Academia.eduAcademia.edu

Nella selva del simbolico: per una lettura di "Eyes Wide Shut"

2017

La ricerca (presentata in occasione dell'esame di stato) si propone di analizzare da un punto di vista filosofico l'ultimo film di Kubrick. Il testo è da annoverare tra le bozze (drafts).

Liceo Classico Govone (Alba) NELLA SELVA DEL SIMBOLICO Per una lettura di “Eyes Wide Shut” Nicolò Germano, IIIC Esame di Stato A. S 2017/2018 PRESENTAZIONE: perché il cinema, perché il film Non ho scelto a cuor leggero il tema della tesina: è difficile riuscire a coinvolgere tutti, ma ancor più difficile riuscire a trovare un argomento che appassioni noi, davvero. Sicuramente il cinema (con la letteratura) è uno dei miei “porti sicuri” e sarei naufrago in una notte atlantica senza il faro dei film e dei libri. Individuato il macro-argomento, si entrava nel difficile: di chi, di cosa parlare? Se il mio regista preferito è, senza ombra di dubbio, Sergio Leone, per la maestria tecnica e la profonda poesia di ogni sua realizzazione, un film che mi ha sempre molto affascinato è, appunto, Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. Un’opera complessa, che non consente – fortunatamente!- una lettura unilaterale, anche a causa dell’inaspettata morte del regista in fase di post-produzione. Anche per questo motivo il film ci porta a riflettere sulla potenza dell’Immagine e sull’impossibilità di interpretarla in modo univoco attraverso la presa concettuale della ragione. Da film postumo si è presto trasformato in film orfano: la critica non ne comprese immediatamente la portata artistica e concettuale, stroncandolo come un film d’interni borghesi venato da un forte erotismo. Ecco, ritengo che ora, a distanza di quasi vent’anni dall’uscita nelle sale, “Eyes Wide Shut” meriti un profondo ripensamento: non solo una serena accettazione tra le opere più riuscite del regista, ma anche una critica puntuale e de-costruttiva, per riuscire ad entrare – almeno in parte- nei meccanismi sottesi all’opera, cercando di individuare alcuni dei punti nevralgici e centrali di questo “testamento artistico”, anche a fronte di una più globale conoscenza del pensiero e della poetica filmica propria di Kubrick. Questo lavoro vuole quindi essere uno studio delle vicende che hanno portato il grande regista alla lavorazione del film e si propone, quindi, anche di tracciare alcune linee guida imprescindibili non solo per la comprensione di “Eyes Wide Shut”, ma dell’intero universo del regista. UNA VITA PER LE IMMAGINI: una filmografia come biografia Stanley Kubrick, il regista più importante della storia del cinema, non ha certo bisogno di presentazioni. Ma nonostante tutti i fiumi d’inchiostro versati sulla sua poetica, sui suoi film e, più banalmente, sulla sua vita, continuiamo a trovarci di fronte ad un enigma, impossibile da svelare. Ad ogni nuova visione, le sue opere suscitano in noi stati d’animo diversi e difficilmente catalogabili: ammirazione per la sublimità tecnica e compositiva, sottile inquietudine o vera e propria paura per la violenza delle trame, ma anche fascinazione per un’ironia sotterranea e pervasiva. Non riusciamo, insomma, ad esprimere a parole quello che proviamo, ed è proprio questo, credo, lo scopo di Kubrick: accompagnarci per mano là dove le parole non possono ed abbandonarci –per poco, la durata della pellicola- in questo brodo primordiale che è il regno dell’Immagine. Siamo costretti a vedere, ma poi, dopo, non riusciamo a dire ciò che abbiamo visto: è una visione disgiunta dall’apprendimento; non “vedo, dunque so”, ma “vedo, dunque m’interrogo e capisco di non aver capito”. Cerco di spiegarmi meglio: alla fine di “Eyes Wide Shut” ho indubbiamente visto un film (un susseguirsi fluido d’immagini), con una trama non eccessivamente complessa e una storia tutto sommato lineare, quasi canonica, eppure mi rendo conto che non può essere solo quello il messaggio di Kubrick, intuisco – è un’intuizione- che deve esserci dell’altro, ma non so dirlo. Ecco il “gioco” della poetica kubrickiana: portarci a riflettere sulla potenza dell’Immagine – che è veramente, eternamente- e sull’inanità del logos, parola e pensiero. La biografia di un’artista sono le sue opere: in questo caso nulla di più vero. La vita del regista, infatti, non è particolarmente significativa è, anzi, volutamente noiosa e ripetitiva: l’esilio in Inghilterra, poi nella residenza in campagna a Childwickbury sono un tentativo di evadere un mondo che sente estraneo e nemico (i suoi film lo dimostrano) e di (ri-) costruire un’armonia interiore. Nato a New York nel 1928 da genitori di origine ebraica, frequenta – con scarso profitto- il liceo; in questi anni, si appassiona visceralmente alla fotografia, alla lettura (legge Nietzsche in gioventù, scoprirà Hegel nella maturità) ed al gioco degli scacchi. Nel 1945 inizia a collaborare alla rivista fotografica “Look” (“guarda, sguardo”: con gli occhi fissi allo specchio, un poco incupito, ci regala un autoscatto con la sua fedele Leica) e, con un budget ridottissimo, nel 1949 entra -dalla porta di servizio- nel mondo del cinema con due cortometraggi documentaristici, “Day of the Fight” e “Flying Padre”, che ottengono un discreto successo. Nel 1953, abbandonata la carriera da fotografo, dirige il suo primo lungometraggio, “Paura e desiderio”, “un film fantastico che ambiva ad essere un documentario della mente”. E. Ghezzi, Stanley Kubrick , Il Castoro, Milano 2007, p. 14. È del 1955 “Il bacio dell’assassino”, conturbante noir, pregno di raffinatezze fotografiche e distaccato manierismo. Nel 