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La «Metafisica» di Aristotele di Enrico Berti
Francesco Fronterotta
Aristotele, Metafisica, a cura di Enrico Berti, Roma - Bari, Laterza, 2017, pp. 662.
La recente pubblicazione di una nuova traduzione commentata della Metafisica di
Aristotele da parte di Enrico Berti, fra i massimi studiosi di Aristotele e del pensiero
antico in generale, va celebrata come un evento importante negli studi classici, non solo
in Italia, e si inserisce nel contesto di una rinnovata attenzione rivolta alla tradizione e
alla trasmissione del testo di questa opera fondamentale. Benché, infatti, non si abbia
a che fare qui con un’edizione critica in senso proprio, che sia cioè basata su un nuovo
esame dei manoscritti, Berti ha lavorato su un testo greco che si distanzia talvolta
significativamente dalle due principali edizioni novecentesche della Metafisica, quelle di
W.D. Ross e di W. Jaeger, normalmente assunte fino a oggi come punto di riferimento
essenziale ed esclusivo dai commentatori (pp. v-ix). Seguendo le orme di alcuni studi (di
M. Frede e G. Patzig sul libro zeta, di B. Cassin e M. Narcy sul libro gamma) o edizioni
(di O. Primavesi del libro alpha, di S. Fazzo del libro lambda, oltre che di O. Primavesi e
M. Rashed che preparano attualmente una nuova edizione critica dell’intera opera) degli
ultimi decenni, Berti si allontana sistematicamente dalla scelta, operata tanto da Ross
quanto da Jaeger, di basarsi su entrambe le famiglie di manoscritti, denominate alpha
e beta, a cui, secondo la ricostruzione di D. Harlfinger, si deve la trasmissione del testo
della Metafisica, optando di volta in volta, in caso di divergenza, per l’una o per l’altra,
per ragioni paleografiche, filologiche o esegetiche. Alla famiglia alpha appartengono
alcuni manoscritti del X e dell’XI secolo, i più antichi in nostro possesso, mentre dalla
famiglia beta discendono un manoscritto del XII secolo, che tuttavia, a partire dal cap.
7 del libro lambda, riproduce lo stesso testo di alpha, e alcuni manoscritti più tardi, del
XIV e XV secolo. In uno dei manoscritti della famiglia beta si trova inoltre il commento
di Alessandro di Afrodisia alla Metafisica (II-III secolo), il che ha indotto particolarmente
Jaeger a ritenere che esso potesse derivare direttamente da un manoscritto, ancora più
antico, letto da Alessandro stesso. Questa ipotesi è stata tuttavia sottoposta recentemente
a una serrata critica: il manoscritto in questione parrebbe infatti l’esito di una revisione
dell’originale proprio sulla base del commento e dell’interpretazione di Alessandro, alla
cui attività sarebbe dunque posteriore, sicché risulterebbe preferibile privilegiare, in
caso di divergenza, la famiglia alpha, che dipende forse da un manoscritto utilizzato
da un altro commentatore della Metafisica, Asclepio (VI secolo), che, indipendente dal
commento di Alessandro, potrebbe ricondurre nientemeno che all’archetipo da cui
derivano entrambe le famiglie. In non pochi punti cruciali, osserva Berti (pp. viii-ix),
una scelta di questo genere si mostra gravida di conseguenze, perché mette in luce la
tendenza, riconoscibile nei manoscritti della famiglia beta e ascrivibile ad Alessandro di
Afrodisia, di fornire un’interpretazione teologizzante della metafisica di Aristotele: è per
esempio il caso, che vale la pena citare qui, del libro alpha elatton 1, 993b19-23, secondo
cui, nella traduzione di Berti del testo della famiglia alpha, «è anche corretto chiamare
la filosofia scienza della verità, poiché della <filosofia> teoretica è fine la verità, mentre
della <filosofia> pratica <è fine> l’operato. I <filosofi> pratici, infatti, anche quando
esaminano come stanno le cose, non conoscono teoreticamente la causa di per sé stessa
(aition kath’hauto), ma in relazione a qualcosa e nel momento presente». Ora, nel testo
trasmesso dai manoscritti della famiglia beta (e nel commento di Alessandro, 145, 1020), compare, in luogo del termine aition («causa»), aidion («l’eterno»), sicché in questa
versione l’oggetto della filosofia teoretica, secondo Aristotele, non sarebbe la «causa»,
«Iride», a. XXXI, n. 84, maggio-agosto 2018 / «Iride», v. 31, issue 84, May-August 2018
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ma l’«eterno», così indirizzando verso una lettura teologica della ricerca aristotelica,
finalizzata all’indagine dell’oggetto più eminente, e non invece, più semplicemente, alla
conoscenza delle cause delle cose.
«Cosa» è, infatti, la metafisica o, più esattamente, la filosofia prima di cui Aristotele
cerca di determinare i confini, l’oggetto e i principi? Berti ha da tempo mostrato, in
non pochi suoi lavori, quanto inappropriata sia la rappresentazione della Metafisica
aristotelica come una teologia e di tale posizione propone, in sede introduttiva, una sintesi
(pp. xix-xxxi). Se è vero che, nel libro epsilon (1, 1026a18-19), si descrive la filosofia
prima come «teologica» (theologhike), ciò non attiene a una sua identificazione con la
«teologia» in quanto scienza di dio o del divino, giacché, come è noto, questo termine
designa semplicemente, secondo Aristotele, l’insieme di miti e racconti riportati dagli
antichi poeti intorno agli dei. Si deve piuttosto constatare che il carattere «teologico»
o, più esattamente, «divino» della filosofia prima dipende dal fatto che gli oggetti a essa
assegnati coincidono con le cause eterne e fra queste, principalmente, le cause delle realtà
«divine», che sono fatte espressamente consistere, in questo passo del libro epsilon, con
gli astri e con i corpi celesti in generale. L’oggetto della filosofia prima non è dunque dio,
o gli dei, o il «divino» come tale, bensì l’insieme delle cause delle cose che sono, alcune
delle quali, per esempio gli astri e i corpi celesti, sono caratterizzate come «divine». Del
resto, anche nel libro lambda, tradizionalmente etichettato come programmaticamente
«teologico», Aristotele non solo riprende e riassume la sua ricerca intorno alle cause di
tutti i generi di sostanza, comprese quelle sensibili, ma soprattutto ribadisce, trattando
delle sostanze mobili ed eterne, vale a dire i cieli, che le cause del loro movimento sono una
serie di motori al vertice dei quali si situa un primo motore immobile da cui «dipendono
il cielo e la natura» (7, 1072b13-14), sicché risulta plausibile intendere la scienza che si
occupa di tali motori come una scienza di principi e cause di movimento del tutto, nella
quale il «divino» compare come una soltanto delle cause di uno soltanto dei generi di realtà
del cui movimento è la causa. D’altra parte, continua Berti (pp. xxii-xxiv), se si esclude
che la metafisica aristotelica possa coincidere con una teologia, cioè, ricorrendo a una
scansione di matrice scolastica, con una porzione limitata e ristretta (metaphysica specialis)
di una più generale scienza ontologica rivolta all’esame di tutte le cose che sono e del loro
essere (metaphysica generalis), non è neanche legittimo ammettere che essa si identifichi
con quest’ultima e che dunque vada concepita come un’ontologia, e ciò non tanto perché
una simile concezione dell’ontologia, e il termine stesso che la designa, appartengono alla
filosofia della prima modernità (XVI-XVII secolo), ma soprattutto nella misura in cui la
descrizione della filosofia prima come «scienza dell’essere in quanto essere» ampiamente
discussa nel libro gamma (e ripresa ancora nel libro epsilon), che farebbe effettivamente
propendere in favore di una sua interpretazione ontologica, adempie, secondo Berti, a una
funzione ben precisa e limitata, per essere successivamente abbandonata o quantomeno
superata. La nozione di «essere in quanto essere» risponde infatti ad alcune delle aporie
sollevate nel libro beta della Metafisica, rispetto alla possibilità che le cause prime siano tutte
oggetto della stessa scienza, in base all’argomento per cui le cause prime, se sono tali, non
possono essere cause di un tipo particolare di ente, bensì di ogni ente indifferentemente,
cioè in quanto ente, vale a dire rispetto al tratto essenziale e primo che caratterizza ogni
ente, ossia il semplice fatto del suo «essere», che «è». Una volta garantita così l’unità della
filosofia prima, la nozione di «essere in quanto essere» come suo oggetto lascia il posto,
a partire dal libro zeta, all’esame del primo dei significati dell’essere secondo lo schema
delle categorie, la sostanza, di cui occorre cercare le cause: questo dunque, nell’analisi di
Berti (pp. xxv-xxxiii), è il filo conduttore della Metafisica di Aristotele e l’oggetto proprio
della sua «filosofia prima», la ricerca delle cause prime della sostanza – non dunque
l’essere, in quanto totalità universale degli enti, né dio, in quanto ente particolare per
quanto più eminente di tutti, ma l’essere in quanto sostanza, che dell’essere esibisce il
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primo e fondamentale dei significati, così tenendo insieme l’esigenza che la filosofia prima
disponga, in quanto scienza, di un oggetto determinato, e che, allo stesso tempo, possieda
il carattere dell’universalità.
Va tuttavia rilevato, anche al di là di ogni giustificazione editoriale (ossia relativa alla scelta
del testo greco da tradurre e commentare) ed esegetica (connessa cioè alla ricostruzione e
alla messa a punto della storia critica e delle «appropriazioni» della Metafisica aristotelica)
– di cui si è detto brevemente fin qui – che si avvertiva davvero, e da tempo, la necessità
di disporre di una traduzione italiana completa, affidabile e nei limiti del possibile non
interpretativa, che andasse ad affiancarsi alle altre traduzioni in circolazione, spesso ormai
datate e quindi talora difficilmente utilizzabili, per il lessico e la comprensione di fondo.
Berti lamenta a questo proposito di non aver ottenuto un esito soddisfacente dal punto di
vista stilistico e della scorrevolezza (p. x), ma il lettore, anche specialista, non potrà non
apprezzare l’enorme vantaggio di confrontarsi con una versione del testo aristotelico sempre
chiara, attenta fin nei dettagli e opportunamente esplicativa. Devo limitarmi in questa sede
a citare qualche esempio. Il sostantivo ousia, notoriamente tanto cruciale quanto complesso
nei suoi significati, è reso sistematicamente con «sostanza», quando è impiegato in modo
assoluto, oppure con «essenza», quando è seguito dal genitivo e fornisce quindi la risposta
alla domanda intorno al «che cosa è» (to ti esti) una certa cosa, vale a dire, con un’altra
temibile e difficilissima espressione aristotelica, al to ti en einai, il «che cos’era l’essere»
che di una certa cosa rappresenta l’essenza. Notevolissima, e pertinentissima agli occhi di
scrive, la scelta di restituire al termine aitia il senso di «causa» anziché, secondo una moda
contemporanea di provenienza anglosassone, di «ragione» o «spiegazione»: se è indubbio
che la filosofia moderna attribuisce alla nozione di «causa» un’estensione semantica più
limitata rispetto al greco aitia, è altrettanto indiscutibile che l’esclusione dalla terminologia
aristotelica di un lessico della causalità in senso stretto, privilegiandone la componente
semplicemente «esplicativa», è stata spesso la conseguenza di una forzatura esegetica,
consistente nel tentativo di depotenziarne la dimensione propriamente «efficiente» e
pertanto autenticamente «metafisica». Pure rimarchevole la resa di un altro verbo di
cruciale importanza, theorein, che non indica semplicemente lo «studio» o «l’esame» di
qualcosa né tantomeno la sua «contemplazione» astratta, quanto piuttosto un «conoscere
teoreticamente» qualcosa, vale a dire costruendo una teoria scientifica intorno a qualcosa.
Poche note, certo gravemente insufficienti anche come presentazione schematica di
un lavoro così impegnativo e imponente, permetteranno però di apprezzarne, spero, la
profondità e il rigore: questa Metafisica di Enrico Berti accompagnerà certamente i lettori,
italiani e non, per i prossimi decenni.
Francesco Fronterotta, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161
Roma,
[email protected].
Mantenere aperto l’orizzonte dell’etica
Caterina Botti
Rossella Bonito Oliva, Vita ordinaria e senso del comune. Per un’etica dell’opacità, Milano,
Led, 2016, pp. 111.
Con un linguaggio denso ed evocativo Rossella Bonito Oliva ci conduce, nel testo Vita
ordinaria e senso del comune. Per un’etica dell’opacità, attraverso una riflessione, o forse
meglio un’interrogazione, o un esercizio, intorno allo spazio o all’orizzonte dell’etica.
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In un tempo in cui l’etica è fortemente evocata, soprattutto nella forma di norme
o precetti che limitino o legittimino le forme della convivenza umana (o per esempio
che, come viene detto nel testo, dirigano e disciplinino le implicazioni degli sviluppi
bio-tecnologici rispetto al riprodursi e morire), ma in cui essa è, d’altra parte,
fortemente messa in discussione, essendo venuta meno la possibilità di una fondazione
metafisica ed essendo andati in crisi «gli ideali del Moderno» (p. 7) e la loro possibilità
di una fondazione di diversa natura, la domanda intorno al senso di questa impresa o
questione od orizzonte, dell’esercizio che implica, si fa pressante.
