Pietro Cataldi
Parafrasi e commento
Nove letture di poesia
da Francesco d’Assisi a Montale
Palumbo
© Copyright by G.B. Palumbo & C. Editore S.p.A. - 2002
Proprietà letteraria dell’Editore
Stampato in Italia
Indice
Premessa
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PRIMA PARTE
Riflessioni sul metodo
I.1 Parafrasi e commento
I.2 Tradurre i classici
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SECONDA PARTE
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Letture di testi
II.1 Francesco d’Assisi, Laudes creaturarum
II.2 Dante Alighieri, Il capitolo XXXIV della Vita Nuova
II.3 Francesco Petrarca, «L’oro et le perle e i fior vermigli
e i bianchi»
II.4 Torquato Tasso, Clorinda e Tancredi
II.5 Giuseppe Parini, La salubrità dell’aria
II.6 Ugo Foscolo, Dei sepolcri
II.7 Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia
II.8 Giuseppe Ungaretti, Veglia
II.9 Eugenio Montale, Incontro
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Per concludere.
Come non si legge una poesia
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ii.7
Giacomo Leopardi
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
(Canti,
XXIII)
La datazione dell’autografo rimanda, per questo canto, a un periodo
piuttosto lungo: 22 ottobre 1829 - 9 aprile 1830. Esso sarebbe dunque
stato ultimato alla vigilia della partenza definitiva di Leopardi da Recanati.
Ultimo dei grandi canti del ciclo pisano-recanatese, il Canto notturno
mette a frutto l’esperienza metrica e tematico-filosofica della fortunata stagione creativa, offrendo una prova metrica di definitiva maturità
(che Leopardi terrà ben presente per i successivi sviluppi della sua ricerca) e presentando la materia esistenziale sotto la luce di un’oggettività inedita nei testi precedenti (A Silvia, Le ricordanze, Il sabato del villaggio, ecc.). Qui, insomma, la rappresentazione prescinde in modo costitutivo dalla personale vicenda del soggetto poetico: non c’è Recanati, non c’è la biografia leopardiana, non ci sono le sue figure sostitutive o integrative (Silvia, Nerina).
Il distacco dall’autobiografia e dall’esperienza contingente spinge
il poeta ad affidare la responsabilità del discorso a un soggetto appositamente costruito: un pastore nomade dell’Asia. Ciò serve a universalizzare (cioè a svolgere con più alto rigore filosofico) gli interrogativi e
le conclusioni formulati da Leopardi nei canti precedenti. Essi riguardano il senso dell’esistenza e la posizione dell’uomo, in particolare, all’interno dell’universo; e giungono qui a una radicalità inedita. Fallito
il tentativo di entrare in comunicazione con la natura, interrogandola
nella forma-simbolo della luna, al pastore non resta che avanzare ipotesi
di senso, mettendole via via a confronto con i risultati sconfortanti delle proprie osservazioni dirette della realtà. Nessuna ipotesi di significato,
però, regge di fronte alla verifica oggettiva; così che al pastore restano
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seconda parte Letture di testi
infine solo il conforto turbato delle proprie stesse interrogazioni e la minaccia incombente dell’insensatezza e del dolore.
La forma metrica presenta la tipica canzone libera leopardiana, qui
strutturata in sei strofe di varia lunghezza (da un minimo di 11 a un
massimo di 44 versi), con rima obbligata in -ale nell’ultimo verso di ogni
strofe.
5
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Canto…dell’Asia: ogni elemento del titolo ha un’importanza nella definizione del
contesto filosofico. Canto rimanda ovviamente alla dimensione lirica e melodica
del testo e, più specificamente, testimonia lo spunto offerto a Leopardi da alcune
testimonianze sulle abitudini di certe popolazioni nomadi asiatiche, che passerebbero la notte a guardare la luna cantando tristemente. Notturno esalta la dimensione esistenziale del testo, essendo la notte il momento canonico dei grandi interrogativi sul senso della vita; ed esprime, in aggiunta, la mancanza di certezze, cioè il buio che circonda le domande di senso del pastore. Pastore evoca una
funzione di guida e, nel caso specifico, quasi di avanscoperta della verità e della
strada da seguire, anche con riferimento alla tradizione scritturale (i pastori di anime). Errante vuol dire ‘che si aggira senza meta’ e ben esprime dunque tanto il
carattere nomade del pastore in oggetto quanto l’inquieto aggirarsi della sua inchiesta in cerca di un significato; vuol dire anche ‘che sbaglia’, suggerendo la difficoltà (e la vanità) di tale inchiesta e di tale ricerca. Il polisenso è stato introdotto
dal poeta variando, con una correzione introdotta a partire dalla seconda edizione
dei Canti, l’originale «vagante» in «errante». Fra l’altro «pastore errante» implica,
alla luce del significato biblico della voce “pastore”, una sorta di paradosso. L’Asia evocava infine ai tempi di Leopardi, assai più di quanto non accada oggi, una
dimensione di distanza radicale e di ignoto. L’insieme del titolo definisce infine
una condizione umana esemplarmente assoluta, e cioè un’inquieta solitudine ricercante; con una costruzione allegorica già attiva nel titolo, intensamente funzionalizzato al progetto testuale.
1-20: [O] luna, che fai tu in cielo? dimmi, silenziosa luna, che fai? Sorgi di (la) sera, e vai
[: ti sposti nel cielo], contemplando i deserti [: la terra, per lo più inabitata]; infine (indi)
ti riposi [: tramonti]. Ancora non sei tu sazia (paga = appagata) di ripercorrere (riandare)
gli stessi (sempiterni = eterni) percorsi (calli = strade)? Ancora non ti sei nauseata (non
prendi a schivo), ancora sei desiderosa (vaga) di osservare (mirar) queste valli [: della terra]?
