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Recensione Metafisica Enrico Berti

La recente pubblicazione di una nuova traduzione commentata della Metafisica di Aristotele da parte di Enrico Berti, fra i massimi studiosi di Aristotele e del pensiero antico in generale, va celebrata come un evento importante negli studi classici, non solo in Italia, e si inserisce nel contesto di una rinnovata attenzione rivolta alla tradizione e alla trasmissione del testo di questa opera fondamentale. Benché, infatti, non si abbia a che fare qui con un'edizione critica in senso proprio, che sia cioè basata su un nuovo esame dei manoscritti, Berti ha lavorato su un testo greco che si distanzia talvolta significativamente dalle due principali edizioni novecentesche della Metafisica, quelle di W.D. Ross e di W. Jaeger, normalmente assunte fino a oggi come punto di riferimento essenziale ed esclusivo dai commentatori (pp. v-ix). Seguendo le orme di alcuni studi (di M. Frede e G. Patzig sul libro zeta, di B. Cassin e M. Narcy sul libro gamma) o edizioni (di O. Primavesi del libro alpha, di S. Fazzo del libro lambda, oltre che di O. Primavesi e M. Rashed che preparano attualmente una nuova edizione critica dell'intera opera) degli ultimi decenni, Berti si allontana sistematicamente dalla scelta, operata tanto da Ross quanto da Jaeger, di basarsi su entrambe le famiglie di manoscritti, denominate alpha e beta, a cui, secondo la ricostruzione di D. Harlfinger, si deve la trasmissione del testo della Metafisica, optando di volta in volta, in caso di divergenza, per l'una o per l'altra, per ragioni paleografiche, filologiche o esegetiche. Alla famiglia alpha appartengono alcuni manoscritti del X e dell'XI secolo, i più antichi in nostro possesso, mentre dalla famiglia beta discendono un manoscritto del XII secolo, che tuttavia, a partire dal cap. 7 del libro lambda, riproduce lo stesso testo di alpha, e alcuni manoscritti più tardi, del XIV e XV secolo. In uno dei manoscritti della famiglia beta si trova inoltre il commento di Alessandro di Afrodisia alla Metafisica (II-III secolo), il che ha indotto particolarmente Jaeger a ritenere che esso potesse derivare direttamente da un manoscritto, ancora più antico, letto da Alessandro stesso. Questa ipotesi è stata tuttavia sottoposta recentemente a una serrata critica: il manoscritto in questione parrebbe infatti l'esito di una revisione dell'originale proprio sulla base del commento e dell'interpretazione di Alessandro, alla cui attività sarebbe dunque posteriore, sicché risulterebbe preferibile privilegiare, in caso di divergenza, la famiglia alpha, che dipende forse da un manoscritto utilizzato da un altro commentatore della Metafisica, Asclepio (VI secolo), che, indipendente dal commento di Alessandro, potrebbe ricondurre nientemeno che all'archetipo da cui derivano entrambe le famiglie. In non pochi punti cruciali, osserva Berti (pp. viii-ix), una scelta di questo genere si mostra gravida di conseguenze, perché mette in luce la tendenza, riconoscibile nei manoscritti della famiglia beta e ascrivibile ad Alessandro di Afrodisia, di fornire un'interpretazione teologizzante della metafisica di Aristotele: è per esempio il caso, che vale la pena citare qui, del libro alpha elatton 1, 993b19-23, secondo cui, nella traduzione di Berti del testo della famiglia alpha, «è anche corretto chiamare la filosofia scienza della verità, poiché della <filosofia> teoretica è fine la verità, mentre della <filosofia> pratica <è fine> l'operato. I <filosofi> pratici, infatti, anche quando esaminano come stanno le cose, non conoscono teoreticamente la causa di per sé stessa (aition kath'hauto), ma in relazione a qualcosa e nel momento presente». Ora, nel testo trasmesso dai manoscritti della famiglia beta (e nel commento di Alessandro, 145, 10-20), compare, in luogo del termine aition («causa»), aidion («l'eterno»), sicché in questa versione l'oggetto della filosofia teoretica, secondo Aristotele, non sarebbe la «causa», «Iride», a. XXXI, n. 84, maggio-agosto 2018 / «Iride», v. 31, issue 84, May-August 2018 412 Recensioni ma l'«eterno», così indirizzando verso una lettura teologica della ricerca aristotelica, finalizzata all'indagine dell'oggetto più eminente, e non invece, più semplicemente, alla conoscenza delle cause delle cose. «Cosa» è, infatti, la metafisica o, più esattamente, la filosofia prima di cui Aristotele cerca di determinare i confini, l'oggetto e i principi? Berti ha da tempo mostrato, in non pochi suoi lavori, quanto inappropriata sia la rappresentazione della Metafisica aristotelica come una teologia e di tale posizione propone, in sede introduttiva, una sintesi (pp. xix-xxxi). Se è vero che, nel libro epsilon (1, 1026a18-19), si descrive la filosofia prima come «teologica» (theologhike), ciò non attiene a una sua identificazione con la «teologia» in quanto scienza di dio o del divino, giacché, come è noto, questo termine designa semplicemente, secondo Aristotele, l'insieme di miti e racconti riportati dagli antichi poeti intorno agli dei. Si deve piuttosto constatare che il carattere «teologico» o, più esattamente, «divino» della filosofia prima dipende dal fatto che gli oggetti a essa assegnati coincidono con le cause eterne e fra queste, principalmente, le cause delle realtà «divine», che sono fatte espressamente consistere, in questo passo del libro epsilon, con gli astri e con i corpi celesti in generale. L'oggetto della filosofia prima non è dunque dio, o gli dei, o il «divino» come tale, bensì l'insieme delle cause delle cose che sono, alcune delle quali, per esempio gli astri e i corpi celesti, sono caratterizzate come «divine». Del resto, anche nel libro lambda, tradizionalmente etichettato come programmaticamente «teologico», Aristotele non solo riprende e riassume la sua ricerca intorno alle cause di tutti i generi di sostanza, comprese quelle sensibili, ma soprattutto ribadisce, trattando delle sostanze mobili ed eterne, vale a dire i cieli, che le cause del loro movimento sono una serie di motori al vertice dei quali si situa un primo motore immobile da cui «dipendono il cielo e la natura» (7, 1072b13-14), sicché risulta plausibile intendere la scienza che si occupa di tali motori come una scienza di principi e cause di movimento del tutto, nella quale il «divino» compare come una soltanto delle cause di uno soltanto dei generi di realtà del cui movimento è la causa. D'altra parte, continua Berti (pp. xxii-xxiv), se si esclude che la metafisica aristotelica possa coincidere con una teologia, cioè, ricorrendo a una scansione di matrice scolastica, con una porzione limitata e ristretta (metaphysica specialis) di una più generale scienza ontologica rivolta all'esame di tutte le cose che sono e del loro essere (metaphysica generalis), non è neanche legittimo ammettere che essa si identifichi con quest'ultima e che dunque vada concepita come un'ontologia, e ciò non tanto perché una simile concezione dell'ontologia, e il termine stesso che la designa, appartengono alla filosofia della prima modernità (XVI-XVII secolo), ma soprattutto nella misura in cui la descrizione della filosofia prima come «scienza dell'essere in quanto essere» ampiamente discussa nel libro gamma (e ripresa ancora nel libro epsilon), che farebbe effettivamente propendere in favore di una sua interpretazione ontologica, adempie, secondo Berti, a una funzione ben precisa e limitata, per essere successivamente abbandonata o quantomeno superata. La nozione di «essere in quanto essere» risponde infatti ad alcune delle aporie sollevate nel libro beta della Metafisica, rispetto alla possibilità che le cause prime siano tutte oggetto della stessa scienza, in base all'argomento per cui le cause prime, se sono tali, non possono essere cause di un tipo particolare di ente, bensì di ogni ente indifferentemente, cioè in quanto ente, vale a dire rispetto al tratto essenziale e primo che caratterizza ogni ente, ossia il semplice fatto del suo «essere», che «è». Una volta garantita così l'unità della filosofia prima, la nozione di «essere in quanto essere» come suo oggetto lascia il posto, a partire dal libro zeta, all'esame del primo dei significati dell'essere secondo lo schema delle categorie, la sostanza, di cui occorre cercare le cause: questo dunque, nell'analisi di Berti (pp. xxv-xxxiii), è il filo conduttore della Metafisica di Aristotele e l'oggetto proprio della sua «filosofia prima», la ricerca delle cause prime della sostanza -non dunque l'essere, in quanto totalità universale degli enti, né dio, in quanto ente particolare per quanto più eminente di tutti, ma l'essere in quanto sostanza, che dell'essere esibisce il Rossella Bonito Oliva, Vita ordinaria e senso del comune. Per un'etica dell'opacità, Milano, Led, 2016, pp. 111. Con un linguaggio denso ed evocativo Rossella Bonito Oliva ci conduce, nel testo Vita ordinaria e senso del comune. Per un'etica dell'opacità, attraverso una riflessione, o forse meglio un'interrogazione, o un esercizio, intorno allo spazio o all'orizzonte dell'etica.

Recensioni / Book Reviews Recensioni 411 La «Metafisica» di Aristotele di Enrico Berti Francesco Fronterotta Aristotele, Metafisica, a cura di Enrico Berti, Roma - Bari, Laterza, 2017, pp. 662. La recente pubblicazione di una nuova traduzione commentata della Metafisica di Aristotele da parte di Enrico Berti, fra i massimi studiosi di Aristotele e del pensiero antico in generale, va celebrata come un evento importante negli studi classici, non solo in Italia, e si inserisce nel contesto di una rinnovata attenzione rivolta alla tradizione e alla trasmissione del testo di questa opera fondamentale. Benché, infatti, non si abbia a che fare qui con un’edizione critica in senso proprio, che sia cioè basata su un nuovo esame dei manoscritti, Berti ha lavorato su un testo greco che si distanzia talvolta significativamente dalle due principali edizioni novecentesche della Metafisica, quelle di W.D. Ross e di W. Jaeger, normalmente assunte fino a oggi come punto di riferimento essenziale ed esclusivo dai commentatori (pp. v-ix). Seguendo le orme di alcuni studi (di M. Frede e G. Patzig sul libro zeta, di B. Cassin e M. Narcy sul libro gamma) o edizioni (di O. Primavesi del libro alpha, di S. Fazzo del libro lambda, oltre che di O. Primavesi e M. Rashed che preparano attualmente una nuova edizione critica dell’intera opera) degli ultimi decenni, Berti si allontana sistematicamente dalla scelta, operata tanto da Ross quanto da Jaeger, di basarsi su entrambe le famiglie di manoscritti, denominate alpha e beta, a cui, secondo la ricostruzione di D. Harlfinger, si deve la trasmissione del testo della Metafisica, optando di volta in volta, in caso di divergenza, per l’una o per l’altra, per ragioni paleografiche, filologiche o esegetiche. Alla famiglia alpha appartengono alcuni manoscritti del X e dell’XI secolo, i più antichi in nostro possesso, mentre dalla famiglia beta discendono un manoscritto del XII secolo, che tuttavia, a partire dal cap. 7 del libro lambda, riproduce lo stesso testo di alpha, e alcuni manoscritti più tardi, del XIV e XV secolo. In uno dei manoscritti della famiglia beta si trova inoltre il commento di Alessandro di Afrodisia alla Metafisica (II-III secolo), il che ha indotto particolarmente Jaeger a ritenere che esso potesse derivare direttamente da un manoscritto, ancora più antico, letto da Alessandro stesso. Questa ipotesi è stata tuttavia sottoposta recentemente a una serrata critica: il manoscritto in questione parrebbe infatti l’esito di una revisione dell’originale proprio sulla base del commento e dell’interpretazione di Alessandro, alla cui attività sarebbe dunque posteriore, sicché risulterebbe preferibile privilegiare, in caso di divergenza, la famiglia alpha, che dipende forse da un manoscritto utilizzato da un altro commentatore della Metafisica, Asclepio (VI secolo), che, indipendente dal commento di Alessandro, potrebbe ricondurre nientemeno che all’archetipo da cui derivano entrambe le famiglie. In non pochi punti cruciali, osserva Berti (pp. viii-ix), una scelta di questo genere si mostra gravida di conseguenze, perché mette in luce la tendenza, riconoscibile nei manoscritti della famiglia beta e ascrivibile ad Alessandro di Afrodisia, di fornire un’interpretazione teologizzante della metafisica di Aristotele: è per esempio il caso, che vale la pena citare qui, del libro alpha elatton 1, 993b19-23, secondo cui, nella traduzione di Berti del testo della famiglia alpha, «è anche corretto chiamare la filosofia scienza della verità, poiché della <filosofia> teoretica è fine la verità, mentre della <filosofia> pratica <è fine> l’operato. I <filosofi> pratici, infatti, anche quando esaminano come stanno le cose, non conoscono teoreticamente la causa di per sé stessa (aition kath’hauto), ma in relazione a qualcosa e nel momento presente». Ora, nel testo trasmesso dai manoscritti della famiglia beta (e nel commento di Alessandro, 145, 1020), compare, in luogo del termine aition («causa»), aidion («l’eterno»), sicché in questa versione l’oggetto della filosofia teoretica, secondo Aristotele, non sarebbe la «causa», «Iride», a. XXXI, n. 84, maggio-agosto 2018 / «Iride», v. 31, issue 84, May-August 2018 412 Recensioni ma l’«eterno», così indirizzando verso una lettura teologica della ricerca aristotelica, finalizzata all’indagine dell’oggetto più eminente, e non invece, più semplicemente, alla conoscenza delle cause delle cose. «Cosa» è, infatti, la metafisica o, più esattamente, la filosofia prima di cui Aristotele cerca di determinare i confini, l’oggetto e i principi? Berti ha da tempo mostrato, in non pochi suoi lavori, quanto inappropriata sia la rappresentazione della Metafisica aristotelica come una teologia e di tale posizione propone, in sede introduttiva, una sintesi (pp. xix-xxxi). Se è vero che, nel libro epsilon (1, 1026a18-19), si descrive la filosofia prima come «teologica» (theologhike), ciò non attiene a una sua identificazione con la «teologia» in quanto scienza di dio o del divino, giacché, come è noto, questo termine designa semplicemente, secondo Aristotele, l’insieme di miti e racconti riportati dagli antichi poeti intorno agli dei. Si deve piuttosto constatare che il carattere «teologico» o, più esattamente, «divino» della filosofia prima dipende dal fatto che gli oggetti a essa assegnati coincidono con le cause eterne e fra queste, principalmente, le cause delle