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La teoresi metafisica nel pensiero di Enrico Berti

2023

Relazione presentata nel Convegno "L'eredità filosofica di Enrico Berti" (Mercoledì 22 febbraio 2023 - Sala delle Edicole, Palazzo del Capitanio, Piazza Capitaniato, Padova)

LA TEORESI METAFISICA NEL PENSIERO DI ENRICO BERTI+ di Elvio Ancona 1. INTRODUZIONE 1.1. Stato d’animo - Permettetemi innanzitutto di dire che percepisco il mio essere qui come un doppio onore: ho iniziato il mio percorso accademico discutendo nel 1990 con Berti una tesi sul dinamismo conoscitivo nella filosofia di Tommaso d’Aquino e certo non posso non percepire come un grande privilegio il trovarmi a ricordare non solo un autore che ha inciso profondamente sulla mia formazione filosofica, un maestro, ma indubbiamente quello che considero uno dei più importanti filosofi del secolo scorso, e anche dell’attuale. Mi sento onorato, in secondo luogo, perché, come cercherò di spiegare meglio di qui a poco, ritengo che il tema che mi è stato assegnato, la metafisica di Berti, sia un tema cruciale, forse il tema cruciale, per la comprensione del suo pensiero. 1.2. Organizzazione della relazione - La mia relazione ambisce a presentare la metafisica bertiana nel suo complesso, esaminando i temi che ci dovrebbero permettere di coglierne al meglio il valore e l’importanza: la centralità della teoresi metafisica per Berti, le caratteristiche della metafisica bertiana; la sua attualità; il confronto con altre metafisiche; alcuni problemi aperti. 2. CRUCIALITÀ DELLA TEORESI METAFISICA NEL PERCORSO SPECULATIVO DI BERTI 2.1. Precedenza della metafisica - Negli scritti autobiografici di Berti – o più esattamente, nella componente autobiografica dei suoi scritti anche più densamente teoretici (il filosofo valeggiano amava personalizzare la sua riflessione filosofica e non faceva mai mancare qualche ricordo di vita vissuta) – l’interesse per la metafisica è già manifestato dall’ammissione – di cui egli affermava di “non vergognarsi” – di essere stato persuaso a ritrovare la fede cattolica, negli anni del liceo, sotto la guida di Armando Rigobello, dalle “cinque vie” di Tommaso d’Aquino1. In seguito, iscrittosi su suggerimento dello stesso Rigobello all’Università di Padova, dove insegnava il suo maestro, Luigi Stefanini, Berti si imbatté nella “metafisica classica”, ivi professata, secondo diverse prospettive, da Umberto Padovani, Marino Gentile e Carlo Giacon. Tra questi docenti le sue preferenze andarono presto a Marino Gentile, allora ordinario nella facoltà di Magistero e incaricato di Filosofia della storia a Lettere, di cui lo convinse “la proposta di fondare la metafisica classica (la quale per lui, inventore dell’espressione, era [a differenza che per gli altri due] più aristotelica che tomistica) su una base che teneva conto del pensiero moderno e contemporaneo […]: la problematicità pura”2. A lui, pertanto, Berti si rivolse nel 1955 per una tesi di laurea sul rapporto tra metafisica classica e pensiero contemporaneo. Può essere opportuno riportare, con le parole dello stesso protagonista, ciò che accadde in quella circostanza: “essendo personalmente orientato nella direzione della metafisica classica, chiesi a Marino Gentile, cioè a quello che tra tutti i miei professori mi sembrava più rigoroso nella difesa della metafisica, di assegnarmi una tesi di laurea che mi permettesse di confutare l’intera filosofia contemporanea, riscattando in tal modo le sorti della metafisica. Per fortuna, colui che da allora sarebbe diventato il mio maestro mi distolse saggiamente da un simile ingenuo proposito e mi consigliò una tesi su Aristotele”3, precisamente sulla dottrina della potenza e dell’atto che per lui costituiva il nerbo della metafisica classica. Da quel momento in poi – rammenta ancora Berti - “non abbandonai più lo studio di Aristotele, sia perché questo autore mi sembrava il vero fondatore della “metafisica classica”, sia perché, non essendo egli cristiano come san Tommaso, non era sospettabile di avere costruito una Relazione presentata al convegno L’eredità filosofica di Enrico Berti (Padova, Sala delle Edicole del Palazzo del Capitanio, mercoledì 22 febbraio 2023) 1 Cfr. Una metafisica (epistemologicamente) “debole”, in “Annuario filosofico”, 2000, ora in Incontri con la filosofia contemporanea, Petite plaisance, Pistoia 2006, p. 141. 2 Ivi, p. 142. 3 La metafisica oggi in Europa, in Pozzo-Sgarbi (cur.), I filosofi e l’Europa, Mimesis, Milano-Udine 2009, ora in Introduzione alla metafisica, Utet, Torino 2017, p. 147. + 1 metafisica in funzione della fede religiosa” e rappresentava quindi “un terreno ideale di discussione anche con i filosofi non credenti” 4. È importante sottolineare – e questa possiamo considerarla la nostra prima acquisizione – come fin dall’inizio del suo percorso speculativo si sia manifestata la vocazione originariamente metafisica della filosofia di Berti e come lo studio del pensiero aristotelico gli sia apparso a un certo punto, a partire dall’assegnazione della tesi di laurea, come una necessaria conseguenza, una conseguenza che si potrebbe quasi definire “doverosa”, ma pur sempre una conseguenza. Non dobbiamo dunque mai dimenticare che il Berti aristotelico, il Berti storico della filosofia, è innanzitutto un metafisico, e di quanto lo stesso Berti lo rivendicasse orgogliosamente possiamo rendercene conto già solo leggendo le pagine del suo “Autoritratto”5. 2.2. Gli scritti di metafisica - L’interesse di Berti per la metafisica si documenta compiutamente peraltro nei suoi scritti. Certamente negli scritti sulla metafisica aristotelica (o in quelli di cui lo studio della metafisica aristotelica costituisce una parte rilevante), numerosissimi, che attraversano tutto l’arco della sua produzione scientifica, cominciando dalla sua tesi di laurea, Genesi e sviluppo della dottrina della potenza e dell’atto in Aristotele (“Studia Patavina, 1958), passando per La filosofia del primo Aristotele (Padova, Cedam, 1962), L’unità del sapere in Aristotele (Padova, Cedam, 1965), Studi aristotelici (L’Aquila, Japadre, 1975), Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima (Padova, Cedam, 1977), Profilo di Aristotele (Roma, Studium, 1979), Aristotele nel Novecento (Roma-Bari, Laterza, 1992), Storicità e attualità di Aristotele (Roma, Studium, 2020), per finire con molti dei centinaia di articoli raccolti nei 5 volumi (6, se teniamo conto dei due tomi del quarto) già pubblicati dei Nuovi studi aristotelici (Brescia, Morcelliana, 2004-2020), mentre attendiamo impazienti le stampe del sesto, preannunciato dal filosofo valeggiano un anno prima della morte6. Ma, oltre a questi testi, non mancano i saggi di natura schiettamente teoretica, in cui vengono espressamente affrontati i temi della possibilità e dell’attualità della metafisica, la tesi dell’esistenza di una metafisica classica, la discussione delle sue diverse formulazioni, le ragioni della preferibilità della versione sviluppata dalla “scuola padovana”, ovvero da Marino Gentile e dai suoi allievi e collaboratori, non ultimo Berti stesso. Tra tali saggi una menzione speciale merita Introduzione alla metafisica (Torino, Utet, 1993), indubbiamente la più organica trattazione della sua concezione metafisica, recentemente ripubblicata con l’aggiunta di cinque importanti appendici (2. ed., 2017). Vanno peraltro altresì considerati gli scritti in cui fino all’ultimo periodo Berti ha continuato a riproporre le linee fondamentali del suo pensiero, approfondendo ora questo ora quell’aspetto, senza mai risultare meccanicamente ripetitivo; scritti che possiamo al presente più facilmente reperire grazie alla loro ripubblicazione nei volumi Incontri con la filosofia contemporanea (Pistoia, Petite plaisance, 2006) e Saggi di filosofia teoretica (Roma, Studium, 2021). Infine, va ricordato uno scritto pubblicato subito dopo la morte di Berti (mancava solo la revisione finale delle bozze quando si verificò il tragico evento)7, Le prove dell’esistenza di Dio nella filosofia (Brescia, Scholé, 2022). È suggestivo pensare che, per uno strano gioco del Destino, con questo testo, alla fine della sua vita Berti si riportasse all’inizio del suo percorso speculativo, alla dimostrazione dell’essere divino, quasi a rappresentare così simbolicamente il senso autentico e profondo della sua ricerca metafisica. Su questo secondo gruppo di scritti ci baseremo principalmente nell’esposizione della metafisica bertiana. 