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Giotto e le arti del suo tempo

Giotto e le arti del suo tempo Gaetano Curzi Nel 1568 la seconda edizione delle Vite di Vasari definisce Giotto «pittore, scultore et architetto fiorentino»1, le stesse parole riservate a Michelangelo, l’artista universale per eccellenza scomparso pochi anni prima. Una consacrazione certamente funzionale alla trama evoluzionistica che caratterizza l’opera, ma che corrisponde anche al profilo demiurgico del personaggio trattato. Se all’interno delle botteghe medievali l’eclettismo costituiva una prassi abituale, nella sua attività Giotto2, forse più di ogni altro, si rivela infatti prima attento osservatore e quindi profondo conoscitore di diverse tecniche esecutive, arrivando a misurarsi, direttamente o in termini ideativi, con alcune di esse. Il primato della pittura Fin dalle sue più precoci prove pittoriche trapela dunque una curiosità che lo spinge a guardare oltre la lezione cimabuesca, come suggerisce il riconoscimento di dettagli tecnico-esecutivi e compositivi che rimandano alla Madonna Rucellai di Duccio del 1285 (Firenze, Galleria degli Uffizi) nelle Madonne della pieve di San Lorenzo (Borgo San Lorenzo) e di San Giorgio alla Costa (Firenze, Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte), datate tra il 1285 e il 12903. Il gusto per la decorazione che in queste prime opere emerge dai motivi pseudocufici che orlano le vesti, dai ricami delle stoffe e dall’intarsio di tessere musive del trono si amplifica nella grande Croce di Santa Maria Novella 4, di poco successiva, dove le potenzialità dell’artificio pittorico si misurano nel confronto con l’eterogeneità della materia dei vetri scuri percorsi da racemi dorati che incorniciano l’aureola del Cristo5 (si vedano le pagine 46-47). Una soluzione che richiama gli inserimenti di pezzi analoghi nelle imprese di Nicola Pisano e del suo collaboratore fra’ Guglielmo (pulpito del duomo di Siena, arca di San Domenico a Bologna, pulpito di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia), e soprattutto nel pulpito di Sant’Andrea a Pistoia realizzato entro il 1301 da Giovanni Pisano. Questa attenzione alle arti suntuarie da parte dell’artista non si sarebbe d’altronde limitata all’inclusione di dettagli in microscala, ma potrebbe aver influenzato anche alcuni dati macroscopici della croce fiorentina come gli schemi di panneggio e, soprattutto, la posizione del corpo del Cristo, che si distanzia nettamente dal precedente di Cimabue in Santa Croce. Tali elementi risentirebbero infatti della conoscenza di opere di oreficeria6 − ma forse anche di miniature − di provenienza transalpina o ad esse ispirate, come il celebre calice commissionato da Niccolò IV a Guccio di Mannaia (Assisi, Museo del Tesoro della basilica di San Francesco)7. È infatti questo il tramite naturale attraverso il quale l’artista venne a conoscenza delle novità formali elaborate nei grandi cantieri gotici dei decenni precedenti, come Bourges, Parigi, Reims, Amiens, Strasburgo, il cui riflesso nell’opera del pittore è stato colto già dalla critica ottocentesca. La profonda consapevolezza dell’importanza del tema del Crocifisso e della sua evoluzione 357 Giotto, Preghiera in San Damiano, Storie della vita di san Francesco. Affresco. Assisi, basilica di San Francesco, chiesa superiore.. emerge comunque anche dalle Storie francescane nella basilica superiore di Assisi8. Nella Preghiera in San Damiano Giotto infatti, in aderenza alla Legenda maior di san Bonaventura, rappresenta un edificio in rovina che però non ha molto a che fare con la piccola chiesa umbra dove avvenne l’episodio, anzi la decorazione cosmatesca di transenne e architravi e i candelabri sull’arco absidale costituiscono espliciti rimandi all’aspetto delle basiliche romane. Anche il Crocifisso non ritrae fedelmente quello conservato oggi in Santa Chiara ad Assisi9, datato intorno alla metà del XII secolo, che secondo la tradizione sarebbe stato protagonista dell’episodio ma, al tempo stesso, riproduce un’opera fuori moda per l’ultimo decennio del Duecento, entro cui si data il ciclo assisiate. Lo rendono esplicito il corpo diritto che richiama le croci trionfanti di ascendenza romanica, i piedi divaricati e la posizione dei dolenti: dunque il Maestro, con un atteggiamento filologico, non raffigurò in questa occasione una croce dipinta alla sua maniera, come farà invece poco dopo nell’Accertamento delle stimmate. Questo episodio, avvenuto alla Porziuncola, è invece fantasiosamente ambientato in un edificio monumentale dominato da una trave su cui poggiano tre opere di notevoli dimensioni. Al centro insiste un Crocifisso che richiama quello di Santa Maria Novella, il cui lato tergale era stato citato poco prima nella scena del Presepe di Greccio, come suggerisce la disposizione della parchettatura, in origine rivestita di minio e dunque di un colore rossastro analogo a quello della sua “riproduzione” nella basilica superiore, dove tuttavia è stato ipotizzato che fosse conservato anche un perduto Crocifisso di Giotto vicino all’esemplare fiorentino10. Lo spazio in cui avviene l’Accertamento dunque alluderebbe, senza riprodurlo otticamente, al santuario assisiate nel cui transetto erano altari dedicati alla Vergine e a san Michele, proprio i soggetti rappresentati sulla trave a fianco del Crocifisso. Sul lato sinistro si eleva infatti una tavola cuspidata che raffigura la Madonna con il Bambino in trono. La volumetria salda delle figure, lo scorcio del suppedaneo, il chiaroscuro delle teste e i panneggi esprimono un linguaggio genuinamente giottesco, proprio come il Crocifisso. Maestà e croci dipinte costituivano d’altronde presenze fisse nelle chiese del tempo, in particolare in quelle legate agli Ordini mendicanti11, dove erano esposte sulla trave e inclinate verso la navata, proprio come quelle riprodotte nella scena assisiate. A destra invece il san Michele, caratterizzato nella veste da rigide pieghe verticali, che però nelle ombre