El corazón es centro
Narraciones
representaciones
y metáforas del corazón
en el mundo hispánico
Antonella Cancellier
Alessia Cassani
Elena Dal Maso
(eds.)
con el in de explorar, sincrónica y
03 LINCE-O
SAPERI NOMADI
de la ilosofía y de la antropología
en la revolución cientíica llevada a
03 LINCE-O
SAPERI NOMADI
Direttori
Antonella Cancellier - Vincenzo Milanesi - Telmo Pievani
Università degli Studi di Padova
Comitato Scientifico
Antonio Colomer Viadel, Universitat Politècnica de València
Candelas Gala, Wake Forest University, North Carolina
Clara Janés, Real Academia Española de la Lengua
Gianmario Molin, Università degli Studi di Padova
Víctor Navarro Brotons, Universitat de València
Claudio Pagano, Università degli Studi di Padova
Maurizio Rippa Bonati, Università degli Studi di Padova
Fabio Rodríguez Amaya, Università degli Studi di Bergamo
Isabelle Stengers, Université Libre de Bruxelles
Giuseppe Zaccaria, Università degli Studi di Padova
Comitato Editoriale
Francesco Carbone, Università degli Studi di Padova
Alessia Cassani, Università degli Studi di Padova
Andrea Cozza, Università degli Studi di Padova
Claudio Zoppini, Università degli Studi di Padova
Il nome della collana Lince-o si ispira alla lince che l’Accademia Nazionale dei
Lincei ha scelto come emblema per la straordinaria acutezza visiva e agilità
mentale. La spirale, che le abbiamo attribuito come coda, allude alla natura
infinita della conoscenza ed è una delle forme più diffuse nell’universo: è
presente nelle galassie, nelle conchiglie, nei cicloni, nel DNA… Viene poi
naturalmente Galileo che, a partire dalla sua ammissione all’Accademia
(1611), fu fiero di firmare come Galileo Galilei Linceo. Ma c’è anche un
Linceo più antico a cui rimandiamo. L’argonauta della mitologia greca,
alla conquista del vello d’oro che guariva le ferite, la cui vista penetrante lo
rendeva capace di attraversare le cose e di vedere anche sotto la terra.
La collana Lince-o, che è dedicata alla trasversalità nei saperi e al dialogo tra
le discipline, è un omaggio a tutto questo insieme.
El corazón es centro
Narraciones
representaciones
y metáforas del corazón
en el mundo hispánico
Antonella Cancellier
Alessia Cassani
Elena Dal Maso
(eds.)
La pubblicazione di questo volume è stata possibile grazie al contributo
dell’Università degli Studi di Padova – Dipartimento di Scienze Politiche,
Giuridiche e Studi Internazionali (SPGI).
La presente pubblicazione è stata sottoposta a peer review.
Prima edizione: dicembre 2017
ISBN 978 88 6787 690 7
© 2017 Cleup sc
Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova
via G. Belzoni 118/3 – Padova (+39 049 8753496)
www.cleup.it
www.facebook.com/cleup
Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento,
totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese
le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.
In copertina: l’immagine è ispirata alla lince dell’emblema dell’Accademia
Nazionale dei Lincei e alle code a spirale dei gatti fantastici delle incisioni di
Conrad Lycosthenes (1557), Johann-Georg Schenck (1609) e Fortunio Liceti
(1634).
Índice
9
11
13
19
23
31
47
51
71
81
97
Presentación
Antonella Cancellier
Para Antonio Melis
Antonella Cancellier
Recuerdo de Antonio Melis
Dante Liano
El corazón y los cuatro elementos
Clara Janés
Corazón, astro y caverna
Clara Janés
Eros thanático en Paradiso de José Lezama Lima
Edinson Aladino
El corazón proletario de Rubén
Nancy Alonso
El corazón en la minificción literaria hispana
Olvido Andújar Molina
Demasiado corazón: passioni transoceaniche
per il Cuore di De Amicis
Irina Bajini
Pasiones de un corazón hervido. Humo rojo de Perla Suez
Maria Amalia Barchiesi
María Zambrano: del sentire o “la visione attraverso
il cuore”
Renato Boccali
5
113
125
139
151
171
195
205
223
241
257
275
6
La musculación palpitante: dolencias cardíacas y corazones
rotos en la novela romántica latinoamericana
Sandro Bossio Suárez
Los sacrificios humanos, la sangre y el corazón:
la cosmogonía mesoamericana en el diccionario náhuatl
Anna Sulai Capponi
El corazón en la poética de Francisco de Quevedo
Alessandra Ceribelli
Metáforas del corazón en conversaciones sobre crisis
cardíacas
Guiomar Elena Ciapuscio
Miguel Servet, pionero de la circulación de la sangre y mártir
por la libertad de conciencia y de pensamiento
Antonio Colomer Viadel
Il cardiopatico… cento anni fa. Gestione del paziente
cardiologico secondo la letteratura medica e divulgativa
degli inizi del Novecento
Andrea Cozza
El corazón y la circulación sanguínea en la farmacoterapia
española del siglo XIX. Apuntes sobre la terminología
cardíaca del Tratado elemental de terapéutica médica (1839)
de Louis Martinet, traducido al español por Lorenzo Boscasa
Elena Dal Maso
Dos corazones: etnofisiología y procesos de pensamiento /
memoria entre los Urarina de la Amazonía peruana
Emanuele Fabiano
Maldito corazón. Dos experiencias de vida y arte:
Delmira Agustini y Frida Kahlo
María Jesús Fariña Busto
La dificultad de verbalizar el dolor cardíaco:
algunas marcas léxicas
Laura Daniela Ferrari
Azul y rojo: el mal de amores en el teatro breve
de José Luis Alonso de Santos
Sara Flammini
289
307
317
331
343
357
369
385
401
411
419
429
Hölderlin y Scardanelli: una lectura hermenéutica sobre
El corazón y su avispero de Francisco Hernández
Berenize Galicia Isasmendi
En mi boca y en tu pecho, las representaciones del corazón
en la Nueva España durante el siglo XVIII
Erika Galicia Isasmendi
El corazón del Rey Sabio
Heidi R. Krauss-Sánchez
Il cuore nel primo Novecento spagnolo: dal romanzo erotico
popolare alla scrittura avanguardista. Felipe Trigo,
José Francés e Ramón Gómez de la Serna.
Danilo Manera
Anatomia del sentimento: uno studio preparatorio
Chiara Mascardi
El corazón como metáfora de la vida y el amor en Vivir con
virus (2004) de Marta Dillon
Karen Poe Lang
“La voz de mi corazón”: sentimiento y nueva sensibilidad
en las Noches lúgubres de José Cadalso
Franco Quinziano
¿Y si el corazón miente? Los (falsos) poetas cortesanos
de Juan II vistos por los dramaturgos románticos
Montserrat Ribao Pereira
Gabriel García Márquez: “Escribo con el corazón”
Fabio Rodríguez Amaya
El corazón: entre la utopía y la distopía
María del Carmen Rodríguez Caballero
Llanto, fuego y juez: metáforas del corazón
en el soneto hispánico
Leonardo Sancho Dobles
Celda, bodega y refugio del Dios cautivo.
