Laura Biancini: Li Maganzesi a Roma, La Guida Monaci, Evviva la migragna!, Li carbonari, Er pizzardone avvilito, Zitellona, La socera, Giulio
Cesere, ‘Na dichiarazione d’amore pe’ la Regola, La serva socialista.
Paola Paesano: Pippetto, L’amore in Trestevere, Accidenti alla prescia, Essere o nun essere, Fanatica pe’ llegge li romanzi, Elettori infruventi, La famija
de la cantante; Doppo er 20 settembre, Parlare di un socialista alla moglie,
Un’infornata ar teatro Nazionale.
Si ringrazia, per i preziosi suggerimenti, Alberto Postigliola, Presidente del CESET-Centro per lo Studio e l’Edizione dei Testi dell’Università
di Napoli ‘L’Orientale’.
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ELISA DE ROBERTO
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LI MAGANZESI A ROMA
Operetta in tre atti in dialetto romanesco
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1. introduzione
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare a stampa (Misc. B 602,5) conservato nella BNCR recante il timbro di possesso di Giggi Zanazzo:
Li Maganzesi a Roma. Operetta in 3 atti in dialetto romanesco, parole di
Giggi Zanazzo, Musica del Maestro Giovanni Mascetti, Roma, Tipografia
Commerciale Governo Vecchio, N. 34, 1882.
[A pag. 3] Rappresentata per la prima in Roma nel Teatro Rossini il 30
Settembre 1882. Proprietà Letteraria.
L’esemplare utilizzato presenta, come tutti gli altri consultati, alcuni salti
nella successione delle scene, pur avendo paginazione completa e consecutiva. Così nell’atto I si passa dalla scena II alla VI e dalla scena VI alla
IX; nell’atto II: dalla scena I alla scena V e dalla scena VI alla scena VIII;
nell’atto III: dalla scena I alla scena V e dalla scena V alla scena VIII. Dovrebbe trattarsi di un opuscolo pubblicato in occasione della rappresentazione stessa. Nella tavola dei personaggi infatti compare l’elenco degli attori nell’ordine corrispondente: Augusto Ajani, Giuseppina Mancini, Filippo Ricci, Benedetto Tomassi, Filippo Tamburri, Maria Giordani, Maria
Cicchi, Domenico Valeriani, Oreste Giordani.
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Personaggi
CENCIO SFERRA amante di
ROSA BERPELO figlia di
MUCCIO BACIAMATTONI
DIDON sergente
GIORGIO STENNARELLO caporale
CREMENTINA LA SBIRRA sua moglie
TUTA LA ZINNONA
MEO
PICCHIABBÒ ER TARTAJONE
Soldati, popolani, popolane, ecc.
La scena accade in Roma
Epoca 18981
1
Ma: 1798.
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ATTO I
Piazza di S. Giovanni della Malva.
SCENA I
Cencio Sferra, Rosa Tuta, Meo, Picchiabbò,
popolani e popolane.
CORO D’INTRODUZIONE
Viva, viva l’allegria,
viva sempre la sciampagna,
si ddurassi ‘sta cuccagna
se farebb’un ber campà!
Viva er sugo de la vigna,
dorce asciutt’e ttonnarello;
si ne bbevi un caratello,
t’arisenti aricreà. (bis)
ROMANZA DI CENCIO
Addio, Rosina, addio:
ricordete de me.
Lo sai ch’er core mio
te cerca sempr‘a tte...
Viemme ‘sta nott’in sogno,
famme vedé quer viso:
me par’er paradiso
quanno m’insogn’a tte.
Guardo la luna,
guardo le stelle,
ma non sò belle,
mai come tte.
SCENA II
Didon, Stennarello e Maganzesi.
CORO DE’ MAGANZESI
Noi esser maganzese,
fenut’a precipissie,
tai nostre pei paese,
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introduzione
per mettere ciudissie
al popole romane
che star repubblicane.
Se prentiam - queste canalie,
1’infilsiamo - come qualie
con la canne - te lo schioppe;
e al quartiere - te caloppe,
le portiame - priccionier.
S’ode un fischio; i soldati indietreggiano spaventati.
ARIA DI STENNARELLO
Accidente! - me n’infischio,
si cche ggente - da rugà!
Per un fischio - muffo, muffo
fanno tutto - ‘sto sartà.
Ecco ‘n fusto de corata,
ecco ‘n greve che sta ‘n gamma:
nun se mett’a strillà mmamma,
per un fischio che sse fa.
Io sò Giorgio Stennarello,
caporal’antibbojano;
e sò ll’unico romano
fra ‘sti scoji che cce sò.
Tartaifèlle, sapristì
sacre-nom; ne pas, ne pas...
che li possin’ammazzà.
nun se vonno fà capì.
Si mme sarta - la pazienza,
sentiranno - ‘sti martufi
che scadenza - che je do.
ROMANZA DIDON
Rosina - écoutez
mes accents - ma prière
et daignez - exaucer
un amant - si sincère
que je puisse - en retour
vous prouver - mon amour
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Pour toujours.
SCENA VI
Osteria
BRINDISI
DIDON Ha de l’or il bel color
questo vino frascatane:
ner’è ll’occhio ruba cor
de le giovine romane.
Belle donnine
chi vuol trovar,
se viene a Roma
le troverà.
Chi del buon vino
vuole gustar
se viene a Rome
lo gusterà.
CORO Beviam, beviam;
se vin’a amor
congiunto vien
rallegra il cor.
Belle donnine,
chi vuol trovar ecc.
DUETTO
Rosa e Didon
DIDON Son’uscite tutte quante;
sarà melio di fugire...
Ma non so da dov’uscire
ils pouraient me rencontrer.
(vedendo Rosa) Uh, chi vedo! qui costei?
Rosa mia, la mia fanciulla!
mais c’est sur, è proprio lei.
Come diable est-elle ici ?
Oh Rosine!
ROSA Chi mme chiama ?
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introduzione
DIDON Chi tti ama.
ROSA Ah! sei tu?!
Brutt’infame - scellerato,
e ccia faccia - de stá cqua?
Si nun t’hanno - scorticato,
te la pensi - de sfardá?2 (minacciando Didon)
Tutt’ er giorno ‘sto scagnozzo,
me lo trovo fra li piedi!
Ma cche vvòi? vòi che tte strozzo?...
Dunque vattene de cqua.
DIDON Perchè, ti voglio bene,
ti cerco tutt’il giorno;
ti son sempre d’attorno
perchè ti vuò sposar.
ROSA Nun te pià ‘ste pene
nu’ mme ne prem’un corno.
Nun te ce voj’intorno,
nun te ce vojo, no!
DIDON Oh, Rosine, je vous aime;
deh, lasciatevi guardar.
ROSA Ma dde voi nun mme ne preme;
ma sarete matto cqua!
DIDON Su via, Rosina, cedi;
sarò tuo sposo detto.
ROSA Ma mmò, se nun te levi
te fo vedè un giochetto.
DIDON Un sol un sol bacetto...
ROSA ’No schiaffo te prometto!
DIDON Felice mi farà.
ROSA Ma prima te lo do. (gli dà uno schiaffo)
DIDON Pourquoì, mia Rosina,
mi neghi un bacino?
Quel viso bellino
mi fa sospirar.
ROSA Su, lesto, va via;
sinnò, tte l’ho detto,
sai quanto ce metto,
2
Fuggire, allontanarsi velocemente (con le falde della giacca).
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già poco più sto. (si toglie lo spadino3 e minaccia
Didon, il quale fugge)
SCENA IX
CORO Mosca, mosca; fate piano:
lesti a cchiud’a ccatenaccio.
Ma vvedete ‘r diavolaccio,
si cche scene f ’accadé.
Ringraziamo la Madonna;
se la semo scampolata.
Si se scrope la frittata
chi ssa come v’a finì.
CENCIO E ROSA Lesti, lesti, giuvinotti,
‘nisconnetev’er cortello.
Si vieniss’er baricello,
se potrebb’insospettì.
Annatev’annisconne:
squajàtev’in cantina;
e ‘nsino a domatina
cercat’a nun uscì.
CORO Bonanotte: annam’ a lloffe4.
Chi lo sa sse dormiremo?
Co ‘sto spago che cciavemo
chi ccìà voja de dormì!
Fine dell’atto primo
3
Ornamento femminile, lungo spillone a foggia di sottile pugnale che le donne usavano per tenere ferma sui capelli la cartonella, una sorta di panno ripiegato che fungeva
da copricapo.
4
Lloffe-sloffe: dormire, dal tedesco schlafen.
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introduzione
ATTO II
Corpo di guardia.
SCENA I
CORO DELLA SVEGLIA
La trompe sone;
compagne, alons:
non tormir più,
non far poltron.
Star sfelte e dritte;
compagne, su
non cascar giù,
non far così.
Sonar la sveglie
quant’esser scure,
gran rompiture
star te minchion.
Compagne, su:
non cascar, giù,
non penter più;
ti qua, ti là.
SCENA V
Rosa, Crementina, Stennarello e Soldati
TERZETTO
STENNARELLO (tremando)
(Mamma mia! che brutt’incontro!)
Da ’ste parte?... e cche... che nuova?
CREMENTINA Ah, tte sò venut’a trova.
STENNARELLO Ciò ppiacer’in verità.
ROSA Sor Bencotto, a la grazzietta.
CREMENTINA Sor Dondezio5, ariverito!
Jer’a ssera indò se’ ito,
quann’ha visto litigà?
Nun so propio chi mme tienga,
d’atterratte co’ ‘no schiaffo!
5
Riportato al femminile in Chiappini. Dondezzia: nome immaginario di donna usato
in senso derisorio.
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1. introduzione
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STENNARELLO Ddite voi! Me fat’un baffo.
Si cciai core fatt’in qua.
Io scappato! nun è vvero,
sò venuto cqua ‘n caserma...
Crementina, statte ferma;
non ho vvoja de ruzzà...
ROSA Crementina, eh llà fermateve.
Nu’ sta bbene qui ‘n quartiere;
nun sia mai sent’er furiere,
pò vienì e cce pò caccìà!
Me parete ‘na cratura!
Su fermateve, commare;
è pprudenza? Ma vve pare?
Ma vve pare che po’ stà?
CREMENTINA No, commare mia, levateve;
ve lo chiedo pe’ ppiacere.
Vò nnegà le cose vere,
vò nnegà la verità.
Jer’ a ssera che figura
che facessi fà al compare;
fà succede ‘ste cagnare,
un po’ ppiù falli scannà.
STENNARELLO Ma... mma io nun ne so gnente;
Crementina, statte ferma:
statte ferma; ché cc’è ggente.
Arispettem’in caserma...
E cche ssei, ssei addannata?
stai a ccasa?... Abbi pacenza;
sarv’armeno l’apparenza.
Dico bbene, no, commà?
STENNARELLO CREMENTINA ROSA Nu’ li senti
‘sti martufi,
che risate che sse fanno!
Ggià mme stanno minchionanno:
sei content’ adesso, no?
Pofere caporale,
com’è rimaste prutte!
S’è imminchienite tutte
CORO
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introduzione
ah, ah, ah, ah, ah, ah!
Lui star minchion... minchione;
la molie l’ha sonate.
Ah criste che risate,
ah, ah, ah, ah, ah, ah!
SCENA VI
San Pietro in Montorio.
Meo, Popolani, quindi Cencio
CORO Attent’attenti:
viè ‘r principale.
Fàmoje vede;
che bben’o mmale,
quarche mmanopra
sapemo fà.
CENCIO Bongiorno, giuvinotti.
Ce sete tutti quanti?...
Venite pur’avanti;
e statim’a ssentì.
Cencio Sferra, lo sapete,
parlerà cor core in mano:
chi ccià ‘r core da romano,
ha dda piagn’insiem’a mme.
Io me sento strappà er core
pe’ ‘na cosa che mme còce;
e mme trema ggià la voce
‘a ddovell’ariccontà.
CORO Cacciate for’e’ rospo.
Si cc’è quarche gargante,
je dam’un par de sfrante
lo famo moscheggià.
CENCIO Prima cqua in ‘sto castelluccio,
stamio guas’in paradiso;
io le cose nu’ le sviso:
nun è fforse verità?
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1. introduzione
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Ma dde post’in un momento,
viè da ll’estro ‘na canaja
che ppe’ Roma se sparpaja,
e ce mett’a ttribbolà.
Poi, ne fa d’ogn’erb’un fascio;
e protenne de f ’affronti,
(manco noi fussimo tonti)
a le femmine de cqua.
Romani, perbìo,
su, ddite da bravi:
volet’esse schiavi
o stà ‘n libbertà?!
CORO Avemo ggià mmagnato:
nun serve che tte sfèdichi;
ar vento cqui nun predichi:
dicce che s’ha da fà.
CENCIO Ce vo ‘n córpo da maestro.
Ce vorrebb’un serra-serra.
‘Sti paranzi6 e Ccencio Sferra
lo potranno combinà.
Ddoman’è la bbefana;
‘sta sera è la viggija.
Pensav’ar parapija,
ar chiasso che sse fa.
’Sta nott’a Sant’Ustacchio,
sin’a li dent’armati,
v’aspett’aridunati;
cercat’a nun mancà.
Appena do ‘r signale,
li sfrizzoli cacciate,
e sventole sonate
giù! senza carità.
CORO Ce carza ‘sta pensata.
Se semo bell’e ‘ntesi.
6
Paranza: amico intimo.
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introduzione
Menà a li Maganzesi;
è stat’un ber pensà.
CENCIO Sonata mezzanotte,
v’aspetto de bber novo;
speranno che vve trovo
tutt’ariuniti cqua.
Ttoccàmes’er cinquanta;
poi ‘gni paranza mia,
arzi la cianch’e vvia;
ché ssento scarpinà.
CORO Su, llesti, scivolamo;
sinnò cquarche ttrommetta,
s’incaja7, ci ammanetta,
ce mann’a spenzolà.
SCENA VIII
Osteria
Cencio e Rosa
DUETTO
CENCIO Rosina mia der core,
picchiett’amore mio!
er’ bè cche tte voj’io
nun te lo so ‘sternà.
ROSA E io nun è llo stesso?
si mme vedessi er core
se strugge da l’amore...
(Cencio le accenna col capo di no)
Ah no! ah no! ppì, ppì!
CENCIO Ce credo Rosa mia:
lo so cche mme vòi bbene;
lo so cche ssofri pene
che nu’ mme poi ridì.
V’ho fatta la bbefana; (offrendole un astuccio)
sarìa ‘na sgarbatezza,
7
Incajasse: accorgersi (cfr. Chiappini).
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nun favve ‘na sciocchezza
de ‘ste giornate cquà.
ROSA Sciocchezza? State zitto... (osservando l’astuccio)
Vardat’uno spadino!
Uh Ddio, quant’ è carino!...
Ve stat’a incommidà.
CENCIO Che sserve che dichi,
grugnetto de bbaci,
quell’occhi vivaci
me fanno impazzì.
ROSA Me guardi! me guardi
(me mann’in guazzetto
‘sto grugno moretto,
‘sti baffi che ccià!)
Fa llesto; scarpina:
fa lesto, Cencetto,
ch’er core m’ha ddetto
che mmó viè papà.
CENCIO Mó sfilo carina;
ma ‘r core m’ha ddetto
ch’in front’un bacetto
ce posso sonà.
SCENA VIII
Osteria
Picchiabbò, Tuta, Rosa, Crementina e popolane
CORO Li regazzi e li mariti
cianno tutt’abbandonate;
voi sortanto ciarestate
pe’ ppotecce accompagnà. (a Picchiabbò)
– Un gallo solo solo,
fra ttutte ‘ste galline?
– Che cc’è dde male? infine
sapemo sí chi è.
CREMENTINA (a Picchiabbò) Ce venite puro voi?
Accusí famo fortuna
cqui, corpaccio de la luna,
sott’ar bracc’insiem’a mme.
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introduzione
ROSA Sola tu vvòi fà fortuna?
Io lo vojo - io lo vojo:
Ma vvedete sì cch’imbrojo,
per un gobbo, che sse fa.
PICCHIABBÒ Ma mmannaggha sa’ mmuttione!
Ttate femme me cciattate.
Ma cche diavolo ve fate,
me volete dderenà.
Io me ccejo Tuta mia:
cqua vvenite sott’a bbaccio.
Sarò bbutto, ma ttant’ accio
pe’ san gneo mica sarò.
CORO FINALE Finimo ‘sta cagnara.
Mettemesel’i’ mmezzo,
ccusí la cos’è cchiara
se lo godem’a mmezzo,
Sete contente, mó?
– Sicuro; c’è dda dillo?
contente, contentone.
Adesso va bbenone;
potemo pur’ annà.
Fine dell’atto secondo
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ATTO III
Dintorni di S. Eustachio
SCENA I
CORO DEI MAGANZESI
Queste fredde, caporale...
ci fa sbatter le procchette,8
ah! che gele maledette.
Ah! che fredde! Accì, occì!
Siamo gelate
intirizzite;
siam’agghiacciate!
Accì, occì!
Nemmanche lo scaltine
con queste fredd’è pone,
oh! che città pirpone!
Che fredde che ci fa.
Siam mezze morte;
oimè, sergente,
deh soccorete
noi pofer gente
che dal gran fredde
facciam brè, brè,
accì, occì!
SCENA V
Stennarello e Crementina
STENNARELLO Mamma mia! chi vvedo! Lei?!...
Crementina!... Ajuto, ajuto!...
CREMENTINA Ah sei tu bbaron fujuto?
fai a mme ‘st’ infamità?
Te credevi d’avè ppreso
Angiolona la tu’ ggioja?
te credevi, bbrutto bboja,
8
Sbatte le brocchette: urtare tra di loro delle ossa delle ginocchia, per il freddo o per la
paura.
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introduzione
de mannà ppe’ mmicchi9 a mme ?
Brutt’ assassino,
arinnegato;
te ciò agguantato
‘sta vorta, no?
STENNARELLO Te volevo fà ‘na ruzza.
Nun è vvero d’Angiolona...
CREMENTINA Si la pio quela bbirbona
l’averà da fà co’ mme.
Tu intanto port’a ccasa
‘sti quattro sventoloni.
Che razza de bbirboni
che s’hanno da trovà!
STENNARELLO Mi’ moje cqua m’ammazza:
curéte: ajuto ggente!
Questa nun sente gnente,
me vò finì, me vò.
SCENA V
CORO (accorrendo)
Ch’ è stato? Ch’è stato!
Che fa ‘sta rabbiosa?
Fermateve sposa;
lasciatelo stà.
CREMENTINA Lassatem’un po’ pperde
sò mmezza disperata.
‘Sto cane m’ha ‘nsurtata
lo vojo stritolà.
CORO Chi questo? ‘sto sordato?!
ma bbravo Stennarello!
ma bbene, bravo, bello!
vardate faccia; va’!
– Oh questa sì ch’ è bbella;
graziosa, veh, ‘sta scena;
la moje sua je mena
e llui cerc’a scappá.
9
Micco: credulone.
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SCENA VIII
Piazza di Sant’ Eustachio
CORO DELLA BEFANA
Questa sera - la bbefana
esce fora - da la tana,
pe’ ggirà - drin là, drin là.
Er forestiere
che dde ‘ste sere
se trova cqua,
drin là, drin là,
vvede ‘na cosa,
la ppiù graziosa,
ch’ ar monno sta.
Drin là, drin là!
Un sartapicchio!
Un ber galletto!
Un ciufoletto!
Chi vò crompà?
Le trommette fann’uvà!
Li fischietti: fisfifih,
li galetti: chiccrichì,
nun potete ppiù fiatà.
Un muecco un merlo,
un traccagnino,
un arlecchino,
Chi vò crompà?
L’asini fann’ihà, ihà!
Le bbiocche: coccodè!
Le pecore: bbebbè!
Le pupe fanu’uvà!
Un muecco ‘n fischio,
un purcinella,
una guainella10,
chi vò crompà?
10
Carruba.
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introduzione
BRINDISI FINALE
Evviv’er vino! - La vista sola
ciarinconsola- ce fa ccantà.
Viva Ggenzano, - Nemi, Marino
l’Ariccia, Arbano - che cce lo da.
Sia dorce, asciutto, - sia tonnarello,
è bbono tutto - come ce sta.
Viva, bbevemo - senza pavura;
sino che ddura - s’ha dda scialà.
Viv’er vin bianco - de color d’oro
cantam’in coro - la gran bontà!
10 Ottobre -1880
Fine dell’atto terzo
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PIPPETTO
HA FATTO SEGA
Operetta comica in tre atti
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1. introduzione
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare a stampa (Ceccarius. Dial. IV. 91) conservato nella BNCR:
Giggi Zanazzo, Pippetto ha fatto sega. Operetta comica in 3 atti, Musica
del Maestro Cav. Cesare Pascucci Roma, Cerroni e Solaro Editori Piazza
Colonna 358, Laboratorio Tipografico di Cerroni e Solaro,1887.
[Sul verso del frontespizio] Per la rappresentanzione sia del presente libretto come della musica rivolgersi ai proprietari Sigg. Giggi Zanazzo e Cav.
Cesare Pascucci, i quali avendo adempiuto a quanto la legge prescrive si
riservano ogni diritto di riproduzione e di ristampa.
[A pag. 4] Rippresentata pe’ la prima vorta ar Teatro Rossini a Roma er
15 Ottobre 1887.
L’opuscolo, pubblicato in occasione della rappresentazione, reca nella tavola dei personaggi i nomi degli attori nell’ordine corrispondente: A. Bianchini-Bartoli, Romolo Balderi, Oreste Capotondi, Filippo Ricci, Ginevra
Balderi, Franco Alberini, Margherita Massoli, Maria Cicchi, Giuseppe
Ricci, Andrea Marini, Ida Pizzirani, Tommaso Fiorentini.
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introduzione
Personaggi
MICCHELINA
DON DESIDERIO maestro de scola de
PIPPETTO
ANTONIO droghiere marito di
VITTORIONA la scontenta
GIGGI giovene de bottega d’Antonio
amante de
TETA fija de Antonio e Vittoria
ROSONA
genit. de Pippetto
GIACHIMANDREA
TITTA l’oste
TOTA serva de padron Antonio
DOMENICONE sargente de la Nazionale
Regazzi de scola, serve e sordati
}
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1. introduzione
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ATTO I
La Scena arippresenta una piazza de Trestevere. A dritta c’è ‘na porta indove se legge: Scuola di fanciulli e fanciulle. A mancina una casa che viè
su la scena co’ ‘na facciata verso la batteria de li lumi e ‘n’antra verso la
scena che sarebbe la casa de padron Antonio. A piantereno bottega co’
l’entrata che guarda verso er pubblico. Ar primo un mignano1 che guarda
tutte e due le facciate. Sopra la bottega un’iscrizione ‘ndove ce dice Droghiere. A dritta poi c’è ‘na bottega d’acquavitaro che sarebbe la bottega der
padre de Micchelina; poi più ‘n su ‘n’osteria.
SCENA I
Giggi e Micchelina
Intrattanto che va su er telone, Giggi apre la bottega d’Antonio; le serve e li
cochi der vicinato co’ li secchietti del latte in mano e li canestri de la spesa
sotto ar braccio, escheno da le case per annà a comprà la robba che je serve.
Micchelina su la soja de la porta de bottega sta facenno colazione cor caffè e
latte.
N. 1 (Coro de le serve e de li cochi)
COCHI Lesti lesti a ffà la spesa
che l’orloggio de la chiesa
già le cinque e mezza fa
nun c’è tempo da spregà
Annamo olà!
Su fornaio e llest’a oprì
nun è tempo da dormì;
su Giggetto nun magnà,
opri, opri e facce entrà
Annamo olà!
SERVE La madre de famija,
appena spunta er giorno
si nun se da ‘n po’ intorno,
nun pò arisparambià.
1
Balcone, terrazzino.
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108
introduzione
E quanno che va a spenne
dall’oste o dal fornaio
quer che costa ‘n centesimo
je deve paré caro,
la deve spaventà.
Cusì pò baccajà.
A imbrojone che me dai?
Damme er giusto, che tte fai?
Che t’imbroji nu’ lo so,
pesa bene miccarò2!
MICCHELINA (in polacchetta ecc.) Bon giorno vicino.
GIGGI (doppo che ha traperta la porta de bottega fa per annà a beve er
cicchetto da l’acquavitaro) Ben’arzata sora Micchelina. Volete favorì?
MICCHELINA Grazzie ho fatto adesso.
GIGGI Che bbella giornata eh?
MICCHELINA Davero bbella.
GIGGI Nun ve domanno come state, perché sete fresca e ccolorita come ‘na mela rosa. È un piacere a sentivve cantà sempre da la matina
a la sera!
MICCHELINA E perché nun averebbe da esse alegra? Ciò ppapà che
me vò bene, a salute ggrazzie a Dio sto benone, ciò un grugnetto che
nun fo pe’ dillo, nun è tanto da disprezzasse, l’affari der negozio ce
vanno a vele gonfie; perché averebbe da piagne!
GIGGI Lui puro ve vorà bbene...?
MICCHELINA Chi llui? Aibbò, io nun ciò lui; e nemmanco li vojo.
GIGGI Nemmanco uno piccolo piccolo, ciuco ciuco, carinello carinello?
MICCHELINA Nemmanco. Io vojo esse padrona de me stessa.
GIGGI Dunque nun è perché ve manchino cascamorti?
MICCHELINA Magara ne vorrebbe de cascamorti. Ma io, per adesso,
nun ne vojo sapé gnente... eppoi prima che trovi chi me piace a me
troppo è indificile!... Basta: (chiamando) Tata, veniteme a ajutà a mette fora le mostre.
GIGGI Nu’ lo chiamate che v’ajuto io!
MICCHELINA No, no che voi n’averete abbastanza de quelle vostre.
Grazie!
2
Miccarolo: persona che va in cerca di micchi (grulli, creduloni): truffatore, imbroglione.
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.
1. introduzione
109
GIGGI Oggi noi nun oprimo antro che pe’ fà pijà un po’ d’aria ar negozio.
MICCHELINA E pperché?
GIGGI È la festa de sant’Antonio, der padrone.
MICCHELINA Ah! È vero. Nun ce pensavo. Dunque apposta ve vedo
che state tutto stilettato e profumato!
GIGGI Già; fra un’ora chiudemo bottega e annamo a ffà merenna in
campagna; in famija!
MICCHELINA (con malizia) Già, lo so, me cianno invitato puro a me;
ma io j’ho detto che io nun ciannavo perché je vojo fà verso er tardi
un’improvisata. (ride forte)
GIGGI Perché ridete, eh sora Micchelina?
MICCHELINA Io?
GIGGI Voi sì!
MICCHELINA Che ve fa specie? rido sempre!
GIGGI Sì, ma stavorta in quella risatina ce se vede un po’ de malizietta... Diteme la verità... Diteme perché.
MICCHELINA Eh! Signore! In campagna a le vorte senza abbadacce
uno se pò perde e trovasse insieme senza sapé ni er come, ni er quanno, in qualche sitarello, vicino a qualche bella paciocchella... abbasta
mosca!
GIGGI (co’ vivacità) Chi? Teta?
MICCHELINA Chi ve l’ha detto?
GIGGI La fija der padrone? Un semplice omo de bottega!... Poteressivo
immagginavve?...
MICCHELINA (ridenno) Io?... Ma pe gnente?
GIGGI Ma dunque ve ne sete incajata 3?
MICCHELINA Un tantinello.
GIGGI (co’ vivacità abbassando la voce) Più piano per carità. E come
avete fatto a incajavvene?
MICCHELINA (traggicamente) Ma... da tutto disgrazziato... da tutto!
Da la finestra de casa, da la faccia vostra; da tutto ve dico, da tutto.
GIGGI (confuso) E avete veduto?
MICCHELINA E nun sò nemmanco la sola.
GIGGI (spaventato) Gnente se n’è incajato er padre... la madre?...
MICCHELINA No... la fija!
GIGGI Teresina?! Ciovè dico la sora Teresina se sarebbe accorta?
3
Incajasse: accorgersi (cfr. Chiappini).
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110
introduzione
MICCHELINA Lo credo. E ce doverebbe avé avuto puro gusto.
GIGGI Cià avuto gusto dite? Davero sora Micchelina mia bella bella?
Cià avuto gusto? (abbraccia Micchelina)
MICCHELINA (se scanza ridenno) Ma io nun sò mica lei?
GIGGI Avete ragione avete; ma scusateme, la contentezza, er piacere...
Eppoi, adesso che ce penso, lei s’ha da sposà Pippetto; je lo vonno dà
pe’ forza li parenti de lei d’accordo co’ li parenti de lui.
MICCHELINA Ma lei però nun ne vò sapé gnente, e quer tufo nu’ lo
vò!
GIGGI Davero? Ma allora er padre e la madre che je lo vonno dà pe’
forza?
MICCHELINA A questo ce penserà lei. Voi nun ve ne incaricate. Oggi appena la vedete fateje la dichiarazzione.
GIGGI Magara!... Ma chi me ne dà er coraggio?
MICCHELINA Fatevelo venì! Vardateme ommini.
GIGGI Ma er mi’ padrone e la mi’ padrona, nun sia mai detto lo sapessero, me caccerebbero via.
MICCHELINA Perché? Un bravo giovene de negozio onesto, accorto
come vvoi, e pe’ de più ber giovanotto, diventà er genero e er socio der
su’ principale e poi l’erede nun sò cose che se vedeno tante vorte?
GIGGI (infocannose) Ma tutti li giorni se vedeno.
MICCHELINA E dunque allora?
GIGGI Avete raggione... Sò arisoluto! Appena che la vedo je fo la mi’
brava dichiarazione.
MICCHELINA Ecchela pe’ l’appunto!
GIGGI (corpito) Chi? Teresina?
MICCHELINA In persona. Su... via! Coraggio e sangue freddo.
SCENA II
Li medemi e Teta
Teta in abbito da matina, sorte da la bottega der padre, cor secchietto del latte e va a comprallo senza accorgese de Micchelina e de Giggi.
GIGGI (confuso e tiranno Micchelina pe’ la vesta) Nun credete che sarebbe mejo aspettà che annamo in campagna?
MICCHELINA No, chi ha ttempo nun aspetti tempo.
GIGGI No, io direbbe...
MICCHELINA Mio caro, bisogna batte er fero quanno è callo. (va pe’
rientrà)
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r
1. introduzione
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GIGGI (la trattiè pe’ la vesta) Nun me lassate armeno?
MICCHELINA Che avete bisogno de me? povera craturella!
GIGGI Sì, ho bisogno che m’ajutate. Arestate fateme er piacere.
MICCHELINA Va benone, allora aresto. Se nojantri donne, fossimo
coraggiose come vojantri ommini, staressimo bene!
Teresina ritorna in scena col secchietto del latte e va pe’ rientrà a casa ma se
ferma perché vede Micchelina e Giggi.
N. 2 (Terzetto e strofe)
MICCHELINA Bon giorno Teresina.
TETA Stai bene Micchelina?
MICCHELINA Cara, così, così.
TETA Come sarebbe a dì?
MICCHELINA (a Giggi) Ohé che fate lì?
GIGGI (confuso) (Ah! Già Dio mio.) Bon giorno.
Scusate signorina
sì propio stammatina...
TETA Scusavve: ma perché?
GIGGI (piano a Micchelina)
Lo vedete Micchelina
che a parlaje nun sò bono
m’inciafrujo, m’indispono
nun me sò raccapezzà.
È l’amore...
MICCHELINA Ma va là!
(concertato)
MICCHELINA Che zuccone, che zuccone!
Su perdio, quanto ce vò?
Questo e ‘r tempo presto alò
nun ve fate canzonà.
GIGGI (a Micchelina) Tremo peggio de ‘na fronna
resto qua come un minchione
abbi un po’ di compassione
Micchelì, dijelo tu!
TETA ( fra de sé) Ah! lo so, lo so da un pezzo
che cce prova a fasse core
ma provannome a discore
nun se sa riccapezzà. (bis)
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introduzione
MICCHELINA Coraggio, Giggi
presto, minchione,
o l’occasione
ve sfuggirà. (bis)
GIGGI ( facennose coraggio) Sora Teta,
Com’ha dormito?
(Io sò sfinito;
io moro qua).
MICCHELINA (a Giggi) (Coraggio, su!)
TETA Io bene: grazie
e spererei
che puro lei
dormito avrà.
GIGGI (Me vò bene.)
TETA (Me vò bene.)
MICCHELINA (Manco male
je la fa!)
MICCHELINA Su coraggio, presto avanti
giovanotti, avanti; alò,
fate quello che cce vò
nun ve fate canzonà.
Er sor Giggi, Teresì
qualche cosa t’ha da dì.
(je pija a tutti e due la mano e l’unisce)
GIGGI (co’ calore) Ah! Teresina mia!
TETA (co’ tenerezza) Ah! Sor Giggi mio.
MICCHELINA Oh! Manco male (sbatte le mano) je l’hanno
fatta. Allora io me ne vado. (ar pubblico) Speramo che er restante lo troveranno da loro. (rientra a bottega sua)
SCENA III
Vittoriona e quelli de prima
VITTORIONA (dal mignano) A Teta!?
TETA (se slontana da Giggi e va a ripijà er secchietto del latte) Me chiama mamma.
GIGGI N’antra parola sola, sola...! Dunque ve posso volé bbene?
TETA Sì, cchiedeteme a mi’ padre.
GIGGI (co’ straporto) Oggi stesso.
TETA Subbito.
VITTORIONA A Tetaa! (comparisce sur mignano in disabijè)
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1. introduzione
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TETA (scappa in der portone) Eccheme mamma.
VITTORIONA Sbrighete, cicia, porta su e’ latte. E tu’ padre sai gnente ‘ndove è ito?
GIGGI (viè in mezzo a la scena e se caccia er cappello) Sora padrona credo, che sia ito dar barbiere.
VITTORIONA Ah! Sete voi Giggi? Allora fateme er piacere annàtelo
a chiamà sinnò nun famo più a ttempo pe’ le otto.
GIGGI Vado subbito sora padrona.
VITTORIONA Sbrigateve. (rientra drento casa)
SCENA IV
Giggi solo poi er sor Antonio
GIGGI Che bellezza... E io minchione nun m’azzardavo a dijelo si nun
fusse stata la mi’ vicina. Oh! quanto sò contento. Mó le cose cammineno da sé. Doppo magnato quanno sò tutti alegri, la chiedo ar padre
e a la madre... e allora?... Sarà quer che sarà... Ah! ecco er principale.
ANTONIO (leggendo certe lettre) Ah! State qua?
GIGGI Si, sor padrone. Anzi m’ha detto la padrona che ve venissi a cerca.
ANTONIO E ‘ndove annavi?
GIGGI Ah! Vado subbito. ( fa per annà via)
ANTONIO Ma indove?
GIGGI Ah! È vero. Ve chiedo scusa! ma la contentezza, er piacere...
ANTONIO Er piacere. (confuso) Ma che me dai li nummeri?
GIGGI Sì er piacere de la festa vostra. Anzi cento de ‘ste giornate.
ANTONIO (je dà la mano) Bravo giovanotto. (Cià un bon core ‘sto regazzo. È un giovene che me va a sangue e che nun mannerò via per
adesso).
GIGGI Principà, dunque indove avete deciso che avevo d’annà?
ANTONIO (je dà certe carte) Va in ‘sti du’ siti a avvertilli che oggi se
tiè chiusa bottega e che aritornino domani.
GIGGI Sì, padrone.
ANTONIO Ahò aritorna subbito sa’.
GIGGI Nun dubitate che oggi ciò l’ala a li piedi. (scappa via)
ANTONIO Ma che ha oggi ‘st’accidente? (guardanno verso la bbottega
de Micchelina) Sto solo!... Si agguantassi ‘st’occasione pe’ dà a quella
ciumachella de Micchelina, ‘sto vijetto che j’ho preparato da jeri. Provamoce. (va in punta de piedi verso la bbottega de Micchelina e mette
un vijetto drento ar canestrello suo che sta su ‘n tavolino) Accusì nun pò
fà a mmeno d’accorgessene e... (rimane a guardà la bbottega)
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introduzione
SCENA V
Giachimandrea e er sor Antonio
GIACHIMANDREA (viè con fagottello sotto ar braccio e nun s’accorge
de padron Antonio) Potessi, co’ la scusa de sapé ‘ndove annamo oggi a
pranzo, trovà Ttota e daje ‘sta lettra (caccia ‘na lettra) pe’ informalla
che si oggi intanto che stamo in campagna, potessi trovà ‘no scanzo4
pe’ parlamme... Bbona quela Tota! Proprio bbona; l’altro giorno je
detti un pizzico e si avessivo inteso come era tosta!...
ANTONIO Quanto è cara quela Micchelina. Sortanto quer grugnetto,
quela boccuccia, quer nasino...
GIACHIMANDREA (ar pubbrico) La conoscete vojantri Tota la serva
der mi’ compare Antonio? Si la vedete com’è paccuta! Che aritonnezze che cià davanti e de dietro! E che petto da berzajere!... (se svorta e
vvede Antonio)
ANTONIO (idem) Uh, varda chi se vede! E cchi cercavio?
GIACHIMANDREA Proprio a vvoi. Cento de ‘ste giornate.
ANTONIO Grazie. Guarda che combinazione, io puro ve venivo incontro.
GIACHIMANDREA Io ero venuto pe’ ssapé si indove avevio deciso
d’annà e pe’ davve cento de ‘ste giornate.
ANTONIO Io e mi’ moje averessimo deciso d’annà da Melafumo5. Che
ne dite?
GIACHIMANDREA Nun mme dispiacerebbe mica. Eppoi dico sentimo la commare si cche ddice. Commare. (chiamanno)
ANTONIO (idem) Vittoriona!
VITTORIONA (de drento) Chi me vone?
ANTONIO Semo io e er mi’ compare Giachimandrea. Viè ‘n po’ ggiù!
VITTORIONA (idem) Ecchime.
SCENA VI
Li stessi e Vittoriona
VITTORIONA Bbon giorno compare. Che nova?
GIACHIMANDREA Ero venuto a ssentì si poi ‘ndove avevio deciso
d’annà.
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5
Breve lasso di tempo.
L’osteria si trovava in prossimità di Ponte Milvio.
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e
-
o
1. introduzione
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VITTORIONA Da Melafumo. Ma prima aspettavo ‘sto ber gingì de
mi’ marito che se doveva annà a ffa li ricci...
ANTONIO (scoprennose la testa) Che nun me stanno bene?
VITTORIONA Già, qualche giretto vizioso che caverà in qualche urione qua vicino.
ANTONIO Ma tte gira?
VITTORIONA Nun me ggira gnente affatto, perché in fin de li conti
nun ce tiengo.
ANTONIO Vergognete! Su parlamo de cose serie.
GIACHIMANDREA Allora oggi a pranzo, quanno ce semo tutti, combinamo er giorno de ‘sto pangrattato fra er mi’ fijo e la vostra fija.
VITTORIONA Magara.
ANTONIO Io sò pronto!
GIACHIMANDREA Allora arestamo così.
VITTORIONA Ma, dico, riguardo ar tempo quanto ve ne pijate?
GIACHIMANDREA Mica tanto; ar più, ar più, un anno e mmezzo.
Perché? che ve credete, sta avanti!
VITTORIONA E che scola fa?
GIACHIMANDREA Proprio che scola fa nun ve lo saperebbe a ddì,
so che a scola ‘ndove va lui ce vanno li ragazzini piccoli, però lui ne sa
più assai de quelli, come dice er maestro. Dunque poco je mancherà
a fenì, nun ve pare compà?
ANTONIO Io sò contento che la ‘struzzione nun je manchi.
GIACHIMANDREA Ah! nun fo pe’ dillo che è er mi’ fijo, ma è accusì adducato, cusì aperto de mente, accusì timorato de Dio. Innocente
poi, innocente! che ancora è come l’ha ffatto mamma sua.
VITTORIONA E apposta je la damo contenti.
ANTONIO Perché sapemo chi è er regazzo.
VITTORIONA Abbasta, oggi ar pranzo ne riparleremo.
ANTONIO A proposito. Allora ‘ndove se decidemo d’annassene?
VITTORIONA Annamo da Melafumo e bona notte.
ANTONIO E ppe’ pietanza?
VITTORIONA Èrimio arimasti che ognuno portasse la sua. (per annassene) A proposito nun te scordà de ordinà er pranzo pe’ otto.
ANTONIO Dirai pe’ sette.
VITTORIONA Ma dirai pe’ otto. E Domenicone nun ce lo conti?
ANTONIO Chi er sargente de la Nazzionale?
VITTORIONA Quello è capace de pagavve la festa. Anzi appena ve
viè a trova invitatelo subbito che sarebbe mejo.
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introduzione
ANTONIO Ma tu ciai le pigne. Io nun l’invito manco pe’ sogno.
VITTORIONA Dunque nun l’invitate?
ANTONIO (riscallannose) No!
GIACHIMANDREA Ma invitatelo via!
ANTONIO None, none!
VITTORIONA Vergogna! Nun invità l’amico piú granne de la famija,
un parente, un cugino carnale pe’ parte de madre!...
ANTONIO Lo dice lui, ma le prove?
GIACHIMANDREA Già le prove?
VITTORIONA Si nun se crede un parente pe’ parte de madre chi s’ha
da crede, allora?
ANTONIO Ma si nun è?
GIACHIMANDREA Ma si nun è?
VITTORIONA Ma si ve dico che è da parte mia?
ANTONIO Già queste sò chiacchiere che le fa tutto er vicinato, e io la
vojo finì co’ le visite di quel tartufo.
VITTORIONA Tartufo ar mi’ cugino?
ANTONIO E sbafatore. S’invita a ppranzo, s’invita a ccena e mme mette in ridicolo in faccia a tutti. (in collera)
VITTORIONA Falla finita, Antonio.
ANTONIO Ma falla finita tu!
VITTORIONA È mejo che me stia zitta e che ve pianti.
GIACHIMANDREA Allora addio commare. Me mannate giù Teta
che je vojo fà portà ‘sto fagottello de certe spesette, insinente a casa?
VITTORIONA Subito. Teta, viè giù!
TETA (da drento) Eccheme. (scegne subito)
VITTORIONA Allora salutateme la commare e diteje che noi v’aspettamo fra un quarto d’ora per annà tutti insieme da Melafumo.
GIACHIMANDREA Va bene. Se vedemo compare. Addio commare.
Tiè Teta. (je dà a regge un fagottello) Annamo. (va via co’ Teta)
ANTONIO (a Vittoria) Allora vatte a vestì e viè ggiù che ccusì annamo
incontro ar compare.
VITTORIONA Cor commido mio. (va via senza salutallo)
ANTONIO E va bbene. Ha raggione lei. Io ho da passà pe’ micco pe’
ddà ggusto a llei e a quello sbafatore che ppe’ de filo vò passà pe’ mi
cugino. (se senteno in lontananza li mandolini che soneno ‘na marcia)
Che è? Vòi scommette che questo è proprio lui che me viè a fà la serenata. È lui. L’ariconosco da la voce. Brutto brigante. Aspetta che
mó t’accommido io. (entra drento casa e chiude porte e finestre)
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1. introduzione
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SCENA VII
Domenicone, li sonatori poi Pippetto
Domenicone viè in scena co’ ‘n gran mazzo de fiori in mano.
DOMENICONE Attenti regazzi. Nun me guastate l’aria corpo d’un
tono. Le parole l’ha scritte appostamente er sor Pippetto. (strillanno)
Ah! sor Pippettoo!
PIPPETTO (se presenta piano piano tutto pauroso) Sor sergente èccome!
DOMENICONE Bravo. (je dà ‘na manata su la spalla che je fa ppiegà
le ginocchia) Bravo corpo d’un tono! su fateve coraggio e cantate.
PIPPETTO Dico, ce sarà pericolo che mme vedi quarchiduno?
DOMENICONE Ma no chi volete che vve veda?
PIPPETTO Si Dio ne guardi lo venissi a scoprì er mi’ pedante oppuramente mi’ madre, oprete cielo!
DOMENICONE Ma va là che nun c’è pavura de gnente. Se tratta de
sbafasse un ber pranzetto, antro che ppavura.
PIPPETTO Ah sì! allora quanno se magna è un antro par de maniche.
DOMENICONE (va verso la casa der sor Antonio e la trova chiusa) Chiuso? (bussa forte) Padron Antonio?
ANTONIO (de drento) Chi ene?
DOMENICONE Sò io cuggino, sò Domenicone, corpo de li pescetti.
ANTONIO (idem) Nun ve posso uprì; Giggi è uscito co’ la chiave e
m’ha piantato qua!
DOMENICONE Accidenti! Volemio venì su a casa a favve la serenata!... Abbasta... Nun vordì gnente. (a li sonatori) Su, foco alla miccia!
Ce vò pacenza; siccome ce tocca a cantà pe’ strada strilleremo più forte. Attenti!
N. 3 (Aria de Pippetto)
PIPPETTO Fra tutti li droghieri e li speziali
e fra li sempricisti
e farmacisti
nun ce ne sò d’uguali.
A quer Demonio
de Mastr’Antonio.
CORO A quer Demonio – un antro uguale
de Mastr’Antonio – nun ce ne sta.
PIPPETTO E fra tutti li padri
ch’hanno famija
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introduzione
Nun c’è, nun c’è ‘na fija
accusì vermija
come ce l’ha quer boja
de quer Demonio
de Mastr’Antonio!
CORO (idem)
PIPPETTO e DOMENICONE E fra tutte le moje
che stanno drento ar monno
DOMENICONE largo e rotondo
gnisuna è bella a ffonno
com’è bellona quella
de quer Demonio
de Mastr’Antonio.
E affaccete Antoniuccio
e mostrece la testa
ch’essenno la tu’ festa
dev’esse più allisciata
o caro Mastr’Antonio
de quella der Demonio.
Al rumore de li soni se vede venì gente da tutte le parte e le finestre sò piene
de curiosi; Micchelina sta a la su’ finestra. Vittoriona s’affaccia sur mignano
da la parte che guarda er pubbrico esprimendo tutta la contentezza che prova ner sentì cantà Domenicone. Mastr’Antonio comparisce sur mignano da
la parte che dà sur parcoscenico senza vede la moje e dice a li sonatori: Ma
finitela buffoni. Domenicone presenta a Antonio er mazzo de fiori e questo
je lo dà in testa. Domenicone co’ aria marziale se ripulisce er chiappì abbozzato. Antonio intanto s’accorge de la moje e de la serva che stanno affacciate
e le manna drento casa, poi se ritira puro lui sbattendo la finestra co’ rabbia.
PIPPETTO ( finito ‘gni rumore dice) Ciavemo fatto un ber figurinaro.
Se vede che jè piaciuta!
DOMENICONE Possi morì guercio, ’st’azione da ‘n cugino nu’ me la
sarebbe mai cresa.
PIPPETTO Adesso che m’hanno invitato a pranzo sò contento propio!
DOMENICONE (dà ‘na manata sulla spalla a Pippetto) Eh! Ma corpo
d’un tono, aricordete Pippetto che mi’ cugino me la paga.
PIPPETTO (attastannose la spalla) Ma me pare che invece la pago io.
(accidenti che nespole!)
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1. introduzione
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DOMENICONE (idem) E si nun me la paga ‘sta vorta nun me chiamate più Domenicone.
PIPPETTO Ma io vorrebbe sapé chi lo chiama, chi lo cerca.
DOMENICONE (se svorta da li sonatori) Regazzi annate puro; e in
quanto a li sòrdi che m’avanzate ve li passerà qui er sor Pippetto, che
doppo je l’aridò io.
PIPPETTO (strillanno) Ma sete curioso veh! Ma io indove li pijo?
DOMENICONE (je dà ’na botta in de la panza) Brigante. Sempre alegro! Scherza sempre. Beato lui. Beati regazzi! Abbasta annamo.
Ner mentre che Pippetto, Domenicone e li sonatori vanno pe’ uscì, se sente
sonà la campana de la scola e comparisce don Desiderio che porta li ragazzini a scola. Pippetto ner vede er maestro comincia a tremà e se ’nisconne addietro a Domenicone e lo trattiè pe’ le farde der cappotto da Nazionale.
PIPPETTO
parte.
Mamma mia! Stavolta sò ccotto. Er mi pedante viè da ’sta
SCENA VIII
Don Desiderio, li regazzi de scola e quelli de prima
N. 4 (Lezione de li scolari)
SCOLARI (leggenno) C-e ce C-i ci
C-o co C-u cu
Nun ne potemo propio più
B-a ba... Uh! Dio che noja
Che martirio ’sto studià
’Sto fà sempre ogni momento
B-e be e b-a ba!
DESIDERIO (con tono de commanno) Silenzio! Allineatevi e rispondete
all’appello. (caccia da ’na farda der soprabbito un libretto e legge forte)
Curzio Martelli
PRIMO SCOLARO Presente!?
DESIDERIO Luigi Trombetti.
SECONDO SCOLARO Presente!?
DESIDERIO Cesare Caciotta.
TERZO SCOLARO Presente!?
DESIDERIO Pippetto Marrampico.
(nun risponne gnissuno)
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introduzione
DESIDERIO Pippetto Marrampico.
QUARTO SCOLARO Sor maestro nun s’è visto.
PIPPETTO Mamma mia, aiutateme!
DOMENICONE Io me squajo, nun vojo impicci. ( fa per annassene,
Pippetto lo trattiè)
DESIDERIO Corpo di mille bombe, manca Pippetto. E dove sarà andato quell’assassino?
DOMENICONE (a Pippetto) Ahò! Dice a tte!
PIPPETTO Eh! lo sento!
DESIDERIO I suoi genitori me lo confidano ed egli mi sfugge. Ah! Ma
per mille bombe, se quest’oggi mi capita nelle mani gli strappo le orecchie. Ragazzi, do la rilevante moneta di due soldi a chi me lo riconduce qui o vivo o morto. Andatene in cerca. (li scolari vanno via correndo da tutte le parte) Io intanto voglio domandarlo alla sua ragazza
(bussa al portone de mastr’Antonio)
DOMENICONE Mó caro Pippetto sete fritto!
PIPPETTO Macché! Teta mia nun me tradisce, me vò tanto bene!
SCENA IX
Teta dar mignano e li medemi
TETA Chi ene?
DESIDERIO Avete visto niente quel furfantello di Pippetto che da stamane non posso rintracciarlo?
TETA Sicuro che l’ho visto. Un momento fa è vienuto qui a fà la serenata a mi’ padre, insieme a cert’antri birbaccioni.
PIPPETTO (a Domenicone) Ahò! dice a tte!
DOMENICONE Eh! La sento!
DESIDERIO E sapreste dirmi dov’è?
TETA Veramente nu’ lo so. Guardate un po’ mai fosse ito in qualcuna
de ‘ste botteghe de qua intorno.
DESIDERIO Grazie, vado tosto a vedere. (Teta rientra drento casa, Don
Desiderio cerca Pippetto pe’ tutte le botteghe)
DOMENICONE Lo vedo come la tu’ regazza nun te tradisce.
PIPPETTO Eh! Stavolta se ne sarà scordata.
DESIDERIO (vedendo Pippetto) Ah! Brigante d’un furfante, è un’ora
che ti cerco e tu vai facendo il vassallo. (Domenicone scappa)
PIPPETTO Aiuto! Aiuto! (a li strilli de Pippetto aritorneno li regazzi de
la scola)
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a
1. introduzione
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DESIDERIO Invece di studiare la lezione di storia sacra che non apprendi mai, fannullone furfantone, te ne vai in zonzola cantando delle serenate. (caccia la frusta) Toh! Piglia su!
PIPPETTO Grazie, ma però la lezione la sone.
DESIDERIO Vediamo, a me il libro!
PIPPETTO (caccia el libro e lo dà al maestro)
DESIDERIO Come fu che avvenne il diluvio universale?
PIPPETTO (ripetendo) Come fu che venne il diluvio universale... Come fu... ecco, ecco. Il Signore vedendo che gli uomini commettevano
ogni sorta di nequizie fece piovere dalla terra... cioè dal cielo, per quaranta notti e quaranta giorni, ossia per quaranta giorni e quaranta
notti e quaranta doppo pranzi cioè... giorni... ossia... (tossisce e s’ impappina)
DESIDERIO Non la sapete!
PIPPETTO La sone, la sone! Ecco, pe’ quaranta notti un’abbondantissima quantità d’acqua che coperse tutta la terra insinenta a le più alte
vette de le montagne... de le montagne. Ah! E non si salvò altro che
Noè il quale essendo verniciato di dentro e di fuori... no, Noè il quale con la sua arca verniciata di dentro e di fuori, si salvò portando seco... (scena a soggetto)
DESIDERIO Non la sapete. Siete un asino. A voi prendete. (lo frusta)
PIPPETTO Ajo! Mamma aiuto!
Li regazzi de scola se tiengheno le mano su la panza pe’ nun schiattà da ride.
SCENA X
Li precedenti, Vittoriona, Antonio, Teta, Micchelina, Giggi e Tota escheno
da la bottega e Giachimandrea e Rosona da la sinistra. Ognuno de li suddetti cià co’ sé o er canestrello o un fagottello sotto ar braccio. Tutti quanti stanno vestiti a festa.
TUTTI (sentenno li strilli de Pippetto) Che d’ene? Che d’ene?
VITTORIONA (trattenendo don Desiderio) Eh! fermateve aguzzino.
DESIDERIO Aguzzino a me, che fo di tutto per dare un amorevole
correzione al regazzo?
ROSONA Ma che ha fatto? Se pò sapé ch’ha fatto er mi’ fijo?
GIACHIMANDREA Già se pò sapé?
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introduzione
DESIDERIO Invece di venire a scuola, mi sfugge per andare a cantare
delle serenate insieme a degli altri vassalloni6.
TUTTI Davero? (meravigliati)
ANTONIO Già, me l’è vienuta a ffà a me assieme a quell’artro mascarzone de Domenicone.
VITTORIONA Poveri regazzi. Ner caso poi nun averanno mica ammazzato gnisuno.
DESIDERIO E a voi signora Vittoriona vi par poco? Io domando ai
genitori che per l’offesa fatta a me qual pedagogo egli venga severamente punito, altrimenti me ne vado e l’abbandono al suo destino.
Signor Giachimandrea a lei poi, come padre, spetta il grande assunto
di punirlo.
GIACHIMANDREA Io nun me posso impiccià perché cià la madre.
Ah, Rosona che ne dichi?
ROSONA Ce penso io pe’ ‘sto regazzino (chiama Pippetto) fateve avanti. Venite qua, sor vassallo. È vero quello ch’avete fatto? (lo pija pe’
’n’orecchia) Dite la verità.
PIPPETTO Sine mamma. (trema)
ROSONA Ah! Sì? È questo er profitto ch’aricavate da li studi? D’annà
a fà le serenate a la gente che se ne stanno per fatto loro?
PIPPETTO Mbè, una serenata che c’è dde male?
ROSONA Che c’è de male? Oggi ve n’accorgerete quanno a pranzo magnerete pane e acqua.
PIPPETTO Accusì m’ingrasso de più!
ROSONA Anzi no. Me viè n’antra idea. Oggi invece de vienì a pranzo
co’ noi in campagna, ve n’annerete a scola come tutti l’antri giorni.
VITTORIONA Ma questo è troppo.
GIACHIMANDREA Puro a mme mme pare troppo!
ROSONA Zitto tu, medico pietoso. Oggi Pippetto a scola.
TETA (contenta) A scola!
GIGGI (idem) A scola!
TUTTI A scola!
PIPPETTO (sbattendo li piedi per tera) Nun ce vojo annà!
ROSONA Vergognete accusì granne e grosso a ppiagne davanti a la tu’
regazza.
PIPPETTO E lei che se ne vada! Io a scola nun ce vojo annà. (idem)
DESIDERIO Tacete mascalzone, salite subito alla scuola.
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Canaglie.
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1. introduzione
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ANTONIO Accusì n’antra vorta imparerete.
PIPPETTO E io er sonetto che v’avevo fatto nun ve lo recito piune, ane,
ane! (ballando)
DESIDERIO (je dà un carcio a metà der corpo da la parte de la schina)
A scuola vassallo.
PIPPETTO (Pippetto piagnenno entra a scola; l’antri regazzi e don Desiderio je vanno appresso)
SCENA XI
Tutti meno Pippetto e don Desiderio
ROSONA Veramente m’arincresce a nun portammelo co’ me. Ma cche
volete? Si nun se fa accusì commare mia, nun s’ottiè mai gnente.
GIACHIMANDREA Lo potevi fà pe’ riguardo a la sora Teta che oggi
a stà sola s’annoierà. Nun è vero sora Teta; che v’arincresce.
TETA ( fa finta d’esse addolorata) M’arincresce sicuro, che m’arincresce.
GIACHIMANDREA Allora mó je vado a ddì che l’arilàssino.
TETA (premurosa) No, no giacché Iddio l’ha vorsuto è tutto pe’ la mejo.
Intanto quanno sposeremo averemo tanto de st’assieme.
ANTONIO Allora annamo. E voi, Micchelina perché nun venite? (tutto tenero)
MICCHELINA (sminchionata) Perché nun me capacita.
VITTORIONA Ma però potressivo venì, quanto sete cattiva.
MICCHELINA Davero nun posso stamattina. Però chi lo sa che ‘na
scappatella nun ce la facci. Indove annate?
ROSONA Da Melafumo!
ANTONIO Allora v’aspettamo a mezzogiorno in punto.
VITTORIONA (fra de sé) E quer boja de Domenicone che nun se vede!
GIACHIMANDREA Sbrigamose accusì pijamo l’omnibusse a piazza
der Popolo.
ANTONIO Ma sarà mejo che pijamo er tranvàise.
ROSONA Nun v’impicciate; perché io su quer coso intanto nun ce
monto.
VITTORIONA Nemmanco io.
GIACHIMANDREA Viva la faccia dell’omnibusse!
ROSONA Avete portato tutto?
VITTORIONA Io sì! vedete li fagotti?
TUTTI Allora annamo.
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introduzione
N. 5 (Concertato der finale atto primo)
MICCHELINA (sola) Fa un tempo sereno
un’aria leggera
ch’imbarsima un core
che ama e cche spera!
Si l’occhio me specchio
ner cielo sereno
el core nel seno
me sento ballà!
E sento ‘na voce
ch’alegra me dice
per esse felice
l’amore nun fà.
TETA e GIGGI Che bella giornata
che bbella mattina
te dice cammina,
te dice, su va!
Sentimo ‘na voce
ch’allegra ce dice
‘sto giorno felice
a vvoi ve farà.
PIPPETTO (piagnenno da la finestra)
Destino bonaccia!
Pedante birbone,
tu sei la cagione
si resto a ppenà.
Ma mó me la batto
scavarco ‘sto muro
e vojo fà er duro
me vojo squajà!
Ner mentre che tutti canteno er coro finale Pippetto senza fasse vede co’ l’aiuto de Domenicone, che è vienuto in questo momento, scavarca la finestra de
la scola e scappa facenno un parmo de naso a tutti.
ROSONA, GIACHIMANDREA, ANTONIO, VITTORIONA, TETA,
GIGGI, TOTA e MICCHELINA
Che bella Giornata
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che bella matina
te dice cammina
te dice su, va!
Annamo, compagni-là-là-là-là-là.
Ballamo, cantamo-là-là-là-là-là!
In questo punto se tira ggiù er telone e finisce er prim’atto.
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introduzione
ATTO SECONDO
A sinistra c’è l’osteria de Melafumo. Un mignano co’ le scale. Un gran
pergolato copre tutto er parcoscenico, sedie e tavolini pe’ la scena. A destra vicino a la prima quinta ce sarà un riarzo de tèra coll’erba sopra. Vicino al riarzo un arbero de briccocole7. In qua e in là piante de rose.
SCENA I
N. 6 (Coro de Sciampagnoni)
Viva viva la campagna!
e la sciampagna
evviva viva er vino
color rubbino.
E Frascati con Marino
paese fino
che de core ce lo dà.
Che piacere! quanno è festa,
de vienì all’osteria
co’ ‘na bbella compagnia
a bbevé, magnà e ballà!
SCENA II
Antonio, Vittoriona, Teta e Tota
ANTONIO (arriva dar cancello co’ ‘n canestro in mano) Ecchece arrivati! Finalmente poteremo magnà. (chiama) Ah! Vittoriona!?
VITTORIONA (dar drento) Eccheme fijo!
TETA (dar drento) Ecchece papà.
VITTORIONA Via proprio nun stà a ffacce galoppà in ‘sto modo sotto ‘sta solina!
TETA Davero che ccallo.
ANTONIO Sbrigamose a tirà fori la robba da li canestri, che me sento
‘na lesca8.
VITTORIONA E quest’antri che sò arimasti indietro nun l’aspettamo?
ANTONIO Eccheli va.
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Albicocche.
Esca, cibo; lesca anche nel senso di fame (cfr. Chiappini).
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SCENA III
Li suddetti e Giggi, Rosona e Giachimandrea tutti cor canestrello sotto ar
braccio.
TUTTI Oh! Je l’avete fatta!
ROSONA E subbito che riavete un passo più scellerato de quello de li
sordati.
ANTONIO Meno male voi, mannaggia li pesci, ma ar compare je pesa la panza.
GIACHIMANDREA Sete curioso compà. Ciaverò qualche bbona raggione che m’obbrigherà d’annà pianino.
ANTONIO E dite che ciavete qualche impedimento canonico, e bbona
notte.
GIACHIMANDREA Allora puro er sor Giggi nun minchiona!
GIGGI Ma io armeno portavo ‘sti du’ canestri che ppeseno come diavoli.
ANTONIO Abbasta via, annamese a mette a ttavola.
ROSONA Perché nun restamo qui sotto ar pergolato?
GIACHIMANDREA Ma no, è mejo che annamo su.
ANTONIO Sicuro, siamo più liberi.
VITTORIONA Allora che ffamo, decidemese!
TETA Davero! Io ciò ‘na fame...
VITTORIONA (fra dde sé) (E mi cuggino Domenicone che nun se vede incora. Eppure indove annamo je l’ho mannato a ddì!)
ANTONIO (idem) (Io nun capisco gnente. Ho scritto a la sora Micchelina che se fusse trovata qui che averessimo magnato un boccone assieme e incora nu’ la vedo).
TETA Annamo annamo!
ANTONIO Sì, annamo. (tutti si incammineno) A proposito e la pietanza a ttesta ch’avemio da portà?
GIGGI E er piatto pe’ ffà l’improvisata? Nun èrimio arimasti ch’ognuno portava er suo?
TETA Io l’ho portato!
TOTA Io puro!
VITTORIONA Io puro!
ROSONA Io puro!
GIACHIMANDREA Io puro!
GIGGI Io puro!
ANTONIO Io puro! Mbè vedemela st’improvisata che me volevio fà?
(tutti mettenno le mani in der canestro)
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introduzione
TETA Ecco la mia!
TOTA Ecco la mia!
VITTORIONA Ecco la mia!
ROSONA Ecco la mia!
GIGGI Ecco la mia!
ANTONIO Ecco la mia! (se troveranno tutti co’ un cocomero in mano)
GIACHIMANDREA (ridenno) Sette cocommeri!
TUTTI Quanti cocommeri.
TETA E chi se li magna. Pe’ fortuna che m’è venuta l’ispirazione da
portamme appresso quarch’antra cosa. (mette le mano ner canestro)
VITTORIONA Puro io! (idem)
TETA Puro io! (idem)
GIGGI Puro io! (idem)
TOTA Puro io! (idem)
ROSONA Puro io! (idem)
GIACHIMANDREA Puro io! (idem) (tutti quanti hanno tirato fora un
pasticcio) Sette pasticci!
TUTTI Quanti pasticci!
VITTORIONA Aspettate ciavemo ancora una speranza. De che d’è er
pasticcio tuo Antò?
ANTONIO De gnocchi. E er tuo?
VITTORIONA De gnocchi. E er tuo? (a Teta)
TETA De gnocchi. E er vostro? (a Giggi)
GIGGI De gnocchi. E er vostro? (a Giachimandrea)
GIACHIMANDREA De gnocchi. E er tuo? (a Rosona)
ROSONA De gnocchi. E er tuo? (a Tota)
TOTA De gnocchi.
TUTTI Quanti gnocchi!
ANTONIO Poco male. Intanto qui all’osteria trovamo tutto. Ma si
ttanto pe’ combinazione se fussimo trovati in mezzo a la campagna l’averessimo fatta bbona! Basta annamo! (s’ incamminano)
SCENA IV
Li soliti e Domenicone
DOMENICONE Uh! Vardate che bbella combinazione!
ANTONIO (vedendo Domenicone) (Ecco lo sbafatore. Accidenti a quanno me ne viè una bbene.)
DOMENICONE ( fingendo maravija e sorpresa) Vojantri qui?
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VITTORIONA (idem) Voi qua? E che nova caro cuggino?
DOMENICONE Ho visto ’sta bbella giornata e ho ddetto dico: Guasi,
guasi oggi me n’annerebbe in campagna. E defatti ho preso un legno
e pe’ combinazzione sò venuto qua!
ANTONIO (Ha preso la carrozza a chiacchiere, la porvere a momenti
j’entra in bocca.)
DOMENICONE Ma varda er diavolo a trovasse tutti assieme. Nun
pare fatto apposta cuggino?
ANTONIO (sminchionato) Già.
DOMENICONE Stammatina come ciavete accorto e bojaccia. (je da
‘na botta su la panza) Abbasta; cento de ‘sti giorni ve li do adesso.
ANTONIO Grazzie!
VITTORIONA (piano a Antonio) Invitatelo a pranzo.
ANTONIO (idem) Manco si schiatti tu e llui.
VITTORIONA Se preparamio per annà a magnà. (dà un’urtata ar marito pe’ faje capì ch’ inviti Domenicone)
ANTONIO (tutt’ indiferente) Già, se n’annamo a magnà.
VITTORIONA Perché nun favorite puro voi? (Giacché sei tanto maleducato l’ho invitato io.) (a Toto)
ANTONIO (Ma doppo me la paghi!)
DOMENICONE No grazzie. Ho già pranzato!
ANTONIO (Cortellate in gola!)
DOMENICONE Già; ho pranzato ar Farcone9...
ANTONIO (In compagnia der merlo.)
DOMENICONE Siccome ho ttrovato un amico d’infanzia ch’era tanto tempo che nun se vedemio e che m’ha ffatto dice: paghi da pranzo?
Dico: volentieri. E accusì semo iti ar Farcone e avemo pranzato come
du’ papi.
ANTONIO E cchi ha pagato?
DOMENICONE C’è da dillo...
ANTONIO Voi...?
DOMENICONE Macché... lui? Veramente volevo pagà io; ma in certi casi dice come che quello, la bbona intenzione abbasta.
ANTONIO (Meno male che se lo dice da sé.) Annamo via famejela.
(Signore mannecela bbona co’ tutto che ddice ch’ha magnato.) (piano
a Vittoriona) (Co’ tte poi famo li conti a casa!) Annamo!
TUTTI Sì annamo, annamo.
9
Trattoria sita in via Trionfale 60, tuttora attiva.
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Antonio va pe’ mettese sotto ar braccio a Vittoriona, ma Domenicone più
sverto de lui ce se mette e se la porta via. Antonio fa un gesto de rabbia e je
corre appresso. Entreno tutti quanti ner casale.
SCENA V
Micchelina sola
N. 7 (Romanza de Micchelina)
MICCHELINA Viva la faccia mia sempre contenta,
sempre burlona! Godo e me la canto;
senza sapé che sii dolore e pianto;
senza sapé che ssia soffrì e penà!
Come fate? Me direte,
è un secreto ricercato
che da piccola ho imparato
e che tiengo chiuso qua!
Appena ebbi l’età – che s’arisveja er core
e parleno d’amore – tutte le cose qua,
io nun je detti retta – nun feci mai l’amore
e persuasi er core – parlannoje accusì:
Si vvoi stà alegro
senza un dolore
lassa l’amore
da’ retta a mme.
Lui accettò er consijo – libbera me lassò
e libbera d’allora – sò stata e lo sarò!
Teta e la madre ggià doverebbeno stà a pranzo. Io me sò ffatta accompagnà fino qua vicino e j’ho detto che quanno ripassava me fussi venuta
a ripijà. Veramente io nun sarebbe venuta, ma quell’imprudente der sor
Antonio cor mannamme ‘sta lettra (la fa vede) m’ha proprio arisoluta de
vienì a daje propio ‘na lezione come se la merita... Poi c’è n’antra cosa; c’è
che smagno de sapé com’è andato l’affare der sor Giggi co’ Tetarella mia!
Quante me fanno pena. Credete che si li potessi aiutà lo farebbe propio
de core... Ma chi lo sa che nun m’arieschi?... ‘Sta lettra è un filo che lui
stesso m’ha messo in mano. Abbasta n’ariparleremo... Adesso prima me
ne vado sola sola a ffà ‘no stuzzichino pe’ ‘nu restà obbligata a gnisuno e
poi li vado a trovà. (se mette a ssede a un tavolino) Veramente me ne ver-
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e
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gogno a mettemme a magnà qui sola, potessi trovà un sito che nun ce sia
gnisuno.
SCENA VI
Pippetto e lei
MICCHELINA (s’accorge di Pippetto) Ah! Ah! Ma che ve gira stammatina?
PIPPETTO Gnente, ma capirete che quanno v’ho visto pe’ strada ho
smicciato quer ber grugnetto, io che quanno vedo ‘na bella regazza me
pija subbito ‘na penetta qui, e ve sò vorsuto venì appresso. Embè che
male ho fatto? La strada nun è pubbrica? Nun posso incarcà li serci
che incarcate voi?... e diteme un po’... e... e... e... io dico nun ve farebbe? Marito voi nun lo cercheressivo pe’ gnente?
MICCHELINA Macché, pe’ mme ce ne vorrebbe uno de quelli come
dico io.
PIPPETTO Allora l’avete trovo, ecco l’affare pe’ vvoi. Guardateme, io
sò come un casamento imbiancato de novo, de du’ piani solo, senza
er mezzanino, perché ssò basso. In quanto a comodità ce trovate tutto. Guardate la facciata, ve piace? adesso date ‘na guardata da la parte
de li cortili. Ve piaceno? Mbé, si ve piace ‘sto casamento combinamo
e io ve lo lascio a vostra indisposizione.
MICCHELINA Eppure guardannove bene nun me dispiacessivo.
PIPPETTO Eh! me l’hanno già detto tante regazze. Dunque semo soli
se volemo dà ‘na bbona abbracciata?
MICCHELINA Ma sete matto io nun me vojo compromette.
PIPPETTO Una sola sola!
MICCHELINA Ma levàte le mano.
N. 8 (Duetto)
MICCHELINA (Quanto mai sete seccante
nun me state più a seccà!)
PIPPETTO (M’ha sentito la ciumaca
e un zocché già me sta a ddì.)
MICCHELINA (smorfiosa) Che volete bello mio?
PIPPETTO (contento) Che m’ha ddetto avete inteso?
Bello mio...!
Io già sò acceso
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e sto un pelo pe’ schioppà!
(tutto confuso a Micchelina)
Nun volevo gnente affatto
ve volevo solo dì
che quer viso vostro è ffatto,
fatto propio pe’ impazzì.
MICCHELINA (sminchionata) Davero? Grazzie tanto.
’Sta cosa me consola
ma invece d’annà a scola
perdete er tempo qui.
Eccheve un sordo
pe’ la ciammella
e a scola bella
annate... alò!
PIPPETTO (che nun cape drento de sé da la contentezza)
Quant’è ciumaca
che ber grugnetto
un pizzichetto
je vojo dà. (je dà un pizzico)
MICCHELINA (je dà ’no schiaffo) Portate a casa
‘sto rigaletto
e ariponetelo
in der commò.
Pippetto arimane tutto mortificato. Micchelina se ne va verso l’osteria senza
dì gnente, ma arivata vicino a la porta se ferma e
MICCHELINA (lo chiama) Pst, Pst!
PIPPETTO (si rivolta e la vede) Ce voi scommette che me vò dà n’antro
papagno? Dite puro!
MICCHELINA Io, si nun lo sapete sò Micchelina la fija de l’acquavitaro che sta incontro a Teta la vostra regazza che m’è tanto amica. E
adesso je lo vado a ddì subbito, subbito.
PIPPETTO (atterrito) Davero?
MICCHELINA Si nun ve dispiace, se vedemo! (s’avvia)
PIPPETTO Sora Micchelì senti!
MICCHELINA Addio sor Cacazibbetto10, annate a scola. (se ne va ridenno)
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Ragazzetto arrogante.
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PIPPETTO Pst, pst, (la chiama) sora Micchelina. Sora Micchelinaaa!
Nun je lo dite a Tteta... pst, pst. Se n’è ita davero.
Mó l’ho ffatta bbona! Ma varda mannaggia li pescetti si me capita...
E indove sto? (se guarda attorno) Me pare de stà in un’osteria. Già ciò
‘na fame che sbavijo, capita propio a proposito. Mó sai che ffo? Me fo
un ber pranzetto e doppo me n’arivado a casa da mamma... Come je
l’ho giocata bella. Si sapessino che me sò squajato e ssò venuto qqua,
oprete cielo, sarebbe un finimonno!... Ma sì, chi me viè a trova qui?
Sto in d’una botte de ferro. Dije che vienghino! Ciò in saccoccia ‘na
mezza lira che me la sò messa da parte in dieci matine invece de comprammece le callalesse11. Mó me fo vienì un ber pranzetto e bonanotte. (chiama) Cameriere! Portateme ‘na minestra, un quintino, ‘na bistecca, ‘na pagnottella e gnent’antro! Cameriere! E mica se vede! Annamelo un po’ a chiama. (s’avvia verso l’osteria)
SCENA VII
Domenicone e detto
DOMENICONE (Domenicone scegne da le scale dell’osteria co’ le mano
in saccoccia tutto pensieroso) J’ho promesso che vienivo qui a crompaje
li sigheri. Indove vado a pialli che nun ciò manco l’arma d’un sòrdo?...
PIPPETTO Cameriere? (s’accorge de Domenicone e cerca de squajasse) Uh!
Chi vedo Domenicone, famo finta de nun vedello.
DOMENICONE Uh! varda chi si vede! Pst, pst sor Pippetto? E mica
sente! Ah! sor Pippetto!?
PIPPETTO Uh! Sor Domenicone e voi qui?
DOMENICONE E voi qui? Che nova? Come va?
PIPPETTO Benone. Sortanto ciò ‘na fame che me la vedo coll’occhi.
DOMENICONE Ma dico come va che ssete venuto qui?
PIPPETTO Sò venuto appresso a ‘na... Cioè, sò venuto qui ppe’ divertimme un po’!
DOMENICONE Ah! Va bbè! Ma voi ve doveressivo esse ammattito,
disgraziato.
PIPPETTO Io! e perché? (sorpreso)
DOMENICONE Perché!... Ma dunque nun sapete gnente?
PIPPETTO Io no, sò piccolo e dormo da piede!
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Castagne lessate.
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introduzione
DOMENICONE Ma come scappate da scola d’anniscosto de tutti e
dopo venite a cascà in bocca al lupo? Sapete qui chi c’ene?
PIPPETTO (co’ premura) Chine?
DOMENICONE C’è vostra madre...
PIPPETTO (idem) Ah!
DOMENICONE Vostro padre.
PIPPETTO (idem) Oh!
DOMENICONE La vostra regazza, la madre de la vostra regazza, er
cane er gatto...
PIPPETTO Ma dunque sò venuti a pranzo qui?
DOMENICONE Si ve piace er zibibbo. Se ve troveno l’avete fatta bona, l’avete fatta.
PIPPETTO Sì, si sò bboni d’arivamme. Io me squajo. ( fa per annà via)
DOMENICONE (Che bell’idea!) Fermo disgrazziato. Da quella parte
nun ce potete annà perché c’è ito vostro padre e ve potrebbe incontrà.
Da questa parte c’è Teta che è ita a spasso pe’ la vigna. De qua vostra
madre; dunque io direbbe che sarebbe meglio che v’annisconnessivo
qua dietro e che aspettate quanno che sò usciti tutti perché da un momento a ll’antro ponno scegne. (orecchiando) Si nun me sbajo eccheli;
scappate.
PIPPETTO Oggi vado a ffinì dar salumaro pe’ tonnina12. Indove vado
mó co’ ‘sta fame?
DOMENICONE Me fate propio compassione. Io annerebbe su a trattenelli, ma siccome ho d’annà dall’oste a cambià ‘na carta da cinquanta piastre pe’ crompà certi sigheri, nun ve ce posso annà. Vordì che si
ciaveressivo ‘na mezza lira da prestamme s’arimedierebbe a tutto.
PIPPETTO Ce l’ho io. (caccia mezza lira e je la dà)
DOMENICONE (je la strappa da le mano) Caro sor Pippetto sete sarvo. Adesso annisconneteve e quanno sarà l’ora che ve ne poterete annà ve vengo a chiamà io. (s’avvia pe’ tornà a ll’osteria).
PIPPETTO Sine, ma siccome...
DOMENICONE Nun perdete tempo.
PIPPETTO Nun dite gnente a gnisuno e ariportateme la mezze lira presto perché nun ciò antro e me sento ‘na fame...
DOMENICONE Si avete fame allora mó ve porto ‘na stozza co’ quarche cosa drento e magnerete, lassate fà a mme. (via)
PIPPETTO Allora arestamo accusì, ma sbrigateve ch’ho fame. (strillan12
Tonno in pezzetti, per estensione sminuzzaglia, tritume.
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no) Tutte a mme m’hanno da capità. Stammatina in penitenza, scappo da scola trovo ‘na regazza je vado appresso ciabbusco ‘no schiaffo
e casco in bocca al lupo.
N. 9 (Aria di Pippetto)
PIPPETTO Mannaggia li pescetti
da quanno che sò nato
sò propio affortunato
nun c’è che ddì, nun c’è!
Mi’ madre pe’ castigo
me mette in penitenza
e io, santa pazienza,
la vengo a trova qua!
Incontro ‘na regazza
che va pe’ strada sola
pe’ dije ‘na parola
se svorta e me fa ciaf!
E si m’incontra mamma
oh! disgraziato fijo
sai quante ce ne pijo
oh! disgraziato me!
Ohimé! Ohimé! (se mette a ballà)
SCENA VIII
Giggi e er medemo
GIGGI (scegne da la scala) Annamo a ffà du’ passi!
PIPPETTO Chi è? Doverebb’esse Domenicone co’ tanto de stozza.
GIGGI Uh! Varda Pippetto. Ah! sor Pippettoo. (chiamanno)
PIPPETTO (Er sor Giggi!) (je fa segno da dì piano) St, st!
GIGGI Ma che «st». Come va, va bbene?
PIPPETTO (a voce bassa) Nun c’è male!
GIGGI Come avete fatto a scappà via da scola?
PIPPETTO Dite piano sinnò ve sente mamma.
GIGGI Come avete fatto?
PIPPETTO Eh, ho fatto che sur mejo me sò squajato.
GIGGI E come è che sete venuto qui? Pe’ ttrovà Teta dite la verità?
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PIPPETTO Già, ciavete dato ciavete. (ridenno) E vvoi sete ’n’omo che
ciavete poco sonno.
GIGGI Defatti povera regazza se lo merita perché ve vò bbene, un bene
matto.
PIPPETTO Eh! lo so, me ne sò accorto che quella regazza ha bisogno
d’un maritozzo come mme.
GIGGI Tutto er giorno nun parla che de voi, nun pensa che a voi, nun
rifiata che ppe’ vvoi...
PIPPETTO E che voressivo che nun rifiatasse? allora starebbe bene!
GIGGI (strillanno) Allora addio sor Pippetto!
PIPPETTO St, st. Je cecherebbe ‘n’occhio!
GIGGI (idem) Allora addio.
PIPPETTO Per carità nun dite gnente a gnisuno, sor Giggetto!
GIGGI Nun dubitate, nun dubitate. (arivato sur mignano) Addio sor
Pippetto! (via)
PIPPETTO Eh! Strillate l’anima; io sudo freddo. Avevo tempo a dije
strillate piano, è come si j’avesse detto strillate forte. A la longa va, ma
io oggi qua me moro, qua me moro, qua me moro. È mejo che m’annisconna da ‘sta parte. (va pe’ rientrà a sinistra vede er maestro) Er pedante! Mamma mia. ‘Sta vorta puzzo già de morto. (scappa e s’annisconne de dietro a l’ incannucciata)
SCENA IX
Don Desiderio e detto
N. 10 (Aria de don Desiderio)
DESIDERIO (buttanno per aria er cappello)
Al diavolo i ragazzi
ed il far l’uomo educato,
sono stufo ed annoiato
da non poterne più!
Evviva l’aria libbera dei campi
evviva l’erba fresca e i praticelli
e i fiori belli!
Evviva il vino
color rubino
che dentro i calici
spumeggia e brilla
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come scintilla,
e quiete e pace
ridona al cuor
del Professor!
Auff! Finalmente sono arrivato! (se caccia er gibbodimmine13) Accidenti
che caldo. Al diavolo il mestiere del pedante; qui almeno potrò sgranchirmi le membra sino a sera e ridonare alle mie articolazioni la primitiva elasticità. (stira le braccia e poi chiama) Ah! Titta.
TITTA (viè fori dall’osteria) Ecchece qua don Desiderio che cce vò?
DESIDERIO E i miei compagni sono venuti?
TITTA Da mó! Stanno laggiù a ggiocà!
DESIDERIO Portami un litro di quello rosso...
TITTA De Marino?
DESIDERIO Bravo devo mandar giù una passione che mi son preso
stamane per quel brigante di Pippetto, un ciuco, un somaro, un mascalzone come suo padre e sua madre. Al diavolo tutti, razza d’ignoranti. Lesto Titta!
TITTA Vado subbito. (entra in dell’osteria)
DESIDERIO (chiamanno gente che nun se vede) A zi’ Cencio, a Schizzettaa!?...
VOCE (di dentro) Ahonee!...
DESIDERIO Tutti pedanti come me. Che vassalli! Sarebbe bella che i
genitori i quali ci confidano i loro figlioli ci sorprendessero mentre
stiamo riuniti fra noi. Non batteressimo più un chiodo fino alla fine
dei nostri giorni. (strillanno) Ohenee! Eccheme!
VOCE (di dentro) E sbrigateve!
DESIDERIO Titta, allora il vino portamelo giù al prato. Non si può
mica occuparsi tutto il giorno a far l’educazione di quelle marmotte.
Un po’ di divertimento ci vuole. Ma prima d’andarmene voglio assolutamente discorrere con Tota. Potessi chiamarla senza svegliare l’attenzione della comitiva. Proviamo. (chiama) Tota!?
TOTA (viè ffora dall’osteria) Che vvòi?
DESIDERIO Prima di tutto abbracciarti, Tota mia del cuore. (l’abbraccica)
TOTA E mò fatejela!
13
Gibbodimmine-giubbedommine-gibbidommine: soprabito.
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introduzione
DESIDERIO E poi voglio domandarti come vanno i tuoi affari col signor Giachimandrea!
TOTA Eh! Nun c’è male!
DESIDERIO Senti figlia mia. Devi cercare di spolparlo fino all’osso
perché te l’ho detto, te l’ho ripetuto e te lo torno a ripetere che per la
fine del mese mi occorrono 30 lire come trenta angioli del paradiso e
tu devi compiere questa operazione!
TOTA Farò de tutto!
DESIDERIO La mattina potresti fare un po’ di cresta quando vai a fare la spesa...
TOTA Ma si se n’accorge er sor Giachimandrea?
DESIDERIO Non se n’accorgerà, non dubitare anima dell’anima mia!
VOCE (di dentro) Totaaa!
TOTA Lassateme annà che me chiameno.
DESIDERIO Va puro angioletto mio e ricordati di quanto ti ho detto.
TOTA (intanto che se ne va) Sì, sì! (via)
DESIDERIO Ed ora torniamo pure dai nostri compagni. (via)
SCENA X
Pippetto solo
PIPPETTO (mette la testa fra l’ incannucciata e vedendo che nun c’ è gnissuno esce co’ precauzione) Per esse che er mi’ pedante fa tanto er ciovile e che mi’ madre lo tiene per un santo, è più vassallo de me... Avete
inteso come je dà? (lo rifà) A zi’ Cenciooo?! (pavusa) Potessi aritrovà
quer boja de Domenicone. Ciò ‘na fame... ‘na fame! (se svorta e vede
Giachimandrea) Misericordia mi’ padre!! (s’annisconne)
SCENA XI
Giachimandrea, Teta e Pippetto anniscosto
GIACHIMANDREA (intanto che viè ffori da ‘n pizzico a ’na ganassa a
Tota) Uh! simpaticona!
TOTA (co’ du’ boccioni in mano) Fermateve sor Giachimandreache nun
sta bbè! Si nu’ sia mai ve vedesse la sora Rosa l’averessivo fatta bbona.
GIACHIMANDREA Che c’è de male? Perché t’accarezzo un tantinello. Che ppuro questa tua nun è carne battezzata?
PIPPETTO (co’ la testa fori de l’ incannucciata) Bene bbravo!
GIACHIMANDREA (se svorta e guarda co’ sospetto) Me pareva d’avé
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e
à
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inteso... Me sarò sbajato... Dì dunque Totona mia, me prometti de
piantà er compare e de vienitte a mmette ar servizio a ccasa mia?
PIPPETTO (idem) Accusì famo casa e bottega.
TOTA Ma mmo lassateme annà. N’ariparleremo ’n’antra vorta. Poterebbe venì quarchiduno da un momento all’antro...
PIPPETTO (idem) Ma ffate puro!...
GIACHIMANDREA E ssi’ bbona Totona mia, Totozza mia viettene
armeno viettene a fà du’ passi pe’ la vigna che mica me te magnerò.
Doppo magnato se spasseggia tanto bbene sotto l’ombra...
PIPPETTO (idem) Mi’ padre va cercando l’ombra.
GIACHIMANDREA Ma viè, ma sbrighete...
TOTA Ma ssete matto?...
GIACHIMANDREA (la tira pel braccio) Annamo!
TOTA Misericordia. Che vedo! La padrona che viè da ‘sta parte. (vanno
pe’ scappà e vedeno Pippetto)
PIPPETTO Uh! Papane. (je dice de stasse zitto)
GIACHIMANDREA e TOTA Uh! Pippetto. (je dicono lo stesso)
SCENA XII
Vittoriona e Domenicone
DOMENICONE (portanno sotto er braccio Vittoriona) Cara cuggina
accusì è!
VITTORIONA (ridenno) L’affare da la cuggina è curioso? Ma come ve
venne in testa de famme passà pe’ cuggina?
DOMENICONE Come me venne in testa? Ma si semo cuggini pe’
davvero, pe’ davvero!
VITTORIONA Io co’ ‘sta parentela mia nun ciò capito mai gnente.
Spiegatemelo un po’.
DOMENICONE Avete da sapé che er padre der padre der fratello der
padre mio cor padre der padre der fratello der padre vostro annaveno
a scola insieme.
VITTORIONA Che miccarolo!
DOMENICONE Miccarolo? Ma queste sò idee che viengheno antro
che in ’sta testa qqua! Cara cugginona! (caccia da la saccoccia un ritratto) L’ariconoschi? Er tu’ ritratto che me dasti venti anni fa. Vedi come
lo conservo? Eh! Allora ereno antri tempi. Te ne ricordi?
VITTORIONA (intenerita) Si me n’aricordo!? (sospira)
DOMENICONE Doppo tu, crudele, pijassi marito e me lassassi solo,
affritto e sconsolato.
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introduzione
PIPPETTO (Che tenerume me poteressi aridà la mezza lira che me moro de fame! Ah! Sbafatore?!)
DOMENICONE (se svorta) Me sbajo o me pare che m’abbino chiamato a nome?
VITTORIONA Lassateme annà avessi da venì mi’ marito potrebbe sospettà quarche cosa mentre poi nun c’è propio gnente de male.
DOMENICONE Lassalo che vienghi e che cce trovi! Che c’è de male?
Un cuggino e ‘na cuggina nun se ponno abbraccicà quanto je pare?
Eppoi dije che vienga che ciarifà li sòrdi ciarifà. Nun sò stato fatto pe’
gnente Sargente de la Nazzionale! Quanno che tu’ marito è stufo de
campà, se presenti a mme e me dica ‘na mezza parola e je fo vede io
sì chi è Domenicone er Nazzionale. Mannaggia la maiolica, la panza,
un crivello j’avrebbe da diventà.
PIPPETTO Bum!
Fanno un sarto dalla paura.
VITTORIONA Uh! Chi vedo, mi’ marito. Nun se famo trovà assieme.
(va pe’ scappà)
DOMENICONE (la trattiè pe’ la vesta) Aspettate scappamo assieme.
Da cche pparte?
VITTORIONA De qqua presto. (se lo strascina via)
SCENA XIII
Padron Antonio e Micchelina
MICCHELINA (tiè in mano ’na lettra) E me fa specie che un omo come voi co’ moje e fij s’abbusi de l’amicizia d’un’amica de la fija sua cor
mannà ste lettre a ’na regazza onorata.
PIPPETTO (Sor onorata).
MICCHELINA Ma caro padron Antonio avete sbajato strada. Me fa
mórto, ma mórto specie. Che direbbe vostra moje oppuramente vostra
fija si vienissero a ssapé ‘na cosa simile.
PIPPETTO (Nun je piaceno li regazzini ma li sor Antoni co’ la barba
a lei.)
ANTONIO Sì sora Micchelina avete raggione ma abbiate pazienza.
MICCHELINA Che pazienza e pazienza. La pazienza ce l’hanno li santi. Fate che ‘na cosa simile nun accada più ’n’antra vorta sinnò bella
che donna e regazza sò capace caso caso de mettevve le budellaccia in
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mano così imparerete a distingue la diferenza che passa fra donna e
donna.
ANTONIO Scusate è stato n’accecamento. Ma ve prometto che n’antra
vorta nun me succederà più.
MICCHELINA Bravo, cercate a nun accecavve più, fate er piacere, sinnò sarebbe peggio pe’ vvoi. E annate sempre per vantaggio vostro che
allora nun ve dirà più gnente gnisuno.
ANTONIO Allora abbiate tanta pazienza e vve saluto. (Ciò fatto un
ber figurino.) (se ne va)
SCENA XIV
Micchelina sola
MICCHELINA J’ho ddato ’na lezzione propio a ciccio. Caro sor Antonio attaccatevela ar collo pe’ medajone e tenetevela stretta che ve sta
propio a pennello! Oggi la furtuna me perseguita pe’ famme ottené
tutto quello che vojo. Annamo a ritrovà er sor Giggi. (monta su pe’ le
scale dell’osteria e va drento)
SCENA XV
Pippetto solo
PIPPETTO (sorte dar nisconnjo) Ah! ah! ah! si nun ciavessi ‘sta fame che
a mmomenti me leva er fiato ce riderebbe come ‘na cratura. Eppuro
me sò divertito. (ride) A pensà chi me l’avesse detto, mi padre co’ Tota... mosca ( fa l’occhietto)...Otto je venne er vecchio. La sora Micchelina cor sor Antonio... mosca... Er mi’ pedante che massimamente mi’
madre teneva pe’ un milordo è più massiccio d’un facchino de Ripa.
(lo rifà) Ah! Zi Cencio! Ah! Schizzettaa! Abbasta, n’ho scuperte de le
bbelle... Armeno mó me ne potessi annà a casa in santa pace. (s’avvia
pe’ sortì) Chi vedo!... La mi regazza cor sor Giggi? Ecco er córpo de
grazzia. (se nnisconne)
SCENA XVI
Teta, Giggi e detto
TETA Giggi mio!
GIGGI Teta mia!
PIPPETTO (Ohé! S’ariscalleno li ferri!)
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introduzione
GIGGI Finarmente te posso abbraccicà!
TETA Fermo per carità, ce potrebbe vede quarchiduno.
PIPPETTO (Ma no, anzi fate puro).
GIGGI Che direbbe papà tuo e mammà tua si ce vedessino insieme.
TETA Che voi che dichino?
GIGGI E quanno lo saperanno?
TETA S’averanno da contentà pe’ fforza!!
GIGGI Ma come vòi che me dijeno a me un pover’omo de bottega che
nun possiede gnente.
TETA A lloro questo qui nun je deve importà. Te vojo bbene e questo
abbasta!
PIPPETTO (D’aregge ‘sto moccolo accusì a ddiggiuno propio nun me
l’aspettavo).
GIGGI E si adesso ce vedesse Pippetto?
TETA Eh! Addio!
PIPPETTO (Ce voi scommette che me menerebbe puro?)
GIGGI Ma quer poveraccio che tte vò tanto bbene?
TETA Nun so che fammene der bbene de quell’imbecille.
PIPPETTO (Manco male che l’ha riconosciuto. E ddì che nun posso
manco strillà, manco chiamà gente, e ho da soffrì ‘sto martirio).
GIGGI Si mettemo er caso, adesso ce scropissino io che parte ce farebbe?
TETA E io puro che parte ce farebbe?
GIGGI Core mio!
TETA Amore santo!
PIPPETTO (Ohé qui ce vonno li pompieri co’ lo schizzo.)
N. 11 (Terzetto fra Teta Giggi e Pippetto)
TETA Ho tanta paura
me parpita er core,
che questi ce scopreno
che ffamo l’amore!
GIGGI Sta’ quieta, sta’ quieta
ciumaca, tesoro
nun stà a pensà a loro
confidete a mme!
PIPPETTO (Ma bbene, bbenone
è già decretato
che oggi contento
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baffuto e affamato
cor core straziato io devo morì.)
TETA Quanno annate da papà
la mia mano a domannà?
GIGGI Nell’annà che famo a Roma
nun pensà ce proverò! (je bacia la mano)
TETA Piano, piano sfacciatello
nun sta bene ‘sto bbacià.
GIGGI Ah! ‘Sto braccio è troppo bello
me ne vojo satollà!
(ripresa dell’ insieme)
Giggi fa mette a ssede Teta sur riarzo de tera. Intanto da diverse parte ariveno Rosona, Vittoriona, Giachimandrea, Desiderio, Teta, Titta e coro.
SCENA XVII
Quelli de prima, Rosona, Giachimandrea, Tota, Desiderio, Domenicone,
Vittoriona, Antonio, Micchelina e Coro
PIPPETTO (Ecco Mamma! Mó viè la rotta de Roncisvalle. E quelli mica se n’accorgeno.)
Rosona vede Teta e Giggi che ner bruciore de l’amore nun s’accorgheno de
gnente, arza le mano ar cielo pe’ la sorpresa poi fa un segno e tutti l’antri
vienghenno in scena.
ROSONA (quanno sò arivati tutti) Vedete Sor Antonio che bello spettacolo ciavete preparato pe’ la festa vostra!
TUTTI Che vedo?!...
TETA e GIGGI (senteno e se rivolteno) Uh! Dio!
PIPPETTO (Questo nun è gnente e quello ch’ho visto io!)
ROSONA Er mi’ fijo poveraccio se ne stà a scola e la su’ regazza je prepara già l’arricciatura pe’ le penne.
PIPPETTO (Intanto oggi er cappellaro l’ha ffatto.)
VITTORIONA E chi se credeva quer birbaccione der sor Giggi fusse
tanto traditore?
ANTONIO ‘Sto spiantato doppo che l’ho messo drento casa mia ecco
come m’aricompensa. Via de qua!
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introduzione
VITTORIONA E a voi puro sora Teta!
ANTONIO Io nun so chi me tienga de sfasciaje er grugno.
MICCHELINA (lo trattiè) Fermo Orlando furioso. Nun tanta foja!
ROSONA Adesso manno subbito a chiama er mi’ fijo e je dico come
vanno le cose. Sor Desiderio fateme er piacere montate in carrozza e
annatemelo subbito a pijà a scola.
DESIDERIO Vado tosto!
ROSONA Minchionati poi nun volemo esse!
GIACHIMANDREA Già, minchionati poi nun volemo esse.
VITTORIONA Io aresto de stucco.
ANTONIO E io de pietra pomicia.
MICCHELINA Ma via le cose se poterebbero accomidà senza fà tutta
‘sta cagnara. Volete sturbà la festa de ‘sta giornata accusì ricordativa
pe’ ‘na sciocchezza?
N. 12 (Concertato)
VITTORIONA Che scannalo!
ANTONIO Che scannalo!
TUTTI Che scannalo!
L’onore sano – d’una famija
sbiancà così – così sporcà
l’onore tuo – povera fija
cusì sbiancà!
TETA Pietà papà!
GIGGI Pietà per me.
Stavo per chiederla – oggi pe’ sposa.
MICCHELINA Suvvia Vittoria siate pietosa.
VITTORIONA e ANTONIO E tu bojaccia- l’hai da pagà!
Nun sò più Antonio – credete a me
si nun te manno – pe’ carità!
GIGGI Come faccio! Chi m’aiuta!
Chi lo prega a perdonà!
TETA Micchelina resti muta
parla tu per carità.
(Romanza)
MICCHELINA Ricordatevi un po’ quanno da giovini
puro a vojantri ve bolliva er core.
Ricordateve un po’ sí quanti tribboli
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e quanti affanni ve causò l’amore.
Ah! si peccato è ddì te vojo bbè
un innocente qui fra noi nun c’è!
(Concertato)
DESIDERIO ROSONA VITTORIONA ANTONIO GIACHIMANDREA Perdono no, giammai.
TETA GIGGI MICCHELINA Pietà di noi pietà!
ANTONIO e VITTORIONA a GIGGI Su birbone-vassallone
lesto vattene de qua!
E si mai ritornerai
l’averai da ripagà!
MICCHELINA TETA e GIGGI Nun negate o genitori
un tantino de pietà
nun crescete antri dolori
a ‘sti pori fiji qua.
Domenicone stracina Antonio, Vittoriona co’ l’aiuto de Micchelina se stracina Teta. Quanno questa sta per annà via dà ’na guardata amorosa a Giggi
che è trattenuto da Giachimandrea. Succede un po’ de confusione e cala er
telone.
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ATTO TERZO
La scena è l’istessa der II atto meno che siccome quello che succede è verso l’avemmaria, così attaccati a le pergole, a l’arberi, dappertutto insomma ce saranno belli lanternoni colorati co’ la canneletta accesa. Da lontano immezzo ar crepuscolo se distingue un chiarore smorto. È Roma
illuminata a gasse.
SCENA I
Teta, Micchelina e Coro
N. 13 (Coro de sciampagnoni e duetto fra Teta e Micchelina)
CORO Evviva er padrone
de core stragranne
che spenne che spanne
pe’ facce godé!
Da vero Romano
nun pensa che a spenne
perché se n’intenne
der vero scialà.
TETA Qui tutti godono
antro che io
tribbolo e peno
che lo sa Iddio.
MICCHELINA Animo Teta
moto allegria,
scotete, via
nun stà accusì!
Nun senti er sono
nun senti er canto
e tu sortanto
voi tribbolà?
TETA Lasseme, lasseme
che soffro tanto
lassame intanto
vojo soffrì!
MICCHELINA Su, cara Teta nun stà accusì malinconica che vvederai
che poi arimedieremo a tutto, te l’assicuro io.
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TETA Sarà come dichi, ma nun ce credo. Nun hai visto come hanno
cacciato via quer poveretto. Manco si avessi arubbato.
MICCHELINA Eppure io nun me sarebbe mai cresa che l’avessero trattato accusì malamente.
TETA E che nun te l’aspettavi?
MICCHELINA Io no. Me credevo che appena l’avessero saputo v’averebbero fatto sposà subbito!
TETA Quanto sei credenzona. Nun me fussi capitato davanti quer freschetto de Pippetto, forse, meno male, ma cco’ la cosa che m’hanno
promesso a quello nun c’è più speranza.
MICCHELINA Dimme la verità je vòi bbene assai a Giggi?
TETA Più che nun credi!
MICCHELINA Defatti accusì dev’esse. Embè nun me chiamà più
Micchelina si drento oggi st’affare nun dev’esse accommidato. Fidete de me.
TETA Magara te farebbe fà ‘na statua d’oro.
MICCHELINA Vederai. Ma nun stà accusì che nun te vojo vede. Allegria. Omo alegro Iddio l’ajuta. Fa’ come me che nun penso a gnente tutto er giorno. (pija ‘na ghitarra sur tavolino e se mette a cantà accompagnannose da sé) Senti:
N. 14 (Aria di Micchelina)
MICCHELINA Quanno un malanno
m’affanna er core
quanno un dolore
me strappa er pianto
cerco a distramme subbito cor canto!
E in un attimo
trovo sollievo
che nun credevo
più de trovà!
Chi sa pe’ quanto
ma che ritrovo subbito cor canto
così è, così è!
E l’allegria
che co’ la musica
da me riviè
ecco cos’è.
(Micchelina e Teta ripetono) Così è.
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TETA Beata te! Io puro vorebbe fà così ma nun m’ariesce.
MICCHELINA Abbasterebbe che ciavessi la bona volontà.
TETA Farò de tutto.
MICCHELINA Vederemo si sarà vero. Adesso vattene in cammera superiore de sopra e fino che nun te chiamo nun te presentà.
TETA Va bbene, abbasta che ciariesci.
MICCHELINA Tu nun ce pensà va puro.
TETA Addio. (se ne va all’osteria)
MICCHELINA Nun c’è tempo da perde, se fa notte e a momenti se
partirà pe’ Roma, e io prima de partì vojo in tutti li modi accommidà
‘sto pangrattato. M’arincresce che ancora nun ciò ttanto in mano da
mettelli tutti ar posto. Pe’ mastr’Antonio ciò pensato ma pe’ la sora
Vittoriona ancora nun m’ariesce. Basta, quarche santo m’ajuterà. Annamo a scoprì tereno. (s’avvia)
SCENA II
Pippetto e Detta
PIPPETTO Sora Micchelina, sora Micchelina.
MICCHELINA Voi? Incora qui?
PIPPETTO Sentite, sentite...
MICCHELINA Ma perché nun ve sete squajato? Che volete er resto der
carlino? o aspettate che vostra madre ve dii quarche scadenza?
PIPPETTO Eh! Lassamo un po’ fà Iddio. Intanto più scaduto d’accusì
nun posso esse. Già me sò levato er vizio de magnà.
MICCHELINA Dunque nun ve n’importa gnente si ve scopreno?
PIPPETTO Gnente affatto, perché ciò ttanto in mano d’ammutolì
tutti.
MICCHELINA Davero e che ciavete? (premurosa)
PIPPETTO (co’ prudenza) Che cciò? Che cciò? N’ho scuperte certe, ma
certe da favve addrizzà tutti li capelli.
MICCHELINA Pò stà?
PIPPETTO Pò stà? Ahò dice si ppò stà? Ma è propio accusì.
MICCHELINA E che avete scuperto?
PIPPETTO Già lo dico a llei? Qua sotto. (insegnanno er barbozzo) Io
mó javerebbe d’annà a ddì che mi’ padre insieme a Tota... mosca (ridendo) l’ho veduti io co’ sti du’ occhi che tiengo in fronte.
MICCHELINA (beve) Mbè nun me n’importa gnente affatto. Addio.
( fa finta d’annassene)
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PIPPETTO Sentite, sentite, nun ve n’annate. Lo so che a vvoi nun ve
ne importa gnente, ma a me però nun sta mica bbene de divve pre-sempio che la sora Vittoriona co’ Domenicone lo sbafante... mosca m’arincresce che a vvoi nun ve posso dì gnente.
MICCHELINA (Sarebbe propio quello che me ce vorrebbe, qualche
prova de st’amore de Vittoriona.) Ve torno a ripete che io nun vojo
sapé gnente affatto, che nun me n’importa gnente.
PIPPETTO Lo so, lo so; ma intanto io ho trovato ‘na cosa, ‘na cosa...
MICCHELINA Che cosa?
PIPPETTO Che cosa? (co’ cautela) Vardate un po’? (je fa vvede un ritratto)
MICCHELINA Er ritratto de Vittoriona!?
PIPPETTO Leggete un po’ qua sotto che cce dice.
MICCHELINA (leggenno) «Al mi’ caro Domenicone la su’ Vittoriona»!
E cchi ve l’ha dato?
PIPPETTO È cascato a Domenicone intanto che stava qui a discore co’
la sora Vittoriona.
MICCHELINA E nun se n’è accorto?
PIPPETTO No, macché! Siccome se sò spaventati perché vieniva ggente, mentre che scappava j’è cascato, io me ne sò incajato, sò uscito e
l’ho ariccorto.
MICCHELINA (Che bella combinazione!) Pippetto me dai ‘sto ritratto? (co’ indifferenza)
PIPPETTO Fussi matto!
MICCHELINA Nun me lo vòi dà? Mbè me la paghi. Addio!
PIPPETTO Sentite nun dite gnente a gnisuno de quello che v’ho detto.
Nun vorebbe che s’annasse dicenno che Pippetto ha visto er sor Antonio sgrinfià co’ ‘na certa signorina.
MICCHELINA Davero?
PIPPETTO L’ho visto io co’ ‘sti du’ occhi. Vòi scommette che nemmanco questo è vero? (Sfido era lei!) (la guarda sott’occhio) (Me ce fa
l’innocentina!)
MICCHELINA Sò tutte cose che ve le sete inventate da voi.
PIPPETTO Brava inventate! Ma sò tutte cose vere, vere come la luce
der sole. E che la mi’ regazza fa l’amore cor sor Giggi manco è vero?
MICCHELINA Ah! Questa poi è nova di pianta!
PIPPETTO Ma ccome nova si pe’ fino c’erivio voi quanno l’hanno agguantati in fragante tutti quanti, che stava qui a fà l’amore co’ Giggi?
MICCHELINA Ma che amore, che amore nun se sa!
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introduzione
PIPPETTO Nun era amore? Già perché voi ce fate a mezzo cor sor Giggi (risoluto) ma er sor Giggi me l’ha da pagà. E come! Sentite nun me
chiamate più Pippetto, si la prima vorta che lo vedo nu’ lo stenno cadavere morto qua per terra!
MICCHELINA Eccolo pe’ l’appunto!
PIPPETTO (indeciso) Chine?
MICCHELINA Er sor Giggi che viè da ’sta parte. Ecco er momento da
vendicavve. Fateve sotto.
PIPPETTO (tremanno come ’na fronna) Sì!... (Ma si tardava n’antra
mezz’ora era mejo.) Dunque io direbbe che sarebbe mejo che noi s’annisconnessimo, e che mentre lui stassi qui, io sortissi fora e je facessi
morì!
MICCHELINA Fate un po’ come ve pare. Quantunque ’st’arimagnasse la parola sa un po’ de carogna.
PIPPETTO Sì, vederete che la cosa viè mejo accusì.
MICCHELINA (Famese ‘ste du’ risate!)
PIPPETTO Figurateve che ggià me sento er sangue all’occhi, er dente
amaro. Oggi succede er fatto. Abbasso le mmaschere e mora er tiranno. (se nnisconne co’ Micchelina)
SCENA III
Giggi e quelli anniscosti
N. 15 (Romanza de Giggi)
GIGGI Addio speranze mie, sogni indorati
che fino a oggi me parlavio ar core.
Tutto è finito ormai
pe’ me tutto è perduto!
A che serve la speranza
a che serve un vero amore
si pe’ dà la morte a un core
basta e avanza o un sì o un no!
Addio celeste immagine
candida stella addio
parto ma solo Iddio
sa quer che soffro qui!
MICCHELINA (esce dar nisconnijo) Sor Giggi indove ve n’annate?
GIGGI Avete visto gnente Teta?
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MICCHELINA Sì propio adesso è salita lassù!
GIGGI Mbè quanno la vedete diteje che me cerchi a scordamme!
MICCHELINA Ma perché?
GIGGI E me lo domannate? Nun avete visto come sò stato trattato? È
inutile che pensi più a llei, li su’ genitori se sò messi in testa de daje
pe’ marito quer parmo d’omo, quer mezzo bajocco fra cacio e fronna,
quer cirifischio, quer reducello de Pippetto! Che si oggi me capita,
mannaggia l’animaccia sua, me lo magno a mozzichi.
PIPPETTO (de drento) Hai raggione tu che ho ppavura de sortì ffora,
sinnò tte farebbe vede io che mozzichi!
GIGGI Credete che io sora Micchelina, ciò ‘na sete, ‘na sete che si Dio
ne guardi l’incontro lo scanno!
PIPPETTO ( facennose vede) Eh! fatte sotto anima rea!
MICCHELINA Voi dite bene; ma lui in fin de li conti che ccià che ffà
povero fijaccio!
GIGGI Povero fijaccio, povero fijaccio? Lassate che l’incontri e poi sentite le nove!
PIPPETTO (Da mó che ssò sonate!)
GIGGI Credeteme sora Micchelina, che io propio ho bisogno de sfogamme co’ quarchiduno.
PIPPETTO (Va a insurtà la sentinella!)
GIGGI Brutta carogna!
PIPPETTO (Carogna poi!)
GIGGI Qui te vorrebbe adesso pe’ scannatte.
PIPPETTO (s’avvicina un po’) Coraggio!
GIGGI Qui pe’ magnatteme er core.
MICCHELINA (a Pippetto) (Ecco er momento bbono fateve sotto.)
PIPPETTO (avanzannose) Puro io!
GIGGI (cambianno tono) Uh! caro sor Pippetto! (je dá la mano)
PIPPETTO Uh! Carissimo sor Giggi!
GIGGI Come va la vita?
PIPPETTO Io bbene, grazzie; accusì spero che sii de voi. Arivederlo e
si conservi. (scappa)
MICCHELINA (ridenno) Ah! Ah! Ah! Questa è bella! Ma come lo volevio ammazzà?
GIGGI E che ssò matto d’annà in galera pe’ llui? L’ho detto apposta
perché sapevo che da stammatina stava anniscosto là de dietro.
MICCHELINA Bravo sor Giggi. Ciavete più spirito che nun credevo.
Basta adesso nun perdete tempo, annate su a consolà quela povera Teta, e lassate fà er resto a me che penserò io a tutto.
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introduzione
GIGGI Grazie e che Iddio ve possi benedì. (va nell’osteria)
MICCHELINA Nun c’è ttempo da perde. Bisogna in tutti li modi che
ciabbia in mano quer ritratto che ccià Pippetto. Lo vojo annà a ttrova. (via)
SCENA IV
Desiderio solo
DESIDERIO (entra tutto scarmanato e stracco) Auff! Ho girato tutta
Roma e non mi è riuscito di poter raccapezzare quell’assassino de Pippetto. Alla scuola m’hanno detto: Pippetto s’è squagliato. Pippetto ha
fatto sega! Capite? Pippetto s’è squagliato, Pippetto ha fatto sega! Ed
ora cosa mai darò ad intendere alla sora Vittoriona! Ah! Ma se oggi lo
trovo, per tutti i demoni passati presenti e futuri lo scanno. Così mi
ripagherà il tempo e la scalmanatura che mi sono preso per causa sua.
SCENA V
Pippetto e detto
PIPPETTO (minchionanno) Ah! Zi Cenciooo!?
DESIDERIO (se svorta e lo vede) Chi vedo! Fulmini e saette! Tu qui?
Ah! Brigante (je corre appresso pe’ arrivallo ma nun je la fa perché Pippetto je fa la cavalletta)
N. 16 (Duetto buffo)
DESIDERIO (correndo) Se ti arrivo, se ti colgo
ti fo livida la schiena
sono al pari d’una jena
non ci veggo e sento più!
PIPPETTO Corri, corri! Intanto hai voja!
Nun sei bbono d’arivamme,
antri piedi, antre gamme,
te ce vonno credi a me.
DESIDERIO Fermati Pippetto che è meglio per te!
PIPPETTO Fermateve prima voi e stateme a sentì. Diteme adesso che
m’avete trovo che intenzione averessivo?
DESIDERIO Di romperti il capo e dopo d’andare ipso fatto a raccontare tutto alla sora Rosona.
PIPPETTO (minchionanno) A quell’ignorante?
DESIDERIO Come sarebbe a dire?
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PIPPETTO Manco si nun avessi inteso poco fa, quello che stavio dicenno: A zi Cencio! Per esse che mi madre ve credeva un santificato,
sete invece un vassallone peggio de me. E voi sete quello che me volete dà l’educazione a me. Adesso vado da mamma e je canto tutto.
DESIDERIO Fermati Pippetto per carità, non dirle nulla se no farai la
mia rovina, mi farai morire di fame.
PIPPETTO (Qui te volevo.) Mbè si voi ve state zitto me starò zitto io
puro e si voi parlerete parlerò puro io.
DESIDERIO Ebbene quando vedrò tua madre che mi domanderà di
te cosa mai dovrò dire?
PIPPETTO Che quanno sete arivato a scola l’avete trovata chiusa...
DESIDERIO Benone, benone! E che quindi non posso sapere se voi ci
siete stato. Caro quel Pippetto!
PIPPETTO Simpatico! (se stregneno la mano)
DESIDERIO Sento gente; nascondetevi.
PIPPETTO Manco pe’ gnente. Vienghi puro chi vò venì, l’aspetto.
SCENA VI
Giachimandrea, Antonio, Vittoriona, Tota e Domenicone
TUTTI Pippetto ha ffatto sega!!
PIPPETTO Nun è vero! Chi ve l’ha detto?
TUTTI Er sor Desiderio.
DESIDERIO Cioè piano, l’ho detto per ischerzo ma non è vero. Quando io sono giunto alla scuola l’ho trovata chiusa quindi non posso sapere se Pippetto vi era o non vi era stato.
ANTONIO Già mó nun è più vero, è segno che se sò messi d’accordo.
VITTORIONA Ce vò poco a capillo!
DOMENICONE La cosa è chiara!
TOTA E mó quanno lo saperà vostra madre?
TUTTI L’avete fatta bbona!
PIPPETTO E chi è bono d’annajelo a ridì?
TUTTI Io, io!!
PIPPETTO (ad Antonio) Voi? (je parla piano) Allora io dirò alla sora
Vittoriona che Micchelina v’ha ferito er core.
ANTONIO Che lo sapete?
PIPPETTO È robba vecchia!
ANTONIO Allora accidenti a chi parla. (je dà la mano)
PIPPETTO Semo d’accordo, sora Vittoriona si voi dite a mi’ madre che
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introduzione
io ho fatto sega a scola io dico a vostro marito che Domenicone lo
sbafante v’è cuggino pe’ via che er padre der padre der fratello der fratello der padre vostro insieme cor padre der padre der fratello der padre suo annaveno a scola insieme!
VITTORIONA E come lo sapete?
PIPPETTO Ho studiato drento la radica de la discendenza vostra.
VITTORIONA Ma ve pare sor Pippetto che io faccia la spia a vostra
madre. Ora sorda. Nun sia mai... Ve vojo troppo bene. (l’accarezza)
PIPPETTO Se semo intesi! Papà puro voi e Tota volete annà a ffà la
spia a mamma?
GIACHIMANDREA Noi, ma te pare? ma nemmanco a dillo pe’ ruzza d’annà a mette zizzania in famiglia! Te pare!
PIPPETTO Bravo papà. Adesso che semo tutti d’accordo aricordateve
che Teta dev’esse la mi’ sposa e che la vojo a qualunque costo sinnò ve
metto a tutti sur carro de Checco!14
VITTORIONA Dunque mó che viè Rosona?
PIPPETTO Diteje che nun m’avete visto.
ROSONA (de drento) Giachimo viette a pijà st’impicci che se fa tardi.
VITTORIONA Ecco la sora Rosona. Dateme retta a mme, annisconneteve che ar resto ce pensamo noi.
PIPPETTO Va bbene. (se ritira)
SCENA VII
Quelli de prima e Rosona
ROSONA Regazzi se fa notte, perché nun se n’annamo. Io mó me sò
stufata de stà qui, sbrigamose.
VITTORIONA Annamo puro.
ROSONA A proposito avete visto gnente, don Desiderio?
DESIDERIO Signora!
ROSONA E Pippetto er mi fijo?
DESIDERIO Quando giunsi la scuola era chiusa!
ROSONA Sicché a quest’ora, quer regazzo già se ne starà a ccasa?
DESIDERIO Senza dubbio!
ROSONA Raggione di più pe’ annassene via presto, sinnò quela povera cratura m’aresta a ccasa sola.
MICCHELINA Abbiate pazienza, ma a mme st’annata via così asciut14
«Il carro di Checco», quotidiano romano (1882-1884).
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ta asciutta nun me piace gnente affatto. Pò stà che s’aritornamo a Roma tutti co’ un parmo de muso? Ma via ggente mia, una festa accusì
ricordativa bisogna finilla in piena regola. Bisogna ch’arifamo pace e
che le cose aritornino come staveno prima.
TUTTI Era quello che dicevo io!
ANTONIO Ma certamente.
MICCHELINA Via sora Rosona, presto sor Giachimo dateve la mano.
(l’unisce)
ANTONIO Eppoi noi che ciavemio a che ffà?
VITTORIONA Nun era corpa nostra.
ROSONA Allora nun ce pensamo più!
GIACHIMANDREA Mettemece ‘na pietra sopra!
MICCHELINA Padron Titta portate er vino.
TITTA (porta da beve) Ecco er vino.
MICCHELINA Teta (chiama) Teta viè un po’ ggiù!
ROSONA M’arincresce che mò nun c’è Pippetto sinnò oggi se stringeva ‘sto pangrattato e bonanotte.
MICCHELINA Lo potemo fà puro stasera. Tempo ce n’avemo quanto
ce ne pare.
SCENA VIII
Teta e tutti quelli che c’ereno
TETA Chi me voleva?
MICCHELINA Via date un bacio a mamma, uno a la sora Rosona e
quello ch’è stato è stato. E adesso prima d’annassene damoje de sartarello.
TUTTI Su ballamo er sartarello.
MICCHELINA Allora tutti ar posto. Avanti sonatori mano a li mandolini e cominciamo. (se metteno a ballà er sartarello)
MICCHELINA (da sé) Le cose cominceno bbene, ma bisogna che trovi er modo, d’arestà sola pe’ parlà co’ Pippetto. Mó ce penso io. (chiama) A Tota? Vamme un po’ a pijà un bicchier d’acqua a la funtana.
TOTA Va bene! (se ne va)
MICCHELINA (a Giachimandrea) Sor Giachimandrea m’ha detto Tota che v’aspettava sotto a quella capannella laggiù; vicino ar pozzo.
GIACHIMANDREA Davero!
MICCHELINA In parola! Squajateve e annatela a ttrova.
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introduzione
GIACHIMANDREA Vado subbito. (via)
MICCHELINA (a Teta) Teta va a ddà du’ chiacchiere a Giggi che t’aspetta sotto al pergolato.