1956 incontra il produttore James Harris, che finanzia “Rapina a mano armata”. “impresa…simpatica…bisogna lodare l’ingegnosità dell’adattamento, che utilizzando sistematicamente la de-cronologia delle azioni, riesce ad interessarci ad un intreccio non particolarmente innovativo”. J.L. Godard, in Cahiers du cinéma, 1958.. Grazie all’intervento di Kirk Douglas, nel 1957 la United Artists finanzia per 935 mila dollari “Orizzonti di gloria”, “film sulla costruzione della guerra e sul suo funzionare”. E. Ghezzi, op. cit., p. 44. E non semplice parabola antimilitarista; nel 1960 prosegue la felice collaborazione con Douglas nel poco felice kolossal “Spartacus”. L’adattamento – se così vogliamo definirlo- del romanzo di Nabokov è del 1962 mentre risale al 1963 “Il dr Stranamore”: entrambi film “erotici”, incentrati sulla figura dell’ossessione. Il film pour excellence di Kubrick è girato nel 1968 e, dalla sua uscita nelle sale, non ha smesso di interrogare critici, filosofi o semplici spettatori: “2001: Odissea nello spazio” è veramente un punto di svolta e della storia del cinema e della Storia tout court; un film che “resta isolato e solitario, senza eredi, ancorato come pietra centrale nella cultura popolare e come una pietra non più assimilata”. S. Toffetti, Stanley Kubrick, Moizzi Editore, Milano 1978, p. 43.. Data 1971 “Arancia Meccanica”, film-scandalo, film-grido, ma non film-denuncia: tutto avviluppato in un gusto baroccheggiante e distopico è in realtà completamente inserito nel contesto socioculturale dell’epoca e di esso interamente si nutre, tanto da risultare il lavoro di Kubrick meno contemporaneo e più superato. Dopo anni di preparazione e lavorazione esce, nel 1975, il film più importante del regista (assieme a “2001” e “Eyes Wide Shut”), il monumentale “Barry Lyndon”: letto da una certa critica come “mirabile esercizio di calligrafia” ed accusato di “figurativismo masturbatorio” è, per dirla con Ghezzi, un esperimento sulla possibilità di rappresentare la Storia col cinema e con la musica e sul senso del Cinema e della Storia E. Ghezzi, op. cit., p. 115 e passim. “Shining” (1980) esplora l’Unheimlich, ciò che da familiare ed abituale si trasforma in estraneo, perturbante; lo sguardo- occhi, occhi dappertutto nella sua filmografia- congelato di Nicholson sembra guardare-oltre, “OVERLOOK”, mentre il labirinto – che già etimologicamente prefigura l’ascia- è forse la geniale mise en scène del labirinto che più di tutti interessa al nostro regista-mente (Deleuze). I tempi di lavorazione si fanno sempre più lunghi, esasperanti: sette anni separano “Full Metal Jacket” dal film precedente. La già debole fiducia che il regista di “Sentieri di gloria” provava per l’umanità, viene completamente meno con quest’opera fredda, disincantata, nichilista: “vivo in un mondo di merda, ma sono vivo e non ho paura”. E’ “Eyes Wide Shut”, la “cifra 13” (Ciment), il testamento del cineasta, il suo commiato dal mondo e dal Cinema: uscito postumo nel 1999, è il film sul quale ci soffermeremo nella seguente trattazione. DORMIRE, FORSE SOGNARE: una sinossi Bill (Tom Cruise) e Alice Harford (Nicole Kidman) sono una coppia della middle-class newyorchese, medico lui, gallerista lei: hanno una figlia, Helena. Partecipano ad una festa natalizia a casa del multimilionario Ziegler (Sydney Pollack), nella quale de facto nulla accade, ma tutto sarebbe potuto accadere. Un attempato corteggiatore seduce Alice con i versi di Ovidio, mentre il medico flirta con due modelle; quest’ultimo riconosce nel pianista un compagno di università, Nick Nichtingale. L’ospite chiede aiuto a Bill visto che Mendy, la ragazza con la quale si era appartato, è finita in overdose: ovviamente è richiesto il massimo riserbo (non ho visto quello che ho visto). Al ritorno a casa, davanti allo specchio i due coniugi si scambiano appassionate effusioni, ma senza mai guardarsi – direttamente- negli occhi. L’indomani sera, dopo essere entrati nella loro quotidianità, assistiamo alla “frattura”: a letto, fumando marijuana, Alice confessa che, durante le vacanze estive a Cape Code, avrebbe anche rovinato il loro matrimonio pur di poter passare una notte con un ufficiale di Marina. Turbato dall’inattesa confessione, Bill non può che rimuginare da solo sull’accaduto, perché è chiamato d’urgenza per il decesso di un suo paziente. La figlia dell’uomo, al capezzale del defunto, gli dichiara il proprio amore: è notte, ma il medico non ritorna a casa, passeggia per la città tormentato dalle immagini – viste con gli occhi completamente chiusi, in un bianco e nero bluastro e penetrante- del tradimento. Incontra una prostituta, Domino, che vorrebbe possedere, ma non riesce a realizzare il proprio desiderio: la paga senza aver finito nulla. Nel proseguio della flanerie s’imbatte nel locale dove suona Nichtingale. Da lui viene a conoscenza dell’imminenza di una festa segreta, in maschera, in una villa solitaria, dove per entrare è necessario conoscere la parola d’ordine, “Fidelio”. Incuriosito, Bill va alla ricerca di un costume “dove finisce l’arcobaleno”: lo trova, ma con esso si imbatte in una curiosa situazione di pedofilia. La figlia del commerciante che affitta “le maschere” è scoperta in atteggiamenti discinti con due giapponesi: il padre chiude a chiave il terzetto minacciando di chiamare la polizia. Il medico riesce a raggiungere il maniero, nel quale si sta svolgendo un’orgia. Riconosciuto da una donna ed invitato ad andarsene, è accerchiato dai partecipanti che lo minacciano di morte, ma interviene in sua difesa la ragazza