El corazón como arquitectura de la intimidad
en la mística castellana e hispanoamericana
Sergi Sancho Fibla
7
451
467
485
503
517
531
543
551
8
Locas las palabras del corazón. El infarto del alma
de Diamela Eltit y Paz Errázuriz
Laura Scarabelli
¿El corazón es centro? Un confronto tra cardiocentrismo
in Italia e ‘corazón’ nella periferia spagnola
Vanessa Schlüter
Simón Bolívar y Manuela Sáenz. Una historia de vida
y de amor
Antonio Scocozza
Cuore e scrittura nell’opera di Margo Glantz
Laura Silvestri
De los saberes del corazón: pálpitos y corazonadas
Ronald A. Solano Jiménez
‘Corazón mestizo’: il cuore di Centro Havana nella poetica
di Pedro Juan Gutiérrez
Gino Tramontana
Diversos grados de subjetivización en dos construcciones
con ‘corazón’
Julia Zugazagoitia – Marcela Flores
Le Passioni in Giotto
Giuliano Pisani
Le Passioni in Giotto
Giuliano Pisani*
Il 6 febbraio dell’anno 1300 un ricchissimo banchiere padovano,
Enrico Scrovegni, acquistò l’area dell’antica arena romana di Padova
e vi fece erigere un sontuoso palazzo con adiacente cappella privata,
destinata un giorno ad accogliere la tomba sua e della sua seconda
moglie, Iacopina d’Este. Affidò a Giotto il compito di affrescare
la cappella, mentre a un altro grande artista, Giovanni Pisano,
commissionò tre sculture, una Madonna con bambino tra due angeli
cerofori, per l’altare. La prima dedicazione avvenne il 25 marzo
1303, giorno dell’Annunciazione, la seconda il 25 marzo 13051. In
* Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti, Padova
1
L’Annunciazione era considerata come l’avvio simbolico della redenzione
dell’umanità. Per questo, secondo il calendario pisano, risalente almeno al X secolo,
il 25 marzo era considerato il primo giorno dell’anno (così a Pisa, Firenze, Siena e in
molte altre terre appartenenti alla Repubblica di Pisa e non solo) fino all’abolizione
su decreto del granduca Francesco Stefano di Lorena del 20 novembre 1749. Anche
a Padova la festa liturgica dell’Annunciazione aveva grande valenza religiosa, civile e
popolare: nell’area dell’antica arena romana di Padova sorgeva una piccola cappella
risalente all’XI secolo, meta tradizionale di una processione religiosa cittadina ogni 25
marzo, per celebrare il trionfo del Cristianesimo sul mondo pagano. La processione,
aperta dal Vescovo, muoveva dalla cattedrale e raggiungeva il Palazzo della Ragione,
sede del Comune. Qui, in ecclesia palacii juris, avveniva la vestizione di due pueri,
abbigliati e truccati in modo da rappresentare la Vergine e l’arcangelo Gabriele. Il
corteo, preceduto dai tubatores del Comune, riprendeva la marcia verso l’arena, luogo
simbolo di quel paganesimo che l’annuncio della nascita di Gesù avrebbe sconfitto
per sempre. In prima fila procedeva il clero, seguito dalle autorità civili, i nobili,
551
625 giornate di lavoro, dove per giornata s’intende la porzione di
affresco dipinta prima che l’intonaco si secchi, Giotto lavorò alla
decorazione della cappella: ci restano 900 metri quadrati di affresco,
che comprendono l’arco trionfale, la controfacciata, la volta e le pareti
della navata2. Il maestro aveva allora trentasei anni ed era il più celebre
pittore dell’epoca. Aveva operato fino a quel momento soprattutto
su committenza francescana, in particolare ad Assisi, Rimini e nella
basilica di sant’Antonio a Padova. Nella Cappella degli Scrovegni si
cimentò in un’impresa grandiosa, legata al clima culturale del primo
Giubileo della storia, indetto da Bonifacio VIII il 26 febbraio del
1300: narrare la storia della Rivelazione e il percorso che l’umanità
è chiamata ad affrontare per poter sperare che Dio la accolga tra gli
eletti il giorno del Giudizio Universale.
1. il programma della Cappella degli sCrovegni
Il racconto inizia dalla lunetta in alto sull’arco trionfale, quando
Dio impartisce all’arcangelo Gabriele l’ordine di avviare il riscatto
dell’umanità, e si dipana lungo le pareti della navata in tre registri
sovrapposti che scendono a spirale. Vi si narrano le vicende di
Gioacchino ed Anna, la nascita della loro bambina, Maria, le nozze
con Giuseppe, la Natività e le storie di Gesù, il sacrificio sulla
croce, la Resurrezione e l’Ascensione. Tre volte si ritorna sull’arco
trionfale per illustrare tre momenti fondamentali della storia sacra:
l’Annunciazione (quando un essere umano, Maria, riceve la notizia
i maggiorenti, i cantori della Cattedrale e il popolo, mentre i due fanciulli erano
trasportati su due diverse cattedre. La tradizione fu abbandonata nel XVII secolo, ma
ancor oggi, il 25 marzo, il Vescovo di Padova celebra la messa nella Cappella, tuttora
consacrata a Santa Maria della Carità. Acquistando quest’area Enrico Scrovegni si
candidava a ospitare in casa sua le autorità e il popolo, in un’ottica evidentemente
politica. L’antica cappellina fu trasformata architettonicamente in quella che vediamo
oggi (le prove non mancano osservando la struttura esterna, e si capisce come Enrico
non volesse alterare la tradizione, ma ampliare e nobilitare lo spazio).
2
Verosimilmente sono andati perduti gli affreschi dipinti da Giotto nel presbiterio e
nell’abside: sulla questione rimandiamo al nostro studio (Pisani 2008: 291-293).
552
che nel suo grembo si incarnerà il Figlio dell’Altissimo), la Visitazione
(il primo riconoscimento della presenza del Messia sulla terra da parte
di un altro essere umano, Giovanni Battista, ancora in grembo a sua
madre: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino
le sussultò nel grembo”3) e il Tradimento di Giuda (con cui si avvia la
Passione e Morte di Gesù e la Sua vittoria sulla morte). La discesa dello
Spirito Santo, atto simbolico della nascita della Chiesa Universale,
conclude la Rivelazione. Un racconto in apparenza semplice, ma che
cela un codice rigoroso e complesso, denso di elementi simbolici. A
partire dai colori: il blu rappresenta la sapienza (i cherubini sono blu),
il rosso l’amore (i serafini), il giallo oro la regalità, il verde – sintesi di
blu e giallo – la potenza (i troni), il rosa la gioia, il bianco è il colore
di Dio, e così via. Per questo il cielo è sempre presente, anche quando
la scena si svolge in un interno, perché rappresenta simbolicamente la
sapienza divina. Una cornice, con una treccia architettonica che corre
lungo le pareti della navata, separa i primi tre registri dal quarto, che
scandisce la dimensione del presente e della scelta individuale. Qui
Giotto esalta il suo genio creativo nei monocromi delle allegorie dei vizi
e delle virtù, un percorso che muove in direzione della controfacciata,
occupata dalla grandiosa scena del Giudizio Universale e dalla visione
del Paradiso celeste. Il superamento degli ostacoli frapposti dai
vizi è condizione necessaria perché l’uomo possa sperare di essere
accolto in Paradiso; l’insuccesso comporta la condanna all’Inferno.
I due angeli che arrotolano il cielo simboleggiano la fine del mondo
e l’apertura del tempo dell’eterno, l’ottavo giorno, che occupa la
volta della Cappella: sei sono i giorni della creazione per l’Antico
Testamento, sei le età dell’uomo prima dell’avvento di Cristo, mentre
il settimo giorno è l’arco temporale che intercorre tra la Pentecoste
e il Giudizio Universale; l’eternità è rappresentata dal numero otto,
simbolo dell’infinito, che ricorre nella volta della Cappella nelle stelle
a otte punte e negli otto tondi con i sette grandi profeti dell’Antico
Testamento e Giovanni Battista.
3
Lc. 1, 41.
553
2. la modernità di giotto
“Giotto rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al
moderno; ed ebbe l’arte più compiuta che avessi mai più nessuno”: il
giudizio formulato da Cennino Cennini alla fine del Trecento descrive
la rivoluzione prodotta da Giotto nell’arte figurativa con la rottura
degli schemi tradizionali e le formidabili innovazioni di gusto e di
stile. La grandezza di Giotto fu unanimemente riconosciuta già dagli
intellettuali del tempo, a partire dalla celebre terzina dantesca di
Purgatorio XI, 94-6:
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Questi versi risalgono a prima del 1313 (anno in cui fu
verosimilmente completata la stesura del Purgatorio), quando Giotto
ha ancora davanti a sé molti anni d’attività (morirà a Firenze nel ’37).
Nel 1363, venticinque anni dopo la sua morte, il cronista Filippo
Villani lo ricorda come colui che seppe restituire alla pittura “la fama
più alta e la sua dignità originaria: non solo lo possiamo paragonare
per reputazione ai più grandi artisti dell’antichità, ma lo dobbiamo
preferire a loro per arte e ingegno”. E prosegue:
Le raffigurazioni da lui rese col pennello sono così simili alle immagini
che ci offre la natura, che allo spettatore sembrano vivere e respirare; e
i loro gesti, i loro atteggiamenti sono così corrispondenti alla realtà che
paiono davvero parlare, piangere, ridere e fare ogni cosa: con grande
piacere di chi guarda e loda l’ingegno e la mano dell’artista4.
4
Filippo Villani, De origine civitatis Florentiae, et de eiusdem famosis civibus..., ms.
Barberiniano Latino 2610 della Biblioteca Apostolica Vaticana, cc.71r-72r, trad. in
Baxandall 1994: 112. Per comodità del lettore trascriviamo il testo latino: “Giottus
non solum illustris fame decore antiquis pictoribus comparandus, sed arte et ingenio
preferendus, in pristinam dignitatem nomenque maximum picturam restituit. Huius
enim figurate radio imagines ita liniamentis nature conveniunt, ut vivere et aerem
spirare contuentibus viderentur: exemplares etiam actus, gestusque conficere adeo
proprie, ut loqui, flere, letari et alia agere, non sine delectatione contuentis et laudantis
ingenium manumque artificis prospectentur”.