realtà «divine», che sono fatte espressamente consistere, in questo passo del libro epsilon, con gli astri e con i corpi celesti in generale. L’oggetto della filosofia prima non è dunque dio, o gli dei, o il «divino» come tale, bensì l’insieme delle cause delle cose che sono, alcune delle quali, per esempio gli astri e i corpi celesti, sono caratterizzate come «divine». Del resto, anche nel libro lambda, tradizionalmente etichettato come programmaticamente «teologico», Aristotele non solo riprende e riassume la sua ricerca intorno alle cause di tutti i generi di sostanza, comprese quelle sensibili, ma soprattutto ribadisce, trattando delle sostanze mobili ed eterne, vale a dire i cieli, che le cause del loro movimento sono una serie di motori al vertice dei quali si situa un primo motore immobile da cui «dipendono il cielo e la natura» (7, 1072b13-14), sicché risulta plausibile intendere la scienza che si occupa di tali motori come una scienza di principi e cause di movimento del tutto, nella quale il «divino» compare come una soltanto delle cause di uno soltanto dei generi di realtà del cui movimento è la causa. D’altra parte, continua Berti (pp. xxii-xxiv), se si esclude che la metafisica aristotelica possa coincidere con una teologia, cioè, ricorrendo a una scansione di matrice scolastica, con una porzione limitata e ristretta (metaphysica specialis) di una più generale scienza ontologica rivolta all’esame di tutte le cose che sono e del loro essere (metaphysica generalis), non è neanche legittimo ammettere che essa si identifichi con quest’ultima e che dunque vada concepita come un’ontologia, e ciò non tanto perché una simile concezione dell’ontologia, e il termine stesso che la designa, appartengono alla filosofia della prima modernità (XVI-XVII secolo), ma soprattutto nella misura in cui la descrizione della filosofia prima come «scienza dell’essere in quanto essere» ampiamente discussa nel libro gamma (e ripresa ancora nel libro epsilon), che farebbe effettivamente propendere in favore di una sua interpretazione ontologica, adempie, secondo Berti, a una funzione ben precisa e limitata, per essere successivamente abbandonata o quantomeno superata. La nozione di «essere in quanto essere» risponde infatti ad alcune delle aporie sollevate nel libro beta della Metafisica, rispetto alla possibilità che le cause prime siano tutte oggetto della stessa scienza, in base all’argomento per cui le cause prime, se sono tali, non possono essere cause di un tipo particolare di ente, bensì di ogni ente indifferentemente, cioè in quanto ente, vale a dire rispetto al tratto essenziale e primo che caratterizza ogni ente, ossia il semplice fatto del suo «essere», che «è». Una volta garantita così l’unità della filosofia prima, la nozione di «essere in quanto essere» come suo oggetto lascia il posto, a partire dal libro zeta, all’esame del primo dei significati dell’essere secondo lo schema delle categorie, la sostanza, di cui occorre cercare le cause: questo dunque, nell’analisi di Berti (pp. xxv-xxxiii), è il filo conduttore della Metafisica di Aristotele e l’oggetto proprio della sua «filosofia prima», la ricerca delle cause prime della sostanza – non dunque l’essere, in quanto totalità universale degli enti, né dio, in quanto ente particolare per quanto più eminente di tutti, ma l’essere in quanto sostanza, che dell’essere esibisce il Recensioni 413 primo e fondamentale dei significati, così tenendo insieme l’esigenza che la filosofia prima disponga, in quanto scienza, di un oggetto determinato, e che, allo stesso tempo, possieda il carattere dell’universalità. Va tuttavia rilevato, anche al di là di ogni giustificazione editoriale (ossia relativa alla scelta del testo greco da tradurre e commentare) ed esegetica (connessa cioè alla ricostruzione e alla messa a punto della storia critica e delle «appropriazioni» della Metafisica aristotelica) – di cui si è detto brevemente fin qui – che si avvertiva davvero, e da tempo, la necessità di disporre di una traduzione italiana completa, affidabile e nei limiti del possibile non interpretativa, che andasse ad affiancarsi alle altre traduzioni in circolazione, spesso ormai datate e quindi talora difficilmente utilizzabili, per il lessico e la comprensione di fondo. Berti lamenta a questo proposito di non aver ottenuto un esito soddisfacente dal punto di vista stilistico e della scorrevolezza (p. x), ma il lettore, anche specialista, non potrà non apprezzare l’enorme vantaggio di confrontarsi con una versione del testo aristotelico sempre chiara, attenta fin nei dettagli e opportunamente esplicativa. Devo limitarmi in questa sede a citare qualche esempio. Il sostantivo ousia, notoriamente tanto cruciale quanto complesso nei suoi significati, è reso sistematicamente con «sostanza», quando è impiegato in modo assoluto, oppure con «essenza», quando è seguito dal genitivo e fornisce quindi la risposta alla domanda intorno al «che cosa è» (to ti esti) una certa cosa, vale a dire, con un’altra temibile e difficilissima espressione aristotelica, al to ti en einai, il «che cos’era l’essere» che di una certa cosa rappresenta l’essenza. Notevolissima, e pertinentissima agli occhi di scrive, la scelta di restituire al termine aitia il senso di «causa» anziché, secondo una moda contemporanea di provenienza anglosassone, di «ragione» o «spiegazione»: se è indubbio che la filosofia moderna attribuisce alla nozione di «causa» un’estensione semantica più limitata rispetto al greco aitia, è altrettanto indiscutibile che l’esclusione dalla terminologia aristotelica di un lessico della causalità in senso stretto, privilegiandone la componente semplicemente «esplicativa», è stata spesso la conseguenza di una forzatura esegetica, consistente nel tentativo di depotenziarne la dimensione propriamente «efficiente» e pertanto autenticamente «metafisica». Pure rimarchevole la resa di un altro verbo di cruciale importanza, theorein, che non indica semplicemente lo «studio» o «l’esame» di qualcosa né tantomeno la sua «contemplazione» astratta, quanto piuttosto un «conoscere teoreticamente» qualcosa, vale a dire costruendo una teoria scientifica intorno a qualcosa. Poche note, certo gravemente insufficienti anche come presentazione schematica di un lavoro così impegnativo e imponente, permetteranno però di apprezzarne, spero, la profondità e il rigore: questa Metafisica di Enrico Berti accompagnerà certamente i lettori, italiani e non, per i prossimi decenni. Francesco Fronterotta, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161 Roma, [email protected]. Mantenere aperto l’orizzonte dell’etica Caterina Botti Rossella Bonito Oliva, Vita ordinaria e senso del comune. Per un’etica dell’opacità, Milano, Led, 2016, pp. 111. Con un linguaggio denso ed evocativo Rossella Bonito Oliva ci conduce, nel testo Vita ordinaria e senso del comune. Per un’etica dell’opacità, attraverso una riflessione, o forse meglio un’interrogazione, o un esercizio, intorno allo spazio o all’orizzonte dell’etica. 414 Recensioni In un tempo in cui l’etica è fortemente evocata, soprattutto nella forma di norme o precetti che limitino o legittimino le forme della convivenza umana (o per esempio che, come viene detto nel testo, dirigano e disciplinino le implicazioni degli sviluppi bio-tecnologici rispetto al riprodursi e morire), ma in cui essa è, d’altra parte, fortemente messa in discussione, essendo venuta meno la possibilità di una fondazione metafisica ed essendo andati in crisi «gli ideali del Moderno» (p. 7) e la loro possibilità di una fondazione di diversa natura, la domanda intorno al senso di questa impresa o questione od orizzonte, dell’esercizio che implica, si fa pressante. Bonito Oliva partendo da questa premessa, nei diversi capitoli di questo volume, sembra indicarci la via di uno scarto da questa forbice, sostenendo che l’etica non vada affatto pensata come schiacciata sulla forma giuridica della norma, né tantomeno vada abbandonata, anche nella sua pretesa di orizzonte universale o comune, ma compresa piuttosto in modo diverso e così, riproposta e reinterrogata, mantenuta aperta, come caratterizzante la forma di vita umana. La risorsa da cui muovere per procedere in questo senso sembra essere la coltivazione dell’opacità, cioè dello scarto tra ciò che riusciamo a dire e ciò che non riusciamo a dire di noi e del mondo, tra ciò che siamo individualmente e ciò che siamo in quanto parte di una comunità, tra noi e il mondo, tra noi e l’altro, tra ciò che ci è familiare e ciò che non lo è, anche in o di noi stessi. È questa opacità infatti che ci muove all’interrogazione sul senso della vita e a cercare un orientamento nel mondo, interrogazione e ricerca inesauribili e a cui non si può che dare risposta in prima persona (e non in assoluto), ma che si mantengono vive solo a patto di non esaurire la vita in qualcosa di dato, di completamente dicibile, di calcolabile, o descrivibile completamente e compiutamente, a patto di mantenere viva la «meraviglia» (nel senso proposto da Wittgenstein, su cui Bonito Oliva si sofferma a lungo: cfr. per es. pp. 31ss.): la meraviglia dell’esistenza e dell’esperienza del mondo e dello scarto tra le due, delle possibilità e dei limiti del linguaggio. Tornare a, recuperare, i momenti in cui questa opacità si dà, piuttosto che nasconderli, sembra essere dunque l’esercizio (etico) necessario: «allargare l’orizzonte e guardare con un altro sguardo la puntualità della vita ordinaria lasciando da parte ogni pretesa di fornire una spiegazione, semplicemente conservando l’attenzione al senso» (p. 109). Ed è questo – per altro – il tentativo che l’autrice prova a compiere nello stesso volume, come afferma nelle righe conclusive. L’esercizio svolto nel volume si articola attraverso riferimenti alla riflessione filosofica e al tempo presente, ma anche alla pittura, alla letteratura e al cinema, questi ultimi particolarmente interessanti. Bonito Oliva sembra voler ricavare e ricostruire da autori anche molto diversi, da Aristotele a Hegel, a Wittgenstein, Arendt, o Hadot, passando anche per Spinoza e Kant, per menzionare i più citati, lo stesso punto: la necessità di mantenere un senso di inesauribilità, di «più che vita», di «altrove» o «altrimenti», che permetta di mantenere aperta l’interrogazione umana e quindi vivo e non mortificato l’umano, nella sua pluralità, se l’umano è appunto, come afferma in diversi luoghi, il vivente che si interroga e si interpreta. Diversi sono ovviamente i modi in cui rintraccia questa inesauribilità: per esempio «il riconoscimento del doppio e complementare registro tra potenzialità e attualità in cui si determina e si decide la condizione umana» (p. 14), che accomuna a suo avviso Aristotele e Hegel, o il rapporto tra mondo e immagini o linguaggio in Wittgenstein, come già si diceva, tra sentirsi e non sentirsi a casa nel linguaggio (e qui l’autrice cita anche Cavell), o ancora la tensione tra soggettivo/singolare e intersoggettivo/mondo comune che caratterizza la riflessione di Arendt. Mantenere aperto questo spazio è ciò che permette dunque di mantenere aperta l’interrogazione etica, e questo esercizio, mi sembra di poter dire, si pone sui due piani Recensioni 415 della pratica individuale e di quella collettiva. Qui si aprono alcune considerazioni interessanti, proprio sulla necessaria relazione e circolarità tra questi due piani. Da una parte questa tesi porta l’autrice a contestare ogni impresa atta a ridurre lo spazio di quello che a tratti chiama il «mistico», ancora con espressione di Wittgenstein (p. 66), soprattutto nella forma di saperi che presumano di esaurire, spiegare e svelare il mondo e l’umano, banalizzandolo, serializzandolo, globalizzandolo, riducendolo a un senso comune nel significato di opinione dominante (p. 49). L’etica si caratterizza invece come la ricerca di un senso proprio e di un senso del comune, nel senso appunto del mantenere la possibilità di interrogarsi e dare risposte – in prima persona – all’inquietudine che muove ogni essere umano, di fronte alla vita e alla morte, e quindi anche nel senso dell’attenzione a ciò che sostiene questo interrogativo: appunto lo sfondo comune, la «medietà unica», che si configura come il contesto di senso dell’esperienza e della parola umane nella loro singolarità e diversità, sia pure nella sua inesauribilità. Il comune che permette il singolare, anche nella forma della distinzione e diversità, non è dunque pensato in forma metafisica, non è fisso, ma mobile: è la comune esperienza umana, è lo sfondo tessuto dalle pratiche condivise e ordinarie che permettono la vita e l’interrogazione, è riportato quindi alla dimensione ordinaria e plurale, ma comune, della vita, del linguaggio e del pensiero. Rintracciare questa circolarità tra singolarità e sfondo comune permette anche di svelare la natura bisognosa e vulnerabile dell’umano, la dipendenza reciproca tra umani (p. 44), il nostro bisogno di socialità (p. 107), e quindi di dare una direzione all’interrogazione etica. Infatti proprio il mantenimento di questo spazio comune, senza derivarne norme o esaurirlo in un contenuto, che prende anche la forma del riconoscimento della cura per la dignità di tutti e ciascun essere umano che di fatto lo compongono, come viene indicato negli ultimi capitoli, sembra poter essere riconosciuto come una direzione da seguire nella nostra infinita ricerca e interrogazione, come un orientamento etico. Facoltà fondamentale in questo compito, individuale e collettivo, di recuperare lo sfondo comune senza chiuderlo, recuperare cioè il senso di ciò che è comune negli/agli umani, ma che non ci è comune (nel senso di abituale, facilmente accessibile, scontato o esauribile), rilanciando l’interrogazione, sembra essere infine l’immaginazione. In questo senso molti passaggi sull’arte e la letteratura e l’analisi di opere punteggiano il testo. Così penso si possa provare a rendere il nucleo centrale del volume qui discusso, certo reso in modo succinto e necessariamente lacunoso. Per concludere questa mia lettura e tentare qualche commento vorrei spendere alcune parole conclusive per sottolineare e illustrare alcuni temi che mi hanno particolarmente colpita nell’esercizio che Bonito Oliva opera. Da una parte, vorrei ancora sottolineare il ruolo fondamentale che l’autrice riconosce all’immaginazione, all’esperienza e al sentimento per il mantenimento, personale e interpersonale, dell’orizzonte etico, che trovo sia