ii.7 Giacomo Leopardi. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
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Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al verno, alla tempesta, e quando avvampa
La vita del pastore somiglia alla tua vita. Si alza (sorge; metaforico) alla prima luce (in
sul primo albore), spinge (move…oltre) il gregge attraverso i campi (pel campo), e vede
greggi, fonti ed erbe; poi, stanco, si riposa a sera (in su la sera): non spera mai altro. O luna, dimmi: che valore ha (a che vale) per il (al) pastore la sua vita, la vostra vita [di corpi celesti] per (a) voi? dimmi: verso dove procede (ove tende) [: che fine ha] questo mio
aggirarmi (vagar) [di] breve [durata], e [verso dove procede] il tuo viaggio (corso) eterno (immortale)? Le domande rivolte alla luna riguardano il significato dell’esistenza, cioè il
suo valore e il suo scopo (come attestano i due interrogativi posti a conclusione di strofe). Esse riguardano tanto l’esistenza in sé (rappresentata dalla luna e dal cielo stellato)
quanto la propria personale esistenza. Da ciò deriva il confronto tra la vicenda lunare
e la propria, con uno scambio di attribuzioni (la luna è antropomorfizzata: contempla, si riposa, ecc.; il pastore dal canto suo «sorge»). Tanto la breve vicenda del pastore quanto quella eterna della luna sembrano limitate a una ripetizione di gesti uguali, con una circolarità che nell’uomo provoca noia (come si vedrà) e non suggerisce
aperture di senso. Un diverso atteggiamento da parte della luna offrirebbe anche per
il pastore la possibilità di qualche risposta valida per sé. Tuttavia la luna, intensamente
interrogata («dimmi», ripetuto tre volte: vv. 1, 16, 18), tace; è anzi costitutivamente
«silenziosa». Il rapporto tra io e paesaggio, tra io e natura, è ormai interrotto (come
annunciato già, nel sistema dei Canti, da Alla primavera).
21-38: [Un] vecchietto canuto (bianco), malato (infermo), seminudo (mezzo vestito) e scalzo, con un gravissimo peso (fascio) sulle spalle, corre via, corre, si affatica (anela) attraverso
(per) montagne e valli, su (per) sassi pungenti (acuti), e sabbia (rena) alta, e sterpaglie (fratte), al vento, alla tempesta, e quando il tempo (l’ora) è rovente (avvampa), e poi quando ge-
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seconda parte Letture di testi
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
la, attraversa (varca) torrenti e stagni, cade, si rialza (risorge), e si affretta sempre più (e più
e più), senza riposo (posa) o consolazione (ristoro), ferito (lacero), sanguinante; finché (infin ch’<e>) arriva là (colà) dove il [suo] cammino (la via) e dove la [sua] grande (tanto) fatica (affaticar) furono rivolte (fu volto): [un] abisso [: la morte] orrido, immenso, precipitando nel quale (ov’<e> = dove) egli (ei) dimentica (obblia) tutto [ciò che è successo fino ad allora]. [O] vergine luna, la vita degli uomini (mortale) è così (tale). Alle richieste
di senso della prima strofe – non premiate da alcuna risposta – segue una descrizione
intensamente allegorica della condizione umana; descrizione condotta dal punto di vista dell’esperienza e limitandosi a una verifica nella pratica, prescindendo cioè da quei
possibili, eventuali significati che al pastore sfuggono e che sperava potessero essergli
rivelati dalla luna. L’allegoria del “vecchierello” che si affatica e soffre per correre verso la distruzione e la perdita di coscienza raffigura la vita umana, ritratta nella sua mancanza di significato e di scopo, quale semplice, futile preparazione all’annullamento segnato, infine, dalla morte. L’allegoria del “vecchierello” verrà a meglio precisarsi nella raffigurazione diretta della infelice vita umana, nella strofe seguente.
39-60: L’uomo nasce a fatica, e la nascita (il nascimento) costituisce (è) un rischio
di morte. Per prima cosa [: appena nato] prova pena e tormento; e all’inizio (in sul
principio) stesso [della vita] la madre e il padre (il genitore) si dedicano (prende) a
consolarlo (il…consolar) di essere nato. Dopo (poi) che viene crescendo, l’uno e l’altro [: madre e padre] lo aiutano (il sostiene), e di seguito (via pur) sempre con gesti (atti) e con parole si danno da fare (studiasi) di incoraggiarlo (fargli core) e [di] consolarlo di essere uomo (dell’umano stato): non si compie (fa; verbo vicario) altra attività (ufficio) più gradita (più grato) da parte dei genitori (da parenti) verso i loro fi-
ii.7 Giacomo Leopardi. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
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Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
gli (alla lor prole). Ma perché [allora] dare alla luce (al sole), perché sostenere
(reggere) in vita chi [: i figli] poi bisogna (convenga; cong.) consolare di quella [: della vita]? Se la vita è [una] sventura, perché da noi [: tra gli uomini] dura (si dura;
pseudorifl.)? [O] luna intatta, la condizione umana (lo stato mortale) è così (tale).
Ma tu non sei mortale, e forse ti importa (ti cale) poco delle mie parole (del mio dir).
Sulla base di alcune constatazioni – che la vita provoca dolore e che è necessario
consolare i bambini –, il pastore si chiede perché la vita continui, nonostante la
mancanza di significato e il prevalere inutile della sofferenza; denuncia cioè un’incoerenza tra ciò che l’uomo sa della propria condizione e ciò che poi fa riguardo
a essa. Il momento della nascita, in questa strofe, diviene il momento esemplare
della condizione infelice dell’uomo. Tuttavia questa condizione è ipotizzata
quale specifica dell’uomo, in quanto essere mortale; implicitamente alludendo a
una diversa condizione per quelle forme di esistenza che, come la luna, trascendono i limiti della umana caducità. Si prospetta così la nuova apertura di interrogazioni della strofe seguente. Tuttavia, già nella conclusione di questa la diversità presunta della luna, la sua perfetta alterità, fa sospettare l’indifferenza nei
confronti della sorte terrena dell’uomo, come già annunciato dal silenzio che si
contrappone alle richieste della prima strofe: oltre che muta, la luna è forse anche sorda. Intatta luna: cioè, etimologicamente, ‘non toccata’; così poteva scrivere Leopardi, dato che nessun uomo si era ancora potuto avvicinare alla luna.
