Giotto e le arti del suo tempo
Gaetano Curzi
Nel 1568 la seconda edizione delle Vite di Vasari definisce Giotto «pittore, scultore
et architetto fiorentino»1, le stesse parole riservate a Michelangelo, l’artista universale
per eccellenza scomparso pochi anni prima. Una consacrazione certamente funzionale
alla trama evoluzionistica che caratterizza l’opera, ma che corrisponde anche al profilo
demiurgico del personaggio trattato.
Se all’interno delle botteghe medievali l’eclettismo costituiva una prassi abituale, nella sua
attività Giotto2, forse più di ogni altro, si rivela infatti prima attento osservatore e quindi
profondo conoscitore di diverse tecniche esecutive, arrivando a misurarsi, direttamente
o in termini ideativi, con alcune di esse.
Il primato della pittura
Fin dalle sue più precoci prove pittoriche trapela dunque una curiosità che lo spinge
a guardare oltre la lezione cimabuesca, come suggerisce il riconoscimento di dettagli
tecnico-esecutivi e compositivi che rimandano alla Madonna Rucellai di Duccio del 1285
(Firenze, Galleria degli Uffizi) nelle Madonne della pieve di San Lorenzo (Borgo San
Lorenzo) e di San Giorgio alla Costa (Firenze, Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte),
datate tra il 1285 e il 12903.
Il gusto per la decorazione che in queste prime opere emerge dai motivi pseudocufici che
orlano le vesti, dai ricami delle stoffe e dall’intarsio di tessere musive del trono si amplifica
nella grande Croce di Santa Maria Novella 4, di poco successiva, dove le potenzialità
dell’artificio pittorico si misurano nel confronto con l’eterogeneità della materia dei vetri
scuri percorsi da racemi dorati che incorniciano l’aureola del Cristo5 (si vedano le pagine
46-47). Una soluzione che richiama gli inserimenti di pezzi analoghi nelle imprese di Nicola
Pisano e del suo collaboratore fra’ Guglielmo (pulpito del duomo di Siena, arca di San
Domenico a Bologna, pulpito di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia), e soprattutto nel
pulpito di Sant’Andrea a Pistoia realizzato entro il 1301 da Giovanni Pisano.
Questa attenzione alle arti suntuarie da parte dell’artista non si sarebbe d’altronde limitata
all’inclusione di dettagli in microscala, ma potrebbe aver influenzato anche alcuni dati
macroscopici della croce fiorentina come gli schemi di panneggio e, soprattutto, la
posizione del corpo del Cristo, che si distanzia nettamente dal precedente di Cimabue
in Santa Croce. Tali elementi risentirebbero infatti della conoscenza di opere di oreficeria6
− ma forse anche di miniature − di provenienza transalpina o ad esse ispirate, come il
celebre calice commissionato da Niccolò IV a Guccio di Mannaia (Assisi, Museo del Tesoro
della basilica di San Francesco)7. È infatti questo il tramite naturale attraverso il quale
l’artista venne a conoscenza delle novità formali elaborate nei grandi cantieri gotici dei
decenni precedenti, come Bourges, Parigi, Reims, Amiens, Strasburgo, il cui riflesso
nell’opera del pittore è stato colto già dalla critica ottocentesca.
La profonda consapevolezza dell’importanza del tema del Crocifisso e della sua evoluzione
357
Giotto, Preghiera in San Damiano, Storie della vita
di san Francesco. Affresco. Assisi, basilica
di San Francesco, chiesa superiore..
emerge comunque anche dalle Storie francescane nella basilica superiore di Assisi8.
Nella Preghiera in San Damiano Giotto infatti, in aderenza alla Legenda maior di
san Bonaventura, rappresenta un edificio in rovina che però non ha molto a che fare con la
piccola chiesa umbra dove avvenne l’episodio, anzi la decorazione cosmatesca di transenne
e architravi e i candelabri sull’arco absidale costituiscono espliciti rimandi all’aspetto
delle basiliche romane. Anche il Crocifisso non ritrae fedelmente quello conservato oggi in
Santa Chiara ad Assisi9, datato intorno alla metà del XII secolo, che secondo la tradizione
sarebbe stato protagonista dell’episodio ma, al tempo stesso, riproduce un’opera fuori moda
per l’ultimo decennio del Duecento, entro cui si data il ciclo assisiate. Lo rendono esplicito
il corpo diritto che richiama le croci trionfanti di ascendenza romanica, i piedi divaricati
e la posizione dei dolenti: dunque il Maestro, con un atteggiamento filologico, non raffigurò
in questa occasione una croce dipinta alla sua maniera, come farà invece poco dopo
nell’Accertamento delle stimmate.
Questo episodio, avvenuto alla Porziuncola, è invece fantasiosamente ambientato in un
edificio monumentale dominato da una trave su cui poggiano tre opere di notevoli
dimensioni. Al centro insiste un Crocifisso che richiama quello di Santa Maria Novella,
il cui lato tergale era stato citato poco prima nella scena del Presepe di Greccio, come
suggerisce la disposizione della parchettatura, in origine rivestita di minio e dunque di un
colore rossastro analogo a quello della sua “riproduzione” nella basilica superiore, dove
tuttavia è stato ipotizzato che fosse conservato anche un perduto Crocifisso di Giotto vicino
all’esemplare fiorentino10.
Lo spazio in cui avviene l’Accertamento dunque alluderebbe, senza riprodurlo otticamente,
al santuario assisiate nel cui transetto erano altari dedicati alla Vergine e a san Michele,
proprio i soggetti rappresentati sulla trave a fianco del Crocifisso. Sul lato sinistro si eleva
infatti una tavola cuspidata che raffigura la Madonna con il Bambino in trono. La volumetria
salda delle figure, lo scorcio del suppedaneo, il chiaroscuro delle teste e i panneggi
esprimono un linguaggio genuinamente giottesco, proprio come il Crocifisso. Maestà e
croci dipinte costituivano d’altronde presenze fisse nelle chiese del tempo, in particolare
in quelle legate agli Ordini mendicanti11, dove erano esposte sulla trave e inclinate verso la
navata, proprio come quelle riprodotte nella scena assisiate. A destra invece il san Michele,
caratterizzato nella veste da rigide pieghe verticali, che però nelle ombre occhieggiano a
una dimensione stereometrica, è perfettamente in asse sull’appoggio e parallelo alle funi
che scendono dal soffitto, suggerendo che il pittore non abbia riprodotto una tavola
sagomata, quanto una scultura che pertanto non poteva essere inclinata 12. Possiamo
immaginare che il riferimento sia stato una statua dell’Arcangelo non molto diversa da
quella di Guido da Como nell’oratorio di San Michele a Pistoia 13, della metà del Duecento, o
da quella con tracce di coloritura, datata ai primi decenni del secolo successivo, proveniente
dalla cinta muraria di Arezzo, ora nel Museo statale di arte medievale e moderna 14.