554
Boccaccio indica perfettamente la portata rivoluzionaria della
sua arte: Giotto richiama in vita dopo secoli di errori la pittura,
togliendola dalla tomba in cui l’aveva posta una concezione artistica
che si limitava “a dilettar gli occhi degli ignoranti” e non lasciava
spazio alla riflessione e all’intelletto:
[…] ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la Natura,
madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli
con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella,
che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle
cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore,
quello credendo esser vero che era dipinto. E per ciò, avendo egli quella
arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni, che più a
dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ’ntelletto de’ savi
dipignendo intendeano, era stata sepulta, meritamente una delle luci
della fiorentina gloria dir si puote5.
Giotto cambiò il linguaggio della pittura introducendo il realismo,
la prospettiva (non quella geometrica, certo, ma quella che scandisce
i piani e crea la profondità), la precisione architettonica, la scansione
dello spazio, la cura minuziosa dei dettagli, la capacità di scolpire le
figure usando la luce e il colore. Le emozioni, i sentimenti, le passioni
sono resi plasticamente visibili, e non c’è alcuna distinzione tra divino
e umano. L’umanizzazione del divino comporta il superamento della
raffigurazione ieratica di ascendenza bizantina e l’abbandono della
pratica di sottolinearne la grandezza mediante dimensioni molto
superiori alla media umana. Così, quasi in ogni riquadro si possono
cogliere gli stati d’animo dei protagonisti, umani o divini. Qualche
esempio: l’imbarazzo dei giovani pastori di fronte all’afflizione di
Gioacchino (mentre il cagnolino gli fa le feste); la gioia di Gioacchino
e Anna nell’incontro alla Porta aurea di Gerusalemme (il loro bacio,
labbra sulle labbra, è il primo della storia dell’arte); la delusione,
l’incredulità e lo scherno dei pretendenti allo sposalizio con Maria; la
5
Giovanni Boccaccio, Decameron, Novella quinta della sesta giornata (Messer Forese
da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l’uno la sparuta apparenza
dell’altro morde).
555
preoccupazione sul volto di Giuseppe nella fuga in Egitto; lo strazio
delle madri, la crudeltà di Erode e i sentimenti di ripulsa, di pietà,
di dolore dei soldati romani impossibilitati a intervenire, nella scena
della strage degli innocenti; l’indignazione sul volto e nei gesti di
Gesù che caccia i mercanti dal Tempio; l’umile vittoriosa pazienza
con cui piega il capo di fronte agli oltraggi; il senso di solitudine e
di smarrimento mentre ascende al Golgota, con quell’incredibile
sguardo perso nel vuoto; il dolore di Maria e del mondo intero nel
Compianto sul Cristo morto; il volto severo di Cristo nel Giudizio
Universale (figg. 1-10). Questa, secondo l’espressione del Cennini, è
la riduzione “al moderno”.
Giotto lavorò a stretto contatto con teologi e religiosi, data
la committenza e la prevalenza dei soggetti che gli venivano
commissionati, ma anche con intellettuali e scienziati laici, come
Pietro d’Abano, che ideò il programma del ciclo astrologico che
il maestro eseguì pochi anni dopo sempre a Padova, nel Palazzo
della Ragione, sede del Comune, e che andò perduto nel disastroso
incendio del 14206. Metteva a disposizione dei committenti il suo
talento e il suo genio, ma una cosa era dipingere un’immagine sacra
come la crocifissione o lavorare alle storie di san Francesco, un’altra
eseguire un programma complesso, che presupponeva la presenza e
la collaborazione con un teologo. Qui si è verificata una situazione
paradossale: invece di approfondire le fonti e le radici teologiche del
programma affrescato da Giotto, si è preferito pensare che le presunte
incongruenze o i presunti errori fossero dovuti o all’approssimativa
preparazione dottrinale del pittore o alla necessità di compiacere il
padrone di casa, omettendo, per esempio, il vizio dell’avaritia, che
poteva suonare come una spiacevole allusione al mestiere del padrone
di casa. Niente di più sbagliato7.
6
Nella Visio Egidii regis Patavi il cronista padovano Giovanni da Nono (1335)
testimonia che vi erano ritratte le dodici costellazioni celesti e i sette pianeti con le loro
proprietà: “Duodecim celestia signa et septem planete cum suis proprietatibus... a
Zotho summo pictore mirifice laborata, et alia sidera cum speculis et alie figurationes”
(Fabris 1977: 155).
7
Incomprensibile la leggenda, davvero priva di fondamento, dell’influenza esercitata
556
Esiste un’altra innovazione, diciamo pure un’altra modernità,
nella concezione della Cappella degli Scrovegni, ed è costituita dal
suo rigoroso disegno filosofico-teologico, ardito e innovativo come
il talento del suo geniale pittore. Lo dimostrano i monocromi (altra
straordinaria novità nel campo della pittura) delle Virtù e dei Vizi, che
costituiscono il quarto registro della Cappella. Lo si era interpretato
come un generico percorso devozionale: i vizi conducono all’Inferno,
le virtù in Paradiso. Per comprendere il quarto registro è richiesta una
solida formazione classica. Vediamo perché.
3. il quarto registro. vizi e virtù
La storia sacra si chiude con il riquadro della Pentecoste: l’uomo è
posto di fronte alla scelta del bene o del male. È il concetto di libero
arbitrio, che Dante sviluppa nel canto centrale della Commedia, il
XVI del Purgatorio (vv. 79-80: “A maggior forza e a miglior natura /
liberi soggiacete”). Vizi e virtù si fronteggiano a coppia contrapposta.
Sulla parete settentrionale sono rappresentati i sette vizi, su quella
meridionale le sette virtù. Ecco lo schema, partendo dalla prima coppia,
Stultitia – Prudentia, e risalendo in direzione della controfacciata fino
all’ultima, Desperatio – Spes:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Stultitia – Prudentia
Inconstantia – Fortitudo
Ira – Temperantia
Iniustitia – Iustitia
Infidelitas – Fides
Invidia – Karitas
Desperatio – Spes
I vizi, ad eccezione di due, ira e invidia, non sono quelli capitali
(superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria), come in san
da Dante nella concezione della Cappella (ci permettiamo di rimandare al nostro
articolo: Pisani 2016: 799-811).
557
Tommaso e in Dante, ma rappresentano il contrario delle virtù
corrispondenti. Le quattro virtù cardinali, a loro volta, non sono
disposte nell’ordine tradizionale di prudenza, giustizia, temperanza,
fortezza (che risale a san Tommaso), ma la prudenza è seguita da
fortezza, temperanza e giustizia. Le tre virtù teologali non sono nella
sequenza di fede, speranza, carità (già in san Paolo, 1 Corinzi 13, 13),
ma la carità precede la speranza. La spiegazione che ne ho dato è
che si tratti di due percorsi terapeutici: nel primo le virtù cardinali
guariscono l’anima dai vizi opposti e conducono l’uomo al Paradiso
terrestre e alla felicità terrena; nel secondo, viene praticata un’analoga
cura dalle virtù teologali, che consentono all’uomo di poter sperare
di essere accolto tra gli eletti il giorno del Giudizio Universale. La
bibliografia giottesca dimostra come questo percorso non fosse stato
capito.
4. primo perCorso terapeutiCo: le virtù Cardinali
Prima coppia: Stultitia – Prudentia.
Il latino traduce con stultitia il concetto greco di amathía, l’ignoranza
etica, vale a dire l’incapacità di distinguere il bene dal male (ben diversa
da quella dei contenuti, ágnoia, che il latino rende con ignorantia). La
stultitia non è un dato patologico, ma comportamentale: non è la follia
né la stupidità. L’allegoria della stoltezza è rappresentata da una figura
maschile con una stravagante corona di penne sul capo e una coda che
ricorda quella di un pavone; il ventre prominente (simbolo di voracità e
materialità) è serrato da una cintura intrecciata, da cui pendono alcuni
sonagli; la bocca è spalancata, a indicare arretratezza e ignoranza,
mentre la destra stringe un nodoso bastone, emblema di forza bruta e
brutale. È il ritratto di un uomo che rinnega l’essenza stessa di uomo.
Sulla parete opposta è dipinta la prudentia, la capacità di distinguere
il bene dal male, traduzione latina del greco phrónesis, l’intelligenza
etica o la ragion pratica, la saggezza. La prudentia è l’esatto contrario
della stultitia. Giotto la ritrae come una donna seduta in un elegante
studiolo: nella destra tiene un compasso, simbolo della scienza, e
nella sinistra uno specchio, in cui si contempla (eco del primo motto
delfico adottato da Socrate: Conosci te stesso); sulla nuca si intravede
558
il profilo di un uomo con la barba, forse un filosofo, che rappresenta
l’utilità etica della memoria del passato; sulla cattedra davanti a lei c’è
un leggio con un libro aperto [figg. 11 e 12]. La terapia operata dalla
prudentia pone rimedio all’incapacità di distinguere il bene e consente
di procedere nel percorso.