61-78: Tuttavia (pur) tu, [o] solitaria (solinga), eterna viaggiatrice (peregrina), che
sei così pensosa, forse tu capisci (intendi) che [cosa] siano questa vita (viver; in-
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il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
finito sostantivato) terrena, il nostro [: degli uomini] soffrire (patir), il sospirare; [forse capisci] che [cosa] sia questa morte, questo estremo (supremo) impallidire (scolorar) del volto (del sembiante), e sparire (perir) dalla terra, e venir meno a ogni compagnia consueta (usata) e affezionata (amante). E tu certamente comprendi il perché delle cose, e vedi lo scopo (il frutto; metafora) del mattino, della sera, del silenzioso (tacito), infinito scorrere (andar) del tempo. Tu certamente
sai, tu, a quale suo caro (dolce) amante (amore; metonimia) arrida (rida) la primavera, a chi procuri vantaggio (a chi giovi) il caldo (l’ardore), e che [cosa] ottenga
(procacci) l’inverno (il verno) con il suo ghiaccio. Tu sai numerosissime (mille; indet.) cose [e] ne scopri [di continuo] di più, che [invece] sono nascoste (celate) al
semplice pastore. Questa strofe centrale tenta un’ipotesi circa il significato dell’esistenza: esso è nascosto all’umile sguardo del pastore (e dell’uomo), ma tuttavia esiste ed è noto alla luna (cioè a qualcuno, divinità o natura, superiore all’uomo). L’ipotesi prende corpo, con un significativo passaggio dal «forse» del
v. 62 al «certo» dei vv. 69 e 73 (e il «certo» pare il recupero di un’inclinazione
mitica contrapposta alla moderna, riflessiva e dubitativa, che si esprime invece
nel «forse»). Nel momento stesso in cui questa ipotesi (relativamente ottimistica) viene formulata, si va accumulando uno sperpero di referti materiali
sulla inanità dell’esistenza: la sofferenza, la morte, la perdita e il lutto, il susseguirsi dei giorni, delle stagioni e del tempo. Insomma: l’ipotesi che un significato vi sia ma sfugga al pastore non riesce a determinare una prospettiva
fiduciosa verso la realtà, che continua a essere guardata quale inutile dissipazione, sofferenza e morte. Questo viver…questo morir: i pronomi deittici
sottolineano la presenza concreta dell’esperienza vitale e della morte, facendone
i parametri fondamentali della vicenda umana. Questo morir…compagnia: rappresentazione della morte condotta secondo un’ottica tutta umana, senza la luce di alcuna speranza di redenzione: la morte è una crisi estrema della cor-
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Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
poralità (un impallidire irreparabile del volto), uno staccarsi dal mondo («perir dalla terra» è un sintagma forzato a esprimere la scomparsa e l’annullamento determinati dalla morte), un evento la cui esperienza non riguarda chi la sperimenta in prima persona, indifferente in quanto annullato rispetto all’esistere,
ma chi vi assiste subendo la perdita dei propri cari (ed ecco la intensa giustificazione, interamente umana e materiale, dell’attivo di amante compagnia). Il perché…il frutto: sono i termini-chiave della ricerca di senso: la causa e lo scopo; verranno ripresi, con variazione, ai vv. 97 e 103. Del tacito…tempo: è il verso centrale del componimento, fortissima evocazione della condanna temporale del destino umano: in tale temporalità si colloca la percezione moderna della rottura rispetto alla felice continuità dei cicli naturali, ora rimpiazzati dal perfetto vuoto
e dal nulla che l’aggettivo «infinito» qui è chiamato a evocare. Tu sai, tu certo:
sottinteso “non io”, annunciando la svolta della seconda metà della strofe.
79-104: Spesso quando io ti osservo (miro) stare così muta sulla pianura deserta, che,
all’orizzonte (in suo giro lontano), confina con il (al) cielo; oppure (ovver) [ti vedo]
seguirmi con il mio gregge spostandoti (viaggiando) via via (a mano a mano); e quando vedo brillare (arder) le stelle in cielo; dico pensando fra me: perché (a che) tante
scintille (facelle) [: le stelle]? che [cosa] significa (fa) lo spazio (l’aria) infinito, e quel
profondo cielo (seren) infinito? che [cosa] vuol dire questa immensa solitudine? ed
io che [cosa] sono? Così penso tra me e me (meco ragiono = discorro con me stesso): e non so indovinare nessuna (alcun) utilità (uso), nessuno scopo (frutto) sia (e)
dell’universo (la stanza) infinito (smisurata) e superbo [: meraviglioso e impenetrabile], sia (e) delle famiglie innumerevoli [di forme di vita]; [sia] poi di tanto darsi da fare (adoprar), di tanti movimenti (moti) di ogni astro ([corpo] celeste), [di] ogni
cosa terrena, che girano (girando; il gerundio vale qui un part. pres.) senza tregua
(senza posa), per ritornare [infine] sempre là da dove (donde) [si] sono mosse [: là da
dove erano partite]. Ma tu certamente, o giovinetta immortale [: la luna], conosci [:
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d’ogni celeste, d’ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
capisci] tutto ciò (il tutto). Io conosco e sperimento (sento) questo: che degli eterni
movimenti circolari (giri) [degli astri], che della mia esistenza (esser) fragile (frale) forse qualcun altro (fors’altri) ricaverà (avrà) qualche bene o piacere (contento); [ma]
per (a) me la vita è sofferenza (male). La presenza della luna, rievocata ai vv. 7983 quale compagna silenziosa delle solitarie notti del pastore, non trasmette la fiducia in un significato, ma accresce, con la sua distanza imperturbabile, il bisogno di interrogarsi sul perché dell’universo, della vita e di se stessi. Le domande
del pastore abbracciano tanto la dimensione schiettamente esistenziale quanto un
più generale bisogno teorico di conoscenza. In conclusione di strofe viene però rivendicato il valore dell’esperienza materiale quale fondamento della conoscenza
(cfr., al v. 100, «questo io conosco e sento», cioè ‘conosco per prova diretta’): e
dall’esperienza materiale del pastore deriva la certezza del «male» quale carattere
indubitabile della propria vita (e della vita dell’uomo). Muta: il silenzio della luna, annunciato già all’inizio del canto, non sembra dunque essere occasionale ma
costitutivo: né ora né mai si udrà una sua risposta alle domande poste dal pastore.
A che…sono?: le quattro domande sono disposte, dal punto di vista metrico-sintattico, in modo da rallentarne al massimo lo svolgimento: la prima presenta una
intensa ellissi del verbo principale; la seconda si avvale di una replicazione dell’aggettivo “infinito”, rilanciato la seconda volta da «profondo» e sottolineato dal
chiasmo; un enjambement sospende e prolunga tanto la seconda quanto la terza domanda; rime e assonanze (anche interne) legano il v. 86 al v. 84 («facelle» : «stelle»), il v. 87 ai vv. 89 e 90 («profondo» : «sono» : «ragiono»), il v. 88 ai vv. 89
e 91 («questa» : «immensa» : «superba»). E della stanza…non so: la lunga e complessa struttura sintattica di questi versi, con la posposizione del periodo principale
e reggente, ben esprime un accatastarsi di rilievi materiali cui stentino a tener dietro l’inquadramento razionale e la spiegazione. Giovinetta immortal: riprende, con
affettuoso e tenue richiamo mitologico, i precedenti epiteti rivolti alla luna
(cfr. soprattutto i vv. 37 e 57). Qualche bene o contento: qualche vantaggio materiale o semplicemente qualche gioia; con ripresa meno esplicitamente polemica
(stante la diversa prospettiva del componimento) di un passo dell’Epistola al conte Carlo Pepoli (vv. 143 sg.): «[cercherò di capire] a cui/ tanto nostro dolor diletti
e giovi» (a chi dia divertimento o vantaggio il nostro immenso dolore di uomini).