misteriosa, che si sacrifica al suo posto. Tornato a casa, Alice gli racconta un sogno: sotto gli occhi di lui, stava facendo l’amore con molti uomini, e rideva per schernirlo. Poi si mette a piangere e lo abbraccia. Il giorno dopo, Bill vuole scoprire la verità sulla sera appena trascorsa: rintraccia l’albergo del pianista, solo per scoprire che ha lasciato la stanza di buon mattino, accompagnato da due loschi figuri e con diversi ematomi sul viso. Torna quindi all’“Arcobaleno” per restituire il costume, ma si accorge di non trovare più la maschera; capisce inoltre che la ragazza si prostituisce per conto del padre. Ritorna allo studio ma, tormentato dalla gelosia, raggiunge il castello della sera prima: qui, attraverso una lettera, gli viene intimato di interrompere le ricerche. Cerca allora Domino, ma trova solo Sally, una collega della giovane: la sua amica se ne è andata, contagiata dal virus HIV. Pedinato da un uomo misterioso, si rifugia in un bar; qui viene a sapere da un giornale della morte di una modella per overdose. Recatosi alla morgue, riconosce nel cadavere la donna della sera prima (“potrebbe costarmi la vita, e forse anche la tua”, diceva durante l’orgia). Riceve una telefonata da Ziegler, funesto demiurgo della situazione. Mentre gioca a biliardo, il milionario confessa al giovane medico che era presente al “rito”, che la morte della ragazza era veramente dovuta ad un’overdose e che Nick stava bene, a casa dalla moglie: si era trattato, insomma, di una grande messinscena, un gioco per spaventarlo. Inoltre la festa era piena di persone importanti ed influenti, ed è quindi invitato – nuovamente- al silenzio. Rincasando, Bill trova Alice addormentata, ma con la maschera appoggiata sul cuscino. In lacrime, promette alla consorte: “ Ti racconterò tutto” (ellissi sull’unico racconto di Bill). La vita torna a scorrere normalmente: i due accompagnano Helena ai grandi magazzini, per scegliere i regali di Natale. Soli, uno di fronte all’altro, guardandosi negli occhi, si chiedono cosa fare, ora. Alice dichiara solennemente che non possono che ringraziare il Destino per essere ancora vivi, al sicuro da tutte le loro avventure, quelle vere e quelle sognate soltanto. Ora non rimane un’ultima cosa, “molto importante, che dobbiamo fare il prima possibile”. “Che cosa?” domanda Bill; “Scopare” risponde Alice. Stacco sul nero. Titoli di coda con il Waltz n.2 della Jazz Suite per orchestra di Shostakovich. TRA SCHNITZLER E KUBRICK: ragioni di un adattamento La fascinazione di Kubrick per la “Traumnovelle” risale agli anni di “2001”, ma il rapporto- un vero “cordone ombelicale”- che lo lega a Schnitzler nasce già nel 1959. Secondo Dalton Trumbo L’intervista a Dalton Trumbo, pubblicata in “Positif”n.64/65, aprile-maggio 1964, è citata in Dottorini 2017, 76. (regista e amico di Kubrick) l’allora giovane regista struttura il legame tra Spartaco-Crasso non come semplice antagonismo, ma già come un rapporto speculare, desumendolo proprio dalle opere- e dalla vita- dello scrittore viennese. Nel 1968 il regista aveva preso in considerazione l’idea di trasporre sullo schermo il racconto e nel 1971 ne aveva perfino acquistato i diritti: prima di vedere la luce, però, il progetto dovette languire per quasi trent’anni. Scoraggiato dalla moglie, che considerava il testo “paccottaglia psichiatrica”. N. James, At home with the Kubricks, cit. in Phillips ibidem. mise da parte la lavorazione del film anche per la difficile resa di alcuni dei punti più importanti del plot: la scena dell’orgia e le sequenze oniriche. Rimane comunque un sorprendente coincidenza: Schnitzler scrisse, dopo molti anni di lavorazione, il breve romanzo a sessantatré anni e Kubrick iniziò il film alla sua stessa età. Entrambi, inoltre, avevano origini ebraiche (così importanti, ben che sapientemente celate, nel film Cfr. l’analisi del film condotta da M. Ciment, Kubrick, Rizzoli, Milano 1999.) e Kubrick è, da parte di padre, di ascendenza asburgica: da qui la costante attrazione per la cultura europea, in ispecie germanica. Non è un caso che esordisca col cinema noir, genere d’elezione degli immigrati tedeschi ad Hollywood: film polizieschi ma venati da un forte espressionismo e con un grande interesse per l’approfondimento psicologico; è qui che si sfalda la dicotomia buono-cattivo di tanto western, l’eroe diventa un antieroe, un uomo a tutto tondo, con le sue complessità e “brutture”. Naturalmente, le prime opere filosofiche (Nietzsche, Freud), letterarie (Musil, Broch, Zweig, Schnitzler) ed artistiche (Klimt su tutti) che si muovono in questa direzione appartengono tutte all’Apocalisse Gioiosa della Vienna fin de siècle: “Kubrick era sensibilissimo a quella visione del mondo secondo la quale le ambiguità della natura umana (bene e male indissolubilmente mescolati) rispondono all’inquietante ambiguità dell’universo”. M. Ciment, op. cit., p. 270.. Tra quella produzione magmatica e sterminata, il regista viene colpito immediatamente (se volgiamo tralasciare un’infatuazione per “Adolescenza” di Zweig, che risale però al 1951), come abbiamo già visto, dall’agile racconto del laringoiatra viennese. Arthur Schnitzler (1862-1931), figlio di un medico ebreo, dal quale ereditò la professione, si appassiona fin dagli studi universitari alla letteratura ed al teatro. Autore prolifico, si dedicò con particolare attenzione al racconto lungo (“Il sottotenente Gustl”, “La signorina Else”, “Il ritorno di Casanova” e, appunto, Traumnovelle) ed alla produzione teatrale (memorabile il suo “Girotondo”). Nel 1907 abbozza il nucleo