TETA E si me vede mamma?
MICCHELINA (a Vittoriona) Sora Vittoria v’ho da dà una brutta
nova.
VITTORIONA Dite puro.
MICCHELINA Vostro marito ha dato un appuntamento a Tota!
VITTORIONA Ah! Scellerato! Me ne sò accorta già da un pezzetto e
indove se lo sò dato?
MICCHELINA Se lo sò dato passato er viale dell’ormi vicino a la grotta. Se ve ciannate a mette in sentinella, vostro marito dovrebbe stà
poco, Tota già c’è ita!
VITTORIONA Si ce l’agguanto li pettino io! (via)
MICCHELINA Avanti regazzi ballamo.
ANTONIO Ma indove se ne sò iti quell’antri?
MICCHELINA Se ne sò iti a spasso pe’ la vigna.
ANTONIO A spasso!
MICCHELINA A spasso, a spasso!
ANTONIO E cco’ cchi?
MICCHELINA Vostra fija se n’è ita pe’ de laggiù cor sor Giggi.
ANTONIO Co’ Giggi?
MICCHELINA Già! E vostra moje co’ Domenicone.
ANTONIO (stordito) Co’ Domenicone?
MICCHELINA L’ho intesi io che se sò dati l’appuntamento passato er
viale dell’ormi vicino a la grotta.
ANTONIO Davero? Oh! poveretto me oggi finisce che commetto quarche pazzia. E indove vado da mi’ moje o da mi’ fija? De qua de llà!
MICCHELINA Annate in mezzo.
ANTONIO È giusto, nun ciavevo pensato. (scappa)
MICCHELINA Semo arimaste sole.
ROSONA Già, che ber modo. Chi lo sa chi j’ha imparato l’educazione.
Squaiasse tutti senza dì né asino, né bestia. Ma poi io vorebbe sapé sí
indove sò iti! (chiamanno) Ah Teta? Ah Giachimo?
MICCHELINA Avete voja a chiamà intanto nun ve senteno. Teta l’ho
veduta laggiù che se n’annava a spasso co’ Giggi e vostro marito co’
Tota.
ROSONA Che me dite? Mó ce penso io. (via)
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SCENA IX
Micchelina e poi Pippetto
MICCHELINA Adesso a me. (chiama) Pippetto, Pippetto.
PIPPETTO Sete sola?
MICCHELINA Sì, diteme la verità. Ve volete sposà davero Teta?
PIPPETTO E me lo domannate?
MICCHELINA Allora nun c’è da perde tempo. Si voi fate come ve dico io, stasera prima d’annà a Roma Teta diventa vostra moje.
PIPPETTO Che volete che facci?
MICCHELINA Dateme quer ritratto che ciavete.
PIPPETTO Pe’ che facce?
MICCHELINA Datemelo e nun ve n’incaricate.
PIPPETTO Ma si poi...
MICCHELINA Nun me lo volete dà? Peggio pe’ voi. Teta se sposerà
un antro.
PIPPETTO None none. Eccheve er ritratto e fate quer che er core ve
spira.
MICCHELINA Bravo Pippetto. Adesso voi nun avete da fà gnent’antro
che annavvene su a l’osteria che adesso quanno ho ffatto tutto ve chiamo io stessa.
PIPPETTO Va bbene. M’ariccomanno a voi.
MICCHELINA Non dubbitate.
PIPPETTO Fate le cose bbene.
MICCHELINA Nun ce pensate.
PIPPETTO Se vedemo! (va nell’osteria)
MICCHELINA Caro Pippetto te servirò propio a dovere, lassa fà a
mme imbecille mio che sei capitato a ciccio. Chi vedo! Aritornano li cacciatori. Me vojo annisconne pe’ sentì che dicheno. (se annisconne)
SCENA X
Antonio, Giggi, Teta, Vittoriona, Rosona, Domenicone,
Tota, Desiderio e Titta
ANTONIO (strascinanno Teta) Annamo ciovetta.
VITTORIONA (strascinanno Giggi) Avanti somaro.
ROSONA Disgraziati.
ANTONIO Brutti boja.
VITTORIONA Rovina casa! (a Tota)
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introduzione
ANTONIO È tutta corpa vostra (a Vittoriona) È lo scannalo che date
a tutta la famija co’ le vostre scappate.
VITTORIONA Ma voi che ve date l’appuntamento co’ le serve.
ANTONIO Ma voi che ve fate trovà intanata co’ li sergenti de la Nazzionale.
VITTORIONA Chi ve l’ha ariccontata ‘sta bucìa.
ANTONIO La sora Micchelina!
VITTORIONA E a me che m’ha dato d’intenne che v’erivo dato l’appuntamento co’ Tota sotto ‘na capanna.
ANTONIO Davero?
TUTTI Puro a me!
ANTONIO Ma dunque ‘sta sora Micchelina è una serpentina che se
diverte a le spalle nostre. Si l’acchiappo sente lei!
TUTTI Indovella, indovella?
SCENA XI
Micchelina e Detti
MICCHELINA Eccheme, eccheme che robb’è?
VITTORIONA Mó ve faremo scontà la burla che ciavete fatto.
TUTTI Noi puro, noi puro!
MICCHELINA Per carità uno pe’ vorta (piano a Antonio). De che ve
lamentate voi de nun avé acchiappata vostra moje co’ Domenicone?
ANTONIO Non dico questo!
MICCHELINA (a Vittoriona) E voi de nun avé trovato sotto ar pergolato Tota co’ vostro marito?
VITTORIONA Nun me n’importava gnente affatto.
MICCHELINA Dunque aringraziateme dello scherzo che v’ho fatto!
GIGGI Ma perché mannamme a spasso co’ Teta.
MICCHELINA Perché ve la sposerete.
ANTONIO Impossibile. Un omo de bottega sposasse la mi’ fija! Ma le
pigne.
MICCHELINA Ma nun sarà più garzone dar momento che diventerà
vostro genero.
ANTONIO Ma nemmanco a parlanne. Ma che ve sete impazzita? E
poi l’avemo promessa a Pippetto. Sarebbe bella che un garzone de bottega sposasse la fija der su’ principale.
MICCHELINA (piano a Antonio) È forse più birbone der principale
che manna certe lettere a le belle regazze? (apre la lettera e legge) Angelo mio, mia moglie è tanto orribile, brutta...
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ANTONIO (spaventato) A me quella lettra.
MICCHELINA (leggenno) Così insopportante...
ANTONIO Zitta per carità.
MICCHELINA Abbasta che date er consenso vostro sinnò... (je mostra
Vittoriona)
ANTONIO Ma prima bisogna sentì mi’ moje.
MICCHELINA E si llei fusse contenta?
ANTONIO Allora sarebbe un antro par de maniche.
MICCHELINA Io sò sicura che la sora Vittoriona in core suo ha già
deciso che ‘sto matrimonio se facci.
VITTORIONA Io?
MICCHELINA (a mezza voce) Che forse ne voressivo domannà un parere a Domenicone?
VITTORIONA Domenicone?
MICCHELINA E de favve restituì un certo ritratto. (je lo fa vede)
VITTORIONA (impaurita) Er ritratto mio?
MICCHELINA Accompagnato da du’ parole tenere tenere «Ar caro
Domenicone la sua Vittoriona»
VITTORIONA È mejo che dichi de sì. (ripija er ritratto)
MICCHELINA ( forte) Ha detto de sì!
TETA Grazie mamma!
GIGGI Grazie!
ANTONIO Piano però, ha detto de sì abbasta che sò contenti puro er
sor Giachimo e la sora Rosa.
ROSONA Ah! Me credevo che a nnoi due ce contassivo quanto er dua
de briscola. Io nun vojo scorno.
GIACHIMANDREA Nemmanco io! Oh! Cattera15.
MICCHELINA (piano a Giachimandrea) E pure si Tota lassasse er servizio de casa der compare e venisse a servì da voi e ve dicesse de contentà Teta, voi ce scommetto che diressivo de sì.
GIACHIMANDREA (Lo sa puro questa.) Ma io cara sora Micchelina,
si Rosona se contenta sò arcicontento puro io. Quello che ffà lei è benfatto.
ROSONA Io me contenterebbe; ma bisognerà vede si quell’anima innocente der mi’ fijo se contenta.
15
«Esclamazione: [...] deriva dal desiderio di dire una sozza parola che principia per ca...
e insieme dalla pudicizia che vuol farla abortire» cfr. G.G. Belli, La scena de Bardassarre, sonetto, nota 6.
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introduzione
SCENA XII
Pippetto e Detti
PIPPETTO (dalla scala) Nun me contento pe’ gnente affatto. Teta ha
da esse mia pe’ forza sinnò metto sottosopra er monno sano.
MICCHELINA Pippetto eppuro ce scommetto che voi ve contenterete.
PIPPETTO Io? Ma nemmanco si me pregassi er papa!
ROSONA Ve l’ho detto che era indificile. Quello nun se contenta manco si l’ammazzate.
MICCHELINA (piano a Pippetto) Va bbene allora dico a mamma vostra che stammatina avete fatto sega a scola e me sete venuto appresso
a me dicennome certe cose...
PIPPETTO No sora Micchelina, nun je lo dite.
MICCHELINA Allora dite de sì!
PIPPETTO Questo mai!
MICCHELINA No, va bene! Signori sappiate che stammatina un certo signorino...
PIPPETTO No, no acconsento, acconsento.
MICCHELINA Bravo Pippetto. Sor Giggi abbracciate vostra moje.
ANTONIO Per esse che era parola da Re.
GIACHIMANDREA Eh! Adesso puro quelle valeno poco, sò in ribbasso. (Tutti rideno)
TUTTI Evvia li sposi!
N. 17 (Finale concertato)
MICCHELINA La promessa che v’ho ffatto
ve l’ho bbella e mantenuta
sò testarda e sò cocciuta!
Je l’ho ffatta o si o no?
GIGGI e TETA Grazie tanto Micchelina
che possi essi bbenedetta
hai giocato ‘sta farsetta
co’ gran arte e verità.
CORO Viva sempre li sposetti
freschi, belli e giovanetti
che l’amore finarmente
ha vorsuto contentà.
Fine dell’Operetta
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LA GUIDA MONACI
Bozzetto popolare romanesco in un atto
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare a stampa (Ceccarius. Dial. IV. 90) conservato nella BNCR:
Giggi Zanazzo, La Guida Monaci. Bozzetto popolare romanesco in 1 atto, Musica del Maestro Valerio Romano, Roma Cerroni e Solaro Editori,
Piazza Colonna, Laboratorio Tipografico di Cerroni e Solaro, 1887.
[Sul verso del frontespizio]: Per la rappresentanzione sia del presente libretto come della musica rivolgersi ai proprietari Sigg. Giggi Zanazzo e
Valerio Romano i quali avendo adempiuto a quanto la legge prescrive si
riservano ogni diritto di riproduzione.
[A pag. 4] Rippresentata pe’ la prima vorta ar Teatro Rossini a Roma er
3 Novembere 1887.
L’opuscolo, pubblicato in occasione della rappresentazione, reca nella tavola dei personaggi i nomi degli attori nell’ordine corrispondente: Romolo Balderi, Vittorio Loré, Giuseppe Ricci, Filippo Ricci, Margherita Massoli, Emma Paccaroni, Agnese Bianchini.
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introduzione
Personaggi
CUCCHIMETTO
MATTEO
BARBETTI
BOMBA
CREMENTINA
LUISA
TOTARELLA
Er fatto succede a Roma
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ATTO UNICO
La scena arippresenta er cortile d’una casa. A ffonno a la scena c’è er portone. A la terza quinta a dritta er principio de le scale. A la prima quinta
a mancina c’è er casotto der portiere co’ la finestra che guarda da la parte
der pubbrico. Li vetri de la finestra cor telarino movibbile. Porta da ‘na
parte.
SCENA I
Crementina poi Luisa
CREMENTINA (entra dar portone) Nummero 4. È propio qui. Che
furtuna che ‘sto benedetto sor Matteo abbi cambiato casa...! Armeno
ce lo trovassi. (bussa a li vetri der portiere)
CUCCHIMETTO (mette la testa fori der finestrino) Chi desiderate?
CREMENTINA Fateme er piacere, c’è a ccasa er sor Matteo?
CUCCHIMETTO È uscito! (chiude er finestrino)
CREMENTINA Uscito? Volevo dí!
LUISA (scegnenno le scale) È un’ora che abbusso a ccasa nun ce doverebbe esse. (bussa ar finestrino)
CREMENTINA Una donna!?
CUCCHIMETTO (dar finestrino) Chi volete?
LUISA Er sor Matteo?
CUCCHIMETTO (co’ le buggere) È uscito! (richiude)
CREMENTINA Ma io si nun me sbajo, ho avuto già er piacere d’incontravve dar sor Matteo?
LUISA Quanno abbitava me pare all’Orso. Sicuro me n’aricordo. E come state?
CREMENTINA Se campa.
LUISA Come è possibbile, io domanno e dico, che er sor Matteo nun
se facci trovà a ccasa all’ora che ariceve?
CREMENTINA Siccome ha sgommerato l’antro jeri, pò esse che incora nun aspetti visite.
LUISA Che brava persona quer sor Matteo. A me m’ha ddetto subbito
ch’ero bbona... donna de casa...
CREMENTINA Che disgrazzia si ‘nun ciaveressimo ‘sto poveretto pe’
consijacce in tante e tante circostanze.
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SCENA II
Luisa, Crementina e Matteo
MATTEO (entranno dar portone) Varda chi vedo! Due de le mi’ poste le
mijore che ciabbi! Scusate tanto si nun me ciavete trovo; ma siccome
nun ho finito d’assestà la robba, nun posso ancora ariceve gnissuno.
LUISA Davero? Ma giacchè semo vienute...
MATTEO Sò all’ordini vostri... Salite puro avanti, quanto dico ‘na parola ar portiere e viengo subbito.
Musica N. 1 (Terzetto)
CREMENTINA E LUISA
L’avvenì-cià da dì
Perchè fa-’st’arte qui
Ma chi sa-si stavorta
Qual’ugurio-ce farà!
MATTEO
L’avvenì - j’ho da dì
Perché fo-’st’arte quì,
Ma chi sa-questa volta
Qual’ugurio-je darò!
Le due donne salischeno le scale. Matteo bussa ar finestrino.
CUCCHIMETTO (furioso) Chi volete? È uscito. (richiude er finestrino)
MATTEO Ma che t’è uscito er fiato? (bussa un’altra volta) Ma sò io er
sor Matteo...
CUCCHIMETTO (mette la capoccia fori der casotto) Er sor Matteo? Ve
dico che è uscito. (richiude)
MATTEO Ma te dico che er sor Matteo sò io.
CUCCHIMETTO (c. s.) Voi?!.. Ah! Già! Abbiate pazienza. Ma dico si
sete voi, allora chi volete?
MATTEO Nessuno. Ve volevo sortanto dì che insino a doppodomani
nun aricevo gnissuno.
CUCCHIMETTO Va bbene, va bbene annate puro. È uscito. Ecco fatto. Da quanno state qua nun dico antro.
MATTEO Manco male che se semo capiti. (salisce le scale)
SCENA III
Cucchimetto poi Totarella
CUCCHIMETTO (viè ffori dar casotto) Vardate che ber modo da trattà er portiere! Sò ccari davero st’appiggionanti. Tratteno er portiere
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come si fussi er servitore loro. Ma ggià da quanno sò vienuti questi1
se ne vedeno de tutte le spece. Quelli de ’sta casa speciarmente sò propio grazziosi. Nun ve guardeno manco ‘n faccia, e pretenneno che uno
je se cacci er cappello, che je se portino su a ccasa le lettre, e poi si ve
danno pe’ Agosto e Natale cinque pavoli è grasso che cola!... Annateve a mette quarche cosa da parte co’ certi avventori... Pe’ fortuna che
io ho trovato er modo pe’ fà quatrini. Un modo ingegnoso e novo.
(caccia da la saccoccia un mazzo de lettre) Eccolo er modo... N’ho fatte adesso propio cinquanta copie.
TOTARELLA (entra dar portone co’ ‘n canestro da lavannara che tiè sotto ar braccio e che posa per tera) Ah ve ciò acchiappato!
CUCCHIMETTO Saettaccie, Totarella!
Musica N. 2 (Duetto)
TOTARELLA Te ciò acchiappato
che si’ mmazzato
cor sorcio in bocca
’sta vorta qui?
Cosa ciai llì
vecchiaccio matto.
CUCCHIMETTO Io, gnente affatto.
TOTARELLA Fa vede a me.
CUCCHIMETTO Sò certe lettre
d’appigionanti;
tutti abbitanti
qua su da me.
TOTARELLA Macché, macché,
io nun ce credo
sotto ce vedo
quarche gran che.
CUCCHIMETTO Credeme, Tota
che nun è gnente
è tutta gente
ch’abbita quà.
TOTARELLA
Allora leggele. E doppo spiegheme lettra pe’ lettra ch’in-
1
Allusione ai nuovi governanti e, in senso ampio, agli Italiani giunti a Roma, ormai
capitale del Regno.
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introduzione
tenne dì. Doppo che ciò la debbolezza de volè bbene a vvoi che nun
sete gnente affatto bbello...
CUCCHIMETTO È vero.
TOTARELLA Che sete vecchio... cucco!
CUCCHIMETTO È vero!
TOTARELLA E che me la fate puro in barba! Nun me volete manco
dì qual’è er mistero de quele lettre.
CUCCHIMETTO Nun è un mistero è un segreto!
TOTARELLA Diteme qual’è ‘sto segreto. Ma già ce scommetto che sò
tutte lettre indirizzate a tutte femminacce.
CUCCHIMETTO A tutte femminacce? Ma pe’ chi m’hai preso? Per
gran surtano!?
TOTARELLA Meno chiacchiere e diteme ‘sto segreto sinnò nun ve
sposo più, e la dota che me dà mi’ zia ve passerà davanti al naso.
CUCCHIMETTO Davanti al naso? Perché je vòi fà fà ‘sta passeggiata
accusì ridicola?
TOTARELLA Allora fateve uscì er fiato!
CUCCHIMETTO Subbito. Totarella: ’ste lettre nun sò lettre d’amore,
infatti vanno tutte a ommini.
TOTARELLA (leggenno) Al signor, signor Cornicchi... al signor, signor
Corneli... al signor Cornu...
CUCCHIMETTO Ferma. Nun leggete quel nome lì... o futura sposa
Cucchimetta; voi ’sto nome nun dovete mai sapello, né mentuvallo.
TOTARELLA Guardamo adesso che c’è scritto in de ‘ste lettre: (legge)
«Signore una persona che vi sta a cuore v’inganna indegnamente. Ella si reca spesso ed in segreto in Via di San Francesco a Ripa n. 4. Il
portiere di questa casa è al corrente della faccenda; se volete degli
schiarimenti rivolgetevi al portiere e mettendogli in mano qualche
cosa potrete farlo cantare». Che significherebbe? Che ve sete messo a
fà la spia. E che v’ha fatto ‘sta povera signora cosa?
CUCCHIMETTO Nu’ la conosco nemmanco!
TOTARELLA Bravo, e tutte ‘ste lettre dunque?
CUCCHIMETTO Lo stesso, medesime parole, medesima scrittura e
medesima ortografia.
TOTARELLA E per che cosa je le mannate?
CUCCHIMETTO Mó ve lo dico. Quanno che ho visto che er posto
de portiere nun dava o, si dava, dava poco e gnente, pensai d’arigiramme er talento pe’ guadambià in quarch’antro modo, e me venne
l’idea de sperimentà un tantinello le noje e li disturbi de la gente accasata.
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e
e
1. introduzione
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TOTARELLA De la ggente accasata?
CUCCHIMETTO Già, è la cosa la ppiù generale, la più sicura, la più
certa.
Musica N. 3 (Aria de Cucchimetto)
Er foco lo smorzeno
li ladri l’aresteno,
e sui parafurmini
saette e furmini
appena che schioppeno
ce vanno a cascà!
Ma poveri sposi,
li tribboli vostri
nun c’è parafurmine
pe’ falli fermà!
Ed è precisamente quello che sto scanajanno. Ciò pe’ pposte tutti li
mariti de Roma; pe’ mercanzia penna, carta e callamaro e oltre a 70.000
indicazzione che stanno stampate su la Guida Monaci e ecco come me
contiengo. Manno la circolare a tutti li mariti e abbasta. Er primo
giorno la leggheno e fanno tra de loro: Macché sò sicuro de mi’ moje!
Nun pò stà! Er giorno appresso la lettra je trotta in der cervello... la
moje l’adora, va matta pe’ lui, ma poterebbe esse che annassi puro
matta pe’ quarchidun’antro. Allora pensa e t’aripensa ce se fissa, e er
terzo giorno capita qui dar portiere; ma siccome er portiere se ne va
dar muto, lui je fa scivolà in mano 5 lire pe’ faje scioje la lingua.
TOTARELLA Ma è un’infamità!
CUCCHIMETTO Anzi è ‘na cosa molta filantropica, perchè una vorta messi d’accordo je faccio svanì le cose che je passeno pe’ la testa, e
je provo che la sposa nun è mai venuta in ’sta casa qui. E er marito
contento come ‘na pasqua, me dà n’antra piastra: ha pagato l’entrata,
m’aripaghi l’uscita! In ’sto modo ce n’ho da ripassammene in rivista
un 25.000 e più, e 25.000 a 10 lire a testa fa 250 mila lire. Ecco la
professione mia, ecco il mio stato, ecco la mia industria. Sfido er commercio è libbero!
TOTARELLA E tutti ‘sti mariti che dite, ce viengheno?
CUCCHIMETTO Tutti. Vado per ordine alfabetico. L’A non c’è male
come m’ha fruttato, er B sta in padella, e fra tre giorni comincio ar C.
TOTARELLA Ma li scapoli come l’ariconoscete?
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introduzione
CUCCHIMETTO Come? Arileggete le lettra.
TOTARELLA (leggenno) «Una persona che ve sta a cuore v’inganna indegnamente».
CUCCHIMETTO Una persona che ve sta a core s’adatta a tutti quanti come un sacco. Tutti ciavemo una persona che ce sta a core. E ce ne
sò puro certi che se troveno assai imbrojati perchè nun sanno si s’hanno da informà de la moje o... de quarcun’antra. Questi qua li fo pagà
er doppio. E ecco come de qui a un po’ de tempo spero de cambiare
stato e posizzione.
TOTARELLA E poteremo fà sapè a mi’ zio Bomba che famo l’amore.
CUCCHIMETTO Ma dunque, ’sto zio Bomba è proprio boja, pe’ nun
aveje mai vorsuto dì che famo l’amore?
TOTARELLA Si sapessi che me sò accaparato un portiere me scannerebbe.
CUCCHIMETTO Vordì che io portiere nun lo suono che momentaneamente. È pe’ lo scanajo der mi’ progetto che ho occupato questo
posto che era vacante.
TOTARELLA A pproposito avete scritto intanto a mi’ zia?
CUCCHIMETTO Sicuro ciumaca mia e che lettra! Senti: (legge) «Signore una persona che vi sta a cuore» no no, me sò sbajato, eccola la
vera: (ne pija n’antra) «Signora voi sete sensibile e bona e voi solo ahi!
purtroppo, averete pietade dell’amor mio... d’un amore infelice che
nascondere io deggio al vostro consorte, a quel cane barbone, poichè
io so che egli lui se ne piglierebbe. Non posso quindi venire in casa
vostra... ma se vi fosse possibile di venirmi a trovare...
TOTARELLA Viè ‘na persona...
CUCCHIMETTO (guarda) Un signore! Doverebbe esse quarche avventore mio... Legge una lettra. È certamente una posta mia. Tu Totarella vattene a portà la biancheria, che er gabbiano me lo lavoro io.
Entriamo nel nostro gabinetto. (entra)
Musica N. 4
(Aria de Totarella)
TOTARELLA Che ber mestiere
da cavajere
che s’è saputo
accaparrà!
È ’n’omo dotto
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1. introduzione
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de gran talento
che co’ ‘sto vento
sòrdi farà!
Apposta me l’ho scerto
e apposta me lo sposo.
Nun è lo so grazioso,
ma ricca me pò fà!
È ’n’omo dotto
de mente granne
che spenne e spanne
in quantità!
(doppo che ha cantato se ne va)
-
-
-
SCENA IV
Cucchimetto e Barbetti
BARBETTI (piagne) Er portiere facci er piacere!
CUCCHIMETTO Sono io signore. Che comandate?
BARBETTI (c. s.) Sor portiere sò propio disgraziato!
CUCCHIMETTO (Ecchene uno che presempio l’ha presa troppo sur
serio.) Che volevio?
BARBETTI (c. s.) Maestro, dico, ciavete moje?
CUCCHIMETTO No grazziadio... E voi a quer che vedo pare de sì.
BARBETTI Sì e credeteme che sò lo specchio de li mariti.
CUCCHIMETTO E volevio?
BARBETTI Viengo per accertamme d’una certa bojeria, che fra tutte
le bojerie è la più boja! E voi sarete quello che me darete er córpo de
grazzia per ajutamme a morì.
CUCCHIMETTO Io? Avete sbajato strada annate ar vicolo der Boja 2.
BARBETTI Nun scherzate, nun scherzate che m’hanno informato bbene.
Voi state in mezzo a le faccenne e mettennove quarche cosa in mano...
(mette la mano in saccoccia)
CUCCHIMETTO (S’è imparato la mi’ lettra a mente).
BARBETTI (caccia er fazzoletto) Voi parlerete nun è vero?
CUCCHIMETTO (mortificato) (Me credevo chi sa che me volesse mette in mano.) Nun so gnente affatto affattissimo, nun capisco nemmanco che ve dite! Sò muto!
2
Vicolo del Campanile a Borgo, chiamato anche così perché al n. 4 c’era la casa del boia.
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introduzione
BARBETTI (piagne) Io ve parlo de’ mi’ moie, che m’ha tradito, che
m’ha...
CUCCHIMETTO Ho capito, ho capito! (se gratta in testa)...
BARBETTI Stammatina è uscita dicennome che annava in chiesa.
CUCCHIMETTO È una scusa che generarmente metteno tutte le donne.
BARBETTI Pe’ nun falla incajà 3 l’ho fatta uscì, ma appena uscita ho
preso ‘na carettella e invece d’annà in pizzicheria...
CUCCHIMETTO Ah! sete...
BARBETTI Lo specchio de li pizzicaroli... e invece d’annà a bottega ho
ggirato tutte quante le chiese... e n’ho fatte trecento... fino adesso.
CUCCHIMETTO E l’avete trova?
BARBETTI Pe’ gnente affatto. Tutte le chiese vote. In tutta stammatina nun c’è stata una messa sentita da una donna.
CUCCHIMETTO Varda che combinazzione. E come l’avete saputo?
BARBETTI Da li trecento sagrestani de le trecento chiese ch’ho girato.
CUCCHIMETTO Gnisuna donna in trecento chiese. E a pensà che in
’sto momento ce saranno in tutta Roma centomila mariti che se dicheno in santa pace: Mi’ moje sta in chiesa!
BARBETTI Già dicheno tutte che ce vanno ma invece nun ce vanno
pe’ gnente. Trappolare! Capirete bbene, sor maestro mio, che ho capito tutto. Io sò tradito, disonorato impennacchiato... Ah! Credete che
me ce sento strugge drento! (piagne)
CUCCHIMETTO Ma via sò cose che, più o meno, succedeno a tutti!
( fra de sé) (Varda come piagne! Ma questo è un sarcio piagnente... è
’na funtana. Bisogna confortallo.) Vediamo, signore, voi me fate pena,
ve vorebbe esse utile, ve vorebbe ajutà, ma nun posso mette in piazza
l’affari de la casa.
BARBETTI Spiegateve mejo, maestro, sta a voi si volete esse ricco!
CUCCHIMETTO Ricco?
BARBETTI Ma sicuro immensamente ricco. Eccheve intanto 5 lire per
vostro incommido.
CUCCHIMETTO (Accidenti a lo spreco! Me c’è voluta un’ala de fedico pe’ cacciajeli fora.)
BARBETTI Voi la conoscete mi moje, è vero? Sciallo rosso, occhi neri,
pelle bianca, abbito viola capelli castagnacci...
CUCCHIMETTO ‘Sti connotati sò esatti?
BARBETTI Esattissimi. Ce viè spesso qua?
3
Incajasse: accorgersi (cfr. Chiappini).
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o
1. introduzione
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CUCCHIMETTO Mai!
BARBETTI Mai?
CUCCHIMETTO Mai in parola da galantuomo. E perché volete che
vienghi! In tutta la casa nun ciavemo antro che du’ ommini.
BARBETTI Ma due abbasteno e avanzeno!
CUCCHIMETTO Sicuro! Ma uno viaggia da un anno, e un antro è
partito pe’ l’antri carzoni4 da du’ mesi!
BARBETTI Davero? Nun m’ingermate5?
CUCCHIMETTO Ingermavve? Ma pe’ chi m’avete preso? Credemme
capace d’una cosa simile a me? Ah! Signore (piagnenno) Ah! Signore
che acuta ferita che m’avete fatto! Ripijateve puro quello che m’avete
dato... nun vojo più gnente...
BARBETTI Ma levateve fateme er piacere! E anzi ecchevene un’antra
de piastra perchè m’avete propio rimesso ar monno.
CUCCHIMETTO Infatti se vede da l’aspettito.
BARBETTI Eppoi adesso che ce penso, me sò scordato la chiesa de S.
Maria in Cacaberis6. Doverebbe esse ita llà. Scappo a S. Maria in Cacaberis. (esce)
CUCCHIMETTO Signore, dico signore, come se chiama?
BARBETTI (ritorna addietro) Io? Barbetti Pasquale a li suoi commanni!
CUCCHIMETTO Va bene sor Barbetti nun serve antro. Arrivederla.
BARBETTI Addio. (va via de prescia)
SCENA V
Cucchimetto poi Bomba
CUCCHIMETTO (va ner casotto e porta fori la Guida Monaci) Vediamo, vediamo Barbetti... (cerca in del libbro) Barbini, Barbuti,
Barbati, Barboni!.. Ah! Barbetti (pija l’apise e scrive) Barbetti p che
vordì pagato. Ossia contento e minchionato. (vedenno Bomba che
cerca er nummero der portone) Un’antra persona... doverebbe esse
un’antra posta certamente... famo vede che nun l’aspettamo. (se ne
va in der casotto)
4
Annà a l’antri carzoni: andare all’altro mondo.
Ingermà-inciarmà: incantare, ammaliare, dal francese charmer (cfr. Chiappini).
6
Antico toponimo che deriva dalla presenza nella zona delle botteghe di calderari fabbricanti di catini e vasi in rame, in latino cacabera. La chiesa fu demolita nel 1881 quando fu tracciata via Arenula. Se ne conserva tuttavia il nome nell’omonima strada, via di
Santa Maria dei calderari.
5
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introduzione
BOMBA (furioso) Dunque è qui! La rabbia me se magna! Arileggemo!..
accusì me finisco d’arabbià.
CUCCHIMETTO (guardanno dar finestrino) Bravo! S’aripassa la mi’
circolare... leggi, leggi bon’omo «Signore, una persona che vi sta a cuore v’inganna indegnamente...»
BOMBA (leggenno) «Signora voi sete sensibile e bona e voi solo ahi purtroppo! averete pietade...» Pietede? Te le vojo dà io du’ pietade in der
sedere. Seguitiamo...
CUCCHIMETTO Bravo! Seguita!
BOMBA «Pietade d’un amore infelice che nascondere io deggio al vostro consorte, a quel cane barbone... poiché io so che egli lui se ne piglierebbe... Nun posso quindi venire in casa vostra, ma se vi fosse possibbile di venirmi a trovare...»
CUCCHIMETTO Quanto ce mette! Eh sbrighete «Ella si reca spesso
e in segreto...»
BOMBA E me chiamo Toto Cucchimetto...
CUCCHIMETTO «Via de S. Francesco a Ripa n. 4»
BOMBA Via de S. Francesco a Ripa n. 4!
CUCCHIMETTO Là presentiamoci. (viè su la porta) Chi domanna signore?
BOMBA Pst! Portiere viè qui! Viè qui! Pst!
CUCCHIMETTO (maravijato) Come?
BOMBA Accostete e parla!
CUCCHIMETTO Nespole!
BOMBA Parla te dico o te sotterro!
CUCCHIMETTO (spaventato) Eh!... parlo, parlo! (Viva la faccia del
sarcio piagnente!)
BOMBA (Damoje 5 lire.) Fatte uscì er fiataccio, ma pe’ me solo.
CUCCHIMETTO Sottovoce, parlamo puro!
BOMBA Lei me tradisce lei, me disonora!
CUCCHIMETTO Chine?
BOMBA Lei m’ha lassato stammatina co’ la scusa d’annà in chiesa.
CUCCHIMETTO (Puro quest’antra.) Infatti la scusa de la chiesa è ‘na
scusa commida.
BOMBA Ma io li scannerò tutti e due. A che piano sta er su’ comprice?
CUCCHIMETTO Er su’ comprice! Nu’ lo conosco!
BOMBA Ma corpo d’un tono, lo conosco io... pija la lettra; se chiama,
se chiama...
CUCCHIMETTO (da sé) (Cerca er nome in de la mi’ circolare...)
BOMBA Ah! Se chiama...
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1. introduzione
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SCENA VI
Barbetti, Cucchimetto e Bomba poi Crementina e Luisa
BARBETTI Nun ce l’ho trova!
BOMBA ( fra sé) (Nun ce l’ha trova?)
BARBETTI Nun c’erano antro che du’ vecchi, un gobbo e ‘no stroppio
drento la chiesa... j’ho domannato er nome nun ereno lei, e desoprappiù stammatina come in dell’antre chiese nun c’è stata una donna!
BOMBA (Una donna.) Cercate una donna?
BARBETTI Sicuro, una donna che aveva detto a su’ marito che annava
in chiesa.
BOMBA (Come la mia.)
BARBETTI Ma in chiesa nun c’è ita manco pe’ gnente.
BOMBA (Come la mia!)
BARBETTI Ma nun sa quela disgrazziata che su’ marito é venuto in
chiaro de tutto.
BOMBA Er fatto mio!
CUCCHIMETTO Questo mó se crede che sii su’ moje.
BOMBA Doverebbe esse lui er boja!
BARBETTI E che si la trova l’ammazza tutti e dua!
BOMBA L’ho ddetto e l’ho ggiurato!
BARBETTI Che dite?
CUCCHIMETTO Ve sbajate!... se sbaja... se sbajano tutti e tre.
BOMBA Lasseme, lasseme che è llui propio!
BARBETTI Sarebbe gnente lui quel figurino.
BOMBA Sicuro, sò io, sò io. Areggeteme che sbotto!?
CUCCHIMETTO Ma no, ma (se mette de mezzo). Stateme a sentì...
BARBETTI Va’ via de qua.
BOMBA Indietro portiere der diavolo! (se pieno per collo)
CUCCHIMETTO Annatevene all’inferno! Va a fà bbene all’asini! Ve
volevo fà capì che ve sbajate... (Bomba e Barbetti se lasciano annà) e
che invece de du’ rivali sete du’ co... du’ compagni de sventura e voi
m’accommodate... in ‘sto modo. (insegnanno Barbetti) ’Sto signore cerca su’ moje come voi cercate la vostra.
BOMBA Ma pò sta?
BARBETTI Ma potrebb’esse?
BOMBA Sarebbe per mille diavoli possibile?
CUCCHIMETTO Certamente. E de soprappiù le vostre moje sò innocente e pure come un bicchier d’acqua!
BARBETTI Ma la lettra ch’ho ricevuta è chiara.
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introduzione
BOMBA Puro la mia.
CUCCHIMETTO Quarche brutto scherzo de quarche matto... e la
prova ve la do io, dicènnove che io ve lo giuro che mai e poi mai le
vostre du’ moje hanno messo er piede dentro a ’sto portone.
BOMBA Ma dunque Luisa mia sarebbe innocente?
BARBETTI Puro Clementina mia sarebbe una santa?
CREMENTINA (de dietro) Addio, signore.
BARBETTI Saette e furmini!
CREMENTINA (c. s.) Addio, se vedemo!
BARBETTI La voce de mi’ moje!!
LUISA (c. s.) Nun v’incommodate, annate puro.
BOMBA Corpo de mille bombe all’Orsini.7 La voce de Madama Bomba... Ah! La rabbia m’acceca! Se sarvi chi pò! (Crementina scegne le scale e esce dar portone)
BARBETTI A quell’omo mio areggeteme che me sento morì! (casca fra
le braccia de Bomba)
CUCCHIMETTO Io puro me sentirebbe voja de fà antrettanto.
BOMBA (a Barbetti) Dico quell’omo... quell’omo...! (Luisa scegne le scale e esce de prescia dar portone). Che vedo! Luisa... Luisa!
CUCCHIMETTO Sì! Puro Luisa!
BOMBA Ma state su un po’!... Io bisogna che je corra appresso, e je vojo
fà una pubbricità in pubbrica Trestevere. (lo lascia e Barbetti casca per
terra) Scappo. (se sente er rumore di una carettella che s’allontana) Troppo tardi, troppo tardi!... Ma me l’anno da pagà sangue der naso! Tutt’e
dua! Lo conosco quell’infame! So er nome e qui l’aspetto!
BARBETTI (piagnenno) Ah! Quanti pianti m’avrò da fà! (esce)
BOMBA Sento proprio er bisogno de fà trentacinque o quaranta sanguigne a quarchiduno! (esce)
SCENA VII
Cucchimetto poi Matteo
CUCCHIMETTO Erano le moje de loro!... Varda che combinazzione...
faccio venì co’ la mi’ circolare ‘sti du’ mariti in de la casa indove le loro metà cianno proprio davero un contrabbarino... Ma per chi diavolo ce viengheno? Lo saperò!... Ma intanto la mi’ trovata me mette in
7
«Bombe all’Orsini»: espressione che fa riferimento alle bombe usate da Felice Orsini
nell’attentato a Napoleone III (1858): bombe micidiali con innesco a fulminato di mercurio riempite di chiodi e pezzi di ferro.
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1. introduzione
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belli pasticci... ’Sta faccenna de stammatina puzza de corte d’Assise
un mijo lontano. E sò arrivato ar B. Quanno sarò arrivato ar Z. Ah!
Guida Monaci Guida Monaci.
MATTEO Quele du’ donne sò uscite?
CUCCHIMETTO Chi desiderate?... Ah! scusate nun v’ariconoscevo.
MATTEO Sò venuto a ricommannavve da nun fà salì su da me antro
che quelle du donne che sò uscite.
CUCCHIMETTO Viengheno su da voi?
MATTEO Sì, viengheno su da me!
CUCCHIMETTO Davero? E me dichi un po’ Matteo ma quelle du’
donne ce viengheno in segreto?
MATTEO Ner più gran segreto!
CUCCHIMETTO Siccome l’ho viste riuscì tutte sospettose...
MATTEO Pe’ forza!
CUCCHIMETTO E staveno tutte e due insieme su da voi?
MATTEO Ma sicuro!
CUCCHIMETTO E nun ve ne vergognate de quello che fate?
MATTEO Vergognammene? Ma io faccio er commido mio, non ho
messo la socera. E anzi v’ariccommanno fino a quarch’antro giorno
d’arimannà via tutte l’antre donne che me vieranno a cerca.
CUCCHIMETTO Tutte l’antre? Ma che er signore è solito d’aricevenne assai?
MATTEO Sfido! Puro cento ar giorno! Magara ce vengheno.
CUCCHIMETTO (se lo guarda poi dice tra de sé) Puro cento ar giorno.
A la larga!
MATTEO Che ve fa caso?
CUCCHIMETTO A me? Anzi! (Puro cento ar giorno... e poi dicheno
de li mandrilli.) Ma dico e nun avete paura de li mariti?
MATTEO Li mariti? Macché! Lo so che in generale poco ce tiengheno...
CUCCHIMETTO Poco ce tiengheno? (Cento ar giorno! E come diavolo farà? Eppuro sta grasso e colorito.) Eppuro stammatina qua ce
n’ereno massicci e grevi pe’ davero che staveno a fà le poste a le loro
metà.
MATTEO Diavolo! Li mariti de quelle donne? Nun fa gnente l’annerò
a trova!
CUCCHIMETTO ( fra de sé) L’annerà a ttrova? ( forte) Come, l’annerete a trova?
MATTEO Ma sicuro, faccio sempre accusì.
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introduzione
CUCCHIMETTO (fra de sé) (Bisogna che abbi inventato quarche porveretta pe’ carmà er rosore de li mariti... questo è un secondo Cajostro).
MATTEO Sortanto cerco de nun fà scandali... perchè a divvela papale
papale nun m’hanno dato incora er brevetto.
CUCCHIMETTO (Er brevetto pe’ ingermà li mariti?) Ah! Ma questa
é troppo grossa!
MATTEO Perché?
CUCCHIMETTO Nun ve lo daranno mai!
MATTEO Nun se pò avé... ma a quarcuno però j’è stato dato.
CUCCHIMETTO Aibbò!
MATTEO J’è stato dato, ma sotto un’antra nomina, beninteso.
CUCCHIMETTO Sfido nun ce metteranno mica signor Matteo; lo
credo bbene!
MATTEO Se sa! Generarmente è un brevetto come li permessi che danno a li fotografi... Come l’aveva accordato Pio IX a la bbona memoria
der maestro mio.
CUCCHIMETTO Come, er papa accordava certi brevetti? Lui... ah
Pio IX, Pio IX!
MATTEO Anzi, vojo annà a l’ufficio pe’ procurammene uno puro io...
Se vedemo! (esce dar portone)
SCENA VIII
Cucchimetto, Totarella poi Luisa
CUCCHIMETTO Io aresto intontito! Io resto de sasso! Io nun sò più
io! Nun ce sò più Cucchimetti! Che tempi. Ma già da quanno che sò
venuti questi nun me fa gnente specie! Che tempi!
TOTARELLA (entra dar portone) Èccome... adesso sarete contento...
me sò portata mi’ zia insieme co’ me!
CUCCHIMETTO La zia? Mejo così. Armeno ’st’arispettabile signora
me farà passà quarche cosa che me gira pe’ la testa. Indov’ella questa
venerabbile zia?
TOTARELLA Sta paganno er vetturino... Eh! È pratica de ‘sta casa, c’è
stata tante volte.
CUCCHIMETTO Gia c’è stata?
TOTARELLA Si, ma no pe’ voi, manco sa che ce sete, eccola vardà.
(entra Luisa)
CUCCHIMETTO Signora (guardandola)... io... ciò. Dio!
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LUISA Che v’ è successo?
CUCCHIMETTO Ah! cielo di Dio!
TOTARELLA Ma che avete?
CUCCHIMETTO Ah! Dio del cielo! Quello che ho? Scusateme, signora, senza complimenti, voi sete stata qui stammatina?
LUISA Ma sicuro!
CUCCHIMETTO Al terzo piano?
LUISA Che m’avete vista?
CUCCHIMETTO E manco sò stato solo. Averessivo fatto mejo d’annisconnevve de più!
TOTARELLA Co’ che aria je lo dite? Tutt’assieme che ha fatto poi de
male?
CUCCHIMETTO Come voi puro sapete?
TOTARELLA Ma si! Mi’ zia m’ha confessato tutto... nun è forse una
cosa naturale? È una debbolezza che ce l’ha fatta venì.
CUCCHIMETTO Una cosa naturale? Una debbolezza? La chiama
una debbolezza! Scusate, me ce vojo riccapezzà! La mi’ regazza trova la cosa naturale, la zia cià certe debbolezze, e er sor Matteo che
sta aspettanno er brevetto... O io sò matto! oppuramente questo e
un insogno!
LUISA Ma sor Cucchimetto mio, sò cose che succedono tutti li giorni
e gnissuno ciabbada più?
CUCCHIMETTO Già, nun me fa gnente specie! Da quanno che sò
entrati questi se ne vedono e se ne sentono...
LUISA E quanno puro voi ve sarete ammojato vostra moje farà come
l’antre...
CUCCHIMETTO Mi’ moje? Dio ne guardi! È vero Totarella mia che
nun è vero?
TOTARELLA Che gnente v’arincrescerebbe?
CUCCHIMETTO E me lo domannate?
TOTARELLA Pe’ divve la verità, ho trovo la cosa tanto innocente, che
ho pregato mi’ zia... anzi si voi...
CUCCHIMETTO Io? Che?...
TOTARELLA Si voi me date er permesso d’annamme a consijà un tantinello dar sor Matteo?
CUCCHIMETTO Puro lei! Ma dunque quer diavolo l’affattura? Doverebb’esse un fattucchiere quel demonio dell’inferno. Tota ve provibbisco de montà un solo scalino de quela scala...
TOTARELLA Me lo provibbite?
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introduzione
CUCCHIMETTO Ma disgraziata! Un abisso ti aspetta su al terzo
piano.
TOTARELLA Ma voi sete matto! E siccome io nun sò ancora vostra
moje e voi nun me potete commannà, io ciannerò ciannerò, ciannerò!
Musica N. 5 (Terzetto)
TOTARELLA Ciannerò – pe’ dispetto.
Ve l’ho detto - e lo farò
LUISA Ciannerà – pe’ dispetto.
Ve l’ha detto - lo farà.
CUCCHIMETTO Ma viè qua - nun ciannà.
Ma te pare - che pò stà.
LUISA e TOTARELLA Vecchio matto - dispettoso
e bavoso - che non più!
CUCCHIMETTO (trattenendola) Alò fermete
resta giù
e lassù
nun ciannà.
TOTARELLA (cerca d’ annassene) No, lassateme
vado su
io quaggiù
nun ce sto!
Luisa e Tota vanno su pe’ le scale.
CUCCHIMETTO Dio de li Dei che m’è toccato a vede! Oh!
sposi; oh! mariti miei confratelli!
SCENA IX
Bomba e Cucchimetto
BOMBA ( furioso) Nun è ancora aritornata!
CUCCHIMETTO Ecco l’amico Bomba che sputa veleno! Er zio de la
mi’ regazza... Benone! Lo vojo scatenà addosso a Matteo. Sor Bomba!...
BOMBA Nun ho ancora potuto mette l’ogna addosso a quella boja; ma
me vojo vennicà cor compare!
CUCCHIMETTO Bravo, bene!... E gnente misericordia gnente pietà...
Nun c’è da perde tempo! È l’omo er più boja de la terra!
BOMBA Ma metteteve puro in pace che ammazzà l’ammazzo. Indove
scappa? Pe’ ‘ste mane ha da morì.
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1. introduzione
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CUCCHIMETTO Bravo, perdína8! Vendetta tremenda! Giuramo de
scannallo o vivo o morto.
BOMBA ( furioso) Ah! Cucchimetto, Cucchimetto!
CUCCHIMETTO (indiferente) Comanda?
BOMBA Cosa?
CUCCHIMETTO M’avete chiamato!
BOMBA Ma no, io ho detto: Cucchimetto, Cucchimetto!
CUCCHIMETTO Embè: ah! Cucchimetto, Cucchimetto. Me chiamate e io v’arisponno!
BOMBA Voi?... Ve chiamate Cucchimetto?
CUCCHIMETTO Me chiamo Cucchimetto.
BOMBA Cucchimetto Antonio?
CUCCHIMETTO A li su’ commanni!
BOMBA Ah! Corpo d’una bomba! Lo sai chi sò io? Sò Bomba, er marito de Madama Bomba che mi ha tradito pe’ causa tua.
CUCCHIMETTO Io!
BOMBA Un’arma, una spada, un fucile, una pistola, uno spido! Ce l’hai
un’arma tu?
CUCCHIMETTO Io ve posso dà un par de forbice!
BOMBA Te vojo assotterrà! Perché sei un brigante, scellerato, un assassino! Perché finalmente sei tu che hai scritto quella lettra; e io bisogna
che t’ammazzi subito.
CUCCHIMETTO (impiantato) Dico, nu’ lo potressimo arimette a n’antra circostanza? Perché ecco, nun nego d’avé scritto quela lettra lì, ma
bisogna che sappiate che è un affare de commercio, una bbona speculazzione.
BOMBA Una speculazione? Ma io aresto maravigliato de nun avello
incora scannato!
CUCCHIMETTO E io ve ne faccio li mi’ rallegramenti.
BOMBA Finimola. Tu adesso me vierai appresso e nun te lascio finchè
o tu o io non resti morto.
CUCCHIMETTO Ma nun sarebbe mejo a rimettello a oggi? Doppo
pranzato; a stommico pieno...
BOMBA Tu dunque hai paura, vile...
CUCCHIMETTO Ma sicuro ch’ho paura.
BOMBA E me mettevi su pe’ vennicamme?
CUCCHIMETTO Pe’ vennicavve sí, ma contro er su’ comprice!
8
Esclamazione.
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introduzione
BOMBA Ma si er comprice sei tu?
CUCCHIMETTO Io?
BOMBA Tu!
CUCCHIMETTO Io? Ma annate! V’ho scoperto l’artarino, ma non
v’ho ddetto chi era er prete.
BOMBA Chi era er prete? Ma dunque chi è?
CUCCHIMETTO Ce vo tanto? Ecchelo perdìna! (se mostra Matteo)
SCENA X
Gli stessi e Matteo
BOMBA Lui? El sor Matteo?
CUCCHIMETTO (Lo conosce.)
MATTEO Uh! Varda chi se vede, e1 nostro caro Bomba!
CUCCHIMETTO (Come sò nemmichi, se saluteno, se danno er cinquanta.)
BOMBA Bongiorno, bongiorno sor Matteo!
CUCCHIMETTO (Caro sor Matteo!)
MATTEO Com’ è che state tutto aggitato?
BOMBA Perché? Perché ho scoperto un macchiavello, una trama contro la pace de casa mia!
MATTEO Possibbile?
CUCCHIMETTO (Je l’aricconta e lui se ne meravija?)
BOMBA Ma ho scoperto tutto... Quela disgraziata de Luisa me tradisce, e pe’ ‘sto miserabile portiere.
MATTEO Davvero?
CUCCHIMETTO Nun je date retta...
BOMBA Sst! S’è azzardato de scriveje ‘na lettra d’amore e lei è vienuta
qui a l’appuntamento.
CUCCHIMETTO A lei?... D’amore?..
BOMBA ( furioso) Già te!
CUCCHIMETTO Adesso ho capito perchè sete inquieto, voi avete aricevuto quela lettra e ve sete creso che era pe’ vostra moje, e siccome
lei veniva in segretezza a casa der sor Matteo.
MATTEO (je fa segno de stasse zitto) Sst! Sst!
CUCCHIMETTO L’aridìco già, in segretezza dar sor Matteo. M’avete
incolpato a me er futuro marito de vostra nipote! Perché finalmente
‘sta lettra ve l’avevo scritta apposta pe’ domannavvela pe’ sposa.
BOMBA Pe’ sposa mi’ nipote!
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n
1. introduzione
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CUCCHIMETTO Già vostra nipote... che je volevo bbene prima che
er sor Matteo me l’ingermasse, come ingerma tutte l’antre.
BOMBA E mi’ moje annava dar sor Matteo?
MATTEO Sicuro veniva da me in segretezza.
CUCCHIMETTO (E je lo dice in faccia!)
BOMBA Ah sor Matteo, m’averebbe da inquietà assai co’ voi.
CUCCHIMETTO (Ma certamente.)
MATTEO Sarebbe tempo perso... via caro sor Bomba siate un po’ più
bbono... mica poi è un delitto...
BOMBA Nun dico questo, nun dico questo. Certamente io nun sò un
marito ridicolo...
CUCCHIMETTO (E come te lo doma.)
MATTEO Le visite che me fanno ‘ste donne nun fanno mica danno a
la pace de casa.
BOMBA Per questo lo so, lo so!
CUCCHIMETTO (L’ha bello che addomato. È fatta.)
BOMBA Er torto che cià mi’ moje è de nun avemme chiesto er permesso.
CUCCHIMETTO (Je l’avrebbe dato). Je l’avressivo dato eh sor Bomba?
BOMBA Ma certamente, su quarche cosa de la moje bisogna passacce
sopra...
CUCCHIMETTO (Ciarisemo via. Ariecco li nimmi9 che ricominceno.)
SCENA XI
Barbetti, Clementina e Detti
BARBETTI (entra sotto al braccio a Crementina) Ah! Eccolo!
CUCCHIMETTO (Ariecchete er salice piagnente!)
BARBETTI (alegro) Signori, ho l’onore de salutarve!
CUCCHIMETTO (Nun piagne più.) Ve sete consolato?
BARBETTI Ma sì, ma sì! Subbito che ho saputo che mi’ moje annava
a casa del sor Matteo...
CUCCHIMETTO E ‘sta cosa v’ha rimesso er core in pace?
BARBETTI Antro che in pace! Sò abbituato a mi’ moje de levajela da
la testa ‘sta piccola fantasia.
9
Nimmi: enigmi. La parola, non presente né in Chiappini né in Ravaro, è attestata nel
sonetto di Giuseppe Gioachino Belli Er zor Diego acciaccatello del 26 maggio 1837, al
v. 7, e che Belli spiega in nota con “enimmi”).
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introduzione
CUCCHIMETTO E va bbene! Benone! Benissimo!
CREMENTINA Ma voi intanto v’erivo creso... brutto...
BOMBA Come io m’ero insospettito de mi’ moje.
BARBETTI Mettemoce ’na pietra sopra! Dar momento che saperemo
che era lui nun se ne parli più... A proposito, caro amico, ve do ‘na
bbona notizia... quell’amico m’ha mannato a bottega er brevetto che
aspettavio. Eccolo!
CUCCHIMETTO (Er brevetto).
MATTEO Finalmente poterò esercità liberamente e in santa pace!
CUCCHIMETTO (Oh! Er guverno, er guverno!) Che tempi! Che gente questi! Che gente!
MATTEO Adesso la mi’ fortuna è fatta!
CREMENTINA A proposito me sovviè che co’ lui ciavemo da regolà
un certo conticino. Paghelo Barbetti.
BARBETTI Eccheme qua. (pija li quatrini)
CUCCHIMETTO (Lo paga puro! Ah! ah! ah! me ce vojo fà poche risate).
BARBETTI Quant’è?
MATTEO Dodici lire.
BARBETTI Dodici? Ah! Già, perchè mi’ moje paga ogni mese...
CUCCHIMETTO (È puro abbonata! Ah! ah! ah!)
SCENA XII
Luisa, Tota e Detti
LUISA (scegne le scale co’ Tota e dice a Matteo che je viè davanti) Ah! Eccheve qua sor Matteo. V’avevo aspettato poco io e mi’ nepote... (vede
Bomba) Mi’ marito?..
TOTARELLA Mi’ zio?
LUISA Adesso ho capito... me sete venuto appresso pe’ famme le poste?
BOMBA Io? Pe’ gnente affatto... ( fra sé) (Nun je dimo gnente del sospetto). Sò venuto a informamme der futuro sposo de vostra nipote.
LUISA E je date la dote?
BOMBA Sicuramente.
CUCCHIMETTO Ciovè, ciovè... c’è sortanto ‘na piccola dificortà!
TOTARELLA Che gnente gnente ancora l’avete con me?... Via su sete
bbono, e ve prometto che nun lo farò mai più...
CUCCHIMETTO (Basta a falle ’na vorta sola quele cose llí).
TOTARELLA Intanto quello che volevo sapé l’ho saputo. Siccome er
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sor Matteo nun veniva, avemo trova aperta la cammera sua, semo entrate, e mi’ zia m’ha fatto le carte lei in persona.
CUCCHIMETTO Come? Scusate le carte?... (a Matteo) Ma come, voi
fate le carte e dite la ventura a le regazze?
MATTEO E insino a qui de che avemo parlato?
CUCCHIMETTO Ma varda er destino! Gente mia scusateme. Ve chiedo millanta scuse...
LUISA Ma che v’erivo creso dunque?
CUCCHIMETTO Io? Gnente, ero matto!... Totarella io me te sposo e
rinunzio al mi’ progetto. L’onestà de le donne è tale e quale a un rivorvero, nun bisogna scherzacce tanto. (ar pubblico) E si fra tutti ‘sti
signori a le vorte ce fusse quarche A o quarche B che avesse ricevuto
la mi’ circolare nun vienga a parlà col portiere perché nun ce lo troverebbe più, prende moglie e mette tanto de catenaccio.
Musica N. 6 (Finale concertato)
TOTARELLA Si mai per caso
gente mia care
la circolare
ve capitò,
presto stracciatela
a pezzettini
e poi buttatela
presto a brucià;
e risparmiatece
la vostra collera
nun ce fischiate
per carità!
TUTTI Risparmiatece - la vostra collera.
Non ce fischiate - per carità.
Fine del bozzetto
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L’AMORE IN TRESTEVERE
Scenetta originale in dialetto romanesco
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1. introduzione
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare a stampa conservato nella BA. Misc. B. 383:
Giggi Zanazzo, L’amore in Trestevere. Scenetta originale in dialetto romanesco, Roma, Cerroni e Solaro Editori, Piazza Colonna 358, Corso V. E.
26 – Via del Corso 219, Laboratorio Tipografico di Cerroni e Solaro,
1888.
[Nel verso del primo occhiello:] Proprietà letteraria dell’autore. [Nel verso
del frontespizio:] Rappresentata per la prima volta in Roma nel Teatro Rossini la sera di Venerdì 2 Dicembre 1887, alla presenza di S. M. la Regina
d’Italia e di S. A. R. il Principe di Napoli, nell’Accademia data da Giggi
Zanazzo a beneficio dell’Infanzia Abbandonata, sotto il protettorato di S.
E. Don Fabrizio Colonna Principe d’Avella.[Dedica nel secondo occhiello:] A la Sora Agnesa Bianchini che la parte de Nina recitò a pennello.
L’opuscolo, pubblicato in occasione della rappresentazione, reca nella tavola dei personaggi anche il nome degli attori: Agnese Bianchini, Giggi
Zanazzo.
Altra stesura nell’esemplare: BA. Ms 2414. Un quaderno di 8 cc. (mm
333x230), composto da 4 fogli rigati e raccolto tra 2 carte di guardia.
Cc. 477-484: le ultime 4 cc. bianche.
Calligrafia autografa.
A c. 477, in alto a sinistra prima del titolo, annotazione a matita di altra
mano: «già rappresentata e in repertorio».
Tra le due redazioni si è scelta quella pubblicata dallo stesso autore. Delle
varianti più significative si dà notizia in nota.
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introduzione
Personaggi
NINA
GIGGI
LA MADRE DE NINA, che nun se vede ma se fa sentì1.
Er fatto succede come ar solito a Roma diversi anni addietro (mó semo nell’88)2.
1
2
In BA. Ms 2414 (poi sempre Ms): Una voce di dentro.
Ms: non è presente questa didascalia.
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1. introduzione
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SCENA UNICA
Una piazzetta de Trestevere, a sinistra der pubblico una scaletta che va sur
un mignano.3 Se sta ppe’ ffà notte.
Ammalappena s’arza er telone se sente de drento la casa Nina che canta
‘st’aritornelli.
Fior de bambace
in cielo c’è ‘na stella ch’ariluce:
sarà l’amore mio che vò ffà ppace.
Quanti sò belli l’ommini moretti,
e specialmente quelli ggiuvenotti,
ve fanno innamorà li soli occhietti.
Rosa indorata;
evviva la RIGGINA MARGHERITA,
UMBERTO PRIMO4 e tutta la su’ armata
Giggi solo poi Nina
GIGGI (vestito a la carettiera5 in der vienì in scena dà una smicciata a la
casa e ppoi fischia, ma siccome nun j’arisponne gnisuno arifischia ’n’antra vorta; Nina séguita da drento a cantà; Giggi fa ‘n’atto de rabbia e
s’appoggia ar parapetto der mignano – un po’ de pavusa – poi arifischia)
NINA (s’affaccia ar mignano tutta indiferente e guardanno Giggi je fa)
Ah! Sete voi?!
GIGGI (tra de sé) Oh! Manco male che je l’ha fatta!
NINA (scegne la scala piano piano. Se danno ‘na bbona guardata tutt’e
ddua senza disse gnente poi Nina fa) E che nova da ‘ste parte? Me credevo propio da nun vedevve ppiù! Già m’ero data er core in pace.
GIGGI Averessivo fatto bbene. Accusì avevo da fà ppuro io; ma quanno qua ddrento (insegna er core) uno ce se sente qualche cosa, ce se
sente; abbasta lo so io, lo so, nu’ le pò abbozzà certe bbojerie!
3
Balconcino.
Il maiuscolo è del testo. Ms: non sono presenti i ritornelli.
5
Ms: a la paina.
Paino: Bellimbusto, elegantone.
4
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introduzione
NINA (sminchionata 6) Davero? Sò bboni li facioletti?
GIGGI Già, perché certe lettre accusì fulminante come questa (caccia
‘na lettra) nun se manneno de punt’in bianco a un ggiuvenotto come
che mmene; a un carettiere de professione7! E aricordateve che io sò
un ragazzo che ssi ppe’ fortuna ce potessi avé tutti li sordi che bbutto
a mezze fojette che pago a l’amichi a ‘st’ora ciaverebbe quarche ppiastra e quarche ppiastra da parte!
NINA (sminchionata 8) Mejo pe’ vvoi! Sbrigateve che mi’ madre sta a
mmette a lletto quele crature e si nun sia mai viè de llà e nun me ce
trova se pò inquietà! Diteme che ve s’è sciorto!
GIGGI A mme? gnente! Ve volevo sortanto aribbatte l’affare de la lettra, e de favve considerà da voi si ssò queste le lettre da mannasse a un
giuvenotto come che mmene. A vvoi, rileggetela bbene e dditeme che
ve ne pare!
NINA Io nun ciò tempo da perde!
GIGGI Allora vordì che me la leggerò da me. (legge) «Carissimo amante. Ve faccio consapere che siccome ho saputo pe’ pparte de mi’ sorella cugina Tuta, che nun sò si vvoi la conoscete, la moje der sor
Onofrio, che jerissera voi stavavio in de la bottega der tripparolo in
Panìco a sgrinfià9 co’ quela bbella gioja de la su’ fija e che je dassivo
insinenta un pizzico e che poi quanno Tuta ve fece dice: Bravo sor
Giggi, mó vado a fà la spia a la vostra regazza, lei se n’uscì de fianco
cor dì: Ditejelo puro a quela civettona. Dunque pe’ la quale io no ne
voglio più sapere gnente affatto de voi, il quale mi farete il santo piacere de nun seccamme ppiù e de nun mette ppiù piede drento casa
mia. Addio, addio state bbene e suono la vostra infelicissima amante Nina Pappini.
Salutateme vostra sorella Marietta e diteglie che doppo domani l’aspetto a ccasa. Addio. Fine».
NINA Mbè! Che nun v’aribatte? Annate annate puro a ddà li pizzichi
a Giggiona, intanto a mme nun me ne preme affatto. Che siate scandalo voi e llei!
GIGGI E ddico, ce volete puro bbatte de cassa?
6
Ms: ironica.
Ms: A un giuvenotto de core e ppe’ de ppiù istruvito. Aricordateve che io ho fatto tre
anni er sordato e lo so ce lo so si cche vor dì.
8
Ms: scanzonata.
9
Amoreggiare. Ms: ruzzà.
Ruzzà: scherzare, stuzzicare.
7
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a
e
1. introduzione
193
NINA Sicuro! Che nun v’aribbatte? Gnente gnente me lo voressivo negà?
GIGGI Piano! Io nun dico questo! (mettendose ‘na mano sur petto) e sarebbe un boja si lo negassi! Ma quello che nun posso mannà ggiù è
l’affare der pizzico! E l’affare der pizzico sò du’ giorni che mme sta qui
e nu’ lo posso ignotte!
NINA (sminchionata10) Povero rintorcinato!
GIGGI (co’ calore) E je vorrebbe dì a ‘sta sora Tuta, spiàccia nata, sí ccome pò ffà a inventasse certe bbojerie; perché finarmente poi è vvero
che je sò ito avanti co’ le mano, ma pperò fu ppe’ famme dà ‘na spilla.
NINA Scuse magre!
GIGGI E vvoi allora nun ce credete!
NINA Insomma a le corte; la confidenza c’è stata, ecco er busilli.
GIGGI Che confidenza nun se sa!
NINA Sicuro, confidenza! E anzi da ‘sto momento in poi nun me venite più intorno, cercate a squajavve, perché vardà (fa un gesto) ciò fatto tanto de crocione.
GIGGI E quanto me ne preme. Vederete che dde regazze drento Roma
nun ce sarete antro che vvoi!
NINA E chi se n’importa? E ppoi ssi ssete stufo a mme me sa mill’anni!
GIGGI E io nun vedo l’ora!
NINA Figurate chi tte sente!
GIGGI Sììì!
NINA Davero?
GIGGI Allora addio!
NINA Se vedemo scuffia!11
GIGGI Addio bavutta12! (s’ incammina)
NINA (che vede che se ne va pe’ davero je fa) E ddico adesso ve n’annate
accusì, senza dimme nì asino e nì bbestia? Varda facce che caccia Ghetto! Io nun so cchi mme tienga da nun sfasciaje er grugno a quer bbabbuino13!
GIGGI E voi sfasciatemelo!
NINA E ssì, sta a vvede adesso che averebbe paura de te! Mannaggia
Giuda14! Te vorebbe mette un deto in der naso e n’antro in d’un orecchia e portatte in giro pe’ manicotto.
10
Ms: scanzonata.
Espressione ironica rivolta a persona che dice sciocchezze.
12
Velo usato dalle donne romane per coprirsi il capo quando entravano in chiesa e, per
estensione, un copricapo femminile ridicolo, fuori moda.
13
Ms: er grugno a ‘sta facciaccia de Pasquino!
14
Ms: Mannaggia li cani.
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introduzione
GIGGI Accommidateve puro!
NINA Dimme civetta a mme! a mme!! Ma diteje a quela scannata che
sse sciacqui la bocca coll’acqua de raso e che preghi er su’ Ddio che
nun l’incontri sinnò ‘gni serciata à d’annà a llecco15.
GIGGI Adesso presempio me calate!
NINA Ahò! Sai che tte dico? Che nun me farai sartà de ppiù la mosca
ar naso, che sinnò ssò ffigura16 caso caso, bello che ppe’ strada de famme giustizia co’ le mi’ mano. ( fa l’atto de menaje17)
GIGGI E vva bbene! Volete parlà sempre voi! Prima de menà però se
ragiona!
NINA Raggionà co’ ‘n’omaccio che doppo che me ce fa er tosto ce parte insinenta co’ lo stà quinnici giorni senza fasse vivo!?
GIGGI Sicuro!
NINA E cce vò ppuro avé raggione che è peggio!
VOCE DE DRENTO Ninaa! Ninaaa!
NINA Ma a tte bbello mio, sai che tte puzza? Er ben stà!?
GIGGI Sarà accusì!
NINA Però t’hai da mette in testa che si me te vòi sposà a mme, hai da
lassà annà le sguardrine sinnò tte ggiochi ‘na brutta carta!
GIGGI Diteme si da quanno se parlamo chi antra sguardrina ciò avuto
a l’infori de Vittoriona Berpelo e Giggetta la Mapponcina che cciò
ffatto l’amore prima de voi?
NINA Avete fatto l’obbrigo vostro!
VOCE DE DRENTO Ninaa! Ninaa!
NINA Èccheme mamma!
GIGGI Se sa ch’ho ffatto l’obbrigo mio, chi vve dice er contrario?
NINA Manco male che v’ariconoscete!
GIGGI Allora?
NINA Allora... allora... n’ariparleremo! Abbasta però che me promettete?...
GIGGI Ve lo giuro!
NINA Allora se semo intesi. (monta qualche scalino de casa – pavusa)
GIGGI E ddico ve n’annate accusì senza dimme addio?
15
Annà ar lecco: colpire nel segno.
Esse figura de: essere capace di.
17
Ms: (mettennose la mano sullo spadino).
Spadino: ornamento femminile: lungo spillone a foggia di sottile pugnale, che le donne usavano per tenere ferma sui capelli la ‘cartonella’, una sorta di panno ripiegato che
fungeva da copricapo.
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NINA Allora addio!
VOCE DE DRENTO Ninaa? Ninaaa!? E smovete ciovetta!
GIGGI Allora ggià che ssì, armeno dico dateme er cinquanta.
NINA Veramente nun ve lo meriteressivo!
GIGGI Eh llà!...
NINA Abbasta pe’ ‘sta vorta. (je dà la mano)
GIGGI Sicché m’avete perdonato?
VOCE DE DRENTO Ninaa! Ninaaa! Viè ssu che er pupo piagne.
GIGGI Ma che vvò vostra madre? E diteme un po’, allora quanno s’arivedemo?
NINA Venite un po’ domani.
GIGGI Ma ddico però nun vojo vede mutrie!
NINA No, No. (ride)
GIGGI (alegro) Ah, ridete! Boja, bbojaccia!
NINA (c. s.) Subbito che conoschi er debbole mio apposta te n’abbusi.
VOCE DE DRENTO Ah Ninaa! Ah Ninaaa!
GIGGI Allora se vedemo!
NINA Allora addio!
GIGGI A domani! (Nina salisce diversi scalini) Addio Ninetta! Eh! Dico
nun me fate sta più in pena come ‘sta vorta...
NINA No, no!
GIGGI Sentite Nina, giacché avemo fatto pace, fateme er piacere dateme quer fiore che portate in petto. (appassionato)
NINA (amorosa) Ecchetelo!
GIGGI (c. s.) Dateje prima un bacetto voi. (Nina lo bacia) E adesso un
antro je lo do io! Addio ciumaca!
NINA (co’ trasporto) Se vedemo! (se guardeno amorosamente – pavusa)
VOCE DE DRENTO Ah! Ninaaa!!!
GIGGI (a la voce seccato) E va a mmorì ammazzata!!
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‘NA DICHIARAZIONE D’AMORE
PE’ LA REGOLA
Scenetta dar vero
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. Un quaderno di 11 cc. (mm 310x215), composto da 5 fogli tipo protocollo più
1 c. sciolta, contenente due stesure della stessa scenetta.
Trascritta la prima stesura: 6 cc. (608-613).
Calligrafia autografa.
Sul frontespizio, in alto a sinistra, annotazione a matita di altra mano:
«copia buona / già rappresentata?»
La seconda stesura è nello stesso quaderno (cc. 615-619). È priva di frontespizio e reca un titolo diverso:
La dichiarazione d’amore pe’ li Monti.
Sono presenti varianti minime salvo le didascalie che, tranne poche eccezioni, in questa versione sono in lingua. Le due redazioni divergono del
tutto nel finale: senz’altro lieto nell’una, più rassegnato nell’altra (vedi pag.
127 nota 1).
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introduzione
Personaggi
CREMENTINA
CENCIO
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ATTO UNICO
’Na piazza: a dritta ‘na scaletta che porta a la casa de Clementina; in fonno ‘na funtana; a mmancina ‘na bbottega da falegname.
SCENA UNICA
CREMENTINA (sta empenno la brocca a la funtana)
CENCIO (in manica de camicia e un bberretto de carta in testa sta guardanno co’ ppassione Crementina. Pausa) Ecchela llà quella che mm’ha
stregato; ecchela là quella che nun me dà ppace nì notte e nì ggiorno!...
E io, minchione, imbecille, pezzo de somaro, nun sò bbono a ddije:
«Ve vojo bbene: volete fà l’amore co’ mme?» Tante vorte sò stato llì llì
ppe’ ffermalla, pe’ ddijelo e nu’ mm’è mmai abbastata l’anima. Quanno sto p’oprì bbocca, abbasta che llei me guardi, che ssubbito me s’inciafruja la lingua, e le parole me moreno su le labbra. Che vvolete, è
ttanta scontenta tanta superbia, che ll’omo er più coraggioso nu’ je la
farebbe!... Ih cche ppossi esse bbenedetta! Ciumaca mia, nicchia de
‘sto core!.. (se vorta e vedenno Crementina che vviè avanti scappa drento bbottega e sse mette a ffà capoccella)
CREMENTINA (co’ la bbrocca piena d’acqua si dirigge verso casa) Accidenti ar Municipio e a ll’acqua Marcia! Hanno fatto certe funtanelle pubbrighe che bbutteno a oncia a oncia. Pe’ j’empì ‘na bbrocca d’acqua ce vò un secolo. E cco’ ‘sto callo che ffa nun se fa ttempo a pportà ssu acqua. Quanto m’ha rotto er guitarino ‘sto fa’ ssu e ggiù! Abbasta annamo un po’ sinnò mmó la sentimo la quaja cantà. (nel vortarse vede Cencio, che la guarda) Ecchetelo tiè! Stavo co’ ppena. Sì
guarda, guarda. Ah! Mmagna maccarò! È ttanto bber ggiuvinotto e
ttanto cardeo. Je leggio in de ll’occhi che mme vò ddì quarche ccosa,
e nun cià ffaccia... Manco si fussi ‘na femmina! Me fa ‘na rabbia ‘na
rabbia!... Figurete che, ssi mme stassi bbene, je lo direbbe io si vvò fà
l’amore co’ mme! E llui invece!... (ride) Si cce ne sò dd’ommini minchioni quello è ll’asso. (s’ incammina)
CENCIO (esce arisoluto da la bottega) Sora Crementina... scusate; permettete quanto... v’appunto ‘na parola?
CREMENTINA (indifferente) Padrone.
CENCIO (apre la bocca pe’ pparlà mma ar solo oprì l’occhi che llei je fa
in faccia, abbassa l’occhi e pperde la parola)
CREMENTINA Era questo quello che mme volevio dì? Me piace assai, è ppropio bbello! Ho ccapito. Arivedella. (scanzonata) Si vediamo.
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CENCIO (fa un movimento arisoluto come pe’ dije quarche ccosa ma ppoi
se confonne e ddice)... Che ccallo che ffa oggi! Me fate er piacere de
famme attaccà alla bbrocca?
CREMENTINA Fate puro. Tanto l’acqua nun costa gnente.
CENCIO (s’attacca a la bbrocca e bbeve a sorsi. ‘Gni sorso s’afferma, p’aripijà ffiato. Finito ss’asciuga le labbra co’ la manica de la camicia) Grazie.
Apposta dunque me la favorite, perché nun ve costa gnente?
CREMENTINA Se capisce! Me serve ggiusto pe’ ffà ‘n’opera de misericordia. Dice: «Dà dda bbeve a l’assetati...»
CENCIO Vesti l’ignudi...
CREMENTINA Si! E spoja li vestiti.
CENCIO Sempre accusì scontenta!
CREMENTINA Eh, cche cce voressivo fà? Nojantre romane ce nascemo tutte accusì. Ssarà l’aria!... Mbè, allora, se vedemo...
CENCIO (confuso) Andove ve n’annate?
CREMENTINA A spasso p’er Corso, co’ la bbrocca nu’ la vedete? Sapete quanto sarebbe carina: ma ddico, andove state co’ la testa?
CENCIO (c.s.) Ah, è vvero; nun ce pensavo.
CREMENTINA Subbito che state sempre co’ l’angeletti.
CENCIO Eh cche vvolete! Quanno uno cià la mente fissa sempre su
‘na cosa, che nun vede antro che llei, che nun pensa antri che a llei...
CREMENTINA (scanzonata) A cchine?
CENCIO A vvo’... (ripijannose subbito) A quella cosa.
CREMENTINA (c.s.) Ggià che in cammera ariposa!... Abbasta: fatemene annà ch’a mmomenti spara cannone e incora nun ho schiumato la pila... Mica sò ccome vvoi che nun avete da fà gnente.
CENCIO (mortificato) Adesso perché cce sò ppochi lavori. Nun è dda
dì cche io nun ci abbia fantasia; lo vedete voi che llavorà llavoro sempre... Io mica sò un giuvenotto sciupone... Tutto quer poco che gguadambio me lo metto da parte pe’...
CREMENTINA Che ppensate a ppijà mmoje?
CENCIO Sì; cciovè, sì! Incora no; pperché vveramente, incora... nun
c’è nì principio, nì ffine.
CREMENTINA E cchi è ‘sta bbenedetta pozzi esse?
CENCIO Ve l’ho ddetto incora nun ce ll’ho.
CREMENTINA E allora?
CENCIO Ciovè, pper aveccela ce ll’ho, ma pperò qua, in de la mente.
CREMENTINA E cchi è quarche intitolata che nun ve vò ddà retta?
CENCIO Ma cche intitolata nun se sa! Sortanto che è ttanta bbella,
tanta bbella, come ‘na madonna; e io... io...
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CREMENTINA E vvoi?
CENCIO Nun me vedete? Sò ttanto bbrutto a pparo a llei, che mme
ne vergogno de dije si vvò ffà l’amore co’ mme.
CREMENTINA ( facennose coraggio) Voi bbrutto?! Ma vvoi anzi sete
un ber giuvenotto, un ber moretto che ppagherebbeno tante e ttante
regazze d’avévvece pe’ regazzo.
CENCIO (c.s.) Davero, davero?
CREMENTINA Ma ssicuro.
CENCIO (arisoluto) Mbè allora senti,... senti... (Mó je lo dico e bbona
notte.) senti.
CREMENTINA Eh sbrigateve! (sgarbata)
CENCIO (avvilito) Senti... Ve volevo dì... Uh Ddio che arsura! me fate
er piacere, me fate fà ‘n’antra ingozzata d’acqua?
CREMENTINA ( fra ssé) (Ciarisemo!) Fate puro.
CENCIO (pija la brocca fa una bevuta come pprima)
CREMENTINA (Auffa li meloni!)
CENCIO (j’aristituisce la bbrocca e ss’asciutta le labbra con la manica de
la camicia) Ah! Com’è ffresca ‘st’acqua.
CREMENTINA Ce fate ‘na forza a ddillo, l’ho ppijata adesso... Allora,
io vado...
CENCIO Aspettà... E ddite, vostra madre come sta?
CREMENTINA Bbenone! Anzi fateme annà ssu; pperché si nun me
vede, pò escì ffòra, e allora me ce fate pijà er viam pacis.
CENCIO Che è ttanta scontenta?
CREMENTINA Talecquale a mmene. Sapete come dice er proverbio:
talis madris talis fijas... E ppoi nun vorebbe che ppassassi de qua llei e
cce se pijassi ggelosia...
CENCIO Nun c’è ‘sto pericolo.
CREMENTINA Fatemela conosce vardà! Mme piji ‘n’accidente si nun
ve la faccio io ‘sta ruffianata.
CENCIO Ma ssi vve dico che nun ce ll’ho.
CREMENTINA Aridaje! Ma ssi vve se vede in dell’occhi che vvoi sete
innammorato come ‘na gatta in der mese di gennaro.
CENCIO E a vvoi intanto che vve ne preme?
CREMENTINA A mme? Gnente affatto. Ma ccapirete che mme fa
ccosa a vvede un pezzo de ggiuvenotto accusì grosso... accusì...
CENCIO Minchione, volevio dì?
CREMENTINA Bravo! Nun m’azzardavo a ddivvelo; ma ggiacché l’avete indovinato, ve l’aridico: un giuvenotto minchione.
CENCIO Embè cche cce volete fà? Quanno uno nasce accusì ttimido...
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CREMENTINA More cardeo. Questo ggià sse sarta quanno se bballa.
CENCIO Bbeata voi che ssete accusì alegra!
CREMENTINA Io?! Ih ffamme esse a vvoi! A ‘st’ora averebbe arivortato mezzo monno! Le regazze, m’averebbeno da ggirà intorno come
le lape! Appena ne vederebbe una un po’ cciumamaca, l’imposterebbe
pe’strada, e llì ccome ddua e ddua fa quattro, la fermerebbe, e jé direbbe ippesi fatto: «Bbella mia, volete fà l’amore co’ mme?» (dà un urtone a Cencio) Eh smoveteve, sangue de ll’ojo! Smoveteve! Io moje vostra, li cacchiotti, v’averebbeno da servì ppe’ ccompanatico.
CENCIO ( facennose coraggio) Magara! Me li pijerebbe e vve ce farebbe
puro la ricevuta de sardo.
CREMENTINA Ma, ppe’ ddisgrazia, sò nnata donna e quello che sta
bbene a un omo nu’ sta bbene a nnoi.
CENCIO Ggià: cce vorebbe che io stassi in de li panni vostri e vvoi in
de li mii.
CREMENTINA (scanzonata) Sai che bbella figura che cce farebbe.
CENCIO Lo potete dì fforte! Voi omo faressivo fighetto a quarchiduno
e a quarchiduno. Daréssivo un sedici a ttutti li ppiù bbulli de Roma
sana.
CREMENTINA (c. s.) Llallero!
CENCIO Magara!
CREMENTINA Ma ddunque a ll’occhi vostri, io ve paro assai sciarmante?... Nun tanto però ccome Ggiuvannella vostra cuggina...
CENCIO Chi Ggiuvannella?
CREMENTINA Bravo! Sì! Ffatemece er finto tonto. Ggiuvannella, quella co’ quelli ggiochi d’acqua su p’er ccollo, che ‘gni tanto ve viè a ttrova? Quella che vv’ha fferito?
CENCIO (inquieto) Ma vvoi v’insognate a occhi uperti.
CREMENTINA Si, mm’insogno! Dite la verità vve ll’ha dato er su’ ritratto?
CENCIO Possi cecamme si è vvero.
CREMENTINA Ah nno! Ppì pì!
CENCIO Ve ggiuro...
CREMENTINA Chi ggiura è bbuciardo.
CENCIO Anzi, vardà, ppe’ quanto nun è vero che io a Ggiuvannella
nu’ je vojo bbene, e nu’ j’ì ho mmai parlato de ‘ste cose... Si vvoi me
promettete d’esse bbona, de nun dì’ gnente a nisuno... Si vvoi ciavete
piacere...io... io...
CREMENTINA (ansiosa) Voi? Che?...
CENCIO Io ve dirò...
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CREMENTINA Avanti!... (Ih cacchiotti che sse spregheno!)
CENCIO (arisoluto) Ve dirò cche... (avvilito) Me fate er piacere me fate
fà...
CREMENTINA «’N’antra ingozzata d’acqua?» (presentannoje la bbrocca) A vvoi lo sapevo ggià l’avevo preparata.
CENCIO (ppija la bbrocca e sse vede da li sforzi che ffa ppe’ bbeve che lo fa
ppe’ nisconne la vergogna che ccià)
CREMENTINA (ride) Ma cche avete magnato le saraghe?
CENCIO (j’aristituisce la bbrocca doppo avella votata tutta)
Pausa.
Se guardeno tutti e due un momento.
CENCIO Perché ridete? Dunque m’avete capito?
CREMENTINA Antro!
CENCIO (coraggioso) E cche avete capito?1
1
Seguono sei battute cancellate a penna di un diverso finale:
Che mme ve sete bbevuta tutta l’acqua, e cche mme tocca a rifà la fatica d’ariempilla!
CENCIO (mortificato) Abbiate pacenza...
CREMENTINA ( fra sé) (Che rabbia! Je sbatterebbe la bbrocca sur muso). (si avvia verso il fondo)
CENCIO Ve n’annate?
CREMENTINA (sdegnosa) No sto qui a rimiravve a vvoi! (si avvia e dice) (Povero tempo perso!)
CENCIO (resta mortificato a guardarla poi si dà un pugno sulla fronte e si ritira in bottega) Sì l’ho ddetto che ssò proprio un gran cardeo!
CREMENTINA
Cala lentamente la tela
Questo stesso finale, con varianti minime, è presente in La dichiarazione d’amore pe’ li
Monti (cfr. Nota al testo).
CREMENTINA Che mme ve sete bbevuta tutta la brocca e cche mmó mme tocca a rifà la fatica de riempilla!
CENCIO Abbiate pacenza...
CREMENTINA ( fra sé) (Che rabbia! Io je la sbatterebbe sur muso!) (si riavvia verso la
fontana)
CENCIO Che ggià vve n’annate!
CREMENTINA No sto qui a rimiravve a vvoi! (Povero tempo perso!) (se ne va a la fontana)
CENCIO (resta mortificato a guardarla un momento poi dandosi un colpo sulla fronte
rientra in bottega dicendo) Accidenti a mme e ‘sto minchione! [altra lezione] Sì l’ho
ddetto che sò ppropio un gran minchione!
Cala la tela
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CREMENTINA Che ppe’ ddimme che mme volete bbene me ve sete
bbevuta ‘na bbrocca sana d’acqua, e cche mmo mme tocca a ffà la fatiga d’ariempilla.
CENCIO (strappannoje la bbrocca da le mane) Quanno sii pe’ questo ve
la vado a empì’ io.
CREMENTINA Eh mma si cciannate de ‘sto passo me la sfasciate...
(maliziosa) Nun vorebbe che ffacessimo li broccoli prima der tempo.
Uno mette le braccia ar collo dell’antra e gguardannose amorosamente e ridenno s’avvieno verso la funtana.
Cala er telone
sicc’ è
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EVVIVA LA MIGRAGNA!
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Bozzetto popolare in dialetto romanesco
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare a stampa (Misc. B.364) della BA:
Giggi Zanazzo, Evviva La Migragna!! Bozzetto popolare in dialetto romanesco, Roma, Cerroni e Solaro, Laboratorio Tipografico di Cerroni e Solaro, 1888. [Dedica nell’occhiello:] A S. E. Don Fabrizio Colonna Principe d’Avella con grato animo offro. [Sul verso dell’occhiello:] Proprietà
letteraria dell’autore.
[A pag. 5] Rappresentata per la prima volta in Roma nel Teatro Rossini la
sera di Venerdì 2 Dicembre 1887, alla presenza di S. M. la Regina d’Italia
e di S. A. R. il Principe di Napoli, nell’Accademia data da Giggi Zanazzo
a beneficio dell’Infanzia Abbandonata, sotto il protettorato di S. E. Don
Fabrizio Colonna Principe d’Avella.
In margine alla tavola dei personaggi annotazione autografa contenente,
nell’ordine, l’età dei primi quattro personaggi: «25, 20, 50, 30», e il nome
dei primi tre attori: «Sig.r Bizzarri Oreste, [Sig.r] Ceccacci, [Sig.r] Cortesi». Sono presenti anche alcuni interventi autografi sul testo riguardanti a
volte il taglio a volte la sostituzione di strofette cantate.
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Personaggi
GRISPIGNO ciavattino
AGNESA su’ moje
UN SENATORE ricco
LA MOJE DER SENATORE
USTACCHIO cameriere der senatore
La scena succede a casa de Grispino in una piazzetta de Trestevere.
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ATTO UNICO
La scena arippresenta ‘na cammera micragnosa: una porta a ffonno a la
scena; a la dritta ‘n’antra porta; a mano manca ‘na finestra; vicino a la finestra er banchetto da carzolaro co’ tutti li ferri der mestiere; du’ sedie
sgangherate; su la dritta ‘na scansia dove stanno appoggiate sopra pile, tigami, scodelle ecc. In mezzo a la cammera un tavolino da strapazzo.
SCENA I
Grispino solo
GRISPINO (entra in scena strofinannose l’occhi)
(Grispino al lavoro) Allegria! Gnente accidia, gnente pigrizia... Aprimo
le finestre der nostro appartamento. (apre la finestra) E adesso preparamo li nostri nobili feri der mestiere. (se mette a preparà le forme ecc.)
Uh! Varda tutte le persiane der palazzo qua de faccia, sò tutte chiuse...
A ppensà che la ddrento c’è ccerta ggente che nun ha mai visto l’arzata der sole; ggente che magna, bbeve, dorme, e nun ha gnente da fà
antro che dde divertisse e annoiasse... E io, mannaggia la lesina, che
nun ciò manco l’arma d’un muecco, e che da la matina a la sera me
strazio la mi’ vita su ‘sto bbanchetto, a ppensà nu’ l’ho mai invidiati...
Viva la fame
e la migragna
meno se magna,
più bbene va!
Tanto li guitti
che li moschetti1
sò li più alegri
de la città!
Di quella pira
l’orrendo foco
tutte le fibre
m’arse e avvampò!
1
Probabilmente moscetti: piccoli mercanti girovaghi.
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Carolì co’ st’uocchie nire nire
co’ sa voccuzza rossa tu me farai morire
Mena Carolì...
Oh! dolce voluttà
desio d’amor gentil...
Sò fatti apposta
pe’ fà l’amore – a core a core...
(chiamanno) Agnesì!? Ohé Agnesì! Sposettina mia! Nun arisponne... pare
che ciabbi er sonno greve... Eh! Sfido mannaggia la lesina! Jeri a ssera ha
bballato tanto a lo sposalizio indove semo stati! ‘Sti dianteni2 de sposalizi
ve fanno sempre qualche brutta ruzza... Uno bbeve, ride, bballa... E poi
quer vede sposà ddu’ sposetti mette allegria... specialmente quanno uno
è omo de casa, che vò bbene a su’ moje, che cià er pensiere de li fiji, de la
famija... che nun cià antro che una volontà... antro che un core antro che
un... abbasta: me capisco da me...
Ah! Che la morte ognora
è tarda nel venire.
Oh! Chi desia morire,
Eleonora, addio!
E janne, janne, janne
quant’è bbello lo paperscianne!
E la mia bbella
voleva venire
voleva venire
a la guerra co’ me!
Rivedrai le foreste imbalsamate
le fresche valli, i nostri templi d’or!
Fiore de mijo;
oggi pe’ pranzo magno pane e ajo
perché cciò ‘na migragna che sbavijo.
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Esclamazione.
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Viva la fame
e la migragna
meno se magna
più bbene va!
(chiama) Agnesì! Agnesì! E mica arisponne! (guarda ne la cammera accosto) Ah! Sì va! Eccola che se sta a vvestì... brutta mozzina 3...! Se guarda in
der pezzo de specchio rotto che j’ho fatto in regalo per aranciasse la capitale. Eh! Io sò galante, io! Mi piace di fare dei regali alla mia sposa. Varda
eccola che s’abbraccica er ragazzino; semo pace. Io l’ho abbracciato prima
di lei. Ah! Finalmente, eccola che viè.
SCENA II
Agnesa e Detto
AGNESA Bon giorno signor marito.
GRISPINO Bon giorno signora moje!
AGNESA (canta) Abbracceme, abbracceme.
Grispino adorato
giacché m’hai svejato
cor tu gorgheggià!
La le ra la, la le ra la!
Lo svejarino der poveretto
è lo stornello che ssa cantà.
La le ra la, la le ra le!
Chi abita in arto
l’orloggio lo sveja
o ’r servo che veja
a sede ar sofà.
M’a noi poveretti
ciabbasta un stornello
pe’ facce ber bello
de posta svejà!
3
Mozzino: imbroglione, mestatore; appellativo dato in particolare ad un legale poco
corretto. Deriva dalla pena inflitta nel medioevo ai truffatori e ai disonesti cui si tagliava un orecchio come segno distintivo infamante.
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(a due) Lo svejarino der poverello
è lo stornello che ssa cantà!
GRISPINO Brava poltrona; stamattina avemo fatto come le signore che
s’arzeno a ora canonica. Gnentedemeno che sò le sette sonate!
AGNESA Sfido. Ma ssenteme, Grispino mio, mica tutti li ggiorni se va
a li sposalizi! E ppoi che sposalizi!
GRISPINO Davero de cartello! Che ppappane! Io sortanto si ripenso
ar vino me ce viè ll’acqua a la bbocca.
AGNESA E che sciccheria d’invitati! Tutti abiti de lanetta.
GRISPINO Tutto vino da sette...
AGNESA E un violoncello e un crarino pe’ ssoni, senza contacce quello che ssonava la catubba4! Er ballà che nun avemo fatto!... Io ce scommetto, Grispì, che li signori che stanno lì de faccia a noi a quela serata che ha dato jeri sera er senatore nun se sò divertiti quanto a nnoi!
GRISPINO Vardà! c’è da dillo!
AGNESA A proposito, dimme Grespì, m’ero scordata da ditte ‘na
cosa... tu nun lo sai?... Oggi pe’ la spesa nun ciavemo manco un
sòrdo.
GRISPINO (indiferente) Va cercanno! Abbasta che cce sii arimasta la bbotta der chi se ne f...
AGNESA Ah! Quella ‘ntanto nun ciamanca mai!
Pe’ dì la verità me credevo d’avecce incora quarche quarantina
de sòrdi, ma nun pensavo che cce servirno jeri per annà a lo sposalizzio... defatti ho aperto er tiratore... e dommini aripulisti...5
GRISPINO (ridendo) Ah! ah! ah! Questa è crassica!
AGNESA (c. s.) È mejo a rride.
GRISPINO (ridenno forte) Ah! ah! ah!
AGNESA Ma cche tte pija?
GRISPINO Sto pensanno che siccome ‘sta notte la porta de casa è
rimasta uperta; si veniveno li ladri, faceveno bottino. Ah! ah! ah!
AGNESA (ride) Davero va!
GRISPINO Embè ppe’ questo se ne voressimo stà a pijà?
AGNESA Mma mmanco pe’ gnente!
GRISPINO Perchè noi nun ciavemo li sòrdi? C’è chi cce ll’ha ppe’
nnoi! Nun sarà de certo la migragna che c’impedirà de cantà:
4
Grancassa.
Questa espressione è una storpiatura di: «quare me repulistis» (= perché mi hai rifiutato), rivolto a Dio. Cfr. il sonetto di G.G. Belli, Lo spojo.
5
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è
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Viva la fame
e la migragna
meno se magna
più bene va.
Canteno assieme e se metteno a bballà.
AGNESA (stracca se butta a ssede su ‘na ssedia) Nu’ ne posso più sò ttutta sudata. Nun ho bballato mai tanto de core.
GRISPINO Come me; hai visto sí cche ppassi da bballerino? Avanti
sbrighete, adesso va ar mercato!
AGNESA Ar mercato? E cco’ cche?
GRISPINO Ah! È vero nun ce pensavo più!
AGNESA In tutti li modi quarche cosa in de la pila bbisogna mettecce.
GRISPINO Mbè, tiè, pija ‘sto par de scarpe (je le dà)...
AGNESA Pe’ mettelle in de la pila?
GRISPINO Ma no bbestia! Va da la sora Susanna la Baffetta e dije che
te ne dii venticinque fischi.
AGNESA Me pareno cari.
GRISPINO Cari? Je ciò rimesso un tacco e ‘na risolatura, mannaggia
la lesina!
AGNESA Ma nun t’aricordi più che er fijo più granne che la manteneva jè ito a ffà er sordato?
GRISPINO Ah! È vero. Allora chiedejene ‘na quindicina de sordi... intanto o quinnici o venti semo poveretti lo stesso.
AGNESA Addio Grispino, ariviengo subbito (va per uscire ma poi torna
indietro) Si quela cratura a le vorte se mettessi a ppiagne, er pane nun
c’è, ma ce sò un po’ de confetti de jeri; stanno drento la cassa.
GRISPINO Va bbè, va bbè, va puro.
AGNESA Addio Crispino, io me ne vado. (ripijeno tutte e due er motivo)
Viva la fame
e la migragna
meno se magna
più bbene va!
(Agnese via)
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SCENA III
Grispino solo
GRISPINO Quela povera Agnesina è alegra come ‘na matta. O quatrini o nun quatrini canta sempre. Lo stesso a mme. Avemo fatto ‘na
bella coppia! Lei bbella, io puro nun c’è male; mi moje ne pò esse contenta; tutto paro, fora che un ciavattino perchè tutti l’amichi mii me
dicheno che cciò la faccia da carzolaro padronale... Abbasta arimettemese a lavorà che sinnò oggi nun se magna ‘na saetta. (se rimette a lavorà e ccanta)
SCENA IV
Ustacchio e Detto
USTACCHIO (se presenta su la porta intanto che Grispino canta)
GRISPINO Ah! Che piacere è l’esse ciavattino
e a lavorà de grosso e no de fino!
Tutto er giorno sur banchetto
a ttirà e impecià lo spago
fà er filosofo, fa er mago
dà cconsurti in quantità.
Ah! Che piacere granne è e’ llavorà!
USTACCHIO (chiama) Mastro Glespì6. Ohè!?
GRISPINO (seguita a ccantà)
Sei tu l’uom de la caverna?
Si lo suon: Da me che vuoi?
Qual voluttà trascorrere
sento di vena in vena...
La Marianna la va in campagna
chi sa quando ritornerà.
Addio mia bella addio
l’armata se ne va...
USTACCHIO (chiama) Mastro Glespino?!
GRISPINO (c. s.) Bigna avecce pacienza, bigna avecce.
Co’ sta ggentaccia de la coroncina
tireno serciate come bbreccie,
bbigna avecce pacienza, bbigna avecce.
USTACCHIO (je strilla a l’orecchia) Mastro Glespino?!
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N.d.A.: I romaneschi quando pretendono di parlare civili sostituiscono la L alla R.
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GRISPINO Saettaccie! E che m’hai preso pe’ ssordo?
USTACCHIO Sfido! È mmezz’ora che vve chiamo!
GRISPINO Era che ccantavo.
USTACCHIO Me ne sò accolto. Anzi diteme, cledo che salete alimasto
melavijato de la mi’ visita. El plimo cammeliere del senatole che abita
qua, incontlo...
GRISPINO Meravijato io? Pe’ gnente affatto!
USTACCHIO Eppulo me pale che una pelsona del mi’ lango, che va a
tlova una pelsona come voi...
GRISPINO Ciarimette quarchecosa! Sete matto! A le corte sor Ustacchio, primo cameriere der sonatore qua incontro, che ve s’è sciorto?
(strillanno)
USTACCHIO Plima de tutto ve plego de nun stlillà tanto pelchè non
sono soldo.
GRISPINO Che ve s’è guastato er timpino?
USTACCHIO No a me. Anzi è plecisamente a questo che dovete l’onole de la mi’ plesenza a casa vostla. Sò venuto pe’ ddivve che el mi padlone non vò assolutamente che je roppete de più l’anima coi vostli
canti da olteria.
GRISPINO Che gnente al tu’ padrone je piaceno le romanze? Allora
senti:
Quanno la sera al placido
chiaror d’un ciel stellato
meco friggea nell’ellera...
USTACCHIO El mi padlone invece nun vò affatto che cantate più.
GRISPINO Dichi a mme? Eh? Come?
USTACCHIO Te dico che el mi padlone te ploibbisce di cantale!
GRISPINO Ma dimme che mme dichi! Me proibbisce de cantà a me?
Ar rossignolo der vicinato? Oh! Questa sì che è nuova de pianta!
Quanno nascisti tu, nnascé lo sole
la luna se fermò mmiezzo a lo mare
ecc. ecc.
SCENA V
Agnesa e Detti
AGNESA (co’ ’n canestro sotto ar braccio) Un signore! Che cciavemo de
novo?
GRISPINO Io ce scommetto moje mia, che ttu nun arriverai mai a im-
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introduzione
magginà sì che vvò dda me ‘sto milordo... Gnentedemeno me vorebbe
provibbì dde cantà?... Perché er canto sveja troppo presto lui e er su’
padrone.
AGNESA Provibbitte de cantà?
USTACCHIO Sì, ccala sola padlona, capilete bbene che celte olecchie
delicate come le noltre, nun se ponno mai adattà a ssentì una voce de
canna spaccata come la sua.
AGNESA De canna spaccata? Ma vvoi ve sbajate e vve sbajate der gajardo, perchè mmi’ marito cià ‘na voce intonata come un campanello...
E ppoi e ppoi... Sarebbe bbella, me garba a mme che ccanti, e llui canterà.
GRISPINO Sicuro che canterò!
AGNESA Sicuro che ccanteremo!
USTACCHIO Ce salà, chi vve falà stale al posto!
AGNESA Chi, vvoi? Nun sete bbono!
USTACCHIO Ce salà chi vve falà scacciale da questa catapecchia.
GRISPINO Faccie scaccià? Una catapecchia? Si sbotto, si sbotto, Iddio
ne guardi, mannaggia la lesina! Dico, pe’ ‘na certa regola vostra signor
servitore, sappiate che nun m’avanza gnente gnissuno e che ddrento a
‘ste mura sò er padrone de fà quello che mm’aggarba!
AGNESA Bbravo, dice bbene; quello che cciaggarba.
USTACCHIO Ma vvaldate che stlaccio d’alloganza un ciavattino!
GRISPINO Un ciavattino ggià; e ppe’ bbene tuo te consijo de piantalla, me capischi? (arzanno la voce)
USTACCHIO Ma, mi sbajo, o questo signole m’insulta?
AGNESA Lasselo perde! Che fai llì?
GRISPINO Gnente, me gratto, nun vedi?
AGNESA Ma vvedo che agguanti ‘na forma!
GRISPINO Me serve p’informà ‘no stivaletto.
AGNESA (a Ustacchio piano) Fateme er piacere annatevene ch’è mmejo
pe’ vvoi. Mi’ marito è bbono, ma Dio ne’ guardi je sarteno, sarebbe
capace de tutto. Annàtevene!
USTACCHIO (piano) Da una palte nun dice male; è mejo a nun peldecce tempo co’ ccelta ggente. ‘Sta gente di bassa estlazzione sono
d’una blutalità! Chi ha più pludenza l’addopli. (a Grispino) Dunque
signor ciavattino, senza che cc’inquietiamo tanto, ditemi che ccosa
devo dile al mi’ padlone.
GRISPINO Va, vaje a riportà
che si un antra vorta
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lui t’arimanna qua
invece de la porta
io te farò sartà da ‘sta finestra.
E ddije che - che lui co’ mme
ddeve sapè - barcamenà
che sinnò - sai che fo?
Canterò - ballerò
strillerò - urlerò
finchè vò!
AGNESA e GRISPINO E dije che
puro co’ mme
ddeve sapè
bbarcamenà!
Che sinnò - sai che fo?
Canterò - ballero
strillerò - urlerò
finchè vò!
Ustacchio scappa via atturannose l’orecchia; Grispino e Agnesa je vanno appresso fino a la porta sempre cantanno. Ustacchio ricomparisce da la finestra
e seguiteno a perseguitallo fino che nun vedeno che ss’allontana.
SCENA VI
Grispino e Agnesa
AGNESA (ridenno) Varda come scappa.
GRISPINO Senz’aritorno!
AGNESA Lasselo perde e ccambiamo discorso. Apparecchiamo la tavola e ffamo colazzione.
GRISPINO Che mm’hai preparato de bbono?
AGNESA (apparecchia) Sciccheria! Prima de tutto t’ho ppreparato du’
bbell’alice coll’ermo...
GRISPINO Bene!
AGNESA Poi t’ho ppreso du’ provature e ddu’ sordi de noce pe’ ffrutti,
perchè vvedi, le noce me piaceno, scrocchieno me sò simpatiche. (ne
rompe una co’ li denti)
GRISPINO Accidemmoli che llusso! Puro li frutti?
AGNESA E incora nun è tutto. Ciò dda fatte n’improvisata!
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introduzione
GRISPINO Ehehe! Cche cciavemo!
AGNESA Azzeechece?
GRISPINO No, dimmelo subbito; lo sai che sò ccurioso. Dimmelo.
AGNESA (je presenta ‘na bboccettina) Odora!
GRISPINO (odora) Rumme! Ah! Fammene assaggià un goccetto.
AGNESA Adesso no, adesso no, a ttavola a ttavola ve lo bbeverete co’
li frutti.
GRISPINO Brutta preta! Tu tte sei strozzata ‘na noce. Mó lasseme fà a
mme!
AGNESA (v’a pijà ‘na ssedia vicino a la finestra) Ahó! Ddimme un po’;
gguarda llà. Quer signore che esce dar palazzo nun è er sonatore?
GRISPINO (guarda for de la finestra) Lui in persona! Er servitore je
parla; vengheno da ‘sta parte... Chi lo sa? Se crederanno de mettemme pavura... Ah! sì! Io avè ppavura de loro? Ah! Ah! Ah!
AGNESA (timida) E io puro! Mica ho ppavura. Varda va; sta assieme a
su’ moje e viengheno qua dda vero! Grispino mio, in ogni modo faje
vede che noi bbenchè cciavattini semo ggente garbata.
GRISPINO Nun dubbità! Dì la verità, cche bbell’idea che avemo avuto de crompà cor guadambio dell’urtimo par de scarpe, ‘sto par dde
sedie. Fa ppiacere d’essere bene equipaggiati di mobilio quando si danno dei ricevimenti.
SCENA VII
Senatore, la Signora e Detti
SENATORE (de drento) Sta bene, sta bene Eustachio, non ho bisogno
di voi. ( fori)
GRISPINO Signore sapete che vvoi avete certi servitori che...
SENATORE Sono villani, male educati, e che rendono una pessima
idea dei loro padroni, non è vero?
GRISPINO Bbravo! Ciovè bbravo no, perchè vvoi... fìnarmente... (a
Agnesa) Eppure me credevo assai de peggio.
AGNESA (a Grspino) E vvarda la moje co’ cche ccosa me guarda.
SENATORE Non bisogna farsi dettar legge, mio caro vicino.
SIGNORA Non restate incomodata per me, mia buona vicina.
GRISPINO (a Agnesa) Ahó! M’ha ddetto mio vicino!
AGNESA (a Grispino) M’ha cchiamato su’ vicina!
(a la senatora) Signora vicina!...
GRISPINO (al senatore) Signor vicino!
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SENATORE Grazie mille. Sapete, mio caro vicino, che avete una moglie deliziosa?
SIGNORA (a Agnesa) E mi si dice che avete trovato un eccellente marito!
AGNESA Defatti nun me posso lamentà!
GRISPINO E io neppuro de lei... perchè è verissimo che mi’ moje è
ppaciocca; ma bisogna dì la verità che ppuro la vostra è ppacioccona
assai... Un giorno vedennola montà sul legno, je smicciai un piedino
che era ‘na smorfia senza contacce quela bbella bboccuccia ciuca ciuca che ppare un cecio...!
SIGNORA Ah! Ah! Siete galante a quel cche sembra; ma io pure ho a
farvi i miei complimenti per la vostra bellissima voce.
GRISPINO (s’ inchina) Signora sonatora...
AGNESA (a Grispino) Er servitore invece t’ha ddetto che stonavi?
SENATORE Anch’io sono del parere della mia signora; voi cantate benissimo.... solamente cominciate un po’ troppo prestino...
GRISPINO (Ecchece ar busilli.) E è ppe’ questo che me volete fà ccaccià vvia dar mi’ negozio?
SENATORE Farvi cacciare? Ah! Eustacchio ha avuto torto di parlarvi
così; chi mi darebbe il diritto di commettere una simile ingiustizia!
GRISPINO (a Agnese) Dimme un po’ Agnesì, mica parla male er nostro
vicino, sò ppropio contento de lui!
SIGNORA Ed ora amici miei ascoltatemi; voi converrete con me che la
vostra posizione è molto differente dalla nostra.
SENATORE Senza dubbio; voi vi alzate con il sole, l’allegria vi scorta
la giornata e appena si annotta vi coricate; non è egli vero?
GRISPINO Si, ssor sonatore, accusi arisparambiamo su ll’ojo.
SENATORE Mentre noi ci corichiamo ad ora tardissima: quando voi
vi alzate noi facciamo il nostro primo sonno; e quantunque alla mia
signora ed a me piaccia moltissimo la musica converrete pienamente
che un po’ di riposo ci è necessario.
AGNESA È vverissimo, marito mio, bbisogna mettesse in de li panni
de li nostri vicini.
SENATORE E allorchè la vostra voce malgrado la sua bbellezza, ci risveglia di soprassalto, vi accerto che ci fa odiare la musica.
GRISPINO Allora, vicino, nun canterò ppiù; ma è ccuriosa... A mme
mmica me fa l’effetto che vve fa a vvoi!
AGNESA E ssapete cara vicina perchè? Mo vve lo spiego:
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Doppo el lavoro
de la ggiornata
si la casa sua qua incontro
noi vedemmo illuminata
e ssentimo canti e ssoni,
de chi sa cche ssignoronì,
puro noi sempre cantanno
s’addormimo in quel pensiero
e ssognamo che ddavero
puro noi stamo a ggodé!
SIGNORA Così poveri e così ccontenti.
AGNESA Già, ssognamo, famo un sacco de castelli in aria, e quanno
ce pare de bballà se damo ogni tanto certi carci in de li stinchi... È
vvero Grispì?
GRISPINO Come er vangelio!
SENATORE Un uomo può benissimo sopportare senza lagnarsene, la privazione del sonno; ma la mia signora... una donna... una
madre...
AGNESA (risoluta) Alleva? Cià fìji la mi’ vicina? Grispino nun canterà
mmai ppiù.
SIGNORA Noi non vogliamo affatto un simile sacrificio dal vostro
sposo. La sua gajezza è il suo tesoro ed io non voglio che se ne privi.
Grispino, io intendo che ccantiate!
GRISPINO Ah! Mme fa specie! Io ve chiedo scusa, ma nun canterò!
AGNESA Nun canterà!
SENATORE Dunque caro Crispino, volete farci inquietare!
GRISPINO Nun sia mai! Vordì cche allora canterò a mmezza voce, a
la sordina!
SENATORE Grispino, voi siete un galantuomo; datemi la mano.
GRISPINO Come signor senatore, voi voressivo?
SENATORE Sì, lo esiggo; lo desidero! (se danno la mano)
GRISPINO (a Agnesa) Io nun so cche ffaje pe’ llevamme l’obbrigazione... Uh! Che bbell’idea! (passa in mmezzo ar sonatore e a la moje)
Mio vicino e mmia vicina. ( je mostra la tavola apparecchiata) Vonno
arestà serviti.
AGNESA (lo tira pe’ la camicia) Ahó! Mma cchee tte fai?
GRISPINO Fo l’onori de casa!
AGNESA È robba da poveretti, ma vve l’offrimo col core.
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SENATORE Vi ringraziamo, miei buoni amici, ma non vi daremo mai
questo disturbo.
SIGNORA Grispino, voi per noi vi siete sacrificato; noi dobbiamo levarci 1’obbligazione; accompagnate mio marito spero che non vi rifiuterete....
GRISPINO Ma ccertamente... fìnarmente poi nun se deve negà gnente alle signore; aspettate sortanto un tantinello; quanto me metto la
ggiacca che ssente messa co’ la mirza7 e...
AGNESA Come, ve portate via mi’ marito?
SIGNORA Tranquillizzatevi signora, non starà molto a tornare. D’altronde venendo qui, era mia intenzione d’intrattenervi in particolare.
Bisogna che vi parli.
AGNESA A mme? (E che me vorà ddi dde bbello?) (intanto Grispino s’ è
vestito)
SENATORE Andiamo!
GRISPINO Addio, Agnesa mia.
AGNESA Nun sta ttanto sai? Nun me lo trattenete sapete, caro vicino?
SENATORE Non dubitate, addio! (escono)
SCENA VIII
La Signora e Agnesa
SIGNORA Come va, mia cara vicina, che per un momento che vostro
marito vi lascia, vi mostrate così inquieta? Ma io allora cosa dovrei
fare che sto delle volte quindici, venti giorni, ed anche un mese senza
vedere il senatore?
AGNESA Dunque nun abbitate assieme?
SIGNORA Si, ma abbiamo ciascuno il nostro appartamento.
AGNESA Davero? E allora perché vve sete sposati?
SIGNORA Che volete che io vi dica? È l’uso che lo richiede. Nata di
famiglia ricchissima, maritata con una dote considerevole, credevo che
per essere felice bisognava brillare nella società!
AGNESA Ma ccome! Gnente nun sete contenta con tutti li quatrini che
cciavete?
SIGNORA No... ve lo confesso. Anzi la sorpresa della vostra felicità mi
stupisce e son venuta apposta per chieedervi il segreto per divenire
contenta come lo siete voi!
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Cappello a cilindro.
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AGNESA Ma io nun ciò segreti. Io vojo bbene a Ggrispino, lui me vò
bbene a mme; un giorno magnamo e dua no... e ecco tutto!
SIGNORA Anch’io e mio marito ci amiamo... almeno così ci dicono
tutti i giorni una quantità d’amici, di conoscenti i quali intervengono
alle nostre serate.
AGNESA Ah! Sì?
SIGNORA Avete figli?
AGNESA Uno, grosso e forte come un Ercole. Me fenisce du’ anni er
giorno de San Grispino. Tenete, vardatelo la ddrento. (j’ insegna l’antra cammera)
SIGNORA Ma, sbaglio, o mi sembra che pianga?
AGNESA Lui... Ma ppe’ gnente affatto. Invece ride e ccome.
SIGNORA Ah! Mio Dio; è caduto. Si è forse fatto male?
AGNESA Macchè! C’è abbituvato... Vvardate. Già ss’è ariarzato! Quanto cià mmesso?
SIGNORA Beata voi, che siete così di sangue freddo. Io fremo sempre
che al mio piccolo Ernesto gli sia avvenuta qualche disgrazia!
AGNESA Ma ccome! Er ragazzino vostro nu’ lo tenete con voi?
SIGNORA No, è a balia, in Albano!
AGNESA A bbalia? Io a ccosto de famme succhià er sangue er fijo mio
nun ce lo mannerebbe.
SIGNORA Anch’io lo stesso; ma il medico... molte mie amiche mi hanno consigliata così perché dicono che mi sarebbe stato d’impiccio.
AGNESA (arrabbiata) D’impiccio un fijo? Ma che sieno ammazzate,
quanno s’alleva nun cce se va in società... Uhm! Me scusi, signora mia
si mme sò azzardata...
SIGNORA No no, seguitate; anzi mi fate piacere.
AGNESA Allora, si è così, si vvolete che vve parli cor core in bocca, ‘sta
a vvoi a esse contenta e mmó vve dico come. In primise fate aritornà
subbito er regazzino da bbalia, ma ssubbito perché nun c’è dda perde
tempo, e vvederete che quanno quello starà qui ’vvostro marito ve vierà a ttrova in del vostro appartamento più spesso e vvolontieri. Doppo pe’ stà bbene in salute, mannate ar diavolo li medichi e le medicine e ttutte quelle imposture che vve danno a dd’intenne. Accupateve
un tantinello de le cose de casa, accusí v’arruberanno de meno le gente de servizio; e invece d’annà sempre in carozza, fate quarche bbella
spasseggiata a ppiedi; ce sò certi siti indove la carozza nun ce pò annà,
e llà sse troveno spesso certi poveretti vecchi, ammalati e infermi che
hanno de bbisogno. Je date quarche ccosa senza offennelli, e bbona
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notte. E quanno aritornate a ccasa, abbraccicato ch’avete vostro marito e vostro fijo, annatevene a lletto presto, arzateve a bbon’ora e si
ddoppo fatte tutte ‘ste cose voi nun sete contenta, nun me chiamate
ppiù Agnesa Stella!
SIGNORA Mia buona vicina, vi ringrazio della vostra franchezza e vi
prometto di provare il vostro sistema di felicità; e contate pure sulla
mia riconoscenza, perché già mi sembra di essere felice. Arivederci.
(via)
SCENA IX
Agnesa sola
AGNESA (guardanno addietro a la Signora) Ccusì giovine, ccusì grazziosa, ccusì ricca e ccusì marcontenta. (pavusa) Ma vvarda ‘sto Grispino oggi sí quanto tarda! Ah! Eccolo. Ma mbè che c’è dde novo? Sta
tutto pensieroso! Nun canta più; ma che in quer ber palazzo der sonatore uno ce s’avesse d’attaccà la malinconia?
SCENA X
Grispino (serio) e Ddetta
AGNESA Quanto m’hai fatto aspettà! Accidemmoli. Ma ccome sei slavato! Che tt’è successa quarche disgrazia?
GRISPINO Sarebbe un gran somaro si la chiamassi disgrazia!
AGNESA Co’ quela mutria!
GRISPINO Io co’ la mutria? Ma nun vedi invece cche ssò alegro!
AGNESA Nun me pare!
GRISPINO È pperchè ssò ccontento drento de me!
AGNESA Va bbene, ma a mme quela contentezza nun me piace. È
mmejo quella che ffà ccantà... annamo via, canteme una canzoncina.
GRISPINO Ma io non voglio cantà... me dole la testa... E ppoi, e ppoi
che ssugo c’é da cantà tutto er giorno come un mascarzone qualunque?
AGNESA Hai raggione tu! Allora mettemese a ttavola e mmagnamo.
GRISPINO Nun ho più ffame... Sippuro che ciaveressi da damme?
AGNESA Nun lo sai? Ce sò le noce, er cacio, du’ alice coll’ermo, e’
rumme...
GRISPINO Nu’ la vojo sta robbaccia (je fa vede un sacchetto pieno de
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introduzione
quatrini) Adesso sono ricco, vojo er ristoro8, er Chianti lo stufatino ar
sellero... nun vojo magnà ccome la povera ggente.
AGNESA Sei ricco? Che bellezza! E quanto ciai?
GRISPINO Nun te deve preme a tte!
AGNESA Nun me deve preme! Eh ché! Io invece dico che mme deve
preme, che lo vojo sapè, e cche lo saperò!
GRISPINO Dio mio... Quanto te sei fatta chiacchierona!
AGNESA (passa dall’antra parte dove Grispino tiè er sacchetto) Via, dimme quanto ciai?
GRISPINO (posa er sacchetto) E io nun te lo vojo dì!
AGNESA Anzi me l’hai da dì e ssubbito!
GRISPINO (seccato) Mbè, cce sò ccinquecento lire ecco!
AGNESA Cinquecento lire? e quanto fa?
GRISPINO Quanto fa? quanto fa! Che nemmanco sai fà ppiù li conti?
AGNESA Chi l’ha mai imparati? Nun me ne sò mmai servita.
GRISPINO Ce fo ‘na bella figura co’ ’na moje che nun sa manco contà. Mme fai compassione. 500 lire fanno 100 piastre, 100 piastre fanno 100 scudi e 100 scudi fanno 500 lire.
AGNESA Tanto, ma ne sei sicuro!
GRISPINO Ma, mmanaggia la lesina, ma che mme piji per un somaro
ignorante come tte? L’ho ccontati adesso calli calli all’osteria del Ciarlotto9 quanno l’ho presi.
AGNESA 500 lire! C’è proprio cascato er cacio su li maccaroni. Ne faremo adesso de le spesette necessarie! Prima de tutto vojo armà le posate d’argento, e lo sgummarello; poi io vojo ‘na bbella catena a la
schiava poi ‘na bbella muntura de lanetta pe’ fà mozziccà un gommito a tutto er vicinato; pe’ tte ppoi te ce vonno una mezza dozzina de
camicie de tela... Perché in una casa, pe’ prima cosa ce serve la biancheria.