una suggestione particolarmente interessante; dall’altra, ho trovato interessanti una serie di accenni al tema della cura di sé e degli altri e, infine, la riflessione che offre nei capitoli finali sulla dignità. Mi vorrei soffermare brevemente su questi due ultimi temi, e soprattutto sull’ultimo. La dignità è una nozione alla quale spesso si fa ricorso, a mio modo di vedere, in modo filosoficamente scivoloso e soprattutto con l’esito di chiudere più che aprire l’orizzonte della libertà e possibilità umana. Non è questo il caso: Bonito Oliva percorre con cura il crinale sottile che permette di separare accezioni normative forti, direi violente, che chiudono ciò che è degno di un essere umano, e quindi lo rende dignitoso, in un novero di condotte o tratti dato (penso qui per esempio all’uso che spesso ne viene fatto nella letteratura bioetica), dall’accezione che lei propone, che al contrario permette di 416 Recensioni «guardare nell’altro il vivente che ciascuno è» (p. 85). Questa mi pare una via molto interessante, ancorché, a mio avviso, il ricorso a questa nozione rimanga in qualche modo sempre rischioso, proprio per quella dimensione di distacco tra l’umano e ciò che invece umano non è, per esempio l’animale (ma sappiamo bene quanto lo stesso novero dei viventi riconosciuti come umani si sia modificato nella storia, e quanto possa essere necessario modificarlo ancora), di cui pure può premere prendersi cura. Una dimensione, questa della separazione tra umano e non umano, che tradizionalmente caratterizza la trattazione della nozione di dignità e che non sono sicura che Bonito Oliva voglia del tutto abbandonare, nel suo concentrarsi, assolutamente coerentemente, sulla specificità del vivente umano come unico caratterizzato dalla capacità di autointerrogarsi e autodeterminarsi. Si vedano per esempio le pagine in cui ripercorre le tesi kantiane della Metafisica dei costumi e dove caratterizza questa diversa capacità umana come ciò che segna «l’uguaglianza orizzontale tra gli uomini e la loro superiorità rispetto agli altri viventi» (p. 99). Al di là del fatto che si potrebbe suggerire che in questa sua tesi Kant intendesse «uomini» solo nel senso di umani di sesso maschile (o solo alcuni di essi), e anche riconoscendo una concezione ampia dell’umano, rimane comunque la possibilità di domandarsi se rintracciare certo un scarto, ma anche una continuità o perfino una interdipendenza con altri e diversi viventi non umani, senza un pensiero della superiorità o inferiorità, non possa essere invece un’altra via per mantenere aperta l’interrogazione etica e per aprirsi a un pensiero e una pratica di cura, ancorché ovviamente essa prenda forme diverse per i diversi viventi. Per quanto riguarda invece il tema della cura, di sé o dell’altro umano, la suggestione che viene proposta in questo testo mi pare molto interessante, soprattutto avendo in mente la recente espansione della riflessione sull’etica della cura, perché appunto le considerazioni offerte da Bonito Oliva possono spostare quest’ultima in modo interessante. Si evince infatti dalle considerazioni offerte che la cura lungi dall’essere frutto di una semplice inclinazione umana, che prende la forma del rispondere al nostro o altrui bisogno inteso come immediatamente percepibile, richieda invece un esercizio diverso che si caratterizza come la presa in carico dello sfondo comune che sostiene la visibilità dell’esigenza particolare, ma anche l’attenzione alla distanza del particolare da ciò che è comune e quindi allo scarto tra il particolare e il comune nei due sensi, l’opacità appunto. Una tesi che trovo molto convincente. Ritornando infine al tema della dignità, a cui sono dedicati i due ultimi capitoli, come dicevo Bonito Oliva lo articola con molta attenzione e soprattutto le preme di distinguerlo dall’uso che se ne fa in connessione con la nozione di persona (e questo probabilmente dà conto anche delle considerazioni che ho offerto prima) o di diritti umani, e quindi chiudendolo su una serie di caratteristiche specifiche. La dignità sembra rinviare invece a quella circolarità tra lo sfondo della comune umanità, e la singolarità e differenza di ciascuno che ne sono il tessuto, che ci dovrebbe portare a riconoscere appunto la dignità di tutti, nella loro diversità. Chiare ed evocative, e attuali, in questo senso, sono le pagine che pongono a tema la riflessione di Primo Levi sulle pratiche di resistenza alla «infezione latente nel genere umano» per evitare che «ogni straniero non diventi un nemico» (p. 75-78). Caterina Botti, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161 Roma, [email protected]. Recensioni 417 Metodo e spiritualità nella filosofia moderna Laura Cremonesi Simone D’Agostino, Esercizi spirituali e filosofia moderna. Bacon, Descartes, Spinoza, Pisa, Ets, 2017, pp. 270. Chi abbia qualche familiarità con le opere di Pierre Hadot sa bene come il tardo Rinascimento e la prima modernità rappresentino l’epoca in cui è più difficile trovar traccia degli esercizi spirituali: è infatti questo il momento in cui la filosofia si situa a maggior distanza da quell’idea di maniera di vivere fortemente presente nel mondo antico e si avvia a intraprendere un percorso di sistematizzazione, che culminerà nel pensiero hegeliano. Nella sua vocazione originaria, invece, sin dal suo sorgere con la figura di Socrate, la filosofia non era affatto una costruzione di sistemi, ma un metodo di trasformazione della visione del mondo e della maniera di vivere, praticato in comune nelle scuole. Questa modificazione avveniva attraverso pratiche concrete – esercizi spirituali – destinate realizzare le tappe di questo percorso trasformativo, di cui le opere filosofiche antiche offrono preziosa testimonianza. Secondo Hadot, la prima deviazione della filosofia dal suo aspetto originario avviene con il cristianesimo, e precisamente con la scolastica del Medioevo, secondo un movimento che trasferisce alla mistica gli esercizi spirituali e affida alla filosofia il ruolo di fucina di concetti teologici. Tuttavia, in epoca contemporanea, si assiste a un ritorno dell’antica vocazione: in autori come Nietzsche o Bergson è per Hadot possibile avvertire il riaffiorare del legame tra filosofia e vita. L’epoca moderna è dunque il momento in cui, con Descartes e la sua neutralizzazione del soggetto di conoscenza, la separazione tra filosofia ed esercizi spirituali si fa più netta e ha inizio un lungo inabissarsi degli esercizi spirituali, che riemergeranno in campo filosofico solo in epoca recente. Eppure, nota D’Agostino, Hadot stesso sembra tornare a precisare questo schema storiografico, rapidamente abbozzato nel suo noto articolo Exercices spirituels («Études Augustiniennes», 1981; Albin Michel, 2002), accettando di vedere tracce della pratica degli esercizi spirituali in Montaigne, nelle Meditazioni cartesiane e in Spinoza. Come è chiaro sin dal titolo, il libro di D’Agostino intende proprio mettere in discussione questa scansione cronologica, per mostrare come la filosofia moderna non rechi solo tracce di esercizi spirituali, ma possa essere compresa in alcuni suoi aspetti solo alla luce del suo legame con il modo di vivere che, lungi dall’iniziare il suo declino, occupa ancora un posto centrale nel pensiero filosofico. L’immagine della filosofia moderna che il libro di D’Agostino ci restituisce è, dunque, quella di un pensiero traversato da due spinte: accanto a una tendenza verso la sistematizzazione, permane una concezione «ascetica» della filosofia, che non abbandona l’idea degli esercizi spirituali di trasformazione del sé. È interessante notare come, per dare avvio alla propria dimostrazione, D’Agostino sposti lo sguardo verso un autore fortemente influenzato da Hadot, Michel Foucault, che ha fatto ampio ricorso all’idea di esercizi spirituali in tutta la sua interpretazione del mondo antico. È una particolare declinazione della lettura foucaultiana a interessare D’Agostino, precisamente quella che riguarda la relazione tra soggetto di conoscenza ed esercizi spirituali, proposta ne L’herméneutique du sujet (Gallimard Seuil, 2001). Come Hadot, anche Foucault tenta di tracciare una storia degli esercizi spirituali, individuando nell’epoca moderna il momento della loro uscita dalla filosofia. La filosofia moderna avrebbe infatti posto fine a una precedente concezione, definita da Foucault «spiritualità», secondo la quale non era pensabile un soggetto di conoscenza che divenisse tale senza un preliminare percorso di trasformazione di sé che, insieme al raggiungimento 418 Recensioni della verità, portava anche a una trasfigurazione del soggetto, conferendogli uno stato di pienezza e di padronanza di sé. Ponendo un soggetto già capace, di per sé, di conoscenza esatta, la filosofia moderna non solo espelle gli esercizi spirituali dalla formazione del soggetto inquirente, ma elimina anche l’effetto trasfigurante del cammino verso la verità. Tuttavia, come Hadot, anche Foucault sfuma la nettezza di questo schema, suggerendo l’esistenza, nella filosofia moderna, di un filone che, usando in senso ampio l’espressione spinoziana, può essere definito come «riforma dell’intelletto». Questo versante della filosofia moderna avrebbe mantenuto vivi gli esercizi spirituali, legando strettamente il cammino del metodo alla questione della spiritualità. Questo intreccio tra spiritualità e metodo brevemente segnalato da Foucault è il filo conduttore seguito da D’Agostino, che ci guida in un percorso attraverso la filosofia moderna, scegliendo tre opere appartenenti alla «riforma dell’intelletto» così intesa. Il Novum Organum, il Discours de la méthode e, appunto, il Tractatus de intellectus emendatione possono dunque essere letti in modo unitario, come «variazioni di un medesimo motivo filosofico» (p. 25) che, a partire dalla constatazione della necessità di un perfezionamento del soggetto inquirente, traccia un percorso trasformativo, secondo le tre tappe della filosofia nella sua vocazione originaria: modificazione della visione del mondo, del modo di vivere e del modo di essere a cui soggetto può aspirare, tappe che, come nota D’Agostino nelle sue conclusioni, si prestano senz’altro a una lettura in termini kantiani. Pur mantenendo ben ferme le evidenti differenze, attraverso l’idea di esercizi spirituali D’Agostino reperisce dunque uno schema comune, che permette di analizzare in parallelo le tre opere. Esse prendono tutte avvio dalla convinzione che il primo gesto da compiere sia quello di «emendare» l’intelletto dalle disfunzioni che, innate o acquisite, lo conducono a una distorta visione delle cose, riprendendo in questo modo quella funzione «terapeutica» della filosofia, ben presente nella visione originaria della filosofia come maniera di vivere. In Spinoza, per esempio, autore in cui maggiormente è avvertibile la presenza degli esercizi spirituali antichi, l’abbandono della precedente visione del mondo assume un andamento chiaramente stoico, consistente nel distogliere l’attenzione dai falsi valori, per dirigerla verso la ricerca del vero bene. Rettificati gli errori, ci si potrà incamminare nella parte positiva del metodo e iniziare a «condurre con ordine i propri pensieri» (p. 10). In Descartes, questa impresa assumerà l’aspetto di un vero e proprio racconto di formazione che D’Agostino analizza, in pagine molto suggestive, tramite procedure di analisi narrativa. Nel Discours de la méthode, l’«eroe della fiaba» attraverserà numerose peripezie per uscire dallo stato di sottomissione in cui le opinioni trasmessegli dai suoi precettori lo trattenevano e per raggiungere l’oggetto desiderato: l’uso autonomo della propria ragione e l’emancipazione dalla tutela altrui. Ecco che si apre la strada per la modificazione del modo di vivere, per cui D’Agostino identifica un nuovo, importante punto in comune tra le tre opere. Esse concordano infatti nella necessità di dotarsi di un habitus, che permetta alla nuova visione del mondo di dare effettivamente forma al modo di vita. Acquisibili attraverso un esercizio continuo, le nuove abitudini conferiscono all’intelletto la capacità di funzionare correttamente in modo sempre più immediato e automatico: che si tratti della prudenza di Bacon, della meditazione delle quattro regole fondamentali del metodo di Descartes, o dell’automa spirituale di Spinoza, l’acquisizione di questi processi abitudinari richiama direttamente l’esercizio spirituale dell’attenzione descritto da Hadot. Pilastro del legame tra filosofia e vita, questo era l’esercizio che faceva sì che i princìpi filosofici orientassero concretamente il modo di vivere: affinché questo accadesse, era necessario prepararsi costantemente con pratiche di meditazione, in modo da avere i princìpi sempre disponibili, in qualsiasi circostanza, così da poterli applicare in modo immediato e quasi automatico, con la prontezza di un riflesso. Recensioni 419 Questo è dunque il senso in cui il metodo della filosofia moderna può essere letto come un esercizio spirituale: esso è una pratica modificatrice per emendare l’intelletto e fargli acquisire quelle nuove abitudini che lo guideranno con sicurezza nel suo uso corretto. Alla fine di questa trasformazione «ascetica», il soggetto inquirente si troverà dunque finalmente formato e capace di quell’accesso alla vera conoscenza che, secondo la filosofia moderna nel suo versante «spirituale», non gli era inizialmente dato. Una volta conseguito, l’accesso alla verità ricompenserà il soggetto rendendolo padrone di sé e capace di autocondursi: trasfigurato, esso potrà anche aprirsi a quella dimensione trascendente che, in forme diverse, appare in tutte le tre opere. La nozione di esercizi spirituali elaborata da Hadot e qui applicata da D’Agostino non ci offre, dunque, solo una rinnovata visione della filosofia antica e del suo originario configurarsi come maniera di vivere. Come, grazie allo sguardo di Hadot, i testi dell’antichità greca, ellenistica e romana apparivano in una luce nuova, così nella lettura di D’Agostino anche il Novum Organum, il Discours de la méthode e il Tractatus de intellectus emendatione acquisiscono un senso differente, presentandosi come parte di quella vocazione originaria della filosofia che faceva di essa principalmente una maniera di vivere. Lungi dall’essersi inabissata con il soggetto cartesiano, questa concezione che lega strettamente vita e filosofia, teoria e prassi, ascesi e verità, attraversa la filosofia