di quello che poi sarà “Doppio sogno”( nella traduzione di Giuseppe Farese), e lo intitola “Dopplenovelle” (“Doppia novella”, riferendosi alle due storie parallele che si svolgono nel testo); nel 1926 lo ripubblica, dopo molte esitazioni, come Traumnovelle, “Novella del sogno”, in una raccolta dalla significativa dicitura Die Erwachend, “Coloro che si svegliano”. La storia narrata nel film e nel libro è la stessa- tranne alcune modifiche, in un certo senso sostanziali per l’opera kubrickiana, che comunque non lo allontano eccessivamente da Schnitzler- ma l’adattamento di un testo simile si prospetta come “una sfida per un cineasta per il fatto che ciò che non succede è molto più importante di quello che succede” M, Chion, Stanley Kubrick l’umano, né più né meno, Lindau, Torino 2006, p. 491.. Il problema era come tradurre in immagini frasi sospese, silenzi, pensieri, sogni simbolici costruiti a tavolino e, onestamente, vecchi e fuori contesto. La novella – e l’opera di Schnitzler- è certamente influenzata dalle recenti scoperte freudiane, ma l’assetto psicanalitico proposto da Schnitzler non era compatibile con quella di Freud. “Non accordo all’inconscio una eccessiva autorità- gli interpreti svoltano troppo sollecitamente in questa strada” annota il 9 marzo 1915 sul suo diario; diventerà ancora più radicale in seguito, sostenendo l’esistenza di “ un territorio fluttuante tra conscio ed inconscio, il campo più vasto della vita psichica ed intellettuale”: il medioconscio. Questa “scoperta” risulterà fondamentale per tutti i suoi lavori successivi, in primis “Doppio sogno”: in effetti per Schnitzler la vocazione del poeta è quella di “tracciare quanto più decisamente è possibile i limiti tra conscio, semiconscio ed inconscio”, e in quel testo sembra procedere decisamente in questa direzione. Freud riconosceva al suo collega “ una raffinatissima autopercezione, un intuizione che Le ha permesso di sapere tutto quello che io con un lavoro faticoso ho scoperto negli altri uomini”, ma non andava oltre: egli era sì “ un ricercatore della psicologia del profondo, così onestamente imparziale e impavido come non ve ne sono stati altri”, ma non era uno scienziato; “Ho molto riflettuto sulla Sua Traumnovelle” Tutte le citazioni, e parte delle conclusioni, sono tratte dall’importante saggio postfativo di Giuseppe Farese all’edizione da lui curata di “Doppio Sogno”, per i tipi Adelphi. scriverà nel 1926, ma non approfondisce la questione, certo della superiorità del sistema che andava creando. Come abbiamo dimostrato, quindi, è ingiusto relegare l’opera di Schnitzler all’ombra della coeva esperienza psicanalitica: si tratta di un autore fortemente autonomo e libero, proprio come autonome e libere risultano essere le sue creazioni. Per dirla in altri termini, l’innovazione di S. è la trasfigurazione in chiave estetica di un apparato (quello psicanalitico) profondamente scientifico: nei suoi testi sono già, in potenza, le innovazioni cinematografiche ( nel 1913 viene tratta una pellicola da una sua opera); essi sono “uno straordinario serbatoio di forme”, come nota Dottorini. Kubrick, con la mediazione di Schnitzler, attua, potremmo dire, un ritorno ai primordi del cinema: emancipandosi dalla parola- che non riesce ad essere portata sullo schermo, perché può solo essere detta- è l’Immagine ad imporsi, “proiettando il suo contenuto direttamente sullo schermo, sostituendo l’occhio dello spettatore alla coscienza del personaggio, che non ha bisogno di essere descritto” E. Panofsky, Tre saggi sullo stile, Abscondita, Milano 2015, p. 74.. Affascinato forse proprio dalla chiara ambivalenza della novella, che non permette un adattamento “fedele” perché allo stesso tempo troppo semplice ( la storia sarebbe risultata banale) e troppo complessa, (rappresentare l’orgia senza scadere nella pornografia, tradurre espressioni e sentimenti intraducibili, quindi unicamente rappresentabili), Kubrick vive un’impasse. Se in un primo momento sembra propendere per un film in costume ambientato in Inghilterra M. Chion, op. cit., p. 493., si decide poi per trasporre il plot in una New York contemporanea, faro della modernità, perfetto contraltare della Vienna cosmopolita di allora. La città si trasforma in un labirinto, un groviglio di strade, di smarrita solitudine, quasi la proiezione di un elusivo e tormentoso andirivieni, un avvolgersi intricato che sfiora l’allucinazione: perfetta ambientazione per una “Prufung Per narrazione a Prufung si intende una serie di “prove” nel corso delle quali, attraverso il modo in cui il protagonista le supera, viene dimostrata l’etica personale e culturale del protagonista (cfr. Everyman, Wilhelm Meister) postmoderna”. Agli inizi degli anni 80 pensa di contattore, per il ruolo che poi sarà di Tom Cruise, Woody Allen, “il prototipo dell’ebreo” F. Raphael, Eyes Wide Open, Einaudi, Torino 1999, p. 125., ma l’ipotesi è velocemente scartata: il carattere ebraico del film non deve risultare così palese, deve dimorare sotterraneo. Preoccupato forse per il carattere “desueto” della storia, uno spaccato di crisi coniugale, legge- a detta della moglie- molti saggi di etnologia, quasi tutti sullo stesso tema: “La domanda più importante che un uomo si pone è quella sulla paternità: venire a sapere che i suoi figli non sono suoi” M. Chion, op. cit., ibidem.. Dopo l’uscita di “Full Metal Jacket” lavora a due progetti, “A.I.” Interessante, in questo senso, l’interpretazione “cristologica” avanzata da Michel Chion (2006, 558), che individua un fil rouge tra tre lavori del regista, “2001” “A.I.” e “E.W.S.”: se il feto astrale è il frutto spirituale della discesa dello Spirito Santo nel corpo di un vecchio, il protagonista (colui che vede e riferisce la storia) di “E.W.S.” sarebbe un bambino che deve ancora nascere- siamo a Natale, ma questa volta da una coppia mortale, e mortale lui stesso. E’ il tema del figlio maschio e della paternità che tanto ossessionò Kubrick, ma l’ipotesi- pur sempre affascinante- ci sembra peregrina. ( poi diretto da Spielberg) e “Aryan Papers”, un film sull’Olocausto (un’ebraicità tormentata, quella del regista) poi abbandonato a causa dell’uscita di “Schiendler’s List”; senza l’assillo di contratti e produzioni, Kubrick riesce finalmente a dedicarsi alla “cifra 13”, il film che lo tormentava oramai da trent’anni. Nel 1994, alla ricerca di un co-sceneggiatore, contatta Frederic Raphael, scrittore sceneggiatore e regista “europeo”, che aveva già conosciuto a Londra nel 1967, in una cena da amici. E’ un uomo colto, grande conoscitore della letteratura e della storia antica (nel film si ritrovano rimandi ad Ovidio, ma anche a Svetonio per le scene dell’orgia), ebreo. La collaborazione non è facile: la maniacale ritrosia di Kubrick non permette che saltuari incontri, la gran parte del lavoro è svolta tramite fax o telefono F. Raphael, op. cit., p. 116. . Una prima lettura dell’opera non sembra convincere lo sceneggiatore, preoccupato dalla storia “polverosa” e dal minuzioso attardarsi dello scrittore sulle esperienze oniriche; rimane incerto anche sull’attualità del rapporto uomo-donna proposto (per Kubrick- secondo Raphael - “le cose non sono cambiate”). Il regista ha come direttiva l’assoluta fedeltà a Schnitzler, non tanto per la storia in sé, ma- ci sembra- per la forma: il lavoro che, attraverso la mediazione della novella, Kubrick svolge è un poderoso “ripensamento della forma cinematografica” S. Ciruffoli, Eyes Wide Shut, Falsopiano, Alessandria 2003, p. 25., un reworking sul suo stesso cinema. “Eyes Wide Shut” si trasforma poco per volta nel film-occhio di un regista-mente, un laboratorio nel quale sperimentare il limite della forma e la potenza dell’Immagine, che la trascende e trapassa. Anche nel suo memoriale Raphael non sembra accorgersi di questo punto: insiste sulla volontà di Kubrick di girare un film sulla sessualità coniugale, ancora mai trattata nella sua filmografia e poco sviluppata nel cinema in generale. La sessualità vista sullo schermo era più che altro di tipo sensuale (Bertolucci, Malle, Truffaut), mentre nel matrimonio questa sfera sembrava sopita. Alla seconda riscrittura (ce ne saranno quattro) i due sembrano aver trovato un accordo: l’intero film sarà impregnato da un carattere onirico- come già lo era il racconto , con un netto taglio ai sogni- ma i fantasmi di Bill e i sogni di Alice devono essere ben distinti dalla realtà, perché “non esiste film senza realtà oggettiva” ( lo dichiara lo stesso Kubrick). Inoltre si decide di abbandonare (nascondere, come si è già detto) la componente ebraica del testo: se Nachtingall e Fridolin (il Bill del romanzo) sono degli “ebrei tipo”, quindi degli outsiders, i personaggi del film dovranno risultare perfettamente integrati nella società, essere degli esponenti paradigmatici della middle-class Scelta che, per altro, potrebbe dar adito a letture ideologiche, come quelle proposte da Emiliano Morreale nel suo “Macrofisica del potere” (“Cineforum” 389/9, 1999) o, per certi versi, da Emilio Garroni americana. La scelta del nome stesso del protagonista non è casuale: Bill Harford deriva, per assonanza, dall’attore Harrison Ford, l’eroe americano tipo degli anni ottanta. L’unico personaggio creato ex novo è quello del demiurgo multimilionario Ziegler, impersonato da Sydeny Pollock, demiurgo (in quanto regista) nella vita reale: è lui a dare il via al sogno (la festa) ed è lui a risvegliare Bill, facendolo tornare alla realtà. Ma nel film la sua funzione va oltre: egli è, in effetti, il campione di un teatro di regole non scritte che strutturano la doppia vita- doppia morale- che si svolge all’interno del racconto. In questo mondo non è sufficiente avere gli occhi completamente aperti per vedere: ogni visione si de-oggettivizza, il reale prende forma singolare, e le corealtà non possono comunicare. In alcuni casi si sovrappongono, scontrandosi ( la corealtà del tradimento resa come “monologo indiretto libero”), ed è proprio questa “crisi”, questa rottura a dare il via al racconto. Lo scarto differenziale tra due mondi (Bill-Alice, media- alta borghesia) investe il Reale tutto e struttura un confronto dialettico tra vedere e non vedere, nucleo del film Sono debitore – per alcuni spunti di questa riflessione- di Roberto Lasagna.. LA POTENZA DELLO SGUARDO A partire dal titolo, Kubrick mette in risalto la frattura che caratterizza tutto il cinema dell’immagine-tempo G. Deleuze, L’Immagine-Tempo Cinema 2, Einaudi, Torino 2016. Tradurre l’espressione “Eyes Wide Shut” in italiano non è impresa semplice ma, seguendo la proposta di Curi U. Curi, Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia, Raffaello Cortina, Milano 200, p. 168., si potrebbe rendere come “occhi ben chiusi”, perdendo comunque l’ambiguità semantica dell’originale, che mantiene il senso di una apertura enorme rovesciata nel suo contrario Decisamente più legata al suo senso ossimorico è la resa in italiano di Canova, “occhi aperti chiusi”.. Proprio ponendosi sul solco dell’enigma fin dalla titolazione, il regista americano opera una destrutturazione, una poderosa riflessione su quello che viene detto il