occhieggiano a una dimensione stereometrica, è perfettamente in asse sull’appoggio e parallelo alle funi che scendono dal soffitto, suggerendo che il pittore non abbia riprodotto una tavola sagomata, quanto una scultura che pertanto non poteva essere inclinata 12. Possiamo immaginare che il riferimento sia stato una statua dell’Arcangelo non molto diversa da quella di Guido da Como nell’oratorio di San Michele a Pistoia 13, della metà del Duecento, o da quella con tracce di coloritura, datata ai primi decenni del secolo successivo, proveniente dalla cinta muraria di Arezzo, ora nel Museo statale di arte medievale e moderna 14. L’interesse nei confronti della scultura è d’altronde palese nelle Storie francescane, 358 Nella pagina a fronte, Giotto, Accertamento delle stimmate, Storie della vita di san Francesco. Affresco. Assisi, basilica di San Francesco, chiesa superiore. Nelle pagine seguenti, Giotto, Accertamento delle stimmate, particolare della tavola con la Maestà, il Crocifisso e un angelo. Storie della vita di san Francesco. Affresco. Assisi, basilica di San Francesco, chiesa superiore. disseminate di prestiti dall’inesauribile repertorio antico e di citazioni da autori moderni, a partire da Arnolfo di Cambio il quale, più vecchio di una generazione, precede anche geograficamente il percorso artistico di Giotto, grazie alle lunghe carriere di entrambi che si dipanano negli stessi luoghi ma in tempi diversi. È difficile infatti, guardando la figura protesa a bere nel Miracolo della sorgente (si veda la pagina 125) non pensare all’assetata della Fontana Maggiore perugina (Galleria Nazionale dell’Umbria), mentre nel Presepe di Greccio le figure fuori scala del bue e dell’asinello sembrano quasi evocare le statuette della basilica di Santa Maria Maggiore, così come il baldacchino sopra l’altare condensa il ricordo dei due cibori romani, di cui però si trovano nel ciclo umbro richiami ancor più puntuali. Il motivo degli angeli in volo che reggono il rosone, posto al centro del timpano nella basilica di San Paolo fuori le mura, del 1284, viene infatti trasferito al culmine della riproduzione del tempio di Minerva di Assisi che fa da sfondo alla scena dell’Omaggio di un uomo semplice15 (si veda la pagina 165). Questa attitudine a ricomporre opere e monumenti in un paesaggio distopico è ancora più evidente nel Pianto delle Clarisse sulle spoglie del Santo (si veda più avanti) dove il modesto prospetto della chiesa di San Damiano diviene una facciata alla Arnolfo, punteggiata da statue entro edicole che richiamano quelle agli angoli dei due baldacchini romani; l’edificio è concluso inoltre da un timpano con figure inginocchiate ai lati di un trilobo, rimandando così al ciborio di Santa Cecilia in Trastevere del 1293. Sulla San Damiano immaginata da Giotto svetta inoltre un’aquila che sembra una citazione di quelle realizzate da Giovanni Pisano nella Fontana Maggiore di Perugia, ma in entrambi i casi si coglie la ripresa di un topos classico, quello del rapace dal folto piumaggio e il collo piegato, ampiamente documentato nella scultura e nella pittura antiche. Suggestioni del paesaggio urbano perugino appaiono d’altronde ipotizzabili anche nella cappella degli Scrovegni, dove l’episodio cristologico della Cacciata dei mercanti (si veda la pagina 197) ha come quinta architettonica un edificio con arcate sormontate da timpani affiancati da sculture, tra le quali si riconosce un leone che richiama, anche nella collocazione, quello di bronzo che, insieme al celebre grifo, sovrastava l’accesso alla sala dei Notari del palazzo dei Priori nella città umbra 16. La figura quasi monocroma e di saldezza scultorea dell’ancella che fila nell’Annuncio ad Anna (si veda la pagina 184) a Padova è stata invece acutamente definita una “gemella” della statua arnolfiana dello scriba della Fontana Minore di Perugia 17 (Galleria Nazionale dell’Umbria). Il talento del pittore nel rendere tramite il chiaroscuro le qualità plastiche della scultura, già esplicitato nel ciclo assisiate nelle statue che coronano gli edifici (per esempio nel Sogno di Innocenzo III, nella Prova del fuoco davanti al Sultano, nelle Visioni di frate Agostino e del vescovo di Assisi), nei rilievi sopra l’abside della Cacciata dei diavoli da Arezzo o nella colonna coclide della Liberazione dell’eretico Pietro d’Assisi, trova tuttavia agli Scrovegni la sua consacrazione18. Qui Giotto nella zona basamentale creò un’ampia fascia a finti marmi19, ritmata da coppie di specchiature lisce magnificamente riquadrate, intervallate lungo le pareti longitudinali da 360 Sopra, in alto, Guido da Como, San Michele arcangelo. Scultura. Pistoia, chiesa di San Michele in Cioncio. In basso, Arnolfo di Cambio, Ciborio. Scultura. Roma, basilica di San Paolo fuori le mura. Nella pagina a fronte, Giotto, Presepe di Greccio, Storie della vita di san Francesco. Affresco. Assisi, basilica di San Francesco, chiesa superiore. pannelli rettangolari che, imitando un rilievo scolpito, raffigurano lungo la parete destra sette Virtù e su quella sinistra i Vizi opposti20 (si vedano le pagine 288-303). Le due serie procedono dal presbiterio verso la controfacciata raggiungendo il culmine con la Speranza e la Disperazione che quasi si addossano al Giudizio Universale in corrispondenza delle schiere degli eletti e dei dannati, il tutto con un gioco di rimandi che si avvale di una regia sapiente e di riferimenti ad autori classici e contemporanei, rilanciati anche dalle iscrizioni21. Il contrasto tra Vizi e Virtù era stato fino ad allora raffigurato sui velari dipinti o, più spesso, ai lati dei portali, sempre connesso alle scene di Giudizio che solitamente occupano la lunetta. Precedenti come le pitture della cripta del duomo di Aquileia o i portali delle cattedrali di Amiens, Chartres e Parigi possono dunque spiegare la collocazione e l’andamento del ciclo ma non perché sia stato realizzato simulando rilievi in pietra tramite una pittura di alto valore illusionistico, grazie anche ad alcuni accorgimenti