Bonito Oliva partendo da questa premessa, nei diversi capitoli di questo volume,
sembra indicarci la via di uno scarto da questa forbice, sostenendo che l’etica non vada
affatto pensata come schiacciata sulla forma giuridica della norma, né tantomeno vada
abbandonata, anche nella sua pretesa di orizzonte universale o comune, ma compresa
piuttosto in modo diverso e così, riproposta e reinterrogata, mantenuta aperta, come
caratterizzante la forma di vita umana.
La risorsa da cui muovere per procedere in questo senso sembra essere la
coltivazione dell’opacità, cioè dello scarto tra ciò che riusciamo a dire e ciò che non
riusciamo a dire di noi e del mondo, tra ciò che siamo individualmente e ciò che siamo
in quanto parte di una comunità, tra noi e il mondo, tra noi e l’altro, tra ciò che ci
è familiare e ciò che non lo è, anche in o di noi stessi. È questa opacità infatti che ci
muove all’interrogazione sul senso della vita e a cercare un orientamento nel mondo,
interrogazione e ricerca inesauribili e a cui non si può che dare risposta in prima
persona (e non in assoluto), ma che si mantengono vive solo a patto di non esaurire
la vita in qualcosa di dato, di completamente dicibile, di calcolabile, o descrivibile
completamente e compiutamente, a patto di mantenere viva la «meraviglia» (nel senso
proposto da Wittgenstein, su cui Bonito Oliva si sofferma a lungo: cfr. per es. pp.
31ss.): la meraviglia dell’esistenza e dell’esperienza del mondo e dello scarto tra le due,
delle possibilità e dei limiti del linguaggio.
Tornare a, recuperare, i momenti in cui questa opacità si dà, piuttosto che nasconderli,
sembra essere dunque l’esercizio (etico) necessario: «allargare l’orizzonte e guardare con
un altro sguardo la puntualità della vita ordinaria lasciando da parte ogni pretesa di fornire
una spiegazione, semplicemente conservando l’attenzione al senso» (p. 109). Ed è questo
– per altro – il tentativo che l’autrice prova a compiere nello stesso volume, come afferma
nelle righe conclusive.
L’esercizio svolto nel volume si articola attraverso riferimenti alla riflessione
filosofica e al tempo presente, ma anche alla pittura, alla letteratura e al cinema, questi
ultimi particolarmente interessanti. Bonito Oliva sembra voler ricavare e ricostruire
da autori anche molto diversi, da Aristotele a Hegel, a Wittgenstein, Arendt, o Hadot,
passando anche per Spinoza e Kant, per menzionare i più citati, lo stesso punto: la
necessità di mantenere un senso di inesauribilità, di «più che vita», di «altrove» o
«altrimenti», che permetta di mantenere aperta l’interrogazione umana e quindi vivo
e non mortificato l’umano, nella sua pluralità, se l’umano è appunto, come afferma in
diversi luoghi, il vivente che si interroga e si interpreta.
Diversi sono ovviamente i modi in cui rintraccia questa inesauribilità: per esempio
«il riconoscimento del doppio e complementare registro tra potenzialità e attualità in
cui si determina e si decide la condizione umana» (p. 14), che accomuna a suo avviso
Aristotele e Hegel, o il rapporto tra mondo e immagini o linguaggio in Wittgenstein, come
già si diceva, tra sentirsi e non sentirsi a casa nel linguaggio (e qui l’autrice cita anche
Cavell), o ancora la tensione tra soggettivo/singolare e intersoggettivo/mondo comune che
caratterizza la riflessione di Arendt.
Mantenere aperto questo spazio è ciò che permette dunque di mantenere aperta
l’interrogazione etica, e questo esercizio, mi sembra di poter dire, si pone sui due piani
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della pratica individuale e di quella collettiva. Qui si aprono alcune considerazioni
interessanti, proprio sulla necessaria relazione e circolarità tra questi due piani.
Da una parte questa tesi porta l’autrice a contestare ogni impresa atta a ridurre lo
spazio di quello che a tratti chiama il «mistico», ancora con espressione di Wittgenstein
(p. 66), soprattutto nella forma di saperi che presumano di esaurire, spiegare e svelare
il mondo e l’umano, banalizzandolo, serializzandolo, globalizzandolo, riducendolo a
un senso comune nel significato di opinione dominante (p. 49). L’etica si caratterizza
invece come la ricerca di un senso proprio e di un senso del comune, nel senso appunto
del mantenere la possibilità di interrogarsi e dare risposte – in prima persona –
all’inquietudine che muove ogni essere umano, di fronte alla vita e alla morte, e quindi
anche nel senso dell’attenzione a ciò che sostiene questo interrogativo: appunto lo sfondo
comune, la «medietà unica», che si configura come il contesto di senso dell’esperienza
e della parola umane nella loro singolarità e diversità, sia pure nella sua inesauribilità.
Il comune che permette il singolare, anche nella forma della distinzione e diversità, non
è dunque pensato in forma metafisica, non è fisso, ma mobile: è la comune esperienza
umana, è lo sfondo tessuto dalle pratiche condivise e ordinarie che permettono la vita
e l’interrogazione, è riportato quindi alla dimensione ordinaria e plurale, ma comune,
della vita, del linguaggio e del pensiero.
Rintracciare questa circolarità tra singolarità e sfondo comune permette anche
di svelare la natura bisognosa e vulnerabile dell’umano, la dipendenza reciproca tra
umani (p. 44), il nostro bisogno di socialità (p. 107), e quindi di dare una direzione
all’interrogazione etica. Infatti proprio il mantenimento di questo spazio comune,
senza derivarne norme o esaurirlo in un contenuto, che prende anche la forma del
riconoscimento della cura per la dignità di tutti e ciascun essere umano che di fatto lo
compongono, come viene indicato negli ultimi capitoli, sembra poter essere riconosciuto
come una direzione da seguire nella nostra infinita ricerca e interrogazione, come un
orientamento etico.
Facoltà fondamentale in questo compito, individuale e collettivo, di recuperare lo
sfondo comune senza chiuderlo, recuperare cioè il senso di ciò che è comune negli/agli
umani, ma che non ci è comune (nel senso di abituale, facilmente accessibile, scontato
o esauribile), rilanciando l’interrogazione, sembra essere infine l’immaginazione. In
questo senso molti passaggi sull’arte e la letteratura e l’analisi di opere punteggiano il
testo.
Così penso si possa provare a rendere il nucleo centrale del volume qui discusso,
certo reso in modo succinto e necessariamente lacunoso. Per concludere questa mia
lettura e tentare qualche commento vorrei spendere alcune parole conclusive per
sottolineare e illustrare alcuni temi che mi hanno particolarmente colpita nell’esercizio
che Bonito Oliva opera. Da una parte, vorrei ancora sottolineare il ruolo fondamentale
che l’autrice riconosce all’immaginazione, all’esperienza e al sentimento per il
mantenimento, personale e interpersonale, dell’orizzonte etico, che trovo sia una
suggestione particolarmente interessante; dall’altra, ho trovato interessanti una serie di
accenni al tema della cura di sé e degli altri e, infine, la riflessione che offre nei capitoli
finali sulla dignità.
Mi vorrei soffermare brevemente su questi due ultimi temi, e soprattutto sull’ultimo.
La dignità è una nozione alla quale spesso si fa ricorso, a mio modo di vedere, in modo
filosoficamente scivoloso e soprattutto con l’esito di chiudere più che aprire l’orizzonte
della libertà e possibilità umana. Non è questo il caso: Bonito Oliva percorre con cura
il crinale sottile che permette di separare accezioni normative forti, direi violente,
che chiudono ciò che è degno di un essere umano, e quindi lo rende dignitoso, in un
novero di condotte o tratti dato (penso qui per esempio all’uso che spesso ne viene fatto
nella letteratura bioetica), dall’accezione che lei propone, che al contrario permette di
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«guardare nell’altro il vivente che ciascuno è» (p. 85). Questa mi pare una via molto
interessante, ancorché, a mio avviso, il ricorso a questa nozione rimanga in qualche
modo sempre rischioso, proprio per quella dimensione di distacco tra l’umano e ciò
che invece umano non è, per esempio l’animale (ma sappiamo bene quanto lo stesso
novero dei viventi riconosciuti come umani si sia modificato nella storia, e quanto possa
essere necessario modificarlo ancora), di cui pure può premere prendersi cura. Una
dimensione, questa della separazione tra umano e non umano, che tradizionalmente
caratterizza la trattazione della nozione di dignità e che non sono sicura che Bonito
Oliva voglia del tutto abbandonare, nel suo concentrarsi, assolutamente coerentemente,
sulla specificità del vivente umano come unico caratterizzato dalla capacità di autointerrogarsi e autodeterminarsi. Si vedano per esempio le pagine in cui ripercorre le tesi
kantiane della Metafisica dei costumi e dove caratterizza questa diversa capacità umana
come ciò che segna «l’uguaglianza orizzontale tra gli uomini e la loro superiorità rispetto
agli altri viventi» (p. 99). Al di là del fatto che si potrebbe suggerire che in questa sua
tesi Kant intendesse «uomini» solo nel senso di umani di sesso maschile (o solo alcuni
di essi), e anche riconoscendo una concezione ampia dell’umano, rimane comunque
la possibilità di domandarsi se rintracciare certo un scarto, ma anche una continuità o
perfino una interdipendenza con altri e diversi viventi non umani, senza un pensiero
della superiorità o inferiorità, non possa essere invece un’altra via per mantenere
aperta l’interrogazione etica e per aprirsi a un pensiero e una pratica di cura, ancorché
ovviamente essa prenda forme diverse per i diversi viventi.
Per quanto riguarda invece il tema della cura, di sé o dell’altro umano, la suggestione
che viene proposta in questo testo mi pare molto interessante, soprattutto avendo
in mente la recente espansione della riflessione sull’etica della cura, perché appunto
le considerazioni offerte da Bonito Oliva possono spostare quest’ultima in modo
interessante. Si evince infatti dalle considerazioni offerte che la cura lungi dall’essere
frutto di una semplice inclinazione umana, che prende la forma del rispondere al
nostro o altrui bisogno inteso come immediatamente percepibile, richieda invece un
esercizio diverso che si caratterizza come la presa in carico dello sfondo comune che
sostiene la visibilità dell’esigenza particolare, ma anche l’attenzione alla distanza del
particolare da ciò che è comune e quindi allo scarto tra il particolare e il comune nei
due sensi, l’opacità appunto. Una tesi che trovo molto convincente.
Ritornando infine al tema della dignità, a cui sono dedicati i due ultimi capitoli,
come dicevo Bonito Oliva lo articola con molta attenzione e soprattutto le preme di
distinguerlo dall’uso che se ne fa in connessione con la nozione di persona (e questo
probabilmente dà conto anche delle considerazioni che ho offerto prima) o di diritti
umani, e quindi chiudendolo su una serie di caratteristiche specifiche. La dignità
sembra rinviare invece a quella circolarità tra lo sfondo della comune umanità, e la
singolarità e differenza di ciascuno che ne sono il tessuto, che ci dovrebbe portare
a riconoscere appunto la dignità di tutti, nella loro diversità. Chiare ed evocative, e
attuali, in questo senso, sono le pagine che pongono a tema la riflessione di Primo Levi
sulle pratiche di resistenza alla «infezione latente nel genere umano» per evitare che
«ogni straniero non diventi un nemico» (p. 75-78).
Caterina Botti, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161 Roma,
[email protected].
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Metodo e spiritualità nella filosofia moderna
Laura Cremonesi
Simone D’Agostino, Esercizi spirituali e filosofia moderna. Bacon, Descartes, Spinoza, Pisa,
Ets, 2017, pp. 270.
Chi abbia qualche familiarità con le opere di Pierre Hadot sa bene come il tardo
Rinascimento e la prima modernità rappresentino l’epoca in cui è più difficile trovar traccia
degli esercizi spirituali: è infatti questo il momento in cui la filosofia si situa a maggior
distanza da quell’idea di maniera di vivere fortemente presente nel mondo antico e si avvia
a intraprendere un percorso di sistematizzazione, che culminerà nel pensiero hegeliano.
Nella sua vocazione originaria, invece, sin dal suo sorgere con la figura di Socrate, la
filosofia non era affatto una costruzione di sistemi, ma un metodo di trasformazione della
visione del mondo e della maniera di vivere, praticato in comune nelle scuole. Questa
modificazione avveniva attraverso pratiche concrete – esercizi spirituali – destinate
realizzare le tappe di questo percorso trasformativo, di cui le opere filosofiche antiche
offrono preziosa testimonianza.
Secondo Hadot, la prima deviazione della filosofia dal suo aspetto originario avviene
con il cristianesimo, e precisamente con la scolastica del Medioevo, secondo un movimento
che trasferisce alla mistica gli esercizi spirituali e affida alla filosofia il ruolo di fucina di
concetti teologici. Tuttavia, in epoca contemporanea, si assiste a un ritorno dell’antica
vocazione: in autori come Nietzsche o Bergson è per Hadot possibile avvertire il riaffiorare
del legame tra filosofia e vita. L’epoca moderna è dunque il momento in cui, con Descartes
e la sua neutralizzazione del soggetto di conoscenza, la separazione tra filosofia ed esercizi
spirituali si fa più netta e ha inizio un lungo inabissarsi degli esercizi spirituali, che
riemergeranno in campo filosofico solo in epoca recente.
Eppure, nota D’Agostino, Hadot stesso sembra tornare a precisare questo schema
storiografico, rapidamente abbozzato nel suo noto articolo Exercices spirituels («Études
Augustiniennes», 1981; Albin Michel, 2002), accettando di vedere tracce della pratica
degli esercizi spirituali in Montaigne, nelle Meditazioni cartesiane e in Spinoza.