ii.7 Giacomo Leopardi. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
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O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
105-132: O mio gregge che ti riposi, oh beato te, che – credo – non conosci (non sai)
la tua infelicità (miseria)! Quanto ti invidio (quanta invidia ti porto)! Non solamente
perché sei (vai) quasi senza (libera) sofferenza (affanno); dato che (ch’) scordi subito ogni stento, ogni danno, ogni timore [benché] forte (estremo); ma soprattutto (più)
perché non provi mai (giammai; è più forte) noia (tedio). Quando tu stai (siedi) all’ombra, sopra l’erba, tu sei calmo (queta) e appagato (contenta); e trascorri (consumi)
senza noia gran parte dell’anno in tale condizione (in quello stato). Ed io pure sto (seggo) sull’erba, all’ombra, e [però] una sensazione angosciosa (un fastidio) mi occupa
(m’ingombra) la mente, e un bisogno (uno spron<e>; è, fuor di metafora, il pungente attrezzo metallico con cui si sollecita il cavallo) quasi mi stimola (mi punge)
così che, stando fermo (sedendo), più che mai sono lontano (lunge) dal trovare pace
o riposo (loco = luogo). Eppure non desidero (non bramo) nulla, e non ho per il momento (fino a qui) ragione di pianto. Di che cosa (quel che) o quanto tu [: il gregge di pecore] goda non so certo (già) dire; ma sei fortunato. E anch’io (io…ancor),
o mio gregge, godo poco, né mi lamento (mi lagno) soltanto di questo. Se tu sapessi
parlare, io [ti] chiederei: dimmi: perché giacendo comodamente (a bell’agio), senza far
nulla (ozioso), ogni animale si appaga; [e invece] se io giaccio a riposarmi (in riposo)
la noia mi (me) assale? Dopo aver tentato una risposta intorno al significato del-
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seconda parte Letture di testi
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
l’esistenza rivolgendosi a una realtà lontana e presumibilmente superiore (la
luna), il pastore si misura ora con una realtà invece prossima e apparentemente inferiore (le pecore). L’ipotesi di felicità in precedenza attribuita alla luna viene qui,
con nuova ipotesi, attribuita al gregge: nel primo caso, la felicità deriva dal sapere
il perché di tutte le cose; nel secondo, dall’ignorare la relatività della propria condizione. La luna sa rispondere alle domande di senso; le pecore evitano di porsele:
per questo il pastore ipotizza che siano felici. Lui invece (e gli uomini in generale)
si fanno domande e non sanno più darsi risposte; sanno ormai solo, al massimo,
formulare ipotesi. Tedio: è parola-chiave, che ritorna al v. 112 e al v. 132, rilanciato dai pressoché sinonimi «noia» (v. 116) e «fastidio» (v. 118); la felicità
della condizione animale non consisterebbe nel possesso di quei beni cui l’uomo
aspira inutilmente, ma nella ignoranza di essi e nella impossibilità di valutare la
distanza incolmabile tra desiderio e appagamento: è infatti da questo sentimento di vanità dei piaceri non solo effettivamente sperimentati ma umanamente
possibili che nasce la “noia” leopardianamente intesa. All’ombra, sovra l’erbe: i
due termini ritornano, identici ma invertiti, per il gregge (v. 113) e per il pastore
(v. 117); e l’inversione annuncia già il diverso significato che per le due condizioni
esistenziali viene ad assumere un medesimo atto.
133-143: Forse se io avessi le ali per (da) volare sulle nuvole (nubi), e contare (noverar) le stelle ad una ad una, o [potessi] viaggiare (errar) di monte in monte (di giogo in giogo) come il tuono, sarei più felice, [o] mio amato (dolce) gregge, sarei più
felice, [o] candida luna. O forse il mio pensiero si discosta (erra) dalla verità [: sbaglia], riflettendo sulla (mirando all’<a> = guardando alla) condizione (sorte = destino) altrui: forse il giorno della nascita (il dì natale) è funesto per (a) chi nasce, in
qualsiasi forma o condizione (in qual forma [che sia], in quale stato che sia), dentro una tana (covile) o [dentro] una culla (cuna) [: animali o uomini]. La strofe conclusiva ha la funzione di spezzare le congetture fin qui avanzate circa la possibilità di forme di vita (o semplicemente di esistenza) felici. Lo fa in forma in parte indiretta, e per di più attenuando le crude ipotesi conclusive con il «forse» (ripetuto tre volte), per coerenza con il tono non polemico ma meditativo e perfino
volutamente ingenuo del componimento. E tuttavia la conclusione ne emerge lo
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O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
stesso con chiarezza: non basterebbe essere come la luna e vedere le cose dall’alto
(vv. 133-138), né essere come un animale e vivere senza coscienza (vv. 141-143,
con il riferimento al «covile»); l’ipotesi più probabile (anche perché posta in sede conclusiva) è dunque che la vita sia in se stessa una sventura, in ogni condizione. In tal modo tutte le ipotesi precedentemente fatte circa esistenze diverse
da quella umana vengono revocate in dubbio, quali errori (vv. 139-140), stendendo sull’intera canzone che precede questa sfiducia. Errar, erra: le due accezioni del verbo “errare” sono qui impiegate, non casualmente, l’una dopo l’altra, la prima volta nel senso di ‘girovagare’ e la seconda nel senso di ‘discostarsi
[dal vero]’, cioè ‘sbagliare’; non è improbabile un consapevole rapporto con l’«errante» del titolo.