L’interesse nei confronti della scultura è d’altronde palese nelle Storie francescane,
358
Nella pagina a fronte,
Giotto, Accertamento delle stimmate, Storie della vita
di san Francesco. Affresco. Assisi, basilica di
San Francesco, chiesa superiore.
Nelle pagine seguenti,
Giotto, Accertamento delle stimmate, particolare della
tavola con la Maestà, il Crocifisso e un angelo. Storie
della vita di san Francesco. Affresco. Assisi, basilica di
San Francesco, chiesa superiore.
disseminate di prestiti dall’inesauribile repertorio antico e di citazioni da autori moderni,
a partire da Arnolfo di Cambio il quale, più vecchio di una generazione, precede anche
geograficamente il percorso artistico di Giotto, grazie alle lunghe carriere di entrambi che
si dipanano negli stessi luoghi ma in tempi diversi. È difficile infatti, guardando la figura
protesa a bere nel Miracolo della sorgente (si veda la pagina 125) non pensare all’assetata
della Fontana Maggiore perugina (Galleria Nazionale dell’Umbria), mentre nel Presepe di
Greccio le figure fuori scala del bue e dell’asinello sembrano quasi evocare le statuette della
basilica di Santa Maria Maggiore, così come il baldacchino sopra l’altare condensa il ricordo
dei due cibori romani, di cui però si trovano nel ciclo umbro richiami ancor più puntuali. Il
motivo degli angeli in volo che reggono il rosone, posto al centro del timpano nella basilica
di San Paolo fuori le mura, del 1284, viene infatti trasferito al culmine della riproduzione del
tempio di Minerva di Assisi che fa da sfondo alla scena dell’Omaggio di un uomo semplice15
(si veda la pagina 165). Questa attitudine a ricomporre opere e monumenti in un paesaggio
distopico è ancora più evidente nel Pianto delle Clarisse sulle spoglie del Santo (si veda più
avanti) dove il modesto prospetto della chiesa di San Damiano diviene una facciata alla
Arnolfo, punteggiata da statue entro edicole che richiamano quelle agli angoli dei due
baldacchini romani; l’edificio è concluso inoltre da un timpano con figure inginocchiate
ai lati di un trilobo, rimandando così al ciborio di Santa Cecilia in Trastevere del 1293.
Sulla San Damiano immaginata da Giotto svetta inoltre un’aquila che sembra una citazione
di quelle realizzate da Giovanni Pisano nella Fontana Maggiore di Perugia, ma in entrambi
i casi si coglie la ripresa di un topos classico, quello del rapace dal folto piumaggio e il collo
piegato, ampiamente documentato nella scultura e nella pittura antiche.
Suggestioni del paesaggio urbano perugino appaiono d’altronde ipotizzabili anche nella
cappella degli Scrovegni, dove l’episodio cristologico della Cacciata dei mercanti (si veda la
pagina 197) ha come quinta architettonica un edificio con arcate sormontate da timpani
affiancati da sculture, tra le quali si riconosce un leone che richiama, anche nella
collocazione, quello di bronzo che, insieme al celebre grifo, sovrastava l’accesso alla sala dei
Notari del palazzo dei Priori nella città umbra 16. La figura quasi monocroma e di saldezza
scultorea dell’ancella che fila nell’Annuncio ad Anna (si veda la pagina 184) a Padova è stata
invece acutamente definita una “gemella” della statua arnolfiana dello scriba della Fontana
Minore di Perugia 17 (Galleria Nazionale dell’Umbria).
Il talento del pittore nel rendere tramite il chiaroscuro le qualità plastiche della scultura,
già esplicitato nel ciclo assisiate nelle statue che coronano gli edifici (per esempio nel Sogno
di Innocenzo III, nella Prova del fuoco davanti al Sultano, nelle Visioni di frate Agostino e
del vescovo di Assisi), nei rilievi sopra l’abside della Cacciata dei diavoli da Arezzo o nella
colonna coclide della Liberazione dell’eretico Pietro d’Assisi, trova tuttavia agli Scrovegni
la sua consacrazione18.
Qui Giotto nella zona basamentale creò un’ampia fascia a finti marmi19, ritmata da coppie
di specchiature lisce magnificamente riquadrate, intervallate lungo le pareti longitudinali da
360
Sopra,
in alto, Guido da Como, San Michele arcangelo. Scultura.
Pistoia, chiesa di San Michele in Cioncio.
In basso, Arnolfo di Cambio, Ciborio. Scultura. Roma,
basilica di San Paolo fuori le mura.
Nella pagina a fronte,
Giotto, Presepe di Greccio, Storie della vita di
san Francesco. Affresco. Assisi, basilica di
San Francesco, chiesa superiore.
pannelli rettangolari che, imitando un rilievo scolpito, raffigurano lungo la parete destra
sette Virtù e su quella sinistra i Vizi opposti20 (si vedano le pagine 288-303). Le due serie
procedono dal presbiterio verso la controfacciata raggiungendo il culmine con la Speranza
e la Disperazione che quasi si addossano al Giudizio Universale in corrispondenza delle
schiere degli eletti e dei dannati, il tutto con un gioco di rimandi che si avvale di una regia
sapiente e di riferimenti ad autori classici e contemporanei, rilanciati anche dalle iscrizioni21.
Il contrasto tra Vizi e Virtù era stato fino ad allora raffigurato sui velari dipinti o, più spesso,
ai lati dei portali, sempre connesso alle scene di Giudizio che solitamente occupano la
lunetta. Precedenti come le pitture della cripta del duomo di Aquileia o i portali delle
cattedrali di Amiens, Chartres e Parigi possono dunque spiegare la collocazione e
l’andamento del ciclo ma non perché sia stato realizzato simulando rilievi in pietra tramite
una pittura di alto valore illusionistico, grazie anche ad alcuni accorgimenti tecnici come
la sovrapposizione di materia spessa su una superficie lisciata e lucidata con una cura
che richiama l’analoga pratica raccomandata da Vitruvio22.