Come è chiaro sin dal titolo, il libro di D’Agostino intende proprio mettere in
discussione questa scansione cronologica, per mostrare come la filosofia moderna non
rechi solo tracce di esercizi spirituali, ma possa essere compresa in alcuni suoi aspetti solo
alla luce del suo legame con il modo di vivere che, lungi dall’iniziare il suo declino, occupa
ancora un posto centrale nel pensiero filosofico. L’immagine della filosofia moderna che il
libro di D’Agostino ci restituisce è, dunque, quella di un pensiero traversato da due spinte:
accanto a una tendenza verso la sistematizzazione, permane una concezione «ascetica»
della filosofia, che non abbandona l’idea degli esercizi spirituali di trasformazione del sé.
È interessante notare come, per dare avvio alla propria dimostrazione, D’Agostino
sposti lo sguardo verso un autore fortemente influenzato da Hadot, Michel Foucault,
che ha fatto ampio ricorso all’idea di esercizi spirituali in tutta la sua interpretazione
del mondo antico. È una particolare declinazione della lettura foucaultiana a interessare
D’Agostino, precisamente quella che riguarda la relazione tra soggetto di conoscenza ed
esercizi spirituali, proposta ne L’herméneutique du sujet (Gallimard Seuil, 2001).
Come Hadot, anche Foucault tenta di tracciare una storia degli esercizi spirituali,
individuando nell’epoca moderna il momento della loro uscita dalla filosofia. La filosofia
moderna avrebbe infatti posto fine a una precedente concezione, definita da Foucault
«spiritualità», secondo la quale non era pensabile un soggetto di conoscenza che divenisse
tale senza un preliminare percorso di trasformazione di sé che, insieme al raggiungimento
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della verità, portava anche a una trasfigurazione del soggetto, conferendogli uno stato di
pienezza e di padronanza di sé. Ponendo un soggetto già capace, di per sé, di conoscenza
esatta, la filosofia moderna non solo espelle gli esercizi spirituali dalla formazione del
soggetto inquirente, ma elimina anche l’effetto trasfigurante del cammino verso la verità.
Tuttavia, come Hadot, anche Foucault sfuma la nettezza di questo schema, suggerendo
l’esistenza, nella filosofia moderna, di un filone che, usando in senso ampio l’espressione
spinoziana, può essere definito come «riforma dell’intelletto». Questo versante della
filosofia moderna avrebbe mantenuto vivi gli esercizi spirituali, legando strettamente il
cammino del metodo alla questione della spiritualità.
Questo intreccio tra spiritualità e metodo brevemente segnalato da Foucault è il filo
conduttore seguito da D’Agostino, che ci guida in un percorso attraverso la filosofia
moderna, scegliendo tre opere appartenenti alla «riforma dell’intelletto» così intesa.
Il Novum Organum, il Discours de la méthode e, appunto, il Tractatus de intellectus
emendatione possono dunque essere letti in modo unitario, come «variazioni di un
medesimo motivo filosofico» (p. 25) che, a partire dalla constatazione della necessità di
un perfezionamento del soggetto inquirente, traccia un percorso trasformativo, secondo
le tre tappe della filosofia nella sua vocazione originaria: modificazione della visione
del mondo, del modo di vivere e del modo di essere a cui soggetto può aspirare, tappe
che, come nota D’Agostino nelle sue conclusioni, si prestano senz’altro a una lettura in
termini kantiani.
Pur mantenendo ben ferme le evidenti differenze, attraverso l’idea di esercizi
spirituali D’Agostino reperisce dunque uno schema comune, che permette di analizzare
in parallelo le tre opere. Esse prendono tutte avvio dalla convinzione che il primo
gesto da compiere sia quello di «emendare» l’intelletto dalle disfunzioni che, innate o
acquisite, lo conducono a una distorta visione delle cose, riprendendo in questo modo
quella funzione «terapeutica» della filosofia, ben presente nella visione originaria della
filosofia come maniera di vivere.
In Spinoza, per esempio, autore in cui maggiormente è avvertibile la presenza degli
esercizi spirituali antichi, l’abbandono della precedente visione del mondo assume un
andamento chiaramente stoico, consistente nel distogliere l’attenzione dai falsi valori,
per dirigerla verso la ricerca del vero bene. Rettificati gli errori, ci si potrà incamminare
nella parte positiva del metodo e iniziare a «condurre con ordine i propri pensieri» (p.
10). In Descartes, questa impresa assumerà l’aspetto di un vero e proprio racconto di
formazione che D’Agostino analizza, in pagine molto suggestive, tramite procedure di
analisi narrativa. Nel Discours de la méthode, l’«eroe della fiaba» attraverserà numerose
peripezie per uscire dallo stato di sottomissione in cui le opinioni trasmessegli dai suoi
precettori lo trattenevano e per raggiungere l’oggetto desiderato: l’uso autonomo della
propria ragione e l’emancipazione dalla tutela altrui. Ecco che si apre la strada per la
modificazione del modo di vivere, per cui D’Agostino identifica un nuovo, importante
punto in comune tra le tre opere. Esse concordano infatti nella necessità di dotarsi di
un habitus, che permetta alla nuova visione del mondo di dare effettivamente forma al
modo di vita. Acquisibili attraverso un esercizio continuo, le nuove abitudini conferiscono
all’intelletto la capacità di funzionare correttamente in modo sempre più immediato e
automatico: che si tratti della prudenza di Bacon, della meditazione delle quattro regole
fondamentali del metodo di Descartes, o dell’automa spirituale di Spinoza, l’acquisizione
di questi processi abitudinari richiama direttamente l’esercizio spirituale dell’attenzione
descritto da Hadot. Pilastro del legame tra filosofia e vita, questo era l’esercizio che faceva
sì che i princìpi filosofici orientassero concretamente il modo di vivere: affinché questo
accadesse, era necessario prepararsi costantemente con pratiche di meditazione, in modo
da avere i princìpi sempre disponibili, in qualsiasi circostanza, così da poterli applicare in
modo immediato e quasi automatico, con la prontezza di un riflesso.
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Questo è dunque il senso in cui il metodo della filosofia moderna può essere letto
come un esercizio spirituale: esso è una pratica modificatrice per emendare l’intelletto
e fargli acquisire quelle nuove abitudini che lo guideranno con sicurezza nel suo uso
corretto. Alla fine di questa trasformazione «ascetica», il soggetto inquirente si troverà
dunque finalmente formato e capace di quell’accesso alla vera conoscenza che, secondo
la filosofia moderna nel suo versante «spirituale», non gli era inizialmente dato. Una
volta conseguito, l’accesso alla verità ricompenserà il soggetto rendendolo padrone di
sé e capace di autocondursi: trasfigurato, esso potrà anche aprirsi a quella dimensione
trascendente che, in forme diverse, appare in tutte le tre opere.
La nozione di esercizi spirituali elaborata da Hadot e qui applicata da D’Agostino
non ci offre, dunque, solo una rinnovata visione della filosofia antica e del suo
originario configurarsi come maniera di vivere. Come, grazie allo sguardo di Hadot, i
testi dell’antichità greca, ellenistica e romana apparivano in una luce nuova, così nella
lettura di D’Agostino anche il Novum Organum, il Discours de la méthode e il Tractatus
de intellectus emendatione acquisiscono un senso differente, presentandosi come parte di
quella vocazione originaria della filosofia che faceva di essa principalmente una maniera di
vivere. Lungi dall’essersi inabissata con il soggetto cartesiano, questa concezione che lega
strettamente vita e filosofia, teoria e prassi, ascesi e verità, attraversa la filosofia moderna,
marcando fortemente le indagini sul metodo.
Non si tratta, però, solo di gettare nuova luce su queste tre opere: sulla scorta di
un’intuizione di Foucault, D’Agostino mette in luce un vero e proprio versante della
filosofia moderna, quello che tematizza la «riforma dell’intelletto» e che si intreccia
indissolubilmente con le esigenze di costruzione del metodo scientifico.
Laura Cremonesi, Via Santa Caterina 16, 56123 Pisa,
[email protected].
Prassi storica e impegno morale per un più aperto umanesimo
Riccardo Roni
Mario Dal Pra e Andrea Vasa, Il trascendentalismo della prassi. La filosofia della resistenza,
a cura di Maria Grazia Sandrini, Milano, Mimesis, 2017, pp. 352.
Nelle brillanti elaborazioni teoriche di Mario Dal Pra e Andrea Vasa – condotte a
seguito della lotta per la liberazione italiana – la teoresi filosofica e l’indagine storica si
saldano insieme per assolvere un preciso impegno morale, orientato in larga misura a
ridimensionare, grazie al lavoro della ragione e della scienza, la pretesa assolutezza dei
dogmatismi provenienti da più fronti teorici e finanche da un certo modo di condurre la
storiografia filosofica. Questo libro, curato da Maria Grazia Sandrini che fu allieva di Vasa,
raccoglie una serie di contributi di Dal Pra e Vasa quasi tutti apparsi tra il 1948 e il 1956
sulla «Rivista critica di storia della filosofia», fondata da Dal Pra nel 1946.
Dal Pra e Vasa vantano una comune esperienza storica e teorica che passa attraverso la
Seconda guerra mondiale e la Resistenza nelle file di Giustizia e libertà di Ferruccio Parri.
Nella loro evoluzione intellettuale – fortemente debitrice della lotta contro il nazi-fascismo
– entrambi si confrontano non solo con l’eredità dell’idealismo di Croce, dell’attualismo di
Gentile, col marxismo (ricorrono i riferimenti sia a Marx che a Gramsci) e, non da ultimo,
col pragmatismo italiano (in particolare Giovanni Vailati e Mario Calderoni) e americano
(William James e Dewey), ma anche col problematicismo di Banfi, l’esistenzialismo di
Abbagnano e il neopositivismo di Geymonat. Sulla base di queste contaminazioni, il
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nucleo teorico fondamentale attorno al quale si sviluppano le indagini di Dal Pra e Vasa è il
«trascendentalismo della prassi», concepito come posizione critica e aperta, che non mette
la prassi alla radice dell’essere, ma che assume «nei confronti del valore totale dell’essere
un atteggiamento estremamente aperto che, evitando ogni chiusura arbitraria in funzione
di situazioni parziali, si appelli alla possibilità d’una libertà capace di iniziativa oltre tutte
le situazioni, volgendosi al futuro che non è situazione» (p. 101). Rivalutando, sulla scorta
di un certo kantismo, l’uso pratico della ragione, Dal Pra intende così «aprire la strada alla
libera iniziativa della ragione contro tutte le barricate della metafisica» (ibidem). Questa
esigenza – giacché intende mettere al centro proprio la libertà e responsabilità di pensiero
e azione – si afferma in esplicita controtendenza con la posizione del «teoricismo» che,
mettendo la prassi alla radice dell’essere, ipostatizza il presente facendolo coincidere con la
situazionalità. L’apertura al futuro che ne deriva contro ogni immobilismo autoreferenziale
accresce il carico di responsabilità etica e politica del soggetto storico concreto, anche
perché la storia perde ogni residuo teleologico tipico di un certo hegelo-marxismo.
Proprio in quanto si fonda su questi assunti pratico-razionali, il trascendentalismo
della prassi non può rinunciare al dispositivo della verità che nel teoricismo è destinato a
restare soltanto un compito privo di fondamenti. Ed è a questo livello della discussione che
il rapporto col pragmatismo si fa più complesso e meno scontato solo in virtù del fatto che
lo stesso James ebbe modo di rilevare – basti pensare alle tesi esposte in Pragmatism (1907)
– un’analoga esigenza di rifondazione del dispositivo di verità, evidenziando appunto
come questa si «faccia» nel corso dell’esperienza, restando in ogni modo «la funzione
delle credenze che nascono e finiscono tra i fatti». Se Dal Pra – che pure si dimostra buon
conoscitore del pragmatismo – per un verso non esita a definirlo un teoricismo metafisico
a causa della presunta identificazione di un senso dell’essere (p. 277), per un altro, in
particolare quando scrive su Dewey, il quale introduce – merita ricordarlo – il concetto
fondamentale di «transazionalità» per descrivere il rapporto dinamico tra individuo e
ambiente, è obbligato a riconoscere «un aspetto importantissimo della sua filosofia», che
consiste appunto in quella critica della concezione teoricistica della conoscenza che nel
contempo non può mettere completamente fuori gioco la teoria (pp. 184-185). Come
corollario di queste letture pragmatiste, la nozione di universalità viene presentata da
Dal Pra come «termine dell’assunzione d’un compito alla quale il discorso può soltanto
aprire la strada» (p. 273), rifiutando in questo modo la sua riduzione a principio dato
assoluto, per parlare invece «in nome proprio, della propria intenzione, della propria
libera assunzione circa l’universale» (p. 274).