cinema moderno, caratterizzato dalla situazione ottica e sonora pura, dove viene rotto il legame senso-motorio tra sguardo ed azione, sguardo e coscienza. Il reale mostrato dal ”nuovo cinema” (a partire dal neorealismo) si mostra via via più complesso, vasto ed incomprensibile, dove “alle certezze dei dati del reale si sostituiscono elementi sfuggenti, unità non comparabili. I dati della percezione non esauriscono le dimensioni del visibile; gli oggetti e le forme dello spazio cominciano ad assumere caratteristiche inquietanti, enigmatiche” G.P. Brunetta, Breve storia del cinema italiano, Einaudi, Torino 2004, p. 188.. I registi si accorgono di questa (im)potenza dello sguardo filmico, la macchina da presa risulta “castrata”, impossibilitata a “vedere”; il personaggio a sua volta non può che uscirne trasformato. Non avremo più un eroe senza macchia né paura ( sul quali molto cinema continua a prosperare, relegato in una specie di anti-realtà), ma “un personaggio diventato una specie di spettatore. Ha un bel muoversi, correre, agitarsi, la situazione nella quale si trova supera da ogni parte le sue capacità motorie e gli fa vedere e sentire quel che non può più essere teoricamente giustificato da una risposta o da un’azione. Più che reagire, il personaggio registra, più che essere impegnato in un’azione, è consegnato a una visione che insegue o da cui è inseguito” G. Deleuze, op.cit., p. 13.. Fridolin- Bill vaga per una New York notturna, preda dei suoi sogni delle sue personali visioni ed incubi: è la sua immaginazione, il suo laborio mentale a filtrare l’immagine che ha del reale. “Eyes Wide Shut” si apre con una situazione voyeuristica (la Kidman inquadrata nuda, di spalle, mentre si prepara per la festa) ed un breve dialogo paradigmatico: “How do I look”, chiede la giovane moglie, pronta per uscire; la risposta- “Perfect”- non si fa attendere, ma Cruise non getta neppure uno sguardo: “You are not even looking at me”. Una martellante “steadycam” accompagna le sequenze iniziali, raggiungendo il suo apice durante la festa natalizia: gli incontri (e gli scontri) della giovane coppia vengono ossequiosamente seguiti da lunghe e complesse carrellate, che guardano vivere i protagonisti. Importante notare (con Dottorini D. Dottorini, op. cit., p. 79.) come tutte queste scene sono immerse in una luce artificiale, che squarta più che illuminare: non aiuta a decifrare ciò che circonda i personaggi, ma li abbaglia, accecandoli e trasportandoli in una dimensione “fantasmagorica” M. Chion, op. cit., p. 454.. L’erranza binaria degli Harford a casa degli Ziegler, accompagnata dalla scopofilia della telecamera, viene esplicitata nella scena dello specchio. Dopo un netto stacco di montaggio festa/casa, la sequenza successiva inquadra Alice ( la figura riflessa dal nerofumo, “Alice dentro lo specchio”), nuda, intenta a togliersi gli orecchini; alle sue spalle si avvicina Bill, che inizia a baciarla. Qui, dopo un lentissimo zoom, lo sguardo della donna inizia a vagare: abbraccia il marito ma non lo guarda, fissa lo specchio, socchiude gli occhi, erra. Gli occhi di Bill fissano con insistenza, amore forse, il corpo della donna, mentre essa, rompendo l’equilibrio di finzione che vige tra attore e pubblico, guarda direttamente in camera. Inizia qui la separazione- spirituale e materiale- tra due “corpi scenici” che fino ad ora erano rimasti sostanzialmente legati, paralleli. Per l’analisi delle sequenze inziali cfr. soprattutto D. Dottorini, op. cit., pagg. 77-79. L’impossibilità di guardarsi è anche tema fondamentale della scena successiva: la confessione del tradimento cerebrale è accompagnata da una suite visiva elaborata da Bill, che si ritrae nella sua propria interiorità. Quello che vede è invisibile alla moglie, agli altri ( alla società), è un’elaborazione psichica che riesce a trasformare in immagini un racconto. Alice non produce immagine, sembrerebbe non vedere: essa è un “calderone” di impulsi, pulsioni, un immenso serbatoio di racconti parole segni e sogni preclusi allo spettatore. Bill, invece, è il campione dell’ Immagine, un faticabile produttore di serialità visive, attraverso le quali cerca di comprendere il mondo che lo circonda; egli, dunque, non può che uscire nel Mondo, essere- nel-mondo, per scoprirlo, attraverso la visione. Come nota Sandro Bernardi S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Nuove Pratiche, Milano 1990, p. 15. “il percorso del protagonista di questo film è presentato come un percorso visivo, un attraversamento simbolico di tutto il mondo metropolitano moderno e forse anche dell’immaginario del nostro secolo, che viene qui delineato nella sua incredibile povertà o nella sua ricchezza solo apparente”. Ma il gioco di Kubrick è ancora più sottile: il vedere diventa conditio sine qua non del conoscere, ma non è sufficiente avere gli occhi ben aperti per poter vedere: il reale è continuamente filtrato e manipolato dall’immaginazione del singolo. Si prospetta così un’interrogazione “sulla possibilità del vedere” Cfr. R. Lasagna, Il mondo di Kubrick. Cinema, Estetica, Filosofia, Mimesis, Milano 2017, p. 139.. Il secolo appena trascorso viene esemplificato da una New York algida, aristocratica, di chiara ascendenza mitteleuropea ( luci ed ombre di una “Apocalisse gioiosa”), abitata da un’ininterrotta sequela di personaggi-tipo, di cliché Come sottolinea Deleuze, non è possibile uscire dal cliché nella rappresentazione., perfetti contraltari dell’esperienza continuamente sospesa tra sogno e veglia del giovane medico. Bill vede e conosce solo questo