GRISPINO Te serve antro?
AGNESA Che gnente voressi puro quarch’antra cosa? Me pare che pper
adesso...
GRISPINO Tutto quello che ddichi me va bbene ma intanto bbisogna
annà in cerca d’un muratore.
AGNESA Un muratore? Gnente te pijerebbe l’estro de ffatte fabbricà
‘na casa? Questo nun te lo consijerebbe mai! Piuttosto quanno hai ‘sta
fantasia compretela bbella che ffatta.
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Cordiale, bevanda ristoratrice; in particolare, brodo ristretto con un uovo battuto.
L’Osteria della Farnesina, detta del Ciarlotto, era in Trastevere.
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GRISPINO Aibbò! Nun vojo fabbricà! Vojo fà un bucio sur cammino.
AGNESA Ma, ssei matto! Perchè fà ’sto bbucio?
GRISPINO Pe’ sotterracce er mammone.
AGNESA Ma te ggira er boccino?
GRISPINO Ma voi sarete matta. Che vvolete bbuttà ‘na somma che
m’hanno dato pe’ esse ricco?
AGNESA Ma gnente affatto. Te l’hanno dato pe’ tte e ppe’ ttu’ moje.
GRISPINO Se pò esse più ttestarde e ppiù ccocciute de lei! Si ssapevo
te ce portavo subbito a lo sposalizio. Se vede come n’hai approfittato.
Nun hai sentito l’assessore che diceva?
La moje deve ubbidienza al marito... che è er capo de la famija!
AGNESA Embè, cche significa er capo de la famija?
GRISPINO Significa che er marito s’ha da tenè tutti li sòrdi pe’ llui, e
cche la moje deve arisparambià, e esse accorta. Perché qui nun ciavemo un catenaccio? Perché nun ciavemo una serratura? Vojo subito un
catenaccio e ‘na bbona serratura subbito!
AGNESA Insinenta adesso sarebbeno stati inutili, ma giacchè adesso ce
li voi te li farò mmette!
GRISPINO Sicuro, li vojo e in più subbito. Nun me fido de gnisuno.
Nun vojo che mme s’arrubbi!
AGNESA Mica pe’ questo c’è bisogno che tte c’inquieti?
GRISPINO Me vojo inquietà quanto me pare e ppiace, e nun vojo che
gnissuno me commanni e mme facci da maestro.
AGNESA Ma sai che tte dico? Che finisce che me le farai sartà ppuro
a mme! E si tu sei imbriaco io non ciò che ffà!
GRISPINO Come io imbriaco! Io imbriaco!
AGNESA Nun pò esse a mmeno! Subbito che nun me vòi dà quer sacco de quatrini! Via dammelo, Grispino.
GRISPINO No, nemmanco si schiatti. Trattamme da imbriaco a mme?
A mme! Insurtà un omo bbenestante!
AGNESA Eh! Sei matto!
Te dico che l’avrò!
GRISPINO Te dico none, no!
AGNESA L’averò!
GRISPINO Questo mai
tu giammai
l’hai d’avé!
Su vvia lasseme er braccio.
AGNESA Nun fà tanto er cacchiaccio.
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introduzione
GRISPINO T’ho ddetto de no, sii no!
AGNESA Invece io l’averò!
‘Sti quatrini sò li mii!
GRISPINO Bada, Agnese, ce le pii. ( fa pe’ menaje)
AGNESA Arzà le mano a mme?
Che core ciai d’avé!
GRISPINO Così finisce sa?
Si nun la fai finita.
Sta’ ferma, inviperita,
e statte ferma un po’. (c. s.)
AGNESA No, no, no. Mai più!
GRISPINO Hai detto no? Pia su! (je mena cola forma)
AGNESA Ah! Sì? Ah! Sì? Villano, tirato, avarone, imbriacone, purazziere10... Arzà le mano a mme? Si nun m’aritenessi te strapperebbe l’occhi.
GRISPINO Nun piagne via! Sta’ zitta, Agnese mia, nun lo farò più!
AGNESA No vvillano, somaro, purazziere! Vattene sinnò oggi te scanno! (via piagnenno)
SCENA XI
Grispino solo
GRISPINO Se n’è ita!... Nun me pò ppiù vvede! E ecco quela cratura
che ppiagne... Che Dedia me perdoni... Me pare che je stii a mmenà
ppovera cratura!... Agnesa, Agnesa, vòi venì qua ssubbito e nun stà a
mmenà a quell’anima innocente?
SCENA XII
Agnesa e Detto
AGNESA Tu mm’hai menato a mene e io meno a llui.
GRISPINO Ah! Je vòi menà? (pija ‘na sedia e la sbatte per terra) Tiè!
Pìja su!
AGNESA E adesso che ffai?
GRISPINO (se mette a ssede) Ecco che ffo! Me piaceno le ‘ssedie senza
spalline.
10
Purazziere-porazziere: ubriacone. Da porazzo: sorta d’acquavite ottenuta dalla fermentazione dei tubercoli del “porrazzo”, pianta spontanea della campagna romana.
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AGNESA (pija una pila e la bbutta per terra) E io ecco che ffo! Me piaceno le pile rotte.
GRISPINO (dà nn carcio ar tavolino) E io ecco che fo!
AGNESA Io vojo esse sempre l’urtima. (pija tutte le scudelle e le roppe)
GRISPINO E io puro! (butta tutte le sedie da la finestra poi va ppe’ bbuttasse ggiù lui puro)
AGNESA Ah! (lo tiè pe’ la giacca) Grispino mio che ffai?
GRISPINO Me ce vojo bbuttà puro io, maledetto mammone. È llui la
causa de tutto ‘sto diavolerio... Da quanno è entrato qui drento, la mi’
casa è diventata un inferno. (se strappa li capelli) Dio potente, quanto
se soffre a esse ricchi!
SCENA XIII
Senatore, Signora e Detti
SENATORE Ebbene miei buoni amici dovete esser molto contenti adesso! Vogliamo anche noi rallegrarci della vostra felicità.
GRISPINO (Ah! Vienghi bene!) Date un po’ ‘na guardata qui!
SIGNORA (osservauno la robba rotta) Dio buono che significa ciò?
GRISPINO Che vordì? Domannatelo un po’ a lei! Che ve volemo bbene, che vve stimamo, ma che rieccheve er mammone vostro perchè
nun lo volemo più.
SENATORE Questo danaro non m’appartiene più!
GRISPINO E nemmeno a mme. (a Agnesa) Sposetta mia! Te fanno incora le lune?... L’hai incora co’ mme? Me te metto in ginocchione e te
chiedo perdono. (se mette in ginocchio) Ah! Ecchela che ride! Mi moje
ride; segno bono.
AGNESA Abbasta che me prometti che le forme te serviranno antro
che a ffà le scarpe!
GRISPINO Te lo ggiuro in parola da ciavattino.
AGNESA In ‘sto caso arifamo pace. (s’abbraccicheno)
GRISPINO Ah! Mme sento mejo. Adesso nun c’è antro che er mammone che me dà impiccio. (dà el sacchetto ar senatore) Aripijatevelo.
Adesso nun lo ripijerebbe pe’ tutto l’oro der monno. (er senatore lo pija)
Me s’è llevato un peso da lo stommico. Adesso armeno posso arispirà!... Ariecco infatti l’allegria che m’ariviè e la fantasia de cantà che
mm’aripija!
Viva la fame
e la migragna
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introduzione
meno se magna
più bbene va!
AGNESA Tanto li guitti
che li moscetti
sò li più alegri
de la città!
SIGNORA Ebbene vicina, anch’io voglio approfittare del vostro esempio! Prima d’ogni altro voglio alzarmi di buon’ora e perciò autorizzo
Grispino di cantare quanto gli pare e piace.
GRISPINO Mille grazie, mia vicina!
SIGNORA Di più voglio cacciar via il medico e adesso parto sul momento per andare a riprendere mio figlio che da oggi in poi terrò sempre con me!
AGNESA Ah! Signora, se potessi v’abbraccicherebbe,
SIGNORA Se non volete che questo eccomi. (s’abbraccicheno)
SENATORE Allora da oggi in poi darò ordine a tutti i miei famigliari
che vi diano da lavorare e che diventino tutte vostre poste!
GRISPINO Questo l’accetto e vv’aringrazio!
SIGNORA Suvvia Grispino, giacché noi vi dobbiamo la nostra felicità
accettate in segno di gratitudine questo denaro che v’appartiene.
GRISPINO No signora mia, nun lo vojo, ma si ‘sto sacco ve dà impiccio, c’è qui vicino a nnoi un povero mi’ compagno che cià quattro fiji
e nun cià llavoro, portateje ’sti quatrini che je faranno ppiù ppiacere
cche a mme.
SIGNORA Ve lo prometto.
GRISPINO Evviva la .migragna che vordì l’allegria e la pace der core.
TUTTI Evviva!
Grispino e Agnese balleno er sartarello.
Viva la fame
e la migragna
meno se magna
più bbene va!
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ESSERE O NUN ESSERE?
Scenetta popolare in dialetto romanesco
i
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1. introduzione
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA, Ms. 2414. Un quaderno di 10 cc. (mm. 272x190) composto da 5 fogli tipo protocollo con
righe orizzontali recanti il marchio, cancellato a penna, del Ministero della Pubblica Istruzione, raccolti in una copertina di cartoncino leggero color grigio.
Cc. 244-254.
Calligrafia autografa.
Altro titolo in copertina: «Essere o non essere?!... Scherzo comico in dialetto romanesco di Giggi Zanazzo».
A c. 254v, in calce: Giugno 1889.
Nel faldone è presente un’altra stesura. Un quaderno legato immediatamente prima, con stesso formato e caratteristiche di quello sopra descritto, ma senza camicia.
Cc. 234-243: bianca l’ultima carta.
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introduzione
Personaggi
TETA moglie di
AMLETO musaicista
VITTORIA lavandaja
Un postino
Un bimbo in fasce
Epoca presente
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ATTO UNICO
Una camera di meschina apparenza. Da un lato un banco con attrezzi da
musaicista. Una porta in fondo che dà in una stanza da letto. A sinistra
la porta d’ingresso e una fenestra.
SCENA I
Teta e Vittoria
VITTORIA (seduta; tiene ai suoi piedi un grande involto di biancheria,
da cui ogni tanto ne toglie un pezzo e lo consegna a Teta) Dunque scassate. Avemo detto, quattro para de carzette...
TETA (seduta al banco con un lapis e la nota della biancheria) Avanti.
VITTORIA (c.s.) Cinque stracci, du’ lenzoli, quattro camicie de lui...
TETA E quella camicia dell’altra settimana?
VITTORIA Ve la porto giuveddì; perché l’ho ridovuta arimette in bucata... Scassate: du’ para de mutanne de lui... A preposito, tramente
vienivo qua da voi, azzeccate un po’ chi ho incontrato?
TETA (tra sé) (Già mme l’immaggino). Chi?
VITTORIA Quer povero ciorcinato der sor Nicola.
TETA (ironica) Me lo saluti?
VITTORIA Poveraccio, m’ha ffatto propio compassione.
TETA Ma nun avete potuto piange?
VITTORIA Eh, quello finisce che lo mannate a la Longara1... Puro voi,
co’ ttutto quer bene che j’avete vorsuto, lo sete ito a ppiantà, pe’ sposavve ‘sto broccolaro2, ch’a mmomenti ve poterebbe esse padre...
TETA Adesso quello ch’è ffatto è ffatto. Dunque è inutile a ppensacce.
Doppo tutto è vvero che glie voglio... dico che glie volevo bbene come
a ll’occhi mii; ma nun è vvero che lo piantai io; fu llui che mme piantò a mme; o pper dì meglio, se piantassimo tutti e due assieme per capriccio...
VITTORIA E vvoi, pe’ ppunto, facessivo ‘sta minchioneria de sposavve questo.
TETA È vero, sì; e mme ne sò ppentita e strapentita; ma mó sto nel ballo e bbisogna che bballi... Ve l’ho ddetto tante volte. È inutile dunque
che ne riparlamo. A Nicola glie ho voluto bbene, come se vò bbene a
1
2
N.d.A.: al manicomio.
N.d.A.: permaloso.
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introduzione
la Madonna; glie voglio (vardate si cche v’arivo a ddì!) glie voglio ancora bbene; ma mmo sò mmaritata, ciò3 un figlio... me lassi perde.
VITTORIA Eh bbenedette regazze!... Ve sete maritata!... Un omo che
vve tiè ccome ‘na schiava; che nun ve fa mmai pijà una boccata d’aria.
Ggeloso come la gatta quanno cià li fiji... Eh si stassi a mme!
TETA Sentimo che faressivo.
VITTORIA Io?! Je metterebbe ppiù... Scassate: quattro tovaje, sei sarviette, un barettino da notte, cinque para de pedalini... Quer povero
sor Nicola, co’ la cosa che j’hanno ariportato che vvoi incora je volete
bbene, farebbe carte farse pe’ stà assolo co’ vvoi dieci minuti. Ma nu’
j’ariesce. Nun sortite mai sola nemmanco per annà a mmessa.
TETA Io vorebbe sapé cchi è cche s’impiccia a andaje a riportà che io
ancora glie vojo bbene!...
VITTORIA (scandalizzata) Io no, ssapé? Aibbò: io certe parte, abbiate
pacenza, nun me piace a ffalle. Passa via!
TETA Ma allora...?
VITTORIA Annatevel’a ccerca, annatevela!... Sei fasciatori, otto fazzoletti de colore; cinque paracaduti4;... anzi da oggi in poi, sapete che
vve dico? Secca la lingua mia si vve n’ariparlo. Nu’ ne vojo sapé ppiù
ppuzza. Aibbò!... Cinque fazzoletti de tela, una parannanza... dice
bbene: Chi ffa bbene ar somaro ciarimette lescìa5 e ssapone.
TETA Ma io mica dicevo per voi; vengo per dì; ché Nnicola poi risapendolo se mette a ffà li castelli in aria...
VITTORIA Antro si li fa, poveraccio, antro! Ve dico che quello è innammorato de voi come una gatta in der mese de gennaro. Me lo diceva, stammatina, co’ du’ occhi da matto, me lo diceva: «Finarmente
l’ho ttrovo er modo de parlaje, l’ho ttrovo! E cche bbella pensata! Ciò
studiato tanto ma l’ho ttrova».
TETA E ch’ha ttrovato?
VITTORIA Annatevel’a cerca! Io nu’ je l’ho domannato, perché nun
me sta bbene a impicciamme. Lo sapete, sò ttanta dilicata in certe cose... Tre ffodere, quattro veste, otto panni, sei scuffiette der pupo...
TETA Dio mio, si nun sia mai, ne venisse a trapelà una puzza, Ameleto! Ammazzerebbe prima a mme; poi Nicola, e ppoi...
VITTORIA Se scannerebbe lui, che ssarebbe mejo.
TETA Dio ne guardi! Geloso com’è... Anzi per carità...
3
N.d.A.: ciò: ci ho.
N.d.A.: sospensorio.
5
Liscivia, ranno, acqua bollita con cenere ed usata per imbiancare il bucato. Dal lat. lixivia.
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VITTORIA A mme?! Me fa specie; io sò piccola e ddormo da piede.
Aibbò!... Se sa quer poveraccio de Nicola...
TETA Sento rumore. Zitta, per l’amordeddio, ché ecco lui!
VITTORIA E cciarifà!... Cinque canavacci, quattro zinaloni der pupo...
-
Ameleto e Dette
-
-
-
SCENA II
AMELETO (con il fagotto della spesa) Accidenti quant’è llunga la camicia de Meo! Ancora nun avete finito de contà la biancheria? Sò uscito,
ho fatto la spesa, sò ritornato; e ancora state a chiacchierà’! Ma cche
v’avete da confessà?
VITTORIA Già; v’aspettamio a vvoi che cce vienissivo a ddà l’assoluzione. Come sete ombroso! Già nun c’è dde peggio, pe’ ddiventà brontolone, dell’omo che s’invecchia.
AMELETO E cche mmi hai preso per vecchio?
VITTORIA Ah nno ddu’ vorte! Vederete che mmó l’anni passeno antro che ppe’ mme. Voi puro una quarantasettina nu’ l’averete mica
d’annà a ccerca. V’aricordate che semo stati assieme a scola de cacca
e ppiscia?
AMELETO Eh bbeata te che tte va incora l’acqua per l’orto! Teta, eccote qua la spesa fatta. (le consegna l’ involto) Va dde llà a mmette la
carne ne la pila.
TETA Subbito. (esce dalla porta in fondo) Addio Vittoria.
VITTORIA Addio, fija; se vedemo giuveddì. (ironica) Arivedella signor
Ameleto.
AMELETO Addio, ignommeratore sfasciato.
VITTORIA Se vedemo bbussolotto. ( fra sé) Si stassi a mme tte ne vorebbe mette ‘ste dua, broccolaro mio! (esce dalla porta destra)
-
-
.
SCENA III
Ameleto solo
(sedendo al banco) Mettiamose al lavoro... Eh povero Ameleto, chi tte
l’avesse detto, d’ariducette, per tirà avanti la vita, a llavorà pel Quarantotto! Poveri artisti romani! Prima l’arte del musaicista te faceva mangià co’
la forchetta d’oro. E adesso? Adesso manco con quella de stagno. Prima
tutti li musaicisti padronali, cominciando da papà mio, marciaveno in
carrozza; e adesso è un pianto. Uno s’è ridotto a ffà el pizzardone, uno el
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poliziotto, un altro el cicerone... E ll’arte nostra che era la più aristocratica de tutte, adesso ha da fà le spille da quarantotto centesimi per annà a
gegno a le serve6!... Eh diceva bbene el mio omonimo Ameleto re de Danimarca: Essere o non essere! Che significa fra li tanti altri significati: Se
ciai li quatrini sei, e se nun ce ll’hai pòi pure morì dde fame... (si picchia
al portone) Quattro tocchi: è da me. (grida) Chi è?
POSTINO (dalla strada) Posta!
AMELETO Èccome. (fa scendere dalla fenestra un panierino legato a uno
spago) Ce sò lettere?
POSTINO (c. s.) Teresa Becchetti.
AMELETO Caspita, una lettera a mi’ moglie! (al postino) Grazie. (tira
su il paniere, prende la lettera, l’osserva) È proprio diretta a llei! Gatta
ce cova! Fortuna che mm’è ccapitata in mano... Chi ssarà? Io ce sudo
freddo, pensando che... Basta: coraggio, aprimola. (l’apre, le dà una
rapida scorsa, e quindi scoppia a ridere) Oh bella, bella! Oh questa è
nnova davero. È un’antica amica de mi’ moglie che glie scrive per
chiederglie un consiglio... E cche sorte de consiglio! (chiamando) Teta,
Tetaa.
SCENA IV
Teta e Detto
TETA Che volete?
AMELETO C’è una lettera per te.
TETA (meravigliata) Per me?! Io nun aspetto nessuna lettera.
AMELETO È d’un’amica tua; una certa Nicolina.
TETA Io nun ciò nessuna amica de ‘sto nome.
AMELETO E pure è diretta a te. Guarda un po’.
TETA (riconoscendo la galligrafia del suo Nicola) ( fra sé ) (El carattere
de Nicola!) Uh varda che stupida che sò! Sì, adesso me ricordo: altro
se la conosco. Semo state a scola assieme da regazzine. Uh cara Nicolina mia! E che dice, che dice?
AMELETO (leggendo) «Mia cara Teresa, ti scrivo queste due righe, do6
Le seguenti righe della battuta di Ameleto sono cancellate con un tratto di penna:
Me viè da ride quando penso che sotto a li preti desideravamo più li fratelli che ll’ovo
de Pasqua. A senticce Roma doveva diventà Pariggi; l’arte se doveva inalzà a un livello
spropositato, li quatrini doveveno piove dal cielo... E invece? È successo come tempo
fa che per impedì al popolo de scortellasse, fu fatta la Lega contro el cortello; e poi se
scannaveno peggio de prima...
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e
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po tanto tempo, per chiederti un segnalato favore. Ti ricorderai certamente di quando facevo l’amore con Nicola, quel giovinotto simpaticissimo, col quale ci volevamo tanto bene, e che ancora non ti nascondo che gliene voglio tanto. Ebbene egli, essendo gravemente malato, mi ha scritto per pregarmi che, prima di morire, vuol vedermi, e
quindi vada a trovarlo domani mattina alle 11 in casa sua...»
TETA Che sarebbe oggi! ( fra sé) (Che sfacciato!)
AMELETO (c. s.) «Tu che mi consigli di fare? Io puoi pensare se ci andrei volando; ma, tu lo sai, ho un marito; e sebbene ami ancora Nicola più di me stessa e quindi più di mio marito che ho sposato per
un capriccio, e che odio, perché mi tiene come una schiava, pure non
mi so decidere. Tu, Teresa mia, che hai più esperienza di me, non mi
abbandonare in questa penosa circostanza.
Ti ricopio acciò che tu comprenda meglio di che si tratta, la lettera
del mio povero Nicola. Senti quant’è caro!...»
TETA ( fra sé) (Che faccia tosta!)
AMELETO Brutta sgualdrina! «Angiolo mio! So che tu mi ami ancora. Quindi te ne scongiuro, non negare a un moribondo l’ultimo conforto di rivederti ancora una volta e di ricevere il suo bacio estremo.
Avrai così il perdono di un poveretto che muore per averti troppo
amata. Vieni, non mi mancare. Questa ultima speranza mi fa parere
ancor belli questi dolorosi momenti. Tanti baci dal tuo Nicola».
TETA (Ma questo s’è ammattito!)
AMELETO «Non ti pare, Teresa mia, che sarei un’ingrata, se gli negassi questo ultimo conforto? Rispondimi subito, te ne prego. Non
abbandonarmi in questo crudele momento. Un abbraccio dalla tua
Nicolina».
TETA ( fra sé) (È matto el paìno7! Questo s’è mmesso in testa Colonna
trojana).
AMELETO Mbè che ne dici?
TETA Che nu’ glie rispondo nemmeno se more puro lei.
AMELETO Fai male, perché qui se tratta da salvà un poveraccio da diventà... Capisci?
TETA Già come si quello è moribbondo?
AMELETO Eh, ma cchi tte dice che el malato nel rivedella, se senta
meglio; e... capisci?... Essere o nun essere! È proprio il caso de dire come diceva el mio omonimo re de Danimarca. E cchi tte dice che quel
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Bellimbusto, elegantone.
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fasse crede moribbondo non è un pretesto qualunque? Che ne sai che
‘sto Nicola stia invece meglio de noi?
TETA Insomma io nun ciò ttempo da perde. Che s’arangi. Ce vadi nun
ce vadi per me m’è indiferente.
AMELETO Qui tu sbagli; perché questo anzi sarebbe el caso, invece
de scriveglie, d’andacce in persona e de diglie a ‘sta Nicolina che faccia la donna, e pensi all’onore de casa e a quello del marito. Questa,
presempio, sarebbe una bona azione da farse.
TETA Ne convengo; con tutto che el marito se meriterebbe...
AMELETO Che sse meriterebbe? Sentimo? Tutte compagne sete... Basta che un pover’omo se mostri tenero dell’onore suo...
TETA Bell’onore! È un omaccio. Gliene fa de tutti li colori. Gioca, la
rizzolla8 spesso, nu’ la fa mai uscì’ da casa sola...
AMELETO Fa bbenone: bravo!
TETA È ggeloso fracico...
AMELETO È segno che glie vò bbene.
TETA E poi, poi...
AMELETO Sentimo.
TETA Come vede una scopa con la vesta, se n’innammora.
AMELETO È omo, è naturale, è cacciatore9.
8
Rizzollà: picchiare, bastonare.
Seguono alcune battute cancellate con tratti di matita:
TETA E cche ccacciatore! V’abbasti a ddì che doppo due giorni che v’avevo sposato a
vvoi, nun c’ebbe el fégheto de famme certe proposte...
AMELETO A tte?
TETA E a chi se no?
AMELETO E indove lo vedessi?
A casa de Nicolina.
AMELETO E c’ero puro io? In presenza mia? Io ‘sta circostanza nun me la ricordo.
TETA Nun ve ricordate de quella amica che andassimo a ttrovà doppo sposato?
AMELETO E cche vvoi che me ricordi; andassimo da ttanta ggente!... E c’ebbe core,
me dici, che in presenza mia?!... Lo possino!...
TETA Uno sfacciato.
AMELETO Un vigliacco, un porco, un... Io, te ce stavo per mandà da su’ moglie acciocché nu’ lo facesse diventà... Martino*; e llui me ce voleva fà ddiventà a mme?!
a mme?! Lo possino!...
TETA Faccio bbene a nun impicciamme?
AMELETO No: fai male. Vestete; vacce subbito e dì a Nicolina...
TETA Che ccosa?
AMELETO Che vadi subbito a consolà quel poveraccio. Chi ffà mmale aspetti male.
TETA Ma vvoi scherzate? Io andà...?
9
* N.d.A.: becco.
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Insomma, da quel che vedo, voi ciaveressivo un gusto matto de sapé
che quel pover’omo diventasse becco? Vedo che ve ciariscaldate tanto!
TETA Da una parte je ce starebbe bene.
AMELETO Ah sì? Metteteve subbito la ciavatta, pijate una carettella,
e annate a consiglià quela vostra Nicolina che nun se move da casa,
che nun sta bene.
TETA (da sé) (Me fa da diavolo tentatore! Eh mi ciamancherebbe puro
questa! Che me lo commandasse lui!)
AMELETO Nun parlate? Che nun m’avete inteso?
TETA Ma io...
AMELETO Ma io ma io! Vestiteve e tocca10. Ve lo do io «je ce starebbe
bene!»
TETA Io nun ce vado!
AMELETO Vorebbe vede questa! Marce. Ciavete d’annà e in carozza!
TETA Ma vvoi scherzate? Io andà...?
AMELETO Nu’ scherzo: dico sul serio! Puro me conoschi. Io sò come
la capoccia de li prosperi; o pijo foco subbito, o per gnente. Vestete e
vacce.
TETA (supplichevole) Ma non me ce mandate che a voi nun ve sta bene.
AMELETO Me sta benissimo. Se tratta d’una bona azione e ciavete
d’andà perché nu’ lo volete. M’arincresce che ho da finì un lavoro de
premura, si no ve ciaccompagnavo io in persona.
TETA ( fra sé) (Era meglio.) E si sse sveglia el pupo?
AMELETO Lo spupazzo io... Vestete e marce!
TETA Ma ricordateve che si ppoi succede qualche guasto, ciavete che
ffà vvoi.
AMELETO Ma che guasto nun se sa. Qualunque cosa succede nun me
ne preme un corno; capischi, un corno, un corno?
TETA Quando un corno nun ve preme, ciovè dicevo, quando nun ve
ne preme un corno... fiat voluntas tua. (si comincia a vestire) Io ce vado giusto per obbedivve; ma ricordateve che l’intenzione mia nun c’è,
nun c’è, nun c’è.
AMELETO (seccato) Quanto puzzi! Te dico vacce e sbrighete; sinnò11
10
E basta. La frase completa è: e tocca la viola, espressione usata anche da Belli (Ar sor
Lello Scini, nota 1) ed era la formula conclusiva di alcuni giochi di bambini.
11
Seguono alcune righe cancellate con tratti di penna:
quela poveretta nun fa a ttempo a sta a le 11 da quel poveraccio... Te dico, che me rincresce che sia moribbondo, perché in quelli piedi che se trova nun pò pensà a ffaglie
danno, a quel vigliacco! Ma speriamo ch’el Signore glie dia forza e coraggio. Ah sor don
Giovanni, me volevate fà Mmartino a mme? Ve sta bbene. A vvoi, cannella!
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introduzione
a momenti sò le 11 e quella nun vedendote pò esse che el diavolo la
tenti d’andacce. Che bbella sodisfazione ce provo io quando posso fà
una de ‘ste bone azione12!
TETA Mbè, giacché voi volete propio così; io ce vado. Ma ricordateve
che...
AMELETO ...Si succede qualche guasto ciò cche far io! Me l’hai detto
già quattro volte: ho ccapito. Vattene.
TETA (si pettina, guardandosi con civetteria nello specchio) Da quando
avemo sposato, nun m’avete mai fatta uscì sola la porta de casa... E
oggi sete voi che mme fate uscì, per un capriccio vostro, per mandamme a fà un bel lavoretto...
AMELETO Nun tante osservazione! Sò io che lo voglio e nun ammetto repliche. Fenìscete da vestì e vattene.
TETA Vado, vado; ma ricordateve che ssete voi che l’avete volute...
AMELETO Ma quando te dico de sì!
TETA Altrimenti io nun ce sarebbe andata, manco si me ce strascinaveno un par de bovi...
AMELETO Embé farai conto che el bovo che tte ce strascina, sò io...
TETA (pronta per uscire) Allora ce devo propio andà.
AMELETO Ma quanto la fai lunga!13 Te ne vai o nun te ne vai?
TETA Allora, addio14.
AMELETO (trascinandola verso la porta) Va lesta sbrighete e prendi la
carettella. Ecchete li soldi15.
TETA ( fra sé) (Ce se vede propio la mano del destino!) (esce dalla porta
d’ ingresso)
AMELETO Se vedemo. Rotta de collo! Manco male che gliel’ha fatta!
12
Le ultime parole di questa battuta: «quando posso fà una de ’ste bone azione» sostituiscono le precedenti cancellate a penna: «assaporà li frutti de la vendetta».
13
Precedente lezione: Ma quanto puzzi!
14
Precedente lezione: (pronta per uscire) Lo dico per stà tranquilla de coscienza.
15
Precedente stesura, poi cancellata, di questa battuta:
AMELETO Sta tranquilla. Dal momento che tte ce mando io, caspita! Se capisce che
è mmia la colpa.
Seguono, poi, alcune battute cancellate:
TETA (esitando ancora) Allora vado?
AMELETO (su tutte le furie le dà una spinta) Ma vattene a ffatte fotografare!
TETA Che bbelle magnere!
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SCENA V
Ameleto solo
AMELETO «Essere o nun essere!» Dice bbene: ecco un marito, per
esempio, che si nun ero io che lo salvavo oggi16 ce diventava come è
vvero el sole...17 (pausa. Guarda l’orologio) A ‘st’ora, Teta, già sarà arivata da la sora Nicolina... A proposito, che stupido! nun me sò ffatto
dì nemmeno dove abbita ’sta sora Nicolina. (pausa) Me lo farò dì quando aritornerà a ccasa... Sarei curioso da vede Nicolina come se mette,
quando se troverà ddavanti a quel povero ammalato... (pausa) (si sente piangere il bimbo) Oh s’è svegliato el pupo. È meglio a nun fallo
piange, povero innocente. (entra nella camera da letto e ne ritorna subito col bimbo in braccio; finge di cunnarlo) Oh, ooh!... (pausa) Che
serve, più cce penso a ’sta cosa più me ce viè dda ride. Me voglio rilegge la lettera. (se la cava dalla tasca e la rilegge) Quando farò conoscenza co’ ‘sta sora Nicolina, glié dirò: ringraziateme; perché si nun
ero io, averessivo fatta ‘na gran buscarata.18 (pausa) Curiosa poi che
lui se chiama Nicola, e llei Nicolina. Che combinazione strana! (ride)
Si poi verrò a conosce quel pover’omo19 del marito della sora Nicolina, glie dirò: Si nun ero io a quest’ora, la gente ve diceva: Ah voi sete
el marito de lei? Voi?! Bravo sor cornacopio20! (e scoppia in una clamorosa risata)
SCENA ULTIMA
Vittoria e Detto
VITTORIA (con un involto sotto il braccio entra, chiamando) Sora Teta,
sora Teta!
AMELETO Che vvòi?
16
Cancellate da qui le seguenti parole della battuta:
Quel povero Nicola, nun era moribbondo.
17
Cancellate a penna da qui le seguenti parole della battuta:
Che peccato che sia bbello che andato!... Ma chi lo sa? Fino che c’è ffiato c’è speranza...
Brutto vigliacco, volemme provà a... A mme?! A mme che allora, fra l’altre cose, ero pure sposetto fresco, e nun me conoscevi manco per prossimo. Te possino!...
18
Precedente lezione: perché si nun ero io, voi dal vostro Nicola, nun ce saressivo andata un accidente...
19
Precedente lezione: l’imbecille.
20
Precedente lezione: cornutaccio!
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introduzione
VITTORIA Ah gnente, je volevo fà vede si sta camicia la riconosce pe’
sua.
AMELETO Be’ aritorna più tardi, allora, perché Teta nun c’è.
VITTORIA (meravigliatissima) Nun ce credo. (entra in camera da letto:
osserva con curiosità in ogni canto) Sora Teta, sora Teta.
AMELETO Guarda che tigna!
VITTORIA (tornando) Nun c’è davero.
AMELETO Quando te dico de no. È ita in un posto indove lei nun ce
voleva andà.
VITTORIA Bravo! ( fra sé) (La lettera è arivata e ha fatto affetto.) E
perché nun ce voleva annà? Sfido poveraccia, siccome sola nun ce la
mannate mai...
AMELETO Io ce l’ho mmandata per forza.
VITTORIA Voi?
AMELETO Io!
VITTORIA Doveva esse un posto che ve premeva assai!
AMELETO Sicuro, l’ho mandata a fà una bona azione, in seguito a
una lettera che glià scritto una certa Nicolina.
VITTORIA (scoppiando a ridere) Bravo! (fra sé) (L’amica è ita a ppollo!)
Questa davero è da segnasse col carbone bbianco!
AMELETO Perché? Che c’è tanto da ride?
VITTORIA (c. s. ) Perché da quanno sete sposi, questa è la prima vorta che vedo uscì lei sola.
AMELETO E ce l’ho mannata io pe’ forza!
VITTORIA Bene. (ride)
AMELETO A spinte! (c. s.)
VITTORIA Bravo! (c. s.)
AMELETO E je ciò pagato puro la carozza!
VITTORIA Come je ciavete puro... (accarezzandogli la testa, abbracciandolo e baciandolo) Ma benone! Dunque se trattava d’un’opera propio misericordiosa...?
AMELETO Brava! Indovinate quale opera?
VITTORIA Che vò da dì? Da vestì quarche ignudo...
AMELETO ( fa cenno di no col capo)
VITTORIA Ciò azzeccato! D’alloggià quarche povero pellegrino!
AMELETO Macché. Venite qua (le si accosta all’orecchio e finge di dirle
qualcosa) Eh che ve ne pare? È uno de meno!
VITTORIA (sbotta da ridere) E vai cercanno uno de più uno de meno!
AMELETO Ma perché ridi tanto?
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VITTORIA (ridendogli sulla faccia) Perché mme fate ride, perché me
va da ride, perché nun posso fanne a meno. Tutt’affatto devertì.
AMELETO Infatti, io pure, oggi, contro el mio solito, nun farebbe che
ride.
VITTORIA E allora ridemo puro (scoppiano ambedue in una sonora risata) Cento de ‘ste giornate!
AMELETO (stringendole con effusione la mano) Grazie!
Cala la tela
Giugno 1889
a
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LI CARBONARI
Scene comiche in dialetto romanesco
Riduzione dal francese
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. Un quaderno di 11 cc. (mm316x224) composto da 5 fogli tipo protocollo più 1
c. sciolta, recanti il marchio cancellato a penna del Ministero della Pubblica Istruzione.
Cc. 345-355, più 1 c. di guardia alla fine.
Calligrafia non autografa.
Testo a piena pagina.
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introduzione
Personaggi
PIPPO detto Tuttibozzi Carbonaio
TERESA detta la Sbirretta Carbonaia
IMBROJI Giudice Conciliatore
MENICA Lavandaia
TITO Scopatore
Epoca presente
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1. introduzione
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ATTO UNICO
La scena vierebbe a esse l’ufficio d’un giudice conciliatore, in der fonno
una porta che s’apre e se chiude a siconna de le circostanze. A mancina
una porta der giudice che dà in dell’antre stanze de l’appartamento. A
man dritta un caminetto co’ lo specchio sopra. Un tavolino pieno de carte, libri e antri impiccetti, un campanello e una colazione che nun è finita. A li muri certe ‘scrizzione che dicheno: «Tassa municipale sui cani.
Servizio medicale notturno. Indirizzi dei giudici concijatori». Diverse sedie. Una finestra a dritta.
SCENA I
IMBROJI (che sta facendo colazione) C’è della gente che crede che noi
abbiamo le nostre ore fisse per mangiare. S’ingannano a partito. (beve) Si mangia... sì, soltanto non si mangia quando si vorrebbe. Che vi
pare! Sono le tre suonate! Domando e dico se questa vi sembra l’ora
in cui un povero disgraziato deve ridursi a trangugiare alla meglio un
boccone di pranzo... E poi perché? Perché ci sono degli individui i
quali passano la loro vita a litigare. (prende una carta) Eccone uno per
esempio che si querela, indovinate perché? Perché gli hanno rubato
l’orologio davanti al casotto della donna barbuta! Che cosa me ne importa a me? E chi mi può provare che colui che gli hanno rubato l’orologio non sia cento volte più birbone di lui? Poiché è bene che lo si
sappia una buona volta: sotto la veste di un giudice c’è la stoffa del
filosofo... sicuro, del filosofo che capisce tutte le debolezze dell’umanità, che le sa scusare e le sa, nel medesimo tempo, incoraggiare. Infatti se togliamo totalmente dalla società i ladri, gli assassini, gli scrocconi... che cosa ci resta? Della gente onesta. E con la gente onesta si
fanno in fede mia delle belle cose, dei buoni affari!... Tanto che, se ve
lo debbo confessare, io amo più i malfattori, almeno non vi vengono
mai ad incomodare per querelarsi della gente onesta, mentre questa è
sempre in querela coi malfattori. (si bussa alla porta) Avanti! Lo dicevo io che non si può stare un momento in pace!...
SCENA II
Menica e Detto
MENICA (di dentro) Deo gratias!
IMBROJI Avanti che qui non siamo mica in chiesa!
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introduzione
MENICA Sete lei er signor giudice conciatore?
IMBROJI (con severità) Che cosa volete?
MENICA Perché me ce vojo fà propio quattro risate, si sete voi!
IMBROJI Esponete il caso!
MENICA Sentite stammatina sì cche me succede: stavo p’er prato de S.
Cosimato a stenne li panni de ‘na posta mia che sarebbe la moje de...
nun so si lo conoscete... er sor Pietro, quello che sta al Monte de pietà
a fà er coso... er coso... aiutatemelo a ddì... ah! già, voi nun lo conoscete, è lo stesso; insomma, er sor Pietro che sta ar Monte de pietà.
Dunque, come ve dicevo, stavo a stenne li panni quant’ecchete che me
se presenta un pizzardone e me dice che sò cascata in contravisione.
Che volete io?! Dimme che ero cascata in contravisione e levammese
er lume dall’occhi fu tutta ‘na cosa. Dico: e com’è uscita ‘sta contravisione si sò pe’ lo meno venti anni che viengo a stenne qui sor co...
capite? Dico: che proprio stammadina v’ho dato sur naso? Dice: pagate e nun fate tante ciarle, sinnò ve porto in carcere. In carcere a me?
dico: ce porterete... capite sor giudice? Allora lui me fa dice: me parete un po’ troppo vassallona1! Nun me l’avesse mai detto, sor giudice
mio, nun me l’avesse mai detto! N’antro tantino me j’attaccavo a l’occhi. Abbasta, poi me sò consijata co’ ‘na commare mia, e così je sò
venuta a dà querela.
IMBROJI Perchè v’ha fatto contravvenzione?
MENICA Perché m’ha insurtata, perché m’ha detto vassallona.
IMBROJI Anche voi, però, potevate moderare i termini.
MENICA Io moderà li termini? Me fa mórto spece come parlate. Io sò
‘na pubbrica cittadina e vojo fà quello che me pare e piace. Insinenta
che m’ha fatto pagà la murta, nun m’è importato gnente; ma dimme
vassallona a mme! A mme! lui se sbaja assai! Vassallone sarà lui co’
quell’antri quattro cani che stanno ar Municipio!
IMBROJI Dunque la multa l’avete pagata?
MENICA Sicuro! (caccia ‘na carta) Ecco qua ciò tamanta de ricevuta!
M’ha fatto spenne 80 bajocchi. Che ce se possi comprà 80 bajocchi
de spezzieria.
IMBROJI Ma se avete pagato la multa mi sembra ozioso il querelarsi
per un nonnulla.
MENICA Ah! Lo chiamate un «nonnula»? Lo chiamate un nonnulla?
Dimme vassallona a me? Je vojo imparà come se tratteno le lavannare
in ‘sti tempi che correno.
1
Canaglia, screanzata.
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IMBROJI Se volete così, se insomma non c’è il modo di riconciliarvi...
Ditemi dove siete di casa!
MENICA A Campo Carleo 23.
IMBROJI La professione?
MENICA Lavannara prubbica!
IMBROJI E la guardia in questione come si chiama? Dove abita?
MENICA Nu’ lo so come se chiama; ma abita ar Municipio dove staveno prima li frati de l’Ariceli, e se chiama la guardia 27.
IMBROJI (scrive) Va bene, potete pure andare. Sarete chiamata.
MENICA (senza salutare) Dimme vassallona a mme, a mme! Eh! Lo so
io quer che ce vorebbe! (via)
SCENA III
Imbroji solo
IMBROJI Ed ecco perchè bisogna interrompere il pranzo!... Vediamo
a che punto ero! Ah! Stavo terminando di rosicchiare l’osso della mia
costoletta.
Se sente da dentro un gran rumore e poi un battibujo2 fra ’n’omo ’na donna.
Se vede la porta der fonno che trittica da le spinte che je danno Pippo e Teresa.
PIPPO (da dentro) E io te dico che vojo passà pe’ primo!
TERESA (idem) E io te dico de no!
IMBROJI Dell’altra gente, misericordia.
PIPPO (idem) Ariprovece ’n’antra vorta?
TERESA (idem) Ciariprovo sicuro; avessi da mettemme paura!
Seguitano a baccajià. La porta se spalanca e un carbonaro e una carbonara
con le facce tinte de nero entreno litiganno dentro l’ufficio.
SCENA IV
Pippo Teresa e Detto
IMBROJI
2
Che cos’è? Volete spiegarvi? Rispondete!
Battibecco.
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introduzione
Pippo e Teresa sò tanto sfiatati che nun je la fanno manco a dì ‘na parola. Se
sforzeno pe’ parlà e nun riesceno antro che a ffà quarche gesto e a ddì quarche mezza parola.
TERESA (aripijanno respiro) Signor coso...
PIPPO Sor giudice...
TERESA Semo venuti...
PIPPO Pe’ ffà pace...
IMBROJI Eh! lo vedo bene!...
TERESA ‘Sto signore è ‘n vassallo.
PIPPO (risentito) Perdi er fiato.
TERESA (più forte) ‘Na canaja.
PIPPO Te vòi stà zitta?
TERESA Nemmanco si m’ammazzi, vassallone!
PIPPO Aricomincio da capo? (arza le mani)
IMBROJI (si mette in mezzo) Vi faccio osservare, o signori, che un ufficio di giudice conciliatore non è un’arena!
PIPPO Nun sente che colei m’insurta?
TERESA Ne sentirai de peggio!
IMBROJI Tregua... Siete davanti alla giustizia. Rispondete uno alla volta e quando sarete interrogati.
PIPPO E TERESA Sì sor conciatore!
IMBROJI Conciliatore, bestie!
TERESA Sì; io però ve previengo che tutto quello che dirà ‘sto boja nun
è vero!
PIPPO E quello che ddirà llei nemmanco!
TERESA No, io dico la verità.
PIPPO Lalléro!
TERESA Bisogna faje pagà ‘na bona murta e mannallo a le carcere nove.
IMBROJI Vediamo, signori, chi è prima il colpevole.
TERESA È lui!
PIPPO È llei!
IMBROJI Chi di vojaltri due viene a deporre, chi si viene a querelare?
TERESA Io!
PIPPO Io!
IMBROJI Mio Dio ma che cosa avete? Siete spiritati?
PIPPO E adesso pronunziate la sentenza!
IMBROJI Basta. Vi proibisco d’influenzarmi! E prima d’ogni cosa debbo dirvelo, non ho assolutamente capito ciò che voi mi avete detto.
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PIPPO Eppure avemo strillato forte.
TERESA Allora ricomincio...
PIPPO Io pure...
Li du’ discorsi (che vengono appresso) de Pippo e de Teresa se dicheno nello
stesso tempo o meglio contemporaneamente.
TERESA E st’infame de ‘sto carbonaccio che cià avuto gnentedemeno
er core d’arzà le mano su una povera donna. Vojo giustizia, sinnò me
la fo da me!
PIPPO E ‘sta boja de ‘sta carbonara che cià ccore de cantà tutta la santa giornata e de rubbamme tutte le mi’ poste de bottega. È ora de finilla. O bisogna che mori lei, o che io ammazzi lei!
IMBROJI (asciugandosi il sudore) Come volete che io renda giustizia a
della gente simile? Maggiormente poi a della gente a cui è impossibile leggere sulle loro fisonomie...
PIPPO Se potressimo spiegà cor un po’ de pacienzia.
TERESA Co’ un un po’ de pacenza co’ un omo che mena a le donne?
PIPPO Come t’azardi ancora...
IMBROJI Silenzio! Siccome mi è impossibile procedere fra tanta confusione, v’interrogherò separatamente.
TERESA Bravo, cacciate de fora lui!
PIPPO Bravo, schiaffatela a sede ar posto suo.
IMBROJI (spingendo Pippo verso la porta) Ebbene sarete voi il primo a
essere cacciato.
PIPPO Allora quanno dev’esse accusì me schiaffo a ssede su ‘sto canapène e nun opro più bocca nemmanco si llei me dicessi codica.
IMBROJI (si mette a sedere) La parola alla signora!
TERESA (alza la mano dritta) Giuro de dì tutta la verità gnent’antro
che la verità!
PIPPO Ecco le miffe3 che principieno.
IMBROJI Può essere benissimo; ma ciò non vi deve interessare. Avanti!
TERESA Dunque, caro sor giudice, io fo la carbonara.
IMBROJI Me ne sono accorto!
TERESA Sò quindici giorni che ho uperta bottega in via der Merangolo n. 44 de faccia propio a quer signore llì chiamato er sor
Tuttibbozzi.
3
Bugie, menzogne, panzane.
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PIPPO Te possino!...
IMBROJI Sts!... (sona il campanello)
PIPPO Nun fiato più.
TERESA E sia che sarò più de bone magnere de llui...
PIPPO Pò esse, pò stà!
TERESA Sii che la mercanzia mia sia più bbona...
PIPPO Sor giudice, nun posso permettere che se dichi male de la mi’
mercanzia. Fatecela vede la vostra, sora scontenta, fatecela vede!...
IMBROJI Silenzio! (Pippo se mette a sede)
TERESA Io nun j’arisponno pe’ gnente. Dunque, come ve dicevo, tutti quelli der vicinato viengheno in de la mi’ botteguccia...
PIPPO Bisognerebbe vede perché ce viengheno.
IMBROJI Giusta osservazione. Sarebbe bene saperlo.
TERESA Sia perché fo affari più de lui, che me sta incontro, è ggeloso,
ce magna l’ajo; e stammatina, anzi, mezz’ora fa ha traversato la strada
e m’ha sonato...
PIPPO Nun è vero!
TERESA Si è vero! M’ha sonato un leccamuffo4...
PIPPO Nun è vero!
IMBROJI Diavolo!
PIPPO ( forte) Nun è vero, nun è vero!...
IMBROJI Vorreste dire che non avete colpito questa carbonaja?
TERESA Ma questa è un’infamità!
PIPPO Nun dico questo...
IMBROJI Allora che cosa le avete fatto?
PIPPO (s’alza e s’avvicina a Imbroji) Prima de tutto, scusi, ce l’ho la parola? Posso parlare?
IMBROJI Ma certamente!
PIPPO Allora io puro giuro de dì tutta la verità, gnent’antro che la verità. J’ho dato un papagno5.
IMBROJI (a Teresa) Allora perché dicevate un leccamuffo?
PIPPO C’è differenza, diavolo! Er papagno se dà accusì, e er leccamuffo, in quest’antro modo. E poi dico, sor giudice, guardate l’articolo de
li leccamuffi.
IMBROJI (a Teresa) È vero?
TERESA Io nun me n’intenno!
IMBROJI Ho capito! Ma la giustizia avrà cura di occuparsene. (con dol4
5
Sberla, ceffone, manrovescio.
Pugno violento, cazzotto.
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cezza a Filippo) Mio caro, spiegatevi alla vostra volta. (a Teresa severamente) E voi sedete e tacete. Farò prendere delle accurate informazioni sul conto vostro.
TERESA Come, doppo che ce l’ho prese...?!
IMBROJI Silenzio! (a Pippo) Abbiate la compiacenza di sedervi (gli dà
una sedia)
PIPPO (Che bravo giudice, che bravo giudice!) Ecco qua, sor giudice
mio, come stanno le cose. Stavo facenno l’affari mia, anzi stavo per
annà ar Ministero de l’Interno...
IMBROJI A che farci?
PIPPO A pijacce l’Impresa de le stufe. Quanno ‘sta sora sposa...
TERESA Sò zitella e ve lo proverò!
PIPPO Pò esse: chi te dice gnente!
IMBROJI Avanti!
PIPPO Quanno ‘sta zitelluccia me s’è venuta a mette davanti a la bottega mia, co’ la stessa mercanzia. Che è successo? Se capisce. Siccome
io nun potevo fornì l’avventore de quello che li poteva fornì lei... (co’
rabbia) annàveno a pijà a bottega sua, quello che nun poteveno trovà
in de la mia.
TERESA Lui m’insurta!
PIPPO Insomma, pe’ spiegasse: lei cià una qualità de carbonella che io
nun ciò; e de soprappiù, pe’ fà cascà li merlotti in de la su’ rete, sta
tutto er giorno a cantà l’animaccia sua. Capirà, sor giudice mio, che
‘sta cosa m’ha incominciato un po’ a seccà... me vedevo sparì tutte le
poste...
TERESA Avanti e poi e poi...?
PIPPO E poi, chi dà a llei er diritto de cantà tutto er giorno er Caprone? Nun se chiama questo un rumore notturno?
IMBROJI Un momento. Che cos’è questo Caprone?
TERESA Una canzoncina de li Monti...
IMBROJI Ci sono forse delle parole indecenti?
PIPPO Nun dico questo; ma capirete che una canzona che se chiama
er Caprone e che quanno se canta aripete sempre, caprone, caprone,
sippuro lei la sentisse co’ tutto che è giudice conciatore, puro je seccherebbe.
TERESA Se ne ponno sentì de peggio! (ride)
IMBROJI Scusate. C’è un mezzo molto semplice. Fatemi sentire la canzone e così potrò giudicare della gravità del delitto!
PIPPO Embè la dichi puro. E si llei nun me dà ragione quanno l’ha intesa, sangue dell’aio!... (batte sul tavolino)
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IMBROJI Basta!... (Pippo se scosta) Declamate come si conviene davanti alla giustizia; perchè non occorre che la cantiate.
TERESA Sì, sor giudice...
IMBROJI E non aggravate, vi prego, la vostra situazione.
TERESA (declama) Du’ villani de Fumone
nell’annasse a divertì
incontrarono un caprone (indica Pippo il quale fa atto di protesta)
co’ ddu’ corni da nun dì!
Uno disse: segno brutto,
pe’ chi è? Gnente pe’ te?
L’antro disse: pò stà tutto,
ma le corna no, sapé!
Pe’ conosce er disgraziato,
vanno su da n’avvocato
che je disse crudo crudo
prima datemi uno scudo:
poi je disse, amici cari!
Si può esser più somari?
Il capron per dir com’è
v’è comparso, ma per me...!
IMBROJI Non c’è niente di male.
PIPPO Per un ufficio de giudice conciatore nun c’è niente de male; ma
per una bottega de carbonaro ar minuto...
IMBROJI E in seguito alla canzone avete dato alla signora uno schiaffo?
PIPPO No, un papagno, scusi!
IMBROJI Alla signorina!
PIPPO Sfido io! Metteteve in de li mi’ panni!
TERESA E pe’ questo vojo che sia condannato a li lavori forzati a vita.
PIPPO No, anzi l’averebbero da mannà a Civitavecchia.
TERESA No, anzi mannatelo a morì in d’un’isola co’ l’acqua da tutte
le parte.
PIPPO Capite che core? Eppoi dicheno che le donne sò tenere de corata, ammàzzele!
IMBROJI (serio) Signora voi tacete. (a Pippo) Mio caro io non ho facoltà di giudicarvi ma se voi mi giurate d’aver detto la verità...
PIPPO (dà un pugno sul libbro der vangelo e strilla) Lo giuro!...
TERESA (c. s.) Lo giuro!...
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IMBROJI Perdio, ma che cosa vi siete fatti? ( fa vedere il libro dove ci sono rimaste stampate le mani dei due carbonari) Si appoggiano delle mani come codeste sopra il libro dei santi Evangeli? E poi è regolare, domando io, avere delle mani come codeste?
TERESA Oggi nun era domenica. Noi se lavamo antro che la domenica, è vero?
PIPPO Su questo tasto ha raggione!
IMBROJI Basta, allora tornate domenica mattina e avrete la vostra condanna.
TERESA De che? Avressimo d’aspettà insinenta a domenica a mattina?
Ma voi ciavete le patate?
PIPPO Ma voi ciavete le pigne? Io voglio esse giustiziato!
TERESA Io puro vojo esse giustiziata!
IMBROJI Vi prego di dir meno insolenze, o son costretto di farvi mettere alla porta dai miei uscieri. Tornate allora fra poco e giustizia vi
sarà resa... ma mi duole il dirvi, mia cara signora, che il vostro caso
non è punto rassicurante.
TERESA Ma come, doppo che ciò preso la sveja!...
IMBROJI E va bene; ma voi tenete della carbonella...
PIPPO Che io nun tiengo! E lì sta er punto!
TERESA Abbasta, se la vedremo! Addio, sor conciatore. (andando via)
Ma eh! Vatte a ffidà de la giustizia. (via)
PIPPO Io saluto e aringrazio er signor conciatore, er magistrato alluminato... (con tenerezza) Questa è giustizia vera. ( fa per andarsene poi
torna) Si ve serveno un po’ de tizzi boni, nun fate comprimenti. A carbonella sto male; ma a tizzi ve ne posso fornì quanti ne volete. (via)
SCENA V
Imbroji solo
IMBROJI Ecco per esempio un buon giovine che ha destato in me
dell’interesse. Son certo che da questo impiccio ne uscirà bianco come
la neve! È un’anima delicatissima in un corpo di carbonaio. Vedi che
testa! Mi sono dimenticato di domandare loro il nome... Non fa nulla. (scrive) «Il carbonajo di faccia alla carbonaia di faccia ha schiaffeggiato la seconda perché la seconda seccava il primo, cantando il Caprone». (rilegge) Ben scritto. Ora finiamo di mangiare. (si sente sonà el
campanello) Ah, ah, della gente ancora! Avanti. (Tito apre la porta) Vi
dico che entrate.
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SCENA VI
Tito (scopatore ) e Imbroji
Tito porta la montura di scopatore, cià la pippa in bocca, la scopa in mano.
Si presenta con aria importante.
TITO A, sor coso, me faressivo er piacere de dimme si è qui che se giustizia la gente.
IMBROJI Che cosa dite?
TITO Domanno si è qui che se fa giustizia?
IMBROJI Sentite, se ci si facesse qualche volta ne proverei un gusto
matto. Di che cosa avete a lagnarvi?
TITO De che? De che? Ve lo direbbe io de che...! Abbasta, è mejo a
stasse zitto.
IMBROJI Se siete venuto qua per tacere, ecco la porta; potete andarvene.
TITO Ma sentite sicché me capita stammatina. Me ne venivo in giù
doppo d’avé scopato, cor timor de Dio, tutto er Corso insinenta a S.
Marcello: capite? Perché io scopo sempre cor timor de Dio, qualunque
sia strada. Quanno pànfete! un paìno6, si’ scannato, me dà n’appettata7, n’appettata che llèvete! E quanno te dico lèvete, llèvete; perché la
botta che m’intesi dà sur petto, io sortanto la posso ggiudicà!...
IMBROJI Eh! sta bene, lo credo; avanti!
TITO Io, sor Giudice mio, je feci dico: Ma che sei guercio? Chiunque
antro, ar posto mio, javerebbe detto artrettanto, nun è vero? Embè,
quer musolino nun c’ebbe core d’arisponneme che ero guercio io?! Insomma: incominciò a sgaggià: capite? Come si llui avesse avuto raggione, e io fussi stato da la parte der torto. Io che vedevo che s’ariddunava gente, dico, mó questi me danno torto a me! E detto fatto, me
metto a strillà si era quello er modo de pijà de petto un pubbrico scopatore...
IMBROJI (da sé) (Anche questo ha la mania di voler esser pubblico come la lavandaia di dianzi.)
TITO Lui naturalmente, sor giudice mio, me dà der tipo. Io che aspettavo quella parola che je scappasse da la bocca più della manna der
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Bellimbusto, elegantone.
Qui Zanazzo, come esplicitato più avanti nella battuta, usa il termine appettata nel
significato di «botta data sul petto», non registrato in RAVARO, (dove è riportato solo
il significato di: «pesante fatica, grave sforzo»), né in CHIAPPINI (che riporta: «fatica
che conviene sostenere nell’ascendere una salita, ed anche la salita stessa»).
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cielo, nun je la feci a ripete du’ vorte. E je dissi: Se la vederemo davanti ar giudice conciatore, si sò un tipo. E detto fatto me ne sò venuto
qui pe’ daje quarela.
IMBROJI Per qual motivo?
TITO Perché? Perché m’ha pijato de petto.
IMBROJI Ma scusate non ve l’avrà mica fatto appositamente. Succede
tutti i momenti.
TITO Nun fa gnente! Pò stà! Ma perché damme der tipo? A mme nun
me capacita pe’ gnente. Si ppoi lui ciavessi quarche raggione da dimme che sò un tipo me lo provi!
IMBROJI Ma sicuro che ve lo proverà! Insomma sentite, se voi vi ostinate nel voler dar querela a quel signore dal quale vi siete creduto
offeso, ditemi il suo nome, la sua abitazione... insomma le sue generalità!
TITO De chene? Oh! questa è bbella! Io averebbe da sapé...? Allora er
guverno che starebbe a ffà? Me pija de petto una persona e io ho da
sapé come se chiama! Indove abbita!... Ma le patate! Voi che ssete quelli del guverno l’avete da sapé, no io!
IMBROJI Oh! Sapete, io non ho tempo da perdere. Io non posso dar
querela ad una persona di cui non conosco né il nome, né l’abitazione.
Capite?
TITO Ho capito, ma mme fa specie, ve torno a ripete, che er guverno
nun sappi er nome de le persone! Allora che guverno se chiama?
IMBROJI Oh! io non posso entrare in discussione con voi sui meriti del
governo. Andate a trovare la persona che vi ha offeso, domandategli
il nome e l’abitazione, tornate qui e giustizia vi sarà resa! Altrimenti
non ne facciamo nulla.
TITO Già! Io mó averebbe d’annà a trovà quello per domannaje...; belli consiji che me dà! Accusì, si lo trovo, co’ un mozzico me je porto
via er naso! Macché! Nun me fo giustizia da me? Pi, pi!... Se vedemo!
IMBROJI Addio!
TITO (batte la mano sul tavolo) Eh! Ma che, mm’ha da venì la repubbrica?! Antro si ha da venì! Basta, è mejo annàssene. (via)
IMBROJI E va al diavolo te e la tua repubbrica, imbecille. Vedete che
bel modo da ragionare. E dire che gente di tal fatta mi capita tutti i
giorni! C’è da impazzire... oh andiamo a portare queste carte al copista. (si sente sonà il campanello) Entrate! (Pippo entra) Buon giorno signore; aspettatemi un momento che torno subito. (via)
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introduzione
SCENA VIII
Pippo solo
PIPPO (s’ è lavato mani e viso, s’ è levato il vestito da carbonajo e si è messo quello della festa) M’ha chiamato signore; è segno che nun m’ha ariconosciuto... Sò arivato er primo ‘sta vorta... Siccome m’ha detto er
giudice che lui legge molto bene su le fisonomie... me sò dato ’n’aranciata a la mejo, e mme sò lavato er grugno accusì me pò guardà bene
su la fronte... Intanto che aspetto ‘sta strega, me vojo annà a ffaccià su
‘sta loggetta pe’ vedella arivà. (si affaccia)
SCENA IX
Teresa e Detto
TERESA (pure lei s’ è cambiata l’abito e lavato il viso) Sò arivata la prima; siccome er giudice ha detto che lui legge bene su le fisonomie, me
sò lavata la faccia... (si guarda a lo specchio) Oh! signore, ma sò io? me
pare fino impossibbile. Provamo a fà quarche gesto. (alza un braccio)
Ma sicuro! Ma certo sò io, propio io. Sò carina magara!... Me capacita assai d’esseme lavata, bisogna che lo facci tutti li giorni... Armeno
si averò da trovamme ‘no straccetto de marito, lo troverò più presto.
Accusì ce l’avessi avuto in ‘sta circostanza! Sarebbe stato lui che averebbe ricevuto er papagno e l’averebbe arestituito ar sor Tuttibbozzi!
(siede) Basta, mettémose a sede!
PIPPO (rientra) È chiaro come er sole che l’amica s’è squajata e nun aritorna più. (vede Teresa) Una signora!!
TERESA (c. s.) Un signore!!!
PIPPO (da sé con importanza) (Eh! A casa de li giudici c’è sempre gente
piuttosto, diciamo accusì, pulitina... questa doverebbe esse quarche
signora che campa de rènnita. E che ber pezzo de regazza, che Iddio
la benedica!)
TERESA (Che ber giovinotto.) (da sé)
PIPPO (Se poteressimo mette a ffà conversazione si nun antro ce servirebbe pe’ spassasse er tempo.)
TERESA (È propio un giovene simpatico!)
PIPPO (È propio bona bbona! Come potrebbe fà pe’ attaccacce discorso?) Dichi, lei scusi, ce starà incommida a sede su quer canapène?
TERESA No grazzie! Anzi ce sto bene perché pare più morbido d’un
sofà.
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PIPPO Lo direte pe’ comprimento?
TERESA Nemmanco pe’ sogno.
PIPPO (Quant’è sugosa!)
TERESA (Quant’è ciumaco8!)
PIPPO Signorina...
TERESA Che volete?
PIPPO Dicevo tra de me, che forse lei sur canapè sta alquanto scommida...
TERESA Oh!... grazzie, troppo bono...
PIPPO Vole la mi’ ssedia?...
TERESA Lo vojo contentà. Grazie. (accetta la sedia)
PIPPO (da sé) (Quant’è cara che bellezza!)
TERESA (c. s.) (Com’è garbato!)
PIPPO (c. s.) (Quant’è carina! Potessi armeno sapé come se chiama!)
TERESA (c. s.) (Quant’è educato, chissà che straccio de signore sarà! se
vede da l’aspettito, e dar modo come marcia!)
PIPPO Signorina! (le fa una riverenza)
TERESA Signore! (c. s.)
PIPPO Che bella giornata oggi!
TERESA Bellissima!
PIPPO Scusate, ve vorebbe domannà ‘na cosa.
TERESA Dite puro!
PIPPO Vorrebbe sapé perché sete venuta qui.
TERESA E voi?
PIPPO Io? Eh! per un affare mórto serio, ma mórto.
TERESA Non tanto quanto er mio!
PIPPO Io perché sò stato insurtato!
TERESA Io perché sò stata abbussata!
PIPPO (s’alza) Voi abbussata?! Indove? quanno? da chi? come? quanno?
TERESA (c. s.) Che dite?
PIPPO Dico: indove? quanno? da chi? come? quanno?
TERESA Stammatina da un mascarzone (insegna la guancia) qui!...
PIPPO Indove llì? Su quel lettino de rose?
TERESA Già qua!
PIPPO Che gente! Io nun posso arivà a capì come ce possi esse certa
gente capace de mette le mano addosso a ‘na donna... Ma lassateme
fà a me che je do ’na lezzione io... Diteme indove abita, come se chiama che mestiere fa? (infuriato)
8
Avvenente, simpatico.
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introduzione
TERESA Nun dubbitate che l’ho fatto segnà qui... Sortanto però io credo che invece de condannà llui me doverebbeno condannà a mme.
PIPPO (c. s.) Ma che giustizia! La giustizia bisognava che ve la fussivo
fatta da voi... che l’avessivo detto a quarche omo de casa...
TERESA Nun ciò gnissun parente, gnissun omo...
PIPPO Possibbile? Ma nun ciavete... una conoscenza? Un protettore...
Nun ciavete er regazzo?
TERESA No, nun ce ll’ho!
PIPPO Carina come sete, bisogna che ve lo trovate!
TERESA Magari me lo potessi trovà!
PIPPO Eccheme qua a mme! Ma prima bisogna che vennichi de l’insurto che v’ha fatto quer boja, vojo l’indirizzo suo, vojo che me dite
er nome.
TERESA Nun ve lo dico, ve potressivo compromette.
PIPPO Comprometteme io? Allora voi nun me conoscete. Je vojo dà ‘na
sgargamella.
TERESA Un signore come voi mettesse co’ un carbonaro?
PIPPO Un carbonaro? Mejo, è uno der mestiere.
TERESA Uno der mestiere? Che voi sete carbonaro? Io pure sò carbonara!
PIPPO Ma davero? Oh! quanto ce godo! Oh! quanto ce godo! E ssete
de la provincia oppuramente sete romana?
TERESA No, sò romana.
PIPPO E ve chiamate?
TERESA Teresa la Sbirretta.
PIPPO Oh! Dio! Voi Teresa! Me sento male. (cade a sedere)
TERESA Oh! Dio! ve sentite male? Volete che ve slarghi?
PIPPO No, grazzie! Ah! Teresa, Teresa! Vojo che ve vennicate de me in
sur momento...
TERESA S’ammattisce!...
PIPPO (da sé) (Bisogna che me facci arestituì er papagno pe’ fà le partite pare.) Pe’ rivenì in me c’è un modo: bisogna che me date uno
sganassone forte forte.
TERESA Iddio me vede che lo fo pe’ sarvallo! (gli dà uno schiaffo)
PIPPO Ammazzete!! Ben dato!
TERESA Ne volete quarchun antro?
PIPPO No grazzie... ma voi ve sete vennicata!
TERESA Io? de che?
PIPPO E quer mascarzone, quer boja, quer carbonaro che ha avuto l’ardire de davve un papagno, quer Pippo Tuttibbozzi, sò io!
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TERESA Voi?! A che mó me sviengo! (casca su la sedia)
PIPPO Ve sentite male, volete che ve slarghi? (Pippo prende il vino che è
rimasto dalla colazione del Conciliatore e l’offre a Teresa)9
TERESA No grazie!
PIPPO A voi! bevete ché questo ve rimette in gamba! ( je dà il vino)
TERESA (beve) Grazie, me sento mejo.
PIPPO (beve pure lui) È vero? ‘sto vino ariscalla!
TERESA Chi se sarebbe mai creso, che un omo così garbato come vvoi.
( fa segno di menare)
PIPPO Avete mille vorte raggione... ma insomma diteme la verità parlateme cor core in mano, nun se potrebbe aggiustà ‘st’affare?
TERESA Oh! no, no; che direbbe er vicinato?
PIPPO Quanto je n’importa! (se sente la voce d’Imbroji)
TERESA Zitti che viè er giudice!
SCENA X
Imbroji e Detti
IMBROJI (si mette a sedere) Chi siete o signori?
PIPPO Semo li du’ carbonari de stammatina.
IMBROJI Non vi riconosco affatto!
TERESA E PIPPO Ma si ve dimo che semo noi!
IMBROJI (si mette in mezzo) Allora è evidente che le scene di questa
mattina si ripeteranno. Interponiamoci. (a Teresa) Voi là (a Pippo) e
voi là! Vediamo, che cosa domandate?
PIPPO (guarda prima Teresa) Che domannamo? Domannamo che ce
dite come se deve fà per annà a sposà ar Municipio, tutte le carte che
ce vonno, e quello che bisogna scajà.
TERESA Sì, sì perché se volemo marità llesto e presto.
SCENA ULTIMA
Tito, Menica e Detti
TITO E MENICA Sor giudice, l’ho accomodata da me quela faccenna.
IMBROJI Tanto meglio e allora che cosa siete venuti a fare da me?
TITO E MENICA Pe’ ringrazziavve!
9
Questa didascalia è autografa a differenza dell’intero testo.
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PIPPO (da sé) (Che bell’idea.) È er cielo che ce li manna, questi saranno
li du’ testimoni che ce serveno pe’ stasera. Accettate?
TITO E MENICA Se beve?
TERESA E se magna puro! È ‘no sposalizio!
TITO E MENICA Ce venimo co’ tutto er core!
IMBROJI (a Teresa) Maritarsi? Ma signora conoscete quali sono i doveri d’una sposa?
PIPPO (gli dà una botta sulla pancia) Burlone che ssete! Je l’imparo io
quanno me la sarò sposata!
Cala la tela
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FANATICA PE’ LLEGGE LI ROMANZI
Scenetta originale romanesca
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. Un quaderno di 8 cc. (mm. 270x188) composto da 4 fogli tipo protocollo recanti il marchio, cancellato a penna, del Ministero della Pubblica Istruzione.
Cc. 329-336: bianche le ultime due carte.
A c. 329r: annotazione a matita di altra mano: «meno buona».
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Personaggi
CAMMILLO, operaio, marito di
CREMENTINA, donna di casa
FULGENZIO, inquilino
Epoca presente
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ATTO UNICO
Una camera di povera apparenza. Un letto, un tavolo, un comod, alcune sedie; parecchi utensili da cucina ecc. È notte. Una porta d’ingresso.
SCENA I
Crementina sola
CREMENTINA (sarà seduta dinnanzi a una tavola già pronta per la cena. Una candela accesa. Essa sarà tutta sprofondata nella lettura) Che
bellezza ‘sti Promessi sposi!... Abbada che ne passeno quelli due poveretti de Renzo e dde Lucia!... Adesso sto quanno c’è la carestia a Mmilano... ‘Sta sera me lo vojo lavorà tutto: me sa mmill’anni a vede come
va a finì quer bojaccia de Don Rodrigo. Che infame!... Che ttempi! E
se lamentamo de quelli d’adesso!... Tempi che una povera fija de madre nun se poteva sposà chi je pareva e piaceva!... Io armeno m’annava a ggenio Cammillo e mme lo sò sposato, senza annà a chiede tanti permessi... Abbasta vedemo come va a finì (si immerge di nuovo nella lettura. Pausa. Si picchia all’uscio) Èccome! (e legge)
SCENA II
Cammillo, Detta
CAMMILLO (picchiando di nuovo) Crementina!
CREMENTINA Èccome: un momento.
CAMMILLO (c. s.) Ma fajela!
CREMENTINA (si alza e va ad aprire) Bona sera, Cammillo. (e poi
torna subito alla lettura)
CAMMILLO Miracolo che nun leggi!
CREMENTINA Mó finimo subbito. Sto a finì un pezzo interessante.
(legge) Èccome, sai?
CAMMILLO Abbasta che je la fai. (si toglie la giacca, si lava le mani
ecc.) Che fatigata, oggi! Me sento stracco morto... Ciò una fame, poi,
una fame che mme la vedo coll’occhi. Furtuna che ddomani è domenica. Me vojo fà una dormita ‘sta notte, una dormita che llèvete! Crementì, mbè; se magna?
CREMENTINA Èccome, Cammì, quanto finisco un pezzetto e vengo. Sò quattro righe. (legge)
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CAMMILLO (sedendosi al tavolo manda un’esclamazione) Ah! Viva [...]1
de la pace de casa!... Che m’hai preparato de bbono?
CREMENTINA (senza togliere gli occhi dal libro) Una minestra cor sartarello2, ch’è una sciccheria... (c. s.)
CAMMILLO Sentimola!...
CREMENTINA Ecco. (c.s.)
CAMMILLO Ecco ecco; ma nun te mòvi mai!
CREMENTINA Ho fatto. (c.s.)
CAMMILLO Eh lo vedo!
CREMENTINA (alzandosi) Povera Lucia, quante ne passa.
CAMMILLO (distratto) Chi Lucia?
CREMENTINA Quella de li Promessi sposi.
CAMMILLO Ma va a la Mecca te e llei.
CREMENTINA Già, poveraccia, perché tu nun hai letto quanto je
n’hanno fatte!...
CAMMILLO Ma sbrighete, fija, che ciò ‘na fame, ‘na fame...
CREMENTINA Èccome. (indugiando) Si vedi c’è quer Don Rodrigo
che è un boja, un boja... Invece da faje sposà Renzo, capischi, se la voleva rubbà llui, come si se fusse trattato d’una gallina...
CAMMILLO Ho ccapito, va: doppo me la ricconti... Vamme intanto
a pijà da magnà.
CREMENTINA (va in altra camera e torna con una terina. Prepara due
scodelle di minestra: una la dà a Camillo, l’altra se la mette al posto suo.
E si rimette a leggere)
CAMMILLO (mangiando) E tu nun magni?
CREMENTINA Èccome; quanto finisco ‘sto pezzetto.
CAMMILLO Io nun capisco, come tu te devi tanto infanatichì a llegge! Quanno incominci un libro nu’ lo pianti insinenta che nun sei arivata a la fine...
CREMENTINA (c. s.) Perché me sa mille anni de vedé come va a finì
er fatto.
CAMMILLO Ho capito; ma lo leggerai doppo. Adesso magna.
CREMENTINA Èccome: ho finito. (c. s.)
CAMMILLO Fosseno poi fatti veri, meno male; ma invece sò ttutti romanzi inventati da ‘sti scrivani, che se vede proprio nun hanno antro
da fà.
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2
Parola incomprensibile.
N.d.A.: grasso di prosciutto, lardo!
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CREMENTINA Già nun sò fatti veri! Lo dichi tu! Ma questo è un fatto sacrosanto.
CAMMILLO Eh già tte ce sei trova tu!
CREMENTINA (c. s.) Io no, ma lo dice quello che l’ha scritto.
CAMMILLO E chi l’ha scritto?
CREMENTINA Nu’ lo so, chi. (guarda il titolo) Ah è un certo Alesandro Manzoni.
CAMMILLO Uhm chi è ‘sto Manzoni?
CREMENTINA Uno scrivano bravo assai. Lo leggeveno puro le moniche, quanno stavo a le Zoccolette.
CAMMILLO Sarà accusì... Ma perché nun magnà?
CREMENTINA Ecco: me ciamancheno du’ righe sole sole. (c. s.)
CAMMILLO Furtuna che nun ciavemo fiji sinnò, vorebbe vede, come
te ce scapperebbe tanto tempo da legge.
CREMENTINA Lo troverebbe lo stesso. (seguita a leggere)
CAMMILLO Vedi, nun è pe’ fattene un rimprovero, Crementina mia;
ma invece de legge, poteressi badà un po’ ppiù a rissettà ccasa. Nun
vedi sì che spasa d’impicci?
CREMENTINA (c. s.) Hai raggione. Ma quanno ho finito ‘sto libbro
nun ne ricomuncio più gnisun antro.
Pausa.
CAMMILLO (che ha finito di mangiare. Si pone con i gomiti sulla tavola) Crementina, ma fajela fija a mmagnà. Lassa annà... Fusse armeno
quarche cosa d’interessante!
CREMENTINA Ah no! (c. s.)
CAMMILLO Ma vattene!
CREMENTINA (prende una cucchiaiata di minestra ogni tanto) Senti
quant’è bbello: In un paese c’era una volta un certo Renzo e una certa Lucia che se voleveno sposà. Va bene; fanno le carte fanno tutto:
ecco ch’ariva er giorno de lo sposalizio. Prepareno li confetti, vengheno l’invitati. Ma che d’è che nun è, Don Abbondio, el curato nun li
vò più sposà.
CAMMILLO (dando evidenti segni che ha sonno) Ah.
CREMENTINA E sai perché? Perché Don Rodrigo, un barone de quelli tempi, s’ era innammorato de Lucia e sse la voleva pjià llui. Così
aveva mannato due sgherri a intimorì Don Abbondio che, si faceva
quel matrimonio, j’averebbe fatto la pelle. Così quello per la pavura,
nun ne fa più gnente... brutta carogna! Ma aveva raggione Perpetua...
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introduzione
CAMMILLO (c. s.) Chi?
CREMENTINA Perpetua la serva der curato.
CAMMILLO (c. s.) De chi curato?
CREMENTINA De Don Abbondio.
CAMMILLO (c.s.) Ma che cc’entra?
CREMENTINA (alterata) Come che cc’entra? El curato te dico che li
doveva sposà nun cc’entra?
CAMMILLO (c. s.) Hai raggione, sì!
CREMENTINA Ma io che cce sto a pperde tempo? Tu te ne caschi de
sonno, vattene a letto.
CAMMILLO Hai raggione; nun m’areggo in piedi. Te l’ho ddetto sò
stanco morto. Bona sera.
CREMENTINA Bon riposo. (legge)
CAMMILLO E tu nun venghi?
CREMENTINA Tra dieci minuti. Finisco ‘sto capitolo e vengo. (leggendo)
CAMMILLO Abbasta che sia. (si spoglia, si corica e si addorme profondamente)
Pausa.
CREMENTINA
Pausa.
(sempre sommersa nella lettura)
CREMENTINA (mentre legge comincia a dare dei segni di grande soddisfazione) Ecco che viè er bono!... Prima me vojo finì ‘st’antro cucchiaio de minestra. (e si mette a mangiare non staccando più gli occhi
dal libro) ‘Sta minestra nun se pò magnà ppiù: è fredda ghiacciata. (la
lascia) Che rabbia! Mó ce vorebbe che mme fenisse la cannela!... Accidempoli! Nun ciò pensato a compranne un’altra (osserva la candela)
speriamo che ‘sto cinico3 m’abbasti... Me rincrescerebbe perché sto in
un pezzo proprio interessante...mó dovrebbe arivà er gastigo pe’ quer
bboja de Don Rodrigo (pausa)... Mor’ammazzato, quanto ciò piacere!
(di nuovo si sprofonda nella lettura. – Pausa – Si sente russare Camillo)
Pausa.
CREMENTINA (dà un segno di grande soddisfazione, si alza, si precipita su Camillo e lo scuote fortemente) Cammillo, Cammillo mio!
3
Pezzetto.
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CAMMILLO (svegliandosi di sopprassalto) Cos’è? Che c’è?! Clementina,
ch’è stato?
CREMENTINA (allegra) Una bona nova. Lo sai?
CAMMILLO Chi? Che?
CREMENTINA Don Rodrigo se l’è presa in saccoccia!
CAMMILLO (ancora insonnolito) Chi Don Rodrigo?
CREMENTINA Quello de li Promessi Sposi!
CAMMILLO (seccato) Per questo me ce svegli? Va a mmorì d’accidenti te e llui.
CREMENTINA (lasciandosi cadere dalle mani il libro, e resta tutta mortificata) Che bbella magnera!
CAMMILLO Se sa! A un poveraccio che schiatta e fatica tutto er giorno, je se va a roppe er sonno pe’ ‘na sciocchezza così! Quant’è ccara!
CREMENTINA Eh ssete bbello voi!
CAMMILLO E cce vò puro bbatte de cassa, manco si avessi raggione lei?
CREMENTINA Se sa!
CAMMILLO Abbada Crementina!
CREMENTINA E sete matto, ce menate!
CAMMILLO Eh nu’ lo dì du’ vorte!
CREMENTINA Vorebbe vede questa doppo du’ mesi che se semo sposati.
CAMMILLO Nun me mette sur punto, sa, cche tte rizzollo! (si alza dal
letto e le corre incontro)
CREMENTINA (si mette a correre gridando) Aiuto!
CAMMILLO Brava, sveja tutto er vicinato!
CREMENTINA Sì, vvojo strillà!
CAMMILLO Ah vòi strillà! (le dà un ceffone)
CREMENTINA Aiuto! (nel correre getta in terra un tavolo)4
n
SCENA III
Fulgenzio (di dentro)
FULGENZIO (picchiando all’uscio) Ohé, ohé, sor Cammillo, sò io er
sor Furgenzio..., sora Crementina! Chedè ‘sto tatanai5? Ma cche vve
4
Annotazioone a lato di questa battuta:
Si picchiano rincorrendosi per la stanza e facendo un chiasso indiavolato. Un inquilino,
irritato, picchia all’uscio e li sgrida. Allora essi rivolgono tutta l’ira contro il sopravvenuto, e per dare addosso a questi, rifanno pace loro.
5
Baccano, confusione, finimondo. Dall’ebraico ba Adonai.
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introduzione
sete ammattiti!! Che bber modo da svejà la ggente a ‘st’ora! Manco si
stassimo a ppiazza Navona... (picchia di nuovo)
CAMMILLO (rivolgendosi verso il nuovo venuto) Ma cche vv’abbussate,
l’animaccia vostra? Che vvolete?!
FULGENZIO Vojo che la fate finita!
CAMMILLO Sto a ccasa mia e ssò er padrone da far er commodo mio!
FULGENZIO Ma nno a roppe l’anima ar prossimo che ddorme. Queste sò bbelle porcherie, sò!
CAMMILLO Ma quanno la piantate?!
FULGENZIO Ma quanno la piantate vojantri! Si mme mettete sur
punto chiamo le guardie...
CAMMILLO Eh quanto state? Avete raggione voi che sò spojato, sinnò
ve facevo vede!
CREMENTINA (che già aveva aperto la porta e stava ascoltando, rientra
in scena) Sicuro, ha raggione Cammillo mio; avete raggione che stamo
spojati sinnò ve facemio vede!
FULGENZIO Annate a ffà bbene a li somari! Doppotutto io sentenno
‘sto tatanai volevo sapé sì che vv’era successo!
CREMENTINA Impicciateve pe’ li fatti vostri!
FULGENZIO Ve poteva, caso mmai, avé ppresa puro un accidente a
ffarajolo6!
CAMMILLO Ma a ombrello!
CREMENTINA Vvarda che bber modo de parlà! Domani se la vedemo.
FULGENZIO Vedemesela puro quanto ve pare, ignoranti che ssete!
Un’antra vorta ammazzateve puro de bbotte ma avete voja a chiam’ajuto.
CAMMILLO Chi vv’ha cchiamato?
FULGENZIO Strillavi ajuto come un’addannata!
CREMENTINA Ruzzamio!
FULGENZIO Le bbotte le chiamate ruzze! In galera!
CREMENTINA e CAMMILLO A l’infernaccio!
FULGENZIO (se ne va brontolando)
CREMENTINA Sicuro, io e mi’ marito se volemo menà quanto ce
pare!
CAMMILLO Sicuro, se volemo menà!
CREMENTINA Che nun semo padroni de menasse?
6
Dall’arabo feriyûl, mantello.
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,
r
a
1. introduzione
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CAMMILLO Finarmente se n’è ito! Viè qua (scostandola dall’uscio) falla finita! Annamesene a lletto.
CREMENTINA Ma che vòi ride! Uno nun è padrone a casa sua de menasse quanto je pare e ppiace! Quant’è bbuffa! Tiè! (dà due schiaffi al
marito)
CAMMILLO (glieli restituisce) Quant’è bbuffa! Uno nun se pò menà
quanto je pare!
Pausa.
CREMENTINA (stropicciandosi la parte indolenzita) Ahi ma ttu ma’
fatto male pe’ davero!
CAMMILLO E ttu no!
CREMENTINA E perché poi?
CAMMILLO Pe’ ffà dispetto ar sor Furgenzio. (si guardano, scoppiano
in una sonora risata, si abbracciano, si baciano)
CREMENTINA Ce ne sò de tontolomei!
CAMMILLO Ma ccome nnoi!
Fine
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ZITELLONA
Scene originali in tre atti in dialetto romano
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1. introduzione
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. Un quaderno di 32 cc. (mm322x220) composto da 16 fogli tipo protocollo recanti il marchio del Ministero della Pubblica Istruzione, più un inserto di
2 carte (cc. 53-54) (mm182x110).
Cc. 34-67.
A c. 44, in alto a sinistra, aggiunto a penna: «Zitellona Atto Secondo».
Calligrafia autografa.
Nel faldone è presente un’altra stesura. Un quaderno di 27 cc., composto
da 14 fogli tipo protocollo, legato immediatamente prima, con stesso formato e caratteristiche di quello sopra descritto.
Cc. 2,7-33.
A c. 2: in alto a destra, a matita: «16 febb. 1894»; a tutta pagina, a matita,
in blu «Zitellona Copiaccia La Suocera [in rosso] Copiaccia».
Un inserto di 4 cc è presente tra le carte 2 e 7, composto da 2 fogli.
Cc. 3-6 (mm 210x135).
Scrittura a penna e a matita; testo a piena pagina; calligrafia autografa.
Contiene un abbozzo della stessa commedia.
A c. 3: Annotazione a penna: «Madregna altra commedia».
Sono presenti altre due stesure del solo Atto III:
[1] un quaderno di 22 cc. con stesso formato e caratteristiche dei precedenti, composto da 11 fogli tipo protocollo.
Cc. 68-89: bianca l’ultima carta;
[2] un quaderno di 19 cc. con stesso formato e caratteristiche dei precedenti, composto da 9 fogli tipo protocollo più 1 c. sciolta.
Cc. 90-108. A c. 90, in alto a sinistra, a penna in rosso: «Zitellona Atto
3°», di seguito a matita: «dentro i primi 2».
Presente ancora:
un quaderno di 6 cc. formato da 3 fogli tipo protocollo.
Cc. 109-114 (mm 310x210).
Contiene:
scene frammentarie della stessa commedia: testo interamente cancellato
con matita blu (cc. 109-110r);
altre tre stesure incomplete dell’atto II: testo in parte cancellato con matita blu (cc. 110-114r);
un abbozzo dell’atto III (c. 114v).
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introduzione
Personaggi
MIMMA zitella, età circa 38 anni
PAOLO marito di
DOROTEA
GIGGIA
loro figlie
ELVIRA
VITTORIONA suocera di Elvira
MEDARDO capitano dei bersaglieri
COSTANTINO marito di Elvira
ALFREDO MOSCETTI fidanzato di Giggia
CLEMENTINA
UN BIMBO di pochi mesi
}
Epoca anno 1875.
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1. introduzione
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ATTO I
Camera d’ingresso: due porte a destra, due a sinistra e in fondo. È l’alba.
SCENA I
Mimma poi Vittoriona (di dentro)
MIMMA (esce dalla porta a sinistra con una bugia accesa) Sant’Antonio
ha sonato le cinque e mezza1; è ora che vadi a fare el caffé...
Elvira dormirà? Me pare... (origlia a una delle porte a destra) Quella benedetta cratura, nu’ glie fa cchiude mai un occhio a quella
povera sorella mia. (nell’ interno s’ode piangere un bimbo di pochi
mesi) Senti, senti come strilla! È meglio che glielo vadi a prendere.
(picchia adagio alla porta) Posso entrà? (entra e ne riesce subito con
un marmocchio in fasce) El cocco de zia sua, l’amore bello bello,
che nun fa mai riposà la madre... Cattivello! (si mette a sedere a cunarlo e canta)
O sonni sonni che de qui passate,
venitel’a ddormì ‘st’angelo mio:
si non venite voi l’addormo io...
Oò, ooò, ooò! Ninna oò...
S’ode un gran colpo come di una scarpa lanciata contro una delle porte a sinistra.
VITTORIONA (dentro grida come un’aquila) Chi è cche roppe l’anima
a quest’ora? È questo el momento de cunnolà le crature?!... Accidenti
a ‘sta casaccia porca; nemmeno la notte ce se dorme in pace!...
MIMMA (spaventata) L’ho fatta bella! (si avvicina alla porta della stanza della sora Vittoriona) Sora Vittoria abbiate pazienza sò io.
VITTORIONA Che pazienza, pazienza! pazienza un corno!
MIMMA E adesso questa me sveglia tutta casa. Oh santa pazienza, davero!
1
N. d. A.: la Chiesa di Sant’Antonio meglio di S. Maria in Publicolis in piazza Costaguti. N. d. C.: Probabilmente il riferimento è alla chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi, in Via dei Portoghesi.
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introduzione
SCENA II
Dorotea, Costantino, Gigia, di dentro
e Mimma
DOROTEA (dentro) Chi è? (chiama) Clementina? Mimma?
COSTANTINO (c. s.) Mimma, che cos’è stato?
GIGGIA (c.s.) Cos’è questo chiasso? Mimma!
MIMMA (si avvicina successivamente a tutte le porte) Gnente, gnente.
M’è cascata una sedia per disgrazia. Dormite in pace.
VITTORIONA (sempre di dentro) E Crementina? El solito; la signora
starà incora a covare in del letto. Possi morire d’accidente!... Dite, eh
Mimma, e Crementina?
MIMMA (alla porta di Vittoria) Zitta, per carità sora Vittoria, ché Clementina eccola che viene.
VITTORIONA (c. s.) Che zzitta, un corno? Voi aricopritela sempre,
quela portronaccia che nun è bbona antro che a pigliasse la mesata.
SCENA III
Clementina e Detti
CLEMENTINA (dalla porta in fondo) Se sa che stavo a letto se sane:
che nun v’ aribbatte?
MIMMA Zitta Clementina mia, per carità, ché svegli tutti. (trattenendo Clementina)
CLEMENTINA No: m’abbasta da esse insurtata da ‘sta bagarinaccia 2.
VITTORIONA (c. s.) A mme? Famme fenire da vestì che tte la do io
la bagarinaccia!
CLEMENTINA Eh sete matta! Da la pavura me trema tutto l’orlo de
la camicia, me trema!
MIMMA ( fermando Clementina) Fallo per me Clementina mia, statte
zitta, perdi el fiato!
VITTORIONA (uscendo in veste bianca) A mene bagarinaccia, brutta
porca zellosa?! ( fa l’atto di schiaffeggiarla)
CLEMENTINA (prendendo una sedia) Che nun v’azzardate; ché vve
sfascio er cassabbanco!
VITTORIONA A mme?! Costantino, figlio mio, corri ché vonno occidere tua madre! Corri!...
MIMMA Santo Ddio, nun se pò stà ’n momento in pace!
2
Accaparratrice, trafficante.
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CLEMENTINA Sai che pavura! Intanto io me ne sò bbella che ita da
‘sta casaccia porca. Oggi me dieno er mio e mme ne vado.
SCENA IV
Costantino, Dorotea, Elvira, Giggia,
Vittoria, Mimma e Clementina
COSTANTINO (in mutande) Cos’è stato?
DOROTEA (in veste bianca) Cos’è successo?
GIGGIA (c.s.) Che paura!
ELVIRA (c.s.) Ma che diavolo è stato?
MIMMA Ma zitti, zitti, Dio mio; che nun è gnente. Una sciocchezza.
COSTANTINO Ma insomma, mammà, se pò sapere che cosa è stato?
VITTORIONA ( fingendo di piangere) Quela vassallona de la serva che
mi vole occidere.
CLEMENTINA Giusto occidere! J’ho appena fatto l’atto de daje una
sediata, perché me voleva dà un papagno. È vvero sora Mimma?
MIMMA Ma sì, non è gnente. Una sciocchezza.
VITTORIONA La chiama sciocchezza, l’atto di damme una sediata,
a mme!
DOROTEA Ma che stiamo a piazza Navona?
ELVIRA Che spavento m’avete messo!
GIGGIA Io non ciò più una goccia de sangue ne le vene.
COSTANTINO (con importanza) Tu, Clementina, vattene subbito via
da casa nostra. P’el resto ci penserà la questura.
CLEMENTINA (ironica) Davero? Sò bboni li fichi? De’ resto io è da
mó che v’averebbe piantato si nun fusseno quele quinnici mesate sole
che vv’avanzo.
COSTANTINO L’averete.
CLEMENTINA Sì quanno sarò più granne. Nun ciavete manco li sordi pe’ magnà.
COSTANTINO Villana! Andate via...
CLEMENTINA Lalléro! Accidenti a quanno ciò mmesso li piedi in ‘sta
casaccia maledetta. (esce)
VITTORIONA (declamando) Ecco figlio mio, ecco che ce si guadambia a stare qui drento: puro il risico di morire ammazzate. Già, ammazzate; perché in fin de li conti, a me quella zozzona nun m’avanza
un corno. Io la parte mia de la mesata l’ho cacciata; e si lei poi nun
l’ha avuta, è segno che li quatrini quarchiduno se li sarà magnati.
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introduzione
DOROTEA Prego, nun se l’è mangiati nessuno; sò serviti per casa. Se
qui sono in due a portà e cento a mangià.
VITTORIONA Dite a me? Io mangio li miei bisogni, mangio.
ELVIRA Semo alle solite.
GIGGI Tutti li giorni è una storia.
MIMMA Ah santa pace!
COSTANTINO Già quando parla mammà mia, tutti contro.
ELVIRA Ma chi glie dà contro?
COSTANTINO Tu statte zitta; ché sei sempre la prima.
ELVIRA Io manco la vedo, figurete se la sento.
VITTORIONA Questo è il rispetto che porta alla socera!
DOROTEA Eh, cara signora, per esse rispettati bisogna arispettare.
VITTORIONA Ecco che cci mette bocca la donna sapiente, la signora
protoquanquera 3!
DOROTEA Sicuro sapiente; e, nel caso, più educata di voi.
GIGGIA Mó cominciamo a litigarse la sapienza.
MIMMA (mentre accadono coteste scene girerà per la stanza col bimbo in
braccio, esasperata di non poter mettere pace) Che ve possi cascare la
pace addosso!
DOROTEA Sicuro; perché io nun ho fatto un corno la fruttivendola
come avete fatto voi. Li mi’ genitori m’hanno dato bona educazione;
e si nun era el cambiamento del governo che cce rovinava, saressimo
ancora signori e signori de legno.
ELVIRA Ci siamo!
COSTANTINO Auffa!
DOROTEA (a Costantino) Voi invece di fare auffa potreste dire a vostra madre che mi rispetti... Ma già talis madrise, talis fìgliose.
COSTANTINO Io, sapete che ve dico? Che non posso vedere strapazzare mammà mia. E perciò vi volto le spalle e me ne vado. (esce)
GIGGIA Bravo, Pippetto!
DOROTEA Voltarmi le spalle! Bella educazione!
VITTORIONA Ce vole pacenzia. La ducazzione che glià potuto dare
una povera fruttarola, una povera orbivendola de strada.
DOROTEA Apposta ve compatisco.
VITTORIONA Troppa indegnazione. Avete anzi fatto male a daje per
grazia quell’oracolo de vostra figlia.
DOROTEA Così me fossi pentita de li miei peccati.
3
Protoquanquera o protoquanqua: voce scherzosa per indicare persona sapientissima.
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VITTORIONA Ciavete rimesso un quarto di nobbirtà: co’ queli du’
occhi pe’ piagne che mm’ha portato in dota.
ELVIRA Ma finiamola! Mi fa specie de voi mammà, che vi mettete a
competere con certa gente.
VITTORIONA Mejo de voi, sora pettegola!
ELVIRA Mai all’altezza vostra.
DOROTEA Zitta tu, Elvira.
MIMMA (c. s.) Vergine Santa, ma che avete stammatina? Elvira vattene
in cammera tua. (cercando di spingerla verso la camera)
ELVIRA (dandole un urtone) Tu non t’impicciare.
MIMMA (mortificata si mette in disparte) Oh santa pace!
ELVIRA (a Vittoriona) Avete raggione voi che non mi voglio sporcare
le mani, altrimenti ve lo farei vedere io si sono pettegola. Sò proprio
stufa de dovere soffrire tutto il giorno quest’insulti! (si ritira in camera sua sbattendo la porta)
VITTORIONA Questa se chiama ducazzione!
DOROTEA Meglio de la vostra. Doppo tutto povera figlia mia non ha
torto. Tutto el santo giorno nun glié fate mandà giù altro che bocconi
amari, come ce li fate mandà a tutti noi.
VITTORIONA Subbito che drento a ‘sta casaccia c’è er diavolo in persona.
DOROTEA C’è venuto da quando ce sete entrata voi. E quando in una
casa c’entra el diavolo da una parte, la pace se ne va dall’altra.
VITTORIONA Brava! come se ne vanno a ffà bbenedì tutti li bbelli
sòrdi che caccio.
DOROTEA Sete bbona altro che a rinfacciare qualche piacere che cciavete fatto.
VITTORIONA Eh cche cce volete da ’na fruttarola?
DOROTEA In mancanza di un po’ de gentilezza ce fosse almanco un
poco de core!
VITTORIONA Me se l’è magnato tutto la ciovetta.
DOROTEA Ha raggione la serva: sète una gran bagarina.
VITTORIONA E voi una gran linguaccia sacriliga. Nun vedo l’ora
d’andammene via.
DOROTEA Magari.
VITTORIONA Poi senza de me, vojo un po’ vedere come farete a sbatte er barbozzo.
DOROTEA Eh mangeremo lo stesso, sora villana, screanzata, bagarina. Andate al diavolo! (se ne va sbattendole la porta in faccia)
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VITTORIONA A l’infernaccio! Vonno farmi arabbiare; ma io manco
per niente. ‘Ste cose al core mio nun je le posso fà sapene. (entra in
camera sua cantando)
Questa è dunque l’iniqua mercede
che serbassi al canuto guerrierro?
MIMMA Sia lodato el cielo!
GIGGIA ( fino ad ora rimasta seduta da una parte a godersi la scena, si
alza battendo le mani) Che bellezza, che bbellezza! Andamo a fare una
sonatina (entra in casa dalla porta a destra; poco dopo si odono gli accordi di una polka suonata al pianoforte)
Pausa.
MIMMA (cullando il bimbo che ha sempre tenuto in braccio) Che bella
vita! Oh santa pazienza. Beato tu, cocco mio, che nun capisci gnente.
Fa’ la ninna cocco: Oò, ooò, ooò!
SCENA V
Paolo e Mimma
PAOLO (con tutta flemma le mani dietro la schiena) Eh, Mimma, ma
famme el piacere: ch’è successo ’st’ammatina a bbonora?
MIMMA Eh papà mio, beato voi: ve sete ricordato a tempo, a venì de
qua.
PAOLO Io? E che venivo a fà? Ormai ce sò abbituvato a ‘ste baruffe...
ma almeno, come avete incominciato?
MIMMA Per una sciocchezza. Tutt’assieme per esseme messa a cunnolà el pupo in questa cammera. Oprete cielo! Madamaccia ha tirato una
scarpata a la porta... insomma un diavolerio.
PAOLO Ma sentivo strillà Clementina: che aveva?
MIMMA Puro quella ha raggione. Da jeri s’è licenziata per l’insulti de
quella indemoniata.
PAOLO E com’è andata a ffinì?
MIMMA Sò venuti tutti de qua; e ve potete immagginà quello ch’è
successo.
PAOLO Figuramese: tredici fra morti moribondi e feriti!
MIMMA Beato voi che avete sempre voglia de scherzà.
PAOLO Eh già, mó me ne voglio stà a prende per tanto poco. Fussi
matto! (e se ne va come è venuto)
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SCENA VI
Dorotea e Mimma
DOROTEA ( facendo capolino dalla sua stanza) Mimma, se ne è andata
quella signora?
MIMMA Sta in cammera sua.
DOROTEA Te volevo dì se hai pensato pel pranzo?
MIMMA Mammà mia, a me de la spesa de ieri m’è rimasto un pavolo,
un papetto me l’ha dato Elvira; che fanno trenta soldi.
DOROTEA E come famo oggi? Ricorrere da quella villanaccia, manco
a pensarce...
MIMMA Eh in qualche modo faremo... Peccato che oggi co’ la cosa
ch’è domenica el Monte è chiuso...
DOROTEA Si nun ciabbiamo più gnente...
MIMMA Eh in mancanza d’altro m’impegnavo ‘st’anelletto de povero
zio... Eh, poveromo, se ritornasse!
DOROTEA Davero, se vedesse a che punto semo ridotti rimorirebbe
un’altra volta da la pena... Almeno s’oprisse qualche strada; ma nun se
vede gnente. Pure te, povera figlia mia, sei stata disgraziata. Te fosse
capitato un cane...
MIMMA Guardate adesso a che andate a pensare. Ma ce vorrebbe che
quela povera Giggia se trovasse a marità, altro che io. Giggia cià attorno quell’Alfredo, ma è un migragnoso peggio de noi.
DOROTEA Già pure con quell’altro scaldassedie nun c’è da conclude
gnente.
MIMMA Sì, poveraccio, nun cià né arte né parte.
DOROTEA Ma almeno se dassi pensiero de trovasse a fare qualche cosa.
MIMMA Per questo troppo gira, poveretto.
DOROTEA Sì, tu compatiscelo! Dì che a Gigia mia domani glié capitasse uno con la pila4 e che la sposasse subbito, vederessi che scaccione
che ce prende el sor Alfredo.
MIMMA Così quel poveraccio se ne morirebbe.
DOROTEA Eh peggio per lui! Invece el pensiero mio sei tu; che si venissimo a chiude l’occhi noi, resteressi la peggio de tutti. Apposta io
spero ch’el Signore me facci ‘sta grazia prima da morire.
MIMMA (sorridendo) Ma pensatene un’altra.
i
4
Stà in pila: avere disponibilità di denaro.
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DOROTEA Eh, figlia mia, hai 38 anni; mica però sei vecchia.
MIMMA No, sò craturella.
DOROTEA Eppure a me me sa che si Medardo dieci anni fa nun andava emigrato, a quest’ora te se sposava. Ve volevate tanto bene: sète
cresciuti insieme.
MIMMA A proposito de Medardo, giorni fa incontrai la sorella e me
disse che dentro l’anno c’è probbabbilità che venga a Roma. È gnente
de meno diventato capitano.
DOROTEA Dio lo volesse che venisse a Roma. Vedrai, Mimma mia,
che se viene quello te sposa.
MIMMA Mammà mia, ma ve l’ho detto pensatene un’altra.
DOROTEA Eh figlia mia; zitella che dura nun perde ventura.
MIMMA Ma cche ve credete, che nun me vedo allo specchio? Nun vedete che sò diventata una strega?
DOROTEA Abbasta, lassamo fare Iddio. Io allora, figlia mia, me vado
a preparà per andare a messa... A proposito, e pel pranzo poi?
MIMMA Lassate fare a me, ché m’è venuta un’idea. Per domani poi,
siccome è la festa de zi’ Teresa, glié vado a ddà cento de ‘sti giorni; e
vederete che qualche cosa rimedio.
DOROTEA Basta, fa’ un po’ tu figlia mia, perché io non so più dove
sbatterme la testa. (entra a destra)
SCENA VII
Mimma, Giggia, Elvira
poi Vittoriona
GIGGIA (di dentro) Mimma, m’hai scopettato l’abbito?
MIMMA Si, Giggia mia; e te l’ho messo nel primo tiratore del commò.
ELVIRA ( facendo capolino) Ah non c’è Mamma Calfornia5.
MIMMA (sottovoce) Sta in cammera sua.
ELVIRA Allora damme el pupo, così glié do el latte; ché me voglio preparà per andare a messa. (prende il bimbo) E Mammà?
MIMMA Se sta a vestì.
ELVIRA M’hai messo l’acqua?
MIMMA C’è tutto preparato: acqua, asciuttamano pulito... tutto.
ELVIRA Va bene. (entra in camera sua)
VITTORIONA (di dentro) Mimma, portateme un asciuttamano pulito.
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Allusione al personaggio del Meo Patacca di Giuseppe Berneri: vecchia che dispensa
consigli, un po’ strega e un po’ indovina.
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MIMMA Ve l’ho preparato sopra la sedia.
VITTORIONA (uscendo) E la saponetta mia de gricilina che tenevo sur
lavabbo, me saperessivo dire indove è ita a finire?
MIMMA E cchi l’ha vista?!
VITTORIONA (rientrando) ‘Gni giorno me ce vole una saponetta nova, drento a ‘sta casaccia de ladri. Se lo magneno er sapone!
GIGGIA (vestita elegantemente con un grazioso cappellino) Mimma, appunteme un po’ una spilla qui de dietro a la vesta, che mme s’è levato
el bottone.
MIMMA (eseguisce) Ecco fatto.
GIGGIA Come me sta questo cappello?
MIMMA Tanto carino. Sai come anderai a genio a Alfredo tuo.
GIGGIA Quel nojoso! In quella lettera che gliai portato tu gliò dato un
cantino6 a quel cretino... (pavoneggiandosi) È grazioso davero ‘sto cappello... La modista li dovrebbe prende per adesso li quatrini. Sò almeno dieci volte che viene per il conto...
MIMMA Eh li prenderà. N’avanzamo tanti noi.
GIGGIA Ma queste se sò andate a vestì?
MIMMA Si: tutt’e due.
GIGGIA Allora l’aspetterò qua. (si mette a passeggiare lungo la scena)
VITTORIONA (di dentro) Mimma, è sonata la messa de mezzoggiorno?
MIMMA Saranno cinque minuti.
ELVIRA (di dentro) Mimma famme el piacere, vieneme a allaccià li stivaletti.
MIMMA (entra in camera d’Elvira e ne riesce poco dopo col bimbo in
braccio)
GIGGIA Quanto sò lunghe queste. Auffa!...
MIMMA Che lunghe! Eccole. Elvira già s’è messa el cappello.
SCENA VIII
-
Elvira, Dorotea, Vittoriona
e Dette
ELVIRA, DOROTEA e VITTORIONA (aprono contemporaneamente
l’uscio, ma nello scorgersi che fanno, si danno una guardata fiera e si ritirano sbattendo la porta. Saranno tutte tre vestite per uscire. Vittoriona con sfarzo e caricatura)
6
Dà er cantino: rimproverare con asprezza.
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GIGGIA
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Quanto sò care!
Pausa.
ELVIRA ( fa capolino e non vedendo più Vittoriona chiama) Mammà.
DOROTEA (con circospezione) Se ne è andata?
GIGGIA (le indica con la mano che Vittoriona sta rinchiusa in cameara)
DOROTEA (c. s.) Allora andamo. Addio, Mimma.
ELVIRA (c. s.) Me raccomando el pupo.
MIMMA Ce penso io. Mica è la prima volta.
DOROTEA ELVIRA e GIGGIA (camminando in punta di piedi sempre
per non farsi sentire da Vittoriona, escono dalla porta in fondo)
Pausa.
MIMMA (passeggia per la scena baloccando il bimbo)
SCENA IX
Vittoriona e Mimma
VITTORIONA ( fa capolino e non vedendo altri che Mimma, esce) E voi
nun andate a sentire la santa messa?
MIMMA Volentieri; ma lo sapete che nun posso pel pupo.
VITTORIONA Eh, cara mia, quando se vòle se pòle... ma già quando
in d’una casa nun c’è la religgione!... (esce dalla porta di mezzo)
MIMMA (Ma va in galera!) Signore perdonateme! Abbasta, adesso vestimose per andare a fà ‘sti pochi figurinari per rimedià da sbattere la
scucchia (va a mettere il bimbo a letto. Toglie da un attaccapanni una
mantellina sdrucita, un cappellaccio, se li mette e mentre sta per uscire si
sente suonare il campanello) E mó cchi sarà? Avanti.
SCENA X
Alfredo e Mimma
MIMMA Voi sor Alfredo? Giggia è andata a messa.
ALFREDO Scusi tanto, signora Mimma, ma io ricorro a lei perché non
ho altri. Giggia in quella lettera che m’avete dato ieri sera mi dice che
me glié levi d’attorno, che de me nun ne vuole più sapere.
MIMMA Ma non glie date retta. Quella scherza sempre; pure lo sapete. L’amore non è bello si nun è litigarello.
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ALFREDO Ah no, ‘sta volta dice proprio sul serio; m’ha rimandato
perfino il mio ritratto... Io finisce che faccio qualche pazzia.
MIMMA Nun ciamancherebbe altro, per carità; non le dite nemmeno
per burla, certe cose.
ALFREDO Ebbene prometteteme che glie direte qualche cosa per me,
che la farete rimuovere dal suo fermo ma ingiusto proposito.
MIMMA Ma sì sì, ce penso io. Voi venite pure oggi all’ora solita...
ALFREDO Ma se lei non mi ci vuole più...
MIMMA Nun glie date retta. Venite all’ora solita; ché ce penso io; ma
adesso andatevene che potrebbe venì papà.
ALFREDO Me lo promettete?
MIMMA Ma sì, ve dico de sì.
ALFREDO ( fuori di sé dalla gioia) Grazie, signora Mimma, grazie. (le
prende la mano e gliela bacia con trasporto)
SCENA XI
Paolo e Detti
PAOLO (vedendo baciare la mano a Mimma: sempre con la solita flemma) Eh bravi!
MIMMA (sorpresa) Papà?!
ALFREDO (c. s.) Papà?!
PAOLO (senza scomodarsi) Già papà!
MIMMA Ma come nun eravate uscito?
PAOLO Io? Stavo in cucina a allustramme le scarpe; anzi mi rincresce
d’avevve disturbato. (a Mimma) E, dico, si è lecito, chi è ‘sto signore?
MIMMA È... insomma è un giovine che fa... cioè che vorrebbe fare
l’amore con Giggia...
PAOLO Con Giggia?! E scusateme, allora quel baciamano...?
MIMMA Uno scherzo. Ma per carità, che se la sora Vittoriona...
PAOLO Io? E chi pparla?
ALFREDO È la prima volta che... (mortificato)
PAOLO Ah ce credo benone... (Dorotea a me me tiè sempre per comodino; così quando poi je dà lo scaccione allora me fa fà la parte del
tiranno).
ALFREDO Del resto... le mie intenzioni sono più che oneste. È vero
signora Mimma?
MIMMA Verissimo; se no, ve pare che io me ne sarebbe impicciata?
PAOLO E, dico, se è la prima volta che venite a casa mia, come fate a...
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ALFREDO (incerto) Ma...
MIMMA (Si sapessi! Invece questo sta sempre qui) Embè se sa, come
volete che faccia? Qualche lettera gliela porto io.
PAOLO Brava sora porta pollastri. (ad Alfredo) E ditemi un po’ giovinotto che professione fate?
ALFREDO Io?...finora...veramente nessuna.
PAOLO Bella professione! Come la mia. Io pure sò disoccupato; siamo
coetanei. Qua la mano. (si stringono le mani)
ALFREDO Ma però ho diverse vedute...
PAOLO Precisamente come me. Infatti girando pe’ Roma se ne godono
tante de belle vedute!...
ALFREDO (imbarazzatissimo) Già...
PAOLO Insomma, ve sete proprio deciso a ammogliarvi?
ALFREDO (c. s.) Ma sa...
PAOLO Volete propio fare sta minchioneria?
ALFREDO (c. s.) Eh come vede...
PAOLO Volete un consiglio? Lasciate andà e ve ne ritroverete meglio.
MIMMA (Me piace!... Ecco el guastamestieri).
PAOLO E ricordateve bene de queste parole che ve dice un omo che cià
esperienza: chi piglia moglie e casca bene, nun po’ sta peggio. Arrivederla; tanto piacere d’averlo conosciuto. (e con la solita calma se ne va.
Arrivato alla porta in fondo, si rivolta e con la mano saluta Alfredo)
MIMMA e ALFREDO (mortificati restano a guardare)
Cala la tela
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ATTO II
Un salotto riccamente addobbato. Si fa notte. Dopo la prima scena si accenderanno i lumi.
SCENA I
Clementina e Medardo
MEDARDO (vestirà la divisa di capitano nei bersaglieri) Dunque, tutti
bene?
CLEMENTINA Tutti bene in salute; ma de rimanente...
MEDARDO E Mimma, Mimma, come sta?
CLEMENTINA Poveraccia, nun ve ne curate de sapello. Quela disgraziata è la scopa de casa; è propio una vera martira: è quella che attura
tutti li buci de la famija. E poi pe’ ttappo, je danno tutti quanti carci
in de li stinchi.
MEDARDO Che me dici!
CLEMENTINA Accusì nun fosse. Lei fa la serva a tutti peggio de me...
C’è poi quela bbojaccia de quela pantafrana7 de la sora Vittoriona, che
si’ ‘mmazzata, che de quella poveraccia, ne vorrebbe la pelle, ne vorrebbe.
MEDARDO Poverina; ma come mai?
CLEMENTINA Subbito che quane, fijo mio, combattemo er cecio cor
faciolo. Ciavemo ‘na migragna tarmente incancrenita...
MEDARDO E Giggia?
CLEMENTINA Ah quella fa l’amore cor un giovinotto che sta impiegato co’ monsignor de le strade. Un antro bon affare.
MEDARDO E el sor Pavolo?
CLEMENTINA Sempre talecquale. Quello si je cascassi la casa addosso, nun se smoverebbe de pezza. Puro lui ha chiuso bbottega, e s’è impiegato assieme cor futuro genere co’ monsignor de le strade.
MEDARDO E Costantino, Elvira?
CLEMENTINA Cianno un fijo. Ma a lloro nu’ j’annerebbe male perché cianno quela vecchiaccia de la madre de lui che sfragne. Ma je ne
dà de guai a quela povera nora!...
7
Pantafrana, patanfrana: donna grassa e grossa, pesante nei movimenti.
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introduzione
MEDARDO E la sora Dorotea?
CLEMENTINA Sta accusì moscia e ttenera... Figurateve che io (ma
mosca veh?!) j’avanzo ppiù de quinici mesate sole; e si nun fosse questo da mó che averebbe pijato l’erba fumaria8.
MEDARDO Basta: adesso sbrigati vammi ad annunciare...
CLEMENTINA (s’allontana e poi ritorna) Si sapessivo che bber gode a
sservì adesso qua drento.
MEDARDO Eh ma non dicevi così, quando se trovaveno nel bene.
CLEMENTINA Eh si nun fussi ch’aripenso a quer tempo, sarebbe un
pugno, sarebbe, che j’averebbe dato er piantinaro9.
MEDARDO Brava; ma sbrigati...
CLEMENTINA (c. s.) Eccheme. Pe’ furtuna che io sò una che nun
m’impiccio de le corna de l’antri...
MEDARDO Eh lo credo...
CLEMENTINA Si nno ce n’averebbe tante da riccontavvene, che me
ce vorrebbe una sittimana.
MEDARDO (impaziente) Infatti lo vedo.
CLEMENTINA Ma voi me conoscete de cratura, e lo sapete che io è
difficile che pparli; e ppe’ segretezza tanto sò ccome...
MEDARDO La tramontana. Ma spicciati...
CLEMENTINA Eccheme. (si avvia)
MEDARDO Ascolta. Eccoti dieci lire; e senza dir niente a nessuno,
vammi a comperare due fiaschi di vino buono e una pizza di pan de
spagna. Ma silenzio!
CLEMENTINA Voi lasciate fà Crementina. (nell’uscire vede Mimma
che viene dalla sinistra) Ecco la sora Mimma che viè da ‘sta parte; scostateve, nun ve fate vedé... Sapete che improvisata! (esce)
SCENA II
Medardo e Mimma
MEDARDO (si tira in disparte per non farsi vedere subito da Mimma)
MIMMA (vestita poveramente, con un cappellino sdrucito) Andamo da
zia. (si avvia) Almeno mi andasse bbene!
MEDARDO (chiamandola) Mimma!
8
Pijà l’erba fumaria: fuggire, scappare.
Dà er piantinaro: rompere un fidanzamento, lasciare in asso una persona, andarsene
all’improvviso senza farsi più vedere.
9
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MIMMA (molto sorpresa) Tu, Medardo? (e si stringono con trasporto la
mano)10
MEDARDO Cara, Mimma!
MIMMA Nun me pare vero!
MEDARDO (nascondendo la commozione) E la sora Dorotea e il sor
Paolo?
MIMMA Stanno benone; mica sanno gnente...
MEDARDO E ttu?
MIMMA Nun lo vedi? Me sò invecchiata eh? (ride) Sfido, l’anni passeno. Sai che a momenti sò venticinque anni che nun se vediamo? Tu
stai bene, davero! Come te s’adatta questa muntura... Sai adesso la
contentezza de mammà quando te vede!...
MEDARDO Vall’a chiamare. (e seguita a tenerla per la mano)
MIMMA Adesso; ma si nun me lasci...
MEDARDO E dimmi, cara Mimma, come lo hai passato questo lungo
tempo?
MIMMA Io, grazie a Dio, benone.
MEDARDO Davero? E pure, scusami sai se sono franco, ti trovo così
sciupata, così dimagrita...
MIMMA Eh l’anni passano. Te l’ho detto: mica sò più Mimma de 25
anni fa.
MEDARDO Te ricordi?!
MIMMA Altro si me ricordo! Come passa tutto!
MEDARDO Le belle passeggiate fatte insieme, li nostri sogni da fanciulli, le nostre birichinate...
MIMMA Eh! (sospirando) adesso è tutto cambiato. El passato me pare
un sogno... Ti ricordi come ambivo de vestirmi bene. E adesso guarda: il primo straccio che mi capita me lo butto addosso e esco da casa.
(si guarda addosso mortificata) Me guardi eh? (ridendo) Dì la verità, a
momenti nun me riconoscevi?
10
Versione precedente delle prime battute di questa scena:
Come me trema el core! Eccomi in questa casa dove ho passato i migliori
anni della mia fanciullezza, educato e beneficato da questa buona e brava gente...
Povera sora Dorotea, da una posizione così agiata, essersi ridotta quasi in miseria...
Il marito disoccupato; una figliola maritata a un imbecille; una suocera ignorante;
quella povera Mimma, la compagna della mia infanzia, rimasta zitella, schiava di
tutti... Basta: giungo ancora in tempo...
MIMMA (vestita poveramente, con un cappellino sdrucito)
Tu, Medardo!
MEDARDO Cara Mimma!
MEDARDO
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introduzione
MEDARDO No, non dico questo, ma... scusami, non offenderti, tutto
l’assieme mi dice che tu hai sofferto, che tu soffri...
MIMMA (sforzandosi di parer calma) Ma no, Medardo mio, non è vero:
sto tanto bene. Mammà e papà nun me guardeno per nun lograrme;
le sorelle pure... Se sa, povero papà ha avuto tante disgrazie, e non potemo fare la figura che facevamo prima...
MEDARDO Povera Mimma mia!...
MIMMA Embè che ce vorressi fà? Lassamo un po’ fà el Signore. Del
resto l’unico dispiacere mio è de vedé papà, mammà e le sorelle che
soffreno... Quanto a me, vadi come vò andà ché intanto è lo stesso.