Seconda coppia: Inconstantia – Fortitudo.
Il secondo ostacolo è frapposto dall’inconstantia, la “mancanza
di una sede stabile”, un insieme di instabilità, volubilità, leggerezza,
incoerenza. Giotto la rappresenta come una fanciulla che sta scivolando
sul piano inclinato di una levigata lastra marmorea, con i piedi nudi su
una ruota in movimento. Il sollevarsi del lembo della veste sottolinea
l’effetto vorticoso e lubrico della velocità, mentre le braccia aperte
in diagonale cercano un equilibrio impossibile. L’inconstantia è il
contrario della constantia, che traduce, anche in senso etimologico, il
concetto greco di eustátheia. La terapia è data, sulla parete opposta,
dalla virtù contraria della fortitudo, la fortezza d’animo, che garantisce
all’uomo di mantenersi saldo, fermo e coerente nella scelta del bene
di ordine razionale e di non desistere e recedere dai suoi intenti8.
L’iconografia della fortezza trasmette quest’idea di stabilità, di
forza, di resistenza al male e di determinazione a perseguire il bene:
Giotto la rappresenta come una donna robusta che sul capo e sulle
spalle indossa la leonté, la pelle di leone simbolo di Eracle; la parte
superiore del corpo è protetta da una corazza; nella destra stringe
una mazza, mentre con la sinistra imbraccia un enorme scudo sul
quale campeggiano la croce di Cristo e un leone rampante, un vero e
proprio baluardo che poggia a terra e arriva a coprire la figura fino a
mezzo volto [figg. 13 e 14].
8
La contrapposizione è così affermata in Agostino, Epistola CLXVII: “Constantia,
pars quaedam virtutis est; ab hac, inconstantia longe abhorret, et indubie contrasistit”.
La constantia, la fermezza etica, è parte della fortezza (la virtù di cui si sta parlando),
mentre l’inconstantia, la volubilità etica, è con essa in stridente contrasto e
contrapposizione.
559
Terza coppia: Ira – Temperantia.
La determinazione al bene è minacciata dal potere seduttivo e
deviante delle passioni. Simbolo delle passioni è l’ira, che gli antichi
filosofi consideravano la più tremenda e pericolosa delle passioni,
perché oscura di colpo la luce della ragione e porta a compiere gesti
inconsulti, sconsiderati, violenti, anche nei riguardi delle persone
più care o di se stessi, fino ad arrivare, in casi estremi, al delitto o
al suicidio. Il solo rimedio all’arroganza e alla prepotenza dell’ira
è cercare di tenerla sotto controllo prima che si manifesti, con
un’assidua opera di prevenzione che, attraverso un esercizio costante,
faccia progressivamente insorgere un’abitudine mentale che dia vita,
inizialmente, a una disposizione transeunte dell’anima (greco diáthesis,
latino dispositio) e che approdi infine a un modo di essere permanente
(greco héxis, latino habitus). L’ira deforma i tratti del viso, fa perdere
totalmente l’equilibrio interiore, induce a una follia momentanea: così
la fanciulla dipinta da Giotto si lacera la veste sul petto come Caifa,
furioso, di fronte alla “bestemmia” di Cristo, mentre il suo volto è colto
in una smorfia orrenda, che ne altera completamente i lineamenti9
[fig. 15]. La terapia è data dalla temperantia, l’equilibrio interiore
che assicura il dominio stabile della volontà sugli istinti, quando il
ragionamento imbriglia e maneggia l’elemento passionale rendendolo
docile e mansueto e obbligandolo ad accettare di buon grado, nel
campo dei desideri, la giusta misura e la convenienza. La temperanza
vince l’insidia mortale delle passioni, simboleggiata dall’ira: “Compito
della temperanza” scrive sant’Agostino “è reprimere e placare le
passioni che ci fanno bramare tutto ciò che ci distoglie dalle leggi di
Dio e dai frutti della sua bontà, vale a dire, per spiegarmi in breve, dalla
vita beata”10. Ecco perché, a fronte dell’ira, e come sua terapia, non c’è
la virtù contraria della pazienza (come in Giovanni Cassiano) o della
9
Alla base di questa descrizione c’è il passo di Seneca in cui si paragonano gli effetti
dell’ira a quelli della follia: gli occhi mandano fiamme, le labbra tremano, i denti si
serrano, si rizzano i capelli, tutto il corpo è in preda a un’agitazione incontrollabile, si
gonfia e si distorce, diventando sconcio e orribile a vedersi (De ira I, 3-4).
10
Agostino, De moribus Ecclesiae catholicae I, 19, 35: “Munus eius [temperantiae] est
in coercendis sedandisque cupiditatibus, quibus inhiamus in ea quae nos avertunt a
legibus Dei et a fructu bonitatis eius, quod est, ut brevi explicem, beata vita”.
560
mansuetudine (Evagrio, San Tommaso)11. La temperanza consolida
definitivamente ciò che la prudenza individua come bene e che la
fortezza è determinata a difendere. Giotto, con un’iconografia inedita,
la ritrae come una nobile figura femminile, dall’espressione assorta; un
morso le serra la bocca (a significare la necessità di “tenere a freno”
anzitutto la lingua); con la sinistra impugna una spada in posizione
verticale, poco sotto l’elsa, mentre con la destra le serra intorno
una lunga benda, che la rende dunque inoffensiva (a simboleggiare
la mansuetudine o la clemenza, manifestazioni della temperanza).
Tutto lascia trasparire un senso di calma e di ieratica compostezza, di
autocontrollo delle emozioni, di assoluto dominio interiore [fig. 16].
Quarta coppia: Iniustitia – Iustitia.
Prudenza, fortezza, temperanza sono virtù della sfera etica
individuale e hanno come oggetto di riferimento la cura di sé e della
propria condotta. La virtù etica si esplica solo nella sua messa in
pratica e i nostri atti e comportamenti riguardano la sfera sociale,
perché coinvolgono i rapporti con il prossimo e la società degli uomini;
da qui i concetti etici di giustizia e ingiustizia, la coppia centrale del
quarto registro: iniustitia – iustitia. La Giustizia è la quarta delle sette
virtù ed è dunque in posizione centrale, come Giotto stesso sottolinea
ed evidenzia. Accennavamo alla treccia architettonica che corre
lungo le pareti della navata al di sopra delle allegorie delle Virtù e
dei Vizi: possiamo ora osservare come un solo elemento, quello posto
sulla verticale esatta della testa della Giustizia e dell’Ingiustizia sia in
asse e indichi che in quel punto si trova il centro esatto della parete,
mentre tutti gli altri piegano prospetticamente o verso sinistra o verso
destra, in direzione rispettivamente dell’abside e della controfacciata
[fig. 17]. La centralità della giustizia è dunque prevista e sottolineata
11
Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, IX, 7 (La convivenza con gli altri ci
rende più pazienti). L’ira è considerata da Evagrio (Gli otto spiriti malvagi, 9) come
una passione furiosa che imbestialisce l’anima e degrada il genere umano: il suo
corrispondente positivo è nella mansuetudine, cara a Dio: “L’anima mite è il tempio
dello Spirito Santo”, come “la mente pacifica è dimora della Santa Trinità”. Il tema
è trattato da San Tommaso in Summa Theologiae, IIa-IIae (Iracundia, quae opponitur
mansuetudini).
561
fin dal primo momento, quando è stato impostato il programma e
si è calcolata la suddivisione dello spazio. Si osservi come lo sfondo
della Giustizia, così come in precedenza quello della Prudenza, sia
caratterizzato dal blu, il colore della sapienza divina [fig. 18].
Il regno dell’Ingiustizia è disordine, conflitto, violenza, delitto:
ne è simbolo il tiranno, un signorotto truce, con unghie adunche
e zanne che fuoriescono dalla bocca serrata, che si inquadra sullo
sfondo di una porta con merli ghibellini, simbolo degli imperiali,
nemici della guelfa Padova, la spada nel fodero e un lungo e sinistro
raffio nella destra. Nello zoccolo scene di orrore: mercanti uccisi e
depredati, una donna, forse incinta, denudata e assassinata, uomini
che vanno in guerra armati di scudi e lunghe lance [figg. 19 e 20]. Il
tiranno sta guardando nella direzione dell’Inferno: le mura sono qua
e là lacerate, perché destinate inesorabilmente a crollare per mano
di Dio.