moderna, marcando fortemente le indagini sul metodo. Non si tratta, però, solo di gettare nuova luce su queste tre opere: sulla scorta di un’intuizione di Foucault, D’Agostino mette in luce un vero e proprio versante della filosofia moderna, quello che tematizza la «riforma dell’intelletto» e che si intreccia indissolubilmente con le esigenze di costruzione del metodo scientifico. Laura Cremonesi, Via Santa Caterina 16, 56123 Pisa, [email protected]. Prassi storica e impegno morale per un più aperto umanesimo Riccardo Roni Mario Dal Pra e Andrea Vasa, Il trascendentalismo della prassi. La filosofia della resistenza, a cura di Maria Grazia Sandrini, Milano, Mimesis, 2017, pp. 352. Nelle brillanti elaborazioni teoriche di Mario Dal Pra e Andrea Vasa – condotte a seguito della lotta per la liberazione italiana – la teoresi filosofica e l’indagine storica si saldano insieme per assolvere un preciso impegno morale, orientato in larga misura a ridimensionare, grazie al lavoro della ragione e della scienza, la pretesa assolutezza dei dogmatismi provenienti da più fronti teorici e finanche da un certo modo di condurre la storiografia filosofica. Questo libro, curato da Maria Grazia Sandrini che fu allieva di Vasa, raccoglie una serie di contributi di Dal Pra e Vasa quasi tutti apparsi tra il 1948 e il 1956 sulla «Rivista critica di storia della filosofia», fondata da Dal Pra nel 1946. Dal Pra e Vasa vantano una comune esperienza storica e teorica che passa attraverso la Seconda guerra mondiale e la Resistenza nelle file di Giustizia e libertà di Ferruccio Parri. Nella loro evoluzione intellettuale – fortemente debitrice della lotta contro il nazi-fascismo – entrambi si confrontano non solo con l’eredità dell’idealismo di Croce, dell’attualismo di Gentile, col marxismo (ricorrono i riferimenti sia a Marx che a Gramsci) e, non da ultimo, col pragmatismo italiano (in particolare Giovanni Vailati e Mario Calderoni) e americano (William James e Dewey), ma anche col problematicismo di Banfi, l’esistenzialismo di Abbagnano e il neopositivismo di Geymonat. Sulla base di queste contaminazioni, il 420 Recensioni nucleo teorico fondamentale attorno al quale si sviluppano le indagini di Dal Pra e Vasa è il «trascendentalismo della prassi», concepito come posizione critica e aperta, che non mette la prassi alla radice dell’essere, ma che assume «nei confronti del valore totale dell’essere un atteggiamento estremamente aperto che, evitando ogni chiusura arbitraria in funzione di situazioni parziali, si appelli alla possibilità d’una libertà capace di iniziativa oltre tutte le situazioni, volgendosi al futuro che non è situazione» (p. 101). Rivalutando, sulla scorta di un certo kantismo, l’uso pratico della ragione, Dal Pra intende così «aprire la strada alla libera iniziativa della ragione contro tutte le barricate della metafisica» (ibidem). Questa esigenza – giacché intende mettere al centro proprio la libertà e responsabilità di pensiero e azione – si afferma in esplicita controtendenza con la posizione del «teoricismo» che, mettendo la prassi alla radice dell’essere, ipostatizza il presente facendolo coincidere con la situazionalità. L’apertura al futuro che ne deriva contro ogni immobilismo autoreferenziale accresce il carico di responsabilità etica e politica del soggetto storico concreto, anche perché la storia perde ogni residuo teleologico tipico di un certo hegelo-marxismo. Proprio in quanto si fonda su questi assunti pratico-razionali, il trascendentalismo della prassi non può rinunciare al dispositivo della verità che nel teoricismo è destinato a restare soltanto un compito privo di fondamenti. Ed è a questo livello della discussione che il rapporto col pragmatismo si fa più complesso e meno scontato solo in virtù del fatto che lo stesso James ebbe modo di rilevare – basti pensare alle tesi esposte in Pragmatism (1907) – un’analoga esigenza di rifondazione del dispositivo di verità, evidenziando appunto come questa si «faccia» nel corso dell’esperienza, restando in ogni modo «la funzione delle credenze che nascono e finiscono tra i fatti». Se Dal Pra – che pure si dimostra buon conoscitore del pragmatismo – per un verso non esita a definirlo un teoricismo metafisico a causa della presunta identificazione di un senso dell’essere (p. 277), per un altro, in particolare quando scrive su Dewey, il quale introduce – merita ricordarlo – il concetto fondamentale di «transazionalità» per descrivere il rapporto dinamico tra individuo e ambiente, è obbligato a riconoscere «un aspetto importantissimo della sua filosofia», che consiste appunto in quella critica della concezione teoricistica della conoscenza che nel contempo non può mettere completamente fuori gioco la teoria (pp. 184-185). Come corollario di queste letture pragmatiste, la nozione di universalità viene presentata da Dal Pra come «termine dell’assunzione d’un compito alla quale il discorso può soltanto aprire la strada» (p. 273), rifiutando in questo modo la sua riduzione a principio dato assoluto, per parlare invece «in nome proprio, della propria intenzione, della propria libera assunzione circa l’universale» (p. 274). L’indagine filosofica di entrambi gli autori – se la ricerca di Dal Pra resta ancorata alla storia, quella di Vasa assume una definizione più marcatamente teoretica – viene così a collocarsi in quel delicato punto di passaggio dall’universale al particolare, passaggio in cui l’intelligenza – lo spiegava bene già Aristotele – per passare dalla potenza all’atto, deve trasformarsi in intelligenza discorsiva (dianoia), ossia in intelligenza al lavoro, facendo così passare all’atto tutto ciò che in essa resterebbe solo in potenza. Sulla scorta di questa antica esigenza, il trascendentalismo della prassi – Dal Pra lo sottolinea con decisione – vuole proporsi come un discorso che lascia aperta la libertà di tutti i discorsi, «pur senza rinunciare ad essere un preciso e impegnato discorso» (p. 274); un discorso – ripetiamolo – che possa essere effettivamente funzionale a dar voce alle molteplici forme dell’esperienza umana, al fine di avanzare, in ultima istanza, persino una vera e propria interpretazione del senso stesso della vita (p. 282), sebbene il discorso filosofico tematizzi una generalità intenzionale e possibile (p. 295). Perché, come osserva Vasa a proposito della trascendentalità del «fare», «il problema dell’essere (e dell’uomo) può ancora salvarsi se non si pretende di risolverlo di “necessità”, o di risolverlo in una sussistente, hegeliana, sintesi di attualità e possibilità, in una relazione metafisico-trascendentale» (p. 286). Si tratta, allora, di riconsiderare una nozione – quella di inattualità – sulla quale il Recensioni 421 pensiero filosofico si è esercitato con esiti talvolta aporetici come nel caso di Nietzsche – ma che, in Vasa, viene fatta dipendere dal bisogno di libertà intesa come «la condizione ideale di una universalità che la teoria si è rifiutata di afferrare» (p. 288). Alla nozione di inattualità si lega poi quella di «compito», laddove il trascendentalismo della prassi si annuncia come il «compito possibile» di «aggressione o modificazione di ogni struttura di esistenza che si presenti come struttura da presupporre» (ibidem). È particolarmente avvertita l’esigenza di ricostruire un’ontologia in divenire, saldandola a un criterio morale che possa determinare il «valore» – anche su quest’ultimo concetto si insiste molto – delle azioni umane secondo un’etica del limite e senza alcuna pretesa di determinare un suo ambito dato e intrascendibile. La questione morale, sollevata in ordine al compito di realizzare una concretezza inattuale, viene fatta dipendere in Dal Pra dal concetto di trascendenza, concetto che presuppone un qualche superamento dell’ordine storico-naturale, al fine di poter intraprendere una modificazione radicale delle sue strutture: la trascendenza, osserva Dal Pra, «muove dalla negazione, come giudizio de non inesse, per salvare il valore come istanza di un più che non è, ma che vogliamo, che ci impegnamo a far essere» (p. 302). Su questa linea, se il mondo storico-naturale si profila come il «teatro del dramma del valore», l’esigenza di una sua trasformazione pone il problema di un’esperienza che Dal Pra e Vasa non esitano a definire, lato sensu, religiosa, di contro a ogni atteggiamento «estetistico» (ibidem). Un’esperienza che non ha certo i caratteri di un’evasione metafisica, ma che si profila piuttosto come richiamo immanente a un compito pratico di trasformazione dell’esistenza, che sottragga il soggetto umano al dilemma di un suo esclusivo, così scrive Vasa, «esser-nel-mondo o cadere-nel-nulla» (p. 226). Il giusto richiamo alla caratterizzazione etica della prassi, oltre ogni atteggiamento di mera contemplazione conoscitiva, consente a Dal Pra di rivendicare la possibilità – in particolare attraverso una ripresa delle tesi di Gramsci contro il fatalismo, non solo socialista, della storia e della realtà – di un socialismo della volontà e dell’azione radicale organizzata (p. 267). Prima di chiudere il discorso, occorre insistere un momento sulla necessità di questo sbocco politico. Dal Pra condivide con Gramsci una proposta pratica di socialismo, con al centro la volontà umana e la sua responsabilità. Dalla lettura di Dal Pra è possibile ricavare un accostamento tra socialismo debole e teoreticismo, da un lato, e tra socialismo forte e trascendentalismo della prassi, dall’altro. Perché mentre la versione «debole» di socialismo porta alla resistenza irresponsabile e al misticismo teoreticista e fatalista, la versione «forte» implica l’assunzione dell’intera attività organizzata, segnando il passaggio dall’atteggiamento subalterno a quello dell’iniziativa e della direzione (p. 268). Sull’esito pratico di questa proposta Dal Pra resta comunque cauto, proprio in virtù dell’ammissione che le radici filosofiche del fatalismo socialista sono rinvenibili egualmente nella tradizione idealistica come in quella positivistica (p. 267). Ma è proprio grazie a questa lucida consapevolezza che viene sollevata da Dal Pra una «questione morale» (p. 315) tanto per la riflessione filosofica che per l’azione politica organizzata, dipendente da un nuovo modo di guardare alla realtà e alla vita, ossia da un nuovo umanesimo più aperto e inclusivo che trovi nel lavoro della ragione e della scienza non tanto un semplice riflesso del movimento della realtà, quanto piuttosto, riprendendo le parole di Vasa, una vera e propria «funzione di rottura e di avanguardia», «nell’orizzonte di un’esperienza che si apra a nuove possibilità e a nuovi valori» (p. 348). Riccardo Roni, Dipartimento di Studi umanistici, Università di Urbino «Carlo Bo», Via Bramante 17, 61029 Urbino, [email protected]. 422 Recensioni «Pensare fuori dall’ordine»: per una filosofia della migrazione Federico Lijoi Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Torino, Bollati Boringhieri, 2017, pp. 280. È indubbio che la formulazione più pregnante del concetto di Stato, comparsa in Germania tra Ottocento e Novecento, sia quella a cui ancora oggi, nonostante l’apparenza di un mondo economico globalizzato, facciamo implicito e irriflesso riferimento quando parliamo di confini e migrazione. Basta sfogliare la Politische Geographie (1897) di Ratzel o l’Allgemeine Staatslehre (1900) di Jellinek per trovarsi dinanzi a quella stessa granitica trinità di territorio, popolo e sovranità che continua a contraddistinguere il discorso contemporaneo della statualità. Dai tempi di Ratzel e Jellinek, però, molto è accaduto e altrettanto è cambiato. La disgregazione dei grandi Imperi e la tragedia della Shoah hanno costretto la riflessione filosofica e politica a un confronto serrato con la figura del rifugiato, di cui è stata senza dubbio Hannah Arendt a fornire il più profondo ritratto filosofico, prima nelle pagine di We refugee (1943), poi in quelle celebri de Le origini del totalitarismo (1951): «Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, la schiuma della terra». Una riflessione, quella inaugurata da Arendt, che nei decenni successivi ha sperimentato alterne vicende e continuazioni in una serie di contributi – da Spheres of Justice (1983) di Walzer ad Aliens and Citizens (1987) e The Ethics of Immigration (2013) di Carens, per tacere del significativo filone dei Border Studies dedicati alla frontiera tra Messico e Stati Uniti – che hanno discettato, in modo più o meno brillante, sulla questione dei confini aperti o chiusi, sulla distinzione tra migrante economico e rifugiato politico, sulla differenza tra sfera pubblica e privata. In questo dibattito teorico si inscrive, polemicamente, il volume di Donatella Di Cesare, Stranieri residenti, dedicato alla proposta di una filosofia della migrazione, come recita il sottotitolo. Il suo indubbio pregio risiede innanzitutto nella capacità di affrontare un tema di attualità senza l’adesività di un approccio sociologico, ma con gli strumenti della riflessione filosofica, individuando cioè le categorie e i concetti che si trovano dietro l’ordine del discorso politico. La figura composita dello «straniero residente» ha lo scopo di mettere in crisi proprio quel complesso di presupposti che gli conferisce la sembianza di un ossimoro: la logica immunitaria dell’esclusione, la difesa del territorio statale inteso come spazio chiuso di una proprietà collettiva, la migrazione come devianza da arginare, anomalia da abolire. Una critica della statualità moderna e un ripensamento dell’esistenza politica costituiscono l’ambizione principale del volume. «Il migrante smaschera lo Stato» (p. 20): intorno a questo abbrivio rutilante si articola l’intera argomentazione. Lo Stato, infatti, è l’esatto opposto della mobilità e il migrante, puntando il dito sul cortocircuito tra l’universalità dei diritti umani e la particolarità dello Stato-nazione, veicola un’accusa sovversiva alla grammatica del proprio e della proprietà, dell’appartenenza e dell’identità. Insomma: alla modernità e al suo Leviatano. Alla sbarra degli imputati però non c’è solo la politica, ma soprattutto la filosofia, perché finora si è dimostrata del tutto incapace di mettere in questione quella «dicotomia metafisica tra interno ed esterno» (p. 35) che si trova a fondamento della separazione politica: «La filosofia ha scelto la stanzialità, l’ha legittimata, ne ha condiviso la prospettiva. Perciò ha puntellato steccati e rafforzato barriere, ha rimarcato