(asciugandosi una lacrima) Intanto per me nun c’è più speranza.
MEDARDO Spera, spera e non t’affliggere. Alcune volte, Mimma mia,
la virtù è premiata anche su questa terra... Basta: corri a chiamare
mammà, papà, le sorelle tutti.
MIMMA Sì, bravo. Allora facciamo una cosa. Io esco ché ho d’andà
per un affare da zia; e tu intanto saluti mammà. (chiamando) Mammà! Sai che bbella improvisata! Mammà...
SCENA III
Medardo, Mimma e Dorotea
DOROTEA Èccome. (vedendo Medardo) Tu, Medardo? Oh guarda: ma
sei proprio tu? Davero che chi non more si rivede.
MEDARDO (abbracciandola) Cara, signora Dorotea, con quanto piacere vi riabbraccio.
DOROTEA Noi ce possiamo abbraccià davero senza scrupoli come madre e figlio.
MEDARDO Eh se non ci avessi avuto voi che mi avete fatto da madre,
poveretto me.
MIMMA (asciugandosi gli occhi) Allora mammà, io vado da zì Teresa.
Addio, Medardo mio; (gli dà la mano) se vediamo più tardi. (esce dalla porta di fondo) Dio ti ringazio, che consolazione!
DOROTEA (a Medardo) Méttete a ssede. (siedono) E dimme un po’.
Sei stato sempre bene?
MEDARDO Grazie. E voialtri?
DOROTEA Eh figlio mio, così così. Si t’avessi da raccontà tutte le disgrazie ch’avemo passate e che purtroppo stiamo passando!...
MEDARDO So tutto, so tutto.
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DOROTEA A pensare che stavamo tanto bene!... Te ne ricordi eh? Eh
quando in una casa comincia sciangarangà11...
MEDARDO Eh, sora Dorotea mia, con chi vorreste pigliarvela? El mondo è fatto a scale: chi le scende e chi le sale... E a proposito il sor Paolo?
DOROTEA Lui è andato in piazza a vedere un po’ d’arimediare qualche cosa. S’arangia a far da sensale; ma glie va moscia assai...
MEDARDO E Elvira, Giggia?
DOROTEA L’ho lasciate de là. Co’ la cosa che Giggia da un mese fa
l’amore, e dde llà c’è l’innamorato, ciò lasciato Elvira che me ce dasse
un occhio.
MEDARDO Ah Giggia fa l’amore?
DOROTEA Sì; ma è tutto tempo perso. È un bravo giovine, de bonissima famiglia; ma nun cià né arte né parte.
MEDARDO Elvira so che cià un figlietto.
DOROTEA Quella figlia mia, come interesse non starebbe male; (moderando la voce) perché a la morte de la sora Vittoriona, resterebbe tutto al figlio. Ma che vita con quella donna! È un’ignorante de la forza
de cento cavalli; e da quando lei sta qua dentro, stamo in un inferno.
MEDARDO E perché non la mandate al diavolo?
DOROTEA Perché...perché Medardo mio si nun fusse lei, certi giorni
qui se starebbe a crocetta... E poi se non altro me vedo quella figlia
mia a casa.
MEDARDO Che anche Costantino la strapazza?
DOROTEA No, ma la madraccia me lo mette sempre su contro la moglie, e daglie oggi e daglie domani, lo sai come succede?
MEDARDO Oh poveri amici miei!... Ma insomma queste benedette
Elvira e Giggia se ponno o nun se ponno vedere?
DOROTEA Adesso te le chiamo. (si avvicina a una delle porte a destra)
Giggia, Elvira, Sor Alfredo, venite de qua che c’è un signore che ve
desidera.
SCENA IV
Dorotea, Medardo, Elvira,
Giggia e Alfredo
ELVIRA (vedendo Medardo) Oh guarda, guarda che bell’improvisata!
(stringendo la mano a Medardo)
11
Sciangarangà-sciangherangà: sfortuna, jattura, disgrazia, rovina. Dall’ebraico cha àh
ra’ àh: ora infausta.
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introduzione
GIGGIA (c. s.) E voi, mammà, nun ce dicevate gnente? (si stringono la
mano)
MEDARDO Come state?
ELVIRA Bene.
GIGGIA Tu già se vede. (a Medardo) Te presento Alfredo Moscetti, mio
fidanzato.
MEDARDO (stringendo la mano ad Alfredo) Fortunatissimo!
ALFREDO Anzi!
Ognuno siede, Giggia ed Alfredo sopra un sofà in fondo alla sala.
ELVIRA (a Medardo) E ti trattieni assai a Roma?
MEDARDO Quanto ne ho voglia: anche per sempre. Adesso mi spoglio perché passo maggiore e m’impiego al Ministero della Guerra.
GIGGIA Come, lasci la carriera militare?! Stavi tanto ben vestito così:
che peccato!
ALFREDO (ingelosito alza le spalle e dà un colpo sulla gamba di Gigia)
(scena a soggetto)
MEDARDO Allora, poiché ciò ti fa piacere, ti dirò che questa divisa la
seguiterò a portare perché resto maggiore nella riserva.
ELVIRA Bravo! Sai Costantino quanto ciaverà piacere quando te vede!
MEDARDO Sfido, siamo cresciuti insieme. E a proposito, e il tuo bambino?
ELVIRA Dorme. Appena se sveglia te lo faccio vedere. Si vedi quant’è
caruccio.
MEDARDO Eh somiglierà alla mamma.
ELVIRA Già: allora sarebbe bello assai!
MEDARDO E lo pòi dir forte.
GIGGIA E fischiare pure.
ELVIRA (a Gigia) È bella lei!
GIGGIA Eh nel caso.
DOROTEA Brutte sceme: mó stateve a litigare la bellezza.
GIGGIA Che adesso nun se pò scherzà?
DOROTEA Eh ciamancherebbe che facessivo sul serio.
ELVIRA Eh non lo dite tanto forte; perché qui me pare che non facciamo tutto il giorno altro che litigare.
DOROTEA Eh se sa, quando in una casa ciamanca el necessario, ce se
trova sempre da ridire.
MEDARDO Passerà anche questa. Sapete che vi dico? Adesso sò venu-
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to a Roma io e voglio che state tutti alegri. Pure lo sapete che io porto furtuna.
DOROTEA È vero davero.
GIGGIA Passasse l’angelo e dicesse: ammen.
MEDARDO Dunque alegri, corpo di Bacco! E lei signor Alfredo, dica
qualche cosa.
ALFREDO (timido impacciato) Cosa vuole che dica? non saprei...
GIGGIA Nun ce far caso: è timido proprio per natura.
ELVIRA Già, è vergognoso lo sfacciatello.
GIGGIA Sicuro: non ti confinfera?
DOROTEA (impazientita) Ah ah! Quant’è lunga la camicia de Meo12.
(s’ode suonare il campanello di casa)
MEDARDO Forse el sor Paolo!
DOROTEA Dev’esse lui in persona.
SCENA V
Paolo, Dorotea, Medardo, Gigia,
Elvira e Alfredo
DOROTEA Paolo, vedi un po’ chi è venuto.
PAOLO (nel vedere Medardo perde l’abituale calma; gli salta al collo e
l’abbraccia a più riprese) Tu?! Ma sei proprio tu?!
MEDARDO Non mi aspettavate?
PAOLO Davero. Lo sai che qui nun me dicheno mai gnente.
DOROTEA Che tt’avevamo da dì si manco noi nu’ lo sapemio. È vero
Medardo?
MEDARDO Verissimo. Siccome credevo di ritardare la mia venuta almeno di un mese per un affare che avevo a Torino, non ho scritto a
nessuno che venivo; nemmeno a mia sorella. Poi a Torino non sono
più andato e così sono partito improvvisamente per Roma, dove sono
arrivato oggi alle tre.
PAOLO Eh bravo! Ciai fatto propio uno de quelli piaceri che llèvete!
(rimettendosi poi della nota sorpresa e riprendendo l’abituale calma si
guarda attorno e si avvede della presenza di Alfredo) Uh guarda chi c’è,
quello che a casa mia nun ce veniva mai.
ALFREDO (alzandosi) Io veramente già l’ho salutato; ma lei...
GIGGIA Si papà, già v’ha salutato; ma voi non ciavete fatto caso.
12
Camicia de Meo: cosa monotona, noiosa, che non termina mai.
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introduzione
PAOLO Lo credo; ma è stata tanta la sorpresa de trovà qui ‘st’amico grande, che me scuserete si nun ciavevo dato che stavate qui. State bene?
ALFREDO Benissimo; e lei?
PAOLO (ironicamente) Sempre bene, quando se sta in grazia vostra. (si
siede) State commodo. (ad Alfredo)
PAOLO E dimme un po’ Medardo mio, te trattenghi assai?
MEDARDO Dipende da me; forse anche per sempre.
PAOLO (incredulo) Ma vattene!
DOROTEA Sì davero ce l’ha detto pure a noi. È vero Elvira?
ELVIRA Verissimo.
GIGGIA Resta impiegato qui al Ministero de la Guerra.
PAOLO Ma davero? Ma sai che mi hai dato una gran consolazione, Medardo mio? Viè qua che tte vojo dà un altro bacione. (lo bacia con trasporto) E Mimma lo sa?
MEDARDO È stata la prima che ho visto.
PAOLO Figuramese sarà stata contenta?
DOROTEA Te lo poi immagginà.
PAOLO Oh bravo, bravo, bravo!
MEDARDO Oh caro sor Paolo mio!
PAOLO Già, dico, ‘ste donne, t’averanno messo al corrente de tutte le
cose nostre?
MEDARDO Sì sì, so tutto purtroppo!
PAOLO Chi me l’avesse detto! Basta, è meglio a nun pensacce; si no ce
sarebbe da sbattese la testa al muro. Ma siccome dice el proverbio che
cent’anni de pensieri nun pagheno un soldo de debbito, così nun me
ne voglio stà a prendere per gnente.
DOROTEA Eh già, tu li dolori li lasci prende a li cani...
MEDARDO Fa benone. Finiamola una bona volta con questi argomenti dolorosi.
PAOLO Davero finimola. Anzi, dico, ma perché stamo qui come le bestie?
MEDARDO È quello che dicevo anch’io.
PAOLO (chiama) Clementina, Clementinaa!
DOROTEA Che vòi da Clementina?
SCENA VI
Clementina e Detti
CLEMENTINA Che volevio?
PAOLO (dandole una moneta) Tiè, va ggiù da Rampichino a nome mio
e fatte dà du’ litri...
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e
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CLEMENTINA (rifiutando il danaro) Ho capito: mó ce penso io. (avviandosi)
PAOLO Ma tiè...
CLEMENTINA (con alterigia) Quanno ve dico che cce penso io, me
pare che abbasti. (esce)
PAOLO Abbasta che nun me meni!
ELVIRA Viva la faccia de la bona grazia.
MEDARDO ‘Sta benedetta Clementina è sempre come era trent’anni fa.
DOROTEA Come l’hai lasciata, così la ritrovi.
GIGGIA Anzi anche un pochetto peggiorata, considerato il tempo che tira.
PAOLO A proposito de li spropositi: ma Costantino e la madre?
DOROTEA Si nun me sbaglio, eccoli. Me pare d’avé inteso aprì la porta de casa.
SCENA VII
Vittoria, Costantino, Mimma
e Detti
VITTORIONA (sostenuta) Bona sera a tutti.
COSTANTINO (nel vedere Medardo) Tu! (si abbracciano)
MEDARDO (salutando) E lei sora Vittoria, come sta?
VITTORIONA (c. s.) Benone: a dispetto de chi cce vò mmale. (si danno la mano)
MIMMA Bona sera a tutti questi signori. (si avvicina all’orecchio di Dorotea) (zi’ Teresa m’ha rigalato 20 pavoli!)
DOROTEA (Sia ringraziato Iddio! Brava figlia mia)
Intanto Medardo e Costantino discutono fra loro; e Gigia e Alfredo sempre
seduti al sofà fanno l’amore.
PAOLO (ironico) Signora Vittoria, li miei rispetti.
VITTORIONA (c. s.) Oh scusate se non vi avevo sfigurato prima.
PAOLO (c. s.) Oh le pare! Anzi a lei.
ELVIRA Costantino, dove siete stati di bello?
COSTANTINO A fare due passi con mammà.
VITTORIONA (con alterigia) A fare mezz’oretta de commido nostro.
ELVIRA (Ignorante!) Mimma, ma che tu sei uscita con loro?
MIMMA Macché. Se semo incontrati qua su la porta de casa.
MEDARDO (a Vittoria) E avete fatto una bella passeggiata?
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introduzione
VITTORIONA Magnifica. Semo montati in tranvaise al Castro Petrolio e siamo arivati infinenta a San Pietro indove la quale abbiamo cenato a la trattoria a piazza Rusticucci13, soli soli; e...
COSTANTINO Come due papetti.
VITTORIONA (con serietà a Costantino) Zitto voi, quando parla vostra
madre!
PAOLO (a Vittoria) Lo sapete però che glie succede a chi mangia solo?
VITTORIONA Creperà lo stroligo. (risata di tutti)
MIMMA Elvira, e el pupo?
ELVIRA Dorme. Vammece a dare un occhio.
MIMMA Vado, Elvira mia. (entra in camera e ne riesce subito) Dorme
come un angioletto.
MEDARDO (alzandosi) Allora lo vedrò domani.
MIMMA Che già te ne vai?
PAOLO Già cce lassi?
MEDARDO (guardando l’orologio) È tardi veh; mezzanotte passata.
DOROTEA E poi poveraccio sarà stanco.
COSTANTINO Da quando stavi in viaggio?
MEDARDO Da jeri mattina a le cinque.
VITTORIONA E nun ve vergognate de trattienello, povero regazzo?
PAOLO Aspetta un altro po’ ché intanto adesso l’accompagno io. Prima avemo da beve. (chiamando) Ah Clementina, eh fajela che te possi roppe li maschietti14: Clementinaaa!
SCENA VIII
Clementina e Detti
CLEMENTINA (recando un gabarè con bicchieri, bottiglie di vino e una
pizza che depone sopra un digiuné) Eccoli serviti.
PAOLO MIMMA GIGGIA ELVIRA DOROTEA
(nel vedere tanta grazia di Dio, si guardano prima fra loro interrogandosi con lo sguardo, poi guardano Clementina la quale resta impassibile)
VITTORIONA (Li quatrini pe’ li sciali li troveno ‘sti scannati!)
MEDARDO (offrendo da bere a Vittoria e Costantino) Bevete.
VITTORIONA Grazie: un goccetto tanto per aggradire. Voi, Costantino, nun bevete tanto; ché già avete bevuto abbastanza.
13
Piazza Rusticucci, scomparsa con il tracciato di Via della Conciliazione, era nell’area
dell’odierna piazza Pio XII.
14
Ginocchia. Dal disusato vocabolo volgare mastietto: cerniera.
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)
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PAOLO (serve tutti gli altri) Bevete sicuri; ché questo è de quello de
Rampichino.
MEDARDO (alza il bicchiere) Alla salute nostra.
PAOLO (c. s.) E un anticòre15 a chi cce vò male.
VITTORIONA (con intenzione) Per me vadi puro.
ELVIRA (Quant’è permalosa!)
MEDARDO E al diavolo la malinconia.
PAOLO E la disperazione!
Si beve e si mangia: scena a soggetto.
MEDARDO (posando il bicchiere) Molto buono questo vino. Allora io,
col permesso di questa amabile compagnia, lascio la buonasera a tutti.
TUTTI (si alzano e salutano Medardo)
DOROTEA T’aspettamo domani a pranzo.
MEDARDO Non mancherò, siate sicuri.
PAOLO (intanto si sarà già messo il cappello e sarà uscito senza dir verbo,
precedendo Medardo)
DOROTEA (divenuta tenera per il vino bevuto, si fa alla porta e lo chiama) Paolo, Paolo, te ne vai così senza dirme né asino né bestia?
MEDARDO Viene ad accompagnarmi: che vi rincresce?
PAOLO (ritorna con calma sulla porta e dice a Dorotea) Asino, bestia,
bestia, asino! (e se ne va con Medardo)
TUTTI (scoppiano in una sonora risata)
VITTORIONA Io puro allora ve do la bona notte. Mimma, m’avete
preparato l’acqua, la camicia da notte, le pantofole...?
MIMMA Tutto in ordine.
VITTORIONA (ad Elvira e Costantino) Voi puro regazzi andatevene a
sloffe16 ché si nun erro mi pare de sentire el pupo che piagnucola. (esce)
ELVIRA Uh davero! Bona sera a tutti. (e se ne va in fretta) Mimma,
m’hai messo l’acqua?
MIMMA Sì, Elvira mia, tutto pronto.
COSTANTINO Mimma, domani stireme la camicia bianca, e porteme el caffè a le sei. Bona notte. (esce)
MIMMA Appena mi alzo sarà la prima cosa.
DOROTEA Bona notte figli miei. (rivolgendosi a Giggia e Alfredo) Regazzi mbè è ora de fargliela? È tardi assai: sapete?
15
16
Accidente.
Dormire; dal tedesco schlafen.
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introduzione
GIGGIA Noi, mammà, stamo ancora un pochetto. Intanto Mimma ce
fa compagnia.
DOROTEA Non più d’un quarto però, avete inteso Alfredo?
MIMMA Voi mammà andate pure in santa pace; ché a loro ce penso
io. Mica è la prima sera.
DOROTEA Allora bona notte. (esce)
ALFREDO Altrettanto.
MIMMA e GIGGIA Bonariposo, mammà.
SCENA IX
Mimma, Alfredo e Giggia
MIMMA (dopo di aver dato assetto alla camera prenderà la calza; ma si
vede dagli sforzi che il sonno la vince)
GIGGIA (ad Alfredo) Mbè la finisci da stà col muso? Quanto sei antipatico! Almeno se pò sapere che te s’è sciolto?
ALFREDO (sostenuto) Ma se ti dico gnente.
MIMMA (sbadigliando) Che avete eh Alfredo?
GIGGIA (infastidita) Ce capisci qualche cosa? È da stasera che sta ingrugnato... Quant’è bello!
ALFREDO Ma se non è vero.
GIGGIA Allora se pò sapere perchè è da oggi che stai con quella mutria?... Ma già, io che ce perdo tempo. (si alza e si mette a passeggiare
per la stanza)
MIMMA (sbadigliando) Eh che ve possi cascà la pace addosso, brutti
mocciolosi!
GIGGIA Vedrai che adesso nun sarò padrona di parlare con chi me pare e piace. Tutto glie fa ombra. Doppotutto se Medardo c’è venuto a
trovare, è un amico di famiglia: siamo cresciuti insieme. Adesso per
far piacere a lui, dovevamo metterlo alla porta.
MIMMA In questo poi ha raggione Giggia. De che avete paura? (sbadigliando) Sete poco scemo!
GIGGIA Sò più stufa io che nun se sa. (si siede di nuovo vicino ad Alfredo) Dì stupido: nun te pare che queste sò gelosie fori de posto?
ALFREDO Sia pure; ma io sono fatto così.
GIGGIA Sei fatto male assai! E poi, dico, fra me e Medardo ce correranno almeno una dozzina di anni... Vedi sì che idee da imbecille,
cretino, stupido, come sei.
ALFREDO (rabbonito) Grazie, troppo incomodo.
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GIGGIA Su via, vieni qua finiscela. (lo prende per la mano) E un’altra
volta, non farmelo più. Me lo prometti?
ALFREDO (sorridendo) Farò il possibile. Ma ti ripeto, la mia volontà è
più forte di me.
GIGGIA Che volontà! Uno se corregge.
ALFREDO Dopo tutto, questo è un segno evidente che ti voglio bene.
Dove non c’è gelosia non c’è amore.
GIGGIA Sì lo capisco. Ma intanto a me mi fa rabbia.
MIMMA (svegliandosi) Avete inteso, creature è tardi assai. Quando ve
spiccicate?
GIGGIA Aspettamo che ritorni papà.
MIMMA Ma tu sei matta. Papà cià la chiave e chi lo sa a che diàncine
d’ora ritorna.
GIGGIA Mbè un altro pochetto, pochetto.
ALFREDO Altri cinque minuti.
MIMMA Tutte le sere una storia. Pure lo sapete che io a le quattro e
mezzo ho da stà su.
GIGGIA Tu minchiona, che tte ci alzi! Intanto adesso pure papà lo sa.
A proposito, Alfré, come te disse?
ALFREDO Mi disse: Ricordatevi, figlio mio, che chi piglia moglie e
casca bene, nun pò star peggio.
GIGGIA M’ha fatto una bella raccomandazione!
ALFREDO Del resto fu gentilissimo.
GIGGIA Povero papà, è tanto bono che è fin troppo.
ALFREDO Allora io è meglio che vada. (si alza)
GIGGIA Mettete a sedere un altro pochetto.
ALFREDO Ma no, ché la povera sora Mimma...
GIGGIA Dille che non secchi tanto, quella nojosa.
MIMMA (supplicante) Ma sì, sì; state pure. Ho detto così per dire. Nun
ho sonno per gnente. (sbadigliando) Potrei stà qui fino a domani...
Non ho più sonno. (sbadiglia) Fate pure, fate.
GIGGIA Poi quando sposamo te facciamo un bel regalo.
MIMMA Nun voglio gnente. Basta che ve sbrigate a sposà; almeno così la notte nun ve starò a ffà ppiù la sentinella.
GIGGIA Eh ciamancherebbe altro. (ad Alfredo dandogli la mano) Allora ce vediamo domani all’ora solita.
ALFREDO Alle dieci e mezzo domattina. Addio.
MIMMA (intanto sempre sbadigliando avrà acceso una bugia e starà in
piedi ad aspettare che Alfredo se ne vada) Bonasera sor Alfredo.
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introduzione
GIGGIA Guàrdelo, nun vede l’ora d’andarsene!
ALFREDO Io? Ma lo faccio per riguardo di Mimma.
GIGGIA Se sa che cià che fa tutto lei.
MIMMA Io? Ma se ho scherzato. (sbadiglia) Se nun ho sonno per niente. Magari Alfredo vò restà fino a domani...
ALFREDO (avviandosi verso la porta ed aprendola) Allora domani me
ce porto il letto. Arrivederci.
GIGGIA Non venire però con quella mutria, domani.
ALFREDO Farò il possibile.
GIGGIA Se no te butto per tutte le scale...
MIMMA Bonasera. (ad Alfredo dandogli la mano)
SCENA PENULTIMA17
Mimma, Giggia e Alfredo
MIMMA (rimettendo a sesto la stanza dice tra sé) Quanto sò contenta!
Oggi proprio è stata una gran bella giornata per noi. Chi me l’avesse
detto de rivedere Medardo, dopo tanti anni!... E pensà che io sò diventata una strega, e lui più sta e più se fa un bell’omo... Ma che dico
un bell’omo, più sta e più se fa un bel giovinotto!... Ah è vero, ce l’avevo tanto in mente de domandaglie si fa l’amore, e poi me ne sò scordata come una stupida. E sippuro lo fa, a me che ne deve importà?
(sbadiglia) Per me tanto sò finite le messe a San Gregorio18... Varda sì
a che vado a pensare!... (sbadiglia) Almeno adesso ‘sti ragazzi gliela facessero a sbrigasse!... Io, sarà la stanchezza, o la contentezza, ‘sta notte ciò un sonno un sonno che stento a tené l’occhi aperti. (sbadiglia)
SCENA X
Paolo, Detti e Dorotea (di dentro)
PAOLO (presentandosi con calma sulla porta) Come v’alzate presto la
mattina, eh sor Alfredo?
ALFREDO (imbarazzato) Che è tardi assai?
PAOLO No, macché. Sò le tre sole doppo mezzanotte.
ALFREDO (correndo) Scusi tanto; bona notte. (esce)
GIGGIA (in fretta) Bona sera papà; addio Mimma. (se ne va in camera)
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N. d. A.: aggiunta all’atto secondo.
San Gregorio taumaturgo protettore dei casi disperati.
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PAOLO Se vedemo. (poi rivolgendosi a Mimma in tono canzonatorio) E
tu Mimma mia che stai facendo a quest’ora in piedi?
DOROTEA (di dentro in tono languido) Paolo, Paolo mio!
PAOLO Mó cciamancavo puro questa che sse svegliasse! (a Mimma) Dì
che stai facendo?
MIMMA (che è rimasta con la bugia accesa in mano fa un grande sbadiglio) Nun lo vedete, papà, che faccio?
DOROTEA (di dentro chiamando c. s.) Paolo, Paolo mio, perché non
vieni?
PAOLO E questa mó cche vò? Quanno ha bbevuto un goccetto ‘sta
bbenedetta donna è un affare serio!... Basta el Signore ce la mandi
bbona (e si avvia verso la stanza nuziale; giunto però alla porta si volta fa
un inchino alla figlia che glielo restituisce)
Cala la tela
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introduzione
ATTO III
La stessa del primo atto.
SCENA I
Dorotea e Mimma sedute
DOROTEA Dunque, figlia mia, te sei proprio decisa?
MIMMA Decisissima, mammà mia.
DOROTEA Ma abbada che è un gran sagrificio quello che fai, figlia
mia. Pènsece bene.
MIMMA Ciò poco da pensà. Io ormai sò vecchia; e el più l’ho fatto, e
poi nun ve voglio lascià a vojaltri due. È meglio che s’accommodi quella povera Giggia. Oggi o domani (che sia fra cent’anni) che vojaltri
chiudete l’occhi, come resterebbe?
DOROTEA Ma tu piuttosto come resteressi!
MIMMA Eh el Signore me provederà.
DOROTEA E Medardo come l’ha presa?
MIMMA Sul principio nun voleva assolutamente; ma poi, vista l’insistenza mia, e visto pure che quella birbona de Giggia nun s’è l’è fatto
dire due volte, ha inchinato la testa... Ciavesse da perde nel cambio!
DOROTEA Io, quando Medardo me l’ha ddetto, sò ccascata da le nuvole. Credevo che me ti chiedesse a te; e invece...
MIMMA Ma ringraziamo Iddio. E poi, avete inteso; sposeno subbito
adesso per ottobre.
DOROTEA Signore te ringrazio! Famme un po’ sentì quela birba de
Giggia sì che dice. (chiamando) Giggia, Giggia, vieni un po’ de cqua.
SCENA II
Giggia e Detti
DOROTEA Dunque, eh figlia mia?
GIGGIA (indifferente) Dunque de che, mammà?
DOROTEA De quello che m’ha detto tanto Medardo che Mimma.
GIGGIA Che me sposo Medardo? È verissimo.
DOROTEA Figlia mia, ma ciai riflettuto bene?
GIGGIA Altro che riflettuto!
DOROTEA Pensa che quello ha una dozzina d’anni più de te...
GIGGIA Meglio così: me vorrà più bene. Mammà mia, c’è poco da
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pensà, quando se sta in uno stato come el nostro. È come quando uno
se sta per affogare che trova una tavola de salvezza.
DOROTEA Basta: contenta te, contenti tutti.
MIMMA Vòi o nun vòi, Medardo cià una bella posizione. Che tte pare: mó passa maggiore.
DOROTEA Moglie d’un maggiore, che consolazione!
MIMMA E poi quela montura glie s’adatta proprio.
GIGGIA Apposta ciò fatto el patto che deve fare carriera.
DOROTEA Davero?
GIGGIA Sicuro: seguita la carriera per amore mio.
MIMMA E quando diventerà colonnello?
GIGGIA ( fuori di sé dalla gioia) Ma quando diventerà generale!
MIMMA (c. s.) Che sarai la moglie d’un generale: la sora Generalessa!
DOROTEA (c. s.) E Medardo ce diventa davero; perché oltre all’essere
istruito, non ha mai avuto punizione; senza contare le campagne c‘ha
fatto.
GIGGIA Altro! Cià diverse medaglie, oltre all’èsse cavaliere.
MIMMA (inchinandosi a Giggia) Sora cavalieressa!
GIGGIA Ciò piacere per quella pettegola de la sora Vittoria. Sai quando lo saprà come ce mangia l’aglio!
DOROTEA Che nu’ gliel’ha detto Elvira?
GIGGIA Gliel’ho proibito assolutamente. Voglio che lo sappia come un
fulmine a ciel sereno.
MIMMA (asciugandosi gli occhi) Che felicità, che bellezza!
DOROTEA ( fuori di sé dalla gioia) Lo dicevo, ragazze mie, che Medardo ciaverebbe portato fortuna co’ la sola sua presenza!...
SCENA III
Clementina e Dette
CLEMENTINA (annunciando) Er sor Arfredo!
DOROTEA GIGGIA MIMMA (a questo annuncio come se fosse caduto
loro addosso un catino d’acqua ghiaccia, si guardano meravigliate ed
esclamano) Alfredo! E chi ciaveva pensato?
MIMMA E adesso?!
GIGGIA Clementina, è entrato?
CLEMENTINA No: sta su la porta.
GIGGIA Mbè,... diglie... che io sto a letto cor un po’ di dolor di testa...
Che venga fra poco. (Prendiamo tempo).
CLEMENTINA (nell’uscire) ‘Sto povero merlo se le beve tutte.
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SCENA IV
Dorotea, Mimma, Giggia poi Clementina
MIMMA Avemo fatto li conti senza l’oste. La cosa è stata tanto inaspettata, che a ‘sto poveraccio nessuno de noi ciavemo pensato!
DOROTEA E mó come se fa? Almeno tu Giggia, prima di... ce dovevi
pensare!
MIMMA El bello è che pure noi ce ne semo scordate.
DOROTEA Ma che vòi, la cosa è stata tanto precipitata... Chi se l’immagginava mai!...
CLEMENTINA (ritornando) Sora Ggi, er sor Arfredo ha detto accusì,
che annava a pija un sighero e aritornava subbito. (esce)
GIGGIA Sì, salutemelo tanto! E mó chi glielo dice?
MIMMA Diglielo tu. (nell’ imbarazzo)
GIGGIA Poveretta davero? Io nun ciò coraggio.
DOROTEA E adesso?! (imbarazzata)
MIMMA Oh che bell’impiccio! e tutto per causa mia.
DOROTEA (imbrogliatissima) Ma, dico io, come se fa a prendere un
impegno accusì senza pensare a l’ostacolo principale?! Che testa!!
GIGGIA E cce lo domandate a noi?!
MIMMA E mó come facciamo?
DOROTEA (c. s.) Come, come!... Eh poi poi, qualche modo troveremo.
Se c’ero preparata ci pensavo io. Pure lo sapete che nun sono scarsa...
Lasciamo un po’ correre per adesso...
MIMMA Che volete lascià corre, mammà mia? A quel ragazzo bisognerà dirglielo. E si facesse qualche minchioneria?
GIGGIA Peggio per lui!
MIMMA Ha raggione papà. Tu davero sei senza core!... Adesso a quel
poveretto che riviene su che glie diciamo?
DOROTEA Così su due piedi a darglie lo scaccione... Capisco che ognuno fa li propri interessi; ma le convenienze pure...
MIMMA (imbrogliatissima) Oh che impiccio, oh che impiccio! (si suona
il campanello) Rièccolo: e mó come facciamo?
GIGGIA Diteglie che io sò uscita.
MIMMA Ma come, mó gliai mandato a dire che stavi male?!
GIGGIA (spazientita) Insomma diteglie un po’ quello che vi pare a me
nun me ne preme niente. (se ne va in camera e si chiude dentro)
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SCENA V
Alfredo, Dorotea e Mimma
ALFREDO È permesso? Signora Dorotea, signora Mimma come stanno?
MIMMA (imbrogliata e fredda) Bene grazie.
DOROTEA (imbrogliata e sostenuta) E che nuova così presto?
ALFREDO (meravigliato) L’ora solita: le dieci e mezzo.
DOROTEA Eh ma pure voi sete un benedetto ragazzo; sempre fra li
piedi; tutto il santo giorno a covare qua dentro...
ALFREDO (intimidito) Ma scusi, vengo tutti li giorni a quest’ora, e lei
mai mi ha fatto, scusi, di queste osservazioni...
DOROTEA (c. s.) Osservazioni no; perché... perché quando c’è l’educazione una se ne astiene da farle... ma poi... poi viene el momento
che una sbotta...
ALFREDO (c. s.) Veramente non so spiegarmi...
DOROTEA (c. s.) Eh ma me capisco bene da me, me capisco... e voi co’
la cosa che una è bona, tre volte bona, e lascia correre, ve ne approfittate; e state qui dalla mattina alla sera fino alle due e anche alle tre
doppo la mezzanotte...E io... io, poi ce vado di mezzo.
ALFREDO (credendo di colpire nel segno) Ah! scusi, l’altra sera sì, veramente era tardissimo. E forse il signor Paolo che ci sorprese...
DOROTEA (prendendo la palla al balzo si rianima) Sicuro; venne de là
da me come una furia!...
MIMMA (Ecco povero papà in ballo!)
DOROTEA Come una furia! Bisognava che lei ci si fosse trovato, bisognava, per sentire quel corpo quante me ne disse. Fu un finimondo!
Un òprete cielo!... Insomma: questa è una vita che non pole durare,
proprio non pole. È uno stato tale di cose che deve finire e subbito.
Non è vero, Mimma, che deve finire, e subbito?
MIMMA (imbarazzatissima) Eh non saprei...
DOROTEA (c. s.) Come non saprei, come non saprei? Pure l’hai sentito tuo padre?!... Quanto me fa rabbia questa benedetta regazza che
non sa mai niente! (entrando in camera a passi concitati) Ah io ci schiatto, io ci schiatto!
SCENA VI
Alfredo e Mimma
ALFREDO
(divenuto piccino piccino) Oh quanto mi rincresce!...
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MIMMA A voi? ma a me! Lo vedete? Io poi sò sempre la causa de tutto. Ve lo dico la sera: sbrigateve, sbrigateve; ma voijaltri sì col cuccù!
ALFREDO E chi s’immaginava mai che il signor Paolo, così pacifico
all’aspetto...
MIMMA (imbrogliata) Pare pacifico, pare: ma guai si glie piglieno!... guai!
ALFREDO Oh che disdetta! E figuriamoci quella povera Giggia mia?!
Apposta è malata?!...
MIMMA Pare un panno lavato! (Signore perdonateme; io sto sopra una
brace de foco).
ALFREDO Almeno la potrei salutare?
MIMMA (c. s.) Come?... se è uscita.
ALFREDO Come uscita, se un momento fa la serva è venuta a dirmi
che stava a letto?!
MIMMA (c. s.) Ma Clementina sarà stata matta. Niente de meno è venuta a prenderla quell’amica sua, tanto amica...
ALFREDO Quale?
MIMMA (Io a momenti crepo!) Quella... quella che hanno fatto insieme la prima comunione...
ALFREDO Chi la Giorgi?... Ma se quella sta a Napoli...
MIMMA (c. s.) Cioè no quella; quell’altra compagna sua che fecero la
cresima insieme...
ALFREDO E dove sono andate?
MIMMA A fare la devozione.
ALFREDO E ieri non mi ha detto niente...
MIMMA Che v’aveva da dire si, poveretta, nun lo sapeva.
ALFREDO Io ci perdo la testa!
MIMMA (Eh figurete io! che serve, io nun sò bbona a imbroglià la gente! ce sudo fredda!)
SCENA VII
Clementina e Detti
MIMMA (vedendo Clementina) (Signore ti ringrazio!)
CLEMENTINA Sora Mimma, ve vò...
ALFREDO Clementina, ma adesso quando ho bussato, non m’hai detto che la signorina stava ancora a letto?
CLEMENTINA Sicuro... (ma vedendo che Mimma le fa dei cenni di diniego) Sicuro stava a letto; ma saranno state le sette de ‘sta mmatina;
m’ha chiamato e m’ha detto: Quanno viene Arfredo, diglie che aripassi che a me mi dole er capo.
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ALFREDO E poi è uscita?
MIMMA (dietro Alfredo: fa de’ cenni di assentimento a Clementina)
CLEMENTINA (credendo di aver capito) Sicuro è uscita cor portiere...
MIMMA (le accenna di no)
ALFREDO Col portiere? (e si rivolta a Mimma) Ma non mi ha detto
con quell’amica?
CLEMENTINA (riprendendosi) Che bestia! Già è uscita con quell’amica...
MIMMA Che cià fatto assieme la cresima...
CLEMENTINA Brava! Che cià fatto assieme la cresima. Che anzi io
quanno l’ho vista manco la riconoscevo, è vero sora Mimma? È diventata arta che pare uno stennardo. (Guarda quante buvatte19 me
tocca a infirzà).
MIMMA (riprendendo fiato) Chi me voleva a me Clementì?
CLEMENTINA Lesta curéte; ché ve vò quela scannata de la sora Vittoriona.
MIMMA (Sia lodato el cielo!) E me lo dici adesso? Pure lo sai! Compermesso.
ALFREDO Scusi, senta...
MIMMA Me lassi scappà. (va via a precipizio)
CLEMENTINA La lassi; che si no quella fa cure la patuja.
SCENA VIII
Clementina e Alfredo
ALFREDO Io ce faccio una malattia... La cosa che più mi rincresce è
che il signor Paolo abbia fatto quella scenata...
CLEMENTINA E quale? (con curiosità) quale?
ALFREDO Quella dell’altro giorno, per avermi trovato qui in casa alle tre dopo la mezzanotte.
CLEMENTINA Annàteje a dà torto! E me dite davero ch’er sor Paolo
s’è impaturniato co’ vvoi?!
ALFREDO Con me no: anzi fu a bastanza gentile. Ma, dice, che ne fece una di quelle alla moglie!
CLEMENTINA (Manco si lo vedessi! Quante se ne beve ‘sto cardeo20).
ALFREDO E in conseguenza la sora Dorotea l’ha presa con me; e chi
lo sa come andrà a finire...
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Bugie.
Sciocco, imbecille.
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CLEMENTINA Eh più che lo scaccione nun ve potranno dà!
ALFREDO (disperato) E allora io? Ma che dico, io! Quella povera Giggia mia?! (si lascia cadere piangendo sopra una sedia)
CLEMENTINA (Sei matta quella se ne fa una stincatura: cià un core
quela regazza, un core che ce dovrebbe avé er pelo come un manicotto!)
ALFREDO (c. s.) L’unica cosa che mi resta da fare è d’attendere il signor
Paolo o di andarlo a cercare altrove, buttarmegli ai piedi e chiedergli
perdono... (risoluto) Non c’è altro scampo! Che ne dice eh Clementina?
CLEMENTINA Io puro direbbe da fà accusì. Annate dar sor Pavolo e
bona notte. (esce)
ALFREDO Sicuro sarà meglio. (per uscire)
SCENA IX
Costantino e Alfredo
COSTANTINO Oh sor Alfredo, bongiorno, dove andate così de corsa?
ALFREDO Bongiorno, signor Costantino... (si ferma)
COSTANTINO (avvedendosi dello stato di Alfredo) Ma voi avete pianto? Che cosa avete che v’addolora?
ALFREDO Eh se sapeste?
COSTANTINO Che cosa vi è mai accaduto?
ALFREDO Un diavolerio, un finimondo, un opretecielo! Il sor Paolo
mi ha trovato qui in casa con Giggia alle tre dopo la mezzanotte...
COSTANTINO Tombola!
ALFREDO È andato su tutte le furie, e ne ha fatta una di quelle che
non ve ne dico!...
COSTANTINO E mammà mia lo sa?
ALFREDO Almeno che non abbia inteso le grida!
COSTANTINO Oh bella, bella! Sentiamola un po’. (si accosta alla porta della camera e chiama) Mammà, mammà.
VITTORIONA (di dentro) Èccheme che viengo.
SCENA X
Vittoriona e Detti
VITTORIONA Che vve s’è sciorto?
COSTANTINO Sentite un po’ d’Alfredo sì che nnespole!
VITTORIONA Bongiorno, sor Alfredo: sentimo un po’ che sò ‘ste nespole. (con curiosità)
COSTANTINO Che gnentemeno ieri sera el sor Paolo ha fatta una
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scenata perché ha sorpreso qui alle tre doppo mezzanotte el sor Alfredo con Giggia...
VITTORIONA (sorpresa) Che me dichi?! È vero davero?
ALFREDO Verissimo: ma non era mica la prima volta.
VITTORIONA Ah l’avete fatto puro qualch’altra sera? Ma bravi! Qui
Costantino mio se va di male in peggio. ‘Sta casaccia è addiventata
un cràus21. Pórtete presto via tua moglie si nno qua drento diventi un
cérebro22 .
COSTANTINO Figuriamoce la sora Dorotea, la sapientona, che cosa
v’averà detto!
ALFREDO È inquietissima. Stamane m’ha strapazzato in un modo che
non me l’aspettavo...
VITTORIONA Che immoralezza! Tutte a ‘sta casaccia porca se devono vedere e sentire, tutte. Qui nun c’è religgione, qui nun c’è rispetto a chi è più de loro, qui sfondoni, qui... Apposta si moreno de
fame: è el Signore che li gastiga. Lo dicevo io, che qua da un momento all’altro una castràtofe doveva succedere. (gira agitata per la
stanza declamando)
COSTANTINO E poi ce vonno fare tanto le caste Susanne, le sapienti!
ALFREDO Ma non crediate mica che io e Giggia...
VITTORIONA (interrompendolo c. s.) Eh vedete un po’. (otturandosi le
orecchie) E poi io non voglio sapere gnente. Ne ho già sapute abbastanza.
ALFREDO E poi c’era...
VITTORIONA (c. s.) Perdete er fiato: v’ho detto che non voglio sapene gnente.
COSTANTINO E adesso che intendete di fare? (ad Alfredo)
ALFREDO Di andare in cerca del signor Paolo, buttarmegli ai piedi e
chiedergli perdono.
VITTORIONA A quell’altro omo senza personificazione di sorte!
ALFREDO Potessi almeno sapere dove potrei trovarlo!
COSTANTINO (guardando l’orologio) Si ve sbrigate, adesso lo trovate
sicuramente al caffé a li Caprettari.
ALFREDO Ci corro subito. Ci vediamo. (esce correndo)
21
N.d. A.: caos.
Probabile allusione alle corna del cervo. In altra stesura, a c. 96v, in luogo di cérebro:
«cornacopio».
22
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SCENA XI
Vittoriona, Costantino
poi Elvira
VITTORIONA (misurando la scena a lunghi passi) Costantino, fijio
mio; qui oramai el vaso strabbocca; prendiamose li nostri giocarelli e
bbattémosela.
COSTANTINO Sto a li ordini vostri.
VITTORIONA (chiama) Elvira, signorina; venite un po’ de qua.
ELVIRA (entra) Cosa volete?
VITTORIONA (c. s.) Cosa vojo? Cosa voglio?! Vergognateve!
ELVIRA Io?! (sorpresa)
VITTORIONA (c. s.) Sicuro: vergognateve voi, vostra madre, vostro
padre... tutti!
COSTANTINO (imitando la madre) Tutti!
ELVIRA Ma c’è pericolo che vi siete ammattiti?
VITTORIONA È ora di farla finita. Questa casa è addiventata un lupopanare.
ELVIRA (con calma) Ma per quale raggione?
VITTORIONA Fatevelo dire dalla vostra signora madre.
ELVIRA Da mammà mia?
COSTANTINO (con importanza) Già da mammà vostra.
ELVIRA (chiama) Mammà, mammà!
SCENA XII
Dorotea, Mimma, Giggia,
Clementina e Detti
DOROTEA Cos’è questo strillare?
GIGGIA Ah ah siamo da capo?
ELVIRA Mammà, sentite un po’ qui alla sora Vittoria cosa glie s’è sciolto.
DOROTEA (con le mani sui fianchi) Sentimo, cosa ciabbiamo de novo.
ELVIRA Dice che quanti siamo qui dentro, ce dovemo vergognare.
DOROTEA (risoluta a Vittoria) Perché se è lecita la domanda?
VITTORIONA (con alterigia) Lo sapete meglio de me.
DOROTEA Dico, c’è poco da sapere. Io non so gnente e nun ciò gnente da vergognamme, capite?
GIGGIA (a Vittoria) Piuttosto voi, vergognateve!
VITTORIONA Zitta, voi che sete lo scandelo de casa.
DOROTEA (adirata) Che scandalo, che scandalo?
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VITTORIONA Io si fossi vojartri me vergognerebbe come una ladra.
DOROTEA E fareste bene! Chi sa quanto averete rubato quando facevate l’erbivendola.
VITTORIONA Meglio l’orbivendiola che la... mezzana come fate voi.
DOROTEA (scattando) A me, a me, mezzana?! (minacciandola) Rimangiateve ‘sta parolaccia!
GIGGIA ELVIRA MIMMA A mammà?! (minacciose)
COSTANTINO ( fa scudo alla madre) Alto là.
CLEMENTINA Pe’ conosce una bona pezza ce vò un bravo mercante.
COSTANTINO Tu fa mosca: si nnon ce voi quattro schiaffi.
CLEMENTINA (ironica) A quanto li vennete, a bon mercato?
DOROTEA (passeggiando agitata) Via, questa è una vita che non se pò
fà più. C’è da schiattarce.
ELVIRA Ma io vorrei sapere qual’è il bandolo di questa matassa aruffata.
VITTORIONA Il brandolo di questa matassa aruffianata, come avete
detto a proposito voi, domannatelo al sor Arfredo. Lui me l’ha detto:
eh, vero Costantino?
DOROTEA E che ha potuto dire quel tisico svenato?
VITTORIONA Che ‘sta notte el sor Pavolo l’ha agguantato a le tre
doppo mezzanotte qui con vostra figlia, e è nasciuto un bruttiferio.
DOROTEA (calmandosi) Ma si non è vero.
GIGGIA È verissimo anzi; e nel caso non è la prima volta che mme cià
trovato.
VITTORIONA Che sfacciata!
MIMMA E si ce l’ha trovati non ereno mai soli perché ce stavo sempre
io insieme.
DOROTEA Intendevo di dire che nun era vero che Paolo ce s’è inquietato, questo è stato un pretesto...
VITTORIONA Un bel protesto!...
DOROTEA (con calma) Si nun me lassate parlare! Sicuro è stato un
pretesto che ho dovuto prendere col sor Alfredo per levarmelo d’intorno.
VITTORIONA Povero giovinotto! E perché?
DOROTEA Lo volete sapere il motivo? Perché nel mese entrante mia
figlia Gigia, qui presente, se marita col capitano, cavaliere, Medardo
Faricelli.
VITTORIONA Povero fijaccio, quanto lo compatisco!
GIGGIA C’è poco da compatire, sora madre pietosa.
VITTORIONA E allora nun dovevio allusingare quel regazzo.
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DOROTEA Chi poteva prevede che a ‘sta figlia glie sarebbe capitata
una furtuna simile? Poi ognuno fa l’interessi sui, signora protonquànquera dei miei ceroti. Così quando questi ragazzi me se saranno sposati, voi con quella gioja del vostro figlio, ve ce leverete da li medesimi.
VITTORIONA Fosse vero, che terno a lotto che sarebbe!
GIGGIA Figuratevi per chi ve sente.
DOROTEA Almeno finiranno queste scenate da piazza Montanara.
Che te pare, a sentì lei, ce dovevamo vergognare!
ELVIRA Questa casa, a sentir lei, era diventata un lupopanare!
GIGGIA E mammà era la nostra mezzana, a sentire madama patanflana, giusto ce fa rima.
COSTANTINO (risentito) Dico, rispettate mia madre!
GIGGIA Ecco l’avvocato delle cause perse!
CLEMENTINA Macché avvocato! Mannataro de San Gregorio taumaturgo protettore de li casi disperati! (tutti ridono. Costantino morde
il freno, ma fa silenzio)
MIMMA Mbè allora adesso basta. Mettiamoce una pietra sopra, e quel
ch’è stato è stato.
VITTORIONA M’ariconosco da me che, salvognuno, sono come la
capoccia de li prosperi che pijo subbito foco; ma vorebbe vedere chiunque de voi a sentirse dire: stanotte a le tre doppo la mezzanotte, Giggia è stata agguantata cor sorcio in bocca...
GIGGIA Apposta prima di calunniare una persona ce se riflette bene.
MIMMA Ma via finiamola una bona volta. E piuttosto pensamo al modo d’indorà la pirola meglio che se pò, a quel povero figlio d’Alfredo
per nun farlo disperà tanto.
VITTORIONA Uh mó dite bene. Questo è un dovere filantrònico, artro che le chiacchiere!
COSTANTINO Se volete che questa gatta a pelare me la prendi io...?
VITTORIONA Voi? Sete troppo brutto. Chi ha impicciato la matassa
se la sbroji. Si cce provate v’appoggio du’ carci a la giberna che ve
schiatto.
COSTANTINO (diviene piccino piccino e non fiata più e se ne va via)
CLEMENTINA Finisce che ‘sto spaccetto me l’ho dda cibbà io.
ELVIRA Già, mó per chi l’abbiamo preso per la lavandara, che ce mandiamo la serva?
MIMMA Piuttosto io direi che la sora Vittoria ch’è donna de mondo...
VITTORIONA (scattando) Che?! Nun m’impiccio, io sò de l’Ariccia.
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Quando mai si volete un parere supriore, io direbbe che questa parte
starebbe a la madre o anche al padre de la regazza.
ELVIRA Eh in questo nun glie posso dar torto.
VITTORIONA (Manco male che una vorta tanto ho raggione).
DOROTEA Mbè, allora adesso quando vierrà farò uno sforzo... Poi,
poi, pure lo sapete: io mica sono tanto scarsa da confonderme per certe sciocchezze. Che venga pure ché m’assumo io l’impegno... (si ode
bussare alla porta di casa)
CLEMENTINA Si nun me sbajo, ecchelo er sor Don Dezio23 co’ le
mela. (esce)
DOROTEA El sor Alfredo? (spaventata) Me vado a preparà. (entra in
camera e chiude la chiave)
GIGGIA Io nun ciò coraggio. (entra in camera c. s.)
ELVIRA Io neppure. (esce)
VITTORIONA E io paja! (esce)
MIMMA M’avesse da succede la seconda. (esce)
CLEMENTINA (rientrando) Furtuna che nun è lui. Uh che commedia!
SCENA XIII
Paolo e Clementina
PAOLO (che mentre succede lo scappa scappa s’ è fermato sul limitare della
porta entra mentre le donne scappano ciascuna nella sua camera) Che
ciabbiamo de bello, gnente le solite scenate?
CLEMENTINA (s’ incammina senza neppure rispondergli)
PAOLO (chiamandola) Clementina, che tte possi uscì el fiatuccio: che
ciavemo de novo?
CLEMENTINA Uhm!!
PAOLO Meno male che adesso ne so più de prima. Già tu co’ me sei
muta come una statua. Con queste benedette donne chi cce capisce
qualche cosa è bravo. (si avvicina alle diverse porte ad origliare) Ma io
vorebbe sapere, perché quando m’hanno sentito a me, sò scappate tutte come si avessero visto el diavolo? Eh Clementina?
CLEMENTINA Uhm! (e se ne va)
PAOLO Ah «Donne donne – eterni dei! – chi vi arriva a indovinar!»
23
Don Dezio: nome immaginario usato in senso derisorio (cfr. Chiappini); annà co’ le
mela de fora: portare i calzini logori che lasciano scoperti i calcagni.
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introduzione
SCENA XIV
Alfredo e Paolo
ALFREDO (nel vedere Paolo fa un atto disperato e corre a precipitarsi a’
suoi piedi) Ah finalmente!
PAOLO (che pensava ad altro, si ritira spaventato; ma poi accorgendosi di
Alfredo se la prende in burletta. Cava dalla tasca del panciotto l’astuccio
degli occhiali, l’ inforca e con calma si mette a guardare Alfredo) Voglio
vedere sí quando averete finito de dì l’orazione.
ALFREDO (disperato) Ah no signor Paolo; questo è il posto che mi
spetta; questo è il posto che spetta a chi credete che abbia tradito
l’ospitalità...
PAOLO Eh eh tradito?! (Ma questo se dovrebbe esse ammattito!)
ALFREDO Finché dal vostro labbro nun sarà pronunciata quella parola: perdono,...
PAOLO Ma su alzateve...
ALFREDO Ditela quella parola, pronunciatela...
PAOLO Ma si nun me dite perché?
ALFREDO Ah ché voi lo sapete purtroppo!...
PAOLO (Ma che pasticcio è questo? Quelle che a vedemme se squaglieno; questo che me chiede perdono in ginocchioni!...) Sicuro che io so
tutto: ma voi come lo sapete? Alzateve... (lo aiuta)
ALFREDO (alzandosi) M’ha detto tutto la signora Dorotea.
PAOLO Ah ve l’ha detto? E voi, allora?
ALFREDO Sono venuto a buttarmi ai vostri piedi.
PAOLO Avete fatto benone: era l’unica cosa che potevio fare.
ALFREDO E l’ho indovinata! Siete tanto buono, tanto caro... Dunque
mi perdonate?
PAOLO (con calma) Ma diavolo, ne potete dubitare? Però ad un patto.
Per una certa cosa mia, bisogna che me dite come mia moglie vi ha
raccontato el fatto.
ALFREDO (sollevato) Sono prontissimo. Ecco...
PAOLO ( facendogli segno di tacere) Qui no però: non voglio che ce senta la sora Vittoriona...
ALFREDO Ma se lo sa!
PAOLO Elvira, Costantino...
ALFREDO Ma se lo sanno.
PAOLO Diavolo, lo sanno tutti? (El solito. L’unico che non sa le cose
de casa mia, sò sempre io!)
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ALFREDO Gliel’ho raccontato io ‘sta mattina.
PAOLO Ma però è sempre meglio che per precauzione nun se facciamo
sentire. Andamo che ve do una strappatina fino a casa.
ALFREDO Ma posso sperare nel vostro completo perdono?
PAOLO Ma si ve dico de sì!
ALFREDO Allora compite l’opera, sor Paolo, datemi un abbraccio.
PAOLO (abbracciandolo) Ma anche due.
ALFREDO E anche un bacio.
PAOLO Avanti anche un bacio. (lo bacia) Sete contento? Ve serve altro?
ALFREDO (in estasi) E come si fa a non esserlo?!
PAOLO (È quello che dico io: come se fa?!) (escono)
SCENA XV
Clementina indi Dorotea, Giggia, Vittoriona,
Costantino, Elvira e Mimma
CLEMENTINA (chiama alle diverse porte) Sora Dorotea, sora Elvira
uscite uscite che se ne è ito. (si aprono contemporaneamente le altre porte e escono tutti sulla scena: Dorotea, Mimma, Giggia, Elvira, Vittoria,
Costantino)
DOROTEA Co’ chi è uscito?
CLEMENTINA Cor sor Pavolo.
MIMMA Un altro impiccio adesso! Papà nu’ ne sa gnente e mó chi sa
che altro imbroglio nasce.
DOROTEA Ah già, Paolo nu’ ne sa gnente, è vero. Ma che vòi con questa confusione!
CLEMENTINA È mejo che io vadi a mette er catenaccio a la porta de
casa. (esce)
VITTORIONA Me sò messa a guardà dar bucio de la chiave, e ho pavura che quer regazzo del sor Alfredo, un altro pochetto s’ammattisce.
ELVIRA Apposta conviene dirglielo e subito.
DOROTEA È quello che faremo sul momento. (cavando una lettera)
Ecco qua. Insieme con Gigia gliò scritto una bella lettera indove glie
espongo tutte le nostre condizione, lo stato suo; e finisco per annunziarglie, con li debbiti riguardi, che Giggia è stata chiesta in isposa;
che dunque cerchi da levarsela dalla testa perché forse la cosa se conchiuderà presto eccetra eccetra.
VITTORIONA Brava! M’avete rubbato la prima idea mia.
ELVIRA Ma adesso bisognerebbe trovare chi gliela porta; perché mica
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introduzione
bisogna lasciargliela dal portiere. Questa è una lettera che glie va lasciata in casa in modo che se lui ce se trova, se possa sapere come prenda la cosa.
MIMMA Dateme qua la lettera, ché adesso m’infilo la bavutta 24 e ce
vado subbito defilata. (prende la lettera) Intanto sta qui a un passo.
DOROTEA Per carità, fa’ le cose con giudizio specialmente si ce trovi
lui.
MIMMA Ma voi lasciateme fà a me. (si mette il cappello ed esce dicendo)
Vado e torno.
DOROTEA Ringraziamo el cielo ché puro questa l’avemo quasi accommodata.
VITTORIONA Eh l’avemo l’avemo! Se fa presto a dire l’avemo! Bisogna vedere quel giovinotto come se la piglia.
DOROTEA Ormai o la piglia male o la piglia bene, io non so più come rimediarla.
SCENA XVI
Medardo e Detti
MEDARDO È permesso? (salutando tutti)
DOROTEA Avanti e siate el benvenuto.
MEDARDO (a Giggia) E Mimma?
GIGGIA È uscita; adesso torna subbito.
MEDARDO (a Giggia) E tu come stai?
GIGGIA Bene grazie. (si stringono la mano con affetto)
MEDARDO Signora Vittoria, a proposito, già sarete informata del mio
fidanzamento.
VITTORIONA Sappiamo già tutto. Ve facciamo li nostri uguri, e ch’el
Signore ve la mandi bona.
GIGGIA (Creperà la strologa!)
MEDARDO (scherzando) Mimma ha rifiutato la mia mano, ed io mi
sposo Giggia.
COSTANTINO Oh bella! Mimma non t’ha voluto?
VITTORIONA (compatendo Medardo) Povero giovinotto!
GIGGIA (Ma guarda ‘sta vecchiaccia!)
ELVIRA Povera Mimma che cuore che ha!
DOROTEA Eh, figlie mie, el core de vostra sorella de quela povera Ce24
Velo usato dalle donne romane per coprirsi il capo quando entravano in chiesa e, per
estensione, un copricapo femminile ridicolo, fuori moda.
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nerentola de casa e poi nun più! Quella povera figlia è stata e sarà sempre la consolazione nostra.
VITTORIONA Apposta tutti je danno li carci in faccia!
DOROTEA Cominciando da voi che date el bon esempio.
VITTORIONA Almeno a me m’è cacio cotto e butiro squajato.
ELVIRA Mó ricominciamo!
MEDARDO (interrompendo) E el sor Paolo? Ho bisogno di vederlo per
invitarlo a venire quest’oggi con tutti questi signori a pranzo da Màngani25, a festeggiare il nostro fidanzamento: è vero Giggia?
ELVIRA Oh che bellezza!
TUTTI (in coro) Sicuro dobbiamo stare allegri!
COSTANTINO Viva li sposi!
TUTTI Viva!
DOROTEA Si nun me sbaglio, aprono la porta de casa. Forse è Paolo!
SCENA XVII
Mimma e Detti
MIMMA (avrà un occhio coperto da una benda nera)
TUTTI (spaventati le si fanno intorno) Cos’hai a quell’occhio?
DOROTEA (c. s.) Figlia mia cos’hai fatto? Parla in nome di Dio.
MIMMA (lasciandosi cadere sopra una sedia) Niente niente: nun ve spaventate così! Come sapete sò andata a portà quella lettera a quel tale.
MEDARDO A chi?
ELVIRA (all’orecchio di Medardo) (Al signor Alfredo...)
MEDARDO (mortificato) (Ho capito!)
DOROTEA Embè poi? Cosa t’è successo?
VITTORIONA Come se l’è ignottita quela brugna 26? Come se l’è presa quer Marco?
ELVIRA (con curiosità) Com’è andata? Che t’ha detto?
MIMMA Si nun me lasciate parlà! È andata benone. Specialmente la
madre ce ringrazia tanto a tutti. Ha detto che una consolazione più
grande nu’ glie potevamo dà e che anzi pregherà el cielo che Giggia e
lo sposo futuro siano felici. C’era puro l’avvocato Moscetti che s’è abbracciato el figlio e glià detto che stasera se lo porta a Napoli con lui.
25
Probabilmente si tratta del ristorante dei fratelli Giovanni e Domenico Mangani in
via Nomentana 58 (nei pressi della Chiesa di Sant’Agnese) già azienda agricola. Il ristorante è attestato sulla «Guida Monaci» dal 1891.
26
Prugna.
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introduzione
DOROTEA Ah Signore t’aringrazio!
VITTORIONA Meno male ch’è finita bene.
ELVIRA Meglio non poteva andare.
COSTANTINO Sete stati fortunati.
DOROTEA Ma a proposito, figlia mia; nun ciai detto come è andata
l’affare dell’occhio.
MIMMA Ah è vero. Dunque quando io sò andata su a casa c’era Alfredo: sicché la lettera l’ha presa lui, l’ha aperta, e non ha finita da leggerla che è cascato sopra un sofà e gli ànno preso le convulsione...
GIGGIA (commossa) Poveretto!
VITTORIONA (Ecco er coccodrillo che piagne!)
MIMMA Vedendo le convulsione sò subbito corsi tutti de casa; ma io
che je stavo vicino sò corsa la prima per andallo a sostenere e punf ! ciò
preso un pugnetto in quest’occhio che llì per llì mi ha fatto vede tutte le stelle.
TUTTI Povera Mimma!
MIMMA Nun è gnente però. Me cianno fatto subbito li bagnoli. (levando la benda) M’è passato: guardate.
TUTTI Com’è nero!
DOROTEA Povera figlia mia!
VITTORIONA (Cornut’e mazzata!)
MIMMA (alzandosi da sedere) Ma è una sciocchezza! E poi andate a
abbadare a queste inezie adesso che la cosa è andata così liscia che meglio non poteva andare? Ma mó pensamo invece a stà allegri e a ballà.
Viè qua Giggia mia facciamose un balletto. (ballano)
COSTANTINO Brava ballamo! (prende Elvira e ballano)
DOROTEA (abbracciando Medardo) L’avevo detto che con te me sarebbe tornata a casa la pace e l’allegria.
SCENA XVIII
Paolo e Detti
PAOLO (si ferma sulla porta meravigliato) Oh meno male che una volta
trovo l’allegria a casa mia.
DOROTEA (incontrando Paolo e abbracciandolo) E speramo, Paolo mio,
che d’ora in avanti ce resti sempre.
PAOLO El Signore te sentisse.
MIMMA (inchinandosi) Caro sor Pavolo vi riveriamo.
PAOLO E tu ch’hai fatto a quell’occhio?
MIMMA Gnente è un callamaro.
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PAOLO Ah, me credevo che avessi preso de petto a qualche pugno...
Ma se è lecito, se pò sapé el motivo de tutta ‘sta baldoria?
DOROTEA Lo saperai adesso ch’anderemo a pranzo da Mangani.
PAOLO E chi hai fatto piange?
GIGGIA Andamese a vistì. Lo saperete da Mangani.
ELVIRA Sbrighiamoci.
PAOLO Allora aspetteremo in santa pazienza.
MIMMA Dobbiamo festeggià gnentemeno che uno sposalizio.
PAOLO Allora ciò indovinato. Volete fà?
VITTORIONA Sentimo.
PAOLO È Medardo che s’imbarca per Civitavecchia.
VITTORIONA ‘Sta vorta nun ciavete dato.
MIMMA Avete fatto fiasco. Mica me sposa a me.
ELVIRA E nemmeno siete bono a indovinarce.
PAOLO Eh si v’ho da dì la verità, nun ce capisco davero un bel gnente.
MEDARDO Su via diciamoglielo.
PAOLO Sì fateme el piacere.
DOROTEA Allora diciamoglielo. Ti annunzio il prossimo matrimonio
(in tono solenne) della nostra figlia Gigia col capitano Medardo Faricelli.
PAOLO Eh potevi mandamme addrittura la partecipazione el giorno
de lo sposalizio.
DOROTEA Sei contento?
PAOLO (Adesso mangio la foglia! Mó capisco perché all’occhio del sor
Alfredo io sò passato per Orlando Furioso, e lui cià preso lo scaccione!)
MEDARDO Ci riflettete? Che, non siete contento?
PAOLO (abbracciando Medardo) Figlio mio, te pòi immaginà che consolazione che m’hai dato! Soltanto come te dicevo, me credevo...
MEDARDO Che me sposassi Mimma? Ma se è lei in persona che non
m’ha voluto.
PAOLO (guarda con intenso affetto Mimma) Povera figlia mia, sei sempre tu! (l’abbraccia) Senti. Quando anderà al potere un ministero socialista a te tte fanno presidentessa del consiglio!
Cala la tela
(altra chiusa) Tu pensi a tutto, fai bbene a tutti glielo farai sempre. Ma si
aspetti che qualcuno te lo facci a te, magna, cavallo mio, che l’erba cresce!
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ELETTORI INFRUVENTI
Scene elettorali originali in quattro atti
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. Un quaderno di 42 cc. (mm 320x215), composto da 21 fogli tipo protocollo rigati ai margini.
Cc. 523-564: bianche le cc. 542 e 552.
Testo incolonnato a destra.
Calligrafia autografa.
Nel faldone è presente un’altra stesura legata immediatamente dopo: un
quaderno di 42 cc. con lo stesso formato e caratteristiche del precedente.
Cc. 565-606: bianche le carte 584 e 594.
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introduzione
Personaggi
L’AVVOCATO TOMBONI (un lestofante)
L’ON. CALLARELLI (un imbecille)
} candidati
SPUTAROSSO un futtuto in saccoccia
DENTAMARO idem
BUVATTA un faticone che nun fa niente
RIGHETTONE brillante
PANZELLA insignificante
PANZABBOTTA id
FALLOPPA id
CORDALENTA id
TIRILALLA id
BIASTIMELLA id
}
elettori influenti
SCARNICCHIA oste
TETONA sua moglie
CRODOVEA moglie di Sputarosso
CLEMENTINA loro figlia
VITTORIONA moglie di Buvatta
PICCHIO garzone di Scarnicchia (tartaglia)
UN SERVO de l’avv. Tomboni
UN CAFFETTIERE
UN DROGHIERE
UN FORNAIO
Quattro giuocatori di tressette. Due carabinieri. Quattro attacchini. Una
guardia municipale. Diversi elettori. Banda. Diversi muratori.
Epoca presente
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ATTO I
Osteria. A destra il camino, un banco una scansia con libri mezzi litri ecc.
In fondo l’ingresso dal quale si scorge la strada. È notte.
SCENA I
Sputarosso, Dentamaro, Righettone, Bbuvatta, Falloppa, Cordalenta sono
seduti intorno a un tavolo e bevono. Panzanella, Panzabbotta, Tiriralla,
Biastimella son seduti intorno a un altro tavolo. Quattro avventori seduti,
in fondo, giuocano a tre-sette. Tetona (ostessa) sta seduta dietro il banco facendo la calza. Scarnicchia (oste) e Picchio (garzone) servono gli avventori.
RIGHETTONE Aricordete che a ‘ste lezzione de oggi a quindici, chi
se vò ffà pportà ppe’ cannidato, ha dda sputà ssangue.
SPUTAROSSO E vve lo dico io!
PRIMO GIUOCATORE Busso, la mejo!
BUVATTA E llassù cianno d’annà cchi vvolemo nojantri! Ce n’ho llegati ar deto diversi che mme l’hanno da pagà. Insinenta ch’hanno bbisogno de fasse portà tte viengheno intorno, te leccheno e tte prometteno
mari e mmonti, quanno poi hanno ottenuto l’intento loro, te guardeno
dall’arto in basso come si tt’avanzassino quarche accidente che je pija.
CORDALENTA Ma ‘sta vorta, chi ssò quelli che sse fanno portà?
DENTAMARO Ar primo colleggio ce saranno ggià armanco cento
cannidati...
CORDALENTA Ar siconno un mijaro.
RIGHETTONE Ar terzo artrettanti.
FALLOPPA Mejo pe’ nnojantri. Ppiù ssò e mmejo stamo noi.
SPUTAROSSO Mentre che ffanno tanta magoga1 per esse eletti, è ssegno ch’er da magnà cche cc’è llassù è fforte propio, sangue-der-naso!
DENTAMARO Sete matti! Quanno stanno llassù, magneno a quattro
ganasse.
RIGHETTONE Sinnò ccome se spiega che bbutteno le mijara pe’ ffasse elegge.
FALLOPPA Semineno pe’ riccoje!
SPUTAROSSO Bbutteno cento pe’ riccoje mille. Ma ‘sta vorta ve l’ho
ddetto. Hanno da sputà ssangue, sinnò nun ce li mannamo.
SECONDO GIUOCATORE Striscio!
1
Affollamento, ressa, confusione. Dalla locuzione biblica Oga Magoga.
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introduzione
TERZO GIUOCATORE Piego!
CORDALENTA Prima d’annà llassù hanno da raggionà cco’ noi!
DENTAMARO E ssi nun ce li volemo noi, nun ce vanno una madonna!
QUARTO GIUOCATORE Bbusso!
PRIMO GIUOCATORE Eh stupido che ssei! Sai che io ciò ll’asso, passa er due, c’armeno famo antri du’ punti!
SECONDO GIUOCATORE Nun ciò ffatto caso.
PRIMO GIUOCATORE E allora va all’inferno!
SPUTAROSSO C’è dda dillo! Hanno da raggionà cco’ ‘sti fusti sangue-der-naso!
RIGHETTONE Hanno da sputasse un’ala de pormone.
BUVATTA Io me ce vojo pagà un anno de piggione de casa!
FALLOPPA Io me ce vojo arivestì dde novo io mi’ moje e li mi’ otto
fiji.
DENTAMARO Vardà e io, no? Me ce vojo fà un carettino cor cavallo.
CORDALENTA Morin’ammaiti!
BUVATTA Vonno provà er gusto d’esse deputati, che sse svenino!
SPUTAROSSO Vonno sentì er dorce? provino l’amaro, sangueder-naso!
RIGHETTONE Alegri che incomincia Carnovale!
BUVATTA (chiamando l’oste) Scarnicchia, portece du’ antri litri, che
cce sò li micchi che ppagheno!
SCARNICCHIA Viene! (reca da bere, poi torna a servire gli altri)
Di quando in quando si affaccia alla porta o un cerinaro, o un altro venditore ambulante, i quali offrono la loro merce e vanno via. Entra un avventore in fretta si beve mezzo litro e va via.
SPUTAROSSO E li deputati che mmanneremo su ‘sta vorta, hanno da
esse o ripubbricani o ssocialisti. No dde marva e llatte come quelli
amichi. (indicando con precauzione il tavolo di Panzella)
DENTAMARO Diavolo, c’è dda dillo! O ripubbricani o ssocialisti.
RIGHETTONE O armeno che cciabbino quatrini. Perché ccari mii,
co’ li reprubbicani a bbajocchi se sta mmaluccio.
BUVATTA C’è cchi li caccia pe’ lloro nun fa gnente.
DENTAMARO Pijamo li quatrini da li cannidati realisti promettennoje che li portamo e invece de quelli sordi se ne servimo.
RIGHETTONE Pe’ nnojantri, se capisce.
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SPUTAROSSO Piano pe’ nnojantri; se ne servimo ppe’ pportà quelli
der partito nostro.
RIGHETTONE Ah mbè! (seguitano a bere e a far le viste di ragionare
calorosamente)
PANZELLA (ai suoi amici) Cari mii, er candidato che vve presento io,
è un omo de talento, strutto, galantomo, e in quanto a idee avete da
fà mmosca, perché nun è uno de questi come quelli marchi llà. (indicando con precauzione l’altra tavola)
PANZABBOTTA Avemo capito è realista; e questo sta bbè; ma ttu lo
sai che nnojantri ciavemo antri impegni. Potemo presempio fà un torto a ll’on. Pelacani?
TIRIRALLA No ddavero.
BIASTIMELLA Nemmanco a ppensacce.
PANZELLA Abbasta: io adesso nun ve vojo persuade de più. Vederemo
quello che sse deciderà a l’assembrea de ‘sta sera, che ttieremo a la società nnostra.
BIASTIMELLA A pproposito attenta a vvienicce tutti.
TIRIRALLA Diavolo!
PANZABBOTTA Me sò ffatto bbuttà ggiù un programma littorale da
l’avvocato mio, che ssenza divve bbucìa, quanno se legge, ve fa vvienì
le lagrime a ll’occhi. È ppropio bbello credete; e quanno ve lo dico io,
è bbello.
PANZELLA A pproposito. Perché nun s’assicuramo pure de l’appoggio
de Scarnicchia cqui cche ppuro lui è un elettore infruvente?
PANZABBOTTA Dichi bbene. Sentimelo subbito.
TIRIRALLA (chiamando) Scarnicchia!
SCARNICCHIA Viene! (parlando al garzone) Ritira li cocci2 da quela
tavola, pezzo de catapèzzo3! Hanno pagato quelli sotto a ll’arco? Hai
da stà ssempre co’ la testa drent’ar sacco. Finisce che tte fo ppijà un
fugone!
TETONA Ma io è dda mó che l’averebbe mannato ar diavolo.
TIRIRALLA Scarnicchia! (chiamando)
SCARNICCHIA Viengo. (si avvicina al tavolo di Panzella) Scusate;
l’avevo llà cco’ quelo scimmunito der mi’ ggiovine. (poi con uno sgambetto) Che ccommanna er sor Panzella e la compagnia?
PANZELLA Bbevi, Scarnicchia. (gli versa da bere)
2
3
N.d.A.: I vetri.
Pezzo d’uomo.
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introduzione
SCARNICCHIA Grazie ché io ho cchiuso. (tuttavia mette la bocca nel
bicchiere offertogli)
PANZABBOTTA Ecco, caro Scarnicchia (titubante) dicevamo...
TIRIRALLA (incerto) Ve volevamio dire...
PANZELLA (con precauzione) Ecco, ddicevo, se tu, nel caso, staressi co’
nnoi, si cciavessimo qualche deputato, de li nostri: intendiamoce bbene, de li nostri, da portà a le prossime lezzione?
SCARNICCHIA C’è dda dillo! Quanno lei, sor Panzella e la compagnia me dicheno che ‘sto deputato è uno de li nostri...
PANZABBOTTA (interrompendolo) E nno de quelli che la penseno come quelli amichi llà. (indica il tavolo degli altri)
SCARNICCHIA Bravo! Loro me ce contino puro.
PANZELLA Grazzie! (si stringono con effusione la mano)
TIRIRALLA Semo intesi. (c. s.)
PANZABBOTTA Semo d’accordo. (c. s.)
BIASTIMELLA Una parola è ppoca. (c. s.)
PANZELLA Allora, ‘sta sera, caro Scarnicchia, m’hai da fare un piacere. Devi venire all’adunanza che ttienemo noi a la ssedia4 de la Società Elettorale-Progressista, a piazza Padella5. Ce vieni? Me lo prometti?
SCARNICCHIA Nun dubbitate.
PANZELLA Allora ce conto. (altra vigorosa stretta di mano)
TIRIRALLA E questo puro è dde li nostri!
PANZELLA Ecco un altro voto assicurato. ( fan le viste di seguitare a
discorrere)
SPUTAROSSO (dando un vigoroso pugno sul tavolo) Sangue-der-naso,
l’ho ddetto e l’aripeto o ha dda esse riprubbicano o gnente.
DENTAMARO Se capisce. O ripubbricano o gnente.
SPUTAROSSO Sarà insomma quello che l’avvocato Tomboni ce presenterà ccor un discorso, domani a ssera a la ssedia de la società nnostra.
FALLOPPA Ma cchi è ‘st’avvocato Tomboni.
SPUTAROSSO Quanno ve lo presenterò lo conoscerete.
DENTAMARO Insomma: sarà uno der partito nostro e abbasta.
RIGHETTONE A ssapello quale è er partito nostro!
BUVATTA È er partito de la fratellanza e dde la libbertà dde li popoli.
(con un pugno sul tavolo)
4
N.d.A: sede.
La piazza era situata tra Via Giulia e il Lungotevere dei Tebaldi; oggi, nella stessa area,
si trova il liceo Virgilio.
5
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’
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SPUTAROSSO L’affratellamento de la società. (c. s.)
DENTAMARO È l’abbolizzione de la schiavitù. (c. s.)
RIGHETTONE Fraternité, Liberté, Egalité. (quello ch’è ttuo dammelo
a mme)
CORDALENTA Evviva l’uguajanza de li popoli.
SPUTAROSSO Scarnicchia, portece da bbeve!
SCARNICCHIA Eccolo. (reca il vino)
SPUTAROSSO Di un po’, Scarnicchia, ggià a tte nun serve manco
ddittelo, pe’ ‘ste prossime lezzione sarai de li nostri, voterai compatto
co’ nnojantri?
SCARNICCHIA C’è dda dubbitanne!
DENTAMARO Bravo! Cqua er cinquanta. (vigorosa stretta di mano)
SPUTAROSSO Noi, sangue-der-naso, mica semo de quella ggente, come quelli llà, (indicando il tavolo di Panzella) noi semo ripubbricani
veri, ripubbricani sinceri e radicali de fonno.
DENTAMARO Ciavemo er sangue rosso che ce bbulle in de le vene!
RIGHETTONE E er vino bbono!
BUVATTA Come quello de Scarnicchia!
SCARNICCHIA Grazie. A la salute della compagnia. (beve)
TUTTI Grazie.
SPUTAROSSO Allora, caro Scarnicchia, te mettemo in nota...
SCARNICCHIA Nun serve. Quann’è cquer giorno me dite c’è dda
portà er tale e nun pensate a antro. ( fra sé) (Che nun vado a vvotà’
ppé gnente).
DENTAMARO Allora, domani a ssera nun amancare a l’adunanza che
cciavemo a la ssedia de la Società Popolare-Democratica-Ugnonista-Elettorale-Operaia, a ppiazza der Fico.
RIGHETTONE Sentirai che pprogramma! Ce vienghi?
SCARNICCHIA Nun dubbitate.
DENTAMARO Te ce contamo. (altre strette di mano)
TUTTI Semo intesi! (Scarnicchia va a servire)
SPUTAROSSO E ecco un antro proselito trovato, senza fà ttanti ggiri.
Seguitano a bere e a far finta di ragionare dando ogni tanto qualche pugno
sul tavolo. Scarnicchia e Tetona, dietro il banco, fanno le viste di bisticciarsi.
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introduzione
SCENA II
L’avvocato Tomboni e Detti
TOMBONI (bell’uomo, accurato nel vestire, in tuba, due grandi favoriti
e la caramella. Si presenta sulla porta dell’osteria e guarda)
SPUTAROSSO (scorgendolo) Uh vvarda che ffurtuna l’avvocato Tomboni. (tutti gli amici di Sputarosso diriggono lo sguardo su Tomboni) Favorischi, lo vojo presentà a l’amichi.
TOMBONI Grazzie, ora vengo. Ero qui per dire una parola all’oste...
SPUTAROSSO (gridando) Scarnicchia, c’è qua l’avvocato Tomboni che
tte desidera.
SCARNICCHIA (accorrendo) Eccolo. Comanda el Signore?
TOMBONI (lo conduce quasi sul proscenio, gli dà la mano, e finge di discorrere con Scarnicchia, dandosi molta importanza)
DENTAMARO Chi ene?
SPUTAROSSO Che ssete sórdi? L’avvocato Tomboni.
TUTTI Lui?!
SPUTAROSSO (con importanza) Eh ssemo tanti amichi! È er futuro
deputato der partito de nojantri.
BUVATTA Se fa pportà ‘sta vorta?
SPUTAROSSO Sì; ciovè lui nun se fa pportà ppropio; anzi lui è quello
che, ggià vve l’ho ddetto, appoggia la cannidatura de ll’on. Callarelli.
RIGHETTONE Eh ccome sta a bbajocchi?
SPUTAROSSO Male; ma li trova.
RIGHETTONE (osservando Tomboni) Cià ‘na faccia da miccarolo6 che
cconsola.
SPUTAROSSO Hai da sentì ssí quant’è bbravo! Sí cche omo strutto!
DENTAMARO Dice che ccià ‘na chiacchiera!
SPUTAROSSO E ppoi lo sentirete domani a ssera a la Società quant’è
ffeconno7.
RIGHETTONE E ll’on. Callarelli se fida de questo?
DENTAMARO Se capisce. L’avvocato Tomboni mette la chiacchiera e
l’on. Callarelli li quatrini.
RIGHETTONE Ma cche cce n’ha assai?
BUVATTA Hai voja!
FALLOPPA Allora meno male! Je daremo drento.
RIGHETTONE Nun è dder partito nostro; ma nun fa gnente.
6
7
Persona che va in cerca di micchi (grulli, creduloni): truffatore, imbroglione.
N.d.A.: facondo.
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SPUTAROSSO (dando un pugno sul tavolo) Sangue-der-naso, se capisce: quanno er partito nostro ce l’impone, bbisogna votallo compatto
pe’ ddisciprina der partito.
RIGHETTONE Bravo!
FALLOPPA Ben detto.
DENTAMARO La disciprina der partito. (seguitano a far sembiante di
ragionare come sopra)
PANZELLA (si alza e con lui Panzabbotta, Biastimella e Ttiriralla)
PANZELLA (si avvicina a Scarnicchia lo chiama da una parte) Scarnicchia, te raccomando la promessa.
SCARNICCHIA Nun dubbitate sor Panzella.
PANZELLA (a Tomboni) Scusi.
TOMBONI Prego!
PANZELLA Se vedemo! (esce seguito dai suoi amici, ma prima nel passare avanti alla comitiva rivale, si fa impettito e serio)
RIGHETTONE (e gli altri gli ridono sulla faccia) Addio, sor Marva!
TOMBONI (come se seguitasse il discorso con Scarnicchia) Del resto, caro amico, i miei principii sono noti a tutto il mondo politico; e dico
francamente la verità, se mi portassi qual candidato qui in questa città, e non vi riuscissi...
SCARNICCHIA (che ha fretta d’andarsene) Eh ddiavolo!...
TOMBONI Prego. E non vi riuscissi; credetemi pure, parola da galantuomo, lo dico con profonda convinzione, sarebbe per Roma la più
grande vergogna... Ma che mi dico? non era questo l’argomento su cui
io vi voleva intrattenere.
TETONA (chiamando il marito) A Scarnicchia, te vonno.
SCARNICCHIA (vuole andarsene ma è sempre trattenuto) Eccolo. Viene. Scusi. (a Tomboni)
TOMBONI Prego, un minuto. Io, come vi diceva, sono venuto qui per
pregarvi di appoggiare con le vostre forze la candidatura dell’on. Callarelli. Uh Dio mio, voi mi direte, egli non è republicano; non è dei
nostri principii: ma cche importa? è un galantuomo, è una persona
per bene, è facoltoso... Non bisogna quindi guardare tanto per il sottile; bisogna appoggiarmi, cioè dicevo bisogna appoggiarlo. E son sicuro che voi spenderete la vostra influenza a suo pro.
SCARNICCHIA (c. s.) Co’ ttutto el piacere... scusi...
TOMBONI Prego, un minuto. Capisco, l’on. Callarelli non è l’uomo
del momento, l’Homo novus che richiedono i tempi. Poiché il regime
parlamentare risiede nella capacità di potersi rendere agevole a tutti...
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introduzione
TETONA Ahó (a Scarnicchia) Mma llassa annà quer chiacchierone, e
vva a sservì l’avventori. Accidenti a tte e a la politica.
SCARNICCHIA Scusi, un momento. Mó ariviengo subbito. (passa in
fretta avanti al bancone, misura un ceffone a sua moglie Tetona e si perde nella bottega)
SPUTAROSSO Avvocato, si ppermette je presento questi ggiovini tutti bboni amichi de li nostri...
TOMBONI Non chieggo di meglio. È per me un onore. (stringe la mano a ognuno di loro. Gli amici Dentamaro, Falloppa, Bbuvatta, Righettone ecc. si alzano e gli offrono da bere nel proprio bicchiere)
SPUTAROSSO Tutti bbravi ggiovini che ognuno vale pe’ mmille. Speciarmente pe’ le lezzione, cianno in de le mano tutta Roma sana! Je
presento Peppe Dentamaro, prisidente de le Società Parrucchieri-Ebbanisti-Falegnami e dde le Società ariunite Scopatori e Ttripparoli.
TOMBONI (stringendogli la mano) Per bacco una vera potenza!
SPUTAROSSO Toto Buvatta, prisidente de le Società Muratori-Stagnari-Callarari-e dde li Pertichini8 de l’Omminibbussi.
TOMBONI Tanti rallegramenti. (c. s.)
SPUTAROSSO Righettone Pocanni, prisidente de la Società Gassisti,
Liquoristi, Asfaldisti, Marmisti, Callisti e...
RIGHETTONE (Pagnottisti!)
TOMBONI (c. s.) Fortunatissimo!
SPUTAROSSO (seguitando la presentazione) Pio Falloppa, segretario de
ducento società elettorale democratiche; e Ppeppe Cordalenta censore
e ccassiere de la Società de li Vota-pozzi.
TOMBONI (c. s.) Troppo onore!
CORDALENTA Grazie.
TOMBONI Sicché, cari colleghi, Fervet opus?
SPUTAROSSO Come dice?
TOMBONI Dico si lavora con alacrità per queste prossime elezioni?
BUVATTA Antro! Ce doleno li piedi dar gran girà che ffamo, da quindici ggiorni a ‘sta parte.
RIGHETTONE (Che ffaccia! Nun fa un passo, manco si l’ammazzi).
SPUTAROSSO Le cose se metteno bbene p’er partito nostro.
DENTAMARO Semo sicuri de la vittoria!
BUVATTA Avvocato, ma sse facci portà llei.
TOMBONI Eh, amici miei (con solennità) il regime parlamentare risie8
Pertichino: così era denominato il cavallo che veniva aggiunto al tiro di un veicolo in
salita o nei punti più pericolosi.
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de nella capacità di potersi rendere agevole – come dicevo poc’anzi
allo Scarnicchia – di potersi rendere agevole a tutti di aspirare all’aringo legislativo; questo è il fondamento etico e giuridico del sistema rappresentativo.
RIGHETTONE (che come gli altri non ne ha capito niente) Embè cche
j’importa a llei de questo? Se facci portà uguarmente che nnoi se faremo a ppezzi per appoggiallo.
TUTTI Ma sse capisce.
SPUTAROSSO Che je n’importa a llei si er fonnamento è etico? Nun
abbi pavura; ce semo noi, sangue-der-naso e abbasta accusì. Quo dichise dichise 9.
DENTAMARO Ciavemo forza e ssalute.
SPUTAROSSO Ma cche stamo qui ccome le bbestie? Porta er vino
Scarnicchia.
RIGHETTONE Paga l’avvocato Tomboni.
TOMBONI Ben volentieri.
SCARNICCHIA (porta da bere) Ecco servita la compagnia. (bevono tutti)
SPUTAROSSO Del resto l’avvocato Tomboni farà quello che vorrò io;
e ssi io lo porterò ddeputato lui farà mmosca e nnojantri l’appoggeremo votannolo compatto.
TOMBONI (con mal dissimulata modestia) Per carità, amici miei, non
gli date ascolto.
RIGHETTONE Perché ssete troppo modesto. Scarnicchia porta un
antro litro che ppaga l’avvocato Tomboni.
TOMBONI Anche altri dieci. (Scarnicchia reca da bere)
SPUTAROSSO Eccoli li veri deputati nati: quelli che ppe’ mmannalli
ar Parlamento, bbisogna tiracceli co’ ll’argheni.
TUTTI Evviva l’avvocato Tomboni!
TOMBONI (otturandosi le orecchia, si alza) Zitti amici miei; ve ne prego per carità. Io vi ringrazio, anzi dirò di più sono commosso a tanta
dimostrazione di stima e di affetto, e mi rincresce con dolore di dovervi lasciare perché ho un appuntamento...
SPUTAROSSO Ma aspetti un antro siconno.
TOMBONI No: non posso sono atteso. Ci vedremo domani sera alla
Società. Vi prego, anzi, di non mancare...
DENTAMARO V’accompagnamo puro noi. Annamo.
TUTTI Annamo (bevono in prescia ed escono preceduti da Tomboni)
9
Storpiatura dell’espressione latina: Quod dixi, dixi.
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introduzione
RIGHETTONE (di fuori) Viva er deputato Tomboni!
TUTTI Viva!
TETONA Aringraziamo Iddio! Ce se sò squajati da li piedi10 ’sti quattro vagabbonni!
SCENA III11
Tetona, Scarnicchia e Picchio
SCARNICCHIA Tu statte zzitta, e ccento: nun t’impiccià, pperdi er
fiataccio.
TETONA No: mme vojo dì ll’urtima.
SCARNICCHIA Magara! (intanto è andato dietro il banco e dda sotto
ne toglie una giacca e un cappello)
TETONA E adesso, bbello mio, che ffaressi?
SCARNICCHIA Er commodaccio mio.
TETONA Che gnente gnente te squajeressi?
SCARNICCHIA Mbè, nun t’aribbatte?
TETONA (inquieta) Abbada, Scarnicchia, abbada! Io te l’ho ddetto
mille vorte. Nun t’impiccià dde cose de pulitica nun dà retta a ‘sti
quattro marfattori...
SCARNICCHIA Ma quanto bbaccaji! (intanto s’ è infilato la giacca e si
è messo il cappello)
TETONA (in tono derisorio) Mó annerai, m’immaggino, a fà er saputo
in quarche ssocietà? Quant’è ccaro!
SCARNICCHIA Quanto sei bbona! Vado indove me pare e ppiace. Te
l’ho ddetto e ridetto. L’avventori nun bisogna disgustasseli. M’hanno
pregato d’annà ‘sta sera in d’una assembrea littorale e io bbisogna che
cce vadi, e io bbisogna che cce vadi, e io bbisogna che cce vadi! Te va
bbene accusì?
TETONA Che tte n’hai da rintenne tu dde quelle cose, si nun sai nemmanco si ssei vivo! (si mette sulla porta per impedirgli l’uscita)
SCARNICCHIA Scansete, ggioja mia! (ironico e inquieto)
TETONA No: nun ciai d’annà!
SCARNICCHIA Scansete, cassabbanco sfasciato! (la minaccia)
TETONA Eh ssei matto! Me metti pavura! Me trema tutto l’orlo de la
camicia.
SCARNICCHIA Eh ddajela!
10
11
Piedi è scritto a matita a sostituire la parola minchioni.
Aggiunto a matita: «Questa scena si può omettere».
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TETONA Vergognete! Un omo che ccià ffamija, s’ha dd’annà a mmette fra quelli impicci, che quanno semo ar dunque ce scappa sempre
l’ammazzato.
SCARNICCHIA Ma va a ffà la carzetta, va!
TETONA A dda rivienì cqua, cquer ccarognone de Sputarosso, e ppoi
me sentirà.
SCARNICCHIA (minacciandola) Tu nun fiaterai. Tu l’avventori me
l’hai da lassà ffà! Hai capito?!
TETONA Ahó nun ciariprovà a ffamme quell’atto, che mme te magno!
SCARNICCHIA (perdendo la pazienza) A mme?! a mme?! E vva a mmorì ammaita! (la prende di peso e la butta a sedere sopra una sedia poco
distante dalla porta; quindi fugge dalla bottega)
TETONA (si alza e piangendo di rabbia gli grida dietro) Brutt’assassino!
bbrutto bboja! Stasera poi famo li conti. Nun possi aritornà a ccasa!
PICCHIO (che tartaglia) E lla-lla-ssatelo fà. Ve-ve-dete che-che nun ve
torna co-conto!
TETONA (c. s.) Tu, ttartajone futtuto, impiccete pe’ tte...
PICCHIO Vo-vo-lete se-sempre bbaccajà.
TETONA Ah ssì?! Mó mme sfogo co’ tte. (afferra la granata dietro il
banco e gliela dà sulla testa)
PICCHIO A-a-ajuto! ( fugge per la bottega, rincorso da Tetona, la quale
seguita a tirargli colpi di granata. Picchio infila l’uscio e fugge sulla strada. Tetona lo segue)
Cala la tela
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ATTO II
La sala della Società Popolare-Democratica-Elettorale ecc. Molte sedie, il
banco per la presidenza. Alle pareti ritratti, bandiere ecc. Lumi alle pareti.
Porta in fondo. È notte.
SCENA I
Sputarosso, Dentamaro, Righettone, Falloppa, Cordalenta, Tiriralla, Biastimella e parecchi manuali muratori reclutati per le fabbriche della città. Essi
avranno le loro giacche e i loro cappellacci sudici e chiazzati di calce; durante tutta la seduta essi non faranno che dormire: nei momenti di silenzio se ne
udirà qualcuno russare.
SPUTAROSSO (guardando l’orologio) Le dieci! E ssangue-der-naso, incora ’st’accidenti de Bbuvatta e dde Scarnicchia nun se fanno vivi!
DENTAMARO Er solito.
RIGHETTONE L’appuntamento era pe’ le nove e questi nun vieranno
manco pe’ le unnici.
FALLOPPA Stamo a aspettà li commidi de loro.
SPUTAROSSO Intanto che pperdemo er tempo inconcrudente aspettanno quest’antri, co’ ll’on. Callarelli e Tomboni, poteressimo intanto
fà cquarche ccosa.
DENTAMARO Famo.
RIGHETTONE Famo.
FALLOPPA Famo.
CORDALENTA Famo.
TIRIRALLA Famo.
BIASTIMELLA Famo!
SPUTAROSSO Sangue-der-naso! «Famo, famo» e nun ve movete gnisuno.
DENTAMARO Poteressimo intanto fà la scerta de li cannidati p’er primo, er seconno, er terzo, er quarto e er quinto colleggio de Roma.
SPUTAROSSO Allora provisoriamente, farò dda presidente io. (siede
sul banco della presidenza)
RIGHETTONE (a Dentamaro) Ma ddimm’un po’ cchi ssò ttutti queli bburzugni? (indicandogli i manuali)
DENTAMARO Sò ccomparse che avemo ariccapezzate io e Sputarosso
a ccinque sordi a ttesta.
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o
e
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RIGHETTONE Eh cchi li paga?
DENTAMARO Quarchid’uno li pagherà. Vvolevi fà vvienì cqui er
cannidato e ll’on. Tomboni e je volevi fà ttrovà la sala vota?
RIGHETTONE Abbasta che li pagate vojantri! Incominciamo bbene
co’ ‘ste spese.
SPUTAROSSO (dando un pugno sul banco) Sangue-der-naso, nun cominciamo a chiacchierà, sinnò ppijo er cappello e me la bbatto.
RIGHETTONE Eh cchi sse ne frega?
SPUTAROSSO Mbè allora piantatela! (con importanza) Cari amichi e
ccolleghi. Da quanto finora risulta li cannidati che sse vorebbero fà
eleggere a li cinque colleggi de Roma sò pparecchi.
DENTAMARO Domanno la parola.
SPUTAROSSO Parlate.
DENTAMARO Ecco, io pregavo er sor presidente de dicce quale sò li
nomi de tutti ‘sti candidati.
SPUTAROSSO Volentieri. Ar primo colleggio ce concore l’on. Setacci,
er cavajer Grostini, l’avv. Pelacani, l’avv. Impicci, l’ingegnere Spalla,
l’oste Gramiccia, e er droghiere Zozzetti...
RIGHETTONE Ehéhé!
FALLOPPA Saette!
DENTAMARO Che ccanizza!
CORDALENTA Antro che le lape12!
TIRIRALLA Ma cche er Parlamento l’hanno messo a l’incanto?
SPUTAROSSO Silenzio! Fate mosca: sinnò ffra ttanti galli a ccantà nun
se fa mmai ggiorno.
DENTAMARO Vorebbe sapere quale, de tanti candidati, appoggierà
la società nostra.
RIGHETTONE Quello che ppaga mejo. C’è dda dillo!
SPUTAROSSO Sta’ zitto Righettó. Tu hai da fà ssempre er burattino.
Accidenti puro a le crature!
RIGHETTONE Mó mme cucirò la bbocca.
FALLOPPA Eh azzittete.
DENTAMARO Eh pperdi er fiato.
RIGHETTONE Si mme sto zzitto io, parlate vojantri; allora nun va
bbene.
CORDALENTA Eh cciarifà!
BIASTIMELLA Eh zzitti!
12
Lapa: ape.
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TUTTI (in una volta) Ma ffinitela! (succede un momento di confusione
nel quale gridano tutti)
SPUTAROSSO (ristabilitasi la calma) Me pare de stà a scola! Dunque,
dicevamio, de li nomi c’ho lletto, quale ve pare a vvoi che ppotemo
sceje che sii der principio nostro e in der medemo tempo un galantomo. C’è l’on. Setacci...
DENTAMARO Manco a pparlanne.
RIGHETTONE L’appoggia er guverno.
FALLOPPA È un fero de bbottega.
CORDALENTA Eppoi nun arma un centesimo.
SPUTAROSSO Dunque l’on. Setacci aresta escruso. Annamo appresso.
Ciavemo er cavajer Grostini...
DENTAMARO È un pretaccio.
BIASTIMELLA Allora manco a pparlanne.
FALLOPPA V’a mmessa tutte le mmatine.
TIRIRALLA Dice e’ rosario a ccasa.
RIGHETTONE Magna de magro er vennardì e er sabbito.
CORDALENTA Lo volemo escruso.
SPUTAROSSO Allora avanti. Ciavemo l’avvocato Pelacani.
FALLOPPA A la larga!
TIRIRALLA È un avarone.
BIASTIMELLA Passa via.
RIGHETTONE Un giorno lo portai un’ora in carettella e ccebbe core
de mettemme trenta sordi in mano!
DENTAMARO Avanti, avanti.
SPUTAROSSO Annamo avanti. Appresso viè l’avvocato Paletti...
RIGHETTONE È realista... e spiantato ch’è ppeggio.
DENTAMARO Manco a pparlanne.
SPUTAROSSO L’ingegnere Spalla...
RIGHETTONE Quer magnone che pprima de l’ecrisse itirizia13 se moriva de fame, e adesso va in carozza a ddu’ cavalli?
FALLOPPA Ggià.
SPUTAROSSO E allora va escruso. L’oste Titta Gramiccia?14
13
N.d.A.: crisi edilizia.
Seguono quattro battute cancellate con un tratto di matita:
RIGHETTONE Passa via!
DENTAMARO Quer cornuto a ppaletta!
RIGHETTONE Aribbattuto.
FALLOPPA Magna su la moje.
14
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o
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RIGHETTONE Invece da fà ll’oste fà er pettinaro, e la moje je dà ‘na
mano.
TIRIRALLA Che bbelli candidati!
BIASTIMELLA Uno mejo de l’antro.
RIGHETTONE A le Carcere Nove ce sò mmejio.
SPUTAROSSO Allora nun ce sarebbe arimasto antro ch’er drughiere
Zozzetti: una persona a cquer che mme dicheno facortosa, democratico pe’ la pelle... Lo conosce gnisuno de vojantri? (nessuno risponde.
Pausa) Nu’ lo conosce gnisuno?
RIGHETTONE Ma cchi è.
DENTAMARO Chi lo conosce?
FALLOPPA Io nemmanco.
BIASTIMELLA Io è la prima vorta che lo sento de mentuvà.
TIRIRALLA Io puro.
SPUTAROSSO Quell’omone arto sarebbe, co’ quer barbone nero,
bbell’omo, co’ l’occhiali d’oro che quanno morse Titta bbonanima ciannassimo a ccrompà la cera.
TUTTI Nu’ lo conoscemo.
SPUTAROSSO Allora, guasi guasi io direbbe de portallo senza che stamo a pperde tanto tempo inconcredente. È mmejo che sse fissamo su
‘sto nome e ppassamo avanti. Chi approva la cannidatura de Giorgio
Zozzetti, ar primo colleggio de Roma, arzi la mano.
TUTTI (alzano la mano)
RIGHETTONE ( fra sé) (Vedi si cche furtuna a non esse conosciuti!
Gnisuno j’ha ttajato li panni addosso e è stato scerto!)
SPUTAROSSO Allora aresta stabbilito ch’er circolo Popolare-Democratico-Elettorale, eccetra eccetra, in solenne e strasordinaria adunanzia, e avanti un numeroso uditorio, nella quale c’ereno ppiù de cento
arippresentanti de società operaie diverse fu a unanimità e compattezza proclamata la candidatura del signor Giorgio Zozzetti, ar primo
colleggio di Roma.
DENTAMARO ‘Sta notizzia bbisognerebbe subbito communicalla, io
direbbe, ar Messaggero, accusì domani ne parlerebbe.
SPUTAROSSO Ce vado doppo io. Semo amichi cor cronista.
DENTAMARO E questo è ffatto, diceva quello che castrava li frati.
SPUTAROSSO Oh riguardo ar seconno colleggio, nun ciavemo gnente da discute perché er candidato ce l’avemo bbello e ppronto...
RIGHETTONE E grasso de quatrini.
DENTAMARO Si nun me sbajo sento ggente...
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FALLOPPA (corre alla porta) Sò lloro, sò lloro! (l’on. Callarelli e l’avv.
Tomboni appariscono sulla porta)
SCENA II
L’on. Callarelli, l’avv. Tomboni e Detti
TUTTI (si alzano e bbattono le mani)
TOMBONI Grazie, amici; grazie di tutto cuore per me e per l’on. Callarelli. Sedete ve ne prego. (siedono tutti)
TOMBONI (si alliscia i favoriti, beve un bicchier d’acqua, raschia, e con
molta importanza esordisce) Onorevoli colleghi e amici, elettori del secondo colleggio di Roma, ho l’alto e ambito onore di presentare questa
sera a voi, l’on. avv.to Pietro Callarelli, al quale avete meritamente e giustamente offerto la canditatura del secondo colleggio di Roma (con solennità). Nel confusionismo politico nel quale è immerso il paese, il
corpo elettorale è stanco di vedersi imporre i vecchi e i soliti pomposi
nomi. Avendovi per tali ragioni la disillusione indotti a più mature idee,
dinanzi allo sfacelo degli uomini e dei partiti, voi, o elettori del secondo
collegio di Roma, avete pensato di rivolgervi a un uomo nuovo, il quale posto nell’arringo legislativo, possa spiegare la sua azione, la sua attività, la sua energia, la sua facondia a pro degli interessi di Roma...
SPUTAROSSO (battendo le mani) Bravo!
TUTTI (c. s.) Bravo!
I manuali al chiasso si svegliano, battono anch’essi le mani e quindi si addormentano di nuovo.
TOMBONI Grazie! (con forza) Ed Ella on. Callarelli, strenuo campione della libertà per tradizioni e studi, potrà, fra i pochi esporre chiaramente le sue idee sulla situazione, con quella facondia cui si distinse, come collaboratore dell’Avvenire di Rocca-Pizzuta, e nei suoi splendidi, forbiti e colti discorsi pronunciati a Parigi a Londra a Bruxelles
a Berlino Genzano Frascati e Grottaferrata.
SPUTAROSSO Bravo! Bene! (c. s.) Viva l’avv. Tomboni.
TUTTI (c. s.) Bene! Evviva!
TOMBONI (con mal simulata modestia) Prego; gridate tutti con me:
Viva l’avv.to Callarelli!
Nessuno risponde.
SPUTAROSSO
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(soltanto grida) Viva!
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SCENA III
Buvatta e Detti
BUVATTA (è un uomo pingue, entra asciugandosi il sudore e va guardingo a sedersi facendo segno a tutti che è stanco morto perché ha girato per
l’elezioni ecc.)
RIGHETTONE (vedendo Buvatta) Ariva er treno lampo!
SPUTAROSSO Silenzio, sangue-der-naso!
CALLARELLI (è un uomo insignificante, melenso, parla a voce bassa e
sembra dica la lezione: tutto l’opposto di Tomboni) La forma corretta
con la quale le SS. LL. si degnarono di offrirmi la candidatura a questo collegio m’impone a...(s’ impappina) m’ impone a non esitare...
TOMBONI ( finge di suggerirgli le idee)
CALLARELLI E accetto volentieri il vostro cortese mandato.
SPUTAROSSO Bravo!
RIGHETTONE Silenzio, sangue-der-naso!
CALLARELLI (c. s.) Il regime parlamentare risiede nella capacità di
potersi rendere agevole a tutti di aspirare... di aspirare all’arringo legislativo. Fino ad ora i vecchi e i passati collegi diedero il triste... il
triste, e miserando esempio, cioè spettacolo del feudalismo e della superiorità del censo e dell’affarismo sul valore intellettuale.
TOMBONI Bravo!
CALLARELLI (seguitando) Dal cui metodo abbiamo a deplorare le conseguenze gravide, dico gravi, del dissesto finanziario non soltanto, o
signori, del bilancio dello stato, ma bensì ancora quello della... della
pubblica economia. E riferendoci ai princìpi, dato una causa, debbono
derivare da essa gli effetti conseguenti. La camera composta di elementi aristocratici e affaristi ai quali abbisogna l’appoggio del governo, pel
disbrigo dei loro negozi, il paese non poteva risentire che i mali... che
i mali... da noi deputati, cioè, dico, da noi deplorati. E speriamo che
ssarà l’ultima forma dell’individualismo imperante... dico, spirante, se
tutta Italia propugnerà il principio da voi emesso: Homo novus.
SPUTAROSSO (battendo le mani) Bravo! Viva er deputato der seconno
collegio de Roma!
TUTTI Viva!
CALLARELLI (c. s.) Siate sicuri che nell’unirmi a voi per questa... per
questa campagna elettorale, mi propongo di esporvi con chiarezza,
franchezza e lealtà le mie idee; e fra le linee del mio programma sarà
marcata, innanzitutto, quella cui compete alla questione operaia e sociale; per noi la vita è intesa quale l’intuiva il grande Mazzini...
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introduzione
TUTTI Viva Mazzini! (confusione enorme)
SPUTAROSSO Silenzio, fiji de cani!
CALLARELLI Ecco... ecco... quant’era nel mio intento di esporvi...
arivederci dunque e e (qui s’ imbroglia nuovamente; il chiasso è enorme;
non si capisce più niente)
RIGHETTONE (a Dentamaro) È un gran impiastro!
TOMBONI (approfittando della confusione salisce sul banco della presidenza, e con forza dice) Il nostro secolo, o signori, è un’epoca di febbrile eccitazione al lavoro, acciocché si possa rendere meno travagliata la lotta per la vita...
SPUTAROSSO Zitti! Bravo!
TOMBONI (con forza) I popoli vogliono essere con libertà e giustizia,
o signori, amorevolmente governati...
TUTTI Bene, bravo!
TOMBONI (accalorandosi sempre più) La vita bisogna saperla intuire e
usare spassionatamente! La grande scuola del sapere, o signori, è la vita! La propria osservazione è nel sapere creare uomini nuovi (batte sul
tavolo si scalda, e non ricordandosi più di Callarelli che gli è vicino, gli
dà un urtone e lo fa scendere dal banco. Tutti ridono. Callarelli, mortificato si pone a sedere)
TOMBONI (non si avvede di nulla e seguita con forza) È, ripeto, nel sapere creare uomini nuovi, i quali amino, al pari di voi, o signori, il
bene senza interessi particolari.
RIGHETTONE (Cià indovinato).
TOMBONI (c. s.) L’Italia...
TUTTI Viva l’Italia!
TOMBONI L’Italia...
TUTTI Viva l’Italia!
TOMBON Dal nuovo indirizzo attende che ne vengano cittadini onesti come me... cioè come l’on. Callarelli, i quali cittadini, o Signori,
possono condurla fidente e sicura fra le braccia dell’avvenire! Una forza irresistibile mi conduce verso le nuove aspirazioni, e la patria da
essa aspira a sollevarsi dalla miseria delle attuali, o signori, condizioni
in cui geme...
TUTTI (battono le mani) Bravo! bene!
TOMBONI (c. s.) L’illusione non è una semplice parola; è una legge
dell’intelletto capace ad elevarci a sublimi concezioni, e ad eccelsi voli, e spingere me e i popoli alla conquista dei suoi sacrosanti diritti.
(battendo sul tavolo)
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TUTTI Bravo!
TOMBONI (dando un poderoso colpo sul tavolo) Homo novus! Ecco il
grido che scosse dalla neghittosa ignavia l’antica e potente Roma: Homo novus! E, nel rimescolarsi uomini e cose, si produsse quella schiera di valorosi, a’ quali la storia affidò le sorti della patria adorata...
TUTTI Bravo!
TOMBONI (c. s.) Homo novus! Codesto sia il grido di guerra che ora
deve ripercuotersi come inno di vittoria dalle Alpi al Lilibeo, onde
portare il riscatto de’ propri diritti, sull’egoistico e ambizioso istinto
individuale! Homo novus sia il cenno della riscossa, sia il motto, sia In
hoc signo vinces che recava sul labaro l’Imperatore Costantino, il valoroso, il vittorioso vincitore di mille battaglie. (con crescente forza) Alla
pugna dunque, o miei fidi soldati, e se, come speriamo, le vostre fatiche saranno coronate da felice successo, e il mio nome sortirà trionfante dall’urna, io pieno di speranza nell’avvenire, lotterò coraggiosamente per il bene vostro, mio, e della nostra bellissima, amatissima,
grandissima, e immortalissima Roma!
TUTTI Bravo! (gli si fanno attorno e gli stringono la mano) Viva l’on.
Tomboni! Viva er nostro futuro deputato!
SPUTAROSSO (nel colmo dell’entusiasmo salisce sul banco e gli dá un
sonoro bacio) Sangue-der-naso, me ne morivo!
TOMBONI (è fuori di sé, non capisce più niente, saluta, ringrazia, ride,
non sa nemmen lui quel che si faccia)
SPUTAROSSO (suonando il campanello) Nun ve n’annate, regazzi, che
cce sono antre questioni più gravide e urgente da discutesse.
TOMBONI Silenzio! (tutti tornano ai loro posti) Siccome mancano pochi giorni alle elezioni, così, io direi, prima di sciogliere la seduta, di
discutere qualche questione delle più urgenti.
SPUTAROSSO Domanno la parola per un fatto personale!
TOMBONI La parola all’egregio Sputarosso.
SPUTAROSSO Ecco, io dicevo, che siccome er seconno colleggio è diviso in diversi urioni: Colonna, Trevi, Inquilino15, Agro romano, bbisognerebbe che ognuno de noi se dividesse un urione e incominciasse
da domani in poi a llavorà dd’accordo co’ ll’antri prisidenti de le società cche ‘sta sera hanno aderito.
TOMBONI Quante sono presso a poco le società?
DENTAMARO Armanco un trecento!
RIGHETTONE (Bbuum!)
15
N. d. A.: Esquilino.
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introduzione
FALLOPPA Qui saremo armeno cinquanta.
SPUTAROSSO L’urione Colonna me lo lavoro io.
DENTAMARO Io Funtan de Trevi.
RIGHETTONE Io l’Inquilino.
BIASTIMELLA E io er Cassio Petrojo16.
TOMBONI C’è la sezione più importante dell’Agro Romano alla quale bisognerebbe seriamente pensare.
BUVATTA All’Agro nun dubbitate che cce penso io.
RIGHETTONE (Fa e’ llimonaro).
BUVATTA Conosco tutti li vignaroli der subbrubbio; anzi ggià ne sò
stati a ttrova parecchi e quelli sò ttutti nostri.
RIGHETTONE (Quanno lo dice lui!)
DENTAMARO Domanno la parola per un fatto personale.
TOMBONI Accordata.
DENTAMARO Ecco, volevo dire all’on. nostro candidato, avvocato
Callarelli, che è ggià ddiverso tempo che sse cammina e cche dde spese se ne sò fatte parecchie... Je volevo dire, se intanto ce volesse inticipare quarche piccola cosa...
CALLARELLI Di questo ho già incaricato il mio amico avv.to Tomboni.
TOMBONI Era quello cui avevo pensato di fare. (cava il portafogli e dà
a Sputarosso due carte da cento lire) Per le altre spese venite domani al
mio studio dove, fino al giorno delle elezioni, siederà in permanenza
il comitato per la candidatura dell’on. Callarelli.
SPUTAROSSO Io la ringrazio, a nome de tutti li miei colleghi. E la
seduta, regazzi, è sciorta! (allora le grida di allegria non hanno più
limite)
TUTTI Viva l’on. Callarelli! Viva l’on. Tomboni! (e sempre gridando,
accompagnano Callarelli e Tomboni fino sulla strada)
SCENA IV
Sputarosso rientrando subito
SPUTAROSSO (dice ai manuali) Vojantri, regazzi, annateme a aspettà
a ll’osteria de Scarnicchia. Che adesso vengo llà e vve pago.
Le comparse escono.
16
Castro Pretorio, quartiere di Roma.
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o
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SCENA V
Righettone, Buvatta, Falloppa,
Dentamaro, Tiriralla, Biastimella, e Detto
RIGHETTONE (vedendo Sputarosso) Ah mme credevo che tt’eri squajato.
SPUTAROSSO Perché mm’avevo da squaià?
RIGHETTONE Perché mme pensavo che vvolessi fà ppuro ‘sta vorta
tutto der santo17. Avemo da fà 29 lire a ttesta.
SPUTAROSSO E cche ccapischi, sangue-der-naso che scappo? Adesso
annamo a ll’osteria e ddomani poi...
RIGHETTONE Niente domani. Io vojo la parte mia adesso.
TIRIRALLA Ha raggione!
SPUTAROSSO Accidentaccio, come sete marfidati! Che mme te sò
magnato quarche vvorta, quarche accidente che tte piija?
RIGHETTONE A le froce der naso.
TIRIRALLA Accusì tte scola in bocca!
RIGHETTONE Aricordete de la lezzione der ’90 che tte magnassi ppiù
dde quattrocento scudi e a nnoi nun ce dassi gnente.
SPUTAROSSO La faccia tua pò dì questo e antro.
RIGHETTONE Ahó, a mme le chiacchiere nun me confonneno, damme quer che me spetta, sinnò ‘sta sera finisce male!
SPUTAROSSO (minacciandolo) Sangue-der-naso, te crederessi gnente
de mettemme pavura?
BUVATTA E ALTRI (si mettono di mezzo e li dividono)
FALLOPPA Nemmanco la vergogna.
BIASTIMELLA Famela finita.
RIGHETTONE (a Sputarosso) Nu’ mme guardà ttanto bbrutto, ch’intanto a mme nu’ mme metti mica suggizione.
SPUTAROSSO (va per lanciarglisi contro, ma è trattenuto dagli altri) Io,
sangue-der-naso, je vojo imparà ccome se parla.
RIGHETTONE Lassatelo, nu’ lo tenete sinnò scappa...
SPUTAROSSO (mentre lo conducono via i compagni) Hai raggione tu
bbrutta carogna! Ma se vedremo co’ mmijor commido. (viene condotto via)
RIGHETTONE Quanno te pare! Sto a ll’ordini tui. (raccoglie in terra
il suo cappello che nella lotta gli è caduto e mentre lo pulisce con il gomito) Brutto ladraccio! Vardateme elettori influenti che nun ponno nem17
Fà tutto der santo: appropriarsi di tutto.
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manco annà a vvotà perché ssò stati carcerati per essese presi collera
co’ ddiversi portafoji.
BUVATTA (trascinandolo via) Annamo va fijo; statte zitto; nun bbaccajà ttanto che dde nojantri er ppiù pulito cià la rogna. (escono ridendo Buvatta, Righettone, Biastimella e Tiriralla che erano rimasti sulla
scena)
Cala la tela
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ATTO III
Lo studio dell’avvocato Tomboni. Scrivania, sedie, poltrone, ingombre di
avvisi elettorali di ogni colore e di tutte le dimensioni. Una scansia con
libri. Porte laterali e in fondo. Occorrente per scrivere.
SCENA I
Tomboni, Sputarosso e Dentamaro seduti innanzi alla scrivania.
Si sente continuamente suonare il campanello di casa.
TOMBONI (asciugandosi il sudore) Ve l’ho detto miei cari amici, ve
l’ho detto, e ve lo ripeto: al punto in cui siamo, bisogna che io accetti il mandato di rappresentare Roma, altrimenti mi disgusto tutto il corpo elettorale. Ho resistito, ho scongiurato, ho pregato, e voi
ne siete testimoni, ma a nulla sono valse le mie preghiere per farli
desistere, e le mie ripulse. Vedete bene da ogni parte mi giungono
nuove adesioni, tutti mi pregano, tutti mi pressano: è un vero plebiscito... E poi (mostrando una lettera) un mio caro amico, intimo
del sottosegretario di stato per l’interno, mi assicura anche l’appoggio del governo...
SPUTAROSSO E vvoi, ve l’ho ddetto, bbisogna che ffate l’omo: ‘sta
vorta è nnecessario che vve sagrificate p’er bene der paese. Intanto
o pprima o ppoi ciavete d’annà. Dunque...
TOMBONI Era precisamente la riflessione che facevo io... tanto più
che l’avv.to Callarelli si ritira.
DENTAMARO E vv’assicuro che a la Cammera ce farete la vostra figura; perchè un omo autografo18 come voi è quello che cciamanca.
TOMBONI Basta. Oramai mi sono spiegato... Io non vorrei. Siete voialtri che, mio malgrado, mi portate candidato e a mia insaputa.
Quindi tutta la responsabilità è vostra... Ci siamo intesi...
SPUTAROSSO Una parola è ppoca e ddue sò ttroppe.
DENTAMARO Voi dormite. (si suona il campanello alla porta di casa)
18
N. d. A.: autocrate.
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SCENA II
Un servo e Detti
SERVO È permesso?
TOMBONI Avanti.
SERVO C’è el presidente del Circolo Popolare Elettorale, el presidente
de la Società Cochi e Cammerieri, e quello del Verde Stendardo.
TOMBONI Dove sono?
SERVO L’ho fatti passare de là cogli altri.
TOMBONI Ce ne sono ancora molti?
SERVO Una settantina. (si suona il campanello di casa)
TOMBONI Ancora?! Ma c’è da perdere la testa! Dio che noia: è da questa mane che non si fa che ricevere gente e pagarla!... (si alza) Ho pensato che sarà meglio che me ne vada...
SPUTAROSSO Io ve lo sto ddicenno da ‘sta mmatina. Fintanto che
vvoi state qui ce ne fusseno de mijara de lire!
DENTAMARO Voi annatevene, che mmó questi se li lavoramo noi.
TOMBONI Ma per carità, veh, non disgustate nessuno. Sono momenti questi in cui si ha di bisogno di tutti. (si suona nuovamente il campanello) Di tutti: de’ clericali, de’ socialisti, de’ monarchici... di tutti,
vi ripeto, di tutti.
SPUTAROSSO E nnoi, nun si dubbiti, che li contenteremo i’ mmodo
che nun s’averanno da lagnà dde noi.
DENTAMARO A pproposito. De llà è vvenuto er prisidente der Circolo Imparziale che ppuzza un tantino de prete...