Dal punto di vista concettuale tale opzione potrebbe essere interpretata alla luce di un
passo di Sicardo da Cremona 23 che attribuiva alle sculture la capacità di rammentare le cose
passate e presenti, virtù e vizi, specificando che queste dovevano sporgere dalle pareti, in
modo da imprimersi nella mente dello spettatore. L’autore tuttavia per indicare l’aggetto
delle statue usa un vocabolo, prominentia, che ricorre nella letteratura classica per indicare
la capacità di emergere delle parti illuminate di un dipinto e di arretrare di quelle in ombra,
e proprio con tale accezione il termine venne ripreso nella trattatistica rinascimentale.
Giotto sembra dunque con questa prova virtuosistica rifarsi direttamente alla pittura antica,
in una sorta di gara con i suoi più celebrati protagonisti, Apelle e Zeusi, cui Plinio attribuiva
rispettivamente l’invenzione del finto marmo e l’esecuzione di splendidi monocromi24.
Fuori dal riferimento letterario, i modelli del fregio padovano però sono certamente
rintracciabili nel ricco repertorio della scultura antica 25 che, come ad Assisi, venne
probabilmente integrato dalla conoscenza della scultura contemporanea e, in particolare,
qualche analogia d’impostazione si può notare tra le finte lastre padovane e quelle concrete
della vasca della Fontana Maggiore di Perugia, realizzata da Nicola e Giovanni Pisano.
Anche se il basamento della cappella degli Scrovegni segna per certi versi l’apice
illusionistico del corpus giottesco, la sfida viene costantemente rilanciata, sempre giocando
sulla capacità della pittura di simulare ogni tipo di materiale e tecnica artistica, secondo
un artificio posto in essere già ad Assisi, non solo nelle Storie della vita di san Francesco
ma anche nella cappella di San Nicola, aperta al termine del transetto destro della basilica
inferiore e decorata sullo scorcio del Duecento insieme ad alcuni collaboratori. Al centro
della parete principale infatti le figure della Madonna con il Bambino e dei santi Nicola e
Francesco, che la affiancano, sono realizzate su un fondo oro simulando un dipinto su
tavola, mentre la cornice in finto marmo con inserti a mosaico dialoga con il sottostante
monumento funebre di Gian Gaetano Orsini.
364
Un virtuosismo rilanciato dai dossali con la Vergine tra santi dipinti, circa vent’anni dopo,
sulle pareti del transetto da Simone Martini e da Pietro Lorenzetti, nell’ambito di un
confronto con Giotto che impegnerà i due artisti senesi nei cicli realizzati nel santuario
umbro e che si estenderà alla produzione successiva, in particolare per gli aspetti
scenografici e per il rapporto tra figure e sfondi paesaggistici o architettonici.
Il tema venne d’altronde ripreso da Giotto stesso nel Polittico Stefaneschi26 (si veda la pagina
338) (Pinacoteca Vaticana) dove il committente offre a san Pietro una riproduzione fedele
dell’opera che contiene una rappresentazione minuscola del manufatto, quasi una macchia
di colore, mentre, verso il 1330, Taddeo Gaddi, forse il più “ortodosso” dei giotteschi, nel
castello dei conti Guidi a Poppi27 realizzò un polittico con una vistosa cornice lignea e una
tavola cuspidata, entrambi dipinti, che illusivamente fungono da pale d’altare della cappella.
Non si tratta solo di citazioni ma anche di invenzioni. Lo suggerisce il motivo guida delle
figure inserite come sculture entro nicchie e tabernacoli, impostato ad Assisi nel ciclo
francescano e, soprattutto, nella cappella di San Nicola dove, nella parete d’ingresso,
Napoleone Orsini e il fratello Gian Gaetano sono presentati a uno statuario Redentore
contenuto con fatica da un’edicola gotica (si vedano le pagine 330-331). Una soluzione
sviluppata negli affreschi della cappella Bardi in Santa Croce a Firenze28 dalla figura di
san Ludovico di Tolosa, collocata su una base esagonale in una nicchia scandita da un
parato lapideo a corsi bicromi, inquadrata da pinnacoli e gâbles, di cui verrà data pochi anni
più tardi una versione tridimensionale nel tabernacolo dell’Arte della Lana a Orsanmichele
da Andrea Pisano, il protagonista del cantiere del campanile di Santa Maria del Fiore, dove
Giotto si dovette misurare in termini concreti con la questione della scultura.
Giotto scultore?
Sopra,
Nicola e Giovanni Pisano, Fontana Maggiore,
particolare di un’aquila. Scultura in marmo. Perugia,
piazza IV Novembre.
Nella pagina a fronte,
Giotto, Pianto delle Clarisse sulle spoglie del Santo,
particolare, Storie della vita di san Francesco.
Affresco. Assisi, basilica di San Francesco, chiesa
superiore.
Nelle pagine seguenti,
Giotto e bottega, Madonna con il Bambino e santi.
Affresco. Assisi, basilica di San Francesco, chiesa
inferiore, cappella di San Nicola.
Un documento attesta infatti che il 12 aprile 1334 l’anziano Maestro fu nominato alla guida
della fabbrica della cattedrale fiorentina, mentre alcuni versi di Antonio Pucci − cronista,
poeta e banditore del Comune di Firenze − collocano sempre al 1334 la fondazione del
campanile, affermando inoltre che l’artista prima della propria scomparsa portò avanti il
lavoro così «che’ primi intagli fè con bello stile»29; d’altronde anche la storiografia moderna
riconosce l’impronta giottesca nel terzo inferiore dell’alzato, fino alla cornice sottostante
il primo ordine di bifore.
Un secolo dopo Ghiberti proclamò l’eclettismo di Giotto definendolo «dignissimo in tutta
l’arte, ancora nell’arte statuaria» e dichiarando che le prime storie del campanile «furono
di sua mano scolpite e disegnate. Nella mia età vidi provvedimenti di sua mano di dette
storie egregiamente disegnati»30.
Vasari riprese la notizia sostenendo: «E se è vero – che tengo per verissimo – quello che
lasciò scritto Lorenzo di Cione Ghiberti, fece Giotto non solo il modello di questo
campanile, ma di scultura ancora e di rilievo parte di quelle storie di marmo dove sono
366
i principii di tutte l’arti. E Lorenzo detto afferma aver veduto modelli di rilievo di man di
Giotto e particolarmente quelli di queste opere; la qual cosa si può credere agevolmente,
essendo il disegno e l’invenzione il padre e la madre di tutte queste arti e non d’una sola»31.