ogni volta il limite tra dentro e fuori alla ricerca di una centratura, nel tentativo di Recensioni 423 delineare un ordine concentrico» (p. 29). Occorre allora che la filosofia colga nella scomoda figura del migrante l’occasione per tornare alla propria natura, per «separarsi dall’irritante senso comune» e prendere così congedo dalla polis e dalla politica. Del resto, «pensare è sempre “fuori dall’ordine”», scriveva Hannah Arendt. La radicalità di questa impostazione sortisce il rigetto di una serie di posizioni teoriche troppo poco coraggiose (Locke, Rousseau, Kant) o persino molto deboli (Walzer, Singer, Carens), innanzitutto perché viziate da un approccio ancora statocentrico, e cioè interamente improntate sul nesso liberale tra sovranità statuale e proprietà privata. La critica mossa da Di Cesare si compone di una serie di elementi sui quali conviene brevemente soffermarsi. In primo luogo, la dicotomia interno-esterno che fonda l’ordine politico: essa non accorda al migrante nemmeno la dignità di una opposizione noi-voi, perché questa può essere ascritta soltanto al conflitto tra identità pubbliche, mentre foggia lo stigma svilente di un «loro» come «non-noi», come «terzo escluso», la cui esistenza è sospesa in un «tra» che «non è più» (ha perso una patria) e «non è ancora» (non ha una nuova patria). Essi non sono un’altra identità, ma una pluralità impersonale, una massa anonima e indistinta: «Da una parte “noi”, dall’altra i “nonnoi”, oscuri e mostruosi, ripugnanti e detestabili, colpevoli del “nostro” malessere – non importa come, non importa perché. Ma colpevoli» (p. 109). In secondo luogo, l’universo semantico in cui la figura del migrante si inscrive: eccedere, essere di troppo, compromettere pienezza e purezza, rompere l’immediatezza, ma anche essere senza, senza posto, senza patria. I migranti sono di troppo perché sono senza, il loro essere senza li rende di troppo. Non possiedono nulla, sono intrappolati in una doppia assenza (non più, non ancora), scombinano l’ordine e forzano il limite, la «polizia», come la chiamerebbe Rancière. Ma proprio in virtù di questa condizione di eccentricità, la figura del migrante finisce per corrispondere allo stesso non-luogo occupato dalla filosofia, incarnandone simbolicamente la funzione di resistenza critica alle immunizzazioni concentriche procurate dall’inerzia comoda e indolente dello status quo: «A cominciare da Socrate, che con la sua atopìa, la sua stravaganza, il suo essere fuori luogo, muove dal margine della pòlis per attraversarla, quasi espatriato in patria, gettando scompiglio, provocando sconcerto nei suoi sorpresi e irritati concittadini» (p. 148). Lo straniero è quindi una figura ambivalente, che scompagina il proprio e la proprietà, che mette in questione l’«idiotismo» dell’«identico a sé» e, ancora più radicalmente, disgrega anche il mito dell’«identico in sé», perché lo straniero non è «solo quello che non abita con me, ma anche quello che abita in me. Lo aveva già suggerito Freud con il suo Unheimlich, il perturbante che inquieta dal fondo dell’ego» (p. 154). Le conseguenze da trarre, però, precisa Di Cesare, «sono non solo esistenziali, ma anche politiche». Il punto cruciale, infatti, non è la richiesta di una conversione del sentimento morale dalla paura (xenofobia) all’amore (xenofilia), ma la fondazione di «una politica che prenda le mosse dallo straniero inteso come fondamento e criterio della comunità» (p. 158). Al principio del terzo capitolo, infatti, troviamo scritto: «La diasporizzazione lascia intravedere la possibilità di un nuovo abitare elevando a norma quel che prima era eccezione: la condizione dell’esilio» (p. 159). Ecco allora entrare in scena l’ebraico gher, il concetto e la parola-chiave che Di Cesare pone al centro della sua filosofia della migrazione e nella cui radice verbale si raccoglie nel contempo l’abitazione e l’estraneità. Gher toshàv, infatti, è colui che abita rimanendo straniero, colui in capo al quale il risiedere non produce diritto di proprietà, vale a dire l’opponibilità erga omnes di un possesso diuturno, quello della terra, ma esercita un monito permanente contro il logos dell’autoctonia e l’idolatria del radicamento: «La terra non sarà alienata irrevocabilmente, perché è a Me la terra, perché voi non siete che stranieri e residenti temporanei presso di Me (Levitico 25, 23)» (p. 198). 424 Recensioni Suggerendo una convergenza tra questo presupposto teologico-politico (l’orizzonte della coabitazione e dell’alterità come dischiuso da una terra inappropriabile, perché proprietà esclusiva di Dio) e la concezione dell’essere come sottrazione da serbare, come vuoto da non saturare, come movimento da non cristallizzare, di cui Heidegger dissemina la sua critica alla metafisica della presenza, Di Cesare eleva lo «straniero residente» a categoria originaria e nel contempo futura di co-abitazione: «Nel paesaggio in cui Heidegger si inoltra non sembrano esserci né permanenza, né radicamento; né tanto meno l’immobilità di un perenne essere sé stessi. Al contrario, l’esistenza appare decentrata in un movimento che è sempre anche il confronto con l’altro. Abitare è un migrare che richiama lo scorrere di un fiume» (p. 167). Un abitare che non produce diritto di proprietà e radicamento, dunque, ma che trattiene nell’estraneità. E non si tratta però né di una condanna all’erranza, né di un ritorno, perché l’esilio, l’essere-fuori, l’eccentricità in cui la stessa esistenza umana consiste, non è cancellabile. È piuttosto un «ritorno altro», come suggerisce Di Cesare, il cui «incessante approssimarsi» (p. 199) significa mantenersi nella differenza, equivale a ripetere il vuoto su cui tutti abitiamo. L’espressione «straniero residente», allora, non indica né una condizione specifica, quella di coloro che migrano, né uno status a cui soltanto essi dovrebbero aspirare; «straniero residente» esprime piuttosto la stessa condizione umana, che il migrante tragicamente esemplifica e che un’interpretazione «poliziesca» della politica e della filosofia, l’una armata di confini e barriere, l’altra attrezzata di sostanze e fondamenti inconcussi, ha condannato all’oblio. Se è quindi a partire dal gher che la comunità politica deve nuovamente pensarsi e istituirsi, allora lo Stato moderno, «esclusivo» e «immunitario», deve lasciare il posto alla prassi de-saturata e de-centrata del non-poter-scegliere-con-chi-coabitare: «Ecco allora il crimine in tutta la sua abissale mostruosità: aver preteso di stabilire con chi coabitare […]. Prossimità non voluta e coabitazione non scelta sono le precondizioni dell’esistenza politica […]. Questa è la condizione politico-esistenziale di ogni abitante che è allo stesso tempo straniero e residente» (pp. 253-254, 259). Federico Lijoi, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161 Roma, [email protected]. Manifesto della postfotografia: la proposta di Joan Fontcuberta Alberto Martinengo Joan Fontcuberta, La furia delle immagini. Note sulla postfotografia, Torino, Einaudi, 2018, pp. 233. La fotografia, come innumerevoli altri dispositivi della nostra quotidianità, sta subendo un processo di smaterializzazione che sarebbe stato impensabile fino a un paio di decenni fa. Quest’osservazione – evidente e forse anche banale, tanto in filosofia quanto nelle scienze sociali e in economia – è il punto di partenza del libro di Joan Fontcuberta, La furia delle immagini. Tuttavia nei diciassette capitoli del volume l’autore ne propone un’analisi molto radicale, che affronta il tema da diverse prospettive disciplinari, con uno sguardo critico e una messe di materiali di grande interesse. In effetti Fontcuberta è considerato oggi uno dei maggiori fotografi viventi, ma la sua attività mescola da alcuni decenni la produzione artistica d’avanguardia a un intenso lavoro di ricerca e d’insegnamento accademico. La furia delle immagini conferma Recensioni 425 quest’impressione perché dietro al modesto sottotitolo Note sulla postfotografia esprime in realtà un impegno teorico consistente, le cui implicazioni filosofiche sono tutt’altro che occasionali. Sono implicazioni che si confrontano con alcuni momenti del dibattito attorno alla cosiddetta visual culture e che si basano non soltanto, come ci si aspetta, su rimandi di prima mano alle arti visive ma anche su una contestualizzazione di natura sociale e politica. Per comprendere la posta in gioco del volume, è opportuno partire proprio dai riferimenti alla visual culture, cioè all’insieme di discussioni di «seconda generazione» che dagli anni novanta in poi tornano a raccogliersi attorno alla nozione di «civiltà dell’immagine», sebbene con toni e con un equilibrio molto diversi da quelli che caratterizzavano la prima generazione dei teorici novecenteschi dell’immagine. Tra i molti riferimenti che Fontcuberta richiama, Gottfried Boehm e W.J.T. Mitchell sono i principali. In particolare la teoria dell’immagine di Mitchell sembra sottostare, anche al di là di quanto è dichiarato, al passaggio che Fontcuberta propone dalla tesi «banale» che si è ricordata in apertura alle sue implicazioni estetiche e politiche. La furia delle immagini prende infatti sul serio l’ipotesi di Mitchell sulla «vita» delle immagini e la sostanzia sul piano della fotografia. In Picture Theory (1994) e, più tardi, in What do Pictures want? (2005), Mitchell sosteneva infatti che il trionfo dell’immagine nelle società contemporanee non ne avesse svelato soltanto lo status di dispositivo di senso autonomo dalla parola, ma anche una condizione di quasi-soggetti dotati di agency. Nella sua prospettiva, le immagini sono in grado di fare e di farci fare cose: nel quotidiano, in cui il visuale è un canale spesso più immediato ed efficace del logico; ma anche al livello macro del discorso pubblico, della convivenza sociale e della politica, in cui le immagini provocano reazioni diventando casus belli metaforici o reali. Fin qui la ripresa dei capisaldi della visual culture da parte di Fontcuberta. Ma l’elemento in più, che occupa gran parte del volume, è proprio la ridefinizione di quei principi in rapporto ai processi di smaterializzazione e di digitalizzazione, di cui la fotografia è l’emblema. Per Mitchell le immagini «vogliono», fanno e dicono qualcosa in relazione alla loro persistente materialità: a dispetto della loro digitalizzazione, le immagini ridiventano corpo quasi-vivente per produrre effetti, giacché non esistono mai allo stadio di puro spirito. Non così per Fontcuberta, che fonda la categoria di postfotografia proprio sul processo di spiritualizzazione dell’immagine, che ne aumenta vertiginosamente – anziché ridurne – la capacità di fare, senza più vincoli spaziotemporali: «nella fotografia», scrive, «la luce si trasforma in materia; nella postfotografia la luce si trasforma in codice. […] La postfotografia, quindi, fornisce un’informazione visiva senza aver bisogno di un supporto: privo di corporeità, l’essere postfotografico diviene pura anima, puro spirito» (p. 183). Con ciò appunto l’immagine digitale aumenta le capacità di agire che caratterizzavano già la fotografia tradizionale. È quanto accade, per esempio, con la possibilità di definire l’identità personale, in un percorso storico che va dal vecchio album di famiglia al selfie: «le foto non fanno più da supporto al ricordo ma diventano gesti di comunicazione», cioè sono «monete con le quali stabilire legami sociali» e ridisegnano i confini tra il privato della foto familiare e il pubblico dei social networks (pp. 188-189). Le pagine di Fontcuberta dedicate ai social fotografici (Instagram, Flickr, il vecchio Panoramio ecc.) sono quelle quantitativamente più presenti nel volume. Ma non si coglierebbe il suo impegno filosofico se ci si limitasse a questa compilazione delle forme dell’immagine digitale, di cui pure il lettore può apprezzare la ricchezza. Le vere conseguenze teoriche della rinnovata agency delle immagini si raccolgono nel «manifesto postfotografico» a cui il libro punta a più riprese (cfr. in partic. pp. 31-46). Sono conseguenze che si raccolgono lungo tre linee: il problema dell’autorialità; il significato dell’immagine; la sua politicizzazione. 426 Recensioni La scomparsa dell’orizzonte autoriale tradizionale non tocca soltanto il problema di «chi» produca l’immagine. Si tratta di un mutamento più profondo, che travalica le considerazioni di natura giuridica (copyright, privacy, remunerazione dell’artista): il punto è che l’artista digitale è costretto ad assommare in sé ruoli tipicamente diversi – è artista ma al contempo curatore, collezionista, storico e teorico. Da una parte, infatti, tutti siamo attivi e prolifici produttori di immagini digitali attraverso i nostri camera phones, cioè dispositivi di comunicazione in cui la qualità dell’apparato fotografico prevale nettamente sugli altri usi. Dall’altra, questa secolarizzazione del ruolo del fotografo mette in capo a chi produce immagini sfide diverse, volte a spezzare l’uniformità (la banalità, la ridondanza, la bulimia) digitale. Per esempio, se l’utente medio comunica attraverso il grado zero dell’artisticità rappresentato dalla tecnica del punta-e-scatta, al contrario l’artista-fotografo dovrà costruire contesti complessi: cioè luoghi fisici o digitali in cui l’immagine sia costruita e non solo catturata, luoghi nei quali la sua fruizione – anche sui social networks – dialoghi con l’estetica del quotidiano riformandola o stravolgendola. La seconda linea del manifesto di Fontcuberta tocca il significato dell’immagine fotografica digitale. Si è già detto che la postfotografia tende a minimizzare il proprio contenuto e massimizzare la propria circolazione, cioè la capacità di comunicare. Qui Fontcuberta pensa il fenomeno in linea con il modello benjaminiano della perdita dell’aura, ma con una differenza decisiva: a scomparire non è soltanto l’unicità dell’opera ma appunto la garanzia del suo significato. Che cosa significa creare, in questo senso? Più che essere semplicemente produttore di immagini, l’artista postfotografico è colui che ha la «capacità di dotare l’immagine di uno scopo e di un senso, di fare in modo che sia significativa» (p. 47). Insomma, il significato della postfotografia sta finalmente e totalmente nel suo uso. E l’artista postfotografico fa la differenza rispetto al normale possessore di apparati fotografici digitali, nella misura in cui sia in grado di adottare l’immagine: cioè acquisirla – scattarla, costruirla, crearla, modificarla… – ma