Di contro il regno della Giustizia è la premessa stessa della pace e
della felicità. Nella predella sotto il trono appaiono tre scene di vita
quotidiana, spensierata e gioiosa: il nobil signore rinuncia alle opere
della guerra e va a caccia cavalcando al fianco della sua dama, che
regge un falcone sull’avambraccio sinistro, mentre due cani precedono
la coppia fiutando il terreno; in un villaggio, sullo sfondo di un casone
di paglia, una coppia danza festosa al suono di nacchere, mentre una
giovanetta scandisce il ritmo con un tamburello; due mercanti, infine,
viaggiano tranquilli con il loro carico, senza paura di essere assaliti dai
briganti [fig. 21].
Chi è giunto alla giustizia ha praticato una “terapia umana”
dell’anima che lo ha portato alla felicità terrena usando la medicina
animi delle virtù cardinali, con cui ha curato gli effetti negativi dei vizi
contrari. La giustizia è premessa indispensabile per la realizzazione
della pace e dell’armoniosa convivenza con l’umanità intera (il Paradiso
terrestre). Siamo in presenza di un tema classico: la pace e la felicità
sono figlie della giustizia. La centralità della giustizia, tema agostiniano
per eccellenza, è ribadita anche visivamente dalla sua collocazione al
centro esatto della parete, come sottolinea il particolare della treccia
architettonica.
Lo sguardo della Giustizia assisa in trono, sotto il cui regno
l’umanità può godere di pace e sicurezza e vedere realizzato il Paradiso
562
in terra, accoglie il visitatore e lo accompagna lungo tutto il percorso
del quarto registro, senza mai perderlo di vista, grazie all’effetto ottico
creato da Giotto. La giustizia è per gli antichi, da Esiodo in poi, la
premessa e la condizione della pace12. Gesù realizza la giustizia e la
pace attraverso l’amore.
5. seCondo perCorso terapeutiCo: le virtù teologali
Le virtù teologali sono diretto dono di Dio e si acquisiscono per
infusione nell’atto in cui si riceve il battesimo: senza gli insegnamenti
divini, senza la rivelazione della verità che supera e trascende la ragione
umana, senza la pratica delle virtù teologali, l’uomo non può sperare
nel Paradiso celeste, nella gioia della vita eterna. La “terapia divina”
muove dalla fiducia (fides) nella parola di Dio, supera con l’amore
(caritas) l’egoismo e l’avidità, che portano a guardare con occhi
malevoli (invidia) quel prossimo che è fatto a immagine e somiglianza
di Dio, e alimenta la speranza, attesa attiva delle benedizioni future.
Quinta coppia: Infidelitas – Fides.
L’Infidelitas ha gli occhi ciechi e l’udito compromesso dalle alette
dell’elmo schiacciate sulle orecchie: non vede e non ode la parola
rivelata che le comunica il profeta che appare nell’angolo in alto a
destra con un rotolo spiegato, e finisce al guinzaglio (o al cappio) di un
un’aggraziata figurina di fanciulla, che lei stessa regge nel palmo della
destra. In basso a sinistra, a pochissima distanza, divampa minaccioso
il fuoco infernale [fig. 22]. L’Infidelitas è, etimologicamente, la
“mancanza di fiducia” nella parola di Dio. La cura è data dalla prima
delle tre virtù teologali, la Fides, che è appunto “fiducia” nella parola di
Dio, nella verità rivelata [fig. 23]. Senza “fiducia” in Dio è impossibile
proseguire il cammino. La fede è rappresentata da una ieratica figura
femminile cinta di corona, gli occhi levati in alto, che impugna con la
12
Valga per tutti la definizione data da Cicerone in De officiis III 6, 28: “Questa sola
virtù è signora e regina di tutte le virtù” (Haec enim una virtus omnium est domina et
regina virtutum).
563
destra una croce astile che poggia sul torso di un simulacro pagano.
Nella sinistra stringe un cartiglio su cui si leggono le prime parole del
Simbolo degli Apostoli, il Credo tipico della chiesa di Roma e perciò
il più diffuso nel medioevo tra i cattolici13: Credo in Deum Patrem
omnipotentem, creatorem celi et terre et in Iesum Christum filium Dei
unigenitum. Due angeli affacciano dagli angoli in alto. Saldamente
piantata sulla roccia, dalla cintura le pende la chiave di Pietro, la sola
che può aprire la porta che immette nel regno dei cieli.
Sesta coppia: Invidia – Karitas.
Sulla parete opposta ecco l’ostacolo dell’invidia, etimologicamente
l’atto di “guardar male” (in-videre) il prossimo, di soffrire per il
bene di cui un altro pare godere e di cui, al confronto, riteniamo di
essere privi. Il primo invidioso, il capostipite dell’invidia è Lucifero,
che “mal vede” Dio e lo calunnia agli occhi dell’uomo (diabolus è
parola latina di origine greca, che significa appunto “calunniatore”)
e al tempo stesso “mal vede” l’uomo, perché è amato da Dio e gode
di quella vicinanza che a lui, il ribelle, è negata per sempre. Questo
sentimento di malevolenza verso il prossimo costituisce il peccato
sociale per eccellenza, in quanto mina il rapporto tra gli uomini e
ne impedisce la pacifica convivenza, compromettendo il principio
di solidale fraternità su cui poggia il modello stesso della società
cristiana. L’invidia contravviene alla legge dell’amore di Cristo, spezza
il legame d’amore che Dio ha voluto tra gli uomini, le creature che
ha creato a sua immagine e somiglianza. Amando il prossimo suo,
l’uomo ama il suo Creatore e al tempo stesso ricambia l’amore che
Dio gli ha donato14. Giotto ritrae l’invidia come una vecchia megera
13
Con una variante finale: filium Dei unigenitum anziché filium eius unicum.
Nell’Antico Testamento il popolo eletto è chiamato a corrispondere all’amore di Dio:
“Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore
tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Deuteronomio
6, 4-5) e ad amare il prossimo: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i
figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” (Levitico 19, 18). Il
comandamento dell’amore è per Cristo “il più importante” (Marco 12, 29-31), è il
“comandamento nuovo” (Giovanni 13, 34). “Come il Padre ha amato me, così anch’io
ho amato voi. Rimanete nel mio amore” e: “Questo è il mio comandamento: che vi
amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Giovanni 15, 9 e 15, 12). Il concetto di
14
564
dalle orecchie sproporzionate (per sparlare bisogna prima stare in
ascolto) e un serpente, simbolo del demonio, che le esce dalla bocca al
posto della lingua e le si ritorce contro, pronto a instillare il suo veleno
(l’invidioso è la prima vittima della sua astiosità). La vecchia protende
in avanti la destra in una posa avida e rapace, mentre nella sinistra
stringe un sacchetto di denaro, immagine dell’avidità, della dantesca
cupidigia, il nemico spietato dell’uomo e della sua felicità [fig. 24].
La cura dell’invidia non può essere che l’amore, la caritas, amore
di Dio per l’uomo e amore dell’uomo per Dio e per il prossimo (amor
Dei et proximi). Essa purifica la capacità umana di amare, elevandola
alla perfezione soprannaturale dell’amore divino. Per san Paolo è la
prima delle virtù teologali: “Queste le tre cose che rimangono: la fede,
la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (Corinzi 1,
13, 13). Essa ispira e anima l’esercizio di tutte le virtù: “Al di sopra di
tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione” (Colossesi 3,
14). Nella lingua della Chiesa occidentale caritas copre esattamente il
campo semantico della parola greca agàpe, la Cena mistica, durante la
quale scende sui commensali l’amore di Dio per l’umanità.
Giotto rappresenta la Karitas come una leggiadra figura femminile,
che con la sinistra offre il suo cuore a Cristo, che lo riceve apparendo
nell’angolo a destra in alto: per la prima volta nella storia dell’arte
è ritratto un cuore vero, con tanto di aorta [figg. 25 e 26]. Nella
destra regge un canestro che contiene spighe di grano, boccioli di
rose, melagrane aperte e chiuse, fiori di melograno, una castagna
con il suo riccio e una noce [fig. 27]. Nella tradizione cristiana sono
tutti simboli della passione e morte di Gesù: la spiga di grano evoca
l’eucarestia (con la sua farina si forma la particola, l’ostia sacra della
Comunione), la rosa richiama le spine della corona posta sul capo di
Cristo; la melagrana rappresenta la Chiesa, che sotto la stessa fede
riunisce popoli profondamente diversi per cultura e tradizione (i
chicchi separati eppure uniti), mentre il taglio rosso della melagrana
prossimo è esteso anche ai nemici (Matteo 5, 43-48: “amate i vostri nemici e pregate
per i vostri persecutori... Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro
celeste”). Il comandamento dell’amore può chiamare anche a dare la vita per gli altri,
seguendo il modello stesso di Cristo (Giovanni 15, 13: “Nessuno ha un amore più
grande di questo: dare la vita per i propri amici”).