tecnici come la sovrapposizione di materia spessa su una superficie lisciata e lucidata con una cura che richiama l’analoga pratica raccomandata da Vitruvio22. Dal punto di vista concettuale tale opzione potrebbe essere interpretata alla luce di un passo di Sicardo da Cremona 23 che attribuiva alle sculture la capacità di rammentare le cose passate e presenti, virtù e vizi, specificando che queste dovevano sporgere dalle pareti, in modo da imprimersi nella mente dello spettatore. L’autore tuttavia per indicare l’aggetto delle statue usa un vocabolo, prominentia, che ricorre nella letteratura classica per indicare la capacità di emergere delle parti illuminate di un dipinto e di arretrare di quelle in ombra, e proprio con tale accezione il termine venne ripreso nella trattatistica rinascimentale. Giotto sembra dunque con questa prova virtuosistica rifarsi direttamente alla pittura antica, in una sorta di gara con i suoi più celebrati protagonisti, Apelle e Zeusi, cui Plinio attribuiva rispettivamente l’invenzione del finto marmo e l’esecuzione di splendidi monocromi24. Fuori dal riferimento letterario, i modelli del fregio padovano però sono certamente rintracciabili nel ricco repertorio della scultura antica 25 che, come ad Assisi, venne probabilmente integrato dalla conoscenza della scultura contemporanea e, in particolare, qualche analogia d’impostazione si può notare tra le finte lastre padovane e quelle concrete della vasca della Fontana Maggiore di Perugia, realizzata da Nicola e Giovanni Pisano. Anche se il basamento della cappella degli Scrovegni segna per certi versi l’apice illusionistico del corpus giottesco, la sfida viene costantemente rilanciata, sempre giocando sulla capacità della pittura di simulare ogni tipo di materiale e tecnica artistica, secondo un artificio posto in essere già ad Assisi, non solo nelle Storie della vita di san Francesco ma anche nella cappella di San Nicola, aperta al termine del transetto destro della basilica inferiore e decorata sullo scorcio del Duecento insieme ad alcuni collaboratori. Al centro della parete principale infatti le figure della Madonna con il Bambino e dei santi Nicola e Francesco, che la affiancano, sono realizzate su un fondo oro simulando un dipinto su tavola, mentre la cornice in finto marmo con inserti a mosaico dialoga con il sottostante monumento funebre di Gian Gaetano Orsini. 364 Un virtuosismo rilanciato dai dossali con la Vergine tra santi dipinti, circa vent’anni dopo, sulle pareti del transetto da Simone Martini e da Pietro Lorenzetti, nell’ambito di un confronto con Giotto che impegnerà i due artisti senesi nei cicli realizzati nel santuario umbro e che si estenderà alla produzione successiva, in particolare per gli aspetti scenografici e per il rapporto tra figure e sfondi paesaggistici o architettonici. Il tema venne d’altronde ripreso da Giotto stesso nel Polittico Stefaneschi26 (si veda la pagina 338) (Pinacoteca Vaticana) dove il committente offre a san Pietro una riproduzione fedele dell’opera che contiene una rappresentazione minuscola del manufatto, quasi una macchia di colore, mentre, verso il 1330, Taddeo Gaddi, forse il più “ortodosso” dei giotteschi, nel castello dei conti Guidi a Poppi27 realizzò un polittico con una vistosa cornice lignea e una tavola cuspidata, entrambi dipinti, che illusivamente fungono da pale d’altare della cappella. Non si tratta solo di citazioni ma anche di invenzioni. Lo suggerisce il motivo guida delle figure inserite come sculture entro nicchie e tabernacoli, impostato ad Assisi nel ciclo francescano e, soprattutto, nella cappella di San Nicola dove, nella parete d’ingresso, Napoleone Orsini e il fratello Gian Gaetano sono presentati a uno statuario Redentore contenuto con fatica da un’edicola gotica (si vedano le pagine 330-331). Una soluzione sviluppata negli affreschi della cappella Bardi in Santa Croce a Firenze28 dalla figura di san Ludovico di Tolosa, collocata su una base esagonale in una nicchia scandita da un parato lapideo a corsi bicromi, inquadrata da pinnacoli e gâbles, di cui verrà data pochi anni più tardi una versione tridimensionale nel tabernacolo dell’Arte della Lana a Orsanmichele da Andrea Pisano, il protagonista del cantiere del campanile di Santa Maria del Fiore, dove Giotto si dovette misurare in termini concreti con la questione della scultura. Giotto scultore? Sopra, Nicola e Giovanni Pisano, Fontana Maggiore, particolare di un’aquila. Scultura in marmo. Perugia, piazza IV Novembre. Nella pagina a fronte, Giotto, Pianto delle Clarisse sulle spoglie del Santo, particolare, Storie della vita di san Francesco. Affresco. Assisi, basilica di San Francesco, chiesa superiore. Nelle pagine seguenti, Giotto e bottega, Madonna con il Bambino e santi. Affresco. Assisi, basilica di San Francesco, chiesa inferiore, cappella di San Nicola. Un documento attesta infatti che il 12 aprile 1334 l’anziano Maestro fu nominato alla guida della fabbrica della cattedrale fiorentina, mentre alcuni versi di Antonio Pucci − cronista, poeta e banditore del Comune di Firenze − collocano sempre al 1334 la fondazione del campanile, affermando inoltre che l’artista prima della propria scomparsa portò avanti il lavoro così «che’ primi intagli fè con bello stile»29; d’altronde anche la storiografia moderna riconosce l’impronta giottesca nel terzo inferiore dell’alzato, fino alla cornice sottostante il primo ordine di bifore. Un secolo dopo Ghiberti proclamò l’eclettismo di Giotto definendolo «dignissimo in tutta l’arte, ancora nell’arte statuaria» e dichiarando che le prime storie del campanile «furono di sua mano scolpite e disegnate. Nella mia età vidi provvedimenti di sua mano di dette storie egregiamente disegnati»30. Vasari riprese la notizia sostenendo: «E se è vero – che tengo per verissimo – quello che lasciò scritto Lorenzo di Cione Ghiberti, fece Giotto non solo il modello di questo campanile, ma di scultura ancora e di rilievo parte di quelle storie di marmo dove sono 366 i principii di tutte