TOMBONI Contentatelo, e più degli altri. (con precauzione) Anzi, se
vi domandasse qualcosa intorno a’ miei principii, ditegli che in fondo
poi sono moderato... sono monarchico... magari che vado a messa tutti i giorni.
SPUTAROSSO Avemo capito. A li realisti, che ssete realista, alli repubbricani che ssete repubbricano...
DENTAMARO A li socialisti che ssete de li loro...
SPUTAROSSO E accusì via discurrenno. Fanno tutti lo stesso...
DENTAMARO Sete un gran omo!
TOMBONI Eh miei cari, chi non sa fingere, non sa regnare... Insomma:
mi affido pienamente alla vostra prudenza e sagacità. (va per uscire)
SPUTAROSSO Onorevole, mma ddico...
DENTAMARO Se scorda der mejo...
TOMBONI Avete ragione: me ne dimenticavo (tira fuori il portafoglio,
lo apre, ne tira fuori una manata di biglietti di banca e glieli dà) Sono
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,
:
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altre tremila lire... non ne ho altre. Sono le ultime... E vi raccommando, non mi disgustate alcuno.
SPUTAROSSO Nun dubbitate. (suonano il campanello)
TOMBONI Ci rivediamo questa sera. (esce)
SCENA III
Sputarosso, Dentamaro, quindi il Servo
SPUTAROSSO (chiama il Servo) Sor coso! Sor coso!
SERVO Comandi.
SPUTAROSSO Mettete er catenaccio a la porta e nun fate entrà ppiù
gnisuno.
SERVO E se sonano?
SPUTAROSSO Lassateli sonà. Fate vienì dde qua er prisidente der Circolo Imparziale. (suonano il campanello)
SERVO Si ricordi che prima ci sono quegli amici suoi che stanno bestemmiando come turchi, e quelle due donne, vostra moglie e vostra
figlia...
SPUTAROSSO Ha raggione va, nun ce pensavo. Gnente j’avete detto
che l’avvocato è uscito?
SERVO No. (si suona il campanello)
SPUTAROSSO Allora annateje a ddì cche abbino pazienza un momento, che adesso li fo introduce. (Servo via)
DENTAMARO Allora prima dividémese er mammone, sinnò questi
vonno fà tutto der santo.
SPUTAROSSO Tiè, ècchete mille lire a tte. (gliele dà) Antre mille me
le pijo io, e cco’ resto contentamece quest’antri.
DENTAMARO E a ppensà cche si la Madonna ispira a l’avvocato d’annassene via ‘sta mmatina, se ne saressimo messe in saccoccia armeno
tre mila peromo.
SPUTAROSSO S’arimettemio una costa!
DENTAMARO Abbada che cquer povero Callarelli n’ha cacciati!...
SPUTAROSSO (chiamando) Cammeriere!
SERVO Comanda?
SPUTAROSSO Introduceteme drento mi’ moje e la fija. Tu (a Dentamaro) vamme a trattiené quell’antri; e vvedi de mannà vvia quarche
scocciapalle.
DENTAMARO Ce penso io. (esce dal fondo)
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SCENA IV
Crodovea, Crementina vestite da popolane, e Detto
SPUTAROSSO (nel vederle) Sangue-der-naso! Ma cche vvienite a ffà a
rompe la divuzione, quann’uno sta occupato in de l’affari.
CRODOVEA C’è vvorsuta vienì la tu’ fija.
CREMENTINA Che vv’arincresce?
SPUTAROSSO (con importanza) No, ma capirete che quanno uno cià
un craus19 d’affari da sbrigà, nun pò ddà retta a nisuno. M’hanno messo in mano... se tratta er maneggio de tutto quanto er corpo littorale20.
CREMENTINA (osservando lo studio) Che bella cammera!
CRODOVEA Davero va! Che bbelle portrone, che quadri!
CREMENTINA E tutti ‘sti libri. Eh papà cce sò romanzi da legge? (rovista mettendo ogni cosa ssossopra)
CRODOVEA (si avvicina alla scrivania e vede il danaro) E ttutti ‘sti
quatrini di chi ssò?
CREMENTINA Quale? (si avvicina anch’essa) Ih quanti!
SPUTAROSSO Nun è robba mia. Li devo dispensà a quella ggente che
sta dde llà.
CRODOVEA A cchine? A quelli imbrojoni? Oh vvojantri davero avete
perso er cervello! Ma ppìjetili tu, pìjieteli, minchione! Oppuramente
dammeli a mme. (prende una pizzicata di carte da cinque lire)
SPUTAROSSO (adirato) Vattene, sangue-der-naso, che ne devo arisponne io!
CREMENTINA (anch’essa arriva a prendersi una carta da cinque) Mejo
a nnoi che a quelli.
SPUTAROSSO (c. s.) Abbadate che vve pijo per un braccio e vve metto de fora. (raduna tutto il danaro e lo pone in un tiretto) Accusì ffiniremo ‘sta cagnara. Annateve a mmette a ssede che ssento vienì ggente.
(Crodovea siede a fare la calza e Crementina seguita a sfogliare i libri)
SCENA V
Dentamaro, Bbuvatta, Falloppa e Detti
BUVATTA Se pò ariverì l’amico? (porterà sotto il braccio dei grandi manifesti)
FALLOPPA Je se pò stregnere er cinquanta?
19
20
N. d. A.: caos.
N. d. A.: elettorale.
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SPUTAROSSO Che sse semo messi in comprimenti? Scusate si insino
a mmó, nun v’ho fatto entrà mma cc’era l’avvocato, capite?
BUVATTA Lo sapemio.
SPUTAROSSO Mbè cche nnova ce sò? Se lavora?
BUVATTA Nove eccelente. Io ‘st’ammatina me sò fatta tutta porta San
Pangrazio, e li vignaroli de llà ssò ttutti li nostri. Eh vvero, Falloppa?
FALLOPPA Antro!
DENTAMARO (avvicinandosegli e parlandogli all’orecchio) Eh mma
pperò c’è un contrordine. L’avvocato Callarelli s’è ritirato.
BUVATTA Me l’immagginavo.
SPUTAROSSO Invece de Callarelli portamo l’avv. Tomboni.
BUVATTA Me lo diceva er core; eh vvero Falloppa?
FALLOPPA Antro!
BUVATTA Eppoi guardate si vve dico un punto de bbucìa. Ho fatto
stampà er manifesto cor nome der cannidato in bianco. (si toglie di
sotto il braccio un gran manifesto rosso) Falloppa, leggelo un po’.
FALLOPPA (essendo il manifesto di smisurata grandezza, aiutato da Buvatta, lo spiega, monta sopra una sedia, e legge) «Elettori del II Collegio
di Roma e dell’Agro. I deputati del nostro collegio si sono macchiati
di tante e sì gravi colpe da non meritare di essere nuovamente rieletti.
Il governo e il parlamento non sono che ninnoli e giocattoli in mano
dei nostri governatori. Il potere è reso strumento di partigianeria e di
vendette contro la parte più operosa, ossia l’operaia, della popolazione, ed una mano di violenti s’impone. Il dispotismo è il mezzo, l’affarismo e la ricchezza non sudata, ma nondimeno immancabile ed
immediata, il fine...» (si suona il campanello)
SPUTAROSSO Bene, sangue-der-naso!
BUVATTA Questo nun è gnente: quello che vviè appresso!... Trotta,
Falloppa.
FALLOPPA (prosegue) «La corruzione invadente, e la generale sfiducia
nell’imperio della legge è la conseguenza. Di bene pubblico si hanno
le sole parvenze; si promette tutto, ma niente si opera e, se qualche
cosa, a debito; sicché per tal rispetto il nostro governo rassembra un
moscone agitantesi sotto ampia campana di vetro...»
DENTAMARO Bello quer moscone!
BUVATTA (pavoneggiandosi) L’idea der moscone è mia.
SPUTAROSSO Mbè ddunque annamo ar bono.
BUVATTA De ‘sti manifesti, cor nome in bianco, n’ho ffatti fà diecimila... è vvero, Falloppa?
FALLOPPA Antro. È vangelio!
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BUVATTA Poi me ce voranno un quattro o ccinque o dieci legni p’er
giorno de la votazione... Poi pija er vermutto co’ quello, bbevi er mezzo litro co’ quell’antro...
DENTAMARO Insomma: quanto pretennete?
BUVATTA Che vv’ho dda dì? Me darete un par de mila lire...
SPUTAROSSO E BUVATTA (sbottano a ridere) Ma ssete matto?! V’abbasti a ddì che a nnojantri cianno dato mille lire sole e cciavemo da
contentà ttutta quella canaja che sta dde llà.
BUVATTA (sconcertato ) Allora che vv’ho dda dì? Nun me date gnente;
semo pace e amichi ppiù dde prima. Vor dì cche io farò come me pare. (per uscire)
SPUTAROSSO Che sse volemo stà a ppià ccollera? Venite qua, pijateve
‘ste ducento lire e mmosca. Doppo poi ce scapperà un caffè ppe’ vvoi.
BUVATTA Famo armeno trecento... duecentocinquanta... (si suona ancora il campanello)
DENTAMARO Nun potemo.
BUVATTA (intascando le duecento lire) Abbasta poi che ppensate pe’
mme.
SPUTAROSSO Nun dubbitate. Fateme er piacere si vvedete quer pretaccio de Panzella, mannatemelo su.
BUVATTA Sta dde llà cche v’aspetta. Anzi, a pproposito, ve vojo dà un
consijo d’amico. Sentite (con precauzione) nu’ je date gnente a quel ladraccio, veh, che quello è er primo ladro de Roma. Eh vvero, Falloppa?
FALLOPPA È vangelio!
BUVATTA Dice che è er presidente der Circolo Imparziale. Nu’ je date retta. Er circolo se compone de lui de la moje e dde la serva. E quanno hanno tenuto seduta, er giorno appresso vanno ar Messaggero e cce
se fanno mette un articolo pieno zeppo de bbuvatte21. E ppoi de llà
cce ne sò ppochi d’imbrojoni, state attenta! Allora se vedemo e grazzie. (si stringono la mano; poi Buvatta e Falloppa escono dal fondo)
CRODOVEA (appena uscito Buvatta) Come! J’hai dato tutti quelli quatrini!
CREMENTINA I’ rigalo?
CRODOVEA E a noi nun ce vòi dà gnente? Ammazzete che ccore! A
cchi ttanto a cchi gnente. Puro lo sai come se trovamo. Ciò quele crature senza le scarpe, io sto ignuda e cruda, quella lì (indicando Clementina) sta ssenza li stivaletti, io ciò ttutto ar santo loco... damme
armanco una diecina de lire.
21
Buvatta: scatola di metallo, con coperchio, fig.: bugia, fandonia, invenzione fantasiosa.
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A
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SPUTAROSSO Sangue-der-naso, ho ddetto gnente e gnente ha dda esse. Dentamaro, famme er piacere, fà vvienì dde cqua er prisidente der
Circolo Imparziale co’ Panzella.
DENTAMARO Subbito. (esce dal fondo)
SPUTAROSSO Armeno nun me fate fà ‘ste figure quanno c’è ggente,
sangue-der-naso!
CRODOVEA Vedo che bbutti li quatrini e a nnoi nun ce dai gnente. (si
alza, si avvicina al tavolo e le [sic] sottrae altre cinquanta lire) Farò ccome dice er proverbio: Pija la robba indove sta, e ccampa onoratamente.
SPUTAROSSO Ma ssangue-der-naso, vojantre me volete disonorà! Io
ho dda renne conto de ‘sti sòrdi. Nu’ la capite che sse tratta d’onore?!
CREMENTINA Ma cche onore!
CRODOVEA Nun ce l’hai avuto mai; tutto mó tte preme st’onore?
SPUTAROSSO Hai raggione che stamo cqui. A ccasa famo li conti.
CRODOVEA Andove te pare.
CREMENTINA Accusì vv’ajuto a ffà le somme; insinenta a mmó avemo fatto le sottrazione. (ride)
SCENA VI
Dentamaro, Panzabbotta, Panzella
e Detti
DENTAMARO Sbrigamese che dde llà è un inferno.
SPUTAROSSO Ma pperché nu’ l’hai mannati via?
DENTAMARO Certi se ne sò iti, ma ccert’antri nun se ne vonno annà.
SPUTAROSSO Lassa fà cche ddoppo ce penso io. (a Panzabbotta e a
Panzella) Dunque a nnoi.
PANZABBOTTA A pproposito, dite un po’ gnente avete dato quarche
ccosa a quell’imbrojoni, ladri, de Bbuvatta e dde Falloppa? Per carità,
veh, nu’ je date manco un centesimo. Ma indove avete arimediato tutti st’imbrojoni? Dde llà cce ne sò ppochi!...
SPUTAROSSO Eh mma a nnoi nun ce la fanno! Mbè finarmente er
sor Panzella poi s’è cconvertito?
PANZELLA Veramente io nun ce volevo venire, perché l’idee nostre le
sapete; ma si è come Panzabbotta mi ha ddetto che el candidato che
pportate, l’onorevole...
SPUTAROSSO Tomboni!
PANZABBOTTA Quello, me pare che stava l’antra sera a ll’osteria de
Scarnicchia?
DENTAMARO Pe’ l’appunto. Che j’offrissimo un vino d’onore.
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introduzione
SPUTAROSSO ( fra sé) (Che ppagò llui.)
PANZELLA Insomma: siccome m’è stato detto che oltre che l’avvocato
Tomboni è un omo dottissimo...
DENTAMARO Antro che ddotto!
SPUTAROSSO È un lucernario22 de la scienza!
DENTAMARO È uomo che ortre a una vasta accortura23 possiede una
rodizione 24 profonda!
SPUTAROSSO E ppoi... e ppoi, quanno semo ar dunque è ppiù realista de voi.
PANZELLA Meglio, meglio.
DENTAMARO È un marvone25!
SPUTAROSSO (alzandosi) Volete che vve ne dichi una? (si avvicina con
precauzione a Panzella) Andovinate un po’? ‘St’accidente nun me va a
messa un giorno sì e un antro no. L’ho vveduto io uscì dda sant’Andrea de le Fratte. Ne posso esse testimogno, e ttestimogno ‘culare26.
DENTAMARO Me pare che ne potete esse persuvaso.
PANZELLA Non serve altro.
SPUTAROSSO Allora, venimo a nnoi.
PANZABBOTTA Ecco. (cava delle grandi strisce di color giallo) Noi avemo fatte fà quattromila de ‘ste strisce indove ce dice: (legge) «Romani!
Volete il bene di Roma? Votate compatti il nome dell’avv. Pietro Tomboni.» E quest’altra: «Operai, volete il bene della vostra classe? Date
il voto all’on. avvocato Pietro Tomboni.»
PANZELLA (spiegando un gran foglioverde, che porta sotto il braccio) Qui
poi abbiamo fatto un manifesto a nnome della nostra società. Lo volete sentì?
SPUTAROSSO No, ché nun ciavemo tempo.
DENTAMARO Intanto se fidamo de voi.
SPUTAROSSO Annamo ar bono. Che ccosa protennete pe’ le spese?
PANZELLA Fate voi.
PANZABBOTTA Un mijaretto e mmezzo de lire...
SPUTAROSSO Sentite: è inutile che ffamo tante chiacchiere. Ve daremo trecento lire adesso, e quarch’antra sciocchezza a affare finito.
PANZABBOTTA È un po’ ppoco. Aricordateve che quanno se move22
N. d. A.: luminare.
N. d. A.: cultura.
24
N. d. A.: erudizione.
25
Persona mogia, lenta, abulica (come chi prende abitualmente per sedativo un decotto di malva).
26
N. d. A.: oculare.
23
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mo noi, è ffesta. Io, nu’ lo dico per avantamme, ma ttiengo Roma su
le déta. (girando le dita della man dritta) E dder valore der circolo nostro, ne parla la stampa. Sentite cqua er Messaggero de jeri cosa ne dice: (cava dalla tasca uno sdruscito giornale e legge) «Jersera ar Circolo
Imparziale, sito in via Santa Maria in Cacàberis27, innanzi a più di
trecento elettori e a non pochi rappresentanti di società operaie diverse si stabilì, a grande maggioranza, di appoggiare, nelle prossime elezioni, la candidatura dell’avvocato Pietro Tomboni. Il presidente Domenico Panzabbotta.» E questi nun sò cchiacchiere, ssò ffatti. Carta
canta e villan dorme.
PANZELLA Ma va là, contentàmose: intanto poi a nnoi ce penseranno
a discrezione loro.
SPUTAROSSO (conta loro il danaro) Ecco qua.
PANZELLA Grazie e arivederci.
SPUTAROSSO E attenta, m’ariccommanno, d’annà a vvotà ttutti compatti.
PANZABBOTTA A quello nun ce pensate. Ve l’ho detto, nojantri co’
Roma ce ggiocamo a ppalla. Se vediamo. (escono dal fondo)
SPUTAROSSO Oh, io nu’ ne posso propio ppiù!
DENTAMARO E a quell’antri che stanno de llà nun ce pensi?
SPUTAROSSO Va dde llà ttu, e ddije che sse ne vadino via in santa
pace, perché li quatrini sono esavuriti.
DENTAMARO ‘Sta vorta ciarlevo28 quant’è vvero er sole. Abbasta, famese coraggio. (esce dal fondo)
CREMENTINA Papà, ffate conto che io puro sò una presidenta de ‘na
società e ddateme puro a mme ttrecento lire.
SPUTAROSSO Ma vvattene: che hai da esse bona tu!
CREMENTINA (imitando Panzabbotta) Io tiengo Roma su le déta. Lei
nun si dubbiti. Ho fatto tremila manifesti, tiengo in mano tutt’er corpo littorale.
CRODOVEA Ne dicheno poche de bbuvatte!
SPUTAROSSO (ridendo) Quello aveva presa Roma pe’ ‘na mosciarella 29 che la tieneva su le déta.
CRODOVEA Abbada che ssò bbuffi!
27
Oggi via Santa Maria dei Calderari. Cfr. p. 173 nota 5.
Ce le prendo. Dal verbo arcaico arlevà: essere percosso, bastonato; da levà nel senso
di prendere, ricevere.
29
Castagna sgusciata ed essiccata che assume un aspetto rugoso, grinzoso ed una consistenza durissima.
28
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introduzione
SPUTAROSSO Quello ch’ha ddetto accusì, cce scommetto che nun sa
nnemmanco indove se va a vvotà. È ccome mme... Ma cche robb’è?
Di dentro si odono delle alte grida di protesta e un chiasso diabolico.
SCENA VII
Dentamaro e Detti
DENTAMARO (dando il garbo al suo cappello, tutto ammaccato) A mmomenti m’ammazzeno. M’hanno fatto diventà er cappello una pizzetta.
SPUTAROSSO Lasseli fà; è robba che ppassa; ce sò abbituato. (prende
un giornale e finge di leggere in tutto il tempo che durano le scene che seguono)
SCENA VIII
Primo Elettore e Detti
PRIMO ELETTORE (entra furiosamente; avrà dei manifesti sotto il braccio) Nun me l’aspettavo da esse trattato accusì. Tu (a Sputarosso) nun
pensi antro che a tte, bbrutto magnone. Ma mme la paghi! (esce e dal
di dentro si ode il fracasso della porta di casa chiusa con violenza)
SCENA IX
Secondo e Terzo Elettore e Detti
Secondo e terzo elettore entrano c. s.
SECONDO ELETTORE Se vedemo er giorno de le lezzione bbrutto
ladraccio!
TERZO ELETTORE Sbafatore a ppaletta! (escono c. s.)
SCENA X
Quarto e Quinto Elettore e Detti
Quarto e Quinto elettore entrano c. s.
QUARTO ELETTORE Chi mmagna solo se strozza!
QUINTO ELETTORE Brutto imbrojone! (escono c. s.)
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n
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SCENA XI
Sesto e Settimo Elettore
c. s.
SESTO ELETTORE Co’ li quatrini che tte sei messo in saccoccia, ce
possi pagà er medico.
SETTIMO ELETTORE E ttanto ojo de riggine.
Escono c. s.
SCENA XII
Ottavo e Nono Elettore
Entrano c. s.
OTTAVO ELETTORE Accusì ce tratti? Accusì fanno tutti li ladri pari tui.
NONO ELETTORE Azione da cornutaccio!
Escono c. s.
SCENA XIII
Biastimella, Tiriralla, Cordalenta e Righettone
Entrano c. s. uno dopo l’altro.
BIASTIMELLA Iddio nun paga er sabbito. Se vedemo er giorno de
l’elezione! (esce c. s.)
TIRIRALLA E si nun te fo io una panza de cortellate, chiameme bboja,
bbrutta spia. (esce c. s.)
CORDALENTA Addio ladro de macchia! Brigante! Ansuini30! (esce c. s.)
RIGHETTONE Addio, cornutaccio a ppaletta! (esce c. s.)
SPUTAROSSO (con calma) C’è gnisun antro?
DENTAMARO No, aringraziam’Iddio, che ssò ffiniti!
CRODOVEA Ahó mma ddiceveno, a tte, sai?
SPUTAROSSO Eh lo intesi. Ma ccome fai? in certi casi chi ccià ppiù
pprudenza l’addopra.
30
Fortunato Ansuini, brigante nativo di Norcia, di cui si persero le tracce dopo la sua
fuga a San Magno (FR) nel 1891.
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introduzione
DENTAMARO Sò ccontento che l’avemo mannati via tutti sodisfatti.
SPUTAROSSO Annamo fije, annamo.
CREMENTINA (nell’avviarsi) Papà vve sete scordato d’una cosa.
SPUTAROSSO De che, ffija?
CREMENTINA D’aringrazzialli tanto!
Il servo che ha udito tutti quei bei titoli che hanno dato a Sputarosso, quando questi esce, con la famiglia, gli fa un inchino molto significante.
Cala la tela
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.
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ATTO IV
Una piazzetta d’un rione popolare. Case e bbotteghe praticabili. In fondo
una casa con fenestre praticabili e con porta sulla quale vi saranno, a guisa di trofeo, due bandiere: una nazionale, l’altra municipale, con in mezzo lo stemma del comune, e più sotto un cartello con la seguente scritta:
«Sezione IV. Dalla lettera P alla Z dal N˚ 3640 al N˚ 3940». Ai due lati
diverse botteghe con sopra fenestre praticabili. Un caffè, con tavoli e sedie di fuori, un forno, una drogheria, un’osteria. A sinistra, di contro al
caffè, la casa di Buvatta con porta e fenestra praticabili. Manifesti di ogni
colore e raccomandanti diversi candidati sono affissi su tutti i muri della
piazza: specie su quelli della sezione.
SCENA I
Due carabinieri reali e una guardia municipale passeggiano silenziosi innanzi la sezione. Un fattorino sulla porta della medesima dispensa dei programmi elettorali. Due attacchini, con dei manifesti, il secchio della colla e il pennello sono intenti ad affiggere una grande striscia sulla quale è raccomandata la candidatura dell’on. Tomboni. I due attacchini hanno appena terminato l’affissione, che ne sopraggiungono due altri, i quali affiggono sull’ultima striscia dell’on. Tomboni un’altra raccomandante l’on. Pelacani. I due
primi attacchini avvedendosi di ciò tornano indietro, si bisticciano con i due
ultimi venuti, e finiscono col darsi i secchi sulla faccia, poi se ne vanno. Scena muta e rapidissima.
SCENA II
Sputarosso e Dentamaro
Escono dalla sezione.
SPUTAROSSO (guarda l’orologio) A cchi sse dice! Un’ora e mmezza
doppo mezzoggiorno e incora nun avemo potuto costituvì er seggio!
DENTAMARO A ppijà li bbajocchi sò ttutti bboni; quanno poi semo
ar dunque, se squajeno tutti... Volemo bbussà a Bbuvatta?
SPUTAROSSO J’ho bbussato; m’ha risposto la moje ch’è ito via prima
de ggiorno.
DENTAMARO Allora che ffamo?
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introduzione
SPUTAROSSO Ariprovamo qui dar drughiere. (si avvicina alla bottega
del droghiere) Sor Nicola, fateme er piacere, ce n’amancheno dua pe’
fformà er seggio; vienite su un momento.
DROGHIERE (di dentro) Ah ah! ariecco ‘sti scoccia zebbedei! Quanno
v’ho ddetto che nun posso, nun posso. È inutile che spregate el tempo.
DENTAMARO Vardateme cittadini!
SPUTAROSSO (parlando al fornaio) Sor Pietro, fateme er piacere voi;
venite un tantinello su, quanto formamo er seggio provisorio.
FORNAIO (parlando dalla bottega) E l’avventori me li servite voi? Ma
ssapete che ssete propio curioso! Come se vede che nun avete da fà
gnente.
SPUTAROSSO Finisce che oggi er seggio nostro nun se costituvisce!
DENTAMARO Saranno venuti armeno cento elettori e sse ne sò ariannati via tutti.
SPUTAROSSO Provamo un po’ cqui ddar caffettiere. A questo abbasta che je lo dico io e vvederai come me sente. (chiamando) Sor Pavolo. (siedono tutti e due )
CAFFETTIERE (esce) Commandate?
SPUTAROSSO Du’ caffè rumati. (caffettiere rientra)
DENTAMARO Si ariva Tomboni adesso è ‘na bbuscarata!
SPUTAROSSO Io sto ssu le spine!
CAFFETTIERE (recando l’occorrente) Eccoli serviti.
SPUTAROSSO Come va, sor Pavolo?
CAFFETTIERE A la bbuscarona. Nun se fa un soldo. Tutta rimissione. Da una parte el municipio, dall’altra el governo, ve se mangeno
tutto quel po’ dde guadambio.
SPUTAROSSO Subbito che cqui a Roma gnisun cittadino fa ll’obbrigo suo. Basterebbe er giorno de le lezzione a mannà su ttutte persone oneste...
CAFFETTIERE Eh caro mio, è ffinito el tempo dell’illusione. Ammazza, ammazza, sono tutti d’una razza.
SPUTAROSSO Eppuro quarchiduno onesto ce n’è e vve lo dico io!
DENTAMARO Abbasta ssapelli sceje. C’è ppresempio quello che ‘sta
vorta portamo noi, che appena ariva llassù, ssemo sicuri che Roma diventerà un giardino...
SPUTAROSSO E li quatrini averanno da curre a ppianare.
DENTAMARO E vve lo dimo noi!
SPUTAROSSO Su, ccoraggio, sor Pavolo; venite su cco’ nnoi a vvotà e
vve n’aritroverete contentone.
CAFFETTIERE (adirato) A mme? A mme? Eh sse aritornasse al mon-
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a
1. introduzione
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do mio padre, e mme dicesse: vieni su a vvotà, lo caccerebbe via come
un ladro. Passa via! Cianno ridotti a ttutti in mezzo a una strada... Per
carità, se volemo restare amici, nun me parlate mai de ‘ste cose... (va
per rientrare)
SPUTAROSSO Eh vvenite cqua: per questo se volemo stà a prende
collera?
DENTAMARO Doppo tutto sò io er primo a ddavve no una, ma
mmille raggione.
SPUTAROSSO Sicuro, sò un sacco de ladri tutti, e io sò er primo a ddichiaravvelo. (bevono in fretta il caffè e si alzano) Se vedemo, sor Pavolo.
CAFFETTIERE Addio. (ritira il gabbarè e rientra)
DENTAMARO Sò ccontento che l’avemo persuvaso!
SPUTAROSSO Tutti talecquale. Indove t’accosti te cacceno via com’un
ladro.
SCENA III
Scarnicchia e Detti
SCARNICCHIA (venendo dalla sinistra, in maniche di camicia, la salvietta sulla spalla destra, traversa in fretta la scena)
SPUTAROSSO (vedendolo) Ah Scarnicchia! E cchi tte ce manna? Te ce
manna la Madonna?!
SCARNICCHIA Ch’è ssuccesso?
SPUTAROSSO Viè cco’ nnoi va; nun perde tempo.
SCARNICCHIA Io nun posso. Vado in prescia qui da ll’ortolano a ordinà ddu’ libbre de Zuppa Santé... eppoi sto accusì...
DENTAMARO Se tratta d’un minuto.
SPUTAROSSO Quanto vienghi su ppe’ fformà er seggio provisorio, e
tte ne vai.
SCARNICCHIA Abbasta che mme mannate via subbito; perché ho
llassato bbottega sola. Nun sia mai detto, mi’ moje chi la sente?
SPUTAROSSO Ma vviè ssu, viè; quanno te dico che sse tratta d’un
momento. (lo trascinano alla sezione)
CAFFETTIERE (sulla porta del caffè) Tanto hanno fatto che el merlo
l’hanno trovato.
SCENA IV
e
Righettone, Tiriralla e Detto
RIGHETTONE
(sedendo) Sor Pavolo ce portate una bbottija de gazzosa?
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introduzione
CAFFETTIERE Subito. (rientra e riesce quasi subito con l’occorrente) Ecco.
RIGHETTONE (con ironia) Mbè, come vanno sor Pavolo, le cose de
‘sta sezione?
CAFFETTIERE Ma vvolete ride? Sò a mmomenti le due e un quarto
e ancora non hanno costituito neppure el seggio provisorio.
RIGHETTONE Me minchionate?
CAFFETTIERE Altro che! È dda ‘sta mattina che Sputarosso e Dentamaro vanno pregando tutti li bbottegari de la piazza, e fino adesso
ancora non gliela avevano fatta.
TIRIRALLA Quanto ciò ppiacere!
RIGHETTONE Come godo! (ridendo)
CAFFETTIERE Un minuto fa poi hanno fermato Scarnicchia l’oste, che
ttraversava in prescia la strada e l’hanno persuaso a seguirli alla sezione.
RIGHETTONE (ridendo) Ce vorebbe che l’inchiodassino lassù ffino
a ‘sta sera; accusì la moje lo scanna paro paro.
CAFFETTIERE Ma vvojaltri non ne sapete una. Nientemeno, hanno
cercato de persuaderme a mme per andà a ccostituire el seggio!
RIGHETTONE E vvoi?
CAFFETTIERE Eh se nun se ne vanno, li prendo a bbastonate.
RIGHETTONE Er prisidente de la Società Elettorale-Democratica!
L’elettore infruvente!
CAFFETTIERE Chi, quel somaro?! Adesso ve ne dico un’altra per farve ride. Ve basti el dire che ggiorni fa, me fece questa domanda. Dice:
«Ma dditeme un po’ sor Pavolo, ma er parlamento sta ppe’ ttutti li
paesi d’Itaja?»31
RIGHETTONE (ridendo) E questi sò l’elettori infruventi! E a ppensà che
a quer povero Callarelli je se sò mmagnate quarche diecina de mila lire.
TIRIRALLA Senza contacce che nemmanco ponno annà a vvotà pperché una mucchia hanno perso li dritti civili.
RIGHETTONE E quell’antro falloppone de Dentamaro?
TIRIRALLA E cquer fatigone de Bbuvatta?
RIGHETTONE Ah quello poi è unico ner genere! Volete ride? Quanto scommettemo che incora dorme?
CAFFETTIERE Non me farebbe specie.
TIRIRALLA Lui è quello de ll’Agro. Era quello che aveva d’annà in giro pe’ ttutte le vigne per annà a pportà a vvotà li vignaroli.
RIGHETTONE Già, ha ffatto come a l’elezzione der novanta ch’er
31
N.d.A.: storico.
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:
1. introduzione
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principe Descarchi32 jé mannò e’ llegno e llui se n’agnede co’ la famija
a ffà un pranzo a Frascati!
TIRIRALLA Questra è bbella!
RIGHETTONE Ve vojo fà ride. Aspettate un momento. (va a bussare
alla casa di Buvatta)
Di quando in quando qualche elettore va alla sezione a votare.
SCENA V
Vittoriona, alla fenestra, e Detti.
VITTORIONA Chi è? Ah ssei tu? E cche nnova?
RIGHETTONE Senti, Vittoriò: ttu’ marito indove sta?
VITTORIONA (ridendo) È uscito da ‘sta mmatina abbonora.
RIGHETTONE Mbè ttanto mejo; viè ggiù cché tt’ho dda parlà dde
premura.
VITTORIONA Quanto me metto er fazzolettone e scegno. (si ritira
chiudendo la fenestra)
RIGHETTONE (sedendosi) Mó sse famo du’ risate.
VITTORIONA (esce dalla porta di casa e siede vicino a Righettone)
Mbè cche nnovità?
RIGHETTONE T’ho fatto venì ggiù ppe’ ppagatte da bbeve. (glielo
versa)
VITTORIONA Mbè ccome vanno ‘ste lezzione?
RIGHETTONE Ce lo poteressi dì ttu, cche cciai tu’ marito che cce sta
i’mmezzo.
VITTORIONA Quer carcone33? Quello lassatelo sparà bbuvatte e ffatelo dormì, nun è bbono a antro.
RIGHETTONE Eh mma ‘sta vorta però ha ppreso bbone centinara de
lire...
VITTORIONA (con interesse) Ma vvattene! Sei sicuro che l’ha pprese?
Giusto te lo volevo venì a ddomannà. Ddavero?
RIGHETTONE Me possi diventà vveleno ‘sta gazzosa.
VITTORIONA Bbrutto bboja! e a mme mm’ha nnegato, nun solo che
nun ha ppreso manco un fanfulla, ma insinenta dieci lire pe’ ffamme
un straccetto d’abbito, che vvado come una pezzente.
32
33
Allusione al principe Odescalchi.
Pigro.
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introduzione
RIGHETTONE Invece l’ha ppresi, e ccome. Ma ‘sta vorta però se l’è
mmeritati perché, ppoveraccio, s’è ddato moto.
VITTORIONA Ma nu’ je date retta, nu’ je date; che nun ha ffatto un
passo.
TIRIRALLA E mmó a ssentì vvoi nun sarà ito manco a vvotà. Che linguaccia infame! ( fa d’occhio a Righettone)
VITTORIONA (offesa) Se sa cche nun c’è ito a vvotà. Si mme l’ha ddetto a mme cche llui nun c’è stato mai, perché nun è manco elettore.
RIGHETTONE (facendo d’occhio al caffettiere) Eh mmó ppoi tu ne dichi poche!
VITTORIONA Quanto me fate rabbia! Ne volete ‘na prova? Annate a
ccasa mia e vve n’accerterete. S’è arzato a mmezzoggiorno ha mmagnato e ppoi se ne è ariito a lletto.
RIGHETTONE (facendo d’occhio al caffettiere e a Tiriralla i quali ridono) (Che vve dicevo io?) A Vittoriò, mma intanto però li quatrini l’ha
ppresi e ccome! E si ttu nun sei bbona a llevajeli sei una gran carogna.
VITTORIONA Chi, io nun sò bbona? Eh mme possino scannamme,
si ‘sta sera lui me li nega, a ccasa cià dda core la patuja.
RIGHETTONE Brava! E ssi ssei bbona a llevajeli, domani te pago ‘n
llitro. ( fingono di parlare fra loro)
SCENA VI
Sputarosso e Dentamaro dalla sezione, s’ incontrano con Tomboni che viene
dalla destra.
SPUTAROSSO (scorgendo Tomboni) Eccola, va!
DENTAMARO V’aspettamio a bbraccia uperte.
TOMBONI (un po’ perplesso) Miei cari amici, ebbene come vanno le cose?
SPUTAROSSO Bbenone!
DENTAMARO Io sò ccontentone!
TOMBONI Come c’è stato concorso?
SPUTAROSSO Qui assai. Nun faceveno a ttempo a vvotà li elettori.
DENTAMARO Mó stanno facenno lo sgrutigno.
SPUTAROSSO Allora noi annamo a ssentì li primi arisurtati su ar Municipio.
DENTAMARO Alegro, avvocato, che ‘sta sera è festa.
SPUTAROSSO ‘Sta sera ve venimo a ppijà cqui cco’ li soni, sangueder-naso! (poi fra sé) (Si nun sei ariuscito vedi che ffugone che ppijo!)
DENTAMARO ( fra sé) (A mme puro me doveressi vede ppiù!) (si danno la mano)
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è
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TOMBONI
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Speriamo bene. (entra alla sezione)
Dentamaro e Sputarosso escono a sinistra.
SCENA VII
Crodovea, Crementina, tutte ben vestite entrano dalla destra e Detti
RIGHETTONE (quando Sputarosso e Dentamaro se ne sono andati) A
Tiriralla, hai visti li fatigoni? Ce doverebbero avé una pavura!
TIRIRALLA Si l’amico fa ffiasco, sai che ffugone che ppijeno!
CRODOVEA (entrando con Clementina dice a Vittoriona) Avete visto
gnente mi’ marito?
VITTORIONA Come va, eh Crodovera?
CRODOVEA Nun c’è mmale; aringrazziamm’Iddio. (si siede con Clementina) Bottega (al caffettiere), ce portate una bbottija de gazzosa?
CAFFETTIERE (entra e riesce con l’occorrente)
CREMENTINA (a Vittoriona) E vvoi, come state, commare?
VITTORIONA Eh sse strappa a la mejo a ddispetto de chi cce vorrebbe vede ignuda e cruda.
CRODOVEA Con chi l’avete?
VITTORIONA L’ho cco’ cquer boja de mi’ marito. Ma nun sapete
che mmi ha ffatto? ‘Sti ggiorni s’è gguadambiato un sacco de sòrdi, e a mme mm’ha nnegato dieci lire pe’ ffamme un straccetto de
abbito.
CRODOVEA Che ommini! Er mio, nun fo ppe’ ddillo, se li guadambia, è vvero, ma a nnoi nun ce fa amancà manco e’ llatte de la formica. È vvero, Crementina?
CREMENTINA A mme ieri m’ha ffatto un bell’abbito de lanetta, e
mm’ha comprato ‘st’orecchini che pporto a l’orecchia.
RIGHETTONE (a Tiriralla) (Tutto sangue de quer povero Callarelli!)
VITTORIONA Eh mma ‘sta sera, l’ho ggiurato. A ccasa cià dda córe
la patuja.
CRODOVEA (versando da bere a Vittoriona) Bevete, commare.
VITTORIONA Grazzie. Aspettate vostro marito?
CRODOVEA Sì, ‘sta mmatina, quann’è uscito, cià ddetto che je fussimo venute incontro che cce voleva portà a cena co’ llui.
VITTORIONA Questi se chiameno mariti! Io saranno dieci anni che
cco’ llui nun c’esco ppiù.
RIGHETTONE Subbito che ttu marito s’è ffatta la commare; se sa
cche a tte tt’ha mmesso in disponibbilità.
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introduzione
VITTORIONA E cchi vvòj che sse l’accatti quer cataprasmo? Quarcuna che vvoji fà ppeccato e ppenitenza.
CREMENTINA A mamma, io ggià mme sò stufata a stà cqui. Pperché
nun se n’annamo?
RIGHETTONE (a Clementina) Che avete dato l’appuntamento ar fritto34?
CREMENTINA (altera) L’ho ddato a cchi mme pare. Che ffate la spia?
SCENA VIII
Tetona e Detti
TETONA (entra dalla sinistra tutt’affannata e rivolge la parola a Righettone) Avete visto gnente quell’assassino de mi’ marito? Sò smontata
da’ llegno adesso. Ho ggirata tutta Roma sana e nun l’ho ttrovo. È
dda ‘sta mmatina che cquer boja m’ha ppiantata sola a bbottega... Si lo
trovo lo scanno.
RIGHETTONE Je volete fà una ruzza 35!
TETONA Dite la verità, l’avete visto?
RIGHETTONE L’ho incontrato ‘sta mmatina, in carozza che sse n’annava co’ ‘na bbella pacioccona, co’ ddu’ bbrocche che pareveno du’
palloni.
TETONA Eh, nun me farebbe specie! Lo so, lo so, che vva a ggattaccia;
ma ssi cce l’agguanto je metto l’ossa in d’una chicchera, je metto!...
Ma, vvia, su ddìteme la verità.
RIGHETTONE Nun possi ppiù vvede la faccia der padron de casa, si
vve dico bbucìa. L’ho incontrati che annaveno verso porta Angelica.
TETONA E ccom’era ‘sta puzzona?
RIGHETTONE Arta, grossa bionda co’ li capelli neri, bbassa tutta riccia senza un capello in testa...
TETONA Sì, ho ccapito! A vvoi ve va ssempre da ruzzà. Ve pare che
questo sia er momento?
CRODOVEA Ha raggione, poveraccia.
CREMENTINA Sete propio sguajato!
TETONA Dunque nu’ l’ha vvisto gnisuno? Sor Pavolo, (al caffettiere)
dìteme la verità vvoi, avete visto gnente Scarnicchia, l’oste, quer giovinotto rosso de capelli...?
CAFFETTIERE L’ho vvisto sicuro.
34
35
N. d. A.: all’amante.
Ripicca, dispetto.
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1. introduzione
375
TETONA E indove?
CAFFETTIERE Saranno quattr’ore bbone che è salito lì alla sezione in
compagnia de Sputarosso e Dentamaro. Lo dovrebbero avé ffatto del
seggio.
RIGHETTONE (Tommola!)
TETONA (infuriata) Indove è ito llassù?! (va per salire alla sezione)
RIGHETTONE (trattenendola) Per carità, nun ce provate che ssi annate a ffà una scenata llassù, ve porteno in catorbia 36.
TETONA (c. s.) Io nu’ l’ho ttanto co’ llui quanto co’ quelli quattro impiccioni imbrojoni che mme lo metteno su.
CRODOVEA (offesa) A cosa, co’ cchi ll’hai?
TETONA E che cciavete la coda de paja?!
CRODOVEA Eh sò un accidente che tte pija, me dai de l’imbrojone a
mmi’ marito!
RIGHETTONE (A ‘ste risate, presempio, nun ce facevo conto.)
TETONA E llui perché me disvia mi’ marito?
CREMENTINA Povero ciuco37, je lo disvia!
CRODOVEA (a Crementina) Tu nun t’impiccià.
TETONA Potrebbeno invece fà er testamento der burino che ddice:
«Bada a li morti tua.»
CRODOVEA E dde papà.
TETONA Accusì arisponneno tutte le puzzone pulite.
CRODOVEA Ma ttu ssarai una puzzona.
TETONA Ma io nun ciò la camicia sporca; mentre cert’antra ggente...
CRODOVEA Che cciai da dì dde me? Ddì? (andandole contro) Che
cciai da dì? Un accidente che tte scanna?
TETONA Ma mmagara! (minacciandola) T’avessi da crede ch’ho ppavura de te.
CRODOVEA E quanto stai? (si danno addosso e si accapigliano)
VITTORIONA, RIGHETTONE, CAFFETTIERE e CREMENTINA
(le dividono) Eh ffinimola!
Intanto è corsa gente alle fenestre di tutta la piazza e i bottegai si son fatti
sulle porte delle botteghe e si godono la scena.
TETONA Tirabbusciona! (si riattaccano)
CRODOVEA Zozzona!
36
37
Prigione.
Piccolo.
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introduzione
TETONA Pidocchiosa! (vengono divise)
CREMENTINA (a Tetona) Ahó mma la vòi finì dd’insurtà mi’ madre?!
TETONA E ttu cche cc’entri?
CREMENTINA C’entro, sicuro che cc’entro.
RIGHETTONE Sicuro che c’entra!
TETONA Io te posso dà una bbona pittinata.
CREMENTINA Te posso abbottà er grugno de cazzotti.
TETONA Nun sei bbona.
CREMENTINA Eh llà! (la sfida)
TETONA Eh su! (si attaccano si danno una scarica di pugni)
RIGHETTONE Finimola ‘sta cagnara! Là cche un ber gioco dura poco. (le divide)
CREMENTINA Si mm’aricapiti.
TETONA Te do e’ resto.
CREMENTINA Cimiciara!
TETONA Conocchia!
CRODOVEA (che si sta accomodando la chioma) Ma lassela perde, Crementina, ché cco’ ccerta ggente ce se perde de riputazione, ce se perde!
TETONA Intanto li cazzotti che tt’ho ddato nun te li leva gnisuno.
RIGHETTONE Eh mmica la piantano!
TIRIRALLA Eh mmica j’abbasta!
CRODOVEA Ce se sa mmette co’ ‘na cratura!
CREMENTINA Ma lassa che vvienghi mi’ padre!
TETONA Tu’ padre, me ce fa un baffo.
RIGHETTONE Ma insomma, la finimo o nu’ la finimo? Avete raggione tutt’e tre. Va bbene accusì?
VITTORIONA (che fino allora è stata semplice spettatrice) In certi casi
chi ha ppiù pprudenza l’addopra però.
RIGHETTONE Brava: mó mettétece bbocca puro voi!
VITTORIONA Sicuro! Apposta me fa specie de Tetona!
TETONA Che vve sete perso quarche sganassone? Puro voi?
VITTORIONA A cquer che ppare ‘sti sganassoni li vennete a uffa.
TETONA A cchi je rode.
RIGHETTONE Ah, ah! Cciarisemo.
VITTORIONA Eh ma la signorina si sbaja (ironica) perché a mme nun
me rode affatto.
TETONA Me pare de sì, chiacchieri tanto.
VITTORIONA Invece te doverebbe rode a tte.
RIGHETTONE Auffa, quant’è llonga!
TETONA Ma quanto scocci! (minacciosa)
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VITTORIONA Lallero! (ironica)
TETONA Ah sì?! (le dà addosso)
VITTORIONA Io mica sò Crementina, sa’?!
Si azzuffano e nella lotta buttano i tavolini del caffé, i sedili, ogni cosa.
CAFFETTIERE
(con le mani fra i capelli) Poveretto me sò arovinato!
SCENA IX
Scarnicchia, dalla Sezione, e Detti
SCARNICCHIA Ched’è, cch’è ssuccesso? (si fa largo tra la ggente e vede Tetona ridotta in quello stato) E ttu cche fai cqua bbrutta pettegola?
marcia subbito a ccasa, alò!
TETONA Tutto pe’ ccausa tua, bbrutto bboja!
SCARNICCHIA A mme bboja? Alò a ccasa! (la prende a calci e la fa
uscire fra le risate e qualche fischio)
Crodovea, Crementina, Vittoriona e Tiriralla escono dietro Scarnicchia e
Tetona.
RIGHETTONE (ridendo) E poi dicheno che ar teatro fanno ride. (entra nel caffé)
CAFFETTIERE Brutte pettegole, mi hanno rovinato. (mette ogni cosa
a posto e poi rientra)
Le fenestre si chiudono, i bottegai rientrano. La scena rimane vuota. Si fa
notte; i bbottegai accendono i lumi fuori le botteghe.
SCENA X
Buvatta, alla fenestra, e poi Righettone dal caffè
BUVATTA (osservando la piazza) Se ne sò iti tutti. Sarà mmejo a uscì.
(rientra e chiude la fenestra) (dalla porta di casa) Ah cche ddormita me
sò ffatta! (siede a un tavolo e grida) Un caffé!
CAFFETTIERE (di dentro) Viene!
BUVATTA Nun me sò mmai inteso bbene come oggi!
CAFFETTIERE (recando l’occorrente) Eccolo servito.
BUVATTA (si serve)
RIGHETTONE (dal caffé) Uh vvarda che sse vede!
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introduzione
BUVATTA E ttu bbona lana, che stavi a ffà?
RIGHETTONE Me sò mmesso a llegge el fojo.
CAFFETTIERE (fa occhio a Righettone e poi dice a Buvatta) Sarete stanco?
BUVATTA Le gamme nun me le sento più.
RIGHETTONE Ma sfido, uno che ha ddormito, dico, che ha camminato tutto er giorno!
CAFFETTIERE Sarà dda ‘sta mmatina che state in giro pe’ Roma?
BUVATTA Pe’ Roma? Magara! Ma invece è dda le tre e sino adesso che
ssò stato for de le porte.
RIGHETTONE (In sogno!)
CAFFETTIERE Ve compatisco. Sarete sfinito?
BUVATTA Morto addirittura! (caffettiere via)
SCENA XI
Tomboni e Detti
TOMBONI (esce dalla sezione) Uh, mio caro signor Buvatta, come va?
(si siede)
RIGHETTONE Sor avvocato!
TOMBONI Carissimo! (gli da la mano)
BUVATTA (cava subito un gran fazzoletto colorato e finge di asciugarsi il
sudore) Come se suda!
TOMBONI (a Buvatta) E cche nove abbiamo?
BUVATTA A le sezzione indove sò stato io, eccelente.
TOMBONI Molti elettori?
BUVATTA A mmijara! Ppiù dde 300 vignaroli ce l’avemo portati in
legno io e Falloppa.
RIGHETTONE (Senza quelli che cce sò iti da loro!)
TOMBONI E incidenti ce ne sono stati?
BUVATTA Quarcheduno. A la centunesima sezione...
TOMBONI Eh diavolo! direte alla undicesima.
BUVATTA Bravo, sí; all’undicesima: me sò sbajato. Ho ddato uno schiaffone a un prete che nun voleva che un amico mio ve votasse a vvoi.
TOMBONI Bravo!
RIGHETTONE Come ciavete arlevato uno schiaffo?
BUVATTA Ma je l’ho ddato io!
RIGHETTONE Ah mbè!
BUVATTA A la prima sezione...
TOMBONI (interrompendolo) Se m’hanno detto che alla prima il seggio non è stato costituito.
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n
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BUVATTA Avete raggione. Me so sbajato. Subbito che ‘sta sera nun ce
sto cco’ la testa. Volevo dì a la seconna sezione.
TOMBONI Ebbene?
BUVATTA Ho contrestato quattro schede de Pelacani perché ereno
scritte male.
TOMBONI Ottimamente.
RIGHETTONE Eh ddìteje un po’ quello che vv’è successo a l’ottava
sezione?
BUVATTA (perduto) Che mm’è ssuccesso?
RIGHETTONE Quer carcio ch’avete dato ar prisidente del seggio...
Che vve voleveno arestà...
BUVATTA (che suda dalla smania) Ah ah ah! Sì: nemmeno me n’aricordavo ppiù.
RIGHETTONE Eh mma io no. (A ogni elezzione je succedeno sempre
le stesse cose. Armeno cambiasse.)
TOMBONI Ma ssiete un vero terremoto.
BUVATTA Eh mma caro sor avvocato, si nun se fa accusì, nun se fa
gnente. Bisogna esse prepotenti.
RIGHETTONE E quanto doveressi esse stanco! Sei palido che ffai pena (invece è rosso: ha una faccia da ubriacone)
BUVATTA Ma sfido! me sò arzato, te dico, ‘sta mmatina a le dua e mme
so mmesso a ssede adesso. Sto cco’ ‘sto caffè.
TOMBONI Poverino!
RIGHETTONE (Che sfacciato!)
TOMBONI Ma sse riesco, come spero, non avrete a lagnarvi di me.
BUVATTA Lo credo, e cce conto!
RIGHETTONE (È mmejo che mme ne vadi via, sinnò lo pijo a schiaffi quant’è vvero Ddio!) (si alza)
Di dentro arrivano voci d’allegria.
TOMBONI
Cos’è?
SCENA XII
Sputarosso, Dentamaro, Tiriralla, Falloppa, Biastimella, Cordalenta, Panzella, Panzabbotta, Crodovera, Crementina, Vittoriona e Detti, seguiti da
quattro o cinque suonatori e da molto popolo: alcuni porteranno degli enormi
fiaschi a colori inastati, sui quali è scritto a grossi caratteri: «A. Setacci» «A
Pelacani» ecc. Le fenestre e le botteghe son piene di gente.
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SPUTAROSSO (entrando per il primo abbraccia e bacia Tomboni) Vittoria, sangue-der-naso!
DENTAMARO (c. s.) Vittoria!
TOMBONI ( fuor di sé) Sia lode al cielo e alle vostre onorate fatiche!
BUVATTA (abbracciando e baciando Tomboni) Lo dicevo io, ciaverebbe
scommesso mille scudi che ariusciva!
SPUTAROSSO Io nun capo in de li panni!
BUVATTA Avemo faticato, se semo ammazzati, è vvero! Ma la sodisfazione è granne!
TOMBONI (distribuendo strette di mano e abbracci) Grazie, grazie, amici!
SPUTAROSSO Viva l’on. Tomboni!
TUTTI Viva!
DENTAMARO Viva er deputato der seconno colleggio!
TUTTI Viva!
SPUTAROSSO Viva er deputato der popolo!
TUTTI Viva!
DENTAMARO Viva, l’on. Tomboni deputato democratico!
TUTTI Viva!
SPUTAROSSO (al maestro della sminfia38) Musica, sor Peloso.
I musicanti suonano fra le grida dei dimostranti.
DENTAMARO Zitti, che’ parla er deputato.
TUTTI Zitti!
TOMBONI (monta sopra una sedia del caffè, impone silenzio e dice con
forza) Elettori del secondo collegio di Roma. Non vi allarmate. Io non
vi minaccio un discorso. Qui non siete venuti per ascoltarmi, ma per
fare una solenne affermazione. E quale, o signori, quale più grande
affermazione della vostra presenza qui, voi che rappresentate tutto
quello che il paese offre di più eletto, di più intelligente, di più patriottico? Io però sento il dovere di fare un voto di ringraziamento oltre che a voi, o signori, anche al partito nero il quale con le sue provocazioni, rese oggi possibile l’attuazione di un grave fatto politico, la
elezione di tutti uomini come me, provati e liberali, i quali sono riuniti in un solo concetto: Guerra a chiunque farà guerra alla libertà!...
TUTTI Viva la libertà!
TOMBONI (c. s.) La concordia di oggi, o signori, è un gran bene, ma
38
Ma sminfa: musica strimpellata alla buona; e non sminfia: ragazza pretenziosa, avvenente.
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acciò che questo bene divenga duraturo, sarebbe mio vivo, mio grande desiderio che il fatto d’oggi, o signori, divenisse permanente...
TUTTI Viva l’on. Tomboni! Viva el deputato liberale! Viva l’amico del
popolo!
La confusione è al colmo; e fra le grida di viva alcuni, i capi, si caricano sulle spalle Tomboni e seguiti dai suoni e dai gridi lo portano in trionfo.
Musica.
RIGHETTONE (dice al caffettiere) Sempre accusì. Chi ppiù sporca la
fa ddiventa priore!39
Cala la tela
39
Annotato a margine: «si può omettere questa battuta».
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ACCIDENTI A LA PRESCIA!
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare a stampa (Misc. B.372) conservato nella
BA: Nelle Fauste Nozze della gentile signorina Olga De’ Gregori con l’egregio amico signore Augusto Andreoni Giggi Zanazzo bene augurando Offre
24 Ottobre 1898 [Titolo a pag. 1] Accidenti a la prescia! Roma, Officina
Tipografica A. Cerroni Santa Maria in Via 3 e 4 Roma.
Interventi a penna autografi:
– sulla copertina: «Accidenti a la prescia! scenetta in dialetto Romanesco».
– sul verso del frontespizio, in corrispondenza della tavola dei personaggi,
sono aggiunti, nell’ordine, i nomi delle attrici: «Signora Trucchi Giulia,
[Signora] Franchi»;
– le didascalie sono sottolineate, perché erroneamente stampate in tondo
invece che in corsivo;
– correzioni nell’ultima battuta (vedi nota 2).
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introduzione
Personaggi
BARBERA
due serve o donne di casa anziane
MITIRDE }
CRESCENZIO droghiere
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SCENA UNICA
Una piazzetta. A destra la drogheria del sor Crescenzio, a sinistra altri negozi. È giorno.
Barbera e Mitirde, poi Crescenzio
BARBERA (con la sporta colma ed altri impicci, il mazzetto della trippa
compreso, esce dalla bottega del sor Crescenzio e s’ imbatte in Mitirde, anch’essa con la sporta che va attorno a far la spesa. Crescenzio si mette sulla porta a fumare tranquillamente)
MITIRDE ( frettolosissima senza fermarsi) Uh sora Barbera! State bbene? Io vado de prescia se vediamo.
BARBERA (c. s.) Io puro ‘sta mmatina ciò l’argento vivo sotto li piedi.
La prescia d’annà me se divora. Se vederemo con mmijor commido.
Addio... (sempre camminando)
MITIRDE (c. s.) La salute ggià se vede?
BARBERA (c. s.) Nun c’è mmale, grazzie. Voi puro state benone? Addio.
MITIRDE (c. s.) Se vedemo... Un saluto a vostra cognata.
BARBERA (sostando) A quela pettegola?
MITIRDE (c. s.) Come sarebbe?
BARBERA (c. s.) Ma dunque nun sapete gnente?
MITIRDE (c. s.) Me possi cecà.
BARBERA (c. s.) M’arincresce che ho pprescia oggi, ma nun m’ammancherà modo da informavve de tutto. (in atto di camminare)
MITIRDE (c. s.) Che me dite! Io casco da le nuvole. Erivio du’ sorelle...
BARBERA (c. s.) Si ssapessivo!
MITIRDE Eppuro nu’ la credevo donna de cattiva azione!
BARBERA (avvicinandosi) No? Beata voi!
MITIRDE (c. s.) Ma ddunque l’ha ffatta propio grossa?
BARBERA (dimenticando la fretta, posa gli impicci a terra, e si mette le
mani sui fianchi) Grossa? v’abbasti a ddì che fra dde noi ce cure ‘na
quarela.
MITIRDE Saémmole! Una quarela?
BARBERA Una quarela! Capite? Doppo che l’ho ttirata su a mmollica a mmollica, annamme a mmette male co’ la madre de lui, cor
dije che io m’ero azzardata d’annà ddicenno che quelli pochi sordi
che lei s’è mmessi da parte (posando in terra la sporta e accalorando-
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si di più) l’ha ffatti, gnentedemeno! cor fà la rucca-rucca1 ar tempo
de li francesi!
MITIRDE (interessandosi maggiormente) Acciderba che llingua sacriliga. Dice bbene er proverbbio: «Nun fà mmai bbene che nun averai
mai male.»
Crescenzio rientra in bottega.
BARBERA Ve potete immagginà, fìnché nun furno appurate le cose,
la vecchia co’ cche mmutria che mme stava! Un giorno a mmomenti
facemio a ccapelli! E ppoi, e ppoi, le collere co’ llui, l’insurti, le pene...
le pene! Abbasta quello ch’ho ppassato io in queli ggiorni, nun ve ne
curate de sapello. Nu’ lo possino provà nnemmanco li cani! (raccogliendo la sporta) Questo nun è gnente poi; v’avessi d’ariccontà tutto!...
M’arincresce che oggi ho propio pprescia! Ma nun m’amancherà mmodo. Se vedemo. (per andare)
MITIRDE Eh la lingua, sora Barbera mia, nun cià ll’osso e rompe l’osso... Abbasta io puro ciò ‘na prescia maledetta. Ciò l’esattore che
mm’aspetta a ccasa pe’ ppijà la piggione. Saranno le otto? Stateve
bbene. (allontanandosi in fretta)
BARBERA (allontanandosi anch’essa) Se vediamo. (poi rivolgendosi) A
preposito e un saluto a Spiridione.
MITIRDE ( fermandosi) Si vvall’a ripija!
BARBERA (c. s. meravigliata) Me bburlate?
MITIRDE (c. s.) È vvangelo!
BARBERA (avvicinandosi con interesse) Ma ccome nun dovevio sposà
ppe’ ccarnovale?!
MITIRDE (c. s.) Tanto vero che ggià avemio fatto le spubbricazzione
in Chiesa...
BARBERA (c. s.) E ccom’è ita?
MITIRDE (c. s.) M’arioprite una gran piaga, m’arioprite!
BARBERA (c. s.) Oh vvarda er diavolo! E ccom’è stato?
MITIRDE (c. s.) È stato... è stato... che llui ciaveva moje!
BARBERA Spiridione?!
MITIRDE Spiridione!
BARBERA Ah bboja d’un Spiridionaccio! Tutti lo stesso ‘st’omminacci
porchi!
1
Voce eufemistica, parafonica per ruffiana, mezzana.
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e
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CRESCENZIO (viene sulla porta, osserva le donne e ride)
MITIRDE Tutti!... ‘Na diecina de giorni prima de lo sposalizzio incivile, m’abbussa er postino. M’affaccio; dico chi è? Dice: una lettra
per Mitirda Nasca. Abbasta, scegno, pijo la lettra, me la vado a ffà
llegge dar computista der macellaro. Azzeccàtece un po’? Ched’è e
cche nun è, era ‘na lettra armonica indove la quale uno che se segnava N. N. me scriveva accusi, accusi, accusì. Insomma che llui ciaveva
moje, fiji, e... e’ resto!
Eh vve potete immagginà io, sora Barbera mia; si nun morsi d’accidente fu un miracolo. (posando in tera la sporta) Ecchete che llui la
sera co’ ‘na faccia de bbajocconi da cinque, siconno er solito, me s’appresenta tutto lillero. Io (mettendosi le mani sui fianchi) de punto in
bianco je fo: M’ha scritto tu’ moje, te saluta tanto.
BARBERA Che ssangue freddo! Io l’averebbe scannato! Dite, dite. (con
interesse)
MITIRDE Lui a quanto diventò bbianco come u’ mmorto, e nun c’ebbe corata de risponnemme nemmanco: ‘a’. Infilò er portone e... incora fugge!
BARBERA (c. s.) Che mme dite!
MITIRDE Abbasta llì pe’ llì, io co’ lo spido, mi’ sorella co’ la scopa,
mi’ madre co’ lo stennarello, je curessimo appresso, ma sì vvall’a ripijà! ciaveva l’ala a li piedi!
BARBERA Eh ddice bbene er proverbio: «Moje e bbovi de li paesi tovi!» De che nnazzione era, a ppreposito?
MITIRDE Era, lo possino scansallo, Cicijano de Catagna.
BARBERA Ggià ggente forestiera e ttant’abbasta. A ppreposito e io me ne
sto qui, in santa pace?! (raccogliendo la sporta) se vedemo... (per andare)
MITIRDE (c. s.) Avete capito che disallusione? Pe’ mme è stato er corpo finale. Era er dodicesimo lui che mme la faceva! D’allora in poi io
nun sò stata ppiù io!
BARBERA Eh sse vede!... Abbasta, ‘sta vorta propio salutamese pe’
ddavero. Io vado...
MITIRDE Io puro. Se vedemo. (allontanandosi tutt’e due in fretta) A
preposito, sora Barbera, sora Barbera...
BARBERA (voltandosi) Dite presto...
MITIRDE (avvicinandosele) Per carità, sapete a chiunque ve lo domannasse, nu’ je state addì gnente, veh?
BARBERA De che? Me fa specie, me fa.
MITIRDE Capirete doppo quela canzonatura a ffasse puro ride dedietro a le spalle c’è sempre tempo.
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introduzione
BARBERA (ritornando) Eppuro, eppuro. Io ciavevo dato che quello ve
canzonava...
MITIRDE Ma annate!
BARBERA Annate? m’arincresce che oggi ho pprescia; ma un’antra vorta che cciò un’ora disponibbile ve lo dico.
MITIRDE E ccome avete fatto?
BARBERA A mme? a mme m’abbasta un atto, una guardata...
MITIRDE Ma ggià quanno le cose sò successe tutti le sapevano tutti
le sanno!
BARBERA (avvicinandosi di nuovo a Matilde, offesa) E vvoi nun ce credete! V’aricordate de quer giorno che annassimo assieme co’ vvostra
madre e Spiridione in Prati, a ffà mmerenna, all’osteria?
MITIRDE Embè, embè? (con interesse)
BARBERA Embè, lui, er sor Spiridione, capite, intanto che vvoi v’inchinavio pe’ ppijà le forchettate d’insalata, de sopra a la testa vostra,
ce partiva cor famme l’occhietto...
MITIRDE Bbrutto bboja!
BARBERA ‘Gni tantino, de sotto ar tavolino, me toccava cor piede suo
la gamma...
MITIRDE Brutto bboja!
BARBERA M’acciaccava er detone der piede...
MITIRDE Brutto assassino!
BARBERA Me dava li pizzichi ar... se capimo!
MITIRDE (ingelosita) Eh mma, dico puro voi!
BARBERA Che cc’è?
MITIRDE Stavve zzitta!
BARBERA V’avevo da compromette?
MITIRDE Chi nun parla, acconsente.
BARBERA Eh ssete matta! Er ppezzo era bello.
MITIRDE Sempre mejo der vostro.
BARBERA (scanzonata) No, ssapè?
MITIRDE A vvoi, però ccome amica, ve stava d’avvisammelo.
BARBERA Ve lo volevo avvertì; ma poi stassimo tanto tempo senza vedesse, e mme se levò dda la testa.
MITIRDE Scuse magre... Abbasta mò quer ch’è stato è stato e nun ce
pensamo ppiù... Che vve sete presa collera?
BARBERA Io? Me conoscete poco.
MITIRDE Però l’ommini a mme nu’ mme la fanno ppiù.
BARBERA Sinnò bbisogna stacce co’ ll’occhi aperti come du’ lenterne,
come fo io.
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i
o
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MITIRDE Io ciò ffatto tanto de crocione!
BARBERA Che assassini!
MITIRDE Che ccani!
CRESCENZIO (entra in bbottega e ne riesce subbito portando seco due
sedie. Si avvicina alle due donne dicendo loro) A vvoi, spose, metteteve
a ssedé, fateme er piacere. So ddu’ ore che vve vedo discore in piedi e
mme fate propio pena.
BARBERA Du’ ore?!
(meravigliate)
MITIRDE Du’ ore?!
BARBERA È vvero va, e a mme cche la prescia me se divora?
MITIRDE E a mme ppaja. Ch’or’è?
CRESCENZIO Mezzoggiorno!
BARBERA Furmini e saette! se vedemo. ( fugge a destra)
MITIRDE Poveretta me! Addio! ( fugge a sinistra)
Pausa.
CRESCENZIO (appoggiato alle du’ sedie, dopo aver veduto fuggire le due
donnette dice 2) Pe’ ffurtuna che annaveno de fretta! Che la prescia se
le divorava! sinnò oggi qui, cce faceveno la muffa! (rientra ridendo in
bottega) Accidenti a la prescia!
Cala il sipario
2
Aggiunto a penna qui di seguito: «scoppiando dal ridere». Cancellata da qui, con tratti
di penna, l’intera battuta fino alla didascalia seguente.
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ER PIZZARDONE AVVILITO
Monologo in dialetto romanesco
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA, Ms 2414. Un quaderno di 6 c., compreso tra 2 carte di guardia, composto da 3 fogli tipo protocollo di diverse dimensioni (mm 321x220) (325x220) (333x220), recanti il marchio, cancellato a penna, del Ministero della Pubblica Istruzione.
Cc. 338-343: le ultime 2 bianche.
Calligrafia autografa.
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MONOLOGO
La scena rappresenta una strada qualunque del Trastevere. A sinistra dell’attore un portoncino praticabile
ER PIZZARDONE (vestito in bassa tenuta, con una borsa di pelle a tracolla, con in mano un lapis e un libretto di ricevute. Uscirà dal portoncino a sinistra)
(imitando la voce di una ragazzina) «Mamma, er monnezzaro è vvienuto
a cchiede li sòrdi de la monnezza! Mamma ha bbussato er monnezzaro!...»
Ecco l’insurti che ss’avemo da ignottì da quanno cianno fatto er piacere
de dacce ‘sta ‘mmazzata mensione d’andà a riscote la tassa de la nettezza
urbana!... Ma ccome, dico io, ma ccome, in d’una Roma un milite che
ss’arispetta, s’ha dda sentì, da la mmatina a la sera, dà del monnezzaro a
ttutto spiano?!... Io nun so qui indove anneremo a ffinì!... Io nun so cche
ne penseno ‘sti nostri communisti de la... Mó la dicevo grossa, la dicevo!... Dice ( facendo l’occhietto): «Ma quarche filetto, l’arimediate sempre».
Ma cche filetto? Si levi quello de godette, quarche vorta, quarche bber
pezzo de... Marcantogna che tte tocca la mano ner datte li sordi!... Come
si a Roma li pezzi de... Marcantogne fussero rari! Ce ne sò a mmijara!...
(pausa)... Tutte le speranze nostre staveno su ’sto magno reggio commissionario. Speramio che cco ‘sto reggio commissionario ‘sta jella finisse
una bbona vorta; speriamo che ‘sto bbenedetto commissionario se mettesse in de li nostri panni e ddicesse: (con autorità) «Abbasta oramai ‘sta
storia, che smoralizza tutta un’arma bbenemerita de la città; abbasta ‘sta
canizza!» Ma mmanco pe’ ‘na picchia!... Loro hanno da pensà ar carmiere;
hanno da pensà a sfrattare da la città ‘ste du’ povere vacche che, doppo
tutto, nun danno fastidio a gnisuno... A ccresce el dispendio a li monnezzari e a li scopatori!... Ecco sì a cche hanno da pensà!... Da pensà a
pperde er tempo inconcrudente!... Ma a nnoi, a li poveri militi municipali, a ll’arma ppiù bbenemerita de le bbenemerite de la città, de carta
che cce penseno!... E ppoi si famo valé li nostri dritti, si ffamo sciopero,
ce spuzzeno dar corpo!... Nun sò bboni antro che a commandacce servizzi de piantone de qua, parate de llà... Tutte cose che cce fanno pijà in
odio dar fiore de la popolazzione... (cambiando tono di voce) Abbasterebbeno li soli carettieri, e li vetturini, che cce vonno tanto bbene, che er
minimo scherzo che cce farebbeno sarebbe quello de mettecce, a uno per
uno, un déto in bocca e un antro vicisverza e cce porterebbeno in giro pe’
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introduzione
mmanicotti... (pausa, cambiando tono di voce) E nnotate, che io de tutti
li municipali, sò er milite er più ppacioso e er ppiù Giggi1 che sse possi
trovà!... Ce credete? In trenta anni che pporto addosso ‘st’onorata indivisa, nun me la sò mmai ammacchiata d’un ètte de... gnente... (ridendo) Accezzione de quarche macchia de vino; perché ddico la verità, er vino me
piace forte... E a cchi nun piace er vino?... (cambiando tono di voce) E si
oggi me sò ppermesso de favve ‘sto sfogo a quattr’occhi, è pperché so cco’
cchi parlo... si nnò dda la bbocca mia nun ce se pija pesce, nun ce se pija!...
E ssi ppoi me ciariscallo un tantino er... diciamo sangue, ce credete? mica
è ppe’ la mi’ persona, mica è p’er l’individuvo mio, aibbò! (riscaldandosi
gradatamente) È ppe’ l’onore de la indivisa, è ppe’ l’onore der corpo! De
tutto er corpo sano, de tutti li militi municipali, la quale sta in d’un modo accusì avvilito, in d’un modo accusì bbuttato ggiù, che ssi ddomani,
puta er caso, uno ce strufina un tantinello, pijamo tutti quanti foco come
la capoccia de li prosperi!... (toccandosi la sciabola) E allora, chi lo sa?!...
Abbasta: siccome dicheno tutti che ‘sto signor reggio commissionario,
bontà sua, è una persona tanta a la mano, tanta de bbon core, si li mi’
compagni me danno udienza a mme, la pappa è ffatta! Ciavemo d’annà
in commissione cor un bravo pappié, indove la quale ce deveno esse aridunati tutti li bbisogni der corpo... Si ppoi li mi’ compagni nu’ ne vonno
sapé dde commissione, ah tte la pianto! Sò ccapace, sò, dde presentammece io solo, e dde dije: «Me la saluta, ‘sta puzzonata d’annà a riscote?»...
(rivolgendosi a un tale del pubblico che riderà sgangheratamente)
E cche ccapischi che io nun sarebbe bbono de presentamme puro davanti a
un soprano, e cco’ la fronte arta, dije: «Questa per san Mucchione, è una
inconcrudenza2 che per l’onore del corpo alla quale appartengo, bisogna che
ccessi! E ssi nun cessi, suono pronto seduta distante di mettervi in mano le
mie dimensioni.3» (sempre a quel tale del pubblico) Eh nun me mette sur
punto, ché ttu ppoco me conoschi!... (pausa) (rivolto al pubblico) Indove ero
arimasto?... Ah! a le mie dimensioni... (pausa. Si gratta il capo) Già, ddico
bbene, già ma ddoppo, quanno je lo [l’ho] date, come se magna? Come se
sbatte la scucchia?... (pausa) Ma ssò ppoco Ggiggi a ppijàmmene tanto! È
mmejo a nun impicciasse: nun dico bbene? Nun ho raggione? Come se dice: chi vvò Tturchi se l’ammazzi!... (ridendo) Abbasta: nun ce pensamo: annàmmesene a riscote ‘st’antre du’ bbollette, pe’ ssentisse dì a ‘gni scampanellata: (imitando la voce) «Mamma, ecco er monnezzaro!»
1
N. d. A.: cioè a dire il più cretino.
N. d. A.: incongruenza.
3
N. d. A.: dimissioni.
2
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LA FAMIGLIA DE LA CANTANTE
Scene della borghesia romana, in tre atti
e
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. Un quaderno di 40 cc. (mm 332x215), composto da 20 fogli tipo protocollo recanti il marchio, cancellato a penna, del Ministero della Pubblica Istruzione.
Cc. 288-327: bianche le cc. 296-297, 315. La c. 297 è tagliata a metà longitudinalmente.
Testo incolonnato a destra.
Calligrafia autografa.
Nel faldone è presente un’altra stesura legata immediatamente prima: un
quaderno di 30 cc., composto da 15 fogli dello stesso formato e caratteristiche del precedente. I due quaderni sono raccolti tra due carte di guardia: cc.256 e 328.
Cc. 257-287: bianche le ultime due cc.
A c. 258r: «Epoca presente. Dal II al III atto corrono quattro o cinque
anni»; a c. 269r, in alto a sinistra, a matita: «La famiglia de la Cantante»;
a c. 285v: «Aprile 1902».
Testo incolonnato a destra.
Calligrafia autografa.
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Personaggi
NENA moglie di Paolo
BICE loro figlia
AGHETA la saputa
TETARELLA donna di casa di Mena
PAOLO barbiere
CESARE suggeritore
GREGORIO amante di Bice
TADDEO suonatore di corno
PROCOPIO maestro di musica
CAVALIER CANTINI celebre tenore
POMPILIO giornalista
IL MARITO della Prima Donna
TORCOLO pizzicagnolo, avventore
Un ragazzo di bottega
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età anni 50
“ “ 20
“ “ 55
“ “ 18
“ “ 60
“ “ 35
“ “ 25
“ “ 40
“ “ 50
“ “ 30
“ “ 35
“ “ 40
“ “ 45
“ “ 15
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ATTO I
Una modesta bottega di barbiere. Specchi, poltrone e tutto l’occorrente
all’arte del barbiere. In fondo una porta a vetri che dà sulla strada. A destra una porticina coperta da una portiera che si suppone conduca alla
sovrapposta casa del barbiere.
SCENA I
Paolo, cavaliere Cantini, Torcolo,
Marito della prima donna, Cesare suggeritore
Al levarsi della tela, Torcolo sarà seduto sulla poltrona in attesa di farsi radere la barba. Il cavaliere Cantini in pelliccia e le mani piene di brillanti
seduto leggerà attentamente un libro, facendo ogni tanto una risata ironica
e un atto di diniego. Il Marito della prima donna con tutte le tasche gonfie
di giornali in grande pelliccia e le mani cariche di brillanti, anch’egli seduto
leggerà un giornale. Paolo si accinge a servire Torcolo ma, preoccupato dai
discorsi degli altri personaggi, non vi si raccapezza, Cesare è seduto vicino al
Marito e fuma.
TORCOLO (avrà un pancione di smisurata grandezza, un beretto in testa, e sarà sucido come un pizzicagnolo. Allorché Paolo tutto compreso
dell’arte lo lascerà per parlare cogli altri, egli sonnecchierà) Sbrighete,
ch’ho pprescia.
PAOLO Èccome subbito.
TORCOLO È un’ora che me dichi: èccome; e nu’ te movi. (sonnecchia)
PAOLO (mettendogli l’asciugamani) Ecco fatto.
MARITO (ridendo) Ah, ah questi giornali nun si ponno più leggere.
Portare alle stelle quella cagna sfiatata della Ronchetti! Ma allora che
cosa si dovrebbe dire di mia moglie? Che artista subblime! Quando
stavamo a Pietrobburgo...
CESARE Quando, la prima volta?
MARITO No, la decima. (mostrando un ritratto che cava dalla tasca del
soprabito) Ecco il ritratto di mia moglie.
TUTTI (se lo passano di mano in mano, lo guardano ed esclamano per
complimento) Bella!
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CESARE ( fra sé) (Ossa ettenercosse1: vera Stuppini de nome e de fatti!)
MARITO Dunque quando, come dicevo, eravamo a Pietrobburgo...
(seguita a parlar piano con Cesare, il quale farà atti di gran meraviglia)
TORCOLO (piano a Paolo) Ma chi è quel marco2? (accenna al Marito ecc.)
PAOLO Ché nu’ lo conoscete? Quello è el marito de la celebre Stuppini la prima donna che indove è stata ha rivoltato el mondo. Successi
strepitosi! (insapona la faccia a Torcolo) Lui però nun canta...
CANTINI Ma quante minchionerie fanno dire a quel povero Dante!
Questi commentatori sò uno più bestia dell’altro. Ma se Dio me darà
vita, lascia che mi ritiri dall’arte, e poi io lo commenterò, come mai
nessuno l’ha saputo fare fino a oggi.
PAOLO (lasciando Torcolo) Eh farà bene, cavajere, farà benissimo. Una
cosa fatta da lei nun pò che riuscì subblime. È molto che cce studia
su la Divina Commedia?
CANTINI Dall’ultimo mio viaggio che feci a Lisbona dove ottenni quel
successo colossale che tutti sanno... me ricordo che da la sorella del re
l’ultima sera, nun me ne potevo liberare...
MARITO Come a noi a Mosca l’anno passato. Cantammo così bene,
che l’arciduca Sciupaloffe cugino dello zar era lì lì per impazzire, nun
me voleva abbraccicare mia moglie per forza? Tanto che me convenne
a diglie co’ le bone, che era tempo de finirla. Era delirante. Ma sfido,
con un’artista come mia moglie!
CESARE Eh cce ne sò poche!
PAOLO Doppo la Patti3, io credo...
TORCOLO Ma je la fai?
PAOLO Vengo. (e non si muove)
CANTINI Sicuro è bravissima. Io pure un altro gran successo lo ebbi
a Novejorche...
MARITO Noi pure a Novejorche... (cavando giornali)
CANTINI A Cicago, invece... (stizzito di quelle interruzioni)
MARITO A Cicago pure noi. (mostrando altri giornali)
CANTINI A Barcellona poi... (freme per le interruzioni del Marito, ecc.)
MARITO Anche noi, successi immensi a Barcellona, Valparaiso, Bonossarias, Boston, Patagonia, Cirenaica, San Francisco, Montevideo,
California, Alessandria d’Egitto...
1
Storpiatura delle parole del Pater noster: et ne nos inducas in tentationem.
Marca o marco, dal nome proprio Marco: per indicare genericamente una persona.
3
Il riferimento è al celebre soprano Adelina Patti (1843-1919).
2
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)
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PAOLO Tutti paesetti de qui intorno! Ah l’arte che bbella cosa! E pensare che pure noi presto averemo una furtuna simile!
MARITO Ah già co’ la vostra Bice. A quando il debbutto?
PAOLO Fra ggiorni al Quirino. Anzi adesso sò andati da l’impresario
a sentire quando sarà...
MARITO (con disprezzo) Al Quirino?
CANTINI Con che opera?
PAOLO Nel Trovatore4... Eh quella figlia mia cià un grande avvenire.
Me lo dicheno tutti. Peccato che Toto, el gran Toto, stia a Pietrobburgo; si no bastava che quell’amicone me j’avesse dato un’attastata e poi
ero sicuro de la profezzia!
CESARE Eh promette bene assai! ( fra sé) (Si nun se guasta nel cresce!)
PAOLO Promette?! Ma si ttanto me dà ttanto, de quella figlia mia ne
faremo un’altra Pattarella5! ( fregandosi le mani)
CESARE (da sé) (Giusto patatèlla!)
TORCOLO Ahó ma la pianti?! Me la fai o nun me la fai ‘sta bbarba?
PAOLO (ritornando in sé si avvicina a Torcolo) Èccome.
TORCOLO Accidente a tte e a la musica! (sonnecchia)
SCENA II
Detti, Gregorio
GREGORIO (entrerà dalla porticina a destra. Avrà l’aria triste) Sor Paolo, ma Bice dove è andata? Quando tornerà?
PAOLO A momenti.
GREGORIO È un’ora e più che l’aspetto... Sapete gnente dove potrebbe trovalla?
PAOLO Io nun ve lo saprebbe dì. È uscita un momento con Nena...
GREGORIO (agitato percorre a grandi passi la bottega, dice fra sé) Nun
ce se trova mai! E nun posso mai sapé se dove diavolo va!
PAOLO (a Gregorio) Accommodateve un momento; ché staranno minuti a ritornà.
GREGORIO (alzando le spalle) Macché!...
PAOLO Allora fate come ve pare!
GREGORIO È meglio che glie vadi incontro.
PAOLO Si tirate dritto p’el Corso, le incontrate de sicuro.
4
Precedente lezione: «Cor Rui-Blasse». Riferimento a una delle tre opere liriche tratte
da Ruy Blas, pièce teatrale di Victor Hugo.
5
Allude di nuovo ad Adelina Patti.
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GREGORIO (piano) E me vò dà a intendere che nun sa dove sò andate! (esce dalla vetrina)
CESARE Povero colleggiale!
PAOLO La gelosia se lo divora. Nun vorebbe che Bice vadi sul teatro.
Ma eh che pretensione?
MARITO Ma mandatelo a spasso. La donna che abbracci l’arte deve
essere libera. Mia moglie, a Brussellese...
CANTINI Dice bene. Libera, senza impegni, senza impedimenti, senza famiglia. (canta)
Sempre libera degg’io
Folleggiar di gioia in gioia!...
MARITO Apposta io di figli, nun ne ho voluto sapere. Me ricordo che
a Londra, una staggione...
PAOLO Veramente sarebbe un bon partito perché è figlio d’un oste padronale, ma...
CANTINI (declamando) «Libertà... libbertà, vò cercando ch’è sì ccara!»
Dice l’Ariosto.
CESARE Ma allora perché nun ciavete el coraggio de diglielo?
PAOLO Ah, io nun m’impiccio. Pe’ ste cose ce pensa Nena ch’è ppiù
adatta... E quando sarà el momento penserà lei a darglie lo scaccione.
CESARE (piano) Doppo che glie se sò mangiati una spalla!
MARITO Ma che cos’è un oste, sia pure padronale, a petto dei guadagni, delle risorse, de le gioie che ci procura l’arte? Noi, presempio, ne
sappiamo qualche cosa. Mia moglie a Barcellona, in una sera sola si
guadagnò ventimila lire, e io il cavalierato dell’ordine di Cristo!
CESARE ( fra sé) (Povero Cristo!)
CANTINI Io in una stagione nell’America del Nord centomila! L’anno
successivo a Monaco...
MARITO Nun mi parli de Monaco! Ce facemmo una staggione io e
mia moglie, straordinaria. Ritornammo carichi d’oro...
PAOLO ( fuori di sé dalla gioia) Me sa mille anni da buttà per aria el
rasore e da mandà al diavolo la bottega, el sapone, la codétta!
CANTINI E poi le avventure galanti che nun si conteno! Io, ma io, me
ne posso contare più di mille che ne ho avute. Reggine, figlie di sovrani, principesse, duchesse, marchese, contesse, baronesse.
CESARE (fra sé) (Lavannare, stracciarole!... Pì pì: è un mare a casa mia
quando ce piove!)
PAOLO (che li sta ad udire estasiato e trascura Torcolo il quale dorme)
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Bisognerebbe avecce lo stommico, esse ommini de ferro! Peccato ch’io
sò vecchio!
MARITO (sorridendo) Verità sacrosante! Io stesso, con tutto che ho una
moglie, la sera dopo un successo, non mi posso liberare dalle signore:
tutte mi vorebbero... A Montevideo presempio una staggione...
CESARE (ironicamente alzandosi va alla porta e la spalanca) Paolo mio,
si qui nun fai entrà un po’ dd’aria, se schiatta dal gran caldo. ( fra sé)
(Le dicheno tante grosse che nun ce n’entreno più!)
TORCOLO (la faccia insaponata, russa che è un piacere)
CANTINI (si alza e va a richiudere la vetrina.) Per carità ché già sono
raffreddato!... Siccome poi aspetto da un momento all’altro un telegramma dal Cairo!...
SCENA III
Detti, Taddeo, Procopio (dal fondo)
PROCOPIO (salutando) Signori, li miei rispetti.
MARITO Ciao, maestro! (con aria di protezione)
CANTINI (c. s.) Maestro, evviva!
CESARE Professore, bongiorno!
PROCOPIO (a Paolo) E Bicetta?
PAOLO È uscita con Nena. Sò andate a sentì dall’impresario, quando
glie tocca finalmente!
PROCOPIO Lo sapevo; apposta, dirò così per dire, sono venuto.
TADDEO Io lo stesso. (salutando famigliarmente Paolo) Come stai Paolo mio?
PAOLO (c. s.) Benone, caro sonatore de corno, e tu?
TADDEO Senza chiave in do6. (poi saluta Cesare e si siede vicino a lui)
Mentre Paolo, Marito, Procopio, Cantini fingono di proseguire il discorso fra
loro, Cesare e Taddeo dicono
CESARE (piano a Taddeo) Si sapessi quante n’hanno sparate quelli due!
(mostrando Cantini e il Marito della prima d[onna].) M’è toccato d’andà a uprì la vetrina!
TADDEO Eh, li conosco!
6
N.d.A.: Senza chiave in do nel gergo dei suonatori significa: senza danari. (La nota è in
una seconda stesura del testo, a c. 262v).
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CESARE El marito de la prima donna, poi nun te ne dico! Come si a
Roma nu’ lo conoscessimo, da quando faceva l’imbiancatore!
TADDEO Dì piuttosto el ciancicòne! Perché s’è fatto sempre mantené
da le donne, fin da regazzo.
CESARE Già poi sposò la Stuppini, andò a Milano, gliè trovò una scrittura per l’America...
TADDEO Ce la mandò sola; e llà trovò quattro signori che se ne invaghirono, e che la rimandarono qua ingrassata come ’na vacca.
PROCOPIO Mbè la sapete la novità?
CESARE Quale? quella della dote al Costanzi7?
TADDEO Una miseria: ottantamila lire!
MARITO Che straccioni a questa Roma!... A Pariggi, presempio...
PAOLO Dite piuttosto che municipio migragnoso!
CANTINI Cose che fanno schifo, come si protegge l’Arte a Roma!
Mentre a Pariggi a Londra...
TORCOLO (svegliandosi di soprassalto) Ahó ma me la fai ‘sta bbarba?
Accidenti a te e a la musica!
PAOLO Ma si ddormite ch’è un piacere! (si rimette a far la barba a Torcolo)
MARITO È meglio a nun parlarne dei nostri communisti...
CANTINI «Non ti curar di lor, ma guarda e passa!»
TADDEO E sapete perché è passata in Consiglio? P’er lecchetto d’avé
la sera a sbafo el palco a disposizione de quele quattro panze gonfie
de vento che vanno a mette in mostra l’importanza loro.
SCENA IV
Detti, Pompilio
POMPILIO (salutando) Signori.
MARITO (con importanza) Ciao Pompilio.
POMPILIO Tu qui? (si abbracciano)
MARITO Come mi vedi, di ritorno da Nova Yorche dove abbiamo ottenuto un successo colossale.
POMPILIO E la tua signora?
MARITO Si sta riposando sugli allori nella nostra sontuosa villa a San
Remo (cavando dalla tasca una cartolina e mostrandola) di cui eccone
la fotografia.
TUTTI (man mano osservano la fotografia ed esclamano) Bella, magnifica!
CANTINI (con dipsrezzo) Nun c’è male!
7
Il teatro Costanzi, oggi Teatro dell’Opera di Roma.
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MARITO Quello che si vede lì sul cancello con quel cane di S. Bernardo sono io!
CESARE (piano a Taddeo) Amanca che ce facci vede la fotografia del
gatto de casa.
PAOLO (complimentoso offre una sedia a Pompilio) S’accomodi, prego.
POMPILIO (accettando) Grazie.
PAOLO (lasciando Torcolo va a presentare Cantini) Ho l’onore di presentalle el celebre tenore cavaliere Cantini reduce pure lui da li trionfi di
Barcellona. (a Cantini) Il signor Pompilio cronista teatrale del Fucile8.
CANTINI (dandogli la mano) Fortunatissimo.
POMPILIO Il piacere è mio, di conoscere un così provetto artista che
fa onore all’Italia.
CANTINI (con importanza) Si fa quel che si può!
CESARE (piano a Taddeo) (E quello che nun se pò).
TADDEO (c. s.) (Ma che pallonari, er cielo li perdoni!)
CESARE (c. s.) Ma dì piuttosto che Ddio l’ammazzi!
POMPILIO (a Paolo) E questo debutto?
PAOLO Una de queste sere, per servilla. Anzi, aspetto Bice con lei, che
sò andate da l’impresario per restà d’accordo sul come e sul quando.
POMPILIO Allora l’attenderò per saperlo. Voglio avere l’onore di pubblicare l’annuncio sul giornale almeno due giorni prima della rappresentazione.
PAOLO Troppo onore!
POMPILIO Un dovere. Tanto cara quella ragazza, tanto promettente...
PAOLO Bontà sua!
POMPILIO Una speranza dell’arte...
PAOLO ( fuori di sé) Lo dicheno tutti; ma a sentillo dire da lei... poi...
POMPILIO È la verità. Spero che quanti virtuosi qui sono, siano del
mio parere.
CANTINI Perfettamente.
MARITO Siamo d’accordo. Anzi glie profetizzo l’immensi successi ottenuti da mia moglie di cui ecco l’ultimissimo suo ritratto. (lo mostra
a tutti)
CESARE (piano a Taddeo) Miracolo che incora nun cià fatto vede el
ritratto suo!
TADDEO (c. s.) Lo tiè pe’ ddoppo.
8
Titolo di giornale che non ha riscontro nei repertori. In una seconda stesura (a c. 264r)
presente la variante: Il Pensiero, con probabile allusione a «Il Pensiero di Roma. Giornale
politico quotidiano», 1904-1905.
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introduzione
PAOLO Tutto merito del maestro Procopio là, che ho l’onore di presentarglie.
POMPILIO Eh ce conosciamo! (si salutano con Procopio)
PROCOPIO Merito mio? Merito, dico così, della ragazza la quale ha
studiato con gran trasporto.
CESARE (piano a Taddeo) Ce volemo crede?
TADDEO (c. s.) E credémece!
SCENA V
Detti, Bice, Nena, Agheta, Ragazzo di bottega
PAOLO (che ha veduto dalla strada avanzare le donne, pianta Torcolo di
soprassalto e grida nell’andarle ad incontrare) Ecco loro!
CESARE (piano a Taddeo) Questo s’ammattisce quant’è vero el sole!
BICE (sarà vestita con civetteria) Signori riveriti. (tutti si alzano e salutano, meno Cesare e Taddeo e Torcolo che dorme)
NENA Finalmente gliel’avemo fatta! Doppodomani a sera, debbuttiamo! (con gioia)
PAOLO Quando, quando? ( fuori di sé)
AGHETA Doppo domani. (con importanza)
PAOLO ( fuori di sé) Finalmente!
Intanto Pompilio, Cantini, Marito, ecc. circondano Bice molto dappresso e
le fanno complimenti e smancerie. Torcolo russa. Cesare e Taddeo parlano fra
loro e ridono sardonicamente. Il ragazzino di bottega ogni tanto si mischia
agli altri ridendo e prendendo parte alla gioia comune. Paolo, di quando in
quando, gli dà uno scapaccione e lo manda via.
POMPILIO (a Bice) Allora ve lo annuncerò sul giornale di questa sera.
BICE (con civetteria dando la mano a Pompilio) Troppo gentile!
POMPILIO Ma che non farei per voi, bella figliuola. (le bacia la mano)
CANTINI (a Bice) Dunque, coraggio; dopodomani sii padrona di te stessa.
MARITO Franchezza e gnente paura... Mia moglie, a Vienna...
BICE Conto sul suggeritore che mi dia bene a tempo li spunti. (mostrando Cesare) Ecco là chi deve fare la forza. Cesare, me raccommando a te.
CESARE Ma nun avé pavura; ce penso io. Abbasta che ogni tanto me
butti un occhio.
NENA Se sa, Cesere mio, che contamo su te! Perché si ‘sta figlia mia
spera che glie facci coraggio io, sta male assai. Io già sò nervosa da oggi, figuramose doppo domani a sera!
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AGHETA Ma in quanto a incutéglie coraggio, ci suono qua io, per cristallina! Siamo o nun siamo madre di un’artista? Quando debbuttò
mia figlia all’Adriano de Civitavecchia, me feci tutto da me, me la
spogliai, me la vestii, glie detti puro li spunti, e a ogni cantata un rosso d’ovo. E grazziaddio è diventata quell’artistona che tutti sanno, per
cristallina! E si nun me la sposava quel barone, a quest’ora...
CESARE (piano a Taddeo) (Senti pure questa quante ne pianta! Scappò
cor un barone quela cagna, e dice che sse l’è sposata; e adesso sta a
Milano in una casa... de salute. Senti se dove sta...) (piano all’orecchio
di Taddeo)
TADDEO (c. s.) (Allora è baronessa co’ parecchi F.!)
PAOLO Eppoi nun c’è el nostro carissimo maestro? (mostrando Procopio)
PROCOPIO Ma, dirò, c’è obbligo che me lo diciate? Sarà pensiere mio
di andare sul palco e di aiutarla, dirò cosí, in quel poco che posso.
AGHETA (mettendosi in mezzo) Ed io eziandio... come a mia figlia...
PAOLO Insomma noi contamo su l’amici: ne le circostanze se riconoscono quelli proprio veri. Come dice: in manus vostra commendum
spiritus meus 9.
AGHETA ( frapponendosi) Ma, per cristallina nun ce sono io!...
MARITO E a noi, nel caso, ci contate per poco? Eccoce qui per la vita
e per la morte.
PAOLO (stringendogli con trasporto la mano) Grazie, cavaliere.
MARITO Tutto el teatro dopodomani dipenderà da un mio cenno. Già
lo tengo in mano.
CESARE (piano) Mbù!
CANTINI Diventeremo i claqueur d’occasione. E se non ti pagano, non
gliela dar vinta!
MARITO Danari avanti. Noi, quando la sera quando semo in teatro
se l’impresario non ci dà li soldi prima di vestirci, diciamo: «Stasera
non si canta!» Una sera a Santiago... sentite questa qui.
BICE Insomma io sono nelle vostre mani.
MARITO ([...10]) Anzi abbandonateve puro fiduciosa nelle nostre braccia!
POMPILIO E dormite tranquilla i vostri dorati sogni.
CESARE (piano) (Oh cielo li facioletti!)
BICE (sempre con civetteria) Mi rincresce che non saprò mai in che modo riccompensarvi. Ma se mai per combinazione fussi buona...
POMPILIO Ma altro che buona!
9
Storpiatura del versetto dei Salmi: In manus tuas commendo spiritum meum.
Parola illeggibile. A c. 266v (altra stesura): «con galanteria».
10
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introduzione
CANTINI Buonissima!
MARITO Superlativamente!
CESARE (piano a Taddeo) (Povera fija, quanto la vedo brutta!)
TADDEO (c. s.) Co’ tutti ‘sti diavoli che la leccheno tanto, l’anima nun
se la salva, davero!
BICE Basta, col permesso de lor signori, io mi ritiro su in casa. Vado a
ripassare la parte col maestro.
PROCOPIO Eh, dirò così, una ripassatina ed anche, dirò così, due non
sarebbero fuori di proposito.
POMPILIO Verrò a trovarvi domani, se permettete.
BICE È il mio padrone! (si danno la mano)
NENA Casa nostra per lei è sempre uperta.
POMPILIO Troppo gentile!
NENA Anzi lei. (si danno la mano)
AGHETA (guarda Pompilio e declama con civetteria fra di sé) Quant’è
grazioso!
CANTINI A domani (c. s.) mia Beatrice!
MARITO (con protezione) Ciao Bice e in bocca al lupo! (si salutano)
PAOLO Arivederli a tutti e tante grazie. (si salutano)
Bice, Nena, Agheta, e Procopio escono dalla porticina a destra. Marito, Cantini, Cesare, Taddeo e Pompilio escono dalla vetrina in fondo11.
11
Segue testo cancellato:
SCENA ULTIMA
Torcolo, Paolo e Ragazzo
(avvedendosi finalmente che Torcolo dorme sempre, lo scuote) Varda questo incora sta qua! E chi se n’era accorto! (scuotendolo) Padron Torcolo, padron Torcolo...
TORCOLO (svegliandosi di soprassalto) Eh, chi è?... Ah sei tu? Ma me la fai ‘sta barba,
accidenti a te e a la musica?
PAOLO Eh da mó che vve l’ho finita.
TORCOLO (si tasta il mento, le guance, si specchia) Ah sì è vero... Ma c’è vorsuto ‘sto
poco c’è vorsuto.
PAOLO
SCENA ULTIMA
Torcolo e Ragazzo
RAGAZZO (rimasto solo con Torcolo che dorme sempre russando come un mantice, fa uno
scoppietto di carta, e lo fa scoppiare sotto alla sua poltrona e si nasconde)
TORCOLO (si sveglia di soprassalto) Che cciavemo! Chi è?... Quanto salame?... (avvedendosi di essere sempre dal barbiere) Ah Paolo, ma me la fai ‘sta barba? (guarda da
per tutto) Nun c’è più gnisuno. (si tasta il mento, le guance, si guarda allo specchio)
Ah finalmente me l’ha fatta! Nemmanco me lo credevo... Ma dio me furmini si
dentro a ‘sta bottegaccia ce metto più piede!... Basta curemo a bottega (si alza lemme lemme e con tutto comodo se ne va uscendo dalla porta in fondo)
Il ragazzo lo segue smascellandosi dalle risa.
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SCENA ULTIMA
Marito, Paolo, Cantini, Cesare, Taddeo, Pompilio e Torcolo
e poi Voce di Nena
TORCOLO (svegliandosi di soprassalto) Ah Paolo, ma ‘sta bbarba, me la
fai o nun me la fai?
PAOLO Ah èccome: me n’ero scordato! Capirai la confusione... eppoi
tu ddormi!
TORCOLO Ma che tte dormo un accidente? È da stammatina che sto
qua drento e a momenti è mezzoggiorno...
PAOLO Èccome va: mó famo subbito.
TORCOLO No, nu’ me la vojo fà più. (si alza si straccia dal collo l’asciugamano, si leva il sapone dalla faccia)
PAOLO Una combinazione! scusa...
TORCOLO Che combinazione, combinazione un corno! Sò venti anni
che me servo qui, e nun m’è mai successo. Quanno invece de fà er
barbiere vòi fà er musicarolo, mettete a sonà er corno e piantela. Accidenti a te e a la musica! (se ne va tutto infuriato)
NENA (dalla casa chiama) Paolo, viè su che avemo minestrato.
PAOLO Chi se n’importa poi poi! Doppotutto poi nun ho più bisogno de
nessuno. Fra poco se ne sapremo riparlà! Vojo fà morì tutti da la rabbia!
MARITO Ma sicuro lasciatelo quel pezzente. Siete chiamato ad altri
destini!! Andate a pranzo, addio. (esce)
CANTINI Altri lidi ti attendono. (esce provando la voce) Pì-pò, pì-pò.
CESARE ( fra sé) (Altri fiaschi!) Addio. (esce)
TADDEO (c. s.) Altra via crucise. Se vedemo. (esce)
POMPILIO Altre fortune! (esce)
PAOLO Ma dite bene, dite bene. Me sa mille anni da chiude ‘sta porca
bottega! Quanto starò: altri due, tre, quattro mesi, un anno? E poi,
poi sarò un signore anch’io; anch’io ritornerò a Roma carico d’oro.
NENA (c. s.) Paolo, ma venghi o nun venghi?
PAOLO Èccome!... sarò carico d’oro. (e se ne va cantando)
Dio dell’oro del mondo signor,
Sei potente e risplendente!
-
(nell’uscire getta a terra due o tre sedie)
Cala la tela
RAGAZZO
Lo diceva Tuta, che ffiniva coll’ammattisse!
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introduzione
ATTO II
Decente camera da pranzo, varie sedie ingombre di vestiti da donna. Da
per tutto disordine. Una tavola grande quasi imbandita. Una porticina a
sinistra che si suppone conduca nella sottostante bottega; a destra la camera di Bice; altra porta in fondo.
SCENA I
Tuta sola poi Paolo
TUTA (mettendo a sesto la camera) Varda qui sì che spasa de robba! Si
‘sta strega nun se sbriga presto a fà quer c’ha da fà, qua perdemo la
testa tutti quanti! Nun c’è requie ní giorno, ní notte, nun c’è! E io vojo
seguità a fà ‘sta vita? Eh, si prima se scànneno tutti!
PAOLO (dalla sinistra, molto affaccendato; appena entrato poserà un fagotto sulla tavola) Ecco fatta la spesa! E Bicetta s’è alzata?
TUTA Sì, se sta a vvestì.
PAOLO E Nena?
TUTA È uscita puro lei.
PAOLO Allora io ritorno un tantino giù a bottega. Si c’è qualche cosa
de novo, damme una voce. (esce dalla sinistra e poi torna subito)
TUTA Vabbè.
PAOLO Dicevo: e el sor Gregorio?
TUTA È venuto già du’ vorte; ma io l’ho mannato via.
PAOLO (sempre agitato) Hai fatto bene. Quela regazza mó nun sarà padrona nemmeno de dormì. Allora io vado... (esce e poi torna subito)
TUTA (a parte) (Ariècchetelo, tiè!)
PAOLO (c. s.) Dicevo: hanno portato certi fiaschi de vino?
TUTA Sì: ve l’ha mandati el sor Gregorio: l’ho messi de là in cucina.
PAOLO Allora... Se semo intesi. (esce e poi torna)
TUTA (a parte) (Ma quanno la pianti dico io!)
PAOLO (c. s.) Dicevo: appena viè Nena, me l’avverti...
TUTA (a parte) (E ciarifà, Ciriàco!) ( forte) Va bene.
PAOLO (c. s.) Allora se semo intesi... (se ne va)
TUTA Rottadecollo! Madonna santa e ch’edè? Puro questo ce s’ammattisce! Sò du’ giorni che salirà ‘ste scale cento vorte ar minuto!... Pare
che l’abbi mozzicato la tarantola... E quer povero fijo der sor Gregorio
che fa propio compassione?... Tanto bon regazzo a martrattallo accusì, doppo che je se sò magnati una costa!... Ma già la furtuna nun accàpita antro ch’a le ciovette... Cor cuccù che m’accàpita a me, povera
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fija de madre!... Adesso la signorina ha da “debbuttane!” che si’ civica!... Io poco me ne rintenno; ma sarà che co’ quela voce de gatta scorticata farà tutto ‘sto furore che dicheno!... Abbasta: come se dice? Da
qui ar Bervedé ce curre poco. Me ne vojo fà ‘ste dua de risate!...
-
SCENA II
Detta, Pompilio
POMPILIO (dalla sinistra, con un mazzolino di fiori in mano) È permesso?
TUTA (a parte) (Ecco ‘st’antro morto de sonno!) ( forte) Favorischi.
POMPILIO E la signorina?
TUTA Sta in cammera sua a vestisse.
POMPILIO (avviandosi verso la camera di Bice) Allora vado a trovarla...
TUTA ( fermandolo) Armeno aspetti che je lo vadi prima a avvertì...
POMPILIO Voglio farle una sorpresa.
TUTA (c. s.) Ma si viè er padre?
POMPILIO Ma si me lo ha consigliato lui di farle uno scherzo!
TUTA Ah, si ve l’ha detto lui, nun parlo più! (lasciandogli libero il passo) Se servi puro.
POMPILIO (socchiude l’uscio della stanza di Bice ed entra dicendo) È
permesso?
Dall’ interno si ode un grido di sorpresa; poi null’altro.
TUTA Quer vecchio de la zugna12 s’è arimbambito pe’ davero. Furtuna
che quella se sarà bella che vestita! Ma abbada che l’ho da vede tutte
drento a ‘sta casaccia!... Puro aregge li moccoli, me tocca!... E l’innocentina come ce sta!... (si mette ad orecchiare alla porta di Bice) Rideno!... Meno male che l’ha presa in canzona!... Adesso, venisse quer
povero sor Gregorio!... (si suona il campanello di casa)
SCENA III
Detta poi Gregorio
TUTA Lupus est in frabbica! Questa è la sonata sua. E mó come me metto? (va ad aprire)
GREGORIO Mbè s’è alzata?
12
Parola senza significato che sta per nulla.
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introduzione
TUTA (imbarazzata) Incora sì... ciovè... incora no... povera fija è ita a
letto tardi...
GREGORIO Vall’a sveglià, famme el piacere... Ce voglio parlà un’altra
volta sola; l’ultima... Poi...poi... lo so io quello che me resta a fà!...
TUTA Sì è mejo!... Ma ‘ste cose nu’ le dite nemmeno per da burla... Ce
ne sò tante de regazze! Morto un papa se ne fa un antro...
GREGORIO (sospirando) Eh, tu dici bene!... Ma quando... Sbrìghete,
vaglielo a dì.
TUTA (a parte) (E adesso come faccio?... un’idea!) ( forte) A proposito,
m’ha detto (adesso che ce penso) mi ha detto el sor Paolo che appena
venivio fussivo annato giù a bottega che v’aveva da parlà de premura...
(a parte) (Me servirà pe’ pijà tempo!)
GREGORIO Sì? Allora intanto che io vado giù tu svejela...
TUTA Bravo! E quanno s’è svejata ve viengo a chiama.
GREGORIO Ma lesta però. (esce dalla porticina a sinistra)
Appena uscito Gregorio s’ode un’altra scampanellata.
TUTA Accidèmmoli, oggi me pare er campanello de la mammana! (va
ad aprire)
SCENA IV
Detta, Agheta
AGHETA (molto affaccendata, avrà un grande involto che depositerà sopra una sedia. Appena entrata si butterà a sedere) Bongiorno, fija... sò
stracca morta!... C’è Bice?... Mena indov’è andata? E Paolo?
TUTA C’è antro che Bice de là con quer giornalista.
AGHETA (con civetteria) Ah er sor Pompilio? Quel bel giovene?... Indovèllo, indovèllo? (si alza per andare da Bice)
TUTA (trattenendola) Anzi, sor’Agheta mia, arivate propio a ciccio de
sellero...
AGHETA Che c’è?
TUTA C’è che la sora Bice se stava a vestì; e quer... quer giornalista j’è
entrato de là in cammera, senza dije nì asino nì bestia...
AGHETA (declamando) Eh, fija mia, tu nun sai come suono codesti
giornalai, suono un puoco franconi; ma bisogna lassalli fare. Abbiamo d’uopo di lui e bisogna chiudere un occhio e magara tutti e dua...
Eh io puro con la baronessa mia figlia!...
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TUTA Ma er peggio si è che mentre staveno chiusi de là, è venuto er
sor Gregorio...
AGHETA Per cristallina!
TUTA Già! E io me sò trova proprio brutta, me sò trova! Lui puro la
voleva vede... E furtuna che cor una scusa l’ho mannato giù dar sor
Pavolo che sò sicura che ppe’ trattenello nu’ j’amanca modo.
AGHETA Hai fatto bene. Ora penso io ad avvertilli del pericolo...
TUTA Brava, pensatece voi, perché io in certi impicci nun me ciaritrovo. Sbrigateve però perché da un momento all’antro er sor Gregorio
ve capita qui.
AGHETA (si avvicina alla porta di Bice e guarda dal buco della serratura) Ho pavura di disturballi. Quanti sò cari! Stanno a scherzare innocentemente come du’ piccioncini!... Mi rincresce propio l’importunalli!...
TUTA (a parte) (Come sa fà bene la rucca-rucca13!) ( forte) Basta: pensatece voi ché io me ne vado in cucina. (a parte) (Oh che fiandra14 oh
che fiandra buscarona!) (se ne va)
SCENA V
Agheta sola, poi Gregorio
AGHETA Veramente nun vorrei che se la pigliassero a male!... Quando
siamo gioveni... eh!... (mettendo nuovamente l’occhio al buco della serratura) Adesso stanno a discorre... Quanti sò cari!... Quel sor Pompilio è propio un giovinotto garbato, per cristallina! Nemmeno me lo
sarebbe cresa!... Sta a sede tutto composto... Parleranno del debbutto
di codesta sera, se vede...
GREGORIO (dalla porticina sinistra entra pian piano e tutto sospettoso.
Nel veder Agata curiosare alla porta di Bice, si ferma senza farsi vedere
da lei) Che diavolo guarderà?
AGHETA (curva, sempre con l’occhio alla serratura, in modo che non possa vedere Gregorio che le si avvicina) Guasi guasi entro e li vado avvisare che el sor Gregorio da un momento all’antro pò venì su e agguantalli in fregante crimisi... (ridendo) Ah ecco ch’el sor Pompilio glie fa
una ruzza15... Questo, per Cristallina è el momento d’entrà...
i
13
Voce eufemistica, parafonica per ruffiano, mezzano.
Donna furba, sfrontata, senza molti scrupoli.
15
Scherzo, giuoco, capriccio, ripicca.
14
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introduzione
GREGORIO ( furibondo, frenando a stento l’ ira) Sor’Agheta, pare che
la scena ve diverta assai?!
AGHETA (spaventata oltremodo, all’udire la voce di Gregorio, si alza, slarga le braccia, e ricopre della sua persona la porta di Bice, e dice in preda
allo spavento) Voi, sor Gregorio?!... Per carità... Nun è gnente!... uno
scherzo innocente!... Nun v’avvicinate, si no succede una catacomba!
GREGORIO (fremendo) Voglio vede io puro; n’averò el dritto!... (si collutta con Agata che gli impedisce di entrare)
AGHETA (c. s.) Per carità, nun entrate!... Sentite... E poi lo sapete come
suono li giornalai?... Spareno, infirzeno!... Fatelo per mamma vostra!...
GREGORIO (c. s.) Ma finimola; nun me seccate! (abbraccia Agata, e la
fa cadere di peso sopra una sedia, spalanca la porta di Bice) Finalmente!
Signora Bice, me rallegro tanto!
AGHETA (gridando) Bice, Pompilio, sarvatevi!... Agliuto, Sor Pavolo...
Tuta, regazzino... Agliuto!
SCENA VI
Detti, Bice, Pompilio, poi Paolo, Tuta, e Ragazzo di bottega
BICE (confusa, vergognosa) Tu, Gregorio?!... Senti... una combinazione...
uno scherzo...
GREGORIO (c. s.) Nun so chi me tenga de nun datte quattro schiaffi,
brutta ciovetta!
POMPILIO ( facendo scudo a Bice) Dico, signore, non dimentichi che
lei mi offende!
GREGORIO Tanto piacere! Famme dì due parole a ‘sta signorina, e poi
sto a disposizione tua.
AGHETA (correndo per tutta la stanza, grida come un’aquila) Paolo!...
Tuta... Guardie!... Agliuto! qui s’ammazzeno!... (poi abbraccia Gregorio per impedire che inveisca contro Pompilio) Fermo sor Gregorio: pensate che ‘sta sera Bice deve debbuttare; nu’ la spaventate!...
GREGORIO (svincolandosi dalle braccia di Agata) No, perdio! me l’hanno da pagà tutt’e due!... (va per slanciarsi contro Pompilio; ma Paolo che
è entrato in quel momento, l’afferra per le spalle; intanto Tuta e il Ragazzo di bottega entrano la prima con la scopa, e il secondo con un randello)
PAOLO (tenendo fermo Gregorio che cerca di svincolarsi) Cos’è ‘sta robba
a casa mia?!
BICE ( finge di cader svenuta, sopra una sedia) Dio che spavento!
AGHETA (correndo a soccorrerla) Bice, per carità!
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o
!
e
.
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-
-
a
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TUTA (Lo dicevo io che finiva a ognatura16!)
BICE Papà, correte, presto; allontanate Gregorio, cacciatelo via!...
GREGORIO ( fremente) Me ne vado da me, me ne vado, brutta zozzona! E ringrazia el tu’ ddio che stai a casa tua, se no stasera me la pagavio tutti!
POMPILIO (prendendo coraggio dalla venuta degli altri) Imprudente!
GREGORIO Mascalzone!
POMPILIO Ci vedremo più tardi...
GREGORIO Quando te pare, pagliaccio!
PAOLO (risoluto respingendo Gregorio verso la porta in fondo) Insomma:
andate via da casa mia.
GREGORIO Me ne vado, me ne vado, da ‘sta casaccia, indove me vergogno d’averce messo li piedi la prima volta, signor mezzano!
PAOLO ( fremente; ma timoroso) A me?!
GREGORIO (c. s.) A voi, a vostra moglie, a tutti! Mezzani che altro
non sete! Ma v’ho pagato abbastanza, canaglia! (a Pompilio e a Paolo,
che sono rimasti sospesi) Quanto a vojaltri ce vedremo con miglior commodo! (esce sbattendo la porta)
PAOLO (uscito Gregorio, si fa coraggio, toglie dalle mani del Ragazzo di
bottega il randello e finge di volerlo rincorrere) A me mezzano? A me
canaglia? Aspetta!...
AGHETA (lo trattiene e declama) Ma basta, per carità! Abbiamo piuttosto compassione per questa povera regazza laonde ‘sta sera possa
debbuttare!... Tuta, lesta: un poco d’aceto, un goccio di Marsalla...
qualche cosa! (Tuta esce)
PAOLO (agitato) È un pretesto che ha preso quel mascalzone per fà nasce uno scandolo e spaventamme ‘sta figlia mia!... E c’è riuscito c’è!...
(passeggiando per la stanza) E stasera come se fa?
POMPILIO Si rimanda il debbutto!...
BICE (che sta meglio di prima) Ma si nun occorre! Me sento meglio: nun
è stato gnente. Specialmente adesso che me sò levato d’intorno quel
nojoso!...
PAOLO (c. s.) ‘Sto mascalzone c’è riuscito, c’è! Tanto l’ha detto che l’ha
fatto... E adesso come se fa?... E stasera, come se fa?
AGHETA (chiamando) Tuta, lesta, co’ quest’aceto, per cristallina!... Ma
è mejo che ce vadi io! (si alza ed esce)
POMPILIO Ora vado io dall’impresario...
16
Unzione, e più particolarmente il sacramento dell’estrema unzione.
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introduzione
BICE Ma no no. (supplicando Pompilio) Voi nun uscirete de qui. Quel
matto pò stà per strada ad aspettarvi e non sia mai!...
POMPILIO (con spavalderia) Ma signorina, lei allora non mi conosce!
Ben altri Rodomonti ho messo a posto che il signor Gregorio!
PAOLO Si, ma è meglio a nun fà nasce altri scandali! Si se riviè a sapé...
nun sia mai!... E ‘sta sera, questa figlia mia, deve debbuttà!... (c. s.) E
adesso come se fa?... (al Ragazzo) Va giù, e senza fatte vede, guarda per
strada si quel mascalzone se ne è andato!
RAGAZZO Subito. (esce dalla sinistra)
AGHETA (con un bicchiere nel quale sta frullando un rosso d’uovo) Bicetta
mia, mandete giù cotesto torsolo d’uovo sbattuto, e te sentirai meglio...
BICE (bevendo a sorsi l’uovo) Adesso è passato... Lì per lì, se capisce, m’ha
fatto un po’ di cosa... Ma adesso, nun è più gnente. Anzi, ve l’ho già
detto, nun me pare vero, d’esseme levato d’intorno quell’impiastro.
AGHETA Speriamo che ti sentirai sempre meglio, laonde questa sera
possi cantare... In del caso poi che non potessi, se fa una striscia de
carta indove la quale ce se mette stampato: «Per disposizione della prima donna assoluta, la rippresentazione che aveva loco ‘sta sera serà rimandata a domani». Eh io suono pratica l’abbiamo fatto tante volte
per la baronessa mia figlia!...
POMPILIO Sicuro: si vede che lei è pratica!
AGHETA (con importanza) Eh, per cristallina, altre buriane abbiamo
superate!
PAOLO (con premura) Bicetta, come te senti?
BICE Ma si me sento bene!
PAOLO Ma varda el diavolaccio!... E ‘sta sera a pensà che devi andà in
scena!... E si te fussi calata la voce?... Prova un po’ a fà du’ vocalizzi...
BICE Ma doppo quando viè el maestro ce proverò. Quanto sete nojoso
puro voi!
AGHETA Sicuro: è meglio attendere un altro puoco.
RAGAZZO (dalla bottega, grida) Sor Paolo, potete puro scegne che quer
marco se n’è ito!
PAOLO Allora io vado che devo dà un zompo al Quirino, a comprà li
biglietti per ‘sta sera... E Nena, che nun se vede?
AGHETA Bravo, andate ché a Bicetta glie facciamo compagnia io e il
signor giornalaio.
PAOLO Grazie. Anzi si el sor Pompilio oggi volesse restare a fà penitenza con noi ci onorerebbe.
BICE Uh davero! Resti, resti... (con uno sguardo dolce)
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.
a
l
1. introduzione
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AGHETA Ce facci questo onore! (piano a Bice) (Famelo restà sinnò
questo se va a sbatte!)
BICE (a Pompilio c. s.) Dunque ce lo fa questo regalo?
POMPILIO Poiché lo volete assolutamente, accetterò.
PAOLO (stringendogli la mano) Grazie dell’onore! Allora io vado!... (a
parte) Ma guarda che combinazione!... E si nun sia mai detto... stasera come se farebbe? (esce e poi ritorna subito) Ma dicevo, Bicetta, te
senti proprio bene davero?
BICE (spazientita) Ma si ve dico de sì, davero che sete proprio nojoso!
PAOLO Va bene, va bene. Li miei rispetti. (saluta Pompilio ed esce dalla
sinistra)
SCENA VII
Detti meno Paolo
AGHETA Oh adesso, regazzi miei, che il pericolo è passato, fate come
se io nun ce fussi: parlate quanto ve pare, discorrete... Insomma: fate
el commido vostro... In quanto a me, fino ad ora mi suono fatta coraggio; ma la tremarella me la sento incora... Un altro spavento del
medemo calibro e di me nun se ne parla più: suono decessa... Quello
che è certo, è che quel signorino la scena l’aveva promeditata da glieri,
laonde fare avere un aresto di sangue a questa povera figlia, e metterla in posizione di non poter cantare... Ma per furtuna mi ci suono
trovata io, ed abbiamo deviato l’uragano.