commento
Il testo si apre con un’interrogazione rivolta alla luna: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,/ silenziosa luna?». La forza e l’urgenza dell’interrogazione sono sottolineate in vari modi: per mezzo dell’esortativo «dimmi», attraverso la ripetizione del sintagma «che fai» e del sostantivo «luna» con funzione vocativa, rafforzato dal pronome «tu». La
domanda, cioè, non è una domanda oziosa, da poeta arcadico; non è una
domanda retorica, o una domanda letteraria, che serva solo a dire che
la luna sta in cielo e a dialogare con lei romanticamente. La domanda del
pastore leopardiano vorrebbe in ogni modo una risposta. Essa rappresenta dunque una richiesta radicale di senso, rivolta al paesaggio naturale impersonato nel suo simbolo più classico e suggestivo, la luna. La
modernità di Leopardi sta in questo bisogno di significato, in questa necessità di ritrovare un significato; il che presuppone che i significati tradizionali sono venuti meno. Si interroga la luna, anziché dialogare
con lei, perché ci si sente abbandonati in una condizione di solitudine,
senza più il conforto della voce proveniente dalla natura, senza più la
certezza che tra io e mondo vi sia una corrispondenza affettuosa di significato e di valore. Il silenzio della luna non è d’altra parte contingente
e provvisorio, dato che all’epiteto «silenziosa» dell’incipit segue, nel corso della canzone, quello di «muta» (v. 80). Né diversa è la condizione
degli interrogativi rivolti alla greggia: «Se tu parlar sapessi, io chiede-
164
seconda parte Letture di testi
rei…» (v. 128). È insomma la possibilità stessa di dialogare con il mondo naturale che è venuta meno. Questo pastore leopardiano è l’uomo
moderno che si aggira solitario in un universo dal significato incerto e
dai contorni imperscrutabili. È l’uomo per il quale sono finite le «favole
antiche»; all’orecchio del quale il mito e il rapporto mitico con le cose
sono irreparabilmente muti.
Dietro questo passo così originale e così carico di futuro per il codice poetico moderno sta la grande crisi della coscienza europea tra la
metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento. La forza della ragione illuministica spazza via i fondamenti tradizionali del senso, compromettendone ogni relazione con la trascendenza; getta sul mondo dei
fenomeni lo sguardo dell’investigazione scientifica. La fisica scaccia la
metafisica; il rapporto con l’esperienza diviene problematico. Nel secolo
del filosofo-scienziato, Leopardi dà la parola al pastore errante, collocando la funzione conoscitiva, come suo costume, nella generalità antropologica dell’uomo anziché nella competenza specialistica separata.
E tuttavia il pastore rifiuta innanzitutto le risposte regressive consolatorie della reazione spiritualistica che domina la cultura europea dopo
il Congresso di Vienna. Le conquiste, dolorose ma vere, dell’Illuminismo non sono revocabili per il senso comune, anche allorché, come in
questo caso, ne venga accantonato ogni ottimismo. La critica leopardiana
della ragione esclude il ricorso a mezzi diversi dalla ragione per l’esercizio della critica. Il pastore errante non si balocca di sogni, ma s’impunta in una ricerca intellettuale che coordina e saggia i dati conoscitivi
in proprio possesso, proteso verso approdi di senso sostenibili razionalmente. Sa che a un fondamento assoluto a essi potrebbe provvedere solo la luna, una trascendenza; e tuttavia sa anche che di tale fondamento sarà necessario fare per sempre a meno.
Il silenzio della luna e l’indifferenza della natura costituiscono la minaccia che grava sulla poesia dei moderni. Per essi è esclusa ogni forma
di poesia «ingenua», direttamente ispirata alla natura e dettata da lei;
è cioè esclusa ogni forma di poesia “vera”. La diagnosi di Schiller, al
confine tra i due secoli (Poesia ingenua e sentimentale è appunto del
1800), condanna la poesia che voglia sopravvivere alla hegeliana morte
dell’arte a farsi “poesia dopo la fine della poesia”: dove il rapporto ingenuo con la natura è interrotto e sostituito da un rapporto mediato (razionale e scientifico), anche l’espressione poetica non potrà essere che
mediata: imitazione degli antichi, poesia di secondo grado. È anche così che si spiega l’artificialità straniante del classicismo leopardiano,
ben diverso, e opposto anzi, a quello di un Monti, per cui la lingua poetica tradizionale è lingua naturale della poesia. Usare una lingua “dei
ii.7 Giacomo Leopardi. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
165
morti” e “per i morti” è la condanna dei poeti moderni di cui Leopardi parla in un noto passo dello Zibaldone (4240, febbraio 1827). Nel
Canto notturno si dà il paradosso di una ricerca di senso modernissima
che per esprimersi deve affidarsi a una voce lontana, al primitivo e all’antico che il personaggio del pastore evoca. Per parlare al presente, la
poesia moderna deve parlare al passato, rivolgendosi ai vivi come si farebbe con i morti: in pochi altri canti leopardiani, pur così ricchi di richiami anche espliciti e combattivi alla contemporaneità, il presente è
evocato come in questo testo che non ne parla mai direttamente.
Il Canto notturno, prendendo atto della nuova condizione della poesia nel moderno, rifiuta la separatezza e il privilegio della lirica precedente, cioè del grande modello petrarchesco. Non si dà qui un soggetto lirico portatore di un punto di vista speciale sull’esperienza e dunque
capace di verità. Quella fase della poesia è vigorosamente richiamata e
rovesciata: il pastore è, più che l’aggiornamento, il rovesciamento del
modello di Petrarca; e con un celebre componimento del Canzoniere (la
canzone L) viene istituito un decisivo rimando intertestuale. La canzone
petrarchesca («Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina») presenta alcune figure umane affaticate e sofferenti, che tuttavia trovano a sera, con
il riposo, la pace: la «stancha vecchiarella pellegrina» (prima strofe), «l’avaro zappador» (seconda strofe), il «pastore» (terza strofe), «i naviganti»
(quarta strofe). La vecchierella e lo zappatore ritornano in un altro testo leopardiano (Il sabato del villaggio, vv. 9 e 29), con attributi che richiamano la raffigurazione petrarchesca, a dimostrazione della rilevanza di questo modello per Leopardi (che ne parla anche nello Zibaldone: 246-7, 18 settembre 1820). È tuttavia soprattutto con la strofe del
pastore, la terza, che bisogna istituire il rimando. Eccone i primi dieci
versi: «Quando vede ’l pastor calare i raggi/ del gran pianeta al nido
ov’egli alberga,/ e ’nbrunir le contrade d’orïente,/ drizzasi in piedi, et
co l’usata verga,/ lassando l’erba et le fontane e i faggi,/ move la
schiera sua soavemente;/ poi lontan da la gente/ o casetta o spelunca/ di
verdi frondi ingiuncha:/ ivi senza pensier s’adagia et dorme» (vv. 29-38).