l’arti. E Lorenzo detto afferma aver veduto modelli di rilievo di man di Giotto e particolarmente quelli di queste opere; la qual cosa si può credere agevolmente, essendo il disegno e l’invenzione il padre e la madre di tutte queste arti e non d’una sola»31. Con queste parole egli dunque non solo avvalorava la testimonianza precedente ma, con la considerazione finale sul ruolo del disegno come momento fondante del processo ideativo di qualunque opera d’arte, in qualche modo accreditava la paternità giottesca delle sculture anche nell’eventualità che questi si fosse limitato a una fase progettuale, impostando i termini di un dibattito critico che si è protratto fino ad oggi32. In effetti, considerando che i lavori occuparono gli ultimi anni di carriera di un artista richiestissimo e quasi settantenne, è difficile pensare che, sopraintendendo a una fabbrica complessa come quella della cattedrale, non si sia attenuto a un ruolo direttivo e sia invece intervenuto in prima persona nell’esecuzione di singole partiture decorative, peraltro realizzate in una tecnica per lui decisamente poco consueta. D’altro canto, osservando i rilievi che ornano il campanile, pur nella diversità di mani, si coglie in più parti un linguaggio ispirato dalla pittura di Giotto, frutto verosimilmente dell’impronta impressa dal Maestro, a monte del quale tuttavia bisogna ipotizzare anche la presenza di un teologo, forse un domenicano, in veste di ideatore del programma iconografico, che si colloca nel solco della tradizione dell’enciclopedismo medievale33. La presenza di un progetto unitario sotto l’aspetto contenutistico accredita dunque l’ipotesi di una analoga visione d’insieme nella sua traduzione in termini figurativi34, che si dipana attraverso due serie di formelle35 e una di statue entro nicchie che girano intorno al blocco dell’edificio. Il registro inferiore, caratterizzato da un impianto esagonale, prende le mosse dalla fronte occidentale e procede in senso antiorario svolgendo in ventuno episodi, in origine suddivisi su tre lati36, il tema del Peccato originale e della conseguente condanna al lavoro che, attraverso lo sviluppo di competenze e abilità diverse, diviene premessa della redenzione. Un ruolo di primo piano nella sua realizzazione spetta sicuramente ad Andrea Pisano37, che aveva appena realizzato la porta bronzea per il battistero fiorentino, secondo Vasari sempre su disegno di Giotto38. A lui si devono infatti i tre episodi tratti dal Genesi − Creazione di Adamo, Creazione di Eva e Lavoro dei progenitori − e gran parte delle raffigurazioni dei personaggi ritenuti gli inventori dei mestieri e delle rappresentazioni di alcune attività, come Jabal per la pastorizia, il fabbro Tubalkain, la Caccia (o Equitazione), la Tessitura, Dedalo quale archetipo dell’artista, la Navigazione, Ercole e Caco per la giustizia sociale, l’Agricoltura, la Scultura rappresentata da Fidia. Al figlio Nino − sotto la guida del genitore − spetterebbero invece Jubal il musicista, la Medicina, Foroneo istitutore delle leggi, l’Arte degli spettacoli, l’Architettura e la Pittura, forse impersonata da Apelle. A due scultori anonimi sono stati infine attribuiti Noè, che simboleggia l’Agricoltura, l’Arte del costruire e Gionitus, ovvero l’inizio dell’Astronomia39. Pur mantenendo una certa autonomia formale, le opere di queste quattro personalità In alto, Simone Martini, Madonna con il Bambino e santi. Affresco. Assisi, basilica di San Francesco, chiesa inferiore, transetto. In basso, Pietro Lorenzetti, Madonna con il Bambino e santi. Affresco. Assisi, basilica di San Francesco, chiesa inferiore, transetto. 370 371 suggeriscono un tentativo di trasferire nella tecnica del rilievo il linguaggio di Giotto, già di suo improntato a una concezione plastica della pittura, uno sforzo particolarmente evidente in Andrea che nel rapporto tra figure e paesaggio delle prime tre scene sembra riuscire in questo esercizio di “traduzione”, mentre la Scultura e la Pittura aprono quasi una finestra sulle prassi di bottega degli artisti medievali. Quattro gruppi di sette scandiscono le formelle superiori, a forma di losanga – con lo sfondo rivestito di tessere azzurre pure romboidali −, che instaurano una serie di richiami semantici con quelle sottostanti. La ripartizione tematica è molto netta: si inizia nuovamente sul lato occidentale con i Pianeti e si prosegue, sempre in direzione antioraria, con le Virtù, le Arti liberali e i Sacramenti. In questa fascia l’apporto di Andrea Pisano è circoscritto alla Retorica e alla Geometria, forse per le crescenti responsabilità legate alla direzione del cantiere, da lui assunta dopo la morte di Giotto. Le personificazioni delle Virtù infatti palesano diverse analogie con le corrispondenti raffigurazioni inserite dallo stesso nella porta del battistero, ma si differenziano dalla serie dipinta sul basamento della cappella degli Scrovegni40. La perdita, già nel XV secolo, del complesso ciclo astrologico dipinto da Giotto nel palazzo della Ragione a Padova preclude invece la possibilità di verificare l’esistenza di un presupposto veneto ai Pianeti del campanile41. Tra questi, Venere e Mercurio furono eseguiti da Nino Pisano; Saturno, Giove, Marte, il Sole e la virtù della Temperanza spettano a uno scultore anonimo, così come a un altro autore non identificato sono state attribuite la Luna e tre virtù: Fortezza, Speranza e Carità. Il maestro che scolpì Noè nella fascia sottostante realizzò anche l’Astronomia in quella superiore, mentre all’autore dell’Arte del costruire si devono la Prudenza e la Giustizia42. A Gino Micheli da Castello, che nel 1341 firmò una Madonna con il Bambino a San Casciano Val di Pesa 43, la critica ha quindi ricondotto la Musica, la Grammatica, la Logica, l’Aritmetica, la Fede e il Matrimonio. Gli altri sei sacramenti infine sono stati attribuiti a Maso di Banco44, un allievo di Giotto la cui attività di scultore era stata già menzionata da Ghiberti e Vasari45. La scelta di un registro narrativo compassato e la