POMPILIO Eh certamente, se nun eravate voi che mi tenevate fermo,
la cosa finiva male...
AGHETA Altro che male! finiva, ve lo dico io, finiva in una catacombe
di morti, in un vero macello!... Eh, nun ve conoscessi a voglialtri giornalagli, come la pensate! Abbasta che prendete e infilzate indove ve
capita, è tutto el piacere vostro!
POMPILIO Oh ma un duello ormai è inevitabile...
BICE Ma che duello, con quel villano!...
POMPILIO Allora lo schiaffeggerò dove lo trovo.
AGHETA Speriamo che nun l’incontrerete mai più! (alzandosi) Abbasta, regazzi miei, compremesso un tantino. Io vado un momento in
cucina; ché Tuta è uscita. Giudizio, veh (con malizia. Ed esce)
BICE (a Pompilio) Avete capito? Me lo dovete promette.
POMPILIO Che cosa?
BICE Che non lo anderete a cercare.
POMPILIO Ma l’onore me lo vieta...
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introduzione
BICE Ed io ve lo permetto.
POMPILIO Ma quanto siete crudele!...
BICE Me date la vostra parola?
POMPILIO Ma nun posso...
BICE (in collera) Ah nun lo potete? Siete deciso? Allora...
POMPILIO Allora, che cosa?... E se vi obbedissi?
BICE Mi fareste felice... e...
POMPILIO E... me ne dareste un pegno?
BICE Se ne potrebbe parlare...
POMPILIO No: lo vorrei subito...
BICE E in che cosa consisterebbe questo pegno?
POMPILIO In un bacio...
BICE (civettuola) Cattivello! Ma non sta bene!...
POMPILIO Su via!... (mentre si abbracciano e si stanno quasi per baciare entra improvvisamente Tuta, dalla sinistra)
SCENA VIII
Detti, Tuta, poi Nena
TUTA (dalla sinistra, con una bottiglia di Marsala. Finge di non accorgersi di ciò che succede. Tossisce forte) Sora Bice, ‘sta bottija de Marsalla, ve la manna vostro padre pe’ ‘sta sera.
BICE (rimettendosi dalla sorpresa) Ah va bene. Mettela lì sopra a la tavola.
TUTA (posa la bottiglia e se ne va via dal fondo, dicendo) (Ammappela
che core!)
POMPILIO Accidenti a li seccatori!
BICE (con civetteria) È segno che non ve lo meritate!
POMPILIO Ah sì?! (si mette a correre dietro a Bice; nel momento che sta
per abbracciarla entra)
NENA (a parte, dice) (Maledizione!) ( fingendo di non avvedersi, tossisce.
Avrà un grosso involto che deporrà sopra una sedia. Saluta Pompilio) Uh
chi se vede, lei! (poi a Bice con premura) Bice, ma ch’è stato? Chi è rimasto ferito?... Come sei pallida!... Io nun ciò più sangue ne le vene.
Insomma Bice, racconteme ch’è successo?...
POMPILIO Ma che ferito! Chi glielo ha detto?
NENA Giù a bottega.
BICE (ridendo) Ma una de le solite scene de gelosia de quel matto! Nun
è stato gnente.
NENA Tanto quel signorino l’ha voluta fà prima del debbutto!... E tu,
come te senti?... A rischio de nun fatte più debbuttà... Dì come te senti.
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BICE Meglio de jeri: specialmente adesso che me sò libberata da quel
matto furioso.
NENA Che spavento che ho avuto! Chi lo sa che me credevo!
POMPILIO Una sciocchezza, un piccolo alterco...
NENA Ah ce s’è trovato puro lei? Me racconti, me racconti...
SCENA IX
Detti, Agheta
AGHETA (entra dal fondo, frullando un torlo d’uovo in un bicchiere)
Zitti che glielo voglio ariccontare io, che me sò trova al fatto dal comincio fino al sinenta.
NENA Ah meno male che, per furtuna, ve ce sete trovata voi, sor Agheta mia.
AGHETA (con importanza) Ah si ve la piantavo? E si nun ero io a quest’ora averessivo trovato un macello!
BICE (a Pompilio) Adesso, figuriamoce, ce mette un secolo a raccontarglielo. È meglio che ce n’andiamo. (a Nena) Mammà, io me ne vado
a ripassà la parte...
POMPILIO E io, se permettete, vado a tenerle compagnia...
NENA Anzi me fa un onore!
Pompilio e Bice escono dalla destra. Poco dopo si ode un lieve accordo di pianoforte.
AGHETA (disponendosi a raccontare, sempre frullando l’ovo) Dunque io,
sora Nena, di ritorno da la sora Cammilla, la Fighetta, che m’ha imprestato quel paro de guanti bianchi longhi tutto el braccio per questa
sera per Bicetta nostra; avevo appena picchiettato all’uscio de la porta
vostra, che la Tuta, tutta scontrafatta in volto, è venuta a uprimme dicendomi: Accusì, accusì: Bice, sta in cammera sua col giornalaio...
NENA Col sor Pompilio?
AGHETA Quel caro giovine! Sì: c’era entrato un momento, col premesso paterno, laonde farglie uno schelzo. Cose da regazzi!... (sempre frullando l’uovo) allorché in quel momento sopraggiunge Gregorio, con
una faccia tutta inalterata, e sora Nena mia, òprete cielo! Uprì la porta de Bice, entrare, sorprendelli in fregante crimisi, fu un istante, un
soffio, un nulla!...
NENA Che combinazione! Manco a farlo apposta!
AGHETA Io, sora Nena mia, che conosco li giornalai come suono de
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introduzione
primo impito, me te butto addosso a Gregorio onde trattenerlo, e incomincio a strillare: «Agliuto, agliuto!»
NENA (con interesse) Ma varda un po’!
AGHETA Ècchete che in quel mentre corre su Pavolo che per furtuna
viene a darme man forte: tutte e dua ci precipitiamo allora su quel
forsenato e, doppo una lotta furibbionda a corpo a corpo, te l’abbiamo messo fora de la porta! Avessivo inteso, però, quella bocca quante
improperie ha dette: mezzani, canaja eccetra eccetra.
NENA Figuramese Bice!
AGHETA Gnente: quela regazza è de fero: è una vera artista! Lì per lì
sì, ma poi, cor un torsolo d’uovo che gliò fatto madare giù, s’è subbitamente rimessa... Insomma: si nun me ce trovavo io, oggi qui succedeva un macello, un massacro, una Casamicciola!17
NENA Che vergogna!... Tanto l’ha detto che l’ha fatto!... E Bice?
AGHETA Ve l’ho detto: nun è più gnente. Male che passa. Tant’è vero
che momenti fa stava a schelzare col sor Pompilio... Ve dico, che si nun
ero io, per cristallina!...
NENA Eh ce credo, e ve ringrazio tanto.
AGHETA E de che? de la carrozza!... Mó a Bice je fo ingozzare ‘st’antro
rosso d’ovo, e tocca la viola18! (esce chiamando) Bicetta, Bicetta!
SCENA X
Nena sola poi Agheta
NENA Croce e chiodi! Nun se pò stà un momento tranquilli... Ma ringraziamo Iddio, che se semo levati d’intorno quel matto furioso!...
(scioglie l’ involto che ha portato seco, e ne cava fuori un abito di seta celeste) ‘St’abbito me lo sò fatto affittà da la rigattiera: trenta lire per poche sere!... Se ne fanno de sacrifizi! (guardandolo) Ma è bello, proprio
bello! Ce deve fà uno spicco Bice mia... Che Leonora sarà ‘sta sera,
che Leonora!...
AGHETA (tornando con il bicchiere vuoto) Se l’è mandato giù, come un
giuramento farso, e ha messo dei colori che ce se posseno accendere li
prosperi!... (vedendo l’abito che ha in mano Nena) Uh, che bell’abbito!
NENA È vero?
17
Allusione al terremoto del 28 luglio 1883 che distrusse completamente Casamicciola (Ischia).
18
E basta. L’espressione usata anche da Belli (Ar zor Lello Scini, nota 1) era la formula
conclusiva di alcuni giochi di bambini.
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AGHETA (prendendo l’abito e osservandolo bene) È una magnificenzia!...
Me pare quello che portava la prima sera quella figlia mia! (sospirando) Eh figlia, figlia!... Sapete che figura che cce farà stasera Bice quando se lo metterà!... (nel trasposto, canta)
Eleonora, addio!
Eleonora, addio!
NENA (cavando dall’ involto un diadema, e una cintura di pietre false)
Poi, me sò fatta prestà queste gioglie de la fija de la Baffuta, che ha
cantato el Trovatore l’an passato.
AGHETA Puro ‘sto diadema e ‘sta cinta, sono magnifiche!... Insomma:
nu’ glie mancherà gnente... Sarà la meglio vestita de tutti quanti l’altri
artisti. (canta di nuovo tragicamente e stonatamente)
Non ti scordar di me,
non ti scordar di me!...
n
-
425
SCENA XI
Dette, Paolo, poi Tuta
PAOLO (dalla sinistra, recando un panierino pieno di uova) E Bice, come sta?
AGHETA (abbracciando il signor Paolo) Benone! Sta de là a ripassasse
la parte; cià la voce più suonora di prima.
PAOLO Ringrazziamo Iddio! Ecco l’ova pe’ ‘sta sera. Sò fresche vive...
AGHETA (prendendo il paniere) Questa è una riccompensa che tocca a
me. Stasera se l’ha da ingogliare tutte quante, per cristallina!
PAOLO (a Nena) T’hanno riccontato?...
NENA So tutto, so tutto... Meno male ch’è finita bene!
PAOLO (osservando l’abito e il diadema) Belli! proprio belli. Tutta robba per Bice?
AGHETA Tutta.
NENA Costa cara; ma in certi casi...
PAOLO Ma sicuro! In certi casi stai a badà a scudo più e scudo meno...
Ho fatto più de cento scudi de buffi!... Hanno da crepà tutti da l’invidia... A proposito, quando se mangia quel boccone? Amanca poco
a mezzoggiorno...
NENA La tavola è guasi apparecchiata... Adesso la finimo. (chiama)
Tuta, Tutaa!...
PAOLO E famo le cose per bene; ché oggi ciavemo a pranzo puro el sor
Pompilio, oltre a Cesere el soffione, e al maestro Procopio... (affaccen-
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dato) Allora io vado da Torcolo a pijà du’ fette de preciutto. Ritorno
subbito. (esce dalla sinistra)
TUTA (dalla porta in fondo. A Nena) Che volevio?
NENA Che finisci d’ammannì la tavola.
TUTA Subbito. (da ora in poi si occuperà della tavola uscendo e tornando
a piacere)
AGHETA Je la volemo fà misurare ora ‘sta robba?
NENA No, no: viè a ttempo oggi doppo pranzo. Intanto l’abbito je deve stà un pennello. La regazza che l’ha portato era de la medesima
statura de Bice mia.
AGHETA Meglio accusì. Date qua, ché la vado a ripone. (tutta in faccende, prende l’ involti, li porta via, poi torna) Si nun succedeva ‘sto
piccolo accidente de’ stamane, sarebbe andato tutto a vele gonfie. (dalla porta a sinistra si sente rumore di gente che viene)
NENA Ecco gente che viene. Me raccommando: nun dimo gnente de
tutto quello ch’è successo ‘sta matina.
AGHETA Me faccio maraviglia!
SCENA XII
Dette, Cesare e Procopio
PROCOPIO (tutto complimentoso) È permesso?
NENA Favorite. Bongiorno maestro, bongiorno Cesere.
CESARE Bongiorno, sora Nena e la compagnia.
AGHETA Li miei assequi.
PROCOPIO E la nostra artista?
NENA Sta de là a ripassasse la parte.
PROCOPIO Eh c’è tempo. Oggi la proveremo, dico così per dire, un
altro paglio di volte.
AGHETA Eh ma lo sapete come suono le vere artiste, nun suono mai
assoddisfatte! E nun hanno torto. Come dice? Melius est abbondanzio
quamm’este indificile.
CESARE E Paolo?
NENA Sta a momenti. (a Tuta) Tuta, hai messo la pasta?
TUTA Mó la vado a bbuttà giù.
NENA Mbè, sbrigàmose.
AGHETA (tutta in faccende, dà sesto alla roba, sgombra le sedie, aiuta
Tuta a preparare la tavola) Me sa mille anni a questa sera!
NENA Figurateve chi ve sente! Io ciò el core che me sbatte come una
tamburella.
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o
a
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AGHETA (con grande importanza) Gnente pavura, sora Nena. Coraggio, ce siamo qua noi!
SCENA XIII
Detti, Paolo poi Bice, Pompilio e Tuta
PAOLO (dalla sinistra con un involto in mano) Ecco el preciutto... Uh,
guarda chi se vede! Benvenuto maestro, Cesere evviva!
CESARE Evviva noi!
PROCOPIO Eccoce qua, dirò così per dire!
PAOLO Tutto pronto? (a Tuta) E Bicetta? (intanto prende un piatto e vi
dispone il presciutto)
NENA (chiamando) Bice, Bice, venite a pranzo.
AGHETA Eccoli.
BICE (entrerà a braccetto di Pompilio) Bongiorno.
POMPILIO (salutando, stringendo la mano a tutti) Bongiorno, signori!
TUTTI Bongiorno.
CESARE (a Procopio piano) (Volevo dì che nun c’era, el cane! Co’ quele batoste de stammatina!)
PROCOPIO (piano a Cesare) (Pare che non se ne sieno presi affatto).
AGHETA Avanti, prendino posto, signori... Bice, accanto al signor Pompilio, qua io, qua el maestro, appresso Nena, qua er sor Pavolo e appresso al sor Pavolo el sor Cesare. (tutti prendono i loro posti)
AGHETA (offrendo l’affettato a Pompilio) Tiri lei...
POMPILIO (passando il piatto a Bice) Non lo posso permettere, prima
alla signorina.
NENA (a Pompilio) Ma se servi prima lei... Sa, ce compatirà, se non abbiamo fatto gnente de straordinario; gradirà, si nun altro, el piatto de
bona cera19.
POMPILIO Ma così va benissimo. E così mi piace.
PAOLO L’onore che cià fatto è grande, e meritava qualche cosa de meglio... Ma con questa confusione ce compatirà... (a Procopio) Tirate,
maestro, sèrvete, Cesere...
POMPILIO Per carità, nun facciamo complimenti.
PROCOPIO (a Paolo dopo essersi servito) Grazie.
CESARE Bono ‘sto preciutto!
PAOLO Veramente avevo invitato pure el tenore, cavajer Cantini e el
19
Un piatto offerto con il cuore.
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marito de la prima donna; ma hanno detto che nun potendo, sarebbero venuti a bere un bicchiere più tardi.
NENA Speriamo che nun amanchino a la promessa.
CESARE Ah per venì, vengono; me l’hanno detto poco fa.
TUTA (dal fondo, con un gran piatto di maccheroni) Ecco li maccaroni!
PAOLO Evviva li maccaroni!
AGHETA (sempre in grandi faccende, mentre mangia a quattro ganasce
e beve come un otre, si alza continuamente per cambiare i piatti, mescere il vino. Avrà sempre grandi premure per Pompilio al quale farà l’occhio dolce; dirà ogni tanto piano) (Quant’è grazioso!)
NENA (a Pompilio) A preposito, nun ciò pensato: glie piaceno, sor Pompilio, li maccaroni?
POMPILIO Sono la mia passione, il mio pasto favorito! (si serve,
avendo cura di servire prima Bice, a cui durante il pranzo farà mille
galanterie)
Poi successivamente tutti gli altri si servono i maccheroni. Scena a soggetto
durante la quale si diranno le rituali parole:
– Grazie!
– Tiri lei.
– Ma tiri lei.
– Se servi!
– Tira.
– Bevi.
– Bevete.
– Grazie! ecc. ecc.
PROCOPIO Speriamo che questa sera, dirò così per dire, sia una serata memorabilissima.
AGHETA Sicuro: memorabbilissima negli animali20 dell’arte!
Tutti ridono.
POMPILIO (smascellandosi dalle risa) Benissimo: brava, signora Agata!
AGHETA Che non mi suono forse ‘spremuta bene?
CESARE (a parte) (Te possino!...)
20
N.d.A.: annali.
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POMPILIO Anzi ammiro il vostro sapere!
AGHETA (prendendo sul serio il complimento) Troppo onore!
CESARE (c. s.) (Quant’è somara!)
Tuta intanto va e viene portando le altre vivande mentre, come ho già avvertito, Agata si alza continuamente a cambiare i piatti, versare il vino ecc. Scena mossa, altrimenti mancherebbe di effetto e di vivacità.
PROCOPIO El tenore, veramente, dirò così per dire, me mette un po’
in pensiere; no che nun abbia voce, perché anzi ha molti nummeri;
ma secondo me nun è, dirò così per dire, abbastanza padrone della
scena, né della sua parte.
AGHETA Ma ce penserà Bice a strascinasselo seco appresso, e a metteglie spirito, per cristallina!
BICE Ma se io potrò appena appena pensare a me.
AGHETA E via, fra cucchieri ‘ste frustate? Nun te conoscessi! Tu, figlia, ciai cento spiriti come li gatti!
POMPILIO È vero, è vero.
PAOLO Basta: auguriamose bene.
Si seguita a mangiare. Scena a soggetto.
BICE Mammà, a proposito, avete portato tutti quelli biglietti miei da
visita a li giornali?
NENA Appena uscita da casa è stato el primo pensiero: sei matta?! Sò
stata a la Tribbuna, al Giornale d’Italia, all’Avanti, all’Osservatore Romano, a la Vita, al Signor Pubblico e al Messaggero. Anzi al Messaggero
ciò trovato proprio el cronista teatrale, la quale mi ha detto: ‘Sta sera
averò l’onore di conoscere la signorina sua figlia in cammerino...
POMPILIO (con importanza) ‘Sta sera penserò io a presentare alla signorina tutta la stampa di Roma, a cui già l’ho raccomandata calorosamente.
AGHETA Che bellezza! Questa sera, el palco osceno e el cammerino
de Bice nostra sarà un giardinetto!
PAOLO A proposito de giardino (intanto qui fra noi se può dire) ho ordinato un gran canestro e un mazzo de fiori, che te lo offriranno doppo la romanza...
AGHETA (già brilla) Che magnificenzia! Bice mia, io vorei essere te
per questa sola serata!
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POMPILIO Anch’io, come era mio dovere, ho pensato ai fiori. Vedrete che non ne avremo penuria.
BICE Sempre compito!
AGHETA Da vero Cavajere della Rotonda.
CESARE (a parte) (Si, e del Panteònne!)
POMPILIO Un dovere, un sacrosanto dovere!
PAOLO Facciamo un brindisi a la salute nostra, e al prossimo trionfo
della prima donna!
Agata va in giro mescendo a tutti da bere.
TUTTI (levando i bicchieri) Alla salute, al trionfo di Bice!
AGHETA Viva la grande artista!
TUTTI Evviva!
SCENA ULTIMA
Detti, Marito della prima donna, cav.re Cantini, e Taddeo
Entrano tutti dalla sinistra.
CANTINI È permesso?
MARITO Nun v’incommodate prego!
PAOLO Viva el celebbre cavajer Cantini!
TUTTI Viva!
CANTINI Grazie, grazie!
MARITO Ciao Pompilio, ciao maestro, ciao Bice, sora Nena e Agheta
vi saluto.
AGHETA (traballando, si alza, offre le sedie, poi i bicchieri e verserà loro
da bere)
CANTINI (a Bice) Ebbene, come si porta la nostra futura prima donna?
BICE Bene, grazie!
TADDEO (piano a Cesare, vicino al quale si sarà seduto) (Pare che de la
buriana de stammatina nun se n’è preso nessuno? Specialmente la sora Bice?)
CESARE (piano a Taddeo) (Che vòi che se piji quela regazza che invece
del core ce doverebbe avé un sercio).
PAOLO A proposito, chi ha bisogno de li biglietti per questa sera?
MARITO (con importanza) Io già n’averò dispensati cento, a spese mie.
Così siamo fatti noi! (pavoneggiandosi)
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CANTINI Anch’io, modestia a parte, ho fatto el mio dovere.
PAOLO (commosso) Ecco li veri amici!... Ma, dico, si alle volte ve ne servisse qualcun’altro...
MARITO Già, può essere, non dite male. Date qui. (prende da Paolo
parecchi biglietti e l’ intasca)
CANTINI (c. s.) Anch’io allora ne accetto qualched’uno.
TADDEO (a Paolo) Qund’è accusì, dammene un paro pure a me.
PAOLO Eccoteli qua. E m’ariccommando de sbatte forte le mano!
MARITO Lassate fare a noi...
TADDEO Semo pratichi!
AGHETA (c. s.) Ah nun vedo l’ora che venghi ’sta sera!
CANTINI (levando in alto il bicchiere) Alla vittoria di questa sera.
TUTTI (si alzano e toccano i bicchieri) Alla vittoria!
MARITO (c. s.) All’arte de Melpomeno e de Talia!
TUTTI (c. s.) Evviva!
POMPILIO (c. s.) Augurandoci di trovarci qui domani a solennizzare
il trionfo della signorina Bice.
PAOLO Sicuro. Allora domani, resto inteso. Tutti a pranzo qui da me
per onorare la futura artista.
AGHETA E potete dirlo forte, perché Bicetta c’è nata artista; come me
che ciavevo una voce, una voce fienomenale! Si io avessi studiato, a
quest’ora, a quest’ora!...
TADDEO (a parte) (L’averebbeno ammazzata!)
PAOLO Anche noi lo stesso. C’era Nena che, da regazza, ciaveva una
voce che a casa, quando cantava, la gente de sotto ce se fermava a
bocca uperta accusì! (riunendo le cinque dita della mano dritta) È
vero Nena?
NENA Altro che! Accusì avessi studiato!... Tutti de casa siamo nati artisti. C’è Pio, quel figlio mio che me fa el soldato, che l’hanno messo
in orchestra a sonà la catubba 21.
PAOLO Eh sí è vero, semo nati tutti artisti. Io presempio da giovinotto, al dì de parecchi maestri con tanto de stivali, ciavevo una bona
imboccatura pel trombone!
AGHETA È vero: tutti artisti. Perfino ciavete el regazzino de bottega
che sòna la ghitarra, e Tuta, la serva, la tamburella.
MARITO (con grande importanza) Eh, dite bene, artisti ce se nasce o
niente. Mia moglie, presempio a Vascintonne...
21
Grancassa.
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CANTINI (interrompendolo) L’arte si succhia col latte!
MARITO (c. s.) Eh già, in arte libertasse! dice quello.
AGHETA (fuori di sé dalla commozione per il gran vino bevuto) Chi vorrà vedere ‘sta sera Bicetta nostra vestita da Leonora, cantare:
Al suon delle preci
NENA (c. s.) Solenne in quest’ora!
PAOLO (c. s.) Ah, che la morte ogn’ora!
È tarda nel venire...
MARITO (c. s.) Non ti scordar di me!...
CANTINI (c. s.) Non ti scordar di me!
Eleonora addio,
Addio addio.
TUTTI (c. s. in coro)
Al suon delle preci,
Solenne in quest’ora!
Insomma: tutti alticci dal vino cantano qualche pezzo del Trovatore a piacere, stonando maledettamente; meno Cesare e Taddeo che inorriditi si turano le orecchie.
Cala la tela
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ATTO III
Una stireria con tutto l’occorrente. Le stiratrici si finge che, essendo domenica, riposino. In fondo una vetrina che dà sulla strada. A sinistra una
porta.
SCENA I
Nena e Agheta
NENA (vestita dimessamente sta seduta vicino ad Agheta e cuce) Eh, oggi
mi sento accusì infastidita che nun riccapezzo manco a lavorà...
AGHETA (anch’essa seduta, con gli occhiali; lavorando di calza) Tutt’affetto dell’antimosferia: noi, o meglio l’organesimo nostro, va cor tempo come l’orloggi...
NENA Eh, altro ch’el tempo, sor’Agheta mia, sò li dispiaceri... sò...
AGHETA Sì anche quelli infruvenzischeno...
NENA Chi cce l’avesse detto doppo tante speranze, a finì come semo
finiti! A momenti sò sei anni da quella ammazzata sera...
AGHETA Come passa el tempo: a me mi sembra glieri che facemio tutti quelli sogni indorati! E mi’ figlia va per li dieci anni!
NENA Quella maledetta sera gliela tirarono proprio forte a quella figlia
mia!...
AGHETA Ma se comprende! Quel forsenato del sor Gregorio, se vede
che aveva comprato tutto el teatro, laonde vendicarsi, e ci riuscì...
NENA Eh, m’abbadi a lui; perché si l’incontro, bella che donna!
AGHETA Ah dunque nun l’avete più visto da quella sera?
NENA Nun cià avuto faccia: s’è condannato da sé...
AGHETA Se capisce; e da ciò se ne introduce che l’amico Cerasa 22 è stato lui!
NENA Capisco che quella sera andò tutto a rottadecollo.
AGHETA Tutto andò all’unìsino! Dal direttore d’orchestro [sic] all’ultimo coristo [sic]. Tenore, contratto, bariteno, basso... Tutti! Fu un
vero catechissimo.
NENA Parse una cosa fatta appositamente: fu un disastro, un vero disastro!
AGHETA Per antro, l’unico che se la cavò, fu il sovrano. Tanto vero che
quando se decise da entrare in d’una compagnia d’operette, come l’in22
Verme delle ciliege, si usa genericamente per persona che non si vuole nominare, o
della quale si sta parlando o sparlando.
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tese el capocomico sor Gargano, Bicetta fu scritturata subbito... Eh,
cara mia, quando si nasce artiste!
NENA Viva la faccia! Almeno nell’operetta sò venti lire, nun ce piove
e nun ce fiocca! Mentre al Quirino ce toccò a ppagà a noi p’el debbuttolo.
AGHETA Ma sí l’arte è finita, ma sí l’arte sta in estrèmise: nun dà più
risorse: siamo in troppe d’artiste, siamo in troppe! (con convinzione)
NENA (sospirando) Almeno, però, quella figlia se la fosse saputa mantené quela furtuna!...
AGHETA Già: anche essa, andarsi a innamorà d’un conte e sposasselo!
Come la mia: la mia baronessa, e la vostra contessa!...
NENA (sospirando) Già, contessa!...
AGHETA Quanto temp’è che nu’ scrive?
NENA È un pezzo.
AGHETA Come, m’ha detto Pavolo che glieri ha ricevuto una cartolina allustrata?...
NENA Sentite, sor Agheta mia, è inutile che stamo a finge; intanto voi
sete come una sorella, e ve posso dì’ la verità; sicura che nun l’anderete dicendo a gnisuno: nemmeno a Paolo che lo sapete...
AGHETA Ma ve pare!
NENA (si guarda attorno; poi abbassando la voce) Dunque, sappiate che
Bice...
AGHETA Per cristallina, che me dite?! Anch’essa gnente n’ha fatta qualcuna grossa?
NENA Ma... me raccommando! È scappata col soffione de la compagnia...
AGHETA Col soffione? (a parte) (come la mia!) E da quando?
NENA Da circa sei mesi e nu’ ne sapemo più nova. Ve potete immagginà le pene mie e del padre!...
AGHETA (offesa) E a me, a Agheta, nun diglie gnente!
NENA A che serviva?... Eh me sò fatta più pianti, me sò fatta! E incora
nun me posso dà pace...
AGHETA Fate male, sora Nena: nun ve ne pigliate; ché intanto ‘ste figliacce suono tutte d’una rìsima!... E siccome male comunale è mezzo
gavudio, sappiate che anche la mia, nun è vero che s’è sposato un barone. Me scappò via puro lei col soffione de la compagnia, che glie se
mangiò, doppo pochi giorni, tutto el varsente23, e poi me te la piantò
scalza, e strappina in mezzo di una contrada nella più squalida posizione finanziaria. (dirà tutto ciò declamando, come sempre)
23
Denaro in genere.
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NENA (meravigliata) Ma davero? Puro a voi v’è successo lo stesso?!
AGHETA Preciso, come du’ gocce d’acqua!
NENA E nun m’avete mai detto gnente?!...
AGHETA Eh capirete, sora Nena mia, l’amor propio, la casa, l’onore de
casa!...
NENA Dunque se potemo dà la mano?
AGHETA Diàmosela puro, perché siamo coetanee nun solo nella sventura ma anche nei due soffioni!
NENA Oh povera sor Agheta!
AGHETA Ahi sventurata Nena!
NENA Accusì se siamo ridotti: che a lui, a forza de trascurà la bottega,
gliè toccato a chiudella per via che nun veniva più un cane; e io per
consiglio vostro sò venuta da un mese a stà qui con voi, indove per
furtuna, nun ce conosce gnisuno; e ho messo ’sta stireria a lucido che
cce va a rotta de collo...
AGHETA (con autorità) Cianderà meglio allorquando metteremo scritto defora cor una mostra indorata (che già ho ordinato): “Qui nun si
addropa che l’amido Sbanfi”24. Lassate che venghi da un momento
all’antro, da Milano, el rippresentante viaggiatore de la casa Sbanfi e
ve n’accorgerete.
NENA Quando lo dite voi...
AGHETA Nun nascondo la mia ignoranzità che c’è troppa concorenzia, questo è vero. Soltanto in questa contrada ci suono tre stirerie! E
per quanto li vòmmini si faccieno stirare, quello ch’è troppo è troppo!... Eh cara sora Nena, nun solo l’arte, ma eziandio puro el commercio è ruvinato!
NENA Puro questo è vero.
AGHETA Fortunatamente che io me so riggirà el talento! Finita ch’averò l’operazione co’ la casa Sbanfi, per l’affare dell’amido, ciò pe’ le
mano un antro progetto che si me viè bene, è fatta: semo mijonare.
NENA E quale sarebbe ‘sto progetto?
AGHETA Nun ve l’ho detto fin’ora per pavura che lo propagandassivo;
ma siccome ormai la cosa è avviata, ve lo dirò. Sto dunque facendo
pratica cor Vaticano pe’ mette su la mostra “Fornitrice de li sacri palazzi apostolichi”25.
24
Allusione alla casa Banfi di Milano, produttrice dell’amido industriale negli anni
1890/1910.
25
Lezione precedente: «Cor Ministerio de la Real Casa, pe’ mette su’ la mostra: “Fornitrice della Casa Reale”».
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introduzione
NENA Magari!
AGHETA Fatto questo, nun avemo più pavura de gnente! Possiamo puro mettere la carrozza!
NENA Speramo bene basta: fortunatamente fra tante disgrazie ho potuto imbucà quel povero Paolo mio, pe’ custode...
AGHETA (interrompendola) A le scuole alimentari. E nun fui io? Chi
ve lo consigliò? Chi ve fece caccià le carte?26
NENA E con quel poco la strappamo avanti a la bona de Dio... De tanti sagrifici che avemo fatto per quella figlia, nu’ n’avemo ricacciato altro che dispiaceri e miseria.
AGHETA Come la mia, precisa, autentica!
NENA Bice, m’avessi mai mandato un soldo! E tutti li debbiti che avemo fatto per quel maledetto debbutto, el padre li sta scontando a forza de barbe che va a fà a destra e a sinistra nell’ore de scanzo che glie
dà l’ufficio.
AGHETA Eh poveri martiri dell’arte che siamo tutti!
NENA Accidenti al momento che me venne l’idea de faglie imparà la
musica!... E un po’, se non tutta, la cavusa fussivo voi però...
AGHETA È vero! Ma che ciò che fare io si la figlia vostra era chiamata
all’arte livida? Si era una vera artista nata e creata, come sete artisti
tutti de famiglia?!
SCENA II
Dette e Torcolo
TORCOLO (entrando dalla vetrina) C’è Pavolo?
NENA No: stà a scola.
TORCOLO M’aveva promesso de venimme a ffà la barba, e incora nun
se fa vede. Pure oggi è domenica!
NENA Cià avuto un servizio strasordinario; ma vederete che prima de
mezzogiorno vierà de certo.
TORCOLO Ce farà el piacere! Doppo che me sò assoggettato a scontaje queli quaranta scudacci che j’imprestai, a forza de barbe, m’ho
puro da vienì a riccomannà!...
NENA Eh, li sconterete, nun avete pavura!
AGHETA Nel caso c’è chi ce penserà per lui. Fra poco sarete estinto.
26
Segue una battuta cancellata: AGHETA (interrompendola) E si nun me va bene questo, de proggetto ce n’ho un altro più magnifico. De mettere ciovè un Bar automonico,
a du’ soldi, a la Stazione de Trestevere. Eh che ve ne pare?
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TORCOLO Li sconterò? Lo dite voi. Nemmanco si campo l’anni de
Matusalemme!
NENA Via, sete bono!...
AGHETA Giacché lo sete stato infinenta adesso.
TORCOLO Eh lo so che a esse minchione a ’sto monno ce s’arimedia
sempre. Diceva bene la bon’anima de Pippo Mojéra: «Nun fa mai bene che nun averai mai male!...» Abbasta: appena viè diteje che l’aspetto. (se ne va)
SCENA III
Dette, poi Paolo, Cesare e Taddeo
NENA Vedete si è vero? Quel poveraccio de Paolo, per pagà li debbiti,
nun fa a tempo a corre de qua e de là, a fà barbe a li creditori.
AGHETA Fortunato lui che lo puole! A me che abbitavo pel Babbuvino, per nun potello fare, suono stata disobbligata a venire in Trestevere; perché laggiù a ogni pié respinto me vedevo un creditore
apparteddietro o appart’avanti!
NENA Insomma avete sempre raggione voi.27
27
Segue testo cancellato:
PROCOPIO (entrando dal fondo) C’è Paolo?
NENA Maestro, bongiorno!
PROCOPIO Eh piano, perché, dirò così per dire, lo sapete che maestro non lo sono più,
grazziaddio. Ora sono esattore dell’acqua Marcia.
AGHETA Nu’ lo sapevo! Come puro lei ha abbandonato l’arte, come nojaltre?
NENA (ad Agata) Che nun lo sapevio?
PROCOPIO Da circa due anni. L’arte, dirò così per dire, nun rende più: l’arte in Italia,
è morta... Per carità nu’ ne parliamo... Dunque, Paolo?
NENA Starà a momenti.
PROCOPIO L’aspettavo, dico così per dire, a casa a farmi la barba; e nun s’è visto. Pu-
re oggi è domenica...
NENA Poveraccio, cià avuto un servizio straordinario.
PROCOPIO Capisco, sora Nena mia; ma quando uno se fa la barba a sconto del dana-
ro che si avanza per le lezioni date a vostra figlia, dico così per dire... A proposito
e di Bicetta che nove?
NENA Grazie; bone.
AGHETA Sta benone! Beata lei che se la gode! Capirete ha sposato un conte!
PROCOPIO (a parte) (Si è contessa, potrebbe allora pensà a pagarme le lezione!)
SCENA III
Detti, Cesare, Taddeo e Paolo
CESARE (con un voluminoso involto) È permesso?
NENA Avanti!
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introduzione
PAOLO (vestirà la divisa dei custodi delle scuole comunali) Nena, guarda
un po’ chi tte porto?
NENA Uh guarda Cesare, Taddeo!
AGHETA Oh, questa sì che è cronica!
CESARE Come state?
PAOLO L’ho incontrati qui per la Longara.
TADDEO Vojaltri puro sete venuti a abbità in Trestevere?
PAOLO E la sapete la novità, sor Agheta? Puro Cesare ha abbandonato
l’arte.
AGHETA Me n’arillegro per la risoluzione presa!
CESARE Grazie.
NENA Ma guarda che combinazione! È da quella maledetta sera che
nun ce vedemio più!...
CESARE Sapevo che vojaltri avevio chiuso bottega de barbiere; ma nun
sapevo che eravate venuti qui...
PAOLO Da poco però.
TADDEO E Bicetta?
AGHETA È contessa: ha sposato un conte.
CESARE (piano a Taddeo) (Com’è baronessa la sua).
TADDEO Insomma tutti hanno abbandonato l’arte meno che io.
CESARE Perché nun hai trovato de meglio!
TADDEO Bravo! Co’ tutto che a quel corno mio ce sò troppo affezionato.
AGHETA Ma guarda che strana condiscendenza, doppo guasi sei anni,
ritrovarsi accusì tutti uniti dal caso, e tutti lontani da quell’arte infamante.
(nel riconoscere Nena, Agata e Procopio resta meravigliato a guardarli; così è di
Taddeo) La sora Nena? el Maestro?
TADDEO La sor’Agheta!
CESARE (a Taddeo) Ah, Taddeo, ma nu’ li vedi?
TADDEO Eh che m’hai preso pe’ guercio?
NENA E che nova?
CESARE Lo direbbe a voi.
PROCOPIO (a Cesare) Ma come nu’ lo sapevate?
AGHETA Oh questa sì che è cronica!
CESARE Ho visto scritto Stireria e sò entrato a portà queste camicie (mostra l’ involto)
de li regazzi che stanno qui al Collegio Militare a la Longara...
PROCOPIO Che anche voi, avete abbandonato l’arte?
CESARE (a Procopio) Che puro voi?
PROCOPIO Da quella sera in poi!... Io sono esattore della Società dell’Acqua Marcia.
CESARE E io custode o bidello del Collegio Militare. Considerato che l’arte nun buttava bene, m’è capitata ‘sta furtuna e l’ho agguantata.
CESARE
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n
)
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PAOLO Bisogna bagnalla questa combinazione!
TADDEO E quanto stamo?
CESARE (a Nena) Miracolo che oggi ch’è festa tenete uperto.
NENA Co’ la cosa che la sor’Agheta aspetta da Milano un viaggiatore,
nun avemo chiuso.
AGHETA Ciò un proggetto pe’ le mano, che si me viè bene, ce divento
miglionara.
CESARE Voi sete sempre stata la donna de li proggetti!
TADDEO E nun c’è caso che ve ne vadi uno bene!28
AGHETA Lo dite voi.
CESARE Ma dunque, bevemo o nun bevemo?
PAOLO C’è bono assai, m’hanno detto, qui a Santa Dorotea, a un’osteria che hanno uperta ieri. Mó ce mando a ordinà un par de mezzi da
un regazzino dell’orzarolo qui accanto.
Mentre sta per uscire entra il cavalier Cantini, il quale si sarà fatto crescere
la barba. Porterà sotto il braccio destro una cassetta di campioni come i viaggiatori di commercio.
28
Segue testo cancellato:
CESARE (piano a Taddeo) (E si ciarimette li quadrini nun sò li sui!)
PROCOPIO Che bell’improvisata che sarà per Paolo che adesso viè.
SCENA V
Detti e Paolo
(vestirà il costume dei custodi delle Scuole Comunali) Ih guarda quanta gente!
(poi meravigliato) Cesere el soffione, Taddeo el sonatore de corno!... Doppo tanto
tempo: e che novità?
CESARE Caro Pavolo, dimme pure ex-soffione, perché adesso sto qui a la Longara,
per custode...
PAOLO De li matti?
CESARE No: del Collegio Militare.
PAOLO E come hai trovato Nena?
CESARE Avevo da fà stirà ‘ste camicie de premura; ho visto ‘sta stireria nova che nun
ce lo sapevo ce sò entrato e ho avuto ‘sta sorpresa.
PAOLO Dunque tu puro hai detto addio a l’arte come me?
CESARE Per sempre.
PAOLO Io puro nu’ ne ho voluto sapé più gnente.
AGHETA Anche noi talecquale!
PROCOPIO Altro che Taddeo j’è rimasto fedele.
CESARE Perché glie frutterà.
AGHETA Eh li corni hanno fruttato sempre!
PAOLO Ma bravi, bravi, bravi! Damese tutti el cinquanta! (si stringono la mano)
PAOLO
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introduzione
SCENA IV
Detti, Cantini
CANTINI ( fermando sulla porta Paolo) Scusi, è qui una bottega di stireria, dove fa recapito una certa signora Agata Disordinati?
PAOLO Per l’appunto. Favorischi. (poi ad Agata) Sor’Agheta sete desiderata.
AGHETA Ah ho capito. (a Cantini) Favorischi. Lei è il commissario
viaggiatore della Casa Sbanfi?
CANTINI Lei è la sora Agata? ( fra sé) (Me pare di averla veduta un’altra volta!) (seguita a parlar piano con Agata)
PAOLO (come seguitando un discorso con Cesare, Nena, Taddeo e accennando a Cantini) (Ma me pare che sia lui?)
AGHETA (a Cantini) Torno a ripeteglielo: la sua fisonomia nun m’è nova.
PAOLO (osservando bene Cantini) Ma scusi, se non mi sbaglio, noi ce
conosciamo?
CANTINI (a parte) (Maledizione, guarda dove sò capitato!) (poi facendo lo gnorri, per non farsi riconoscere) Ma lei prende un equivoco; io è
la prima volta che faccio la piazza di Roma... (poi a parte) (Ma guarda
el diavolo! Sò caduto proprio in bocca al lupo!)
PAOLO Eppure, scusi, me pare tutto un certo signor cavaliere Cantini,
un celebre tenore, amico d’un amico nostro...
CESARE Che ha ottenuto successi colossali in tutto el mondo...
TADDEO Spiccicato a lei...
AGHETA Fora la barba, sarebbe priciso. E si lei nun è, sarà un suo fratello giamello.
CANTINI (vinto dall’evidenza) Ma sono proprio io!
PAOLO E nun m’ariconosce?
NENA Nemmeno a me?
PAOLO El sor Paolo el barbiere de via de l’Impresa...
AGHETA El padre del sovrano, che glià fatto qualche volta la barba.
CANTINI (come se cadesse dalle nuvole; vedendo che ogni resistenza sarebbe inutile) Uh guarda guarda! Sì avete raggione... Infatti sì, adesso
che vi guardo bene a tutti, mi pare di riconoscervi; (eh altro si vi riconosco!) (si danno la mano)
PAOLO Cavajere, e che novità, doppo tanto tempo che nun avevo più
l’onore di vedello!
NENA Davero! (ad Agata) (Da quella sera!)
AGHETA (a Nena) (Già puro lui Gesù Gesù se squajò e nun s’è visto più!)
PAOLO A quel che pare puro lei ha abbandonato l’arte?
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CANTINI Sì, da oltre due anni. Mio Dio, cosa vuole, l’arte purtroppo
qui in Italia è finita, anzi è morta addrittura. Così mi sono ritirato
dalle scene con una vistosa rendita... E per non stare in ozio mi vado
occupando (ma lo faccio più per avere il gusto di viaggiare!)
CESARE (a Taddeo) (Se capisce!)
CANTINI Mi vado occupando, come dicevo, facendo il viaggiatore
della casa Sbanfi, e dei prodotti elementari della casa Maggi29...
AGHETA Ho capito, quelli in buvatte30?
TADDEO (Cusì finalmente ha trovato el modo de spaccialle, ne sparava tante de buvatte!) (a parte a Cesare)
CESARE (c. s.) (M’almeno adesso cià l’equivalente!)
AGHETA Ma oggi è la giornata de l’incontranze.
CANTINI Chi me l’avesse detto, dopo tanto tempo, di ritrovare tutti
questi buoni amici. Sono propio contento!
CESARE (piano a Taddeo) (Questo nun se l’aspettava davero!)
TADDEO (piano a Cesare) (Quanno cià riconosciuti a momenti glie
pigliava un accidente!)
PAOLO Nena, che ne dici de ‘sta combinazione?
NENA Che me pare un sogno! L’avé riveduto oggi Cesere e Taddeo.
AGHETA Davero! Il caso è così estraneo che bisogna pigliacce li nummeri e giocacce al lotto.
CANTINI A proposito, e la nostra artista la signorina Bice?
AGHETA Un conte se n’è innammorato cotto, l’ha torta dall’arte e se
l’è imparamata!
CANTINI Anche lei dunque glià detto addio?
AGHETA Come tutti noi!
CANTINI Com’è caduta in basso! A me da 2.000 lire per sera, hanno
avuto el coraggio di offrirmi 500 lire!
PAOLO Che infamità!
AGHETA Che opprobio!
CANTINI L’arte, amici cari, è in piena decadenza. E non si rialzerà più.
AGHETA (sospirando) Me ne duole; ma è purtroppo la verità. Il rialzarla è una speranza avana.
CANTINI Me rincresce che ho dato appuntamento a un negoziante a
Frascati, altrimenti questa sera vi invitavo tutti a cena...
AGHETA Come, parte cavajere? Allora me facci vedere questi campioni.
CANTINI (porgendole una cassetta di legno) Eccoli. Li guardi bene, e
mi dica subito la qualità che sceglie.
29
30
Industria alimentare, nota per il dado da brodo.
Buvatta: scatola di metallo con coperchio.
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introduzione
AGHETA (prendendo la cassetta) Si permettete mi aritiro un minuto su
a casa laonde fare la scelta, e torno subbito. (va via dalla porticina sinistra)
TADDEO Ma insomma bevemo o nun bevemo?
CESARE Adesso me pare che sarebbe propio l’occasione...
PAOLO Adesso lo mando subbito a ordinà. (esce in fretta)
CANTINI (a Taddeo) Lei dunque è l’unico rimasto fedele al corno?
TADDEO Pe’ nun aver trovato de meglio.
CANTINI (con importanza) Nun ci pensi. Appena sarò a Milano, glie
farò avere un posto di 300 lire al mese.
TADDEO Grazie! ( fra sé) Allora magno!
SCENA V
Paolo, Detti e poi Marito della prima donna
PAOLO (tornando dal fondo) Cavajere, ho mandato a ordinà un goccio
de vino in un’osteria che hanno aperto ieri sera, che m’hanno detto
ch’è una vera manna celeste.
CANTINI Lo sentiremo, e lo beveremo alla salute nostra.
NENA A la fortunata combinazione che cià fatto ritrovà. (avvicinandosi alla porta sinistra e chiamando) Sor Agheta, venite giù presto.
TADDEO Finalmente ecco el vino!
MARITO (entra in maniche di camicia, un beretto in testa. In una mano
porterà tre litri di vino, nell’altra sei o sette bicchieri nei quali, per tenerli saldi, avrà introdotto le cinque dita. Entrerà franco esclamando) Ecco
el vino! (ma poi, riconoscendo tutti i suoi antichi colleghi, rimane interdetto e meravigliato in mezzo alla stireria con quegli oggetti in mano)
PAOLO (riconoscendolo subito esclama meravigliato) Lei?!
MARITO (c. s. a Paolo) Voi?!
CANTINI (c. s. al Marito) Tu?
MARITO (c. s. a Cantini) Tu?! (poi a Nena) Voi?
TADDEO (c. s. al Marito) Lei?!
MARITO (c. s. a Taddeo) Tu?!
CESARE (c. s. al Marito) Lei oste?!
NENA (c. s.) Oste, voi?!
TUTTI (c. s. al Marito) Oste?!
MARITO (rimettendosi dalla inaspettata sorpresa) Già oste! Sono aritornato all’antica professione per amore del mestiere.
NENA Chi vorrà vede la sor Agheta, quanno lo saprà! (chiamando) Sor
Agheta, sor Agheta, lesta a scegne, per carità!
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AGHETA (di dentro) Ch’è successo?! Èccheme...
NENA Lesta che nun c’è tempo da perde!
PAOLO Ma varda oggi le combinazione! Davero bisogna giocare a lotto!
MARITO E chi se lo sarebbe creso de trovavve!
PAOLO El marito della prima donna oste?!
MARITO (a Cantini) Io oste, e tu? (agli altri) e vojaltri?
CANTINI Io, commesso viaggiatore per diporto.
PAOLO Io, custode delle scuole alimentari.
CESARE Io, bidello al collegio militare.
TADDEO Io, sempre sonatore de corno.
MARITO E la sor Agheta, quella cara sor Agheta?
NENA Io e la sor Agheta, stiratrice de colli per ommini e regazzi.
SCENA ULTIMA
Agheta e Detti
AGHETA (con gli occhiali, un cappello ridicolissimo) Eccomi, eccomi, ho
udito tutto. Qua un abbraccio e un bacio. (abbraccia e bacia Marito)
MARITO A me incora nun me pare vero!
AGHETA Davero oggi è la giornata de le strutrefazioni! (poi volgendosi
a Nena) Sora Nena, sabbito vederete che vinceremo al lotto!
MARITO Doppo tanto tempo, arivedesse qui tutti d’un’idea, tutti d’un
principio, tutti d’una fede. Damese un bacio. (posa sul tavolo ogni cosa; e si abbracciano tutti)
AGHETA (commossa) Io me sento scegnere le lagrime dalla commemorazione!
MARITO Sì, rivedesse doppo tanto tempo e in un’altra condizione è
davero commovente!... Eh arte infame!... Ma è inutile che stamo qui
a piange el morto... Venite tutti a bottega mia che ho uperto ieri sera.
Ve presenterò mia moglie, la celebbre prima donna, e mangeremo un
boccone assieme in allegrezza d’esserse ritrovati tutti doppo tanto tempo, e tutti d’un idea: odio all’arte!!
AGHETA Bravo! questa del pranzo è una gran bella e nobbile pensata!
Anzi, a me me ne viene un’altra più al sublimato. Oggi a tavola, mangiando, fonderemo la bassa d’una nova società filantronica che porterà l’intitolo: Le vittime dell’arte musicale!
Cala la tela
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LA SOCERA
Scene originali romane in tre atti
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. Un quaderno di 86 cc. (mm 320x220), composto da 43 fogli tipo protocollo recanti il marchio del Ministero della Pubblica Istruzione.
Cc. 117-202: bianche le carte 172 e 202.
A c. 201r, in calce, a matita: «2 Marzo 1906».
Un inserto di 1 c. (c.146/1, mm135x103) tra c. 145 e 146/2.
Testo a piena pagina.
Titolo ripetuto in alto a sinistra alle cc. 143 e 173.
Calligrafia autografa.
Nel faldone è presente un’altra stesura legata immediatamente dopo: un
quaderno di 30 cc. composto da 15 fogli dello stesso formato e caratteristiche del precedente.
Cc. 203-232: bianca l’ultima carta.
Alla c. 203, in basso a sinistra, a matita blu: «Copiaccia rivista e corretta»
A c. 231, in calce: «2 Marzo 1906».
Testo incolonnato a destra.
I due quaderni sono raccolti tra due carte di guardia: c.116 e c.233.
Di questa commedia esiste un’ulteriore redazione manoscritta conservata
nell’Archivio Capitolino. Cfr.: G. Zanazzo, La sôcera. Commedia inedita in tre atti a cura di Francesca Bonanni Paratore, Roma, Bulzoni, 1980.
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introduzione
Personaggi
CAMMILLA la suocera, moglie di
GIUSEPPE PACETTI agiato negoziante ritiratosi dal commercio
ADELE
loro figlie
ELEONORA }
LUCIANO RIVOLTA avvocato, marito di Adele
FILIPPO FORLINDI fidanzato di Eleonora
ADOLFO MICCARELLI giovane di studio di Luciano
MENICA serva in casa di Cammilla
EBE toscana, serva di Luciano
AGNESE lavandaia
ORSOLA id
GIACOMANDREA scopino
GRISPINO calzolaio
ARTEMISIA custode della fontana comunale
PRIMA LAVANDAIA che parla
LAVANDAIE che non parlano
Epoca 1886
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ATTO I
Camera di ricevimento in casa di Cammilla. Arredi di lusso, tappeti. Porte ai due lati e in fondo.
SCENA I
Cammilla sola, poi Menica
CAMMILLA (seduta su di una poltrona osservando una lettera) È inutile che me stii tanto a sguercià, intanto, confesso la mia ignoranzità,
nun so llegge... Però sarebbe tanta curiosa de sapere de chi ène ‘sta
lettra ch’ho ttrovo jeri sera per tera in de lo studio der mi’ genero!...
Er core me dice: leggela, leggela: ché tte n’aritroverai contenta... (spinge un campanello elettrico) Chi lo sa che finarmente nun me rieschi de
sbuciardà quer gesuvito farso der mi’ genero?! (suona di nuovo) Bella
invenzione che sò ‘sti cosi! È mezz’ora che me sto a spigne l’animaccia
mia, e ‘ste scannate de le serve incora nun se fanno vive. (chiama) Menica, Èbbete, Menica!
SCENA II
Menica e Detta
MENICA Ècchime.
CAMMILLA Che sete sorde? È mmezz’ora che spigno er campanello
eretico.
MENICA E cchi l’ha inteso?!
CAMMILLA Allora bisogna dire che ‘sti freschi se sò guastati, e bisogna mandà a cchiamane l’ereticitista che li vienghi a accommidane.
MENICA Ce posso annà in sur subbito.
CAMMILLA Annatece; ma prima dite a Èbbete che vienghi un momentino de qua.
MENICA Èbbete è uscita per un servizio de la sora Adele, e prima de
mezzogiorno nu’ starà a ccasa.
CAMMILLA Allora ammalappena aritorna, mannatemela de qua. Nun
serve antro.
MENICA (esce da la porta in fondo)
CAMMILLA Èbbete, esenno toscana, è ‘na regazza ‘strutta, e ‘sta lettera me la farò legge da lei... Sò propio curiosa de sapè quello che cc’è
scritto. (se la ripone in tasca) Abbasta: adesso quanno vierà se leveremo
la fantasia.
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introduzione
SCENA III
Giuseppe e Detta
GIUSEPPE (esce dalla porta destra; e credendo di esser solo si fruga nelle
tasche) Dove l’averò messa? In saccoccia nu’ me la trovo, nel portafojo
nemmeno...
CAMMILLA Che cercate?
GIUSEPPE (sorpreso, si ricompone subito) Ah gnente; cercavo el fazzoletto da naso.
CAMMILLA Ve l’ho preparato sul commodino da notte.
GIUSEPPE È quello che dicevo; perché me ricordo d’essemelo messo
in saccoccia ( finge di ritrovarlo) Ah eccolo! L’avevo messo ne la saccoccia de le falde.
CAMMILLA Indove ve n’andate che vve vedo tutto in arme e bagaji?
GIUSEPPE El solito. A famme una passeggiata pe’ li quartieri novi, che
sò una sciccheria. Si vedi che paradiso che sò li quartieri Ludovisi, li
Prati de Castello, l’Esquilino!... Che strade larghe, che aria, che sole!
ah bene mio, te senti arinato!... Tu invece te ne stai sempre a covà a
ccasa...
CAMMILLA Sai che cose rare! Speciarmente queli belli nomi che j’hanno messo! Via Terenzia Mammana, via Pistalossi, Marco Pepe, Vitturino de Fertro, Ardo Pannuccio...
GIUSEPPE Già, voi nun sete bona altro che a ccriticà tutto e tutti. Invece a me, me piaceno; ce vado e me ce trattengo con piacere.
CAMMILLA Abbasta, da quanno abbiamo chiuso bottega, nun fate
antro che annare in giro tutto el santo giorno facenno el bigantone1...
Oggi però co’ la cosa che aspetto l’innamorato de Lonora che me la
viè a cchiede, poteressivo fanne condimeno...
GIUSEPPE Cammilla mia, quello che fate voi è ben fatto. Intanto io,
si anche nun me va bene qualche cosa, me tocca a inchinà la testa lo
stesso. Dunque è inutile...
CAMMILLA Una gran bella scusa, pe’ fà sempre el commodo suo! Abbasta: a ‘sto monno gnente è necessario. Annate puro e giudizio: capite? giudizio. Nun ve dico antro. Si no ‘mara la vostra pelle.
GIUSEPPE Allora posso andà?
CAMMILLA (con protezione) Annate: ve do el permesso; e ch’el Signore v’accompagni.
1
Bighellone.
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GIUSEPPE Se vedemo. ( fra sé) Me credevo de peggio... Ma dove diavolo l’averò messa? ( frugandosi nelle tasche. Esce)
CAMMILLA Ommini, bisommini2... Tutti compagni! Puro questo cardeo si nun ero io, averebbe fatto più broccoli che quatrini. Ma grazziaddio, nun me posso lagnà: è bono, bono tre vorte bono. Davero che
posso dire d’essemelo tirato su a mmollica a mollica: e infatti ècchevelo lì, un antro marito accusì è indificile a trovallo. Bono, rispettoso,
nun vede antro che pell’occhi mii. E nun ha conosciuta, ce metterebbe la mano sur foco, antra donna a l’infori de me... Mentre ‘sti ganimedichi d’oggi giorno, è uno peggio de l’antro... Come quer ber tomo
der mi’ genero! Eh ma co’ me ha trovo l’osso pe’ li su’ denti. Una che
je ne scropo, le paga tutte!... St’ammatina poi ciavemo la visita de
quell’antro tisico der fidanzato de Lonora; puro quer regazzino si nun
ara dritto me lo lavoro io! Artronde piuttosto che ffaje fà l’amore d’anniscosto, è mejo che venimo a una concrusione; tanto più che è de bona famija e er padre, a quer che sento, è ingroppato forte... Si nun me
sbajo, ecco Adele co’ quer gesuvito farso, che viengheno da lo studio.
Sentimo che dicheno. (si nasconde dietro un paravento o altra cosa)
SCENA IV
Luciano e Adele (dalla porta a destra)
LUCIANO (vestito per uscire) Ma sta tranquilla, Adeluccia mia, non dubitare de me. Tu comprendi bene che io, per farmi conoscere e farmi
largo nella mia professione, ho bisogno di girare, di frequentare, di...
E no di starti sempre fra i piedi... Se tu invece di dar retta a tua madre,
avessi più fiducia in me, le cose andrebbero meglio per tutti e due.
ADELE Ecco che entra in ballo mammà.
LUCIANO Ma sicuro che entra in ballo! Se è lei che te mette in testa
di tali idee!... È sempre lei la causa de tutti li nostri dissapori. In tutto, anche nelle cose più innocenti, ce vede el tradimento. Senti: credevo che piovesse, ma no che diluviasse. Che donna insupportabile!
ADELE Basta: giudizio. Ci vediamo a pranzo; e questa sera poi vieni
prestino.
LUCIANO (baciando Adele) Addio, mia cara sposina! (Luciano esce dal
fondo)
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Accenno all’adagio: Ar monno ce sò ommini, bisommini, mezzommini e cazzabbubboli.
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ADELE Chi lo sa se me dice la verità? Io nun so a chi dare retta, o a lui
o a mammà... Certo mammà è troppo sospettosa e vede oscuro da
per tutto...
SCENA V
Cammilla e Detta
CAMMILLA (mostrandosi) Se n’è ito via quela facciaccia de san Gennaro a bocca sotto?
ADELE (sorpresa) E voi, mammà, dove stavate?
CAMMILLA Me sò trova per caso là dedietro a quer paravento, mentre entravio qui in sala e ho inteso tutto. Je la do io l’«insupportabile».
ADELE ( fra sé) (El solito: sospetta sempre de tutti e de tutto).
CAMMILLA E sai perché nun sò uscita fora a ddaje quattro sganassoni a quer lecchino? Pe’ nun datte un dispiacere a tte. Je la vojo dà io
«l’insupportabbile», «nun dà retta a tua madre»! Staressi bene, fija mia,
staressi mejo der cacetto si nun ciavessi a me. Ringrazia Dio che ciai
tua madre che tte guarda le spalle e te consija p’er tu’ bene.
ADELE E io ve ne ringrazio. Ma Luciano non bisogna prenderlo poi
tanto di petto: non ve pare?
CAMMILLA Nun bisogna, nun bisogna! E allora perché lui nun viè la
sera a ccasa abbonora?! Credeme, fija mia, che quanno l’ommini de la
notte ne fanno giorno, gatta ce cova!
ADELE Ma dice che la sera va al Circolo Giuridico e frequenta altri ritrovi per cercare di farse conosce, e de farse strada. Infatti se è poco
che ha aperto lo studio, bisogna pure che li clienti se li trovi.
CAMMILLA Daje retta! Eh povera minchiona, come te se lavora. Chi
sa che Circolo Giudìo buggiarone che sarà! Ch’ha da fà, ch’ha da fà
si m’hanno ariportato che sta tutto er giorno a fà er ciovettone drento
ar Baro automanico a piazza de Venezia?
ADELE (seccata) Ma se, poveretto, non trova... Trovateglie voi da fare
qualche cosa.
CAMMILLA Je l’ho detto: er primo criente bbono che me capita, je lo
manno in su. Già te dico che je l’ho detto. Perché intanto lui cor su’
Circolo Giudìo, li crienti da sé nun è bbono a trovasseli. E tu minchiona stallo puro a ccompatì.
ADELE Ma insomma, mammà mia, che cosa volete ch’io faccia?
CAMMILLA Gnent’antro che damme retta a mme che sò navigata,
che sò tu’ madre, e che tt’odoro. Opri l’occhi; perché cco’ tutto che
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sò pochi mesi che t’ha sposato, quello te la fa, e guai si je lassi la brija
su l’imbasto in sur comincio; poi nun sarai più a tempo. Pija ‘sempio da tu’ padre. Eccolo lì; quello me lo sò fatto da me, e da me me
l’arivorto come me pare e piace. Lui antre donne a l’infora de me,
nu’ ne conosce e nu’ l’ha mai conosciute. Quello è un sant’omo, un
marito ‘semprare!
ADELE (da sé) (Eppure io de quella gatta morta de papà, poco me fiderei! Sarà).
SCENA VI
Eleonora e Dette
ELEONORA (entrando dalla porta sinistra) Mammà, mammà!
CAMMILLA Cosa ve dole?
ELEONORA Sò le dieci e mezza...
CAMMILLA Aringraziam’ Iddio che ce semo arivati.
ELEONORA Ve volevo ricordà che a momenti verrà Pippetto.
CAMMILLA Che vienghi puro, che sò ppronta a ricevello quell’antro
patirai3.
ADELE Basta, mammà mia, che davanti a quel giovane nun ve ne uscite co’ le solite... cose vostre.
ELEONORA (piano ad Adele) Brava, sorella mia, hai fatto bene a avvertilla.
CAMMILLA E, dico, s’é llecita la dimanna, quale sarebbeno «‘ste cose
mie»?
ADELE Eh, mammà mia, le sapete meglio de noi.
CAMMILLA Adesso ciavemo bisogno de pijà lezione da le fije! Ecco
cosa vòr dì l’avelle tirate su sur quinto e ciovè, l’avelle fatte struvì. J’è
servito pe’ mortificà ‘gni tantino li genitori, a ‘ste spuzzette.
ELEONORA Nu’ lo diciamo mica per mortificavve; ma soltanto perché davanti a la gente, nun ce piace da diventare rosse per causa vostra.
CAMMILLA Quant’è cara lei! Sapete quanto sto, quanno viè quer morto de sonno, a daje un carcio indove se sente mejo, e fallo arotolà pe’
tutte le scale!
ADELE Eh nun ce sarebbe male!
ELEONORA (ad Adele, ammiccando) Ma non te sei accorta che mammà scherza?
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Spasimante, innamorato.
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CAMMILLA Se sa che scherzo. Dopo tutto, sò anch’io er mi’ dovere.
E quando vojo fare la persona de garbo, nun me lo deve venire a insegnare gnisuno. Suono chi suono! (con pretensione)
ADELE Non dico mica de no.
ELEONORA Ne sono più che convinta. ( fra sé) (El cielo ce la mandi
bona!)
Si suona alla porta di casa.
ADELE Sòneno a la porta de casa.
ELEONORA (Come me batte el core!)
CAMMILLA Dev’esse lui l’ammazzato.
ADELE ( fra sè) (Ah cominciamo bene!)
SCENA VII
Menica e Dette poi Filippo
MENICA (sulla porta in fondo) Er sor Filippo Forlindi.
CAMMILLA Diteje che vienghi. (Menica esce)
ADELE Io mi squaglio. (entra a destra)
ELEONORA (supplichevole) Mamma mia, me raccommando, per carità!
CAMMILLA (seccata) Ma quanto puzzi!
FILIPPO (si presenta sulla porta in fondo alla scena, tutto cerimonioso;
sarà vestito con molta ricercatezza) È permesso? Si può riverire la signora Cammilla Pacetti?
CAMMILLA (inchinandosi ridicolmente) Padrone mio; s’accommidi.
FILIPPO Bongiorno, signorina Eleonora.
ELEONORA Bongiorno; sta bbene?
FILIPPO Per servirla.
CAMMILLA (offrendogli una poltrona) Se metti a sedere; s’assedi senza
comprimenti, come famo noi; ché col sedere se raggiona meglio.
FILIPPO (siede) Scusi se me son preso la libertà de venirla ad incommodare.
CAMMILLA Ma gnente! Si nun se conoscessimo buggiancà4; ma io ve
conosco abbastanza; perché nun guardi s’io faccio la finta tonta, ma
io le cose le agguanto a volo come le mosche. Fussi la prime vorta che
la vedo vienicce appresso come un cane!
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Buggiancà: eufemismo per buggiarà (cfr. Chiappini), o buggerà: truffare, imbrogliare, ingannare.
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ELEONORA (finge di tossire per distrarre l’attenzione di Filippo da Cammilla)
FILIPPO Anzi mi perdoni tanto; ma lei sa bene, l’amore è cieco... Ed
ogni volta che io aveva l’onore d’incontrarle non potevo fare a meno
di seguirle...
CAMMILLA (strizzando gli occhi maliziosamente) Eh se capisce, la donna è come la calamita, attira... Eh!...
ELEONORA (da sé) (Io sto sopra una brace!)
FILIPPO E il suo signor consorte?
CAMMILLA Dite a me? Eh quello, a quest’ora beato lui, va facendo
l’ingrese pe’ Roma.
FILIPPO Ne sono proprio dispiacente; perché...
CAMMILLA Dispiacente de che? Parlate, parlate puro; intanto lui quanno se tratta d’affari accusì, lo sa che faccio tutto da me. E poi lui qua
vale quanto er dua de briscola.
LUCIANO Quindi posso...
CAMMILLA Eh speramo de sì.
FILIPPO Allora io mi metto nelle sue mani. Sono innamorato pazzo di
sua figlia Eleonora qui presente, e sono venuto a chiedergliene la mano...
CAMMILLA Come annamo de’ cariera!... E, dico, quanto tempo ve
pijeressivo?
FILIPPO Uno, due, tre... quattro anni, forse, al più lungo.
CAMMILLA E cce mettete puro er «forse»?
FILIPPO Pure dovrò consolidare la mia posizione...
CAMMILLA Che state incora impiegato co’ monsignor de le strade?
FILIPPO Non lo creda; mi maraviglio. Io sto con mio padre...
CAMMILLA Ah me credevo; perché mi figlia, nun faccio per avantalla, cià quarche cosetta ar suo commando. È abbituvata a una vita commida e signorevole... Nun vedete sí cche casa che ciavemo?! (guardandosi attorno)
ELEONORA (tossisce) (Io mi sento morire dalla vergogna!)
CAMMILLA E dunque né io né lui je volemo fà sposà quarche migragnoso, spiantato patirai, pe’ nun fà la siconda.
ELEONORA (tossisce più forte ancora)
CAMMILLA (ad Eleonora) Lo senti come te sei ariffreddata? Questi sò
li frutti che ne ricacci cor fà l’amore, la notte, a la finestra. Ringrazziene ‘sto ber gingì der sor Filippo!
ELEONORA (arrossendo) Macché raffreddata! È un po’ de tosse convulsa... ( fra sé) (Che vergogna!)
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CAMMILLA (a Filippo) Eppoi noi, a casa nostra, vogliamo le cose leste. Nun ce piaceno li scallassedie, li patirai, li... se capimo? A preposito poi quando saremo al momento importuno, ce farete conosce li
vostri genitori, la quale, speramo, che saranno contenti de ‘sto pangrattato?
FILIPPO Contentissimi.
CAMMILLA Ciavete antri fratelli?
FILIPPO Sissignora, un altro che è professore di antropologia all’Università di Camerino.
CAMMILLA (fra sé) (Ar paese de li mosciarellari!) Che fa a Cammerino?
FILIPPO È un distinto antropologo.
CAMMILLA (da sé) (Un antropofago?! Accidente se magna la gente
allora!)
FILIPPO E poi ho una sorella maritata a Montefiascone.
CAMMILLA ( fra sé) (Un paese mejo de l’antro!) A proposito e vostro
padre che mestiere fa?
FILIPPO Mio padre? È avvocato concistoriale.
CAMMILLA Nespole! Dunque sete gente attaccata forte ar preciutto?!
ELEONORA (indignata) Ma mammà mia, questo che c’entra?
CAMMILLA Centra perché ce cape. Che c’è de male? Ho vorsuto intenne che suono gente nera, attaccata ar papa. Mica j’ho detto codiga,
j’ho detto. Che ve ne sete preso, eh sor Filippo?
FILIPPO Ma le pare! Nemmeno per ombra.
CAMMILLA Ah me credevo! Allora co’ me staressivo bene, staressivo!
Dunque, caro sor Filippo... Come fate de casato?
FILIPPO Forlindi, a servirla.
CAMMILLA ( fra sé) (Proprio er nome che je ce vò!) Dunque, caro sor
Forlindo, ce siamo intesi. Intanto, si per principià, volete venì una o
du’ vorte la sittimana a fà l’amore co’ la mi’ fija, sete er padrone. Ma
dico, aricordateve che sur sangue mio ce commanno io. E attenta a
arà dritto; perché Lonora, ortre a esse un ber pezzo de grazziadeddio,
cià salute, struzzione, bajocchi, varsenti5...
ELEONORA Ma questo ce lo sappiamo.
CAMMILLA Sta zitta tu. (a Filippo) E nun vorebbe che doppo passati
li primi furori, cominciassivo a fà e’ libbrettino, come se dice adesso,
appresso a ‘ste zozzone...
ELEONORA (c. s.) Mammà!...
CAMMILLA Insomma, pe’ capisse mejo, nun vorebbe che quanno se5
Denaro in genere.
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te arivato ar vostro intento, facessivo er puzzone come quell’antro genero mio...
ELEONORA (Io ce crepo!)
CAMMILLA Perché io, nun me guardate che sò donna, ma sò ccapace
de...
SCENA VIII
Adele e Detti
ADELE (interrompendo Cammilla) Mammà, mamma, presto è necessario che andate subito de là. C’è Menica e la lavandara che se sò attaccate.
ELEONORA (Cielo ti ringrazio!)
CAMMILLA (scattando) Ah brutte zozzone! (a Filippo) Me scusi si la
lasso. Adele, Leonora, teneteje compagnia infinenta che nu’ ritorno.
FILIPPO (alzandosi da sedere) Intanto mille grazie per la sua cortese accoglienza.
CAMMILLA De che grazie? De che? Ma questo nun è gnente: quello
che vierà in appresso! (esce dal fondo)
SCENA IX
Adele, Eleonora e Filippo
ADELE (a Eleonora) Ho fatto bene a venire? Ho inteso che le cose prendevano una brutta piega, e ho preso il pretesto che sai per venirti a
liberare.
ELEONORA (a Adele) Sei arrivata in tempo. Io me sentivo morire! Che
benedetta mammà!
ADELE (a Filippo) E lei, per carità, non dia peso a tutto ciò che dice la
nostra mamma; è una donna d’un temperamento un po’ vivace, un
po’ troppo franca, se vogliamo; ma in fondo è bonissima.
FILIPPO Ah lo credo ( fra sè) (Dio me la mandi buona!)
ELEONORA (a Filippo) Che te nei sei offeso?
FILIPPO Affattissimo. Se non l’avessi saputo, te lo confesso, mi avrebbe sorpreso; ma sapendolo non m’ha affatto meravigliato.
ADELE Del resto è con tutti la stessa. C’è quel povero papà e anche
quel povero Luciano mio che ce ne prendono de mortificazione!
ELEONORA Te ripeto, è un temperamento così nervoso quella povera
mammà, che Dio ce ne scampi e libberi.
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SCENA X
Luciano, Giuseppe, e Detti
LUCIANO (entrando dalla porta in fondo) Bongiorno!
GIUSEPPE (c. s.) Bongiorno!
ADELE Bongiorno papà. (e gli bacia la mano) Luciano, ben tornato. (si
danno la mano)
ELEONORA Bongiorno papà. (gli bacia la mano) Vi presento il signor
Filippo Forlindi mio fidanzato. (si danno la mano)
GIUSEPPE Tanto, tanto piacere.
FILIPPO Grazie dell’onore.
ELEONORA (a Filippo) Mio cognato Luciano avvocato Rivolta. (poi
a questi presentandogli Filippo) Filippo Forlindi, mio fidanzato.
LUCIANO Fortunatissimo di conoscerla. (gli dà la mano)
FILIPPO (stringendogli la mano) Cosa dice, la fortuna è tutta mia!
GIUSEPPE E lei?
ELEONORA Mammà è andata un momento in cucina.
GIUSEPPE E così, crature mie, s’è combinato poi questo pangrattato?
FILIPPO Sembra di sì. Anzi mi scusi tanto se abbiamo trattato senza
di Lei.
GIUSEPPE Ah nun ce fate caso sor Filippo mio; in ‘sta casa quello che
fa llei è ben fatto. Io me rimetto sempre a la sapienza de mia moglie,
e me ne ritrovo contentissimo. Contenta lei, contenti tutti. (tra sè) (Insomma io de ‘sta casa sò el puzzetta).
LUCIANO ( fra sè) (Un bell’affare, star tutti sottomessi a quell’addannata). (poi rivolgendosi a Filippo) Sicché lei sarà il mio fortunato compagno? (da sè) (Di sventura!)
FILIPPO Lo spero ardentemente.
LUCIANO ( fra sè) (Stai fresco!)
ADELE E a quando le nozze?
ELEONORA Eh vedi adesso sì a che cosa vai a pensare!
LUCIANO Ogni cosa a suo tempo.
GIUSEPPE Bravo avvocato. Oggi intanto se sò fidanzati ufficialmente;
in appresso poi se parlerà de sposalizio. ( fra sè) (Magna, cavallo mio,
che ll’erba cresce!)
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SCENA XI
Cammilla e Detti
CAMMILLA Oh che bella conversazione!
LUCIANO (alzandosi da sedere) Bongiorno, mammà.
CAMMILLA (sostenuta) Bongiorno, avvocato. State commidi.
Tutti siedono.
ADELE Mbè, mammà, com’è andata a finire la lite?
CAMMILLA Benissimo: co’ le bone magnere s’ottiè tutto. Ho sonato uno
sciacquadente peromo che l’ho intontite, e accusì se sò azzittate.
GIUSEPPE Brava ( fra sè) (Le chiama bone magnere!)
LUCIANO ( fra sè) (Che terremoto!)
CAMMILLA Peppe, v’hanno presentato qui el sor Forlindo?
GIUSEPPE Sicuro; me lo ha presentato Eleonora.
CAMMILLA E v’hanno detto che avemo guasi concruso l’affare?
GIUSEPPE Sicuro.
CAMMILLA (scattando) Che omo! Invece de rillegrasse; nun è bono
antro che a dì: «sicuro, sicuro»! Tu davero sei Peppe-peppe de nome e
de fatti.
GIUSEPPE Bona grazia tua che me ciai fatto diventà!
FILIPPO Ma sì che si è rallegrato, appena l’ha saputo.
ELEONORA Verissimo.
FILIPPO È stato anzi d’una compitezza squisita.
LUCIANO È stato gentile.
CAMMILLA Come un fico bruciotto6! Quando lo dite voi.
LUCIANO Volete testimone migliore?
CAMMILLA Sarebbe indificile a ttrovallo. (ironica) Eh, avvocato, a
proposito, e ‘sti crienti vengheno o nun vengheno?
LUCIANO Eh sempre pochini; molti, come desidererei, nun ne vogliono venire.
CAMMILLA (ironica) Eh vieranno vieranno. Lassate fà... ( fra sè) (Oggi te n’ho combinati dua che valeno un perù).
ADELE (per fuorviare il discorso) Papà, dove sete stato de bello?
GIUSEPPE A li quartieri Ludovisi. Ma che bbellezza, che strade, che
aria, che sole!
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Brugiotto: varietà di fichi dalla pelle violacea o nerastra, dal sapore molto delicato.
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CAMMILLA Eh beato lui, lassatelo andà briccocolando7 tutto er santo
giorno, è la contentezza sua.
ADELE Magari lo potessi fare io!
ELEONORA Dopo tutto nun fa male a nessuno.
FILIPPO Facendo molto bene a se stesso.
GIUSEPPE E è uno spasso innocente, come me.
CAMMILLA Povera cratura!
SCENA XII
Ebe e Detti
EBE (presentandosi sulla porta in fondo) Signori, la minestra è in tavola.
FILIPPO (alzandosi) Signori, io vi tolgo l’incomodo.
Tutti si alzano.
CAMMILLA Che incommido, oggi starete, spero, a magnare un boccone co’ noi. (ad Ebe) Èbbete, aspettateme un momento.
ELEONORA Brava mammà.
ADELE Ma sicuro che deve stare con noi. Si adatterà alla meglio.
GIUSEPPE Si Cammilla vò, sono contentissimo de l’onore che ce farete.
LUCIANO Il pranzo del fidanzamento.
FILIPPO Quando loro mi obbligano, io accetto.
CAMMILLA (da sé) (Manco male che ccià fatta la grazzia!)
GIUSEPPE Andamo che ciò una rana8 che me la vedo co’ l’occhi.
CAMMILLA Eh voi (a Giuseppe) sete 1’omo più magnanimo der monno.
LUCIANO (con affettazione a Cammilla) Se accettate il mio braccio?
CAMMILLA Grazie. Sete troppo scivoloso oggi. ( fra sé) (O me l’ha
fatta o me la sta pe’ ffà!)
LUCIANO Io sono sempre gentile con tutti ed in ispecie con mia suocera.
CAMMILLA ( fra sè) (Allìsceme, allìsceme intanto nun me cucchi!)
GIUSEPPE Sbrigamese, Cammilla mia; puro lo sai che io oggi doppo
pranzo devo partì per Marino, per andà a riscòte quelli conti.
CAMMILLA Allora vojantri procedeteme puro; quanto do un ordine
a Èbbete e viengo subbito.
ADELE V’aspettiamo.
CAMMILLA Ma si ve dico che mme sbrigo subbito. Annate. (tutti partono)
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N.d.A.: bighellonando.
Fame.
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SCENA XIII
Cammilla e Ebe
CAMMILLA (assicurandosi prima che tutti se ne siano andati) Èbbete,
venite qua. Voi che sapete leggere bene, perché sete toscana (cava una
lettera), fateme un po’ el piacere de sapemme a dire che cosa ce dice
in de ‘sta lettra che ho trovo in de lo studio de l’avvocato.
EBE A servirla. (prende la lettera)
CAMMILLA Io mi suono persa l’occhialino e, per dì la verità, senza
occhiali nun ce sbologno affatto.
EBE ( fra sé) (Come se non sapessi che non la sa leggere!)
CAMMILLA A chi è diretta?
EBE (dopo letto) A Nninnì.
CAMMILLA (con grande interesse) A Ninnì?! E nun ce dice antro?
EBE Ci dice solo: «Mio carissimo Ninnì.»
CAMMILLA Dunque è diretta, se vede, a un omo?
EBE Sembra anche a me.
CAMMILLA Ma a chi? Vattel’a ppesca. L’ho trova accusì senza inveloppo.
EBE (leggendo) «Ieri finalmente ho finito lo sgombro e domani sera spero di dormire nella nuova casa in piazza Padella9, n. 80. Anzi volendola inaugurare con un buon principio ho pensato invitarti a un bel
tete a tete. Vieni da me lunedì alle tre. Un abbraccio dalla tua Lucrezia. Roma 13 Gennaio 1886».
CAMMILLA (sorpresa) Ce dice propio accusi?
EBE Proprio così.
CAMMILLA ( fra sé e con grande enfasi) (Signore t’aringrazio! Ecco finarmente che m’hai messo in mano una prova pe’ poté smascherà quer
gesuvito farzo der mi’ genero!)
EBE Chi la potrà aver perduta?
CAMMILLA Er mi’ genero, o forse quarche criente... ( fra sè) (Bisogna
usà prudenza). Èbbete, grazie; nun me serve antro. Annatevene. E si
ve preme de stà qui, nun dite un fiato a gnisuno de quello ch’avemo
detto e letto fra noi.
EBE La non si dubiti. ( fra sè) (Povero avvocato, come lo vedo acconciato!) (esce)
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La piazza era situata tra Via Giulia e il Lungotevere dei Tebaldi; oggi, nella stessa area,
si trova il liceo Virgilio.
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SCENA XIV
Cammilla sola, poi Luciano
CAMMILLA (trionfante, percorrendo a grandi passi la scena) Ècchela la
prova, ècchela! E poi dicheno che io suono una visionaria, una che
vede tutto nero! È vero o nun è vero adesso, che quer puzzone fa le
fuse torte10 a quela povera mi’ fija, doppo nemmanco sei mesi che me
se l’è sposata? Nun meriterebbe da esse squartato?... Ah te la vojo dà
io Lucrezia! E chi sarà, ‘sta Madama Lucrezia?!... Abbasta per adesso,
famo infinta de gnente. Ma lunedì lo vojo pijà cor sorcio in bocca,
quer morto de fame, gesuvito farzo, che s’è venuto a levà le grinze da
la panza a casa mia!
LUCIANO (prima, di dentro, chiamando) Mammà!
CAMMILLA E cià puro la prosumea, puro la faccia tosta de chiamamme: mammà! Lo dicevo io che quanno er diavolo te lecca, è segno che
vò l’anima. Me la stava pe’ fà er bojaccia, l’assassino!... Nun so chi me
tienga de nun cacciaje l’occhi prima de subbito!
LUCIANO (entrando) Mammà, tutti siamo impazienti di avervi con
noi.
CAMMILLA (ricomponendosi, si mette la lettera in tasca) Èccome, èccome... Un conto che avevo da mandà a fà pagà a Èbbete... Andamo...
LUCIANO (offrendole il braccio) Prego.
CAMMILLA (mentre lo accetta dà a piena mano tale una stretta al braccio di Luciano che questo non può fare a meno di gridare)
LUCIANO Ahi, Ahi! ( fra sé) (Maledetta cià due tenaglie, per mani!)
CAMMILLA (ironica) Genero mio, quanto ve ringrazio de la vostra
garbatezza!
LUCIANO (tastandosi il braccio indolenzito) Ma le pare, niente, un dovere. ( fra sè) (Che te possino... Quanto m’ha fatto male!... Che tte
possino!)
CAMMILLA (sotto al braccio di Luciano, avviandosi) Ma eh, quanto
semo carini?! Nun paremo, voi l’abbate Luviggi e io (scandendo le sillabe) Ma-da-ma Lu-gre-zia11?!
LUCIANO (sforzandosi di ridere) Ah ah ah ah!
CAMMILLA ( fra sè) (Rìdete l’animaccia tua!)
Fine dell’Atto primo
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Fusatorte: corna.
Statue parlanti romane.
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ATTO SECONDO
Lo studio dell’avvocato Luciano. Scrivania, scaffali, sedie ecc. Porte laterali e in fondo alla scena.
SCENA I
Adolfo e Ebe
ADOLFO Ma davero? Cosa me dici mai, mia cara Ebbe!
EBE È un fatto. Appena gliela lessi, la signora Cammilla, la diventò una
furia.
ADOLFO E che cosa diceva?
EBE Delle grandi cose. E poi se non ho male inteso... Ma per carità!...
ADOLFO Me faccio meraviglia.
EBE Ella sospetta che la lettera sia d’un’amante dell’avvocato e vuole
andare a sorprenderli in piazza Padella n° 80.
ADOLFO ( fra sè) (Diavolo, diavolo!) Come hai detto?
EBE In piazza Padella n° 80. Una piazza ch’io non aveva mai udito nominare da poi che sono in Roma.
ADOLFO E la lettera che era senza anveloppe, da chi era firmata?
EBE Da una certa Lucrezia.
ADOLFO (fra sè) (Per bacco, ho capito. Lucrezia Zorzi la canzonettista
veneziana). E il sor Giuseppe, lo sa?
EBE Affattissimo.
ADOLFO ( fra sè) (Sarebbe stato meglio per lui che lo avesse saputo!)
EBE Lo sa altro che la sora Camilla. Anzi mi ha assolutamente comandato di non dirlo ad alcuno.
ADOLFO Quella benedetta donna vaneggia. Sò sicuro che quella lettera l’ha perduta qualche cliente dell’avvocato, e tutto finirà in una
bolla di sapone.
EBE Anch’io la penso così.
ADOLFO Parlamo d’altro, la mia cara Ebbina. (abbracciandola)
EBE Ehi, dico, cosa sono codeste sue libertà?!
ADOLFO Scusami, amore mio; ma sei tanto bella che non so resistere... A proposito, dimenticavo che ho da dare una risposta al signor
Giuseppe, me lo vai a avvertire?
EBE Volentieri s’egli non stesse a Marino per certi suoi affari.
ADOLFO (sorpreso) A Marino?! E sai quando tornerà?
EBE È partito quest’oggi, quindi immagino ch’egli sarà qui domani.
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introduzione
ADOLFO ( fra sè) (L’appuntamento è per domani... Bisogna che io l’avverta in ogni modo, anche a costo d’andà a Marino).
EBE Oh, a cosa pensa?
ADOLFO Pensavo a te, mia cara Ebbina!
EBE La non mi confonde, sa? (si suona alla porta)
ADOLFO Mia cara Ebe, hanno sonato: famme el piacere d’andà a vedere chi è.
EBE Vado subito, caro il mio signor Adolfino. (esce dalla porta in fondo)
ADOLFO Certe volte a spaghettare12 co’ ste benedette serve, è una furtuna. Io, per via sua, sò tutti li fatti del padrone. Senza de lei, come
avrei scoperto questo po’ po’ de buriana che se sta per scaricà addosso
al benefattore mio; a quel povero sor Giuseppe, l’omo più pacifico, più
bono e più caritatevole che stia sotto la cappa del sole?
SCENA II
Ebe e Detto
EBE Signor Adolfo, vi sono un uomo e una donna costì in anticamera
che voglian consultare l’avvocato.
ADOLFO Chi sono?
EBE Non mi han voluto dire i loro nomi.
ADOLFO Ebbene favorite avvertirne l’avvocato.
EBE Vò subito.
ADOLFO (fra sè) (Sì, sì è meglio fà animo risoluto. Domani prendo il primo treno che va a Marino. Si nno qua succede qualche guaio grosso).
EBE (tornando) L’avvocato viene subito. Addio, caro Adolfino.
ADOLFO Addio, gioia mia; arrivederci più tardi.
EBE Prima ch’ella vada al Tribunale. (esce)
SCENA III
Luciano e Adolfo
ADOLFO Bongiorno, sor avvocato.
LUCIANO Bongiorno. (con importanza) E così dove sono questi miei
nuovi clienti, quest’uomo e questa donna?
ADOLFO Stanno de là in anticamera.
LUCIANO Fateli passare. (Adolfo esce)
LUCIANO (con aria boriosa prende posto nella sedia a braccioli dinnan12
Amoreggiare, flirtare.
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zi alla scrivania) Sarei curioso di sapere a chi devo questi due clienti...
A me che aspiro con desiderio intenso a raggiungere l’apice d’una brillante carriera, le poche volte che m’annunzieno un cliente novo, quando me se presenta un affare, il che m’accade così raramente, vado in
estasi; e dalla gioja, nun capo più entro li miei panni!13
SCENA IV
Orsola, Giachimandrea e Detto
LUCIANO Bongiorno quell’omo; vi saluto buona donna. Che ciabbiamo? Sedete qua.
GIACHIMANDREA (vestito da scopino) (entrando non fa che mettersi
e togliersi il cappello, salutando) Ciavo, avvocato.
ORSOLA (ravvolta in uno scialle si siede barcollante e, senza parlare, singhiozza)
LUCIANO Dunque in che cosa vi posso servire?
GIACHIMANDREA Ciavo, avvocato!
LUCIANO Grazie. State comodo.
ORSOLA Sor avvocato mio, me scusi tanto...
GIACHIMANDREA (interrompendola) Avvocà, la tieni da scusare, si
essa sta un poco ignorande; perché essa nun è fatto il sordato in gavalleria, come lo sono fatto io; la quale...
LUCIANO Ma scusi, lei chi è?
GIACHIMANDREA Il cuinate di essa donna.
ORSOLA È mi’ cognato, sor avvocato mio; me scusi tanto; ma lei m’ha
da fà una forza, una gran forza...
GIACHIMANDREA Avvocà, ma de quelle che sapete fà lei!...
LUCIANO Va bene; parlate; vedremo...
GIACHIMANDREA Ma propio de quelle forze, avvocà, che sapete fà
sordando tu!...
LUCIANO Ma se prima non mi dite...
ORSOLA Me se lo preseno... (scoppia a piangere)
13
Prima versione cancellata di questa battuta:
(con aria boriosa prende posto nella sedia a braccioli dinnanzi alla scrivania)
Sarei curioso di sapere a chi devo questi miei due nuovi clienti. A me che vagheggio
gli alti voli d’una brillante carriera con tutte le sue belle conseguenze, ogni volta che
m’annunziano un cliente novo, ogni volta che mme se presenta un nuovo affare, me
soride l’anima nel godimento più assoluto.
LUCIANO
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introduzione
GIACHIMANDREA Ce se lo pigliorno, poveraccia. Apposta essa è affritta...
ORSOLA (sempre piangendo) Ha detto una signora a una commare mia,
che m’ha cconsijato a venì da lei, che voi potete fà tutto, e che me potete llevà da le pene. (nuovo scoppio di pianto)
GIACHIMANDREA Perché tu, tieni mórde canoscenze, e forsi sei una
persona strutta.
LUCIANO (con interesse maggiore) Va bene; ma se non mi dite come
andò il fatto...
ORSOLA (c. s.) Ha raggione. Ma sa, lei me devi scusà; perché io in de
‘ste brutte cose, nun ce sò passata mai. Apposta me sò portata appresso mi’ cugnato, tanto strutto, perché m’aijutasse a divve come era ito
er fatto.
LUCIANO (c. s.) Dunque coraggio: avanti sentiamo.
ORSOLA Dunque lui stava su la porta... (singhiozzando) e lì propio me
se lo pijorno.
LUCIANO Ma c’era il mandato di cattura?
GIACHIMANDREA Ma che cratura!... Avvocà, me fa specie de tu!...
LUCIANO Allora l’hanno preso in flagrante?
ORSOLA Ma cche in fregante! Me l’agguantorno p’er collarino...
LUCIANO Ma che c’entra il collarino!... Va bene, sarà stato magari in
maniche de camicia, e li carabinieri...
GIACHIMANDREA Ma magari fussino stati li cherubbigneri! Invece
fu quer bogliaccia...
ORSOLA Sicuro quer boja...
LUCIANO Va bene, o boja o non boja, quelli aveveno l’ordine e lo hanno eseguito. Dite piuttosto cosa aveva fatto, quale delitto aveva commesso... A me potete dir tutto come al confessore.
ORSOLA (piangente) Ma nun aveva fatto gnente...
GIACHIMANDREA Quanno te siamo detto gnente!
ORSOLA Stava, poverello, a fà un socchè su la porta de casa, e quell’infamaccio de l’ammazzacani... povera bestiola!... (piange)
LUCIANO (scattando) Come, come?! È di un cane che si tratta?! Chi
vi ha mandato da me?
ORSOLA La lavannara de quella signora...
LUCIANO ( furibondo) Quale signora?!
ORSOLA Quella tanta ricca, che prima faceva la pizzicarola in Panìco.
LUCIANO ( fra sè, fremendo) (Maledetta, mia suocera!) (a Orsola) Io
non ho tempo da perdere con voi. Se si tratta di un cane, andate al
Municipio, reclamate, pagate la tassa, e ve lo restituiranno.
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o
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GIACHIMANDREA Andove sei detto, che tenemo d’annà?
LUCIANO A l’inferno! (li spinge tutt’e due fuori dello studio)
GIACHIMANDREA ( fra sé andandosene) (Màzzate te e ‘sto mozzirecchio14!)
ORSOLA (c. s.) (Un accidente a farajolo15 a te e chi me cià mannato).
SCENA V
Luciano solo poi Adolfo
LUCIANO (chiamando) Adolfo, Adolfo!
ADOLFO A servillo, sor avvocato.
LUCIANO Chiunque venga, non ce sò per nessuno. Chiudete la porta...
ADOLFO Sarà servito. Permetta, sor avvocato: domani averebbe d’andà fori de Roma per un affaruccio mio: me pò dà el permesso?
LUCIANO Si, andate dove vi pare: andate magari al diavolo anche voi:
ma presto!
ADOLFO (nell’andarsene fra sè) (E chi j’ha mozzicato, la tarantola?) (esce)
SCENA VI
Luciano solo poi Adele
LUCIANO (affranto, si butta sopra una poltrona) Questa maledetta bagarinaccia16 de mia socera, me vò fare schiattà! Vedi in che modo indegno se compromette la riputazione d’una persona come me, d’un
avvocato!... Fortuna che non ha inteso nessuno... Ah, sì qui bisogna
prendere un’estrema risoluzione. Andarsene da questa casa ad ogni
costo; altrimenti ‘sta vecchiaccia me mette in procinto di fare qualche
buscarata... Maledetta!...(chiamando) Adele, Adele!... Mandarme, a me,
degli straccioni ai quali è stato accalappiato un cane! (c. s.) Adele, Adele!... Apposta ieri me domandò sardonicamente se avevo avuto nuovi
clienti... Maledetta!
ADELE Cosa volevi, Luciano?... Oh che aria stravolta! Che cosa t’è
successo?
14
Imbroglione, mestatore; appellativo dato in particolare ad un legale poco corretto.
Deriva dalla pena inflitta nel medioevo ai truffatori e ai disonesti cui si tagliava un orecchio come segno distintivo infamante.
15
Mantello; dall’arabo feriyùl.
16
Accaparratrice, trafficante.
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LUCIANO (si alza percorrendo a grandi passi la scena) M’è successo che
con quella maledetta donna di tua madre, finisce male!
ADELE Che c’è di nuovo?
LUCIANO C’è che mi manda anche a far deridere nel mio studio, compromettendo la mia riputazione.
ADELE Deridere? Possibbile?!
LUCIANO Sì, deridere, insultare, corbellare, avvilire...
ADELE Ma davero?! (sorpresa)
LUCIANO Stallo anche a mettere in dubbio. Oggi dopo pranzo, appena ho aperto lo studio, mi ha mandato una lavandaia e uno scopino
ai quali, essendo stato accalappiato un cane, pretendevano che io glielo facessi restituire...
ADELE E che ne sai che sia stata mammà.
LUCIANO Che ne so? Ma se me l’han detto essi: «Ce manda la lavannara de quella signora tanta ricca, l’antica pizzicarola de Panìco!»
ADELE Che benedetta donna!
LUCIANO 17Qui, cara Adele, bisogna fare animo risoluto. Andarsene
e subito.
ADELE L’avemo risoluto tante volte! Ma poi?...
LUCIANO Poi, poi!... Meglio gli stenti che schiattare di rabbia, e mettermi in procinto di fare qualche corbelleria. Perché, ti giuro, in parola d’onore, che se un momento fa avevo tua madre nelle mani mi
sentivo capace di strozzarla!
ADELE Eh diamine!
LUCIANO Ma se lo vuole lei. Ma se non me lascia mai un momento
de pace! Se me sorveglia come un ammonito. Me manda sempre dietro le spie ogni volta che esco di casa...
ADELE Eh, via!...
LUCIANO Sì sì le spie! Ne ho le prove: e le deve anche pagare bene.
Domandelo al mio giovane de studio... Me sorveglia quando sto in
casa; me mortifica sempre e in presenza de tutti... Insomma questa è
una vita da cani... È meglio andare a fà lo stracciarolo!
ADELE (desolata) Ah santo Dio!
LUCIANO (mettendosi il cappello) Basta: io ho bisogno d’aria; altrimenti oggi crepo, schiatto, scoppio! (passeggia agitato)
ADELE Mbè, va Luciano mio... Abbi pazienza sai? Non te ne stare poi
17
Testo cancellato:
ltro che benedetta!... Apposta si burla sempre della scarsità de’ miei clienti! E infatti
me ne ha procurati due scelti nel mazzo!...
A
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e
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a prendere tanto. Finalmente el diavolo non è brutto quanto se dipinge. Dello scherzo non ne siamo a parte altro che noi... Quei due ignoranti sono venuti in buona fede. Che ne sanno essi che mia madre se
ne è servita per burlarti?... Ebe e Adolfo, come mi dici, non se ne sono
accorti; dunque?...
LUCIANO Dunque, dunque, sta a vedere che ha ragione lei. Ha fatto
una bella cosa. Anzi l’andrò pure a ringrazià! Davero che me faresti
uscì fuori dei gangheri!... (esce)
ADELE T’aspetto a cena. Vieni presto.
SCENA VII
Adele, poi Cammilla
ADELE Che vita d’inferno!... Ma già qui dice bene Luciano, è meglio a
fare animo risoluto, e andarsene a star soli... Meglio fare una vita stentata, che una vita d’angustie e d’affanni come questa che facciamo noi.
CAMMILLA (gridando di dentro) Fija mia, fija mia! (entra poi trionfante con una lettera in mano) Ho aspettato che quer puzzone fusse uscito...
ADELE (inquieta) Cosa c’è de novo?... Eh mammà, ve ringrazio; avete
fatto una bella prodezza, a mandà quela lavandara e quello scopino
qui da Luciano.
CAMMILLA Diceva sempre che nun ciaveva crienti e io, li primi che
me sò capitati, j’ho mannato! Varda dolori de testa!... Ma nun se lagni
piuttosto quer puzzone, perché finarmente ho scuperto l’artarino. (in
aria trionfante)
ADELE Qualche altra diavoleria in vista? Cos’è quella lettera?
CAMMILLA (patetica) Coraggio, fija mia, coraggio. M’arincresce de
fatte toccà co le mano che quello che tu’ madre provedeva, è la pura
verità.
ADELE (spaventata) Santa Vergine! Che cosa c’è de novo, mamma mia?!
CAMMILLA C’è de novo che quer signorino te tradisce, fija mia; e ècchete la prova der corpo der delitto... (le mostra la lettera)
ADELE (c. s.) Una lettera?!
CAMMILLA Sì una lettera che ho trovato per tera qui in de lo studio
de quer gesuvito farzo de tu’ marito.
ADELE Una lettera diretta a lui? Da chi?
CAMMILLA Da un’antra zozzona compagna a llui.
ADELE (esasperata) Possibbile?!
CAMMILLA Accusì nun fosse! Leggi un po’. (le dà la lettera)
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ADELE (dopo aver letto) Che orrore! Ah ma se fosse vero, meriterebbe
d’esse ammazzato! (sdegnata)
CAMMILLA E che incora lo metti in dubbito? Quanno tu’ madre te
lo dice, è segno che è vero com’er vangelio.
ADELE (indignatissima) Dopo pochi mesi de matrimonio!... Ma sarebbe un’infamia tale, che meriterebbe la galera in vita!...
CAMMILLA Ma che galera! Qua ce vò una bona lezione de quelle che
auso a dà io; e poi vederai si quer zozzone mette giudizio.
ADELE (c. s.) È tale un’infamia, che mi vergogno di me stessa!
CAMMILLA Avevo raggione, o nun avevo raggione?! E poi dicevio che
ero io che esaggeravo, che vedevo scuro, che ero una visionaria!... Ma
si io l’annasavo per aria, che quer bojaccia già tte la faceva!...
ADELE (piangendo) Ah che colpo inaspettato è mai questo!... Io questa
volta ce moro davero. (cade sopra una sedia e scoppia a piangere)
CAMMILLA (confortando Adele) Fija mia, sangue de mammà tua, sta su
che mamma tua nun t’abbandona... E tutto per quer bojaccia! Si me capita davanti, er pezzo più grosso ha da esse er naso... Su, Adele mia, nun
te ne stà a ppijà; ché a tutto c’è arimedio fora che a la morte...
SCENA VIII
Filippo e Dette
FILIPPO (presentandosi sulla porta) Disturbo?
CAMMILLA No: anzi venite proprio in tempo.
FILIPPO Che ha la povera signora Adele che si dispera?
CAMMILLA Eh, caro lei; vojantri ommini meriteressivo tutti d’esse
squartati, scannati e rincannati come li crapetti.
FILIPPO Eh nun ce sarebbe male! E perché se è lecito?
CAMMILLA Domannatelo a ‘sta povera martira de la mi’ figlia.
FILIPPO Signora Adele, posso esserle di conforto? Qual dolore l’affligge tanto?
ADELE Niente, grazie. È cosa che riguarda soltanto a me; dispensateme dal dirvelo, ve ne prego.
CAMMILLA Quanto sei scema! Anzi è mejo che lo sappino tutti. Er disonore è suo, mica tuo. (a Filippo) Dunque sapete ch’è stato? Che quela faccia de san Giacinto a bocca sotto de l’avvocato, doppo manco sei
mesi de matrimonio, semo venuti in chiaro, che cià la commare.
FILIPPO (maravigliatissimo) Possibile?
CAMMILLA Eh che ve fa tanto specie? State a vede che voi puro nun sarete capace de fà artrettanto! Ammazza ammazza sete tutti de ‘na razza.
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ADELE (prendendo una risoluzione) Ma sì, dite bene: avete raggione:
non vale la pena che io me stia ad angustiare per un infame. Mammà,
qui a un partito bisogna attenersi. Che risolviamo?
CAMMILLA Fija mia, quello che vòi tu è ben fatto.
ADELE Io direi da cacciarlo su due piedi, appena rientra in casa.
CAMMILLA Io invece, fija mia, me vorrebbe levà la voja d’agguantallo cor sorcio in bocca. Domani annameli a coje sur fatto. Ce viè a fà
compagnia er sor Filippo.
FILIPPO Ben volentieri.
CAMMILLA Anzi me faressivo un piacerone, si ce portassivo puro l’antropofego vostro fratello. ( fra sè) (Accusi se lo magna!)
SCENA IX
Eleonora e Detti
ELEONORA (di dentro) Mammà, mammà!
FILIPPO Ecco Eleonora. Per carità, signora Cammilla, facciamo che le
caste orecchie di essa non ne sappiano nulla...
CAMMILLA De che?! Quanto sete scemo! Anzi è mejo che quella regazza opri presto l’occhi, e impari a conoscere quanti sete puzzoni
vojantri ommini. (chiamando) Lonora, Lonora, stamo qui a lo studio.
ELEONORA (entrando) Dove ve sete rintanati? È tanto tempo che ve
cerco... Uh Pippo!
FILIPPO Per l’appunto. (le va incontro e si danno la mano)
ELEONORA (avvedendosi dello stato d’Adele) E tu, Adele mia, che hai
che te vedo così addolorata? Tu hai pianto? Ma se pò sapere che hai?
CAMMILLA (sospirando) Eh, fija mia, impara a tempo: opri l’occhi
prima de fidatte de ‘st’ammazzati de ‘st’omminacci.
ELEONORA (stupita) Che cos’è stato?
CAMMILLA È stato che quell’infame de l’avvocato già s’è fatta la commare.
ELEONORA La commare? Non capisco...
CAMMILLA Come nun capischi?! Povera innocentina!...
FILIPPO ( fra sé) (Povero angelo, che me lo guastano!)
CAMMILLA Insomma: avemo scoperto che Luciano cià un’antra donna.
ELEONORA (meravigliata) Ma possibbile? Dopo così poco tempo che
è sposo?!
CAMMILLA Eh che te fa specie? Questi sò zuccherini per la tosse. Impareli a conosce chi sò l’ommini. E te servi d’esempio ‘sta ciorcinata
de tu’ sorella.
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introduzione
ELEONORA Povera Adele mia! (l’abbraccia e la bacia) E che avete risolto di fare?
CAMMILLA Siccome sapemo che domani, a le tre, se sò dati appuntamento da lei...
FILIPPO In che luogo, scusi?
CAMMILLA In piazza Padella n. 80.
FILIPPO Non so nemmeno dove sia.
CAMMILLA Lo so io però. Da regazza, quanno facevo la lavannara,
bazzicavo sempre pe dde là.
ELEONORA (da sé) (Mammà è sempre lei! Che c’entrava adesso la lavandaia!)
CAMMILLA Domani a le tre annamo tutti là e l’agguantamo sur
fatto.
ADELE Andiamo pure, sono risoluta a tutto.
CAMMILLA Je vojo dà una scapijata a tutt’e dua, ch’er Messiggero n’ha
da parlà pe’ du’ sittimane sane.
ELEONORA Uno scandalo, dunque?
ADELE (risoluta) Uno scandalo!
FILIPPO E l’onore della casa? E i pettegolezzi della gente: non ci pensate?
CAMMILLA Che me n’importa a me della gente? Quanno me vojo levà ‘na sodisfazione, io passo puro sopra a la panza d’un soprano.
FILIPPO Ma si potrebbe raggiungere lo stesso scopo, senza fare schiamazzi.
ELEONORA Era quello che pensava io.
ADELE Sentiamo voi cosa fareste?
CAMMILLA (scanzonata) Sentimo Pippetto!
FILIPPO A noi basta constatare che quando si sospetta sia vero davero?
Dunque gnente schiamazzi, gnente busse, gnente scandali.
CAMMILLA Bella soddisfazione de li miei bottoni!
ADELE Però el signor Filippo non ha tutti i torti. Io poi non vorrei abbassarmi fino al punto di andare in quella casaccia equivoca.
ELEONORA Nun c’è el decoro tuo; hai raggione.
CAMMILLA E allora?
FILIPPO Andiamo sul luogo, ci nascondemo, e quando abbiamo constatato che l’avvocato è salito in quella tal casa, nun c’è più dubbio
ch’egli sia un traditore.
ELEONORA Così va fatto.
ADELE Anch’io sò del medesimo parere.
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CAMMILLA Scusate, sor Filippo, si io suono un po’ curiosa. Che vor
dì ‘sto costatare costato, che sò du’ vorte che l’aripricate?
FILIPPO Oh bella! Constatare, vuol dire assicurarsi de visu, con i propri occhi, toccare con le mani, che è vero quanto noi sospettiamo.
CAMMILLA E quanno, come dite voi, je l’avemo toccato co’ le mano,
che sodisfazzione provamo?
FILIPPO Che soddisfazione? Chiamamo un commissario, lo mandiamo su, onde s’accerti dell’adulterio e, ciò fatto, la signora Adele gli dà
querela. Luciano va in prigione...
CAMMILLA (giubilante) Magari lo potessi vede in gabbia, ciannerebbe a nozze, ciannerebbe! Me sa mill’anni d’annaje a portà du’ sordi de
canipuccia! Allora famo accusì che sò contenta.
ELEONORA Me pare el miglior modo.
ADELE E la sodisfazione sarà più completa. Io non vedo l’ora di vederlo umiliato come merita.
CAMMILLA E de tutto quello ch’avemo combinato, pe’ l’amordeddio,
nu’ne sappi puzza gnisuno. Specialmente che Èbbete e Menica nu’ lo
sospettino nemmanco.
ELEONORA S’intende.
ADELE Ce mancherebbe che lo sapesse la gente di servizio.
CAMMILLA E nemmanco vostro padre. Si nno quello cià el core tanto bono, che l’annerebbe subbito a ridì a l’avvocato... Eh fije mie, vostro padre, e poi nun più! Un antro omo semprare, un altro marito
come lui che abbi sempre vorsuto bene a su’ moje, nun c’è in tutto el
monno. Aricordatevelo.
FILIPPO Che, el sor Giuseppe è tornato da Marino?
CAMMILLA No, per furtuna. E forse manco aritornerà per oggi.
ADELE Ma io stasera, come me devo contenere?
CAMMILLA Tu stasera dormirai co tu’ madre. Lassa che quer signorino vienghi a casa, che me lo lavoro io.
ADELE Fate voi, mammà; io sono nelle vostre mani.
CAMMILLA Fidete sempre de me, fìja mia, e te n’aritroverai bene.
FILIPPO È già tardi; ed io poi è meglio che per delicatezza, me ne vada. Arrivederci domani alle tre in piazza Padella, e coraggio.
ADELE Tante grazie di tutto. E ce scusi. (si danno la mano)
ELEONORA Arrivederci. (c.s.)
CAMMILLA Se vediamo, e mosca! (lo saluta)
FILIPPO Non dubiti. La riverisco. (esce dalla porta in fondo)
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SCENA X
Cammilla, Adele ed Eleonora
ELEONORA Almeno, questo povero Pippetto mio me pare bono.
ADELE T’auguro che ci si mantenga.
CAMMILLA Scopa nova, scopa bene. Beata te! Dà tempo ar tempo, e
te lo vederai diventà un puzzone peggio de quell’antro scannato. Te
l’ho detto: ammazza, ammazza, sò tutti de ‘na razzaccia porca.
ELEONORA A sentì a voi, allora, non c’è altro che papà nostro che sia
un galantomo?
CAMMILLA E lo poi dì forte, lo poi! Ma perché? Perché me lo sò tirato su a mollica a mollica; perché me lo sò fatto da me. Che sii benedetto, che omo! che coscienza, che intriguità!
ADELE Sento salì le scale. Temo che sia quel signore...
CAMMILLA Lasselo venì; e lasseme fà a me.
ELEONORA Ho pavura che voi stasera ve fate scoprì, e così el progetto nostro va tutto per aria.
CAMMILLA Adele mia, tu vattene de là in cammera mia, spojete, e
mettete a letto ar posto de tu’ padre.
ADELE Mammà mia, me raccomando a voi. Prudenza fino a domani,
e sarà quel che sarà. (saluta Cammilla ed Eleonora ed esce dalla porta a
sinistra)
SCENA XI
Luciano, Cammilla ed Eleonora
LUCIANO (entra e saluta) Sora Cammilla, cognatina, vi do la buona
sera. (da sé) (Fingiamo di non aver rancore).
CAMMILLA (sostenuta) Bonasera.
ELEONORA (c. s.) Addio, Luciano.
LUCIANO (da sé) (Che c’è di nuovo?... Vuoi scommettere, dopo l’azione che mi ha fatto, che ha ragione lei? Se vede che Adele l’averà sgridata! Ora capisco). E la mia Adele?
CAMMILLA Adele oggi s’è intesa male assai. J’ha pijato uno sturbo
tanto brutto, e l’ho mannata a letto in cammera mia.
LUCIANO (turbato) Oh, che me dite mai! Andiamola a trovare, povera cocca mia! (avviandosi)
CAMMILLA (trattenendolo in malo modo) Adesso dorme e per ordine
der medico gnissuno la po’ andà a disturbà, capite? Gnisuno.
LUCIANO Non fa niente; le farò nottata io, la curerò...
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CAMMILLA (c. s.) Nun serve. Cià bona madre!
ELEONORA (con modi bruschi) E bona sorella!
LUCIANO (al colmo della sorpresa) ( fra sé) (Ma se sò impazzite?!)
CAMMILLA (c. s.) E bon padre, a l’accorenzia! (si avvia per uscire, seguita da Eleonora)
LUCIANO ( frenandosi) Ma sapete, signora CammiIla, che certe volte
non vi arrivo a comprendere? Siete così curiosa!...
CAMMILLA (risentita) Eh che capischi che ciò la gobba, che me dichi
curiosa?! (a Eleonora) Annamo, Leonora. (si avviano verso la porta a
sinistra)
LUCIANO (c. s.) Me fareste uscì fuori dai gangheri!...
CAMMILLA Faressivo un’antra fatica p’arientracce.
LUCIANO ( furibondo) Siete una gran villana.
CAMMILLA (ironica) Tirate er fiato a voi: giucate er 6.
LUCIANO Oh insomma!... (tenta trattenere Cammilla)
CAMMILLA (rapidamente si svincola da Luciano dandogli uno spintone)
Ma va in galera! (entra con Eleonora alla porta sinistra e chiude a doppia mandata la porta)
LUCIANO ( furibondo, spinge la porta, la prende a calci e grida) Signora Cammilla del diavolo, voi volete farmi commettere qualche sproposito!... Io sono disperato!...
CAMMILLA (di dentro griderà forte) Buttateve a fiume!
LUCIANO (c.s.) Sicuro che me ce farete buttare, sicuro; ma prima ve
butterò da la finestra a voi!...
CAMMILLA (sempre di dentro, griderà come un’aquila) E che capischi
che a la mi’ fija je puzza er fiato, che te vai a scapicollà co’ le conocchie, doppo sei mesi soli de matrimogno?!
LUCIANO (disperato) Sora Cammilla del diavolo, strega maledetta, io
stasera vi ammazzo a voi e poi mi suicido!
CAMMILLA (sempre di dentro, gridando) Passa via, cane rognoso!
SCENA XII
Giuseppe e Detto
GIUSEPPE (con la valigia in mano; entrerà e resterà sulla porta in fondo
alla scena, ad osservare ogni cosa, dal momento nel quale Cammilla si è
chiusa in camera)
LUCIANO (sempre furibondo) Ah ma questa donna è un’energumena,
è un’ossessa, è una rovina, un terremoto, un vulcano in eruzione!...
Maledetto el momento che ciò messo el piede in quest’inferno!... È
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meglio ch’io me ne vada, per non tornarci mai più... (nell’uscire s‘ incontra con Giuseppe)
GIUSEPPE Alto là! Vostra socera ve scaccia; e io invece v’opro le braccia. (abbracciando Luciano)
LUCIANO (sorpreso) Come, voi a Roma, papà?!
GIUSEPPE Arivo fresco fresco da Marino... Ma diteme un po’, che diavolo v’è successo?
LUCIANO Ah lasciateme, papà mio; ché quella maledetta donna...
GIUSEPPE Che sarebbe mi’ moglie. Avete mille raggione...
LUCIANO Si nun me ne vado presto da ‘sta casa, io commetto qualche
eccesso...
GIUSEPPE Lo so; e per questo è meglio che con vostra moglie ve ne
andate a stà soli. Già ciò pensato e ne ho parlato con Adele tante volte. Riguardo poi a l’interesse, ce penso io a accomodà tutto.
LUCIANO Siate benedetto!... Se sapeste quella bocca che improperi ha
saputo vomitare!...
GIUSEPPE E v’ho intesi a tutt’e due; perché è un pezzetto che me ve
stavo a godé. Ma diteme la verità, avvocato, che j’avete fatto?
LUCIANO Io lo domanderei a voi.
GIUSEPPE Me pare impossibbile! Invelenita ce stà sempre; ma come
‘sta sera poche volte ce l’ho veduta!
LUCIANO Dice che quest’oggi Adele s’è intesa tanto male, che ha avuto uno sturbo, e che quindi questa notte se la tiene a dormire con lei.
GIUSEPPE Lo vedete che una causa c’era? Ma, per carità, calmateve e
parlate piano, ché nun ce senta nessuno.
LUCIANO (abbassando la voce) E per questo mi si tratta così? Me s’impedisce a me, che sò il marito, di andarla a trovare?... Dice che dormiva e che il medico ha provibito a chicchessia di disturbarla. Ma
questo che cosa c’entrava con tutte quelle altre improperie che mi ha
saputo dire?
GIUSEPPE Cor una fava ha voluto acchiappà due piccioni; ha preso ‘sto
pretesto pe’ sfogasse un po’.
LUCIANO Stasera me prenderebbe davero l’estro de far qualche pazzia; e così finirla una bona volta...
GIUSEPPE (con calma) Avvocato, me fa specie: sete omo o nun sete
omo? Date retta a me; intanto sò sicuro che lo sturbo d’Adele nun è
gnente: sarà effetto de gravidanza... Date dunque udienza a me. Nun
ve ne state a prende. E giacché mi’ moglie ha disposto così, venite con
me. Andamose a fà una bona cenetta, poi se ne anderemo al teatro, e
quando ce farà commodo se n’anderemo a dormì a la locanda.
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LUCIANO Bravo! e se lo viene a sapere quell’accidente?
GIUSEPPE Nun pò esse che lo risappia; perché io faccio finta d’aritornà da Marino, domani a mezzogiorno. Tanto più che nessuno m’ ha
visto: nemmeno la gente de servizio, che a quest’ora dorme.
LUCIANO (sorpreso) Ma sete voi che me date certi consigli? «quell’omo
esemplare!» «quell’omo santo» che a ssentì vostra moglie, non ce n’è
un altro al mondo?!
GIUSEPPE Io, io, ve li do! Che v’ho consigliato forse de venì a fà la serenata col paletto in qualche negozio d’oreficeria? lo v’ho detto de venì
con un galantomo a divertivve un po’. Gnente altro.
LUCIANO (abbracciandolo) Voi mi ridate la pace. Accetto con riconoscenza l’offerta generosa, perché ho proprio bisogno di distrarmi un po’.
GIUSEPPE Bravo! E vederete che se divertiremo.
LUCIANO Ma come va, caro papà, questo cambiamento? È la prima
volta che voi mi apparite sotto tutt’altro aspetto.
GIUSEPPE Eh, caro genero mio, è un pezzo che mando giù. E con trentacinque anni de quel santo matrimonio che sapete, si me ne fossi preso, a quest’ora de me nun ce ne sarebbero più nemmanco li denti...
Così ho imparato a piglià el mondo come viè. E quando la gatta nun
c’è el sorcio balla...
LUCIANO Bravo, me ne rallegro con voi! Siete più spiritoso de me.
GIUSEPPE Ecco: più spiritoso no, sò più furbo, perché ho più esperienza de voi in primise; e poi perché mi’ moglie, a forza de predicamme
per trentacinque anni de seguito, notte e giorno, m’ha convertito a la
vera fede. (si mette sotto braccio Luciano e se ne vanno tutti e due ridendo)
Fine del Secondo Atto
e
e
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ATTO III
Piazza Padella. In fondo un lavatoio pubblico comunale con diverse lavandaie che lavano. Sulla strada alcune corde tese con panni ad asciugare.
A sinistra la casa di Lucrezia Zorzi veneziana col n. 80; a destra la casa di
Agnese lavandaia, tutte e due con porte e finestre praticabili.
SCENA I
La Custode della fontana, Prima Lavandaia e Mastro Grispino
All’alzarsi del sipario la Custode della fontana sarà seduta fuori della fontana a fare la calza. La Prima lavandaia, intenta a stendere panni, canterà.
Mastro Grispino, innanzi al suo descbetto, è intento a lavorare.
PRIMA LAVANDAIA (mentre stende, canta)
Santa Maria Maggiore a la salita,
de qua e de llà ‘na bella scalinata:
in mezzo ce stai tu, Rosa fiorita!
GRISPINO (risponde al canto della Lavandaia)
A Roma, a Roma le belle romane,
e le più belle sò tresteverine,
l’arubbacore sò le monticiane.
CUSTODE Beato voi, mastro Grispì, che ve la cantate!