L’indagine filosofica di entrambi gli autori – se la ricerca di Dal Pra resta ancorata alla
storia, quella di Vasa assume una definizione più marcatamente teoretica – viene così a
collocarsi in quel delicato punto di passaggio dall’universale al particolare, passaggio in
cui l’intelligenza – lo spiegava bene già Aristotele – per passare dalla potenza all’atto, deve
trasformarsi in intelligenza discorsiva (dianoia), ossia in intelligenza al lavoro, facendo
così passare all’atto tutto ciò che in essa resterebbe solo in potenza. Sulla scorta di questa
antica esigenza, il trascendentalismo della prassi – Dal Pra lo sottolinea con decisione
– vuole proporsi come un discorso che lascia aperta la libertà di tutti i discorsi, «pur
senza rinunciare ad essere un preciso e impegnato discorso» (p. 274); un discorso –
ripetiamolo – che possa essere effettivamente funzionale a dar voce alle molteplici forme
dell’esperienza umana, al fine di avanzare, in ultima istanza, persino una vera e propria
interpretazione del senso stesso della vita (p. 282), sebbene il discorso filosofico tematizzi
una generalità intenzionale e possibile (p. 295). Perché, come osserva Vasa a proposito
della trascendentalità del «fare», «il problema dell’essere (e dell’uomo) può ancora
salvarsi se non si pretende di risolverlo di “necessità”, o di risolverlo in una sussistente,
hegeliana, sintesi di attualità e possibilità, in una relazione metafisico-trascendentale» (p.
286). Si tratta, allora, di riconsiderare una nozione – quella di inattualità – sulla quale il
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pensiero filosofico si è esercitato con esiti talvolta aporetici come nel caso di Nietzsche –
ma che, in Vasa, viene fatta dipendere dal bisogno di libertà intesa come «la condizione
ideale di una universalità che la teoria si è rifiutata di afferrare» (p. 288). Alla nozione
di inattualità si lega poi quella di «compito», laddove il trascendentalismo della prassi si
annuncia come il «compito possibile» di «aggressione o modificazione di ogni struttura
di esistenza che si presenti come struttura da presupporre» (ibidem). È particolarmente
avvertita l’esigenza di ricostruire un’ontologia in divenire, saldandola a un criterio morale
che possa determinare il «valore» – anche su quest’ultimo concetto si insiste molto – delle
azioni umane secondo un’etica del limite e senza alcuna pretesa di determinare un suo
ambito dato e intrascendibile.
La questione morale, sollevata in ordine al compito di realizzare una concretezza
inattuale, viene fatta dipendere in Dal Pra dal concetto di trascendenza, concetto che
presuppone un qualche superamento dell’ordine storico-naturale, al fine di poter
intraprendere una modificazione radicale delle sue strutture: la trascendenza, osserva
Dal Pra, «muove dalla negazione, come giudizio de non inesse, per salvare il valore come
istanza di un più che non è, ma che vogliamo, che ci impegnamo a far essere» (p. 302). Su
questa linea, se il mondo storico-naturale si profila come il «teatro del dramma del valore»,
l’esigenza di una sua trasformazione pone il problema di un’esperienza che Dal Pra e Vasa
non esitano a definire, lato sensu, religiosa, di contro a ogni atteggiamento «estetistico»
(ibidem). Un’esperienza che non ha certo i caratteri di un’evasione metafisica, ma che
si profila piuttosto come richiamo immanente a un compito pratico di trasformazione
dell’esistenza, che sottragga il soggetto umano al dilemma di un suo esclusivo, così scrive
Vasa, «esser-nel-mondo o cadere-nel-nulla» (p. 226). Il giusto richiamo alla caratterizzazione
etica della prassi, oltre ogni atteggiamento di mera contemplazione conoscitiva, consente
a Dal Pra di rivendicare la possibilità – in particolare attraverso una ripresa delle tesi
di Gramsci contro il fatalismo, non solo socialista, della storia e della realtà – di un
socialismo della volontà e dell’azione radicale organizzata (p. 267). Prima di chiudere il
discorso, occorre insistere un momento sulla necessità di questo sbocco politico. Dal Pra
condivide con Gramsci una proposta pratica di socialismo, con al centro la volontà umana
e la sua responsabilità. Dalla lettura di Dal Pra è possibile ricavare un accostamento tra
socialismo debole e teoreticismo, da un lato, e tra socialismo forte e trascendentalismo
della prassi, dall’altro. Perché mentre la versione «debole» di socialismo porta alla
resistenza irresponsabile e al misticismo teoreticista e fatalista, la versione «forte» implica
l’assunzione dell’intera attività organizzata, segnando il passaggio dall’atteggiamento
subalterno a quello dell’iniziativa e della direzione (p. 268). Sull’esito pratico di questa
proposta Dal Pra resta comunque cauto, proprio in virtù dell’ammissione che le radici
filosofiche del fatalismo socialista sono rinvenibili egualmente nella tradizione idealistica
come in quella positivistica (p. 267). Ma è proprio grazie a questa lucida consapevolezza
che viene sollevata da Dal Pra una «questione morale» (p. 315) tanto per la riflessione
filosofica che per l’azione politica organizzata, dipendente da un nuovo modo di guardare
alla realtà e alla vita, ossia da un nuovo umanesimo più aperto e inclusivo che trovi nel
lavoro della ragione e della scienza non tanto un semplice riflesso del movimento della
realtà, quanto piuttosto, riprendendo le parole di Vasa, una vera e propria «funzione di
rottura e di avanguardia», «nell’orizzonte di un’esperienza che si apra a nuove possibilità
e a nuovi valori» (p. 348).
Riccardo Roni, Dipartimento di Studi umanistici, Università di Urbino «Carlo Bo», Via Bramante 17,
61029 Urbino,
[email protected].
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«Pensare fuori dall’ordine»: per una filosofia della migrazione
Federico Lijoi
Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Torino, Bollati
Boringhieri, 2017, pp. 280.
È indubbio che la formulazione più pregnante del concetto di Stato, comparsa in
Germania tra Ottocento e Novecento, sia quella a cui ancora oggi, nonostante l’apparenza
di un mondo economico globalizzato, facciamo implicito e irriflesso riferimento quando
parliamo di confini e migrazione. Basta sfogliare la Politische Geographie (1897) di Ratzel
o l’Allgemeine Staatslehre (1900) di Jellinek per trovarsi dinanzi a quella stessa granitica
trinità di territorio, popolo e sovranità che continua a contraddistinguere il discorso
contemporaneo della statualità.
Dai tempi di Ratzel e Jellinek, però, molto è accaduto e altrettanto è cambiato. La
disgregazione dei grandi Imperi e la tragedia della Shoah hanno costretto la riflessione
filosofica e politica a un confronto serrato con la figura del rifugiato, di cui è stata senza
dubbio Hannah Arendt a fornire il più profondo ritratto filosofico, prima nelle pagine
di We refugee (1943), poi in quelle celebri de Le origini del totalitarismo (1951): «Privati
dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto,
la schiuma della terra». Una riflessione, quella inaugurata da Arendt, che nei decenni
successivi ha sperimentato alterne vicende e continuazioni in una serie di contributi
– da Spheres of Justice (1983) di Walzer ad Aliens and Citizens (1987) e The Ethics
of Immigration (2013) di Carens, per tacere del significativo filone dei Border Studies
dedicati alla frontiera tra Messico e Stati Uniti – che hanno discettato, in modo più o
meno brillante, sulla questione dei confini aperti o chiusi, sulla distinzione tra migrante
economico e rifugiato politico, sulla differenza tra sfera pubblica e privata.
In questo dibattito teorico si inscrive, polemicamente, il volume di Donatella Di
Cesare, Stranieri residenti, dedicato alla proposta di una filosofia della migrazione,
come recita il sottotitolo. Il suo indubbio pregio risiede innanzitutto nella capacità di
affrontare un tema di attualità senza l’adesività di un approccio sociologico, ma con
gli strumenti della riflessione filosofica, individuando cioè le categorie e i concetti che
si trovano dietro l’ordine del discorso politico. La figura composita dello «straniero
residente» ha lo scopo di mettere in crisi proprio quel complesso di presupposti che
gli conferisce la sembianza di un ossimoro: la logica immunitaria dell’esclusione, la
difesa del territorio statale inteso come spazio chiuso di una proprietà collettiva,
la migrazione come devianza da arginare, anomalia da abolire. Una critica della
statualità moderna e un ripensamento dell’esistenza politica costituiscono l’ambizione
principale del volume.
«Il migrante smaschera lo Stato» (p. 20): intorno a questo abbrivio rutilante si
articola l’intera argomentazione. Lo Stato, infatti, è l’esatto opposto della mobilità
e il migrante, puntando il dito sul cortocircuito tra l’universalità dei diritti umani e
la particolarità dello Stato-nazione, veicola un’accusa sovversiva alla grammatica del
proprio e della proprietà, dell’appartenenza e dell’identità. Insomma: alla modernità e
al suo Leviatano. Alla sbarra degli imputati però non c’è solo la politica, ma soprattutto
la filosofia, perché finora si è dimostrata del tutto incapace di mettere in questione
quella «dicotomia metafisica tra interno ed esterno» (p. 35) che si trova a fondamento
della separazione politica: «La filosofia ha scelto la stanzialità, l’ha legittimata, ne ha
condiviso la prospettiva. Perciò ha puntellato steccati e rafforzato barriere, ha rimarcato
ogni volta il limite tra dentro e fuori alla ricerca di una centratura, nel tentativo di
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delineare un ordine concentrico» (p. 29). Occorre allora che la filosofia colga nella
scomoda figura del migrante l’occasione per tornare alla propria natura, per «separarsi
dall’irritante senso comune» e prendere così congedo dalla polis e dalla politica. Del
resto, «pensare è sempre “fuori dall’ordine”», scriveva Hannah Arendt. La radicalità
di questa impostazione sortisce il rigetto di una serie di posizioni teoriche troppo poco
coraggiose (Locke, Rousseau, Kant) o persino molto deboli (Walzer, Singer, Carens),
innanzitutto perché viziate da un approccio ancora statocentrico, e cioè interamente
improntate sul nesso liberale tra sovranità statuale e proprietà privata.
La critica mossa da Di Cesare si compone di una serie di elementi sui quali conviene
brevemente soffermarsi. In primo luogo, la dicotomia interno-esterno che fonda
l’ordine politico: essa non accorda al migrante nemmeno la dignità di una opposizione
noi-voi, perché questa può essere ascritta soltanto al conflitto tra identità pubbliche,
mentre foggia lo stigma svilente di un «loro» come «non-noi», come «terzo escluso»,
la cui esistenza è sospesa in un «tra» che «non è più» (ha perso una patria) e «non è
ancora» (non ha una nuova patria). Essi non sono un’altra identità, ma una pluralità
impersonale, una massa anonima e indistinta: «Da una parte “noi”, dall’altra i “nonnoi”, oscuri e mostruosi, ripugnanti e detestabili, colpevoli del “nostro” malessere –
non importa come, non importa perché. Ma colpevoli» (p. 109). In secondo luogo,
l’universo semantico in cui la figura del migrante si inscrive: eccedere, essere di troppo,
compromettere pienezza e purezza, rompere l’immediatezza, ma anche essere senza,
senza posto, senza patria. I migranti sono di troppo perché sono senza, il loro essere
senza li rende di troppo. Non possiedono nulla, sono intrappolati in una doppia assenza
(non più, non ancora), scombinano l’ordine e forzano il limite, la «polizia», come la
chiamerebbe Rancière.
Ma proprio in virtù di questa condizione di eccentricità, la figura del migrante
finisce per corrispondere allo stesso non-luogo occupato dalla filosofia, incarnandone
simbolicamente la funzione di resistenza critica alle immunizzazioni concentriche
procurate dall’inerzia comoda e indolente dello status quo: «A cominciare da Socrate,
che con la sua atopìa, la sua stravaganza, il suo essere fuori luogo, muove dal margine
della pòlis per attraversarla, quasi espatriato in patria, gettando scompiglio, provocando
sconcerto nei suoi sorpresi e irritati concittadini» (p. 148). Lo straniero è quindi una figura
ambivalente, che scompagina il proprio e la proprietà, che mette in questione l’«idiotismo»
dell’«identico a sé» e, ancora più radicalmente, disgrega anche il mito dell’«identico in sé»,
perché lo straniero non è «solo quello che non abita con me, ma anche quello che abita in
me. Lo aveva già suggerito Freud con il suo Unheimlich, il perturbante che inquieta dal
fondo dell’ego» (p. 154).
Le conseguenze da trarre, però, precisa Di Cesare, «sono non solo esistenziali, ma
anche politiche». Il punto cruciale, infatti, non è la richiesta di una conversione del
sentimento morale dalla paura (xenofobia) all’amore (xenofilia), ma la fondazione di
«una politica che prenda le mosse dallo straniero inteso come fondamento e criterio
della comunità» (p. 158). Al principio del terzo capitolo, infatti, troviamo scritto: «La
diasporizzazione lascia intravedere la possibilità di un nuovo abitare elevando a norma
quel che prima era eccezione: la condizione dell’esilio» (p. 159). Ecco allora entrare in
scena l’ebraico gher, il concetto e la parola-chiave che Di Cesare pone al centro della sua
filosofia della migrazione e nella cui radice verbale si raccoglie nel contempo l’abitazione
e l’estraneità. Gher toshàv, infatti, è colui che abita rimanendo straniero, colui in capo al
quale il risiedere non produce diritto di proprietà, vale a dire l’opponibilità erga omnes di
un possesso diuturno, quello della terra, ma esercita un monito permanente contro il logos
dell’autoctonia e l’idolatria del radicamento: «La terra non sarà alienata irrevocabilmente,
perché è a Me la terra, perché voi non siete che stranieri e residenti temporanei presso di
Me (Levitico 25, 23)» (p. 198).