presenza di figure che si muovono in modo solenne, che caratterizzano tali formelle, costituiscono infatti una peculiarità della produzione di questo artista, ricorrendo ad esempio negli affreschi da lui eseguiti alla fine del quarto decennio del Trecento nella cappella Bardi di Vernio in Santa Croce a Firenze46. Osservando inoltre la nitida struttura compositiva dell’Eucarestia, colpisce la visione tergale della pianeta del celebrante con le pieghe simmetriche durante l’elevazione, che si ritrova leggermente più scorciata nel Presepe di Greccio dipinto negli stessi anni entro una cornice quadriloba da Taddeo Gaddi 47 (Firenze, Galleria dell’Accademia), suggerendo una circolazione di modelli e uno scambio di sperimentazioni nella cerchia del Maestro, ma anche al di fuori, come attesta l’analoga postura della figura centrale nella tavoletta con la Consacrazione di san Nicola come vescovo, parte di quattro scene 373 Sopra, Andrea Pisano, Tabernacolo dell’Arte della Lana (nell’edicola copia della statua di Santo Stefano realizzata da Lorenzo Ghiberti). Firenze, chiesa di Orsanmichele. Nella pagina a fronte, Giotto, San Ludovico di Tolosa. Affresco. Firenze, basilica di Santa Croce, cappella Bardi. della vita del Santo dipinte da Ambrogio Lorenzetti verso il 1332, durante il suo soggiorno fiorentino e conservate oggi agli Uffizi. Una osmosi di caratteri formali tra pittura e scultura, senza peraltro incrinare l’individualità del linguaggio figurativo, traspare d’altronde in più punti nelle formelle, dove tipologie facciali e schemi di panneggio rimandano di frequente al corpus giottesco. Infine, a coronamento48 del segmento del campanile impostato da Giotto si trovano statue di Profeti e Sibille entro nicchie49 che richiamano intuizioni del Maestro, come il San Ludovico di Tolosa della cappella Bardi “citato”, come si è visto, da Andrea Pisano anche nel tabernacolo dell’Arte della Lana a Orsanmichele, la cui statua originale di Santo Stefano (Museo dell’Opera del Duomo) venne sostituita da quella dello stesso soggetto realizzata da Ghiberti. Naturalmente non si tratta di un fenomeno circoscritto al cantiere del campanile; ad esempio Tino di Camaino, giunto a Firenze intorno al 1320 ovvero già in una fase matura del proprio percorso espressivo50, mostra di interessarsi al linguaggio di Giotto. Riverberi degli affreschi appena terminati nella cappella Bardi in Santa Croce sono stati infatti colti nel monumento funebre del vescovo Orso nel duomo di Firenze51. I due si incontreranno nuovamente a Napoli alla corte di Roberto d’Angiò nel 1328, e gli straordinari rilievi della badia di Cava dei Tirreni52, datati dopo il 1330, nella forte drammatizzazione del gruppo delle dolenti o negli effetti quasi pittorici delle barbe di alcune figure di santi danno la misura di questa permeabilità tra le arti. Si assiste così a un ribaltamento di ruoli; all’inizio della propria carriera Giotto mostra infatti di aver contratto un debito significativo con scultori come Nicola e Giovanni Pisano o Arnolfo53, che sono certamente alla radice del suo rinnovamento del linguaggio pittorico, basti pensare alla volumetria della Madonna di San Giorgio alla Costa (si veda la pagina 14) o della Madonna del Polittico di Badia54 (si vedano le pagine 122-123). Diversamente, nella fase matura del percorso del Maestro furono gli scultori ad allinearsi alla lezione spaziale e compositiva impartita dalla pittura, tanto che i passaggi di Giotto nelle varie città italiane in cui lavorò coincidono con un aggiornamento anche della plastica monumentale e, spesso, con l’arrivo di scultori che introdussero le novità dei cantieri toscani. A Padova infatti il corredo della cappella dell’Arena si arricchì di opere di Giovanni Pisano55 e di Marco Romano, uno scultore di formazione senese ma portatore di un linguaggio personalissimo e di una interpretazione originale dell’antico56, cui è stata attribuita la straordinaria statua di Enrico Scrovegni57 (si veda la pagina 332) che quasi instaura un confronto a distanza con il ritratto del committente dipinto nel Giudizio Universale. Nel 1332 Giotto venne invece chiamato dal legato pontificio Bertrando del Poggetto per decorare la cappella papale del castello di porta Galliera a Bologna, dove era già attivo il pisano Giovanni di Balduccio58, che intorno al 1328 aveva però realizzato in Santa Croce a Firenze il monumento funebre della famiglia Baroncelli, all’ingresso della cappella affrescata da Taddeo Gaddi e contenente il celeberrimo polittico di Giotto; Firenze, campanile della cattedrale di Santa Maria del Fiore. 374 375 In alto, Andrea Pisano, Il lavoro dei progenitori. Bassorilievo in marmo. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo (dal campanile della cattedrale di Santa Maria del Fiore). In basso, Nino Pisano, La Pittura. Bassorilievo in marmo. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo (dal campanile della cattedrale di Santa Maria del Fiore). Maso di Banco, Eucarestia. Bassorilievo. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo, dal campanile della cattedrale di Santa Maria del Fiore. entrambi si ritrovarono subito dopo a Milano al servizio di Azzone Visconti59. Questa stratificazione di destini individuali e opere determina, a partire dagli anni Venti, il recepimento nella scultura toscana delle novità della pittura di Giotto, al quale Vasari attribuisce anche la paternità del monumento funebre del vescovo Guido Tarlati nella cattedrale di Arezzo60. Stando all’autore delle Vite, infatti, nel 1327 Pier Saccone e Rodolfo, familiari del defunto, chiesero «a Giotto che facesse il disegno d’una sepoltura ricchissima e quanto più si potesse onorata, e mandatogli le misure, lo pregarono appresso che mettesse loro per le mani un scultore il più eccellente, secondo il parer suo, di quanti ne erano in Italia, perché si rimettevano di tutto al giudizio di lui. Giotto, che cortese era, fece il disegno e lo mandò loro […]. Finirono questa sepoltura Agostino et Agnolo in ispazio di tre anni, e