Con queste parole egli dunque non solo avvalorava la testimonianza precedente ma, con la
considerazione finale sul ruolo del disegno come momento fondante del processo ideativo
di qualunque opera d’arte, in qualche modo accreditava la paternità giottesca delle sculture
anche nell’eventualità che questi si fosse limitato a una fase progettuale, impostando
i termini di un dibattito critico che si è protratto fino ad oggi32.
In effetti, considerando che i lavori occuparono gli ultimi anni di carriera di un artista
richiestissimo e quasi settantenne, è difficile pensare che, sopraintendendo a una fabbrica
complessa come quella della cattedrale, non si sia attenuto a un ruolo direttivo e sia invece
intervenuto in prima persona nell’esecuzione di singole partiture decorative, peraltro
realizzate in una tecnica per lui decisamente poco consueta. D’altro canto, osservando
i rilievi che ornano il campanile, pur nella diversità di mani, si coglie in più parti un
linguaggio ispirato dalla pittura di Giotto, frutto verosimilmente dell’impronta impressa
dal Maestro, a monte del quale tuttavia bisogna ipotizzare anche la presenza di un teologo,
forse un domenicano, in veste di ideatore del programma iconografico, che si colloca nel
solco della tradizione dell’enciclopedismo medievale33. La presenza di un progetto unitario
sotto l’aspetto contenutistico accredita dunque l’ipotesi di una analoga visione d’insieme
nella sua traduzione in termini figurativi34, che si dipana attraverso due serie di formelle35
e una di statue entro nicchie che girano intorno al blocco dell’edificio.
Il registro inferiore, caratterizzato da un impianto esagonale, prende le mosse dalla
fronte occidentale e procede in senso antiorario svolgendo in ventuno episodi, in origine
suddivisi su tre lati36, il tema del Peccato originale e della conseguente condanna al lavoro
che, attraverso lo sviluppo di competenze e abilità diverse, diviene premessa della
redenzione. Un ruolo di primo piano nella sua realizzazione spetta sicuramente ad
Andrea Pisano37, che aveva appena realizzato la porta bronzea per il battistero fiorentino,
secondo Vasari sempre su disegno di Giotto38. A lui si devono infatti i tre episodi tratti
dal Genesi − Creazione di Adamo, Creazione di Eva e Lavoro dei progenitori − e gran
parte delle raffigurazioni dei personaggi ritenuti gli inventori dei mestieri e delle
rappresentazioni di alcune attività, come Jabal per la pastorizia, il fabbro Tubalkain, la
Caccia (o Equitazione), la Tessitura, Dedalo quale archetipo dell’artista, la Navigazione,
Ercole e Caco per la giustizia sociale, l’Agricoltura, la Scultura rappresentata da Fidia.
Al figlio Nino − sotto la guida del genitore − spetterebbero invece Jubal il musicista,
la Medicina, Foroneo istitutore delle leggi, l’Arte degli spettacoli, l’Architettura e la
Pittura, forse impersonata da Apelle. A due scultori anonimi sono stati infine attribuiti
Noè, che simboleggia l’Agricoltura, l’Arte del costruire e Gionitus, ovvero l’inizio
dell’Astronomia39.
Pur mantenendo una certa autonomia formale, le opere di queste quattro personalità
In alto, Simone Martini, Madonna con il Bambino
e santi. Affresco. Assisi, basilica di San Francesco,
chiesa inferiore, transetto.
In basso, Pietro Lorenzetti, Madonna con il Bambino
e santi. Affresco. Assisi, basilica di San Francesco,
chiesa inferiore, transetto.
370
371
suggeriscono un tentativo di trasferire nella tecnica del rilievo il linguaggio di Giotto,
già di suo improntato a una concezione plastica della pittura, uno sforzo particolarmente
evidente in Andrea che nel rapporto tra figure e paesaggio delle prime tre scene sembra
riuscire in questo esercizio di “traduzione”, mentre la Scultura e la Pittura aprono quasi
una finestra sulle prassi di bottega degli artisti medievali.
Quattro gruppi di sette scandiscono le formelle superiori, a forma di losanga – con lo
sfondo rivestito di tessere azzurre pure romboidali −, che instaurano una serie di richiami
semantici con quelle sottostanti. La ripartizione tematica è molto netta: si inizia
nuovamente sul lato occidentale con i Pianeti e si prosegue, sempre in direzione antioraria,
con le Virtù, le Arti liberali e i Sacramenti.
In questa fascia l’apporto di Andrea Pisano è circoscritto alla Retorica e alla Geometria,
forse per le crescenti responsabilità legate alla direzione del cantiere, da lui assunta dopo
la morte di Giotto. Le personificazioni delle Virtù infatti palesano diverse analogie con le
corrispondenti raffigurazioni inserite dallo stesso nella porta del battistero, ma si
differenziano dalla serie dipinta sul basamento della cappella degli Scrovegni40. La perdita,
già nel XV secolo, del complesso ciclo astrologico dipinto da Giotto nel palazzo della
Ragione a Padova preclude invece la possibilità di verificare l’esistenza di un presupposto
veneto ai Pianeti del campanile41.
Tra questi, Venere e Mercurio furono eseguiti da Nino Pisano; Saturno, Giove, Marte, il Sole
e la virtù della Temperanza spettano a uno scultore anonimo, così come a un altro autore
non identificato sono state attribuite la Luna e tre virtù: Fortezza, Speranza e Carità.
Il maestro che scolpì Noè nella fascia sottostante realizzò anche l’Astronomia in quella
superiore, mentre all’autore dell’Arte del costruire si devono la Prudenza e la Giustizia42.
A Gino Micheli da Castello, che nel 1341 firmò una Madonna con il Bambino a San Casciano
Val di Pesa 43, la critica ha quindi ricondotto la Musica, la Grammatica, la Logica,
l’Aritmetica, la Fede e il Matrimonio.
Gli altri sei sacramenti infine sono stati attribuiti a Maso di Banco44, un allievo di Giotto
la cui attività di scultore era stata già menzionata da Ghiberti e Vasari45. La scelta di un
registro narrativo compassato e la presenza di figure che si muovono in modo solenne, che
caratterizzano tali formelle, costituiscono infatti una peculiarità della produzione di questo
artista, ricorrendo ad esempio negli affreschi da lui eseguiti alla fine del quarto decennio
del Trecento nella cappella Bardi di Vernio in Santa Croce a Firenze46.