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Suggerendo una convergenza tra questo presupposto teologico-politico (l’orizzonte
della coabitazione e dell’alterità come dischiuso da una terra inappropriabile,
perché proprietà esclusiva di Dio) e la concezione dell’essere come sottrazione da
serbare, come vuoto da non saturare, come movimento da non cristallizzare, di cui
Heidegger dissemina la sua critica alla metafisica della presenza, Di Cesare eleva lo
«straniero residente» a categoria originaria e nel contempo futura di co-abitazione:
«Nel paesaggio in cui Heidegger si inoltra non sembrano esserci né permanenza, né
radicamento; né tanto meno l’immobilità di un perenne essere sé stessi. Al contrario,
l’esistenza appare decentrata in un movimento che è sempre anche il confronto
con l’altro. Abitare è un migrare che richiama lo scorrere di un fiume» (p. 167). Un
abitare che non produce diritto di proprietà e radicamento, dunque, ma che trattiene
nell’estraneità. E non si tratta però né di una condanna all’erranza, né di un ritorno,
perché l’esilio, l’essere-fuori, l’eccentricità in cui la stessa esistenza umana consiste,
non è cancellabile. È piuttosto un «ritorno altro», come suggerisce Di Cesare, il cui
«incessante approssimarsi» (p. 199) significa mantenersi nella differenza, equivale a
ripetere il vuoto su cui tutti abitiamo.
L’espressione «straniero residente», allora, non indica né una condizione specifica, quella
di coloro che migrano, né uno status a cui soltanto essi dovrebbero aspirare; «straniero
residente» esprime piuttosto la stessa condizione umana, che il migrante tragicamente
esemplifica e che un’interpretazione «poliziesca» della politica e della filosofia, l’una armata
di confini e barriere, l’altra attrezzata di sostanze e fondamenti inconcussi, ha condannato
all’oblio. Se è quindi a partire dal gher che la comunità politica deve nuovamente pensarsi
e istituirsi, allora lo Stato moderno, «esclusivo» e «immunitario», deve lasciare il posto alla
prassi de-saturata e de-centrata del non-poter-scegliere-con-chi-coabitare: «Ecco allora il
crimine in tutta la sua abissale mostruosità: aver preteso di stabilire con chi coabitare
[…]. Prossimità non voluta e coabitazione non scelta sono le precondizioni dell’esistenza
politica […]. Questa è la condizione politico-esistenziale di ogni abitante che è allo stesso
tempo straniero e residente» (pp. 253-254, 259).
Federico Lijoi, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161 Roma,
[email protected].
Manifesto della postfotografia: la proposta di Joan Fontcuberta
Alberto Martinengo
Joan Fontcuberta, La furia delle immagini. Note sulla postfotografia, Torino, Einaudi,
2018, pp. 233.
La fotografia, come innumerevoli altri dispositivi della nostra quotidianità, sta subendo un
processo di smaterializzazione che sarebbe stato impensabile fino a un paio di decenni fa.
Quest’osservazione – evidente e forse anche banale, tanto in filosofia quanto nelle scienze
sociali e in economia – è il punto di partenza del libro di Joan Fontcuberta, La furia delle
immagini. Tuttavia nei diciassette capitoli del volume l’autore ne propone un’analisi molto
radicale, che affronta il tema da diverse prospettive disciplinari, con uno sguardo critico e
una messe di materiali di grande interesse.
In effetti Fontcuberta è considerato oggi uno dei maggiori fotografi viventi, ma la
sua attività mescola da alcuni decenni la produzione artistica d’avanguardia a un intenso
lavoro di ricerca e d’insegnamento accademico. La furia delle immagini conferma
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quest’impressione perché dietro al modesto sottotitolo Note sulla postfotografia esprime
in realtà un impegno teorico consistente, le cui implicazioni filosofiche sono tutt’altro
che occasionali. Sono implicazioni che si confrontano con alcuni momenti del dibattito
attorno alla cosiddetta visual culture e che si basano non soltanto, come ci si aspetta, su
rimandi di prima mano alle arti visive ma anche su una contestualizzazione di natura
sociale e politica.
Per comprendere la posta in gioco del volume, è opportuno partire proprio dai
riferimenti alla visual culture, cioè all’insieme di discussioni di «seconda generazione»
che dagli anni novanta in poi tornano a raccogliersi attorno alla nozione di «civiltà
dell’immagine», sebbene con toni e con un equilibrio molto diversi da quelli che
caratterizzavano la prima generazione dei teorici novecenteschi dell’immagine. Tra i
molti riferimenti che Fontcuberta richiama, Gottfried Boehm e W.J.T. Mitchell sono i
principali. In particolare la teoria dell’immagine di Mitchell sembra sottostare, anche al di
là di quanto è dichiarato, al passaggio che Fontcuberta propone dalla tesi «banale» che si
è ricordata in apertura alle sue implicazioni estetiche e politiche. La furia delle immagini
prende infatti sul serio l’ipotesi di Mitchell sulla «vita» delle immagini e la sostanzia sul
piano della fotografia. In Picture Theory (1994) e, più tardi, in What do Pictures want?
(2005), Mitchell sosteneva infatti che il trionfo dell’immagine nelle società contemporanee
non ne avesse svelato soltanto lo status di dispositivo di senso autonomo dalla parola, ma
anche una condizione di quasi-soggetti dotati di agency. Nella sua prospettiva, le immagini
sono in grado di fare e di farci fare cose: nel quotidiano, in cui il visuale è un canale spesso
più immediato ed efficace del logico; ma anche al livello macro del discorso pubblico,
della convivenza sociale e della politica, in cui le immagini provocano reazioni diventando
casus belli metaforici o reali.
Fin qui la ripresa dei capisaldi della visual culture da parte di Fontcuberta. Ma
l’elemento in più, che occupa gran parte del volume, è proprio la ridefinizione di quei
principi in rapporto ai processi di smaterializzazione e di digitalizzazione, di cui la
fotografia è l’emblema. Per Mitchell le immagini «vogliono», fanno e dicono qualcosa
in relazione alla loro persistente materialità: a dispetto della loro digitalizzazione, le
immagini ridiventano corpo quasi-vivente per produrre effetti, giacché non esistono
mai allo stadio di puro spirito. Non così per Fontcuberta, che fonda la categoria di
postfotografia proprio sul processo di spiritualizzazione dell’immagine, che ne aumenta
vertiginosamente – anziché ridurne – la capacità di fare, senza più vincoli spaziotemporali: «nella fotografia», scrive, «la luce si trasforma in materia; nella postfotografia
la luce si trasforma in codice. […] La postfotografia, quindi, fornisce un’informazione
visiva senza aver bisogno di un supporto: privo di corporeità, l’essere postfotografico
diviene pura anima, puro spirito» (p. 183). Con ciò appunto l’immagine digitale aumenta
le capacità di agire che caratterizzavano già la fotografia tradizionale. È quanto accade,
per esempio, con la possibilità di definire l’identità personale, in un percorso storico che
va dal vecchio album di famiglia al selfie: «le foto non fanno più da supporto al ricordo
ma diventano gesti di comunicazione», cioè sono «monete con le quali stabilire legami
sociali» e ridisegnano i confini tra il privato della foto familiare e il pubblico dei social
networks (pp. 188-189).
Le pagine di Fontcuberta dedicate ai social fotografici (Instagram, Flickr, il vecchio
Panoramio ecc.) sono quelle quantitativamente più presenti nel volume. Ma non si
coglierebbe il suo impegno filosofico se ci si limitasse a questa compilazione delle
forme dell’immagine digitale, di cui pure il lettore può apprezzare la ricchezza. Le vere
conseguenze teoriche della rinnovata agency delle immagini si raccolgono nel «manifesto
postfotografico» a cui il libro punta a più riprese (cfr. in partic. pp. 31-46). Sono
conseguenze che si raccolgono lungo tre linee: il problema dell’autorialità; il significato
dell’immagine; la sua politicizzazione.
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La scomparsa dell’orizzonte autoriale tradizionale non tocca soltanto il problema
di «chi» produca l’immagine. Si tratta di un mutamento più profondo, che travalica le
considerazioni di natura giuridica (copyright, privacy, remunerazione dell’artista): il punto
è che l’artista digitale è costretto ad assommare in sé ruoli tipicamente diversi – è artista ma
al contempo curatore, collezionista, storico e teorico. Da una parte, infatti, tutti siamo attivi
e prolifici produttori di immagini digitali attraverso i nostri camera phones, cioè dispositivi
di comunicazione in cui la qualità dell’apparato fotografico prevale nettamente sugli altri
usi. Dall’altra, questa secolarizzazione del ruolo del fotografo mette in capo a chi produce
immagini sfide diverse, volte a spezzare l’uniformità (la banalità, la ridondanza, la bulimia)
digitale. Per esempio, se l’utente medio comunica attraverso il grado zero dell’artisticità
rappresentato dalla tecnica del punta-e-scatta, al contrario l’artista-fotografo dovrà
costruire contesti complessi: cioè luoghi fisici o digitali in cui l’immagine sia costruita e
non solo catturata, luoghi nei quali la sua fruizione – anche sui social networks – dialoghi
con l’estetica del quotidiano riformandola o stravolgendola.
La seconda linea del manifesto di Fontcuberta tocca il significato dell’immagine
fotografica digitale. Si è già detto che la postfotografia tende a minimizzare il proprio
contenuto e massimizzare la propria circolazione, cioè la capacità di comunicare. Qui
Fontcuberta pensa il fenomeno in linea con il modello benjaminiano della perdita
dell’aura, ma con una differenza decisiva: a scomparire non è soltanto l’unicità dell’opera
ma appunto la garanzia del suo significato. Che cosa significa creare, in questo senso?
Più che essere semplicemente produttore di immagini, l’artista postfotografico è colui che
ha la «capacità di dotare l’immagine di uno scopo e di un senso, di fare in modo che sia
significativa» (p. 47). Insomma, il significato della postfotografia sta finalmente e totalmente
nel suo uso. E l’artista postfotografico fa la differenza rispetto al normale possessore di
apparati fotografici digitali, nella misura in cui sia in grado di adottare l’immagine: cioè
acquisirla – scattarla, costruirla, crearla, modificarla… – ma soprattutto dotarla di qualcosa
che la semplice informazione contenuta sul supporto digitale non ha. Così Fontcuberta
nel capitolo benjaminiano intitolato «L’opera d’arte nell’epoca dell’adozione digitale» può
affermare che «l’autorialità – l’artisticità – non affonda più le radici nell’atto fisico della
produzione, ma nell’atto mentale di normare i valori che possono contenere o raccogliere
le immagini: valori che sono sottesi o che gli sono stati conferiti» (p. 48). Da questo punto
di vista, la creazione postfografica va pensata «come attribuzione di senso alla nascita delle
immagini, o ancora come spostamento del posizionamento semantico quando le immagini
si reincarnano in altre vite» (ibidem).
Si arriva così al tema della politicità della postfotografia, che è la terza linea del manifesto
di Fontcuberta. Se ne percepisce l’urgenza ma, purtroppo, anche lo stadio embrionale
a cui queste pagine si fermano. Eppure è una questione inaggirabile: si è già detto dei
richiami di Fontcuberta alla fotografia come casus belli – le caricature di Maometto o le
immagini dei migranti, che diventano trending topics della discussione pubblica e hanno
una forza indiscutibile nell’orientare il consenso. La furia delle immagini non va molto al
di là della descrizione del problema; tuttavia il contesto teorico in cui l’autore si colloca
è piuttosto chiaro. Si tratta del riferimento a un’ecologia del visuale (cap. XII), che parte
anch’essa da premesse benjaminiane: la sovrapproduzione di immagini fotografiche
digitali genera una messe sconfinata di scarti, cioè una sorta di rumore di fondo – quasi
sempre assordante – a cui si dovrebbe rispondere con la stessa attenzione dedicata ai rifiuti
materiali che produciamo. Fuor di metafora, si pensi alle immagini digitali amatoriali che
catturano i fatti di cronaca nera: i selfie sulla scena dei delitti, la pedopornografia online,
il voyerismo che supera le forme tradizionali di autocensura e si fissa indelebile sui social.
I punti di osservazione di questi fenomeni sono numerosi. Ma un’estetica postfotografica
sulla linea aperta da Fontcuberta potrebbe avere un ruolo di primo piano, decisivo dal
punto di vista critico. Il volume ricorda alcuni programmi artistici rilevanti in tal senso:
Recensioni
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fotografi che denunciano l’invasione di immagini promuovendo mostre «personali» in
cui espongono centinaia di varianti turistico-amatoriali di uno stesso soggetto; progetti
basati su dispositivi tecnici (Gps e intelligenza artificiale) che inibiscono la condivisione di
immagini relative a luoghi ad alto inquinamento iconico (l’ennesima foto di un monumento
o di un panorama naturale); performances volte a sensibilizzare il pubblico rispetto alla
pervasività delle videocamere per il controllo delle città (per esempio, flashmob sotto gli
«occhi» degli autovelox). All’estetica si apre così un campo consistente di opere digitali
da pensare e, soprattutto, da far agire nella pubblica opinione: un campo tanto più
valorizzabile in chiave politica, quanto più lo si analizzi con l’equilibrio – né censorio, né
ingenuamente entusiasta – di cui Fontcuberta dà prova in queste pagine.
Alberto Martinengo, Classe di Lettere e Filosofia, Scuola Normale Superiore, Piazza dei Cavalieri 7,
56126 Pisa,
[email protected].
Metafora, filosofia e immagine
Carla Bazzanella
Alberto Martinengo, Filosofie della metafora, Milano, Guerini e Associati, 2016, pp. 142.