con molta diligenza la condussono e murarono nella chiesa del Vescovado d’Arezzo»61. La circostanza è ulteriormente precisata nella biografia di Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura, definiti scultori e architetti senesi, in cui si racconta che il pittore recandosi a Napoli sarebbe passato per Orvieto dove «gli piacquero i Profeti d’Agostino e d’Agnolo sanesi, di qui venne che [...] gli mise per le mani a Piero Saccone da Pietramala com’e’ migliori di quanti allora fussero scultori, per fare [...] la sepoltura del vescovo Guido signore e vescovo d’Arezzo. […] in quel modo però che egli l’aveva disegnata e secondo il modello che esso aveva al detto Piero Saccone mandato»62. Poco più avanti tuttavia lo stesso Vasari celebra i due artisti per l’esecuzione dell’opera in modo decisamente eccessivo, qualora questi si fossero limitati a realizzare un progetto altrui: «Agnolo dunque et Agostino sanesi condussono questa opera con miglior arte et invenzione e con più diligenza che fusse in alcuna cosa stata condotta mai a’ tempi loro. E nel vero non deono se non essere infinitamente lodati, avendo in essa fatte tante figure, tante varietà di siti, luoghi, torre, cavagli, uomini et altre cose, che è proprio una maraviglia»63. Bisogna inoltre considerare che il programma iconografico, sviluppato dai sedici rilievi intervallati da statue, mostra una scelta dei soggetti molto accurata, probabilmente da attribuire ai committenti che, tramite la celebrazione del defunto, ambivano a legittimarsi come suoi successori alla guida della città e della fazione ghibellina64. Giotto avrebbe dunque dovuto limitarsi a progettare il sepolcro, che declina in forme insolitamente dilatate65 il tema consueto della tomba a baldacchino, e a tradurre in figura il racconto della vita del vescovo elaborato dai familiari. Tuttavia sia l’impianto generale del monumento sia le soluzioni formali adottate si inseriscono agevolmente nel percorso di Agnolo e Agostino, che si dipana tra i vivaci cantieri delle cattedrali di Siena e Orvieto66. D’altronde pure le scene narrative non mostrano negli sfondi o nella disposizione delle figure schemi di diretta derivazione giottesca, se non per quanto attiene a un repertorio a questa data ampiamente condiviso in Toscana da pittori e scultori. Infine, i due soggetti allegorici del Comune pelato e del Comune in signoria, pur richiamando la notizia67 dell’affresco con il Comune rubato da molti che poco dopo, nel 1334, Giotto avrebbe dipinto nel palazzo del Bargello a Firenze, possono rientrare genericamente nell’alveo del successo 376 dell’allegoria politica nelle città italiane del Trecento, testimoniato dai celebri affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo pubblico di Siena, iniziati nel 133868. Un genere peraltro forse praticato anche da Giotto a Padova dove, intorno al 1310, nel palazzo della Ragione avrebbe dipinto delle immagini giudiziarie69, di cui potrebbe cogliersi un nucleo embrionale nelle personificazioni della Giustizia e dell’Ingiustizia agli Scrovegni. Il tema tuttavia aveva radici antiche poiché un’allegoria della Giustizia era stata già raffigurata un secolo prima in Castel Capuano a Napoli per volontà di Federico II. Non sembrano dunque esserci elementi interni al monumento funebre per avvalorarne l’attribuzione a Giotto avanzata da Vasari che, essendo aretino, forse attinse a materiale documentario e a tradizioni locali o, più verosimilmente, volle gratificare la propria città natale assegnandogli un’importante opera del Maestro, cui aveva riferito anche alcune pitture nella pieve e nel duomo vecchio70. Il mosaico della Navicella Taddeo Gaddi, Presepe di Greccio, Storie di san Francesco. Tempera e oro su tavola. Firenze, Galleria dell’Accademia. La questione del rapporto tra ideazione e realizzazione si ripropone per una importante committenza romana: il mosaico cosiddetto della Navicella, eseguito intorno al 1310 su incarico del cardinal Jacopo Stefaneschi per la basilica di San Pietro. Posto al centro del lato orientale del quadriportico, esso costituiva l’ultimo messaggio visivo impresso al fedele prima di uscire dal complesso vaticano e instaurava un esplicito parallelo tra l’episodio in cui gli apostoli si erano trovati in balia dei flutti sul lago di Tiberiade e il momento contingente, in cui la “nave” della Chiesa stava attraversando una tempesta politica che aveva indotto il pontefice ad allontanarsi da Roma. L’importanza del soggetto e la collocazione prestigiosa assicurarono una rapida fama all’opera71 che venne lodata per la vivace gestualità dei personaggi e ripetutamente copiata fino al 1610 quando, nell’ambito della ricostruzione barocca della facciata, venne rimossa per essere collocata nell’atrio dove tuttora si trova, a seguito però di un rifacimento totale72. Per apprezzare le qualità formali del tessuto musivo bisogna dunque rivolgersi ai due clipei con busti di angeli (Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro; Boville Ernica, chiesa di San Pietro Ispano), in origine probabilmente a fianco dell’iscrizione, che dopo lo stacco ebbero una vicenda autonoma che li salvaguardò dallo stravolgimento cui fu sottoposto il riquadro principale. Da un esame accurato di questi frammenti sono emerse caratteristiche esecutive molto vicine a quelle dei mosaici realizzati negli anni precedenti da Pietro Cavallini, alla cui bottega evidentemente si dovette la realizzazione materiale del progetto giottesco. A Roma d’altronde questa tecnica è documentata in modo praticamente ininterrotto dall’età paleocristiana e aveva conosciuto una nuova fioritura nell’ultimo decennio del Duecento con Torriti e lo stesso Cavallini; diversamente a Firenze, dopo la conclusione del cantiere del battistero, che aveva avuto come protagonisti Coppo di Marcovaldo e il giovane Cimabue, non risultano imprese musive di pari risalto 378 monumentale. È dunque verosimile che Giotto abbia progettato la composizione e forse eseguito il disegno preparatorio sulla parete, delegandone