3. QUALE METAFISICA? Come abbiamo visto, Berti ricorda di essere stato, fin dall’inizio, fin da quando muoveva i primi passi da studioso nel Liviano di Padova, attratto dalla versione della metafisica classica sviluppata da Marino Gentile, una metafisica di ispirazione aristotelica, ma liberata dai condizionamenti storici della cosmologia antica, ripensata sulla base delle critiche del pensiero moderno e contemporaneo, quindi essenzializzata e rigorizzata come metafisica dell’esperienza, ovvero ricerca delle “cause prime” del mondo dell’esperienza considerato nella sua totalità. Nella riformulazione bertiana, essa si presenta come una metafisica “problematica”, nel 4 5 280. 6 7 Una metafisica (epistemologicamente) “debole”, cit., p. 143. Cfr. Autoritratto, in “Bollettino della Società filosofica Italiana”, 176, 2002, pp. 9-12; ora in Incontri, cit., pp. 277Cfr. Nuovi studi aristotelici. V – Dialettica, fisica, antropologia, metafisica, Morcelliana, Brescia 2020, p. 5. Cfr.L. Grecchi, Nota, in Le prove dell’esistenza di Dio nella filosofia, Scholé, Brescia 2022, p. 178. 2 senso che consiste essenzialmente in una problematizzazione integrale dell’esperienza, e “dialettica”, nel senso che vive esclusivamente della confutazione dei suoi contraddittori. Il suo unico risultato conoscitivo è la dimostrazione, sempre rinnovantesi davanti a qualsiasi tentativo di negarla, della necessità di un principio trascendente. Proprio per questo motivo, essa si presenta come epistemologicamente “debole”, cioè povera di contenuti informativi, ma molto “forte” dal punto di vista logico, cioè difficilmente impugnabile. Essa si presenta inoltre come una metafisica “laica”, in quanto, pur affermando l’esistenza di un essere dalle caratteristiche divine, giunge a riconoscerla sulla sola base di argomentazioni razionali, e non per convinzione religiosa. Una metafisica siffatta può essere detta “classica”, dunque, per significare “non solo la sua origine antica, ma anche e soprattutto il suo valore perenne”8. Come spiega Berti, “è il nucleo irrinunciabile e classico, cioè perennemente valido, che sta alla base di ogni metafisica trascendentistica, sin da quando essa è stata elaborata”9. Ci riferiremo pertanto alla metafisica del nostro Autore anche come “metafisica classica”, qualificandola, ove necessario, “bertiana” per distinguerla dalla “metafisica classica” in generale, e specificamente dalla “metafisica classica” tour court di Marino Gentile. Esaminiamo ora più attentamente le summenzionate caratteristiche di questa metafisica, a cominciare dal suo nucleo speculativo, la problematicità dell’esperienza. 3.1. Una metafisica problematica – Come si è detto, Berti si riconosce innanzitutto nella rielaborazione della metafisica dello Stagirita operata da Marino Gentile sotto il nome di “metafisica classica”, basata sulla concezione della “problematicità pura”, dove la ricerca aristotelica delle cause prime diventa problematizzazione della totalità dell’esperienza. In quanto tale, essa si differenzia dalle altre scienze (anche la metafisica per Berti come per Aristotele è scienza, ove per “scienza” si intenda la ricerca delle cause, cioè delle spiegazioni, di un dato di esperienza10), con cui pure condivide la problematizzazione dell’esperienza, cioè la domanda sul “perché” del “che” dei fatti. Mentre infatti nelle scienze particolari tale problematizzazione è sempre circoscritta ad un determinato ambito, e quindi è limitata, per la metafisica classica essa investe la totalità dell’esperienza11, rilevando, a partire dalla sua irriducibile molteplicità, incessante mobilità, inesauribile processualità , “l’insufficienza, [la non assolutezza,] l’incapacità a spiegarsi da sé, del mondo dell’esperienza, cioè dell’esperienza nella sua interezza, sia esterna che interiore, e quindi della realtà fisica, ma anche della storia, della cultura, del mondo umano nel suo complesso”12. La metafisica classica, dunque, considera l’esperienza nella sua integralità come un unico grande problema, una sola immensa domanda, una domanda globale, che, in quanto consapevolmente assunta dalla filosofia, si manifesta e si esprime – per usare le parole di Marino Gentile - come “un domandare tutto che è tutto domandare”13. Questa domanda esige una risposta altrettanto globale, cioè sufficiente a rendere ragione di tutto, non bisognosa di altro, e quindi non causata, prima, assoluta: ciò che tradizionalmente è chiamato Principio14. Berti precisa che è giusto chiamarlo Principio, “perché è la causa prima, o la ragione ultima, o Metafisica debole?, in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n.s., 2005, pp. 39-52; ora in Incontri, cit., p. 158. Quale metafisica per il terzo millennio?, in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millenium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44; ora in Incontri, cit., p. 129. 10 Cfr. La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici, in Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000, Mondadori, Milano 2000, pp. 4-62; ora in Incontri, cit., p. 118. 11 Cfr. Ontologia analitica e metafisica classica, in “Giornale di metafisica”, n.s., 29, 2007, pp. 305-316; ora in Introduzione, cit., p. 127. 12 La metafisica oggi, cit., p. 163. 13 M. Gentile, Filosofia e umanesimo, La Scuola, Brescia 1946, p. 155. Così Berti spiega la celebre formula del maestro: “In questa espressione il ‘domandare tutto’ indica una domanda, la domanda del perché, che investe la totalità del reale […], senza lasciar fuori nulla, mentre il ‘tutto domandare’ indica un domandare senza presupposti, che non presuppone, ad esempio, nessuna fede religiosa, nessuna ideologia politica, nessuna certezza scientifica, cioè che è solo domandare, nient’altro che domandare. Detto in altri termini, il ‘tutto domandare’ è l’atteggiamento rigorosamente critico, nel senso kantiano del termine, cioè il rifiuto di ogni dogma, di ogni pregiudizio, di ogni presupposto” (Un caso di ricerca della verità in filosofia (2014), in Saggi di filosofia teoretica, Roma, Studium 2021, p. 158). Sul punto si veda anche Introduzione, cit., p. 92; Non ontologia, ma ricerca delle cause prime, in “Aquinas”, 62, 2019, pp. 21-34; ora in Saggi, cit., p. 265. 14 Cfr. Ontologia analitica, cit., p. 127. 8 9 3 la spiegazione completa, dell’esperienza”15. E aggiunge: “Questo Principio trascende l’esperienza, e perciò deve essere detto metafisico”.16 La dimostrazione della trascendenza del Principio è già implicita nelle considerazioni appena svolte, ma, per l’importanza della sua struttura logica, sarà opportuno esplicitare il ragionamento bertiano che conduce ad affermarla in modo inoppugnabile. La risposta alla problematicità dell’esperienza, il Principio, non può essere immanente all’esperienza, cioè in essa interamente attuata, in quanto ne estinguerebbe la problematicità, perché ciò “farebbe coincidere la risposta con la domanda, o la domanda con la risposta, quindi negherebbe la problematicità dell’esperienza”17, assolutizzandola. Ma la problematicità dell’esperienza non può essere negata, perché – come abbiamo visto - l’esperienza stessa non è in grado di spiegarsi da sé18. Anzi, di tale problematicità non si può neppure dubitare, perché non si può dubitare se non problematizzando, cioè riaffermandola19. Il Principio, pertanto, deve necessariamente essere trascendente. La metafisica classica bertiana risulta così essere la dimostrazione della trascendenza del Principio rispetto all’esperienza20. 3.2. Una metafisica dialettica – Parlare di “dimostrazione” può sembrare alquanto in contraddizione con una metafisica che si presenta come essenzialmente problematica. Ma tutto dipende da ciò che si intende per “dimostrare”. Se si intende il dedurre proprio dei ragionamenti geometrici, siamo d’accordo. Ma questo non può essere il nostro caso, perché le deduzioni richiedono dei principi da cui muovere, e la metafisica classica non dispone di principi da cui dedurre il Principio (che, del resto, altrimenti non sarebbe più tale). Esiste però un altro tipo di dimostrazione, l’unica dimostrazione praticabile dalla filosofia, che è la dimostrazione elenctica, o per confutazione, o dialettica (nel senso antico, cioè greco, del termine da cui deriva l’aggettivo, di arte del discutere confutando), consistente nel ridurre a contraddizione le posizioni opposte a quella che si intende sostenere. Ed è appunto una dimostrazione di questo tipo “la dimostrazione della trascendenza del Principio, che consiste precisamente nella riduzione a contraddizione della pretesa di assolutizzare l’esperienza, di fare di essa il Principio”21. Questo tipo di dimostrazione, dunque, è del tutto compatibile con la problematicità pura della metafisica classica. Essa, infatti, non risolve la problematizzazione dell’esperienza che la caratterizza in un’argomentazione conclusa e definitiva, al contrario ne preserva il perenne ed inesauribile rinnovarsi, riproponendosi continuamente nei confronti di tutte le sue negazioni, di tutte le tesi contrastanti. Sotto questo profilo la metafisica classica bertiana è anche una metafisica dialettica, nel senso che vive delle discussioni con i suoi oppositori e della loro confutazione22. 