Come scrive l’autore nella bella introduzione di questo volume, «le lingue sono strumenti
vivi, che progrediscono e crescono nell’uso concreto. Talvolta capita effettivamente che
si inventino parole nuove […], ma molto più spesso succede che si usino in modi nuovi
le parole vecchie» (p. 12). La metafora è infatti uno dei meccanismi più potenti, se non
il più potente, di pensiero e di sfruttamento della flessibilità della lingua nello stabilire
nuove analogie tra i concetti e associazioni tra parole, nel «fare cose con le parole» (nel
senso austiniano), nel rendere «visibile» un significato favorendone la conoscenza e la
comprensione in quanto «compone le cose davanti agli occhi» (Aristotele, Poet. 48b 5-18;
Reth. 1371b 4-9). Non stupisce quindi che l’analisi della metafora, tematica vastissima
dalla bibliografia sterminata, abbia coinvolto fin dai tempi antichi e coinvolga tuttora
(dato che le attuali tecnologie, come la Fmri, permettono nuovi approcci sperimentali al
funzionamento della mente e del linguaggio) molti studiosi di varie discipline, spesso in
studi interdisciplinari.
In questo saggio Martinengo presenta una interessante prospettiva filosofica che si
concentra sulla metafora come parte di una serie di fenomeni linguistici (in sintesi, il
linguaggio figurato e il simbolo), in cui l’immagine e il vedere con le parole emergono come
filone centrale, a partire da un quadro filosofico-storico in cui si ritrovano i prodromi di
questo «fiume carsico» (p. 27), che affiora sempre più impetuosamente. Il percorso si articola
in tre parti: «La riscoperta della metafora: pensare con le parole», «Il laboratorio della
metafora: parlare con le immagini», e «Dalla metafora all’immagine: vedere con le parole».
Nella prima parte, attraverso una rassegna storica, si tratta sinteticamente di Aristotele
«come il padre indiscusso di un’evoluzione plurisecolare» (p. 20), della tradizione postaristotelica che opera una riduzione retorica della concezione aristotelica, di Vico e del suo
pensiero mitico-poetico, di Locke (contrario agli abusi della retorica ma favorevole a forme
di linguaggio analogico), del Settecento e inizio Ottocento in cui si trovano pochi accenni
alla creatività metaforica in senso filosofico (l’autore cita Herder, Rousseau, Kant, Goethe),
della fine dell’Ottocento in cui risaltano Nietzsche («l’autore che lungo tutta la sua opera
non fa che scrivere in figure» e che libera lo studio metaforico dalla sudditanza retorica; p.
28) e Biese, che diffonde la prospettiva conoscitiva della metafora anche in letteratura.
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Il secondo capitolo della prima parte («Il dibattito contemporaneo») si apre con il
metaphorical revival filosofico (p. 29), cita brevemente alcuni aspetti della metafora messi
in luce da Ortony, Gibbs, Richards, e si espande sulla teoria dell’interazione di Black e
su Blumenberg (già richiamato in relazione a Vico). Si dedica quindi ampio spazio al
modello di Lakoff e Johnson (1980, 1999) e Johnson (1987), che mettono in risalto la
pervasività della metafora nella vita quotidiana, il rapporto con l’embodiment e gli aspetti
esperienziali, la centralità della concettualizzazione metaforica nello strutturare il nostro
rapporto con il mondo. All’interno dello stesso capitolo si ricostruisce l’evoluzione del
trattamento della verità, accennato nella trattazione precedente relativamente a Locke,
Nietzsche (rispettivamente, p. 25 e 27) e al pensiero originale di Blumenberg, secondo cui
si può parlare di metafore «in un senso pratico […] che è assieme storico e pragmatico»
(p. 39). Lakoff e Johnson (1999) adottano invece un approccio esperienziale alla verità,
che richiede anche la comprensione di una data situazione e l’interazione con il mondo
esterno, data la rilevanza dell’ambiente fisico e culturale per il nostro sistema concettuale
e l’uso adeguato delle metafore.
La seconda parte del volume comprende due capitoli (III e IV). All’inizio del terzo
si sottolinea, ancora con Lakoff e Johnson, il ripensamento filosofico rispetto alle parolechiave della tradizione occidentale («realtà, pensiero, logica, metafisica, astrazione,
processi di concettualizzazione», p. 53), la diffusione di studi dei processi quotidiani
di metaforizzazione anche nel discorso politico e l’intreccio sempre più esteso ad altre
scienze, in particolare quelle cognitive (cfr., tra gli altri, Radman, From a metaphorical
point of view: A multidisciplinary approach to the cognitive content of metaphor, 1995). Si
introduce quindi il dibattito continentale, in particolare la prospettiva ermeneutica, «vero
e proprio laboratorio della metafora» (p. 55), soffermandosi su Gadamer e soprattutto
su Ricoeur e sulla sua via lunga dell’interpretazione attraverso il simbolo e la figurazione
narrativa. Nel capitolo quarto, infine, si precisa il contributo di Ricoeur rispetto ai processi
di metaforizzazione, cruciali nel linguaggio tra simbolo e testualità per la capacità di far
vedere e produrre referenze nuove, in una concezione dinamica della metafora, intesa
come punto di equilibrio tra deviazione e norma (p. 86). Nelle discussioni di Ricoeur con
Black e Hesse e nel confronto-scontro successivo con Derrida, si riprendono le tematiche
del complesso rapporto metafora-filosofia, in cui Martinengo si schiera con la prospettiva
ermeneutica e conclude sulla non-cancellabilità della distinzione tra metafora e concetto.
La terza parte approfondisce il rapporto tra metafora e visione, riconoscendo a
Ricoeur il merito di averne sottolineato la centralità già emersa in passato (dal metapherein
come visualizzazione del discorso in Aristotele). Per Ricoeur la metafora, a differenza del
simbolo, allarga i limiti del linguaggio tramite l’immagine associata, con un «collassamento
dei confini» (p. 113) il cui intreccio permette la comprensione. Nella Metafora viva, Ricoeur
anticipa la posizione dell’immagine non subordinata al linguaggio che verrà sostenuta
successivamente nell’ambito della visual culture, che raccoglie tradizioni disciplinari
differenti: principalmente media studies, discipline artistiche, filosofia.
La svolta relativa alla composizione di «immagine-linguaggio» nella metafora,
preparata dalle scelte mirate dello sfondo storico e sviluppata nell’analisi del pensiero degli
autori analizzati, emerge così dal complesso intreccio della storia della filosofia e ci porta
nella attualità. Per delimitare le caratteristiche del pictorial turn, Martinengo utilizza alcuni
testi di W.J.T. Mitchell, a partire dal presupposto che «tutti i media sono misti» e dalla
considerazione della plurivocità della nozione di immagine. La svolta iconica si definisce
quindi come «una tensione continua nel corso della storia culturale dell’uomo [o del genere
umano], che obbliga ogni volta la filosofia (ma anche l’arte, la teologia, la letteratura…) a
ripensare i confini tra il verbale e il visuale» (p. 119). In questo ripensamento si ritrovano
problemi di natura filosofica ma anche politica e sociale, derivanti anche dalla natura
dialettica dell’immagine, che coinvolge i soggetti e gli usi dell’immagine: l’abbandono
Recensioni
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del logocentrismo permette infatti di «considerare le immagini come mediatrici delle
interazioni sociali» (p. 122). Comporta inoltre lo sviluppo di un’attenzione critica al ruolo
della immagine e alla comprensione della sua performatività: «Il terreno del visuale è
soprattutto questo: un campo di forze composto, oltre che da immagini, anche da soggetti
che non si limitano a contemplarle, ma interagiscono, producono azioni e le subiscono»
(p. 127).
Collocare l’immagine all’interno delle pratiche sociali significa inoltre proporre
un’analisi dei supporti che ne permettono la costruzione e la produzione di effetti. Anche
qui la proposta di Mitchell si amplia, coinvolgendo la multisensorialità delle esperienze
percettive in relazione a un contesto linguistico e storico-politico concreto. Nel rivedere
termini ambigui e problemi sospesi della visual culture Mitchell propone, tra l’altro, una
interessante distinzione tra picture («qualcosa di materiale», «ciò che può essere appeso
a una parete, bruciato o distrutto», p. 133) e image («ciò che appare in una picture, ciò
che sopravvive alla sua distruzione», ibidem). Come scrive Martinengo, «le storie della
metafora da Aristotele alla rinascita novecentesca sono dunque molteplici e, come si è
visto, non sempre compatibili tra loro. Si tratta infatti di storie cariche di teoria, cioè
si possono raccontare in modo diverso a seconda del punto di arrivo a cui si decide di
portare il discorso» (p. 40).
In sintesi, Filosofie della metafora ha due pregi sostanziali, oltre alla chiarezza: offrire
un quadro articolato dello sviluppo storico della filosofia della metafora e aprirsi, con
la teoria di Mitchell, a nuovi o rinnovati orizzonti dell’importanza dell’immagine come
medium complesso nelle sue intersezioni con la metafora. Si poteva forse insistere di più,
in conclusione, sull’intreccio complesso tra mente, linguaggio, immagine e contesto. La
forza cognitiva (studiata negli anni recenti), la potenza visiva (sfruttata per esempio nella
pubblicità, giocando anche su convergenze e divergenze di significati nel rapporto testoimmagine), la capacità suggestiva della metafora (resa possibile sia dall’immaginazione
che dalla indeterminatezza e molteplicità del linguaggio), la condivisione degli sguardi
sul mondo, l’interazione verbale e non verbale agiscono insieme nel rendere possibili
creazione, comprensione, condivisione e convenzionalizzazione di espressioni metaforiche
efficaci e adeguate alla situazione.
Carla Bazzanella, Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione, Università di Torino, Via
Sant’Ottavio 20, 10124 Torino,
[email protected].
Ateismo moderno: un problema solo metafisico?
Anna Lisa Schino
Gianluca Mori, L’ateismo dei moderni. Filosofia e negazione di Dio da Spinoza a d’Holbach,
Roma, Carocci, 2016, pp. 300.
La tesi presentata nel bel libro di Gianluca Mori, L’ateismo dei moderni. Filosofia e
negazione di Dio da Spinoza a d’Holbach è che l’ateismo moderno sia un ateismo filosofico
e anti-teologico, e che la sua stagione sia durata cento anni, dal Tractatus theologicopoliticus (1670) di Spinoza al Système de la nature (1770) di d’Holbach. L’ateismo dei
moderni è dunque speculativo, in funzione di un obiettivo polemico ben preciso: il Dio
dei teologi. Punto di riferimento critico è la teologia razionale «sorta con Cartesio, poi
sviluppata da Malebranche e da Leibniz, da Locke e da Clarke, ma presto messa in crisi, o
meglio portata alle sue estreme conseguenze, prima da Spinoza e poi da Bayle, dai Collins
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e dai d’Holbach, con Voltaire complice involontario ma non meno effettivo» (p. 241).
Finita la teologia razionale dell’età della rivoluzione scientifica, nata con Cartesio, finisce
anche l’ateismo filosofico. La negazione di Dio utilizzerà poi nuovi strumenti concettuali,
quelli di Feuerbach, Marx, Nietzsche, e soprattutto si avvarrà delle ricerche di Darwin
sull’origine delle specie viventi. Si potrebbe anche aggiungere che finirà un ateismo
negativo e si comincerà a discutere di un ateismo positivo.
Dunque per Mori la questione dell’ateismo, per lo meno nell’ambito della cultura
occidentale della modernità, deve essere correlata alla concezione di Dio emersa con le
grandi religioni monoteistiche e sistematizzata nelle rispettive teologie; è un problema,
cioè, essenzialmente metafisico. Ma l’ateismo sei-settecentesco è solo ribellione contro la
teologia? La tesi, interessante e argomentata con una rigorosa analisi delle fonti, esclude
(e forse sacrifica) parte della riflessione del XVII secolo. Come è noto, fino a d’Holbach,
che conclude secoli di dissimulazioni e di reticenze, nessun autore si professa apertamente
ateo. Nel Seicento l’ateismo è considerato un male sociale, ed è perciò perseguitato: per
gli apologisti, l’ateismo non è solo un errore di giudizio, ma è anche il prodotto di una
natura malvagia, che deve essere piegata e rieducata. Nascosto e dissimulato, l’ateismo
seicentesco si declina in modi molto diversi e si esprime attraverso una scrittura obliqua,
comprensibile solo a spiriti forti e déniaisés. In prima battuta l’ateismo compare come
un’accusa mossa dai teologi. Nel 1623 Marin Mersenne nelle Quaestiones celeberrimae in
Genesim lancia un allarme: nella sola Parigi ci sono 50.000 atei! Questo numero enorme
evidenzia il rifiuto, da parte dei teologi, di ogni autonomia di giudizio, stigmatizzata
come empia e atea. In questa accezione, l’ateo è semplicemente chi dissente. «Ateo» è
una definizione offensiva rivolta a eretici, scismatici, sacrileghi, eterodossi, antitrinitari, a
chiunque non aderisca alla fede della comunità a cui appartiene. Secondo un altro celebre
apologista del primo Seicento, il gesuita François Garasse, Lutero raggiunge «il grado
perfetto dell’ateismo».
Sul versante opposto, i testi di libertini eruditi quali François de La Mothe Le Vayer,
Gabriel Naudé, Héctor-Savinien Cyrano de Bergerac, Pierre Gassendi e l’anonimo trattato
clandestino intitolato Theophrastus redivivus, costituiscono chiari esempi di un ateismo
che potremmo definire politico. Questa accezione comporta il rifiuto di ogni religione in
quanto subordinata a interessi politici: la religione è sempre e solo instrumentum regni, è
un’impostura finalizzata a consolidare un potere mondano con un carisma sovrannaturale.