Il pastore leopardiano è la copia infelice di questo pastore petrarchesco,
di cui imita lo stile di vita (cfr. le numerose corrispondenze con questi
versi dei vv. 11-14 del Canto notturno) ma di cui rovescia il carattere: altro che «senza pensier s’adagia e dorme»! Il canto leopardiano non
avrebbe luogo se così fosse. In esso alla possibilità di sereno e semplice
abbandono alla vita, alla possibilità di appagamento e di pace interiore
che si riscontra in Petrarca si sostituisce l’inquietudine dell’uomo nella sua essenza, proprio perché nella vita del pastore la condizione
umana è ridotta alla sostanza. In Leopardi non è il pastore ad appagarsi
166
seconda parte Letture di testi
“adagiandosi”, ma sono le pecore: «Dimmi [o luna]: perché giacendo/ a
bell’agio, ozioso,/ s’appaga ogni animale;/ me, s’io giaccio in riposo, il
tedio assale?» (vv. 129-132).
Il rovesciamento del modello non riguarda tuttavia la sola figura del
pastore, ma si allarga all’insieme del testo petrarchesco, coinvolgendone l’ideologia. È proprio la ripresa di espressioni e di immagini puntuali
e il loro rovesciamento a rendere esplicito il contrasto, che si rivela in
tal modo consapevole e ricercato. Decisivo è il trattamento che la
«vecchiarella» della prima strofe petrarchesca riceve nella seconda del
Canto notturno, dove dilaga l’allegoria puntuale del «vecchierel bianco,
infermo», quasi una inquietante mise en abîme del destino stesso del pastore e del suo vagabondare di incerto significato. La «vecchiarella» di
Petrarca è «pellegrina», e non si può escludere che proprio questo attributo ne abbia favorito la vitalità entro il sistema leopardiano, così come l’essere «in lontan paese sola»: «errante» è il pastore di Leopardi,
e nella lontana Asia si svolge il suo vagare. Tuttavia, anche qui, nel passaggio si assiste quasi a una tragica deformazione parodica: se la «vecchiarella» di Petrarca «raddoppia i passi, et più et più s’affretta» (v. 6),
il vecchierello di Leopardi «corre via, corre, anela,/ […]/ cade, risorge,
e più e più s’affretta» (vv. 28 e 30), finché la prima, fortunata, «al fin
di sua giornata/ talora è consolata/ d’alcun breve riposo, ov’ella oblia/
la noia e ’l mal de la passata via» (vv. 8-11), mentre il secondo, infelice, «arriva/ colà dove la via/ e dove il tanto affaticar fu volto:/ abisso,
orrido, immenso,/ ov’ei precipitando, il tutto obblia» (vv. 32-36). La figura della vecchia serve a Petrarca come termine positivo di confronto,
e il suo oblio nel riposo è il bene concesso all’uomo nell’equilibrato sistema dell’armonia universale; mentre in Leopardi la figura del vecchio
che corre verso la tomba rappresenta l’insensatezza fondamentale della vita umana, indirizzata verso l’oblio definitivo di tutto nella morte.
Il ghigno tragico che nel Canto notturno sfregia e rovescia il modello
figurativo attualizzato ne ribalta con non minore radicalità anche l’ideologia. Nel mondo di Petrarca la solitudine e la tristezza del poeta sono un’eccezione rispetto all’armoniosa serenità della condizione umana:
proprio allorché ogni altro essere vivente (inclusi i «buoi» della quinta
e ultima strofe, che anticipano le pecore leopardiane), a sera, ritrova la
pace, ecco che il poeta entra invece in una zona eccezionale di maggiore
angoscia. In Leopardi il dolore e la solitudine sono la condizione normale
dell’esistenza. In Petrarca è l’amore, cioè il peccato, a costituire motivo di eccezione e di attrito rispetto alla concezione cristiana e ottimistica
della vita; in Leopardi manca tale concezione, e il presupposto di fondo è l’assenza di armonia e di significato.
ii.7 Giacomo Leopardi. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
167
La crisi dei fondamenti che il razionalismo illuministico ha portato con sé riapre per l’uomo lo spazio degli interrogativi sul senso dell’esistenza. Il confronto con la condizione della temporalità è in particolare la condanna dei moderni: a che cosa servono il «tacito, infinito andar del tempo» e il succedersi delle ore e delle stagioni (cfr. vv.
70-76)? Di qui si spalanca l’interrogativo sulla dispersione che la
vita esibisce nel suo procedere, dissolvendo nel tempo e nei suoi rivolgimenti ogni possibile durata e dunque ogni ipotesi di stabilità e di
senso. L’immenso movimento degli spazi, la collocazione in essi dell’individuo e quella per esempio del pastore con il suo vagare non motivato divengono funzioni del tempo, ripetizioni incessanti e vane (cfr.
vv. 79-98).
Al vertice di questo dilagare della temporalità come insensatezza e
come dispersione si colloca l’esperienza irriducibile della morte, «supremo/ scolorar del sembiante,/ e perir dalla terra, e venir meno/ ad ogni
usata, amante compagnia» (vv. 65-68). In tempi superficialmente propensi a dimenticare ogni attendibilità filologica e a scaricare su Leopardi
attributi religiosi (e perfino compiutamente cristiani), questa raffigurazione fisiologica del morire e questo concentrarsi, anziché sul destino
del morto, sul lutto dei superstiti (come indica l’attivo «amante») andranno intanto sottolineati quali segni inequivocabili di una concezione non redenta del vivere e del morire: la stessa che Leopardi presenta
in molte altre occasioni fino alle esemplari canzoni sepolcrali e al canto
funebre del Tramonto della luna. Nel Canto notturno, d’altra parte, l’attenzione si fissa, già nella seconda strofe, sul destino luttuoso della vita, delineando la meta tragica, ovvero la non-meta assoluta, della corsa
del «vecchierel»: «abisso orrido, immenso». Al di là di questo rilievo,
si delinea qui tuttavia un dominio della prospettiva mortuaria che segna
i passaggi decisivi del testo, ne informa l’inclinazione malinconica e dolente, fino alla conclusione, sigillata dall’aggettivo «funesto», in tensione
semantica con il verbo «nasce» e con l’aggettivo «natale». E il rilievo
del funebre è ciò che caratterizza la coscienza leopardiana (e moderna)
della vita, così che il nascere è funesto perché sulla vita grava una condanna alla dispersione e all’insensatezza di cui la ragione non sa stabilire i collegamenti con un significato generale, secondo la prospettiva
freudiana del perturbante e del lutto.