3.3. Una metafisica debole – Consistendo interamente nell’inferenza della trascendenza del Principio dalla problematicità dell’esperienza attraverso la confutazione delle sue assolutizzazioni, la metafisica classica, così come ripensata da Berti, è stata da lui presentata come una “metafisica debole”, più precisamente come una metafisica “debole” sotto il profilo epistemologico e “forte” dal punto di vista logico23. Egli sostiene di aver ripreso questa terminologia dall’epistemologia più recente (Popper, Kuhn, Feyerabend), che ha evidenziato come le teorie scientifiche forti, cioè ricche di contenuto conoscitivo, siano logicamente deboli, perché facilmente confutabili. Basta infatti una sola controprova per falsificarle. Le teorie epistemologicamente deboli, cioè povere di informazioni, sono invece, dal punto di vista logico, molto forti, perché è molto difficile falsificarle. L’esempio classico, richiamato dal filosofo valeggiano, è dato dagli enunciati “tutti i cigni sono bianchi” e “alcuni cigni sono bianchi”, il primo rappresentativo delle teorie scientifiche epistemologicamente forti e il secondo rappresentativo delle teorie scientifiche epistemologicamente deboli24. Introduzione, cit., p. 95 Ibid. 17 Ontologia analitica, cit., p. 127. 18 Cfr. supra, n. 12. Si veda anche Introduzione, cit., p. 94. 19 Cfr. Un caso di ricerca della verità, cit., p. 159. 20 Cfr. Ibid. 21 Ivi, p. 107, 22 Cfr. Introduzione, cit., pp. 104 ss.; Per una metafisica problematica e dialettica, in “Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190; ora in Incontri, cit., p. 90; Quale metafisica, cit., pp. 134 ss. 23 Si veda, per tutti, Metafisica debole?, cit., pp. 157 ss. 24 Quale metafisica, cit., p. 139. 15 16 4 Ebbene, - scrive Berti - la metafisica classica è indubbiamente debole dal punto di vista epistemologico, cioè povera di contenuto conoscitivo, perché si limita, in sostanza, a proporre un’unica, semplice, tesi, “la trascendenza dell’assoluto rispetto al mondo dell’esperienza”. Ma essa è forte dal punto di vista logico, perché “per confutarla, bisognerebbe riuscire a dimostrare che il mondo dell’esperienza è l’assoluto, cioè a dimostrare che gli innumerevoli segni di relatività, di precarietà, di insufficienza, di problematicità, che esso presenta, sono tutti delle illusioni”25. Intesa in questo modo, la “metafisica debole” di Berti non poteva avere evidentemente nulla a che vedere con il “pensiero debole” professato in Italia da Gianni Vattimo negli anni ’80 del secolo scorso e diffusosi anche in altri paesi sulla scia del cosiddetto “postmoderno”. Essa, anzi, intendeva combatterlo sul suo stesso terreno, mostrando che la sua critica alla metafisica, se poteva essere giustificata, o comprensibile, nel caso di una metafisica epistemologicamente forte (come la “vecchia metafisica” di cui scriveva Hegel, o la “ontoteologia” di cui scriveva Heidegger), risultava completamente inadeguata, e quindi irrilevante, nel caso di una metafisica epistemologicamente debole26. Tuttavia, sollecitato da alcune osservazioni critiche27, per evitare equivoci e confusioni, o – come il nostro Autore ebbe a dire, con un tono leggermente polemico – “per farsi capire anche da coloro che capiscono poco”28, ad un certo punto ha preferito parlare di “metafisica povera”, o “umile”29, in certi casi addirittura di metafisica “non sovradeterminata”30, “semplice”31, “leggera” o “snella”32, rivelando così una qualche incertezza nella sua denominazione definitiva. Per parte mia, mi guardo bene dall’aggiungere un ulteriore aggettivo all’ormai lunga lista che correda la metafisica bertiana, ma se mi fosse chiesto di fare a mia volta una proposta al riguardo, suggerirei di qualificarla come “essenziale”33. 3.4. Una metafisica laica – Infine, va sottolineato che si tratta di una metafisica laica, non religiosa. Invero, non è difficile rilevare la natura divina del Principio trascendente “dimostrato” da Berti sulla scia dell’insegnamento di Marino Gentile e della sua scuola. Già Gentile, infatti, osservava, riprendendo peraltro a sua volta la lezione del libro XII della Metafisica di Aristotele, che, per poter corrispondere alla richiesta di ragione costituita dalla problematicità dell’esperienza, il Principio trascendente non può essere concepito se non come pura intelligenza34. Esso inoltre deve essere ritenuto, proprio in quanto soggetto di intellezione che ha per oggetto sé stesso, come un essere personale, eternamente vivente, perfettamente felice e dotato di infinito amore. Non è possibile non ravvisare in queste caratteristiche, individuate senza l’aiuto di alcuna rivelazione, i tratti tipici di una realtà divina, addirittura di una divinità creatrice35. Ma il riconoscimento di una divinità siffatta non ha, appunto, nulla ha a che fare con la fede religiosa, si fonda unicamente su argomentazioni razionali, su conoscenze naturali, cioè non rivelate. Si tratta, in altri termini, del “Dio dei filosofi”, più esattamente dei filosofi greci, in particolare Platone e Aristotele36, 25 Ibid. Cfr. Metafisica debole?, cit., p. 163. 27 Berti vi si riferisce in Metafisica debole?, cit., p. 162. 28 Ivi, p. 164. 29 Per una “essenzializzazione” della metafisica, in Ricordo di Sofia Vanni Rovighi nel centenario della nascita, a cura di M. Lenoci, M. Paolinelli, M. Sina, “Rivista di filosofia neo-scolastica”, supplemento al n. 4/2008, pp. 171-182; ora in Introduzione, cit., pp. 133—146, a p. 146. 30 La prospettiva metafisica, cit., pp. 118 ss. 31 Metafisica debole?, cit., p. 164. 32 Ontologia analitica, cit., p. 128. 33 Cfr. Una metafisica (epistemologicamente) debole, in “Annuario filosofico”, 16, 2000, pp. 27-41; ora in Incontri, cit., pp. 141-155, a p. 152. 34 Cfr. M. Gentile, Trattato di filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1987, pp. 193 ss. Si veda in proposito anche Metafisica debole?, cit., p. 158. 35 Si veda sul punto, con specifico riferimento al concetto di un Dio creatore, Introduzione alla metafisica, cit., pp. 97 ss., 102 ss. 36 Precisa al riguardo Berti: “Il Dio dei filosofi greci non è, dunque, quello criticato da Pascal, cioè il dio orologiaio, o ‘architetto del mondo’, vale a dire il Dio del ‘deismo’ moderno, che esclude qualsiasi rivelazione come dato puramente mitico e superstizioso. È un Dio ‘aperto’ alla rivelazione biblica, come compresero i filosofi ebrei (Aristobulo e Filone), e aperto al messaggio cristiano, come comprese Paolo” (Il “Dio dei filosofi” nel discorso di Paolo agli Ateniesi, in Pensare Dio a Gerusalemme. Filosofia e monoteismo a confronto, a cura di A. Ales Bello, Pontificia Tniversità Lateranense, Roma 2000, pp. 45-57; ora in Nuovi studi aristotelici. IV/1 – L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, Brescia 2009, p. 60). 