In questi testi troviamo anche spunti per un ateismo morale che rifiuta ogni idea di
Provvidenza in nome dei dubbi e della disperazione che si affacciano nelle menti degli
uomini di fronte alle avversità fisiche e morali del mondo (disordine della natura, crudeltà
degli uomini, sofferenza degli innocenti, e così via). Possiamo individuare, inoltre, un
ateismo razionalistico in riferimento al rifiuto e alla condanna della superstizione come
condotta irrazionale tipica delle masse popolari; a tale comportamento si aggiunge, nel
volgo, la sostituzione della fede in Dio con la fede nel caso o Fortuna in senso magicoastrologico. Infine, si può parlare di ateismo genealogico in riferimento al rifiuto della
religione come rivelazione divina o come consapevolezza immediata della presenza di Dio
nel cosmo. Questo rifiuto viene argomentato sulla base di un’analisi storico-antropologica
che ricostruisce la genesi della religione a partire dalle passioni degli uomini (in primo
luogo, paura e speranza) e dai loro bisogni naturali, ma anche dalle convenzioni e dai
legami indispensabili per tenere unita una società.
Possiamo, tuttavia, chiederci se queste riflessioni libertine siano riconducibili a una
forma di ateismo o se costituiscano semplicemente una critica della religione: la negazione
dell’uso che di Dio è stato fatto dagli uomini è anche negazione di Dio? E a quali
conclusioni può arrivare lo storico, che non possiede gli strumenti spicci dell’inquisitore,
nella comprensione di testi che mettono costantemente in atto dispositivi di autoprotezione
e strategie di occultamento?
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Su uno sfondo così variegato e complesso, Mori intende mettere a fuoco in primo
luogo una definizione di ateismo che, evitando confusioni con deismo, scetticismo,
eterodossia, identifichi chiaramente l’oggetto d’indagine. A Mori interessano le posizioni
argomentate filosoficamente e non quelle dichiarazioni a effetto, né quelle affermazioni
prudentemente attribuite ad altri, o citazioni di autorevoli autori pagani che, secondo
il costume dei libertini eruditi, pongono interrogativi e insinuano dubbi, lasciando al
lettore il pesante compito di trarre da solo conclusioni dissacranti. Il lavoro da fare non
è indagare le intenzioni, bensì distillare il contenuto filosofico di un testo, mettendo in
evidenza ciò che è sostenuto da argomenti, teorie, dimostrazioni, e isolando gli eventuali
dispositivi retorici. Sarà così possibile evitare sia la prospettiva degli inclusivisti che,
pretendendo di leggere tra le righe, assoldano atei un po’ dappertutto (per es. G.
Minois, Histoire de l’atheisme. Les incroyants dans le monde occidentale des origine à nos
jours, Paris, Fayard, 1998), sia quella degli esclusivisti che finiscono con il riconoscere
come atei solo coloro che si dichiarano apertamente tali (per es. M. Onfray, Trattato di
ateologia, Roma, Fazi, 2005).
In quest’ottica, il primo punto da chiarire è a quale Dio ci si oppone: il
requisito perché si possa propriamente parlare di un pensiero ateo è la negazione di
un’intelligenza consapevole come fonte dell’ordine della natura. A partire da questo
assunto, Mori dipinge un quadro ricco e affascinante al centro del quale colloca Spinoza
e Bayle: «Da un lato Spinoza, dall’altro Bayle: su questa paradossale alleanza tra la
fredda ontologia della sostanza eterna e la sofferta percezione delle sofferenze umane
poggia le sue basi il “sistema” dell’ateo moderno» (p. 225). Il percorso del libro inizia,
dunque, con il caso di Spinoza, il filosofo «ebbro di Dio» secondo il poeta Novalis
e ateo per eccellenza secondo una lunga tradizione (che annovera, tra l’altro, la voce
«Spinoza» del Dictionnaire historique et critique di Bayle). Successivamente, dopo aver
discusso in appendice l’ateismo di Hobbes, Mori dà grande rilevanza alle posizioni
del platonico di Cambridge Ralph Cudworth (autore di The intellectual system of the
Universe, 1678), che individua il discrimine tra teismo e ateismo nell’ammettere o
meno che la causa prima sia intelligente e capace di progettualità. Sottolinea anche
molto la centralità di Pierre Bayle con la spietata critica degli attributi morali di Dio
e l’affermazione della possibilità di una morale sganciata da qualsiasi fede religiosa
(«la prima sostanziale apologia dell’ateismo che la storia moderna abbia conosciuto»).
Sono poi ben valorizzate le riflessioni degli atei clandestini Meslier, Boulainviller, Du
Marsais e Fréret nei loro trattati. Mori passa quindi ad affrontare le posizioni di Toland
e Collins (ricondotte a una prospettiva atea) e l’ateismo empiristico di Hume, privo di
certezze apodittiche e probabilistico nel senso della maggiore probabilità dell’ipotesi
atea rispetto a quella di un creatore intelligente e provvidente del mondo. Il libro
si conclude con un capitolo che, innanzi tutto, ricostruisce il complesso procedere
di Diderot con la tesi della «sensibilità generale delle molecole della materia» e la
conseguente difficoltà, irrisolta, di supporre sempre, in ogni particella materiale,
un minimo di attività pensante. Nello stesso capitolo viene anche sintetizzato il
deismo di Voltaire, con le sue revisioni e il bisogno spesso riaffermato di un creatore
spirituale della materia: «Voi avete sempre ragione contro i preti – obietterà Voltaire
a d’Holbach – ma non confuterete il principio che mens agitat molem» (citato a p.
225). Parallelamente si assiste all’emersione e aperta professione di ateismo da parte
di d’Holbach, con l’illusione tutta illuministica che la religione possa essere abolita
dalla comunità degli uomini in nome di un nuovo ordine morale e politico e di una
nuova felicità.
In tale percorso, il libro si avvale, oltre che della grandissima padronanza testuale e
contestuale dell’autore, anche di una scrittura moderna e sofisticata, qualità queste che ne
rendono avvincente la lettura.
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Bisogna dunque aspettare Bayle perché il paradosso dell’ateo virtuoso diventi il
paradigma della modernità. Lentamente l’ateismo diventa positivo e, piuttosto che
discutere se Dio esiste e se l’anima immortale verrà premiata o punita, si cerca di spiegare
il mondo elaborando una scienza della natura umana senza Dio. Questo nuovo ateismo
mette al centro l’uomo spiegando il funzionamento dell’intelletto, delle passioni, della
morale secondo un programma naturalistico sganciato dalla religione, dunque proponendo
una concezione della natura umana completamente diversa da quella insegnata dai teologi,
che dia centralità non alla ragione, all’intelletto o alla coscienza, bensì alle passioni, ai
sentimenti, alle credenze (temi per i quali si rimanda a E. Lecaldano, Senza Dio, Bologna,
Il Mulino, 2015).
Anna Lisa Schino, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161
Roma,
[email protected].
La filosofia di Carlo Antoni
Carlo Crosato
Francesco Postorino, Carlo Antoni. Un filosofo liberista, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2016, pp. 162.
Pensatore protagonista del primo dopoguerra, Carlo Antoni non gode della fama che la
sua produzione filosofica, poliedrica e appassionata, che spazia dall’estetica alla filosofia
politica e morale, meriterebbe. Allievo critico di Benedetto Croce, capace di costruire
una propria linea filosofica autonoma e originale, Antoni ha offerto alla cultura liberale
un contributo il cui spessore non pare essere adeguatamente riconosciuto, né dagli storici
del liberalismo, né dai pensatori critici del nuovo liberalismo, né, più in generale, dalla
filosofia politica tanto estera quanto italiana. Impegnandosi nel tentativo di colmare il
vuoto lasciato da una diffusa indifferenza, il libro che Francesco Postorino ha pubblicato
nel 2016 per Rubbettino, Carlo Antoni. Un filosofo liberista, restituisce l’immagine di un
pensatore dotato di un raro acume teoretico.
La poliedricità mediante cui Antoni si confronta con la realtà lo induce a sondare
l’ambito estetico già rinvenendovi al fondo una questione morale e latamente politica, che
invece la modernità ha spesso cercato di cassare dall’arte. La figura ingenua ma non banale
dell’artista fanciullo, affiancata all’idea di una ubiquità non strettamente professionale
dell’arte, restituisce un’immagine del bello che, se avvicinata senza infingimenti e senza
iperboli, contiene un notevole afflato di quello spirito democratico e liberale di cui Antoni
si fa interprete. In più, avvicinando le intuizioni di Antoni in merito all’esperienza estetica
e disponendole nella prospettiva contemporanea, Postorino riscopre l’attualità e, anzi, il
largo anticipo con cui il pensatore triestino aveva gettato le basi per una riflessione intorno
all’atrofia dell’esperienza estetica e del senso morale corrispondente all’ipertrofia di quella
dimensione sorta per sedare l’eccesso di moralismo che assediava la volontà individuale:
quella economica, certo strutturale nell’uomo descritto dal liberalismo crociano, ma da
non intendersi mai in senso esclusivo.
Quello economico, sostanziato dall’elemento dell’utile, è un problema a cui già
Croce aveva dato l’accesso al proprio sistema, incontrando tuttavia una serie di aporie
alle quali solo parzialmente aveva saputo rispondere. Antoni riprende la questione
spiritualizzando, certo, l’utile, ma al contempo sedandone alla radice l’esuberanza
grazie a un rapporto di etica e politica ben più solidale di quanto avesse pensato lo
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stesso Croce: una solidarietà giocata sull’equidistanza tra l’universale, spesso preda di
un moralismo ingessato, e il particolare, sovente capriccio della volontà individuale. Si
tratta, per così dire, di trattenere l’utile dalla tentazione dell’effimero, per collocarlo non
tanto nel dominio compiutamente universalistico della morale, ma quanto meno in un
cammino coerentemente orientato verso esso: al di là della morale medievale, ubiqua e
per questo mai davvero presente, Antoni si volge alla riscoperta della vitalità attorno a
cui si ingrana la volontà, quel motore che coinvolge l’azione utile in un senso etico di
respiro più ampio, tendente all’universale appunto.
Si tratta di un riavvicinamento tra etica e politica che non sfocia – e non potrebbe mai,
data l’autonomia sostanziale dei distinti – in una completa adesione, e i cui lineamenti
sono complessi e sofferti; Postorino ne ricostruisce con lucidità il movente e le difficoltà.
Seppure svincolata dal carattere effimero di un utile come capriccio del singolo, l’azione
politica, intesa come un dovere limitato all’ufficio dell’individuo, non può mai esaurire
la tensione potenzialmente universalistica dell’etica. Di qui, la critica nei confronti di
tutta quella teoria politica moderna che ha confuso un ambito finito, come quello dello
Stato, credendolo coincidente con l’espressione infinita della morale. Quella etica è
un’azione il cui potenziale è realizzabile dall’individuo nel momento in cui, emancipatosi
dal solipsismo della volontà, riesce a superare anche la passività imposta dagli apparati
istituzionali, concedendo alla propria volontà un moto così ampio da poter approdare in
un altro dettato dalla sua interiorità.
È all’interno di un tale quadro che può essere pensata la nozione di democrazia,
come condizione strutturale di una buona convivenza: senza mai potersi esaurire nella
semplice esecuzione di un ufficio, essa coinvolge l’individuo nell’esercizio di quelle libertà
che si collegano a quell’esercizio, manifestandosi come un atto informato da consistenti
elementi morali. Inoltre, e in maniera più interessante, Antoni investe la democrazia di
un afflato spirituale, in grado di dare voce all’autogoverno dell’io. Ed è coerentemente
con un simile concetto individualistico che assume valore una nozione moralizzata di
utilità, identificandosi la democrazia con la possibilità di ognuno di dire se stesso entro
una dimensione pubblica.
Una solida ricostruzione dell’elaborazione teoretica è propedeutica, nel volume di
Postorino, alla comprensione del liberalismo di Antoni di contro a quello crociano.
Quest’ultimo si presenta come la teoria filosofica di una libertà senza aggettivi;
un orizzonte metapolitico al di là di ogni ordinamento determinato e di ogni
formalizzazione giuridica, capace cioè di travalicare la stessa teoria formale dell’etica
e di coincidere con una concezione totale del mondo e della realtà, in cui tutto è
figura storica del trascendentale della Libertà. E se la Libertà che coincide con la
storia non può subire variazioni, nelle sue declinazioni a posteriori nelle quattro sfere
del reale essa incorre in rischi ed è passibile di miglioramenti, oscillando tra bello e
brutto, tra vero e falso, tra utile e disutile, tra bene e male. Nel divario che si apre
tra una logica trascendente, di un Libertà irrinunciabile, e una logica immanente, di
una libertà che si declina a posteriori, emerge una seconda prospettiva «liberale», non
più metapolitica e filosofica, quanto invece strettamente politica e interna alla storia.
Nella dimensione trascendentale della Libertà, ma parimenti in quella immanentistica,
Croce sottovaluta il ruolo del soggetto, il quale, paradossalmente, è inteso libero solo
all’interno di quello spazio religioso entro cui tutto è Libertà, mentre nel momento
spirituale nella sua declinazione immanentistica è inteso come strumento necessario
per la determinazione delle quattro libertà.