l’esecuzione alle maestranze romane specializzate in questa tecnica, probabilmente sotto la sua sorveglianza. Fogli e libri, disegni e miniature Il momento ideativo di un’opera e la sua successiva concretizzazione nell’ambito di una bottega articolata e prolifica o di un cantiere monumentale prevedeva naturalmente come strumento prioritario il disegno, sia realizzato in formato ridotto su un foglio, sia direttamente sul supporto definitivo. Il distacco di alcuni dipinti murali nella basilica superiore di Assisi ha rivelato infatti come le stesure preparatorie fossero estremamente accurate già prima della presenza di Giotto in cantiere73, mentre con l’ausilio di riflettografie è stato possibile verificare nelle prime opere su tavola del Maestro un uso sempre più consapevole del disegno che nella Croce di Santa Maria Novella diviene estremamente dettagliato e si accompagna alla presenza di pentimenti che sembrano quasi degli studi in corso d’opera74. In Giotto dunque il disegno non ha solo la funzione di abbozzare composizioni o trasmettere modelli ma costituisce uno strumento conoscitivo e come tale dovette essere abitualmente praticato, tanto che possiamo supporre l’esistenza di raccolte, forse in forma di taccuini o libri di modelli, all’interno del suo atelier. Purtroppo la pergamena e la carta sono materiali fragili che nel Medioevo venivano spesso riutilizzati fino alla consunzione, anche per l’assenza di un interesse collezionistico analogo a quello che si svilupperà in seguito; per questo il corpus di disegni trecenteschi conservati è piuttosto esiguo e per quanto riguarda l’ambito giottesco si tratta quasi sempre di copie di opere monumentali, realizzate da allievi o seguaci, mentre nessun disegno del Maestro sembra direttamente correlabile a un’opera sopravvissuta. Di notevolissima qualità sono però due figure virili sedute (Parigi, Musée du Louvre), lumeggiate su carta tinta di verde e ritenute autografe, che nell’elaborazione dei panneggi e nelle tipologie facciali ricordano il momento stilistico degli Scrovegni, tanto da essere state ricondotte al perduto ciclo del palazzo della Ragione a Padova75. Nonostante questa prassi, non è nota invece un’attività d’illustrazione libraria direttamente riferibile a Giotto o alla bottega, anche se il suo linguaggio pittorico influenzò in modo estremamente significativo la miniatura del tempo, in particolare per quanto riguarda le novità spaziali76. Una recezione molto precoce degli affreschi degli Scrovegni si coglie in un gruppo di sei Antifonari per la locale cattedrale77 e soprattutto nel Libro d’ore di Francesco da Barberino, fatto eseguire dal letterato a Padova tra il 1304 e il 1309, durante un soggiorno di studio presso l’università. Le relazioni tra questo ateneo e quello bolognese contribuirono inoltre al radicamento dello stile giottesco nella vivace produzione miniata della città emiliana, che tuttavia aveva già mostrato attenzione all’esperienza assisiate in alcuni codici per la chiesa 379 di San Francesco, databili a cavallo tra la fine del Duecento e i primi anni del secolo successivo78. Furono questi i perni geografici che consentirono l’estendersi del nuovo linguaggio a Milano, dove trova la sua consacrazione nel Pantheon di Goffredo da Viterbo79, illustrato poco prima dell’arrivo dell’artista in città. Paradossalmente, più refrattaria appare la realtà fiorentina80, egemonizzata dalla lunga attività del pittore e miniatore Pacino di Bonaguida che nell’insieme rimase legato a moduli tardoduecenteschi, accogliendo solo in parte le novità di Giotto, alle quali si mostra invece molto interessato un anonimo miniatore toscano attivo principalmente ad Avignone, noto come Maestro del Codice di san Giorgio dal nome del suo più celebre manoscritto81 (si veda la pagina 340). Gradualmente dunque la produzione libraria di tutte le città italiane si adeguò al nuovo canone che perdurerà a lungo anche nel Meridione dove la bottega di Cristoforo Orimina negli anni Quaranta e Cinquanta ripeterà più volte moduli giotteschi, aprendo uno scorcio anche sui perduti cicli realizzati dal Maestro a Napoli tra il 1328 e il 133382. Grazie alla dimensione internazionale della vita intellettuale del tempo e alla facilità di circolazione dei libri, nel secondo quarto del secolo, inoltre, invenzioni giottesche compaiono nelle illustrazioni della Genesi Egerton83 in Inghilterra, nelle opere miniate da Jean Pucelle a Parigi o in quelle di Ferrer e Arnau Bassa in Catalogna dove, nella cattedrale di Manresa, si trova dalla metà del Trecento il paliotto ricamato da Geri di Lapo, ricco di echi giotteschi, analogamente a quello realizzato da Jacopo di Cambio nel 1336 per Santa Maria Novella a Firenze, oggi nella Galleria dell’Accademia. indiretta, della pittura rinnovata da Giotto anche in questo specifico settore, dove costituirono un fenomeno piuttosto duraturo. Lo suggeriscono negli anni Sessanta e Settanta le scene affollate realizzate da Francesco Niccolai, Leonardo di Ser Giovanni e Betto di Geri negli altari di argento di San Jacopo nel duomo di Pistoia e di San Giovanni per il battistero di Firenze, ora nel Museo dell’Opera del duomo, densi di spunti dal tabernacolo scolpito in Orsanmichele da Andrea Orcagna86, protagonista della scena fiorentina del tempo e unico artista medievale, oltre a Giotto, a essere appellato come pittore, scultore e architetto nell’intestazione della biografia vasariana87, che si apre accennando alla sua formazione presso Andrea Pisano. Anche in pittura l’onda lunga del giottismo si mostra alquanto vitale ancora negli ultimi decenni del Trecento con Agnolo Gaddi, figlio di Taddeo e pertanto ritenuto dal suo allievo Cennino Cennini quasi come un discepolo diretto del Maestro fiorentino, nei confronti del quale l’autore del Libro dell’arte mostra una autentica venerazione, tramandandoci anche alcuni procedimenti tecnici tipici della sua bottega. Nessun artista dai tempi di Apelle e Fidia era stato d’altronde altrettanto celebrato da scrittori e