Il pastore leopardiano è l’uomo moderno che ha voluto fare a
meno dei fondamenti, ha distrutto la metafisica, ha aperto con la natura
e con la propria collocazione nello spazio e nel tempo un contenzioso affidato al rigore razionale, all’interrogazione, alla ricerca, alla riflessione,
alle ipotesi; e che patisce l’ansia della solitudine, dell’insensatezza,
168
seconda parte Letture di testi
della incertezza o mancanza di valore. In questa figura converge anche
per questo la storia dei decenni che accompagnano e seguono la grande
stagione del razionalismo illuministico. C’è la ripresa del filone, minoritario ma significativo, del pessimismo illuministico (il Voltaire, per
esempio, del Poema sul disastro di Lisbona); e c’è continuità, soprattutto, con il grande sforzo di rispondere ai bisogni nuovi scaturiti dal sentimento di dispersione e di perdita. È una strada lungo la quale si incontra per esempio il capitolo della poesia sepolcrale europea con l’episodio decisivo, in Italia, dei Sepolcri foscoliani.
Leopardi non manca, fin dalle prove giovanili, di aderire al modello
foscoliano, che costituiva, almeno in Italia, la punta più avanzata di una
problematizzazione del materialismo razionalistico che non cedesse tuttavia alle tentazioni spiritualistiche. Con Ad Angelo Mai, Leopardi rifà
a modo proprio i Sepolcri, rilanciando la possibilità di un fondamento del
significato, storico ed esistenziale, nel passato civile, simboleggiato dalle figure esemplari dei grandi italiani. E tuttavia, già in quel testo (del
1820) il dolente eroismo foscoliano è incrinato da una più acuta consapevolezza del «nulla» e della generosa vanità degli sforzi umani di resistergli. Degni, certo, di essere compiuti, tali sforzi; ma nondimeno
inutili. Dopo il Canto notturno, individuato il nemico culturale nello spiritualismo trionfante, Leopardi darà con le canzoni sepolcrali (del 183435 circa) una rappresentazione sconsolata e pessimistica della morte, delegando alla pura dimensione sociale il compito di riscattarla (così, poniamo, nella Ginestra, riprendendo però su questo punto lo scatto già di
un’operetta morale del 1827, il Dialogo di Plotino e di Porfirio). Nel Canto notturno si coglie un decisivo momento di riflessione e di passaggio: il
fondamento umanistico foscoliano è ricusato già nella scelta della prospettiva del pastore, e però il viaggio verso il pessimismo radicale delle
sepolcrali non è ancora compiuto. Può qui distendersi quell’interrogazione
radicale di senso a partire dal sentimento della vanità, della dispersione
e della mancanza di scopo che nei Sepolcri non poteva aver avuto luogo,
e che Leopardi stesso aveva scartato infine nella canzone a Mai e sogguardato secondo specole individualizzate nelle canzoni del suicidio.
È una condizione sospesa e instabile. Non accadrà perciò tanto
spesso di ritrovarla in altri autori. Ciò nonostante è una posizione
che fonda, ben più dell’umanesimo foscoliano e delle risposte spiritualistiche, le coordinate di fondo del codice poetico moderno, la sua
specifica caratterizzazione allegorica.
Se la possibilità di una relazione diretta e immediata con la natura (e con la realtà) costituisce l’aspirazione, se non la premessa, della lirica di matrice romantica e simbolistica, è pur vero che le maggiori per-
ii.7 Giacomo Leopardi. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
169
sonalità della poesia europea otto-novecentesca, quand’anche costeggino
e attraversino quei grandi movimenti, serbano l’impronta di una rottura
tra io e mondo naturale, prendono in qualche modo il via, per dirla in
termini leopardiani, dal silenzio della luna. Si è detto di Schiller; ma
eguale è il destino di Hölderlin e di Baudelaire, e, nel Novecento, di
Eliot e di Montale. In tutti questi poeti si ritrova la via praticata da Leopardi nel Canto notturno. Qui il fatto che la luna non risponda, che fin
dall’inizio si sappia già che non può rispondere, esclude sia facili scappatoie consolatorie sia, anche, la rinuncia a porre domande. Leopardi rifiuta di arrendersi di fronte all’insensatezza e alla crisi di valori o alla loro mancanza. Non abbraccia mai una posizione nichilistica o relativistica
o scettica o cinica. Resta al contrario fermo e centrale in lui il bisogno
di trovare un significato, di dare un senso all’insensatezza: se la vita è
un deserto, tuttavia in questo deserto deve essere tentata in ogni modo
la ricostruzione di un sistema di valori.
È per questo che il pastore interroga la luna anche sapendo fin dal
principio che ella non risponde e non può rispondere: perché le domande
devono assumere su di sé la responsabilità di ipotizzare quei significati e quei valori che non vengono più garantiti dall’esterno, che non si
fondano più su risposte ontologiche o religiose. La crisi non cancella le
responsabilità dell’uomo, ma le accresce, imponendo il dovere di dare
senso a un mondo che non sembra più avere senso. Le domande del pastore alla luna divengono a poco a poco delle ipotesi, cioè delle risposte
provvisorie e relative, parziali come tutte le proposte avanzate dall’uomo
sulla terra; ma tuttavia indispensabili per orientarsi in una condizione
che rischia altrimenti di consegnarci solamente smarrimento o stupidità. Questo procedimento, che non confida sulla trasparenza e sulla immediatezza del simbolo, che non riconosce nel particolare l’universale
ma ve lo cerca, che con fatica insegue una strategia di senso non puntando sulla sua preesistenza è il procedimento dell’allegoria moderna quale è stato descritto, per esempio, da Benjamin a proposito di Baudelaire.
Esso implica un atteggiamento verso la realtà e una concezione dell’attività intellettuale (e della scrittura) che è all’origine, più o meno diretta, più o meno consapevole, del maggiore filone di ricerca della
nostra letteratura successiva; dove lo ritroviamo in Verga e in De Roberto, in Pirandello e nei vociani, fino a Montale, e oltre.
la ricezione
L’interpretazione della poesia leopardiana quale scissione tra cuore e ragione, operata da De Sanctis alla metà dell’Ottocento, e il privilegia-
170
seconda parte Letture di testi
mento dei momenti più liberamente gestiti dal sentimento comportano
la riduzione del valore di Leopardi al confine degli idilli e il rifiuto degli aspetti più filosoficamente impegnati. La chiave idillica viene d’altra
parte adoperata anche al di fuori degli “idilli” propriamente detti, divenendo la pietra di paragone della riuscita artistica dei vari componimenti (o di parte di essi). Il “salvataggio” dei grandi canti pisano-recanatesi, e del Canto notturno con essi, è perciò reso possibile dalla loro interpretazione quali idilli più vasti (o “grandi idilli”, secondo una formula tanto fortunata quanto infondata e fuorviante). Il Canto notturno
è anzi definito «idillio degli idilli»; e in esso De Sanctis scorge «nativa
semplicità» e «ingenua grazia».