mondo, già precedentemente esperito; non riesce ad adattarsi alla contemporaneità perché non ha fatto i conti con se stesso ( con il Sé junghiano). In questo senso, è proprio nella scena dell’orgia l’ideale compimento del “cinema occhio” teorizzato da Deleuze. Il giovane medico compie una discesa iniziatica nel proprio inconscio, nel goethiano “Regno delle Madri” Il riferimento è Jung (cfr. Ghezzi), alla ricerca della forza archetipica che muove la Vita. Non può fissare lo sguardo direttamente su questa Verità ( ecco spiegato il bisogno di “maschera”), vagola in corridoi asettici tra copulazioni a loro volta assolutamente de-eroticizzate Chiara la citazione degli “accoppiamenti lunari” da “ Il Casanova di Federico Fellini”, incerto ed insicuro sul da farsi. Da questa discesa il personaggio di Cruise ritornerà come un uomo nuovo, un uomo rinato, finalmente in stretto contatto coi legami ctonii ed inferi che lo relegano alla terra. Tralasciando facili letture psicanalitiche ( che per stessa ammissione dei congiunti non hanno senso di sussistere G. D. Philips, Schnitzler, Freud e Kubrick: Eyes Wide Shut, Rubbettino, Soverio Mannelli 2017, p.13.), possiamo asserire che proprio nel momento dell’orgia il personaggio principale coglie ed intuisce la potenza del suo inconscio, al quale è indissolubilmente legato, nonostante i tentativi di colonizzazione operati dalla società repressiva nella quale è inserito. La scoperta della propria pulsionalità diventa, di riflesso, una tappa necessaria e decisiva per completare finalmente la Prufung postmoderna che sta vivendo. In questo senso si instaura una “filosofia surrealistica sostitutiva”- per seguire la lezione di Starobinski, per la quale l’inconscio diventa “il luogo della verità, dove lo spirito si ricongiunge di nuovo con la propria e in questo modo sana tutte le sue ferite” I. M. Queipo, Estetica surreale in Doppio Sogno e in Eyes Wide Shut, Rubbettino, Soverio Mannelli 2017, p.139.. La scoperta delle catene che inibiscono e limitano spietatamente le più elementari leggi della libido in nome del “progresso della civiltà” sono finalmente scoperte, e si procede- con lo spiazzante finale- verso la più totale liberazione. Pronti ad affermare, di nuovo, la potenza dello sguardo. SOTTO LA MASCHERA Un terzo elemento domina il film, e forse gli stessi Bill e Alice: si tratta della maschera, il “personaggio concettuale” dell’ultima opera di Kubrick. Per “personaggio concettuale”- espressione coniata da Deleuze e Guattari- si intende non solo una realtà concreta, fisica (un attore, un oggetto), ma addirittura ciò che pervade interamente il discorso filmico di un autore. In Kubrick, regista-mente, i personaggi concettuali sono sempre venuti a costituire l’orizzonte e la forma stessa del film (labirinto, trincea, maschera), come sottolineai. Un cinema, dunque, che opera e “si fa” tramite forme- i personaggi di cui sopra- che permettono di visualizzare il movimento stesso del concetto. L’ultimo, in ordine cronologico, di questi “personaggi concettuali” è la maschera, di cui il film abbonda. Maschere materiali o allegoriche, visibili ed invisibili, capaci però di operare “intellettualmente”, in grado di trasformarsi e di trasformare il film, “biforcandosi lungo il testo manifestandosi all’infinito, attraverso peculiari caratteristiche di mobilità” D. Dottorini, op. cit. p. 81., . Fin dalla locandina del film, abbiamo la martellante presenza di maschere concrete: quelle che vende Milich all’“Arcobaleno”, quelle degli invitati all’orgia. Quest’ultime meritano una particolare attenzione. Dopo l’entrata alla soirée notturna a Somerton, il montaggio diventa rapido, interamente giocato sui primi piani. In dodici secondi si susseguono sei inquadrature; in quattro campeggia una maschera nel centro, nelle altre due sono molteplici, alcune femminili. In totale vengono mostrate dodici maschere in primo piano, e un numero indefinito tra la folla degli spettatori. Il computo è stato effettuato in K. Cohen, Erotica, epistemologia, etica: Eyes Wide Shut come Prufung postmoderna, Rubbettino, Soverio Mannelli 2017, p. 57. Le maschere sembrano suggerire un significato velatamente allegorico, esattamente come quelle dei sette vizi capitali presenti nel “Metropolis” di Fritz Lang (1926). L’operazione kubrickiana si pone sulla scia della pratica, invalsa in età tardomedievale, di assegnare valori ed emozioni alle maschere degli attori: se esse hanno una quale funzionalità nel rituale orgiastico- com’è lecito presumere- non possono che suggerire una condanna morale per ciò che sta accadendo, in una chiara rappresentazione d’ipocrisia. Nello stesso momento, infatti, si osserva e si condanna lo spettacolo osservato. Inoltre tutta la sequenza, sprofondata in un’estetica chiaramente surreale, si prospetta come un riepilogativo brassage di momenti salienti della storia dell’arte: quelle dotate di cappello a tre punte rimandano alla Rivoluzione francese (il periodo del Terrore) e alle opere di David e Delacroix, altre- quelle a metà tra il serio ed il faceto- il periodo della commedia dell’arte italiana e il carnevale di Venezia; l’uomo col cappello ci rimanda senza mezzi termini Picasso ed il cubismo, e non mancano smorfie alla Ensor, alla Brueghel ed alla Bosch. Non meno importante notare come la maschera- che necessariamente cela tutto ciò che è profondo- era diventata un mezzo tipico della letteratura fantastica per palesare elementi tipici del sogno nella quotidianità (Mérimées, La Vénus de lle). E’ quasi come se Kubrick volesse sottendere la reciprocità e