GRISPINO Che volete fà? Tiramo a campà. Intanto quanno semo per
antro a la fin der mese sò più lladri che sbirri18 lo stesso. Accusì io fo:
Trenta dì, ventotto mija, è un minchion chi se ne pija. (seguita a lavorare)
CUSTODE La pensate proprio da omo de monno. Ma intanto me fa
specie che oggi che è lunedì, lavorate.
GRISPINO Eh lo so; ma per antro, siccome jeri ho fatto ragno ragno,
oggi me tocca a sgobbà pe’ sbatte la scucchia. (seguita il suo lavoro)
SCENA II
Orsola e Detti
ORSOLA (viene dalla destra, con un fagotto di panni sulla testa; avrà gli
zoccoli. Parlando con la custode) Sor Artimizia, è venuta in fontana
quella gioja de la commare Agnesa?
18
N. d. A.: son più debiti che crediti.
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CUSTODE Incora nun s’è vista.
ORSOLA Vojo provà si stasse a casa. (prima bussa al portone della casa
di Agnesa, e poi chiama) Commare Agnesa, commare Agnesa!
AGNESE (si affaccia) Chi è?! Ah sete voi? Che ve s’è sciorto?
ORSOLA Salutatemelo tanto quer ber pezzo d’allesso de l’avvocato!
AGNESE Mbé come è ita?
ORSOLA ‘Cci sua, bu bbu! M’avete fatto fà un ber figurinaro, tanto a
me quanto a mi’ cugnato!
AGNESE Che nun v’ha vorsuto ariceve?
ORSOLA Sì; ma quann’ha saputo che se trattava d’un cane, c’è amancato un tommolo d’un pidocchio, che cce buttasse a tutt’è dua pe’ le
scale; che sì scannato! (entra in fontana)
AGNESE Ecco che vòr dì a impicciasse!... Un’antra vorta, de carta! (si
ritira e chiude la finestra)
SCENA III
Adolfo e Detti
ADOLFO (dalla destra, con una borsetta di viaggio) Ma vedi la combinazione! Sò andato a Marino stammatina, e el sor Giuseppe invece
era partito jeri sera pe’ Roma. El diavolo ce mette propio la coda!...
Almeno arivassi in tempo per informallo bene de tutto. A casa sua
non ho fatto a tempo a andacce, perché sò arivato una mezz’oretta fa;
così ho pensato de scappà subbito qui che, a la peggio, l’informerò de
tutto appena verrà. Ho scritto pure una lettera all’avvocato per informarlo, non solo de tutto quello che ho scoperto, ma pregandolo de
venì qui per aiutacce a rivoltà la frittata. Dentro la busta glie ciò messo una lettera anonima, e tutto un piano de la commedia che ho pensato de rappresentà... Anche quella povera Ebbe, l’ho ammaestrata
bene e m’ha promesso di fare a puntino quanto gliò raccomandato.
Arischieremo de perde el pane, ma el Sor Giuseppe ce riccompenserà,
perché cià un core da vero da romano!... (si guarda attorno tutto sospettoso) A proposito, almeno spero che non m’abbia visto nessuno!... Presto presto. Ecco el numero 80. Imboccamo dentro, e chi s’è visto s’è
visto. (entra dentro il portone della Zorzi)
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SCENA IV
Custode e Grispino
CUSTODE Mastro Grispì, ma chi è quela marca19 ch’è vienuta a abbità qui a l’80? sapete gnente?
GRISPINO Ar frontispizio (sí, per antro, è vero quello che dice er curato bello nostro, ch’er frontispizio è lo specchio de l’anima) ar frontispizio, cià l’aria d’esse una mezza zunnananà 20... Ma, per antro, pò
esse che me sbaji.
CUSTODE Nun sò nemmeno due o tre ggiorni ch’è vienuta a stà qua,
e già ce vedo un giro de paini 21 che consola.
GRISPINO Per antro, bisogna dì la verità, che nun hanno torto; perché, Dio la benedichi, è un gran ber pezzo de marcantogna.
CUSTODE Avete incajato22 come annava sospettoso quer paino ch’ha
imboccato un momento fa?
GRISPINO Mica sò cieco! Se guardava de dietro come si fusse stato
perseguitato da la forza.
CUSTODE Quello è quarchid’uno de sicuro che cià moje.
GRISPINO Se capisce e ne sarà stufo. Lo sapete quer fatto de que’ re
che diceva: «Sempre reggina, sempre reggina!» Ar monno per antro ce
vò un pò de divario. Mutatise mutandise.
CUSTODE Speramo che puro su’ moje je facci altrettanto, accusì fanno facche et refacche 23...
GRISPINO E bòna notte ar secchio! (ride e si mette di nuovo al lavoro)
CUSTODE (ride anche essa. Poi si alza) Annamo un po’ a vvede che
fanno ‘ste quattro zitelluccie. (entra nella fontana)
SCENA V
Adolfo, in finestra
ADOLFO Io sto sulle spine. Almeno se el sor Giuseppe arivasse prima
de la sora Cammilla sarebbe una furtuna!... Ma intanto, ancora nun
se vede nessuno... Comincio a pentimme d’esserme impicciato... Furtuna che ho trovato ‘sta ragazza de Lucrezia, proprio bòna come un
19
Marca o marco, dal nome proprio Marco: per indicare genericamente una persona.
Parola onomatopeica per «puzza» (cfr. Chiappini).
21
Paino: bellimbusto, elegantone.
22
Incajà, incajasse: notare, accorgersi.
23
Traduzione popolare della locuzione latina fac et refac: quel che è fatto è reso.
20
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pezzo de pane... Poveraccia, m’ha promesso che farà tutto quello che
vogliamo... Ma intanto ‘sto sor Giuseppe santo, nun se fa vivo!... Eccolo... No macché, nun è lui... È el sor Filippo Forlindi el fidanzato
de la sora Eleonora. Nun se facciamo vedere, per carità. (si ritira e
chiude la finestra)
SCENA VI
Filippo e poi la Custode
FILIPPO (si ferma davanti al portone col n. 80, poi va a vedere nei portoncini di contro) Sembra che ancora non sono giunte. Sono il primo
che se trova all’appuntamento. (osservando il suo orologio) Le due sonate. Dunque staranno a momenti... La cosa che m’affligge è che anche la mia Eleonora deve essere spettatrice di queste infamie. Ma come impedirglielo se quella benedetta sora CammiIla s’è ficcata in capo che le serviranno d’esempio?... Basta: oggi el cielo ce la mandi buona. Ritiriamoci qui, in questo portone. (si ritira nel portone della casa
di Agnese; e ogni tanto mette fuori il capo per accertarsi se viene alcuno)
CUSTODE (la quale intanto è uscita dalla fontana, e si è di nuovo seduta) Mastro Grispì, avete sgamuffato24 quell’antro patirai?... Qui l’affare se comincia a fà serio davero.
GRISPINO S’avessimo da trovà a quarche bella incontranza? Per antro...
CUSTODE Per antro, (burlandosi di Grispino) vederete che accusì finisce. A la longa va, ma qui quarche ber terno lo cacciamo fòra... Ma
quer marco ch’è arivato adesso, ch’è ito a fà su d’Agnesa?
GRISPINO Macché, nun è ito su, ma, per antro, sta in der portone, e
‘gni tantino fa capoccella pe’ scutrinà, me pare, le finestre de Madam’Angò25.
CUSTODE Aspetterà forsi che eschi fòra quell’antro.
GRISPINO (cantando l’aria di Figaro del Barbiere di Siviglia)
«Figaro qua, Figaro là,
Uno alla volta, per carità!»
CUSTODE (imitando Grispino) Ah Ah Ah, c’è proprio da ridere in verità!
24
Sgamuffà: osservare di sottecchi, sbirciare senza farsene accorgere.
Madame Angot: personaggio di varie opere teatrali francesi. Nell’uso: donna arricchita, avventuriera.
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SCENA VII
Adolfo in finestra e Detti
ADOLFO (assicurandosi prima di non esser visto) Si veniva prima el sor
Giuseppe, lo facevo subbito scappà, e così la sora Cammilla restava
con un palmo de naso!... Invece adesso me tocca a cambiare tutto el
piano che avevo concertato... Chi me l’avesse detto in vita mia de fà
pure le commedie... Si nun me sbaglio... Tombola! Ecco Proserpina
co’ le figlie... Nun se facciamo vede, si nno siamo persi, o reggina! (si
ritira e chiude la finestra)
SCENA VIII
Cammilla, Adele, Eleonora, Filippo e Detti
FILIPPO (uscendo dal portone) Meno male; eccole arrivate. (saluta)
CAMMILLA (a Filippo) Quanto tempo è che state qui?
FILIPPO Una diecina di minuti. (si danno la mano)
ADELE (a Filippo) (con dolore) Ancora nessuno?
CAMMILLA (a Filippo) Incora nun s’è visto quer puzzone?
FILIPPO Non ho visto alcuno.
ELEONORA Meno male che siamo ancora in tempo.
CAMMILLA E si era arivato prima, peggio per lui. Ce mettevo la scala
de seta, a salì su da quela madamaccia, e a cacciaje l’occhi a tutt’è dua!
ADELE Mammà, ricordateve de la promessa. Si me volete bene prudenza.
FILIPPO Senza schiamazzi.
ELEONORA Con giudizio, come abbiamo concertato.
CAMMILLA (a Filippo) Avete pensato a chiamà er commissionario de
li pulizzotti, pe’ falli agguantà in fregante crimisi?
FILIPPO Sicuro. È qui ad un passo, ed è un amico mio. Se occorrerà
lo chiameremo.
CAMMILLA Come si occorrerà?! Avete voja si occorerà; anzi averessivo da curre a chiamallo.
FILIPPO Adesso adesso; non dubitate.
CAMMILLA Allora ce pensate voi. Va bene cusì.
ELEONORA Dove ce nascondiamo?
CAMMILLA In d’uno de ‘sti porticini. Adele, tu nu’ lassà mai mamma
tua; viemme qua sotto ar braccio e coraggio; coraggio fìja mia ché stai
co’ tu’ madre che t’odora e che nun te guarda pe’ nun logratte.
ELEONORA Se mettiamo tutti insieme?
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FILIPPO È meglio. Tanto in un portoncino di questi c’entriamo tutti.
CAMMILLA (accennando il portone d’Agnese) Entriamo in questo qui
che je sta quasi de faccia. Accusì, senza nemmanco fà capoccella, potemo scutrinà tutto quello che succede drento ar portone de madama
Lugrezzia.
ELEONORA (entra nel portone e ne riesce subito, inorridita) Dio che
tanfo! Che peste!... (otturandosi il naso)
CAMMILLA Eh vai cercanno, in certe circostanzie puzza più puzza
meno! Lesti, entramo: nun perdemo tempo. (entra)
ELEONORA (col naso otturato) Io ce schiatto qui dentro.
CAMMILLA Accusì è mejo, famo doppia càntera 26. (tutti gli altri entrano; poi ogni tanto qualcuno di essi mette fuori il capo)
SCENA IX
Custode, Grispino e Detti (ritirati nel portone)
CUSTODE Avete visto, mastro Grispì, quanta painerìa?!
GRISPINO E come?! La zinna se fà bona!
CUSTODE Che ne pensate?
GRISPINO Che la matassa s’imbroja. Per antro, incora nun me ce sò
ariccapezzà.
CUSTODE Che ne dite, ce li daranno li nummeri per un ber terno?
GRISPINO Però nun se famo accorge che li tenemo d’occhio; si nno
artrimenti se ponno, per antro, mette in suggizzione. ( fa finta di lavorare)
CUSTODE Nun dite mica male. È mejo a fà l’indiani... Ecco che rifanno capoccella. ( fa sembiante di lavorare la calza)
SCENA X
Cammilla, Adele, Eleonora, Filippo e Detti
CAMMILLA (uscendo seguita dagli altri) Avete raggione, fije mie, qua
drento c’è una puzza ch’appesta... Respiriamo un po’ d’aria balzanica.
ELEONORA Si stavo un altro secondo me ne venivo meno. Fortuna
che ciò la bottiglietta d’acqua de colonia. (l’annusa)
FILIPPO Io intanto sto alla vedetta. (si allontana verso il fondo della scena)
CAMMILLA Bravo, e avvertitece subbito. Dunque, come te dicevo,
Adele mia, si quer pover’omo, quer sant’omo de tu’ padre sapessi la
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Puzzo, fetore insopportabile, latrina in genere.
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parte che ce tocca a ffà a noi, pe’ cavusa de quer boja, lui che nun c’è
passato mai, sai quanto ce soffrirebbe?... Fortuna che sta a Marino!...
(declamando) Quello se chiama un omo, quello se chiama un santo de
marito, un marito semprare!...
FILIPPO (accorrendo) Nascondemose. Un omo s’avanza fischiando!
ELEONORA E ADELE È lui?
CAMMILLA È quer puzzone?
FILIPPO Per fare a tempo a scappare, non l’ho visto. Presto ritiriamoci.
Entrano tutti in fretta nel portone, e si mettono poi a ficcanasare.
SCENA XI
Adolfo (dalla finestra) Giuseppe e Detti
ADOLFO (dalla finestra con circospezione nel vedere Giuseppe) (Beato
lui, come se ne viè locco locco! Co’ ‘sta zuppetta che cià preparata!...
Eh roppete le gambe! fajela; ché io sto su le spine!...)
GIUSEPPE (le mani dietro la schiena, e fischiando l’aria dell’ inno: «Noi
siamo i capi fondatori della lega, del chi se ne frega» si avanza placidamente, ed entra nel portone della Zorzi)
ADOLFO (dalla finestra) (Meno male che je l’ha fatta! Adesso presto a
preparà la commedia) (si ritira chiudendo la finestra)
SCENA XII
Cammilla, Adele, Eleonora, Filippo
(uscendo dal portone)
ELEONORA (stupita) Avete visto papa?!
ADELE (c. s.) Papà?!
FILIPPO (c. s.) Papà?!
CAMMILLA ( fuori di sé) Papà?! Peppe mio?! lui? Macché è uno sbajo,
nun pò esse... Ah traditore, assassino der sangue suo! Ah fije mie, io
moro, io schiatto!... (sviene)
ADELE (soccorrendola) Mammà mia, coraggio. Bisogna vedere perché
motivo è venuto qui... Io perdo la testa!...
ELEONORA L’averanno avvertito...
FILIPPO E per mettere pace, sarà corso anche lui... Presto, quel1’omo
(a Grispino) portate una sedia.
GRISPINO (recando la sedia) Eccola pronta. (aiutato da Adele, Eleonora e Filippo vi adagiano Cammilla la quale agiterà le braccia e le gambe)
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CUSTODE (accorrendo anch’essa) Nun vedete, poveretta, che straveri che
fa? Ce vorebbe un po’ d’aceto, (chiamando) sor’Agnesa, sor’Agnesa!
ADELE Mammà, mammà mia!...
ELEONORA Presto ‘st’aceto per carità!...
SCENA XIII
Agnese dalla finestra, Lavandaie e Detti
AGNESE (affacciandosi) Ch’è stato? Ch’è successo?!
CUSTODE Una donna svenuta. Lesta, un po’ d’aceto.
AGNESE (ritirandosi) Scegno subbito.
FILIPPO Che diavolerio!
ADELE E ELEONORA (confortando la madre) Mammà, su che non è
gnente!
GRISPINO ( fra sé) (Donna vedere svenuta sta ar 44!)
AGNESE (recando l’aceto) Ecco l’aceto... (poi riconoscendo Cammilla)
Uh povera sora Cammilla, povera signora mia! Eh ch’ha fatto?
CUSTODE J’ha preso un sturbo. (fra sé) (Lo dicevo io che oggi ridemio!)
ELEONORA (disperata) Che vergogna!... Mammà, mammà mia!...
AGNESE Povera signora, portamela su a casa da me e mettemela su
lletto.
FILIPPO Sì è meglio che ci leviamo da questa fiera.
ADELE Mammà, venite su con noi da questa buona donna.
ELEONORA Ancora nun dà segno de vita! (disperata)
AGNESE (a Filippo) Quer signore, lei, m’ajuti.
FILIPPO Andiamo.
Adele, Eleonora, Filippo e Agnese sollevano Cammilla e l’aiutano a salire in
casa di Agnese, seguendola.
SCENA XIV
Grispino, Custode, Orsola e Prima Lavandaia
ORSOLA (accorrendo dalla fontana) Chi è stato? Chi hanno ammazzato?!
CUSTODE Che ammazzato, la luna! È una signora che j’ha pijato uno
sturbo.
GRISPINO Ma che sturbo! È stato uno svenimento bello e bono!
PRIMA LAVANDAIA Eh cche straccio de svienimento! Nun dava più
segni de vita!
ORSOLA Poveraccia, davero?!
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GRISPINO Antro! È cascata su quela sedia che per antro j’ho portato
io che, si avessivo visto, povera ciorcinata, pareva un bovo in de l’ammazzatora.
ORSOLA (a mastro Grispino) Mastro Grispì, donna svenuta vedere a
che nummero sta?
GRISPINO Ar 44.
ORSOLA Ma, perché j’ha preso lo svienimento?
CUSTODE Doverebbe avé visto imboccà er marito in de l’80, qui a
quer portone indove abbita quela marca ch’è vienuta giorni fa. Eh povera moje!...
GRISPINO Io per antro, incora nun ciò capito gnente; o pe’ dì mejo
incora nun me ce so ariccapezzà.
CUSTODE Eh, mastro Grispì, accusì avessimo vinto un terno, come
oggi avemo incajato che qua, quarche buriana, stava pe’ succede!
GRISPINO L’avemo capita per aria.
CUSTODE (a Grispino) E che ne dite? che antri nummeri poteressimo
pijà?
ORSOLA Pijamo moje, bruttone, amica...
GRISPINO Per antro, si me volete dà udienza a me, io direbbe da nun
precipità la cosa. Adesso vojantre annatevene, si nno date sospetto, e
nun me fate scoprì ppiù gnente. Quanno poi saperò tutto, li nummeri ve li do io. Li saperò o nu li saperò pijà?!
CUSTODE Antro, voi pe’ sapé pijà li nummeri, sete l’asso!
ORSOLA Sete mejo de qualunque frate torsone27!
PRIMA LAVANDAIA Sete mejo d’un mago!
GRISPINO Dunque, corpo d’una lesina, pijate l’erba fumaria 28 e fate
moschiera. (si siede al suo deschetto e si mette a lavorare)
CUSTODE E si nun buggiancamo er guverno ‘sta sittimana, me fo tajà
la lingua!
Custode, Orsola e Lavandaia si ritirano nella fontana fingendo di discutere
animatamente.
27
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Frate converso che si è dedicato alla religione senza aver preso i voti.
Pijà l’erba fumaria: fuggire.
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SCENA XV
Filippo e Adele (escono dal portone) e Detto
FILIPPO Pare che stia meglio.
ADELE Molto meglio. Anzi a quel che pareva, non è stato gnente!
FILIPPO Io, con la scusa di andare a cercare un medico (del quale non
ce n’è bisogno) sono uscito per venire un poco a vedere come è stato
ch’el signor Giuseppe si trova qui all’80 dalla signorina.
ADELE Io pure ardo di saperlo.
FILIPPO Ora salgo da quella signorina... (indeciso)
ADELE Si potrebbe provare...
FILIPPO Domando del signor Giuseppe e... e in ogni caso mica me se
mangeranno! (avviandosi)
ADELE Fermateve; ché se nun mi sbaglio, in fondo al portoncino se
vede qualcuno che viene fuori.
FILIPPO (osservando) Pare anche a me. Mettiamoci qui in disparte.
Si ritirano in fondo alla scena facendo attenzione a chi esce, e a tutta la scena che segue.
SCENA XVI
Giuseppe e Adolfo (dal portone di Lucrezia) e Detti
GIUSEPPE (fingendo di essere adirato con Adolfo lo sgrida facendo in modo di essere udito da Adele e Filippo, che finge di non vedere) Sicuro, sono indegnatissimo con voi. Sete un ragazzaccio, un libbrettino! Per
cavusa vostra, oggi, Dio lo sa, che diavolerio poteva succede!... Fortuna che mi’ moglie, quell’angelo, quella donna providente, quella perla, non è ancora venuta; e io ho fatto a tempo a venire a rimediare a
tutta questa porcheria.
ADOLFO ( fingendo di essere umiliato) Ha raggione, sor Giuseppe mio;
me scusi tanto...
GIUSEPPE Nun c’è scusa che tenghi. Un omo ammogliato, commettere tale azione, vergogna! Far compromette quel povero innocente del
mi’ genero!...
ADOLFO (c. s.) Ma io... ( fra sé) (Lo posso sopportà, m’ha promesso
cento scudacci!)
GIUSEPPE (c. s.) Zitto: fate mosca! Ché io nun so chi me tenga da nun
davve puro quattro schiaffi... (lo minaccia)
ADOLFO ( fra sé) (Sarebbe meglio!)
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ADELE ( fermando il braccio a Giuseppe) Papà, per carità, nun ve compromettete!
GIUSEPPE (fingendo grande sorpresa) Come, tu qui Adele?! Voi qui, sor
Filippo?! ( fingono di parlare piano)
GRISPINO (alla Custode) (Vedete che v’erivio sbajata? Invece è er padre che ha agguantato er fijo co’ quela madamaccia).
CUSTODE (Eppure ciaverebbe messo la mano sur foco... )
GRISPINO Mosca (alla Custode) che mó sentimo e’ resto. (finge lavorare)
ADELE Non v’inquietate più papà; a casa poi ce racconterete tutto.
GIUSEPPE Andamo a casa dunque. (volgendosi ad Adolfo) E ‘sto signore poi me la pagherà!
ADELE Ma infine, papà mio, bisogna vedere che colpa ce ne ha lui!
GIUSEPPE Che colpa?! E tu lo difendi?! Ma allora tu non sai gnente? (vedendo che Cammilla s’ è affacciata con Eleonora alla finestra,
finge di non vederla e grida più forte) Non sai gnente, tu? Adesso te
lo dico io.
SCENA XVII
Cammilla, Eleonora in finestra e Detti
GIUSEPPE (gridando più forte) Dunque, io un’ora fa appena arrivato da
Marino, ho trovato a la stazione una degna e rispettabile persona che
mi ha informato dall’a alla z, de la lettera trovata da Cammilla mia, de
li sospetti de tutti voi, e insomma de tutto quello ch’è successo per cavusa de ‘sto signore che... (tragico) un nome da daglie nun ciò!
CAMMILLA (sempre in finestra fa grandi atti di meraviglia)
ADELE Ma dunque la lettera trovata nello studio di Luciano?
GIUSEPPE (a Adolfo) Rispondete voi, mascalzone!
ADOLFO ( fingendo avvilimento) Era mia purtroppo, signora: ve chiedo perdono...
ADELE Dunque quel povero Luciano mio è innocente?!
GIUSEPPE Sicuro, poveretto, innocentissimo come una colomba! E si
non ero io che arivavo in tempo, oggi chi lo sa che putiferio succedeva, sempre per cavusa de questo... assassino che... (tragico) peggio nome da daglie nun ciò!
CAMMILLA (dalla finestra non potendosi più frenare, grida) Lo dicevo
io, lo dicevo, che Peppe mio era innocente! Er core nun se sbaja!
GIUSEPPE (alzando gli occhi e fingendo sorpresa) Che sento! che vedo!
Tu, Cammilla mia?! Tu qui?!... E io che credevo!... Adele, Filippo, e
nun me dicevate gnente?!
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)
1. introduzione
FILIPPO Siccome alla sora Cammilla le è venuto male, volevamo aspettare prima di darvi un dispiacere...
GIUSEPPE Male?! Male?! Cammilla mia, èccome. ( fa atto di salire)
CAMMILLA Aspetteme che scegno io; intanto me s’è passato tutto. (si
ritira dalla finestra)
ADOLFO (da sé) (Guarda la paura che spirito ha messo in corpo al sor
Giuseppe. Io nu’ lo riconosco più!)
SCENA XVIII
-
-
-
-
-
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Cammilla, Eleonora e Detti
GIUSEPPE (andando incontro a Cammilla, con affettata tenerezza) Cammilla mia, come te senti? E pensà ch’io credevo d’esse arivato prima
de vojaltri, per accomodà tutto alla meglio!
CAMMILLA Ma chi è venuto a dittelo a la stazzione?
GIUSEPPE Una degna e rispettabile persona, che poi te dirò.
ELEONORA Certo ce lo ha mandato l’angelo! Che momenti brutti,
papà mio, che abbiamo passati!
GIUSEPPE Ce credo, figlie mie!
ADELE Povero Luciano mio!
CAMMILLA Ma povera me che me sò cresa de morì!
GIUSEPPE (ingenuamente) Tu, Cammilla mia? e perché? Averai mangiato a pranzo qualche cosa che t’ha fatto peso?... O forse, l’aggitazione, el dolore de vedere Adele afflitta... (rivolgendosi ad Adolfo) Eh, signorino, sete contento? Lo vedete in che stato compassionevole, per
cavusa vostra, s’è ridotta la mia famiglia?
ADOLFO (c. s.) Perdono! (poi fra sé) (Almeno finisse presto!)
CAMMILLA (ad Adolfo) Dunque quella lettera era vostra? Bravo, signor Ninnì! E nun ve vergognate co la moje che ciavete, de fà certe
puzzonate?!
ADELE Me sa mill’anni de rivedere quel povero Luciano mio, di buttarmegli al collo, e di chiedergli perdono!
CAMMILLA (vedendo Luciano che si avanza dal fondo della scena) Zitto, che eccolo l’amico Cerasa 29! Pò esse che ce vadi adesso a trovà quella marca. Mettémese qui da ‘na parte. (tutti si ritirano dietro lei)
ADELE Ma mamma mia, ancora nun ve basta?! Sete proprio crudele?
GIUSEPPE ( fra sé) (Ammazzela, ancora nun è persuasa!)
29
Verme delle ciliege: si usa genericamente per persona che non si vuole nominare o
della quale si sta parlando o sparlando.
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ADOLFO
introduzione
( fra sé) (Accidenti che tigna! San Galligano30 è carogna!)
SCENA XIX
Luciano e Detti
LUCIANO (si avanza dalla sinistra leggendo una lettera) Piazza Padella
è questa me pare... (avanzandosi) El numero 80 eccolo.
ADELE (con trasporto) Luciano mio!
LUCIANO (voltandosi) Tu, Adele!... Oh, guarda quanta gente! E che
novità è questa? (vedendo Giuseppe) Anche voi, sor Giuseppe?!
GIUSEPPE (facendogli dei segni) Sicuro, io che sò venuto adesso da Marino adesso, adesso, proprio adesso!
LUCIANO (da sé) (Che furbo!)
ADELE E dove andavi, Luciano? Mostrami un poco quella lettera.
LUCIANO Eccola; mi è arivata dieci minuti fa allo studio.
ADELE (guarda la lettera) È anonima. (leggendo) «Appena letta la presente, prendete una vettura, e recatevi in piazza Padella n. 80, ove vi
godrete una bella scenetta. Per altro, siccome la vostra presenza potrebbe rendersi necessaria, non mancate di recarvici, Un amico». (volgendosi a Cammilla) Mammà, sete persuasa?
CAMMILLA Che t’ho da dì? E certo, si nun è vera è ben trovata!
LUCIANO Ma di cosa si deve persuadere?
GIUSEPPE D’un granchio a secco preso da Cammilla mia, per una lettera trovata nello studio vostro, d’una certa Lucrezia che dava l’appuntamento, oggi a le tre, qui a un certo Ninnì.
ADOLFO ( fra sé) (Che sarebbe el sor Giuseppe! Che faccia da Ninnì).
LUCIANO Che, m’imagino, la mia amata socera avrà subito creduto
che fossi io?! Apposta le improperie di ieri sera!!
ADELE Hai indovinato.
LUCIANO (a Cammilla) Vi ringrazio della stima che fate di me! Ma
già non me fa specie.
ELEONORA E apposta eravamo tutti venuti qui, per sorprenderti in
flagrante crimine.
LUCIANO Anche voi? Ma bravi. Tante grazie. Siete veramente gentili.
E invece poi chi si è scoperto colpevole?
GIUSEPPE ( facendo dello spirito) Io, lassate che parli io. El colpevole
eccolo. (insegna Adolfo) E semo venuti in chiaro de tutto, perché el reo
30
Si allude all’ospedale intitolato a San Gallicano che cura le malattie della pelle. (Cfr:
G. Z., La Sôcera, a cura di F.Bonanni Paratore, op. cit., p. 100 n.)
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1. introduzione
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oltre all’esse confesso, alle 3 in punto l’ho sorpreso qui al n. 80 in
flagrante crimini.
LUCIANO (ad Adolfo) Bravo, signor Ninnì. Dunque quella lettera era
diretta a voi?
ADOLFO ( fingendo confusione) È vero, me scusi. Anzi credo che la sora Cammilla l’abbia trovata senza anveloppe...
CAMMILLA (mostrando la lettera) Sicuro, eccolo qui: era senza malloppo.
ADOLFO Tanto vero che m’era arimasto in saccoccia. Guardate se la
calligrafia è la stessa. (mostra un’enveloppe) ( fra sé) (La parte mia l’ho
finita: è meglio che me squagli). (e se ne va)
GIUSEPPE ( fra sé) (Ma che bravo commediante! Altro che 100 scudi,
se ne meriterebbe mille!)
ADELE (dopo aver letto) Nun c’è che dire; è diretta al Signor Adolfo
Miccarelli e la calligrafia è identica a quella della lettera.
CAMMILLA Vediamo (prende l’anveloppe, finge di leggere) È verissimo:
la galligrafina è la medesima.
GIUSEPPE (fra sé) (Prodiggi del cielo! Mi’ moglie ha imparato a legge!)
LUCIANO (a Cammilla) Che ne dice la mia cara suocera?
CAMMILLA Che si ‘sta vorta ho preso un granchio, spero un’antra
vorta de nun pijallo. E si er vostro giovine ha fatto quer che ha fatto,
averà imparato certo dar padrone.
ADELE Mammà mia, nun farete più a tempo a prenderlo perché io e
Luciano, da questo momento in poi vi salutiamo tanto.
CAMMILLA Come ci averessi core de lassà tu’ madre che fino a oggi
ha fatto tanto per te?!
GIUSEPPE Ma sì, è mejo, lassamoli andà soli. Casa grande quanto Roma, ma moje e marito, dice el proverbio, hanno da stà soli. Cusì adesso, quando ce se marita Eleonora, mandamo all’erba puro loro; e noi,
Cammilla mia, aritornamo a fà li sposetti freschi! (da sé) (Che consolazione!)
CAMMILLA Ma sì sì; mica dichi male. Intanto vedi che cce succede?
Fai tanto, fai tanto pe ‘sti mmazzati fìji e poi che ne ricacci? Carci in
faccia. (seguita fingendo di discutere animatamente con Filippo, Adele
ed Eleonora, formando così un gruppo a parte)
LUCIANO Sor Giuseppe, permettete una parola?
GIUSEPPE Genero mio, dite pure.
LUCIANO (piano a Giuseppe) Dico, voi con la vostra consorte fate da
galeotto a marinaro, eh? Però all’età vostra, dico, signor suocero mio,
all’età vostra avete di certe... Ma che diavolo vi fate?
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introduzione
GIUSEPPE (pacioso) Eh, faccio quel che posso!...
CAMMILLA (tenera) Peppe mio, volemo andare? (mettendoglisi sotto al
braccio)
GIUSEPPE Cammilla mia, io sò pronto.
CAMMILLA (sotto al braccio a Giuseppe) ( fra sé) (E pensà che oggi ho
pensato male de ‘sto sant’omo! (ridendo) Quanto sò minchiona!) Allora andamo a ccasa, crature mie. Mettiamo una pietra sopra a tutto
quanto, e quello ch’è stato è stato. (si avviano Giuseppe sotto al braccio
di Cammilla, Adele di Luciano, ed Eleonora di Filippo)
GRISPINO (alla Custode) Commare Artimizia, allegria! Invece d’un
terno ciavemo una cinquina lampante!
Cala la tela
2 marzo 190631
31
Data annotata a matita.
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DOPPO EL 20 SETTEMBRE
Scene in dialetto romano in tre atti
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. Un quaderno di 40 cc. (mm 330x215) composto da 20 fogli tipo protocollo recanti il marchio, cancellato a penna, del Ministero della Pubblica Istruzione.
Cc. 396-435: bianche le carte 423 e 435.
A c. 396r: al centro dopo il sottotitolo: «(Proprietà Letteraria dell’Autore)»; in calce: timbro di nulla osta alla rappresentazione recante data e firma a penna «29 aprile 1908 G. Petragnani»; in alto, a destra a penna:
«Quirino»; due timbri di possesso dell’attrice Giacinta Pezzana.
A c. 408r: altro timbro di possesso di Giacinta Pezzana.
Testo a piena pagina.
Calligrafia autografa.
Nello stesso faldone sono presenti altre due stesure legate l’una immediatamente prima, l’altra immediatamente dopo:
[1] un quaderno di 40 cc. composto da 20 fogli con lo stesso formato e
caratteristiche di quello sopra descritto.
Cc. 356bis-395: bianche le cc.383 e 395.
A c. 384r: timbro di possesso di Giacinta Pezzana;
[2]un quaderno di 40 cc., composto da 20 fogli con lo stesso formato e
caratteristiche del precedente.
Cc. 436-474: bianche le cc.: 446-448, 463-464, 475.
A c. 436r a matita blu: altro sottotitolo: «Doppo el 20 Settembre Scene
originali romane di Giggi Zanazzo»; a c. 437r: «Doppo el 20 Settembre
Atto Primo Copiaccia rivista e corretta»; a c. 438r: «Doppo er 20 Settembre 1870»; a c. 465, ripetuto ancora il titolo: «Doppo el 20 Settembre». A
c. 474r, a penna: «12 Ottobre 1906. Fatto storico avvenuto presso a poco
nel 1876. Alcuni dei personaggi sono ancora vivi».
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Personaggi
PEPPINA di anni 18
LISA 12 anni
figli di
RENZO 13 anni
LAURA 45 anni e
FILIPPO LAURINI 55 anni agiato negoziante
ANNA altra figlia di Laurini maritata a
GIACOMO BERGONZONI ex ufficiale paladino
DON ANDREA SCALCHI vecchio prete
FRANCESCO SAVIO 35 anni ministro nel negozio Laurini
LUCASI GINO fidanzato di Peppina 24 anni
AMALIA 28 anni moglie a
GIUSEPPE SPAGHETTI ex ufficiale della Guardia Urbana
FLANELLA ANSELMO
due esseri insulsi e ridicoli
SBAFI CAMMILLO
ARISTIDE FIOCCHETTI giornalista
MENICA domestica dei Laurini
BALIA e
TRE SERVI che non parlano
}
}
Il fatto si suppone accada in Roma.
Il primo e il secondo atto nell’Ottobre del 1870.
L’atto terzo nel 1875.
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ATTO I
Un salotto sfarzosamente arredato, che serve di platea ad un elegante teatrino, il cui palcoscenico con la tela calata sarà situato in fondo al salotto,
ai due lati di esso una porta. Un lampadaio con candele, un pianoforte,
due altre porte laterali.
SCENA I
Sbafi, Flanella, Lucasi, Aristide, Amalia, Lisa, Renzo, stando seduti, fanno
circolo intorno a Peppina e Laura anch’esse sedute.
LUCASI ( fingendo continuare una conversazione da tempo avviata) Insomma se ne parla per tutta Roma. Mia cara Peppina, fosti inarrivabile!
ARISTIDE Divina!
AMALIA (che siederà vicino ad Aristide, in atto di sdegno, l’urterà col gomito)1
LAURA Senti, eh figlia mia? Sei contenta?
PEPPINA Eh, si seguitate con questi sperticati eloggi, me farete diventare rossa! Mica poi sono la Ristori 2.
AMALIA Che c’entra? Noi diciamo la verità. E poi questa è l’oppignone di tutti coloro la quale assisteveno alla recita.
FLANELLA Eh già, sicuro!
RENZO Eh quanta gente c’era! ‘Sta sala era piena zeppa!
LISA Come un ovo!
LAURA Zitti vojaltri. (ai figli) Figurateve che lui aveva pavura che se
sprefondasse el pavimento. Mandò due volte Francesco giù al negozio
a vedere si li travi aveveno fatto nessun movimento.
PEPPINA Ci sarebbe mancato che fossimo precipitati!
SBAFI (che come al solito, non sa che ridere) Ah ah ah, sarebbe stata bella!
LAURA Misericordia!
RENZO (battendo le mani) Che bella cosa che sarebbe stata!
ARISTIDE Ma se non c’è mai stato pericolo. Allora sarebbe già successo.
LUCASI Sciocchezze! Dunque a quando la replica, mia cara Peppina?
1
Tratto a matita su questa didascalia. Il manoscritto presenta alcuni tratti a matita come a cancellare alcune battute e didascalie (probabilmente finalizzati alla messinscena), che qui sono state mantenute nel testo a evitare alcune incongruenze nella lettura:
è segnalata ogni volta in nota l’estensione del taglio.
2
Adelaide Ristori (1822-1906), attrice.
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PEPPINA Sentiremo papà; sebbene io avrei stabilito di farla sabbato a
sera.
FLANELLA Ah sì? Già?!
SCENA II
Don Andrea e Detti
DON ANDREA (entra da una delle porte laterali al teatro. Recherà un
giornale) Scusate si entro così all’improviso. Bongiorno a tutti.
TUTTI Bongiorno, don Andrea.
LAURA Sete passato giù da bottega?
DON ANDREA Avete letto?
LUCASI Che cosa?
DON ANDREA Un articolone sulla vostra famiggerata cosa di jeri sera.
AMALIA Che foglio è?
LUCASI (che ha tolto il giornale a don Andrea) El Giornale di Roma.
AMALIA (indicando Aristide) Allora eccone l’autore.
ARISTIDE (pavoneggiandosi) Sì, due parole alla meglio, scritte in fretta, alle due dopo la mezzanotte sotto la grata impressione avuta dalla
recita. (seguita a parlar piano con Amalia)
PEPPINA Sentiamole.
FLANELLA Eh già, bisogna sentirle.
TUTTI (meno don Andrea) Assolutamente. Leggete. (a Lucasi)
LUCASI (legge) «Ieri sera nell’elegantissimo teatrino in casa Laurini si
rappresentò avanti uno sceltissimo uditorio Adriana Lecouvreur. La vaga signorina Giuseppina nella parte della protagonista, nelle scene più
emergenti ha fatto pensare a certe sfumature ammirevoli in Virginia
Marini3, e nell’insieme della scena era come un’immagine nuova che
ha fatto tornare con la mente ora alla Tessero4 ora alla Pezzana5... Infine fu una perfetta interprete dell’Adriana. Essa insieme a Piccardi,
Colonnelli, Ferrero e gli altri che recitarono tutti col consueto impegno
furono assai applauditi. Gli onori di casa furono squisitamente fatti dal
Signor Filippo e dalla signora Laura Laurini. A quando la replica?»
LAURA (entusiasmata) Avete inteso che ce sono puro io?
PEPPINA (ad Aristide) Grazie; ma non merito tanto.
ARISTIDE Merita anche di più.
3
Virginia Marini (1842-1918), attrice.
Adelaide Tessero (1842-1892), attrice.
5
Giacinta Pezzana (1841-1919), attrice.
4
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AMALIA (con gelosia dice piano ad Aristide) Eh dàjela!
LAURA (ad Aristide) Noi ve ringraziamo tanto. Figuramose quando lo
leggerà Pippo mio, che contentezza!... Èsse messa puro su li fogli!...
Sei contenta, sei, eh Peppina mia?
AMALIA Sicuro: si se lo merita!
RENZO (gridando) La rivolemoo!
LUCASI Era quello che dicevo io, bisogna replicarla.
FLANELLA Eh già bisogna.
ARISTIDE Assolutamente.
LUCASI E presto anche.
LAURA Ma certo. E doppo, in onore della recitante, faremo una bella
cena, ma con li fiocchi, per stare tutti in allegria.
SBAFI (ridendo, soddisfatto) Ah ah ah, che bella pensata!
LUCASI Ce viene pure don Andrea.
DON ANDREA Alla cena contatemece pure; ma alla cosa io? Alla recita io?! Nun ce pensate.
PEPPINA Siamo alle solite!
DON ANDREA Ma che sete matte?! Io, un coso, un sacerdote, divertisse come fate vojaltri, mentre sua Santità è prigioniero, mentre la
Chiesa è così perseguitata, mentre questi ce ne stanno facendo de tutti li colori?!! Capisco che questo stato de cose durerà altri pochi giorni; ma intanto!...
FLANELLA Eh già, dice bene don Andrea.
PEPPINA (a Flanella) Bravo! Anche voi gli date raggione?
FLANELLA (confuso) Ciovè, eh già, volevo dire, intendevo dire... che
don Andrea cià un pochino torto. (poi ride)
AMALIA Don Andrea la pensa come mio marito.
ARISTIDE ( facendo l’occhietto a Peppina) Ha raggione don Andrea.
(piano ad Amalia) Secondiamolo.
DON ANDREA Apposta, io ve torno a ripetere, non capisco come un
Filippo, un Pippo Laurini, una famiglia rispettabbile come la sua, fornitrice de li SS. Palazzi cosi Apostolici, possa permette in tempi di
lutto, come quelli che corrono, di fare il coso in casa!
LAURA Queste sò sciocchezze! Allora sotto el papa, l’Ottobre e el Carnevale, nu’ lo facevamo?
LUCASI Si lo aveste fatto apposta doppo el 20 Settembre, sarebbe stata una provocazione; ma una cosa che seguita da un pezzo...
AMALIA Non bisogna essere poi tanto caricati come fa anche Peppe
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mio, la quale da quando suono venuti questi,6 a la rippresentazione
nun c’è volsuto più venire.
DON ANDREA E fa bene, e lo stimo! In certi casi: melio est abbundare quam deficere.
LUCASI (scherzando) S’intende però, che chi non assiste alla replica
dell’Adriana, non farà parte de la cena.
DON ANDREA (risentito) Questo lo dite voi, lo dite! Io alla cena ce
sarò e glie farò onore.
LAURA Ma tutto er tempo de la recita, v’annojerete.
PEPPINA Certo, v’annojerete.
DON ANDREA A questo nun ce pensate. Io me ne starò de là in cucina con cosa, con Menica. Dirò l’uffizio, e... magari l’ajuterò a cosare, a cucinare.
RENZO e LISA (battendo le mani) Ih, che bellezza a vede don Andrea
co’ la parannanza!
DON ANDREA (a Renzo e Lisa) Zitti voi, mocciolosi!
SBAFI (ridendo) Ah ah ah, questa è graziosa!
ARISTIDE E così tardi, vi fiderete poi, con quest’aria che tira per li
preti, de ritornavvene a casa?
DON ANDREA Dormirò qui. Io m’accommodo dovunque, purché se
dorma.
RENZO Dorme a letto con Menica!
LISA Sai quanto saranno graziosi!
SBAFI (ridendo) Ah ah ah, oh questa è classica!
LAURA (a Renzo e Lisa) Zitti, screanzati!
LUCASI (c. s.) Tuttavia se si saprà che voi pure avete preso parte alla
cena tutti sospetteranno che siete stato anche alla recita.
FLANELLA Eh già, dice, me pare, bene.
DON ANDREA Male nun fà, pavura non avere.
ARISTIDE (scherzando) Oh perlomeno si dirà, se non altro, che approvate pienamente le baldorie che si fanno in casa Laurini.
DON ANDREA (riscaldandosi) Eh, caro mio, sono troppo conosciuti
li miei cosi, perché si possa sospettare di don Andrea Scalchi! Io e’
lutto lo porto nel coso, nel core (accennandolo), lo porto: come ce lo
portono tante persone rispettabbilissime come un principe Maltieri,
un principe Calviati, un Cancellotti7, li quali dal 20 Settembre in poi,
6
Allusione ai nuovi governanti e, in senso ampio, agli Italiani giunti a Roma, ormai
capitale del Regno.
7
Evidente allusione alle famiglie Altieri, Salviati, Lancellotti.
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a
e
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capite? hanno, in segno de lutto, messo tanto de coso, de catenaccio
al portone de li loro palazzi. Senza pregiudizio de quello che faranno
in appresso.
AMALIA Benissimo fatto!
LUCASI (c. s.) E benissimo detto!
FLANELLA Eh, già sicuro.
ARISTIDE Se vede che quelli signori hanno il coraggio della propria
opinione.
LAURA Io puro, e vojaltri ce lo sapete, non sono tanto scarsa pel papa
e per la religgione; ma quel che fanno ‘sti signori, scusate, a me me
pareno caricature.
PEPPINA Auffa! Per carità, amici, lasciamo andare questi discorsi che
da venti giorni li sento ripetere a pranzo a cena e in tutte le salse.
LUCASI E parliamo della replica dell’Adriana. Quando vogliamo stabilirne il giorno?
LAURA Bisognerà che sentimo prima lui. Sibbene, Peppina, qua, la vogli fà sabbato. (chiama) Menica Menica!...
PEPPINA Che cosa volete, mammà?
LAURA La voglio mandà giù a bottega si mai fosse venuto lui.
FLANELLA Eh già sicuro, bravo! (intanto tutti gli attori fingono parlare fra loro animatamente)
RENZO (alzandosi) Ce posso andà io.
LISA (c. s.) Mammà, ce vado a vede io. (avvicinandosi)
RENZO No ce voglio andà io. (c. s.)
LISA No, io: eh vero mammà?
LAURA Nun ve movete nessuno de li due. (poi finge di proseguire il discorso cogli altri)
RENZO Io fo più presto.
LISA ( fermando Renzo) No faccio più presto io!
RENZO (gridando) No: tu fermete! (minacciandola)
LISA Mammà, vedete Renzo, m’ha menato!
LAURA (senza muoversi affatto) Ecco, adesso m’alzo, e sentite che sveglia ce pigliate!
Renzo e Lisa sempre altercando giungono sulla porta a destra del teatrino, e
mentre entra Menica le pestano un piede e poi se ne vanno.
Sbafi e Flanella divertendosi a quella scenetta, ne ridono a smascellarsi.
i
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SCENA III
Menica e Detti
MENICA (zoppicando per la pestata ricevuta) Eh un accidempoli!
LAURA (come se niente fosse stato) Jeso8, che diavoli scatenati che sò sti
figliacci mii! (poi grida) Renzo, Lisa, ecco che m’alzo. (non si muove)
Finitela, e venite subbito de qua.
MENICA ( fra sé) Manco male che l’hanno intesa! (poi a Laura) Che
volevio?
LAURA Sei venuta a tempo!
MENICA Stavo co’ le mano a mmollo a ll’acqua bullente de li piatti...
Che volevio?
LAURA Te volevo mandà giù a vedere si lui sta in bottega. Ma nun serve più; vattene puro.
MENICA (zoppicando, se ne va, dicendo fra sé) Si l’agguanto ‘sti scannati, me la pagheno!
SCENA IV
I suddetti eccettuata Menica
PEPPINA Insomma: voglia o non voglia papà, la replica la faremo sabbato.
LAURA Ma pure lui, bisognerà sentillo.
PEPPINA (crucciata, facendo spallucce) Ecco che mi contradite. Nun sò
mai padrona de gnente, in questa casa!
LAURA Bè, nun t’inquietà, via. Faremo come vòi tu. Manderemo l’inviti per sabbato.
DON ANDREA E sabbato, dunque, avremo la pappata!
LUCASI (scherzando) Ma senza de voi.
DON ANDREA Voi lo dite!
SBAFI (ridendo a non poterne più) Oh, bella, bella!
ARISTIDE Allora bisogna che provamo la farsa nòva, la Sposa e la cavalla.
AMALIA Nel quale io farò la parte da sposa.
PEPPINA La proveremo questa sera: che ne dici, Gino?
LUCASI Sono ai tuoi ordini, Peppina mia.
ARISTIDE (levandosi da sedere) Allora a questa sera.
AMALIA (c. s.) Se vediamo. Il sor Aristide, si permette, me farà da cavagliere.
8
Gesù.
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.
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503
ARISTIDE Anzi sarò fortunatissimo. (offre il braccio ad Amalia che l’accetta subito. Tutti si alzano e si fanno i saluti)
PEPPINA (a Lucasi) Tu, Gino, aspetta un altro momento, che oggi starai a pranzo con noi.
LUCASI E chi si mòve? (e si mette a parlare con Peppina)
LAURA Aspettate che chiamo Menica.
AMALIA Nun v’incommodate; intanto scendemo da la scala il quale
conduce a bottega per salutare, si c’è, il sor Filippo. Se vediamo (escono)
LAURA (a Flanella e Sbafi) E loro ce lasseno puro?
FLANELLA ( facendo un inchino) Eh, già, sicuro.
SBAFI Ce n’andamo, come se dice al manducandume. (e qui una risata
e salutati tutti partono)
SCENA V
Don Andrea, Laura, Lucasi e Peppina
DON ANDREA Io me trattengo ancora un pochetto. Devo dì una cosa de premura a Pippo. (si siede)
LAURA (sedendo) State pure. Anzi me fate compagnia. Co’ la cosa che
m’è venuta a trovare Balia, de là nun ciò gnente da fare. ( finge parlare con don Andrea)
PEPPINA (che intanto s’ intratteneva con Lucasi) Ci siamo intesi?
LUCASI Ma sì, cocca mia, farò come vòi tu.
PEPPINA Non la devi guardare più. Giuramelo.
LUCASI Te lo giuro.
PEPPINA Che sfacciata! Almeno poi usasse un po’ di prudenza... Hai
veduto che occhiate che si dava col sor Aristide?
LUCASI Eh, lasceli fare; lascia che si divertino. Quanto sei scioccarella.
PEPPINA Eh lo so! Voi sete di manica larga per queste cose. Chi sa
quante ne fate!
LUCASI ( fingendosi offeso) Io? Dio me ne guardi! (seguitano a parlare,
tenendosi per la mano in un angolo della sala)
DON ANDREA Io, cara sora Laura, sò fatto così, tutto d’un pezzo. Se
fossi io Pippo, avrei chiuso pure la bottega. Gnente teatrino, gnente
divertimenti, finché la Chiesa è perseguitata. Tanto più che se tratta
di pochi giorni.
LAURA Ne sete sicuro?
DON ANDREA Come due e due fanno quattro. Anzi apposta voglio
parlà con Pippo.
LAURA Eh io puro da un momento all’altro m’aspetto qualche gran
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avvenimento, (con fede) qualche gran miracolo della Madonna. Lo dicono tutti, pure el papa.
PEPPINA Mammà, vado de là con Gino a farglie vedere una cosa. (esce
con Gino dalla destra)
LAURA (senza scomporsi) Giudizio, veh, ragazzi.
DON ANDREA (entusiasmato) Avverranno cose da sbalordire! Come
quando papa Coso andò incontro a Coso re de li Vandali e con l’ajuto de san Pietro e san Paolo, che scesero giù dal cielo, con le cose sguainate, libberò Roma.
LAURA Lo stesso preciso a quel quadrone che sta a san Pietro?
DON ANDREA Brava! Talecquale. Vedo che avete bona memoria.9
SCENA VI
Giacomo, Filippo, Anna e Detti
GIACOMO (sarà vestito con eleganza e in istrettissimo lutto, in testa il
cilindro) Giusto a voi cercavo don Andrea.
DON ANDREA E io cercavo Pippo. Lupus in fabula.
FILIPPO (a don Andrea) Che volevi? ( fingono parlare con molto interesse anche con Giacomo)
LAURA (ad Anna) Nannina mia, come stai? (si baciano)
ANNA (vestita anch’essa in lutto stretto) Bene, mammà; e voi? (proseguono a parlare)
GIACOMO (a don Andrea) Te dico che quando lo saprai, stupirai!
DON ANDREA Sarà lo stesso segreto che già conosco.
GIACOMO Impossibile! Me l’ha comunicato proprio adesso el generale Andler10 che l’ha avuto fresco fresco dal Cardinale Segretario di Stato.
FILIPPO Eh, mio genero, se le vò sapere le cose, le sa davero. Con
quell’appoggi!
DON ANDREA (offeso) E io no, che te pare! (proseguono fingendo di
parlare calorosamante)
ANNA (a Laura) Come, Peppina sta de là sola col sor Gino?
9
Tratto a matita: da qui alla battuta seguente di Giacomo fino a: cilindro.
Allusione a Hermann Kanzler (1822-1888), dal 1865 comandante supremo delle forze armate pontificie e proministro delle armi; continuò ad essere nominalmente proministro fino al 1888.
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LAURA (con la solita calma) Eh, che c’è de male? Nun conoscessi che
persona garbata è Gino, averessi raggione...
ANNA Questo nu’ lo metto neppure in dubbio; ma... che forse s’è dichiarato?
LAURA Sì, figlia mia, sì. Che consolazione che sarebbe si se sposasse
quello. Dio lo volesse! È una famiglia tanta ricca: sò mercanti de campagna11, che te pare!
ANNA Bisognerà vedere li genitori si se contenteno. Eppoi la ricchezza, mammà mia, a che giova? È tanto ricco Giacomo, e pure passo
tanti guai.
LAURA Nun se vò dunque moderà per gnente?
ANNA Macché sempre peggio... Furtuna che ho fatto a modo vostro.
Ah!... (sospira)
LAURA (per cambiar discorso) A proposito, Pippo... Pippo!... Eh senteme!
FILIPPO (che stava sempre discutendo con don Andrea e Giacomo) Che
dicevi, Laura mia?
LAURA Hai letto el foglio de la recita de jeri sera?
FILIPPO (con gioja) Che dice, che dice?
DON ANDREA (tirando a sé Filippo) Doppo lo leggerai. Senti.
FILIPPO Per altro sarei tanto curioso... (a Laura) E de Peppina nostra,
figuramoce che dirà!
GIACOMO (sdegnato a Filippo) Ma adesso lasciate andare queste buffonate!
DON ANDREA Bravo Giacomo! Bene, benone! Vere buffonate. Mentre el Santo padre è prigioniero, un Pippo Laurini, un coso, un cattolico di quello stampo, fornitori de li sacri palazzi, spassarsela col coso!... Vergogna!
FILIPPO (offeso nel suo debole che è sempre stato il teatrino in casa, si riscalda) Si facciamo el teatro nun facciamo gnente de male, doppo tutto!
Io del resto sento el dolore del cambiamento del governo più di qualunque altro; ma nun me piaceno ridicolaggini... Per altro protesto che un
cattolico più cattolico apostolico de me, credo che nun se ne trovi!...
DON ANDREA Doppo de me!
GIACOMO Doppo de noi! Io finché a Roma ce resterà questa marmaglia, questi ladroni, èccome qui, vestirò in lutto stretto io e la mia famiglia. E quando ce sarà da prendere la spada, el fucile, el cannone,
èccome qua sono pronto! (con calore)
11
Ceto sociale tipico dello stato della Chiesa affermatosi tra il XVI e il XIX secolo.
Amministrava per conto dell’aristocrazia il patrimonio fondiario e tutte le sue rendite.
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FILIPPO Questione di temperamento.
GIACOMO De temperamento? Ma de princìpi veri e morali.
DON ANDREA Bravo coso... Giacomo! Bravo!
SCENA VII
Peppina, Lucasi e Detti.
PEPPINA Ih quanta gente! (scorgendo Anna) Tu, Nannina? (si abbracciano e baciano)
LUCASI (salutando) Signori, bongiorno!
FILIPPO A proposito, Gino, me date quel foglio che v’ha dato don Andrea?
LUCASI (porgendogli il giornale)12 Eccolo.
FILIPPO Grazie. (si mette a leggere)
GIACOMO (indicando a don Andrea, Filippo) Lo vedete?
DON ANDREA È pazzo, è fanatico, è coso: nun ve l’avevo detto?
GIACOMO Capisco; ma quando la patria è in ballo, ma quando la nostra santa religgione è in pericolo, me pare troppo, me pare!
ANNA (che è rimasta a parlare con Laura e Peppina) Chi lo sente mio
marito, lo prende per l’omo più santo de la terra; e sò due notti che
non viene a casa a dormire per andare da una ballerina.
PEPPINA Dice bene: bizzochi e colli storti13... (seguitano come sopra)
FILIPPO (dopo letto con entusiasmo) Ma quest’articolo è degno d’essere
letto forte. Sentite...
GIACOMO (idrofobo) Ah sì?! Io me ne vado. (per andare)
DON ANDREA (imitando Giacomo) Io puro.
FILIPPO Ih, come prendete foco, genero mio!
DON ANDREA Ha raggione!
GIACOMO Si ve l’ho detto che quando ce sono io, non voglio che se
parli de queste buffonate, almeno per el tempo che dura questo stato
de cose.
PEPPINA Poverino! Non lo fate inquietare! (ironicamente) Che non sapete che mio cognato ha lo scrupolo del tarlo?
GIACOMO Insomma, finimola.
PEPPINA Prima però, caro cognatuccio mio, mi permetterai di dire
12
Tratto a matita su questa didascalia.
Bizzoco: bacchettone, bigotto, ipocrita. Collostorto: persona ipocrita, falsa. In passato
usato, come dispregiativo, per indicare un appartenente al clero.
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ancora un’altra parola su questo stesso argomento e poi... se me farà
commodo non ne parleremo più. (da sé) Fariseo! Papà, quando la replichiamo l’Adriana?
FILIPPO Lunedì prossimo.
PEPPINA Impossibile, papà caro.
FILIPPO Ma se ho stabbilito così.
PEPPINA Ma se te dico che è impossibbile, papà mio.
FILIPPO (con autorità) Dico, signorina, a casa per altro, commando io!
PEPPINA (indispettita) Scusate; ma non è il caso di prenderla su questo tono.
LAURA Ha raggione, povera figlia mia!
FILIPPO Ma allora quando la vogliamo replicare?
PEPPINA Sabbato prossimo.
FILIPPO Per altro, io volevo farvi riflettere...
LAURA (risoluta) Sabbato prossimo!
FILIPPO Ma io dicevo, per altro...
LAURA (c.s.) Abbiamo detto sabbato prossimo e me pare che abbasti...
Nun ce martirizzare, tanto a me che a quella figlia!
FILIPPO Ma allora, fin da principio, me potevate dire che avevate stabbilito sabbato e bona notte. No che venite a prendere consiglio quando per altro avete deciso de fare come ve pare! Nun ho raggione, eh
don Andrea?
DON ANDREA ( finge non udirlo)
FILIPPO (scuotendolo) Nun ho raggione, eh don Andrea?
DON ANDREA Hai torto, torto marcio. Se me domandi cose che non
sono, dirò così, omoggenee allo stato del coso mio, non mi interrogare perché sono deciso di non risponderti.
FILIPPO Ma va al diàncine!
DON ANDREA Tu cianderai con tutto el coso, el cappello, se non
muti vita.
GIACOMO No nnoi!
DON ANDREA Che siamo tutti d’un pezzo.
GIACOMO E sempre coerenti. Lutto de fori e lutto di dentro.
DON ANDREA Come me.
GIACOMO Io non transiggo co’ li miei principii!
FILIPPO Per altro...
DON ANDREA Per altro, per altro. Io vedi cosa t’arrivo a dire, vedi
che cos’è la potenza d’un principio radicato in me. Ebbene, io da quel
20 Settembre maledetto, è tanta la bile che ciò in corpo che alle volte
nun mangio né a pranzo né a cena.
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LUCASI (piano a Peppina, Laura ecc.) Meno che quando viene a pranzo qui!
LAURA A proposito de pranzo, sbrigamoce ch’è ora.
DON ANDREA Io me ne devo andà?
LAURA Ma che andavvene nun se sa! Voi averete intenzione da scherzare. Su presto sinnò la minestra ve se fredda.
FILIPPO (scherzando) Me ne rincresce per altro che don Andrea dal
gran dolore non potrà mangiare.
DON ANDREA M’arangerò, come dicono li buzzurri. Intanto vi precedo. (entra in camera da pranzo)
GIACOMO Io però nun posso, perché ciò un affare di gran premura.
PEPPINA (ad Anna, ecc.) Abbiamo capito quale.
ANNA Ce rimango io; basta che questa sera ti ricordi de venirme a
prendere.
LAURA Allora andamo che se fa tardi.
LUCASI Andiamo.
GIACOMO Bon appetito! (poi giunge fino alla porta della camera da
pranzo e grida) Don Andrea siamo intesi. (se ne va)
DON ANDREA (di dentro) Non dubitare.
FILIPPO (tornando quasi subito) Ho riflettuto14 che la cosa riescirà meglio. È necessario che ce venga pure lui; un prete è sempre un prete...
(si avvicina alla porta di camera da pranzo e chiama) Don Andrea! Don
Andrea! Una parola.
SCENA VIII
Don Andrea, Giacomo, poi Renzo e Lisa
DON ANDREA (esce col tovagliolo al collo e la bocca piena di pane che
stava sbocconcellando) Che ciabbiamo?
GIACOMO (misterioso) Assolutamente ho pensato che è necessario che
puro voi venite con me.
DON ANDREA (si lascerà cadere le braccia in atto di sconforto, per far
capire quanto gli riesce dolorosa quella proposta)15 E ce sei ritornato apposta? Nun ti ricordi più come eravamo rimasti d’intesa?
GIACOMO Lo so. Ma se Sua Eminenza volesse?... È assolutamente necessario, che venite.
14
15
Lezione precedente: Credo.
Tratto a matita su questa didascalia.
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DON ANDREA (sudando freddo dice fra sé)16 Che bell’idea! (poi si accosta all’orecchio di Giacomo e gli parla con aria di gran mistero.17 Giacomo approva del capo).
RENZO e LISA (saranno intanto entrati dalla porta in fondo, dietro don
Andrea e nel vedere abbandonato sopra un mobile il cappello e il pastrano di questo, facendosi scambievolmente segno di tacere, uno indossa il
pastrano l’altra il cappello, imitano tutti i gesti dei due attori e li beffeggiano, senza però farsi vedere)
GIACOMO (convinto di quanto ha sentito) Bravo, l’avevo scordato. È
meglio, è meglio che vada da solo. Ma prima però di svelare il segreto, anche voi, mi raccomando fate le cose con prudenza!
DON ANDREA (da sé) (Respiro!) È interesse mio, capirete. Mica se
tratta d’una bagattella, se tratta de mettere in gioco la testa!
GIACOMO Allora vado solo. Coraggio e gnente paura! (si stringono con
entusiasmo la mano; poi ponendo l’ indice alla bocca Giacomo esce dalla
porta in fondo)
DON ANDREA (che non le par vero d’essersela scampata di non lasciare
il pranzo) Quanto me la sò vista brutta!18 (e ritorna in fretta in camera
da pranzo)
RENZO e LISA (sempre occultandosi ai suoi sguardi lo seguono beffeggiandolo. Al loro apparire in sala da pranzo mascherati da preti si odono
partire grida e risate clamorose).
Cala la tela
16
Tratto a matita su questa didascalia.
Tratto a matita da qui a sentito, nella battuta seguente di Giacomo.
18
Tratto a matita da qui a Cala la tela.
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ATTO II
La bottega di Laurini. A sinistra il bancone dietro il quale una porta, che
si suppone conduca in casa Laurini, a cui si accederà anche per altri vani
aperti fra gli scaffali, ricolmi di merce. Sul lato destro, in mezzo, coperta
dalle merci, un’altra porta che si suppone metta nel portone della casa
suddetta. In fondo l’ingresso con vetrina praticabile, da cui si vedranno
la strada, le case prospicienti ecc. Addossati alle pareti vi saranno degli
scaffali con stoffe, e grandi balle di stoffe saranno sovraposte le une alle
altre. Sul bancone alcuni libri di commercio, l’occorrente per iscrivere e
due grandi lucerne d’argento a quattro becchi. Insomma: l’interno d’un
antico negozio romano, con smercio all’ingrosso.
SCENA I
Francesco e Menica
MENICA (avrà il fazzolettone sulle spalle, usato in quell’epoca da tutte le
donne di servizio. In mano una sporta o un fazzoletto a colori per la spesa. Sta a discorrere con le braccia appoggiate sul bancone, dalla parte riservata agli acquirenti, mentre Francesco sarà seduto dal lato opposto,
cioè nello spazio riservato al mercante) E cusì, caro sor Checco mio un
po’ p’er teatrino, un po’ pe’ l’entrata de l’Itajani, li mi’ padroni perdeno addrittura la cirignoccola! Nun se sa mai chi commanna o er padrone o la padrona o li fiji. Quanno poi la vò vinta la sora Peppina,
oprete cèlo! Er padre e la madre, diventeno puzzetta, diventeno: sò
troppi de manica larga, co’ li fiji; je le danno troppe vinte, je le danno! Ma ve pare, sor Che’, che stii bene a lassà quela regazza fà l’amore
sola co’ regazzo pe’ l’ore e l’ore?!
FRANCESCO (sospirando) Eh, Menica mia, che cce vòi fà?
MENICA Eh, lo so. Sai che te ce sarebbe vorsuto? Una dozzina d’anni
de meno...
FRANCESCO E una ventina de mila scudi al commando mio. Dunque è tempo perso.
MENICA Dichi bene... Basta: damme li quatrini pe’ la spesa de la cena. E dammene assai che ‘sta sera, siconno er solito, c’è riarto19. Damme ‘na quarantina de pavoli.
FRANCESCO (glieli conta, dopo averli presi dal cassetto, e segnati sopra
un libro) Eccote servita... E avanti co’ li sciupi!
19
Piccolo ricevimento.
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MENICA Se vedemo, sor Che’.
FRANCESCO Addio, Menica mia. (Menica se ne va dalla vetrina)
SCENA II
Francesco solo
a
i
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FRANCESCO E si anche fossi stato ricco, chi lo sa si m’averebbe dato
retta? È tanta volubbile, tanta... Ma, povera figlia, non è colpa sua.
Colpa del come è stata allevata; con quel padre tre volte bono, quella
madre che non cià altra volontà che quella della figlia... Ambiziosi
poi!... Hanno sacrificato quella povera Anna per darla a quel... paladino del papa. Un vero paladino che per quanto è ricco è altrettanto
debbosciato e villano. E poi, a sentirlo, li mascalzoni, li ladri, sò li
buzzurri, sò l’Italiani!... L’Italiani (con entusiasmo) che per me nun ciaveremo mai abbastanza lingua per ringraziarli d’essece venuti a libberà da la schiavitù che ce teneveno li preti... (vede dalla strada giungere
don Andrea) Oh, stamoce zitti; ché eccone uno.
SCENA III
Don Andrea e Francesco
DON ANDREA (dalla vetrina) Bongiorno, caro Checco.
FRANCESCO Come va, caro don Andrea nostro?
DON ANDREA De salute, ringraziamo el coso; ma in quanto al resto,
va male. Ce credi che ogni volta che esco da casa, dico: ce ritornerò?
(siede sopra un panchetto)
FRANCESCO Ma perché ‘sta paura? V’ha forse molestato mai qualcuno?
DON ANDREA No: nun dico questo; ché all’occasione poi, dico, ciaverebbero trovato el coso, el padrone! (con ostentata bravura)
FRANCESCO (con sarcasmo) Ce volemo credere?
DON ANDREA Sei anche padrone de non crederlo. Ma, dicevo, a parte l’essere molestato; ma te pare poco in quale angoscia deve trovarse
el cuore d’un vero cattolico apostolico romano.
FRANCESCO (l’ interrompe con lo stesso tono di voce) Pensando a questi
tempi de lutto per la santa Chiesa, a questi tempi ne’ quali si perseguitano tutti li religgiosi con le più nere trame, e si vitupera il capo
visibbile de la Santa Romana Chiesa...
DON ANDREA (che lo è stato ad ascoltare a bocca aperta e con crescente stupore) Che me canzoni?!
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introduzione
FRANCESCO Dio me ne guardi! Ma siccome dal 20 Settembre, questo
discorso, me l’avete fatto due volte al giorno, l’ho imparato a mente.
DON ANDREA Che forse nun ho raggione? Ma gnente, pure tu, fussi un buzzurro?
FRANCESCO Ma si ve l’ho detto mille volte che avete raggione!
DON ANDREA (prendendo tabacco) Sai qual’è la furtuna nostra? Che
questi ce staranno pochi altri giorni.
FRANCESCO Ne sete sicuro?
DON ANDREA Come te vedo a te.
FRANCESCO E ‘sta cosa in che modo avverrà?
DON ANDREA (con mistero) Per ora è un segreto. Ma sapràilo, fra breve, anche tu. Forse anche in giornata. A proposito, stasera, questa bottega me serve per una certa operazione... (si pone ad osservare in lungo
e in largo la bottega)
FRANCESCO ( fra sé) Che diavolo avrà in mente di fare?
DON ANDREA (c. s.) Quante persone, presso a poco, dici che ce ponno entrare fra la bottega e l’annesso magazzino?
FRANCESCO Un centinaro: perché el magazzino è grande assai.
DON ANDREA Allora ( fra sé) anderebbe a maraviglia! (poi a Francesco) E dimme un po’, s’è visto gnente Giacomo Bergonzoni e Giuseppe Spaghetti?
FRANCESCO ( fra sé) Li capitani de la Paladina e de la Guardia Urbana! Non l’ho visti ancora.
DON ANDREA Ma com’è che nun se vedeno? (gira con impazienza)
FRANCESCO (da sé) Eh vajelo a domandà!
SCENA IV
Laura (di dentro) e Detti
LAURA (chiamamndo dalla scala interna) Checco, Checco!
FRANCESCO (affacciandosi alla porta dietro il bancone) Sora padrona,
che commandate? Èccome. (poi voltandosi) Don Andrea, io mó ritorno. (esce dalla porta che dà alla casa)
DON ANDREA È curiosa, m’hanno detto a le cinque...
SCENA V
Lucasi e Detto
LUCASI
(dalla vetrina; per intimorire don Andrea, grida) Alto là!
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DON ANDREA (sobbalzando spaventato, si rivolta e vedendo Lucasi)
Bungiancatte20, m’hai messo pavura.
LUCASI E apposta l’ho fatto! Ce scommetto che arrivo per il primo. A
pranzo m’avete detto alle cinque.
DON ANDREA E le cinque in punto sò. Bravo, testamatta, così si fa!
LUCASI E gli altri?
DON ANDREA Devono stà poco.
LUCASI (simulando serietà) Insomma, che si tratta di combinare?
DON ANDREA (dandogli un buffetto sulla guancia) Sapràilo e tosto.
LUCASI (c. s.) Ho udito, se nun m’inganno, parlare di congiura.
DON ANDREA (otturandogli la bocca con una mano) Per carità, ragazzo mio, cosa, prudenza! (con mistero) Dico, sedioguardi, semo scoperti, se tratta de giocarse la cosa, la testa!
LUCASI Ma qui nun ce sente nessuno. Siamo soli e senz’alcun sospetto!... ( fra sé) (Quanto mi verrebbe da ridere! Chi lo crederebbe che mi
son fatto congiurato per amore!)
SCENA VI
Peppina e Detti
PEPPINA (viene dall’ interno del negozio) Buonasera.
DON ANDREA (accennando Peppina a Lucasi) Eccotela tiè! Che hai
inteso l’odore, eh bricconcella?
LUCASI (stringendo la mano a Peppina) Come stai, cocca mia?
DON ANDREA (imitando la voce e il gesto di Lucasi) Cocca mia! Dico,
ma adesso mica è tempo di fare l’amore! (a Peppina) E voi, signorina,
andatevene su a casa e lasciatece libero el vostro spasimante. (poi vedendo che quei due si parlano affettuosamente senza curarlo, sgrulla le
spalle, e se ne va alla vetrina a vedere la strada) Tanto móccolo più mòccolo meno!...
PEPPINA (piano a Lucasi) Ma che diavolo avete da combinare?
LUCASI (c. s.) Ah già non te l’ho detto prima, perché ci saremmo veduti presto. Dunque, sono venuto qui (con caricato mistero) per prendere parte a una congiura... Insomma cara mia, par intrattenermi di
più con te, metto a repentaglio la testa!
PEPPINA (ridendo) Macché non c’è pericolo, la congiura finirà con una
burletta. C’è di mezzo mio cognato Spaghetti e don Andrea e tanto
20
Buggiancà: eufemismo per buggiarà. (Cfr. p. 372 n.)
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basta. In compenso, io prevedo che rideremo molto. Anzi devo comunicarti un’idea in proposito. Non te ne andare senza prima vedermi.
DON ANDREA (che è sempre rimasto in vedetta alla vetrina, torna indietro esclamando) Finalmente eccoli!
SCENA VII
Giacomo, Spaghetti, un Servo con due involti e Detti
DON ANDREA Je l’avete fatta!
GIACOMO (con mistero) Adesso saprete la causa del ritardo.
SPAGHETTI ( figura ridicolissima) Un vero impedimento canonico!
DON ANDREA (accennando al Servo che li segue) E quell’omo che porta in quelli due fagotti?
GIACOMO e SPAGHETTI (uno da un lato e l’altro dalla parte opposta
parlano con mistero alle orecchia di don Andrea)
DON ANDREA ( fingendosi entusiasta del segreto) Bene! Bravi! Magnifica idea, subblime! (e con trasporto abbraccia e bacia prima Giacomo e
poi Spaghetti)
GIACOMO (al Servo) Andate a posare quelli due fagotti su da mio suocero e poi ritornatevene a casa. (il Servo esce)
DON ANDREA (sempre con mistero) E dunque? Avevo o nun avevo
raggione io?!
GIACOMO No, sbagliavate. Ho rivisto adesso il General Landller...21
(si volta sospettoso e vedendo Peppina e Lucasi, s’ interrompe)
LUCASI Caro Giacomo, parla pure liberamente; sono de’ vostri.
GIACOMO (interroga con lo sguardo don Andrea e all’affermazione di
questi) Ah già è vero. (poi a Lucasi) E mica ti avevo veduto prima...
LUCASI Sono venuto apposta.
GIACOMO Eh, ma le donne!... (alludendo a Peppina)
SPAGHETTI Già le donne!...
PEPPINA Eh, non avete paura che adesso me ne vado. (piano a Lucasi)
Io me nascondo qui dietro, così parliamo lo stesso. ( finge di andarsene; invece si nasconde; monta sopra alcune balle di stoffa e sporge il capo
come da una finestra)
21
Vedi la n. 10.
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SCENA VIII
Filippo i Precedenti e Peppina (c. s.)
FILIPPO (entra dalla vetrina) Oh che bella compagnia! Mbè, mbè, che
novità?
DON ANDREA Bonissime. Anzi facendo seguito a quanto oggi dicevamo, contamo molto su di voi.
FILIPPO Per altro, io sono padre di famiglia. Non me vorrei trovare in
qualche brutto incastro... Il locale ve lo cedo; sebbene da parte mia è
un’imprudenza.
GIACOMO Ma che paura avete, quando ce siamo noi?
SPAGHETTI La vostra è una paura ingiustificata. A noi, ce contate per
niente, a noi? (spavaldo)
DON ANDREA Se nun fosse una cosa più che sicura, credete che io
me ce sarei impicciato?
GIACOMO (con convinzione) Credetelo, è questione di altri pochi giorni. Se diceva (guardandosi attorno con sospetto) per il giorno de tutti li
Santi, ma sarà invece per l’otto decembre festa de l’Immacolata dalla
quale Sua Santità spera in un miracolo.
DON ANDREA In un miracolo, e ne siamo più che convinti.
SPAGHETTI Che bell’improvisata! Alzasse la matina, e trovarse co’ li
francesi...
DON ANDREA (interrompendolo) Abbraccicati!
FILIPPO (grattandosi il capo) Per altro... E da che porta entrerebbero?
GIACOMO Da le porte Portese e San Giovanni.
DON ANDREA Arriveno per mare a Civitavecchia e a Napoli.
SPAGHETTI Dice che a Civitavecchia già ce sono arrivati certi vapori
francesi che se chiameno le Ranocchie, pieni zeppi de soldati.
DON ANDREA Che cose, che Ranocchie nun si sa! Si chiamano l’Orenoque 22.
GIACOMO Oh quale felicità! Che soddisfazione!
SPAGHETTI Quale consolazione!
DON ANDREA ( fuori di sé dalla gioia, grida) Viva Pionono!
TUTTI (meno Filippo) Vivaa!
FILIPPO Zitti ché passa gente! Lo dicevo io, che m’avreste compromesso...
GIACOMO (entusiasmato all’eccesso) Gnente paura, ce siamo qui noi!
22
Fregata francese a vela e a vapore.
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introduzione
SPAGHETTI (c. s.) Noi ce semo, pronti a pagare, anche con la nostra
testa!
DON ANDREA (c. s.) Sicuro con la nostra cosa! (a questo punto Peppina fa espressamente cadere qualche cosa nell’attiguo magazzeno, il che produce un sordo rumore: Filippo, don Andrea, Spaghetti, e Giacomo rimangono allibiti. Lucasi frena a stento le risa) Che già fussimo scoperti?
SPAGHETTI (pallido dallo spavento) Incominciamo bene!
LUCASI (che è andato a vedere di che si tratta, torna) Non è nulla: è il
gatto che ha fatto cadere una tavola. Eccolo là che scappa.
GIACOMO (rianimandosi a sentir ciò) Del resto che venga chissesia, ce
sono qua io!
SPAGHETTI (c. s.) E io!
DON ANDREA Tutti uniti per la vita e per la cosa, per la morte!
FILIPPO Per altro, quale sarebbe proprio il vostro piano?
DON ANDREA El coso, el piano...
GIACOMO (l’ interrompe) Zitto che parlo io. El piano sarebbe questo
(si guarda attorno con mistero e sorprende Lucasi con la testa in aria il
quale si fa dei cenni con Peppina, Giacomo lo guarda fissamente – pausa – scena a soggetto) Ecco dunque (abbassando la voce) qual’è il nostro
piano già approvato dalle Autorità Superiori. D’accordo coi nostri ministri delle Armi e della Marina, abbiamo... (nuova guardata attorno
e nuova, se occorre, scenetta come sopra) abbiamo deciso di raccogliere
più uomini fidati e risoluti che ci è possibile, siano dei cessati corpi
militari, siano guardie urbane, palatine, nobili, e nuovi aruollati. La
notte del 7 (altra guardata ecc.) ci armiamo tutti e poi alla spicciolata
andiamo incontro all’armata francese alla quale ci ricongiungiamo,
per poi ritornare insieme nella città gloriosi e trionfanti!...
DON ANDREA (con delirio) Tutti con qualche cosa in mano gridando: Viva Pionono!
FILIPPO Una bella e santa idea. Per altro, io non capisco a che cosa ve
serva la mia bottega con l’annesso magazzino.
DON ANDREA A raccogliere parte de l’armati la viglia dell’8 decembre, e stasera a cominciarvi l’aruollamento.
FILIPPO (grattandosi il capo) Ma qui, peraltro, ce n’entrano ben pochi.
GIACOMO E che altro che questo locale? Ce n’abbiamo altri cento di
altri cento sudditi del Sommo pontefice che se sono offerti spontaneamente per il bene della santa causa. La nota ce l’ha in mano el cardinale Segretario di Stato.
FILIPPO E cce sono in nota anche io? Dunque è stato el cardinale che
conta sulla mia cooperazione?
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DON ANDREA E se capisce!
FILIPPO E allora nun ne parlo più. (sospira e si gratta la testa)
GIACOMO E da stasera in poi ci serviremo di questa bottega per gli
aruollamenti.
FILIPPO E, tanto per dire qualche cosa, ammettiamo la dannata ipotesi anche per essere preparati, che fossimo scoperti, come ce scuseressimo?
DON ANDREA Come? Ve lo dico io subbito, come. Diressimo che
stiamo a fare le prove d’una commedia nova...
GIACOMO Ben trovata! El teatrino è pronto; e se vogliono persuadersi, che si accomodino.
FILIPPO (raggiante) Bravo! Anzi a proposito del teatrino, ti dovrei parlare d’un proggetto che da tempo ciò in mente, di fare cioè un altro
teatro dieci volte più grande del mio, in un immenso salone del palazzo Farnese che potrei avere in affitto...
GIACOMO (interrompe) Va bene ne riparleremo con più commodo. Ve
prevengo intanto che l’8 decembre, voi saluterete in me, un generale.
FILIPPO Corbezzoli!
SPAGHETTI E in me, un colonnello.
FILIPPO E in don Andrea, un...
DON ANDREA (premendosi le dita della man destra sulla bocca) Mó te
lo dicevo! Ma che capisci che io lo faccio per coso? Io lo faccio p’el bene che voglio a Sua Santità. (entusiasmato) Viva Pionono!
FILIPPO (otturandogli la bocca) Per carità, nu’ ricominciamo!
SCENA IX
Francesco e Detti
FRANCESCO (dalla porta dietro il bancone) Sor padrone, ve vòle su la
sora Laura. (accende le lucerne)
FILIPPO Vengo subbito. Anzi salite anche vojaltri, così ve bagnerete el
becco. Avete parlato tanto!
DON ANDREA Nun dici mica male! Un bicchier de vino ce mette in
coso, in forza, per la fatiga che dobbiamo sostenere questa sera.
SPAGHETTI Eh, mica me dispiace questa pensata.
GIACOMO Andiamo che è notte e l’appuntamento è per le otto. Nun
ci abbiamo tempo da perdere. (escono tutti dalla porta dietro il bancone)
LUCASI (resta a farsi i cenni con Peppina, quasi si fosse dimenticato dei
compagni. Poi avvedendosi ch’ è rimasto solo, corre dietro loro dicendo)
Per bacco mi ero dimenticato che congiuravo!
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SCENA X
Francesco, quindi Peppina
FRANCESCO E avanti col bere e col mangiare. In questa benedetta
casa è sempre festa, sempre tavola apparecchiata. Chi viene mangia...
Vorrei un po’ vedere se gli altri darebbero da mangiare a loro, dato il
caso ne avessero necessità...
PEPPINA (mostrandosi improvvisamente) Checco!
FRANCESCO Voi, signorina? E dove stavate? M’avete messo pavura!
PEPPINA Sono stata fin’adesso nascosta qui dietro. Zitto, Checco mio,
si sapeste quante risate me sò fatta.
FRANCESCO E perché, perché?
PEPPINA Ho inteso tutto il piano dei congiurati.
FRANCESCO Adesso capisco quell’aria de mistero de don Andrea.
Una congiura?!
PEPPINA Sicuro, una congiura.
FRANCESCO Caspita!
PEPPINA Aruollano gente per una levata di scudi da farsi in favore
dell’armata francese, che l’8 decembre, come se cadesse dal cielo, giungerà a Roma dalle porte Portese e San Giovanni.
FRANCESCO (scoppiando dal ridere) Ah ah ah! Ma servirsi del negozio a quale scopo?
PEPPINA A quale? Ve lo dirò io; (con mistero) per l’aruollamento.
FRANCESCO E quando comincia?
PEPPINA Questa sera... Ma perché ve preme tanto di saperlo? (da sé)
(Scopriamo terreno).
FRANCESCO Perché me ce voglio arollare pure io.
PEPPINA Ma che, giusto! Voi siete tutt’altro tipo. Io sono furba; voi,
secondo me, ve volete burlare de loro.
FRANCESCO Dio me ne guardi!
PEPPINA D’altronde fate bene. Anch’io quando in un affare qualunque, c’entra quel fariseo di mio cognato e quel ridicolo de Spaghetti
nun posso farne a meno di prendermela in burletta.
FRANCESCO Zitto, ché ecco er sor Aristide.
PEPPINA Allora non starà tanto a comparire la sora Amalia.
SCENA XI
Aristide e Detti
ARISTIDE
(entra dalla vetrina) Oh, signorina! (si salutano)
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PEPPINA Venivate forse in cerca del signor Spaghetti?
ARISTIDE No: perché?
PEPPINA (ironica) Allora della signora Spaghetti?
ARISTIDE (un po’ imbarazzato) Manco per sogno. Né dell’uno, né
dell’altra. Mi aveva dato l’appuntamento qui don Andrea.
PEPPINA Può anche darsi. Sicché anche voi siete dei nostri? (con affettato mistero)
FRANCESCO (da sé) (Si finisce con una cena tanto tanto!)
SCENA XII
Amalia e Detti
AMALIA (chiamando di dentro) Peppina! (poi entrando dalla porta dietro il banco) Peppina!
PEPPINA La sora Amalia! (scambia un’occhiata significativa con Francesco) Dunque voi stavate su in casa nostra?
AMALIA Già da un pezzo. Co’ la cosa che sapevo de trovarce mio marito, ve sono venuta a fare una visita; ma invece che da la bottega, sono passata dal portone. (fingendo avvedersi allora della presenza di Aristide) Uh signor Aristide, scusi, nu’ l’avevo visto. (si salutano)
ARISTIDE Ed io nemmeno. Sta bene?
PEPPINA (a Francesco) (Come fanno bene la parte).
AMALIA (ad Aristide) Quanto tempo è che nun si vediamo!
ARISTIDE Davero!
PEPPINA (piano a Francesco) (E magari saranno venuti insieme qui!) Sora Amalia che cosa volevate da me che m’avete chiamato venendo giù?
AMALIA Ah già me n’ero scordata. Ve voleva mammà.
PEPPINA Ebbene andiamo. (avviandosi)
ARISTIDE Ma non sarebbe meglio che don Andrea, io, l’aspettassi qui?
AMALIA Davero qui fa più fresco. Nun sentite oggi che scirocco?
PEPPINA Ma si don Andrea sta su da un’ora!
FRANCESCO (da sé) (Ce vonno fà reggere el moccolo per forza!)
ARISTIDE Don Andrea sta su? Allora potevate dirmelo prima, potevate. (si avvia)
AMALIA (si mette vicino ad Aristide e gli da un pizzicotto al braccio) (Te
ciò acchiappato a fare el ciovettone con quest’altra ciovetta!)
ARISTIDE Ajo! (se ne vanno dalla porta dietro il banco)
PEPPINA (tornando indietro) Sentite, Checco, m’è venuta un’idea magnifica. Adesso quando venite su, ve devo parlare in segreto. Se nun
ce sono, aspettateme in cucina che fra dieci minuti vengo. (esce)
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SCENA XIII
Francesco solo
FRANCESCO Che vorrà mai da me con tutta quell’aria de mistero?
Qualcuna delle sue. Sia benedetta!... Ecco a me me basta de diglie una
parola sola a quell’angelo, e me sento rinasce da morte a vita!
Ma quant’è graziosa! Che finezza di profilo, che portento!... Basta:
nun ce pensamo... A proposito, è già bello tardi e nun me ne sò accorto. Chiudiamo bottega, e andiamocene a prendere gli ordini dalla bella padroncina. (chiude bottega di dentro; accende un pezzo di cerino
smorza le lucerne e se ne va dalla porta dietro il bancone)
SCENA XIV
Peppina, Laura, Amalia, Balia (in costume), Renzo, Lisa, e Anna entrano
con precauzione, dalla porta che comunica col portone di casa.
PEPPINA (con in mano un cerino acceso) Facciamo piano; perché si ce
scoprono è finito lo scopo.
RENZO (battendo le mani) Che bellezza!
PEPPINA (a Renzo) Un’altra parola che dici, te mando a letto.
LAURA Ma, figlia mia, dobbiamo stare tutto ‘sto tempo a l’oscuro?
LISA (battendo le palme) È meglio: facciamo a niscondarello!
AMALIA Io ho pavura de li sorci. Giusto qua ce ne sò ‘sti pochi!
RENZO (gridando) Eccone là uno!
TUTTE (alzandosi le vesti, gridano, scappando chi qua chi là) Ah! Ah!
Zitte per carità! nun date retta a questo mascalzone! Renzo, mó senti
che schiaffone che t’appoggio! (cessa lo spavento e tutte riprendono la
loro calma)
ANNA Ma che pazzia è la vostra? Capisco, io pure sono curiosa de sapere quello che fanno, ma chi lo sa quanto tempo ce vorrà ancora.
PEPPINA Pochi minuti.
LAURA Puro lo sai. Quando se mette in testa qualche cosa ‘sta benedetta figlia de Peppina, bisogna fare a modo suo. Se venivamo più tardi nun era lo stesso?
AMALIA Già, non era lo stesso?
PEPPINA Non cominciamo coi rimproveri. Obbediteme e ve ne ritroverete bene.
RENZO Anzi, benissimo.
ANNA Infatti già lo vedo!
LAURA Ne sò più che ccerta.
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PEPPINA Quando ve dico de sì!
LISA Quanto sò sceme con tutte queste pavure!
LAURA Io sto in pensiere, ciavessero da scoprì.
AMALIA Mio marito, nu’ me la perdonerebbe.
PEPPINA Ve ne perdona tante! Seppure, mica ce se voranno mangiare!
AMALIA Sento rumore.
LISA Sì qualcuno scende la scala de’ bottega.
ANNA Che fossero già loro?
LAURA Ma vedi che imbroglio!
AMALIA Presto, nascondiamose.
ANNA No tutti in un posto, chi qua chi là.
PEPPINA Ve l’ho detto che staveno a momenti a venire? Fate piano, in
punta di piedi, e per carità zitti, ché eccoli. (si nascondono qua e là. Peppina quando l’ ha visti nascondere, smorza il cerino, poi a tentoni va dietro
il bancone vi nasconde un involto, e se ne va via dalla porta dalla quale è
entrata dicendo) Questo è fatto, adesso andiamo a istruire el sor Checco.
SCENA XV
Don Andrea e Filippo
DON ANDREA (con una bugia accesa, entra dalla porta situata dietro
il bancone) È ora che ci prepariamo. Prima de tutto accendemo li lumi. (eseguisce) Peccato che da la strada se vedrà el coso, e se sospetterà
che qua dentro c’è gente; ma poco male... Quando sono in compagnia
de quelli due valorosi ufficiali, me sento pieno de coraggio! Preparamo el calamaro, la penna, un quinterno de carta (eseguisce)... Questi
nuovi volontari, poco staranno a venire... E chi lo sa quanti saranno!...
Averemo da fare chi sa quanto!
FILIPPO (che dal principio ha seguito sempre don Andrea, con l’ intenzione
di interrogarlo, senza averne il coraggio, ogni volta che gli si avvicina don
Andrea affaccendato cerca torglierselo d’attorno) Don Andrea, senti...
DON ANDREA (a Filippo) Ma che vòi? Abbi pazienza. Nun lo vedi
quanto sò occupato? (poi come parlando a se stesso) Che dicevo?! Ah
che chi sa questa sera quanta gente accorrerà al nostro appello. Perché
io l’averò detto a un centinaro d’amici; Giacomo a un migliaro... Sicché li volontari devono fioccare... A proposito prepariamo qualche sedia... Così. (eseguisce)
N.B. La scena, abbenché le lucerne siano accese, deve rimanere in penombra.
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SCENA XVI
Detti quindi Peppina
FILIPPO Don Andrea! Don Andrea, senti, e rispondemi con calma.
Lasciamo andare li scherzi, e parliamose da veri amici. M’assicuri proprio che nun passeremo nessun guajo?
DON ANDREA Fidati de me...
FILIPPO (grattandosi il capo) Per altro...
DON ANDREA Coraggio, Pippo, sii omo, come lo sei sempre stato...
A proposito e Giacomo e Peppe, perché non scendono?
FILIPPO Se sò rinchiusi de là in cammera mia con una cert’aria de mistero, che me dà a pensare!... E siccome io volevo entrare, mi hanno
mandato via a spinte.
DON ANDREA Già so perché. È una sorpresa. Fra poco sapràilo.
FILIPPO Dico per altro, nun ariveranno al punto di fare qualche sciocchezza, salvognuno, de portare qualche bomba, qualche esplodente...
Avessimo da fare la seconda della caserma de Serristori 23!
DON ANDREA (ridendo) Ma vattene!
FILIPPO Eh, capirai, con quell’esaltato de Giacomo...
DON ANDREA Ma finiscila con queste corbellerie.
PEPPINA (scende dalla casa, traversa con precauzione la scena senza farsi vedere da Filippo e don Andrea, e si nasconde)
FILIPPO Allora io m’abbandono, fidandomi in te.
DON ANDREA Oh, mó sei omo!
SCENA XVII
Aristide, Giacomo, Spaghetti, Francesco
e i Precedenti
Aristide e Francesco, precederanno Giacomo e Spaghetti, i quali indosseranno le rispettive divise di ufficiali della Guardia Paladina e Urbana
23
L’attentato contro la caserma Serristori dei zuavi pontifici fu compiuto il 22 ottobre
1868. L’azione, insieme ad altre progettate ma non eseguite, aveva lo scopo di provocare una sollevazione popolare che facilitasse il proposito di Garibaldi di occupare Roma
con i suoi Garibaldini, cosa che poi, come noto, non avvenne. I due barili di tritolo che
furono fatti esplodere causarono il crollo della caserma e la morte di 25 militari e due
civili. Dell’attentato furono accusati Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti, poi condannati alla ghigliottina.
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FRANCESCO (mettendosi sull’attenti, in modo canzonatorio) Presentat’arm!
ARISTIDE (c. s.) Attenti! ( fa il saluto militare)
DON ANDREA ( fa altrettanto ma con serietà) Bene, per bacco baccone! (abbraccia con entusiasmo i due amici, e batte loro le mani)
GIACOMO (tronfio e impettito) Ebbene s’è visto nessuno? Tutto è pronto?
SPAGHETTI (più ridicolo del solito) Tutto è all’ordine? Possiamo incominciare... (a Francesco) Voi, Francesco, accudite alla porta.
FRANCESCO Me sò offerto apposta, per servirvi.
DON ANDREA (a Filippo che è rimasto poco soddisfatto di quelle divise)
Che te ne pare? È stata una bella trovata?
FILIPPO (grattandosi il capo) Per altro, ne potevate fare a meno! Se fossimo sorpresi in quell’arnesi, hai tempo a dargli d’intendere che facevamo le prove del teatrino...
DON ANDREA (seccato) Ma sei proprio insupportabile! Ancora hai
paura? (con entusiasmo) Alla sola vista, di quelle onorate divise, me
sento venire un coso, un coraggio da leone!
GIACOMO (a Filippo) Non capite che così, ai volontari farò più spicco?
FRANCESCO (ironico) Ma certamente!
ARISTIDE (c. s.) Imporrete di più!
SPAGHETTI (pavoneggiandosi) Almeno io, la pavura, nun so nemmeno dove abbiti de casa! ( finge parlare con don Andrea, Giacomo e Filippo)
FRANCESCO (piano ad Aristide) E il 20 settembre si non glie mandavano li panni da borghese, per la gran pavura, non usciva dal quartiere24!
ARISTIDE (a Francesco) Almeno Giacomo, quel giorno, si contentò di
nascondersi in cantina!
Due colpi vigorosi dati all’uscio che dalla bottega si suppone metta nell’ interno del portone fan trasalire Giacomo, Filippo, Spaghetti e don Andrea.
GIACOMO (rimettendosi) Cominciano a giungere gli invitati. (con autorità) Francesco, aprite.
FRANCESCO (apre la porta a sinistra, quella che si suppone dia nel portone) Chi è? Chi siete? Chi volete?... Ah! (riconosce Flanella e Sbafi)
Bungiancavve, sete vojaltri? Entrate. (richiude la porta)
24
Lezione precedente: Vatic [Vaticano].
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SCENA XVIII
Flanella, Sbafi e i Precedenti
SBAFI Bonasera!... (poi vedendo i due in divisa, scoppia a ridere) Oh,
bella, oh bella! Ah ah ah! In montura!
FLANELLA (c. s.) Ohé, che ciabbiamo de novo? In grande uniforme!
DON ANDREA (con mistero) Non è stata una bellissima idea?
GIACOMO Siete accorsi anche vojaltri? Bravi!
SBAFI È naturale... (ride) Ah ah ah, bella, bella!
FLANELLA Eh già che siamo venuti; siamo stati invitati da padron Filippo.
GIACOMO Prendetene nota. (a Spaghetti)
DON ANDREA (con enfasi) Nota speciale, per essersi cosati, dico presentati per li primi, quando il dovere li ha chiamati.
ARISTIDE Mentre a chi spetterebbe per dovere, non si fa ancora vivo.
DON ANDREA È vero: presempio, il signor Gino Lucasi, che c’è stato tutto il giorno tra li piedi, al momento del bisogno s’è dileguato.
FRANCESCO (simulando) Davero che questo procedere del signor Gino è incomprensibile.
FILIPPO Sciocchezze; sarà andato un momento a casa sua, e adesso ritornerà.
DON ANDREA Non era questo el momento adatto, però; e me fo molto specie de lui. Eccoli qui li veri amici (mostrando Sbafi e Flanella)
eccoli! A la prima chiamata, taffete! Si presentano pronti e giulivi.
SBAFI (ridendo con indifferenza) Ma sfido, noi quando siamo invitati a
mangiare, semo sempre li primi.
GIACOMO (sorpreso) Come, a mangiare?
DON ANDREA ( furibondo) Come a cosare?
SBAFI e FLANELLA (sgranano tanto d’occhi e si stringono nelle spalle)
FILIPPO Sicuro è verissimo a mangiare! Nun ce pensavo. L’ho invitati
io a venire a cena da me... Eh ciò altro per la testa!...
DON ANDREA (a Sbafi e a Flanella) Dunque, non sapete, non sapevate?...
FLANELLA Eh già, accosì pare... (interdetto)
DON ANDREA Non fa gnente. Segnateli lo stesso. Poi l’informerò
bene io di tutto. Intanto sono dei nostri e io ne rispondo.
SBAFI (si guarda con Flanella, tutti e due ridono. Non capiscono nulla.
Poi Sbafi dice) Ah ah ah, oh questa è bella, vestiti in montura per venire a cena.
FILIPPO (a Sbafi e a Flanella) Accommodateve intanto; ché adesso,
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quando ce siamo spicciati andiamo su a mangiare. (siedono sempre interrogandosi con lo sguardo e ridendo)
GIACOMO Io non capisco, come si fa a dimenticare di avvertire li nostri migliori amici, come questi, su li quali uno ce pò contare...
FRANCESCO (ad Aristide) (infatti quando c’è da pappà nun mancheno mai!)
SBAFI (ripensando alle divise indossate dai suoi amici, scoppia a ridere
clamorosamente) Oh bella, venire a cena in uniforme!
Pausa.
All’ improvviso si sente picchiare con forza all’uscio a sinistra.
DON ANDREA (soddisfatto) Eccoli, eccoli! Tutt’è che ne incominci a
venire qualcuno, ché poi gli altri sapete come fioccheranno! Ma se lo
dicevo, io?
Si picchia di nuovo e con più forza.
FILIPPO Ih che furia!
FRANCESCO (avvicinandosi alla porta) Un momento. Chi è?
LUCASI (di dentro, con voce alterata) La forza! In nome della legge, aprite!
FRANCESCO (tornando e fingendo timore) Avete inteso? È la forza!
FILIPPO La forza!?! (cade come un cencio, sopra una sedia) Ah, povera
famiglia mia rovinata! Lo prevedevo, io!
Don Andrea, Giacomo, Spaghetti, Aristide all’udire la forza scattano in piedi allibiti dallo spavento, tremano come foglie al vento. Sbafi e Flanella i
quali non si fanno un concetto preciso di ciò che sta accadendo, smaniosi, van
supplicando or questo or quell’attore, per esserne informati; ma da tutti sono
respinti. Scena a soggetto.
ARISTIDE (anch’esso impaurito) Ah incominciamo bene!
FRANCESCO (con accento tragico) Ah, fummo dunque traditi?! (poi
da sé) Ci riuscisse almeno a star seri!
LUCASI (picchiando con più forza) In nome della legge, aprite!...
FRANCESCO (aprendo la porta) Avanti, signori, favorischino! (poi a
Lucasi, piano)Te possino, quanto sei brutto!
LUCASI (di dentro) Due guardie, mi seguano, le altre circondino il palazzo.
DON ANDREA Nascondiamose!...
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SCENA XIX
Lucasi, da delegato, due guardie in borghese e i Precedenti
Peppina, Anna, Amalia, Laura e gli altri arrampicati chi qua chi là osservano senza esser veduti.
LUCASI (travestito, con barba folta, occhiali neri, e sciarpa tricolore. Per
non farsi riconoscere altererà la voce. Sorprende don Andrea e gli altri
mentre tentano di nascondersi) Fermi tutti! Nessun si muova, in nome
della legge!
Don Andrea, Giacomo, Spaghetti, Filippo, Aristide, Sbafi, Flanella, si fermano in vari atteggiamenti, esprimenti tutti la paura da cui sono invasi.
LUCASI (con accento feroce) Ah, dunque, nun ci avevano ingannati. Qui
si cospira e in divisa, anche! In nome della legge, siete dichiarati in
arresto!
SBAFI (piangendo) Chi me l’avesse detto!
FRANCESCO (simulando coraggio) Ebbene, signor delegato, ella è in errore. Qui non si cospira. Si stava facendo la prova di una commedia...
LUCASI (c. s.) È ciò che vedremo. Guardie, fate il vostro dovere. (le
guardie si avanzano)
FRANCESCO (c. s.) Signor delegato, badi bene a ciò che sta per fare;
poiché possiamo farvelo pentire e amaramente. (fra sé) (Io mó crepo!)
DON ANDREA (a Francesco) Bravo, coso! Che co...coraggio!
FILIPPO Vòl ve... vedere il nostro teatrino?
LUCASI (c. s. a Filippo) Tacete voi! (poi fingendo di perquisire, va dietro
il banco e ne cava un involto) Anche degli esplodenti!
FILIPPO (fra sé disperato) (Lo dicevo! Povera famiglia mia assassinata!)
LUCASI (con accento feroce) Traditori della patria!
Tutti meno Francesco s’ inginocchiano dinanzi a Lucasi, piangenti, costernati.
TUTTI Perdono! Perdono!
LUCASI (c. s. fra sé) (Se non scoppio è un prodiggio!) Preghiere, pianti, giovano a nulla! Traditori, siete rei di lesa maestà e la pena del taglione, vi aspetta!
Pausa.
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FRANCESCO Ma noi, signor delegato, facciamo appello all’animo suo
buono e generoso.
SBAFI (piangendo dirottamente) Perdono! Io ero invitato a cena...
FLANELLA Maledetta cena!
TUTTI Perdono, signor delegato!
LUCASI ( fingendo commozione, si asciuga una lacrima) E pure mi fate
compassione. Pensare, che voi, padri di famiglia dovrete lasciare le vostre teste sopra un palco, mi fa orrore!... Si, voglio dimostrarvi che noi
liberali, siamo più umani di voi sciagurati clericali... Ma ad un patto,
però. Sareste pronti a darmi una prova non dubbia del vostro patriottismo, come il signore (accennando Francesco) mi promise, testè?
TUTTI (all’unisono) Si, lo giuriamo!
LUCASI Ebbene, vi lascio liberi sul momento, se mi promettete di gridare all’unisono con me: Viva l’Italia, viva Vittorio Emanuele!
TUTTI Sì siamo pronti! (e gridano in coro) Viva l’Italia, Viva Vittorio
Emanuele!
FRANCESCO e LUCASI (togliendosi il cappello, gridano più forte degli
altri) Viva, vivaaa!25
SCENA ULTIMA
Peppina, Amalia, Laura, Menica, Balia, Lisa, Renzo, Anna,
e i Precedenti
Al grido di Viva l’Italia ecc. Peppina, Amalia, Laura, Balia, Lisa, Renzo,
ecc. i quali già si stavano godendo la scena dal principio, senza però farsi vedere, compariscono ciascuno recando un cerino acceso, e prorompono in una
sonora risata. Tutto ciò deve farsi rapidamente.
Allora Don Andrea, Giacomo, Filippo, Aristide, Sbafi, e Flanella, rimangono sbalorditi, confusi annientati.
LUCASI (togliendosi, unitamente ai due facchini, la barba posticcia e gli
occhiali, esclama freddamente) Bravi soldati de stoppa!
DON ANDREA ( facendo lo spiritoso) Eh da mó che me n’ero accorto!
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Sipario
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Di seguito annotato a matita: «meglio il finale: Bravi soldati del papa!»
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ATTO III
La stessa scena del secondo atto; con la differenza però che la bottega sarà quasi sprovvista di mercanzia.
SCENA I
Laura, Peppina e Lisa intente a lavorare
LAURA (senza smettere il lavoro) Sicuro, figlie mie; non se lo sarebbe mai
immaginato nessuno che in poco più de cinque anni, se saressimo ridotti guasi in miseria eh, aveva raggione don Andrea quando diceva
che con la venuta de questi a Roma, saressimo rimasti tutti rovinati!...
Basta, comunque se sia, sia fatta la volontà del Signore!... Soltanto, me
rincresce per voi, figlie mie, ché a la miseria non c’eravate assuefatte...
(rivolgendosi amorosamente a Peppina) e tu, Peppina mia, come te senti?
PEPPINA (pallida, disfatta, con una tossetta insistente) Meglio, mammà,
meglio. È male che passa.
LISA (che sarà intenta a lavorare un cappellino) Dio mio, però, ce venisse a trovare più un cane! Prima tutti qui, tutti a mangiare alle spalle
nostre; e adesso ce sfuggono come la peste.
LAURA Eh, figlie mie, così succede. L’unico che c’è rimasto fedele è
questo povero Francesco, el ministro nostro, che per noi, per modo
de dire, se spaccherebbe per mezzo, se spaccherebbe.
PEPPINA Davero, mammà; quanto c’è affezionato! Nello stato miserevole nostro, se riconoscono li veri amici!... (tossisce) Chi si sarebbe, come lui, sagrificato anche negli interessi, per salvare a noi?
LAURA (c. s.) Certo, poveretto. E io gliene sò proprio riconoscente. Ma
anche de don Andrea nun ce potemo lamentare.
PEPPINA Sì è vero anche lui è bono, e ci vòle tanto bene; ma...
LISA (interrompendo) È sempre prete. Adesso, quando sòna mezzoggiorno, mica se vede più come una volta...
LAURA (con serietà rimproverandola) Andamo via! Questa Lisaccia, è
venuta su con certe idee che sanno troppo de moderno.
LISA Effetto dell’aria che tira!... Mammà mia, se tutto il male fosse
questo. Almeno lasciateci parlare.
LAURA A proposito, come sarà, davero, ch’è sonato mezzogiorno e
Renzo mio, nun se vede?... Pure quel povero figlio mio, chi gliel’avesse detto de fenire a fà el mercantino. (sospirando)
LISA E io la scuffiara. Tutto si fa per la fabbrica de l’appetito! (simula
allegria per tener sollevati gli altri)
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PEPPINA (tossendo) Beata te, Lisa mia, che hai voglia di scherzare.
LISA (c. s.) Non sai come dice il proverbio? Chi se ne piglia mòre.
PEPPINA (addoloratissima; fra sé) (E infatti è vero. Me lo sento io!...)
SCENA II
Francesco e i Precedenti
FRANCESCO (entra dalla vetrina; sarà molto abattuto. Salutando) Sore padrone.
LAURA (con interesse) Mbè che hanno deciso in tribunale?
FRANCESCO (indeciso) Gnente de preciso... cioè... ancora veramente
nun se sa.
LAURA Ma ce sarà speranza?
FRANCESCO Speranza proprio... (c. s.) Ma l’avvocato lo assicura... E
quando lui...
LAURA (sospirando) Dio lo volesse!... E, Pippo l’avete gnente veduto?
FRANCESCO Stava adesso con me e con Renzo. Sono saliti a casa passando dal portone. Forse, credeveno de trovarve su.
LAURA (alzandosi da sedere) Allora, ragazze, andamo su a mangiare
quel boccone, ché papà ci aspetta. (tutte si alzano ed escono precedute
da Laura)
SCENA III
Francesco indi Sbafi e Flanella
FRANCESCO (seguendo con lo sguardo le padrone) Nun ho nemmeno
avuto el coraggio de diglie la verità... Li creditori hanno rifiutato el
concordato; sicché da ieri è dichiarato el fallimento. (con dolore) Ah
poveri padroni mii!
SBAFI e FLANELLA (che sono entrati dalla vetrina, accomodando l’aspetto alla circostanza) Sor Checco!
FRANCESCO (voltandosi, riconosce i due e dice tra sé) (Ecco questi che
già hanno inteso la puzza del morto!) (poi salutandoli) Bongiorno.
FLANELLA ( fingendo dolore) Scusate, con la cosa che io, e l’amico qui
(indicando Sbafi) ce siamo per caso incontrati a passare de qua, abbiamo detto andamo a sentì come sta la famiglia Laurini.
FRANCESCO Doppo tanto tempo, ve ne sete ricordati!
FLANELLA Eh, già, ma sa l’affari...
SBAFI Tanti che, nun ce lasseno nemmeno da respirare... Dunque tutti bene, eh?
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introduzione
FRANCESCO Bene de salute... Ma el resto... l’affari a rotta de collo...
FLANELLA Eh già, la salute, come dice: Salus prima lècchese.26
SBAFI Quanto a l’affari nu’ ne parliamo semo tutti rovinati... A Roma,
el commercio è morto e seppellito.
FLANELLA Eh, già: in seppoltura jacet.
SBAFI (con intenzione) Li fallimenti a l’ordine del giorno...
FLANELLA Eh, già li fallimenti poi li fallimenti, è una cosa seria...
SBAFI Anzi, a proposito, ma è vero, sor Checco, quello che se dice?
FRANCESCO (sospirando) Eh, purtroppo!
SBAFI Un negoziante tanto ricco come el sor Laurini! Uno de li primi
de Roma, riducésse in questo stato!
FRANCESCO Eh, cari signori, con l’affare della concorrenza, el commercio romano è rovinato.
FLANELLA Eh, già sicuro; nun dite male.
FRANCESCO Ma non vedete che stabbilimenti commerciali hanno
aperto a Roma? Basterebbero quello de Foà 27, quello de Guastalla,
quel gran negozio de li fratelli Bocconi 28, eccetra, eccetra.
SBAFI È vero, verissimo.
FRANCESCO Andate a metterve a compete con loro che cianno la
massima (che per noi è falsa), che nello spaccio sta el guadagno. E accosì danno via la robba auffa. E mentre loro la pensano in questo modo, noi viceversa la pensiamo come se pensava cinquant’anni fa. Nun
avemo voluto andare col progresso e adesso la concorrenza ciarovina.
È naturale: el pesce grosso se mangia el piccolo.
FLANELLA (ridendo del suo solito riso stupido) Bello, ‘sto paragone del
pesce!
SBAFI E, dico, figuriamose la povera moglie e le figlie del sor Filippo?
FRANCESCO Ve lo potete immagginà!
FLANELLA Eh già, me lo figuro. Ce se stava accosì bene a casa loro!
(ride)
SBAFI Davero quante belle allegrie ciabbiamo fatto!... Furtuna, dico,
che cianno el genero che è ricco e li potrà ajutare...
FRANCESCO (meravigliato) El genero? Ma nun sapete che quel satiro
s’è sciupato tutto el patrimonio con le ballerine, e ha ridotto in mise26
L’espressione riprende, storpiandola comicamente, quella latina salus animarum prima lex est.
27
Il riferimento è alla sartoria che dal 1882 aveva sede in Via del Corso 103-105, nata
dalla fusione delle ditte di stoffe e confezioni Foà e Guastalla.
28
I grandi magazzini dei fratelli Bocconi aprono nel 1887 sotto l’insegna Alle città d’Italia. Nel 1917 Gabriele D’Annunzio conia per essi il nome La Rinascente.
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ria la moglie e li figli?! E lui, l’ex capitano de li Paladini, gnente de
meno, sta per scrivano da un notaro.
FLANELLA Dunque nun cianno più nessuno che li soccorra?
FRANCESCO Nessuno al mondo... Almeno che qualche loro vecchio
amico, avesse intenzione...
FLANELLA (che ha capito a che voleva alludere Francesco, sente bruciarsi la terra sotto i piedi) Me fa pena sola a sentirlo, povera gente!... Allora noi... (volendo accomiatarsi)
FRANCESCO Anzi, giacché è tanto tempo che nun ve se vede, perché
nun andate su a farglie una visita? Sò soli abbandonati da tutti...
FLANELLA (c. s.) Volentieri... Ma in questo momento, nun possiamo;
ciabbiamo un appuntamento. Anzi (guarda l’orologio) già abbiamo
fatto tardi, è vero Sbafi?
SBAFI Eh, già! Se dovemo trovà a tre quarti a pranzo da un amico a
Monte Giordano. Sbrigamoce anzi... (per andare) Se vediamo...
FLANELLA (che nun vede l’ora di andarsene) Allora tanti saluti al sor
Filippo e arrivederci con miglior commodo. (esce frettoloso, preceduto
da Sbafi)
SCENA IV
Francesco quindi don Andrea
FRANCESCO (osservando Sbafi e Flanella che se ne vanno correndo. Una
pausa) E pensare che questi erano due dei migliori amici de casa Laurini, e che stavano sempre qui a scroccà pranzi e cene!... Povera Peppina! (si asciuga una lagrima)
DON ANDREA (entra dalla porta dietro il bancone, se ne avvede) Oh,
coso! (battendogli sulla spalla)
FRANCESCO (asciugandosi in fretta gli occhi) Oh, don Andrea nostro,
bravo: sete stato su da loro? (con interesse) Mbè, mbè, che ve ne pare?
DON ANDREA ( fra sé) (‘Sto povero Checco è un eroe!) Povera gente,
ce credi che nun me dà core de vederli ridotti in questo stato?
FRANCESCO (con grande interesse) E la sora Peppina, come la trovate?
DON ANDREA Non certo bene. Anzi... Ma capirai queste continue
scosse... L’abbandono de quel perverso de Lucasi, che doppo averla per
tanto tempo lusingata, appena ha sentore del cambiamento de fortuna della famiglia, la pianta in un modo indegno...
FRANCESCO Doppo avere anche lui scialato alle spalle della famiglia
Laurini per parecchi anni, ed avere anche abbusato di qualche altra
cosa... Anime nere, vigliacchi!...
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introduzione
DON ANDREA Eh, figlio caro, mica tutti te rassomigliano!... Poi abbandonata da Lucasi, te ricordi? credendo di farglie dispetto se misse
a far l’amore con quello scultore, poi con quel giornalista che è andato screditandola de qua e de là...
FRANCESCO Aggiungete a tutte queste sofferenze, gli affari sospesi,
il commercio rovinato, l’incaglio, e per chiusa el fallimento...
DON ANDREA (sorpreso) Che me dici, el coso?!
FRANCESCO El fallimento dichiarato definitivamente fino da jeri!
DON ANDREA E Pippo, stammatina, nun m’ha detto gnente. Anzi
pareva tranquillo. M’ha fatto vedere un disegno d’un nuovo teatrino
che vò fare nel cortile del palazzo, coso... Costaguti.
FRANCESCO Poveretto, s’è mezzo rimbambito... Eh, se invece de pensà al teatrino, avesse avuto più cura de l’interessi sui, e mi avesse dato
retta a me, forse, anzi, senza el forse, a quest’ora nun se troverebbe come se trova.
DON ANDREA S’è cosato, s’è illuso! Quello se credeva che le cose
camminassero da loro a la carlona, come prima del Settanta. Nun s’è
accorto che l’entrate diminuivano e le spese cresceveno...
FRANCESCO (interrompendo) Cresceveno?! Ma se triplicaveno. E loro
invece de diminuirle l’hanno aumentate... (scorgendo Aristide) Ecco
quest’altro ficcanaso!
SCENA VI
Aristide e Detti
ARISTIDE (dalla vetrina entra si ferma e con accento desolato, esclama)
Ma, eh, povero Laurini?
DON ANDREA Davero, povero e disgraziato.
ARISTIDE Andato a dirittura a gambe per aria?!
FRANCESCO Ma, per carità, adesso nun fate che l’andate a pubblicà
su li fogli...
ARISTIDE (offeso) Me fa specie!... Sono sempre stato amico della famiglia Laurini e mi vanto di esserlo ancora.
DON ANDREA Sebbene non vi sete, da un coso, da un pezzo, fatto
più vedere in casa di essa...
ARISTIDE Eh, le occupazioni soverchie, gli affari... E poi dopo quello
ch’è passato fra me e la famiglia Laurini...
DON ANDREA Pettegolezze de donne, che lasceno el tempo che troveno.
FRANCESCO Don Andrea, io vado un momento su da li padroni.
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Dateme un occhio a bottega. Nel caso venisse qualcuno, me chiamate. ( fra sé, nell’andarsene) (È meglio che me ne vado!)
DON ANDREA Va pure in santa pace; ché intanto io oggi posso restà
pure fino a mezzanotte. E poi se anche non potessi, potrei cosare, dicevo, abbandonare quest’infelici in tale stato? (Francesco esce dalla porta dietro il banco)
SCENA VII
Amalia, Spaghetti, e i Precedenti
SPAGHETTI Don Andrea! (Spaghetti entra con Amalia dalla vetrina)
DON ANDREA Guarda chi se vede doppo un secolo! (si salutano) Accommodateve un momento. (tutti siedono)
AMALIA (ironica) Bisognava venire qua per trovare el signor Aristide!
SPAGHETTI (che entrando non ha salutato Aristide) Apposta io nun me
degno più de salutallo! El migliore, el più affezionato amico de casa
mia, che cià abbandonato.
ARISTIDE Adesso esaggerate! Non sarà manco un mese che ci siamo
visti al Valle...
AMALIA (con ironia) Eh, ora, il sor Aristide, cià altri grattacapoli, la
quale lo tengono occupato, altre visite!... (poi piano ad Aristide) (Brutto boja, si me capiti!...) (e poi si mettono a parlare)
SPAGHETTI (alla moglie) Amalia mia, daglie più guai che poi, a quel
Signore. (accennando Aristide. Poi accomodando il volto alla circostanza) A proposito, eh don Andrea, dice che quel povero sor Filippo nostro, eh?...
DON ANDREA Nun ne parliamo, nu ne parliamo.
SPAGHETTI Anzi, appena l’ho saputo, io e Amalia mia, che una volta
erimio amici de lui e de la famiglia, semo subito scappati a sentire...
Ma dunque è propio vero quello che se dice per Roma? (con interesse)
ARISTIDE (cercando di togliersi d’attorno Amalia) Così non fosse! Rovinato del tutto, povero disgraziato, del tutto, capite?
DON ANDREA (con dolore) Fallito, capite, fallito!
SPAGHETTI (in tono solenne) Eh, da quando sono venuti questi, nun
abbiamo avuto mai nessuno un’ora de bene, mai! Lo dicevo, io!