26 5 manifestantesi emblematicamente nell’interpretazione che del testo aristotelico è stata fornita dalla scuola padovana di metafisica classica. D’altra parte, - afferma Berti – l’idea del Principio metafisico come pura intelligenza “non solo non si oppone alla nozione biblica di Dio, ma è anzi profondamente in armonia con quest’ultima”37. Si situa in questo punto il problema del rapporto della metafisica bertiana con la fede, per la precisione con la fede praticata nelle grandi religioni monoteistiche, in quella cristiana specialmente, rapporto che si riveste senza dubbio per Berti anche di un significato personale, professandosi egli apertamente un credente di confessione cattolica. Si tratta di religioni che condividono con la metafisica, con la metafisica classica almeno, il riconoscimento dell’esistenza di una divinità trascendente, conosciuta però non tramite la ragione, ma attraverso una rivelazione. Ebbene, la formulazione della metafisica classica adottata dal nostro Autore apre precisamente uno spazio alla fede in una divinità di questo tipo, “senza presupporla, ma anche senza pretendere di fondarla”38. Aprire uno spazio alla fede vuol dire garantirne la possibilità sulla base di argomentazioni puramente filosofiche, non a loro volta pregiudicate da convinzioni religiose, da “filosofo cattolico”, per esempio, ma non vuol dire affatto dimostrare la sua verità, né implicarla necessariamente. La fede – scrive Berti – “è un atto di libertà, per nulla imposto da un qualsiasi ragionamento, ma, per potersi attuare, non deve nemmeno essere impedito da un ragionamento che ne neghi la possibilità”39. È una scelta libera – puntualizza ancora il Nostro – “della quale il filosofo, in quanto uomo, assume tutta la responsabilità, ma in quanto filosofo deve garantire la non assurdità”, cominciando, come abbiamo visto, per prima cosa col confutare le negazioni della trascendenza del Principio40. Né per questo possiamo pensare che una metafisica del genere sia una filosofia confessionale, possa definirsi, ad esempio, cristiana o cattolica, pur potendo colui che la pratica dichiararsi cristiano e cattolico. Non è forse un caso allora che, per rendere più chiara la sua posizione al riguardo, Berti concluda la sua Introduzione alla metafisica, più esattamente l’ultima appendice della seconda edizione, confidando, con una limpidezza – oserei dire commovente: “Per questo non amo essere presentato, come a volte mi accade, quale ‘filosofo cattolico’, ma preferisco essere considerato un cattolico (semplicemente di fede, non certo come esemplarità), che si sforza di essere anche un po’ filosofo”41. 4. UNA METAFISICA ANCORA ATTUALE Una metafisica “essenziale” di questo tipo presenta un ulteriore duplice vantaggio. Essa risulta preferibile - ci dice ancora Berti - “sia perché […] lascia cadere tutte quelle parti del sistema metafisico tradizionale (cosmologia razionale, psicologia razionale, teologia razionale) di cui la filosofia moderna […] ha fatto giustizia, sia perché è adeguata al nostro tempo, cioè tiene conto degli ultimi sviluppi della filosofia contemporanea”42. In effetti, uno dei grandi meriti del filosofo valeggiano è stato l’aver saputo porre la metafisica aristotelica, nella sua riformulazione padovana, in dialogo con le maggiori correnti filosofiche del XX secolo, confermandone così la classicità, ovvero la sua perdurante attualità. Egli sostiene in particolare che una “metafisica essenzializzata e ridotta ad affermazione della problematicità dell’esperienza è tutt’altro che superata e obsoleta”43, ma si trova ancora al centro del dibattito, risultando compatibile con alcuni dei più significativi orientamenti tanto della filosofia analitica, quanto della filosofia ermeneutica. In questo modo essa si misura con la cosiddetta “svolta linguistica”, essendo l’ermeneutica e la filosofia analitica caratterizzate dall’aver concepito rispettivamente l’essere e il pensiero in termini di linguaggio, o, più esattamente, di comunicazione44. Introduzione, cit., p. 103. Metafisica debole?, cit., p. 166. 39 Un caso di ricerca della verità, cit., p. 166. 40 Una possibile interpretazione della metafisica classica, in “Rivista di filosofia neo-scolastica”, 107, 2015, pp. 329-337; ora in Introduzione, cit., p. 194. 41 Ivi, p. 195. 42 Una metafisica (epistemologicamente) debole, cit., p. 152. 43 La prospettiva metafisica, cit., p. 122. 44 Cfr. La presenza di Aristotele nella filosofia odierna, in L’attualità di Aristotele, a cura di S.L. Brock, Armando, Roma 2000, pp. 85-100; ora in Nuovi studi aristotelici. IV/2 – L’influenza di Aristotele. Età moderna e contemporanea, Morcelliana, Brescia 2010, p. 356. Sul punto Berti rimanda specificamente a F. D’Agostini, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Cortina, Milano 1997. 37 38 6 [4.1. Compatibilità con la filosofia analitica e l’ermeneutica – Secondo Berti, è innanzitutto possibile mostrare che la più recente filosofia analitica riprende gran parte dei temi dell’ontologia tradizionale, discutendo problemi quali l’esistenza, l’identità, le categorie degli enti, lo spazio, il tempo, la causa, etc. Autori quali Strawson, Wiggins, Kripke, hanno elaborato una teoria della sostanza, dell’essenza e degli individui, che appare molto simile alla concezione di Aristotele. Altri autori, come John Polkinghorne e Richard Swinburne, hanno sviluppato addirittura dimostrazioni dell’esistenza di Dio che ricordano la teologia razionale, sebbene siano articolate su basi scientifiche45. Altri ancora, infine, come Patzig e Frede, proprio a partire da una ricomprensione della metafisica aristotelica, hanno ravvisato nella sostanza immobile, o immateriale, il focal meaning di ogni sostanza, e quindi dell’intero essere, stabilendo così la sua priorità almeno sotto l’aspetto logico-linguistico, in senso paronimico46. Per altro verso, l’ermeneutica, sottolineando con i suoi più noti esponenti, in particolare Gadamer, Ricoeur e Pareyson, la finitezza della condizione umana, si dimostra a sua volta consapevole del fatto che l’uomo non è l’assoluto, ovvero della problematicità dell’esperienza 47. Il punto di raccordo tra le due correnti viene individuato nell’adesione alla teoresi aristotelica sui molteplici significati in cui “si dice” il termine “essere” e sulla loro relazione, intesa nel primo caso (filosofia analitica) come fondata sul precipuo riferimento alla sostanza, e alla sua forma o essenza, nel secondo (ermeneutica) sul primato dell’atto, o evento (Ereignis), proprio nel senso di un “venire da”, come chiarisce Vattimo nel suo Credere di credere (Garzanti, Milano 1998)48. In entrambi i casi ci si trova nell’orizzonte intrascendibile della comunicazione e di questa si cercano le condizioni ultime, solo che – questa è la critica di Berti - tali condizioni sono reperite ancora sul piano logico-linguistico delle cause formali, senza pervenire, per difetto di problematizzazione, della problematizzazione integrale tipica della sua metafisica, alle condizioni ontologiche, alle cause prime ed efficienti, del fenomeno comunicativo49. 4.2. Compatibilità con la razionalità discorsiva e procedurale – D’altra parte, la metafisica bertiana si collega alla “svolta linguistica” sotto un altro profilo. Essa, infatti, sembra far uso della stessa “razionalità procedurale” di cui parla Habermas, cioè di una razionalità che non presume di manifestare direttamente l’ordine del reale, ma si costituisce piuttosto come “un metodo di discussione, uno strumento di confutazione, un agire insomma – per usare le parole del filosofo tedesco – di tipo comunicativo”50. La sua verità si dimostra nel discorso, dialetticamente, rilevando la contraddittorietà delle tesi contrastanti. Per questo essa può anche essere definita, come afferma Putnam richiamato da Habermas51, “accettabilità razionale”, o “giustificazione in base a condizioni ideali”, compatibile con una “teoria dell’intersoggettività”. “Tale verità – scrive Berti – è sempre interna al discorso, cioè guadagnata attraverso il discorso, dipendente dal discorso: in questo senso la metafisica problematica e dialettica fa i conti con la ‘svolta linguistica’ che caratterizza il pensiero contemporaneo, come pure fa i conti con la ‘svolta pragmatica’ nella quale la prima si risolve” (con Wittgenstein e Austin)52. Anche a questo riguardo, tuttavia, il filosofo valeggiano non manca di evidenziare la diversità del proprio discorso in quanto orientato da tale metafisica: non si deve credere infatti che essa “si accontenti di una dialettica debole, senza verità, riducentesi a mera conversazione, a semplice scambio di opinioni. La sua è, al contrario, una dialettica ‘forte’, perché capace di dimostrare la verità di una posizione attraverso la riduzione a contraddizione della posizione ad essa opposta”53: confutando, ad esempio, la negazione della trascendenza del Principio, l’assolutizzazione dell’esperienza. Cfr. Metafisica debole?, cit., pp. 164-165. Cfr. La presenza di Aristotele, cit., pp. 364 ss. 47 Cfr. Metafisica debole?, cit., p. 165. Sulla convergenza della concezione bertiana della metafisica classica con le “istanze più valide” dell’ermeneutica contemporanea, si veda anche La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina, in Trascendenza divina. Itinerari filosofici. Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi di Gallarate (aprile 1993), a cura di S. Biolo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71; ora in Incontri, cit., p. 109. 48 Cfr. La prospettiva metafisica, cit., pp. 119 s. Su Vattimo, si veda ivi, p. 118. 49 Cfr. Ivi, pp. 120 ss. Si veda anche La presenza di Aristotele, cit., pp. 364 ss. 50 Per una metafisica, cit., p. 90. 51 Cfr. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, trad. it. di M. Calloni, Laterza, Roma-Bari, 1991 (ed. orig. 1988), p. 271. 