565
aperta rappresenta il sangue che fuoriesce dal costato di Cristo,
la prova che Cristo è morto sulla croce, perché il suo corpo non
reagisce al colpo della lancia con cui i soldati romani capivano se il
condannato era ancora in vita o era spirato15. La castagna avvolta
dal riccio simboleggia il frutto della passione, la virtù nascosta
circondata dalle spine che non riescono a intaccarne la dolcezza (le
vie misteriose della Provvidenza divina che si attua, come nel caso
di Cristo, attraverso le sofferenze e l’effimera vittoria della morte),
mentre la noce rappresenta il frutto dell’albero da cui è tratto il legno
della croce. L’approssimazione con cui si è letto finora il contenuto del
canestro ha impedito di comprenderne il significato. I fiori e la frutta
che la Karitas porta nel canestro sono tutti simboli della passione e
l’offerta del suo cuore è il gesto con cui ricambia il sacrificio d’amore
di Cristo. Ai suoi piedi giacciono i sacchetti di denaro, ancora chiusi,
a simboleggiare la vittoria dell’amore sulla cupidigia, e dunque sul
nemico mortale dell’uomo. Tutto in lei parla d’amore: nel nimbo
trasparente che ne circonda il capo, acconciato con una corona di
boccioli di rose (evocazione di quella di spine del Signore), ardono le
fiammelle dell’amore, quell’amore che vince le fiamme infernali che
ardono sotto l’Invidia16.
15
Per questo nella scena del Giudizio Universale Cristo esibisce le stimmate sulle
mani e sui piedi e la ferita del costato, che viene mostrata attraverso un’apposita
lacerazione della tunica rossa.
16
Permane in qualche studioso la difficoltà di comprendere la legittimità teologica
della contrapposizione tra Invidia e Caritas, per l’infondata idea che di fronte
alla Caritas dovrebbe esserci l’Avaritia, che però non si potrebbe citare perché
sembrerebbe una sconveniente allusione al mestiere del padrone di casa. È evidente
che nella rappresentazione giottesca l’avaritia è parte dell’invidia (la borsa di denaro
che la vecchia megera stringe nella mano sinistra e il trionfo della Caritas sulle
monete e i sacchetti di denaro). Non bastasse l’evidenza, ci soccorre Agostino, De
catechizandis rudibus 4, 8: “Quia ergo caritati nihil adversius quam invidentia, mater
autem invidentiae superbia est: idem Dominus Iesus Christus, Deus homo, et divinae
in nos dilectionis indicium est et humanae apud nos humilitatis exemplum, ut magnus
tumor noster maiore contraria medicina sanaretur” (“Poiché nulla è più contrario
alla carità dell’invidia e la madre dell’invidia è la superbia, lo stesso Signore Gesù
Cristo, Dio uomo, è segno dell’amore di Dio verso di noi ed esempio in mezzo a noi
dell’umiltà che l’uomo deve avere, perché la nostra grande superbia sia sanata da un
più forte e contrario rimedio”).
566
Settima coppia: Desperatio – Spes.
L’ultimo ostacolo da superare, la disperazione, è un peccato
gravissimo, perché nega l’essenza stessa di Dio, che è somma
misericordia, e fonte di perdono e di salvezza per l’umanità. La
disperazione mette in dubbio che il peggiore dei peccatori possa
ottenere il perdono di Dio dopo essersi ravveduto e pentito.
Petrarca, nella pagina iniziale del secondo libro del Secretum, fa dire
a sant’Agostino che la disperazione è l’estremo e ultimo dei mali17.
Chi dispera opera dunque un suicidio dell’anima, negando che la
medicina divina possa sanare anche le peggiori ferite: peccatum
cum desperatione, certa mors, scrive sant’Agostino, “il peccato unito
alla disperazione è morte certa”18. È esattamente la colpa di Giuda,
che disperando nel perdono di Dio si impicca e rimane per sempre
legato a questo gesto, come un dannato dell’antico mito greco: nella
rappresentazione dell’Inferno giottesco Giuda è da solo, appeso al
cappio, eternamente fissato in quel gesto disperato.
Giotto rappresenta la Desperatio con un’immagine di forte
impatto: una donna suicida per impiccagione, colta negli spasimi
che precedono la morte, con le braccia drammaticamente allargate,
i pugni serrati, mentre un diavolo la arpiona con un uncino. Di
contro, la Spes ha le sembianze di un’aerea fanciulla alata, che spicca
il volo e protende ambo le braccia in alto verso un angelo che appare
nell’angolo superiore di destra e le porge la corona della vittoria e
della gloria [figg. 28-29].
Si conclude così il percorso lungo il quarto registro, cuore pulsante
della concezione filosofico-teologica della Cappella degli Scrovegni.
Le virtù, applicando la terapia dei contrari, costituiscono la terapia
dei vizi opposti. Così sant’Agostino nel trattato La dottrina cristiana:
La medicina della Sapienza, per assistere l’uomo, si è conformata alle
nostre ferite, curando in alcuni casi con rimedi contrari, in altri con
rimedi simili. Chi cura una ferita del corpo usa rimedi contrari quando,
17
Petrarca, Secretum II, 1: “Ultimum malorum omnium desperatio est, ad quam
nemo unquam nisi ante tempus accessit; ideoque hoc in primis scias velim: nichil esse
desperandum”.
18
Agostino, Enarratio in Psalmum 50, 5.
567
per esempio, applica il freddo al caldo, l’umido all’asciutto e così via,
ma usa anche rimedi simili, come quando applica una benda rotonda a
una ferita rotonda, una allungata a una allungata [...]: così la Sapienza
di Dio, nel curare l’uomo, gli offrì se stessa per guarirlo, se stessa come
medico, se stessa come medicina. Ed essendo l’uomo caduto per un atto
di superbia, si servì dell’umiltà per guarirlo. [...]. Facemmo cattivo uso
dell’immortalità, sì da procurarci la morte; Cristo ha fatto buon uso della
mortalità, sì da ridarci la vita. Corrotto l’animo di una donna, entrò nel
mondo la malattia; un corpo di donna rimasto integro ci ha donato la
salute. Allo stesso sistema dei contrari si riferisce il fatto che mediante
l’esempio delle virtù vengono curati i nostri vizi19.
La medicina cristiana usa dunque il rimedio dei contrari (le virtù)
per guarire i vizi. Il percorso muove dalla Stultitia e arriva alla Spes:
basta l’ostacolo di un solo vizio non superato per arrestare il cammino
e precipitare all’Inferno.
L’ordine delle virtù cardinali è diverso da quello fissato da san
Tommaso e ripreso da Dante: prudenza, giustizia, temperanza,
fortezza20. La fonte ispiratrice è ancora una volta sant’Agostino, che
19
Agostino, De doctrina Christiana I, 14, 13: “Medicina Sapientiae per hominis
susceptionem nostris est accomodata vulneribus, de quibusdam contrariis curans et de
quibusdam similibus. Sicut etiam ille qui medetur vulneri corporis, adhibet quaedam
contraria, sicut frigidum calido vel humidum sicco vel si quid aliud eiusmodi; adhibet
etiam quaedam similia, sicut linteolum vel rotundo vulneri rotundum vel oblongum
oblongo [...]; sic Sapientia Dei hominem curans seipsam exhibuit ad sanandum,
ipsa medicus, ipsa medicina. Quia ergo per superbiam homo lapsus est, humilitatem
adhibuit ad sanandum. [...] Nos immortalitate male usi sumus ut moreremur,
Christus mortalitate bene usus est ut viveremus. Corrupto animo feminae ingressus
est morbus, integro corpore feminae processit salus. Ad eadem contraria pertinet,
quod etiam exemplo virtutum eius vitia nostra curantur”.
20
Tommaso, Summa Theologiae Ia-IIae, q. 61, a. 2: “Inveniuntur quatuor cardinales
virtutes. Principium enim formale virtutis de qua nunc loquimur, est rationis
bonum. Quod quidem dupliciter potest considerari. Uno modo, secundum quod in
ipsa consideratione rationis consistit. Et sic erit una virtus principalis, quae dicitur
prudentia. Alio modo, secundum quod circa aliquid ponitur rationis ordo. Et hoc
vel circa operationes, et sic est iustitia, vel circa passiones, et sic necesse est esse
duas virtutes. Ordinem enim rationis necesse est ponere circa passiones, considerata
repugnantia ipsarum ad rationem. Quae quidem potest esse dupliciter. Uno modo
secundum quod passio impellit ad aliquid contrarium rationi, et sic necesse est
568
così commenta la visione del fiume che esce dal Giardino dell’Eden (il
riferimento è a Genesi 2, 10-14):
Il fiume che usciva dall’Eden [...] si divide in quattro bracci e indica le
quattro virtù: prudenza, fortezza, temperanza, giustizia21.