Osservando inoltre la nitida struttura compositiva dell’Eucarestia, colpisce la visione
tergale della pianeta del celebrante con le pieghe simmetriche durante l’elevazione,
che si ritrova leggermente più scorciata nel Presepe di Greccio dipinto negli stessi anni
entro una cornice quadriloba da Taddeo Gaddi 47 (Firenze, Galleria dell’Accademia),
suggerendo una circolazione di modelli e uno scambio di sperimentazioni nella cerchia
del Maestro, ma anche al di fuori, come attesta l’analoga postura della figura centrale
nella tavoletta con la Consacrazione di san Nicola come vescovo, parte di quattro scene
373
Sopra,
Andrea Pisano, Tabernacolo dell’Arte della Lana
(nell’edicola copia della statua di Santo Stefano
realizzata da Lorenzo Ghiberti). Firenze, chiesa di
Orsanmichele.
Nella pagina a fronte,
Giotto, San Ludovico di Tolosa. Affresco. Firenze,
basilica di Santa Croce, cappella Bardi.
della vita del Santo dipinte da Ambrogio Lorenzetti verso il 1332, durante il suo
soggiorno fiorentino e conservate oggi agli Uffizi.
Una osmosi di caratteri formali tra pittura e scultura, senza peraltro incrinare
l’individualità del linguaggio figurativo, traspare d’altronde in più punti nelle formelle,
dove tipologie facciali e schemi di panneggio rimandano di frequente al corpus giottesco.
Infine, a coronamento48 del segmento del campanile impostato da Giotto si trovano statue di
Profeti e Sibille entro nicchie49 che richiamano intuizioni del Maestro, come il San Ludovico
di Tolosa della cappella Bardi “citato”, come si è visto, da Andrea Pisano anche nel
tabernacolo dell’Arte della Lana a Orsanmichele, la cui statua originale di Santo Stefano
(Museo dell’Opera del Duomo) venne sostituita da quella dello stesso soggetto realizzata
da Ghiberti.
Naturalmente non si tratta di un fenomeno circoscritto al cantiere del campanile; ad
esempio Tino di Camaino, giunto a Firenze intorno al 1320 ovvero già in una fase matura
del proprio percorso espressivo50, mostra di interessarsi al linguaggio di Giotto. Riverberi
degli affreschi appena terminati nella cappella Bardi in Santa Croce sono stati infatti colti
nel monumento funebre del vescovo Orso nel duomo di Firenze51. I due si incontreranno
nuovamente a Napoli alla corte di Roberto d’Angiò nel 1328, e gli straordinari rilievi della
badia di Cava dei Tirreni52, datati dopo il 1330, nella forte drammatizzazione del gruppo
delle dolenti o negli effetti quasi pittorici delle barbe di alcune figure di santi danno la
misura di questa permeabilità tra le arti.
Si assiste così a un ribaltamento di ruoli; all’inizio della propria carriera Giotto mostra
infatti di aver contratto un debito significativo con scultori come Nicola e Giovanni
Pisano o Arnolfo53, che sono certamente alla radice del suo rinnovamento del linguaggio
pittorico, basti pensare alla volumetria della Madonna di San Giorgio alla Costa (si veda
la pagina 14) o della Madonna del Polittico di Badia54 (si vedano le pagine 122-123).
Diversamente, nella fase matura del percorso del Maestro furono gli scultori ad allinearsi
alla lezione spaziale e compositiva impartita dalla pittura, tanto che i passaggi di Giotto
nelle varie città italiane in cui lavorò coincidono con un aggiornamento anche della
plastica monumentale e, spesso, con l’arrivo di scultori che introdussero le novità dei
cantieri toscani. A Padova infatti il corredo della cappella dell’Arena si arricchì di opere
di Giovanni Pisano55 e di Marco Romano, uno scultore di formazione senese ma portatore
di un linguaggio personalissimo e di una interpretazione originale dell’antico56, cui è
stata attribuita la straordinaria statua di Enrico Scrovegni57 (si veda la pagina 332) che
quasi instaura un confronto a distanza con il ritratto del committente dipinto nel Giudizio
Universale. Nel 1332 Giotto venne invece chiamato dal legato pontificio Bertrando del
Poggetto per decorare la cappella papale del castello di porta Galliera a Bologna, dove era
già attivo il pisano Giovanni di Balduccio58, che intorno al 1328 aveva però realizzato in
Santa Croce a Firenze il monumento funebre della famiglia Baroncelli, all’ingresso della
cappella affrescata da Taddeo Gaddi e contenente il celeberrimo polittico di Giotto;
Firenze, campanile della cattedrale di Santa Maria
del Fiore.
374
375
In alto, Andrea Pisano, Il lavoro dei progenitori.
Bassorilievo in marmo. Firenze, Museo dell’Opera
del Duomo (dal campanile della cattedrale di Santa
Maria del Fiore).
In basso, Nino Pisano, La Pittura. Bassorilievo in
marmo. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo (dal
campanile della cattedrale di Santa Maria del Fiore).
Maso di Banco, Eucarestia. Bassorilievo. Firenze,
Museo dell’Opera del Duomo, dal campanile della
cattedrale di Santa Maria del Fiore.
entrambi si ritrovarono subito dopo a Milano al servizio di Azzone Visconti59.
Questa stratificazione di destini individuali e opere determina, a partire dagli anni Venti,
il recepimento nella scultura toscana delle novità della pittura di Giotto, al quale Vasari
attribuisce anche la paternità del monumento funebre del vescovo Guido Tarlati nella
cattedrale di Arezzo60. Stando all’autore delle Vite, infatti, nel 1327 Pier Saccone e Rodolfo,
familiari del defunto, chiesero «a Giotto che facesse il disegno d’una sepoltura ricchissima
e quanto più si potesse onorata, e mandatogli le misure, lo pregarono appresso che mettesse
loro per le mani un scultore il più eccellente, secondo il parer suo, di quanti ne erano in
Italia, perché si rimettevano di tutto al giudizio di lui. Giotto, che cortese era, fece il
disegno e lo mandò loro […]. Finirono questa sepoltura Agostino et Agnolo in ispazio di tre
anni, e con molta diligenza la condussono e murarono nella chiesa del Vescovado
d’Arezzo»61. La circostanza è ulteriormente precisata nella biografia di Agostino di
Giovanni e Agnolo di Ventura, definiti scultori e architetti senesi, in cui si racconta
che il pittore recandosi a Napoli sarebbe passato per Orvieto dove «gli piacquero i Profeti
d’Agostino e d’Agnolo sanesi, di qui venne che [...] gli mise per le mani a Piero Saccone
da Pietramala com’e’ migliori di quanti allora fussero scultori, per fare [...] la sepoltura del
vescovo Guido signore e vescovo d’Arezzo. […] in quel modo però che egli l’aveva disegnata
e secondo il modello che esso aveva al detto Piero Saccone mandato»62. Poco più avanti
tuttavia lo stesso Vasari celebra i due artisti per l’esecuzione dell’opera in modo
decisamente eccessivo, qualora questi si fossero limitati a realizzare un progetto altrui:
«Agnolo dunque et Agostino sanesi condussono questa opera con miglior arte et invenzione
e con più diligenza che fusse in alcuna cosa stata condotta mai a’ tempi loro. E nel vero non
deono se non essere infinitamente lodati, avendo in essa fatte tante figure, tante varietà di
siti, luoghi, torre, cavagli, uomini et altre cose, che è proprio una maraviglia»63. Bisogna
inoltre considerare che il programma iconografico, sviluppato dai sedici rilievi intervallati
da statue, mostra una scelta dei soggetti molto accurata, probabilmente da attribuire ai
committenti che, tramite la celebrazione del defunto, ambivano a legittimarsi come suoi
successori alla guida della città e della fazione ghibellina64.