52 Per una metafisica, cit., p. 91. 53 Ibid. 45 46 7 5. I RAPPORTI CON LE ALTRE METAFISICHE Dopo aver esaminato i rapporti della metafisica bertiana con le principali correnti della filosofia contemporanea, pare opportuno, al fine di meglio comprenderne la specificità, considerare anche quelli con le altre metafisiche di orientamento trascendentista, la metafisica tradizionale, il tomismo e la versione “milanese” della metafisica classica. 5.1. La “vecchia metafisica” - Cominciamo con la metafisica tradizionale, quella che Hegel chiamava “la vecchia metafisica”, cioè la metafisica di origine neoplatonica che aveva raggiunto con Christian Wolff la sua formulazione più elaborata e completa. Berti la conobbe nei suoi primi due anni di università a Padova, attraverso gli Elementi di filosofia di Sofia Vanni Rovighi, opera adottata nell’edizione del 1950 (Milano, Marzorati) da Umberto Padovani per i corsi di Filosofia teoretica e di Filosofia morale54. Vi si ritrova infatti esattamente la stessa partizione generale in cui Wolff aveva sistematizzato la metafisica della tradizione scolastica medievale e moderna, cioè una metafisica generale, chiamata anche ontologia, e una metafisica speciale, divisa in psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale. Tale metafisica comprendeva, dunque, innanzitutto un’ontologia, o teoria dell’essere in quanto essere, in cui si illustravano le nozioni di “essere” e “nulla”; poi i “trascendentali”, cioè le proprietà dell’essere ad esso coestensive, l’uno, il vero, il bene, e per qualcuno anche il bello; infine, i principi logici comuni a tutti gli enti, il principio di identità, il principio di non contraddizione, il principio del terzo escluso, il principio di ragion sufficiente, il principio di causalità, il principio di finalità, e altri principi, di numero variabile secondo le diverse formulazioni di essa. All’ontologia, o metafisica generale, seguivano le cosiddette “metafisiche speciali”, in primo luogo la teologia razionale, o naturale, nella quale si dimostrava con varie prove (ontologica, cosmologica, fisico-teleologica) l’esistenza di Dio e si illustravano per varie vie (per analogia, per negazione, per eminenza) la sua essenza e i suoi attributi. Un’altra metafisica speciale era la cosmologia razionale, o filosofia della natura, nella quale si illustravano le proprietà generali di tutti gli enti fisici, le leggi che regolano il loro comportamento, i principi che ne rendono possibile la conoscenza. Infine, rientrava tra le metafisiche speciali la psicologia razionale, o filosofica, nella quale si dimostrava l’esistenza dell’anima, la sua immaterialità, le sue operazioni, e soprattutto la sua immortalità55. Non c’è dubbio che si trattasse di un edificio grandioso, alla cui costruzione avevano partecipato i principali pensatori della filosofia occidentale. Berti ricorda che “prima di Wolff vi avevano contribuito Leibniz, e prima ancora Descartes, ma soprattutto Francisco Suarez, il vero inventore della distinzione tra metafisica generale e metafisica speciale, ovvero ontologia e teologia, e prima ancora Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto, ma anche Anselmo d’Aosta, Avicenna, Mosè Maimonide e, risalendo all’indietro, Agostino e lo Pseudo-Dionigi, e nell’antichità non solo Platone (con la nozione di partecipazione) e Aristotele (con le dottrine della materia e della forma e della potenza e dell’atto), ma anche e, a mio avviso, soprattutto, Plotino e altri neoplatonici (Porfirio e Proclo), scambiati nel Medioevo per lo stesso Aristotele in quanto ispiratori della cosiddetta Theologia Aristotelis e del Liber de causis”56. D’altra parte, la “vecchia metafisica” ha anche ricevuto numerose critiche. Le più famose sono quelle formulate da Kant, che conosceva bene siffatta metafisica per averla professata e insegnata per molti anni ed esserne stato una specie di rappresentante istituzionale, in quanto docente della materia presso l’università di Königsberg. Ma già prima di Kant era stata contestata e attaccata in parte da Locke e in tutto da Hume, e ancor prima da Ockham e dagli altri nominalisti, e dopo Kant essa lo fu dal positivismo, dal neokantismo, dalle varie forme di storicismo, dal neopositivismo, dall’esistenzialismo e infine da Heidegger, che, dopo la “svolta”, l’aveva accusata di aver determinato, in quanto “onto-teologia”, “l’oblio dell’essere”57. Ci troviamo evidentemente davanti a un tipico caso di metafisica epistemologicamente “forte”, in quanto capace di risolvere molti problemi, di fornire molte informazioni, di proclamare molti teoremi, ma estremamente “debole” dal punto di vista logico, in quanto soggetta ad ancor più numerose obiezioni. Una simile metafisica è oggi improponibile – scrive Berti – perché “in gran parte logorata dalle difficoltà da essa stessa incontrate al suo interno e per la parte restante resa antiquata, e superflua, dalle conquiste delle varie scienze, della natura e dell’uomo, che hanno eroso la maggior parte del suo terreno, dimostrando Cfr. Per una “essenzializzazione” della metafisica, cit., p. 134. Cfr. Metafisica debole?, cit., p. 159. 56 Ivi, pp. 159-160. 57 Cfr. ivi, p. 160. 54 55 8 la falsità del fissismo, dell’essenzialismo, di un certo modo di intendere il finalismo, del dualismo psicofisico, di una concezione puramente spiritualistica dell’uomo”58. Vale piuttosto la pena di tentarne una rigorosa essenzializzazione, che riduca il suo discorso ad un nucleo irrinunciabile e inconfutabile, come ha fatto appunto, nei confronti della tradizione aristotelica, la metafisica classica professata da Berti59. 5.2. La metafisica neoclassica – Lo stesso si può dire in verità dell’altra importante versione della metafisica classica concepita in Italia nel secolo scorso, quella propria della “scuola milanese” o “neoclassica”, facente capo a Gustavo Bontadini. Anche in questo caso, infatti, il discorso metafisico si presenta come “discorso breve”, riassumibile in un’argomentazione di “due o tre battute”60, consistente nel rilevare che l’intero dell’esperienza è caratterizzato dal divenire e il divenire è successione di essere e non essere, per cui il divenire non può essere assolutizzato, in quanto la sua assolutizzazione comporterebbe l’ammissione che l’essere è originariamente fungibile col nulla, il che sarebbe contraddittorio. Ma se non può essere assolutizzato, bisognerà ammettere che il divenire è creato, cioè posto in essere, da un Assoluto trascendente: è il “teorema della creazione” nella formulazione che si ritrova ancora in Dal problematicismo alla metafisica (Milano, Marzorati, 1952)61. Berti manifesta una sostanziale adesione a questa posizione, ma non al suo sviluppo successivo, quale prende forma al Congresso tomistico internazionale del 1965, nella relazione Sull’aspetto dialettico della dimostrazione dell’esistenza di Dio62, in cui il filosofo della Cattolica prospettava la contraddittorietà non più del divenire assolutizzato, bensì del divenire in quanto tale63, aprendo così le porte alla negazione dello stesso divenire appena effettuata da Emanuele Severino64. In ogni caso, agli occhi del nostro Autore, la concezione della scuola padovana offre alcuni vantaggi rispetto a quella della scuola milanese, considerata nel complesso delle sue vicende. Di tali vantaggi, menzionati specificamente nel saggio Una possibile interpretazione della metafisica classica del 2015, a me sembra che i più significativi siano i due seguenti. Il primo, e forse il più importante, è dato dal fatto che il concetto di problematicità pura rende “il divenire, anzi il mondo dell’esperienza nella sua totalità, non contraddittorio, come sosteneva Bontadini, e quindi assurdo, impossibile, bensì appunto ‘problematico’, cioè incapace di spiegarsi da sé, bisognoso di una spiegazione, e quindi totalmente dipendente da un Principio trascendente”65. Vi è poi un secondo vantaggio, a mio avviso più contestabile, rappresentato da quello che Berti definisce “il carattere aperto, cioè non conclusivo, non definitivo” dell’argomentare metafisico, come da lui concepito, in quanto contrapposto, per esempio, all’asserzione dell’incontrovertibilità della dimostrazione del “teorema della creazione”, per cui egli afferma che “la confutazione della negazione della metafisica non ha il valore di confutazione definitiva di tutte le negazioni di essa, ma ammette la possibilità che queste si ripropongano in forme sempre nuove, le quali richiedono sempre nuove confutazioni”. “In tal modo – conclude Berti – si salvaguarda anche la storicità della ricerca filosofica, compresa quella specificamente metafisica, e si garantisce la continua disponibilità del difensore della metafisica classica al confronto e alla discussione con le altre posizioni”66. 