soprattutto dotarla di qualcosa che la semplice informazione contenuta sul supporto digitale non ha. Così Fontcuberta nel capitolo benjaminiano intitolato «L’opera d’arte nell’epoca dell’adozione digitale» può affermare che «l’autorialità – l’artisticità – non affonda più le radici nell’atto fisico della produzione, ma nell’atto mentale di normare i valori che possono contenere o raccogliere le immagini: valori che sono sottesi o che gli sono stati conferiti» (p. 48). Da questo punto di vista, la creazione postfografica va pensata «come attribuzione di senso alla nascita delle immagini, o ancora come spostamento del posizionamento semantico quando le immagini si reincarnano in altre vite» (ibidem). Si arriva così al tema della politicità della postfotografia, che è la terza linea del manifesto di Fontcuberta. Se ne percepisce l’urgenza ma, purtroppo, anche lo stadio embrionale a cui queste pagine si fermano. Eppure è una questione inaggirabile: si è già detto dei richiami di Fontcuberta alla fotografia come casus belli – le caricature di Maometto o le immagini dei migranti, che diventano trending topics della discussione pubblica e hanno una forza indiscutibile nell’orientare il consenso. La furia delle immagini non va molto al di là della descrizione del problema; tuttavia il contesto teorico in cui l’autore si colloca è piuttosto chiaro. Si tratta del riferimento a un’ecologia del visuale (cap. XII), che parte anch’essa da premesse benjaminiane: la sovrapproduzione di immagini fotografiche digitali genera una messe sconfinata di scarti, cioè una sorta di rumore di fondo – quasi sempre assordante – a cui si dovrebbe rispondere con la stessa attenzione dedicata ai rifiuti materiali che produciamo. Fuor di metafora, si pensi alle immagini digitali amatoriali che catturano i fatti di cronaca nera: i selfie sulla scena dei delitti, la pedopornografia online, il voyerismo che supera le forme tradizionali di autocensura e si fissa indelebile sui social. I punti di osservazione di questi fenomeni sono numerosi. Ma un’estetica postfotografica sulla linea aperta da Fontcuberta potrebbe avere un ruolo di primo piano, decisivo dal punto di vista critico. Il volume ricorda alcuni programmi artistici rilevanti in tal senso: Recensioni 427 fotografi che denunciano l’invasione di immagini promuovendo mostre «personali» in cui espongono centinaia di varianti turistico-amatoriali di uno stesso soggetto; progetti basati su dispositivi tecnici (Gps e intelligenza artificiale) che inibiscono la condivisione di immagini relative a luoghi ad alto inquinamento iconico (l’ennesima foto di un monumento o di un panorama naturale); performances volte a sensibilizzare il pubblico rispetto alla pervasività delle videocamere per il controllo delle città (per esempio, flashmob sotto gli «occhi» degli autovelox). All’estetica si apre così un campo consistente di opere digitali da pensare e, soprattutto, da far agire nella pubblica opinione: un campo tanto più valorizzabile in chiave politica, quanto più lo si analizzi con l’equilibrio – né censorio, né ingenuamente entusiasta – di cui Fontcuberta dà prova in queste pagine. Alberto Martinengo, Classe di Lettere e Filosofia, Scuola Normale Superiore, Piazza dei Cavalieri 7, 56126 Pisa, [email protected]. Metafora, filosofia e immagine Carla Bazzanella Alberto Martinengo, Filosofie della metafora, Milano, Guerini e Associati, 2016, pp. 142. Come scrive l’autore nella bella introduzione di questo volume, «le lingue sono strumenti vivi, che progrediscono e crescono nell’uso concreto. Talvolta capita effettivamente che si inventino parole nuove […], ma molto più spesso succede che si usino in modi nuovi le parole vecchie» (p. 12). La metafora è infatti uno dei meccanismi più potenti, se non il più potente, di pensiero e di sfruttamento della flessibilità della lingua nello stabilire nuove analogie tra i concetti e associazioni tra parole, nel «fare cose con le parole» (nel senso austiniano), nel rendere «visibile» un significato favorendone la conoscenza e la comprensione in quanto «compone le cose davanti agli occhi» (Aristotele, Poet. 48b 5-18; Reth. 1371b 4-9). Non stupisce quindi che l’analisi della metafora, tematica vastissima dalla bibliografia sterminata, abbia coinvolto fin dai tempi antichi e coinvolga tuttora (dato che le attuali tecnologie, come la Fmri, permettono nuovi approcci sperimentali al funzionamento della mente e del linguaggio) molti studiosi di varie discipline, spesso in studi interdisciplinari. In questo saggio Martinengo presenta una interessante prospettiva filosofica che si concentra sulla metafora come parte di una serie di fenomeni linguistici (in sintesi, il linguaggio figurato e il simbolo), in cui l’immagine e il vedere con le parole emergono come filone centrale, a partire da un quadro filosofico-storico in cui si ritrovano i prodromi di questo «fiume carsico» (p. 27), che affiora sempre più impetuosamente. Il percorso si articola in tre parti: «La riscoperta della metafora: pensare con le parole», «Il laboratorio della metafora: parlare con le immagini», e «Dalla metafora all’immagine: vedere con le parole». Nella prima parte, attraverso una rassegna storica, si tratta sinteticamente di Aristotele «come il padre indiscusso di un’evoluzione plurisecolare» (p. 20), della tradizione postaristotelica che opera una riduzione retorica della concezione aristotelica, di Vico e del suo pensiero mitico-poetico, di Locke (contrario agli abusi della retorica ma favorevole a forme di linguaggio analogico), del Settecento e inizio Ottocento in cui si trovano pochi accenni alla creatività metaforica in senso filosofico (l’autore cita Herder, Rousseau, Kant, Goethe), della fine dell’Ottocento in cui risaltano Nietzsche («l’autore che lungo tutta la sua opera non fa che scrivere in figure» e che libera lo studio metaforico dalla sudditanza retorica; p. 28) e Biese, che diffonde la prospettiva conoscitiva della metafora anche in letteratura. 428 Recensioni Il secondo capitolo della prima parte («Il dibattito contemporaneo») si apre con il metaphorical revival filosofico (p. 29), cita brevemente alcuni aspetti della metafora messi in luce da Ortony, Gibbs, Richards, e si espande sulla teoria dell’interazione di Black e su Blumenberg (già richiamato in relazione a Vico). Si dedica quindi ampio spazio al modello di Lakoff e Johnson (1980, 1999) e Johnson (1987), che mettono in risalto la pervasività della metafora nella vita quotidiana, il rapporto con l’embodiment e gli aspetti esperienziali, la centralità della concettualizzazione metaforica nello strutturare il nostro rapporto con il mondo. All’interno dello stesso capitolo si ricostruisce l’evoluzione del trattamento della verità, accennato nella trattazione precedente relativamente a Locke, Nietzsche (rispettivamente, p. 25 e 27) e al pensiero originale di Blumenberg, secondo cui si può parlare di metafore «in un senso pratico […] che è assieme storico e pragmatico» (p. 39). Lakoff e Johnson (1999) adottano invece un approccio esperienziale alla verità, che richiede anche la comprensione di una data situazione e l’interazione con il mondo esterno, data la rilevanza dell’ambiente fisico e culturale per il nostro sistema concettuale e l’uso adeguato delle metafore. La seconda parte del volume comprende due capitoli (III e IV). All’inizio del terzo si sottolinea, ancora con Lakoff e Johnson, il ripensamento filosofico rispetto alle parolechiave della tradizione occidentale («realtà, pensiero, logica, metafisica, astrazione, processi di concettualizzazione», p. 53), la diffusione di studi dei processi quotidiani di metaforizzazione anche nel discorso politico e l’intreccio sempre più esteso ad altre scienze, in particolare quelle cognitive (cfr., tra gli altri, Radman, From a metaphorical point of view: A multidisciplinary approach to the cognitive content of metaphor, 1995). Si introduce quindi il dibattito continentale, in particolare la prospettiva ermeneutica, «vero e proprio laboratorio della metafora» (p. 55), soffermandosi su Gadamer e soprattutto su Ricoeur e sulla sua via lunga dell’interpretazione attraverso il simbolo e la figurazione narrativa. Nel capitolo quarto, infine, si precisa il contributo di Ricoeur rispetto ai processi di metaforizzazione, cruciali nel linguaggio tra simbolo e testualità per la capacità di far vedere e produrre referenze nuove, in una concezione dinamica della metafora, intesa come punto di equilibrio tra deviazione e norma (p. 86). Nelle discussioni di Ricoeur con Black e Hesse e nel confronto-scontro successivo con Derrida, si riprendono le tematiche del complesso rapporto metafora-filosofia, in cui Martinengo si schiera con la prospettiva ermeneutica e conclude sulla non-cancellabilità della distinzione tra metafora e concetto. La terza parte approfondisce il rapporto tra metafora e visione, riconoscendo a Ricoeur il merito di averne sottolineato la centralità già emersa in passato (dal metapherein come visualizzazione del discorso in Aristotele). Per Ricoeur la metafora, a differenza del simbolo, allarga i limiti del linguaggio tramite l’immagine associata, con un «collassamento dei confini» (p. 113) il cui intreccio permette la comprensione. Nella Metafora viva, Ricoeur anticipa la posizione dell’immagine non subordinata al linguaggio che verrà sostenuta successivamente nell’ambito della visual culture, che raccoglie tradizioni disciplinari differenti: principalmente media studies, discipline artistiche, filosofia. La svolta relativa alla composizione di «immagine-linguaggio» nella metafora, preparata dalle scelte mirate dello sfondo storico e sviluppata nell’analisi del pensiero degli autori analizzati, emerge così dal complesso intreccio della storia della filosofia e ci porta nella attualità. Per delimitare le caratteristiche del pictorial turn, Martinengo utilizza alcuni testi di W.J.T. Mitchell, a partire dal presupposto che «tutti i media sono misti» e dalla considerazione della plurivocità della nozione di immagine. La svolta iconica si definisce quindi come «una tensione continua nel corso della storia culturale dell’uomo [o del genere umano], che obbliga ogni volta la filosofia (ma anche l’arte, la teologia, la letteratura…) a ripensare i confini tra il verbale e il visuale» (p. 119). In questo ripensamento si ritrovano problemi di natura filosofica ma anche politica e sociale, derivanti anche dalla natura dialettica dell’immagine, che coinvolge i soggetti e gli usi dell’immagine: l’abbandono Recensioni 429 del logocentrismo permette infatti di «considerare le immagini come mediatrici delle interazioni sociali» (p. 122). Comporta inoltre lo sviluppo di un’attenzione critica al ruolo della immagine e alla comprensione della sua performatività: «Il terreno del visuale è soprattutto questo: un campo di forze composto, oltre che da immagini, anche da soggetti che non si limitano a contemplarle, ma interagiscono, producono azioni e le subiscono» (p. 127). Collocare l’immagine all’interno delle pratiche sociali significa inoltre proporre un’analisi dei supporti che ne permettono la costruzione e la produzione di effetti. Anche qui la proposta di Mitchell si amplia, coinvolgendo la multisensorialità delle esperienze percettive in relazione a un contesto linguistico e storico-politico concreto. Nel rivedere termini ambigui e problemi sospesi della visual culture Mitchell propone, tra l’altro, una interessante distinzione tra picture («qualcosa di materiale», «ciò che può essere appeso a una parete, bruciato o distrutto», p. 133) e image («ciò che appare in una picture, ciò che sopravvive alla sua distruzione», ibidem). Come scrive Martinengo, «le storie della metafora da Aristotele alla rinascita novecentesca sono dunque molteplici e, come si è visto, non sempre compatibili tra loro. Si tratta infatti di storie cariche di teoria, cioè si possono raccontare in modo diverso a seconda del punto di arrivo a cui si decide di portare il discorso» (p. 40). In sintesi, Filosofie della metafora ha due pregi sostanziali, oltre alla chiarezza: offrire un quadro articolato dello sviluppo storico della filosofia della metafora e aprirsi, con la teoria di Mitchell, a nuovi o rinnovati orizzonti dell’importanza dell’immagine come medium complesso nelle sue intersezioni con la metafora. Si poteva forse insistere di più, in conclusione, sull’intreccio complesso tra mente, linguaggio, immagine e contesto. La forza cognitiva (studiata negli anni recenti), la potenza visiva (sfruttata per esempio nella pubblicità, giocando anche su convergenze e divergenze di significati nel rapporto testoimmagine), la capacità suggestiva della metafora (resa possibile sia dall’immaginazione che dalla indeterminatezza e molteplicità del linguaggio), la condivisione degli sguardi sul mondo, l’interazione verbale e non verbale agiscono insieme nel rendere possibili creazione, comprensione, condivisione e convenzionalizzazione di espressioni metaforiche efficaci e adeguate alla situazione. Carla Bazzanella, Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione, Università di Torino, Via Sant’Ottavio 20, 10124 Torino, [email protected]. Ateismo moderno: un problema solo metafisico? Anna Lisa Schino Gianluca Mori, L’ateismo dei moderni. Filosofia e negazione di Dio da Spinoza a d’Holbach, Roma, Carocci, 2016, pp. 300. La tesi presentata nel bel libro di Gianluca Mori, L’ateismo dei moderni. Filosofia e negazione di Dio da Spinoza a d’Holbach è che l’ateismo moderno sia un ateismo filosofico e anti-teologico, e che la sua stagione sia durata cento anni, dal Tractatus theologicopoliticus (1670) di Spinoza al Système de la nature (1770) di d’Holbach. L’ateismo dei moderni è dunque speculativo, in funzione di un obiettivo polemico ben preciso: il Dio dei teologi. Punto di riferimento critico è la teologia razionale «sorta con Cartesio, poi sviluppata da Malebranche e da Leibniz, da Locke e da Clarke, ma presto messa in crisi, o meglio portata alle sue estreme conseguenze, prima da Spinoza e poi da Bayle, dai Collins 430 Recensioni e dai d’Holbach, con Voltaire complice involontario ma non meno effettivo» (p. 241). Finita la teologia razionale dell’età della rivoluzione scientifica, nata con Cartesio, finisce anche l’ateismo filosofico. La negazione di Dio utilizzerà poi nuovi strumenti concettuali, quelli di Feuerbach, Marx, Nietzsche, e soprattutto si avvarrà delle ricerche di Darwin