Giotto avrebbe dunque dovuto limitarsi a progettare il sepolcro, che declina in forme
insolitamente dilatate65 il tema consueto della tomba a baldacchino, e a tradurre in figura
il racconto della vita del vescovo elaborato dai familiari. Tuttavia sia l’impianto generale
del monumento sia le soluzioni formali adottate si inseriscono agevolmente nel percorso
di Agnolo e Agostino, che si dipana tra i vivaci cantieri delle cattedrali di Siena e Orvieto66.
D’altronde pure le scene narrative non mostrano negli sfondi o nella disposizione delle
figure schemi di diretta derivazione giottesca, se non per quanto attiene a un repertorio
a questa data ampiamente condiviso in Toscana da pittori e scultori. Infine, i due soggetti
allegorici del Comune pelato e del Comune in signoria, pur richiamando la notizia67
dell’affresco con il Comune rubato da molti che poco dopo, nel 1334, Giotto avrebbe dipinto
nel palazzo del Bargello a Firenze, possono rientrare genericamente nell’alveo del successo
376
dell’allegoria politica nelle città italiane del Trecento, testimoniato dai celebri affreschi di
Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo pubblico di Siena, iniziati nel 133868. Un genere peraltro
forse praticato anche da Giotto a Padova dove, intorno al 1310, nel palazzo della Ragione
avrebbe dipinto delle immagini giudiziarie69, di cui potrebbe cogliersi un nucleo
embrionale nelle personificazioni della Giustizia e dell’Ingiustizia agli Scrovegni. Il tema
tuttavia aveva radici antiche poiché un’allegoria della Giustizia era stata già raffigurata
un secolo prima in Castel Capuano a Napoli per volontà di Federico II.
Non sembrano dunque esserci elementi interni al monumento funebre per avvalorarne
l’attribuzione a Giotto avanzata da Vasari che, essendo aretino, forse attinse a materiale
documentario e a tradizioni locali o, più verosimilmente, volle gratificare la propria città
natale assegnandogli un’importante opera del Maestro, cui aveva riferito anche alcune
pitture nella pieve e nel duomo vecchio70.
Il mosaico della Navicella
Taddeo Gaddi, Presepe di Greccio, Storie di
san Francesco. Tempera e oro su tavola. Firenze,
Galleria dell’Accademia.
La questione del rapporto tra ideazione e realizzazione si ripropone per una importante
committenza romana: il mosaico cosiddetto della Navicella, eseguito intorno al 1310 su
incarico del cardinal Jacopo Stefaneschi per la basilica di San Pietro. Posto al centro del lato
orientale del quadriportico, esso costituiva l’ultimo messaggio visivo impresso al fedele
prima di uscire dal complesso vaticano e instaurava un esplicito parallelo tra l’episodio
in cui gli apostoli si erano trovati in balia dei flutti sul lago di Tiberiade e il momento
contingente, in cui la “nave” della Chiesa stava attraversando una tempesta politica che
aveva indotto il pontefice ad allontanarsi da Roma. L’importanza del soggetto e la
collocazione prestigiosa assicurarono una rapida fama all’opera71 che venne lodata per la
vivace gestualità dei personaggi e ripetutamente copiata fino al 1610 quando, nell’ambito
della ricostruzione barocca della facciata, venne rimossa per essere collocata nell’atrio dove
tuttora si trova, a seguito però di un rifacimento totale72.
Per apprezzare le qualità formali del tessuto musivo bisogna dunque rivolgersi ai due clipei
con busti di angeli (Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro; Boville Ernica, chiesa di
San Pietro Ispano), in origine probabilmente a fianco dell’iscrizione, che dopo lo stacco
ebbero una vicenda autonoma che li salvaguardò dallo stravolgimento cui fu sottoposto il
riquadro principale. Da un esame accurato di questi frammenti sono emerse caratteristiche
esecutive molto vicine a quelle dei mosaici realizzati negli anni precedenti da Pietro
Cavallini, alla cui bottega evidentemente si dovette la realizzazione materiale del progetto
giottesco. A Roma d’altronde questa tecnica è documentata in modo praticamente
ininterrotto dall’età paleocristiana e aveva conosciuto una nuova fioritura nell’ultimo
decennio del Duecento con Torriti e lo stesso Cavallini; diversamente a Firenze, dopo la
conclusione del cantiere del battistero, che aveva avuto come protagonisti Coppo di
Marcovaldo e il giovane Cimabue, non risultano imprese musive di pari risalto
378
monumentale. È dunque verosimile che Giotto abbia progettato la composizione e forse
eseguito il disegno preparatorio sulla parete, delegandone l’esecuzione alle maestranze
romane specializzate in questa tecnica, probabilmente sotto la sua sorveglianza.
Fogli e libri, disegni e miniature
Il momento ideativo di un’opera e la sua successiva concretizzazione nell’ambito di una
bottega articolata e prolifica o di un cantiere monumentale prevedeva naturalmente come
strumento prioritario il disegno, sia realizzato in formato ridotto su un foglio, sia
direttamente sul supporto definitivo. Il distacco di alcuni dipinti murali nella basilica
superiore di Assisi ha rivelato infatti come le stesure preparatorie fossero estremamente
accurate già prima della presenza di Giotto in cantiere73, mentre con l’ausilio di
riflettografie è stato possibile verificare nelle prime opere su tavola del Maestro un uso
sempre più consapevole del disegno che nella Croce di Santa Maria Novella diviene
estremamente dettagliato e si accompagna alla presenza di pentimenti che sembrano quasi
degli studi in corso d’opera74.