5.3. Il tomismo – Un’altra tradizione filosofica con cui la teoresi bertiana si è confrontata proficuamente è il tomismo. È noto che Berti è stato per molto tempo piuttosto critico nei confronti della filosofia tomista, sia per la concezione di Dio come Esse ipsum subsistens, sia per la connessa dottrina della partecipazione, entrambe Quale metafisica, cit., p. 129. Cfr. ivi, p. 126. 60 Cfr. Quale metafisica, cit., p. 130. 61 Cfr. per questa sintesi, Quale metafisica, cit., p. 132. 62 Cfr. G. Bontadini, Sull’aspetto dialettico della dimostrazione dell’esistenza di Dio, in De Deo in philosophia sancti Thomae et in hodierna philosophia. Acta VI Congressi Thomistici Internationalis, vol. I, Officium Libri Catholici, Roma 1965, pp. 175-181. 63 Cfr. Una possibile interpretazione, cit., p. 189. 64 Cfr. E. Severino, Ritornare a Parmenide, in “Rivista di filosofia neo-scolastica”, LVI, 2, 1964, pp. 137-175; ora in Id., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 19-61. 65 Una possibile interpretazione, cit., p. 190. 66 Ivi, pp. 192—193. È noto in proposito il lungo dibattito svoltosi con Carmelo Vigna, per il quale si rimanda ai testi citati in Una metafisica (epistemologicamente) debole, cit., p. 155, n. 29. 58 59 9 tesi di origine platonica, già confutate da Aristotele (Metaph. III 4, 1001 a 29-b 4; Metaph. I 9, 991 a 2122)67. Esse, infatti, comportavano conseguenze di tipo monistico, emanatistico, e quindi panteistico, peraltro incompatibili anche con il creazionismo biblico, pur professato dall’Aquinate. Negli scritti più recenti68, tuttavia, Berti sembra aderire all’interpretazione dell’ontologia tommasiana proposta dai cosiddetti tomisti della “quarta generazione”69, in particolare da Stephen L. Brock, sulla base di alcuni saggi di Peter T. Geach e in risposta alle critiche di Anthony Kenny. Secondo Brock, “Tommaso non concepiva l’essere alla maniera di Platone, cioè in modo univoco, bensì lo concepiva alla maniera di Aristotele, cioè come atto, ma non come actus essendi in generale, bensì come actus essentiae, cioè come atto di una particolare essenza”70. Orbene, nel caso di Dio, la cui essenza non ci è nota, sappiamo nondimeno che essa è la somma di tutte le perfezioni, per cui l’essere di Dio, coincidendo con la sua essenza, non è il puro e vuoto essere, l’ens commune, ma l’essere più determinato, l’essere perfettissimo 71. Questa interpretazione appare a Berti “del tutto coerente con la concezione aristotelica dell’essere”72. Essa ricorda infatti il rapporto stabilito da Aristotele fra anima vegetativa, sensitiva e intellettiva, secondo il quale l’anima superiore, cioè quella intellettiva, contiene in sé quelle inferiori (De anima II 3). Così in Dio il pensiero contiene in sé la vita e l’essere, per cui quando Tommaso dice che Dio è l’essere intende dire che è quell’essere che, in quanto somma di tutte le perfezioni, è anche essenzialmente esistenza, vita e pensiero73. Ma l’interpretazione di Brock consente a Berti di riconciliarsi, oltre che con la dottrina tommasiana di Dio come Esse ipsum, altresì con quella della partecipazione. Secondo lo studioso nordamericano, infatti, la dottrina della partecipazione, di cui Tommaso si serve per spiegare la differenza tra Dio e le creature, sarebbe da lui intesa “esclusivamente come dipendenza causale, senza alcun residuo di platonismo”. L’essere di Dio, quindi, sintesi di tutte le perfezioni, sarebbe da intendersi come diverso e superiore rispetto all’essere sostanziale, partecipato a tutte le creature74. Commentando questi risultati, Berti si mostra particolarmente compiaciuto del fatto che essi vadano “nella direzione richiesta dalle critiche aristoteliche”75. In questo modo egli sembra riavvicinarsi, perlomeno nell’ultima fase del suo pensiero, al tomismo, seppure un tomismo interpretato appunto in chiave aristotelica (conformemente, peraltro, agli esiti più recenti della ricerca storico-filosofica)76. Dico “riavvicinarsi” non a caso, poiché, come ho ricordato all’inizio di questo intervento, Berti ha cominciato il proprio percorso speculativo, negli anni del liceo, studiando, sotto la guida di Rigobello, le “cinque vie” di Tommaso. Forse si può addirittura azzardare che, tra le ragioni del suo compiacimento per la riscoperta di un Tommaso fondamentalmente “aristotelico”, vi sia la possibilità di recuperare all’orientamento principale della propria riflessione filosofica quello che ne fu, per così dire, il “primo amore”, il pensiero di quel teologo che gli pose per la prima volta il problema cui tutta la sua teoresi di metafisico avrebbe cercato di dare risposta. In ogni caso, per parte mia, trovo di grande importanza l’accoglimento bertiano del riscatto della dottrina della partecipazione dalla sua comprensione in termini emanatistici. Il tema è estremamente complesso e richiederebbe un’adeguata discussione, anche per le possibili ricadute sulla stessa concezione della metafisica classica di scuola padovana. In questa sede mi limito a osservare che parlare di partecipazione in una prospettiva creazionistica, come quella tommasiana, implica due condizioni imprescindibili: 1l’esistenza di una “differenza ontologica” infinita tra perfezioni divine e perfezioni partecipate, ovvero di una distanza tra esse insuperabile se non per il libero effettuarsi di un atto creatore, o salvifico; 2-la persistenza di Per la discussione di queste tesi, si vedano: Il problema della sostanzialità dell’essere e dell’uno nella Metafisica di Aristotele, in Studi aristotelici, Japadre, L’Aquila 1975, pp. 181-208; Aristotelismo e neoplatonismo nella dottrina tomistica di Dio come “Ipsum Esse”, ivi, pp. 347-351. 68 Cfr. Il “tomismo analitico” e il dibattito sull’Esse ipsum, in “Giornale di metafisica” n.s. 31, 2009, pp. 5-24; ora in Nuovi studi aristotelici, IV/2, Morcelliana, Brescia 2010, pp. 495-509; La critica dei filosofi analitici alla concezione tomistica dell’essere, in “Rivista di estetica”, n.s. 49, 2012, pp. 7-22; ora in Introduzione alla metafisica, cit., pp. 165182. 69 Berti riprende la terminologia usata da Giovanni Ventimiglia per indicare gli studiosi che hanno ripreso a interpretare Tommaso “da un punto di vista più aristotelico” (La critica dei filosofi analitici, cit., p. 178). 70 La critica dei filosofi analitici, cit., p. 176. 71 Cfr. ibid. 72 Ivi, p. 177. 73 Cfr. ibid. 74 Cfr. Il “tomismo analitico”, cit., p. 507. 75 Ivi, p. 509. 76 Si veda, sul punto, G. Ventimiglia, Il neotomismo e il dibattito sulla metafisica classica, in Storia della metafisica, a cura di E. Berti, Carocci, Roma 2019, pp. 343-344. 67 10 una somiglianza, pur nella differenza, tra tali perfezioni, secondo un’analogia più di proporzionalità che di attribuzione77, per cui sia possibile riconoscere nell’esperienza non tanto la realtà del divino (panteismo), quanto realtà di origine divina (secondo la condizione creaturale)78. È il caso di sottolineare che questo tipo di partecipazione si rivela indispensabile per giustificare, tra le altre cose, la vigenza di una legge naturale - participatio legis aeternae in rationali creatura la definiva Tommaso (Summa Theologiae, I-II, 91, 2) -, o per esprimerci in termini più aristotelici, di una normatività secondo natura.] 6. PROBLEMI APERTI Vorrei infine segnalare alcuni problemi che a mio avviso la teoresi metafisica bertiana lascia aperti. Coerentemente con lo spirito della problematicità pura che l’anima, dovremmo infatti poter sottoporre a problematizzazione anche tale teoresi, anch’essa dovrebbe poter essere esaminata, posta in discussione, criticata, precisamente al fine di vagliarne la validità, comprovarne la verità, migliorarne la formulazione. Credo anzi che Berti per primo avrebbe desiderato che il suo pensiero fosse sottoposto a problematizzazione, come del resto ha dimostrato ogniqualvolta era chiamato a presentarlo, nelle occasioni più diverse e davanti ai pubblici più diversi. Al mio tentativo di problematizzazione ritengo tuttavia opportuno anteporre due premesse. In primo luogo, quella che seguirà sarà, anche per evidenti ragioni di tempo, solo un’esemplificazione di aspetti problematici della metafisica bertiana, senza alcuna pretesa di esaustività. In secondo luogo, mi preme sottolineare che la prospettiva in cui problematizzo non è antagonistica, non è quella del negatore della metafisica classica, piuttosto quella di chi intende rafforzarla, perfezionarla, rigorizzarla, se possibile, ulteriormente. È la prospettiva dell’ultimo, in tutti i sensi del termine, discepolo di questa grande scuola, l’ultimo allievo dei grandi maestri che ne hanno fatto la storia e - mi piace pensare - in questo momento ci guardano e che spero di non dispiacere in quanto sto per dire: Marino Gentile, Francesco Gentile, Giovanni Romano Bacchin, Enrico Berti. 