sull’origine delle specie viventi. Si potrebbe anche aggiungere che finirà un ateismo negativo e si comincerà a discutere di un ateismo positivo. Dunque per Mori la questione dell’ateismo, per lo meno nell’ambito della cultura occidentale della modernità, deve essere correlata alla concezione di Dio emersa con le grandi religioni monoteistiche e sistematizzata nelle rispettive teologie; è un problema, cioè, essenzialmente metafisico. Ma l’ateismo sei-settecentesco è solo ribellione contro la teologia? La tesi, interessante e argomentata con una rigorosa analisi delle fonti, esclude (e forse sacrifica) parte della riflessione del XVII secolo. Come è noto, fino a d’Holbach, che conclude secoli di dissimulazioni e di reticenze, nessun autore si professa apertamente ateo. Nel Seicento l’ateismo è considerato un male sociale, ed è perciò perseguitato: per gli apologisti, l’ateismo non è solo un errore di giudizio, ma è anche il prodotto di una natura malvagia, che deve essere piegata e rieducata. Nascosto e dissimulato, l’ateismo seicentesco si declina in modi molto diversi e si esprime attraverso una scrittura obliqua, comprensibile solo a spiriti forti e déniaisés. In prima battuta l’ateismo compare come un’accusa mossa dai teologi. Nel 1623 Marin Mersenne nelle Quaestiones celeberrimae in Genesim lancia un allarme: nella sola Parigi ci sono 50.000 atei! Questo numero enorme evidenzia il rifiuto, da parte dei teologi, di ogni autonomia di giudizio, stigmatizzata come empia e atea. In questa accezione, l’ateo è semplicemente chi dissente. «Ateo» è una definizione offensiva rivolta a eretici, scismatici, sacrileghi, eterodossi, antitrinitari, a chiunque non aderisca alla fede della comunità a cui appartiene. Secondo un altro celebre apologista del primo Seicento, il gesuita François Garasse, Lutero raggiunge «il grado perfetto dell’ateismo». Sul versante opposto, i testi di libertini eruditi quali François de La Mothe Le Vayer, Gabriel Naudé, Héctor-Savinien Cyrano de Bergerac, Pierre Gassendi e l’anonimo trattato clandestino intitolato Theophrastus redivivus, costituiscono chiari esempi di un ateismo che potremmo definire politico. Questa accezione comporta il rifiuto di ogni religione in quanto subordinata a interessi politici: la religione è sempre e solo instrumentum regni, è un’impostura finalizzata a consolidare un potere mondano con un carisma sovrannaturale. In questi testi troviamo anche spunti per un ateismo morale che rifiuta ogni idea di Provvidenza in nome dei dubbi e della disperazione che si affacciano nelle menti degli uomini di fronte alle avversità fisiche e morali del mondo (disordine della natura, crudeltà degli uomini, sofferenza degli innocenti, e così via). Possiamo individuare, inoltre, un ateismo razionalistico in riferimento al rifiuto e alla condanna della superstizione come condotta irrazionale tipica delle masse popolari; a tale comportamento si aggiunge, nel volgo, la sostituzione della fede in Dio con la fede nel caso o Fortuna in senso magicoastrologico. Infine, si può parlare di ateismo genealogico in riferimento al rifiuto della religione come rivelazione divina o come consapevolezza immediata della presenza di Dio nel cosmo. Questo rifiuto viene argomentato sulla base di un’analisi storico-antropologica che ricostruisce la genesi della religione a partire dalle passioni degli uomini (in primo luogo, paura e speranza) e dai loro bisogni naturali, ma anche dalle convenzioni e dai legami indispensabili per tenere unita una società. Possiamo, tuttavia, chiederci se queste riflessioni libertine siano riconducibili a una forma di ateismo o se costituiscano semplicemente una critica della religione: la negazione dell’uso che di Dio è stato fatto dagli uomini è anche negazione di Dio? E a quali conclusioni può arrivare lo storico, che non possiede gli strumenti spicci dell’inquisitore, nella comprensione di testi che mettono costantemente in atto dispositivi di autoprotezione e strategie di occultamento? Recensioni 431 Su uno sfondo così variegato e complesso, Mori intende mettere a fuoco in primo luogo una definizione di ateismo che, evitando confusioni con deismo, scetticismo, eterodossia, identifichi chiaramente l’oggetto d’indagine. A Mori interessano le posizioni argomentate filosoficamente e non quelle dichiarazioni a effetto, né quelle affermazioni prudentemente attribuite ad altri, o citazioni di autorevoli autori pagani che, secondo il costume dei libertini eruditi, pongono interrogativi e insinuano dubbi, lasciando al lettore il pesante compito di trarre da solo conclusioni dissacranti. Il lavoro da fare non è indagare le intenzioni, bensì distillare il contenuto filosofico di un testo, mettendo in evidenza ciò che è sostenuto da argomenti, teorie, dimostrazioni, e isolando gli eventuali dispositivi retorici. Sarà così possibile evitare sia la prospettiva degli inclusivisti che, pretendendo di leggere tra le righe, assoldano atei un po’ dappertutto (per es. G. Minois, Histoire de l’atheisme. Les incroyants dans le monde occidentale des origine à nos jours, Paris, Fayard, 1998), sia quella degli esclusivisti che finiscono con il riconoscere come atei solo coloro che si dichiarano apertamente tali (per es. M. Onfray, Trattato di ateologia, Roma, Fazi, 2005). In quest’ottica, il primo punto da chiarire è a quale Dio ci si oppone: il requisito perché si possa propriamente parlare di un pensiero ateo è la negazione di un’intelligenza consapevole come fonte dell’ordine della natura. A partire da questo assunto, Mori dipinge un quadro ricco e affascinante al centro del quale colloca Spinoza e Bayle: «Da un lato Spinoza, dall’altro Bayle: su questa paradossale alleanza tra la fredda ontologia della sostanza eterna e la sofferta percezione delle sofferenze umane poggia le sue basi il “sistema” dell’ateo moderno» (p. 225). Il percorso del libro inizia, dunque, con il caso di Spinoza, il filosofo «ebbro di Dio» secondo il poeta Novalis e ateo per eccellenza secondo una lunga tradizione (che annovera, tra l’altro, la voce «Spinoza» del Dictionnaire historique et critique di Bayle). Successivamente, dopo aver discusso in appendice l’ateismo di Hobbes, Mori dà grande rilevanza alle posizioni del platonico di Cambridge Ralph Cudworth (autore di The intellectual system of the Universe, 1678), che individua il discrimine tra teismo e ateismo nell’ammettere o meno che la causa prima sia intelligente e capace di progettualità. Sottolinea anche molto la centralità di Pierre Bayle con la spietata critica degli attributi morali di Dio e l’affermazione della possibilità di una morale sganciata da qualsiasi fede religiosa («la prima sostanziale apologia dell’ateismo che la storia moderna abbia conosciuto»). Sono poi ben valorizzate le riflessioni degli atei clandestini Meslier, Boulainviller, Du Marsais e Fréret nei loro trattati. Mori passa quindi ad affrontare le posizioni di Toland e Collins (ricondotte a una prospettiva atea) e l’ateismo empiristico di Hume, privo di certezze apodittiche e probabilistico nel senso della maggiore probabilità dell’ipotesi atea rispetto a quella di un creatore intelligente e provvidente del mondo. Il libro si conclude con un capitolo che, innanzi tutto, ricostruisce il complesso procedere di Diderot con la tesi della «sensibilità generale delle molecole della materia» e la conseguente difficoltà, irrisolta, di supporre sempre, in ogni particella materiale, un minimo di attività pensante. Nello stesso capitolo viene anche sintetizzato il deismo di Voltaire, con le sue revisioni e il bisogno spesso riaffermato di un creatore spirituale della materia: «Voi avete sempre ragione contro i preti – obietterà Voltaire a d’Holbach – ma non confuterete il principio che mens agitat molem» (citato a p. 225). Parallelamente si assiste all’emersione e aperta professione di ateismo da parte di d’Holbach, con l’illusione tutta illuministica che la religione possa essere abolita dalla comunità degli uomini in nome di un nuovo ordine morale e politico e di una nuova felicità. In tale percorso, il libro si avvale, oltre che della grandissima padronanza testuale e contestuale dell’autore, anche di una scrittura moderna e sofisticata, qualità queste che ne rendono avvincente la lettura. 432 Recensioni Bisogna dunque aspettare Bayle perché il paradosso dell’ateo virtuoso diventi il paradigma della modernità. Lentamente l’ateismo diventa positivo e, piuttosto che discutere se Dio esiste e se l’anima immortale verrà premiata o punita, si cerca di spiegare il mondo elaborando una scienza della natura umana senza Dio. Questo nuovo ateismo mette al centro l’uomo spiegando il funzionamento dell’intelletto, delle passioni, della morale secondo un programma naturalistico sganciato dalla religione, dunque proponendo una concezione della natura umana completamente diversa da quella insegnata dai teologi, che dia centralità non alla ragione, all’intelletto o alla coscienza, bensì alle passioni, ai sentimenti, alle credenze (temi per i quali si rimanda a E. Lecaldano, Senza Dio, Bologna, Il Mulino, 2015). Anna Lisa Schino, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161 Roma, [email protected]. La filosofia di Carlo Antoni Carlo Crosato Francesco Postorino, Carlo Antoni. Un filosofo liberista, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016, pp. 162. Pensatore protagonista del primo dopoguerra, Carlo Antoni non gode della fama che la sua produzione filosofica, poliedrica e appassionata, che spazia dall’estetica alla filosofia politica e morale, meriterebbe. Allievo critico di Benedetto Croce, capace di costruire una propria linea filosofica autonoma e originale, Antoni ha offerto alla cultura liberale un contributo il cui spessore non pare essere adeguatamente riconosciuto, né dagli storici del liberalismo, né dai pensatori critici del nuovo liberalismo, né, più in generale, dalla filosofia politica tanto estera quanto italiana. Impegnandosi nel tentativo di colmare il vuoto lasciato da una diffusa indifferenza, il libro che Francesco Postorino ha pubblicato nel 2016 per Rubbettino, Carlo Antoni. Un filosofo liberista, restituisce l’immagine di un pensatore dotato di un raro acume teoretico. La poliedricità mediante cui Antoni si confronta con la realtà lo induce a sondare l’ambito estetico già rinvenendovi al fondo una questione morale e latamente politica, che invece la modernità ha spesso cercato di cassare dall’arte. La figura ingenua ma non banale dell’artista fanciullo, affiancata all’idea di una ubiquità non strettamente professionale dell’arte, restituisce un’immagine del bello che, se avvicinata senza infingimenti e senza iperboli, contiene un notevole afflato di quello spirito democratico e liberale di cui Antoni si fa interprete. In più, avvicinando le intuizioni di Antoni in merito all’esperienza estetica e disponendole nella prospettiva contemporanea, Postorino riscopre l’attualità e, anzi, il largo anticipo con cui il pensatore triestino aveva gettato le basi per una riflessione intorno all’atrofia dell’esperienza estetica e del senso morale corrispondente all’ipertrofia di quella dimensione sorta per sedare l’eccesso di moralismo che assediava la volontà individuale: quella economica, certo strutturale nell’uomo descritto dal liberalismo crociano, ma da non intendersi mai in senso esclusivo. Quello economico, sostanziato dall’elemento dell’utile, è un problema a cui già Croce aveva dato l’accesso al proprio sistema, incontrando tuttavia una serie di aporie alle quali solo parzialmente aveva saputo rispondere. Antoni riprende la questione spiritualizzando, certo, l’utile, ma al contempo sedandone alla radice l’esuberanza grazie a un rapporto di etica e politica ben più solidale di quanto avesse pensato lo Recensioni 433 stesso Croce: una solidarietà giocata sull’equidistanza tra l’universale, spesso preda di un moralismo ingessato, e il particolare, sovente capriccio della volontà individuale. Si tratta, per così dire, di trattenere l’utile dalla tentazione dell’effimero, per collocarlo non tanto nel dominio compiutamente universalistico della morale, ma quanto meno in un cammino coerentemente orientato verso esso: al di là della morale medievale, ubiqua e per questo mai davvero presente, Antoni si volge alla riscoperta della vitalità attorno a cui si ingrana la volontà, quel motore che coinvolge l’azione utile in un senso etico di respiro più ampio, tendente all’universale appunto. Si tratta di un riavvicinamento tra etica e politica che non sfocia – e non potrebbe mai, data l’autonomia sostanziale dei distinti – in una completa adesione, e i cui lineamenti sono complessi e sofferti; Postorino ne ricostruisce con lucidità il movente e le difficoltà. Seppure svincolata dal carattere effimero di un utile come capriccio del singolo, l’azione politica, intesa come un dovere limitato all’ufficio dell’individuo, non può mai esaurire la tensione potenzialmente universalistica dell’etica. Di qui, la critica nei confronti di tutta quella teoria politica moderna che ha confuso un ambito finito, come quello dello Stato, credendolo coincidente con l’espressione infinita della morale. Quella etica è un’azione il cui potenziale è realizzabile dall’individuo nel momento in cui, emancipatosi dal solipsismo della volontà, riesce a superare anche la passività imposta dagli apparati istituzionali, concedendo alla propria volontà un moto così ampio da poter approdare in un altro dettato dalla sua interiorità. È all’interno di un tale quadro che può essere pensata la nozione di democrazia, come condizione strutturale di una buona convivenza: senza mai potersi esaurire nella semplice esecuzione di un ufficio, essa coinvolge l’individuo nell’esercizio di quelle libertà che si collegano a quell’esercizio, manifestandosi come un atto informato da consistenti elementi morali. Inoltre, e in maniera più interessante, Antoni investe la democrazia di un afflato spirituale, in grado di dare voce all’autogoverno dell’io. Ed è coerentemente con un simile concetto individualistico che assume valore una nozione moralizzata di utilità, identificandosi la democrazia con la possibilità di ognuno di dire se stesso entro una dimensione pubblica. Una solida ricostruzione dell’elaborazione teoretica è propedeutica, nel volume di Postorino, alla comprensione del liberalismo di Antoni di contro a quello crociano. Quest’ultimo si presenta come la teoria filosofica di una libertà senza aggettivi; un