In Giotto dunque il disegno non ha solo la funzione di abbozzare composizioni o trasmettere
modelli ma costituisce uno strumento conoscitivo e come tale dovette essere abitualmente
praticato, tanto che possiamo supporre l’esistenza di raccolte, forse in forma di taccuini o
libri di modelli, all’interno del suo atelier. Purtroppo la pergamena e la carta sono materiali
fragili che nel Medioevo venivano spesso riutilizzati fino alla consunzione, anche per
l’assenza di un interesse collezionistico analogo a quello che si svilupperà in seguito; per
questo il corpus di disegni trecenteschi conservati è piuttosto esiguo e per quanto riguarda
l’ambito giottesco si tratta quasi sempre di copie di opere monumentali, realizzate da allievi
o seguaci, mentre nessun disegno del Maestro sembra direttamente correlabile a un’opera
sopravvissuta. Di notevolissima qualità sono però due figure virili sedute (Parigi, Musée du
Louvre), lumeggiate su carta tinta di verde e ritenute autografe, che nell’elaborazione dei
panneggi e nelle tipologie facciali ricordano il momento stilistico degli Scrovegni, tanto da
essere state ricondotte al perduto ciclo del palazzo della Ragione a Padova75.
Nonostante questa prassi, non è nota invece un’attività d’illustrazione libraria direttamente
riferibile a Giotto o alla bottega, anche se il suo linguaggio pittorico influenzò in modo
estremamente significativo la miniatura del tempo, in particolare per quanto riguarda le
novità spaziali76.
Una recezione molto precoce degli affreschi degli Scrovegni si coglie in un gruppo di sei
Antifonari per la locale cattedrale77 e soprattutto nel Libro d’ore di Francesco da Barberino,
fatto eseguire dal letterato a Padova tra il 1304 e il 1309, durante un soggiorno di studio
presso l’università. Le relazioni tra questo ateneo e quello bolognese contribuirono inoltre
al radicamento dello stile giottesco nella vivace produzione miniata della città emiliana, che
tuttavia aveva già mostrato attenzione all’esperienza assisiate in alcuni codici per la chiesa
379
di San Francesco, databili a cavallo tra la fine del Duecento e i primi anni del secolo
successivo78. Furono questi i perni geografici che consentirono l’estendersi del nuovo
linguaggio a Milano, dove trova la sua consacrazione nel Pantheon di Goffredo da Viterbo79,
illustrato poco prima dell’arrivo dell’artista in città.
Paradossalmente, più refrattaria appare la realtà fiorentina80, egemonizzata dalla lunga
attività del pittore e miniatore Pacino di Bonaguida che nell’insieme rimase legato a moduli
tardoduecenteschi, accogliendo solo in parte le novità di Giotto, alle quali si mostra invece
molto interessato un anonimo miniatore toscano attivo principalmente ad Avignone, noto
come Maestro del Codice di san Giorgio dal nome del suo più celebre manoscritto81 (si veda
la pagina 340).
Gradualmente dunque la produzione libraria di tutte le città italiane si adeguò al nuovo
canone che perdurerà a lungo anche nel Meridione dove la bottega di Cristoforo Orimina
negli anni Quaranta e Cinquanta ripeterà più volte moduli giotteschi, aprendo uno scorcio
anche sui perduti cicli realizzati dal Maestro a Napoli tra il 1328 e il 133382.
Grazie alla dimensione internazionale della vita intellettuale del tempo e alla facilità di
circolazione dei libri, nel secondo quarto del secolo, inoltre, invenzioni giottesche
compaiono nelle illustrazioni della Genesi Egerton83 in Inghilterra, nelle opere miniate da
Jean Pucelle a Parigi o in quelle di Ferrer e Arnau Bassa in Catalogna dove, nella cattedrale
di Manresa, si trova dalla metà del Trecento il paliotto ricamato da Geri di Lapo, ricco di
echi giotteschi, analogamente a quello realizzato da Jacopo di Cambio nel 1336 per Santa
Maria Novella a Firenze, oggi nella Galleria dell’Accademia.
indiretta, della pittura rinnovata da Giotto anche in questo specifico settore, dove
costituirono un fenomeno piuttosto duraturo.
Lo suggeriscono negli anni Sessanta e Settanta le scene affollate realizzate da Francesco
Niccolai, Leonardo di Ser Giovanni e Betto di Geri negli altari di argento di San Jacopo
nel duomo di Pistoia e di San Giovanni per il battistero di Firenze, ora nel Museo dell’Opera
del duomo, densi di spunti dal tabernacolo scolpito in Orsanmichele da Andrea Orcagna86,
protagonista della scena fiorentina del tempo e unico artista medievale, oltre a Giotto,
a essere appellato come pittore, scultore e architetto nell’intestazione della biografia
vasariana87, che si apre accennando alla sua formazione presso Andrea Pisano.
Anche in pittura l’onda lunga del giottismo si mostra alquanto vitale ancora negli ultimi
decenni del Trecento con Agnolo Gaddi, figlio di Taddeo e pertanto ritenuto dal suo allievo
Cennino Cennini quasi come un discepolo diretto del Maestro fiorentino, nei confronti del
quale l’autore del Libro dell’arte mostra una autentica venerazione, tramandandoci anche
alcuni procedimenti tecnici tipici della sua bottega.
Nessun artista dai tempi di Apelle e Fidia era stato d’altronde altrettanto celebrato da
scrittori e letterati, basti pensare ai versi di Dante, ai brani di Petrarca e Boccaccio, alle
novelle di Sacchetti, alle cronache di Pucci, Giovanni e Filippo Villani. Nessun artista prima
di lui inoltre influenzò non solo una cerchia, pur ampia, di allievi e seguaci ma almeno
tre generazioni di maestri attivi nelle tecniche più diverse, tanto da configurare in Italia,
e non solo, il Trecento come il “secolo di Giotto”.
L’oreficeria
Giotto e bottega di Pietro Cavallini, Angelo,
particolare della Navicella degli Apostoli. Mosaico.
Boville Ernica (Frosinone), chiesa di San Pietro
Ispano.