È sull’idea di libertà di Croce che Postorino intende stagliare il liberalismo di
Antoni, suo allievo, il quale parte da una severa considerazione della concezione
immatura di individuo che circola in Italia, tutta chiusa nella propria egocentrata
indifferenza e incapace di aprirsi a una dimensione civica. A differenza del suo
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maestro, ma senza per questo sposare la posizione di Einaudi, il liberalismo di Antoni
è di matrice liberista; non si tratta di una mossa anticrociana, sottolinea Postorino
ingaggiando un confronto critico con gli interpreti più autorevoli, in quanto conserva
traccia della celebrazione crociana della produttività dello spirito. E da questo
dibattito dipende anche la comprensione del ruolo ricoperto da Antoni all’interno
della società del Mont Pèlerin.
Quella che Postorino riscopre nell’elaborazione di Antoni è una versione assai
interessante di liberismo, sciolta dall’idea dell’homo oeconomicus, da ogni forma di
conservatorismo, e più simile a una specie di metodo etico-politico tutto teso alla
promozione dell’energia creativa di ognuno. Proprio come, in ambito estetico, è creativa
l’opera che si libera dal secco oggettivismo, così è creativa l’opera economica compiuta da
chi investe in primo luogo su se stesso senza per questo scadere in un bieco utilitarismo
o nel freddo egoismo. L’originalità del liberismo di Antoni è ben restituita dall’itinerario
consigliato da Postorino, che dall’estetica finisce nella politica, e che alla creatività estetica
ricongiunge l’urgenza di rivitalizzare l’individuo mediante il senso profondo dell’attività
economica. È in questo senso che il liberismo di Antoni si carica di un valore universale,
conducendo l’individuo a un confronto schietto e sincero con la moralità: si tratta di una
versione strettamente ispirata al pensiero cristiano, ma anche allo sforzo emancipativo di
umanesimo e Riforma, giustificando così un’esplicita avversità nei confronti di ogni forma
di statalismo. Ed è contro la crociana divinizzazione della Storia e in favore di un soggetto
politico attivo e concreto, al di là di ogni compito metapolitico da sentinella della libertà,
che Antoni intraprende la propria esperienza nel Partito liberale e, poi, nel Partito radicale
di Pannunzio.
Lo studio di Postorino restituisce uno spaccato di storia italiana entro cui all’attività
strettamente politica era affiancata un’intensa attività intellettuale, in cui i politici erano
studiosi appassionati, le cui idee erano fondate su una profonda ruminazione filosofica.
E non si tratta di una nota nostalgica, bensì di un’urgenza pressante in un’epoca, come
la nostra, governata da un distorto senso pragmatico, in cui le rielaborazioni neoliberali,
alle cui primissime mosse lo stesso Antoni ha partecipato, sono piegate nel senso di un
utilitarismo esasperato, nel senso di una irresponsabile prevaricazione fra individui che
sono ben lungi da promuovere progetti e idee nell’alveo di un progresso collettivo.
Carlo Crosato, Dipartimento di Filosofia e Beni culturali, Università Ca’ Foscari, Dorsoduro 3484/D,
30123 Venezia,
[email protected].
Una geofilosofia del globo
Giulio Azzolini
Matteo Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria,
Torino, Einaudi, 2017, pp. 218.
L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, edito per la
Piccola Biblioteca di Einaudi, è un saggio ricco, suggestivo, arguto. Lo è perché l’autore,
Matteo Vegetti, spazia dalla filosofia alla geografia, dalla politica all’economia, e usa
lenti insolite per una penetrante genealogia dell’età globale. Vale innanzitutto notare
che egli non intende la globalizzazione in senso meramente quantitativo, come una
moltiplicazione delle interazioni politiche o economiche, sociali o culturali, oppure
come un incremento dell’interdipendenza tra le nazioni. La sua ricerca si inscrive in una
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corrente minoritaria, non secondaria, tesa ad accentuare i tratti storici e filosofici del
globo, della sua morfologia sferica. In anni recenti, hanno variamente lavorato in questa
direzione, tra gli altri, Denis Cosgrove negli Stati Uniti, Peter Sloterdijk in Germania,
Sebastian Vincent Grevsmühl in Francia, Franco Farinelli in Italia (stranamente assente,
come Grevsmühl, dall’indice dei nomi). Anche Vegetti rimarca la presa di coscienza del
mondo come un tutt’uno, che, esemplare nelle opere di Valéry e Jünger, di Rosenzweig
e Freud, viene collocata nel primo Novecento. Ma a differenza degli studiosi sopra
indicati, il debito schmittiano contribuisce a che L’invenzione del globo riconosca un
carattere eminentemente politico alle dinamiche di globalizzazione.
Il primo dei quattro capitoli che compongono il volume, «L’unità del mondo.
Leviathan, Behemoth, Ziz», identifica nella scoperta dell’America l’inizio della
modernità globale. Perché secondo l’autore, come d’altronde per buona parte
della storiografia, modernità e globalizzazione coincidono. Il lessico e in qualche
misura la semantica, come anticipavo, sono mutuati da Carl Schmitt. Analizzando e
contestualizzando diversi scritti del giurista tedesco, Vegetti scandisce una serie di tappe
storiche tramite il riferimento agli elementi naturali: mare, terra, aria. La prima lunga
fase di globalizzazione, aperta dalle grandi scoperte geografiche, vive lo sviluppo del
mercato e il progresso dell’industria. Ma da che cosa dipese l’espansionismo coloniale
europeo, in quanto premessa delle scoperte stesse? Secondo l’autore, la modernità nasce
all’insegna del Leviatano. In questo caso, però, il celebre simbolo biblico non indica lo
Stato continentale, bensì le forze marittime, che trovano il loro apogeo nell’Inghilterra
vittoriana. È questa la potenza ultra-statuale, l’enorme balena, l’animale acquatico
contrapposto alle potenze terrestri, rappresentate da Behemoth. E che cos’è stata la
prima modernità se non l’equilibrio, ogni volta rinnovato, tra Leviathan, il mostro
marino, e Behemoth, con i suoi confini, sanciti già alla metà del Seicento dalla pace di
Vestfalia? Vegetti sostiene che la prima globalizzazione cominci convenzionalmente nel
1492 e termini, invertendo due cifre, nel 1942.
Nella lettura proposta, la data periodizzante è proprio quest’ultima, quando Schmitt
dà alle stampe Terra e mare. In questo libricino, ideato nel pieno della Seconda guerra
mondiale, egli avverte che il conflitto a cui sta assistendo come spettatore interessato
segnerà la crisi di quell’ordine planetario che, fino ad allora, si era retto sull’equilibrio
(instabile e mai garantito a priori) tra guerra e mare. Ma oltre a rilevare il logoramento
di terra e mare, ovvero dello ius publicum europaeum, quali criteri di ordinamento dello
spazio, Schmitt scorge nell’aria l’elemento oramai decisivo. Come emerge nel secondo
capitolo, «One World: l’impero dell’aria», il 1942 avrebbe inaugurato l’«epoca dell’aria»,
secondo quanto riconobbe, nello stesso anno, il geografo d’oltreoceano George Thomas
Renner (e diversamente, dopo di lui, Walter Ristow e Grace Croyle Hankins). Con
Ernst Jünger, Schmitt evoca anche un altro simbolo esoterico, Ziz. Uccello di enormi
proporzioni, figura dell’elemento aereo, Ziz è un prodigio della tecnica. Meccanica
ed elettronica: da un lato i motori a scoppio; dall’altro la radio, la tv, il radar. Dalla
meccanica, ovviamente, promana il potere militare dell’aeronautica; dall’elettronica,
invece, la potenza economica delle nuove tecnologie di trasporto e comunicazione. Non
che terra e mare diventino insignificanti, ma paiono subalterne rispetto all’aria.
Come indicavo all’inizio, tuttavia, la peculiarità di Vegetti consiste nell’intreccio
della dimensione geofilosofica con quella propriamente geopolitica. Allora se la prima
globalizzazione, vissuta nel contrasto tra terra e mare, era stata eurocentrica, la seconda
globalizzazione implica lo spostamento dell’egemonia mondiale sull’altra sponda
dell’Atlantico. Sono gli Stati Uniti l’«impero dell’aria». La svolta trova la sua scaturigine
fattuale nell’attacco giapponese a Pearl Harbour, il 7 dicembre 1941. Quell’evento
scuote il governo statunitense, che decide di rinunciare all’auto-isolamento nel quale
si era costretto. La dottrina Monroe, che separava il mondo in due emisferi, viene
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abbandonata e la cartografia politica mondiale si appresta a essere riscritta. Vegetti
dedica belle pagine alle incertezze, alle resistenze e all’immaginazione con cui gli Stati
Uniti maturano la vocazione ad assumere il ruolo di potenza globale. Egli chiarisce
inoltre con efficacia come questa consapevolezza storico-politica faccia tutt’uno con
l’intuizione che la chiave del successo consiste nella supremazia tecnologica e nei già
richiamati risvolti militari ed economici. I più sensibili cartografi americani (tra gli altri,
Richard Edes Harrison) sanno che la translatio imperii del Novecento, dal Regno Unito
agli Stati Uniti, poggia sull’aereonautica e sulla comunicazione radio, le risorse che
consentono il dominio dell’aria. Il mondo, che non ha più l’Europa al centro, si scopre
unificato sotto una bandiera preminente, quella a stelle e strisce.
Il terzo capitolo, «Planetarizzazioni della Terra», spiega come quella di Ziz non sia
l’ultima fase di globalizzazione. Il prevalere dell’elettronica sulla meccanica conduce alla
progressiva instaurazione di quello che Marshall McLuhan definirà «villaggio globale», un
sistema denso e conflittuale. Ma gli anni sessanta del secolo scorso lanciano soprattutto
una nuova sfida, che vede ancora gli Stati Uniti come capofila: non già l’appropriazione
dell’aria, bensì il controllo sull’etere.
Commentando Blue Marble, Vegetti mostra come la conquista dello spazio celeste
muti la concezione stessa del nostro ecosistema. La famosa fotografia della Terra, scattata
il 7 dicembre 1972 dall’Apollo 17, ha due effetti pressoché immediati: testimonia la
volontà e la capacità dell’essere umano di emanciparsi dal suo ambiente consueto e,
d’altro canto, l’irrimediabile unificazione di tutto il globo, la sua «planetarizzazione».
Martin Heidegger, seguito decenni dopo da Sloterdijk, interpreta lo sbarco sulla Luna
come il simbolo della perdita di mondo da parte dell’essere umano. Emmanuel Lévinas,
Maurice Blanchot e Kostas Axelos si concentrano invece sulla ridefinizione dell’identità
in un mondo disorientato, l’«astronave madre». La tecnica, in sintesi, viene percepita dai
suoi interpreti più avvertiti come un vettore di sradicamento etico, nonché, sempre di più,
come un fattore di crisi della statualità.
Alle pieghe politiche ed economiche degli ultimi decenni di globalizzazione è
consacrato il quarto capitolo, «Mondi globali. La terra e i flussi». Esso illustra le
maniere attraverso cui i recenti processi di deterritorializzazione e riterritorializzazione
hanno compromesso non solo le piene sovranità, ma anche, specificamente, l’impero
statunitense. Vegetti si serve in particolare della più fortunata nozione di Manuel
Castells per diagnosticare la formazione di un inedito «spazio di flussi». La cifra del
capitalismo contemporaneo sarebbe costituita da quei flussi di merci, informazione,
capitale, capaci di ridefinire i limiti materiali e immateriali dello Stato. Non che
quest’ultimo scompaia, come invece nella prospettiva di Kenichi Ohmae, ma certo
subisce un ridimensionamento tale da renderlo uno soltanto dei soggetti in gioco. Di
qui la sottolineatura dell’accresciuta complessità della geografia. Lungi dal descrivere
un universo piatto, l’autore si sforza di mettere in risalto i grovigli politici, economici,
culturali della trama sociale odierna.
La domanda finale non poteva che riguardare la qualità di un nomos della terra
acconcio ai nostri giorni. Una risposta esauriente avrebbe richiesto, come è ovvio, un
altro libro. Vegetti si limita a tre appendici. Una si concentra sull’11 settembre, in una
sorta di chiusura ideale del libro, che, affrontando fin dall’introduzione l’attacco a
Pearl Harbor, termina con l’attentato terroristico alle Torri Gemelle. Un evento che,
notoriamente, ha innescato devastanti reazioni a catena, prima spingendo gli Stati Uniti
al sogno di un «nuovo secolo americano» e poi, dopo il conclamato fallimento di quello
smisurato progetto, conducendo l’attuale amministrazione a un neo-isolazionismo
annunciato. Un’altra presa sul presente è legata all’analisi del drone, come mezzo
delle nuove guerre che minacciano di colpire la stessa società civile, ma anche come
simbolo del superamento della necessaria compresenza, nella battaglia, di due eserciti
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contrapposti. In conclusione – e siamo alla terza appendice – viene posta la questione
dell’integrazione politica sovranazionale in Europa. Si tratta naturalmente di un nodo
difficilissimo da sciogliere. Vegetti ha il merito di guardarlo in modo tale che risalti tutta
la sua problematicità, se non la sua aporeticità. Come può articolarsi una territorialità
politica sovranazionale nell’era dell’evaporazione del valore e delle chiusure identitarie?
Dopo aver conosciuto la centralità nell’epoca dell’equilibrio tra terra e mare, come può
l’Europa risorgere nello spazio-tempo dei flussi?
Giulio Azzolini, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161 Roma,
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