AMALIA Povera famiglia; me fanno propio pena quelli poveri figli. E
con tutto che ce sii stato fra nojaltri qualche dicerina, puro io suono
così fatta che sdimentico tutto.
SPAGHETTI Sebbene l’offesa che recarono alla mia onoratezza, fusse
stata atroce...
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introduzione
DON ANDREA Via non ne valeva la pena di addolorarsi poi tanto!...
SPAGHETTI (offeso) Come! Dire che Amalia mia, la perla delle moglie,
la donna più onesta del mondo, era una ciovetta!... Inventarse (e questo mi ha esulcerato il core) che el sor Aristide, qui presente, l’omo
più integgerrimo, l’amico più leale e sincero che m’abbia conosciuto,
gnente de meno! se l’intendeva con la mia pudica consorte!
ARISTIDE (ironico) Ma, eh?!
DON ANDREA Bisogna poi vedere da dove sono venute queste chiacchiere, e da chi. Escludo assolutamente che siano cosate, dico, partite
da questa brava gente... In ogni caso poi sono tutte chiacchiere che
lasceno el tempo che trovano.
SPAGHETTI Lo dite voi!... A rischio de farme sbudellare in duello quel
povero Aristide, qualora il minimo sospetto me fosse balenato... E,
dite un po’, e quello scherzo che ce fece la sora Peppina quella malaugurata sera, ve pare poco?... Io d’allora non la sono più andata a trovare... Compromettere così la riputazione d’un ufficiale come me, come me! Robba che fa sangue!...
DON ANDREA Anche tua moglie, quella sera, allora, se divertì a minchionarce.
AMALIA Io però nun sapevo de che si trattava. Nun suono quelli li
modi però! Me credevo che a povero Peppe mio glie prendesse, salvognuno, un incidente.
SPAGHETTI (coraggiosamente) Mica da la pavura!
DON ANDREA Da lo spavento, se capisce!... Che anche tu t’eri accorto de lo scherzo?... Ma è robba vecchia, ormai. Sò passati diversi anni... Sebbene, quando me la ricordo, ce ridi ancora.
AMALIA E specialmente in questi casi dolorosi, suono attasti il quale
vanno posti in ombrivione. Mettiamoce dunque una pietra sopre.
DON ANDREA Bravo! Così va fatto! Siamo prima d’ogni altra cosa
cosi, cristiani, perdoniamo.
SPAGHETTI Perdonamo e del passato nun se ne parli più.
AMALIA È dolorosa che una famiglia accusì benestante s’abbi da riduce sopra un elastico.
DON ANDREA Ve ricordate le belle feste che abbiamo fatto qua dentro, le serate, li pranzi, le cose?!
ARISTIDE E quando si davano le recite?
AMALIA Che magnificenze! Casa Laurini in quelle sere era zeppa di
gente il quale non sapevano indove insediarsi.
ARISTIDE Tutta Roma sarebbe voluta accorrere qui.
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SPAGHETTI (con solennità) Eh, a questo mondo tutto passa.
DON ANDREA E tutto se scorda. De tutti quelli adulatori, adesso non
glien’è rimasto neppure mezzo. Se sono cosati tutti come neve al sole.
SPAGHETTI (c. s.) Eh, caro don Andrea, el mondo è fatto così. Dimmi chi sono e no chi sono stato!... Ma in conclusione delle conclusioni, però, la vera causa prima, la fonte de tutto questo disquido, de
tutte queste sciagure nostre, chi è stato? Siamo sempre lì. Sono stati
questi, questo governo de prepotenti, che hanno rovinato el Sommo
Pontefice, la Chiesa, el commercio, le famiglie, le case, insomma Roma e li Romani.
AMALIA (sospirando) Chi ce l’avesse detto!
ARISTIDE E ormai nemmeno c’è più speranza che questi se ne vadano.
SPAGHETTI (desolato) Speravamo tanto su li Francesi; ma purtroppo
pare che per adesso nun se ne parli più, per causa de quell’impiccione
de Sbimmarche che non ha voluto che venissero.
AMALIA Già, a sentire voglialtri, pareva che da un momento all’altro
aveveno da calare...
DON ANDREA (sospirando) E da cosa, da domenica in domenica che
l’aspettamo, sono passati cinque anni e ancora l’aspettamo. Ma se capisce perché, tutti intrighi di Gabinetti, tutti imbrogli politici...
SPAGHETTI E dire, e pensare che pareva una cosa tanta sicura! Quante domeniche, eh don Andrea, quante domeniche, glie siamo andati incontro fori de porta Portese e de porta San Giovanni: ve ne ricordate?
DON ANDREA Si me ne ricordo! E con che cosa ciandavamo, con che
fede!
ARISTIDE Fede degna d’altri tempi. Ma ora che vale l’illudersi?
AMALIA Sarebbero speranze avane.
DON ANDREA E pure io ce scommetto che per fare ritornare sul trono el coso, el papa, un mezzo ce sarebbe ancora.
ARISTIDE Lo credete possibile?
AMALIA Davero?!
SPAGHETTI E quale mezzo? Sentiamo.
DON ANDREA Quale? La cosa, la guardia nazionale.
SPAGHETTI E in che modo?
DON ANDREA Ve lo dico subbito io. Se in un giorno de rivista, quando tutti li militi se troveno sotto le armi, essi cominciassero a gridare;
viva Pionono, viva coso! io ce scommetto che el governo de questi impavurito dall’attitudine di quelli valorosi, cederebbe, abbandonerebbe
Roma, e el papa ritornerebbe a cosare de bel novo...
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SPAGHETTI Eh nun me dispiacerebbe mica questo bel proggetto! Bisogna tenerlo in considerazione.
ARISTIDE Io però nun ciò fiducia. Diceva bene poc’anzi la signora
Amalia: sono speranze avane. El governo cessato me ne duole, ma è
morto e seppellito.
AMALIA E forse per non mai più risorgere.
DON ANDREA (offeso e con enfasi) Lo dite vojaltri, uommini di poca
fede! Tempo verrà che ricoserà, coso, glorioso, e trionfante.
SPAGHETTI Speriamolo sempre! Altrimenti, Dio ne guardi ci abbandonasse la speranza.
DON ANDREA (c. s.) In te Domine speravimus...
SPAGHETTI E noi, se occorrerà, rindosseremo l’onorata divisa, e ci
batteremo come leoni, per il trionfo della santa causa!
ARISTIDE Bravo! (poi fra sé) (Come nel settanta!)
AMALIA Abbasta (alzandosi), andiamo, Peppe mio, ché se fa tardi.
SPAGHETTI Dunque se vediamo, caro don Andrea, e tanti saluti a
Pippo e a tutti li Laurini.
DON ANDREA (con rammarico) Come ve ne volete andà via, senza
nemmeno salire da quella povera e disgraziata famiglia?
SPAGHETTI Volentieri, ma un’altra volta; perché noi, voi ce lo sapete
semo gente generosa. Ma in questo momento proprio nun possiamo.
DON ANDREA Un momentino, quanto li salutate; sono sicuro che
glie darete una gran consolazione, glie fareste un grandissimo piacere.
AMALIA No: grazie. E poi a me, me farebbe troppa apprinsione.
SPAGHETTI Poveretta, è così tenera de pasta, che sono sicuro che me
se sturberebbe.
DON ANDREA Almeno, voi sor Aristide, datece un zompo.
ARISTIDE Anche a me farebbe troppo pena. Tanti saluti a quei disgraziati amici.
SPAGHETTI Anche da parte nostra. Arivederci, don Andrea... E voi,
Aristide, oggi nun me scapperete. Amalia vieni qua, damme el braccio (prende il braccio sinistro alla moglie, lo mette sotto il braccio destro
di Aristide, e poi tutto contento dice) March! (poi ad Amalia) E tu Amalia mia, tiettelo forte e nun te lo fà scappare. (e intanto che quei due lo
precedono verso la vetrina, si rivolge con soddisfazione verso don Andrea
e con aria di trionfo gli dice) Eh, come sò furbo io! Che ve ne pare? (poi
esce seguendoli)
DON ANDREA Bravo Peppe – peppe! (Segue con lo sguardo coloro che
se ne vanno, poi volge gli occhi al cielo ed esclama) Quando se dice la
predestinazione!
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SCENA VIII
Don Andrea poi Anna
DON ANDREA (che li vede, con rammarico, partire) M’incomincio anch’io a persuadere che la gente onesta non sta tutta nel partito nostro.
Che egoismo, Dio santo!
ANNA (dalla vetrina, vestita dimessamente, entra tutta trafelata e ansante) Don Andrea mio come sta Peppina?!
DON ANDREA (interdetto) Così, così... Nannì, ma perché sei così affannata?
ANNA (c. s.) Ma dunque voi nun sapete gnente?! (avviandosi) Lasciateme salire ché Peppina starà male assai, se mi hanno mandato a chiamare. (si slancia verso la porta di dietro al banco che conduce in casa)
DON ANDREA (stupefatto) Santo cielo, che è mai questa novità?! (si
avvia per salire la scala di casa, ma si arresta vedendo comparire sulla
porta i seguenti)
SCENA IX
Francesco, Lisa, Renzo e Filippo
FRANCESCO (dando segno di grave dolore) State qui sor Padrone, restate qui regazzi miei a far compagnia a papà vostro; ché su ve straziate e fate strazià l’altri.
DON ANDREA (c. s.) Ma in nome di Dio, che cosa è dunque successo?!
FRANCESCO (frenando a stento le lagrime) Una crisi improvisa che ha
colpito la povera Peppina.
LISA (con disperazione) Ma sfido, tutte le disgraziate combinazioni quest’oggi?
DON ANDREA E quali figlia mia?
FILIPPO Ci sono venuti a biffare tutto l’appartamento per conto dei
creditori.
RENZO (piangente) E domani verranno a bottega.
LISA (c. s.) Così c’è rimasta libbera una sola stanza, oltre a quella dove
sta la povera Peppina.
FRANCESCO (c. s.) A quella vista quell’angelo è svenuta almeno tre
volte... Poi, come se tanta sciagura nun bastasse, due ore fa, a mezzo
della posta, ha ricevuto una busta chiusa. La sora Peppina l’ha aperta,
e dentro, indovinate? C’era la partecipazione delle nozze de quell’infame de Lucasi!... (piange e non può più proseguire)
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introduzione
LISA (proseguendo il discorso di Francesco) Allora quella povera sorella
mia, è caduta come morta!... È corso il medico, l’ha fatta a stento rinvenire e poi... (scoppiando a piangere) glià ordinato li sacramenti!
DON ANDREA Cielo che sento!... (allora, trasformandosi, dice con estrena dolcezza, mista a commozione) Pippo, Francesco, creature, coraggio!
Iddio non v’abbandonerà!... Io vado ad assistere quella martire insieme a vostra madre e a Nannina. Tu, Francesco, sii ragionevole, ed abbi cura di questi infelici. (esce dalla porta dietro il banco)
SCENA X
Francesco, Filippo, Lisa e Renzo
LISA (cade sopra una sedia, e scoppia in pianto) Povera Peppina, povera
sorella mia!!
RENZO Che strazio! (tentando di far coraggio alla Lisa) Lisa mia, non
piange, non piange... (l’accarezza con passione)
FILIPPO (quasi fuori di sé dal grande dolore) Quando facevo el teatrino
veniveno tutti a trovarmi; quanti amici che ciavevo!... Adesso, m’hanno tutti abbandonato, tutti! Non ho potuto trovare un solo amico che
m’abbia voluto prestare un ajuto, altro che quel povero ministro mio...
Sono fallito, disonorato nun ciò più un pezzo de pane da dare a questi poveri figli miei!... (una pausa – poi s’ inginocchia e con grande fervore) Signore, che vedi le pene mie, nun m’abbandonare... Nun ho mai
fatto male a nessuno, e bene quando ho potuto... Signore abbi pietà
de me... abbi compassione de questi figli mii!... (scoppia in singulti)
FRANCESCO (correndo a soccorrerlo) Principale, nun ve strazziate tanto come state facendo... Io finché sarò vivo e averò un bajocco, ve lo
giuro, lo spartirò con voi e con questi figli vostri che l’ho riguardati e
li riguardo come fratelli...
LISA (facendo mille carezze al padre onde confortarlo) Papà mio, papà,
sta’ su, via, fatte coraggio... nun piange così... Vederai io e Renzo con
che fede lavoreremo per guadagnare tanto da pagare piano piano li nostri debbiti e poi vedrai che ritorneremo a risorgere... È vero, Renzo?
RENZO (accarezzando anch’esso il padre) Sì, papà mio, sì; te lo giuramo... Abbasta però che non te fai vedere tanto addolorato!... Tu non
lo puoi immagginare che strazio è el nostro a vederte soffrire! Papà
nostro, bello bello!...
LISA (c. s.) Papà, caro!
FILIPPO (con passione) Renzo mio, Lisa mia, figli miei; sangue del sangue
mio, le parole vostre sò un balsamo al dolore mio... Iddio ve benedica!
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LISA (c. s.) Vedi, papuccio caro, così sei raggionevole; così ce piaci!...
(sempre carezzandolo)
RENZO (c. s.) In questo modo, te volemo più bene... Tutto quello poi
che poco fa, te diceva Lisa, s’avvererà, e così tu ritornerai come eri prima, un negoziante ricco e stimato...
LISA (a Filippo con ingenuità) Sei contento?
RENZO (c. s.) Eh, papà, sei contento?
LISA (c. s.) Peppina nostra allora se sarà rimessa in salute... Se sarà fatta
sposa; e io farò da seconda mammetta a li figliuoletti suoi, che saranno nipotini nostri...
A questo punto s’ode un urlo straziante che proviene dalla casa di sopra; poi
un precipitoso scendere di scale.
Francesco, Filippo, Lisa e Renzo si slanciano terrorizzati verso la porta, sulla
soglia della quale comparisce don Andrea indossante la stola.
SCENA ULTIMA
Don Andrea, Filippo, Francesco, Lisa e Renzo
FILIPPO FRANCESCO LISA RENZO (curiosi, attorniano don Andrea, e angosciosamente gli chiedono all’unisono) E Peppina e Peppina?!
DON ANDREA ( frenando a stento il pianto, con dolce rassegnazione)
Coraggio, figliuoli miei: Peppina, sta meglio di noi. Preghiamo il Signore per la bell’anima sua! (s’ inginocchia e con fervore prega) Requiem
eterna dona eis Domine!...
FILIPPO FRANCESCO LISA RENZO (inginocchiandosi, s’abbandonano al pianto, in diversi atteggiamenti di dolore)
Cala lentamente il sipario
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GIULIO CESERE
Tragedia di Shakespeare
Libera riduzione romanesca
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. Un quaderno di 36 cc. (mm 330x220), composto da 13 fogli tipo protocollo recanti il marchio, cancellato a penna, del Ministero della Pubblica Istruzione.
Cc. 486-521.
Testo incolonnato a destra.
Calligrafia autografa.
La riduzione di Zanazzo si limita ai primi tre dei cinque atti della tragedia shakespeariana.
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introduzione
Personaggi
GIULIO CESERE
OTTAVIO CESERE
MARCANTONIO
MARCO EMILIO LEVIDO
SERVO di Marco Antonio
CICERONE
PUBBRIO
POPIJO LENA
MARCO BRUTTO
CASSIA
CASCA
TREBBOGNO
SIGARIO
DECIO BRUTTO
METELLO CIMBRO
}
triumviri dopo la morte di G. Cesere
}
senatori
}
congiurati contro G. Cesere
}
ZINNA
FRAVIO
tribbuni
MEROLLO
LUCIO servitorello de Brutto
UN MAGO
CARPURNIA moglie di Cesere
PORZIA moglie di Brutto
PRIMO E SECONDO CITTADINO che parlano
UN SERVO DI CESERE che parla
Senatori, Cittadini, Nobili, Artieri ecc.
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ATTO I
SCENA I
Roma. Una strada.
Entrano Fravio, Merollo, e una frotta di cittadini.
FRAVIO (rivolto ai cittadini) Alò, a casa, oziosi: uscia: annate a l’erba:
che, oggi, è forse festa? Che! Nun sapete che vojantri essenno artisti
nun ve la potete spassà li giorni de lavoro senza er segno der mestiere
vostro? (volgendosi a un cittadino) Tu che arte fai?
PRIMO CITTADINO Io fo er falegname.
MEROLLO Indov’elle la tu’ barchetta de carta in testa, e la sega? Perché s’è messo li panni che sentono messa? E tu (volgendosi a un altro),
panzanera, che mestiere fai?
SECONDO CITTADINO Io, sor Tribbuno, fo l’arte la più nobbile de
tutte.
MEROLLO Sentimo.
SECONDO CITTADINO Un’arte che rimette l’anima a la pianta de
li piedi.
FRAVIO E che mestiere sarebb’a dì? fatt’uscì er fiato.
SECONDO CITTADINO (a parte) (Magara!) Fo er ciavattino.
FRAVIO Er ciavattino?! Te possino!... E me volevi dà a d’intenne che
rimettevi l’anime? Quale anime?
MEROLLO L’anima de... quer ponte che l’ha sbarcato a Roma.
SECONDO CITTADINO (offeso) Me maravijo corpo d’una lesina!
Essenno ciavattino, medico le scarpe che fanno la boccaccia; e co’
la mi’ abilità j’arimetto l’anima in corpo, che sarebbe la sòla e, le
risano...
FRAVIO Sputasentenze!... E perché oggi nu’ lavori?
MEROLLO Perché te porti appresso ‘sta folla pe’ le strade?
SECONDO CITTADINO Ce vò poco a capilla la raggione. Pe’ faje
logrà le scarpe, e aranciamme accusì antro lavoro. E poi, sor E. noi
famo festa pe’ vede Cesere e arillegrasse der su’ trionfo.
FRAVIO Arillegrasse?
MEROLLO Arillegrasse?!
SECONDO CITTADINO Eh, si ve piace er zibbibbo!
MEROLLO E perché arillegrasse? Che trofei l’accompagneno? Quanti
schiavi je vengheno appresso strascinati per ornaje co’ le catene propie
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le rote de la su’ biga? Eh, ommini e bisommini1! Ommini senza core,
nun v’ariconosco più pe’ romani! Diteme un po’, e de’ Pompeo, der
gran Pompeo già ve ne sete scordati, ve ne sete?
FRAVIO Già nun v’aricordate più quante vorte arampicati su pe’ le ferate, pe’ li muri, in pizzo a li tetti, su le lendiere2, co’ li fijetti vostri
tra le braccia, avevio la pacenza d’aspettà le giornate sane pe’ vede er
gran Pompeo passà pe’ le vie de Roma?! E appena allumavio la su’ biga arzavio certi urli, ma certi urli, che insinenta ar Tevere je tremaveno li maschietti3 sotto le su’ rive, ner sentilli aripete dall’echi de le su’
tetre taverne! E adesso...
MEROLLO Adesso? (ironico) adesso, lor signori se vesteno co’ l’abbiti
de gala perché oggi, capischi? oggi, per lor signori è festa!... Bravi! ma
bravi trippa!... Anzi, mó, infiorate puro la strada de quer Marco che
se porta in trionfo er sangue de Pompeo!... Ma svejateve, cechi! Correte, correte de fughenzia a casa; buttateve in ginocchione e pregate
er vostro Dio che nun ve manni una pioggia de furmini a farajolo4,
pe’ ripagasse de tanta infamità.
FRAVIO Annate, annate, regazzi; e pe’ scontà ‘sta corpa nun uscite più
da casa pe’ tutta la giornata. (i cittadini escono) Varda, Merollo, come
se sò inteneriti; se ne vanno ónti ónti5, come si je fusse successa quarche disgrazia... e mó, tu vattene su a Campidojo, pe’ ‘sta strada; io
passerò da quest’antra; e si trovi quarche statuva impimpinata strappeje li trofei de Cesere.
MEROLLO E si me ciacchiappa quarche pizzardone?
FRAVIO Nun se la pò pijà cor un tribbuno... Io intanto indove trovo
gente la fo squajà; artrettanto fa’ tu. ‘Ste tajate d’ala che famo a Cesere, j’impidiranno da volà tra le nuvole, e a noi nun ce faranno acciaccà le noce in testa. (escono)
1
L’espressione completa è: «ommini, bisommini, cazzabbubboli» cioè «uomini, superuomini, uomini da poco» (Cfr.: G. Zanazzo, La Socera, a cura di F. Bonanni Paratore, cit. p. 93 nota 15.
2
Ringhiera, balaustra, parapetto di un balcone o di una scala.
3
Ginocchia.
4
Mantello; dall’arabo feriyûl.
5
Camminare adagio, affettando disinvoltura e indifferenza cercando di non attrarre
l’attenzione degli altri.
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SCENA II
La stessa scena
Entrano processionalmente, e a suon di musica Cesere, Antonio vestito per la
corsa; Carpurnia, Porzia, Decio, Cicerone, Brutto, Cassio e Casca, con gran
folla dietro fra cui un Mago.
CESERE A Carpurnia...
CASCA Mosca, regazzi, che parla Cesere! (cessa la musica)
CESERE A Carpu...
CARPURNIA Dite prima voi. Cosa ve dole?
CESERE Fateve accompagnà a le corse d’Antonio, ché io oggi ciò un
impiccetto da sbrigà, poi ve passo a pija.
ANTONIO Nun dubbità ch’a lei te ce penso io. Sta in bone mano...
Lo sai: abbasta che Cesere me dichi: «Fatt’ammazzà», che io ammazzà me fo.
CESERE Annam’avanti, e famo le cose bene. (al maestro dei musicanti)
Musica, sor Peloso! (ricomincia la musica)
MAGO (chiamando forte) Padron Cesere!
CESERE Chi me chiama laggiù tra la folla? Sento una voce de canna
spaccata che passa li strumenti...
CASCA Mosca, regazzi! (ai musicanti. La musica cessa)
CESERE (al Mago) Che te s’è sciorto? Parla.
MAGO Guàrdate da li quinnici de Marzo! Tiello d’occhio!
CESERE (a Casca) Che je rode a quello?
BRUTTO Un mago che v’avvisa de guardavve le spalle dar quinnici de
Marzo6.
CESERE Portatemelo davanti; je vojo smiccià er grugno.
CASSIA Mago, esce de fora; viè davanti ar cospetto de Cesere.
CESERE (al Mago) Ma che me dai li nummeri? Che vòi?
MAGO Che sei sordo? Quo dichise dichise 7!...
CESERE ‘Sto marco vaneggia; lassàmelo perde; avanti regazzi!
Il corteggio si allontana. Escono tutti all’ infuori di Brutto e di Cassia.
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6
7
Precedentemente, poi cancellato: la prima metà de Marzo.
Storpiatura dell’espressione latina: Quod dixi, dixi.
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SCENA III
Brutto e Cassia
CASSIA Brutto, vieni a le corse?
BRUTTO Ciò antro pe’ la testa! A me li giochi nun me fanno. Io nun
ciò tutti queli grilli che cià in testa Antonio; ma tu sei padrone de divertitte; se vedemo, Cassia.
CASSIA Senteme, Brutto, è diverso tempo che te tiengo de mira; nun
ce trovo più in de li tu’ occhi, quela guardata badiale8 d’una vorta.
Mettemo le carte in tavola: co’ chi l’hai co’ l’oste o cor fornaro?
BRUTTO Cassia, nun pijà fischi pe’ fiaschi; si ce vedo lusco, er mar
talento che sta in der grugno me lo rosico drento da me solo... Da parecchio tempo er mi’ pensà contrario, certe idee mie sortanto, m’abbàcchieno... Insomma: me capisco in panza!... Ma pe’ questo, Cassia
mio, nun te ne devi affrontà tu, che sei uno de li meio amichi mia!
CASSIA Allora qua, dàmese er cinquanta (si danno la mano) e tte chiedo perdonanza si ho sbajato. Ma che t’ho da dì? È propio una disdetta Brutto mio, (e tutta Roma sana se ne fa maravija!) che tu in de ‘sti
tempi accusì boja, nun abbi d’avecce uno specchio pe’ specchiàttece!
BRUTTO Ma in che anima d’imbroji me vòi ammatassà co’ lo spignemme a cercamme in corpo quello che nun ciò?
CASSIA Lo dichi tu, lo dichi! Ma sai che micco9 che sò io!... (s’odono
suoni di musica e gridi)
BRUTTO E mó ch’è successo? Che sò ‘sti strilli? Io ho pavura ch’er popolo nun voja ‘lègge Cesere pe’ re.
CASSIA Hai pavura, hai? Ar mi’ pensà allora, tu pe’ re nu’ lo voressi?
BRUTTO E se capisce; sibbè me sii com’un fratello. Ma, insomma, se
pò sapé, perché me la fai tanta longa? Che m’hai da dì? Fatt’uscì e’
rospo. E si è una cosa che ariguarda er benestà de Roma, metteme davanti a l’occhi da ‘na parte l’onore, dall’antra la morte. E com’è vero
er sole, te capaciterai che stimo millanta vorte più l’onore; e che la
morte nu’ me mette pavura, nu’ me mette: je rido in faccia, je rido.
CASSIA Eh, nun te conoscessi! Ma io te conosco com’er pane, Brutto
mio. E de l’onore pe’ l’appunto qui se tratta. Pe’ me tanto me piacerebbe più d’esse carne mortaccina che de campà pe’ dovemme fà pijà
la tremarella davanti a un omo uguale a me. Io sò nato libbero come
8
Badiale: Squisito, schietto, genuino, degno di una ricca abbazia; aspetto di persona
ben pasciuta, gioviale, florida.
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Di etimo incerto: persona credulona e ingenua.
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Cesere, come ce sei nato tu, campamo tutti de quer che magnamo, e
ciavemo tutti e tre lo stesso fegheto, ciavemo. Pe’ dittene una, un giorno de buriana ch’er Tevere s’accavallava su la riva, Cesere me disse:
Cassia, ciaveressi er coraggio de buttatte a nòto co’ me tra queli cavalloni e trapassà la currente da qui a San Pavolino a la Regola? Incora
parlava che io, vestito com’ero, già tajavo la curente e lo chiamavo che
me vienisse appresso. Cesere se buttò puro lui, e tutt’e dua incominciassimo a lottà incontro l’onne a mulinello che ce voleveno suverchià
per ignotticce. Nun erimio arivati, che me te sento Cesere strillà: Ajuteme, Cassio, che m’affogo! Io, come Enea, nostro bisnonno, che sarvò da le fiare de Troglia er padre suo, agguantai Cesere p’un carcagno
e lo sarvai... E adesso ‘st’omo è addiventato un Dio, è addiventato! Me
lo saluti?... E noi, accanto a lui semo puzzetta; e Cassia, capischi, je
s’averà da inchinà davanti quanno passa!... Eh si prima me fa vedé come se mòre! (nuove grida e musica)
BRUTTO E ciarifanno! Senti, senti, che canizza!
CASSIA Si semo schiavi, la corpa è nostra; semo troppe pecore, semo!
(grida come sopra) Che possiate perde er fiato!... Povera Roma, sei diventata dunque un deserto, si drento le tu’ mura nun ciabbita che Cesere sortanto!... Aveva raggione la bon’anima de tu’ nonno Giugno
Brutto, quanno diceva: «Proferisco de vede regnà a Roma Farfanicchio10 che de supportacce un re!»
BRUTTO Senti, Cassia, che tu me vòi bene lo credo; indove vòi imbroccà ho magnato. Er mi pensà su ‘sta cosa e su li tempi curenti te lo
farò consapé; per adesso, si l’amicizia me dà dritto a pregatte, nun intignacce de più, te ne scongiuro. Penserò a quello che m’hai detto;
averò pacenza de sentitte dì e’ resto. Intanto, però, méttetelo bene in
testa, paranza11, che Brutto, annerebbe piuttosto a fà cicoria co’ li denti, che chiamasse romano a ‘sti patti infami che ce stanno pe’ piombà
addosso.
CASSIA Ce credi che cce vado propio in guazzetto, in der vedé ch’er
mi’ debbole pensà t’ha fatto breccia, Brutto mio!
Rientra Cesere col suo seguito.
10
Nome di demonio immaginario, e per estensione, uomo vanitoso, leggero.
Amico intimo con il quale si sta sempre insieme; la voce origina da paranza, barca da
pesca, che naviga sempre in coppia con una barca gemella.
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BRUTTO Deven’èsse finite le corse, vedo ritornà l’amico Cerasa12.
CASSIA Quanno te passeno accanto, fa d’occhio a Casca de fermasse;
accusì lui, cor su’ parlà marano, te dirà tutto quello ch’è successo. (si
scosta e si mette in disparte)
BRUTTO Mó ce penso io. Ma varda, Cassia, varda com’è pavonazzo
da la rabbia er grugno de Cesere, e tutti l’antri come sò sdiguiliti! Le
ganasse de Carpurnia sò slavate; e Cicerone gira intorno l’occhi addannati come quanno a Campidojo quarche mozzirecchio13 jé dà su
la voce e je la canta!
CASSIA Er perché lo saperemo da Casca.
CESERE Antonio!
ANTONIO Padron Cesere!
CESERE Nun te sperde tra la folla. Lo sai che a me me piace de vedemme sempre intorno facce badiale e risarelle. Quer Cassia è uno stuppino; cià una faccia d’affamato che consola; quello lavora drento; certa gente è pericolosa!
ANTONIO Nun avé pavura che nun è pericoloso; è un romano nobbile e la pensa bene.
CESERE Me piacerebbe che fusse meno allampanato... Ma nun me
mette pavura. Si però miòdine14 potesse avé pavura de quarcuno, da
gnisuno averebbe da stà in guardia come da quer Cassia, che legge
assai, scrive peggio e la mastica male. Quello nun è come che te, che
te la spassi e te la godi; a lui nu’ je piace la musica; nu’ ride mai o
guasi; e quanno je succede pare che cor su’ ride se compatischi da
sé, se compatischi... L’ommini de quer tajo nun troveno riposo, sin’a
tanto che je stà davanti a loro un majorengo15! e allora diventeno pericolosi... Ma io te l’ho detto, nun ho pavura nì de voi, nì de gnisuno perché io sò Cesere sò, e dico poco! Passa qua a la mi’ mandritta,
e dimme con sincerezza che ne pensi tu de quer marco. (Cesere esce
col seguito. Casca rimane)
CASCA (a Brutto) Sei tu che m’hai tirato p’er cappotto? L’hai co’ me?
12
Precedentemente, poi cancellato: Cesere.
Cesere viene sostituito con amico Cerasa: verme delle ciliegie e, metaforicamente l’amante, o più genericamente, persona che non si vuole nominare e di cui si sta parlando o
sparlando.
13
Imbroglione, mestatore; appellativo dato in particolare ad un legale poco corretto.
Deriva dalla pena inflitta nel Medioevo ai truffatori, ai disonesti cui si tagliava un orecchio come segno infamante.
14
Io, io stesso, il sottoscritto.
15
Maggiorente, persona eminente, che ricopre una carica importante.
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BRUTTO Volevo che ce dicessi tutto quello ch’è successo a le corse.
Perché Cesere stava sbattutello?
CASCA E che vojantri puro nun c’erivio?
BRUTTO Bella raggione! Allora, nun te domanneressimo quello ch’è
successo.
CASCA Ah, allora ecco qua. Quanno Cesere è vienuto a ripijà la moje
se sò tutti arzati in piedi a strillà: evviva Cesere, evviva! e poi j’hanno offerto una corona; ma lui nu’ l’ha vorsuta e ha fatto accusì cor
gommito. ( facendo l’atto) E allora er popolo s’è messo a urlà com’un
addannato.
BRUTTO E quell’antri strilli che se sò intesi doppo?
CASCA Ah, pe’ la medema raggione.
CASSIA Ma l’appravusi sò stati tre. L’urtima perché l’hanno fatti?
CASCA Sempre pe’ la raggione medema.
BRUTTO Dunque je l’hann’offrita tre vorte la corona?
CASCA Si, poveraccio, e tre vorte là scanzata, ma ogniduna più debbole de l’antra; e a ‘gni scanzata, queli quattro pecoroni de li mi’ vicini,
se strillaveno l’animaccia loro.
CASSIA E chi era che je dava la corona?
CASCA Era Antonio.
BRUTTO E dicce come.
CASCA Averebbe più piacere de morì ammazzato, che riccontavve la
cosa com’è ita. È stata una purcinellata! Io poco ciò fatto caso... Ho
visto prima Marcantonio che je dava una corona... ciovè nun era nemmanco una corona, era un cerchiettaccio de quelli der ‘48... E, come
ve dicevo, lui nu’ l’ha vorsuta, sibbè, siconno er mi pensà, l’averebbe
agguantata volentieri. Allora quer torcimano je l’ha data un’antra vorta; e un’antra vorta lui l’ha riscanzata, ma se vedeva che j’arincresceva
assai. Quann’ècchete che je l’ha ridata pe’ la terza vorta, e lui pe’ la
terza vorta l’ha scansata e, ogni vorta che lui nu’ l’ha vorsuta, la folla
strillava, sbatteva le mano, frullava per aria le scoppolette e, co’ lo
strillà, mannava fora da la bocca una càntera tale che Cesere s’è svenuto e è cascato per tera come uno straccio che pareva morto. Pe’ me
tanto, io nun ciò avuto coraggio de sbottà a ride; pe’ pavura d’oprì la
bocca e de respirà quell’aria puzzolente de fiati ch’appestava l’aria. Se
vedemo. (come se volesse partire)
CASSIA Aspetta, famm’er piacere. Com’hai detto? Cesere s’è svenuto?
CASCA T’ho detto de sine! È cascato quant’era longo, co’ la schiuma
a la bocca e l’occhi invetriti.
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BRUTTO Sfido! che nu’ lo sapete che soffre de mar caduto?16
CASSIA Ma de mar caduto nu’ ne soffre Cesere, ma ne soffrimo io, voi,
e Casca.
CASCA Sarà; ma er fatto sta è che Cesere è cascato...
BRUTTO E quanno aritornò in sé, che disse?
CASCA Ah, prima de cascà, quanno vidde quela mandra de pecore arillegrasse perché lui arifiutava la corona, se scropì er cassabbanco offrenno a le botte er petto ignudo. Fussi stato io, uno de quell’artisti,
e nu’ l’avessi preso in parola, me possin’ammazzà! Accusì cascò e poi
quanno aritornò in cervello, s’ariccommannò a la folla che l’avessino
compatito... Tre o quattro conocchie all’ora strillonno evviva evviva!
e bona notte ar secchio.
BRUTTO Apposta dunque stava accusì sbattuto?
CASCA Sicuro.
CASSIA E Cicerone nun parlò?
CASCA Sì, se messe a parlà etrusco.
CASSIA E perché etrusco?
CASCA Vattel’a cerca. Pe’ me era etrusco; ma quelli che lo capiveno rideveno tra de loro e sgrullaveno la testa. Si poi volete sapé quarch’antra cosa, ve posso dì che li du’ Tribbuni Merollo e Fravio per avé spojato le statuve de Cesere, sò stati portati in catorbia17... Se vedemo. (per
partire)
CASSIA T’aspetto domani a pranzo?
CASCA Ah, no du’ vorte! Contemece de sicuro. Se vedemo. (esce)
BRUTTO Addio! (poi a Cassia) Più sta e più se fa jattuto18 e testone ‘sto
benedetto Casca; mentre da regazzo era un demonio.
CASSIA E un demonio è incora, quanno se tratti de stà ar posto e falla tonna. Quela su’ grevezza è er sugo der sale che cià in testa, e che
fa mejo diliggerì le parole a chi lo sente.
BRUTTO E accusì propio è. Io te lasso; domani, si se volemo vede, o
tu vié da me, o io viengo su da te. (Bruto esce)
Si ode da lontano rumoreggiare il tuono.
CASSIA Bravo! Eh, Brutto, tu sei troppo nobbile; ma pe’ quanto sei impastato de nobbirtà, vedo che se ne po’ farsificà la sostanzia... E poi
16
N.d.A.: caduco.
Carcere, prigione.
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Robusto, tarchiato, muscoloso. Corruzione del napoletano chiattuto.
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qual’è quell’omo tanto duro che nun se piega?... Padron Cesere me vede male; ma se tiè a caro Brutto. Dunque, si mettemo io fussi Brutto,
e Brutto fussi Cassio, gnisuna padronanza ciaverebbe Cesere sopra de
me... ‘Sta sera je vojo annà a bbuttà su le su’ finestre diverse copie de
‘sti fojetti stampati (li mostra) che parleno de le speranze che li Romani fanno carcolo su de lui, e dicheno de la prosumea de Cesere... Dopo
de questo pensi sor Cesere a infortisse bene, perché noi o je sconocchieremo er trono o vederemo ariluce giorni più terribbili de questi.
SCENA IV
Tuoni e lampi. Entra Casca colla spada sguainata e Detto
CASSIA De ber novo, Casca? Perché sei accusì scarmato19? Ch’hai fatto che sei tutto spaventato? E che vor dì quela saraga 20 i’ mano?
CASCA E che nun vedi che pare er finimonno?! Bisogna dì o che lassù
c’è guerra in famija; (indica il cielo) o che le bojerie der monno abbino
straccata la pacenza de li santi!
CASSIA E pe’ tutto ‘sto sòno de campane, ce sfoderi la guainella?
CASCA Si te ce fussi trovo, nun parleressi accusì, nun parleressi? Ho
visto un mago arzà la mancina, e subbito quela mano ha sfavillato e
sbrilluccicato come fussino stati venti razzi accesi da un bajocco l’uno.
Più in su davanti a Campidojo, ho incontrata una gobbaccia d’una
strega che m’ha guardato e m’ha fatto le corna armeno un dieci vorte!... E pe’ tappo, capischi, jeri a mezzoggiorno la ciovetta è scesa a
piazza Montanara e s’è messa a cantà come quanno sente la puzza de
mortaccino!... E me dichi si perché ho pavura?! Dio ce la manni bona,
ce la manni, perché qui quarche gran cataprasma sta pe’ succede!
CASSIA Potevi fà li soliti scongiuri, e bona notte.
CASCA Ah no, du’ vorte! (cavando un corno di becco) E questo qua nun
ce lo conti?
CASSIA Allora stam’a cavallo, stamo! Da un discorso annamo a un antro. Sai gnente si Cesere domani vierrà a Campidojo?
CASCA Sì l’ho inteso che lo diceva a Antonio. Sò sicuro.
CASSIA ( fregandosi le mano) Benone!
CASCA Un’antra pavura accusì e poi nun più! Varda; tremo incora
com’una foja. (lampeggia di nuovo) E ciarifà, ciriàco!
CASSIA Senteme, Casca, nun te credevo accusì carogna. Piantela! Ciai
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Eccitato, agitato, trafelato.
Salacca, aringa salata. Qui nel significato di: (arc) daga, pugnale a lama larga.
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la faccia da morto, e l’occhi spaventati; tutto ‘sto spaghetto21 per un
temporale!
CASCA Embè io sò fatto accusì! Parleme d’affrontà qualunque pericolo che ce vado; ma li temporali, sin da cratura, me fanno ‘st’affetto che
vedi.
CASSIA E la sai la cavusa de tutti ‘sti segni de foco e de malaguri sí
qual’è? Facce mente locale, e te persuvaderai che er cèlo ha dato a
l’ommini e a le cose ‘sta straformazione pe’ falli incajà 22, pe’ mettelli
ar curente de li tempi boja che sò questi d’oggiggiorno... Io, Casca,
potrebbe insegnatte un omo talecquale, priciso, a ‘sta nottata d’inferno, un omo che scaja le saette, scrope le sepporture e urla come la lupa che sta in gabbia a Campidojo; un omo come me e te, e che co’
tutto ciò è addiventato terribbile e prodiggioso come li prodiggi che
poca fa m’hai riccontato.
CASCA Intenni de parlà de Cesere? Mica hai torto, Cassia!
CASSIA Sia de chi se sia; però li Romani d’oggiggiorno cianno er fegheto de l’antenati; ma er talento de li padri nostri è morto e ciaregge
quello de le nostre povere madre; e ‘sta pacenza, ‘st’abbozzà che famo,
ce fanno comparì meno che femmine!
CASCA Nun dichi male. Tant’è vero che domani li Senatori vonno
‘legge Cesere pe’ re...
CASSIA Allora so già indove devo ficcà ‘sto pugnale! Cassia ropperà le
catene de Cassia!... Quanno la vita è stracca, l’urtimi passi se fanno
addolorati! (continua il tuono)
CASCA (spaventato) Ah ah! ciarisemo! e mica la pianta!
CASSIA Perché avemo da stà sotto un tiranno come Cesere? Un panzanera qualunque! Che s’è fatto lupo perché noi se semo fatti agnelli;
e nun farebbe la parte der leone, si noi Romani nun fussimo carogne!
Quanno se vò fà un focaraccio, abbasta un prospero!... Ma scavusarmente me sò fatto uscì da la bocca quello che nun volevo dì... Chi lo
sa che nu’ sto parlanno davanti a una pecora... Si questo fusse, so che
l’averebbe da pagà; ma ciò in saccoccia la corona e un buon cortello e
li pericoli nu’ li stimo un fico.
CASCA Aricordete che parli co’ Casca; e tra l’ommini de ‘sta stoffa mia,
nun ce sò spie. Damme la mano; seguita ‘sta strada dritta; io puro la
farò senza famme passà davanti da chi sse sia.
CASSIA (stringendogli la mano) Dunque l’affare è concruso. Semo in21
22
Paura, tremarella, timore.
Incajasse: accorgersi (cfr. CHIAPPINI).
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tesi; e adesso sappi, Casca, che io ho fatto già invojà parecchi antri
paranza de li nostri, a entrà in ‘sta faccenna piena zeppa de grolia e de
pericoli. Loro me stann’aspettà sott’ar portico de piazza Colonna; perché in una notte accusì brutta nun se pò nì uscì nì camminà; l’aspettito der cèlo è come l’affare che ciavemo pe’ le mano, è menacciuto,
torbido e teribbile.
Sipario
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ATTO II23
SCENA I
L’orto de Brutto
BRUTTO Ha da morì ammazzato, ha da morì!... Sibbè che io nun ciabbi gnisun motivo speciale per odiallo; ma me ce tira pe’ li capelli er
benestà de Roma e de li Romani. Lui protenne d’esse fatto soprano...
ma una vorta fatto tale, vatt’a cerca che presumea mette su! È la luce
der sole che fa uscì la serpa da la tana, e allora pe’ nu’ fasse mozzicà,
bisogna acciaccaje er pignolo, bisogna! Esse fatto soprano!... Sarebbe
com’a daje in mano er cortello, pe’ facce scannà a bon pracido suo...
L’abbuso de la grannezza me diviè dar separà la compassione dall’unnipotenza; e sibbè, per esse giusti, a Cesere nu’ j’ho mai visto le voje
suverchiaje er sintimento, puro è vero che, per esperienza, l’umirtà
serve de scalino a la presumea;... e che l’omo a fronte bassa va insinenta a la cima de l’artura; e quanno c’è arivato poi, affissa l’occhio in de
le nuvole senza curasse più de li poveri scalini che l’hanno ajutato a
salì... accusì poterebbe fa Cesere, e pe’ pavura che lo facci, è prudenza a pijà li passi avanti... Consideramelo dunque come l’ovo de la serpa che, covato, diventerebbe pericoloso come tutta la razza sua; e ammazzamelo sur nasce...
SCENA II
Lucio e Detto
LUCIO Sor padrone, in de l’uprì la finestra, su la pietra ciò trovo ‘sti
foji stampati (glieli dà) che jeri a sera quanno la chiusi, nun c’ereno.
BRUTTO Grazie. Arivattene a letto che incora nun è giorno, regazzo
mio... A preposito domani quanti n’avemo?
LUCIO Nu’ me n’aricordo.
BRUTTO Varda sur Barbanera e poi vemmel’a dì.
LUCIO Vado. (esce)
BRUTTO Leggemo. (trae dalla tasca una scatola di fiammiferi, accende
un pezzo di cerino e si mette a leggere i foglietti recatigli da Lucio) «Brutto
tu dormi; svejete e guardete da te medemo, de drento e de fora! Doverà
Roma tremà d’un omo solo?! parla, tòna, amico, e taja ch’è rosso! Brutto tu dormi!...» Nun è la prima vorta che st’insorforazione le trovo spes23
In romanesco nel testo: Atto Siconno.
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e
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so e le riccojo pe’ strada... Ah, no! Roma nun tremerà d’un omo!... Li
mi’ antenati cacciorno Teraquinio quanno se fece chiamà re... «Parla,
tòna, amico e ttaja ch’è rosso!...» Io dunque sò pregato de parlà e
mmenà?... Sì, Roma, oh sì, oh sì te lo prometto che da Brutto averai
quanto j’addimanni!
Rientra Lucio.
LUCIO Sor padrone, domani n’avemo 15.
BRUTTO Benissimo! Ho inteso bussà a la porta: chi era? Sei ito a uprì?
LUCIO È vostro cognato Cassia che ve vò appuntà ‘na parola.
BRUTTO Sta solo?
LUCIO No, sta in compagnia de cert’antri.
BRUTTO Li conoschi?
LUCIO Ma che, tiengheno er fongo24 incarcato insinenta a l’occhi e nu’
j’ho potuto vede er grugno.
BRUTTO Va bene; falli entrà. (Lucio esce) Sò li congiurati!... Da quanno mi’ cognato me vinne a insorforà contro de Cesere, nun ho più
chiuso un occhio. Fra er pensà e er mette a fine un affare de sangue,
er tempo che ce curre è un continuo insogno de pavure e de fantasimi. L’ingegno de l’omo e le su’ voje sventate tiengheno allora consijo
e, com’un regno in tempo de buriana, la su’ anima patisce tutti li tormenti d’una ribbejone.
SCENA III
Cassia, Casca, Decio, Zinna, Metello
Cimbro, Trebbogno e Sigario
CASSIA Evviva! T’arincresce si te disturbamo?
BRUTTO Sto in piedi da più d’un’ora, e tutta la notte nun ho chiuso
un occhio. Tutti quest’amichi che t’accompagneno io li conosco?
CASSIA Tutti, e a tutti già j’ho dato un’attastata indove ce dole: semo
intesi. (presentandogli i compagni) Ecco Trebbogno.
BRUTTO Sii er benvenuto.
CASSIA Questo è Decio Brutto, Casca, Zinna, Metello Cimbro e Sigario, che sibbè malato, t’è vorsuto puro lui venitte a riverì.
BRUTTO Grazie, caro Sigario: è assai tempo che stai male?
24
Fungo, (arc.) cappello. Cappello maschile dalla tesa piuttosto larga che ricorda la
cappella di un fungo.
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introduzione
SIGARIO Nun sò più malato, si Brutto ha intenzione de fà quarche
ber córpo!
BRUTTO Accusì spero, Sigario: e te ce conterebbe puro a te, si la salute nun te la tirasse.
SIGARIO Te l’ho detto, Brutto, che ar solo vedette, m’è sparito er male. Anima de Roma! sangue d’Enea! tu com’un ‘sorcista mai [m’hai]
rimesso l’anima in corpo! Commanneme adesso, dunque e farò l’impossibbile p’obbeditte! Che c’è da fà? chi ho da levà de mezzo?
BRUTTO Regazzi, dateme er cinquanta uno a la vorta...
CASSIA E giuramo de fà quant’avemo arisoluto.
BRUTTO No, niente giuramenti. Si li rimproveri der monno, li dolori
nostri, la pecoraggine de ‘sti tempi, ve pareno motivi pochi boni, lassamo perde tutto, lassamo, e ritornamo ognuno a sloffe25. Accusì l’affamata tiranneria je darà sotto, co’ tutta la su’ forza, infinenta a tanto
che ciarimanerà un omo solo da esse scannato! ma sì, come sò certo,
questi sò motivi ch’abbasteno per infocà er petto puro a le carogne,
allora amichi mia, che bisogno ciavemo d’antre promesse? Una vorta
stretto un patto fra Romani de fà er dover loro a risico de la pelle, che
bisogno c’è der giuramento? Lassate giurà li preti, le carogne, li marfidati, li vecchi cadenti e la gente debbole sempre pronta a supportà
l’insurti; incatenate cor giuramento quelli che sò sospetti, ma nun
sporcate la santità dell’azione nostra! perché quanno un romano ha
promesso, nun potererebbe storce un ette da la promessa data, senza
fasse imbastardì in sur subbito, ogni stilla de quer nobbile sangue che
je scurre in de le vene.
CASSIA Come s’averemo da comportà co’ Cicerone? L’avemo da scannajà?
CASCA Nu’ lo famo fora.
ZINNA Famecelo entrà...
BRUTTO Nu’ me parlate de lui; nu’ je se dichi gnente; quello nun farebbe mai da coda a una facenna incominciata da un antro.
CASSIA Allora, lassamelo perde.
CASCA Eppoi nun c’è tajato pe’ ‘ste cose.
DECIO Quanti n’avemo da fà cascà, ortre a Cesere?
CASSIA Bravo, Decio, dichi bene. Quanti? perché, siconno er mi’ debbole pensà, nun ce convié che Antonio, tanto ben vorsuto da Cesere,
morto che è lui, resti ar monno pe’ seme de cucuzza. Averessimo da
25
Dormire. Dal tedesco schlafen.
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fà cor una lana, ma canercia 26! che ce darebbe rogna da grattà. A posto, pe’ ‘gni bon fine, s’accorino tutt’e dua assieme, Cesere e Antonio.
BRUTTO Che se volemo fà pijà pe’ macellari? Si tajato che j’avemo er
cestone, famo a pezzi er cadavere der morto, nun annamo bene. Dico
accusì perché Antonio e Cesere sò tuttuna persona. Famo li sciattini27,
ma no li boja! Tutti noi s’arivortamo contro er sintimento de Cesere,
e in der sintimento dell’ommini nun c’è sangue. Magari potessimo
domà er sintimento de Cesere, senza squarciaje er corpo! Ma purtroppo nun c’è via de mezzo, bisogna ammazzallo! Accusì, regazzi, nun ce
pensamo tanto, ammazzamelo ardidamente, ma senza portaje odio:
come si fussi una vitella degna d’esse offerta a un re28; nu’ lo famo a
cinichi29, come la carnaccia che se dà a li gatti. Famo vedé ar popolo
che a ammazzallo ce semo stati tirati pe’ li capelli, propio da la gran
necessità perché nun se ne poteva fà a meno de levasselo d’intorno. In
quanto a Marcantonio, nun ce pensate; perché lui nun potrà fà più
der braccio de Cesere, quann’a Cesere la testa j’è cascata.
CASSIA Con tutto ciò a me me fa ombra...
BRUTTO Quanto puzzi, Cassia mio; quanno la pianti? (batte l’orologio) Mosca. Contate l’ora.
TREBBOGNO L’orloggio ha sonato le tre.
DECIO È ora de sbignassela.
CASSIA Un momento. Se semo scordati er mejo. E si Cesere oggi nun
vienisse a Campidojo?
DECIO Nun ce pensà, che si puro questa fusse la su’ idea, penso io a
fajela mutà. Conosco er male de la bestia, e so come pijallo; e fin
d’adesso me pijo l’impegno de portavvelo sano e sarvo a Campidojo,
come se porta er bove ar macello.
CASSIA Anzi, annamelo a pijà tutti assieme.
BRUTTO A le otto in punto.
ZINNA E gnisuno amanchi.
SIGARIO Semo intesi.
CASSIA Spunta l’arba; se vedemo Brutto; regazzi ognuno uscite pe’
conto vostro; ma aricordateve de tutte le promesse, e fateve vede che
sete Romani veri.
26
Oggetto o indumento in cattivo stato, mal ridotto; cattivo soggetto, persona di pessima fama.
27
Sciattino: macellaio. Persona di razza ebraica autorizzata alla macellazione del bestiame. Dall’ebraico sha hat, macellare, uccidere.
28
Precedentemente, poi cancellato: come si fussi un’ostia degna d’esse offerta a li Santi.
29
Briciole, pezzetti. Diminut. del lat. cinnus (ricciolo, ciocchetta di capelli).
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introduzione
BRUTTO (salutando tutti) E accusì ve do er bon giorno a ognun de voi,
e er Signore v’accompagni. (i congiurati escono) Oh, e adesso, annàmesene a fà un appennichetto.
SCENA IV
Porzia e Detto
PORZIA Ah, Brutto, indove te sei ficcato che è un’ora che te cerco?
BRUTTO Nun me vedi? Ma che vai facenno accusì mezza spojata? Perché te sei arzata accusì presto? Giusto ciai salute da venne, scherzece
puro co’ st’aria riggida che tira la matina.
PORZIA E vederete che a voi ve farà bene! Che te credi che nun me sò
incajata che te sei arzato da letto che nun era nemmanco mezzanotte,
e te ne sei ito, senza dimme nì asino e nì bestia?
BRUTTO Embè, che vòi?
PORZIA E jeri a sera, a cena nun v’arzassivo da tavola a l’improviso, e
co’ le braccia in croce incominciassivo a annà in su e in giù pe’ la stanzia come si avessivo preso la purga pensanno e sospiranno? E quanno
che dimannai sì che anticòra 30 avevio; me guardassivo tutto serio serio; io c’intostai e allora voi co’ la mano v’allisciassivo la fronte, battessivo er piede tutt’arabbiato, e cor un gesto da tiranno de li burattini, m’ordinassivo da piantalla e d’annammene. Ubbidii perché nun
m’annava da inquietamme; e perché pensai che poteva esse uno de
quelli estri matti che ogni tanto ve pijeno a vojantri ommini... Insomma da diversi giorni ve vedo in d’uno stato che nun ve consente nì da
magnà, nì da parlà, nì da dormì. Diteme adesso si quest’è vita de poté annà avanti! (e si pianta con le mani sui fianchi avanti a Brutto)
BRUTTO Me sento un po’ acciacatello e gnente antro.
PORZIA Si fussivo ammalato ve cureressivo.
BRUTTO E me pare che lo sto facenno... Ma, cara Porzia, arivattene
a letto.
PORZIA Lui se sente acciaccato, e s’espone mezzo ignudo all’aria riggida de la matina! Lui è ammalato, e s’arza dal letto, se ne va a spassiggià in de l’orto a risico de pijasse una bona pormonea! Dimme micca, dimme! A chi la vòi dà a d’intenne? No, caro mio, in de la tu’ memoria, sta er male de che te lagni!... Senteme, Brutto, fallo pe’ quer
santo matrimogno, pe’ quelli dritti sacrosanti che ciò su te, dimme sì
che stai ruminanno in der cervello! Dimme tutto, dimme. Chi ereno
30
Affanno, oppressione dolorosa.
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,
o
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quele grintacce che sò venute a trovatte poco fa? L’ho visti, veh?! ereno sei o sette e sibbè fussi de notte s’annisconneveno er grugno pe’
nun fasse ariconosce... E fatt’uscì er fiato fatte!... Quann’ero più giovine, quann’ero più bella, nun me trattavi accusì. (sospirando) Ma mó
se sa me sò invecchiata... Nun sò più bbona... ( fingendo di piangere)
BRUTTO Chi te lo dice? Ma sei bbona incora!... (a parte) (Ho capito
via, finisce male!)
PORZIA (c. s.) E allora perché nu’ me confess’er segreto che t’accora?...
Io dunque nun sarebbe un antro te stesso antro che pe’ fatte compagnia a pranzo a cena e a letto? Pe’ gnisun’antra cosa? Si è accusì allora,
io nun sò la sposa tua, ma sò la zunnananà 31!
BRUTTO Ma ‘ste cose nu’ l’hai da dì nemmanco pe’ galleria!... Tu sei
la mi’ onorata sposa, me sei cara, come le goccie der sangue che me
fanno sbatte er core addolorato.
PORZIA Si fusse accusì, saperebbe ‘sto segreto, saperebbe... (piangendo)
So d’esse donna ma sò stata scerta pe’ sposa da Brutto; so d’esse donna, ma sò una donna onorata...
BRUTTO Ma chi te dice er contrario?...
PORZIA (interrompendolo) Onorata, me capischi? Sò la fija de Catone,
sò! Che te pensi che io cor un padre tale e cor un marito come te, nun
sò la donna la più forte der mi’ sesso? Confidame dunque ‘sto segreto,
caccia fora ‘sto rospo, che io pe’ segretezza tanto sò peggio de la tramontana.
BRUTTO Ma te pare che me possi dubbità?
PORZIA (piangendo sempre) Ma già l’ho detto, l’ho; una diecina d’anni fa, a quest’ora, già m’averessi detto tutto... Ma mó nun sò più bbona a gnente...
BRUTTO Ma si t’ho detto de no, Porzia mia!... (affettuoso) Piantela de
fà l’ojo pe la lampena!
PORZIA (piangendo e buttandosi addosso a Brutto) Nun sò più bona a
gnente... nun sò più bella...
BRUTTO (a parte) (Ho capito, via!)... (con risolutezza) Mbè, nun piagne. Annàmosene in cammera da letto, e là saperai tutto. (a parte)
(Eh, fussi matto a spiferà un segreto a una donna!)
PORZIA Davero? Oh quanto sò contenta. Brutto mio, (l’abbraccia. Lo
guarda amorosamente) allora annamo me sa mill’anni!...
BRUTTO (con espressione di noia) E figurete a me! (escono abbracciati)
31
Zunnanannà/zunnananà parola onomatopeica per indicare la banna (puzza). Cfr.
CHIAPPINI.
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introduzione
SCENA V
Una stanza nel palazzo di Cesere. Tuoni e lampi. Entra Cesere in berettino
da notte. Poi un Servo e Carpurnia
CESERE ‘Sta notte nun c’è requia nì in cielo nì in terra. Che accidente
sarà! Puro lei, pe’ tre vorte, in insogno, ha strillato: «Ajuto, ammazzeno Cesere!...» Chi c’è de là?
Entra un Servo.
SERVO Sor padrone!
CESERE Va a ordinà a li sacerdoti d’offrì, lesto e presto, un sagrifizio
e poi riviemme a dì la predizione.
SERVO Scappo subbito. (esce)
CARPURNIA (entrando con le mani in croce) Mbè, che avete deciso?
Gnente penseressivo da uscì? Voi ciavete le pigne! Oggi nun s’esce!
CESERE Dichi tu! Invece Cesere uscirà; li pericoli che m’hanno minacciato nun ce l’hanno mai [...]32 davanti ar mi’ cospetto; e puro ‘sta vorta se la fumeranno ar solo comparì che farà Cesere! Crepi l’astroligo.
CARPURNIA Io nun ho mai dato retta alli maluguri, ma oggi me mettono spaghetto. Senza contà tutti quelli segni tanto strani che avemo
inteso e visto noi; un fattucchiere che abbita qui p’er vicolo aricconta
cose da fà addrizzà li capelli in testa! Una cometa è apparsa ier notte
in cèlo; la ciovetta tutta ‘sta notte cià cantato sur tetto; la gallina de
la vicina ha cantato da gallo; ‘gni pezzo de carbone che ardeva in cucina schioppava com’una raganella; e come si questo nun fussi gnente,
abbasterebbe er temporale de ‘sta notte. Roma pareva, da li gran lampi, ch’annasse a foco!... Cesere, damme retta, ‘sti segni nun se sò mai
visti, e me spaventeno.
CESERE Si da lassù (indica il cielo) hanno imbastito da famm’ignottì
quarche callalessa 33, nun semo boni né io e né tu a ripparalla. Si Dio
vò accusì, accusì sia! E Cesere uscirà.
CARPURNIA Puro averessi da sapé che le comete nun apparischeno
mica pe’ predì la morte de quarche straccione; e quanno li cièli vann’a
fiare e foco predicheno la morte de li soprani.
CESERE E tu dajela! Le carogne moreno parecchie vorte prima de morì; l’omo de core una vorta sola. De tutte le cose le più maravijose da
32
33
Parola illeggibile.
Castagna lessa.
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che sto ar monno e che ho inteso ariccontà, la più curiosa è quella che
l’omo possi provà ribrezzo de la morte; perché intanto o prima o poi
ce deve toccà a tutti... (rientra il Servo) Che t’hanno detto li sacerdoti?
SERVO La masticheno male. Hanno detto ch’è mejo che per oggi nun
uscite. (il servo parte )
CARPURNIA Lo vedi che puro queli sant’ommini me danno raggione? E tu intostece!
CESERE Li Dii hanno inteso de volé svergognà la carognanza, e Cesere sarebbe senza core si pe’ pavura arisorvesse de nun uscì da casa. No,
Cesere uscirà! Er pericolo e nostròdine, semo come du’ leoni giamelli; ma io sò nato p’er primo, e sarò più terribbile; Cesere uscirà!
CARPURNIA Abbada, Cesere, che la tu’ prudenzia t’amanca, perché
te credi troppo sicuro de te. Nun uscì oggi; dì che la pavura mia, li
dubbiti mii, e no li tui, t’hanno fatto arestà a casa. (inginocchiandosi)
Er core me lo dice, nun uscì! Te ne supprico in ginocchione, concedeme ‘sta grazzia... Mannamo ar Senato Marcantonio a dije che stai
poco bene!...
CESERE Marcantonio dirà che sto poco bene; famo come vòi tu; per
oggi me ne starò a casa.
CARPURNIA Oh, sia benedetto Dio! Manco vale che je l’hai fatta 34!
SCENA VI
Decio e Detti
CESERE Ecco Decio, je la manneremo da lui, ar Senato, l’imbasciata.
DECIO Cesere, evviva! Evviva, grolioso Cesere; viengo p’accompagnatte ar Senato.
CESERE E a puntino arivi pe’ portà un saluto mio a li Senatori, e pe’
dije che oggi io nun ce vado; no perché nun posso perché sarebbe
bucía; pavura, bucía puro; insomma je dirai che nun ce vojo annà.
CARPURNIA Diteje che lui sta male. Io ve saluto. (esce)
CESERE Averà Cesere da esse buciardo? Ho dunque steso accusì lontano er mi’ braccio vincenno trecento battaje, per avé poi pavura de
dì la verità a quele barbe canute da caproni? Decio, vaje a dì che oggi,
faccio er commido mio.
DECIO Onnipotente Cesere, dimme armeno la caggione pe’ nun esse
preso in burletta da queli quattro arimbambiti.
34
Cancellato il seguito della battuta: (a parte) (Eh, cari mii, quanno la donna vô, nun
cé so’ santi!)
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introduzione
CESERE La caggione è la volontà mia; nun vojo uscì; nun t’aribbatte
a te e ar Senato?! Vòr dì, che, pe’ sodisfatte a te perché te vojo bene,
te dirò quarch’antra cosa. Sappi dunque ch’è mi’ moje, lei, che me
trattié pe’ de filo a casa; stanotte s’è insognata che la mi’ statua che
sta a Campidojo, manco si fussi stata una funtana, pisciolava sangue
da cento ferite; e intanto una folla de Romani smaniosi se faceveno
avanti e ridenno c’intigneveno le mano. Una che spiega l’insogni j’ha
detto che una gran disgrazia me stava pe’ succede; e lei (lo sai come
sò le donne!) me s’è buttata in ginocchione e m’ha scongiurato de
nun uscì da casa.
DECIO Io però che d’insogni me n’intendo, te posso assicurà, ch’er
tuo, te l’hanno tutto quanto spiegato male, ma male assai. La tu’ statuva che buttava sangue da tante ferite indove li Romani allegri c’intigneveno le mano, vordì invece che da te la gran Roma pijerà un
sangue novo che la ringiovanirà. Ecco sì che vò intenne er sogno de
Carpurnia.
CESERE E che tu hai accusì a ciccio de sèllero, spiegato,
DECIO Sicuro. E te ne persuvaderai de più doppo quello che t’ho da
dì. Sappi dunque ch’er Senato ha deciso de dà oggi la corona ar potente Cesere! Si je manni a dì che nun eschi, ponno puro mutà pensiere. Eppoi te potrebbeno canzonà sentenno dì: «Sciojete er Senato
fino ar giorno che la sposa de Cesere se sarà fatta un antro più ber sogno». E si Cesere s’annisconne averanno tutt’er dritto de dì: «vedete
quela carogna de Cesere, trema!...» Scuseme tanto, Cesere, si er gran
bene che te vojo me sforza a parlatte accusì, ma è la verità.
CESERE Sò davero da matti le pavure de Carpurnia! Divento rosso
d’avecce dato. Decio, damm’er manto, ché ci annerò... Uh, varda quanti antri boni amichi me viengheno a pijà, pe’ famme compagnia!
SCENA VII
Publio, Bruto, Sigario, Metello, Casca, Trebonio, Zinna e Precedenti,
poi Antonio
PUBBRIO Sarve, Cesere!
CESERE Benvenuto, Pubbrio. Tu pure Brutto, accusì abbonora? Bongiorno Casca. Cajo Sigario, Cesere nun te fu mai tanto nemmico, come la frebbe che t’ha ridotto accusì male. Che ora abbiamo?
BRUTTO (cavando l’orologio) Le otto sonate.
CESERE V’aringrazio a tutti de le vostre garbatezze. (vedendo entrare
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Antonio) Ecco Antonio, che sibbè de la notte ne facci giorno, s’è arzato puro lui. Antonio, bongiorno.
ANTONIO E bon giorno sia pure p’er nobbile Cesere.
CESERE Dite che preparino tutto... Scusateme si nun m’avete trovo
pronto... abbiate pacenza... Addio, Zinna... Ciao, Metello... E tu Trebbogno? A proposito ricordame che oggi t’ho da parlà armanco per
un’ora, stamme vicino.
TREBBOGNO Nun dubbità, Cesere. (a parte) (E te ce starò tanto vicino, che desidereressi che nun ce stassi!)
CESERE Amichi der core, entrate de qua, annamese a fà un gotto a la
salute nostra. Eppoi, da boni amichi se n’anneremo ar Senato tutti
quanti in compagnia.
BRUTTO (a parte) (Boni amichi, davero! Ah Cesere, come me sento
strazià er ore!)
Escono tutti.
Sipario
o
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introduzione
ATTO III
SCENA I
Il Campidoglio. Il Senato è raccolto.
La moltitudine ingombra la via che conduce al Campidoglio in mezzo ad essa il Mago. (leggendo)
MAGO (leggendo un foglio) «Cesere, guàrdete da Brutto; tiè d’occhio
Cassia; nun t’avvicinà a Casca; abbada a Zinna; varda bene Metello
Cimbro: Decio Brutto nun te vò bene; tu hai offeso Caio Sigario. Sò
tutti quanti d’un pensiere e ‘sto pensiere è rivorto a danno de Cesere.
Si nun sei immortale, tiè l’occhi sopra de te; la sicurezza ingenera le
congiure. Er cèlo te difenni. Er Mago.» Starò qui insinenta che nun
passa Cesere e com’un poveretto je darò ‘sto fojo come si fusse una ristanza... Si Cesere lo legge sarà sarvo, si no bona notte ch’è notte.
SCENA II
Squillo di trombe. Entrano Cesere, Brutto, Cassio, Casca, Decio, Metello,
Trebbogno, Zinna, Antonio, Levido, Popilio, Pubbrio, ed altri.
CESERE Er 15 de Marzo, ce semo!
MAGO Sì, Cesere, ce semo; ma nun è finito. Leggi ‘sto fojo, Cesere!
DECIO Trebbogno te scongiura de legge ‘sta su’ povera istanza, Cesere.
MAGO Nu’ je dà udienza, Cesere; legge prima la mia; perché la mia è
una supprica che tocca Cesere e lo riguarda. Leggela, gran Cesere,
leggela te ne scongiuro. (gliela porge)
CESERE Quello che s’arifrette a nostròdine dev’esse esaminato all’urtimo; prima er bene de l’antri e poi er nostro.
MAGO Nun aspettà, Cesere; leggela ma subbito. (insistendo)
CESERE Ma che questo s’è ammattito?
PUBBRIO (scansando il Mago) Scanzete, lombetto35.
CASSIA (al Mago) Chi ve dà l’ardire de dà le suppriche pe’ strada? Salite su a Campidojo, mascarzoni!
Cesare entra nel Campidoglio, gli altri lo seguono.
Tutti i Senatori si alzano.
35
Ladruncolo, furfantello.
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,
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567
POPIJO (a Cassia) V’aguro che la vostra faccenna d’oggi v’ariesca tonna.
CASSIA Quale faccenna, Popijo?
POPIJO Ah certa tela! Se vedemo. (poi, si avvicina a Cesere)
BRUTTO (a Cassia) Che te diceva Popijo Lena?
CASSIA Ciagurò che la facenna nostra d’oggi ciariuscisse. Ho pavura
che hanno scuperto l’artarino...
BRUTTO Guarda come s’avvicina a Cesere; smìccelo bene.
CASSIA Casca, sta pronto, ch’ò pavura che semo stati scuperti... Brutto, che avemo da fà? Si è vero, o Cassia o Cesere nun usciranno de
qui; perché io m’ammazzio da me, me suvicidio.
BRUTTO Cassia, coraggio; Popijo Lena, nun parla de noi; perché varda, lui je ride e Cesere nun muta d’aspèttito.
CASSIA Varda quer Trebbogno com’è furbo! Varda, Brutto, com’allontana da Cesere Marcantonio!...
Escono Antonio e Trebbogno. Cesere e Senatori si assidono.
DECIO Indov’ello Metello Cimbro? Adess’è er momento bono che vada a presentà la su’ ristanza a Cesere.
BRUTTO Nun vedi che lo sta pe’ fà? Accostamese puro noi e ajutamelo.
ZINNA Casca, tu sei er primo che devi arzà er braccio e menà.
CESERE Semo dunque tutti pronti? Allora sentimo quali sò ‘st’abbusi
che Cesere e er Senato hanno da riformà.
METELLO Artissimo, fortissimo, potentissimo Cesere, Metello Cimbro s’inchina davanti ar trono tuo... (inginocchiandosi)
CESERE Te previengo, Metello, che ‘ste leccate de zampe, ‘ste genuffressione, ponno tinticà la vanezza d’un omo dozzinale e faje vortà
bandiera; ma nun te dà a crede ch’er core de Cesere se facci addorcì
da ‘ste finezze da carogne! Tu’ fratello è stato esijato pe’ decreto der
Senato; si m’allisci pe’ motivo suo, si te curvi pe’ lui, io te disprezzo
com’er somaro che sporca le strade. Impara che Cesere nun fa suprusi e senza amancanze nun condanna gnisuno, nun condanna.
METELLO (guardandosi intorno) Nun ce sarebbe qui voce più utorevole che aggradisse de più a l’orecchia der gran Cesere, e perorassi p’er
ritorno de mi’ fratello da l’esijo?
BRUTTO Io te bacio la mano Cesere, ma no pe’ strufinàmmete; e te
scongiuro de fà ritornà a Roma Pubbrio Cimbro.
CESERE Che, puro Brutto?
CASSIA Cesere perdonelo, perdonelo Cesere; Cassia te s’inchina infinenta a li tu’ piedi pe’ dimannatte la libberazione de Pubbrio Cimbro.
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CESERE Riusciressivo a commovémme si ve rissomijassi; si fussi bono
a pregà pe’ commòve, potrebbe esse impietosito da le preghiere; ma
io sò immutabbile come la stella der Norde, che, dicono, pe’ la su’
fermezza nun ce n’è un’antra in cèlo che l’arissomiji. Li cèli sò seminati da mijara de stelle; sò tutte de foco e tutte sbrillùccicheno; eppuro nun ce ne sta una sola che stia eternamente fissa ar su’ posto. Cusì succede in der monno; è popolato da mijara d’ommini, formati de
carne, de sangue e de memoria; ma tra de loro, uno solo ne conosco
che sappi, senza mutà, fermo com’un sasso, conservà ogni sempre er
posto suo; ‘st’omo è nostròdine: ècchelo qua! Vorsi l’esijo de Cimbro,
e lo mantiengo.
ZINNA Ah, Cesere mio!...
CESERE Scostete! Voressi dà un pugno in cèlo?
DECIO Gran Cesere...
CESERE Ma si l’ho negato insinenta a Brutto!
CASCA Ah sì?! Allora magna! ( ferisce Cesere nel collo. Cesere gli afferra
il braccio. Vien quindi trafitto da parecchi altri congiurati, e per ultimo
da Marco Brutto)
CESERE (nel veder Brutto ferirlo) Et tu, puro tu Brutto?! Allora mòri
Cesere, ch’è mejo! (muore. I Senatori e il popolo si ritirano in tumulto)
ZINNA Libbertà! libbertà! La tirannia è morta! Currete, annatel’a strillà pe’ tutta Roma!
CASSIA Quarcuno vadi su li purpiti e strilli: «Libbertà, libbertà! ringenerazione!»
BRUTTO Popolo e Senatori! nu’ state impavuriti; nu’ ve la fumate, ch’er
capo de la presumea è morto!
CASSIA Va sur purpito, Brutto.
DECIO E Cassia puro.
BRUTTO Indov’èllo Pubbrio?
METELLO Stamo tutti uniti, in modo che si quarche amico de Cesere avess’intenzione...
BRUTTO Nun avé pavura. Pubbrio sta’ alegro; gnisun pericolo sta pe’
piombà addosso su quarch’antro romano. Vallo puro a annunzià ar
popolo. E la responsabbilità der fatto se la volemo addossà antro che
noi che l’avemo portato a fine.
SCENA II
Trebbogno e Detti
CASSIA
(a Trebbogno) Indove sta Antonio?
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TREBBOGNO È scappato, scellonito36 a casa sua; ommini, donne,
regazzini cureno spaventati, e strilleno come si fussi er finimonno!
BRUTTO Staremo a vede quello che ce tocca. Che avemo da morì lo
sapemo: Morta certa, ora incerta, del morire l’ora è incerta...
CASSIA Quello che se scórta de vent’anni la vita, averà vent’anni de
meno pavura de la morte!
BRUTTO Essenno accusì, la morte è un benefizio e noi semo l’amichi
de Cesere, noi, che j’avemo scórtato er tempo che averebbe avuto pavura de morì. Inchinamese, Romani, inchinamese: ammollamo le
braccia sino a li gommiti in der sangue de Cesere e arossìmene le spade; poi uscimo, fàmese vede ar popolo e arzanno su le nostre teste li
ferri insanguinati strillamo co’ quanto fiato ciavemo in corpo: Pace,
libbertà, ringenerazione!
CASSIA Accusì famo... Chi lo sa quanti secoli vederanno arippresentà
questa scena magnifica d’oggi, in certi popoli che incora nun sò nati
e in certe lingue che incora nun se sanno!
BRUTTO Chi lo sa quante vorte davanti all’occhi der pubbrico morirà
in de l’avvenire ‘sto Cesere che adesso, morto a li piedi de la statuva
de Pompeo, nun è gnente de più de la porvere!
CASSIA E ogni vorta che ‘sto fatto accaderà, ‘sta congiura nostra sarà
detta quella dell’ommini che diedeno ar paese de loro la libbertà!
DECIO E adesso nun uscimo?
CASSIA Sì, tutti; Brutto annerà avanti, e dedietro (a bon gioco) cianneranno li più coraggiosi e li più bulli de Roma.
BRUTTO Fermateve; viè quarcuno. Si nun me sbajo è Antonio.
SCENA III
Antonio e Detti
CASCA Ecco Antonio!
BRUTTO Sii er benvenuto, Marcantonio.
ANTONIO (contemplando il cadavere di Cesare) Povero Cesere! Ècchete lì per tera! Tutte li tu’ trionfi, le tu’ grolie, tutta la tu’ grannezza,
stanno inzeppati in ‘sto cantoncello! Addio Cesere mio! (poi volgendosi agli altri) Romani, io nun so quello che avete intenzione de fà; qual’antro sangue deve pisciolà, qual’antra testa de grinta avete da fà cascà. Si
è la mia, mejo accusì; nun saperebbe sceje, pe’ morì, momento più
propizio de quello che ha visto cascà Cesere, ni strumenti più groliosi
36
Stordito.
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de quelle spade rosse der più nobbile sangue de tutt’er monno sano! Si
sospettate de me, già che state co’ le mano in pasta, ve ne scongiuro,
sfogateve puro sopra de me; si avessi da campà antri mill’anni ciarinunzierebbe pe’ morì adesso; gnisun sito mejo de questo, qualunque
specie de morte nun me poterebbe convenì mejo d’adesso, contento de
cascà qui, vicino a Cesere, e sott’a le botte de vojantri che sete li fiori
der tempo nostro.
BRUTTO No, Antonio. Sibbè apparimo feroci e sanguinarii si cce giudichi da le nostre mano e da quer che avemo fatto, tu nun ce legghi
in der core che, sippuro, è umano e pietoso. Ma in quer modo stesso
che chiodo scaccia chiodo, una pietà ne scaccia un’antra; e fu che spinti da un senso de pietà pe’ le miserie de Roma, pe’ li mali der popolo,
che avemo ammazzato Cesere; riguardo a te, Marcantonio, le spade
nostre nun cianno punta; e noi t’aprimo le braccia, e li nostri cori da
fratello per ricevétte e abbraccicatte co’ tutti li sentimenti.
CASSIA Pe’ l’elezione de li novi commannanti ce pòi mette bocca puro
te come te pare.
BRUTTO Lassa che avemo carmata la folla ch’è stata presa dar terore;
poi te spiegheremo er perché, io, che odoravo Cesere puro in der momento che lo ferivo a morte, m’è stato impossibbile de nun fà accusì.
ANTONIO Io nun dubbito de la bontà vostra; ognun de voi me dii la
su’ mano insanguinata; tu pe’ primo Marco Brutto, poi Cajo Cassia,
poi Decio; e puro tu Metello; e tu, Zinna, e tu, bravo Casca, e tu ottimo Trebbogno... Amichi mia... Dio mio, che v’ho da dì?... L’esse creso da vojantri in ‘sto momento è tanto indificile che averete da sceje
tra du’ giudicamenti odiosi e credémme o carogna o leccazampe. (volto al cadavere di Cesare) Ch’io te volessi bene, Cesere è verità sacrosanta; e si adesso l’anima tua ce guarda, nun te n’affronterai de più de
la tu’ morte ner vedé Antonio tuo fà pace e strigne le mani insanguinate de li tu’ nemmichi, in presenza tua? Si tu ciavessi tanti occhi pe’
quante ferite ciai, e si le mi’ lagrime cadessino in abbonnanza com’er
sangue tuo, sarebbe più confacente in ‘sto momento che er mettémme
da la parte de li sicari tua! Cesere, perdoneme! Leone intrepido, qui,
fussi accerchiato, qui sei caduto, e qui stanno li tu’ persecutori tinti
der sangue tuo! Ah monno! Tu eri la macchia indove ce regnava ‘sto
leone, e nun avevi abbitatori più nobbili de lui! Com’e’ re de la macchia ferito da li cacciatori, ècchete adesso corcato qui!...
CASSIA Marcantonio, dico...
ANTONIO Scuseme, Caio Cassio, li nimmichi de Cesere diranno quer
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poco ch’ho detto io; e sicché, per un amico, me pare ch’er parlà accusì sii assai modesto!
CASSIA E nemmanco te rimprovero si lodi Cesere accusì; ma spieghete: vòi stà co’ nojantri o contro de nojantri?
ANTONIO Fu per arimanevve amico che v’ho dato er cinquanta, ma
poi co’ la cosa ch’ho visto er cadavero de Cesere me sò impappinato,
me sò. De’ resto io ve sò amico a tutti e a tutti ve vojo bene: speranno
che me spiegherete poi come e perché Cesere era tanto pericoloso.
BRUTTO Si nun fusse stato accusì questo sarebbe lo spettacolo er più
infame! Ma le raggione nostre sò state accusì bone e accusì pesate, Marcantonio, che l’averessi d’approvà puro si tu fussi stato er fijo de Cesere.
ANTONIO Vederemo si è vero. Un antro piacere adesso. Me permettete de mostrà er cadavere der morto su la piazza, e de faje er discorso
funebbre?
BRUTTO Sí, te lo concedemo.
CASSIA Brutto, una parola. (a parte) Tu nun sai manco quello che te
fai! Nu’ je permette de parlà; nun pòi sapé, tu, si er popolo possi restà
commosso da quello che dirà lui!
BRUTTO Nun avé pavura. Salirò sur purpito prima de lui e spiegherò
le raggione che cianno tirato a fà succede er morto; dirò che Antonio
parla cor benepracido nostro, perché intennemo che a Cesere je sieno
resi tutti li possibbili onori. ‘Sta cosa più che facce male, ce gioverà.
CASSIA Io nu’ ne risponno de quer che ne pò succede; ‘sta cosa nu’
m’aggarba.
BRUTTO Marcantonio, viè e pija er corpo de Cesere. In der tu’ discorso però nun hai da dì male de noi, mentre potrai dì de Cesere tutt’er
bene che vòi, dicenno che lo dichi cor consento nostro.
ANTONIO Accusì sia; io nun ve chiedo antro.
BRUTTO Prepara dunque er cadavero e viecce appresso.
Escono tutti, fuori Antonio.
ANTONIO (al cadavere di Cesare) Ah perdoneme, tu, si me fo vede accusì agnello co’ ‘sti carnefici! Tu sei er cadavere der più gran omo ch’è
apparso e apparirà sin ch’er monno sarà monno! Maledizione a la mano ch’ha sparzo ‘sto sangue prezioso!... Qui, su le tu’ ferite uperte, che,
com’artrettante bocche mute, oprenno le labbra sanguigne me chiedeno vennetta, io fo ‘sta profezzia! La maledizione scegnerà su tutto
er monno sano; le furie de casa, e la discordia fra Romani e Romani
distruggeranno Roma; er sangue e la distruzione diventeranno accusì
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de tutti li momenti che le madre insinenta, nun potranno che ride ner
vede li fiji loro scannati in guerra! E l’ombra de Cesere accompagnato
da tutte le furie dell’inferno venirà dall’antro monno a sfogà la su’
vennetta e co’ la su’ voce soprana urlanno: «Morte, morte!» Scatenerà
li leoni de la guerra, finché una nuvola contaggiosa, appestata da li
morti senza sepportura che formicoleranno per le strade, nun s’arzi su
in cielo, pe’ testimognatte l’orrore de ‘st’infamità commessa qui. (a un
servo) Ajuteme. (escono trasportando il corpo di Cesare)
SCENA IV
Il Foro Romano
Entrano Brutto, Cassia con gran seguito di cittadini.
CITTADINI Volemo sentì la raggione, volemo!
BRUTTO Allora, vienitem’appresso e statem’a ssentì. Tu Cassia va nell’antra strada e dividemo la folla. Quelli che me vonno sentì a me se fermino qui; quelli che vonno sentì Cassia, vadino appresso a lui e accusì er pubbrico saperà li motivi de la morte de Cesere.
PRIMO CITTADINO Io vojo sentì Brutto.
SECONDO CITTADINO Io Cassia, e accusì quanno l’avemo intesi
tutt’e dua, faremo er confronto de le raggione che cce porteno.
Esce Cassia cor una parte dei Cittadini. Brutto sale sul Rostro.
TERZO CITTADINO Er nobbile Brutto è salito. Mosca tutti!
BRUTTO Abbiate pacenza a stamm’a ssentì insinenta a la fine, Romani, e fate mosca. Credeteme su la mi’ parola d’onore, e tenete conto
der mi’ onore pe’ potevve convince de’ quello che ve dico. Condannateme si ho sbajato e appizzate bene er sentimento pe’ potemme mejo
giudicà. Si tra vojantri c’è quarche bon amico de Cesere, io je dirò che
Brutto voleva bene a Cesere quant’e llui. Si poi ‘st’amico dimanna perché Brutto ha fatto la pelle a Cesere, èccheve la mi’ risposta. Nun è
che io volessi bene a Cesere de meno, ma volevo più bene a Roma. Che
forsi preferissivo Cesere vivo pe’ morì tutti schiavi, a Cesere morto pe’
cantà tutti libberi? Cesere me voleva un bene de ll’anima e io piagno
pe’ lui; lui era furtunato, io ciò piacere; era coraggioso, io je fo onore;
ma era presuntuvoso, io l’ho ammazzato. Èccheve dunque pianti p’er
su’ bene, piacere pe’ le su’ furtune, lode pe’ la su’ bravura, e morte pe’
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la su’ prosumea. Chi c’è qui accusì carogna che vò esse schiavo? Si qui
c’è quest’omo, parli; perché io ho vorsuto intenne d’offennello. Chi
c’è qui accusì gnoccolone de nun volé esse romano? Si un omo tale
qui c’è, parli; perché io l’ho offeso. Si qui c’è un omo accusì schifoso
de nun volé bene a Roma sua; si qui c’è, che se facci uscì er fiato; perché io l’ho offeso. Aspetto una risposta.
CITTADINI (parlando molti in una volta) Gnisuno, Brutto, gnisuno!
BRUTTO Quann’è accusì, nun ho offeso gnisuno. Io a Cesere nu’ j’ho
fatto antro che quela ruzza che vojantri faressivo a Brutto. Le condanne de la su’ morte sò reggistrate a Campidojo; de la grolia sua gnisuno
l’aveva fatto fòra, e nemmanco avemo ingrandite le córpe che l’hanno
condannato! (entra Antonio e parecchi altri col corpo di Cesere) Ecco er
morto che Marcantonio accompagna in coruccio; lui, sibbè in de la
congiura nun cià preso parte, puro se ne goderà quarche filetto cor
cibbasse un postarello in der guverno. E chi de tutti vojantri nun ne
goderà artrettanto? In concrusione io ho ammazzato er mejo amico
p’er bene de Roma; ciò qua lo stesso sfrizzolo pe’ me, quanno parerà
e piacerà ar paese de chiede la mi’ morte.
CITTADINI Evviva Brutto, evviva!
PRIMO CITTADINO Portàmelo a cavacecio a casa sua!
SECONDO CITTADINO Sì, portàmelo in trionfo!
PRIMO CITTADINO Inarzamoje una statuva com’ar nonno.
TERZO CITTADINO Che diventi un antro Cesere!
SECONDO CITTADINO Le più belle grolie de Cesere sieno coronate in Brutto!
PRIMO CITTADINO Accompagnàmelo a casa, fra l’evviva!
BRUTTO Cittadini romani...
SECONDO CITTADINO Mosca, zitti! Parla Brutto.
PRIMO CITTADINO Mosca, regazzi!
BRUTTO Mii boni cittadini, lassateme annà a casa solo, e per amor
mio, fermateve qui co’ Marcantonio. Onorate er corpo de Cesere e
onorate er discorso che lui, cor consento nostro, ve sta pe’ fà, pe’ celebbrà le grolie de Cesere. Ve ne supprico, gnisuno s’allontani, antro
che io, fino a tanto che padron Antonio qui, nun v’ha parlato. (esce)
PRIMO CITTADINO Alò, fermateve! e sentimo Marcantonio.
SECONDO CITTADINO Salisca sur purpito e lo sentiremo. Padron
Antonio, annate.
TERZO CITTADINO Montate, padron Antonio.
ANTONIO Pe’ cavusa de Brutto ve sò disobbrigato.
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QUARTO CITTADINO Ch’ha vorsuto dì de Brutto?
PRIMO CITTADINO Dice che pe’ motivo de Brutto se sente disubbrigato a tutti quanti noi.
SECONDO CITTADINO Farebbe mejo a nun parlà male de Brutto!
TERZO CITTADINO Doppo tutto quer Cesere era un tiranno.
QUARTO CITTADINO Nun dichi male; e è una gran furtuna che
Roma se ne sia libberata!
PRIMO CITTADINO Mosca! Sentimo che ce dirà de bono Marcantonio.
ANTONIO Generosi Romani...
SECONDO CITTADINO Mbè, je la famo, regazzi, a perde er fiato?
ANTONIO Romani, amichi mii, concittadini, stateme a sentì. Vengo
pe’ seppellì Cesere, e no pe’ laudallo. Er male che l’ommini se fanno
ciarimane; er bene spesso se ne va seporto assieme all’ossa. Accusì avvienga pe’ Cesere. Er gran Brutto v’ha detto che Cesere era presuntuvoso; sì è vero, la córpa sua fu grossa e Cesere l’ha pagata forte. Io qui
cor permesso de Brutto e dell’antri (perché Brutto è galantomo e pure
quell’antri sò tutti galantommini), viengo a recità l’orazione da morto
a Cesere. Lui era un amico sincero e leale co’ me; ma Brutto dice che
era prosuntuvoso, e Brutto è un galantomo. Cesere se portò appresso,
ner venì a Roma, mijara de prigiogneri, che pe’ riscattasse pagorno
mijoni ar Guverno; e le casse de lo Stato s’ingropponno. Quanno li poveri se lagnaveno, Cesere piagneva; la prosumea ciaverebbe d’avé la coccia più dura, co’ tutto ciò Brutto dice ch’era superbio, e Brutto è galantomo. Tutti quanti vojantri sete tistimogni che io all’urtime corse a le
Capannelle, je presentai tre vorte (dico tre) la corona da re, e lui tre
vorte la rifiutò. Era prosumea quella? Ma Brutto dice che Cesere era
prusuntuvoso, e Brutto è un galantomo. Io mica ve parlo pe’ contradì
Brutto, Dio me ne guardi! ma sortanto pe’ mettévve in chiaro de quer
poco che so. Voi una vorta je volevio tutti bene a Cesere e no senza un
perché; quale raggione mó ve trattiè da lagrimallo? Oh memoria, tu te
sei ita a riparà tra le berve, e l’ommini se sò persi er boccino! Compatitemi; er core mio sta qui ner cataletto de Cesere, e m’ho da riposà un
tantino pe’ ripijà fiato.
PRIMO CITTADINO Me pare che in quello che dice c’è un po’ de vero.
SECONDO CITTADINO Si consideramo bene la cosa, Cesere ha patito un sopruso.
TERZO CITTADINO Come dice? Peggio nun è morto mai. Abbasta
che ar posto de Cesere nun ce vienga quarcun’antro più peggio de lui!
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QUARTO CITTADINO Avete fatto caso a quelle parole? Cesere nun
vorse la corona, dunque nun era prusuntuvoso.
PRIMO CITTADINO E je l’offrinno tre vorte, mica una vorta sola!
SECONDO CITTADINO Si la cosa sta proprio accusì, sangue-der-naso, quarcuno l’ha da pagà cara salata!
TERZO CITTADINO Poveraccio! Dar gran piagne l’occhi je se sò fatti rossi come una fiara de foco.
QUARTO CITTADINO In tutta Roma sana, nun c’è un antro omo
nobbile com’Antonio.
PRIMO CITTADINO Attenti, zitti, ché riparla.
ANTONIO In finent’a jeri la parola de Cesere teneva a freno er monno
sano; mó sta qui corco, e gnisuno c’è che sii tanto costernato da faje
onore! S’io, Romani, me sentissi drento da insorforà li cori vostri e
l’anime a la ribbejone e ar furore, farebbe una cattiva azione, a Brutto, un insurto a Cassia, che, come tutti lo sapete, sò du’ galantommini; io però nu’ je vojo male; io preferisco d’insurtà er morto, d’insurtà me stesso, a voi, piuttosto che quell’ommini de tant’onore! però ecco un fojo cor siggillo de Cesere; l’ho trovo in de la su’ scrivenia; è er
testamento suo. Si er popolo leggesse ‘sto testamento (che io, scusateme, nun vojo legge) ve vederebbe a tutti inchinati a bbacià le ferite de
Cesere, a bagnà li fazzoletti vostri ner su’ sangue prezioso, a suppricà
come ricordo un capello de li sui che co’ l’urtime volontà lo trasmetteressivo morenno a li fiji de vojantri come la più sacrosanta eredità!
SECONDO CITTADINO Volemo sentì ‘sto testamento. Leggelo Marcantò!
CITTADINI Er testamento, er testamento! Volemo sentì er testamento
de Cesere!
ANTONIO Abbiate pacenza, regazzi; io nun ve lo posso e nun ve lo
devo legge; nun bisogna che sappiate quanto Cesere ve vorse bene.
Vojantri nun sete nì de legno, nì de pietra, sete ommini; e essenno
ommini er sentì er testamento de Cesere ve riscallerebbe, v’infurierebbe. Nu’ sta bene che sappiate che vojantri sete l’eredi sui; perché,
si lo sapessivo, Dio lo sa quello che ne poterebbe succede!
TERZO CITTADINO Legge er testamento, lo volemo sentì!
QUARTO CITTADINO Antonio, er testamento, leggi er testamento!
ANTONIO Volete avé pazienza? Volete aspettà un antro po’? Feci male a parlavvene! Ho pavura d’avé fatto danno a quelli galantommini
c’hanno pugnalato Cesere; propio ho pavura.
PRIMO CITTADINO Sò traditori, antro che galantommini!
CITTADINI Er testamento! er testamento!
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SECONDO CITTADINO Furno assassini scellerati! Er testamento,
legge er testamento!
ANTONIO Me volete dunque forzà a legge er testamento? Allora metteteve intorno intorno ar corpo de Cesere, e lassateme che v’insegni
quello che fece er testamento. Ho da smontà? Me date er permesso?
TERZO CITTADINO Scegne. (Antonio scende dalla tribuna)
QUARTO CITTADINO Te damo er permesso.
PRIMO CITTADINO Fate largo, fate largo!
SECONDO CITTADINO State scostati dar cataletto, scostateve!
TERZO CITTADINO Fate largo a Antonio... ar nobbile Antonio!
ANTONIO E nun v’affollate addosso a me; scostateve!
CITTADINI Indietro! indietro! posto!
ANTONIO Si ciavete le lagrime preparateve adesso a sversalle. Lo riconoscete tutti ‘sto mantello; me ricordo, com’adesso, la prima vorta
che Cesere se lo misse addosso; fu una sera d’estate, in de la su’ tenna;
in quer giorno aveva vinto li Nervi... Vardate in ‘sto punto è passato
er pugnale de Cassia; vardate che squarcio cià fatto qui er gran Casca;
qui diede la botta l’amato Brutto, e quanno lui aritirò er su’ ferro infernale, vardate com’er sangue de Cesere uscì con impito guasi per
appurà si era propio Brutto quello che je l’aveva sonata; perché tutti
vojantri lo sapete bene che Brutto era l’angelo de Cesere. Iddio solo sa
quanto bene je volesse Cesere! Fra tutte le botte, questa fu la più crudele; e quanno Cesere vidde lui tra li su’ assassini, l’ingratezza più potente der braccio de li traditori, lo vinse der tutto; allora je schioppò
er core quer su’ gran core; e coprennose cor manto la faccia, da piede
a la statuva de Pompeo tutta rossa de sangue er gran Cesere spirò! Ah,
che morte, che cascata, è stata questa! In quer momento, vojantri e io
e tutti semo cascati sotto er tradimento sanguinoso che trionfa! Ah,
piagnete adesso! me n’accorgo che sete impietositi: sò lagrime generose le vostre! E piagnete sortanto perché vedete er manto der nostro
gran Cesere trapassato da li pugnali? Guardate allora (strappando il
manto), guardate, qui sotto sta steso lui stecchito, scannato barbaramente, come vedete, da quelli traditori!
PRIMO CITTADINO Oh, che pena!
SECONDO CITTADINO Oh, omo troppo nobbile!
TERZO CITTADINO Oh, giorno de pianto!
QUARTO CITTADINO Ah, traditori, assassini scellerati!
PRIMO CITTADINO Ce l’hanno da pagà, ce l’hanno! Annamo, trovamoli, abbruciamoli, foco, macello! Nemmanco uno famo che n’aresti vivo!
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ANTONIO Romani, sentiteme, fermateve!
PRIMO CITTADINO Fermateve, sentite er nobbile Antonio!
SECONDO CITTADINO Sentimelo, annameje appresso, morimo pe’
lui.
ANTONIO Regazzi, per carità state boni. Ricordateve che quelli ch’hanno ammazzato Cesere, sò galantommini. Io nun posso sapé che ruzzine tra di loro e er morto ce fussi; ma sò gente bona e onorata e forsi
ve poteranno portà una bona raggione der córpo fatto; io nun sò un
parlatore come Brutto; io sò, come lo sapete tutti, un omo semprice e
a la bona che vò bene a l’amico suo der core; e ve dico quello che già
sapete; io v’insegno le ferite der gran Cesere e lasso a loro come si fussino tante bocche addolorate de divve tutto quele cose che ve vorebbe dì io. Ma si io fussi Brutto, e Brutto fusse Antonio, allora ce sarebbe un Antonio che v’insorforerebbe a rivortavve, e darebbe a ognuna
de le ferite de Cesere una voce adatta a smove in ribbijone infinenta
li serci de le strade! Cittadini rivoluzione, rivoluzione!
PRIMO CITTADINO Annam’a dà foco a la casa de Brutto.
SECONDO CITTADINO Annamo a cerca li congiurati.
ANTONIO Stateme a sentì un antro tantino.
CITTADINI Zitti, alò. Sentimo Antonio!
ANTONIO Fermateve; che volete annà a fà? Nemmanco vojantri lo
sapete; fermateve; ve sete scordati der testamento de Cesere che v’ho
detto...
CITTADINI È vero, er testamento! Fermamese e sentimo er testamento!
ANTONIO Eccolo e cor su’ bravo siggillo. Lui lassava a ‘gni Romano,
a ogniduno de voi dieci scudacci a testa...
TERZO CITTADINO Quant’era nobbile quer Cesere!
QUARTO CITTADINO Che core da soprano! L’avemo da vennicà,
l’avemo!
ANTONIO Abbiate pacenzia, de stamm’a ssentì...
CITTADINI Mosca, alò!
ANTONIO Ortre a questo ve lassava tutti li su’ giardini, li pergolati, e
tutti l’orti che tempo fa ha piantato pe’ la Regola. Cesere l’ha lassati
a voi a li fiji vostri... Questo era un Cesere, questo se chiamava un Cesere! Chi ce lo troverà un antro compagno?
PRIMO CITTADINO Gnisuno, gnisuno! Annamo via, via! Abbruciamo le case de li traditori! Incollamese er cadavere der morto.
SECONDO CITTADINO Annamo a pija er foco.
TERZO CITTADINO Servimese de li banchi der Senato.
QUARTO CITTADINO Mannamo per aria tutto!
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introduzione
ANTONIO ( fra sé) (Era quello che voleva! Adesso naschi quer che naschi è er gusto mio!) (entra un servo) Che c’è de novo?
SERVO Principale, Ottavio è arivato a Roma.
ANTONIO Indove sta?
SERVO A casa de Cesere assieme co’ Levido.
ANTONIO Mó ce vado subbito a trovallo; ariva propio a ciccio de sellero. La furtuna ciassiste e ciajuterà.
SERVO L’ho sentiti a dì che Brutto e Cassia sò scappati da Roma de
fughenzia.
ANTONIO Forse averanno saputo che io ho fatto sollevà er popolo.
Accompagneme da Ottavio. (escono)
Sipario
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e
LA SERVA SOCIALISTA
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1. introduzione
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. 1 c. sciolta (mm 316x218), (da un foglio tipo protocollo recante il marchio del Ministero della Pubblica Istruzione).
C. 621.
Testo su due colonne.
Calligrafia autografa.
Abbozzo di commedia.
La stessa carta reca sul verso il testo del frammento: Parlare di un socialista alla moglie (vedi).
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introduzione
Personaggi
ARDITA RIVOLTA serva 35 anni
GIUSEPPE CHICA vecchio di 70 anni padre di
ANNA 30 anni, moglie di
VITTORIO 40 anni
ADELE loro figlia, 17 anni
PIERINO amante di lei 23 anni
NAPOLEONE fidanzato della serva 28 anni
INES
GHITA
serve
CLORINDA
AGATA
Un commissario di pubblica sicurezza
}
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1. introduzione
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ATTO I
I padroni escono per andare al teatro. La serva li prega di tornare presto
perché non è umano farle perdere il sonno. Il vecchio resta in casa; egli,
essendo innamorato della serva, la protegge. La serva ne approfitta; lo
consola con quattro carezze e lo manda a letto. Poi introduce il suo ganzo
al quale dà a mangiare e bere e parla con esso di socialismo e di un prossimo comizio delle serve. Egli fuma e appuzza tutta la casa.
Vengono i padroni: a quel puzzo la sgridano, la padrona la riprende severamente. Essa dice che è lei che ha fumato. A una osservazione della signora, essa alza gli occhi al cielo ed esclama: Cristo Signore, dammi la pazienza tu onde sopportare questi dolori de Cristo!
La serva mette confusione in tutto il casamento e congiura con le altre
serve.
Una volta reca in casa una bicicletta.
Cos’è questa? – Mi serve per andare a cercare le mie colleghe perché io sono
la presidentessa della Lega!
Dà via tutta la biancheria dei padroni per beneficienza. Intanto – ella dice – tutto questo bene che hanno l’avranno rubato certamente. Favorisce
gli amori della signorina con il suo amante, un fannullone, che i genitori
della signorina detestano.
Tiene in casa, in assenza dei padroni, un’assemblea di serve.
Il vecchio padrone, innamorato pazzo di essa, una volta che essa è stata
messa alla porta dalla padrona, è risoluto di andarsene di casa. Siccome è
ricco, addio eredità. Determinazione a far restare la serva in casa.
Ricordare l’episodio del telegramma che arriva, e la moglie commossa ne
riconosce il carattere del marito dicendo
– Poveraccio c’ è ito proprio lui a scrivemme el telegramma! Ne riconosco el
carattere
– 30 lire al mese
– La camera nun deve esse sopra gli abaini
– Si devono alzare alle 8
– Il letto dev’sse a molle col uno scendiletto
– Nun deve attingere acqua in fontana
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introduzione
– Prendere il caffè la mattina
– Due giorni di uscita libera alla settimana
– Una ragazza pei servizi più bassi
– 15 giorni di permesso nell’estate.
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PARLARE DI UN SOCIALISTA ALLA MOGLIE
[frammento]
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introduzione
Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare conservato nella BA. Ms 2414. 1 c. sciolta (mm 316x218) (da un foglio tipo protocollo recante il marchio del Ministero della Pubblica Istruzione).
C. 621v.
Testo incolonnato a destra.
Calligrafia autografa.
Frammento.
.
La stessa carta reca sul recto e parte del verso l’abbozzo di commedia: La
serva socialista (vedi).
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1. introduzione
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[FRAMMENTO]
Brutta puzzona... tu guardi l’ora, ma nun guardi, hai capito, er dovere de
la donna ammojata... che tte possino ammazzatte!... Che mmanco la vergogna der decoro pubblico dell’occhio de la famija... hai capito?... che certe macchie s’averebbeno da lavà cor sapone der revòrvere... M’ha dato in
testa quello che ho, capischi? potuto vedere co’ la mia vista! Io nun sò
omo, capischi? de’ trascendenza perché mannaggia la M... te faccio el grugno scassinato de cazzotti... La moje corruttibile nun deve, mannaggia la
M... beve antro che cor marito, capischi er dialetto, mannaggia la M...
italiano? Er beve, capischi è un’azione sociale come un antra quanno se fa
in dua... Er compare doppo tutto, da che ne deriva? Da un regalo chiesastico qualunque, e siccome, capischi? la chiesa io l’abbolisco, mannaggia
la M... La vergogna, doppo tutto, ce la deve avé chi commette, hai capito,
li furti per arubbasse l’appropriazione indebbita, mannaggia la M... dell’antri. Io come omo sociale e de monno, ciò le mie azioni mannaggia la M...
abbastanza disponibbili... L’educazione la porta mannaggia la M... a ggalla! Io sò l’imperatore, er gran surtano de l’educazione sociale e ‘sta puzzona... tu me voressi confonne mannaggia la M... co’ l’interpellanze tue!
Ma aricordete, che io sò un omo, capischi? che te sò a ddì dar principio
del garaghé37 fino a quanno, mannaggia la Mad... viengheno li carbigneri che fanno fugge tutti... Io nun sò omo de trascendenza su le mancanze
de la donna er core abbrama er fisico, mannaggia la M... mica le ciarle! E
quanno un marito, capischi? se sposa ‘na donna fatte conto co’ la fronte
scoperta e la tira avanti, cor sudore che je cola, mannaggia la M..., da la
matina a la sera, sippuro, capischi? ha bevuto un goccetto, aricordete, nun
deve abborì li sui diritti...
L’omo, capischi, è stato compilato apposta pe’ bbeve er vino. Homus pulvis estere! Mannaggia la M... vordì che ssemo, capischi, de porvere. E si
la porvere nu’ l’innacqui ‘gni tanto se... smalloppa tutta e bbona notte.
37
Gioco d’azzardo.
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APPENDICE
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UN’INFORNATA AR TEATRO NAZIONALE
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1. introduzione
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Nota al testo
Il testo è ripreso dall’esemplare a stampa (Miscell. B 373) conservato nella BA:
G. Zanazzo, Un’Infornata ar Teatro Nazionale, 2. ed., Roma, Agenzia
Giornalistico-Libraria E. Perino, Piazza Colonna, 355, 1883. [Sulla carta
che segue il frontespizio]: Proprietà letteraria riservata. Roma, Tipografia
Bodoniana.
L’esemplare, in formato pieghevole, reca sull’ultima c. il timbro di possesso «Luigi Zanazzo».
Un’altra stesura del testo è nel faldone della BA. Ms 2416. Un quaderno
di 4cc. (mm 312x215), composto da 2 fogli tipo protocollo rigati ai margini.
Cc. 142-145.
Calligrafia autografa.
Le varianti di questa redazione sono riportate in nota al testo che pubblichiamo, premesse da: Ms.
Un’ulteriore stesura incompleta di questo poemetto è presente, sempre
nello stesso faldone, con il titolo: Ar teatro Nazionale. Un piccolo quaderno legato immediatamente prima, di 3 cc. (mm 218x154) composto da
mezzo foglio tipo protocollo rigato ai margini, piegato a metà, più un foglio listato a lutto (mm 210x135) incollato nella piegatura.
Cc. 139-141.
Il testo è incolonnato di traverso nel mezzo foglio piegato a metà; nello
stesso foglio, aperto e orientato secondo il verso della rigatura, è leggibile
una precedente scritta autografa: «Illustrissimo Signor Sindaco Prego la
S. V. Ill. ma, a volermi annoverare nella lista elettorale di questo comune.
Luigi Zanazzo, nato il 31 Gennaio 1860, abitante in Via Montanara 7».
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1. introduzione
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Che volete voantri pappagalli
Stà a mmette pècca a li teatri antichi?!1
G. G. Belli
SCENA CLVI 2
Orlando e Rosavia
Siam futtuti, o regina, il campo è perso
– Parli da senno, Orlando, o il ver non dici?
– Mi fulmini il Fattor dell’universo.
Assaliti e respinti dai nemici...
Oh rabbia! (je lo dico, o mme sto zitto?)
il re presso di me cascò trafitto.
– Ma dunque, o giusto Ciel, dunque tu puro
contro di me congiuri?! E che t’ ho fatto?!
– Fuggiamo; s’ode il rullo del tamburo,
e salvar non ci può ch’un fuggir ratto...
– Sì: ma pria di lasciare i lari miei,
muoia Sanson con tutti i Filistei!
La reggina dà ‘n pugno in d’uno specchio;
cala ’r telone, e bbona notte ar secchio.
1
La citazione è tratta dal sonetto Er vecchio. Questa citazione non è presente in BA. Ms
2416 (poi sempre Ms).
2
Questa indicazione di scena non è presente in Ms.
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introduzione
– Bbravaa! – L’arivolemoo! - Bbissee! – Bbenee!
– Fora! - L’anima! - Bbissee! - A Limonaro!
– A Tò3, tte piace? – Ah nno! Che belle scenee!
– Hai visto Orlanno sí cche bber vestiaro?
– Ma lo specchio s’è rotto pe’ ddavero?
– Che nu’ l’avete visto ch’era vero?
– Musica sor peloso4: je la famo?
– Che vve ce vò quarch’antra cacchiatella?
– Ah bbirbaccioni, fermi: non menamo;5
sinnò vad’a chiamà la sentinella...
Ah! senteno ch’è ddolce, ciariffanno6!
Che ffigli de pu…7 che cce stanno8!
La solita, regazzi; attent’al segno.
– Che nnummero? – Quattordici. Ce sete?
Animo, avanti, damogli de sdegno...
Che bbestie! Cqui c’è un do, nu’ lo vedete?9...
A Peppe, famme bbene ‘sti solfeggi;
me pare, sarvognuno, che scoreggi.
– Che ssonata sarebbe? – Er mme-te-levi10.
– ‘Sti musichi, sò propio strappacori!
– A Ggiggi11, lass’annà che ddoppo bbevi12;
annam’a ttinticà li sonatori.
– Eh llà, ch’er sor Naticchia ce s’arabbia.
Che ‘sta notte volemo dormì ‘n gabbia?
3
N. d. A.: To, Totò, Antonio.
N. d. A.: Pelosi, celebre maestro di musica che guidava i concertisti per le premiazioni, gli sposalizi e le processioni.
5
N. d. A: Ostenta di parlar civile.
6
Ms: ciariocheno.
7
Ms: puttane.
8
Ms: altra lezione per l’intero verso: Ve do una trombonata che ve scanno.
9
Questo verso non è presente in Ms.
10
Appellativo sarcastico indicante un brano musicale di nessun valore artistico o suonato talmente male da essere irriconoscibile.
11
Ms: Peppe.
12
Ms: altre due lezioni per l’intero verso: [1]a Peppe macché nun lo sapevi? [2]: Arabbieli a Pe’ bevi o nun bevi?
4
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1. introduzione
– A sor Giuvanni13, che ne dite voi?
– Ah! ffre... patron Marco, è propio bbello.
Pareno personaggi come nnoi!
Io me sò mmesso cqua a ‘sto cantoncello,
e nu’ mme ne sò perso che sia ‘n’ogna14.
– Quer boja de Margutte, che ccarogna?
– Fa rabbia? Si nun fussi ’n burattino,
ggià sarebbe salit’in cim’ar parco
a ddaje ‘na stranit’a cquer grostino15!
Me ce sento un socchene, patrò Mmarco,
un socché, cche... – Mó ppoi viè Farfarello...
– Zittateve; sinnò nun è ppiù bbello.
E ddit’ un po’, Margutte chi l’ammazza?
Coso… (come se chiama?...) Malaggiggi.
– Nu’ me lo dite… E, ddite, e la regazza?
– Angelica? –Sì. – Pparte pe’ Ppariggi.
– E Orlanno? – More ‘n guera, poveraccio16,
piscianno sangue com’un sanguinaccio17.
– A Pizzangrilloo! – Uh, vvarda Gammacorta!
– Viettene ggiù ‘n pratea, ché discuremo.
– Ciò ‘na migragna, fio, che mme straporta.
– Allora nun te sforzo; se vedemo.
– Quann’è finito, aspetteme de fora,
ché tt‘accompagn’insino a ppiazza Sora.
– Ma ddimm’ un po’, ma la riggina more?
Ah, nno! puzza de cacio! a ll’urtim’atto.
– Chi l’ammazza? – Margutte traditore.
Allora, Orlanno, dice: Ah mmentecatto!
Eh llì zin! mette mano a Ddurlindana,
e succede ‘na scarica pu...18
-
-
-
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13
Ms: Mucchetto.
Unghia.
15
Bellimbusto, scapestrato, scavezzacollo.
16
Ms: sconsolato.
17
Ms: altra lezione per l’intero verso: Nun me lo dite. – Adesso c’ho spicciato!
18
Ms: puttana.
14
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598
introduzione
Perfidi Maganzesi, orsù, moriamo:
zin, zin, zin!... – A fregnone19 te stai fermo?
m’inficozzi er cappello: nu’ scherzamo.
– Scusate; me pareva ch’era l’ermo
de Margutte ‘r gigante musurmano.
– Mbè ccerca a statte fermo co’ le mano.
SICONN’ATTO
Orlando e Rosavia (svenuta)20
– Piangi, o Rosavia, ché ne hai ben donde.
Non potevamio avere maggior danno:
pur’ io veggio le piaghe tue profonde,
e, nel vederle, piango e mi ci danno!
O Musulmani! o pperfida arroganza!...
– Nun vedi Lei? se st’a grattà la panza.
Chi parla? Chi, sì dolci accenti espone?
Son io, Rosavia. – Tu? Dammi un abbraccio
– Ohé nu’ j’attastam’er cornicione!21
– Finché il mio stato avrà sì forte braccio,
credimi, Orlando, il riposar mi è caro...
– Dammen’un sordo a mme, bbrusculinaro!22
– Siedi, o Rosavia, e asciuga omai la faccia
Siediti a mme vicino... – No! – E pperché?
– Cià ’n pedicell’ar culo, poveraccia.
– Potevi confessarlo pria con me.
E perché mai nasconderlo, o Reggina?
– Già! mó ppe’ llui se mette a columbrina 23.
19
Ms: Regazzo
Questa didascalia non è presente in Ms.
21
N. d. A.: Il seno.
22
Ms: altra lezione per questi due ultimi versi: Non temo questi cani rinnegati... / Potemo dormì puro ariposati.
23
Mettese a columbrina: mettersi carponi, poggiando in terra mani e ginocchia.
20
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-
1. introduzione
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– Quest’ è dunque la fede che mi serbi?
sposar non mi vuoi più?! Giuro al demonio!...24
– Orlando, pensa ai miei dolori acerbi.
Sai tu ch’effetto faccia il matrimonio?
– Fa ttritticà le tavole de lletto.
– Lo sapeva; e per questo non l’ ho detto:
Lo sapeva, ch’eredi tu non vuoi,
per lasciar la corona al re di Francia.
M’abandonarmi, tu, no, non lo puoi!
pensa, che perdi omai la miglior lancia,
pensa... Ma, veggo il re Carlon che viene;
per non farlo incagliar piantarla è bene.25
Carlone e Rosavia.
– Salve, o Rosavia, sira di Maganza;
mi duole del reo caso ch’ ho saputo;
ma, se tu poni in me la tua fidanza,
sarei il tuo marito il più... – Cornuto!...
– Quanno parla, ‘sto bboccio de Carlone,
par’un gatto che cciàncica ‘r pormone?
– E mmosca! – E zzitti! – E state quieti, state;
accidentaccio pur ‘a le crature!
– E ffermi, regazzì; nun intruppate:
‘sta sera famo quattro bott’ a ccure.
– Sta ffermo co’ le mano! – E cche ssò io?
È stato lui; io sto p’er fatto mio.
Lla, ttu che rughi tanto, fatt’avanti;
te possin’ammazzatte, te sfiguro!
– Chi sfiguri? vardateme garganti!
A mme ccerc’a nun famme tant’er duro…
24
Ms: altra lezione per l’intero verso: Io credea d’impalmarti, ma il demonio!...
Ms: altra lezione per questi due ultimi versi: Zitti, Regazzi: ecco e re fregnone / co’
l’occhiali e tre parmi de pallone.
25
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introduzione
– A ggiuvenotti, otto! Er gatto incaja 26
vedo l’Incarcaserci27 che scannaja.28
– Mondo birbone, unni momento risse!29
Vogliamo smette o nno, brutta ‘anaglia?
– Brav’er Pidalettaroo! – Bbene! – Bbisse!
– Che ssò io? – Che ssò io? Ma llei se sbaglia
– Oggi, di vesti ladri, dio patata,
se dura, se n’ ha ffare una retata.
LA RECITA DE DOMANI
Rispettabbile pubblico, domani
s’ arippresenterà quella tremenna30
stragge31 di Roncisvalle dei cristiani32 ,
co’ la morte d’Orlando in de la tenna.
− C’entra Arlecchino? – Ah no! c’entra sicuro,
ce fa la parte de Morgant’ er duro.
Vederete, regazzi, che ttraggedia!
Sciabbolate de cqua, sleppe de llà…
Cose, dico, da facce ‘na commedia.
Venite, che cc’ è ppuro da magnà.
− E Ppurcinella c’entra, eh sor Capanna?
− No: ccentra la frescaccia che vve scanna!
Nun finisce de dì ‘sta parolaccia,
che j’hanno còrto ‘na torsata ’n faccia 33.
26
N. d. A.: Gergo furbesco; all’erta che viene il questurino!
.N. d. A.: Il questurino.
28
N. d. A.: Osserva.
29
N. d. A.: È un toscano.
30
Ms: altre tre lezioni per questo verso: [1] si rappresenterà quella tremenda. [2] faremo
‘na traggedia più tremenda. [3] faremo ‘na traggedia la più orrenda.
31
Ms: sconfitta.
32
Ms: altra lezione per questo verso: Roncisvalle, o la stragge dei Cristiani.
33
Ms: altra lezione per questo verso: che je cojesse un torzo su la faccia.
A
ltra lezione per l’intero distico: Ve vedo veh! Chi l’ha tirato er torso? / Si m’accorggio
[altra lezione: si vengo llà] ve fo strillà soccorso.
27
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1. introduzione
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− Belli gusti de c…! chi è stato? 34
− Màgnatelo pe’ ccena, patirai!35
− Io patirai? ma sò ttant’abbottato,
de vino, e de magnà, che nun sia mai36
v’ariggettass’ in bocca37, fii d’un cane,
ce state bbene du’ ggiornate sane 38 .
21 Febbraio 1882.
34
Ms: altre tre lezioni per questo verso: [1] Regà sto torso qua, chi l’ha tirato? [2] Che
belli gusti chi me l’ha tirato? [3] Io vorebbe sapé chi l’ha tirato.
35
Ms: altra lezione per questo verso: Magnatevelo voi sor patirai.
36
Ms: altre due lezioni per questo verso: [1] tanto ripieno che, si nun siamai. [2] che
m’esce per de l’occhi nu’ sia mai.
37
N.d.A.: Questo è il rinfresco solito.
38
Ms: altra lezione per questo verso: ce state bene un par de settimane (1). [N. d. A] (1)
(Variante) Ce state bene du’ giornate sane.
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INDICE
Presentazione Marcello Teodonio
5
Che ne è del romanesco di Giggi Zanazzo? Claudio Giovanardi
11
«E ppoi dicheno che ar teatro fanno ride»: introduzione
al teatro di Zanazzo Laura Biancini
21
«Er fatto succede a Roma»: il teatro di Zanazzo
tra palcoscenico e memorie d’archivio Paola Paesano
47
Avvertenza
79
Li Maganzesi a Roma
Pippetto ha fatto sega
La Guida Monaci
L’amore in Trestevere
‘Na dichiarazione d’amore pe’ la Regola
Evviva la migragna!
Essere o non essere
Li Carbonari
Fanatica pe’ llegge li romanzi
Zitellona
Elettori infruventi
Accidenti alla prescia!
Er pizzardone avvilito
La famglia de la cantante
La socera
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Doppo el 20 settembre
Giulio Cesere
La serva socialista
Parlare di un socialista alla moglie
493
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Appendice
Un’infornata ar Teatro Nazionale
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