6.1. L’improblematizzabilità della problematicità – Il primo problema riguarda – mi si perdoni il bisticcio, peraltro inevitabile – “l’improblematizzabilità della problematicità”. Berti sostiene – a mio avviso giustamente – l’innegabilità della problematicità dell’esperienza. Ma nel farlo si richiama costantemente, appunto, alla formula bacchiniana dell’”improblematizzabilità della problematicità”. Egli la spiega così: “La problematicità è […] improblematizzabile, cioè ineliminabile, perché lo stesso metterla in questione non farebbe che riprodurla, così come il dubitare del dubbio non fa che riproporlo”79. Il rimando al testo di Bacchin, Originarietà e mediazione nel discorso metafisico (Roma, Jandi Sapi, 1964), può aiutare a comprenderne il significato. Nei suoi scritti Berti non ne cita un particolare passo, ma già a pagina 10 vi possiamo leggere: “L’asserzione intorno alla problematicità del sapere umano (esperienza) è assunzione improblematica e improblematizzabile (perciò pienamente “critica”) della problematicità. [A capo.] Sapere di non sapere è, così, rivelativo di una struttura intrascendibile epperò innegabile senza contraddizione”80. Da questo e altri passi risulta pertanto un primo modo in cui la formula si può intendere: la problematicità è improblematizzabile in quanto “intrascendibile”. Non si può problematizzarla senza problematizzare. In altri termini, è una struttura trascendentale dell’esperienza, da cui non si può uscire, che non si può oggettivare, ed è perciò “innegabile senza contraddizione”. Ci si può tuttavia chiedere se il problematizzare la problematicità non possa essere visto come un riflettere della problematicità su sé stessa. Un tale atto non richiederebbe alcuna fuoriuscita dalla problematicità, e sarebbe d’altro canto del tutto compatibile con l’attitudine originaria dell’esperienza, naturalmente protesa a interrogarsi sul proprio senso. Nel testo di Bacchin si accenna peraltro a un secondo modo di intendere “l’improblematizzabilità della problematicità”, sul quale Berti pare concentrare la sua attenzione. Si tratta del modo dell’innegabilità, che Cfr. G. Ventimiglia, Il neotomismo, cit., p. 346. Per un approfondimento, si veda, tra i tanti, A. Campodonico, Alla scoperta dell’essere. Saggio sul pensiero di Tommaso d’Aquino, Jaca Book, Milano 1986, pp. 144 ss., spec. p. 148. 79 Per una metafisica, cit., p. 89. 80 G.R. Bacchin, Originarietà e mediazione nel discorso metafisico, Jandi Sapi, Roma 1964, p. 10. 77 78 11 viene così presentata come un’altra caratteristica imprescindibile della problematicità: “la problematicità è improblematizzabile, cioè innegabile, perché il problematizzarla, cioè il metterla in questione, la riproduce”81. Berti sembra dunque qui identificare “improblematizzabilità” e “in-negabilità”, e di conseguenza “problematizzare” e “negare”. La problematicità sarebbe improblematizzabile nel senso che non può essere messa in questione, e quindi negata, perché l’atto stesso del metterla in questione, e quindi del negarla, sarebbe una forma di problematicità, che, anziché contestarla, la riprodurrebbe, e così ne mostrerebbe l’improblematizzabilità, ovvero l’innegabilità82. E a riprova di ciò aggiunge: “Esattamente come il voler dubitare del dubbio, secondo quanto ha osservato Descartes, non farebbe che riproporre lo stesso dubbio”83. Ebbene, devo dire che questo discorso mi suona – il bisticcio è inevitabile – alquanto problematico. Esso si pone innanzitutto in qualche contrasto con la definizione principale della problematicità come un “domandare tutto che è un tutto domandare”. Se la problematicità fosse radicalmente improblematizzabile, verrebbe compromesso il “domandare tutto”, che non sarebbe più tale, essendone esclusa la problematicità. Diventerebbe allora un domandare parziale, con la conseguente perdita della “purezza” della stessa problematicità. Ci troveremmo così in una tipica situazione aporetica. Dall’impasse si può uscire – a mio avviso – solo riconoscendo la non (completa) corrispondenza tra “problematizzare” e “negare”. “Problematizzare”, infatti, - e questo è un secondo rilievo che si può muovere alla tesi esposta – non vuol dire necessariamente “negare”. Esiste un problematizzare che non nega, e costituisce anzi la forma principale di problematizzazione, quella che coincide con la domanda della causa, la domanda del “perché”84. Come sappiamo, si possono distinguere due tipologie fondamentali del domandare (e quindi del problematizzare): la domanda del “se è” (to ei éstin) e la domanda del “perché” (to dia ti), entrambe considerate da Aristotele nei Topici (I 4, 101 b 27 ss.) e negli Analitici secondi (II 2, 89 b 36 ss.)85. La domanda del “se” dubita dell’esistenza del proprio oggetto, ne pone in questione la realtà effettiva. La domanda del “perché” cerca la causa di tale esistenza, ne indaga la ragion d’essere. Orbene, forse si può dire che la problematicità è improblematizzabile in relazione al primo tipo di domanda (la domanda del “se”), ma non al secondo tipo (la domanda del perché). È infatti evidente che non si può dubitare dell’esistenza della problematicità se non problematizzando, e quindi riaffermandola, in modo da manifestarne l’indubitabilità, e quindi l’innegabilità. Ma ci si può interrogare sulla problematicità, chiedendone il perché, cercandone la causa, indagandone la ragion d’essere, senza per questo volerne negare l’esistenza, anzi riconoscendola quale punto di partenza della domanda, come del resto ha sempre fatto lo stesso Berti. Allora potremmo dire che la problematicità è indubitabile, e quindi innegabile, ma non improblematizzabile, almeno secondo l’accezione principale del termine “problematizzazione”. Questa soluzione presenta diversi vantaggi. Per prima cosa, essa asseconda l’intenzione profonda del nostro Autore. Occorre infatti notare che, quando Berti riprende la formula bacchiniana della ”improblematizzabilità della problematicità”, la sua preoccupazione è innanzitutto quella di affermare l’innegabilità di quest’ultima. Orbene, la soluzione prospettata non contesta, anzi ribadisce, l’innegabilità della problematicità, ma nello stesso tempo – secondo vantaggio – non ne compromette la purezza, non escludendo nulla dal suo domandare, nemmeno la problematicità stessa. La problematizzazione della problematicità dell’esperienza infine – terzo vantaggio – comporta la sua presa di coscienza a livello filosofico, e quindi la legittimazione del problematizzare metafisico, quale consaputo riconoscimento dell’inestinguibile esigenza di un Principio trascendente. La problematizzazione della problematicità dell’esperienza, nella forma del problematizzare filosofico o, più precisamente, metafisico, non sarebbe altro, in fondo, che il riflettersi dell’esperienza, il suo autocomprendersi, come un unico immenso problema86. In fondo, - possiamo concludere sul punto riportando ancora una volta le parole di Berti - l’esperienza, la filosofia, la stessa dimostrazione del Principio trascendente, “si risolvono tutte in uno stesso discorso, cioè in Ontologia analitica, cit., p. 129. Cfr. Introduzione alla metafisica, cit., p. 93. 83 Quale metafisica, cit., p. 134. 84 Cfr., supra, n. 13. 85 Si veda però anche Metaph. I 1, 981 a 29-30, dove si distingue tra conoscenza del “che” (oti) e conoscenza del “perché” (dioti). 86 Cfr. Introduzione alla metafisica, cit., pp. 89 ss. Lo stesso Berti parla a questo proposito di “autoproblematizzazione” (L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, Padova 1965, p. 164). 81 82 12 quella mediazione originaria in cui da sempre ci troviamo e che anzi, in quanto uomini e in quanto filosofi, siamo”87. 