È una lettura che ha il merito di rigettare la canonizzazione risorgimentale di Leopardi quale poeta patriottico, altrettanto improbabile, e che però lo riduce alla posa arcadica, estremizzata da Benedetto
Croce nel Novecento, che domina gli studi leopardiani fino alla seconda
guerra mondiale. Un prestigioso commentatore dei Canti, Francesco Flora, può definire Leopardi, a proposito di questo testo, «ultimo e divino
pastore dell’Arcadia», chiamando il pastore fittizio «un poeta religioso
del più romito passato: quando il linguaggio umano era ancora più vicino
alla lingua delle cose e degli astri». In effetti, il Canto notturno sembra
rappresentare una condizione esattamente opposta.
È soltanto con il 1947, anno fatidico per gli studi su Leopardi, che
si verifica una rapida e radicale inversione di tendenza: i saggi di Cesare
Luporini sul pensiero leopardiano e quelli di Walter Binni sul valore della “nuova poetica” della stagione conclusiva di Leopardi valorizzano finalmente una prospettiva di lettura non idillica del poeta, dando anzi il
giusto rilievo alle componenti eroiche, civili e pessimistiche della riflessione leopardiana e mettendo di conseguenza nel giusto risalto il rapporto inscindibile tra pensiero e poesia. È una prospettiva rafforzata dai
successivi studi di Sebastiano Timpanaro e di altri critici, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. È Binni, finalmente, a richiamare per il
Canto notturno il necessario «fondo meditativo-problematico» e il
«profondo raccordo con il processo incessante dell’indagine conoscitiva e, a suo modo, pragmatica, del pensiero leopardiano», rifiutando altresì una lettura in termini di «poesia pura» e di «perfezione senza profondo significato di verità» (cioè la lettura crociana).
Dopo la metà degli anni Settanta si è aperta, in coincidenza con la
stagione del riflusso e del pensiero debole, una nuova fase per gli studi
su Leopardi, segnata ora dalla strumentalizzazione nichilistica del suo
pensiero (come in Emanuele Severino), ora dalla forzatura in senso religioso (e persino cristiano). Il Canto notturno offre nel primo caso
ii.7 Giacomo Leopardi. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
171
abbondante materiale per restringere al nulla la riflessione leopardiana
(ma senza dunque fare i conti con lo sforzo di dare valore alla vita che
è la ragione più intima e più evidente del componimento); nel secondo
caso, il bisogno di significato e il tentato dialogo con la luna divengono
segni di una tensione verso il sacro, dunque sinonimi di un atteggiamento religioso (come se il fatto che la luna e il cielo rispondano o no
fosse del tutto indifferente, e come se il pessimismo tragico della conclusione potesse conciliarsi con una simile lettura). Quando si dia alternativa a questo bivio, come nel caso di Elio Gioanola, allora il valore
affermato nel Canto notturno, e l’unico valore degno di essere affermato
in bilico sul nulla, sarebbe quello della poesia, variante debole del sacro
negli anni della cultura postmoderna.
Il bicentenario della nascita è caduto dunque in un periodo controverso degli studi leopardiani, e il progetto audace del Canto notturno (sul quale si segnalano tuttavia, negli anni Novanta e oltre, importanti
e centrati interventi di Savoca, Muñiz Muñiz, Blasucci e altri), rischia di risultare lontano proprio in questo presente invaso dal bisogno
di significato e da tutte le scorciatoie atte a eludere la risposta. Ma si sa
che i bisogni, per tentare un progetto e mettere in campo una strategia,
necessitano di consapevolezza: quella che non sembriamo più avere e il
Canto notturno, invece, ha.
indicazioni bibliografiche
Gli scritti di De Sanctis sono raccolti in Leopardi, a cura di C. Muscetta e A.
Perna, Einaudi, Torino 1969; per quelli di Croce, cfr. Poesia e non poesia, Laterza, Bari 1923. La rivalutazione del Leopardi non idillico si deve a W. Binni, La nuova poetica leopardiana [1947], Sansoni, Firenze 1984; ma di Binni,
cfr. anche La protesta di Leopardi [1973], Sansoni, Firenze 1982. Per una giusta valutazione del pensiero, restano decisivi C. Luporini, Leopardi progressivo [1947], Editori Riuniti, Roma 1993, e soprattutto S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano [1965], Nistri-Lischi, Pisa 1988.
Gli studi più autorevoli (anche se in alcuni casi discutibili o inaccettabili) sul
significato storico-filosofico dell’opera leopardiana sono: C. Galimberti,
Linguaggio del vero in Leopardi [1959], Olschki, Firenze 1968, A. Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1980, E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990 e
Cosa arcana e stupenda, Rizzoli, Milano 1997, E. Gioanola, Leopardi, la
malinconia, Jaca Book, Milano 1995, L. Baldacci, Il male nell’ordine. Scritti su
Leopardi, Rizzoli, Milano 1998, G. Guglielmi, L’infinito terreno, Manni, Lecce 2000. Sul Canto notturno in particolare, cfr. B. M. de las Nieves Muñiz
Muñiz, La struttura del «Canto notturno», in «Giornale storico della lettera-
172
seconda parte Letture di testi
tura italiana», 1992, CLXIX, 547, pp. 373-389 e G. Savoca, Dall’autografo (e
dal Meyendorff) al finale del «Canto notturno», in «Critica letteraria», 1996,
93, pp. 53-83: in entrambi, adeguati riferimenti agli studi precedenti di Bigi, De Robertis, Dionisotti, Monteverdi e altri. Recentissimi gli scritti di L.
Blasucci, N. Lorenzini e M. A. Bazzocchi su «Poetiche», 2001, 2. Il citato
commento di F. Flora ai Canti è stato pubblicato da Mondadori, Milano
1937. Fra i commenti più recenti, si vedano quelli di U. Dotti (Feltrinelli, Milano 1993) e F. Gavazzeni-M. M. Lombardi (Rizzoli, Milano 1998). Per il testo, si è seguita l’edizione critica a cura di E. Peruzzi (Rizzoli, Milano
1981). Di W. Benjamin su Baudelaire, cfr. Parigi, capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986.