inter-scambiabilità tra mondo del sogno e mondo della veglia. Alice dorme, ma sul cuscino accanto a lei “riposa” una maschera ridotta a vuoto simulacro, feticcio de-potenziato. Esistono poi maschere grottesche (visi truccati della giovane Lolita del “Rainbow” e dei suoi clienti), parodie o riprese ironiche dei precedenti filmici kubrickiani -“Lolita”, appunto- e maschere invisibili. Tra queste ultime si deve sicuramente annoverare la maschera della quotidianità medio-borghese della famiglia Hardford e dei personaggi che la attorniano, tutti invischiati in un velo di parole e pratiche teso a nascondere ogni parola, ogni sguardo in eccesso che potrebbe lacerare questo Regno del Super-Ego. Un’altra maschera- presente fin dal titolo, come nota Dottorini- è quella della morte (l’occhio chiuso-e-spalancato della ragazza all’obitorio), l’occhio svuotato della maschera funeraria, che fissa, ormai privo di vita, muto, lo sguardo ancora interrogativo (proprio perché vivo) di Bill. “Ormai però avrebbe rivisto solo il corpo, un corpo di donna e un volto di cui non conosceva che gli occhi…occhi ormai spenti.” Schnitzler, op.cit., p. 85. Nella scena finale – ricordata poco sopra- abbiamo tutti e tre i protagonisti presenti nella stessa scena: Bill, in preda al pianto, e Alice, seduti attorno alla maschera. Ecco, questi tre personaggi si prospettano, come già accennato, come veri e propri “personaggi concettuali”. Non figure reali e concrete, dunque, ma tre modi di “farsi” dello sguardo Seguo l’interpretazione proposta da D. Dottorini, op. cit., uno studio sulle possibilità del vedere: tre tipi di sguardi (e quindi anche di cinema) riuniti nella stessa stanza. Alice rappresenta chiaramente lo sguardo del sogno e del mondo onirico, tutto involtolato su se stesso (femme enfant di ascendenza surrealista), in un’interiorità sognante. Bill è lo sguardo impotente- quello dell’eroe moderno, incapace di agire e consapevole dell’impossibilità di vedere (e quindi di conoscere, per etimo). La maschera, silente, è lo sguardo della Morte, la negazione delle due precedenti possibilità di visione. Quest’ultimo sembrerebbe aver riportato la vittoria finale. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA. VV., “Cahiers du cinéma”, 1958. AA. VV., “Cineforum”, n° 389, settembre 1999. AA. VV., “Bianco e nero: Dossier Kubrick”, n°5, 1999 AA. VV., Il doppio sogno di Stanley Kubrick: dalla Traumnovelle ad Eyes Wide Shut, Rubbettino, Soverio Mannelli 2017. AA.VV., Stanley Kubrick, Paravia, Torino 1998. A. Abruzzese, “Cinema e romanzo: dal visibile al sensibile”, in Il romanzo, vol.1, La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001 J. M. M. Aumont, L’analisi del film, Bulzoni, Roma 1996. R. Aragno, Kubrick- storia di un’amicizia, Lindau, Torino 1999. R. Barthes, Sul cinema, Il Melangolo, Genova 1994. B. Balazas, Il film, Einaudi, Torino 1952. R. Bazin, Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 1986. J. Baxter, Stanley Kubrick. La biografia, Lindu, Torino 1999. S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Il Castoro, Milano 2000. G. P. Brunetta, Breve storia del cinema italiano, Einaudi, Torino 2004. G. P. Brunetta ( a cura di), Stanley Kubrick: tempo, spazio, storia e mondi possibili, Marsilio, Venezia 1999. M. W. Bruno, Stanley Kubrick, Gremese, Roma 1999. G. Canova, L’alieno e il pipistrello, Bompiani, Milano 2000. I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi, Torino 1979. F. Casetti, Dentro lo sguardo, Bompiani, Milano 1983. T. Casini, La messa in scena delle maschere, “Cinema Sessanta”,2, marzo-aprile. M. Chion, Stanley Kubrick l’umano né più né meno, Lindau, Torino 2006. S. Ciaruffoli, Stanley Kubrick: Eyes Wide Shut, Falsopiano, Alessandria 2003. M. Ciment, Kubrick, Rizzoli, Milano 1999. U. Curi, La fora dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2004. U. Curi, Lo schermo del pensiero, Raffaello Cortina ed., Milano 2000. E. De Bernardis, L’immagine secondo Kubrick, Lindau, Torino 2003. G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1974. P. Duncan, Tutti i film di Stanley Kubrick, Lindau, Torino 2001. R. Eugeni, Invito al cinema di Kubrick, Mursia, Milano 1995. U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1968. S. M. Ejzenstejn, Lezioni di regia, Einaudi, Torino 1958. S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura, il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2004. F. Fornari, Genitalità e cultura, Feltrinelli, Milano 1983. E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro, Milano 2009. G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino 1976. C. Metz, Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia 1980. C. Metz, La significazione del cinema, Bompiani, Milano 1995. C. Metz, Linguaggio e cinema, Bompiani, Milano 1977. C. Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1989. E. Morin, L’industria culturale, Il Mulino, Bologna 1963. E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Feltrinelli, Milano 1982. P. P. Pasolini, Empirismo Eretico, Garanti, Milano 1972. E. Panofsky, Tre saggi sullo stile, Abscondita, Milano 2015. M. Praz, Il giardino dei sensi, Mondadori, Milano 1975. F. Raphael, Eyes Wide Open, Eianudi, Torino 1999. G. Rondolino, Storia del cinema, UTET, Torino 1977. A. Schnitzler, Doppio Sogno, Adelphi, Milano 1977. S. Toffetti, Stanley Kubrick, Moizzi, Milano 1978. INDICE PRESENTAZIONE UNA VITA PER LE IMMAGINI DORMIRE, FORSE SOGNARE TRA SCHNITZLER E KUBRICK LA POTENZA DELLO SGUARDO SOTTO LA MASCHERA BIBLIOGRAFIA Liceo Classico Govone (Alba) NELLA SELVA DEL SIMBOLICO 17