I quattro fiumi sono identificati allegoricamente con le quattro
virtù cardinali. I primi tre rappresentano rispettivamente la prudenza,
la fortezza e la temperanza:
Il quarto fiume non è detto in quale direzione vada o quale terra percorra:
la giustizia, infatti, si estende a tutte le parti dell’anima, perché è ordine
ed equilibrio dell’anima, e consente l’armoniosa unione di queste tre
virtù, prima la prudenza, seconda la fortezza, terza la temperanza, e in
tutta questa unione e disposizione consiste la giustizia22.
quod passio reprimatur, et ab hoc denominatur temperantia. Alio modo, secundum
quod passio retrahit ab eo quod ratio dictat, sicut timor periculorum vel laborum,
et sic necesse est quod homo firmetur in eo quod est rationis, ne recedat; et ab hoc
denominatur fortitudo” (“Si riscontrano quattro virtù cardinali. Il principio formale
della virtù è il bene definito dalla ragione. Il quale bene si può considerare in due
modi. Primo, in quanto si attua proprio nell’esercizio della ragione. E così ci sarà
una sola virtù principale, che ha nome prudenza. Secondo, in quanto l’ordine della
ragione si applica a qualcosa. E se si tratta di azioni, si ha la giustizia. Se invece si tratta
di passioni, c’è bisogno di due virtù. L’ordine della ragione deve essere infatti imposto
alle passioni, considerata la loro riluttanza alla ragione. Che può manifestarsi in due
modi. Primo, la passione incita a un comportamento contrario alla ragione, e allora
è necessario reprimerla, e per questo si chiama temperanza. Secondo, la passione
distoglie dal seguire ciò che la ragione comanda, come nel caso del timore dei pericoli
o della fatica, e così è necessario che uno venga fortificato a non recedere dal bene di
ordine razionale; e per questo si chiama fortezza”).
21
Agostino, De genesi contra Manichaeos II, 10, 13: “Flumen autem quod procedebat
ex Eden [...] dividitur in quatuor partes, et quatuor virtutes significat, prudentiam,
fortitudinem, temperantiam, iustitiam”.
22
Ibidem, II, 10, 14: “Quartus fluvius non dictum est contra quid vadat, aut quam
terram circumeat: iustitia enim ad omnes partes animae pertinet, quia ipsa ordo
et aequitas animae est, qua sibi ista tria concorditer copulantur; prima, prudentia;
secunda, fortitudo; tertia, temperantia; et in ista tota copulatione atque ordinatione
iustitia”. Un elenco dei passi agostiniani in cui sono menzionate tutte e quattro le
virtù si trova in Sant’Agostino 2004: 13 nota 41.
569
Sant’Agostino cita esattamente la sequenza della Cappella degli
Scrovegni: “prima la prudenza, seconda la fortezza, terza la temperanza,
e in tutta questa unione e disposizione consiste la giustizia”23.
A sua volta, la sequenza delle virtù teologali è Fede, Speranza,
Carità per san Paolo e san Tommaso24. Nella Cappella, invece, la carità
precede la speranza. La fonte è ancora una volta sant’Agostino:
Noi camminiamo nella fede e non nella visione; vacillerà dunque questa
fede se vacilla l’autorità delle divine Scritture; inoltre, vacillando la fede,
anche la carità si illanguidisce. Difatti, se uno si allontana dalla fede,
necessariamente si allontana dalla carità, in quanto non può amare ciò
che non crede. Che se al contrario crede e ama, operando per il bene e
obbedendo alle norme del retto vivere fa in modo anche di alimentare la
speranza di poter un giorno raggiungere ciò che ama25.
Se la fede vacilla, sostiene sant’Agostino, viene meno anche la virtù
teologale dell’amore, perché non si può amare ciò che non si crede
possa esistere; se invece si crede e si ama, si può anche sperare, agendo
secondo il bene e le norme del retto vivere, di poter raggiungere un
giorno l’oggetto del nostro amore. Dunque, per sant’Agostino, la
sequenza corretta delle virtù teologali è Fede, Carità, Speranza.
6. la Centralità della giustizia
La concezione teologica della Cappella degli Scrovegni ha come
diretto riferimento sant’Agostino: lo schema del quarto registro
23
Questa sequenza ritorna anche in altri scritti agostiniani. Il passo più interessante è
De libero arbitrio I 13, 27 (citato da Hueck 2005: 91). Vi si descrivono le quattro virtù
cardinali in questo stesso ordine: prudenza, fortezza, temperanza, giustizia.
24
1 Corinzi 13, 13; Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 62, a 3.
25
Agostino, De doctrina Christiana I, 37, 41: “Per fidem enim ambulamus, non per
speciem; titubabit autem fides, si divinarum Scripturarum vacillat auctoritas; porro
fide titubante, caritas etiam ipsa languescit. Nam si a fide quisque ceciderit, a caritate
etiam necesse est cadat. Non enim potest diligere quod esse non credit. Porro si et
credit et diligit, bene agendo et praeceptis morum bonorum obtemperando efficit ut
etiam speret se ad id quod diligit esse venturum”.
570
poggia sulla terapia agostiniana dei contrari e agostiniano è l’ordine
delle virtù cardinali e teologali. Ciò spiega anche perché non si
riprenda lo schema dei vizi capitali, che non appare in sant’Agostino e
che fu codificato da papa Gregorio Magno all’inizio del VII secolo26.
La Giustizia ha un ruolo centrale nell’impaginazione degli affreschi.
La giustizia terrena è il centro esatto del ciclo, il fulcro della storia
del mondo e del programma di salvezza dell’uomo. Da quella figura
solenne, assisa in trono, sotto il cui regno l’umanità può godere di pace,
sicurezza e progresso, tutto si irradia. Alla centralità della giustizia
26
La codificazione dei vizi capitali comincia alla fine del IV secolo d.C. con Evagrio
Pontico, monaco ed eremita nel deserto egiziano, morto nel 399, che per primo
scrisse un’opera trattando degli otto spiriti malvagi che più pericolosamente inclinano
al male: 1. gola; 2. lussuria; 3. avarizia; 4. ira; 5. tristezza; 6. accidia; 7. vanagloria;
8. superbia. Questi otto vizi furono ripresi anche dal monaco tebaitico Giovanni
Cassiano, che fondò a Marsiglia tre monasteri fra il 410 e il 420: Cassiano vi introdusse
però il concetto di doppia sequenza, una prima costituita da gola, lussuria, avarizia,
ira, tristezza e accidia, da cui si può originare una seconda sequenza, costituita da
vanagloria e superbia. All’inizio del VII secolo, papa Gregorio Magno, morto a Roma
nel 604, mise a punto il sistema dei sette vizi (o peccati) capitali, secondo il principio
che “l’universo della colpa è un universo ordinato” (di qui appunto la riduzione dei
vizi a sette, il numero simbolico della creazione, utilizzato dalle Sacre Scritture per
designare sia la perfezione dell’eternità, sia lo svolgimento del tempo scandito dai sette
giorni della settimana). Gli interventi di papa Gregorio sono profondi e strutturali:
al posto dell’accidia viene introdotta l’invidia, e soprattutto si dà vita a un’unica
catena viziosa dominata dalla superbia, il protopeccato, quello di Lucifero, da cui si
originano, in un preciso ordine, i sette vizi capitali: 1. vanagloria; 2. invidia; 3. ira; 4.
tristezza; 5. avarizia; 6. gola; 7. lussuria. Questi vizi si originano uno dall’altro. Così
“la vanagloria genera l’invidia, perché chi aspira a un potere vano soffre se un altro
riesce a raggiungerlo; l’invidia genera l’ira, perché quanto più l’animo è esacerbato
dal livore interiore, tanto più perde la mansuetudine della tranquillità...; dall’ira nasce
la tristezza, perché la mente turbata, quanto più è squassata da moti scomposti, tanto
più si condanna alla confusione e, una volta persa la dolcezza della tranquillità, si
pasce esclusivamente della tristezza; dalla tristezza si arriva all’avarizia, poiché,
quando il cuore, confuso, ha perso il bene della letizia interiore, cerca all’esterno
motivi di consolazione e non potendo ricorrere alla gioia interiore, desidera tanto più
ardentemente possedere i beni esteriori” (Gregorio Magno, Moralia in Iob, XXXI,
XLV). Gola e lussuria si giustificano in questa successione come appetito disordinato
di mangiare e bere oltre il conveniente e come attaccamento disordinato ai piaceri e
ai diletti della carne. San Tommaso ripristinerà tra i vizi capitali l’accidia, eliminando
la tristezza e considerando la superbia come vizio capitale che comprende anche la
vanagloria. Da lui deriva l’impostazione dantesca.
571
terrena fa da contraltare la centralità della giustizia divina e del Cristo
giudice, la cui mandorla iridata occupa il centro della controfacciata.