orizzonte metapolitico al di là di ogni ordinamento determinato e di ogni formalizzazione giuridica, capace cioè di travalicare la stessa teoria formale dell’etica e di coincidere con una concezione totale del mondo e della realtà, in cui tutto è figura storica del trascendentale della Libertà. E se la Libertà che coincide con la storia non può subire variazioni, nelle sue declinazioni a posteriori nelle quattro sfere del reale essa incorre in rischi ed è passibile di miglioramenti, oscillando tra bello e brutto, tra vero e falso, tra utile e disutile, tra bene e male. Nel divario che si apre tra una logica trascendente, di un Libertà irrinunciabile, e una logica immanente, di una libertà che si declina a posteriori, emerge una seconda prospettiva «liberale», non più metapolitica e filosofica, quanto invece strettamente politica e interna alla storia. Nella dimensione trascendentale della Libertà, ma parimenti in quella immanentistica, Croce sottovaluta il ruolo del soggetto, il quale, paradossalmente, è inteso libero solo all’interno di quello spazio religioso entro cui tutto è Libertà, mentre nel momento spirituale nella sua declinazione immanentistica è inteso come strumento necessario per la determinazione delle quattro libertà. È sull’idea di libertà di Croce che Postorino intende stagliare il liberalismo di Antoni, suo allievo, il quale parte da una severa considerazione della concezione immatura di individuo che circola in Italia, tutta chiusa nella propria egocentrata indifferenza e incapace di aprirsi a una dimensione civica. A differenza del suo 434 Recensioni maestro, ma senza per questo sposare la posizione di Einaudi, il liberalismo di Antoni è di matrice liberista; non si tratta di una mossa anticrociana, sottolinea Postorino ingaggiando un confronto critico con gli interpreti più autorevoli, in quanto conserva traccia della celebrazione crociana della produttività dello spirito. E da questo dibattito dipende anche la comprensione del ruolo ricoperto da Antoni all’interno della società del Mont Pèlerin. Quella che Postorino riscopre nell’elaborazione di Antoni è una versione assai interessante di liberismo, sciolta dall’idea dell’homo oeconomicus, da ogni forma di conservatorismo, e più simile a una specie di metodo etico-politico tutto teso alla promozione dell’energia creativa di ognuno. Proprio come, in ambito estetico, è creativa l’opera che si libera dal secco oggettivismo, così è creativa l’opera economica compiuta da chi investe in primo luogo su se stesso senza per questo scadere in un bieco utilitarismo o nel freddo egoismo. L’originalità del liberismo di Antoni è ben restituita dall’itinerario consigliato da Postorino, che dall’estetica finisce nella politica, e che alla creatività estetica ricongiunge l’urgenza di rivitalizzare l’individuo mediante il senso profondo dell’attività economica. È in questo senso che il liberismo di Antoni si carica di un valore universale, conducendo l’individuo a un confronto schietto e sincero con la moralità: si tratta di una versione strettamente ispirata al pensiero cristiano, ma anche allo sforzo emancipativo di umanesimo e Riforma, giustificando così un’esplicita avversità nei confronti di ogni forma di statalismo. Ed è contro la crociana divinizzazione della Storia e in favore di un soggetto politico attivo e concreto, al di là di ogni compito metapolitico da sentinella della libertà, che Antoni intraprende la propria esperienza nel Partito liberale e, poi, nel Partito radicale di Pannunzio. Lo studio di Postorino restituisce uno spaccato di storia italiana entro cui all’attività strettamente politica era affiancata un’intensa attività intellettuale, in cui i politici erano studiosi appassionati, le cui idee erano fondate su una profonda ruminazione filosofica. E non si tratta di una nota nostalgica, bensì di un’urgenza pressante in un’epoca, come la nostra, governata da un distorto senso pragmatico, in cui le rielaborazioni neoliberali, alle cui primissime mosse lo stesso Antoni ha partecipato, sono piegate nel senso di un utilitarismo esasperato, nel senso di una irresponsabile prevaricazione fra individui che sono ben lungi da promuovere progetti e idee nell’alveo di un progresso collettivo. Carlo Crosato, Dipartimento di Filosofia e Beni culturali, Università Ca’ Foscari, Dorsoduro 3484/D, 30123 Venezia, [email protected]. Una geofilosofia del globo Giulio Azzolini Matteo Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, Torino, Einaudi, 2017, pp. 218. L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, edito per la Piccola Biblioteca di Einaudi, è un saggio ricco, suggestivo, arguto. Lo è perché l’autore, Matteo Vegetti, spazia dalla filosofia alla geografia, dalla politica all’economia, e usa lenti insolite per una penetrante genealogia dell’età globale. Vale innanzitutto notare che egli non intende la globalizzazione in senso meramente quantitativo, come una moltiplicazione delle interazioni politiche o economiche, sociali o culturali, oppure come un incremento dell’interdipendenza tra le nazioni. La sua ricerca si inscrive in una Recensioni 435 corrente minoritaria, non secondaria, tesa ad accentuare i tratti storici e filosofici del globo, della sua morfologia sferica. In anni recenti, hanno variamente lavorato in questa direzione, tra gli altri, Denis Cosgrove negli Stati Uniti, Peter Sloterdijk in Germania, Sebastian Vincent Grevsmühl in Francia, Franco Farinelli in Italia (stranamente assente, come Grevsmühl, dall’indice dei nomi). Anche Vegetti rimarca la presa di coscienza del mondo come un tutt’uno, che, esemplare nelle opere di Valéry e Jünger, di Rosenzweig e Freud, viene collocata nel primo Novecento. Ma a differenza degli studiosi sopra indicati, il debito schmittiano contribuisce a che L’invenzione del globo riconosca un carattere eminentemente politico alle dinamiche di globalizzazione. Il primo dei quattro capitoli che compongono il volume, «L’unità del mondo. Leviathan, Behemoth, Ziz», identifica nella scoperta dell’America l’inizio della modernità globale. Perché secondo l’autore, come d’altronde per buona parte della storiografia, modernità e globalizzazione coincidono. Il lessico e in qualche misura la semantica, come anticipavo, sono mutuati da Carl Schmitt. Analizzando e contestualizzando diversi scritti del giurista tedesco, Vegetti scandisce una serie di tappe storiche tramite il riferimento agli elementi naturali: mare, terra, aria. La prima lunga fase di globalizzazione, aperta dalle grandi scoperte geografiche, vive lo sviluppo del mercato e il progresso dell’industria. Ma da che cosa dipese l’espansionismo coloniale europeo, in quanto premessa delle scoperte stesse? Secondo l’autore, la modernità nasce all’insegna del Leviatano. In questo caso, però, il celebre simbolo biblico non indica lo Stato continentale, bensì le forze marittime, che trovano il loro apogeo nell’Inghilterra vittoriana. È questa la potenza ultra-statuale, l’enorme balena, l’animale acquatico contrapposto alle potenze terrestri, rappresentate da Behemoth. E che cos’è stata la prima modernità se non l’equilibrio, ogni volta rinnovato, tra Leviathan, il mostro marino, e Behemoth, con i suoi confini, sanciti già alla metà del Seicento dalla pace di Vestfalia? Vegetti sostiene che la prima globalizzazione cominci convenzionalmente nel 1492 e termini, invertendo due cifre, nel 1942. Nella lettura proposta, la data periodizzante è proprio quest’ultima, quando Schmitt dà alle stampe Terra e mare. In questo libricino, ideato nel pieno della Seconda guerra mondiale, egli avverte che il conflitto a cui sta assistendo come spettatore interessato segnerà la crisi di quell’ordine planetario che, fino ad allora, si era retto sull’equilibrio (instabile e mai garantito a priori) tra guerra e mare. Ma oltre a rilevare il logoramento di terra e mare, ovvero dello ius publicum europaeum, quali criteri di ordinamento dello spazio, Schmitt scorge nell’aria l’elemento oramai decisivo. Come emerge nel secondo capitolo, «One World: l’impero dell’aria», il 1942 avrebbe inaugurato l’«epoca dell’aria», secondo quanto riconobbe, nello stesso anno, il geografo d’oltreoceano George Thomas Renner (e diversamente, dopo di lui, Walter Ristow e Grace Croyle Hankins). Con Ernst Jünger, Schmitt evoca anche un altro simbolo esoterico, Ziz. Uccello di enormi proporzioni, figura dell’elemento aereo, Ziz è un prodigio della tecnica. Meccanica ed elettronica: da un lato i motori a scoppio; dall’altro la radio, la tv, il radar. Dalla meccanica, ovviamente, promana il potere militare dell’aeronautica; dall’elettronica, invece, la potenza economica delle nuove tecnologie di trasporto e comunicazione. Non che terra e mare diventino insignificanti, ma paiono subalterne rispetto all’aria. Come indicavo all’inizio, tuttavia, la peculiarità di Vegetti consiste nell’intreccio della dimensione geofilosofica con quella propriamente geopolitica. Allora se la prima globalizzazione, vissuta nel contrasto tra terra e mare, era stata eurocentrica, la seconda globalizzazione implica lo spostamento dell’egemonia mondiale sull’altra sponda dell’Atlantico. Sono gli Stati Uniti l’«impero dell’aria». La svolta trova la sua scaturigine fattuale nell’attacco giapponese a Pearl Harbour, il 7 dicembre 1941. Quell’evento scuote il governo statunitense, che decide di rinunciare all’auto-isolamento nel quale si era costretto. La dottrina Monroe, che separava il mondo in due emisferi, viene 436 Recensioni abbandonata e la cartografia politica mondiale si appresta a essere riscritta. Vegetti dedica belle pagine alle incertezze, alle resistenze e all’immaginazione con cui gli Stati Uniti maturano la vocazione ad assumere il ruolo di potenza globale. Egli chiarisce inoltre con efficacia come questa consapevolezza storico-politica faccia tutt’uno con l’intuizione che la chiave del successo consiste nella supremazia tecnologica e nei già richiamati risvolti militari ed economici. I più sensibili cartografi americani (tra gli altri, Richard Edes Harrison) sanno che la translatio imperii del Novecento, dal Regno Unito agli Stati Uniti, poggia sull’aereonautica e sulla comunicazione radio, le risorse che consentono il dominio dell’aria. Il mondo, che non ha più l’Europa al centro, si scopre unificato sotto una bandiera preminente, quella a stelle e strisce. Il terzo capitolo, «Planetarizzazioni della Terra», spiega come quella di Ziz non sia l’ultima fase di globalizzazione. Il prevalere dell’elettronica sulla meccanica conduce alla progressiva instaurazione di quello che Marshall McLuhan definirà «villaggio globale», un sistema denso e conflittuale. Ma gli anni sessanta del secolo scorso lanciano soprattutto una nuova sfida, che vede ancora gli Stati Uniti come capofila: non già l’appropriazione dell’aria, bensì il controllo sull’etere. Commentando Blue Marble, Vegetti mostra come la conquista dello spazio celeste muti la concezione stessa del nostro ecosistema. La famosa fotografia della Terra, scattata il 7 dicembre 1972 dall’Apollo 17, ha due effetti pressoché immediati: testimonia la volontà e la capacità dell’essere umano di emanciparsi dal suo ambiente consueto e, d’altro canto, l’irrimediabile unificazione di tutto il globo, la sua «planetarizzazione». Martin Heidegger, seguito decenni dopo da Sloterdijk, interpreta lo sbarco sulla Luna come il simbolo della perdita di mondo da parte dell’essere umano. Emmanuel Lévinas, Maurice Blanchot e Kostas Axelos si concentrano invece sulla ridefinizione dell’identità in un mondo disorientato, l’«astronave madre». La tecnica, in sintesi, viene percepita dai suoi interpreti più avvertiti come un vettore di sradicamento etico, nonché, sempre di più, come un fattore di crisi della statualità. Alle pieghe politiche ed economiche degli ultimi decenni di globalizzazione è consacrato il quarto capitolo, «Mondi globali. La terra e i flussi». Esso illustra le maniere attraverso cui i recenti processi di deterritorializzazione e riterritorializzazione hanno compromesso non solo le piene sovranità, ma anche, specificamente, l’impero statunitense. Vegetti si serve in particolare della più fortunata nozione di Manuel Castells per diagnosticare la formazione di un inedito «spazio di flussi». La cifra del capitalismo contemporaneo sarebbe costituita da quei flussi di merci, informazione, capitale, capaci di ridefinire i limiti materiali e immateriali dello Stato. Non che quest’ultimo scompaia, come invece nella prospettiva di Kenichi Ohmae, ma certo subisce un ridimensionamento tale da renderlo uno soltanto dei soggetti in gioco. Di qui la sottolineatura dell’accresciuta complessità della geografia. Lungi dal descrivere un universo piatto, l’autore si sforza di mettere in risalto i grovigli politici, economici, culturali della trama sociale odierna. La domanda finale non poteva che riguardare la qualità di un nomos della terra acconcio ai nostri giorni. Una risposta esauriente avrebbe richiesto, come è ovvio, un altro libro. Vegetti si limita a tre appendici. Una si concentra sull’11 settembre, in una sorta di chiusura ideale del libro, che, affrontando fin dall’introduzione l’attacco a Pearl Harbor, termina con l’attentato terroristico alle Torri Gemelle. Un evento che, notoriamente, ha innescato devastanti reazioni a catena, prima spingendo gli Stati Uniti al sogno di un «nuovo secolo americano» e poi, dopo il conclamato fallimento di quello smisurato progetto, conducendo l’attuale amministrazione a un neo-isolazionismo annunciato. Un’altra presa sul presente è legata all’analisi del drone, come mezzo delle nuove guerre che minacciano di colpire la stessa società civile, ma anche come simbolo del superamento della necessaria compresenza, nella battaglia, di due eserciti Recensioni 437 contrapposti. In conclusione – e siamo alla terza appendice – viene posta la questione dell’integrazione politica sovranazionale in Europa. Si tratta naturalmente di un nodo difficilissimo da sciogliere. Vegetti ha il merito di guardarlo in modo tale che risalti tutta la sua problematicità, se non la sua aporeticità. Come può articolarsi una territorialità politica sovranazionale nell’era dell’evaporazione del valore e delle chiusure identitarie? Dopo aver conosciuto la centralità nell’epoca dell’equilibrio tra terra e mare, come può l’Europa risorgere nello spazio-tempo dei flussi? Giulio Azzolini, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161 Roma, [email protected].