letterati, basti pensare ai versi di Dante, ai brani di Petrarca e Boccaccio, alle novelle di Sacchetti, alle cronache di Pucci, Giovanni e Filippo Villani. Nessun artista prima di lui inoltre influenzò non solo una cerchia, pur ampia, di allievi e seguaci ma almeno tre generazioni di maestri attivi nelle tecniche più diverse, tanto da configurare in Italia, e non solo, il Trecento come il “secolo di Giotto”. L’oreficeria Giotto e bottega di Pietro Cavallini, Angelo, particolare della Navicella degli Apostoli. Mosaico. Boville Ernica (Frosinone), chiesa di San Pietro Ispano. Le oreficerie nella seconda metà del Duecento costituirono un segmento di punta per la trasmissione in Italia del linguaggio gotico di ascendenza europea. Proprio per questo tramite, oltre che per quello della miniatura, Giotto, come già ricordato, poté dunque aggiornarsi sulle novità figurative dei cantieri francesi84. L’esistenza di botteghe specializzate e di tecniche peculiari resero però questa produzione meno sollecita a recepire i tratti originali del suo linguaggio e a stravolgere tipologie di oggetti e schemi decorativi consueti. Panneggi di ispirazione giottesca sono stati tuttavia riconosciuti nella galleria di figure che abitano una fascia di placchette in bronzo e rame dorato con un fondo smaltato di losanghe azzurre, che quasi anticipano lo sfondo delle formelle del secondo ordine del campanile. Questo singolare manufatto, lungo oltre due metri (ora nel Museo Nazionale del Bargello), doveva rivestire il gradino del battistero di Firenze ed è firmato dall’orafo empolitano Andrea Pucci Sardi e datato dalla critica al secondo decennio del Trecento85. Da questo momento in poi il plasticismo di alcune opere di microstatuaria e l’impianto compositivo di formelle in metallo o in smalto attestano la penetrazione, a volte per via 380 Sopra, Giotto e bottega di Pietro Cavallini, Angelo, particolare della Navicella degli Apostoli. Mosaico. Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro. Nelle pagine seguenti, Navicella degli Apostoli. Mosaico (da Giotto). Città del Vaticano, basilica di San Pietro. 381 Note al testo 1. Vasari 1568, II, p. 95. 2. Per la bibliografia su Giotto: Romano 2008; Giotto e il Trecento 2009; Giotto, l’Italia 2015. 3. Monciatti 2015, p. 38; De Marchi 2015, p. 45. 4. Giotto. La Croce di Santa Maria Novella 2001. 5. Pettenati 2001, pp. 204-208. 6. Seidel 2001, pp. 76-77. 7. Il calice di Guccio di Mannaia 2014. 8. Sulla basilica: La basilica di Assisi 2002. 9. Santa Chiara in Assisi 2002. 10. Bellosi 2001. 11. De Marchi 2009, 2013. 12. Curzi 2011. 13. Cristiani Testi 2010, p. 96. 14. Cfr. anche una statua lignea, in origine policroma, di analogo soggetto nella Pinacoteca Comunale di Castiglion Fiorentino: Arte in terra d’Arezzo 2005, p. 169. 15. Tomei 2007. 16. In questa collocazione a partire dal 1301: Silvestrelli 2005. 17. Romano 2008, pp. 178-179. 18. Sulla cappella: La cappella degli Scrovegni 2005. 19. Curzi 2011; Cordez 2013. 20. Prudenza/Stoltezza, Fortezza/Incostanza, Temperanza/Ira, Giustizia/Ingiustizia, Fede/Infedeltà, Carità/Invidia, Speranza/ Disperazione. 21. Ammannati 2015. 22. Guglielmi, Capanna 2005; Romano 2007. 23. Lermer 2007, p. 308; Romano 2008. 24. Plinio, Naturalis historia, XXXV, 64. 25. Romano 2008, p. 226. 26. Romano 2015. 27. Monciatti 2010, p. 599. 28. Gardner 2015, p. 70. 29. Antonio Pucci, Centiloquio, LXXXV, 82-93. 30. Ghiberti 1912, I, p. 37. 31. Vasari 1568, II, pp. 115. 32. Curzi 2009. 33. Alla riscoperta di Piazza del Duomo in Firenze 1994; Simi Varanelli 1996; Neri Lusanna 2007, 2008. 34. Kreytenberg, 1995, 2001. 35. Ora nel Museo dell’Opera del Duomo. 36. Lo spostamento di alcuni esagoni e la realizzazione di altri ex novo determinarono l’estensione della serie al lato settentrionale, in origine sprovvisto. 37. Neri Lusanna 2008. 38. Vasari 1568, II, p. 154. 39. Curzi 2009. 40. Paolucci 1996; l’unica rappresentazione difforme è quella della Temperanza. 41. Flores D’Arcais 2007. 42. Kreytenberg 1995. 43. Museo Vicariale d’Arte Sacra (proveniente da San Lorenzo di Castelbonsi); Kreytenberg 1995. 44. Kreytenberg 1979; Vitolo 2016, pp. 27-32. 45. Ghiberti 1912, I, p. 38; Vasari, 1568, II, p. 233. 46. Maso di Banco 1998. 47. Baldini 2009. 48. Neri Lusanna 2008, p. 40. 49. Ad Andrea Pisano è attribuito Salomone, a Nino Pisano Davide (che alcuni riconducono al padre), la sibilla Tiburtina, la sibilla Eritrea e un profeta, all’autore dell’esagono con l’Arte del costruire un profeta, ad altri collaboratori spetterebbero Mosè e due profeti; la serie è stata integrata nel Quattrocento con il contributo di alcuni maestri, tra i quali spicca il nome di Donatello. 50. Aceto 2000. 51. Kreytenberg 2001. 52. Baldelli 2007. 53. Neri Lusanna 2008. 54. Romano 2005. 55. Tigler 2007. 56. Marco Romano e il contesto artistico senese 2010. 57. Di Fabio 2009. 58. Caglioti 2005; Giotto e le arti a Bologna 2005. 59. Carli 1989. 60. Conticelli 2005; Curzi 2009. 61. Vasari, 1568, II, pp. 112-113. 62. Ivi, pp. 126-127. 63. Ivi, p. 128. 64. Tigler 2004; Bartalini 2008. 65. Metri 12,90 x 4,50. 66. Bartalini 2005, pp. 215 ss. 67. Vasari, 1568, II, p. 116. 68. Donato 2005; Pasquini 2012. 69. Frojmovic 1996, pp. 24-47. 70. Vasari 1568, II, p. 100. 71. Collareta 2000. 72. Frammenti di memoria 2009; Tomei 2009 (scheda n. 8). 73. Cfr. ad esempio il disegno preparatorio del volto dell’Eterno della Creazione del mondo di Iacopo Torriti nel Museo del Tesoro della basilica di San Francesco. 74. Monciatti 2010. 75. Bellosi 1985; Tomei 2009 (scheda n. 4). 76. Manzari 2009. 77. Padova, Biblioteca Capitolare, A. 14-16; B. 14-16. 78. Bologna, Museo Civico Medievale, Mss 528-535. 79. Parigi, Bibliothèque nationale de France, lat. 4895. 80. Labriola 2008; Freuler 2008; Manzari 2009. 81. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro, C. 129. 82. The Anjou Bible 2010; Leone de Castris 2006. 83. Londra, British Library Add. Ms 42130. 84. Seidel 2001. 85. Lorenzi 2009. 86. Collareta 2008. 87. Vasari, 1568, II, p. 217. 384