6.2. L’inconclusività della problematicità – Un secondo aspetto problematico della metafisica bertiana riguarda il già menzionato88 “carattere sempre aperto”, cioè non definitivo, non conclusivo, del discorso metafisico, nel senso che si tratta di “un discorso la cui verità dipende tutta dalla sua capacità di confutare le obiezioni che sempre possono essergli opposte”89. Berti sembra tenere molto a questa tesi, tanto da ripeterla immancabilmente ogniqualvolta affronta l’argomento, forse per prevenire la “consueta obiezione” nei confronti della presunzione di indiscutibilità del sapere metafisico. Per lui la metafisica si regge unicamente sulla confutazione di ogni tentativo di assolutizzare l’esperienza o di negare la trascendenza del Principio. Poiché questi tentativi si ripropongono in forme sempre nuove – possiamo trovare in libreria la più recente, in ordine di tempo, il volume Filosofia prima e ultima (Torino, Einaudi, 2023) di Giorgio Agamben, definito da Francesca Rigotti sul Sole domenicale “il filosofo italiano vivente più significativo sul piano internazionale” 90 - la metafisica si trova continuamente impegnata in una discussione dialettica con i suoi contraddittori, allo scopo di confutarli. Da qui la conclusione sconcertante: “dal successo di tale confutazione dipende la sua stessa sopravvivenza, cioè la sua stessa verità, la quale dunque non è mai definitivamente acquisita, ma è sempre esposta al rischio di perire”91. Di ciò Berti fornisce una coerente giustificazione richiamandosi alla costitutiva storicità della ricerca filosofica, compresa quella specificamente metafisica, e prima ancora all’inestinguibile problematicità dell’esperienza, di cui la prima è espressione sul piano discorsivo92. La tesi appare nondimeno alquanto paradossale ed è stata oggetto di un prolungato dibattito con Carmelo Vigna, allievo di Bontadini, il quale ritiene che, una volta confutata la negazione della metafisica, la verità di quest’ultima dovesse considerarsi dimostrata incontrovertibilmente. Non intendo riesaminare gli argomenti di questo interessante confronto, i cui testi principali sono ora raccolti nel volume di Vigna, Il frammento e l’intero (Milano, Vita e pensiero, 2000)93. Per parte mia mi limiterò a rilevare il seguente problema. Se la verità della metafisica dipende dalla confutazione dei suoi negatori, qualora non ci fossero negatori non ci potrebbe più essere metafisica come discorso vero, al massimo come opinione, con lo stesso valore, però, di qualsiasi altra opinione. Si tratta di un’ipotesi indubbiamente irrealistica, ma pur sempre possibile. Pensiamo alla situazione, in verità non del tutto improbabile, in cui la metafisica sia così screditata o ignorata che non si senta più neanche il bisogno di confutarla. O ad una situazione, meno probabile, in cui tutti si convincessero della verità di una religione rivelata, e non avessero quindi più motivo per rifiutare la trascendenza del Principio: lì non ci potrebbe più essere verità metafisica. Eppure, siamo sicuri che non ce ne sarebbe bisogno, anche solo per evidenziare la ragionevolezza della verità rivelata, la sua capacità di corrispondere anche alle esigenze della ragione? In ogni caso, ci troveremmo nella condizione paradossale in cui, proprio nel momento del suo massimo trionfo, quando tutte le opposizioni fossero venute meno, la metafisica svanirebbe con esse, lasciando il pensiero in balìa delle mere opinioni. Forse, in una tale situazione, si potrebbe rinunciare alla metafisica, ma forse esiste un’altra soluzione, cui vorrei brevemente accennare. La soluzione, in realtà, ci viene offerta dallo stesso Berti, il quale, rigorizzando l’argomentazione del maestro, basa la sua dimostrazione della trascendenza del Principio sull’impossibilità di assolutizzare l’esperienza94. Si tratta di una vera e propria dimostrazione dialettica, che però non ha bisogno di alcun oppositore storico, in quanto la possibilità di assolutizzare l’esperienza è immediatamente data con il concetto stesso di esperienza, che non può essere pensata indipendentemente dall’idea di una spiegazione ultima, di un Principio che ne giustifichi l’esistenza: ebbene, una volta elencticamente esclusa la possibilità Ivi, p. 93. Cfr., supra, §5.2. 89 La via “dinamico-noologica”, cit., p. 109. 90 Il Sole 24 Ore, domenica 19 gennaio 2023, n. 28, p. IX. Agamben considera la metafisica “irriducibile illusione trascendentale” (Filosofia prima e ultima, Einaudi, Torino 2023, p. 101). 91 Per una metafisica, cit., p. 90. 92 Cfr. La via “dinamico-noologica”, cit., p. 109. 93 Cfr. C. Vigna, Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Vita e Pensiero, Milano 2000; 2. ed. ampliata, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, vol. II, pp. 47-94. 94 Cfr. Per una “essenzializzazione” della metafisica, cit., p. 139. 87 88 13 che la spiegazione ultima, il Principio, si trovi nell’esperienza stessa, che l’esperienza sia essa l’Assoluto, proprio in virtù della problematicità che la contraddistingue, si avrà per conseguenza necessaria che l’Assoluto, il Principio, la spiegazione ultima, trascende l’esperienza 95. Questo tipo di dimostrazione potrebbe essere definita, oltre che dialettica, “trascendentale”, in quanto costituisce la mediazione originaria entro cui sempre pensiamo96, anche se non sempre, anzi raramente, ne siamo consapevoli. Ad essa devono pertanto essere ricondotte le diverse dimostrazioni che si sono date, e continueranno a darsi, nella storia tramite la confutazione dei negatori della metafisica. È quanto, del resto, Berti ha fatto in più occasioni97, discutendo le principali teorie critiche della metafisica: la sofistica, lo scetticismo e il nominalismo, l’empirismo humiano e il criticismo kantiano, il positivismo e il neopositivismo, il nichilismo nietzschiano e l’intuizionismo heideggeriano, fino al pensiero post-metafisico di Habermas. E in realtà, Berti lo ha anche in qualche passo teorizzato, come quando scrive: “se anche si ammette […] che la negazione indeterminata della metafisica, una volta confutata, sia da considerarsi definitivamente falsa […], resta ugualmente il compito di ricondurre ad essa tutte le negazioni determinate che di volta in volta possono essere riproposte come nuove obiezioni, e tale riconduzione può essere considerata ogni volta una nuova confutazione”98. Otterremmo, in questo caso, un duplice vantaggio: per un verso, sarebbe garantita l’incontrovertibilità della dimostrazione metafisica, nella sua veste “trascendentale”, quale dimostrazione generale cui le dimostrazioni particolari vanno ricondotte; per l’altro, al tempo stesso ne verrebbe preservata la storicità, manifestantesi precisamente nelle dimostrazioni particolari che di volta in volta si producono tramite la confutazione di analoghe posizioni antimetafisiche, realmente definitesi nel corso delle vicende del pensiero occidentale. Sempre che non si preferisca accedere ad una soluzione più elementare e radicale, anche se forse più consona allo spirito della riflessione marinogentiliana che a quello bertiano, consistente nel comprendere che la possibilità di assolutizzare l’esperienza si dà col darsi stesso dell’esperienza, istante per istante, qualora una particolare manifestazione della totalità venga identificata con la totalità in quanto tale, e che, istante per istante l’attuarsi di tale possibilità (la possibilità di assolutizzare l’esperienza) deve essere combattuto, rilevandone la contraddittorietà ed aprendosi così ad un autentico rapporto con l’Assoluto. Si tratta del rischio di quell’idolatria del quotidiano, o idolatria quotidiana, di cui tante volte, anche inconsapevolmente, diventiamo vittime, e da cui ci libera proprio l’atteggiamento metafisico, operando, da un lato, la confutazione della pretesa incombente in ogni dato di esperienza di porsi come assoluto, e dall’altro, il riconoscimento della nostra finitudine, della nostra indigenza, del nostro bisogno e della necessità che esista una soddisfazione veramente assoluta. La dimostrazione metafisica acquista in tal modo anche una valenza etica ed esistenziale. Pure questa soluzione, dunque, risulta in grado di garantire tanto l’incontrovertibilità del discorso metafisico, quanto la sua storicità. Negando il valore assoluto dei particolari in cui ci imbattiamo, siamo condotti ad affermare un Assoluto che sta oltre i particolari e dal quale essi ultimamente dipendono. Ma questa affermazione, logicamente conseguente, anzi incontestabile, viene a coincidere ora con lo stesso articolarsi dell’esperienza, con lo stesso respiro del pensiero, istante per istante, perlomeno come possibilità. Cfr. Non ontologia, cit., p. 266. Cfr. Introduzione alla metafisica, cit., p. 106. 97 Si veda, ad esempio, Introduzione alla metafisica, cit., pp. 28-38; oppure, Logo e dialogo, in “Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42; ora in Incontri, cit., pp. 45-56. 98 La complessità della ragione, in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n.s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40; ora in Incontri, cit., pp. 31-43, a p. 42. 95 96 14