Un simile percorso non può essere stato ideato da Giotto, ma da un
teologo di formazione agostiniana, che mostra di sapersi muovere
anche in ambito filosofico classico. Lo dichiara lo stesso Giotto nella
scena della controfacciata, in cui pone il modellino della cappella sulle
spalle di un religioso in ginocchio.
La rigorosa concezione del quarto registro sfata persistenti ed
errati luoghi comuni. Anzitutto quello secondo cui Enrico Scrovegni
avrebbe fatto costruire la Cappella per esprimere pentimento per
i peccati paterni e invocare il perdono di Dio27. Cade anche – e ci
auguriamo per sempre – l’ipotesi delle presunte pressioni del padrone
di casa perché fosse esclusa dall’elenco dei vizi l’avaritia, onde evitare
spiacevoli allusioni a suo padre o all’attività di famiglia28: è errato
contrapporre l’avaritia alla caritas! Questa immotivata convinzione ha
condizionato non poco la reale intelligenza del capolavoro di Giotto.
27
L’elenco dei sostenitori di tale teoria è lungo, come si legge in Derbes – Sandona
1998: 276: “Many scholars today accept the argument, most fully advanced by Ursula
Schlegel, that Enrico had the chapel built and decorated to expiate the sin of usury,
through wich his father had ammassed a fortune”. Il riferimento all’articolo della
Schlegel (1957) non assicura che a questa studiosa vada ascritta la paternità della
teoria.
28
“La sostituzione di Invidia al posto della tradizionale Avaritia – scrive Frugoni
(2005: 95) – è importante, perché ancora una volta possiamo constatare con quanta
attenzione lo Scrovegni abbia voluto allontanare discorsi sui peccati che il denaro
porta a compiere, discorsi che avrebbero potuto indurre lo spettatore a collegarli
con il proprietario della cappella” (cfr. anche 69: “Una difficoltà sulla quale gli autori
sorvolano, è l’assenza, nella sfilata delle Virtù e dei Vizi dell’ultimo registro di basso,
di Usura – Avarizia, sostituita da un’insolita Invidia come controparte della Carità”).
Questa erronea idea è ribadita dalla Frugoni anche nel suo più recente lavoro (2008:
334): “Ci aspetteremmo che le (= alla Caritas) si opponesse in uno scontato binomio
Avaritia, che è invece sostituito dall’Invidia” (“di intenzionale sostituzione” si parla
nella relativa nota 203).
572
7. il teologo di giotto
Il teologo che ha concepito il programma eseguito da Giotto è
il religioso, avvolto nella lunga cotta bianca, che regge sulle spalle il
modellino della cappella che il padrone di casa, Enrico Scrovegni,
sta offrendo alla Madonna [fig. 30]. Dalla cotta spuntano le tracce,
appena visibili, di un cappuccio nero con interno blu, particolare che
collega il religioso alla regola di sant’Agostino. I padovani dell’epoca
lo riconoscevano facilmente, perché il pittore ne dà un ritratto fedele
(come del resto fa con il padrone di casa), ma il filo della conoscenza
si è interrotto e nessun documento ne restituisce l’identità. I dati in
nostro possesso consentono comunque di tracciarne un identikit
abbastanza preciso: si tratta di un uomo di età compresa tra i trenta e
i quarant’anni (come lascerebbero pensare i capelli castani, con lievi
sfumature verso il biondo, e l’assenza del solco labio-mentale, che
negli uomini si evidenzia a partire dai quarant’anni). Ha una rigorosa
formazione agostiniana, che lo porta a padroneggiare i testi sacri, i
Vangeli apocrifi, gli scritti dei Padri della Chiesa e della tradizione
medievale, ma padroneggia anche i testi classici. Non si deve cercare
tanto lontano: accanto alla sontuosa dimora dello Scrovegni sorgeva
da una trentina d’anni il monastero dei frati eremitani (ordine religioso
agostiniano), con l’annessa chiesa dedicata ai santi Filippo e Giacomo.
Qui era attiva un’importante scuola agostiniana, con la presenza di
maestri illustri, il più famoso dei quali era frate Alberto da Padova.
Nato verosimilmente nel 1269, Alberto da Padova aveva nel 1305
circa trentasei anni. I contemporanei vedevano in lui un novello san
Paolo, tanta era la forza del suo eloquio. Una serie di indizi mi ha fatto
pensare a lui come al teologo di Giotto (Pisani 2008: 194-209)29.
29
L’ipotesi è stata ulteriormente confortata dagli studi raccolti nel volume Alberto
da Padova e la cultura degli agostiniani, a cura di Bottin 2014. In due distinti atti,
conservati nell’Archivio di Stato di Padova e datati rispettivamente 24 gennaio 1299
e 6 gennaio 1301, frater Albertus de Padua è membro a pieno titolo del Capitolo
degli Eremitani. La notizia è di notevole interesse perché il programma della Cappella
degli Scrovegni dovette essere ideato verosimilmente negli anni 1301-1302, un arco
temporale che va dall’edificazione dell’immobile alla prima dedicazione nel marzo
del 1303.
573
8. ConClusione
La Cappella degli Scrovegni ci chiama a vivere un’esperienza
complessa in un luogo che non ha uguali al mondo. Ci chiede di
leggere dentro di noi, ci pone interrogativi sul significato della vita.
Ci invita a rafforzare la nostra volontà, a curare le passioni, a vincere
le tentazioni che minacciano il nostro equilibrio, a riflettere sul fatto
che i nostri comportamenti dipendono esclusivamente da noi. Il
cuore della concezione della Cappella degli Scrovegni è il concetto
etico di giustizia. Il libro di Giotto contiene in sé i principi e i valori
indispensabili per la vita spirituale e civile: parla di libertà, di giustizia,
di pace. Ci dice che la pace è frutto della giustizia e che tutto, compresa
la felicità, deriva dalle nostre scelte e dalla valutazione che diamo
degli eventi. Ci addita i valori della riconciliazione, della fraternità,
dell’umiltà. Ci indica la terapia per renderci migliori.
bibliografia
Baxandall, Michael (1994), Giotto e gli umanisti. Gli umanisti osservatori
della pittura in Italia e la scoperta della composizione pittorica 1350-1450,
Milano, Jaca Book.
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the Program of Giotto’s Arena Chapel in Padua, “The Art Bulletin”, LXXX,
2, pp. 274-291.
Fabris, Giovanni (1977), La cronaca di Giovanni da Nono, Visio Egidii
regis Patavie, in Cronache e cronisti padovani, introd. di Lino Lazzarini,
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Frugoni, Chiara (2005), Gli affreschi della Cappella Scrovegni a Padova,
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Pisani, Giuliano (2016), Dante e Giotto: la Commedia degli Scrovegni, in
Dante fra il settecentocinquantenario della nascita (2015) e il settecentenario
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della morte (2021), in Malato, Enrico – Mazzucchi, Andrea, Atti delle
Celebrazioni in Senato, del Forum e del Convegno internazionale di Roma:
maggio-ottobre 2015, Tomo II, Roma, Salerno Editrice.
Sant’Agostino (2004), La giustizia, a cura di Giovanni Catapano, Roma,
Nuova Biblioteca Agostiniana, Città Nuova.
Schlegel, Ursula (1957), Zum Bildprogramm der Arena Kapelle, “Zeitschrift
für Kunstgeschichte”, 20, pp. 125-146.
575
appendiCe
Fig. 1. Gioacchino tra i pastori (particolare)
579
Fig. 2. Incontro alla Porta Aurea (particolare)
Fig. 3. Lo sposalizio della Vergine (particolare)
580
Fig.4. La strage degli innocenti (particolare)
Fig. 5. La strage degli innocenti (particolare)
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Fig. 6. La cacciata dei mercanti dal Tempio (particolare)
Fig. 7. Cristo deriso (particolare)
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Fig. 8. Salita al Golgota (particolare)
Fig. 9. Compianto sul Cristo morto (particolare)
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Fig. 10. Giudizio Universale (particolare)
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Fig. 11. Stultitia
Fig. 12. Prudentia
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Fig. 13. Inconstantia
586
Fig. 14. Fortitudo
Fig. 15. Ira
Fig. 16. Temperantia
Fig. 17. La cornice architettonica sopra il riquadro dell’ingiustizia
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Fig. 18. Iustitia
Fig. 19. Iniustitia
Fig. 20. Iniustitia (particolare)
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Fig. 21. Iustitia (particolare)
Fig. 22. Infidelitas
Fig. 23. Fides
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Fig. 24. Invidia
Fig. 25. Karitas
Fig. 26: Karitas (particolare)
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Fig. 27. Karitas (particolare)
Fig. 28. Desperatio
Fig. 29. Spes
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Fig. 30. Alberto da Padova
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