Le oreficerie nella seconda metà del Duecento costituirono un segmento di punta per la
trasmissione in Italia del linguaggio gotico di ascendenza europea. Proprio per questo
tramite, oltre che per quello della miniatura, Giotto, come già ricordato, poté dunque
aggiornarsi sulle novità figurative dei cantieri francesi84. L’esistenza di botteghe
specializzate e di tecniche peculiari resero però questa produzione meno sollecita a
recepire i tratti originali del suo linguaggio e a stravolgere tipologie di oggetti e schemi
decorativi consueti. Panneggi di ispirazione giottesca sono stati tuttavia riconosciuti
nella galleria di figure che abitano una fascia di placchette in bronzo e rame dorato con
un fondo smaltato di losanghe azzurre, che quasi anticipano lo sfondo delle formelle del
secondo ordine del campanile. Questo singolare manufatto, lungo oltre due metri (ora
nel Museo Nazionale del Bargello), doveva rivestire il gradino del battistero di Firenze
ed è firmato dall’orafo empolitano Andrea Pucci Sardi e datato dalla critica al secondo
decennio del Trecento85.
Da questo momento in poi il plasticismo di alcune opere di microstatuaria e l’impianto
compositivo di formelle in metallo o in smalto attestano la penetrazione, a volte per via
380
Sopra,
Giotto e bottega di Pietro Cavallini, Angelo, particolare
della Navicella degli Apostoli. Mosaico. Città del
Vaticano, Fabbrica di San Pietro.
Nelle pagine seguenti,
Navicella degli Apostoli. Mosaico (da Giotto). Città
del Vaticano, basilica di San Pietro.
381
Note al testo
1. Vasari 1568, II, p. 95.
2. Per la bibliografia su Giotto: Romano 2008; Giotto e il Trecento
2009; Giotto, l’Italia 2015.
3. Monciatti 2015, p. 38; De Marchi 2015, p. 45.
4. Giotto. La Croce di Santa Maria Novella 2001.
5. Pettenati 2001, pp. 204-208.
6. Seidel 2001, pp. 76-77.
7. Il calice di Guccio di Mannaia 2014.
8. Sulla basilica: La basilica di Assisi 2002.
9. Santa Chiara in Assisi 2002.
10. Bellosi 2001.
11. De Marchi 2009, 2013.
12. Curzi 2011.
13. Cristiani Testi 2010, p. 96.
14. Cfr. anche una statua lignea, in origine policroma, di analogo
soggetto nella Pinacoteca Comunale di Castiglion Fiorentino:
Arte in terra d’Arezzo 2005, p. 169.
15. Tomei 2007.
16. In questa collocazione a partire dal 1301: Silvestrelli 2005.
17. Romano 2008, pp. 178-179.
18. Sulla cappella: La cappella degli Scrovegni 2005.
19. Curzi 2011; Cordez 2013.
20. Prudenza/Stoltezza, Fortezza/Incostanza, Temperanza/Ira,
Giustizia/Ingiustizia, Fede/Infedeltà, Carità/Invidia, Speranza/
Disperazione.
21. Ammannati 2015.
22. Guglielmi, Capanna 2005; Romano 2007.
23. Lermer 2007, p. 308; Romano 2008.
24. Plinio, Naturalis historia, XXXV, 64.
25. Romano 2008, p. 226.
26. Romano 2015.
27. Monciatti 2010, p. 599.
28. Gardner 2015, p. 70.
29. Antonio Pucci, Centiloquio, LXXXV, 82-93.
30. Ghiberti 1912, I, p. 37.
31. Vasari 1568, II, pp. 115.
32. Curzi 2009.
33. Alla riscoperta di Piazza del Duomo in Firenze 1994; Simi
Varanelli 1996; Neri Lusanna 2007, 2008.
34. Kreytenberg, 1995, 2001.
35. Ora nel Museo dell’Opera del Duomo.
36. Lo spostamento di alcuni esagoni e la realizzazione di altri ex
novo determinarono l’estensione della serie al lato settentrionale,
in origine sprovvisto.
37. Neri Lusanna 2008.
38. Vasari 1568, II, p. 154.
39. Curzi 2009.
40. Paolucci 1996; l’unica rappresentazione difforme è quella
della Temperanza.
41. Flores D’Arcais 2007.
42. Kreytenberg 1995.
43. Museo Vicariale d’Arte Sacra (proveniente da San Lorenzo
di Castelbonsi); Kreytenberg 1995.
44. Kreytenberg 1979; Vitolo 2016, pp. 27-32.
45. Ghiberti 1912, I, p. 38; Vasari, 1568, II, p. 233.
46. Maso di Banco 1998.
47. Baldini 2009.
48. Neri Lusanna 2008, p. 40.
49. Ad Andrea Pisano è attribuito Salomone, a Nino Pisano
Davide (che alcuni riconducono al padre), la sibilla Tiburtina, la
sibilla Eritrea e un profeta, all’autore dell’esagono con l’Arte del
costruire un profeta, ad altri collaboratori spetterebbero Mosè e
due profeti; la serie è stata integrata nel Quattrocento con il
contributo di alcuni maestri, tra i quali spicca il nome di
Donatello.
50. Aceto 2000.
51. Kreytenberg 2001.
52. Baldelli 2007.
53. Neri Lusanna 2008.
54. Romano 2005.
55. Tigler 2007.
56. Marco Romano e il contesto artistico senese 2010.
57. Di Fabio 2009.
58. Caglioti 2005; Giotto e le arti a Bologna 2005.
59. Carli 1989.
60. Conticelli 2005; Curzi 2009.
61. Vasari, 1568, II, pp. 112-113.
62. Ivi, pp. 126-127.
63. Ivi, p. 128.
64. Tigler 2004; Bartalini 2008.
65. Metri 12,90 x 4,50.
66. Bartalini 2005, pp. 215 ss.
67. Vasari, 1568, II, p. 116.
68. Donato 2005; Pasquini 2012.
69. Frojmovic 1996, pp. 24-47.
70. Vasari 1568, II, p. 100.
71. Collareta 2000.
72. Frammenti di memoria 2009; Tomei 2009 (scheda n. 8).
73. Cfr. ad esempio il disegno preparatorio del volto dell’Eterno
della Creazione del mondo di Iacopo Torriti nel Museo del Tesoro
della basilica di San Francesco.
74. Monciatti 2010.
75. Bellosi 1985; Tomei 2009 (scheda n. 4).
76. Manzari 2009.
77. Padova, Biblioteca Capitolare, A. 14-16; B. 14-16.
78. Bologna, Museo Civico Medievale, Mss 528-535.
79. Parigi, Bibliothèque nationale de France, lat. 4895.
80. Labriola 2008; Freuler 2008; Manzari 2009.
81. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro, C. 129.
82. The Anjou Bible 2010; Leone de Castris 2006.
83. Londra, British Library Add. Ms 42130.
84. Seidel 2001.
85. Lorenzi 2009.
86. Collareta 2008.
87. Vasari, 1568, II, p. 217.
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